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Title: Sorrisi di gioventù : Ricordi e note
Author: Barrili, Anton Giulio
Language: Italian
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                          SORRISI DI GIOVENTÙ


                             RICORDI E NOTE

                                   DI
                          ANTON GIULIO BARRILI



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1912
                       Nuova edizione economica.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

       _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
    per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._

                         Milano. — Tip. Treves.



PREFAZIO.


_Se avete viaggiato molto in istrada ferrata, amici lettori, questo
libro è per voi. Entrando in una vettura di prima (mi figuro almeno che
sia questa la vostra classe preferita) sicuramente non avete potuto
scegliere i vostri compagni di viaggio. Il ministro anglicano con le
figliuole bionde, il vescovo francese col suo segretario_ ad latus,
_il grosso banchiere dalla faccia rasa e contenta, il triste merlo
spennacchiato reduce da Montecarlo, il vecchio bellimbusto ripicchiato
che va a cercar salute e conquiste a Vichy, i due sposini che fanno
vendetta di voi, terzo incomodo, dandovi lo spettacolo di star due ore
stringendosi per mano (gran prova di costanza, che per solito non dura
oltre il viaggio di nozze), tutti costoro, ed altri che ommetto per
brevità, vi sono stati dati compagni dal caso. Padrone di scegliere,
non avreste voluto nessuno in carrozza; obbligato a goderveli tutti,
fate a mala fortuna buon viso, mettete il pioppino sulla rete, accanto
alla valigetta, calzate in testa il vostro berretto di seta, che
auguro non abbia a vestire una palla di biliardo; aprite un giornale, e
leggete quel che vi càpita sott’occhio; anche qui servitori umilissimi
del casa, che tende, intreccia, e qualche volta imbroglia le fila._

_Così sono, così vengono, portati dal caso i ricordi, questi compagni
di viaggio della vita vissuta. Siete partiti di qua, piuttosto che
di là, senza averne merito, o colpa: vostro padre era in sua gioventù
nel tal luogo, dove incontrò la donna che doveva esservi madre: siete
nati di qua per una ragione, siete andati di là per un’altra: la rete
adriatica o mediterranea della vita vi ha presi, vi ha sballottati
nel suo treno misto, introdotti nelle gallerie, librati sui viadotti,
rallentati sui passaggi a livello, trattenuti agli scambi, addormentati
sui binarii morti. Per temperamento o per affari, per divertimento o
per seccatura, per amore o per forza, avete corsa la vostra parte di
mondo anche voi, tristi o lieti, accesi di desiderio, illuminati di
speranza, soffocati di rabbia, abbeverati di fiele. E spesso, di tante
cose belle o non belle, vi torna in mente il ricordo. Son dolorosi, i
ricordi? Sì, qualche volta; ma di un dolore sordo, lontano, attutito,
trasformato, quasi piacevole, se riesce a spremervi dagli occhi una
lagrima artistica. Acqua passata non màcina; le immagini dei tempi
trascorsi son grate, come attraverso le pagine di un libro hanno buon
odore anche i morti. Pensate ai giorni vissuti, che non avete più da
faticare per viverli; richiamate le vecchie pene, che non vi fan più
soffrire, le gioie antiche, sempre nuove all’aspetto, che vi recano
perfino la sensazione di svanite fragranze. Sono i sorrisi della vostra
gioventù, senza le lagrime. Vi annoiano? Sarebbe da ingrati; ma io non
ci ho che vedere: voi potete liberarvene ad ogni modo, richiudendo il
libro della memoria, e provando a dormire._

_Così, come il vostro libro, all’ora fatale della noia, potete
richiudere il mio. Apritelo, intanto: anch’io l’ho scritto, come voi
avete meditato il vostro, toccando qua e là, come portava il caso e
l’umore. Statemi sani._

  _Villa Maura, 16 luglio 1898._

                                                            L’AUTORE.



Figure femminili.


All’alba dei miei ricordi, bella, rosea, bionda immagine di costante
giovinezza, arride la mia nonna dolce. Dico la nonna da parte di
padre; che l’altra non l’ho conosciuta, essendo ella morta prima ch’io
venissi alla luce. Intorno al quale evento modesto sarà bene che io
dica qui il mio pensiero una volta per tutte. È stata una buona cosa il
capitare da queste parti, per le belle curiosità che il mio spirito ha
potuto appagare, per le utili lezioni che il mio intelletto ha potuto
ricevere, e per la calma serena con cui l’anima mia è disposta a vedere
un altro pianeta, ora che è stata sufficientemente istruita di questo.
Io sono dunque riconoscente del dono, quantunque non ne abbia fatto il
miglior uso del mondo; specie negli anni più giovani. Ma questo succede
il più delle volte dei doni ottenuti, che subito lavoriamo a sciuparli,
per la inconcepibile manìa del vederci dentro. Ma queste sono inezie,
da non guastarcisi più il sangue, oramai. Non solamente son grato al
babbo e alla mamma, che mi han fatto quel dono; ma ancora alla nonna,
che me ne ha confermato il possesso, in un brutto quarto d’ora, e me ne
ha reso il godimento più ameno. Com’era buona, la nonna! Babbo e mamma
mi sgridavano qualche volta; lei non mi sgridava mai, me le passava
tutte, non riuscendo con quelle care luminose pupille azzurrine a
farmi gli occhiacci. Mamma e babbo mi stavano sempre addosso per farmi
studiare; lei non mi pose mai un libro tra le mani. Provvida, forse!
Ma fors’anche è da credere che non lo facesse lei, perchè a questo ci
pensavano gli altri. A buon conto, poichè da bambino dormivo nella sua
camera bella, era lei che mi faceva ogni mattina star su di buon’ora.
Ma questo lo faceva con una frottola in versi, mezzo italiani e mezzo
genovesi; ond’io, per virtù sua, incominciavo sempre le mie giornate
ridendo.

L’amavo molto, vi ho detto, anzi, per confessarvi ogni cosa, l’amavo
sul principio anche più della mamma. Ancora non sapevo che il dar vita
costasse dolori. Per sentito dire, io ero venuto dall’India e stato
ritrovato al piè d’un olivo: gran fatica, farmi prendere in collo da
una levatrice e portare a casa per erede del trono! Sapevo invece che
un anno dopo il mio arrivo dall’India, la mia piccola vita era stata in
pericolo grande, e che dal pericolo mi aveva scampato la nonna. Questo
si ricordava ad ogni tanto in famiglia; ed era anzi questa la ragione
per cui la mia mamma lasciava correre spesso e volentieri qualche
parola acerba della nonna. Si sa, nelle famiglie, tra suocera e nuora
tempesta e gragnuola; ma in casa nostra non erano altro che scosse di
pioggia; le nubi, così facili a sorgere sull’orizzonte domestico, erano
ancor più facilmente dissipate dal grato episodio della mia salvazione
miracolosa. Sicuro, accanto al sostantivo c’era sempre l’epiteto.

Figuratevi, ero stato messo a balia, contrariamente ai precetti di Gian
Giacomo; e mi avevano mandato a vivere nell’alta valle di Albisola,
un po’ più su del convento della Pace, in una casa colonica detta la
Vedrera, piantata assai pittorescamente, ma non troppo saldamente,
tra la via della Stella e il torrente Riobasco. La mia balia era
bellissima, per quanto ne ho udito dire più tardi (allora, per ragioni
facili ad intendersi, ad onta di tutta la confidenza che ci avevo,
non feci attenzione alla cosa); ma era anche giovanissima, e sbadata
parecchio. Mi trascurava, a quanto pare, lasciandomi solo per ore ed
ore di seguito, a strillare in una cesta da cavoli; per giunta, dopo
qualche mese di pensione, prese a darmi il latte cattivo.

La nonna capitava spesso lassù; da principio per sincerarsi che non
pericolasse la casa, così fuor di squadra come era; poi per vedere
se fossi ben governato. Una volta, giungendo fuor d’ora, mi aveva
trovato solo a strillare; e la balia, tutta confusa, quando, finalmente
arrivò, aveva balbettata una scusa. Ma di questi casi ne seguirono
parecchi; e le scuse, sempre tutte d’un colore, contentavano poco la
nonna. S’aggiunse il latte cattivo; ma di questo non si sospettò a
tutta prima, attribuendosi il mio deperimento a tante piccole cause
passeggiere, ora al caldo, ora ai bachi, ora allo sforzo del primo
dente. Per altro, il primo dente non accennava a spuntare; non potevo
avere i bachi ogni settimana; il mio sfiorire così a vista d’occhio
non poteva essere effetto del caldo. La nonna ebbe presto un sospetto
del vero, e corse tosto agli estremi rimedii; capitò una mattina con
la vettura fino all’ingresso della Vedrera; mi fece prendere in collo
dalla balia, e mi portò di volo a Savona, nella nostra villetta del
Bricco, sulla rocca di Lègino, consegnandomi al seno meglio provveduto
di una nostra massaia; donna matura, che aveva avuta una tarda ripresa
di maternità, e che, svezzato di quei giorni il suo ultimo rampollo,
aveva ancor latte per un succedaneo.

Passavo da una ventenne a una quadragenaria; tanto per cambiare, ma
anche per cavar profitto di una differenza che non pensavo a studiare,
Lauretta Sambarino, che tale era il nome della mia nuova balia, lavorò
di buzzo buono a ristorarmi; e prima di tutto mi fece rialzare la
testa, una gran testa, Dio santo! che già cominciava a spenzolare come
un fico brogiotto quando è maturo, e il picciuolo vizzo non basta più
a reggerlo. Ma essa non mi rimise in gambe egualmente; anche levato da
balia e ricondotto in città, ne strascicavo una, toccando terra con la
noce del piede; tanto che si temette non avessi a restarne storpio per
tutta la vita. Sia lode al cielo, che non si è avverato il presagio, e
respirino le ombre di lord Byron e di Walter Scott. Ma c’è scattato di
poco, che quei due zoppi non avessero un famoso rivale.

Questi sono ricordi, per così dire, di mattonella. I miei proprii,
quelli che mi dànno la sensazione della cosa veduta, sono dell’età
di due anni e mezzo. Mi ricordo ancor oggi, come ero allora, sul
lastrico della piazza del Duomo, tenuto per le falde di una buona
donna, chiamata Angelina, il cui nome, e più il vezzeggiativo, si
adattava male alla sua gran mole carnosa. Era alta come un corazziere,
e stentava a piegarsi nella vita; grossa, tonda di fianchi come un’orca
olandese; e si dondolava sulle anche, facendomi muovere davanti a sè,
come un povero burattino dalle gambe cedevoli. Ma aveva un bel sorriso,
quella barcaccia di donna; ed anche una bella voce, di buon metallo,
non estesa di registro, ma pastosa e flessibile, quasi lisciata,
inumidita da quell’ammasso di sugna ond’era costretta ad uscire, e in
cui mi pareva sempre di affondare, quando ero stanco di ciampicare
e l’orca olandese m’issava benignamente in coperta. Davanti a me,
camminando a ritroso come i gamberi, per invitarmi al passo, era sempre
una fanciullina di quattro o cinque anni. La conoscevo per Gigina, ed
era invece Filippina. In casa nostra la chiamavano anche «la figlia
della Graziosa» perchè questo era infatti il nome della madre, moglie
ad un tal Giribone, cuoco, o maestro di casa che fosse, certamente
_factotum_ dei signori Multedo, gente nobile e ricca di Savona.
Gigina, anzi «Gigin Patata Poton» come la grossa bambinaia m’insegnava
a dire, per aiutarmi a rincorrerla, era bionda, gentile, gracilina a
quel modo, ma ritta se Dio vuole; io mezzo storpio, e in procinto di
rimaner tale per tutta la vita. Capricci della sorte! io mi raddrizzai,
rincorrendola; ella si raggrinzò, crebbe a stento rachitica, e qualche
anno più tardi, morti i parenti suoi, mentre io facevo le capriole
sulle rive del Paglione, a Nizza, dove i miei erano andati a metter
dimora, fu ricoverata tra i Madonnini. Così chiamano a Savona i
poverelli, ricoverati nell’ospizio della Madonna, attiguo al santuario
suburbano di Nostra Donna della Misericordia.

Anche lontano, e nell’età in cui più facilmente si dimentica, ebbi
sempre la buona Filippina nell’anima. All’età di cinque anni, o poco
meno, ritornato con la famiglia a Savona, chiedevo ancora di «Gigin
Patata Poton». Quando mi dissero che era stata messa tra i Madonnini,
non capii nulla; ma istintivamente piansi molto, tanto che fu
necessario condurmi a vederla. Abitava in un bel palazzone, sopra una
gran piazza alberata, la mia buona Filippina; e l’ingresso del portone
era fiancheggiato da statue di gran personaggi, che gettavano monete
a bizzeffe, avendone dei mucchi da’ piedi, che si potevano toccare con
mano, ma non altrimenti levar di là per metterle in tasca. L’ingresso,
il vestibolo, lo scalone, tutte le bellezze monumentali del palazzo, mi
diedero un’idea maravigliosa dell’alloggio di Filippina. Ed anche lei,
quando la vidi, mi parve contenta. Povera piccina! lavorava di cucito,
come avrebbe fatto a casa sua; ma anche mangiava e dormiva alle sue
ore, come a casa sua non avrebbe potuto più fare. Vestita di bordato
turchino, con un grembiulino bianco, mi parve che stesse anche bene.
E così la vedevo ogni anno, nelle grandi solennità, come quella del
Corpus Domini, quando i Madonnini, uomini e donne, vecchi e giovani,
venivano in processione a Savona. Bella festa, con quei parati di
damasco rosso e verde a tutte le finestre, con quei nembi di fiori di
ginestra che cadevano a far tappeto lungo le strade, con gl’incensi che
fumavano, con la musica che suonava, seguitando il Santissimo! Ma io
avevo occhi soltanto per i miei Madonnini, e tra essi non distinguevo
altro che Filippina. Tre, quattro volte, quante ne permettevano i giri
lunghi della processione, ora da un crocicchio, ora da un altro, vedevo
passar Filippina: e tutte le volte, vedendomi, Filippina mi sorrideva,
facendosi rossa. Perchè quel sorriso m’inteneriva, destandomi dentro
una gran voglia di piangere? Non lo intendevo, allora; non conoscevo
ancora il segreto del riso malinconico, del riso che nasconde le
lagrime. Più facilmente notavo il color di fiamma che le tingeva le
guance, rendendo più bello il suo visino smunto. Sicuramente, quelle
vampate di sangue erano le uniche di cui si rifiorisse un poco, durante
l’anno, il suo involucro di cera.

Poi venne per lei l’età giovanile, quando la fanciulla incomincia a
sentirsi donna. A quell’età il povero involucro di cera si disfece;
Filippina morì. Povera bambina, che della vita ha conosciuto solamente
il dolore! Ma se Dio è giusto, quella povera carne gli sarà molto
vicina, perchè ha molto sofferto. Per me, se mi avverrà mai di andare
lassù, e di trovarmi faccia a faccia con quello che i nostri dotti
nei loro momenti di bontà si degnano di chiamare l’Inconoscibile, gli
domanderò per la prima cosa:

— Padre nostro, dov’è Filippina? —

Ritorno alla nonna. Ero il suo nipotino; mi aveva salvata la vita:
naturalissimo adunque che io fossi due volte il suo idolo. Veramente,
nella sua idolatria non mancava un po’ di amarezza. A quattro anni, o
giù di lì, non avevo più i bei capelli biondi ricciuti, che erano la
sua delizia. E se la prendeva spesso con mia madre, con le serve, con
tutte le persone di casa, che accusava formalmente di avermi rovinati
i capelli con l’unto, facendoli diventar neri e stecchiti. Aveva delle
idee tutte sue, in materia di chimica. «Ed era nato coi capelli d’oro
come i miei!» gridava ella, stizzita. «Vedete un po’ come me l’hanno
assassinato!»

La nonna si teneva molto dei suoi capelli d’oro. Quando io giunsi
dall’India, ella aveva già cinquantanove anni, ed io me la ricordo
appena dai sessantadue in giù; ma io la vidi sempre coi suoi bei
capelli dorati, coi riflessi di zecchino, come quelli delle dame del
Cinquecento, eternati dai pennelli di Tiziano e di Paris Bordone. Ed
erano suoi, ben suoi, quantunque posticci; poichè il suo frontino,
fatto di due larghe staffe, spartite nel mezzo e rigirate sopra
gli orecchi, era tutto di capelli nati sulla sua testa, raccolti
diligentemente a mano a mano che restavano impigliati nel pettine, e
messi insieme da un parrucchiere artista. Quel frontino poteva dirsi il
suo richiamo di gioventù, del tempo felice in cui era stata bellissima.
Ed era ancor bella in vecchiaia, colla sua faccia ovale di perfetti
contorni; la fronte bianca senza una ruga, sotto quelle due staffe
dorate; il naso diritto e fine; stupenda la bocca vermiglia, che non
aveva ancor l’aria di succhiarsi le labbra, quantunque i denti fossero
andati via tutti; rosea la carnagione, quasi perlata nei suoi dolci
riflessi; gli occhi azzurri e limpidi, che brillavano lietamente ad
ogni sorriso del volto. A ottant’anni, la sue mani, le braccia, le
spalle, apparivano ancora una maraviglia di conservazione.

Era nata dei Bosco; una famiglia genovese, forse discesa da Bosco
Marengo, certamente illustrata nel Quattrocento da quel Bartolomeo
Bosco, famoso giureconsulto, che le sue molte ricchezze aveva lasciate
per testamento alla fondazione dell’ospedale di Pammatone. Impoveriti
(e non se ne dolsero) da questa grande liberalità, gli eredi del suo
nome non avevano più raggiunta l’altezza di lui sull’altalena della
cieca fortuna; ma parecchie generazioni di onesti mercanti e banchieri
fecero testimonianza di operosità non mediocre. Le vicende politiche e
commerciali, nella seconda metà del Settecento, ne avevano tratto un
ramo a Savona, donde assai più tardi alcuni rampolli dovevano ancora
restituirsi a Genova, ma lasciandone altri nella lor sede temporanea.
Tra questi la signorina Francesca, andata sposa al mio nonno paterno.
Di un altro parente lontano ho ricordo, che per tale me lo dava
il casato dei Bosco, e lo stesso nome di Giulio, comune in quella
famiglia. Caduto in bassa fortuna, non era altrimenti precipitato in
umile condizione: io lo conobbi e lo amai, distributore di libri, nella
civica biblioteca della mia terra natale.

La nonna bella non sapeva stare senza di me. Piombata un giorno
improvvisamente a Nizza, dove come ho detto, si era ridotto mio padre
per invigilar da vicino certi interessi di famiglia, tanto disse e
tanto fece, che persuase il figliuolo a ritornare in Savona. Durante il
soggiorno di lei a Nizza io imparai, fanciullino, a smontare orologi.
La nonna ne aveva uno bellissimo, di stile antico, tra il Consolato
e l’Impero, col quadrante a giorno, contornato d’una fila di perle
orientali, e il coperchio posteriore tutto di smalto turchino, con
una gran cappellina di paglia dipinta nel centro, e nella cappellina
un amorino mezzo nascosto tra le tese allargate. Quell’orologio era
il mio sogno: che cosa non avrei fatto, per possederlo! almeno almeno
per brancicarlo un poco! Ma il caso venne presto in aiuto al mio
desiderio. Andando una domenica a messa in Santa Reparata, la nonna lo
aveva dimenticato sulla lastra di un cassettone. Adocchiata la preda,
mi arrampicai su d’una seggiola; abbrancai l’orologio; lo guardai per
tutti i versi; trovai il modo di aprirlo, e, non so come, anche di
smontarne la cassa. Niente atavismo, badate; non ci sono mai stati
orologiai in famiglia: del resto, io non venni a capo di ricomporre ciò
che avevo così bene disfatto, e la mia precocità nella orologeria fece
in quella occasione la sua unica prova. Di molti orologi posseduti in
processo di tempo feci sempre un uso più saggio.

Per ritornare a quello, ecco che cosa intervenne. Rientra la nonna,
e cerca il suo orologio. Ahimè! l’orologio non si trova. Chi lo ha
preso? Tempestano di domande la gente di servizio, ma invano; la
coscienza offesa freme nelle risposte; l’innocenza traluce dagli occhi.
Ma non dai miei, pur troppo, quando sono interrogato a mia volta.
Nego, nondimeno, e si è già sul punto di credermi; allorquando, oh
confusione! rovistando febbrilmente da per tutto, la mamma trova il
corpo del reato, nascosto nel mio tettuccio, tra la materassa e il
saccone. Avrei dovuto ricevere una correzione, tanto salutare quanto
sollecita. La giustizia era pronta; ma la parte lesa si oppose, domandò
grazia per me. Cara nonnina bella, come ti ho abbracciata quel giorno!

Quando si ritornò sulle rive del Letimbro, feci la strada accanto a
lei sul davanti della diligenza. Rammento, di quel poetico viaggio tra
il verde e l’azzurro, una fermata di poche ore a San Remo, e certe ova
sode sgranocchiate in un giardino, a colazione, dal canonico Bonetti,
vecchio amico di casa. Quel giorno mi innamorai d’un calice con la
sua patena d’argento dorato, e dichiarai solennemente di voler fare il
canonico. Anzi, dirò di più, quella passione mi durò qualche anno: ma
quando poi mi fu detto che per diventar canonico dovevo incominciare
dal farmi prete, mi passò tosto la voglia; e il canonicato finì, come
era finita l’orologeria.

A Savona venne presto il tempo di mettermi a scuola. Mi piaceva lo
studio, ma non eccessivamente; piuttosto il giocare alla palla, e il
far la sassaiola. Pure, bisognava studiare, far bene i còmpiti e saper
la lezione, per vincere. Infatti, era una battaglia anche quella. Ma
io trovavo il modo di aver qualche oretta per me, tenendo compagnia
alla nonna. Dormivo nel suo quartierino, che era un piano sotto a
quello dei miei. La nonna andava spesso e volentieri a passare le belle
giornate in villa, anche nelle mezze stagioni; ed io, allora, non che
dormire, pranzavo e cenavo da lei. Quando in villa ci si veniva tutti,
per l’estate e l’autunno, anche la nonna abitava nel palazzotto, sul
colmo del Bricco, dugento passi più indietro da quel gran pino ad
ombrello che vigila ancora la mia dolce Savona. Ma quando ci andava per
conto suo, la nonna si recava ad abitare presso certi suoi fittaiuoli;
non dai Sambarino, che avevano il podere in alto, ma dai Cheti, che
tenevano quello più al basso della collina, verso ponente. In quella
casa colonica si era fatte aggiustare un paio di camerette, con un
terrazzino; ed io, naturalmente, ero sempre con lei. Che giorni felici!
Mi alzavo a bruzzico, per ripassar la lezione e fare in fretta il mio
còmpito; poi, alle sette e mezzo, con una galoppata di venti minuti,
ero alla scuola in città. Alle undici, altra galoppata in su, per far
colazione: al tocco da capo in iscuola, per risalire, dopo le cinque,
e sempre galoppando, in collina, e per cenare alle sette, ma dopo
aver scalati tutti i ciliegi, tutti i peri, secondo le stagioni, o
i fichi, i peschi, gli albicocchi della villa. E ciò senza far torto
alle siepi, ai roveti, ai corbezzoli, per levare il pane quotidiano
ai tordi, ai pettirossi, ai cardellini, agli scriccioli. Quella vita
di parecchi anni in moto continuo era la mia gioia, e fu anche la
mia fortuna. Non c’era fossato, non fratta, non angolo di bosco, che
io non conoscessi. E conoscevo ancora tutte le serpi del vicinato,
che andavo a disturbare, con la mia mania di raccogliere gli sparagi
selvatici per ripe e ciglioni. Anch’esse mi conoscevano; probabilmente
si erano avvezzate a me, perchè mi lasciavano fare. Un giorno ne vidi
due, artisticamente avviticchiate, e stetti lungamente immobile ad
ammirarle, immaginando che dèssero spettacolo per me, credendomi il
dio Mercurio. Ero fresco di mitologia, capirete; ma non giunsi fino
al capriccio di fabbricarmi un caducèo, quantunque avessi in pugno una
bella verghetta di frassino, che pareva fatta a posta per ciò.

Quella stupenda maniera di vivere non poteva durare eternamente. Finiti
gli studi classici, dovevo passare a Genova. La famiglia mi mandò
solo; ma poi si risolse di tenermi dietro. La nonna, già avanti negli
anni, e naturalmente ligia alle sue consuetudini, non seppe adattarsi
a quell’èsodo. Ma io partivo spesso da Genova per andarla a trovare.
Cara nonnina bella! ora che ci penso, debbo confessare a mia vergogna
eterna, che accanto al piacere di rivederla si muoveva in me il vile
desiderio di toccare qualche genovina, o qualche doppia di Savoia, in
aggiunta agli scudi che di tanto in tanto venivano a trovarmi, nascosti
nel fondo di qualche paio di calze. Ero la speranza di quella donna;
a contentarla, a pagarla di tutti i suoi sacrifizi, bastava che io
diventassi un grande avvocato. Non l’ho contentata, pur troppo; ma per
contro non le ho fatto il torto di diventare un avvocato piccolo, un
mezzorecchio, un cavalocchio, un paglietta.

Le ho dato in quella vece un dolore, senza volerlo, e grandissimo,
nel ’59, arruolandomi soldato nell’esercito piemontese. La mia
cara nonnina si era formato in testa un suo particolare concetto
della vita militare. Ne aveva veduti dei soldati; ne aveva veduti
a centinaia di migliaia, dal Bonaparte in giù; perchè il marito suo
era stato fornitore di truppe in tutta la lunga zona della Riviera
occidentale, da Nizza a Genova, prima sotto i Francesi repubblicani
e l’Impero che ne seguì, poi sotto i Reali di Sardegna, lasciando nel
’31 in quell’ufficio gli eredi. Forse per ciò, non vedendo i soldati
sott’altro aspetto fuor quello dei tempi andati, ella non poteva
immaginarseli nel ’59 altrimenti che come povera carne destinata
a servire, a soffrire. Ed ancora; si mise forse in mente che io,
morto da pochi anni il babbo, mi fossi fatto soldato per bisogno?
La poesia dei volontarii non era fatta per entrar più nel suo capo?
Avrei dovuto correr da lei, prima di avviarmi in caserma, e tentare
almeno di spiegargliela io. Non lo feci, e me ne chiamo in colpa;
perchè ella si accorò di una risoluzione che le giungeva così nuova
e così inesplicabile, me lo scrisse, e si ammalò subito dopo. Ebbi
notizia della gravità del suo stato, quasi nel medesimo tempo che aveva
ricevuto la sua lettera di amoroso rimprovero. Disperato, temendo
di non veder più quella cara vecchina, che era entrata allora nel
suo ottantaduesimo anno, mi feci presentare al generale comandante
la divisione di Genova, che era il conte Biscaretti di Ruffia; gli
esposi il mio caso tristissimo, ed ottenni da quel degno gentiluomo
una licenza di tre giorni; rarissimo favore, in quei momenti di
preparazione febbrile. Rubavo tre giorni alle esercitazioni frettolose,
che in due settimane dovevano farci soldati, e mandarci utilmente
al fuoco. Ma erano così facili, quelle esercitazioni! specie per me,
che già, precoce guerriero, avevo impugnato il fucile della guardia
nazionale e fatte le mie ore di sentinella al palazzo municipale di
Genova. Montai in diligenza la mattina seguente; dopo cinque ore di
viaggio ero a Savona; corsi a casa, trafelato; troppo tardi! troppo
tardi! Era spirata da pochi minuti, e non potè vedermi al suo letto di
morte, la mia cara nonnina.

Ma se ella non mi vide più con gli occhi azzurri, mi sentì certamente
con ciò che sopravvive di noi più sereno e più puro. E così mi sente
ella sempre; perchè non passa giorno che io non pensi a lei. E un certo
che vaporoso e gentile, profumato ed arcano, mi accarezza le tempia,
mentre rivedo il volto roseo di lei, le labbra vermiglie, i begli occhi
azzurri, i capelli biondi, ben suoi, sotto la cuffiettina di tulle e
sotto il lembo del pezzotto di mussolina, l’antica e graziosa foggia
delle donne genovesi.

Cara nonnina dolce, quanti anni son passati oramai! Pure, sei sempre
qui, sempre qui. Non son diventato niente di ciò che volevi tu, niente
di ciò che io medesimo sperai, ne’ miei giorni migliori. Ma se tu
vedessi almeno che bella novità! Non ho più, sai? non ho più quei
capelli così neri, che ti spiacevano tanto.



Il maestro Segni.


Era l’anno.... Ma no, non me lo fate dire. Quando penso ai fatti
della mia prima età, li vedo tanto lontani nel tempo, attraverso
una varietà così inviluppata di eventi, che davvero mi sembra di
aver raggiunta l’età di Matusalem. Lasciatemi usare piuttosto di
un prudente eufemismo. Era l’anno che imparai a leggere; e il mio
maestro in quell’arte era il signor Segni, il nobile signor Luigi
Segni, datosi per disperato al più nobile tra tutti i mestieri, ma
sempre un mestiere, ed ingrato, che è quello d’insegnare l’abbicì
alle nuove generazioni. C’è della gente che nei più umili uffizi reca
una dignità così semplice, o una semplicità così dignitosa, da far
pensare al prete, quando dice la messa. E infine, che cosa fa il prete,
all’altare, se non l’offerta a Dio di tutte le miserie dell’umanità?
Quella gente offre le sue, e tutte quelle de’ suoi pari, senza dolersi,
senza imprecare, senza far paragoni.

Pure, se si fosse lagnato, il nobil uomo ne avrebbe avuto, non una, ma
parecchie ragioni. Il casato doveva ricordargli ben altare promesse
della vita; e la sua gioventù meglio ancora. Egli aveva vissuto,
da giovane, un bel sogno glorioso; era stato soldato di Napoleone,
e col grande guerriero aveva passeggiata rumorosamente l’Europa.
Fantaccino? cavaliere? artigliere? Non so. Da bambini, si osservano
molto i particolari, ma non si ha ancora la curiosità, nè l’usanza
di chiederli. Comunque avesse viaggiato e combattuto, il nobile
Segni poteva compiacersi delle sue grandi memorie. È una bella cosa
avere nella propria vita qualche pagina eroica; serve, se non altro,
a consolarci di tante pagine volgari, che ci dobbiamo leggere, o
scrivere.

Ora che ci penso, mi pare di poter dire che avesse servito in
cavalleria. Rimpicciolito, ai miei tempi, quasi raggranchito dall’età,
sicuramente era stato più alto; e quelle sue spalle curve indicavano
l’uomo che è vissuto lungamente in arcione, all’eterno sbatacchio
della cavalcatura. Su quelle spalle pareva che il poveraccio portasse
il peso della campagna di Russia. Ma nel fatto ci portava ancora un
ferraiuolo di panno turchino, spelacchiato, sì, ma senza una macchia,
sormontato da un gran, bavero di velluto, non più nero da un pezzo, ma
senza traccia da untume, o di forfora. Di mezzo agli orecchioni di quel
bavero appariva un fazzoletto di tela batista, girato due volte intorno
al collo e annodato sotto la gola con un nodettino minuscolo; e sopra
quel bavero, sopra quel fazzoletto, tondeggiava una faccia di mela
carla, già vizza, ma rosea, ravvivata da due occhietti neri, luccicanti
nelle palpebre rossicce, e contornata da un’aureola di capegli bianchi
dorati, che sbucavano a ciocche da una berretta di panno nero, con la
visiera di cuoio lucido, molto somigliante a quella dei generali russi
e prussiani. Berrettacce antipatiche! preferisco l’elmo, nei militari;
nei borghesi, Dio mi perdoni, mi adatterei piuttosto alla tuba.

Era dunque pulitino a quel modo, il signor Segni; e non aveva da
vivere! Non pensione di riposo, se ben ricordo; non parenti ricchi,
non famiglia, nè persone di servizio. Nella via Quarda Superiore della
mia città natale, è una casa, a man destra, detta la Torre; quella
casa ha un pianterreno, sollevato di parecchi gradini dal piano della
strada; a quel piano terreno, di contro all’ingresso, si apre un uscio
che mette in uno stanzone, non so bene se solo, o accompagnato da
qualche bugigattolo. Là dentro abitava il signor Segni, e c’insegnava
a leggere ad una ventina di ragazzi, che gli pagavano, per cotanto
uffizio, chi una e chi due lire al mese. Non rammento più se insegnasse
anche a scrivere; mi pare di no. Era un digrossatore d’intelligenze;
preparava la materia prima, per gli sbozzatori di seconda mano. I babbi
e le mamme che avevano troppa molestia in casa dai loro folletti, e
ancora non potevano farli ricevere alle scuole elementari, li mandavano
volentieri dal signor Segni. Quei folletti ci andavano la mattina,
intorno alle otto; ne uscivano al mezzodì, per rientrarci al tocco e
restarci fino alle quattro, o alle cinque, secondo le stagioni. Di
libri non c’era di bisogno; si portava la colazione, o la merenda,
in un canestrino, come fanno ora i ragazzi degli asili infantili.
Con noi viveva, e di noi, il povero vecchio, avanzo delle guerre
napoleoniche. L’insegnamento suo non aveva mestieri di lavagna, nè di
abbecedario; consisteva nella esposizione di tanti quadratini di legno
bianco, sui quali erano scritte le ventiquattro lettere dell’alfabeto,
nella loro doppia forma, maiuscola e minuscola. Scompigliava i suoi
pezzetti; poi ne prendeva uno a caso, lo alzava alla vista di tutti, e
domandava: che cos’è questo? Tutti ad una voce si doveva rispondere. Se
qualcheduno sbagliava, egli con una facilità meravigliosa distingueva
nel concerto delle voci l’autore dello sbaglio; e allora si fermava
a fargli osservare le particolarità della lettera mal conosciuta,
aiutando la nostra memoria con gli esempi, le somiglianze ed altri
artifizi mnemonici. Dovevamo ricordare che la S somigliava al serpente;
la X alla croce di Sant’Andrea; il B a due gobbe sovrapposte, e
via discorrendo. Poi ripigliava a far leggere; e quando metteva
due legnetti di costa, dovevamo leggere la sillaba. Così mi sono io
impratichito nelle lettere; coi legnetti! Il mio critico inglese, che
anco attraverso agli esercizi traditori di qualche graziosa _blue
stocking_ ha saputo riconoscere il mio «stile legnoso», saprà ora
dond’esso mi viene, per trasmissione ereditaria; e vada superbo della
sua perspicacia.

Finita la scuola, capitavano le fantesche a ripigliarsi i folletti.
Il signor Segni, immancabilmente ogni giorno, accompagnava lo sciame
all’ingresso, raccomandando di non ruzzolane per la gradinata e di non
far chiasso per via. Ma era più facile non ruzzolare, che astenersi dal
far chiasso. Regolarmente ogni giorno si faceva la ridda sull’uscio,
attaccando la cantilena beffarda:

    Signor Segni
    Mostra legni!

ripetuta un centinaio di volte, dal portone della Torre, fino alla
svolta della strada. Ed anche regolarmente ogni giorno il signor Segni
andava in collera, minacciando con la mano distesa uno scappellotto,
che, ad onor suo debbo dirlo, non dètte mai a nessuno. Ci voleva
bene, quel vecchio solitario; e quand’anche non ci avesse voluto bene
per noi, doveva volercelo per quelle due lire, per quella liretta
mensile. Povero naufrago della vita! Era ancora una fortuna per lui,
aver trovata l’annua sequela di quei venti o trenta folletti, che gli
assicuravano il pane quotidiano, e l’alloggio nella Torre.

Come mangiava, il nobile signor Segni? Già ero uscito dalla sua scuola
per innalzarmi a cose maggiori, e ancora, non sapevo nulla dei suoi
pasti. Noi gli avevamo sbocconcellato sotto gli occhi ogni ben di Dio,
pan francese, frutta, ciambelle, dolciumi, non offrendogli mai nulla,
non pensando neppure che gliene potesse correr l’acquolina alla bocca.
E il giorno di Natale, il gran giorno delle allegrezze di tavola, dove
lo faceva egli? Ci pensai una volta, e proprio un mattino di Natale,
quando la mamma mi disse: «Senti? saresti capace di fare un’imbasciata,
ma per benino, senza perderti tre ore in istrada, secondo il tuo
solito? Dovresti andare fino al porto, a bordo del «Lazio», e invitare
da parte nostra il cugino Francesco a far Ceppo con noi. È un giorno
che va fatto in famiglia; e chi non ci ha la famiglia, deve farlo dai
parenti.» Promisi di far presto e bene, tanto mi piaceva di andare a
bordo del «Lazio», che era un bastimento del mio nonno paterno, e dal
mio cugino Francesco, che ne era il capitano. Ma prima di correre,
avevo domandato a mia madre: «E chi non ha parenti dove lo fa?»

— Dagli amici; — mi rispose mia madre.

— E chi non ha amici? — incalzai.

— Tristo chi non ne ha, perchè non ha meritato di averne, o è stato
tanto disgraziato da non trovarne! —

Così aveva replicato la mamma; ed io, parendomi di aver mascherata
abbastanza con quei discorsi la mia voglia di scappar fuori, insaccai
le scale per correre al porto. Dalla piazza della Maddalena al
porto non era un gran tratto. Si rasentava il palazzo dei Multedo,
si lasciava la via degli Orefici a destra e la Quarda Superiore a
sinistra; s’infilava un archivolto, si riusciva in piazza Colombo, e
la calata era là, in fondo alla piazza, coi suoi bastimenti accostati.
Era un affar di due minuti, con le gambe di sette anni che avevo. Ma
alla svolta di via Quarda mi tornarono a mente le parole della mamma.
E dissi tra me: «Povero signor Segni, quest’oggi! Non ha famiglia, non
parenti, nè amici.»

Non amici! Ah, questo, poi! E mi avvenne, così pensando, di non infilar
l’archivolto, ma di svoltare a mancina, verso la Torre. Dove sarà il
signor Segni, a quest’ora? Lo troverò in casa? Casa, per modo di dire;
sapete già che era uno stanzone, d’aspetto così così, tra la cantina e
il granaio.

L’uscio era chiuso; bussai. Venne il signor Segni ad aprirmi, il signor
Segni senza il peso del ferraiuolo sulle spalle, ma sempre con quello
della campagna di Russia. E doveva anche, così, in maniche di camicia,
aver freddo come al passo della Beresina, quantunque in mezzo alla
camera ci fosse un caldano acceso, su cui il nobile vecchio aveva messo
a bollire un pentolino, donde, insieme col fumo, saliva alle nari odor
d’aglio e cipolle.

— Vedi? — mi disse il mio antico maestro. — Si fa Natale anche noi, col
pan cotto.

— No, signor Segni, — balbettai, — mia madre....

— Ebbene, che cosa vuole tua madre?

— Che lei venga a far Natale da noi. Si pranza al tocco, sa?

— Ma io....

— Badi, l’aspettano. Io ora debbo correre al porto, per avvisare il
cugino Francesco.... il capitano del «Lazio»... Anche lui, qua di
passaggio, è senza famiglia; fa Natale con noi. —

Il signor Segni voleva aggiungere qualche cosa; ma io gli guizzai dalle
mani, per timore che mi dicesse ancora di no. Corsi al porto; montai
a bordo del «Lazio»; feci l’imbasciata dei miei al cugino Francesco;
trovai ancora il tempo d’inerpicarmi sulle sartie, facendomi abbaiare
dietro dal cane di bordo e rincorrere dal nostromo fin sopra alla
crocetta dell’albero di mezzana; dopo di che, ricevuto un amorevole
scapaccione dal capitano e il biscotto dell’ospitalità dal dispensiere,
balzai sulla calata, e due minuti dopo ero a casa.

— L’hai fatte le cose per bene? — domandò mia madre.

— Sì, e verranno tutti e due.

— Tutti e due? C’è qualcun altro, dei nostri parenti? Il Domenichino
forse?

— No, nessun parente.

— Allora?....

Allora, bisognò raccontare ogni cosa. E mi esciva male, dalla gola, il
racconto della mia duplice impresa.

— Infine, — conchiusi, — non mi hai detto che chi non ha famiglia,
o ne è lontano, va oggi dai parenti? e che chi non ha parenti, va
dagli amici? Il signor Segni non n’ha neanche di questi, e non se l’è
meritato. —

Mamma non mi rispose nulla, e non mi lasciò neanche veder la sua
faccia; andò nella camera del babbo, probabilmente a raccontargli la
mia alzata d’ingegno, ed io andai a nascondermi nel canto più lontano
della casa. Ora viene la musica! pensavo. Ma non venne nulla. Cioè,
correggiamo: venne alla sua ora il cugino Francesco, e dopo di lui
il nobile Segni, con la sua campagna di Russia sul groppone e col suo
ferraiuolo di panno turchino sulla campagna di Russia. Il pover’uomo
si confondeva ancora in complimenti, quando mi chiamarono a tavola.
Egli era là, seduto alla destra di mamma, che seguitò a non dirmi
nulla. Neanche babbo mi parlò, se non per domandarmi se volevo ancora
della tal cosa o della tal altra. Ma finito il pasto, mi diede qualche
cosa che non avevo domandato; uno scappellotto, nel quale mi parve di
sentire una intenzione sommamente benevola.

Il signor Segni, quella sera, prima di congedarsi, mi prese una guancia
tra l’indice e il medio.

— Folletto! — mi diceva frattanto. — Ti perdono, sai?

— Mi perdona?... — balbettai. — Che cosa?

Ed egli allora, rifacendo la cantilena infantile de’ suoi scolaretti,
mi mormorò all’orecchio:

    Signor Segni
    Mostra legni!

Capii finalmente; ma non mi parve giusto, neanche col perdono, il
rimprovero.

— Ma la cantavano tutti; — osservai.

— Sicuro; ma tu l’avevi inventata, briccone!

Ed era vero, pur troppo; era stato quello il mio primo saggio di rime.

— Va là! — soggiunse il nobile signor Luigi Segni. — Ti perdono
egualmente i tuoi versi. —

E così siano perdonati i vostri, o lettori, dovunque li abbiate
perpetrati, comunque vi siano riesciti, a qualunque scuola
appartengano.



La prima capannuccia.


Le mie tenerezze per il Natale non hanno preso argomento dai confetti,
nè dal panettone, bensì dalla capannuccia e da Gesù bambino. Milano,
vecchia ed illustre città, che fu bambina anche lei, custodisce in
Sant’Eustorgio l’area sepolcrale dei tre Re; io, mezzo vecchio e
niente illustre, conservo con egual religione un pecoraio della mia
prima capannuccia. Avevo anche serbato Gesù bambino, quantunque un po’
sbreccato e con la raggiera di meno; ma ora non so più dove sia. Forse
non mi ha creduto degno, ed è passato in mani migliori. Pure, io l’ho
amato molto, quel Dio così dolce e così mite, nato povero, vissuto
d’amore per gli uomini, morto in croce per compenso dell’amor suo, ma
fatto solenne esempio a tanti animosi, che lieti morirono, confessando
il suo nome. Sentite.... Ma no, basta così: vo’ darvi un racconto, non
farvi una predica.

Avevo otto anni e dieci giorni, quando ebbi in casa mia la prima
capannuccia. In casa mia, capite? e tutti i miei compagni sarebbero
venuti a vederla, a recitarle il discorsetto in versi. Da due anni
mio padre me la prometteva; ma un po’ per questa ragione, un po’ per
quest’altra, non aveva mantenuta la promessa. Finalmente, al terzo
anno, mi disse, ed io ripetei tosto ai compagni: — questa volta, si fa.

Venne il giorno di Santa Lucia, e mio padre non parlò punto di
comperare i pastorelli, nè il resto. Debbo dirvi qui che il giorno di
Santa Lucia, a Savona, c’è mercato di figurine da presepio, tutte di
terra cotta, dipinte ad olio, d’ogni forma e misura. I miei compagni,
coi quali avevo fatta la scappata sulla via di San Giacomo, per
ammirare le mostre dei figurinai, mi dissero: — come? non comperi
nulla?

— Ci pensa mio padre; — risposi con gran sicurezza.

Ma dentro di me non ne avevo poi tanta. Si andò al 23 di dicembre, cioè
alla vigilia dell’Avvento, senza che ci fossero le figurine in casa.
Che figuraccia, coi compagni! Ma proprio quel dì, ritornando da scuola,
vidi nell’anticamera, presso la finestra, un gran fascio di verde.
Lo aveva portato dal podere il vecchio Menico, un nostro fittaiuolo.
Mi buttai su quel prezioso fastello, e contai quattro bei tronchi
d’alloro, vestiti di lunghi e folti rami, due tronchi di corbezzolo,
due di ginepro, da dieci a dodici cespi di pugnitopo, e musco e
borraccina a tutto pasto. Ballai davanti a quel fascio di verde, come
il re David davanti all’Arca del Signore.

— E i pastori? — chiesi a mio padre, quando fu l’ora del pranzo.

— I pastori.... sono in Betlemme. Aspetta che scendano. —

Non ne ero persuaso, ma dovetti aspettare egualmente. La mattina
appresso, mio padre mi diede quaranta soldi e mi disse: — va dal Bianco
a provvederti d’ogni cosa.

Quaranta soldi, era una gran somma, allora! Strinsi forte, per paura
che mi fuggisse, e corsi dal Bianco: un uomo alto, tarchiato, barbuto
e butterato, che formava le figurine da presepio in una botteguccia
della salita di Monticello, sul canto dei Pico. Allora i pastori dei
due sessi, con capretti, polli, canestri d’uova e simili sulle braccia,
costavano un soldo l’uno. Un pecoraio, perchè seduto contro un ceppo
d’albero, con un ramo sulla testa e la piva sulle ginocchia, costava
due soldi, come l’asino e il bue. Giuseppe e Maria, perchè più alti,
e perchè decorati, questa di raggiera indorata, e quello di bastone
fiorito, costavano tre soldi ciascheduno. Il bambino, piccolissimo, ma
con la raggiera dorata anche lui, scendeva solamente a due soldi.

Il conto fu presto fatto: dodici soldi per i personaggi principali
e per i loro due complementi; due per un pecoraio, quattordici; uno
per cinque pecore, quindici: mi avanzavano quattrini per venticinque
pastori dei due sessi. Il Bianco mi diede l’angiolo soprammercato.
Mancava la scritta; ma a questa avrei pensato io, calligrafo insigne.
L’essenziale era che il babbo mi facesse la capannuccia.

— Questa sera, dopo cena; — mi disse egli, prendendo il cappello per
andarsene.

Ah, quella sera, come fu lunga! E come noiosi quei parenti, quegli
amici, venuti a far la vigilia con noi, e che non dicevano mai di
andarsene! Cosa inaudita in una cena savonese di quei tempi, alle dieci
erano ancora a tavola. Li avrei strozzati con le mie mani, se essi
fossero stati serpenti, ed io Ercole.

Finalmente partirono. Alle undici mio padre si decise.

— Contentiamo questo impaziente! — esclamò. — Hai carta straccia?

Ne avevo, e molti fogli, già incollati insieme, poi spruzzati di rosso,
di nero, di bianco, perchè simulassero il granito.

Mio padre aveva preso l’uno dopo l’altro i quattro bei tronchi di
alloro; li aveva legati saldamente con certe funicelle ai quattro piedi
di un tavolino; quindi ne aveva ripiegate ad arco le vette, e congiunte
e legate, perchè facessero cornice. Sulla lastra del tavolino pose due
scatole da cappelli, generosa offerta di mamma, che dovevano formare
il nocciolo di due montagne; le congiunse con una lista di legno,
che faceva ponte nel mezzo; vi stese sopra la carta straccia, un po’
stazzonata, acciaccata e ripiegata come veniva, affinchè simulasse
meglio le anfrattuosità della roccia; poi musco e borraccina da per
tutto: ginepri, corbezzoli e pugnitopi a incoronare i greppi, lungo
la parete, per far da boscaglia; lì sotto al ponte, diventato un arco
naturale della rupe, un pezzo di specchio per fare la lontananza; e
così il paese in tre quarti d’ora era fatto.

— Mancherà Betlemme! — disse mio padre.

— Oh no, eccola qui; — gridai, tirando fuori un ceppo di case di
cartone, che m’era costato una settimana di lavoro. L’opera era
condotta secondo certe leggi statiche e norme prospettiche tutte mie;
i colori stridevano, ma ridevano anche; le torri pendevano in istile
bolognese; i merli non fischiavano, aspettando forse d’esser fischiati.
Ma che importava ciò? C’era anche la capanna per il divino Infante,
e così alta, che raggiungeva quasi il colmo della montagna. Ma mio
padre non badò a queste inezie; collocò Betlemme sovra l’eminenza
più lontana, mascherandola a mezzo tra i pugnitopi, che facevano da
abeti; piantò la capanna dall’altro lato, celandola un pochettino
nella frappa degli allori; poi seminò pastori e pastore da per tutto,
sul piano e sul declivio dei monti. Il pecoraio ebbe alloggio in una
cavità, naturalmente offerta da una piega della carta straccia; le
cinque pecore gli si ammucchiarono da’ piedi, contendendosi la stessa
zolla di borraccina; l’angiolo spenzolò da un fil di seta, davanti alla
capanna fortunata, levando in alto la scritta: «Gloria in excelsis Deo
et in terra pax hominibus bonæ voluntatis.» Ci avevo fatto capir tutto,
io; per contro, era così fitto il carattere, che non ci avrebbero
capito nulla i visitatori. Giuseppe e Maria furono posti ai due lati
dell’ingresso; l’asino e il bue ai loro piedi; ma l’orologio del Duomo
scoccò le dodici ore, e il bambino Gesù non era ancora deposto sul
pannilino di raso bianco, guarnito di trine, che aveva preparato per
quella occasione mia madre.

— Ahimè! — gridai. — Mezzanotte!

— Ebbene? — disse il babbo; — aspetta che suoni da capo; il punto
giusto è nel mezzo. —

Infatti, non erano ancora ribattute le ore, e il bambino era messo a
posto, tra i due animali accoccolati. Io mi accostai col lumino, che
posi nel mezzo a rischiarare la scena, e recitai il complimento:

      De’ puri affetti miei,
    O pargoletto Iddio,
    Darti un pegno vorrei....
    Ma son fanciullo anch’io.
    Non ho capretti, agnelli,
    Nè fior’ nè pomi belli;
    Ho un cor che tutto è mio,
    Tutto tel dono, o pargoletto Iddio.

Il pargoletto Iddio mi sorrideva. Sicuramente egli accettò il dono
del mio cuore, ma non lo prese; me lo lasciò in deposito, e quel suo
sorrisetto aveva l’aria di dirmi: — Va, me lo riporterai più tardi, a
quella tal ora. —

Ahimè, povero cuore, in che stato glielo riporterò io! O non era
meglio che me lo accettasse subito? Era un cuoricino di otto anni,
tenero, vermiglio, senza la più piccola tacca; mentre ora, tra lividi,
incisioni e graffiature.... Io, già, sentite, da un pezzo non lo guardo
più. Mi cascherebbero le braccia.



La mia presa di Peschiera.


La mattina del 5 giugno 1848 uscivo di casa coi miei libri e quaderni
sotto il braccio, ma non per andare alla scuola. C’era tempo, per
questo, ed io volevo dar prima una capatina sul Fosso. Si chiamava
a Savona con questo nome una spianata fuor delle mura, non ancora
intieramente abbattute, davanti alla porta di San Giovanni: più
tardi, fabbricatovi il teatro Chiabrera, si chiamò piazza del Teatro:
da ultimo, per essere smontato un giorno il generale Garibaldi ad
alloggio nell’albergo Svizzero che la fiancheggia da tramontana, si
chiamò piazza Garibaldi. Sul Fosso facevano capo le tre vie nazionali,
di Torino, di Nizza e di Genova; sul Fosso venivano per conseguenza
a fermarsi le diligenze, e tutte le vetture da nolo; veicolo d’ogni
forma, cavalli d’ogni pelo, ed anche senza pelo, vetturini d’ogni
risma, tafani, mosche d’ogni razza, concorrevano a dargli anima e
vita. Con le vetture capitavano sempre forestieri, e notizie del mondo
circostante: quell’anno, poi, fioccavano le novità, e il Fosso ne era
diventato quasi una fiera. La politica primeggiava; anzi, diciamo pure
che era tutta politica. E il fiore delle notizie ci veniva da Genova, a
cui si era più vicini, con cui erano più frequenti gli scambi.

Tre, quattro volte al giorno, come mi permettevano le ore di scuola, io
solevo capitare sul Fosso, in busca di novità; ed anche sul porto, alla
calata della Marinella, quando era avvistato il «Giulio II», vaporino
a ruote, che faceva ogni giorno il suo viaggio da Savona a Genova, e
da Genova a Savona. Povero «Giulio II», piccolo pontefice messaggero,
che teneva la nostra quieta città, sua terra natale, in comunione di
pensieri col maggior centro dell’agitazione ligustica! Non si rideva
ancora, a vedere quel guscio di noce, che giungeva ansando, sbuffando
e sparnazzando l’acqua salsa con le sue pale rosse, in tre ore di
tragitto, spesso perdendo la scommessa con certi diavoli di calessini,
partiti da Genova, e dalla piazza dell’Annunziata, nella stessa ora
ch’egli sferrava dal porto della città sullodata.

Quella mattina, giungevo in buon punto sul Fosso, mentre di sotto alla
galleria sbucava un calesse, venuto a furia da Genova, col vetturino
a cassetta, che seguitava a frustare senza misericordia i cavalli, e
gridava come un ossesso, agitando certi foglietti spiegazzati con la
stessa mano che teneva la frusta. Bollettini del campo! bollettini
del campo! Io conoscevo il vetturino; egli conosceva me, per ragione
del mio babbo, che spesso si serviva del suo trespolo; ebbi perciò
facilmente uno di quei bollettini, e senza costo di spesa. Lo lessi, o
per dir meglio lo divorai; e via di corsa alla mia volta, per il viale
della Passeggiata, fino a piazza Castello, dove, in fondo ad una lunga
piantata di acacie, sorgeva il collegio delle Scuole Pie. Volevo essere
il primo a portare la grande notizia: non alla scuola, per altro; ai
compagni, che in quell’ora si trovavano ancora di fuori, giuocando
alle palline, alle piastrelle, ai puntoni, in attesa del _sero_. Il
_sero_, chi nol sapesse, era lo spazio di tempo, mezz’ora all’incirca,
tra le due scampanate che ci chiamavano a scuola. Suonava la prima,
ed eravamo tutti nei pressi del collegio, a giuocare, a saltare,
a rincorrerci: suonava la seconda, segnando l’estremo limite della
tolleranza magistrale, e tutti, lasciati i giuochi in tronco, levati i
nostri libri di sopra il parapetto, di sopra i piuoli e i sedili della
passeggiata, correvamo allo studio.

Quell’anno io facevo grammatica. Per grammatica, intendete la
latina. Le scuole d’allora non conoscevano la divisione odierna di
ginnasio e liceo: dalle classi elementari si passava il primo anno
in lingua italiana, e il secondo in prima grammatica latina, detta
comunemente grammatichetta, dove c’insegnavano gli elementi del
latino e ci facevano tradurre l’«Epitome Historiae Sacrae, auctore
Lhomond». Seguiva l’anno della seconda grammatica, detta grammatica
senz’altro, in forma antonomastica, dove, fortificandoci nelle regole,
incominciavamo a battagliane col «De Viris illustribus» e finivamo
misurandoci con Cornelio Nipote. Poi c’erano i due anni di umanità,
minore e maggiore, dove si attaccava Ovidio e qualche poeta italiano;
quegli e questi servivano per addestrarci al magistero del distico
latino e della strofa italiana. Il doppio esercizio si faceva coi
«versi rotti» che parevano prosa, e che noi dovevamo ricostruire, in
latino secondo le leggi della prosodia, in italiano secondo quelle del
ritmo. In umanità non erano d’obbligo i due anni; si poteva saltarne
uno, mostrando di avere approfittato abbastanza nel primo, entrando
a fin d’anno in gara cogli alunni del secondo e superando com’essi
l’esame. Erano invece obbligatorii i due anni di rettorica, dove tra
parecchi poeti e prosatori latini, Virgilio, Cicerone, Orazio, Giulio
Cesare e Tacito, tra parecchi poeti e prosatori italiani, Dante e Dino
Compagni, l’Ariosto e il Machiavelli, il Tasso, l’Alfieri, il Monti,
il Leopardi, si diventava poeti e prosatori per nostro conto, più o
meno terribili. L’uso delle lezioni libere, cioè dei passi recitati
a memoria, ma scelti da noi, ci portava a conoscere assai più autori
che non richiedesse l’insegnamento; e noi a questo modo ci prendevamo
anche una satolla di scrittori moderni, anche viventi. L’altro uso dei
lavori liberi, cioè di soggetto a scelta nostra, senza pregiudizio
dei soliti temi di scuola, esercitava la vena dei più valenti. Lo
spirito di emulazione era anche più esaltato dalle «provoche», sfide e
giostre poetiche, italiane e latine. Di queste se ne facevano quante si
voleva; bastando che uno si levasse a provocare in nome della sua banda
la banda avversaria, perchè s’interrompesse la lezione, il maestro
dettasse un tema, e tutti ci mettessimo all’opera per guadagnare il
maggior numero di punti alla nostra banda e a noi stessi. Venivano
ultimi due anni di filosofia; nei quali si imparava algebra, geometria
piana, qualche po’ di fisica, logica, etica, e metafisica per giunta
alla derrata.

Sento il bisogno di dire che storia e geografia, convenientemente
graduate, accompagnavano tutte le classi. E sento anche quello di
soggiungere che di aritmetica, fondamento e istradamento all’algebra,
ci davano lezioni in rettorica. Se vi parrà che per l’aritmetica fosse
un po’ tardi, pensate che eravamo almeno più maturi per la soluzione
di tanti problemi complicati, che oggi ammazzano i cervellini neonati
delle classi elementari; pensate inoltre che tutti i vecchi finanzieri
d’Italia hanno studiata l’aritmetica come noi, non apparendo alla prova
più ignoranti dei nuovi. Quanto allo studio della fisica, certamente
era ristretto a quel modo; e questo per difetto di strumenti da ciò;
ma si sarebbe potuto rimediare. A buon conto non avevamo la storia
naturale, che imparare a fondo nei licei non si può, e imparare per
iscarsi elementi non giova. Nè c’era la geometria solida a far girare
la testa dei futuri medici, avvocati, procuratori e notai; non c’era
il metodo euclidèo per funestare le anime adolescenti, rallegrando
i traduttori del famoso maestro di Tolomeo Filadelfo e i rispettivi
editori; a benefizio dei quali, oramai, sembrano fatte le scuole
del «bello italo regno». Per contro, e in rettorica, tra una lezione
e l’altra, il maestro c’insegnava il greco; studio libero, che non
portava obbligo d’esame, ma a cui per emulazione attendevamo tutti, e
non c’era caso che uno mancasse. Dio benedica quelle scuole classiche,
di cui oggi si dice tanto male, ed anche quei programmi, che nessuno
oggi ricorda. Erano scuole classiche, e la cultura classica ci aveva
il sopravvento. Se ne usciva sapendo il greco quanto ora, cioè poco, ma
quel poco non inutile ora nè allora; di latino e d’italiano s’imparava
assai più che non si faccia adesso, e per usarne largamente, così
in verso come in prosa. Dell’uno e dell’altro si saprà certamente un
po’ meglio, e non sarà più il caso di annuali piagnistei sullo studio
insufficiente della lingua patria, quando si sfolleranno davvero i
nostri licei, non già del latino e del greco, o solamente di questo,
ma di tutta la congerie di studi particolari, farraginosamente e
perciò scarsamente scientifici, onde sono ingombrati gli orarii e
aggravati i cervelli. Perchè le scabrosità della brattea e le finezze
della stipula, gli arcani del pòlline e i misteri delle generazioni
alternanti non si mandano al luogo loro, nei primi corsi di medicina
e di scienze naturali? Perchè le bellezze delle figure piane, delle
proporzioni e delle loro mirabili proprietà, non si rimandano, insieme
con le quantità incommensurabili e col metodo di esaustione, ai primi
corsi di matematiche, dove hanno a cavarne profitto i futuri ingegneri?
Ci vuol coraggio, capisco, molto coraggio; e nessuno l’avrà. Ma allora,
non ci lagniamo di quel che avviene; e sullo scadimento della cultura
letteraria, in Italia, si lascino piangere i coccodrilli, in Egitto.

Dove mi ha condotto il tema delle scuole! Ma che farci? questo è un
cavallo, che appena inforcato vi piglia la mano e vi porta dove vuol
lui. Per fortuna, si è stancato, si rifà maneggevole, e mi riconduce
al mio ’48. Ero in grammatica, vi ho detto; abbastanza avanti, per gli
anni che avevo. E già facevo assai volentieri il chiasso per le strade,
partecipando a tutte le dimostrazioni di piazza, che veramente erano
all’ordine del giorno, e perfino a quel della notte. Si gridava abbasso
i Gesuiti; si correva per la città «con l’azzurra coccarda sul petto,
con italici palpiti in core» e con tutti gl’inni di quel tempo sulle
labbra; a lume di fiaccole si andava attorno con musiche, portando in
processione grand’uomini litografati, e principi riformatori di gesso.
Giornali se ne avevano pochi; io, poi, a quell’età, non ne leggevo
affatto. Non c’era il telegrafo elettrico, e le notizie venivano
sempre con un po’ di ritardo, ordinariamente in certi bollettini,
foglietti volanti stampati a Genova, ed oramai quotidiani, che per
lo più sentivamo leggere ad alta voce in piazza Colombo, da qualche
negoziante, armatore o spedizioniere infervorato, ritto in piedi su
d’una seggiola, per dominare le turbe. Momenti solenni! rivedo i noti
aspetti; sento ancora le voci.

Ma quella mattina.... quella mattina ero io il portatore della lieta
novella; quella mattina lo avrei letto io il bollettino. I compagni,
non sapendo nulla, non indovinando le grandi cose che m’infiammavano
il viso, credettero che io venissi a loro con tanta furia per fare
ai puntoni. Quello era il mio giuoco prediletto: anche oggi, quando
vedo fare ai puntoni, dovunque io sia, qualunque cura mi frastorni,
mi fermo a guardare. Sapete come si fa? Ci vuole anzitutto una
coppia di ragazzi: uno sotto, per far da cavallo, l’altro sopra, per
far da cavaliere, coi ginocchi nei fianchi al compagno. Quello di
sotto stende le braccia avanti ed incrocicchia le dita; quello di
sopra fa altrettanto, ma calzando delle sue braccia e delle sue mani
incrocicchiate le braccia e le mani del compagno. Il puntone è fatto;
il cavallo si muove, carico di quel peso, e con la forza che gli viene
dal peso cresciuto si avventa sopra un’altra coppia, egualmente formata
a puntone. Di queste coppie in battaglia ce ne possono esser molte,
tutte libere di colpir dove vogliono, ed esposte ad esser colpite
d’ogni banda. È battaglia sparsa, come di navi che vengano ai cozzi, ed
una di loro riesca a mandarne sotto parecchie, magari tutte, se forza,
destrezza e fortuna l’aiutano.

Bella cosa, i puntoni, non è vero? Ma che puntoni, quel giorno? C’era
ben altro in aria. Bollettini del campo! bollettini del campo! I
nostri.... i nostri soldati avevano.... avevano presa Peschiera.

E lì, col rantolo in gola, con la voce soffocata dalla commozione,
leggevo il famoso bollettino che m’aveva fatto correr tanto, dalla
piazza del Fosso a quella del Castello.

— «Milano, 2 giugno, mezzodì. Il giorno 30, alle ore 11 di notte
Peschiera capitolò. Conchiusi i patti, entrarono nel forte per la
porta di Verona parecchi ufficiali italiani, con una compagnia di
artiglieri, una di bersaglieri, ed una del 13.º di Pinerolo. Sul far
del giorno del 31, al suono dell’inno nazionale, ci entrarono, tutto
il suddetto reggimento ed il corpo Parmense. Al mezzodì gli Austriaci,
difilando innanzi ai nostri lungo la caserma, uscirono da porta di
Brescia con le loro armi, le quali deposero poi e cessero in mano dei
Piemontesi sul ciglio della ripa, alla presenza del Duca di Genova,
di un eletto stato maggiore e del 14.º reggimento. I soli ufficiali
ebbero licenza di conservare la spada. La guarnigione uscita, composta
di 1600 Croati, continuò sotto buona scorta la via per Desenzano e
giunse ieri a Brescia. I nostri rinvennero nel forte gran quantità di
materiale da guerra, palle da cannone ammucchiate, bombe, mortai d’ogni
calibro. Le cose nell’interno presentano uno spettacolo di rovina. Il
nemico volle resistere fino all’estremo, ed aveva consunto quasi del
tutto le provvigioni. Ogni cannoniere era costretto al servizio di due
cannoni: guasti i mulini, s’adopravano macine a mano: si erano mangiati
pressochè tutti i cavalli: non c’era più sale, e si faceva uso di
salnitro: i soldati mettevano a ruba le case, che le bombe del nemico
incendiavano.... La resa di Peschiera e la vittoria, o piuttosto le
tre vittorie degli ultimi dì di maggio, sembrano far sicura la riuscita
della guerra dell’indipendenza. —

Semplice il racconto, senza inutili vanti la chiusa. Il bollettino era
del Governo provvisorio della Lombardia: estensore, per incarico del
segretario generale, era Giulio Carcano, segretario, il cui nome si
leggeva stampato in fondo alla pagina.

La mia lettura aveva sortito un effetto maraviglioso. Tutti
s’affollavano intorno a me, pendendo dalle mie labbra, fremendo,
giubilando, gridando evviva; tanto che per un momento credetti di aver
preso io Peschiera, io in persona, non il Duca di Genova. Anch’io, del
resto, avevo toccato l’apice della gloria, leggendo un bollettino alle
turbe, come facevano ogni giorno i pezzi grossi di piazza Colombo. Ah,
la gioia di un popolo, come è bella, come è dolce, quando è destata e
nutrita dalle vostre parole! Ma la gioia d’un popolo si suol dimostrare
con qualche novità. Che cosa avremmo fatto noi, popolo minuscolo delle
classi di grammatichetta, di grammatica, di umanità e di rettorica?

Passavano i filosofi, così detti perchè erano gli alunni della classe
di filosofia, perchè stavano da soli, oramai, non prendendo parte ai
nostri giuochi, e ragionando sempre tra loro di Gioberti e di Rosmini.
Quella volta, vedendo la calca dei compagni minori, anche i filosofi
dovettero accostarsi, obbedendo ad un sentimento di curiosità naturale
ed umana; accostatisi, dovettero anche sentire di che si trattava,
e partecipare alla nostra allegrezza. Ma quando io ebbi finito di
leggere, niente li trattenne più nel consorzio dei «piccoli». Si
allontanarono, dunque; ma io potei sentire uno di loro, che diceva ai
suoi compagni di Peripàto:

— Con una notizia simile, bisognerebbe far vacanza, quest’oggi. —

Non aveva detto a sordo. Fatto mio il pensiero del peripatetico, mi
volsi conchiudendo ai compagni:

— Si fa vacanza? —

L’idea era nuova, e strana, come tutte le idee nuove.

— Perchè? — mi chiese uno di loro.

— Perchè? me lo domandate? Siamo entrati in Peschiera. È una gran
vittoria degli Italiani. Chi siamo noi? non forse Italiani? «Res nostra
agitur». Come staremmo noi in iscuola, quest’oggi, se già non possiamo
più star nella pelle?

— Dici bene, dici bene. Ma come la vedrà il padre Escrìu?

— Oh bella, come noi. È spagnuolo; ma vive da tanti anni in Italia. Gli
si dice la cosa, e non potrà far altro che approvarci.

— Ti senti di parlargliene tu?

— Sicuramente; — gridai, parendomi lì per lì la cosa più naturale del
mondo.

La turba si mosse, acclamando; ed io alla sua testa, che parevo un
colonnello in piazza d’armi. Si andava verso il collegio. Ma giunto
all’ingresso, e nell’atto di montare i tre scalini di marmo del
portone, incominciavo a non essere tanto sicuro del fatto mio. Posto
il piede nel corridoio delle scuole, mi trovai anche solo, o quasi. I
miei compagni si fermavano fuori, aspettando l’esito dei negoziati.
Ma che paura avevano? Il padre Escrìu era un brav’uomo, finalmente.
Sapeva bene il latino, e ce lo insegnava bene. Con un metodo severo,
per altro! Quando si fallava la desinenza di un caso, o la concordanza
di un adiettivo col suo sostantivo, faceva certi occhiacci! Nè sempre
si contentava di far gli occhiacci; specie quando non si sapeva la
lezione, o si faceva qualche grosso solecismo, lasciava correre anche
scappellotti. Non ne abusava, no; bisognava avergli fatto scappar la
pazienza. Ma qualche volta gli era scappata, e i ricordi ne duravano in
classe.

Ci pensai ancor io, inoltrandomi nel corridoio. E rammentai che proprio
allora avevo un grave torto agli occhi del maestro. Il padre Escrìu
aveva portata nella sua scuola una gran novità, che prima di lui si
usava soltanto nelle scuole dei Gesuiti. Da noi la classe si divideva
in due bande: ogni alunno, guadagnando punti, o perdendoli, guadagnava
o perdeva per sè e per la banda a cui era ascritto. Il padre Escrìu
aveva aggiunta la novità di dare un nome alle bande: da una parte si
era Romani, e Cartaginesi dall’altra. Mercè questa trovata, non so
come, certo senza merito mio, avevo conseguita la dignità d’Imperatore
Romano. Se poi alla mia effigie non si coniarono monete, incolpatene
i tempi grossi, e la brevità del mio regno. Un giorno, di fatti, per
una mia marachella (non la ricordo più bene; mi pare si trattasse
di ciliege che io mangiavo sul mio trono, facendone tra il pollice
e l’indice schizzare i noccioli su teste di amici e nemici) il padre
Escrìu mi degradò issofatto da Imperator dei Romani, mandandomi per
gran degnazione legato dei Cartaginesi. Immaginate il mio dolore,
e l’ira dei Romani, che perdevano un campione per le battaglie dei
punti, e l’odio dei Cartaginesi, che alle future vittorie non pensavano
ancora, ma sentivano la presente vergogna dell’esser considerati come
una compagnia di disciplina. E le ciliege erano ancor troppo fresche:
non era ancor venuta per me l’occasione di riconquistare il mio seggio
in Roma: alla presa di Peschiera io ero ancora Cartaginese; e non
Suffèta, che era il primo grado; legato, semplicemente legato.

Come si fa? pensavo tra me, inoltrandomi nel gran corridoio. Come si
fa, a persuadere il padre Escrìu di questa vacanza in lunedì? Pensando,
mi veniva meno il coraggio; ma anche mi veniva incontro, col suo passo
risoluto, il padre prefetto. Un lampo balenò allora alla mia mente; e
quel lampo era un’idea.

— Padre, — gli dissi, avanzandomi, — padre prefetto....

— Ebbene? Che cosa vuoi tu?

— Peschiera.... — risposi, con la mia voce soffocata dalla commozione;
— Peschiera è in mano dei nostri.

— Ah! — gridò egli fermandosi e facendosi rosso in volto come un
rosolaccio dei campi. — Come lo sai?

— Qui.... qui.... il bollettino; legga. —

Il padre prefetto me lo aveva già strappato di mano. Leggeva, e gli
sfavillavano gli occhi; leggeva a mezza voce, profondamente commosso,
balbettando. Con lui mi venne il coraggio che temevo di non aver più
col padre maestro.

— E noi, padre, per questa vittoria, vogliamo prender parte alla
dimostrazione che si farà in piazza di Càneva.... —

Si chiamava solamente di Càneva, cioè della Canapa, la piazza Colombo,
in vicinanza del porto, dove erano a quel tempo i banchi degli
spedizionieri, degli armatori, dei cambiavalute, ma dove probabilmente
in un tempo anteriore erano state botteghe di canapini, venditori di
tela di canapa per le vele dei bastimenti.

— Sì, — proseguivo, pigliando la rincorsa, mentre egli continuava a
leggere rottamente. — sarà una dimostrazione di tutta la città. Che
entusiasmo vuol essere! Faremo vacanza, non le pare? La notizia è
troppo bella.... importante.... strepitosa....

— Strepitosa davvero; — rispose il padre prefetto. — Mi lasci il tuo
bollettino, che lo faccio leggere ai Padri?

— Sì, lo tenga, lo tenga; io lo so già tutto a memoria. —

Era dunque il permesso di far vacanza. Non lo dava il maestro di
grammatica, veramente: lo dava il prefetto, «studiorum praefectus», che
aveva per le scuole un’autorità superiore, e che a buon conto poteva
conceder vacanza, non ad una sola classe, ma a tutte. Forte di questa
argomentazione interiore, salutai il frate e corsi a gambe levate verso
l’ingresso.

I compagni mi aspettavano là, parte sulla gradinata, parte in istrada,
come in agguato.

— Vacanza! — gridai.

Vacanza! vacanza! risposero venti o trenta voci. Vacanza! vacanza!
echeggiarono quaranta o cinquanta, di scolari e scolaretti accorrenti.
E via tutti, allegra torma di pecchie quando prendono a sciamare;
via tutti, verso la piazza, raccogliendo per cammino i più tardi,
informando della vittoria dei nostri soldati, e della nostra ad un
tempo. Peschiera vinta! Peschiera italiana, finalmente! Che bella
cosa, che grande notizia, da far ribollire il sangue nelle vene! Così
riscaldati, esaltati, pazzi dalla gioia, avevamo intuonata la canzone
del tempo:

    Sorgete Italiani
      A vita novella;
      D’Alberto la stella
      Risplende nel ciel.

La prima idea era d’incominciarla noi, la dimostrazione, voltando a
sinistra verso il Molo, e andando per le calate del porto fino a piazza
di Càneva. Ma io ebbi il torto di lasciarmi tirare a destra, sulla
passeggiata, per giuocare da capo ai puntoni. Prevalevano gl’istinti
guerrieri, quel giorno. E poi, stanchi di fare ai puntoni, accettammo
l’idea di andare nei fossi della Fortezza, per giuocare a rimpiattino,
alla barra, al tabarro. Eravamo nel più bello delle nostre prodezze,
quando fu dato il segno d’allarme. Lassù, dall’orlo dello spalto, si
affacciava il cappello del padre prefetto; solita e molesta apparizione
per tutti coloro che avevano salata la scuola.

— Che cosa vuole, il padre prefetto, quest’oggi? — domandarono a me i
compagni di giuoco. — Non glielo avevi detto tu, che si faceva vacanza?

— Gliel ho detto, sì.

— E allora perchè vien qua, minacciando con la mano? Senti, ci chiama
anche.

— Ma.... che ne so io?

— Avrà cambiato opinione; — disse un altro.

L’idea di ribellarci fuggendo, non venne a nessuno di noi. Eravamo
diavoli scatenati, alle nostre ore; ma bastava un nulla per richiamarci
al sentimento della disciplina. Mogi mogi, ci avviammo tutti verso una
gradinata a scarpa, che metteva dal fosso allo spalto.

— Perchè avete salata la scuola? — tuonò il padre prefetto, quando
fummo a portata di voce.

— Padre.... non lo sa?... Le è pur rimasto il bollettino!... I nostri
hanno preso Peschiera.

— Ebbene? c’è forse bisogno di lasciare la scuola, perchè è stata presa
Peschiera?

— Ma io.... se si rammenta.... Le avevo anche detto....

— Che cosa?

— Che era festa nazionale, oggi.... e si poteva far vacanza....

— Si poteva.... si poteva fare anche questo; — borbottò il padre
prefetto. — Ma bisognava prima di tutto domandarne licenza ai maestri.

— Credevamo che dicendo a Lei....

— Non so cosa abbiate detto a me.... La notizia era tanto strepitosa!...

— Già, lo dicevo infatti, strepitosa. E noi allora Le abbiamo soggiunto
che si sarebbe fatta una grande dimostrazione.

— Nel fosso della Fortezza, non è vero? Mariuoli! Pigliatemi il
portante, e via. Per la scuola del mattino è tardi; andate a casa, a
studiare. Chi mancherà alla lezione pomeridiana, faccia conto di venir
domani accompagnato dai suoi parenti. —

La minaccia era grave. Dispiaceva a tutti d’esser mandati a casa
con l’obbligo di farci riaccompagnare alla scuola dal babbo o dalla
mamma. Al tempo nostro queste due autorità non ischerzavano. Bisognava
avvertirle dell’incomodo che si cagionava loro, e confessar le ragioni
del fatto; donde avveniva che ricevessimo una salutar correzione anche
prima di esser condotti al collegio. Perciò, immaginate che tutti,
«nemine excepto», si fosse nel pomeriggio alla scuola. Quando noi
grammatici entrammo in classe, il padre Escrìu era là in piedi, davanti
alla cattedra, duro, accigliato, con la sua riga tra mani, che pareva
un bastone di comando.

— Perchè non siete venuti a scuola, stamane? — chiese egli, dopo un
lungo silenzio, quando noi fummo tutti seduti nelle nostre panche. —
Parlate; lo voglio! — incalzò, vedendo che nessuno di noi si alzava per
rispondere.

E il bastone di comando, che da principio ballava, incominciò ad
agitarsi convulsamente tra le sue dita.

— Mi avete capito? — riprese. — Vuol finir male, quest’oggi; molto male
per qualcheduno.... e per tutti i suoi complici. —

Eravamo esterrefatti. Lo intendevamo benissimo, che qualcheduno,
l’istigatore, sarebbe stato mandato via, «nec sine colaphis», cioè a
dire non senza scappellotti, e che a tutta la classe sarebbe toccato un
«pensum» da doverci perdere le ore di ricreazione per un mese.

— L’hai presa Peschiera! — mi mormorava intanto sottovoce un compagno.

La crudeltà del sarcasmo mi rivoltò il sangue, e fece quello che non
aveva ancora potuto su di noi la sgridata del frate. Mi alzai in piedi
e stesi la mano, quantunque non ce ne fosse bisogno, poichè egli stesso
m’invitava a parlare.

— Padre, non castighi nessuno dei miei compagni; — gli dissi. — Sono
io, il colpevole; io che ho letto questa mattina, uscendo da casa, il
bollettino della presa di Peschiera. Mi pareva che con una notizia
simile.... Capirà; siamo italiani.... L’avevo detto anche al padre
prefetto.... che si era commosso anche lui. Forse, nella commozione,
non ha sentito quando gli dicevo della vacanza.... Ora sa tutto, padre
maestro.... punisca me, ma non altri.

— Non altri! non altri! — ripetè il maestro imbizzito. — Farò quello
che mi parrà conveniente. E voi, frattanto, in ginocchio! —

In ginocchio! Era grossa, e tutti i miei sentimenti si rivoltarono. In
ginocchio! Da tre anni che ero alunno delle Scuole Pie, non c’ero mai
stato messo; nè dal padre Sanguineti, nè dal padre Conio, nè dal padre
Cigliuti. Qualche volta in castigo nei corridoi, non lo nego; ma in
piedi. E in ginocchio, allora! in ginocchio! era grossa, era orribile;
non potevo mandarla giù; non mi ci sarei adattato, no davvero;
piuttosto a casa, e ritornar magari coi miei parenti, dopo aver preso
un paio di ceffoni _a priori_, o di calci _a posteriori_, dal babbo.

Quell’altro intanto ripeteva il comando; ed anche accennava di
muoversi, certamente per cavarmi a forza dal posto. Precorsi l’offesa;
mi mossi, scesi dalla panca (la seconda dei Cartaginesi, ahimè!)
per calare in mezzo alla scuola; ma come fui giunto là, scambio
d’inginocchiarmi, voltai verso l’uscio, colla ferma intenzione di
andarmene. Ma quell’altro, che forse mi aveva letto negli occhi il
proposito ribelle, mi fu addosso d’un salto, mi gravò la sua larga
mano sulle spalle, facendomi andar giù, se non proprio come voleva lui,
sulle ginocchia pur troppo.

— Hai dato cattivo consiglio; — soggiunse poscia, mentre ancor lavorava
per farmi inginocchiare davvero; — lo confessi, e vuoi sfuggire la
pena? In ginocchio, ti dico. Tanto meglio, se ti dispiace. E qui, —
riprese, dopo un istante di pausa, sentendomi dare in uno scoppio di
pianto, — ci hai la posizione più conveniente per pregare. Prega Dio,
— conchiuse, — prega Dio fervidamente, per tutti quelli che han preso
Peschiera; prega Dio che riescano a prender Verona!



Il primo errore.


Giunto dalla sua natale Germania a Parigi, e prendendo da viaggiatore
coscienzioso a visitarne i monumenti, Enrico Heine non tralasciò
di dare una capatina nei dintorni, fino alla celebre abbazia di San
Dionigi. Colà, osservando il luogo dove il santo era stato decapitato,
e meravigliandosi forte al racconto dello scaccino, che il santo
sullodato avesse fatto ancora una ventina di passi dopo aver perduta la
testa, si sentì soggiungere, quasi a spiegazione del miracolo: «Vous
savez bien, monsieur, il n’y a que le premier pas qui coûte». Quello
scaccino aveva ragione, ed io lo so per prova, che senza testa, o senza
cervello, che negli effetti è tutt’uno, ho fatto il mio primo passo;
donde avvenne che facessi poi tutti gli altri, ahimè, sulla via del
Parnaso.

Avevo io otto anni? nove? dieci? Non so più bene. Potrei forse
orientarmi chiedendo ai miei concittadini in che anno monsignore
Riccardi di Netro fosse stato nominato vescovo di Savona e avesse fatta
la sua visita pastorale per tutti i borghi della sua diocesi. E forse
il saperlo mi gioverebbe poco, essendo anche possibile che il degno
uomo fosse andato parecchie volte in volta, e più d’una, a buon conto,
fino al monastero della Pace, sopra Albisola, dov’io ragazzo ebbi
l’onore di avvicinarlo; e fu quello il giorno fatale del primo errore,
del primo peccato letterario, che portò poi tutti gli altri,

                    onde sovente
    Di me medesmo meco mi vergogno.

Mi confesserò di quel primo, e voi mi darete la penitenza; se pure
non crederete che io n’abbia già fatte abbastanza. Ma raccontiamo con
ordine, e premettiamo quanto è da premettere.

Il mio babbo era un gran filarmonico nel cospetto di Dio e degli
uomini; tanto che, non contento di suonare per suo conto e diletto
parecchi istrumenti, aveva formato un concerto musicale, e diciamo
pure una banda, provvedendo del suo gli arnesi sonori alla più parte
dei soci dilettanti. Io, naturalmente, partecipavo a tutte le comparse
della Banda Nuova (era questo infatti il suo nome, per contrapposto
alla Musica Vecchia), andavo a tutte le feste cittadine, a tutte le
funzioni di chiesa, a tutte le sagre dei dintorni, a Lavagnola, a
Zinola, ad Albisola, sempre affidato al braccio amico (vedete come
mi fiorivano fin d’allora le rime) di Ninetto Cerisola. Il Ninetto,
come più comunemente lo chiamavano, tralasciando il cognome, era un
ometto (e dàlli con le rime!) piccoletto, ma forzuto e barbuto, che
appunto per quella sua barba folta e nera, aveva meritato il posto di
zappatore nelle gloriose legioni della guardia civica. Di professione
era staderaio, cioè a dire fabbricava, vendeva, aggiustava bilance; a
tempo avanzato suonava il trombone, quel bel trombone antico, senza
chiavette, che dava le note secondo l’allungarsi e il raccorciarsi
delle sue canne di ottone. Ricordo che il giorno della festa solenne
al convento della Pace, dovendo suonare sull’orchestra della chiesa,
io avevo trovato il modo di ficcare nel tronco interno di quelle canne
mobili un turaccioletto di sughero; onde l’amico Ninetto, per soffiar
che facesse, non riusciva a mandar fuori una nota. E non protestava
neanche, il poverino; che anzi faceva le viste di non avvertire
l’impedimento. S’era fatta, prima della Messa cantata, una colazione
desinatoria; ed egli forse dubitava di aver alzato un po’ il gomito,
di esser brillo, insomma, e di averne impacciate le labbra; cose che
càpitano ai suonatori, che sono uomini come tutti gli altri del seme
d’Adamo, e sanno che il buon vino non rispetta nessuno. Fors’anche, un
po’ alticcio davvero, non aveva badato più che tanto se il suo trombone
suonasse o non suonasse? Certo è che quando gli amici, avvisati della
burla, gli fecero complimenti per la sua cavata, che quel giorno era
stata magnifica, egli subito, con bella modestia, rannicchiando le
labbra tra i peli della barba, rispose:

— Si fa quel che si può. —

Solo più tardi, levando dalla ritorta le canne dello strumento, ne
visitò le due bocche.

— Ah birichino! Siete stato voi? — mi gridò, mentre si disponeva a
levare da una di quelle il turacciolo traditore.

Ma egli mi voleva tanto bene, che quella mia burla atroce gli parve la
trovata più bella e più spiritosa del mondo.

Monsignore aveva pontificato, e dopo il vespro era sceso in refettorio
coi frati. La banda, allineata nel corridoio, aveva rallegrati i
principii, la zuppa e credo anche il fritto, col coro dei «Lombardi» e
con l’altro del «Nabucco», non dimenticando la preghiera dei «Foscari»
per assòlo di trombone. Non c’era più turacciolo, e il Cerisola aveva
fatto prodigi. Inorgoglito del suo trionfo, si era levato a più superbi
voli; aveva intravveduto un’idea, l’aveva inseguita, afferrata al
varco, e la presentava calda calda ai compagni.

— Non si può mica suonar sempre! — diss’egli. — Se alle frutta tutto
il corpo filarmonico si presentasse in refettorio per cantare un
complimento al vescovo?...

— Un complimento! — si gridò, colti all’impensata. — E cantarlo! Che
cosa sarà?

— Un coro, un coro d’opera conosciuta, con parole adattate; — riprese
il Cerisola.

— Allora ci vogliono i versi. E chi li fa i versi?

— Eh, se il signor Luigi volesse....

Così dicendo, il Cerisola s’era rivolto al mio babbo. Ma il mio babbo
accoglieva la proposta con un’alzata di spalle, che mandava il Cerisola
a farsi benedire. E il Cerisola, scambio di andarci, si rivolse a me,
che gli stavo vicino.

— Li farete voi, allora; — soggiunse.

Ninetto Cerisola mi sapeva studioso, e mi credeva capace di tutto.
Infatti, dopo il turacciolo!....

— E perchè no? — risposi. — Se mi date la musica....

Era fresca la memoria della «Lucia di Lammermoor», cantata al teatro
Sacco, allora il primo di Savona, essendo anche l’unico. Un coretto
del second’atto di quell’opera parve la man di Dio. Lo sapevano tutti
a mente; e non domandava altro al poeta che una strofetta di quattro
settenarii. Anch’io, per bacco baccone, mi sentivo capace di tutto.
Cavai la matita, e sul primo pezzetto di carta che mi venne alle mani
scrissi i miei versi, senza pur dimandare la necessaria ispirazione
ad Apollo. Ninetto Cerisola li lesse, li trovò sublimi, e li portò a
leggere al mio babbo, che fece un gesto di orrore, e poi, rivolgendosi
a me, accennò con la palma levata la voglia imperiosa d’un solennissimo
scapaccione. Ma egli era abbastanza lontano, ed io stetti a grinta
dura, mentre Ninetto Cerisola, il primo e credo anche l’ultimo
predicatore della mia gloria, rileggeva ad alta voce i maravigliosi
miei versi al corpo filarmonico, che in atto di curiosità, gli si
stringeva d’attorno.

    «Salve, pastor Sabazio,
    Nostro sostegno e onore;
    I palpiti del core
    Noi consacriamo a Te.»

Di peggiori non si poteva farne, lo riconosco: ma allora pensavo come
Ninetto Cerisola; li trovavo anch’io maravigliosi, sublimi, specie
rivestendoli già nella mia mente con le note del Donizetti. Erano,
dopo tutto, cantabili a quel dio; e il Ninetto li attaccò bravamente
con la sua vocina di tenore bari.... stonato. Il Forzani, il Ghisolfi,
il Lanza, il Casella, il Bibolini, tutti insomma quanti erano i nostri
filarmonici, si affrettarono a ricopiarli. Ed aiutavo anch’io (vedete
degnazione d’autore!); sicchè in pochi minuti ne tirammo giù una
ventina di copie. E quando si videro uscire dal refettorio gli avanzi
dell’arrosto cogli avanzi dell’insalata, segno evidente che là dentro
si passava alle frutta e al formaggio, fatta giungere discretamente
all’orecchio del padre guardiano la voce che i suonatori della banda
volevano cantare un complimento a Monsignore, si spalancarono i
battenti dell’uscio, e la banda penetrò, fortunatamente inerme, nella
sala dei banchettanti; ma ognuno degl’irrompenti avea tra mani spiegato
il suo pezzetto di carta, da farli parer tutti camerieri che portassero
il conto. Al rumore di quella entrata improvvisa, Monsignore alzò la
sua bella faccia petrarchesca, che m’è rimasta impressa nella memoria,
tanto che mi pare di averla sempre negli occhi. Ci fu un momento di
silenzio: i filarmonici si erano messi in fila. Poi, apriti cielo,
venti bocche si schiusero ad un cenno, e fu un grido allora, un urlo
solo:

    «Salve, pastor Sabazio,
    Nostro sostegno....»

e il resto, che per amore di brevità si omette, ma che laggiù, in
quell’ora solenne, fu cantato a squarciagola, bissato, rinterzato, se
ben ricordo, senza richiesta, ma non senza una benevola rassegnazione
dei commensali assordati. Qualcuno, di certo, si sarà doluto in cuor
suo; ma, da buon cristiano, n’avrà fatto, come si usa di tutti i
dolori, un’offerta al Dio degli afflitti.

Monsignore di Netro non aveva da liberarsi in quel modo da nessuna
afflizione. Appariva dolcemente commosso da quella dimostrazione,
tanto più affettuosa quanto più rumorosa. Certamente per modestia
s’era fatto rosso in volto come una fravola montanina, e tratto tratto
dondolava il capo, così in atto di ringraziare, come di nascondere
la sua confusione. Finito il canto, lodò con belle parole i cantori
del cortese pensiero che li aveva mossi; ma voleva anche lodare il
poeta, e per lodarlo, per ringraziarlo particolarmente, gli bisognava
conoscerlo. Io, veramente, non avevo preveduto quel desiderio
episcopale. Ero così lontano dal credere che in quella dimostrazione
canora ci potessi entrar io per qualche verso, che non avevo dubitato
di ficcarmi ancor io tra i cantori, prendendo sbadatamente il mio
posto in fila, tra il Ninetto, ch’era un cosettino tant’alto, e il
Casella, che era un mezzo gigante. Il Casella, per l’appunto, sentito
il desiderio di Monsignore, mi afferrò amorevolmente pel colletto, e mi
cacciò avanti, dicendo:

— Signor vescovo, eccolo qui il poeta.

Monsignore sorrise al «signor vescovo» e poi volle veder da vicino
il poeta. Non c’era più modo di scapolarla: ci andai, come la biscia
all’incanto: ci andai, confuso e tremante, girando dietro a dieci
o dodici schiene. Alla sinistra del vescovo una sedia si trasse un
pochettino da lato, tanto che v’ebbi un po’ di spazio per accostarmi
al mio «pastor Sabazio» e per baciargli l’anello pastorale, che s’era
benignamente sollevato all’altezza delle mie labbra. Beata età, che la
bocca dell’uomo può ancora esser fatta per baciare anelli di vescovi e
destre di nonni!

Ma il mio «pastor Sabazio» voleva anche discorrere, sapere dei miei
studi, della classe, del collegio, dei maestri, dei libri prediletti,
perfino della via che mi proponevo di scegliere quando fossi entrato
nel mondo.

— Studia sempre, ragazzo; questo serve per ogni via; — mi disse, quando
gli ebbi tra male e peggio barbugliate quattro o cinque risposte. — E
dimmi, intanto, sai già bene il latino?

— Sì, Monsignore, un poco; — risposi a faccia fresca.

Infatti, perchè no? Ero già uscito dai latinucci, sfranchito dalle
concordanze, e poteva parermi che non ci fosse più altro da spartire
tra me e la difficoltà della lingua di Cesare.

— Bene; — ripigliò Monsignore; — conoscerai dunque il proverbio:
«Carmina non dant panem....»

— «Sed aliquando famem;» — soggiunsi io inanimito, compiendo il
pentametro.

— Lo sai tutto? Me ne compiaccio. Ma sappi ancora, che quel proverbio è
falso; ed io mi sento di fartene la dimostrazione. —

Così dicendo, il mio bel Petrarca in mezzetta si levò da sedere, prese
un coltello, stese la sua bella mano bianca e morbida verso una gran
torta dolce che stava davanti a lui, ancora intatta, nel mezzo della
tavola; e colla punta del coltello ne tagliò a fondo il cuore, che
portava il suo nome in lettere di rilievo e di zucchero. Ciò fatto,
ficcò sotto quel rocchio la punta del coltello, e d’un colpo lo fece
balzare nel suo piatto, che con l’altra mano era stato pronto ad
accostare.

— Vedi? — riprese allora, porgendomi il piatto. — I carmi dan pane; ed
è pan di Spagna, salvo errore, o qualche cosa di simile. —

Poi, col rovescio della mano, anzi diciamo col sommo delle dita
affusolate, mi diede un colpettino sulle guance. Era il commiato; ed
io, fatto un mezzo inchino, mi affrettai a prendere il largo. Cioè,
dico male; non potei affrettarmi, poichè ero allo stretto, fra la
parete e quella fila di sedie, che s’erano tutte un po’ mosse, per dar
modo ai sacri commensali di voltarsi sul fianco e di farmi anch’essi
il loro complimento. Il padre guardiano, prima di tutto, m’aveva
fatto un sorriso di vecchio conoscente; ed io lo sentii, mentre uscivo
dalla stretta, che diceva a Monsignore com’io fossi stato a balia poco
distante di là. Insomma, un primo trionfo, un trionfo inaudito; ed io
non ne portai le spoglie opime a Giove Feretrio, perchè facevo conto di
sgranocchiarmele, appena fossi giunto nel corridoio.

Il mio babbo era là, non troppo scontento, a dir vero, ma ancora un po’
buzzo, come fa il tempo quando non vuol mettersi d’un tratto al sereno.

— È dolce il primo pane che guadagni coi versi; — mi diss’egli,
con accento canzonatorio. — Ma non t’ingannare; potrebbe anco esser
l’ultimo. —

Io non volevo scapaccioni, cose che in verità non sarebbero state da
trionfatori. Chinai il capo sotto la ràffica, e scappai all’aperto
col mio buon rocchio di pan di Spagna. Laggiù, mentre lo sgretolavo
allegramente, mi venivano certi pensieri di gloria, che me lo facevano
parere anche più dolce. «Per una strofetta di quattro settenarii!»
dicevo tra me. «Che sarà mai quando farò i quattordici endecasillabi
d’un sonetto? o le sei stanze, le otto, le dieci d’una canzone?»

Sonetto e canzone mi ronzarono nel cervello un bel pezzo; ed anche
mi provai quell’anno a farne su parecchi argomenti; ma mi riuscivano
troppo difficili per la giusta collocazione delle rime. Quanto ai
versi, niente paura; ne avevo le sillabe sulla punta delle dita, dove
potevo contarle nei casi dubbi; e già avevo messa in endecasillabi
sciolti l’Epitome della Storia Sacra. Ne ricordo un verso per
l’appunto:

    Qui venne a morte Giosìa il gran rege;

un verso cane, anzi un verso da cani, che meritava d’esser legato.
Infatti lo sciolto era ancora un osso duro per me. Ma dal giorno
del pan di Spagna in poi, quanto durarono i miei studi classici alle
Scuole Pie di Savona, feci versi a tutto spiano, di tutte le misure,
ogni giorno. Mi fortificavano nel proposito le cortesie episcopali,
che non s’erano mica fermate a quella vistosa rotella di torta dolce.
Figuratevi che una volta per settimana, e magari due volte, mentre
io giuocavo alla palla, e mi era stadio la piazzetta del Vescovato,
capitava il buon Tommaso, il vecchio servitore di Sua Eccellenza (mi
par di vederlo ancora, con le sue brache corte, le calze nere, le
fibbie d’argento alle scarpe e la sua smilza faccia incartapecorita
sotto i ciuffetti della parrucca biondiccia), e passandomi rasente
mi faceva scivolare tra le mani una palla, spesso nuova, fiammante,
ora di cuoio d’una tinta, ora a spicchi di pelle variamente colorata.
Monsignore non le faceva fare a bella posta per me, intendiamoci
bene. Erano palle sperse, che da una parte o dall’altra, ma più
frequentemente dalle spalle del Duomo, in certe volate di giuocatori
mal destri, andavano a cascare entro i giardini dell’episcopio. Rimaste
là senza padrone, era giusto che si regalassero a me, dopo la scena
della Pace. Ma quei regali, che mi riempivano il cuore d’allegrezza, mi
procacciarono invidie non poche; ed ebbi allora i miei primi Zoili, e
Mevii e Bavii «sine fine dicentes». Nè voglio tacere un’altra cortesia
di Monsignore, che quante volte, uscendo a passeggio, m’incontrava per
via coi miei libri ad armacollo, mi fermava amabilmente per domandarmi
notizia delle mie «dotte fatiche» e con un «da bravo, continua a
studiare,» mi dava il piacevol commiato del suo colpettino sulla
guancia; specie di cresima transitoria, che non aveva più da imprimer
carattere, ma che valeva a confermarmi la sua benevolenza.

Povero mio «pastor Sabazio!» Egli era certamente animato da una buona
intenzione, usando cortesia al suo piccolo poeta. Ma se io non mi
fossi inuzzolito per quel troppo dolce premio al primo saggio della mia
Musa in fasce, tutt’altri guai non sarebbero mica avvenuti; il babbo
m’avrebbe avviato al commercio, e magari ci sarei diventato milionario.
Dicono che sia così facile! E onestamente, badate, onestissimamente.
Si comincia a trafficare; si tiara avanti un bel poco; poi si
fallisce, offrendo ai creditori l’ottanta per cento. Abboccano tutti, e
promettono a sè medesimi, tanta è la loro maraviglia, di farvi fido per
un’altra volta. Voi ripetete il giuoco, s’intende; lo ripetete magari
una diecina di volte, sempre col medesimo frutto, del venti per cento
in tasca. «Poveraccio!» gridano a gara; «è disgraziato, ma galantuomo.
Che si canzona? l’ottanta per cento! chi è che lo dà più, a questi lumi
di luna?»

Il mio racconto ha un’altra morale; ed è questa. Ragazzi, studiate,
se vi pare; lo studio ha qualche utilità nella vita, e non bisogna poi
fidarsi tanto di certi esempi fortunati. L’essenziale è che studiando
non vi pigli la manìa di far versi. Guardatevi bene dal primo errore;
si sa come si comincia e non si sa.... Cioè, mi spiego, si sa pur
troppo dove si vada a finire.



Ceppo in famiglia.


«Ricòrdati che Ceppo si fa in famiglia» mi scriveva mia madre. «E dove
mai si è più in famiglia che dal nonno?»

Mia madre ha sempre ragione; ma quel giorno l’aveva due volte. Sicuro,
si è più in famiglia nella casa del nonno, quando ci sono intorno a
lui le due generazioni, raccolte alla sua mensa. Ceppo è una gran gioia
domestica, in cui si associano e si compenetrano due religioni; quella
dell’acqua che ci ha battezzati, e quella del fuoco intorno a cui siamo
cresciuti. Aggiungete che sotto Natale fa freddo, e quando fa freddo
ci si stringe volentieri gli uni di costa agli altri, e volentieri ci
si scalda a quel ceppo, che è simbolico quanto si vuole, ma che arde
davvero; e si mangia di buon appetito a quella tavolata, dove si è
tutti congiunti di sangue, e per un’ora, se Dio vuole, anche d’idee.
Quello è il giorno che niente rimane sullo stomaco, neanche il panforte
di Siena, e niente dà al capo, neanche la malvasìa di Sardegna.

La mensa del mio nonno materno era celebre per un certo vino del Sinai,
dorato come il Cipro, ma anche più asciutto. Gliene ho assaggiato
tanto, di quel vino! e non ho date le tavole della Legge sulle corna
di nessuno. È vero, per altro, che non mi era mai stato affidato
l’incarico di far sentire a nessuno che la legge è dura.

Ma per quella volta, ricevuta la lettera della mamma, non pensai punto
al vino del Sinai. Mi si offerse in quella vece agli occhi della
mente la vecchia casa del nonno, là sulla marina di Finale, tra la
mole giallognola del palazzo Buraggi, che cresceva da levante, e lo
smisurato masso ferrigno della Caprazoppa che cresceva da ponente, con
la distesa del mare davanti, e con la riva sonante, dove io bambino
avevo edificati tanti castelli, contornati di fosso, protetti da
sproni, cavalieri e palizzate di ciottoli. Perchè io, grazie al cielo,
non ho mai fatto castelli in aria, e sempre ho fabbricato sul sodo.
Ma, ohimè, veniva la sera; il mare cresceva, e un maroso più lungo
incominciava a seppellirmi la palizzata; un altro, anche più lungo, mi
spazzava lo sprone; un terzo mi colmava il fosso; un quarto, più lungo
di tutti, mi entrava dai merli, e mi mandava a casa mogio mogio come un
pulcin bagnato.

Ed anche il viaggio a Finale, che gioia! Si partiva ogni anno due volte
da Savona, con la vettura di Belloro (così chiamato, perchè il suo
vero nome era Podestà, e nei nostri paesi non c’era caso che uno fosse
chiamato col suo vero nome); si vedeva Zinola, colla sua esposizione di
pentole al sole; Vado, coi suoi fortini e la sua rada sicura («statio
bene fida carinis», dicevo già io, peccatore precoce di citazioni
latine); Spotorno con le sue fornaci di calci e col suo parroco,
che pretendeva essere stato là per rifugio il re dei Rutuli vinto da
Enea, tanto che rimase alla terra il suo nome: «ultima spes Turni;»
e davanti a Spotorno la verde isoletta di Bergeggi, con le rovine del
famoso convento di Sant’Eugenio e col suo misterioso tumulo preromano
sulla vetta; poi Noli turrita, davanti a cui si suol recitare un verso
di Dante, e sulla cui spiaggia io ricorderò sempre di aver salvata
la vita ad un pesce. Passavo un giorno di là, nella solita carrozza,
mentre alla spiaggia si tiravan le reti. Smontai, curioso, per andare a
vedere la pesca miracolosa. Furono magri affari, poichè in fondo alla
rete non era rimasto altro che un pesce. Lo comperai. Era una triglia
adolescente. «Va» le dissi, gettandola in acqua «cresci e moltiplica».
Non so se abbia principio da quella mia liberalità l’abbondanza di
pesce sulla spiaggia di Noli.

E poi, dopo Noli e il suo rosso promontorio, la penisola grigia di
Varigotti, della rupestre Varigotti, che piace tanto a me, quanto
spiacque a Rotari, e alla amministrazione delle strade ferrate
italiane. Il primo la distrusse; e questa per molti anni non volle
considerarla come rifabbricata. Poi Final Pia, con la sua valle di
mandorli, che la fanno parere un paesaggio giapponese alla stagione
dei fiori, e col suo bel ponte su cui si faceva la fiera, il giorno
dell’Assunzione. Insomma, che dirvi di più? Tutte le gioie di tanti
viaggi, concentrate in uno, che io avrei fatto, dopo molti anni
d’assenza dalle rive beate della beatissima età. E lo avrei fatto
come per l’addietro, quel viaggio, cioè a dire in carrozza; perchè in
quell’anno, che fu il 1870, la strada ferrata da Genova a Ventimiglia
non era compiuta, e giungeva solamente a Savona. Avrei sentito l’odore
dell’argilla fresca sulla riva di Zinola; quello dei rami di pino
davanti alle fornaci di Spotorno; quello delle alghe rigettate dal mare
alla spiaggia di Varigotti; a farla breve, tutte le fragranze del buon
tempo antico. E avrei sorriso per giunta davanti a quell’«Ultima necat»
di una certa meridiana di Spotorno, che m’aveva dato tanto da pensare
nel mio primo anno di latinità, volendo io tradurre da me, senza
chiedere aiuto a nessuno.

Con queste promesse di gioia, partii la mattina istessa del Natale,
da Genova, dopo aver dato licenza alla cuoca di andarsene per i fatti
suoi. La brava donna mi aveva ringraziato, lieta di far Natale col suo
maritino. «Benissimo!» le dissi. «Anche voi farete Ceppo in famiglia.
Statemi allegra.»

E m’avviavo alla stazione, con una splendida aurora. Il cielo era
di cobalto; l’aria niente fredda; pareva un bel mattino d’autunno.
E a nessuno veniva la voglia di viaggiare, quel giorno! Ma già, si
capiva, era Natale; e ognuno stava più volentieri a casa sua. Quelli
che dovevano andarla a cercare per quella occasione solenne, già
l’avevano trovata, essendo partiti la vigilia. Così avvenne che quella
mattina, al primo treno, io non avessi altri compagni che cinque o sei
viaggiatori di terza classe, due o tre di seconda, e nessuno di prima.
Tanto meglio, infine! regnavo da solo nel mio scompartimento «per
fumatori».

E non si partiva mai! Chi aspettavano ancora? Io, prima che il treno si
movesse, avevo già letto i pochissimi giornali usciti quella mattina,
pieni zeppi di fatti varii con tanto di barba, scarsi di notizie
politiche e senza ombra di telegrammi. Nei giorni di festa, si sa,
e nelle vigilie dei giorni solenni, non accade mai nulla nel mondo,
o l’Agenzia Stefani non permette che accada. Finalmente il treno si
mosse. E usciti di sotto alla tettoia, povero cobalto dei cieli! s’era
fatto grigio; mistura di bianco e nero fumo, per mezzo a cui tremolava
cadendo qualche fiocco di neve.

— Ah bene! — esclamai. — È natalizia in sommo grado, la neve; ben venga!

E venne, a mano a mano più fitta. A Sampierdarena i fiocchi apparivano
più grossi; a Sestri non eran più fiocchi, ma falde, a Voltri, dov’è
tanta fuliggine di camini per la frequenza degli opifici, non si vedeva
altro che bianco; ad Arenzano, non so come, la neve mi entrava nella
carrozza. L’ebbi per un miracolo, poichè i finestrini erano tutti
chiusi, con quel tanto d’impenetrabilità che l’amministrazione delle
strade ferrate assicura al suo materiale viaggiante. Miracolo, adunque,
e miracolo noioso. Ma infine, ero solo, e potevo sedermi su d’uno
dei bracciuoli di mezzo, poichè già dai due lati mi si erano formati
dentro lo scompartimento due bei poggi di neve. Ridevo, alla stranezza
del caso, e fumavo; fumavo, come un altro Mongibello, con la neve da’
piedi.

Di fuori non si vedeva una spanna più in là, tanta era la furia del
nembo. Come si giunse a Savona, calai prontamente, e fuggii dalla
stazione, senza fermarmi neanche a domandare per qual ragione mi fosse
nevicato in carrozza. Arrivai sulla piazza del Fosso, come si diceva
anticamente, con la neve a mezza gamba; e là, senza perder tempo a
salutare il mio illustre concittadino Chiabrera, scolpito sul timpano
del teatro che porta il suo nome, entrai nell’ufficio dei signori
Botta e Passeggi, per ordinare una vettura. Niente vetture. — O come!
— Scusi, ma è Natale. — Ebbene, non è dunque possibile viaggiare, nel
dì di Natale? Se ci fossero degli ammalati, e il bisogno urgente di
un medico? — Verissimo; e si potrebbe anche attaccare per lei, che non
è medico; ma con questo tempo? Sarebbe da matti. — Mettete che io sia
matto, e fate attaccare; a qualunque prezzo. Venti, vi bastano? — No.
— Trenta.... quaranta.... sessanta? — No, neanche per cento. — Ah, per
tutti i settecento.... settantasette mila diavoli! come si fa? —

Mi rivolsi ad un crocchio di vetturini, che stavano chiusi nei loro
mantelli, su d’un portone, fumando la pipa e meditando sulla tristizia
dei tempi. C’era tra essi il vecchio Piuma (così detto perchè veramente
di cognome si chiamava Cerisola), il vecchio Piuma, amico mio, che
m’aveva conosciuto bambino, e tante volte mi aveva portato, studentello
in vacanza, da Genova a Savona, e viceversa. — O Piuma, gli dissi, se
dura in cuor vostro una favilla dell’amor primiero, portatemi voi a far
Ceppo in famiglia. Anche la mamma, per cui avete tanta divozione, ve ne
sarà molto grata.

— Impossibile, — mi rispose. — Non vede che tempo? I cavalli non ce
lo farebbero. E poi, dove s’andrebbe? Giù da una balza, di sicuro, a
far Natale coi pesci. Una cosa posso fare, e la faccio di cuore....
invitandola a venire a far Ceppo da me. —

Ringraziai, non intenerito, e andai a rifugio sotto i portici della via
Paleòcapa. Non mi piaceva restare sul Fosso, dove ero già la favola di
tutti i vetturini. Ma là, sotto i portici, diventai presto la favola
di cento amici d’infanzia. — Come tu qui, oggi? che buon vento? Ah
sì, cattivo, non è vero? Poveraccio! e volevi andare a far Ceppo in
famiglia? Abbi pazienza. Un’altra volta partirai la vigilia. Vieni da
me, a far Natale. Da me! da me! Si vuol ridere! —

Ah, sì? ridere? niente affatto; riderete da soli. E liberatomi da tutti
gli inviti, da tutte le canzonature, andai alla stazione, dove aspettai
il treno delle quattro, che doveva riportarmi a Genova. Al nonno e alla
mamma avevo mandato un telegramma, raccontando la mia disgrazia. Quello
partiva, almeno; quello andava a far Ceppo in famiglia.

Alle quattro, santa puntualità, il treno si mosse. Anche quella volta
fui solo. Il ritorno fu peggiore dell’andata. La neve continuava a
penetrare nello scompartimento, e faceva i suoi mucchi; ma io non
fumavo più, perchè avevo oramai consumata la provvista dei sigari; e i
tabaccai di Savona, come quelli di ogni altra terra italiana, facevano
Ceppo in famiglia; donde la necessità di tener chiuso l’appalto, più
ermeticamente d’una carrozza di prima classe. Ah, il mio ritorno! Se
io son pure arrivato a Genova, n’ho debito alla cortesia del tempo, che
fece strada con me.

Giunsi intorno alle sei. E là, sul lenzuolo bianco della piazza
Acquaverde, non c’era altri che Cristoforo Colombo, occupato con
una mano a scoprire l’America, e coll’altra a reggere un’áncora.
Non poteva, per conseguenza, indicarmi una vettura di piazza. Non ce
n’erano, del resto; ed io, per la strada più corta, in un’ora di stenti
inauditi, mi trascinai fino a casa, con la neve fin sopra al ginocchio.

Abitavo nella via di San Luca, figuratevi! Pure, poichè volere è
potere, ci giunsi, e indovinai anche il portone, ma senza toccare la
bella soglia di rosso antico, che due palmi di neve sottraevano alla
vista e alla cupidigia degli inglesi. Gli inglesi, si sa, voglion
comperare tutto a peso d’oro; e sono i ciceroni che lo affermano.
E a Genova, tra le cose che gli inglesi vogliono sempre comperare a
peso d’oro, ci sono i leoni dell’Università, il portale del palazzo
di Andrea Doria in piazza di San Matteo, e la soglia del mio portone
in via San Luca. Dico mio, così per dire; ma qui l’aggettivo non è, a
rigor di termine, possessivo; non indica o piuttosto non indicava altro
che l’uso, il diritto di passaggio.

Quando fui alle scale non ne potevo più dalla fatica, e fu miracolo
davvero se mi arrampicai fino al terzo piano, dov’era il mio
quartierino. E là, niente cuoca; niente cucina; niente sotto la mano,
da mettere sotto il dente. La cuoca io l’avevo mandata a far Ceppo
in famiglia; nè mai avevo posto piede in cucina, e non sapevo dove la
brava donna tenesse in serbo la roba. Mi sarei contentato di così poco!
Una crosta di pane, a quell’ora, mi sarebbe parsa la man di Dio.

Potevo escire, e andare alla ventura, o in qualche osteria, o da
qualche famiglia d’amici. Ma con quel metro di neve! conciato com’era!
e come mi avrebbe conciato dell’altro quella bianca poltiglia, se pure
avessi avuta la forza di mutar abiti! E poi, non avrei fatto ridere a
Genova, come avevo fatto ridere a Savona? Ceppo in famiglia! Sì, ancora
una volta, Ceppo in famiglia. Dovevo starci, e ci stetti. E digiunai,
per conseguenza.

Solo il mio spirito si era nutrito, quel giorno; solo il mio intelletto
si era arricchito di una cognizione utile, raccolta dai frenatori, alla
stazione di Genova. Quando nevica così fitto, non basta tener chiusi i
finestrini; bisogna chiudere ancora gli sfiatatoi.

Ma tutto ciò non fece tacere gli stimoli di una fame da lupi. Ed anche
ora, quando ci penso, quella fame io la vedo; e riconosco facilmente di
non avere nessuna disposizione per seguire l’esempio del Succi.



Camene ligustiche.


I miei genovesi della nuova generazione respirano bene, quando vanno
passeggiando sui larghi marciapiedi della via Roma, aperta per essi in
una collina di tufo, attraverso alle viottole di Piccapietra e delle
Fucine. Respirano meglio, quando giungono sulla gran piazza, a cui non
si è ancora pensato di dare un gran nome; nella gran piazza, io dico,
inquadrata nel verde di due colline in declivio, dove hanno da ammirare
tanta ricchezza di piante, tanti bei giuochi di luce, mentre Vittorio
Emanuele li saluta cortesemente dall’alto del suo cavallo di bronzo,
avendo l’aria di dire: «Avanti, signori, senza cerimonie, vadano dove
vogliono. Dietro a me si aprono a ventaglio tre vie, anzi quattro,
anzi cinque, tutte signorili ed ariose. Possono anche salire di qua,
sulla loro diritta per andare all’Acquasola; ma io, se permettono,
consiglierei di prendere a mancina, per di qua, dove si sale alla
Villetta, dietro al mio amico Mazzini».

Respiro anch’io, accettando il consiglio, e volgendomi alla Villetta;
ma cambio facilmente il respiro in un sospiro tanto fatto. Quei viali,
quei sentieri, quelle redole che si vanno inerpicando lassù, erano
campo, anzi labirinto, alle passeggiate romantiche d’un tempo che
fu; del tempo in cui le signore genovesi amavano ancora portare il
pezzotto, quel velo d’aria tessuta che le rendeva così belle, come si
può vedere e giudicare dall’ultima che si ostina nobilmente a portarlo,
lassù, nella chiesa dell’Immacolata, e in un quadro di Nicolò Barabino.

Sui giardinetti dell’Acquasola, come allora si chiamava quel poggio,
incombeva lo sprone di una fortezza; quello sprone oggi mutato in
una rupe artificiale, dove l’acqua della Scrivia è salita per darci
l’illusione di una cascata, e far prendere, dicono, una boccata d’aria
sana ai suoi dolci microbii. La fortezza è sparita; la Villetta che
c’era dentro s’è trasformata in un parco di piante esotiche; il palazzo
che era fabbricato nella Villetta, e che offriva un nobile asilo alle
Muse nella prima metà di questo secolo morente, non ha più il suo
cultore, il suo poeta, «Musarum sacerdos»; ma non si può dire che abbia
mutata del tutto la sua destinazione, se si è trasformato in Museo. In
mezzo alle palme, che lo nascondono agli occhi della gente, il civico
Museo di Storia Naturale è sempre, e forse più di prima, una bella
cosa; è l’oasi scientifica della prima città commerciale del regno.

Quanto intelletto d’amore ha presieduto alla fondazione di questo
Museo! Tutti coloro che ci hanno lavorato, e hanno dovuto lasciarlo,
ne sentono la nostalgia: ci pensano vivendo, se ne ricordano morendo.
Perchè ivi è una sola colonia felice di studiosi, capitanata dal
marchese Giacomo Doria, uno scienziato valente e modesto, diventato
celebre a suo mal grado, che un bel giorno il Senato e la presidenza
della Società Geografica sono venuti quasi contemporaneamente a
sequestrarci, come gloria italiana, e non solamente di Genova. Io non
racconterò la vita di Giacomo Doria. Dal viaggio in Persia ad oggi sono
passati circa trent’anni, tutti spesi ad esplorare, a raccogliere,
a studiare, a classificare le men conosciute specie zoologiche, a
trovarne di sconosciute, a dar notevoli contributi alla scienza,
fuor d’ogni aiuto governativo e quasi d’ogni plauso del pubblico. Il
Museo, che finalmente col concorso del Municipio genovese il Doria
era riuscito a fondare, dopo averci speso oltre a centomila lire
del proprio, è il deposito ordinato di veri tesori scientifici; gli
«Annali del Museo Civico di Storia Naturale» di Genova, diventati per
tipi, tavole e importanza di memorie, una delle prime pubblicazioni
zoologiche d’Europa, ne sono la illustrazione continua. Il dotto e
benemerito uomo è stato fatto anche consigliere, assessore municipale,
poi sindaco della sua città natale.

Da tutti questi uffici egli è uscito, per sua grande fortuna. Così
almeno mi pare. Alla patria, finalmente, si può servire in più modi;
e il migliore, per mio avviso, è quello che non dipende dal voto di
qualche milione d’elettori. Eletti, rieletti, non più eletti, siete in
balìa delle turbe e dei loro mutevoli criterii. L’ingegno, se ne avete,
non ve lo levano le urne; non ve lo dànno, se ne patite difetto. Io
anzi porto opinione (e non soffro osservazioni, soggiungeva quel tale)
che più un uomo vale per sè medesimo, e più sia disadatto agli uffici
elettivi. C’è dissidio mortale tra il valore intrinseco di un uomo e
i criterii estrinseci di mediocrità tollerata, per cui si mandano gli
uomini alle sommità del potere. E questo sia detto senza intenzione di
offender nessuno. Perchè infatti, lo riconosco ancor io, qualche volta
gli elettori s’ingannano; e allora scambio di scegliere i lor soliti
mediocri, che è che non è, vi mandano alle assemblee deliberanti (crepi
l’avarizia!) un certo numero d’uomini d’ingegno. Su questo errore è
fondata anzi la maggior fortuna che in certi periodi storici sembra
assistere la politica, la finanza e la coltura intellettuale di un
popolo.

Giacomo Doria ha fatto miracoli, lassù, nel museo della Villetta. Si
dice elitticamente la Villetta, e si sottintende la Villetta Di Negro.
Da principio, come vi ho detto, non era neanche una villetta, ma un
fortilizio eretto dalla eccelsa Repubblica a proteggere uno degli
angoli settentrionali delle mura di Genova; quelle, io dico, della
penultima cinta, che fu del secolo XV. Il forte, se ben ricordo, si
chiamava di San Giorgio. Era fuori dalla città; ora c’è proprio nel
cuore, poichè, senza contare l’ultima cinta, condotta nel Secento sulla
vetta dei monti, l’abitato della città si è esteso anche in alto, e
molte strade s’inerpicano alle spalle della Villetta; prima tra le
quali la bellissima via di circonvallazione a Monte.

Gl’inutili avanzi del forte furono nel 1805 comperati dal marchese
Gian Carlo Di Negro. Il quale mutò la piattaforma del castello in un
belvedere; e più giù, in mezzo al verde, alla vista del mare e dei
diecimila tetti di lavagna della sottoposta città, edificò la sua
palazzina, «ospizio delle Muse». Lui morto, il Municipio comperò la
Villetta; e l’ospizio delle Muse, lasciate solamente in piedi le mura
maestre, ridotto di dentro a più ordini di gallerie, fu tramutato in
Museo. Come vedete, siamo sempre lì con le Muse.

Quando io vado lassù, pei viali aperti a pubblico passeggio, penso
sempre a Gian Carlo, mia conoscenza di quaranta e più anni fa. Io ero
giovinetto, ed egli stravecchio, quando andai la prima volta in casa
sua. Ignoto ed infelice cultore delle Camene, volli conoscerlo anch’io,
facendomi presentare da Enea Gardana, un esule bresciano, famoso
dilettante di chitarra. Così il buon vecchio patrizio potè credermi
un seguace d’Euterpe, anzi che di Calliope, o d’altra delle vergini
Castalie. Gli bastò forse il sospetto, e non mi chiese nulla delle mie
occupazioni.

Alla mia età, che cosa potevo aver fatto, che meritasse di ragionarne?
Sapevo ascoltare, e fui bene accolto. M’invitò anche a pranzo; ma
seppi schermirmene, per gran paura che avevo. Ai pranzi del marchese
Gian Carlo andavano letterati magni; ad ognuno dei quali, via via che
morivano, egli faceva erigere un busto di marmo, su pei viali del suo
piccolo Pincio.

Il marchese Gian Carlo di Negro era un curioso tipo di gentiluomo,
poeta e protettor di poeti. La protezione, intendiamoci, non andava
oltre i pranzi, che avevano principio e prendevano il nome dal solito
«piatto di ravioli», un piatto che il suo cuoco aveva fama di preparare
assai bene. La sala da pranzo non era vasta: i commensali erano pochi
ma scelti. D’italiani ci passarono, nel corso di mezzo secolo, il
Monti, il Perticali, il Giordani, il Gagliuffi e tant’altri, tra i
quali anche Luigi Biondi, oggi dimenticato, forse a’ suoi tempi famoso
verseggiatore. Di stranieri, poi, quanti illustri ne capitavano a
Genova: noto, dei francesi, il Méry e Paul de Musset, fratello ad
Alfredo: ma la serie incominciava con nomi di maggior levatura; per
esempio con quello della signora di Staël.

Gian Carlo faceva versi, a tutto spiano, e li leggeva volentieri a’
suoi ospiti. Da giovane aveva scritto molto in francese, ed amava
spesso citare un suo «petit Carême» che non m’è mai avvenuto di
ritrovare dai librai, e neanche sui muricciuoli. Di versi italiani ne
aveva moltissimi, per ogni occasione; ma più specialmente epigrammi.
«Epiglammi» diceva lui, che, o fosse per vizio naturale o per la
perdita dei denti, non riusciva a proferir l’erre. Ne aveva scritti
ottomila, tutti rimasti inediti, nè so dove siano andati a finire.
Parecchi erano felici, ma tutti innocui: così poche punte aveva lo
spirito del benigno signore! Vissuto coi cigni, con le aquile, e magari
coi passerotti, volava come poteva.

Ho detto ch’egli leggeva volentieri i suoi versi; ma, cortese com’era,
convitava spesso gli amici per sentir leggere gli altrui. Un giorno,
dopo il ’40, si era sparsa la voce che Lorenzo Costa da Beverino avesse
data l’ultima mano al suo aspettato poema in dieci canti, il «Colombo».
Ma qui, prima di andare avanti, bisognerà fare una lunga parentesi, e
dirvi qualche cosa dell’autore del «Colombo».

Era un altro bel tipo, quel Lorenzo Costa, da Beverino, com’egli usava
firmarsi, prendendo nome dalla terra dov’era nato, nel 1798, e donde
era venuto a vivere in Genova. A vederlo passare per via, alto, di
grandi spalle, tutto d’un pezzo, incravattato, accigliato, si sarebbe
detto un presidente dell’eccellentissimo Senato. Non guardava nessuno,
e non si avvedeva di essere guardato; aveva quasi sempre qualcheduno
in compagnia, o prete o secolare, con cui parlava rado, a parole
pesate, senza volgere il collo intirizzito. Gran galantuomo, cattolico
osservante, sacrificava tutto il santo giorno alle Muse; anche per
istrada pareva intento ad ascoltare quello che gli bisbigliavano le
Pimplee nelle orecchie, ispide di peli come le grandi sopracciglia
olimpiche. Le Pimplee potevano dettargli in greco, poichè egli aveva
bene imparata la lingua dell’Ellade; ma più volentieri le faceva
cantare in latino: testimoni un «Theatrum Genuense», carme esametro
ispirato dalla apertura del nuovo teatro Carlo Felice, e un poema sulle
gesta di Andrea Doria, che poi non condusse a compimento. Ma presto
alle Muse latine sottentrarono ispiratrici le italiche, facendone
fede un «Inno» a Nicolò Paganini, di cui mi par utile riferirvi la
descrizione di una serata musicale del grande violinista, col pubblico
che fa silenzio nell’apparire di lui.

               . . . . . . . attesi
    Stanno gli sguardi nella man, che impugna
    Il magico istrumento, e innamorato
    L’animo corre degli orecchi al varco.
    Ei, dagli atti spirando e dal sembiante
    Tutta l’aura del Dio che lo governa,
    Procede a mezzo della scena e rompe
    L’alta quiete. All’arduo tocco impresso
    Dalle dita versatili, guizzanti
    Dal collo della cetra in fin là dove
    S’inizia un suono di più acuta tempra;
    All’atteggiarsi del pieghevol braccio,
    Ch’or dolce dolce i ben protesi nervi
    Liba volando, or li affatica e morde
    Subito e spesso, inusitato intorno
    Melodïoso fremito percote
    L’aer tremante. Egli talor d’un solo
    Tratto dell’arco le tre corde avvinghia;
    Talora in sulla grave egli s’appunta,
    E l’intima e l’estrema abbandonando,
    Il vario suono delle quattro in una
    Raccoglie intero. Con alterna vece
    Spesso adopra la manca, e alle soavi
    Liquide note fa seguire, in tempra
    Di giga o d’arpa, armonizzar concorde,
    E voci d’eco, e dei pennuti un canto,
    E umani accenti, ed un fragor di tesi
    Timpani, ed un sottil dolce tintinno
    D’argentee squille; nè mai cade in fallo
    Tenor d’accordi; e, sian veloci o lente,
    Acute o gravi, dal sonoro legno
    Volan le note ad incolpabil metro,
    Obbediente sì, ch’ognuno a tanto
    Poter di sovrumana arte impaura!

La citazione m’è venuta lunga: ma era necessaria, per dimostrarvi
l’arte squisita fin troppo, anche un po’ faticosa, che non vi lascia
modo di respirare, specie quando tutto, da capo a fondo, sia del
medesimo tono, della medesima squisitezza. Lorenzo Costa aveva il
difetto di far bello, ricercato, sublime, come altri ha quello di
far triviale, sbrodolato e bruttino parecchio. Su quel tono aveva
anche sentito un «Cosmo», poema in terza rima «ove la Creazione, la
Redenzione e la Glorificazione del Cristianesimo doveano mostrare i
tre regni temporali della grandezza di Dio, correnti ad unità verso
l’eterna beatitudine». Uso le parole del cardinale Alimonda, non avendo
io letto i pochi canti che del «Cosmo» furono pubblicati a suo tempo.
Dovevano essere trentadue, i canti; ma il poeta lasciò l’opera in
tronco, addolorato per avere inavvedutamente gittati ben dieci di quei
canti alle fiamme. Gran fatica davvero sarebbe stata a rifarli.

Riuscì in dieci canti il «Colombo». E quando Lorenzo Costa ebbe finito
il poema, fu una grande aspettazione sul Ligure Parnaso, o, per parlare
in lingua povera, alla Villetta Di Negro. Lorenzo era un ospite, un
assiduo; ci voleva un invito alla lettura solenne. Lorenzo si adattò,
giunse col suo scartabello, e lesse. Ma la lettura, era lunga (dieci
canti, che si canzona?) e Gian Carlo, sempre desto per leggere i suoi,
non era tale egualmente per sentir leggere i versi degli altri; perciò
si appisolava spesso e volentieri. Lorenzo, quando vedeva l’anfitrione
chinar la testa insonnolita sul petto, usava l’artificio di spinger la
voce; con che riusciva a fargli levar la fronte e aprir gli occhi. Ma
il povero Gian Carlo non reggeva alla fatica. Ad un certo punto, non
so bene se al sesto o al settimo canto, si addormentò senz’altro. Se
ne avvide Lorenzo, e calcò più che mai nella lettura, gridando tra gli
altri l’emistichio finale di un verso — «e dall’occaso all’orto» — con
voce che pareva di tuono; tanto che l’altro si svegliò di soprassalto,
e colte le ultime parole a volo, come per mostrare all’amico di essere
stato attentissimo gli disse:

— Scusate, Lo_l_enzo, scusate; in questo caso di_l_ei....
gia_l_dino. —

Il buon marchese, nei suoi verd’anni, aveva imparato a pizzicar l’arpa,
ed amava accompagnare i suoi versi col suono dell’istrumento davidico.
Era spesso ripetuta in Genova la sua frase, diretta al servitore:

— F_l_ancesco, _l_ecami l’a_l_pa, che mi viene l’est_l_o. —

L’arpa era d’un celebre artefice, dello Stradivarius, niente di
meno. La teneva appesa alla parete, nel suo salotto; e qualche volta,
vecchissimo, la spiccava dal chiodo, per trarne qualche accordo. Ma da
parecchi lustri l’istrumento era scordato; uno strazio a sentirlo!

E come si animava, ai ricordi del buon tempo antico! Era anche stato
valente ballerino e saltatore agilissimo. Si raccontava che una volta,
presentatosi in maschera d’arlecchino alla signora di Staël, dopo molti
saluti e capriole che aveva fatto in onore della bella Corinna, si
fosse sentito dire da lei:

— Ah, marquis, c’est vraiment ce que vous faites le mieux!» —

Ma l’aneddoto doveva essere inventato di sana pianta. Corinna non era
certamente così crudele nei suoi complimenti. Autentico, invece, perchè
lo ebbi dalla stessa bocca di lui, l’aneddoto del viaggio con Corinna a
Venezia, intorno al primo decennio del secolo.

La baronessa di Staël voleva vedere il teatro della Fenice. Ci andarono
di giorno, poichè quella sera si faceva riposo. Entrarono nella platea,
al buio, mentre in orchestra si vedeva illuminato un leggìo, e davanti
al leggìo, con la sua musica squadernata, sedeva un suonatore di
violino. Il palcoscenico, essendo gli scenarii alzati, prendeva luce,
ma una luce scialba e scarsa, da certi finestroni di fondo; e su quel
palcoscenico si vedeva un uomo, succintamente vestito, in calze di
maglia e scarpini.... Era un ballerino; ma qual ballerino! Figuratevi,
il famoso Duprè, il dio della danza, che, facendosi dare lo spunto dal
violino in orchestra, provava un suo passo, chiuso e coronato da una
_pirouette_ difficilissima. I due nobili visitatori, fermatisi a mezzo
il recinto, ascosi nell’ombra guardavano attentamente la scena.

Il Duprè andava alla quinta, prendeva lo spunto dal violino, veniva di
volo alla ribalta, ed attaccava la sua giravolta. Ma questa non gli
riusciva mai, e il povero Duprè se ne disperava; anzi incominciava,
oltre la solita _pirouette_, ad attaccar qualche moccolo.

— Un’idea mi passò pe_l_ la mente, — continuava, il marchese. —
Aspettate, Co_l_inna, dissi allo_l_a alla ba_l_onessa, e ved_l_ete un
bel giuoco. —

Che fa allora il nostro gentiluomo? Con passi guardinghi si avvicina
all’orchestra, vi penetra da una estremità, si arrampica sul proscenio,
scavalca la ribalta, e mentre il Duprè ritornava per la sesta o per
la settima volta da sbagliare la sua _pirouette_, lo precede egli
d’un balzo alla quinta, chiama lo spunto dal violino, spicca il volo
al proscenio, e fa lui, con ritmica esattezza, la lunga giravolta che
ancora non era riuscita al gran ballerino francese.

Il Duprè, a tutta prima, vedendo comparire sulla scena l’intruso, e non
pensando ancora di avere davanti un rivale, era rimasto come interdetto
a guardarlo. Lo aveva veduto andare alla quinta, chieder lo spunto
musicale per lanciarsi alla ribalta, e aveva spalancato ad un tempo
gli occhi e la bocca, in atto di grande stupore. Ma quando ebbe veduta
la giravolta, eseguita con tanta perfezione dall’emulo, fu per uscir
di senno a dirittura. E bisognava pur credere alla vista, arrendersi
all’evidenza, riconoscere la superiorità dell’ignoto ballerino. Era
un grande artista, il Duprè, ed anche un gran galantuomo. Perciò, dopo
un istante di pausa, che bisognava pur concedere allo stupore ond’era
stato assalito, fece due passi di scuola verso il nuovo venuto, inarcò
il braccio, tese l’indice con la sua grazia consueta, e gli disse;
cioè, _mi disse_, poichè dobbiamo lasciar la parola al narratore:

— O voi siete un angelo disceso dal cielo.... o siete il ma_l_chese
Gian Ca_l_lo Di Neg_l_o di Genova. Pe_l_chè non c’è che lui, in
Eu_l_opa, non c’è che lui che possa fa_l_ tanto. —

Bisognava esserci, bisognava sentirlo, il buon vecchio, mentre
proferiva e ripeteva con enfatica progressione di accento il suo «non
c’è che lui». Ed anche volle mostrarmi come avesse fatto a vincere
il Duprè, tentando di ripetere per mia edificazione la splendida
giravolta di mezzo secolo innanzi. Con quel mezzo secolo, pur troppo,
cascò addosso a me, che stavo seduto sul divano. Io ero mingherlino,
allora; egli potente di forme. Altro che edificazione! Immaginate
che stiacciata, se non ero pronto a tender le braccia, un po’ per
sorreggerlo, ma più per ripararmi dal peso.

Povero marchese Di Negro, discendente dal famoso Andalò, gran
viaggiatore dell’orbe terracqueo e maestro di astronomia a Giovanni
Boccacci! Un anno dopo, nel 1858, mi pare, era morto. Ebbe un notevole
accompagnamento funebre, come non si era veduto mai fino allora, per
concorso d’illustri personaggi. Tra questi si vedeva uno degli ultimi
visitatori del marchese Gian Carlo, se non uno dei più assidui alle
conversazioni della Villetta; al che le sue consuetudini di lavoratore
e il vivere sulla collina di San Francesco di Paola, al capo opposto
della città, avrebbero fatto impedimento: dico Francesco Domenico
Guerrazzi, allora esule in Genova, dopo la sua fuga di Corsica.
Ascoso nella folla, al ritorno dalla camera mortuaria dov’era stata
accompagnata la salma, udii il grande livornese dire a Ippolito d’Aste
e ad Emanuele Celesia, che gli venivano da lato:

— E dopo tutto, un uomo d’oro. Ha fatto del bene a qualcheduno, del
male a nessuno. Trovatemi dieci persone, delle quali si possa dire
altrettanto. —

Non vi paiano gravi alla memoria del Di Negro queste sue pretese alla
fama di ballerino, sulle quali mi son trattenuto a discorrere. Egli era
un divoto cultore delle Muse; ed anche una Musa, Tersicore, presiede
all’arte del ballo. Nè il ballar bene parve piccolo vanto ad Ippolito
Pindemonte, cavaliere gerosolimitano, traduttore dell’«Odissea»
e compagno al Foscolo nel malinconico duetto dei «Sepolcri». Del
cavaliere Ippolito narra per l’appunto il Camerini: «Amò sopra tutto
la danza, e si mescolava sul palcoscenico ai ballerini, ed era tanto
infatuato di quel _brillante danzator Narcisso_ del Parini, che veniva
piacevolmente ribattezzato col suo nome di _Monsieur Pic_».

Se poi il marchese Gian Carlo Di Negro non lasciò nell’arringo poetico
orme profonde come il cavalier Pindemonte, la colpa non è tutta sua.
Fu ad ogni modo l’ultimo gran signore che credesse alla poesia; e l’amò
per sè stessa, come un vecchio cicisbeo, di platonico amore.



Don Alessandro.


Milano ha una gran bella cosa, in vista e per tutti, il suo Duomo. Ma
questo, ce lo hanno tanto decantato, descritto tanto e servito perfino
in litografia sulle scatole dei panettoni, che oramai lo accettiamo
senza pensarci su, e c’inchiniamo al miracolo d’arte; ma non ci
riscaldiamo più il sangue, ammirandolo; non riceviamo più la scossa,
vedendolo. A Milano io sento più profondamente Brera, col suo cortile
così pieno di storia, e col Napoleone del Canova che ci hanno nascosto.
Bella trovata, sia pure effetto di necessità, aver messa là dentro
quella gran statua di bronzo: vi giganteggia, più che non farebbe su
d’una piazza; l’atteggiamento del colosso che va, con la sua Vittoria
alata nel cavo della mano protesa, è più gagliardo, più vivo, più
efficace; mi par meglio che sia in atto di trascorrere il mondo, se in
due di quei passi che accenna di fare, può rompere il loggiato davanti
a sè, invader le sale, sfondare ogni ostacolo, dal tetto all’androne.
Bene, adunque, si trova egli là dentro. E bene, anzi meglio il nipote
di lui, nel cortile dell’antico Senato. Io non so intendere come ci sia
della gente a cui quella specie di relegazione dispiace. L’ira politica
è veramente benedetta, se riesce a queste concentrazioni della gloria,
per chi la riconosce, e della gratitudine, per chi la sente ancora.
Così, mentre per essere umani con Napoleone III dovete perdonar molte
cose; per ritrovarlo a Milano, per pagargli un tributo di riconoscenza
in cambio del piccolo aiuto di duecentomila uomini ch’egli ci ha
dato in un giorno di bisogno, vi è necessario andarlo a cercare col
lumicino. Ma un gusto particolare, penetrante, soave nella novità, vi
compensa della vostra ricerca. Trovate un signore che vi saluta, e per
allora non saluta altri che voi; donde la cortesia par che acquisti un
pregio maggiore. Più concentrati, ricordate anche meglio tutto ciò che
per la patria nostra ha fatto quell’uomo, un po’ misterioso, un po’
incerto nelle orientazioni successive della sua politica, ma condotto
a giuocare per noi la sua fortuna, le aquile, la porpora e la corona
imperiale. Noi siamo severi col Due Dicembre, in cui, dopo tutto,
come italiani, non abbiamo nulla a vedere; con più giustizia ce la
prendiamo coi suoi _chassepots_. Ma anche qui non bisogna esagerare,
e ad un soldato di Mentana sia lecito il dirlo. Assai più male degli
_chassepots_ ci ha fatto in quei giorni il difetto di energia nelle
coscienze, di unità nei voleri della patria. Ma basta: se no volgiamo
alla predica; e ritorniamo in Brera.

Quel cortile mi è caro per antichi ricordi: quel cortile è un po’ mio.
Molti ci passano, per salire alla ricca biblioteca e alla preziosa
pinacoteca; molti lo costeggiano, per andare di qua o di là nelle sale
del pian terreno, a far lezioni o a sentirle; io ci sono stato di casa,
ci ho dormito una notte a ciel sereno, e sognato, come nel letto più
soffice. Spesso vado a visitarlo, per riconoscere il posto del mio
giaciglio, là, sulla destra, a’ piedi della statua dell’architetto
Luigi Cagnola, che mi richiama sempre agli occhi la visione di un bel
giorno e alle nari una buona fragranza di paglia fresca. Non fate
associazioni d’idee, ve ne prego; l’ho fatte già io tante volte!
«Sursum corda», piuttosto, ed anche le gambe. Si passa ora da quel
cortile per un’altra ragione nobilissima, che è quella di andare a
vedere la sala Manzoniana. Anch’io, parecchi anni fa, quando seppi che
l’avevano inaugurata, ci corsi divotamente, per pagare il mio tributo
di ammirazione al Manzoni. Più che i molti libri ed opuscoli scritti su
lui e sulle opere sue, volevo osservare i suoi manoscritti; tra tutti
i suoi manoscritti desideravo di considerare quello dell’«Adelchi»; tra
tutte le pagine dell’«Adelchi» mi premeva di sfogliare quella del coro
«La morte di Ermengarda» per vedere se ci fossero stati pentimenti in
quelle strofe maravigliose, segnatamente in quelle due che vorrei aver
scritte, e, per averle scritte io, darei volentieri tutte le glorie che
ho sperate; se pure, dopo averle sperate, fossero venute a rallegrarmi
la vita.

    Te, dalla rea progenie
      Degli oppressor discesa,
      Cui fu prodezza il numero,
      Cui fu ragion l’offesa,
      E dritto il sangue, e gloria
      Il non aver pietà;
    Te collocò la provvida
      Sventura in fra gli oppressi;
      Muori compianta e placida,
      Scendi a dormir con essi;
      Alle incolpate ceneri
      Nessuno insulterà.

Bellissime le due strofe, e tutto bello, quel coro, in cui sentimento e
passione, tanto più viva quanto più contenuta; in cui forma e pensiero,
virtù d’amor patrio ed alito di umana pietà, si fondono mirabilmente,
nuovo metallo di Corinto, ma ancora e sempre caldo, come non ebbe a
rimanere l’antico. Capisco, leggendo l’«Adelchi», come Vincenzo Monti
esclamasse: «Vorrei averlo fatto io». Poteva parere degnazione in lui,
glorioso da tanti anni, mentre il giovine autore, che egli chiamava,
scrivendogli, il suo «smemorato amico» era tuttavia poco più d’un
ignoto. Ma quella degnazione doveva presto apparire l’omaggio di un
grande ingegno ad un genio. Perchè questa distinzione è necessaria,
e se il vocabolario della Crusca non la consentisse, bisognerebbe
rinunziare al vocabolario della Crusca. La poesia del Manzoni non è
solamente di parole musicali e d’immagini alate: spesso le parole sono
comuni, e dalla loro ripetizione frequente traspare qualche volta la
povertà. Quanto alle immagini, son quelle di tutti i giorni, e se ne
trovano nei suoi canti più celebrati (nel «Cinque Maggio», ad esempio),
di quelle che erano usate a’ suoi tempi da scrittori di giornali
italiani sulla falsariga francese. Ma che per ciò? la visione è chiara,
piena, efficace, perfetta; il senso intimo delle cose vien fuori dalla
stessa collocazione sapiente e pure spontanea di quelle parole comuni,
di quelle immagini conosciute; vi fa pensare e fremere, cercando
i più riposti penetrali dell’anima, scuotendo le più arcane fibre
del cuore. Chi si occupa, dopo ciò, delle scorie del metallo, delle
sbavature della statua? È tutto fior di poesia, nel complesso; frutto
di fantasia largamente comprensiva, che lo studio e la meditazione
hanno fortificata dei loro succhi vitali. Non dimentichiamo gl’intenti
civili, spontaneamente manifestati, che distinguono questa poesia da
tant’altra che l’ha preceduta e seguita. Come, ad esempio, in quel
compianto non imbelle nè vuoto sulla morte d’una povera Longobarda,
ripudiata da Carlomagno, si sentano, sto per dire, le Cinque Giornate,
trent’anni prima che fossero date alla storia! e non tirate dentro
con gli argani, se Dio vuole; venute naturalmente, sgorgate dal fatto
osservato, insieme con la pietà pensosa e le lagrime. Così la poesia
diventa anima e voce, non che d’un poeta, d’un popolo. La «Basvilliana»
è la poesia del Monti in un suo momento psicologico, come la
«Mascheroniana» in un altro, e in altri ancora la «Jerogamìa di Creta»
e il «Ritorno di Astrea»; mentre quella del Manzoni, dagli «Inni Sacri»
al «Carmagnola», dall’«Adelchi» al «Cinque Maggio», è la poesia della
nazione.

Io non nacqui manzoniano; non fui tale per un pezzo, e mi piace
confessarlo. Ai tempi beati della scuola di rettorica, non ero
neanche foscoliano, figuratevi! Avevo Leopardi e Monti, Monti e
Leopardi a tutto pasto; l’uno per la «Basvilliana», s’intende, per la
«Mascheroniana», per il «Prometeo», per il «Bardo della Selva Nera»
e per la versione dell’Iliade, insomma per quasi tutte le cose sue;
l’altro per una minor parte, come a dire per le canzoni all’Italia,
ad Angelo Mai, alla sorella Paolina, che erano le più lette e le più
commentate in iscuola. Leggevamo anche per questo uffizio «La sera del
dì di festa», «Il sabato del villaggio» ed altri componimenti di tal
genere; ma più per nostro conto divoravamo «le Ricordanze», «Aspasia»,
e sopra tutto «Consalvo» a cagione del bacio di quella

    Per divina beltà famosa Elvira.

La «Ginestra», i «Patriarchi», «Amore e morte», ed altri consimili,
si leggevano ancora, ma s’intendevano poco; cioè, s’intendevano
letteralmente, ma non si sentivano troppo, che tornava lo stesso come
non capirli abbastanza. Eravamo una generazione piena di salute, di
fede in Dio e nella libertà; il sangue ci scorreva rapido e franco
nelle arterie, e tra una lezione e l’altra, come per addestrarci
alle presentite battaglie, correvamo a picchiarci di buona voglia nei
fossi della vicina Fortezza, e a sfrombolarci di sassate sulla duna di
Sant’Elmo. La filosofia disperata non era il fatto nostro; delle «due
cose belle» che la poesia leopardiana ha trovate nel mondo, sentivamo
dentro di noi confusamente la prima, come una dolce promessa di giorni
vicini; l’altra la vedevamo così lontana, che non credevamo ancor
necessario di darcene pensiero. E la ferrea necessità del dolore non
era certamente fatta per noi, diavoli scatenati, che andavamo nelle ore
d’ozio a strappare i sèdani nell’orto dei Cappuccini.

Abbiamo noi trovato lassù un Fra Cristoforo? Sicuramente, e per farci
perdonare da un Fra Galdino, che voleva prenderci poco cristianamente
a legnate. Dei «Promessi Sposi», che a quel tempo non erano ancora un
libro di testo scolastico, ci piacquero le macchiette assai più dei
personaggi principali. A me poi non piaceva affatto nè «Quel ramo del
lago di Como, che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte
di monti», nè il Resegone, coi «molti suoi cocuzzoli in fila, che in
vero lo fanno somigliare a una sega», nè la descrizione della peste,
così lunga che non voleva finire mai più, nè il cardinal Federigo,
nè quei rimorsi dell’Innominato, che mi pareva un birbante di mezza
vigogna, troppo presto pentito d’una troppo piccola, o non abbastanza
descritta, sequela di bricconate. E mi lasciava freddo Lucia Mondella,
e mi seccava quell’aggirarsi di brutali concupiscenze intorno ad una
contadinotta neppur bella, che per cagione degli spilli d’argento
doveva pettinarsi di rado, e che certamente non conosceva le virtù
detersive dell’acqua di Felsina. Ognuno reca nell’arte i suoi gusti
naturali. Questo è un diritto, mi pare, e il confessarlo è un debito di
sincerità. Ma ciò, a breve andare, finì col rendermi cieco alle altre
bellezze del libro, e per conseguenza solennemente ingiusto.

Amavo in quella vece il Guerrazzi. Sapevo a mente l’«Assedio di
Firenze»; tranne, s’intende, gli amori fiacchi di Vico e d’Annalena,
e la inutile storia afflittiva di messer Lucantonio. Michelangelo e
la sua statua; il Ferruccio a Volterra e a Gavinana; i rimorsi del
Baglioni; il doppio combattimento del Bandini e del Martelli, di
Dante da Castiglione e dell’Aldobrandini; gli spasimi di Maria de’
Ricci; quelle erano le mie delizie profonde. E come mi ha mandato a
cercare con ansietà febbrile la storia, quel diavolo d’un Livornese,
per trovarci i personaggi da lui messi in iscena, così vivi, caldi,
vibranti di passione! Studiai l’autore, lo conobbi intero in tutto
ciò ch’egli aveva scritto fino allora; amai ciò ch’egli amava, odiai
ciò ch’egli odiava, senza risparmio. Presto conobbi lui di persona, in
Genova, dopo averlo tempestato di lettere nel suo confino di Corsica,
e mi piacque sommamente quell’anima dolce e buona. Vi parrà strano, ciò
ch’io ne dico. Generalmente, si ha del Guerrazzi un’idea molto diversa;
la durezza di cuore, la ferocia degli spiriti, lo sdegno persistente,
la parola iraconda, lo scetticismo beffardo, il cinismo, sì, perfino
il cinismo di quell’uomo, sembrano esser passati in leggenda. Ebbene,
disingannatevi; il Guerrazzi non fu così, nè intorno, nè presso.
L’uomo ebbe amarezze molte, ed ire politiche acerbe; aveva l’ingegno
potente, e lasciava il segno dove toccava: i suoi nemici già potenti
da prima, vittoriosi poi, gli hanno reso in calunnie tutto ciò ch’egli
dava in frustate. Nelle relazioni sociali nessuno fu più nobilmente
cortese; nelle intimità nessuno fu più squisitamente amorevole del
Guerrazzi. Arguto quanto il Voltaire, non la perdonava certamente a
nessuno; dotto in molte materie, pontificava qualche volta, nel salotto
e nello studio; ma non dimenticando mai d’esser garbato nei modi,
affabile nel commercio con ogni sorta di gente, buono con gli amici,
ameno coi suoi pari, affettuoso coi minori, soave coi giovani, e in
molte parti del suo pensiero, della sua conversazione, del suo fare,
insomma, a dirittura femmineo: la qual cosa, in un uomo del suo genere,
con quell’alta statura, con quell’aspetto severo, con quegli occhiali
d’oro, quella parrucca a ciocche audacemente rivoltate, con quella gran
pelliccia da baritono in viaggio, poteva parere, e certamente era un
gran fatto. Non so che cosa fosse in gioventù: forse ne’ suoi scritti,
dove parla di sè, ha caricate un po’ troppo le tinte: ma per quello che
io ne vidi ne’ suoi anni maturi, egli era con tutti mirabilmente buono.
Quell’odiatore, a buon conto, finì la vita nel suo podere di Maremma,
insegnando a leggere e scrivere ad una contadina di diciott’anni.
Se poi anche a sessantanove anni sentisse le trafitture del bendato
arciero, io non vorrei mica difenderlo, come da un’ultima calunnia. Gli
odiatori, per solito, non finiscono così.

Ricorderò sempre di avere davanti a lui, nelle conversazioni
pomeridiane della villa Giuseppina, parlato dell’arte Manzoniana con
poca misura e con minor cognizione. Non lo facevo per entrargli nelle
grazie; no davvero: dicevo quel che pensavo allora, esprimevo una
opinione già manifestata qualche anno prima in un giornale di Genova,
la prima volta che io, sfacciato diciottenne, mi ero fatto lecito di
averne pubblicamente una.

Quella volta, altro che soavità! il sor Francesco Domenico mi uscì
proprio dai gangheri. Dal pensiero Manzoniano si poteva dissentire,
sicuramente; egli stesso ne aveva data una prova chiarissima, facendo
in molte cose diversamente dal grande Lombardo. Ma per l’arte, non
c’era che da inchinarsi e da lodare ogni cosa, o giù di lì. Del
resto, anche intorno al pensiero, non era tutto dissenso tra loro.
Se il Manzoni aveva scritto gl’«Inni Sacri», egli, il Guerrazzi,
non aveva scritto molte preghiere in prosa? — E poi, — mi diss’egli,
conchiudendo, — leggete l’«Adelchi», figliuolo, e vedete se predichi
soltanto rassegnazione. Quanto all’arte, m’è accaduto ancora stamane
di rileggere il coro del «Carmagnola». È una bellezza. Direte che
incomincio ad invecchiare e che mi faccio eremita. Infatti, anch’io
debbo averli, i «casti pensieri della tomba» che, ritrovati in quel
coro, mi son parsi una cosa nuova, quest’oggi. —

Quella sera, tornato a casa, lessi il coro del «Carmagnola», per
fare ancor io come il sor Francesco Domenico. E lessi anche tutta
la tragedia, che non avevo mai guardata prima d’allora. Poi lessi
l’«Adelchi», di cui solamente conoscevo qualche scena (anche questo a
vergogna mia, debbo qui confessare), e da ultimo, lessi una seconda
volta attentamente i «Promessi Sposi». Il Manzoni rivelato dal
Guerrazzi! Non si crederebbe; eppure è andata così. I grandi, del
resto, son buoni. Rilessi tutto, a breve andare, e parecchie volte
sempre più persuadendomi del mio «giovanile errore». Amando più
largamente intorno a me, imparai ad amare un po’ meglio. Ma ancora non
potevo dirmi un Manzoniano sfegatato. Di certo, la poesia del grande
Lombardo m’era entrata troppo tardi nel sangue.

Tre anni dopo, vedevo per la prima volta Milano. C’entravo con molti
compagni, non so bene se tre o quattro giorni dopo Magenta. Sbarcati
alla stazione di Porta Nuova, fummo accolti anche noi con feste
maravigliose da una popolazione plaudente; avemmo fiori, corone, baci,
abbracciamenti, ed altri furori di quell’anno benedetto. La nostra
compagnia, condotta per certe strade che non ho più ricordate, andò a
fare i fasci d’armi nella via del Monte di Pietà, in attesa d’ordini
superiori. Gli ordini vennero mezz’ora dopo: ci mandarono ad alloggio,
come tanti scienziati, in Brera; nel cui cortile, per uso nostro, si
erano distese molte carrettate di paglia. Che orgia di allegrezze
intellettuali, quel giorno! Io potrò andare mille volte a Milano;
la vedrò sempre a quel modo, con gli occhi d’allora. Anche oggi, mi
avviene di passeggiarci come uno spirito, colle mie idee d’altri tempi.
Che fretta di deporre il fucile e lo zaino, di darci una spazzolata e
di correr fuori da capo, per goderci tutte le ore che ci lasciavano di
libertà! Per conto mio, mossi subito a cercare il Duomo; e lì, trovato
un alberguccio (il Dazio grande, mi pare) v’entrai, per darmi anche una
risciacquata; ma ne uscii prontamente, per andarmi a comperare un paio
di guanti paglierini. Che si canzona? volevo esser bello. Del resto,
quella dei guanti paglierini era la debolezza di tutti i volontarii,
nell’esercito piemontese: quei guanti davano un po’ di tono al grigio
cappotto per cui il fantaccino italiano meritò a Firenze il nome di
sorcino. Al Caffè Martini, in piazza della Scala, dov’ero riuscito non
so come, m’imbattei in un tenore, Pietrino Stecchi, da me conosciuto
un anno prima, a Genova. M’aveva ravvisato sotto le nuove spoglie, e mi
faceva gran festa, offrendosi mio cicerone attraverso le vie di Milano,
e per tutte le belle cose che si potevano vedere in una scarrozzata di
due ore. Accettai, prendendo ora: pel momento, avevo un’altra idea, e
volevo che passasse per la prima.

— Se permette, — gli dissi, — vorrei far prima una visita.

— Tra un’ora, dunque; le basta?

— Sì, basterà certamente. Ma ella mi dica, — replicai con una certa
solennità, — dove abita.... Alessandro Manzoni? Il mio primo passo, in
Milano, dev’essere per lui. —

Pietrino Stecchi m’indicò, sullo stesso marciapiede dove eravamo
a discorso, ma qualche centinaio di passi più in là, il vicolo del
Morone.

— Entri di laggiù; — mi disse; — arriverà alla piazza Belgioioso.
Proprio alla svolta, facendo angolo tra il vicolo e la piazza, è la
casa di Don Alessandro.

— Bene, grazie; — risposi. E mi avviai verso il vicolo del Morene.

Com’era nata in me l’idea di andare dal Manzoni? Così, come tante cose
nascono, di schianto, senza averci pensato prima. Ah, finalmente,
l’avrei veduto, il grande Lombardo! Gliel’avrei fatta io, una bella
improvvisata, mostrandogli in cappotto grigio e cinturino bianco, in
giberna e cheppì, la sua nobile idea, segretamente e costantemente
vagheggiata: quella idea che trapelava e traspariva da tante pagine,
anzi da tutto il contesto dei suoi «Promessi Sposi»! Niente più
obbedienza a padroni stranieri; tutti in armi, gli oppressi; tutti
soldati, i giovani d’Italia, che la sua parola aveva educati, anche
attraverso l’educazione dei padri loro; tanto che quella parola s’era
fatta coscienza della nazione e vita della sua vita «O giornate del
nostro riscatto! — Infelice per sempre colui....» Ma sì, infelice, anzi
infelicissimo io! Li sapevo bene quei versi, per avere il coraggio di
recitarglieli? E c’era poi bisogno di recitarglieli? Li sapeva a mente,
lui, ed io non gli avrei detto nulla di nuovo, salvo gli spropositi.
Che versi, dopo tutto? In prosa bisognava parlargli, ed anche in prosa
corrente.

— Vediamo; — seguitavo tra me; infilando il vicolo; — che cosa
gli dirò? Da qual parte incomincierò? Come mi troverò io, prima di
tutto, alla sua presenza? Ecco qua: sono introdotto in un salottino.
Annunziano un soldato piemontese, un soldato in guanti gialli... Ciò
gli fa capire subito che si tratta d’un volontario. La visita lo secca
un pochino: ma sono certe seccature, queste, che non dispiacciono
troppo. Si solleva una portiera; eccolo, è lui.... Ah povero me! Ci
starò bene, davanti a lui, come davanti al mio signor colonnello? Con
questo, c’è poco da pensare: so prima di tutto che non si parla se non
per rispondere. Testa ritta, piedi accostati, la mano sinistra giù,
bene appiccicata alla gamba, la destra, alzata, aperta, tesa davanti
alla visiera del cheppì; e parla lui, non c’è che da starlo a sentire;
se poi non è Demostene, tanto peggio per lui; anzi tanto meglio, perchè
lui è vivo, e Demostene è morto. Qui invece, cheppì in mano e parlare!
«Signor conte....» No, non lo vuole, quel titolo; se l’ha a male quando
glielo dànno; protesta subito che non gli spetta. Perchè, poi? Basta,
diciamo! «Signor Manzoni....» Ma che? questo è comune. Ce ne son tanti,
dei signori Manzoni, e Manzini, e Manzotti! «Don Alessandro....» Sì,
Don Alessandro; c’è una timida familiarità che non può dispiacergli.
«Don Alessandro, se è lecito chiamarla così, voglia perdonare ad un
giovine italiano, il quale.... il quale....»

Il quale.... «il quale, a voler dir lo vero» incominciava a sentirsi
ballar le gambe sotto. Ero giunto allora alla svolta; vedevo davanti
a me la piazza Belgioioso, e con la coda dell’occhio destro notavo la
sporgenza d’un portone. Con quella tremarella in corpo, non era il caso
di voltare a destra, no davvero. Passeggiamo, dissi tra me, facciamo un
giro su questa piazza, e vediamo intanto di raccogliere le idee. E feci
il giro; andai a collocarmi più lontano che mi venisse fatto dalla casa
di Don Alessandro, come per abbracciarla in una occhiata sola; ammirai
anche certi fregi di cotto ond’era adornato il prospetto; ma le idee
non si raccolsero, si sparpagliarono peggio che mai.

— Che è ciò? — ripresi. — Che paura è la tua? Infine, non vorrà mica
mangiarti. Gli dirai che volevi.... che desideravi.... che sentivi il
prepotente bisogno di vederlo.... Ah sì, va bene il pensarle, queste
cose; ma venuti al caso di dirle.... qui ti voglio. Con che coraggio
gli parleresti del tuo desiderio, del tuo prepotente bisogno? Coraggio!
si ha un bel dire coraggio! Ah, vile fantaccino! non l’hai tu dunque,
il tuo cappotto grigio? il cappotto «del nostro riscatto»? Si va, per
Dio santo, si va come in piazza d’armi; uno, due; uno, due; _alt!_
E qui, poi, «Don Alessandro, permetta ad un soldato volontario di
venirle a rubare un quarto d’ora...» No, un quarto d’ora; sarebbe
un pretender troppo. «.... Di venirle a rubare un minuto». E questo
neanche; è troppo poco; pare uno scherzo, e di cattivo genere. In un
minuto non si dice nulla; c’è appena il tempo di fare il saluto in due
tempi, fronte indietro e via! Diciamo dunque «Di venirle a rubare pochi
minuti, per dirle.... Sono un giovane che ha letto.... e meditato....
che nel suo «Adelchi».... Sa? anche il Guerrazzi mi diceva....» Ah sì,
non ci mancherebbe altro che citargli il Guerrazzi! per impappinarmi,
per mettermi in una via senza uscita. Ma se non gli parlo di questo,
di che altro gli parlerò? E se non ho niente da dirgli, perchè ci vado?
Per vederlo? per restar là come un villano alla fiera? Infatti, ora che
ci penso.... Ma no, perdio, questa è viltà, ed io la travesto male.
Gambe mie, facciamo ad intenderci. Volete andare, o ch’io vi piglio
a piattonate? Senza sciabola, capisco; ma anche la baionetta può far
servizio, perbacco! Animo, via! per fianco destro, e _marche!_ sia poi
quel che vuol essere. —

Mi ero mosso, come vedete; e andavo di buon passo incontro al portone.
Ahi! proprio allora, nella penombra del corridoio, si affaccia
qualcuno. È una donna. Le donne, grazia a Dio, non mi hanno mai fatto
paura. Quella, per altro, non ha un aspetto da invitare all’abbordo.
Dev’essere la portinaia, o una sua parente, di certo. Si ferma
sulla soglia; mi guarda; non c’è più modo di far fronte indietro, nè
conversione a destra; vado là come la biscia all’incanto.

— Don Alessandro?... — le dico.

Quell’altra mi sorride. Me l’aspettavo. Da qualche ora, a Milano, non
vedevo far altro.

— Cerca Don Alessandro Manzoni? — mi chiede essa, dopo avermi sorriso.

— Sì, per l’appunto, se è in casa....

— Non c’è.

— Ah! — esclamai io, sospirando, o respirando; che negli effetti è
tutt’uno. — Ripasserò.

— È inutile; — diss’ella. — Stavo per aggiungerle che non è a Milano;
ma in villa, a Brusuglio.

— Ah, già, Brusuglio.... sicuro, Brusuglio.... Dovevo immaginarmelo;
— risposi io, che sentivo quel nome per la prima volta. — Grazie,
signora.

— Se prende una carrozza, non è mica lontano; — soggiunse ella, più
graziosamente che mai.

— Capisco, sì, capisco. Ma ho fretta, pur troppo; fra poche ore si
riparte.... per andar più lontano.

— Fino a Venezia! — diss’ella, commentando un mio gesto. — Dio
l’assista, Lei e tutti i suoi bravi compagni. —

Così ebbe fine il mio dialogo, sull’uscio di casa Manzoni; e andò
a vuoto la mia visita a Don Alessandro. Che peccato! pensavo,
allontanandomi da piazza Belgioioso. Me n’andrò da Milano senza aver
visto il Manzoni! Che idea di andare a Brusuglio! in questi giorni
di festa per la sua città liberata! Se c’era, mi accoglieva bene, di
sicuro, a braccia aperte. Ed io gli avrei detto.... Ah sì, lo sappiamo,
quel che gli avresti detto, impostore. Confessa piuttosto che ti pare
d’averla scampata bella. Se proprio hai tanta pena come dici, perchè
non prendi una vettura di piazza, e non ti fai condurre a Brusuglio?
Animo, via, coraggioso! —

Preferii di restare a Milano, quel giorno; e la mattina seguente ero in
cammino con gli altri miei bravi compagni, per Gorgonzola, Treviglio,
Coccaglio, Brescia, Lonato, correndo sulle orme di quel benedetto
reggimento che andavamo ad ingrossare col nostro drappello, e non
raggiungendolo che sotto il ponte di Desenzano. Io pensavo di tanto in
tanto a Milano, e alla visita che avevo fatta ad Alessandro Manzoni.
Ebbene, che c’è da ridere? Ciò che non si è fatto una volta, si farà
un’altra. Non è colpa mia, se il grand’uomo era fuor di Milano. Andrò a
cercarlo poi, quando ritornerò se gli _stutzen_ mi avranno risparmiata
la pelle. Me la risparmiarono infatti, e la visita a Don Alessandro
tornò all’ordine del giorno, dopo quel frettoloso armistizio che
seguì la vittoria di Solferino e l’investimento di Peschiera. Triste
giornata, quell’otto di luglio, in cui vedemmo andare avanti e indietro
tra i gelsi e il grano turco i fazzoletti bianchi dei parlamentarii,
e dopo qualche ora fu annunziata la tregua! Ricordo che nella mattina
era piovuto, e che verso il mezzogiorno un grande arcobaleno si era
disegnato sulle nostre teste, proprio nel mezzo del Quadrilatero; il
quale spettacolo meteorologico, in tanta analogia col fatto politico,
ispirò ad un mio intimo amico questi versi, scritti lì per lì su quel
medesimo tamburo che gli serviva di scrittoio per mandare le espansioni
dei commilitoni illetterati alle Dulcinèe di Fossano, di Saluzzo e di
Cuneo:

      Su questi campi, che toccò di breve
    Argenteo spruzzo un nembo mattutino,
    Già del seguace arcobalen risplende
    La settemplice zona. Iddio la stese
    Simbol di pace sulla via de’ cieli;
    Onde, al suo comparir, l’orrida torma
    Delle nubi si frange, e per la china
    Del lontano orizzonte in fuga è volta,
    Siccome oste cui l’urto onnipossente
    Di non previso assalitor percosse.
      Ma non ride il colono, innanzi a questa
    Pace degli elementi. Ei le contrite
    Sotto la vampa dell’assiduo sole
    Aride glebe doloroso guata,
    Poi, volgendosi al cielo, ove il dipinge
    De’ suoi sette color di luce un raggio,
    Con un lungo sospir, «troppo» gli dice,
    «Troppo ratto venisti, arcobaleno!...»

Scorati, avviliti dalla pace di Villafranca, ripassammo il Mincio.
Io, dopo una fermata di qualche settimana a Brescia, ebbi modo di
ritornarmene a casa in licenza. E ripassai da Milano. Ahimè! la città
era piena di vita; ma niente fiori, per noi, niente corone, niente
applausi, niente sorrisi. Sempre ben veduti e festeggiati i nostri
compagni dai pantaloni rossi; lo meritavano del resto, e pel valore
e per la grazia ond’erano esemplari; ma noi, poveracci, neanche ci
guardavano; ci sembrava d’esser tollerati, come i cani in chiesa.
Certo, non eravamo belli a vedere; ma più ancora che cani, dovevamo
parere un po’ orsi. Ah, bene! pensai. Andrò a rifarmi la bocca
con una visita a Don Alessandro. M’avevano detto che era a Milano;
quattro salti, adunque, e capitavo in piazza Belgioioso. L’autore
dell’«Adelchi», seguitavo a pensare, mi accoglierà con affetto paterno,
egli che mostrò di non amare nè i Longobardi nè i Franchi. Andiamo,
sarà una festa dell’animo. Di che temere? Non valgo oggi più di due
mesi fa, quando non avevo ancora ricevuto il battesimo del fuoco?

Il ragionamento filava dritto, come le mie gambe fino alla piazza
Belgioioso. Ma laggiù mi fermai; un altro intoppo mi trattenne. Un mese
prima, di là dal Mincio, il furiere mi aveva mandato a comperare una
misura d’olio a Lazise. L’orciuolo era guasto; ne trapelava il liquido
da un piccolo buco, e m’ero fatto, senza avvedermene, una bella macchia
d’olio sulla falda del cappotto. Me ne avvidi dopo l’armistizio, alla
prima rivista; o, per dire più esattamente la cosa, me ne aveva fatto
avvedere con una ramanzina il tenente Parodi. Avevo lavata la falda
contaminata, nell’acqua del Mincio, ma invano; quantunque ci logorassi
un pezzo di sapone, la macchia traditora era comparsa da capo. Non ci
avevo fatto attenzione in campagna: me n’ero dato pensiero a Milano; in
piazza Belgioioso me n’ero spaventato senz’altro. Potevo io presentarmi
così infrittellato ad Alessandro Manzoni? No, niente visita, e fronte
indietro da capo.

Cinque anni dopo tornai a Milano; e mi additarono il Manzoni per via.
Mi balzò il cuore; seguitai un tratto quel vecchio un po’ curvo, che
andava a passettini svelti lungo la corsìa del Giardino; ma non osai
passargli avanti e dargli noia con una impertinente guardata in faccia.
Così restai, senza averlo veduto altrimenti che per le spalle. Quella
volta avevo anche un grave negozio per le mani, e le ore contate: non
era tempo da visite.

Più tardi ancora, intorno al ’70, trovandomi ancora a Milano, un amico
che bazzicava in casa di Don Alessandro, mi disse:

— È un grand’uomo cortese; vi riceverà benissimo; andateci.

— A che fare? — risposi. — Allora che ne sentivo il desiderio così
vivo, ero un soldatino; gli avrei portato, se non altro, un po’ di
quella poesia che era in tutti noi, accorsi sotto «la santa vittrice
bandiera» da ogni regione d’Italia. Che cosa gli porterei ora? Il
diavolo porti me, s’io so «hic et nunc» che cosa potrei portargli, e
che gli facesse piacere. No, no, niente visita, e lasciamolo tranquillo
nella sua gloria. È una cosa fredda, la gloria; ma non l’ho fatta io.
So, dopo tutto, che ce n’è un’altra, più fredda ancora e più uggiosa,
la noia: e questa, che sarebbe in poter mio di cagionare alla gente, è
sempre in poter mio di risparmiarla a un grand’uomo. —

Così mi trattenni; così restai, poichè voglio dir tutto, a crogiolarmi
lì tra i fondacci d’una strana viltà.



Musicista e poeta.


Erano amici, amicissimi; l’uno musicista, e l’altro poeta. L’uno e
l’altro lasciarono poco di scritto, sebbene avessero ingegno da far
molto, e vena e dottrina più di tanti che so io. Li vinse, li trattenne
fra i dolci amplessi e le molli lusinghe la beata pigrizia? o non
ebbero i tempi propizi alle meditazioni feconde, ai nobili ardimenti,
alle belle volate? Non so, e non voglio cercare. Il primo ebbe discreto
nome in gioventù per alcuni pezzi di musica sacra, rimasti sepolti a
Genova nella cantorìa di Sant’Ambrogio, e maggior grido in tutta Italia
per un valzer cantabile, ristampato più volte. Del secondo si citano
tre drammi lirici, ed io rammento una coppia di versi senarii, dodici
sillabe in tutto.

Metto insieme i due personaggi, poichè, oltre il fatto dell’essere
amici, nella cronaca genovese di venti e trent’anni fa andavano sempre
appaiati in qualche grazioso aneddoto, e amavano di farsi a vicenda
delle piacevolissime burlette; per esempio il chiapparello dell’invito
a pranzo, in cui or l’uno or l’altro cascava, dando materia di riso
alle brigate.

Il poeta faceva i suoi pasti all’«Ussero», una vecchia trattoria, oggi
sparita, nel vicoletto che dalla piazza delle Vigne mette in via degli
Orefici. Sentendone decantar la cucina, il musicista si era lasciato
invitare dal poeta; il quale, col pretesto delle porzioni abbondanti,
ordinò il suo solito pranzo, per giunta abolendo la minestra, come
una inutile risciacquatura di stomaco; e tre pietanze, il dolce e il
formaggio spartì fraternamente coll’amico. Questi, che aveva sperato di
pranzare «in Apolline», la fece per quel giorno magrissima.

— Che ti pare? — gli disse il poeta, com’ebbero finito. — Non abbiamo
assaggiato di più cose, con questo metodo, e non siamo stati benissimo?

— A quel dio! — rispose il musicista, inarcando le ciglia ed
allungando le labbra. — Ma se tu fai conto di pigliarmici un’altra
volta!... —

Un giorno il musicista invitò a pranzo il poeta. L’appuntamento era
per le cinque, sotto l’orologio del teatro Carlo Felice; di quel teatro
dove l’uno era professore nella famosa orchestra diretta dal Mariani,
dal divino Mariani, e l’altro aveva ufficio di poeta; un ufficio
nel quale non faceva niente, e per il quale gli davano altrettanto,
coll’aggiunta dell’ingresso in palcoscenico e il diritto di offrir
le pasticche al corpo di ballo. Giunto al ritrovo, il poeta trovò il
musicista, più che puntuale, che lo stava aspettando. Si fecero quattro
passi su e giù; se ne fecero quaranta; se ne fecero quattrocento,
davanti al teatro, discorrendo di cento cose; e in questi discorsi, e
in questi andirivieni, passò una mezz’ora.

— Capisco; — disse il poeta tra sè. — Per andare a tavola è
forse troppo presto, e un po’ d’aria con un po’ di moto aguzzerà
l’appetito. —

E passeggiavano sempre; passeggiarono tanto, che l’orologio del teatro
suonò le sei. Ma il musicista non se ne diè per inteso: seguitava a
passeggiare, a discorrere.

— Aspetti qualcheduno? — gli chiese il poeta.

— Sì, per l’appunto; — rispose quell’altro.

Aspetta, aspetta, suonarono le sei e mezzo. Il poeta non ne poteva più
dall’inedia.

— Ma si può sapere chi aspetti? — domandò.

— Vuoi saperlo?

— Se ti piace di dirmelo.... poichè tanto abbiamo da ritrovarci
insieme....

— Certo; — rispose il musicista. — È un personaggio senza del quale non
si andrà a tavola. Aspetto uno che, com’io ho invitato te, c’inviti a
pranzo tutt’e due. —

Ma è tempo che si facciano i nomi. L’accenno al suo valzer, che si
canta ancora come aria di bravura dalle prime donne d’antica scuola,
vi avrà lasciato indovinare quello del musicista: il maestro Luigi
Venzano. Era un omino tutto pelle e ossa, gentile d’aspetto, con un
profilo che ricordava quello di Dante, dipinto a fresco da Giotto,
in Firenze, nella cappella del Podestà. S’intende che bisognava tener
conto degli anni, e dei danni che essi arrecano alle facce dei miseri
mortali. I capelli erano pochi, neri, lucidi, ravviati in due cernecchi
che venivano innanzi a carezzare i rosei pomelli delle guance: due
baffettini neri neri, ma radi radi, gli ombreggiavano appena il labbro
superiore. Luigi Venzano odiava i peli bianchi, e siccome odiava
parimente le tinture, usava alla sua eterna giovinezza il cortese
artifizio di strappare i peli bianchi via via che apparivano. Per
tal modo i baffettini si andavano facendo più scarsi. Non era alto di
statura, e aveva leggermente voltate ad arco le gambe, su cui camminava
alquanto piegato nella vita. Abuso di violoncello, diceva lui. Infatti,
era professore di violoncello al civico Istituto di Musica, e suonava
magistralmente il suo patetico istrumento, così nell’orchestra del
Carlo Felice come nella cantorìa di Sant’Ambrogio, avendo fama per la
sua bella cavata, quanta ne aveva per il suo valzer cantabile.

Ben voluto da tutti, era ricercato nella miglior società, dove portava
la sua personcina eternamente giovane. Ma nella sua vera gioventù era
stato sul punto di prender moglie, essendosi innamorato a buono. La
ragazza era bella; il padre, senza, esser ricco, aveva abbastanza del
suo per non far nulla e per assegnarle una dote, in attesa del resto
che non le sarebbe mancato, essendo figlia unica. Quel babbo non volle
saperne di Luigi Venzano, maestrino di musica, già noto per qualche
graziosa composizione, ma ancora e più per certe sue scappatelle.

Direttore d’orchestra del Carlo Felice era allora il maestro Serra, che
morì ottuagenario poco dopo il 1860. Il maestro Serra, per fortuna, era
amico del babbo tiranno.

— Gli parlo io, non dubitare; — disse il vecchio maestro al suo giovane
violoncello. — È un brav’uomo, mi vuol bene, mi sentirà; te lo cambio
da così a così. —

E faceva l’atto, con la mano, di rivoltare una cosa, come fosse una
frittata. Luigi Venzano credette d’impazzir dalla gioia.

Il maestro Serra andò dall’amico quel medesimo giorno, e parlò,
fu eloquente nel tesser le lodi del giovane. Sì, buon Dio, qualche
ragazzata; ma chi non ne ha fatte, a vent’anni? Del resto, un buon
figliuolo, onesto nell’anima, di cuore eccellente; d’ingegno, poi,
d’ingegno ne aveva a bizzeffe. Non era ancora abbastanza conosciuto;
ma, infine, era un artista nato, aveva buona volontà, si sarebbe fatto
un nome e uno stato.

Il vecchio ascoltava; si sentiva scosso; ma voleva arrendersi a modo
suo, con l’onore delle armi.

— Sì, tutto bene; — rispose. — Ciò vuol dire che se voi aveste una
figliuola, gliela dareste?

— Io! — gridò sconcertato il maestro Serra. — neanche per sogno. —

Così avvenne che Luigi Venzano rimanesse scapolo fino al 21 gennaio
1878, il giorno e l’anno della sua morte.

Gaio, gentile e sempre giovane Venzano, ho già ricordato il tuo valzer
cantabile, dedicato «in pectore» ad una gentile artista, Elisa Gassier,
che ne fu la prima e valentissima interpetre sulla scena del Carlo
Felice. Questo valzer ha avuto una coda, e questa coda non dev’essere
perduta per le nuove generazioni. Ma innanzi di parlarne, bisognerà
mettere in scena il poeta.

Domenico Bancalari, di Chiavari, dove era nato nel 1808 e dove aveva
fatto ottimi studi letterarii, era venuto assai giovane a metter dimora
a Genova, seguendo così il vecchio costume di tanti suoi conterranei.
Lontani diciotto miglia a levante dalla metropoli, i Chiavaresi si
sentono assai più genovesi degli abitanti di Cogoleto, che ne sono
distanti assai meno, a ponente. Il fatto morale ha la sua ragione
storica evidentissima nella stessa fondazione di Chiavari per opera
della Repubblica Genovese; laonde la vita di Chiavari, dal 1167 in poi,
s’intreccia talmente con quella di Genova che noi vediamo nel corso
di sette secoli intere famiglie tramutarsi dall’una all’altra città,
andando e venendo, a guisa di spole: in mano al tessitore divino,
bisognerebbe soggiungere, per far la metafora compiuta.

Ma i Chiavaresi, ordinariamente, portano a Genova un tributo di
operosità marinara e commerciale, Domenico Bancalari non portava altro
con sè che un tributo di attitudini poetiche: magra scorta davvero,
per venirci a fare fortuna. Ci fosse stata almeno la speranza della
gloria! Ci sono anime ingenue che sanno contentarsene. Ma i tempi di
Domenico Bancalari non erano da felici ardimenti, neanche in poesia;
ed egli giungeva col suo bagaglio poetico a Genova, quando ne scappava
Felice Romani col suo. Al nostro vecchio amico fu già grande fortuna
poter dimostrare il proprio ingegno in un dramma lirico, «Virginia»,
musicato, se ben ricordo, dal Nini. La «Virginia» non gli fruttò
quattrini; ebbe per effetto di accostarlo al teatro Carlo Felice,
ov’ebbe titolo di «poeta». Era il caso più che mai, di scrivere
per la scena lirica italiana. Infatti, seguì con un «Hernani», che,
posto in musica dal Mazzuccato, non ebbe fortuna, e un «Malek Adel»,
vestito di note da un musicista dilettante, il principe Poniatowski.
Il Bancalari meditò poscia un «Cromwell»; ma il suo melodramma,
trattato con una larghezza di colorito onde aveva l’esempio nel
dramma omonimo di Vittor Hugo, restò in mente del poeta, se pure non
è più esatto il dire che restò _in mente Dei_. Il poeta si era dato
in quel mezzo all’insegnamento, e al più penoso degli insegnamenti,
che è l’insegnamento privato. Penoso per la materialità della
cosa, s’intende, e per averne egli soverchiamente occupato l’orario
quotidiano: nel fatto egli aveva conforto dalla scolaresca più graziosa
che si potesse immaginare. Le belle Genovesi, che furono giovinette
tra il ’40 e il ’78, e che non andarono in conservatorio a farsi
inghebbiare la dolce arte del dire dalle monache, sono state quasi
tutte scolare di Domenico Bancalari, per la storia, la lingua, e la
letteratura italiana.

Ed egli meritò la fiducia delle famiglie, candido dell’animo e dei
costumi, garbato nel discorrere, misurato nei modi, serenamente
amorevole, pieno di dottrina non pedantesca, dotato di finissimo gusto
in ogni cosa. Era curioso il suo modo di esercitare le alunne alla
composizione italiana. Tutte le mattine, uscendo dal suo quartierino
di piazza delle Erbe, pagava il suo tributo alla politica, comperando
un giornale. Leggiucchiava camminando: giunto alla prima stazione del
suo quotidiano viaggio didattico, metteva il giornale sotto gli occhi
alla gentile alunna, facendole leggere ad alta voce un articolo di
fondo, una corrispondenza politica, una notizia cittadina, una cronaca
d’arte, quel che gli capitava, o che per certe ragioni gli aveva fatto
più senso. L’alunna doveva leggere a garbo, magari correggendo gli
errori di stampa, ed anche quelli di interpunzione, che non erano
tutti da imputarsi ai tipografi: doveva pronunziare italianamente,
levandosi via via i difetti della pronunzia dialettale, dar con le
pause, con le spinte di voce, con l’accento vibrato o dimesso, i giusti
coloriti al discorso. Inoltre, e sopra tutto, doveva trovare in che
punti lo scrittore avesse errato nelle proprietà della lingua, nella
purità dei vocaboli e nella sincerità delle locuzioni, nel gusto delle
frasi, nella proporzione dei periodi, nell’equilibrio delle parti;
dove avesse detto troppo, dove troppo poco, e dove, anche in molte
parole, un bel niente. Il professore, come potete immaginare, guidava
lui questa diligente ricerca del pel nell’uovo, uscendo qua e là in
certe sue volate di storia antica e moderna, d’arte, di scienza, d’usi
e costumi, e di tutto ciò che gli paresse opportuno. E qualche cosa di
tante lezioni svariate restava naturalmente nella memoria dell’alunna,
a cui spesso pareva di aver trovato lei stessa ogni cosa; e questo
era certamente il maggior frutto di un simile insegnamento. Ma il
giornalista, poveraccio, era fatto il più delle volte a pezzetti.
La cosa dev’essere capitata anche a me; tante volte mi son sentito
fischiare gli orecchi!

— Ti ho pagato il tributo! — mi gridava egli qualche mattina, da un
marciapiede all’altro della strada, agitando comicamente in aria il
giornale scritto da me.

Povero amico! lo vedo ancora, amante del grigio nei calzoni, del
bianco nella sottoveste, del lionato chiaro nel soprabito, colori
che si confacevano alla tinta dei capelli tra il biondo antico e il
bianco moderno, irremissibilmente tagliati fino alla cotenna. Era di
bella statura, non regolare di lineamenti, ma piacente di aspetto, con
quella sua faccia socratica, vivacissimi gli occhietti grigi sotto le
sopracciglia foltissime, bianco rosata la carnagione, alta la fronte e
nocchiuta, prominenti gli zigomi, un po’ ristrette le guance ai lati
della bocca, che appariva assai bella per la candidezza dei denti e
il vermiglio tenero delle labbra carnose, tra due baffettini ancora
timidamente biondeggianti e una barbettina corta, ristretta alla curva
del mento. Gaio compagnone, ma senza follìe, come si conveniva alla
età matura, pronto alla celia, facile al garbato epigramma e disposto
a gradirlo anche quando fosse rivolto contro di lui, era di tutte
le feste, di tutte le scampagnate; amava la compagnia dei giovani, e
per la freschezza dei sentimenti, per la giocondità delle idee, per
l’amabilità del discorso, pareva sempre tra questi il più giovane.

La mia amicizia con lui aveva avuto uno strano principio. Ci
conoscevamo da un pezzo, per la frequentazione costante al teatro di
musica, per la comune amicizia con Angelo Mariani; e ci salutavamo,
barattavamo all’occorrenza qualche frase, ma senza intimità, e ci
davamo del lei. Avvenne che io perpetrassi un delitto letterario, un
sonetto, per la serata di una prima donna; l’unico, se la memoria non
mi tradisce, certamente l’ultimo della mia vita. La prima donna era
giovane, brava e promettente; ma credo che non abbia fatto carriera,
perchè dopo uno o due anni non ne ho più sentito parlare. Bellissima
com’era, mutò certamente la cara libertà del palcoscenico con una più
cara servitù matrimoniale; viva la faccia sua, e siano stati figli
maschi, com’è da augurare a tutte le donne belle, per il miglioramento
della razza italiana. La diva era venuta a Genova con parecchie
commendatizie, una fra l’altre per me. Avevo fatta la mia visita,
e conosciuta in lei una rispettabilissima persona; l’avevo presto
ammirata in due spartiti vecchi e in uno spartito nuovo, opera di un
amico mio, che ebbe il torto di addormentarsi poi sugli allori. Tutti
questi erano stati per me motivi sufficienti a delinquere. Il sonetto,
debitamente stampato e distribuito in teatro col solito volo dei
foglietti dalla piccionaia, aveva questa chiusa:

                    «o ben nomata
    Angelica nel canto e nel sorriso».

Non rammento altro, dei miei quattordici versi; ma rammento benissimo
che non avevo firmato, stampando, e che non avevo creduto necessario
di vantarmi dell’opera mia presso la gentile artista. Il Bancalari,
poeta del teatro, fu creduto a bella prima l’autore, e ricevette quella
medesima sera i ringraziamenti della diva. Lì per lì, non avendo
ancor visto il sonetto, non aveva capito, nè saputo che rispondere;
poi, letto il foglio, era rimasto più impacciato che mai, non osando
correr da lei per dirle: badate che io non ci ho colpa. Lo disse,
veramente, qualche giorno più tardi; ma per allora, fortemente turbato,
sospettando che fossi stato io l’autore dei versi, era venuto da me per
raccontarmi ogni cosa e scusarsi di non aver saputo chiarir subito la
faccenda, di non aver dato a Cesare....

— Quel che è di Giulio! — diss’io, interrompendolo. — Senta, anzi,
senti; poichè questo segreto ci fa complici, potremo darci del tu. Ho
riletto il mio sonetto a mente fredda. È una birbonata, e tu certamente
non puoi esser contento che si attribuisca a te. Quanto a me, son ben
felice che non si sappia chi ha scritto quei versi. Così potessi esser
io l’autore dei tuoi!

— Quali? — esclamò, rizzando la testa e spalancando gli occhietti grigi.

— «Elisa....» — incominciai. — «Elisa, ricorda....» —

Fece l’atto di dar nelle furie; ma si trattenne tosto; finì anzi con
ridere.

— Anche tu! — diss’egli. — Anche tu li sai?

— E chi non li sa, quei due versi maravigliosi? «Cui non dictus Hylas
puer et Latonia Delos?» —

Ecco la storia dei due versi di Domenico Bancalari. Questa si collega
all’altra del valzer cantabile di Luigi Venzano; ne è veramente la
coda, come ho già avuto l’onore di dirvi; e tralascio per lei di
finirvi un dialogo che può avere la sua importanza per me, ma non ne
avrebbe nessuna per voi.

La stagione invernale del 1849-50 volgeva al suo termine: ancora
un paio di settimane, ed Elisa Gassier, la vezzosa cantatrice,
sarebbe partita da Genova. Luigi Venzano, il cui valzer ella aveva
così deliziosamente cantato, voleva dimostrarle la sua gratitudine
scrivendo qualche cosa sull’albo di lei: una romanza, una barcarola,
un madrigale, od altro di somigliante, in cui potesse svolgere un
pensierino musicale, che avrebbe certamente trovato nella sua giovane
fantasia. Egli apparteneva ad una scuola artistica, per la quale

    «Musica e poesia son due sorelle
    Consolatrici delle afflitte genti»

e credeva che quelle due sorelle non dovessero andar mai scompagnate,
obbedendo in ciò al loro antico destino, che le aveva fatte nascere
ad un parto. Così, appena gli fu venuta l’idea di scrivere il suo
madrigale, od altro che fosse per riuscirgli, il maestro Venzano non
ebbe più pace: voleva i versi: gli occorreva il poeta.

Il poeta, per fortuna, lo aveva sotto la mano. Quella medesima sera
lo avrebbe trovato in teatro, andando alla prova dell’opera con cui
si chiudeva la stagione. Quando giunse in orchestra, vide infatti il
Bancalari, che si aggirava tra i crocchi del palcoscenico, distribuendo
le sue eterne pasticche. Anch’egli, il Venzano, lasciato il violoncello
ancor nella cassa, scavalcò lesto la ribalta e salì sul proscenio;
prese l’amico per un braccio, lo trasse in disparte, e con la sua aria
più misteriosa gli disse:

— Menico mio, tu dovresti farmi un piacere....

— Anche due, — rispose il poeta, — purchè si tratti di cosa che io
possa fare. Capirai che se fossero quattrini....

— Potrai certamente; — ripigliò il musicista, lasciando cadere un
discorso che sarebbe stato inutile proseguire. — Chiedo il piacere alla
tua fantasia di poeta.

— Ahi! si mette male; — disse l’altro, che a quell’uffizio era pigro. —
Sai che ci ho fatta la ruggine?

— Ti prego, non mi dir di no. Due versi per metterli in musica. —

E qui il musicista narrò partitamente all’amico qual fosse il suo
bisogno, a chi fosse destinato il componimento, e come fosse necessario
far presto.

Quell’altro non voleva saperne. Versi a lui, al poeta del teatro?
Era come domandargli mille lire in imprestito. Nicchiò, si provò a
ricusare, gridando di non voler essere seccato; e frattanto con gli
occhi smarriti andava guardandosi intorno, quasi cercando qualcheduno
che potesse e volesse liberarlo da quel passo difficile.

Ma il musicista incalzava. Si era messo tra lui ed ogni via di
salvezza; lo stringeva tra l’uscio e il muro, o per dire più
esattamente, tra la prima quinta di sinistra e il gran pilastro della
bocca d’opera. Il Venzano, finalmente, era un amico, il migliore
degli amici, e chiedeva per la prima volta un servizio al poeta. Ma
il bisogno dei versi era poi così urgente? Se almeno si fosse potuto
rimandar la faccenda al giorno seguente! No, no, quella sera, per
l’appunto quella sera. Il musicista era in vena; quella sera, appena
finita la prova, contava di andarsene difilato a casa, di mettersi al
piano, di trovare la melodia. Domenico Bancalari fece tutte le smorfie
di Proteo, il dio dei pesci, costretto a dare il suo responso al
disgraziato marito di Elena. Voleva guizzar di mano all’avversario; ma
non c’era verso; quell’altro lo teneva più stretto che mai.

— Ebbene, sia; — diss’egli, facendo di necessità virtù. — Infine,
capisco, l’amicizia ha i suoi diritti. Sarai contentato, barbaro uomo.

— Oh bravo! — gridò il musicista, levando le palme. — Credi che mi fai
proprio una grazia, e mi togli da un grande impiccio. A te, del resto,
che cosa costano due versi? Il tempo di scriverli.

— E di pensarli; — replicò il poeta, rabbruscandosi. — Credi proprio
che sia come aprire la bocca e lasciar correre il fiato? Ma sia, ho
promesso; ed eccomi a servirti, qui sui due piedi. —

Il musicista si allontanò, avendo ottenuta la promessa formale. Seduto
sul suo sgabello in orchestra, e voltandosi di tratto in tratto a
sbirciare con la coda dell’occhio di sopra la sua spalla sinistra,
poteva vedere il poeta a lavoro. Domenico Bancalari aveva cavato di
tasca il taccuino con la sua brava matita, e un po’ a capo basso,
un po’ con gli occhi in aria, come è dei poeti, quando alternano i
sorrisi dell’estro con le invocazioni alla Musa, cogliendo quelli al
varco in quattro segni di scritto e rinnovando queste ad ogni triste
pausa del soffio divino, faceva il debito suo, là, tra la prima quinta
di sinistra e il gran pilastro della bocca d’opera, sui due piedi,
come aveva promesso, anzi sopra un piede solo, poichè aveva posato
l’altro sul piano impagliato di una seggiola, per farsi scrivanìa del
ginocchio.

La prova era incominciata; andò avanti, ora alla svelta, ora a riprese,
come tutte le prove. Ad ogni pezzo, voltando la testa alla sua manca,
il maestro Venzano vedeva il poeta, sempre al medesimo posto, col
taccuino sul ginocchio, con la matita in pugno, alternare i suoi gesti,
veramente di significato un po’ dubbio, tra l’ispirazione e la stizza.
Si sa, non è sempre benigna la Musa, e non offre sempre facilmente la
rima ai poeti. La prova finì, come finiscono tutte le cose di questo
mondo; ed anche il poeta aveva finito, poichè, quando il musicista
ritornò sul palcoscenico, egli stava per appunto levando il taccuino
dal ginocchio e il piede dal piano impagliato della seggiola.

— Eccoti i due versi; — diss’egli, con accento burbero, quasi
ringhioso, porgendogli il foglietto, strappato allora allora dalle
carte del suo taccuino.

— Ah, bene! grazie! — rispose Luigi Venzano, dando una rifiatata di
contentezza.

E corse subito con gli occhi al foglietto che aveva preso tra mani; e
l’aria di giubilo che gli si era dipinta sul viso andò subito dispersa
in un gesto d’ingrata maraviglia.

— Soltanto due! — esclamò.

— Due, certamente; — disse il poeta. — Non me ne hai chiesti che due.

— Dicevo due; ma potevano esser quattro, sei, anche otto; — replicò
timidamente il musicista. — Un pensiero musicale ha bisogno di tutti i
suoi svolgimenti.

— E tu svolgilo, ripetendo i due versi. Quante volte non si è fatto
ciò, in musica!

— Capisco, sì, capisco. Si può andar molto lontano, con due versi.
Ma io mi aspettavo tutt’altro. Sei stato qui tre ore ritto impalato a
scriverli.

— «In tenui labor;» — replicò sentenzioso il poeta.

Il maestro Venzano, frattanto, accostatosi ai lumi della quinta che
l’impresario non aveva ancora pensato a far spengere, mise gli occhi
curiosi sul fresco parto dell’amico poeta. Ecco i versi, i due versi
maravigliosi che lesse:

    «Elisa, ricorda
    L’amico Venzano».

E nient’altro, Dei immortali, nient’altro.

— Bella roba! — gridò il musicista, stizzito. — A far questo ero buono
ancor io. —

Il poeta era di ottima pasta; ma, come tutti gli uomini di ottima
pasta, aveva i suoi momenti cattivi. Andò in collera, si rivoltò, come
voi, come me, se fossimo poeti, o serpenti, e qualcheduno ci pestasse
la coda.

— Vedi? — proruppe egli, con voce sibilante di sdegno. — Vedi che
non capisci niente? e quando te lo dice qualcheduno, non te ne vuoi
persuadere. Andate a far servizio alla gente!... alla gente che non
capisce! Già, sempre così; «A cui Natura non lo volle dire — Noi dirian
mille Rome e mille Ateni». —

L’altro seguitava a guardare il foglietto, e ripeteva a mezza voce,
torcendo anche un tantino la bocca:

    «Elisa, ricorda
    L’amico Venzano».

— Ignorante! — gridò il poeta inviperito. — Non sai neanche leggerli.

— Io? e come van letti, di grazia, perchè sembrino un’altra cosa?

— Tu l’hai detto: perchè sembrino un’altra cosa. E ci vuol poco, quel
poco che manca al tuo raziocinio. Dammi qua; — proseguì il poeta,
strappandogli il foglietto di mano. — Ecco in che modo van letti.
Un po’ d’anima, per bacco; una scintilla del fuoco sacro, che non
alligna nella tua testa di rapa. _Elisa!_... Questa, per tua norma
è un’apostrofe. Non sai che cosa sia, l’apostrofe? È una figura
rettorica, nobilissima figura, con la quale si rivolge il discorso a
cosa animata, o inanimata, che abbia lì per lì colpita la mente. Qui
è una cosa animata, è Elisa, Elisa a cui ti rivolgi, perchè essa ti
ha colpito, perchè vuoi essere inteso da lei, e le domandi ascolto.
L’apostrofe domanda, nella lettura, un accento gagliardo, d’invocazione
sopra tutto, ed anche, come ne è qui il caso, di passione rattenuta;
mettendoci tutta l’anima tua, _Eee.... lisa!_ E poi viene il _ricorda_;
dopo l’invocazione la domanda, ciò che tu speri, ciò che tu implori da
lei. Anche qui, dunque, un pochino di sentimento; _rii.... corda!_ Ma
chi deve ella ricordare? l’amico. E qui, fàtti modesto, per indicare
questo titolo che invecchi, per essere ricordato da lei. Questa
parola «_amico_» tu devi proferirla con un accento più tenue, che
vada smorzandosi, morendo nell’altra parola, nella parola finale:
«_Venzano_». —

Luigi Venzano stava ascoltando, ma niente persuaso da tutta quella
cicalata.

— Mi par sempre la medesima scioccheria; — osò dir egli, come l’altro
ebbe finito. — Dov’è il pensiero poetico che io ti domandavo? Questa è
prosa, finalmente.

— Prosa! lo dici tu, ignorantissimo uomo. Se fosse prosa, potresti
tu parlare alla signora in questa forma audacissima, dandole così
liberamente del tu? Diresti, m’immagino, press’a poco così: «Signora
Elisa, la prego, quando sarà lontana, di ricordarsi degli amici,
tra i quali io non sono certamente il meno devoto». Oppure: «Signora
Elisa, io spero che Lei, quando avrà lasciato la nostra città, voglia
ricordarsi qualche volta della mia modesta persona: non merito tanto,
lo so; ma infine, la sua squisita bontà....» E qui una dozzina delle
solite stupidaggini, di cui è fatta la prosa corrente. In poesia vai
più svelto, come vedi.

— E non le dico niente; — ribattè Luigi Venzano.

— Niente! e da capo! Quest’uomo è veramente diverso d’ogni costume.
C’è tutto, per tua norma, qui dentro; c’è tutto il necessario, non una
parola di meno, non una parola di più: il sommo dell’arte! Non dovrei
vantarmi da me; ma sei tu che mi tiri pei capelli. Infine, ragioniamo.
A chi ti volgi, col tuo pensiero musicale? A lei. Chi è lei? Elisa.
Inutile che tu soggiunga il casato della signora, poichè scrivi nel suo
albo, che non è quello di un’altra; ne convieni?

— Ne convengo.

— Dunque, dicevamo, _Elisa_. E non puoi dirle altro che Elisa; non puoi
metterle di costa il più magro degli epiteti, che sarebbe sempre una
libertà troppo grande, e ti farebbe passare per un fatuo, agli occhi
suoi e dell’universo mondo; me convieni?

— Ne convengo.

— Oh, santa pace! e allora ci siamo. Che cosa le domandi tu, ad Elisa?
Non già che ella ti ami. Queste cose si chiedono a voce, se mai, perchè
ti rida lei sul muso; non si mettono in carta, perchè ti ridano gli
altri alle spalle. Del resto, un cavaliere di garbo non domanda che
un pensiero. È già molto, sai? Ora, poichè ella parte, questo pensiero
è facilmente, naturalmente, un ricordo. Eccoti dunque giustificato il
«_ricorda_». Ma chi deve ella ricordare? L’innamorato?

— Eh via! chi ti ha detto che io ci abbia di queste intenzioni?

— Ho piacere che tu stesso lo intenda. Del resto, non si potrebbe
metter la parola in un albo, che può andare per tante mani. L’amico,
dunque, l’amico. Ed eccoti per l’appunto questa parola necessaria:
«_l’amico_». Ma chi è questo amico? Ce ne son tanti, di amici! Bisogna
dunque specificare. Specifichiamo l’amico. Luigi, lo capisco benissimo;
tu avresti voluto metter Luigi, ed anche con la sua brava dieresi:
Lüigi. Ma sai che sarebbe stata un’audacia singolare, un’audacia
strana, inaudita! In quella vece, il cognome, nient’altro che il
cognome. È usuale; è di buon genere; Venzano!

    «Elisa, ricorda
    L’amico Venzano».

C’è tutto; — conchiuse Domenico Bancalari con aria di trionfo; — non
una parola di più, non una di meno; il sommo dell’arte, come ho l’onore
di ripeterti, è sommo dell’arte. E tu dicevi che non c’è niente! Dillo
ancora se l’osi.

— Non l’oserò; — rispose rassegnato Luigi Venzano. — Ma ti giuro che
andrò a farmi fare due versi da un altro. —

Il poeta non ci vide più lume.

— E vacci, in tua malora, — gridò, — e trovalo, che ti faccia un
centone di frasi, in cui annegare il tuo pensierino musicale, povero
pulcino tisico, sgusciato per carità! Io potrò sempre dire col profeta:
«Curavimus Babylonem et non est sanata, derelinquamus eam». —

In quel punto si accostò un inserviente.

— Signori, se hanno finito, si spenge.

— Sì, spegni pure, abbiamo finito; — brontolò Luigi Venzano.

I due amici si avviarono all’uscio del palcoscenico, per infilare il
corridoio dei palchi di prima fila. Ma quella sera, usciti dal teatro,
non cenarono insieme. Domenico Bancalari svoltò da un canto, e Luigi
Venzano dall’altro.

Ritrovò questi il poeta che gli facesse il centone? Non ne ho
raccolto memoria. Per saperlo, bisognerebbe vedere nell’albo di Elisa.
Comunque sia, la eminente cantatrice partì da Genova, e uscì più tardi
dall’arte, ignorando quell’episodio della sua gloriosa carriera, e
come per lei, innocentissima causa, due vecchi amici restassero una
settimana imbronciati.

Poveri vecchi amici, andati via via dove andiamo tutti, a dormire
il gran sonno! Quante volte non lo abbiamo perduto insieme, il
sonno, facendo l’alba in un quartiere o nell’altro della città, per
accompagnare a casa or l’uno or l’altro di noi! E quante volte, o
Domenico Bancalari, o Luigi Venzano, non vi ho io tormentati con
la storia dei versi ad Elisa! Ma niente di male, in fin dei conti;
ridevate, e per un’ora almeno ridiventavate giovani anche voi.

C’è nei lieti ricordi evocati una gioia che trabocca dall’anima
dei ricordatori, per trasfondersi nell’anima di un’intiera brigata.
Io, quando mi trovo in compagnia di vecchi che amino ricordarsi e
raccontare, provo un gaudio estetico singolarissimo ad entrare nella
memoria loro, a stuzzicarla, come si fa col fuoco in un camino, per
vedere la gioconda fiammata di gioventù, che traluce dagli occhi,
colora le guance, anima il gesto e l’accento. Perfino le carni
riprendono il loro vigor giovanile, in questa specie di valle di
Giosafat, dove le rimembranze avvizzite son pronte a risorgere, senza
suono troppo fragoroso di trombe.

E ne stuzzicavamo, dei fuochi illanguiditi, nelle notti dopo lo
spettacolo, al secondo piano di quella trattoria del teatro Carlo
Felice, intorno ad una gran tavola che aveva la fortuna di parer sempre
troppo ristretta! Ci passarono tutti, là dentro, italiani e stranieri,
artisti, poeti, scrittori, uomini politici ed amministrativi,
soldati, mercanti e fannulloni emeriti, che sentivano il bisogno
di un’ora di espansione amichevole. Ce n’era uno, per verità, che
non voleva espandersi, ma concentrarsi: il povero Giuseppe Rota, il
famoso autore dei «Bianchi e Neri», del «Giocatore» e di tante altre
azioni coreografiche, rimaste nella memoria del mondo come vere opere
d’arte. «Amici, concentriamoci» era il suo grido. Angelo Mariani, il
musicista insigne, il celebrato direttore d’orchestra, ammetteva la
concentrazione, ma non voleva si dicesse «amici», parola secondo lui
abusata tra i popoli; pretendeva che si dicesse «amichi» perchè c’era
l’idea, ma rinnovata, rinfrescata, rinvigorita da qualche cosa di
più. Un’acca, sicuramente. E gli «amichi» in quelle ore ne trovavano
delle carine. Luigi Venzano, ad esempio, inventò il trionfo di Luigi
Saccomanno, dopo la serata di questo egregio cantante, che aveva creata
in Genova la parte di Mefistofele nel «Faust» del Gounod.

— Senti, — era andato a dirgli in camerino tra un atto e l’altro il
Venzano, — gli «amichi» non hanno voluto darti fiori, che son riserbati
alle prime donne; non allori, che stanno bene dai salumai; non bottoni
di brillanti, che stanno meglio nelle vetrine dei gioiellieri.

— Che! che! — gridò il Saccomanno. — La vostra «amichizia» mi basta.

— No, questo no, è troppo poco; — riprese il Venzano. — Ma che ne
diresti di una cena, preceduta dagli onori del trionfo?

— Vada per la cena; — disse il baritono. — Tanto la faccio ad ogni
modo, e sarà tanto di risparmiato: ma il trionfo.... Credi proprio che
io l’abbia meritato? Basta, fate voi altri.

— Vedrai, e ne sarai contento; — replicò il Venzano. — Finito lo
spettacolo, spògliati con tutto il tuo comodo; ti aspetteremo sotto il
pronao del teatro. —

Ecco ora in che consisteva il trionfo. Un trionfo presuppone un carro.
Luigi Venzano ne aveva adocchiato uno, nell’angolo della piazza,
tra il colonnato del Carlo Felice e i portici dell’Accademia. Quando
il Saccomanno, che era d’ultima scena, ebbe finito di spogliare le
maglie rosse e di levarsi dal viso l’impiastricciatura diabolica, il
teatro era sgombro da un pezzo, e sotto il pronào, partita l’ultima
carrozza, non c’erano che gli «amichi» adunati in attesa, col loro
carro, o, per dire più esattamente, con una certa carretta, che aveva
la cassa protetta da un coperchio a due imposte, come un uscio a due
battenti. Comparve il Saccomanno, vide lo strano arnese, riconobbe
una carretta da spazzaturai, rise e ci saltò dentro, fra gli evviva di
una trentina di «amichi». I quali, parte alla testa, parte ai fianchi,
parte alla coda della carretta, si diedero a tirare, ad accompagnare, a
spingere, gridando come ossessi, per via Carlo Felice e piazza Fontane
Amorose. C’erano degli uomini gravi, nella compagnia trionfale; farei
inorridire, se dicessi tutti i nomi; vi basti di sapere che erano
del numero certuni, i quali dovevano poi tirare, magari portandolo un
pochino sull’orlo dei fossi, il classico carro dello Stato.

— Viva il grande, il sommo, l’eccelso baritono, il divo Luigi
Saccomanno! — si andava gridando a squarciagola. — Onore
all’impareggiabile merito del maraviglioso artista che sotto le spoglie
di Mefistofele ha mandato in visibilio il rispettabile pubblico e
l’inclita guarnigione! —

E via di corsa, con gran fragore di ruote sul lastrico della strada;
ma tosto con un lungo codazzo di guardie della questura, che volevano
fermare il carro, e intanto, riconoscendo nella brigata alcuni
personaggi che il nastro verde od altra ragione rendeva sacri ai loro
occhi, si contentavano di seguire il cortèo trionfale, gridando: —
signor cavaliere, per carità! signor marchese, di grazia! la smettano;
lascino dormire in pace tanti buoni cittadini!

— Che pace! che dormire! — si rispondeva. — Quando c’è il merito,
bisogna riconoscerlo... ed onorarlo. Seguite anche voi, e gridate: «Io
triumphe»! —

E risate, frattanto, ed arringhe del trionfatore, che andava
traballando ad ogni scossa del veicolo. Come Dio volle, si finì la
gazzarra; il trionfo della carretta fu fermato sulla piazzetta della
Meridiana, davanti ai Telamoni del palazzo Verde.

Queste erano follìe. Ma quante belle conversazioni di musica, di
letteratura, d’arti figurative, di economia politica, di commercio,
d’industria, di nautica, perfino di astronomia! Ricordo una sera,
in cui Camillo Flamarion, allora in peregrinazione scientifica
per l’Italia, ci svolse la sua teorica della pluralità dei mondi
abitati. Domenico Bancalari mancava di rado a quelle feste dell’ore
«all’amicizia sacre» come le chiamava Tommaso Marchesani, il mio
indimenticabile compagno di passeggiate notturne. Domenico Bancalari
partecipava con l’anima a tutto, non riscaldandosi in nulla, sempre
sereno, garbato, ilare e fine. Ed anche aveva finito a compiacersi di
sentir ricordato l’albo di Elisa.

— Ma sì, — mi diceva, — non ti pare? Avevo detto tutto quel che
c’era da dine: Non una parola di più, non una di meno, è il sommo
dell’arte. —

Anch’io, senza sperar di raggiungere in ciò il sommo dell’arte, vorrei
non dir più del bisogno. Ma direi certamente di meno, se non ricordassi
che il mio povero amico mi ha ricordato nel suo testamento; l’unico
testamento, ahimè, in cui sarà stato scritto il mio nome.

Da qualche tempo non ci si ritrovava più che di rado. Con la morte
del Mariani, avvenuta nel 1873, la società degli «amichi» si era
quasi dispersa. Vedevo il mio Bancalari ad intervalli, ordinariamente
di mattina, andando egli a qualche lezione, ed io all’ufficio del
giornale. — Ti ho pagato il tributo! — mi gridava egli dall’opposto
marciapiede di via Sellai, o di via Carlo Felice, agitando il foglio
che aveva tra mani. — Grazie! tu sei la perla dei contribuenti; —
rispondevo. E ognuno di noi tirava dritto per la sua strada.

A mezzo il giugno del 1879 ammalò, ed io non seppi nulla. La malattia
fu breve. Il 21 giugno venne da me il commendatore Paolo Papa,
farmacista in piazza del Palazzo Ducale, egregio cittadino e mio
compagno d’armi.

— Il povero Bancalari, — mi diss’egli, con le lagrime agli occhi, — è
morto.

— Che? come?... — gridai.

Ed anche a me si velarono gli occhi. Domenico Bancalari era uno di
quegli amici che si possono materialmente trascurare per giorni e
settimane, senza che essi siano perciò meno presenti al nostro spirito,
o meno cari al nostro cuore.

— Sì, questa mattina; — mi rispose Paolo Papa. — Ed ecco il suo
testamento. —

Il testamento era breve; Domenico Bancalari lo aveva scritto di suo
pugno, in un foglietto di carta, a matita, come i due versi ad Elisa.
Lasciava poco, l’amico mio, perchè poco aveva messo da parte. Tra i
paragrafi del malinconico documento c’era questo, che risguardava la
mia povera persona:

«All’amico Anton Giulio Barrili lascio la Storia della Letteratura
Italiana di P. L. Ginguené, in dodici volumi. Credo che egli non
possieda quest’opera, perchè un giorno me ne ha chiesto un volume in
imprestito. La tenga, ad ogni modo, per ricordanza del suo vecchio
amico».

Quel medesimo giorno la Storia del Ginguené (versione Italiana del
Perotti, edizione milanese del 1825) venne ad arricchire la mia
libreria. Non erano dodici, i volumi, ma undici. C’era il terzo,
quello imprestato a me e da me restituito a suo tempo; mancava il
quinto, sicuramente imprestato ad altri e non ritornato al suo padrone
legittimo: onde l’opera mi rimane scompleta. Anche così, mi è cara;
nè, comunque parecchi volumi siano rotti, sbrendolati dall’uso, osai
farla rilegare, parendomi in quella veste primitiva di sentir meglio la
presenza di lui.

Bancalari, Venzano, inseparabili amici, siate uniti anche qui, nelle
mie rimembranze giovanili. Viveste buoni, modesti ed utili. Se i
fatti avessero consentito, avreste conseguita la fama. Le mie pagine
non potranno darvene punto. I pochi che mi leggeranno, sappiano che
meritavate di conseguirne moltissima; sappiano ancora che nessuno
ebbe a sentirsi offeso dal vostro orgoglio, oppresso dalla vostra
superiorità, schiacciato dalla vostra fortuna; sappiano infine che
foste anime nobili, che siete vissuti amando, lasciando intorno a
voi, nella generazione che vi conobbe, un dolce ricordo d’intelligente
bontà, un «incognito indistinto» di gentilezza, di virtù, di sorrisi.

Ciò forse val meglio che lasciare un nome nella storia.



L’amico Bastiano.


Ero a tavolino, scrivendo; con poca voglia, veramente, poichè dalla
finestra si vedeva un bel cielo sereno, e tutto invitava ad uscire.
Ma la necessità comandava; e la necessità, che fa l’uomo ladro, lo fa
qualche volta anche scrittore. Scrivevo, adunque; e già incominciavo a
rassegnarmi, a prenderci gusto, quando entrò la fantesca per dirmi:

— Signor padrone, c’è un signore che domanda di Lei.

— Oh Dio! — mormorai. — Gli hai dunque detto che c’ero?

— Scusi, mi ha detto che era un amico, un vecchio amico, e che
l’avrebbe incomodata soltanto per pochi minuti. —

Sospirai, rassegnandomi alla visita, come già m’ero rassegnato al
lavoro.

— Dov’è? — ripigliai.

— Nel salottino.

— Bene, ora vengo. Ma no, — soggiunsi, pentendomi subito. — Se è un
amico, puoi farlo entrar qua. —

E dentro di me soggiungevo:

— Non troverà una sedia libera, e capirà, vedendomi a tavolino, che non
posso esser seccato con lunghi discorsi. Perchè io li conosco, questi
messeri che hanno da incomodare soltanto per pochi minuti. Date loro un
dito e vi pigliano la mano; una mano, e vi pigliano il braccio. —

L’amico entrò. Non lo conoscevo neanche per prossimo. Era un signore
alto e grosso, dalle spalle quadre, con una gran faccia larga e
carnosa, senza peli alle labbra ed al mento, ma con due ventole lunghe
e nere come l’ebano, in mezzo alle quali si dilatava un bel naso, la
cui punta appariva filettata di vasi sanguigni. La fronte era bassa, ma
prendeva una certa dignità dal cranio nitido e lustro come una palla
di biliardo. Gli occhi erano piccini, ma lucenti di malizia, sotto
due sopracciglia folte, ispide e pronte alla difesa. Il personaggio
vestiva signorilmente, con eleganza forestiera, e portava bottoni
di brillanti al petto della camicia. Probabilmente ne aveva anche ai
polsini; a buon conto, ne osservai uno, senza volerlo, che luccicava al
quarto dito della mano destra; un solitario che così ad occhio e croce
poteva essere stimato a diecimila lire. S’intende che non ebbi modo
di far subito il conto; dovevo guardare in faccia il personaggio, e
guardandolo non venivo a capo d’indovinare chi fosse.

Mi alzai, facendo di necessità virtù, e levai tre grossi volumi di
sopra una seggiola, con intenzione di offrirgliela. Capirete, non si
può far tutto ciò che si pensa.

— Prego.... — dicevo frattanto. — In che posso servirla?

Quell’altro mi guardava sorridendo, e ad ogni tratto ammiccando,
socchiudendo gli occhi, spalancandoli, come se volesse vedermi
bene, contemplarmi in più modi. Ma quella mimica non poteva durare
eternamente; ed egli, come Dio volle, la smise.

— Sei tu, non è vero? — incominciò. — Ma sì, ma sì, sei mutato di poco.
Ingrassato, per altro!

— E tu, caro, non canzoni; — gli risposi io, abbastanza, seccato. — Sei
ingrassato tanto, che non ti riconosco affatto, e ti prego di dirmi il
tuo riverito nome.

— Non mi riconosci? — esclamò. — Egli non mi riconosce più! — proseguì,
come parlando ad un suo spirito interiore. — Vedete che cosa fa la
gloria. Ci ha i fumi alla testa, il nostro compagno di scuola. Ma
davvero, non ti ricordi più dell’amico Bastiano? —

Ci sono degli uomini che hanno di queste malinconie. Non li avete più
visti da quarant’anni; erano piccini allora, mingherlini, senza un
pelo sul viso; vi vengono davanti uomini fatti, strafatti, con tanto di
basette, senza capelli in testa, e pretendono in quell’ultimo figurino
li riconosciate «hic et nunc» per quelli di prima. Io, neanche al suo
nome, riconobbi il mio Bastiano: mi fu necessario un esame interiore,
una rassegna veloce, a ritroso, di tutte le fasi della mia adolescenza,
della mia puerizia. Ah, finalmente, c’ero; ritrovavo, quantunque
sbiadita, l’immagine dell’amico Bastiano. Ma erano passati mill’anni, a
dir poco, dal giorno che l’avevo perduto di vista. Un cosino alto così,
due soldini di cacio! Nondimeno, feci tutti i gesti di circostanza, e
con quella buona grazia che salva tutto, mi precipitai nelle braccia
che egli mi offriva spalancate.

Dato quel piccolo sfogo ai sensi dell’amicizia, feci sedere accanto a
me l’amico Bastiano.

— Qua, qua, vecchio compagno; — gli dissi, battendogli anche la mano
sulle ginocchia. — Ma chi poteva riconoscerti subito, dopo tanti anni,
nella spoglia dell’uomo maturo? E da dove, se è lecito?

— Da Parigi, da Berlino, da Vienna.

— Un bel giro! — Ma prima di Parigi?...

— Montevideo, Buenos-Aires, Rio de Janeiro.

— Bravo! vai sempre per triple?

— Aggiungi tre dozzine d’anni che manco dalla patria.

— Appena? — mi sfuggì detto. — Mi pareva che ci fossimo perduti di
vista da molto più tempo.

— Già, ti ricordi? Eravamo stati compagni ancora in grammatica, e poi
per due mesi di umanità. Io ho lasciato allora gli studi a mezz’anno.
I versi mi allegavano i denti. Quelle regole della.... come diavolo si
chiama quella storia.... per fare i versi in latino?

— La prosodìa, caro. Rammenti il primo precetto? «Vocalem breviant,
alia subeunte, Latini».

— Neanche quello. Non me n’è entrato in testa neppur uno. Che follìa,
del resto, voler dare una educazione eguale per tutti!

— Colpa dei tempi, amico Bastiano. A quei tempi non facevano scuola
che i frati; e gran mercè che una scuola ci fosse. Ora ci avresti da
scegliere. Ce n’è per tutti i gusti, in Italia; la scuola tecnica, per
esempio, dove il latino è proibito come le pistole corte.

— E mi sarei anche adattato al latino; — riprese l’amico Bastiano. — Ma
quando la testa non regge.... quando certe difficoltà non t’entrano,
che ci vuoi fare? Tu, invece.... Lo dicevo sempre, io, che saresti
diventato un pezzo grosso. Sempre il primo in iscuola.... Ma come ne
eri orgoglioso! confessalo, via.

— Se è per farti piacere, lo confesserò.

— Quanto a me, poveraccio, piantata lì la Regìa.... la Regìa....

— «Regia Parnassi, seu Palatium Musarum».

— Capisci che roba! — ripigliò con accento di comico terrore l’amico
Bastiano. — Così, lasciato lo studio, non avevo da scegliere che tra le
mezzine di mia madre e le doghe di mio padre. Ricorderai che mio padre
faceva il bottaio, nella Quarda inferiore, e mia madre teneva osteria a
dieci passi da lui. Non me ne vergogno, sai? E non mi sarei vergognato
allora, nè di fare il bottaio, nè di fare il tavoleggiante. In America,
dove sano andato, ne ho passate delle peggio. La vita è dura, pur
troppo; e più dura a chi deve cominciarla da sè.

— A chi lo dici? — esclamai.

— E tu, perbacco, anche tu ci avrai avuti i tuoi momenti difficili, non
è vero? La prima notizia che mi venne di te, a Montevideo, mi fece anzi
un po’ di pena.

— Che notizia?

— Che ti eri messo a scrivere nei giornali. Brutto mestiere, ho subito
detto tra me.

— Brutto no, ma da cani; — replicai. — Figùrati che ho incominciato
guadagnando cinquanta lire al mese.

— Se lo dicevo io! se lo dicevo! Ma fortunatamente ti sei liberato; sei
andato su su; sei volato; ti sei messo a scriver libri. E che libri,
in edizioni di lusso, da innamorare. Ne ho comprato uno a Parigi, dal
libraio della stazione dell’Est. Ah, vediamo un poco che cosa scrive
l’amico, ho detto tra me. Voltata la prima pagina, ho veduto benissimo.
«Opere dello stesso Autore». Mamma mia, quanta roba! ho contato fino a
quarantaquattro volumi.

— Aggiungine otto per il buon peso. Ne ho già pubblicati cinquantadue.

— Diavolo!

— Sì, meravigliati pure; cinquantadue. E fo conto di andare a cento.

— Niente di meno! Ma come fai, domando io, come fai a scriver tanto?

— Scrivendo, caro amico, scrivendo. È una infermità: i medici la
chiamano grafomanìa; ed io la porterò fino alla fossa. Non mi pesa,
del resto; anzi ti dirò che mi fa buon giuoco. Quando sono qui dentro
a lavorare, non vedo quello che gli altri fanno, ed è già tanto di
guadagnato. Ti capacita?

— Capisco che vuoi scherzare. Ma sai che è una bella costanza, la tua?
Già, quando si è tanto studiato da ragazzo!... Io, pur troppo, son
rimasto un asino.

— Eh via!

— Sì, ti dico, un asino calzato e vestito. Lo scrivere mi ha sempre
scorticate le dita. Con te, che alle scuole mi hai fatto tante volte
il «lavoro» non devo e non voglio aver segreti. Figùrati che per la
mia corrispondenza d’affari ancor oggi ho bisogno d’un segretario.
Quanto alle lettere di complimento, c’è mia moglie che se ne incarica.
Disgraziatamente non sa altro che spagnuolo e francese. Per questa
ragione, caro mio, non ho mai scritto in patria agli amici.

— Non scriverai; — gli dissi. — Ma leggi, se non altro.

— Che! vorrei potere. Ma anche qui, non c’è verso: prendo un libro in
mano colla migliore intenzione del mondo; uno dei tuoi, per esempio;
leggo una pagina, e sbadiglio....

— Grazie della sincerità; non ne hanno neppur tanta i miei critici.

— Oh, non dico per te: mi accade lo stesso per tutti. Alla prima pagina
sbadiglio, alla seconda m’addormento. E me ne dispero, sai? ma è più
forte di me. Credo che sia una malattia, come la tua che mi dicevi
poc’anzi. Ma non sarà così di mio figlio. Ne ho da fare uno scienziato,
ne ho da fare; specie se tu vorrai darmi un consiglio. Anche per questo
son venuto da te. Ma a proposito, e tu, quanti ne hai?

— Niente figliuoli, mio caro.

— Ammogliato, almeno?

— Niente moglie, e ne ringrazio il cielo; perchè se l’avessi presa, ci
sarebbero su questo pianeta due infelici di più. Il matrimonio, amico
Bastiano, è fatto pei ricchi, o pei poveri in canna. Hai capito, ora?
Ma lasciamo questi discorsi. Come l’hai fatta tu, in America?

— Ti ho detto che ne ho vedute di tutti i colori. Da principio
sguattero d’osteria, poi soldato, disertore, _saladero_, minatore,
_almacinero_, di tutto un po’, salvo il briccone. In capo a cinque
anni la mia sorte cangiò; riuscii a mettere insieme un migliaio di
patagoni. Era il difficile. Con quelli, entrai compagno d’un accorto
connazionale; s’impiantò una _pulperìa_, che rimase poi a me tutta
intiera. Vendevo di tutto, vino, olio, formaggio, salumi, cerini,
refe, bottoni, calze, camicie, abiti fatti, stoviglie, tabacco, lucido
da scarpe, penne, inchiostro, carta da scrivere, e via discorrendo.
Così ho lavorato dieci anni; prosperando il commercio, ho messo di
costa una somma discreta, con la quale mi sono buttato negli affari,
comprando terreni, vendendone, e da ultimo facendo il banchiere. Così
in venticinque anni di lavoro mentale (ridi, eh?) son venuto in capo di
mettere insieme.... indovina un po’ quello che ho guadagnato?

— Cinquecento mila lire?

— Avanti!

— Ottocento mila?

— Avanti ancora!

— Caro, nei grandi numeri mi ci trovo male. Dimmi tu quello che porti
in Europa.

— Eh, non porto mica tutto; — rispose l’amico Bastiano, traendo un
sospiro. — Ci ho i terreni di Buenos-Aires, che ora non si vendono;
e ne ho per due milioni al sole. Un milione l’ho poi alla Banca
Argentina; ma per ora non mi conviene di ritirarlo.

— Sicchè?

— Sicchè, devo contentarmi dei cinque che ho portati a salvamento; tre
alla Banca di Francia; due qui in Genova, tra la Banca Nazionale e la
Cassa di sconto.

— I miei complimenti. E tutto ciò senza scrivere!

— Oh, per questo, che necessità? Gli affari non domandano mica di
sapere il latino, e di conoscere la prosodìa.

— Dici benissimo, amico Bastiano: e Dio benedica tutti coloro che non
l’hanno studiata.

— Ma sì! ma sì! — conchiuse l’amico Bastiano, ridendo a crepapelle.
— Ora veniamo a noi. Con tutto quello che possiedo non ho ragione di
chiamarmi contento. Ti parrà strano, ma è così; non sono contento,
e non è contenta neanche la mia signora. C’è quel nostro figliuolo!
unico, bada, unico! Figùrati che s’è messo in testa di rimanere un
asino come suo padre. In America, passi; non c’era un collegio adatto.
Laggiù, quando si è ricchi e si hanno figliuoli, si mandano a studiare
in Europa. Andiamo in Europa, diss’io; lo metteremo a studiare in un
buon collegio, e ne faranno un dottore, come vuole sua madre. Siamo
venuti in Europa: mia moglie voleva passare una stagione a Parigi, e
fu quella una buona occasione per collocarlo in una pensione laggiù,
restandogli vicini, per invigilarlo un poco. Ma s’è dovuto levarlo di
là, dove non imparava nulla, e dove, dopo tutto, lui, figlio di padre
italiano, non era neanche conveniente che facesse gli studi classici.
Dico bene? Si venne in Italia: si collocò il ragazzo a Torino, in quel
Collegio Internazionale, che ha buona fama anche laggiù in America.
Orbene? Non passa un mese, e a Berlino, dov’ero andato con la mia
signora, ricevo una lettera che mi dice: «Caro signor Bastiano, il
vostro signor figliuolo non vuol saperne di studio; è un refrattario;
potete venire a riprenderlo». Immagina il dispiacere di mia moglie.
Si scende a Torino, si ripiglia il ragazzo, e si porta a Vienna, per
vedere di ammansarlo, di persuaderlo durante il viaggio. Pare pentito;
dice che studierà; ma dice ancora che di collegio non vuol saperne
a nessun patto. Bisognerebbe che qualche persona dotta lo prendesse
con sè, per fargli da maestro e da padre. Non si baderà a spese, mi
capisci? Ci vada quel che deve andarci; purchè se ne ottenga qualche
cosa, purchè non rimanga un ignorante, e non faccia arrossire sua
madre. Quanto a me, ci avrei fatto il callo; — soggiunse modestamente
l’amico Bastiano. — Or dunque, eccoti qua il caso nostro. Siamo venuti
a Genova, ed alloggiamo all’«Hôtel du Parc». Vieni a colazione da noi,
«es regular». Ti presenterò a mia moglie. Le ho parlato tante volte
di te! È una donna superiore. È anzi lei stessa che mi ha detto: va da
quel tuo compagno d’infanzia; egli potrà darti un consiglio. Capirai;
vorremmo che studiasse bene, poichè finalmente si decide ad entrare
in una pensione. Non oso dire a te.... Nella tua alta posizione,
certamente.... —

Io lasciai passare le due sospensioni senza fiatare, come in
una giornata di vento il pellegrino lascia passare due raffiche,
continuando a capo chino la sua strada.

— Ma tu, almeno, conoscerai, saprai quel che occorre al nostro bisogno.
Vedrai, del resto, il ragazzo: non è cattivo, dopo tutto; è solamente
un po’ sventato. Con la tua eloquenza, col tuo esempio, son certo che
si persuaderà. Una buona paternale che tu gli faccia....

— Vuoi un parere? — interruppi.

— Ero venuto per questo.

— Ebbene, fa una cosa. Lascia stare la mia eloquenza, che non c’è;
metti da banda il mio esempio, che non serve; prendi il tuo rampollo a
quattr’occhi, e parlagli fuori dei denti, così: «Ah, non vuoi studiare,
assassino? Ebbene, ti metterò nel commercio; là non ne avrai bisogno;
guadagnerai, cane, guadagnerai quattrini a palate. Andrai magari in
America, come c’è andato tuo padre; farai tutti i mestieri, combatterai
onestamente ma virilmente le battaglie della vita; giungerai alla
fortuna, prenderai moglie, avrai figliuoli anche tu; e se non
vorranno studiare, se il latino allegherà loro i denti, se lo scrivere
scorticherà loro le dita, andrai per consiglio da un amico, anche tu.
Intanto si passa il tempo, ed una occupazione val l’altra». Perchè,
vedi, amico Bastiano. Tu hai tre milioni in America e cinque in Europa.
Io ne ho più di te, ma tutti in testa. Faresti a barattare? Io credo
di no. Se tu avessi studiato come me, amico Bastiano, saresti l’autore
di cinquantadue volumi, da far dormire cinquantadue generazioni di
altri Bastiani; saresti un dottore, e tutto quell’altro che ti parrà
di vedere in me; ma saresti anche un bello scampolo di disperato. Non
hai voluto studiare, per tua fortuna; e torni da Parigi, da Berlino, da
Vienna, potendo anche rimetterti in cammino, e andare a Pietroburgo, a
Mosca, a Stoccolma. Io, frattanto, non posso neanche venire a colazione
da te.

— O come? perchè?

— Perchè fra mezz’ora debbo prendere il tramvai, e andare a far
lezione, ad insegnare a trenta o quaranta giovanotti il poco che so; e
mi daranno in fin di mese novantasette lire e ventiquattro centesimi.

— _Diablo mundo!_ ma io non starei mezz’ora al mio banco, per quella
miseria.

— Vedi? tu l’hai detto: al mio banco. Ma il mio non è un banco, è
una cattedra! che ci vuoi fare? Amico Bastiano, questa è la vita, coi
suoi bravi contrasti. Diglielo, a tuo figlio, che non studii. Non c’è
bisogno di dottori in Italia; c’è bisogno di milionarii; e se amate il
vostro paese....

— Ma sì; tanto è vero che ci si torna.

— Orbene, se amate il vostro paese, arricchite. E al tuo figliuolo
raccomandagli di non logorarsi il cervello con gli studi classici.
Bella roba! avremmo in patria un disperato di più. Quando penso che
tanti babbi si accorano e tanto mamme si disperano, perchè i loro
figliuoli non vogliono studiare! Che pazzìa! che sciocchezza! Vedete
l’amico Bastiano, vorrei dire a tutti quanti; non voleva studiare,
neppur lui; piantò la «Regia Parnassi», il Porretti e il Mandosio;
andò a far le vitacce in America; n’è uscito sano, fresco come una
rosa, lucente come uno specchio, brillantato come lo Scià di Persia,
onest’uomo sempre, e milionario per giunta. Che cosa domandereste di
più, per i vostri rampolli? —

Rideva, l’amico Bastiano; non so poi se verde o pavonazzo, ma
certamente con gran rumore di fauci.

— Se tu almeno volessi far intendere queste cose a mia moglie! È lei,
che non si vuol persuadere. Ma tu non puoi neanche onorarci.... Hai da
montare in cattedra....

— Sì, caro; ma prima di tutto in tramvai. —

L’amico Bastiano si alzò finalmente. La visita era durata assai più dei
cinque minuti promessi. Ma era anche colpa mia, che avevo chiacchierato
tanto. Si alzò, dico, e mi offerse un sigaro, lungo, grosso, odoroso,
con la fascia argentata. Sorrisi, accettando, e misi il prezioso dono
sul mio tavolino.

— Non fumi? — domandò.

— Come un Mongibello; — risposi. — Ma questo lo terrò per memoria
della tua bella visita. Caro mio, — soggiunsi, — per solito, io li fumo
toscani, ed anche mezzi, come Dante.

— Davvero? Li fumava toscani, Dante?

— Sicuro, essendo toscano egli stesso. È vero, per altro, che il
Ferruccio, quantunque toscano, non lo imitava. Ma quello era un
soldato, che aveva fatta la pratica nelle Bande Nere: perciò fumava con
la pipa di gesso.

— Quante belle case sai tu!

— Sì, che te ne pare? E tutte utili egualmente. Se avrai tempo da
perdere, vieni da me, e te ne dirò delle altre. —

Sono passati due anni oramai, e non ho più visto l’amico Bastiano.
Dopo quella visita non si fece più vivo con me. Così non ho conosciuta
neanche, e non ho avuto da persuadere quella «donna superiore» di sua
moglie. Ma spero di persuaderne delle altre, anche più superiori di
lei. Stimatevi felici, o mamme, quando i vostri rampolli non vogliono
studiare. Sono sulla buona strada; non li sforzate a cambiarla.



Il mio latino.


Gli amici che mi leggono, buona gente e dotata d’una pazienza estrema,
mi accusano del troppo slatinare ch’io faccio, quante volte, con
una ragione o con l’altra, e magari senza ragione, mi riesce di
tirare la mia prediletta lingua morta tra i fatti, le costumanze e
le conversazioni dei vivi. L’accusa, non lo nego, è fondata: ma se
per questa dovessi mai esser tratto in corte d’assise, potrei certo
invocare a mio benefizio le circostanze attenuanti. La gratitudine mi
ha fatto colpevole; e l’occasione del peccato, come della gratitudine,
mi è venuta dal praticare cogli spiriti; con quelli, s’intende, che si
presentano a noi in una tavoletta scrivente.

Saprete, o non saprete, di che cosa si tratti: ond’io, nel dubbio,
ne dirò brevemente quello che mi parrà necessario. Tanto, si fa per
discorrere, e si passa mezz’ora. Figuratevi una tavoletta sottilina e
minuscola, non più larga delle due vostre mani accostate, più lunga
di poco, a tre canti arrotondati, poggiata su tre gambette smilze,
due delle quali, le posteriori, finiscano in un piede emisferico
assai levigato, e la terza, anteriore, sia munita d’un gessetto, o
d’un cannellino di pietra de’ sarti. La tavoletta si colloca su d’una
gran tavola, nel cui ripiano è incastrata una lastra di lavagna; due
mani, quelle del _medium_, ossia del mediatore opportuno tra voi e gli
spiriti, si posano sulla tavoletta, premendovi su leggermente: uno
degli astanti invoca allora lo spirito di un trapassato, più o meno
illustre, o per qualche ragione pregiato e caro, a cui gli prema far
domande, ad alta voce, o mentali. Lo spirito invocato, o chi per lui
(vedremo or ora il perchè di questa restrizione prudente) dà segno del
suo arrivo con un fremito, con uno scricchiolìo, o addirittura con un
balzo della tavoletta. Siete allora alla presenza sua; ad alta voce, o
mentalmente, gli potete domandare quel che volete, ed egli vi risponde
come e fino a tanto che gli pare. La tavoletta, seguita a stento dalle
dita del mediatore, corre sulla lavagna, saltellando o scivolando sui
piedi posteriori; e così correndo a sua posta, scrive coll’anteriore
(scriver coi piedi non è poi una gran novità), dando alle vostre
domande una serie di risposte, di cui potete contentarvi, sì e no, come
di quelle d’ogni altro interlocutore.

Di questo, e d’altri consimili, che non so dire se giuochi maravigliosi
o fenomeni strani della misteriosa natura, non voglio dare un giudizio,
che per la mia poca esperienza e per la mia pochissima dottrina
dovrebbe apparir presuntuoso. Confesserò candidamente che qualche
volta la tavoletta spiritata mi ha messo in pensiero, specie quando le
domande erano fatte mentalmente, e le risposte tornavano. Ce n’erano
di savie e di pazze, di profonde e di sciocche, ma sempre, o quasi
sempre, calzanti. Una sera avevo commessa la imprudenza grande di
scomodare lo spirito di Dante Alighieri, per chiedergli mentalmente
se davvero la Beatrice della «Vita Nuova» e della «Commedia» fosse una
donna vissuta, in carne ed ossa, e figliuola di messer Folco Portinari.
Il divino Poeta ebbe la bontà di rispondermi: «Ah, tu non conoscesti
quell’angelo! Ella fu il conforto della mia misera vita». Così, preso
romanticamente l’aìre, mi si stemperò in una fuga di strofe settenarie,
sul taglio dell’«Ei fu», ma per verità senza la forma composta e il
fare serrato del Manzoni; tanto che non ne tenni un verso a memoria,
e mi dolsi piuttosto che andasse sprecato in quel vaniloquio il
gessetto. Ma non c’era da stupirsi, se lo spirito rispondeva in quel
modo, mentendo così sfrontatamente all’arte sovrana dell’Alighieri. Non
avevamo da fare con Dante, pur troppo; un ignoto spirito canzonatorio
s’era fatto avanti in sua vece.

È risaputo dagli intendenti di spiritismo che non sempre lo spirito
chiamato viene egli in persona, e che spesso, essendo egli impegnato
altrove, o sdegnando questa maniera di confabulazioni terrestri, uno
spirito burlone o maligno occupa il suo posto nella sottile assicella,
amando farsi passare per lui. Ci sono spiriti buoni e cattivi, nel
mondo di là, puri ed impuri, serii e faceti; come nel mondo di qua,
nè più nè meno: e quando nella tavoletta, scambio del puro spirito
invocato, ve ne capita uno di quei tali che lavorano ad ingannarvi, c’è
proprio da guastarcisi il sangue.

Questo, per l’appunto, era stato il caso mio coll’apocrifo Dante. Ed
io mi adattai alla spiegazione che lì per lì me n’era stata fornita
dai pratici; me ne persuasi facilmente, tra perchè a far diverso avrei
mancato alle buone creanze, e perchè sarei passato per più scettico
che veramente non fossi, o non avessi il diritto di essere. Amai
piuttosto lasciare quelle esercitazioni spiritiche, le quali finalmente
mi turbavano un poco. E del resto, a che pro’ le avrei continuate? A
trattare con ispiriti cattivi, impuri e burloni, non c’è niente più
sugo che a barattar discorsi con troppi dei nostri amati contemporanei.
Godiamoci questi, coi quali è viaggio obbligato: a conversare cogli
spiriti eletti ci sarà sempre tempo; anzi, ne avremo tanto, da rifarci
ad usura dei pochi lustri perduti «in hac lacry....» Ma no, vediamo
di meritare il perdono, schivando per una volta tanto il peccato; e
in povera lingua italiana raccontiamo il caso, per cui s’invocano le
circostanze attenuanti.

Il nostro evocatore di spiriti era un capitano in ritiro, brav’uomo,
digiuno di studi, anzi diciamo pure incolto in ogni disciplina, che
non fosse quella del reggimento. Sapeva un po’ d’inglese, per pratica
fatta in una legione anglo-italiana, nella quale aveva militato quattro
o cinque anni addietro; per contro, ignorava il latino, e parlava
l’italiano con un gran miscuglio di parole e di frasi piemontesi.
Brav’uomo, ho detto, buon padre di famiglia, di costumi esemplari e di
maniere garbate, a cui dava più spicco il suo testone di mago sabino,
incorniciato alla diavola da una selva di setole arruffate, d’un
nero d’ebano già largamente brizzolato d’argento; colla fronte mezzo
occupata da due ispide sopracciglia, sotto le quali scintillavano gli
occhi mobilissimi; non lungo il naso, ma grosso, carnoso e sincero nel
suo buon colorito vermiglio; nascoste le labbra sotto due baffoni che
gli prendevano mezze le guance, andando a collegarsi colle fedine; e
quel che restava di pelle alla vista era tutto un intreccio di solchi,
da disgradarne un obelisco di Memfi, un cilindro di Babilonia, un
mattone di Ninive.

Da quanto tempo trattasse la tavoletta spiritica, e come e perchè
gliene fosse saltato il ticchio, non saprei dirvi adesso, non avendo
pensato allora a domandargliene. Certo, al tempo ch’io lo conobbi, la
tavoletta e lui erano come pane e cacio: bastava ch’egli ci mettesse
sopra le sue larghe mani callose, sfiorandola appena col sommo delle
dita, perchè quella fremesse e scricchiolasse; poi, quando ci aveva
dentro lo spirito chiamato, corresse, corresse, scrivendo con una
velocità maravigliosa. Rammento ancora d’un fatto strano intervenuto
al brav’uomo, e ch’egli raccontava con molta semplicità, senza
dargli importanza. Una notte, essendo egli nel primo sonno, era stato
svegliato dalla moglie sbigottita, che aveva sentito battere all’uscio
della camera. Gatti, non ce n’erano, in casa. Che si trattasse d’un
sorcio? Ma no; era un colpettino secco, che ad ogni tanto si ripeteva,
con insistenza, e via via con frequenza maggiore. Saltò dal letto il
buon capitano, andò ad aprir l’uscio e al lume della candela che vide
egli mai sulla soglia? La tavoletta, la tavoletta spiritica, che ben
ricordava di aver lasciata sulla lavagna, nella sala delle amichevoli
adunanze serali. Ed anche ricordava allora di averla lasciata là,
senza rimandare pei fatti suoi l’ultimo spirito chiamato: ond’era ben
naturale che quel poveretto venisse a chiedergli in quel modo la sua
liberazione. Sorrise allora, il buon capitano; fece gli atti necessarii
per licenziare lo spirito prigioniero; quindi rimise la tavoletta al
suo posto, dond’ella non ebbe più ragione di muoversi.

Si andava in molti, ogni sera, nella casa ospitale del nostro evocatore
di spiriti; in una delle vie più antiche e più strette di Genova, tra
la piazzetta della Posta vecchia e la piazzetta di San Luca. La più
parte dei frequentatori erano emigrati, poichè si era poco innanzi il
1859; siciliani, napoletani, romani e romagnoli, abbondavano; tutta
gente per bene, che viveva con pochi quattrini ma anche con molta
dignità, anteponendo lo svago temperato di una conversazione in qualche
casa d’amici, alla vita scioperata del caffè, o peggio, alla vita
oziosa d’una sala da giuoco. Io ci avevo particolarmente gradita la
conoscenza di un Torricelli, napoletano, gentil cavaliere, mingherlino
e aggraziato, dagli occhietti vivi e dalla barbetta nera e lucida, che
si muoveva tutta d’un pezzo ad ogni sorriso delle labbra sottili, che
mettevano in mostra due fila di candidissimi denti. Era stato alla
difesa di Roma, ed uffiziale d’ordinanza di Garibaldi, nell’epica
ritirata di San Marino, i cui particolari amavo farmi raccontare ad
ogni tratto da lui.

Da questo amico mio fu chiamato una sera lo spirito di Archimede.
Venne questi, e diè segno d’esser lì, pronto a rispondere: ma alla
domanda mentale del Torricelli non rispose poi altrimenti che con certo
guazzabuglio di linee, segnate sulla lavagna con un bel numero di salti
avanti e indietro, a destra e a sinistra, pari a quelli che può fare
sulla scacchiera il cavallo.

— Che roba è questa? — si chiedeva. — Ma questo non è rispondere.

— Anzi, — notò gravemente il Torricelli, — lo spirito risponde
benissimo. Gli ho chiesto di descrivermi la forma del porto di
Siracusa. —

Non c’era altro da replicare. Quei segni potevano benissimo
rappresentare il porto di Siracusa, nell’anno 212 innanzi l’èra
volgare, quando il console Claudio Marcello assediava la città, e
Archimede la difendeva colle sue trovate scientifiche. Potevano, dico;
se poi rispondessero al vero, non era da noi l’indagare.

Anch’io fui invitato quella sera a chiamare uno spirito; ma avevo
fresca la memoria del mio caso con Dante, e non volli procurarmi a così
breve distanza di tempo una seconda canzonatura. Altri, in quella vece,
chiamò Marco Tullio Cicerone. E qui, si capisce, grande curiosità,
grande aspettazione di tutti i presenti, come quando in una brigata si
annunzia l’arrivo di un personaggio eminente. Archimede poteva esser
grande fin che voleva, come un insigne matematico, ma i più potevano
anche ignorare i suoi meriti altissimi: nessuno poteva per contro
ignorare la solenne figura storica di Cicerone, gran politico, gran
filosofo, grande oratore, anzi l’oratore per eccellenza.

Cicerone arriva; e subito l’invocatore, posando la mano su quelle del
mediatore, gli volge la sua domanda mentale. La risposta non si fa
aspettare; Marco Tullio entra in argomento _ex abrupto_, come aveva
fatto a’ suoi tempi con Sergio Catalina, e scrive quella risposta in
una sola parola:

— _Utike_. —

Si legge, si rilegge, è proprio _utike_; nè altro v’aggiunge lo spirito
del grand’uomo, che ai tempi suoi certamente non aveva dato saggi di
tale breviloquenza spartana.

— _Utike_! — esclama uno degli astanti. — Che diavolo è?

— Non è latino, a buon conto; — osserva un altro.

— _Utique_ doveva dire; — commenta un terzo, che è fresco di studi.

Fresco di studi ero ancor io, e magari di spropositi nella sacra lingua
dei padri. Ridotto in un angolo della sala coll’amico Torricelli, notai
a mia volta:

— E se al tempo di Cicerone si fosse detto _utike_? È egli poi certo
che gli antichi Romani, nelle sillabe _qua_, _que_, _qui_, _quo_,
facessero sentire il suono dell’u? Non si cita egli come un bisticcio
di Cicerone la frase «_tibi quoque placebo_» ch’egli disse ad un cuoco,
da cui era stato richiesto d’una grazia? E sarebbe stato possibile il
bisticcio, se nella pronunzia il _quoque_, che significa «pure, anche,
eziandio», non si fosse confuso col vocativo di _coquus_, anzi diciamo
pure di _cocus_?

Maraviglia delle maraviglie! Parlavo a mezza voce, in un angolo della
sala: ed ecco: sulla gran lastra dove stava posata, la tavoletta fa un
salto, scappando quasi di mano al suo custode, e scrive a gran furia
queste poche parole:

— Barrili ha ragione. —

Confesso che lì per lì, quando sentii rilevare la frase, n’ebbi una
scossa; e una scossa niente piacevole, quantunque ci fosse da sentirsi
lusingati dalla approvazione d’un tant’uomo. Me l’aspettavo così poco,
se mai! D’altra parte, Marco Tullio avrebbe fatto meglio a darmi
ragione in latino. Inoltre, quell’esser conosciuto io, proprio io,
da un uomo di tanta levatura, e di tanta antichità, per giunta, non
finiva di persuadermi. Va bene, pensavo, che gli spiriti acquistano,
dopo la morte dei corpi, la conoscenza di moltissime cose; e magari,
la conoscenza di tutte; ma che si pieghino.... ma che si degnino.... E
qui, tra tanti dubbi, non finivo neanche il periodo.

Il Torricelli, frattanto, mostrandomi tutti i suoi denti bianchissimi
nel doppio arco delle labbra vermiglie, mi faceva un graziosissimo
inchino.

— Puoi esser contento; — diss’egli. — Cicerone ti conosce.

— Taci, assassino! — brontolai, pizzicandolo forte in un braccio.

Per quella sera sopportai con dignità la mia gloria, come si sopporta
con perdonabile ostentazione una grande sventura. Ma d’allora in poi
non ho più pensato a Marco Tullio senza un certo sentimento misto di
tenerezza, di reverenza e di vergogna. Sì, anche di vergogna. Infatti,
quel grand’uomo conosceva me, quasi ragazzo, uscito appena di collegio,
ed io conoscevo lui così poco! Una Catilinaria, quella del _quousque
tandem_, e mezza la Miloniana, era tutto quello che avevo scorticato
dal suo stupendo latino. Ripigliai subito a leggerlo; lo lessi tutto,
da capo a fondo, orazioni, opere di retorica, di politica, di morale,
di storia, epistole, perfino i frammenti poetici; e tanto lessi e
rilessi, che certe cose sue, come il «De Senectute», le ritenni in
gran parte. Così m’è entrato in testa un po’ più di latino che non ne
avessi voluto imparare a scuola: così m’è entrata nell’ossa la manìa
delle citazioni latine. Chi l’ha nell’ossa, la porta alla fossa. Ed amo
Cicerone; e vado in collera se qualcheduno ne dice male; e butterei il
libro, fosse pure d’un erudito tedesco, in cui non gli vedessi resa
la giustizia che merita. Che si canzona? Cicerone! Cicerone, che mi
conosce!...

Cioè, intendiamoci, mi conosceva allora. Ma con tant’anni passati,
non c’è caso che il grand’uomo si sia dimenticato di me? Vorrei
chiederne alla tavoletta, poichè di questi balocchi ne girano ancora
pel mondo; ma non lo faccio, per parecchie ragioni, delle quali basterà
dirne una. Quel grande amico mio è uno spirito puro; ci sarà tempo a
domandargliene; laggiù per esempio, in quel

              nobile castello
    Sette volte cerchiato d’alte mura,
    Difeso intorno d’un bel fiumicello,

che Dante, l’autentico, ha descritto così bene nel quarto canto
dell’«Inferno». Laggiù, se mi sarà dato d’entrar di straforo, tra il
chiaro e il fosco, andrò bene a tirare il mio grand’uomo pel lembo
della toga. E già pregusto l’allegrezza d’una conversazione come
questa:

— Scusi, signor Marco Tullio degnissimo.... Se permette, io sarei quel
tale.... Si rammenta?

— Ah, sì, caro, mi rammento benissimo.... E come qua? Da quando? Siete
sempre stato bene, m’immagino. Se voleste dirmi per intanto il vostro
riverito nome.... Perchè, in verità, da poi che v’ho dato a balia....
capirete!

— Oh, si figuri, e come! —



All’osteria del Rettorica.


I.

Eravamo andati in parecchi, eruditi da strapazzo, per accompagnare
sulla collina d’Albaro un dotto tedesco, il professore Rauchen, della
università non ricordo più se di Tubinga, di Gottinga o di Croninga.
Dite magari l’università di Meringa, che io non me l’ho per male;
e chi l’ha per male si scinga. Anche senza il nome della università
dove insegna, chi non conosce in Italia il Rauchen? Dire in Italia
il Rauchen è lo stesso come dire in Germania il Vallapesca, il
nostro valentuomo, insigne storico, filologo, critico, archeologo,
paleografo e numismatico, i cui «contributi» già arrivati al numero
di quarantadue, di sei in otto pagine l’uno, sono favorevolmente noti
a tutti i Rauchen viventi e professanti dalle Alpi Rezie allo Jutland
e dalla Mosa al Niemen. Al nostro insigne Vallapesca non si fa altro
appunto, nella dotta Germania, che questo, di non portare gli occhiali
fissi. Quelle sue lenti accavalciate sul naso, senza aiuto di staffe,
gli dànno tropp’aria di pretensione, non lo fanno vecchio come dovrebbe
essere; ond’egli resta antipatico, senza diventar venerando. E ci
vorrebbe così poco!

Il nostro professor Rauchen era afflitto da un dubbio, che tornerà
sempre ad onore della sua probità scientifica. Egli aveva letta nella
nostra università, dov’è gelosamente conservata, la lapide romana
antica trovata in Albaro, nella chiesuola dei Santi Nazario e Celso. La
ricordate?

                           INTRA . CONSEPTVM
                            MACERIA . LOCVS
                             DEIS . MANIBVS
                              CONSACRATVS.

Quella iscrizione, a giudizio del padre Spotorno, che ne aveva
ragionato da pari suo fin dal 1837 sul «Giornale Ligustico», indicava
un’ustrina, ossia il luogo dove s’incineravano i cadaveri, secondo
l’uso pagano. Ma, per acquetarsi al giudizio del dotto barnabita,
bisognava vedere il luogo, se proprio era da ciò; bisognava assicurarsi
che quel colle d’Albaro, tanto lontano dalla città, e rimasto ad
ogni modo agreste fino a tempi relativamente moderni, offrisse pure
qualche indizio d’essere stato abitato nei tempi romani. Certo, quel
titolo pagano era stato rinvenuto nella chiesuola, detta antichissima
dall’istesso culto dei due santi apostoli della Liguria. Ma non poteva
esserci stata trasportata d’altrove, insieme coi primi materiali
di fabbrica, come in tanti altri luoghi e per casi consimili? La
congettura dello Spotorno era plausibile; ma era anche ragionevole il
dubbio del Rauchen. Si andasse dunque sulla faccia del luogo: sarebbe
stata anche una buona occasione per prendere una boccata d’aria sana,
e una porzione di pesce fritto lì per lì in qualche osteria di lassù,
dov’è sempre fresco, e dove anche gode d’una certa riputazione il vin
bianco di Marassi; cose tutte da non dispiacere a nessuna classe di
persone, dotte od ignoranti che siano.

Saliti colle vetture un po’ più su del Paradiso (un palazzo,
intendiamoci, che fu già dei Saluzzo), si smontò per prendere una
viottola a destra, e di là riuscire al mare, ossia ad un piccolo
promontorio sul mare. Laggiù, per l’appunto, era stata in altri tempi
la chiesuola dei Santi Nazario e Celso, le cui mura maestre durarono
fino al 1860, per esser poi ripigliate ad uso di abitazione. Poesia di
rovine, sparita; ci fiorisce ora la prosa robusta degli utili affitti.
Ad ogni modo, il luogo era sempre quello: sulla faccia del luogo il
dotto archeologo poteva meditare. E meditò, e sentenziò in piena forma,
dopo aver meditato.

— Ammetto l’ustrina, ma non penso che fosse mai di notevole
importanza. Il luogo è troppo lontano dalla città, che, come ora è
accertato, nei tempi romani si restringeva al colle di Sarzano, e,
se anche ne fosse uscita fuori, per allargarsi intorno alle falde di
quello, sarebbe stata sempre separata da questo promontorio per il
largo colle di Carignano, per la foce del Bisagno e per la collina
di San Vito. Piuttosto, — e qui brillarono gli occhi del sommo
archeologo, lampeggiando di sotto agli occhiali d’oro un’idea feconda
di svolgimenti ulteriori; — piuttosto sarà stata l’ustrina di un
_vicus_, ossia ceppo di case coloniche di un latifondo Albarense. Me
lo Lascerebbe sospettare l’uso di villeggiare in queste eminenze, che
mi dite essersi tanto diffuso tra il Cinquecento e il Secento. Già
intorno al Mille vediamo apparire in documenti la chiesa di San Martino
_de Hircis_, lassù a settentrione; mentire qui, a mezzogiorno, pare
anche più antica la chiesa dei Santi Nazario e Celso. Di livellarii
del Vescovo, sempre intorno al Mille, è prova larghissima su queste
colline, nel Registro della Curia genovese, che ho sfogliato ieri
per cortese condiscendenza del vostro arcivescovo. Tutti quei livelli
erano evidentemente pezzi e bocconi d’un latifondo, caduto in potestà
ecclesiastica. Il latifondo suppone il _vicus_ colla sua modesta ma pur
sempre notevole agglomerazione di popolo, per cui utilità, quando esso
fu convertito al cristianesimo, sorsero le due chiese, riconosciute
infatti antichissime, di San Martino de Hircis e dei Santi Nazario
e Celso. Quanto al latifondo, dal nome rimasto a questa eminenza
sospetterei che appartenesse ad una gente Albia. Rifiuto, osservate,
rifiuto l’_Albium_, che è pure ligustico, e che si vede preposto ad
_Ingaunium_ e ad _Intemelium_, ma che, se avesse avuto qui lo stesso
significato topografico, avrebbe pure avuto la stessa importanza
demografica, e Strabone ce ne avrebbe lasciato un cenno, e ne avremmo
nella tavola Peutingeriana o nell’Itinerario d’Antonino l’indizio
onomastico. Rifiuto egualmente ogni accenno a luogo di delizie, per
l’apparente e casuale somiglianza del nome coll’Albana, una delle due
piazze di Capua, ov’era il luogo di delizie di Annibale. Spero poi
non mi si deriverà Albaro da Albia, città vicina a Nicomedia, siccome
abbiamo da Tolomeo. Altro non resta di plausibile, per mia opinione,
che un f_undus Albius_, da una gente Albia, fiorente per ricchezze
nei primi tempi dell’èra imperiale. Il nome _Albinius_, ed anche
_Albidius_, apparisce di famiglie plebee fin dai primi secoli della
Repubblica; ed anche _Albinus_, ma questo come cognome della gente
Postumia. Solo più tardi vediamo la forma _Albius_, in quel Caio Albio
Carinate, che fu dei tribuni del partito consolare ai tempi di Silla, e
poi giunse ancora alla dignità di console. —

Questo sacco di dottrina non fu vuotato tutto quanto sul promontorio
dei Santi Nazario e Celso, che forse n’avrebbe sofferto la casa,
edificata sull’orlo della rupe, col rischio di sdrucciolare nell’acqua.
Fu in quella vece distribuito saviamente per tutto quel tratto di
sentiero che dal promontorio discende alla piccola spiaggia tra San
Nazario e San Vito. Laggiù c’invitava una frasca, insegna d’osteria;
dove appunto la vicinanza del mare e lo spettacolo d’una comitiva di
pescatori che traevan le reti, ci promettevano a gara la frittura di
pesce, su cui avevamo fatto assegnamento.

L’osteria aveva buon aspetto. Non ricordo più come s’intitolasse;
e forse non ci ho neanche badato. Ricordo in quella vece che destò
la mia attenzione una scritta burlesca, condotta frettolosamente
a pennellate di rosso, accanto all’uscio dell’osteria, ad altezza
d’uomo, o piuttosto di ragazzo, e certamente di ragazzo impertinente
quanto sgrammaticato, poichè ci si leggeva abbastanza chiaro: «cuesta
e losteria del retoricha.» Non era da badare all’ortografia più che
tanto; piuttosto era da pensare che andasse scritto «della rettorica».
Ma sconcordanza non è delitto; e certamente, dacchè l’uomo ha l’uso
dello scrivere, se ne son viste di peggio.


II.

Entrammo, accolti con atti di giubilo dall’oste della Rettorica, uomo
sulla trentina, atticciato e di buon umore a quel dio. Ordinammo,
s’intende, pesce fritto in abbondanza; ed anche, accogliendo una sua
sapientissima aggiunta, il pollo alla cacciatora, un piatto obbligato
in chiave, che doveva costar la vita a due dei soliti infelici, ignari
del fato, saltellanti e beccanti nel solito cortile annesso ad ogni
osteria di campagna. Così la nostra colazione aveva doppio sostegno,
la pesca e la caccia. E continuammo le nostre ciance erudite, mentre
l’oste ci dava in tavola i soliti principii, salame, burro, sèdani, e
l’eterna scatoletta di sardelle di Nantes.

— «Nantes.... in oleo»; — ricordo che disse uno della brigata, il quale
non aveva aperto bocca.

Forse per questo egli meritò un sorriso probatorio del professore
tedesco? Può darsi che lo ottenesse anche in grazia della freddura.
Ho notato a questo proposito che i professori tedeschi gradiscono il
bisticcio assai più dei professori italiani.

Non tutti si conveniva col Rauchen nella ipotesi d’una _gens Albia_
e d’un f_undus Albius_, parendo a taluni che si dovesse pensare
piuttosto ad un _fundus Albarius_, o per conseguenza ad una _gens
Albaria_. Ma il Rauchen, pur non avendo forti ragioni di rifiutare
il _fundus Albarius_, non ammetteva affatto una _gens Albaria_, di
cui non era traccia nella epigrafia latina. A voler conceder molto,
si poteva ammettere, secondo lui, che nel corso dell’èra imperiale, e
nel tempo che si formavano tanti nuovi nomi senza più seguire le buone
norme onomastiche, qualche personaggio d’origine straniera e servile
avesse assunto il nome di _Albarius_; ma in questo caso non si poteva
parlare di _gens_, cioè di vera e propria famiglia romana. E fosse pure
così, od altrimenti; fortuna voleva che si fosse d’accordo sul punto
capitale, che la lapide _Deis Manibus_ doveva essere stata trovata
sul posto, od essere indizio della ustrina di un _vicus_; parendo la
cosa ben dimostrata dal fatto d’un tempio cristiano eretto colà, per
santificare, purificandolo, il luogo pagano, secondo l’uso costante dei
primi secoli del Cristianesimo.

Eravamo d’accordo, ho detto, parlando di tutti noi della brigata. Ma
non era della nostra opinione l’oste degnissimo, che ci aveva servito
il pesce, e lasciava alla sua dolce metà l’incarico di ammanirci i due
polli in cazzaruola.

— Se mi permettono, — incominciò egli, — vorrei dire la mia.

— In materia archeologica? — domandai io, che gli ero più vicino.

— Perchè no? Anche l’opinione d’un ignorante può stare, se contiene
una buona indicazione. E una cosa è certa, signori miei, che sul
promontorio d’onde sono venuti, c’era un’osteria tanto fatta.

— Dove ne avete notizia?

— Dai miei vecchi, che l’hanno avuta dai loro, e quelli a lor volta....
mi capisce? Abbiamo dunque una tradizione costante. Del resto, i due
santi che son venuti da queste parti a predicare il vangelo, sono
stati onorati d’una chiesa nel luogo dove hanno alloggiato. Se ci hanno
alloggiato, è segno che c’era un’osteria.

— Il ragionamento non fa una grinza; — risposi. — Ma si racconta ancora
che un’altra chiesa fu dedicata ai due santi in città; ed è quella che
si chiamò poi delle Grazie.

— Eh via! s’ha da credere che una chiesa dedicata a due santi di
quella fatta si sbattezzi con tanta facilità, mentre nessuno ha
osato sbattezzare quell’altra, vicina alle Grazie, dei Santi Cosma e
Damiano? Chi lo dice, poi, che il fatto sia andato così? Autori tardi
e senza ombra di documenti. Aggiunga quest’altro argomento, che mi
par decisivo; la chiesa dei Santi Nazario e Celso era qui, sul colle
d’Albaro, non mai sbattezzata. E vorrebbe che ad una medesima coppia
di santi ne avessero edificate due, come se essi avessero proprio
alloggiato in due posti? Or dunque, conchiudo io, quella che ha portato
sempre il loro nome è quella che conta, e l’altra è una fiaba. Poi
ripeto, c’è la tradizione costante.

— Dell’osteria?

— Sicuro, dell’osteria; che cosa ci trova di strano?

— Una cosa sola, mio caro; che smontassero ad alloggio così distante
dalla città, due apostoli che in quella città volevano predicare la
fede.

— Ci avranno avute le lor buone ragioni; — rispose l’oste riscaldandosi
nella sua tradizione, più che non facesse il professor Rauchen nel suo
_vicus_ e nella sua _gens Albia_ — È probabilissimo che amassero il
meglio vivere e il meno spendere. Io qui, per esempio, non faccio agli
avventori i prezzi della Concordia e del caffè della Stazione Principe;
e i miei pesci non sono men freschi per ciò.

— Sfido io! li abbiamo visti trarre alla spiaggia; — replicai. — Vada
dunque per la freschezza del pesce; e pei prezzi.... speriamo bene. Ma
torniamo all’antica osteria. Se c’è una tradizione costante, come dite,
vogliate anche dircene l’intero.

— E con che gusto, signori! Correva l’anno sessantasei della fruttifera
incarnazione....

— Ohè! — interruppe uno della brigata, facendo le meraviglie. — Donde
ci viene quest’apparecchio solenne? —

L’oste gli diede una guardata non scevra d’orgoglio, e sorrise.

— Signor mio, deve sapere che sono stato alle scuole, ed ho fatto il
corso classico. Mi son fatto bocciare, pur troppo, e per causa della
matematica, in terza liceale. Se no, creda, non avrei seguitato il
mestiere di mio padre.

— E avreste avuto torto; — ripresi io. — Sareste professore di seconda
o di terza ginnasiale, a mille quattrocento lire, ma con cento e più di
ritenuta; un cento dieci lire al mese, da digiunarci in tre o quattro
persone, secondo la prolifica virtù della sposina. Avreste fatto un bel
negozio davvero!

— Lei ha ragione da vendere. Ma io volevo dimostrare al signore che se
non sono rimasto un dottore, la mia buona infarinatura l’ho avuta.

— E non per andare a farvi friggere; meglio così. Per questo
adunque v’hanno scritto accanto all’uscio: «Questa è l’osteria della
Rettorica»?

— No, non concordi al femminile; perchè tranne l’ortografia, non c’è
niente da correggere. Mi chiamano il Rettorica, forse per la mia
parlantina; — disse modestamente l’oste letterato. — Osteria del
Rettorica ha voluto scrivere l’anonimo burlone, ed io ho lasciato
scritto quello che mi si dice ogni giorno a voce. Io non me l’ho per
male. Del resto, chi l’ha per male si scinga, come dicono i puristi.

— Ho ben capito; — conchiuse quello delle maraviglie. — Siamo in casa
d’un dottore.

— Ci aggiunga fallito, e avrà detto giusto; — ribattè pronto
quell’altro. — Ed ora, se vogliono sapere....

— Sì, per bacco, ne abbiamo una voglia matta. —

L’oste incominciò, anzi diciamo pure ricominciò. Per non avere a tener
conto d’altre interruzioni, ripiglio io il filo del suo discorso,
che piacque a tutti abbastanza, ma che fu ascoltato con religiosa
attenzione dal nostro dotto Alemanno.


III.

Reca adunque la «tradizione costante» che i due santi uomini Nazario
e Celso venendo per l’Aurelia nuova in Liguria, nell’anno 66 dell’èra
volgare, col savio e misericordioso intendimento di annunziare la buona
novella al popolo Genoate, smontassero ad alloggio sul colle d’Albaro.
Non volevano entrare così alla svelta in città sconosciuta, di cui
sapevano solamente che aveva nome Genoa, che era municipio, che godeva
diritto quiritario, che era ascritta alla tribù Galeria, una delle
più antiche di Roma, e che i suoi cittadini votavano per l’appunto
con quella tribù, quante volte si ritrovassero in Roma. E così, come
in paese nuovo il prudente generale lascia sempre tra sè ed il nemico
l’eminenza di un monte, o il corso di un fiume, per aver tempo ed
agio ad esplorare tutto intorno il terreno, i due santi predicatori
vollero rimanere un giorno e una notte sulla sinistra del Bisagno, o
«Bisamnis», detto altresì Feritore, forse perchè terribilissimo fiume,
che di solito sdegnando servirsi dell’acqua, dà fieramente nel mare coi
sassi.

Le intenzioni dei due apostoli erano chiare, e giudiziose del pari.
Bisognava informarsi, prender lingua dei fatti e dei costumi di Genoa;
sapere ad esempio se già ci fossero altri predicatori, nel qual caso
non ci sarebbero entrati loro, non volendo fare un ridosso a nessuno;
conoscere se là dentro avessero già fumo della nuova dottrina, di guisa
che l’autorità stèsse all’erta e volesse chiuder le porte in faccia
ai nuovi venuti. Per questo, e per tutto l’altro che via via potesse
parere opportuno, era da interrogar con destrezza la gente del contado,
più semplice, naturalmente, e più maneggevole. Insomnia, quando si è
detto prender lingua, si è detto tutto, e non occorre più altro.

Per fortuna giungevano i primi: di una nuova religione non si sapeva
ancor nulla: i Genoati facevano i fatti loro, comprando e vendendo,
caricando e scaricando, armando navi e mandandole attorno sul pelago,
che con questo nome si chiamava allora il mar di Liguria. I nostri
santi uomini sapevano quel che occorreva lì per lì, a incominciare il
loro apostolato; perciò la mattina vegnente presero i loro bordoni in
mano e la via tra le gambe: nell’ora buona erano in Genoa, e capitavano
sulla piazza de’ Banchi; il luogo per l’appunto più frequentato della
città, il suo centro d’affari, donde s’irradiava la vita economica e
intellettuale a tutti i punti della periferia genovese. E là, subito,
dall’alto d’una gradinata, incominciarono a predicare, il secondo
sottentrando al primo, il primo ancora al secondo, quando il compagno
era stanco.

In qualche ritaglio di tempo, concesso dai fati benigni alla classe
industriosa dei nostri mercanti, si affollavano molti ad ascoltare
quei due forestieri. I quali parlavano di tante cose, nuovissime senza
dubbio e bellissime, ma di nessuna utilità immediata, pur troppo. Onde
avvenne che non facessero, come suol dirsi, nè caldo nè freddo, e che
presto gli uditori seccati, ad uno ad uno spulezzando, lasciassero i
poveri santi predicare al deserto.

— Giorno perduto! — esclamarono i disgraziati, ritornandosene alla
collina d’Albaro e riducendosi alla modesta locanda dov’erano smontati
il giorno addietro, con ben altre speranze nell’anima — Giorno perduto,
quest’oggi; e peggio vuol essere domani. —

Si avvide l’oste della loro tristezza. Uomo di buon cuore e allegro per
indole, non voleva veder musi lunghi in casa sua. Provò a spillarne
un litro di prima qualità e del più vecchio che avesse; ma i due
addolorati ricusarono perfino di assaggiarne. Doveva essere un affanno
ben grave, il loro, se torcevano le labbra ad un bicchier di vino delle
Cinque Terre. Chiese allora il perchè dei perchè; tanto li tormentò,
che lo seppe; e allora, da quell’uomo savio e stagionato ch’egli era,
diede un buon consiglio ai due forestieri.

— Ah, signori, — diss’egli. — L’avete fatta bassa, e bisognerà
rimediarci. Una nuova religione, che si canzona? Una nuova religione
sta bene, specie quando l’antica è logora e non fa più andar in
visibilio nessuno. Ma anche a un abito vecchio ci si fa l’uso; ci
si bada poco, e si tira là. Per adattarci a prenderne uno nuovo,
bisognerebbe che ci fosse guadagno evidente nel cambio. Vedete, è
questo il tasto che va toccato, da noi. —

I due santi non intesero a sordo. Diedero, prima di andarsene a letto,
una ripassata ai testi, e quella notte dormirono più tranquilli che
non avessero sperato, innanzi di avere quella conversazione tanto
istruttiva coll’oste. La mattina seguente, rieccoli in piazza de’
Banchi. La gente li vede, e non si lascia adescare, pensando che
canteranno le solite storie.

Ma no, niente del giorno addietro. Ecco che l’un dei due cava, di sotto
un lembo della toga un grosso scartafaccio, foderato di cartapecora.
Pare un libro mastro, e concilia subito l’attenzione. Più ne conciliano
le prime parole del santo, che, squadernandosi il libro sul braccio
sinistro, e battendo con un gesto vittorioso della destra sulle pagine
aperte, comincia in questa nuovissima forma:

— Il Signore ha detto «chi seguirà il mio nome riceverà il cento per
uno, ed anche erediterà la vita eterna».

— Il cento per uno! — ripete un secondo, mettendosi sulle orme del
primo.

— E la vita eterna per il buon peso! — soggiunge un terzo, che già si
tira dietro il quarto ed il quinto. — Dici tu il vero, o sant’uomo?

— Non io lo dico, o fratelli, — risponde il santo del libro. — Lo
dice san Matteo, al capitolo diciannovesimo, versetto ventesimo nono;
lo conferma san Marco, al capitolo decimo, versetto trentesimo; e al
versetto trentesimo del capitolo decimottavo lo ribadisce san Luca. Tre
firme, come vedete, e di prima qualità.

— E con la tua per avallo! — gridarono gli astanti infiammati,
chiamando al prodigio tutta la piazza.

— Aggiungete quella del mio compagno, qui presente ed accettante.

— Benissimo! egregiamente! Non si è mai vista in piazza una cambiale
più garantita di questa. —

Quel giorno, senz’altri discorsi, tutta la piazza de’ Banchi si fece
cristiana. Il giorno seguente non si sarebbe trovato un pagano, in
tutta Genova, a pagarlo un marengo.


IV.

Si rise, e si fecero ancora le debite congratulazioni all’oste
letterato, per la sua «tradizione costante». Ma il professor Rauchen
era rimasto pensoso; e allora s’indovinò che il dotto uomo aveva
una lezione in corpo, e tutti ci rivolgemmo a lui, in aria di grande
aspettazione. L’archeologo insigne capì che si attendeva il suo verbo,
e non volle farcelo sospirare.

— La vostra storia è interessante; — diss’egli al Rettorica. — Ma io
sto cercando dentro di me quando la tradizione sia nata. La crederei
piuttosto recente, cioè del tempo tra il Novellino e il Decamerone,
quando lo spirito allegro, ma non caustico, degli Italiani, immaginava
le sue burle senza cattiva intenzione, non grossamente come ha fatto da
noi la Riforma.

— Ecco una bella occasione di studio per lei; — mi arrischiai a dir io.

— Non per me; — rispose il Rauchen, rizzandosi sulla persona — Non sono
per me queste gaie materie. Ma so ben io chi potrebbe gustare questa
leggenda, e farne tema di una dotta monografia; il mio amico Laer,
della università di Eidelberg, che è senza contrasto il più insigne
folklorista d’Europa. Perchè questa — soggiunse gravemente il nostro
archeologo — appartiene senza dubbio al _Folklore_, a questo mobile
laboratorio di tradizioni, di leggende, di frottole, che si foggiano
così volentieri in canzoni ed aneddoti. Per il tempo in cui essa si è
formata, mi pare d’averci colto. Ma ho qualche incertezza rispetto al
luogo. Avete dei popoli rivali, in queste vicinanze? Ordinariamente c’è
una città che si diverte alle spese di un’altra.

— Niente di ciò, da queste parti; — risposi. — Siamo popoli strani.
Credo che la celia sia nata in casa. Anche il nostro Rettorica l’ha
sentita in casa, come ci ha confessato. E i nostri concittadini, veda,
son troppo fatti così, che sanno ridere, viva la faccia loro, e si
mettono volentieri in burletta da sè. Noti ancora che quel «cento per
uno» li solletica dolcemente nell’amor proprio: ma anche di questo si
correggono, pensando con una certa amarezza che altri, e non di casa,
hanno saputo offrir loro il «mille dell’uno»; ond’essi, abboccandovi,
sono rimasti più d’una volta con un pugno di mosche. Effetto, questo,
dell’aver trascurati i dettami della sana filosofia; di quella
filosofia, dico, che raccomandava il signor Michele, mio onorevole
amico.

— Un altro saggio di Folk-lore? — domandò il professor Rauchen.

— Eh, ne giudichi lei. È un’altra storia de’ Banchi, ed autentica,
perchè vivono ancora gli attori.

— Sentiamo.

— Ecco qua. Le presento anzitutto il signor Pietro, di cui sopprimo
il casato, ma non le doti eccellenti, di negoziante e di cittadino.
Il signor Pietro era nel suo banco di granaiuolo, al pianterreno di
quel gran palazzo che forma tutto un fianco della via al Ponte Reale,
avendo il vico Denegri da un lato e Sottoripa dall’altro. Nel banco
del signor Pietro usavano a ore bruciate parecchi amici, tutta gente
d’affari, e qualche volta mi ci trovavo anch’io, che cogli affari
ho sempre avuto guerra a coltello. Ora ecco che un giorno il signor
Pietro, mentre noi eravamo seduti sui suoi divani verdi, riceve una
lettera, che lo fa dare nei lumi. — «Che cosa avete?» gli domanda il
signor Michele, un valentuomo, allora deputato al Parlamento, poi
senatore del Regno, persona di garbo e che sa ridere alle sue ore
come il primo venuto. «Cattive notizie?» — «Ma... quasi....» risponde
il signor Pietro.... «C’è qui quel diavolo di mio figlio, che vorrei
ritirare dal collegio, e che mi scrive di volerci restare dell’altro,
per fare almeno un anno di filosofia. Lo sa lei, onorevole, che roba è
la filosofia?» — «Non ne dite male, Pietro» replica il signor Michele,
ripulendosi tranquillamente fra le dita i suoi occhiali d’oro. «È
l’arte d’imbrogliare il prossimo». — «Davvero?» grida il sor Pietro.
«Ed io che non la conoscevo! Quand’è così, gli scrivo caldo caldo
che ne faccia almeno un paio d’annetti.» — Com’ella vede, professor
Rauchen, questa è di Banchi, e fa ridere tutto Banchi. Nella loggetta
del sor Pietro la sentì ricordare un giorno un celebre uomo politico,
l’onorevole Depretis; e la portò perfino alla Camera, dove in una di
quelle sedute stracche, in cui si fa volentieri la burletta, gli scappò
detto dal banco dei ministri: «eh, qui ci vuol filosofia, ma di quella
del sor Pietro; non è vero, onorevole Casaretto?»

— Benissimo! — esclamò il professore. — I vostri concittadini si
canzonano dunque da sè?

— Spesso e volentieri; ed è una delle loro virtù. Pensi che non si
hanno a male neanche l’invettiva di Dante: «Ahi Genovesi, uomini
diversi» e non hanno mai tentato di darne una versione laudatoria, come
fecero i Pisani col loro «O Pisa, vita e imperio delle genti». —

E volevo continuare; ma non me ne diede licenza il Rettorica.

— Se permette, — saltò su l’oste letterato, — io non sono della sua
opinione.

— E per che? sopra tutto su che?

— Sui Pisani.... e sui Genovesi. I Pisani hanno un bel dirsi «vita e
imperio delle genti» aggiustando a modo loro il «vituperio» del verso
dantesco. Ma come hanno aggiustato quello, non hanno mica aggiustati i
versi che seguono. Bella vita e bell’imperio di Pisa, se il Poeta può
seguitare, augurandole una visita della Capraia e della Gorgona, che
«faccian siepe all’Arno in sulla foce, sì ch’egli anneghi in _lei_ ogni
persona!» Quanto a noi Genovesi, sta bene che Dante ci ha bollati d’un
marchio rovente; ma per cosa di cui possiamo stimarci onorati. Parlava
in lui, mi scusino, parlava in lui la gelosia di mestiere. Sicuro; non
era un poeta, lui? Ora, i Genovesi, e per sua confessione, erano poeti
al pari di lui.

— Come lo provate? — domandò colla sua usata gravità il professor
Rauchen. — Mi ricordo di avere ancor ieri fatto ricerche all’Archivio
intorno ai primi saggi di poesia dei Genovesi nel Medio Evo, e di
non aver potuto legger altro che questi due versi di una iscrizione
funeraria trovata in San Giovanni di Prè. Era l’epigrafe di due
coniugi, che dicevano in voce di marmo ai vivi:

    Tu ki ki ne trovi
    Per Dè, no ne movi.

— Io non so niente di questo; — rispose il Rettorica, senza scomporsi
per così poco. — So che Dante aveva i Genovesi per un popolo di
verseggiatori; tanto che disse loro:

    Ahi Genovesi, uomini di versi
      D’ogni costume e pien d’ogni magagna,
      Perchè non siete voi dal mondo spersi?

Uomini di versi, mi capiscono? di versi, come a dire versificatori,
poeti.

— Ah, così lo intendete voi il «diversi»? — gridai io. — Separando la
prima sillaba dalle altre due?

— Come l’ha separata evidentemente il Poeta. I copisti, come ella
m’insegna, volevano far capire molta roba in un piccolo spazio. Così
tutte le parole si trovavano sempre l’una all’altra accostate, come se
tutte le undici sillabe del verso facessero un corpo solo. Il giorno
che si cominciò a divider parola da parola, ne accaddero di belle e di
brutte, secondo il senno e la scioccheria degli interpetri, separando
dove andava unito, lasciando unito dove andava separato. Così nacque
la lezione errata del «diversi» che dalla prima stampa della «Divina
Commedia» passò facilmente, come passa l’errore, in tutte le stampe
seguenti.

— Ma il Poeta ha soggiunto: «d’ogni costume».

— Appunto, d’ogni costume, cioè a dire di versi d’ogni stile, d’ogni
maniera, d’ogni forma, d’ogni misura. Si vede di qui che i Genovesi
facevano come i Provenzali, dei versi lunghi e dei corti, a rime
baciate, alternate, intrecciate, incatenate e via discorrendo. Chi sa?
avranno anche usato dei metri nuovi, di cui si fecero poi belli tanti
altri poeti.

Ma Dante ha detto ancora: «e pien d’ogni magagna».

— Ed ecco il suo torto; gelosia di mestiere. E non importa che ne
scapiti la memoria del Divino Poeta, la verità prima di tutto, anche
prima di Dante. Ora la verità è questa, che se i Genovesi facevano
versi d’ogni costume, cioè d’ogni forma e d’ogni metro, non si può
asserir senza prova che li facessero «pien d’ogni magagna» cioè duri
e fallati. Ne avran fatto dei buoni e dei cattivi, Dio misericordioso,
come a tutti succede. Chi fa falla, e chi non fa sfarfalla. —


V.

Il professor Rauchen era rimasto un’altra volta pensoso. Ma egli non
fece più una lezione. Solamente, tra il formaggio e le frutte, chinando
la testa verso di me, mi disse all’orecchio:

— Lo credete onesto?

— Eh, — risposi, — lo vedremo al conto.

— Dico..... incapace di dire una cosa per un’altra.

— Crediamolo pure. Ma perchè questa domanda?

— Perchè, — rispose il dotto uomo, — se non ci avesse detto di essere
stato bocciato alla licenza liceale nella prova di matematica, ci
sarebbe da credere che fosse stato bocciato per la interpretazione
Dantesca.

— _Folk-lore_, caro ed illustre signor Rauchen, — gli risposi, —
_Folk-lore_ e nient’altro. Forse quel suo amico d’Eidelberg, di cui non
ricordo più il nome, ne sarebbe soddisfatto. Lasci che il popolo rida;
ordinariamente è indizio di buon umore. Il torto, veda, è dei popoli
come degli individui che non sanno ridere. E noi siamo d’una gente che
ha dato alla patria letteratura un gran poeta. Gabriello Chiabrera. Il
quale rideva volentieri, specialmente a tavola; e quando gli capitava
qualche contrarietà, soleva dire a mo’ di commento: «non per questo
tralascerò di ber fresco». Ma senta, professore; vuol che domandiamo
qualche altra cosa al Rettorica? È un uomo che la sa lunga.

— Fate pure, mio caro amico; — mormorò rassegnato l’archeologo.

— Ebbene, o Rettorica, — diss’io, alzando la voce, — come spieghereste
voi l’epigrafe trovata nella chiesetta dei Santi Nazario e Celso?:
«locus Deis Manibus consacratus»?

— Mi par latino chiarissimo; — rispose l’oste letterato. — Il luogo
era consacrato «Deis Manibus» perchè i «Deis Pedibus» ci si sarebbero
trovati maluccio, e bisognava badar bene dove si mettessero; specie
negli ultimi tempi, che il luogo restò in abbandono.

— Rettorica! Vi paion discorsi?...

— Eh sì; che cosa credono ch’io volessi dire? Luogo abbandonato;
pavimento distrutto; una buca tanto fatta, donde c’era pericolo di
scivolare alla spiaggia. Diciamo anzi che ci fosse da raccomandarsi
«Manibus et Pedibus».

— Ah, — si gridò, respirando.



Hoa-tsien-ki.


I.

I cinesi nelle loro maravigliose scoperte....

A proposito, che cosa non hanno scoperto i Cinesi? Tralasciando le
minuzie di cui sogliono lodarsi i tempi progressivamente mediocri, e
solo parlando delle cose più importanti secondo i moderni criterii
europei, la stampa, la polvere da cannone, la bussola, son tutte
invenzioni cinesi. Su questo tema, oramai, la dotta Europa è tutta
quanta d’accordo; e il senso commendevole di modestia con cui essa ha
riconosciuto di non avere inventato niente, neanche la carta moneta, la
renderà simpatica alle future generazioni.

Ma l’Europa, nel suo impeto di sincerità, non ha voluto o saputo
dir tutto. Essa non ha detto per esempio, che i Cinesi, dopo avere
scoperte tante cose mirabili, le hanno prudentemente ricoperte, assai
prima che a noi venisse in mente di scoprirle da capo. «Questo non
è buono!» debbono aver sentenziato parecchie volte nel corso dei
secoli i concittadini di Confucio; e in virtù di questa sentenza hanno
accortamente seppellito tutto ciò che poteva bensì parer nuovo ai
curiosi, ma che non si dimostrava egualmente utile alla educazione del
popolo e alla prosperità dell’impero.

Vedete infatti la polvere da cannone. L’avevano scoperta, a quanto
sembra, fin da mille anni avanti Cristo; ma non se ne sono serviti nè
allora, nè poi. Per difendere l’impero sulla terra e sul mare hanno
preferito di far dipingere dei draghi, delle chimere, dei mostri
fantasticamente terribili sui merli della Grande Muraglia e sul
capo di banda delle loro navi da guerra. Così facendo, ricordarono
evidentemente la bella massima di Fo-kien, uno dei loro filosofi più
insigni: «Vuoi tu far male al nemico, quando è bastante il fargli
paura?» Fedeli a questo concetto, i Cinesi hanno cercato di far paura
al nemico, e per parecchie migliaia d’anni non hanno avuto ragione di
pentirsene. Del resto, salvo qualche piccolo incidente transitorio,
l’impero di mezzo è vivo ancora. Un po’ male in gambe, Dio buono!
Ma vorrei veder voi, con una fede di nascita antica come la sua!
E ci voleva un vicino, un concorrente in porcellane, per fargli il
gambetto, esponendo alle difese interessate e alle curiosità insalubri
dell’Europa civile.

Dite lo stesso della bussola. I Cinesi la conobbero e non la usarono,
viva la faccia loro. Perchè allontanarsi dai porti e dalle spiagge del
felice Ciung-ko? Che necessità di vedere altri lidi? Tutto il mondo è
paese. Ma nessun paese vale il Tin-scian (traducete Celeste Impero)
dove gli alberi dànno fiori senza foglie, dove le donne hanno gli
occhi tagliati a mandorla, e dove la bevanda del tè basta a conciliare
un buon scorno, senza mestieri di libri, di giornali, di discorsi
parlamentari e di tornate accademiche.

Così la stampa; eccellente per imprimere sulle stoffe dei graziosi
disegni bizzarramente intrecciati, che piacciono all’occhio con la loro
novità e lo riposano con la regolarità delle loro ripetizioni: ma fermi
li, e niente riproduzione del pensiero. Che bisogno c’è di fissare
l’idea in una forma, che può di volta in volta migliorarsi? A che pro’
rendere comuni le sentenze dei dotti? Quanto più saranno esse comuni,
tanto minore sarà il numero dei veri sapienti, perchè il fiotto della
mediocrità affogherà tutti i più nobili ingegni.

I Cinesi, chi non lo sa? hanno scoperto anche i biglietti di visita. Ma
sia soggiunto, ad onor loro, che sono stati anche i primi ad abolirli.

La cosa merita d’essere raccontata; e si può farlo facilmente ora, che
il dottissimo professore Tiglat-Pileser, della università di Tubinga,
ha data all’Europa la sua bella traduzione dall’«Hoa-tsien-ki»,
pubblicata lo scorso anno a Lipsia, coi tipi della Sterndeuter.
L’«Hoa-tsien-ki» (in italiano: Storia della Carta a fiori d’oro) fu
scritto in un tempo abbastanza recente, nel secolo XVII, poco dopo il
rovesciamento dell’ultima dinastia dei Ming; ma sembra riferirsi ad
un dettato anteriore di Pan-hoei-pan, sorella dello storico Pan-ku,
vivente sotto Ho-ti, verso la fine del primo secolo dell’Era non a
torto chiamata volgare.


II.

Chiunque ne sia stato l’autore, la storia risale al 213 innanzi
Cristo, epoca memorabile nei fasti della letteratura cinese per la
strana persecuzione dell’Imperatore Khi-hoang-ti contro i letterati
del suo regno, avendone egli fatti sotterrar vivi quattrocento e
sessanta. Si era creduto, fino a questi ultimi tempi, sulla fede
del «San-ci-Hung-Kian» (specchio universale ad uso dei governanti),
che l’Imperatore Khi-hoang-ti si fosse lasciato trascorrere a quella
giustizia sommaria, per la ostinazione con cui i letterati dell’impero
volevano salvar dalle fiamme i libri da lui condannati al fuoco nel
maggior numero possibile, affinchè mancassero ai suoi avversarii
politici le fonti a cui attingere gli argomenti per combattere le sue
riforme. Ma il professore Tiglat-Pileser ha messo in chiaro che nessuna
riforma essenziale era stata fatta da Khi-hoang-ti, e che lo «Specchio
universale», opera di Ze-makuang, un abborracciatore del secolo XI,
non meritava nessuna fede, altro non essendo che un corso frettoloso
e sommario di storia, per un periodo di 1362 anni, compilato con poco
soccorso di documenti autentici e senza alcun lume di critica; laddove
la «Storia della carta a fiori d’oro», offre una spiegazione assai più
ragionevole della giustizia sommaria di Khi-hoang-ti; e il riferirsi
ch’ella fa ad un’opera di Pan-hoei-pan, quantunque ai dì nostri
perduta, gli conferisce un’autorità senza pari.

Narra adunque la «Storia della carta a fiori d’oro» che l’Imperatore
Khi-hoang-ti fosse innamoratissimo dell’Imperatrice Khia-fu-ssè. La
bella donna (il cui nome, secondo alcuni interpetri par che significhi
«Vita sul verde» e secondo altri «Maraviglia del secolo») era oppressa,
ad onta di questo grande amore del suo imperial consorte, da una
profonda malinconia, e niente poteva distrarnela. I bonzi, invitati
a pubbliche supplicazioni per la salute della eccelsa Khia-fu-ssè,
altro non facevano da un anno che ardere carta dorata, nei plenilunii e
nei novilunii, all’altare della Luna, detto «Yue-tan», e a quello del
Sole, detto «Ge-tan», senza pregiudizio dei grandi olocausti di buoi,
maiali, pecore e capre, nel massimo tempio del «Tien-tan», o Eminenza
del cielo, e nell’altro del «Ti-tan», o Eminenza della terra. Ma niente
facevano i sacrifizi, o non se ne vedeva ancora un costrutto. I medici,
a lor volta, chiamati a consulto, non osando parlare di cambiamenti
d’aria, interdetti dal cerimoniale di corte, avevano sentenziato: per
guarire l’imperatrice, bisogna tenerla allegra, bisogna divertirla ad
ogni costo.

Il consiglio era savio; ma in che modo metterlo in pratica? Concerti di
tam-tam, passeggiate dal palazzo della Luna a quello del Sole, pranzi
solenni a cui partecipavano tutti i grandi dell’impero, si era provato
ogni cosa. Finalmente un editto imperiale, apparso nella «Gazzetta di
Sciunt-hyen-fu» (leggete Pekino) invitò i sudditi meglio forniti di
studi e di fantasia ad escogitare qualche divertimento che valesse a
dissipare la profonda malinconia della Figlia del cielo.

Piovvero le proposte; ma parve più bella, più nuova, più utile fra
tutte, quella di un giovane mandarino della provincia di Scian-tung,
che tutti coloro i quali avevano uso di scrittura mandassero in segno
di augurio i lor nomi alla imperatrice; la quale avrebbe, a questa
prova di devozione, noverati i suoi sudditi, e in pari tempo avrebbe
passate le ore della giornata osservando la varietà dei caratteri.

Così, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’editto, incominciarono a
giungere nel palazzo della Luna piena, dove alloggiava l’imperatrice, i
quadratini di carta d’ogni genere, coi nomi dei mandarini d’ogni grado
e dei cittadini d’ogni classe, pennelleggiati di nero e di rosso, con
bei svolazzi d’oro all’intorno.

Khia-fu-ssè gradì molto l’omaggio, s’interessò alla lettura dei
nomi, ammirò la bellezza dei caratteri e degli ornati, e incominciò
a riacquistare il suo bel colore di zafferano. Tutti i giorni, sulle
coltri di seta del letto imperiale erano monti di cartoncini. Che
farne, dopo averli osservati? Khia-fu-ssè era donna di altissimo
ingegno, e non istette molto ad immaginare che con l’aiuto d’un po’ di
gomma e di qualche limbello di carta velina si sarebbe potuto foggiare
con quei quadratini dei piccoli scrigni, scatole, ed altri gingilli di
salotto.


III.

Ma i cartoncini crescevano; mensole, scaffali e cantoniere, tutto era
ingombro di quei ninnoli graziosi. Khia-fu-ssè fu costretta a pensare
dell’altro. La eccelsa donna inventò allora i paraventi di biglietti di
visita: una vera trovata, che fece andare in visibilio tutta la corte
e crescere nel cuore di Khi-hoang-ti la venerazione e l’affetto per la
sua divina compagna.

E i cartoncini crescevano, crescevano ancora, crescevano a migliaia
ogni giorno; sicchè in breve spazio di tempo tutto il palazzo della
Luna piena altro non fu che un laberinto di paraventi. Commossa,
maravigliata, ma non ancora confusa, la bella Khia-fu-ssè smise di fax
paraventi, e pensò di tappezzar le pareti. N’ebbero le sale, n’ebbero
i corridoi, n’ebbero le scale, n’ebbero i porticati. Ma continuavano a
venire i biglietti di visita: venivano a sporte, a sacca, a carrettate,
d’ora in ora, quante erano le distribuzioni quotidiane delle poste
imperiali. Non c’era più modo di collocarli al coperto: se ne fecero
mucchi nei cortili del Palazzo. Per fortuna, la stagione piovosa
non era ancora incominciata: altrimenti quelle montagne di carta si
sarebbero convertite in poltiglia.

L’imperatore guardava, e batteva le labbra. Ma di tanto in tanto esciva
in esclamazioni, suggerite da quel continuo rovesciarsi di cartoncini
e di augurii. «Il troppo stroppia» diceva egli, sospirando; «s’intende
acqua e non tempesta». Queste ed altrettali massime, ugualmente
profonde, uscivano dalle labbra del Figlio del cielo.

Nè solamente sul palazzo imperiale si rovesciava tutta quella grazia
di Dio. La moda della carta a fiori d’oro inondava d’ogni parte la
capitale e le provincie tutte dell’impero. Tutti mandavano, tutti si
ricambiavano il saluto del nome e l’augurio del cartoncino, con grande
soddisfazione dei mercanti di carta e della nobilissima classe dei
letterati, industri e solleciti pennelleggiatori dei nomi.

Ma un giorno capitò a palazzo il gran maestro delle poste imperiali.

— Figlio del cielo, — diss’egli a Khi-hoang-ti, dopo le genuflessioni
di rito, — i tuoi cinquantamila ufficiali di posta non bastano più a
tanta fatica. Una strana manìa ha colto i tuoi sudditi. Essi mandano
biglietti di visita, a centinaia di migliaia, in tutte le direzioni.
Sono vere montagne di carta che bisogna far viaggiare. I mezzi di
trasporto non sono sufficienti, e quelli che abbiamo non reggono più.
Ieri due giunche, cariche di cartoncini, si sono affondate nel fiume
giallo. Cinque carri di bambù sono andati in pezzi, sotto il gran peso,
ed ingombrano coi loro frantumi la strada. —


IV.

Il Figlio del cielo chiamò i suoi ministri a consiglio. Erano
costernati. Anch’essi avevano le case piene zeppe di biglietti di
visita. E il guaio più grave era questo, che, non essendo essi della
famiglia imperiale, erano costretti a ricambiare la cortesia a tante
migliaia e centinaia di migliaia. Nè più potevano bastare all’ufficio
gl’impiegati in pianta, nè i centomila straordinarii addetti ad ogni
ministero. Peggio ancora, non era sempre possibile ricambiare il
cartoncino, non essendo chiaro nel timbro postale il nome del paese
donde veniva l’augurio.

L’imperatore ascoltò, poi diede fuori un editto:

«Ben presto il filugello, onore della nostra dinastia, non basterà
più a dar cascami, nè il bambù a dar fiori, quanto basti alla
fabbricazione della carta. Similmente, non daranno tanto midollo le
piante dell’ho-hiang e del kang-sung, nè tanta corteccia l’arbusto
sciuhia-tsaoko, nè tanto succo lo zenzero, quanto basti alla
distillazione dell’inchiostro. Popolo avvisato, mezzo salvato. D’ordine
dell’imperatore si smetta l’usanza dei biglietti di visita.»

Un grido d’angoscia si levò da tutte le quindici provincie dell’Impero
di mezzo.

— Figlio del cielo, — gridarono i mercanti di carta, — tu rovini con un
editto la più fiorente tra le industrie cinesi. —

Ma l’imperatore non diè retta alle lagnanze dei mercanti di carta.
Khi-hoang-ti pensava al bene del popolo, e non isfuggiva alla sua
perspicacia che la salute del popolo è legge suprema di un impero ben
costituito. Del resto, una industria nata il giorno innanzi poteva
morire il giorno dopo, senza troppo grave nocumento alle turbe.

Allora si mossero i letterati, cioè a dire tutti coloro che vivevano
pennelleggiando i caratteri. Costoro, mal consigliati, si avvisarono
di congiurare per il rovesciamento della dinastia degli Han. Egli
fu allora, che Khi-hoang-ti, pronto come la folgore, aggravò la sua
mano imperiale sulla classe ribelle. E tanto per cominciare, ne fece
seppellir vivi quattrocento sessanta, sotto i mucchi di cartoncini che
essi avevano pennelleggiati.


V.

Si dubitò per un tratto nel celeste impero che la razza dei letterati
fosse sul punto di spegnersi. Ma non ne fu nulla: i letterati hanno
l’anima dura, molto più dei bottoni. Del resto, sono essi la gloria
degli imperi; l’Eminenza del cielo, Tien-tan, si accorda con l’Eminenza
della terra, Ti-tan, per non lasciarne sparire la semenza.

Altri ha voluto (e se n’ha traccia nel «Pe-kuei-zi», ossia Tavoletta
di diaspro giallo), che la giustizia sommaria di Khi-hoang-ti mirasse
a colpire un ignoto, il quale aveva osato di scrivere in un biglietto
di visita una dichiarazione d’amore, in versi, alla consorte del Figlio
del cielo: delitto punito colla morte, come ogni altro di lesa maestà.
Ma la cosa non ha ombra di probabilità. Se pure la dichiarazione
d’amore fosse stata scritta da un letterato imprudente, come avrebbe
potuto esser veduta e letta, fra cento cinquanta milioni di biglietti
di visita, andati a far muro e spalto intorno ai palazzi imperiali?

È opinione generale che con quella giustizia sommaria l’Imperatore
Khi-hoang-ti abbia preservato da un grande flagello il suo popolo. E
la Storia della carta a fiori d’oro molto opportunamente cita a questo
proposito gli armoniosissimi versi di Kon-fu-tse:

    Hiven pien-King tan pi-tsciang
    Si siu-ki hao-Khiou-cinang;

il che, tradotto in italiano, significa:

    «Lo stolto aperse il pozzo delle amarezze;
    Iddio sapiente si è affrettato a richiuderlo».

Ahimè, solamente in Cina!



Caso d’influenza.


— È uno dei soliti; — conchiuse il dottore, dopo avermi sommariamente
osservato, esaminato, ascoltato, tastato e tamburato qua e là per tutto
il torace. — Ed ora, tanto per cominciare, antipirina.

— Dottore, — osai domandare, — crede lei all’antipirina?

— Eh, così così, come bisogna oramai credere a tutto, mentre non c’è
più niente di sicuro nel mondo. Ma non dubiti, caro amico, vorrà anche
il giro del chinino.

— Ah, delizioso, il chinino! — esclamai. — Con quello, almeno, si sa
dove si casca. —

Per conto mio non ne sapevo nulla. Non avevo mai provato febbrifughi,
non avendo avuto mai febbre.

Dicevo così, per dire; volevo far l’uomo ancor io, adattandomi di buon
animo al mio nuovo mestiere d’ammalato. Incominciavo bene, del resto;
con un caso dei soliti. Eh, lo avevo ben capito io, che era dei soliti!
Da due giorni ne portavo il sospetto, anzi più che il sospetto in
corpo. La mattina dell’Avvento, uscendo di casa, e proprio sul punto
di mettere il piede sulla soglia del portone, una cosettina da nulla,
ma fredda, sottile come la punta di un ago, si era mossa dai portici
dell’Accademia, venendo diritta diritta a colpirmi in bocca, sebbene
tenessi chiuse le labbra, e scendendo giù giù fino alla laringe.

A tutta prima avevo detto: ci siamo! Poi me n’ero dimenticato; tanto
che l’umor nero ond’ero stato preso quel giorno, e più il giorno
seguente, che fu quello di Natale, io non dubitai di attribuirlo
alle strenne, vecchia lebbra delle razze indo-germaniche, a cui non
si è ritrovato ancora un rimedio. Ma la sera del 26, mentre cercavo
d’ingannare con qualche sana lettura una vaga inquietudine interna,
ecco un tremito improvviso delle membra, un batter di denti, un
sussultare di tutte le articolazioni; e bisognò correre a letto,
urtando di qua e di là, battendo delle ginocchia a tutti gli ostacoli,
rabbrividendo, traballando, stracciando lì per lì quel che non si
poteva sbottonare. E subito roba addosso, coperte, scialli, guanciali,
con acqua calda ai piedi, a mala pena fu possibile averla.

Era un caso dei soliti, e domandò a gran furia il solito insaccamento
dell’antipirina. Maledetta! debbo io lodarmene? Certo, se per mio bene
o per mio male non so, il primo ufficio suo fu quello di abbattermi;
e il secondo fu quello di scindere la mia unità in due persone, una
delle quali vedeva nell’altra, e non aveva ragione di esserne contenta.
Il midollo del mio cervello era così disgregato, e i suoi grumi così
rappigliati, rassodati e sonori, che mi parevano manciate di pallini da
caccia, saltellanti e risonanti sulla pelle tesa di un tamburo. Povero
cervello, ridotto in gragnuola! Già io lo avevo sempre pensato, che
non fosse da farne gran conto. Dirò di più: non avevo mai avuto una
grande opinione del cervello, fisiologicamente parlando. Nei primi anni
della mia giovinezza mi piaceva abbastanza fritto; ma poi, quando ebbi
veduto nelle scuole di anatomia che per fibra, consistenza e colore
non correva quasi divario tra quello del vitello e quello dell’uomo,
rinunziai volentieri al cervello. Avrei per analoghe ragioni rinunziato
anche alla carne, se i medici non mi avessero assicurato a gara che
quella del bue è superiore di gran lunga alla nostra, checchè voglia
indurre in contrario la filantropofagia moderna.

Antipirina, antipirina, anche tu sei passata. Mi avevi abbattuto senza
guarirmi, senza levarmi la febbre dalle ossa. Sentivo parlare intorno
a me di certe linee del termometro, che erano sempre quattro o cinque
più del bisogno; e allora mi ficcarono in gola dei bocconi a gran pezza
più amari. Quei bocconi furono il viatico e il principio di uno strano
viaggio. Per dove? non so; ma ricordo che andavo con una velocità
spaventosa, avanti e indietro, a lunghi tratti, come una spola. Quante
braccia di tela ho tessuto? Ecco un’altra notizia che mancherà alla
statistica del lavoro in Italia. So bene che ad ogni tornata mi toccava
di passare per una cruna, e di assottigliarmi maledettamente, per non
cozzare contro le pareti di quella fessura metallica.

Il giuoco fu lungo, assai lungo; non ebbe termine se non quando mi
fui rassegnato. Ma non cessò altrimenti il viaggio: bensì dalla linea
orizzontale che andavo descrivendo con tanta regolarità, passai a
descrivere una parabola. Un altro bel gioco, per gli Dei immortali!
Ero spinto come da un saltaleone, operante sotto ai miei piedi; spinto
in aria a gran forza, e scaraventato verso la costa di una montagna
brulla, arsiccia, di colore ferrigno. Quante volte non ho creduto di
scavezzarmi il collo, battendo in quelle gibbosità rupestri! Ma no,
proprio a fior di terra, combinavo sempre certe buche tondeggianti,
profonde, bianche come gole di coccodrilli; c’entravo a tocca e non
tocca, e andavo giù giù, per centinaia di metri, fino a tanto il
restringersi del foro non mi facesse combaciare le spalle con la
parete dell’imbuto. Come si respirasse là dentro non domandate a me,
che avevo ben altri pensieri pel capo. Prima di tutto, come uscire di
là? Rinunziavo, naturalmente ad ogni tentativo di spingermi indietro,
specie dopo aver veduto che ogni movimento di ginocchia o di spalle non
faceva altro che mandarmi più addentro.

È nell’uomo una virtù maravigliosa di adattamento agli ambienti; ed
io mi adattai a star là capofitto nell’imbuto. Ma proprio allora,
salì come una effervescenza di vapori dal fondo; una forza repulsiva
mi mandò fuori; mi sentii slanciato in aria, e ricollocato pari pari
sul mio saltaleone. S’intende che il saltaleone mi risospinse in aria,
facendomi descrivere la stessa parabola di prima; donde il rimbalzo
alla montagna e il conseguente ingresso nella buca. Di questi giuochi
avanti e indietro ne feci tanti, che incominciai a maravigliarmi di
me stesso e della mia precisione parabolica. E mai uno scatto di qua o
di là; andavo e tornavo ch’era un piacere a sentirmi. Se avessi potuto
egualmente vedermi!... Ma ecco, ne feci bassa una, e non combinai più
la mia buca. Istintivamente misi avanti le mani, per non ispezzarmi
la fronte nel macigno; e così mi salvai da un pericolo, ma per dare in
un altro, ugualmente terribile, se non forse di più. Sdrucciolavo per
la costa del monte; e la costa scendeva giù ripida, senza offrirmi un
appiglio. «Sire Iddio!» aveva potuto dire a’ suoi tempi Carlo d’Angiò
«fate che il mio calare sia a petitti passi». Io calavo a sbalzi,
a mezzi cerchi, a salti mortali. A un certo punto sentii mancarmi
la terra sotto i piedi; con le mani convulse tentai di aggrapparmi
a qualche cosa; afferrai un ramo di tamerice, o d’altro arbusto che
fosse, restando là, sospeso sull’orlo dell’abisso, mentre sotto di
me rumoreggiava cupamente il mare, mandando in alto larghi sprazzi di
schiuma. Intanto sotto il mio pugno incominciava a cedere l’arbusto, e
sotto il mio fianco si sgretolava il galestro. Che fare? Oh, al diavolo
la smania di vivere! apersi le mani, e mi lasciai cadere nel vuoto.
Che precipizio fu quello!... E non toccavo mai fondo. Per contro, mi
toccava il polso l’amico dottore, chinando la faccia sorridente al mio
capezzale:

— Ebbene, come andiamo? — mi diss’egli, tanto per cominciare.

— A grande velocità; — risposi. — Ma come è lungo il morire!

— Che morire! chinino, chinino, chinino, e tutto andrà bene. Siamo già
calati di tre linee. —

Ah, quelle linee, come erano lente a decrescere! E quella fuliggine che
involgeva tutte le cose, che morte! Manco male di giorno, con la luce
imperiosa del sole, coll’andare e il venire delle persone di casa, con
tutti i piccoli fatti della giornata domestica, che richiamavano qual
più qual meno alle consuetudini della vita quotidiana. Ma di notte,
con tante ombre addensate d’ogni parte; con tanti rumori strani, fatti
a bella posta, per condurre il raziocinio fuori di strada; senza punti
fissi a cui aggrapparmi; e tutta un’altra logica di eventi, con tutta
un’altra concatenazione d’idee!...

Tra gli episodi più stravaganti noterò il cane nero. Oh, un bel cane
danese, dal pelo corto e lucente, che lasciava scorgere nel loro
giusto rilievo le forane tutte dell’animale, la basaltica rigidità dei
contorni, le ferree curve dei tendini, il bronzeo risalto dei muscoli.
Doveva essere giovanissimo; lo dimostravano tale i suoi zamponi enormi,
sproporzionati alla sottigliezza delle gambe; lo dimostrava quel muso,
lungo quanto il collo, e quello squarcio di fauci, che nell’aprirsi
pareva la bocca di un forno, quando incomincia ad arrossarlo la fiamma:
lo dimostrava sopra tutto la smania amorosa del carezzare ad ogni
costo. Che carezze, mio Dio! Non parlo di quelle zampe enormi, levate
ad ogni tratto per benedirmi, ed anche per cavarmi gli occhi: dirò
invece di quelle fauci aperte, che sotto colore di leccarmi la mano, me
la ingoiarono in un batter d’occhio, amorosissimamente. «Azor, basta!
Fedor, lascia andare!» gridavo io sentendo il solletico. Ma ben presto
mi parve che quella brevità di nomi non fosse più in proporzione col
crescere dell’animale affettuoso e vorace. «Belfegor, fermo! Almanzor,
per tutti i diavoli!... Nabucodonosor!...» Ma sì, a farlo smettere con
le buone parole! Seguitava imperterrito a mangiare, l’amorosissimo
cane; inghiottiva, inghiottiva gradatamente il radio, l’ulna, il
gomito, l’omero, l’articolazione e tutto l’apparato muscolare della
spalla.... E perchè poi? Me ne avvidi finalmente: per giungere coi
denti alla mia caramella, innocentissima caramella di cristallo,
pendente dal suo cordoncino di seta sul petto.

— Ah, figlio d’un cane, e cane tu stesso, perchè non dirlo prima? —

Così dicendo, presi la caramella e la feci ballonzolare in aria, sugli
occhi e sul naso di Nabucodonosor; il quale, bontà sua, tralasciò
di mangiare, ed io ne approfittai subito per tirar fuori la spalla,
l’omero, il radio e tutto il rimanente. La caramella volteggiava sempre
sugli occhi dell’animale inuzzolito. «Ah, bene» dicevo intanto fra me,
«ecco la mano, ecco le dita, non ci manca più nulla! A te, Almanzor,
prendi la caramella; se essa può formare la tua felicità, io son ben
lieto di regalartela.» Belfegor non se lo fece dire due volte; abboccò
la caramella, e spiccò un salto dalla contentezza. Ma io, con quel
braccio mangiucchiato e quella manica sbrodolata, come potevo andare
in società! Perchè infatti, non ero mica ammalato. Che! anzi ero in
falda, con la cravatta bianca e con un petto fiammante di porcellana,
per andare in conversazione dalla marchesa Olgiati; una signora a
cui domando perdono di averla citata, se ella esiste davvero. Ero in
falda, vi ripeto.... Ma come andare dalla marchesa, con quella manica
stazzonata, unta e bavosa? Una buona ripulita, sì, ed anche due colpi
di ferro caldo, avrebbero potuto rimetterla in sesto. Ma.... e il
polsino della camicia?... E la caramella? la fida caramella, senza la
quale, a dieci passi di distanza, non distinguo più una donna da un
prete? Mi vedevo già nel salotto della marchesa, impacciato come un
pulcino nella stoppa, disposto a vedere in tutte le più vecchie dame
la padrona di casa.... ed anche a sentir ridere e bisbigliare dietro i
ventagli una dozzina di Aristofani in gonnella. Ah, la mia caramella,
amor mio dolce e dei miei caricaturisti! Era laggiù, la mia caramella,
anzi lassù, piantata nell’occhiaia destra del cane danese; il quale,
per non avermela a restituire, era andato a collocarsi in atteggiamento
monumentale sopra una mensola di giallo di Spagna, alta, alta, così
alta, che le mie mani non giungevano ad afferrare la lastra.

Omaggio ai tempi e a tutte le gravi cure che portano con sè, non
mancò neppure il mio modesto contributo alle feste colombiane. Avevo
una melarancia sul comodino, e la guardavo cupidamente con la coda
dell’occhio. La melarancia si avvicinò a me, o io a lei? Comunque sia,
ci unimmo; ella s’ingrossò in me, io mi raggomitolai in essa, e non
fummo a breve andare che una cosa sola. Venne allora un cavalierino e
mi prese fra le dita nervose. Che cosa voleva egli fare di me? Appena
m’ebbe nel pugno, scavalcò un davanzale, e si mise a passeggiare sopra
un trave sporgente fuor della casa. Ma che casa? Eravamo all’ultimo
piano d’una torre, che riconobbi benissimo per la Giralda, la gran
torre della cattedrale di Siviglia. Povero a me! stavo nel pugno del
più matto tra i cavalieri d’Andalusia; di Alonzo d’Ojeda, niente di
meno. E andava, il cavaliere, andava con passo misurato e sicuro sul
trave sporgente, mostrandomi alle turbe, affollate sulla piazza, cento
metri più sotto. «Don Alonzo, per carità, non facciamo sciocchezze! Che
stravaganze son queste! Il valore è una bella cosa, ma non s’ha mica
da dimostrare in queste prove da mattaccini! Vi prego, don Alonzo mio
bello, torniamo indietro, e voglia il cielo che questo trave non sia
fracido per tante stagioni di pioggia, nè lavorato da dieci, da venti,
da trenta generazioni di tarli. Don Alonzo, per carità!...»

E infatti, il trave incominciava a cantare, a gemere, a scricchiolare
sotto i piedi del matto cavaliere. Siam fritti, pensai. E gli occhi
mi corsero al basso, e mi parve di vedere i gesti di terrore della
folla. Tra tutti, avendomi forse riconosciuto, pareva singolarmente
commosso il maestro Antonelli!... Ma che significa ciò? Non sarei io
dunque a Siviglia, sulla Giralda? a Bologna, invece, e sulla Garisenda?
No, no, è stato uno sbaglio; effetto del non avere la mia caramella
all’occhio. Non era il maestro Antonelli; era il conte d’Almaviva, o
Esteban Murillo, o Antonio del Rincon, altre mie vecchie conoscenze
di Spagna. Ah, ecco, se Dio vuole, don Alonzo d’Ojeda è ritornato
indietro; scavalca il davanzale del finestrone; è dentro, oramai, e con
atto grazioso getta la sua melarancia in grembo alla regina Isabella
di Castiglia, che ammirata, ma anche più esterrefatta, contemplava
la scena. Povera signora! Al tonfo della melarancia, che pesava i
suoi (anzi miei) ottantasette chilogrammi compiti, ella non mise un
grido, bensì diede il suono secco di qualche cosa che si crepi. Povera
signora! Vedrete che per le feste colombiane non servirà più neanche
lei!

Quanto a me, non avevo più sugo. Rimbalzato dal grembo della virtuosa
regina, andavo, andavo ruzzolando giù per le scale della Giralda,
cercando.... cercando che cosa? il nesso logico, ahimè, il nesso logico
miseramente perduto. Che triste cosa, perdere il nesso logico! E come
ritrovarlo? Io l’ho chiesto per cinque giorni, per otto, per dieci,
senza ritrovarlo mai, su nessuna lastra di specchio, su nessun filo
di rasoio. Il medico dice che è effetto di debolezza. Ma quanto durerà
questa debolezza? Eccomi al quattordicesimo giorno delle mie ricerche.
Mi pare qualche volta di averlo trovato, e di tenerlo chiuso in una
scatoletta di cartone, tra due falde di bambagia.... Povero nesso
logico! Purchè Alonzo d’Ojeda non me lo scaraventi in piazza! Purchè
Nabucodonosor non me lo abbocchi, come ha abboccata la mia caramella!
purchè non mi ruzzoli giù dalla montagna nell’abisso, tra le schiume
del mare in tempesta!

Quattordici giorni d’influenza! E non son riuscito ad afferrare un
portafoglio. Che razza d’influenza è mai questa, dove non c’è niente da
guadagnare e tutto da perdere? Aggiungete che ho perduto per fino....
Ma no, questo va detto con una certa solennità di discorso. Annunziate,
vi prego, al ministro del tesoro, ma con garbo, veh! che l’anno 1892
si chiuderà per fatto mio con un disavanzo di L. 576,46. Ed ecco in
che modo. Un pacco di dieci sigari Virginia che buttavo regolarmente
l’un dopo l’altro, perchè non tiravano, ma che comperavo regolarmente
ogni giorno al prezzo di L. 1,20, moltiplicato per tutti i giorni
dell’anno, che è bisestile, dà una somma di L. 439,20. Aggiungete ogni
due giorni un mezzo ettogrammo di trinciato superiore forte, che mi si
polverizzava regolarmente tra le dita e che regolarmente passavo al
mio portinaio per tabacco da naso; donde l’annua spesa di L. 137,25.
Tirate la somma; avrete un totale di L. 576,45. L’ho guadagnato io,
in quattordici giorni d’influenza, avendo smesso di fumare. Ma lo ha
perduto l’erario. È questo il mio caso; uno dei soliti, come diceva il
dottore. Auguro che sia unico, per la gravità degli effetti.


P. S. — Ed anche è rimasto unico, quasi fiore in deserto, nel corso
delle mie consuetudini. L’anno seguente, non so come, forse per
isbadataggine, son ricascato a fumare; onde le finanze dello Stato
hanno avuto una bella rifioritura. Sia per compenso ai danni che ha
recentemente patiti il Municipio genovese, usandomi la cortesia di
atterrare la casa dove il mio caso d’influenza s’è svolto. Altri dirà
che non per me fu decretata la spesa, ma piuttosto per assestare la
piazza De Ferrari, dopo slargata via Giulia. Ciò non toglie che io ne
attesti ai padri della patria la mia gratitudine. Trista casa, dove non
furon sorrisi! e dove anche cessai d’esser giovine!



COMMIATO.


_I miei Sorrisi potevano essere, ed erano veramente di più. Ma questo
avvenne, che appena avevo finito di raccoglierli, una parte ebbe fretta
di uscire, foggiata in un volume da sè, per le nozze d’argento del
Regno italiano con Roma.[1] Sarebbe stato ora il caso di aggiunger
dell’altro, se non avessi pensato che nei libri è gran pregio, in
mancanza di meglio, esser brevi, e che nelle relazioni civili non
bisogna abusare di nulla, neppur di sorrisi. Infine, se a questi sarà
fatto buon viso, chi sa? la materia non manca; e non sarò io certamente
che mi lagnerò della vita. Oggi ancora, non sono senza sorrisi gli anni
maturi: solo è da dire che il gaio sciame ha mutato luogo; stanchi
della città, preferiscon la villa, anzi il folto dei boschi. Si son
dati alla macchia, i briganti: castagni, faggi, abeti e querciole
sono il fatto loro; e non hanno meno in grazia i pini, i ginepri, i
corbezzoli. In fondo, pur che sia verde, la montagna mi piace: ho caro
che tra eriche nane, sassi discreti e borraccina a tutto spiano, corra
blandamente serpeggiando un’acqua viva e sussurrona; che ci sia quiete
per me, poveraccio, e felicità per tutte le bestie, creature del buon
Dio al pari di me, se anche, avendo studiato meno, ragionano in forma
più grossa; ma tanto più sbrigativa. Son poi felici, le bestie? Su per
giù come noi; con giorni buoni, e con giorni cattivi; e, diversamente
da noi, si contentan di poco. Chiedetene alle lepri e ai rigogoli: non
domanderebbero altro che l’abolizione delle licenze di caccia._

_Assistevo, son pochi giorni passati, all’odissea campestre d’un grosso
scarabèo; un lucanus, se le mie cognizioni entomologiche non fallano,
qui volgarmente chiamato il diavolo, per certe corna in guisa di
tanaglie, che porta gloriosamente in capo, come un cavalier medievale
avrebbe portato sull’elmo un trofeo di giostra. Il povero diavolo
trascinava a fatica il suo corpo immane, reggendosi male su certe
gambucce sottili, che parevano sempre lì lì per andarne scavezzate.
Sotto il peso della gran corazza nera piegavano i fili d’erba, cedevano
i fuscelli di paglia, si sfondavano le foglie secche, facendolo
pencolare or da un lato, or dall’altro, ruzzolare, tombolare ad ogni
tanto; ma senza levargli il coraggio, viva la faccia sua, perchè
egli, rizzandosi alla meglio, si rimetteva tosto in cammino e tirava
di lungo; non girando, ohibò, ma sormontando gli ostacoli, procedendo
diritto davanti a sè, lento ma sicuro del fatto suo, come se avesse
una meta da raggiungere, e tempo da fame scialo. Dove andasse, non so;
forse non lo sapeva neppur lui chiaramente. «Ma è legge» avrà detto, da
quel diavolo filosofo che mi pareva; «è legge l’andare, andiamo dunque;
cadere, rialzarsi, andar capofitti, risalire, è tutta strada.» Lo
seguitai per un’ora, a dir poco; e mi parve una occupazione più seria
di tante e tant’altre, nelle quali ho per uso d’impiegare il mio tempo.
Fu inutile, soggiungerò, come tante e tant’altre; perchè tutto ad un
tratto, senza ch’io ne afferrassi la ragione, il mio diavolo s’impuntò
sulle sei zampettine sottili; scosse le rigide falde coriacee del
suo soprabito nero; ne trasse fuori, sciorinandole al sole, due paia
d’ali membranose e trasparenti, in quella guisa che un buon cittadino
all’uscire in istrada schiude solennemente l’ombrello; e via ronzando
per l’aria, difilato e leggero, che non pareva più lui._

_Perchè non prima? Si era egli dunque seccato? O si rammentava soltanto
allora di aver quegli arnesi in riserva? Forse pensò che dopo tanto
terra terra un po’ di cielo agli scarabei fa bene. Anche noi, che
pure non abbiamo un paio d’ali sotto le falde, anche noi, dopo esserci
impietositi a freddo sulla grande miseria delle forme viventi e dopo
aver meditato per uso dei salotti eleganti un dotto volume sull’eterno
dolore, leviamo qualche volta lo sguardo al sereno dei cieli, donde il
sole amico risplende per tutti, e ci adattiamo a riconoscere che tutto
non è tenebre e gelo nel mondo. Bel mondo, se luce, azzurro e verde
lo assistano! E la sera, poi, che buon fantasticare si fa, con quella
dolce atmosfera turchina, su cui veleggia in così mutevoli aspetti, ma
tutti cari, l’argentea luna; mentre dal fondo occhieggiano, palpitando
luce d’amore, migliaia e migliaia di stelle, annunzio e promesse
delle miriadi che andremo poi con altre ali visitando, per mezzo allo
sterminato anello della Via lattea! Sarà un delizioso viaggio, per la
conoscenza più intima del fiammante Aldebaran, della nitida Capra,
del fulgido Sirio, delle due Orse vaganti, del membruto Orione, non
più costretto in caccia malinconica sui prati d’asfodelo. Io mi son
già fissato per la mite costellazione d’Andròmeda; non per disegno di
arcani corteggiamenti, Dio guardi, ma per assister di là, spettatore
dei primi posti, al brulichio luminoso di un altro mondo, che è in
fabbricazione da quelle parti. Curiosità, questa, che è ragionevole in
sè; com’è ragionevole che tutta quella roba non sia posta a caso, per
far piacere a Democrito; com’è ragionevole che noi non siamo nati a
caso intelligenti, per vederla di fuga, e non saperne più altro, quasi
occhi dischiusi un istante, e poi subito richiusi, annientati nel buio.
Sarà, dico, un delizioso viaggio; e il pensarci, e il dispormi, sia
pur senza fretta, a prendere il biglietto d’andata senza ritorno, fa
sì ch’io non mi guasti il sangue con anticipate querele; mentre non è
senza gaudio ripensar qui tutte le cose che ho viste, intese, sentite,
e sopra tutto conciliate nell’anima mia, dove si trovano bene._

_Tre cose belle ha il mondo: conoscere, amare, sperare. Sia tutto il
resto per il buon peso. Anche la nostra vita, quant’è lunga, può dirsi
una gioventù. Sorridiamo_.


  FINE.



INDICE.


  _Prefazio_                          Pag. V
  Figure femminili                         1
  Il maestro Segni                        21
  La prima capannuccia                    33
  La mia presa di Peschiera               43
  Il primo errore                         67
  Ceppo in famiglia                       83
  Camene ligustiche                       95
  Don Alessandro                         113
  Musicista e poeta                      139
  L’amico Bastiano                       171
  Il mio latino                          189
  All’osteria del Rettorica              203
  Hoa-tsien-ki                           231
  Caso d’influenza                       245
  _Commiato_                             261



NOTE:


[1] _Con Garibaldi alle porte di Roma_. Milano, Fratelli Treves. L. 4.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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