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Title: Amore ha cent'occhi
Author: Farina, Salvatore
Language: Italian
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                            SALVATORE FARINA


                                 AMORE

                             HA CENT’OCCHI



                                 MILANO
                        A. BRIGOLA & C., EDITORI
                             Via Manzoni, 5



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                      Milano, 1883. — Tip. Pagnoni



  _Agli amici della mia isola natale, in conto d’un gran debito
  d’affetto e di gratitudine, questo libro, che ama e piange._

      _Milano, settembre 1882._



AMORE HA CENT’OCCHI



PARTE PRIMA.


I.


Il povero Ambrogio era propriamente sulle spine. Da un’ora, quel
signor Cilecca della disgrazia andava in giro per le stanze con
uno stuzzicadenti in bocca, la faccia contratta smorfiosamente per
trattenere l’occhialetto sopra uno dei suoi occhioni da coniglio, e
senza il menomo riguardo al conte Cosimo.

Anzi, pareva farlo a posta; sempre che doveva attraversare il salotto,
dove il padrone di casa se ne stava seduto colla fronte nascosta
nelle palme delle mani ed i gomiti appuntati a un tavolino, invece di
rizzarsi sulla punta dei piedi, muoversi come un’ombra e dileguare,
secondo consigliava Ambrogio collo esempio, quel signor Cilecca della
disgrazia batteva i tacchi sul pavimento sonoro, o si piantava in
osservazione dinanzi ad uno specchio, o faceva a voce alta una domanda
a cui Ambrogio aveva già risposto.

— Di Francia, non è vero? chiedeva, picchiando colla nocca dell’indice
sullo specchio.

Ambrogio faceva di sì col capo e si avviava verso l’uscio, sperando che
l’altro si risolvesse a seguirlo nella stanza attigua.

— Non ha sofferto nulla, soggiunse il signor Cilecca dopo di avere
esaminato lo specchio da tutti i lati e picchiatolo forte in più
luoghi; l’avevano collocato in buona luce, e si è conservato bene; —
la giustizia prima di tutto, — però la cornice è barocca, non è più di
moda; ora usa il semplice... Sono vere porcellane di Sassonia, queste?

Ambrogio si rassegnò a staccarsi dagli stipiti dell’uscio per
farsi vicino al suo interlocutore, proponendosi di richiamarlo alla
osservanza dei riguardi dovuti alla sventura con una sua occhiata
fulminea, o magari con un pugno nelle costole. Ma il signor Cilecca
non vide l’occhiata, e non ricevendo il pugno che doveva avvalorarla,
ripetè:

— Sono vere porcellane di Sassonia, queste?

— Verissime, hanno la marca di fabbrica, rispose Ambrogio guardando il
conte Cosimo, che pareva impietrito.

— Vero... vero... ecco le spade incrociate, insistè l’altro..., ma, che
vuole? in Francia e altrove si fanno delle imitazioni che costano la
metà, anche colle spade.... un fabbricante intelligente non si arresta
per così poco...

Non ricevendo risposta, tacque, ripose sulla mensola il vaso prezioso;
lasciò cadere l’occhialetto e lo incastonò, superando mille difficoltà,
sull’occhio destro, che gli serviva a quest’uffizio; socchiuse un
tantino l’altr’occhio; incaricato di vederci per due, e disse forte,
come se gli venisse repentinamente un’idea da stordito:

— Facciamo negozio, signor Cosimo?

— Facciamolo, benedett’uomo, facciamolo, si affrettò a dire Ambrogio,
avventando da lontano un pugno ben intenzionato, che non poteva
giungere fino alle costole del suo avversario; facciamolo, siamo qui
per questo, ma lasci in pace il signor conte.

— Poverino! disse il Cilecca abbassando la voce appena il tanto
da dimostrare luminosamente che egli, a tempo e luogo, sapeva
fare un’opera di misericordia, — poverino! deve essere una grande
afflizione! Io non l’ho provata, ma le assicuro, signor Ambrogio,
che me la immagino!... Lei diceva dunque che si ha a fare negozio...
ebbene, facciamolo, non dico di no; a questo mondo ci si viene...

Che cosa voleva dire il signor Cilecca? Nessuno lo saprà mai, perchè
proprio in quel punto difficile della frase, l’occhialetto ribelle
gli si staccò dall’occhio destro e gli cadde fra le mani, che erano
esercitate a raccoglierlo.

— A questo mondo ci si viene come al mercato — mormorò Ambrogio.

Ma l’altro, intanto che adattava l’occhialetto alla sua cornice
naturale, fece intendere con un gesto e con un risolino che, non avendo
voluto dir questo, non rifiutava neppure l’interpretazione arguta.

— Ventottomila lire, mormorò il compratore.

Ambrogio velò solennemente il lampo dello sguardo, e disse ad occhi
chiusi, alzando un tantino il capo verso il soffitto:

— Trentamila; si è detto trentamila, e saranno trentamila; se no, non
ne facciamo nulla.

Quando Ambrogio riaprì gli occhi, fu stupito di vedere che il suo
avversario si era chinato ad esaminare le gambe di un tavolino e non
gli badava.

In quel punto s’udì un lieve rumore sulla parete dirimpetto, e fu visto
il conte Cosimo scostare le mani dal volto e mettere sulle labbra un
sorriso; subito dopo si aprì un uscio celato nella tappezzeria, ed
apparve una giovine signora, una donnina bianca e dilicata, un ninnolo
da salotto. Entrò sorridendo, cogli occhi sfavillanti, con mosse da
bimba viziata; ma un po’ di impaccio era visibile anche nella sua
disinvoltura.

Il conte Cosimo s’era rizzato; la giovine donna, senza guardarlo, e con
un lieve tremito nella voce, cominciò a dire:

— La mamma... Ah! buon giorno signor Ambrogio — e s’interruppe per
guardare curiosamente il signor Cilecca, che era quasi nascosto sotto
il tavolino.

— Ebbene, la mamma?

— Ah! la mamma ti prega di mandarle cinquanta lire; ha comperato
un’acconciatura di velluto cremisino, che sta veramente benissimo sui
suoi capelli bianchi.

La signora, così dicendo, girava gli occhi di qua e di là, e non potè
accorgersi del pallore del marito, il quale tolse da un portafogli un
biglietto di banca e lo consegnò alla gentile messaggiera sforzandosi a
sorriderle.

— Sai? disse la giovine donna spiegando il biglietto; l’ha comperata
per fare un’elemosina... Come sta oggi, signor Ambrogio?

— Sempre bene, contessa Beatrice, e lei?

— Io benissimo; grazie — soggiunse, rivolgendosi di nuovo al marito, —
che cosa devo dire alla mamma?

— Le darai un bacio per me.

Beatrice non si moveva; il conte Cosimo la guardava in volto senza
comprendere.

— O come farò a darle un bacio per te, se tu non me lo dai? — disse la
signora con malizia.

Il marito guardò verso il signor Cilecca, il quale, tutto assorto nelle
sue indagini, aveva l’aria di non veder nulla; si rizzò in piedi, prese
fra le palme la testina bionda di sua moglie, e la baciò sulla fronte
senza far rumore.

L’uscio della porta si aprì, sparve la donnina gentile, e il conte
Cosimo ricadde sulla seggiola, nascondendo un’altra volta la faccia fra
le mani.

Un gran sospiro d’Ambrogio, poi silenzio.

— Questo vaso del Giappone è spaiato, entrò a dire il Cilecca.

Ambrogio gli piantò in faccia due occhi fulminei, ma l’altro, obbligato
da un sentimento di giustizia, ripetè ad ogni modo che il vaso del
Giappone era spaiato.

— Insomma, disse poi Ambrogio, si fa qualche cosa o non se ne fa nulla?

— Sono qui per far qualche cosa, sospirò il Cilecca; ma la condizione
di dover sborsar subito il _mio_ denaro e di dover aspettare un mese, o
magari due, a pigliarmi la _mia_ roba, è proprio crudele.

L’abuso di quei due pronomi possessivi collocati così malamente,
avrebbe fatto andare in collera il buon Ambrogio se la cosa fosse stata
lecita alla presenza del signor conte; egli si accontentò invece di
dire al Cilecca che la roba non era _sua_ finchè non l’avesse pagata,
e che dopo non sarebbe più _suo_ il denaro, — e ciò per rispettare
l’equità e la grammatica.

Poi soggiunse:

— Non le ho detto che debba attendere nè un mese nè due a ritirar la
roba; dovrà aver pazienza quanto basti; e dovesse anche sospirare dieci
anni, comperando a questo prezzo, farà sempre un buon negozio.

L’occhialetto del signor Cilecca non potè assistere indifferente ad
una minaccia simile contro il suo proprietario; cadde, ricadde, tornò a
cadere, voleva spezzarsi a tutti i costi, ma una mano pietosa e pronta
sempre lo trattenne.

— Dieci anni! esclamò il Cilecca con un terrore comico; sa che mi fa un
brutto scherzo, signor Ambrogio? Dieci anni! Ma dunque è più sana di me
quella donna?...

Ambrogio comprese d’avere peccato per eccesso di zelo, e ingegnandosi
di correggere alla meglio la corbelleria commessa, afferrò il suo
avversario per un braccio, lo spinse nel vano di una finestra, ed
abbassando la voce, gli disse:

— Non dovrà aspettare un pezzo, glielo dice Ambrogio; anche due notti
fa ebbe un altro colpo...

— Un colpo... lei vuol dire un accidente?

— Sì, un accidente leggiero... il medico dice che quando meno ce
l’aspettiamo...

Il povero Ambrogio, dicendo questo mozzicone di frase, sudava.

— Si danno dei casi... mormorò Cilecca, non ancora persuaso..., sì, se
ne danno tutti i giorni... ne conosco anch’io di gente accidentata, che
si ostina a vivere...

Si vedeva bene che Ambrogio aveva qualche cosa da dire, forse un
argomento trionfatore da mettere innanzi, ma che non si sapeva indurre
a servirsene perchè gli faceva pena.

— Le ripeto che la contessa Veronica può mancare all’improvviso,
quando meno ce l’aspettiamo; non le dico altro, ci pensi, faccia i suoi
conti...

Ma il Cilecca era incorreggibile.

— Ho capito benissimo, ma può anche succedere il contrario... tante
volte gli ammalati la fanno in barba ai pronostici... Che premura
abbiamo di fare le cose senza riflettere? Mi pare che se prima parlassi
col medico curante, troverei forse il coraggio d’arrischiare il mio
denaro... Ventottomila lire sono un piccolo patrimonio. Si metta nei
miei panni, signor Ambrogio, la giustizia prima di tutto!

A questo punto il meschino avversario di quell’atleta trovò dentro di
sè una forza prodigiosa e disse tutto d’un fiato:

— Sissignore, nei suoi panni io mi ci metto, ci sono; sto per fare
un negozio in cui per trentamila lire (caduta dell’occhialetto)
divento padrone di tanti mobili preziosi, che valgono il doppio a dir
poco; so che devo pagare la somma subito, e ritirare i mobili dopo
una disgrazia, che può seguire da un momento all’altro; sto un po’
titubante perchè penso naturalmente che trentamila lire (ricaduta
dell’occhialetto) sono un piccolo patrimonio; ma mentre io tentenno,
la _persona_ muore, cessa pel signor conte la ragione d’un contratto
rovinoso, e se voglio i mobili che mi piacciono tanto li devo pagare
sessantamila lire ed anche più.

Il signor Cilecca era filosofo a tempo e luogo; vide con un’occhiata la
profondità di quest’osservazione, e sentì svanire gli scrupoli.

— A lei non posso resistere, disse sorridendo, mi mette in sacco.
Dunque facciamo conto che per ventottomila lire sia contratto fatto
fin da questo momento... Sono le undici in punto... dalle undici del
mattino del giorno 2 marzo tutta la roba mi appartiene... chiamo in
testimonio lei, signor Ambrogio.

Ma il testimonio faceva di no col capo.

— Non mi negherà ora che io abbia il diritto di vedere l’ammalata; è un
elemento del contratto...

— Impossibile...

— Non dica questa parola, caro signor Ambrogio; perchè impossibile?
Vuole dunque che io faccia le cose alla cieca?... La giustizia prima
di tutto... io mi fido di lei e del signor conte, non dubito che la
contessa Veronica sia tanto ammalata, poichè me lo dicono; ma l’affetto
è pauroso per natura; lor signori si possono ingannare...

Ambrogio si era rabbuiato in volto e pensava; in fondo il compratore
era nel suo diritto; ma come fare? Ah! un’idea!... Pigliò pel braccio
il signor Cilecca, lo trasse un pochino in disparte e gli parlò
all’orecchio.

Ma Cosimo aveva rialzato il capo, e guardava ansioso, e quando vide
che i due si avviavano verso l’uscio, dietro il quale era scomparsa
poc’anzi la gentile apparizione di sua moglie, si rizzò in piedi, venne
dietro ad Ambrogio e lo toccò sull’omero.

— Signor conte... balbettò costui, voltandosi; e soggiunse,
comprendendo la dimanda che era nello sguardo del giovine: vuol
vederla.... non vi è nulla di male.... diremo che è un medico: la
signora contessa non lo conosce...

Cosimo non era tranquillo.

— E Beatrice, che l’ha visto poco fa? disse — ma un sorriso tra amaro e
melanconico balenò sulla sua faccia patita — Beatrice non capirà nulla!
sospirò fra sè.

Ambrogio picchiò due colpi all’uscio; si udì una vocetta che disse:
avanti — la porticina girò silenziosamente sui cardini, ed i tre uomini
si affacciarono all’ingresso di un’ampia sala da letto.

— Mi raccomando, disse Ambrogio all’orecchio del Cilecca, il quale
continuava a cercare una smorfia capace di trattenere l’occhialetto per
sempre, le tocchi il polso e non dica altro.



II.


Il dottore... balbettò Ambrogio facendo un passo di fianco per lasciar
passare il suo compagno; mentre il conte Cosimo rimaneva sull’uscio. E
il _dottor_ Cilecca passò, senza la minima ombra di sussiego dottorale,
ma dando un’occhiata dottissima tutt’intorno.

Nel fondo della camera, entro un baldacchino di damasco giallo, si
vedeva un letto antico a colonne, e quivi una massa bianca, un corpo
sollevato a mezzo sopra un monte di cuscini, e più su un’acconciatura
cremisina, che spiccava dal fondo giallo. La faccia scolorita ed
immobile della giacente si confondeva quasi col damasco. Al capezzale
del letto stava un’infermiera mezzo addormentata, e in faccia a lei la
contessa Beatrice, in piedi, col capo voltato verso l’uscio e una gran
curiosità negli occhi.

— Che cos’è stato? domandò quando Ambrogio le fu vicino.

— Un medico... balbettò il poveraccio, facendosi rosso rosso.

Ma la contessa non parve avvedersi di nulla e si accostò all’ammalata
per annunziarle all’orecchio con una vocetta dolce e penetrante: — un
medico!

— Ah! sospirò l’inferma, e rimosse a fatica il braccio destro, senza
riuscire a sollevarlo: allora col braccio mancino accennò al Cilecca
di accostarsi: e il Cilecca si accostò, senza punto scomporsi, fino
a cacciare il capo sotto il baldacchino che misurò con un’occhiata,
mentre veniva brancicando il damasco in un certo suo modo speciale, per
far _cantare_ la stoffa sotto le dita.

— Mi tocchi il polso, disse l’ammalata.

Il Cilecca toccò il polso.

— La febbre non ci è, disse la giacente.

— La febbre non ci è, signora contessa.

L’ammalata girò intorno uno sguardo di compiacenza, a cui Beatrice fu
la sola a rispondere con un sorriso, perchè l’infermiera dondolava il
capo lottando col sonno, e il conte Cosimo aveva afferrato una sedia
per star ritto e ne tormentava lo schienale con tutte e due le mani.

— Lo vedi, Beatrice, balbettò la contessa Veronica, lo vedi — febbre
non ci è, e senza febbre non si muore — non ho voglia di morire così
presto, non è vero, dottore?

L’occhialetto del Cilecca cadde in questo punto; e appena il
proprietario l’ebbe trattenuto e rimesso a posto, lanciò prima
un’occhiata per passare da parte a parte il vecchio Ambrogio, che era
sulle spine, poi disse: — Sono della sua opinione, contessa.

E non disse altro — ma quando volle scostarsi dal letto, l’ammalata lo
trattenne dicendo: che cosa mi ordina?

— Che cosa le ordino? ripetè il Cilecca e sembrò chiederlo a quanti gli
stavano intorno, compresa la contessa Beatrice, che lo guardava a bocca
aperta — io non sono il medico curante, non le posso ordinare nulla;
sono venuto per un negozio — per un certo negozio... il conte Cosimo ha
voluto che la vedessi anch’io. Ora l’ho veduta e sono contento, perchè
il negozio si può accomodare... la febbre non c’è... dunque si può
accomodare.

L’occhialetto aiutava quella parlantina scucita, ma la distrazione vi
metteva intoppo. Il signor Cilecca aveva fissato gli occhi sopra una
gran chicchera d’argento niellato e non li sapeva staccare; all’ultimo
non potè frenarsi, e accostandosi al tavolino da notte, prese la
preziosa chicchera in mano...

— Mi fanno bere del brodo che non posso soffrire, balbettò l’ammalata.

Il signor Cilecca depose la chicchera con precauzione, salutò la
contessa Veronica, si lasciò cadere l’occhialetto dinanzi alla contessa
Beatrice, che non cessava di guardarlo curiosamente, ed uscì, dando
le ultime occhiate al soffitto, al pavimento, alle pareti. Ambrogio lo
seguiva come uno spettro.

Appena l’uscio si fu chiuso alle loro spalle, il Cilecca si addossò
allo stipite per lanciare questa frase ad Ambrogio, il quale se
l’aspettava:

— Non ne facciamo nulla.

Ha il vecchio trionfò di quell’arte sopraffina colla semplice natura.

— Sta bene, disse dispettosamente, se ne vada.

Il Cilecca si dondolò due volte e non si mosse.

— Quella chicchera d’argento niellato in cui la contessa piglia il
brodo, disse con lentezza, non ce l’ho vista nell’inventario che mi ha
dato.

— Non ce l’ha vista perchè non ci è, rispose Ambrogio brusco brusco —
e s’avviava deliberatamente per indurre l’altro a smettere la positura
di cariatide — ma l’altro lo lasciò andare, e solo quando Ambrogio fu
giunto alla porta dirimpetto e non vedendosi seguito gli toccò voltarsi
a guardare estatico, solo allora egli ripigliò a dire a sè stesso,
guardando fisso in terra:

— Trenta mila lire senza pigliar la roba chi sa fino a quando... sto
per fare uno sproposito... pure se mi pagano gl’interessi fino al
giorno della consegna, parola d’onore, lo faccio.

— E glieli pagheranno gl’interessi, e glieli pagheranno in buon’ora,
gemette Ambrogio con accento di misericordia, mentre dall’altra
estremità della sala lasciava spenzolare le braccia e dondolava il capo
in un modo canzonatorio. — Mimica inutile.

Il signor Cilecca non vide nulla, e ripetè alzando finalmente il capo:

— Sì, se mi pagano gl’interessi _d’uso_, io faccio lo sproposito.

— Gl’interessi _d’uso_ quali sono?

— Lo sa bene...

— Lo so benone, sospirò Ambrogio, glieli pagheremo.

Allora il signor Cilecca abbandonò la sua positura, ed attraversò la
sala con passo svelto, per raggiungere l’avversario placato.


L’uscita del falso dottore dalla camera della inferma era stata così
singolare, che la stessa ammalata ne fece l’osservazione:

— Che visita curiosa! disse.

E la contessa Beatrice ripetè allegramente:

— Sì, una visita curiosa!

L’infermiera intanto si era svegliata, e per resistere al sonno fissava
innanzi a sè il vuoto, con un’occhiata severa.

— Cosimo! chiamò l’ammalata.

E Cosimo abbandonò i propri pensieri per accorrere sorridendo al
capezzale della madre.

— Cosimo! balbettò la vecchia, manda quella povera donna a letto; è
un’infermiera bizzarra, non fa che dormire ed ha sempre sonno; mi fa
pena.

Ma questo era uffizio di Beatrice; la vezzosa donnina prima rise a fior
di labbro, come se fosse un suo ufficio doveroso quello di gettare un
po’ di allegria intorno a sè, poi fece il giro del letto, accennando al
marito di lasciar fare a lei, e venne presso all’infermiera, la quale
aveva chiuso un occhio per intero e colla inutile severità dell’altro
occhio socchiuso continuava a fissare il proprio avversario.

— Geromina, le disse...

Geromina s’immaginò di aprire anche meglio gli occhi, spalancando la
bocca.

— Geromina, insistè la contessa, andate a riposare.

— Non ho sonno, asserì coraggiosamente la povera donna.

Beatrice accolse la dichiarazione con una risatina, poi ripetè: Andate
a riposare; la mamma non ha bisogno di voi, andate.

E Geromina se ne andò con dignità.

— Siamo soli? domandò la vecchia.

— Soli, rispose Cosimo, stringendo la mano irrigidita della madre.

— Mi promettete di non piangere, di non disperarvi? ripigliò la
contessa Veronica quando ebbe visto il visino bianco di Beatrice curvo
sopra di lei; io devo morire....

— Non dica così...

— Sì, lo so, lo sento, poco mi rimane da stare al mondo, qualche anno
ancora e dovrò andarmene. Mi hanno mandato questa malattia come un
avviso; e sarei cieca e sorda se non dessi ascolto. Che fare, bimba
mia? Ad uno ad uno ce ne andiamo tutti. Ho ancora il cervello a segno,
e potrei perderlo... Sentite, figliuoli; vorrei far testamento. Non mi
dite di no...

— Che idea! balbettò Cosimo.

— Testamento! esclamò Beatrice, facciamolo pure! Purchè sia un
testamento allegro!

— Rondinella mia, disse la vecchia, tu sarai la mia musica fino
all’ultimo.

— Un testamento è un dovere, soggiunse, e il dovere è sempre una cosa
allegra.

A queste gravi parole, Beatrice sospirò gravemente; Cosimo non rispose
nulla, ma colla mano cacciò dalla fronte un pensiero importuno.

— Cosimo! insistè l’inferma, cercando invano di sollevare il braccio
già avvinghiato dalla morte. — Cosimo, manda a chiamare il notaio.

Allora il conte rialzò il capo, guardò sua moglie, che lo guardava con
una specie di curiosità ingenua, e si accostò al letto della madre.

— Lo vuoi proprio? chiese con disinvoltura nervosa. Che premura hai?

— Chi ha tempo, sentenziò la vecchia, non aspetti tempo. Va, figliuolo
mio, e fammi venire il notaio. Intanto che io raccolgo le idee, tu,
bimba, mi toglierai questa orribile cuffia cremisina, e me ne darai
una tutta nera o tutta bianca. Chi ha mai visto far testamento con una
cuffia cremisina?

— Io no, rispose Beatrice, mentre veniva togliendo la cuffia alla
suocera.

— Cosimo, ripigliò la contessa, sei ancora lì? Tanto meglio, chiama
Ambrogio.

Cosimo toccò tre volte il bottone di un campanello elettrico, e
Ambrogio apparve quasi subito nel vano dell’uscio.

— Ambrogio, disse la contessa madre con voce sonora, sebbene la sua
lingua incespicasse tratto tratto fra i denti — va tu stesso dal mio
notaio... come si chiama?... aspetta... Beatrice, aiutami tu, come si
chiama il mio notaio?

— Parolini... rispose la contessina, dando un’occhiata fuggitiva al
marito.

— Parolini, ripetè la contessa, e digli che venga subito da me.

Anche Ambrogio, prima d’uscire, diede un’occhiata al conte Cosimo, il
quale non battè ciglio.

Appena il vecchio servo se ne fu andato, l’inferma disse:

— Ho bisogno di te, Cosimo; perciò ho mandato lui. Tu che hai da
parecchi anni l’amministrazione del mio patrimonio mi devi informare di
certe cose che io non so affatto. Me lo puoi credere, ho dimenticato
perfino il nome di qualche podere. Por esempio, la gran cascina nel
territorio di Sassari si chiama... come si chiama?

— Serra Secca.

— Proprio, Serra Secca! Chi avrebbe creduto che era così facile? Serra
Secca! E quanto vale Serra Secca?

— Valeva sei mila scudi, balbettò Cosimo.

— Così poco! una cascina in cui mi ricordo d’essermi smarrita quand’ero
bambina.... Tu sbagli Cosimo... e allora Giuncheddu, il mio piccolo
Giuncheddu di Sorso, quanto dovrebbe valere?

— Era costato mille scudi.

— Mille scudi soltanto! il suo rivo, la sua sorgente freschissima, i
suoi quattro pioppi, tutto per mille scudi! Beatrice cara, la lista
della sarta pel carnevale passato non era appunto di mille scudi?

— Cinquemila e ottanta franchi, rispose Beatrice prontamente; gli
ottanta franchi non gli abbiamo pagati, se ne ricorda? E sono stata
io a sostenere che le cifre devono essere tonde. Madame Josephine
diceva di no, che è un pregiudizio, ma io le feci notare che anche i
pregiudizii bisogna rispettarli.

— Bambina! disse la contessa Veronica con un sorriso indulgente, poi
mutando accento: ricapitoliamo: in Sassari... Serra Secca, non me lo
dimentico più, finchè campo, il mulino, la casa grande, le case terrene
e... nient’altro... Proprio nient’altro?

— L’orto di Acqua Chiara.

— Ah! sì, l’orto e l’aranceto... quanti aranci vi ho sbucciato! Me ne
ricordo, mi piaceva sbucciarli e poi infastidivo ad uno ad uno tutti
gli amici di casa perchè li mangiassero... Cosimo, ci ho dell’altro nel
territorio di Sassari?

Cosimo fece di no col capo.

— Sono povera! disse l’inferma con un sorriso di compiacenza. Sono
povera a Sassari! Andiamo a Ploaghe.... i nostri antenati avevano là il
feudo.... a noi è rimasto... che cosa è rimasto, Cosimo?

— Un campo a pascolo, qualche terreno arativo...

La contessa per ascoltare meglio aveva chiuso gli occhi, ma suo figlio
sembrava fare una strana fatica a contentarla.

— Un oliveto...

— Ci è dell’altro... il palazzo della galleria, dove i miei passi di
bambina sembravano animare i quadri appesi alle pareti; io camminava su
e giù come una piccola castellana, e gli antenati mi venivano dietro a
passi sonori... era l’eco.

Tacque un momento per guardare ad occhi chiusi in quel tempo lontano,
poi mormorò: — Ho fatto male ad abbandonare tutte quelle brave persone,
volevano bene alla loro nipotina, la guardavano con indulgenza, me
ne ricordo; ce n’era uno, il vescovo Giaime de Nardi, che non mi
perdeva mai di vista un momento; dovunque andassi, mi accompagnava
coll’occhio.... Mi dava noia qualche volta e qualche volta mi faceva
perfino paura.... quando era sola.... Nella mia testa di bimba non
poteva entrare che un vescovo dipinto movesse gli occhi come le
Madonne. Aspettate, ora mi affaccio all’uscio per pigliarlo alla
sprovveduta, come facevo allora; eccolo, è sempre lì ed ha gli occhi
fissi sopra di me, e colle due dita alzate per benedire ha l’aria di
dirmi che egli la sa lunga e che non gliela posso fare... Bei tempi!
sospirò.

Nessuno le rispose; il conte Cosimo teneva le labbra strette e
tormentava la catena del proprio orologio con tutte e due le mani.
Beatrice veniva guardando ora la madre ora il figlio.

— E il _nuraghe_? esclamò ad un tratto l’inferma, che cosa ne abbiamo
fatto del _nuraghe_?

— Quello non muta, rispose Cosimo con uno strano accento; ci è ancora.

— Quand’ero fanciulla, disse la contessa, avevo deciso di farne il
sepolcro di famiglia, ora non mi piacerebbe più essere sepolta sotto
quel mucchio di macigni, e nemmeno a Ploaghe mi piacerebbe essere
sepolta... Dove mi piacerebbe? Non lo so nemmen io.

Chiuse un’altra volta gli occhi e parve addormentarsi. Cosimo guardava
innanzi a sè, come chi fissa un’immagine del proprio pensiero; la
contessina Beatrice si moveva lentamente, senza far rumore, andava di
qua e di là per la camera, con certe mosse di uccelletto in gabbia,
facendo nascere l’ordine e la simmetria dove metteva le manine bianche.
A un certo punto, dopo d’aver ottenuto un risultato mirabile, col
semplice spostamento d’una sedia e senza fare il minimo rumore per
non destare l’ammalata, la vaga donnina cercò nel volto del marito un
sorriso od almeno uno sguardo d’approvazione, ed ebbe l’uno e l’altro,
e parve contenta e proseguì l’opera sua, non badando a leggere il
pensiero che rimaneva sul volto del marito quando il sorriso si era
cancellato. Quel pensiero diceva: «La pazzerella ama l’ordine, è la sua
monomania; amore di gran dama per un borghesuccio spiantato, la metterà
in rovina.»

— In cimitero no, disse a un tratto la vecchia contessa, senza aprire
gli occhi; ed aprendoli ripetè più forte: in cimitero no, figliuoli
miei, tenetelo bene in mente, non voglio essere sepolta in cimitero.
Farete trasportare il mio corpo in Sardegna e lo seppellirete in
qualcuna delle mie terre, a Sassari, o a Ploaghe, o a Iglesias, vicino
alla miniera — e sulla mia tomba pianterete una palma...

Furono picchiati due colpi all’uscio.

— Avanti, disse Beatrice.

La porta si aprì appena tanto da lasciar passare la testa di Ambrogio.

— Il notaio! disse; e la testa scomparve.

Il dottor Parolini, notaio, fece il suo ingresso con faccia ridente,
con passo leggiero.

— La signora contessa, disse accostandosi confidenzialmente al letto
dell’ammalata, vuol fare testamento, per vivere poi lungamente senza
fastidii; benone — è un’astuzia che non isbaglia mai — auguro cent’anni
di vita alla signora contessa. E come sta?

— Sto bene, grazie, rispose l’ammalata; oggi mi sento meglio.

— Possiamo dire _sana di corpo?_ domandò il notaio mettendosi a sedere
dinanzi ad una scrivania, mentre la contessa Beatrice gli presentava
l’occorrente per iscrivere.

— Temo di no, Parolini.

— Peccato! sospirò il Parolini; io sono felice quando posso mettere ne’
miei atti: _sano di corpo e di mente_. — Della signora contessa, diremo
invece: nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, sebbene costretta
a letto da una leggiera indisposizione...

— Mettete _malattia_, gemè la contessa; la verità è una sola, anche
quando ci affligge.

Il dottor Parolini fece omaggio alla profondità di questa massima,
scrivendo e pronunziando forte: «nel pieno possesso di _tutte_ le
facoltà mentali: sebbene costretta a letto da una leggiera malattia...»

— Non mettete _leggiera_, disse la contessa; non bisogna fingersi più
rassegnati di quello che si è, ma non mettete nemmeno _grave_, perchè
io non voglio aver l’aria di lamentarmi troppo.

— _Malattia_, ripetè allora il Parolini, con accento melanconico; poi
si voltò e chiese: i testimoni?

— Mio figlio, disse la contessa, e mia nuora; meglio che non ci siano
altri.

— Domando mille scuse, contessa Veronica, se non le obbedisco; ma la
legge vuole che i testimoni siano idonei, e la contessa Beatrice, agli
occhi della legge, non è un testimonio idoneo.

— Perchè? chiese la contessa Beatrice.

— Perchè sei donna, perchè siamo donne, rispose l’inferma.

— La legge non l’ho fatta io, protestò il Parolini: e l’innocenza
parlava sulle sue labbra.

— Chiamate Ambrogio, disse la contessa Veronica.

— Non basta ancora.

— O che non è idoneo nemmeno lui?

— La legge (compatiamola), disse il Parolini, vuole un notaio e quattro
testimoni.

— Chiamate il cuoco, suggerì la contessa con amarezza, chiamate lo
sguattero, chiamate lo stalliere — la legge vuole che la contessa
Rodriguez De Nardi faccia testamento alla presenza de’ suoi servi.

— La legge non pretende questo, osservò umilmente il Parolini: e
siccome ha compreso la difficoltà di trovare quattro testimonii,
consente che il testamento sia fatto alla presenza di due soli
testimoni, ma con due notai... Ho preveduto il caso anch’io e mi sono
permesso di condurre meco il dottor Larucci, mio socio, il quale è di
là che aspetta.

— In buon’ora, disse la contessa, fatelo venire innanzi.

Beatrice toccò il bottone del campanello; apparve Ambrogio.

Il Parolini, che era rimasto a sedere colle braccia sulla scrivania,
e la testa alzata verso l’uscio, si volse un tantino al letto
dell’inferma a chiedere licenza, poi disse:

— Dica al dottor Larucci che può venire, e venga anche lei, signor
Ambrogio, ne abbiamo bisogno.

Un momento dopo entrava il più magro dei dottori.

Vestiva interamente di nero, certi abiti di taglio antico ridotti a
pessima condizione dall’abuso della spazzola, e si vedeva chiaro che
egli trattava la propria sorte colla medesima severità con cui era
trattato.

— Signora contessa, disse il Parolini, fingendo di alzarsi da sedere
senza farne nulla, le presento il dottor Larucci mio egregio collega.

Non passò neppure l’ombra d’una lontana compiacenza sulla faccia
scolorita del notaio magro, il quale fece un inchino e continuò a
fissare severamente la propria sorte.

Il notaio grasso — appariva ora luminosamente che il Parolini era
grasso — continuò, rivolgendosi al suo egregio collega:

— Dottor Larucci, si accomodi qui, vicino a me: la signora contessa
Rodriguez De Nardi richiede l’opera nostra, perchè vuol fare
testamento; è nel pieno possesso di tutte le sue facoltà mentali,
sebbene _degente_ per momentanea infermità; i testimoni idonei e qui
presenti (egli si voltò per assicurarsene, e il dottor Larucci seguì
quell’atto colla coda dell’occhio) sono il signor conte Rodriguez,
unico figlio della contessa, e il signor Ambrogio... che Ambrogio?

— Cima, disse il vecchio senza muoversi dal suo cantuccio.

— Cima, ripetè il Parolini. Ho preparato, come può vedere, tutta la
parte che serve di preambolo... Oggi (la data è in bianco) regnando
felicemente Vittorio Emanuele II.... Vegga se le pare che sia in
ordine.

Il dottor Larucci, notaio che non si faceva illusioni, respinse la
carta bollata e le carezze, si cavò un guanto che cacciò diligentemente
in una tasca, prese una penna in mano e stette ad aspettare.

Il Parolini si volse verso l’inferma ed accennò che poteva incominciare.

— Nomino, incominciò la contessa con gran solennità, erede universale...

— Ed esecutore testamentario... suggerì il Parolini.

— Che cosa significa? Non importa... ed esecutore testamentario mio
figlio Cosimo; e gli raccomando la esecuzione delle mie ultime volontà.

— Ecco, ecco, disse il Parolini con compiacenza — ecco che cosa è un
esecutore testamentario... lei ne ha dato la definizione giusta.... Non
è così, dottor Larucci?

— Mio figlio, proseguì l’inferma, ha già l’amministrazione del mio
patrimonio da parecchi anni e sa che esso ascende ad un milione e
dugento mila franchi, sui quali gravano alcune piccole... alcune
piccole...

— Ipoteche? suggerì timidamente il Parolini.

— Bravo! ipoteche.

Non disse altro. Si udì la penna del notaio magro passare stridendo
sulla carta bollata, mentre il notaio grasso, piegandosi un tantino,
seguiva coll’occhio ogni parola. Finchè durò quel silenzio, la contessa
Veronica e la contessa Beatrice cercarono allo stesso tempo lo sguardo
di Cosimo, il quale si ostinava a spingere l’occhio per entro ad
una via buia e profonda che si apriva nella parete dirimpetto. Anche
Ambrogio fissava lo stesso punto della parete, ma se ne seppe staccare
due volte per rivolgere un’occhiata fuggitiva al conte Cosimo ed agli
altri personaggi di quella scena singolare.

— Pic... co... le, disse forte il Parolini, leggendo sopra il
braccio del suo collega e staccando le sillabe, _ipoteche_ conchiuse
brevemente. Possiamo proseguire.

— Voglio, disse l’ammalata, che tutti i miei gioielli appartengano alla
contessa Beatrice, mia nuora — coll’obbligo, soggiunse voltandosi a
ricercare con uno sguardo carezzevole la vaga donnina, coll’obbligo di
portarne sempre qualcuno, anche quando non saranno più di moda.

Beatrice era venuta al capezzale del letto senza far rumore, e fu
pronta a ringraziare ed a promettere solennemente con un bacio.

Il Parolini ed il suo egregio collega consegnarono alla carta bollata
anche questa suprema volontà della testatrice, la quale poco dopo
proseguì:

— Al mio caro amico Ambrogio Cima....

Ambrogio si svegliò dal suo sogno ed aprì tanto d’occhi.

— Lascio l’orticello Giuncheddu che posseggo in Sorso, oppure una somma
di lire _cinquemila_ in denaro, a sua scelta.

— Ma io... cominciò Ambrogio con cupo accento...

Gli fu imposto silenzio, e la penna del dottor Larucci ripetè
scricchiolando questo legato.

— Ognuno de’ miei servi avrà alla mia morte lire mille.

— Quanti servi? chiese il notaio magro senza staccare gli occhi dalla
carta bollata.

— Quanti sono i suoi servi, signora contessa? ripetè il Parolini.

— Il cuoco, lo sguattero, lo stalliere, il cocchiere, il domestico...

— E si chiamano? insistè il Larucci.

— Il nome de’ suoi servi, signora contessa... Ce lo vuol dire il nome?

— Chi vuole che sappia il nome dei propri servi? Il cuoco si chiama
Giovanni, lo stalliere Stefano, il cocchiere... Lo sai tu Beatrice come
si chiamano i miei servi?

Beatrice rispose ridendo, segno che non lo sapeva.

— E tu Ambrogio lo sai? chiese l’inferma.

— Lo so, sissignora, e se permette....

Si fece, in punta di piedi, alle spalle del dottor Larucci e gli
suggerì ad uno ad uno i nomi richiesti, poi se ne tornò tranquillamente
al suo cantuccio.

— Alla mia cameriera Annetta... che Annetta?... Beatrice mia, che
Annetta?

Questa volta i neri occhi della giovine donna sfavillarono di malizia,
e la compiacenza le scavò due fossette nelle guancie.

— Annetta Baroni... lo so benissimo.

Certo il conte Cosimo aveva trovato nelle sue fantasie nere uno
spiraglio allegro, perchè a queste parole si volse, fingendo uno
stupore eccessivo, e venne con gravità scherzosa a fare tante
congratulazioni alla moglie, la quale non le avrebbe voluto tacite,
e senza abbandonare la mano del marito protestò che non ci aveva poi
molto merito, perchè Annetta, orgogliosa del proprio casato, a cui
attribuiva una certa origine cavalleresca, non si era lasciata sfuggire
nessuna occasione di ripeterlo.

— Alla mia cameriera Annetta Baroni, ripigliò a dire l’inferma, e
subito si allentò la stretta che allacciava la mano di Beatrice, mentre
le nuvole oscuravano un’altra volta l’orizzonte del conte Cosimo —
lascio tutti i miei oggetti di vestiario, e un regalo di lire mille in
denaro.

Proprio in quel punto, tale e quale come una servetta di commedia,
Annetta Baroni si affacciò all’uscio; con un suo meraviglioso istinto
comico indovinò la situazione, e ne fu lieta; e per istare degnamente
in iscena si circondò d’una confusione eccessiva.

— Gran Dio! disse — posso entrare?

Essa interrogò successivamente tutti i personaggi di quella scena:
la vecchia contessa, che aveva chiuso gli occhi, il conte Cosimo, che
non le badava, il notaio Parolini, che si fregava le mani, seguendo la
penna stridula del suo collega, e infine la contessa Beatrice, la quale
era la sola che avesse lo sguardo rivolto a lei.

— Entra, le rispose costei ridendo, entra pure Annetta.

Ed Annetta entrò in punta di piedi, rialzando un tantino le ali,
vogliamo dire le braccia, per farsi più leggiera, con qualche cosa
da dire, visibile sulla bocca semi-aperta, ma trattenendo il fiato,
perchè le parole non venissero fuori prima d’essere a tiro. Tutte
queste precauzioni, consigliate dall’arte scenica, per non disturbare,
ottennero il risultato opposto; l’inferma aprì gli occhi, il conte
Cosimo si volse, Parolini alzò il capo.

— Che è stato? domandò forte la contessina Beatrice, e con questa
domanda sembrava suggerire l’abbandono di tutte le grandi precauzioni
prese dalla prudente Annetta; ma la prudente Annetta sapeva la sua
parte a memoria e tenne duro; padroni gli altri di sbagliare l’accento,
il gesto e magari le parole; padronissimi di confondere anche la scena
prima colla scena ultima; essa però non doveva violare nemmeno uno
dei grandi principii di un’arte ammaliatrice, e rispose con un filo di
voce:

— Ci è di là il professore Silvio.

La contessa Beatrice battè le mani e disse che andava lei a riceverlo,
invitando Annetta a seguirla. Ma nella parte della servetta ci era
qualche cosa ancora.

— La signora contessa non desidera nulla da me?

La madre nobile non desiderava nulla; allora Annetta uscì, come era
entrata, in punta di piedi, per la porta laterale.

— Dicevamo? chiese il notaio Parolini dopo un momento di silenzio.

— Per oggi punto e basta, rispose l’inferma.

— Punto e basta, ripetè il Parolini.

Il dottor Larucci era già in piedi, e si affrettava a nascondere un
dito lordo d’inchiostro nel guanto.

— Domani alla stess’ora, disse la contessa.

— Siamo a’ suoi comandi, risposo il Parolini, intanto che abbottonava
il farsettone da cima a fondo.

Sull’uscio d’ingresso, si arrestò per aspettare il suo collega e
costringerlo a passare prima, onore a cui il dottor Larucci, tutto
intento ad abbottonarsi i guanti, giunse impreparato e che accettò
senza nemmeno ringraziare, da uomo che comprendeva il valore della
propria fortuna.

Ambrogio seguì i due notai alle spalle; madre e figlio rimasero soli.

Si poteva credere che la contessa Veronica, tenendo gli occhi chiusi,
non avesse badato a nulla; invece appena Ambrogio fu scomparso, essa
chiamò: Cosimo!

Il conte venne presso il letto della paralitica.

— Che vuoi? chiese dolcemente.

— Tu sai che io sono molto curiosa, ma non ti fai un’idea di quanto mi
diverto andando di stanza in stanza coll’immaginazione, dacchè non lo
posso fare per davvero...

— Non ti comprendo, balbettò Cosimo.

— Voglio andare liberamente per la mia casa, e tu hai chiuso una
stanza...

— Io?...

— Sì, la camera gialla; essa è chiusa da quindici giorni e non vi entra
più nessuno... Che cosa hai messo in quella camera?

Il conte Cosimo si battè la fronte e rispose con disinvoltura:

— Ah! alcuni quadri antichi che non ho potuto ordinare ancora.

— La tua mania, mormorò la vecchia con indulgenza; ti rovinerai,
figliuolo mio.

Balenò uno strano sorriso sulle labbra del conte, il quale si chinò a
baciare la mano fredda della vecchia.

— Te ne vai ora?

— Silvio è di là, mi aspetta... vuoi vederlo?

— No, disse l’ammalata con forza — dormo.

Il conte Cosimo cacciò le due mani in tasca e si avviò tranquillamente.

Egli era appena uscito, quando si affacciò, da un’altra porta, Annetta.

Essa mandò prima un’occhiata in giro, poi si accostò in punta di piedi
all’uscio, sebbene l’inferma le facesse intendere che era inutile
prendere tante precauzioni.

— Annetta, diceva la contessa Veronica, che cosa ti piglia ora?

Ma Annetta proseguì ad ogni modo.

— Sei matta? insistè l’altra.

La servetta non si scompose; aveva udito ben altre parole e in accenti
più aspri. La contessa stessa in qualche scena precedente l’aveva
chiamata _bestia_; ma che significava questo? Che la brutta parola
era scritta nella parte della contessa. Non perciò Annetta aveva mai
cessato di fare la parte propria con coscienza.

Ella adunque finì di assicurarsi che nessuno poteva udire quanto stava
per isvelare alla padrona, e quando ebbe con questo artifizio preparato
un orecchio più attento alle proprie parole:

— Ho scoperto! disse.

— Che cosa hai scoperto?

— Ciò che si nasconde nella camera gialla.

— Quadri, disse freddamente la contessa Veronica.

Annetta rimase un po’ sbigottita di quell’intoppo, che sorgeva
impreveduto nella propria particina.

E la contessa, senza carità, insistè: quadri antichi.

— Per l’appunto balbettò la cameriera; come lo sa?

— L’ho chiesto a mio figlio. Tu invece come lo sai?

— Io, rispose Annetta con un turbamento delizioso, io, credendo di far
piacere alla signora, prima ho guardato attraverso la toppa e non ho
visto nulla; poi....

— Poi?

— Poi... stamane di bonissima ora, sono scesa in giardino, ho
appoggiato al muro la scala del giardiniere, ho guardato attraverso
i vetri della finestra ed ho visto tutto... Sono quattordici quadri
con cornici verdi... Ve n’è uno che... ma la signora contessa non ha
bisogno che io...

La contessa accennò col capo di proseguire.

— Ve n’è uno, ripigliò Annetta, che rappresenta un uffiziale a cavallo,
dico un uffiziale così per dire.... tutto coperto di ferro, con una
croce sul petto.

— Imperio de Nardi! mormorò l’inferma, e un sorriso d’orgoglio le
illuminò la faccia patita.

— Ve n’è un altro colla toga rossa.

— Mio nonno.

— E ve n’è uno che pare un vescovo, e alza la mano per benedire.

— Monsignor Giaime De Nardi! mio prozio. Grazie Annetta.



III.


Il professor Silvio, ritto nel mezzo del salotto, col cappello stretto
fra le due mani e lo sguardo fisso a terra, non udì il passo leggiero
della contessina Beatrice, la quale gli fu sopra alla sprovveduta, gli
afferrò il cappello con ambe le mani, e piantandosigli in faccia in una
maniera dispotica, disse:

— Di che umore è oggi il signor orso? e soggiunse senza dargli tempo:

— Il signor orso è d’umor nero, si vede subito.

Silvio a queste parole si scosse e si provò a sorridere. Aveva un
sorriso dolce il signor orso; alla luce di quel sorriso, la sua faccia
scura pigliava un aspetto piacevole, quasi bello. Tuttavia egli non
rispose nulla e non allentava nemmeno la stretta con cui teneva il
cappello, sebbene la vezzosa interlocutrice facesse un po’ di violenza
per istrapparglielo di mano. Non vi riuscendo, ordinò: «lasci andare,»
e Silvio obbedì chiedendo scusa.

La contessina lo minacciò col dito ed andò a deporre il cappello sopra
una sedia.

— Dunque? disse poi tornando incontro all’amico con una certa gravità.
Dunque ce lo vuol dire che cosa ha quest’oggi? Ci vuol dire come sta
Angela?

Beatrice si era buttata a sedere sopra un divano, ed invitava l’amico
a venirle al fianco, ma l’invisibile laccio d’un pensiero tratteneva
Silvio in mezzo alla stanza.

— Cosimo non viene? domandò, e avvedendosi dal suono della propria
domanda che egli era in debito di una risposta, fece due passi avanti e
si affrettò a dire:

— Angela sta benone; però in collegio non ci vuol rimanere più, si
annoia.

— Alla sua età si annoia? osservò Beatrice, comincia presto: bisognerà
comperarle una bambola che dica _mamma_.

— Bambole! rispose Silvio; sentisse come ne parla! le disprezza
tutte. Le piace leggere, sonare il pianoforte e sopratutto recitare
la commedia. Ma in collegio non ha che libri noiosi, le fanno sonare
troppi esercizi, e non si recita che un paio di volte l’anno, in
carnevale. Compiangiamola.

— Povera bimba! disse Beatrice.

Entrò Cosimo.

Si accese la medesima luce nel volto abbronzato di Silvio e nella
faccia pallida del conte; si strinsero la mano, si buttarono un braccio
sull’omero e vennero così allacciati dinanzi alla contessina, che li
guardava crollando il capo.

— Eccoli lì! disse, si vogliono bene come due innamorati.... Se pure ce
n’è ancora degli innamorati che si vogliano bene così. Sapete voi altri
che ce ne sia ancora?

— Io credo di sì, rispose Silvio.

— Io ne sono sicuro, rispose Cosimo.

— Una volta ci erano anche dei mariti che volevano bene così alle loro
mogli! sospirò la contessa.

— Gelosa! disse il marito con tenerezza; ed aggiunse un gesto discreto,
che, a saperlo intendere, era una carezza. Beatrice l’intese, ma
nondimeno insistè:

— I mariti d’oggi sono affaccendati; hanno delle gravi cure, e
se le tengono tutte per risparmiare le mogli. Devono essere molto
riconoscenti le mogli.

Parve a Cosimo che tremasse una corda melanconica in queste parole, ma
la gioconda natura riprese i suoi diritti, quando il marito stava per
iscusarsi.

— Grazie, soggiunse Beatrice; meglio così, io già non saprei essere
diversa da quella che sono; se è proprio necessario guardare una cosa
con occhiate severe, o profonde, o cupe, non me la fate vedere.

Silvio interrogò Cosimo alla muta, ma Cosimo interrogava Beatrice, la
quale rispose così:

— Che mi vuoi dire con quell’occhiata? Non mi sono spiegata
chiaramente? Mi spiegherò meglio, per non farmi dare della
pazzerella... stiano zitti; lei, signor marito, non me lo dice, ma lo
pensa; e lei signor professore...

— Io?...

— Lei forse mi giudica con più indulgenza, diremo così. Dunque,
dico io, non si potrebbe guardare il mondo e tutte le cose che vi si
rappresentano con un po’ di buonumore? Io le guardo così, e rido. Ma
forse non ci vedo abbastanza.

— Hai ragione, disse Cosimo, pensoso.

— Non ci vedo abbastanza? chiese Beatrice, rovesciandosi sul divano per
ridere con abbandono.

— No, corresse il marito, forse le cose della vita dovrebbero essere
guardate così... come tu le guardi; ma...

Quel _ma_ fece paura alla contessina... Annunziava esso un’immagine
filosofica? Cielo! e allora chi potrebbe resistere? Rabbrividì
eccessivamente, poi rise ancora, poi si rifece seria.

— Parliamo d’Angela, disse: lo sai, Cosimo, la cara bimba non vuol
più stare in collegio, si annoia! e il signor filosofo, suo zio, fa
profonde meditazioni sopra questo caso difficile.... È perfino venuto
a chiedere consiglio a me, non è vero, professore? Ecco a che cosa
conduce la filosofia!

— Sì, disse tranquillamente Silvio, sono venuto a chiedere consiglio.

— A me? interruppe Beatrice, dica di sì per farmi piacere.

— A lei ed a te, ed anche alla contessa Veronica, se la sua malattia mi
concede un breve armistizio. Come sta oggi tua madre?

— Pare che stia meglio; ha la lingua più sciolta del solito...

— Allora avrà detto male di me, osservò Silvio con accento scherzoso.

— Tu esageri, si provò a dire il conte, non è vero che mia madre non ti
possa soffrire, come ti sei messo in capo... Ci è una mala intelligenza
di mezzo.

— I nostri fluidi non si combinano, disse Silvio leggermente.

— Peccato! sospirò Beatrice. La mamma è tanto buona, ed è sempre tanto
allegra, tanto forte, anche quando soffre!...

— Ah! sì, è allegra, è forte, confermò il professore, ed è anche
buona....

Cosimo interruppe:

— Il consiglio che ti bisogna riguarda Angela?...

— Angela ed un altro....

— Un altro?

— Lui!

Silvio aveva abbassato la voce istintivamente nel pronunziare questa
parola, che fu subito intesa.

— Ha scritto? domandò Cosimo, mentre l’amico mostrava l’estremità d’una
carta nel pugno chiusa.

Beatrice non rideva più: s’era fatta un po’ pallida ed aveva il respiro
breve, nell’ansia d’una curiosità intensa e punto frivola.

— Sediamo! disse con un filo di voce, ma i due amici continuarono a
stare ritti innanzi a lei; ed allora essa si alzò, e pose la testina
vivace presso al foglio che Silvio aveva spiegato in silenzio.

Il professore lesse con voce pacata, ma sorda:

  «Perdonami se disobbedisco; ma non posso più resistere. Sono
  oramai vecchio e si avvicina l’ora in cui avrò finito di sognare
  la felicità che mi è negata. Meglio così; il sogno vano non mi
  contenta e il desiderio mi uccide. Non farò pazzie, fratello mio,
  ma tu non mi negare l’ultima carità che ti domando: fammi vedere
  mia figlia. Scrivo a bordo d’una barcaccia di contrabbandieri che
  porta un bel nome: _Speranza nostra_. Albeggia. Ho dinanzi agli
  occhi la spiaggia di Castelsardo. Fra un’ora sarò là, colle mie
  memorie più crudeli, solo. Consegnerò alla posta questa lettera
  e mi avvierò alla rupe di Muros. Tu sai dove trovarmi e come
  avvertirmi del tuo arrivo. Di me, non temere; sarò prudente;
  ma pensa, fratello, che sono lunghe le giornate di chi aspetta
  il bacio di sua figlia ed è costretto a nascondersi. Affretta,
  affretta, affretta.»

Sotto queste parole si leggeva un nome — _Giorgio_ — ma Silvio non lo
pronunziò, e lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, chiese con
voce soffocata: — Che cosa faccio ora?

— Piglia teco Angela, e parti, rispose il conte Cosimo.

— E la contessa Veronica che cosa dirà?

— Sei nel tuo diritto.

— Le potremo far credere, suggerì la contessina, facendosi rossa rossa,
che Angela era un po’ ammalata e che le fu consigliato di mutar clima o
di fare un viaggio di mare....

— Bugie innocenti, mormorò il conte Cosimo, bugie generose! Qualche
volta ci è del merito a saperle dire con disinvoltura.

— Forse, entrò a dire Silvio, la contessa Veronica non si ricorderà
nemmeno di Angela....

— Al contrario, disse Beatrice, ne parla spesso; è da lei che ho saputo
tutta la storia dolorosa; voi altri non me ne avreste detto nulla —
però mi ha fatto giurare solennemente di non rivelare il segreto. Io
non l’ho rivelato a nessuno, perchè lo sanno tutti.

— Fuorchè Angela! sospirò Silvio.

— È vero; ecco l’impiccio; Angela non sa nulla! Proprio nulla?

— Sa che suo padre è lontano, e che non può venire; sa che potrebbe
anche esser morto — oramai si è avvezzata a questa idea, e non ne
soffre più. E dovremo risvegliare nel suo cuore un sentimento che le è
quasi ignoto unicamente per farla poi penare?

Al quesito dolente non vi era risposta.

Non poteva entrare nell’animo di nessuno dei tre neppur l’idea di
ribellarsi a quel desiderio d’un padre. La necessità, come aveva già
parlato per bocca del conte Cosimo, così parlava ancora nel silenzio;
bisognava prendere Angela e partire il più presto possibile.

— Quando? disse Silvio, come interrogando sè stesso.

Allora l’amico gli prese la lettera dalle mani, e la rilesse in
silenzio. Beatrice con una specie di curiosità infantile, gli si mise
al fianco, e tirando a sè il braccio del marito, e rizzandosi in punta
di piedi, cercò anch’essa su quel foglio la risposta.

— Subito, disse Cosimo.

— Forse no, entrò a dire timidamente Beatrice; se il professore ha modo
di avvisarlo, si può aspettare qualche giorno ancora. Qui è scritto (e
toccava col mignolo le parole della lettera): «Tu sai dove trovarmi
e come avvertirmi del tuo arrivo.» Lo avverta che arriverà fra un
mese....

Silvio prese in mano la lettera, e vi buttò gli occhi appena, poi disse
senza leggere: «pensa, fratello, che sono lunghe le giornate di chi
aspetta il bacio di sua figlia ed è costretto a nascondersi....» Qui
sta scritto così; lo so a memoria.

— E allora fra quindici giorni, fra una settimana.... Non si può già
partire all’improvviso, non sarebbe neppure prudente, consigliò Cosimo.
Bisogna avvertire la mamma, preparare la ragazza, trovare qualche bugia
innocente per l’una e per l’altra. Non vorrai già dire tutto il vero ad
Angela? Ti aiuterò anch’io a cercare l’inganno; l’immaginazione non mi
manca.

Dicendo queste parole, il conte Cosimo aveva un accento strano, una
leggerezza beffarda.

Il professore stette in pensiero, col capo basso, poi si scosse e
disse: «Scriverò.»

— Scriva, suggerì Beatrice, e preso l’amico per la manica dell’abito,
lo condusse dinanzi ad uno stipetto, che col calare d’una ribalta si
adattava a scrivania.

Aveva sotto gli occhi un piccolo calamaio galante, da cui un amorino
malizioso scoccava una freccia di argento in petto a chiunque
scrivesse; una penna d’avorio in forma appunto di dardo; della carta da
lettere minuscola, con certe iniziali enormi che scendevano fino a piè
di pagina.

Silvio sorrise pigliando la penna in mano, sorrise nell’intingerla in
quel calamaio che scostò un tantino da sè, tanto per isviare il colpo
del piccolo tiratore e ringraziare almeno la contessina con una celia
muta, poi scrisse:

      «Fratello!

  »Fra quindici giorni ti condurrò la tua creatura. Prima sarebbe
  impossibile, senza destar sospetti. Angela non sa nulla e non
  saprà nulla, se tu non vuoi. Proverò a dirle che i medici le hanno
  ordinato di fare un viaggio di mare, ma non mi crederà, perchè è
  furba e sta benone. Vedrai come s’è fatta bella!

  »Io tremo per te; prudenza, fratello mio; se lo puoi fare senza
  pericolo, scrivimi ancora. Addio per ora. Mi batte il cuore al
  pensiero di rivederti, dopo tanti anni, e dopo tanto dolore!»

Quand’ebbe finito, si volse e sorprese la contessa Beatrice, che,
stando dinanzi al marito, si era rizzata in punta di piedi e gli aveva
afferrato la testa colle mani, due manine piccolissime e bianche. Essa
voltava le spalle alla scrivania, egli aveva la faccia melanconica
abbassata amorosamente verso di lei.

Silvio si arrestò a contemplare quel quadro; le maniche dell’abito
della contessa, che usavano corte, erano accorciate ancora dalla
positura, e lasciavano vedere quasi interamente due braccia candide
e tonde; la contessina aveva il corpicino snello, ma non scarno,
tutt’altro; sotto il grosso mazzocchio di capelli biondi, attraverso
la peluria ribelle al pettine, si vedeva un grosso neo, messo lì dalla
tentazione....

Il signor orso notò tutto questo e cominciò a sorridere, proponendosi
di star lì ad aspettare i comodi dell’amico per ridergli poi in faccia,
allegramente. Tutto ciò nel primo istante; un momento dopo egli cessava
di guardare e si rimetteva al suo scritto. Si affacciarono forse
all’anima di quell’uomo invecchiato dai pensieri e dagli studi le larve
d’un mondo ignorato, perchè egli ripiegò sbadatamente la lettera, la
suggellò, prese la penna per fare la soprascritta e rimase lì senza
scriver nulla.

— Ha finito? chiese la voce della contessa Beatrice.

— Ha finito? ribattè Silvio con accento giocondo, senza voltarsi.

Allora il professore scrisse, curvandosi molto sulla carta:

«Al Signor Efisio Pacis — ferma in posta — Sassari.»

La contessina ripeteva sottovoce al marito: «ci ha visti!» e rideva.



IV.


In campo rosso seminato di bisanti d’oro, una croce nera di
Sant’Andrea; sullo scudo, un elmo disposto a mezzo profilo, tutto
d’argento rabescato, bordato ed ingraticolato di diciasette pezzi
d’oro, colla gorgeretta dello stesso metallo, e su quest’elmo, unico
cimiero, una penna d’aquila; sopra un listello svolazzante il motto:
_semper olet!_

Era questo lo stemma glorioso della nobilissima famiglia De Nardi, che
aveva attraversato i secoli serbando intatta la sua gloria primitiva
e raccogliendone dell’altra. Quando nel 1326 i Pisani sconfitti dagli
Aragonesi abbandonarono l’isola per sempre, si erano già innestati
nella famiglia De Nardi i più puri elementi della vecchia nobiltà
sarda. I Pisani se ne andarono, ma i De Nardi rimasero. Ne troviamo uno
— Cosimo De Nardi — delegato dal giudice di Arborea agli _stamenti_ che
si tennero in Alghero dal re Pietro d’Aragona per pacificare i vassalli
tumultuanti; e uno ne troviamo segretario intimo di quel Guglielmo
di Narbona che si sottomise alla corona aragonese. Fra quello degli
_stamenti_ e questo della sottomissione, ve ne sarebbe dovuto essere
almeno un altro, più fortunato ancora, vissuto al fianco della grande
Eleonora, — ma l’albero della famiglia De Nardi in quel tempo glorioso
intristì, e non produsse che un Martino De Nardi, sospetto di aver
voluto far parte coi repubblicani, contro la savia giudicessa.

Poi l’antico seme dell’albero gigantesco si prese la rivincita con una
serie di De Nardi uno più meraviglioso dell’altro.

Un Imperio De Nardi nel 1535 si trovò alla conquista di Tunisi con
Carlo V, e un Mattia De Nardi fu giudice della Corte Criminale
fondata da Filippo IV; a quel tempo la famiglia De Nardi si era
già riconciliata colla Spagna e le rimase fedele, attraverso le
generazioni, fino al trattato di Utrecht, che dava la Sardegna
all’Austria. Allora il più disgraziato dei De Nardi, per non offrirsi
vittima alle persecuzioni succedute alla guerra civile, se ne andò
in Ispagna, d’onde ritornava glorioso nella spedizione navale del
cardinale Alberoni; ma mettendo il piede nella sua terra riconquistata,
cadde ai primi colpi.

Ci furono dei De Nardi assolutamente infelici; i quali patirono la
confisca dei beni, quando l’Austria riebbe la Sardegna in forza del
trattato di Londra; e ce ne fu uno, il vescovo Giaime De Nardi,
il quale ottenne da Vittorio Amedeo II il bene intenzionato, la
restituzione dei beni alla famiglia e il riconoscimento dei diritti
feudali.

I De Nardi non tralignarono più; e per tutto un secolo noi ne vediamo
qualcuno del ramo laterale giudice della reale udienza, professore o
monsignore; ma il capo della famiglia, il conte glorioso, non lasciò
più una sua casa di Ploaghe, onorandola del nome di palazzo e della
propria presenza.

L’ultimo De Nardi, padre della contessa Veronica, portò degnamente
per 70 anni la gloria d’essere il rampollo autentico d’una grande
famiglia, il dolore di essere il rampollo ultimo; e visse, per colpa
dei tempi volgari, in guerra col cinghiale, col cervo, colla grammatica
e coll’ortografia.

Sì, perchè il conte Gavino De Nardi era ignorante come un bue, ma
non se ne vergognava perchè era superbo e vano come un eroe d’Omero.
Quand’egli, circondato da’ suoi cortigiani, mandava in giro la
vecchia malvasia e la vecchia arguzia, tutto il coro sentenziava che
erano squisite entrambe. Al quarto bicchiere di malvasia, alternato
coll’_almadras_ e colla _vernaccia_, il conte De Nardi era intimamente
persuaso di valere assai più di certi dottoruzzi dei tempi novissimi.
E quando, dopo aver vantato prodezze ed accortezze ad un pubblico
sonnolento, si alzava barcollando per mettere gentilmente alla porta i
proprii ammiratori, se gli veniva fra le mani la gazzetta che si faceva
mandare dal continente, gli bastava leggere sulla fascia: _All’Illmo
signor conte Gavino De Nardi_ per provare una segreta compiacenza,
una contentezza di sè, ignota agli uomini volgari. Egli non leggeva
quasi mai altro, nella sua gazzetta; quel foglio di carta stampata
attraversava il mare ogni settimana per venire come un postulante in
casa del magnifico conte De Nardi, che non gli dava retta. In questo
modo di trattare la stampa, il vecchio metteva una certa vanagloria, di
cui sarebbe stato imbarazzatissimo a dichiarare la natura, dove avesse
mai avuto l’ingenuità di perdere il tempo nel ricercare l’origine e la
composizione dei proprii sentimenti. «Questa è roba per lor signori,
diceva un bel giorno al curato ed al giudice di mandamento, spingendo
sulla tavola un fascio di gazzette intatte; se le spartiscano da buoni
fratelli.» Gli altri ridevano, ma il magnifico conte Gavino De Nardi
rimaneva serio per non guastare il sapore della celia.

Bei momenti quelli! e in sostanza i soli in cui trovasse un po’
di conforto l’ultimo rampollo di un albero genealogico, che aveva
sfidato i secoli, e che doveva inevitabilmente cadere. La faccetta
tonda e vivace della sua figliuola Veronica, il visino soave e patito
della piccola Mimmia gli sorridevano inutilmente. Egli aveva pensato
perfino ad un secondo matrimonio; sebbene avesse fatto il primo a
quarantacinque anni e fosse rimasto vedovo a sessanta, anzi per questo
appunto, dopo alcuni bicchieri di vernaccia saviamente alternati, come
si è detto, coll’almadras e colla malvasia, si sentiva capace ancora di
grandi cose. Ma la difficoltà di trovare una sposa giovine e di antica
nobiltà, la quale fosse disposta a tentare con lui la impresa malsicura
di far nascere un rampollo maschio ai piedi della vecchia pianta,
questa e parecchie altre difficoltà, non confessate ma intravedute
a digiuno, lo avevano serbato fedele alla memoria della sua defunta
compagna.

Un giorno la contessina Veronica, il senno in persona, era venuta a
dire al babbo che pensasse a darle marito.

— È vero, aveva risposto il conte, guardando sua figlia, è vero, tu hai
diciannove anni — («Diciannove e mezzo,» aveva corretto la contessina)
— è vero, non ci avevo mai pensato.

La contessina, arrossendo modestamente, aveva lasciato intendere
d’averci pensato lei. Allora il magnifico conte aveva sentito ad un
tratto il grave pericolo che lo minacciava, ma sua figlia lo ebbe
rassicurato prontamente.

Non aveva fatto altro la poverina che mandare uno sguardo in giro, e
pigliare informazioni e note. Di quanti nobili erano capitati a Ploaghe
essa conosceva l’origine, i fasti, le ricchezze; e a conti fatti, il
solo che le potesse convenire interamente era, — Chi era? aveva chiesto
il conte De Nardi trattenendo il fiato — era il conte Rodriguez di
Florinas.

Allora il vecchio padre tirando il fiato lungo, aveva detto:

— Il conte Rodriguez è di vecchia nobiltà...

— Vecchia quanto la nostra, aveva risposto la savia fanciulla; ci
furono dei Rodriguez in tutte le crociate; lo scudo dei Rodriguez porta
un’aquila in campo azzurro, e tre bisanti d’argento; l’elmo è di mezzo
profilo, come il nostro, tutto d’argento rabescato, come il nostro,
ingraticolato di diciasette...

A questo punto Gavino De Nardi non aveva potuto vincere i sentimenti
paterni e stringendosi al petto la testina tonda di sua figlia, aveva
esclamato: tu sei il mio orgoglio, tu sarai contessa Rodriguez!

Del conte Rodriguez non si erano occupati nè l’uno nè l’altra, tanto si
tenevano sicuri di pigliarlo quando volessero. Infatti era notorio che
quell’avanzo di tutte le crociate pativa il martirio dei creditori, ed
aveva tante ipoteche sul suo feudo, che era presso a poco come se non
avesse feudo, s’intende agli occhi della gente plebea. In oltre non
era più molto giovine; aveva quarant’anni sonati, e non era mai stato
bello.

Se non era il senno esemplare della contessina Veronica, il conte
Rodriguez sarebbe morto celibe ed indebitato. Breve; si fecero i
negoziati, l’alleanza fra il crociato di Florinas e quello di Ploaghe
fu conchiusa, e la contessina Veronica divenne contessa Rodriguez.

Fu un bel giorno nella vita del conte De Nardi. Giorno bello, ma
fuggevole. Quando suo genero se ne fu andato da Ploaghe a Milano,
portandosi via la sposa e la dote, il padre abbandonato si guardò
intorno cercando qualche cosa che lo compensasse di quanto perdeva, e
non trovò che il visino lagrimoso di Mimmia, un visino di Madonna, con
certi occhioni in cui non luceva mai lampo d’orgoglio, con una bocca
troppo dolce ed un sorriso troppo buono — un angelo borghese.

Su quella fronte bianca nemmeno l’ombra del lucido senno di Veronica.

Il vecchio De Nardi comprese tutto ciò in una sola occhiata indagatrice
— ma non vide il resto.

Ohimè! il resto era già l’amore!

Sì, la piccola Mimmia, a sedici anni non compiti, era innamorata.
Tutte le notti, mentre suo padre si copriva della gloria degli avi al
cospetto del giudice e del farmacista, essa se ne veniva sul balcone ad
interrogare l’avvenire. E l’avvenire le parlava nel buio, dal ciglio
d’un muricciuolo, per bocca di Gaspare Boni, giovinetto ventenne, che
non aveva due goccie di sangue di crociati nelle vene, ma faceva ogni
sera molta strada a piedi per dire a Mimmia che l’amava più della vita.

Quando il conte De Nardi seppe il disastro di cui era minacciata la sua
casa, fu pronto a deliberare. Le porte del convento di Santa Elisabetta
in Sassari si aprirono per ricevere una novizia, e fu Mimmia.

La timida fanciulla entrando nel convento non pianse; al contrario,
alzò gli occhi sereni al cielo, in un certo modo rassegnato, in cui le
superiore non seppero leggere altro che una rinunzia alle vanità del
mondo. Ma la notte, quando la novizia andò in coro ed affacciò il viso
alla grata di legno, spingendo lo sguardo nel buio della chiesa, rotto
dalla lampada dell’altare maggiore, essa interrogò ancora l’avvenire,
come già sul balcone della propria casa feudale. Alle funzioni
religiose Mimmia cantava, e la sua voce limpida, mentre si innalzava
al cielo invocando l’ostia della salvezza, scendeva pure in chiesa a
ricercare fra le navate un’eco del mondo che la chiamava.

Una notte, quando la chiesa fu piena d’ombra e di silenzio, qualche
cosa, che ai riflessi rossigni della lampada lontana pareva un ragno
attaccato al suo filo, fece un’audace ascensione fino al coro delle
monache; e un’altra notte scese e risalì. Quella cosa, che non era un
ragno, sebbene fosse un’insidia del mondo, portava nel cuore di Mimmia
e di Gaspare una felicità sacrilega. E dal più vicino altare un santo
alzava la mano a benedire.

Vennero i giorni pasquali; le monache di Santa Elisabetta furono
occupatissime a preparare colle loro mani i pasticcini di mandorle,
che forse non a caso furono chiamati _sospiri_. A questa manipolazione
importante pigliavano parte tutte le suore; le più abili davano lezione
alle inesperte, e la notte della grande infornata, una pallida gioia
accendeva tutti quei volti scoloriti dalla clausura. Mimmia volle
vedere ogni cosa, venne anch’essa dinanzi alla gran bocca del forno,
e si affacciò a guardarvi dentro ridendo e battendo le mani, poi
finse d’andare nella sua cella, ma entrò invece nello stanzino della
portinaia, prese una chiave e scese le scale al buio.

Il cuore non le batteva più; e quando fu dinanzi alla porta del piccolo
giardino, per poco Mimmia non cadde — ma le fanciulle timide pigliano
a volte un gran coraggio nella stessa paura; Mimmia trovò la toppa ed
aprì.

Eccola in giardino, fra le braccia di Gaspare. Un’altra porticina che
metteva sulla strada era socchiusa; Mimmia allora sciolse la veste
d’educanda che lasciò sulla soglia di quel luogo profanato, ed apparve
agli occhi dell’amante in una succinta veste di fanciulla. Uscirono.
L’aria della libertà e dell’amore diede il capogiro a Mimmia, ch’ebbe
bisogno d’essere sorretta da Gaspare; ma fu una debolezza passeggiera.

— Dove andiamo? — disse.

— A sposarci prima, poi a casa di mia zia, che ti accoglierà come sua
figlia.

I due fidanzati attraversarono frettolosi la città addormentata,
vennero a picchiare ad una casa modesta.

Fu aperto da prete Serafino in persona.

— Dio grande! — esclamò il prete con uno stupore eccessivo.

— «Questa è la mia sposa davanti a Dio» — disse Gaspare.

— «Questo è il mio sposo davanti a Dio» — disse Mimmia.

Prete Serafino si tappava le orecchie, ma Gaspare gli fece osservare
che era inutile, perchè aveva udito benissimo e non poteva più negare
la benedizione.

— Io vi benedico in nome del Padre — disse allora solennemente prete
Serafino; — io vi benedico in nome del Figliuolo; io vi benedico in
nome dello Spirito Santo. Ma badate, ragazzi — soggiunse cambiando tono
— che mi avete preso a tradimento; intendiamoci, non mi fate avere dei
grattacapi col vescovo.

Così Mimmia e Gaspare furono marito e moglie a dispetto dei crociati e
del convento.

Sebbene a quel tempo _i matrimoni colla fuga_ fossero frequenti in
tutta l’isola, questo di Mimmia fece chiasso per le circostanze che
lo accompagnavano. Il vecchio conte De Nardi empì la casa feudale
d’invettive, tempestò la curia vescovile di querele, ma tutto
inutilmente.

Mimmia era divenuta una borghesuccia. E allora il vecchio conte fece
testamento. Diseredò la figlia degenere e raggiunse gli antenati in un
mondo migliore.

Mimmia era la nonna di Angela, di quella piccina che si annoiava
in collegio e della quale la contessa Veronica, che era il senno in
persona, non aveva mai parlato senza crollare il capo.

Più d’una volta anzi aveva aggiunto una frasetta sibillina a quella
mimica di mal’augurio; e la frasetta, come la mimica, diceva press’a
poco che Angela un giorno o l’altro avrebbe fatto la sua corbelleria,
perchè aveva nelle vene il sangue della nonna buon’anima, quello della
madre che non valeva molto più, e per sua maggior disgrazia anche
quello di suo padre, che valeva meno di nulla.

La madre di Angela, l’unico frutto delle nozze celebrate da prete
Serafino, era stata dotata di una di quelle bellezze che mozzano il
respiro alla gente. Buona ragazza del resto, essa appena appena sapeva
di esser bella; si chiamava Bebbia. Si era lasciata amare da tutti i
giovinotti senza preferirne alcuno, e si era lasciata promettere in
moglie per l’appunto a quello che le piaceva meno. Il fidanzato però
era nobile, e alla buona Mimmia, che per unirsi al suo Gaspare aveva
sceso tutta la scala dell’araldica, non ispiaceva di farne risalire
qualche gradino a sua figlia, mettendola al braccio del cavalier
Maurizio.

Ma intervenne l’amore, che era sempre rimasto in disparte in tutto
questo negozio, ed intervenne proprio all’ultim’ora, quando i
preparativi delle nozze erano fatti e le nozze imminenti. Un brutto
giorno il cavalier Maurizio in persona fu testimonio dell’estasi che
colpì un certo signor Giorgio vedendo la bellissima Bebbia, e del
turbamento e del pallore che resero Bebbia ancora più leggiadra. Quel
signor Giorgio era plebeo, ma bello, più bello del cavalier Maurizio,
che non era bello niente affatto; in compenso il cavalier Maurizio
era impertinente e s’immaginò di dare una lezione a Giorgio; vi riuscì
male; apparve chiaro a tutti, e prima che ad ogni altro a Bebbia, che
non solo Giorgio era un bel giovinotto, ma aveva spirito e cuore. E
quindici giorni dopo, Bebbia, per sottrarsi al cavalier Maurizio che
ormai la minacciava da vicino, se ne fuggì con Giorgio e divenne sua
sposa al cospetto di Dio e dello stesso prete Serafino, che aveva unito
in matrimonio suo padre e sua madre.

Questa volta la storiella fu gaia, ma non per il cavalier Maurizio e
per il suo parentado; tutta Sassari ne parlò allegramente, e prete
Serafino, oramai vecchio, ne empì le orecchie della gente sfidando
senza paura i fulmini della curia vescovile. Giorgio condusse la sposa
conquistata a Castelsardo, e visse colà solitario, nella casa dei
suoi padri, in compagnia di un fratello minore, Silvio. Ma un giorno
Gaspare si ammalò gravemente e volle vedere la figlia prima di morire.
Da Castelsardo a Sassari, per un buon tratto di via, tutta una carovana
di amici e di servi a cavallo accompagnò la bellissima Bebbia; poi i
due sposi proseguirono soli con l’unica compagnia d’un vecchio pastore
soprannominato _Su mazzone_[1], che aveva lo schioppo lungo e la vista
lunga.

A Bebbia, sebbene sempre innamorata del marito, non piaceva viaggiare
standogli in groppa e stringendoselo al petto; essa preferiva cavalcare
liberamente il suo bel baio, il quale la conosceva e voltava la testa a
guardare la mano bianca che gli lisciava la criniera.

Nulla si seppe mai di quel viaggio; solo quando Bebbia giunse alla casa
paterna e vi trovò suo padre morto e la madre in lagrime, fu notato
che essa tremava per tutta la persona, ma non pianse. Suo marito e _Su
Mazzone_ lasciarono Sassari frettolosamente con un pretesto che non
accontentò nessuno, e il giorno dopo, in un campo aperto sulla strada
di Castelsardo, fu trovato il cadavere del cavalier Maurizio; una palla
gli era penetrata in bocca spezzandogli i denti; un’altra palla gli
aveva passato il cuore.

Il parentado del cavalier Maurizio accusò ad alta voce Giorgio, e la
voce pubblica si unì sordamente ad accusarlo, dandogli un complice, _Su
Mazzone_.

Due giorni dopo _la giustizia_ con una buona scorta di cavalleggieri
entrava in Castelsardo come a dar battaglia, e veniva a schierarsi
dinanzi alla casa di Giorgio, al cospetto di tutta la popolazione
sbigottita. La porta era chiusa, ma al primo colpo del martello, si
aprì. Apparve un giovinetto poco più che ventenne, Silvio; egli era
pallidissimo, perchè la tremenda notizia era giunta fino a lui; ma
quando fu interrogato, non seppe o non volle dir nulla, se non questo:
suo fratello era partito colla sposa, e non si era più visto. I servi
confermarono le parole del giovine; la giustizia volle guardare sotto i
letti, nel granaio e nella cantina, fece _processo verbale_ e se n’andò
solennemente com’era venuta.

La scomparsa di Giorgio aggravava l’accusa, la quale, sostenuta
vigorosamente in contumacia dal rappresentante della legge, produsse
una magnifica sentenza capitale, che per parecchi giorni fu letta con
avidità su tutte le cantonate di Sassari e di Castelsardo.

Dov’era intanto Giorgio? Si diceva che avesse lasciato l’isola di
notte, sopra una barca di contrabbandieri, salpando dalla spiaggia di
Castelsardo. Era stata una fuga ardita e difficile; durante un uragano,
si diceva, oppure in una notte di bonaccia, ma senza luna; — Giorgio
aveva acceso un fuoco sulla costa, od aveva sparato due schioppettate
al vento, per dare il segnale ai contrabbandieri; la barcaccia si era
accostata, l’omicida aveva però dovuto fare un tratto a nuoto fra gli
scogli, ed era andato.... dove? a Tunisi, oppure sopra un’isoletta del
Mediterraneo a vivere di rimorsi e di digiuni.

La sostanza di tutte le ciance è che Giorgio, scomparso veramente, non
aveva più dato notizie di sè, almeno alla _giustizia_. Forse la giovine
moglie abbandonata ne sapeva qualche cosa, ma essa non parlava più
dopo la sciagura che l’aveva colpita, e molti credevano che il terrore
le avesse veramente tolto la favella. La poverina pagava cara la sua
scappatella, era questa l’opinione di tutti; già, di matrimoni colla
fuga non ne riesce mai bene uno; è la morale pubblica che lo insegna.
Sì, la bellissima Bebbia pagava caro, fin troppo, perch’era stata buona
colla gente e si trovava alla vigilia di diventar madre. Se non parlava
più di sua volontà, faceva bene; che cosa mai avrebbe potuto dire la
disgraziata? Quando la gran mano che ci sta sopra, ci cade addosso e ci
schiaccia, è meglio star zitti....

Così diceva la gente con cui Bebbia era sempre stata buona. Dell’altra
gente, a cui la poverina non aveva fatto nè bene nè male, sentenziava:
«Aveva gli occhi troppo belli, e si è sempre visto che gli occhi troppo
belli sono fatti per piangere o per far piangere; povera la creatura
che nascerà da lei! povera la mamma che l’ha fatta!»

Ah! sì, Mimmia era veramente da compiangere; era stata punita dove
aveva peccato, perchè si sa anche questo, che le colpe dei genitori
sono espiate dai figli. Mimmia, non più giovane, ma bella ancora,
circondata dal cattivo mondo, in cui il suo Gaspare l’aveva lasciata
sola; Mimmia, che aveva visto nella fuga della figliuola la propria
condanna, ora, nella orribile sventura che la colpiva, intravide
l’espiazione. E fu forte la povera Mimmia; nell’asciugare le lagrime di
sua figlia, essa spese tesori di tenerezza materna. Accusando sè stessa
del dolore della sua Bebbia, le aveva chiesto perdono umilmente ed era
andata nella chiesa, già profanata coll’amor suo, per pregare santa
Elisabetta di accontentarsi delle pene che erano entrate nella sua casa
e di non far soffrire anche il nascituro di Bebbia.

Poi indusse il fratello del suo disgraziato genero a lasciare
Castelsardo e venirsene a Sassari, per curare la faccende comuni, e
chiuse la porta della propria casa al mondo.

Bebbia morì, sorridendo ad una creaturina innocente, che si chiamò
Angela. Le donne che vegliavano il cadavere della povera madre,
narrarono d’aver visto penetrare di notte nella stanza mortuaria un
uomo alto, colla barba nera e folta che gli scendeva sul petto, i
capelli lunghi ricadenti sulle spalle, e nello sguardo una gran luce,
velata da un gran dolore. Quell’uomo, o quel fantasma, aveva imposto
silenzio a tutti, senza dir nulla, si era accostato al cadavere di
Bebbia, le aveva scoperto il volto per guardarla lungamente, poi era
caduto in ginocchio ed aveva pianto come un fanciullo. A quel segnale
tutti avevano incominciato a piangere, senza eccettuare la neonata, che
gemeva nella vicina stanza, perchè non aveva il latte di sua madre.

Quell’uomo era scomparso nella medesima notte; e due giorni dopo la
_giustizia_ aveva mandato a fare una perquisizione nella casa della
sventura. Mimmia, dopo aver chiuso i grand’occhi della sua morta e
messole un crocifisso fra le mani, l’aveva vista andare al camposanto,
senza piangere; poi si era presa in braccio la piccola Angela e le
aveva detto mestamente: «la nonna vorrebbe vivere per te, bimba cara,
ma non può.» Visse nondimeno parecchi anni ancora co’ suoi morti e con
Angela, e prima che il dolore finisse di ucciderla, si fece promettere
da Silvio, che egli sarebbe stato per la bambina come un padre.

Rimasto solo colla nipotina, Silvio si sentì imbarazzato della promessa
fatta, e pensò di andare a Milano, per affidare l’educazione di Angela
ad un buon collegio di fanciulle. Non a caso egli aveva scelto Milano;
in questa città viveva la savia contessa Veronica, confortata nella
vedovanza dallo splendore de’ suoi antenati, dalla pace della sua
coscienza e da un figlio, il quale si era unito in matrimonio ad una
signorina del più puro sangue lombardo.

Silvio immaginava che la sorella di Mimmia si sarebbe intenerita alla
vista di quell’ultima gemma di un ramo fulminato, tanto più che Angela
era bella come il suo nome, bianca e sorridente come l’innocenza.

Ma anche in questa congiuntura la contessa Veronica non ismentì il
vecchio senno; essa accolse Silvio con molta indulgenza, sebbene
fosse fratello d’un bandito, che aveva fatta la rovina di Bebbia; non
disse, ma pensò e lo lasciò intendere, che Bebbia si sarebbe perduta
ad ogni modo, perchè le era entrato nel sangue il sacrilegio di sua
madre, disse invece che bisogna essere umili nel mondo e perdonare le
diavolerie commesse dagli altri, pensando che il demonio poteva farle
commettere a noi stessi.

A quest’ultima frase Silvio perdette la flemma e ricordò alla savia
contessa che Mimmia e Bebbia erano morte entrambe. Osservazione
imprudente che la savia Veronica ribattè con pacatezza, sentenziando
che l’indulgenza è utile solo coi vivi, perchè i morti non ne hanno
bisogno. Che cosa avrebbe potuto rispondere Silvio? Fortunatamente
Cosimo e Beatrice gli vennero in aiuto pigliandogli di mano la piccola
Angela e coprendola di baci e di domande.

Allora la contessa Veronica lanciò al fratello del bandito un ultimo
sguardo severo, si rivolse anche lei ad Angela e si degnò di farle un
interrogatorio.

— Come ti chiami? le disse.

La fanciulla si voltò appena per rispondere frettolosamente: Angela! e
immaginò d’essersi sbarazzata della seccatura.

— Quanti anni hai? insistè la contessa chinando il capo per guardare di
sotto in su con un’occhiata scrutatrice.

— Sette.

— Dicono che questa è l’età del giudizio! sospirò la contessa Veronica.

— Lo dicono, confermò Silvio con un po’ di sarcasmo.

— Angela, proseguì la contessa senza badare al giovane; avvicinati;
metti le tue mani nelle mie, e lascia che io ti guardi bene in faccia.

La piccina stentò ad adattarsi a quella positura incomoda; avrebbe
preferito lasciarsi accarezzare da quella signora giovane, che rideva
con tanto abbandono o da quel signore che aveva gli occhi tanto dolci,
guardandola.

— Aspetta, disse alla signora giovine, mentre porgeva le mani alla
vecchia, non te ne andare.

— Hai gli occhi di tua nonna, sentenziò gravemente la contessa Veronica.

Qualcuno sospirò in maniera d’essere udito, Silvio forse, ma la
contessa Veronica non si degnò d’avvedersene.

— Chi può sapere che cosa celi tu in questa testina bionda? proseguì la
donna savia; oggi i tuoi occhi sono sereni, il tuo sorriso è dolce, ma
domani forse...

— Domani andrò in collegio, disse Angela.

— Domani andrà in collegio, ripetè Silvio.

Allora la contessa Veronica si rassegnò a baciare in fronte la
fanciulla, e l’interrogatorio finì.

Quando Angela se ne fu andata, la contessa si affrettò a sospirare al
cospetto di sua nuora, dichiarando che le era sembrato di vedere nella
faccia della fanciulla qualche cosa di strano, come chi dicesse lo
embrione di una corbelleria che doveva commettere più tardi.

Non si dichiarò neppure molto contenta di Silvio; prima di tutto egli
era troppo grave per la sua età, — l’esperienza le aveva insegnato
che la gravità anticipata va a male nell’età matura, — e poi aveva
un sorriso corbellatorio, e poi... insomma non le piaceva. Basta, si
consolava pensando che nel mondo ci è posto per tutti... non è così?

Beatrice, per non dire nè sì nè no, quella volta rise; in seguito,
divenuta amica di Silvio e amicona di Angela, non rise più — e allora
la contessa Veronica fece il sagrifizio di tenere celati i suoi cattivi
presentimenti; non così però che non ne trapelasse ogni tanto qualche
cosa; ma si sa bene, la verità è come il fumo, si fa strada da sè, ed è
impossibile nasconderla.

Dal giorno in cui Angela aveva fatto la prima visita alla sorella
di sua nonna erano passati cinque anni. In questo tempo la contessa
Veronica aveva continuato a sostenere in Milano il decoro delle due
casate Rodriguez e De Nardi, spendendo nella difficile impresa un po’
più delle sue rendite, e non risparmiando il suo grosso capitale di
prudenti aforismi e di savie sentenze.

Silvio, per far qualche cosa, aveva studiato l’agronomia.

Angela aveva studiato il francese, il pianoforte e meno spontaneamente
l’aritmetica.

La contessina Beatrice, docile ai voleri di sua suocera, aveva portato
nelle feste milanesi gli strascichi più lunghi, le più belle spalle ed
il sorriso più spensierato.

E in tutto questo tempo, Giorgio, non aveva dato segno di vita. _Su
Mazzone_, il quale dopo l’_affare_ si era dato alla campagna sfidando
col suo lungo schioppo tutta quanta la civiltà, era stato preso dieci
volte — ma la notizia era stata smentita dieci volte. _Su Mazzone_
era da per tutto, fuorchè in carcere; dicevano che avesse un sottile
veleno nascosto nell’unghia del mignolo della mano mancina, e che,
ridotto agli estremi, per non cadere vivo nelle mani della giustizia,
gli sarebbe bastato succhiarsi il dito — ma persone meglio informate
sostenevano che portasse invece una pistola corta, sempre carica e
sempre pronta, appesa al collo per il grilletto, colla bocca in su;
un giorno o l’altro, bruciata tutta la polvere della sua fiaschetta
e stesi al suolo moltissimi cavalleggieri, gli basterebbe incrociare
le braccia sul petto, e rialzare il capo bruscamente per presentarsi,
carico d’un nuovo delitto, al tribunale celeste.



V.


Era stata un’impresa difficile condurre a termine il testamento della
contessa Rodriguez-De Nardi, ma il notaio Parolini vi aveva messo
tanta grazia verbosa, e il suo egregio collega tanta docilità muta,
che il negozio era finalmente riuscito. La contessa Veronica aveva
potuto scrivere il proprio nome colla mano mancina, dopo di che aveva
dichiarato «che ora poteva morire,» melanconia subito smentita dal
notaio Parolini, dalla contessina Beatrice e da un sorriso della
medesima inferma, che tutti e tre insieme avevano detto: «ora può
vivere.»

Per incominciare, la nobil donna provò a farsi venire in mente una
di quelle sue bizzarre idee di persona sana, che già avevano variato
piacevolmente la noia d’una carriera mortale tutta percorsa nei
sentieri delle virtù cardinali e teologali.

— Bambina mia, disse a sua nuora, mi pare che se facessi venire un paio
di concertisti che mi sonassero tutta la mia vecchia musica, guarirei
più presto; tu che ne dici?

La contessina stette un po’ a riflettere, e fece notare timidamente che
forse le darebbe noia aver due concertisti nella camera; piuttosto, se
voleva, farebbe spingere il suo Erard nella camera e si proverebbe lei
a sonare la vecchia musica.

La contessa Veronica non disse nè sì nè no, e quel giorno stesso
il disgraziato Cilecca, essendo venuto con un cattivo pretesto per
visitare la sua roba, fu colto da un comico terrore quando notò la
scomparsa del pianoforte a coda dalla gran sala.

Il minuetto di Boccherini e la marcia turca di Mozart non produssero
l’effetto che l’ammalata sperava, e lo confessò essa stessa
svegliandosi, mentre la contessina Beatrice, credendo che avesse chiuso
gli occhi per crescere il godimento, sonava ancora.

— Non è la musica che mi bisogna, disse l’ammalata, ho sbagliato;
siamo tutti soggetti all’errore, bimba mia; sì, l’uomo è una creatura
soggetta all’errore.

— Come la donna, aggiunse Beatrice ridendo, nel chiudere il pianoforte.

— Ma che cosa mai mi piacerebbe? Lo sai tu, fringuellino mio, che cosa
mi piacerebbe?

Beatrice non lo sapeva. Ma la suocera, pensandoci molto, trovò che
forse una fetta d’ananasso e un bicchiere di vino del Reno, — non era
sicura, ma forse... sì, forse, una fetta d’ananasso e un bicchiere di
vino del Reno...

Le fu portata prontamente ogni cosa; invano; l’uomo e la donna sono
due fragili creature soggette all’errore, e la contessa Veronica aveva
sbagliato ancora.

Il conte Cosimo, durante queste scenette che si rinnovavano con poche
varianti ogni giorno, entrava più volte nella camera, si avvicinava
al letto di sua madre, costringendo il proprio sguardo a splendere e
le proprie labbra a sorridere; ma aveva le mosse a scatti, la parola
breve e rauca, e nella faccia pallida un misto di bontà inquieta, di
irresoluzione e di disgusto.

Per fortuna sua madre da molto tempo non si occupava che di sè stessa,
e sua moglie girava la testina leggiadra colla spensieratezza d’un
fringuello, come se avesse la missione di passare sulla terra senza
riconoscere il dolore.

Il povero conte era dunque lasciato solo a portare il peso di un
segreto, che l’opprimeva! Solo no; se Ambrogio da un anno camminava più
curvo, era perchè molto gli pesava la confidenza avuta, e molto tutto
ciò che egli era venuto indovinando man mano cogli occhi dell’affetto.
Vi era di peggio: il buio, in cui il povero vecchio doveva camminare
tentoni, sapeva Dio fino a quando; perchè quel cuor d’oro, quell’anima
bella, quell’uomo generoso, il conte Cosimo, in una parola, aveva avuto
il torto di mettere il vecchio al cospetto d’una rovina e di lasciarlo
solo a frugare nei rottami. Ambrogio aveva frugato molto; ma molto gli
rimaneva da frugare, e in sostanza non sapeva ancora dare un nome al
disastro.

Era il fallimento, collo strascico vergognoso de’ debiti non pagati,
od era semplicemente la povertà? Chi sa! forse nè l’uno nè l’altro;
un’agiatezza modesta forse, una vita borghese, che renderebbe
infelicissima la contessa Veronica, ma non già il conte Cosimo.
Quell’uomo aveva la fibra capace di sopportare il dolore, Ambrogio
ne era sicuro — ma come lo sopporterebbe la contessa Beatrice? Alla
fragile donnina rimarrebbe, è vero, la sua dote, ma ahi! la sua dote
non era gran cosa; anche gli antenati di Beatrice nel giro dei secoli
si erano coperti di gloria e spogliati quasi interamente del resto;
negli ultimi tempi, per oscurare una borghesia sfacciata, avevano speso
anche essi un po’ più delle loro rendite; nondimeno Beatrice, andando
a nozze, aveva ancora portato la dote; molte amiche sue, discendenti
dagli eroi di Terra Santa, non potevano vantare altrettanto.

Ma era poi integra la dote della contessa Beatrice?

Ambrogio, a forza d’interrogare nel buio, si trovava preparato a tutto.
Ma intanto, quando il signor Cilecca veniva ad informarsi della salute
della contessa Veronica, il vecchio non gustava neppure il sapore
della malignità rispondendogli che si notava nell’inferma un leggiero
miglioramento, che la paralisi progressiva sembrava essersi arrestata e
che il medico non disperava di salvarla.

Il disgraziato Cilecca gemeva, lasciandosi cadere nelle mani
l’occhialetto, e Ambrogio pensava che quello strozzino non era un
ipocrita, che egli gemeva apertamente, alla luce del sole, mentre
lui, il generoso Ambrogio, quando si lasciava sfuggire un sospiro,
era costretto a lasciarlo andare solo, perchè non sapeva bene dove
lo avrebbe menato. La coscienza turbata non gli faceva ancora dei
rimproveri aperti; ma era quasi peggio, perchè così egli continuava
forse il proprio peccato senza potersi nè discolpare nè pentire.

E qual’era il suo peccato? Più volte aveva creduto di indovinarlo,
rannicchiato nel proprio cuore come un codardo, ma non lo vide bene,
nella sua mostruosità orrenda, se non una mattina che la contessa
Veronica, sentendosi un po’ meglio, aveva annunziato dal suo letto
che era guarita e che il giorno anniversario della sua nascita, il
fausto 15 aprile, avrebbe dato una festa da sbalordire tutta Milano —
Sta allegro Ambrogio! E Ambrogio si era provato, aveva sorriso, aveva
riso, l’ipocrita, aveva detto anche qualche parolina incoraggiante,
mentre nel fondo nero del cuore, il suo peccato gli si mostrava tutto,
ed egli lo guardava senza ribrezzo. E qual’era il suo peccato? Era un
desiderio, ma un desiderio robusto, impaziente, feroce che la contessa
Veronica si decidesse a togliere l’incomodo a’ suoi cari e se ne
andasse ad un mondo migliore, su cui non gravano le ipoteche.

Invano Ambrogio ricordò che da vent’anni la contessa Veronica gli
aveva consegnato le chiavi della casa, che era stata con lui generosa,
che anche quando la salute florida le permetteva e il temperamento le
consigliava di dar largamente della bestia alla gente plebea, con lui
non ne aveva abusato. Tutte queste riflessioni servivano a rendere
Ambrogio più docile ai capricci dell’inferma, più maligno col Cilecca,
più scontento di sè, ma a nient’altro; ed egli era press’a poco sicuro
che quando l’anima della contessa Veronica fosse tornata al Creatore,
il proprio peccato uscendogli finalmente dal cuore, avrebbe gridato:
_Deo gratias!_

I giorni passavano, e Ambrogio che veniva interrogando ad ogni ora
la faccia del conte Cosimo, vi leggeva cose nere, miserabili cose.
Non giungeva più corriere che non portasse a quel povero rampollo dei
crociati una lettera di qualche creditore indiscreto, che domandava
villanamente d’esser pagato; e una volta la domanda fu presentata in
carta bollata da un piccolo usciere, il quale sul pianerottolo della
scala, a dodici metri di distanza dal suolo sottostante e alla presenza
di Ambrogio, si era nondimeno sentito così sicuro e così forte in nome
della legge, da chiedere la penna e il calamaio per riempire una lacuna
lasciata nello scritto.

Ambrogio afferrò la carta bollata con una mano, spinse coll’altra
l’usciere, stando nei limiti della legalità, e se ne andò nella propria
camera per aver tempo a riflettere sul caso nuovo. Non si trattava
che di tre mila lire, e Ambrogio, guardandosi intorno come chi sta per
commettere una cattiva azione, aprì un cassetto dove celava al mondo i
propri risparmi.

Era ricco Ambrogio. Aveva un libriccino verde della Cassa di Risparmio,
in cui era scritta una somma tonda, che rappresentava per lui
l’avvenire. Quale avvenire? Non lo aveva mai chiesto a sè medesimo,
e pure quel gruzzolo gli era caro. Quante volte aveva aperto il suo
libretto verde! Lo aprì ancora e gli si spianarono tutte le rughe
della fronte, perchè la somma tonda non si era cancellata. Quanto era
ricco Ambrogio! E di quanta pietà non si sentiva preso confrontando la
propria floridezza colla rovina di quella casa, che gli aveva dato il
pane per tanti anni!

Ambrogio non aveva parenti prossimi; nei suoi testamenti, perchè
egli ne aveva fatti parecchi col pensiero, destinava tutte le proprie
ricchezze a rizzare un campanile, che si alzasse nella piazza del suo
paesello come il gran dito della parrocchia, ad accennare il cielo;
oppure all’aggiunta di alcuni letti nell’ospedale provinciale, perchè
vi potessero andare a morire i suoi vecchi compaesani poveri; oppure a
fare la fortuna d’una trovatella ch’egli andrebbe ad arricchire appena
nata; o infine a dar la dote ad una bellissima bambina di sei anni che
egli aveva visto un giorno far la rana nella strada fangosa, sopra un
cencio di tappeto, dinanzi ad un pubblico di monelli. Queste ed altre
ultime volontà egli aveva avuto e mutato più volte; non era punto
frettoloso Ambrogio, si sentiva sano e robusto, e sapeva anche, perchè
lo diceva spesso la sentenziosa contessa Veronica, che molti sono i
modi di spendere il denaro, uno solo quello di conservarlo. Le buone
occasioni di fare il bene, per chi ha dieci mila lire alla Cassa di
Risparmio — diciamo _dieci mila lire_ tonde — non mancano; solo bisogna
saperle aspettare, e Ambrogio sapeva aspettare quanto chicchessia,
meglio di chicchessia.

Delle occasioni di fare il bene, eccone una per esempio: «Ambrogio va
alla Cassa, riscuote tre mila lire delle diecimila; paga il debito del
conte, si fa fare la ricevuta e raccomanda all’usciere di passare in
ogni tempo a conveniente distanza dalla casa della contessa Rodriguez
De Nardi. Il conte non andrà in collera perchè non saprà nulla, e
Ambrogio gusterà segretamente il sapore d’un’azione generosa.»

Ma Ambrogio vide subito che non ne avrebbe fatto nulla, e crollò il
capo mestamente; il desiderio ce l’aveva, e se fosse bastato quello,
non tre mila lire soltanto, ma tutte quante le diecimila egli avrebbe
speso per venire in aiuto del suo padrone; ma poi?... Il conte Cosimo
non si sarebbe trovato meglio niente affatto, e le diecimila lire
sarebbero ridotte necessariamente, inesorabilmente a settemila. Che
bella cosa essere generosi, fare il benefizio e nascondersi, andare
incontro alla rovina, spendendo tremila lire quando se n’ha appena
diecimila, e non fiatare neppure per sottrarsi alla gratitudine!
Ambrogio sentiva che avrebbe ammirato molto un altro Ambrogio che
avesse fatto tutto ciò. Ma di farlo lui non se ne sentiva proprio la
forza. Domandava a sè stesso: «Forse che io non voglio bene al mio
padrone, a quel povero conte Cosimo, come ad un figliuolo? Non è forse
vero che, per risparmiargli un dolore, farei venti chilometri a piedi
sotto il sole di luglio? Non è forse vero che darei per lui mezzo il
mio sangue, tutto il mio sangue?» — È verissimo, povero Ambrogio!

Intanto che si accumulavano i nugoli d’uragano sull’anima del vecchio,
il cielo esaudiva i voti del suo cuore feroce. Egli non aveva ancora
riposto nel cassetto il prezioso libretto verde, quando qualcuno,
dietro l’uscio della sua camera, gridò: «Signor Ambrogio, la contessa
muore!» — «La contessa muore!» ripetè Ambrogio, facendosi sull’uscio,
incontro ad Annetta, la quale, giunta impreparata a questo momento
difficile, sbarrava gli occhi e cercava inutilmente le parole.

E una voce suggerì: «È il tuo desiderio che la uccide,» ma la intese
Ambrogio soltanto.

— È un colpo, un altro colpo — assicurò la servetta, ridiventando
padrona della scena — cioè un accidente; non si muove più; gira solo
gli occhi e parla.... Accorriamo, signor Ambrogio, accorriamo.

Annetta non aveva esagerato la sua parte; era proprio un colpo, cioè un
accidente, quello che riduceva all’immobilità la contessa Veronica.

Suo figlio, sua nuora e Geromina, accorsi al capezzale del letto
dell’inferma, le spruzzavano in viso dell’acqua, le accomodavano i
cuscini in modo da tenerle alta la testa. La contessa guardava di
qua e di là inquieta; non si moveva affatto e diceva colla lingua
imbrogliata: «Non posso, non posso,» quasi che gli inutili sforzi di
volontà che faceva per muoversi fossero visibili a tutti.

Si aspettava il medico che tre servi erano andati a chiamare in casa,
in farmacia e all’ospedale, e intanto il conte Cosimo pareva cercare
intorno a sè qualche cosa che desse sollievo a sua madre morente.

Allora Ambrogio, che aveva l’anima turbata dal rimorso, ebbe
un’ispirazione suggerita dal pentimento e si offrì per cavar sangue
alla signora contessa.

— Sai fare un salasso tu? domandò l’ammalata.

Ambrogio confessò umilmente la sua abilità.

— Sono vecchio, disse per giustificarsi.

— Cavami sangue, ordinò l’ammalata.

E Ambrogio, chiedendo al rimorso una forza proporzionata al difficile
cimento, sollevò il braccio inerte della padrona e lo appoggiò con
cautela sopra un ampio lavamani. Già si accingeva senza scrupolo a far
scorrere per l’ultima volta il nobilissimo sangue della razza De Nardi,
quando giunse il medico. Il dottor Serafini, luminare della giovane
allopatia, vide dall’uscio l’errore che si stava commettendo e corse
con impeto alle spalle di Ambrogio per impedirlo.

— La volete ammazzare? — chiese poi freddamente.

Ambrogio fu preso da un tremito, come se avesse commesso veramente
il reato, di cui gli veniva attribuita l’intenzione, e l’ammalata
stessa, per iscusarlo, disse: «Gliel’avevo ordinato io, mi pareva che
dovesse sollevarmi; i De Nardi hanno sempre avuto molto sangue nelle
vene.» Ma il dottore Serafini, senza alcun riguardo per la razza De
Nardi, sentenziò crudamente che ogni uomo ha il sangue necessario alla
propria esistenza e niente più; dopo di che, parendogli aver difeso con
bastante energia il principio sacrosanto che nessuno è padrone d’andare
all’altro mondo senza il consenso del medico, cominciò ad informarsi
del male.

Ad ogni parola dell’inferma egli faceva di sì col capo. — Aveva avuto
la signora contessa un gran sonno? — Sì, dopo la colazione, aveva avuto
un gran sonno. — Bene. — Aveva dormito. — Benissimo. — Si era svegliata
con un tremito nervoso. — Benone. — Per un poco le era sembrato di
sprofondare in un abisso. — Sempre bene. — Di perdersi. — Benissimo. —
Poi non aveva sentito più nulla. — Benone.

Era chiaro che il male non aveva violato nessuna delle condizioni
stabilite colla giovane allopatia — era rimasto nel suo diritto, e il
dottor Serafini se ne mostrava proprio contento. Toccò poi lungamente
il polso dell’ammalata, le ascoltò il petto, pregandola di respirare
forte; in ultimo si fece da parte per iscrivere una ricetta.

— Guarirò ancora? chiese la contessa.

— È una cosa da nulla, rispose il medico; tornerò a vederla stassera.

Ma quando fu nell’altra stanza, disse al conte Cosimo:

— La paralisi non ha ancora toccato il cuore, nè i polmoni, nè il
cervello, può vivere qualche giorno; può morire fra un’ora.

Se ne andò.

— Mi pare, disse Ambrogio con un falso sospiro, che se le avessi potuto
cavar sangue...

Il conte Cosimo gli pose una mano sull’omero e gli disse con un
singolare accento, come se gli leggesse nell’anima:

— Povero Ambrogio! poi tornarono entrambi al capezzale della morente.

La contessa De Nardi aveva ripreso animo; non viveva più che col
cervello, ma conservava tutte le sue idee, tutte le sue speranze,
e una forza singolare. Si lamentava che la lingua non le obbedisse
prontamente o che qualche volta le facesse dire degli spropositi. —
Cannetta... — diceva. — Cannetta, no, perchè Cannetta? Aiutatemi a
dire... _Angela_ — pronunciava con forza.

— Vuoi vederla? chiose Cosimo; la manderemo a prendere.

— No, disse l’inferma; — pensavo che quella disgraziata ha nel sangue
la sua corbelleria... bisogna impedirgliela... Stette un po’ in
silenzio, poi disse forte: — Quell’altro non mi piace.

Quell’altro era Silvio.

La lingua dell’ammalata si faceva sempre più ribelle, e le parole
venivano fuori stentate e storpie; nondimeno la contessa parlò fino a
sera, divagando molto.

— Cannetta... disse più volte — no, Cannetta... — e senza perder tempo
a rinnovare il tentativo d’esprimere quel pensiero, ne esprimeva un
altro, sempre colla testa immobile, affondata nei guanciali e girando
gli occhi inquieti.

E la lingua le si impastoiava e le parole storpie erano in maggior
numero delle altre, quando la cameriera portò i lumi.

Appena la vide, l’inferma chiamò:

— Cannetta!

— Cannetta? ripetè Annetta interrogando prima i padroni, poi sè stessa.

— Cannetta! insistè la contessa.

— Sono qua! rispose la cameriera, indicando con uno sguardo al soffitto
che per amore della padrona si rassegnava a tutto, anche a ricevere
quel nome stravagante. Si accostò al capezzale, e la contessa le disse
all’orecchio, ma così forte che udirono tutti: «i quadri.» Nondimeno
Annetta seppe mostrarsi degna della confidenza ricevuta, e venne a
ripetere sottovoce al conte Cosimo che la signora contessa voleva i
quadri.

— Quali quadri? aggiunse con molta ingenuità; lo sa lei?

— Lo sai, lo sapete, disse l’ammalata, presto... essi sono là! uno
addosso all’altro; sono venuti da lontano per far visita all’ultimo
rampollo della loro razza: vengano; fateli entrare ad uno ad uno...
tiratemi su perchè possa riceverli.

Annetta, senza alcuna prova, faceva una parte ingenua alla perfezione;
girava la sua piccola testa ora verso il conte Cosimo, ora verso
l’ammalata, cogli occhi sbarrati e fissi e la bocca semiaperta.

Diveniva chiaro che la contessa Veronica vaneggiava; le sue parole
erano ancora abbastanza limpide, ma nelle sue idee cominciava la
confusione delle immagini colla realtà.

Il conte Cosimo non si lasciò ingannare dalla controscena di Annetta, e
le fece intendere alla muta che aveva capito benissimo, poi si accostò
al capezzale del letto.

— Madre mia, disse, sono i ritratti che tu vuoi vedere?

— Vengano! rispose la contessa dando gli ordini a molti servi
invisibili — entrino ad uno ad uno.

— Avevo pensato di farti un’improvvisata, balbettò il conte arrossendo.
Ma l’inferma non gli badò.

— Imperio! disse; e strinse le labbra aspettando che l’illustre
antenato rispondesse all’evocazione.

Ad un cenno del conte, Ambrogio aveva lasciata la camera; e un momento
dopo rientrava camminando di fianco, abbracciato ad un quadro colla
cornice verde che andò a deporre sopra una seggiola in faccia al letto.
Sciolto da quell’amplesso plebeo, apparve agli occhi della contessa
Veronica, il suo illustre antenato.

— Imperio! disse allora l’inferma, biascicando le parole. Imperio, mi
riconosci? Sono mutata molto; è un pezzo che non ci vediamo. Anche tu
hai sofferto.

Infatti Imperio De Nardi aveva una scrostatura maligna sulla punta
del naso, e sul petto una ferita da taglio che riduceva a poca cosa il
prestigio della sua corazza.

Gli astanti guardavano muti quella scena grottesca, cui la morte
concedeva una strana solennità.

L’ammalata si trattenne lungamente con Imperio De Nardi, poi lo
licenziò con due parole: ho sonno!

Essa chiuse gli occhi, ma Imperio rimase sulla seggiola, perchè nessuno
pensava a portarlo via, e continuò a guardare la sua ultima nipote,
con un’occhiata fissa e severa, che metteva paura. Infatti, quando la
contessa Veronica si destò e vide ancora dinanzi a sè quell’illustre
fantasma, gli disse che essa non aveva fatto nulla, che era innocente,
che non stesse a guardarla a quel modo. E allora Ambrogio avvinghiò
un’altra volta Imperio De Nardi con un amplesso plebeo e lo depose a
terra colla faccia rivolta alla parete, perchè non potesse fulminare
collo sguardo la moribonda.

— Gli altri, balbettò l’ammalata.

Molti erano lì, schierati lungo le pareti, in giro alla camera, e
Ambrogio andava e veniva portando sulle braccia quelli che ancora
mancavano. Fecero così il loro ingresso Sofia De Nardi, antica madre
badessa del Convento delle Cappuccine, Efisio De Nardi, giudice della
Reale Udienza, e presero il loro posto accanto agli altri.

Ma la contessa Veronica li vide appena.

— Mi sento male! disse — mi pare di morire! Dio mio! così presto?

Il terrore arrestò sull’uscio Ambrogio e Baingia De Nardi, bisnonna
della morente.

— Un prete! disse Veronica, come se pensasse finalmente all’anima sua;
fate venire un prete... Dov’è Giaime De Nardi?

Giaime De Nardi era rimasto ancora di là, e Ambrogio depose Baingia in
un canto per andarlo a prendere.

Quando il vescovo Giaime De Nardi, posto sulla seggiola in faccia al
letto, alzò due dita a benedire sua nipote, la contessa Veronica mandò
un gran sospiro... La razza De Nardi era spenta.

In un momento la camera fu piena di singhiozzi.

La contessa Beatrice si era buttata sul corpo inerte della defunta e
piangeva in silenzio, ma Annetta e Geromina facevano la loro parte
rumorosamente. Il conte Cosimo si era lasciato cadere sopra una
seggiola. — Il solo Ambrogio si sforzava inutilmente a piangere. Il suo
cuore di sasso non gli dava una lagrima.

Tutt’in giro alla camera, i membri della razza spenta guardavano
impassibili e severi, nei loro atteggiamenti teatrali.



VI.


Quando l’alba luminosa di marzo entrò dalle ampie finestre nella camera
della morta, e impallidirono le candele accese ai lati del letto, due
sole persone facevano la veglia al cadavere — ma una lottava ancora
col sonno, ed era Annetta; l’altra non lottava più da un pezzo, ed era
Geromina.

La contessa Beatrice aveva ceduto alle preghiere del marito, ed
era andata a riposarsi un poco, e Ambrogio aspettava gli ordini del
padrone, il quale da un’ora andava su e giù in una gran sala appartata.

— La commedia è finita! pensava Ambrogio accompagnando mentalmente i
passi del conte, che risonavano nel silenzio con una monotonia severa —
ma che va farneticando ancora?

Alla fine il passo si arrestò dinanzi all’uscio socchiuso, e una voce
rauca disse piano: è ancora lì, signor Ambrogio?

— Signor sì, mi aveva detto di aspettarlo.

— Mi era uscito di mente, scusi.

— Non importa, non ho sonno e non ci è nulla a fare finchè non sia
giorno.

— È giorno, disse semplicemente il conte.

Il vecchio era entrato nella sala, e vedendo il lume che si andava
scolorando alla luce del mattino, si affrettò a spegnerlo. Gli parve
allora che si cancellasse, con quel pallido bagliore, l’ultima traccia
della melanconia notturna.

Si spensero sui mobili i riflessi sanguigni; dove erano ombre si
accesero nuove luci, la zona luminosa si allargò ed invase tutto lo
spazio dal pavimento al soffitto.

Ma le prime parole del conte diedero una crudele mentita al pensiero
di Ambrogio; e pure gli parvero meno amare e più serene in quella sala
interamente trasformata.

— La commedia non è finita ancora! disse Cosimo, tocca a lei, Ambrogio,
una parte tediosa.

— Sono qua, rispose il vecchio.

— È stato nella camera di mia madre, stanotte?

— Due volte, disse Ambrogio, abbassando la voce.

Non disse altro. Nel breve silenzio che seguì, il conte Cosimo domandò
evidentemente se sua madre era proprio morta, se non si era svegliata
nella notte, e Ambrogio rispose che la contessa non si sveglierebbe mai
più.

Ma non parlarono.

— Vada prima di tutto ad avvertire Silvio; gli dica di venir subito,
che ho bisogno di lui; poi vada al Municipio a dichiarare la morte
della contessa e ordinare un funerale di prima classe. Dal Municipio
si rechi alla parrocchia di S. Francesco e faccia preparare un servizio
funebre.

— Di prima classe, disse Ambrogio senza speranza d’essere contradetto.

Il conte accennò di sì col capo, e tirò innanzi.

— Provveda perchè ai funerali intervengano le Stelline e la musica...

— Le Stelline? chiese Ambrogio, tutte?

— Tutte.

— Canteranno? domandò Ambrogio, tanto per dire qualche cosa.

— Credo di sì, Ambrogio; ma se è necessario pagare perchè cantino,
lei paghi. Ai poveri della parrocchia che seguiranno il corteo, la
torcia...

— La torcia... ripetè il vecchio.

— Faccia preparare la ghirlanda di semprevivi per la bara.

— La ghirlanda.

— La doppia bara di zinco.

— Di zinco.

— E s’informi bene delle pratiche che s’hanno a fare per ottenere il
permesso di trasportare il cadavere in Sardegna.

Ambrogio questa volta non ripetè nulla, era senza fiato addirittura.

Tante istruzioni penose pareva che avessero affaticato molto il povero
conte, perchè egli ansimava, e stette un po’ in silenzio, a capo basso,
prima di soggiungere:

— Faccia attaccare la carrozza; si spiccerà più presto. Non ho
dimenticato nulla, Ambrogio? Ci pensi un poco lei... ho la testa così
confusa.

— Farò stampare le partecipazioni... andrò io stesso alla tipografia.

— È vero, ci avevo già pensato; ho preparato la formula, eccola.

Ambrogio seguì lo sguardo del conte e vide sopra un tavolino un foglio
piegato; lo prese, lo aprì, lo richiuse senza leggerlo.

— Faccia anche stampare i nostri biglietti di visita, la carta da
lettere e le buste da lutto.

— Bisognerà anche chiamare il sarto, sospirò il vecchio.

— E la sarta... povero Ambrogio! potrà far tutto? Ah! dimenticavo
il più importante; bisogna avvertire il dottor Parolini, notaio,
perchè venga domani a dar lettura del testamento, alla presenza degli
interessati...

— Il notaio.... il testamento.... balbettò Ambrogio.... Ma la signora
contessa...

— Mia madre ha fatto testamento, l’altro giorno; lei lo sa, perchè fu
uno dei testimoni...

— E vossignoria intende? cominciò Ambrogio, ma non ebbe cuore di
proseguire, perchè la pietà gli faceva nodo alla gola e gli empiva il
petto di singhiozzi.

— Vado, disse con voce catarrosa — ma non si moveva; solo quando il
conte Cosimo, senza più guardare il vecchio amico, ebbe ripreso, in
quel camerone melanconico, il suo lungo viaggio attraverso il dolore,
solo allora Ambrogio volse le spalle ed uscì in silenzio, come un
fantasma. Ma prima d’andar fuori di casa, intanto che si attaccava
il legno, volle vedere la camera della morta. Anche là dentro era
entrata la bella luce dell’alba, ad imbiancare ogni cosa; le due
candele gettavano a stento un riflesso rossigno sul lenzuolo, che
copriva il cadavere della contessa Veronica e sul damasco giallo del
parato. Annetta aveva finito coll’addormentarsi nelle braccia d’una
poltroncina, e Geromina, chiusa in uno stretto vano, fra due grandi
armadi, colle spalle addossate alle parete, sembrava impietrita dal
sonno. Tutto in giro alla sala, i grandi personaggi della razza spenta,
dimenticati a terra fino a quel momento e avvolti dall’ombra, avevano
l’aria di volersi celare nel loro fondo nero, e di non potervi riuscire
per causa delle cornici verdi. Il solo vescovo Giaime De Nardi,
stando sulla seggiola in cui l’avevano messo e ricevendo la luce dalla
finestra accanto, benediceva ancora l’ultima morta della sua famiglia.
Quella mostra di antenati a quell’ora e in quel luogo parve ad Ambrogio
un’ironia crudele, e intraprese egli stesso l’opera di trasportarli
altrove ad uno ad uno.

Il rumore svegliò Annetta, la quale si stropicciò gli occhi con
grande naturalezza, balzò in piedi, tentennò alquanto, poi disse
con misterioso accento: — Gran Dio! il brutto sogno che ho fatto! mi
volevano far confessare che la contessa era morta, ed io soffriva la
tortura per sostenere che non era vero niente. A che cosa ha servito?
dica lei, signor Ambrogio, a che cosa ha servito?

Il vecchio guardava senza rispondere.

— A nulla, conchiuse Annetta con mistero crescente, la povera anima ci
ha proprio lasciati, se n’è andata.

Essa si arrestò a queste parole, come se improvvisamente le venisse
rivelato un loro significato riposto; con un lungo sguardo alla
finestra accompagnò un tratto la povera anima che se n’era andata,
poi si offrì d’aiutare Ambrogio a trasportare di là il vescovo Giaime
rimasto ultimo.


La notizia della morte della contessa Veronica doveva essere uscita
di casa prima assai di Ambrogio, perchè quando il vecchio scendeva
le scale, si incontrò faccia a faccia con Silvio, che saliva
frettolosamente.

Il professore si arrestò ansimante, poi fece una di quelle mezze
interrogazioni, che non aspettano risposta.

— Dunque? disse.

— Ieri notte alle dieci, rispose Ambrogio.

Ed aggiunse:

— Vado per la dichiarazione di morte, per il funerale, per il lutto...
venivo anche da lei; il signor conte lo aspetta.

— Dov’è?

— Nella sala verde.

— La contessa Beatrice?

— È andata a riposare..... ha vegliato fino ad ora tarda.

— Addio, Ambrogio.

Silvio salì frettolosamente gli ultimi gradini, entrò in casa del
conte, facendosi appena vedere ad un servo in anticamera, e si avviò
difilato alla sala verde.

Sull’uscio si arrestò; si udiva rumore di passi sul pavimento sonoro;
il conte ruminava ancora, qualche cattiva idea forse, e tanto era
assorto in essa, che alla prima non udì la voce dell’amico che lo
chiamava per nome. — Cosimo! Cosimo! — ripetè Silvio stando sull’uscio.
Il conte Rodriguez si volse, e senza dir parola venne a buttarsi nelle
braccia dell’amico. Dopo un breve silenzio: — Ti aspettavo, disse.

Sedettero l’uno accanto all’altro sopra un divano, e Silvio lesse in
faccia all’amico qualche cosa che non si aspettava di trovarvi anche
dopo la temuta catastrofe. — Sarà la veglia — pensò, e lo disse.

— Non hai riposato stanotte?

— No, rispose il conte, non avrei potuto chiudere occhio; ho lavorato
un’ora a far conti, poi ho passeggiato fino all’alba.

— Conti? mormorò Silvio.

— Sì, amico; finchè viveva mia madre, rimaneva una partita aperta; ora
l’ho chiusa...

Abbassò il capo sul petto, poi rialzandolo risolutamente, ripigliò:

— Non è più ora di misteri; ho finito di mentire; e ti aspettavo
appunto per dirti tutto.

— Tutto?...

— In due parole: sono rovinato!

Nel silenzio penoso che seguì a questa rivelazione, si udì il respiro
di quei due petti scaldati dall’amicizia. Fu ancora Cosimo che riprese
a dire con voce pacata e monotona, in cui non vibrava nemmeno più la
corda dell’amarezza:

— Sì, amico, sono rovinato; tu ne sospettasti qualche cosa il giorno
che fu annunziato lo scioglimento del Banco Universale. Tu sai come
andò quel triste negozio. Mia madre non ci ha colpa, era stata tentata
con arte a sottoscrivere molte azioni; non mi vanto di averci visto più
chiaro di lei; ebbi fede anche io nella nuova istituzione; le azioni
si vendettero con un premio quasi prima dell’emissione, perchè la
speculazione le aveva accaparrate; pochi mesi dopo il Banco si chiudeva
per difetti di amministrazione. Il premio, che rappresentava un terzo
del capitale, era sfumato. Mia madre perdette in quell’occasione più di
cento mila lire, ma le perdette allegramente, perchè si credeva sempre
milionaria. Aveva il suo denaro collocato in mani sicure, diceva lei, —
non sapeva che due dei suoi debitori non le pagavano più gli interessi
e non le pagherebbero il capitale, perchè avevano fallito entrambi.

— Bisognava dirle... sfuggì a Silvio.

— Silvio mio, gli rispose prontamente Cosimo, ponendogli le mani sugli
omeri; Silvio mio, quando mi provai a dirle qualche cosa, rise del
mio sgomento; e quando volli toccare il fondo della nostra disgrazia,
mi sgomentai io stesso, perchè vidi una rovina irrimediabile; sopra
i terreni, sul palazzo di Ploaghe, sul mulino, sugli oliveti, sugli
orti, su ogni cosa pesavano delle ipoteche antiche, che si mangiavano
le rendite; i terreni, gli oliveti, gli orti e il resto abbandonati
laggiù deperivano; una metà dei fitti non ci era pagata, l’esattore e
le riparazioni si pigliavano l’altra metà. Io vidi il male e vidi pure
il rimedio....

— Andare in Sardegna, disse Silvio, ripigliare l’amministrazione...

— Appunto, disse Cosimo colla inalterabile monotonia dell’accento,
appunto; andare in Sardegna, amministrare i propri beni, vivere alcuni
anni facendo economia e ricuperare il patrimonio dell’antica casa
De Nardi; io voleva far questo, ma mia madre si oppose all’idea di
abbandonare Milano; non sapeva come si potesse vivere a Sassari od a
Ploaghe. Mi ordinò di vendere qualche cosa per rattoppare il resto;
e rise ancora, la poveretta, rise delle mie paure. Ma non era un riso
sano, nè forse sincero. Pochi giorni dopo ebbe il primo segnale della
tremenda malattia, che doveva inchiodarla sul letto per un anno. E
allora, amico, non si parlò più di miserie: ho lasciato che morisse
tranquillamente nel suo inganno; le cose, te lo puoi immaginare, non
si sono migliorate in questo tempo; il palazzo di Ploaghe è vuoto;
dei vecchi mobili di casa De Nardi ho salvato appena gli antenati di
mia madre; sono qua, li vedrai; spero che essi l’abbiano consolata
nell’agonia, più di suo figlio. I terreni di Ploaghe sono venduti; a
Sorso non ci rimane più nulla; ma abbiamo ancora una falda di monte ad
Iglesias, la casa di mio padre a Florinas e qualche terreno; su tutto
pesano ancora delle ipoteche; non ci mancano crediti inesigibili;
aggiungi un capitale di cinquanta mila lire in cedole nominative
e poco meno di trenta mila lire in denaro che Ambrogio ha ricavato
vendendo tutti i mobili di casa al signor Cilecca, col patto di non
ritirarli..... se non dopo la morte di mia madre.

Dicendo queste ultime parole, Cosimo si coprì la faccia colle mani.

— Non vi era rimedio, soggiunse con voce sorda, bisognava far denaro
in qualche modo, per le spese d’ogni giorno, e anche per quelle del
funerale.... che non potevano tardare, ce lo assicurava il medico.

— Amico mio, cominciò a dire Silvio; amico mio, coraggio...

— Ne ho, rispose il conte con fermezza; il coraggio non mi è mancato
quando era difficile averne; al capezzale di quella povera donna che
soffriva, che mi parlava dell’avvenire colla fiducia d’una bambina
e si pagava ogni giorno un capriccio di falsa milionaria allora ci
voleva coraggio per tacere, per sorridere, per aspettare la morte senza
aggiungervi nemmeno l’ombra d’un desiderio. Questo coraggio l’ho avuto.

Silvio stringeva la mano dell’amico, ma ancora non sapeva trovar parole.

— Mia madre è morta e quel che mi rimane a fare è facile al paragone,
disse il conte ripigliando la sua pacatezza; ho fatto chiamare il
notaio, domani si leggerà il testamento della contessa De Nardi.

— Il testamento?...

— Non aver timore, l’erede universale sono io stesso; i piccoli legati
ai suoi amici ed ai suoi servi sono già entrati nel mio conto; li so a
memoria; credo di non averne dimenticato alcuno; domani faremo pure il
funerale e doman l’altro le valigie.... perchè noi partiremo, amico,
lasceremo questa gran città, a cui ci siamo fatti credere milionari e
che si è vendicata affrettando la nostra rovina.

— E dove andrete?

— Me lo chiedi?

— In Sardegna?

— Sì, verremo teco; quando ti proponi di partire con Angela?

— Noi siamo pronti.... disse Silvio; ma se dobbiamo partire per non
ritornare forse mai più, la cosa muta; qualche giorno ancora.

— Qualche giorno mi basta.

— E Giorgio? domandò Cosimo, mentre Silvio chiedeva: — E la contessa
Beatrice?

La faccia del conte si oscurò.

— Va di mala voglia in Sardegna? insistè Silvio cercando di leggere il
pensiero dell’amico. Non ha torto; non è la sua patria; ed è l’ignoto
per lei.

Ma Cosimo aveva abbassato il capo sul petto e non rispondeva.

— Che cosa ci è? domandò allora Silvio abbassando la voce.

— Ci è, disse il conte, rialzando il capo e stringendo le braccia
dell’amico colle mani tremanti, ci è che Beatrice non sa nulla; ci è
che essa ha vissuto finora come un uccelletto prigioniero, empiendo
di canti la sua gabbia dorata, e della vita non conosce se non ciò che
si può vedere in teatro, nelle sale dell’aristocrazia, e sulle vie...
attraversandole di trotto in carrozza.

— Tua moglie ha buon senso... osservò Silvio.

— Non dico il contrario, e mia madre non aveva forse buon senso? Una
cosa è il criterio, e un’altra la volontà. Che cosa può volere mia
moglie, lo sai tu? Come accoglierà essa la notizia che non siamo più
milionari, te lo immagini tu?

— Bisognava dirglielo prima, osservò Silvio, bisognava prepararla.

— Bravo! così dicevo anch’io, ogni giorno: «bisogna dirglielo, bisogna
prepararla;» ma poi la vedevo spensierata e sorridente accanto al
dolore e mi mancava il coraggio di far tacere quella musica e di
spegnere anche quel po’ di luce intorno a me. Sono stato un egoista,
non lo nego. Del resto in questi ultimi mesi Beatrice era più di mia
madre che mia; la povera paralitica me l’aveva presa. Ero paralitico
anch’io, perchè tutte le mie speranza erano morte; ma io rappresentai
la commedia dell’uomo sano, e forse mi sembrò virtù soffrire senza
guastare la spensieratezza di mia moglie, che tanto tanto non avrebbe
potuto darmi alcun rimedio.

— Dov’è ora?

— Dorme, ed io mi sono appostato qui, aspettando che si svegli e che
mi venga incontro sbigottita ancora dallo spettacolo della morte, per
dirle che si prepari a vedere altre cose orrende.

— Non si può nasconderle ancora?...

— Il signor Cilecca verrà certamente domani a prendersi la sua roba.

— Finchè la contessa non sia partita gli vieteremo l’ingresso.

— A chi vuol vietare l’ingresso, signor Silvio? domandò Beatrice
entrando improvisamente.

— Buon giorno, contessa, disse Silvio un po’ turbato, come sta?

Beatrice non aveva negli occhi e nel sorriso la luce d’ogni giorno;
sorrideva e guardava con una certa stanchezza, e nella faccia pallida
le si vedevano le tracce d’una notte insonne ed agitata.

Cosimo, venendole incontro amorosamente, pensò che per quella creatura
fragile cominciava il mattino d’un lungo giorno melanconico, fra le
privazioni e la solitudine, in un paese non suo, e si sentì mancare
un’altra volta il coraggio di dirle tutto.

— Sto bene, disse la contessa, cercando una seggiola intorno a sè, ma
mi sono levata or ora e mi sento già stanca.

Cosimo e Silvio si precipitarono ciascuno ad offrirle una poltrona, e
questa premura di due uomini che le volevano bene, fece sorridere la
pallida donnina.

— Dunque, disse poi facendo uno sforzo visibile sopra sè stessa,
dunque, a chi voleva vietare l’ingresso, signor Silvio?

— Al dolore, alla sventura, alla noia, a tutte le cose brutte e
tediose per non lasciar entrare in casa nostra, che la pace, il lavoro,
l’affetto.

— E tutto questo dove?

— In casa nostra, in Sardegna. Noi ce ne andiamo in Sardegna, contessa
Beatrice; Angela ed io siamo pronti; stavo tentando suo marito..... ma
non ne vuol sapere...

— È vero che non ne vuoi sapere? domandò Beatrice guardando la punta
del proprio stivaletto, ed aspettando la risposta a capo chino.

— Non ho detto nè sì nè no; e se tu avessi tardato un poco a venire,
avrei detto forse sì; un viaggio in Sardegna lo dobbiamo fare; ma non
sarà un viaggio allegro, come lo immagina Silvio.

— Lei non sa, disse Beatrice a Silvio, che la povera mamma vuole essere
sepolta in Sardegna, in una delle sue terre; dovremo accompagnarla.

— La contessa Veronica?... domandò il professore.

— Ha ordinato così nel suo testamento.

— Nel suo testamento...

Il professore mandò giù il rimanente di quanto stava per dire.

— E allora tanto meglio, disse, faremo una piccola carovana; si andrà
in Sardegna tutti insieme, e chi sa che la contessa Beatrice non
s’innamori di quei luoghi e non si appassioni al nostro disegno...

— Qual è il loro disegno? dimandò Beatrice fissando lo sguardo in
faccia al marito, ma ritirandolo subito.

— Di farci agricoltori... non è vero, Cosimo? industriali
all’occorrenza, commercianti se si darà l’occasione, di dar l’esempio
dell’operosità e del coraggio...

— Del coraggio? ripetè Beatrice senza alzare il capo.

— Dico per dire... dell’operosità soltanto, dell’operosità senza
coraggio...

— E a chi s’ha a dare questo esempio?

— Agli oziosi, agli inerti, agli eterni scontenti — anche in Sardegna
ce ne è più di uno.

— Ed è questo il tuo disegno? domandò la giovine donna rivolgendosi
finalmente al marito.

— È il mio, rispose Silvio; mi sembra venuta l’ora di far servire quel
poco che ho studiato a qualche cosa; devo andare in Sardegna e credo
che vi rimarrò.

— E che bisogno ha lei di far servire quello che ha studiato a
qualche cosa? domandò Beatrice con una ingenuità, che poteva sembrare
esagerata, non è ricco lei?

La domanda offrì a Cosimo una risposta, ed egli la fece prontamente,
rubando le parole di bocca a Silvio.

— La Sardegna ha un tarlo, ed è che la gente fornita d’un po’ di
cultura non conosce il bisogno; i veri bisognosi sono pochi; ignoranti
e schiavi dei pregiudizi. Arricchirsi in Sardegna è un’opera buona;
perchè vi è quasi impossibile far danaro senza insegnare qualche cosa a
chi sta a guardare.

Cosimo pronunziò queste parole con una vivacità, di cui fu
impressionato egli stesso.

— Andremo in Sardegna, disse semplicemente Beatrice.

Tanta docilità stupiva i due amici, che non vi erano preparati. Per
un poco nissuno trovò parole, e fu ancora Beatrice la prima a porgere
la mano alla conversazione sviata. Lo fece in un modo poco allegro
veramente, ma il più naturale.

— Vorrei _vederla_, disse, e ognuno intese di chi parlava; quando me ne
dimentico un momento, mi sembra di essere un’ingrata.

S’avviarono tutti e tre alla camera della morta, ma prima di lasciare
la sala verde, Silvio, con uno sguardo, fece intendere all’amico che
era meglio non dir nulla ancora.



VII.


Lo dicevano tutti: era proprio un peccato che l’abitazione della nobile
contessa Rodriguez De Nardi non fosse distante dalla chiesa di San
Francesco di Paola, almeno tanto da lasciar distendere interamente
la lunga processione di preti, di Stelline, di signore velate, di
servitori in livrea, di poveri colla torcia, di carrozze stemmate e di
carrozzelle da nolo. Tutta la prima parte di quel magnifico funerale
— la parte che sarebbe riuscita più solenne, perchè doveva condurre
la folla, a suon di marcia funebre, dinanzi alla facciata della
chiesa coperta di panno nero a strisce d’argento, a leggere a bocca
aperta una gran scritta che raccomandava al cielo l’anima pia della
defunta — tutta questa prima parte dello spettacolo era sciupata. Dal
portone di casa Rodriguez ai gradini della chiesa non vi erano nemmeno
cento passi! E quando i necrofori si furono avviati lentamente, come
se dovessero fare un lungo viaggio, e dietro a loro i preti e poi
la musica, bisognò far seguire il carro inghirlandato e stemmato e
lasciare che il resto uscisse alla meglio dalla confusione per entrare
in chiesa senza ordine e senza solennità.

In compenso la cerimonia religiosa fu lunga assai; la contessa
Rodriguez de Nardi era entrata in chiesa per l’ultima volta alle 10
del mattino, ed alle 11 vi era ancora folla di curiosi dinanzi ai
gradini per aspettare l’uscita. Il carro nero col baldacchino, coi
cordoni d’argento abbrunato, coi grossi fiocchi, coi pennacchi, colle
ghirlande di semprevivi, coi quattro cavalli coperti di gualdrappe
nere, ricadenti fino a terra, non avrebbe fermato i passanti, se non
avesse portato appesi ai due lati gli stemmi gloriosi dei Rodriguez e
dei De Nardi. Persone di buona volontà, alle quali l’araldica non aveva
mai detto una parola, pur s’ingegnavano di decifrare i segni misteriosi
di quei due scudi, arrischiando le più bizzarre ipotesi, per ingannare
il tempo; ogni tanto qualcuno dava una capata in chiesa e veniva ad
annunziare che si era all’elevazione, all’_ite missa est_, al _Requiem
æternam_; allora dal crocchio degli sfaccendati se ne staccava uno
crollando il capo e dichiarando che non aveva altro tempo da buttar
via.

Nell’interno della chiesa lo spettacolo aveva una solennità di
apparato, che non toccava il cuore; i preti seduti tranquillamente gli
uni in faccia agli altri, negli stalli dell’altare maggiore, cantavano
forte, trascinando certi voci voluminose in cadenze pigre, non mai
finite; uno scaccino fendeva a stento la folla brandendo una seggiola
sopra le teste chine dei devoti, finchè non aveva collocato la sua
mercanzia; un sagrestano andava in giro a fare la questua, facendo
sonare sotto il naso dei fedeli una gran tasca che si veniva empiendo
di soldi, non ostante le distrazioni di chi non aveva spiccioli o non
se li voleva cavare di tasca. Tutto ciò faceva un bizzarro contrasto
colle colonne tappezzate di nero, col catafalco eretto nel mezzo della
chiesa, e con quei lunghi ceri, ardenti intorno alla bara.

Ci era in un canto della chiesa qualcuno che osservava amaramente
queste cose — Silvio; egli era venuto per accompagnare al funerale
la nipotina, che si trovava in compagnia d’Annetta, in mezzo alla
folla di signore; sapeva quanto Angela fosse irrequieta per natura e
l’aveva vista voltare il visino sconfortato; allora aveva pensato di
mandarle una seggiola, come per raccomandarle la pazienza, e infatti
la fanciulla si era messa a sedere e pareva rassegnata alla propria
sorte, perchè non si voltava più. E Silvio, dal suo cantuccio, guardava
e pensava liberamente; immaginava, entro la bara, la salma della
defunta, come se avesse ancora coscienza di quanto si faceva intorno
a lei, e gli pareva che la contessa Veronica dovesse godere di tutta
quella folla, di quei ceri che agitavano le grosse lingue di fiamme,
di quel vocione che ogni tanto intonava il _Dominus vobiscum_ e del
confuso intreccio di voci che rispondeva _et cum spiritu tuo_. Ogni
tanto il pensiero di Silvio usciva di chiesa e risaliva fino alla casa
della vera afflizione, dove Cosimo, asciugando le ultime lagrime di
sua moglie, si lasciava rodere il cuore dal proprio segreto. Ma la voce
grossa dei sacerdoti lo richiamava in chiesa, e quello spettacolo nero
gli sembrava una cosa indifferente al paragone della desolazione che
egli aveva visto nel cuore dell’amico.

L’ufficio funebre finì all’improvviso, con un _Amen_ lungo e sonoro,
dopo il quale il silenzio non parve sincero a Silvio; ma gente di lui
più pratica e più vicina alla porta, imboccò l’uscita.

Un momento dopo la contessa Rodriguez De Nardi era sul suo gran carro,
e la banda cittadina sonava quella marcia funebre della _Jone_, che
sembra scritta in sepoltura.

Cominciò la lunga sfilata. La gente che faceva ala al corteo, vedendo
quello spettacolo, esagerava le ricchezze della defunta; e un filosofo
in maniche di camicia assicurava ogni tanto che egli era più ricco
della contessa Rodriguez. Un’ora dopo la defunta aveva finito di
sbalordire Milano col suo fasto. Già molto prima di giungere al
cimitero, la folla si era dispersa, perchè aveva piovuto da poco e il
viale non lastricato era fangoso, ed anche perchè a quell’ora la gente
viva usa far colazione.

E la contessa Veronica rimase là, in uno stanzino chiuso a catenaccio,
ad aspettare che suo figlio venisse a pigliarla per andare in Sardegna.

Nell’uscire ultimo da quello stanzino, parve a Silvio che l’anima
pentita della contessa gli dicesse lo strazio di dover aspettare
là sola, e il rammarico inutile di non aver voluto una sepoltura in
Milano, e la penosa incertezza di non sapere dove avrebbe dormito il
suo lungo sonno.

— Dove la seppelliscono? chiese Angela, alzando il visino bianco e gli
occhi sereni a guardare suo zio.

Silvio rispose che non lo sapeva ancora; e il suo pensiero era già
lontano.

— Andiamo a casa, disse, è tardi.

— Mi riconduci in collegio? chiese Angela; mi avevi promesso di
togliermi di là.... io voglio rimanere con te, sempre con te... vuoi?

Silvio era distratto e guardò il volto soave della fanciulla e poi
lungamente innanzi a sè, prima di rispondere.

— Fra pochi giorni, disse, sarai contenta.

Annetta, che era andata fra le tombe in cerca di un barone suo parente
lontano, per dirgli che essa pensava sempre a lui, raggiunse allora di
corsa il professore e la fanciulla.

— Non l’ho trovato, disse, ma lo troverò.

— Chi sa come si è nascosto bene! osservò Angela.

Silvio la guardò in faccia. Splendeva proprio un’intenzione beffarda
sul viso di Angela, ma senza ombra di cattiveria: era furba Angela, ed
era bella, proprio bella. E Silvio pensò che sua nipote fra pochi anni
avrebbe fatto girare la testa a più di un giovinotto.

Angela aveva cacciato una mano sotto il braccio di suo zio, e gli
camminava al fianco facendo i passi lunghi come una sposina. Sì, come
una sposina, e fu essa stessa a farne l’osservazione.

— Se non avessi il vestito corto, disse ridendo, la gente mi
piglierebbe per tua moglie.

— Pazzerella! rispose Silvio; e guardò stupito nel proprio cuore, dove
seguiva uno strano rimescolio di vecchi sentimenti dimenticati.



VIII.


Ci fu una breve agitazione dietro l’uscio della gran sala verde; e
solo dopo uno scalpiccio confuso e un bisbiglio sommesso, la porta si
aprì bruscamente, ed irruppe, come spinto da una molla invisibile,
Cecchino, lo sguattero. Il povero ragazzo si arrestò appena gli fu
possibile, per raccomandare a’ suoi padroni, senza guardarli in faccia,
anzi voltandosi verso l’uscio, non istessero a credere che egli avesse
in qualche parte del corpo una molla tanto impertinente, e far loro
intendere che aveva ricevuto uno spintone da Giovanni. Infatti il cuoco
veniva alle spalle di Cecchino, e per quanta falsa bonarietà mettesse
nella faccia carnosa, sotto il piccolo fulmine lanciatogli dal suo
schiavo ribelle, fu visto barcollare come un colpevole. L’ingresso
riuscì meglio allo stalliere Stefano, vestito della sua giacchetta
festiva a grandi scacchi di molti colori, a Pantaleo, il cocchiere più
sbarbato di Milano, e riuscì benissimo al domestico Francesco, il solo
a cui i seggioloni antichi di casa Rodriguez non mettessero soggezione,
perchè egli aveva visto il fondo di queste e di altre cose.

Ritta a breve distanza dal tavolino, intorno a cui sedevano, coi due
notai, la contessa Beatrice e il professor Silvio, Annetta accoglieva
gli ultimi arrivati con un sorriso d’incoraggiamento.

Ambrogio, col capo chino sul petto, guardava sott’occhi il conte
Cosimo, il quale, rimasto in piedi, a testa alta, aveva l’occhio fisso
e lucente.

— Avvicinatevi, disse il Parolini, senza levare lo sguardo dalle carte
che aveva dinanzi — il signor conte lo permette. Allora il cuoco,
abbrancando per gli omeri il suo sguattero, se lo spinse avanti alcuni
passi; il cocchiere e lo stalliere li seguirono, e Francesco, con una
disinvoltura che formò l’ammirazione della cucina e della rimessa, fece
un giro largo, rasente alle pareti, e si andò ad arrestare accanto ad
Annetta, che lo accolse con un saluto dignitoso.

— La nobilissima contessa Veronica Rodriguez di Florinas, dei conti De
Nardi di Ploaghe, cominciò il Parolini, allungando quanto era possibile
i nomi e i titoli, prima di morire si degnò di dettare al dottor
Larucci, mio egregio collega, ed a me, le sue ultime volontà; noi siamo
qui per dare appunto lettura del testamento della contessa.

Pausa.

— Dottor Larucci, soggiunse il Parolini con garbatezza squisita, vuole
compiacersi di legger lei?

Il dottor Larucci, sempre previdente, aveva intanto ripulito le lenti
del suo occhialetto e messolo a cavalcioni sul naso; gli bastò tirare
indietro il capo, e sollevare un tantino la carta per poter leggere
con voce desolata: «Oggi diciannove marzo 18... regnando felicemente
Vittorio Emanuele II, nella casa d’abitazione della nobilissima signora
contessa Veronica Rodriguez di Florinas, dei conti De Nardi di Ploaghe,
posta in via dei Giardini al numero civico 24, al primo piano nobile,
alla presenza di me notaio dottor Giovanni Parolini e del dottor
Lazzaro Larucci, pure notaio, entrambi di Milano, dell’eccellentissimo
conte Cosimo Rodriguez di Florinas e del signor Ambrogio Cima,
testimoni a me cogniti, idonei e sottoscritti, è comparsa la
nobilissima signora Veronica contessa Rodriguez di Florinas, dei conti
De Nardi di Ploaghe, nata in Ploaghe, Sardegna, con domicilio e dimora
stabile in Milano, la quale nel pieno possesso di tutte le sue facoltà
mentali, sebbene costretta a letto da malattia, mi ha dichiarato di
voler fare testamento ed ha espresso a chiara ed intelligibile voce le
sue ultime volontà in questi termini:»

Pausa.

Cecchino, buona creatura che aveva già dimenticato lo spintone
ricevuto, cercò di leggere sulla faccia del cuoco il significato
occulto di quelle parole insolite — invano; la faccia tonda del cuoco
era come una casseruola appesa al suo chiodo — non diceva ancora nulla.
Allora Cecchino interrogò la faccia del cocchiere, ma ahi! poche ore
prima il rasoio ne aveva raschiato ogni espressione; quando Cecchino
volle interrogare lo stalliere, che aveva l’aspetto meditabondo, la
voce desolata del dottor Larucci ripigliò:

«Nomino erede universale ed esecutore testamentario mio figlio Cosimo,
che da parecchi anni amministra il mio patrimonio, ascendente a un
milione e dugento mila franchi, sul quale gravano alcune piccole
ipoteche.»

Il milione della defunta, col suo strascico dei dugento mila franchi,
fu inteso subito; esso formò l’ammirazione incondizionata di Cecchino;
fece sorridere il cuoco, che aveva creduto più ricca la padrona,
corrugò il sopracciglio dello stalliere, lasciò intatta la faccia rasa
di Pantaleo.

E il dottor Larucci continuò a desolarsi così:

«Voglio che tutti i miei gioielli appartengano alla contessa Beatrice,
mia nuora, coll’obbligo di portarne sempre qualcuno, anche quando non
saranno più di moda.»

Il notaio Parolini a questo punto intervenne per dimostrare alla
contessa Beatrice che l’_obbligo_, di cui parlava la testatrice, si
doveva intendere _cum sale discretionis_, cioè come una preghiera fatta
in modo scherzoso, ma che non poteva avere valore legale. La contessa
Beatrice aveva lo sguardo fisso sul marito, e lo voltò un momento verso
il notaio per ringraziarlo.

Il dottor Larucci tirò innanzi:

«Al mio caro amico Ambrogio Cima lascio l’orticello Giuncheddu che
posseggo in Sorso, oppure una somma di lire _cinquemila_ in denaro,
a sua scelta. Ognuno de’ miei servi avrà alla mia morte lire mille;
i miei servi sono cinque: Giovanni Menichi cuoco, Stefano Gabutti
stalliere, Pantaleo Pantalei cocchiere, Francesco Diodato domestico,
Cecchino Misirolli sguattero.»

Era curioso vedere la trasformazione delle faccie dei servi, man mano
che venivano nominati; l’allegrezza del legato, che era difficile
nascondere, cercava per dimostrarsi una via indiretta, e la trovò
all’ultimo, quando fu pronunziato il cognome di Cecchino Misirolli.
Misirolli! Chi aveva inteso mai un casato così burlesco? Era
impossibile star serii, ne conveniva lo stesso Cecchino, il quale fece
anch’egli la faccia da ridere.

La contessa Beatrice sorrideva guardando i suoi servi, segno che
si godeva quella scena; e Annetta esagerava il proprio godimento,
sorridendo a bocca aperta, ma coll’orecchio teso verso il dottor
Larucci.

«Alla mia cameriera Annetta Baroni, lesse il notaio, (e una melanconia
profonda oscurò improvvisamente la faccia della protagonista del
legato), alla mia cameriera Annetta Baroni lascio tutti i miei oggetti
di vestiario e un regalo di lire mille in denaro.»

«Desidero che il mio corpo abbia sepoltura in Sardegna.»

«Ordino che al mio funerale intervengano tutti i poveri della
parrocchia, i quali riceveranno la torcia e un’elemosina.»

«Lascio alla parrocchia di S. Francesco lire mille, da essere spese in
tante messe per la salute dell’anima mia.»

A questo punto Geromina, l’unica persona rimasta in anticamera, si
affacciò all’uscio e agitò la mano cercando evidentemente di chiamare
l’attenzione di Ambrogio, che la vide ed accorse per non disturbare la
testatrice. La quale, per bocca del dottor Larucci, conchiudeva nella
massima desolazione, invocando il perdono dei peccati dagli uomini e da
Dio.

Il vecchio Ambrogio non si fermò sull’uscio ad ascoltare, ma spinse
Geromina nell’altra sala, e allora soltanto intese con raccapriccio che
si era radunato in cortile un esercito di poveri della parrocchia, e
che un signore aspettava da mezz’ora nella gran sala. Nella gran sala?
Un signore? Chi?... Il signor Cilecca!

Egli era là, come in casa sua; andava in giro per la gran sala
con una nota in mano, riconoscendo ad uno ad uno i mobili che gli
appartenevano. E faceva ogni tanto qualche scoperta dolorosa, il
pover’uomo; già aveva notato la cornice d’un quadro scrostata in un
angolo, e Ambrogio lo trovò curvo a guardare fra le gambe torte d’una
mensola, a cui mancava un piccolo fregio di bronzo.

— Signor Cilecca! disse il vecchio dall’uscio.

— Signor Ambrogio! rispose l’intruso senza voltarsi; qui manca un
riccio di bronzo; l’avranno messo da parte, spero...

— Signor Cilecca! ripetè Ambrogio.

E allora Cilecca si alzò e venne senza paura incontro a quell’uomo
severo. Ahi! l’uomo severo capì subito che la severità era inutile,
e lo capì da un indizio apparentemente frivolo: Cilecca non portava
l’occhialetto; da uomo che sa di non avere bisogno di nulla e di
nessuno, dimenticava quell’ausiliario in fondo al taschino del
panciotto.

— Signor Cilecca, disse Ambrogio mutando accento; so bene che lei è nel
suo diritto... perchè la contessa Veronica è morta...

— Sono entrato in chiesa ed ho seguito per un poco il funerale... un
magnifico funerale; dev’essere costato di bei quattrini...

— So bene che è nel suo diritto, ripetè Ambrogio, ma io faccio appello
alla sua delicatezza...

— Cioè... interruppe Cilecca, asciutto asciutto.

— Sono tutti in casa; si sta leggendo il testamento.... la contessa
Beatrice non sa ancora nulla; fra tre o quattro giorni partiranno....
andranno in Sardegna. Dunque abbia pazienza ancora un poco; non ci
perderà nulla; nessuno vuole portarle via la sua roba.

— Partiranno... disse Cilecca senza nemmeno la ricordanza
dell’amabilità insinuante d’una volta — e chi rimane per assicurarmi?

— Rimango io, balbettò Ambrogio; le farò la consegna io stesso, e poi
lasci passare un paio di giorni, un giorno, ci dia tempo a riflettere,
forse le potremo dire di venirsi a prendere i mobili domani stesso — ma
non si faccia scorgere prima... la contessa Beatrice, poverina...

Argomento inutile quello, e Ambrogio ebbe l’accortezza di cercarne un
altro.

— Nulla di più facile, disse, che ci sia un altro buon negozio da fare
per lei...

— Un negozio...

— Lei ha comperato una gran parte dei mobili; ma il quartierino della
contessa Beatrice e del conte Cosimo, lo sa bene, non sono entrati
nell’affare — se verrà deciso di vendere ogni cosa, lei sarà il primo
offerente, forse il solo...

Cilecca tentennava ancora.

— Che premura ha? insistè Ambrogio.

— Che sicurezza ho? chiese bruscamente l’uomo di affari — nei mobili
il possesso equivale a titolo fino a prova contraria; lo sa lei questo,
signor Ambrogio? Se vi sono altri creditori, se qualcuno si fa innanzi
prima di me e mette le mani sulla mia roba, mi toccherà fare una lite
di rivendicazione...

Ambrogio confortò l’animo pauroso di Cilecca con poche parole.

— Se qualcuno avesse potuto ottenere il sequestro della roba, l’avrebbe
fatto prima d’ora — il padrone di casa è pagato fino a S. Michele,
creditori in Milano non ce n’è; glie lo assicuro io; gli altri
creditori si sono rifatti col patrimonio, in Sardegna.

Dopo molto discutere, Cilecca si rassegnò ad andarsene; ritornerebbe
fra un paio di giorni, se pure Ambrogio non lo mandasse a chiamare
prima per quell’altro negozio, come prometteva.

— Ho un cuore anch’io, annunziò due volte, ma ignorantissimo di
anatomia, come deve essere un uomo d’affari, metteva il dito sulla
regione epigastrica.

Nel passare davanti al camerino del portinaio, chiamò il brav’uomo con
un cenno, e gli disse:

— Il conte Rodriguez, dopo la disgrazia, lascia Milano; credo che se
ne vada in Sardegna; vende tutti i mobili di casa, ed io ne ho già
comprato qualcuno, sto facendo contratto per gli altri.... Io abito in
via della Stella, n. 4, a terreno — se vedete portar via dei mobili o
venire in casa altri negozianti, correte ad avvertirmi subito, ci sarà
una buona mancia per voi... Avete capito?

Il brav’uomo aveva una buona testa, che gli serviva benissimo da un
pezzetto.

— Ho capito, disse.

— E mi posso fidare? insistè Cilecca.

— Ma!... rispose il brav’uomo; dipende dalla sorte, dipende; se io non
mi trovo alla porta, oppure se sono occupato... ci è la mia vecchia,
che è un poco sorda... Sa bene, capisce anche lei: — dipende da tante
cose, dipende.

Allora Cilecca cavò di tasca uno scudo d’argento, e lo pose, senza dir
altro, nelle mani del portinaio, che andò in estasi.

Si può intendere quell’estasi a quello spettacolo senza pensar male del
prossimo; basta considerare che erano già i tempi della carta moneta, a
corso _forzoso_ inconvertibile.



IX.


Un’ora dopo seguivano, fra lo studiolo del conte e la vicina
anticamera, parecchie scenette nuove e singolari, che cominciavano
coll’allegria nervosa ed andavano a finire nel tenerume.

I cinque servi del conte erano là, in anticamera, aspettando d’essere
chiamati ad uno ad uno, e ridevano tutti, perchè Cecchino colle mille
lire ereditate si proponeva di ritirarsi in campagna a vivere di
rendita. Veramente Cecchino non aveva detto questo; egli prometteva
solo di girare così bene fra le dita quel biglietto da mille, da
potersi ritirare in campagna quando fosse vecchio; ma il cuoco pigliò
le prime parole sfuggite al guattero e le condì d’una sua salsa così
ghiotta, che bisognò ridere ad ogni costo, finchè la porta dello
studiolo si aprì per lasciar passare la testa di Ambrogio, il quale
chiamò: Cecchino! Si aspettò che l’uscio si fosse chiuso alle spalle
del piccolo possidente campagnuolo, e allora Giovanni diede in uno
scoppio di risa, che gli spartì la faccia come una mela; gli altri tre
fecero coro.

Ma poco dopo Cecchino riapparve colle lagrime agli occhi e col
biglietto da mille che doveva asciugarle, come il povero figliuolo
pareva tentato di fare, e allora Giovanni fu il primo a domandare sul
serio che cosa era stato.

— È stato, rispose Cecchino, che il padrone se ne va, la padrona se ne
va, tutti se ne vanno, e mi hanno licenziato.

Ambrogio riapparve e chiamò: Giovanni! — e il cuoco non potè
manifestare il proprio pensiero al suo aiutante.

Ma non si tardò a vedere che anche la faccia del cuoco si era
allungata, che pareva così difficile, perchè a lui pure il conte aveva
detto che se ne andava, che se ne andavano, e che non era più in grado
di mantenere tanti servi.

— Non è la cosa in sè, assicurava Giovanni; è il modo con cui me l’ha
detta. — Giovanni, mi ha detto: da quanto tempo eri al servizio di mia
madre? — Da dieci anni; ho detto — E lui ha detto: tu sei un vecchio
amico di casa — Oh! sì! sì! ho detto — E lui: ci dobbiamo lasciare;
ha detto — E aveva la voce tremante. — Vado in un paese dove non avrò
bisogno di essere molto servito, vado per lavorare anche io — Ha detto
così per dire, si capisce, ma l’ha detto, e non so perchè mi ha fatto
pena l’idea di vederlo lavorare. Che cosa vuol fare?

— Stefano! chiamò sommessamente Ambrogio; dalla porta socchiusa si vide
un momento il conte Cosimo, che teneva la fronte appoggiata alla mano
sinistra, mentre colla destra scriveva. A Stefano pure ed a Francesco
ed a Pantaleo in ultimo seguì lo stesso caso. Se non si ride, se non
si fa il chiasso quando si ha un biglietto di mille lire in tasca,
quando mai si può stare allegri? Così diceva il cuoco; e pure Stefano,
Francesco e Pantaleo ne avevano meno voglia di prima — tale e quale
come il cuoco. In quello stanzino del conte si era mostrata a ciascuno
di loro l’immagine confusa di una sventura a cui non sapevano dare
un nome, e mentre si consolavano a vicenda, dicendo forte che essere
licenziati da una buona casa, col _ben-servito_ in regola, non è un
male da morirne, che in Milano le case dei signori non mancano, mentre
dicevano questo, erano stupiti di scorgere dentro il loro cuore un
sentimento, che valeva più di mille lire e che toglieva valore a quel
biglietto della Banca Nazionale. Cecchino, per esempio, era sicuro che
se il signor conte gli avesse detto: «restituiscimi il tuo biglietto
da mille e ti conduco meco in Sardegna,» egli avrebbe detto di sì. —
Giovanni, più sincero o più avveduto, confessava che avrebbe chiesto
tempo a riflettere e che avrebbe finito col dire di no; ma erano tutti
certi d’aver dentro qualcuno, il quale aveva una gran voglia di fare
questo contratto rovinoso.

Mentre duravano i commenti, venne nell’anticamera Ambrogio.

— Ragazzi, disse egli con voce sepolcrale, il signor conte partirà fra
due giorni; sono incaricato di pagarvi, oltre il salario, un’indennità
per gli otto giorni d’uso. Assesteremo i conti domattina; ma se
qualcuno di voi vuole andarsene subito, lo dica.

— Se io me ne vado, disse Giovanni, chi fa la cucina?

— Non si fa più cucina, si mangia dal trattore.

— Ed io rimango! disse Giovanni con enfasi; io farò la cucina fino
all’ultimo momento; le ultime due braciuole che il conte Cosimo e la
contessa Beatrice mangeranno in Milano, devono passare per le mie mani.

I colleghi di Giovanni lo guardavano a bocca aperta, ammirandolo senza
domandarsi perchè.

— Anch’io rimango fino all’ultimo! annunziò Francesco.

— Anch’io! Anch’io!

Era cosa intesa. Rimarrebbero fino all’ultimo tutti.

E Ambrogio? E Annetta?

Ambrogio e Annetta facevano anche di meglio, accompagnavano i loro
padroni in Sardegna. Nessuno fiatò a questa notizia; ma l’invidia parlò
nel silenzio.

— Bella prova! disse; chi di noi non andrebbe volentieri in Sardegna
per continuare a servire la contessa Beatrice e il conte Cosimo? Ma non
ci vogliono, ci hanno licenziato.

— Questa Sardegna, domandò poi Giovanni, che cosa è?

— È un’isola, rispose Cecchino, affrettandosi a far pompa del profitto
fatto a scuola; le grandi isole del Mediterraneo sono tre: la Sicilia,
la Sardegna e la Corsica.

— Lo so che è un’isola; ma io domando che isola è, se è come da noi,
se la gente parla un linguaggio che si capisce; questo domando io,
nient’altro. Perchè, caro il mio figliuolo, tu non eri ancora venuto
al mondo, quando io sapeva che l’isola è una cosa, la terra ferma
un’altra. La terra ferma è questa qui: Milano, Como, Pavia e Brescia.
La Sardegna invece è un’isola.

Cecchino, umiliato dalla dottrina prepotente del suo tiranno, non osò
fiatare.

— Da quel poco che ho potuto capire, disse allora Ambrogio, la Sardegna
è un paese grande grande, un paese che ha ogni ben di Dio, un paese
dove non ci è nemmeno bisogno di lavorare la terra. Voi date due
colpi di zappa prima di seminare, tirate quattro calci dopo seminato,
e vedete spuntare le biade alte un metro e mezzo, con certe spighe
grosse quanto il pugno, con certi grani grossi più de’ fagiuoli. E vi
fanno un vino! un vino!... — Ah! poi si va a caccia dei cinghiali e dei
cervi come da noi alle quaglie — E che altro? ah! invece di pescare
gli agoni cogli ami e col tramaglio, si fa la pesca dei tonni grossi
come vitelli. — In Sardegna non vi è polenta, ma non vi sono affamati;
il contadino mangia il pane di farina, non abita la campagna, lavora i
campi colla pipa in bocca e fuma tabacco di contrabbando.

Le cognizioni di Ambrogio sulla Sardegna non andavano molto più in
là; egli ne aveva inteso parlare tante volte in vario senso e se n’era
fatta un’idea a mosaico, in cui entrava un po’ di tutto, non escluso
lo sgomento. Credeva, per esempio, che in Sardegna bastasse mettere il
naso a una finestra, di notte, per buscarsi la terzana; era certo che
la campagna fosse popolata di banditi; e che le vendette e gli omicidi
funestassero le famiglie. Diceva per conchiudere: «Insomma è un paese
che vi nutre bene e vi fa vivere senza fatica, quando non vi uccide
colla febbre o con una schioppettata tirata da una siepe di fichi
d’India.»

La conseguenza immediata di quella diceria sconnessa, fu che Cecchino
buttò all’aria la berretta e dichiarò che egli pure se ne andava in
Sardegna.

— E che ci vai a fare? chiese Giovanni.

— Con questi qui, disse Cecchino allungando due braccia da quadrumano,
e _con questo qua_, non ho paura dell’aria. Quanto costa il viaggio per
andare in Sardegna?

Egli spiegava il biglietto da mille e ne studiava il disegno; diceva
modestamente che quando l’avesse perduto di vista, non ne ritroverebbe
mai più un altro in tutta la sua carriera mortale.

Egli diceva così; ma pensava il contrario.



X.


Il trasporto del cadavere della contessa Veronica, dalla stazione
ferroviaria di Livorno al porto, era stato fatto all’alba, subito dopo
l’arrivo del treno notturno. A quell’ora le vie erano deserte, e pochi
avevano badato alla forma insolita del cassone; ma se la città dormiva
ancora, il mare era sveglio, e lungo la ripa si radunò molta gente a
vedere il morto, che s’imbarcava a bordo della _Lombardia_. La notizia
uscita dal porto, sopra alcune barche pescarecce, corse in brev’ora
un gran tratto di mare, e per tutta la giornata quanto fu lunga, non
rientrò un pescatore senza che passasse col naso per aria rasente la
chiglia della _Lombardia_.

Un magnifico sole baciava la faccia serena del mare; ma alitava ogni
tanto una brezzolina primaverile che la copriva di rughe passeggiere.
Si vedevano sulla tersa superficie quelle scie capricciose d’invisibili
navigli, che solcano variamente il mare in bonaccia. E pure i più
vecchi marinai del porto assicuravano che il tempo si sarebbe guastato
nella notte e che la _Lombardia_ non l’avrebbe passata senza ballare
una tarantella.

«Avere a bordo un morto, dicevano, non fa mai comodo; solo che sia
un’anima del purgatorio ce n’è d’avanzo. Se è un’anima dannata che ci
abbia il demonio al capezzale, non se ne parla.» Intanto un viaggiatore
che si voleva imbarcare sulla _Lombardia_, saputo del compagno che
avrebbe avuto a bordo, rinunziò al viaggio e fece riportare le valigie
all’albergo del Giappone; e dei pochi passeggieri che s’affidavano al
mare quel giorno, qualcun altro forse avrebbe fatto altrettanto, se non
fossero arrivati all’ultimo momento, quando già avevano mandato a bordo
il bagaglio, e la campana dava il primo segnale della partenza.

Erano tutti là, i nostri amici di Milano; mancava solo Ambrogio, il
quale era rimasto per intendersela col Cilecca; ma invece sua si vedeva
a poppa, a prua, sul casseretto, affacciato alle impagliettature, al
boccaporto della stiva, ai camerini del capitano e del secondo, qua,
là, da per tutto, un giovinetto di grandi speranze, Cecchino Misirolli.
Egli aveva ottenuto facilmente il permesso di accompagnare i padroni,
e senza avere speso un quattrino, viaggiava come un signore, in seconda
classe.

Nessuno, vedendolo, avrebbe sospettato in lui l’antico guattero; colle
suo braccia troppo lunghe, egli aveva tutta l’aria d’un indiscreto,
che, come ora metteva il dito da per tutto, così fra poco domanderebbe
al mare nuove terre per regalarle all’umanità.

Annetta, ritta sulla persona, colla testina eretta e gli occhi
inquieti, metteva tutto il suo studio nel rappresentare la parte d’una
inglesina magra e nervosa; e vi riusciva benissimo, aiutata in ciò
da un gran velo verde, sotto la cui salvaguardia la contessa Veronica
buon’anima aveva fatto il suo primo viaggio di mare. L’onesta ragazza
non voleva già ingannare il suo prossimo; era incapace di nascondere
lungamente il vero esser suo, ma provava un diletto inesplicabile nel
pensare che i marinai e i passeggieri la piglierebbero per un’inglese
finchè essa non si degnasse di toglierli dall’errore facendo una
domanda in buon italiano.

La contessa Beatrice, Cosimo e Silvio, raccolti in un crocchio,
parevano non avvedersi neppure che uno degli ultimi passeggieri
arrivati, dopo di essere andato in cerca dei _proprietarii del
cadavere_, aveva gli occhi fissi con severità sopra di loro. Seguivano
sbadatamente la fatica misurata dei marinai occupati a tirar su
l’àncora.

Non parlavano quasi; la partenza imminente empiva il loro cuore di
sensazioni nuove, non tutte dolci; e da certe domande brevi, fatte
unicamente per rompere il silenzio, dalle risposte sollecite, ma
disadatte, appariva chiaro che un pensiero occulto incombeva su quelle
anime. Ogni tanto la faccetta soave di Angela s’illuminava di un
sorriso; ma invano; anche la fanciulla, al momento di partire, sembrava
sotto l’oppressione d’un pensiero poco allegro.

— Avremo bel tempo! diceva Silvio; vedete come è liscio il mare, come è
lucente.

Ah! Sì, il mare aperto era liscio e lucente. Il sole al tramonto
lo tingeva di riflessi rossigni, che facevano contrasto col colore
freddo delle acque chiuse nel bacino del porto. Le vele delle barche
pescarecce splendevano come fuochi lontani; e facendo correre l’occhio
per l’immenso piano si vedeva ogni tanto uscire dalle acque, come
freccia scoccata da un arciero sottomarino, un pesce volante.

Ma quando Beatrice aveva dato un’occhiata rapida a tutto ciò e ripetuto
senza entusiasmo che era un magnifico spettacolo, si affacciava di
nuovo al parapetto per veder la grave àncora di ferro, che veniva
su lentamente, come un gran mostro marino allettato dalla cantilena
monotona dei marinai. Poi Beatrice si mosse, sollevò il capo e cercò
Angela, la quale, ritta sopra un mucchio di cordami, guardava la città
incendiata dal sole.

— Che cosa guardi, Angela?

— Guarda quella finestra, rispose la fanciulla, quella finestra laggiù;
non pare che sia tutto in fiamme là dentro?

Silvio spiegò gravemente il fenomeno, dicendo che era il tramonto del
sole, e Beatrice ed Angela voltarono verso di lui le faccie animate
da un falso stupore. Alla luce di quei quattro occhi bellissimi che lo
corbellavano, Silvio vide la propria sbadataggine e se ne vergognò più
del necessario.

— Lo zio pensava ad altro, disse Angela, si è fatto rosso.

Infatti la faccia del professore era in fiamme, ma egli fu abbastanza
pronto da darne la medesima spiegazione di prima collo stesso accento
grave.

— Effetto del sole che tramonta! disse.

Beatrice rise per la prima volta, e Cosimo, invitato da quella musica
che taceva da un poco, si avvicinò; ma sua moglie lo guardò e non rise
più.

— Che cosa hai detto? domandò Cosimo all’amico.

La campana della partenza impedì la risposta.

L’àncora aveva toccato l’estremità della poppa e pendeva assicurata
al suo uncino; le scale erano già tirate su, chiuso il parapetto, e il
fumaiuolo della macchina cominciava a spingere in alto gran boccate di
fumo. La _Lombardia_ si mosse.

— Ci siamo! dichiarò Angela; e si portarono tutti istintivamente
all’estremità di poppa, come per essere più vicini alla terra che
stavano per lasciare. Silvio soltanto rimase; egli ripeteva a fior
di labbro: effetto del sole che tramonta! e continuando a scavare in
queste parole innocenti, vi trovava qualche cosa che egli non vi aveva
messo.

Le navi ancorate nel porto gli passarono dinanzi come fantasmi e non
gli dissero nulla; egli contava sbadatamente le nuove fiammate che
il sole veniva accendendo sui vetri della città, man mano che se ne
spegneva qualcuna. E quando Silvio si tolse ai suoi pensieri, la nave
aveva passato l’imboccatura del porto e si era spinta in alto mare.
Ora la spiaggia si spiegava come un gran ventaglio, e pareva che la
_Lombardia_ navigasse verso un’altura, da cui si dominava sempre meglio
l’orizzonte.

Tutti i viaggiatori erano sul cassero e stavano ritti, colla faccia
rivolta a quella gran città, che veniva mostrando loro terrazzini,
comignoli, campanili tenuti nascosti fino a quel momento. Poi Livorno
non fu più sola allettatrice impotente; cominciò la tentazione inutile
delle belle campagne circostanti; si alzarono alle spalle della vecchia
città di mercanti leggiadre colline tutte verdi; le si stesero ai
fianchi alberghi e ville e ricami d’alberi scendenti fino al greto
sassoso e frastagliato, che metteva una superba orlatura a quella veste
primaverile. Un quarto d’ora dopo tutta quella campagna non fu che
una lunga striscia di verde pallido all’orizzonte, e la città una gran
macchia bruna indorata dal sole.

Allora l’attenzione dei passeggieri si rivolse al mare, che si stendeva
senza confini dinanzi alla prora della nave. Angela confessò che si era
fatta un’altra idea del mare. Come credeva che fosse? Prima di tutto
più piccolo e poi diverso — non sapeva come, ma diverso — quell’andar
sempre e non vedere mai altro confine all’occhio fuorchè la linea in
cui cielo ed acqua si toccano, le ispirava un’ammirazione strana, una
specie di sgomento piacevole, e una curiosità instancata. Essa stava
là, appoggiata all’impagliettatura di babordo, e spingeva l’occhio a
ricercare le lontananze, come in aspettazione di qualche spettacolo.
Man mano che si andava perdendo di vista la terra, il mare usciva dalla
sua falsa impassibilità di prigioniero ribelle e spingeva le onde basse
e lunghe come per trastullarsi. Ma si vedeva bene che era svogliato.

Vedendo la fanciulla così attenta, Beatrice prese in una valigetta uno
sciallo e glielo pose sulle spalle; poi attraversò il ponte barcollando
un poco e scese nel camerino.

Appena si fu allontanata, Silvio e Cosimo si guardarono come due
colpevoli, e Cosimo disse:

— Non ti sembra più mesta del solito?

— Sì, rispose il professore; non è punto allegra.

— Mi fa male, insistè Cosimo; mi pare che sarei più tranquillo se le
dicessi tutto, a costo di vederla piangere fra le mie braccia.

— Non sa nulla, e soffre, mormorò Silvio.

— È vero; non sa nulla, e soffre!

— Zio, interrogò Angela senza voltarsi, dove vanno queste onde che
s’inseguono?

— Alla spiaggia.

— E perchè ci vanno? E che cosa fanno?

— Non fanno nulla!

— Non fanno nulla e continuano tutto il giorno così, e tutta la
notte... forse...

— Se non cambia il vento.

— Io voglio che facciano qualche cosa; dirò a quella là che è più
grossa delle altre, che porti alla spiaggia il mio mazzolino di
viole...

E senz’altro buttò il mazzolino, ma l’onda prese i fiori, li portò un
tratto e li abbandonò ad un’altr’onda che sopraggiungeva. Per un poco
Angela, che aveva buona vista, seguì la corsa di quelle spensierate,
che si trastullavano col suo mazzolino di viole.

— Sono contenta, dichiarò poi burlescamente, se non altro ora fanno
qualche cosa.

Stette un poco in silenzio, poi soggiunse:

— Chi troverà il mio mazzolino di viole in alto mare, sì, che sarà
fortunato! Ma lo troverà poi qualcuno? Potrebbe essere un naufrago....

— Potrebbe essere un pesce, disse Silvio.

E perchè no? Dei pesci con un mazzolino in bocca Angela ne aveva
visti... A tavola? Appunto a tavola!

Si rise molto; poi la fanciulla appoggiò ancora la testina romantica al
parapetto e il professore gettò un braccio sull’omero di Cosimo.

— Andiamo a veder Cecchino, gli disse per distrarlo, dov’è Cecchino?

Il piccolo sguattero, insensibile alla poesia del mare, non ammirava
altro che il meraviglioso scafo e le singolari attrezzature della nave;
appena vide da lontano il suo padrone, venne a dirgli che a bordo ci
era anche la buca delle lettere.

— E che altro ci è a bordo?

Oh! tante cose; Cecchino aveva scoperto che il cuoco, per fare il
brodo, invece di gettare nel pentolone dell’acqua, una manata di sale,
vi mesceva una ramaiolata di acqua marina, e che i liquidi dell’acquaio
andavano pure direttamente in mare.

Cadeva il giorno; il disco del sole ingrossato e rovente, sospeso sul
limite estremo dell’orizzonte, era già roso dal mare; pochi minuti
dopo, di tutti i riflessi rossigni che giungevano, sull’acqua e
sull’aria, dall’uno all’altro orizzonte, non ne rimaneva più alcuno
sulle onde; nel cielo qualche cirro vagante raccoglieva ancora una
pennellata di sangue; poi si cancellarono anche quelle tinte, e solo
un bagliore, come riflesso d’incendio lontano, persistette lungamente
nell’aria. A levante l’azzurro si era oscurato, e il mare aveva preso
una tinta bigia uniforme. Cominciò allora la corsa scapigliata dei
delfini, che giungevano a frotte spingendo in aria zampilli di acqua e
presentando ora il dorso nero ora il grosso muso ai viaggiatori.

Angela li credette balene, e Annetta, che le si era posta accanto, non
la tolse dall’errore.

Quei monelli del mare accompagnarono un tratto la _Lombardia_, poi
mutarono gioco, si rituffarono e sparvero.

— Peccato! disse Angela.

Poco dopo era notte; la campana di quarto diede tre tocchi; un vecchio
marinaio venne a prendere il timone, in vece del suo compagno; ritto
sulla piattaforma un uomo che pareva un fantasma dava ogni tanto un
ordine entro un portavoce; i fanali di posizione salirono lentamente
in cima agli alberi. Poi fu un gran silenzio. Girando gli occhi per lo
spazio nero, Angela s’avvide d’essere rimasta sola.

Allora trasse di tasca un ritratto, lo presentò al raggio del lampione
dell’albero maestro e lo guardò lungamente.

— Angela! chiamò la voce di Silvio, Angela, che fai? La notte è fredda,
soffia un po’ di tramontana... Scendiamo.

Angela nascose il ritratto e scese con suo zio.

Cosimo continuò a passeggiare sul cassero.

La gran voce del mare non gli dava ancora un consiglio.



XI.


Paurose voci brontolavano degli enigmi nell’anima del conte: ed egli
porgeva ascolto, costringendo il proprio pensiero ad una inutile
fatica. Nella sua mente, nel suo cuore, come intorno a lui, per
l’immensità dello spazio, tutto era buio. Ma ogni tanto un’immagine
usciva da quella tenebra: la bara di sua madre, chiusa là, in un
casotto di prua, non sospettata dai viaggiatori di terza classe, che ne
avrebbero forse avuto paura. E pensando alla povera donna rasserenata
dalla morte, a quel viaggio che essa aveva già fatto piena di vita e
che ora compiva indifferente, s’immaginava d’essere anch’egli entro
una bara, ma vivo, e buttato là, sopra l’ampio mare, che poteva in un
momento spalancarsi e chiudersi come una tomba.

Dei fuochi di posizione che segnalavano la _Lombardia_ ai naviganti,
delle luci pallide che annunziavano un’altra nave, affidata alle
onde, non entrava un raggio nell’anima di Cosimo. Egli andava e veniva
credendo d’invocare un’idea, ma aspettando invece un proposito. Una
volta, nel tornare dall’albero maestro al posto del timoniere, vide
sopra una panchetta un’ombra nera, che non vi aveva visto prima;
già rifaceva i suoi passi, volendo risparmiarsi un dialogo con un
viaggiatore venuto forse sopra coperta per ingannare il mal di mare,
quando sentì una voce sommessa, che lo chiamava: _Cosimo!_

— Beatrice! e fu subito dinanzi a sua moglie.

— Ti credevo addormentata, le disse, ritrovando per vecchia abitudine
l’accento bugiardo con cui aveva nascosto per tanto tempo il proprio
affanno.

— Non ho potuto chiuder occhio.

— È vero, non si può chiuder occhio, la nave scricchiola come se
dovesse sfasciarsi; eppure il mare è tranquillo, guarda.

— Non potevo staccare il pensiero da quel camerino, continuò Beatrice
senza badargli: mi sta sempre dinanzi; essa è là: ha gli occhi aperti e
pare che ci guardi nel cuore..... Ora sa tutto.....

Aveva preso il braccio del marito e lo tirava leggiermente a sè.

— Ora sa tutto, sospirò, e parve che la brezza notturna le rubasse di
bocca il sospiro e le parole; noi non possiamo ingannare che i vivi.

— Beatrice mia, che cosa dici? esclamò Cosimo, sedendo al suo fianco.

— Essa è là; ripetè la giovine donna, ha gli occhi aperti e ci guarda.

— Beatrice mia, che cosa mi vuoi dire?

— E tu, disse la contessa, abbassando la voce, tu stesso non hai nulla
da dirmi?

Un singhiozzo le uscì dal petto, e Cosimo prima di rispondere volle
baciarla in viso per sentire se piangesse.

— Non piango, disse Beatrice, prevenendo quella malizia; non temere di
me: non sono così debole come ti sembrai finora! Cosimo mio, insistè,
non hai nulla da dirmi?

Cosimo credeva di sognare; era così lontano dall’aspettarsi queste
parole, che dubitava ancora del loro vero significato.

— Che vuoi che io ti dica?... balbettò.

— Ah! Non provare ancora l’inganno; abbiamo fatto male senza volerlo,
entrambi; tu celandomi il vero, io accettando per tanto tempo questa
menzogna che ti ha torturato e mi ha offesa. Ora dimmi tutto — ti farà
bene, mi farà bene.

Tacquero. La campana di quarto sonava il solito segnale; un’ombra venne
lentamente da prua, si accostò alla bussola, scambiò qualche parola
sommessa col suo compagno, che gli cedette la ruota del timone e si
allontanò a gambe larghe con passo sicuro.

— Beatrice mia, cominciò Cosimo stringendosi al seno la compagna della
sua vita, mi perdonerai?

— Dimmi tutto.

— Beatrice mia, noi non siamo più ricchi.

— Lo so.

— Noi lottiamo da molto tempo col mondo che voleva l’apparenza del
fasto; il fallimento d’una Banca, la disonestà di alcuni capitalisti,
sui quali la nostra povera morta aveva fiducia cieca, ci ha rovinati.

— Lo so.

— Io vado a chiedere alla terra di mio padre una tomba per la contessa
Rodriguez, e il pane del lavoro.

— Lo so, disse Beatrice; grazie... ora sono contenta... Sta zitto,
ordinò, credendo che egli volesse parlare ancora; non mi dire più
nulla.

— Mi perdoni? chiese Cosimo.

— Io sono felice, mormorò la giovane donna... sta zitto.

Rimasero un poco colle mani allacciate, stretti l’uno all’altro; nel
fondo nero brillava la luce d’un faro, e per i mobili solchi del mare
correva una parola d’amore.

A Cosimo, che sebbene umiliato per non aver saputo leggere nell’animo
di sua moglie, era felice oltre ogni suo desiderio, quel silenzio
pesava; ed egli tentò più volte di romperlo, ma ogni volta Beatrice gli
strinse la mano per raccomandargli di tacere; e Cosimo taceva un poco
volendo rispettare quel capriccio, poi ritentava.

— Non voglio, disse in ultimo con forza, non voglio che tu creda il
disastro peggiore di quello che è veramente; tu devi sapere che cosa ci
proponiamo di fare. Quando saremo in Sardegna...

— Quando saremo in Sardegna, interruppe Beatrice, ritrovando il suo
accento scherzoso d’una volta, me ne parlerai. Oggi non volevo da te,
altro che la confidenza; mi darai il conforto più tardi.

Cosimo baciò in fronte sua moglie, ed accettò il proprio castigo.
Veramente egli non aveva ancora il diritto di far la parte di
confortatore; misurando la nuova forza che era entrata nel suo cuore,
dopo la confidenza strappatagli da quella donnina senza giudizio, egli
vedeva la debolezza della propria natura, e sentiva che fra loro due,
le parti dovrebbero essere in avvenire così divise: a lui il lavoro
inquieto del pensiero e del braccio, a Beatrice la vigilanza serena del
cuore.


Cosimo quella notte stentava a pigliar sonno; sdraiato sul suo
lettuccio tenne lungamente la faccia appoggiata al vetro dello
sportello, al quale ogni tanto si affacciava un’onda curiosa; poi si
voltò sul fianco, tirò la cortina che lo separava dalla sala comune,
e fissò gli occhi sulla lampada a bilico che si dondolava e strideva,
cercando inutilmente di spegnersi. All’ultimo non seppe più stare
entro il guscio in cui si era cacciato, e ne scese per andarsi a
sdraiare sul divano che correva tutto in giro alla sala. Beatrice lo
aveva prevenuto; essa era là, sembrava dormire, ma quando suo marito,
guardandosi intorno per paura di essere colto dal cameriere, si chinò
a deporre un bacio su quella fronte serena, Beatrice, senza aprire gli
occhi, gli disse: dormo!

Allora Cosimo si buttò sul divano dirimpetto, e volle dormire ad ogni
costo. Ma il suo cervello faceva un lavorio inquieto, e il suo cuore
era pieno d’una festa tranquilla che era un peccato non guardare ad
occhi aperti. Finì col dire a sè stesso: Quando si è felici perchè
dormire? E allora dormì davvero.

Svegliandosi si trovò solo. La dolce sembianza di sua moglie, su cui
aveva fissato gli occhi prima di chiuderli al sonno, era scomparsa.
Sul suo capo si faceva un gran rumore di passi; dalle vetrate del
boccaporto scendeva una luce velata, mentre dagli sportelli laterali
entrava il vivido sole. La lampada si dibatteva ancora sebbene fosse
spenta, e Cosimo sentiva l’impressione d’essere ogni tanto strappato
dal suo giaciglio. Egli ebbe queste sensazioni senza badarvi, perchè
il suo pensiero corse subito a ricercare il tesoro abbandonato nella
notte. Per ritrovarlo intero, per sentirlo suo, gli bisognava veder
Beatrice; balzò in piedi, con due colpi di spazzola e di pettine ebbe
sbrigato la sua abbigliatura; salì sopra coperta.

Qui ferveva una grand’opera di lavatura; un marinaio gettava secchi
d’acqua marina sul ponte, e un altro dimenava come un ossesso una
robusta scopa, accompagnando l’acqua negli ombrinali per restituirla
al mare; un altro marinaio lavorava da un poco ad ottenere che una
maniglia d’ottone luccicasse come oro, e un altro, gettato bocconi
entro uno dei canotti di salvataggio, col capo sporgente e le braccia
penzoloni, metteva una pennellata di nero sopra una scrostatura della
vernice.

Cosimo vide quello spettacolo con piacere, ma tra che la _Lombardia_
beccheggiava e rullava in un modo insolito, tra che l’acqua dei secchi
gli minacciava le gambe, fece forse una ginnastica grottesca, perchè
dall’alto della piattaforma scese una risata. Era sua moglie che lo
corbellava, erano Angela e Silvio che facevano coro.

Cosimo s’affrettò a salire sulla piattaforma, ed a chiedere la sua
parte di quell’allegria.

— Amico mio, cominciò due volte stringendo le mani di Silvio.

Era tentato di confessargli: «Amico mio, io sono felice!» Ma comprese
che era inutile, perchè si vedeva chiaro; e quanto a svelargli la
scoperta fatta nel cuore di sua moglie, al momento di cedere alla
tentazione, resistette eroicamente.

Non gli spiaceva, dopo aver messo un segreto fra sè e sua moglie,
facendo complice l’amicizia, vendicare ora l’amore.

Beatrice lo comprese, e lo ringraziò con un’occhiata.

Si era già entrati nelle tormentose bocche di Bonifacio, e i
passeggieri giravano l’occhio di qua e di là, all’annunzio d’ogni nuova
secca che veniva dato dal secondo. — Ecco Santa Maria; ecco il Cavallo.
— Quello? no, da quest’altra parte. — Ed ecco Lazzoli, ed ecco Lavezzi.
— Il cannocchiale del secondo era preso, restituito e ripreso ogni
momento; un gabbiano, che si alzò dalle scogliere e corse rasente le
onde, venne salutato con esclamazioni vivaci, finchè non si perdette
nell’orizzonte.

Erano tutti lieti, ma più di tutti Cosimo, sulla cui faccia Silvio
veniva decifrando a stento i segni d’una contentezza della quale non
poteva indovinare la cagione.

Angela aveva ripreso i suoi dodici anni, e porgeva spensieratamente la
faccia ad una brezzolina, che le scompigliava i capelli e le faceva
tremare i ricciolini d’oro della fronte e del collo. Annetta metteva
ogni tanto dei piccoli gridi d’uccelletto spaurito, che facevano
voltare i passeggieri. Gran Dio! Essa vedeva laggiù, laggiù, nel mare
alto, un corpo nero che si dondolava; un cadavere forse — o almeno la
reliquia d’una nave naufragata — oppure un mostro marino... Ma no, era
un gavitello.

Beatrice non rideva ancora, come in passato, ma aveva nell’occhio una
luce serena; essa guardava innanzi a sè, alle coste dell’isola che si
disegnavano in distanza, e verso cui la nave pareva correre a balzi
lunghi, ora che il mare era alquanto agitato.

Mancava Cecchino. Il poveretto, solo della brigata, pativa il mal di
mare e giaceva pallido e sbattuto sopra un mucchio di cordami.

Lo si vedeva seguire senza sorrisi le smorfie grottesche di due
saltimbanchi, che davano ai loro compagni di viaggio una mostra
gratuita della loro abilità, accaparrando gli applausi per una prossima
rappresentazione. Uno di costoro specialmente destava l’ammirazione,
e se la meritava. Era alto un metro, e sopra due gambe corte e polpute
faceva ballonzolare una ventraia inverisimile ed un testone massiccio;
non pareva avesse petto e forse non aveva collo; coperto di una
maglia rosea e coi calzoncini serrati alle cosce, doveva offrire uno
spettacolo bizzarro.

Pure quell’uomo così male architettato si mostrava contentone di sè,
perchè la sua architettura stramba era il suo pane. Mentre il suo
compagno, un giovinetto tutto nervi, lo sollevava lentamente con ambe
le braccia, gridandogli: «Battistone vogliamo andare ancora più su?
Vogliamo toccare l’aria col dito?» — la faccia di Battistone era tutta
bocca per sorridere; e quando fu giunto alla massima altezza, cioè
sugli omeri del compagno, allungò il dito «per toccar l’aria» con uno
sforzo così comico, che fu a prua una gran risata. Ma allora il suo
compagno si ritirò prontamente, e Battistone cadde in piedi, pigliando
un atteggiamento da silfide.

Lo stesso Cecchino dimenticò il mal di mare per ridere. Il nano
ricevette gli applausi del suo pubblico con mille moine, girando sopra
una gamba sola come una trottola, e s’arrestò a guardare sopra la
piattaforma di poppa. Rimase così un poco, a bocca aperta, poi salutò
sberrettandosi.

— Saluta noi, disse Angela.

E siccome Battistone continuava a salutare, la contessa Beatrice volse
gli occhi da un’altra parte, poi si scostò dal parapetto. Silvio le
stava ancora al fianco, ma suo marito era scomparso.

Due ore dopo, quando la campana chiamò i viaggiatori ad asciolvere,
Cosimo colse un momento in cui immaginava che nessuno lo vedesse e si
portò a prua. La prima persona che gli venne incontro fu il nano.

— Signor conte, gli disse, è proprio lei? Se ne ricorda ancora di
Battistone?

— Battistone, gli rispose Cosimo, che vai a fare in Sardegna?

— Vado ad Oristano, vado; sono scritturato come primo _clown_ buffo
da una compagnia equestre, che fa la _prima piazza_... Si sa, bisogna
aiutarsi a vicenda; è un amico che ha fatto qualche risparmio, il
signor Alfonso, se lo ricorda? quello che cavalcava a dorso nudo,
un bravo ragazzo; ora ha messo su compagnia e cavalli; lavora in una
baracca di legno, ma fa quattrini! Gli mancavano due _clowns_, si è
ricordato di me, e mi ha scritto; ho preso meco un altro bravo ragazzo,
e sono qua. E dica un poco, lo sa che la Cesira ha fatto una caduta ed
è rimasta zoppa? Sicuro, ha dovuto rinunziare all’_arte_; dicono però
che ci abbia uno che la soccorre...

— Battistone, interruppe Cosimo, buona fortuna!

— Grazie; e dica un poco, lo sa che la Cesira ha avuto una bimba?
Sicuro ha avuto una bimba, che è nell’_arte_, e _lavora_ anche bene...

— Battistone, interruppe il conte un’altra volta, bisogna dimenticare
il tempo passato.

Battistone alzò il capo a guardare il conte, e lo chinò subito per dir
di sì. Il conte gli aveva messo in mano un fogliolino, che spiegava
ogni cosa.

Il conte Cosimo scese subito a raggiungere i compagni. Erano tutti a
mensa, mancava Beatrice.

— Eccomi! annunziò essa allegramente venendo alle spalle del marito.
Sono ripassati i delfini.


— Ecco Castelsardo! annunzia una voce. E i passeggieri di poppa si
radunano a bordo a guardare quel nido umano costrutto sopra una rupe,
d’onde una razza forte, posta come a sentinella dell’isola, sembra
chiedere al mare inquieto i destini della povera abbandonata.

Castelsardo, colle sue case bigie, che si alzano una alle spalle
dell’altra, per vedere chi giunge da altri mondi, ferma per un poco
l’attenzione; poi il crocchio dei passeggieri si discioglie e si
sparpaglia in cerca d’altre vedute. «Quella è l’isola dell’Asinara,
annuncia una voce, e quei monti laggiù sono la Nurra.»

Ma Angela e suo zio non istaccano gli occhi dal paesello che si
allontana. È entrata nel cuore di Silvio una specie di tenerezza
filiale per la terra che lo ha visto nascere; gli si riapre dinanzi
alla mente il vecchio libro della sua gioventù; guardando quel greppo
povero e forte, attraverso un velo di lagrime che non sgorgheranno,
gli si avventano al cuore memorie dolci e crudeli. Ecco il castello
diroccato, nei cui androni scoperchiati egli dava la caccia alle
lucertole, e tendeva le trappole ai gufi; ecco la campagna verde, per
cui s’aggirava collo schioppo armato, abile e pronto cacciatore egli
pure quanto suo fratello, ed ecco il greto sassoso dove scendeva a far
bottino di conchiglie.

Il velo che gli sta dinanzi agli occhi si oscura sempre più, e
Castelsardo si allontana; ma Silvio non piangerà.

— Zio, gli dice Angela con voce rotta, qual’è la casa nostra? Si vede
di qua?

E Silvio cerca la sua casa abbandonata, ma non la trova.

— Di qua non si vede, risponde. Si vergogna di dire che non è sicuro di
riconoscerla.

Castelsardo non è più che una macchia bigia, e la gran madre comune
apre il suo seno ai viaggiatori.

Quelle linee mutevoli delle coste, quei monti che si affacciano da
lontano, tutto parla un dolce rimprovero al cuore di Silvio. Perchè
ha egli abbandonato una terra infelice, che ha bisogno dei suoi figli
migliori?

Intanto Cosimo e Beatrice, ritti dinanzi al parapetto, colle mani
strette in un patto amoroso, fissano gli occhi nella costa che viene
incontro alla nave; Angela voltando le spalle alla prua, si ostina
invece a guardare un punto bigio che si va perdendo; Annetta ha già
messo il cappellino col velo verde, che si tende e si dibatte sotto
la brezza; e Cecchino, non ancora ucciso dal mal di mare, guardando a
terra con occhi imbambolati, pensa senza ribrezzo, quasi con desiderio,
alla sepoltura che aspetta la contessa Veronica.

— Porto Torres! dice una voce.

I viaggiatori impazienti hanno già portato su le piccole valigie, e
curvi sulla gran bocca della stiva, additano ai marinai le parti sparse
dei loro bagagli.

Alcuni viaggiatori di terza classe, contadini toscani, pallidi e magri,
colle loro donne cenciose, col loro fardelletto ravvolto in un sacco o
in una pezzuola, stanno dinanzi alle scale che saranno abbassate fra
poco; e Battistone portato sugli omeri del suo compagno, nel fare un
ultimo giro sul cassero, incontra gli sguardi del conte Cosimo, come se
non l’avesse mai conosciuto.

— Vogliamo andare più su, Battistone, vogliamo toccare l’aria col dito?

— Porto Torres! ripete un’altra voce.

— O patria mia! mormora Silvio, e non sa dir altro.


  FINE DELLA PRIMA PARTE.



PARTE SECONDA.

I.


Andando in Sardegna per chiedere alla terra di suo padre una tomba e
un avvenire, il conte Rodriguez non solo non si era fatto illusioni,
ma aveva immaginato cose nere. L’anima sua, debole quando era
abbandonata a sè stessa, fortissima se la confortava la parola o lo
sguardo d’una persona cara, si era preparata a resistere e a cozzare;
a resistere contro l’umiliazione, a cozzare contro il pregiudizio
e l’inerzia. Nell’ultima ora, entrando nel misero porto dell’antica
Torres, attraversando le vie rotte, disuguali e fangose, e poi la landa
malsana, che si stende alle spalle della città turrita, come una piaga
maligna, egli aveva raccomandato a sua moglie di non affrettarsi a
giudicare l’isola da quelle promesse, e le aveva annunziato da lontano
i primi ulivi, che cingono come una fascia il territorio di Sassari,
ed arrestano l’insidia della landa. Ma Beatrice era salda; in Porto
Torres essa aveva ammirato il Palazzo del Re Barbaro, le colonne e la
travatura del tetto di San Gavino, chiudendo gli occhi al resto, e di
poi non si era sgomentata alla vista della campagna nuda, ed aveva
salutato con festa il primo _nuraghe_. E solo quando si era trovata
in mezzo agli ulivi, e aveva visto serpeggiare qua e là, sul terreno
generoso, i sarmenti della vite, e stendersi i campi verdeggianti di
biade, solo allora aveva confessato di aver avuto un po’ di sgomento.

— Ora sono contenta, aveva detto, questa campagna melanconica mi piace;
se i vostri ulivi riesciranno a temperare le tinte chiassose del mio
umore, dovranno esser bravi; vedrai che saremo felici.

— Vedrai che saremo felici! aveva risposto Cosimo con baldanza: io
porterò la mia sventura a testa alta; e se avranno l’aria di chiedermi
conto delle ricchezze de’ miei morti... io domanderò loro che cosa
fanno del tempo, che è la ricchezza della gente viva.

Un po’ sul serio, ma con accento di celia, Beatrice gli aveva detto:
_bravo!_ poi aveva chiesto chi mai voleva che si occupasse dei fatti
loro.

Ah! Beatrice non sapeva che agonia sarebbe stata giungere impreparati
agli sguardi curiosi, alle interrogazioni maligne, alle compassioni
crudeli della gente oziosa, che in una piccola città non manca mai.
Ma per sua fortuna, Cosimo esagerava le difficoltà di quel cimento, e
portava seco la malìa che doveva renderlo invulnerabile: viaggiava con
sua madre morta.

Si sa; non fa viaggiare un cadavere chi vuole; la locomozione per
terra e per mare è un lusso che pochi morti si possono permettere. E
poi, se le ipoteche e le vendite avevano aperto gli occhi alla gente,
se in Sorso ed in Ploaghe nessuno più credeva al milione di casa
Rodriguez, bastava la semplice venuta del conte Cosimo a guadagnargli
nuove simpatie. Giudicando così, a lume di naso, qualche maligno
aveva sentenziato che la casa Rodriguez era spacciata come tante
altre della vecchia nobiltà, e che il conte Cosimo non avrebbe più
osato rimettere il piede in Sardegna; e invece egli vi tornava come un
trionfatore col suo seguito di vivi e di morti! La sera stessa del suo
arrivo a Sassari, nei caffè e nello farmacie, più d’uno, commentando
quell’avvenimento, aveva notato accortamente che non bisognava credere
tutto quello che si diceva della casa Rodriguez; e quando il giorno
dopo la contessa Veronica fu seppellita nel cimitero di Sassari, fra i
cipressi che tenevano luogo della palma, inutilmente desiderata dalla
povera morta, molti biglietti di visita vennero a dire al conte che la
nobiltà sassarese era sorda alle dicerie maligne. Così dove Cosimo si
aspettava la compassione falsa, non trovò che una curiosità inquieta.
Un Ploaghese, che aveva comperato gran parte dei terreni dell’antico
feudo Rodriguez, era venuto colla diligenza a Sassari, per _vedere un
poco_; ma, poveretto! aveva visto tanto poco, che era quasi nulla.

Aiutato da Silvio, il conte, dopo una breve sosta nel principale
albergo di Sassari, aveva preso a pigione una casina tra la città e la
campagna, sul viale del Molino a vento, una casina piccola e bianca,
non ancora raggiunta dal grosso dell’abitato; e appena erano arrivati
i mobili scampati all’artiglio del Cilecca, il conte li aveva fatti
disporre in modo che a sua moglie potesse qualche volta sembrare di non
aver abbandonato il quartierino di Milano.

Angela e Beatrice avevano chiesto d’esser lasciate l’una all’altra, e
Silvio aveva acconsentito di buon grado, perchè ciò gli risparmiava il
pensiero di metter su casa in Sassari, e gli permetteva di stare gran
parte del giorno in campagna.

Tutto codesto, fatto con giudizio, ma senza grettezze, era già sembrato
magnifico a chi guardava la casina della strada, senza potervi entrare;
fu ancora meglio quando si seppe che Silvio Boni e il conte Cosimo
avevano comperato, a breve distanza dal Molino a vento, tutta una
vallata splendida e insidiosa, che dopo aver buttato sul lastrico di
Sassari cinque proprietari legittimi, aspettava da un anno, sotto la
protezione del conservatore delle ipoteche, il corbello che volesse
fare la mezza dozzina giusta.

La compera era stata fatta con regolare contratto notarile, e col
pagamento immediato di quarantamila lire tonde. Quarantamila lire non
erano molte, poichè la vallata era ampia, e comprendeva i due versanti
della collina, per un’estensione di territorio che l’occhio stentava ad
abbracciare; ma messe lì, sul tavolino d’un notaio, una sull’altra, in
biglietti puliti della Banca Nazionale, avevano fatto una figura che si
stenta ad immaginare, quando non si ha vissuto in una città agricola,
dove, i più ricchi proprietari, quelli che possono viaggiare un giorno
intero a cavallo nei propri poderi, tante volte non sanno dove metter
le mani, per trovare poche migliaia di franchi.

E che diamine voleva fare il conto Cosimo, di quella vallata, che
richiedeva una coltura grande per fruttare poco più di nulla? Ciccio
Maria, il vecchio Ciccio Maria, che aveva cominciato zappando a
giornata i campi degli altri ed ora faceva il cittadino possidente,
senza smettere la berretta lunga e i calzoni a campana; Ciccio Maria,
il famoso Ciccio Maria che aveva sulle dita il conto delle piante
d’ulivo e dei ceppi di vite d’ogni podere del territorio, diceva chiaro
a chi lo voleva intendere (e ce n’era sempre qualcuno) che il negozio
del conte Cosimo e del _professore_ era una rovina.

— Statemi a sentire, compare Baingio, diceva; la vallata maledetta io
la conosco come la palma della mia mano; entrando, ci è l’oliveto; è
piantato in terreno buono, asciutto, calcinoso; ma è vecchio; vi sono
piante là dentro che non fruttano più che pei tordi; erano ottocento ai
miei tempi, il temporale di tre anni fa ne ha spezzato una trentina;
i proprietari che vi si sono rovinati ne hanno tagliato altrettante,
per far legna da ardere; facciamo un conto tondo e diciamo settecento
alberi di ulivo, vecchi e un po’ malandati. — Va bene? compare
Leonardo?

— Va benone.

— Andiamo innanzi, compare Baingio; dopo l’oliveto, vi è la casa;
di questa non me ne intendo, ma si sa che è stata una pazzia di Don
Antonio Mela; una casa grande, a due piani, con troppe stanze tutte
tappezzate e il bagno... il bagno!... cose da manicomio. Il tetto avrà
bisogno di riparazioni, ci sarà qualche trave da cambiare, lasciamo
stare... s’ingegnerà il _professore_. Poi vi è una gran vasca d’acqua;
il _professore_ vi metterà dei pesci rossi, immagino; poi ci è il
giardino, colle due palme secolari, gli oleandri, le rose arboree, e
tante altre belle cose che danno da fare al giardiniere, e non fruttano
un soldo; e poi comincia la vigna; anche qui le piante sono vecchie,
rare, il terreno cede ad ogni pioggia e mette le radici a nudo; il
_professore_ rincalzerà le viti e dirà al terreno di non andarsene
alla vallata. Del piano della vallata non ci è nulla a dire; il grano
e l’orzo vi vengono su bene, l’ortaglia ha dell’acqua fin troppa; e
il frutteto dà delle frutta saporite, se però un vento di levante non
infila la gola una bella mattina, e soffia la fioritura sotto il naso
del _professore_. Dico bene, compare Leonardo?

Ottenuta l’approvazione di compare Baingio e di compare Leonardo,
Ciccio Maria lasciava il piano della vallata maledetta e saliva il
versante opposto, che era tutto un bosco di olivastri, di faggi e di
pini, in cui correva il muricciuolo di cinta; faceva il conto della
rendita che poteva dare un taglio giudizioso, e finiva col conchiudere
che gli dispiaceva per il conte Cosimo, il quale aveva fatto una
corbelleria, senza averne colpa, ma che quanto al professore, non
avrebbe che il fatto suo.

Compare Leonardo gli dava ragione, compare Baingio non gli dava torto,
e Ciccio Maria si tappava la bocca colla mano per annunziare che non
aveva più nulla da dire, o che non voleva dire più nulla. Non bisognava
però dimenticare l’acqua sorgente, che stillava da una rupe e mandava,
per vie palesi e nascoste, un ruscelletto alla pianura. Il ruscelletto
era pigro e si indugiava qua e là facendo pozzanghere, da cui nel mese
di agosto si alzavano le zanzare e le terzane.

Ciccio Maria era convinto di quel che diceva, ma parlando del
_professore_ Silvio, obbediva ad un segreto istinto di ribellione,
e diventava maligno. Che cosa gli aveva fatto il povero Silvio? Era
andato al continente a studiare il modo di coltivare la terra, ed era
tornato a Sassari _professore_, il che significa: coll’opinione di aver
molto da insegnare ai vecchi zappatori di Porta Sant’Antonio.

Così almeno si diceva, e finchè il professore non fosse andato a
smentire questa diceria, domandando consiglio a Ciccio Maria, non
isperasse mai di essere assolto.

Ma questa buona idea a Silvio non era ancora venuta. Egli andava
e tornava periodicamente da Sassari a Castelsardo, da Sassari alla
«vallata maledetta,» da Sassari a Muros, come un’anima in pena, senza
che nessuno potesse indovinare perchè; ma fino a Ciccio Maria non si
era spinto ancora.

Il conte Cosimo intanto viaggiava anche lui; era andato a Ploaghe,
era andato a Florinas, colla giovine sposa e con Angela, aveva fatto
un’apparizione fuggitiva nel palazzo vuoto dei De Nardi, un’altra nella
casa di suo padre, tanto per far sapere che avendo affittato le poche
terre che gli rimanevano, non era sua intenzione di venderle per pochi
quattrini, come si sperava; aveva tolto di mezzo o addormentato qualche
creditore, cancellata qualche ipoteca. Così assestate alla meglio le
proprie faccende, aveva detto a Beatrice: — Abbiamo cinquemila lire
di rendita, una campagna che, per bocca di Silvio, ci promette più
d’altrettanto, e i frutti della tua dote.

Di questa dote non si era mai parlato, e Beatrice si fece rossa di
piacere, vedendo per la prima volta che essa era utile, e che suo
marito non si vergognava di confessarlo. E fu lieta che si mostrasse
un altro aspetto dell’indole generosa di Cosimo, il quale, se peccava
di debolezza quando aveva timore di affliggere gli altri, non conosceva
nessuno di quegli scrupoli che offendono il matrimonio colle sembianze
del decoro.

— Quanto sono felice! aveva detto la povera donnina.

— Davvero?

— Sì, davvero, sono felice di vivere in questa isola, che è una grande
decaduta come noi, con questi Sardi semplici e fieri, nella mia casina
che è un ninnolo, nella nostra campagna che è un paradiso.

Una volta, durante l’assenza di Silvio, Cosimo aveva chiamato a
consulto Beatrice ed Angela per fare una cosa seria: ribattezzare il
podere acquistato.

— Come si chiama ora? — aveva chiesto Angela.

— Lo chiamano la _Valle maledetta_, oppure la Valle indiavolata.

— Chiamiamolo il _Paradiso_ — aveva suggerito la fanciulla.

— Chiamiamolo _Valle Angelica_!

— Chiamiamolo _Valle Beatrice_!

— Chiamiamolo _Speranza nostra_! — disse Beatrice gravemente.

— Dove hai preso questo nome? domandò Angela, dove hai preso questa
gravità?

— In una barca di contrabbandieri, rispose la contessa guardando suo
marito in faccia — e soggiunse allegramente: il battesimo s’intende,
non la gravità; questa te la immagini tu, bambina mia.

Silvio, ritornando, avea trovato il podere ribattezzato, ed aveva detto
egli pure cogli altri: «chiamiamolo _Speranza nostra_!»

Ma non era allegro Silvio! Egli combatteva, con un’operosità inquieta,
il lavoro segreto d’un tarlo che gli rodeva il cuore; ma, in verità,
non era punto allegro Silvio.

Alla fanciulla che gli chiedeva: «zio, che cos’hai?» rispondeva con una
carezza; a Beatrice ed a Cosimo rispondeva che non era riuscito ancora
ad avere notizie di Giorgio.

Che cosa rispondeva a sè stesso?



II.


Per assestare tutte le faccende del suo padrone, e le proprie, Ambrogio
aveva dovuto trattenersi in Milano più di quanto immaginava; però
arrivava in Sardegna colla coscienza pulita, perchè era riuscito in una
sua idea, piccolina ma bella: appigionare cioè l’appartamento della
contessa e il quartierino del conte già pagati sino a San Michele,
intascando duemila lirette. Nel pagare i vecchi debituzzi egli aveva
poi adoperato così ingegnosamente, che, senza far torto al conte
Rodriguez, riportava in Sardegna parecchie centinaia di lire d’avanzo,
oltre i conti saldati.

Riportava qualche cosa di più ancora, qualche cosa che doveva riuscire
una magnifica improvvisata, riportava il cocchiere e il cuoco, i quali,
a forza di sentirsi dire che la Sardegna è un paese dove quanti vi
sono arrivati da lontano colle maniche della camicia rimboccate fino
al gomito, si sono arricchiti in pochi anni, non avevano voluto perdere
questa buona occasione.

Si sarebbe arricchito in Sardegna tanto volontieri anche Francesco,
e anche Stefano lo stalliere, ma avevano entrambi l’amorosa a cui da
poche settimane soltanto avevano giurato di essere fedeli eternamente.
— Chi sa?.... forse più tardi... Dicevano proprio così quei malandrini!

Quando, preceduti da Cecchino, che era andato incontro ad Ambrogio fino
a Porto Torres, fecero il loro ingresso nella casina bianca del Molino
a vento il cuoco Giovanni ed il cocchiere Pantaleo, parve al conte
Cosimo di ritrovare tutto sè stesso, e nell’affetto dei suoi vecchi
servi vide una promessa.

Egli afferrò loro le mani e le strinse forte; e fu bello veder
Giovanni, il cuoco, uscire da quella stretta colle lagrime agli occhi,
e brancicare il panciotto come se cercasse il grembiale bianco del suo
ministero, per nascondervi la propria commozione.

— Il signor conte, diss’egli con voce rauca, ci aveva licenziati dal
suo servizio, ma non ci aveva proibito di venire in Sardegna; non
abbiamo creduto di far male.

Il conte dovette rassicurarli, protestando che avevano fatto benone.

— Qui c’è posto per tutti, disse.

— così ci ha detto Ambrogio, entrò a dire Pantaleo; in Sardegna, ci
ha detto, basta andarvi colle maniche della camicia rimboccate sino
al gomito, per afferrar la fortuna; in Milano erano trent’anni che
rimboccavo le maniche della camicia sino al gomito, e la fortuna non si
era ancora fatta vedere!

— Nemmeno da lontano, confermò il cuoco.

Quel giorno fu festa nella casina bianca.

Giovanni, impaziente di mettersi all’opera per arricchire, invase la
cucina, dichiarando che il suo padrone doveva riconoscere a tavola la
presenza dell’antico cuoco; e Cecchino, che aspettando di meglio ne
aveva occupate le funzioni, sopportò allegramente quel sopruso e fece
la sua vecchia parte di sguattero, ridendone forse troppo, ma senza
ombra di rancore.

E bisognava vedere Annetta, seduta al posto d’onore, nella mensa di
cucina, quando i padroni ebbero desinato; e bisognava sentire Pantaleo
che le stava al fianco parlandole di Milano, di Francesco e di Stefano,
e delle loro innamorate, per comprendere quante cose può dire una brava
servetta stando zitta, e quante ne può dire un cocchiere felice, quando
il dovere non lo inchioda a cassetta. — Giovanni intanto, cedendo alla
spinta del vino generoso, scendeva dal piedestallo su cui l’aveva messo
la sua pratica culinaria, per trattare famigliarmente con Cecchino.

Sì, fu un bel giorno quello; ma i giorni come quelli non spuntano tutte
le mattine, come fece osservare giudiziosamente Ambrogio; il domani
Giovanni e Pantaleo si preparavano ad andare in cerca della fortuna,
quando il professor Silvio fece loro una proposta.

— Che cosa volete fare? chiese.

— Non sappiamo, risposero.

— Lo so io, rispose Silvio; a te Giovanni la vita del campagnuolo
piace di sicuro: invigilare il lavoro dei campi, custodire il bestiame,
far mungere le vacche alla tua presenza; tutte queste cose ti vanno a
genio, confessalo.

— Lo confesso, dichiarò Giovanni, ma non capisco...

— E tu, Pantaleo, se avessi a tua disposizione un carro, un biroccino
e due buoni cavalli, e potessi fare, oggi il carradore, domani il
vetturino, e tutto l’anno andare e venire da un luogo all’altro,
saresti contento; negalo se puoi.

Pantaleo non potè negare, ma non capiva nemmeno lui; e allora Silvio
spiegò la sua idea. Giovanni, se volesse, andrebbe a stare nel podere
_Speranza nostra_, avrebbe, nella casa, una bella camera al secondo
piano; Pantaleo abiterebbe una stanza vicina; si terrebbero compagnia
finchè, un poco alla volta, il fondo non si popolasse di coloni. Di
giorno Pantaleo andrebbe col carro a caricare olive o uva, secondo lo
stagioni, a Sassari, a Sorso; e _Speranza nostra_ farebbe l’olio più
puro, e il vino più squisito di tutto il Logudoro. Punto salario; ma
Pantaleo e Giovanni, oltre che mantenuti ed alloggiati, avrebbero una
parte degli utili dell’impresa.

L’idea allettatrice fece gongolare Giovanni e Pantaleo, ai quali pareva
già che la Sardegna cominciasse a mantenere più di quanto Ambrogio
aveva promesso; quando poi videro _Speranza nostra_, e compresero
all’ingrosso le trasformazioni che quel piccolo paradiso doveva fare in
meno d’un anno, la contentezza divenne entusiasmo.

— Pantaleo, diceva il cuoco, piantandosi in osservazione dinanzi al
finestrino tondo della sua camera. Pantaleo, avevi tu sognato mai
qualche cosa di simile? Osserva tutta questa bella campagna giù giù
fino alla valle, poi quei prati, dall’altra parte quei boschi....
osserva questi olivi, quegli aranci, quei melagrani, osserva quelle
palme con quei grappoli di datteri appesi in alto, come negli alberi
di cuccagna.... osserva lì... osserva là; Pantaleo, tu che sogni ogni
notte, hai fatto mai un sogno così bello?

È a credere che Pantaleo, sognando ogni notte, avesse visto anche di
meglio; ma egli non voleva mortificare, nemmeno con questa restrizione,
l’entusiasmo del suo collega, e rispondeva con un cenno del capo.

— Ma che silenzio! proseguiva Giovanni; qui dunque non ci è nessuno? è
una campagna abbandonata questa?

— Tutta la campagna è così, rispose Silvio; ancora non ho fatto
incominciare i lavori necessarii, il raccolto delle ulive non ci darà
da fare, perchè l’oliveto è povero e quest’anno non ha messo frutto.

— Ma i contadini dove sono?

— I contadini stanno in città, disse il professore con amarezza; si
fanno pagare bene per lavorar poco; come potranno mai persuadersi di
aver torto?

— Oh! bella! — i contadini stanno in città! — esclamò Giovanni; e
i cuochi in campagna! Sarà il mondo alla rovescia, ma se non altro
quegli usignuoli non canteranno la sera senza che nissuno li senta....
Ascolta, Pantaleo, come cantano bene!

Sarebbe stato bello stimolare il cuoco Giovanni, e farlo diventare
arcadico. Ma Silvio aveva altre cose per la testa, e Pantaleo era
incapace di lasciarsi pigliare da simili tentazioni.

Un’ora prima del tramonto, Silvio fece chiudere le finestre e le porte
della casa, e tutti e tre si avviarono a malincuore. Quando il cancello
di legno del muro di cinta fu chiuso, Silvio si voltò a guardare ancora
le belle arcate melanconiche che si aprivano sotto i vecchi ulivi.

Per un poco la strada, sassosa e disuguale, era incassata fra due
muriccioli che non lasciavano scorgere se non le cime degli ulivi,
il cui verde pallido aveva nell’ora del tramonto un’intonazione
soavissima. Quando il sole getta le sue ultime freccie dorate
attraverso i rami dell’alberatura, scende fra gli ulivi una pace
melanconica e dolce, che parla all’anima meglio della prateria nordica,
meglio del più splendido paesaggio tropicale.

A Giovanni, a Pantaleo, ed anche a Silvio, non piacevano i muriccioli,
che chiudono i poderi sassaresi alla vista.

— A che servono? chiedeva Giovanni; contro i ladroncelli notturni, no,
perchè anzi vi troveranno un nascondiglio e un riparo...

— Non servono a nulla, si affrettava a rispondere Silvio.

A questi muriccioli, che con una spesa relativamente enorme, non
danno in sostanza se non lo scarso benefizio d’impedire il passo a
qualche animale vagante, Silvio faceva una colpa nera. A sentir lui,
è impossibile amare una campagna che pare un cimitero, un paesaggio
tagliato a fette, su cui generalmente l’occhio non corre più di
cinquecento passi, in nissun verso, senza incontrare un muro.

E profetava così:

— Quando la campagna sassarese avrà i suoi abitanti, questi muriccioli
ridicoli cederanno il posto ad una siepe viva, o ad un fossatello,
per cui passeranno le acque operose delle sorgenti, che ora ramingano
oziando negli acquitrini; ma noi non vedremo quel giorno!

— Perchè no? esclamò Giovanni.

Il cuoco infervorato non disperava più di nulla, nemmanco di campare
gli anni di Metusalemme.

Uscendo dal sentiero, si trovarono nello stradone. Qui lo spettacolo
era più ameno; i contadini, le loro donne e i loro ragazzi si
affrettavano a drappelli verso Sassari, per giungervi prima delle
_orazioni_, a cena; erano tutti di buon umore; e quando giungeva una
brigata, pareva che si levasse un volo di passeri. Gli uomini, per lo
più sbarbati, colla zappetta buttata sull’omero, colla pipa in bocca,
passavano guardando arditamente in faccia il signor Silvio, senza
nemmeno accennare l’intenzione di toccarsi la berretta. Avevano scritto
in faccia un solo sentimento, quello dell’indipendenza, che li rendeva
simpatici anche nella loro villania; ma del pittoresco costume sardo,
essi non avevano serbato che la lunga berretta nera; invece delle uose,
dei calzoni a campana e delle brache corte di panno, essi vestivano
pantaloni e giacchette di foggie cittadinesche.

Ma quegli indumenti rattoppati o laceri o poco puliti erano per essi un
simbolo d’eguaglianza, e li portavano con decoro.

Le donne, colla pezzuola annodata sotto il mento, non avevano anch’esse
nulla che ricordasse l’antico costume sassarese; qualcuna soltanto,
e delle vecchie, conservava il busto allacciato; passavano tutte,
come i loro uomini, senza salutare la gente che non conoscevano;
alcune portavano sulla testa una corba che pareva dovesse cadere ad
ogni momento; ma mettevano il passo con tanta sicurezza che la corba
non cadeva mai. E passavano, povere e belle, povere e brutte, colla
medesima indifferenza superba, non guardando in faccia a nessuno.

Quella processione di zappatori e di raccattatrici di ulive, accompagnò
sino a casa il professore, il quale da un pezzo non vi badava, perchè
aveva fissi gli occhi a una finestra, in cui si affacciavano i volti di
Beatrice e d’Angela.

— Salute, professore!

— Salute, donna Beatrice; _signoricca_, salute.

Angela aveva riso tanto la prima volta che si era sentita chiamare
_signoricca_ dai popolani sardi, e anche questa volta lasciò cadere
dalla finestra una risata.

Appena Silvio fu entrato sotto il portico di casa, il conte lo prese
per le braccia, e lo trattenne accennando agli altri di andare innanzi.

— Che cosa ci è di nuovo? domandò il professore.

— È venuto un uomo... Ha chiesto di te; ha bisogno di parlare a te solo.

— Dov’è?

— Ha voluto rimanere celato fino al tuo arrivo; e mi ha detto che
la sua vita è nelle mie mani; l’ho chiuso nella tua camera; così ha
voluto, ecco la chiave.

— Giorgio! mormorò Silvio impallidendo.

— No; è piccolo e vecchio.

— _Su Mazzone!_



III.


_Su Mazzone_ aspettava da un’ora, doveva essere inquieto, portava
certamente una parola di Giorgio; tutto ciò consigliava di correre
subito incontro a lui; ma la prudenza suggeriva il contrario. Beatrice
ed Angela avevano visto arrivare Silvio, e i servi nulla sapevano
della presenza del bandito; prima bisognava salutare le signore, e
allontanare i curiosi.

Fu una faccenda spiccia che il professore sbrigò con una disinvoltura
nervosa; egli mandò Pantaleo e Cecchino in due diversi punti della
città a far qualche cosa inutile, lasciando Giovanni solo in cucina,
coll’intera responsabilità dei fornelli, Ambrogio ed Annetta nella
sala da pranzo ad apparecchiare per la cena. Stringendo la mano
della contessa, e guardandola negli occhi, Silvio vi lesse, come si
aspettava, che essa era informata di tutto; poco badò alla fanciulla,
che guardava lui fisso, in quella sua maniera ingenua ed estatica,
con cui era opinione di Silvio e d’altri che dovesse appiccare gli
incendi amorosi — chiese licenza di allontanarsi un momentino, ed andò
deliberatamente fin sull’uscio della sua camera. Ma qui, s’arrestò
commosso.

Era dunque là quell’uomo formidabile, la cui vita veniva da dodici
anni offerta come un premio a chi la volesse pigliare! Silvio se lo
ricordava benissimo, il furbo pastore della sua casa; lo vedeva ancora
piantato sul suo cavallino nero, col lungo archibugio a pietra focaia,
allegro, audace, affezionato.

Ma rimaneva ancora un dubbio, e prima d’introdurre la chiave nella
toppa, Silvio obbedì ad un istinto, e vi accostò l’occhio per vedere
se l’uomo che si era fatto rinchiudere, abbandonando la propria libertà
nelle mani d’uno sconosciuto, era proprio _Su Mazzone_. Era lui!

Egli stava ritto dinanzi ad un tavolino, su cui aveva deposto un
libriccino lacero; guardava tranquillamente verso l’uscio, e teneva in
pugno una pistola.

— Amici! disse Silvio, in modo da essere inteso: aprì l’uscio e corse a
stringere la mano del vecchio amico della sua infanzia.

— Non sei cambiato, gli disse il bandito scostandolo da sè, ma
tenendolo per mano — ho saputo che hai letto nei libri, e che ti hanno
fatto professore; l’ho saputo e me ne sono rallegrato; ma credi a me,
ritrovarti collo stesso cuore d’una volta mi fa ancora più piacere.

Silvio non trovava parole per rispondere. Guardava il vecchio pastore,
ricercando nella faccia asciutta e nascosta da una lunga barba grigia,
il bandito famoso che da dodici anni veniva facendo la parte di
selvaggina nella caccia aperta dalla _giustizia_.

— Mi guardi, disse _Su Mazzone_ indovinando ciò che passava nella mente
del professore, mi guardi e ti domandi come può essere mai che io sia
un uomo terribile.

— Non è vero, disse Silvio ridendo.

— Sì, è vero; senti.... a te lo posso dire; non sono un uomo terribile,
ma sono un uomo che difende la propria libertà. Questa mia mano la puoi
stringere senza vergogna, perchè non ha mai fatto del male, quando non
era necessario. Se la giustizia non mi ha messo le mani addosso, non è
nemmeno perchè io sia _Su Mazzone canu_[2], come dicono, ma perchè io
sono piccolino, e la Sardegna nostra è grande. E poi, quando un uomo
vuole, è sicuro di morire libero; non mi piglieranno vivo, come è vero
Dio! Se poco fa, invece tua, fosse entrato il maresciallo, mi sarei
fatto saltare le cervella; e tutto sarebbe stato finito... Ma qualcuno
avrebbe pianto, disse, fissando gli occhi nello spazio come in un volto
amato. Tu sai perchè sono venuto? ripigliò bruscamente.

— Mio fratello?...

— È in luogo sicuro; ma non si può muovere perchè è ammalato.

— Ammalato?...

— Un poco; gli si gonfia il cuore, e lo fa soffrire; ma non dubitare,
guarirà! Conosco una donna che ha la medicina per tutti i mali. Una
volta mi entrò una palla nel fianco; andai da comare Petronilla, mi
diede un’acqua da bere, e la palla non mi fa più male; io la porto
in corpo da molti anni, scende sempre, prima era qua, ora è qua. Tuo
fratello guarirà, non dubitare — gli ho messo al collo un breve di san
Francesco, ma andrò a trovare Petronilla, e le porterò un capello di
Giorgio.

— E dov’è?

— Nello _stazzo_ d’un amico, in Gallura; ha un buon letto, il monte
Limbara dinanzi agli occhi, aria buona, buon’acqua; una povera giovine,
che mi vuol bene, lo cura come un fratello; non dubitare, Silvio, egli
guarirà. Troveremo la sua erba.

— E com’è? chiese Silvio commosso; che dice? che cosa gli è accaduto
dopo il suo ritorno? sai che eravamo come anime in pena, non vedendolo
comparire... Dimmi tutto.

_Su Mazzone_ prese la mano del professore, e cominciò con un accento di
disprezzo smentito da un sorriso di compiacenza:

— Devi sapere che ho imparato a leggere...

— Davvero?

— Tutto quello che io ti dico è la verità; _Su Mazzone_ non ha
ingannato mai nessuno, salvo le spie della giustizia, quando non se
l’è levate dai piedi in altro modo. Dunque, caro mio, ho imparato
a leggere; se ti dicessi che io _conosco_ tutte le scritture, mi
vanterei; no, non _conosco_ tutte le scritture, ma _conosco_ il
carattere a stampa, e la scrittura di tuo fratello... È per questo che
ho imparato; e imparo ancora, come vedi.

Prese sulla tavola il libriccino lacero, e lo mostrò a Silvio.

Era un sillabario spiegazzato; sulla prima pagina si vedeva scritto
malamente: _Angela Boni_.

— Questo, proseguì il bandito, è stato il primo libro di tua nipote;
essa aveva sei anni, e lo sapeva già leggere tutto; sapeva anche
scrivere; qui ha scritto lei. Vuoi che ti dica come l’ho avuto? Per
mezzo d’un servo tuo l’ho avuto, a Castelsardo, e mi è costato una
fiaschetta di polvere. Ci è a Tempio una povera ragazza, a cui la
giustizia ha ucciso il padre, che era bandito come me; essa fa la
maestra di scuola; sono andato a trovarla un giorno, e le ho detto
così: «babbo tuo era un uomo di cuore, è morto libero; io l’ho
conosciuto e gli ho voluto bene; per l’amore che gli ho portato, mi
devi insegnare a conoscere tutto quello che sta scritto in questo
libro.» E mi ha insegnato, poveretta; ogni tanto io andava in casa sua,
oppure essa veniva sulla montagna con me, perchè non le facevo paura; e
quando mi giungeva qualche lettera di Giorgio, era essa che la leggeva,
finchè non ho saputo leggere io stesso.

Maria Antonia era bella come un cuore, e non voleva prendere marito;
i Tempiesi la rispettavano, aveva molti giovinotti intorno, e di buone
case, — uno dei passati giorni è venuta sulla montagna, e mi ha detto:
«tu sei il mio secondo padre, conducimi con te; io non posso più
tornare a Tempio.» — Che hai fatto, disgraziata? — «Non so, un giovine
mi ha voluto baciare, e io l’ho colpito; ho visto il suo sangue;
conducimi via, babbo mio, se no m’arrestano, e diranno che doveva
finire così perchè sono la figlia di un bandito.»

L’ho condotta nello stazzo, ed essa è felice; guarda le pecore, legge
e scrive, ed io ho imparato in una settimana più che in tutto il tempo
passato. Ma non posso stare molto nel medesimo luogo; la sorte mia è di
andare vagando, perchè i cavalleggieri capitano ogni tanto a visitare
gli stazzi dei pastori.

— È Maria Antonia...? chiese Silvio.

— Sì, è Maria Antonia che cura tuo fratello, che gli legge dei libri
per farlo dormire... Ma non perdiamo il filo — dicevamo.. che cosa
dicevamo? che tuo fratello mi scriveva qualche volta delle lettere
lunghe. Mi diceva tutto quello che gli passava per la testa, mi
domandava notizie vostro, ed io quando non ne avevo, ne inventava per
consolarlo; mi toccava anche rimproverarlo perchè si accusava della mia
sorte, diceva che solo per colpa sua io era bandito, e mi ha perfino
minacciato di venirsi a consegnare alla giustizia per liberarmi.
Ma si è persuaso che sarebbe stato inutile, perchè dopo l’affare di
Castelsardo, di cui siamo innocenti come l’acqua del monte Limbara, tuo
fratello ed io, come è vero che il Signore ci guarda; dopo quell’affare
ho avuto la disgrazia di storpiare un brigadiere, e di uccidere una
spia. Ti assicuro che volevo far il contrario, storpiare la spia perchè
rimanesse al mondo come una lezione, e uccidere il brigadiere che
lo preferiva, ne sono sicuro, perchè era un giovinotto di cuore. Ho
perduto il filo.... Che cosa stavo dicendo?

— Dicevi che Giorgio...

— Dicevo che tuo fratello voleva venire a consegnarsi alla giustizia.
«La verità, mi scriveva, si farà strada... e i giudici sono uomini.»

— I giudici sono uomini, gli ho risposto, e la giustizia è di Dio. I
parenti del morto vivono ancora, i testimoni che ci hanno accusato nel
dibattimento ci accuseranno sempre. — Tuo fratello mi ha dato retta,
e se n’è stato laggiù, in Africa. — Poco tempo fa mi ha scritto che
non voleva morire senza rivedere sua figlia; m’informa del giorno del
suo arrivo, e io gli vado incontro lungo la spiaggia del mare. Era
dimagrato, e aveva una gran barba nera; mi ha riconosciuto, prima lui
di me; ci siamo avviati a piedi. Pareva forte, poveretto, ma ripassando
dinanzi alla vostra casa, gli si è gonfiato il cuore ed ha dovuto
appoggiarsi al muro per non cadere. Come siamo arrivati sino al bosco
non lo so; io vi aveva legato Moro, il mio cavallino nero; aspettiamo
là il tramonto; tuo fratello non ne poteva più, e non era neppur sicuro
di potersi reggere a cavallo.... ma lascia fare a _Su Mazzone_.... me
lo prendo in groppa, mi abbraccia stretto, e Moro ci porta tutta la
notte. Arrivando in luogo sicuro, Moro zoppicava perchè aveva perduto
un ferro, e tuo fratello aveva la febbre calda.

— E poi? chiese Silvio.

— Non è guarito ancora...

— E poi? insistè Silvio.

— E poi che cosa?... ah! Tutte le settimane un pastore veniva a Sassari
per vedere se vi erano lettere alla posta — finalmente la tua lettera
arriva... Dio sia lodato! Pareva che gli tornasse la salute; faceva il
conto dei giorni che mancavano alla vostra venuta, e temeva di morire
prima. E quando ha saputo che eravate in Sassari, voleva balzare dal
suo letto e correre, meschino! ma il male lo impedì; io ti giuro che lo
avrei lasciato fare; mi sarebbe mancata la forza di trattenerlo...

— Quando avete saputo? chiese Silvio.

— Lui otto giorni fa; io l’altro ieri soltanto, perchè mi avevano
avvertito di abbandonare lo stazzo per qualche giorno; gli amici
sapevano le risposte da dare ai cavalleggieri se venissero per me...

— E se venivano per lui?

— Non potevano venire per lui, perchè la giustizia l’ha dimenticato;
nessuno sa che egli sia ritornato nell’isola; nello stazzo i pastori lo
conoscono col nome di Efisio Pacis, Maria Antonia soltanto è informata
di tutto.

Silvio pensò che la stessa Maria Antonia si trovava nello stazzo per
sottrarsi alla giustizia umana, e _Su Mazzone_ gli lesse in faccia una
domanda. Sorrise maliziosamente e rispose:

— I cavalleggieri non hanno nulla da fare con Maria Antonia; il giovine
che essa ha ferito al braccio colle forbici, non ha denunciato il
fatto alla giustizia; si è medicato da sè, ed ha più voglia di prima di
baciare la mia figliuola. È un bravo ragazzo, che ha dei terreni ed una
casetta; si chiama Cicito Scano; uno di questi giorni verrà allo stazzo
a far la pace...

Si arrestò, poi soggiunse con accento melanconico: «allora Maria
Antonia tornerà a Tempio e il bandito rimarrà un’altra volta solo.»

— Al diavolo le idee nere, ripigliò dopo un breve silenzio, ora s’ha a
combinare il modo di condurre la ragazza dinanzi a suo padre, e poi me
ne vado; di qui a Logu Lentu ci è più di una mezz’ora di buon passo,
e domani prima di giorno bisogna che mi rimetta in cammino per lo
stazzo... Dov’è Angela? la posso vedere?

— Bisognerà dirlo a Cosimo, mormorò Silvio come parlando a sè stesso...

In poche parole ebbe informato il bandito dello stato delle cose;
quando disse che la fanciulla era stata tenuta al buio della sorte di
suo padre, e che ciò era sembrato necessario alla sua felicità, almeno
finchè non fosse in età di comprendere meglio la vita, _Su Mazzone_
allungò le labbra, ma non disse nulla.

Silvio a capo basso pensava.

— Fermati a cenare con noi, propose improvvisamente rialzando la testa,
dirò che sei...

— Efisio Pacis, è un nome che ha già servito e può servire ancora...

— Fermati a cenare con noi, insistè il professore.

— Grazie; Moro mi aspetta.

— Chi è Moro?

— Non te l’ho detto? è il mio cavallo; l’ho legato in un oliveto
sopra Logu Lentu... però ha la corda lunga, e a piè degli ulivi ci è
dell’erba.... _Brigadiere_ gli fa compagnia.

— Chi è _Brigadiere_?

— È il mio cagnuolo.

— Fermati a cenare con noi.

— E perchè no? esclamò il bandito allegramente; non mi tentare,
demonio, se no mi fermo.

— È cosa intesa.

— Nessuno sa chi sono?

— Togline i servi, rispose Silvio ridendo, lo sanno tutti.

— Farò paura alla piccina...

— Anche la piccina non sa nulla.

Il bandito titubava ancora; l’idea di sedere ad una mensa colla
tovaglia, di trovarsi a cena in una sala piena di luce, in faccia ad
una bella signora, di poter dimenticare nella ciancia e nel bicchiere
la propria miseria, quest’idea lo tentava. Silvio gli lesse nell’anima,
e cacciandogli una mano sotto il braccio, gli disse risolutamente: —
Ora è detta; tu rimani.

— Non è detta ancora, protestò _Su Mazzone_ facendosi rosso in viso.

— Ebbene, di’ su, presto; tu rimani.

— Com’è vero Dio, sì! Rimango! ma lascia almeno che pigli il mio
bagaglio... Non si sa mai...

Prese la pistola e il sillabario che aveva deposto sul tavolino,
intascò ogni cosa, e seguì il suo ospite.

Nell’attraversare il corridoio che menava alla sala da pranzo, dalla
cui porta vetrata usciva una luce allegra, quell’uomo temuto metteva
il passo come un fanciullone impacciato. Ma si ricompose subito;
appena entrato nella sala piena di luce, si arrestò sulla soglia
sberrettandosi, e disse con dignità: _salute a tutti e allegrie molte_.
Cosimo gli venne incontro, e il bandito gli porse la mano.

— Cena con noi, annunziò Silvio. — Bisogna aggiungere un piatto, disse
alla servetta che, invece di avvicinare le seggiole, veniva studiando
la propria parte sulla faccia dei nuovi arrivati.

Intanto che Annetta eseguiva, _Su Mazzone_ andò a porgere la mano a
Beatrice, la quale, oramai iniziata a questo rito isolano, fu pronta a
pigliarla.

— Benvenuto!

— Ben trovata! rispose il bandito, guardandola negli occhi; e la
ragazza dov’è?

Angela era nel vano d’una finestra, nascosta nell’ombra; sentendo il
proprio nome, intascò qualche cosa che aveva in mano e cacciò innanzi
il capo.

— Angela! disse _Su Mazzone_ con voce commossa.

Angela abbandonò il suo cantuccio e venne colla testa alta, col viso
audacemente bello, a porgere la mano al visitatore.

— Benvenuto! disse anch’essa; ed aveva tutta l’aria d’una donnina.

— Ben trovata! rispose il bandito; quanti anni ha? chiese voltandosi ad
interrogare Silvio.

Ma fu Angela che rispose: — Ne ho quasi tredici.

— È vero... ne hai quasi tredici; non ti ricordi più di me?

Non piaceva ad Angela sentirsi dare del tu, ma oramai si era
rassegnata; in Sardegna pareva che si fossero messi d’accordo per
mortificare la sua vanità di signorina; tutti le parlavano con questa
confidenza bizzarra.

— Aspetti, rispose senza amarezza, mi pare, ma ero tanto piccina...

— Ti ho portato in braccio; ti ho portato in groppa; disse _Su
Mazzone_, e gli tremava la voce, mentre continuava a tenere gli occhi
fissi su quel visino adolescente, che gli ricordava un vago sembiante
di donna.

— Mi sembra di vedere tua madre, disse poi, è per questo che ti guardo;
e dimmi, non me lo vuoi dare un bacio?

— Perchè no? disse Angela e scoccò un bacio sulla faccia barbuta.

— Questo non è mio, scappò detto a _Su Mazzone_, ora me ne darai uno
per me — non ho figliuoli, io, e tutti i bambini mi baciano.

— Io la bacio, protestò Angela, ma non sono una bambina.

— È vero, tu non sei una bambina... ripetè il bandito guardandola.

_Su Mazzone_ non provava più verun impaccio; sedette a mensa nel posto
che gli fu assegnato, e non si avvide neppure che, rimettendosi la
berretta in capo senza chiederne licenza alla contessa, dava scandalo a
Cecchino, il quale fu ingegnosissimo nel vendicare i suoi padroni; e ad
ogni piatto che portò in tavola, riuscì a cacciare il gomito sotto il
naso del bandito.

Era un uomo amabile _Su Mazzone_; una volta avviato a cianciare,
trovava facilmente l’aneddoto e la barzelletta; conosceva tutta la
Gallura, tutta l’Anglona e tutta l’arma dei carabinieri a piedi ed
a cavallo. Beatrice che si trovava per la prima volta a contatto con
un uomo di quella fatta, veniva stuzzicando le confidenze, per tenere
sveglio quello sgomento piacevole che si era impadronito dell’anima
sua. E _Su Mazzone_, continuando a spacciarsi per Efisio Pacis, frugava
nella propria vita per alimentare quella curiosità femminina da cui si
sentiva lusingato. Una volta gli venne sulle labbra il suo vero nome.

— _Su Mazzone_! interruppe prontamente Beatrice, ha conosciuto _Su
Mazzone_?

— Un poco, rispose il bandito con un sorriso.

— Com’è? Vuol parlarci di lui? disse la contessa.... Cecchino, guarda
che cacci il gomito nella faccia del signore.

Cecchino ritirò il gomito, ma non diede alcun indizio di pentimento.

— Ha le braccia lunghe, osservò scherzosamente il bandito, ed è un
ragazzo serio — come ti chiami?

Cecchino guardò l’audace, che lo interpellava così, e finse di non
intendere; _Su Mazzone_ gli ghermì il braccio, lo guardò fisso, e
senza cessare di sorridergli, ripetè la domanda in sardo: _comente ti
naras_? Al povero Cecchino si aprì un orizzonte in quello sguardo, e il
dialetto lugudorese commentato da quella stretta, divenne la più chiara
dello lingue.

— Cecchino! si affrettò a rispondere, Cecchino Misirolli!

Il bandito disse che Cecchino Misirolli era un bel nome, e l’ex
guattero si ritrasse in un canto giurando di vendicarsi.

— _Su Mazzone_, cominciò il bandito, è un uomo come me; piccolo,
asciutto, magro, come me; non è vero che sia terribile; non ha mai
fatto del male a nessuno; non sa che difendersi; gli piacciono le
belle donne, e se i carabinieri gli lasciassero un po’ di pace, vecchio
com’è, colla barba lunga e grigia come la mia, non andrebbe no a farsi
cappuccino, ma si piglierebbe in moglie una ragazza bella e un po’
matta...

— Perchè un po’ matta?

— Perchè per pigliarsi un marito colla barba grigia una bella ragazza
non ha bisogno d’esser savia. Non è vero forse?

Beatrice rise, dicendo che era verissimo, e così disse Cosimo; Silvio
stette zitto, ed Angela, che non istaccava gli occhi dal bandito, non
intese neppure.

La cena fu allegra. Alle frutta, fu mandata in giro la vernaccia di
Solarussa, ma il bandito vi bagnò appena le labbra, e rivolgendosi alla
padrona di casa, e sberrettandosi con una galanteria campagnuola degna
dei tempi pastorali, incominciò in versi così:

    Nadu m’ana cosas mannas
    De tua belesa e buntade...

ma mentre tutti applaudivano al commensale, che si rivelava a un tratto
improvvisatore, il poeta perdeva il filo.

— Avanti! avanti! disse Beatrice; io non ne capisco nulla, ma mi
diverto lo stesso; avanti signor Efisio!

Il falso signor Efisio sembrava in ascolto, tenendo gli occhi fissi
nella finestra.

— Quella finestra dà sulla strada? domandò tranquillamente.

— Sì.

Il bandito ascoltò ancora in mezzo ad un silenzio penoso, poi rise e
disse: mi era sembrato d’udire il latrato d’un cane...

— Non ci sono cani, annunziò Cecchino, che si era avvicinato alla
finestra; la strada è deserta.

— Grazie, Cecchino, disse il bandito, e Cecchino buon figliuolo, senti
svanire tutto il suo rancore per amor delle Muse.

Il bandito, colla berretta in una mano e il bicchiere nell’altra,
ripigliò, parlando alla contessa:

    Nadu m’ana cosas mannas
    De tua belesa e buntade....
    Como però no m’ingannas.

Furbo _Su Mazzone_! A queste parole fece seguire una sospensione
maliziosa, col pretesto di aspettare i comodi della Musa.

— Che cosa ha detto? domandò Beatrice a Silvio; e il professore spiegò:
«mi hanno detto tante cose della tua bellezza e della tua bontà; ora
però non m’inganni...»; ha detto così.

L’effetto era ottenuto; sulla faccia della contessa, _Su Mazzone_
cominciava a leggere quell’ansia penosa di chi teme che una persona
amica commetta o dica una villania; e subito proseguì con grazia:

    Chi ses bella già lu ido,
    E chi ses bona già l’isco;
    De s’oju meu mi fido!

Angela, dilettata da questa scenetta, che le risvegliava nella mente
la memoria d’un tempo in cui, bambina, assisteva alle gare dei pastori
nelle feste campagnuole, e premiava i vincitori e i vinti con un bacio,
fu la prima a battere le mani.

— E ora che cosa ha detto? domandò Beatrice a Silvio.

«Che sei bella lo vedo; che sei buona lo so; mi fido dell’occhio mio.»

— Grazie tante.

Ma _Su Mazzone_ non badava più a nulla; aveva deposto sulla mensa il
bicchiere di vernaccia, dopo avervi bagnato le labbra appena, e stava
in ascolto.

Questa volta non vi era dubbio; un cagnuolo latrava a piè della casa.

— È _Brigadiere_! disse il bandito, come parlando fra sè; si levò
da tavola tranquillamente, porse la mano alla contessa e le disse
celiando: _a nos bidere_, poi tradusse egli stesso in italiano:
_arrivederci_, baciò Angela sulla fronte, ed uscì dando un buffetto a
Cecchino, che cominciava ad ammirare quell’ometto senza saper bene il
perchè.

La fama poetica del bandito, raccomandata ad Annetta, era scesa in
cucina e nella dispensa; Ambrogio, Pantaleo e Giovanni si trovarono
per caso sul limitare dell’uscio per veder passare quell’uomo
bizzarro che nessuno aveva visto venire, e che si era trovato
improvvisamente commensale alla cena dei padroni. Annetta, attraverso
la porta d’ingresso, parlava al cagnuolo che si lamentava in istrada,
raccomandandogli di star zitto ed annunziandogli l’arrivo imminente del
suo padrone; poi si voltava al suo amico Pantaleo, per osservare che i
cani sono pieni di giudizio.

_Su Mazzone_ non era punto agitato, e neppure frettoloso; egli
trattenne, nel principio del corridoio, Cosimo e Silvio, e disse loro:

— Non abbiamo potuto combinare nulla; un bigliettino a Efisio Pacis
fermo in posta, che mi dica il giorno.

— È inutile, disse Cosimo; non bisogna ritardare; fra otto giorni.

— Giovedì venturo, confermò Silvio, saremo a Tempio, in casa di prete
Emanuele.

— Giovedì venturo a Tempio, in casa di prete Emanuele, disse il
bandito, verrà un amico a prendervi e vi accompagnerà fino allo
stazzo; io non posso venire, me ne dispiace, soggiunse celiando. _A nos
bidere._

Volle baciare Silvio, od andarsene; il professore, inquieto, si rifiutò
a quell’addio.

— Ti accompagnerò un tratto, disse; ma _Su Mazzone_ gli prese le
braccia e lo costrinse a rimanere, ripetendo: _a nos bidere_!

Fu aperto l’uscio di strada da Ambrogio, e il cagnuolo irruppe
chiassosamente nel corridoio.

— Zitto, _Brigadiere_, ordinò il bandito, e _Brigadiere_ tacque.

— _A nos bidere!_ disse il vecchio per l’ultima volta; si serrò
il cappotto ai fianchi, tirò sulla testa il cappuccio e scese
tranquillamente lo scalino che lo separava dalla strada.

Cosimo e Silvio, venuti sull’uscio, lo accompagnarono cogli occhi.

_Su Mazzone_ seguì per un breve tratto la strada deserta, col cagnuolo
attaccato ai calcagni come l’ombra del suo corpo; si arrestò dinanzi a
un muricciuolo che cingeva un terreno non ancora fabbricato, afferrò il
cagnuolo per il collo e lo buttò dall’altra parte, dopo di che scavalcò
egli stesso quella barriera.

Pochi minuti dopo il bandito era scomparso nel fondo nero della
campagna.

— Noi non sappiamo che cosa sia seguito, disse Cosimo a Silvio, ma
_egli_ pareva tranquillo e sicuro di sè; a buon conto non sarà male che
nessuno parli del commensale che abbiamo avuto a cena.

— È vero, rispose Silvio.

— Amici, disse il conte, affacciandosi alla cucina; nessuno di voi ha
visto l’uomo che se n’è andato; nessuno di voi sa che un pastore ha
cenato qui stanotte; mi raccomando.

Non disse altro, ma ce n’era d’avanzo.

Fu interrotta la lavatura dei piatti, e l’immagine di quell’omino,
tutto pelo, e niente sostanza, empì la cucina per il resto della
serata.

— Dov’è Angela? chiese Cosimo, rientrando nella sala da pranzo e
trovando Beatrice sola.

Angela era di là, nella sua cameretta bianca.

E che faceva Angela?

Ritta dinanzi alla sua scrivania, essa rileggeva furtivamente alcune
pagine scritte da lei stessa in un quaderno nuovo; quando fu giunta
al termine, guardò verso l’uscio per paura di essere veduta, trasse di
tasca e contemplò un istante una fotografia sbiadita, poi si curvò sul
quaderno, e scrisse col suo bel rondo:

«10 Maggio. — Non è lui! Il supplizio ricomincia! Dio mio! quanto
sono....»

La fiamma della candela, su cui si era curvata troppo, volle baciarle
i capelli, e Angela mandò un piccolo grido di terrore. Subito,
abbandonando il quaderno, andò col lume in mano a guardarsi nello
specchio, e riconobbe con gioia che solo un ricciolino ribelle al
pettine era stato danneggiato.

Tornò gravemente alla scrivania, scostò da sè la candela e finì la
frase incominciata:

«Dio mio! quanto sono infelice!»



IV.


Il giornale di Angela, non risaliva ad un tempo molto lontano,
tutt’altro; come confessava essa stessa nella prima pagina, aveva avuto
il torto di passare parecchi anni in collegio, senza nemmeno gettar gli
occhi sul proprio cuore. Ora le sarebbe piaciuto ritrovare giorno per
giorno le speranze colle quali era andata incontro alla delusione ed
allo sconforto, di tappa in tappa, dal primo castigo della direttrice,
alla parte recitata in una commediola morale, al romanzo letto di
nascosto, al primo sogno d’amore ed alla prima comunione! Così, per
una colpevole trascuranza, tutto si era cancellato; gioie e dolori;
e solo era in grado di poter dire all’ingrosso che le sue gioie, le
erano state _misurate avaramente_. Ma non è forse questo il retaggio
comune? domandava Angela. Sì, è questo, e la vita non è che una lotta,
nella quale bisogna vincere o morire, vincere e morire.... La morte!
oh la morte!... L’idea della tomba non faceva paura ad Angela; fin
dalla prima pagina ella era preparata a morire; aveva il presentimento
di non dovere vivere a lungo; una voce segreta l’avvertiva che il suo
destino era di non gustare neppur le poche gioie concesse agli umani.
Non importa, essa accettava la propria sorte, le andrebbe incontro
come una martire, scrivendo ogni sera nel proprio quaderno la storia
della sua giornata. E un giorno, anzi una mattina di maggio, quando
essa fosse giunta all’ultima ora, si farebbe portare al letto di morte
il segreto confidente della sua breve vita... e... Non sapeva bene che
cosa ne farebbe, ma certamente un uso che dovesse far piangere tutti
gli astanti come fontane. Dato così un saldo fondamento alla propria
determinazione, Angela voltava pagina e cominciava il proprio diario.

«_1 aprile._ Giovannina e Geltrude hanno scommesso di farmi portare il
pesce, ma io non l’ho portato; mi volevano mandare dalla direttrice
e in parlatorio, io non ci sono andata. La giornata è finita, e
Giovannina e Geltrude hanno perduta la scommessa. Ho promesso a me
stessa di scrivere la storia della mia vita; eccola:

«Io sono nata nell’isola di Sardegna, in Sassari; mia madre si chiamava
Bebbia, ma io non l’ho conosciuta; essa morì pochi giorni dopo la mia
nascita. Tutti mi hanno detto che era molto bella, che aveva gli occhi
grandi e neri, la bocca piccola. Non ho il suo ritratto, ma ricordo che
mi fu fatta vedere un’immagine che somigliava a mia madre; dicono anche
che io stessa somiglio molto a mia madre, ma come può essere se io non
sono bella?...»

Qui nel giornale di Angela seguiva una lunga fila di puntini, per
lasciar tempo al lettore di risolvere il difficile quesito, poi
l’autrice esclamava:

«Angela! povera Angela, tu sei entrata nel mondo per la porta della
sventura!....

«Mi ricordo ancora di mia nonna; anche mia nonna era bella, ma piangeva
di nascosto, e quando mi pigliava in braccio per baciarmi, io vedeva
sempre una lagrima nei suoi occhi rossi. Morì, e rimasi sola nel mondo,
collo zio Silvio, che è il fratello di mio padre.

«Mio padre! dov’è mio padre? perchè non è mai venuto ad abbracciare
la sua creatura, a darle forza di sopportare questa vita? Un terribile
mistero circonda l’esistenza dell’autore dei miei giorni. Nessuno me ne
ha mai parlato, nessuno me ne parla mai; soltanto la nonna, ogni sera
prima di andare a letto, mi diceva: «prega per il tuo povero padre che
è tanto disgraziato!» Ora che la nonna è morta, nessuno mi fa pregare
per mio padre, ma io non lo dimentico lo stesso, nelle mie orazioni.

«Signore, vi raccomando mio padre, che è tanto disgraziato, si chiama
Giorgio Boni, e va ramingando per la terra.....

«Il cuore mi assicura che mio padre non è morto; non mi fu detto
ancora: piangi, tu sei orfana! — Ma se egli è vivo, perchè non viene,
perchè non mi scrive? Ho provato ad interrogare lo zio Silvio, ma egli
non mi ha voluto rispondere; forse non mi ha creduto abbastanza grande;
ma io gli dirò che è una cosa crudele nascondere ad una figlia la sorte
del padre, e lo costringerò a dirmi tutto! L’ora dello studio è finita;
ora si va a cena e poi a letto; a domani.

«_2 aprile._ La giornata è passata senza alcun avvenimento importante.
Continuerò la storia della mia povera vita, una storia semplice, ma
che nasconde un acerbo dolore. Morta mia nonna, lo zio Silvio mi ha
condotta in Milano; noi abbiamo qui dei parenti; la zia contessa, che è
sorella di mia nonna, non mi piace; è una donna stravagante, che mi fa
sempre delle domande a cui non so che cosa rispondere. — È molto ricca,
ed ha una magnifica casa in cui andavano tutte le signore di Milano
a prendere il tè, a suonare il pianoforte e qualche volta a ballare;
ma da molto tempo non ci va più nessuno, perchè la zia contessa è
ammalata, e dicono che voglia morire. Lo zio conte è il figlio della
contessa Veronica; è un uomo che ride poco, ma è buono; mi piace;
sua moglie è la contessa Beatrice, la zia Beatrice, che però non vuol
essere chiamata nè zia nè contessa; la chiamo Bice; è la mia migliore
amica; essa ride sempre, perchè è felice, ed io.... io ho l’anima
torturata.

«Credo che Bice sappia qualche cosa di mio padre, ma forse le hanno
raccomandato di non parlarne con me.

«Geltrude e Giovannina mi hanno pagato la scommessa; Geltrude mi
ha dato una bella immagine, Giovannina mi ha dato un anellino di
argento. L’anellino è una _memoria_ d’un’altra amica; io non lo voleva
accettare, ma Giovannina mi ha detto che l’amica da cui lo ha avuto è
andata via e che non gliene importa più. Credo che anche l’immagine di
Geltrude sia una _memoria_ d’un’amica andata via.

«_3 aprile._ Oggi ho compiuto i dodici anni e sette mesi.... Cinque
mesi ancora e ne avrò tredici — età fatale! Ho un presentimento nero,
sento una voce che mi dice che a tredici anni dovrò morire! Ma perchè
penso alla morte? Sarà perchè la zia contessa sta molto male; oggi
le hanno portato il viatico; lo zio Silvio è venuto a vedermi, e mi
ha detto che non vi è speranza. — Stanotte, dicendo le mie preghiere,
bisognerà raccomandare al signore l’anima della zia contessa...

«_4 aprile_..... La zia contessa è morta; io abbandono il collegio per
andare in Sardegna; oh! padre mio! mi pare di andarti incontro; sono
sicura di riconoscerti, sebbene nessuno mi abbia mai parlato di te;
perchè il cuore non s’inganna, e poi ho il tuo ritratto.

«Ero bambina ancora, quando la nonna mi fece vedere un ritratto di mio
padre che conservava dentro un libro; morta mia nonna, io aprii il
libro, e trovai il ritratto. Da quel giorno esso non mi ha lasciato
più. Eccolo, io l’ho davanti agli occhi; lo guardo e gli chiedo il
segreto fatale che lo separa da sua figlia. — È un uomo magro, porta i
baffi e la mosca, ha gli occhi grandi; sembra pallido, ma non ne sono
sicura, perchè la fotografia è scolorita dal tempo..............

                             . . . . . . .

«_7 aprile._ (In alto mare). Sono qui fra cielo ed acqua; ma si vede
ancora una striscia di terra lontana, spero che fra poco non si vedrà
più terra da nessuna parte.

«(Più tardi). Ho dimenticato di dire che il cadavere della contessa
viaggia con noi; essa ha voluto essere sepolta in Sardegna, e noi
andiamo a seppellirla. Sono passati i delfini; hanno il muso nero
e gettano l’acqua in alto a zampilli; da un marinaio ho saputo che
sono buoni pesci, che non fanno male a nessuno. Il sole tramonta ed
ho appetito! Ho domandato ad un marinaio quand’è che non si vedrà più
terra e mi ha risposto che ne vedremo sempre. Mi dispiace. Avrei voluto
che per un’ora almeno non si vedesse che cielo ed acqua; l’ho detto
alla zia Beatrice, si è messa a ridere e mi ha dato dell’indiscreta.
Bice non comprende i miei sentimenti; è una donna diversa dalle altre;
ma è tanto buona, e ride così di gusto!... bisogna compatirla.

«_8 aprile._ Siamo a Sassari. Sono venute molte persone a salutarci,
ma _lui_ non è venuto. E pure io sento che mi sta vicino; a Porto
Torres un uomo incappucciato mi ha rivolto la parola. Non comprendevo
quello che mi diceva, perchè mi ero messa in testa che dovesse essere
mio padre. Ho poi visto che era un uomo consumato dalla febbre che mi
domandava l’elemosina. Mi sono proposta di vincere la mia commozione e
di aspettare gli avvenimenti. Sono più tranquilla, sono più rassegnata.
La mia Sardegna mi piace; i Sardi pure mi piacciono; non fanno molti
complimenti, sono piuttosto superbi; però mi chiamano _signoricca_,
e mi dicono in faccia che sono bella. Ma essi intendono che sono
apparentemente robusta. Nessuno vede quello che avviene nell’anima mia;
nessuno sa quanto io soffro, anche mentre rido; nessuno sa che ho un
tarlo qua dentro....

«_9 aprile._ Oggi lo zio Silvio è tornato da Muros di malumore; che
cosa è andato a fare a Muros? Gliel’ho chiesto e non mi ha risposto;
sono entrata all’improvviso nella sala comune dell’albergo, quando vi
erano lo zio Silvio, lo zio conte e Bice, e subito hanno taciuto; —
questi misteri m’indispettiscono; perchè mio padre non viene?»

                             . . . . . . .

Nel suo diario Angela proseguiva giorno per giorno a pigliar nota degli
avvenimenti; descriveva la nuova casa dove erano andati ad abitare
nel viale del mulino a vento; la deliziosa Valle Maledetta, le gite
a Florinas, a Ploaghe, le frequenti assenze dello zio Silvio, il suo
umore melanconico, il ritorno di Ambrogio, di Pantaleo e di Giovanni
e ogni altra cosa che le era sembrata notevole. Non risparmiava
l’esame dei proprii sentimenti; e quando era costretta a confessare
che aveva passata una giornata allegra, che in sostanza essa si
divertiva moltissimo, e che la Sardegna le aveva aperto dinanzi un
libro bizzarro, in cui bastava voltar pagina per passare da una veduta
curiosa ad una scena più curiosa; quando aveva scritto tutto ciò,
allineava alcuni puntini, e interrogava «_e pure sono io felice?_»
Domanda terribile, alla quale il più delle volte la fanciulla si
accontentava di rispondere con un’altra fila di puntini.

Colla data del 10 maggio, Angela scriveva nel suo quaderno:

«È venuto un uomo, ha chiesto dello zio conte, poi è scomparso;
sono stata alla finestra per vederlo uscire, ma non è uscito; lo zio
rientrando in sala era turbato. Che cosa succede? Se fosse mai lui...

«(Più tardi). Quell’uomo è rimasto in casa; dev’essere chiuso nella
camera di zio Silvio, ma mi manca la forza di accertarmi.

«(Più tardi). Non è lui! il supplizio ricomincia. Dio mio! quanto sono
infelice!!!»....



V.


Il viaggio a Tempio, annunziato una settimana prima, non insospettì
la fanciulla, tanto più che vi pigliavano parte Beatrice ed il conte
Cosimo. Si andava a visitare un pascolo aperto, un _salto_, per farne
acquisto; si andava per convenire col patriarca di una famiglia di
pastori, intorno al prodotto della tosatura. Quali fossero i disegni
dello zio conte e dello zio professore intorno alla lana caprina,
Angela non dimandava.

Le avevano detto che era appunto la stagione della tosatura; dunque
essa e Bice andavano per veder mugnere le pecore e cardar la lana, ed
anche per non rimaner sole.

Sino a Tempio il viaggio fatto in due biroccini non aveva offerto nulla
di singolare alle due donne, salvo la barba crescente di Pantaleo,
il quale, dacchè era uscito dalle funzioni di cocchiere cittadinesco,
aveva l’ambizione di coprirsi la faccia d’una foresta di peli per il
rimanente della sua vita mortale. Pantaleo, che da una settimana viveva
in campagna, saputo del viaggio dei signori, aveva messo innanzi le sue
buone ragioni per essere preso a cassetta e guidare la contessa e la
_signoricca_.

La sua causa giusta aveva trionfato, e per tutto il viaggio, Pantaleo
non aveva fatto che parlare al cavallo, tanto che Beatrice dichiarò di
non riconoscere più il suo Pantaleo d’una volta, quel Pantaleo che era
stato il modello dei cocchieri sbarbati e muti di Milano.

A Tempio, dove giunsero verso sera, l’aspetto severo della città di
granito, delle moli superbe del Limbara, impressionò Beatrice ed
Angela, che dichiararono d’avere fatto un viaggio felicissimo; fu
anche meglio quando seppero che non si andava all’albergo, ma bensì in
casa del parroco, e quando invece d’un oste panciuto si videro venire
incontro un pievano alto e segaligno, vero prete di montagna, che non
portava in mano il solito breviario, e guardava in faccia alla gente
con due occhietti vivaci, nascosti sotto due cespugli di peli.

Prete Emanuele disse ai suoi ospiti che la casa sua era l’unico albergo
di Tempio, in cui una signora potesse passare la notte, e che egli la
metteva tutta a disposizione dei forestieri, _dilli stragni_; si doleva
di non essere stato avvertito in tempo per dare un po’ d’ordine; però
il necessario non mancherebbe.

Il pievano, gallurese schietto, della razza superba e immaginosa dei
pastori di Limbara, sembrava fare ancora una gran fatica, dopo tanti
anni di sacerdozio, per adattarsi alla mansuetudine d’un pastore
d’anime.

Ogni stanza della sua casa parlava d’un cacciatore, non già d’un
pievano. In tutti gli angoli vi erano schioppi sardi genuini, lunghi e
colla pietra focaia, oppure schioppi sardi imbastarditi, colla canna
mozza; carabine a due colpi, pistole, pistoloni e daghe, pendevano
al capezzale d’ogni letto, accanto alle immagini della Madonna
incorniciate coi ricami delle monache.

Se non fosse stata la sottana nera che, in casa, prete Emanuele tirava
su da un lato, cacciandone un lembo sotto la cintura delle brache,
nulla avrebbe svelato in lui il reverendo. Egli non parlava latino
se non dinanzi all’altare, perchè vi era costretto dal rituale;
a quattr’occhi col padre Eterno usava quel garbatissimo dialetto
tempiese, che sfida, nell’accento aperto e dignitoso, il paragone della
parlata toscana.

Dopo una cena, fatale agli inquilini del pollaio, il pievano aprì
le camere che egli destinava agli ospiti. Ed apparvero agli occhi
sbigottiti di Beatrice e di Angela certi lettoni, posti fra cielo
e terra, ai quali bisognava dar la scalata dopo aver invocato
l’angelo custode. Prete Emanuele era un uomo discreto; a tavola
quasi non s’informava dei disegni _dilli stragni_, e quando toccò
quest’argomento, vi si arrestò così poco, da far intendere chiaro
chiaro che egli era informato abbastanza.

Ma intanto si faceva tardi; Beatrice ed Angela si erano già ritirate
in un camerone, Silvio e Cosimo si guardavano in faccia, non vedendo
comparire nessuno. Allora prete Emanuele si picchiò la fronte, e si
ricordò che la mattina era venuto Ciccito Scano a dire che, quando
arrivassero _li stragni_ del pievano, non istessero in pensiero, che
egli non sarebbe mancato il domani all’alba per andare allo stazzo.

— Vanno a visitare uno stazzo? domandò il pievano; ma senza
aspettare la risposta, annunziò che si divertirebbero perchè era
giunto il momento della tosatura delle pecore, e si doveva fare _lu
graminadojiu_.[3]

— _Lu graminadojiu?_ chiese Cosimo, tanto per dire qualche cosa.

— Già, è la cardatura delle lane, spiegò prete Emanuele; i pastori
cardano la lana, mangiando, bevendo e poetando.

Non disse altro; gli ospiti se ne andarono nelle loro camere; e
riusciti, dopo molto ridere, ad inerpicarsi sui letti, non tardarono a
dormire.

Pantaleo si era buttato sopra una stoia mezzo arrotolata, che serviva
di letto e di guanciale, come aveva visto fare ai famigli del prete,
in un gran stanzone a terreno, coi piedi cacciati quasi nella cenere
tepida d’un braciere spento; e prete Emanuele, dopo aver visitato tutta
la casa, sprangato tutti gli usci e tutte le finestre, si ritirò nella
sua camera, dove accese una lunga pipa e fumò il suo ottimo tabacco di
contrabbando.

Prima di cacciarsi sotto le lenzuola, fece anche un’altra cosa, guardò
sotto il letto, per obbedire ad una vecchia abitudine, ma con poca
speranza di trovarvi un imbecille, che fosse proprio venuto a provocare
le grosse scarpe colla fibbia, mettendosi in quella incomoda positura.
Poi salutò l’Eterno Padre con poche parole galluresi e sincere, entrò
in letto e spense il lume.

Prima dell’alba il pievano, i famigli e gli ospiti furono desti da uno
che tirava calci alla porta di casa. Era Ciccito Scano.

La vittima di Maria Antonia portava ancora la mano destra fasciata,
perchè la selvaggia fanciulla, difendendo con troppo zelo il proprio
pudore, aveva corso il rischio di guastarsi per sempre l’innamorato; ma
Ciccito Scano era allegro, e non poteva soffrire molto della ferita.
Il pievano anzi, riavvicinando i ciuffi di peli delle sopracciglia,
annunziò agli ospiti con severità canzonatoria che il povero giovine
portava ancora la mano fasciata, per pigliare la sposa col rimorso;
perchè lui, Ciccito Scano, non andava già allo stazzo per vedere la
cardatura.

— Ci vado per accompagnare i signori, protestò Ciccito Scano, ridendo.

— Anima dannata, ribattè prete Emanuele, hai da venire a confessarti! E
te la darò io la penitenza!

Intanto Ciccito Scano, aiutato dai famigli, adattava sulla groppa di
due cavallini neri la sella imbottita per le signore.

Il conte Cosimo non aveva portato mai donna in groppa, e non prometteva
nessuna sicurezza a sua moglie nè ad Angela; bisognò dunque accomodarsi
così: Ciccito Scano si prese la fanciulla, Silvio ebbe Beatrice, e
Cosimo non fece che aiutare le due amazzoni, prima di balzare in sella
egli stesso.

Stando sulla porta della sua casa, prete Emanuele salutò colla mano gli
ospiti, e i tre cavalli si avviarono di trotto.

Al rumore degli zoccoli dei cavalli sulla via sassosa, si svegliavano
gli echi nel granito della vecchia città, e facevano un frastuono da
stordire.

— Ho paura di cadere, disse Beatrice dopo un tratto di via.

— Perchè non si attacca a me? mi abbracci, è necessario.

— Perchè non me l’ha detto prima? domandò la contessa.

Perchè mai Silvio non gliel’aveva detto prima?

— Mi dia la mano destra, così... ed ora stringa pure, che non mi fa
male.

Ma sotto la stretta di quel braccio di donna, al contatto di quel
corpo leggiadro, Silvio gustava invece una dolcezza che gli faceva
male; sentiva come un alito caldo nella faccia, ed ebbe bisogno di
spingere il cavallo ad un breve galoppo, perchè l’aria mattutina gli
rinfrescasse le guance ed il cuore.

— Op! op! esclamava Beatrice pigliando gusto a quella corsa.

Cosimo e Ciccito Scano raggiunsero il professore.

— Il cavallo fa delle pazzie? domandò Ciccito.

Silvio confessò umilmente che non era il cavallo; Beatrice rise.

Dall’altipiano di Tempio, scendendo per viottole leggermente tortuose
attraverso bei vigneti, i tre cavalieri ebbero in poco tempo raggiunto
il fondo d’un valloncello, in cui scorreva un rigagnolo, povero ed
incerto tributario del Liscia; i cavalli si cacciarono senza paura
nell’acqua, ma Beatrice e Angela empirono l’aria di esclamazioni
allegre.

Ciccito Scano, che andava innanzi, ogni tanto voltava il capo gridando
il nome d’uno dei paeselli che si lasciavano alle spalle. Ecco
Agius!... dove? a sinistra sulla costa, sospeso come un nido al granito
dei contrafforti del Limbara. — E quest’altro a destra? — È Luras. —
E quel campanile quasi nascosto? — Nuchis. — E laggiù quel mucchio di
case disposte a gradinata? — Colangianus.

Tutto ciò alle spalle. In faccia, fin dove arrivava l’occhio, nessuna
traccia di paesi, ma solo una distesa continua di collinette.

Si viaggiò un gran pezzo attraverso alla natura più arcadica che sia
forse al mondo, guadando ogni tanto dei ruscelletti formati dal rapido
squagliamento delle nevi raccolte sulle più alte vette del Limbara, che
si alzavano splendenti in mezzo ai rosei vapori dell’alba.

Silvio, vinta la strana impressione che aveva avuta sentendosi
stringere dal braccio dell’amica sua, ora si godeva non visto
quell’amplesso innocente, e quando nelle chine rapide sentiva il corpo
della sua compagna pesare leggermente sopra di lui, non sentiva più il
brivido che gli aveva fatto paura, ma solamente un solletico dolce, una
leggiera ebrietà di gratitudine e di amicizia. E diventava ciarliero,
il professore, per descrivere a Beatrice, senza voltarsi, gridando le
parole al vento, la natura sassosa e feconda dei terreni galluresi,
dove cresce benissimo la vite, dove invecchiano le più belle quercie,
dove vengono su i più bei corbezzoli dell’universo.

— Corbezzoli! esclamava Beatrice; e allora diventava ardito, il
professore, fino a voltarsi a guardare la sua dama, che lo corbellava
con ingenuo vezzo, od a picchiare con un colpetto la mano bianca
aggrappata alla sua giacca.

Poi, se Cosimo, udendo ridere, si accostava, Silvio era tentato
di abbandonare le redini sul cavallo e di buttarsi nelle braccia
dell’amico, per dirgli... che cosa? Qualche cosa..... che la natura era
come una fidanzata e quel mattino di maggio come una festa nuziale.

Dopo una trottata di altre due orette, all’ingresso d’un bosco di
quercie i tre cavalieri si radunarono, e Ciccito Scano annunziò che la
selva apparteneva già alla _cussorgia_ di Alzaghena, nel cui territorio
erano compresi alcuni stazzi grandi e piccoli; fra i quali lo stazzo di
Giannandrea _il Lungo_.

Chi era Giannandrea _il Lungo_?

Ciccito Scano spiegò che Giannandrea _il Lungo_ era il capo stipite
d’una ricca famiglia di pastori, i quali vivevano insieme, uomini e
donne, in una casa grande e tutta di pietra, come ce n’erano poche
nei territori circostanti. Giannandrea era il padre di Mariangela, di
Gavino, di Maurizio, di Bastiana e di Nicoletta; i primi quattro figli
erano tutti accasati, ed avevano già figliuoli; Nicoletta soltanto,
la lunga Nicoletta, l’ultima delle figliuole, il ritratto del padre,
era ancora ragazza. Ma non doveva star molto a trovar marito; anzi, in
confidenza, Gian Martino, il più piccolo pastore della _cussorgia_,
un giovinotto temerario, a cui piacevano tutte le imprese difficili,
si era messo in capo di dar la scalata a Nicoletta; la ragazza aveva
cominciato dal ridere, ma non avrebbe riso un pezzo, perchè si sa,
l’uomo non si misura col palmo.

Si entrò nel bosco, dicendo quasi addio alla luce, tanto era fitta
l’alberatura, tanto erano frondosi i rami; sotto i piedi dei cavalli si
levavano lepri e volpi, e Ciccito Scano avrebbe volentieri scaricato
lo schioppo, se la prima carezza della sua futura sposa non lo avesse
ridotto nella condizione di dover lasciare a casa le armi e viaggiare
come un seminarista.

Angela ne fu lieta e non nascose la propria contentezza; le pareva che
se Ciccito Scano avesse dovuto tirare schioppettate contro le lepri o
le volpi, essa, stando a cavallo, sarebbe stata imbarazzata a turarsi
le orecchie colle dita senza abbandonare il proprio sostegno.

Durante la traversata del bosco, Ciccito Scano spiegò ancora che la
corteccia delle quercie dava ogni anno un ricco prodotto di sughero a
Giannandrea _il Lungo_, perchè anche Giannandrea aveva il suo bosco, un
po’ più su, e che l’ingrassamento dei maiali nel solo mese di novembre
gli doveva fruttare una bella sommetta. L’anno precedente, il giorno
d’Ognissanti, egli si era trovato in uno stazzo, ed aveva visto una
mandra di mille suini, magri come cagnuoli, che venivano da Ozieri
per entrare a dozzina. Il pastore riceveva i maiali, gl’ingrassava, e
riscoteva il diritto _del piede_.

Avere il _piede_ significa avere diritto ad un piede di ogni quattro; i
maiali, come se lo sapessero, non vanno mai soli all’ingrasso; ci vanno
a centinaia, ed a migliaia.

Il pastore riceveva dunque mille maiali magri, e s’impegnava a
restituirne settecentocinquanta grassi, tenendo gli altri per sè.

Ciccito Scano parlava ancora, e già nessuno gli dava retta; all’uscire
dal bosco, mettendo il piede nel pascolo di Giannandrea _il Lungo_,
anche il tempiese ammutolì per prepararsi all’incontro con Mariantonia.

La fantasia di Silvio, che aveva fatto la pazzerella per tutta la
strada, rinsaviva di repente, al pensiero di rivedere fra pochi istanti
Giorgio. L’aspettazione medesima faceva battere il cuore del conte
Cosimo e della contessa Beatrice.

Angela soltanto, non sospettando di nulla, domandò inutilmente due
volte che piante fossero quelle che vedeva sparse qua e là, tutte
coperte di fiori bianchi; nessuno le rispose.

— Zio Silvio, che piante sono? insistè la fanciulla, credendo che
Ciccito Scano non lo sapesse.

Allora Ciccito Scano risvegliato dal suo sogno ad occhi aperti rispose:

— Sono lentischi.

Silvio sarebbe stato imbarazzato a rispondere; passando rasente alla
siepe d’un chiuso per le pecore, gli era sembrato di udire un gemito.



VI.


Un momento dopo fu vista arrivare di corsa, latrando forte, una
muta di mastini; Angela e Beatrice ebbero un po’ di paura che quegli
animalacci, saltando intorno ai cavalli, potessero afferrar loro i
piedi, ma i mastini erano ancora distanti quando un fischio li arrestò
di botto. Però non cessarono di latrar forte, finchè non sbucò dalla
siepe d’un chiuso un fanciullo, che, tirando sassate e correndo contro
ai cani, diede ad Angela l’immagine del re Davide nell’esordio della
sua carriera.

I mastini tacquero, e senza aspettare di essere raggiunti dal piccolo
eroe, tornarono di corsa allo stazzo, dove, ricondotti dall’esempio e
dalle pedate a sentimenti più miti, fecero ala, insieme coi pastori,
all’ingresso del piccolo drappello.

Erano tutti là, una ventina almeno, le donne e gli uomini di
Giannandrea _il Lungo_; gli uomini portavano lo schioppo in pugno, e
parevano disposti a servirsene, sparando all’aria per salutare gli
ospiti, ma visto che Angela aveva subito abbandonato il cappottino
del suo cavaliere, per cacciarsi lo dita negli orecchi, Giannandrea
raccomandò ai suoi di non far chiasso e venne cortesemente incontro
alle signore, per aiutarle a smontare da cavallo.

— Benvenute siano! disse da lontano cavandosi la berretta; benvenuta
sia! ripetè presentando le braccia a Beatrice, che vi si buttò senza
paura.

Il vecchio Giannandrea non disse altre parole alla contessa, ma le
sorrise come un padre, e venendo ad Angela e toltala dalla groppa
allo stesso modo, aggiunse: «questa me la bacio!» e la baciò davvero,
sulla fronte. Angela, rallegrata da quello spettacolo nuovo, si prestò
con grazia; tanto, come ribellarsi? era forse la sua missione in
Sardegna questa di lasciarsi baciare! E quando Giannandrea ebbe dato
l’esempio, si fecero innanzi le donne; Angela affrontò i loro baci
coraggiosamente; Mariangela era una bella donnina, cogli occhi neri
come il carbone; Bastiana aveva la bocca piccina, bellissimi denti
e il sorriso aperto e frequente; Nicoletta era alta come un pioppo,
aveva i labbri sottili come una fettuccia; ma la sua carnagione bianca
splendeva alla luce di uno sguardo profondo e dolce, entro una ricca
cornice di capelli castani.

In mezzo a quelle e ad altre donne dei pastori, si vedeva subito
Mariantonia, l’altera Mariantonia, un profilo di scalpello romano,
tagliato nel granito del Limbara. Essa, dopo aver medicato con un
sorriso il suo innamorato, gl’impedì di avvicinarsi con un’occhiata.
Ciccito Scano intese l’occhiata, girò sui tacchi e si confuse colla
povera gente mortale.

Man mano che i cavalli erano liberi, venivano presi da un pastorello e
legati ad un albero, colla corda lunga perchè potessero trastullarsi
a mangiar l’erba, aspettando la loro porzione d’avena. Quando Silvio
e Cosimo ebbero baciato essi pure Giannandrea, andarono in giro a
stringere la mano di tutti i pastori, che toccandosi la berretta colla
sinistra, ripetevano: _benvenuto! benvenuto!_ Dopo di che Giannandrea
pregò le signore di entrare nello stazzo a riposarsi, intanto che
si preparava un boccone di desinare: «La casa è piccola, disse
solennemente, ma il cuore è grande.»

A Silvio era bastata un’occhiata in giro, per accorgersi che suo
fratello non era là; consigliato dall’istinto, egli lasciò che i
suoi compagni seguissero Giannandrea e si trattenne nella spianata
dinanzi alla casa, a guardare il lavoro dei pastori, che avevano
disposto all’aperto parecchi focolari e vi facevano cuocere lentamente,
girandoli ogni tanto all’estremità di lunghi spiedi di nocciuolo, qui
un porcellino da latte, là un capretto intero, sparati sino alla testa
in modo da far vedere le cervella, e tenuti aperti con due asticciuole
di canna.

Silvio ricominciava a domandarsi se veramente quel viaggio non si fosse
compito un po’ alla leggiera.

Infatti dacchè _Su Mazzone_ aveva lasciata la casa del _Mulino a
vento_, chiamato improvvisamente dal suo cagnuolo, non si era più
avuta alcuna notizia di lui. Però prete Emanuele era stato avvertito
dell’arrivo degli ospiti, e Ciccito Scano si era trovato all’alba coi
cavalli. Era stato veramente un errore, non aver preso in disparte
Ciccito Scano per interrogarlo — Interrogarlo su che? — Se Ciccito
Scano non lasciava intendere di sapere qualche cosa, era segno che lo
credeva inutile; ma non poteva esser dubbio che egli obbedisse ad un
ordine del bandito.

Uno dei pastori aveva infilato in uno spiedo il cuore, il fegato e la
milza di parecchi capretti, e li veniva avvolgendo colle minugie, in
modo da legarli e nasconderli. Vedendosi guardato da Silvio, si voltò e
gli disse:

— Faccio _la corda_.

Silvio sorrise; molte volte in vita sua, aveva visto fare e mangiato
quella _corda_ saporita.

— Il professore è lei? gli domandò una giovane donna mettendoglisi al
fianco nel vano dell’uscio.

— Sono io, rispose Silvio voltandosi.

— Io sono Mariantonia, disse la giovinetta, abbassando la voce; il
fratello suo sta in una capanna vicina; l’aspetta, vuole che andiamo a
vederlo?

— Andiamo, balbettò Silvio.

Si avviarono; Ciccito Scano venne subito sull’uscio, ma non osò
seguirli.

— Come sta? domandò Silvio ansimando.

— Ieri stava bene, ma stanotte non ha potuto chiuder occhio, e
stamattina era più malato di prima; ma quello è un uomo che comanda al
suo male.

Mariantonia non disse altro; camminava speditamente, precedendo d’un
passo il compagno.

Dopo un quarto d’ora di cammino, la fanciulla allungò un braccio verso
un gruppo di quercie e disse semplicemente: è là; vuole andar lei, o
devo andar io ad avvertirlo?

Silvio sentì venir meno tutte le forze, si appoggiò al tronco di un
albero, e lasciò che Mariantonia lo precedesse.

Ma una voce che gli penetrò il cuore disse vicino a lui: «coraggio!»

— Fratello mio! esclamò Silvio.

Il grido represso giunse sino a Mariantonia, la quale si volse e si
arrestò a contemplare quella scena colle lagrime agli occhi. Anche un
uomo a cavallo si era arrestato a guardarli da lontano, e la giovinetta
fece un giro largo, per andare a portare un sorriso ed una lagrima a
_Su Mazzone_.


Silvio singhiozzava, nascondendo la faccia nel seno di suo fratello, il
quale lo lasciò piangere, poi scostandolo da sè:

— Guarda, gli disse, come mi ha fatto la sventura; io non piango più.

— Povero Giorgio! esclamò Silvio teneramente, fissando gli occhi in
quella faccia pallida e scarna. E come stai, ora? gli domandò per non
dirgli tutta la pietà che sentiva vedendolo ridotto in quello stato.

— Sto bene, rispose Giorgio, ma sono molto vecchio; poco fa ho creduto
di morire; avevo offerto la mia vita al cielo e all’inferno; «fatemi
vedere mia figlia e mio fratello, avevo detto, fatemi rivedere la terra
dove sono nato, e sia quella la mia ultima ora.» Vi ho ritrovato tutti,
e vivo, non mi posso lagnare, il cielo è generoso.

Mentre Giorgio parlava con voce monotona e grave, Silvio veniva
ricercando il Giorgio suo d’una volta, sotto quella maschera di pastore
che la sventura aveva messo sulla persona e sul volto del bandito.

Una lunga barba, già non più nera, sebbene Giorgio avesse poco più di
quarant’anni, gli copriva quasi interamente la faccia patita; i capelli
inanellati e grigi gli scendevano sul collo; portava in capo la lunga
berretta ricadente da un lato, la camicia di tela coi grossi bottoni
d’argento a trafori, un giustacuore di velluto verde sbiadito dall’uso,
il cappotto di arbascio, il gonnellino a larghe pieghe, i calzoni
a campana, le uose e le grosse scarpe a punta; nessuno avrebbe più
riconosciuto in quell’uomo lo sposo ardito di Bebbia.

— Mi guardi, disse Giorgio melanconicamente; e che ritrovi ancora di
quello che fui una volta? Perfino lo sguardo mio deve essere mutato;
questi occhi che hanno visto tanti brutti giorni, e sono stati aperti
tante notti crudeli, può mai essere che guardino ancora come una volta?
Tu pure, soggiunse, fissando in volto suo fratello, tu pure sei mutato;
ci è il dolore anche sulla tua faccia.

In quel mentre Mariantonia raggiungeva _Su Mazzone_, il quale scese da
cavallo senza far rumore, non così però che Giorgio non l’udisse.

— Salute! disse egli voltandosi.

— Salute! rispose il bandito, e legato il cavallo ad una pianta, si
chinò per ricevere le carezze di _Brigadiere_.

— Fratello mio, proseguì Giorgio, l’altr’ieri il cuore mi faceva
soffrire molto, temevo di dovermi stare a letto, in quella capanna,
cogli occhi aperti in faccia al Limbara ed alla mia miseria, che è più
alta e più dura del nostro monte di granito. Ma ho detto al mio cuore:
«guarisci, almeno per poco,» e come vedi, ora sto bene. Poc’anzi,
nascosto in un chiuso di pecore....

— Quel gemito?... balbettò Silvio.

— Ero io, mi è mancata la pazienza di aspettare e vi sono venuto
incontro per vedervi di nascosto; tu non sai che cosa sia esser vissuti
quasi tredici anni lontano da tutti coloro che ci hanno amato, e sotto
il peso d’una condanna. Si teme che gli uomini migliori siano diventati
cattivi verso di noi, si teme che gli affetti santi si siano guastati
nel cuore dei nostri fratelli. Ho voluto vederti, veder mia figlia e
leggervi in faccia che non respingereste il povero bandito...

— L’hai vista? domandò Silvio senza rispondere a quel dubbio crudele.

— Sì, l’ho vista! mi è sembrato di ritrovare ancora la mia povera
morta! e ho detto a Dio: Dio buono! quanto l’hai fatta bella per gli
altri!

Silvio temette che queste ultime parole nascondessero un rancore; ma
suo fratello soggiunse senza amarezza:

— Nessuno le ha mai parlato di suo padre! Tu me l’hai scritto, ed io
ti ho risposto che era necessario. Io credo che se il mio cuore si è
gonfiato è perchè, vedi, questa idea di avere una figlia nel mondo,
di adorarla come una santa, sapendola indifferente e spensierata,
e raccomandando a tutti di nasconderle l’esistenza di suo padre;
quest’idea, vedi, mi uccide a poco a poco. Ti avevo detto io stesso:
«La povera orfana cresca fuori dell’ombra che getta la mia sventura;
perciò non le parlate mai di me.» Ma quando l’ultima volta mi scrivesti
che Angela non sapeva nulla, mi sono accorto che il cuore non mi aveva
obbedito, e che io contava sull’amore della mia creatura. Ed ora....

— Ed ora? chiese Silvio.

— Ora la vedrò; le sederò vicino, m’aiuterete anche voi a trovare un
pretesto per baciarla, non è vero? Ma non saprà nulla, è necessario.

Il povero padre lasciò cadere la testa sul petto, ma subito si
rinfrancò e disse:

— Non so se io potrò rimanere nell’isola o se dovrò fuggire ancora; qui
nessuno mi conosce, ma il dilemma è inesorabile. Se io potrò rimanere
è a condizione che nessuno sappia il mio vero nome; non posso dirlo
ad Angela, perchè è troppo ragazza... e chi sa? forse mi amerebbe, e
dovrebbe tradirsi. Meglio in tal caso che mi uccida a poco a poco colla
sua indifferenza. E se dovrò andarmene a morire laggiù, in Africa,
perchè risvegliare nell’animo di mia figlia un sentimento che la
farebbe infelice per tutta la vita? No, no... ci ho pensato molto, non
ho pensato ad altro in questi lunghi giorni d’agonia; e mi sono fatto
una maschera, come vedi; qui nessuno mi conosce; Mariantonia soltanto
mi ha letto nel cuore; con essa non mi sono potuto vincere, avevo tanto
bisogno di veder riflesse sopra un altro sembiante le mie speranze.
I pastori mi credono Efisio Pacis. È il nome di un povero diavolo
dell’Anglona, te lo ricordi? che scomparve da Castelsardo una notte
di burrasca... era povero, ma onesto; la moglie, te ne ricordi? vagò
parecchi giorni lungo la spiaggia, sperando che il mare le restituisse
il cadavere di suo marito, senza dar retta alla gente cattiva che le
diceva: vostro marito non è morto, se n’è andato in Africa. Ho preso
questo nome, che non mi può fare del male.

— E dimmi, mormorò Silvio, non ti rimane speranza?...

— No, rispose Giorgio abbassando il capo. _Su Mazzone_ ha interrogato
molta gente; non si è ancora trovata una persona che voglia
testimoniare in mio favore.

— La troverò io! esclamò Silvio.

— Fratello, rispose Giorgio con profondo scoraggiamento, l’avvocato ha
detto a _Su Mazzone_ che per correggere la prima sentenza è necessario
che io mi consegni alla giustizia; puoi tu consigliarmi questo?

Silvio non rispose. Si udì in quel momento un suono prolungato e cupo.

— Ci chiamano! esclamò Giorgio con baldanza, la colazione è pronta,
andiamo alla festa.

_Su Mazzone_ e Mariantonia, vedendo che il colloquio dei due fratelli
era finito, mossero loro incontro lentamente.

— Professore, hai fatto buon viaggio? domandò il bandito, stringendo
la mano di Silvio; e senza aspettar risposta proseguì: ne ho piacere;
questa qui è Mariantonia, di cui ti ho parlato; è una figliuola cattiva
che non vuol più saperne di far compagnia a _Su Mazzone Canu_; dice che
è meglio pigliarsi un marito giovine e far dei figli maschi.

Mariantonia punì il ciarliero con un pugno, poi gli chiese scusa.

_Su Mazzone_ si rifece serio per accontentare la sua figliuola, e si
voltò a cercare il campagnuolo.

— Dov’è _Brigadiere_? disse; è là, è rimasto a far compagnia a _Moro_.
_Brigadiere!_ chiamò, vieni qua, _Moro_ ha il suo desinare sotto i
piedi e a te piacciono gli ossi dei capretti.

_Brigadiere_ accorse dimenando la coda.

— L’altro giorno, domandò Silvio, che cosa era poi stato?

— Nulla era stato; due ladri notturni erano entrati nell’oliveto, e
_Brigadiere_ mi venne ad avvertire, credendo di farmi piacere. Trovai
_gli amici_, che lavoravano a forzare la serratura della porta di casa
per portar via un po’ delle ulive raccattate nella giornata; mi videro
e se la svignarono colle bisacce vuote.

Quando furono giunti a pochi passi dallo stazzo, dove un giovine
pastore, piantato gravemente sopra un sasso, continuava a dar di fiato
nella grossa conchiglia d’una tromba marina, cavandone quel muggito
profondo che empiva la campagna, Giorgio si arrestò, e disse al
fratello: — Ricordati che io sono Efisio Pacis! ed ora va innanzi, è
meglio che non mi vedano subito con te.

Silvio precedette alla muta; Mariantonia, _Su Mazzone_ e il falso
Efisio seguirono lentamente.



VII.


La lunghissima mensa era stata imbandita all’aperto; la formavano
certi panconi posti sopra rozzi cavalletti, e ci erano volute parecchie
tovaglie ravvicinate per coprirla. Lo stazzo aveva messo fuori tutte
le sedie impagliate, tutti gli sgabelli e ogni altro arnese che potesse
farne l’uffizio; ma, non bastando ancora, parecchi pastori lavoravano a
rotolare dei grossi macigni da gran distanze.

I piatti non mancavano, e anche di bicchieri non era difetto, nè
per _li stragni_, nè per le donne e i vecchi pastori; quanto ai
giovani, si accontentavano d’avere un bicchiere in due, o di non
averne veruno, purchè sotto i baci comuni non venisse a mancare la
vernaccia nella fiaschetta. Erano venuti dagli stazzi vicini, pastori e
pastoresse, recando in trionfo porcellini e capretti cotti nel forno,
o portando come scettri certe _corde_ spropositate, infilzate in
lunghi spiedi di legno, e pronte per essere messe al fuoco, formaggi
freschi, quagliate, ricotte, giuncate; Giannandrea il lungo, dal
canto suo, per fare degnamente gli onori dello stazzo, non contento
di aver ammazzato una vitella, e di aver fatto preparare la mattina
una tinozza di _miciuratu_[4], aveva chiesto alle acque fredde del
Limbara le più belle trote, e al mare le orate e le triglie e il
tonno fresco. Vi erano lepri del territorio, anitrelle di riviera,
e tordi del vicino bosco, a cui la proibizione della caccia non era
stata difesa sufficiente; e vi erano ciliege dei frutteti lontani,
e grosse lattughe cresciute negli orti tempiesi. Poi nell’interno
dello stazzo, sotto gli occhi delle figliuole di Giannandrea il lungo,
dava gli ultimi bollori impazienti un pentolone di fave e lardo. Non
mancavano le bottiglie di vino, sparse sopra la mensa, ovvero qua e là
come sentinelle, piantate entro piccole fosse, a tiro dei commensali,
pronte ad accorrere nei casi urgenti; ma il grosso dell’esercito faceva
bella mostra sopra il davanzale di un finestrone a terreno, e lungo
una panca di sasso. Vi erano i vini severi di Sassari e di Sorso, i
vinelli mordenti di Tempio, i vini balsamici di Lanusei; vi erano la
vernaccia di Solarussa, il _torbato_ d’Alghero, la malvasia di Sorso,
l’_almadras_, il _cannonau_, la _monica_ e dieci altre qualità di vini
prelibati. Ma bisogna dirlo subito, quell’esercito non era lì che per
fare bella mostra, perchè i Sardi sono sobrii, e i pastori galluresi,
gran bevitori di acque montanine, non si ubbriacano volontieri che di
_miciuratu_, di ciance e di versi.

Un apparente disordine aveva distribuito i posti, e pure quando tutta
la brigata si trovò raccolta intorno alla mensa, e Giannandrea il lungo
si alzò ad augurare «buon appetito a tutti,» toccandosi la berretta,
un occhio curioso avrebbe notato che ognuno dei commensali, a cui la
scelta del posto non era indifferente, aveva per l’appunto il suo che
non avrebbe barattato con nessun altro. Ciccito Scano, per dirne uno,
si era messo alla sinistra di Mariantonia; e il piccolo Gianmartino,
piccolo ma intraprendente, arrivato ultimo, perchè aveva le gambe
corte, come gli dicevano, sfidava le celie degli amici al fianco di
Nicoletta.

Ma perchè rimaneva un posto vuoto tra Angela e Silvio?

— Chi siede qui? domandò la fanciulla.

— Io, se me lo permetti, le rispose una voce tremante.

Angela, voltandosi, incontrò due occhi che mandavano molta luce, e una
faccia pallida e patita, nascosta entro una gran barba nera.

Giorgio sentì che la mano di suo fratello gli stringeva il cappotto
come per dargli forza. Ne ebbe; curvò il capo sul piatto, ed aspettò
che il cuore si acquetasse; poi volle guardare di nascosto sua figlia,
ma sì vide guardato da lei e si turbò.

— Si sente male? domandò la fanciulla.

— No, Angela.

— Come fa a sapere il mio nome?

— L’hai scritto sulla faccia, rispose il disgraziato ricomponendosi.

Nessuna meraviglia se quel madrigale andasse a finire in un bacio.
A tavola? E perchè no? Angela oramai non si stupiva di nulla; a buon
conto si affrettò a dir «grazie,» e ad empirsi la bocca guardando da
un’altra parte.

I pochi commensali che avevano seguito quella scena con trepidanza,
respirarono liberamente, e _Su Mazzone_, che si era tenuto in disparte,
venne a pigliare il suo posto accanto a Mariantonia, sparando il primo
razzo d’allegria, una strofetta sarda.

Nessuno dei banchettanti, vedendolo, finse meraviglia o pronunziò il
nome temuto; e un pastore, di rimando, accomodò in versi galluresi un
proverbio, il quale in Gallura e altrove dice che il ventre digiuno è
sordo anche alle muse.

Il desinare fu allegro; solo alle frutta, quando i famigli portarono
in tavola le frittelle e il _miciuratu_, solo allora Giannandrea _il
Lungo_ bevve un sorso nella propria fiaschetta e disse un complimentino
rimato a Beatrice.

— Bevi, e fa altrettanto, disse il pastore a _Su Mazzone_, porgendogli
la propria fiaschetta. Il bandito bevve e fece anche di meglio,
strappò gli applausi di tutti, sebbene non improvvisasse nel dialetto
di Gallura, ma in quello del Logudoro, dove sembra essersi rifugiata
l’ultima eco del Lazio.

Beatrice fingeva di ascoltare attonita, ma al pari di Cosimo e di
Silvio essa non aveva orecchi se non per quello che il povero Giorgio
veniva dicendo a sua figlia. Erano risposte a domande curiose della
fanciulla, parole indifferenti che sonavano sul labbro del disgraziato
come note d’una segreta musica. Ogni tanto la mano del falso Efisio
disegnava un gesto incerto per andare a toccare il braccio o l’omero
della sua piccola vicina. E ogni tanto Angela sfuggiva, senza
avvedersene, a quella segreta carezza, si dilettava, rideva delle celie
ardite dei più giovani pastori, che, facendo il chiasso all’estremità
della mensa, pigliavano il _miciuratu_ a manate e se ne imbrattavano la
faccia.

Allora il povero padre diventava ingegnoso per richiamare a sè la sua
creatura. Ma non vi era pericolo che si tradisse. Indovinando l’ansia
di tutti coloro che gli volevano bene, vedendo quasi una lagrima
sospesa negli occhi di Beatrice, alzava la fronte superba, e mostrava
gli occhi asciutti.

Le mense furono levate in un modo bizzarro; i cani, che da un poco
lavoravano in silenzio a rodere gli ossi, abbandonarono d’improvviso e
di comune accordo il loro pasto per lanciarsi latrando in direzione del
vicino bosco. Tutti i pastori balzarono in piedi, corsero ad armarsi, e
_Su Mazzone_ annunziò, senza lasciare il suo posto: «selvaggina grossa;
un cervo o un cinghiale.»

Angela, per non perder tempo, cominciava a tapparsi le orecchie, e non
udiva già più le dolci parole che l’uomo dalla barba nera le diceva per
rincorarla. — Povera Angela! — le diceva — hai paura del rumore d’una
schioppettata; la tua mamma era bella come te, ed aveva più coraggio.

Intanto parecchi pastori, i più giovani, i più desiderosi della gloria,
correvan dietro ai cani.

_Su Mazzone_ crollava il capo.

— Tutti così, i giovani, diceva; ma se la fiera ha giudizio, non
potendo arrivare al bosco, ripasserà di qua, a farsi ammazzare da uno
di noi.

A queste parole, Angela, che aveva tolto le dita dalle orecchie, si
affrettò a ricacciarvele.

— Che fiera è? domandò Beatrice.

— Eccola là, disse Giorgio; è un daino; ed hai ragione, disse a _Su
Mazzone_, non arriva al bosco, piega e ritorna da questa parte.

Si udì una schioppettata, e il daino cadde.

Un quarto d’ora dopo i giovani pastori ritornavano trionfanti, portando
per le corna e per le gambe il loro trofeo.

I cani latravano ancora contro la povera bestia morta, che li guardava
cogli occhi spenti.

— Chi l’ha colpito? domandò Giannandrea.

— Gianmartino!

Il daino era dunque un omaggio a Nicoletta, e Gianmartino glielo andò
a dire, non come avrebbe voluto, in un orecchio, per ragioni che si
comprendono, ma apertamente, al cospetto di tutti, in modo da farla
venir rossa.

Quella caccia fortunata in cui non era apparsa che la valentia del
piccolo Gianmartino, fece venire l’idea di provarsi al bersaglio.
Furono in molti a farne la proposta, e il bersaglio doveva essere
una corda tesa da un albero alla casa. Chi toccasse la corda avrebbe
il diritto di baciare una donna a scelta, chi la recidesse potrebbe
baciarle tutte.

Poteva toccar di peggio ad Angela? Nel suo sgomento essa pensò perfino
a salvarsi colla fuga; ma l’uomo dalla gran barba nera le si trovò
vicino per dirle che se provasse a superare l’impressione nervosa la
prima volta, vedrebbe che era una cosa da nulla.

La corda era già tesa, in distanza, tanto che la si vedeva appena, e i
pastori si erano schierati coi loro schioppi.

Incominciò il fuoco di fila, e Angela, che aveva obbedito al suo
protettore, fu lieta di essere diventata un’eroina, e andò a dire a
tutti che ora ci pigliava gusto.

I giovani pastori scaricarono le loro armi senza alcun risultato;
Gianmartino non fu più fortunato, e guardò disperatamente verso
Nicoletta; Ciccito Scano, non potendo pigliar parte alla gara,
giudicava i colpi falliti e faceva arrabbiare i tiratori. — Se la corda
fosse stata una spanna più su, diceva, tu la tagliavi netta... quando
si dice, la disgrazia!

Venne la volta dei vecchi. Giannandrea _il Lungo_ scaricò la sua arma,
dopo aver mirato un solo istante e fece tremare la corda; da ospite
cortese egli venne in mezzo agli applausi a baciare la mano della
contessa Beatrice.

Seguirono altri colpi sbagliati; poi _Su Mazzone_ spianò l’arma, ed
egli pure fece tremare la corda. Nuovi applausi.

— Io cedo il bacio a cui ho diritto, annunziò egli, lo cedo a Ciccito
Scano che non può tenere in mano il fucile.

Ciccito Scano accorse e si presentò come un esattore a Mariantonia, la
quale pagò senza mormorare. Qualcuno gridò:

— Ora tocca a te, compare Efisio!

Il falso Efisio impallidì, poi prese lo schioppo che gli veniva
offerto, protestando che gli tremava ancora il braccio per la malattia;
e pigliò la mira lentamente, prima di lasciar andare il colpo...

— Sbagliata! disse Angela, che avrebbe voluto veder trionfare l’amico
suo barbuto; peccato!

— E allora, disse Giorgio baldanzosamente, fa come se avessi colpito;
dammi un bacio.

Che importava ad Angela di dare un bacio di più o di meno?

Ma un demonio le suggerì di far la ritrosa.

— Nossignore, disse, bisogna stare ai patti.

— A te Silvio!

Il professore sparò la sua arma senza quasi mirare; e la corda, colpita
nel mezzo, fu recisa con un taglio netto; uno dei due capi ricadde
dondolandosi lungo il muro della casa; l’altro capo si arrotolò intorno
al ramo dell’albero.

Fu un trionfo che Silvio non si aspettava.

— È il caso! dichiarò egli stesso.

Ma la modestia faceva ancora più bella la sua vittoria; il professore
fu menato in giro da due compari a baciare prima le ragazze, poi le
maritate.

Quando fu dinanzi a Beatrice, si turbò e ripetè che non aveva alcun
merito, che era stato il caso.

Non chiedeva il bacio a cui aveva diritto.

— Devi baciare anche mia moglie, disse Cosimo mettendosegli al fianco.

— Sicuramente, disse Beatrice.

E presentava la faccia gioconda, con una petulanza tentatrice.

Silvio, accostando le labbra a quella guancia fresca e rosata, non
aveva punto l’aria di un trionfatore.

— Come si è fatto rosso! notò Beatrice.

Silvio non rispose nulla, ma si fece ancora più rosso.

In un altro cortile dello stazzo era ammucchiata la lana della recente
tosatura; già le donne erano andate ad accosciarsi in circolo, e i
giovani avevano seguito l’esempio.

— _Lu graminadojiu! lu graminadojiu!_ si annunziava da ogni parte;
Beatrice ed Angela accorsero, curiose di vedere quel lavoro che
l’usanza pastorale ha trasformato in una festa arcadica.

Nel cortile, dove sorgevano ancora le mense, non rimasero che alcuni
famigli affaccendati a sparecchiare e Silvio.

Il professore, ritto là dove il cuore gli aveva mandato la vampa
rivelatrice, non osava più muoversi. Che cosa aveva risposto alla
contessa? Che cosa aveva detto a Cosimo? «Ma dunque è proprio vero?»
domandava a sè stesso.

La sua rettitudine non mai smentita si provava a dirgli che non era
vero; ma la coscienza, interrogata senza sotterfugi, gli rispondeva che
una strana burrasca seguiva nel suo cervello e nel suo cuore.

Più nel cervello che nel cuore — doveva essere una allucinazione
passeggiera, una di quelle nebbie che si alzano entro il cranio
degli uomini che hanno vissuto troppo colla testa; forse un fenomeno
dell’età; una crisi in cui doveva morire l’arida sua giovinezza, e
cominciare una virilità rassegnata e forte.

Silvio adoperava tutte le forze sane dell’intelletto a scandagliare
il cuore, a studiare la propria inquietudine, a dirne ad alta voce lo
ragioni; egli faceva in buona fede questo lavoro straziante di mettere
la propria infermità in piena luce, perchè voleva guarirne subito,
perchè non poteva reggere al pensiero che un sentimento colpevole
potesse prendere il posto occupato per tanto tempo dall’amicizia e
dall’onore.

— Che cosa fa, professore? gli disse un famiglio; non lo sa che è
cominciato _lu graminadojiu_?

— Guardo, rispose Silvio sorridendo, guardo la campagna.

Sì, egli guardava quella campagna quasi nuda d’alberi, nelle cui
lontananze si movevano le macchie nere dei greggi; lasciava correr
l’occhio fra i lentischi, sul terreno roccioso che splendeva al sole,
ascoltava le campanelle dei montoni e il belato delle pecore, ma non
trovava nulla, nè un colore, nè una nota che confortasse la stordita
anima sua.

— Silenzio! gridò una voce nel cortile vicino; e Ciccito Scano
apostrofò qualcuno così:

    Chi vali chi ti ni coi
    Chi lu nechi a boci alta?
    L’occhi toi so li proi
    In l’amori non v’ha falta
    È macchini lu nicallu
    E pejiu è lu cuallu...[5].

Questa strofa strappò Silvio dalle sue fantasticherie; egli ripeteva
ancora: _è macchini lu nicallu_ — quando sorse una voce femminile a
protestare:

    No so l’occhi, no, li proi,
    Di lu chi passa in lu cori[6].

Ma la giovane maestra di scuola non potè proseguire, forse perchè
Ciccito Scano, sentendosi oramai sicuro del fatto suo, le troncò sul
labbro medesimo l’eresia che stava per dire. Seguì una gran risata,
poi un lungo silenzio — Silvio volle allontanarsi, fuggire, ma fatti
appena pochi passi girò uno sguardo per l’aperta campagna, e incontrò
gli occhi immobili e sereni di una giovenca, che si era arrestata a
guardarlo come un oggetto molto curioso — rifece lentamente il breve
tratto di via, attraversò lo stazzo, e si andò a mettere nel vano
dell’uscio, donde poteva dominare _lu graminadojiu_.

Cosimo e Beatrice lo videro subito e gli sorrisero; quanto bene fece
quel sorriso al povero Silvio! Egli potè dire al proprio cuore: «fa
pure, tu non commetti alcun male; io lo dirò a Cosimo, io lo dirò a lei
stessa.»

Ora poteva guardare al _graminadojiu_. — L’ampio circolo di donne e
uomini occupava tutto il cortile; il monte di lana ora stato spartito
in piccoli cumuli dinanzi ai pastori, che erano tutti abilissimi nel
ridurre a fiocchi la lana della tosatura, senza altro arnese che le
mani.

Angela e Beatrice, sedute esse pure in giro, si provavano a quell’opera
con poco profitto; ma ciò aveva colmato d’ammirazione le pastoresse,
che erano contente di poter dire: «non sono superbe!» Anche Silvio
voleva lavorare come faceva Cosimo, come faceva suo fratello accanto ad
Angela, e prese bravamente il suo posto chiedendo scusa di non averlo
fatto prima.

Egli fu subito informato che Ciccito Scano aveva dato il fiore a
Mariantonia.

— Ma ci è qualcun altro che ha voglia di dare il fiore! annunziò _Su
Mazzone_.

Sicuramente, ci era Gianmartino che teneva in mano una rosellina
selvatica.

Il piccolo pastore, stando seduto e voltando il capo con una moina non
priva di grazia, guardò un momento verso Nicoletta, e disse:

    No ti dimandu amori,
    Mancu ti cilcu affettu,
    Socu bè chi lu tò pettu
    È di nii, ma no ha cori,
    Lassa solu chi m’ajiaccia
    Fijulendi la tò faccia....[7]

Ma l’audace ebbe la risposta che si meritava; e l’ebbe da Giannandrea
_il Lungo_, il quale disse che, perchè sua figlia non sapeva poetare,
risponderebbe lui in nome di Nicoletta. E rispose così:

    Sai chi no ajiu cori,
    E comu la mè faccia
    Di nii ajiu lu pettu;
    No pò scaldi la jiaccia,
    Nè eu pruà affettu;...
    E sei infattu a tutti l’ori?...[8]

La risposta andava al segno; e Gianmartino ne rimase sgominato; non
voleva negare la verità, Gianmartino, ma nelle gare del _graminadojiu_,
come in ogni altro giuoco della vita, bisogna sempre dir qualche cosa,
segnatamente quando si ha torto, e il piccolo pastore invocava l’estro
ribelle.

Allora intervenne il falso Efisio Pacis; egli chiamò a sè l’attenzione
con un gesto, e troncò il litigio rivolgendosi con accento persuasivo
prima alla ragazza indocile, poi al pastore ardimentoso. E disse a
Nicoletta:

    Pal te, bedda, labbri di vetta
    Era natu Giommaltinu.

E disse al pastore:

    Pesatinni, altu pinu,
    E basciadi a Niculetta...[9]

Gianmartino non se lo fece dire due volte; con un balzo da capriuolo
egli fu in piedi, ma anche Nicoletta fu pronta a rizzarsi.

Non per questo il pastore si perdette d’animo; egli sorrise guardando
a quell’altura, dove la fanciulla aveva messo la tentazione in forma
d’un sorriso; disse che gli dispiaceva fare la parte della volpe
della favola, che non poteva addentar l’uva perchè era troppo alta; ma
improvvisamente, quando tutti consigliavano a Nicoletta d’arrendersi,
Gianmartino spiccò un salto e carpì il bacio. — Qualcuno assicurò che
Nicoletta si era chinata un poco, senza di che Gianmartino non sarebbe
mai riuscito in quell’impresa, ma tutto questo a Gianmartino non
importava menomamente.

— Se si è chinata, tanto meglio, diceva lui.

— Sì, si è chinata!

— No, non si è chinata!

Nicoletta non diceva nè sì nè no; si contorceva ridendo.



VIII.


Non vi era stato modo di resistere alla ospitalità aggressiva di
Giannandrea _il Lungo_; per non aver l’aria di diffidare dei letti
dello stazzo era bisognato dir di sì, e passar la notte fra i pastori.
Strappato quel sì a Beatrice, Giannandrea era andato ad aprire colle
proprie mani la gran guardaroba di pino, e coll’aiuto di Nicoletta
che aveva le braccia lunghe quanto quelle di suo padre, a dir poco,
aveva tirato giù le lenzuola di tela finissima, tenute in serbo per le
grandi occasioni. Tutti i giovani dello stazzo appresero con gioia che
quella notte bisognava dormire sulla paglia, nel primo stanzone, perchè
i migliori letti venivano preparati per _li stragni_, in due camere
diverse, una per gli uomini, l’altra per le donne, secondo consigliava
la decenza, Silvio e Cosimo chiesero invano la paglia del giaciglio
comune, bisognò che accettassero il letto.

Intanto che le donne si affaccendavano a preparare la casa per
l’ospitalità della notte, Giannandrea propose a Beatrice di fare
quattro passi fino al bosco.

Era l’ora del tramonto; il sole, che rallegrava ancora la campagna
seminuda, lasciava però sul terreno ondulato delle gran chiazze
d’ombra, che si venivano allargando a poco a poco. Le cutrettole
saltellavano ancora fra i piedi delle giovenche attonite, ma si
vedevano voli di storni e coppie di ghiandaie accorrere, da vari punti
dell’orizzonte, al bosco. Il paesaggio silenzioso e nudo veniva animato
ogni tanto dalla macchietta lontana d’un pastorello, che correva di
qua e di là, tirando sassate senza fermarsi, per radunare le pecore
sviate; poi fu tutto un gregge di montoni che apparve alla svolta di un
sentiero e pigliò la corsa verso un chiuso con uno scampanio monotono;
e poi più nulla fuorchè qualche muggito lontano; — incominciava il
crepuscolo.

Al rumore che fece la brigata penetrando nel boschetto ceduo, ogni
arbusto sembrò scoccare un messaggio ad un arbusto più lontano; ma non
erano che fringuelli e tordi disturbati mentre si disponevano al sonno.
Più addentro, nel fondo nero della boscaglia, dove pareva che fosse già
notte, un usignuolo narrava ad alta voce una novelletta che gli altri
uccelli stavano ad ascoltare; ma sebbene la brigata stesse zitta, il
piccolo cantore ammutolì al rumore dei passi e volò via per ripigliare
la sua leggenda lamentosa più lontano, nel fondo sempre più nero,
finchè Giannandrea avvertì che era forse meglio arrestarsi e tornare
indietro.

Per solito in quelle passeggiate all’aperto, Silvio non abbandonava
mai il fianco di Beatrice, ma oggi egli lasciava che l’amica sua lo
precedesse attaccandosi al braccio del marito. Si teneva volontieri nel
fitto della brigata, il professore; diventando verboso contro il suo
costume, gli sembrava di parlare della coltura dei campi, di annunziare
a quei pastori increduli che vi era qualche cosa di meglio a fare in
quella campagna, che lasciarvi vagare le capre; gli pareva di discutere
sulla prosperità dell’isola e sul benessere comune; in verità egli non
faceva che ammucchiare parole per nascondere un’immagine balenata un
istante nel suo cervello. Diceva ai mandriani: «Voi sarete gli ultimi
convitati al gran banchetto dell’agricoltura sarda; ma ci verrete voi
pure; avrete distese meno ampie di terreno libero, ma i vostri montoni
saranno nutriti meglio, non passeranno le notti all’aperto, vi daranno
più carne, più latte e più lana; voi farete il cacio secondo i migliori
metodi, arricchirete voi stessi e l’isola vostra;» — ma quando aveva
fatto crollare il capo al suo uditorio incredulo, e suscitato qualche
obiezione vivace, invece di rispondere prontamente, si distraeva: —
Lo vede, esclamava il contradditore imbaldanzito, — lo vede, non sa
rispondere, abbiamo ragione noi. — E Silvio sentiva il bisogno di
gridare forte, così forte da empirne la campagna: — Sì, sì, avete
ragione voi altri, io l’amo, io l’ho sempre amata!

Essa era là, dinanzi a lui, al braccio del marito, ridente e
disinvolta, e non sentiva lo sguardo che le si attaccava alla nuca
ed al collo, e le baciava le due guance, quando nei suoi movimenti
di uccelletto, essa si voltava per ridere di qualche cosa prima verso
Giannandrea, poi verso Cosimo. Ancora non si era voltata verso Silvio!

Ma il professore lo aveva caro. Non ricercato, confuso in mezzo ai
pastori, egli si sentiva più forte, poteva promettere più sicuramente
a sè stesso di non tradirsi. Perchè quell’amore, nato segretamente nel
vecchio cuore di Silvio, aveva tutte le puerilità allettatrici d’un
primo amore; e il professore già non pensava più a strapparselo dal
petto con una confessione brutale, come nel primo momento di stupore;
troppo gli era cara la rifioritura della sua gioventù declinante; ora
i suoi trentatrè anni non gli pesavano, ed egli provava a dire a sè
stesso che non è mai tardi per amare.

Purchè Beatrice e Cosimo non sapessero di nulla, purchè gli riuscisse
di nascondere il petto all’occhio dell’amicizia, che male commetterebbe
egli amando una donna tanto degna d’amore? Già, se d’amarla non si
era accorto prima, non ostante la lunga dimestichezza, era perchè
il cuore di Silvio non si dava nè alla bellezza, nè alla grazia — si
arrendeva ora alla bontà, alla forza, ed alle altre virtù femminili
che Beatrice aveva dimostrato sotto la rovina della vecchia casa De
Nardi. Nobilitato da questo ragionamento, l’amore di Silvio pigliava un
carattere doveroso, sano, che non poteva far male al cuore.

Così pensava Silvio, continuando a baciare cogli occhi questa o quella
guancia di Beatrice, la quale ancora non si era voltata a ricercare
dell’amico suo.

E il professore, continuando a far lezione di pastorizia agl’indocili
alunni, già cominciava a notare che non era naturale quell’indifferenza
di Beatrice, e le attribuiva un significato che gli empiva il cuore
di sgomento. — Ella sa tutto! diceva a sè stesso; mi sono tradito
baciandola! — E a questo pensiero, che lo gettava come un fanciullo in
balìa di un gigante capriccioso, — stranissima cosa! — egli sentiva
pure un’infinita dolcezza, la voluttà dei deboli e degli ammalati,
penetrargli le carni e le ossa. Che importava infine se ella sapesse
tutto? L’amore conosciuto dalla donna che ce lo ha ispirato, anche se
non è corrisposto, ci diventa più sopportabile. Silvio aveva letto in
qualche luogo questa massima confortatrice.

Si avvicinavano allo stazzo; Angela, che era stata trattenuta da una
storiella di banditi, appariva nella luce del crepuscolo, ritta sopra
il muricciuolo d’un chiuso. Il falso Efisio Pacis non l’abbandonava;
stando a piè del muro, egli le si offriva a sostegno, ma la fanciulla,
sicura di sè, appena appena gli sfiorava con una mano la testa. E la
sua voce attraversò lo spazio, gridando nel silenzio: — Bice!

La giovine donna si arrestò un istante, vide la fanciulla, e le fece
un saluto colla pezzuola, ma Angela non si accontentava di così poco,
e chiamò un’altra volta con una cadenza prolungata: — Bice! — Allora la
contessa, accostando le mani alla bocca, mandò all’aria il suo grido di
risposta: «oooh!»

Quel grido echeggiava ancora per la campagna e nel cuore di Silvio,
quando compare Baingio osservò:

— Il professore è distratto.

Ed era veramente così distratto, il professore, che anche a questa
osservazione non rispose nulla.

Pochi passi ancora, ed egli avrebbe raggiunto Beatrice e Cosimo, i
quali si erano arrestati; ma una singolare diffidenza di sè stesso
gli consigliò di arrestarsi alla sua volta per mantenere le distanze,
finchè fosse interamente quetato un piccolo tumulto del suo cuore.
Poichè veramente pareva che Cosimo e Beatrice si fossero dimenticati
di lui, nè si voltavano a guardarlo, tanto meglio. Ma in quella appunto
Beatrice domandò forte al marito:

— E il professore? e soggiunse voltandosi: eccolo là, il signor Orso!

Il signor Orso accorse, come se avesse le ali.

— Avete bisogno di me? chiese con sufficiente disinvoltura.

Parve a Silvio che Beatrice lo guardasse in un modo curioso, ma senza
dubbio s’ingannò perchè la contessa gli prese una mano tranquillamente,
e gli disse:

— Abbiamo bisogno che venga un po’ con noi, signor Orso.

L’accento con cui gli parlava era il solito, il sorriso era quello con
cui gli aveva aperto, inconsciamente, le porte dorate dell’amore.

«Meglio così! disse Silvio a sè stesso, il segreto è tutto mio, e di
qua non deve uscire.»

E si toccava il cuore, traboccante di felicità.

Quando furono a pochi passi dal chiuso, Angela spiccò un salto dal
muricciuolo e cadde nelle braccia di suo padre, che, indebolite dalle
febbri, appena appena la trattennero.

La fanciulla, toccando terra, barcollò un momentino, poi corse come una
cervetta incontro agli amici; Giorgio la seguì cogli occhi e sorrise.

— Povero cuor di padre! quanto deve soffrire! mormorò Beatrice.

— Ah! sì! poveretto! disse Silvio sospirando.

E fu stupito del suono falso che mandò la pietà sulle sue labbra
d’innamorato contento.

— Che cosa ci è di bello nel bosco? domandò Angela prima d’arrestarsi.

— Bisognava venirci, rispose Beatrice; perchè la signorina è rimasta?

— Mi ha contato la storia d’un bandito, disse la fanciulla accennando
con un moto del capo al falso Efisio, la storia d’un bandito buono....
il quale non aveva fatto altro male che difendere il proprio onore...
però, per difendere il proprio onore, aveva ucciso un uomo.... la
giustizia andò per pigliarlo, ma lui fuggì, attraversò il mare a nuoto,
e si nascose in un paese lontano lontano...

Silvio e Beatrice si guardarono alla sfuggita. Angela, ansimando ancora
per la corsa fatta, aggiunse:

— Non l’hanno preso, e lui non ha più fatto male a nessuno... e la
storiella è finita. Zio Silvio, quanti Efisio Pacis ci sono?

— Perchè?

— Perchè quello là si chiama Efisio Pacis, e l’altro che ci venne a
trovare la settimana scorsa a casa si chiamava pure Efisio Pacis....

— È vero; ce n’è due, rispose Silvio senza turbarsi.

— Anche questo qui ha conosciuto mia madre! conchiuse Angela,
abbassando la voce. E non disse altro, perchè Giorgio si veniva
avvicinando colle mani dietro la schiena, come un indifferente.

— Brav’uomo! gli chiese Angela; come si chiamava quel bandito?

— Ah! Non chiamarlo così, disse Beatrice.

— Come devo dire? Signor Efisio, ripetè, come si chiamava quel bandito?

Giorgio si avvicinò, e mettendo una mano sull’omero di Angela:

— Non mi chiamare: _signore_; io sono un poveretto.

— Come la devo chiamare?

— I fanciulli dello stazzo mi chiamano _babbo Efisio_.

Angela fece una smorfietta colle labbra per fare intendere che essa
non era da mettere a confronto coi fanciulli — però non si ribellò, e
chiese per la terza volta:

— Babbo Efisio, come si chiamava quel bandito?

A babbo Efisio tremò la voce nel rispondere che non lo sapeva.



IX.


A Silvio era toccato un letto portentoso, una vera sepoltura imbottita,
in cui si doveva sprofondare sconfinatamente nella regione dei sogni;
ma appena egli fu arrivato al fondo della sua buca, ed ebbe augurato la
buona notte a Cosimo, aprì gli occhi nel buio, e stette in ascolto.

Nella vicina camera, Angela e Beatrice ridevano ancora, prima di
cacciarsi nel lettone del patriarca. Dall’altra stanza, in cui si
supponeva che dormissero i giovani pastori, giungeva uno strano
rumorio, come di risate sommesse, di paglia rimossa, e di spintoni che
ogni tanto facevano tremare la parete di canne; era chiaro che i bravi
ragazzi prima d’abbandonarsi al sonno, si tiravano addosso i letti. Il
professore seguiva colla mente quella scenetta; non era vero che egli
avesse trentatre anni sonati; si sentiva capace anche lui di cacciarsi
ad occhi chiusi in un monte di paglia, e di aprirsi la via colla
testa e colle mani sino a venir fuori dalla parte opposta. Ma a poco a
poco ogni rumore cessò, si spensero i raggi di luce che infilavano le
fessure sotto gli usci, dormirono tutti.

Silvio no.

Tendendo l’orecchio nel buio, egli sentiva la respirazione di Cosimo.
Quella era la respirazione tranquilla di un uomo sicuro della propria
felicità, dalla quale non lo separavano che un tramezzo di canne e
una notte di sonno — e perciò egli si era affrettato a dormire, perchè
sapeva di ritrovare all’alba la sua donna, la compagna di tutta la sua
vita.

Pensando così, Silvio non era invidioso, nè indiscreto; riconosceva
di buon grado che Cosimo era nel suo diritto, e si compiaceva di
vedere che l’amore, entrando ancora una volta nel suo vecchio cuore
disoccupato, non vi svegliava nè desiderii, nè speranze, ma solo una
musica, una gran musica.

Quante volte aveva amato Silvio?

Egli stesso si faceva questa domanda maligna, ma per rispondere che
l’uomo non ama se non una sola volta, l’ultima.

Ora soltanto, egli aveva fiducia in sè stesso; ai fantasmi amorosi
che avevano vissuto un’ora nel suo cervello di giovinetto, non nel suo
cuore maturo, egli poteva dire senza rancore nè ira: «svanite, voi non
foste mai altro che le promesse dell’amore!»

E veramente questa volta, dopo la lunga tregua concessa agli studii di
agronomia e di filosofia sociale, l’amore si annunziava al professore
molto diversamente da quello che era apparso allo studente; dava
all’agronomo, dava al filosofo lusinghe affatto dissimili, salvo in
questo che erano innocenti del pari. — A diciasette anni — se lo
ricordava ancora! — Silvio aveva amato una donna di trentacinque,
bella e piena di giudizio; l’aveva amata perchè a quell’età si ama
l’avvenire, e l’avvenire a quell’età è l’amore. Non così ora, lo
sentiva bene — ma sarebbe stato imbarazzatissimo a dire com’era. Ecco:
era come se, dopo aver camminato lungamente, senza riflettere, per
vie ignote e faticose, si arrestasse a un tratto a guardarsi intorno,
e tentasse invano di riconoscere i luoghi e sè stesso — ed era come
se Beatrice pigliasse per mano questo povero Dante della commedia
umana e gli dicesse: «Amami, e ritroverai te stesso e avrai potenza di
arrestare il tempo che t’inghiotte.»

Nulla di ciò che poteva offendere l’amicizia appannava la lucentezza
di quell’amore, che nasceva appena e già sembrava essere sempre stato.
Silvio si era fatto delle domande brutali, e la coscienza, dopo averlo
torturato un istante, gli aveva risposto tranquillamente: «_Amali._
Sì, _amali!_ Lei e lui, entrambi; confondili nella segreta adorazione
dell’anima tua, veglia tu sulla loro felicità.»

Silvio, quella notte, poichè ebbe così sognato lungamente ad occhi
aperti, si addormentò, continuando il suo sogno. Ma egli era levato
prima del sole e pensava a suo fratello.

L’amoroso egoismo lo aveva trattenuto abbastanza; ora si accusava di
non aver quasi pensato a quel povero padre agonizzante sul limitare
d’un altro amore.

Si vestì in silenzio, aprì l’uscio, e guidato dalla luce crepuscolare,
attraversò lo stanzone in cui giacevano confusamente i pastori
mezzo sepolti nella paglia. La porta dello stazzo era chiusa con una
stanga; egli l’aprì senza far rumore, e venne all’aperto. L’aria era
rinfrescata da un venticello che correva in silenzio sulla campagna
nuda; una pecora belava sommessamente nel vicino chiuso senza
risvegliare il mastino di guardia; le ultime stelle rimaste accese nel
cielo, lasciavano cadere un raggio melanconico.

Silvio aprì il petto largamente a quell’aria mattutina, e disse ai
campi una nota della musica che gli empiva il cuore; una parola, un
nome: Beatrice!

— Silvio! mormorò una voce accanto a lui.

Si volse — gli stava dinanzi suo fratello.

— Non ho potuto dormire, disse Giorgio, stanotte la mia capanna era
piena di melanconia; _Su Mazzone_ è di malumore, perchè Mariantonia
ritorna a Tempio col suo fidanzato; ma ora dorme almeno; a me non è
stato possibile; il cuore mi ha servito tutto ieri, oggi si vendica.

— Povero Giorgio!

— Non mi compiangere, fratello mio; io sono contento; tutto va bene;
mia figlia non mi conosce, e non sospetta di nulla — mi torneranno le
forze, verrò a vedervi.

Silvio aveva gettato un braccio al collo del fratello, e cercava di
condurlo verso la capanna, per parlare a _Su Mazzone_, ma Giorgio non
faceva un passo.

— A quest’ora, disse Silvio, _Su Mazzone_ è sveglio, andiamogli
incontro.

— No, rispose Giorgio, egli verrà qui; eccolo!

Infatti il bandito svoltava allora dal muricciuolo d’un chiuso;
camminava diritto, guardando innanzi a sè, e _Brigadiere_ spiccava
salti per mettere la testa sotto le mani del padrone, che penzolavano
senza carezze.

Il bandito s’avanzava, svegliando intorno a sè le rondini e le
cingallegre che si levavano a volo con un grido di festa; un momento
dopo, vide i due fratelli, e gridò loro _Buongiorno_ affrettando il
passo e sorridendo; comprendeva che il suo piccolo dolore non aveva
diritto di manifestarsi dove era un padre messo a quella tortura.

I tre amici, andando su o giù senza scostarsi dalla casa, perchè
Giorgio voleva essere là quando sua figlia affacciasse il visino bianco
alla finestra, combinarono lungamente il da fare.

Poco dopo i giovani pastori uscirono dallo stazzo, colle teste
ravvolte ancora nelle pezzuole, e colle festuche di paglia attaccate
al cappotto; per scuotersi il sonno di dosso, si davano a vicenda
gran palmate sulle spalle; i greggi si svegliavano nei chiusi empiendo
l’aria di belati e di muggiti, e i mastini aggiungevano le loro grosse
voci al concerto.

Nessuno avrebbe potuto trattenere il sonno in quel frastuono.
Infatti pochi minuti dopo, erano tutti nel cortile, o alle finestre
che si spalancavano rumorosamente; Bastiana, Anna Maria, Nicoletta,
Giannandrea _il Lungo_, Ciccito Scano e gli altri. Una finestra sola
non si aprì, e Beatrice venne sull’uscio, con suo marito, ad annunziare
che Angela dormiva ancora.

Ma quando arrivarono i pastori con le gran tinozze di latte appena
munto, la finestra si aprì, e Angela si affacciò a chiedere la sua
porzione.

— Babbo Efisio, disse, ho un appetito, un appetito!

Beatrice anch’essa aveva appetito.

E Silvio? Silvio niente affatto.

— Lei vive d’aria, gli disse la contessa accettando da lui una ciotola
di latte.

— Come gl’innamorati! aggiunse Cosimo.

Il professore si chinò prontamente ad attingere nella tinozza una
ciotola di latte, e la bevve d’un fiato. Rialzando il capo dalla
ciotola, trovò che Beatrice aveva preso la mano di Cosimo e lo
trascinava per fargli ammirare il curioso spettacolo d’un gregge che
voleva saltare un chiuso, ma che era tenuto a segno dai latrati del
mastino. Silvio, come spinto dal suo demonio, li volle seguire. «Ho
freddo» disse allora Beatrice stringendo le spalle in un brivido, e
il professore si precipitò a prenderle uno sciallo — ma tutta la sua
baldanza era svanita, perchè comprendeva che Beatrice aveva voluto
rimaner sola col marito.

— Gli vuol dire qualche cosa, — pensava — che cosa mai gli vuol dire?

Tornando collo sciallo, trovò infatti che Beatrice non ne avea più
bisogno; non era stato altro che un brivido, ora era passato, e Silvio
si domandò invano: «che cosa mai gli ha detto?» Nulla che dovesse
offendere lui, certamente, perchè gli sorridevano entrambi. — Lo ama
tanto! pensò allora Silvio; ma non disse a sè stesso come la vigilia:
«veglia tu sulla loro felicità!» Ora si sentiva troppo debole.

Un’ora dopo i cavalli venivano condotti dinanzi allo stazzo, e gli
ospiti dissero addio ai pastori.

Giorgio si ora appoggiato ad un albero e chiedeva al proprio cuore un
ultimo sforzo.

— Babbo Efisio, addio, gli venne a dire Angela.

Il falso Efisio non rispose, ma prese fra le sue mani la testina
d’Angela e la baciò in fronte. Gli occhi degli amici erano fissi sopra
di lui in quel gran momento, ma egli fu forte.

— Addio! disse; io verrò a Sassari e ci vedremo ancora.

Silvio, già montato a cavallo, aspettava la sua donna, senza fiatare.
Suo fratello gli disse:

— Ciccito Scano riconduce a Tempio Mariantonia; chi porta in groppa
Angela?

— E la Contessa? balbettò Silvio.

— Mi porta Cosimo, disse Beatrice, non abbiamo paura.

Allora Giorgio aiutò la fanciulla a salire in groppa del fratello,
mentre Giannandrea aiutava Beatrice.

Salute! salute!.... Si avviarono.

Giorgio rimase in piedi finchè potè vedere sua figlia, che se n’andava
lieta com’era venuta, empiendo l’aria di domande allegre. Quando la
cavalcata sparve dietro un gruppo d’alberi, il povero padre abbandonato
sentì che tutte le forze gli venivano meno e cadde bocconi mormorando:
«il cuore non le ha detto nulla!...»

— Compare Efisio! Compare Efisio! Vi sentite male?

— Non è nulla, entrò a dire _Su Mazzone_, egli è ancora debole, ed ha
fatto uno sforzo per mettere in sella la ragazza — sono cose da lasciar
fare ai sani!

Si curvò sul corpo dell’amico, e gli disse in un orecchio: «vuoi
vederla ancora?»

— È possibile? chiese Giorgio balzando in piedi.

— Sì, se affrettiamo il passo; fra mezz’ora i cavalli saranno
all’entrata del bosco, la strada fa un lungo giro; tagliando diritto
pei campi, vi possiamo giungere in mezz’ora anche noi.... Ma dopo?

— Non importa, disse Giorgio, e si avviò, senza dare alcuna spiegazione
ai pastori che lo guardavano maravigliati. _Su Mazzone_, voltandosi a
Giannandrea, spiegò quel mistero così: — ha dimenticato di dire qualche
cosa a Mariantonia, bisogna arrivare prima di loro al bosco.... si va e
si torna.

E in pochi salti ebbe raggiunto il compagno.

— Anch’io mi sento solo, disse al bandito; Mariantonia se ne va!

— Dio mio! mormorava Giorgio, costringendo il suo compagno a fare
ogni tanto un lieve tratto di corsa per istargli a paro; fatemi questa
grazia!

E non si fidando nella bontà divina, affrettava ancora il passo.


Quando il giorno dopo, a tarda sera, la piccola brigata faceva ritorno
a Sassari, nei due biroccini, la prima persona che Silvio, smontando,
si vide venire al fianco nel buio fu _Su Mazzone_.

— Che cosa è stato?

— Egli è qua, rispose il bandito, stringendosi nelle spalle — non mi è
stato possibile tenerlo; ora che ha visto sua figlia, dice che non può
vivere lontano da essa. Bisogna compatirlo. Mi ha promesso che non farà
pazzie.



X.

UNA PAGINA DEL QUADERNO D’ANGELA.


Dunque una volta vi era un bandito, che si chiamava... come si
chiamasse, babbo Efisio non lo sa. Ma non bisogna contarla così —
ricominciamo.

Una volta vi era un ricco signore, e vi era una signorina bella bella,
che si erano innamorati e poi sposati; la signorina però, prima di
pigliare marito, aveva promesso di sposare un altro; e questo qui,
vedendosi rubare la moglie, andò in collera e giurò di vendicarsi.

Un giorno i due sposi andavano da un paese ad un altro a cavallo,
accompagnati da un pastore, vecchio amico di casa. La sposa cavalcava
un baio mansueto come un agnellino, e precedeva il marito e il
pastore nella strada deserta; quando, svoltando fra due siepi di fichi
d’india, la sposina si trovò faccia a faccia col suo primo innamorato,
con quello che era in collera perchè non l’aveva potuta sposare.
Quell’uomo, che aveva giurato di vendicarsi, era a cavallo anche lui ed
aveva molti compagni dietro, a cavallo tutti. Egli attraversò la strada
col suo sauro, ed afferrò il baio della signora per la briglia; la
signora gridava, perchè quell’uomo, che era sempre stato brutto, quando
era in collera diventava ancora più brutto; gridava e chiamava suo
marito.

Intanto l’uomo che l’aveva voluta sposare le afferrò la testa, e
dicendole che era venuta finalmente l’ora della vendetta, la baciò
molto volte dinanzi a tutti.

Io dico che per un uomo che era tanto in collera, si contentava
di poco; ma la signora non la pensava così; e suo marito nemmeno.
Lei gridava, gridava, e intanto percuoteva sulla faccia quell’uomo
frenetico, a rischio di farlo arrabbiare di più; il marito, a quelle
grida, arrivò di corsa.

Vedendosi baciar la sposa dinanzi a tanta gente, spinse il cavallo
addosso al suo rivale; ma tutta quella gente gli si mise intorno, ed
egli non potè far altro se non dire forte al nemico che se non era il
più vile degli uomini, se non voleva che lo schiaffeggiasse nel caffè
o sulla strada o in chiesa, la prima volta che lo incontrasse, doveva
aspettarlo lì un’oretta, per ammazzarsi lealmente alla presenza dei
testimoni. L’altro disse di sì, che lo avrebbe aspettato; la sposa era
pallida come una morta, e per non cadere da cavallo si appoggiava al
braccio del pastore.

Proseguirono la strada; la sposa tremava e piangeva; il marito cercava
di consolarla e di farle coraggio; andarono prima a casa, poi il
pastore e lo sposo tornarono alla campagna, ma non vi era più nessuno.

Mentre stanno lì a guardare di qua e di là, sentono alle spalle lo
sparo d’una schioppettata e una palla fischia all’orecchio dello sposo.
Si voltano e vedono in un oliveto molte persone a piedi che fuggono;
ma ce n’era ancora una dietro un grosso albero di ulivo, e questa non
aveva avuto tempo di fuggire — era lui, l’uomo che aveva baciato la
sposa.

Accorgendosi che l’avevano veduto, non osava andarsene per paura di
pigliarsi una schioppettata; stettero così un bel poco, i due uomini
sulla strada, a cavallo, l’altro dietro l’albero, di là dal muro
dell’oliveto, ma senza potersi muovere.

Poi lo sposo disse al compagno, in modo da farsi udire: — Tu rimani
qui, perchè non fugga, io vado a stanare quel coniglio... — Sentendosi
dare del coniglio, l’uomo nascosto si mostrò, e senza dire nulla spianò
il fucile, ma gli altri due furono più pronti, spararono prima di lui
e lo fecero cadere a terra morto. Lasciarono il cadavere nell’oliveto;
tornarono prima a casa, poi alla macchia, e divennero banditi. La
giustizia cercò di pigliarli, ma non vi riuscì; allora fece il processo
e li condannò tutti o due a morte; il pastore se n’andò sui monti, il
marito della bella signora una notte si buttò in mare, dopo aver accesa
una fiammata sopra uno scoglio; una barca di contrabbandieri gli venne
incontro e lo portò lontano lontano, dove il poveretto soffrì molto.

Questa storiella me l’ha contata babbo Efisio, che è un pastore
melanconico, che deve aver sofferto molto, e mi sembra ancora un po’
malato; io l’ho tenuta in mente per poterla scrivere, e la scrivo per
non dimenticarmela mai più. La storia dell’uomo che fu condannato a
morte per aver difeso la propria vita potrebbe essere quella di mio
padre. Babbo Efisio mi ha detto di non sapere il nome del bandito, ma
forse perchè io glie lo dimandai in faccia agli altri; egli pure deve
sapere che tutti hanno giurato di non parlarmi mai di mio padre. Babbo
Efisio verrà presto a Sassari, me l’ha promesso; ed io lo interrogherò
in segreto; se è vero che mi vuol bene, non ricuserà di dirmi tutto
quello che sa. Perchè mai babbo Efisio mi vuol bene, se mi ha visto
ieri per la prima volta? perchè anche lui aveva una figlia della mia
età, che si chiamava Angela come me, e poi ha conosciuto la mia mamma,
ha conosciuto la mia nonna. Possibile che non abbia anche conosciuto
mio padre?

La Gallura è un luogo montagnoso; Tempio è una città tutta di granito,
ha una bella fontana, e le ragazze e le donne portano in testa la
brocca piena senza tenerla colle mani; l’acqua di Tempio è buona; i
letti di Tempio sono troppo alti. Ho attraversato una _cussorgia_,
ho visitato uno _stazzo_; ho visto tirare al bersaglio e non ho avuto
paura, i pastori hanno improvvisato delle poesie, io ho dato e ricevuto
molti baci. Mi pare di non aver dimenticato nulla.

Ah! zio Silvio è di malumore; per tutta la strada, dallo stazzo a
Tempio, mi ha portata in groppa, ma non gli ho potuto cavare una
parola.

Poco fa ho sentito lo zio Cosimo che diceva a Bice: — Te ne sei
accorta? Hai indovinato il suo male? — Parlavano sicuramente dello zio
Silvio. Pare che anche Bice abbia indovinato il male di zio Silvio. Io,
già, non posso sapere mai nulla.



XI.


La notte medesima del ritorno a Sassari, Silvio aveva visto suo
fratello, e trovandolo risoluto a sfidare ogni cosa meglio che vivere
lontano da sua figlia, gli aveva aperto la casa di _Speranza Nostra_,
dove, colla prudenza, Efisio Pacis avrebbe potuto forse vivere senza
destar sospetti.

A Giovanni ed a Pantaleo il nuovo ospite del podere era stato
presentato come un parente di Silvio, che aveva sempre vissuto
in campagna, fra i pastori, e che veniva appunto dalla Gallura
coll’intenzione di dirigere la manipolazione del cacio e del burro.
Angela aveva trovato la cosa naturalissima; essa non si era fatta
un’idea chiara della gita allo stazzo, e la venuta d’un pastore nel
podere dava almeno uno scopo a quel viaggio.

Ora capiva: prima Efisio Pacis non si sapeva risolvere ad abbandonare
lo stazzo, perchè non si sentiva molto bene, ed aveva male al cuore;
poi sentendosi meglio, aveva mutato parere, e senza perdere tempo, era
venuto.

Così pochi giorni dopo il falso Efisio aveva il governo di _Speranza
Nostra_. Egli fin dal primo giorno si era tenuto in disparte il più
possibile per non gettare ombra sul cuoco Giovanni, il quale aveva
preso sul serio le parole del professore e si preparava ad esercitare
sugli uomini e sulle cose del padrone una dolce tirannia; ma Giorgio
era subito entrato nelle sue grazie, non abusando della confidenza che
Silvio gli dimostrava, nè dei vincoli di parentela che lo univano ai
proprietari legittimi di _Speranza Nostra_.

Aveva la parola misurata e l’accento grave, il nuovo ospite, ma quando
sorrideva si lasciava leggere in faccia un’anima generosa e forte. Ne
aveva fatta l’osservazione Giovanni.

— Vedi — egli aveva detto a Pantaleo la sera stessa dell’arrivo del
_parente_ — non devi già metterti in capo che qui si abbia ad esser
noi soli padroni e signori, qui verrà molta gente e ciascuno di noi
dovrà stare al suo posto; il tuo posto è sul biroccino e sul carro; il
mio è in casa e in campagna a invigilare i lavori e a darvi una mano;
questo Efisio che è arrivato ora pare forte nel burro e nel cacio, ed
io lo rispetto; è un po’ melanconico, ma ha un bel sorriso, hai notato?
guarda, egli fa così quando sorride; a me non riesce proprio bene,
perchè non ho la barba come lui, e poi sono più grasso: rispettiamoci
tutti e tre; se domani ne verrà un altro, domani dirò: rispettiamoci
tutti e quattro. La casa è grande abbastanza e la campagna è grande fin
troppo.

Pantaleo, che non aveva dubitato un momento della bontà di questo
metodo, anche senza afferrare bene il significato delle raccomandazioni
del suo collega, gli diede un sacco di ragioni, e le cose si avviarono
benone.

Già erano cominciati i lavori che il professore stesso veniva a
dirigere ogni giorno; la mattina, un’ora dopo il levar del sole,
arrivava da Sassari un drappello di zappatori colla zappetta sull’omero
e la pipa di terra in bocca; appena arrivati, supponendo d’essere
stanchi della camminata che avrebbe potuto essere più lunga, si
buttavano sopra le panche di sasso a riposarsi, facendo una seconda
pipata, oppure addentando una pagnotta bianca sfornata da poco
e ancora tiepida. Giovanni passeggiava su e giù in mezzo a quei
singolari contadini, non sapendo decidere se dovesse ammirarli in
silenzio o colmarli d’invettive a voce alta; solamente se il falso
Efisio, pigliando qualche volta animo, veniva a mettersi in mezzo
a tutta quella gente riunita e domandava al cuoco che cosa facesse,
Giovanni rispondeva con un risolino: Sorveglio i lavori. Gli zappatori
intendevano subito la celia e ridevano, finchè uno dei più scrupolosi
si alzava a guardare il sole, e trovandolo abbastanza alto, diceva
schiettamente ai compagni: «Andiamo, poltroni!»

I primi lavori che Silvio ordinò furono certi scavi nel letto del
ruscello, in fondo alla valle, perchè l’acqua non facesse pozzanghere
e scorresse libera nel suo pendìo naturale; erano lavori difficili, nei
quali non tutti gli zappatori facevano buona prova, ma solamente quelli
che non avevano timore di cacciarsi, al bisogno, nell’acqua fino alle
ginocchia e di adoperare qualche volta la odiata vanga, invece della
zappa. Quando le acque del ruscelletto si furono confuse in un solo
bacino, bisognò regolare il letto, dargli un’arginatura e impedire che
le pioggie autunnali lo colmassero un’altra volta facendovi rotolare
il terriccio. I lavori si portarono ai due versanti, e consisterono
nell’aumentare le piantagioni diradate del bosco e quelle del vigneto
quasi calvo, aggiungendovi qualche centinaio di vitigni delle migliori
qualità isolane, quanti ce ne potevano stare, poi nello scavare dei
solchi paralleli, dall’alto al basso, adattandovi delle tegole per
farne una specie di canale. In ultimo Silvio ordinò la ricerca delle
sorgenti, che erano molte in _Speranza Nostra_, dove ogni rupe stillava
acqua da bere. Siccome quel lavoro richiedeva l’opera dei muratori,
Silvio andò una sera alla porta Macello, ed ebbe subito la fortuna di
trovare una mezza dozzina di muratori senza lavoro, che il giorno dopo
arrivarono coi picconi e colle cazzuole. Silvio era stato prudente ed
aveva fatto trovare sull’atrio un mucchio di calce ed uno di sabbia, e
parecchi secchioni, così non si perdette tempo; i muratori attaccarono
la rupe in più luoghi, costrinsero le acque, turando alcune fessure per
cui trapelavano, a pigliare un’uscita sola, e le avviarono poi, lungo i
canaletti, al ruscello.

Tutti questi lavori ed altri che si venivano dimostrando necessari
man mano, occuparono molte giornate, durante le quali Silvio era in
campagna giorno e notte, e suo fratello tornava a poco a poco alla
salute.

Cosimo dal canto suo non rimaneva inerte; egli s’era preso anzi la
parte più difficile; aveva pensato a fornire le macchine necessarie
alle varie fabbricazioni, i torchi di nuovo modello, tutti di ferro, in
luogo dell’unico torchio di legno, mezzo sconquassato, che si vedeva
nella casa di _Speranza Nostra_, un torchio vecchio quanto le più
vecchie piante dell’oliveto, le quali, per risparmiargli la fatica, da
molti anni non davano più frutto. Ci erano volute pure macine nuove,
attrezzi e forme per il burro e per il cacio; ed era bisognato pensare
anche all’adattamento dell’edifizio. Tutto ciò teneva il conte Cosimo
in faccende dalla mattina alla sera; egli era spesso sulla spianata
dinanzi alla casa, col capomastro e coi muratori, quando Silvio era nel
bosco per regolare il taglio o disporre le nuove piantagioni; Pantaleo
era sempre in moto, colla carretta o col carrettone, a trasportare
pezzi di macchine, attrezzi e macine che si venivano accumulando in
uno stanzone a terreno; il cuoco Giovanni, ancora non interamente
rapito dal suo destino alle esalazioni delle casseruole, era un po’
da per tutto, sorvegliando i lavori; ma due volte il giorno, a certe
ore determinate, si trovava sempre dinanzi ai fornelli rovinati della
cucina a preparare alla meglio la colazione e il desinare, per Silvio,
per il _parente_ e per sè stesso, e quando veniva Beatrice ed Angela,
il che seguiva di frequente, coll’accompagnatura di Annetta, del
vecchio Ambrogio e di Cecchino, l’antico cuoco riappariva sfolgorante
ma nervoso, per causa dei fornelli che nessuno pensava ad accomodare,
dopo tante promesse.

Finchè era durato il lavoro affannoso, Silvio era stato benone;
quell’inquilino bisbetico, a cui egli aveva concesso alloggio nel
proprio cuore, non gli dava noia; tutt’altro. Fin dal primo giorno nel
cortile dello stazzo, passato appena il nuovo sgomento, il professore
aveva capito che il mal d’amore può essere un bene, e che egli potrebbe
vivere in pace colla propria coscienza portando l’immagine di Beatrice
dentro il cuore come in un altare, ed adorandola ogni tanto in segreto.
Quasi quasi era tentato di dire che non era Beatrice quella che egli
amava, ma l’amore soltanto — paradosso, profanazione, ma insomma, a
voler esser sinceri, quasi quasi era così. Ed era meglio.

I lavori di _Speranza Nostra_ avevano afferrato Silvio appena tornato
a Sassari, per non lasciargli più requie; il secondo giorno, invece di
tornare alla casetta del _Mulino a vento_ a desinare, gli parve più
spiccio e più comodo ricorrere alla cucina di Giovanni, e accettare
il letto che gli poteva offrire _Speranza Nostra_. E quel giorno,
rinunziando a vedere Beatrice, immaginò d’essere forte, e si compiacque
di avere tanta padronanza sul proprio cuore. La mattina successiva,
al momento di ripigliare la direzione dei lavori, sentì, è vero, che
gli battevano i polsi, come per febbre, e che l’immagine di Beatrice
lo precedeva d’un passo dovunque andasse; e durante il giorno confessò
più volte a sè stesso che quella giornata non finiva più; ma quando
fu l’ora di lasciare il podere per tornare alla casetta, andò fino
allo stradone e tornò indietro a capo basso. E il suo amor proprio
fu ingegnoso nel fargli credere che anche questa volta, passando la
notte in campagna, egli non faceva se non dimostrare la propria forza.
In seguito, presa la precauzione di giustificarsi col pretesto di una
grande stanchezza, Silvio non solo non tornò al _Mulino a vento_, per
passarvi la notte, ma se Beatrice veniva al podere e chiedeva di lui,
o gli andava incontro addirittura cercandolo nel vigneto o nel bosco,
egli, come la vedeva da lontano, si sentiva martellare il petto,
e qualche volta si nascondeva nel bosco e nel vigneto, meglio d’un
ladroncello. Quando questo gli fu accaduto un paio di volte, non ebbe
più l’ipocrisia di dire a sè stesso che, rimanendo in campagna, dava
una prova di saldezza — e per riguadagnare quella forza che gli pareva
di venir perdendo col sottrarsi alla lotta, decise di accettare la
battaglia.

Una mattina, mettendosi dinanzi a uno specchietto appeso alla finestra,
tanto per parlare a qualcuno, disse forte: «stasera dopo i lavori,
tornerò a casa, è meglio vederla.» E lo specchietto gli rispose: «hai
la barba lunga, non faresti male a raderti.»

Egli non aveva rasoio; ma a Pantaleo ne erano rimasti due, inglesi e
sopraffini, diventati inutili dacchè la faccia dell’antico cocchiere si
veniva rimboscando a vista d’occhio. Silvio, poichè fu sbarbato, scese
per distribuire i lavori; e accadde che, dati alcuni ordini, affidato
il compito della vigilanza a suo fratello ed a Giovanni, non gli
rimaneva proprio nulla d’urgente a fare, e nessuna voglia di fare cose
che non urgessero.

— Vado a casa, disse baldanzosamente a Giorgio, se posso indurre Angela
a venire, te la conduco.

Per via, Silvio si rappresentò in più modi la scenetta che doveva
seguire; s’immaginò di piombare a casa e di trovare Beatrice, Cosimo
ed Angela, riuniti nella sala da pranzo, la casa echeggiante di
allegre rampogne e di proteste e di risate; oppure d’essere veduto
dalla finestra e che gli venissero incontro per un tratto di via;
ovvero ancora di non trovar nessuno in casa e di piantarsi in salotto,
nel seggiolone a dondolo, per fare un’improvvisata agli amici quando
tornassero. Egli era preparato in tutti i modi; aveva le scuse pronte,
la celia in serbo, la risata sulle labbra.

A poca distanza dalla casetta del _Mulino a vento_, rallentò il passo
per istinto e sulla soglia il cuore gli batteva forte; attraversò il
corridoio senza dar tempo ad Annetta di improvvisare una bellissima
scena di meraviglia, e corse alla sala da pranzo.

Beatrice era sola.


Il professore non era più in tempo a fuggire, perchè la bella amica lo
aveva veduto e gli sorrideva.

— Qual buon vento? disse, posando nel cestello il lavoro di ricamo, ed
alzandosi prontamente in piedi.

Quell’accoglienza cordiale diede agio a Silvio di ricomporsi; una
busta da lettere caduta dal grembo di Beatrice e che egli si chinò a
raccogliere, l’aiutò pure a celare il proprio turbamento.

— Lasci stare, disse Beatrice, non è che una busta vuota; grazie.

Prese la busta e la cacciò in tasca, e Silvio vide scendere sul bel
viso un velo di melanconia.

— Segga qui, disse Beatrice con un’allegria nervosa, e mi parli di
_Speranza Nostra_; sa che l’altro ieri mi stancai a cercarla; sì lei...
proprio lei...! io andava nel vigneto, e lei era nel bosco; io andava
nel bosco, e lei era nel vigneto; allora mi posi a sedere sotto le
palme per aspettarlo; oh! sì, aspetta! ho dovuto tornarmene a casa
senza vederla.

— Lei cerca Cosimo od Angela; soggiunse la contessa senza dargli
tempo a scusarsi. — Cosimo è uscito poco fa, Angela è ancora nella sua
camera...

Silvio, ridiventato padrone di sè e non vedendo nulla di male sulla
faccia della contessa, prese a spiegare all’amica sua le nuove
disposizioni date al podere. Beatrice era curiosa, voleva sapere perchè
erano stati turati certi forellini da cui una rupe mandava acqua,
per lasciarne uno solo; voleva sapere se gli scavi paralleli fino
al ruscello erano proprio necessari — e il professore le spiegò ogni
cosa. Quando le disse che i lavori fatti finora non avevano che un solo
intento: permettere alle acque di andarsene al fondo senza disperdersi
inutilmente, e che tuttociò doveva rendere sana l’aria di _Speranza
Nostra_ e cacciare le terzane che vi abitavano, benigne ma insistenti,
tutte le estati, Beatrice battè le mani, ed annunziò che aveva
intenzione di andare a stare tutto il mese di settembre in campagna.

— Qui mi annoio! confessò con una smorfietta infantile; il mio povero
Cosimo lavora come un martire, è quasi sempre fuori di casa, e se non
ci fosse Angela, mi toccherebbe starmene tutto il santo giorno sola
colla cameriera... Atto unico, scena unica — aggiunse con malizia — la
contessa Beatrice e Annetta.

Rise, poi si rifece seria per domandare a Silvio se gli pareva che
Cosimo fosse proprio contento. A Silvio pareva di sì. — Proprio? —
Proprio; perchè non doveva essere? — Perchè... perchè... gli uomini
hanno tante cose per la testa; non sono come le donne, alle quali basta
sapersi amate per credersi in Paradiso.

Il professore si assicurò con un’occhiata fuggitiva che non si trattava
di lui. No, non si trattava di lui — si trattava sempre di Cosimo.

— E dica, professore, crede lei che mio marito non soffra della nuova
vita? È contento di me? Non gli dica, sa? che io mi annoio... qualche
volta... qualche volta soltanto; io non mi annoio se non quando lui
va fuori di casa, appena torna, sono felice; siamo felici. Io lo
dico ogni giorno che siamo felici! Veda, professore, io sono un poco
superstiziosa, e qualche volta ho perfino paura della mia felicità,
temo che mi debba toccare qualche dispiacere. L’altra mattina — ora la
faccio ridere — l’altra mattina mi punsi un dito coll’ago di ricamo,
e ne ebbi piacere; dicevo: è la mia porzione di dolore, per tutta la
giornata posso essere felice. Io mi pungerei tutte le mattine coll’ago
da ricamo, e lei professore? Lei no, perchè non ricama.

Invece sì, il professore assicurò che si pungerebbe anche lui.
Quella ciancia allegra lo impacciava più d’un enigma; era venuto per
combattere sè stesso da eroe, e trovava che il proprio avversario e
lui, tutti e due, erano già messi fuori di combattimento.

— Mi parli di lei, diceva Beatrice, fissandolo con due occhioni
ingenui, mi parli di Giorgio; mi dica, mi dica, come sta ora? Avevo
timore che Angela entrasse in sospetto, che mi facesse le sue solite
domande, a cui non so come rispondere; manco male che l’ho passata
liscia, ma, diciamolo pure, ci siamo portati bene, professore. Io
già non aspettava tanto da me; l’avevo detto al mio Cosimo: lasciami
stare a casa, gli avevo detto, se tu mi conduci, ti assicuro che io
guasto tutto; veder quel povero padre, e piangere, e fare la frittata,
sarà tutt’uno — te lo prometto. Ma lui ha insistito, ha voluto che io
vedessi uno stazzo di Gallura, povero Cosimo! non sa più che cosa farmi
vedere per divagarmi; basta, ora tutto va bene. Proprio vero che tante
volte l’immaginazione ingrossa le cose e ci fa sembrare troppo piccini;
proprio vero, signor Silvio! Dunque mi parli di lei;... se sapesse! al
mio Cosimo era venuta un’idea...

Istintivamente Silvio ebbe paura dell’idea che era venuta a Cosimo, e
si affrettò a sviare il discorso, parlando di Cosimo stesso.

— Ah! sì, mi parli di mio marito;... dica, dica...

— Lei vuol sapere se egli è contento, se è felice, se ha tutto quello
che può desiderare; ebbene sì, è felice, e si contenta. Non gli manca
nulla. _Speranza Nostra_ gli dà da fare; fra poco comincerà l’opera
sua più difficile, ha piantato i nuovi torchi e le nuove macine per le
ulive, ora dovrà pensare alla fabbricazione del vino e ad un lambicco
per distillare l’alcool dalle raspe... Anche dalle frutta che sono
lasciate infracidire sulle piante, ci è da ricavare un buon prodotto di
alcool e di glucosio.

Bisognò spiegare a Beatrice che cosa era il glucosio; e quando Silvio
tacque, perchè del glucosio non gli rimaneva più nulla a dire, l’amica
sua sospirò come se del glucosio non si fosse nemmeno parlato: «Povero
Cosimo! è tanto buono! Se sapesse quanto vuol bene a lei!»

Il professore lo sapeva.

— E suo fratello, domandò la contessa, che cosa conta di fare?

Ah! — un gran sospiro — era impossibile ottenere la revisione del
processo, se non si presentavano gli accusati — almeno uno. _Su
Mazzone_ l’avrebbe fatto, assicurandosi prima di qualche testimonianza
favorevole; perchè oramai i rancori erano addormentati e non doveva
essere difficile; ma il bandito aveva avuto la disgrazia d’ammazzare un
cavalleggiere per difendersi e di storpiare nella stessa occasione un
pastore che aveva fatto la spia; non poteva presentarsi alla giustizia,
perchè in ogni modo l’avrebbero condannato. — Dunque? — Dunque non vi
era nulla a fare. — Impossibile! — come mai, trovando testimoni che
deponessero in favore di Giorgio...? Ma allora che giustizia era?...

— La giustizia, conchiuse Silvio, dice all’accusato: se tu sei
innocente, non aver paura di me, vieni ed io ti giudicherò un’altra
volta.

— Grazie tante! esclamò la giovane donna; spero bene che suo fratello
non darà retta a quello che dice la giustizia. — Ma non ci è altro
modo?... possibile! ha provato a consultare qualche avvocato?

Silvio aveva temuto di chiamare l’attenzione sul caso di Giorgio;
poteva bastare una parola imprudente a risvegliare i sospetti della
giustizia...

— Scriva, consigliò Beatrice, scriva a un consulente di Milano.

— È vero! non ci aveva pensato! scriverò....

— Scriva subito.

E la contessa, con quella dolce autorità con cui si comandano le buone
azioni, aprì al professore la propria scrivania a ribalta, e gli pose
dinanzi la carta e il calamaio.

Dall’alto del calamaio quel tal amorino crudele scoccò una freccia
oramai inutile.

Silvio stette un po’ a riflettere, prima per scegliere l’avvocato
milanese a cui proporre il quesito, poi per trovare la forma migliore
— e scrisse lentamente, sotto gli occhi della contessa, che gli stava
alle spalle, incoraggiandolo e dicendogli: bravo!

Quand’ebbe finito: «la mandiamo subito; disse la contessa; non bisogna
perder tempo, con permesso» — e uscì chiamando: Cecchino! Annetta!
mentre ci era lì, a due passi, il cordone del campanello.

Rimasto solo, il professore guardò l’ammattonato, poi rialzò il capo
e seguì lungamente, dalla finestra aperta, un’idea che si moveva
laggiù, nella campagna pallida d’ulivi. Gli era rimasta la penna fra le
dita, ma prima che Beatrice ritornasse, egli restituì all’amorino del
calamaio il suo dardo, ricollocandolo lentamente nell’arco teso.

— Vuole che le dica l’idea che ora venuta a Cosimo? domandò Beatrice
rientrando.

— Dica...

— Però.... badi che mio marito le vuol sempre bene.

Al professore venivano meno lo forze, perchè gli pareva di comprendere.

— Se mi fa quella faccia, non gliela dico di sicuro...

— Che faccia?.... Dica...

— Rida prima, e poi gliela dico... così.... ebbene Cosimo aveva fatto
la bella pensata di darle moglie....

Silvio rise con abbandono.

— Ora ride troppo. Sissignore! Cosimo afferma che alla sua età bisogna
prender moglie; non dico già che sia vecchio; ma un buon marito non è
necessario che sia vecchio... non rida così, mi fa quasi dispetto.

Allora Silvio si fece grave, per domandare alla contessa Beatrice un
po’ di tempo a riflettere.

Da quel momento il professore non potè aspettare con pazienza il
ritorno di Cosimo, guardò l’orologio quattro volte in dieci minuti,
e finalmente se n’andò, accompagnato fino all’uscio dalla sua
bella amica. Tornò a _Speranza Nostra_ di buon passo, come se fosse
aspettato, e venne diritto alle palme, dove Beatrice gli aveva detto
d’essere stata un pezzo a fargli la posta. Ed era come se essa non
fosse ancora andata via. Il professore sedette sulla panca; aveva
bisogno di decidere se l’amica sua fosse un angelo, o semplicemente un
po’ stupida, come tutte le donne innamorate del marito.

A chi gli andava ripetendo da un poco che era inutile, che bisognava
strapparsi dal petto la cara immagine, tanto tanto _essa_ non lo
amerebbe mai, egli ancora non rispondeva.

Aveva abbassato la testa sul petto e guardava l’orizzonte di sotto in
su, ma si rizzò di scatto e rispose:

— Ora la posso amare, perchè essa non mi amerà mai.


La contessa cavò di tasca quella busta vuota, che le aveva martellato
il capo tutta la mattina, e se la pose dinanzi agli occhi con un atto
dispettoso.

Era diretta a suo marito, e portava il bollo di Milano; non era
affrancata; il recapito, scritto con grossi caratteri, svelava una
penna malsicura, che era passata due volto sopra alcune lettere; il
_Mi_ di _Milano_ era separato troppo più del necessario dal rimanente
della parola.

Non ci era altro da osservare in quella busta, se non che appariva
spiegazzata da un atto di malumore del destinatario, il quale, prima di
leggerne il contenuto, sembrava averlo indovinato.

Poi egli era uscito più presto del solito, ma senza tradire altrimenti
il suo affanno; Beatrice, stando alla finestra, lo aveva visto
allontanarsi colla medesima gravità posticcia che egli portava ancora
in mezzo alla gente, per abitudine; l’aveva visto voltarsi nel punto
consueto per salutarla colla mano e col sorriso. Poi egli era scomparso
alla prima voltata, essa aveva ricercato quella busta, e se l’era
distesa sopra il ginocchio — come ora.

— La scrittura non è sua! disse.

Quanto a questo, non vi poteva esser dubbio; la scrittura non era di
Cesira.



XII.


Un giorno, in Milano, nell’anno delle nozze, col cuore pieno di quel
sentimento d’ammirazione che le aveva sempre ispirato il contegno
severo di suo marito, la contessa Beatrice aveva visto per la prima
volta la scrittura di Cesira. La maldicenza delle amiche non le aveva
detto nulla, suo marito neppure, perchè la dignità del conte Cosimo
comandava il silenzio — il caso solo si era fatto delatore, il caso che
nulla rispetta. Se Beatrice avesse potuto immaginare che si trattava
d’una funambola amoreggiata durante il celibato e piantata molto tempo
prima delle nozze, non si sarebbe neppur curata di studiare a fondo la
cosa; già il suo _mondo_ le aveva insegnato indulgenza; ma, al buio
com’era di tutto, la prima volta che vide un bagliore sospetto negli
occhi di suo marito, un bagliore di collera forse, essa volle saper
tutto, ed aiutata dall’astuzia del sesso andò a mettere le mani sopra
una lettera misteriosa. L’aprì giurando a sè stessa di non leggere che
il nome con cui era sottoscritta; ma come resistere? questo nome era
Cesira, anzi era — «la povera Cesira.» — Che avrebbe fatto un’altra?
Beatrice lesse tutta la lettera. E così apprese che «la povera Cesira»
era stata ai suoi tempi una famosa funambola, che una caduta l’aveva
storpiata e costretta a rinunziare all’_arte_, dopo aver messo al
mondo una bambina. Da quella lettera non era possibile saper altro —
ma il resto s’indovinava. Non si può dire che questa scoperta non la
inquietasse affatto. Beatrice era ancora inesperta del mondo. Di certe
massime che le amiche e le conoscenti le avevano messo nel cestello
di nozze, essa non contava di doversi servire tanto presto. In ogni
carriera, si sa, non si comincia dalla perfezione, e anche la carriera
di moglie ha le sue parti difficili. Dunque Beatrice, che pure aveva
il temperamento d’una cingallegra e l’irrequietezza d’un rondinino,
gemette e non si mosse per un’oretta; ma poi pensò meglio ai casi suoi,
disse a sè stessa che in sostanza essa non aveva voluto sposare un san
Luigi, che se suo marito aveva fatto le sue quando era scapolo, essa
non ci aveva nulla da vedere; che in fin dei conti quella Cesira era
stata famosa, ed ora era storpia. La marchesina Eulalia le insegnava
che sposando un Don-Giovanni penitente si può essere la più invidiata
delle marchese; tutte le amiche sue, giovani e passatelle, erano
pronte a cantarle in coro che perchè un uomo faccia buona riuscita
nel matrimonio, deve aver visto e toccato. Se Cosimo, anche lui come
gli altri, aveva visto e toccato, tanto meglio: non andrebbe soggetto,
fuori di casa, ai capogiri che può dare la bellezza. Anche lui _come
gli altri_! Questo solo non voleva entrare nella testina di Bice; suo
marito le sembrava così diverso dagli altri, aveva nelle parole una
gravità così dolce, un’eleganza così delicata di modi... Perfino il
suo volto, men bello di tanti, sembrava più bello di tutti nella sua
cornice intera di barba. Beatrice, che ne ammirava senza restrizioni,
il passo, il gesto, il sorriso; essa che molte volte, nelle serate di
casa A. B. C., stentava a trattenersi dal dire ad un’amica: «guarda,
quanto è elegante, quanto è bello mio marito» — Beatrice non riusciva a
comprendere una cosa; «vorrei sapere, diceva, come ha fatto a lasciare
arrivare sino a sè una ragazza del circo, vorrei sapere che parole le
ha detto la prima volta, che parole le ha detto l’ultima volta; vorrei
sapere come le sorrideva.» Non le pareva possibile che con tutta quella
dignità...

Siccome queste cose non le poteva andare a domandare a Cosimo, ed era
difficile che suo marito gliele venisse a dire, Beatrice crollò la
testina perchè ne uscissero tutte le curiosità inutili. Non ne uscirono
tutte; ne rimase una: sapere che cosa risponderebbe suo marito alla
povera Cesira. Egli le poteva ben rispondere qualche cosa, tanto tanto
era storpia. Quanto a sperare che egli s’inducesse a venire dinanzi a
sua moglie per confessarsi, come sognò quella notte, Beatrice, appena
sveglia, vide subito che era una cosa inverisimile. Lui, così alto,
così dignitoso, così grave, in atto di penitente dinanzi a lei, così
piccina, e così allegra! Eppure nel sogno egli aveva saputo fare tanto
bene! Anche sveglio, se volesse, potrebbe far benino. Tutto quello
che egli faceva riusciva elegante, e la confessione di una scappatella
giovanile in bocca sua sembrerebbe dignitosa. Quanto a lei, era quasi
sicura che non lo lascerebbe andare alla fine senza chiedergli scusa.
Nel sogno non aveva fatto così, ma sveglia, vedeva bene che non
saprebbe far altro.

Sogni, sogni! Cosimo non venne a dir nulla alla piccola compagna della
sua vita; forse non credeva necessaria o credeva inutile questa sorta
di confidenze; forse temeva che sua moglie avesse a dare a un episodio,
più importanza di quella che veramente aveva avuto nel suo romanzo di
giovinotto, in mezzo agli altri, perchè chi sa quante Cesire aveano
fatto a rubarselo, tutte belle ancora, e non tutte storpie!

Basta, il difficile intanto era sapere che cosa aveva risposto Cosimo
alla funambola storpia. In faccia non gli si poteva leggere nulla;
egli aveva sempre il suo dolce sorriso, quando si presentava alla
piccola Bice, aveva quegli accenti e quei modi lusinghevoli nella
compostezza medesima, anzi per la compostezza medesima che tutte le
signore ammiravano, ma che nessuna ammirava quanto lei. Che dubbio
serbare? Cosimo aveva certamente risposto in forma di gentiluomo e
di uomo di cuore. Bice si provava a ragionare a quel modo per tenere
a freno la propria curiosità, ma non vi riusciva; molte volte le era
venuta un’idea tentatrice, mandare in casa della storpia, in via del
Vivaio, col pretesto di farle avere un sussidio, e intanto vedere,
sentire. Ma a nome di chi? Oh! a nome di _qualcuno_!... Di qualcuno
che voleva rimanere celato. Non era ingenua Beatrice; essa capiva
benissimo che una ragazza del Circo aveva dovuto conoscere molta gente.
Ma chi mandare? Appena entrata in casa del marito, Bice si era fatta
un grande amico, il vecchio Ambrogio. Affiderebbe a lui l’incarico
di mandare qualcuno in casa della storpia, qualcuno che andasse alla
cieca, senza saper nemmanco lui per conto di chi. Ma appena Ambrogio
udì la singolare preposta, si fece rosso e balbettò che egli non
poteva pigliarsi questo incarico... perchè... era dolentissimo, si
sarebbe messo in croce per la contessa Beatrice, come sapeva bene...
ma in via del Vivaio, in casa di quella donna, non ci poteva andare,
perchè... — Ma non si trattava d’andarci lui... — Era tutt’uno, non
poteva. — Ho capito, gli disse Beatrice, lei è già andato in via del
Vivaio per conto di mio marito! — Quella penetrazione mozzò il fiato
al buon vecchio. Signora sì, vi era andato; ma dunque la contessa
sapeva?... Tutto! Ebbene, allora non lo poteva nascondere, era andato
a portare a quella donna cinquecento lire, ed a dirle che non istesse
più a scrivere, perchè tanto era inutile: il signor conte non aprirebbe
nemmanco le lettere.

E come era quella donna? Era zoppa. — E poi? — Si vedeva che non era
stata brutta. — E poi? — Poco di buono... — Ah! poco di buono!... —
Sissignora, così era sembrato ad Ambrogio.

La contessa non aveva bisogno d’altro. Era contenta che suo marito non
si fosse degnato di rispondere in iscritto a quella donna; era contenta
che le avesse fatto l’elemosina, era contenta che le avesse mandato
a dire di non scrivergli altre lettere; quasi quasi era contenta
che quella Cesira fosse sembrata poco di buono ad Ambrogio, — non
poteva essere più contenta di così — ma pianse di nascosto, come una
fanciulla, come una pazza.

Passava il tempo, e Beatrice, che aveva intrapreso l’opera difficile
di conquistare suo marito, di rapirlo agli amici ed al circolo, era già
molto innanzi ed avanzava sempre. Una cosa sola non le riusciva, ed era
di ottenere la confidenza. Perchè suo marito si trovasse bene con lei,
e non si annoiasse troppo in casa, essa metteva a profitto tutte le
lezioni della savia contessa Veronica: rideva per ogni nonnulla, rideva
molto, rideva quasi troppo; ma era necessario, perchè agli uomini in
genere, diceva sua suocera, piace vedersi intorno delle faccie allegre;
e gli uomini gravi ne hanno più piacere degli altri. Invece di mettere
da parte il pianoforte, come uno strumento che avesse dato tutto
quello che poteva dare ad una ragazza, aiutandola a trovar marito,
essa leggeva e rileggeva musica nuova e musica vecchia. Aveva poi una
malizia istintiva, la contessa Beatrice; non aspettava l’ora delle
visite a farsi bella, ma si faceva bella ogni mattina, appena levata;
si pettinava con semplicità, mettendo sempre qualche fiore in testa;
si era fatta fare una veste da camera azzurra, una veste da camera
color di rosa, un’altra bianca, un’altra bigia, un arcobaleno di vesti
da camera; di notte, al buio, prima di addormentarsi, raccomandava a
due diavolini di carta i capelli che le crescevano sulla nuca; insomma
faceva tutti i giorni come se Cosimo la dovesse sposare il domani e
ci fosse pericolo d’un pentimento nella notte. Le qualità serie del
suo ingegno e del suo cuore le lasciava saviamente nell’ombra, per
non cadere in colpa di pedanteria o di ostentazione. Con questo metodo
che veniva correggendo e migliorando ogni giorno sotto gli occhi della
contessa Veronica, Beatrice riuscì a poter dire a sè stessa, come le
dicevano sua suocera e suo marito: «rallegrati, tu sei la più adorata
delle spose, la più amata delle nuore.» Ebbene, l’indiscreta non ne
aveva abbastanza; era arrivata al cuore di suo marito, voleva arrivare
anche alla testa; voleva esser chiamata ad assistere al lavorio segreto
delle sue idee, voleva aiutarlo a pensare, tanto più che non aveva
tardato ad accorgersi che il suo Cosimo faceva qualche fatica ingrata
col cervello. Perchè egli imparasse una buona volta ad avere confidenza
in lei, aveva provato a star seria, ma Cosimo l’aveva minacciata di
chiamare il medico; aveva provato a dirgli in faccia: — Tu hai qualche
cosa; che cos’hai? dimmelo; — ma egli si era messo a ridere. Intanto
veniva studiando suo marito, e poteva veramente dire, e glielo diceva
qualche volta, di saperlo a memoria. — Tu sei un poco timido, gli
diceva; una parola inaspettata ti conturba; ma la tua timidezza non
è quella dei deboli, è quella dei buoni. — Davvero? — Sissignore; tu
sei buono, tu sei generoso; quando hai paura di offendere la gente
senza volere, balbetti, e perchè non ti piace balbettare, hai preso
l’abitudine di tacere. — Ci è altro? — Ci è di peggio; tu, per istinto
saresti aperto, ingenuo, perfino un poco ciarliero; ma ti sei accorto
che quando caschi a mostrarti come sei, non ci guadagni nulla; e tu fai
l’uomo abbottonato e taciturno. — Dunque io sono finto? — Siamo tutti
finti, tu ti sei buttato addosso il gran manto della dignità, con cui
nascondi le tue virtù e le tue debolezze, ma rallegrati (già, l’hai
anche tu la tua vanità, sebbene ti piaccia sembrare insensibile alla
lode), rallegrati, nessuno ha mai portato questo manto meglio di te.

Cosimo allora buttava il manto un momentino per ridere meglio, e
Beatrice rideva più forte di lui, per non abusare della vittoria. Ma
le confidenze non venivano, e una parte di suo marito continuava a
rimanere nel buio.

Dopo la prima lettera di Cesira, ne giunsero probabilmente altre che
Cosimo non ebbe la forza di respingere come aveva promesso; e la cosa
durò a questo modo fino all’ultimo anno, quando la rovina della casa
Rodriguez era imminente. Allora, ossia che il conte Cosimo credesse
di aver dato abbastanza, ossia che venisse crescendo l’indiscrezione
di Cesira, non diede più un soldo. Erano i giorni neri, nei quali la
paralisi inchiodava in letto la contessa Veronica, e Cosimo ricorreva
alla borsa divoratrice di Cilecca, quando giunse alla povera moglie una
lettera anonima nella quale le si faceva sapere che «in una stanzetta
della via del Vivaio, abitava una ragazza, madre d’una bambina di
sette anni, la quale forse aveva del sangue de’ Rodriguez nelle vene.
La bambina si chiamava Nenna, e faceva la rana nel Circo; la madre era
zoppa e non poteva più lavorare.» Una infamia.

— Ah! la cattiva donna! esclamò Beatrice.

Non disse altro; fece in un momento tre propositi diversi — venire
dinanzi a suo marito, e dirgli semplicemente, come nei drammi: «leggi;»
oppure andare in persona in via del Vivaio, come nei romanzi; o infine
non degnare di risposta il mostruoso ricatto. Poi pianse lungamente,
perchè si sentiva ferita nella propria dignità di donna e di moglie, da
quell’infamia di una madre. Al suo Cosimo non faceva colpa; la notte,
durante l’affannosa veglia al capezzale dell’inferma, essa finse di
chiudere gli occhi al sonno per veder lui non vista, e non gli lesse
in faccia altro che il dolore e il sacrifizio. Già aveva compreso la
lotta crudele che egli veniva facendo per celare a sua madre morente,
ed a lei stessa forse, la rovina della famiglia; si sentiva umiliata di
non essere chiamata ancora a pigliar la sua parte di quel gran dolore,
ma ammirava l’uomo che voleva soffrir solo, e diceva: ora non è la sua
dignità che gli consiglia di tacere, è il suo cuore.

E in presenza di quell’angoscia muta essa gustava una compiacenza
di bimba consapevole che bisognerebbe pur concederle il pericoloso
trastullo del dolore. Pensava: Finalmente non potrà più tacere, dovrà
pur dirmi di soffrire insieme! No! essa non doveva accrescere lo
spasimo delle sue ferite; poichè quella donna si era rivolta a lei,
a lei sola toccava difendere la pace di suo marito. Le bisognava un
alleato, e fu Silvio.

Il professore, dopo aver giurato il segreto nello mani della bella
amica, andò in via del Vivaio, vide Cesira, la zoppa, non vide Nenna,
perchè a quell’ora _lavorava_ in una baracca di legno, in piazza
Castello, e non istentò ad ottenere dall’antica funambola la promessa
che avrebbe lasciato in pace il conte Cosimo, in cambio d’un piccolo
sussidio mensile.

Era sembrato alla povera Bice di difendere così la pace di suo marito,
già combattuta da tanti affanni.

Poi era morta la contessa Veronica, avevano lasciato Milano, erano
venuti a Sassari; ogni mese Beatrice aveva mandato una piccola somma
ad un’amica di Milano, perchè la facesse pervenire per posta alla
funambola, in via del Vivaio.

Ed ecco, la perfida donna, non contenta ancora, aveva scoperto il luogo
in cui il conte Cosimo si era riparato dalla rovina della sua casa, e
gli scriveva violando la promessa fatta alla moglie ingenua, forse non
immaginando che colei che aveva la bonarietà di soccorrere l’antica
ganza di suo marito, potesse riconoscere la scrittura.

Sì; perchè dubbio per lei non ve ne poteva essere; i caratteri di
quella donna non le erano più usciti dal capo; era come se li portasse
scritti nella volta del cranio. Che risolvere? Nulla. Per risolvere
qualche cosa sarebbe bisognato avere dinanzi agli occhi il contenuto di
quella busta vuota che lo stava sulle ginocchia. Poc’anzi per poco non
aveva chiesto consiglio a Silvio; si era trattenuta e se ne compiaceva;
una verecondia nuova le vietava ora di chiamare il professore, in
qualità di giudice o di consigliere, fra il suo Cosimo e lei; si
pentiva quasi di averlo fatto una volta... Dunque che risolvere, che
fare?

Un atto audace; — aspettare il ritorno di suo marito, e strappargli la
confidenza; un atto audace, ma necessario.

Ecco il passo del conte... ecco il conte!

Beatrice cacciò in tasca un’altra volta la busta, e non sentendosi
ancora la forza di sorridere, si affacciò alla finestra.

— Bice! mormorò la voce di Cosimo alle sue spalle — Bice!

— Sei tu? disse Beatrice voltandosi, che cos’hai?... Dio mio! che
cos’hai? dimmelo subito.

— Non ho nulla, rispose dolcemente Cosimo; ma ho bisogno del tuo
amore.....

Ah! come cominciò a battere forte il cuore della povera moglie!

— Mi vuoi molto bene oggi? domandò Cosimo sorridendole con melanconia.

— Sì.... molto.... perchè?.... ah! come mi batte il cuore!...

— Bice, insistè il conte, accarezzandole il viso con una mano, ho
bisogno che oggi tu mi voglia bene più che ieri, più che in tutto il
nostro tempo passato. Ti esenti capace di volermi bene così?

La povera donna non ebbe la forza di rispondere; suo marito, allungando
la mano che non le aveva fatto le carezze, disse semplicemente: «leggi
questa lettera!.....»

Beatrice aprì quel foglio con mani tremanti per la commozione e per
l’impazienza; non lesse nulla, non vide nulla, altro che un nome
in fondo alla pagina — _Nenna_ — e si buttò al collo del marito,
mormorando fra le lagrime: «grazie! grazie! ora sono felice!»


La lettera di _Nenna_, scritta in grossi caratteri, fra due linee, come
i componimenti di scuola, diceva:

      _«Caro signor Conte,_

  «Mia mamma dice che io le devo scrivere, perchè lei è il nostro
  protettore, e noi le vogliamo molto bene. Dice che a lei faranno
  piacere le nostre notizie, che sono buone. Mia mamma è stata un
  po’ malata, e ora sta bene; io ho otto anni compiti e lavoro già
  nel circo; faccio la rana, e mi battono le mani; ho anche imparato
  a leggere ed a scrivere, e vado sempre a scuola, ma mi piace più
  andare a cavallo. Babbo Niccola m’insegna la ginnastica; l’hanno
  chiamato in Sardegna, in un paese che si chiama Oristano, e mi vuol
  condurre con sè. La mamma mi lascia andare; dunque presto mi potrà
  veder lavorare nel Circo. La mamma dice che lei ne avrà piacere. La
  mamma la saluta tanto tanto, ed io le do un bacio e sono la sua

                                                            NENNA.»



XIII.


Era proprio come nel sogno; suo marito le diceva tutto, il quando, il
come ed il perchè aveva fatto la corte alla bella funambola; e questa
confessione spinosa non pareva costargli fatica. Egli parlava in terza
persona, e Beatrice poteva quasi credere che si trattasse d’un altro.
Dunque quel... giovinastro aveva visto la funambola celebrata. Era
bella? — Sì, era bella — Com’era? Che sorta di bellezza? — Ah! quanto
a questo, una bellezza volgare, una biondona; ma ciò importava poco;
l’importante era che tutti la dicessero bella. — È vero, l’importante
era questo.... E poi? — Dunque quel giovinastro aveva visto la
biondona, al Circo; i suoi compagni si divertivano a spacciar storielle
sopra l’invulnerabilità di quell’_artista_. I più vecchi seduttori,
dicevano, se n’erano tornati colle pive nel sacco. Perchè sono vecchi!
aveva esclamato il giovinastro. — Bravo! — Scommetti? — Scommettiamo.
Il giovinastro, senza perder tempo, si era accinto all’opera, ed aveva
vinto la scommessa. — Si era accinto all’opera!... Ma come aveva fatto?
— Era andato in casa della funambola. — E che cosa le aveva detto?... —
Ah! chi se ne ricorda? qualche bugìa. Il giovinastro era ricco, poteva
spendere — almeno così credeva — la funambola si era data vinta. Un bel
trionfo!

Beatrice, che aveva ancora dieci domande sulla punta della lingua,
non volle essere indiscreta, ed aspettò che il resto della confidenza
venisse da sè.

— Abbrevio, disse Cosimo.

Il giovinastro, dopo aver speso un poco di denaro, aveva ritrovato la
propria dignità smarrita; l’aveva ritrovata in casa della funambola,
un giorno che il suo buon angelo l’ebbe messo faccia a faccia con un
compagno di scuola; già un’altra volta il suo buon angelo l’aveva messo
faccia a faccia con quel compagno di scuola, ma sulle scale soltanto. —
Il giovinastro fece giudizio; applaudì ancora la funambola, l’applaudì
più forte degli altri, perchè si facesse palese che non le serbava
alcun rancore, poi la piantò. Gran collera della funambola. — E poi?
— E poi una minaccia orrenda, che fece tremare il giovinetto pentito,
la minaccia d’averlo fatto padre! Padre! Padre della creatura di una
donna simile! Era un’idea insopportabile. Più fanciullo che non si
fosse sentito mai, il disgraziato vide ancora la mala femmina, e non fu
buono con essa, no, non fu buono, non poteva essere buono; le rinfacciò
i vizii, le tresche, e le disse che era bugiarda. — La funambola non
si scompose; comprese il tumulto di quella coscienza, e vi gettò un
_forse_, che ne crebbe lo scompiglio. — È vero, disse, posso sbagliare,
ma io sento che è _tuo_ — _Tuo!_ — Sì, essa diceva _tuo_ — Ah!... e
poi? — Quel fanciullone, a cui una simile paternità metteva ribrezzo,
e il dubbio, orrore, passò allora i brutti giorni della sua vita —
divenne uomo. Finalmente la triste femmina gli annunziò da Pavia la
nascita d’una bambina. — E che fece il disgraziato? Mandò del denaro e
una parola sola, sempre la stessa parola cattiva: _bugiarda!_ Poi gli
venne un’idea, interrogare il registro battesimale della parrocchia.
Nenna era inscritta come figlia di padre ignoto... Ma avendo contato
dalla nascita di Nenna fino al giorno in cui egli aveva voltato le
spalle a Cesira, il conte Cosimo rialzò la fronte, perchè egli comprese
di non poter essere quel padre. E poi? Poi, chinò la fronte nuovamente,
pensando che se gli veniva risparmiata la peggiore vergogna che
possa colpire la coscienza umana, una paternità incerta, egli aveva
però meritato quella punizione. — Quanti anni aveva allora Silvio?
— Ventidue. — E Beatrice fece sorridere suo marito, domandandogli
se credeva che di giovani sicuri di non meritare quella punizione
ne rimanessero ancora molti dopo i ventidue anni. — Forse pochi. —
Avanti, e poi? — Poi quella donna non si era stancata di perseguitarlo,
facendo servire la propria creatura al peggiore dei ricatti. Aveva
voluto discutere, e quando Ambrogio era andato a dirle che il signor
conte aveva visto l’atto di nascita della bambina, la triste femmina
non si era data vinta. La sua Nenna l’avevano portata al battistero
molti giorni dopo la nascita — ecco — essa era pronta a giurarlo sul
battesimo di sua figlia. Poi il conte si era sposato ad una fanciulla
adorata; poi la funambola era caduta dal trapezio e si era rotta una
gamba; e quell’altro, continuando a pagare la sua scappatella...

— Il resto lo so, disse Beatrice.

— Come lo sai?

— Questa lettera mi lascia intendere tutto.

Ma si era fatta rossa, perchè le sue guance non erano avvezze alla
menzogna; e Cosimo indovinò il segreto di sua moglie.

— Non ti offende? — No, non lo offendeva; gli faceva bene, era
contento di riconoscere la forza sotto le sembianze della debolezza,
di ritrovare una carezza quasi materna, celata sotto il riso quasi
infantile.

— Ed ora che fai? chiese Beatrice.

— Dillo tu.

— Davvero? Faccio io? Lasci proprio che faccia io? Sì? Bravo! E sai che
faccio? Lo vuoi sapere subito? Scrivo io stessa.

— Beatrice!

— Scrivo a quella donna, e le chiedo Nenna! Vuoi? Non dire di no.
Quella bambina è innocente, l’adotteremo, e sarà come se avessimo una
figlia, tanto io non sono buona a nulla: oramai mi sono data pace, non
ci penso nemmanco più... Vuoi? Così quella donna vedrà che tra me e
te non ci sono segreti; tutta la sua forza è nel pensiero che noi non
ci amiamo abbastanza. Ma dimmi dunque di sì. Non l’hai ancora veduta
Nenna? Sarà bella; sarà buona; le bimbe a quell’età sono tutte carine.

Aveva gli occhi lucenti, il viso acceso, e parlava coll’ingenuità di
una fanciulla. Sotto lo sguardo sospettoso di suo marito non battè
ciglio.

— Tu dunque credi che quella bambina possa essere?... le domandò Cosimo.

Manco per sogno. Beatrice non credeva niente affatto; il registro
battesimale era una prova infallibile...

Lo sguardo di Cosimo le ricercava il cuore, ma Beatrice si schermì
gettando a suo marito altre parole ed altre carezze.

— La toglieremo a quel mestiere odioso; non farà più la _rana_,
crescerà come se fosse nostra figlia, verrà su buona e gentile. —
Facciamola questa buona azione. Cosimo mio, facciamola.

Cosimo non rispose, e continuò a guardare sua moglie; all’ultimo,
interamente rasserenato, si curvò a baciarla.

— Ah! disse Beatrice allegramente; ho vinto!



XIV.


Fin dalla vigilia del gran giorno, l’antico cuoco aveva sentito una
voce, che lo chiamava in cucina. Disgraziatamente era questa la parte
più trascurata di _Speranza nostra_; il fornello aveva sei buche
quadre ed una tonda e più ampia per la caldaia dell’acqua calda; ma a
quattro buche mancavano le gratelle da reggere il carbone; l’ingegnoso
Giovanni, dopo essere stato un pezzetto in contemplazione dinanzi
a quelle buche rovinate, trovò il verso di farle servire ancora,
adattandovi dei treppiedi di ferro. Ma ahi! non il fornello soltanto
era in quello stato miserrimo; alcuni utensili della cucina, guardati
da vicino, apparvero ridotti in peggior condizione; la mezza luna aveva
perduto le impugnature, ed era impossibile adoperarla senza bucarsi
le mani come un Cristo; la grattugia era sventrata, lo staccio fesso;
rimaneva il mortaio di pietra, ma si cercava invano il pestello, che,
per essere di legno, era andato a finire nella bocca del camino una
notte d’inverno, insieme col matterello e col tagliere; il calderotto
non aveva manico; la gratella era zoppa. Giovanni, invocando il suo
santo patrono perchè gli desse lume e pazienza, riuscì a conficcare
due pezzi di legno nei codoli della mezzaluna, fabbricò colle proprie
mani un matterello di canna, rammendò lo staccio, diede una gruccia
alla gratella; poi chiamò a sè il professor Silvio, lo trasse con
dolce violenza ad ammirare le meraviglie di cui era stata capace la
disperazione d’un cuoco, e si fece promettere solennemente che in
avvenire si sarebbe anche pensato a riadattare e rifornire la cucina.
Egli diceva ed aveva ragione:

«Se mia madre, buon’anima, nel cucinare il signor me, si fosse
dimenticata di mettermi un po’ di sale in zucca, come avrei fatto io
domani?»

Domani era il gran giorno; era la festa di san Giovanni.

Beatrice aveva promesso di andare a _Speranza Nostra_ di buon mattino,
di rimanervi tutta la giornata e passarvi anche la notte. La sera,
sulla spianata dinanzi alla casa, si doveva accendere un gran fuoco e
fare i _compari_ e le _comari_ di san Giovanni.

Infatti verso le nove del mattino tutta la comitiva era radunata
dinanzi alla casa a bere il latte caldo; vi era Ambrogio colla sua
buona faccia rugosa; vi era Angela, con una gran voglia di correre; vi
era Annetta, tutta vezzi e moine, disposta a far la bimba per divertire
la signorina; e vi era Cecchino Misirolli, il quale offriva umilmente
i propri servigi al cuoco. Silvio, salutata appena la contessa, si
mise ai panni di Cosimo, per cui sentiva una tenerezza grande; il falso
Efisio Pacis si impadronì di sua figlia, e col pretesto di farle vedere
un nido di ghiandaie le propose di condurla fino al querceto.

Un’ora dopo erano tutti sparpagliati per il podere, e _Speranza
Nostra_ echeggiava di grida di richiamo. Non rimasero nella casa altri
che Giovanni e Cecchino in gran faccende per il desinare. Prima del
mezzodì giunsero i pochi invitati. Erano conoscenze recenti: il notaio
Pirisi che aveva fatto il contratto di compravendita del podere;
l’ingegnere Costa, che aveva assistito il conte Cosimo nei lavori del
mulino; due giovani avvocati; il dottor Cubello, proprietario d’una
vigna vicina a _Speranza Nostra_, che era stato molto ostile nella
faccenda delle acque, ma che in ultimo aveva permesso agli operai del
conte di incanalare l’acqua del proprio podere, purchè egli non avesse
a spendere un quattrino. Era una miscela di gente che si conosceva
appena, ma che diventava subito amica, perchè aveva l’arguzia facile,
il riso pronto e delle gran strette di mano da distribuire. Giungevano
colle facce rosse e irrigate dal sudore, e si lasciavano cadere sopra
una panca di sasso nel viale d’ulivi, prima d’andare a dire alla
contessa che la giornata era cocente.

Sì, la giornata era cocente; ma doveva essere così, perchè era il 24
giugno; per altro il dottor Cubello confidò a Beatrice la sua speranza
che una brezzolina di mare avesse ad infilare la gola della vallata
dopo il mezzodì, e l’ingegnere Costa le confidò che ne dubitava. Sotto
tutte le latitudini, le prime confidenze si rassomigliano. Subito il
notaio Pirisi prese animo, ed introdusse nella brigata un argomento
di conversazione, per dar tempo al tempo, essendo che il mezzodì si
annunziava allora dai campanili di Sassari, e si doveva dare in tavola
all’una. Si parlò delle strade ferrate, i cui lavori, cominciati da un
pezzo, erano stati interrotti e ripresi più volte, ed ora, si diceva,
proseguirebbero senza intoppi. L’ingegnere Costa doveva saperne qualche
cosa; a che punto si era? che speranze rimanevano ai vecchi di veder
passare la locomotiva sbuffante attraverso gli uliveti?

L’ingegnere Costa diede le spiegazioni volute, ma lasciò intendere al
suo uditorio che non aveva nella virtù miracolosa delle strade ferrate
tutta la fiducia di tanti altri. Manifestò anzi un dubbio, che parve
un’eresia, cioè che vi potesse essere qualche cosa di meglio a fare
nell’isola, che non le strade ferrate.

Ah! quanto a questo non vi era dubbio per il dottor Cubello; a lui
quella strada ferrata del demonio aveva cominciato dal tagliare in
mezzo il podere. — Però gliel’avevano pagato? — Sicuro; e che per
ciò? Egli era stato vent’anni a far la posta ai vicini; quando era
morto compare Pietro Paolo, buon’anima, lui aveva comperato dagli
eredi un pezzo di terra grande quanto una pezzuola, e l’aveva pagato
dugento scudi sardi; quando si era maritata la prima figliuola di Don
Sebastiano, aveva potuto aggiungere un pezzo d’oliveto e una vigna.
E sul più bello, ora che era riuscito a mettere insieme il più gran
podere del territorio, eccoti la strada ferrata che ha proprio bisogno
di passargli attraverso. Nissuno compianse il dottor Cubello perchè
il suo lamento non era sincero; ma l’ingegnere Costa, stimolato ad
esprimere tutto il suo pensiero, disse che prima delle strade ferrate,
bisognava chiedere al governo la bonificazione dei terreni, il
rasciugamento delle paludi, e magari, mettendo un po’ di faccia tosta,
il dono dei terreni demaniali ai comuni.

— Perchè farne?

— Ah! perchè farne? entrò a dire Silvio con enfasi, per affidarli ai
contadini lombardi, o piemontesi, o svizzeri, che invece di andarsene
in America e in Australia, volessero emigrare in Sardegna.

— La colonizzazione, esclamò il notaio Pirisi, è una utopia; si è
provato tante volte e non si è riuscito a nulla.

— Perchè non si è riuscito? perchè non si è detto agli emigranti: voi
siete miserabili; venite in Sardegna, avrete il viaggio pagato, venti
lire in tasca per ogni testa — anche a costo di pagare quaranta lire
i fenomeni con due teste — e appena arrivati in Sardegna diventerete
proprietari d’un pezzo di terreno con una casetta e gli utensili pel
lavoro; non avrete altro obbligo che abitare la campagna e coltivarla;
dopo dieci anni comincerete a pagare il terreno, e vi sdebiterete in
venti anni, senza avvedervene!

Al dottor Cubello questa bella pensata di chiamare nell’isola gli
straccioni del continente e trasformarli in proprietari come lui, non
poteva entrare. — Ci lasceremo spogliare? esclamava, la terra è la
nostra unica ricchezza; la terra è cosa nostra!...

— Falso! il lavoro soltanto è nostro; la terra è di chi la coltiva,
diceva Silvio; i nostri poderi sterminati, mentre non abbiamo braccia
per coltivarli, sono una ironia; la ripartizione dei terreni dev’essere
proporzionate alle forze della coltivazione; lasciando i latifondi
agli Inglesi, che lavorano la campagna colle macchine, noi ci dovremmo
accontentare dei piccoli poderi!

Queste idee scombussolavano interamente il dottore Cubello; egli era
uno dei rampolli più tenaci di quella vecchia pianta parassita che
si chiama la proprietà fondiaria; egli credeva in buona fede che la
missione dell’uomo sulla madre terra fosse di attaccarsi alle mammelle
di questa gran nutrice, e di succhiarne quanto poteva senza fatica. Le
necessità della coltura lo facevano melanconico; le novità poi, gli
mettevano dispetto: si arrendeva a malincuore agli ingrassi, ma agli
altri concimi non credeva affatto; e s’immaginava d’essere l’ottimo
dei cittadini e il migliore dei consiglieri comunali, perchè, invece
di fidarsi delle banche, delle industrie e del commercio, come tanti
giovinotti, si teneva saldo contro la corrente, e quando aveva messo
quattro soldi da parte, comperava una striscia di terra con quattro
olivastri.

L’ingegnere Costa, una testa rotta, arrischiò di metterlo in gran
collera, dicendogli che lui stesso, il dottor Cubello, quando facesse
bene i proprî conti troverebbe conveniente regalare un pezzo del suo
gran podere ad una famiglia di contadini lombardi o toscani, perchè
abitassero la campagna e la coltivassero meglio.

La colonizzazione, a sentir lui, doveva cominciare alle porte di
Sassari, non nelle campagne perdute, come si era tentato finora; i
Sardi dovevano mettersi bene in testa che a conquistare il terreno
della loro isola non basta un atto notarile.

— E il classico zappatore? — Il classico zappatore, che non vuole
abitare la campagna, scomparirà, sentenziò Silvio; diventerà piccolo
possidente ozioso, oppure continuerà a coltivare il proprio terreno
colla zappetta, finchè la corrente del progresso non lo pigli e lo
butti alle industrie ed al commercio, che in Sardegna ne hanno tanto
bisogno. Ma per affrettare questo giorno ci vuole prima di tutto
l’istruzione...

Il dottor Cubello non ebbe paura che quei due giovinotti rivoluzionari
gli facessero mancare la terra sotto i piedi. — Sono vecchio... disse
con un sorriso di falsa rassegnazione.

Ma si udì lo scampanìo che annunziava il desinare, e il dottor Cubello
fu contento di troncare il litigio con una celia. — Quella sì, disse
alzando gli occhi a guardare la campana che si dondolava sotto gli
strappi di Cecchino — quella sì che parla bene!


Dopo il desinare, la comitiva si era sparpagliata per la campagna;
il dottor Cubello, per non lasciarsi pigliare un’altra volta in una
discussione che poteva turbare il lavoro digestivo del ventricolo, si
era messo accanto a Cosimo ed a Beatrice, e parlava di Milano, dove
egli non era stato mai, e di altri luoghi anche più lontani che egli
aveva rinunziato a vedere in questa vita.

Qualcuno era andato a cacciarsi sotto gli alberi del bosco, per fare
la dormitina igienica, a cui non sapeva rinunziare, e Angela, fatto
portare un seggiolone antico sotto la pergola, vi si era accomodata. Ma
non voleva dormire, voleva pensare.

Sotto la vôlta di pampini e di passiflore, penetrava appena un raggio
di sole, che disegnava in terra, in un breve fondo dorato, alcune
foglie della passiflora; il ronzio degli insetti moriva all’ingresso
dell’arcata; ogni tanto un tafano staccandosi dal nugolo dei suoi
compagni, come per una spinta ricevuta, dava un tuffo nell’ombra, e
ne rifuggiva prontamente; i fili dei ragni tesi sul sommo dell’arco,
da un pilastro all’altro, sembravano d’argento. Angela non voleva
dormire; si voleva godere quella quiete, voleva scandagliare l’avvenire
serbato alla povera orfana, impietosirsi sulla propria sorte se fosse
il caso, come le pareva giudicando all’ingrosso, e rendersi finalmente
ragione di certi piccoli avvenimenti che essa aveva affidato al proprio
quaderno per tornarci sopra con comodo.

Per esempio, questo buon Efisio Pacis, a cui era sfuggita con un
pretesto, questo babbo Efisio che doveva essere forte nel manipolare
il cacio, interrogato da lei poc’anzi, aveva mostrato che di cacio ne
sapeva pochino. E poi a fare il cacio in _Speranza Nostra_, nessuno più
ci pensava; si pensava all’olio, al vino, all’alcool, ma al cacio no;
dunque che cosa era venuto a fare in _Speranza Nostra_, Efisio Pacis?
La fanciulla era quasi sicura di saperlo. Era venuto a nascondersi.
La magnifica storia di quel bandito, che aveva ammazzato un uomo e se
n’era andato in Africa, forse era la sua. Se poi non era quella, come
Angela sperava ancora, perchè quella le piaceva che fosse la storia
di suo padre, allora era un’altra consimile. Già, essa aveva sempre
inteso dire che la Sardegna era piena di banditi. Ah! quanto si tardava
a svelarle ogni cosa! E pure essa aveva oramai tredici anni, e non
faceva per vantarsi, ma ne dimostrava quindici, ed aveva il giudizio
d’una donna, d’una vera donna. Chi sa che cosa aspettavano! che essa
avesse preso marito? E lo piglierebbe poi? il cuore le diceva di no, e
il cuore, si sa bene, non inganna. La sua sorte doveva essere di vivere
nell’ombra e di sparire nella notte; la sua giornata, si vedeva bene,
non avrebbe meriggio. Era tanto sicura di questo, che l’avrebbe scritto
nel suo giornale, e le dispiaceva di aver lasciato a casa il quaderno;
proverebbe a tenerlo in mente: sì, povera Angela, la tua giornata non
avrà meriggio, tu vivrai nell’ombra e sparirai nella notte. Poi le idee
della fanciulla si confusero, ed essa dormì una buona ora col corpo
abbandonato sulla spalliera del seggiolone. Quando riaprì gli occhi,
vide che il sole, declinando, stava per affacciarsi all’arcata della
pergola, e intanto attraverso il fogliame le aveva gettato in grembo
come una manata di monete d’oro, che le scaldavano le ginocchia.

Un uomo, salito sopra uno sgabello, le voltava le spalle e s’ingegnava,
rizzandosi in punta di piedi, di stendere una pezzuola dinanzi a quei
raggi indiscreti; era Efisio Pacis. Egli faticava molto, si vedeva, a
raccomandare alle spine della passiflora i lembi della pezzuola; ogni
tanto se ne staccava uno.

A un tratto quel pover’uomo mandò un piccolo grido, si portò la mano
al cuore, e rimase immobile, col capo appoggiato al pilastro della
pergola, senza scendere dallo sgabello. «Si sarà punto un dito» pensò
Angela.

Il povero Efisio non si moveva e ad Angela cominciò a battere il
cuore forte. — Babbo Efisio! — disse forte. Babbo Efisio si volse e le
sorrise per tranquillarla: ma aveva la faccia contratta da un dolore
acuto, e si premeva il lato sinistro del petto colla mano.

Allora Angela abbandonò il seggiolone e corse presso al suo vecchio
amico.

— Non è nulla, disse Giorgio, vi sono avvezzo; è il cuore; ogni tanto
mi fa soffrire; — e dimenticava il suo male per accarezzare la testina
bionda di sua figlia.

— Vuole che l’aiuti a discendere? propose Angela; si appoggi pure a me,
sono forte. Come si sente ora? È passato? Bravo, babbo Efisio, ora è
passato.


— Facciamo i _compari_ e le _comari_ di San Giovanni! disse Beatrice
prima del tramonto.

Ma il notaio Pirisi notò che bisognava aspettare che fosse notte.

Allora, per ingannare il tempo, qualcuno propose di gettare gli
oroscopi col piombo.

— Sì, sì, facciamo, facciamo — ma come si fa?

— Si fonde un po’ di piombo, e lo si getta liquefatto entro una
catinella d’acqua; ne vengono fuori dei mariti per le ragazze, dei
figli maschi per le maritate, e tante altre belle cose.

— Facciamo! facciamo!

L’oroscopo di Beatrice, che fu il primo, riuscì complicato, e si adattò
a molte interpretazioni. Il dottor Cubello ci vide prima degli altri
una culla, e allora la culla ce la videro tutti, salvo Cosimo, che si
accontentò di sorridere, e Silvio, il quale non disse nè sì nè no.

Beatrice non sapeva darsi pace che gli altri vedessero una culla, e lei
no.

— Dica lei, professore, dove la vede una culla qua dentro?

Silvio guardò lungamente, non vide nulla.

Oltre della culla, nel _piombo_ della contessa si trovò un ramo
d’ulivo, una corona, e cento simili cosine graziose.

Poi il piombo fu liquefatto e gettato un’altra volta per Angela.

Ah! era chiaro come luce meridiana — ecco l’anello, ecco la corona
nuziale. E quella caverna che cosa significava? Un mistero, disse
Angela. E quella croce? e quel cassone? Una bara! rispose Angela. — No,
il cofano delle nozze. — No, una bara.

Il piombo di Cosimo fu letto da Beatrice — vi era una corona, la
contea; una squadra, il lavoro; un’ancora, _Speranza Nostra_!

Quando fu la volta di Silvio, egli ascoltò distratto quel che dicevano
gli altri, ma tenne gli occhi fissi sopra Beatrice. E l’amica sua
lesse l’oroscopo senza turbarsi — Anche qui la squadra... — Dove? Qui,
guardi — la squadra, il lavoro — poi un cuore grosso, in cui ci è posto
per l’amicizia e per l’amore, — è il suo, signor Silvio! — accanto un
altro cuore più piccolo, un cuore di giovinetta; senza dubbio; ecco
l’anello... nozze; e guardi, non sono due colombi che si beccano? — Ma
no — Ma sì, sono proprio due colombi che si beccano.

— Facciamo i _compari_ e le _comari_ di San Giovanni! propose un’altra
volta Angela — è quasi notte.

— Facciamoli.

Fu portata nel mezzo della spianata, dinanzi alla casa, una fascina
di sarmenti e di rami secchi, e le fu appiccato il fuoco. La fiamma si
levò alta e a quel bagliore parve affrettarsi la notte nella campagna.
Si vedevano i pipistrelli svolazzare agitati, strisciando quasi colle
ali il muro della casa; le grosse farfalle nere, disturbate nel riposo,
accorrevano all’improvvisa luce e si bruciavano le ali nella fiamma;
una sfinge abbagliata, si andò a posare sull’omero di Angela che ne
ebbe paura, perchè la credette un uccellaccio, ma poi la prese in mano
e l’andò a deporre nel calice di una rosa, per salvarla da morte.
Quando la fiamma si fu abbassata un poco, vedendo che nissuno dava
il buon esempio, si fece innanzi Annetta, proponendosi per comare a
Giovanni, che l’accettò con piacere. Ma nessuno dei due sapeva bene
come bisognasse fare. — E intervenne il dottor Cubello. — Ci vuole un
bastone lungo — gridò: — Eccolo! — La signora di qua, il signore di là,
il fuoco in mezzo; ciascuno stringa il bastone per un’estremità — bene
— ora dondolate il bastone sulla fiamma — così — e dite: a _compare_
e a _comare_ di San Giovanni; e un bel salto attraverso il fuoco — non
ci è male; ancora: a _compare_ e a _comare_ di San Giovanni, un altro
salto — bene — a _compare_ e a _comare_ di San Giovanni, un ultimo
salto — benone; ora se vi date un bacio, è meglio; ma potete anche
farne di meno... Brava! Brava!

Quell’applauso era meritato, perchè Annetta aveva spiccato l’ultimo
salto come una cerva ed era andata a cadere addosso a compare Giovanni,
scrollandolo tutto. Forte dei suoi diritti, egli chiese il bacio e
l’ebbe.

— Ed ora che cosa succede? domandò Giovanni.

— Chi lo può sapere che cosa succede? gli disse Annetta.

— Succede, spiegò il notaio Pirisi, che siete _compari_ e _comari_,
che vi date del voi, e che vi dovete aiuto ed affetto onesto — ecco
quello che succede; è un contratto, senza concorso di notaio; ci è un
po’ più di confidenza tra di voi, ed allo stesso tempo un po’ più di
rispetto... ma poco. — A chi tocca ora?

Angela si fece innanzi, voleva farsi un _compare_, tanto per vedere se
ci si trovava gusto, e scelse l’ingegnere Leonardo Costa.

Poi toccava a Beatrice.

— Professore, disse ella, mi vuole per _comare_?

— Con piacere!

— Badi che mi dovrà un po’ più di confidenza, e un po’ più di rispetto;
_ma poco_ — l’ha detto il notaio Pirisi; si sente capace?

— Altro!

Essa afferrò il bastone e lo dondolò sulla fiamma.

— A _compare_ e a _comare_ di San Giovanni, a _compare_ e a _comare_ di
San Giovanni, a _compare_ e a _comare_ di San Giovanni. — Fu Silvio che
spiccò i tre salti. Beatrice si accontentò di fare il giro del falò,
poi strinse forte la mano del _compare_. — Non si parlò di baci.


Un’ora dopo gl’invitati si allontanavano nel sentiero fra i due
muricciuoli biancheggianti nel buio, e da _Speranza Nostra_ partiva
ancora una vocetta allegra:

— Buona notte, compare Leonardo!

— Comare Angela, buona notte! rispose l’ingegnere Costa da lontano.

Seguì una risata; poi più nulla.

Accanto alla fanciulla, nel viale buio, fra i vecchi ulivi, rimaneva
ancora qualcuno — Babbo Efisio. Gli altri si avviavano tranquillamente
alla casa.

— Mi dia il braccio, disse Angela, non si sente più male al cuore? Sa?
noi rimarremo in _Speranza Nostra_ tutto domani; e forse diman l’altro;
e poi torneremo qua, per stare in campagna un mese. Allora Bice manderà
il piano-forte, io prenderò i miei libri e i miei quaderni! Senta,
senta, che cosa è stato?

Un frullo d’ala nel fogliame degli ulivi, forse un tordo che sognando
era caduto a terra.

Era notte fitta, quando furono picchiati tre colpi leggieri alla porta
di _Speranza Nostra_. Giorgio, che non potea chiuder occhio, aprì il
finestrino della sua camera, vide _Su Mazzone_ nell’ombra, e comprese
la propria condanna.

— Scendi, gli disse il _bandito_.

Egli non rispose; alzò gli occhi al cielo tutto splendente ancora di
stelle, come per chiamare qualcuno dal mondo degli spiriti, poi scese.

_Su Mazzone_ gli strinse la mani, e gli disse con voce tremante:
«Coraggio!»

Il falso Efisio Pacis impallidì.

— Ti hanno cercato nello stazzo di Giannandrea _il Lungo_, proseguì il
bandito a bassa voce; sono bene informati; sanno che ti fai chiamare
Efisio Pacis, che hai la barba lunga e i capelli ricciuti; Giannandrea
ti ha voluto aiutare, e ha detto che ti eri avviato al mare; non gli
hanno creduto; ti sono andati a cercare negli stazzi vicini e nel
querceto; ti cercheranno prima di tutto in Castelsardo, nella tua casa,
poi verranno qui; non possono tardare. Vestiti, e fuggiamo.

Giorgio si premeva il cuore colle mani. Nel vicino boschetto cantava
l’usignuolo.

— Essa è qui, mormorò; devo partire senza vederla ancora, senza dirle
nulla?

— Non so; fa come vuoi; ho camminato molto questa notte, per venire ad
avvisarti io stesso; non mi fidavo degli altri; la prudenza mi dice
di andar via subito; ma se tu rimani, rimango. Finchè non ti veda al
sicuro, non ti lascio. Io so il mio mestiere di bandito; vuoi fare
quello che ti dico?

Giorgio accennò di sì.

— Piglia un rasoio e raditi la barba; piglia le forbici e mozzati i
capelli; poi piglia una pistola per esser pronto a morire.

— Sono pronto, disse Giorgio.

Il bandito proseguì:

— Ti ho scritto questa lettera; mettila in tasca; ricordati, sono
io che te l’ho data, io _Su Mazzone_, per portarla a Efisio Pacis; è
suggellata e tu non sai che cosa contiene; tu ti chiami Pietro Cugusu,
sei pastore in Alzaghena. Tutto questo, caso mai ti fermino e ti
chiedano chi sei e dove vai, se dovremo separarci.

— Che cosa hai scritto in questa lettera?

— Ti avviso che la giustizia ti cerca e ti dico di fuggire e di
raggiungermi domenica a Florinas alla messa grande. Ricordati; tu sei
Pietro Cugusu, sei venuto qui in cerca di Efisio Pacis, per dargli
la lettera mia, ma Efisio Pacis era partito. Ho mandato un’altra
lettera simile a Castelsardo; se abbiamo la fortuna che cada in mano
dei carabinieri, essi andranno a cercarci in Florinas, mentre noi
viaggeremo verso la Nurra.

Giorgio non si provava nemmeno a lottare col proprio destino; ascoltava
ogni parola del suo vecchio amico, cercando di imprimersela bene in
mente.

— Io dico che non ci è tempo da perdere; ora fa’ tu. Se vuoi aspettare
che sia giorno, dimmelo, andrò a buttarmi sotto quella pianta; un’ora
di sonno mi farà bene.

— Vengo; rispose Giorgio, con voce fioca ma deliberata.

Egli risalì le scale, _Su Mazzone_ si andò a sdraiare sotto un ulivo.
L’usignuolo continuava a dire strane cose piene di rassegnazione e di
melanconia.

Giorgio, passando innanzi all’uscio della cameretta di sua figlia,
camminò in punta di piedi per non risvegliarla, ed andò a picchiare
all’uscio vicino.

Angela non dormiva. Essa, che per la prima volta passava una notte in
campagna, era stata un pezzo alla finestra ad ascoltare l’usignuolo
nel gran silenzio. Poi si era buttata in letto, lasciando la finestra
socchiusa, e non aveva preso sonno, perchè quell’usignuolo continuava
ad empir la campagna d’un canto lento, che sembrava un discorso.

Ai tre colpi picchiati al portone, la fanciulla, che teneva gli occhi
chiusi, gli riaprì, e venne anch’essa alla finestra; non riconobbe nel
buio chi aveva detto _scendi_, e non comprese neppure che chi scese
subito dopo era babbo Efisio. Le parole dette nel vano dell’uscio
furono perdute per Angela, perchè la voce lamentosa dell’usignuolo non
tacque un momento.

Angela però comprese che accadeva qualche fatto strano, ed ebbe paura.
Non sapeva nemmanco lei di che; voleva accendere il lume, ma non osava,
perchè un tale era rimasto ucciso nel letto, per aver commesso questa
imprudenza. Il nemico di quel tale era in faccia alla finestra, sopra
una pianta. Angela di giorno non aveva nemici, — almeno credeva — ma
di notte... Le venne in mente di picchiare al muro per risvegliare lo
zio Silvio, che dormiva nella camera vicina, ma udì un rumore leggiero;
qualcuno risalì le scale, ripassò in punta di piedi nel corridoio ed
andò a fare quel che voleva far lei, a svegliare lo zio Silvio.

— Non sono ladri, nè assassini; pensò allora la fanciulla; è babbo
Efisio.

Infilò la veste e stette ad ascoltare.

Non si udiva più nulla, salvo, ogni tanto, qualche passo
sull’ammattonato.

«Lo zio Silvio si veste!» pensò Angela.

Continuando il misterioso silenzio, la fanciulla venne un’altra volta
al davanzale, e vide nell’immensa cornice nera della campagna un gran
quadro luminoso, il riflesso della vicina finestra, e in quel quadro
l’ombra di una mano che si moveva rapidamente — ogni tanto spariva
la mano, e si affacciava un profilo enorme. Poi la luce scomparve, i
passi di Silvio e di babbo Efisio si avvicinarono fino all’uscio della
cameretta di Angela, e dopo un silenzio breve, un bisbiglio attraversò
l’uscio.

Alla fanciulla sembrò che quel bisbiglio dicesse: «Angela!»

Si avvicinò alla porta; tese l’orecchio, ansiosa — e udì una
respirazione ansimante, poi un silenzio lungo, poi un rumore di passi
che attraversavano un’altra volta il corridoio. Il lume, passando
dinanzi alla porta aperta della camera di Silvio, gettò sulla nera
campagna uno sprazzo di luce.

Angela, turbata, venne ancora a piantarsi in osservazione dinanzi alla
finestra.

Due uomini uscirono in silenzio dalla casa, un altro parve sorgere dal
suolo fra gli ulivi.

I tre si avvicinarono.

— Sei pronto? disse uno; ti senti forte? lascia che ti veda.

E così dicendo, voltava il più alto degli altri due verso la luce della
candela rimasta sul pianerottolo.

Angela mandò un gemito.



XV.


Angela aveva tremato e pianto tutto il resto della notte; e la mattina
era stata trovata bocconi sul letto, colla febbre. Il medico, chiamato
in gran fretta da Sassari, aveva dichiarato il male una febbre
reumatica che la ragazza si era buscata stando ad ascoltare il canto
dell’usignuolo, e dormendo poi colla finestra aperta.

Angela aveva lasciato dire e fare; aveva sudato, avea mandato giù la
magnesia e il chinino senza mormorare, contentandosi di aver lasciato
intendere a Silvio che essa nella notte aveva scoperto il segreto di
babbo Efisio, e che forse il proprio male poteva meritare un altro
nome, degno non della magnesia e del chinino soltanto, ma di rispetto.

Per tutto il tempo che durò la malattia, Angela fece col conte Cosimo
e con Beatrice la sua parte di ammalata di febbre reumatica; già essi
dovevano essere stati informati da Silvio, dunque da lei non saprebbero
nulla. Così si vendicava una figlia che non era stata creduta degna di
amare apertamente suo padre. Forse la sera, quando le bastava chiudere
gli occhi perchè cominciasse intorno al suo letto la processione
di ombre smorfiose o sorridenti e nel suo cervello il lavoro dei
ragionamenti vani, delle argomentazioni vuote, sonanti con ritmo e
cadenza, come se avessero senso, forse allora, vaneggiando, le erano
sfuggiti dei lamenti, in faccia a Cosimo ed a Beatrice. Ma ad occhi
aperti era stata sempre ferma nel proposito di far la donnina offesa,
la donnina maturata dalla sventura.

Intanto, anche colla febbre, era venuta pensando a suo padre.
Pover’uomo! egli era fuggito senza sapere che la sua creatura lo
avrebbe riconosciuto; senza avere mai avuto da lei una carezza di
figlia! Ma a quest’ora egli sapeva tutto. Lo zio Silvio gli aveva
scritto, a Tempio, in casa di prete Emanuele, dove Giorgio aveva
trovato un asilo; appena potesse reggere la penna fra le dita
indebolite dalla malattia, Angela gli scriverebbe anch’essa, una
lettera di quattro pagine, una bella lettera di cui le trottavano in
capo il principio e la fine, una lettera che fosse come le più belle
lettere d’amore che aveva visto nei romanzi.

E appena entrata in convalescenza, Angela si era stillata il cervello
a trovare delle _espressioni,_ ma era stata meno felice del solito; già
la febbre le aveva lasciato una gran debolezza mentale! — In principio
andava bene; della frase in cui diceva a suo padre che «egli le era
apparso come un’ombra cara invocata dal cielo» era contenta; non vi
era male nemmeno in fine, quando gli dichiarava che essa «era e voleva
essere la figlia sua, per la vita e per la morte» — ma il resto era
tirato giù alla carlona.

«Babbo mio, gli diceva, se io avessi potuto immaginare che quell’Efisio
Pacis che mi contava la storia del bandito, nello stazzo di Giannandrea
il _Lungo_, eri tu, quanto sarei stata più buona con te, cogli altri
e con tutti! Ora mi ricordo che non ti volli dare un bacio, che non
ti toccava, perchè non avevi colpito la corda; e adesso tu non mi sei
vicino per dartene cento in cambio di quello che ti ho negato. Tutti i
miei baci sono tuoi, babbo mio.»

E continuava ad accusarsi ingenuamente di tante altre colpe commesse
verso di lui, a chiedergli perdono ed a promettergli di esser sempre
buona, purchè egli tornasse con lei, o le permettesse di andarlo a
raggiungere in Tempio.

«Babbo mio, le diceva, io non potrò più vivere lontano da te; ora
lo sai che tua figlia ti vuol tanto bene, e le permetterai di starti
vicina. Io ti aiuterò a nasconderti; mi pare che io saprò trovare un
luogo, dove nessuno ci potrà vedere, fuorchè Dio e la mamma, che è in
paradiso....»

Angela chiudeva la sua lettera, pregando il padre di scriverle presto,
di scriverle lungamente, e di dirle quando doveva mettersi in viaggio
per raggiungerlo.

Questa lettera, di cui la fanciulla non fu molto contenta, partì
insieme con un biglietto di Silvio, diretta a prete Emanuele; poi
Angela guarì, e scrisse nel proprio diario le ultime sue giornate
con quell’altro stile che le piaceva tanto. E fu così soddisfatta
dell’opera sua, che, a costo di guastare la dignità di figlia offesa
nei sentimenti più sacri, fece la pace con Bice, tanto per introdurre
un profano nel santuario del proprio quaderno. Bice, che non s’era
accorta della guerra, accettò la pace proposta dalla sua piccola
amica, e lesse con molto interessamento il diario d’Angela, lodandone i
sentimenti, e ancora più le _espressioni_, appunto come voleva Angela.

Ma il babbo non scriveva — e la fanciulla, guarita appena, ricominciò
ad essere infelice peggio di prima.


Colla dolce rassegnazione di convalescente, Angela passeggiava sotto
il viale degli ulivi al braccio di Bice e si faceva tirare un tantino,
quando apparvero all’ingresso di _Speranza Nostra_ due carabinieri.

La vista di due signore molto giovani e molto belline indebolisce anche
la _forza_ pubblica; e i due carabinieri stettero dubbiosi; solamente
quando Angela gli ebbe veduti e si arrestò di botto a fulminarli con
un’occhiata, solamente allora il brigadiere fece un passo avanti e il
saluto militare.

Silvio e Pantaleo erano nel bosco, e Cosimo era andato a Sassari con
Ambrogio per alcune faccenduole; poteva giungere fra poco, ma intanto
le due donne si trovavano sole colla _forza_, salvo a invocare la
protezione di Giovanni o di Cecchino dalla cucina.

Ma Bice non ebbe paura, e tanto meno Angela.

Esse aspettarono che il brigadiere si fosse avvicinato, e quando egli,
senza arroganza, certamente perchè aveva paura della fanciulla, domandò
se nella casa abitasse od avesse abitato un certo Efisio Pacis, la
contessa rispose sorridendo che veramente un pastore, il quale portava
questo nome, aveva ricevuto alcuni giorni d’ospitalità nella casa, ma
che una notte se n’era andato, e non ne avevano saputo più nulla.

Il brigadiere s’inchinò, riconoscendo in silenzio che egli avrebbe
dovuto arrivare prima.

— La signora è la contessa Beatrice? domandò quel bravo giovinotto
ripigliando animo nella sicurezza di non dover fare il più difficile
della sua parte, e volendo mettere un po’ di grazia in tutto il
rimanente.

Beatrice accennò di sì.

— Sono indiscreto se le domando da quanti giorni Efisio Pacis ha
lasciato il podere?

— Niente affatto; aspetti.... otto.... dieci.... no.... Angela, tu te
lo ricordi?

Angela rispose severamente che non ricordava più nulla; essa non era
contenta finchè non avesse messo in fuga i due carabinieri.

— Per non sbagliare, metta quindici giorni.

— Se la signora contessa permette, noi dobbiamo compiere il nostro
dovere, di accertarci che Efisio Pacis non si nasconde ancora qui; io
sono sicuro che non ci è, ma la giustizia...

— Hanno un mandato d’arresto? domandò la contessa, sempre sorridendo.

— Il mandato è antico. Efisio Pacis che noi cerchiamo, dovrebbe essere
il signor Giorgio Boni, condannato in contumacia, e scomparso da
tredici anni — abbiamo ordine di visitare la casa.

L’atteggiamento e lo sguardo di Angela dicevano coraggiosamente:

— Io sono la figlia di Giorgio Boni; se la giustizia mi vuole, eccomi!

— Facciano, disse Beatrice, e il brigadiere si avviò marzialmente,
non volendo sfigurare agli occhi delle signore; il carabiniere, che lo
seguì, cercava invano di imitare il suo superiore.

Accompagnati da Cecchino Misirolli, quei due visitarono ogni cantuccio
della casa, interrogarono Giovanni, poi ripassarono sotto gli occhi
delle signore per andarsene com’erano venuti.

— Adesso, esclamò Angela, mio padre potrebbe tornare, e sarebbe più al
sicuro di prima.

Ma anche la giustizia è furba: e fece forse lo stesso pensiero di
Angela, perchè una notte il Brigadiere, con quattro carabinieri invece
d’uno, venne a piantarsi in osservazione dinanzi alla casa di _Speranza
Nostra_, dopo aver scavalcato il muricciuolo. Quando Ambrogio, che
era mattiniero, si affacciò alla finestra e li vide, subito scese per
invitarli ad entrare, se intanto volessero visitare le stanze terrene
— ma il brigadiere non ardì mettere il piede oltre la soglia prima
delle cinque, per non violare il domicilio; soltanto a quell’ora entrò
facendo notare ad Ambrogio che le cinque sonavano a tutti i campanili
di Sassari, ma spinse la cortesia fino ad aspettare che le signore
fossero levate — non volendo avere sulla coscienza nemmeno un minuto
del loro sonno riparatore.

Questa volta i carabinieri se ne andarono di malumore, perchè, se anche
alla scuola dei _connotati_, non avevano fatto molto cammino nello
studio delle umane sembianze, la corbellatura scritta sulla faccia
seria degli abitanti di _Speranza Nostra_ dovevano averla letta di
sicuro.

— Non torneranno più! esclamò Angela un’altra volta; ora mio padre
potrebbe venire!

Ma, ripensandoci, non era meglio forse che non venisse, e che andasse
lei a raggiungerlo? Anche questo non era prudente; i carabinieri
potevano seguirla e scoprire l’asilo di Giorgio.... È vero, ma perchè
suo padre non scriveva? Chi sa, se era sempre ospite di prete Emanuele,
o se era andato altrove? Chi sa, se si trovava al sicuro!

Non si voleva dire alla fanciulla che suo padre era molto ammalato,
e che stando alle lettere di prete Emanuele, rimaneva poca speranza
di salvarlo, ma un giorno la gran notizia venne, e non ci era modo di
nasconderla; finalmente Giorgio Boni stava per essere al sicuro da ogni
umana giustizia; Giorgio Boni era agli estremi e desiderava abbracciare
sua figlia. Silvio non ascoltò più se non il consiglio che gli dava il
cuore — si prese in groppa la fanciulla e partì di notte.

Angela fu sinceramente addolorata della triste notizia, sebbene quel
viaggio notturno, in groppa a un cavaliere armato di schioppo, col
pericolo d’esser veduti e seguiti dai carabinieri o dalle spie, fosse
finora il più bell’episodio del suo romanzo. Sapersi figlia di un uomo
condannato a morte, per aver ucciso lealmente il proprio nemico, non
era una piccola compiacenza per la ragazza, ma a patto che le avessero
assicurato la vita, la salute e la felicità del suo babbo. Non pareva
quasi vero a lei stessa, tanto Angela era schietta fuori del suo
quaderno, ma era proprio sicura di volere un gran bene a suo padre.

Il viaggio, incominciato nel buio, fra i muricciuoli biancheggianti
dei poderi sassaresi fu proseguito al lume di luna, nella magnifica
campagna, fino a Laerru, dove Silvio ed Angela trovarono la cena e il
letto per il rimanente della notte, in casa di Gian Tommaso Oggiano
sindaco del paese. Da Laerru partì un servo di Gian Tommaso per
avvisare prete Emanuele che gli _ospiti_ sarebbero arrivati nella notte
— così quando Silvio ed Angela giunsero alla piccola città di granito
trovarono il sagrestano che aiutò Angela a smontare, poi prese il
cavallo per la briglia e lo condusse ad una stalla fuori dell’abitato.

Angela si attaccò al braccio di Silvio, senza dir parola, ma tremando
tutta; e si lasciò trascinare sulla via sassosa fino alla porta della
casa del parroco.

Si arrestarono.

— Zio Silvio, mormorò Angela, ho paura!

— Paura di che?

— Paura di non essere abbastanza forte; Dio! come mi batte il cuore!

Un lumicino brillò un istante ad una delle finestre della casa; poi si
spense, e la gran voce dell’orologio si lamentò due volte.

Angela rabbrividì, e non disse il terrore misterioso che la invase;
entrarono.

Ritto come un fantasma, colla sottana rialzata da un lato, prete
Emanuele apparve sull’uscio, in cima alla scala. Reggeva una candela
con una mano, tenendola alta per far luce.

— Benvenuti siano! disse; e quando Silvio ed Angela gli furono accanto,
pigliò nella larga mano le palme di tutti e due, e le strinse insieme
alla muta.

Poi disse senza aspettare d’essere interrogato: — Soffre molto, non può
chiuder occhio, ed ha sonno; vi aspetta. Passi, _signoricca_.

Il dolore, l’affetto, la stessa cortesia, tutto in quel servo di Cristo
parlava con accento severo.

La fanciulla aveva creduto che le sarebbero mancate le forze, che
sarebbe morta di languore prima di giungere al capezzale di suo padre —
invece no: alla vista di prete Emanuele le venne il coraggio in cui non
aveva sperato.

— È là, disse il prete.

Bisognava attraversare una stanza buia per giungere alla camera del
dolore. Angela vi si avviava, ma prete Emanuele la trattenne, e passò
avanti.

Un momento dopo il prete riapparve affannato nel vano dell’uscio e fe’
cenno ai due che accorressero.

Angela, senza sapere che forza l’avesse spinta, si trovò in ginocchio,
ai piedi di un gran seggiolone di cuoio, colle labbra appiccicate ad
una mano fredda e gonfia, sensibile appena a quelle carezze.


— Ora no! disse Giorgio con voce soffocata, chinando il capo sul petto
per contemplare sua figlia — poi alzò gli occhi verso un Crocifisso
appeso alla parete, e parve implorare la grazia d’essere lasciato a
soffrire ancora.

— Ora no, ripetè un momento dopo, tirandosi sul petto la sua creatura —
non sono morto lasciandoti, e non morrò nel rivederti. Dio è clemente.

Angela teneva la testa china, ma non poteva piangere, e si stupiva e si
accusava di questa aridità di cuore.

Quanto mai doveva esser cattiva se non piangeva! Ma era inutile;
il suo pensiero indocile, invece di misurare la sciagura imminente,
ricostruiva l’immagine di Efisio Pacis come le era apparso nello stazzo
di Giannandrea _il Lungo_ e in _Speranza Nostra_, per confrontarla con
quella che le stava dinanzi. Ora le pareva impossibile, che, coprendo
tutte le parti del viso già nascoste dalla barba, suo padre dovesse
sparire un’altra volta così interamente da non sospettarne neppur
l’esistenza. Se il poveretto invece d’esser sì pallido ed enfiato,
fosse stato sano, fosse stato allegro, come avrebbe dovuto essere
ribaciando la sua creatura, Angela prima d’ogni altra cosa avrebbe
voluto coprirgli la faccia con cento carezze, per spiegarsi quel
mistero.

Ma ora tutto ciò era inutile, ora invece sarebbe bisognato piangere,
piangere molto, lasciar gocciolare le lagrime su quel seggiolone di
cuoio antico che, solamente nel bracciuolo, aveva diciotto borchie
d’ottone orlate di verderame.

L’ammalato non istaccava gli occhi grandi e lucenti dalla testina di
sua figlia.

— Guardami, disse poi, e Angela alzò il viso senza lagrime. Ho ricevuto
la tua lettera, proseguì Giorgio, mettendosi una mano al cuore, mi ha
fatto bene.

Poi girò gli occhi stanchi come a cercare qualcuno, e Silvio accorse.

— Giorgio! Giorgio!

Gli tremava la voce, e aveva ancora sulla guancia una grossa lagrima di
cui Angela fu gelosa.

— Ho bisogno di parlarti, disse l’infermo, alzando la mano per chiedere
scusa a sua figlia con una carezza.

Angela si rialzò, istupidita, e seguì prete Emanuele nella stanza
vicina; ma prima di attraversare la soglia udì suo padre che diceva:
«ho fatto un sogno!»

Essa si buttò sopra una cassapanca di legno nero e si coprì colle mani
gli occhi che non volevano piangere.

Attraverso le dita vide prete Emanuele, che, dopo essere stato a
guardarla un poco, quando la credette assorta nel dolore, tornò nella
stanza dell’infermo.

Angela si lasciò cadere le mani sulle ginocchia e pensò:

— Prete Emanuele sa il sogno di mio padre.

Giungeva fino a lei la voce rantolosa del povero sognatore, ma
indistinta; una sola volta le parve che venisse pronunziato il suo
nome; porse l’orecchio, e la voce ripetè: _Angela!_

Forse suo padre la chiamava — la fanciulla si rizzò e venne all’uscio.

Silvio reggeva il capo del fratello, e prete Emanuele li abbracciava
entrambi con uno sguardo profondo.

— La farai felice, mormorava Giorgio, promettimelo; e sarai felice tu
pure...

Angela si fece scrupolo d’aver udito troppo, e andò a buttarsi sopra
una seggiola.


Albeggiava appena, e la luce fioca, entrando dalla finestra socchiusa,
scoloriva già la fiamma della candela sul canterano. Angela aveva
voluto vegliare ai piedi di suo padre, ma si era addormentata sulle
sue ginocchia; e l’infermo la guardava, trattenendo gli spasimi del
petto oppresso, per non destarla. Prete Emanuele stava da un poco in
osservazione dinanzi alla finestra e porgeva orecchio ai primi rumori,
che risvegliavano la via deserta. Pareva turbato.

A un tratto strinse i pugni, e li alzò al cielo, senza minaccia nè
collera.

Silvio uscì dal cantuccio, dove aveva cercato invano un’ora di riposo,
e venne incontro al prete, che l’informò concisamente di quanto
accadeva.

— Il maresciallo! disse. — Null’altro.

Questa parola significava che Silvio ed Angela erano stati seguiti o
preceduti, e che il nascondiglio di Giorgio era scoperto.

L’intenzione del maresciallo era palese; non gl’importava d’essere
veduto; egli passeggiava su e giù dinanzi alla casa del prete, e ogni
tanto guardava alla finestra dove tutta la notte aveva brillato il
lumicino.

Prete Emanuele condusse Silvio in silenzio ad un’altra finestra e gli
fece vedere, sulla strada, quattro carabinieri addossati alle muraglie.

— Non è solo, disse; aspetta che la legge gli permetta di entrare,
senza violare il domicilio; sono le quattro e mezza; passeggerà ancora
una mezz’oretta.

Intanto Angela si era svegliata sulle ginocchia di suo padre, il quale
dimenticava i proprii dolori per sorriderle.

— Ti senti meglio? domandò la fanciulla.

— Un pochino, rispose Giorgio per contentarla, ma si vedeva bene che
non era vero; l’ansia del suo petto era cresciuta; aveva la faccia più
gonfia e color della cera; gli occhi stanchi ed appannati.

— Quanto sono contenta! disse Angela; sì, sì, tu stai meglio; non è
poi vero che tu sia tanto malato; sei ancora grasso; quando portavi
la barba non si vedeva che tu eri grasso: mi eri sembrato scarno. Tu
guarirai presto, babbino mio; guarirai per farmi piacere, poi... poi,
soggiunse abbassando la voce, fuggiremo insieme.

Giorgio sorrideva ancora, e cercava di rispondere alle carezze colla
mano enfiata e quasi inerte.

E quando Angela taceva, non sapendo quale dir prima fra le cento
cose che le si affollavano alla mente, egli le lisciava i capelli, ed
insisteva: «parla ancora, parla ancora.»

Approfittando di quel colloquio, prete Emanuele lasciò la camera e
scese in istrada.

— Signor maresciallo! chiamò dal portone.

E il maresciallo si avvicinò facendo il saluto militare.

— Signor maresciallo, buon giorno; lei fa la posta a qualcuno?

Il maresciallo temette dell’astuzia del prete, il quale, salva la
chierica, era più carabiniere di lui, e fece l’uomo cauto.

— Non dico nè si, nè no; sa bene... è il nostro dovere; ma anche lei è
mattiniero, don Emanuele.

— Sa bene... dico la prima messa.

Al prete non rimaneva alcuna speranza che Giorgio potesse passarla
liscia, ma non voleva esser lui a dargli l’ultimo colpo; chi sa? forse
i carabinieri erano stati informati male... Se il maresciallo volesse
parlare...

Ma non parlava che di cose indifferenti; il prete gli faceva paura.
Sonarono le cinque.

Il maresciallo sembrava impacciato, perchè per passare la soglia della
casa gli toccava chiedere licenza al prete. Egli aveva immaginato di
dover picchiare all’uscio, e dire alla prima persona che si affacciasse
le parole sacramentali: _in nome del Re_ — invece il portone era
spalancato, e sorgeva nel vano il parroco in persona.

Il prete stette un poco a godersi quell’impaccio, poi disse:

— Signor maresciallo, vuol entrare a prendere un sorso di caffè?

— Volevo appunto dirle.... osservò il maresciallo — ma prete Emanuele
non lo lasciò finire, e voltandogli le spalle con bel garbo, lo
precedette.

Quando furono nel salotto, il prete disse:

— Senta, qui ci è un uomo di cuore che parla ad un altro uomo di cuore;
qui nessuno vuol guastar lei col procuratore del re — mi dica che cosa
ha bisogno di fare in casa mia, e c’intenderemo.

La gravità del caso era tanta, che prete Emanuele non aveva esitato
a dire una bugia prima di dir messa; egli sapeva benissimo che il
maresciallo dei carabinieri non poteva chiamarsi un uomo di cuore,
senza dare a quest’espressione un senso molto più lato che non comporti
nell’uso volgare. La cosa stupì grandemente lo stesso uomo della legge,
il quale dentro di sè disse: «è qui.»

— Lei ha ragione, rispose forte, possiamo parlar chiaro; devo visitare
la casa.

— Chi cerca?

— Cerco Giorgio Boni, che si nasconde col nome di Efisio Pacis, se ora
non si fa chiamare altrimenti. Fino a quindici giorni fa era un uomo
magro, alto, colla barba nera... A quest’ora probabilmente non avrà
più la barba. Somiglierà un poco più a un suo ritratto di 14 anni fa,
che era rimasto nelle mani della giustizia; il giudice istruttore ne
aveva fatto fare delle copie... Non sono riuscite molto bene, perchè
a quel tempo si stava male a fotografi in Sardegna — e anche ora sa?
reverendo, non si sta benone — io mi sono fatto fotografare quattro
volte e nissun fotografo è ancora riuscito a _pigliarmi_ bene... Sono
difficile io... Ma questo importa poco... Volevo dire soltanto che uno
di quei ritratti l’hanno mandato a me.

Allora prete Emanuele rinunziò alla speranza e parlò al cuore del
maresciallo. Oh meraviglia! il maresciallo era mansueto — solamente
voleva vedere...

— Venga, si affacci dietro di me, senza far rumore, a quell’uscio, e
dica se riconosce in quell’uomo la persona che deve arrestare — ma mi
raccomando...

— Lasci fare.

Il maresciallo seguì il prete, e si affacciò alla camera melanconica.
Subito, cercando di passar oltre, cominciò con voce monotona:

— Giorgio Boni, in nome del re...

Ma il reverendo non lo lasciò finire; con uno spintone vero e proprio
lo ricacciò nell’altra stanza e gli si piantò davanti.

— In nome del re.... cominciò per la seconda volta il maresciallo.

— In nome di Dio, proruppe il prete con quella voce con cui tonava dal
pulpito, la prego di star zitto, perchè quell’uomo muore.

Giorgio intese tutto, e chinò il capo sul petto.

Angela si gettò sulle ginocchia di suo padre. — Era desolata, ma
contenta, perchè finalmente piangeva.


Il maresciallo per quel giorno si accontentò di mettere il brigadiere
in sentinella nella prima stanza e un carabiniere al portone
d’ingresso, perchè l’ammalato non uscisse di casa alla chetichella.

Ma Giorgio rese vane tutte quelle precauzioni — morì nella notte.

Furono risparmiate ad Angela le angosce di quelle ultime ore, in cui
Giorgio, dopo aver confidato nella morte, sentendola finalmente venire,
lottò contro di essa, sorretto da una forza nuova; e si rivolse a suo
fratello, a prete Emanuele, ed allo stesso brigadiere perchè dessero un
po’ d’aria al suo petto impotente.

Solo pochi minuti prima di morire, quando già prete Emanuele si era
curvato su Giorgio per fargli sulla fronte il segno del cristiano,
Silvio andò a svegliare la fanciulla, la quale giunse in tempo a
ricevere l’ultimo bacio di suo padre. E questa volta non pianse, ma
fissò a terra, istupiditi, gli occhi che avevano visto il dolore.



PARTE TERZA.


I.


Vi erano dei momenti in cui Angela non comprendeva più sè medesima;
essa aveva finalmente trovato una grossa vena di lagrime per la memoria
del suo povero padre, una vena che prometteva d’essere perenne;
ma quando aveva pianto molto, era poi così contenta di sè, che,
pensandoci, inorridiva quasi dei propri sentimenti. Non era nemmeno
sicura che sotto certi aspetti la morte di suo padre non fosse una
bella cosa; sotto l’aspetto del lutto grave, per esempio, che le era
toccato vestire e che si adattava bene alla bianchezza del visino tondo
ed alla capigliatura bionda; ed anche sotto l’aspetto del giornale in
cui ogni sera, prima d’andare a letto, poteva rileggere, correggere
ed aumentare la propria sventura. E sotto quale altro aspetto? Ah!
questo era il segreto di Angela; ancora essa non ne aveva detto nulla
al suo libriccino di memorie, nè a Bice, nè quasi a sè stessa, se
non in maniera dubitativa, perchè si era proposta di aspettare con
rassegnazione che parlasse _lui_. Già un giorno o l’altro, dovrebbe pur
parlare, so non volesse sposarla alla muta.

Però Angela non si faceva illusioni; forse le toccherebbe aspettare un
pezzo. Non già che non si sentisse capace di far la moglie anche fra un
anno, anche subito; era un dito appena più piccola di Bice; se andava
incontro allo specchio, a testa alta, poco mancava che non sembrasse
una matrona. Che cosa le mancava? Un po’ di strascico; quattro palmi di
coda, due palmi di coda, un palmo solo — non le mancava altro. Invece
portava ancora le vesti corte! Perchè mai le gonnelle delle ragazze
stentano tanto a crescere?

Ad ogni modo era contenta anche così; non s’ha a chiedere troppo alla
sorte; la quale, quando ad una fanciulla di tredici anni ha fatto
vedere lo sposo che le tiene in serbo, non ha fatto poco.

Signorine Sassaresi di venti anni sonati e magari di venticinque, le
quali a messa, alla benedizione, alla predica, giravano gli occhi
peggio di Madonne miracolose ricercando nella folla un devoto che
tardava a venire, Angela ne conosceva parecchie. Alla passeggiata dei
giardini pubblici, quando la banda sonava: _Tutte le feste al tempio
o M’apparì tutto amore_, e le meschine a cui ancora non era apparso
nessuno, gettavano le loro occhiate di qua e di là, e si voltavano col
batticuore ad ogni tintinnio di sciabola, Angela poteva fare la sua
via tranquillamente, andare su e giù nel viale, non si curando degli
studenti di liceo, i quali parlavano forte dell’amore di Platone e di
quello di Shopenahuer per farsi udire da lei.

Si sentiva arrivata, si sentiva a cavallo della vita; e se non
l’avessero trattenuta le convenienze, si sarebbe voltata per dire alla
scolaresca che il venirle dietro era tempo buttato, che lei lo sposo
forse ce l’aveva, e non uno sposo da burla, ma uno sposo colla barba
nera e perfino con qualche pelo bianco, uno sposo che non era studente,
perchè era professore. Forse si chiamava Silvio, ma essa non ne sapeva
nulla; toccava a lui parlare, ed egli non aveva aperto bocca.

Il solo che avesse aperto bocca era il parroco. Quel prete consumato
si era lasciato pigliare in una trappola veramente primitiva che la
fanciulla, a cui piacevano le notizie sicure e le cose nette, aveva
preparato col suo garbo d’ingenua. Essa era andata a dirgli piangendo
che sapeva tutto, che aveva udito il sogno di suo padre, e che le era
sacro — e lui: «Non so nulla,» aveva risposto, baciandola in fronte,
e se non le aveva dato la benedizione nuziale, poco vi era mancato.
Solo più tardi prete Emanuele ebbe un sospetto che Angela gliel’avesse
fatta; ma l’ingenua era già partita nel biroccino a fianco del suo
fidanzato.

Era stato un gran lavoro per il cervellino di Angela il provarsi ad
immaginare le parole, l’accento, le maniere con cui il suo Silvio
le avrebbe svelato tutta la faccenda. Preparare la risposta le era
riuscito più facile. «So tutto,» avrebbe detto, e gli si sarebbe
buttata al collo; forse avrebbe soggiunto: «e ti amo,» forse no;
secondo i casi. Ma tutta la strada, da Tempio a Sassari, Silvio non
disse quattro parole più del necessario; e tornati alla casina del
mulino a vento, egli era ancora lo zio d’una volta, tale e quale; e
così rimase.

E così rimaneva da parecchie settimane. Era andato a Sorso, era andato
a Sennori; sebbene fosse sempre occupatissimo di _Speranza Nostra_,
trovava tempo a colloqui lunghi con Cosimo, con Beatrice, cogli
avvocati di Sassari. Una volta era ricomparso nella casina bianca
Efisio Pacis, quell’altro, quello che faceva delle poesie, e una
mattina il pastore e suo zio erano partiti insieme di buon’ora, poi lui
era ritornato solo, poi... insomma, ci era in tutta la casa la presenza
continua d’un’idea nuova. Angela da principio non vi badò, perchè
anch’essa aveva un gran lavoro da fare per dar sesto al suo avvenire,
ma quando vide che lui non si risolveva proprio a parlare, ed ebbe la
prova sicura che nè Beatrice, nè il conte Cosimo erano informati del
gran segreto, allora volle sapere che sorta di propositi togliessero il
riposo al suo Silvio.

— Lo sai? gli disse una mattina, trattenendolo nell’uscio di casa
mentre stava per andare pe’ fatti suoi. Lo sai che da qualche tempo non
ti occupi di me?

Silvio la guardò un momentino e sorrise, assicurandola che sbagliava e
che invece s’occupava molto di lei.

— Non mi guardi neppure! insistè Angela; non hai nemmeno badato al
mutamento che ho fatto; vedi... soggiunse tirandosi indietro un passo e
facendo un giro largo nel vestibolo.

Silvio la guardò e non vide nulla.

— Il vestito!... suggerì Angela con accento di misericordia, i
vestiti!.... non ti sei accorto che sono più lunghi? Bice me gli ha
fatti allungare tutti.... prima scendevano appena fin qua, ed ora
guarda...

— Se non me lo dicevi, confessò Silvio, non me ne sarei accorto; manca
ancora una spanna perchè tocchi terra, si vede tutto lo stivaletto.

Fu una rivelazione per la fanciulla; l’uomo che suo padre le aveva
destinato per marito non si dichiarava ancora, perchè non credeva la
sposa abbastanza matura.

— Quest’inverno li porterò lunghi, disse Angela, quest’inverno avrò
quasi quattordici anni.

— Lo so, disse Silvio.

Non disse altro. Egli si avviò tranquillamente, almeno in apparenza,
e ad Angela non venne neppure in pensiero di trattenerlo. Rimaneva
lì, nel vestibolo, un po’ indispettita, ma punto scoraggiata da tanta
freddezza; poi ricordandosi che le fidanzate non lasciano mai uscire di
casa il loro promesso senza accompagnarlo cogli occhi da un uscio o da
una finestra, venne ad affacciarsi al terrazzino. Egli se n’andava con
passo celere, diritto e superbo. Guardato alle spalle, pareva un uomo
incapace di voltarsi nella sua via per nulla al mondo, e invece... e
invece prima di scantonare, si voltò.

A questo grave indizio d’amore, Angela non seppe, non volle resistere,
e subito, senza mettere tempo in mezzo, andò a dire ogni cosa al suo
giornale. Già, lo sapeva bene, fino a tanto che non avesse scritto
nel quaderno che Silvio era lo sposo suo dinanzi al Cielo, l’uomo
più bello, più amabile e più amato di questa terra, non potrebbe dire
d’esserne innamorata abbastanza. Da questo momento ne era cotta; era
scritto.

Ora non le pareva vero che avesse potuto vivere tanto tempo al fianco
di Silvio senza vedere in lui altro che uno zio; però, a pensarci
bene, _qualche cosa_ ci era sempre stata fra lui e lei; fin da quando
era bambina, fin da quando gli saltava sulle ginocchia, essa aveva
sempre sentito _qualche cosa_. Ora se ne ricordava benissimo. Era forse
l’istinto o il presentimento, forse il destino, ma qualche cosa era.
E tutto ciò a dispetto della sua fantasia tanto diversa dal proprio
cuore. Perchè, bisogna pur dirlo, l’ideale di Angela in altri tempi
era stato uno sposo che avesse avuto vent’anni appena, i baffi e la
mosca e nemmeno un pelo di più sulla faccia. Non sembra vero, ma è
così. Gli uomini dell’età di Silvio le erano sembrati vecchi! Che poco
giudizio aveva allora! Per fare ammenda onorevole, Angela sentenziò
nel suo quaderno che l’uomo non dovrebbe mai prender moglie prima dei
trent’anni.

Si può credere, sebbene Angela non abbia lasciato scritto nulla in
proposito, che non sia così quanto alla donna.



II.


Che Silvio si occupasse di Angela, era verissimo; che se ne occupasse
molto, era anche vero.

Dal giorno che il fratello gli era spirato fra le braccia, dopo
avergli detto d’un certo suo sogno paterno, generato dallo sgomento
di dover abbandonare la propria creatura a un mondo ingiusto, che
per farle scontare la pena inflitta al padre, o non le avrebbe dato
marito, o glielo avrebbe dato pessimo, da quel giorno, l’amoroso zio
non si era occupato quasi d’altro che della nipotina. Egli aveva
acconsentito a tutte le idee stravaganti del fratello, perchè non
bisogna contraddire ai moribondi, ed anche perchè gli pareva che il
disgraziato Giorgio, facendo la vita del bandito in Africa, avesse
perduto la pratica del mondo, dimenticato di che imprese sia capace
l’amore, e perciò fosse più pessimista del ragionevole. Ma che si
avesse a trovare un eccellente marito per Angela, anche senza uscire
dal territorio di Sassari, per ogni persona di questo mondo non poteva
essere dubbio. Solo che il musetto della ragazza mantenesse la metà di
quanto prometteva, e lo zio Silvio era pronto a scommettere che tutti
i giovinotti sassaresi la vorrebbero sposare, ad occhi chiusi. Fosse
anche la figlia d’un brigante, per andare a nozze Angela non avrebbe
che a scegliere; era come se lo vedesse. — Forse che la storia del
padre non era nota? E forse che perciò tutti gli studenti di Liceo, e i
più arditi del ginnasio, non le lasciavano gli occhi addosso?

Dunque i terrori di Giorgio non avevano fondamento, e la promessa vaga
fatta da Silvio al fratello morente non gli metteva paura.... «Sta
tranquillo, gli aveva detto, a far felice tua figlia ci penso io.»

Ci pensava.

E intanto, a voler essere sincero, prima condizione di felicità
futura per Angela, era di non pigliar sul serio nemmeno un momento la
possibilità d’un matrimonio così bizzarro.

Non si faceva illusioni, il professore. Egli aveva ora più del doppio
dell’età della ragazza, e quando questa fosse appena appena a tiro, a
diciannove anni poniamo, egli ne avrebbe ancora il doppio.

Non era egoista Silvio; avesse anche potuto carpire la felicità, non
l’avrebbe voluta, sagrificando una fanciulla innocente. Nemmeno l’amore
ottenuto coll’inganno da un’ingenua lo poteva contentare. Angela era
una ragazza bella, buona, piena di seduzioni e di grazie, degna di
tutte le dolcezze dell’amore spontaneo e corrisposto. Pigliarsela lui
già stanco della vita, già disilluso, già quasi vecchio, sarebbe stata
una colpa — e Silvio aveva peccato abbastanza. Chi sa? forse peccava
ancora, forse l’uomo non ha il diritto di accarezzare col pensiero un
ideale femminino, quando questo ideale è la moglie d’un amico. E pure
non gli pareva di far male; non si era egli accertato che Beatrice non
sentirebbe mai nulla per lui? Sì, mai nulla, salvo che l’amicizia.
Se Silvio avesse solo immaginato che la sua santa potesse scendere
dall’altare per dirgli: «t’amo,» si sarebbe creduto il più indegno
degli uomini. Egli era sicuro di non aver mai immaginato nulla di
simile, altro non voleva che vivere e morire del suo gran male occulto.
Ahimè! sì, occulto.

Beatrice, accecata dall’amore per suo marito, non sembrava nemmeno
sapere di che malattia Silvio languiva. Si era però accorta che non
istava bene; e glielo diceva spesso. — Lei dimagra, gli diceva, lei non
si cura abbastanza, signor Silvio; lei a _Speranza Nostra_ si costipa,
si scalmana; lei avrebbe bisogno di qualcuno al fianco che l’obbligasse
a riposarsi un poco ed a pigliare qualche medicina... — Così diceva la
cieca Beatrice. Non è vero che, se essa avesse solo potuto sospettare
il tarlo segreto, che mordeva il cuore di Silvio, non sarebbe
stata tanto crudele e tanto stupida? Quando, a quattr’occhi, in una
stanzetta, oppure attaccata al braccio di Silvio nella passeggiata, gli
parlava di Cosimo, gli diceva la confidenza intera che ora Cosimo aveva
messo in lei, e gli descriveva, con tanta ingenuità da parer malizia,
la festa del proprio cuore e quella del cuore di Cosimo, certamente
Beatrice era un pochino stupida. Fra una donna giovine e bella e un
uomo ancora giovine, quand’anche non sia bello, ci è sempre qualche
cosa che ammette, anzi richiede, anzi pretende l’esclusione tacita
del marito; non è nulla d’impuro, non è nulla d’illecito; chiamatelo
l’_eterno mascolino_.

Dunque Silvio si occupava molto della nipotina.

Sebbene egli non dubitasse menomamente che a suo tempo le
fioccherebbero i mariti, voleva pure che il passato non potesse gettare
ombra sulla festa nuziale, voleva rivendicare la memoria del povero
padre e correggere la sentenza che ne aveva fatto un assassino volgare.

Già una volta egli si era raccomandato ad un celebre avvocato milanese
per averne un buon consiglio, ma la risposta era stata breve e crudele:
«non vi è altro mezzo di correggere la sentenza contumaciale, aveva
scritto l’avvocato, fuorchè purgare la contumacia, cioè provocare
un nuovo giudizio consegnandosi alla giustizia...» Ma ora Giorgio
era morto e certamente la cosa mutava aspetto. La legge doveva aver
preveduto il caso d’un uomo accusato e condannato ingiustamente in
contumacia, poi morto e non più in grado di purgare nè la contumacia nè
altro.

Quando un testimonio, o un documento, o checchessia venisse a dire
ai giudici che essi avevano errato condannando un uomo, certamente
i giudici non chiederebbero di meglio che riabilitare la memoria del
defunto con una nuova sentenza da affiggere alle cantonate.

Così credeva il professore d’agronomia, ma gli avvocati sassaresi
erano di diverso parere, e il celebre giurista milanese, a cui Silvio
si era rivolto nuovamente, tardava a rispondere. Intanto Silvio,
persuaso che una qualunque via dovesse pure aprirsi alla riabilitazione
della memoria d’un morto e che tutto stava nel trovarla attraverso i
labirinti della legge e delle procedure, lavorava a radunare le armi
della difesa. Aveva messo le mani sopra due galantuomini di Sennori,
che si erano trovati presenti nel momento in cui il marito di Bebbia,
scampato all’agguato, aveva ucciso il suo rivale, per difendere la
propria vita.

I due sennoresi narravano d’aver visto ogni cosa stando dietro il
muricciuolo dell’oliveto di fronte, che era l’oliveto di Don Antonio
Muras, e di non essersi mostrati prima, nè aver parlato poi, per
prudenza, considerando ch’essi medesimi non avrebbero avuto nessuna
ragione di trovarsi dietro al muricciuolo, se non fosse stato che
le ulive quell’anno abbondavano e che nell’oliveto di Don Antonio
si tardava troppo a raccoglierle. Ora il sentimento della giustizia
combinato colla prescrizione dell’azione penale pei furti di campagna,
lo stimolo del rimorso e quello d’una mancia avrebbero fatto dire ai
due galantuomini tutta la verità e nient’altro che la verità.

_Su Mazzone_ dal canto suo, purchè la giustizia gli assicurasse che
non sarebbe arrestato durante il dibattimento, e dopo il dibattimento
gli concedesse un paio di giorni tanto da mettere un po’ di campagna
fra i reali carabinieri e lui, era disposto a presentarsi alla Corte
d’assise, per ispiegare appuntino come erano andate le cose.

Ma tanta buona volontà si ruppe contro l’inerzia del Codice di
procedura penale, che a questo caso non aveva pensato.

Come avevano detto e ridetto gli avvocati sassaresi, così scrisse
l’avvocato di Milano.

«Lei mi domanda, — scrisse — che cosa possa fare la famiglia del
condannato a morte in contumacia, quando, morto il condannato e
saputasene la irresponsabilità, voglia far sparire la macchia della
condanna.

«Purgare la contumacia a _sensi_ dell’art. 545 del Codice penale, no —
perchè il morto non può presentarsi.

«Ottenere la revisione del processo, no, perchè il Codice ammette
questa revisione in tre soli casi, che sono: 1.º che l’_ucciso_ non
sia _morto_ — 2.º che l’uccisore sia un altro e venga condannato in
contradittorio — 3.º che un testimone venga condannato per falso.
L’irresponsabilità del condannato, accertata dopo, non è _contemplata_
dalla legge. E poi la revisione a prò dell’onore dei morti non si
riferisce che alle sentenze esecutive, a termini degli articoli 688
e seguenti; le sentenze contumaciali, sebbene vengano pubblicate ed
affisse (art. 339), sono sempre escluse da questo beneficio.

«Si può pensare alla riabilitazione, ma la riabilitazione della legge
non riguarda che i vivi, senza dire che non si occupa dell’onore, ma
solo dell’incapacità risultante dalla condanna. (Vedi art. 636).

«Non è il caso dell’amnistia che abolisce l’azione penale (art. 830),
perchè questa è già estinta dalla morte (art. 13).

«Non è neppure il caso della grazia, prima di tutto perchè la grazia
non ripara l’onore e poi perchè la grazia si riferisce solo alle
condanne passate in giudicato (art. 826).

«Tutto ben considerato, non ci è nulla a fare. La legge però non vuole
sembrare indifferente alle conseguenze morali d’un errore giudiziario,
e dispone coll’articolo 24 del Codice penale, che l’infamia non si
estenda oltre la persona del condannato.»

Silvio pure si era provveduto di tutti i codici del Regno d’Italia, e
ne aveva sfogliato qualcuno, e si era sentito pigliare dalla collera
più d’una volta, quando non capiva gran cosa e quando non capiva
niente; ma dopo la lettera dell’avvocato milanese, sentì un bisogno
prepotente e andò a prendere tutti i colpevoli per dare un esempio. Li
trovò dove li aveva lasciati, ma ne mancava uno.

— Dov’è andato il Codice civile?

— L’ho preso io, rispose Angela, l’ho di là in camera, è un libro che
diverte.

— Zio Silvio! proseguì la fanciulla, picchiandosi la fronte, «gli
affini del medesimo grado» chi sono?

Lo zio Silvio, preso alla sprovveduta, non seppe rispondere; ma i
Codici furono salvi.



III.


Facciamola questa buona azione! aveva detto Beatrice a suo marito; e al
primo sorriso di Cosimo si era affrettata ad esclamare: «ho vinto!» —
Non aveva vinto ancora; rimaneva un avversario, appostato dove meno se
lo sarebbe immaginato, nel proprio cuore di sposa; quell’avversario era
una debolezza, a cui Beatrice, nell’impeto della carità e dell’amore,
non si era quasi degnata di guardare.

Presa da quell’ebbrezza baldanzosa che danno le grandi alture morali,
si era creduta padrona di tutta sè stessa, aveva confidato di far
tacere le vocette dell’amor proprio e di poter mettere al posto di
tutti i piccoli sentimenti d’una moglie innamorata, la coscienza della
donna. Ma quando aveva potuto credersi trionfatrice delle riluttanze di
suo marito, si era sentita gli occhi bagnati di lagrime, senza sapere
perchè, e quel giorno non le era riuscito di scrivere alla funambola.

E il giorno dopo Cosimo aveva detto: — Beatrice mia, la lettera a
quella disgraziata aspetta ancora un poco a scriverla; pensiamoci;
io credo che non bisogni fare nessuna cosa a precipizio, nemmeno le
buone azioni. Non sei tu pure del mio parere? — No, che non era di quel
parere, e per convenire che sebbene la pensasse altrimenti, era forse
meglio rifletterci ancora, Beatrice si fece pregare un poco. Ma era
in buona fede; appena lui aveva detto: _aspetta_, essa si era sentita
tornare tutta la baldanza della vigilia, rinvigorita da un tantino di
rimorso; avrebbe scritto lì per lì non una, ma dieci lettere, e nel
rassegnarsi ad aspettare, potè credere proprio di fare un sacrifizio.

Passarono i giorni e lo settimane, e Beatrice non parlò più di scrivere
alla funambola.

Che cosa aspettava? Non lo sapeva nemmeno lei, ma l’idea di pigliare
in casa la figlia illegittima d’una ragazza del circo, che si era data
a suo marito, a poco a poco andò perdendo agli occhi suoi la bellezza
con cui le era apparsa la prima volta, d’improvviso e da lontano, fino
a diventare ridicola, fino a diventare odiosa. Non le pareva vero che
fosse stata tanto sciocca da fare una pensata simile.

Quella Nenna era certamente una fanciulla viziosa, già corrotta dalle
funambule e dagli acrobati, e Beatrice dovrebbe farla venire da Milano
per vedersela lì, sempre davanti, a ricordarle mattina e sera, per
il rimanente della vita, che un’altra donna, una donna volgare... un
giorno!...

E la cattiva madre che speculava sulla propria infamia, forse che
sarebbe possibile tenerla distante, vietarle per l’avvenire ogni
contatto con sua figlia? Perchè la Nenna non cesserebbe mai d’essere la
figlia di Cesira, anche quando avesse imparato a dare a Beatrice quel
nome di madre che la sorte non le aveva voluto concedere. E se venisse
un giorno, quella Cesira? Con qual diritto chiudere le porte in faccia
ad una donna che grida: «voglio vedere la mia creatura?...»

Altre paure, già domate, rizzavano il capo. Se guardando in volto
a Nenna, studiandone le trasformazioni che vi porterebbe l’età,
interrogandone il corpo e lo spirito, Beatrice venisse un giorno a
sospettare che la disgraziata avesse la fronte, la bocca, o solo lo
sguardo, o solo il sorriso di Cosimo. Se non potendo mai accertare
il vero, vedesse nascere nel cuore di suo marito un sospetto, un
dubbio pauroso e dolce, forse peggio, un sentimento istintivo capace
di legarlo a quella creatura ed alla cattiva madre di lei, più che
alla sua sposa legittima, che gli lasciava ignorare le gioie della
paternità! Se il cielo, in premio della sua buona azione, le riserbasse
questo spettacolo! Era pur stata sciocca! Ma come mai Cosimo non se
ne accorgeva egli stesso, e non le veniva a dire colla dolce autorità
dell’amore: «io ti proibisco di giocare su questa posta la nostra
felicità?»

Ah! essa lo sapeva bene perchè suo marito taceva; perchè le leggeva
nell’anima, perchè, vedendo la battaglia che le dava il buon senso,
confidava che s’indebolisse tanto, da dover rinunziare ad una carità
spropositata.

Non le spiaceva che fosse così, tutt’altro, ma si sentiva umiliata. Era
la prima volta che il cuore le aveva detto una bugia nel suggerirle una
buona azione superiore alle proprie forze; perchè ora poteva dubitare
di tutto, e chi sa? forse gli scrupoli che erano succeduti al primo
slancio, non erano già consigliati dal buon senso, ma dalla viltà. Le
mancava il coraggio, ecco — bisognava convenirne apertamente, e nemmeno
questo sapeva indursi a fare, aspettando accidiosamente non già che
le tornasse la primitiva baldanza, ma che le fosse pure risparmiata la
confessione umiliante. Suo marito non le diceva più nulla, ma si vedeva
bene che ci pensava sempre e che egli pure aspettava.

E una sera, quando si credevano entrambi lontanissimi dall’arrivare
ad una conclusione, ma pensavano tutti e due alla medesima cosa, si
guardarono e s’intesero.

— Quanto siamo mai miseri! mormorò Beatrice.

Cosimo non disse di no.

Vedendosi compresa, Beatrice proseguì:

— Qualche volta ci crediamo angeli, ma siamo poi sempre... donne.

E suo marito le fece intendere con un bacio silenzioso che non gli
spiaceva che essa fosse così.

— Bisogna scrivere a quella disgraziata, balbettò la giovine moglie; ho
pensato... che basterà per ora.... che io le mandi del denaro. Al resto
vi è sempre tempo.

Disse queste ultime parole con dispetto, come se una forza ignota,
superiore alla sua volontà («il buon senso» aveva detto prima) gliele
strappasse dalle labbra.

Cosimo cominciò sorridendo: «brava...» ma essa gli tappò la bocca colla
mano.

— Sta zitto!


Quella buona azione non riuscita, non pesò lungamente sulla coscienza
di Beatrice, perchè due settimane dopo ella potè dire a sè stessa
sul serio che forse — o generosa natura! — sì, forse non era stato il
suo mal animo a farla andare a male, nè il mal animo del suo Cosimo,
ma l’egoismo d’un altro, il primo capriccio d’una creaturina, che
per venire al mondo metteva le sue condizioni. E appena intravide un
bagliore di questa idea grandiosa, e le si fu accostata timidamente
senza uscire ancora dall’ombra che essa lasciava intorno a sè, Beatrice
sentì svanire tutti gli scrupoli di un falso sentimento, e disse forte
a sè stessa, e lo disse a Cosimo, che solo qualche anima buona aveva
potuto impedirle di commettere una corbelleria.

— Ce ne saremmo pentiti dieci volte, non avremmo osato confessarlo e
saremmo forse stati miseri per tutta la vita.

Così assicurava Cosimo, che pure non sapeva... Se poi avesse saputo!
Ma Beatrice, per non gettare l’animo suo nelle ansie di chi sogna la
felicità e teme di svegliarsi, ancora non gli diceva nulla.

Era sola a godersi la speranza, sola pure a temere.

Non erano questi i loro patti, lo sapeva bene, ma era certa di non
far male, violandoli, perchè sentiva pure di non esser stata mai così
vicina al suo Cosimo.

Si provava a dirglielo: — io peggioro, gli diceva ridendo, io sono
sempre più innamorata di te. Ogni giorno scopro che ti voglio bene in
un modo nuovo; ti ho voluto il bene di sposa, di amica, di sorella, ora
credo di volerti anche quello di madre. Mi pare che vorrei fasciarti e
portarti in braccio...

Cosimo, che non voleva essere da meno, rispondeva che anche lui, sì,
anche lui... almeno gli pareva... ma allora Beatrice, col dolce imperio
dell’amore, gli ordinava di smettere.

— Sta zitto... sta zitto... tu non sai!

No, egli non sapeva, non indovinava, non ci si provava neppure, il
malaccorto, e bisognò che dicesse lei ogni cosa, quando non si sentì
più la forza di fare da sola tutta la fatica di aspettare, dubitando e
sperando.

Ma in compenso, appena Cosimo ebbe aperti gli occhi, dichiarò di
vederci per due. Nè ansie, nè dubbi; per lui tutto era chiaro;
aveva fatto dei buoni studi, nel primo anno di matrimonio; poteva
confessarlo, egli aveva di là, nella libreria, un libriccino malizioso,
che gli aveva insegnato molti segretuzzi.

Non aveva essa un po’ di nausea? No? L’avrebbe più tardi. Non sentiva
languori e brividi? No? Li sentirebbe forse fra un mese, forse prima.
Già questi incomodi si sentono sempre troppo presto. Cosimo non
dubitava di nulla, aveva la fede. Se a sua moglie facesse piacere
saperlo, egli si sentiva capace, per via di certi calcoli matematici
e lunari, di dirle il giorno preciso in cui... No? Ebbene, no, essa
brancolerebbe nelle tenebre, egli terrebbe per sè la scienza; ma se
Beatrice preferisse veder brancolare lui pure nel buio, non aveva che a
dirlo.

Pareva ubbriaco, tanto era felice; felice tanto, che sua moglie si
pentì di aver parlato troppo presto, e pianse.

Egli domandò:

— Perchè piangi? Ed essa rispose: Perchè ho paura di essermi ingannata.
— Ma era inutile, Cosimo non si sgomentava.

Se Beatrice l’avesse lasciato fare, egli sarebbe corso subito a
_Speranza Nostra_ per dare la gran notizia a Silvio.



IV.


Silvio intanto continuava il suo sogno vano, ma non ne soffriva.
Si era fatto un’abitudine del lavoro, come già dello studio; e nel
suo sonnambulismo egli poteva rasentare tutte le trappole preparate
all’umana stoltezza, senza mai lasciarvisi pigliare per davvero. Una
mezza ebrietà da filosofo solitario, in uno stanzone chiuso, colle
finestre aperte sulla campagna, per potervi gettare i suoi piccoli
gridi baldanzosi e versare le sue lagrime innocenti, — ecco il suo
stato. Se ne compiaceva. Aveva attraversato l’età più bella della vita
in lotta con sè stesso, era passato cento volte accanto alla felicità
senza riconoscerla; oggi amava per l’ultima volta, ma non isperando
nulla, e gli piaceva che fosse così; per combattere ancora, si dava
vinto. In lui una stanchezza non prodotta dalla sazietà, una sfiducia
senza nausea, quasi un godimento.

Vi erano due persone nel professore: una sana, l’altra malaticcia e
fantastica; ma non si davano più alcuna noia. Silvio aveva ogni giorno
un disegno, una impresa ardita, e non gli veniva mai meno la volontà
necessaria ad incominciare una cosa nuova. Egli si era avvezzato a
volere prontamente, perchè il suo spirito attento gli aveva dimostrato
che di tutte le molle umane la volontà è la prima ad irrugginire.

Aveva per sè stesso indulgenza e rigore; entro certi limiti tollerava
le proprie miserie con animo di padre e di amico. Sentiva che la
miglior parte della vita già gli sfuggiva, e ancora non vedeva bene
che cosa gli proponesse in cambio l’avvenire — ma aveva una coscienza
indeterminata che la vita dovesse compiersi così, a gran tappe, per via
di baratti non vantaggiosi forse, necessari.

Fallita l’impresa di riabilitare solennemente la memoria del fratello,
egli aveva dato un altro trastullo alla propria immaginazione; si era
messo in capo di gettare in Sassari la semente d’una pianta, che non vi
aveva voluto mai attecchire, l’associazione.

In un giornaletto che si pubblicava allora due volte la settimana,
egli cominciò una serie d’articoli per dimostrare che tutti i mali
dell’isola provenivano non tanto dalla scarsità di popolazione,
che anzi questa sotto certi aspetti si poteva considerare come un
vantaggio, perchè escludeva la miseria; non tanto dal clima in alcuni
luoghi malsano, perchè in molti luoghi invece e per regioni estese
era ottimo; non tanto dalla legislazione, dall’abbandono del governo,
secondo assicuravano i pessimisti, quanto da un poco di accidia
individuale e da moltissima diffidenza. Egli affermava coraggiosamente,
facendo ridere ogni giorno il suo prossimo, che anche in pochi, pur
di lavorare tutti e di mettere insieme le proprie forze e i propri
risparmi, si potrebbe fare gran cose in Sardegna. Additava la via dei
commerci d’esportazione, quella delle industrie agricole e minerarie,
quella della gran pesca, il miglioramento delle coltivazioni e delle
produzioni, ai ricchi possidenti avidi d’impadronirsi delle terre, per
il gusto di cingerle d’un muricciuolo.

Affermava alla buona, in forma semplice ma convinta, una verità
economica che non aveva letto nei libri; diceva che il primo fattore
dell’aumento della popolazione è la formazione del capitale. Voleva le
banche, consigliava le grandi imprese collettive, e dallo spirito di
associazione, si riprometteva una forza morale capace per sè sola del
risorgimento della razza sarda.

Il nome di Silvio Boni, prima ignoto, a poco a poco si faceva strada
fra i suoi conterranei; venne un giorno che le sue idee non fecero più
ridere, ma furono lette, discusse, approvate. Ma chi mai le metterebbe
in pratica?

— Il tempo, rispondeva Silvio, ne dubitate voi dei miracoli che fa il
tempo?

Due ne veniva facendo sotto gli occhi stessi di Silvio, il quale non se
ne avvedeva: una sposa diventava madre, e una fanciulla donna.


Era il primo capriccio, e bisognava rispettarlo; Beatrice non voleva
che nessuno sapesse il suo stato, e si era fatta promettere da Cosimo
la segretezza. Volendo sottrarsi all’esercizio di una virtù difficile
a un padre novellino, Cosimo aveva messo innanzi la considerazione
che tanto tanto un giorno tutto il negozio si svelerebbe da sè, ma era
stato inutile; aveva dovuto promettere.

Non gli fu penoso serbare il segreto coi pochi conoscenti di Sassari;
ma offendere l’amicizia una volta il giorno, andando incontro a Silvio
senza gridargli da lontano, come ne aveva voglia: «Allegro, amico, io
sono felice!» — questo gli costava.

E una mattina, in _Speranza Nostra_, il desiderio fu più forte della
promessa.

Cosimo si mise innanzi un preambolo lungo, si fece promettere il
segreto, e svelò all’amico ogni cosa.

La notizia cadde come una mazzata sul cervello di Silvio, il quale per
un poco non disse nulla; poi esclamò ingenuamente: «possibile!»

— Tanto possibile, che è vero, rispose il marito crudele; essa non
vuole che si sappia ancora, e tu capisci....

— Pudore materno, rispose Silvio.

— Lo chiami pudore materno? Sarà pudore materno, lo chiamerò così
anch’io. Però è inteso che tu terrai a battesimo la creatura. Si
chiamerà Silvio come te.

— È un maschio? domandò il professore, serio serio.

Cosimo intese benissimo lo scherzo, e rispose, anche lui serio: — È un
maschio.

Poi il padre contento andò a visitare i tini preparati per la prossima
vendemmia, e Silvio si cacciò sotto l’ombra degli ulivi. Nel suo cuore
era un gran silenzio e una gran pace, come dopo una rovina.

Era caduto un ramoscello d’ulivo ai suoi piedi, e Silvio camminava a
passi lenti, spingendoselo innanzi di zolla in zolla; era un ramoscello
disseccato, come la sua giovinezza, il simbolo della sua vita avvenire.

No, non sentiva alcun rammarico. Uscito dal cerchio magico in cui
si moveva da tanto tempo come un pazzo, vedeva chiaro dentro di sè e
stupiva d’essere stato così cieco.

La natura gli aveva fatto vedere la verità nuda nuda per uno di quegli
spiragli che essa apre improvvisamente all’anima umana. E la verità
nuda nuda era questa, che egli aveva fatto un giuoco pazzo in cui
poteva perdere la coscienza.

Ebbe bisogno di tastare tutte le parti addolorate dell’anima, per
accertare la propria guarigione.

Ma non gli rimase dubbio — la maternità di Beatrice lo aveva proprio
guarito.



V.


In quel tempo la piccola colonia di _Speranza Nostra_ ricevette la
visita dell’ingegnere Marini, il quale veniva alla libera, con una
semplice lettera di presentazione, per proporre al conte Cosimo un
negozio.

Quest’ingegnere Marini era un bravo giovinotto sardo, di ventitrè
anni al più, il quale aveva preso la laurea d’ingegnere delle miniere
in Germania e da poco era tornato in patria, disposto a tastare col
martello del minatore tutta quanta la crosta montagnosa dell’isola.

Era entrato a far parte della direzione dei lavori d’una miniera in
Iglesias, dove si era guadagnato la fiducia dei proprietari. Queste
cose lasciava intendere la lettera di presentazione. Il rimanente lo
disse egli stesso, con una scioltezza di maniere e di linguaggio, che
avrebbe fatto onore ad un avvocato.

Sopra Iglesias, disse, seguendo nelle viscere del monte un grosso
filone di piombo argentifero, egli aveva dovuto arrestarsi a un tratto
per non violare la proprietà altrui.

Un ingegnere sosteneva l’opportunità di abbandonare il filone già
quasi esaurito, ma egli prima di abbandonare il filone aveva voluto
vedere e toccare. Si era fatto lecito, e chiedeva un milione di scuse,
di assaggiare il terreno soprastante in molti punti, ed era convinto
che quel pezzo di prato, di castagneto e di pascolo valeva una bella
sommetta. Si capisce che il prato, il castagneto, il pascolo sotto cui
si era cacciato il filone di piombo argentifero appartenevano al conte
Cosimo.

L’ingegnere Marini veniva a proporre, a nome dei proprietari della
miniera, l’acquisto del terreno, oppure una specie di società per lo
sfruttamento di tutto il minerale che si potesse estrarre dalle viscere
di quel podere.

Questo secondo partito doveva certamente riuscire il più vantaggioso a
Cosimo, e l’ingegnere Marini non esitava a consigliarlo. Dette queste
cose colla massima gravità, il giovine ingegnere sprigionò la risatina
indocile dell’uomo contento di sè, poi si rifece grave ed aspettò la
risposta.

Il conte Cosimo chiese un’ora per riflettere, e l’ingegnere Marini,
generoso, concesse tutta la serata, avvertendo che egli partirebbe il
domattina colla diligenza, com’era venuto.

Al consulto di famiglia, compare Silvio fu precisamente dell’opinione
di comare Beatrice, e Cosimo fu di parere che avessero tutte le ragioni
del mondo, cioè che il meglio fosse andare fino in fondo della cosa
(_del filone_ corresse Silvio, che in presenza della sua comare era
sempre di buon umore e propenso alla festevolezza), e partecipare alla
sorte. Chi sa? sotto il castagneto vi poteva essere qualche centinaio
di migliaia di lire. Compare Silvio non ne dubitava.

— Voi altri siete in vena, diceva, vi toccano tutte le fortune; ha
ragione il proverbio milanese, che dice — che cosa dice il proverbio
milanese, comare Beatrice, ve ne ricordate?

Sebbene non ricordasse bene bene il proverbio, comare Beatrice ne aveva
una reminiscenza vaga, che l’obbligava ad arrossire un poco.

Infatti il proverbio milanese dice che ogni figlio venendo al mondo
porta il suo fardelletto.

In conclusione fu deciso di entrare in trattative per la società;
Cosimo avrebbe dovuto naturalmente andare alla miniera e star lontano
alcuni giorni; ma Silvio, dopo aver fatto penare un poco comare
Beatrice, promettendo che le avrebbe fatto compagnia lui, propose
d’andar egli stesso ad accomodare la faccenda.

— Io posso andare dove voglio e star lontano quanto mi pare e piace,
assicurò tra il serio ed il faceto — non vi è pericolo che nessuno
pianga per me.

Quando l’ingrato pronunziò queste parole tremende, Angela era presente,
e le raccolse, e le tenne in mente, e per non dimenticarle mai più fino
all’ultima sua giornata, le scrisse nel proprio quaderno.

Il domani Silvio partiva accompagnato fino alla diligenza dal più
felice degli uomini, dalla più gentile delle comari dell’ultimo San
Giovanni, e da una fanciulla infelicissima, a cui era negata perfino la
consolazione del pianto.

L’ingegnere Marini, quando si fu accomodato sull’imperiale della
diligenza a fianco di Silvio, mandò all’aria mattutina una risata,
poi disse al suo compagno d’una scoperta che aveva fatto e in cui il
martello dell’assaggiatore di montagne non entrava per nulla.

— Dica, dica, ingegnere, che cosa ha scoperto?

— Ho scoperto che la contessa Beatrice è una gran bella signora e che
la signorina Angela è una ragazza magnifica.

E rise.

Silvio rispose che lo sapeva. Ma per un buon tratto di strada non parlò
più; seguiva, lontano lontano, in un punto dello spazio, le mosse d’un
ingegnere amabile ed affaccendato, come quello che gli stava a fianco,
ma anonimo. A un dato momento questo fantasma si picchiava la fronte,
correva a Sassari per innamorarsi d’Angela e se la sposava.

E lui? Ecco, lui ora andava a Iglesias ad accomodare il negozio del
filone, poi tornava prontamente a _Speranza Nostra_ per prepararsi alla
vendemmia che prometteva di dargli molto da fare, intanto dava ancora
una spinta alle idee delle associazioni, teneva a battesimo il primo
maschio di comare Beatrice, e si cacciava in parecchie seccature tanto
per non istare in ozio.... Non si poteva lagnare: la sua vita doveva
essere bene spesa.


E che fece la disgraziata Angela durante l’assenza dell’ingrato?

Angela pianse, Angela scrisse pagine piene d’amore e di desolazione
nel suo quaderno. Angela si consolò studiando il Codice civile, e
finalmente, non sapendo resistere al contrasto dei propri sentimenti e
riuscendole oscuro il senso dell’articolo 68, Angela svelò il proprio
segreto a Beatrice.

La contessa battè le mani, baciò la sua piccola amica in fronte e
dichiarò che la cosa non poteva essere più bella e che era proprio
contenta.

— E tu eri fidanzata e non dicevi nulla? Come hai fatto a tacere?

— Ah! se sapessi che fatica ho fatto! Tutte le mattine mi svegliavo
pensando: glielo dico o non glielo dico? — andando a letto e dicendo le
preghiere pensavo: glielo dico o non glielo dico? e perfino dormendo
sognavo così: glielo dico o non glielo dico? Credilo, ne avevo una
voglia, una voglia!

Bice non istentò a crederlo, ma intanto dichiarò che Angela era stata
un’eroina.

— E come mai non mi sono accorta?...

— Lascia che io ti guardi, disse tirandosi indietro.... ma già,
guardandoti così, non si capisce nulla.

Angela le fece notare che era colpa del vestito corto.

— È vero, ma noi lo allungheremo e sembrerai proprio una donnina.

— Ah! sì, esclamò Angela con un impeto di gioia, allunghiamolo subito,
io non gli posso più soffrire questi vestiti che lasciano vedere gli
stivaletti. Anche a lui non piacciono.

— Te l’ha detto?

— Me l’ha lasciato intendere.

— Bisognava dirmelo...

Allora Angela chinò il capo come un giglio percosso.

— Era inutile, disse, egli non mi ama.

— E tu?

Essa? Ah! misera fanciulla! essa lo adorava.

Bice ascoltò in silenzio tutti i lamenti di quel cuore ferito, poi
affermò che Silvio non tarderebbe ad arrendersi ad un amore così
ardente.

Diceva queste cose in un certo modo, con un risolino così malizioso,
che la ragazza disse:

— Tu ti beffi di me?

— Il cielo me ne scampi! Parlo sul serio. Lo sai come dice Dante; lo
devi sapere: _Amor che a nullo_...

Sì, sì, Angela queste cose le sapeva; ma sapeva anche che cosa diceva
il codice civile.

Ah! e che cosa diceva?

— L’articolo 55 dice così: «non possono contrarre matrimonio l’uomo
prima che abbia compiuto gli anni diciotto, la donna prima che abbia
compiuto gli anni quindici.»

— E che importa questo? disse Beatrice; egli aspetterà, può aspettare,
non è già vecchio.

— Tutt’altro, e poi lo stesso codice nell’articolo 68 dice che il re
può ammettere al matrimonio la donna che ha compiuto i dodici anni.

Ora Angela era una donna a cui non mancava neppure un mese per compire
i tredici anni.

— Il re ha tante cose da fare, disse Beatrice, — è meglio aspettare e
non incomodarlo.

Opinioni! Angela invece aveva tutta l’aria di pensare diversamente.

— Quanto al re, disse, in ogni modo bisognerà incomodarlo.

— Perchè?

— Perchè l’articolo 59 dice che il matrimonio è vietato tra lo zio
e la nipote, e l’articolo 68 dice che il re può dispensare da questo
impedimento, quando concorrano gravi motivi. Lo sai tu quali sono i
gravi motivi?

Beatrice non aveva mai letto il codice civile e si trovava impreparata
a risolvere il difficile problema.

— Dice proprio così?

— Proprio così, lo so a memoria... Vuoi vedere?

— Vediamo.

Non ci era dubbio, diceva proprio così.

— Se due si vogliono tanto bene è un grave motivo per sposarli? domandò
Angela.

— Io credo di sì, rispose l’amica sua per consolarla.

Ma era tutto inutile; la fanciulla, l’aveva già detto, voleva tanto
bene a Silvio; però Silvio a lei non pensava neppure.

Nondimeno era contenta d’aver confidato il proprio segreto a Beatrice;
non avrebbe mai creduto che le confidenze dessero tanto sollievo.

— Ora ti ho detto tutto, — conchiuse intascando il suo codice; — tu
promettimi di non dirlo a nessuno, nemmeno a tuo marito.

Beatrice promise, per farle piacere; ma appena fu sola con Cosimo si
fece promettere il segreto e gli disse ogni cosa.

Angela, che credeva, in buona fede, d’aver detto tutto all’amica,
quando fu sola nella sua camera, s’avvide che le erano rimaste in cuore
alcune di quelle confidenze che non si fanno se non ad un quaderno
fidato, e si affrettò a scriverle:

«Quanto l’amo! scrisse, ogni giorno che passa mi svela in lui un pregio
che non aveva veduto; egli ha la faccia bruna, severa e dolce; è alto
e dignitoso, ha le sopraciglia che paiono tracciate col pennello ed ha
anche i capelli un po’ ricciuti! Ed io l’amo come una pazza! Non potrei
più vivere senza di lui!»



VI.


Il professore non potè sbrigare la faccenda del filone di piombo
argentifero così presto, come si era immaginato. Prima di tutto
riconobbe che bisognava fare una stima probabile della ricchezza
nascosta sotto il podere di Cosimo, per determinare in quali rapporti
presumibili fosse la spesa col frutto; e poi sebbene egli avesse
dall’amico suo pieni poteri, al momento di stringere il contratto
sociale si trovò che gli mancava una procura regolare, fatta in
carta da bollo, dinanzi al notaio. Nel mandargli la procura, Cosimo
gli scrisse che le uve annerivano a vista d’occhio sotto il bel sole
d’agosto, che i tini erano pronti e che l’albero in faccia alla casa
di _Speranza Nostra_ dava ogni mattina a Beatrice e ad Angela i più bei
fichi del territorio di Sassari.

Allora Silvio fece le sue valigie e dichiarò a quei della miniera che
se ne andava; fu impossibile tenerlo; l’amabile ingegnere Marini sprecò
con lui tutte le sue risatine compiacenti; bisognò accompagnarlo ad
Iglesias in biroccino, e là, dinanzi al notaio Masia, fare il contratto
in carta da bollo. In virtù di questo contratto, il conte Cosimo cedeva
ai proprietari della miniera il diritto di penetrare con gallerie nelle
viscere del proprio podere, per cavarne tutto il piombo argentifero;
prometteva di cedere a giusto prezzo quelle parti del fondo in cui
bisognasse aprire nuovi pozzi per agevolare l’estrazione del minerale
e far giungere l’aria respirabile ai minatori. Gli utili, dedotte le
spese, dovevano essere spartiti fra il conte Cosimo e i proprietari
della miniera, escluso in ogni caso, a favore del conte, il rischio
dell’impresa, se mai non dovesse riuscire rimuneratrice.

Quest’ultima clausola aveva fatto ridere molto l’ingegnere Marini, e
l’altro ingegnere, e i minatori, i quali erano sicuri del fatto loro;
ma a buon conto Silvio aveva voluto che fosse scritta nel contratto, —
perchè, diceva lui, la mia scienza finisce a poco più d’un metro sotto
la superficie terrestre, dove termina il lavoro delle forze vegetative;
e di quello che segue più sotto io non me ne intendo affatto.

Poi Silvio proseguì la sua strada, e giunto alla viottola che menava
a _Speranza Nostra_, fece arrestare la diligenza, raccomandando al
postiglione il proprio bagaglio. — Lo manderò a prendere domattina,
disse. — La diligenza si avviò con gran rumore di sonagli e il
professore imboccò la viottola. Strana cosa! Gli batteva il cuore, come
ad un innamorato. Dove i muricciuoli si abbassavano, dove si apriva
un cancello, egli spingeva l’occhio fra gli ulivi; riconosceva le
piante mutilate dall’ultimo uragano, diceva: — ecco il fico moresco,
ecco l’agrifoglio; dietro quella svolta, vedrò spuntare il noce che
s’affaccia sulla strada per buttare i suoi frutti ai monelli.

E intanto pensava che era prossimo il tramonto e che se la diligenza
avesse tardato ancora un poco, egli, trovando chiuso il portone
dell’oliveto, avrebbe dovuto scavalcare il muricciuolo come un
ladroncello.

L’idea di scavalcare il muricciuolo lo tentò; sì, invece di entrare
dalla porta, per esser veduto da lontano, egli, con un giro lungo,
andrebbe a cacciarsi in mezzo agli amici all’improvviso, come un
fantasma. A quell’ora comare Beatrice, Cosimo ed Angela dovevano essere
sulla panca di sasso fra le palme.

Silvio conosceva un sentiero, che lo condurrebbe alle loro spalle.

S’immaginava la meraviglia allegra di Beatrice, di Angela e di Cosimo.
In quel punto udì rumore di passi dietro la svolta, ebbe paura d’esser
veduto e scavalcò il muricciuolo a sinistra senza riflettere.

Solo quando ebbe toccato terra dall’altra parte e si sentì circondato
dall’alto silenzio degli ulivi, disse: — Sono entrato nell’oliveto di
Don Giacomo.

I passi si avvicinavano nella via sassosa, e col rumore dei passi
giungeva anche una voce grave interrotta da una risatina di donna. I
due svoltarono. La voce grossa diceva:

— Comare mia, non dite di no, ve ne potreste pentire.

— Compare mio, rispondeva la vocetta ridente, siete più vano di un
pavone; che cosa volete che ne faccia d’un uomo tondo come un barile?

La voce grossa insistè.

— Ci è barile e barile, comare mia, ci è il barile pieno d’acqua
piovana...

La vocetta interruppe:

— Ci è anche il barile vuoto.

— E ci è quello che contiene vino generoso, proseguì la voce grossa.

— Vino vecchio, ribattè la risanciona.

Erano passati oltre; si udì ancora:

— Comare mia, non fate lo sproposito di preferire Pantaleo.

Silvio non potè udir altro, ma alzando il capo sopra il muricciuolo,
vide alle spalle quei due e riconobbe di non essersi ingannato. Erano
Giovanni ed Annetta.

— Nozze! mormorò il professore. Egli proseguì la sua via, fra gli
ulivi, mentre i due si allontanavano nella viottola. Giunto al
muricciuolo di cinta che separava il podere di Don Giacomo da Speranza
Nostra, Silvio si arrestò e stette un poco affacciato ad una breccia
del muro. Da quel luogo egli vedeva la casa biancheggiante fra gli
alberi, la via tortuosa che scendeva al sedile di sasso fra le palme,
ma non vedeva le palme, nè il sedile. Era anche là un grave silenzio
fra gli ulivi, ma tendendo l’orecchio si poteva udire il canto degli
usignuoli e delle passere solitarie che saliva dal fondo della vallata.
Silvio scavalcò facilmente il muricciuolo, e fu contento di sè, perchè
nessuno lo aveva veduto. Pensava avviandosi: — chi sa quanto mi credono
lontano! — Ma fatti appena pochi passi, si arrestò. Dinanzi a sè, in un
sentiero, ecco due figure femminili.

— Sono desse! Angela e Beatrice.

Le due donne camminavano lentamente, e parevano dirette alla vigna;
erano sole.

Il professore le seguì da lontano, rallentando il passo; ma quelle
andavano più lente di lui, voltandogli le spalle, ed egli non tardò
ad avvicinarsi. Allora guardando bene, riconobbe di aver sbagliato:
di quelle due donne una non aveva il corpicino snello di Beatrice;
tutt’altro, era grossa, discinta, un po’ sformata; l’altra era più
piccola di Beatrice, ma certamente più alta di Angela. Chi erano dunque
quelle donne?

Silvio si arrestò per lasciarle dilungare senza abbandonarle cogli
occhi — poi riprese le sue mosse prudenti. Le due donne erano giunte al
vigneto; una, la più snella, sparve fra i vitigni e gridò a un tratto:

— Corri, Bice, un grappolo maturo!

E siccome Bice non correva, Angela tornò tenendo in alto un bel
grappolo nero e mostrando il viso splendente di bellezza giovanile.

Silvio comprese subito perchè comare Beatrice gli fosse sembrata
un’altra; ma come mai Angela fosse tanto cresciuta in meno di due mesi,
non lo intendeva affatto. Egli se ne stava dietro un melo nano, e così
nascosto poteva abbracciare coll’occhio le amiche sue. Ancora Beatrice
non si era voltata, ed egli era curioso di accertare da lontano se il
lavoro occulto — anzi non più occulto — della maternità le avesse pure
guastato il visino furbo e soave. In compenso gli si mostrava appieno
la luminosa bellezza di Angela, sul cui volto pareva che il sole
deponesse ogni giorno un raggio.

La fanciulla e Bice reggevano insieme con una mano il bel grappolo nero
e coll’altra lo venivano piluccando di conserva; quando non rimasero
più che pochi acini al raspo, Angela consigliò di buttarlo via. — Vado
a prenderne un altro maturo, disse, ce n’è ancora... — ma la contessa
volle serbare il raspo, perchè le piaceva l’aspretto degli acini
acerbi. E Silvio comprese anche questo.

In quel punto Beatrice buttò via il raspo, che, andato a cadere sopra
un arbusto, vi rimase appeso. La contessa si volse.

Ah! povera donnina, quanto era mutata!

Non si poteva dire che non fosse ancora bella, ma aveva le guance
scarne, gli occhi ingranditi, sporgenti, le labbro scolorite. Beatrice
era di quelle donne nelle quali il lavoro casto della maternità si
compie a spese della bellezza.

Il professore vide agonizzare un’altra volta il suo vecchio ideale che
credeva morto e sepolto, e quasi quasi ne fu contento. Stette ancora
un poco nel suo nascondiglio, poi si mosse; ma per non ispaventare
Beatrice, che in quello stato poteva averne danno, attraversò di corsa
gli alberelli del pometo, si cacciò fra i vitigni ed apparve come un
Dio silvestre agli occhi innamorati di Angela.

La fanciulla lo vide, mandò un grido e venne a buttarglisi fra le
braccia.

Beatrice accorse e stette tranquilla e sorridente ad osservare quel
cattivo zio, che tentava inutilmente di svincolarsi dalla nipote.

Diceva, come rispondendo ad una domanda sommessa: — Sì, sono io, sono
proprio io, lo zio Silvio, tornato or ora colla diligenza. Ho lasciato
andare la valigia a Sassari, io sono sceso nella viottola, sapeva che
vi avrei trovate qui, ed ho voluto farvi l’improvvisata. Ma non ci è
nessuna ragione di piangere; che ragazzata è questa? Comare Beatrice,
come vanno le cose? Benone, si vede. E il mio figlioccio come sta?
Ingrossa, si vede... Ma che cosa ha questa ragazza che piange?

Angela si staccò allora dal petto di quell’uomo tanto amato e tanto
indifferente e volle fuggire.

— Dove vai ora?

— Vado ad avvertire il conte Cosimo, rispose la fanciulla, cercando di
svincolarsi.

Ma Silvio l’aveva presa per le due mani, e tirando il capo indietro la
guardava:

— Sai che non ci capisco nulla; ho lasciato una ragazza che rideva
e trovo una signorina, una vera signorina, che piange. Ma che cosa è
dunque avvenuto?

Egli aveva l’aria di domandarlo a Beatrice, ad Angela e a tutto quanto
il vigneto circostante, il malaccorto.

— È avvenuto che ora porta le vesti lunghe, dichiarò Beatrice.

— To’, è vero! esclamò il professore, lasciando andare Angela, che si
allontanò di corsa.

— E che altro è avvenuto? domandò Silvio.

Comare Beatrice prima sorrise ad un’idea tentatrice, poi si lasciò
tentare, e cacciando una mano sotto il braccio dell’ingenuo:

— Compare mio, lo volete proprio sapere che cos’è avvenuto ad Angela?
È avvenuto che si è innamorata. Indovinate ora il resto, io non ve lo
dico.

Silvio fece una risatina stupida, non indovinò il resto, ma non
insistette neppure per farselo dire.



VII.


Quella sera medesima, andando a letto, Silvio disse a sè stesso che
l’amore d’una fanciulla di tredici anni non deve lusingare l’amor
proprio d’un uomo maturo, e si propose d’intraprendere la cura della
sua piccola ammalata. Non si faceva una idea chiara del metodo da
seguire, ma così all’ingrosso gli pareva che se esagerasse la propria
naturale gravità di modi e di linguaggio non istenterebbe ad ottenere
un ottimo risultato.

Egli stette un pezzo ad occhi aperti nel letticciuolo, considerando la
ferita che aveva fatto, senza volere, nel cuore della povera ragazza,
e giudicò in buona fede che non era una ferita senza rimedio. Non si
illudeva, il professore. Gli sembrava di comprendere che la piccina
si fosse innamorata di lui, perchè la natura le aveva svelato ieri
il gran segreto, ed essa s’immaginava di non aver tempo da perdere.
Andava anche più oltre, il professore; confessava che se Angela aveva
preferito lui, che a conti fatti poteva essere suo padre, ai giovinetti
di liceo che erano passati tante volte sotto le finestre della casina
bianca, era appunto per causa dell’età. Quando Angela giocava ancora
colle bambole — questo non accadeva più da un anno — non preferiva
forse una bambolona grossa, la quale aveva una guardaroba da regina?

Era ad ogni modo una cosa singolare che quel cervellino di tredici anni
avesse lavorato così bene a compiere il sogno di suo padre morente.
Quasi era da credere che sapesse tutto... Se lo sapesse! Ebbene, se lo
sapeva, tanto meglio; l’innamoramento, essendo _riflesso_, cederebbe
più presto alla cura del buon senso.

Il professore spense con un soffio la candela, ma continuò a vedere un
raggio di luce che attraversava il fondo nero della camera e svaniva
dinanzi alla finestra. Quel raggio entrava dalla cameretta di Angela.

La fanciulla innamorata vegliava ancora, e Silvio non ebbe cuore di
addormentarsi mentre essa forse penava per lui. Senza contrasto, senza
nemmeno pensarci un momentino, per istinto d’uomo che ha viscere di
carità, cedendo ad un sentimento quasi paterno, il professore deliberò
di stare sveglio finchè il raggio non fosse scomparso. E intanto che
fare? Fantasticare nel buio, così.

Era egli proprio sicuro di essere indifferente a quell’amore infantile
che aveva acceso nel cuore d’una bella fanciulla? Indifferente, no;
forse ne aveva dispetto. Uscendo illeso da una vera passione che poteva
essere fatale, quel trovarsi fra i piedi una bimba gli sembrava una
beffa, un’ironia. Non era il momento buono per accondiscendere ad un
giuoco infantile... Era forse questo che egli sentiva? Forse — ma non
ne era sicuro. Forse era un rammarico dolce, un’indulgenza serena, una
pietà gentile. Egli voleva essere il medico di quella animuccia che
aveva testè indovinato l’amore, non si sottrarrebbe alla promessa fatta
al fratello morente; ma per rendere felice davvero la cara piccina,
bisognava impedirle d’innamorarsi di lui. «Io sono vecchio,» confessava
umilmente. Essere ridiventato padrone del proprio cervello, di tutto
quanto il suo _io_, era la gran miseria, per esser sinceri; ma pareva
una forza, e se non altro bisognava farne buon uso.

Quella notte Silvio cedette al sonno prima che la candela d’Angela
fosse spenta.

La mattina successiva ebbe una curiosità legittima, volle essere il
primo a vedere la ragazza quando si affacciasse alla sua finestra e
sapere da lei stessa che cosa avesse fatto col lume acceso tanta parte
della notte.

Non si udiva nessun rumore nella cameretta di Angela; forse la
fanciulla dormiva ancora, e Silvio dovrebbe aspettare chi sa quanto;
— ma era preparato anche a questo. Per ingannare il tempo si rase la
barba — era una settimana che non si radeva — si pettinò, ed avendo
visto un capello bianco nella tempia destra, lo volle strappare, tanto
per fare qualche cosa.

Angela dormiva sempre; almeno, era ancora un gran silenzio nella sua
cameretta.

Strappato quell’unico capello bianco, che fece il professore per non
istare in ozio? Cercò con poca speranza un altro capello bianco, e fu
fortunato, ne trovò tanti, che gli venne detto con un po’ di sgomento
«quanti...!»

Sempre un gran silenzio nella cameretta di Angela.

Silvio ravviò la capigliatura folta; vide che i capelli bianchi si
nascondevano in modo da sfidare l’occhio più maligno e ne fu contento.
Perchè? Qualcuno fece al professore questa dimanda. «S’invecchia»
rispose il professore. Poi venne alla finestra, l’aprì, buttò lo
sguardo nella campagna... Angela era là, fra i rosai bagnati di
rugiada, più bella d’ogni rosa, più fresca della rugiada.

Al rumore che fece la finestra aprendosi, la fanciulla non solo
non alzò il capo, ma si chinò a cogliere una rosellina bianca non
ancora sbocciata interamente, se la collocò sui capelli, guardando
all’orizzonte come in uno specchio, poi si allontanò a passo lento per
un sentieruolo del giardinetto.

Il professore aveva voluto chiamarla a nome, ma si era distratto egli
pure; stando ritto dinanzi alla finestra aperta, egli seguiva tutte le
mosse di quell’uccelletto ferito, e invece di sentire un raddoppiamento
di pietà, apriva il labbro ad un sorriso e il cuore alla compiacenza.
Compiacenza di medico, s’intende, anzi di medico che ha portato in
tasca la medicina. Aspettava solo che essa alzasse il capo per dirle:
«Or ora scendo e ti guarisco» — o qualche cosa di simile. Ma Angela
non alzò il capo, diede a quello zio indifferente tutto l’agio di
esaminarla dal capo ai piedi, di notare colla massima freddezza che col
vestito allungato essa pareva proprio una donnina fatta, e che aveva il
corpo snello ma pieno, le braccia bianche, tonde, sul collo una peluria
bionda, sul volto la gravità che v’imprime per solito la sventura,
oltre della bellezza ostinata e della freschezza sfacciata che nemmeno
la sventura riesce a cancellare — poi si allontanò con un fare sbadato,
fiutando tutte le rose che si trovava accanto, strappando le foglie
ai ramoscelli che si allungavano verso di lei per porgere un ultimo
trastullo alla sua infanzia mascherata.

Già era lontana, senza che avesse mai voltato il capo, e il professore
rimaneva alla finestra come uno smemorato, pensando che a quell’età le
ferite del cuore si rimarginano prontamente, e che forse Angela era già
guarita.

— Tanto meglio! — disse.

Ebbene no, non era meglio, perchè avrebbe voluto guarirla lui, colla
propria ricetta. Ma questo non lo disse.

Si guardò nello specchio, scese in giardino e per andare alla vigna
prese la via più lunga, il sentiero tortuoso pel quale Angela era
passata poc’anzi.

Per tutto quel giorno Silvio spiò inutilmente negli occhi stupendi,
nella faccetta bianca, nel contegno di Angela, un bagliore, un rossore,
un turbamento che dessero indizio sicuro di mal d’amore. Pareva davvero
che la piccola innamorata avesse indovinato tutte le malizie del
proprio stato, perchè non si lasciò mai cogliere in fallo; e Silvio
potè quella sera medesima notare in sè i primi indizi dell’impaccio
che nasce dalla incertezza nelle faccende amorose. Ne rise, ed aspettò
il domani. Ma la fanciulla non mutò, salvo che apparve più bella e
singolarmente cresciuta. Silvio non ci capiva più nulla. E veramente
per capire qualche cosa sarebbe bisognato essere alle spalle della
piccola innamorata, di notte, e poter leggere nel suo cuore o nel
suo quaderno, che è tutt’uno, quando, contenta della propria parte di
vittima, si dichiarava preparata a bevere il calice, il famoso calice
amaro, non solo sino alla feccia, che si capisce, ma sino alla morte.
Essa non chiedeva altro che morire d’amore, ed oramai era sicura
di ottenere il suo intento. Però voleva ridere e soffrire, soffrire
e ridere fino all’ultimo. Infatti rideva e cantava; la notte, sola
col suo giornale, non andava a letto se prima non le paresse di aver
invelenito abbastanza la piaga maligna di cui doveva finire sul fiore
degli anni, e la mattina cantava come una rondine, rideva come una
creatura felice. Davvero avrebbe ingannato chicchessia.

I lavori delle vendemmie afferrarono di lì a poco il professore, il
quale non ebbe più tempo di occuparsi molto della fanciulla. Pensava
però sempre al suo caso e cominciava a credere che comare Beatrice
lo avesse corbellato. Una sera poi che fu certo che Angela non
commetterebbe più la stranezza di piangere vedendolo, nè di fuggirlo,
trovandosi solo colla povera comare Beatrice, del cui bel volto e del
cui corpo gentile la maternità veniva facendo scempio, si provò a farla
parlare di Angela. Per vie indirette non riuscì a nulla, e se volle
sapere qualche cosa gli toccò dire il contrario di quello che pensava,
cioè che la nipotina gli sembrava turbata.

— Non ve l’ho detto, compare, che è innamorata? disse Beatrice con
malizia. La piccina ha saputo d’essere fidanzata ad un tale, ad un
certo tale, che ancora non pensa a lei, ed è bastato questo perchè ne
sia cotta.

— Ha saputo! balbettò Silvio... Da chi?

— Volete proprio saper tutto; l’ha saputo da prete Emanuele... Non
andate in collera, ve ne prego.

No, no, non andrebbe in collera.

— Essa mi crede il suo sposo, ed aspetta!... — pensò Silvio — e questo
pensiero empì l’anima sua di un turbamento dolce non mai provato.

Sapersi amato da una fanciulla tanto bella, in un’età in cui si sta lì
lì per credere che l’amore sia un giuoco proibito è una tentazione a
cui difficilmente anche un professore può resistere. Silvio si arrese.
In fin dei conti non bisognava sofisticare. La prima medicina che deve
dare un medico ad una inferma innamorata di lui è certamente lasciarsi
amare. Già egli non era poi tanto vecchio come gli era piaciuto
farsi per ipocondria. Aveva moltissimi capelli, quasi tutti neri; a
differenza dei fannulloni incanutiti o fatti calvi nell’ozio o nel
vizio, egli, studiando agronomia e facendo una vita semicasta, aveva
ottenuto di poter entrare in rifioritura quando volesse. Quanto alla
ragazza, non importava che essa avesse poco più di tredici anni. La
natura aveva fatto moltissimo per rimediare a questo difetto, il tempo
farebbe il resto. Due anni passano prontamente. E questo tempo era
necessario anche a Silvio per prepararsi alla felicità.

Guardando ora comare Beatrice, che gli sorrideva colle labbra scolorite
come se gli leggesse ad uno ad uno i pensieri man mano che si venivano
formando nel suo cervello, si meravigliava che un giorno avesse
potuto....

Ma già l’amore, per chi viaggia solitario nella vita, appare
spesso, come il miraggio, riflesso ingannevole d’una felicità che ci
aspetta.... o che ci fugge. Egli aveva visto Angela in comare Beatrice
— doveva essere così — perchè ora comare Beatrice gli stava davanti, lo
guardava cogli occhi sporgenti, gli sorrideva colle labbra ingrossate e
scolorite, ma non riusciva nemmanco più a dirgli com’era fatto l’ideale
d’una volta.

Davvero era impossibile riconoscere la contessa Beatrice in quella
donnina pallida, che si slacciava il busto a tavola e che aveva sempre
una minaccia di mal di mare.


Il professore non aveva ancora detto al proprio cuore: «Ama un’altra
volta;» ma era pronto ad innamorarsi al primo segnale, e se tardava
tanto, è perchè quella nipotina misteriosa cominciava a fargli perdere
la testa. Essa non faceva più come in passato, non gli andava più
dietro come un’ombra, non gli metteva più in faccia quei due occhioni
pieni di luce, e Silvio, per sua scienza maligna, era quasi indotto
a sospettare che egli non fosse stato che un pretesto alla fanciulla
impaziente, tanto per amare l’amore. Quella freddezza apparente di
Angela, riuscì come un’astuzia; venne un giorno in cui Silvio — dopo
aver appreso inutilmente un’arte rimasta ignota a lui per tanto tempo,
quella di variare il nodo della cravatta; dopo di aver contratto
l’abitudine di radersi ogni mattina — venne un giorno, anzi una notte,
che si dichiarò stanco e volle finirla.

— Angela! chiamò, mettendosi alla finestra della propria camera; e la
fanciulla venne alla finestra accanto.

— Che cosa vuole, zio Silvio?

— Ora nulla, rispose il Savio, ma domani mi rammenterai che ho una cosa
da dirti.

Angela rispose di sì con un filo di voce, rientrò subito nella sua
cameretta, e il professore l’udì piangere attraverso l’uscio.

Era la notte alta; tutti dormivano in _Speranza Nostra_, e il pianto
della fanciulla, sebbene soffocato, rompeva il silenzio. Allora Silvio
tornò alla finestra e chiamò un’altra volta:

— Angela!

Ma Angela non venne.

Il professore si guardò intorno, cercando un’idea, e ne trovò una
fanciullesca. Era lecito ridiventare fanciullo per un quarto d’ora di
quella notte d’autunno; prese un foglietto di carta e scrisse: «Angela,
non piangere; il padre tuo, morendo, affidò a me la cura di asciugare
le tue lagrime; io lo farò se tu vuoi, fino all’ultimo giorno della mia
vita.»

Egli picchiò due colpi all’uscio, piegò il foglio, e lo spinse
attraverso la fessura, rasente terra.

La fanciulla asciugò le lagrime e rispose per la stessa via: «Non
piango più, non piangerò più. Sono troppo felice!»

Bisognava crederle: ricevere una lettera di Silvio e rispondergli,
attraverso l’uscio, era troppa gioia. Una felicità simile Angela non
era stata capace nemmeno di sognarla.



VIII.


Cominciarono giorni d’amore e di lavoro, i più bei giorni che _Speranza
Nostra_ avesse mai veduto. La mattina, un’ora dopo l’alba, giungevano a
frotte le vendemmiatrici; più tardi i pigiatori dell’uva, che avevano
acconsentito a passare la notte nel podere, scavalcavano i tini colle
gambe ignude, e vi si dimenavano come ossessi, empiendo lo stanzone
di cantilene amorose; il barbuto Pantaleo arrivava dai poderi vicini,
col carrettone pieno di raspe che veniva ammucchiando nel magazzino,
dove era stato piantato il lambicco, e Cecchino Misirolli, nude
le braccia e riparata la testa da un enorme cappello di paglia, si
piantava nel sentiero colla carriuola a mano, entro la quale alcune
delle vendemmiatrici, con cui aveva fatto speciali patti, venivano a
posare le sporte ricolme di grappoli neri. Poi egli faceva una corsa
rapida fino alla tinaia, sopportando le celie delle altre donne, che
gli venivano dietro colla sporta carica d’uva in testa, per versarne il
contenuto nei tini.

Al diverso lavorìo presiedeva Giovanni, non dimenticando la cucina, non
dimenticando l’amore. Posto fra quei due fuochi, il poveretto sudava in
modo inverosimile, tanto che la perfida Annetta, ogni volta che veniva
dal vigneto alla casa, gli gridava da lontano di mettersi all’ombra,
altrimenti si squaglierebbe tutto, che sarebbe un peccato.

Giovanni rideva e la minacciava col dito.

— Comare mia — le diceva — voi sarete punita, come è vero Dio!

Il vecchio Ambrogio seguiva le vendemmiatrici, e additava loro i
grappoli che esse avevano lasciato per la racimolatura, o li staccava
colle proprie mani. Il conte e il professore erano un po’ da per tutto,
nella cantina, nella casa, fra i vitigni; e dove andava il conte,
poco dopo compariva Beatrice, grave e sorridente, colle mosse già un
tantino dondolanti e col corpo rovesciato indietro, e dove andava il
professore ivi accorreva Angela, maturata e fatta ancora più bella, se
è possibile, dall’amore corrisposto.

Non più nuvole sulla fronte ampia di Silvio; la sua faccia abbronzata
dal sole era piena di luce; egli era ancora grave, perchè la sua
piccola tiranna non solamente glie lo consentiva, ma si faceva grave
anche essa per dichiarargli spesso che si era innamorata di lui la
prima volta, in un tempo molto lontano.... (A balia? No, in un’altra
vita, era sicura di essere venuta al mondo ammirandolo ed amandolo)....
che si era innamorata di lui, appunto perchè era grave.

Queste cose, se mai il signor zio si ostinasse a far l’incredulo, le
troverebbe scritte un giorno, e allora le crederebbe... Ma allora essa
sarebbe morta! — Morta! che orrore!... Sì, morta; era il destino che
voleva così; essa non poteva vivere lungamente; ma pur che potesse
sposarsi prima, non le importerebbe. — Queste idee funebri non
oscuravano il visetto di Angela, le mettevano solo una pozzettina nel
mento.

Avevano già parlato del tempo del matrimonio; Angela non voleva parere
indiscreta nè impaziente, non era una bimba, e saprebbe aspettare
se fosse necessario, ma lasciava intendere che se il re può dare la
dispensa dell’età, non si fa nessun male approfittandone. Un’amica di
una sua amica si era bene sposata a tredici anni e mezzo — era orfana
anch’essa, ci s’intende; quando si è orfane bisogna pure aver qualcuno,
e per aver qualcuno il meglio è prendere marito. Il re è pieno di
giudizio, gli si vanno a dire queste cose, e lui concede la dispensa.
La concede a tante!... Nel Campidano di Cagliari, per esempio, quante
ragazze che si maritano prima dei quindici anni!

Silvio non aveva fretta. Si godeva la festa tranquilla del proprio
cuore, si godeva la ciancia maliziosa della nipotina, e al contatto
di quell’infanzia non tramontata ancora non sentiva più il peso
dei suoi anni. Quando non era fra i tini, quando non iscriveva per
il giornaletto di Sassari, quando non si cacciava in un capannello
di zappatori miscredenti per predicare loro il verbo della nuova
agricoltura sarda, quando non faceva nulla di tutto ciò, pigliava
parte volentieri ai giuochi d’Angela; le dava tempo di nascondersi,
tenendo scrupolosamente gli occhi chiusi finchè essa lo avvisasse con
un grido d’andarla a cercare, o si lasciava proporre degli indovinelli
che non decifrava mai per poter fare la penitenza. Vedendolo in quei
momenti, cogli occhi lucenti, udendolo ridere coll’abbandono d’un
fanciullo, Beatrice, già quasi alla vigilia d’esser madre, sentiva
per quei due ragazzi una tenerezza materna, e lo diceva senza beffa.
Ma allora Silvio cessava di ridere, per pensare un momentino alla
bizzarra trasformazione del proprio spirito e decidere se vi fosse
da vergognarsi o da emendarsi. — Non si vergognava nè si emendava; —
ripigliava a ridere, e un’altra volta faceva peggio.

Ancora si lasciava cogliere da qualche malinconia fuggitiva; faceva
di più, se ne vedeva qualcuna da lontano, la chiamava a sè, per
dar da fare ad Angela, a cui toccava cacciarla. Diceva: «Oggi ti
pare d’amarmi, perchè sogni; domani, svegliandoti, ti domanderai
meravigliata chi è questo vecchio pazzo che ha potuto credere...»
Angela, non gli lasciava mai finire queste frasi cattive; subito lo
picchiava con tutte le sue forze, finchè non lo avesse obbligato a
ridere; poi, facendosi seria, diceva: «Il vecchio pazzo è mio zio —
egli non sa nulla, egli non capisce e non capirà mai nulla.»

Avrebbe voluto fargli comprendere che sorta d’amore singolare,
stranissimo, essa sentiva per lui. — Ma era inutile; non vi riescirebbe
mai. Gli diceva: «Fa conto che, amando te, io ami un altro... ma non un
altro davvero... qualcuno o qualche cosa che non sei tu — come posso io
cessare d’amarti?» Il professore non capiva bene il caso difficile, ed
Angela insisteva: «Io non so come sia, ma mentre ti voglio tanto bene
quando ti vedo, mi basta che tu mi volti le spalle e te ne vada... che
so io? là... in fondo a quel viale, per volertene subito un poco di
più. Ecco come ti voglio bene io... Tu invece!...»

Anche Silvio credeva di volerle bene così; egli pure si era accorto
che, trovandosi separato da lei, qualche volta l’aveva amata di più;
ma siccome poi se essa non gli stava dinanzi, colle sue ariette di
donnina matura per l’amore, cominciavano gli scrupoli melanconici
dell’età, così non era sicuro di vedere chiaro nella natura del proprio
sentimento.

Per tutto ciò quelli erano i giorni belli di _Speranza Nostra_; la
felicità di Beatrice e di Cosimo, più sicura di sè, ma pur non priva
di qualche segreto sgomento, e la felicità dei due innamorati si
compievano a vicenda.

Già Cosimo, quando si provava a leggere tutte le promesse dell’avvenire
negli occhi della sua ammalata d’amore, vi poteva mettere egli pure la
sua piccola promessa, perchè era alla vigilia di ridiventare un’altra
volta ricco. Egli ricomperava i suoi poderi, riappendeva al loro posto,
nella casa di Ploaghe, i ritratti degli antenati, e faceva contenta
la povera madre morta; abbelliva la casa di Florinas, ristorava il
_nuraghe_... ma non abbandonerebbe mai _Speranza Nostra_, salvo che
la faccenda della miniera diventasse così grossa, da richiedere la
presenza di qualcuno in Iglesias.

Non ispiacerebbe a sua moglie diventar minatrice?

No, se lui diventasse minatore. — Ad ogni modo erano invitati e
bisognerebbe pure andarvi! E allora sentirebbe che aria, che bei venti
marini nell’alta gola del monte. Quando Beatrice avesse compiuto il
suo capolavoro, riacquisterebbe la salute più presto, e al piccino non
farebbe male respirare di buon’ora l’aria montana!

Tutte queste speranze, tutte queste promesse, facevano sorridere la
bella donnina, la quale soffriva molto, soffriva sempre, pagava ogni
giorno per sè e pel marito una parte del gran debito che contraevano
colla generosa natura; ma fra tante promesse parlavano al suo cuore di
madre lontane minaccie, crudeli perchè indistinte.

La vendemmia era finita, e Angela si era già fatta la più brava delle
racimolatrici per soddisfare i gusti capricciosi dell’amica sua, che
preferiva i grappoli meschini e terrosi avanzati nei vitigni, alla
bell’uva moscatella appesa nella dispensa, quando il giornaletto di
Sassari portò agli abitanti di _Speranza Nostra_ una gran notizia:

  «È arrivata fra noi da Oristano la prima compagnia italiana
  acrobatica-equestre diretta dal famoso signor Alfonso, la quale
  si fermerà un mese, dando ogni sera rappresentazioni nel Teatro
  Diurno, trasformato in Circo. La compagnia comprende quattro
  amazzoni: le signore Ada, Maria, Giovanna, Emma, due _clowns_ e un
  Alcide. La compagnia vanta pure due curiosità: una è il celebre
  nano Battistone, detto l’_uomo palla_; l’altra è Nenna, ragazza
  meravigliosa, detta la _rana_. Per domani si annunzia la prima
  rappresentazione.»



IX.


Il signor Alfonso aveva presentato un cavallino sardo, piccolo,
ma intelligente come un cristiano, che in due mesi di lezione si
era impadronito di tutto lo scibile della razza cavallina. Esso si
rizzava sulle gambe deretane, batteva insieme gli zoccoli delle zampe
anteriori, e veniva incontro al suo padrone per abbracciarlo; ballava a
suon di musica, batteva il tempo, s’inginocchiava, sparava una pistola,
faceva il morto, per risuscitare di scatto, salutare il pubblico
ed andarsene alla greppia di corsa, accompagnato dagli applausi del
pubblico delle gallerie e dei palchetti. Poi era comparsa la signorina
Emma, un’amazzone, magra e nera come un chiodo, la cui missione in
terra era di sfondare dei cerchi di carta aumentandone successivamente
il numero; il pubblico sassarese, sebbene la giovane fosse brutta,
le aveva fatto buona accoglienza, e ad ogni cerchio per cui era
passata gridando _hop!_ aveva battuto le mani, ma senza entusiasmo.
La signorina Giovanna, un altro chiodo, capocchia espressiva, che
cavalcava a dorso nudo, si era fatta segnalare per certi salti, con cui
balzava in groppa ad una magnifica cavalla bianca, afferrandosi colle
mani alla criniera.

Ma tutto codesto, senza i lazzi dei due pagliacci, che ogni tanto
facevano la burletta di spararsi a vicenda parecchie ceffate rumorose,
avrebbe lasciato freddi gli spettatori. Quei due pagliacci avevano
certamente l’obbligo di non star mai zitti, e per obbedire a tale
necessità dicevano tutto quello che veniva loro in capo. Ma non
mancavano ogni tanto di chiamare Battistone, curvandosi a terra e
mettendo le mani alla bocca per fare arrivare la voce fino a lui, di
lamentare l’assenza di Battistone, di domandarsi a vicenda che cosa era
avvenuto di Battistone.

— Ah! poveretto me! disse uno che aveva il viso trinciato di sberleffi
rossi e neri, ora mi ricordo; l’ho lasciato dinanzi al catino, in cui
mi sono lavato la faccia, vi sarà caduto dentro e sarà annegato.

— Sai bene che non può essere, è impermeabile e non va a fondo — non
è forse perciò che lo chiamano l’uomo palla elastica? — Era vero,
l’altro pagliaccio se n’era dimenticato. Ma dov’era Battistone? Perchè
mai Battistone non veniva? Perchè abbandonava così i suoi amici?
Senza Battistone non ci sarebbe modo di spassarsi un momentino a far
quattro giochetti. Battistone! Battistone! — A forza di sentir parlare
di Battistone, anche il pubblico aveva una gran voglia di vederlo,
e quando finalmente il nano affacciò la grossa testa ridente al
parapetto del circo, lo accolse una risata rumorosa, più lusinghiera
di, qualsiasi applauso. Battistone indossava una specie di zimarra
umoristica, che gli scendeva un po’ più giù dei piedi, e nella quale
egli inciampava ad ogni passo, ruzzolando sull’arena, balzando e
rimbalzando come una pallottola vera e propria. Per causa di quella
zimarra misteriosa gli spettatori non avevano ancora accertato se
Battistone avesse un paio di gambe, ed erano tentati di credere ai
due pagliacci, i quali assicuravano che l’amico pallottola si moveva
su due ruote di orologio da tasca; ma Battistone aveva le mani assai
bene attaccate a due solidi moncherini e le adoperava per menare
palmate formidabili, che se non arrivavano alle facce impiastricciate
dei suoi colleghi, non cadevano senza rumore sopra un’altra parte del
corpo, e facevano ridere anche meglio. Lui poi era invulnerabile; gli
scappellotti passavano sopra il suo testone, andando a colpire il terzo
pagliaccio, e le pedate non lo arrivavano mai. In un momento egli ebbe
guadagnato tutte le simpatie del pubblico.

Ma Battistone tutto quanto, nessuno ancora l’aveva visto; e quando i
due pagliacci proposero al nano di fare alcuni giochetti per passar
l’ora, ed offrirono di aiutarlo a togliersi la zimarra, grande
fu l’aspettazione del pubblico. È incredibile quanta difficoltà
s’incontrava volendo svestire la zimarra di Battistone; i pagliacci
v’inciamparono prima molte volte e caddero, si rialzarono e ricaddero,
poi v’inciampò lo stesso Battistone, il quale attraversò tutta l’arena
barcollando, ma reggendosi sempre in piedi e pigliando in ultimo un
atteggiamento da silfide, per ricevere gli applausi e beffarsi dei
compagni; ma finalmente la zimarra cadde dalle spalle del nano, e
Battistone apparve in maglia rosea e corte brache di velluto nero,
strette alle reni ed alle cosce, tondo, grasso, inverisimile.

— Senti — gli propose uno dei pagliacci — facciamo una bella sonata, io
sarò il sonatore, la tua pancia sarà la gran cassa.

Ma Battistone non ebbe tempo di rispondere per le rime, perchè in quel
punto un corpicciuolo contorto, strano viluppo di gambe e braccia,
saltò dal parapetto nell’arena, e corse saltelloni a cacciarsi fra
i pagliacci. Quel mostricino era tutto coperto d’una maglia a gran
chiazze verdi e gialle, aveva in testa un cappuccio della medesima
stoffa, e saltellava battendo quasi col ventre sull’arena.

— La rana! La rana! — gridò Battistone.


Beatrice e Cosimo assistevano alla rappresentazione da un palchetto
di proscenio. Cosimo era pallido e un po’ agitato, quasi dispettoso
di aver dovuto cedere al capriccio di sua moglie; la contessa invece
sorrideva perchè aveva promesso di essere forte e di divertirsi.

Quando la rana fece il suo ingresso nel circo, Cosimo si chinò verso
sua moglie e le disse all’orecchio: — Ce ne andiamo, Bice? è meglio.

No, essa voleva rimanere, voleva vedere, ed ebbe la forza di sorridere
ancora.

Per indurre il suo povero Cosimo a condurla in teatro, Beatrice aveva
adoperato le carezze e il ragionamento.

— Domani — gli aveva detto — quella cattiva donna ti verrà a cercare
in casa tua, ti presenterà la sua creatura, colla sfrontatezza in cui
è maestra. Tu che cosa le dirai? La farai cacciare? Andiamole incontro
noi stessi, facciamoci vedere uniti, sarà meglio.

E quanto durarono le corse delle amazzoni e i lazzi dei pagliacci,
essa aveva tenuto d’occhio il portone da cui entravano i cavalli e i
cavalieri e dove ogni tanto si affacciava qualcuno della compagnia.
Pensava: a quest’ora la zoppa ha visto Cosimo, ha visto me, e perciò
non osa mostrarsi.

La rana era apparsa all’improvviso; in un momento in cui Beatrice aveva
gli occhi sopra Battistone, qualcuno aveva messo sopra il parapetto la
fanciulla, che di là era balzata nell’arena.

Quando Battistone e i due pagliacci gridarono in voce di falsetto: — La
rana! La rana! — Beatrice allungò la mano e trovò quella di suo marito
e la strinse in silenzio, senza abbandonare cogli occhi lo strano
spettacolo.

Del corpicciuolo di Nenna, non si vedeva altro che il dorso contratto,
intorno a cui le gambe e le braccia contorte mettevano una mostruosa
cornice; le mani spuntavano di dietro, dando immagine delle zampe d’una
rana.

I due pagliacci presero a dichiarare, rubandosi le parole a vicenda, la
natura strana di questo fenomeno, ma la _rana_ irrequieta saltellava di
qua e di là e Battistone le raccomandava di star ferma, intanto che si
faceva la spiegazione. A un certo punto, perdendo la pazienza, il nano
disse:

— Ah! non vuoi smettere? Ti farò smettere io. Signori e signore —
soggiunse, rivolgendosi agli spettatori: quando abbiano in casa una
ragazza che non voglia star ferma, facciano come vedono fare a me.

Egli prese la rana per la maglia, la sollevò e la depose a terra
capovolgendola. Uscì allora dal cappuccio rovesciato una testina di
fiamma, una faccetta petulante contornata da un’aureola di capelli
rossi.

Il pubblico batteva le mani — Nenna rideva.

In quella positura, la rana non si poteva più muovere, e Beatrice,
a cui batteva forte il cuore, ebbe agio d’esaminarla. Non era bella,
Nenna; solamente aveva la faccia bianchissima, macchiata di lentiggini,
e i capelli abbondanti, rossi e crespi, che le stavano tanto bene;
rideva, e ridendo apriva una bocca troppo grande, dalle labbra troppo
sottili; gli occhi lucevano di compiacenza, ma erano piccoli e tondi,
e nel naso schiacciato si aprivano due fosse larghe; — era paffuta e
fresca, ma non bella.

Da tanto tempo, senza volere, anzi con un sordo dispetto, Beatrice si
era venuta immaginando una fanciulla sottile e delicata, con un visino
ovale e pallido, due occhioni aperti e neri come i capelli.

Se quel fantasma le fosse apparso lì, sorridente con melanconia, in
sembianza d’una fanciulla viva, forse essa avrebbe avuto ancora il
coraggio d’amarla — certo non l’avrebbe potuta odiare, come ne aveva
avuto paura. Ma quella Nenna era tutt’altro. Beatrice guardò Cosimo
alla sfuggita, e vedendo che egli teneva lo sguardo altrove: — Ma
guarda, gli disse con gioia trattenuta, guarda.

— Ed ora che cosa facciamo? disse Battistone ai compagni.

— Facciamo l’obelisco.

— Sì, sì, facciamo l’obelisco.

— Tu intanto, soggiunse il nano parlando a Nenna, tu puoi andare dove
ti piace, ma bada a non venirmi fra i piedi.

Egli voltò la rana, che subito diè un balzo, come se avesse una molla
sotto il ventre.

La costruzione dell’obelisco umano fu difficile, perchè i pagliacci
pretendevano di far stare Battistone sotto, e Battistone invece voleva
andare in cima.

Ne nacque una contesa, in cui si spararono gran numero di ceffate
sonore, ma Battistone al solito non ne toccò nemmanco una.

Poi uno dei pagliacci disse a Battistone gravemente:

— Se io ti do una buona ragione, che ti persuada, prometti di startene
sotto tranquillo?

Battistone promise e l’altro ripigliò:

— Vedi, amico, tu non devi venire sopra di noi, perchè hai dimenticato
a casa le ali.

Battistone si picchiò la fronte. — Era vero! Quale disgrazia! — E
crollando l’enorme testone e allargando il breve compasso delle gambe
polpute, si piantò nel mezzo dell’arena, e si lasciò saltare sugli
omeri uno dei pagliacci senza barcollare, ma cacciando fuori la lingua
per far ridere gli spettatori.

La rana intanto faceva il giro dello steccato a saltellini; le era
caduto il cappuccio, e la sua testina vivace appariva intera in mezzo
all’onda dei capelli rossi; dai palchetti della prima galleria le
signore si affacciavano per dirle qualche cosina gentile quando passava
sotto: — Nenna! Nenna! Ed essa alzava gli occhi giocondi. — Ti fa male
star così? — La rana faceva di no col capo e rideva.

Il secondo pagliaccio tirato su dal primo era andato a metterglisi
sugli omeri, e Battistone li reggeva tutti e due, senza piegare, ma
allungando sempre più la lingua, con gran gioia del pubblico.

— Ne puoi portare ancora? domandò quello che stava in alto.

Battistone brontolò con voce soffocata un sì grottesco.

— Signori e signore, annunziò il pagliaccio più alto, Battistone dice
di _sì_, ma non ne ha voglia; quando è di buon umore egli è solito
portare a spasso a questo modo tutta la compagnia, ma oggi non è di
buon umore. Porterai ancora la Nenna e nessun altro, sei contento?
aggiunse curvandosi a parlare al nano.

La Nenna, che stava allora vicina al palchetto del conte Cosimo, si
voltò a guardare verso il portone d’entrata. Un uomo tozzo, di forme
poderose, l’Alcide della compagnia, uscì dondolandosi, colle mani sui
fianchi. Aveva un faccione che pigliava luce da una gran bocca ridente
e da due occhietti tondi ed azzurri; i capelli tagliati a spazzola,
del più bel rosso di fiamma, e un grosso naso schiacciato. Vedendo quel
colosso curvo accanto a Nenna, non poteva rimanere alcun dubbio della
loro parentela. L’Alcide domandò sottovoce alla fanciulla:

— Sei stanca?

E la fanciulla rispose di no.

Allora l’Alcide le prese un braccio, lo piegò adagino, e lo fece uscire
da quel viluppo di ossa e di carni, poi fece altrettanto coll’altro
braccio; dopo di che le gambe si trovarono naturalmente libere e
la fanciulla fu in piedi di scatto. Era, per l’età sua, piccola e
tarchiata, ma così agile che pareva quasi snella.

Con un salto fu sulla palma d’una mano del colosso, il quale la
fece passare più volte, da una mano all’altra, per presentarla al
pubblico. Poi Nenna pose un piede sul ventre di Battistone come sopra
uno sgabello e di là si arrampicò sul corpo dei pagliacci. Quando
fu in cima, si piantò ritta e superba mandando baci a tutti. Allora
l’obelisco si mosse con lentezza, preceduto dall’Alcide fulvo, il quale
camminava rinculoni, non istaccando gli occhi da Nenna, e pronto a
riceverla nelle proprie braccia, se avesse a cadere.

Battistone cacciava fuori una spanna di lingua.



X.


Invitato da Ambrogio a recarsi alla casina del Mulino a vento, babbo
Nicola, ovvero sia l’Alcide, si era affrettato a recarvisi dopo la
prova, conducendo per mano la piccola Nenna.

Facendo la lunga e difficile ginnastica della vita, babbo Nicola non
aveva avuto molto tempo da pensare, ma pure egli aveva imparato che i
mestieri migliori sono quelli pei quali si fatica meno — ed ora andando
alla casina, egli aveva in mente d’essere avviato a fare un _mestiere_
eccellente.

Diceva alla bimba, parlandole come se fosse una donna:

— Nenna, t’immagini tu che cosa andiamo a fare in casa dei signori?

Nenna ci pensò un poco, poi rispose:

— A prendere dei soldi.

Quell’acume fece ridere forte l’atleta.

— Ma tu che sai leggere, insistè, hai capito bene bene che cosa voleva
quel vecchio e tutte le domande che ti faceva?

— Altro! rispose la ragazza, mi ha domandato se a far la rana ci si
piglia gusto, ed io gli ho detto di sì, che quando ci è molta gente in
teatro ci si piglia gusto; ha voluto sapere se tu sei il mio babbo; oh!
bella, e chi dovresti essere se non il mio babbo?

Nicola lasciava cadere uno sguardo di compiacenza sulla piccina, che
alzava verso di lui gli occhietti tondi e vivaci.

— Ma l’altra domanda che ti ha fatta quel vecchio, l’hai capita?

— Altro! Mi ha domandato se mi piacerebbe stare in una bella casa,
giocare in una bella campagna e imparare tante belle cose.

— E io indovino che cosa gli hai risposto, disse l’Alcide ridendo con
malizia.

— Bella prova! osservò Nenna, è facile.

— Tu gli hai risposto, proseguì babbo Nicola, che ti piacerebbe.

— Invece no, corresse Nenna, andare a scuola non mi piacerebbe.

— Sta zitta, disse l’atleta, siamo arrivati; ecco il signor Ambrogio
sulla porta; che cosa gli dirai entrando?

— Gli dirò che mi dia i confetti che mi ha promesso.

Ambrogio, stando sull’uscio, sorrideva con indulgenza alla fanciulla,
ma senza abbandono. Quella Nenna che egli aveva visto un giorno fare la
rana sopra un tappeto, in una piazza di Milano, era molto mutata, e per
essere sinceri, senza guadagnarci nulla. Crescendo, si era fatta grossa
e tozza; aveva la guardatura audace, il sorriso sfacciato; non era
bella, e per quanto costasse al vecchio Ambrogio l’arrischiar d’essere
ingiusto verso una fanciulla innocente, forse quella Nenna non era
nemmeno buona.

— Sono venuta, disse la fanciulla porgendo distrattamente le guance per
farsi baciare; e tu i confetti ce li hai?

Invano babbo Nicola la guardò scoraggiato e le raccomandò timidamente
di smettere. Nenna con un’occhiata ordinò a lui di non seccarla,
poi cacciò le mani nelle tasche di Ambrogio. Il vecchio lasciò fare
e intanto veniva cercando nella faccia grassa e lentigginosa della
ragazza il suo piccolo fantasma d’un tempo. Frugarono così entrambi
inutilmente.

— Non ci è nulla! disse Nenna.

— Non ci è nulla, disse Ambrogio. Ma ti ho promesso i confetti e li
avrai.

Egli prese per mano la bambina e la introdusse nel salotto a terreno.
L’Alcide li accompagnò colla coda dell’occhio, non osando staccarsi dal
vestibolo, perchè non gli avevano detto di entrare.

— Aspettami un momentino, disse Ambrogio alla bimba, io vado ad
avvertire una signora che ti vuol vedere.

— Non dimenticare i confetti, disse Nenna.

— Te li darà la signora, disse il vecchio.

— Dille che ne porti tanti, insistè la rana; e siccome il vecchio era
già fuori dell’uscio e non rispondeva, Nenna gli corse dietro gridando:
tanti, tanti.

Il povero Alcide, stando nel vestibolo, alzava inutilmente una
manaccia poderosa; da lontano quella correzione paterna riusciva tanto
inefficace, che Nenna gridò ancora una volta, sebbene Ambrogio non la
potesse più udire: tanti!

— Sta zitta, piccolo demonio, brontolò babbo Nicola.

La ragazza venne tranquillamente a sfidare la collera dell’atleta,
ripetendogli sotto il naso: gli ho detto solamente che ne voglio tanti.

Babbo Nicola, disarmato dall’impudenza della sua Nenna, guardava
severamente innanzi a sè, e la ragazza gli chiese:

— Che cosa guardi nel muro?

Allora l’atleta staccò lentamente gli occhi dal punto in cui li aveva
messi e li chinò verso quel piccolo portento. Ma Nenna lo prese per
mano e voleva tirarlo nel salotto.

Egli non ci voleva andare.

— Vieni, diceva la bimba piantando i calcagni e curvandosi a tirar con
tutte le sue forze — quella signora darà a me i confetti, darà a te i
soldi.

Beatrice, entrando, intese quelle ultime parole.

Essa venne dinanzi alla bimba, si chinò, e le strinse colle mani
asciutte e bianche il faccione paffuto; poi guardò babbo Nicola,
che apriva la bocca, dandosi ad intendere di sorridere, e gli disse
allegramente:

— Si vede subito che è vostra figlia.

L’Alcide rise forte, parendogli il partito migliore in un caso simile.
Poi disse col fiato mozzo, come se inghiottisse le parole:

— È un po’ monella, mi fa tribolare, ma mi vuol bene.

— Non è vero, dichiarò Nenna.

— Non è vero che sei monella? disse Beatrice.

— Non è vero che gli voglio bene; è un babbo cattivo.

Beatrice veniva guardando attentamente la fanciulla, ne interrogava con
un resto di paura gli occhi tondi e il viso audace.

— Perchè mi guardi così? disse Nenna.

Allora la contessa si chinò a baciare in fronte la ragazza, la prese
per mano e la trasse sul canapè.

— Mettiti a sedere vicino a me, rispose, e lascia che ti guardi; non ti
voglio male, io.

Perchè le diceva questo? Ci pensò appena l’ebbe detto e fu pronta a
soggiungere:

— L’altro giorno ti ho vista in teatro, tu facevi la rana...

— Mi hai visto! esclamò Nenna, non è vero che la faccio bene la rana?

— E appena ti ho vista, mi è venuta in mente un’altra ragazza della tua
età, una ragazza che ti somigliava e che è morta.

— Faceva la rana anche quella ragazza? domandò Nenna.

Beatrice non rispose; la fanciulla aveva girato la testa in modo
repentino, e a un certo punto aveva mostrato un profilo, una linea
forse, o un’illusione.

— Guarda quel vaso, disse la contessa.

— Ebbene; che cosa ci è in quel vaso?

— Guarda più in là, quel quadro.

— Perchè devo guardare quel quadro?

— Bambina cara! esclamò Beatrice con un impeto di gioia. Ora sono
contenta!

L’atleta rimaneva in piedi sull’uscio, con una gamba nel salotto e
l’altra nel vestibolo.

— Babbo Nicola! chiamò Beatrice, venite avanti; sentiamo, quando
l’avete avuta questa figliuola?

L’interrogato portò prima tutta la persona nel salotto, poi disse:

— Ha otto anni e mezzo, faccia il conto, mi è nata nel... aspetti un
poco.

Ma Beatrice aveva altre dieci domande sulla lingua, e non poteva
aspettare.

— Da quanto tempo non vai più a scuola, Nenna? Che cosa hai imparato a
scuola? Sai leggere? Sai scrivere? Che cosa sai fare? Non ti piacerebbe
saper tante cose?

— Anche quell’altro, quel vecchio, mi ha fatto la stessa domanda,
rispose Nenna; ma io a scuola non ci voglio più andare; ne so
abbastanza, ne so fin troppo! So leggere, so scrivere; ho anche scritto
una lettera.

Beatrice domandò senza paura: a chi?

E Nenna rispose che una volta aveva scritto una lettera ad un conte,
per fargli sapere che essa andava in Sardegna con babbo Nicola. La sua
mamma aveva piegata la lettera ed aveva pensato lei a mandarla.

La contessa guardò deliberatamente in faccia babbo Nicola, il quale
rimase impassibile come l’innocenza.

Beatrice non fu soddisfatta.

— Che lettera? domandò all’Alcide.

Il poveraccio si strinse nelle spalle. Egli non sapeva leggere nè
scrivere, lo confessava umilmente; egli non sapeva far altro che
sollevare dei pesi. Non ignorava che la povera Cesira aveva avuto
degli amici... delle brave persone a cui scriveva qualche volta; aveva
qualche difetto, la povera Cesira, bisognava darle qualche correzione
ogni tanto, ma in fondo era una buona donna. — Diceva queste cose con
semplicità, ma dimenando il capo, come per nascondersi allo sguardo
insistente di Beatrice.

— Non bisogna parlare di queste melanconie, conchiuse; alla ragazza fa
pena.

Nenna lo guardava in faccia con malizia.

— Si chiama Cesira la tua mamma? domandò la contessa alla fanciulla.

— Si chiamava Cesira, — rispose l’Alcide con voce rauca.

— È morta! spiegò tranquillamente la piccina.

La contessa Beatrice non volle guardare nel proprio cuore, e si strinse
al petto la fanciulla.

Sentiva un gran bisogno di dire qualche cosa, ma si faceva forza e
taceva.

Babbo Nicola, quando ebbe lasciato durare un poco il silenzio, cacciò
una mano dopo l’altra nella gran spazzola de’ suoi capelli, e disse:
«non bisogna parlare di queste cose. Nenna ci soffre.... pare così, che
essa sia indifferente...»

Pareva davvero; Nenna alzava gli occhietti scrutatori in faccia al
babbo.

— Quando è morta? domandò Beatrice.

Babbo Nicola tossì e rispose:

— Non sono ancora tre mesi. Ecco come è andata: Dovevamo partire per
Oristano, dove la compagnia aveva bisogno d’un Alcide; voleva venire
anche lei, ma non istava bene; un giorno si sentì più male, venne il
medico e mi disse: — È spacciata! — È andata così.

Nenna, che non gli aveva staccato gli occhi di dosso un momento, a
questo punto lo interruppe per dire a Beatrice:

— Piange.

— Non è vero, protestò Alcide; ma era verissimo.

— È una sciocchezza, disse per iscusarsi; lo so bene che è una
sciocchezza, perchè se io l’ho picchiata, qualche volta un po’ forte,
è perchè ho le mani pesanti e uno non può sempre regolarsi come
vuole; essa poi mi tirava a cimento, io faceva pel suo bene, ma ora
mi dispiace, povera anima, vorrei non averle mai dato nemmeno uno
scappellotto... Era una buona donna in fondo.

— Babbo Nicola, disse Beatrice coraggiosamente, voi siete un brav’uomo;
la vostra ragazza non ha più madre; volete toglierla dal circo ed
avviarla meglio?

— Avviarla meglio?... balbetto l’Alcide.

— Che cosa vuol dire avviarmi meglio? chiese Nenna.

— Vuol dire entrare in un collegio, studiare, e divenire maestra di
scuola, per esempio; ti piacerebbe?

— Altro! fare la maestra, sì, mi piacerebbe; babbo Nicola, lasciami
fare la maestra, io insegnerò alle bambine a fare la rana.

Quando Beatrice ebbe lasciato andare Nenna, colle tasche piene
di confetti e di soldi, e si fu fatta promettere dall’Alcide che
tornerebbe presto a farle visita, corse col tremito della gioia
impaziente ad aprire un uscio, dietro cui l’aspettava suo marito a
braccia aperte.

— Cosimo mio! disse, quanto siamo felici! poi tacque lungamente,
stretta al seno di lui.

Egli non interrogava, perchè aveva inteso tutto, stando sull’uscio.

— Quell’uomo non sa nulla, disse ad ogni modo Beatrice; si vede che
essa lo ingannava; egli non legge nè scrive, l’hai visto? è una forza
bruta, ma non pare un uomo cattivo. E la Nenna? Non è bella, non è
nemmeno piacente, veduta da vicino; è tutta il ritratto di suo padre,
ma ha qualche cosa nel sorriso e nello sguardo che quell’uomo non
ha. Mi pare che essa sia la sua tiranna. Non mi piace, ecco. È una
crudeltà, ma sento così... Già, posso essere severa perchè non mi
faccio più illusioni nemmeno sul conto mio, conchiuse sospirando.

Che cosa voleva dire?

Voleva dire che oramai sapeva d’essere come tutte le altre. Cioè? Cioè
niente di meglio delle altre.

— Quando quell’uomo, che pure picchiava la sua donna, mi ha detto con
voce lagrimosa che la funambola era morta, io che mi credeva migliore
di tanti, perchè non ho mai picchiato nessuno, io ho sentito una gioia
feroce... Fortunatamente ho avuto vergogna di compiangere la povera
orfanella. Non sono ancor giunta all’ipocrisia, ma chi sa? Forse vi
sono avviata benino.

Le parole di Beatrice erano severe e l’accento voleva essere grave — ma
bastò che Cosimo le dicesse: _proprio?_ con un po’ di canzonatura, per
farla ridere come una pazza.

Beatrice riuscì a ripigliare il tono serio, per dire:

— Il cielo ci colma di favori; ha fatto morire quella donna perchè non
gettasse la sua ombra in casa nostra, ha dato a Nenna un babbo che le
somiglia, che le vuol bene e che non si adatterebbe a vivere senza di
lei. La nostra buona azione a cui avevamo rinunciato, nessuno ce la
domanda, nessuno la vuole, nemmeno Nenna, che preferisce far la rana
nel circo.

— Non vi avevamo rinunziato, osservò Cosimo, ora tu sei ingiusta con te
stessa...

— Ora tu sei un poco ipocrita, ribattè Beatrice.


La _rana_ venne un’altra volta in casa dei buoni signori, la vigilia
della rappresentazione a beneficio di babbo Nicola.

Nel manifestino che andava distribuendo, l’Alcide prometteva al colto
pubblico ed all’inclita guarnigione di piantarsi ritto sull’arena e di
non lasciarsi smovere da un torello sardo, che tirasse con tutte le sue
forze, prometteva inoltre di sparare una cannonata reggendo il cannone
sulle braccia. Beatrice quel giorno fu generosa coll’Alcide, ma si
scusò di non assistere alla rappresentazione.

— Non posso, disse; e poi le cannonate mi fanno paura.

— Te lo diceva io, osservò Nenna, se sanno che spari il cannone,
nessuno viene in teatro; tutti si turano le orecchie, quando Giovanna
fa l’esercizio militare sul cavallo e poi spara il fucile, pensa!

Nenna tornò un’ultima volta nella casina del mulino a vento, e fu dopo
l’ultima rappresentazione, quando si doveva imbarcare per Livorno; ma
fu ricevuta da Ambrogio, il quale consegnò alla ragazza un cartoccio
di confetti e un borsellino, a nome della contessa che non aveva potuto
aspettarla in casa, perchè aveva dovuto andare lontano...

Essendo inutile continuare la bugia, poichè tanto tanto la ragazza non
chiedeva della contessa, ed era occupata a tastare il cartoccio e il
borsellino, il vecchio Ambrogio s’interruppe.

— La signora contessa, soggiunse, dice di scriverle quando avrai
bisogno di qualche cosetta e di non dimenticarti di lei.

— Non ce ne dimenticheremo, cominciò l’Alcide, la nostra riconoscenza...

Nenna, impaziente di trovarsi all’aperto per aprire il borsellino, tirò
babbo Nicola per un braccio: — Andiamo babbo, sai bene che è tardi...

Non era vero che la contessa fosse andata lontano: ma siccome Nenna,
veduta da vicino due volte, non ci aveva guadagnato nulla, Beatrice se
n’era rimasta in _Speranza Nostra_. Aveva preferito dare un bacio di
meno alla bimba e metterle una moneta di più nel borsellino.



XI.


Tutta l’invernata successiva fu per Cosimo e per Beatrice un tempo di
pace, fuggito nell’aspettazione tranquilla del loro piccolo Messia,
che doveva arrivare in primavera. A Silvio e ad Angela la felicità
sorrideva ancora da lontano, ma non perciò essi si perdevano d’animo;
erano abbastanza contenti di sapere che la meta non fuggiva e che ogni
giorno tramontato segnava un passo innanzi. Poichè se il Codice civile
era severo con Angela, la fanciulla si proponeva d’essere scrupolosa
nel far valere il proprio diritto e di non rimanere zitella nemmeno un
giorno più del necessario. Silvio fingeva di ridere della fretta della
sua fidanzata, ma per essere sinceri, a momenti aveva più fretta lui.
Era quando gli sembrava di declinare a vista d’occhio, di precipitare
addirittura nella vecchiaia. Allora, col pretesto di tormentare un
pochino la sua fanciulla, manifestava sgomenti e dubbi che tormentavano
lui.

— Vedrai, diceva; ora ti sembra d’amarmi, ma quando tu avrai quindici
anni, io ne avrò trentacinque, sarò vecchio e non mi vorrai più bene.

Al che Angela aveva già trovato la risposta.

— Quando tu avrai novant’anni, aveva detto, io ne avrò settanta, e
saremo vecchi tutti e due e ci vorremo sempre bene.

Ah! essa poteva pensare alla vecchiaia senza sgomento, perchè il suo
amore, perchè tutta la sua vita erano l’avvenire!

E intanto Angela veniva facendo di tutto per correggere gli scrupoli
di suo zio; in pochi mesi si era fatta alta quanto comare Beatrice,
e senza cessare di essere un po’ monella e un po’ sentimentale aveva
certi quarti d’ora di sussiego da contentare il più austero dei mariti.
In lei la donna non vi era forse ancora, ma il pretesto all’amore vi
era già tutto. — Che cosa è l’amore? aveva chiesto Angela un giorno
che si faceva il giuoco delle domande; al che Silvio aveva risposto
all’improvviso, colla matita: — Un desiderio sempre sveglio, sempre
insoddisfatto, di ottenere una cosa che ci sfugge. — La fanciulla lì
per lì non aveva capito nulla, e lo stesso Silvio, lì per lì, ne aveva
inteso pochino; più tardi, quando egli ritrovò la domanda e la risposta
nel quaderno di Angela, scritte con inchiostro rosso, che pareva
sangue, ci pensò lungamente e sotto gli occhi di Angela aggiunse al
quaderno queste altre parole cattive che la fanciulla intese anche meno
delle precedenti, che non è dir poco:

«Pensa, scrisse Silvio, che cosa deve essere l’amore d’un vecchio, il
quale, senza avvedersene, ama nella sua fanciulla la propria giovinezza
perduta!»

— Il vecchio... senza avvedersene... nella sua fanciulla, ama la
propria giovinezza perduta... balbettò Angela. E vuol dire?

— Vuol dire che t’amo tanto da perdere il giudizio e scrivere delle
cose senza capo nè coda.

Angela non istentò a credere che fosse proprio così.

Non perciò era scontenta del suo Silvio, gli piaceva essere amata anche
in quel modo strano ed oscuro; e solo che Silvio avesse avuto il cuore
un po’ più aperto all’entusiasmo, all’estasi, non avrebbe trovato nulla
a ridire in quella sua filosofia, quasi sempre bigia, qualche volta
nera. Glielo diceva chiaro: — Zio Silvio, gli diceva (essa lo chiamava
ancora «zio Silvio» fuori del quaderno) — zio Silvio, a ragionare così
nel buio che gusto c’è? A me non dispiace la melanconia, tutt’altro, ma
la melanconia che piace a me è una melanconia diversa, che non fa male.

Verissimo; ad Angela non dispiaceva la melanconia, anzi ci trovava
gusto; ma doveva essere una melanconia senza fondamento, come a
dire lagrime di rugiada, gemiti di tortorella, ferite orrende fatte
colla spina d’una rosa. Tante volte, se lui fosse stato capace di
comprenderla, tante volte, al crepuscolo, accompagnando cogli occhi una
nuvola viaggiatrice, si sarebbe ammalata così, di nulla, cioè d’amore
e di dolore, per farsi guarire dal venticello del tramonto, da una
carezza, da un bacio. — Ma sì, lui non sapeva sospirare al vento e
pigliare sul serio le nuvole vespertine.

Non la comprendeva bene, ecco.

Era da compatire, aveva altre nuvole nel cervello, il professore,
nuvole vespertine anche queste, ma un po’ scettiche, molto filosofiche
e punto romantiche. E se egli non pretendeva che la sua fidanzata vi
tenesse fissi gli occhi della mente, che sarebbe stato pretendere
l’impossibile, doveva pur riconoscere che mancava qualche cosa a
rendere perfetto il loro amore e che vi era ancora un distacco fra
Angela e lui. Che farci? nulla; aspettare che il tempo compisse
l’opera sua, e intanto pigliare dell’amore quel poco che concedevano i
quattordici anni della futura sposa.

Dell’amore di Angela, Silvio non poteva dubitare, perchè essa aveva
trovato cento maniere di dirgli che l’amava, che lo adorava come un
angelo mandato da Dio, come Dio stesso, ed anche più. Cosicchè il
professore finì col dire a sè medesimo senza peccare di immodestia che
la cosa era naturale. Pensò: «Aiutandosi coll’immaginazione, essa vedrà
sempre in me un ideale severo che non potrà mai raggiungere; forse è il
privilegio dei vent’anni che ci separano; oggi il mio amore la lusinga;
la rassicurerà domani; la conforterà più tardi.»

Gli pareva bensì che a lui dovesse toccare un giuoco difficile, quello
di parlare all’immaginazione col ragionamento, ma era determinato a
vincere; la posta era grossa: amare ed essere amato.

Tutta questa filosofia, che più tardi doveva fare un gran bene al
professore, intanto qualche volta lo seccava. Allora diceva sottovoce
a sè stesso: «amico, tu ragioni troppo; fa come lei: accontentati
d’amare» — e diceva forte scherzando: «bambina mia, quanto bene mi vuoi
oggi?» Angela accettava subito lo scherzo; pigliando un’aria infantile
e allargando le braccia, balbettava: «tanto così.»

Ma non sapeva fare come una volta.

— Sono troppo grande, diceva per iscusarsi, ma ti adoro!


Non era aspettato che a marzo; venne invece una notte di febbraio,
annunziandosi quasi all’improvviso ed empiendo ad un tratto la casina
bianca di un trambusto silenzioso e solenne. Ma fu, come doveva essere,
un maschio; e dopo aver portato per tutta una settimana i più strani
nomi che l’amore paterno possa immaginare, ebbe finalmente un nome
di cristiano battezzato. E si chiamò Silvio, come il compare della
pallida mammina, la quale, sorridendo dal suo letto al nuovo amore,
era certamente così bella, come non era stata mai. Ma ora il professore
poteva notare questa cosa ed altre senza turbamento.

Quando la mammina, sotto gli occhi di tutti, dava la merenda o la cena
al neonato, a Silvio bastava guardare la faccetta bianca di Angela per
leggervi che essa era pronta e rassegnata a fare altrettanto.

Nel mese di marzo l’ingegnere Marini scrisse, rammentando al conte
Cosimo la promessa fatta per bocca di Silvio.

Egli dava le migliori notizie del filone; era un filone grosso,
alquanto inclinato, e se i calcoli non erravano, faceva una giravolta,
tanto per fermarsi più lungamente nei poderi del conte. Già compiuti i
lavori di preparazione, un nuovo pozzo d’estrazione e un pozzo d’aria,
assicurava che per istrappare al filone tutta la calamina e il piombo
argentifero, ci vorrebbero un paio d’anni almeno, forse più.

Se Cosimo manteneva la promessa d’andare a visitare la miniera colla
sposa, ci sarebbe forse qualche piccola modificazione da fare nel
contratto, coll’utile dei proprietari vecchi della miniera e del
proprietario nuovo.

— È necessario andare, disse Silvio; ora poi che sei padre di famiglia,
non devi stare in dubbio un momento. L’aria del monte farà bene a
comare Beatrice e non farà male a mio figlioccio. Partite, a _Speranza
Nostra_ basto io...

Egli disse queste parole senza pensarci quasi, tanto erano facili e
naturali; ma appena le ebbe dette, ne vide la conseguenza necessaria e
dolorosa — anche Angela dovrebbe partire. Non sarebbe bello che la sua
fidanzata rimanesse sola con lui, tanto più che Annetta accompagnava
la padrona. Invano si provò a dire che non vi era alcun male, che
Angela era sua nipote, anzi sua pupilla, e che in fin dei conti era
una fanciulla; guardandola appena, si vedeva subito che non era più
una fanciulla. E poi che farebbe Angela in _Speranza Nostra_, sola con
Giovanni, con Ambrogio e con lui?

Non vi era rimedio; bisognava soffrire.

— Sarà per poco, disse ad Angela, dopo averlo detto a sè stesso, ma ci
dobbiamo separare; va, fanciulla mia, sposa mia, vedrai una campagna
diversa, una vita nuova, respirerai tu pure l’aria sana del monte, mi
amerai sempre e me lo scriverai spesso.

Il professore non avrebbe mai immaginato che il sacrificio fosse tanto
difficile per lui; l’aveva creduto invece meno facile ad Angela. La
quale prima pianse, poi parve rassegnarsi e in ultimo non nascose quasi
la contentezza di variare per poco la vita che faceva da tanto tempo,
di fare un lungo viaggio in diligenza, di salire sopra una montagna per
poi scendere nei pozzi delle miniere e far delle passeggiate misteriose
colle fiaccole nelle gallerie sotterranee. Solo al momento di partire
per davvero, la tenerezza la vinse una altra volta, e parve che
volesse versare nuove lagrime; ma appena l’eroico Silvio le ebbe detto,
ridendo nervosamente:-ecco, ora piangi, ci scommetto, — essa nascose
un momentino la faccia nella pezzuola, poi disse piantando gli occhi
lucenti in faccia al suo adorato sposo: — non piango; guarda... non
piango.

— Brava! disse il professore, così va bene.

— E ricordati, soggiunse parlandole all’orecchio, ricordati di amarmi
tutti i giorni e di scrivermi tutte le settimane.

Essa era disposta a fare di più, anche a scrivergli tutti i giorni.

Del resto non sapeva egli in che modo essa lo amava?

Sì, lo sapeva, Angela cara!

Silvio accompagnò i viaggiatori fino alla valle di _Scala di Gioca_,
e colà diede l’ultimo addio: diede anche un bacio agli amici, un bacio
che cominciò dal figlioccio, passò per Cosimo e per comare Beatrice, e
si trattenne in ultimo un po’ più sulle labbra di Angela.

«Ricordati,» disse quel bacio. E quel medesimo bacio rispose: — lo sai
bene come t’amo!

— Sì, sì, lo so, Angela cara!

La diligenza cominciò la discesa tortuosa, e Silvio rimase appoggiato
al parapetto di sasso, che domina la splendida vallata.

Egli seguiva come istupidito il grosso carrozzone, che si portava via,
frettoloso, tutta la festa del suo cuore, scomparendo ogni tanto,
in lontananza, dietro gli ulivi, riapparendo più giù, annunziato
dal rumore dei sonagli e da una pezzuola bianca sventolata ad uno
sportello.

Silvio accompagnò così la diligenza fino al fondo della vallata, poi
la perdette di vista, poi la rivide come un punto sullo stradone di
Codrongianus. Da un pezzo non iscorgeva più nulla, e rimaneva ancora
dinanzi al parapetto.


Rimasto solo, il suo primo pensiero fu che avrebbe potuto egli
pure andare ad Iglesias cogli amici; che _Speranza Nostra_ avrebbe
sopportato benissimo quindici giorni di assenza, od anche un mese,
tanto più che Giovanni sapeva il fatto suo e pur d’istruirlo a
dovere....

Silvio pensò sul serio tutte le raccomandazioni che avrebbe dovuto dare
al cuoco per potersi pigliare un poco di vacanza, e non permettere
alla sua fidanzata di andarsene sola. Quando ebbe pensato molto, ed
accomodato ogni cosa, si svegliò come da un sogno, e disse: a quest’ora
sono a Codrongianus. Volse le spalle alla vallata, e tornò a _Speranza
Nostra_, dove l’aspettava un compagno di sventura. Il cuoco era
sull’uscio di casa, ed aveva il faccione tondo spartito dal suo sorriso
enorme — non penava niente affatto.

— Sono andati? domandò allegramente, e non ricevendo risposta e non
ne aspettando, soggiunse confidenzialmente: ma torneranno! e faremo le
nozze quest’estate.

Il professore credette che parlasse di Angela, e si meravigliò che
Giovanni ne sapesse più di lui; ma guardando in faccia il cuoco, si
ricordò il frammento di dialogo inteso nella viottola e comprese ogni
cosa.

— Annetta ti piglia?

— Se mi piglia! esclamò il cuoco: mi ha già preso e non mi lascia.

Per spiegare il proprio concetto, quel fatuo accostò una mano alla
bocca, come per assaggiarla, ed annunciò semplicemente e sicuramente:
«è cotta!»



XII.


Il professore trovò quello stesso giorno molte cose da fare che quasi
aveva dimenticato. Prima di tutto il direttore del giornale gli mandò
a dire che aspettava il seguito di un articolo sulla colonizzazione
della Sardegna, troncato sul più bello, come già era seguito e doveva
seguire più tardi alla colonizzazione medesima; e si rammentò in
tempo che aveva dato la posta a due dei consiglieri più danarosi
della Banca Nazionale, per trattare insieme della fondazione d’una
Banca-agricola-commerciale. Poteva dunque far tacere tutte le vocette
di rimprovero dell’amor ferito — non era punto vero che egli avrebbe
potuto accompagnare la comitiva ad Iglesias, affidando le proprie
faccende al cuoco.

Egli si chiuse in camera per quattro lunghe ore e in dodici paginette
finì di colonizzare tutta l’isola. Poi distribuì i lavori primaverili
ai contadini, gettò colle proprie mani il seme delle pianticelle
annuali, che dovevano ornare il giardino di comare Beatrice e
d’Angela, radunò le idee e rifece certi calcoli per tenersi pronto
alla conferenza sulla Banca agricola. — Trovò anche tempo di pensare ad
Angela.

La fanciulla aveva lasciato molta parte di sè nella sua cameretta
gentile; Silvio vi trovò un pettine che aveva strappato alcuni capelli
biondi e li teneva ancora fra i denti; vi trovò un mazzolino di rose
bianche staccate la mattina e una pagina su cui l’innamorata aveva
scritto: «parto, ma non ti lascio; io sono qui; aspettami. Angela tua.»

E Silvio era così docile all’amore, che stava lungamente nella
cameretta di Angela, appoggiato alla seggiola dove essa si era seduta
per iscrivere, contemplando il letticciuolo colle cortine bianche di
mussola e lasciando parlare il mazzolino di rose. «Io t’adoro,» diceva
il mazzolino di rose, e non sapeva dire altro — ma ce n’era d’avanzo.

Invece quante cose disse Angela, nella sua prima lettera! E non
bastarono.

«La miniera mi ha innamorata, diceva, ma per carità bada di non
diventare geloso.» Essa parlava con entusiasmo degli androni bui
sotto terra. Passeggiare colle fiaccole fra quelle pareti affumicate,
lontano dalla superficie terrestre; udire lo scoppio sordo d’una mina
in lontananza; ovvero, stando sull’orlo d’una galleria, affacciarsi al
pozzo d’estrazione e vedere venire su su, lentamente, la gabbia — tutto
ciò l’aveva sbigottita e commossa. Confessava che non si era immaginata
neppure una cosa simile, sebbene avesse letto tante descrizioni di
miniere e di minatori, e cominciava a credere che tutto quanto si può
leggere nei libri è sempre nulla in confronto di ciò che si vede e si
tocca. Poi le parlava del loro amore; lui forse ne riderebbe, ma essa
era sicura che in fondo al pozzo principale aveva sentito d’amarlo in
un modo nuovo.

Quella lettera che Silvio aveva aperta col batticuore — strana cosa!
— lo lasciò quasi freddo. Il suo egoismo d’innamorato accettava
di mala voglia la verità; forse avrebbe preferito la bugia. Certo,
l’inverisimile soltanto poteva contentarlo: che Angela, arrivata alla
miniera, gli avesse scritto fra le lagrime: «Accorri, Silvio, vola; io
non posso più vivere senza di te.»

Invece in quella prima lettera d’amore, la fanciulla accennava
appena al vuoto che essa sentiva senza di lui; e una volta sola, nel
poscritto, gli raccomandava di sbrigarsi delle faccende più urgenti per
poter fare una giterella alla miniera egli pure.

Se non avesse avuto tanto da fare per la Banca Agricola, tutto
quel giorno Silvio avrebbe ruminato il magro pascolo dato al suo
grande amore. Più tardi, dopo l’adunanza per la Banca Agricola,
seppe comprendere la sua piccola innamorata e fu così magnanimo da
consigliarle di star allegra e di divertirsi.

Quell’indulgenza ebbe il giusto premio; Angela nella seconda lettera
disse cose strazianti: essa faceva il possibile per accontentare
Silvio e divertirsi, ma quando era riuscita, ne aveva dispetto, e si
nascondeva agli occhi della gente per piangere. Voleva un esempio?
L’ingegnere Marini aveva combinato una rappresentazione a beneficio
della Società di mutuo soccorso fra i minatori; il teatro doveva essere
il camerone della scuola; reciterebbero Annetta, l’ingegnere Marini,
due caporali minatori e lei. Sì, anche lei; aveva accettato la parte
di amorosa, Annetta faceva l’ingenua. Angela sapeva già tutta la parte
senza suggeritore, le prove andavano benissimo — ebbene? — Silvio
sapeva quanto gusto trovasse Angela a recitare la commedia? — ebbene?
— quando alla prova le battevano le mani (perchè le battevano le mani
anche alle prove) — ebbene, essa sentiva una cosa venirle su su, dal
cuore fino alla gola, ed era inutile, doveva fuggire e piangere di
nascosto per non soffocare.

Che cosa era mai questo, se non era il grand’amore?

Ci pensò anche Silvio. Veramente, se non era il grande amore, che cosa
era mai questo?

Il professore non perdette un minuto; scrisse subito una lettera
melanconica; volendo confortare la sua fanciulla, chiedeva conforti
egli stesso; chiedeva anche il titolo della commedia in cui Angela
doveva fare la parte di amorosa e Annetta quella d’ingenua. La risposta
fu crudele; non era già una commedia, era la _Francesca da Rimini_,
tragedia di Silvio Pellico; Annetta recitava solo nella farsa. Le prove
andavano a gonfie vele; la rappresentazione doveva seguire prontamente.

In quei giorni Silvio ebbe il primo segno di stima dei suoi
concittadini; dovendosi eleggere alcuni consiglieri comunali, gli
vennero a proporre di farsi innanzi, assicurandogli la riuscita;
il _Giornale di Sassari_ era disposto a _portarlo_ con tutte le sue
forze; Silvio non doveva far altro che scrivere una lettera programma,
manifestando brevemente tutte le sue idee amministrative.

Il professore non aveva molta voglia d’essere consigliere comunale;
mettendo una mano sulla coscienza, non poteva nemmeno dire d’aver
molte idee amministrative, era però quasi sicuro che il modo migliore
di amministrare la cosa pubblica fosse l’onestà operosa ed attenta.
Scrisse queste cose alla buona al direttore per iscusarsi se non si
faceva avanti — e il direttore le stampò gridando in prima pagina che
la migliore amministrazione della cosa pubblica, Sassari la doveva
chiedere all’onestà operosa ed attenta. Conchiudeva: «Mandate al
Municipio degli uomini onesti, mandate il professore Silvio Boni, le
cui doti d’ingegno e di cuore, ecc.»

Così Silvio si vide preso dal suo eremo, e _portato_ in piazza.
Non ne fu scontento, aveva anch’egli il suo amor proprio, e non era
indifferente ad una dimostrazione di stima; credeva inoltre che la
qualità di consigliere comunale dovesse rendergli più facile il fare
un po’ di bene al suo paese — e in questo forse s’ingannava. Intanto la
qualità di candidato fu per due settimane la sua croce. Si pubblicò in
quei giorni un foglietto a posta per combattere i consiglieri proposti
dal _Giornale di Sassari_; a Silvio facevano il rimprovero d’aver
passata tutta la vita nel continente, di vivere ancora come un eremita,
di non conoscere i bisogni veri di Sassari, di vagheggiare certe utopie
che non conducono a nulla, e infine d’essere, in buona fede, uno di
quei novatori spesso fatali, sempre pericolosi.

Finalmente la tortura finì; Silvio fu consigliere comunale.

Egli ne diede la notizia ai suoi amici e ad Angela; la quale rispose
che era molto contenta, sebbene non si facesse un’idea chiara del
valore di questa nomina. Aveva anch’essa una gran notizia da dargli;
la recita della _Francesca da Rimini_ era stata un trionfo; battimani
ad ogni scena; grida di brava! chiamate — ma il più bel momento era
stato la morte di Francesca, dopo il duello fra i due fratelli. Angela
era caduta magnificamente sul fianco; si era perfino fatta un pochino
male ad un braccio, ma non era nulla; costretta dagli applausi, così
morta com’era, aveva dovuto sollevarsi un tantino per ringraziare.
Veramente essa voleva tener duro, perchè non si è mai visto che i morti
ringrazino, ma sì, quel pubblico di minatori non la voleva intendere.
_Francesca da Rimini_ doveva essere replicata la settimana dopo.

La notizia non rallegrò niente affatto Silvio; egli si risovvenne che
nella _Francesca da Rimini_ vi è un Paolo, il quale dice delle cose
audaci a Francesca, e gliele dice in versi sciolti, che dispiacciono
molto a Gianciotto.

Se non fosse stato per assistere alla prima adunanza del Consiglio
comunale rimesso a nuovo, Silvio avrebbe dato retta ad una voce che gli
raccomandava di far subito la valigia e pigliare la diligenza. Invece
d’andare, scrisse una lettera di quattro pagine fitte, tutta piena di
_espressioni_ come piacevano ad Angela, una lettera in cui parlava del
proprio cuore e del cuore della fanciulla come di due persone separate,
poste a mezza via fra cielo e terra, e incaricate unicamente di
custodire il loro amore, o per dire con più esattezza, la fiamma sacra
del loro amore.

La risposta a quelle quattro pagine tardò a venire, ma fu piena
d’amore. Angela confessava d’aver avuto torto non scrivendogli subito;
ma non sapeva come era; le fuggiva il _tempo_; del resto non faceva che
rileggere la sue lettere, e pensare a lui; e l’amava, oh! l’amava come
una pazza, e non vedeva l’ora d’essere di lui per sempre, di lui o di
nessun altro, di lui o della morte.

Fu un gran silenzio nella mente di Silvio, dopo la lettura di questo
foglio, il quale non era giunto da Iglesias solo. Ce n’era un altro di
cui gli pareva di conoscere i caratteri; il professore l’aprì e lesse:

      «Caro professore,

  «Nelle poche settimane che la contessa Beatrice, la signorina
  Angela e il conte Cosimo sono con noi, ho potuto apprezzare le doti
  del cuore e dell’ingegno della sua amabilissima nipote...»

Silvio si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e non lesse altro.
La mattina successiva prima del passaggio della diligenza egli era
sullo stradone, con una valigia in mano, un po’ pallido ma sorridente
ancora. Dava le ultime istruzioni a Giovanni, il quale gli raccomandava
dal canto suo di dire tante cose ad Annetta. Poi la diligenza si
annunziò col rumore dei sonagli, il professore fece un cenno, il
carrozzone si arrestò, lo accolse sull’imperiale, partì. Subito Silvio
cavò di tasca la lettera dell’ingegnere Marini che aveva già letto
parecchie volte, e la rilesse ancora.

      «Caro professore,

  «Nelle poche settimane che la contessa Beatrice, la signorina
  Angela e il conte Cosimo sono con noi, ho potuto apprezzare le
  doti del cuore e dell’ingegno della sua amabilissima nipote.
  Io ho ventiquattro anni compiuti, sono padrone di me stesso, ho
  una professione abbastanza lucrosa, e qualche pezzo di terra nel
  Campidano di Cagliari.

  «Del mio temperamento, del mio passato, potrà avere informazioni a
  Cagliari, ad Iglesias e qui alla miniera. Mi sento capace di far
  felice la donna che acconsentirà a legare la sua sorte alla mia.
  Ho detto tutto; amo ardentemente la signorina Angela, e voglio
  consacrare la mia vita a rendermi degno dell’amor suo...»

Silvio fece parecchie domande a questa lettera. Prima di tutto
l’ingegnere Marini, che andava per le vie spicciative, aveva detto
nulla alla ragazza? Nella lettera non era fatta alcuna allusione ai
sentimenti di Angela, non vi si vedeva traccia di lusinga, fuorchè la
fiducia generica di render felice la donna che acconsentisse a legare,
ecc.

Quell’ingegnere, col suo risolino d’uomo contento, si comportava
onestamente; non empiva la testa d’una ragazza, prima di scrivere al
tutore; ma anche senza empire la testa di Angela, qualche parolina,
qualche occhiata, avevano dovuto tradirlo, e se con tutto ciò scriveva,
era indizio che Angela... Orribile pensiero! Ma no, solo che Angela
avesse notato qualche cosa d’insolito nella parte dell’ingegnere,
qualche cosa che Paolo non fosse in tutto il suo diritto di dire o di
fare a Francesca, subito gli avrebbe lasciato intendere che essa era
già fidanzata ad un altro.

Anche comare Beatrice, anche Cosimo, se avessero avuto il minimo
sospetto, si sarebbero affrettati a scrivergli, e invece gli avevano
mandato i saluti per mezzo di Angela. No, no; quell’ingegnere era
savio; non sapendo che Angela era d’un altro, la voleva per sè, e si
rivolgeva al tutore prima d’aprirsi colla ragazza. Uomo esemplare!

A Silvio basterebbe pigliarlo in disparte, dirgli bonariamente come
stavano le cose, magari fargli leggere l’ultima lettera di Angela,
quella in cui la fidanzata «non vedeva l’ora di essere di Silvio per
sempre, di Silvio o di nessun altro, di Silvio o della morte.»

Bizzarro fenomeno; queste ultime parole che, a dirle con un accento da
stordito, gli davano una compiacenza baldanzosa, rivedute da vicino,
sulla carta, gli fecero il medesimo effetto della prima volta.

E quest’idea fu un cattivo compagno di viaggio per Silvio; il quale
arrivando il giorno dopo ad Iglesias, non aveva soltanto le ossa rotte
dai trabalzi della diligenza, ma anche la testa stordita.

Non era ancora il mezzodì quando la diligenza arrivò ad Iglesias;
secondo il suo vecchio costume, Silvio non aveva avvertito nessuno del
suo arrivo, affidò la valigia ad un oste, coll’incarico di mandarla
alla miniera, e si avviò sconosciuto e pedestre.

Aveva già almanaccato in viaggio, ma all’ultimo momento gli bisognava
ancora raccogliere le idee.

Nell’immaginare disastri egli era andato fino all’inverisimile; aveva
preveduto il caso che Angela si fosse innamorata dell’ingegnere Marini,
e perfino — orribile a dirsi — che l’ingegnere gli avesse scritto colla
complicità della fanciulla.

Ed era sopratutto in queste ipotesi disgraziate che importava arrivare
inaspettato, per leggere subito nel turbamento dei colpevoli e
salvare... che cosa mai? la dignità offesa. Ahi! il professore era
giunto a quel punto della vita in cui le piaghe dell’amore si medicano
coi cerotti dell’amor proprio.

Affrettando i passi su per l’erta, egli si rallegrava melanconicamente
della propria accortezza: — Supponiamo sempre il peggio, pensava,
cioè che si amino; se io prima di giungere fra loro due mi fossi
fatto annunziare dal telegrafo, che cosa seguirebbe? Che troverei
probabilmente Angela ammalata, lui assente — comare Beatrice e Cosimo
si piglierebbero la briga di spiegarmi il resto.

Al mezzodì egli era arrivato alle case della miniera, allora rallentò
il passo perchè non si potesse dire che aveva l’aria di accorrere a
smorzare un incendio amoroso, e penetrò nell’abitazione del direttore,
senza che nessuno l’avesse visto. Un momento dopo era alla presenza
di Beatrice, la quale, vedendolo, mandò un piccolo grido e si rizzò
per fargli festa. Silvio notò subito che l’aria montanina aveva fatto
molto bene a Beatrice. Le sue guance erano rifiorite; nel suo corpo
ingentilito e rassodato un’altra volta non si vedeva più traccia del
lavoro troppo casto della maternità.

— Compare mio! diceva la contessa; e le brillavano gli occhi e le
tremava un tantino la voce — compare mio, siete proprio voi? Oh!
perchè non ci avete avvisato? Il mio Cosimo vi sarebbe venuto incontro
ad Iglesias col biroccino, si sarebbe tutti qui a farvi festa. Le
improvvisate hanno un lato brutto.... Ecco, mi trovate sola; e se non
fosse del mio bimbo, forse non sarei qui nemmeno io...

Essa si voltava a guardare una culla di vimini, dove il piccolo Silvio
dormiva coi pugni chiusi.

— Siete sola? disse il professore facendo l’allegro; non me ne lagno;
dov’è Cosimo?

— Cosimo è uscito col direttore della miniera; sapete? cominciamo
ad ammalarci di nostalgia, non vediamo l’ora di tornare a _Speranza
Nostra_; mio marito faceva conto di sbrigare ogni cosa questa mattina e
di partire...

— E Angela?

— Angela... per parlarvi del mio bimbo dimenticavo Angela; siamo tutti
un poco egoisti... Angela dorme. L’ho vista poc’anzi, è incomodata...
ma si sente meglio...

— È ammalata? balbettò il professore.

— Una cosa da nulla... è stata bene fino ad un’ora fa: era abbastanza
allegra, ma si è sentita venire il capogiro... e si è messa a letto.

— E ora dorme, conchiuse Silvio.

— Vado a vedere se dorme, disse Beatrice; quando sappia che siete
arrivato, guarirà subito.

— E l’ingegnere Marini?

— Ah! stamattina era qua; ma ha ricevuto un telegramma da Iglesias
ed ha detto che andava via.... Vado a vedere se Angela è sveglia; vi
lascio con vostro figlioccio.

Essa escì, e il professore rimase solo in faccia a quell’innocente,
che, dormendo, stringeva i pugni, come era tentato di fare anche
Silvio, per resistere ad un brutto sogno.

Non rimaneva nemmeno un’ombra al suo disastro. La commedia tutta
quanta, eccola: un telegramma ha annunciato l’arrivo del padre nobile
corbellato; subito la prima amorosa si è fatta venire il capogiro, il
primo amoroso si è nascosto.

E tutto ciò perchè? Perchè il tutore abbia agio di comprendere il
grosso della faccenda senza farsela spiegare e si prepari alla scena
ultima.

— Dorme! annunciò comare Beatrice entrando; non l’ho svegliata perchè
potrebbe farle male.

Silvio guardò fissamente in volto la sua bella comare e la costrinse ad
arrossire.

— Comare mia, le disse melanconicamente; voi non sapete nascondere la
verità; subito vi piglia la paura di dire una bugia.

— Compare mio, mormorò Beatrice, stringendogli la mano; vi assicuro che
dorme.

— So tutto, insistè Silvio freddamente; l’ingegnere mi ha scritto.

— Vi ha scritto! Ha proprio perduto la testa... Ma quello che non vi
avrà detto lui ve lo dirò io, ve lo diremo noi; a noi presterete fede,
compare mio? ebbene, non ci è nulla, altro che una di quelle vampate
di un’ora... una ragazzata... Appena essa vi vedrà, sarà tutto finito,
e quando saremo a _Speranza Nostra_ non ce ne ricorderemo neppure...
giusto per questo Cosimo voleva partire la settimana ventura...

Silvio, volendo salvare almeno la propria dignità, sorrideva e crollava
il capo.

— Angela dorme? domandò dopo un breve silenzio.

— Ve lo assicuro.

— Grazie, sono contento che dorma; addio, comare mia, vado in cerca di
Cosimo...

— State allegro, compare... io non posso venire con voi perchè questo
piccolo monello mi sente anche dormendo; se lo abbandono si sveglia, è
pieno di giudizio...

Lo accompagnò nondimeno fino all’uscio, e di là gli raccomandò ancora
una volta:

— Tornate presto, compare, state allegro.

Il professore non andò in cerca di Cosimo, ma diresse tranquillamente
i suoi passi alla scuola, per vedere il teatro in cui si erano
rappresentate le scene precedenti della sua piccola tragedia.

La scuola era a terreno, e la porta di strada era socchiusa; entrò.

Attraverso la gran tenda che separava la sala dal vestibolo giungeva il
suono d’una voce cadenzata.

Era Annetta, che provava la sua parte.

Scena seconda; il professore e detta.



XIII.


— Brava Annetta! disse Silvio attraversando la platea.

— Gran Dio! esclamò la servetta; il professore!

— Sono io; e indovina che cosa ti porto?

— Lo indovino, Giovanni!

— È troppo; ti porto soltanto i suoi saluti.

Dicendo queste parole Silvio, saliva l’unico scalino che separava la
platea dal palcoscenico.

— Che parte provavi? Che cosa si prova? Quando si recita?

— Forse non si recita più, sospirò Annetta; l’ingegnere Marini è di
cattivo umore.

— Ah! è di cattivo umore! e dov’è l’ingegnere Marini? Non verrà qui?

Annetta guardava fisso il professore; pareva che avesse una gran voglia
di parlare, ma che non sapesse ancora se l’accento agrodolce di Silvio
significasse proprio quello che s’intendeva lei.

— Ha detto che partiva, rispose; che andava ad Iglesias...

— Ma non è partito, aggiunse Silvio tranquillamente.

— Come lo sa?

— Senti, Annetta, ho bisogno di parlare subito all’ingegnere Marini;
vagli a dire che lo aspetto.

Annetta si lasciò pigliare nella trappola, e disse:

— Vado e vengo. Ha visto la signorina?

Siccome Silvio non rispose, Annetta alzò gli occhi al cielo
congiungendo le mani, e scese in platea con evidente ripugnanza, perchè
avrebbe preferito uscire da una porta in fondo o dileguare fra le
quinte.

Scena terza — il professore solo.

Egli andò lentamente dalla bocca d’opera alla parete in fondo, dove si
apriva un finestrone, e stette là, coi gomiti appoggiati al davanzale;
gli sembrava di recitare la commedia davvero, e ripeteva fra sè e sè la
frase con cui doveva accogliere il suo rivale. Le parole di Beatrice
non gli lasciavano alcuna incertezza sulla propria dissavventura
amorosa, ed era meglio così; pensava con raccapriccio alla parte
che egli avrebbe dovuto fare, se fosse giunto impreparato dinanzi
all’ingegnere, con tutte le sue illusioni di fidanzato maturo. Il cielo
pietoso gli aveva risparmiato il ridicolo. — Grazie, cielo pietoso!

Disse queste parole con accento teatrale, e si voltò per assicurarsi
che nessuno l’aveva udito. In teatro non c’era anima viva. Gli venne
veduto uno scartafaccio sopra una mensola ed andò a prenderlo; lesse:
«_Aristodemo_, tragedia di Vincenzo Monti.» Collo scartafaccio si battè
la fronte, e domandò a sè stesso: — Ci è altro a fare? — Non rispose
neppure, tanto era chiaro che non c’era altro. Se avesse tentennato
ancora, un’occhiata ad una breve epigrafe scritta colla matita sul
muro scialbato e chiusa fra quattro linee come in una cornice, avrebbe
troncato ogni dubbio. La scritta diceva:

                           PAOLO e FRANCESCA
                           COSÌ ALMENO UNITI

Da principio il professore non intese bene in che modo Paolo e
Francesca si unissero, ma notando che Paolo era scritto da una mano e
Francesca da un’altra, e che _almeno_ era sottolineato, ebbe un primo
barlume della faccenda. La quale gli parve proprio chiara, quando
sulla stessa parete, un po’ più sotto, vide accoppiati altri due nomi
autografi: _Angela Boni e Baingio Marini_. — Nient’altro, ma bastava.

Il professore aprì lo scartafaccio, e declamò con accento magnifico:

    _Ecco la tomba, ecco l’altar che deve_
    _Del mio sangue bagnarsi...._

— «Paolo e Francesca, soggiunse cambiando tono, così almeno uniti.» È
troppo poco essere uniti così.

— Lei qui! esclamò l’ingegnere Marini, entrando in platea.

Egli aveva l’aria di affrettare il passo, ma impiegò in realtà un poco
più del tempo necessario ad attraversare il camerone, e giunto sul
palco scenico aveva la faccia accesa come se arrivasse di corsa e di
lontano.

— Scena quarta; l’ingegnere Marini e detto — disse il professore
pigliando la mano che gli veniva offerta, e cercando cogli occhi una
seggiola.

Più pratico del luogo, l’ingegnere corse a prendere due sgabelli fra le
quinte.

— Quando è arrivato? domandò poi, tentando con poca fortuna la solita
risatina d’uomo contento.

— Ho ricevuto la sua lettera, disse il professore con un sussiego da
primo attore; e invece di mandarle la risposta, gliela porto io stesso.

L’ingegnere non fiatava più. Silvio proseguì come se fosse incalzato
dal suggeritore:

— Ma prima di risponderle, bisogna che io le faccia una domanda; dopo
di che c’intenderemo facilmente.

— Dica... balbettò l’ingegnere.

— Sa lei che Angela è la figlia d’un bandito?...

— Sissignore...

— Sa che questo bandito, mio fratello, fu accusato ingiustamente...

— Ingiustamente.

— Accusato d’omicidio e condannato a morte?

— Sissignore.

— Sa che la condanna non fu eseguita perchè Giorgio fuggì in Africa, e
sa che tornato dopo molti anni per rivedere la figlia, il disgraziato
morì senza aver potuto provare la propria innocenza?

— Sissignore.

— Lei sapeva tutte queste cose prima di scrivere la sua domanda, o ne
fu informato dopo?

Senza riflettere e fregandosi le mani un tantino, l’ingegnere Marini
rispose che ne era stato informato prima e dopo... cioè...

— Cioè?

— Cioè, mi spiego... la storiella del padre della signorina è
notoria... venendo a Sassari la prima volta, io sapeva già ogni cosa.

— E nondimeno, chiese Silvio con disinvoltura, lei non ha titubato?

Non aveva titubato — parola d’onore.

E non era pentito...? E non c’era pericolo che si pentisse? Era proprio
sicuro di non obbedire ora ad un capriccio?

L’ingegnere era sicurissimo, sebbene paresse un poco impacciato.
Ma a questo punto Silvio trovò una bella idea e fu magnifico
nell’improvvisare la sua parte.

— Dia qua la mano, diss’egli; lei mi toglie da un grave impiccio, e
non saprà mai quanta gratitudine le debbo; forse è meglio che non lo
sappia; io vorrei dirle fin d’ora: Angela è sua; ma rimangono alcuni
ostacoli.

Silvio diede un tempo lungo all’ingegnere, perchè egli potesse dire
qualche cosa; l’ingegnere non fiatò.

— Il primo ostacolo può essere la volontà della fanciulla; io non so se
Angela sarà contenta...

— È vero... lei non sa...

— E nemmeno lei, probabilmente?

— E nemmeno io...

— Un secondo ostacolo potrebbe essere questo: Angela è fidanzata ad un
altro.

L’ingegnere zitto.

— Ma si rassicuri, proseguì Silvio; quest’altro sono io; e la ringrazio
tanto tanto.

— Lei! esclamò l’ingegnere, tirando indietro il capo come per stupore.

Disse male la parola, non eseguì bene l’atto, e Silvio ebbe la
tentazione di raccomandargli la naturalezza; ma era stordito egli
stesso, e tacque un poco prima di ripigliare il filo. Durante quel
silenzio l’ingegnere si provò un’altra volta a ripetere: lei! tirando
indietro il capo, ma non riuscì bene ancora. Con un gesto risoluto il
professore mandò qualcuno o qualche cosa a farsi benedire, poi riprese
a dire pacatamente:

— Dunque mio fratello buon’anima si era messo in capo che la figliuola
corresse il rischio di rimanere zitella per colpa sua, e mi aveva fatto
promettere di pensare io a farla felice. Ciò significava: — sposala
— ed io sebbene non mi senta una vera e propria vocazione per il
matrimonio...

L’ingegnere Marini invece se la sentiva, vera e propria e irresistibile
— gli si leggeva in faccia.

— Me la sposavo, concluse Silvio. La ragazza non era scontenta; all’età
di Angela si è sempre contente d’un marito purchessia... Essa è quasi
una bambina...

— Quasi... fece eco l’ingegnere.

— Ha soltanto quattordici anni...

— Compiti...

— Compiti...

Ancora un breve silenzio; il professore proseguì:

— Lei dice benissimo: ha quattordici anni compiti. Per isposarla,
aspettavo che ne avesse quindici, anzi un po’ più di quindici — ma
Angela non sapeva questo; la piccina s’impazienta facilmente. Io
non voleva chiedere due dispense. Perchè lei, caro ingegnere, deve
sapere...

Sapeva ogni cosa l’ingegnere; era benissimo informato delle nostre
leggi civili e religiose, non ignorava che al matrimonio fra zio e
nipote occorre una dispensa del re... e una del papa, che la prima è
facile e la seconda difficile...

— Come sa che è difficile? domandò l’ingegnere.

— Mi sono informato... scappò detto all’ingegnere.

Subito guardò in faccia il suo rivale, e vedendosi colto in fallo, fu
il primo a ridere.

— Ebbene sì, disse mentre Silvio lo minacciava col dito, ebbene sì, lo
confesso; io sapeva tutto; la mia scusa è l’amore... si metta ne’ miei
panni e mi compatirà.

Silvio ci si metteva nei panni dell’ingegnere, comprendeva tutto e
compativa ogni cosa — ma nondimeno continuava a minacciare col dito il
suo rivale.

— E sapendo che Angela era la mia fidanzata, lei non ha titubato a
domandarmela in isposa...?

Ecco... questo poi no; l’ingegnere al contrario aveva titubato molto;
ma siccome per isposare una ragazza, prima di tutto conviene impedire
che la sposi un altro, così aveva scritto...

Angela aveva acconsentito?... non si era provata a dissuaderlo?

— La povera ragazza, disse l’ingegnere, non voleva.

— Ah! e che cosa voleva la povera ragazza?

— Voleva morire...

— Povera ragazza! disse Silvio; a quattordici anni non si muore, se si
ha da pigliare marito a quindici.

— Ma io, confessò l’ingegnere trionfando, scrissi a lei di nascosto,
e solo dopo aver scritto la domanda ho confessato ogni cosa alla
signorina...

Silvio credette di poter indovinare facilmente il resto.

— Il resto si capisce, disse; lei pensò che io sarei subito venuto a
vedere e toccare come stavano le cose.

L’ingegnere faceva di sì col capo.

— Mi aspettava oggi o domani?

L’ingegnere faceva sempre di sì.

— E aveva incaricato un amico d’Iglesias di mandarle un telegramma
appena io fossi apparso all’orizzonte.

— Proprio così! esclamò il giovinotto; lei ha capito tutto...

— Il telegramma, proseguì Silvio incoraggiato, è giunto due ora fa; lei
ha visto subito Angela e le ha consigliato di ammalarsi...

— Angela è ammalata? domandò l’ingegnere ansioso.

— Non lo sa?... si rassicuri, Angela ha solamente l’emicrania e il mal
di nervi; essendo fidanzata ed infelice è doppiamente nel suo diritto
di avere questi incomodi... Ma dunque lei non l’ha informata?

— Le voglio dir tutto, disse l’ingegnere guadagnato interamente
dall’arrendevolezza del suo rivale, e già reso un po’ brillo dalla
propria felicità — ecco, come ho fatto; guardi da quel finestrone; vede
quella casetta rossa? la terza finestra...

— Quella che ha una persiana chiusa e l’altra aperta?

— Quella... è la finestra della mia camera, e se le persiane non
sono chiuse tutte e due, sebbene vi batta il sole, è perchè lei è
arrivato... Mi comprende?

— Altro! e dov’è la finestra della camera di Angela?...

— Bisogna mettersi di qua per vederla... eccola... è la quarta
finestra, contando dal balcone...

— Quella che ha le persiane chiuse?

— E una pezzuola bianca calata per le stecche...

— Che cosa significa la pezzuola bianca? domandò Silvio allegramente.

— Nulla di particolare... ma solo...

— Solo che cosa?...

L’ingegnere Marini non lo voleva dire, e allora il professore si provò
ad indovinare:

— Io lo so, disse, che cosa significa... significa «ti amo!»

— Invece no, significava: «t’adoro!»


Il professore rise di tanto gusto, che si fece perfino venire le
lagrime agli occhi; e l’ingegnere si sforzava invano d’imitarlo;
un’ansia lo tormentava, ed egli non seppe nasconderla lungamente.

— Se la signorina sapesse! gli venne detto con un sospiro.

— La signorina saprà ogni cosa subito, rispose Silvio, rifacendosi
grave, venga con me, ingegnere...

— Che cosa vuol fare? domandò l’innamorato con un dolce sgomento; devo
venire anch’io?

— Lei non è di troppo, rispose Silvio; se vi è qualcuno di troppo, non
è lei.

Così dicendo, il professore si impadronì del braccio del suo rivale. Si
avviarono a gran passi.

Per via, nessuno dei due parlava, il professore perchè aveva detto
abbastanza, l’ingegnere perchè non sapeva che dire. Guardavano
entrambi alla finestra di Angela, dove la pezzuola bianca continuava a
promettere amore; a un certo punto si arrestarono; la pezzuola veniva
ritirata lentamente fra le stecche della persiana...

— To’, disse il professore al suo compagno, non l’adora più!

Ma l’ingegnere non rispose, e aspettò sulla via, senza muoversi, che
apparisse un altro segnale.

— Significa? domandò Silvio quando vide spuntare una pezzuola rossa fra
le stecche della persiana chiusa.

— Significa che ha bisogno di parlarmi...

— Me lo immagino; e non le dice altro?...

— Mi dice di trovarmi sotto la sua finestra alla mezzanotte...

— Lei non ci andrà, ordinò il professore con una severità burlesca, che
mise il colmo alla felicità del suo rivale; io glielo proibisco.

Quando giunsero all’abitazione, Cosimo non era ancora tornato dalla sua
visita al nuovo pozzo della miniera, ma Beatrice, informata d’ogni cosa
da Annetta, venne sul pianerottolo col piccino in collo.

Non ostante la sollecitudine della sua buona amica, sembrò a Silvio,
come prima gli era sembrato, che essa pure obbedisse all’egoismo della
felicità, e che, lieta del suo grande amore di madre, si fosse fatta un
poco indifferente verso il compare e l’amico.

— Caro! disse Silvio accarezzando con un dito una guancia del
figlioccio; caro! gli vuoi bene al padrino? sì? tanto tanto? e allora
vediamo se ti lasci dare un bacio senza piangere...

Silvio accostò la faccia barbuta a quella del bambino, il quale cacciò
uno strillo e si nascose nel seno della mamma.

— Cattivo, gli disse comare Beatrice, coprendolo di baci: cattivo,
cattivo, cattivo!

— Angela è sempre nella sua camera? domandò il professore, e Beatrice
rispose di sì; poi disse; — entrino, entrino, e senza staccare la bocca
dalla guancia della sua creatura, precedette i due nel salotto.

Si vedeva chiaro che voleva mostrarsi severa collo ingegnere; ma
nemmeno questo le riesciva, perchè era troppo felice.

— Comare mia, disse Silvio con accento deliberato, fatemi il piacere
d’andare a dire ad Angela...

Che cosa? Ci pensò; non sapeva nemmeno lui.

— D’andare a vedere, corresse, se Angela sta meglio, se può venire
qui... se posso andare io da lei... A quest’ora deve essere guarita; le
emicranie non durano molto alla sua età...

Sotto uno sguardo affettuoso di comare Beatrice, il professore si
sentiva indebolire; si guardava intorno e cominciava a credere che
aveva fatto male a tirarsi dietro l’ingegnere.

— Devo proprio andare? disse un’occhiata della contessa.

Si avviò lentamente, quasi a malincuore, e si voltò sull’uscio sperando
forse che Silvio si pentisse; l’ingegnere, cogli occhi fissi sulla
parete di fronte, pareva un ladro che non volesse restituire la roba
rubata.

Subito il professore, andando su e giù per la sala, senza badare al suo
rivale, cominciò mentalmente così:

— Ragazza mia, il padre tuo, morendo, ti ha affidata a me; io ho
giurato di fare la tua felicità; ti restituisco la parola... no, ti
restituisco la fede... ti restituisco la promessa... — Rimanendo in
dubbio su ciò che propriamente doveva restituire, ricominciò più volte
da capo: — ragazza mia, il padre tuo, morendo...

Rientrò comare Beatrice.

— Peggio che mai, — disse parlando quasi all’orecchio di Silvio
per affliggere l’ingegnere; — non ha la forza di vedervi, vi chiede
perdono, vuole morire; ma non mancherà alla promessa data...

L’ingegnere continuava a guardare la parete, come se non avesse udito
nulla.

Silvio esclamò con allegria nervosa:

— Ci è un equivoco di sicuro; quando la povera ragazza saprà che io
sono contento...

Ma non sapeva risolversi ad andare a picchiare egli stesso all’uscio
della cameretta di Angela. Gli venne un’idea che già gli aveva servito
una volta; strappò un foglio dal taccuino e scrisse, sotto gli occhi di
comare Beatrice che baciucchiava la sua creatura:

«Angela, non piangere; il padre tuo morendo mi ha affidata la cura di
renderti felice; ed io lo farò, fino all’ultimo giorno della mia vita.
Non ti credere legata da una promessa che hai fatto sognando; destati
e lascia che il tuo cuore batta liberamente. Io benedirò i tuoi affetti
senza rancore.»

Rilesse lentamente queste poche righe, e le sottoscrisse: _lo zio
Silvio_; poi le consegnò con un gesto largo all’ingegnere.

— Io sono stanco, disse, ho viaggiato tutta notte in diligenza ed
ho bisogno di riposarmi un poco; comare Beatrice, vi raccomando
l’ingegnere; accomodate voi le cose; all’ora del desinare mi farete
svegliare, e a tavola non voglio vedere che facce allegre. Lei,
ingegnere, dica ad Angela che non ci è proprio nessuna ragione di
disperarsi, nè di morire... Solamente, aggiunse mutando accento, badi
che io non le concederò la mano di mia nipote fino a tanto che essa
non abbia compiuto i quindici anni, e possa pigliar marito... Io non
metto in dubbio che oggi la ragazza sia innamorata di lei; ma nella
mia qualità di tutore ho dovere d’essere cauto, e come pretendente a
spasso ho il diritto di credere che la ragazza, crescendo, possa ancora
innamorarsi d’un altro.

Furono queste parole la sua sola vendetta. Sorrise all’ingegnere,
strinse la mano di Beatrice, baciò a viva forza il neonato.

— Sapete la strada, compare? domandò Beatrice, tanto per accompagnarlo
un tratto.

Quando furono distanti da quell’altro, gli disse sottovoce:

— Siete troppo buono a cedere così... Angela vi ama ancora.

— Può essere, rispose Silvio; non mi meraviglio più di nulla; ma io poi
l’amo?... comincio a credere che non l’ho amata mai; è una bambina.

La cameretta che Silvio aveva già occupato era all’estremità
dell’edifizio; bisognava attraversare un lungo androne per giungervi;
Beatrice si arrestò sul principio del corridoio; Silvio lo attraversò
tutto a passi celeri e sonori, senza voltarsi.

Quando fu nella cameretta nota, dove egli era arrivato la prima volta,
allo svegliarsi da un altro sogno, si chiuse a chiave e si buttò nel
lettuccio senza svestirsi.

Ora il decoro era salvo; nessuno lo vedeva ed egli poteva piangere in
silenzio.


All’ora del desinare, venne Cosimo a svegliarlo; gli recava una
letterina dell’ammalata d’emicrania.

Il professore l’aprì con un po’ di tremito. Che sperava egli ancora?

La lettera cominciava con queste parole: «Uomo generoso!»



XIV.


Accaddero molte cose in due anni.

_Speranza Nostra_ non tardò a richiamare il suo Silvio; poco dopo tutti
gli ospiti della miniera partirono, e la casina bianca riebbe i suoi
inquilini.

Sotto le brune arcate degli ulivi, le voci delle raccattatrici
echeggiarono un’altra volta, ma Angela non cantò in coro come l’anno
antecedente, e se al tempo delle vendemmie la bella fanciulla apparve
ancora fra i vitigni, al braccio di Beatrice, non vi portò più il
suo riso infantile, nè i suoi sospiri di donnina romantica, e ciò,
sebbene lo zio Silvio facesse di tutto per non metterla in soggezione,
lasciandosi vedere il meno possibile, e non le parlando mai di cose che
potessero richiamare da lontano il loro tempo passato.

L’ingegnere Marini era venuto tre volte, che in un lungo anno d’amore
non sono troppe, a rivedere la propria innamorata. L’ultima sua
visita ebbe uno scopo, rinnovare la domanda di matrimonio. Quando il
professore fu informato solennemente da Baingio Marini che Angela aveva
compiuto i quindici anni da una settimana, e che nondimeno lo amava
ancora e lo voleva sposare, se ne dichiarò lietissimo, ma volle che la
nipotina venisse a dirgli essa stessa che Baingio Marini non si vantava
troppo.

Angela venne e non morì di vergogna come aveva creduto; parve invece a
Silvio che la fanciulla gli leggesse nell’anima qualche cosa che essa
era stata chiamata appunto per non vedere, e che colla sua fatuità
d’innocentina dicesse fra sè e sè: «Egli mi ama ancora!»

Non era vero; Silvio non l’amava più; solamente egli si accusava
di aver desiderato fino all’ultimo che Baingio Marini non fosse più
fortunato di lui. Poichè si amavano ancora, tanto meglio; Silvio li
manderebbe volentieri a farsi benedire.

— E il più presto sarà il meglio, disse, perchè non si sa mai...

Angela si fece rossa a questo sospetto; ma suo zio si affrettò a
chiederle scusa, soggiungendo con accento di celia che questa volta si
vedeva bene che essa faceva sul serio...

Anche Silvio, insomma, recitò la sua parte senza bisogno di
suggeritore, e quando comare Beatrice e Cosimo gli vennero a dire per
la ventesima volta che egli era stato troppo pronto a rinunziare ad
Angela, che prima di cedere avrebbe dovuto provarsi a riconquistare il
cuore della sua fidanzata, egli per la ventesima volta ripetè ridendo
che le fanciulle non isposano mai il primo uomo di cui si innamorano,
che per lo più sposano il terzo; che se Angela sposava il secondo, era
perchè l’ingegnere Marini non le dava tempo.

— Quanto a riconquistare il cuore d’una fanciulla di quattordici
anni, soggiungeva Silvio, comare mia, dovete rallegrarvi meco che io
non abbia pensato neppure un momento a mettermi in quella impresa.
Pensate invece se ciò che è avvenuto prima, fosse seguito dopo! E
poi, che credete? Ho fatto un buon negozio, ho perduto la sposa, ma ho
acquistato un nipote su cui posso fare assegnamento.

Era verissimo. L’ingegnere Marini, dopo avere rubato la fidanzata al
professore, ad ogni costo voleva dargli qualche cosa in cambio, e non
sapeva che cosa, poichè già gli aveva dato la sua amicizia.

— Disponga di me, zio Silvio, gli disse il giorno degli sponsali; io
sono piccino e debole, ma un amico, che voglia davvero, può sempre fare
qualche cosuccia, ancora che sia debole e piccino.

Con queste savie parole egli onorava l’amicizia, ma forse faceva torto
a sè stesso. Non doveva essere poi tanto piccino nè tanto debole, se
arrivava ad intingere la penna nel calamaio d’un ministro, per nominare
Silvio cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Il professore non seppe mai che la prima mossa di quel giochetto era
stata fatta in casa sua, e leggendo nel decreto come qualmente il Re lo
avesse nominato cavaliere «_dietro_ proposta del ministro d’agricoltura
e commercio» si compiacque di vedere che i ministri del regno d’Italia
avevano la vista lunga.

Ma l’ingegnere Baingio non si contentava di così poco; approssimandosi
il giorno delle nozze, egli sentiva il bisogno di pagare un’altra
porzione del suo grosso debito e meditava il tiro di mandare Silvio
al Parlamento. Incoraggiato da Angela, forte delle parentele estese e
delle amicizie vecchie e nuove, lavorando sotto lo stimolo del rimorso,
colla parola e colla penna, egli riuscì ad avviare la faccenda per
modo da non temere più se non una cosa, cioè che Silvio non avesse
ambizioni. Silvio però ne aveva una, di essere apprezzato quanto
valeva dai suoi concittadini — e accanto a quell’una ci potevano
stare comodamente tutte le altre. Cosicchè quando alcuni elettori
zelanti vollero dare ad intendere al professore che erano stati i
primi a pensare a lui come all’uomo nato e cresciuto per essere il
loro deputato, invece di «quell’altro», Silvio, che non era ingenuo,
non credette un’acca, ma non sospettò neppure che la deputazione gli
venisse offerta, come gli era stata data la croce, per merito dell’uomo
che gli aveva rubato la sposa.

Al solito gli fu chiesto di mettere fuori il programma, e questa volta
ancora gli giovò la frase che lo aveva mandato al palazzo comunale.
«Il mio programma, egli disse, eccolo: essere onesto, amare il mio
paese; non ho mai desiderato di andare al Parlamento, ma se mi mandate,
vi andrò a portare una forza: la coscienza.» Belle parole, modeste e
sincere, che lo avrebbero fatto stare a casa, se passando per le bocche
dell’ingegnere e dei suoi non si fossero ingrossate per modo da non
escludere tutto ciò che prometteva «quell’altro», cioè i ponti e i
porti, le strade ferrate e l’incanalamento dei fiumi, le bonificazioni
dei terreni e l’asciugamento delle paludi, le colonie agricole e
l’esenzione dalle imposte.

Intanto che si combatteva la battagliuola segreta dei due deputati, si
facevano le pubblicazioni di matrimonio. E un giorno Baingio Marini e
Angela Boni, legati dal sindaco, benedetti dal parroco, si imbarcarono
per il viaggio di nozze in Terraferma.

Il loro viaggio fu breve. Essi tornarono più innamorati di prima, in
tempo per assistere alla inaugurazione della strada ferrata tra Sassari
e Portotorres.


Quello fu un gran giorno. I Sassaresi se lo ricordano ancora sebbene
di poi abbiano visto una commissione d’inchiesta, un ministro e altre
rarità più pompose d’una locomotiva attraversare i loro campi e le loro
vallate.

I pastori venuti allora dai lontani stazzi della Gallura e della Nurra,
descrivono con linguaggio poetico ai loro figliuoli il gran mostro, che
ha le viscere di bragia ardente, la voce del tuono e una gran lingua di
fumo nero.

Quello fu un gran giorno. A Portotorres erano accorsi a cavallo, colle
loro donne in groppa, quei dell’Asinara e della Maddalena; — quei
d’Alghero, di Castelsardo e di Sorso erano tutti a Sassari, diventata
un grande albergo. Quivi il pittoresco, ma semplice costume delle donne
di Sennori gareggiava col fasto delle belle ragazze di Osilo; e non
mancavano le donne di Nuoro e di Bono, ad affacciare nel chiasso dei
colori le loro teste fasciate di bianco e i loro busti audaci, con una
civetteria mista, di monache e di balie. Nella porta Sant’Antonio, a
Sassari, e dinanzi al mare superbo in Portotorres, furono ballati quel
giorno i più larghi e chiassosi balli tondi, e fu vista saltellare in
quella danza anche la berretta severa di più d’un bandito d’Agius.

Per tutta la via quanto è lunga, attraverso lo sterpeto di San Gavino,
per gli oliveti e le vigne di Sassari, era disseminata una gente varia;
brigatelle plaudenti d’uomini, donne e fanciulli si affacciavano ai
muricciuoli dei poderi; e per salutare il treno, ogni pezzuola divenne
una bandiera.

Fra i pochi banditi audaci, che nella confusione di quel gran giorno
si erano frammisti alla folla, nessuno aveva veduto _Su Mazzone_,
perchè la molta celebrità rendeva a lui molto pericolosa la folla; ma
non perciò egli era mancato alla festa — e quando la locomotiva ebbe
passato fischiando l’ultima linea che separa l’oliveto dalla landa, e
poi che la gente sparsa sui muricciuoli si fu avviata per lo stradone
o per le viottole a Sassari, o raccolta a banchettare nelle case di
campagna, un vecchio, piccolo ma superbo, apparve fra i macigni d’un
_nuraghe_ diroccato, e stette lungamente, collo schioppo in pugno,
colla fronte pensosa, a guardare con diffidenza la via per cui era
entrata nella sua isola la nuova civiltà.

Quel bandito canuto, ritto su quella rovina misteriosa d’un _nuraghe_,
come a rappresentare l’ultima barbarie, scese dal suo vecchio
piedistallo, coll’anima piena d’ammirazione; un entusiasmo gentile era
entrato nel suo cuore superbo; e volle penetrare in Sassari egli pure
e chiedere il nome di quel suo fratello ignoto e lontano che aveva
inventato le strade ferrate, per poterlo ripetere ai pastori della
Gallura e agli echi del monte Limbara. Fu visto e riconosciuto, e gli
toccò fuggire.

Da quel tempo non si ebbero più novelle del bandito; una volta corse
voce che la giustizia l’avesse arrestato dopo un combattimento
accanito; molti Sassaresi si adunarono sullo stradone per veder
arrivare _Su Mazzone_, legato sopra un cavallo, in mezzo ai
carabinieri; e fra questi curiosi era uno a cui batteva il cuore,
Silvio; ma la giustizia giunse anche questa volta a mani vuote.


E accaddero altre cose in due anni lunghi.

Accadde che Annetta si pigliò Giovanni, e che rimasero entrambi a
_Speranza Nostra_, dove tutto il talento comico della servetta fu messo
a larga prova nelle scene di gelosia suscitate dalla barba di Pantaleo.

E accadde che Cecchino Misirolli estrasse un numero basso alla leva
e andò soldato, e scelse di fare il carabiniere per non abbandonare
l’isola.

E accadde che Ambrogio si ammalò e che credendosi giunto alla sua
ultima ora sentì il bisogno di annullare le ultime sue disposizioni
testamentarie con un nuovo testamento, il quale fu scritto alla
presenza del notaio Pirisi, di Giovanni, di Andrea, di Cecchino,
carabiniere appuntato, e di Silvio. Ambrogio con quell’atto solenne
d’ultima volontà nominò suo erede universale il conte Cosimo.

Ma quell’eredità non doveva giovare a quel povero conte, non solo
perchè Ambrogio si affrettò a guarire, ma anche perchè, continuando
a frugare nelle viscere del monte, sopra Iglesias, Cosimo non tardò a
vedere che la ricchezza gli veniva incontro un’altra volta.

Già prima che al piccolo rampollo di casa Rodriguez fosse spuntato
il dente del latte, suo padre aveva comperato i terreni di Ploaghe,
tanto per contentare gli antenati di casa De Nardi, i quali, nelle loro
cornici scrostate, sembravano i soli che avessero preso in mala parte
la rovina della loro vecchia grandezza.

E accadde che Angela e Baingio se ne partirono per andare a farsi il
nido nella miniera; e molte altre cose accaddero che qui è inutile
ricordare. Ma il più importante avvenimento di quei due anni lunghi, se
si bada al rumore che fece, fu certamente la lotta per l’elezione del
nuovo deputato.

La vittoria, non ostante gli sforzi del partito contrario, veniva
assicurata al professore purchè egli andasse in giro per le frazioni
del collegio, a promettere qualche spaccio di tabacco e molte croci
di cavaliere; Silvio si ribellava a ciò con tutte le forze umane, ma
intervenne l’ingegnere Marini, prima con lettera, poi in persona,
accompagnato, s’intende, da Angela, la quale non si sarebbe potuta
staccare nemmeno un giorno dal marito. Quando vide che l’ingegnere
Marini era accorso da lontano per preparargli un trionfo nel collegio,
e che Angela non aveva esitato a mettersi in viaggio anche lei, non
potè resistere e si dichiarò pronto a fare tutto quello che l’ingegnere
volesse, per il bene dell’isola. E l’ingegnere giudicò che la prima
cosa da fare per il bene dell’isola fosse un viaggio a Castelsardo,
dove in un desinare che gli verrebbe offerto dagli amici, ma a cui
interverrebbero le autorità, il futuro deputato potrebbe esporre alla
buona le proprie idee.

Per preparare a Silvio un’accoglienza festosa nel suo paese natale,
l’ingegnere Marini aveva sfruttato ad una ad una tutte le nuove
parentele acquistate sposando Angela; e perchè il desinare degli
elettori di Castelsardo riescisse degno della solennità, egli aveva
strappato al suo talamo il cuoco Giovanni; e perchè la notizia di quel
banchetto politico potesse correre veloce e andar lontano, l’ingegnere
aveva fatto invitare il corrispondente del giornale di Sassari, e si
preparava egli stesso a scrivere in veste di _assiduo_ o di _associato_
al giornale di Cagliari. Non mancava proprio nulla. E veramente il
desinare riuscì anche meglio di quanto si poteva aspettare, primo,
perchè Giovanni fece miracoli di scienza, poi perchè la politica non vi
entrò che a metà, essendo state invitate al banchetto anche le signore.
V’intervennero infatti oltre la signora Beatrice e la giovane signora
Marini, anche la moglie del sindaco e quella del conciliatore. A tavola
Silvio ebbe il posto d’onore, all’estremità della mensa; aveva alla
diritta la sindachessa, a mancina la conciliatrice. Dirimpetto a lui
stava il sindaco, stretto fra Beatrice ed Angela. Cosimo gli si era
messo vicino, proprio accanto alla sindachessa, ma l’ingegnere Marini,
dopo essersi fatto in quattro per lui, lo aveva abbandonato all’ultimo
per stare al fianco della sua giovane sposa.

Tutto quel giorno il povero professore aveva assaporato la lode
espressa nelle forme più schiette ed ingenue; quelle parole
lusinghevoli, dette alla buona, messe innanzi talvolta bruscamente
quasi come un rimbrotto paterno, talvolta come una sentenza brutale,
contro cui fosse vano ogni appello, avevano per lui un sapore agreste.
E già prima che la malvasia di Sorso cominciasse ad andare in giro,
Silvio si sentiva mezzo brillo. Riconosceva ora che un’altra forza si
celava nell’anima propria, e che poteva essere quella stessa che egli
a mente riposata aveva chiamato la propria debolezza, la vanità; gli
piaceva la violenza che veniva fatta da ogni parte alla sua modestia,
perchè si desse vinta; senza avvedersene, pigliava gusto agli assalti
continui e inaspettati, coi quali lo costringevano a riconoscere
che egli era un uomo di gran merito, un agronomo di prima forza, un
economista pieno di senno, un amministratore capace di cose grandi.

L’ingegnere Marini l’aveva avvertito che alle frutta il sindaco gli
avrebbe fatto un discorsetto per dargli il _ben tornato_ in patria, che
dopo il sindaco avrebbe parlato il notaio Piredda, e poi il segretario
comunale, e che un giovane caro alle Muse avrebbe improvvisato qualche
strofetta prima di levar le mense. Il professore era rassegnato a
tutto.

— Lei, zio Silvio, risponda poche parole di ringraziamento; poi
accenni, senza determinare nulla, alle prosperità che l’isola è in
diritto di avere dal Governo e dalla sorte — più dalla sorte che dal
Governo, perchè io credo che alla vigilia di divenir deputato non
convenga mettere il Governo colle spalle al muro; la sorte invece ci si
può mettere.

Così era venuto dicendo, in forma di celia, l’ingegnere Marini;
e Silvio gli aveva dato un sacco di ragioni, aggiungendo che, per
non trovarsi alla mercè della parola e della malvasia, gli sarebbe
convenuto preparare il discorsetto da improvvisare alle frutta. Ma
come fare ora?... Lo sgomento di Silvio fu breve, fin troppo, da non
parer sincero all’ingegnere Marini. E veramente, già degno dei lauri
parlamentari, nella notte il professore aveva scritto e mandato a mente
una magnifica risposta ai temuti brindisi e discorsi.

«Amici — (la sua risposta incominciava così) — permettete che io vi
chiami con questo nome, il solo che mi suggerisca la commozione che io
sento in questo istante — amici, io vi ringrazio con tutto il cuore,
non solo perchè mi avete data una gran prova d’affetto, ma perchè qui
ho inteso generose parole non a me dette, chè io sono poca cosa, ma
all’isola nostra, grande anche nella sua miseria.»

Silvio era sicuro che qualche parola generosa verrebbe pronunciata dal
sindaco o dal maestro di scuola, o che almeno ciascuno degli oratori si
darebbe ad intendere di averne detta più di una — e non ebbe timore che
gli toccasse poi variare l’esordio; piuttosto, ogni tanto, nel portare
il bicchiere alle labbra, quando il desinare era più innocente, egli
veniva colto ad un tratto da uno sgomento tremendo; gli pareva che già
toccasse a lui, e che tutti gli occhi fossero fissi sulla sua bocca
per vederne uscire un fiume di oratoria, e che il discorso della notte
si fosse cancellato interamente dal suo cervello. Titubava un poco,
sorridendo alla sindachessa o alla conciliatrice, ed afferrato il filo,
si provava a ripetere mentalmente: «amici, permettete che io vi chiami
con questo nome, il solo che mi conceda la commozione che io sento...»
Era da compatire; egli non aveva mai parlato in pubblico, il vino
nero di Sorso era tonico come un cordiale, e in faccia a lui Angela,
più bella che mai, continuava a tenere una mano sotto la tovaglia,
voltandosi a sorridere a suo marito, quando egli probabilmente glie la
stringeva più forte.

Approssimandosi il momento dei brindisi, anche il sindaco pareva
inquieto e da un poco stava zitto, e accanto a lui, a diritta, la
leggiadra e buona contessa Beatrice girava i begli occhi confortatori
dal suo Cosimo a compare Silvio. Il segretario comunale picchiò tre
colpi sul bicchiere, e subito fu fatto rumorosamente un gran silenzio.
Il sindaco era già in piedi e parlava.

Egli rivolgeva la parola direttamente a Silvio, dandogli del tu come
nei bei tempi della Sardegna provincia romana. Silvio, cogli occhi
fissi nell’oratore, era commosso dal suono delle parole senza cercar
d’intendere ciò che gli si veniva dicendo. Poi il sindaco sedette, e
scattò in piedi il notaio Piredda. Silvio pensava, guardando Angela, la
quale non aveva occhi se non per suo marito:

«Essa è pur sempre bella! Un giorno volle esser mia; perchè,
interrogando il suo cuore, ne ebbe in risposta che l’amore di zio
Silvio era la sua sola felicità. Io sono stato per lei il più bello,
il più amabile, il più degno degli uomini — essa così ha scritto nel
suo quaderno — ed ora non mi guarda neppure; tutto quel tempo si è
cancellato dall’animo suo.»

Il notaio Piredda si avviava allora a dire dei principali bisogni
dell’isola. Bisognava accelerare l’opera incominciata; la strada
ferrata per ricongiungere Sassari a Cagliari, la città agricola alla
città marittima, si doveva compiere prontamente. (Applausi.)

E Silvio pensava al quaderno in cui avevano letto tante cose insieme,
Angela e lui; si chiedeva che fine avesse fatto quel sacro deposito dei
primi sentimenti della fanciulla, e cercava d’indovinare che faccia
farebbe il marito, quell’ingegnere Marini tanto amabile, che ora
aveva dei diritti sacrosanti sopra Angela, se un giorno gli cadessero
sott’occhio le pagine di quel diario... Senza dubbio Angela aveva dato
al fuoco quel quaderno prezioso, e con esso le lettere di amore di
zio Silvio; se non l’aveva fatto prima di andare a nozze, certo si era
affrettata a farlo dopo, comprendendo che un marito può essere geloso
anche del passato.

— L’avvenire è nostro, disse il notaio Piredda con accento baldanzoso.

«Essa è tutta dell’ingegnere, pensò Silvio; nulla è di lei che non gli
appartenga; essa è tutta sua, anima e corpo, è sua fino all’ultima ora
della vita, è sua fin dal giorno che è venuta al mondo piangendo...»

Il notaio Piredda fece allora un lieto pronostico; egli vide
Castelsardo, diventata una delle grandi fortezze dell’isola, il porto
di Torres ingrandito e scavato, le navi accorrere al granaio di Roma...
«Siamo poveri, ripetè, ma ci rimane l’avvenire.»

«È tardi, pensò Silvio; ho trentasei anni compiti, l’età dell’amore è
passata. Che altro balocco ha la vita? Eccolo: l’ambizione.»

Egli guardò allora comare Beatrice, che sembrava leggergli nel cuore i
suoi sentimenti e fu pronta a sorridergli con dolcezza.

Il notaio Piredda tacque, e tutti gli occhi si rivolsero a Silvio;
toccava a lui parlare, poichè il segretario comunale rinunziava alla
parola.

Silvio balzò in piedi e cominciò storditamente:

— Amici!

Ma si avvide in tempo, tacque un istante come per raccogliersi, si
accertò con un’ultima occhiata che comare Beatrice non istaccava gli
occhi da lui, che perfino la bella traditrice lo guardava tenendo
sempre la mano sinistra sotto la tovaglia, e ripigliò nel gran
silenzio:

— Amici! — permettete che io vi chiami con questo nome, il solo che mi
suggerisca la commozione che io sento in questo istante — amici, io vi
ringrazio con tutto il cuore...


  FINE.



NOTE:


[1] La volpe.

[2] La volpe canuta.

[3] L’_j_ di _graminadojiu_ è la _g_ tempiese (gutturale-dentale),
equivalente alla _g_ latina, come _Jerusalem_, da pronunziarsi tra il
_ge_ e il _ghe_.

[4] _Miciuratu_ dicono in Gallura (e con lieve differenza di pronunzia
in tutta l’Isola) un cibo acidulo composto di latte semi-quagliato e
fatto fermentare con poco lievito.

[5] Che vale che tu lo nasconda e lo neghi ad alta voce? Sono gli occhi
tuoi le prove; nell’amore non vi ha inganno; è pazzia negarlo; peggio è
nasconderlo.

[6] Non sono gli occhi, no, le prove di quanto passa nel cuore.....

[7] Non ti chiedo amore, e nemmeno affetto; so bene che il tuo petto è
di neve, ma non ha cuore; lascia solo che mi agghiacci rimirando la tua
faccia....

[8] Sai che non ho cuore, che come ho la faccia, così ho il petto di
neve, che il ghiaccio non può scaldare nè io provare affetto... Oh!
perchè mi stai ai panni a tutte l’ore?

[9] Per te, bella, dai labbri di fettuccia, era nato Gianmartino; e tu,
alto pino, levati e baciati Nicoletta.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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