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Title: Tenda e castello
Author: Sacchetti, Roberto
Language: Italian
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                             R. SACCHETTI.


                            TENDA E CASTELLO



                                MILANO,
                     LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA.
                      Corso Vittorio Emanuele, 26.
                                 1878.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                  _Milano, coi tipi di G. Bernardoni._



TENDA E CASTELLO.


I.

Qualche anno fa, un inglese, che aveva sposato una zingara, divorziò
con un processo scandaloso, e scrisse anche un libro di memorie, col
quale riusciva a cangiare in interesse il ridicolo di cui la sposa
l’aveva coperto.

Il processo e il libro fecero rumore grande. Tutti i giornali d’Europa,
compresi i nostri, copiarono dai fogli inglesi dei riassunti dell’uno,
degli estratti dell’altro, e li ammanirono, come novità mai più udite,
ai loro lettori.

Ma il caso di un’unione così bizzarra non è nuovo. Qualcosa di simile,
benchè in circostanze assai più gravi, è avvenuto parecchio tempo
addietro, e se allora l’avventura non si divulgò con pari fortuna, gli
è che nel nostro paese i gazzettieri sono meno solleciti nel ricercare
lo scandalo e meno industri nello sfruttarlo.


Se andate nell’alto Vercellese tutti vi conteranno stringendosi nelle
spalle, la grande pazzia del conte Emmanuele di Peveragno. Diffatti il
suo matrimonio colla bella Luscià fu la pazzia di un cervello annoiato
e di un cuor generoso.

Egli era l’uno e l’altro.

Un pio sentimento l’attirò verso la fanciulla, — e le si affezionò poi
per stravaganza.

Curioso il come s’incontrarono.

Il conte la sorprese un giorno ginocchioni, davanti al ritratto di sua
madre, che pregava fervidamente, come davanti ad un’immagine sacra.

Gli zingari di Nick avevano posto le tende in un prato sotto il
giardino del castello, e Luscià colla indiscrezione soppiattona
della sua gente, penetrata per una breccia del bastione, attraversato
il boschetto dei nocciuoli, costeggiato il viale degli olmi dietro
l’alta siepe di mortella, era sbucata innanzi alla casa. Salita la
scala esterna e trovata la porta aperta, per il salotto d’estate e lo
stanzino di toeletta, s’era spinta fin nella camera della fu contessa
Adelaide.

La divota cura della famiglia dava a quel luogo, disabitato da
oltre venti anni, un aspetto di melanconia soave e di religioso
raccoglimento. L’ordine scrupoloso, la severità pomposa degli arredi,
i damaschi rossi a fogliami d’argento delle pareti, la luce rossa che,
trapelando dalle tende seriche, digradava in una colorita penombra;
— un sentore di rinchiuso, un leggero, un misterioso profumo, un
alito di freschezza come di chiesa, il silenzio profondo avevano
piegato a súbita reverenza la curiosità petulante della fanciulla.
Crescevano l’illusione le cortine dell’alcova socchiuse, come quelle
di un santuario, fra cui luccicavano nell’ombra dorature invisibili;
un candelabro di bronzo che sosteneva un alto cero pasquale miniato,
un piccolo reliquiario d’ebano intarsiato d’avorio, un prezioso
acquasantino d’alabastro sul quale s’incrociavano un ramo d’ulivo e
una palma trecciata; l’alto inginocchiatoio coi cuscini di velluto e un
gran libro di preghiere aperto sul davanzale.

Il piano del camino ricoperto di velluto cremisi, ricamato coll’insegne
della casa, somigliava un piccolo altarino, onde, fiancheggiato da due
candelieri d’oro e da due vasi di alabastro pieni di rose, s’ergeva,
vero nume del luogo, oggetto di tutto quel culto, il ritratto a persona
intera della contessa al tempo delle nozze.

Il suo sfarzoso abito di corte, di raso bianco a mazzolini di fiori,
tutto nastri e gale; la sua alta pettinatura ad _ala di colombo_,
gettavano in mezzo a quell’austera armonia di colori, delle note
acute, profane. Ma la zingarella non era troppo schizzinosa; nelle sue
migrazioni dal Volga al Manzanare aveva visto santi e madonne conciate
in tante foggie che il suo sentimento religioso non si sgomentava così
di leggieri.

Poi quel volto giovanile, più fanciulla che donna, bianco, delicato,
nobile, fra il mesto e il sorridente, ispirava insieme il rispetto e
la simpatia, temperava la fredda rigidezza del luogo, ravvivava l’aria
morta, ne raddolciva l’impressione.

A Luscià era parsa la Vergine senz’altro e le faceva le proprie
divozioni.

Il conte, nascosto dietro l’arazzo della porta, ascoltò quella
strana preghiera in un linguaggio ignoto, armonioso; contemplò
quella personcina bizzarra, pittorescamente cenciosa, quel visino dal
profilo regolare, purissimo, della razza indostanica, bruno, pallido,
lumeggiato dai riflessi dei damaschi di tinte calde, sfumate, quasi
trasparenze alabastrine di un intimo fervore, di una passione intensa,
— fu tocco di quella pietà ingenua, sincera, irrequieta, tutta vivacità
spontanea e stravaganze leggiadre.

La giovinetta pareva presa da una grande commozione; si agitava,
rizzava la persona, levava la testa, poi la piegava, quasi sopraffatta
dalla piena dell’affetto, curvava la fronte sino a terra, sulle
tavole lustre del pavimento, si stringeva la fronte, si picchiava
il petto, si copriva gli occhi colle palme, incrociava le braccia,
le alzava distese, le lasciava ricader penzoloni; somigliava una
statua, somigliava una delirante, un’addolorata coi coltelli nel
cuore; il suo sguardo prendeva tutte le espressioni dall’afflizione
al tripudio, dallo sconforto alla speranza, tremava, si velava, era
timido, era temerario, era compunto, era quasi irriverente; e la sua
voce anch’essa saliva, scendeva, si smorzava in toni di una varietà
infinita, diventava gutturale, profonda, rauca, poi aperta, poi sonora,
acuta, argentina, lenta; si faceva concitata, poi fioca di nuovo,
supplichevole, dolce, e pareva, secondo i momenti, preghiera, inno,
lamento, singhiozzo, rampogna; tremula di tenerezza, di desiderio,
piena di grazia, di vezzi infantili, di accenti caratteristici,
originali, efficaci...

Quando ella fu uscita, il conte prese il suo posto e pianse. Quella
voce singolare lo avea tutto rimescolato, gli aveva resuscitato
nell’animo i sentimenti di fanciullo, l’amore di sua madre, l’angoscie
d’averla perduta.

Da molti anni la sua vita non era che un fastidioso accumularsi di
tedio; esigliato dalla corte, rimosso dagli affari, dall’esercito,
per aver preso parte al sogno sublime di una certa notte di marzo
al palazzo Carignano; sdegnoso di rientrarvi per la porticina della
grazia, ora che, per l’avvenimento al trono del regale suo complice
gli pareva di aver diritto a quella gran porta d’onore; tenuto lontano
dal suo posto più dalla diffidenza propria che di quella che ispirava
— egli non aveva vissuto — ma passato il suo tempo. I giorni lenti,
monotoni, tristi, erano discesi l’un dopo l’altro nel suo spirito, come
cade la goccia nell’acqua morta della cisterna abbandonata in mezzo al
deserto. Non li aveva contati, li aveva lasciati scorrere senz’altra
speranza che quella di vederli terminare una volta. Gli parevano
innumerevoli; si credeva in buona fede decrepito a trentacinque anni...


II.

Luscià tornò nei dì seguenti.

Il conte spiava il suo passo leggero, la sentiva venire di lontano,
distingueva fra i mille rumori della campagna il fruscio ch’ella faceva
nelle frasche dei noccioli e delle mortelle. Era un soffio di vita che
veniva a lui, a riscuoterlo dal travaglioso torpore della sua noia.

La sua giornata aveva oramai un punto luminoso, una mezz’ora di
beatitudine; e lo seguiva una dolcezza sempre maggiore, sempre
più lunga, che a poco a poco invadeva le tristissime meditazioni,
compenetrava la sua solitudine.

Del resto egli non era invaghito di lei; appena ricordava i suoi
lineamenti; non s’era mai chiesto, se fosse bella. Non la guardava,
non la desiderava, la sentiva; e come qualcosa di sacro, di
soprannaturale. Ella veniva in nome di un sentimento augusto; era quasi
la personificazione della sua pietà figliale.

Erano due adorazioni che s’incontravano.

E finalmente una volta egli uscì dal suo nascondiglio, — si fe’ innanzi
lento, riguardoso e venne a porsi alla sua destra sull’inginocchiatoio
stemmato.

La giovinetta dapprima non lo avvertì quasi, gli diè appena un’occhiata
distratta e indifferente, come si fa in chiesa con un ignoto che
sopraggiunge.

Ma poi cominciò a guardarlo con curiosità, e subitamente fatta accorta
del luogo dov’era, si alzò ed uscì frettolosa.

Il conte la seguì.

Ella si cacciò nelle macchie del parco; sgattaiolò nel più fitto dei
rami incatricchiati senza far più rumore di un lepratto che fugge.
Appena un leggiero ondeggiamento di fratte indicava il suo passaggio;
qualche volta anche questo cessava, ella sembrava sparita sotto terra;
ma il fruscio incominciava a una ventina di passi più in là.

Il conte le tenne dietro per svolte e sentieruoli; avrebbe voluto
chiamarla, ma non sapeva come; la inseguiva per rassicurarla.

Questa caccia singolare durò più d’un quarto d’ora.

Il conte era arrivato al muro di cinta; aveva perduta la pesta; la
zingarella era forse uscita da una delle numerose breccie del bastione.
Si buttò disteso sopra un cespuglio di felci, tutto vergognoso di
averla lasciata scappare, pensando ch’ella non sarebbe più tornata;
si rammaricava della propria balordaggine, quando la fanciulla venne
improvvisamente a passargli dappresso.

Il conte balzò in piedi, ed ella, come selvaggina sorpresa, si fermò di
botto. Lo guatava cogli occhioni spalancati con una selvatichezza fra
lo spaurito e il malizioso.

— Perchè scappate, figliuola? le domandò con dolcezza il conte.

Ella non rispose.

— Come vi chiamate?

— Luscià, figlia di Wanka, disse la zingarella.

— Avete ancora vostro padre?

— Padre no...

— E Wanka?

— Non so, mi dicono figlia di Wanka, ma è morto.

Parlava speditamente un italiano scucito; filza di parole più che
altro, ma di parole esattissime.

— E vostra madre?

— Morta.

— Con chi state?

— Sto con Nick figlio di Peter; aiuto mami Nad, ella mi ha allevata.

— Chi è Nick?

— Nick è figlio di capo: il suo carro cammina alla testa degli altri.

— Nick è vostro parente?

Ella non capiva.

— Nick e voi siete della stessa famiglia?

Luscià fe’ cenno di sì, restò un po’ soprappensieri, poi soggiunse:

— Egli mi sposerà se Dan non vorrà darmi al suo Succeawa.

— Chi è Dan?

— Il padre Dan è il fratello di Peter, fratello di Wanka, — è il capo,
egli segna la via.

— Succeawa è suo figlio?

— Sì.

— E dov’è Dan?

La fanciulla si volse dalla parte di mezzodì, stese la mano verso la
grande pianura della Sesia e disse:

— Là al mare. Verrà l’altra luna e passeremo tutti le montagne.

— Dove andate?

— Al gran fiume, alla Donau a prender cavalli; là farò le nozze.

— E, disse il conte dopo un po’ d’esitazione, volete bene a Nick?

Ella lo guardò stupita.

— A Succeawa allora?

Rimase interdetta... non capiva...

— Chi volete sposare?

— Non so, disse ella candidamente.

Il conte arrossì.

— Quanti anni avete?

Diventò pensierosa; si raccolse un momento.

Poi sporse il pugno destro e, aprendolo tre volte colla sinistra, disse:

— Cinque e cinque e cinque.

Il suo aspetto ne dimostrava di più.

Il conte le stese la mano.

Ella la prese, la recò, fissandolo in volto, alle sue labbra, e la
baciò.

Una gemma ch’egli teneva al dito mignolo fe’ brillare ne’ suoi occhi un
lampo di cupidigia.

Al conte non isfuggì quell’occhiata.

— Vi piace?

E senz’altro, levato l’anello, glielo porse.

Luscià lo prese vivamente e lo nascose nel corsetto, dicendo:

— _Mami_ Nad e Nick me lo piglierebbero.

Seguì una pausa.

Il conte sembrava assorto in profonde meditazioni.

La giovinetta s’era seduta sull’erba. Lo guardava sempre con quella sua
aria di curiosità servile e provocante. Poco a poco, dalle sue pupille
profonde, scattava un’espressione di viva meraviglia.

— Tu, bel _rai_, non vuoi nulla da me? domandò con voce gutturale,
quasi roca.

Il conte, distratto, non rispose.

Ella si alzò.

Il conte le chiese:

— Luscià, tornerete?

Fe’ segno di sì.

— La mia casa è aperta; venite quando vorrete, egli soggiunse.

La giovinetta si allontanò.

Da quella parte erano cresciuti sul margine del bastione alcuni
cespugli di alborno che protendevano i loro rami sulla fossa
sottoposta, donde salivano ad aggrovigliarvisi coi loro viticci tenaci
l’edere, le madreselve, e una petulante tribù di liane dalle bacche
vermiglie, dai fiorellini bianchi, rosati, violetti, dai grappoli
porporini.

La zingarella s’aggrappò ai rami del cespuglio, un momento, poi scivolò
giù fra le liane, districandosi lestamente da quel fitto viluppo
senza che un solo capello o un filo del corto gonnellino rimanessero
impigliati.

Quando fu a terra spiccò la corsa giù per la china, gettando acuti
gridolini festosi; l’erbe si curvavano appena sotto il suo piede, e
le innumerevoli margherite si rialzavano, quand’era oltrepassata, come
grand’occhi spalancati a contemplarla.

La fanciulla scendeva tagliando di sbieco la costa verso il poggetto
dove stava accampata la sua gente. Le tende degli zingari rosseggiavano
al sole cadente. I fuochi erano accesi nel circolo; il fumo denso,
bianco, usciva dall’accampamento, e la brezza vespertina lo piegava al
suolo, lo sparpagliava in fiocchi tremolanti.

Luscià scomparve come in un’aureola.

Tale fu il primo incontro del conte colla bella vagabonda, incontro di
due destini infelici, di due esistenze reiette.


III.

Benchè il conte avesse dati gli ordini alla famiglia perchè la
giovinetta si lasciasse venire in castello senza molestie, ella
preferiva entrarci per le rovine del bastione. E il vecchio
maggiordomo, d’altra parte, non poteva rassegnarsi a non tenerla
d’occhio. Il poveretto non capiva il perchè si desse tanta libertà
a quella _mala semenza_... Però egli doveva vederne ben altre: era
cominciato tutto un ordine di cose per lui impossibile, assurdo.

La sua diffidenza era pur troppo giustificata. Non tardò ad averne
la prova. Gli era venuto il sospetto che la zingarella avesse le mani
pronte quanto i desiderj: parecchi oggetti, di poco valore a dir vero,
piuttosto gingilli che altro, erano scomparsi dalle stanze dov’ella
entrava. E un dì ch’era venuta più presto dell’usato, stando egli
dalla finestra del proprio casotto, la vide che, salita su una sedia,
staccava dal muro nel salotto una preziosa medaglia d’oro. Accorse,
con tutta la premura che le sue vecchie gambe gli consentivano, per
coglierla in flagrante. Non trovandola più nel salotto, tirò dritto
alla camera della contessa, meta solita delle sue visite. Ma, quivi
giunto, quale non fu la sua sorpresa di scoprire il padrone che teneva
la mano della giovinetta in atto di amorevole confidenza! lasciò cadere
l’arazzo, rimase un momento inchiodato là dallo stupore, poi fuggì
colle mani nei capegli, convinto dalle parole che aveva inteso, senza
volerlo, che il povero conte Emmanuele avesse finito coll’impazzire.


IV.

Il conte diceva a Luscià, indicandole il ritratto della madre:

— Vuoi prendere il suo posto? diventare, come era lei, la padrona di
tutto ciò che la mia casa possiede? la signora di tutti, cominciando da
me?

Egli era sereno; la sua voce seria, tranquilla, non esprimeva la
passione, ma un proposito lungamente meditato.

Aveva tanto tempo cercato uno scopo alla sua vita desolata, una cura,
un pensiero, colle quali riempire la sua triste solitudine: e fra
tutti il disegno di farsi egli nobile, dovizioso, stanco, sgloriato, la
provvidenza di qualche povera creatura, di dare alla propria ricchezza
il valore nuovo del godimento altrui, gli era sempre parso il più
seducente.

L’umile condizione di Luscià non era per lui un ostacolo, ma
un’attrattiva di più, un raffinato aumento d’ideale; più ella veniva
dal basso e più alto sarebbe stato il benefizio. Ella avrebbe dovuto
salire per sua mano tutta la scala immensa dalla vita nomade alla
civiltà, e, ad ogni gradino, il suo amor proprio avrebbe trovato una
gioia, una compiacenza. Ma non era solo egoismo: le sue risoluzioni
prendevano quasi l’aspetto di un dovere.

Le circostanze singolari dell’incontro colla Luscià avevano determinata
la sua scelta, e la nobilitavano a’ suoi occhi. Il trovarla nella
camera della madre, a quel posto sacro al suo dolore, non poteva
sembrargli interamente casuale. Un’intima, una vaga superstizione
del suo cuore solitario stabiliva dei rapporti fra l’adorazione della
fanciulla e il ricordo della madre, dava alla zingarella qualcosa della
dignità della contessa: la metteva quasi sotto la sua protezione.
Non era un favore soltanto che egli le dava, era un diritto che le
riconosceva: un destino misterioso l’aveva mandata colà nel santuario
famigliare, nel cuore della sua casa — egli le dava il permesso di
rimanervi — null’altro.

Perciò le diceva: — vuoi tu essere la signora? — come avrebbe offerto
un omaggio dovuto o un’ospitalità obbligatoria.

E Luscià lo guardò stupita.

Il conte la condusse per mano fra tortuose scalette e misteriosi
corridoi fino all’alta specola della torre quadrata, e quivi,
affacciato al parapetto merlato, le indicò senza albagia, quasi senza
compiacenza, come i suoi padri avrebbero rassegnato al sovrano i loro
titoli di vassallo, le indicò le sue possessioni, che dalle pendici di
Peveragno alle rive della Sesia offrivano allo sguardo folti boschi,
numerose schiere di viti, gialli campi e bianche risaie: un piccolo
regno dove un piccolo popolo lavorava per lui.

Ma Luscià restò indifferente. L’idea della proprietà non l’era mai
venuta a quel modo. Quella verde distesa serviva forse ad altro che a
pascolar i cavalli? Della terra ella ne aveva veduto sfilare tanta e
tanta dinanzi ai suoi occhi sonnacchiosi stando accoccolata sul carro
di Nick, al fianco di _mami_ Nad, senza lasciare sulla strada percorsa
l’ombra di un desiderio o di un rammarico: patria, dominio, erano nomi
ignoti, vuoti di senso per lei.

La contea di Peveragno era appena un cantuccio del vasto mondo da lei
attraversato da oriente a ponente sotto la sferza del sole.

Ella diede a tutto ciò un’occhiata distratta, stringendo con mano
furtiva ed amorosa sul seno la medaglia, almanaccando per il proprio
gingillo nascondiglio capace di sottrarlo all’occhio avido di Nick e di
_mami_ Nad.

Il conte le fece poi visitare il castello, la condusse, sempre
tenendola per mano, per il vasto dedalo di sale, di androni, di
bugigattoli, di ripostigli, in cui la sua stirpe s’era svolta
orgogliosa, e poi a poco a poco inaridita.

Scesero dai solai al terzo piano, una volta dispensa e gineceo,
dove stavano le donne e si tenevano le provviste per la casa, dove i
grandi armadj della biancheria, in legno di quercia appena digrossato,
coprivano i muri dal pavimento di nude assi al soffitto di travicelli;
fra l’una all’altra stanza si aprivano dei piccoli ripostigli in cui si
custodivano le conserve di frutti, di farine, di olii, di commestibili
d’ogni maniera; piccoli tesori la cui chiave non abbandonava mai la
cintura della padrona. Entrarono nella stanza di lavoro, locale immenso
posto sul pianerottolo, nel mezzo dell’ala posteriore del castello,
fra la dispensa e le camere delle donne, rischiarato da quattro alti
finestroni grigliati, da cui la luce pioveva a fiotti e non apparivano
altre distrazioni che le nuvole vaganti pel cielo e la vetta nevosa
dell’Alpi lontane. Colà, dall’alto del seggiolone di legno, a dossale
e bracciuoli uniti a foggia di tribuna, scendeva un tempo sul garrulo
crocchio delle fantesche il vigile sguardo e la parola temuta della
castellana; ed ora, inutile scettro di un regno deserto, la venerabile
conocchia, sovrana dalle gretole dorate e dall’animella d’argento
stemmata, dominava sopra una fila di arcolai sgangherati, di fusi
tarlati, di zoppi scannetti, inerti ricordi di un’attività estinta, di
una vita soffocata sotto l’alta polvere e i fitti ragnateli.

Attraversarono poi gli appartamenti signorili, al secondo piano, lunga
fila di stanze fredde, deserte, quasi interamente sguarnite, dalle
quali la famiglia s’era a poco a poco ritirata nella camera della torre
quadrata, malinconico rifugio d’una grandezza decrepita; tabernacolo
dove l’antica potenza sonnechiava negl’inutili e travagliosi
rammarichi.

Sotto, invece della desolazione, una tristezza fastosa, una severa
ricchezza di arredi, la galleria dei ritratti, l’armeria, la gran
sala dei festini, l’antica sala di udienza, il tinello, le stanze del
gineceo, di conversazione, e nel mezzo gli appartamenti degli ospiti.
Camini alti dai ricchi stipiti di granito e di cipollino; i pavimenti
di legno intarsiato, i muri dipinti, coperti di arazzi o di tappezzerie
chinesi, soffitti a cassettoni, a medaglioni indorati, scolpiti,
istoriati, vaste specchiere, sovrapporte dipinte dal Cignaroli, dal
Moncalvo, dall’Aires; una strepitosa confusione di stili, in cui
prevaleva il barocco colle sue fantasticherie pesanti, colle sue
arditezze piene di sussiego. In una di quelle camere, dall’imperatore
Ottone, autore della casa, a Napoleone, che aveva deliberato invano
di distruggerla, col confiscarne i beni e regalarne il castello al
Comune, molti sovrani avevano alloggiato: c’era stato Galezzo tornando
colla sposa di Francia, e Luigi XII e lo Sforza e il Moro e Carlo VIII,
seduttore infelice, da cui una Peveragno, rigida bellezza, aveva, caso
raro, ricevuto omaggio senza dar compenso; poi una fila di sovrani
sabaudi da Emanuele Filiberto in poi, una lunga fila di leggendarie
figure, di follie, di superbie, di ambizioni, di alti concetti, di
cupidigie fastose, di sovrane liberalità: e di tutti costoro, di tutto
ciò rimaneva qualche cosa: uno stemma, una decorazione, un titolo, una
pergamena, un gingillo, una spada rugginosa, una sciarpa sfilacciata,
un elogio, una petulanza, una medaglia, un aneddoto, una parola,
memorie moribonde di morte grandezze.

Luscià, più intimidita che ammirata di tutte quelle magnificenze
patrizie, sbigottita da tutta quella tetraggine, da quel mondo
incomprensibile, dai volti arcigni che pendevano ai muri, dai
morioni che la guardavano per le vuote occhiaie, dallo scricchiolar
dei pavimenti, dagli echi profondi, voci eloquenti del vuoto e
dell’abbandono, si stringeva al fianco del conte; e neanco osava
guardarlo in viso, perchè alla luce giallastra degli androni, fra
le penombre degli anditi e delle scale, anche egli colla sua lunga
barba rossa, con quella sua cera malinconica e squallida, coll’azzurra
pupilla velata di pensieri, alto, stecchito, silenzioso, aveva quasi
l’aria di un risuscitato.

Ella non capiva bene il perchè della lunga rassegna; sentiva un vivo
desiderio di scappar fuori all’aria aperta, di correre al sole, di
ritornare in mezzo al frastuono, al garrito dell’accampamento, di
sentir l’allegro picchiare di martelli cadenzati di canzoni e di
bestemmie. Ma si rasserenò ad un tratto quando, tornati alla fine
nella camera della contessa, il conte levò da un armadio uno stipo, una
maraviglia di ebano intarsiato d’avorio e di madreperla, istoriato di
puttini e di rabeschi mirabili, l’aperse, e le disse:

— Sono i gioielli di mia madre, e saranno i vostri.

Luscià rise e saltellò con infantile tripudio innanzi a quel tesoro,
ammucchiato di generazione in generazione trasmesso dall’una all’altra
contessa di Peveragno, che narrava coi patrizii suggelli una lunga
storia di blasoni, di parentadi illustri, di alleanze con le più alte
famiglie d’Europa.

La zingarella non vedeva in tutto ciò che il lucciccar degli ori,
il balenar sanguigno dei rubini, il marezzar dell’opale, dell’agate,
delle perle, il glauco bagliore dei topazii e degli smeraldi. Una pazza
ebbrezza le faceva balenar gli occhi, rabbrividiva di delizie ignote;
l’istinto della vanità femminile si risvegliava possente nel suo
cuore ignorante; avrebbe voluto mettersele addosso tutte in una volta,
mostrarle a tutto il mondo e nasconderle perfino all’aria.

— Luscià, tu non mi hai ancora risposto.

— Tua _romni_, tua _romni_, bel _rai_! esclamò con impeto la zingara,
battendo palma contro palma.

Prima di congedarla il conte disse a Luscià:

— Va e conducimi qualcuno della tua gente, perchè io tratti con esso
della tua sorte.

E la giovinetta se n’andò questa volta lentamente, tutta pensosa della
grande novella ch’ella recava alla sua gente.

Aveva promesso di tornare prima di sera; ma non venne.

Il conte l’aspettò per tre giorni di seguito, poi disse alla figlia
del cuoco di prendere seco una torta e di andarne in traccia fin nelle
tende.

La ragazza tornò dopo mezz’ora sola, colle mani vuote. L’offerta aveva
incontrato il gradimento di tutti: il pasticcio era stato sequestrato e
divorato in sua presenza. Ma Luscià era scomparsa dall’accampamento.

Nessuno degli zingari pareva saperne nulla: alle sue domande si
stringevano nelle spalle, come si trattasse di cosa che non li
riguardasse: un ragazzetto che la seguì un pezzo fuori delle tende,
avevale detto che la giovane figlia di _mami_ Nad era stata condotta al
_baro pani_, al mare, ma non sapeva altro.


IV.

Il conte in tutte le cose preferiva la strada diritta. Mandò a chiamar
Nick.

E Nick figlio di Peter venne l’indomani, scortato da due _romes_ della
sua squadra.

Quando si presentò alla porta del castello, Antonio, che a malincuore
obbediva all’ordine ricevuto dal conte d’introdurlo, si sforzò invano
di trattenere i due compagni.

Nick vi si oppose ostinatamente; giurò per tutti i suoi _dewol_ che
senza loro non avrebbe fatto un passo solo oltre la soglia.

Egli era un perfetto campione della sua razza; possedeva al più alto
grado la servile scaltrezza e la spavalderia petulante, — le due
caratteristiche accoppiate di quella plebaglia, che da tanti secoli
trascina per il fango di tutto il mondo la sua primitiva abbiezione del
Soudra indostanico.

Nick spiegava a perfezione l’una e l’altra di queste sue qualità,
secondo i casi.

Girando per le case, per guadagnarsi il pane, quando non poteva
azzaffarlo senza fatica, si mostrava umile, dimesso, insistente. Non
c’era paiolo che, passando per le sue mani, non comparisse bucherato
in più luoghi, e che egli, colle sue istanze, non riuscisse a farsi
rilasciare per la rattoppatura.

Ma, all’occasione, nessuno sapeva far valere più alto di lui, al
cospetto di un estraneo alle sue razze, a un _gadchi_ qualunque la sua
aristocratica qualità di _Romnitschel_, figlio della donna.

Gesù era «figlio dell’uomo;» — lo zingaro è «figlio della donna» e il
suo _me hom Romnitschel_, vale, per lui, il _civis romanus sum_.

È il suo titolo nobiliare, il suo segno di riconoscimento, la sua
protesta.

Lo zingaro, nella sua dispersione secolare, è la copia vile
dell’Israelita; ma la stirpe di Abramo ha le tradizioni di Canaan,
il suo Dio, il suo libro santo; lo zingaro non ha che quella formula
sacramentale talismanica, in cui compendia il suo diritto di umanità;
egli è _figlio della donna_; tutti gli altri non sono che figli di
_mannischi_, di _ghiromni_, di femmine, — _gadchi_.

L’Israelita ha credenze comuni con le razze in mezzo alle quali va
migrando; tutti riconoscono in lui il degenere rampollo di una stirpe
illustre, santa.

Lo zingaro, il discendente del vecchio Soudra, dell’ilota indiano,
senza patria, senza Dio, polvere umana calpestata da tutto il genere
umano, è il nemico implacabile di tutte le razze; egli prende da loro
la terra, il pane, le credenze, i costumi, e non conserva di proprio,
che l’imprecazione con cui maledirle; egli è il parassita eterno,
cosmopolita; egli strappa il suo alimento a tutti i popoli della terra,
quando non può rubarlo lo froda, lo paga colle sue menzogne, colle sue
infezioni, col suo putridume: combatte l’umanità, alla guisa del verme
e dell’ácaro, rodendone le fibre e succhiandone il sangue.

Antonio dovette, suo malgrado, cedere — egli si mosse per avvertire il
padrone — e gli altri lo seguirono.

Tutti insieme penetrarono nel castello, brontolando, bisticciandosi;
gli zingari alzando tanto più la voce, quanto più Antonio abbassava la
propria.

Il diverbio si riaccese alla porta dello scrittoio, dove essi vollero
cacciarsi senza aspettare d’essere annunziati.

Il conte intervenne.

Nick capì a bella prima il suo vantaggio.

— Voi mi avete chiamato, diss’egli al conte, io sono venuto; sono
venuto coi miei _rome_; essi sono la mia scorta e mi obbediscono;
perchè voi non vi fate ascoltare dai vostri _veleter_? perchè si vieta
ad Andrea ed Angheluzzà di accompagnare me, loro capo?

Il conte ordinò ad Antonio di lasciarli entrare e di mandar loro del
vino.

E poichè Antonio, inquieto, occupato a guardare i due aiutanti, che
giravano intorno alla stanza con certe arie sospette, indugiava ad
uscire, Nick gli disse burbanzosamente:

— _Veleto_, il tuo _derai_ ti ha comandato di portar da bere ai _romes_.

Poi sedette sulla sedia che il conte gli indicò, davanti alla
scrivania, appoggiò le due palme al grosso pomo d’argento della propria
mazza di tamburo maggiore e prese un’attitudine grave, maestosa, pari
alla sua dignità e alla importanza del colloquio che presentiva.

Nick era un bel giovane, svelto, di buona statura, ben formato, il
petto largo, le spalle aperte, il collo vigoroso ed elegante; il volume
de’ suoi capelli neri, unti, lucenti, usciva di sotto allo stretto
_muschi_ gallonato d’argento, ricadeva in ciocche ricciute sul bavero
ricamato dell’abito scuro, giù fino ai cordoni che gli attraversavano
il petto. Il suo viso era bruno-pallido, incorniciato da una barba
nascente su di un profilo purissimo, colla fronte liscia, e aveva
nell’occhio nero, profondo, con dei subitanei baleni di vivacità
arguta, l’espressione malinconica, quasi cupa, della sua razza.

Egli vestiva l’abito prediletto di un capo magiaro; i suoi compagni
erano più dimessi; uno di essi teneva un cappellino tondo da contadino,
e l’altro recava alla vita un vecchio panciotto coi bottoni d’argento,
da cui uscivano le braccia, che la camicia a brandelli copriva solo
imperfettamente.

Il conte domandò a Nick se sapeva quel che voleva dirgli, e se Luscià
non l’aveva informato di nulla.

Nick rispose in italiano;

— Chi vuol parlare coi _romes_ non manda le loro donne. Io non so nulla.

Il conte gli manifestò la sua intenzione di sposare Luscià.

Lo zingaro non mostrò meraviglia, non si mosse, tacque fissandolo in
viso.

— Voi sapete, io sono ricco, soggiunse il conte, non ho fratelli, non
ho parenti prossimi; tutto ciò ch’io posseggo sarà di vostra cugina, i
miei beni, la mia casa, il mio nome, tutto...

In quella entrò il servo col vino: colmò il bicchiere a Nick, ad
Angheluzzà, ad Andrea, e, ad un cenno del padrone, stava per andarsene;
ma prima che uscisse, uno degli zingari gli prese di mano la bottiglia
e il sottocoppa, facendogli un gesto comico di andarsene.

Il conte riprese:

— Io voglio fare a Luscià una sorte. Spero le permetterete di
accettarla.

Nick aveva preso in mano un grazioso temperino di madreperla rilegato
in oro e lo esaminava con grande attenzione.

— Sentite, diss’egli, come rispondesse al discorso del conte, se
voleste darmi questo, io vi lascerei, in cambio, una pipa di vero
schemnitz.

E la mostrò.

Il conte fe’ un gesto distratto di consenso; lo zingaro depose la
pipa sull’orlo della tavola e ficcò, in pari tempo, il temperino nello
sparato dell’abito.

Poi, risolto questo piccolo incidente, si rizzò di nuovo sulla persona
con nobile sussiego.

— Voi volete sposare la figlia di Wanka, disse egli finalmente,
dopo che il conte gli ebbe ripetuta la dimanda; ma la _tschek_ è già
fidanzata.

— Fidanzata con voi?

— Con Suceawa, il figlio di Dan il _balubassa_; egli è malato; se
fra un anno non guarisce, Luscià sposerà me, che sono il suo secondo
germano.

— E voi ci tenete a questo matrimonio?

— È la nostra usanza; le figlie sposano il parente più prossimo.

— E non v’importerebbe rinunziarvi?

Nick alzò le spalle.

— Dunque acconsentireste?

— Ciò dipende da Dan; egli è il nostro capo, il _balubassa_.

— E dov’è Dan?

Nick rispose come aveva fatto Luscià:

— Al mare.

— Verrà qui?

— Non so...

— Vi troverete insieme presto?

— Non so... egli comanda, io obbedisco.

— Non si potrebbe avvertirlo? disse il conte dopo una pausa.

Nick tese il bicchiere vuoto a uno dei compagni, che si affrettò a
colmarglielo; poi egli lo sgocciolò lentamente sino all’ultima stilla.

— Volete avvertirlo? ripetè il conte.

Lo zingaro domandò:

— Voi, _rai_, non fumate?

E riprese la pipa sulla tavola, la caricò, l’accese, rasserenandosi
in viso, come fosse liberato da una grave cura; i suoi occhi maliziosi
lucevano di soddisfazione.

— Si può avvertire; ma bisogna mandare un uomo; io ho pochi cavalli e
la strada è lunga.

— Non importa, mandatelo, penso io a spesarlo.

Il conte trasse alcuni marenghi e glieli porse.

— Siamo intesi?

— Sì, _rai_.

— E Luscià dov’è?... Domandò il conte dopo un po’ d’esitanza.

— Con Dan, rispose Nick, riponendo tranquillamente la sua pipa in tasca.

Il colloquio era finito. Il conte s’alzò, ed anche lo zingaro; però,
prima di uscire, egli tornò indietro e disse:

— I miei _romes_ accetterebbero volontieri un paio dei vostri calzoni.

Angheluzzà fe’ sparire rapidamente in tasca un oggetto, che aveva
trovato di suo gusto, sovra una scansia, e soggiunse facendosi innanzi:

— Accetterei volontieri...

— Volontieri, ripetè Andrea, — ed anche un cappello.

Il conte chiamò il servo; gli ingiunse di condurli alla sua guardaroba
e di dar loro quel che volevano.

Avuti i calzoni e il cappello, uscirono coll’incesso solenne di
ambasciatori che hanno stabilito i preliminari di un trattato.


V.

Ma le cose non seguirono colla sollecitudine che il conte avrebbe
desiderato. Nick lo teneva sulla corda; s’erano incontrate delle
difficoltà; — la malattia di Suceawa, le usanze della loro gente, gli
scrupoli di Dan, la lontananza; egli però inviava al _balubassa_ dei
messaggi continui, dei quali il conte faceva le spese.

Intanto l’accampamento invadeva il castello. Nick, sotto pretesto che
sul poggetto delle quercie era esposto ai venti di tramontana, aveva
trasportate le tende sullo spianato a fianco del portone.

Egli usava ed abusava della sua libertà d’ingresso; e il suo abuso
serviva di titoli ai compagni. Egli veniva a tutte l’ore nello studio
del conte, e raramente ne usciva a mani vote. In questo mentre la sua
gente si ficcava nei cortili, nelle stalle; le donne irrompevano nelle
cucine, gli uomini sui fienili, e i ragazzi nell’orto, nel giardino,
dappertutto, mendicando, rubacchiando; umili, insolenti, beffardi;
scacciati, ritornavano poco dopo alla preda, come i tafani.

Il maggiordomo era disperato, credeva d’impazzire. Qualche volta gli
«sfuggiva» una qualche bastonata, o qualche pedata; ma il sollievo
era poco in confronto del tormento. E gli bisognava usar prudenza,
rispettare la volontà del padrone.

Il quale, più che mai infervorato nel suo progetto romanzesco, non
vedeva nulla, non voleva sentir nulla, passava la giornata chiuso o
galoppava per la campagna, ricamandolo coll’immaginazione di nuove
delizie e di nuove finezze.

In una di queste sue corse essendosi dilungato di circa cinque o sei
miglia da Peveragno, dalla parte di Santhià, incontrò una vecchia
zingara che raccoglieva erbe sul margine d’un prato.

La donna parve riconoscerlo e lo salutò.

Il conte si fermò a guardarla — ed allora essa lo salutò di nuovo, gli
venne incontro, e, guardandosi intorno per precauzione, gli disse:

— Se il _derai_ regalasse la povera Nad, essa direbbe qualcosa.

Egli le buttò una moneta, e stava per allontanarsi, ma la vecchia
riprese:

— Nick ingannatore, ingannatore.

— Perchè? domandò il conte.

— Egli non dir nulla, non far nulla, promettere, non mantenere.

E così, con questo linguaggio scucito, gli disse ch’era Nad la nonna
di Luscià, gli contò come Nick avesse allontanata lei con la nipotina
dall’accampamento di Peveragno per profittare più a lungo della sua
bontà.

La vecchia abbassò la voce.

— Se voi volete vedere Luscià...

— È qui? dove?

La vecchia gli indicò il profilo di alcune tende che apparivano fra i
salci.

— Volete?

Ella si allontanò frettolosamente, e il conte, smontato da cavallo,
sedette contro la ripa della strada, le briglie in mano, ad aspettarla.

Poco dopo Luscià, sbucando da un vicino campo di granoturco, gli
buttava le braccia al collo, sclamando:

— _Bel rai, buon rai, sor lo rai_, sei venuto vedere Luscià, Luscià
t’aspettava, Luscià innamorata dei tuoi begl’occhi, che hai recato a
Luscià, bel _rai_, buon _rai_?

Così tutto d’un fiato. Poi tacque, abbandonandosigli voluttuosamente
sul petto e sulle ginocchia.

Aveva il viso acceso, gli occhi lucenti, i capelli vagamente scomposti
e cosparsi di fioralisi; il suo corsetto celava a stento il seno
precocemente turgido: era affascinante.

Il sole era alto, abbagliante, il cielo striato di sottili strisce
bianche, l’aria grave, profumata di vapori ardenti; nei campi uno
stormire leggero, un brivido soffocato; una cicala strideva ad
intervalli e cresceva il silenzio.

Il conte, impacciato, si schermiva debolmente da quell’improvvisa festa
della fanciulla.

E Luscià smetteva le sue tenerezze, si quetava ad un tratto, si rizzava
in piedi, non intimidita, ma docile, indifferente.

Egli chiese di Nad.

La vecchia non era lontana; accorse prima che Luscià la chiamasse.

Il conte, avendole promesso ricompensa se riusciva ad avvertir il
_balubassa_, ella lo condusse da Cihari, il capo della squadra colà
accampata; il quale, lietissimo di supplantare Nick nelle trattative e
nella senseria, si profuse in proteste di devozione, dichiarò che Dan
non poteva tardare a passare per la Val Sesia, che sarebbe andato ad
incontrarlo, e glielo avrebbe condotto a Peveragno. Così restarono.


VI.

Cihari fu di parola: prima che la settimana finisse venne dal conte e
gli indicò una lunga carovana che saliva prestamente la china. Era il
_balubassa_ che arrivava.

Nick coi suoi uomini scendeva in gran fretta ad incontrarlo.

I nuovi venuti, giunti in cima alla collina, si fermarono aspettando il
permesso del conte.

Essendo Cihari ridisceso a recarglielo, salirono dalla strada nel Ronco
di San Nazario, terreno dissodato di fresco, ricchissimo di erba, che
il proprietario aveva loro per speciale deferenza concesso.

Trassero i carri in circolo, staccarono i cavalli; tirarono le tende;
e in meno di mezz’ora il villaggio primitivo sorse come per incanto;
non vi mancava nulla: nè il gridìo dei ragazzi che schiamazzavano nei
dintorni, nè l’affaccendarsi delle donne, nè le spire turchine di fumo
dei focolari, nè la tranquilla beatitudine degli uomini che riposavano
sul limitare.

Il conte Emanuele pensava con viva emozione ai suoi antichi padri, che
dopo un lungo e travaglioso ramingare, erano venuti forse in quella
stessa guisa, così poveri e cenciosi, a posarsi sul terreno concesso
poi alla loro progenie.

Poco prima del tramonto il conte venne in persona a trovar Dan al Ronco
di San Nazario.

Cihari l’introdusse.

L’accampamento era il doppio più grande di quello di Nick: lo formavano
nove tende, quattro per banda ed una in fondo, rimpetto all’ingresso,
raccolte in un cerchio elittico, aperte dalla parte interna, occupate
quasi interamente dai carri, che servivano di letto pei bambini, di
canterano e di guardaroba, pieni zeppi di ciarpe, di barattoli, di
cose senza nome e senza colore, alla rifusa, a mucchi informi, donde
spuntavano braccia nude e gambe calzate di lunghi stivali. Le donne,
sedute, agucchiavano silenziose, e un brulichio di bambini seminudi
ingombravano lo spazio nel mezzo.

Il _balubassa_, geloso della propria dignità, non si mosse punto
all’arrivo del conte; l’aspettò seduto colle gambe incrociate innanzi
alla sua tenda in fondo, la più alta, la più grande di tutte, — sul
confine del doppio suo regno di padre e di capo.

Aveva l’aspetto d’un uomo molto innanzi negli anni, ma non decrepito:
il suo volto pingue, un po’ floscio, rivelava una grande robustezza
e serbava le traccie di una primitiva arditezza; due lunghi baffi
bianchi gli scendevano giù sul petto. L’abito degli slavi danubiani
mezzo greco, mezzo ungherese, il portamento maestoso, gli davano
un’aria di re orientale. Fumava in una lunga pipa. Sdraiato alla sua
destra un giovinetto macilento, smunto, guardava il conte con occhio
cupo, malinconico; era il povero Suceawa, l’ultimo dei figli di Dan,
moribondo superstite di una numerosa schiera di fratelli.

Dan parlò a Cihari sommessamente; — egli comprendeva perfettamente la
lingua del paese, ma, per decoro, si serviva d’interprete.

Cihari disse al conte porgendogli un piccolo sgabello:

— Dan, figlio di Michel, nostro capo, fa augurio, o _derai_, che
i vostri cavalli abbiano lunga vita, e vi prega di sedere e dirgli
l’animo vostro.

Il conte rispose:

— Voi Cihari sapete ciò ch’io voglio; ditelo a Dan e riferitemi le sue
intenzioni.

Dan gli fe’ dire da Cihari che la cosa non era regolare: ma che
avrebbe acconsentito a patto che egli facesse alla tribù i doni che si
convenivano alla stirpe della fanciulla.

Suceawa si contorse gemendo, e saettò al conte un’occhiata di odio
ineffabile.

Cihari enumerò poi le pretese del _balubassa_.

Intanto il vecchio lisciava i suoi lunghi baffi bianchi e scrutava,
coll’avidità di un mercante, il volto del conte.

Questi accettò le condizioni senza discuterle, avrebbe pagato in danaro
la dote di Luscià, regalato un cavallo al _balubassa_ e un abito nuovo
a tutti i suoi capi squadra.

Dan fe’ recare una tazza colma di acqua, fe’ bere il conte, v’intinse
egli le labbra, poi la infranse. — Così la strana alleanza fu
suggellata; — e servirono d’augurio i sordi gemiti di Suceawa.


VII.

Il conte Emanuele non fece mistero del suo matrimonio: si sapeva
ch’egli era la caparbietà in persona; nessuno più di lui meritava
quella taccia di matto che il popolo ha dato alla vecchia nobiltà
piemontese.

Il solo marchese di Nomis, osò dargli qualche indiretto avvertimento.

Quando il conte, ch’era un po’ suo parente e faceva gran caso della
sua amicizia, venne ad annunziargli il proprio divisamento, l’illustre
naturalista non si mostrò nè stupito, nè spiacente. Ma dopo desinare,
passeggiando con lui nel giardino prese due margherite, una doppia,
l’altra selvatica; e mostrandole all’amico:

— Sono certamente della stessa famiglia, gli disse, la varietà non
è che effetto della diversa coltura e del diverso alimento: ma il
piantare le due pianticelle sulla stessa zolla non basterebbe ancora a
far sparire una differenza di forme che rappresenta il lento lavorìo di
chissà quanti secoli.

Il conte non disse nulla, si rannuvolò e poco dopo prese commiato.


VIII.

Le nozze si fecero il giorno di San Giovanni.

Un’ora prima della cerimonia il conte Emanuele venne a trovar Luscià
nella casa lasciata dalla contessa alla nutrice Brigida, dove Luscià
dimorava da una settimana attorniata da un piccolo esercito di sarte,
di crestaie e di cucitrici.

— Luscià — le disse commosso — noi vivremo d’ora innanzi sempre
insieme: tu sarai la mia signora; e così tu possa essere contenta nella
mia vecchia casa com’io desidero. Io farò sempre il tuo volere, e tu
che farai per me?

— Non so, rispose la giovinetta ingenuamente.

Allora lo sposo la prese per mano, e, con una gravità piena di
tenerezza, le parlò lungamente degli obblighi e dei diritti della
nuova condizione, di questi più che di quelli, delle sue premure più
che delle sue esigenze; — accennò ai riguardi dovuti al suo grado, non
chiese nulla per sè stesso. Egli non cercava il piacere, non chiedeva
la felicità, voleva darla.

La giovinetta non disse nulla; seria, immobile, gli fissava in volto
uno sguardo vago, meditabondo.

Comprese ella la sua devozione?

Al conte parve di sì.

Dopo la benedizione nuziale nella cappella del castello, il conte
condusse la sposa nel suo appartamento.

Quivi Luscià spiegò tutto il suo corredo, le sue vesti, i suoi
gioielli, e fatte entrare le donne della sua gente, quante ce ne
capivano, indossò l’una dopo l’altra innanzi a loro tutte quelle
meraviglie; segno visibile e più invidiato della sua fortuna.

Le zingare la contemplavano a mani giunte, scoppiavano in grida
d’ammirazione, di religioso entusiasmo.

La birichina, la compagna delle loro corse vagabonde, che aveva diviso
i loro cenci, con la quale si erano cento volte accapigliate — si
trasfigurava per quello sfolgorìo di colori e di splendori in qualcosa
di rispettabile, di adorabile.

Al pranzo non assistettero che il sindaco e il dottore; i due testimoni
del matrimonio. Il conte aveva pregato Dan di venire, ma egli preferì
rimanersene re nella propria tenda: solo richiese un’enorme quantità di
provvigioni per banchettar la sua gente.

Le nozze, malgrado l’assenza della nobiltà, cui la casa di Peveragno
apparteneva, furono festeggiate in modo straordinario, colla
munificenza rozza e strepitosa delle leggende orientali e delle saghe
scandinave, compresi i banchetti colossali senza fine e le baruffe, gli
alterchi di razza fra i paesani e gli ospiti.

Tutte le sparse squadre della tribù erano venute a raccogliersi intorno
al loro vecchio capo. V’erano gli uomini di Cihari, quelli di Andrea,
quelli di Gurka, di Barbà. Dal castello alle case del paese, fra i
castagneti, ai due lati della strada, era tutto un accampamento; un
vero e grande villaggio di tende, un formicolìo lurido e pittoresco,
una gozzoviglia vivace, clamorosa, sterminata.

Dan convitò tutti i capi famiglia a San Nazario: i giovani, le donne,
i ragazzi mangiarono, sdraiati sull’erba sui margini della strada,
sparpagliati per la china a gruppi, a capannelli intorno alle marmitte,
alle cucine, ai fornelli improvvisati.

Dopo il vespro gli sposi discesero al Ronco di San Nazario.

Luscià col suo abito di raso bianco a pagliuzze d’oro era sfolgorante,
tutti i _romes_ si alzarono per renderle omaggio. Il solo Nick rimase
fermo sull’erba, col bicchiere fra le labbra: i suoi denti stritolarono
il cristallo. Nessuno guardò il conte; appena Dan si degnò fargli dire
da Cihari che il vino datogli era cattivo.

I capi si accosciarono di nuovo sull’erba e Luscià presentò loro la
coppa del buon pronostico; ciascuno beveva e le faceva ad alta voce un
augurio.

Quando venne la sua volta, Nick aggiunse al saluto d’obbligo alcune
parole smozzicate fra i denti. La giovane balenò; uno spruzzo di vino
cadde sulla sua veste nuziale e le fe’ una piccola macchia sanguigna.

Il giro, cominciato da Dan, si chiuse con lui: egli bevette il primo
e tornò a bere per l’ultimo: egli aggiunse stavolta al complimento una
piccola monetuzza d’argento che gettò nella coppa.

Ma Luscià notò che al suo fianco era vuoto il posto di Suceawa, il
quale, come figlio del _balubassa_, aveva diritto di assidersi alla
mensa d’onore.

Le libazioni più frequenti e numerose scomposero la gravità
dell’assemblea. Luscià si scostò dal circolo: aveva visto Suceawa
disteso al sole in mezzo al prato. Gli si avvicinò. L’infelice si
dibatteva sotto il brivido della febbre.

Lo chiamò per nome carezzevolmente; e gli offerse la coppa che aveva
riempita per lui.

Egli si voltò, la guardò stupita un momento: poi prese la coppa, vi
accostò le labbra, — ma tosto la gettò come gli scottasse le labbra, e
si ravvoltolò con un rantolo angoscioso sul terreno.

Luscià si chinò; gli prese la fronte tra le mani, e cominciò a
parlargli: egli singhiozzava. Ma ad un tratto si adombrò, si contorse
di nuovo, la respinse.

Ella tornò al Ronco.

Il convito era finito; l’orgia cominciava.

Nuovo vino era venuto dal castello, e questa volta Dan s’era degnato
d’invitare il conte a sedere al suo fianco.

Il conte lo interrogava sugli antichi ricordi, sulle credenze, sulle
sciagure della sua razza, e il vecchio giudice gli rispondeva:

— Le nostre donne pregano tutti i _dewol_ della terra, e ciò non mi ha
mai fruttato un solo _para_: l’importante è aver molti cavalli e che
siano sani; ma tutti oramai chiudono i prati alle puledre dei _romes_,
e l’erba dei fossi è insalubre.

Le più giovani della tribù danzavano il _tanàna_. Accosciate in
semicerchio dicontro al capo, dondolavano a cadenza la persona
tutte insieme, come steli di fiori ripiegati dalla brezza; il tuono
lamentevole, dolce del moscalu, simile a quello di un’antica zampogna,
accompagnava quei moti di una mistica malinconia.

Poi una si alzava, veniva innanzi e cominciava a girare con atto
cauto e voluttuoso sulla punta de’ piedi; e la voce flautina dei naiu
subentrava a quella della zampogna.

Poi anche il naiu taceva; dalle nove corde di una cobza scattavano
strida acute, fieri accordi passionati, e un’altra danzatrice si
lanciava nel mezzo e girellava vorticosamente, battendo le nacchere con
frenesia d’ossessa, finchè cadeva sfinita.

Finalmente tutte l’altre s’alzavano e intrecciavano le mani, girando
in cerchio da destra a manca e da manca a destra, come il coro greco.
Poi la danza, composta ancora, diventava voluttuosa, poi concitata,
furiosa, col frastuono e i contorcimenti di un trescone sfrenato.

La luna, vagando sopra le risaie della sottoposta pianura, dava alla
scena il fantastico sfondo di qualche remota palude del Gange.


IX.

Il conte passeggiava solo nel parco.

La notte era oscura, i fuochi innumerevoli gittavano bagliori strani
fra gli alberi; le danze e i canti continuavano, e la baldoria
cresceva.

Il conte contemplava con una triste dolcezza il singolare spettacolo, e
s’abbandonava alle utopie della sua magnanima generazione. Il suo cuore
si faceva vasto per comprendervi tutto il genere umano, per stringerlo
in una sola tenerezza.

Intanto avveniva nel castello una scena singolare. Luscià s’era
ritirata con Nad nella camera nuziale; dritta davanti ai grandi
specchi delle pareti si guardava con vivo piacere, mentre la vecchia la
spogliava. I vezzi della bella persona spiccavano a poco a poco da quel
gran viluppo di mussole, di pizzi, di trine candidissime, che le si
ammucchiavano al suolo.

Ad un tratto, dietro a lei, spuntò un ceffo beffardo con due occhi
scintillanti. Era Nick che usciva di dietro le cortine della finestra
e si accostava alle sue spalle. Mormorò alcune parole in zingaresco, e
rise ferocemente.

La giovine non si mosse, chinò il capo sul seno seminudo in atto di
sommessione.

Nick ordinò alla vecchia di mettersi alla porta; ella obbedì senza
fiatare, si sedette sulla soglia e accoccolò la testa sulle ginocchia.
Ella udì di là le risa sarcastiche, le rampogne di Nick, i sospiri,
i gemiti, i lamenti di Luscià. Ma il pensiero d’intromettersi non le
venne nemmanco. E quando egli fu uscito ella riordinò, premurosa, la
stanza per farne sparire le traccie...

Il conte passeggiava ancora in giardino e sognava ad occhi aperti
e fantasticava della riconciliazione delle umane stirpi, della
confederazione universale, tutte cose che erano di moda nella filosofia
sociale di allora.

Egli notò quella sera che la sposa non aveva il braccialetto di
brillanti, che egli stesso le aveva allacciato il mattino, e gliene
chiese notizie.

Ella guardò tristamente il suo polso sinistro illividito dalla brutale
stretta di Nick, ma disse che l’aveva perduto.


X.

Dopo una settimana la baldoria non era ancora finita; si ravvivava
immancabilmente ogni sera e durava buona parte della notte; danze
figurate, giochi, rappresentazioni di burattini, si succedevano con una
varietà, che il genio fantastico e carnevalesco degli zingari rendeva
inesauribile.

In una cosa erano pur troppo monotoni; nel mettere a contributo la
liberalità del conte; in castello, dopo le nozze di Luscià, la loro
petulanza non aveva più limiti, facevano come in casa loro; Antonio
era caduto ammalato, s’era chiuso nella sua stanza e aveva detto ai
suoi dipendenti di non venirlo a frastornare, finchè un solo zingaro
rimaneva in Peveragno. — Dopo, quando, se Dio vorrà, saranno tutti
partiti, se sarò vivo ancora, venitemelo a dire.

Le ruberie si stendevano anche alle case, agli orti del villaggio
e specialmente alle cascine; colà gli zingari trovavano minore
arrendevolezza; le busse cominciavano a spesseggiare, e chi le prendeva
erano, invariabilmente, _i figli delle donne_; perchè, come osservò il
sindaco, nell’arte del picchiare _i figli dell’uomo_ valgono meglio.

I derubati assaltavano a caso il primo zingaro che capitava loro
sottomano «la punizione non cascava ad ogni modo in terra, ma su
autentiche spalle di ladro» — venivano nelle tende e vi mettevano tutto
a soqquadro.

Ma ciò non serviva a correggerli; i fittaioli e i massai scelsero fra
loro una commissione di notabili e la mandarono dal conte.

Essi, con licenza parlando, con tutto il rispetto dovuto ai parenti
della signora Contessa, fecero le loro brave lagnanze e lo pregarono
di dare lo sfratto a quella marmaglia, prima che accadesse qualche
disgrazia.

— Non si può pretendere, disse arditamente Gervaso, che un pover’uomo,
il quale ha sgobbato tutta l’annata per pagare puntualmente il fitto,
le imposte, stia colle mani in tasca, a veder dissipare i suoi sudori
sacrosanti.

Antonio, il fabbriciere dell’Annunziata, aggiunse che, oltre a tutto il
resto, quella genìa dava, al paese, un tristissimo esempio.

— Le loro donne sono tutte di quelle, smaliziano i ragazzi e li
spingono a rubare; poco più che si vada innanzi, anche i nostri
servitori diventano zingari.

Il conte promise di contentarli; anch’egli cominciava ad essere
impensierito.

Luscià, cangiando stato, non aveva punto cangiato modi e gusti;
ella era continuamente fra le loro tende a far pompa degli abiti
nuovi; tornando a casa, ella si tirava dietro, fin nella sua camera,
una infezione di donne e di ragazzi, e giocava, con indiscrezione
infantile, con loro tutto il giorno.

Con quella compagnia, ogni disegno di educazione diveniva impossibile.

Il conte aveva tentato di parlarle della diversità della sua
condizione, ella non capiva.

Una volta ch’egli insistette, rispose francamente:

— Sono i miei compagni; abbiamo sempre vissuto insieme, mi hanno dato
il loro pane, mi hanno tenuta sotto la loro tenda; perchè non dovrei
più vederli? non mi hanno fatto male.

Il conte s’arrabbiava, non si raccapezzava, non era per questo
verso ch’egli la voleva prendere, non era la superbia ch’egli voleva
insegnarle, no davvero, le sue idee d’umanitario ci si opponevano, non
si trattava che del riserbo; ma come farle comprendere la differenza?

Sconfitto alla prima, egli finiva sempre col darle ragione — col
concederle tutti i capricci, ed arrivava sino a prevenirli.

La cosa era però giunta ad un punto che egli non fu malcontento di
essere costretto a finirla.

Prese una risoluzione, chiamò Dan, gli accordò tutto ciò che volle, e
lo indusse a partire l’indomani colla sua gente.

A Luscià non disse nulla; per evitarle le scene penose dell’addio, e
per sottrarla alle plebee indiscrezioni degli zingari, la trattenne,
quella sera, di discendere alle tende.

La portò con sè, in carrozza, a fare un lungo giro; per via cercò di
prepararla, indirettamente, al distacco, che le disse esser vicino, ma
inevitabile.

Ella trasalì, non fece una sola lagnanza, non mostrò alcun
rincrescimento.

Tornarono a notte inoltrata. Passando presso al Ronco di San Nazario,
volse uno sguardo malinconico alla tenda del _balubassa_. Una lagrima
scese a rigarle la guancia. Si udivano dei lamenti soffocati.

— È Suceawa, ella mormorò.

Il conte si pentì di non averla avvertita; ma oramai era troppo tardi.
L’accampamento era immerso nel sonno.

La ricondusse nel suo appartamento. Licenziò la cameriera, la spogliò
egli stesso, come una bambina.

Poi sedette al capezzale.

— Sei afflitta? le domandò.

Ella fe’ cenno di no.

— Sei imbronciata con me?

Lo stesso gesto negativo.

— Lascia ch’io ti vegga negli occhi.

Spalancò le palpebre e lo guardò fiso nel volto.

— Ridi un poco, supplicò il conte.

Ella fe’ un sorriso a fior di labbro, fugace come un baleno.

— E non mi dici nulla? non mi dai la buona notte?

— Buona notte.

Il conte si alzò.

— Dormi, bambina, tu sei stanca.

Luscià chiuse gli occhi.

Egli stette qualche minuto a contemplarla, poi si chinò, la baciò sulla
fronte; non si mosse, pareva addormentata profondamente.

Egli uscì.

Aveva appena socchiuso l’uscio, ch’ella gettò le coltri, balzò a sedere
sul letto e stette ad origliare. Aveva inteso un lungo fischio.

Il conte discese per dare qualche ordine al cocchiere.

Attraversando il cortile, vide un’ombra sparire dietro il pozzo.

Era Nick; il conte non gli aveva parlato da un mese.

— Che volete? gli chiese severamente.

— Salutare Luscià, riprese sfrontato lo zingaro.

— È tardi, ella dorme.

E senz’altro, avviatosi alla porta, aperse egli stesso lo sportello e
gli fe’ segno d’uscire.

Nick obbedì, ma, varcata ch’ebbe la soglia, si volse.

— Voi, _rai_, non avete fatto a Nick i doni che gli avevate promessi,
non gli avete dato la mancia della partenza; avete torto, Nick è vostro
amico.

Mosse per andare, poi si trattenne di nuovo.

— Non volete che saluti Luscià, soggiunse, non importa; era per darle
dei buoni consigli. Luscià ha vissuto nella mia tenda con _mami_ Nad;
ella mi obbedisce, mi teme, e s’io le dico: rispetta il _rai_, ella
lo rispetterà e lo servirà in ginocchio. Non volete, non importa, non
importa...

E s’allontanò zufolando.


XI.

La notte era alta ancora, quando una bianca figura, rasentando il muro
del giardino, salì sulla spianata e scomparve nella tenda di Nick; una
vecchia cavalla, a cui passando sfiorò la groppa, nitrì festosamente,
e, dai vicini accampamenti, tutte le altre bestie le risposero.

La campagna dormiva e russava nel canto vasto dei grilli e delle
cavallette; appena impallidivano alcune stelle in scialbo orliccio, che
profilava i ciglioni oltre la Sesia.

L’astro di Venere, al confine dell’orizzonte, ammiccava maliziosamente
all’apparente quiete delle tende e a cento mani solerti, affaccendate
all’ultime prede sulla collina di Peveragno.

Poco dopo il pianeta si tuffava nell’ombra dei boschi, e, come ad un
segnale, gli accampamenti si ridestavano. Le tende si ripiegavano in
fretta nei carri stipati di cenci, di sciarpe, di donne, di bambini,
si disponevano in fila, scendevano sulla strada; la marcia si ordinava
rapida, silenziosa.

Quando, verso l’alba, il conte si affacciò alla finestra della torre,
la carovana era lontana parecchie miglia, si svolgeva come un lungo
serpente nella pianura, si tuffava nei vapori densi delle risaie,
spariva. Il torrente del destino aveva ripreso il suo limo.

Unica traccia della loro dimora, le cime scalvate dei colli, simili a
lembi di deserto e di barbarie caduti in mezzo ai colti. Come dopo un
temporale, nei vigneti e nei campi, i contadini verificavano i danni
lasciati da quel flagello umano, e sorgeva un coro d’imprecazioni,
consueta espressione dell’odio che la razza, maledetta per un arcano
peccato originale, suscita sul suo cammino.

Il conte Emanuele, triste, oppresso dal pensiero di quella infinita
sciagura, discese nell’appartamento di Luscià, povera rondinella che lo
scirocco del destino aveva buttato sotto il suo antico tetto feudale...

Trovò la camera vuota: Luscià era scomparsa, portando seco le sue gioie
e il suo abito da sposa.

Egli non smaniò, non fe’ ricerche; chiuse nell’anima questo disinganno
cogli altri, e si rassegnò a portarlo.


Ma la sera, verso l’imbrunire, sotto il viale del parco, gli si
presentò Nick, e indicandole Luscià che lo seguiva per mano di Nad, gli
disse con uno scaltro sorriso:

— Vedete, se il _Ronmitschel_ è di parola: io vi riconduco Luscià; ella
è vostra, io ve la rendo.

— Io non voglio farle violenza, disse il conte tentennando il capo;
ella è libera di seguire la sua gente.

— Violenza? interruppe lo zingaro meravigliato. Se un cavallo vi
sfugge, lo lasciate andare?

— Noi facciamo una differenza fra le donne e i cavalli.

Nick divenne riflessivo.

Poi, pigliando un fare magnanimo:

— Voi l’avete pagata la dote; è vostra; sotto la mia tenda non c’è più
posto per lei.

— Non voglio trattenerla per forza.

— Non è per forza, ella è giovine, non sa quel che si faccia, bisogna
avvezzarla: io le ho detto che ella deve rimanere, ella mi obbedisce,
e rimarrà, ne rispondo io. Se voi m’aveste lasciato parlare con lei
iersera, ciò non sarebbe avvenuto. Luscià, tu rimarrai?

Luscià si fe’ innanzi premurosa, e disse in fretta baciando la mano al
conte:

— Sì, sì!

La sua voce tremava.

— Vedete!... soggiunse Nick con un ghigno di trionfo. Pagherete almeno
il mio servizio?

Il conte disse alla donna:

— Orsù, io non vi mando via, la mia casa è la vostra: stateci se
volete; tenete con voi anche Nad. Voi siete la padrona di restare o di
andarvene.

La vecchia voleva buttarsegli ai piedi; il conte la trattenne e le
ordinò di seguir Luscià nella sua stanza.

Poi, quando ebbe aggiustati i conti con Nick, rientrò anch’egli, venne
a cercar la sposa, e le parlò con una gran calma, una grande tristezza.

— Or che siamo soli, ti ripeto che sei libera di far quel che vuoi: se
non ci stai volontieri, va che Dio ti benedica.

— No, no, sclamò Luscià.

— Hai paura di Nick? ti accompagnerò io da Dan, egli ti proteggerà.

— No, no, io resto con te.

Nad s’intromise:

— La _galvay_ vi vuol bene; ella non è fuggita. Nick l’ha nascosta per
ingannarvi. Voi non l’avete regalato — egli l’ha fatto per avere il
_pleisserdum_.

Il conte si rasserenò.

Nad soggiunse umilmente:

— Mi tenete con voi? vi servirò bene.

— Ma sì, ma sì, buona mamma, sclamò il conte.

Poi, volto a Luscià:

— Hai inteso quel che ella ha detto... ed è vero?

La giovane fe’ cenno di sì.

Emanuele fu vinto. Riaperse l’animo alle sue care illusioni, si risentì
felice.

Dopo il giorno delle nozze, fu quello per lui il primo momento di vera
e schietta gioia.

Finalmente quel cuore e quell’esistenza gli appartenevano; egli
n’era sicuro. S’udiva nella valle il galoppo di un cavallo che si
allontanava.

Strinse quella bruna testolina sul petto, ve l’adagiò, la carezzò
teneramente senza parlare, pensando ai tesori d’intelligenza e di
affetto ch’ei vi avrebbe fatti sbocciare, alle sue candide meraviglie,
alle dolci sorprese, ai tripudi infiniti...

Luscià s’era addormentata fra le sue braccia.

Egli sognava per lei.


XII.

Ma quella contentezza gli fu presto amareggiata.

Luscià pareva stordita; ella così vivace, così inquieta, passava delle
ore immobile, silenziosa, incantata.

Emanuele pensò ch’ella avesse bisogno di svago, di conforto, per la
lontananza della sua gente. E la condusse a fare un viaggio.

Percorsero mezza Italia: visitarono la Toscana, il Veneto, la Lombardia.

Luscià era stata già dappertutto colla sua tribù, che da tre anni
dimorava di qua dalle Alpi. Emanuele scrutava le sue impressioni,
le sue memorie, avido di scoprirvi la poesia selvaggia e robusta
di un’anima vergine, di un sentimento ingenuo. Nulla di tutto ciò:
ella non si ricordava di nulla, non si entusiasmava di nulla: era
insensibile alle meraviglie dell’arte; le bellezze della campagna,
del paesaggio la lasciavano fredda: non amava che il moto continuo;
preferiva a tutto lo strepito delle grandi città; lo scarrozzare per
le vie popolose, sui grandi corsi pieni di sfarzo, di lusso, la sera
luccicanti di lumi.

Amava la folla, le brillanti riunioni: fosse in teatro, in chiesa, alla
passeggiata, per lei era lo stesso.

Ci andava vestita in gran pompa; tutte le acconciature, dalle più
severe alle più strambe, s’attagliavano a quella sua figura ricchissima
di contrasti: seria, vivace, inquieta come una cutrettola, contegnosa
come una regina.

Quando, al braccio del marito, attraversava la folla, gli uomini si
voltavano mormorando d’ammirazione; ella si guardava attorno e rideva.

Qualche volta Emanuele la riprese con dolcezza.

— M’hanno detto che son bella, non è forse vero? domandava Luscià.

— Sì, lo sei, te lo dico anch’io sempre, sei bellissima... ma per me.

— E allora, perchè veniamo qui?

Tentennava il capo — non capiva.

Emanuele taceva, sconcertato dalla sua logica primitiva, ma più dai
suoi occhi affascinanti.

Al postutto, non era questa che una civetteria innocente e
tollerabilissima.

Se avesse potuto accorgersene, egli si sarebbe inquietato di ben altri
segni.

La giovine sposa, se non alle idee e ai sentimenti della sua
condizione, si avvezzava rapidamente alle mollezze e ai comodi
materiali della civiltà: vi si grogiolava dentro con una delizia
indicibile: la pigrizia e la ghiottoneria s’educavano in lei
mirabilmente. Dopo il piacere chiassoso, rumoroso, nulla l’era più
caro che l’ozio, l’ozio assoluto sdrajone degli animali domestici.
Avrebbe passato in letto a rosicchiar confetti tutte le ore che non
passava in carrozza. In poche settimane aveva contratti tutti i vizi
di una cagnuola favorita. Ma era tanto graziosa! La sua personcina si
torniva, il suo fare si aggraziava; le sue carezze senza slancio, senza
spontaneità, senza calore, acquistavano una morbidezza fine, squisita;
offrivano tutte le voluttà della femmina, senz’ombra delle esigenze
della donna.

Spesso il conte, rientrando dalle sue passeggiate mattutine, che
s’era rassegnato a fare da solo, trovava Luscià che dormiva ancora.
Al rumore dei suoi passi ella si svegliava, gli buttava le braccia al
collo, si accovacciava sulle sue ginocchia, gli strofinava il volto
col suo musettino delicato, rovesciava sulla sua spalla la testolina
leggiadramente scarmigliata, guardandolo attraverso le palpebre
socchiuse con le pupille voluttuosamente sonnacchiose. Poi erano baci,
risolini soffocati, gemiti, tortoreggiamenti innumerevoli. Tutto ciò
finiva ad un tratto, se un segno d’impazienza balenava nello sguardo
d’Emanuele. Luscià era un giocattolo intelligente; sapeva capire quando
il momento del trastullo era finito. S’alzava seria, e si ritirava nel
suo cantuccio a lisciarsi colle zampine gentili i ricciolini scomposti
e a pulirsi i dentini d’avorio.

Emanuele, come tutti i caratteri timidi e seri, a cui la ritrosia,
la verecondia sbarrano la via del piacere, nei primi giorni ne andava
matto, si abbandonava alla facilità di quelle delizie nuove per lui,
se ne inebbriava perdutamente. Il suo spirito riflessivo, fantasioso,
aveva qualche volta adorato la donna, ideale alto, lontano, che svaniva
quando egli cercava raggiungerlo; i suoi sensi si risvegliavano tardi
ma prepotenti, e si contentavano della femmina.

In quel primo ardore la sua mente, il suo cuore erano sopraffatti; gli
occhi, ammaliati dalle forme, non vedevano che le perfezioni esteriori
esagerandole, non potevano avvertire i modi strani, in cui trasparivano
i difetti dell’indole. E Luscià ne aveva molti, e tali che avrebbero
dovuto impensierire il marito, se l’innamorato l’avesse permesso; tanto
più ch’ella nella sua ignoranza non pensava punto a celarli.

Un giorno, a Firenze, Emanuele, entrando nella camera della sposa,
assistette ad una scena singolare.

Luscià, in gonnella e veste scollata, colle braccia nude, si lavava le
mani in un catino, che il cameriere dell’albergo le teneva, non avendo
potuto deporlo sulla toeletta, ingombra di minuterie d’ogni sorta.

Il servo, inanimito dalla confidenza, divorandola cogli occhi, le
teneva dei discorsi assai poco convenienti: ed ella sbellicava dalle
risa, buttandogli manciate d’acqua nel viso.

Il conte impallidì: fe’ uscire lo sguaiato famiglio, il quale non gli
risparmiò una mezza impertinenza; e per decoro bisognò tenersela. Alla
moglie non disse nulla: — ella era tanto stupita dell’accaduto, che
il conte attribuì il trascorso all’ingenuità e non si chiese allora se
quest’ingenuità non significava mancanza di quell’istintivo pudore che
nei paesi civili è la massima delle virtù muliebri.

Dimenticò la scena; la sua tenerezza era disposta a passar sopra a cose
ben più gravi.

La sua gioventù soffocata in fondo al cuore dal dolore, dal dovere,
gli montava al cervello: gli dava delle vertigini di imprudenza, di
sregolatezza, e ridiventava fanciullo, diventava spensierato come non
s’era sentito mai, neppure a diciott’anni.

Aveva sposata Luscià per il sentimento tutto paterno di farle da
educatore, per elevarla al livello del proprio mondo aristocratico;
ma invece la zingarella lo aveva di botto precipitato dal sommo della
sua serietà patrizia nella vita vagabonda, e lo trascinava per mano,
ammiccando cogli occhietti procaci e misteriosi, per sentieri ignoti,
tortuosi, lubrici, a sensazioni nuove, a desideri strani, credulo,
confidente, ammaliato.

Dava negli eccessi di uno studente birichino che fa la sua prima
scappata; si buttava alle più stravaganti pazzie, con una foga di cui
rideva egli stesso, incantato di trovarsi così vivace e brioso.

La loro vita era il rovescio dell’ordine, dell’abitudine; in cui tutte
le convenzioni della giornata, dell’orario, andavano capovolte.

Giravano la notte per le vie remote, scorrazzavano per la campagna,
irrompevano nelle osterie rustiche, si facevano imbandire una cena,
mettevano tutto a soqquadro, vi improvvisavano un ballo, un festino,
riddavano il trescone, poi, ad un tratto, buttando una manciata di
monete in mezzo a quella folla che la loro follia aveva radunata,
eccitata, raggirata, scappavano via di corsa, sparivano come folletti
capricciosi. Emanuele portava di peso Luscià nella carrozza che
aspettava nelle tenebre, ve la buttava ridendo come un matto e
soffocandola di baci. Tornando tardi, picchiavano alla porta dei caffè
del sobborgo, si facevano aprire per prendere un rinfresco, bevevano
nello stesso bicchiere, si buttavano acqua in viso, ed uscivano
lasciando un concetto assai poco onorevole di loro agli avventori,
ai seri fannulloni, ai giocatori gravi e imbronciati, e uno ottimo al
tavoleggiante che regalavano liberalmente.

In queste scapestrerie il più spinto era naturalmente Emanuele.
Luscià ci si trovava nel suo elemento, e aveva in fondo tutta la calma
dell’intenzione. Ma vi si mostrava insaziabile.

Egli aveva le idee più arrischiate, più bizzarre, ella i gusti più
godiglioni. Egli si stordiva, si inebbriava, si stancava delle cose
più stravaganti; ella invece se la spassava e trovava sempre l’agio di
succhiarsi con quiete qualche leccornia prelibata: — Alternava i baci
e le pastiglie: i baci per lui, le pastiglie per sè. Non partecipava
ai trasporti del marito, ma sapeva però destramente sfruttarli: essa
aveva in quei momenti sempre qualcosa da chiedergli, che bisognava
assolutamente darle e senz’indugio.

Una volta, alla Spezia, erano usciti in barca per una gita a Porto
Venere, ma Luscià era di malumore; attraversando la città s’era
invaghita di un cappellino esposto in una vetrina, ed Emanuele non
era stato pronto a soddisfare il suo desiderio. Ma, accortosi della
sua dimenticanza, dalla cera rannuvolata di lei, quando già erano
lontani qualche miglio da riva, fe’ voltar indietro la barca, corse
dalla crestaia, comprò il cappellino. Ritornati in barca, un temporale
li sorprese, cadde un grande acquazzone che sciupò il regalo, mandò
a monte la gita, per cui egli aveva data parola a tanti amici suoi. A
Luscià non rincrebbe nè l’una, nè l’altra cosa.

I suoi capricci, una volta soddisfatti, svanivano, ma non ammettevano
replica. Oramai, senz’accorgersi, il conte comprava, si può ben dire,
tutte le sue carezze; il desiderio di avere un sorriso, una smorfietta
di più, lo spingeva a spese inutilissime; non tornava mai a mani vuote.

Quando usciva per città, tutto ciò che le dava nell’occhio Luscià lo
voleva.

Fu a Firenze ancora che accadde un’altra scena spiacente. Erano stati
a Ponte Vecchio da un orefice per una qualche compera. Contrattata
la mercanzia ed usciti dalla bottega, a un cento passi più in là,
li raggiunse un commesso tutto sconvolto e li pregò di guardare nel
pacco se, per isbaglio, vi fosse entrato un anellino di brillanti, che
stava sul banco del suo padrone. E intanto sbirciava, con sospettosa
timidezza, la borsa ricamata che Luscià teneva al braccio, e finì
col pregarla di guardare anche là. Il conte si risentì, strapazzò
il ragazzo, gli diede il suo nome e il suo indirizzo e rientrò tutto
indignato di quella petulanza. Alla sera Luscià, tirando dalla borsa
il fazzoletto, fe’ cadere l’anellino. Non arrossì, non si sconcertò,
non si mostrò sorpresa, e il conte, senza chieder di più, timoroso di
approfondir la cosa, corse dall’orefice a pagargli il gioiello.

Nel ritorno si trattennero alcune settimane a Milano, che, più di tutti
gli altri paesi visitati, piacque a Luscià per la grossa giocondità
delle sue usanze.

Vi si apriva la stagione musicale d’autunno; in mancanza della società
signorile, fuori a villeggiare, v’era il solito concorso di forastieri,
di artisti teatrali, di virtuose, col loro codazzo di protettori, di
_patiti_, di parassiti, di ricattatori, una folla allegra, chiassosa
e crapulona, che cominciava a vivere alle sette di sera, all’ora dello
spettacolo, e che, uscendo, invadeva tutti i caffè, tutte le osterie,
le bettole della porta e vi menava baldoria sino alle prime ore del
giorno.

Quel mondo somigliava, almeno per la vita vagabonda e sregolata, alla
razza di Luscià. Le affinità non tardarono a manifestarsi.

Alla Scala fu ben presto avvertita quella strana personcina dagli
sguardi sfolgoranti.

Quando si seppe che ell’era una donna di condizione, che quella perla
di venturiera era legata in un vero ed autentico blasone, la curiosità
non ebbe più limiti; attirò tutti gli sguardi verso di lei, e il
suo palco, per l’intromissione di qualche amico, fu ben presto preso
d’assalto dai galanti più in voga. Fu una processione di gilè bianchi,
di cravatte enormi, di pettinature meravigliose, di vagheggini sfatati,
di nobili venturieri e di venturieri arricchiti.

Emanuele sentiva, da principio, un po’ di ripugnanza per costoro; ma il
gusto di primeggiare era così naturale in Luscià, così innocente, eppoi
la rendeva così seducente, così bella, ch’egli non seppe negarglielo.

Quanto a lei, preferiva, fra i suoi corteggiatori, i meno ammodo, i più
matti, i più vivaci e meno educati. Questi allontanavano gli altri, e
travolgevano i due sposi in una baraonda di concerti improvvisati, di
festicciuole scapigliate, di serenate, di veglie, di conversazioni, in
cui non si discorreva — si strepitava, si rideva, si faceva baccano.

Il mezzo con cui tutta questa gente, uomini e donne, riusciva ad
imporsi, era uno solo: una fervida, schietta ammirazione per Luscià.

Ella li attirava senza volerlo, poi, una volta fatte le relazioni, alle
prime parole la dimestichezza nasceva una dimestichezza di giochi,
di scherzi, di pettegolezzi, non profonda, ma invadente. Emanuele
si trovò invischiato senza pur accorgersene. Al caffè, al teatro,
nell’albergo, le conoscenze gli fioccavano intorno, come falene intorno
alla fiammella; e la fiammella era quello stesso fascino, a cui il suo
orgoglio patrizio s’era bruciacchiato l’ali per sempre.


XIII.

Finì, tuttavia, col disgustarsene.

Egli era in obbligo di fare una visita sul lago ad un generale, amico
di suo padre, vecchio celibe, senza famiglia. Per risparmiare alla
sposa una noia e salvare una quantità di convenienze, risolse d’andarci
solo. Doveva trattenersi fuori una notte.

Luscià rimase colla cameriera, che il conte le aveva presa per la
sua dimora in Milano. Costei, una specie di _Suson_, intrigante
di professione, scaltra ingannatrice di mariti, non trovava il suo
tornaconto nella tolleranza del conte, che rendeva inutili i suoi
talenti.

Tanto per non perdere la mano, colse dunque al balzo quell’occasione
per suggerire alla sua padrona, che — secondo il suo costume coi servi
— le accordava una grande confidenza, uno dei suoi segretumi.

Sapendo che Luscià ammattiva per la coreografia, ella, che aveva un
fratello o un cugino ballerino alla Scala, le propose di farlo venire
con una squadra di compagni e di compagne, tutti in costume, ad
eseguire, per lei, qualcuno dei passi che più incontravano nel ballo
della stagione: _La caduta di Missolungi_.

A questo primo disegno, ella aggiunse poi la cena con degli inviti,
— insomma una vera e completa baldoria; felice di completare la cosa
coi suoi lucrosi ripieghi da mezzana, pensò ella stessa alla spesa,
mettendo a pegno qualche gioiello della padrona.

A mezzanotte la compagnia era a tavola nel salotto quando capitò il
conte.

Egli aveva trovato il generale infermo, perciò, fatta la sua visita,
era, senz’altro, ritornato indietro.

Non rimase poco sorpreso; ma, da vero gentiluomo, dissimulò la
contrarietà che ne sentiva, e pigliò la cosa con tanta buona grazia, da
far credere che tutto fosse stabilito col suo consenso.

Luscià, benchè non troppo turbata, andò, per consiglio della cameriera,
che amava il drammatico, a buttargli le braccia al collo e a chiedergli
perdono.

Egli non la lasciò parlare, e le disse sottovoce, con atto rispettoso:
— tu sei la padrona.

Poi l’aiutò egli stesso a far gli onori dell’ospitalità alla strana
brigata, e volle che si compisse esattamente il programma concertato.

Il banchetto terminò allegramente, con un’infinità di brindisi
burleschi, largamente inaffiati di sciampagna.

Il conte, per una liberalità eccessivamente scrupolosa, non aveva
voluto far le cose a mezzo; i fattorini servivano gl’invitati senza
discrezione.

Poi si levarono le tavole, i suonatori invitati trassero i loro
strumenti, e, al suono della piccola orchestra improvvisata, i _Clefti_
e le _Albanesi_ e i _Giannizzeri_ fecero i loro passi.

Terminata la lunga serie di capriole, di prilli, di scambietti, di
catene, di intrecciamenti, tutta la compagnia si abbandonava alle
danze, che si protrassero a lungo, tumultuose, senza ritegno.

Quella genìa irriverente, chiassona, inanimita dalla complicità
della padrona, dalla condiscendenza del conte, dal vino tracannato a
garganella, trascese a degli eccessi straordinari.

Il festino prese, bel bello, l’andamento dell’orgia.

Gli sposi occupavano cinque stanze al primo piano della _Bella
Venezia_; il piccolo quartierino fu invaso da cima a fondo senza
riguardo al mondo, messo nel più grande scompiglio.

Il conte, per la singolarità della sua posizione, ripugnandogli di far
la parte di _rustego_ di commedia, non volle adoprar altro freno che la
dignità garbata del suo contegno, il quale da solo non serviva guari.

Egli stesso dovette, con bella maniera, schermirsi dai trasporti di
ammirazione, di tenerezza, che la sua indulgenza destava nei cuori
sensibili delle _albanesi_. Non poteva incantucciarsi un momento, senza
che ne avesse una sulle spalle o sulle ginocchia, e senza sentirsi
sotto il naso l’alito avvinazzato e ardente di una baccante inuzzolita.

Quanto a Luscià, riavutasi facilmente dal leggero sgomento, ci pigliava
un gusto matto, rideva, saltellava di gioia, non stava ferma un minuto.
La cameriera le aveva ben sussurrato il sospetto che il marito celasse
la sua collera, per isfogarla poi a quattr’occhi; ma i suoi modi, il
fare di lui l’avevano interamente rassicurata. Quando ella gli passava
vicino, scrutandolo cogli occhi in viso, per scoprirvi le secrete
intenzioni dell’animo, egli le stendeva amichevolmente la mano e le
sorrideva bonario, premuroso, come al solito. Una volta anche le aveva
fatto fare un giro di valzer, e nel ricondurla a sedere, stringendole
il braccio, le aveva detto: — ti diverti? — come sempre usava quando la
menava a qualche sollazzo.

Il baccano continuava intorno; egli non pareva aver occhi che per lei.

Del resto Luscià non faceva, come si dice, nulla di male; sfogava il
suo talento naturale dello schiamazzare, il suo ardore infantile di
muoversi, di sparnazzare, di scalmanarsi, null’altro...

Eppoi, sotto gli occhi del marito, nessuno le mancava di rispetto.

Però il conte, per quella notte, fece una gran prova di pazienza.
E quando la brigata gli fe’ la grazia di andarsene, ed egli, data
l’ultima stretta di mano, potè chiudere la porta dietro a quella
mascherata fastidiosa, diè in un grande sospiro di sollievo.

Attraversò l’appartamento, corvettando fra le sedie rovesciate
nell’ultimo congedarsi, e si ritirò nella camera.

Luscià s’era buttata, vestita, sopra il divano, stanca, pesta di
fatica, non sazia, fantasticava cogli occhi spalancati, accesi, come
fosse nella sua vecchia tenda, dopo i lascivi contorcimenti del
_tanâna_. Intorno i segni del baccano che era penetrato fin là; i
tappeti voltolati, spiegazzati, i cuscini buttati a terra; le cortine
del letto aperte, attorcigliate sui bracciuoli, lasciavano intravedere
il letto sconvolto, una sedia colle gambe in aria al posto dei
guanciali, i guanciali rovesciati a mucchio nel corsetto, le coltri
trascinate sul pavimento; profanazione ed oltraggio non casuale alla
vereconda poesia del talamo.

Un lurido, ributtante disordine, un’atmosfera densa di polvere, di
fumo, di moccolaia, un tanfo acuto di vino e di tinello.

Il conte socchiuse la finestra.

La brigata si spandeva cantando e sghignazzando nella strada;
sull’angolo di San Fedele un gruppo di ballerini aveva preso d’assalto
un fiacre, e altercava col cocchiere, che si opponeva al carico
soverchio; correvano bestemmie grossolane, grida, minaccie, strilli
acuti di donna.

Al lume tremulo di un lampione si vedevano gli alti cimieri e i
turbanti ottomani, — le aste levate in alto facevano alla scherma colla
frusta prosaica del fiaccheraio.

Il portinaio dell’albergo chiudeva brontolando.

Emanuele allibì; comprese l’eccesso cui era trascorso.

Non accusò che sè stesso, non si vergognò che di sè. — Egli, il suo
sensualismo cieco, la sua foga intemperante di divertimenti, erano la
causa di tutto.

Sentì un cocente rammarico del pericolo, delle sconvenienze cui
esponeva la sua sposa, egli il suo custode, egli il suo educatore; — un
vivo bisogno di farne una riparazione, di rialzarsi nella sua stima, di
chiederle perdono.

Ella, augellino smarrito, gettato sopra un letamaio, vi si dibatteva;
— povera innocente, ella avrebbe dovuto guardarsi dal male in cui lui,
fanciullone di quarant’anni, la precipitava, con tutta la furia viziosa
di una tarda giovinezza?

Riparò in fretta, con mano sdegnosa, il disordine, — spense i lumi,
testimoni dell’orgia. Il crepuscolo discreto e tranquillo dell’alba,
penetrando fra i pizzi delle cortine, ricondusse nella camera un soave
candore di raccoglimento e di purezza.

Le pupille di Luscià lucevano nella penombra e lo seguivano inquiete.

Emanuele, quand’ebbe rifatto alla sua adorazione la sua nicchia casta,
vereconda, si accostò al divano, si inginocchiò in silenzio.

Una mano s’insinuò, timida e molle, come un invito, entro i suoi
capelli, e scese a carezzargli il collo; egli la prese, la baciò
riverente, a fior di labbra; poi si alzò, attraversò riguardoso, in
punta di piedi, la camera.

La cameriera, che origliava alla porta, spiando lo scoppio delle
violenze presentite, lo vide, al fioco barlume mattutino, ritirarsi
quetamente nel suo studio, stupì della sua calma, e sospettò fosse
matto o peggio, — chissà cosa...

Ma quando, alcune ore dopo, fu congedata, e seppe che i padroni
partivano alla volta del Piemonte, tornò a raccapezzarcisi a modo
suo, andò intorno a spargere e commentare la notizia, a compiangere
la contessina, la quale, povera vittima, si vedeva, partiva di mala
voglia, e che feroce vendetta la attendesse, Dio vel dica; il marito
era falso, brutale, un _piemontese_ e basta.


XIV.

Gli sposi tornarono a Peveragno verso il fine di settembre.

Trovarono il castello queto, silenzioso, come lo avevano lasciato;
solenne, ma non triste; il sole sfavillava nei vetri e avvivava i mille
colori autunnali dell’eriche e dei muschi, temperava l’austera maestà
dell’alte muraglie brune.

Emanuele era sereno, quasi ilare, ricuperava, nell’aria salubre del suo
paese, i suoi pensieri, i suoi ideali, la parte migliore di sè stesso.

Egli pensava alla profonda credenza latina, che perpetuava l’anima di
una famiglia in un campo e in una casa.

Così, mentre i suoi sensi scorazzavano, ignari di sè, il suo spirito,
il buon lare di Peveragno, era rimasto là nel cuore del maniere
feudale, nel viscere dell’antico torrione, ed ora gli dava il bene
arrivato.

La carrozza saliva lentamente l’erta di San Nazario, e il conte,
tenendo per mano la sposa, faceva i più bei sogni di domestica pace, di
gioia onesta ed uguale. Egli le raccontava le vecchie usanze della sua
casa, e vi ricamava su i suoi disegni d’avvenire.

Luscià, che per viaggio era stata sempre sonnacchiosa, diventava
inquieta, nervosa.

Si guardava intorno impaziente.

— Siamo arrivati, sei contentai le chiese il conte. Ella rispose di sì,
distratta.

Appena smontata dalla carrozza si buttò al collo di Nad, ch’era venuta
ad incontrarla, la trascinò nella sua camera, si fe’ portar tutti i
gingilli ch’ella recava seco dal viaggio, li sparpagliò per i mobili e
fra lei e la vecchia seguì un lungo cicalìo in gergo.

Emanuele venne più volte all’uscio per vederla; il dialogo non finiva
mai; Luscià rideva, sospirava, chiacchierava continuamente; egli non
volle turbarle questo sfogo naturalissimo; — e sempre tornò indietro.

A cena ella si mostrò stanca. Si ritirò subito dopo.

Il conte discese in giardino.

La notte era tiepida, molle, tranquillissima. Dei vapori, leggere
nuvolette, lambivano le falde della collina. Il cielo, coperto di una
rada caligine, pareva un velo trapunto di diamanti.

A un tratto gli parve intravvedere una bianca figura, che filava dietro
le piante, dove l’erba era più fitta, — spariva dietro le siepi e i
filari, correva rapidissima.

Attraversando un lembo del prato, il suo profilo si disegnò un minuto
sul nero cupo dell’erba.

Emanuele chiamò Luscià.

Ella si fermò... venne alla sua volta.

— Dove vai? le chiese.

Esitò un poco, poi rispose:

— Venivo a cercarti.

— Come sapevi ch’ero qui?

— Me l’ha detto Nad.

— Ma Nad non era coricata?

— L’ho fatta levare per mandarla a vedere.

Il conte non insistette.

Le prese il braccio: passeggiarono.

Nelle aiuole alcune rose esalavano l’ultimo loro profumo a
quell’estremo sorriso della stagione: sulle siepi i grisantemi fioriti
mettevano una nevicata precoce.

Il conte le parlava con una tenerezza grave del suo avvenire, delle sue
speranze, del suo affetto.

Ella si penzolava a lui e sonnecchiava un poco.

Rientrarono; il conte l’accompagnò sino all’uscio della sua camera.

Si ritirò nel suo appartamento: non si sentiva di dormire. Spense il
lume e si gettò vestito sopra un divano.

Dopo mezz’ora intese distintamente una leggera pedata attraversare la
galleria attigua e scender giù per la scaletta.

Uscì, ridiscese, — trovò la porticina del giardino socchiusa.

Egli si rammentava ben d’averla serrata a doppia mandata: difatti
la stanghetta sporgeva dalla toppa, ma il contrafforto era levato.
Qualcuno aveva aperto di dentro, poi, uscendo, riaccostati i battenti.

Egli andò fuori, percorse smanioso i sentieruoli del giardino,
s’inoltrò fra le macchie del parco, chiamò Luscià per nome.

Alla fine si vergognò; tornò indietro lentamente.

Era strano però!

Sedette sugli scalini dell’uscio: chi era uscito sarebbe rientrato...

Ma non era tranquillo, come avrebbe voluto; s’indispettiva del proprio
dispetto. Voleva ridere di sè — e trovava il tempo enormemente lungo.

S’alzò venti volte, e tornò a sedere.

Poi tornò a passeggiare.

All’angolo del pergolato si trovò faccia a faccia con Luscià.

— Dove sei stata? le domandò.

Egli l’avea lasciata qualche ora prima sfinita, che cascava dal sonno:
la rivedeva sveglia, ansante, accesa da una corsa precipitosa, coi
capelli sciolti e le vesti scomposte.

— Dove sei stata? ripetè.

— In nessun luogo, rispose Luscià un po’ intimidita.

— Ma cos’hai? tu mi nascondi qualche cosa.

Ella rimase interdetta.

— Perchè sei uscita?

— Sentivo caldo.

Emanuele si rabbonì, — quel gigante aveva viscere d’indulgenza materna.

— Perchè non me l’hai detto? t’avrei fatto compagnia.

— Non osavo.

Il marito le prese la mano: era ghiacciata.

— Perchè non osavi?

Sedette, la tirò sulle ginocchia.

— Sai bene, che io voglio contentarti in tutto... Hai le pianelline
infangate.

— È la rugiada.

— Guarda, tu sei andata sull’erba, — hai la veste tinta di verde.

— Sono caduta.

— Ti sei fatta male?

— No.

— Sì; il tuo braccio sanguina.

— È una spina che m’ha graffiata.

Emanuele riprese, intenerito, mezzo ridendo:

— Senti, carina, tu non mi fai mica de’ sotterfugi?

Ella sorrise.

Il conte sentì dileguare tutte le sue inquietudini ad un tratto:
ell’era così tranquilla...

— Io mi dimenticavo, disse, che tu sei una piccola selvaggia, che hai
bisogno di boschi, dell’aria aperta, della rugiada, — di correre, di
saltellare sull’erba. Ma senti, — quando ti pigliano di questi gusti,
dimmelo. Correremo insieme, salteremo insieme.

Ella fe’ cenno di sì, seria seria.

Emanuele rise della sua serietà, le raccontò come quand’era ragazzo,
nella profonda malinconia del castello, egli s’annoiava e si
rattristava. Mattina e sera, dicendo il paternostro, dopo aver chiesto
al buon Dio il pane quotidiano, aggiungeva a mezza voce con un sospiro:
— ed un camerata!

— Il camerata è venuto, un po’ tardi — ma faremo di riguadagnare il
tempo perduto, disse prendendola sulle ginocchia con infantile vivacità
e buon umore.


XV.

Così era sempre lui che discendeva al livello di lei.

Curioso però: questo fascino pareva in lei involontario; si
prestava per compiacenza alle bizzarrie ch’ella ispirava senza quasi
parteciparvi. Il conte non poteva restar tranquillo con lei — ella
serbava sempre, sotto una vivacità superficiale, una grande padronanza
di sè stessa, e anche una grande freddezza.

La sua stravaganza era natura, caparbietà, condiscendenza, non mai
passione.

Tuttavia il conte cominciò nei dì seguenti a pensare davvero
all’educazione di Luscià. Volle farle egli stesso da maestro, per non
cedere ad alcuno le primizie della sua intelligenza.

Le diede con la massima gravità, tutte le mattine, lezione per un’ora o
due, e si sforzava di conservare la sua gravità. Poi nel pomeriggio le
teneva dei lunghi discorsi per farle intendere come dovesse comportarsi
in casa e fuori.

Per questo egli aveva scelta la camera della madre, per dar una certa
solennità alle proprie parole e sopratutto per essere sicuro della
propria serietà. Le parlava della contessa, cercando nell’esempio di
lei l’insegnamento per la sua Luscià: la memoria della madre, evocata
come un angelo tutelare, gli ridava in quell’ora la dignità e la calma
riflessiva del suo carattere. Ridiventava il protettore del primo loro
incontro.

Ma ella non era più la piccola vagabonda riverente di allora. Quel
luogo non le faceva più l’effetto di prima; ci s’era avvezzata e ci
si annoiava: quella penombra malinconica le dava un sonno molesto,
pesante, ostinato. Quanto al ritratto della signora, aveva perduto per
lei il suo carattere soprannaturale dell’idolo; e tutte le apologie
figliali di Emanuele non valevano a sostituirvi un’altra influenza: in
fin dei conti era immagine d’una donna — per bellezza Luscià ne aveva
incontrate di meglio, e del resto, della virtù, delle qualità morali
già non si vedeva nulla — poi ella non doveva farne gran caso. Era ben
vestita, ma ella poteva fare altrettanto.

Docile, obbediente, ella non si ribellava a quella noia di tutti i
giorni — ma gli sbadigli sempre più frequenti delle sue labbruzze di
carmino, la nervosa irrequietudine delle sue manine nelle frangie della
sedia, i moti, gli scatti repentini della sua personcina rivelavano il
suo supplizio.

Il conte faceva la vista di non accorgersene, felice della propria
resistenza; della quale poi faceva ammenda colle condiscendenze meno
ragionevoli.

Appena usciti di là si sprofondavano insieme nelle macchie del parco,
nel più fitto dei cespugli, — ed egli, da quel grande ragazzo che era
divenuto, era il primo a darle il segno della gazzarra. Egli stesso
aveva, più di lei, bisogno di sfogo. La trascinava di corsa, la portava
di peso sulle braccia, si abbandonava a dei matti trasporti. E la
povera influenza che poteva aver guadagnato col suo contegno sfumava
così ad un tratto.

Luscià faceva poco profitto delle lezioni. Aveva preso presto una
vernice superficiale, — ma oltre a questo, null’altro. Una certa
speditezza nel parlare era tutto per l’istruzione, una certa grazia
chiassona nel vestire, una certa morbidezza di maniere, una certa
pigrizia di gusti era tutto per l’educazione.

La zingarella era scomparsa, ma la dama non appariva.

Quei tre mesi l’avevano cambiata all’epidermide, — ma sotto, chi poteva
vedere?

L’indole petulante erasi raccolta dentro ad una crisalide di seta: ne
sarebbe uscita bruco o farfalla?

Il conte confidava nei primi tempi di trarne una buona, una affettuosa
mogliuccia, una savia, un’adorabile damina.

Intanto però ella era qualcosa d’indefinibile; una specie di enigma;
la sua stranezza meno farfallina aveva qualcosa di più intenso e
di più profondo. Il suo viso, nel quale non traspariva mai l’ombra
di un sentimento, si accentuava in un proposito tenace, ostinato,
incomprensibile.

E il marito credeva leggervi delle disposizioni serie alla vita
domestica.

Egli aveva voluto confidarle le chiavi della casa ma ella non era buona
di trattar coi servi: il loro rispetto, il loro riserbo l’impacciava,
le imponeva; ella non sapeva comandar loro nulla sul serio; volta a
volta troppo impetuosa, troppo umile, troppo trascurata. Non fosse
stata la tradizione severa della casa, li avrebbe guastati.

Poi quel materezzolo pesante le dava fastidio. Finì col darlo a Nad, la
quale se ne valse per ficcare il suo naso dappertutto e satollarvi le
sue ingordigie di mendica.

Ciò suscitò una seria tempesta e diede un serio impaccio al conte.

Aurelia la vecchia governante, avvezza da tanti anni al dominio reale
della dispensa, della guardaroba, non potè rassegnarsi allo sperpero
ghiotto che ne seguì: e se ne lagnò col conte.

Il quale si provò parlarne a Luscià.

— Tu devi tenere il governo della casa e non Nad.

— Vuoi dunque ch’io mi faccia tutto da me?

— No, ma tu devi ordinare, tu sola.

Finì coll’indurla a restituire le chiavi alla governante.

Ma da quel giorno Aurelia non ebbe più pace: — una guerra sorda
cominciò fra essa e Nad, la quale, coprendosi della autorità della
nipote, era infinitamente più forte di lei.

Luscià si lamentò col conte che la governante le faceva mancar tutto,
che la maltrattava, che le voleva male.

Ciò era incredibile; il conte tentò di prendere le difese della povera
donna; essa stessa, con tutto il riguardo della sua educazione, cercò
di rabbonire la padrona, di persuaderla delle sue buone intenzioni, di
dissipare rispettosamente le accuse che le si movevano.

Luscià sostenne, in presenza del conte, le sue lagnanze, ripetè con
faccia franca che la malmenava, la faceva patire, trovò lì per lì dei
fatti, delle prove, le colorì con la massima naturalezza.

E, si capisce, il torto rimase ad Aurelia; il conte le cedette l’uso di
una piccola casetta in paese, ed ella dovette abbandonare, piangendo,
colla morte nel cuore, il castello dov’era cresciuta, dov’era
invecchiata, dove tutta la sua vita, onesta, laboriosa era trascorsa,
lasciandovi tutte le sue abitudini, tutte le sue affezioni.

Nad era sempre l’unica confidente di Luscià.

Ella la vestiva, l’abbigliava, l’infronzoliva come una bambola; era,
con lei, tenera, umile, servile ed anche esigente ed imperiosa; aveva
l’autorità di esserle utile e necessaria.

Luscià non l’avrebbe lasciata un momento.

Ella non si affezionava punto nè alla casa, nè al paese.

Nel castello era sempre, come al primo giorno, un’ospite incomoda, non
la signora; la zingara e il vecchio maniere non se l’intendevano punto,
non si compenetravano.

Fra’ suoi istinti e quella veneranda chiocciola di una razza di
potenti, v’era sempre la ripugnanza di due mondi diversi.

Non si sentiva bene che nella camera; e bisognava vederla quella
camera! disordinata, piena di confusione come una tenda.

La giocondità grave e profonda della vendemmia si spandeva per
le campagne; i vigneti, tinti di tutti i colori autunnali, gaia
decrepitezza della verzura, erano pieni di canti, di operosità; dolci
nenie la sera salivano il colle, accompagnate dallo stridere dei carri
sopraccarichi di tinozze e di arbie ricolme.

Luscià non amava nulla di tutto ciò.

Il suo trattenimento favorito era di star seduta dinanzi allo specchio,
ridendo con Nad o cantando sulla _cobza_, ch’ella e la nonna sonavano
benissimo, le melodie imparate a Milano; le melodie facili, allegre,
erano quelle che preferiva.

Qualche volta i suoi ghiribizzi da zingara la pigliavano. Ella
scorazzava allora per la campagna, squarciando filari, strappando
tralci, imperversando come un animale malefico, per involare un
grappolo di uva, che mordeva furiosamente, assaporandovi la voluttà del
furto riuscito.

Il conte, testimone di queste scene, ne rideva di gran cuore.

Dell’altre volte si vestiva di tutto punto, si copriva da capo a piedi
di gingilli, di gale, di pizzi, di merletti, di nastri d’ogni colore,
d’ori, di brillanti, e così attillata, mascherata, impennacchiata, ella
montava in carrozza e si faceva menare, di galoppo, attraverso a sette
od otto villaggi dei dintorni.

Lo scampanìo delle sonagliere della sua quadriglia, lo schioccar della
frusta, lo scalpitar dei cavalli, spinti alla corsa sul ciottolato
ineguale, invadevano, con violenza improvvisa, la pace sonnolenta, la
morta quiete dell’abitato; tutti correvano all’uscio, alle finestre; le
donne balzavano, con meraviglia paurosa, a schivar i bambini, facevano
ala dalle due bande, atterrite, sgomente. E Luscià passava sdraiata nel
suo cocchio, sorridente, superba, contenta.

Una sera alla cascina di Evasio, uno dei massai del conte,
spannocchiavano il granturco. La famiglia ed i vicini sedevano in
semicerchio dinanzi al portico, sulle pannocchie; i vecchi in mezzo
sopra alcune sedie, dinanzi a loro la gente matura, poi più in là i
giovani, come vanguardia in prima fila, e ai due lati in mezzo alle
foglie i ragazzi. I vecchi sonnecchiavano un poco raccontando le cose
d’una volta; gli uomini discorrevano di cose positive; qualcuno contava
qualche storia ardita, suscitando fra le donne degli scoppi saltellanti
di risa secche, di singhiozzi repressi.

I giovani cantavano:

    L’ho trovata la fortuna
    Nel cantuccio dove batte
    Il chiarore della luna.

Poi il ritornello di voci stridule, infantili, lanciate a piena gola,
si diffondeva:

    E di pingoli, mingoli, ranplan, plan
    Chi n’ha poco, chi nulla, chi tan, tan, tan.

Le pannocchie intanto cadevano con ritmo affrettato e si ammucchiavano
nel mezzo dell’aia. Un lumicino conficcato in una pilastrina del
portico, col pretesto di rischiarare, lasciava nella dolce penombra le
confidenze susurrate all’orecchio da due labbra carnose, i pizzicotti
furtivi, le strette di mano sotto le foglie, gli sbagli di acchiappare
un piede od un ginocchio in cambio di una pannocchia.

Il vinello andava in giro a inaffiare i soliti fichi secchi. Il
silenzio e le tenebre profonde della campagna incorniciavano quella
tranquilla giocondità rusticana.

Ad un tratto succede un tafferuglio; il lumicino, colpito, cade e
scompare, le pannocchie volano alla cieca, all’impazzata, e, guarda
alla testa! qualcuno irrompe in mezzo al crocchio, pesta gambe,
rovescia petti; è un grande fruscìo, è uno scompiglio, un rifascio, una
confusione da non dirsi. Poi, ad un tratto, silenzio, uno svolazzo di
risatine che fuggono.

Cos’è nato? Chi si trova sepolto sotto un mucchio di foglie, chi una
pannocchia in seno, chi col naso ammaccato; chi bestemmia, chi ride; si
domandano spiegazioni, si accusano a vicenda; il diverbio si accende,
ma finisce con una pronta riconciliazione, e coi soliti scappellotti di
sicurezza ai ragazzi, — qualcuno cerca il lumicino per terra.

Doro, un grosso fanciullone di sedici anni, dice a Centino:

— Non hai inteso tu? mi è piombata alle spalle; fo per pararmi, mi
volto, mi cade addosso faccia contro faccia, dei capelli lunghi mi
cascano in bocca, negli occhi, e sento un odore, un odore buono! non
hai sentito tu? l’ho ancora nel naso. Fo per tenerla, passo le mani
alla vita, sento liscio come seta...

Ma lo zio Evasio piglia Doro pel collarino, lo leva di peso, e:

— Alla paglia, allocco, imparerai a far le chiassate...

Lo issa su per la scala a piuoli del fienile, suo appartamento notturno.

Quando l’ebbe visto ritirato, levò egli stesso la scala, per sicurezza,
brontolando fra i denti:

— Diavolo di una contessina!

Una carrozza s’allontanava sullo stradone.

La prima quiete per quella sera non tornò più; i rabbuffi dei vecchi,
gli scapellotti paterni non giovarono a rinfrenare quella ragazzaglia
scatenata dalle gherminelle burlone; il vinello non puro, ma innocente
da ogni male fatto, fu calunniato atrocemente. Una vena di umor
birichino era entrata là in mezzo e vi accendeva razzi di monellerie
infinite; soffocate qui, scoppiettavano più in là; le confidenze
appioppate all’orecchio, le strette furtive, gli scambi nelle foglie
furono innumerevoli...

Quando Evasio, alzandosi, prese il lume e pronunziò le parole d’uso:
— grazie, a buon rendere, — Centino sfiorando il bordato di Agnese,
fantasticava il _liscio come seta_, di cui Doro gli aveva parlato.

Scoccava dal viso, dai modi di Luscià una provocazione al disordine
strana, involontaria.

Ella poteva dire colla frase evangelica: — sento che una certa virtù
è uscita dalla mia persona. — Però gli effetti erano tutt’altro che
salutari.

Tutte le domeniche il cappellano diceva la messa nell’oratorio
del castello; ma Luscià preferiva lo svago della messa grande alla
parrochia del paese.

L’arciprete, decrepito e acciaccoso lasciava quella massima fatica al
suo vicecurato, un giovine venuto da poco, smilzo, trasparente come una
candela, timido, che balbutiva un poco.

Quando si voltava a dire il _Dominus vobiscum_, arrossiva e non
guardava in faccia a nessuno.

Ma la prima volta che Luscià venne alla messa, una forza prepotente
lo costrinse a levar gli occhi... e... _Do... vi... Dobi_..., restò in
asso colle braccia aperte.

Luscià lo fissava seria seria e contegnosa; solo una fine ironia,
un’aria quasi impercettibile di beffa trapelava dal suo volto.

Una risata repressa serpeggiò, singhiozzò per la chiesa; il vicecurato
non salutò quel giorno i fedeli...


XVI.

Il conte cominciava a soffrire uno strano malessere, non sapeva bene
che cosa, un sentimento di vuoto, di morale solitudine.

Luscià non mostrava alcuna confidenza per lui.

Aveva tutte le docilità servili, le compiacenze supine, le tenerezze
convenzionali della schiava favorita. Ubbidiva alla sua volontà, subiva
i suoi desideri, non li preveniva.

Chiamata, accorreva pronta e premurosa, rimaneva passiva al suo fianco,
senza impazienza, con una sommessione perfetta, irreprensibile.

Ma, egli l’aveva notato con dolore, non veniva mai, spontaneamente,
a cercarlo. Se qualche volta gli si avvicinava, era per chiedergli
qualche cosa; le sue carezze non erano allora che la diplomazia dei
suoi capricci; questi soddisfatti, cessavano.

Spesse volte, dopo una scena di suppliche, di preghiere, quando egli
cominciava ad illudersi, a vedere in quel fuoco artifiziale di moine
una scintilla di affetto vero, Luscià, allontanandosi improvvisamente,
fredda, impassibile, lo lasciava profondamente mortificato. La sua
arrendevolezza di gentiluomo rendeva anche meno frequenti queste
illusioni; nè egli era uomo da valersene consciamente.

Accordava sempre tutto; l’idea di esigere un compenso lo avrebbe
stomacato.

Fra loro non c’era stato punto vero di contatto che il sollazzo dei
primi giorni a cui ella aveva, senza saperlo, trascinato il marito
inconscio; scomparso questo, il loro allontanamento si approfondiva.

Il fatto è che quella baraonda, quello sfogo tutto fisico, rumoroso,
chiassoso, non poteva bastare ad Emanuele. E nella severa casa de’ suoi
avi non poteva neppure piacergli.

Ristabilito l’equilibrio nel suo animo, le facoltà più nobili avevano
ripreso il sopravvento. Svaporata la foga tardiva di un’adolescenza
repressa, sedato l’orgasmo dei sensi, svanito il fascino femminile, il
cuore cercò la donna.

E la donna restò un mistero.

Come l’antico scultore, egli si sforzava di ravvivare un’immagine, ma
invano.

Quando si trovavano soli a passeggiare nei boschi, nella solitudine
del parco; quando, alzandosi da mensa, nel silenzio grave, voluttuoso
dell’ore meridiane, Luscià veniva, con la grazia di un cagnolino
domesticato, ad accoccolarsi, pigra e sonnolente, sulle sue ginocchia,
egli aveva ancora degli slanci di vivacità, delle smanie; la copriva
qualche volta di baci furiosi, le scompigliava i capelli, vi tuffava
la fronte riarsa, s’inebbriava del suo sorriso, del suo profumo. Ma
non era più la gaia spensieratezza facile e poco esigente d’una volta;
i suoi trasporti avevano qualcosa di più violento, di più profondo, di
più tormentoso. Erano i dubbi, le inquietudini, le curiosità dolorose,
gli sgomenti delle sue riflessioni solitarie, delle sue veglie, era
tutto il suo cuore straziato, che irrompevano in quelle carezze, che
picchiavano con queste smanie, per farsi strada nel cuore di lei, e che
pur rimaneva fredda, impenetrabile.

Perchè egli l’amava perdutamente, infinitamente.

L’ideale della prima simpatia, passando per il fascino de’ sensi,
gli era penetrato nelle carni, nel cuore, nello spirito, e vi aveva
suscitata una di quelle passioni terribili, violenti come le tempeste,
che commovono i laghi profondi e dormenti delle montagne. Una passione
che aveva tutto l’impeto del desiderio, tutta la forza del sentimento,
tutte le pretese infinite dell’ideale, che avrebbe voluto sollevare la
donna amata fino all’adorazione, e, non potendo, discendeva con lei
fino nel fango dei sensi, cercandovi oblìo di sè stesso e trovando
tormento, umiliazione.

Certe volte egli, esasperato, stringeva Luscià fra le sue braccia,
metteva il suo labbro ardente sovra quelle di lei fresche e profumate,
la sua fronte corrugata e accesa su quella di lei bianca, marmorea,
figgeva gli occhi allucinati nei suoi; il suo petto ansante batteva
contro quello di lei. Diceva: — Se il sospiro di un sentimento, se la
scintilla di un pensiero scatterà dal suo cuore, — io lo sentirò, sarà
mio.

Ella di solito s’addormentava.

Allora lo prendeva un acuto dolore, poi un grave sconforto, una nausea
profonda; — le braccia gli cadevano penzoloni; sentiva un peso molesto,
una ripugnanza per quel corpo inerte. Talvolta la tortura era tanto
insopportabile, ch’egli era costretto a svegliarla. Luscià si alzava,
fregandosi le palpebre; non si lagnava, scivolava a terra leggera e
s’allontanava.

Emanuele la richiamava, — ella ubbidiva, tornava presso di lui, gli
chiedeva quetamente:

— Che vuoi?

— Non comprendi? le rispondeva con voce tremante.

Ella lo guardava muta, riflessiva.

Dopo alcuni minuti di silenzio:

— Vado, diceva, — e se ne andava.

Egli la lasciava andare — e si ritirava nella sua camera coi nervi in
sussulto.

La sua mente si perdeva, avea degli accessi di superstizione. Si
chiedeva per qual sortilegio fatale i loro spiriti non riuscivano a
intendersi, ad affiatarsi nella stretta intimità della loro vita. —
Ella m’appartiene, sclamava, con tutta la sua persona, con tutta la
sua volontà; non un suo sguardo mi sfugge, non un respiro; ella ride,
dorme fra le mie braccia, posso contare tutte le sue pulsazioni; ella è
veramente ossa delle mie ossa, carne della mia carne, — eppure ella non
è mia: si è mai visto, si può spiegare l’accordo di un così completo
abbandono e di una così completa indipendenza? La sua persona non ha
segreti per me, eppure io non vedo nel suo spirito più di quello che
veda nel cuore il mio cavallo.

Ma era molto peggio. Si poteva dubitare che il cavallo avesse una
coscienza propria, indipendente dalle sensazioni esteriori.

Invece in Luscià c’era, senza dubbio alcuno, un mondo morale ignoto a
lui, incomprensibile, senza punto d’incontro col suo.

Guardando negli occhi di Luscià, in quei suoi sguardi fissi, quando
era queta e immobile, si sentiva davanti a un abisso tenebroso, che gli
dava delle vertigini.

Egli aveva allora quasi paura di quell’essere ignoto che non lo capiva
e ch’egli non riusciva a capire.

Quando si recava da lei, appressandosi alla camera, la sentiva parlare
con Nad nel proprio dialetto, — non pareva più quella: — si fermava
alla porta ad ascoltarla, — tratteneva il fiato, — non capiva nulla; —
ma sentiva nel suo cicalio degli accenti teneri, profondi, affettuosi,
ora soavi, ora impetuosi, quasi violenti; era la sua anima che parlava
allora, — era il suo cuore che tripudiava, — che soffriva. — Perchè? —
chissà!

Appena egli entrava, il miraggio spariva: la sua fronte s’appianava,
i suoi lineamenti si quetavano, la commozione si celava rapidamente,
il sentimento dileguava in un baleno, l’ultima lagrima cadeva, gli
occhi rimanevano asciutti, e sulle sue labbra, sulla sua fronte, sul
suo volto tutto quanto si atteggiava prontamente il sorriso freddo,
servile, odioso, che non diceva nulla e nascondeva tutto: una maschera.

Ella aveva dunque delle gioie, dei dolori che a lui non era dato
conoscere.

Ma quali? Ci pensava e ci si smarriva.

Quando era con lui ed egli cercava scrutarla, ella non mostrava tema e
neppur diffidenza, — ma solo una ingenuità illimitata.

Un giorno che l’aveva intesa piangere angosciosamente, egli la prese in
disparte, — uscirono insieme per la campagna: egli si trovava più ad
agio con Luscià fuori che non fra le mura del castello, dove pareva i
ricordi, le abitudini, le convenienze si frapponessero fra loro due. —
Presero il sentiero della fontana e discesero nella valle.

Camminavano sopra un tappeto fitto di foglie di pioppo. Luscià coglieva
nei prati dei gigli freddolini d’un violetto vivace: ma appena li aveva
messi in seno avvizzivano, ed ella li buttava.

L’autunno spargeva per la campagna le sue tinte calde, tutti i toni
dalla porpora intensa delle lacche al rancio vermiglio del carmino, al
giallo, all’oro lucente.

Emanuele guardava quella falsa pompa di vita nella natura morente;
credeva leggervi la condanna della sua gioventù in ritardo. Era triste,
rimpiangeva la malinconica severità della vita solitaria di una volta.

Luscià era del solito umore, senza la minima traccia di una commozione.
Ad intervalli si accostava al marito e gli parlava dei suoi gusti di
fanciulla viziata, della veste ch’ella voleva farsi, chiedendogli il
suo consiglio sopra una quantità di particolari nuovi che ella aveva
pensato.

Repentinamente egli le disse:

— Luscià, tu non hai confidenza in me.

E soggiunse prendendole il braccio:

— Tu non mi dici mai il tuo pensiero: hai dei dispiaceri e me li
nascondi...

— Io... no...

— Stamattina tu hai pianto, io t’ho sentita, — perchè?

Ella tacque.

— Dimmelo, — perchè piangevi?

— Non ricordo...

— Qualcuno ti ha offesa, afflitta...

— No, no, rispose Luscià crollando vivamente il capo.

— Dunque?... ti sentivi forse male...

— Sì, mi sentivo male.

— E non mi dici nulla! — e cosa ti sentivi?

— Non so, — ora è passato...

— Vedi, ripetè Emanuele, l’ho detto, tu non hai confidenza in me che
ti voglio tanto bene, in me che penso continuamente a te, che non ho
segreto per te, che farei non so cosa per vederti contenta! — Ma tu non
sai ch’io ti voglio bene, non te ne importa nulla, perchè sei cattiva,
perchè non hai cuore.

Luscià camminava a testa china al suo fianco.

— Senti; — Emanuele si fermò; — senti, puoi tu lagnarti di me, lo puoi?

— No...

— Dunque, perchè mi neghi ciò ch’io ti domando? è così poco... parla...
dimmi...

— Che cosa?

— Orbene, farò anch’io così, non ti parlerò più, non ti dirò più
nulla... non mi vedrai più, sclamò il conte amaramente.

Ma la minaccia non fu più efficace delle suppliche: Luscià rimase
silenziosa.

Più tardi, il conte interrogò Nad. Ella gli disse che Luscià le aveva
mancato di rispetto; che, per questo, ella l’aveva sgridata e fatta
piangere.

Emanuele fece un umiliante confronto: egli con tutte le sue parole, i
suoi scongiuri non era riuscito neppur a commuoverla. Appena l’aveva
lasciato, Luscià era salita tranquillamente nella sua camera, aveva
tirato fuori un mucchio di nastri e aveva fabbricato un visibilio
di nodi per guarnirne una tunica che l’era arrivata da Torino quella
stessa mattina.

Fra le mille ipotesi che la stranezza del suo caso gl’ispirava, il
conte pensò che causa della freddezza di Luscià fosse la diversità
del suo linguaggio nazionale: s’ella potesse parlare con lui la lingua
nella quale il suo cuore s’era dischiuso ai primi affetti della vita,
la lingua che parlava con Nad in quei momenti di abbandono di cui egli
era stato tanto geloso, forse sarebbe più espansiva, più confidente
anche con lui.

E pregò la sua sposa d’insegnargli il suo gergo indostanico; si fece a
sua volta discepolo di lei, un discepolo attento, zelante, docilissimo,
instancabile; il suo cuore aiutò nello sforzo la sua mente. Per alcune
settimane non ebbe altro pensiero; la sua intelligenza non cessava un
minuto dal frugare nelle strane parole zingaresche per scoprirvi il
pensiero, il sentimento, l’anima tanto desiderata della sua Luscià.

Ma ad un tratto s’imbattè in una desolante conclusione.

Luscià aveva acconsentito di buon grado ad accontentarlo; ma non
gl’insegnava che parole di cose comuni, tutte materiali: quando egli le
chiedeva l’equivalente di un’espressione di affetto o di pensiero, si
fermava interdetta, non comprendeva, non sapeva cosa rispondere.

Un dì gl’insegnò che l’amore si chiamava _koba gamaben_, e per commento
gli mise le braccia al collo baciandolo sulle labbra freddamente. Poi
gli chiese se egli voleva _kelen_, divertirsi!

Questa parola fu un lampo sinistro per Emanuele. Gli parve intravedere
un abisso spaventevole di corruzione...

Il conte si persuase che anche questo mezzo non giovava a nulla; il
discorso di Luscià non diventava punto più elevato, e invece, per la
scarsità e materialità delle parole, si abbassava infinitamente il suo.

Gli nascondeva ella la parte migliore del suo linguaggio, come gli
celava il suo cuore? Egli non lo seppe mai, — nulla poteva fargli
supporre in lei un proposito, un rifiuto deliberato; — quando alle sue
insistenze per avere una versione ella rispondeva: — non so, — il suo
volto pigliava l’aria della più sincera, della più candida ignoranza.

Ma il conte non poteva persuadersi che lo spirito fosse così scarso,
così rudimentale sotto quella bella fronte pensosa, in quegli occhi
profondi. Egli si paragonava a Faust, e si crucciava di non potersi far
comprendere da quella Margherita viva e vera.


Sentiva talvolta per lei quella ripugnanza di stanchezza che si
sente per la materia ribelle di un lavoro sfortunato. L’evitava
allora, la sfuggiva; un vero scoramento gli rabbuiava lo spirito.
Poi colla riflessione tornava il suo buon naturale, un raggio di
serenità squarciava la caligine della disperazione; l’indulgenza lo
ravvicinava a lei, gliela mostrava buona, innocente, ingenua. E per
due o tre giorni egli ridiventava fiducioso, tenero, per ricadere
daccapo nell’accasciamento. Ma gli impeti erano sempre più lunghi e gli
intervalli sempre più radi.


XVII.

Verso il fine di ottobre Emanuele si ammalò di una specie di tifoidea,
che altra volta l’aveva preso in seguito a soverchia tensione di
spirito.

Una sonnolenza febbrile lo teneva per parecchi giorni immobile, in uno
sbalordimento pesante; le immagini, le percezioni passavano confuse sul
suo cervello come una visione sbiadita.

Una fantasia lo tormentava: era una principessa rinchiusa in una
torre dalla gelosia di un castellano. Egli ne udiva i lamenti,
le malinconiche canzoni: — riconosceva la voce di Luscià. E poi
s’immaginava d’essere il tiranno; sognava misteriosi tentativi di
fuga, minaccie, pericoli: sognava di perderla, gliel’avevano tolta. E
soffriva volta a volta del dolore di lei e delle gelosie dell’inumano
carceriere.

Dopo una crisi violenta la febbre cessò; svegliandosi un mattino vide
Aurelia che dormiva in una poltrona al capezzale. L’alba trapelava
dalle commessure delle imposte.

La vecchia governante, appena saputo del suo male, era salita al
castello a farvi valere i propri diritti, — che nessuno si curò di
contestarle. Trovato vuoto il suo antico posto d’infermiera, ci si era
installata e non l’aveva abbandonato un minuto.

Il giorno saliva; il conte si guardava intorno come per cercare
qualcuno. Chiudeva gli occhi, li riapriva, si voltava.

Tra le imposte il filo scialbo del crepuscolo si mutava in lucido
nastro d’argento, poi d’oro, poi rancio, poi color di rosa, poi di
rubino.

L’impazienza del conte cresceva. Guardava alla porta.

Una larga lista di fuoco scendeva contro al muro sul letto. Il sole
doveva essere alto, poichè aveva superate le quercie del parco.

Aurelia si riscosse, lo guardò, e fe’ un’esclamazione di gioia:

— Oh benedetta la Madonna! lei sta meglio.

Il conte fe’ cenno distrattamente di sì.

— Mi perdoni, sor contino, soggiunse Aurelia, la libertà che mi
ho presa; ma l’altre volte ero qui, e lo curavo, — non ho potuto
resistere.

Il conte la guardò, parve ricordarsi di qualche cosa, — trasse la mano
e gliela porse.

Aurelia, riconoscente, commossa, si profuse in ringraziamenti, in
ricordi, in paragoni col tempo d’una volta.

Il conte l’interruppe:

— Che ore sono?

Aurelia guardò l’orologio.

— Come! sono le nove: ho dunque dormito ed anche lei; — le ho dato la
medicina che erano appena le tre. Oh pigraccia che sono!

— Hai passata qui la notte?

— Sì.

— Sola? aggiunse il conte a mezza voce.

— Sola...

Il conte parve riaddormentarsi.

Capitò il medico, s’accostò al letto in punta di piedi, lo guardò, —
parlò ad Aurelia.

— Lasciamolo dormire.

Poi sulla porta:

— Ha chiesto di...

E fe’ un cenno col pollice sopra la spalla.

— No, rispose la governante.

— Meglio, meglio...

Il conte domandò poco dopo:

— Che ore sono?

— Le dieci.

Rinchiudeva gli occhi; poco dopo li apriva per ripetere la stessa
domanda.

Il tempo andava lento.

Venne il mezzodì, la una, le due.

Una viva ansietà cominciava a trapelargli dal viso.

— La contessa? chiese finalmente.

— Non so, — sarà nel suo appartamento.

— È malata?

— Non credo, perchè esce tutti i giorni in carrozza colla vecchia,
disse Aurelia, che un resto di rancore rendeva imprudente.

Il conte non disse nulla, — si voltò verso il il muro.

Dopo mezz’ora, senza volgersi, domandò quanti giorni erano ch’egli
stava in letto.

— Dalla domenica, rispose Aurelia, — sette giorni!

Il conte non disse più nulla fino a sera.

Quando Aurelia al cader della notte accese la lampada da veglia, si
volse, e con affettuosa premura le disse di recarsi a riposare.

Ella non voleva, — ma il conte tenne fermo, insistette, usò della sua
autorità, — bisognò obbedirgli.

Uscita che fu, egli chiamò la cameriera, e la mandò a pregare la
contessa di passare da lui.

Luscià fu pronta a venire; entrò franca senza l’ombra di un rammarico o
di un rincrescimento: era tranquillissima. S’appressò al letto; rimase
là ritta ad attender che parlasse.

Il conte le fe’ cenno di sedere.

— Perchè non sei mai venuta?

La sua voce era velata per la commozione.

— Non mi hai chiamata, ripose ingenuamente.

Il conte riprese ironico:

— Così io poteva anche morire che tu non ti saresti incomodata...

Luscià parve riflettere a questa strana possibilità che per la prima
volta le si presentava alla mente: una nube leggiera di pensiero
attraversò fugace la sua fronte: i suoi lineamenti si tesero come per
trattenerla, poi, come spossati dallo sforzo, si allentarono in una
dolce stanchezza.

Giocherellava colle ciocche de’ suoi capelli sciolti, li annodava sotto
il mento, li passava sulla fronte, li architettava in cento foggie
diverse.

Dopo un lungo silenzio Emanuele le dimandò:

— Dunque non hai nulla da dirmi?

Luscià si raccolse, — fe’ cenno di no.

— T’annoi? puoi andartene.

Ella s’alzò, e, serena, calma com’era venuta, si avviò verso l’uscio.

Emanuele non potè trattenere un’esclamazione dolorosa:

— Luscià!

Ella si volse, tornò al suo fianco.

— Non te ne importa dunque nulla di me, egli disse fra il severo e il
lamentevole; proprio nulla... te ne vai così!...

— Tu mi mandi via...

— Oh Dio, non comprendi dunque, non comprendi...?

Emanuele le scoteva con forza le mani.

— Vuoi ch’io resti? disse ella placidamente.

— Non voglio io, non voglio mai nulla, lo sai; — ma se tu volessi... se
tu volessi, capisci...

Il medico sopraggiunse in quel punto.

— L’abbiamo passata; ella sta meglio, signor conte, un po’ meglio,
disse, ma ci vuol calma, una gran calma.

E voltosi a Luscià, come allora la vedesse, le fe’ un inchino
frettoloso.

Trasse un piccolo pacco da tasca.

— Le ho portato questo, che le procurerà una buona nottata. Dov’è
Aurelia, che le dia le istruzioni?

— Dia qui, resto io, stanotte, disse Luscià.

Il medico la guardò meravigliato.

— Bene, signora contessa, ogni ora e mezza una di queste cartine in un
cucchiaio d’acqua; del resto la solita limonata — e calma!

Luscià ammanì la prima pozione, la diede al marito e riprese il suo
posto; trasse le gambe sulla poltrona, vi si raggomitolò dentro.

Le tranquille opere dei servi cessavano a poco a poco: un lieve rumore
di pedate riguardose, un sommesso bisbiglio saliva le scale, si perdeva
nei meandri dei piani superiori, qualche lieve cigolare di vecchie
porte sugli arpioni arrugginiti, qualche eco indistinta e morente, —
poi il castello si addormentava nel silenzio vasto della campagna.

Luscià socchiudeva le palpebre, si crogiolava fra il sonno e la veglia,
in quel sopore conscio, volontario della pigrizia che ci si sente e
ci si gode: il sopore dei servi, degl’infermieri, delle sentinelle;
nel quale il corpo dorme, e lo spirito, raccogliendovisi, lascia una
leggera percezione, un piccolo lume d’intelletto a guardia del suo
riposo.

Luscià restava immobile finchè al pendolo del caminetto batteva l’ora
della pozione d’Emanuele. Allora si moveva, svolgeva lentamente le
molli curve della sua persona, si strofinava gli occhi, il viso,
stendeva le gambette sottili, le lisciava con felina delizia passando
le manine sopra la seta delle calze, le calava a terra l’una e poi
l’altra, cercava colla punta del piede breve, arcuato, la pianellina di
raso bianco. Si rizzava, si accostava al letto con un dondolio pieno
di grazia. Compiuto il suo ufficio, tornava prontamente a rifugiarsi
nella sua nicchia morbida e tepida di velluto turchino, nel cui
abbracciamento la sua personcina pareva un gioiello nella busta.

Ricuperava la sua posa, la testa leggermente ripiegata, la persona
curva sopra un fianco, le mani intrecciate sopra un ginocchio; la
veste di casimiro bianco a palme si apriva un po’ sul petto, e lasciava
scorgere le trine candide della camiciuola e il principio del seno.

Il lume della lucerna velata la circondava di penombre rosee, di
trasparenze alabastrine tremolanti come un’onda diafana e sottile.

Sotto il candore brunito delle gote era soffuso un leggero incarnatino.

Emanuele non ne staccava l’occhio un minuto. Sul suo volto, acceso
dalla febbre, guizzavano baleni di passione, di tenerezza, di affanno,
di dispetto, di collera.

Una volta egli la trattenne.

Ella non fe’ resistenza; abbandonò sul suo petto la flessuosa persona.
Socchiuse gli occhi, — riposava nell’aria densa della camera, fra le
braccia convulse di lui, fresca fresca come sopra un tappeto di fiori.
Sorrideva.

Egli singhiozzava, rabbrividiva.

Ad un tratto ebbe un sussulto sì forte, che ella si riscosse
bruscamente.

Emanuele levò le mani verso di lei:

— Oh Luscià!...

Ella si curvò con un po’ di diffidenza e gli baciucchiò le labbra
ardenti.

Egli la respinse.

Luscià si alzò tranquilla e si scostò.

Allora Emanuele si lanciò verso di lei, l’avvinghiò colle braccia, se
la tirò contro il seno.

— Non sono i tuoi baci ch’io voglio, quei tuoi baci freddi, forzati, —
è il tuo cuore, sono i tuoi pensieri, bisogna ch’io sappia se tu mi ami
o mi disprezzi...

E la scoteva fortemente.

— Tu sei tranquilla mentre io soffro, tu stai otto giorni senza
chiedere di me, tu sorridi quando piango — e poi mi baci — perchè mi
baci?... dimmelo, perchè mi baci?... le carezze si danno quando si vuol
bene — ora io ti sono increscioso. Guarda, meglio che tu Io dica, già
io lo veggo... che ti sono increscioso...

Ella taceva.

Emanuele attendeva ansioso una risposta, desiderava di essere
contraddetto, — di potersi illudere.

Le gridava con voce soffocata:

— Parla, parla...

Le stringeva convulsivamente le braccia, la premeva delirante sul
petto. Le faceva male.

Ella non si lagnava, non si schermiva — lasciava fare silenziosa,
impassibile.

Era l’alba; la lucerna impallidiva: l’aria si faceva più pesante;
una subitanea stanchezza sottentrava al parossismo. Emanuele ricadeva
spossato sui guanciali. Un freddo sudore gli gocciolava dalla fronte.

Lagrimava, gemeva, si assopiva domandandole perdono, con la profonda
codardia dell’innamorato.


Quando si risvegliò egli credette d’aver sognato: Luscià era queta,
calma al suo posto. Un fil di sole le carezzava le crespe dei capelli.

La chiamò a sè, le sorrise, le baciò le mani, le fe’ un mondo di
tenerezze, le disse che si sentiva meglio, ch’ella lo aveva guarito...

Per parecchi giorni, finchè Emanuele non cominciò ad alzarsi, ella non
uscì dalla camera.

Ogni donna, specialmente nelle razze primitive, è naturalmente
infermiera.

Emanuele era commosso: le si mostrava riconoscentissimo di questi
riguardi, che egli scambiava per devozione, per qualcosa di più
profondo ancora.

La ricambiava con ogni maniera di premure, di gentilezze: le mandava
a prendere tutte le leccornie possibili. Erano tornati gli abbandoni
dei primi giorni dopo le nozze; la prostrazione fisica lo risospingeva
alle debolezze d’una volta. I sensi, fiaccati dal male, irritati dalla
inerzia, rimanevano sotto l’ascendente dei vezzi di Luscià.


XVIII.

Però Emanuele, causa la cattiva stagione, ebbe una convalescenza lunga
e penosa.

Le forze stentavano a ritornare.

La pioggia quasi incessante lo costringeva ad una prigionia rigorosa
fra le mura del castello, dove dal cielo nebbioso, rannuvolato,
scendeva un barlume crepuscolare, una grigia caligine, una cupa
mortificazione della mente e del cuore.

Anche Luscià pativa di quella vita rinchiusa. Insensibile alla austera
poesia del focolare domestico, di un affetto solitario, rimaneva
sopraffatta da un grave torpore. Il castello le pareva un carcere che
la vastità rendeva più triste. Non si arrischiava ad attraversare gli
androni oscuri; gli echi profondi le facevano paura.

Il più del tempo se ne stava nella sua camera, raggomitolata,
avviluppata, di panni d’ogni sorta, intirizzita, rattrappita, immobile
come un filugello nel proprio bozzolo.

Due volte al giorno, all’ora del desinare e della cena, il marito
veniva a cercarla per condurla in sala; si facevano servire dinanzi
al vasto camino, dove ardevano grossi ceppi di quercia: ascoltavano la
triste conversazione dei tizzi che cigolavano coll’acqua che grondava
di fuori.

Spesso, allo sparecchiar della mensa, ella si addormentava. Emanuele
osservava allora il suo viso smorto, languente, cui il tedio dava
l’apparenza di un subitaneo deperimento. Egli ripensava alla visione
persistente della sua malattia: alla giovinetta prigioniera, e degli
strani sgomenti lo prendevano: se fosse stato il presentimento di una
sciagura...

Il suo sguardo ansioso la vedeva talvolta peggio di quel che fosse:
sparuta, disfatta.

Ella però soffriva veramente.

Un singolare malessere si rivelava in lei: l’assaliva spesso uno
sbadiglio ostinato, morboso, opprimente. Pareva una dissoluzione della
gioventù, della vitalità soffocata.

Invano Emanuele cercava di rianimarla: si stillava il cervello per
trovarle distrazioni, senza riuscire ad altro che a deplorare la
povertà della propria inventiva.

La vita del castello diventava sempre più triste e monotona: le
giornate sempre più brevi e buie: la solitudine cresceva intorno a loro
e fra loro, una solitudine uggiosa, piena di molestie.


Nella tetra solennità di quella stagione e di quel luogo per discorrere
bisognava avere delle cose molto serie da dirsi. La conversazione si
riduceva sempre alle solite frasi, ai saluti d’uso.

La sera il conte riconduceva la sposa assonnata nel suo appartamento;
le diceva: — buon riposo, cara, vuoi nulla?

Ella faceva cenno di no.

Egli ripeteva: — buona notte, a domani.

Ma una volta entrò con lei e aggiunse:

— Sai, ho pensato di condurti fuori di qui, andremo a Parigi, sei
contenta?


XIX.

Presa la risoluzione, Emanuele, al suo solito, ne affrettò con furia i
preparativi.

Una settimana dopo, lo stretto necessario per mettere in sesto le
faccende più pressanti, Emanuele e Luscià partivano.

Sarebbe stato molto più facile rimanere a Torino, dove egli possedeva
una palazzina; ma la sua disgrazia a Corte e lo screzio colla nobiltà
gli avrebbero fatto colà una posizione intollerabile, avrebbero
tracciato intorno a lui una specie di quarantena d’appestato.

A Parigi, dove era stato parecchi anni, aveva lasciato degli amici, dei
compagni di studi, di aspirazioni.

Appena arrivati, i due sposi vi trovarono accoglienze affettuose,
compagnia, inviti, cortesia pronta e premurosa.

Luscià, per la stranezza stessa della sua avventura, che sarebbe
stata nella chiusa società torinese d’allora, un peccato originale
indelebile, incontrò rapidamente in quella capitale cosmopolita, avida
della novità, della singolarità.

La baronessa di Cortrans, dama savoiarda, congiunta di Emanuele, si
affrettò a presentarla nel mondo elegante, ne fece l’attrattiva della
sua sala, ritrovo rinomatissimo in quel tempo dell’alta emigrazione
italiana.

Molti degli uomini, che comparirono poi nella grande epopea della
nostra rivoluzione, venivano da lei quasi tutte le sere, confortando
l’esiglio con le memorie e le speranze; mettendo in comune il loro
patrimonio di alti propositi, di generose utopie, che con diversa
fortuna svanirono o prosperarono alle prove della realtà.

Si radunavano col barone nella biblioteca.

Intanto la signora, ancora giovane e oltremodo gentile benchè non
bella, faceva gli onori delle sale dove traevano in folla i _lions_
della migliore società parigina, artisti in voga, i quali cercavano
svago alla conversazione brillante, alle civetterie nervose dei
crocchi del paese, nella contemplazione delle superbe e scultorie beltà
italiane.

Luscià ebbe colà il suo momento di successo: diventò per tutto un
inverno la bellezza alla moda.

Ella non ci si trovava neppure troppo a disagio per le qualità
morali, perchè poche di quelle donne allevate colle rigide massime dei
_rusteghi_, erano realmente più côlte di lei.

Quanto agli uomini, anche intelligenti, essi perdonano sempre
con grande indulgenza l’ignoranza ad una bella donna; anzi se ne
compiacciono come di un vezzo, di una piacevolezza.

Luscià si lanciò dunque avidamente incontro al successo che le si
presentava. I suoi muscoli giovanili, irritati dall’ozio sonnolento di
Peveragno, tripudiavano di quel moto continuo.

Divideva le sue giornate in due parti: quella in cui si divertiva,
quella in cui si preparava a divertirsi.

Un’ansia, un sussulto nervoso, quasi un brivido foriero di febbre la
prendeva quando s’appressava l’ora del festino. Ell’era sempre vestita
parecchie ore prima; si agitava nella sua stanza, fra lo scompiglio ed
i salti di Nad, come un corsiero robusto impaziente di lanciarsi alla
corsa.

Poi ella correva da Emanuele: lo costringeva ad uscire: la loro
carrozza era sempre la prima ad arrivare e così presto che erano
costretti qualche volta a fare un lungo giro prima di entrare. Allora
ella si rovesciava sui cuscini; si copriva il volto colle mani,
cercando di reprimere con uno sforzo di calma il fremito che l’agitava.

Il primo tocco d’archetto, la sera di ballo, la trovava sempre al suo
posto, accanto alla padrona nel piccolo crocchio di damigelle premurose
di non perdere una battuta; silenziosa, sorda a quel che le dicevano;
già lanciata col desiderio nel vortice del valzer o della galoppe.

Appena il direttore delle danze aveva gridato il _Messieurs à la
queue_, tutti i suoi nervi scattavano ad un tratto come galvanizzati da
una scarica prepotente d’elettricità. Ella era sicura di non rimanere
indietro: si buttava fra le braccia del primo cavaliere che le passava
innanzi, senza guardarlo in viso e partiva, trascinandolo attraverso la
sala, inebbriata, frenetica.

Tutta assorta nello sfogo meccanico delle membra, ella non aveva
preferenze, non faceva distinzioni, dimenticava tutto e tutti — anche
il marito, che se la vedeva passar innanzi cogli occhi accesi, fissi
nelle fiammelle agitate delle lumiere: il suo viso prendeva in quei
momenti il pallore brunito fosforescente della passione delle donne
del Murillo. Egli, seduto in un angolo, ritto contro lo stipite di una
porta, l’aspettava dell’ore intere, la contemplava senza ottenere da
lei uno sguardo. Del resto il marito non poteva essere geloso; quando
ella ballava con lui mostrava lo stesso piacere o almeno la stessa
indifferenza. Ella non pensava all’uomo, ma solo si valeva delle
braccia del ballerino.

I sentimenti di Emanuele, usciti dall’ambiente morboso della solitudine
di Peveragno, s’erano un po’ alla volta tranquillati. L’atmosfera
vivace della società aveva ristabilito un po’ di equilibrio fra i suoi
sensi e il suo spirito. La serietà del suo carattere riprendeva, a sua
insaputa, stimolata dal pudore, dal decoro del mondo, il sopravvento.
Il pensiero ritornava a lumeggiare quella fronte, cui un principio di
calvizie precoce rendeva più vasta e più solenne.

L’incontro degli antichi compagni, il riannodarsi di antiche amicizie,
lo aveva ricondotto agli studi, alle aspirazioni d’una volta.

Egli era rientrato nel crocchio di quella generosa aristocrazia
italiana che, a scapito della propria ricchezza, ad onta dei propri
privilegi, preparava le future grandezze del proprio popolo: che
rinunziava volonterosa alla patria per darne una a tutti gl’italiani.

I nuovi pensieri, il ritorno di un più alto ideale, dovevano
necessariamente smorzare la sua passione — che, d’altra parte, nulla
veniva allora a riaccendere.

Veramente, i primi giorni, il trionfo di Luscià l’aveva un po’
inquietato; il vederla passare, la sera di ballo, fra le braccia di
tanta gioventù, il vederla sempre circuita da un codazzo di ammiratori
lo mortificava. Ma poi s’era calmato: il contegno di Luscià era
irreprensibile. Ella attirava tutti, non tratteneva nessuno.

Dopo tre mesi era impossibile avvertire intorno a lei quel diradamento
di adoratori, quella progressiva solitudine che segnala la fortuna di
un solo: impossibile scoprire nei suoi modi quell’apparente sazietà,
quella rinunzia al dominio leggero delle feste, onde si tradisce in una
donna la scelta, il concentramento di una preferenza. Non la si vedeva
mai seduta negli angoli; invano la si voleva staccare dalla gran sala;
fuori di là non c’era per le attrattiva di sorta; non ne usciva che per
partire al braccio del marito.

Ella non aveva mai cercato di ricevere, non aveva mostrato alcuna
ambizione di prendere un appartamento elegante: la sua stanza non aveva
per lei altra importanza che quella d’un camerino d’attrice, in cui
ella indossava le sue preziose toelette, di cui era passionatissima.

Tutta la sua vita era fuori, allo sbarbaglio dei lumi, nelle feste, nei
teatri, agli occhi di centinaia di persone.

In casa non veniva che qualcheduno dei più fidati amici di
Emanuele: uomini seri, innamorati di un’idea, assorti in un grande
obbiettivo, i quali non osservavano Luscià più che se fosse un mobile
dell’appartamento.

Tranquillato così, Emanuele si era lasciato andare alla sicurezza
tranquilla del possesso maritale, e poi insensibilmente a
quell’indifferente abitudine di convivenza che era l’ideale dell’alta
società parigina d’allora, — in cui molti mariti si contentavano di
peggio.

Egli non era uomo da darsi mezzo: altrettanto violenta era stata
la sua passione, altrettanto profonda fu la sua rassegnazione
all’insensibilità morale di Luscià a suo riguardo.

Cominciò a far vita a parte: — il giorno non la vedeva più che
all’ora della tavola, passando il resto chiuso nella sua camera o
nelle biblioteche. La sera l’accompagnava in qualche casa, e quivi
lasciandola, usciva con un amico a carezzar con esso i comuni progetti.

Poco alla volta anche Luscià parve sfreddarsi, stancarsi della società,
frequentarla meno, e poi abbandonarla affatto.

Emanuele continuò tuttavia per molto tempo a venir tutte le sere a
chiederle se voleva escire, — ma al suo diniego non insistette che
le prime volte, poi si lasciò dolcemente tentar dalla nuova libertà
e non gli parve vero di trarsi in disparte da quel faticoso turbinío
di feste. Ne fu anzi gratissimo alla moglie. La sera, ritirandosi di
buon’ora nel suo studio, sentiva una viva soddisfazione di veder già
tutto buio nelle stanze di Luscià.

Le cose andavano per lui alla meglio, lisce come olio.


XX.

Però verso il fine di aprile un grave incidente venne a turbare la
serenità di quella sua pace.

Un giorno che egli aveva dimenticato un libro nel salotto della moglie,
venne a ricercarlo.

Intese, appressandosi all’uscio, un sussurro sommesso, ma concitato,
nelle stanze di Luscià. — Non comprendeva le parole, ma distingueva le
cadenze del gergo.

Pareva che Luscià si lagnasse e supplicasse.

Credette che ella si bisticciasse con Nad, e stava già per andarsene,
quando lo colpì una voce virile, meno prudente, che diceva:

— _Balischi!_ — una sozza ingiuria.

Riconobbe Nick.

Allora l’antica indignazione contro il vagabondo lo prese; non potè
contenersi: entrò nel salotto.

Trovò lo zingaro in una gran collera, che smaniava col suo fare da
gradasso per la stanza, balbettando minaccie, rampogne contro Luscià,
la quale, seduta sopra uno sgabellino, piagnucolava. Egli aveva levato
il suo giubbetto magiaro e mostrava la libertà di un uomo in casa
propria.

Il conte lo interruppe a mezzo della sua invettiva con un terribile:

— E poi? — che lo fe’ voltare di balzo.

Lo zingaro balbettò qualche cosa.

— Uscite! disse il conte.

L’altro obbedì, prese il suo abito, lo buttò sulle spalle e varcò
la soglia senza far motto, guardandosi intorno col fare confidente e
soppiattone di animale malefico che cede alla minaccia di una forza
superiore.

Il conte prese la candela e lo seguì verso la porta.

Nell’androne, Nick si volse e disse sfrontatamente:

— Che ho fatto?

— Uscite, vi dico! — Vi par poco minacciare la contessa, mascalzone che
siete?

— Voi credete ch’io l’abbia afflitta? vi sbagliate. Voi non conoscete
le nostre donne, aggiunse con ironia.

— Qui non ci sono più donne della vostra razza.

Nick tentennò il capo:

— Ebbene, disse, volete vedere che Luscià non è in collera con me?
— fate la prova, — chiedetele se voi dovete scacciarmi, e se ella lo
vuole, mettetemi pure fuori a calci, io sono contento.

Il conte era sconcertato da tanta impudenza.

Nick, rinfrancandosi, continuò indossando la sua giacca:

— Vi ricordate: chi ve l’ha condotta quella sera a Peveragno? Io sono
vostro amico; se avessi voluto portarla via, ella mi avrebbe seguito
in capo al mondo. Non conoscete le _romni_ voi. Guardate, scommetto
che con tutte le vostre bontà, — perchè dicono che voi siete buono,
— ebbene, scommetto che io so ancora adesso farmi rispettare da
lei più di voi. — Io credo che fareste bene a lasciarmi venir qui
qualche volta: io darei alla mia parente dei buoni consigli; le donne
hanno mente corta, non vedono oltre la loro bocca, — e per far loro
comprendere il bene che ad esse si fa bisogna saper parlare sul serio.
Davvero che fareste bene a tener di conto Nick. Andiamo, io non sarò
troppo esigente, — mi contenterò di pranzar qui in cucina qualche
volta, finchè resto a Parigi. Va bene?

Il conte lo guardava sbalordito: nel suo cuore la collera lottava colla
sua solita temperanza di gentiluomo.

Lo zingaro riprese:

— Vi va? Anzi, se mi lasciaste dormir qui in un bugigattolo qualunque —
eh? in un corridoio, nel cantuccio della legna, un buco purchessia, eh?

Finalmente il conte non ne potè più. Con un gesto impetuoso gli indicò
la porta, e lo guardò tanto minaccioso che l’altro non attese altro e
sgattoiolò in istrada.


Alla fine dell’anno il conte si dovette accorgere d’aver scompigliato
seriamente i suoi affari. I prodotti agricoli valevano poco; e le
rendite che ne ricavava, bastevoli a dargli in Piemonte una certa
opulenza, erano scarse per vivere in Parigi con larghezza signorile.
Egli invece s’era abbandonato ad una grande prodigalità: le sole
toelette di Luscià gli costavano qualche centinaio di mille lire. Fu
costretto, per mantenere gli impegni, a scantonare il suo patrimonio.
Ma in quel tempo, anche il vendere i fondi era cosa malagevole. Si
trovò in gravi angustie, e pensò di ridurre le sue spese.

Rinunziò alla carrozza e a metà della servitù; cambiò l’appartamento in
un modesto quartierino, e a malincuore cercò di far capire alla moglie
la necessità di una più sobria regola di vita. Ella al solito si mostrò
rassegnatissima; appena fu se una piccola contrazione si disegnò agli
angoli delle sue labbra.

Il conte non se ne avvide neppure.

La maggior intimità delle abitudini avrebbe potuto riavvicinarli: e
difatti il conte, grato a Luscià della sua docile sommessione, fu
verso lei più premuroso. Ma ella non si mostrava più sensibile di
prima: s’era fatta pigra, indolente, dormigliona; si ritirava poco dopo
l’imbrunire, e spesso all’ora della colazione era in letto ancora; poi,
alzata, rimaneva assonnita le poche ore che mancavano a far notte.
Questa vita, del resto, le conferiva moltissimo; la sua persona si
arrotondiva mollemente, e pareva che la materia soffocasse in lei anche
la esigua fiammella dell’anima.

L’unione loro, come tutte quelle a cui mancano affinità originarie, era
rimasta infeconda.

Emanuele, poco alla volta, si rituffò nelle sue abitudini, nei fidati
colloqui de’ suoi compagni di studii. Egli arrivò a non veder più
Luscià neppur una volta al giorno.

L’inverno era incominciato con le sue feste e i suoi numerosi
divertimenti; — Emanuele non se ne accorgeva punto: il quartiere
dove dimoravano era tranquillo e silenzioso. Quanto a Luscià, colla
distrazione del dotto, egli non pensava punto a scandagliarne i
desideri. La vedeva sempre calma, sonnolenta, gli pareva contenta, —
non chiedeva di meglio.


XXI.

Era allora ministro di Baviera a Parigi un marchese Tornielli, oriundo
del Piemonte, congiunto di Emanuele, a cui voleva un gran bene, e non
mancava di mostrarglielo coi rabbuffi di un tutore stizzoso e bonario.
Egli era uomo sulla cinquantina; ottimo carattere, che le traversie di
una carriera stentata avevano ravvolto di una corteccia un po’ ruvida.

Emanuele andava di quando in quando a trovarlo, — e pigliava con un
sorriso tra il distratto e il tollerante le sue ramanzine.

Egli biasimava i suoi studi, il suo genere di vita, tutto, ma poi si
entusiasmava di tutte le sue idee, e, scapolo, era orgoglioso di lui
come di un figlio pieno d’avvenire.

Un dì Emanuele entrò nello studio della legazione. Il marchese era
occupato; un usciere aspettava certi premurosi dispacci. Emanuele
voleva uscire; ma egli serio serio gli disse di trattenersi che doveva
parlargli. Era accigliato più del solito, e di sotto il suo cipiglio
trapelava una vera e profonda afflizione.

Finito che ebbe, spedito il corriere, si levò e cominciò a misurare
a passi ineguali la camera. Ad un tratto si piantò davanti al cugino:
le parole gli scattavano dagli occhi, dalle rughe della fronte scarna.
Ma subitamente si voltava e continuava a passeggiare più concitato di
prima.

Finalmente Emanuele gli domandò:

— Cosa c’è?...

La collera del marchese non aspettava che questo per traboccare.

— C’è, disse, che, caro il mio savio, mentre tu guardi alle nuvole
capitomboli nella fossa... c’è questo.

Emanuele, avvezzo alle esagerazioni del cugino, sorrise...

— Questo al figurato, — ma in termini più positivi?

— Oh! non c’è punto da ridere.

Sbuffò; camminò a più riprese.

— Al fatto; te l’ho detto io che bisognava occuparsi un poco della
casa... e della moglie?

— Della moglie? di quale moglie?

— Eh per bacco, della mia no sicuro...

— Ma che c’è?

— C’è che mentre il marito svapora da una parte, la signora
dall’altra... si diverte...

— Ah!...

— E fa bene, per bacco, fa benissimo...

Il conte impallidì spaventosamente.

— Sì... si sa... Insomma, cosa volete dire?

— Sicuro, la contessa fu vista ad un ballo pubblico...

Il marchese nominò una sala da ballo notissima di una delle strade
peggio riputate dei sobborghi.

— Non può essere! sclamò il conte con voce soffocata.

— È pur troppo, — per Dio, se è! — l’ha veduta un mio dipendente!

— Ed è venuto a contartelo? disse Emanuele indignato.

— No, io ho sorpreso le sue confidenze...

— Ê qui quest’uomo? voglio parlargli...

— Ti pare? Vuoi ch’io ti metta al suo confronto? — Son cose che si
fanno?

— È vero, mormorò Emanuele, — e si lasciò cadere sulla sedia.

Dopo una pausa dolorosa egli disse esitando, come temesse di vedersi
spezzato un ultimo filo di speranza:

— Sarà qualcuna che le assomiglia...

Il marchese fu crudele: lo sdegno non gli permetteva lume di riguardo.

— Sì, le assomiglia tanto che sta in casa tua.

— L’hanno seguita?...

— Già!

— Era sola?

— No, con uno straccione qualunque, un vagabondo che... so io... Ma non
ha mica torto, — la colpa è tua...

Egli si voltò.

Emanuele s’era alzato, e se n’andava barcollando.

Il marchese gli fu sopra, — lo prese fra le braccia...

— No... sono una bestia io... tu sei stato troppo buono, ecco tutto...
Ah bisogna farsi coraggio, che diamine, essere uomo; ci vorrebbe altro!
perder la testa per una cosa di quel genere! Si fa così...

E crollava le spalle.

Come tutti gli imprudenti, gettata la sua rivelazione, si pentì, volle
attenuarla, dimezzarla, rimetterla in dubbio.

Il conte non l’udiva più.


XXII.

Per due notti consecutive Emanuele stette in ascolto al buio nella
propria camera: nulla si mosse nella casa.

La terza sera, sfinito, si buttò sul letto e s’addormentò. La sua
naturale confidenza cominciava a rinascere in lui.

Ma le parole del marchese tornarono vive immagini a turbargli il sonno.

Si svegliò con grande sgomento. Invano si sforzò di riprender sonno.

Dopo un lungo battagliar fra il timore, la curiosità, il sospetto, la
ripugnanza, non potendo quetare, si levò, accese un lume e mosse dritto
alle stanze della moglie.

Nello spingere la porta del salottino urtò nel corpo di Nad, che s’era
buttata a dormire attraverso la soglia.

— Dov’è Luscià? le domandò il conte.

— Dorme.

Il conte tirò innanzi verso la camera della moglie.

— Ella si sente poco bene, non la svegliate, soggiunse la vecchia con
forzata naturalezza.

Il conte si fermò un minuto colla mano sulla gruccetta.

Poi con atto violento spinse l’uscio, entrò.

Luscià non c’era...

Emanuele balenò come se la scoperta gli venisse improvvisa.

Quando uscì, la vecchia era scomparsa, lasciando aperta la porta di
strada.

Emanuele corse alla piazzetta vicina, chiamò un fiacre, — si fe’
condurre all’indirizzo indicatogli dal marchese.

Quando vi giunse gli orologi battevano la mezzanotte.

Si trovò in una fangosa via del sobborgo, fiancheggiata inegualmente da
meschine casupole ed alti muri di officine.

Una plebe cenciosa si riversava nella strada dalle bettole, da certe
porticine di losco aspetto, su cui penzolavano delle lanterne a grosse
scritte. Gli esercenti spingevano fuori a malincuore, per rispetto
della moralità ad orario fisso dei regolamenti di polizia, lo stravizzo
che avevano sfruttato.

Frotte di ragazzacci e di donne avvinazzate venivano innanzi
schiamazzando, e due guardie civiche si adoperavano alla buona di
farle tacere; — ubbidivano, ma poco più in là le donne ricominciavano a
strillare più forte e a beffare le guardie.

Alcune giovinette saltellavano in punta dei loro scarpini attraverso
la belletta che correva in mezzo alla strada, tirandosi a bisdosso,
sulle spalle nude, sulla testa irta di fiori finti, certi scialletti
logori, luridi, inzaccherati, — e delle donne più attempate correvano
loro dietro bestemmiando sconciamente e chiamandole con stranomi di
carnovale.

Un fanale gettava su quel brulicame e su quel fango i suoi riflessi
tristi, smorti, quasi compassionevoli.

Il fiaccheraio si fermò innanzi ad una di quelle porticine, su cui un
largo trasparente recava scritto a lettere cubitali: _Sala da ballo_, —
e disse:

— È qui.

La vista della carrozza diè pretesto alla folla che usciva dall’andito
ad una quantità di lazzi:

— L’equipaggio di Suson, gridava uno.

— Lolotta, il tuo banchiere ti aspetta.

Qualcuno più impertinente cacciava la testa fra lo sportello e gittava
in faccia al conte, che stava rannicchiato nell’ombra, una sciocchezza,
una sconcezza, una nota di canzonaccia, con una ributtante vampa di
ubbriachezza.

— Esmeralda, strillava un ragazzo, — il mio cuore in un fiacre!

Due voci, una di uomo, l’altra di donna, che fecero trasalire il conte,
risponderono insieme:

— Alla paglia...

— Marmocchio!...

Il conte aspettò che la gente diradasse un poco, poi scese, licenziò la
carrozza e tornò indietro a piedi...

Non tardò a raggiungere Luscià e Nick.

Camminavano l’uno a fianco dell’altro; egli fumava la pipa, ella
morsicava tratto tratto una sigaretta; lo scialle, — uno stupendo
casimira, — le cadeva dalle spalle, — spazzava il marciapiede lubrico.
Egli vestiva un sucido abito borghese, ma portava il suo tondo _muchdi_
in testa.

Il conte li seguiva dalla parte opposta della strada.

Dopo un centinaio di passi entrarono da un acquavitaio che stava
chiudendo la bottega, e si fecero servire un bicchierino. Uscirono
cantarellando.

Emanuele pensava alle follie che avevano fatto insieme nel loro viaggio
di nozze.

Poco più in là svoltarono in una viuzza quasi buia a dritta.

Il conte tenne loro dietro in un labirinto di sucide ed ignote
straducole deserte, dove non si udiva più che il rumore dei loro passi.

Luscià si volse due o tre volte, e parve accorgersi d’essere seguita.
Rallentò il passo.

Ella e Nick si bisticciavano a mezza voce. Pareva ch’egli volesse
qualcosa e ch’ella se ne schermisse.

Sulla porta di un piccolo caffè si fermarono.

Nick prese il braccio della donna e lo strinse forte: ella mandò un
piccolo strido lamentevole e allargò la mano: un oggetto cadde, e Nick
si chinò a raccoglierlo.

Poi entrò borbottando nel caffè.

Luscià tornò indietro lentamente, fumando la sua sigaretta.

Il conte si nascose nell’andito buio di una porticina che stava
socchiusa.

Ma la donna spingeva poco dopo la testa fra i battenti, entrava, li
raccostava, e passando al buio accanto a Emanuele, gli disse:

— Vieni.

Il conte la seguì trasognato.

Fatti alcuni passi, ella si fermò.

Il conte sentì la mano di lei che cercava la sua: la prese.

Ella lo tirò su per una angusta scaletta a chiocciola.

Un piccolo sportellino si aperse e un viso scialbo di donna si affacciò
un minuto, scambiò con Luscià un bisbiglio e disparve.

Sul pianerottolo una vecchia fante assonnita comparve con un doppiere
di bronzo argentato, li precedette in una stanza, depose il lume sopra
una tavola tonda nel mezzo e prima di uscire domandò:

— _Champagne_ o _Portos?_

— _Champagne_, rispose distrattamente Luscià — vero?

La fante uscì passando accanto ad Emanuele che era rimasto sulla porta;
lo fissò con qualche po’ di attenzione.

Egli si guardava attorno sbalordito; la stanza era qualcosa tra la
camera mobigliata e il camerino di _restaurant_; una toeletta di legno
verniciata in verde, una larga ottomana, un armadio a specchio e alcune
sedie sfilacciate; alcune orribili litografie colorate con cornici
nere spiccavano sopra la tappezzeria scura dei muri: _Europa col toro,
Dafne ed Apollo, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Susanna al bagno_;
profanazioni di mitologia sacra e profana.

Rientrò la fantesca col vino: trovò ancora il conte al suo posto e lo
guardò di nuovo.

Egli pareva impietrito.

Luscià non s’era voltata ancora, s’era levato lentamente il cappellino,
lo scialle, li aveva buttati sulla tavola; s’era lasciata cadere sopra
una sedia e aspettava.

Il conte la trovava bella come non l’aveva mai vista. Tutto quel non
so di triviale, di plebeo, di lurido che l’attorniava, non scemava, ma
faceva risaltare i suoi vezzi. La sua bella testa greca, il suo collo
flessuoso, avevano un fascino maggiore in quel fondo equivoco. Ella era
al suo posto. Pareva più seducente, più viva, più altera.

Egli la contemplava e dimenticava nel guardarla ogni cosa.

Ad un tratto ella s’alzò e accostandosi allo specchio disse con
impazienza:

— Dunque?... hai paura?

Poi levò gli occhi; il viso pallido, esterrefatto del marito apparve
nel cristallo dietro il suo.

Si volse di repente.

Il conte si fe’ innanzi col pugno chiuso; un’onda di sangue gli passò
innanzi agli occhi smarriti.

Ella chinò il capo sul petto nudo, ma gli teneva gli occhi in viso, e
lo guardava fisso più meravigliata che atterrita.

Emanuele si arrestò:

— Che fai qui? le disse con voce rauca.

— Nulla, dobbiamo uscire? rispose Luscià senza turbarsi...

Il conte arretrò allibito; un singhiozzo gli eruppe dal petto.

Un grande ribrezzo lo prese, una ripugnanza, una compassione profonda
a quella creatura abbietta e ignorante; a cui egli aveva donato il suo
nome e il suo cuore perch’ella li trascinasse inconsciamente nel fango.

— Non capisce, mormorò, non capisce...

E fuggì a tentoni giù per la scala.

Mentre scendeva lo sportellino si apriva e una voce disse:

— Esmeralda è sola.

Qualcuno saliva dietro di lui.

Uscì in istrada.

Il caffè era aperto ancora. Nick giocava a un tavolino in fondo...


L’indomani, per tempissimo, il marchese Tornielli si vide capitare
in camera il cugino, che pareva un uomo disfatto. Non ebbe cuore
d’interrogarlo.

Il conte sedette accanto al fuoco, stette per oltre mezz’ora senza far
parola: si passava la mano sul viso, si lisciava la barba.

— Sai? parto, disse finalmente.

— Parti?

— Ritorno a Peveragno e son venuto a salutarti.

Si abbracciarono, si baciarono, — il conte uscì.

Poco dopo rientrò.

— Volevo dirti che di tutto l’appartamento lascio padrona... lei...

— Non sarebbe meglio licenziare la casa... e consegnarle i mobili? non
conviene ch’ella rimanga là... ti pare?

— Bene, come vuoi... addio, disse il conte.

— Arrivederci, rispose il marchese.

Poco prima che varcasse il limitare gli gridò ad alta voce:

— E coraggio, neh! davvero!


XXIII.

Cinque giorni dopo il conte di Peveragno scendeva colla posta dalla
Gran Croce. Nella carrozza un prete savoiardo ed una donna attempata
avevano riappiccato i loro sonni mattinali, nutriente ristoro dei
vecchi.

I cavalli andavano lenti e faticosi giù per la china ghiacciata.

Un raggio di sole smorto, languido, si posava sopra la campagna coperta
dalla neve come una fiacca gioia sulla canizie di un ottuagenario.

Il conte seguiva coll’occhio stanco, affaticato, con un’istintiva
invidia, alcuni augelletti che svolazzavano fra i cespugli scotendone
la brina densa e polverosa, pigolando il loro tripudio minuscolo in
mezzo a tanta vastità di gelo, di solitudine, di desolazione.

Sul sedile davanti il vetturale discorreva con un montanaro che gli
sedeva al fianco:

— Perchè ho lasciata la corriera di Annecy, voi dite? Oh l’è una
storia curiosa. Il signor Molleton, il concessionario, non ve l’ha
detto? Lo credo, non ha di che vantarsi. (Uh, uh, una schioccata.)
Il signor Molleton ha l’abitudine di non consultar mai i suoi uomini
sulla scelta delle bestie. Io glielo andavo ricantando. — Guardate,
gli dicevo, voi non sapete cosa sia per noi vetturali un cavallo: l’ha
da essere all’incirca come fra marito e moglie, — una intesa a fondo,
limpida come l’acqua. — Non la voleva capire — e non se n’intendeva una
maledetta. Fatto sta che un giorno che era tornato da Montpellier, mi
ferma in istalla e mi mostra una bestiaccia d’inferno, — bella cavalla
d’apparenza, nera come una mora, con un pennacchietto bianco sulla
testa. Lui l’aveva tolta da un ufficiale francese, veniva dall’Africa
o da casa del diavolo, che so io. — Io ho subito capito che l’era una
malora — lui badava a dir — è bella, eh? — bella da imbalsamare, ho
risposto. — Difatti me le avvicino, la piglio alla cavezza, la guardo,
le apro la bocca, le caccio in gola il morso — pareva docile come un
cagnolino. Mi volto — paf — il morso era caduto nella greppia. — Le
mettevo la sella, colle zampe rompeva le cinghie e la buttava. — Ho
cominciato ad attaccarla al biroccio una domenica, e ho fatto un giro,
andava dritta finchè le tenevo le redini strette, rigide e la frusta
sulla groppa; — guai a rallentarle un minuto; si buttava traverso la
strada. Bastava che scendessi e la lasciassi, che pigliava il galoppo
legno e tutto. Insomma io gli dissi, al signor Molleton: — la venda
che non è affar mio — la bestia non m’intende, io non l’intendo; non
siamo compatriotti — se stiamo insieme, uno dei due ammazza l’altro.
Per fortuna sono stato io. L’attaccava da circa una o due settimane e
la tenevo d’occhio e stavo all’erta. La diavolessa aveva un occhio che
mi faceva paura — pareva sommesso, ma a fissarlo in fondo aveva certi
guizzi pieni di perfidia. — Non passava dì che non me ne facesse una
— o mi storpiava uno stalliere, o azzoppava un compagno, o mangiava
i finimenti — insomma era stregata. Un mattino esco d’Annecy; l’oste
della Scopa mi chiama per darmi una commissione. Scendo. Non ero
entrato nell’osteria, che sento un gridìo in istrada. Mi son subito
immaginato. — La diligenza partiva a precipizio. Dopo alcune rapide
svolte si fiaccava contro una ripa. Nessuno si fece male — ma fu un
brutto rischio. — Io addosso alla cavalla... era la causa di tutto, non
si chiede manco; la mettevo nel mezzo — essa aveva preso a calci e a
morsi le altre due bestie. — Ero fuori di me; non so come mi trovassi
un coltello in mano, e l’ho scannata come un maiale. Poi piantai lì
tutto: la diligenza e il posto. E nessuno venne a cercarmi — non sono
mica fuggito; anzi passai sull’uscio di Molleton un’ora dopo. E non
ebbe il coraggio di dirmi verbo. —


XXIV.

Il conte rientrò nel suo castello sull’imbrunire, quietamente,
soprappensieri, come se tornasse dalle sue solitarie passeggiate di un
tempo.

Chiese tosto d’Aurelia.

Dopo cena, non vedendo comparire la governante, ridomandò di lei — e
allora soltanto intese la risposta del servo: Aurelia era morta.

Ripigliò un po’ più tristamente ancora le sue antiche consuetudini; con
qualche restrizione però. Egli evitò nelle passeggiate qualche strada,
condannò le finestre che guardavano verso San Nazario. Durante la sua
assenza egli aveva venduto quel podere, la parte migliore dei suoi
fondi, le antiche quercie erano state abbattute e di là un aratro non
suo si spinse per la prima volta fin contro le mura del castello.

Questo era il marchio obbrobrioso che la manina sottile della piccola
zingara aveva impresso sul vecchio dominio feudale, votandolo alla
rovina.

Ma v’erano altri segni più dolorosi, che l’erede di Peveragno voleva
dissimulare; e che la sua fronte calva innanzi tempo e il suo occhio
incavato rivelava.


I giorni tornarono a scendere nel suo spirito lenti, monotoni, tristi
come cade la goccia nell’acqua morta di una cisterna abbandonata in
mezzo nel deserto.

Passò l’inverno, sbocciarono e caddero volta a volta i fiori dei pruni,
dei meli, delle siringhe, delle gaggie, delle madriselve.

La verzura dei prati si fè oscura, ingiallì quella dei campi. Scoppiò
fra i solchi lo strido della cicala e lo squittir delle quaglie
raminghe.

Il viale dei tigli gettava l’ultimo tributo di profumi al sole di
primavera.


XXV.

Fu una tempestosa mattina di giugno, aveva fatto temporale la notte,
che Emanuele si trovò Luscià svenuta sulla gradinata del giardino;
alcune pedate d’uomo che si perdevano nel parco indicavano che qualcuno
l’aveva colà abbandonata alla sua misericordia.

Senza esitare un momento, senza perdersi in meraviglie, come
l’aspettasse da un pezzo, la portò nella sua camera.

Ella aveva le vesti di seta a brandelli, gli stivaletti impastricciati
di fango; il viso deformato da un morbo orribile; era disfatta, poco
più d’un cadavere.

Il medico fu sbalordito di vederla in quello stato, — non diè alcuna
speranza.

Emanuele le si pose d’attorno, lottò contro il male con l’energia
disperata della sua indole soldatesca, non pensò alla incertezza della
vittoria — l’ottenne.

Dopo molte settimane ella tornò in sè stessa.

Aperse gli occhi, lo guardò, accettò le sue cure senza ombra di rimorso
e di riconoscenza, — pacata, serena, come non fosse mai uscita dal
castello.

La malattia tirò in lungo quasi tutta l’estate.

Emanuele non lasciò mai ad altri il suo posto del capezzale. Non le
lasciò accostare nessuno. Non riposò che ad ore spezzato sul divano —
la notte ella stava peggio del giorno. — Egli la vegliava attento, nel
cupo silenzio della campagna non interrotto che dal canto triste dei
risaiuoli, che andavano a scambiare la fame colla febbre.

Raccolse tutti i suoi lamenti, tutte le sue parole, tutti i suoi
sguardi — non ebbe da lei nè una lagrima di rammarico, nè un
ringraziamento. Non glielo chiese. Forse non ci pensava.

Alla fine d’agosto cessò il pericolo.

Poi ella si riebbe rapidamente. Il suo viso rifiorì, rivestì una nuova
grazia, una nuova purezza.

Quando il medico le annunciò la guarigione — battè le mani con gioia
infantile, non pensò neppure a guardare il marito che l’aveva salvata.

Emanuele non le ricordò il passato.

Egli però qualche volta pensava con isgomento all’avvenire: ma finchè
durò il male diceva fra sè: quando starà meglio; — e quando essa fu
convalescente: lasciamo che guarisca; — poi si contentò di crollare le
spalle e qualche volta aggiungeva: vedremo che farà lei.

Ma ella non fece assolutamente nulla: — s’alzò, ricominciò la sua vita
di due anni prima; tornò a cantare, ad annoiarsi, a girellare un po’
nei dintorni, — tutto come prima.

Emanuele non aspettava quasi più di «vedere.»

Il presente l’opprimeva — ma aveva paura dell’avvenire. Non era una
paura infondata.

Una notte, dopo la vendemmia — sentì un leggero rumore nel suo studio.

Da qualche settimana si lamentavano dei furti nei paesi vicini: accese
un lume, prese una vecchia pistola che teneva carica nel comodino, e
andò a vedere.

Trovò lo scrigno aperto e vuoto. Qualcuno si allontanava pel corridoio.
L’inseguì.

Un’ombra fuggente spiccava nel vano della porta aperta, rischiarata
dalla luna. Gli parve riconoscere Nick.

Appuntò la pistola... sparò.

Il ladro si chinò rapidamente, una figura bianca apparve e cadde.

Un cachinno di scherno si dileguò nel giardino.

Emanuele tornò pel lume; accorse — vide Luscià distesa a terra.

La recò nella vicina stanza di sua madre.

Era ferita, il sangue le usciva a fiotti dal petto: spirava al posto
dove l’aveva incontrata la prima volta, senza mostrargli rancore
d’averla uccisa, come non gli aveva mostrato riconoscenza del suo amore
— lo fissava con quello sguardo impassibile, impenetrabile nella gioia,
come nel dolore, — uguale nello stravizzo e nell’agonia.



CASCINA E CASTELLO.


I.

Ad Ormeto e nei dintorni, parecchi si ricordano ancora di quando il
castello, — uno dei più vistosi dell’Astigiana, — occupava tutta
la spianata in cima alla collina e i suoi giardini scendevano giù
a ripiani per le falde ed erano chiusi da un grosso bastione munito
di barbacane, di spaldi e di guardiole che gli davano l’aspetto di
una fortezza. — Costoro dicono che allora, proprio in faccia alla
torricella esagonale, che difendeva la porta del bastione, a destra,
sulla strada che da quella conduce al villaggio, giaceva una meschina
casupola di contadini con una stalletta, un piccolo fienile e un po’
d’aia davanti: — si chiamava la _Cascina della trena_ con voce del
paese, che risponde alla toscana _trapelo_, perchè una volta, da tempo
immemorabile, quelli che ci stavano avevano, con tanti altri obblighi,
anche quello di venir colle loro bestie incontro ai veicoli del conte
d’Ormeto giù nella valle, e quindi trainarli su per l’erta salita
fin nei cortili interni del castello; la quale servitù, quantunque
dichiarata nel 1771, con tutte l’altre feudali, redimibile da un
decreto di re Carlo Emanuele III, aveva continuato ad esercitarsi,
per avarizia o miseria dei gravati, fino all’epoca della conquista
francese.

Finchè il castello mantenne intera la sua maestà, quell’abituro
accosciato ai suoi piedi doveva far la figura del cane di san Rocco
nelle immagini dei piloni rustici. Ma poi, poco alla volta, il castello
era diventato una stamberga e la _cascina_ un caseggiato vasto ed
opulento.

La trasformazione aveva durato sessant’anni.

Quel che l’uno perdeva l’altra guadagnava. Era stata una lotta sorda,
lenta, ma incessante, implacabile, a corpo a corpo.

La _cascina_ aveva cominciato ad allargarsi quetamente fino ad occupare
tutto il terreno che le rimaneva ai due lati; e s’alzò d’un piano.

Poi spinse innanzi due ali ai fianchi e attraversò la strada privata
che girava tutto intorno sotto il bastione ed era una volta il fosso di
questo, e venne ad appoggiarle al muro.

Poi, dopo un po’ di sosta, un bel giorno sfondò il bastione, squarciò
il terrapieno che stava dietro e spianatone un buon tratto, chiuse il
suo cortile con un gran portico che congiunse le due ali. La torricella
del portone feudale, rimasta serrata in un angolo, nascose vergognosa i
suoi merli sott’una gronda plebea e si mutò in piccionaia.

Poi la cascina diventò casa civile e gettò il rustico dietro le spalle,
facendo per questo un’altra breccia nel muro e un altro squarcio nel
terrapieno signorile.

Poi tutto il bastione fu levato e i suoi materiali servirono alla
fabbricazione di un altro portico e d’un’altra stalla smisurata, che
sorsero dal lato opposto della collina.

Allora la _cascina_ si spinse arditamente innanzi dalle due bande e
si strinse intorno al castello: poi prese a scalzarlo, a cacciarvisi
sotto, a ficcarvisi dentro, a scavarne le fondamenta, a strappargli le
viscere, a scrollarlo, ad abbatterlo.

La facciata e i due corpi laterali caddero ad un tratto lasciando
aperto il cortile. E cadde con essi il grande terrazzo della facciata,
rudere venerando dell’epoca longobarda, sul quale nelle solennità della
famiglia si alzava lo stendardo stemmato; e al suo piede dalla parte
di fuori s’appoggiava una volta la tribuna di pietra donde il signore
amministrava la giustizia. — Sparirono allora il doppio portico a
centine e i vasti cameroni del pian terreno.

Dopo qualche anno si misero le piccozze e le zappe nel fabbricato
del fondo, corpo principale del castello, che mostrò le sue viscere
lacerate, i suoi appartamenti storici, dove hanno alloggiato D.
Ferrante Sanseverino principe di Salerno e Bernardo Tasso: — spaccati
da cima a fondo i suoi anditi pieni di misteri e di tradizioni, le
sue alcove ricche di memorie e di segreti: — le costruzioni di tanti
secoli accatastate l’una sull’altra, sepolte l’una sotto l’altra, veri
strati di una storia famigliare e patrizia, i macigni rozzi dell’età
remote, gli edifizi semigotici della media, i barocchi dei tempi più
vicini, le colonne tozze, senza base, dai capitelli mostruosi, i solai
a modiglione, gli stretti fenestrelli binati, le lesene, gli stucchi,
gli stipiti, le cornici dorate, i muri dipinti, vennero fuori ad
un tratto per sparire insieme in un sol mucchio, per confondersi in
un polveraccio comune, per diventare terra e macerie. Pareva venuto
proprio l’ultimo giorno, per il vecchio maniere d’Ormeto. Ma ad un
tratto, quando già metà della fabbrica era stata abbattuta, le picche
si arrestarono come per incanto. — Si spazzò il terreno dai rottami,
si puntellarono i muri rovesciati che ancora rimanevano in piedi, si
turarono alla meglio le fessure. E sulla collina si fe’ silenzio.

Questa tregua dura da dieci anni.

La cascina si chiama ancora con questo nome, e i proprietari di essa
sono ancora chiamati _quei della trena_.


II.

Al castello, nell’antica stanza matrimoniale, sta agonizzante la
vecchia signora Maria Cristina Matilde di Roveglio, contessa vedova
del conte d’Ormeto, di Ronco e di Valonghera, che fu dama d’onore della
regina Maria Teresa.

Al suo capezzale, seduta colla testa nascosta fra i guanciali, v’è una
giovine donna: — la contessina Maria. Ha poco più di ventun’anni ed è
la terza volta che assiste ad una agonia; ha perduta la madre, poi il
padre: se ora le muore la nonna, resterà sola al mondo.

A piè del letto v’è un omaccione membruto con abito fra il contadino
e l’operaio; colle braccia conserte sul petto fissa, cogli occhi
inebetiti dal dolore, la morente.

Gli arredi della stanza ricordano una grande ricchezza passata
e rivelano una più grande angustia presente: il letto, vasto e
pesante mobile del tempo dell’impero, ha perdute le sue dorature: il
baldacchino rotondo di damasco violetto ha le cortine sfilacciate ed ha
perdute le ghiande d’oro: le sedie hanno i cuscini pieni di strappi e
di rimendature: il vasto specchio della _console_ è tutto macchiato: le
tende di velluto delle finestre sono sbiadite e corrose dalla polvere.
Una meschina lucernetta ad olio gitta su quello squallore dei riflessi
fiochi e sinistri.

Le ore vanno lente e pesanti: il silenzio profondo non è interrotto che
dal respiro affannoso della contessa, la quale abbandona sul guanciale
il viso smunto, emaciato, più bianco della trina che lo cinge.

Entra il pievano in punta di piedi, s’accosta riguardoso al letto,
esamina la malata lungamente: la saluta, le susurra qualche parola di
conforto. Poi si ritira presso all’uomo che è nella stanza e gli dice
sottovoce:

— È molto tempo che è così?

— Da stamattina.

— Non parla più?

— No, quando la signorina le rivolge la parola, la guarda, sembra
conoscerla, sembra capire quel che le dice, ma non risponde.

— Il medico è venuto?

— No, da tre giorni non s’è fatto veder più: sono stato a chiamarlo
oggi e mi ha strapazzato: dice che non c’è più nulla da fare.

Il prete crolla il capo dolorosamente e dopo qualche minuto soggiunge:

— Sapete, Pasquale, cosa dovete fare? Qui sotto alla _Cascina della
trena_ è arrivato da ieri il sor medichino. Chiamatelo lui.

Pasquale s’incammina verso la porta e poi torna indietro.

— Debbo dirgli che è lei, che lo prega di venire?

— No, no; fate voi come voi.

Pasquale esita un po’, poi si dispone ad uscire; ma la contessa fa un
gemito doloroso che lo arresta sulla porta: essa si agita, fa degli
sforzi per parlare; il pievano e Pasquale accorrono presso di lei; la
contessina alza il capo attonita.

— Che vuole? — chiedono tutti e tre in una volta.

La contessa raccoglie tutte le forze e con un filo di voce risponde:

— No... non... vo...glio colui!...

— Chi?... — domanda il pievano perplesso.

— Il medichino? — soggiunge Pasquale; egli ha indovinato perchè la
contessa fa cenno di sì.

— Perchè non lo vuole? — entra a dire la contessina, — egli può
ordinarle qualcosa che la sollevi, le faccia bene.

La vecchia le gitta uno sguardo imperioso, quasi collerico, e ripete
boccheggiante: — ... non voglio.

Poi rovescia il capo da una parte, la bocca le si torce convulsa,
le pupille le si nascondono sotto le palpebre: il rantolo si fa più
stridulo e intermittente.

— Oh nonna, nonna mia, — grida la giovinetta. — Ella muore.

— No, forse non è che uno svenimento; s’è inquietata un poco... se
aveste qualche cosa da darle... un po’ di vino... presto, Pasquale, un
po’ di vino.

Pasquale rimane ancora perplesso: il suo volto vergognoso vuol dire che
non v’è in casa una sola goccia di vino.

Però il vino non serve più. La contessa è proprio agli ultimi istanti
della sua vita, le sue mani si irrigidiscono, il suo viso si scolora,
la sua bocca si spalanca, il suo respiro si affievolisce rapidamente.

Il pievano dice a Pasquale: — Da basso c’è il figlio del mio massaio
che è venuto a farmi lume per la strada, dite che corra dal sagrestano
e faccia suonare l’agonia. — Poi estrae dalla tasca la stola e la
pianeta, le infila prestamente al collo e al braccio e venuto presso
il letto si curva sulla moribonda e le dice forte nell’orecchio: —
Signora contessa: si faccia coraggio, si raccomandi al Signore, alla
Vergine santa sua patrona; dica con me nel suo cuore: «Signore, sia
fatta la vostra volontà, se volete lasciarmi ancora un poco quaggiù per
servirvi, — e sia pur fatta, se volete chiamarmi a voi. — »

La contessina si slancia sul letto, getta le braccia intorno al capo
della nonna e la bacia e la chiama e singhiozza miseramente.

Il prete la rimuove dicendole: — No, essa l’intende, e le fa pena.
— E soggiunge nell’orecchio dell’ammalata: — Si raccomandi con tutta
l’anima al Signore che le vuol bene, che vuol ricompensarla della sua
sofferenza; dica: — «Gesù vi offro i miei dolori.»

Così continua a confortarla. Il vento autunnale soffia e stride per
le commessure delle imposte e fa tremolar la fiammella fumosa della
lucernetta: le tappezzerie mal ferme si incartocciano e gemono e i
mobili scricchiolano dolorosamente.

La campanella della chiesa getta i rintocchi dell’agonia.


III.

I quali gocciolano giù ad uno ad uno entro la cascina, nel tinello dove
sta raccolta la famiglia.

Il vecchio _particolare_ Giacomo Bellardi della _trena_, che accasciato
in un seggiolone di noce ricoperto di cuoio sonnecchia sui suoi
ottantasette anni, dondola in cadenza il fiocco del berrettino nero.

Un giovane sul fior dell’età, d’aspetto e di abiti civili, che legge i
giornali a un capo della tavola: Giulio Bellardi, nipote in linea retta
del _particolare_. Egli ha lasciato lo stabilimento di Acquasana, di
cui è direttore, e prima di ritirarsi a Torino, ove dimora, è venuto a
passare alcuni giorni nella casa dei _vecchi_.

All’altro capo, la vecchia Martina, fantesca della casa, che fa la
calza.

Seduto sullo scalino della stufa un omiciattolo, un figuro nero,
tozzo, tarchiato, in camiciotto di maglia lordo di mosto, col suo bravo
cappellaccio in testa e una pipa di gesso fra i denti.

La Martina interrompe la calza, tende l’orecchio, corruga la fronte
e, come un orologio a cui si dà lo scatto, comincia a borbottare un
_deprofundis_.

L’uomo della pipa se la leva di bocca, guarda Martina, e con uno strano
sorriso domanda:

— È per lei?

— _Fiant aures tuae intendentes in vocem deprecationis meae_... sì.

— Oh stavolta il diavolo avrà il fatto suo, se ella non lo corbella.

— _Speravit anima mea in Domino_, — ha corbellato voi!...

— Peste! È qui Giacomo che fu troppo buono...

— E voi? bisognerebbe che avesse avuto a fare con me, la signora! —
_Quia apud Dominum misericordia_...

— Se anche foste stata voi...

— _Et nunc et semper et in secula seculorum. Amen_... borbotta Martina;
poi si leva gli occhiali e soggiunge con calma:

— Se fossi stata io quando Giacomo comprò da quello spiantato
del contino il castello, avrei posto per condizione che la madre
rinunziasse al suo usufrutto.

— E se questa non voleva?

— Eh! bastava tener duro; avrebbe voluto. Ma voi e Giacomo avevate una
così gran furia...

— Sfido, c’era sotto il contratto anche il signor Tavella.

— Sì, per pigliar la roba a credito. Andate là; avete fatta una gran
zappa. Almeno vi foste assicurati dei mobili!

— Oh, quanto a questi... non è uscito di là dentro un filo solo. Ho
fatto buona guardia, io!

— Ah, buon cristiano! Altro che il filo e la tela! son andati le
tovaglie di Fiandra, che ce n’erano dieci servizi; e le lenzuole
quindici dozzine, tutte di quattro tele, nuove da far invidia... eppoi
se ne è consumata ben più assai della roba... Maurizio, mettete un
altro ceppo nella stufa.

Maurizio obbedisce premurosamente, e poi con il suo solito sorriso
ripiglia a dire:

— Ma se si doveva lasciare che se ne servisse quella strega... che cosa
volevate fare?

Martina gli volge un’occhiata di compassione e risponde:

— Se si doveva lasciare che se ne servisse, ecco io avrei detto: —
Lei se ne servirà dei mobili, sì, ma prima si farà l’estimo e lei darà
qualcuno di sicurtà che sia buono alla fine di risponderne. Eh? ve l’ho
da insegnar io il modo? A voi che vi chiamano il _Volpone_? E lo siete
in quel che vi riguarda.

Maurizio sputacchia sui tizzoni e china il capo sotto il rimprovero di
Martina.

Ma questa non si accontenta di tal muto riconoscimento della propria
superiorità, e ripiglia:

— Ho ragione sì e no?

Maurizio fa una smorfia come per inghiottire qualcosa che gli scotta la
lingua, e poi con crescente condiscendenza risponde:

— Per dio, voi non dite mica male: ma chi allora pensava avesse a durar
più la gatta del micino? Se voi me l’aveste detto...

— Allora non ero nulla qua dentro; erano in tanti a comandare!...

— Eh! lo so! Però chi la pensava giusto eravate voi.

Mentre essi parlano a mezza voce, il vecchio continua a sonnecchiare e
il dottore rimane assorto nella sua lettura.

Il fuoco divampa e scoppietta allegramente nella stufa. L’_Imperatore_
che sta sulla colonnetta dell’orologio, un _Primo Console_, che in
una litografia del muro a sinistra è disperato di non poter passare
il ponte d’Arcole, un altro _Napoleone_ in faccia che è stufo di star
seduto sopra una nuvola di cotone portata da due aquile, contemplano
quella scena e sembrano impazienti di scender giù a scaldarsi anche
loro.

Dopo una mezz’ora la campanella della chiesa squilla ancora più
lugubremente.

— St? uno, due, — dice Martina, — è la _passata_, — è morta.

Maurizio cessa a un tratto di sorridere e di parlare.

Il dottore Giulio interrompe la lettura e domanda:

— Chi è morto?

— La contessa! risponde Martina, che sta già recitando il _requiem_.

Questa volta Maurizio non l’interrompe più.

— Povera donna! esclama il dottore ripiegando il giornale.

Il vecchio si sveglia di soprassalto e brontola:

— Ah!... finalmente... è morta... la vecchia!

Poi — cosa fa? — si alza barcollando, appoggiandosi al muro va ad un
canterano, lo apre, ne leva un involto di carte.

Tutti lo guardano sorpresi. — Sembra uno scheletro gigante vestito alla
foggia ridicola del secolo passato.

Egli ritorna barcollante al suo seggiolone, vi si lascia cadere, e,
slegato l’involto con mano tremante, si pone a scartabellarlo.

Pare che non riesca a trovare quel che vuole, perchè s’impazienta e
borbotta.

Allora il dottore gli viene accanto, e gli chiede:

— Nonno, cosa cercate?

— Un in...stro...mento.

— Aspettate, lo cercherò io. Ditemi qual è.

E il dottore prende il fascio di carte e si siede accanto al vecchio.

— Leggi...

Il dottore comincia dal primo che gli viene sottomano. — _An huitième
de la république: liberté, égalité_, ecc. — È in francese, traduco: —
«Rinunzia fatta dal cittadino Raimondo d’Ormeto al cittadino Giacomo
Bellardi di un diritto di passaggio nell’aia di quest’ultimo. Per lire
ottocento. — Non è mica questo?

— No.

— «1809 — 19 marzo. Cessione per lire seicento... L’illustrissimo
signor conte Raimondo d’Ormeto cede al qui presente ed accettante
Bellardi Giacomo il diritto di comunione del bastione prospiciente la
costui casa con facoltà di fabbricarvi contro.» — C’è unita una procura
con la data di Cagliari in Sardegna.

— Già... il sor... conte... era scapato col re in Sardegna... cedeva...
per procura.

— Era agli sgoccioli, — osserva Maurizio.

— Continua, — dice Giacomo al nipote.

— Questi cosa sono? Atti di lite. — Atto di citazione innanzi alla
prefettura d’Asti... l’anno 1816, addì 25 aprile. L’illustrissimo
signor conte rappresenta come il Bellardi abbia demolito il bastione
comune per tutta la lunghezza prospiciente la di lui casa... ecc.
ecc....» Seguono molte comparse, ordinanze, e qui c’è la sentenza: —
«La prefettura condanna Giacomo Bellardi a ricostruire il bastione e
nelle spese.» — Era dunque vero?

— Eh! eh! guarda... — dice ghignando il nonno, — lì c’è l’atto
d’appello al Senato.

— Sì, colla data del 9 giugno 1821... e con quella del 15 gennaio 1826
la sentenza del Senato di Torino... il quale... «ritenuto in fatto che
dal complesso delle prove presentate a suffragio dell’attrice domanda
non risulta un criterio di convinzione sufficiente, ecc.... ecc.... e
che però si deve nel dubbio ritenere che il bastione sia rovinato per
incuria di entrambe le parti... annulla la sentenza della Prefettura e
dichiara tenute le parti a ricostruirlo a spese comuni, — spese per tre
quarti a carico del conte di Ormeto e per il resto compensate.»

— Ah! non era vera la pretesa demolizione di cui vi si imputava, —
esclamò il dottore, lanciando un lungo respiro di soddisfazione.

— Non avevano le prove! — dice Maurizio con una smorfia beffarda; — il
dottore lo guarda inquieto, e pare volerlo interrogare, ma s’astiene.

— Egli continua ad esaminare le carte.

— Segue un atto di precetto per rimborso di spese giudiziali nella
somma totale di lire 7776, e poi una corrispondente iscrizione
ipotecaria sul podere di Ronco.

— E questa cos’è, una nuova lite? — «Denunzia di una nuova opera alla
data del 3 luglio 1835, promossa nell’interesse del minore Rinaldo
d’Ormeto.»

— Ah questo, glielo dirò io, perchè appunto in quell’anno io
incominciai a fare gli affari di suo nonno, — dice Maurizio. — Il
bastione, per cui si era tanto litigato, non fu mai ricostruito perchè
ci volevano denari, e lassù cominciavano a discendere la china: le
acque scolando dal giardino del conte allagavano l’aia; suo nonno
fece più volte sollecitare il vecchio conte, ma senza frutto: poi
egli lo fece avvertire che lo avrebbe ricostrutto a sue spese, ma che
intendeva che la proprietà del muro nuovo restasse, come era giusto,
tutta sua. — Lui, il conte a questa proposta voleva ammazzarci tutti:
urlava, bestemmiava; un giorno venne sulla ripa del terrapieno con lo
schioppo... è vero, Giacomo?

— Già, ei voleva sotterrarci, — risponde Giacomo.

— Ed è un pezzo che l’abbiamo sotterrato lui. Un bel dì quella
carogna andò ai vermi: allora il suo nonno fece spazzare la frana del
terrapieno, e in tre settimane fece alzare un bel portico, proprio qui,
dove poi si fecero queste stanze.

— E i signori d’Ormeto? — chiese il dottore.

— Per un anno e mezzo restarono zitti; il vecchio conte aveva lasciato
ai suoi eredi molta superbia e molti imbrogli; dopo, la vedova, la
contessa Cristina, ora buon’anima, fece quella denuncia che lei
ha in mano, ma la fabbrica era finita, e il giudice cantò chiaro
al procuratore che in _possessorio_ avevano torto, e che dovevano
rivolgersi in _petitorio_ per l’indennizzo.

— Cos’è sto pasticcio _possessorio_ o _petitorio_? — domanda il dottore.

— Ah, lei non capisce. Ecco: sono due cose differenti, come in un
coltello la lama ed il manico; chi abbranca la lama ci si taglia,
ma chi impugna il manico arriva a tagliare. In definitiva, nel caso
nostro, vuol dire che uno ad opera incompiuta può aver torto, ma a cose
finite ha ragione o quasi.

Il dottore guarda Maurizio cogli occhi spalancati. Maurizio continua:

— Non avendo mezzi di ricominciare la causa innanzi al tribunale,
si fece una transazione giudiziale, — guardi che la troverà, — una
transazione per la quale quei del castello cedevano a suo nonno
il terreno in cui erasi fabbricato il portico, e in compenso egli
condonava al minore diverse annate di interessi che gli si dovevano per
il credito ipotecario sul Ronco, che ha già veduto.

Il dottore rimane un po’ sopra pensiero, ma il vecchio gli fa cenno
di proseguire: egli prende di malavoglia un’altra carta e dice: — «29
ottobre 1837, Torino: — vendita a termine di riscatto per tre anni
fatta dal conte Rinaldo a Giacomo Bellardi.»

— È questo, nonno, l’instrumento che cercate?

Il vecchio fa segno di no.

— Ah! questo fu un bell’affare, — sclama Maurizio; — Martina, vi pare
che allora abbia fatto il vantaggio di Giacomo? eh? il podere del
Ronco; 35 giornate di terreno, e che terreno! servirebbe a concimare
l’altro, tutto per sole lire 10,000 di cui 8,000 già pagate per
l’ipoteca che avevamo messo su quei fondi.

— Ma come? non hanno pensato a riscattarlo?

— Ci hanno pensato, ma tardi: il figlio aveva venduto, la madre non
sapeva nulla e il figlio non si curava di nulla; egli badava a batter
moneta di quanto poteva, pur di scialarla a Torino, a Parigi; a
lasciare un po’ di lana ad ogni rovo. Spiravano quasi i tre anni e la
contessa, avvertita da quel birbo del notaio, mi fa chiamare, dicendo
che vuol riscattare il podere: io rispondo che è padrona ma, peste! mi
rincresceva di lasciar scappare quel boccone, e a voi, Giacomo?

— Per... Diana...

— Mancavano due giorni appena al termine, quando la vecchia mi fa dire
di passar dal notaio per combinare l’istrumento; io ci vado colla
procura di suo nonno: per la contessa c’era Falabrino, il fattore.
Costui tira fuori il danaro; tante pezze di Genova, e fin d’allora di
queste pezze ce n’erano già delle calanti. Io rispondo che quel danaro
non lo voglio; che Giacomo aveva date al figlio tante _savoie_, che
tante _savoie_ si debbono restituire. Il notaio allora s’intromette
e mi chiede se, fatta una certa riduzione... non so se di quattro o
cinque soldi per pezza, io acconsentiva a prendere le pezze di Genova.
Batti, e ribatti, io mi lascio persuadere a questo. Ma il Falabrino
dice che non può far la riduzione senza parlare colla padrona; che in
quel modo anche gli mancherebbe del danaro per la somma convenuta e
mi chiede una dilazione di un giorno; io gli dico che vada al castello
subito, che torni fra mezz’ora, che io non intendevo essere menato per
il naso. Egli esce: io aspetto mezz’ora, poi esco di là, e me ne vo in
campagna, alla Vallia, dove facevo atterrare delle piante. Il Falabrino
viene a cercarmi nel pomeriggio, non mi trova e non trova neppure
Giacomo che era andato ad Asti. Mi spediscono un ragazzo a chiamarmi,
ma io rispondo che poichè avevano aspettato fino allora aspettassero
ancora fino al domani mattina, che neanch’io volevo far contratto
senza prima parlare a Giacomo. La sera, tornato a casa, mi dicono che
il Falabrino se n’era andato su tutte le furie ed era tornato indietro
gridando che con noi contratti alla buona non se ne farebbero più, che
egli farebbe all’indomani deposito in mano al notaio, che la testa dura
l’aveva anche lui e che noi avremmo pagate le spese. Sì, dico io, fra
me, voi volete giuocare di corna e ve le romperemo ah! ah!...

— Questo deposito l’hanno poi fatto? — interrompe con voce malferma il
dottore.

— Volevano farlo al domani; ma bisognava che ce ne avessero prima
regolarmente notificato il tempo ed il luogo.

— Non l’hanno fatto?

— No, perchè per tutto quel dì l’usciere della giudicatura rimase fuori
del paese: era andato a fare per conto mio una citazione fin sulle fini
di Mombarone e non tornò che la sera dopo l’avemaria. Il domani non era
più tempo per nulla e il Ronco era guadagnato.

Il giovane dà un’occhiata al _factotum_ di suo nonno: gli occhi
di costui esprimono una maliziosa soddisfazione, le labbra strette
mostrano un uomo contento del fatto suo.

Il dottore piega l’istrumento che, durante il racconto di Maurizio,
ha tenuto in mano; ne cade una carta d’un caratterino ingarbugliato:
la prende e ci trova scritto: — «Io Rinaldo conte d’Ormeto dichiaro
innanzi a questi testimonii ed affermo d’essere maggiore d’età. In fede
mi sono sottoscritto.»

— A cosa serviva questa dichiarazione?

— Ah! ecco: quando il contino vendette il Ronco non aveva che vent’anni
ed era minore d’età.

— Era minore!... ma allora non era necessario il riscatto: essi
potevano impugnare la vendita _di nullità_.

— Sì, — dice Giacomo, — ma... io... avrei accusato il contino... di
truffa...

— Perchè? — chiede il dottore.

— Per quella carta lì che lei tiene in mano, nella quale egli
dichiarava una cosa falsa, — risponde Maurizio.

Il giovane li guarda entrambi attonito: egli impallidisce, la mano gli
trema.

Dopo qualche momento di stupore egli fa scorrere gli altri documenti:
ne legge i titoli frettoloso, come avesse paura di ricevere altre
spiegazioni.

Passa così sovra due o tre altri contratti intercessi fra la sua
famiglia e quella d’Ormeto. Il vecchio gli dice ogni volta: — avanti!

Giunge finalmente all’ultima carta: è l’atto col quale il conte
Rinaldo, nel 1848, ha venduto al Bellardi tutte le sostanze paterne che
gli rimanevano, compreso il castello; riservato, s’intende, l’usufrutto
del quarto, che spettava, per legge, alla contessa madre.

— Leggi la descrizione dei mobili, — dice il nonno.

— C’è unita infatti una lista di mobili, il cui uso rimaneva alla
contessa, stanza per stanza.

— Dim...mi quelli del salotto... ot..tago...nale.

— Quattro grandi arazzi di Francia... un _trumeau_... dodici sedie...
quattro canapè coperti di damasco... due grandi specchi con cornice
dorata... una scansia... un tappeto di Fiandra... una lumiera di vetro
di Boemia... sei doppieri di bronzo dorato... cortine di velluto con
frangie d’oro.

— Ah!... li ve...dremo, — esclama il vecchio, — e il suo volto manda
raggi di contentezza, di gioia quasi infantile. — Li... vedremo...

Egli scambia qualche parola con Maurizio.

Il dottore sembra assorto in dolorose riflessioni. Egli si scuote, poi
dice:

— Dunque tutto il castello è vostro...

Il vecchio fa cenno di sì.

— Fin d’ora...

Il vecchio si frega le mani.

— E a lei... alla contessina cosa resta?

Maurizio si stringe nelle spalle.

— La dote della madre?

— Ah... ah!... un bel paio d’occhi neri! la madre era una _operante di
teatro_... non aveva nulla.

— La dote della nonna?

— Eh!... in questi ultimi dieci anni se l’è consumata la vecchia per
vivere.

— Dunque... non ha più nulla.

— Eh... no.

Il vecchio s’alza e Maurizio l’accompagna a letto.

— Domani... voglio... andarci... voglio...

Anche la Martina s’alza, si ritira per svestire, secondo il solito,
il vecchio Giacomo; nella quale bisogna è sempre aiutata da Maurizio,
benchè questo servigio sia dalla Martina accolto colla maggior
scortesia e ricambiato d’ingratitudine.

Il dottore è ricaduto nella sua meditazione... egli rimane solo col
mucchio di carte spiegate davanti... Le fissa dolorosamente, per
forza... pensa a tante cose... alla sua famiglia alla sua origine,
all’umiltà sua d’una volta, alla sua ricchezza ora così imponente...
Egli n’era orgoglioso come del frutto di un lungo ed onesto lavoro: di
una tradizionale temperanza... i suoi vecchi gli erano sempre apparsi
come rispettabili e venerande figure: come eroi dello Smiles. — E
adesso?...

La loro storia eccola là innanzi a lui tutta quanta: in caratteri
indelebili... infami!...

Dopo mezz’ora Maurizio ritorna nel tinello, si adagia tranquillamente
nel seggiolone lasciato vuoto dal vecchio, e, riaccesa la pipa,
contempla Giulio con aria di chi vorrebbe riappiccare il discorso. Egli
non intende rinunziare alla seconda parte della sua serata, nella quale
si trattiene a parlare col dottore di quel che si fa _per il mondo_;
in quell’ore egli si degna concedere la sua indulgente attenzione alle
bagattelle della politica: a Palmerston, a Metternich, a Russel, a
Napoleone III; commisera Cavour e deplora da tre anni la spedizione
di Crimea; trova che nel municipio d’Ormeto sotto l’amministrazione
di Giacomo, di cui gl’avversari dell’altro partito dicono ch’egli
è vice-sindaco, ed egli li lascia dire, gli affari vanno meglio che
dappertutto e andrebbero come un orologio se non fossero gli inciampi
della costituzione (lo Statuto del 47) che egli si compiace di chiamare
_costipazione_. Le scuole sopratutto sono da dieci anni il suo rovello.

— Cosa pretendono insegnarci a noi? — egli esclama sovente; — i nostri
interessi li sappiamo. Un maestruccolo che guadagna quattrocento lire
l’anno vuol insegnarci a far di conto!

Maurizio si consola pensando che quello stato di cose assolutamente non
può durare.

L’altre volte il dottore si sfiatava per fargli un po’ di lezione,
ed entrava con lui in lunghe discussioni a tu per tu sulle questioni
politiche del giorno.

Quella sera invece delle novelle gli dice asciutto:

— Andiamo a dormire.

Maurizio lo guarda stupito, poi senza scomporsi batte la pipa sulla
pietra della stufa, ne scuote le ceneri, e, tratto un cartoccio di
tabacco, si pone a riempirla riprendendo con tutta calma:

— A che cosa serve la fretta? a domattina ci arriveremo tutti insieme
alla stessa ora.

E dopo una breve pausa domanda:

— E cosa dice la gazzetta?

Il dottore sembra non sentire: egli tace qualche minuto poi ad un
tratto dice:

— Da quanti anni eri qui quando morì mio padre?

— Da quasi sette.

— Che uomo era?

— Ah! il sor notaio era uomo che sapeva il suo conto... ma non quanto
Giacomo... non era avveduto come lui... era più molle... negli affari
non aveva il suo spirito...

— Ah! meno male, — mormora il dottore a mezza voce.

— Però con quei del castello sapeva tener duro; quando morì il conte
vecchio, fu lui che consigliò di spingere innanzi il portico; egli
sapeva che il _possessorio_... stava dalla nostra. Una volta... egli
era amico del giudice, aveva delle protezioni dalle braccia lunghe ed a
quei signori gliene ha fatte ingoiare delle belle... Una volta...

Il dottore s’alza a questo punto e interrompe il racconto incominciato,
dicendo:

— Non hai sonno, tu? Io sì... buona notte, — e scappa frettoloso dalla
stanza... Ma pare che il sonno egli lo perdesse nel salire le scale,
perchè passeggiò agitato per la stanza fino a notte molto inoltrata.


IV.

Comincia a far l’alba; un’alba di novembre: squallida, triste, proprio
da funerale. Un nebbione pesante, viscido, acre, s’innalza dalla valle
e avvolge il villaggio in una nuvola fitta che rasenta il suolo, si
scompagina rompendosi lentamente in mille direzioni. Qualche debole
raggio di luce penetra in quella massa grigia e vi pinge dei pallidi
nimbi; poi una folata di nebbia lo nasconde, lo assorbe; poi il raggio
ricompare di nuovo più chiaro e più diffuso; poi dispare ancora in
un’altra folata più scura.

La campana della parrocchia suona l’avemaria con un far lento e di
malavoglia, come se non fosse sveglia del tutto: i colpi accoppiati si
succedono a intervalli sempre più lunghi; affievoliscono e terminano
con alcuni rintocchi funebri.

La piccola campana dell’Annunziata e la campanella di Sant’Anna, due
cappelle che stanno ai capi opposti del villaggio, le rispondono subito
con alcuni rintocchi affrettati, quasi impazienti, e paiono rimbrottare
la maggior sorella del suo ritardo.

Un quarto d’ora dopo due strupi, uno di _umiliate_, l’altro di
_battuti_, vestiti del camice di tela, salgono rapidamente, come
incalzantisi l’un l’altro, il sentieruolo del castello colle loro due
croci; il rumore dei passi segna la misura ad un confuso borbottío di
preghiere.

Due che hanno mancato al ritrovo seguono alla lontana e, col camice
ripiegato sotto il braccio, discorrono tranquillamente di concimi, di
sementi e del tempo che fa.

Le due confraternite, o almeno i rappresentanti di esse, arrivano
sulla spianata della collina e del castello. Quivi li attende Pasquale,
smorto come un dissotterrato.

Il priore dei _battuti_ gli chiede:

— Il vice-curato è venuto?

— Non ancora, — risponde con voce rauca.

Poi conta con dolorosa meraviglia i sopravvenuti.

Sono nove _umiliate_ e sette _battuti_: in tutto quindici persone.

— Così pochi?... — egli soggiunge in tono di rimprovero.

— Eh, — risponde il priore, — cattiva stagione per le sepolture; tutti
hanno la sementa, guai se il tempo si guasta!

— Io, vedete, son venuto proprio per riguardo a voi, — ripiglia un
altro _battuto_; — ho mandato i buoi innanzi col ragazzo e mi aspettano
per seminare. Si parte subito?

— Quando viene il prete, — replica Pasquale; e li introduce tutti
quanti in una vasta cucina al pianterreno, dai muri nudi, scrostati e
corrosi dal nitro.

In mezzo, sopra una tavola, parata con un ricco tappeto, sta la bara:
un operaio, aiutato dal becchino, sta per adattarle il coperchio.

— Volete vederla? — dice questi volgendosi a due donne che gli stanno
vicino.

Le due donne, esitando, s’accostano alla bara: vi danno un’occhiata.

— Maria Verginei — esclama una di esse, — che lenzuolo!... tutto
rammendato...

— Povera cristiana! — soggiunge l’altra, una vecchia con volto
impietosito e gli occhi pieni di lagrime, — povera cristiana, ella non
ne aveva più altri.

Pasquale si fa innanzi bruscamente, e con cipiglio garrisce i due
uomini dicendo:

— Andiamo... cosa fate?... copritela.

Essi obbediscono, soprappongono il coperchio e il falegname comincia
a inchiodarlo. I colpi di martello rintronano fragorosi, rimbombano
cupi per le stanze vuote del pianterreno, vi destano echi profondi e
paurosi. Tutto il castello, quella povera ruina deforme, rimasta in
piedi per lo sforzo disperato della contessa, pare urli sulla sua bara
e voglia sfasciarsi e crollare sovr’essa.

Un grido acuto, straziante, risponde dalle stanze del primo piano.

Pasquale abbrividisce e tosto dice con gran collera:

— Imbecille, avevi promesso di far piano.

— Hai paura che si risvegli? — risponde l’operaio.

Pasquale si lancia a chiudere le porte.

Poi ritorna barcollando e accostandosi ad un’altra tavola sotto la
finestra dove stanno alcuni fasci di cera, li slega e comincia a
distribuirli agli astanti.

Egli dà agli uomini un cero per uno e una candela a ciascuna donna.

— A me spetta un altro cero, — dice il priore.

E Pasquale:

— Eccovi il cero.

— E dite un po’, dove sono gli altri dodici per l’oblazione alla
compagnia? — risponde il priore, vedendo che non ne rimangono sulla
tavola che altri cinque.

— Come, altri dodici ce ne vogliono?

— Sicuro, non lo sapete?

— Ma se ve ne ho dato uno per uno, quanti ne volete?

— Ma quelli non si debbono adoperare.

— Ma se l’oblazione l’ho fatta ieri in danaro.

— Avete pagato solo ventiquattro lire; i ceri non sono compresi.

— Il vostro vice-priore mi disse che non occorreva altro...

— Ma egli non intendeva...

— Io gli ho parlato chiaro...

— Ma che! Suvvia! — gridano tutti in una volta.

In quella sopraggiunge il vice-curato, a cui si rimettono i contendenti.

Il prete dà ragione al priore.

— Allora Pasquale si rassegna e dice:

— Bene, prendete questi, gli altri ve li darò.

— Quando?

— Dopo la sepoltura.

— Ciò non è regolare, io non mi muovo se prima non li ho tutti quanti.

— Questa povera creatura, — dice Pasquale, quasi singhiozzando,
mostrando la bara, — ha ella mai fatto torto ad alcuno d’un centesimo?

— Ma, caro mio, facciamo le cose come vanno fatte.

Pasquale capisce che le preghiere non giovano e manda pei ceri un suo
ragazzo. Questi ritorna dicendo che lo speziale vuol essere pagato
subito.

Il pover’uomo inghiotte le lagrime di rabbia e di dolore che gli
vorrebbero sprizzare dagli occhi; poi esce, a furia corre a casa sua in
paese e incontra la moglie che sta per avviarsi al castello.

— Torna indietro, — le dice, — dammi quei danari.

— La donna obbedisce, e mentre sta cavando le monete da un involto
domanda timidamente:

— Sono per la sepoltura?

— Spicciati.

— Ma la contessa non ve li ha dati in conto del vostro servizio?

Dopo mezz’ora egli era di ritorno al castello coi ceri.

— Vuoi vedere che fa lui le spese di tutto? — dice un _battuto_.

— Che minchione! — risponde un altro.

Ogni difficoltà è rimossa: si accendono i candelotti che il priore per
la solita saggia economia ha legati ai ceri ed alle candele; quattro
_battuti_ alzano il feretro sulle spalle, il vice-curato intona il
_Miserere_, si formano le file; la sepoltura s’avvia.

Pasquale rimane l’ultimo sulla porta.

— Canaglia! — egli esclama, — una volta venivano qui a centinaia,
ora anche a pagarli non si possono avere. — E rompe in uno scoppio di
pianto. S’asciuga in fretta gli occhi, mette la giubba delle feste, il
cappello delle occasioni solenni, poi chiude la porta e si avvia anche
lui dietro la comitiva.

È giorno fatto. Una brezza acuta incalza la nebbia e scuote dai rami
degli alberi i rabeschi della brina, li stritola e li sparpaglia per
l’aria in un polvericcio bianco. L’orizzonte si allarga un po’, ma il
cielo è color di cenere, cupo, basso, pesante.


V.

Intanto due altri montano al castello: Giacomo e Maurizio. Da un pezzo
il vecchio non esce quasi più di casa; son parecchi anni che non è più
stato lassù: cammina a stento sostenuto da Maurizio.

Il sentiero sale sull’antica traccia della strada signorile, la quale
una volta, assiepata di mortella e tappezzata di muschio, partiva
dalla porta della torretta esagonale, ora sull’angolo della cascina,
e si svolgeva in curve graziose ed eleganti in mezzo ad una folta
selvetta d’alberi — e ad un bellissimo frutteto piantato sul declivio
occidentale della collina, dal ciglio dello spianato fino al bastione,
da uno dei conti d’Ormeto nel lungo periodo di pace nel quale si chiude
il regno di Vittorio Amedeo II e comincia quello di Carlo Emanuele III.

Ma il Bellardi, nell’ultimo decennio, dal 48 in poi, ha sradicato il
frutteto sostituendogli una vigna rigogliosa; e lo stradale, rimendato
delle curve, ha mutato prima in una stradicciuola ripida, poi in un
sentieruolo più ripido ancora.

Il contino Rinaldo aveva venduto colla testa nel sacco e senza curarsi
dei diritti della madre, con cui era in rotta pel suo matrimonio
disparato e la sua vita stramba. La vecchia contessa Cristina, quando
le venne assegnata la sua quota d’usofrutto, esasperata fino alla
disperazione nel vedere dal figlio ceduta al suo nemico fin l’antica
proprietà titolare, non aveva pensato a farsi assicurare nell’atto di
divisione il diritto di passaggio sull’antico stradale; e anzi non se
n’era riserbato alcuno.

Il Bellardi, costretto per legge a dare un passaggio qualunque, erasi
arreso a farlo, ma, come dice il codice, _nel modo più breve e meno
dannoso_ ai fondi da lui acquistati, restringendo questo passaggio, man
mano tutti gli anni con la perseverante tirchieria del contadino, fino
a renderlo quasi impraticabile.

Per via, Maurizio mostra al vecchio le nuove piantagioni; spiega con
eloquenza i mutamenti fatti di sua testa. Ma Giacomo, che per solito
vuol saper tutto e sopravvegliare a tutto, quella mattina è distratto
o piuttosto assorto in un pensiero fisso; le sue labbra sottili,
ripiegate entro le gengive sdentate, si contraggono convulsivamente,
i suoi occhi piccoli, infossati sotto fasci di rughe pelose, brillano
e protestano contro l’intorpidimento delle membra. Ad ogni momento
si ferma, stizzito della sua impotenza, ed alza il capo in alto per
misurare l’altezza che rimane a salire.

A mezza costa, a mano destra del sentiero, s’allarga un piccolo
ripiano, dov’era la cappella gentilizia dei signori d’Ormeto. Giacomo,
che ha militato al tempo della Repubblica ed è stato in Francia, non
ha scrupoli di religione, l’ha trasformata in un casotto di guardia per
la stagione delle vendemmie; davanti alla porta, cadente per vetustà, è
la pila dell’acqua santa capovolta. Quivi Giacomo si siede a riprender
fiato.

In quella sopraggiunge il convoglio funebre, che porta il cadavere
della contessa alla parrocchia. Il vecchio drizza il capo e guarda
con una singolare aria di indifferenza. Maurizio si leva il cappello.
Sbucano fuori di mezzo alle viti le _umiliate_, poi i _battuti_, di
cui uno col fascio di ceri sotto l’ascella, poi il prete in camice e
stola bianca listata di nero, poi il feretro, in fine tre o quattro
donnicciuole. Vanno di trotto, a balzelloni, sbandati, alla rinfusa,
come un branco di montoni cacciati dal mandriano, rimescolandosi,
urtandosi, buttandosi l’un l’altro fuori del sentiero; le tre
croci sbatacchiano i rami, dondolano, si dimenano, picchiano l’una
contro l’altra; i portatori gridano, si rimbrottano; il secchiolino
dell’acqua santa cigola, il prete canta un versetto del _Miserere_,
tutti rispondono ansanti, masticando fra i denti le parole in furia, a
contrattempo, discordemente.

Le tre campane suonano a distesa.

In un momento sono passati; il rumore dei passi affrettati, il
salmodiare più affrettato ancora si allontana, discende giù per la
china, un fracasso di canne spezzate l’accompagna.

— Maledetti! mi rovinano l’armatura dei filari! — sclama Giacomo.

Tutt’e due, l’uno a braccio dell’altro, riprendono la salita, giungono
in cima. Maurizio batte alla porticina del castello; al suo picchio
risoluto viene la moglie di Pasquale, e vedendoli rimane a bocca
aperta. Essi entrano, vanno innanzi nella cucina, dove è rimasta la
tavola parata, poi in un altro camerone vuoto, poi nell’androne che dal
cortile una volta metteva al giardino dietro la casa. Quivi, dacchè lo
scalone che dava accesso al piano superiore fu demolito dal Bellardi,
s’è collocata una scala di legno tarlato, dagli scalini smossi, e
che, per mezzo d’una trappola, mette capo nella galleria di sopra. Il
vecchio e Maurizio salgono, e la donna dietro a loro. Maurizio esamina
minutamente ogni cosa, ne giudica lo stato, e ne calcola il valore;
appena giunto nella galleria egli spinge un uscio a destra, e gitta uno
sguardo curioso entro la stanza, che è quella della contessina.

— Povera signora, — dice la donna a mezza voce, — non fa che
disperarsi; è mezz’ora appena che ha chiusi gli occhi.

— Ih! le passerà, si queterà anche lei come fanno gli altri, — dice
Maurizio ghignando e alzando le spalle.

— Volete che andiamo a vedere i mobili? — dice poi a Giacomo.

Il vecchio scuote la testa; — egli ha uno scopo. — Dov’è il salotto
ottagonale?

— È qui, — risponde la donna; e fattasi innanzi apre loro un altro
uscio in faccia, li fa attraversare un altro stanzino, una specie
di grazioso tinello; quindi li introduce nel salotto ottagonale, che
una volta separava o riuniva gli appartamenti delle due ali, ed era
il luogo di ritrovo della famiglia, la scena discreta delle serate
tranquille, monotone, eppur così care, così degne di ricordo; il
rifugio dei confidenti ragionari, delle gioie e dei dolori verecondi.
Quivi da qualche secolo tutti i casi lieti e tristi dei signori
d’Ormeto hanno avuto un’eco, un riflesso, una memoria: quella stanza
è il viscere che ha risposto a tutte le pulsazioni di una progenie,
che ne ha alimentato, risentito, raccolto le febbri, le passioni, le
superbie, le ambizioni e i patimenti. Delle otto pareti, una è occupata
dall’invetriata del balcone, tre dalle porte orlate di stipiti e
sormontate da frontoni con dipinti rappresentanti soggetti arcadici,
stipiti e frontoni sovraccarichi di dorature, di vetri, di ornati,
di rabeschi bizzarri, capricciosi, assurdi; fiori a foglie e viticci
che arieggiano gole di draghi, spire serpentine, mostri grotteschi
e mingherlini, prodotto di fantasie isteriche e leziose, decrepite
e bambine; ghiribizzi, viluppi inestricabili che furono le prime
impressioni e le prime ammirazioni dei fanciulli, e il malinconico
passatempo dei vecchi sgloriati, stanchi della vita e del mondo, che
venivano a cercarvi le speranze ed i sogni giovanili. Sulle altre
pareti, fra l’una e l’altra porta, quattro grandi arazzi Gobelins,
che rappresentano la leggenda del Cid. Li ha recati il conte Renato,
reduce dall’ambasciata alla corte di Luigi XV; ed è anche lui, il
conte Renato, che ha fatti porre colà gli altri mobili, tutti nello
stile vistoso e manierato del suo tempo, tutti parlanti di lui maturo
vagheggino, del suo fasto, della sua petulanza. Ma il tempo ha smorzati
i colori troppo vivi, i toni chiassosi, i luccicori impertinenti, ha
abbrunite le dorature smaglianti, ha reso le tinte più tranquille e
simpatiche, ha steso sovra tutto un velo di famigliarità dignitosa,
di malinconia profonda. Si capisce subito che là dentro le pompe, le
mattìe, le svenevolezze sono cessate da un pezzo, che sono sparite
insieme con le parrucche incipriate a _aile de pigeon_, insieme
con le code lustre, gli scarpini scollati, i nodi carnovaleschi, le
marsine variopinte, — e che in loro vece sono venuti i pensieri, le
riflessioni, le inquietudini di una vita più modesta e più severa.
Poi, una cert’aria di tristezza, di ordine scrupoloso, certi ninnoli
mezzo infranti sul camino, rivelano il tedio, i dolori di un’anima
solitaria, abbandonata fra quelle pareti di cui accarezza e conserva
gelosamente i ricordi, richiamando il passato a conforto e ad oblio
del presente. Poi certi strappi ai damaschi delle sedie, rimendati
con cura, dissimulati, nascosti studiosamente negli angoli più oscuri
della stanza, nelle penombre artifiziosamente ricercate; certi sdrusci
ai piedi dei mobili, certe scranne zoppe e appoggiate al muro, dicono
una terribile cosa, _miseria_, quella più penosa, quella che è posta
accanto alle tradizioni, agli usi, alle mostre, al bisogno della
ricchezza, quella che si vergogna, che vuol nascondersi, e non ci
riesce in tutto, e diventa una tortura, una mortificazione di tutte
l’ore, di tutti i minuti. — Un leggiero strato di polvere indica
che da molti giorni la famiglia non è venuta nella sala: un ragno
ha condotto i suoi fili dalla lumiera di cristallo alla candela di
un doppiere, e corre sovr’essi trionfante; gli specchi si rimandano
stupidi l’un l’altro l’immagine mostruosa, mai più veduta, dell’ospite
nuovo, la moltiplicano all’infinito, come per dirsi che la desolazione
è cominciata e che la distruzione è vicina; che il nemico il quale ha
fatto screpolare quei muri, squassandoli di fuori, tanti anni fa, è
alla porta, — sta per entrare.

Entrano Giacomo e Maurizio.

Il vecchio volge intorno uno sguardo di curiosità soddisfatta; poi,
vedendo che Maurizio ha colle sue scarpaccie fangose lordato il
tappeto,

— Somaro, — gli dice, — nettati le scarpe. Non sai che anche il
vescovo su quell’uscio si levava la calotta che tiene fino in chiesa?
e mostrava più rispetto per quei che stavano qui, che pei suoi santi?
L’onore di penetrare fin qui non l’aveva che il conte Corsione, il
marchese di Montafia, il conte di Castelleone, il marchese di Frinco,
quello di Castellalfero... e tu dirai ch’io ci sono entrato... col
cappello... in testa... da padrone!

Egli si rizza, con un prodigioso sforzo di volontà, sulla persona, e
pare aver scosso dalle spalle curve una diecina d’anni; poi move due
o tre passi, e viene a sedere nell’antico seggiolone damascato, con
la civetta dei conti d’Ormeto nel mezzo alla spalliera; — chiude gli
occhi, e mormora:

— Egli era qui.

— Chi? — domanda Maurizio un po’ stupito.

— Il conte Renato, il padre del conte Rinaldo.

— Quando?

— Settantasei anni fa: la sera del 6 gennaio 1782, sì, il giorno
dell’Epifania... Quella sera io sono venuto qui per la prima ed unica
volta... È una famosa storia, te la voglio contare:

— Il conte Renato aveva condotta a casa la sposa, una francese, con
un nome più grosso del suo giudizio; l’accompagnavano signori e servi
di tutti i colori; qui al castello era corte bandita: io era venuto
ad aiutare lo stalliere... avevo undici anni. I parenti e gli amici
condussero la sposa fin qui; io, curioso, mi cacciai in mezzo a loro;
i corridoi erano scuri, i servi coi lumi andavano innanzi agli sposi;
entrai, non visto, e mi nascosi, per vedere la sposa, dietro quella
scansia là. Poco dopo tutti salutarono ed uscirono: il conte Renato
stringeva loro le mani sulla porta; io non ho osato farmi innanzi. Poi
il conte chiuse gli usci a chiave, e rimasero soli gli sposi; sedettero
al fuoco. Il conte, frusto pei vizi, aveva sonno, sbadigliava, la sposa
aveva paura; trovava che il castello era melanconico. Io, che stavo a
disagio, mi mossi e feci tremolare certi barattoli che stavano sulla
scansia.

« — Vi è qualcuno là dietro, — disse spaurita la sposa.

— «No, — disse il conte.

— «Si,» — essa ripetè.

— Il conte s’alzò, venne alla mia volta, mi vide, mi acciuffò per
i cappelli... mi menò due terribili ceffoni che mi fecero uscire il
sangue dal naso e dalla bocca, poi aperse l’uscio, mi lanciò fuori e mi
sferrò un gran calcio, dicendo:

— «Un’altra volta ti ricorderai che il tuo posto è nella stalla.»

Maurizio dà in uno scoppio di risa.

— Egli rideva come te... la bestia... Ora il mio posto è qui, e i suoi
pari... non hanno neppur più la stalla... Fra pochi giorni la unica sua
discendente sarà in mezzo alla strada... ed io sarò...

Egli s’interrompe.

In faccia al verone, a un tiro di schioppo, è un poggetto sul quale
sta il cimitero nuovo del villaggio; appunto in quella ci portano la
vecchia contessa Cristina e s’ode il salmodiare della sepoltura.

                             . . . . . . .

— ... Io sarò ancora... qui, — dice Giacomo; poi alza il capo e guarda
Maurizio... e Maurizio guarda lui: — non pare che abbiano avuto tutti
due lo stesso pensiero? Maurizio ha in certi momenti un ghigno che fa
paura.

— Fa freddo... qui... non ti pare?

— No, — risponde l’altro, — sono gli anni, Giacomo.

Giacomo fa inutili sforzi per rialzarsi in piedi; Maurizio lo lascia
affannarsi un bel po’; poi colla sua flemma sinistra gli viene in
aiuto:

— Perchè fare il valoroso, quando non si può più?


VI.

Quello stesso giorno Maurizio fa il giro delle poche possessioni
dismesse dalla defunta: sono sette _giornate_ in tutto di fondi
spezzati, magri e danneggiati; dei cui frutti dimezzati col colono,
trappolati dalle costui ruberie, decimati ogni anno dalle imposte e
dalle riparazioni, la povera donna, per la riprovevole avventatezza del
figlio, era stata ridotta a vivere parecchi anni Dio sa come.

Egli li conosce a fondo zolla per zolla; non ha cessato mai, finchè
durò l’usufrutto della contessa, di visitarli di quando in quando e
di fiscaleggiarvi i modi di coltura e del mantenimento: il colono,
malgrado il divieto della contessa e la vigilanza di Pasquale, aveva
per quei della _trena_, e per Maurizio specialmente, una riguardosa
debolezza, prevedendo che un dì o l’altro egli avrebbe a far con loro.
Ora quel giorno è venuto, e Maurizio spadroneggia dappertutto, e il
colono gli corre dietro con umile condiscendenza, e cerca tutti i modi
d’ingraziarselo.

Maurizio è affaccendato, impaziente di entrare in possesso di quella
poca roba.

Incontrato Pasquale sull’uscio di casa sua, gli domanda:

— La signorina parte oggi?...

— Non so.

— Dille di sbrigarsi, e di sgombrare subito; siamo al San Martino
quandochessia, e noi vogliamo affittarla.

Era l’uso già praticato da Giacomo cogli altri edifizi del castello:
abbatterne subito tutto ciò che è ornamento, affittare l’abitabile
finchè rimane in piedi, poi distruggere anche questo quando sia
divenuto inservibile.

— Noi vogliamo affittarla, — ripete Maurizio.

Egli parla sempre alla prima persona plurale, e fa uso dei
corrispondenti pronomi possessivi quando parla degli affari di Giacomo
e della famiglia. — Cos’è Maurizio nella _cascina_? Non è parente,
non è amico, perchè i contadini non hanno, nella loro classe, che dei
cointeressati; — di servo non ha i modi; — è nulla, ed è tutto.

Una volta il dottore Giulio, a uno che gli aveva fatta la stessa
domanda, rispose dicendo:

— È _Maurizio_, non so altro. A casa nostra non si fa niente senza di
lui.

Fra la gente pratica della campagna hanno importanza le cose e non i
nomi. — Maurizio è quel che è: un uomo indispensabile: lo sanno tutti
là dentro, e lo sa egli pure. Martina sola non vuol saperne.

Quando il figlio di Giacomo, il notaio Giuseppe, affetto da malattia
cronica, deplorava la sua morte vicina e prematura, egli lo consolava
dicendo:

— Può morire tranquillo, sor Beppe, a suo figlio penserò io.

Bisogna ammettere che la ricchezza dei Bellardi s’era fra le sue mani
quadruplicata.

Però egli ha sempre conservato la sua indipendenza. Non ha mai abitato
alla cascina. — Prima stava a pigione; poi quando suo figlio, ch’era
stato nell’esercito come surrogante, tornò al paese, e coi denari del
cambio comprò una casa, Maurizio andò a stare con lui. Si osservava da
alcuni, che gli affari di questo figlio camminavano negli ultimi anni
con meravigliosa prosperità.

All’ordine crudele di Maurizio, Pasquale non replica nulla. Rientra
in casa; poi esce ancora, sale al castello; poi ridiscende di nuovo e
rincasa, accende un po’ di fuoco, vi siede vicino, e resta lì immobile,
col mento sul petto, parecchie ore di seguito.

Finalmente, quando è notte fatta, si butta il pastrano sulle spalle
ed esce; — prende la strada del castello, ma giunto a qualche passo
dalla cascina si ferma irresoluto: poi torna indietro, si ferma ancora,
alla fine entra arditamente, come chi ha preso una determinazione
penosa, ma inevitabile. Attraversa il cortile, e, spingendo l’uscio del
pianterreno, manda innanzi un — si può? — con voce rauca e malsicura.

Dalla cucina sbuca fuori la Martina, e guardandolo con occhio
inquisitorio, sta aspettando che le dica quel che vuole.

— Giacomo è alzato ancora?

— Sì, perchè?

Maurizio, che fumava seduto sulla pietra del fuoco, si alza, e viene
anche lui incontro a Pasquale, il quale riprende:

— Vorrei dirgli due parole, a Giacomo.

— Andate lì, nel tinello, — soggiunge bruscamente la donna, e gli volta
le spalle.

Maurizio invece tien dietro a Pasquale, ed entra con lui nel tinello.
Il vecchio è di malumore, lo si vede subito; è in piedi, ma le gambe
lo sorreggono a stento, ed è costretto ad appoggiarsi con ambe le mani
alla stufa. — Quando entrano, fa un moto per rizzarsi sulla persona,
e aguzza gli occhi stracchi in volto a Pasquale, che sta sulla soglia
pensoso, come inchiodato colà dalla ripugnanza che gli danno quell’uomo
e quella stanza.

Il vecchio continua a fissarlo senza parlare.

Maurizio gli dice:

— Non lo riconoscete? — è Pasquale.

— Lo conosco benissimo, — brontola Giacomo; poi, volgendosi a Pasquale,
soggiunge:

— È uscita... colei?

— La sora contessina, — spiega Maurizio in tono ironico.

Pasquale risponde a mezza voce:

— Non ancora...

— Cosa? — domanda Giacomo.

— Ha detto di no... — grida Maurizio.

— Ho già capito, — ribatte il vecchio stizzito. — E dimmi un po’,
quando fa conto di andarsene?

Pasquale fa qualche passo avanti, e comincia:

— Abbiamo scritto a Torino, a’ suoi parenti...

— Quali parenti? — chiede Maurizio, — quelli di sua madre?

— Abbiamo scritto che vengano a prenderla, — ripiglia Pasquale parlando
in fretta, come chi dice una bugia; — se siete contenti che stia ad
aspettarli al castello... fra otto... o dieci giorni al più... qualcuno
verrà.

— Quanti giorni? chiede Giacomo.

— Sette od otto, — risponde Pasquale, che ha capito d’aver chiesto un
termine troppo lungo.

— Ventiquattr’ore... con...cedo, — ribatte il vecchio.

Pasquale rimane sconcertato.

Giacomo soggiunge:

— Domani... che prenda i suoi... stracci, e se ne vada.

— Là dentro, ci hanno ballato abbastanza, — dice Maurizio, — e non c’è
più una sedia buona.

Pasquale si fa un po’ di coraggio, e dice:

— Dove volete che vada subito?

— Vada da’ suoi parenti, — risponde Maurizio ghignando.

Pasquale vorrebbe dire qualcosa a Maurizio, ma pensa alla signorina
per cui è venuto, e per paura di nuocerle si contiene, e, rivolgendosi
sempre al vecchio, continua con santa pazienza:

— Volete che vada a Torino da sola?

— Eh, sua madre ha girato il mondo da sola... e così è divenuta
contessa, — dice Maurizio.

— Massime in questi momenti, — prorompe Pasquale, — essa non sta bene...

— Pretesti, — borbotta Giacomo fra i denti.

— A voi cosa fa... giorno più, giorno meno...

— Ho detto... ventiquattro ore.

Pasquale resta là confuso, sbalordito, come un condannato a cui hanno
letto la sentenza; che vorrebbe protestare, e vede ch’è inutile il
farlo, e non sa capacitarsene.

— Hai inteso? — riprende il vecchio imperiosamente, dopo qualche minuto
di silenzio, e poi gli volta le spalle, con atto che significa: non
seccarmi più, e vattene.

Pasquale si volge lentamente. Maurizio ride sempre, il Napoleone
dell’orologio ha la sinistra nel cappotto, e coll’altro braccio gli
intima anch’esso di uscire.

Egli esce, e quand’è fuori affretta il passo, come se il terreno gli
scottasse i piedi. All’entrata del paese, incontra il suo ragazzo che
correva alla sua volta; egli è già stato a casa, per dirgli che al
castello è preso male alla contessina.

— Anche questa ci vuole, — geme Pasquale, e ritorna di trotto sulla
strada percorsa.


VII.

Il dottor Giulio è uso a fare ogni sera, quando il tempo è buono, due
passi sulla spianata del castello.

Il cielo si è rasserenato verso il tramonto, ed è limpido e chiaro:
l’aria è fredda, ma tranquilla. Giulio passeggia col capo chino sulla
stradicciuola erbosa che taglia obliquamente l’altura in mezzo ai
filari sull’area degli edifizi abbattuti, fino all’incontro d’un angolo
del corpo di fabbrica superstite. Quivi alza gli occhi e guarda il muro
lacerato, pieno di screpolature, per le quali è cresciuta l’erba e si
sono arrampicati il luppolo ed il rovo. Poi corruga dolorosamente la
fronte, si volta, e, come per cacciare un pensiero molesto, gitta uno
sguardo sull’orizzonte, su quelle curve moltiformi, innumerevoli, che
paiono ondate d’un mare burrascoso fatto immobile per incanto, ad un
tratto: i campanili che emergono nelle creste hanno l’aspetto di fari
spenti.

È uno spettacolo mirabile, fantastico. Qua e là spiccano sull’azzurro
pallido del cielo profili neri, bizzarri come di scogli sgretolati dai
marosi.

Erano i castelli di Corsione, di Mirabella, di Albereto, e sono adesso
mucchi di rottami, sfasciumi di muri cadenti. Sotto, a mezza costa
appaiono nell’ombra caseggiati vasti, bassi, quadrati, deformi: le case
dei _ricchi_.

Giulio china ancora gli occhi a terra; ritorna verso la casa della
defunta contessa, e volge un altro sguardo al muro screpolato, pendente
visibilmente infuori: pare abbia a crollargli addosso da un momento
all’altro.

Rifà nuovamente la strada sino al ciglio della spianata; al suo piede
si stende il villaggio d’Ormeto, come un’_esse_ allungata: quante case!
e chi porta il nome d’Ormeto non ha più una spanna di tetto!

Giulio continua la sua passeggiata innanzi indietro.

Dall’angolo del castello la stradicciuola rasenta, a sinistra, il
giardino e scende alla _cascina nuova_, quella che suo nonno ha
fatta edificare da circa quindici anni. Dopo molte giravolte, Giulio
s’accosta alla chiudenda del giardino e guarda là dentro: sono ancora
due brevi tronchi di viale ombreggiati da alberi centenari e in mezzo
a quelli alcuni sedili di pietra; fra l’uno e l’altro albero vi sono
siepi di mortella e macchie di arbusti.

A quindici anni, quando al collegio leggeva i primi romanzi, egli
pensava a quel povero lembo di parco gentilizio, vi collocava le
scene dei suoi libri favoriti, e la notte sognava vagare egli stesso
nell’ombra di quegli alberi, al chiaro di luna, nel silenzio della
campagna, solo con una damina al braccio, la sua damina, una contessa
per lo meno, la regina dei suoi pensieri di collegiale, col lungo
strascico di seta, con le mani bianche e le maniere aristocratiche, e
di sedere su di uno di quei sedili: e la mattina svegliandosi avrebbe
volentieri ceduto tutti i poderi della sua famiglia a chi gli avesse
potuto far vero quel sogno.

Sogni di adolescente, da un pezzo svaniti! — Proprio svaniti del tutto?

Alla finestra del primo piano, proprio in faccia a lui, vi è lume; sui
vetri si disegnano di quando in quando delle ombre e dei profili che
passano e ripassano e spariscono e ritornano. Cosa succede in quella
stanza? Anche in certi momenti gli par di udir delle voci confuse.

Poi sente a correre dalla parte opposta sul sentiero che sale dal
villaggio; egli allora ritorna indietro qualche passo, entra in mezzo
alla vigna, fa il giro del castello e viene dietro un filare donde si
scorge la porticina.

In quel mentre arriva un ragazzo di corsa e dalla porticina del
castello esce un uomo. Giulio riconosce Pasquale.

Il ragazzo trafelato dice:

— Il medico è fuori del paese.

Pasquale fa un’interiezione di dolore e soggiunge:

— Entra dentro, io vo’ dallo speziale.

E s’allontana con furia.

A Giulio il cuore batte in modo singolare.

Egli prende una risoluzione: esce dal suo nascondiglio, viene alla
porticina e la spinge; entra in casa.

Il ragazzo che stava nel corridoio si spaurisce.

Giulio gli dice:

— Conducimi nella stanza della malata.

Il ragazzo lo riconosce ed obbedisce...

Trovano la contessina svenuta sopra un canapè e presso a lei la moglie
di Pasquale che le stropiccia le mani, la chiama, singhiozza e non sa
cosa farle.

Giulio s’accosta e chiede:

— Cos’è stato?

— Sarà mezz’ora che m’è svenuta e non c’è verso di riaverla...
l’ho spruzzata d’acqua, le ho fregato i polsi, bagnate le tempie,
tutt’inutile... Sor medichino ha fatto bene a venire, ha fatto proprio
una carità.

— Avete fuoco acceso in cucina?

— Sì.

— Datemi un panno qualunque... sì, questo va bene, voi spogliatela in
fretta e mettetela in letto.

Poi corre in cucina e fa scaldare il panno: in quella giunge Pasquale
con un ampollino in mano, e, vedendolo, sbarra gli occhi in atto di
meraviglia.

Ma Giulio non s’accorge; egli è in quell’istante medico, null’altro che
medico: porge la pezzuola all’altro:

— Andate, gli dice, e fatela porre sul petto alla malata.

Gli strappa di mano l’ampollino, lo guarda, fa un gesto di
disapprovazione, e dice:

— Questo non serve, — ed esce.

Tutto questo in un baleno.

Dopo alcuni minuti ritorna con un cordiale e con un cucchiaio, ne versa
qualche goccia fra i denti della contessina. Poi dà parecchi ordini, ai
quali Pasquale e la moglie obbediscono con premura.

Finalmente la contessina dà segno di riaversi, mette un sospiro che
termina in un penoso sbadiglio.

Poi apre gli occhi e guarda intorno a sè.

Giulio si è ritirato in fondo alla camera, nell’ombra, e contempla
pietosamente quel visino smorto e patito.

La fanciulla chiede con un filo di voce alla donna:

— Cos’è accaduto?

— Nulla, — risponde la donna. — Come si sente?

— Sono stanca, — e chiude gli occhi ancora.

Giulio esce fuori nel corridoio e con lui Pasquale e poi la donna.

La donna domanda:

— Cosa ne dice lei?

— Questo è passato e speriamo non sarà nulla, — risponde Giulio.

— Non sarebbe meglio darle qualche nutrimento, un po’ di brodo?

— Sciocca! — esclama Pasquale.

— Sciocca niente affatto, — dice il dottore; — il male della signorina
è sfinimento. Datele pure il brodo; ma badiamo, poco e leggiero.
Buonanotte; se accade qualche novità venitemi ad avvertire. Tornerò
domani a vederla.

Uscito il dottore, Pasquale chiede col suo tono burbero:

— Chi l’ha chiamato?

La donna intimidita risponde:

— Nessuno, è venuto da sè.

Pasquale fa un moto di sorpresa, poi borbotta fra i denti:

— Diavolo; che il pruno voglia fare ciliege?


VIII.

L’indomani il dottor Giulio deve fare la visita promessa.

È quasi mezzogiorno e al castello non c’è stato ancora. Però sono due
ore che egli ha preso il sentiero della collina. Maurizio, credendo
che volesse visitare i piantamenti di viti, ch’egli ha fatto sulla
spianata, gli è venuto dietro e, raggiuntolo, senza cerimonia gli si è
posto ai fianchi. Poi ha cominciato a dipanare la filatessa delle sue
spiegazioni.

Ma, arrivato in cima, il dottore s’è seduto su un rialzo di terreno, ha
levato un libro dalla tasca del soprabito l’ha aperto e v’ha cacciati
gli occhi dentro così bene, che Maurizio non ha potuto più farglieli
alzare: perciò, stanco di parlare al vento, ha preso partito di
andarsene, cercando fra sè d’indovinare il motivo del mal’estro che da
due giorni osserva sul viso del suo _medichino_.

Giulio, rimasto solo, ha chiuso il libro, l’ha riposto in tasca;
ha acceso un sigaro, l’ha lasciato spegnere, è restato lunga pezza
immobile colle mani incrocicchiate attorno ad un ginocchio; poi s’è
alzato e s’è posto a passeggiare; poi è tornato ancora a sedere.

La giornata è splendida, il sole caldo, l’aria tepida e queta; proprio
l’estate di S. Martino. Ma il viso del dottore s’oscura sempre più.

La moglie di Pasquale gli passa accanto e lo saluta.

Giulio si scuote, e le chiede:

— Come sta?

— Meglio; non viene a vederla?

— Ah! sì...

S’alza e con la donna viene al castello, all’uscio della camera
dove sta la malata. La donna entra: egli rimane sulla soglia; egli
che allo stabilimento ha un passo così sicuro, che non aspetta mai
nell’anticamera dei suoi clienti, perchè è avvezzo invece ad essere
atteso.

La donna annunzia il dottore alla contessina e questa risponde:

— Venga, venga.

Giulio allora entra. La contessina si tira in fretta le coperte fino al
mento e lo saluta con un cenno di capo.

Gli occhi di lei mostrano i segni del pianto di molti giorni, e sono
pieni di lagrime.

Giulio s’inchina profondamente, s’avvicina in silenzio: le chiede
del suo stato, l’esamina in fretta e poi ad un invito si siede al
capezzale.

Tacciono tutti e due qualche minuto, poi la contessina dice:

— Dottore, so che lei è stato qui iersera, la ringrazio.

Giulio fa un’esclamazione sommessa e non risponde.

La contessina si volge a guardarlo e soggiunge:

— Sa che da me non l’avrei riconosciuto? l’ultima volta che l’ho visto
era tanto giovane ancora, non aveva barba affatto: e sono quasi otto
anni; era ad una festa al castello di Cortanze.

— Lei si ricorda di quel giorno?

— Altro che, e lei?

— Anch’io... lei portava un abito violetto a balze bianche.

— È vero.

— Io me ne stavo vergognoso in un canto ed in silenzio, intimidito
da tutta quella compagnia di signori: e lei nel _cotillon_ venne a
prendermi per danzare.

— Poi quando uscii io l’ho salutato e lei non mi ha risposto...

— Io non me ne sono accorto; non osavo guardarla...

— Aveva paura di mia nonna? — domanda con un leggiero sorriso la
contessina; poi subito si abbuia e sclama sottovoce singhiozzando:

— Povera nonna!

Essa piange qualche minuto in silenzio, volgendosi dalla parte
del muro; le sue treccie bionde si sciolgono e s’attortigliano sul
guanciale.

Infine riesce a calmarsi e soggiunge:

— Lei sta a Torino?

— Sì.

— Tutto l’anno, anche la state?

— La state vo ad Acquasana.

— Torino! com’è bello Torino! come ci andrei volontieri!

— Ma non ci va ella adesso?

La contessina crolla malinconicamente la sua testina.

— Ma non ha i parenti colà?

— Ma... non so...

— Oh!

— Sì, forse qualcuno che non conosco, che non ho mai visto, che non sa
neppure ch’io viva.

Poi aggiunse amaramente:

— Meglio così...

— Perchè?

— Perchè l’entrare in casa di gente che vi prende per farvi una grazia
è cosa che mi spaventa; io...

— Dunque!

— Dunque ci penserà Pasquale a collocarmi; io sono stanca, non sono
buona di pensare alle cose mie; me lo diceva sempre la povera nonna.
Pasquale è la mia grossa provvidenza; io mi sono rimessa in lui.

— Pasquale, il suo servo?

— Pasquale non è servo; è nostro grande amico, egli vien qui per
affezione... ha la disgrazia di volerci bene...

— Perchè dice disgrazia?

— Creda, è proprio così: ho notato che tutti i nostri amici sono stati
sventurati, mentre quelli che ci hanno fatto del male, oh quelli hanno
prosperato...

Queste parole dette così innocentemente, senza intenzione, feriscono
il dottore; la contessina se ne accorge, se ne adonta, e tutti e due
restano impacciati.

Giulio s’alza poco dopo, raccomanda le sue prescrizioni e prende
congedo.

La contessina Maria, tratto fuori in fretta un braccio di sotto la
coltre, gli porge con gentile franchezza la mano.

Il dottore la prende con la sua e gliela stringe con premura, quasi con
riconoscenza; ed osserva involontariamente che quel candido e morbido
braccio è coperto da una manica di tela grossa e bigia.

— Tornerò stasera, — egli dice.

— Grazie.

La sera ci ritorna difatti, e trova che la contessina è stata colta
da una febbre ardente; egli le raccomanda il silenzio, la calma, fa
un’ordinazione ed esce. Nello stesso modo succedono le due visite del
domani e quelle del posdomani. La malata lo accoglie con un sorriso,
con un altro sorriso lo congeda; egli non fa che le interrogazioni
strettamente necessarie. La febbre scema al mattino e ripiglia forza
alla sera. Ma nel pomeriggio del terzo giorno continua a sminuire e
nella mattina del quarto è scomparsa del tutto.

La contessina Maria accoglie il dottor Giulio con un sorriso più bello
del solito, lo saluta con voce quasi gaia, e porgendogli il polso gli
dice:

— Dottore, mi dica subito che sto meglio, se no glielo dico io.

Giulio osserva che stavolta il braccio della contessina è chiuso in una
manica di battista fina, benchè un po’ logora.


IX.

Egli si siede e conversa una mezz’ora con lei. Nei discorsi della
contessina le nubi della malinconia si squarciano qua e là e compare
qualche fugace lembo di azzurro. — La convalescenza è sempre una
primavera, e, — quando si hanno vent’anni, — una festa, un ineffabile
tripudio della vitalità entro le fibre, che invade a poco a poco lo
spirito e lo riempie di gioia.

La contessina è sinceramente mortificata di non sentirsi afflitta come
le pare di dover essere, e fa di tutto per spegnere le liete vibrazioni
che il suo cuore manda al suo cervello: ma non sempre ci riesce: i
moti del cuore si ribellano di quando in quando e la vittoria rimane
a loro; — però è una vittoria fugace che il dolore sincero arriva ad
imbrigliare in tempo.

Prima che il dottore sorta, vedendo che egli la saluta con gravità
maggiore dell’altre volte, gli domanda con sollecitudine:

— Tornerà a vedermi?

— Stassera sì.

— E domani?

— Domani spero che lei non avrà più bisogno dell’opera mia.

La sera la contessina Maria è divenuta pensierosa; nel congedare il
dottor Giulio, gli dice in un certo modo inesprimibile:

— Vedrà, domani sarò ancora malata.

E quando il giorno dopo Giulio entra nella camera e la trova bene oltre
ogni desiderio, essa si abbuia in viso ed esclama:

— Vuol credere che sono stata malata fino adesso? almeno ero di cattivo
umore; l’una cosa è segno dell’altra.

Infatti essa ha gli occhi rossi: ha pianto.

La contessina aggiunge ingenuamente:

— È curioso che quando ella è qui io mi sento benissimo, appena esce
m’accorgo che avevo mille cosucce, una quantità di mali da confidarle.

Giulio, che per solito è sempre molto serio, sorride a queste parole, e
con piglio che vuol parere scherzoso, ma non è troppo calmo:

— Ebbene, facciamo così: io tornerò finchè essa se ne ricordi, — oppure
se ne dimentichi affatto... dei suoi mali.

Il tempo è freddo, invernale; perciò il dottore va a rilento
nel permettere alla convalescente d’alzarsi, ed essa osserva
scrupolosamente il suo divieto.

Poi le concede di lasciare il letto con precauzione, poco alla volta,
solo per qualche ora nel mezzogiorno, e intanto continua le sue visite,
nè più nè meno come prima, perchè la contessina è afflitta e piange
sempre quand’egli non c’è.

Egli viene al mattino un po’ più tardi quando ella è alzata: — essa
si siede in una poltrona accanto al camino, ed egli le tiene un po’ di
compagnia.

I suoi consigli le fanno bene; ella si rasserena leggermente, —
promette di non pensare a «cose brutte».

E ciò è tanto più singolare, che anche questi consigli egli li dà con
viso scuro e malinconico.

Quando sono insieme, quello che ha più bisogno di conforto, di svago
sembra lui, il dottore. Una volta essa, scherzando, glielo fa notare; e
questo scherzo, invece di farlo ridere, lo turba.

Egli si mostra ogni giorno più triste: una sera la contessina gli
domanda:

— Si ricorda quel che le dissi alla sua prima visita? La mia amicizia
porta disgrazia. Si guardi dalla iettatura!...

Il dottore scuote il capo, e poi:

— Crede lei ch’io sia suo amico?

— Certo.

— E perchè lo crede?

— Ma... per il bene che mi ha fatto, per le sue premure...

— Tutto questo non è che dovere; sa lei che chi di noi due è creditore
è ancora lei?

— Come! — sclama con stupore la contessina.

Il dottore non risponde; egli è inquieto, pare volerle dire qualcosa,
ma si vede che non sa decidersi a cominciare.

La contessina Maria lo guarda fiso stupita, e ripete:

— Si guardi dalla iettatura, dottore.

Giulio risponde vivamente con gesto di dolore:

— Oh il iettatore credo d’esser io! e mi pare che tutto qui intorno,
questi muri, questa casa mi insinuino il malefizio.

Maria è oltremodo sorpresa e chiede nuovamente:

— Come?

Ma anche questa volta il dottore non risponde.

Poco alla volta il malumore di Giulio si fa contagioso, e s’apprende
anche all’animo di lei. I loro colloqui riescono scuciti, qualche
volta penosi. Tutti e due fanno spesso strane imprudenze; toccano
inavvertitamente dei tasti scabrosi, stridenti, e allora, — è
finita, — una sgraziata, irreparabile atonia insorge tra loro; — la
conversazione langue, gli sforzi per rianimarla staccano altre note
discordi: non si capiscono più, dicono l’opposto di quel che vogliono
dire, e poi non sanno più dir nulla e succedono lunghi quarti d’ora di
uggioso silenzio. Dopo una lunga e inutile scherma si separano molto
malcontenti di sè stessi.

Una sera Giulio arriva mentre Maria sta scrivendo: egli è spiacente
di essere venuto a frastornarla e vuole andarsene. Maria lo prega
di rimanere; egli insiste per partire, essa insiste per indurlo a
trattenersi e soggiunge che non permetterà mai ch’egli sorta così;
poi, approfittando del suo esitare, accosta una poltrona al camino e,
tirandolo pel braccio con dolce violenza:

— Si segga, suvvia, un pochino soltanto. Vuol far cerimonie qui — in
casa sua?

Giulio, a queste parole, corruga involontariamente la fronte; essa se
ne accorge, s’accorge di avere incespicato in un ginepraio e rimangono
tutti e due confusi e senza parola.

Finalmente Maria si fa coraggio e dice:

— Se lei mi promette di restare, io finisco la mia lettera.

Giulio siede. Maria torna allo scrittoio; in due minuti ha finito,
piega la lettera e comincia la soprascritta; ma si ferma a mezzo e si
volta a Giulio.

— Sa lei l’indirizzo del marchese di Pamparato? in via Borgonuovo,
numero nove o numero diciannove?

— Mi pare diciannove, — risponde Giulio. Il marchese è suo parente?

— No, egli dirige il ritiro delle _Vedove e nubili_ a Torino, e siccome
un dì o l’altro io dovrò uscire di qui...

— Perchè?

— La sua famiglia...

— Oh!

— Volevo dire che la sua famiglia ha premura — insomma bisogno
dell’appartamento.

Nuova confusione e nuovo silenzio più lungo e più fastidioso del primo.

Stavolta è Giulio che domanda a Maria:

— Che pensa lei di... della mia famiglia?

— Io... nulla...

— Non sa delle animosità che esistevano tra la sua casa e... la
_Cascina_? Non gliene hanno mai parlato?

— Sì, la nonna... So ch’essa e Giacomo... il signor... suo nonno, non
andavano intesi...

— Da che parte crede stesse il torto?

— Io non sono buona di pensare alle cose serie, gliel’ho detto; è una
storia lunga che non ho mai potuto capire, un vero garbuglio di liti,
di vendite, di sentenze, di ipoteche... Lei saprà cosa sono...

— Sì, pur troppo, signorina, sono strumenti d’odio e di rancore, di
un’avidità maligna, astiosa...

E Giulio s’interrompe, si morde le labbra. Poi:

— Che opinione ha lei di me?

— Chi?

— Lei...

— Io... certe cose, dottore, non si dicono in faccia.

Ma, parendole leggere un dubbio sul volto di Giulio, soggiunge con una
dolce serietà:

— Come potrei pensar male di lei?

— Oh dei motivi ne avrebbe d’avanzo.

Maria non comprende. Giulio non sa o non vuole spiegarsi: egli si trova
impacciato.


Cosa strana! finiscono così tutti i loro colloqui, nei quali essi,
con gentile intenzione, per delicato riguardo l’un per l’altro, si
sforzano di parere più sereni e più tranquilli; — lo scherzo, la celia
più innocente lascia sempre nei loro discorsi una traccia sinistra,
come quei razzi falliti che esalano uno sgradevole puzzo di nitro e di
zolfo.

È molto meglio quando lasciano che l’anime loro si aprano liberamente
nella conversazione; s’intendono allora, passano insieme delle lunghe
ore senza sforzo, senza pena, di una malinconia soave che fa bene,
che pare uno sfogo a tuttedue. La contessina Maria richiama i ricordi
dolorosi, gli stenti, le umiliazioni, i trambusti della vita girovaga
che ha menato col padre, e conchiude sospirando:

— Povero papà, era pur buono!

Poi anche gli confida la triste monotonia degli ultimi anni, quando,
morto il padre, fu raccolta dalla nonna fra nuovi dolori e nuovi
stenti assai più penosi... Talvolta, senza volerlo, lascia capire le
durezze patite dalla vecchia contessa, animo altero, carattere forte,
inasprito dalle sciagure. Essa tuttavia la rimpiange sinceramente: non
pronuncia mai il suo nome senza piangere, e, quando s’accorge che le
proprie parole possono lievemente offenderne la memoria, si diffonde in
lunghe giustificazioni, che non sempre ottengono l’effetto desiderato,
ma sono sempre prova incontestabile dell’amore di lei. Il dottore
ascolta con attenzione, fa qualche osservazione, e poi il discorso
si avvia tranquillamente; e, alla fine, si separano riconoscenti
l’uno all’altro, lei d’aver potuto ricordare, egli d’esser riuscito a
dimenticare.


X.

Così sono trascorse quasi quattro settimane, nelle quali Pasquale non
è rimasto colle mani in mano: subito nei primi giorni inquietato dalle
intimazioni di Maurizio, s’è recato dal giudice del mandamento, il
quale gli ha detto che avuto riguardo all’infermità della contessina,
questa poteva rimanere al castello fino a guarigione finita ed
occuparvi due stanze; ma l’ha consigliato a rimettere tutto il resto
senz’indugio, perchè il contegno della contessina non avesse l’aria di
una _detenzione abusiva_.

Veduto poi che il male si dileguava, si diè attorno per trovar di
allogare la contessina; non sapendo s’ella avesse parenti ne ha scritto
ad un vecchio cavaliere, amico della contessa, che molto tempo prima
veniva tutti gli anni ad Ormeto a farle una visita. L’amico ha risposto
così evasivamente che de’ parenti, che potessero alla contessina venire
direttamente in aiuto, non ne conosceva; che unico partito conveniente
per lei sarebbe quello di entrare nel _Ritiro delle vedove e nubili_,
sulla collina di Torino, _luogo decente e arioso_; che se la contessina
voleva, ne avrebbe parlato al marchese Pamparato per farvela ricevere,
che anzi la consigliava di scriverne ella stessa al marchese.

Intanto Maurizio ha installati al castello nelle stanze del piano
terreno due famiglie d’inquillini, quattro creature sue; e da parecchi
giorni quattro paia d’occhi e altrettanti d’orecchi si danno la muta
nel vegliare sugli interessi del proprietario. Pasquale è fuori dei
gangheri, egli brontola tutto il giorno e lancia moccoli contro tutti
quei della _cascina_, non escluso il dottor Giulio di cui, a dir il
vero, egli comincia ad aver piene le tasche.

Un bel giorno entra nelle stanze della contessina dopo una visita
piuttosto lunghetta di Giulio, e, sempre coll’usato rispetto, ma con
piglio di visibil malumore, domanda:

— Cosa dice di bello il _medichino_?

Maria risponde sorridendo:

— Curioso! mi dice tante belle cose.

Pasquale si lascia sfuggire un gesto dispettoso, ma subito si pente e
rimane afflitto, mortificato.

Maria gli viene accanto, e postagli una mano sulla spalla, gli dice
carezzevole:

— Suvvia, hai da dirmi qualche cosa: dilla; tu sai che qualunque cosa
sia detta da te non può spiacermi.

Pasquale la guarda intenerito e con rispetto.

— Cos’hai da dirmi?

— Io sono uomo grossolano, ma comunque sia ho le mie opinioni; e non
so capire cosa voglia il _medichino_. Io dico che il meglio di tutto
sarebbe ch’egli s’intromettesse per liberarla da questi cani, per farla
rispettare, egli che lo può, e poi le dicesse:

— «Stia qui finchè non ha trovato un posto dove andare...»

Maria gli pone la mano sulla bocca e dice in fretta:

— Zitto, zitto, se lo potesse l’avrebbe fatto.

E soggiunge:

— Egli non sa nulla.

— Come? viene due volte al giorno e non vede cosa si fa lì abbasso?
Coloro là non sono forse suoi dipendenti? non li conosce? Dica
piuttosto...

— Cosa?

— Che... anche lui è della famiglia.

— Oh! Egli è stato così buono con me...

— Anche gli _altri_ sono buoni; buoni a tutto... fuorchè a far del
bene...

La contessina non è persuasa, ma le parole di quell’uomo affezionato la
scuotono dolorosamente.

Pasquale continua:

— Se sapesse come la conosco io quella razza lì; quando fanno bella
ciera è quando ne studiano qualcuna delle più triste; essi non sono
come noi, non parlano per farsi capire ma per non lasciarsi capire.

Maria dice con qualche amarezza:

— Insomma, di’ subito che non sei contento che il dottore venga a
vedermi...

— Oh, lei è padrona di fare quel che vuole.

— Ma tu non sei contento... io lo vedo; e, senti, io voglio fare tutto
quello che mi dici... sai bene che voglio ascoltarti in tutto... Perchè
non mi consigli... non mi dici schietto il tuo parere?... Guarda; per
farti piacere, il dottore non voglio più vederlo.

Così dicendo si volta dall’altra parte, s’allontana e va a sedersi
nella poltrona accanto al camino.

Dopo qualche minuto ripiglia:

— Ma di’, come si fa, quando viene, a mandarlo via?

Pasquale non sa cosa rispondere.

— Finchè sono qui in casa sua, per questi pochi dì che ci devo
rimanere, non posso chiudergli l’uscio in faccia, non è vero? non
posso.

— No... — mastica Pasquale fra i denti.

La contessina s’alza vivamente, s’avvicina di nuovo a lui.

— Bisogna ch’io continui a riceverlo; ma, senti: tutte le volte che
viene tu starai qui a farmi compagnia; sì, sì, lo voglio.

Pasquale fa qualche ritrosia e poi si lascia persuadere; non avrebbe
mai osato proporre una cosa simile; l’avrebbe creduta un’irriverenza
bella e buona verso la contessina; ma, poichè lei lo vuole, questo fa
piacere anche a lui. Egli accetta di buon grado questa nuova funzione e
comincia subito nella sera stessa. Quando viene il dottore dopo cena,
egli rimane là in un canto, silenzioso, riverente, ma immobile, duro
come una pietra.

La contessina Maria accoglie il dottore con un fare contegnoso che
non è tutto volontario; i discorsi cadono più presto del solito, e il
dottore se ne va di buon’ora.

Lo stesso avviene all’indomani mattina; Giulio s’inquieta, pare
accorgersi di qualche cosa, e la sera non si fa vedere.

Pasquale fa di tutto per intrattenere la contessina, che è molto
distratta e di malumore.

Il giorno dopo uno degl’inquilini del pian terreno, con pretesto di
venir a cercar Pasquale, penetra fin nella camera della contessina;
uscito di là, egli se ne va difilato da Maurizio a dirgli che la
signorina è alzata, sta benissimo e che la storia della malattia è una
famosa carota tallita.

Maurizio fa _in conformità a questa cognizione_ i suoi _passi_ per
costringere la signorina a sloggiare.

Nello stesso tempo arriva una lettera del vecchio cavaliere, colla
data di due giorni prima; egli scrive «che ha parlato al marchese di
P***, il quale si mostrò favorevolissimo alla sua preghiera, e gli ha
detto che la contessina può considerarsi come accettata nel ritiro;
che però non si tratta più che di sapere il giorno in cui potrà
essere presentata e che a questo effetto egli ha per l’indomani un
appuntamento col marchese. La contessina si tenesse dunque pronta a
partire quando che sia.»

Questa buona notizia non fu accolta da Maria con troppa gioia, e anche
Pasquale, che l’aspettava con tanta ansietà, pensando alla partenza
della contessina, finisce per non provarne tutta la soddisfazione che
credeva.

— Però è una cosa questa, — dice all’ultimo, ed è un comando ch’egli dà
alla sua ragione di persuadere il suo cuore.

Il dottore non venne neppure quel giorno.

La mattina di poi egli manda alla contessina un bel canestro di
moscatella sana e ghiotta quanto mai.

Maria ne va in solluchero e ne fa una gran festa, tanto che non
s’accorge di Pasquale che è entrato in quel punto e che colla sua ciera
stravolta fa un singolare contrasto con lei.

Il poveretto ha ricevuto anche lui allora allora un regalo, anzi due.

Il primo da parte di Maurizio, e glie l’ha portato l’usciere della
giudicatura; è un regolare diffidamento _in forma_ per la contessina di
_sgombrare, evacuare, dismettere i locali da lei occupati direttamente
o per mediata persona, e ciò subito o almeno entro il termine di due
giorni_ dall’intimazione, sotto _le comminatorie legali per la forzata
dismessione e pene conseguenti_.

L’altro regalo è una lettera da Torino, che porge alla contessina
dicendo:

— Vediamo questa.

È ancora del cavaliere; due sole righe:

  «Mi recai oggi dall’Ill. marchese di Pamparato; trovai che era
  partito improvvisamente da ieri per Parigi, dove rimane per qualche
  tempo. Perciò non c’è altro da fare per ora che aspettare il suo
  ritorno.

  Con dispiacere

                                       Vostro umiliss., ecc., ecc.»

Pasquale resta fulminato; si butta sopra una sedia, si pone una mano
sulla fronte, sugli occhi, si soffia il naso e riflette lungamente in
silenzio:

— Signorina, — dice poi, — bisogna cercare per adesso un altro luogo
per lei.

— Perchè?

— Perchè lei deve uscire di qui fra tre giorni; e l’ordine è venuto
insieme coll’uva del medichino. Glie l’ho detto io che gente sono
quelli là!

La contessina resta senza fiato.

— Bisogna cercare un qualche posto provvisorio; le toccherà contentarsi
di quel che si può avere.

— Ma, povero Pasquale, dove vuoi ch’io mi trovi il posto provvisorio,
— esclama piangendo la contessina, — dove vuoi che vada a cercarlo?
perchè lo dici a me questo?...

— Egli è che... se lo vuole, il posto, così com’è, io l’avrei
trovato... un buco, un letto.

— Dove?

— In casa mia.

— Oh Pasquale, mio buon Pasqualone!

— Vuole? — domanda trepidante il contadino.

— Ma sì, ma sì; io starò meglio di qui con voi altri due: qui mi annoio.

E la contessina, tutta rasserenata, scuote a Pasquale le due mani, e
Pasquale ride anche lui tutto contento. Maria però si rannuvola tutto
ad un tratto.

— Ma, povero Pasquale, io vi darò fastidio a voi altri.

— Oh giusto! lei mi farà un grande onore.


XI.

Quella mattina la moglie di Pasquale, incontrato il dottore, l’ha
informato dell’imminente partenza della contessina; ella ignorava
il contrordine venuto da Torino, perchè non aveva visto ancora la
signorina; il marito, come dice lei, è un _rusticone_ che non le dice
mai nulla.

Giulio càpita al castello nel pomeriggio, in ora insolita, e trova
Maria sola, intenta a raunar le sue robe per farle recar a casa di
Pasquale.

La saluta, si siede e pare aspetti ch’ella cominci.

Ma la contessina lascia da parte le sue faccende, come volesse
fargliene un mistero; siede e tace anche lei; il dottore, stupito, ha
un’interrogazione sulle labbra, ma non osa farla.

Finalmente le dice:

— Contessina Maria, son venuto a salutarla prima di partire.

— Lei parte?

— Sì, domani mattina: torno a Torino.

— Ah! — esclama seria seria Maria.

Giulio aspetta certo qualche altra parola; è preso d’una curiosità
invincibile che gli si pinge sul volto.

— Anche lei... se ne va? — soggiunge poi dando un’occhiata espressiva
agl’involti che sono sulla tavola e sulle sedie.

— Oh sì, me ne vado, — risponde arrossendo la contessina.

— E... va anche lei a Torino...

— No... resto...

— Come?

— Qui ero così sola, questa casa è tanto triste e a quella buona gente
riesce incomodo il venire fin quassù tutti i momenti per servirmi; io
vado da loro... da Pasquale.

Ella parla in fretta, colla faccia in fuori, come se dicesse una bugia.

Giulio la guarda con attenzione e un sospetto gli attraversa la mente.

— Mi spiace... mi spiace che lei esca dalla sua casa in questi ultimi
giorni.

— Perchè?

— Si possono pensare e dire tante brutte cose...

Dicendo queste parole tien gli occhi fissi su lei.

— Può sembrare... che... qualcuno le abbia... fatta... scortesia... e
ciò mi rincrescerebbe molto.

La contessina pare molto confusa: non risponde.

— Spero che nessuno le avrà mancato... non è vero? Può lagnarsi
di qualcuno?... Non mi dice nulla? è successo qualche cosa di
spiacevole... qui in casa sua?

— Questa non è casa mia... io non ho casa...

— E per questo... via, mi dica francamente: le hanno fatta premura...
Sì? sì dunque! Oh fino a questo punto!... mi dica cos’hanno fatto...
no, non mi dica nulla... E pensare ch’io poteva, ch’io doveva
prevederlo questo; che pure potevo impedire quest’ultima bricconata!
ma dove avevo la testa io?... Adesso lei non crederà ch’io ignoravo
tutto... che tutto s’è fatto a mia insaputa!...

— N’ero certa... interrompe commossa Maria.

— Sì... davvero? Ella crede alle mie parole?

Maria fa cenni affermativi colla testa.

— Ebbene, mi faccia un grande favore. Rimanga qui ancora... un sol
giorno... almeno fino a domani a sera...

— Ma lei... non parte, lei, domani?

— No, non partirò: ci rivedremo... rimanga, abbia fiducia in me,
rimanga; io ho bisogno di dimostrarle, se non altro, che tutta la mia
colpa non fu che leggerezza in tutto questo... che se qualcuno... dei
miei le ha fatto oltraggio, io la rispetto come si merita.

— Lo so, lo so.

— Ma un giorno può dubitare della mia lealtà, ed io non voglio che lei
ne dubiti mai.

Maria si alza, e avvicinandosi gli stende la mano e gli dice colle
lagrime agli occhi:

— Non ne dubiterò mai.

Giulio prende quella mano con tutte e due le sue, la stringe forte,
la reca vivamente alle labbra, la bacia... Poi leva gli occhi; i
loro sguardi s’incontrano, poi si sfuggono, poi si cercano ancora e
s’abbassano...

— Non voglio prove... le ho...

— Grazie.

— Lei ha avuto compassione delle mie sventure.

— Non dica così!

— Non è vero forse? Lei è stato in questi giorni gentile, delicato,
buono, e io... me ne ricorderò sempre... questa è la mia sola
riconoscenza... la riconoscenza dei poveri come me... se vorrà
ricordarsi di me...

— Se mi ricorderò? si figuri...

— Forse non ci rivedremo più... ma saremo amici.

Queste parole, che Maria pronunzia quasi sottovoce, a pause, con una
intonazione calma, malinconica, mettono sossopra l’animo di Giulio che
balza in piedi repentinamente:

— Ma io non posso lasciarla partire così da questa casa.

— Oggi o domani, non è lo stesso per me?

— Ma non per me...

— Che vuol fare?

— Non so, mi dia tempo a riflettere... ho bisogno di far qualcosa e
farò qualcosa. La scongiuro, rimanga fino a domani.

E le prende nuovamente la mano e ripete:

— Rimanga! altrimenti non potrò credere alle generose parole che lei mi
ha detto, e crederò invece che lei sia meco corrucciata...

— Ma no! no!

— Che non mi stimi più... che mi detesti...

Maria prorompe:

— Zitto, zitto; io detestarla! oh!... io che invece...

Ma s’interrompe tutto ad un tratto e s’allontana da Giulio rapidamente.
Un passo d’uomo si fa sentire sulle scale.

Giulio rimane incantato; egli vorrebbe farle finir la frase che
gli pare della massima importanza; — ma quel subito silenzio non è
eloquente lo stesso e forse più?

Pasquale entra col suo fare grave e pesante, va dritto dalla contessina
e le domanda:

— Vuol venire adesso?

La contessina, facendo uno sforzo per render calma la sua voce,
risponde esitando:

— Non ho ancora potuto mettere insieme le mie robe...

— Non son quelle lì le robe?

— Non ci son tutte.

— Vuol che le dia una mano io?

— No... stassera non mi sento... sono stanca...

Pasquale china il capo in atto di rassegnazione e coll’usata
discrezione va a sedersi in un angolo senza fiatare e senza rivolgere
uno sguardo al dottore.

Maria soggiunge carezzevole:

— Povero Pasquale, t’ho fatto affaticare per me.

— Ah! — mormora Pasquale alzando le spalle.

— Verrò domani...

— La stanza è pronta, venga quando vuole.

Il dottore si alza a questo punto per uscire, e nel salutare la
contessina la ringrazia tacitamente con una calorosa stretta di mano,
che, se non fossero state le ombre della sera, avrebbe trovato il
compenso in uno sguardo singolare di lei.

Anche Pasquale si muove augurando la buona notte a Maria, che gli corre
dietro, lo trattiene sulla soglia e gli dice ancora:

— Pasquale, non sei mica offeso?

— Ah! Non è lei la padrona?

— Non posso proprio, adesso... ma domani verrò...

— Le manderò la mia donna anche stassera.

— Se non ti rincresce...

Pasquale esce. Maria ritorna a sedere nel vano della finestra: è notte
chiusa, la campagna è scura, avvolta in una fitta caligine; il castello
pare siasi sollevato fra le nubi, nello spazio.

Maria sta per lasciarlo il castello, e con esso staccarsi dalle ultime
reliquie della sua famiglia; e poi? che sarà di lei... in quel nero
orizzonte, in quell’avvenire più nero ancora?...

Un fioco lumicino brilla sotto la nebbia giù giù nella scesa: è alla
_Cascina della Trena_...

— Cosa farà domani il dottor Giulio?


XII.

Pasquale e il dottore scendono insieme la collina, vengono insieme al
villaggio; camminano silenziosi, impensieriti; Pasquale ha l’aria di
non accorgersi affatto del compagno. Quando son giunti innanzi alla sua
casa, il dottore gli dice:

— Avrei qualcosa da dirvi.

Egli, senza parlare, apre l’uscio e gli fa segno di entrare.

Attraversano una specie di bottega ingombra di assi e di arnesi da
lavoro. Pasquale fa un po’ il legnaiuolo e alterna le occupazioni del
mestiere con la coltura di alcuni piccoli fondi ch’egli possiede.

Riescono nella cucina, dove la moglie ha scodellata la minestra, e
così per ingannare il tempo e l’appetito fa ripetere le orazioni a due
ragazzi, che divorano cogli occhi il _pane quotidiano_.

La donna saluta sommessamente il dottore, gli pone una sedia accanto
al fuoco. Pasquale si mette a desco. Cenano in fretta: poi i ragazzi
vanno a letto e la donna ritorna al castello, dove, dopo la morte della
contessa, suole passar la notte.

Quando sono rimasti in due, il dottore dice al legnaiuolo che gli volta
le spalle:

— Pasquale, voi non mi volete bene.

Ma l’altro è tutto intento a sorbire la sua _monferrina_, cioè l’ultimo
piatto di minestra condita col vino.

— Mi sono accorto che... non siete contento che io... parli con la
contessina... Non siete contento?

— No.

— E... perchè?

— Perchè tutto il paese ci trova a ridire.

— E cosa dice il paese?

— Ci vuol poco talento ad immaginarlo. Che la signorina è sola, è
giovane, e che lei, signor _medichino_, non può avere delle buone
intenzioni...

— Ah!... e voi, Pasquale, cosa ne pensate voi?

— Cos’ho da pensar io?

— Non credete ch’io sia amico sincero della contessina?

— No.

— Anche voi credete ch’io abbia delle cattive intenzioni?

— Sì.

— Ebbene, voi non mi conoscete.

— Ah!... ho lì nell’orto un pero cotogno. Questa primavera ne levai un
messiticcio e l’ho piantato; fra due anni porterà frutto: io giurerei
che anch’esso farà pere cotogne... e lei?

Il dottore rimane dolorosamente colpito da questo sillogismo metaforico
e non sa cosa rispondere. Dopo un breve quarto d’ora Pasquale gli
domanda brusco brusco:

— Cos’ha da dirmi?

— Oh... volevo... persuadervi che mi giudicate male.

— Che cosa glien’importa a lei dei miei giudizi?

— Me n’importa assai.

— Uh!

— Sì, me n’importa assai; perchè voi siete un brav’uomo, il migliore
ch’io conosca; poi perchè voi siete il confidente, l’aiuto, il sostegno
di una persona per cui io ho moltissima stima...

— Eh!

— Sì davvero.

— Sì! non v’è angheria e malignità che i _suoi_ non abbiano fatta a
quella povera famiglia; cose che gridano vendetta. Non parlo delle
antiche, tutti le sanno; ma solo di quelle che ho viste io in questi
ultimi dieci anni: appena occupato il castello l’hanno affittato a
della canaglia: al ferraio che picchiava tutta la notte sull’incudine
mentre la contessa era malata; ad Ambrogio che le faceva il letamaio
sotto le finestre e glielo rivoltava tutti i giorni a mezzodì nell’ora
del pranzo. Poi hanno cominciato a demolire con tanta buona grazia,
che un muro comune rovinò e fu miracolo se la contessa non rimase
sotterrata; poi le hanno lasciato rubare le tegole, intorbidar l’acqua
del pozzo, saccheggiare il giardino, e l’hanno fatta schernire e
ingiuriare da Maurizio ogni giorno... E ora lei mi dice che ha della
stima! bell’avanzo per la contessina che non ha più casa, non ha più
nulla, che ha il danno e le beffe di tutto il paese...

Pasquale s’è venuto a poco a poco scaldando e continua senza lasciar
mezzo al dottore di aprir bocca.

— La cacciano di casa sui due piedi, senza carità, senza compassione,
mentre è ancora mezza malata: questa è la stima. Le fanno una triste
pubblicità, le fanno un’intimazione per mezzo d’usciere! E dopo questo
lei vuol saper cosa penso io? io penso che lei dovrebbe lasciarla stare
quella povera creatura; che dovrebbe lasciarle almeno quel po’ di buon
nome che le resta. Il mio parere è questo; se le spiace, non so che
farci; non doveva chiedermelo.

— Pasquale, voi avete ragione; ma sentite: di quello che hanno fatto...
gli _altri_ io non ho colpa... mi rincresce e, ve lo dico fermamente,
qui a quattr’occhi, me ne vergogno per loro. Non ho saputo che oggi
quest’ultimo affronto; se avessi potuto impedirlo l’avrei fatto. Vi
giuro, Pasquale, che se potessi dire alla contessina: — Stia dov’è,
faccia conto d’essere in casa sua; — darei non so cosa. Ma, voi lo
sapete, il castello e tutte le antiche proprietà dei conti d’Ormeto
appartengono a mio nonno, e con lui non si può parlare di nulla... io
non posso per adesso far contro le sue volontà.

— Nessuno le chiede nulla a lei...

— Eppure io vorrei fare qualcosa: vorrei avere il mezzo di rimediare al
male che si è fatto: son venuto qui per questo... perchè mi aiutiate a
cercare questo mezzo...

Pasquale si volta allora per la prima volta, si alza dal tavolo su cui
stava appoggiato colle gomita, viene a piantarsi in faccia al dottore e
lo guarda con grande curiosità.

— Dunque, cosa mi dite?... — riprende Giulio.

— Ma!

— ... Se la contessina volesse... se si contentasse... vorrei farle una
proposta... volete incaricarvene voi?

Il dottore s’appressa a Pasquale e gli sussurra nell’orecchio una
sola parola che ha la virtù di mozzargli il fiato e fargli rifluire il
sangue al viso.

— Come!... davvero? — esclama Pasquale non appena riesce a snodare la
lingua.

— Vi do parola d’onore... Volete voi aiutarmi, Pasquale?

Pasquale leva un bicchiere dalla scansia, lo pone sopra un piatto
di maiolica a fiorami turchini: lo riempie di vino e lo presenta al
dottore.

Egli non aveva ancora offerto da bere al compagno, e questa mancanza,
che colà non può essere involontaria, è uno dei più gravi insulti che
un contadino dell’Astigiano vi possa fare.

Colma anche il suo bicchiere, e, sporgendolo per _toccare_ col dottore,
risponde alla domanda che questi gli ha fatta:

— Se lei parla da galantuomo, sì, con tutta l’anima.

Versa quindi nuovo vino al dottore e poi domanda:

— Dica un po’, quando?

— Ma... se la contessina... acconsente... io non chiedo altro...
subito...

— Alla buon’ora!...

Il dottore vuole andarsene e Pasquale vuole accompagnarlo _per
discorrere_. Ma per istrada nessuno apre bocca.

Sulla porta della _cascina_ Pasquale dice sottovoce:

— Dunque, ho proprio da parlare alla signorina?

— Ma sì, ricordatevi che avete promesso d’aiutarmi... di far tutto
quello che potete.

— E lo farò: ma guardi di far l’_uomo_, che poi non ci manchi!

— Non temete;... quando le parlerete?...

— Domattina.

— Bene, verrò io da voi a mezzodì a prendere la risposta... Mi
raccomando!

Pasquale ritorna verso casa, e a poco a poco rallenta il passo come
fosse sopraccolto da gravi e moleste riflessioni. Sull’uscio si ferma
perplesso. Poi dà volta ancora e adagio adagio rifa la strada innanzi
alla _cascina_, sale al castello; trova la moglie che sta per porsi a
letto nella stanza attigua a quella della contessina e le chiede:

— Che fa la signorina?

— Dorme.

Egli esce, passeggia per qualche mezz’ora sulla spianata benchè soffi
un rovaio indiavolato, poi scende, passeggia ancora a lungo innanzi
e indietro con precauzione avanti la porta dei Bellardi, e finalmente
si decide, di malavoglia, a ritirarsi. Egli ha un sospetto. Perchè la
contessina ha voluto rimanere quella sera? Aveva parlato col dottore...
Se fosse un tranello...


All’indomani per tempissimo egli è in piedi, ritorna al castello e
quivi chiede di nuovo alla moglie:

— La contessina dorme?

— Certo che dorme; che volete che faccia a quest’ora? — risponde la
donna stupita.

Egli allora ridiscende a girellare intorno alla _cascina_ finchè, verso
le nove, vede uscirne il _medichino_.

Questi gli corre incontro e gli domanda:

— Ebbene, le avete parlato?

— Non ancora... lei è ancora dello stesso sentimento?

— Certo... voi dubitate ancora di me...

— Che vuole, mi scusi, non mi posso ancora persuadere che lei sia un
onest’uomo.

Il dottore sorride tristamente: il suo viso smorto dimostra ch’egli non
ha fatto nottata troppo quieta.

— Vado adesso... Venga ad aspettarmi sulla spianata.

— Sì... Sentite, ditele per bene le cose: ditele che voglio renderle in
bene tutto il male che... gli altri le han fatto.

E continua così le sue raccomandazioni fin che sono in cima. Quivi si
separano, Pasquale si allontana, egli lo richiama indietro e gli dice
ancora:

— Ah! ditele... che... le voglio un gran bene.

— Eh!... questo s’intende, — risponde Pasquale.


XIII.

Maria s’è levata di buon’ora, come nei giorni di grandi faccende; ma
da due ore non sa che fare; è diventata nervosa: le pare debba venir
qualcuno che ritarda.

Entra Pasquale come una bomba, trafelato, col volto acceso, e non dice
nulla; si siede senza aprir bocca.

Maria gli domanda cos’è stato.

— Ah!... dica un po’... se avesse da maritarsi... le spiacerebbe?

— Cosa?

— Se avesse da maritarsi...

Maria lo guarda sorpresa e si mette a ridere.

— Hai uno sposo pronto?

— Certo che l’ho...

— Bello?

Pasquale fa una smorfia.

— Non è bello, — esclama Maria. — È alto come me? Sai che io detesto
gli uomini piccolini.

— Ma senta...

— Dunque è piccolo. Ha spirito almeno?

— Che so io? — risponde Pasquale un po’ infastidito.

— Non ha nemmeno spirito, ma mio povero Pasquale, a chi mi vuoi dar tu?

— Mi lasci parlare...

— Aspetta, indovino io chi è: il figlio dello speziale: è un pezzo che
_mi vuole_. Non è lui?

— Signorina, non fo mica da burla io, — dice Pasquale in tono di
rimprovero.

— Ah già, tu non burli mai! Ebbene, eccomi qua seria anch’io ad
ascoltarti. Cos’è questo tuo pretendente?

La Maria si fa contegnosa davvero.

— È, secondo me... un buon partito... un partito conveniente... è molto
ricco...

— Ah sì? — dice la contessina distratta.

— Insomma, è questo qua, lì da basso... alla _cascina_...

— Chi? — domanda Maria agitatissima.

— Il _medichino_...

— Oh!

— Me l’ha detto lui.

Maria spalanca gli occhi e diventa bianca come cera; vacilla, cade su
d’una poltrona e rompe in un violento scoppio di pianto.

Pasquale la contempla meravigliato: non sa che dirsi.

— Non si affanni, per carità; se le spiace si dice di no, e tutto
è finito... Egli è di quella razza maledetta... lo so, una volta la
sua domanda sarebbe stata un affronto... Guai se l’avesse fatta alla
contessa!...

Intanto s’è accostato a Maria, che singhiozza sempre e non può parlare.

— Però adesso, — continua Pasquale dopo una pausa, — adesso le cose
sono cambiate... lei è sola, e alla sua età, nella sua condizione,
una donna... non sta bene... Lei, certo, poteva desiderare di meglio
assai... un nobile, un par suo... ma dove trovarlo adesso? a me mi
pareva che lei potesse dir di sì... non fosse altro che per farla
tenere a quell’orso di Giacomo. Eppoi almeno avrebbe finito tutti
i fastidi... non avrebbe da pensar ad altro che a far la signora...
Ma se non le va... non ci pensi più... faccia conto ch’io non abbia
parlato... vado a mandarlo a spasso subito...

Egli si muove infatti per andare, ma la contessina si scuote ad un
tratto, lo afferra per un braccio, lo tira a sè, gli lancia le braccia
al collo, nella furia gli fa cadere la berretta, gli scompiglia i
capegli grigi e grida:

— No, aspetta.

Pasquale è sbalordito. Essa fa inutili sforzi per parlare.

— Ma cos’ha? — dice Pasquale che comincia ad inquietarsi. — Non lo
vuole? lo so.

Maria scuote il capo.

— Glielo dirò, ho capito.

— No, — esclama Maria.

— No cosa? non ho da dirglielo? E perchè? Bisogna che gli faccia una
risposta... è fuori che aspetta.

— Ma sì...

— Dunque cosa dirgli?

— Sì...

— Dunque lo vuole?...

— Non hai capito ancora?... tu non capisci nulla...

— Ma lei le dice in un certo modo le cose...

— Ma va... va...

Pasquale la guarda temendo ch’ella sia impazzita, e ripete:

— Vado a dirgli di sì?

— Sei ancora lì?

— Eh non tema, non iscappa.

Quando è alla porta essa lo richiama indietro.

— Cosa t’ha detto, dimmi, bravo Pasqualone; parla... ci vuol poco a
dire quello che t’ha detto... egli parla tanto bene! chissà che belle
parole ti ha detto... e tu non me le ripeti... parla...

— Ma devo andare sì o no? Egli aspetta...

— Ah sì, va... me lo dirai dopo.

Pasquale è sempre stupito: egli stupisce di tutto... Esce in cerca di
Giulio, senza troppo affrettarsi, mulinando e brontolando fra sè sulle
stranezze della scena fattagli dalla contessina.

Giulio, che lo vede venire a quel modo, impallidisce e non ha coraggio
di dare un passo per farsegli incontro.

— Ebbene?... — domanda con voce soffocata e tremante.

— Ebbene la contessina accetta.

— Davvero?

Anch’egli abbraccia Pasquale, che va di meraviglia in meraviglia.

— Davvero? — ripete il dottore, — e come ha detto?

Pasquale pensa fra sè: — anche questo qua vuol sapere come ha detto, —
e poi con comodo risponde:

— Ha detto _di sì_, cosa doveva dire? E adesso vuol venir su con me per
cominciar _a discorrere_?

— Adesso? io vo al castello...

— Vuol parlare a lei?

— Ma sicuro che voglio parlare a lei! — esclama Giulio con la ciera la
più bella, la più raggiante del mondo.

E in furia, quasi di corsa s’avvia al castello. Pasquale gli vien
dietro come può. Giulio sale a rotta di collo la scala, arriva
all’uscio della camera dove sta la contessina e là si ferma come
impietrito col bottone del battente fra le dita.

— Cosa fa adesso? — esclama Pasquale, entrando nella camera.

— Ecco qua il sor medichino, vuol parlare a lei.

Giulio si fa innanzi; Maria rimane seduta sulla poltrona e china il
capo; egli la guarda intenerito. Pasquale si siede come al solito in un
canto; ma vedendo che non parlano, crede abbiano soggezione di lui, ed
esce dicendosi che al punto dove stanno le cose egli può senza pericolo
ritirarsi.

Si ferma a piè della scala ad aspettare il dottore ch’egli si propone
di non abbandonare finchè tutto non sia stabilito. Ma Giulio non si fa
aspettar troppo; arriva dopo due minuti correndo con l’aria stravolta
da una gioia ineffabile.

— To’, — pensa Pasquale, — avevano da parlarsi ed è già qui! non hanno
avuto il tempo di dir nulla di nulla.

E la sua meraviglia è al colmo.


XIV.

La sera è venuta; Giacomo e Maurizio discorrono soli nel tinello,
mentre Martina è in cucina ad allestire la cena. Cioè Maurizio parla
sempre lui.

Egli è in vena d’umorismo; ha trovato un argomento di scherzi e di
motteggi che pare inesauribile. Parla della contessina e nomina qualche
volta anche il dottore.

Il vecchio domanda:

— Anche... oggi... mio nipote... è stato... lassù?

— Credo di sì... a farle il ben servito... Eh eh!... era allegro
quando è tornato, proprio come un litigante che ha ottenuto sentenza in
favore.

— Che non... si lasciasse... abbindolare... da quella... nobiluzza, —
brontola Giacomo.

— Ah!...

— Anche sua madre... ti ricordi... aveva... dei pregiudizi... per quei
del castello...

— Sì, ma il medichino... quello lì, l’ho allevato io!

E dopo una pausa, soggiunge ammiccando maliziosamente:

— Volete che ve la dica? noi abbiamo pensato a metter le mani sul
pollaio, ed egli il medichino, sapete il galuppo...

— Eh!

— Ha voluto beccarsi la pollastrina... Ah! ah!

Il vecchio fa una smorfia schifosa e colla bocca aperta ride
oscenamente di un riso secco, asmatico, stridulo.

— Ah! ah!... sghignazza Maurizio... ci lascerà qualche penna.

— Eh! Eh! Eh!

— E la cresta... la contessina...

Giulio arriva in quel punto, sente l’ultima parola. Manda fuori
Maurizio con un qualche pretesto; chiude l’uscio a chiave e viene a
sedersi presso il nonno.

— Maurizio vi discorreva della contessina?

— L’hai guarita... Eh! — Eh! Eh!

— Anch’io voglio parlarvi di lei.

— A me?...

— Maurizio l’ha diffidata a vostro nome di lasciare la casa entro tre
giorni che scadono domani... lo sapete?

— Sicuro...

— Non sarebbe meglio nonno, che... ritiraste quell’ordine?

— Come?...

— Che ritiraste quell’ordine...

— Per... chè?...

— Perchè, mio caro nonno, vi fa del torto...

— Ah!

— Sì, vi fa del torto, e se voleste pensarci un pò con calma, sareste
d’accordo con me.

— Per di... ana... io non fo che il mio diritto...

— Non sempre ciò che la legge tollera è ben fatto. Mi pare, nonno, sia
sconveniente il trattare a questo modo quella giovinetta... che non ha
più nessuno... che è sola, senza appoggio...

— Oh!... cosa... t’importa... a te?... Eh! la mia casa... non è un
ricovero...

— Voi che bisogno avete adesso di quelle due povere stanze?...

— Vo... glio... trar... ne partito... voglio...

— La contessina non ci starebbe che poco tempo; non è proprio il caso,
per qualche settimana, di farle scortesia...

— Ho... da... affittarle... io... le stanze...

— No, non dite così, non è per quel meschino interesse che voi... vi
ostinate... ma per un altro motivo, è per puntiglio... per rancore...
contro la famiglia della contessina...

— E... non avrei... ragione?... di rifarmi... contro... quei prepotenti?

— Quei prepotenti, come voi li chiamate, da gran tempo non sono più
prepotenti... sono poveri morti... che non possono più far del male e
neppure patirne... le nostre rappresaglie essi non le saprebbero mai;
chi invece ne soffrirebbe, e certamente molto a torto, è una povera
fanciulla... innocente, che non v’ha fatto mai nulla, che quasi non vi
conosce.

Il vecchio col capo chino sul petto, aggrotta le ciglia canute in segno
di malumore.

— Il vostro sdegno, — continua Giulio, — pesa già pur troppo su di lei;
tutte le disgrazie che da sessant’anni sono venute a colpire la sua
famiglia, si accumulano sul capo di quella buona creatura... Credetemi,
non ci può essere gusto ad accrescere le sue umiliazioni, e invece
ce n’è uno immenso a far una buona azione... Datemi retta, nonno,
lasciatela tranquilla! Ritirate quell’ordine.

Giacomo scuote la testa con impazienza.

— Fatelo per compiacermi...

— No... no...

— Sentite, i suoi vecchi avranno certo avuto dei torti...

— Oh!...

— Sì, ve lo credo... ma lei, io la conosco, è degna di tutti i
riguardi, è... buona... è...

— Sai... che... mi... secchi?...

— Vi domando così poco... contentatemi...

— No... no... no... oh!

Giulio si frena a stento.

— No? ma ditemi almeno il perchè... in nome di Dio...

— Perchè... voglio... così... basta!...

— Ebbene io vi dico che voi avete torto, che la vostra collera
è ingiusta... esclama vivamente Giulio alzandosi dalla sedia e
passeggiando a passi concitati per la stanza. — Voi volete ostinarvi a
tormentare una povera creatura senza motivi o per motivi indegni di uno
della vostra condizione... E sapete cosa si dirà?... si dirà che tutte
le vostre collere passate furono come questa, ingiuste, crudeli senza
ragione... che la causa della vostra famosa guerra contro il castello
non è già stato un risentimento scusabile, ma bensì una sordida
avarizia, una cupidigia sfrenata... Si dirà, e si dice già, sappiatelo,
me lo si butta in faccia a me, vostro nipote che voglio potervi
difendere, si dice che i signori del castello, voi non volevate che
spogliarli con angherie, cavilli e peggio... e si dice che la nostra
ricchezza non è pulita... e...

Giacomo allo scoppiare di questa sfuriata ha levato il capo, ha spinto
fuori i suoi piccoli occhietti sull’orlo delle palpebre sanguigne: a
questo punto frenetico di rabbia, poggiando le mani sui bracciali grida
con voce rauca:

— Impertinente! birbo!...

Le sue membra irrigidite dallo sforzo, tremano convulse.

Giulio lo guarda spaurito; — si pente di essere andato troppo in là con
parole, e non osa fiatare.

— Birbo! ripetè il vecchio, io ho lavorato novant’anni per metter
insieme quello che ho... me lo sono guadagnato... capisci?

— Nonno, — dice sommessamente Giulio, — non ho detto per offendervi...

— Me lo sono guadagnato!...

— Non volevo che persuadervi a non fare una cosa che...

— Una cosa che voglio fare... Sono ancor io... il padrone qui... tu
non sai ancora dov’hai i piedi... te lo dico io... e giusto perchè me
ne vuoi imporre... se quella... stracciona... domani... non... esce...
la... faccio... cacciare colla forza... vedrai!

Queste parole mettono nuovamente fuori dei gangheri la pazienza di
Giulio, che dice a bassa voce con amarezza profonda:

— Debbo dirvi che quella che voi volete cacciare... è... la mia sposa!

— Ah!... lo... sapevo!... dice Giacomo ricadendo accasciato sul
seggiolone.

Egli è stremato di forze, le sue labbra si agitano come per parlare; ma
per lunga pezza non riescono a modulare alcun suono.

Un silenzio sinistro succede al diverbio tempestoso. Finalmente il
vecchio si risolleva sulla persona e voltosi a Giulio gli dice con voce
fioca e tremante di sdegno:

— Tieni... a mente... che... colei... là... la figlia della ciarlatana
non entrerà... qui dentro...

— Sta bene; non entrerà...

— Guai! se viene...

Giulio rivolge uno sguardo di dolorosa compassione al vecchio ed esce
precipitosamente.

— Non vada fuori che la cena è pronta, gli grida dietro la Martina.


XV.

Quella stessa notte Maria usciva dal castello accompagnata da Giulio e
da Pasquale, e veniva ad abitare in casa di quest’ultimo.

Nei tre giorni successivi Pasquale, d’accordo col pievano, allestisce
ogni cosa per le nozze con quella segretezza tutta propria dei
contadini, che non ammette confidenti inutili.

Giulio ha intenzione di far presto e quetamente, e si fanno perciò
venire alla curia tutte le dispense necessarie.

La sera del terzo giorno mentre Pasquale è alla parrocchia per le
ultime disposizioni, la moglie imbandisce ai due fidanzati, che devono
partir subito dopo la cerimonia, un boccone di cena.

Ma Giulio e Maria non hanno voglia di nulla; seduti uno in faccia
all’altro aspettano trepidanti il momento solenne.

La sposa ha per tutta gala il suo modesto abito di lana grigia, il
suo unico abito di tutti i giorni; non ha alcun ornamento fuorchè un
leggero rossore che avviva il pallore del suo caro visino e un timido
sorriso che non sa decidersi a venir fuori, e socchiude peritoso le
labbra.

Finalmente sul tardi, verso le dieci, Pasquale ritorna ad annunziare
che tutto è pronto.

S’avviano tutti e tre attraversando in silenzio il villaggio ed
entrano in chiesa per la porticina del coro dove sta aspettandoli il
sacrestano. La cerimonia deve celebrarsi nella prima cappella a destra
dell’altare; quivi sta il banco privato della famiglia di lei che per
quell’occasione hanno parato di un ricco drappo di seta a frange d’oro.

Giulio vi conduce Maria. Ella s’inginocchia al posto dove per dieci
anni è venuta tutte le feste colla nonna a sentir la messa. Mentre
s’attende il pievano, che è in sacrestia a vestirsi, essa china il capo
fra le palme e in un baleno le passano attraverso lo spirito tutti i
pensieri di quegli anni tristi e dolorosi; e parle risentire accanto a
lei la tosse secca della povera nonna. Alza vivamente la testa e vede
al suo fianco Giulio che la guarda amorosamente.

Il pievano arriva in quel mentre e comincia la celebrazione; non
assistono altri testimoni fuorchè Pasquale ed il sagrestano.

Dopo le preghiere, il sacerdote fa le domande sacramentali. Giulio
risponde colla fronte alta e con accento breve e fermo; la sposa
pronunzia il suo _sì_ più col cuore che colle labbra, con un sospiro,
arrossendo e chinando gli occhi.

Quanta diversità fra quelle due teste! — Quella di Giulio bruna,
barbuta, dai lineamenti un po’ duri, coi capelli corti, neri, indocili,
ricorda l’origine umile della famiglia, mostra la perseveranza,
la forza di proposito della gente nuova. Quella di Maria, bionda,
pallida, delicata, ha tutte le grazie, le finezze, il languore
dell’aristocrazia, si china verso lo sposo come in cerca di un
sostegno.

Lo sposo mette l’anello, le due destre si impalmano: quella di Giulio
stringe la manina breve e morbida della sposa e la tiene salda,
sollevata sopra il davanzale dell’inginocchiatoio.

È lui, il discendente dei servi della gleba, che porge la mano alla
figlia dei signori, dei padroni!...

Il pievano benedicendo dice a chiara voce:

— _Conjungo vos_... — parole semplici e solenni che congiungono
davvero, in nome di Dio, quelle due esistenze che gli umani rancori
volevano separare, che proclamano l’eguaglianza di quelle due creature,
celebrano la pace fra due razze divise da così profondo abisso di odio
e di disprezzo, da tante ingiurie ed offese e vendette, e cancellano ad
un tratto un passato doloroso e colpevole. Generazioni infinite hanno
lavorato per accumulare del male su quelle due teste, hanno elevato
fra esse, a forza d’ingegno e di livore, degli ostacoli che parevano
insormontabili, eppure una sola parola annichila quella triste eredità
di avversione, disperde le finzioni, i pregiudizi, le superbie di tanti
secoli!


Dopo la cerimonia gli sposi si fermano un momento alla casa di
Pasquale, e subito poi ne escono per partire. Una vettura li attende
nella valle per condurli ad Asti. Pasquale li accompagna.

Passando innanzi alla _cascina_, Giulio volge uno sguardo di rammarico
alla sua porta, dove non è entrato da tre giorni, e dice a Pasquale
indicandogliela:

— Ricordatevi di scrivermi tutto ciò che accade lì dentro.


XVI.

Pasquale obbedì, ma a modo suo, con tutte le restrizioni possibili, a
questo desiderio del dottore.

Gli scriveva immancabilmente tutte le settimane, al mercoledì, per
mezzo del cavallaro; riassumeva ciò che poteva interessare gli sposi
in paese in poche frasi laconiche, infilate l’una dopo l’altra senza
scrupolo di punteggiatura, e terminava sempre: _del resto nulla di
nuovo_. Quando Giulio, non pago di questa frase troppo generica,
gli chiedeva espressamente notizie della _cascina_ e del nonno, egli
rispondeva ancora: _nulla di nuovo_ — senz’altro. E non se ne poteva
cavare di più.

Giulio s’era provato di scrivere al nonno egli stesso: nessuna risposta.

Dopo sei mesi Maurizio venne a Torino; cercò di lui; con quella sua
famigliarità protettrice gli disse che egli aveva fatto di tutto per
piegare il vecchio Giacomo a suo favore e promise di rinnovare gli
sforzi. Poi gli scrisse di quando in quando, ma tutte le sue lettere,
attese con ansietà sempre maggiore, recavano a Giulio la stessa
delusione. Il vecchio era inflessibile.


Passarono tre anni. Il cuore decrepito del Bellardi custodì la sua
collera come per mezzo secolo aveva custodito l’odio contro gli Ormeto.

Un giorno Pasquale scrisse al dottore: «Se vuol venire, venga, laggiù
non si sta bene.»

Giulio accorse ad Ormeto con Maria, che volle seguirlo.

Alla cascina nessuno li aspettava.

Entrano nel tinello. È di sera, — l’ora della cena, — ma non c’è che
Maurizio, il quale nel vederli mette un’esclamazione.

— Mio nonno?... — chiede Giulio con voce soffocata.

— Eh! è un benedetto uomo, non vuol intendere la ragione.

Colui non può parlare senza quella smorfia beffarda, quel ghigno
maledetto.

— Non rider così, perdio! — grida Giulio. — Mio nonno... dov’è?... è...
malato?

— Non lo sa?

Giulio corre alla stanza del vecchio, ch’è lì accanto, al pianterreno.

Giacomo è a letto, ha gli occhi chiusi, pare assopito, il suo volto ha
una rigidità sinistra... Martina è in piedi al capezzale.

Essa vede Giulio e gli fa cenno di tacere. Giulio cade sopra una sedia
e resta immobile, atterrito.

Dopo un quarto d’ora il vecchio apre gli occhi; Giulio gli viene
accanto, gli prende senza parlare il polso.

Il vecchio non sembra riconoscerlo.

— Guardate, è Giulio.

— Ah!... — brontola Giacomo.

— Nonno! — dice sommessamente Giulio.

Il vecchio non risponde.

— È Giulio, — ripete Martina, — è vostro nipote, non vedete?...

— No...

Poi Giacomo scuote leggermente il capo e mormora:

— No... mio... nipote... è... con quella stracciona, la figlia... della
ciarlatana...

E resta a bocca aperta.

Un gemito fa voltar Giulio dalla parte della porta. Maria è là tremante
contro lo stipite; essa l’ha seguito, ha udito tutto. Pasquale è dietro
di lei nel vano dell’uscio.

Giulio accorre e gli dice:

— Menatela via, menatela via!

Pasquale obbedisce e porta la contessina, quasi di peso, nel tinello
e l’adagia sopra una ricca poltrona. È la poltrona del salotto
ottagonale, che Giacomo tre anni prima ha fatta recare per sè dal
castello.

La povera Maria è mezzo svenuta e mormora:

— Mio Dio, che brutte cose!... — E singhiozza ed abbrividisce.

Dopo mezz’ora entra Giulio barcollante, col viso disfatto: le corre
vicino, l’abbraccia stretto e rimane un po’ angosciato senza parlare,
poi dice sottovoce:

— Perdonagli, il povero nonno non è più...


XVII.

Sono corsi parecchi anni, nei quali il castello è rimasto chiuso;
l’erba è cresciuta folta intorno, fra le screpolature dei muri, fin
sulla soglia della porta e sul davanzale delle finestre.

Ma un bel mattino di settembre quella porta e quelle finestre si
aprono, e un torrente d’aria e di luce invade le stanze malinconiche.

Sul verone del salotto ottagonale un signore ed una dama, appoggiati
alla ringhiera, discorrono tranquillamente e contemplano commossi il
paesaggio. Le ondulazioni delle colline, l’orizzonte sono pieni di
splendore, di colore e di trasparenze; di fronte a destra è un poggetto
verde con una piccola cappella nel mezzo. È il cimitero del villaggio.
Sotto la gronda della chiesuola contro il muro, due croci vicine
segnano due fosse scavate nello stesso anno.

La dama guarda con amore quelle due croci lungamente, poi dice al
compagno:

— È curioso, sai, stanotte mi sono addormentata coll’animo pieno del
viaggio di stamane, ed ho fatto un sogno: mi pareva d’essere qui, e
c’eri anche tu seduto accanto a me, e là sul canapè stava la nonna,
e... poi nella poltrona c’era un altro, indovina? tuo nonno!

— Ah!

— Sì, e sembravamo tutti tranquilli, lieti, e si discorreva noi due
insieme, e i nonni fra loro.

— Era proprio un bel sogno! — dice mestamente il signore.

La dama china la testa contro quella di lui, lo bacia e dice:

— No... almeno una parte è vera... e il resto... chissà!... io credo ai
sogni.

Due bambini saltano per il salotto giocando e mandando giulivi
gridolini di festa; e s’arrampicano sulle sedie e si specchiano colle
testoline curiose l’una accanto all’altra. Poi il più piccolino mostra
all’altro uno dei ghiribizzi che sta sopra una porta, una specie di
drago che ha perduta la doratura ed è diventato nero come fuligine, — e
dice con sbigottimento mezzo finto e mezzo vero:

— Guarda là, cos’è?

E il più grandicello, alzando il dito in atto di ammonimento, risponde:

— Zitto, è la befana.

Il povero drago ha la bocca spalancata come ad una risata enorme che
lo spacca pel mezzo; egli pare tutto contento d’esser stato, una volta
almeno, terribile.

Pasquale è là sull’uscio e non osa entrare; finalmente Giulio e Maria
lo vedono e gli saltano al collo e gliene fanno di tutti i colori.

— E, senti, — gli dice alla fine Giulio, — se non vuoi che il tuo
arboscello faccia pere-cotogne, innestalo.


  FINE.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. In "Tenda e castello" ci
sono due capitoli IV: sono stati lasciati come in originale.



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