Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Storia degli Italiani, vol. 13 (di 15)
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.
Copyright Status: Not copyrighted in the United States. If you live elsewhere check the laws of your country before downloading this ebook. See comments about copyright issues at end of book.

*** Start of this Doctrine Publishing Corporation Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 13 (di 15)" ***
(DI 15) ***


                                 STORIA
                             DEGLI ITALIANI


                                  PER
                              CESARE CANTÙ


                           EDIZIONE POPOLARE
         RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                               TOMO XIII.



                                 TORINO
                      UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                  1877



LIBRO DECIMOSESTO



CAPITOLO CLXXV.

La Rivoluzione francese.


Dell’imitazione di Francia, sostituita alla evoluzione delle
istituzioni patrie e storiche, apparvero gli effetti allorchè quel
paese ruppe alla rivoluzione, che non dirigendosi a fini nazionali
e speciali come le precedenti, ma a generali concetti, ad un ideale
di libertà e d’umanità, valevole in ogni tempo e in ogni luogo, da
ciò traea forza e importanza insolite, e il pericolo immanente che
deriva dalla coscienza degl’intenti, sopravvivente alle istantanee
commozioni. In fatti, scoppiata nel 1789, non è ancor finita oggi ch’io
scrivo, dopo ottantott’anni di delitti atroci, di guerre sanguinose, di
portenti dell’ingegno e del cuore, e il sovvertimento di tutte le cose
umane e divine, e cento tentativi di restaurazione che fallirono tutti
perchè, a mettere d’accordo le istituzioni coi costumi non bastano
decreti o bajonette, parlamenti o galere.

La Francia, concentrando tutta la gloria e la potenza nel re, tutta
l’autorità nel Governo, tutta l’amministrazione nella capitale,
avea fissato un oggetto a tutti gli scontenti, un fomite a tutte le
passioni, una mira a tutti i novatori: e quell’attività che, divisa
fra ciascuna provincia, fra ciascun Comune, sarebbesi sfogata in
parziali intenti, si ritorse verso il Governo o per avervi parte o per
contrariarlo; gli si appose ogni colpa dacchè voleva arrogarsi ogni
merito; ammirando in Inghilterra il reggimento parlamentare, anche i
Francesi bramarono circondare il re d’istituzioni rappresentative, dove
i nobili principalmente, ma anche i pensatori e gli abbienti potessero
esprimere i loro voti e concorrere a far leggi; leggi che sarebbero lo
stillato di quella sapienza che da un secolo vagliavano e divulgavano i
filosofi, banditrice d’emancipazione, di spregiudizio, di filantropia,
di naturali diritti; e che proclamata l’umanità nelle scienze morali
come la natura nelle fisiche, instillava all’uomo la persuasione della
propria onnipotenza.

Con quale ragione i re esigevano denaro senza chiederne il consenso
al popolo contribuente, nè informarlo dell’erogazione? Pertanto,
trovandosi angustiate le finanze, si gridò la necessità di radunare
a consulta i notabili, e dietro a ciò di convocare gli eletti dello
stato clericale, del nobile, del borghese, i quali spinti dal movimento
pubblico, ben tosto (1789 19 giugno) presero il nome di Assemblea
Nazionale.

La sovranità del popolo era idea antica, e Rousseau aveala ridotta
a teoria scientifica congiungendola col diritto naturale e col dogma
d’un’intera libertà primitiva, che poteasi nè alienare, nè trasmettere;
sicchè la volontà popolare è giustizia, è morale, è religione. Con
questi o simili principi i filosofi voleano scomporre lo Stato in
idea, per rifarlo secondo la ragion pura; i rivoluzionarj vollero
distruggerlo in fatto, per costituirne uno nuovo razionale. Quelli
contentavansi di transigere quando avessero la realtà contro di sè,
e cercavano giustificare queste transazioni col supposto d’un tacito
consenso, purchè se n’appagasse l’interesse teoretico: la rivoluzione
invece volle annichilare ogni istituzione che non s’uniformasse a’
suoi predicati di ragion pura. Vedendo difettoso il sistema sociale,
rappresentavasi qual tipo di perfezione l’uomo staccato da’ suoi
simili, il selvaggio d’America, il figlio della natura. Perciò le
costituzioni politiche riguardavano l’uomo isolato, invece di cercare
ciò che in ciascuna età doveva convenire agli uomini a norma della
precedente[1]: non si dà veruna associazione intermedia fra l’individuo
e lo Stato; ben si formano colleganze d’individui e d’interessi, ma
senza ordinamento permanente.

Così i teoristi puri; alcuni però vagheggiavano le istituzioni
inglesi, non accorgendosi come esse richiedano reciproco spirito di
moderazione, profondo sentimento dei diritti delle due parti che
si trovano a fronte, e come in nessun paese quanto in Inghilterra
sia tanto apprezzata la libertà individuale, eppur tanto diffuso lo
spirito d’associazione, mentre i migliori Francesi d’allora predicavano
l’apoteosi dell’individuo isolato.

Quest’è vero che, delle libertà che poi la Francia e l’Europa
acquistarono, non una sola per avventura ce n’è che non fosse
richiesta nelle commissioni che allora i comizj elettorali diedero ai
deputati; i nobili abdicarono spontanei ai loro privilegi, e col clero
s’eguagliarono al terzo stato; onorata la parola di popolo; formulati
i diritti de’ cittadini; il re non essere che primo magistrato: sicchè
assodando tali acquisti, poteansi anticipare quelle libertà, le quali
invece si pericolarono in orridi esperimenti, che ad alcuni le fanno
ancora spaventevoli. La rivoluzione, scoppiata quando appunto sembrava
rinascere la concordia fra principi e popolo, dopo un secolo che
si lavorava a redimere il genere umano col dargli, non la fede e la
grazia, ma la volontà illuminata dalla ragione, mostrossi generosissima
da principio, siccome un’ispirazione di sentimento; ma iniziata
per improvvida leggerezza delle classi superiori, allattata da una
filosofia che non riconosceva legittimo se non ciò che la ragione
da sè riuscisse a creare e produrre, ingrandita dalle esitanze dei
governanti, fu travolta nel vortice dagli ambiziosi, che, anelando ad
un’influenza impossibile in tempi calmi, macchinavano la demolizione
senz’ingerirsi della riedificazione; presto cadde in mano di sofisti,
che la trassero negli orrori della demagogia; e da quella che prima
parve una sommossa, uscì il totale spostamento della società civile
dalle storiche sue basi. I deputati, raccoltisi per assodare il trono,
gli si ritorsero contro; le assemblee primarie vollero governare; la
plebe cominciò a tumultuare; i giornalisti e le conventicole, palestra
di chi non ha nè l’elezion popolare, nè la consacrazione d’un carattere
e d’un nome rispettato, faceano il loro consueto uffizio di seminar
paure, malevolenze, furori, consigli esagerati; i rappresentanti
vollero mostrarsi coraggiosi col sagrificare sentimento, opinioni, bene
pubblico alla paura e alla popolarità. Luigi XVI, se non le amava,
rassegnavasi alle novità che il secolo chiedeva; e al ben del popolo
applicando le proposte dei filosofi, e filosofi assumendo a ministri,
abbatteva le barriere da questi disapprovate, e dopo le dannose, anche
le indifferenti, poi le utili, poi le necessarie; e di concessione in
concessione, sempre persuadendosi che fosse l’ultima, si privò una dopo
una di tutte le prerogative di re. Ben presto i deputati si eressero
in Assemblea Costituente (1789 30 giugno); la parte puritana rivalsa,
filantropicamente feroce scannava e scannava, e creava una società
di mille ducento tirannicidi; giurati a togliere dal mondo i re.
Non era più la nazione che operasse, bensì un partito, il _club_ dei
Giacobini, sicchè non impropriamente tutti i fatti di quel periodo sono
popolarmente attribuiti, anzichè ai Francesi, ai Giacobini.

I quali dichiararono decaduto il re, poi mandarono al supplizio (1793
21 genn.) lui, sua moglie, sua sorella, e con loro uomini viziosi e
uomini santi, intrepidi e codardi, sapienti e ignoranti, deputati e
fanciulle, sacerdoti e miscredenti, bottegaj e marchesi, monache e
meretrici, vittime e carnefici, con tremenda eguaglianza; centomila
vite spegnendo fra gl’insulti d’una plebe cannibale, sopra decreto
subitario di giudici implacabili perchè tremanti, i quali non so se
più sia obbrobrio all’età passata l’averli prodotti, o alla nostra il
pretendere giustificarli. Vedendo ai pensatori sottentrare gli uomini
d’azione, poi i trascendenti, poi gl’invidiosi, poi l’infima ciurma,
ciascuno strozzando i precedenti, ciascuno portato in trionfo prima
d’essere trascinato alla forca, e stabilirsi la peggior tirannide,
quella che si associa all’anarchia, molti vennero a discredere alla
libertà e pensar necessario il despotismo, sciolto dalle forme e dalle
consuetudini che prima lo tenevano nei limiti.

L’Europa aveva esultato alle fauste promesse d’una rivoluzione che
accelererebbe l’attuazione del bene; e quegl’Italiani che aveano tenuto
l’occhio ai progressi del secolo, si rallegrarono di veder assicurate
quella libertà ed eguaglianza che da diciotto secoli erano state
dal vangelo severamente annunciate e testè dai filosofi predicate
gajamente. Ma come videro fondarle su canoni arbitrarj, dedurne
sofistiche e fin scellerate illazioni, distruggere con intolleranza
raggionacchiante gli acquisti dei secoli, delle dottrine de’ gran savj
abbandonarsi l’applicazione al braccio della canaglia e allo schiamazzo
delle meretrici, se ne stomacarono; e mentre dinanzi tesseano idillj
con Elvezio, con Rousseau, col Filangieri, sbigottivano alle notizie
che confuse ed esagerate giungeano traverso ai pochi giornali e alle
proibizioni, parlando solo di decapitazioni, affogamenti, mitraglia,
di provincie che mandavano lardoni per ungere la ghigliottina, di
Giacobini che giocavano alle palle con teste di nobili, di deputati che
prometteano strozzar l’ultimo re colle budella dell’ultimo prete.

Allora parve non solo dovere di principe ma d’uomo il mettere un freno
a quel furore, se non altro il protestarvi incontro colla guerra.

Leopoldo II fu il primo che osò avventare la scintilla in quell’ammasso
di polvere; e a Mantova combinò (1791 27 agosto), a Pilnitz conchiuse
un’alleanza di principi per istrappar dalla prigione i reali di
Francia, e la Francia dalle branche dei Terroristi. Questi in risposta
gli gettarono la testa del re e di chiunque era sospetto; e quando
Leopoldo morì, Francesco II suo giovane figlio e successore si trovò
incontro la guerra, ruggente dal Reno alle Alpi, e Francia che,
accettata la sfida di Austria, Prussia, Inghilterra, accingevasi
a spandere dappertutto i principj che nell’interno avea fatti
sanguinosamente trionfare.

Pio VI propose di raccogliere l’Italia tutta in una federazione sotto
la sua supremazia. Era il concetto di molti suoi predecessori; il
concetto che, cinquant’anni dopo, bastò a indiare chi lo ripropose: ma
all’Austria la lega italica facea paura più che l’invasione nemica;
Venezia e Genova non voleano pericolare i traffici loro nè i grossi
capitali impiegati in Francia; il duca di Modena, sapendo che i suoi
antecessori nelle lotte tra Francia ed Austria erano stati sbolzonati
qua e là, provvedeva a mettere in serbo tesori; la Toscana parteggiava
per le idee francesi e il ministro Manfredino di Rovigo, ne’ cui
splendidi circoli brillavano il vecchio Pignoni e i giovani Fossombroni
e Neri Corsini, era chiamato il marchese giacobino; laonde il granduca,
tuttochè austriaco, fu il primo che riconoscesse la repubblica
francese, e Carletti suo ministro a Parigi erasi fin reso sospetto per
esuberante patriotismo.

In Corsica l’Assemblea Costituente (1792) avea richiamato l’esule
Paoli, che accolto in trionfo a Parigi e per tutta Francia, rivide
la patria sperando sarebbe resa libera da que’ Francesi stessi che
l’aveano incatenata. E raccomandava di preferire la fusione colla
libera Francia a un’indipendenza che troverebbe venditori e usurpatori:
— Quante volte non fu a me offerta la sovranità dell’isola! altri
potrebbe valersene. Invece noi potremo giovare alla patria come
rappresentanti nell’Assemblea, la quale un giorno darà lume e norma
all’Europa intiera. Chi sa che gli eloquenti periodi non facciano
crollare i troni dei despoti». Insieme diceva: — Deh nell’Assemblea ci
fossero meno oratori e filosofi! La Magna Carta degl’Inglesi è breve;
breve il bill dei diritti; ma quelle basi della libertà britannica non
furono stese alla spensierata. Ora i Francesi cercano l’ottimo, e temo
si espongano a perdere il buono; vorrebbero far tutto in una volta, e
niente finora han fatto che non possa subito disfarsi».

Poi la sua fede repubblicana vacillò quando vide la Francia divenir
empia e sanguinaria, e trafficare di popoli: temeva vendesse la Corsica
a Genova, e la barattasse con Piacenza; e in paese l’agitazione facesse
prevalere gl’intriganti, i calunniatori, i ladri, gente che guadagna
dei torbidi. — Se cotesti signori hanno in sospetto noi che col latte
abbiamo succhiato l’amore della libertà e dell’uguaglianza, e per essa
sofferto tanto, non sarà lecito a noi tenerci in guardia da certi, il
cui patriotismo non data che da tre anni, e che per la patria non hanno
sparso sangue, non sofferto esigli, non devastazioni di beni? Pare si
voglia tenere la Corsica divisa in partiti, e per lo più chi risolve da
lontano si appiglia al peggio». Poi ferito dalle solite ingratitudini
popolane, disperò dell’esotica liberazione: — Non avrei mai creduto
che ventun anno di despotismo avessero potuto distruggere tanta virtù
pubblica, che in poco tempo la libertà avea fatto brillare nel nostro
paese. Oh fossi morto il dì che seppi aver i Francesi donato alla
nostra patria la libertà! Qual funesto avvenire non si offre alla mia
mente! Siamo troppo lontani dal centro del movimento; il potere lontano
non vede il male. Se lo vede, scrive lettere oratorie, che nulla
valgono su animi impastati d’ignoranza e cupidigia, sconosciuti al
mondo ed a se stessi, senz’idea del vero onore, e molto meno della vera
gloria. Ah! e tanti sparsero il sangue sotto i miei ordini per dare la
libertà a popolo tanto indegno!»

Accusato da compaesani (1793), l’uomo intemerato fu tradotto a
scolparsi davanti ai manigoldi di Parigi nei giorni del Terrore.
Il deputato Matteo Buttafuoco scrisse (_Conduite politique du
général Paoli_) contro di lui e di Saliceti; ma l’opinione pubblica
gli si rivoltò, e in molte parti la colui effigie venne arsa come
d’aristocratico[2].

Alfine la Corsica, esacerbata dagli eccessi de’ rivoluzionarj diede
ascolto agl’Inglesi e agli altri nemici di Francia, e si ribellò.
La repubblica francese, che, minacciata da tutta Europa, a tutti
intimava guerra, avea spedito l’ammiraglio Truguet ad occupare la
Sardegna, ottima per assicurarsi il Mediterraneo e tener in soggezione
i Côrsi. Erasi supposto che quell’isola fosse ostile a’ suoi re per
irrequietudini precesse: ma l’ardor nazionale vi rinacque, e sopite le
rivalità, ognuno s’avventò alle armi. Fra gli apprestamenti attorno a
Cagliari uno è sopraggiunto dal suo personal nemico, che gli avventa
ingiurie e minacce; egli ascolta, reprimendo la smania di vendetta, poi
curvasi a far una croce in terra; e rialzatosi con fronte risoluta —
Per questa croce e per la causa che insieme difendiamo, ora ti perdono:
partiti i nemici, ti darò risposta».

Tra per questo e per una sformata procella, i Francesi dovettero
ritirarsi lasciando qualche distaccamento; in quell’impresa fecero la
prima comparsa due famosi; Massena, nizzardo al servizio piemontese,
che vedendo non poter elevarsi perchè non nobile, era passato a
Marsiglia, dove oscuro visse finchè la rivoluzione nol chiamò all’armi,
e queste portò ai confini italiani, e contro Livenza patria sua,
ch’erasi rivoltata ai repubblicani invasori: e Napoleone Buonaparte,
giovane côrso, che contemporaneamente avea dalla sua patria assalite
le isole dello stretto di Bonifazio, e dovette andarsene egli pure.
Esultarono i principi d’Italia della vittoria sarda, faustamente
ominandone alle divisate imprese: Pio VI mandava congratulazioni
come di gloria immortale[3]: Paoli ne prese animo ad effettuare la
sollevazione della sua patria, e cacciati i commissarj francesi, la
offrì all’Inghilterra.

Non era a credere che Francia torrebbesi in pace lo smacco sofferto,
tanto più che altri casi pareano provocarne le armi. Ucciso il re, la
Convenzione deputò Semonville a Costantinopoli per farvi riconoscere
la repubblica; ma aveva incarico dai moderati di passare in Toscana,
mentre Maret andrebbe a Napoli, onde combinar le guise di salvare gli
altri membri della famiglia reale. Per giungervi senza metter piede
in terre ostili, essi vennero ne’ Grigioni, donde per la Valtellina
passerebbero sul Veneto e al mare. Ma l’Austria, d’accordo coi Planta
famiglia allora predominante nella Rezia, pose un agguato presso
Chiavenna (25 luglio), e violando il territorio amico, rapì que’
Francesi, e li mandò di prigione in prigione[4].

Roma, sbigottita d’una rivoluzione germogliata dall’empietà, e
dell’empietà proclamatrice, interruppe i grandiosi suoi lavori,
ospitò generosamente le vittime e i preti perseguitati; e Pio VI
sfogava i suoi dolori in concistoro esclamando: — Ah Francia, dai
predecessori nostri chiamata specchio di tutta cristianità, come
ci sei oggi avversata? come resa più fiera di quanti mai v’ebbe
persecutori? Ahi Francia, Francia!»[5] Pure guardavasi dal provocare
i furori rivoluzionarj. Ma allorchè vide abolita la religione,
trucidati i sacerdoti, invaso il territorio ecclesiastico d’Avignone
e del Venesino[6], minacciato se stesso nelle canzoni patriotiche,
ove preconizzavansi nuovi Galli alla Roma dei preti, nel suo stemma
che bruciavasi, ne’ fantocci che si strascinavano e impiccavano a
contumelia di lui, lanciò la scomunica contro la repubblica.

Il cardinale Bernis, perchè ricusò dare il giuramento costituzionale
che i rivoluzionarj esigevano dai preti, aveva cessato d’essere
rappresentante della Francia a Roma; e verun altro essendovi stato
aggradito, lasciavansi regolar le cose dalla legazione di Napoli.
Quando si trattò d’esporre lo stemma della repubblica francese, come
già erasi fatto a Genova, a Venezia, in Toscana, il papa ricusò. Makau,
residente francese in Napoli, scrisse al cardinale Zelada segretario di
Stato, poco importare che il papa riconoscesse la repubblica francese,
la quale esisteva per propria volontà; ma volere che fra ventiquattro
ore fosse posto quello stemma; e in caso d’opposizione o d’oltraggio
ad alcun Francese, la gran nazione piglierebbe severa vendetta. Questa
intíma egli fece presentare solennemente (1794 31 genn.) da La Flotte
uffiziale di marina, e da Ugo Bassville segretario di legazione, i
quali da alcuni mesi soggiornavano a Roma trescando; e La Flotte colle
parole gravò il tono della lettera, la quale anche fu divulgata.

Nè l’un nè l’altro vestivano carattere uffiziale; onde il Governo
avrebbe potuto punirli come sommovitori, eppure trangugiò. Ma quei
due uscirono pel Corso colle nappe tricolori, e il popolo ne assalì la
carrozza, e gridando — Viva il papa, viva san Pietro» uccise Bassville;
a fatica i soldati papali camparono gli altri e l’accademia francese
dalla plebaglia, che si buttò a rubare, spogliar botteghe, assalire
il ghetto; e per più giorni continuò urlando non voler più Francesi.
Alle grida impotenti con grida terribili rispondeva Francia, imprecando
all’intolleranza dei preti e agli stiletti degl’Italiani. Ma altrove
occupata, per allora dovette contentarsi di mandare emissarj a disporre
colle opinioni il trionfo delle armi.

Grande stromento a ciò erano le loggie muratorie; e quelle di Napoli,
tratto ardimento dalla vicinanza della flotta francese di La Touche,
concentraronsi in un club rivoluzionario, ove discutere di legislazione
e di riforme. Donato Frongillo vuolsi ne abbia dato spia; Rey, che
Luigi XVI avea destinato ministro di Polizia e che era fuggito a
Napoli, vi raccolse prove contro ventimila rei e cinquantamila sospetti
di massoneria. Carolina, come austriaca e come sorella di Maria
Antonietta, esecrava i Francesi, e la fomentavano Acton e gl’Inglesi,
sperando ridurre quell’importantissima regione al loro patronato.
Veduta la lunga lista dei proscritti, il marchese del Gallo le diceva,
— Mandateli a far un viaggio in Francia, e se sono giacobini torneranno
realisti»; ma essa, dalla paura resa spietata e detestando quel _vieto
pregiudizio_ che affigge infamia al delatore, empì il paese di spie; di
rei e di sospetti le fosse di Castel Sant’Elmo e di Messina; istituì
una giunta di Stato che, di cinquanta arrestati, tre mandò a morte,
di cui il maggiore avea ventidue anni; altri relegati o in carcere;
undici sciolti. Del processante marchese Vanni, giudicato con passione
come si fa sempre di questi manigoldi, fu detto esacerbasse i rigori,
inventasse le colpe ove non potea trovarne; che processando fin Luigi
Medici capo della Polizia, valente uom di Stato, gli contestasse
lettere venute di Francia; ma che un giudice integro dimostrò essere
scritte su carta fabbricata a Napoli.

A Palermo, scopertasi una congiura (1793 agosto) di trucidare
(diceasi) nel venerdì santo l’arcivescovo e i principali e stabilir
la repubblica, fu decapitato un De Blasis, impiccati molti.
Intanto invitavansi i possidenti a formare sessanta battaglioni di
ottocento uomini, e venti squadroni di censessantacinque; si levò
straordinariamente il sette per cento sui beni ecclesiastici, e gli
argenti non necessarj delle chiese al tre e mezzo, e contro cedole
di credito il denaro de’ banchi pubblici, i quali erano ricchi di
settanta milioni di franchi per intenti di beneficenza; si raccolsero
fin a trentaseimila armati, centodue legni di varia grandezza, con
seicentodiciotto cannoni e ottomila seicento uomini di ciurma; e la
fame spingea moltissimi ad arrolarsi.

V’ha esagerazione evidente in quanto si disse allora e si scrisse poi
contro quel Governo da chi aveva interesse a screditarlo: ma certo
esso mancava di buona fede; non osando far appello al patriotismo,
domandava gli argenti a titolo di «rimettere in vigore le antiche leggi
suntuarie, tanto utili allo Stato»; faceva armi, nè dicea contro chi e
perchè: i giovani, insofferenti del bastone tedesco, disertavano; degli
altri moriva gran numero ne’ micidiali campi di Sessa e di San Germano.

Insomma i principi d’Italia, non appoggiati all’opinione, sentivano il
nembo dalla Francia avvicinarsi alle loro teste; nè di forze tampoco
tenevansi provvisti, perchè le precedenti guerre aveano mostrato
che da armi straniere si decidevano le sorti nostre, e perchè la
succeduta pace ne gli aveva divezzati; e tutti pensavano quel che
il granduca diceva: — Principoni, soldati e cannoni; principini,
ville e casini». Questo in fatti non armava che quattromila soldati;
un migliajo e mezzo Genova, stupendamente fortificata; altrettanti
il Modenese; men del doppio Parma; due centinaja Lucca; seimila il
papa colle fortezze del Po, d’Ancona e Civitavecchia. La Lombardia,
forte per Mantova, Pizzighettone e Milano, non teneva in piedi più di
ottomila uomini, cerniti dagli ergastoli o feccia venale; i Francesi
nel 1705 v’aveano sperimentato la leva sforzata, ma invano; quando
Maria Teresa nel 1759 la ritentò, i giovani fuggivano; Giuseppe II
ne esentò questa provincia; e adesso che, scoppiata la guerra della
rivoluzione, Francesco II richiedea mille trecento reclute per compire
i due reggimenti italiani Belgiojoso e Caprara, lo Stato se ne sgravò
coll’obbligarsi di centomila zecchini l’anno finchè tornasse la pace.

Venezia muniva Peschiera, Legnago, Palmanova verso il continente, Zara
e Cataro nella Dalmazia, Corfù nel Jonio; l’arsenale ben provvisto, nel
1754 potè allestire cinquanta legni di diversa portata; i duemila suoi
soldati erano Schiavoni e Albanesi, nè ai patrizj permetteva i comandi
di terra; ma faceva ammaestrare ed esercitare dappertutto le _cernide_
o milizie campagnuole, che erano forse trentamila uomini; e nelle
varie provincie tenea da venticinque condottieri di armi, nobili che
in compenso d’ottenuti privilegi dovevano alla chiamata comparire con
cento uomini a cavallo, armati a loro spese.

Di trentacinquemila uomini era l’esercito napoletano; ma fatto e
rifatto in pochi anni, mancava di solidità, e d’uniforme e consentita
disciplina. Le somme spese da Acton, e l’apparato belligero davano
a credere ai popoli che il Reame figurasse come potenza di mare: ma
quella flotta era vistosa abbastanza per compromettere lo Stato, non
abbastanza forte per difenderlo. Ed ecco il La Touche con nove vascelli
di linea e quattro fregate si presenta a Napoli, intimando alla
Corte riconosca il nuovo plenipotenziario francese, tengasi neutrale,
disapprovi una nota del suo ministro a Costantinopoli in discredito
dell’ambasciatore francese, o bombarderebbe. Si dovette piegare la
testa, e Ferdinando IV fu il primo re che riconobbe la repubblica
francese.

Solo il Piemonte, dalla sua postura chiamato ad ingrandire per le
armi, alimentò lo spirito guerresco con trentacinquemila uomini
e quindici castelli. Sotto Carlo Emanuele III una scuola militare
fiorì alla disciplina di Alessandro Papacino de Antoni, che scrisse
ad uso di quelle l’_Architettura militare_, l’_Esame della polvere_,
l’_Uso delle armi da fuoco_, l’_Artiglieria pratica_ e altre opere,
tradotte anche in francese, oltre un racconto della guerra del 1753.
Vittorio Amedeo III, che diceva stimar più un tamburino che tutti i
membri dell’Accademia, nel grosso esercito che riformò nel 76, poi di
nuovo nell’86, profuse il tesoro paterno, e crebbe a cenventi milioni
il debito pubblico; fabbricò la fortezza di Tortona, compì quella
d’Alessandria: ma l’essere sempre generale supremo il re, e alla
nobiltà riservati i gradi, impediva di formarsi valenti capitani e di
eccitare i soldati colla speranza.

Questo paese per la vicinanza di Francia fu il primo a sentirsi in
pericolo. Vittorio Amedeo III (1773-96), non eroe, neppur guerriero
benchè soldatesco, seguiva materialmente la politica de’ suoi avi.
Devoto, e imparentato con una sorella e con due fratelli di Luigi XVI,
credette dovere di cristiano, di re, di parente l’armarsi; diè ricetto
ai nobili francesi che uscivano di patria non come vittime ma come
ribelli, e che a Torino macchinavano una controrivoluzione; il conte
d’Artois che fu poi Carlo X, di là sparpagliava agenti dappertutto,
e trovava piacentieri, e prometteva soggiogar presto la Francia; ma
il popolo li chiamava _quelli della settimana ventura_ per le sempre
prorogate speranze. Re Vittorio cogli altri potentati s’accordò sui
modi di soffogare questo che credeva incendio momentaneo, e togliere
qui speranza ai novatori, i quali si manifestavano con parole e con
qualche mal represso movimento, specialmente in Savoja dove Thonon
insorse per unirsi alla repubblica francese e alla ginevrina. Quando
Semonville fu spedito a proporgli alleanza colla Francia (1792 7bre),
egli nè udire tampoco lo volle; anzi, sollecitato dai fuorusciti e dal
nuovo imperatore, allestì a guerra la Savoja e Nizza, e conchiudeva
con lord Grenville alleanza contro la Francia, obbligandosi a tener in
piedi cinquantamila uomini.

Armi e viveri non mancavano; guarnite le fortezze e gli arsenali;
l’Inghilterra, oltre spedire nel Mediterraneo una flotta, lo
sussidierebbe di ducentomila sterline l’anno; ordinate preci nelle
chiese, su tutta la linea dall’Isero al Varo si distesero truppe
piemontesi, poi rinforzate dagli Austriaci. Il movimento era concertato
con quel di tutt’Europa, sorta contro la Francia: ma questa pose
tre eserciti che tenessero in freno gli alleati sul Reno, il quarto
con Montesquiou volse alla Savoja. Avea appena quindicimila uomini,
scompigliati, sprovvisti, ma teneva intelligenze nel paese. Benchè
da quarantacinque anni godesse pace, e se non contenta fosse almeno
tranquilla, con imposte lievi, non cresciute da sessant’anni,
pochissimi delitti, nobiltà moderata e non esclusiva, emancipate le
persone e le proprietà, a Chambéry ed altrove s’erano insinuati i
sommovitori, e sospiravano la libertà francese. Sebbene la Convenzione
avesse dichiarato non voler fare conquiste, Montesquiou insisteva
perchè s’assalissero i diciottomila Piemontesi; e l’ottenne, incolpando
questi re di cento falli speciosi o contestabili, mentre la ragione
vera stava nel voler sconcertare gli alleati mediante un grande colpo,
e poter condurre anche quest’esercito alla difesa del Reno. Adunque,
in nome della nazione francese, e vantandosi di «esser il primo a
introdurre le bandiere della libertà in un paese che n’è degno»,
violò ogni diritto e ogni forma col neppure darne avviso; e dopo fatto
giurare alle truppe (7bre) «di rispettare le persone e le cose, non
combattere che i satelliti dei tiranni, e proteggere la libertà de’
popoli», egli entrò in Savoja fra gli applausi de’ patrioti, e i balli
attorno all’albero, ch’erano alla rivoluzione d’allora ciò che furono
i banchetti a quella del 1848. Al 1º ottobre non vi restava più un
soldato piemontese; e nello stile enfatico de’ bullettini scriveano
i commissarj dell’esercito delle Alpi: — Superammo senza la minima
resistenza la barriera che separava la repubblica da un popolo schiavo;
l’albero della libertà, i colori nazionali, il _ça ira_ moltiplicavansi
sui nostri passi; e i più semplici montanari c’indicavano la strada per
la _capitale della nuova Francia_».

Parve un artifizio quella ritirata, tanto più che la minima resistenza
potea scompigliare il piccolo esercito francese quando appunto la
guerra volgeasi in peggio sul Reno, e la disobbedienza propagavasi
nell’esercito[7]: ma come si conobbe il vero, Lazzari capitano
de’ Piemontesi fu sottoposto a consiglio di guerra e degradato, e
quest’esercito in tutta Europa tacciato di vile, prima che se ne
vedessero di ben più gagliardi e agguerriti fuggire davanti a quei
militari improvvisati. Perocchè la nazione intera si avventava alle
frontiere, e giovani eroi briachi d’entusiasmo introdussero una tattica
nuova, senza riguardi alle vite o ai disagi dell’uomo, nè quartieri
d’inverno, nè riposi da marcie, nè tende o baracche; sicchè davanti a
quel misto di generosità, di cupidigia, di terrore, che fu carattere
della Rivoluzione, anche i migliori ordini degli altri paesi dovettero
soccombere alla forza, divenuta supremo movente. Poco andò che anche
Nizza fu presa, e scrittovi sulla cattedrale _Temple de la raison_;
e nella festa del 10 agosto 1793 si diede il volo ad uccelli che
portavano l’atto costituzionale, per annunziare al mondo la fraternità
francese.

Dall’invasa Savoja, i rifuggiti, soliti sparnazzatori di vanti e di
sgomenti, fuggirono a torme sopra Torino: ma sebbene l’esercito fosse
sfasciato, le popolazioni avverse ai Giacobini sfogavansi in vendette;
e coll’antico nome di Barbetti, masnade assalivano e trucidavano alla
spicciolata i Francesi nelle montagne nizzarde. Sul mare, Oneglia era
centro della pirateria contro la Francia: ma avendo percosso una nave
mandata con proposizioni, l’ammiraglio Truguet la bombardò (1792);
tutta la gente fuggì, eccetto i frati che si credeano inviolabili, e
che furono tutti trucidati, ed arsa la città.

I grossi capitali che i suoi negozianti aveano in Francia, obbligavano
la repubblica di Genova a circospezione; d’altra parte unirsi al
Piemonte non osava, sapendone la lunga cupidigia; non all’Austria, di
cui aveva spezzato i ferri; talchè teneasi di mezzo fra le pretensioni
opposte di Parigi e di Londra. Quest’ultima, abusando della marittima
superiorità, sorprese in porto la _Modesta_, fregata francese, e mandò
intimare ai Genovesi cessassero ogni comunicazione con Francia, e non
ne ricevessero veruna nave: prepotenza inaudita! Poi i Côrsi, alzata
bandiera inglese, sfogavano l’odio antico, corseggiando sulle coste.

Essendo chiuso dagl’Inglesi il porto di Genova, la Toscana avrebbe
potuto vantaggiarsi collo spedire olj, saponi, grani in Francia: ma
Inghilterra le intimò cacciasse tutti i Francesi (11 8bre) e anche
l’ambasciadore entro quarantott’ore; e il granduca, avuta garanzia de’
suoi Stati da quella potenza, abbandonò la politica d’interesse per
quella di sentimento, e armò, rinnovando la milizia paesana al modo del
Machiavelli.

Anche Napoli, malgrado la neutralità stipulata colla Francia, promise
unire alle forze inglesi seimila uomini, quattro vascelli di linea e
quattro minori ed altrettante fregate e più occorrendo; impedire ogni
commercio colla Francia, aprendo invece i porti (12 luglio) alle navi
inglesi. Difatto le napoletane corsero colle flotte alleate a predare
il ricchissimo arsenale francese di Tolone; ma trovandolo difeso da
Napoleone Buonaparte, dovettero ritornarsene con molto spesa e nessun
profitto, per propria scusa esagerando il valore e la fierezza de’
Francesi. Subito il re rifece l’esercito, e Acton e Carolina vigilavano
personalmente, animavano, faceasi denaro di tutto.

Quando poi Montesquiou, conquistatore della Savoja, fu destituito
(1794) dalla repubblica perchè mettea freno ai patriotici assassinj
de’ Nizzardi, e le arcadiche atrocità di Robespierre esacerbarono sì
che parea le popolazioni si rivolterebbero contro la tirannide de’
Terroristi, la coalizione si rannodò col disegno d’invadere la Francia.
Per verità, il Piemonte se avesse concentrate le forze s’un punto solo,
e preso accordo coi Lionesi, coi Provenzali, cogli altri Girondini e
Federalisti, avrebbe sostenuto la prima figura in quei tentativi, e
fors’anche mutato le sorti di Francia[8]. Ma re Vittorio, di molto
coraggio e niun’abilità, preferì distendere le sue truppe lungo la
frontiera in aspetto di difesa, e aborrendo dallo stendere la mano agli
uccisori di suo cognato, preferiva operare di conserva coll’Austria,
colla quale a Valenciennes (23 maggio) convenne sulle spartizioni; i
paesi che si togliessero a Francia verso Italia, cadrebbero al re in
compenso d’altri verso il Milanese ch’e’ cederebbe all’imperatore.

Ma anche nell’esercito piemontese diffondeansi i dogmi rivoluzionarj,
propagatore principale il côrso Cervoni, che per compenso fu poi
eletto a generale di brigata nell’esercito italiano. I Sardi si erano
valorosamente schermiti da’ Francesi; ma non per questo rassegnavansi
all’oppressione piemontese, e spedirono una deputazione dei tre
ordini a Torino, domandando fossero levati molti abusi, mantenuti i
privilegi, raccolti gli stamenti. La Corte la trattenne lungamente a
Oneglia, poi permessole di venire, sei mesi le tardò udienza, infine
non diè che parole (1793 28 aprile). Avutolo per un oltraggio, Cagliari
insorge, nè la forza basta a reprimere; il vicerè e l’arcivescovo
partono, s’adunano dappertutto gli stamenti, e si rinviano i Piemontesi
impiegati e i vescovi; poi subito i contadini ricusano le prestazioni
ai baroni, la demagogia gavazza fra disordini e sangue; e tutto è
peggiorato dalle rivalità degli Angiò e dei Petzolo.

Così l’Italia era disunita e fiacca; intanto che la Francia, tuffata
la guerra intestina in un mare di sangue, spediva Kellermann (1793),
che con cinquantamila uomini rincacciò i Piemontesi, tornati nella
Savoja; un altro esercito per la riviera invade Ventimiglia e Oneglia;
altri Francesi versavansi dal Cenisio sul Piemonte, non rattenuti che
dal forte della Brunetta; e le creste delle Alpi e degli Appennini
divennero teatro di fiere battaglie, dove il valore piemontese
riscattò gli smacchi della prima campagna, respingendo anche più
volte i Francesi. Ma questi procedeano; presero anche l’inespugnabile
Saorgio e Col di Tenda. I re, tentennanti di paura, moltiplicano
minaccie, arrestano, uccidono, raddoppiano di vigilanza, interdicono
ogni convegno anche letterario. Ma dal re di Napoli non si possono
ripromettere soccorsi, perchè ha il fuoco in casa: all’Austria, paga
di avere assicurata la sua Lombardia dall’invasione, poco caleva che
re Vittorio recuperasse i territorj perduti, e mentre accalorava le
imprese in Fiandra, qui spediva solo pochi reggimenti comandati dal
barone Devins, buon allievo di Laudon, ma vecchio, podagroso, avaro,
mentre vecchio e malaticcio pur era il barone Colli, austriaco nato
a Vigevano, che ferito nel petto a Belgrado, doveva farsi portare in
lettiga, eppure era stato chiamato a capitanare le armi piemontesi[9].
Francia senza perder tempo assale gli alleati nel campo di Dego, li
riduce a ritirarsi, e baldanzosamente spiega la bandiera tricolore
sulle Alpi marittime e sulle savojarde, a guisa di turbine addensato
sulle vette minacciando la sbigottita Italia.



CAPITOLO CLXXVI.

Buonaparte in Italia. I Giacobini. Fine di Venezia.


Ogni rivoluzione divora i proprj figli; e come i monarchici erano stati
uccisi dai costituzionali, poi i costituzionali dai repubblicanti,
e questi dai puritani, e tutti dai terroristi, così venne il giorno
che anche i teschi ferini di Danton, Robespierre, Carrier furono
gettati nella pozza del sangue da loro versato (1794 luglio). Allora
in Francia si osò mostrare umanità e quasi anche giustizia, a qualche
innocente aprire le carceri, perdonare, permettere fino il culto; i
moderati ripresero aura; i tanti arricchiti coi beni nazionali, colle
forniture, colle eredità cascate dalla ghigliottina, col disordine ove
sempre guadagnano gli scaltri, bramavano godere dopo tante privazioni
e tanti sgomenti; sicchè invocavasi fine alle stragi, riposo dalle
sanguinarie convulsioni. Ma poichè a quel terribile agguagliamento non
era sopravvissuta che la forza, alla forza si dovette ricorrere per
disarmare la plebaglia (1795) e trucidare i Giacobini più ostinati:
nel che alla vigorìa di Barras servì l’inesorabile mitraglia del
Buonaparte, richiamato dalle Alpi alla caduta di Robespierre. Allora
si stabilì una nuova costituzione che tutelasse le acquistate libertà
e la repubblica una ed indivisibile (9bre); visto che una Camera
sola facilmente diveniva precipitosa e violenta, si volle associare
la ragione e l’immaginazione istituendo un Consiglio di cinquecento
persone, almeno trentenni, rinnovatesi per terzo ogn’anno; ed uno
di ducencinquanta anziani sopra i quarant’anni, ammogliati o vedovi,
rinnovatesi al modo stesso, che sanzionava le leggi proposte da quelli,
ma che poteano discutersi soltanto dopo tre letture. Tutti i cittadini,
dai ventun anno in su, nelle assemblee primarie nominano i membri
delle assemblee elettorali, che eleggono i due Consigli, e questi
il Direttorio esecutivo, di cinque membri, con ministri responsali;
elettivi sono pure i magistrati giudiziali; libera la stampa,
ma vietate le società popolari; espulsi per sempre quei ch’erano
fuorusciti; sanzionata la vendita dei beni nazionali; liberi i culti,
nè stipendiati dal Governo.

Raffazzonata così la civile convivenza, il Direttorio sconnette la
coalizione nemica facendo pace con Prussia e Spagna; e poichè la
principale sua avversatrice era l’Austria, pensò portarle guerra in
Germania non meno che in Italia. E qui comincia l’età omerica della
rivoluzione, colle grandi conquiste che le erano necessarie per farsi
riconoscere e per diffondere le idee e i sentimenti suoi. Il generale
Scherer ingrossato sulle Alpi, con Massena e Serrurier batte Devins
e Colli (22-28 9bre), in una serie di fatti che denominaronsi la
battaglia di Loano, prendendone tutta l’artiglieria ed il carreggio:
i vinti precipitandosi in fuga, non meno che i vincitori stuprando
e devastando, lasciarono tutta la Liguria esposta ai Francesi; onde
se Scherer allora drizzava sopra Torino, non trovava ostacolo: ma
ebbe paura dell’inverno; poi non finiva di rimostrare i bisogni d’un
esercito che lasciavasi mancante di tutto; e non vedendosi ascoltato,
mandò la dimissione, e fu surrogato da Napoleone Buonaparte (1796 23
febb.).

Discendeva questo da un Guglielmo di Pistoja, che nelle guerre del
Quattrocento si stabilì a Sarzana, donde Francesco nel 1530 tramutò
la famiglia in Corsica. Ivi i Buonaparte coi Saliceti parteggiavano
per Francia; onde al sormontare del Paoli e dei Pozzodiborgo andarono
proscritti. Ricoverati a Marsiglia, madama Letizia rimasta vedova,
vivea dimessamente; le avvenenti sue figliuole facevano i servigi
della casa; i molti maschi correano le fortune di quel tempo, e
tra essi Napoleone, nato il 5 agosto 1769, educato dallo zio prete,
scriveva in sentimento giacobino, firmandosi Bruto Buonaparte. Entrato
nell’esercito, lo trovammo in Sardegna, poi alla difesa di Tolone come
artigliere, poi a sedare sanguinosamente le insurrezioni in Parigi.
Ora spedito sopra l’Italia, di cui le barriere in ogni parte già erano
superate, prometteva, — Fra tre mesi sarò reduce a Parigi, o vincitore
a Milano».

Al crescere del pericolo, l’Austria mandò sull’Alpi Beaulieu, generale
esercitato sotto il maresciallo Daun, poi segnalatosi nel Brabante e a
Fleurus e nel liberare Magonza dai Francesi, e che alla sperienza di
vecchio univa spiriti giovanili. Ma non guidava più di trentaduemila
soldati, oltre mille ducento cavalli napoletani; e la gelosia toglieva
che gli alleati operassero d’accordo. I quali, mentre vantavano
tutelare i troni e la società, ruminavano parziali ambizioni; il
Piemonte sperava guadagnare la Lombardia a scapito dell’Austria sua
alleata, dalla quale non volea lasciar occupare le fortezze; l’Austria
di rimpatto sperava ciuffare il Veneto, e ricuperare la Lomellina
e il Novarese, sicchè parve poco curare i disastri del Piemonte,
persuasa a vicenda che a questo non rincrescerebbe vederla espulsa
dal Milanese dov’è destinato a succederle. Il Direttorio dava dunque
incarico a Buonaparte di rincacciare gli Austriaci oltre il Po, sicchè
i Piemontesi isolati dovessero piegare a buoni accordi.

Buonaparte, moderato nell’ardimento, vedea bisognare altro sistema
che le campagne metodiche; e che, colpita l’Austria, ai principotti
italiani nulla resterebbe a fare; ma insieme che bisognava smettere la
propaganda sovvertitrice; e «se noi (pensava) colla libertà attizziamo
la guerra civile in Piemonte e a Genova, e solleviamo le plebi contro
i nobili e i preti, ci facciamo rei degli eccessi di tali lotte.
Sull’Adige invece possiamo eccitare il patriotismo contro lo straniero,
senza nimicare le classi, le quali tutte alla parola _Italia Italia_,
bandita non dal Ticino, ma da Milano o da Bologna, si accorderanno a
ristabilire la patria italiana».

A Nizza (20 marzo) egli trovò trentaseimila Francesi in condizione
deplorabile; non vesti, non denaro, non cavalli, non viveri; ma
coraggio, costanza, impeto repubblicano e bravi capitani, quali Massena
senza paura, Augereau spadaccino che trasfondeva il proprio valore
ai soldati, il coraggioso ed istrutto svizzero Laharpe, il prode e
metodico Serrurier, Berthier eminente nelle particolarità e nel colpo
d’occhio, e Miollis, Lannes, Murat, Junot, Marmont, destinati a vivere
nella storia quanto gli eroi di Grecia e Roma. Fra loro Buonaparte,
smettendo le famigliarità repubblicane, si dà aria di capo benchè sia
il più giovane; ai generali distribuisce quattro luigi per uno; ai
soldati dice: — Voi male vestiti, male pasciuti; e il Governo che tutto
vi deve, nulla può per voi. Io vi condurrò nel paradiso terrestre, dove
piani ubertosi, grandi città, laute provincie; dove troverete onore,
gloria, ricchezze».

Mentre Beaulieu aspettava d’essere attaccato per Genova, egli procede
per la valle della Bormida; e vincitore la prima volta a Montenotte,
poi al passo di Millesimo (11-14 aprile), sapendo profittare di quei
quarti d’ora che decidono delle battaglie, sbocca sovra il centro
nemico, separa gli Austriaci dai Piemontesi, avventasi sopra questi,
e da Cherasco proclama: — Italiani, l’esercito di Francia viene a
frangere le vostre catene; il popolo francese è amico di tutti i
popoli; corretegli incontro; le proprietà, le usanze, la religione
vostra saranno rispettate. Faremo la guerra da nemici generosi, e solo
coi tiranni che vi tengono servi»; e vincitore a Ceva, Mondovì, difila
sopra Torino.

Il re di Sardegna, inquieto anche per le turbolenze sarde (28 aprile),
impetra un armistizio: ma tale debolezza, non che salvarlo, mette il
suo paese al pieno arbitrio dei nemici, ai quali se avesse tenuto
testa, poteva cambiare il corso delle vicende italiche. E nobili e
Corte diedero il primo pascolo di adulazioni servili al giovane prode:
il quale impose di cedere la Savoja, Nizza e le fortezze di Ceva,
Cuneo, Alessandria, Tortona, strada fornita tra Francia e Lombardia;
altre smantellarne; amnistia ai repubblicanti; pagar taglie e viveri
pei soldati. La Brunetta, con tant’arte e tesori resa insuperabile
chiave d’Italia, fu sfasciata senza ostacolo.

Buonaparte, con esercito pasciuto, coll’artiglieria acquistata,
con volontarj accorsi, «riportate (com’egli diceva) sei vittorie in
quindici giorni, presi ventisei vessilli, cinquantacinque cannoni,
molte piazze, quindicimila prigionieri, guadagnato battaglie
senz’artiglieria, passato fiumi senza ponti, marciato senza scarpe,
serenato senz’acquavite e talora senza pane»[10], per la destra del Po
cala verso Lombardia, in pingui convalli, sopra terreno proporzionato
alla forza dell’esercito. Entrato sugli Stati di Parma e Piacenza,
che sotto i Borboni si erano ristaurati dalle guerre e fiorivano
d’agricoltura, arti, commercio, concede al duca armistizio per due
milioni di lire, milleseicento cavalli e grano, oltre venti quadri
dei migliori. E mentre i Tedeschi l’attendono dritto a Valenza, egli
obliquamente passa il Po a Piacenza, batte Beaulieu tardi accorso (9
maggio), a Lodi varca sanguinosamente l’Adda (11 maggio), e arriva a
Milano, donde l’arciduca era partito senza resistenza nè compianti,
ma con grand’accompagnamento di persone, che dai repubblicani si
salvavano sul territorio veneto. Ivi pure rifugge Beaulieu colle truppe
austriache, sol tenendo Mantova; poichè il castello di Milano capitolò
(29 giugno), e i disertori e migrati che v’erano furono consegnati al
generale francese.

Egli, prendendo possesso della Lombardia, bandiva che «ognuno dovesse
contribuire al bene generale; goder sicuro delle sue proprietà;
esercitare i proprj diritti sotto la scorta della virtù; riconoscendo
un Dio, praticando il culto che la sua coscienza gl’ispira; non
altra distinzione fra gli uomini che il merito; si ricordassero che
verun’opera riesce perfetta di primo getto, e i grandi errori si
riparano colle virtù e colla moderazione». Lascia armare le guardie
nazionali, fare grandi allegrezze, prevalere quelli ch’erano già
capi nelle loggie massoniche, stabilire ritrovi politici e gazzette
declamatorie; e tutt’insieme gitta venti milioni per tassa di guerra,
cioè il quintuplo di quanto pagavasi in un anno ai tiranni espulsi, e
non equamente ripartiti sul censo, ma riscossi arbitrariamente sopra
gl’individui. In nome della libertà fece deportare i sessanta membri
dell’antica congregazione di Stato; in nome della democrazia rapiva al
povero il suo pane, cioè i pegni che aveva deposti ne’ Monti di pietà,
e il suo lusso, cioè gli ornamenti delle chiese; tra i vanti di fede
pubblica sospendeva i pagamenti del Monte; tra i vanti di protezione
rubava i capi d’arte, mascherando d’entusiasmo i calcoli dell’egoismo.

Per dieci altri milioni e viveri e quadri concede armistizio ad Ercole
III duca di Modena, buon uomo che, per ammansarlo, aveagli detto,
— Ricordatevi che siete de’ nostri» e si udì rispondere, — Io son
francese»; e che coi tesori adunati pagando i danni dei sudditi ai
quali avea cercato far del bene, si ritirò a Venezia[11].

Buonaparte, alimentato l’esercito, può spedire al bisognoso Direttorio
trenta milioni e cento cavalli di lusso, ed altro denaro all’esercito
del Reno; atto inusitatissimo fra generali che solo pensavano a
rubare e godere. Era suo divisamento di voltare nel Tirolo, e per la
valle del Danubio ricongiungersi a Moreau e Jourdan sul Reno: ma il
Direttorio ingelositone lo dichiarò chimerico e pericoloso, e ordinogli
di lasciare mezzo l’esercito con Kellermann in Lombardia, col resto
difilarsi sopra Roma e Napoli. Buonaparte che badava a vincere non
a fare dispetti al papa o a un re, conobbe quanto pregiudicherebbe
lo spartire il comando e addentrarsi nell’Italia come Carlo VIII; e
per mezzo di Giuseppina, amante sua e dapprima amante del direttore
Barras trafficante di favori, a disposizione del quale egli mise un
milione depositato a Genova, stornò il Direttorio da quel proposito.
Al quale scriveva: — Ho fatto la campagna senza consultare nessuno;
a nulla di buono sarei riuscito se fosse bisognato acconciarmi col
vedere d’un altro. Vinsi forze superiori sebben privo di tutto, perchè
persuaso che voi fidavate in me: la mia marcia fu pronta quanto il mio
pensiero. Se mi ponete pastoje, non v’aspettate nulla di buono: se mi
indebolite dividendo le mie forze, se rompete in Italia l’unità del
pensiero militare, avete perduto la più bella occasione d’imporre leggi
all’Italia».

Allora egli si dispose ad assediare Mantova, ultimo ricovero della
bandiera austriaca, e procedere su per l’Adige. Enumerati pomposamente
i trionfi all’esercito, diceva: — Altre marcie forzate ci restano,
nemici a sottomettere, allori a cogliere, ingiurie a vendicare. Quei
che aguzzarono i pugnali della guerra civile in Francia, tremino:
i popoli stieno sicuri; noi siamo amici de’ popoli. Ristabilire
il Campidoglio, risuscitare il popolo romano da molti secoli di
schiavitù, sarà frutto delle nostre vittorie. Il popolo francese,
libero, rispettato da tutti, darà all’Europa una pace gloriosa che
la compenserà de’ seienni sagrifizj. Voi tornerete allora ai vostri
focolari, e i concittadini additandovi diranno, _Egli era nell’esercito
d’Italia_».

Il pericoloso entusiasmo per la forza fortunata, allora fa eccheggiare
dei vanti dell’eroe la Francia, che divezzandosi dall’anarchia,
all’ebrezza della libertà va sostituendo quella della gloria;
e l’Italia, sospesa fra ansietà, meraviglia e speranza. Egli a
ventott’anni carezzato, adulato, chiamato Scipione, Cesare, Giove,
sentì svilupparsi la grande ambizione, e conobbe di poter divenire un
attore decisivo nella scena politica. — Io era giovane, balioso nella
conoscenza di mie forze e avido di cimentarle. I vecchi mustacchi che
sdegnavano questo imberbe comandante, ammutolirono davanti alle mie
azioni strepitose: severa condotta, austeri principj pareano strani in
un figlio della Rivoluzione. Io passava, e l’aria sonava d’applausi;
tutto pendeva da me, dotti, ignoranti, ricchi, poveri, magistrati,
clero, tutto ai miei piedi; il nome mio sonava caro agl’Italiani.
Questo accordo d’omaggi mi invase così, che divenni insensibile a
ciò che non fosse gloria; invano le belle italiane faceano pompa de’
loro vezzi; io non vedea che la posterità e la storia. Che tempi! che
felicità! che gloria!»

Così, allorchè a Sant’Elena soccombeva al peso di importune memorie,
tornava Buonaparte con compiacenza su questa spedizione, ch’è uno
splendido episodio per tutta Europa, e una storia delle più attraenti
per noi; vi tornava, e con rimorso invano dissimulato vedeva il bene
che avrebbe potuto fare alla patria nostra; egli italiano come noi,
egli braccio d’un popolo libero; egli capace di sentire la potenza
dell’unione e l’efficacia dell’ordinata libertà: pure, dopo cessati gli
adulatori, egli si adulava da sè, e, come quelli, arrestavasi sempre
sulla gloria militare.

Dalla quale affascinati, i colti Lombardi che aveano letto gli
Enciclopedisti poi le gazzette, partecipato a loggie massoniche,
librato le innovazioni dei proprj principi, da lui ripromettevansi
patria, gloria, libertà, e di diventare nucleo dell’Italia, risorta in
poderosa nazione per volontà d’un popolo libero e liberatore. La turba
stupiva delle subitanee vittorie dell’eroe italiano, e abbandonavasi
volentieri al tripudio del fanciullo che improvvisamente si trova
sfasciato, e alle illusioni d’un fausto avvenire; si affezionava a
que’ Polacchi che, invano difesa la nazionale libertà, ora combatteano
per la nostra; a quei Francesi vivaci, gentili, spassoni, che da lerci
e cenciosi rimessi in panni e in carne, faceansi amare dagli uomini
e più dalle donne, brillavano in frequenti rassegne, narravano le
romanzesche vicende della rivoluzione e della guerra, e le stranianze
d’una società che ridendo passò dalle cene voluttuose della Reggenza
alla ghigliottina, dagl’idillj di Rousseau alla idrofobia di Marat; e
colle canzoni sanguinarie e generose spargeano le idee d’una libertà
soldatesca.

Dappertutto agli antichi Governi si sostituirono le municipalità,
primo elemento delle nazioni che sorgono, ultimo rifugio dell’autorità
che tramonta. A principio vi si collocarono persone, di cui il senno,
la ricchezza, la dottrina fossero garanzia d’onorato operare, e fra
essi a Milano Pietro Verri e Giuseppe Parini. Ma furono bentosto
soppiantati dalla turba impacciosa, ch’è pronta sempre ad usufruttare
di vittorie ch’essa non preparò, e che si regge adulando la ciurma
colle smargiassate, adulando gli scribacchianti colle parole pompose,
adulando i padroni colla codardia e i ladri colla connivenza.

Anche allora il primo uso della libertà consistette nel restringere
le libertà; vietato l’andare in volta, e fin l’uscire di città senza
passaporti; vietata ogni pubblicità di culto, anche il portare il
viatico o sonare le campane; obbligati i preti a montare la guardia
nazionale; vietati certi tagli d’abiti, sotto pena dell’arresto;
il matrimonio fatto meramente atto civile; violato il secreto delle
lettere; intercetti i giornali esteri; imposto agl’impiegati di giurare
«odio eterno al governo dei re, degli aristocratici ed oligarchi». I
nobili, in paese dove non esistevano nè servaggio nè banalità nè caccie
riservate, erano bersaglio di scherni e di accuse quotidiane; e non che
abolirne i titoli e spezzarne gl’inconcludenti stemmi fin sui sepolcri
aviti, si obbligarono a pesi speciali in nome dell’eguaglianza;
richiamati dalla campagna, costretti a tenere i servi, malgrado le
decimate fortune. I preti, che non vollero buttarsi nell’orgia, nè
menare una donna all’albero per isposarla, doveano subire frequenti
insulti in mezzo alla popolazione che continuava a venerarli, ma non
aveva energia a difenderli.

Adunque preti, frati, nobili e l’estesissima loro clientela
sbigottivano delle irruenti novità, spargeano un cupo sgomento pei
regicidi, pei terroristi, pei sovvertitori dei troni e della fede;
e quando si videro le larghe promesse riuscire al latrocinio, alle
insaziabili imposte, allo sprezzo della religione e delle consuetudini,
il popolo fremette e si agitò.

Pavia era occupata da Augereau e Rusca, tutt’altro che moderati, i
quali pronunziarono stava male in faccia all’albero della libertà la
statua d’un tiranno; tale giudicando quel monumento di bronzo antico,
detto il Regisole che non si sa qual cosa rappresenti. E subito la
plebe gli fu attorno a ruinarlo, urlando morte agli aristocratici e
ai preti. Questi invece pascolavansi della speranza che l’occupazione
fosse momentanea, e ad un giorno fisso insorgerebbe Milano (23 maggio),
e dal Ticino tornerebbero i Tedeschi. Due soldati prigionieri fuggiti
si credettero l’avanguardia; si diè nell’armi; le campane delle
ventotto chiese toccarono a martello, e barricate, e lumi; i soldati
che non cadono uccisi hanno appena tempo di ricoverare nel castello,
ove non avendo da vivere e da curare i feriti, capitolano in numero di
quattrocento. Pensate che feste, che trionfi, che accorrere di popolo
dalla campagna, che trescare di capitani improvvisati! Ma Buonaparte
saputone, accorre; manda a fuoco e sacco Binasco che resiste; e poichè
a Pavia spedì invano l’arcivescovo di Milano persuasor di pace, v’entrò
a forza e abbandonolla al saccheggio. Molti perirono, fra cui il
vicario d’esso arcivescovo; e Buonaparte giurava di volere la testa
di cento aristocratici; poi s’accontentò di far passare per l’armi
il curato di San Perone, il cancelliere di Bereguardo e alcuni altri,
colpevoli o no; portare ostaggi sessanta fra nobili e preti; gettare
una tassa; contento di atterrire coll’esempio in su quelle prime[12].

Anche altrove il popolo, sturbato nelle sue abitudini, offeso nelle
sue credenze, si stomacava a subbugli di cui non sentiva i vantaggi,
e di cui vedeva profittare soltanto i birbi e i trasmodanti. Quindi
in molti luoghi insurrezioni: sul lago di Como si stringeva un’armata
cattolica per scortare il Viatico e difendere il culto: a Como
s’insultò all’albero, e benchè il vescovo e buoni cittadini calmassero
l’improvvida turba, si volle sbigottirla con supplizj; così altrove,
usando la ferocia d’un governo militare, mentre se ne facea testo a
declamare contro i preti e gli aristocratici, imputati al solito di
congiure. Saliceti, compatrioto di Buonaparte e famoso commissario, che
dava mano agli esagerati, teneva mano ai ladri, scriveva al Direttorio:
— Per assicurare la calma ho tolto le armi a qualunque abitante, di
nessuno essendo a fidarsi. Da un ventesimo in fuori tutti affezionano
l’antico Governo; e di quel ventesimo anche i più dichiarati pe’
Francesi sono spinti da interesse e cupidigia. Li conosco, ne cavo
quanto posso, e non mi lascio togliere la mano».

Allora una febbre di mutare mestiere; un cattivo abate si rendeva
politico, finanziere un filologo, oratore demagogo uno screditato
giornalista, arruffatore di plebi un adulatore di re, libellista un
serio filosofo inascoltato; alla democrazia, che schiude un’arena a
tutte le forze e capacità, sottentrava quella che porta a spallucce
i nani, che produce apoteosi senza virtù, avanzamenti senza merito,
cariche senza cognizione nè probità; che alla moderatezza, alla
riflessione, alla gravità, necessarj contrappesi dello smanioso moto,
impongono di tacere e tirarsi da banda. Audacia, ciancie e convulsioni
bastavano ai saccenti che vengono a galla ogniqualvolta si scuota la
feccia, più abbondanti ov’è più negletta la politica educazione, e
che per l’ingordigia d’essere qualcosa affollano mozioni e decreti,
antesignani ogniqualvolta si tratta di diletticare i potenti del
giorno, siano i re o i piazzajuoli, purchè lascino loro una settimana
onde soddisfare un’ambizione, un rancore, una cupidigia. Il vulgo
scribacchiante che pretende avere diretto il torrente, da cui si lasciò
strascinare, e crede sue le voci di cui non è che l’eco, arrogavasi
di rappresentare il popolo e l’opinione, gridando alto affinchè
non s’udissero le ragioni. Quella bordaglia giornalistica, che ogni
cominciamento di libera stampa contamina quasi col proposito di farla
detestare, imbrattava fogli, tutti iracondia, fraterni vituperj ed
empie diatribe, istigando contro chi non partecipasse al suo delirio, o
non ne accettasse servilmente tutte le opinioni; scaraventava proclami,
in cui la sola cosa degna di considerazione è il vederli, sentimenti
e frasi, ripetuti in pari circostanze un mezzo secolo più tardi.
Apostolavano un sistema di cui non comprendevano le obbligazioni;
destri alle schermaglie della rivoluzione, non alle battaglie della
libertà, usavano talento ov’era mestieri di carattere; e coll’audace
franchezza onde aveano rovesciate le prime barriere, sfrenavansi da
principj e da costumi, in libertà di oltraggio se non anche di delitto.

Quanto di più fermentativo aveano le varie provincie d’Italia,
accorreva a Milano, portando lingue e penne anzichè braccia e spade:
ivi il metafisico Poli e lo statistico Melchior Gioja, più esagerando
per farsi perdonare l’unzione sacerdotale; il Valeriani, autore
dell’esame delle XII Tavole; il valente medico Rasori; il Barbieri
architetto romano; l’erudito Tambroni, lo storico Beccatini, il Custodi
economista; ivi Latanzio, Salvadori, Salfi, Poggi, Abamonti stendeano
giornali smargiassi, con lusso d’ingiurie e col limaccioso vezzo di
voltare tutto in celia; ivi Ceroni, Fantoni, Foscolo producevano versi
accademicamente rivoluzionarj; ivi il romano Gianni[13] improvvisava
vituperj ai re ed apoteosi a Buonaparte, incontrastato Tirteo della
Cisalpina, finchè non vi capitò il Monti a redimersi delle esagerazioni
papali con esagerazioni regicide. Il fermento ne cresceva, e tanto più
dacchè, a imitazione sempre di Francia, si apersero i club e il circolo
Patriotico, ove persone, balzate dalla venerazione illimitata del
potere all’idolatria dell’illimitata libertà individuale, gareggiavano
a chi ne scaraventasse di più badiali, pindareggiando un eroismo
scevro di pericolo: non v’era persona, non cosa che si rispettasse,
non violenza che non si suggerisse o applaudisse, non verità che si
tollerasse; bruciando i libri che opinassero diversamente dalla moda,
o i giornali che dessero notizie non volute; tacciando di terrorista
chi avvisasse de’ pericoli, e intanto supponendo pericoli immaginarj
per giustificare provvedimenti smoderati. Da quei circoli partivano
le proposizioni di non far assistere da preti i condannati per non
allungare il supplizio; d’imporre la tassa progressiva sulle sostanze;
d’istituire opifizj nazionali, e accomunare le proprietà; da quelli i
sospetti lanciati al popolo in momenti in cui facilmente si convertono
in furori; da quelli le denunzie contro vescovi che aveano visitato la
loro diocesi senza permesso, o parrochi che aveano fatto una festa:
tutto ciò in nome della libertà ed uguaglianza. Altri smaniavano
d’originalità con proposte ridicole al buon senso, col guidare feste,
organizzare dimostrazioni: fra i quali primeggiò un prete Ranza,
maestro d’umanità a Vercelli, le cui smancerie divennero la parte
comica di quegli avvenimenti e l’esercizio alle descrizioni del Botta.

Polacchi, Piemontesi, Papalini, Napolitani migrati vi portavano
ciascuno declamazioni contro il tiranno del proprio paese; e
quale esortava a far rinascere dalle ceneri del Vaticano la fenice
dell’antica Roma; quale a sepellire nel Vesuvio i Borboni di Napoli;
quale a sperdere le ceneri regali di Superga, e surrogarvi quelle
de’ patrioti uccisi; tutti smisurati come chi parla e non opera. Le
dottrine indecise di que’ declamatori palesano l’ignoranza delle grandi
quistioni messe a dibattimento, ove la sapienza accumulata da’ nostri
padri in diciotto secoli si vituperava per razzolare nelle ceneri di
Bruto e Timoleone; vedeansi Regoli e Scevola e Scipj e Menenj Agrippa
in ogni caporale, in ogni magistrato: in ogni donna prometteansi Clelie
e Cornelie. Eppure tutto quel lancio era pretta imitazione; non si
sapea che ripetere le massime divulgate in Francia; ogni re essere
tiranno; puntelli suoi i preti e i nobili; sovrano unico il popolo, che
può in qualsiasi tempo e modo recuperare gli usurpatigli diritti; unico
Governo legittimo la repubblica democratica; unica fedeltà quella al
popolo, e lode il tradire i principi; nessun intermedio fra l’uomo e
Dio, e perciò non dogmi, non culto; tutti pari davanti alla legge, e la
legge è arbitra delle vite e delle sostanze, come dominatrice del patto
sociale. Dietro a ciò, fare elegie sul popolo, compatire come martire
ogni uomo colpito dalla legge, come vittima chiunque fosse gravato da
una tassa, o traversato in un suo desiderio; vedere oppressione in ogni
ritegno alle inclinazioni, in ogni sacrifizio del comodo o dell’utile
individuale al pubblico; iniquità in ogni disuguaglianza, despotismo in
ogni autorità.

Fortunatamente v’era più da ridere che da fremere, più illusione
negli spiriti, che non viltà e corruzione ne’ cuori: nè degli errori
possiamo chiedere conto rigoroso ai nostri, giacchè non erano che
stromenti ed ombre degli onnipotenti governatori militari. Un Despinoy
comandante di piazza era il despoto di Milano: guai se la municipalità
si raccogliesse senza sua saputa! guai se un provvedimento emanasse non
da lui autenticato! Fu volta che snudò la spada e la battè fieramente
sulla tavola dove si deliberava, intimando la sua volontà; sicchè il
Parini abbrancando la sciarpa tricolore che portava sul petto, — Chè
non ce la cingete al collo e la stringete?» A Como l’agente Valeri
côrso, avuta in mano una satira a sua derisione, ordina che un tal
giorno tutti i cittadini in su dai dodici anni si radunino in duomo. In
tempi così sospettosi ne nacque un turbamento generale, un interrogarsi
a vicenda su quell’ordine misterioso. Ed ecco arrivare i parrochi con
dietro la loro plebe, arrivare frati, e tutti in pensosa apprensione:
poi come furono dentro, egli ordinò che ciascuno scrivesse il proprio
nome, sperando dal confronto de’ caratteri scoprire l’autore di quel
libello.

E ferocie e lepidezze molte potrei narrare di costoro; e i nostri
gl’imitavano. Un comitato di polizia, sostituendo l’arbitrio dell’uomo
all’imparzialità della legge, destituiva, deportava per colpe
d’opinione, per antichi meriti, per supposta malevolenza; pretendeva
mettere in onore lo spionaggio, e apriva un’urna, ove ciascuno potesse
deporre le accuse od offrirsi a delatore, sicuro d’una ricompensa e
d’inviolabile segreto[14].

Cangiata la frasca, restava dunque eguale il vino; al posto d’un
imperatore e d’un arciduca faceano da tiranno molti generali,
commissarj di guerra, municipalisti, più duri perchè nuovi, più avidi
perchè sorti di ventura, più tediosi perchè vicini. Peste di quella
spedizione, i commissarj di guerra dilapidavano le provincie per
impinguare sè e le bagascie; e dappertutto prezzi ad arte rincariti,
finte carestie, contratti finti, finti soldati, finti magazzini; si
requisivano tele per gli ospedali, e andavano in vendita; prometteasi
preservare da imposte chi pagasse, e pagato che avesse veniva
disanguato; della chinachina allora costosissima, faceasi traffico,
mentre i soldati morivano di febbre; e Italiani teneano il sacco, e
la connivenza de’ superiori compravano a prezzo della coscienza, delle
mogli, della patria.

Buonaparte chiedeva, non già che costoro non rubassero, ma che, rubando
a sazietà, rendessero almeno i servigi necessarj: ma «rubano (scriveva
al Direttorio) in maniera così grottesca e sfacciata, che non uno
sfuggirebbe al supplizio s’io avessi un mese di tempo». Per liberarsi
da questi vampiri, i nostri offersero contribuire un milione al mese
alla repubblica francese: fu accettato il patto, non cessò quella
rabbia. Il Direttorio di Parigi faceva a mezzo, nè avea riguardo che
all’esercito; l’Italia era pingue, e bisognava smungervi principi
e repubblicanti; il Milanese sarebbe buono per dare in cambio della
Savoja al Piemonte o de’ Paesi Bassi all’imperatore, dunque era bene
rovinarlo sicchè men fruttuoso arrivasse a quelli; e senza pudore
scriveva a Buonaparte: — Alla prima occasione di terrore, strizzate
dai Lombardi quanto potete; fate di guastare anche i loro canali
e l’altre opere pubbliche; ma prudenza!» Buonaparte guardavasi dal
lasciarne trapelare, anzi blandiva le idee sempre allettatrici di
libertà e indipendenza, e ripeteasi amico a tutti i popoli, e massime
ai discendenti degli Scipioni e dei Bruti.

Intanto il contagio repubblicano s’appiglia a tutta Italia; e patrioti
come si chiamavano da sè, o giacobini come erano chiamati dagli altri,
scassinavano il vecchio edifizio. Ad esortazione di Buonaparte che,
se non altro aveva il merito di mostrare la colpa e il danno delle
nostre divisioni, deputati cisalpini andavano attorno a fraternizzare;
la media Italia bolliva d’indipendenza, e Reggio per la prima mandava
Paradisi e Re in Milano a festeggiare coi Cisalpini l’incipiente unità
italiana. Modena resistette ai patrioti; ma Buonaparte, allegando
violato l’armistizio e che «que’ ridicoli principotti cospiravano,
ond’egli dovea prevenirli», dichiara decaduto quel duca e libero il
suo paese. Bologna e Ferrara ergevansi in repubblica; e Lugo che
fece movimento contrario, ebbe sanguinosa punizione da Augereau.
Nella legione lombarda Italiani d’ogni paese dimenticavano le annose
divisioni; nella polacca i compagni di Kosciusko e i profughi di
Germania offrivano il loro valore per noi; i Reggiani affrontandosi
cogli Austriaci, offersero le primizie dell’italico valore.

Buonaparte risolve costituire Modena, Bologna, Ferrara, la Romagna, la
marca d’Ancona e Parma in repubblica Cispadana; la quale restasse alla
Francia qualora dovesse restituire la Lombardia; in compenso al duca di
Parma darebbe Roma; potrebbesi anche unire il Piemonte alla Francia, e
attribuire a quel re la Lombardia: soliti azzeccamenti della diplomazia
sia regia o repubblicana.

Di rimpatto aristocratici, Austriaci, Inglesi, il papa faticavano a
puntellare il crollante edifizio con armi e con denaro. L’Austria,
sentendo che, se perdesse Mantova, si troverebbe scoperta da questo
lato, spedì pel Tirolo e la val Sugana il maresciallo Wurmser (1796
luglio) con sessantamila combattenti. Secondati da diecimila che
trovavansi chiusi in quella fortezza, e dai devoti Tirolesi, erano
per varcare l’Adige in ogni punto, e prendere Buonaparte in mezzo;
onde cadde il cuore ai patrioti, risorse ai rammaricosi. Ma Buonaparte
osa abbandonare Mantova inchiodando le artiglierie (30 agosto), e
concentrasi alla punta del lago di Garda: ben tosto colla battaglia di
Lonato rintegra la sua fortuna; poi a Castiglione compie la campagna,
sessantamila uomini avendo superati con trentatremila e colla sua
risolutezza.

In Germania il giovane arciduca Carlo spiegava più fortunata strategia
contro Jourdan e Moreau: e Buonaparte volea correre a sostenerli; ma
Wurmser, accinto a una terza riscossa, divallasi dal Tirolo lungo il
Brenta, e lo costringe a dare indietro. Qui si ravvivano le speranze:
ma Wurmser battuto a Bassano riuscì a fatica a buttarsi in Mantova (8
7bre), ove rinnovato l’assedio, s’ebbe a soffrire orribile stretta di
vittovaglie.

L’Austria, a cui nessuno sforzo parve mai eccessivo per conservare la
Lombardia, manda ancora il maresciallo Alvinzy; e questo rinnovellarsi
di lotte scoraggia i soldati, non Buonaparte. Vedendo minacciata la
linea dell’Adige, gli uffiziali persuadevano di tagliare la costa di
Castagnaro, sicchè il fiume, disalveando, sarebbesi misto col Tartaro
e colla fossa d’Ostiglia, allagando quant’è fra l’Adige, il mare e il
Po sotto Legnago, e con ciò assicurando l’ala destra ed accorciando
la linea militare: ma Buonaparte non volle quel guasto. Dopo fiere
battaglie attorno ad Arcole (15 novembre) e a Rivoli (16 gennajo
1797), gli Austriaci furono costretti ancora a ritirarsi a Mantova
e capitolare (1797 2 febb.), così assicurata l’Italia superiore alla
Francia, dopo dieci mesi di mirabili operazioni.

Ma non soltanto come gran guerriero va lodato Buonaparte. Misto
portentoso di mobilità e profondità, di audacia e di previdenza, di
calcolo e d’entusiasmo, ardito ne’ concetti, prudente nell’esecuzione,
affettava ancora il tono di rivoluzionario, e al direttore Röderer
scriveva, — Sono un soldato, figlio della rivoluzione, uscito dal
popolo, e non soffrirò d’essere insultato come un re»; ma in effetto
aspirava a comporre e riordinare; rubava meno degli altri, sebbene
accettasse regali per sè, per la donna, pei parenti, e di continuo
inviasse denaro alla sua famiglia per educare i fratelli, per dotare le
sorelle, per procacciarsi una casa ove riposare se le vicende d’allora
lo riducessero ancora al nulla[15]; e sentendosi forte in mezzo ai
mediocri, operava senza ed anche contra le istruzioni del Direttorio,
concedeva pace e tregua a principi, rimbrottava i commissarj che non
facessero a suo modo, guadagnava quelli che, come Clarke, fossero
mandati ad esplorarlo.

Da un pezzo egli consigliava al Direttorio di far pace coi più forti
Stati d’Italia, e dichiarare l’indipendenza negli altri: di fatto un
armistizio egli concesse al re di Napoli (1796 10 8bre), onorevole
perchè il sapeva bene armato, ma a patto richiamasse i sussidj forniti
all’Inghilterra e all’Austria, aprisse i porti alle navi repubblicane,
desse sei milioni per Francia, la quale non favorirebbe l’insurrezione
nel paese: dei tanti prigioni di Stato non fece parola.

Morto di colpo Vittorio Amedeo III, che avea messo sua gloria nelle
armi, e n’era riuscito povero, vinto, disonorato, Carlo Emanuele IV
succedutogli (1796 15 8bre), di santi costumi, di malotica salute e
d’immaginazione turbata, comprò l’amicizia di Francia cedendole la
Savoja e Nizza, e liberi i passi. Quest’amicizia metteva in pericolo
Genova. Ad essa Buonaparte imponeva di frenare i Barbetti che
assassinavano i Francesi, e cacciare alcune famiglie suddite ad Austria
ed a Napoli, e dare a lui il passo per la Bocchetta. Divincolavansi
que’ padri con umilissime scuse; quand’ecco l’ammiraglio inglese Nelson
assalta una nave francese in rada e la rapisce: dalla quale prepotenza
disgustati, i Genovesi accettano l’amicizia di Francia, escludendo la
bandiera britannica.

La Toscana tenevasi quieta e spettatrice della generale effervescenza,
ma che giova? Buonaparte ha in pronto querele di proprietà francesi
violate; e pur confessando che il granduca serbò imperturbata la
neutralità, e che il Direttorio lo trattò vituperosamente, per ordine
di questo fende la Toscana a bandiere spiegate, spinge una divisione
sopra Livorno (1797 27 giugno), e cacciatane la squadra inglese, col
pretesto di vedere se negozianti britannici vi tenessero merci nascoste
ordina un generale esame dei libri mercantili, rabbuffa il governatore
conte Spanocchi come traditore perchè lasciò sfuggire gl’Inglesi. I
mercanti si ricomprarono dalla visita con cinque milioni, fu ordinata
una spontanea illuminazione delle case, e gl’impiegati si rassegnarono;
ma la popolaglia insorgeva se il municipio e l’arcivescovo di Pisa non
l’avessero rattenuta. Buonaparte, confiscate le sostanze d’Inglesi e
di Napoletani, occupate le fortezze, pensa spossessare il granduca,
soltanto perchè austriaco: intanto solleva la Lunigiana e Massa e
Carrara, piantandovi la libertà o almeno l’albero, e suggendone denaro.

La Corsica era ambita dall’Inghilterra, e solo Paoli poteva sostenerne
l’indipendenza in faccia alla Francia. — Il popolo côrso che tanto fece
per la propria libertà (diceva egli), darà l’ultimo de’ suoi figli,
anzichè andare confuso con un altro»; e a chi chiedeva se tanto sangue
non dovesse servire che a tingere la porpora d’un principe straniero,
— Prima i coralli sormonteranno l’isola, che Paoli s’infami di ciò».
Chiamato a Londra e ricevuto con grandi onori, stipulò l’annessione
della sua isola colla britannica, conservando nazionalità, religione,
leggi. Male vi s’acconciarono i Côrsi; fomentati dai Buonaparte,
scossero quel dominio; e Saliceti andò a fare giurare odio alla
monarchia, e disporre i suoi patrioti alla nuova servitù. Paoli,
perseguito dalla calunnia, rassicurato dalla coscienza, prese allora
l’estremo congedo dalla patria: — Saluto tutti i buoni; nè di quelli
a cui il mio nome potesse recare qualche rimorso, ricordo altro che le
buone azioni. Insorgemmo per la libertà: questa ora si gode nell’isola;
che importa da quali mani vi sia derivata? Tutto andrà bene se non
più castelli in aria, ma ciascheduno procurerà vantaggiare nella
propria sfera, anzichè come pulcini a bocca aperta aspettare da altri
l’imbeccata. Chiuderò gli occhi al gran sonno, contento e senza rimorsi
sulla mia condotta politica: Iddio mi perdoni il resto». E ritiratosi
a Londra, visse fino al 1807, vedendo un suo compatrioto assidersi sul
primo trono d’Europa, eppure non rinnegando la fede repubblicana.

Ma l’esercito giacobino non dovea solo spandere rugiada di libertà
sui popoli, sibbene turbinare su Roma la vendetta dei tanti mali, che
proverbialmente imputavansi al clero di tutta Europa. Il Direttorio
scriveva a Buonaparte[16], la religione cattolica sarebbe sempre
irreconciliabile colla libertà, e il maggior ostacolo a consolidare
la repubblica in Francia; andasse dunque, ne distruggesse il centro,
e o la desse a un’altra potenza, per esempio alla Spagna in compenso
di Parma, o v’istituisse un Governo che rendesse spregevole quello de’
preti, e papi e cardinali lasciasse annidarsi fuori d’Italia.

Altrimenti la pensava Buonaparte, egli nato non a distruggere ma a
sistemare: pure propose di fare una cavalcata sopra gli Stati del
papa, e raccorvi il denaro che gli occorreva per difilarsi sopra
Vienna. Mosse dunque, e posta all’avanguardia la legione lombarda
col generale Lahoz, invano contrastato dal generale Colli a capo
de’ Napoletani, depreda Loreto (1797 13 febb.), arricchito di voti
da tutto cristianità, e la madonna ne manda a Parigi. Allora fra il
popolo pretino di Roma più non si parla che d’Attila e del Borbone; si
trafugano robe e persone verso Terracina; e lo scompiglio universale
non lascia al papa altro scampo che di venire a patti. Il cardinale
Mattei presentatosi umilmente a Tolentino al vincitore, ne accetta
una pace (19 febb.), per cui sono ceduti alla repubblica francese il
contado Venesino con Avignone, e alla cispadana Bologna, Ferrara e la
Romagna; libero passo alle truppe; il papa disapprova l’assassinio
di Bassville, e ne risarcisce la famiglia; darà manoscritti e capi
d’arte preziosi, fra i quali Buonaparte, egli devoto repubblicano,
nominatamente inchiuse i busti di Giunio e Marco Bruto.

Il Governo pontifizio, che già per gli allestimenti avea domandato dai
ricchi metà delle gioje, degli ori, degli argenti, dovette chiederne
l’altra; buttò carta monetata, e dal clero riscosse un prestito
corrispondente al sesto de’ beni che godeva: anche dopo la pace quattro
milioni esigettero le truppe, oltre bovi e bufali e allume in quantità
e accatti d’ogni maniera. Intanto i commissarj andavano a levare la
Bibbia greca, e il Dione Cassio del V secolo, il Virgilio del VI, il
Terenzio dell’VIII, la Trasfigurazione di Rafaello, il San Girolamo di
Domenichino, l’Apollo e il Laocoonte; d’un altro milione gravando lo
Stato per trasportarli.

Nè Carlo VIII di Francia, nè Carlo V d’Austria aveano rapito i capi
d’arte a Roma; Federico II di Prussia era entrato due volte in Dresda,
due i Russi e gli Austriaci in Berlino, senza toccarne le famose
gallerie: ora il latrocinio nuovo mascheravasi di civiltà o d’amore
alle arti; e in quest’offesa al diritto delle nazioni, alla politica,
al gusto adopravansi Francesi d’alto ingegno e di buon cuore, e dagli
Italiani ricevevano somme onde rapire di meno[17]; talmente quella
nazione perde ogn’altro vedere quand’è abbagliata dalla gloria. Essa
vantava di regalarci ancora a buon prezzo la libertà conquistata col
suo sangue: ma l’Italia, se era disgustata dei nobili, dei re, dei
preti, serbava affetto per la religione e per le arti; e in questo
duplice culto appunto trovavasi oltraggiata imperdonabilmente.

Buonaparte crebbe le fortificazioni d’Ancona, i cui cittadini
aveano piantato l’albero, e raccomandava al Direttorio che nella
pace la conservasse, come opportuna a dar padronanza nell’Adriatico
e predominio sulla Turchia. Avendo egli mandato complimenti alla
vicina repubblica di San Marino, e offrirle cannoni ed un aumento
di territorio, que’ magistrati risposero: — Semplice costume;
intimo sentimento di libertà sono l’unico retaggio tramandatoci dai
nostri padri; l’abbiamo conservato fra l’urto de’ secoli; nè conati
d’ambizione, nè odio di potenti, nè insidie di nemici potrebbero
impunemente attentarci. Questa repubblica, contenta della sua
picciolezza, non ardisce accettare l’offerta generosa dell’eroe, nè
aspira a un ambizioso ingrandimento, che col tempo potrebbe mettere
in compromesso la sua libertà». Fra le gonfiezze universali d’allora
ricrea questa semplicità; piace una lezione di temperanza data da pochi
montanari all’idolo e terrore del mondo; lezione inutile[18].

Allora Buonaparte torna sull’Adige per assalire Vienna. Audace mossa
chi consideri ch’e’ lasciavasi a spalle un paese appena conquistato e
molti nemici. Così la campagna d’Italia diveniva principale, e qui,
non più in Germania s’aveva a forzare l’imperatore. Al Tagliamento
Buonaparte vince (1797 11 marzo) e passa, incalzando l’arciduca Carlo;
superate le alpi Noriche, tiene il Tirolo, la Stiria, la Carintia,
Trieste, Clagenfurt; e se all’esercito che trionfa sul Reno con Moreau
e Jourdan, viene fatto di congiungersi a questo, l’Austria è cancellata
dalla carta d’Europa. Ma il Direttorio non ha denari per sostenere
quella marcia, sicchè Buonaparte propone pace all’arciduca Carlo, e a
Leoben se ne segnano i preliminari.

Colla vecchia Europa riconciliavasi dunque (18 aprile) la Francia
repubblicana, ormai convinta che non era possibile farla tutta
democratica. Ben seguitavano a predicarlo per sentimento i
rivoluzionarj, per maschera i governanti: ma i proclami dei generali
dissonavano dalle trattative de’ ministri, il linguaggio diretto ai
popoli da quello tenuto coi re. Piantar alberi, drappellare bandiere,
mantacare paroloni lasciavasi in Lombardia, eppure il Direttorio avea
prestabilito darla all’Austria in cambio dei Paesi Bassi. Se non che
Buonaparte le avea posto affezione come a sua creatura, o come al primo
gradino d’una grande scala; sicchè pensò cercare qualch’altro compenso
per l’Austria, e stabilì di tradire Venezia.

Quelli che contro ai turbini della forza credono valga la prudenza,
tacciano Venezia d’avere smentito l’antica reputazione politica
coll’affettare sicurezza mentre le tribune parigine rintonavano
d’imprecazioni contro la sua nobiltà, i suoi Dieci, i suoi Inquisitori,
i suoi piombi, i suoi pozzi. Accuse convenzionali, mentre vera colpa
n’era l’ostinarsi a custodire gli ordini, anzichè lo scopo a cui quegli
ordini erano diretti. Da ottant’anni sussisteva essa unicamente perchè
mancava chi la soggiogasse.

Minacciata dai democratici, essa diffidava dei despoti, e
principalmente dell’Austria di cui sapeva esser lungo spasimo; ma
credette stornare il pericolo col non confessarlo, e gl’Inquisitori di
Stato vietarono di comunicare al senato i sinceri ragguagli, togliendo
così il fare proposizioni opportune. Nella micidiale perplessità potea
più durarsi quando l’esercito francese già dilagava sul suo territorio?
Gli oligarchi proponeano d’armare, e guaj a chi primo violasse
i confini. — Abbiamo quindici milioni di sudditi; sul continente
italiano venti città popolose e ricche: soldati trarremo dalle isole
e dall’Albania, addestrati nell’incessante nimicizia coi Turchi; le
cerne della Carnia e del Friuli ci daranno bellissimi granatieri;
robusta gioventù le valli della Brenta, dell’Oglio, del Serio, come le
pianure del Polesine, del Trevisano, del Veronese, e i colli padovani e
bellunesi: pieno è l’arsenale, e le vittorie recenti dell’Emo attestano
che l’antica bravura non è morta: buoni ingegneri restaureranno le
fortezze: restano risparmj abbondanti, e il patriotismo de’ privati
verrà a soccorso». Così gli animosi, mentre i timidi avrebbero
preferito gittarsi in braccio all’Austria; ma altri: — Perchè non
piuttosto alla Francia? essa vincitrice e repubblicana, essa non
interessata a distruggere la nostra repubblica, ma solo a svecchiarla
secondo le sue idee».

Si scelse il peggio, la neutralità inerme; e invitata a fare lega colla
Francia, la Spagna, la Turchia contro l’Austria, la Signoria protestò
che la esistenza riponea nella felicità e nell’affetto de’ sudditi, non
aver altra ambizione che di non esporre questi ai mali d’una guerra.
Parole d’oro per un congresso della pace, e che avranno solleticato a
riso i generali combattenti.

Di fatto, come le operazioni belliche lo portarono, Buonaparte entrò
sul Bresciano, protestando non intendeva fare il menomo torto alla
Serenissima; Beaulieu coi Tedeschi ne toglie pretesto di violare
anch’egli il territorio, e sorprendere Peschiera: ma quando Buonaparte
ebbe vinto a Borghetto e passato il Mincio, quegli dovette lasciarla
e ritirarsi pel Tirolo, mentre i Francesi presero stanza in quella
fortezza, e invasero anche Verona (1796 giugno). L’ordine di mandarla
in fiamme come ricovero del conte di Provenza, fratello dell’ucciso
re; Buonaparte non l’eseguì, ma ebbe tutta la linea dell’Adige, e così
agevolato l’assedio di Mantova. Con altrettanta buona fede il generale
Cervoni aveva sorpreso il castello di Bergamo, levato le lettere da
quella posta, e dalla casa Terzi il tesoro depostovi dall’arciduca
quando fuggiva da Milano; del quale una preziosa scatola di viaggio, da
Maria Antonietta regalata alla nostra Beatrice, crebbe il corredo della
donna di Buonaparte[19].

A tal modo trattavasi una repubblica, addossandole poi tante accuse
quante si suole a chi vuolsi sagrificare, e ritessendo con essa i
turpi maneggi, praticati dianzi dai re colla Polonia. Singolarmente
vi si mantenevano emissarj «per promuovere lo spirito pubblico,
sviluppare l’energia, consolidare la libertà»; cioè fomentare gli
odj e le fazioni. I nobili esclusi dal libro d’oro macchinavano
contro l’oligarchia, i poveri contro i ricchi, i gentiluomini della
terraferma contro quei della dominante. In Milano un comitato espresso
attendeva a rivoltare la terraferma veneta, capi il Porro milanese,
i bresciani Lechi, Gámbara, Beccalosi, i bergamaschi Alessandri,
Caleppio, Adelasio. In fatto il 12 marzo si solleva Bergamo, ai 18
Brescia, poi Crema, cacciando i magistrati veneti. La Serenissima
mandò a querelarsene; e Buonaparte le esibì di venire colle armi a
sottometter egli stesso le città ribelli; la repubblica nol consentì
ma doveva aspettar inerme il proprio sfasciamento, e intanto mantenere
con un milione al mese le truppe francesi: le quali non solo volevano
i viveri, ma toglievano i bovi e i cavalli occorrenti all’agricoltura,
disperdeano il vino nelle cantine, tagliavano gli alberi fruttiferi,
batteano, violavano, uccideano, mentre gli abbondanzieri impinguavano
della miseria de’ soldati e degli abitanti. Perchè gl’imperiali
avrebbero operato più moralmente che i Repubblicani? e chi n’andava
di mezzo era la neutra Venezia, era il popolo innocente. I paesani
domandavano armi per difendersi; ma la Signoria calmava, assopiva,
esortava a pazienza; chiunque mostrasse sdegno o compassione veniva in
grido d’aristocratico ed austriacante.

Ma i montanari delle valli Camonica, Trompia, Sabbia insorsero (1797
marzo) armati contro le novità, capitanati dal conte Fioravanti: Salò
respinse i repubblicani, comandati da Lechi, e lui fecero prigioniero.
Verona, ridotta a puzzolenta caserma, facea schifo agli stessi
cittadini; e se non bastavano le violenze a’ privati, furono rotte le
porte delle fortificazioni, tolte le chiavi della città, le artiglierie
dalle mura, le munizioni dai magazzini, i ponti. La gente indignata
afferrò le armi, e trucidò da quattrocento Francesi in cinque giornate.
Il fatto deplorabile grida vendetta: accorrono Francesi e Lombardi
con Lahoz e Buonaparte, che affrettatosi a soscrivere l’armistizio di
Leoben, punì ferocemente Verona, e le impose taglie così esorbitanti,
che Augereau stesso dovette mostrargliele impossibili.

Buonaparte attribuiva ogni colpa al senato, mentre i democratici nella
capitale urlavano contro il patrio Governo, come contro i re e il papa.
Secondo soleasi nei frangenti, Venezia aveva intimato che nessuna nave
estera penetrasse nell’estuario. Un legno francese di corso, inseguito
dagli Austriaci, ricoverò sotto il cannone di Lido, e fu fulminato
e preso dagl’indignati Schiavoni (1797 17 aprile). Crebbe allora lo
scalpore, e Buonaparte ai deputati spediti a scagionarsi rispondeva:
— Quando avevo a fronte il nemico, offersi l’alleanza di Francia e
fu ricusata: ora che dispongo di ottantamila uomini non voglio udire
condizioni, ma dettarle. Io sarò un altro Attila per Venezia; più
inquisitori, più libro d’oro, rimasugli della barbarie; il vostro
Governo è decrepito»; e dopo minaccie, promesse, lungagne le indíce
guerra, senza brigarsi che questo diritto era riservato ai Cinquecento.

Anche dopo perduto il continente, Venezia potea reggersi, ove le
fosse bastato costanza quanto al tempo della lega di Cambrai, o
quanto poi nel 1848. Essa contava ventidue vascelli dai settanta ai
cinquantacinque cannoni, quindici fregate, ventitre galere e molti
legni minori, e un ricchissimo arredo di bocche da fuoco e d’ogni
occorrente per allestire la flotta e le fortezze. Per munire le lagune
e provvedere al passaggio delle truppe straniere impose il dieci per
cento sulle pigioni, una tassa sulle gondole e i servi, una taglia
sulle arti; ma appena ricavò seicensessantaduemila ducati, mentre i
doni spontanei salsero a novecentomila: fece prestiti, levò i pegni
ai Monti di pietà, le argenterie alle chiese e alle confraternite,
ricchi e grandiosi corpi, i quali per la patria non ricusavano verun
sagrifizio[20]. Se avesse adoprato tutti i suoi mezzi, chi potea
valutare quanto tempo costerebbe ai Francesi l’impresa? e per poco
che durasse (riflette Buonaparte)[21] qual effetto la resistenza
produrrebbe sul resto d’Italia?

Ma ai consigli mancava la risolutezza che salva; l’occupazione de’
beni in terraferma desolava i patrizj; d’altra parte trapelava che
a Leoben già si fosse patteggiata la vendita delle provincie venete.
Dal terrore altrui prendeano spirito i democratici, cioè i fautori dei
Francesi, i quali imitandone le arroganze, davano d’urto a tutto che
sentisse d’italiano. Sperossi salvare il leone col torgli dalle branche
il vangelo e mettergli i diritti dell’uomo, ma non bastò e veniva
abbattuto da ogni parte: Padova minacciava interrompere i canali che
avvicinano l’acqua dolce alla metropoli: molti agognavano d’essere i
primi a disertare dalla patria per avere posti e guadagni nell’ordine
nuovo.

Mentre i patrioti gridano Viva la libertà, il popolo grida Viva san
Marco, e infuria contro di quelli; gli Schiavoni saccheggiano le case,
i Dalmati, avversi sempre ai Francesi, e più dacchè questi aveano
vilipesi i loro soldati a servizio della Serenissima, si ammutinano,
trucidano i novatori, e bisogna domarli col cannone.

I Manini di Firenze, mutatisi per le patrie turbolenze a Udine,
col soccorrere generosamente ai bisogni di Venezia v’ottennero il
patriziato. Lodovico, discendente da quelli, come procuratore di
Vicenza, di Verona, di Brescia, tanto ben meritò, che la Serenissima
lo elesse procuratore di San Marco, poi doge il 1789, quantunque non
venisse dalle antiche famiglie tribunizie. Splendidissimamente si
solennizzavano queste elezioni[22], e in quella del Manin fu gittato
denaro a profusione alla plebe nel giro consueto della piazza,
diecimila ducati ai nobili poveri, pane e vino a chi ne volle: ma
basta leggere la promissione ducale impostagli per tor molta ragione
alle accuse che gli si danno di negligenza e debolezza, chè male
può fasciarsi un uomo, poi dirgli cammina. In fatto egli non seppe
che esibire di rinunziare la sua carica ai rivoltosi; pusillanimità
applauditagli come eroismo; e l’unico lamento di lui sonò: — Non semo
nemmanco sicuri sta notte nel nostro letto».

Mandasi a Parigi a trattare a qualunque siansi condizioni, e per
averlo meno triste si profonde oro al venale direttore Barras[23]: poi
il granconsiglio rinunzia all’ereditaria aristocrazia, riconosce la
sovranità del popolo, e alla repubblica francese consente sei milioni,
venti quadri e cinquecento manoscritti: per ordine di Francia si
scarcerano i detenuti politici, cioè quelli che tramavano contro la
repubblica, si puniscono gl’Inquisitori e il comandante di Lido, si
licenzia la milizia schiavona.

Con tante bassezze speravasi salvar almeno l’indipendenza; ma dentro
trescavano i demagoghi, e n’era centro Villetard segretario della
legazione francese, e principale turcimanno il Battagia. I cospiratori
spingono il granconsiglio (1797 12 maggio) a decretare sia introdotta
guarnigione francese, e viene istituita una nuova municipalità. Coloro
che aveano trionfato del demolire la Bastiglia, e trionfato al paro
dello scannare migliaja d’ingiudicati all’Abadia e al Carmine, gemeano
e fremeano sull’efferatezza delle carceri di Venezia; e dimenticando
quanti patrioti giacessero in ben altro squallore nelle regie carceri
sottomarine di Messina e nelle alpestri di Fenestrelle, vollero
s’aprissero (16 maggio) gli orribili pozzi e i piombi ricantati, e vi
trovarono... un prigioniero.

Buonaparte, lieto d’un’occasione che diminuiva infamia ai preliminari
di Leoben, finse un accordo col granconsiglio: ma, secondo avea
concertato, il Direttorio francese[24] ricusa le stipulazioni fatte con
un corpo che avea cessato d’esistere; ricusa le riserve, pur tenendo
saldi gli obblighi che v’erano convenuti; onde si decreta abolita
l’aristocrazia, diano tre milioni in denaro, tre in munizioni navali,
tre vascelli di guerra, due fregate[25].

Stabilita la municipalità democratica, cominciano le solite gazzarre
popolane contro tutti i resti dell’antico dominio; si rilasciano i
condannati in galera, si distribuiscono al popolo quattordicimila
ducati; il dì della Pentecoste piantasi l’albero parodiando il _Veni
Creator_, e si manda a sperpero e saccheggio il palazzo ducale,
testimonio di tanta sapienza politica, tanta virtù patriotica, tanti
omaggi di re, tante devozioni di ministri; e i tributi di tutto il
mondo, e le rarità di cui da secoli i viaggiatori faceano patriotica
offerta, e i doni dei sultani di Bagdad, d’Egitto, di Costantinopoli,
vanno preda del popolo sovrano e degli speculatori; stracciansi le
bandiere, monumenti d’insigni vittorie; si pone il fuoco al seggio
ducale, e il libro d’oro è arso con ischiamazzante solennità[26]. Poi
vennero le consuete depredazioni delle casse, fra cui ducentomila
zecchini depositati dal duca di Modena, poi dei capi d’arte nelle
chiese e ne’ musei, il Giove Egioco della biblioteca, il san Pietro
martire, la Fede del doge Grimani, il Martirio di san Lorenzo del
Tiziano, lo schiavo liberato e la sant’Agnese del Tintoretto, il ratto
d’Europa, una Madonna, il convito in casa di Levi di Paolo Veronese,
una Madonna di Gian Bellino ed altri dipinti, e ducento preziosi
codici. Dal tesoro di San Marco si trassero le gemme de’ reliquarj,
e l’oro si mandava alle zecche: delle armi bellissime e storiche
conservate presso il consiglio dei Dieci, fecero preda gli uffiziali:
saccheggiato l’arsenale che aveva quarantasette cale, nove tettoje
acquatiche, trentatre cantieri pel legname, una corderia unica al
mondo, arricchita dai boschi di Montello, di Cansiglio, dell’Istria,
dal rame d’Agordo, dalla canapa ferrarese e bolognese; il bucintoro
e i peatoni, di cui la ricchezza e gl’intagli destavano meraviglia
nelle feste del doge, andarono arsi o sconquassati; affondaronsi
alcune navi. Non bastando il denaro, Haller e Serrurier facevano darsi
per ducencinquantamila franchi in catrame, il doppio in sartiame,
altrettanto in àncore e ferraglie, trecencinquantamila in sevo e ragia,
quattrocentomila in tela da vele, settecentomila in canapa; e si tentò
spegnerne fin le ultime industrie veneziane[27]. Altrettanti segni
di rapacità lascia Massena a Padova; e vuolsi valutare a cinquanta
milioni di ducati lo spoglio pubblico. Fin dalle gallerie private
si tolsero quadri e medaglie e cammei, e per ultimo insulto il leone
della Piazzetta, e i cavalli che diconsi di Lisippo. A Lallemant, capo
del sistematico ladroneccio, furono regalati sette cammei. Il vulgo,
vedendo i Francesi rubare, rubare i municipalisti, si buttò a rubare
anch’esso; altri Veneziani, e non tutti ebrei, compravano il rubato dai
Francesi e dal vulgo. Il municipale Dandolo ordinava una nota di tutti
i benestanti per confiscare quel che avessero d’oro, argento, contanti,
gioje di là del necessario: e solo l’accidente impedì d’attuare un
insano decreto della municipalità, che traeva al fisco le sostanze
eccedenti la rendita di cinquemila ducati.

Intanto un avviso esortava gli artisti: — Orsù, incisori, dateci
l’effigie di quel grande che beneficò l’umanità col sublime trattato
_Dei delitti e delle pene_; sia quella effigie incoronata dalla
filosofia; le stia presso in atto riconoscente Italia, cinta degli
emblemi della libertà; l’immortalità dall’altro canto tenga in mano
il maraviglioso sapiente dettato». Le procuratìe nuove e le vecchie
doveano nominarsi galleria della libertà e dell’eguaglianza: sul libro
del leone si scrisse, _Diritti e doveri dell’uomo e del cittadino_; e
tutti a leggere giornali, tutti accorrere ai teatri, sonanti d’insulti
ai re, ai nobili, ai preti, ai magistrati; i cittadini indossavano
la carmagnola degli operaj; le donne procedeano seminude in tuniche
_all’ateniese_ aperte sul fianco, in farsetti _all’umanità_, cappellini
_alla Pamela_, chioma raccorcia _alla ghigliottina_; e satire e
caricature scompisciavano il lacero manto e le glorie di sedici secoli.
Vero è che non mancavano insulti all’albero della libertà, ed alla
figura di questa surrogavansi in più luoghi le aquile e _Viva l’Austria
e l’arciduca Carlo_; il che causò qualche supplizio. I Dalmati
infuriati trucidarono alcune truppe giacobine a Sebenico, e il console
di Francia e la moglie; apersero le prigioni, s’impossessarono delle
artiglierie dicendo voler adoprarle contro i democratici di Venezia:
così a Trau, a Spalatro, a Zara, dove la gente di campagna accorse
distruggendo quanto sapesse di rivoluzionario, uccidendo chi in fama di
democratico, deliberata piuttosto a darsi a Casa d’Austria.

L’Austria, non che lamentarsi che i Giacobini scorressero a nuovi
acquisti, pensò trarne profitto, ed occupò l’Istria e la Dalmazia,
possessi veneti, «volendo l’imperatore preservare la tranquillità de’
suoi sudditi dallo spirito di vertigine delle vicine provincie»; e si
stese fin a Cattaro, facendosi giurar fede da quello strano misto di
razze, di culti, di lingue. Venezia chiedeva a Buonaparte snidasse
quegl’invasori; ed egli le permise d’allestire una spedizione pel
Levante. Era una nuova perfidia di Buonaparte per trarre la flotta
fuori del porto, e così sguarnire la capitale. Veleggiò essa in fatto a
Corfù, ma con insegne francesi, e da Francesi fu preso il governo anche
delle Jonie[28].

Buonaparte facea far feste a Venezia, e vi mandò la propria moglie, che
fu caricata di doni nella speranza che ammanserebbe il liberticida,
come l’avea sperato Pio VI nell’offrirle statue e una collana di
cammei: egli intanto a Campoformio (1797 16 8bre) conchiudeva il
mercato[29]. Il Direttorio aveagli imposto l’emancipazione dell’intera
Italia; ma egli dissobbedisce e assegna l’Adige e Mantova alla
riconosciuta Cisalpina, Magonza e l’isole Jonie alla Francia; obbliga
l’imperatore a dare la Brisgovia in compenso al duca di Modena; a
Casa d’Austria abbandona la lungamente agognata Venezia col Friuli,
l’Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro. Sì bene il ministro
Cobentzel avea saputo carezzare l’indovinata ambizione di Buonaparte,
che tutto il profitto toccò all’Austria; la quale, colla perseveranza
che si ammira anche in causa che si disapprova, dopo tante sconfitte si
rifacea della perdita de’ Paesi Bassi aquistando il mare e l’immediata
congiunzione delle provincie italiane colle sue slave, toccando anche
alla Turchia ond’essere pronta a partecipare al più o men vicino ma
inevitabile spartimento di quella. Quanto alla Cisalpina essa confidava
ricuperarsela. I Parigini mostrarono tanta esultanza della conchiusa
pace, che il Direttorio non osò palesarsi scontento dell’operato di
Buonaparte.

Trattavasi di metter le catene a quella Venezia, che aveano suscitato a
rivoluzione col pretesto di liberarla. Già le si era tolta la flotta, e
distrutto quanto potesse servire all’imperatore per crearne una nuova.
Il Villetard, fanatico se non colpevole stromento di quella tradigione,
dovette annunziare alla donna dell’Adriatico la sorte destinatale (1798
gennajo), promettendo ricovero e patria in Francia o nella Cisalpina
a chi volesse. Come un compenso, ai magistrati suggerì d’arricchirsi
colle spoglie della patria; ma dovette rescrivere al Buonaparte: —
Trovai ne’ municipali animo troppo alto sicchè volessero cooperare
a quanto per me proponeste: _Cercheremo libera terra_, risposero,
_preferendo all’infamia la libertà_». Buonaparte rispondeva insultando:
— E che? la repubblica francese spargerà il suo prezioso sangue per
altri popoli? I Veneziani sono ciarlieri dissennati e codardi, che non
sanno se non fuggire. Se rifiutano arricchirsi delle prede pubbliche,
non è probità, non altezza d’animo». Ma quando ai loro lamenti egli
replicò, — Ebbene difendetevi», il veronese De Angeli proruppe: —
Traditore, rendici quell’armi che ci hai rapite».

Venezia ch’era vissuta tredici secoli, con pochissime sommosse e neppur
una guerra civile, finì spossata; eppure fra tante ruine di quel tempo
destò vivo rammarico pei vilissimi artifizj, e lasciò un affettuoso
desiderio in quegli stessi che erano compianti come suoi servi. Gli
abitanti dell’Istria e della Dalmazia non sapeano darsene pace, e nel
consegnare all’austriaco generale il vessillo di San Marco, versavano
lacrime solenni al cospetto de’ nuovi padroni; alcuni ne mostravano
tale accoramento, che fin i soldati austriaci commossi lasciavano
che il conservassero. A Zara, lo stendardo si porta in duomo, il
maresciallo Strático lo consegna al vicario generale monsignor Armani
che intonato il _De profundis_ e lasciatolo baciar con entusiasmo ai
cittadini lo sepellisce: così a Pirano, così altrove; intanto che i
vincitori e i venduti tentavano strappar a Venezia fin la pietà, ultimo
diritto della sventura, diffamandola a guisa del giovinastro che espone
alle risa la donna ch’egli contaminò.



CAPITOLO CLXXVII.

La Cisalpina. Conquista di Roma, Napoli e Piemonte.


La repubblica francese toccava all’apogeo; estesa dai Pirenei al Reno,
dall’Oceano al Po; sostenuta da generali prodi, non ancora disonorati
da egoistica ambizione; rinnovato colla Spagna il patto di famiglia;
l’Impero e l’Austria ridotti ad accettar la pace; Inghilterra non
avea potuto impedirle di acquistare i Paesi Bassi e di predominare
nell’Olanda, e mal reggeva da sola alla guerra, di cui era stata
l’anima e la cassiera. Il mareggio che succede alla procella non era
finito, ma la durata di quindici mesi già dava qualche consistenza al
Direttorio, che venuto in credito per le vittorie di Buonaparte, potè
reprimere violentemente e i Realisti, e i Terroristi, e circondatosi di
altre repubbliche, pensava a sistemarle.

Primogenita di queste, la Cisalpina fin allora restava ad uno di que’
governi militari, che fanno schifo a chi abbia sentimento dell’ordine
e del dovere. Buonaparte, uom di guerra e di disciplina, teneva altro
linguaggio che il gonfio e iracondo de’ repubblicanti; non irritava
i preti, blandiva i ricchi, e pensando che mal si costruisce sul
popolo mobile e capriccioso, repudiava gli esuberanti per rannodarsi
i moderati, e cingeasi coi nomi storici de’ Visconti, de’ Melzi, de’
Litta, de’ Serbelloni, de’ Contarini, de’ Morosini. Ergevasi anche
protettore de’ dotti, e appena entrato in Milano scrisse all’astronomo
Oriani: — Le scienze e le arti devono nelle repubbliche essere onorate,
e chi vi primeggia nel sapere è francese, ovunque sia nato. So che a
Milano i dotti non godono la considerazione che meritano; ritirati ne’
gabinetti o ne’ laboratorj, credonsi fortunati quando i re e i preti
non li molestino. Oggi tutto mutò; il pensiero è libero in Italia; non
più inquisizione, non intolleranze, non diverbj teologici. Invito i
dotti a farmi conoscere come dare alle scienze e alle arti belle nuova
vita ed essere nuovo. Chi di essi vorrà andare in Francia, sarà accolto
con onore; il popolo francese stima più l’acquisto d’un matematico,
d’un pittore, d’un erudito, che della città più ricca. Cittadino
Oriani, spiegate voi questi sensi del popolo francese ai dotti di
Lombardia».

Il nostro patriotismo suole andar in solluchero allorchè qualche
straniero sparla di noi, consolazione che non ci si lascia
scarseggiare. L’Oriani, più semplice e perciò più vero, rispondeva alla
superba compassione del Buonaparte che «i letterati di Milano non erano
stati negletti nè vilipesi dal Governo, anzi godeano oneste pensioni
e stima proporzionata al merito; anche nella guerra presente n’erano
stati puntuali gli assegni, i quali sol da poche settimane cessarono,
a gran costernazione di poche famiglie; sicchè l’unico modo di farne
cessare le calamità e d’affezionarli alla repubblica francese, sarebbe
di rimetterne in corso i soldi». Soggiungeva volesse il generale
attribuire tali parole all’amor suo per la verità e la giustizia: chè,
quanto a lui, avea pochi bisogni, ed era sicuro di trovar da vivere in
qualunque paese, ed anche allora stava in lui l’accettare una cattedra
ben provveduta in una delle più celebri Università[30]. I democratici
non avranno fatto mente al coraggio della semplicità, ma è tristo modo
di rigenerare una nazione il cominciare dal deprimerla con insulti, col
raffaccio iroso, colla servile imitazione forestiera.

Buonaparte, a dieci valentuomini, tra cui il padre Gregorio Fontana,
commise di preparare una costituzione per la Cisalpina; ma il
Direttorio ordinò vi si applicasse la francese (1797 8 luglio). Dopo
le consuete dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino,
essa portava la repubblica una e indivisibile, distribuita in
dipartimenti, distretti, Comuni. Al 21 marzo gli abitanti di ciascun
distretto si uniscono per nominare i giudici di pace e gli elettori
del dipartimento, uno ogni ducento teste. Le assemblee elettorali al
9 aprile nominano i membri del corpo legislativo e del tribunale di
cassazione, i giurati, gli amministratori de’ dipartimenti, i giudici e
presidenti de’ tribunali, l’accusatore pubblico. Il corpo legislativo
consta di quaranta in sessanta seniori; di ottanta in cenventi membri
il granconsiglio: questo propone le leggi, quello le approva o rigetta,
insieme stabiliscono l’annua imposta. L’esecuzione è commessa a cinque
direttori nominati dal corpo legislativo, i quali scelgono i ministri
responsali; un’amministrazione centrale in ogni dipartimento, una
municipale in ogni distretto; un’altra corte di giustizia pondera
le accuse contro il Direttorio o i legislatori. Libero a tutti di
scrivere, parlare, stampare; l’esercito è per essenza obbediente.

Allora si abolirono maggioraschi e fedecommessi; si posero all’asta
le commende maltesi; i beni e debiti delle provincie e de’ Comuni
si riconobbero nazionali. La repubblica fu dichiarata libera; ma
l’esercito cisalpino era comandato dal côrso Fiorella; truppe francesi
per tutto il territorio e nelle fortezze; molti Francesi in uffizi
principali; e per un anno sospesa la libera stampa. Così a noi, che
già godevamo una forma di libertà municipale, era tolta per imporci
la costituzione d’un paese che non l’aveva; e Buonaparte nominò egli
stesso per la prima volta i direttori, i consigli legislativi, e
quattro congregazioni, di costituzione, di giurisprudenza, di finanza,
di guerra. La libertà molti l’aveano sulle labbra, alcuni nella testa,
pochi nel cuore; gli uni la simulavano per farsi perdonare l’antica
servilità; gli uni per impinguarsi mercanteggiandone, o per brogliare
contro le leggi e la giustizia; molti, sinceramente scambiando la
conquista per emancipazione, esultavano di vederci dati un nome, una
bandiera, un esercito; speravano che il governo militare finirebbe,
e ce ne rimarrebbero i frutti; lasciavansi ingenuamente lusingare a
quelle apparenze di governo popolare, ed all’indestruttibile fiducia
dell’indipendenza. Buonaparte li conosceva, gli accarezzava, e ne
rideva; trattava superbamente i deputati e le dignità che venivano a
inchinarlo nella villa di Montebello, che già chiamavasi sua reggia, le
api del manto imperiale trasparendo dalla tracolla repubblicana[31]; ma
pure veniva ripetendoci le triste conseguenze delle nostre scissure, il
bisogno d’acquistare il sentimento della propria dignità e d’avvezzarci
alle armi; «proponete (raccomandava) le persone meglio conosciute
per attitudine, onestà, _civismo_, non i terroristi e i patrioti
intemperanti e ringhiosi, amici del sangue e della guerra, che in ogni
cosa trascendono, e non sanno che diffamar il Governo».

La Cisalpina non era soltanto una conquista, sì bene un inoculamento
della rivoluzione in Italia, e bisognava estenderla per conservarla.
Avea vicina la Svizzera, repubblica all’antica, divisa in Cantoni
formanti una confederazione debole e viziata di feudalità.
Nell’interno, le classi godeano i diritti in differente grado, e
molte servivano di sgabello alle privilegiate; alcuni paesi giaceano
sudditi di altri, che liberi dentro, erano tiranni fuori. Di qua dai
monti avevano signoria il Cantone di Uri sulla Leventina: Uri, Schwitz
e Unterwald sulla Riviera e Bellinzona; i dodici Cantoni insieme
su Lugano, Locarno e Valmaggia; sulla Valtellina i Grigioni. Paesi,
lasciati in balìa di magistrati ignoranti, che comprata la carica di
governatore o di giudice, pensavano a rifarsene con usura. Le più volte
il balio non faceva che venir di qua per rivendere la carica a qualche
suddito, e dopo un buon pranzo tornava indietro col titolo e coi
quattrini. Quindi giustizia vendereccia, prepotenze tollerate; che più?
vendute impunità in bianco per delitti da commettersi[32].

Nella val Leventina gli abitanti viveano de’ pingui pascoli e dei
trasporti pel Sangotardo, riconoscendo i loro padroni con lievi pedaggi
e scarsa imposta. Avendo gli Urani negato dar il soldo ai Leventini
che aveano militato, questi fecero turba, cacciarono il balio (1713),
nè si quetarono finchè i cinque Cantoni cattolici non decretarono
dovuti i soldi. La giustizia ripristinò la pace, e furono detti cari e
fedeli alleati: ma più tardi vennero portati ai padroni lamenti (1755)
contro tutori che malversavano le sostanze de’ pupilli; e gl’imputati
pensarono coprire colla sommossa le colpe, e levatisi in armi
imprigionarono il balio. Uscirono gli Urani a domarli; Orso di Rossura
ed altri capi furono decollati davanti a tremila popolani, che a testa
scoperta e a ginocchio piegato dovettero sentir proferita l’abolizione
di tutte le franchigie e garanzie, e giurare la servitù.

Anche nella Valtellina poteasi redimere a contanti ogni delitto,
salvo l’omicidio qualificato; e poichè i processi fruttavano denaro,
i podestà erano attenti non solo a scoprire delitti, ma a farne
commettere; tenevano sciagurate che seducessero, poi accusassero
il correo, desiavano sommosse per toglierne pretesto a confische.
L’immoralità de’ dominanti e le discordie invelenite fra i Planta
fautori dell’Austria e i Salis inchini a Francia, incancrenivano i
patimenti della Valtellina. Quante volte non aveva essa ricorso al duca
di Milano per far osservare il capitolato che aveva ottenuto dopo il
sacro macello del 1620, e di cui esso era garante!

Cessata la confidenza fra governanti e governati, cresceano le gozzaje;
il giureconsulto Alberto Desimoni di Bormio, per avere scritto a
difesa della costituzione della Valtellina, fu condannato a morte in
contumacia: sommovimenti interni cominciarono prima de’ francesi,
i quali gl’incalorirono. Ben presto tutta Svizzera ribolle contro
le annose tirannidi (1797); a nome della libertà rovesciansi le
repubbliche; i Francesi, invitati a sostenere i democratici insorgenti,
s’impossessano delle casse, e dichiarano che le leggi e i decreti del
Governo paesano non varranno se contrarj alla Francia. I repubblicani
di Milano e di Como aveano tentato sollevare i baliaggi italiani, e
alcune guardie nazionali penetrarono fino al lago di Lugano piantandovi
l’albero. Furono respinti, e i commissarj svizzeri vennero a tenere in
dovere il paese: ma una mano di patrioti si presenta a loro, e colla
sicurezza che dava la vicinanza della Cisalpina, domanda i diritti
dell’uomo; essi fuggono, e l’albero è piantato, non col berretto
frigio, ma col cappello di Tell. Quando poi furono dichiarati liberi
ed eguali tutti i sudditi della Svizzera, essi baliaggi divennero
membri della repubblica Elvetica, destinata a ben altra vita che non
l’effimera della Cisalpina, a cui ricusarono aggregarsi.

La Valtellina pensò ella pure novità; ma alcuni preferivano unirsi ai
Grigioni come quarta lega in eguaglianza di diritti, altri attaccarsi
alla Cisalpina; e intanto la plebe assaliva i signori, le chiese,
principalmente le cantine, ballonzando e cantando secondo la moda,
spezzavansi gli stemmi de’ vecchi pretori, pur non mancando chi
mettesse fuoco agli alberi della libertà. Un conte Galliano Lechi,
prepotente e dissoluto bresciano, fuggito a Bormio per sottrarsi ai
castighi meritati in patria, e di nuovi meritandosene con braverie ed
altro, eccitò l’ira del popolo, che lo uccise con due suoi bravacci.
Le gazzette li presentarono come martiri della libertà; i comitati di
Bergamo e Brescia inveivano contro le persecuzioni fatte in Valtellina
ai patrioti; il generale Murat, scesovi da Edolo colla sua brigata,
intimò amnistia e pace; e Buonaparte offertosi mediatore, chiamò a sè
deputati grigioni e valtellinesi. Quelli non ascoltarono: questi sì,
e chiesero d’unirsi alla Cisalpina; ma voleano riservare per unica
religione la cattolica, immunità di fôro per gli ecclesiastici, non
partecipare all’ingente debito della repubblica nè alle inesplebili
contribuzioni; a tacere le meschinità da campanile, per cui Bormio
voleva stare disgregato da Sondrio, e Chiavenna fare casa a parte.

Lunghissime anticamere dovettero durare i deputati al quartiere
generale d’Udine: infine Buonaparte proferì (28 8bre) che, non essendo
comparsi i Grigioni, ai Valtellinesi restava facoltà d’unirsi alla
Cisalpina; andassero ad aspettarlo a Milano. V’andarono; e quivi
seppero che «la loro sorte e felicità era ormai fissata stabilmente con
quella dell’Italia libera»; e perchè rimostrarono che ciò trascendeva
il loro mandato, Buonaparte li sbraveggiò come non fossero «compresi
dal gran principio dell’unità e indivisibilità della repubblica, la
quale deve formare una famiglia sola».

Così quella valle divenne parte della Cisalpina; confiscati i beni
che i Grigioni vi possedevano; a Murat, per le gravi spese che diceva
incontrate, si regalarono una ricca sciabola e mille luigi, estorti a
forza dalla valle, dove fra le allegre spensieratezze si cominciò lo
spoglio delle chiese, e l’altre novità religiose. Queste eccitavano
maggior indignazione perchè rammentavano quelle del 1620; nessuno
andava alle assemblee primarie che doveano accettare la costituzione;
v’ebbe congiure e sommosse, domate colla fucilazione; e il tribunale
istituito a Bergamo contro gli _allarmisti_ esercitava tremenda azione
anche nella valle.

Vedemmo come l’Emilia fosse eretta in repubblica Cispadana; e il
congresso accolto a Modena aveva compilato una costituzione alla
francese, e nominato direttori Magnani, Ricci, Guastavillani, persone
moderate: ma Buonaparte ordinò che quella repubblica fosse unita
alla Cisalpina. La quale così abbracciò l’antica Lombardia, Mantova,
Modena con Massa e Carrara, le legazioni di Bologna, Ferrara, Romagna,
oltre Bergamo, Brescia, Crema, Peschiera, cioè i paesi veneti sulla
destra dell’Adige; più Campione e Macagno, feudi imperiali presso
gli Svizzeri, la Valtellina e il ducato di Parma. Divisa in venti
dipartimenti, contava tre milioni e ducentomila abitanti, coll’Adige,
Mantova, Pizzighettone per difesa, e grandi elementi di prosperità.
Nel lazzaretto di Milano solennizzossi la federazione italiana (1797
9 luglio), i deputati e le guardie nazionali sull’altare della patria
giurando libertà ed eguaglianza: una di quelle feste, che fanno vivere
un popolo intero d’una vita sola, e battere all’unissono migliaja di
cuori; ma non dovea lasciare se non un mesto desiderio.

A Genova, straziata come il debole in mezzo ai forti litiganti,
osteggiavansi a morte aristocrati e democratici, e a questi ultimi
erano stimolo i giornali ed emissarj milanesi; il commissario Faypoult
facea colà quello che Bassville a Roma, e Villetard a Venezia,
viepiù da che quest’ultima fu perita, e ai lamenti de’ nobili
rispondendo, — I tridui e l’altre santocchierie non ritarderanno
i lumi, e meglio fareste a dirigervi regolarmente verso là dove è
inevitabile l’arrivare». In fatto i patrioti insorsero (maggio), ma
il popolo ricordandosi del grido con cui avea cacciato i Tedeschi,
ai tre colori oppone le effigie della Madonna; nella Polcevera e
nel Bisagno si diffonde la sommossa non senza sangue; i patrioti
soccombono; e Buonaparte manda querele pei Francesi trucidati, e
rabbuffi contro l’aristocrazia; fa arrestare alcuni (14 giugno),
esige soddisfazioni, modifica la costituzione sul taglio di moda,
all’antico senato sostituendo i due consigli legislativi, ed un senato
esecutivo preseduto dal doge; garantiti la religione cattolica, il
banco di San Giorgio e il debito pubblico; cassati i privilegi; nei
posti colloca persone moderate e delle varie classi, e scrive alla
repubblica: — Non basta astenersi da ciò che contraria la religione;
bisogna non inquietar neppure le più timorate coscienze... Illuminate
le plebi, mettetevi d’accordo con l’arcivescovo per dare loro buoni
curati, meritate l’affetto de’ vostri concittadini». Ma il popolo
coi soliti impeti, brucia il libro d’oro (9bre); abbatte la statua
d’Andrea Doria «il primo degli oligarchi»[33]; consacra alla ligure
rigenerazione la casa dello speziale Morando, culla delle adunanze
repubblicane. Il piccolo Genovesato, unitevi per forza Arquata, Ronco,
Torreglia e i feudi imperiali, è diviso in quattro dipartimenti, e
ordinato militarmente all’uopo di trarne soldati. Ai nobili spiaceva la
prepotenza straniera, ai preti l’incameramento dei beni ecclesiastici e
il distacco da Roma, al popolo gl’insoliti accatti; onde violentemente
si ammutinarono le valli, e la forza e la forca bisognarono per domarli
(7bre).

Buonaparte, che rappresentava la forza espansiva della rivoluzione,
allorchè partì dalla Cisalpina lasciandovi Berthier con trentamila
uomini, le diceva: — La libertà donatavi senza fazioni, senza morti,
senza rivoluzioni, sappiate conservarla. Voi, dopo Francia, la più
ricca e popolosa repubblica, siete chiamati a gran cose. Fate leggi con
saviezza e moderazione, eseguitele con vigore, propagate le dottrine,
rispettate la religione; riempite i vostri battaglioni, non di
vagabondi ma di cittadini leali e caldi d’ardore repubblicano; sentite
la forza e dignità vostra, quale richiedesi a liberi. Dopo tanti anni
di tirannide, non avreste da voi potuto ricuperare la libertà, ma fra
breve potrete da voi tutelarla. Io vado, ma ricomparirò fra voi non sì
tosto un ordine del mio Governo o il pericolo vostro mi richiami. Anche
lontano amerò sempre la felicità e la gloria della vostra repubblica».

Il suo ritorno in Francia (9 xbre) fu un continuo trionfo: all’esercito
fu dal Direttorio presentata una bandiera, ove leggevasi in oro:
«L’esercito d’Italia fe cencinquantamila prigioni, prese censettanta
bandiere, cinquecentocinquantacinque pezzi d’assedio, seicento da
campagna, cinque equipaggi da ponte, nove vascelli, dodici fregate,
dodici corvette, diciotto galee. Armistizio coi re di Sardegna e
di Napoli, col papa, coi duchi di Parma e di Modena. Preliminari di
Leoben. Convenzione di Montebello colla repubblica di Genova. Pace di
Tolentino e di Campoformio. Data libertà ai popoli di Bologna, Ferrara,
Modena, Massa, Carrara, della Romagna, della Lombardia, di Brescia,
Bergamo, Mantova, Cremona, parte del Veronese, Chiavenna, Bormio, la
Valtellina; ai popoli di Genova, ai feudi imperiali, ai dipartimenti
di Corcira, del mar Egeo e d’Itaca. Spedito a Parigi i capolavori di
Michelangelo, Rafaello, Leonardo. Trionfato in diciotto battaglie
ordinate: Montenotte, Millesimo, Mondovì, Lodi, Borghetto, Lonato,
Castiglione, Roveredo, Bassano, San Giorgio, Fontanino, Caldiero,
Arcole, Rivoli, la Favorita, il Tagliamento, Tarvis, Neumarckt. Dato
settantasette combattimenti».

A quei vanti sarebbonsi potuti aggiungere almeno cinquanta milioni
di lire, che Buonaparte mandò per servizio dello Stato: egli che
in contribuzioni avea tirato venticinque milioni dalla Lombardia,
ottocentomila lire da Mantova, ducentomila dai feudi imperiali,
seicentomila da Massa e Carrara, dieci milioni da Modena, venti da
Parma e Piacenza, trenta dal papa, sei da Venezia, otto dallo spoglio
de’ magazzini inglesi. Le feste non finivano al giovane vincitore:
i giornali ne riferivano ogni atto o gesto, come di re; il popolo
cominciò a guardarlo come l’uomo suo, e stupiva che, in tanta gloria,
avesse sì poca ambizione. Non avea di fatto quella piccola che esala
in intrighi, e portando gli sguardi ben alto, meditava un’impresa che
crescesse la sua gloria senza dar ombra a una rivoluzione, la quale
aveva schiacciato chiunque avea voluto imbrigliarla.

L’India non è il paese da cui l’Inghilterra trae tutta la potenza, e
quelle droghe e quel cotone che le fanno tributario tutto il mondo? Se
dunque si voglia spegnere quest’implacabile nemica della repubblica
francese, bisogna ferirla in quel suo cuore; e via per giungervi non
può essere che l’Egitto. Conquistato questo il Mediterraneo è reso
un lago francese, e per l’istmo di Suez e pel mar Rosso è dominata
la via diretta alle Indie. Le navi e le isole carpite a Venezia, tre
milioni sottratti al tesoro di Berna, i suoi veterani d’Italia gli
varranno ad un’impresa che più gli arride perchè straordinaria; e
fatti in gran secreto i preparativi, salpa da Tolone (1798 19 maggio),
con cinquecento vele, quarantamila uomini, diecimila marinaj e sommi
capitani.

L’Ordine di Malta, ultima reliquia delle Crociate, da un secolo viveva
in depravata oscurità, fra minuti litigi interni e dissipate congiure.
Pingui commende in tutti i regni erano investite a cavalieri discoli
e gaudenti, cadetti d’illustri famiglie, cui il voto di castità non
serviva che a sacrilegio, e quello di povertà a lauti ozj. La marina,
ond’essi avrebbero dovuto assicurare il Mediterraneo dai Barbareschi,
conservava qualche galera appena per corse di piacere, nè tampoco
impedendo agli Algerini di corseggiare le coste d’Italia. Dovea dunque
perire; e prevedendo che l’Inghilterra alla prima occasione metterebbe
le mani su quell’isola, Buonaparte vuole prevenirla; e di sorpresa
sbarcato (12 giugno), l’ha dopo lieve ostacolo. Non veduto procede di
mezzo alle crociere inglesi; là pure proclamando libertà (luglio),
conquista Alessandria, vince al Cairo, e sottrae dai Mamelucchi il
basso Egitto.

I trionfi d’Italia e d’Egitto erano la sola parte nobile negli
avvenimenti d’allora. Il Direttorio di Francia, debole come tutti
i Governi che sbocciano da una rivoluzione, parea volesse spingerla
anzichè sistemarla allorquando tutti sentivano bisogno di riposo e di
legalità; fuori menava intrighi politici, insultava papi e re; dentro
accusava incessantemente i realisti e i preti, vantava legalità e la
ledeva, era a continue baruffe in consiglio, mentre la calma rimetteasi
nelle strade, usava violenze nel governare, mentre la gente era caduta
nella noncuranza; a Buonaparte invidiava la gloria mentre vivea del
riflesso di questa.

Di tale vanitosa debolezza risentivansi le nostre repubbliche. Oltrechè
niun popolo ama una costituzione, che una volontà estranea gli diede e
può togliere e mutare, il governare riusciva difficile dove la libertà
e l’eguaglianza essendo intese nel senso più materiale, tutti credeansi
in diritto di comandare e nessuno in dovere d’obbedire; le plebi si
lagnavano dei Governi municipali, questi degli eserciti, eserciti e
popolo dei commissarj di Francia: ed è in questi rammarichi che si
logorano i nervi d’una nazione.

Quasi fosse fatale a tutte le nostre rivoluzioni di pensare meno a
consolidare la nazione, che a scinderla in partiti, nella Cisalpina
tutto andava in baruffe: aristocrati, democratici, preti, giacobini,
agenti del Direttorio, emissarj dell’Austria, milanesi, novaresi,
transpadani, veneti, formavano altrettante consorterie, che si
contrariavano, rinterzavano gl’intrighi, e voleano ognuna trarre a
vantaggio proprio la pubblica cosa. L’indipendenza non erasi ancora
acquistata, e già sull’uso da farne vituperavansi a vicenda federalisti
e unitarj; questi rinnegando tutta la storia per voler fondere i
piccoli Stati in un unico potente, quelli risparmiare la soverchia
scossa col lasciare a ciascuno la propria individualità; gli esagerati
sorretti dagli uffiziali, otteneano predominio nei consigli e nella
legione lombarda; e neppure i piccoli dissensi possono conciliarsi
quando uno è appoggiato dalla forza esterna. Tutto poi era guasto
dalla prepotenza militare: gli uffiziali come in paese di conquista
comandavano a bacchetta, esigevano, tassavano senza dare ragione;
coi commissarj di guerra si conchiudeano turpi baratti; la società
degli abbondanzieri col quattro per cento sugli appalti comprava la
connivenza dello stato maggiore; ne’ quadri appariva il doppio di
soldati che in realtà, e lo Stato li pagava.

Non bastando tre secoli di sanguinosi eventi a mostrarle che il tenere
serva una porzione d’Italia la obbliga a conflitti incessanti, la
repubblica francese non si contentò d’essere protettrice della nostra,
e la volle ausiliaria, obbligandola ad un trattato d’alleanza e uno di
commercio, e a pagare diciotto milioni l’anno per un corpo francese
da mantenervi. I nostri respingeano gagliardamente questi patti di
servitù; ma il generale Brune, succeduto nel comando a Berthier,
imprigionò i più caldi patrioti, fra cui Melchior Gioja; ai direttori
Moscati e Paradisi sostituì Lamberti e Testi, gittò una contribuzione
militare, e fece approvare i trattati.

Trouvé, giovane ingegnoso e caldo, redattore del _Moniteur_, mandato
a Milano perchè modificasse la costituzione, per quanto gli uffiziali
protestassero vedervi uno smacco a Buonaparte, coi moderati sormonta
(1798 1 7bre); dimezza i consigli, designando quali persone conservare;
sulla sistemata imposizione fonda il diritto elettorale, e pone al
direttorio Adelasio, Alessandri, Luosi e l’avvocato e poeta Sopransi.
Ma un nuovo intrigo del Direttorio sostituisce a Trouvé l’esagerato
Fouché, manutengolo di Barras, che tutto sovverte; le bajonette
del generale Brune collocano direttori Brunetti, Seletti, Smancini;
quand’ecco il Direttorio di Francia gli manda lo scambio, e Joubert
surrogatogli ripristina la costituzione di Trouvé.

Questi mensili avvicendamenti toglievano ogni fiducia di durata,
ed esaurivano le finanze in modo, che dopo gli accatti e le tolte,
si dovette por mano anche ai beni dei capitoli, dei vescovi, delle
confraternite. Ne conseguiva una malavoglia universale, e il ricordo di
quei tempi fa molti aborrire anche adesso dalla libertà repubblicana,
non volendo accorgersi che quel che mancava era appunto la libertà.
Nulla al certo è più detestabile che il despotismo militare; ma almeno
allora si avea speranza che fosse precario, e avvierebbe ai beni di cui
siamo più sitibondi, la libertà e l’indipendenza.

E a questi mirando, formossi allora un partito nazionale; e Pino,
Lahoz, Teulié, Birago, altri militari legaronsi nella società de’
Raggi che aspirava all’indipendenza, favoriva i Francesi come barriera
contro i Tedeschi, ma sperando potere poi anche quelli escludere con
forze italiane. Fu la prima manifestazione del voto _Italia farà da
sè_: ma per effettuarlo occorreva anzitutto un buon esercito; poteva
la Cisalpina formarselo, costretta a mantenere venticinquemila soldati
forestieri?

Quella libertà alla francese continuava a distruggere le libertà
italiane. Sebbene il Direttorio raccomandasse di non fomentare
le insurrezioni, la casa di ciascun diplomatico francese era un
focolajo, dove scaldavansi quelli che febbricitavano di repubblica.
Roma, sfiancata dall’umiliazione, era aggredita da ogni parte, e
più dai paesi statile tolti; preti e papi erano il comune bersaglio
dei giornali e delle tribune; e sul teatro di Milano si sceneggiò
il conclave. Pio VI era stato costretto a imitare i rivoluzionarj,
pigliando gli ori delle chiese e i beni di manomorta, aggravezzando
gli ecclesiastici, avendo smesse le spese e le pompe, con cui pareva
fare rivivere il secolo dei Medici. Ne mormoravano i sudditi, già
scandolezzati dall’arricchirsi del suo nipote Braschi; i nobili
parlottavano di ristabilire un senato all’antica; i Giansenisti
rigalleggiavano; pertutto non si discorreva che del rancidume pretesco,
di superstizioni tarlate, di regno dei cieli staccato da quello della
terra, di riformare, di secolarizzare. La creazione d’una carta moneta
portò al colmo il disgusto contro il Governo di preti: un Ceracchi
scultore s’arrischiò di piantare l’albero sul monte Pincio: gli allievi
dell’Accademia di Francia tentarono levare rumore, nel qual fatto (1797
26 xbre) sventuratamente cadde ucciso il generale francese Duphot.

— Assassinio, violazione del diritto pubblico» si grida allora;
Giuseppe Buonaparte ambasciadore abbassa lo stemma e se ne va; e il
Direttorio, declamando contro «quella potenza che sembrava essere
nata sotto il regno di Tiberio per appropriarsi i vizj del padre di
Nerone, e della quale da mille quattrocentun anni l’umanità domandava
la distruzione»[34], ciuffa molti milioni in diamanti del papa deposti
a Genova[35], e ingiunge a Berthier di menare l’esercito contro la
Babilonia, e «sbigottire il preteso gerarca della Chiesa universale
colla sua tiara in capo». Berthier ai già volenterosi soldati porge
nuovi eccitamenti a punire quel Governo, ma risparmiare il popolo
innocente e i riti; e senza dare spiegazione nè trovare resistenza
arriva a Roma (1798 15 febb.), vuole Castel Sant’Angelo, promettendo
rispettare il culto, gli stabilimenti pubblici, le persone e le
proprietà: ma subito la fa da padrone, congeda le truppe pontifizie,
arresta e prende ostaggi; getta contribuzioni, sequestra i beni
d’Inglesi, Russi, Portoghesi.

Appena si vedono drappellati i tre colori, una folla, di concerto con
Cervoni e Murat, proclama il popolo libero, nomina consoli: Berthier
trionfalmente s’insedia nel Quirinale; a Pio VI intima d’abdicare la
sovranità temporale, atteso ch’egli ne sia soltanto il depositario; e
perchè ricusa, gli ingiunge d’andarsene in Toscana. Il papa pregava
che, vecchio e convalescente, lo lasciasse morire in pace col suo
popolo, a’ suoi doveri; — Morire si può in qualsia luogo», gli fu
risposto. E dovette andarsene (19 febb.) non prima d’avere subito le
insultanti indagini di Haller, avidissimo fra gli avidi commissarj,
che gli tolse fin il bastone, fin un anello di dito: e talmente erano
sbigottiti gli animi, che nessuno protestò. Pio VI rifuggì in quella
Toscana, donde erangli venuti tanti disgusti; e al ministro Manfredini
diceva: — Queste disgrazie mi fanno sperare ch’io sia non indegno
vicario di Gesù Cristo; mi rammentano i primi anni della Chiesa, e
quelli furono gli anni del suo trionfo»[36].

I cardinali ed altri prelati sono mandati via; di quelli forestieri
si spogliano i palazzi, e così le chiese; è soppressa la Propaganda
«istituto affatto inutile», sperperandone la preziosa biblioteca e per
poco anche gli archivj; da’ palazzi pontifizj si levano fino le porte
e i gangheri; si predano i vasi sacri come quei di cucina, e bruciansi
i paramenti per cavarne l’oro; grosse taglie sono imposte a privati,
trecentomila scudi alla famiglia Chigi, dodicimila all’incisore
Volpato, e spesso non erano se non minaccie affinchè a pronto prezzo
se ne redimessero; vendute a vil costo le sculture degli Albani e del
Busca che non fossero scelte pel museo nazionale.

Se n’impinguava la turba, che dietro all’esercito traeva, di commissarj
per rubare, mediatori ed ebrei per comprare il rubato; intanto che
nello scialacquo i militari giacevano sprovvisti di viveri e di paghe
comuni. Protestarono essi contro quello sperpero; ma fu risposto
che all’esercito era proibito deliberare. Ne nascevano scissure, e i
soldati guardavano di mal occhio Massena che rubava e lasciava rubare:
di che preso speranza, i Transteverini si sollevarono (2 marzo); «colla
fiducia di potere sorprendere Castel Sant’Angelo, Monte, Transtevere,
Borgo, si danno al diavolo; e con Cristi e Madonne gridando _Viva
Maria_, si avventano contro i Francesi e contro i neonati repubblicani
romani. Qualche centinajo tra morti e feriti; un altro centinajo
arrestato da popolo barbaro; de’ fucilati alla piazza del Popolo
ventidue; altri se ne fucileranno, e forse alquanti preti»[37].

Anche nelle altre città v’ebbe ammutinamenti e con esito eguale; le
bande del prete Taliani d’Ascoli e la squadracela d’Imola si sostennero
a lungo; sul Trasimeno, nella Campagna, nella Marittima le domò
il terrore; al saccheggio furono abbandonati Ferentino, Frosinone,
Terracina, e molti passati per le armi: ed è notevole come solo nel
paese che dicesi governato peggio di tutti, incontrasse resistenza la
Rivoluzione.

Allora Faypoult, Florent, Daunou, Monge, uomini famosi, compilano per
Roma una tapina costituzione, notevole unicamente perchè nel centro
del cattolicismo non facea motto della religione. Secondo il consueto,
dovea giurarsi odio alla monarchia: ma Pio manda per enciclica, che il
Cristiano non deve odiare nessun Governo; basta si giuri sommessione
alla repubblica, e di non fare trame contro di essa. Queste temperanti
parole furono bestemmiate dai patrioti, i quali, in piazza del
Vaticano, celebrarono la festa della federazione, imitando quella di
Milano, che aveva imitato quella di Parigi.

Subito Bruto e Scipione sono su tutte le lingue: consoli, senato,
tribuni allettano con rimembranze di un tempo troppo diverso. Ma i
primi consoli erano nominati, poi rimossi dai generali, e non essi,
non i tribuni poteano[38], bensì Massena, Saint Cyr, Championnet,
insomma le sciabole. Si arma la guardia nazionale, ma il Direttorio
scriveva: «Non si lasceranno in Roma che millecinquecento fucili per
la guardia nazionale, coll’avvertenza però che n’abbia soli ducento
buoni a sparare[39]. Positivo soltanto il pagare; tre milioni di
scudi all’esercito d’Italia in denaro, seicentomila lire in abiti, un
milione sui beni nazionali; poi contribuzioni, poi prestiti forzati,
e torre gli argenti e fino le posate (1798), metter ipoteche su beni
di particolari, poi la carta moneta, poi il fallimento. Pochi voleano
comprare i beni ecclesiastici _nazionalizzati_, chi per coscienza, chi
per paura che un cambiamento di cose invalidasse i contratti: onde
all’asta liberavansi a pochi speculatori audaci, che con tenuissimo
profitto dell’erario facevano ingenti acquisti. Il depauperamento de’
ricchi sottigliava le entrate indirette: non si potè pagare i Monti,
non gli stipendj: gl’impiegati, amando i posti non i pesi annessi,
avrebbero voluto tante vacanze quante ai vecchi tempi: il popolo
sobbolliva: i patrioti si disingannavano d’una libertà così costosa,
d’una repubblica affatto serva della francese. Di sì varj scontenti
arrivavano i gemiti o le grida a Parigi, gittavano zizzania fra i
governanti, esacerbati dai disastri, e trovavano appoggi nel Direttorio
stesso, massime in Luciano Buonaparte, desideroso di rendere necessario
il fratello eroe.

Perocchè i nemici armavano, e la diplomazia trescava. La Francia,
benchè stesse in pace con Napoli, occupò i beni che in Romagna aveva il
re ereditati dai Farnesi; poi gli mandò intimare congedasse Acton e i
migrati francesi; alla repubblica romana pagasse il tributo che dovea
come vassallo della santa Sede; lasciasse passare l’esercito francese
per occupare Benevento e Pontecorvo. Ferdinando sì poco avea creduto
alla pace, che da quattro anni teneva in piedi sessantamila uomini, per
ciò diffondendo carta moneta, levando bestie e uomini all’agricoltura;
gridava per l’occupata Malta, su cui pretesseva l’antica superiorità,
e negava mandarle dalla Sicilia i provvigionamenti senza cui essa
non vive; lagnavasi che le irrequietudini della repubblica romana si
propagassero anche ai paesi limitrofi, e per non lasciarli invadere
dai Francesi, occupava egli stesso Benevento e Pontecorvo. Francia per
ciò gli tenea il broncio, e per aver accolto vascelli inglesi nei suoi
porti, mentre se n’approdavano di francesi il popolo gli offendeva e
derubava: e la vicinanza delle stazioni d’Egitto e di Malta dava a tali
lamenti il peso di minaccie.

Ferdinando era stimolato al rigore da Nelson, famoso ammiraglio
inglese, il quale, sconfitta e mandata a fondo la flotta di Buonaparte
nella rada di Abukir, avea menato la sua a Napoli, e ricevuto in
trionfo, v’era trattenuto dai vezzi di Emma Leona, fanciulla divulgata
in Inghilterra, poi modello di pittori, prima che l’ambasciatore
Hamilton se le facesse marito connivente e peggio.

Ferdinando faceva predicare che la religione periva dovunque
Francesi arrivassero, che bisognava rassodare la fede e l’autorità;
e quand’egli, condottosi in gran pompa alla basilica, lo scettro,
il diadema, il manto deponeva sull’altare, quasi collocandoli in
protezione dei santi, la ciurma applaudiva, esaltavasi, giurava
difenderli. Udito poi che Buonaparte si trovava a cattivo partito
in Egitto, intima a Francia che sgombri lo Stato pontifizio e Malta,
per rispetto alle stipulazioni di Campoformio, e conchiude alleanza
difensiva coll’Austria, la quale obbligavasi ad avere sessantamila
uomini in Tirolo, mentr’egli ne porrebbe trentamila alle frontiere,
e tre o quattro fregate nell’Adriatico; colla Russia, la quale
prometteva mandare truppe a Zara, donde Ferdinando le tragitterebbe
nel suo regno; coll’Inghilterra, la quale avrebbe una flotta nel
Mediterraneo; colla Porta, la quale manderebbe diecimila Albanesi.
Ferdinando accelera i provvedimenti; levando otto uomini ogni mille
ne raduna settantacinquemila; mancando però di generali, è costretto
chiedere l’austriaco Mack, il quale la sapeva lunga in fatto di storia
e d’arte bellica, e non si metteva in marcia che con cinque carrozze.
L’esercito francese di Roma contava soli sedicimila uomini sotto
Championnet, e sparsi qua e là per vivere; onde i Napoletani avrebbero
potuto sorprenderlo, e piantandosi fra Roma e Terni, separare la destra
dalla sinistra, vincerli disgiunti, e sottoporre mezza Italia. Mack
invece (1798), all’antica, sparte i suoi corpi in tre colonne: una
che tagli ai Francesi il ritirarsi nella Cisalpina per Ancona; una che
copra la Toscana, ove Inglesi e Portoghesi occuperanno Livorno; una con
Ferdinando trionferà nella capitale del cristianesimo.

In fatto il re, vincitore senza merito, entra in Roma (29 9bre),
richiama il papa, e alla guarnigione di Castel Sant’Angelo intima che,
per ogni cannone sparato, darebbe al furore del popolo un de’ Francesi
feriti. Intanto sollecitava Piemonte e Toscana a fare causa seco
contro Francia; il principe Belmonte Pignatelli suo generale chiedeva
al Priocca ministro del re di Piemonte: — Perchè il tuo padrone
tarda a frangere i patti impostigli dalla forza? Forse è assassinio
sterminare i proprj tiranni? I Francesi vagano sicuri pel paese.
Eccitate a furore il popolo; ogni Piemontese voglia aver atterrato un
nemico della patria. Parziali uccisioni varranno meglio che fortunate
battaglie; nè la giusta posterità chiamerà assassinj gli atti vigorosi
d’un popolo, che sui cadaveri oppressori sale a recuperare la libertà.
Primi i Napoletani sonarono l’ora fatale de’ Francesi, e dall’alto
del Campidoglio avvisano l’Europa che i re sono risvegliati. Su,
Piemontesi, spezzate le catene, opprimete gli oppressori». Questo
foglio (se pure non fu finto ad arte) si disse intercetto dai Francesi,
e pubblicato diede pretesto al Direttorio di volere occupare la
cittadella di Torino, mentre i patrioti moltiplicavano sforzi per
ammutinare il Piemonte.

A Roma intanto nei Napoletani apparivano il disordine, l’inobbedienza,
l’inesecuzione, soliti in esercito nuovo; a gara colla ciurmaglia
trascorreano ad ogni abuso, diedero il sacco, affogarono Ebrei,
guastarono le camere vaticane, e se alcun che di prezioso era sfuggito
al Direttorio: costosa lezione all’Italia di quel che vagliano i
liberatori armati. Championnet che si era ritirato concentrandosi,
presto si sente in grado di tornare alla riscossa; rientra in Roma (14
xbre), donde il re fugge travestito; e pensa profittare dello sparso
sgomento per assalire il Reame.

Frontiera eccellente ha questo; a sinistra appoggiandosi a Terracina
sul Mediterraneo, a due marcie da Roma, nel centro, fra Rieti e Civita
Ducale, a quindici miglia da Terni; e a destra verso l’Adriatico,
linea di cencinquanta miglia, che non può essere girata perchè mette
capo nel mare. Se il nemico si dirizzi sovra Terracina e Roma, possono
i Napoletani riuscirgli alle spalle per Rieti e Terni, ed occupare
le strade che volgono a Foligno: se forza il centro o la destra,
s’implica in montagne o gole pericolose: se neglige il Tronto e le rive
adriatiche, possono i Napoletani in due giorni essere ad Ancona. Perchè
dunque sì belle posizioni furono sempre inutili o superate?

Nè allora seppe profittarne Mack, il quale turpemente fugge sin a Capua
e sulla linea del Volturno. Il popolo di Napoli gridandosi tradito,
invoca armi, e avutele, si fa padrone della città (1799): il re, la
regina, Acton, con venti milioni in denaro e sessanta in gioje[40],
fingendo andare a ingrossarsi di rinforzi, salpano per Sicilia sulla
flotta di Nelson senza lasciar ordini o provvedimenti; fanno bruciare i
vascelli e le navi incendiarie e cannoniere e il corredo dell’arsenale,
lungo e costoso studio di Acton, quasi temessero nel popolo quella
risoluta difesa di cui essi non sentiansi capaci. Ben se ne sentivano
capaci i paesani, che insorti per tutta la campagna, trucidano i
Francesi, tagliano i ponti, rapiscono le artiglierie, rattengono
Championnet: se non che Mack, inetto a combinare la tattica scientifica
coll’impeto popolare, conchiude un armistizio (11 genn.), dando Capua e
una contribuzione di otto milioni.

Il popolo abbandonato giura per san Gennaro di morire respingendo i
Francesi; — Viva la patria, viva il re»; quelli che il re fuggiva
per paura d’esserne tradito, se ne costituiscono unici difensori;
universale disordine baldanzeggia, si trucidano persone di nome e
di senno, il duca della Torre e suo fratello Filomarino trucidati,
Moliterno e Rôccaromana, ch’erano stati messi a capo del Governo, non
valgono a frenare i lazzaroni, non valgono le processioni col sangue
di san Gennaro: la campagna li seconda, talchè Mack non vede altro
partito che darsi in mano ai Francesi (1790 23 genn.). Championnet
guida i suoi Giacobini sopra la città; assalto pericolosissimo contro
arrabbiati plebei, che non curavano la propria purchè togliessero la
vita ai Francesi, e resistettero anche quando egli per intelligenza co’
repubblicani ebbe avuto castel Sant’Elmo: ma egli, che fra l’orrore
della mischia non avea deposto la speranza di riconciliazione, col
trattare bene uno dei capi preso e col mostrare venerazione a san
Gennaro induce la plebe a cessare le armi[41].

Detto fatto, il furore si converte in giubilo: fra mille cadaveri
francesi e tremila napoletani si proclama la repubblica Partenopea, coi
tripudj soffogando i gemiti, cogli applausi i dissensi; quei ch’erano
perseguitati trionfano, quei che fremeano nelle prigioni pompeggiano
nella reggia; e l’esercito francese piglia il nome di esercito
napoletano «per combattere con loro e per loro, e del difenderli
domandando unico premio l’amore». Così diceva Championnet, uomo di
sincere intenzioni, e promettea libertà, indipendenza, e lasciava
piantar alberi, e dichiarare cittadino san Gennaro, imponendogli
il berretto tricolore. Sì, ma le dimostrazioni bisognava pagarle; e
l’esercito liberatore imponeva diciotto milioni di ducati, che bisognò
tor per forza e a capriccio, ponendo mano fino agli argenti e alle
orerie delle case, e perchè il popolo fiottava, Championnet ne ordinò
il disarmo.

Cessò allora d’essere l’idolo della plebe, mentre il Direttorio
disapprovava quel darsi aria di liberatore e legislatore; ed a
regolare la parte economica vi spedì quel Faypoult, che aveva espilato
Roma, e che quivi pure cominciò confische. Il generale, cui l’avere
conquistato il paese pareva ragione di farvi ogni suo talento, ingiunse
soldatescamente a’ commissarj d’andarsene; ma quest’atto gli meritò
d’essere destituito e arrestato, surrogandogli l’emulo Macdonald,
mentre Faypoult dichiarava beni della Francia quei della Corona, degli
ordini cavallereschi, de’ monasteri, e le anticaglie. Se una repubblica
credeasi in diritto di togliere questi al re ed alle corporazioni, non
avrebbe dovuto restituirli alla nazione? ma il diritto suol guardarsi
sempre da un lato solo, e alla Francia allora occorreva denaro, denaro;
e l’Italia n’aveva ancora.

E senz’altro titolo che di trarne due milioni per l’esercito, i
Francesi invadeano la repubblica di Lucca con Serrurier, poi con
Miollis: dalla cui presenza inanimati, i democratici domandarono
l’abolizione della nobiltà e delle leggi del 1556 e del 1628; e
all’antico venne surrogato uno statuto popolare, che fu il francese;
intanto moltiplicandosi le tolte fin a tre milioni di scudi, cui
tennero compagnia la consueta ruba dell’erario, delle armerie, e il
dovere mantenere i soldati.

Si domandò ragione alla Toscana d’aver accolto Pio VI, e non escluse
le navi napoletane dal porto di Livorno; e in conseguenza, e col
pretesto di salvarla da altrui invasioni, fu occupata (25 marzo). Il
granduca parte per Vienna, i ministri per Sicilia; Gautier e Miollis
scacciano i migrati francesi, reprimono le opposizioni di Firenze e
Pistoja, poi derubano i beni del duca, gli argenti, sessantatre de’ più
bei quadri, fra cui otto di Rafaele, il Virgilio della Laurenziana:
ventidue tavole in pietra dura, e cammei e medaglie voleansi mandare
via, se risolutamente non si fosse opposto il Puccini, presidente alle
gallerie.

Il Piemonte non avea veduto salvezza che nell’attaccarsi al carro
trionfale di Francia, e il Direttorio avea fatto rispondere al nuovo
re, «La nazione francese non dimenticherebbe mai ciò che da principio
avea fatto per la Francia». Erano ministri Prospero Balbo e Damiano
Priocca, valente giureconsulto e sperto diplomatico; e per quanto
repugnanti, dirigevano le attenzioni, gli uffizj, la corruzione ad
amicarsi il Direttorio. Neppure nella depressione dimenticando le
lunghe speranze, gli mostravano come a Francia importasse l’aversi a’
fianchi uno Stato amico e robusto, e tale renderebbero il Piemonte
coll’aggiungervi Genova e quella Lombardia, tutte le cui forze
non valeano quanto un battaglione piemontese; diecimila Piemontesi
dispenserebbero la Repubblica dall’occupare i suoi prodi a custodire
quel lato. In fatti Buonaparte avea conchiuso alleanza in questo
senso: ma il Direttorio or si faceva scrupoloso su tale mercato
di popoli, or ricusava garantire al re gli Stati, essendo i popoli
in diritto di scegliersi un governo al modo di Francia; quanto ai
diecimila uomini, bastava si aprissero i ruoli nella Cisalpina, e ne
accorrerebbero altrettanti e più a combattere per la libertà; a ogni
modo si desser parole al re fino alla pace. Intanto però si lasciava
che il suo territorio fosse sommosso dai novatori e dai profughi, i
quali è vero non riuscivano che a moltiplicar le vittime[42]. Giovani
improvvidamente animosi furono passati per le armi, e contaminarono
col sangue la storia di quel re; fra i quali Carlo Tenivelli, mediocre
storico, che a Moncalieri avea predicato idee democratiche, e vivrà
in una pagina caldissima di Carlo Botta suo scolaro. Crescevano lo
scontento le tante gravezze necessarie per soddisfare a Francia: ma per
quanto Carlo Emanuele IV odiasse questa, e le potenze confederate lo
stimolassero ad avversarla, egli reggeasi fido ai trattati.

Facea da ambasciatore a Torino il Ginguené, repubblicano caldo e
sincero, accademicamente dissertatore, che in prima fu nelle carceri
del Terrore, poi messo nella commissione d’istruzione pubblica,
approvò il regicidio, ed è memorevole per una _Storia letteraria
d’Italia_, più lodata qui che nel suo paese. Egli si tolse l’indegno
incarico di perdere i reali di Piemonte, cercando esacerbarli con
piccole persecuzioni, e sollecitare i popoli a sollevazioni che ne
giustificassero la cacciata. Volle ricevuta a Corte sua moglie, e ve
la mandò in abito peggio che plateale (_en pet en l’air_); il maestro
delle cerimonie la respinge; ma perchè il marito domanda i passaporti,
è ricevuta, ed egli spedisce un corriere per annunziare al Direttorio
questo trionfo sovra i pregiudizi e Talleyrand ne pubblica nel
_Monitore_ un ridicolo ragguaglio[43].

Ma la scintilla era gettata, e le sommosse in paese non tardarono;
Genova le seconda sul mare e a Carrosio; la Cisalpina sul lago Maggiore
e a Pallanza: ma i regj combattendo presso Ornavasso, prevalgono
(1798); moltissimi insorgenti sono uccisi in Domodossola e a Casale per
legge di guerra. Il Priocca si lagna di queste subornazioni, asserisce
il diritto di difendersi: ma Francia assume il tono di oltraggiata;
Ginguené parlando retoricamente di stiletti, di fonti avvelenate,
d’oro inglese, di migrati, di barbetti, d’un tramato vespro siciliano,
intima al re che cessi i supplizj dei patrioti e le spedizioni contro
gl’insorgenti di Liguria. Intanto il Direttorio domanda sempre nuove
concessioni, onde avvilire il re prima di prostrarlo; ora vuole che
estradica i fuorusciti, or che tolga di grado alcuni suoi sudditi, or
arresti quello, or perdoni a questo; che più? dovette dar la chiave del
proprio regno, cioè lasciar occupare la cittadella di Torino, a patto
venissero acquetati i patrioti sul lembo della Cisalpina.

Così egli trovossi sotto al cannone francese; obbligato allora a
disarmarsi, vide ripigliar baldanza i patrioti e tentare Alessandria;
e sebbene respinti colla morte di seicento côlti in un’imboscata,
pure crescono dappertutto, e raddoppiano gl’insulti al re; con buffe
mascherate, provocano la Corte e il popolo, mentre il Direttorio
pretende che il re congedi, anzi consegni il Priocca, il suo miglior
ministro, e un de’ pochissimi che tenessero la testa alta in quel tempo
di depressione, mandando fuori una _notificanza_, ove protestava della
lealtà del re e snudava la perfidia degli oppressori.

Ma quando arrivò notizia della nuova lega tessuta contro Francia,
il Direttorio temette che Carlo Emanuele cogliesse il destro per
vendicarsi; Joubert che comandava la cittadella, butta fuori le solite
accuse generiche, chiama dalla Cisalpina (1798 xbre) uno stuolo che
_per cautela_ occupa le fortezze e fa prigionieri i presidj. Carlo
Emanuele, che aveva esortato i cittadini a tenersi quieti, e avea
perduto il suo miglior sostegno, cessa dall’esercitar il potere, e non
togliendo nè le gioje nè settecentomila lire che aveva in tasca, per
risparmiare al paese i guaj d’una resistenza inutile, se ne va. Passò
per Firenze, dove a Vittorio Alfieri, che come gentiluomo era andato
a riverirlo, disse: — Vedete cos’è un tiranno», e pianse. Arrivato in
Sardegna (1789 5 marzo), protesta contro la violenza usatagli, poi si
dà a vita di quiete e di pietà: nessun libro nuovo più volle leggere,
salvo le poesie vernacole del Calvi, ammirandone la naturalezza,
e diceva: — Così non si scrive se non nella lingua della balia; se
avessi continuato, anch’io avrei scritto a questo modo». Mortigli poi
i fratelli duchi di Monferrato e di Moriana, morto l’unico maschio
del duca d’Aosta, successore designato, morta la moglie Clotilde
sorella di Luigi XVI, per le austerità sue dichiarata venerabile, il re
soccombente a tante sventure, rinunziò la corona al fratello Vittorio
Emanuele, e si ritirò a Roma.

In Torino, dove si trovarono mille ottocento cannoni, centomila fucili,
provvigioni abbondanti e denaro, s’istituì governo a popolo, o più
veramente militare sotto Eymar. Costui vedendo scontenti i soldati dal
trovarsi sottomessi a coloro che fin là aveano osteggiato, il popolo
dalla riduzione delle cedole, i preti dall’incameramento dei beni, i
ricchi dalle implacabili imposizioni, vuol prevenire una sommossa col
rapire i capi di famiglie nobili, e mandarli ostaggi a Grenoble. Subito
si usurpano le preziosità della Corona, dal re illibatamente lasciate;
depredansi i musei per arricchire il parigino; i titoli di nobiltà
sono arsi in piazza Castello. Erogati in tre mesi da trentaquattro
milioni per mantenere l’esercito, ridotto a un terzo il valore della
carta moneta, stremate le finanze, più non vedendo altro spediente, si
propose la fusione colla Francia.

Aperti ne’ Comuni i registri per votare su ciò, colla solita
maggioranza il plebiscito domandò che il Piemonte facesse parte della
Francia. Carlo Bossi, fautore delle nuove idee, e che aveva celebrato
con un’ode le innovazioni di Giuseppe II onde fu mandato a viaggiare,
rimpatriato verseggiò sugli eventi de’ tempi; poi al minacciar della
guerra fu spedito al re di Prussia; a Pietroburgo, infine a Buonaparte.
Dal quale avendo udito esser proposito della Francia tenersi il
Piemonte e ingrandire la Cisalpina, pensò meglio smettere i pensieri
d’italianità che con Carlo Botta avea coltivati; ed essi due fecero lo
spoglio de’ quattromila processi verbali che conteneano meglio d’un
milione di firme, e portò la domanda della fusione al Direttorio,
che si degnò esaudirla[44]. Non pochi avversavano alla perdita
dell’indipendenza; in Acqui vi si oppose una risoluta sollevazione, ma
fu repressa; e venne istituito in Piemonte il Governo francese.



CAPITOLO CLXXVIII.

Riazione. I Tredici mesi. Italia riconquistata. Pace di Luneville.


Ma sopra la Repubblica francese e le sue create si addensava il nembo,
tutti i nemici allestendosi a tarpare la sparnazzante democrazia. Paolo
di Russia, deliberato a ristabilire i dinasti spossessati, mandava
all’Austria sessantamila uomini; esercito terribile, di tutta la forza
che dà la barbarie a servizio dell’intelligenza. Lo comandava Suwaroff
vincitore dei Turchi, a cui una fanatica intrepidezza teneva luogo di
genio, e d’arte l’unico intento d’andar sempre avanti. Ma il Consiglio
aulico di Vienna, che poteva movere ducenventicinquemila soldati, aveva
divisato la guerra all’antica, e mirando più di tutto all’Italia.

In Francia, le finanze esauste, scarsa la subordinazione, malversata
l’amministrazione; dei paesi protetti, cioè servi, non profittavano
che gli espilatori; il suo più bello esercito e i migliori generali
campeggiavano in Egitto, nè meglio di cencinquantamila soldati
effettivi le rimaneano; di Moreau temevasi l’esuberanza repubblicana;
Joubert e Bernadotte ricusavano il comando supremo per le restrizioni
che vi si voleano mettere: sicchè attribuendo l’esercito di Napoli
a Macdonald, quello dell’Alpi fu commesso a Scherer ministro della
guerra, segnalatosi nel Belgio e nelle prime campagne d’Italia, ma
vecchio e ignaro della moderna tattica di concentrare le forze in
un punto solo, e poco amato perchè reprimeva la rapacità militare.
È prezzo dell’opera conoscere le istruzioni dategli dal Direttorio:
— La missione affidatavi dalla patria tende a rendere la repubblica
francese arbitra delle nazioni dell’universo. Nella caduta di Cartagine
Roma previde la conquista dell’Oriente; nella totale sommessione
dell’Italia sono compresi i nuovi trionfi riserbati all’eroismo
della gran nazione dall’insormontabile forza delle cose... Fin qua
il Direttorio esecutivo stimò bene celare il magnifico proposito, e
allucinar le teste italiane col fantasma della sovranità e indipendenza
nazionale: questo lenocinio, secondato dagli avidi e ambiziosi di colà,
riuscì a capello de’ nostri interessi: sedici milioni di uomini furono
sottomessi da un numero di combattenti, che potrebbero dirsi corpi
volanti anzichè esercito... L’oro e l’argento di che Italia ringorgava,
fu versato nelle nostre casse militari: ma bisognò prodigarlo a
corrompere gli amministratori dei diversi Stati, salariare i faziosi,
gli allarmisti, gli spioni che servivano la nostra causa, e fra gli
stranieri gli entusiastici apostoli dei nostri principj... Troviamo
inutile rammentarvi che la repubblica francese essendo una, tutte le
repubbliche italiane, partorite e tollerate solo per le imperiose
contingenze, devono sparire. L’esistenza politica dei vinti non
consista che in una pacifica servitù; non altre leggi conoscano che
quelle date dal conquistatore... Abolite all’istante i nomi di guardie
civiche, di legioni nazionali; soffogate nei cuori italiani ogni
favilla d’ardor nazionale».

Massena, comandante all’esercito di Svizzera, invase (1799 marzo)
prosperamente il paese de’ Grigioni che aveano chiamato gli Austriaci;
ma verso Italia il valoroso austriaco Kray sventò i divisamenti di
Scherer, ed eccitando i popoli alla rivolta, lo sconfisse a Magnano e
a Verona (5 aprile); Santa Lucia, Bussolengo, i laghi d’Idro e d’Iseo
videro combattimenti gagliardi, mentre gl’Italiani stavano guardando a
chi toccherebbero.

Il selvaggio Suwaroff sopraggiungendo, e dato lo scambio agli uffiziali
austriaci trattandoli da donnicciuole, zerbini, infingardi, aduna tutte
le sue forze sull’Adda, e dopo sanguinosi fatti a Lecco, a Verderio,
a Cassano, la passa d’ogni parte (25 aprile); lascia saccheggiare la
Lombardia da Cosacchi, appena uomini d’aspetto, sicchè vi rimasero
popolarmente terribili i nomi di Bagration, Korsakoff, Wukassovich[45].
Moreau, tardi mandato a scambiare Scherer, potè a fatica coprire Milano
sinchè fuggissero i patrioti: e testimonio dell’esultanza dei popoli
che si consideravano come liberati, e che in più luoghi lo molestarono,
voltò verso Genova, donde potrebbe e tener aperto il passo verso
Francia, e unirsi a Macdonald che, per ordine del Direttorio, veniva
da Napoli. Melas, alla testa di cinquantamila Austriaci (28 aprile), e
d’alquanti migrati francesi comandati dal principe di Rohan, entrò in
Milano.

Questa città, capo della migliore fra le improvvisate repubbliche,
focolajo della rivoluzione di tutta Italia, non oppose resistenza:
i vantatori di vittorie francesi e disastri austriaci, d’ostacoli
naturali insuperabili, d’opposizione indomita de’ liberi petti furono
primi alla fuga, alcuni squallidi e afflitti, altri lucidi e satolli,
altri s’affrettò colla viltà a meritar grazia dai nuovi padroni, e
tosto rialzansi le croci e gli stemmi, si drappellano santi e aquile,
e simboli d’una nuova trinità, Austria, Russia, Turchia; si dà nelle
campane; al grido di — Viva la religione, viva Francesco II» si
saccheggiano le case e le terre di Giacobini; il solito trionfo de’
camaleonti.

Quelli che l’altalena aveva abbassati, or si rialzano baldanzosi
e stizziti; alla forza dei vili sottentra la viltà dei forti, che
pretendono disfare il passato, punire le ingiustizie con altre, e
fin la giustizia snaturano coll’aspetto di vendetta. In tali casi un
Governo intelligente conosce unico partito il perdonare e dimenticare,
per ottenere dimenticanza e perdono, anzichè secondare le riazioni, che
scavano abissi in cui non precipita soltanto il vinto. Ma la vittoria
sa di rado moderarsi. Una congregazione delegata e tre giureconsulti
(Manzon, Drago, Bazzetta) sotto al commissario imperiale Cocastelli
presero a sindacare i fautori d’un Governo, che pure era stato
legalmente riconosciuto; molti furono cacciati prigioni, centrentuno
mandati nelle fortezze di Cataro e del Sirmio; minute persecuzioni
pubbliche e domestiche, sotto il pretesto di vendicare altari e troni,
aprivano sfogo a rancori, esacerbati da tre anni d’umiliazione. Intanto
i soldati la davano per mezzo a mille sporcizie, per quanto i paesani
sapessero ad ora ad ora pagar l’insulto col sangue.

In Valtellina, dapprima truppe cisalpine comandate da Lechi invadono o
turbano la val Poschiavo; poi una frotta di Bresciani, vantando il nome
d’Austria, taglieggia, concute, maltratta chiunque ebbe impieghi sotto
la repubblica; poi per l’imperatore vi governa dispotico il barone
Lichtenthurm; e un Parravicini valtellinese militante coi Tedeschi,
e Claudio Marlianici delegato commetteano o lasciavano commettere
arresti, perquisizioni, violenze.

Nella Svizzera italiana i malcontenti, dalle valli sbucati sopra
Lugano, cacciano prigioni alcuni patrioti, uccidono uno Stoppani,
l’abate Vanelli da gran pezzo redattore della _Gazzetta ticinese_,
e alcuni altri: finchè si mandano a chiamare gli Austriaci, che
prendono il paese «sotto gli auspicj potenti dell’imperial potere».
L’amministrazione di Torino rifugge a Pinerolo, e tutto il Piemonte
sobbolle: Brandalucioni, con bande ragunaticcie del Canavese che
chiamava masse cristiane, corre a schiantar gli alberi di libertà, e
surrogare croci, e depredare Giacobini e scannarli: il popolo aprì ai
Russi le porte di Torino (1799 20-22 giugno), ed ajutò Wukassovich ad
assediare la cittadella, capitolata la quale e quella d’Alessandria, fu
ripristinato il nome dei re di Sardegna.

Ma il solo nome; perocchè padroni erano i militari, che moltiplicavano
le esazioni, mentre Cosacchi e Panduri imperversavano al saccheggio;
le cedole infestavano il paese; i soldati davano ai cavalli la sagina
e il granturco sottratti al contadino, che moriva di fame. Molti furono
carcerati, nessuno ucciso in giudizio. Suwaroff, per quanto spaventoso
ne’ suoi manifesti, professava di combattere per difesa della religione
e delle proprietà, e pel ripristino degli antichi governi, laonde, più
che a punire, credea dovesse pensarsi a riordinare, e dal marchese
Thaon di Sant’Andrea facea raffazzonare il Governo regio: ma altri
erano i divisamenti dell’Austria.

La rivoluzione in Italia era stata desiderata o gradita solo da
negozianti, da dotti, da begli spiriti, ed anche di essi i più se ne
stomacarono appena vedutala differente dalla speranza; poca parte vi
avea preso il popolo, o solo per l’andazzo; eransi fatte piuttosto
sedizioni, collera dei pochi, che non rivoluzioni, idea ed espressione
di un’epoca, e troppo lo chiarirono le fiere tragedie realistiche,
risposte alle commedie giacobine. Roma, Ancona, Livorno ebbero effigie
divote che giravano gli occhi: alla Madonna del Conforto di Arezzo
tanto crebbe la venerazione, che colle offerte le si alzò magnifica
cappella: in via del Ciliegio a Firenze alcuni gigli selvatici, esposti
avanti una Immacolata, fiorirono, ed il fenomeno naturale eccitò
meraviglia e concorso e grazie e disordini; preludj di molto più fieri.
Nello Stato Pontifizio sobbollivano Terni, Civitavecchia, Orvieto: in
tutti i punti la guerra civile era fomentata dalle pessime nuove che a
giornata venivano d’ogni dove.

Napoli della brevissima repubblica Partenopea poco ebbe a lodarsi.
Persone di senno e di bontà l’aveano servita di cuore; nella giunta
legislativa sedettero Mario Pagano, Galanti, Signorelli, nomi
conosciuti, e per omaggio al defunto Filangieri un suo fratello; nel
direttorio l’Abamonti e il Delfico: Francesco Caracciolo brigadiere di
marina, disgustato del re, al quale serviva da trent’anni, perchè gli
mostrò diffidenza col togliere dalla nave di lui una somma depostavi,
passò nella marina repubblicana. Col nome di padri e madri dei poveri,
signori e dame andavano distribuendo denari e lavoro agli artieri
scioperi: il medico Cirillo, uno dei pochissimi che nelle rivoluzioni
mirano al pubblico bene, suggerì una cassa di soccorso, nella quale
versò quanto avea guadagnato nel lungo esercizio. Mario Pagano, da
vecchio e da storico, ripeteva non dovessero ripromettersi pace e
godimenti, ma a consolidar la repubblica volersi tributi, armi e virtù,
e che del proprio senno ciascuno ajutasse i reggitori della patria:
ma la moltitudine ascolta piuttosto a chi la assonna di facili trionfi
e beatitudini; poi quando le mancano, si chiama tradita, e ribrama il
prisco stato.

Ma la libertà era cosa insolita, insolitissima l’eguaglianza in
paese monarchico, di tenace feudalità, di fanatica ignoranza, e che
la presente condizione non avea conquistato a fatica e sangue, ma
riceveva in dono. Il sospetto era morbo inoculato dalla precedente
dominazione; i perseguitati voleano vendicar le ingiurie sofferte con
recarne di nuove; i giovani le idee di moda sorbivano coll’esagerazione
che non tollera freno; e per imitazione di Francia urlavasi contro il
tiranno, contro il papa, contro il culto, contro l’aristocrazia; nelle
sale _patriotica_ e _popolare_ formolavansi accuse contro a privati
e a pubblici, e diluviavansi parole e ineffettibili proposizioni.
Al popolo che chiedeva pane, si predicavano i beni della repubblica,
s’insegnavano i diritti dell’uomo e i destini d’Italia; i nomi di santi
imposti nel battesimo, e principalmente di Ferdinando, si cambiano nei
classici di Cassio e Armodio, o di Masaniello; e cantar Partenope e il
Sebeto, e recitar le tragedie d’Alfieri, di mezzo alle quali talvolta
uno sorgeva in pien teatro, e presone a testo qualche verso, metteasi a
sbraitare contro il dispotismo.

Acclamata la costituzione francese, si sciolsero i fedecommessi, le
giurisdizioni baronali, i servigi di corpo, le decime, le caccie
riservate, i titoli di nobiltà; con integrità si corressero gli
abusi delle banche, annichilando moltissima carta, e la gabella sul
pesce, sulle farine, sulle teste. Tutto bene, ma i modi precipitosi
guastavano; l’abolire le tasse senza nulla surrogarvi, scompigliò le
finanze; se non bastava che col distruggere le feudalità tutt’a un
colpo si fossero suscitate inestricabili liti coi Comuni, si beffavano
e ingiuriavano con iscritti e con atti i baroni come i preti. Il
ministero della guerra avea proclamato che «chiunque avesse servito
il tiranno, nulla sperasse da un Governo repubblicano»: onde tutto
l’esercito antico e il satellizio dei baroni (milizia già addestrata
che sarebbesi potuto utilizzare per la patria) si ridussero paltoni
o masnadieri, ribramanti il governo antico. Quindi scombussolamento
e mali umori; chiunque non sedeva in posti screditava chi vi
sedesse; chiunque trovava un freno di legge, urlava alla tirannide.
I _democratizzatori_ erano odiati nelle provincie, ove piantavano
alberi di libertà e toglieano denari. I ventiquattro del Governo, da un
lato pareano tirannici, perchè moderavano le trascendenze dei circoli
politici, peste d’ogni libertà; dall’altro fiacchi, perchè nelle
benevole fantasie non voleano persuadersi degli abominj della ciurma
qualora sormonta.

I Borboni erano fuggiti per pusillanimità, ancora integri di forza e di
tesoro, e lasciando moltissimi fedeli, ai quali aggruppavansi man mano
i malcontenti. Fidando in una vicina riscossa, i baroni, avversi al
nuovo Stato e non lo temendo, cingeansi de’ loro vecchi armigeri e de’
soldati regj congedati, e alla spicciolata combattevasi, assassinavasi,
si rinnovavano fatti esecrandi. Pronío e Rodío capibanda non cessavano
di molestare i Francesi negli Abruzzi: in Calabria uno Sciarpa, in
Terra di Lavoro Michele Pezza, famoso col nome di frà Diavolo, altri
altrove, piacevansi degli assassini, onestati dal titolo politico:
il Mammone mugnajo ornava il suo desco con teste appena recise,
beveva sangue, e se non n’avesse d’altrui, il proprio; quattrocento
fe trucidare, anche traendoli di carcere: e a cosiffatti il re dava
il titolo d’amici e generali[46]. Tali cose sono asserite dal Coco,
ma dopochè il brigantaggio infierì quest’ultimi anni contro il nuovo
regno d’Italia, l’esagerazione con cui ne sono narrate le imprese e le
atrocità dalle due parti opposte obbliga a dedurre assai da quanto fu
asserito allora. Nulla più credulo che i tempi di rivoluzione.

Altrettanto si esagerò intorno a Fabrizio Ruffo. Questo napoletano
fu assessore di governo a Roma, poi tesoriere abilissimo; avea tolti
molti abusi feudali, assicurato le rendite, stabilito un premio a chi
piantasse ulivi, e passava per riformatore; e poichè gl’interveniva,
come in tutti i tentativi, di fare e disfare, Pasquino il dipinse
con nell’una mano _ordine_, nell’altra _contrordine_, in fronte
_disordine_. Caduto di grazia, ricoverò a Napoli, ove il re lo pose
intendente di Caserta e San Leucio, ma sì poco profittò de’ suoi
posti che, quando fu fatto cardinale, per sostenere le spese dovette
ipotecare i beni della prelatura. Allora rivide Roma, e cooperò a
sostenere il coraggio di Pio VI, poi accompagnò i reali di Napoli
nella loro fuga in Sicilia, donde tornato in Calabria, vi sistemò
l’insurrezione e la guerra di bande in nome della santa fede; e al suo
esercito parea dovessero unirsi moltissimi di Sicilia, dove i baroni,
benchè non obbligati a servire fuori dell’isola, offersero di reclutare
a proprie spese novemila soldati.

Intanto legni inglesi e siculi, capitanati da Nelson, sommoveano
le coste, presero Ischia e Procida, minacciavano Toscana e Romagna,
interrompeano le comunicazioni fra Egitto e Francia, e catturavano
navi e persone: la flotta turco-russa, dopo ritolta Corfù ai
Francesi, accennava all’Italia. Della rapida conquista di Championnet
non restavano ornai che Napoli e il circondario (1799); sicchè il
Governo repubblicano dovette uscire dalla quiete, in cui lo teneano
la confidenza del bene e il desiderio di non infamarsi con crudeltà,
e cominciò rigorose repressioni. Andria fu distrutta orribilmente;
Trani col sacco e il fuoco punita dell’ostinatissima resistenza; e
così Sorrento e moltissime terre di Bari e di Calabria, senza per
questo sopire la rivolta. Macdonald mette fuori proclami ferocissimi;
prelati e preti sconterebbero colla vita le insurrezioni de’ luoghi ove
dimoravano e sarebbero uccisi appena côlti coi sollevati; autorità al
Governo d’arrestare i sospetti; ricompensa e silenzio a chi denunziasse
un migrato francese o depositi d’arme; morte a chi toccasse a stormo
le campane, o spargesse false notizie. Ettore Caraffa conte di Ruvo,
maggiordomo del re eppure mescolato nelle congiure, imprigionato,
fuggito, stimolatore e compagno di Championnet nella spedizione, ora
scontento che s’intepidisse l’ardore repubblicano, faceva ad arbitrio
leve e tolte che invelenivano.

Stretto dal bisogno di riparare la Francia minacciata, il Direttorio di
Parigi (1799 maggio) comandò a Macdonald accorresse nell’alta Italia
per congiungersi a Moreau che scendea dalla Bocchetta di Genova; ed
egli partì di Napoli, lasciando deboli guarnigioni a Capua, a Gaeta e
in castel Sant’Elmo. Trovava la Toscana con insolito furore levata alle
grida di — Viva Ferdinando, viva il papa», e dovette arrestarsi davanti
Arezzo e Cortona che osarono resistergli. Questo rubogli un tempo
d’inestimabile valore per unirsi a Moreau, e concedette agio a Suwaroff
d’interporsi grosso fra loro nel piano di Piacenza. Tre giorni di fiera
battaglia (17-19 giugno) contaminarono la Trebbia con quindicimila
cadaveri; Macdonald indietreggia, e difilatosi sopra Genova, vassene in
Francia, con lode di grande ma sfortunato valore; e Suwaroff pianta i
suoi accampamenti in modo da impedire che fossero soccorse Tortona ed
Alessandria assediate.

Ormai nelle sole fortezze trovavasi ridotta la possa francese. Il
Direttorio rinnovatosi, volendo dare prova di sè con atti robusti,
impone cento milioni sui ricchi, arma grossi eserciti, dirizza alla
volta di Genova Joubert a capo di quarantamila infervorati: ma Kray
e Suwaroff riunitisi, lo pettoreggiano e costringono a rifuggire
tra l’Appennino; e poco poi resta ucciso a Novi in una battaglia che
costò ventisettemila vite (15 agosto). Anche Moreau sottentratogli è
messo in rotta: Championnet, sceso per Cuneo sul Piemonte, dopo breve
prosperità, trova sconfitta e morte (7bre). Gli Austriaci espugnano
faticosamente Tortona; ma Alessandria, Mantova, Serravalle, Cuneo,
altre fortezze capitolano con tal rapidità che i comandanti sono
accusati di corruzione o di tepore.

Sogliono gli Italiani chiedere la loro liberazione dai Francesi:
ricevuta che l’abbiano, maledirli. Quando Macdonald la abbandonò, alla
repubblica Partenopea parve d’avere acquistata l’indipendenza, e fece
gavazze ed eccessi fino a proporre di tor d’impiego chiunque vi fosse
stato posto da’ Francesi; e intanto frati predicare la repubblica in
nome del vangelo, filosofi in nome di Rousseau; tutti assicurandola
immortale, e già aveva il rantolo della morte. Il potere fu accentralo
in Gabriele Manthoné, chiassoso repubblicano, che ravvivò gli ordini
dei più fieri comitati di Francia, e con denari levati o donati soldò
i veterani e li spedì a combattere gl’insorgenti, sistemò la guardia
nazionale e una Legione Calabra, che proclamava — Vogliamo sangue,
vogliam morte: darla o riceverla ci è tutt’uno, purchè la patria sia
libera e noi vendicati».

Pensate che orrori ne dovessero seguire: intanto che le parti
straziavano le viscere, e gl’insorgenti sbucavano d’ogni calle, d’ogni
bosco, e superando l’opposizione, assalsero la mal guarnita Napoli.
Si volle, come sempre, difendere la capitale, mentre l’abbandonarla
e difilarsi in colonna verso Capua o ai monti, avrebbe risparmiato ai
Realisti tanti assassinj. Ruffo v’entrò di viva forza, secondato dai
lazzaroni, con ferocie quali poteano attendersi da disperati contro
disperati. Le finte notizie sono sempre l’arsenale dei settarj. Come
dianzi erasi sparso che Ruffo si fosse da sè creato papa, così allora
si diè intendere ai lazzaroni che i repubblicani avessero tramato
di scannarli tutti, e i loro fanciulli educare senza religione;
ond’essi a buttarsi su quelli ferinamente, e spogliare maschi e
femmine per punirli della chioma raccorcia o per trovarvi gl’impressi
simboli repubblicani e massonici, flagellarli, straziarli a membro a
membro, arderli vivi. Guai alla casa che uno ne ricoverasse! il che
rendeva inospiti molti, altri vili sino a denunziare il figliuolo
o il fratello. Dopo due giorni il cardinale riuscì a sospendere la
carnificina, e si diresse ad espugnare i castelli Nuovo, dell’Ovo e
Sant’Elmo, dov’erano ricoverati i patrioti di miglior conto.

Di là poteano questi recare immensi guasti alla città; aveano seco
ostaggi e parenti del Ruffo, e modo di resistere finchè di Francia
venissero soccorsi; laonde dal cardinale ottennero una buona
capitolazione, libertà di partire sulle navi chi volesse, o di
restare inoffesi, e promessa di sciogliere i prigioni e gli ostaggi.
A tali patti ebbe esso i castelli, pubblicò generale perdonanza, e i
repubblicani già erano imbarcati: quand’ecco dalla regina Carolina
giunge una protesta[47], e voler morire piuttosto che patteggiare
con sudditi ribelli; spedisce Emma Leona, che coi baci compra sangue
da Nelson, il quale cassa la capitolazione (14 giugno) perchè fatta
senza di lui ammiraglio, ottantaquattro cittadini fa incatenare, e
dal francese Mejean, lasciato da Macdonald a comandare, riceve castel
Sant’Elmo cogli ostaggi e coi patrioti in esso ricoverati.

Ruffo (dicasi a sgravio di questo prete che pure si dipinge senza
costume e senza fede, dicasi a obbrobrio del Nelson) mai non aderì alla
turpe violazione; e dichiarò che, se l’armistizio fosse rotto, non
s’attendessero verun soccorso da sua parte. Non gli si badò, e alle
infamate antenne britanniche si vide appiccato il vecchio ammiraglio
Caracciolo. L’esempio incita a crudeltà i mal repressi popolani; la
plebe scanna, ruba, abbrustolisce, mangia, si mangia i patrioti: il
coltello degli assassini gareggia colla mannaja.

Il re giungeva di Sicilia (30 giugno) come in paese conquistato,
perdonava ai lazzaroni saccheggiatori fin della reggia, aboliva i seggi
e i privilegi della città, del regno, dei nobili, e dichiara ribellione
ogn’atto commesso durante la sua fuga, e ottomila sono imprigionati
nella sola capitale per avere parlato, scritto, combattuto, per avere
avuto un nemico che li denunziasse. Spie, torture, presunzioni erano
le procedure della giunta, la quale mandò a morte i generali Manthonè
e Massa, Vincenzo Russo, Nicola Fiano, Francesco Conforti che avea
sostenuto le ragioni regie contro Roma e allevato i migliori giovani
d’allora, Nicolò Fiorentino dotto matematico e giureconsulto, Marcello
Scotti autore del _Catechismo nautico_ e della _Monarchia papale_,
il conte Ruvo, il medico Cirillo, Mario Pagano, una Sanfelice[48],
ed Eleonora Pimentel, poetessa cara a Metastasio e famosa parlatrice
repubblicana.

Questi nomi immortalò il martirio con quello dell’inquisitore loro
Vincenzo Speciale, che insultava le vittime e i loro congiunti,
seduceva a confessare, alterava perfino i processi. Pasquale Baffa,
grand’erudito, ricusò dell’oppio, non credendo lecito il suicidio
neppure negli estremi: era già condannato, e Speciale assicurava
la moglie di lui non andrebbe che in esiglio. Invece Velasco,
all’intimazione dello Speciale che lo manderebbe a morte, — Non tu»
rispose, e precipitossi dal balcone. Cirillo interrogato da lui di
che professione fosse sotto il re, — Medico»; e nella repubblica, —
Rappresentante del popolo»; ed ora? — Ora in faccia a te sono un eroe»,
e ricusò chiedere grazia dal re e da Nelson che aveva curati. Vitaliani
continuò a sonare la ghitarra, e uscendo al patibolo diceva al
carceriere: — Ti sieno raccomandati i miei compagni, son uomini; e tu
pure, un giorno potresti essere infelice». Manthonè alle interrogazioni
non dava altra risposta se non: — Ho capitolato».

Furono da cento gli uccisi di nome, nobili, letterati, guerrieri,
due vescovi, giovinetti di venti e di sedici anni[49]; molti altri
andarono sepolti nella fossa della Favignana (_Ægusa_); infiniti a
minori pene. Si omisero come troppo frequenti i rintocchi dell’agonia
per giustiziati; visitatori scovavano per le provincie «i nemici
del trono e dell’altare», e due di quelli bastavano per togliere la
libertà e i beni. Se si consideri che fra quelle vittime era il fior
della nazione, non si troverà esagerato chi scrisse avere ella per
quel colpo retroceduto di due secoli. Domenico Cimarosa, cigno della
musica, per avere puntato un inno repubblicano ebbe la casa devastata,
prigionia qual soleasi allora, e per quattro mesi l’aspettazione della
morte, finchè i Russi essendo arrivati a Napoli, e chiestane invano la
liberazione, ruppero il carcere, e lasciarono andare a Venezia a morire
sbattuto e dimenticato.

Poi venivano le ricompense. Al cardinal Ruffo lautissime dal re, da
Paolo di Russia decorazioni; titoli e ricchezze agli altri, fossero
pure masnadieri e scampaforche; e più di tutti a Nelson e alla sua
bagascia, e il titolo di duca di Bronte infamò il vincitore d’Abukir.
A bastonate si svezzarono i lazzari dalla ruba e dal sangue; e il
Governo ripristinato, ravviando le consuetudini prische, avrebbe potuto
riuscire forte e farsi ancora benedire, se non fosse stato ossesso dal
demone della riazione. Il re, che mai non era sceso di nave, tornò a
Palermo festeggiato come trionfante di nemici; Canova ebbe incarico di
eternarlo in marmo sotto le sembianze di Minerva; e l’astronomo Piazzi
nominò da lui il pianeta Cerere, scoperto il primo di quell’anno.
Sol quando il risorgere della fortuna francese insinuava idee più
miti, e le favoriva il principe del Cassero vicerè, Ferdinando bandì
l’indulto (1800 30 maggio), pel quale settemila uscirono di prigione:
ma tante erano le riserve che ve ne restarono mille, tre migliaja erano
fuggiaschi, quattromila in esiglio[50].

L’esercito, rifatto coll’aggregarvi furfanti (1799), si era unito
colle bande di Rodío, di frà Diavolo e simili per avviarsi verso Roma
a ripristinare il papa. Garnier, che ne comandava lo scarso presidio,
li respinse: ma Tedeschi, Russi e Inglesi strinsero Roma così, che
i Francesi uscirono patteggiati e assicurando l’amnistia. Allora i
Napoletani entrati (30 7bre) strapazzano il busto di Bruto, svelgono
gli alberi della libertà, e ogni memoria e resto dell’esecrata
repubblica; espulsi, banditi, catturati i patrioti e tutti i
forestieri; posto un tribunale, che non mandò nessuno al supplizio,
molti nelle carceri, molti abbandonò agli insulti e all’assassinio.
Intanto si costituiva un Governo non papale ma napoletano, s’incamerano
i beni de’ fuggiaschi, si lanciano tasse fin sulle clericali immunità.
Altrettanto baldanzeggiava nelle Marche il generale Frölich, che le
teneva a nome dell’Austria.

Quattro mesi di dominazione francese aveano della Toscana scassinate
l’economia, la moralità, ogni subordinazione, e procacciatole
universale disamore. Perciò, appena si ode il prosperare de’
coalizzati, grandi dimostrazioni prorompono nel Lucchese; ma
l’intempestiva levata costa a molti la vita. Il Reinhard pubblicava: —
Gli abitanti della campagna traviati, con petulante insolenza provocano
i Francesi; con preti alla testa insultano i colori nazionali; vili
istigatori dal fondo de’ nascondigli incitano alla rivolta e appellano
i barbari del Nord... Voi che abbattete gli alberi della libertà,
dovevate nel giorno in cui furono piantati esclamare, _Vogliamo
rimanere schiavi; la ragione non è fatta per noi; ci dichiariamo
indegni d’esercitare i diritti dell’uomo_».

Il granduca Leopoldo bonificando val di Chiana, avea ridotto fertili
le circostanze d’Arezzo, e abolito le gravose eccezioni, onde quella
città gliene professava una riconoscenza, che aumentata col confronto,
indusse il maggio popolo a insorgere (maggio) gridando — Viva Maria,
viva l’imperatore, abbasso l’albero». Cacciata la debole guarnigione,
assaliti i patrioti, rialzati gli stemmi ducali, le donne incorano
alla sommossa; la campagna asseconda, Cortona vien dietro, invano le
autorità civili ed ecclesiastiche gettando parole di moderazione;
appajono un valore e un furore qual mai nessuno aspettava dai miti
Toscani, i quali si muniscono di tutte le arti della guerra paesana;
intanto accoltellano i sospetti d’avversa parzialità, o qualche
Francese che da solo si avventurasse.

In questo sopraggiungeva Macdonald da Napoli, come dicemmo, e
trovandosi chiuse in faccia le porte, e munite di risoluti le
ciclopiche mura, proclamò se tardavano ventiquattr’ore a sottomettersi,
avrebbe passato per le armi gli abitanti, rase le città ribelli. Alcuna
si sottomise, altre gli costarono sangue e, che più gl’importava,
tempo: poi appena egli sfilò verso la Trebbia, gli Aretini raddoppiano
di baldanza, e distendono la controrivoluzione, sorretta da un Windham,
già ministro di Inghilterra presso Ferdinando III, e da Alessandra
Mari sua ganza. A tutti i Toscani proclamavano essi: — Abbiamo scosso
il ferreo giogo della servitù, dispersa la straniera forza che ne
gravava il collo; nel nome del Dio delle vittorie veniamo a ridonarvi
la politica e civile libertà rapita. Coraggio, Toscani, all’armi...
L’angelo sterminatore che combatte per noi, perseguita i vostri
oppressori». La ciurma accorsa da ogni parte trasmoda; Siena è presa
dagl’insorgenti, bruciati tredici ebrei, altre persone trucidate; ai
perseguitati dai Francesi sostituivansi nelle carceri i perseguitati
dai riazionarj. Sorte gare di primazia fra le due città, Siena offre
alla Madonna del Conforto una pace d’oro, stupendo dono di Pio II, e
gli Aretini in ricambio ne riconoscono le prerogative.

Dopo la sconfitta della Trebbia, le truppe francesi sono costrette
ritirarsi da Firenze, dove non essendosi provveduto alla pubblica
sicurezza, la moltitudine alza il capo, a fatica dall’arcivescovo e
dai prudenti rattenuta da eccidj e saccheggi. Il senato fiorentino
ristabilito manda a sollecitare i Tedeschi; ma ecco gli Aretini
soprarrivano ne’ più bizzarri arredi, con coccarde d’ogni colore e
croci ed armi e cupe risoluzioni, e cominciano a violentare i patrioti.
La Mari trionfa fra il Windham e un frate; un consesso inquisitorio,
assistito dal celebre giurista Cremani, su trentaduemila processati,
ventiduemila condanna per reati politici: le fortezze di Portoferrajo,
Volterra, Livorno, Prato, Pistoja riboccano di carcerati; molti sono
esposti alla gogna, moltissimi profughi, sostenuti l’antico vescovo
Ricci, il vescovo di Massa, il preposto Fossi bibliotecario della
Magliabechiana, diciotto cavalieri di san Stefano, il cavaliere Fontana
ordinatore del museo di fisica: chiuse le Università, destituiti i
professori. È superfluo parlare dei disordini economici.

L’arrivo del tedesco D’Aspre sospende le persecuzioni; i comandanti
stranieri rimasti padroni, riescono a sottoporre al senato il Governo
provvisorio d’Arezzo; poi l’armata austro-russa-aretina s’accinge a
invadere la Romagna, e prende Perugia e le altre città fino a Roma.
Tutta Toscana allora acclama il granduca Ferdinando; ed egli, che,
al primo venire de’ Francesi, aveva imposto come segno di lealtà di
riceverli con benevolenza, istituì una giunta onde premiare quelli
che aveano dato «il grand’esempio» dell’insorgere contro di essi,
«e adoperato valore o prudenza a far nascere, fomentare o animare
la sollevazione contro i nemici»[51]. Vittorio Alfieri, che aveva
declamato tutta sua vita contro i re, poi bestemmiata la rivoluzione
francese, e fremuto a quest’alzarsi degli avvocati e dei villani
rifatti, fu visto fra la turba applaudire agli insorgenti, poi
scriveva: — Io ho passato i centodue giorni della tirannide francese di
Firenze sempremai in villa, e non ho mai messo i piedi una sola volta
nella città fin al dì 6 luglio, che fu il giorno della purificazione.
Adesso sono ancora in villa, ma vo qualche volta a Firenze, e massime
ogniqualvolta ci arriva dei soldati tedeschi, per vedere il trasporto,
il giubilo, l’espansione di cuore del pubblico intero per i suoi
liberatori, benchè gli Aretini han fatto essi il più. La Toscana è
presentemente tutta evacuata, e il sole vi ritorna a risplendere»[52].

Ai Repubblicani non restavano più che Genova ed Ancona. Questa
fu assalita dalla flotta turco-russa, e per terra da Austriaci e
Romagnoli, guidati da Lahoz, il quale dalla Cisalpina era passato agli
Austriaci, o com’egli diceva all’Italia, ingannato prima dal nome di
libertà, ora da quello d’indipendenza, ed ivi perì. Pino e Monnier
difesero quella fortezza, che poi capitolò onorevolmente (1799 6
luglio), ma fu saccheggiata da Turchi e Russi. Genova offriva l’unico
passo verso Francia; laonde i Francesi la occuparono a malgrado delle
autorità paesane, e la posero in istato di difesa.

Francia diè ricovero ai tanti profughi d’Italia, i quali alle
sventure patrie anche allora non trovavano che le vulgari cagioni. —
Il tradimento e la perfidia soli han dato la vittoria al Barbaro; e
chi più efficacemente il favoriva, reggeva allora la Francia»: così
cominciavano un indirizzo ai rappresentanti; e a grida di piazza
insistevasi perchè il Direttorio dichiarasse l’unità d’Italia,
altrimenti dall’Europa sarebbe creduto complice di quei suoi agenti
che aveano compressa la libertà, posto in impieghi gli aristocratici,
violentate le assemblee primarie, perseguitato i più fervorosi,
fomentato le sollevazioni plebee. Poi venivano le incriminazioni
fraterne, e quel che pare un bisogno degl’infelici, il volgere il dente
contro le proprie carni. Chi avea tratto la Cisalpina in postribolo,
godeva agi e onori; ad altri soccorreva la carità de’ ricchi lombardi;
il poeta e matematico Mascheroni morì di stento; di stento visse il
Monti, che metteva in versi quelle accuse e quelle ire; e trovandosi
negletti da un Governo che di loro non abbisognava, i profughi
ridestarono l’idea di rigenerare da soli la patria, e il sentimento
dell’unità italiana rinvalidarono nella mescolanza de’ patimenti.

La Francia era a tal punto, da tremare della propria, non che poter
assicurare l’altrui libertà; vinta sui campi e minacciata d’invasione,
club di fanatici, indirizzi di eserciti pretendeano dettare leggi;
baldanzosamente intaccavasi il Governo, e il Governo che non osava
difendersi col terrore, suppliva con intrighi e colla polizia. Luciano
Buonaparte, uno dei direttori, fomentava i mali umori, e diceva: — Non
più ciancie si vogliono, ma una testa ed una spada».

Per verità la rivoluzione non tolse il despotismo, ma tramutollo dal re
nel popolo, che si arrogò le attribuzioni de’ privati, della famiglia,
del Comune, assorbendo l’uomo nel cittadino, la famiglia nello Stato.
Ne seguì l’anarchia; e poichè gli uomini han più paura di questa
che desiderio della libertà, credettero primo bisogno il reprimerla,
ed unico mezzo il despotismo. Ma chi potrebbe esercitarlo se non un
soldato? E tutti gli sguardi si dirigevano all’Egitto e al Buonaparte,
di cui la gloria traeva spicco dalle presenti sconfitte e dalla
lontananza; le scarse notizie, le accorte insinuazioni facevano credere
a grandi vittorie, magnificare i divisamenti del giovane generale, e
guardarlo come l’unico capace di opporsi all’Europa congiurata e al
disordine irruente.

Ma egli non avanzava fra i trionfi; e i quaranta secoli dall’alto
delle piramidi videro alcune vittorie, ma poi una serie di disastri
e di difficoltà, davanti alle quali fiaccavasi l’animo di lui, fatto
pei colpi subitanei più che per le lente combinazioni. Trovavasi
dunque disgustato della sua impresa, quando attraverso alle navi
inglesi gli trapelarono le notizie di Francia, e i voti e le orditure
de’ suoi amici: onde risolve tornarvi a tutto rischio; e disertando
dall’esercito per correre dietro alla fortuna (29 agosto), passa non
visto di mezzo agli esploranti inglesi, approda improvvisissimo a
Frejus, e fra l’entusiasmo e la curiosità vola a Parigi, salutato da
tutti come salvatore (9 8bre).

Fin là ben poco s’era sperimentata l’attitudine di Buonaparte al
governare; sapeasi però ch’egli era fortunato, e basta: faceva mestieri
d’un uomo, che desse unità a tanti impulsi, ed egli pareva il caso; e
tutto da lui aspettavano tutti, su tutto si cercava il suo avviso. Egli
sentendosi necessario, aveva l’arte di non spingersi che a sentita:
poi tutto concertato nel secreto, volge le armi contro le toghe, e
con un colpo ardito (9 9bre) disperde il corpo legislativo, abbatte
il Direttorio, e fa eleggere un Consolato che deve assettare una nuova
costituzione, capace di difendere la libertà dentro e propagarla fuori.
O stanchi o speranti, nessuno si oppose; il popolo coprì d’applausi
l’illegalità; le deportazioni suggellarono le bocche. — Non più
Giacobini, non Terroristi o Moderati, ma soli Francesi», diceva egli;
e per verità quando il Governo non fu più arietato da fazioni, non più
fluttuò tra volontà irresolute, cessò il bisogno della violenza perchè
un solo robusto lo guidava, non a caso e passione, ma per sistema.

La costituzione allora combinata (13 xbre) riduceva a mera ombra
il diritto elettorale e la rappresentanza; cento tribuni discuteano
le leggi, proposte dal consiglio di Stato; trecento legislatori le
votavano senza discussioni; ottanta senatori vegliavano all’integrità
della costituzione; tre consoli eseguivano. Buonaparte fu il primo
di questi, anzi restava il vero padrone, e secondava l’universale
inclinazione a restaurare il passato nel governo, ne’ costumi, nella
religione. La gente di veduta corta pensava ch’e’ volesse rimettere
in trono i Borboni: ma egli lavorava per sè, e si era accorto che
al dominio non poteano portarlo se non le bajonette. Occorrevagli
dunque di compire qualche splendida impresa: e qual campo migliore
dell’Italia, dove avea colto i primi allori? A questa pertanto volse la
mira, rialzando le speranze di quei tanti Italiani che dalla Francia
rimpiangeano la patria o in patria la libertà, e che soffrivano dalle
riazioni.

Le coalizioni, se pur durano fin a conseguire l’intento, poco tardano
a scomporsi. All’Inghilterra dava ombra lo stare Russi in Italia,
i quali poteano fissare un piede sul Mediterraneo, dov’essa aspira
a predominare. Più ne ingelosiva l’Austria, ed appena le ebbero
ricuperata la Lombardia, cercò rinviarli, e col pretesto d’una
spedizione in Olanda li trasferì in Isvizzera, benchè non pratici del
terreno, e nuovi alla guerra di montagna. Pel difficile Sangotardo,
ove si scolpì un masso _Suwaroff Victori_, costui cerca la valle del
Reuss (1799 25 7bre); da Lecourbe molestato al ponte del Diavolo,
sfila con gravi perdite per una gola angustissima; e subito svallato,
trovasi Massena alle spalle. Le balze tranquille risuonano di armi
omicide, dopo una battaglia di quindici giorni, dove ventimila Russi
e cinquemila Austriaci periscono, dell’esercito conquistatore non
rimangono che poche reliquie per giungere compassionevoli al Reno; e
Suwaroff ricusando di più combattere, torna a Pietroburgo a lamentarsi
dell’Austria come traditrice, nè altro che ingorda di conquistare
l’Italia e tenerla per sè.

Davvero essa parea raccogliere tutti i frutti degli altri disastri;
considerando scaduti il papa e il re di Sardegna, bramava serbarsi
i loro dominj come conquista sopra la repubblica francese[53]; e
inorgoglita, rifiutò la pace che le offerse il primo console (1800),
e ridomandava il Belgio. Anche l’Inghilterra ricusa patteggiare con
Francia; il ministro Pitt ottiene da quel Parlamento un credito di
mille milioni per guerreggiare un consolato, che nelle casse trovò
appena censessantamila franchi[54]; e la guerra del mondo è dichiarata.

Vasto era il sistema di campagna della seconda coalizione. In Italia
Austriaci e Inglesi doveano prendere Genova, marciare sopra Nizza e di
là nella Provenza, ove li seconderebbe l’insurrezione dei Realisti;
un secondo corpo solleverebbe il Piemonte; Melas si spingerebbe nel
Delfinato, e a rattizzare la guerra in Vandea, nella Bretagna, nella
Normandia; l’imperatore stesso e gli arciduchi si metteano in campo;
centrentamila uomini guidava Ferdinando, ottantamila Bellegarde in
Italia, l’arciduca Giovanni cenventimila; mentre Carolina di Napoli
andava a sollecitare il czar di Russia.

Di mezzo a tanto fracasso d’armi, Buonaparte davasi l’aria di volere
la pace, e gemea del vedersela negata; ma intanto s’accingeva a nuovi
trionfi. Comprendendo che il caso non richiedeva piccole e solite
manovre, raccolta a Digione una riserva di sessantamila reclute,
medita sbucare tutt’insieme per le valli del Sangotardo, del grande
e piccolo Sanbernardo e del Cenisio, e intercidere così la linea del
nemico, estesa dalla Lombardia sin lungo il Varo. Moncey, staccato
dall’esercito del Reno, per la prima via comincia le operazioni;
Thureau per l’ultima; pel piccolo Sanbernardo Chabran. Secondo la
Costituzione, il primo console non poteva avere il comando delle armi;
ma egli vi sorpassa, e solo per la forma fatto nominare generale
in capo Berthier (maggio), mena trentacinquemila uomini pel gran
Sanbernardo.

Generali abili nell’esecuzione, attenti ad ogni particolarità,
solleciti della disciplina e dell’esercizio, maestri ne’ metodi e nel
meccanismo della tattica, valentissimi in tutto ciò ch’è ordinario,
mancano poi di quell’inventiva che sa rompere il circolo delle idee,
delle abitudini, de’ precetti, per ispegnersi là dove si trovano
combinazioni nuove, molteplici mezzi, insperati espedienti. Qui
sta la differenza fra il talento e il genio; indizio del quale è il
persuadersi che si possa fare cosa nuova. Delle Alpi in inverno sempre
aveasi avuto spavento; Buonaparte non vi credette, e trovò soda la
neve, belle le giornate. Avventurose quanto le sabbie d’Egitto erano le
ghiacciaje dell’Alpi, ed esalterebbero le giovani fantasie: e di fatto
restò dalla poesia e dalla pittura abbellito quel passaggio che sarebbe
terribile sol quando un pugno d’italiani vi difendesse l’indipendenza
della patria. Ma il nemico, ingannato dalla pubblicità che Buonaparte
dava al suo disegno e dall’enfasi con cui l’annunziava, lo credette
un artifizio, e non si argomentò a por riparo ad un’impresa, che
altrimenti sarebbesi condannata per temeraria[55].

In Italia i Francesi, ridotti a quarantamila uomini e penuriosi,
erano rincalzati verso le Alpi: e Massena nella Riviera di ponente
senza denaro nè munizioni, con pochi soldati, compiva atti eroici,
finchè entrò in Genova, riordinò l’esercito scompigliato per la
morte di Championnet, e vi si trovò ben presto assediato da Inglesi
ed Austriaci. Genova non era di veruna importanza all’Austria, la
quale non potea sperare di tenersela, e avrebbe dovuto comprendere
che le grandi battaglie si agiterebbero sul Po e in Lombardia; pure
ella ostinossi in un’impresa, che estendendo di troppo la fronte
dell’esercito comandato da Melas, lo indeboliva. Intanto essa lasciò
sguernita la Svizzera, e il francese esercito senza pur uno scontro
passò la montagna. Lannes, che comandava l’antiguardo, giunse a
Etroubles, il 19 maggio, il 21 Buonaparte, e per Aosta e Ivrea scesero
ne’ piani italici, tenendo la pendice meridionale dell’Alpi da Susa
fino a Bellinzona.

Melas aspettava ancora Buonaparte a Ventimiglia, quand’egli già,
preceduto dal cognato Murat, entrava in Milano (1800 2 giugno).
Senza persecuzioni la rimette in istato di popolo, nulla badando
al Direttorio Cisalpino che nei tredici mesi erasi sostenuto a
Chambéry, istituisce un comitato provvisorio di governo; ripristina
l’Università di Pavia con valentuomini; si rifocilla coi magazzini e
colle artiglierie abbandonate dal sorpreso Austriaco, che sarà battuto
dall’armi sue stesse. Murat correva a prendere Piacenza; e tagliato
così in due l’esercito nemico, i Francesi non esitano a lasciare
sguarnita la Lombardia per affrontarlo nelle pianure del Piemonte e
costringerlo ad allargare Genova.

L’esercito chiuso in questa città era destinato vittima a quella
grande spedizione, e vi sofferse martirj che onorerebbero una causa
santa[56]. Mancate le carni e i grani, mancata la cipria, s’incettò
l’orzo, il linseme, la veccia, il cacao e che che altro si potè, e
formavasene un tristissimo pane da munizione, mescolato con zuccaro
e miele; una fava fu pagata due soldi, un panetto diciotto franchi; e
dopo disputato le erbe e le radici ai ruminanti, frugavasi nelle fogne
se qualche resto di cibo si fosse sottratto all’avidità; rodeansi le
scarpe e i cuoj delle sacche; e soldati e popolo diventano eroi nel
cercar di che vivere con modi che a pena si crederebbero fra popoli
civili. Molti ogni giorno morivano di fame, o da sè aprivansi le vuote
viscere; l’abitudine toglieva il compassionarli, e l’impossibilità il
soccorrerli; e i gemiti di giorno e di notte, e i miserabili aspetti, e
le sorgiunte febbri pestilenziali facevano orribile la misera Genova.
Massena stette a parte di quei patimenti, i quali davano tempo alle
operazioni di Buonaparte, nè volea sentire di arresa, finchè il popolo
tumultuante, i soldati ridotti a ottomila ed estenuati, lo indussero
non ad una capitolazione, ma ad una convenzione, per cui tutto
l’esercito usciva colle armi, i rifuggiti restavano salvi, gli abitanti
sarebbero immediatamente provvisti di viveri.

Libero appena da quest’impaccio, Melas accorre per riaprirsi la
comunicazione con Vienna; e nella pianura di Marengo (1800 4 giugno),
fra la Scrivia e la Bormida, affronta il nemico. L’esercito di
Buonaparte, che, non aspettandosi l’attacco, si trovava disseminato,
soccombeva un corpo dopo l’altro dinanzi ai veterani austriaci e alla
cavalleria ben atteggiantesi in quei piani; allorchè sopraggiunse
Dessaix con una colonna, reduce allor allora d’Egitto, e che
improvvidamente era stata mandata altrove: con quella che pare
ispirazione e non è che un calcolo fatto rapidamente, egli si dispone
in quadrato, come aveva appreso nel combattere i Mamelucchi, compie una
felice riscossa, pagandola colla propria vita, e Buonaparte ne profitta
per riportare compiuta vittoria[57].

La battaglia di Marengo costò quattromila vite ai Francesi, novemila
agli Austriaci. Questi dunque non erano annichilati: eppure li
colse tale costernazione, che quell’esercito di cenventimila uomini,
che, dopo rimesso il giogo all’Italia, doveva invadere la Francia
meridionale, levossi in totale sconfitta. Così ancora all’esperienza
prevale l’audacia, alla guerra metodica la spicciativa, alla dottrina
l’invenzione e il concentrar le forze e accelerar le marce. Melas,
irresoluto per natura e per gli ordini viennesi, cercò un armistizio,
e in cumulo cedette le fortezze, purchè le truppe avessero licenza
di ritirarsi a Mantova; fatto che eccitò l’indignazione, e crebbe il
prestigio napoleonico. Alessandria patteggia, i Francesi tornano in
Genova, l’Italia rientra sotto la devozione di Buonaparte, il quale
non inebriato dal trionfo, all’imperatore offre pace ai patti di
Campoformio, cioè che gli Austriaci sgombrino la penisola sino al
Mincio.

Ma Francesco II, nel tempo che negoziava di pace, accettò sessantadue
milioni di sussidj e l’alleanza dell’Inghilterra, e disdicendo i
preliminari, arrestò l’ambasciadore francese. Buonaparte denunziandolo
sleale, ripiglia le mosse e comincia la _campagna d’inverno_ (9bre).
Augereau è sul Meno; Moreau sull’Inn; sul Mincio Brune, generale
mediocre, succeduto al prode ma diffamato Massena nell’esercito
italico; Murat guida verso l’Italia diecimila granatieri; Macdonald
staccatine quindicimila dall’esercito vincitore di Moreau, traversa
faticosamente la nevata Spluga, per emulare il vantato passo del
Sanbernardo, e sceso in Valtellina, risale i Zapelli d’Aprica per
calarsi nella val dell’Oglio, indi al Trentino pel Tonale, per via
inaspettatissima giungendo a formare l’ala sinistra dell’esercito
d’Italia; Moreau, vinto a Hohenlinden l’arciduca Giovanni, avanzasi
fino a Lintz sulla strada di Vienna, e agli sgomentati arciduchi
concede l’armistizio che dianzi avevano ricusato (3 xbre), patto che a
Luneville si tratti della pace senza l’Inghilterra.

Anche in Italia Brune e Macdonald, vincitori a Mozambano, nè lasciando
all’Austria che Mantova, moveansi per isboccare dall’alpi Noriche
sopra Vienna (25-30 xbre), quando il maresciallo Bellegarde che
comandava gli Austriaci, udito l’armistizio di Germania, lo patteggia
anch’esso. Alessandro di Russia erasi già staccato dalla coalizione;
tutta Germania esclama (1801 gennajo) contro la improvvida politica
dell’imperatore, che è costretto sagrificare il ministro Thugut e
surrogare Cobentzel; il quale dopo lunghe discussioni a Luneville con
Giuseppe Buonaparte, conchiude la pace (9 febbr.), dove, appellando
al trattato di Campoformio, si confermavano alla Francia il Belgio,
all’Austria gli Stati veneziani.

Buonaparte, volendo ricuperare in America l’insorta isola di San
Domingo, erasi fatto cedere dalla Spagna la Luigiana, antico possesso
della Francia, in compenso promettendo crescere all’infante di Parma
gli Stati fino a un milione e ducentomila abitanti, col titolo di
re. A tale aumento fu destinata la Toscana, che verrebbe custodita
contro gl’Inglesi dalla flotta spagnuola, al granduca assegnandosi
un’indennità in Germania.

Così Austriaci più non rimaneano di qua dall’Adige. L’imperatore,
senz’autorità della dieta germanica, riconosceva le repubbliche
Batava, Elvetica, Cisalpina, Ligure; rilasciava i prigionieri di Stato
italiani, facea nuovamente cessione alla Cisalpina di tutti i diritti e
titoli che vi avesse, e alla Ligure de’ feudi imperiali. Non parola del
papa, di cui ambiva le Legazioni; non di Napoli, non del Piemonte.

La più generale conseguenza politica della rivoluzione francese,
cioè l’ingrandimento delle grosse potenze e la ruina delle piccole,
diveniva più sempre apparente; e per indennità ai grossi Stati
spartivansi i piccoli principati tedeschi e specialmente gli
ecclesiastici. L’Austria, patteggiando di contrade e sovranità non
sue, e all’interesse della Casa sagrificando quel del corpo germanico,
si pigliò i vescovadi di Bressanone e Trento; al granduca di Toscana
diede l’arcivescovado di Salisburgo, gran parte di quelli di Cassow
ed Eichstädt, e il prevostato di Bestholdsgaden; al duca di Modena la
Brisgovia e l’Artenau[58]: compensi inadequati alle perdite in Italia,
e per soprapiù iniqui.

In Toscana, quando si udì il ritorno de’ Francesi, il senato ordinò la
leva a stormo: ma i Francesi non tardarono a entrarvi (1800 dicembre).
Sola Arezzo resistette e si fortifica, e il generale Monnier la
bombarda, e penetratovi a forza, fucila chiunque coglie colle armi,
lascia esercitar il saccheggio fin ne’ monasteri e spedali per sette
ore, poi smantellata la fortezza, mette contribuzioni, ammutite le
campane che aveano sonato incessantemente a martello. Il generale
Miollis proclamava poi il perdono, sperando «che la patria del Petrarca
non saprebbe essere insensibile alla generosità, colla quale tutto
è obliato»[59]; e poichè pizzicava di letterato, fece ristabilire
l’Accademia del Cimento, rendere onori funebri alla Corilla poetessa
e porre una lapide alla casa di lei; dagli Israeliti fece erigere una
cattedra di letteratura; protesse a Padova il Cesarotti, come a Parma
avea visitato il Mazza che ripagollo con una lettera e un sonetto: ma
quando a Firenze volle visitare l’Alfieri questo non lo accolse.

Sull’Appennino duravano molti rivoltosi, contro cui si spinsero le
colonne francesi; per tutta la campagna si assassinava; nelle città
intrigavasi e disputava. Al crescere delle vittorie francesi, il re
di Napoli, stimolato dall’instancabile moglie, propone di marciare a
difendere la Romagna e ricuperare la Toscana, e avvia truppe sopra
Siena, guidate dal francese fuoruscito Dumas: ma Miollis con Pino
affrontatolo (1801 22 gen.), il ricacciano a forza, mentre Murat,
sceso dalle Cozie con diecimila uomini, si difila su Napoli. Questa non
poteva opporre che poche truppe scoraggite ai vincitori dell’Austria;
ma Carolina corre all’imperatore di Russia, ne adula l’onnipotenza, non
volesse negar la mano a una famiglia, rea soltanto del nome borbonico e
d’essersi esposta per la sacra causa de’ troni.

Il czar le promise appoggio, e spedì il gran scudiere Levaschef
a dire al primo console come desiderasse l’integrità del regno di
Napoli. Buonaparte, vogliosissimo di tenersi amico il czar qual unico
contrappeso all’Inghilterra, si proferì disposto a sagrificare anche
i giusti suoi risentimenti al piacere di fargli piacere. Levaschef
proseguì verso Napoli, ricevuto fin con archi trionfali dall’esercito
di Murat (18 febb.); il quale arrestando l’irrefrenabile suo corso
alla parola del Russo, fece l’armistizio di Foligno (29 marzo), poi la
pace di Firenze, salvando quel regno a patto che i porti ne restassero
chiusi alla bandiera britannica e alla turca, e aperti alla francese
e alla russa; rinunziasse a qualunque ragione sull’isola d’Elba e
sullo Stato di Piombino e de’ Presidj; piena amnistia per colpe di
Stato; pagherebbe mezzo milione di franchi per restauro dei cittadini
francesi danneggiati. In segreto vi s’aggiunse, finchè durasse guerra
colla Turchia e la Gran Bretagna, guarnigioni francesi starebbero negli
Abruzzi e in terra d’Otranto, mantenute dal re.

Allora si riapersero le carceri, i proscritti uscirono dai nascondigli
e tornarono al possesso dei beni, si vietò ai repubblicani di turbare
gli ordini regj; e Buonaparte scriveva a Soult, comandante de’ presidj
francesi, che desiderava andasse alla messa coll’uffizialità a suon di
musica, e conversasse coi preti e cogli uffiziali regj. Tale spirito
nuovo e conciliativo Buonaparte voleva insinuare.



CAPITOLO CLXXIX.

Buonaparte ordinatore. Rimpasto di paesi. Concordato. Pace di
Presburgo. Regno d’Italia.


Le paci di Campoformio e di Lunéville ripristinavano dunque il
diritto pubblico, dalla rivoluzione abbattuto; e dopo le radicali
dottrine e le pompose promesse, la Francia stessa immolava popoli e
nazionalità al vecchio sistema dell’equilibrio. Buonaparte, benedetto
dall’Europa come il genio dell’ordine, del buon senso, della pace, ai
migrati restituì la patria e i beni non ancora venduti, schiudeva una
società nuova al calore della sua gloria, e avviavasi alla dittatura:
ma non che ripudiasse i costosi frutti della rivoluzione, li fece
ordinare e sanzionare nel Codice, costruito sull’individuale libertà
e sull’eguaglianza di tutte le persone e tutte le cose sotto leggi e
tribunali identici, pareggiando i cittadini nella società, i figliuoli
nella famiglia; svincolando la proprietà, sicchè ognuno potesse
disporne co’ soli limiti imposti dall’utilità pubblica; secolarizzando
l’ordine politico e il civile.

Alle idee riordinatrici di Buonaparte confacevasi il ripristino della
religione, sentimento che tocca più degli interessi. Il culto era
stato abolito, abolito Dio sotto il Terrore, quasi a dimostrare che
una società non poteva imbrutire a quel segno se non rinnegando Iddio.
Sentì quel vuoto il Direttorio, e mediocre come era, credè surrogarvi
l’assurdo culto teofilantropico, i cui sacerdoti, alla ricorrenza
di certe feste della Virtù, venivano a deporre fiori su quegli
altari, donde erasi eliminato il sacrosanto rito dell’espiazione.
Pio VI, cacciato da Roma poi anche da Firenze, fuggì a Parma e di
là a Valenza di Francia, meglio accompagnato nella nobile miseria
da dimostrazioni popolari, che dalle cortigianesche nel fastoso e
umiliante pellegrinaggio a Vienna. Quando colà morì di ottantun anno
(1799 29 agosto), i filosofi dissero, — Ecco sepolto l’ultimo papa»,
e Revellière-Lépaux, inventore del culto teofilantropico, scriveva a
Buonaparte impedisse di eleggere un successore, e profittasse della
circostanza per istabilire a Roma un Governo rappresentativo, e
sottrarre l’Europa dalla supremazia papale.

Ma Buonaparte avea trattato il papa da vincitore bensì, pur con
riguardi, e «come avesse centomila soldati». Rientrato in Milano,
assistette ai Tedeum che qui celebravano le sue vittorie, e potè
chiarirsi che il popolo nostro era e voleva essere cristiano. Onde
raccolti i parroci di Milano disse loro: — Persuaso che la religione
cattolica è la sola che possa procurare felicità vera ad una società
ben ordinata, e assodar le basi di un Governo, volli accertarvi che
metterò ogni cura a proteggerla: avrò come perturbatori del pubblico
riposo e nemici del ben comune, e punirò rigorosamente e fin colla
morte chiunque le farà il minimo insulto: voglio sia conservata nella
sua interezza, pubblicamente esercitata e libera come la prima volta
ch’io entrai in questo felice paese. I cambiamenti posteriori avvennero
contro l’inclinazione e il veder mio, nè potevo oppormi ai disordini,
ad arte eccitati da un Governo, sprezzatore della religione cattolica.
I filosofi vollero dipingerla nemica d’ogni sentimento democratico e
del Governo repubblicano. L’esperienza disingannò i Francesi; ed io,
che pur sono filosofo, so che nessuno potrebbe passare per virtuoso se
non sa donde viene e dove va; nè saperlo si può che dalla religione,
senza di cui la società è vascello privo di bussola. Dei trattamenti
usati al papa defunto, han colpa gl’intrighi di quelli in cui avea
posto confidenza, e la crudele politica del Direttorio. Col nuovo papa
spero tôrre gli ostacoli all’intera riconciliazione della Francia. Voi
so quanto soffriste nella persona e nei beni, e vi provvederò; e quel
che vi dico, desidero sia noto non solo all’Italia e alla Francia, ma a
tutta Europa»[60].

Anche in Francia, se per moda, per idolatria a Voltaire, per rispetto
umano, durava ancora fra la gente colta l’empietà, il popolo tornava a
sentir bisogno del Redentore, che riabbellisse la natura, benedicesse
le cune e i feretri, giudicasse le iniquità de’ forti: i pensatori
disingannati vedeano dover rintracciare un’eguaglianza più vera, una
libertà più salda e meno fallibile, meditavano melanconicamente sulle
ruine che da tre secoli le sêtte religiose e filosofiche facevano
nel cristianesimo senza sostituirvi una legge generale dell’uomo e
del mondo, senza trovare un essere intermedio fra il gran tutto che
rapivano all’umanità, e il nulla in cui la sobbissavano.

Sarebbesi detto che le vittorie de’ Nordici in Italia s’effettuassero
al solo fine, che all’ombra loro fosse in Venezia (1800 14 marzo)
adunato il conclave[61], dove avendo l’Austria dato l’esclusione al
famoso Gerdil, uscì papa Barnaba Chiaramonti. Stando vescovo d’Imola,
aveva questi pubblicato in una pastorale che «la libertà cara a Dio
ed agli uomini, è la facoltà di poter fare e non fare, ma sempre sotto
la legge divina ed umana; la forma democratica non repugna al vangelo,
anzi esige quelle sublimi virtù che s’imparano soltanto nella scuola di
Cristo; esse faranno buoni democratici, d’una democrazia retta, forbita
da infedeltà e da ambizioni, e intesa alla felicità comune; esse
conserveranno la vera eguaglianza, la quale, mostrando che la legge
si estende su tutti, mostra insieme qual proporzione deva tenere ogni
individuo rispetto a Dio, a sè, agli altri. Ben più che le filosofie,
il vangelo e le tradizioni apostoliche e i dottori santi creeranno la
grandezza repubblicana, gli uomini rendendo eroi di umiltà e prudenza
nel governare, di carità nel fraternizzare con sè e con Dio. Seguite
il vangelo, e sarete la gioja della repubblica: siate buoni cristiani e
sarete ottimi democratici».

Questa moderazione parve attagliata ai tempi; ed egli, assunto il
nome di Pio VII (1800 3 luglio), comparve a Roma, dove la noja della
dominazione forestiera il faceva invocato: scelse a segretario di
Stato il cardinale Consalvi, destro quanto moderato; ricostituì il
governo all’antica, proclamando il perdono, e invitando i sudditi
a imitarlo col sopire gli odj e le querele reciproche. Toltigli
settecentomila sudditi delle Legazioni, gliene aveano lasciato un
milione e settecentomila, ma intero il debito di settantaquattro
milioni di scudi, di cui da tre anni non si pagava l’interesse. Si
cercò sistemare l’imposta in modo d’ottenere una rendita di quattro
milioni di scudi; fu proclamata la libertà di commercio, riconoscendo
«che tutte le leggi proibitive o vincolanti l’industria e il commercio
erano perniciose quanto vane[62]»; il papa diminuì le spese di corte;
condiscese ai teatri; impose una tassa speciale sui terreni incolti,
sciolse i vincoli di fedecommesso, di manomorta, di pascolo; dava premj
a chi piantasse, prometteva edificare casali, via via che la cultura
si estendesse. Secondando le istanze di Paolo I e di Ferdinando IV,
ristabilì i Gesuiti in Russia e nel Napoletano.

Con un papa sì conciliativo e pien d’amore per la Francia,
d’ammirazione per l’eroe che la dirigeva, non sarebbe possibile
ravvicinarla alla Chiesa? Tre giorni dopo la vittoria di Marengo,
Buonaparte ne gittò parola al cardinale Martiniana; poi Consalvi e
Giuseppe Buonaparte ne trattarono a Parigi (1801): ma ricuperare questo
regno primogenito del cristianesimo non poteasi senza grandi sagrifizj.
Voleasi il matrimonio de’ preti: e Pio rispose, potersi assolvere gli
ammogliati, ma autorizzarlo per massima no. Sui possessi tolti alle
manimorte non si fe malagevole, le ricchezze non essendo essenziali al
clero. E così tra cedere e negare si conchiuse il famoso concordato.
La Francia ebbe un ministro pel culto (Portalis); la pasqua del 1802 i
cannoni salutarono di nuovo una festa cristiana; il Caprara legato a
latere cantò messa in Nostra-donna, mentre l’aerea armonia de’ sacri
bronzi richiamava il popolo ai riti solenni e all’ineffabile gusto
della parola divina.

Tutto ciò dava lusinghe di ordine all’Europa: la coalizione regia s’era
sconnessa: anche l’Inghilterra ascoltò proposte di pace, la quale fu
conchiusa ad Amiens (1802 27 marzo). L’Inghilterra si era avventata
alle armi per difendere la minacciata libertà europea, ed ecco neppur
motto ne fa nelle stipulazioni: avea posto come preliminare lo sgombro
di tutt’Italia, poi lasciava al nemico il Piemonte e gl’emporj di
Genova e Livorno; Francia sgombrerebbe il Napoletano e il Romano, e
gl’Inglesi ogni posto nel Mediterraneo e nell’Adriatico, e Malta che si
restituirebbe all’Ordine.

A Buonaparte, volontà ineluttabile, sistematore risoluto, bastava
un atto per riunire un paese che la natura fece uno e le convenzioni
sbranarono: ma già il Piemonte consideravasi fuso colla Francia, come
Venezia coll’Austria; Buonaparte volle fossero distrutte le fortezze
che davano soggezione alla Francia, quali Arona, Bard, Ceva, Cuneo,
Tortona, Serravalle; smurata Torino, come il castello di Milano,
e Forte Urbano sul Bolognese. La Toscana era stata eretta in regno
d’Etruria per un infante di Spagna; al papa riconciliato bisognava
confermare il patrimonio; al regno di Napoli serviva di scudo la
protezione della Russia: e i fantastici Italiani piansero svanita
ancora la speranza che la vittrice spada e la ferrea volontà d’un loro
paesano ricostruisse la patria una e libera.

Ne’ varj Stati furono poste una commissione esecutrice e una consulta
legislativa, ma tutto pendea dai ministri di Francia[63]. Del bello
e forte paese cisalpino, con cinque milioni d’abitanti, settanta in
ottanta milioni d’entrata, e quarantamila uomini in arme, Talleyrand
avrebbe voluto si formasse un regno, da dare a qualche principe
austriaco siccome compenso e pegno di pace: ma Buonaparte stabilì
conservarlo repubblica, estesone il limite fin alla Sesia col
recuperare gli sbrani dell’antico Milanese, cioè Novara, Vigevano,
la Lomellina; buone fortificazioni la difenderebbero dagli Austriaci
assisi di là dall’Adige, e la terrebbero sempre aperta alla Francia,
che ne conservava il protettorato, e ne ricevea venticinque milioni
all’anno di tributo, e di qua manderebbe i suoi ordini al paese
meridionale, aspettando che i casi la elevassero a capo d’una
federazione italica.

Per togliere la Cisalpina ai disordini della prima sua età, e
concentrarla sotto una mano vigorosa che la proteggesse di fuori
mentre la reggeva dentro, Buonaparte convocò a Lione una consulta.
Quattrocencinquantadue rappresentanti, scelti fra il clero, i
tribunali, le accademie, le amministrazioni dipartimentali, le quaranta
primarie città, la guardia nazionale e l’esercito, e in essi il
cardinale Bellisomi e nove vescovi, nel cuor del dicembre passarono
i monti, e nella seconda città di Francia ebbero suntuosa ospitalità,
adunanze splendide quanto le antiche sessioni reali, lauto trattamento,
e fra altri spettacoli, quel dell’esercito che tornava d’Egitto, misto
di veterani francesi con arabi e mori e mamelucchi.

Divisi in cinque classi (1802) secondo gli antichi dominj, presedevano
ai Lombardi già austriaci il Melzi, ai Veneti il Bargnani, ai
Pontifizj l’Aldini, ai Modenesi il Paradisi, ai Novaresi e Valtellini
il De Bernardi, a tutti in apparenza il Maniscalchi ambasciadore
della Cisalpina, in fatto Talleyrand, il quale senza quasi lasciarli
discutere, fece che accettassero per acclamazione lo statuto da lui
modellato sul francese dell’anno VIII. Portava esso tre _collegi
elettorali_ permanenti e a vita, completatisi da se medesimi: uno di
trecento grossi possessori risedeva a Milano; uno di ducento negozianti
a Brescia; uno di altrettanti dotti ed ecclesiastici a Bologna. Essi
sceglierebbero dal proprio grembo una _commissione di censura_ di
ventun membro, che eleggesse tutte le magistrature dello Stato; otto
_consultori_, che vegliassero sulla costituzione, deliberassero sui
trattati, e nominassero un presidente della repubblica, decennale
e rieleggibile, con cinquecentomila lire, incaricato del potere
esecutivo, e che eleggerebbe un vicepresidente con centomila lire e
ministri[64]. Il ministro del tesoro presenterebbe ogni anno il conto,
e non consentirebbe verun pagamento se non per legge o decreto del
Governo. Un _consiglio legislativo_ di dieci membri compilerebbe le
leggi e i regolamenti, e li sosterrebbe davanti al corpo legislativo.
Questo ha settantacinque membri, quindici de’ quali sono nominati
oratori per discutere le leggi prima di votarle.

La giustizia era resa con sapiente progressione, da arbitri, giudici di
prima istanza, tribunali d’appello e revisione, ed uno di cassazione;
oltre le camere di commercio per le cause mercantili: inamovibili i
giudici e il grangiudice. Eguaglianza fra i cittadini; nessun vincolo
all’industria e al commercio se non quelli dalla legge stabiliti;
uniformità di pesi, misure, catasto, istruzione; dichiarati nazionali
i debiti e crediti delle provincie; lo Stato assegna la congrua a
vescovi, capitoli, seminarj, parroci e alle fabbriche delle cattedrali.

Fatti intesi della volontà del primo console, i nostri, dilungandosi
dai sistemi particolari per osservare l’intera popolazione senza
preoccupazione d’abitudini, lasciaronsi bassamente porre in bocca
la confessione della propria inettitudine, dichiarando non conoscere
alcun italiano valevole ad essere presidente della repubblica (1802
26 gennajo), gli uomini che presero parte ne’ cambiamenti o non aveano
sostenuto funzioni pubbliche, sì da poter reggere lo Stato, o le aveano
sostenute fra l’agitazione delle opinioni e sotto estranee influenze,
in modo da non meritarsi la pubblica fiducia: d’altra parte la recente
repubblica non avere truppe sufficienti ad assicurarsi, nè poter
sperare dagli altri Stati la considerazione necessaria per consolidarsi
dentro e fuori: trovare insomma necessario di essere retta da Napoleone
Buonaparte, due nomi che allora per la prima volta trovansi uniti.
E Buonaparte degnava aggradire, e diceva: — La repubblica Cisalpina,
invasa e omai perduta, fu una seconda volta dal popolo francese resa
all’indipendenza. D’allora che non si tentò per ismembrarvi? ma la
Francia vi protesse, e foste novamente riconosciuti. A Lunéville
cresciuto il territorio d’un quinto, esistete con maggiore forza e
maggiore speranza. Dandovi magistrati, non badai a terre o a fazioni,
ma solo ai vostri interessi. Per le eminenti funzioni di presidente,
non trovando persona fra voi abbastanza reputata, benemerita e
spregiudicata, aderisco al voto espressomi, e conserverò, quanto fia
necessario, il gran pensiero de’ vostri affari».

La repubblica, composta, com’egli diceva, di dieci popoli, cioè
Milanesi, Mantovani, Bolognesi, Novaresi, Valtellini, Romagnuoli,
Veneti, divisi in Bergamaschi, Cremaschi, Bresciani, s’intitolò
italiana (1 febb.), e pensò ad organarsi in modo d’essere, com’egli
voleva, «la prima potenza d’Italia». Restavano sue le artiglierie
esistenti nelle piazze fin al valore di quattro milioni; si doveano
preparare armi e ponti; trentaduemila soldati in tempo di pace, con
una riserva che si porterebbe a sessantamila, coscrivendo dodicimila
giovani ogni anno, oltre due mezze brigate e un reggimento di
cavalleria di Polacchi, ceduti alla nostra dalla repubblica francese;
alla tranquillità vigilavano mille seicento gendarmi, e la guardia
nazionale di tutti i cittadini dai diciotto ai cinquant’anni. La spesa
era bilanciata su novanta milioni di lire milanesi, di cui cinquantadue
erano assorbiti dalla guerra e dal tributo alla Francia. Libera la
stampa, sotto la responsabilità dell’autore e dello stampatore, i
quali, avanti divulgarle, doveano presentare le opere alla revisione,
che poteva sospenderle; soggetti a censura i fogli periodici, le
composizioni teatrali e i libri che si introducevano.

Ai comizj di Lione i preti non aveano potuto ottenere si dichiarasse
unica religione la cattolica, ma solo che si farebbe una legge
organica pel clero, da approvarsi dal papa. Di fatti un concordato
speciale (1803 16 7bre) con questo riconosceva come religione della
repubblica la cattolica; al presidente concessa la nomina de’ vescovi;
libero a questi il comunicare con Roma, il promuover agli Ordini e ai
benefizj i meritevoli, e punire i colpevoli anche col rinchiuderli in
conventi o seminarj: non si sopprimerebbero fondazioni ecclesiastiche
senza approvazione della Sede apostolica; non sarebbero molestati i
compratori di beni ecclesiastici. Tal era quel concordato: ma come
erasi fatto in Francia cogli articoli organici, nel promulgarlo a
Milano si aggiunse che nuove professioni non potrebbero farsi se non
negli Ordini applicati all’educazione o a cura degl’infermi; e, come
all’ordinazione dei preti, volervisi l’assenso del Governo, e così per
dare valore alle bolle e ai brevi della santa Sede. Di quest’intrusione
si dolse invano il pontefice.

Corse allora uno de’ più floridi e quieti tempi per la Lombardia;
lontano il presidente, buono e amato Melzi che ne sosteneva le veci;
distrutto ogni privilegio aristocratico, favorito il sapere; si
citavano ancora i patrj esempj, si ristampavano i nostri classici
e i nostri economisti, come ripigliavasi l’êra cristiana; facili i
pagamenti, prospere l’agricoltura e il commercio, crescente l’esercito,
non febbrili le speranze. La libertà della stampa era sì poco valutata,
che Melzi potè senza difficoltà stabilire la censura preventiva de’
giornali e de’ libri provenienti di fuori. Gl’interessi materiali
eccitavano più gelosie che non le garanzie della libertà[65]; nè
l’iniziativa, nè l’esame erano liberi, e scarsa capacità mostravano le
persone incaricate del potere. Soprattutto mancava la prima condizione
d’ogni felicità, la fiducia della durata. Da una parte gli accorti
s’avvedeano che questa repubblica era l’embrione d’un regno; tanto più
che, ad ogn’ombra d’opposizione, Buonaparte minacciava dar un calcio a
questo sistema rappresentativo, che pareagli un’organizzata ostilità:
dall’altra il titolo d’italiana inchiudeva una minaccia agli Stati
della penisola. Fra gli stranieri poi i rancori erano stati sopiti
non tolti, e ben presto posero novamente a soqquadro tutt’Europa.
L’Inghilterra, cogliendo gli appigli che troppi offriva il trattato
d’Amiens, ricusa sgomberar Malta, cavilla i patti, e getta in mezzo la
questione italiana, persuasa d’avvilupparvi anche l’Austria.

Questa avea subìto i trattati di Campoformio e Lunéville come
una necessità, e colla fiducia di ripigliare la Cisalpina, donde
padroneggiare la media e la bassa Italia. Unico mezzo a sbarbicarla
sarebbe stato il rendere l’Italia a se stessa: ma Napoleone, che
credeva al potere non alle nazionalità, impose al fratello Giuseppe
che negli accordi di Lunéville non parlasse del papa, del Piemonte, di
Napoli, sicchè lasciava in pendulo gravissime questioni: nè l’Europa
potea soffrire che, con una nominale indipendenza, al vassallaggio
austriaco fosse surrogata la dominazione francese.

Alessandro di Russia, succeduto all’assassinato suo padre, ricusava
ravvicinarsi alla Francia se non ripristinasse il re di Sardegna e
assicurasse quello di Napoli: anche la Prussia chiedeva che Francia
sgombrasse il Napoletano, distaccasse Parma e Piacenza, le Jonie e
Malta si dessero in compenso al re di Sardegna. Austria, col pretesto
di un cordone contro la febbre gialla sviluppatasi a Livorno, ingrossò
sulla frontiera dell’Adige; e viepiù quando Buonaparte scrisse in
persona a Francesco II (31 xbre) voler ridurre la repubblica italiana a
monarchia, distinta dalla Francia. La fede mentita all’Italia metteva
dunque la Francia in guerra coll’Europa, e subito Inghilterra empì
d’armi il Mediterraneo: di rimpatto Buonaparte allestì a Boulogne un
famoso campo per tentare uno sbarco in Inghilterra; deriso dai più come
una sublime follìa, lodato da altri perchè valse di palestra a’ suoi
soldati. A quel campo la repubblica italiana mandò un corpo sotto il
general Pino, e decretò quattro milioni per costruire due fregate e
dodici scialuppe.

Ma non di guerra soltanto erano i divisamenti di Buonaparte, che
credette venuto tempo alle lunghe speranze. Col prestigio della
gloria egli avea fatto credere ancora al rinnegato entusiasmo; coi
comporti in Italia avea mostrato di saper ridestare il passato e
le relazioni consuete fra popoli civili: onde parve l’unico capace
di rimettere Francia nella grande comunanza delle nazioni, senza
sagrificare la libertà e l’orgoglio, come avrebbero fatto i Borboni.
Francia sfiduciata delle libertà promesse da filosofi, da avvocati,
da giornalisti, da legislatori, implorava il despotismo, e nol vedea
che sotto la forma d’un soldato: uscendo dall’oppressione sanguinaria
o ladra di tiranni abjetti e persino vili, meno male pareale la
tirannide della gloria e del genio: cessato di credere alle idee,
credea a un uomo. E Buonaparte racconciava all’obbedienza l’epoca
più indisciplinata; e indotta la ragione a confessare la propria
insufficienza, al ricostruire adoprò gli uomini ch’eransi mostrati
più attivi a demolire. In paese stanco ed abbagliato dalla sua
gloria, pochi ostacoli ebbe ad afferrare la dittatura. Interrogata
colla ciurmeria de’ registri, la nazione prorogò il console per dieci
anni: interrogata se il volesse a vita, disse sì; la costituzione fu
modificata alla monarchica: ma poichè il nome di re facea mal suono
a quelli che, in annuale funzione, giuravano odio sempiterno ai re,
fra le reminiscenze d’Augusto e di Carlo Magno egli ripescò il titolo
d’imperatore dei Francesi (1804 18 maggio).

Al potere nuovo facevano di mestieri tutte le forme che gli
conciliassero rispetto. Dopo che i registri, aperti in tutti i Comuni,
gli diedero la sanzione popolare, Napoleone volle anche quella della
religione, e domandò che Pio VII venisse a coronarlo. Gran disparere
in Roma. Piaceva che un eroe soffogasse nelle proprie braccia quella
repubblica sovvertitrice degli altari e della società, e che una nuova
dinastia all’Europa e alla civiltà assicurasse ordine e conservazione.
Qual trionfo per la Chiesa di vedere questo figlio della rivoluzione
invocare dal pontefice il sacro crisma, e credere legittimazione della
temporale quella potestà pontifizia che dianzi trascinavasi nel fango!
Anche nei possessi il papa potrebbe altrimenti che ingrandirsene?

Ma gli zelanti, alla cui testa erano il sapiente Antonelli, il severo
Litta, il dotto Di Pietro, l’abile Pacca, avvezzi a credere la nave
di Pietro insommergibile fra le transitorie tempeste, aveano tenuto
il concordato come una dura necessità. — E chi è (rifletteano)
questo Buonaparte? Un soldato di ventura, che a Tolentino strappò
alla Chiesa le più belle provincie e tesori artistici; che tiene il
contado Venesino e i feudi in Piemonte, roba della Chiesa: che colla
spada suggellò il concordato, e pur subito lo eludeva cogli articoli
organici; che stipulò la spogliazione de’ principi ecclesiastici di
Germania; che in Egitto proclamava la tolleranza fino dell’islam. Or
domanda la mano del papa, ma a qual fine: unicamente per sorreggere
la personale ambizione, contentata la quale, si torcerà contro quelli
che adesso accarezza. Che cosa risponderà il papa ai rimproveri
degli Austriaci, da tanto tempo investiti del sacro romano impero?
che cosa ad altri re che lo domandassero a coronarli? E i Borboni, a
cui la violenza non tolse d’essere i cristianissimi, i primogeniti
della Chiesa, con qual occhio vedrebbero il santo padre cingere
colla corona di san Luigi uno, le cui mani stillano ancora del sangue
dell’assassinato duca d’Enghien?

Pio VII aveva attinto nel chiostro virtù semplici e rassegnate, e
l’abitudine di elevare gli occhi al cielo, più che scrutare le cose
della terra. Il recuperare una tale preponderanza sulla Francia,
il restituire alla tiara lo splendore offuscato, e al patrimonio le
tre Legazioni pareangli interesse della religione; e riprometteasi
ottenerlo a Parigi ne’ colloquj col nuovo Cesare, da cui farebbe
cassare gli articoli organici, e ripristinare gli Ordini religiosi.
Volle che venti de’ più creduti cardinali in tutta secretezza e
coscienza gli esponessero il loro sentimento sul quesito «Sua santità
deve, può andare a consacrare e coronare l’imperatore de’ Francesi?»
Cinque dissero un no riciso; gli altri furono pel sì, ma con diverse
condizioni, o di cassare gli articoli organici, o di attendere che il
nuovo imperatore se ne fosse mostrato degno come Carlo Magno, o che
venisse egli stesso di qua dell’Alpi, come aveano usato gli antichi
fino a Clemente VII; o che almeno assicurasse gli atti riverenziali
dovuti al sacro suo carattere, specialmente il bacio del piede: viepiù
s’insisteva contro il giuramento che l’imperatore farebbe d’attenersi
al concordato, di far rispettare la libertà de’ culti.

Pio VII fece dal cardinale Caprara sottomettere tali riserve a
Napoleone; questi le repudiò tutte, e Pio VII si rassegnò, sempre
confidando ottenere in persona quel ch’eragli fallito per intromissione
de’ ministri; tollerò che l’imperadore si mostrasse aridissimo
nella lettera d’invito, e voless’esserne unto sì, non coronato; e di
sessantadue anni si pose in viaggio. Tutti gli ordini dello Stato
vennero a fargli riverenza, come tutti dianzi avevano rinnegato e
papa e Cristo; e Pio li guadagnava colla dolcezza. Dando un giorno la
benedizione al popolo inginocchiato, vide un giovane tenersi ritto e
col cappello in testa: — Giovinotto, se non credete all’efficacia della
benedizione del pontefice, credete almeno che quella d’un vecchio non
porta sventura».

Nella solennità (2 xbre), allestita collo sfarzo teatrale che
illude e cattiva, Napoleone si pose da sè la corona; poi incoronò
Giuseppina sua donna, che il giorno innanzi avea avuto la benedizione
nuziale. I sinceri repubblicanti, che l’aveano proclamato un Camillo,
un Washington redivivo, non sapeano darsene pace; i non sinceri
s’affrettarono a divenire ciambellani, ministri, uffiziali, cavalieri,
tutto quel ch’egli volle, anche più di quel che volle. Napoleone
evitò di trovarsi testa testa con Pio VII, alle cui preghiere dolci
e ragionate non potrebbe opporre le escandescenze; sicchè al papa non
restò che avventurare le sue domande alle solite lungagne degli uffizj,
e le esortazioni al magnanimo perchè imitasse anche in ciò Carlo Magno,
il quale spontaneo restituì alla santa Sede quanto le armi sue aveano
ritolto ai Longobardi.

Napoleone fece rispondere che avea giurato non alterare i confini
della Francia; neppur poteva cincischiare la repubblica italiana, in
lui confidatasi; prometteva però trovare congiunture d’estendere e
consolidare il dominio del santo padre, e intanto presterebbegli mano
soccorrevole per uscire dal caos dove l’hanno trascinato le presenti
vicende, e assicurargli il pacifico godimento de’ beni rimastigli; e
così darebbe all’universo una prova della sua venerazione al pontefice,
della protezione alla capitale della cristianità, del desiderio
costante di vedere la _nostra_ religione non inferiore a nessuna nella
pompa delle cerimonie e in quel decoro che alle nazioni può ispirare
venerazione. Il papa si dovette contentare di vedersi reso il cadavere
del suo predecessore, e la statua della Madonna di Loreto, spogliata è
vero delle gemme.

Carlo Magno era anche re d’Italia, nè questo titolo dovea mancare
a Napoleone, il quale anzi nella nostra patria avea fatto il passo
d’esperimento verso l’impero[66]. Ad assistere alla sua coronazione
invitò dunque il vicepresidente Melzi e la consulta di Stato; e chiesti
di _liberamente_ significare come in pratica riuscisse la costituzione
avuta a Lione, liberamente risposero essere quella evidentemente
provvisoria nè compatibile coi tempi, nè gl’Italiani ancora maturi per
la repubblica; e lo scongiuravano a dare loro un re, foss’egli quello,
erigesse il paese in regno con uno statuto. Rispose: — Ho sempre
pensato a creare indipendente e libera la nazione italiana, ma capisco
la separazione tornerebbe pericolosa or che la perfida Albione rinnova
le minaccie; verrò dunque a Milano a cingermi la corona di ferro per
ritemprarla e rinvigorirla, e perchè l’Italia più non si spezzi fra le
tempeste che la minacceranno: ma affretterò il momento di deporla s’una
testa più giovane».

E venne (1805); e gl’Italiani, con quell’entusiasmo che spesso non
è se non l’esternazione della speranza, e che con quella svanisce,
affaccendaronsi a preparare archi di trionfo con quelli che prima erano
alberi della libertà[67]. Napoleone fissò tutto, sin le divise teatrali
dei magistrati e de’ cortigiani; nel duomo di Milano (1805 16 maggio),
con una pompa che più non fu superata, venne unto dall’arcivescovo
Caprara; e ponendosi di propria mano la corona ferrea esclamò: — Dio me
l’ha data, guaj a chi la tocca». Il qual motto perpetuò sulle insegne
d’un nuovo ordine cavalleresco. Secondo lo statuto, giurò mantenere
l’integrità del regno, la religione dello Stato, l’eguaglianza dei
diritti, la libertà politica e civile, l’irrevocabilità delle vendite
de’ beni nazionali; non levar imposizioni o por tasse che in virtù di
legge; governare solo per l’interesse, la felicità e la gloria del
popolo italiano, e non dare impieghi a forestieri. Eppure destinò
vicerè Eugenio Beauharnais, figlio di sua moglie e da lui adottato,
uom mediocre, buon soldato, attivo e intelligente, sommessissimo
all’imperatore, ignaro e non curante del farsi amare dai popoli, il cui
bene perorava. Aprì in persona il corpo legislativo (7 giugno) lodando
sè, di quanto avea fatto, e nominò guardasigilli il Melzi, che poi col
pingue assegno e col titolo di duca di Lodi ridusse alla nullità.

Insieme cogli applausi del popolo, qui ricevette gli omaggi dei re.
Corsini e Fossombroni, deputati dell’Etruria, lo chiarirono come il
lor piccolo paese dopo il 96 avesse consunto in spese straordinarie
cenventi milioni, trovandosi sempre gravato da una guarnigione
francese; Verdier comandante a Livorno erasi prese le casse regie; le
reclute côrse colà sbarcate permetteansi ogni prepotenza. Napoleone
diede parole; ma con un fare soldatesco che trascendeva le convenienze,
soggiungeva: — La regina d’Etruria è troppo giovane, e il ministro
troppo vecchio per governare a dovere». Insultò l’ambasciadore di
Napoli e la sua regina; a quel della repubblica Ligure disse: — M’era
accorto ch’era impossibile i Liguri facessero cosa degna del loro
padri»; a quello di Lucca: — Sarete meglio governati da un principe
francese». Insomma nè re egli risparmiava nè popoli; e sebbene avesse
rassicurato e il senato di Francia e i principi nostrali che non
dilaterebbe i confini, trovava necessarie Genova, Lucca, Livorno, onde
impedire gli sbarchi de’ _perfidi_ Inglesi.

A Genova, multata da’ Tedeschi che se n’andavano e da’ Francesi che
vi venivano, afflitta in conseguenza dell’assedio da un’epidemia, per
cui l’ordinaria mortalità di tremila settecento crebbe a dodicimila
cinquecento, fu dai Francesi trattata come vinta, pur affidata
dell’indipendenza; ma riformasse la propria costituzione sul modello
consueto. Buonaparte nel 1802 la approvò eleggendo doge Girolamo
Durazzo, ma aveva detto: — Genova è destinata a formare marinarj;
ha seimila uomini sulle squadre, ed io n’ho bisogno», e la volle.
I patrizj, spinti dal Saliceti che dimostrava impossibile sostenere
l’immenso lor debito[68], gliel’offersero, si aprirono gl’ingannevoli
registri, dove pochissimi ebbero coraggio di votare per l’antico
stato, e il doge Girolamo Durazzo andò a Milano a supplicare Napoleone
«accordasse ai Genovesi il bene di divenire suoi sudditi». Metteva
alcune condizioni a cui non si badò. L’arcitesoriere Lebrun mandato
a sistemarli, era uomo moderato e prudente; ma quando egli palesò
lo scontento de’ Genovesi e le loro ragioni, Napoleone rispose: — Ho
riunito Genova per avere de’ marinarj. Chi può governare popoli senza
scontentarli in sulle prime? In fatto di Governo, giustizia vuol dire
forza: sarei io così barbogio d’avere paura del popolo di Genova? La
sola risposta che vi fo è _Marinari, marinari_»[69].

Lucca, sovvertita nel 1800, dagli avvicendati conquistatori spogliata
di denaro e d’armi, nel 1801 fu ordinata in repubblica democratica
dal Saliceti, al quale in più volte quel tesoro sborsò _brevi manu_
618,750 lire[70]. Così pagavasi la libertà. Divenuto imperatore
Buonaparte, que’ cittadini furono tratti a domandargli una nuova
costituzione, e col mezzo de’ soliti registri presso le parrocchie, il
corpo degli anziani e il popolo chiesero signore (23 giugno) Pasquale
Baciocchi ed Elisa cognato e sorella di Napoleone, ai quali parea
poco il già attribuito principato di Piombino; avrebbero la lista
civile di quattrocentomila franchi; un consiglio di Stato, un senato
di trentasei membri: faceasi l’unica riserva di restare esenti dalla
coscrizione, ma tutti i cittadini sarebbero sistemati militarmente.
E così quest’aristocrazia di jeri trangugiavasene un’altra di
seicentotrentanove anni. A Lucca furono annesse per l’amministrazione
la Lunigiana ed anche Massa e Carrara, feudo ducale dell’Impero;
caricavansi due milioni di lire al piccolo principato; il quale
però, per ordine di Napoleone abolendo i quindici conventi d’uomini e
diciassette di donne, i capitoli, le confraternite, i luoghi pii e fino
i semplici benefizj laici, acquistava un patrimonio di venti milioni.
Con questi la vivace ed ingegnosa Elisa, oltre tesoreggiare per sè,
dotava spedali, soccorreva a poveri e invalidi, aprì strade, incoraggiò
artisti e studiosi e l’Accademia, che cominciò l’importantissirna
pubblicazione dei documenti della storia patria; provvide d’acque la
città, riformò le leggi penali e la procedura[71].

Nella pace coi Borboni di Spagna, Buonaparte avea stipulato che
il duca di Parma divenisse re d’Etruria: ma egli non accettò il
baratto; e quando morì nel 1802, Francia fece occupare il ducato,
serbandolo come un allettativo sia al papa che chiedeva un compenso
alle rapitegli Legazioni, sia alla Casa di Sardegna, sia all’Etruria
che, incorporando questo paese, sarebbe divenuta la seconda potenza
d’Italia. La rottura colla Russia avendo poi dispensato dai riguardi,
fu aggregato alla vigesimottava divisione militare della Francia, poi
ridotto a dipartimento del Taro. La repubblica Etrusca convertita in
regno, fu investita a Lodovico infante di Spagna, figlio del duca
di Parma, il quale ne trovava sconfitte le finanze, esorbitanti le
imposizioni, interrotto il commercio perchè gl’Inglesi minacciavano
da Porto Ferrajo; abbandonata l’agricoltura, soldati da costare un
milione al mese, eppure necessaria ancora la guarnigione francese;
nel 1801 l’entrata portava dodici milioni contro la spesa di sedici,
e la Corte fu sin ridotta a far coniare i proprj argenti. La vera
regnante era Luigia figlia del re di Spagna, tanto più quando, al morto
padre, succedette Carlo Lodovico (1803 27 maggio) di quattro anni. Ai
liberali costei metteva i brividi ripristinando le fraterie, le libertà
clericali, di coscienza, di corrispondenza col papa, l’indipendenza
de’ vescovi coll’ispezione sui libri e sui luoghi pii; la deploravono
santocchia e raggirata, e le apponevano di avere «spezzato il suo
scettro, e buttatone la metà nel Tevere».

L’isola d’Elba rimase alla Francia, spogliandone la famiglia
Buoncompagni, i cui avi n’aveano compro il dominio nel 1634 per
un milione e cinquantamila fiorini, e che allora ne ritraeva
ducensettantatremila l’anno.

Vittorio Emanuele, succeduto re di Piemonte (1802 4 giugno), si tenne
in Sardegna, e avendo gl’Inglesi offertagli guarnigione e’ la ricusò
per non dare appicco di querela a Napoleone. Eppure questi non cessava
di lamentarsi perchè ricoverasse navi britanniche, e servisse al
contrabbando. Secondo gli accordi di Tilsitt colla Russia, avrebbe
dovuto riavere gli Stati di terraferma o un compenso, e Napoleone
glielo esibì sulle coste d’Africa; poi guastatosi colla Russia,
neppure a questa celia badò, e tenne il Piemonte come ventisettesima
divisione militare sotto l’amministrazione di Jourdan, distribuito ne’
dipartimenti di Po, Marengo, Sesia, Dora, Stura. Concessa amnistia ai
fautori degli antichi re; soppressi gli Ordini religiosi; coscritti
quattromila giovani; assettata la taglia fondiaria a nove milioni
di franchi, e la personale a un milione e ducentomila; soppresse sei
abadie e nove vescovadi, restando solo quelli di Saluzzo, Acqui, Asti,
Alessandria, Vercelli, Ivrea, Mondovì e Cuneo, colla periferia stessa
de’ dipartimenti, e suffraganei all’arcivescovo di Torino, non più a
quelli di Genova e Milano.

Il Governo del Piemonte e del Genovesato fu più tardi (1808) eretto
in gran dignità dell’impero, a favore del principe Borghese, cognato
dell’imperatore; il quale così traeva la Francia dai limiti naturali,
e stabiliva un altro dominio forestiero in quell’Italia che dai
forestieri egli avea promesso riscattare[72]. E già col professarsi
successore di Carlo Magno, palesava aspirare a un predominio; e
coll’occupare nuovi Stati anche dopo la coronazione, parve gettare
il guanto. Tutti dunque i dominanti ne protestavano; Pitt, ministro
inglese, ottenuti settantacinque milioni per sostenere la sicurezza
delle Potenze europee, e collegatosi colla Russia propone (1805 aprile)
che Napoleone sgombri il nord della Germania, l’Italia, l’isola d’Elba;
Olanda, Svizzera, Napoli sieno lasciate indipendenti; ripristinato il
re di Sardegna, al quale si aggiungerebbero Genova ed eventualmente il
Lionese e il Delfinato; restituite Firenze e Modena ai prischi dinasti,
e all’Austria la Lombardia, cresciuta col Veneto[73].

Patti simili appena si possono imporre dopo irreparabili sconfitte:
pure fu il programma a cui si attese in dieci anni di guerra. Alla
quale tutta Europa sorgeva, avendo per tesoriere l’Inghilterra, per
retroguardo la Russia; e non più per estinguere la libertà in un paese
che se l’era conquistata, bensì proclamando l’indipendenza dei popoli
contro un’ambizione che la pericolava. Era insomma la Rivoluzione che
proclamava i proprj trionfi per bocca dell’esercito coalizzato contro
di lei.

L’Austria mise in essere trecenventimila guerrieri; e ricevendo
dall’Inghilterra settantacinque milioni per quell’anno, si assunse
l’impresa d’Italia, mandò sull’Adige cenventimila uomini coll’arciduca
Carlo, altri trentacinquemila coll’arciduca Giovanni in Tirolo, per
connetterlo coll’esercito di Germania, a cui gl’imperadori Francesco
e Alessandro farebbero una terribile retroguardia in Moravia e
Gallizia; Russi e Inglesi doveano sbarcare a Malta e Corfù, e uniti
co’ Napoletani, opprimere i trentamila Francesi che presidiavano Terra
d’Otranto, e spingersi in su per l’Italia fino a congiungersi cogli
arciduchi. Napoleone sentì che «gli bisognava un altro Marengo, e
subito»; e con uno di quei colpi arditi che solo l’esito giustifica,
gira alle spalle di Mack (1805 8 7bre), famoso per le rotte napoletane,
lo chiude in Ulma, e fa prigionieri trentatremila Austriaci senza
stilla di sangue. Obbrobrio, che fu chiamato tradimento, e il generale
condannato ai lavori in una fortezza.

Il principe Carlo, udita la turpe capitolazione, per proteggere Vienna
abbandona l’Italia; onde Massena, che con trentamila uomini occupava
Verona, cresciuto di coraggio, lo attacca a Caldiero (19 9bre); per tre
giorni combattendo con grande strage, e inseguendolo fin oltre le Alpi,
non solo toglie all’Austria tutte le terre italiche eccetto Venezia,
ma occupa Trieste, Gorizia, Gradisca, Villac, e quivi si congiunge
con Ney; i Francesi sono a Vienna, e Napoleone ad Austerlitz (2 xbre)
riporta una vittoria, dove restarono quarantamila Russi e Austriaci
feriti o morti, nove generali e ottocento uffiziali prigionieri, e a
Presburgo obbliga Francesco II alla pace (26 xbre). Separare l’Italia
dalla Francia, ed escluderne l’Austria rimettendo repubblica Venezia,
togliendole il Tirolo e la Svevia, in modo che fosse discostata dal
regno d’Italia, dalla Svizzera e dalla Germania meridionale, pareva a
Talleyrand l’unico modo di spegnere le guerre, da secoli alimentate per
le pretensioni de’ Tedeschi sul bel paese; l’Austria, padroneggiando
tutto il corso del Danubio e parte delle coste del mar Nero, diverrà
vicina e perciò emula della Russia, quanto allontanata dalla Francia,
e perciò sua alleata. Napoleone non volle nè guadagnarsi il vinto
nè distruggerlo, fedele al sistema suo d’indebolire i territorj,
col quale non fece che creare malcontenti, e condannare se stesso a
combattere sempre coloro che non sempre potrebbe vincere; laonde le
sue paci furono quasi tappe dell’esercito. Dall’Austria fece dunque
cedere al regno d’Italia Venezia colla Dalmazia e l’Albania, alla
Baviera il Tirolo, e pagare cenquaranta milioni per le spese. Tali
scambj di dominio scioglievano i legami tra popoli e re, ed irritavano
oltraggiando le nazionalità.

Al cadere della Repubblica veneta, il procuratore Francesco Pésaro, che
n’era stato uno de’ più devoti, vi venne pienipotente dell’Austria,
sicchè gli uni stupivano che l’imperatore ad un patrizio concedesse
piena autorità nel proprio paese; gli altri esecravano il Pésaro
d’aver accettato di comandare a quelli che testè erano suoi pari, e di
rappresentare la straniera dominazione nel paese di cui avea difeso la
libertà; altri invece il glorificavano d’essersi così messo in grado
d’alleviare i mali della patria: ma dopo pochi giorni egli morì. Altri
patrizj non tardarono a conciliarsi coll’Austria e servirla; e Zusto,
Contarini, Erizzo, Gradenigo, Almorò Tiepolo, Giustinian, Quirini
Stampalia accettando alti impieghi, diminuirono il ribrezzo del dominio
forestiero. La guerra dell’800 avea conturbato la terraferma; e i
patimenti, gli esigli, il mal cibo vi svilupparono il tifo, del quale
molti morirono, fra cui il friulano medico Capretti che l’avea studiato
e curato.

Ora Venezia acquistava un terzo padrone in otto anni; riceveva la
costituzione di Lione (1806 3 febb.) e le altre forme del regno
italico; ed Eugenio vicerè andava ad accogliervi il giuramento e le
feste. Vi venne poi Napoleone stesso (1807 29 9bre), e vi godette
lo spettacolo ond’era più ghiotto, di una vistosa forza marittima;
emanò molti ordini per la salute e il prosperamento di quella città,
riconobbe cento milioni che la Repubblica doveva alla zecca e al
banco, un quarto pagandone con beni demaniali, il resto iscrivendo
sul Monte Napoleone; fece ingrandire il porto, che volea rendere
atto a bastimenti grossi, incaricando Lessau d’una via diretta per
trarre dall’arsenale in mare vascelli da 80; munì le lagune coi forti
di Marghera e e Bróndolo; assegnò centomila lire annue a riparare i
porti e i canali. Allora venne aperto un giardino pubblico, abbattendo
edifizj ricchi di pitture e di sepolcri; si eresse un palazzo regio:
Antonio Selva, scolaro del Temanza, ridusse la Carità ad accademia di
belle arti, a cui fu preposto Leopoldo Cicognara ferrarese. Malgrado
di ciò, e sebbene decorata del titolo di seconda città del regno
e portofranco, Venezia si vide tolto ogni commercio, perito sin il
traffico delle conterie, e i beni nazionali non trovando compratori che
lo Stato o forestieri.

Solo Padova aveva accolto l’imperatore col silenzio, che è la lezione
dei re; ed egli, che non era uomo da inghiottirsela, maturava il
castigo, quando la città spedì il Cesarotti a placarlo: accolto con
amorevolezza, fatto sedere a tavola fra l’imperatore e il vicerè,
blandito con decorazioni e pensioni, il perdono lo ripagò colla
_Pronea_. Ma Vittorio Barzoni di Lonato già prima nel _Solitario delle
Alpi_ avea posto a dialogare un entusiasto della rivoluzione e un
Veneto, una volta assalì il Villetard con una pistola: fu fatto passare
per pazzo; ora non perdonando a Napoleone il tradimento di Venezia,
lo descrisse sotto il personaggio di Flaminio ne’ _Romani in Grecia_,
e collocatosi a Malta, perseverò nell’infervorare gli odj contro di
esso[74].

Restava ancora il regno d’Etruria; e la regina Luigia, repugnante da
Napoleone e come borbonica e come devota, lasciava che merci coloniali
e manifatture inglesi, coperte dalla bandiera americana, affluissero a
Livorno, donde si propagavano ai mercati di Roma, di Napoli, dell’alta
Italia, anzi sin alla fiera di Lipsia. Napoleone non volle soffrire
questa disobbedienza, e ordinò al generale Miollis di marciare sopra
Firenze, indi a Livorno, e sorprendervi le merci inglesi; poi col
trattato di Fontainebleau (1807 30 agosto) assegnava le provincie
settentrionali del Portogallo in cambio dell’Etruria, la quale
veniva riunita alla Francia, e divisa nei dipartimenti dell’Arno, del
Mediterraneo, dell’Ombrone.

La pia donna neppure udienza potè avere da Napoleone a Bajona; fu
lasciata prendere e ammobigliare una casa a Passy; poi quando montava
in carrozza per condurvisi, un uffiziale la impedisce; le vengono
assegnate quattrocentomila lire, ma le si stentano, e le sono usate
cento soperchierie. Domanda di passare a Parma suo dominio, e n’ottiene
promessa, poi invece la fermarono a Nizza. Dopo spossessati i reali
di Spagna, mandò a Londra alcuno per far valere le proprie ragioni:
ma il duca di Rovigo ministro di polizia arrestò Francesco Sassi della
Tosa e Ghifenti di Livorno, e come colpevoli di tale incarico, li fece
condannare a morte, eseguita sul Ghifenti; la regina come rea d’aver
tentato fuggire, venne chiusa nel convento de’ santi Domenico e Sisto a
Roma colla figliuola; Miollis le fece levare sin i giojelli, le assegnò
duemila cinquecento lire al mese, e sol qualche volta lasciavale
vedere il figliuolo alla presenza di testimonj. Ella scrisse le proprie
memorie.

Menou, soldataccio d’Egitto che aveva sistemato alla peggio il
Piemonte, fu messo a regolare la Toscana, temperato è vero da una
giunta di buone persone, fra cui il Degerando, che i severi ordini
imperiali moderava alla mitezza toscana: ma il peggior male di quei
tempi era l’incessante cangiare d’ordini e padroni pel talento d’un
solo, trattandosi le nazioni come fattorie, gli uomini come armenti. In
fatti ben presto un senatoconsulto (5 marzo 1809) erige i dipartimenti
toscani in dignità dell’impero, col titolo di granducato, investendone
Elisa sorella di Napoleone, alla quale parea scarso il principato di
Lucca e Piombino; la lingua italica possa adoprarsi promiscuamente alla
francese negli atti; cinquecento napoleoni ogni anno siano premio agli
autori, le cui opere meglio contribuiscano alla purezza della lingua; a
custodire la quale fu rinnovata l’Accademia della Crusca[75].

Allora si videro, contro gli usi leopoldini, inceppata la
circolazione delle merci, del frumento, del vino, fissati i prezzi
delle vittovaglie, posti nuovi balzelli, introdotta la coscrizione;
insieme si portarono via altri quadri[76], i codici e la tipografia
orientale. Pure vennero favorite la coltura del gelso e le manifatture
delle berrette a Prato, degli alabastri a Volterra, dei coralli a
Pisa e Livorno, de’ cappelli di paglia a Firenze; i beni tolti alla
corporazione servirono a spegnere il debito del Monte Comune; il
codice napoleone emendò molti abusi del leopoldino. Non pochi Toscani
furono chiamai a Parigi in uffizj, e principalmente don Neri Corsini
consigliere di Stato, e Vittorio Fossombroni senatore. I dicasteri
corrispondevano direttamente col ministero di Parigi; talchè la
granduchessa Elisa, non figurando se non nelle pompe, e vedendo alle
sue proposizioni non darsi retta a Parigi, si limitava a sfoggiare in
lusso e in beneficenze.

La più nobile creazione di Buonaparte fu il regno d’Italia. Già nella
pace di Presburgo aumentato di vastissimo territorio e dell’Adriatico,
nel 1808 vi furono annesse le legazioni di Romagna, a’ cui deputati
in Parigi Napoleone diceva: — Gli ecclesiastici regolino il culto e
l’anima, insegnino teologia, e basta. Italia scadde dacchè i preti
pretesero governarla. Sono contento del mio clero d’Italia e Francia;
ma se ne’ vostri paesi qualche fanatico od ambizioso volesse valersi
dell’ingerenza spirituale per turbare i popoli, io saprò reprimerlo».

Dalla Baviera si fe cedere il Tirolo meridionale, e col nome di
dipartimento dell’alto Adige lo congiunse al _bello italo regno_,
che così, oltre l’antico Stato di Milano, comprendeva il Novarese,
la Lomellina, il Vigevanasco tolti al Piemonte, la Valtellina con
Chiavenna e Bormio tolte ai Grigioni, il Bergamasco, il Bresciano, la
riviera di Salò, il Veronese, il Polesine di Rovigo, il Vicentino, il
Padovano, il Veneto, il Friuli, il Trevisano, il Cadorino, il Feltrino,
il Bellunese tolti a Venezia, il Tirolo meridionale, cioè Roveredo,
Trento e Bolzano; e Reggio, Correggio, Novellara, Guastalla, Modena,
Mirandola, Carpi, il Frignano, parte della Lunigiana, le legazioni
di Ferrara, Bologna, l’Emilia, la marca d’Ancona, il ducato d’Urbino,
Macerata, Camerino, gli Stati liberi di Sanseverino, Fabriano, Loreto,
Sassoferrato, parte del Perugino, i Governi di Fermo e d’Ascoli,
la presidenza di Montaldo. Formavano ventiquattro dipartimenti[77]
suddivisi in distretti, e questi in cantoni; contenendo 2303 Comuni con
settantanove città, sei milioni e mezzo d’abitanti sulla superficie di
83,447 miglia quadrate. Ed erano de’ più grati e varj paesi d’Italia,
con laute pianure e boscose montagne, con gelsi e castani, abeti e
ulivi, praterie e risi, miniere d’ogni metallo, acque medicinali, vene
di marmi, coi bei fiumi Po, Adige, Mincio, Ticino, Adda, Reno, coi
laghi alpini, con stupendi canali e irrigue derivazioni. Il vicerè
Eugenio, al quale l’imperatore avea data, anzi imposta per moglie
una principessa di Baviera, tanto bella quanto savia[78], aprendo
il senato consulente (1807 1 aprile), si congratulava che, invece di
tanti staterelli senza coesione nè forza, vi fosse oggimai una nazione
italiana d’un medesimo spirito, sotto il medesimo scettro.

Quando mai la speranza d’unità entrò più ragionevolmente negl’Italiani?
I quali allora imparavano a congiungere il rispetto alla legge
coll’amore della rivoluzione. Cancellati 18 secoli di storia, la
federazione soccombeva alla dittatura francese: per tutta Italia
uniformità di leggi, di codici, di idee; la vanità conducea gli
aristocratici nelle anticamere dei villani rivestiti, e la perdita
delle libertà era compensata dal trionfo dell’eguaglianza. Ma tutto ciò
era dato, non acquistato; Napoleone considerava il paese nostro come
consacrato al meglio della Francia, l’accresceva o mozzava a volontà,
costituiva e disfaceva signorie, pur sempre lasciando sperare che, alla
nascita d’un secondo figlio, assicurerebbe l’indipendenza italiana[79].

Il Governo napoleonico si bilicava tra l’eguaglianza civile che
accordavalo colla democrazia, e la gradazione gerarchica che secondava
le idee d’ordine e stabilità. Il capo supremo dello Stato, eletto dal
popolo, rappresentante della nazione, unico potere ereditario; tutti
gli impieghi e le dignità eletti da lui secondo il merito. Il vicerè
comandava l’esercito e la guardia nazionale, nominava agl’impieghi
fino al viceprefetto e al tenente, e presedeva al consiglio di Stato
e ai lavori de’ ministri; godeva estesi poteri, ma sempre legati alla
sovrana volontà. Seguivangli le gran dignità, fra cui contavansi gli
arcivescovi di Milano, Venezia, Ferrara, Bologna; tutto disposto
per lo splendor della Corona che doveva imitare la francese, ad
essa appartenevano due palazzi di Milano, quelli di Monza, Mantova,
Modena, Venezia, quelli dei Bargnani a Brescia, dei Caprara a Bologna,
dei Pisani a Stra, con larghe caccie riservate, massime ne’ boschi
del Ticino e nel parco di Monza, ampliato pel giro di tredicimila
metri[80]. Oltre la guardia d’onore e i veliti, una folla di cortigiani
dovevano prestare servizio alla persona del vicerè, e di sua moglie;
ventotto ciambellani, ventiquattro dame, dodici scudieri, sedici
paggi dipendevano dal gran maggiordomo e dai prefetti di palazzo, e
si godeva contarvi i nomi de’ Cicogna, de’ Serbelloni, de’ Trivulzj,
dei Borromeo, dei Bentivoglio, dei Frangipane, dei Visconti, dei
Montecuccoli, dei Mocenigo, dei Michiel, dei Gradenigo, dei Martinengo.

Modificando alla monarchia lo statuto, il corpo dei consultori fu
convertito in senato consulente, che dovea votare sopra gli statuti, le
leggi, l’operare de’ ministri, i bisogni della nazione, gli abusi della
libertà civile: e in esso raccoglieansi gli uomini insigni, a pompa non
a temperamento, nè tampoco a consiglio, giacchè nessuna libera sentenza
v’era ascoltata. Il corpo legislativo di giuniori ed anziani dovea
votare alla muta; ed una volta essendosi avventurato a qualche appunto
sopra la nuova legge del registro, Napoleone si stizzì contro questi
poltroni[81], e al Taverna presidente scrisse da Boulogne l’agosto
del 1805: — Le assicurazioni devote del corpo legislativo viepiù
gradisco, quanto la sua condotta mi mostrò che non camminava nella
mia direzione. Io mi servo delle cognizioni de’ corpi intermediarj,
ogniqualvolta tendano dov’io; qualora nelle deliberazioni porteranno
spirito di fazione o turbolenza, o intenti contrarj a’ miei, non
coglieranno che vergogna, perchè loro malgrado io compirò quello che mi
parrà necessario all’andamento del mio Governo, e alla grande idea di
ricostituire e illustrare il regno d’Italia». Pure il corpo legislativo
potea porre qualche limite all’arbitrio dei ministri; onde fu abolito
non per decreto, ma unicamente col depennare nel bilancio le spese che
lo concerneano: e gl’Italiani poterono chiarirsi che erano meri nomi la
costituzione, il tribunato e i censori di quella[82]; tutto riduceasi
ai decreti di Napoleone e del vicerè.

Il consiglio di Stato discuteva le leggi, il culto, gli affari interni,
le finanze, la guerra, la marina. Dai ministri restavano indipendenti
le direzioni dell’insegnamento, delle pubbliche costruzioni,
dell’amministrazione comunale e la Polizia. L’amministrazione era
affidata a prefetti e viceprefetti, con esteso arbitrio. Ai Comuni
maggiori presedevano un podestà triennale, e sei o quattro savj: ai
minori un sindaco annuo e due decani. Due volte l’anno s’accoglievano
i consigli comunali pel conto da discutere o da approvare. Il re
poteva convocare il consiglio dipartimentale di trenta o quaranta
membri: uno di undici possessori per ogni distretto determinava
ciascun anno la sovrimposta. In ciascun dipartimento i collegi
elettorali di possidenti, dotti, negozianti proponeano al Governo i
membri del consiglio generale e i giudici di pace, i quali risolveano
le controversie d’azione personale, o di cose mobili, o di polizia
giudiziaria. I giudizj erano resi da una corte civile e criminale con
dibattimenti pubblici, da cinque corti d’appello, oltre la cassazione
che vegliava l’esatta applicazione delle leggi, non decidendo sui fatti
particolari ma sulle sentenze dei tribunali. Nel Monte Napoleone fu
consolidato il debito pubblico: l’unità di pesi e misure fu almeno
decretata.

Quando l’Europa ammutoliva davanti al Massimo, che in tre giorni aveva
abbattuto a Jena il regno di Prussia, e ad Eylau sconfitto il russo ed
obbligatolo alla pace di Tilsitt, anche l’Italia mandò il patriarca di
Venezia a ringraziare Napoleone della pace e della felicità procurata,
e supplicarlo di beare di sua visita l’Italia, per lui viva, per
lui diva. Venne in fatti (1807 7bre), e viaggiando interrogava, ma
voleva risposte pronte come l’obbedienza; vere o no, poco importava: e
quegli sguardi fulminei, e quell’affollamento soverchiatore di domande
confondevano chi volesse riflettere prima di rispondere: in ogni
provincia e città informavasi dei bisogni, e dava ordini e decreti,
poco brigandosi poi dell’esecuzione. Ora ad una gran dama chiedeva se
fosse la moglie di quell’appaltatore arricchito; or a un’altra se quel
che l’accompagnava era il marito o l’amico di casa; ora quanti figli
maschi avesse, quasi nelle viscere materne cercasse soldati.

Raccolti i collegi elettorali, si congratulò dei progressi che in
tre anni si erano fatti, molto però rimanere per cancellare le colpe
degli avi, le cui intestine divisioni e il miserabile egoismo di città
affrettarono la perdita dei diritti; considerassero i Francesi come
fratelli maggiori, e vedessero la sorgente e l’assicurazione della loro
prosperità nell’unione della corona di ferro coll’imperiale. Queste
lezioni ci dava. Insieme aspreggiò il Taverna presidente al consiglio
legislativo, perchè gli si presentò in piccolo uniforme; domandò al
ministro Spanocchi quanto si spendesse nella giustizia, e uditolo,
esclamò, — Troppo»; e avendo quegli soggiunto, — Spende ben più il
ministro della guerra, — Imbecille!» proruppe Napoleone, voltandogli le
spalle, e nominò a succedergli il Luosi.

Consultati Romagnosi a Piacenza, Renazzi a Roma, Paolini a Pistoja,
Cremani a Pisa, fu compilato un codice penale, e sottoposto all’esame
delle varie corti di giustizia; ma dopo lunghi lavori, Napoleone che
non sapeva aspettare, e che aveva mandato il senatore Abrial per
organizzare la giustizia in due mesi, ordinò si attuasse qui pure
il Francese, ove fa sentirsi la fierezza d’un Governo che esce da
sanguinosa rivoluzione. Anche il codice di commercio fu traduzione
del francese. Romagnosi «con altri giureconsulti pieni di dottrina e
d’amore pel bene degli uomini e per la gloria del Governo italico[83],
fu chiamato a compilare un codice di procedura che il francese mitigava
con opportune cautele; e benchè non si avessero i giurati, la difesa
pubblica fin per delitti di Stato temperava l’atrocità di quello, e
formò prolissi parlatori anzichè oratori, se giudichiamo dalle arringhe
messe a stampa.

Era dunque il regno un’edizione dell’impero, non governato da
Italiani, sibbene per mezzo d’Italiani: ma quella operosità allettava o
sbalordiva i popoli, che soffrivano di sentirsi dire tralignati perchè
egli prometteva di restaurare le prische virtù; vedeano alle speranze
e alle ambizioni aperto un campo; credevano men duro l’obbedire a colui
che vinceva al Nilo come alla Vistola, al Tago come al Reno.

Al pari d’Augusto voleva egli favorire il sapere, purchè gli stesse
ligio. Abolite le fraterie eccetto le suore della Visitazione, e
ridotto l’insegnamento a libri e a lezioni uniformi, ne’ collegi e nei
licei la gioventù nostra era allevata per farne soldati. Napoleone,
che sapeva quanto importi recarsi tutta in mano l’educazione, raccolse
a Parigi circa settecento giovani di ragguardevoli famiglie, di cui
cenventisei erano dei dipartimenti italiani; semenzajo d’uffiziali e
d’impiegati, e insieme ostaggi: altri vi chiamò per istruirli nelle
arti meccaniche. Secondo il decreto della repubblica italiana si
mantenevano a Roma dodici allievi a studiare belle arti; le favorivano
le accademie di Milano, Bologna, Venezia, che colle spoglie de’
monasteri formavano gallerie. Un Istituto nazionale aveva attribuzioni
effettive, invece di starsi a sbadigliare dissertazioni o mandare
diplomi alle accorte mediocrità. Intanto operavasi ad abbellire le
città: a Verona si sgombrarono l’Arena e l’arco de’ Gavj e de’ Borsari;
a Milano si finì la facciata del Duomo, assegnandovi cinque milioni
sulle proprietà di quello vendute; si spianò il Foro Buonaparte,
ideando trasportarvi tutti gli stabilimenti pubblici e dicasteri, il
che avrebbe sostituito una nuova alla città storica; e Antolini n’avea
preparato il disegno tutto classico, ma non si fece che l’Arena, e
si cominciò il magnifico arco del Sempione, che dovea poi portare
il nome e i fasti de’ suoi nemici. Il Foppone vi era destinato ai
cenotafj degli uomini illustri: si aprì la strada di circonvallazione;
si fecero le porte Nuova e Marengo; s’istituì una scuola di musaici
per eternare la deperente Cena di Leonardo, ch’erasi fatta copiare da
Giuseppe Bossi; si commise a Fidanza di ritrarre tutti i porti del
regno, ad Andrea Appiani di dipingere il palazzo reale e trentamila
franchi per far incidere i suoi disegni della campagna d’Italia: si
allogarono a Canova il Teseo per ornare la piazza reale e una statua
dell’imperatore[84].

Nel palazzo di Venezia, Moro, Borsaio, Bertolani, Demin, Giani, Hayez
ingegnavansi di emulare i grandi che aveano decorato le sale della
repubblica: dal Beltrami di Cremona Napoleone faceva intagliare
in un’agata il proprio ritratto, e Giuseppina in sedici corniole
bionde la storia di Psiche, altri lavori Eugenio, e per imitazione
i cortigiani; a Thorwaldsen fu commesso un gran bassorilievo del
trionfo d’Alessandro pel palazzo Quirinale; ad Amici di lavorare
nelle fonderie di Pavia uno specchio riflettore di cinque piedi di
diametro. Napoleone assegnò ottomila lire ad Oriani, tremila a Volta,
il quale volle andasse ad esporre la sua grande scoperta all’Istituto
di Francia: nelle Università collocava uomini illustri, istituiva
anche cattedre speciali, come a Milano quelle di letteratura per Salti,
d’ostetricia pel Giani, di chimica pel Porati, d’alta legislazione pel
Romagnosi, ove dare cognizioni di fatto e di ragione per norma alla
legislatura e all’amministrazione pubblica: nel senato annicchiava i
più rinomati, e ne ornava il petto colla corona di ferro e la stella
d’onore. Il reggiano Luigi Lamberti grecista e bibliomano riceveva
dodicimila lire per la magnifica edizione bodoniana di Omero; Strático,
autore d’un dizionario di marina, sopraintendeva alle acque e strade;
il repubblicano Compagnoni redigeva i protocolli del consiglio di
Stato; quelli del senato Luigi Mabil parigino, divenuto diligente
scrittore italiano; all’Accademia di belle arti era segretario lo
Zanoja, all’Istituto Luigi Bossi; Gherardini compilava la gazzetta;
Onofrio Taglioni di Bagnocavallo pubblicava il _Codice Napoleone col
confronto delle leggi romane_; Melchior Gioja presso il ministero
dell’interno ammassava la statistica di ciascun dipartimento; il
fiorentino matematico Brunacci, lavorava al naviglio di Pavia, e
meglio l’ingegnere Parea; Giovanni Rasori, negli ospedali militari
e come protomedico, diffondea la dottrina del controstimolo; il
Testa di Ferrara, autore dell’opera _Sulle malattie del cuore_, fu
direttore generale degli ospedali; Marzari intraprendeva la descrizione
geologica del Vicentino, del Bergamasco e de’ colli Euganei;
Breislak, amministratore delle polveri, quella del Milanese; Brocchi
sopraintendeva alle miniere, Gautieri ai boschi, Mengotti alle finanze
e Cossali alle acque e strade del Veneto: Oriani misurava l’arco
meridiano fra Rimini e Roma; nelle scuole militari insegnavano Collalto
e Caccianini[85], in quella dei paggi Urbano Lampredi ellenista;
Longhi incideva Napoleone ad Arcole e il ritratto del vicerè con
mirabili piume; una compagnia drammatica reale, diretta da Fabrichesi,
atteggiava le migliori commedie e tragedie; Bonifazio Asioli da
Correggio dirigeva il conservatorio di musica; Salvatore Viganò facea
stupire cogli epici suoi balli, come Rossini colle strepitose armonie.

Era ministro della giustizia Luosi, destro modenese, di molta sapienza
legale e sostenitore dello stretto diritto; segretario di Stato
Aldini, che come professore a Bologna aveva acquistato nome di valente
giurista; Moscati, esperto chimico, presedeva all’istruzione pubblica;
alle acque e strade Paradisi reggiano[86], figlio di Agostino poeta,
e scrittore felice egli stesso, che avventatosi de’ primi nella
rivoluzione, si costituì mecenate degli scrittori liberali, favorì
Buonaparte a diventare re, e ne fu fatto conte e gran dignitario; e
adempiva la raccomandazione ch’e’ solea fare a ministri e ambasciatori
— Tenete buona tavola e mostratevi garbati colle donne». In fatto alle
sue cene adunavasi quanto v’avea d’eletto nel regno, e vi si tesseano
gli intrighi letterarj a favore delle mediocrità e a depressione di chi
osasse tenersi indipendente.

Vi primeggiava Vincenzo Monti da Fusignano, poeta de’ migliori fra
l’antica scuola, finchè gli avvenimenti nol tolsero dai soggetti
arcadici per lanciarlo nell’attualità, donde trasse e gloria e
disonore, perchè, invece di signoreggiare gli eventi col carattere,
vi si abbandonò. Sul trucidato Bassville fece un poema, ove conducea
l’ombra di questo a vedere i _mali e gl’infiniti guaj_ di Francia,
bestemmiando i capi di quella, già solcati dal fulmine di Dio. Francia
invece trionfa, improvvisa repubbliche nell’alta Italia, donde violenti
sarcasmi sono avventati al cantore della tirannide; ed egli, più
insofferente degli emuli nel proprio paese che pauroso de’ nemici
nell’altrui, viene nella Cisalpina, e di sua conversione dà prova in
articoli e canzoni, spiranti esagerazione feroce. Un’ode, ove impreca
al «sangue del vile Capeto, succhiato alle vene dei figli di Francia
che il crudo tradì», rimarrà immortale quanto il poema in cui lo
deplora come il «re più grande, il re più mite».

Dalla morte del matematico Mascheroni deduce un altro poema a strazio
dei Bruti e dei Licurghi della repubblica Cisalpina, allorchè questa
perisce, va esule e trae nuovi spettri a bestemmiare quel Direttorio
che non soccorre la diroccante Italia; inneggia la vittoria di Marengo,
assicurando che il giardino di natura non è pei Barbari, e che dove è
Buonaparte son vittoria e libertà. Questo Buonaparte ch’egli salutava
«rivale di Giove perchè rivali in terra non poteva avere», numera le
vittorie coi giorni, e il Monti le canta, invocando che Giove lo assuma
tardi ai meritati onori dell’Olimpo: appena si accorge che Buonaparte
aspira alla corona, glielo fa consigliare da Dante, benchè sapesse che
tutt’altro era il voto della nazione[87]; e ne ebbe una tabacchiera
d’oro, cinquemila franchi, la croce di cavaliere e titolo e pensione di
storiografo. In tale qualità applaudiva ad ogni avvenimento di quella
Corte, colla _Jerogamia di Creta_ alle nozze di Napoleone, colle _Api
Panacridi_ al figlio che ne nacque, colla _Spada di Federico_ e col
_Bardo della selva nera_ alle vittorie, ammantando l’adulazione con
isfolgorante mitologia, interrotta da comparse di ombre, e avventando
all’Inghilterra imprecazioni ch’erano parte necessaria dell’adulazione.

E l’adulazione era profusa da una letteratura obbligata a fare
l’esercizio e presentare l’arme; sicchè nè feste sacre, nè gioje
private, nè discorsi d’accademia o di scuola poteano passare senza
incensi al regnante e ai ministri. Quirico Viviani preparava canzoni,
con cui i coscritti dovessero esalare un entusiasmo che non provavano;
applaudivano all’eroe il dilombato poeta Luigi Cerretti reggiano, e
il didascalico Arici, e Perticari, e Carlo Porta, e Angelo Mazza,
e l’improvvisatore Gagliuffi, e Bettinelli, e Paolo Costa; Gianni
era improvvisatore imperiale con seimila lire l’anno; Sgricci facea
stupire coll’improvvisare tragedie, ajutato da bella voce e mirabile
pronunzia[88]. Bottazzi traduceva in latino le adulazioni del Monti,
e sino il Codice fu voltato in esametri: Stefano Petroni napoletano
fece la _Napoleonide_, con cento medaglie emblematiche, illustrate
da altrettante odi: e l’adulazione non parea avere bastanti formole a
lodarlo, neppure chiamandolo Dio[89]. Scriveva il _Giornale italiano_
un Guillon lionese, che avendo parlato contro Fouché, fu messo
prigione, poi relegato in Italia, ove gl’Italiani dichiarava inetti
alla filosofia, alla tattica, alla poesia, alla musica, e li esortava
a scrivere piuttosto in francese; laonde si credette o si finse di
credere fosse incaricato dall’alto di preparare ad introdurre quella
lingua negli atti. V’avea commedia francese stipendiata; in francese
usavasi la conversazione, perchè così alla Corte: riconosceansi come
invenzione o introduzione francese istituti, franchigie, garanzie che
da un pezzo erano in vigore fra noi, con nome e forme nazionali.

Non sempre le adulazioni erano viltà, giacchè l’uomo si compiace
d’ingrandire quello cui è sottomesso, quasi a scusa del suo obbedirgli;
ma guaj a chi osasse non incensare e conservare il silenzio! Un
giornalista Lattanzio, che non lasciò contro al Paradisi, avventò
i _Costumi della rivoluzione_, avendo presagito le ambizioni
napoleoniche, fu posto nei pazzarelli. Ebbe gli arresti Giambattista
Giovio, perchè si credette peggiorativo il termine di _fetuccia_ da lui
dato alla decorazione della corona ferrea. Alcuni versi di Ugo Foscolo
nell’_Ajace_, ove deplorava l’avere tratto tanta gioventù a «giacersi
in esule tomba e vivere devota a morte», fecero proibire quella
tragedia, punire il censore, e relegare l’autore in Toscana[90]. Avendo
il Lampredi criticato un elogio funebre del Compagnoni, gli si intimò
non censurasse opere d’impiegati regj. Il capitano Ceroni per avere
poetato sull’indipendenza italiana, fu messo agli arresti[91]; involto
nella disgrazia sua il generale di brigata Tullié, credutone complice.
Chi non volesse lasciarsi schiacciare dalla forza, era schiacciato
dall’opinione, atteggiata nei circoli de’ ministri, nei caffè, nei
ridotti, nelle loggie massoniche, nelle consorterie letterarie.

Per verità, distrutto tutto il passato, a chi non volesse accettare la
rivoluzione, non restava che di rimpiangere e isolarsi: trista figura
in una società gaudente, nella quale invece esultavano abbondanzieri
impinguati sulle forniture militari, ricchi improvvisati colle spoglie
di luoghi pii, bagasce pompeggianti. Le loggie dei Franchimuratori
erano divenute stromento di Governo, e basti dire che Giuseppe
Buonaparte era granmaestro dell’ordine; granmaestro aggiunto Murat;
Beauharnais venerabile nella loggia di Sant’Eugenio, poi granmaestro
in quella di Milano, e sovrano commendatore del supremo consiglio
del trentesimosecondo grado; i ministri e primarj impiegati del regno
v’erano ascritti; e impieghi e onori si distribuivano a suggestione
della società.

Insomma adopravasi ogn’arte per illudere l’opinione; e per verità
non tutto era illusione. Ingegneri francesi lavoravano la via del
Moncenisio, e con italiani quella del Sempione, sulla cui galleria fu
scolpito _Al re italico_, si cominciò la via della Cornice tra Genova
e Nizza; Carlo Mallet gittò un ponte sul Po a Torino; si apersero
due strade dal Veneto al Tirolo; altre nell’Alpi e negli Appennini,
oltre le comunicazioni interne. Il canale di Bologna accorciò di venti
miglia il corso del Reno, e dopo Cento lo immetteva nel Po; quel di
Pavia congiunse il lago di Como e il Maggiore coll’Adriatico; se ne
progettò uno dal lago d’Iseo a Canneto che metterebbe in comunicazione
la valle Camonica col mare; quello del Mincio univa i laghi di Garda
e di Mantova; e un più grandioso fu divisato dal conte di Chabrol
fra Alessandria e Savona, valendosi del Tánaro e della Bormida per
congiungere l’Adriatico al Mediterraneo. Prony e Sganzin ebbero ad
esaminare i porti di Venezia, di Ancona, di Pola, di Ragusi; uno
ne fu costruito a Genova; il golfo della Spezia dovea divenire un
porto immenso, spendendosi venti milioni pei lavori di difesa, cinque
per fare la nuova città, uno pe’ sei cantieri. Insomma dal 1805 al
14 in opere nuove e manutenzione il ministero dell’interno erogò
settantacinque milioni[92].

Tutto poi che faceasi in Francia s’imitava qui pure, onde avemmo
gabinetto numismatico e conservatorio di musica; educandati femminili
a Milano, Verona, Bologna; scuola di veterinaria, d’acque e strade,
di genio militare, d’equitazione, di sordimuti; un’Accademia agraria
e un liceo in ciascun dipartimento, ove alla futile letteratura[93]
surrogavansi cattedre di storia e d’istituzioni civili, con solennità
d’esami e pubblicità di premj, il cui più ambito effetto era
l’esenzione dalla coscrizione: le Università di Padova, Pavia, Bologna
fiorivano. Una stamperia reale fu eretta a Milano. Un magistrato
presedeva alla salute pubblica, e si provvide alle tumulazioni
intempestive o insalubri, all’innesto del vaccino, alle quarantene.
Noi diligenze e messaggerie, noi telegrafi, noi case d’industria pei
poveri, noi case di correzione e prigioni migliorate, noi pompieri, noi
annue esposizioni e premj d’arti belle e d’industria. All’agricoltura
si dava pensiero fondando scuole, sistemando la custodia delle selve,
ordinando la vendita de’ beni comunali, ponendo a Monza un piantonajo.
Gautieri scrisse sui boschi, Re sull’agricoltura, Dandolo sui vini
e sui bachi da seta, Mabil sui giardini e su altri punti agricoli;
incoraggiavasi la coltura del colsa, della patata, del lino, delle
api, e chi cavasse zuccaro dall’uva o dalla barbabietola, coltivasse
il cotone, o facesse macchine per filare questo o il lino o la
canapa. Il toscano Morosi, dopo mandato a vedere i migliori opificj
stranieri, piantò la prima filatura di cotone, regolò la manifattura
de’ tabacchi, la polveriera a Lambrate, la fabbrica di falci a Castro,
e principalmente le zecche di Venezia, Milano, Bologna, ove si coniava
con macchine sue e di Gengembre. Si munirono Genova, le lagune venete,
e Ancona; Alessandria dovea congiungersi con Milano, Tortona, Torino,
formando una base alle operazioni militari, e un ricovero all’esercito
e alle provvigioni, in caso che dovessero aspettarsi rinforzi da
Francia. Tutto questo ed altro faceasi in tempo d’agitazione, fra
concatenate guerre, fra insaziabile smania di nuovi acquisti.

La rivoluzione, quantunque fra noi trapiantata, non isviluppatasi nè
maturata da lunghe lotte e da passi successivi e spontanei come in
Francia, avea tuttavia diffuso molto di vero, di giusto, di generoso,
di conforme ai tempi; dal cicisbeismo e dalle frascherie gl’ingegni
furono richiamati ad occupazioni serie, agl’impieghi, al militare, al
genio; nei consigli di Stato, nelle pubbliche arringhe rinnovavasi
l’eloquenza politica: e una Corte fastosa, ministri magnifici,
ambasciadori, istituto nazionale, scuole speciali, pompe frequenti,
fabbriche grandiose orgogliarono Milano d’una prosperità di parata.

Ma troppo sentivasi come e popoli e principi non fossero che stromenti
di Napoleone[94]. Egli erasi riservato sul regno d’Italia la somma
di venticinque, poi trenta milioni per l’esercito; sei milioni erano
dotazione della Corona, oltre i dominj particolari e pubblici; un
milione pel vicerè, al quale pure destinava il ducato di Francoforte;
le provincie di Dalmazia, Istria, Friuli, Cadore, Belluno, Conegliano,
Treviso, Feltre, Bassano, Vicenza, Padova, Rovigo rimaneano feudi
dell’impero francese, e col titolo di ducati l’imperatore le assegnò
a suoi generali col quindicesimo della rendita di esse; oltre che
l’imperatore vi si riservava quaranta altri milioni di fondi nazionali
per l’uso stesso. Era un ritorno ai tempi del più servile feudalismo,
alla brutale investitura della spada, alla differenza delle terre, e
sviliva il suolo della nostra patria, facendola vassalla de’ Francesi.
Fino i maggioraschi furono rimessi in vigore, e il titolo di barone;
nuove lusinghe agli ambiziosi e mangiapane, scandalo ai liberali,
che vedeano rinascere quelle aristocrazie che le nostre repubbliche
aveano distrutte, e l’oppressione essere conseguenza della uniformità
alla parigina. Titolati, ciambellani, consiglieri di Stato, ministri
e loro attaccati predicavano la beatitudine del tempo[95]: ma tutto
era un’imitazione o contraffazione della Francia la cui tirannica
e instabile uniformità trovavasi imposta a tanti paesi di vita e
carattere proprio; tutto sentiva della prepotenza soldatesca; quella
suddivisione in tanti dipartimenti[96] cagionava una profusione
d’impiegati e di spese; i prefetti erano piccoli sovrani: del che
Napoleone non sa giustificarsi se non collo stato di guerra che
sempre durò. Continuavasi anche ad asportare capi d’arte: e Venezia,
a cui gli Austriaci nel 1805, emulando Napoleone, aveano tolto alcuni
manoscritti, fra’ quali i Diarj del Sanuto, libri e quadri dovette dare
al museo Napoleone[97]; altri le gallerie di Milano e Bologna. Nè dopo
la consulta di Lione si trattò più politicamente dell’Italia, ma solo
degl’interessi della dinastia; e Napoleone scriveva al vicerè: «I miei
popoli d’Italia mi conoscono abbastanza per non dimenticare che il mio
dito mignolo ne sa più che tutte le loro teste»[98].

Quasi presentendo la breve durata, ogni cosa faceasi a precipizio
e coll’aspetto di rivoluzione, il che portava a mille arbitrj. Più
disgustavano le enormi imposte e i modi d’esazione spesso aspri, talora
assurdi; i salnitraj entravano in qualunque casa a raccogliere il
nitro; si moltiplicarono le estrazioni del lotto; il registro colpiva
le proprietà ad ogni trapasso. La taglia prediale, per la sola parte
dell’erario importò denari settantuno e mezzo per scudo nel 1799,
novantadue nel 1800, quarantotto nel 1802, quarantanove ne’ successivi,
sessantuno nel 1805 e 6: inoltre più che duplicate le imposte comunali,
per modo che nel 1811 la fondiaria gittò all’erario 51,581,130 lire,
oltre 4,561,024 di parte dipartimentale, e 10,036,968 di comunale.
Il dazio consumo nel 1805 fruttava lire 8,116,117; nel 1811 quindici
milioni pei Comuni murati, e sette milioni per gli aperti: e non
bastando al crescente preventivo, che negli ultimi anni sommò a
cenquarantaquattro milioni, si ricorse al tristo spediente delle
anticipazioni[99].

Ciascun ministro smaniava di presentare floridissimo il suo
dipartimento, e collo spendere faceansi ammirare, mentre gl’imbarazzi
e l’esecrazione ricadeano su quel di finanza. Giuseppe Prina avvocato
di Novara, al re di Piemonte soprattutto inculcava l’alienazione dei
beni ecclesiastici; poi venuta la rivoluzione e posto nel Governo
piemontese, avea suggerito a Napoleone di staccarne il Novarese:
questi, conosciutolo secondo il suo cuore, lo costituì ministro
delle finanze. Tutto spedienti per soddisfare le crescenti esigenze
dell’imperatore, non badava a reclami di popoli e di magistrati: scarso
d’inventiva, non faceva quasi che tradurre in italiano le ordinanze
francesi, e nel consiglio di Stato le sostenea coll’unica ragione
che venivano di Francia: insensibile a ogni cosa fuorchè ai premj del
sovrano, al quale non offriva mai i lamenti de’ popoli, ma gli applausi
degl’impiegati, sapeva disporre i conti discussi con tal arte, da
mostrare un non credibile fiore[100].

Napoleone, inebriato dagl’incensi di tutta l’Europa che stavagli
a’ piedi, più s’indignava che l’Inghilterra osasse resistergli, ed
esercitasse sul mare quella potenza ch’egli per terra. Risolse dunque
imporre a tutta Europa (1807 xbre) che non ricevesse più nave nè merce
d’Inghilterra, sicchè, non trovando più spacci alle sue manifatture
e ai prodotti delle sue colonie, questa morisse di fame. Da Berlino
prima, poi più estesamente da Milano emana quel decreto terribile;
sia prigione di guerra ogni Inglese; di buona presa qualunque
nave, merce, proprietà, magazzino di essi che venga côlto in paesi
occupati; respinto ogni bastimento proveniente da porti britannici;
non rispettato il vascello neutro che avesse subìto la visita inglese,
il che impedendo le navigazioni dei neutri, diede l’ultimo colpo al
commercio.

Gli uomini dovranno dunque condannarsi a privazioni insopportabili, i
re spiegare un’assolutezza che non tutti hanno nè tutti vogliono usare;
roghi accendonsi per ardere le derrate delle colonie, e le manifatture
della _perfida_ Albione: poi si vuol trarne guadagno col permettere
alcuna parziale introduzione a chi paghi il cinquanta per cento al
demanio imperiale; o si danno licenze particolari che mantellano il
contrabbando, sicchè l’onesto negoziante va in ruina, mentre sterminate
fortune fanno gli audaci. Allora si comminano dieci anni di lavori
forzati e la berlina e il marchio ai frodatori; e l’enormità della pena
fa che i giudici studiino di non trovare il delitto, benchè i delatori
di professione crescessero e lucrassero fino quindicimila lire l’anno.
Saccheggio, confisca, spionaggio ne conseguono in tutta Europa; violati
magazzini e lettere; spente le città trafficanti; reso necessario un
despotismo, qual neppure negl’impeti del Terrore; necessarie nuove
guerre per avere in dominio o in dipendenza tutte le coste dall’Olanda
alle Jonie.

Di qui lamenti e resistenze dappertutto; chiunque sente bisogno di
caffè, di zuccaro, di china, di cotone maledice all’imperatore: le arti
mancano di molti ingredienti e materie prime; il circondario confinante
era sottoposto a interminabili vessazioni; la coltivazione del nostro
canape restò per sempre rovinata, cercandolo altrove gl’Inglesi e gli
Olandesi; il commercio, che ha bisogno della stabilità, barcollava fra
sempre cambiati regolamenti; era un lusso la biancheria di tela cotone,
il prendere il caffè o la cioccolata, e i gelati che sono una necessità
ne’ meridionali; e intanto sulle piazze vedeansi bruciare balle di
merci inglesi, impinguare contrabbandieri. Con questo errore economico
Napoleone si pregiudicò più che con qualunque errore politico; giacchè
tale violenza mettevalo in contraddizione con tutta la civiltà,
pretendendo ridurre a traffico locale il commercio che già abbracciava
l’intero mondo. Da quell’istante restò data una formola alla politica
di Napoleone e a quella dell’Inghilterra; egli l’inceppamento, essa
la libertà del commercio; e su questo titolo si chiarirono le guerre
successive, non più di re ma di popoli, e perciò più difficili a
vincersi.

Aggiungasi che la nostra industria era sagrificata alla francese; i
trattati di commercio coll’impero tornavano a solo utile di questo,
come avviene in tutti quelli tra il forte e il debole; inceppavansi le
nostre manifatture perchè non mancasse sfogo alle francesi; i ferri e
gli acciaj del regno si trovarono esclusi dal Parmigiano, dal Piemonte,
dalla Toscana, dalla Romagna dacchè appartennero all’impero; le saje, i
pannilani, le berrette, i tessuti di seta, d’oro, d’argento, i velluti,
i damaschi che Venezia spediva in Levante, cessarono per la concorrenza
de’ francesi.

Napoleone avrebbe ambito la potenza sul mare, ma non ne toccava che
mortificazioni. Allestiva una fregata in Venezia? Appena lanciavasi
in acqua, ecco gl’Inglesi bruciargliela. Pellew scorreva i due mari
italiani, sempre minaccioso; coglieva le squadre di carico; presso
Lissa nel 1811 sbaragliò la flotta francese prendendo le fregate la
_Corona_, e la _Bellona_, mandando a male la _Favorita_, e salvandosi
la _Flora_.

Questi mali faceano allora sconoscere il bene, come poi del solo bene
si volle menar vanto. Che se nell’antica Lombardia l’amministrazione
procedeva regolare, non così ne’ paesi nuovi abituati a lasso governo
e a tenuissime taglie. Nei paesi a mare riusciva insopportabile la
privativa del sale, condimento che la natura profuse, e che doveasi
lasciare intatto per comprarlo caro dalla gabella, punito chi appena
attingesse acqua dal mare. Nelle Legazioni fremeasi delle insolite
gravezze, ed Eugenio proclamava: — Vi lagnate che ogni decreto
pubblicato ne’ vostri dipartimenti è una nuova gravezza. Che? Non
sapete voi leggere? vedreste al contrario come non v’ha un solo di
questi decreti che non sia per voi un benefizio»[101].

La trapotenza de’ prefetti e il despotismo soldatesco disagiavano
quel bell’ordine amministrativo; nella giustizia faceva orrore la
fucilazione, inflitta a chi tenesse coltelli aguzzi, foss’anche per
uso di tavola; la berlina e il marchio pareano voler togliere fin la
possibilità di ravvedersi e rigenerarsi; il Bellani procuratore regio e
il Luini presidente d’appello mandarono tanti al supplizio, che qualche
giudice rinunziò all’impiego. Vi si aggiungano le corti speciali e la
legge marziale. Eppure sempre durarono masnade, ingrossate da quelli
che sotterfuggivano alla coscrizione. Nel 1805 la terra di Crespino nel
basso Po, avendo tumultuato, fu messa al bando, e lasciata alla mercede
d’un brigadiere di gendarmeria, finchè l’imperatore s’accontentò di
perdonare se gli consegnassero quattro capi, di uno dei quali prese
l’ultimo supplizio[102].

Nel Veneto molti piccoli possessori abbandonarono i fondi anzichè
pagarne le taglie; i terreni abbandonati metteansi all’asta, e non
trovandosi chi li comprasse, forza era restituirli da amministrare
al possessore primitivo. Si affrettò dunque l’operazione del censo,
che ridusse d’un quarto l’estimo, e si perdonò un milione e mezzo
del debito. Nel 1809 s’introdusse un dazio sulla mácina, che con
vessatorie cautele esponeva a violazioni e a tirannide. Fu un grido
universale d’indignazione: alcuni lo repulsarono coll’armi, onde si
dovette ritrattarlo; ma nei dipartimenti del Reno, del Panáro, del
basso Po si piantarono tribunali, che fecero da trecento vittime. Altre
sollevazioni avvennero nell’antico Friuli pei censiti ingiustamente
(1806). Bartolomeo Passerini, curato della Vallintelvi sul lago di
Como, credette che, dove Napoleone avea promesso l’indipendenza poi
mentito, bastasse una voce per sollevare i popoli alla riscossa de’
loro diritti; e con pochi preti e villani e qualche fucile rugginoso e
pali abbronzati, proclamò l’indipendenza. Un pugno di gendarmi bastò
a sperdere quell’adunata, ma i capi furono guasti dal boja, benchè e
giudici e avvocati li trattassero da romanzeschi e da pazzi.

Ma bisognava spaventare, diceano: e per verità, mentre Napoleone
prodigava sangue, l’Inghilterra prodigava oro per suscitargli nemici
dappertutto. Le Bocche di Cataro avrebbero dovuto, secondo i trattati,
venire all’Italia; ma il marchese Ghislieri di Bologna, che le
custodiva a nome dell’Austria, le consegnò ai Russi. Napoleone si pose
al duro di non voler rendere Branau sull’Inn, tantochè l’Austria ebbe
a pregare i Russi di cedere esse Bocche, le quali con la repubblica
di Ragusi, occupata anch’essa col solito pretesto di preservarla
dagl’insorgenti, furono aggregate al regno d’Italia. Ma realmente
non stettero mai sottomesse: il generale Marmont, spedito a frenare i
Croati e Montenegrini che incessantemente le rincorrevano, moltissimi
ne uccise, ed essi uccisero e presero moltissimi soldati di Francia.

Altri nemici erano eccitati in Olanda, in Germania, nel Tirolo; le
Calabrie rigurgitavano di briganti e di Carbonari; i re aveano imparato
a valersi dell’armi popolari, e secondati dalle bande insurrezionali
si accingeano a un nuovo duello (1809): l’Austria stessa, fatta
assalitrice per la libertà dell’Europa, sollecitava i popoli di
Germania e d’Italia a difendere la nazionalità. L’arciduca Giovanni,
che campeggiava nel sollevato Tirolo, diresse a noi un proclama
dicendo: — Italiani, voi siete schiavi della Francia; voi prodigate per
essa oro e sangue; chimera è il regno d’Italia; realtà la coscrizione,
i carichi, le oppressioni d’ogni genere, la nullità di vostra
esistenza. Se Dio seconda l’imperatore Francesco, Italia tornerà felice
e rispettata in Europa. Una costituzione fondata sulla natura e sulla
vera politica, renderà il suolo italiano fortunato e inaccessibile
a qualsiasi forza straniera. Europa sa che la parola di Francesco è
sacra, immutabile, pura. Svegliatevi, Italiani, rammentatevi l’antica
vostra esistenza! basti volerlo, e sarete gloriosi al par de’ vostri
maggiori»[103].

Gli diedero ascolto alcuni in Valtellina, paese a cui la povertà
rendeva insopportabili le imposizioni, massime del sale e del
testatico; emissarj austriaci un Juvalta e un Parravicini vennero
a sommuoverla; le autorità fuggirono (maggio); si tempellarono le
campane; si volle polenta e vino e sale; ma dodici soldati di deposito
sbrancarono quel tumulto; i due sommovitori andavano ad ottenere premj
a Vienna e Pietroburgo; dei sedotti si colpirono molti coll’estremo
supplizio.

Il tirolese Hoffer, ricco tavernajo, spertissimo cacciatore, di statura
atletica, insieme con Speckbacher e col cappuccino Haspinger si era
posto a capo dell’insurrezione del suo paese, a nome della Madonna
e dell’imperatore d’Austria menando terribilmente quella guerra di
bande cui gl’Italiani non seppero mai affidare la loro indipendenza;
sconfisse più volte i nemici; fin due reggimenti obbligò a deporre
le armi innanzi alle carabine de’ suoi intrepidi briganti, i quali,
cacciati i Bavaresi dal Tirolo, proseguirono le vittorie, finchè
non vennero interrotte dall’armistizio Znaym. Hoffer non sa credere
che l’Austria abbia fatto la pace, solleva di nuovo il Wintschgau
e l’Oberinnthal, onde i Francesi lo dichiarano fuori della legge
(1809); sicchè quando, fidato all’amnistia, scese dai monti, fu preso
e processato a Mantova. Benediva agli altri prigionieri, e — il Tirolo
tornerà sotto Francesco»; non volle gli si bendassero gli occhi nè
inginocchiarsi quando fu fucilato.

Per secondare le evoluzioni di Germania, Marmont bezzicava gli
Austriaci dalla Dalmazia, dall’Italia Beauharnais, glorioso di trovarsi
alfine alla testa d’un esercito. Ma non avendo ancor raccolta tutta
la truppa sull’Isonzo, si ritirò sulla Livenza: onde gli Austriaci
occuparono Udine, passarono il Tagliamento, vinsero a Pordenone e
a Sacile (16 aprile) nella prateria di Camollo, sulle sponde del
Collicel, dopo un’azzuffata di sei ore e di copiosissimo sangue[104].
Il regno fu in desolazione, tutti pensando a fuggire, nessuno a
difenderlo; l’arciduca Giovanni occupò Padova e Vicenza, assalse il
forte di Malghera; e poteva facilmente spingersi fin alla capitale, se
non l’arrestavano le nuove di Germania, per le quali si ritirò onde
soccorrere Vienna. L’esercito d’Italia rincorato, e avuti rinforzi
dal Tirolo e dalla Toscana, lo incalza con brave battaglie fino al
Raab, dove, essendosi congiunto coll’esercito di Macdonald, misero a
sbaraglio l’arciduca (6 luglio), redimendo così la sconfitta di Sacile.

Bizzarro travolgimento! L’Austria si trovava a capo de’ popoli,
senza alleanze di re, e persuasa della possa delle moltitudini;
mentre Napoleone trascinava un corredo di re alleati, ma aveva
contrario lo spirito popolare, e dava colpa ai nemici del ricorrere
all’insurrezione, cioè alla voce del popolo. Al pericolo oppone
tutto il suo genio, e per ferire con colpo decisivo, marcia grosso e
impetuoso sopra Vienna, e dopo pochi giorni la prende; passa il Danubio
e lo ripassa, e nel piano di Wagram (6 luglio) riporta una vittoria
sanguinosissima.

L’Austria era in situazione tutt’altro che disperata, eppure nella
pace (14 8bre) si rassegnava a sfasciare le mura di Vienna, perdere
duemila miglia quadrate con tre milioni e mezzo d’uomini, le ricche
miniere di Salisburgo, e ottantacinque milioni di fiorini, e aderire al
sistema continentale: umiliata dunque non distrutta, e perciò attenta
alla riscossa. Alle provincie da essa cedute sulla destra della Sava
vennero unite Ragusi e la Dalmazia col nome di Provincie Illiriche.
Nel tempo che queste erano appartenute al regno d’Italia, si era dovuto
usar riguardi a una civiltà sì differente, ma si procurava migliorarle,
disseccavansi molte paludi, si restauravano strade; Vincenzo Dandolo,
farmacista veneziano, divenuto senatore, fatto provveditor generale
di que’ paesi v’incoraggiò la pastorizia, l’agricoltura, i mercati,
le saline, le vetriere; s’istituirono un vescovado e un seminario
greco, un liceo; si abolirono i fedecommessi; domandando però il solito
tributo di sangue, un contingente di tremila ottocento uomini. Essendo
di spesa più ch’altro, la perdita di quel paese non rincrebbe al regno
d’Italia, se non per cotesto disporne ad arbitrio.

Napoleone, disgustati i popoli, sente bisogno d’appoggiarsi ad alleanze
di re, e dalla propria _officialità_ diocesana fa cassare il suo
matrimonio con quella Giuseppina a cui tanto doveva; e al costei figlio
Eugenio vicerè d’Italia dà incarico (1807 marzo) d’annunziarle ch’essa
non è più sua moglie, e d’andare a cercargliene una in quella Casa
d’Austria dond’era Maria Antonietta. I buoni Viennesi gemevano su Maria
Luigia, vittima offerta a placare un nemico, e null’altro che ostaggio
in mano della Francia, e fabbricatrice d’un erede (1811 marzo). Nato
il quale, e intitolato re di Roma, parve consolidasse la dinastia
napoleonica, e un impero che allora toccò all’apogeo.



CAPITOLO CLXXX.

I Napoleonidi a Napoli.


Le vittorie aveano tolto a Napoleone il senso delle convenienze:
sicchè, afferrato lo scettro a guisa di spada, più non badava agli
interessi della sua o delle altre nazioni, ma alla propria volontà;
offesi tutti, credesi da tutti odiato: laonde rinnega le tradizioni,
vuol sovvertire l’Europa o rimpastarla a sua obbedienza, perciò
collocare sui troni i parenti suoi. E comincia con Napoli.

Ferdinando Borbone vi era stato applaudito al suo ritorno come simbolo
di pace, ma non seppe perdonare; anche cessati i pericoli, continuò
processi d’opinione. I soldati detti della Santa Fede a grosse masnade
negli Abruzzi rapinavano. L’erario esausto rifornivasi con infelici
ripieghi: intanto che l’inesorabile Carolina non requiava dagli
intrighi. Dei quali accusandola, Napoleone avea spedito trentamila
Francesi ad occupare Terra di Otranto acciocchè non vi sbarcassero
gl’Inglesi. Acton proclamò che la nazione si armerebbe come un uomo
solo, per seguire il suo re alla difesa dell’indipendenza; ma nessuno
si mosse, e il generale Gouvion Saint-Cyr dispose quelle truppe ne’
posti opportuni. I Reali, col pretesto di respingere una flottiglia
tunisina, distribuirono armi ai Calabresi, fecero reclute, negoziarono
un prestito in Olanda, lasciavano che gl’Inglesi levassero soldati, e
inseguissero i bastimenti francesi fin sotto i forti.

Se n’indispettiva Napoleone, e viepiù dacchè Carolina ricusò dare
sposa sua figlia Amalia al Beauharnais (1805), figlio adottivo di lui
e non ancora principe. Quando, per la coronazione, essa gli mandò
ambasciadore a Milano il principe di Cardíto, e’ volle riceverlo
in giorno di concorso e sfarzo straordinario onde far più pungenti
le invettive che lanciò contro la regina, fin a chiamarla Gezabele.
Esigette ch’ella congedasse Acton; e Carolina per quanto pregasse,
fremesse, si ostinasse, dovè dargli successore il duca di Luzzi. Essa
avrebbe potuto assodarsi in capo la corona soggiogandosi all’imperiosa
volontà di Napoleone, che inclinava più a riconciliarsi le vecchie
dinastie che a prostrarle; e tanto più questa, che diverrebbe un
rinfianco al regno d’Italia: ma invelenita dall’ultimo affronto, non
mettea misura alle parole, tenea carteggio con Nelson e con Elliot,
inglesi, richiamò in Corte il cardinal Ruffo, valeasi delle cognizioni
amministrative del conte di Damas generale francese migrato, tentava
sedurre l’ambasciatore francese Alquier; il quale, mosso da passioni
men che virili, incapricciavasi a mortificarla, e la trattava come niun
suole una regina, nè una donna.

Tutt’a un tratto Napoleone intima sia mandato via Damas; guai se truppe
straniere sbarcassero; la Corte faccia un trattato di neutralità,
nel qual caso l’esercito d’occupazione se n’andrà dal regno, se no
drizzerebbe sopra la capitale. Il re firmò, ed esibì sei milioni l’anno
sin al fine della guerra; e le truppe partirono per giovar l’impresa di
Massena nell’alta Italia.

Allora subitaneamente Inglesi da Malta, Russi da Corfù, Montenegrini
da Cataro spingonsi nel golfo di Napoli; e Carolina, violentata
senza rincrescimento, inalbera la bandiera della coalizione, mette
le sue truppe sotto il comando del russo Lascy; talchè sessantamila
uomini poteano, forzando la Romagna, giungere sul Po, assalire alle
spalle Massena, e dar mano agli Austriaci appostati dietro l’Adige.
Il principe Eugenio mosse ad affrontarli verso Bologna: ma intanto le
sorti italiche decideansi in Germania e nella battaglia d’Austerlitz,
dopo la quale la Corte napoletana si trovò abbandonata dagl’Inglesi
per consiglio, dai Russi per patto. E Napoleone dichiara che i Borboni
hanno cessato di regnarvi, e sfoga l’insolente verbosità contro «la
moderna Atalia, quella donna scellerata, che tante volte e con tanta
sfacciataggine avea violato quanto gli uomini han di più sacro; via
costei dal regno; vada a Londra a crescere il numero degl’intriganti;
non più perdono ad una Corte senza fede, senza onore, senza ragione;
il più bel paese del mondo non porti più oltre il giogo de’ più perfidi
fra gli uomini».

A Giuseppe, prediletto tra’ suoi fratelli, Napoleone confidava
le sue passioni giovanili, i primi accessi di sua ambizione, i
momentanei scoraggiamenti; poi venuto al potere l’adoprò, massimamente
nella diplomazia. Da lui furono condotte le paci di Lunéville e
d’Amiens, da lui sottoscritto il concordato; e col suo buon senso e
coll’osservazione dei fatti moderava gl’impeti del fratello, se non
altro temperava colle buone maniere i colpi che alla cieca avventava
la irremovibile assolutezza di quello. Napoleone avealo destinato
re dell’alta Italia; ma egli ricusò, o considerasse come precario
un regno su cui l’Austria conservava le pretensioni, o non volesse,
coll’accettare uno scettro straniero, infirmare il plebiscito che
lo designava eventuale successore all’impero (1806 31 genn.). A lui
scrisse allora Napoleone: — Intenzione mia è d’impadronirmi del regno
di Napoli, e mettervi un principe di mia casa. Massena e Saint-Cyr
vi marciano con due corpi; te ho nominato generale in capo, e re se
vorrai; se no, un altro. Quarant’ore dopo ricevuta questa lettera,
parti per Roma, e il tuo primo spaccio m’informi che sei entrato
in Napoli e ne hai snidato una Corte perfida, e messo questa parte
d’Italia sotto le nostre leggi».

Napoleone vuol dunque un re colà, non per nazionalità o per altre idee,
ma perchè gli è necessario. All’avanzarsi de’ Francesi, Ferdinando
fugge a Palermo, lasciando ordine alla reggenza di non cedere per
nessun patto le fortezze. Comandava l’eroismo fuggendo! Carolina
determinata a ceder solo alla violenza, raccozza le masnade, richiama
alle armi frà Diavolo, Nunziante, Rodío, Sciarra, terribili ad amici
e a nemici; ma le provincie non rispondono al suo impeto; arma i
lazzaroni, ma ne deriva tal minaccioso disordine, che i cittadini
assumono essi medesimi la difesa, e trovandosi l’armi in mano, chiamano
i Napoleonidi come liberatori.

Cinquantamila di questi procedono senza ostacolo, prendendo le
fortezze, salvo Gaeta che fu difesa dal principe di Assia Filippstadt,
e Capri occupata dagl’Inglesi: ed entrano a Napoli (13 febb.) nel punto
che n’esce la regina. Quel Vanni ch’era stato stromento alle vendette
di lei, non potè farsi raccogliere con essa, onde si ammazzò e la sua
fine serva d’esempio a’ pari suoi. Lo Speciale era già morto pazzo in
Sicilia. Una colonna, condotta da Regnier e Gouvion Saint-Cyr, andò a
sottomettere le Calabrie, ove si sosteneva Damas col principe reale,
ben presto costretto egli pure tragittare in Sicilia.

I Francesi erano accolti con favore dai borghesi, e con isdegno dalla
plebe; e Giuseppe, qual luogotenente del fratello a Napoli, protegge la
sicurezza, disarma il vulgo, ricompone l’esercito, ravvia i tribunali,
pianta un Governo provvisorio, promettendo migliorare senza sovvertire.
Egli visitava Scigliano al fondo della Calabria ulteriore, quando
ricevette un decreto che lo dichiarava re delle Due Sicilie (1806 31
marzo), «cadute in potere di Napoleone per diritto di conquista e come
formanti parte del grand’impero»: da questo voleva tenerlo dipendente
col crearlo grand’elettore.

I Napoletani non aveano più che un amore d’abitudine per la dinastia
caduta; mentre il partito vinto nelle sanguinose riazioni precedenti,
favoriva i Francesi, e sperava usufruttarli. Abbondarono dunque le
feste e le codardie come sempre; i più devoti al re antico accorsero
primi al re nuovo; il marchese del Gallo[105], ambasciadore di re
Ferdinando a Parigi, diveniva ministro di re Giuseppe; lo stesso
cardinal Ruffo lo incensava. Giuseppe non trovò difficoltà ad applicare
il sistema francese; la benevolenza con cui fu accolto gli permetteva
di collocare nel ministero e negli alti impieghi i nazionali: ma non
ebbe la delicatezza di non porvi forestieri, quantunque lodevoli, quali
furono Dumas ministro della guerra, Röderer delle finanze, Miot degli
affari interni, Saliceti della polizia, intanto che gli eserciti facea
comandare da Massena e Jourdan, eccellenti spade. Avido di piaceri,
di ricchezza, di fasto come uom nuovo, e cercando conciliar la parte
esecrata di capitano d’esercito straniero con quella di riformatore
e pacificatore, Giuseppe sperò farsi ben volere e mostrarsi italiano.
Conservò sul trono le idee e le simpatie della rivoluzione, per quanto
può un re; si tenne amici tra i filosofi; amava la discussione,
il miglioramento, la giustizia distributiva; proponeasi di farsi
amare, non crescere le imposte, prevenire le insurrezioni, promovere
gl’interessi del regno; abolendo, non i titoli, ma i privilegi e le
giurisdizioni della nobiltà, estese l’amministrazione della giustizia
a paesi fin allora tiranneggiati dai feudatarj. S’introdusse il
codice Napoleone; e sebbene senza giurati e con commissioni speciali e
tribunali d’eccezione, la giurisprudenza e la giustizia migliorarono
dall’esser esposte al dibattimento, come l’amministrazione dalla
semplicità e robustezza. Il Tavoliere di Puglia[106] fu dato a censo,
e in parte anche donato a poveri per moltiplicare i proprietarj,
estendere la coltura e crescere la produzione; al qual uopo
svincolavansi le manimorte e i fedecommessi, e alle ventitre tasse
dirette venne sostituita la fondiaria, senza esenzioni ma senza
catasto. Le finanze furono tolte dallo scompiglio, riducendo nel
solo Gran Libro tutte le rendite e le spese, in un sol banco tutto il
denaro entrante o uscente. Si ordinò l’istruzione pubblica, favorendo
le accademie Pontaniane e d’incoraggiamento, e istituendo la Reale di
storia, antichità, scienze ed arti. Case di giuochi e di voluttà furono
sistemate per lucro del fisco; illuminate le strade, e apertane una da
Toledo a Capodimonte.

Giuseppe alla moglie scriveva: — Le cedole del banco di Napoli, che
perdevano il venticinque per cento, or vanno al pari. Co’ miei proprj
mezzi ho fatto la guerra e l’assedio di Gaeta, che costò sei milioni di
franchi: trovai modo a nutrire e assoldare novantamila uomini; giacchè
oltre sessantamila di terra, ne tengo trentamila fra marini e invalidi,
pensionati del vecchio esercito, guardacoste, cannonieri litorali; ed
ho mille cinquecento leghe di costa, cinte, bloccate, spesso attaccate
dal nemico. Con tutto ciò non iscontentai colle imposte i proprietarj
nè la plebe, e posso senz’imprudenza viaggiare quasi solo dappertutto:
Napoli è tranquilla quanto Parigi, trovo imprestiti, do esempio di
moderazione e d’economia; non ho nè amanti, nè favoriti, nè chi mi
meni pel naso; e generalmente si sa che, se non fo di meglio, non è
colpa mia. Leggi ciò a mamma e a Carolina, per torle d’inquietudine;
assicurale che mai non ho cambiato, e che cittadino oscuro,
coltivatore, magistrato, sempre sagrificai volentieri il mio tempo a’
miei doveri...».

Ma sprovvisto delle robuste qualità che voglionsi a un capo di
dinastia, sospettoso ne’ pericoli fin all’ingiustizia, volente docilità
perchè docilissimo al suo padrone, Giuseppe, ben presto sentì che
eragli cinta una corona di spine; e ai primi soliti applausi successero
dappertutto le solite scontentezze, e sollevazione, e guerra di
briganti. Essendo gl’Inglesi col generale Stuard sbarcati nel golfo
Sant’Eufemia (1 luglio), le Calabrie divamparono; Morte ai Francesi fu
il grido generale; ed a Regnier, che era stato respinto a Maida, fu
duopo di gran coraggio e prudenza per trincerarsi a Cassano e salvar
le sue truppe, finchè Massena, costretta Gaeta a capitolare dopo
vigorosissima resistenza, accorse ad allargarlo, fucilando, impalando,
lapidando, bruciando.

Il ritirarsi degl’Inglesi non lasciò più sussistere che qualche banda,
fra cui quella di Michele Pezza detto frà Diavolo, a lungo imbaldanzì
fra la Romagna e il Volturno, piombando sui Francesi, assalendo i
convogli e i quartieri, ov’era meno aspettato. Battuto a Sant’Oliva,
sparpaglia i suoi, e rifugge in Sicilia; poi tornato li raccozza, e
fortifica un quartier generale; sconfitto in campagna, è vincitore
nelle montagne; e con mille uomini tien testa a tutte le forze del
paese, e specialmente al colonnello Hugo, destinato contro di lui;
perdutane la traccia, i Francesi lo credono perito, ed ecco uno dice
averlo trovato sulla destra del Tiferno, altri sulla sinistra, chi
negli Abruzzi, chi presso Napoli o nella Puglia. Così lungamente
stancò i nemici, finchè fu preso e decapitato. Ad egual fine andarono
pure Rodío e molti briganti, fucilati, impiccati sommariamente, e non
soltanto da parte de’ militari, e fin sotto la fede di amnistia, eppure
senza estirparli; quando le prigioni fossero zeppe, parte mandavansi
a Fenestrelle e ad altre fortezze lontane, parte si uccideano
compendiosamente.

Così ordinava Saliceti, astuto côrso e giacobino, che fatto ministro
di polizia, credeva o fingeva dappertutto congiure[107], o le lasciava
tessere a bella posta per istracciarle con tremendo rigore: gran
signori e titolati, nobili donne, un vescovo, preti, frati, sin monache
furono mandati alla prigione, alla morte orribilmente esacerbata: e
perchè il popolo tumultuò gridando grazia al supplizio del marchese
Palmieri, al domani nuove forche portarono i promotori di quella
dimostrazione. Una volta fu infocata una mina sotto al palazzo del
Saliceti, ma egli campò; alfine morì di colica e si disse di veleno.

Tali persecuzioni e tali arbitrj sapeano più del crudele essendo
commessi da coloro che non rifinivano di pomposamente incolpare il
vecchio governo, del quale perciò rinasceva il desiderio. Carolina
dalla Sicilia, sempre fissa gli occhi al continente, mandava diplomi
e cappelli a quei ch’essa chiamava realisti e indipendenti, e gli
altri chiamavano assassini, e amicavasi la Russia, per cui interposto
Napoleone le assegnò in compenso le isole Baleari, senza tampoco
interrogarne i re di Spagna a cui esse appartenevano.

Ad ogni bene del regno di Napoli si opponevano lo stato vacillante del
paese, la continua guerra, l’incerto avvenire: pure il re debolmente
buono era compatito, e della coscrizione o dei rigori versavasi ogni
colpa su Napoleone suo padrone. Il quale con una politica egoista
che non lasciava campo a discutere nè consigliare, a que’ suoi re da
scena infliggeva prove crudeli, dolorose umiliazioni; ripeteva loro,
come a tutti i suoi satelliti, — Non avete appoggio altro che me; s’io
cadessi, cadreste; previsione vera, e ch’è la peggior condanna del
suo sistema. A Giuseppe dirigeva rimproveri da padrone, tacciandolo
di debole, inoperoso, vano, irresoluto, che voleva tenere un esercito
eppure non incarire le tasse, non prendea Gaeta, non allestiva una
spedizione contro la Sicilia. — Il Napoletano (gli dicea) deve fruttar
cento milioni, quanto il regno d’Italia, e trenta bastano per pagare
quarantamila uomini. I vostri piacentieri vi dicono che siete benvoluto
per la vostra dolcezza. Follia! che domani io perda una battaglia
sull’Isonzo, e saprete qual conto fare della popolarità vostra e
dell’impopolarità di Carolina. Trista figura d’un re fuggitivo!»

Altrove disapprova l’istituzione delle guardie nazionali. — Costoro
inorgogliano, e credono non essere conquistati: popolo straniero che
abbia tali bizzarrie non è sottomesso. Volete una guardia reale? ebbene
prendete quattromila Napoletani, nulla più, padri di famiglia ben
fiacchi e vecchi, buoni di custodire la casa dai ladri; altrimenti vi
preparate gravi sciagure... Un esercito napoletano? ma il solo grido
di _Via i Barbari_ ve lo torrà. Coscrivete tre o quattro reggimenti,
e mandateli a me, che colla guerra darò a loro disciplina, coraggio,
sentimento d’onore, fedeltà, e ve li rimanderò capaci di divenire
nocciolo d’un esercito napoletano. Intanto assoldate degli Svizzeri,
dei Côrsi, dei Tedeschi, che io non posso lasciarvi cinquantamila
Francesi, quand’anche foste in grado di pagarli». E qui divisava le
guise di difendere il regno con poche truppe, distribuite da Napoli
sin in fondo alle Calabrie; si munisse una gran piazza al centro
del regno, ove il re potesse gettarsi col tesoro e gli archivj e le
reliquie dell’esercito, e resistere sei mesi a sessantamila Inglesi e
Russi. Oltre che un re straniero non istà senza pericolo in mezzo ad
una popolazione numerosa, necessariamente nemica, Napoli pareagli poco
acconcia; meglio Castellamare, e all’uopo dovrebbero destinarsi cinque
o sei milioni annui per dieci anni[108].

Erano a cozzo la bontà senza genio col genio senza bontà. Giuseppe, che
avrebbe voluto esser re del suo popolo, non satellite dell’imperatore,
provava qual tristo dono fosse quello d’un trono; Napoleone invece
proclamava senza riserva la ragion di Stato e l’indifferenza a ogni
altro affetto; e — Giuseppe deve intendere che tutte le affezioni
ora cedono alla ragion di Stato; sappia dimenticare quando occorre
tutti i legami d’infanzia; facciasi stimare, acquisti gloria. Io non
posso avere parenti oscuri; non amare e riconoscere per tali se non
quelli che mi servono; non al nome di Buonaparte è attaccata la mia
famiglia, ma a quel di Napoleone; ed io fo una famiglia di re che si
connetteranno a un sistema federativo»[109]. In fatti egli volle i
parenti mutassero il lor nome di casa in quel di Napoleone; pretendeali
esaltati sopra milioni di sudditi, ma umiliati sotto di sè; escludeva
la famigliarità antica, ordinava con durezza talvolta mista d’ironia, e
diceva a re Giuseppe: — Se le contingenze non vollero che aveste grandi
movimenti militari a compire, vi resta la gloria di saper nutrire il
vostro esercito».

E quanto alla guerra, chi meglio poteva dare suggerimenti opportuni? Ma
non conoscendo i luoghi, e presumendo dirigere fino le particolarità,
sbaglia spesso. Da prima vuole si conquisti la Sicilia: è necessario
e facile. Ma ecco resistergli lo scoglio di Gaeta: allora impone
si convergano qui tutti gli sforzi, tutti, eppure senza stornarsi
dalla Sicilia. Poi gli bisogna soccorrere Corfù: tutto si faccia a
quest’uopo. Ordini sopra ordini, che imbarazzano gli esecutori, e fanno
stizzire il padrone. Vuol si compia la guerra? rinfaccia a Giuseppe
d’avergli lasciato 45,000 uomini. Ma Giuseppe gli dice, — Datemi dunque
il denaro da pagarli», esso risponde che effettivamente non passano i
25,000. Nel resto poi mostrava quel disprezzo delle nazioni e delle
proprietà, che infangò la sua gloria; a severa risolutezza spingeva
il fratello timido e circospetto, e ne combatteva gli scrupoli: — Gli
arrendimenti non hanno nulla di sacro, perchè nulla è sacro dopo la
conquista. In un paese che paga ventisei milioni di debito pubblico,
si ritarda il pagamento di un anno, ed ecco ventisei milioni belli e
trovati».

Giuseppe proponeva clemenza, riconciliazione, rispetto alle leggi e
alla nazionalità? Napoleone gli rispondeva come chi, per la prima
volta trovandosi a fronte una popolazione armata a difesa delle
leggi e dell’indipendenza, crede facile il domare i popoli quanto i
re; giudica oltraggio e scandalo pericoloso ogni opposizione alla
vastità de’ suoi disegni, all’immensità della sua potenza; — Ho
inteso (gli dice) che avete promesso non imporre tasse di guerra, e
proibito ai soldati di esigere la tavola da’ loro ospiti. Piccolezze!
Non colle moine si guadagnano i popoli; decretate trenta milioni di
contribuzione: a Vienna dove non c’era un soldo, appena arrivato io ne
posi una di cento milioni, e fu trovata ragionevole[110]. Così pagate i
soldati, rimontate la cavalleria, abbiate abiti e scarpe. Avrei gusto
che la canaglia di Napoli s’ammutinasse: in ogni popolo conquistato
un’insurrezione è necessaria. Non sento abbiate fatto saltar le
cervella a un solo lazzarone, eppure essi adoprano lo stilo.... Ho
udito con piacere la fucilazione del marchese di Rodio.... Mi fu
gusto il sapere che fu incendiato un villaggio insorto: m’immagino
lo avrete lasciato saccheggiare dai soldati.... Gli Italiani, e in
generale i popoli, se non s’accorgono del padrone, propendono alla
rivolta. La giustizia e la forza sono la bontà dei re, che non bisogna
confondere colla bontà di uom privato. Aspetto d’udire quanti beni
avete confiscato in Calabria, quanti insorgenti giustiziati. Niente
perdono; fate passar per le armi almeno seicento rivoltosi, bruciare le
case de’ trenta principali d’ogni villaggio, e distribuite i loro averi
all’esercito. Mettete a sacco due o tre delle borgate che si condussero
peggio: servirà d’esempio, e restituirà ai soldati l’allegria e la
voglia di operare»[111].

E perchè un far simile doveva necessariamente procacciare nemici,
e quindi paure, gli soggiungea: — Vi fidate troppo de’ Napoletani.
Occhio alla vostra cucina; non abbiate che cuochi e scalchi francesi;
sempre in guardia a Francesi; di notte non entri a voi se non il vostro
ajutante di campo, che deve dormire nella camera precedente; e anche
a lui non dovete aprire se non dopo ben riconosciutolo; ed egli non
deve battere alla vostra porta se non dopo chiusa la sua». Vedete, o
oppressi, che i vostri oppressori non dormono tutti i sonni.

La pace di Lunéville aveva scomposto l’impero germanico, e tolta
la supremazia dell’Austria, in cui vece si formò una confederazione
del Reno sotto la protezione di Napoleone (1805 12 luglio); sicchè
Francesco II, «non sentendosi in grado di corrispondere alla confidenza
degli elettori e dei principi, e di soddisfare ai doveri di cui era
incaricato», rinunziò alla corona germanica, che così cessò d’esistere;
e in quella vece eresse ad impero gli eterogenei Stati ereditarj della
sua Casa, e non più Francesco II di Germania, ma s’intitolò Francesco
I imperator d’Austria. La Germania, fremendo del sentirsi serva allo
straniero, e trovandosi abbandonata dall’Austria, fece capo alla
Prussia, e insorse a nome della libertà nazionale: ma nella battaglia
di Jena Napoleone sfasciò la monarchia prussiana, e andò a troneggiare
nella reggia di Berlino (1806 14 8bre), come già in quella di Vienna;
poi menò i soldati di Francia e d’Italia sotto al rigido settentrione
nel cuore dell’inverno per sconfiggere i Russi ad Eylau e Friedland. Il
colloquio di Tilsitt lo riconcilia con Alessandro czar; e i due giovani
ambiziosi s’accordano di rinnovare l’uno l’impero d’Occidente, l’altro
quello d’Oriente: intanto Napoleone si fa assicurare le Bocche di
Cataro e le isole Jonie, compendio dell’eredità dell’uccisa Venezia.

Non contento delle opere di leone, volle ricorrere a quelle di volpe,
ciuffando il trono di Spagna per sostituirvi un re della sua razza. E
fu Giuseppe, al cui posto in Napoli destinava il generale Murat, come
appunto si cambierebbero le sentinelle d’un posto, senza sentire nè il
popolo cui toglieva, nè quello cui dava questi fantocci di re.

Giuseppe se ne andò nè rimpianto nè insultato, e da Bajona diede una
costituzione (1808 20 giugno) per le Due Sicilie, ma senza garanzie,
e vantatrice fra le miserie[112]. La Spagna, mercè delle istituzioni
comunali e di quel cattolicismo che, a sentire certi uni, credono causa
dell’indebolimento degl’Italiani, aveva conservato un vigore primitivo;
e insorse contro l’oppressore con una risolutezza, inaspettata
dall’Europa, avvezza a non considerar la libertà che sotto le forme
francesi, e che allora si avvide come dalle bande popolari potrebbe
essere fiaccato l’indomabile vincitore degli eserciti regj, il quale in
sei campagne dal 1808 al 1814 vi sacrificò centomila uomini all’anno.

Gioachino Murat nasceva alla Bastide sul pendio dei Pirenei; dal
mestiere paterno di oste passò soldato nell’87; e la migrazione degli
ufficiali nobili gli schiuse il passo ai primi gradi. Ben presto si
segnalò in Italia, sostenne or il coraggio or le imprese di Buonaparte,
di cui sposò la sorella Carolina; salì col salire di lui; fu intitolato
granduca di Berg e di Cleves; mandato a conquistar la Spagna, avea
creduto cogliervi un trono, del quale parvegli inadeguato compenso
quello di Napoli e la dignità di grand’ammiraglio dell’impero.
Eccellente in attacco e in una pompa più che nel governare, bello,
entrante, manieroso, tutto sfarzo di pennacchi e decorazioni, piaceva
più che non fosse amato. Giurò egli lo statuto di Bajona, ma non
l’effettuò mai, almeno quanto il convocare il Parlamento: pure, entrato
appena (6 7bre), rallenta molti rigori dello stato di guerra, cresce
le rendite alla cappella di san Gennaro, visita l’ospedale e regala,
scioglie i disertori ed i carcerati per piccoli delitti, e i sequestri
sui migrati in Sicilia, sollecita la liquidazione del debito pubblico
e le paghe ai soldati vecchi; fa attuare i codici francesi e le leggi
abolenti la feudalità; sopprime i monasteri possidenti, non quei
mendicanti; vietato ai vescovi di non stampar pastorali senza regia
approvazione; società d’agricoltura in ogni provincia, con terreno per
esperimenti, e a Napoli un giardino botanico; riservata la coltivazione
del tabacco. Molte opere pubbliche si compiono, e principalmente la
bella strada da Mergellina a Posilipo, il campo di Marte, la casa
de’ pazzi in Aversa, l’osservatorio astronomico. Estinse 57 milioni
del debito con possessi nazionali, ma moltissimi ricusarono riceverli
come di illecita provenienza: molti altri ne distribuì a Napoletani
e stranieri per farsene appoggio. Carezzava i militari, carezzava
i baroni e chiunque portasse un titolo: ma il popolo ne restava
sagrificato; e i soldati, sentendosi necessarj, divenivano licenziosi,
insolenti, e col pretesto di trame e d’accordo coi briganti vessavano
la quieta popolazione.

Tutto armi egli stesso, e conoscendo unico merito il guerresco,
per secondare e imitar l’imperatore voleva avere molti soldati, e
coscrivendo due uomini per mille, senza le antiche esenzioni della
città di Napoli e d’alcune famiglie, ne ebbe 60,000 di regolari, 20,000
di guardia nazionale; moltiplicati i gradi, pomposissime le divise, e
continue mostre, e scuole di genio e d’artiglieria; ma poi non sapeva
esigere l’obbedienza, perchè egli stesso nè imperava risoluto, nè
sottomettevasi alle leggi. Non si rassegnò come Giuseppe all’indecorosa
vicinanza degl’Inglesi, e assalita Capri difesa da Hudson Lowe, futuro
carceriere di Napoleone, venne a capo di prenderla.

Più gli doleva portare il titolo di re della Sicilia, mentre questa
restava ai Borboni; e tra per dignità di re, tra per imitare lo
sbarco meditato da Napoleone a Boulogne, divisò una spedizione contro
la Sicilia. Grandi preparativi fece in Calabria; grandi gl’Inglesi
sull’altra sponda; e guerra da briganti cominciò anche sul mare, con
gran sangue, grande spesa e nessuna conclusione. Ne prendeano spirito
in Calabria i briganti, e Gioachino pronunziò ordini ferocissimi; i
beni dei loro capi fossero venduti per compenso ai danneggiati e premio
agli zelanti; i soldati borbonici sarebbero trattati come ribelli; in
ogni Comune si facesse una lista de’ briganti, e qualunque cittadino
dovesse arrestarli, le commissioni condannarli compendiosamente: e
le liste mostrarono esser tanti, che sciagura se avessero operato
d’accordo! Responsali i Comuni dei danni arrecati nel loro territorio;
si arrestavano i parenti dei briganti e i loro fautori, parola di
spaventoso arbitrio; si esercitava contro di essi una caccia da
selvaggi, spezzando ogni legame di natura. Guaj a chi li ajutasse o
nascondesse! guai a chi non li rivelasse! D’un padre fu preso l’ultimo
supplizio per aver dato pane al figlio brigante: la moglie d’un altro,
dopo aver partorito, va affidare il neonato a una donna di Nicastro, e
questa n’è denunziata e messa a morte. Il generale Manhés faceasi fiero
esecutore dei fieri ordini, con supplizj spettacolosi e feroci, ch’essi
incontravano con intrepidezza.

Infine gl’insorgenti furono parte sterminati, gli altri ridotti a
tacere ed aspettare; allora si potè sistemare la giustizia, moderare la
polizia, attuare le riforme decretate, e principalmente l’abolizione
della feudalità col dividere e assegnare i beni a privati o a Comuni,
senza troppo farsi coscienza d’ingiustizia e d’abusi.

Non per questo rimase sicuro il regno, e sempre durò lo stato di guerra
civile cogli orrori che lo accompagnano; e la maschera di partito
toglieva vergogna ad infamie inarrivabili. Gli Inglesi mandavano in
Sicilia denari e truppe, e di 400,000 lire annue sussidiavano la Corte:
eppure riprovavano il brigantaggio che in Calabria si manteneva a nome
di Ferdinando, levarono ogni protezione a chi si rendesse colpevole di
delitti, poi si dolsero dell’aggravio dell’un per cento messo su tutti
i contratti, e che sconcertava i negozianti inglesi; anzi essendosi,
per una trama a Messina, arrestate molte persone di basso stato, e
voluto estorcerne la confessione mediante le basse prigioni che ivi
chiamano _dammusi_, e i ferri infocati ai piedi e le funicelle alle
tempia, gl’Inglesi non vollero tollerare tali sevizie in un forte da
loro presidiato, e non mancò chi nel Parlamento britannico chiamasse
quello il peggior Governo e il più oppressivo. Frasi che ripeteronsi
quando giovò, smentironsi quando giovò.

Rottasi la guerra del 1809, Steward e Carolina, sempre in occhio a
ricuperare la terraferma od almeno turbarla, mandarono in Calabria
sessanta legni da guerra e ducentosei da trasporto, quattordicimila
uomini di sbarco, oltre i briganti buttati in varj punti sotto
lo Scarola, il Bizzarro, il Francatrippe e altri nomi scherzosi o
spaventevoli. Gioachino avventurò la sua debolissima flottiglia contro
l’inglese (1809 25 luglio); Napoli vide fiera mischia nel suo golfo;
ma memore di Nelson, respinse con estremo sforzo gl’irreconciliabili
Borboni. Gl’Inglesi sbarcano a Procida; ad Ischia trovano resistenza,
a Scilla sono rituffati in mare: ma essi tentano pigliar terra sulle
coste Adriatiche, spingono masnade fino a Roma, dove Miollis stava in
gran punto se Gioachino nol soccorreva. La vittoria di Wagram disperò
gli assalitori; ma rimasero a migliaja i briganti in Puglia, nella
Basilicata, nella Calabria, attizzati da Carolina, che per lusso e per
corrompere vendeva fin le gioje della Corona e intaccava l’erario. Per
opporsi ai preparativi di Gioachino si chiesero straordinarj sussidj
al Parlamento siciliano (1810 15 febb.), il quale decretò 793,000
onze l’anno, oltre le 328,000 di contribuzioni indirette, e i beni
sequestrati a stranieri che ne rendeano 200,000. Ma di quell’occasione
si valse il Parlamento per domandare al re la riforma del codice
criminale e di abolire le servitù prediali. Poi non bastando le
percezioni, il re ne mise di nuove, senza il voto di esso Parlamento;
donde gravi lamentanze, e arresto de’ più arditi reclamanti, e odio
contro il cavalier Medici, succeduto al morto Acton nel favore della
regina.

Bentinck, generale inglese e liberale, interpostosi invano, ne informò
il suo Governo; dando sospetto che Carolina, divenuta zia di Napoleone
per la moglie, pensasse avvicinarsi a questo, cacciar gl’Inglesi
dall’isola, e aprirla ai Francesi; onde il Governo inglese ordinogli
d’occupar militarmente l’isola per mettervi la tranquillità. Bentinck,
che odiava Carolina, lo eseguì con durezza (1811); e Ferdinando non
potendo resistere alle domande di lui, si ritirò, destinando vicario
il figlio Francesco. Questi revocò i baroni sbanditi, mutò i ministri,
convocò un Parlamento, da cui fu compilata una costituzione. Era
foggiata sul modello inglese: non si potessero far leggi o mettere
tasse che dal Parlamento, composto di 61 pari spirituali e 124
laici, e di 154 deputati de’ Comuni, eletti per quattro anni con
certe condizioni di censo; indipendente il regno, quand’anche il re
ricuperasse la terraferma; non censura; abolita la feudalità e le
angherie[113]. Con ciò e coll’assumere il comando militare, Bentinck
conservava la pace in Sicilia; e quel Governo libero, quantunque
snobilitato dall’ingerenza forestiera, tolse l’onnipotenza delle
spie, la baldanza dei sicarj. Gl’Inglesi spendevano profusamente;
commercio faceasi vivissimo, come emporio al contrabbando di tutto il
Mediterraneo; molti paesi in prima sottoposti alle bandite, fruttarono
riccamente; cessavano infiniti legami della proprietà e servigi di
persona.

Intanto che la Sicilia godeva questa superficiale prosperità, la
terraferma era sommossa da sêtte, varie di ordinamento e di scopo,
quali intente a rintegrare Ferdinando, quali a fargli cedere anche la
Sicilia mediante un compenso, quali all’assoluta indipendenza d’Italia.
Fra questi ultimi furono i Carbonari.

Derivavano essi dai Franchimuratori, e di questi adottarono alcuni riti
e la gerarchia; non si limitarono però come loro alla beneficenza e a
godimenti, ma tolsero per iscopo l’indipendenza nazionale e il Governo
rappresentativo.

Il principe di Moliterno, antico repubblicano, suggeriva agl’Inglesi,
che unico modo di prevalere a Francia era il dichiarare l’unità e
l’indipendenza d’Italia. E non ascoltato appunto perchè repubblicante,
si pose in Calabria a capo d’un’antica banda, diffondendo le stesse
idee, secondato anche dalla regina e al tempo stesso ascoltato dai
Carbonari; de’ quali alcuni s’acconciarono alle lusinghe della Corte
che prometteva una costituzione; altri, fedeli a un simbolo più puro,
stabilirono una repubblichetta a Catanzaro sotto un Capobianco. La
polizia illusa favorì la setta; per quanto il conte Dandolo dal regno
d’Italia la denunziasse a Murat come minacciosa ai troni: onde quella
si propagò per la sua sistemazione mirabilmente diffusiva, e per la più
mirabile arte de’ Napoletani a conservare il secreto; ed abbracciando
anche il resto della penisola, divenne stromento di future mutazioni.

I patrioti studiarono usufruttare la mal dissimulata ambizione di
Murat, il quale porse orecchio alle loro insinuazioni, ma le tenne in
petto finchè Napoleone potente: pure lasciava intendere che potrebbe
aver bisogno della loro cooperazione, che solo quel despoto impedivagli
di rendere nazionale e indipendente il suo Governo.



CAPITOLO CLXXXI.

Ostilità col papa.


Buonaparte aveva mostrato rispetto per l’islam in Egitto, e chiesto
favore appo i Musulmani col vantarsi d’avere distrutto il papa; poi,
quel desso che veniva intitolato la rivoluzione fatta uomo, a dispetto
de’ pensatori, de’ forti, de’ consiglieri, ricostituì non solo il
cattolicismo col concordato, ma la supremazia pontifizia col richiedere
da essa la consacrazione. Ve lo induceva il desiderio di opporre una
legittimità alle riscosse de’ Realisti, d’unire in sè i diritti della
rivoluzione e quei del sacro crisma, e di disporre de’ fulmini della
Chiesa contro i re che meditava osteggiare. Ma ciò ch’egli avea preso
per semplice formalità, parve altrimenti al buon senso pubblico, il
quale non si limita a tirare da una premessa le sole conseguenze che i
potenti vorrebbero.

Col concordato egli pubblicò articoli organici che in parte lo
derogavano intaccando la libertà della Chiesa[114]. Il papa in
concistoro si dolse di questa intrusione di sorpresa, e dal nunzio
Caprara fece presentare una protesta contro gli obblighi che in essi
imponevansi al pontefice, fin di giurare nella sua consacrazione che
non attenterebbe alle libertà gallicane. I partigiani e ministri
dell’imperatore erano tutti alunni della enciclopedia e della
rivoluzione; due de’ più creduti, Fouché e Talleyrand, erano preti
apostati, perciò ostili alla Chiesa, onde si compiacquero di usare
col papa un linguaggio burbanzoso. Suggerivasi a Napoleone di tenerlo
per forza a Parigi, quivi accentrando l’unità religiosa, e riducendo
secolare il patrimonio di San Pietro: e avutone sentore, Pio VII
lasciò intendere d’avere già tutto disposto per abdicare, sicchè non si
troverebbero in mano che il povero frate Barnaba.

Roma dunque esultò allorchè, dopo ritardi se non violenti però
inospitali, Pio fu lasciato partire, e l’accolse con solennità
cordiale. Dolente di non avere nulla ottenuto di quanto riprometteasi
da quella sua gita, a’ compagni di viaggio il papa raccomandò
discrezione; ma fin questo silenzio era un’accusa contro l’imperatore.
Nuovo dolore cagionò al pontefice l’essersi nel Codice ammesso il
divorzio, e fatte pari tutte le religioni, fin l’ebraica: delle novità
ecclesiastiche introdotte nel regno d’Italia lagnossi con lettere
confidenziali, dolci, ma insistenti: e Napoleone rispondeva vantando
come donato tutto ciò che non toglieva alle chiese, ai capitoli, ai
vescovi nostri; e — Non ho io forse posto fine ai disordini, e dato
torto ai filosofi che credevano inutili le istituzioni religiose?
Dappertutto ebbi ringraziamenti e lodi; molti trovavano anzi ch’io
faceva troppo pel clero: or come invece Roma me ne disgrada? Avrei,
è vero, negl’innovamenti dovuto concertarmi colla santa Sede; ma
questa va troppo a rilento, nè la sua politica più s’affà col secolo;
e mentr’essa avrebbe tardato due o tre anni a mettere sesto alle cose
religiose d’Italia, io le racconciai detto fatto».

Poteasi non prendere ombra d’un’ambizione che non conoscea limiti?
al primo istituire del regno d’Italia non v’aveva egli soppressi i
conventi, scemate le parrocchie, prefinito il numero de’ seminaristi?
non aveva egli in Germania sovvertito l’edifizio cattolico
coll’abbattere i principati ecclesiastici, e spartire i popoli senza
riguardo alla religione? non circondava d’esploratori il Vaticano
e i cardinali?[115] Le preghiere dunque del sacerdote mal potevano
alzarsi a favore del guerriero, se anche la prudenza ratteneva dal
contrariarlo.

Il papa, mansueto, e sollecito soprattutto di conservare la religione,
blandiva all’imperatore; il Consalvi ministro di Stato ricusava di
prendere parte nelle coalizioni ostili alla Francia, sebbene spintovi
dal sacro Collegio: ma allo scoppiare delle ostilità con Napoli tutta
Romagna fu sossopra; Vanni, Navarro, l’ex-frate Benigetti a capo
di bande ricomparvero nelle montagne limitrofe al reame, eccitando
la popolazione alle armi; in Roma si formarono due comitati che
corrispondevano coi nemici di Francia ed occhieggiavasi ogni occasione
di palesare odio a questa.

Ancona era sulla via di comunicazione fra il regno d’Italia e
il napoletano, rimpetto a Corfù dove s’annidavano i nemici; avea
fortificazioni cascanti, e custodita appena da 676 uomini e 58 cannoni.
L’imperatore ordinò al papa di metterla in buona difesa, ma il sacro
Collegio rispondea ciò repugnare alla sua neutralità; ond’egli comandò
a Gouvion Saint-Cyr (1805 6 9bre) di occuparla per sorpresa. Il papa
ne protesta coll’imperatore; questo, ebro della vittoria d’Austerlitz,
gli risponde come a vecchio inetto: — Egli è buono a svolgere tesi
teologiche, non gl’intrighi che lo circondano; ho occupato Ancona
qual protettore della santa Sede; la spada mia, come quella de’ miei
predecessori della seconda e della terza razza, è la vera salvaguardia
della Chiesa; rimandi pure il mio ambasciadore, e riceva invece
quel dell’Inghilterra o il califfo di Costantinopoli; giudice sarà
Iddio»[116].

Il papa sommessamente allegava il candore del suo carattere, la mitezza
de’ suoi consigli, le prove d’affetto mostrategli; lo felicitava delle
sue vittorie; ma poichè queste gli aveano dato il Veneto, compisse le
speranze lasciate di restituire le Legazioni; intanto rendesse Ancona
al primitivo stato pacifico; conchiudeva, «se gli toccasse, dopo tante
altre, anche la sventura di perdere la benevolenza di lui, il sacerdote
di Cristo che ha la verità nel cuore e sulle labbra, sopporterebbe con
rassegnazione e senza paura, della tribolazione stessa confortandosi
colla costanza».

Ma nei concetti del conquistatore più non restava luogo a prudenza
o moderazione, e risoluto d’involgere anche le credenze e il culto
nel suo despotismo amministrativo, più non poteva arrestarsi sulla
curva che parea sollevarlo al vertice e il portava all’abisso. Facea
mantenere dallo Stato Pontifizio le sue truppe che lo attraversavano
(1806), e che in quattro mesi valsero 1,300,000 scudi; occupò
i principati di Benevento e Pontecorvo attribuendoli in feudo a
Bernadotte e a Talleyrand, senza pur informarne il papa, che n’era
il padrone; occupò le città del litorale per attuarvi il blocco;
dal cardinale Fesch, violento e irascibile che più volte aveva
oltraggiato il pontefice[117], faceva esigere che fossero cacciati i
Russi, gl’Inglesi, gli Svedesi, i Sardi, e chiusi i porti ai nemici
di Francia; sbraveggiava il nunzio e il Consalvi che si dimise dal
ministero; minacciava fare del papa come Carlo V di Clemente VII.
E come? un vecchio inerme sarebbe d’ostacolo al giovane balioso?
che monta la gratitudine? che il rispetto alla vecchiaja ed alla
virtù? che la santità del carattere o le affezioni del popolo? Lo
sbalzare di seggio un regnante, da cui testè egli avea chiesta la
consacrazione, farebbe impressione sinistra; la Chiesa potrebbe
ferire ancora di maledizioni la fronte che testè avea consacrato;
per ciuffare un piccolo territorio, per sottomettere il più debole e
inoffensivo de’ principi, Napoleone rischia di vedere scandolezzate
le coscienze cattoliche, impugnato il dogma dell’autorità, ch’egli
avea tanto faticato a ripristinare: che importa? a tutto prevalga
l’implacabile intolleranza d’ogni volontà reluttante alla sua. Pio
continui ad essere papa, ma non impacci i disegni del guerriero; nè
Roma neghi all’imperatore quell’obbedienza che gli rendono Milano,
Venezia, Firenze, Napoli. — Tutta Italia sarà sottoposta a’ miei
ordini (scrissegli soldatescamente). Di Roma voi siete il sovrano, ma
l’imperatore ne sono io; i miei nemici devon essere nemici vostri. Le
lentezze di Roma a dare le dispense e ad approvare i miei vescovi, sono
insopportabili: io non posso trascinare per un anno ciò che dee farsi
in quindici giorni».

Un papa politico avrebbe potuto simulare e dissimulare, cercar tempo
al tempo, condiscendere in qualche parte per ottenere il tutto: ma
Pio VII era un buon prete, altamente compreso della divina autorità
del pontificato, fedelissimo a quella morale che non patteggia colla
menzogna, e al dovere di tramandare intatta l’autorità datagli in
deposito. Consultò il sacro Collegio; e i cardinali, già da un pezzo
persuasi che, o piegasse o resistesse, Roma sarebbe travolta nel
vortice, opinarono pel partito che almeno mostrava dignità; si negasse
l’alleanza colla Francia, poichè questa condurrebbe a guerra con tutta
cristianità, provocherebbe Inglesi e Russi a perseguitare i cattolici
loro sudditi, repugnerebbe all’affezione che il pontefice deve a tutti
i credenti.

Pio dunque rispose, si terrebbe colpevole di codarda debolezza presso
il mondo e presso l’avvenire se non desse la risposta comandatagli dal
sentimento della giustizia, della verità, dell’innocenza, ed esponendo
quel che prima e poi fu tante volte ripetuto, dicea, «Come principe
temporale non dover intraprendere cosa che si opponesse a’ suoi doveri
di capo della Chiesa, doveri a cui non sono legati gli altri sovrani:
obbligandosi a una federazione guerresca, si nimicherebbe le nazioni
contro cui dovesse osteggiare, e quindi sarebbe impedito nel libero
esercizio della sua supremazia sopra tutti i fedeli del mondo; adunque
padre comune de’ fedeli e insieme sovrano indipendente, terrebbe nelle
contese umane neutrali il cuore e gli Stati suoi, aperti al potente
non men che al debole; ministro di pace, non cesserebbe d’invocare
il termine delle guerre desolatrici, e il ritorno della comune
tranquillità». Carlo Magno trovò Roma già in mano de’ Papi, ne ampliò
il dominio, ma nè lo fondò, nè pretese superiorità in quello: anzi in
testamento impose a’ suoi figli espressamente di difendere tali dominj
della Chiesa anche coll’armi, nè riservò loro alcun diritto di revocare
i doni fatti da lui o da suo padre. Il possesso pacifico di XI secoli
era «un titolo, che nessun altro sovrano potea vantare (1806 20 marzo).
— Voi (soggiungeva), siete imperatore de’ Francesi, non di Roma; e se
vi fosse un imperatore de’ Romani, sarebbe quel di Germania, titolo di
dignità, che nè in realtà nè di figura scema l’indipendenza della santa
Sede; dignità del resto sempre elettiva. I rimproveri che ci fate di
trascurar le anime, ambire a vantaggi mondani e a vane prerogative, li
riceviamo come un’umiliazione dalla mano dell’Altissimo. Nè voi vorrete
spogliarvi di quella saviezza e previdenza, per la quale conosceste
che la prosperità de’ Governi e la tranquillità dei popoli sono
irreparabilmente annesse al bene della religione».

Sapendo però quanto Napoleone fosse pertinace, insinuò ai ministri
di Russia, Inghilterra e Sardegna di non esporlo a maggiori cimenti,
ed essi ritiraronsi; fece sapere a Fesch che, malgrado i doveri della
neutralità, non s’impedirebbe che i Francesi occupassero Civitavecchia,
la quale in fatto fu subito invasa. A tanto rassegnavasi Pio, sperando
l’imperatore non esigerebbe s’avvilisse a sanzionare atti incompatibili
colla dignità della tiara. Ma era appunto nella parte morale che
Napoleone volea colpirlo; quanto alle forze fisiche, non avea di
già veduto chinarsegli quelle di tutti i re? e a Fontaines diceva:
— Insolenza di cotesti preti! si riserbano l’azione sugli spiriti, e
pretendono lasciare a noi soltanto il corpo».

La lettera del papa volle dunque tenere come il sommo degli affronti,
e cessò di trattar direttamente con esso[118]. Richiamato il cardinale
Fesch, gli surrogò quell’Alquier, che a Napoli avea saputo spionar
tanto, da offrirgli motivo di cacciarne i re, e che nei suoi ragguagli
non parlava che della testardaggine del papa, degl’intrighi de’
cardinali, della folle speranza da questi oltremontani nutrita, che,
se l’imperatore gli abbattesse, il suo successore li ripristinerebbe:
e le istruzioni erangli date dal ministro Talleyrand, al quale ormai
Napoleone lasciava l’incarico d’insultare al pontefice.

Cresceano motivi di querele le nuove prepotenze usate a Napoli,
dove avendo Napoleone messo per re Giuseppe, Pio accampò le antiche
pretensioni della santa Sede, offrendosi però a riconoscerlo tostochè
anche l’imperatore riconosca la sovranità temporale e l’indipendenza
della sede pontifizia. Al nuovo principato di Lucca e Piombino
essendosi esteso il concordato del regno d’Italia, e apposti i suggelli
alle proprietà delle corporazioni religiose, Pio ne mosse lamento col
principe; e Napoleone si chiamò offeso, perchè, il decreto essendo
venuto da Parigi, all’imperatore bisognava dirigere i reclami. Così
manifestamente proclamava il vassallaggio degli altri regnanti.

Intanto il concordato medesimo si attuava nel Veneto, nominando i
vescovi senza sentire il papa[119], il quale protestò non darebbe
loro l’istituzione canonica se non andassero a riceverla a Roma,
e dopo conchiuso un concordato speciale per quel paese. Napoleone
esclamò alla ribellione (aprile); trovò insultante che il papa, nel
mettere nuove imposte ai sudditi, n’avesse accagionato le spese delle
truppe francesi; e sorpassando ogni uso civile, volle gli fossero
mostrati i conti delle entrate e spese dello Stato Pontifizio[120];
pretendeva inoltre se ne cacciassero il console di Sicilia, alcuni
antichi capibanda che s’appiattavano a Roma, e Luciano fratello
disgustato dell’imperatore; si sciogliesse il matrimonio di Girolamo,
altro suo fratello, che dovea cangiare la moglie plebea in qualche
principessa. Pio VII si rinchiuse in una resistenza passiva; prevedeva
le persecuzioni, ma sperava gioverebbero ad assodare le vacillanti
credenze, e si dispose a soffrire con dignità, allestendo il tutto pel
caso che i cardinali dovessero essere rapiti o violentati; mentre fra
il popolo circolava preghiere onde placar la collera del Signore, e
sviare i flagelli della nuova persecuzione.

Altre guerre sopirono il litigio: ma vincitore a Friedland, dettata la
pace a Tilsitt, avuta la Toscana, Napoleone stabilisce dare un calcio
anche a questo vecchiardo, che teneasi in piedi quando si prosternavano
tanti re, e ad Eugenio da Dresda scrive (1807 22 luglio) inveendo
contro l’orgoglio del papa; solo da profonda ignoranza del secolo poter
nascere il ridicolo pensiero di denunziarlo alla cristianità come
nemico: — E che? pensa costui colla scomunica far cascare l’arma di
pugno ai soldati? mettere lo stiletto in mano de’ popoli? Lo faccia,
ed io separerò i miei popoli da Roma; la mia polizia impedirà il
circolare di que’ misteriosi scritti. Intanto non voglio che i miei
vescovi d’Italia vadano a Roma a succhiare massime di rivolta contro
il loro sovrano. Certo il papa si pentirà di non aver aderito alle mie
proposizioni. E forse non è lontano il giorno ch’io nol riconoscerò più
se non come vescovo di Roma, e adunerò un concilio per fare senza di
esso. Quai sono i diritti della tiara? umiliarsi e pregare».

Ancora negoziavasi, e già Napoleone facea versare nelle sue casse
le entrate riscosse nelle provincie romane; destinava un governatore
francese in quelle di Ancona, Macerata, Fermo, Urbino; incorporava le
truppe pontifizie nelle francesi; puniva come felloni i governatori
e comandanti di piazza che tardassero obbedirgli; traeva al museo
imperiale la galleria del principe Borghese, compensandolo lautamente
ma con grave scontentezza del popolo e del Governo[121]. Supponendo la
resistenza del pontefice derivasse dai cardinali, fece intimargli ne
nominasse ventiquattro nuovi sudditi dell’imperatore: il che (se anche
non è vero che volesse portare alla tiara suo zio) violava non solo la
costituzione ecclesiastica, ma quella libertà che ha ogni principe ed
ogni privato di scegliersi i proprj consiglieri.

Chiese inoltre conferisse pieni poteri ad alcuno per definire tutti
i punti in contestazione; e Pio s’indusse a darli a Lorenzo Litta
milanese, uno de’ più illustri e pratici cardinali, che ad alti natali
e squisita cortesia univa irremovibile fede e costumi austeri[122].
Stando nunzio in Polonia al tempo della rivoluzione del 1794, aveva
egli sottratto qualche vescovo al patibolo; assistette alla coronazione
di Paolo czar, e attese a migliorare la condizione de’ cattolici
sudditi; più tardi e dopo lunghi patimenti fu vicario generale a
Roma. Di lui Napoleone ebbe paura, e ricusò riceverlo; così fece col
Pacca; e pretese monsignor di Bayane, francese già vecchio e sordo:
ma neppure questo poteva accedere a così esorbitanti pretensioni, le
quali convalidavansi col minacciare che ogni ritardo si avrebbe per un
disprezzo della forza, e a misura de’ minuti crescerebbero le domande.

In fatto l’imperatore, mettendovi una stizza puntigliosa, professava
non volere più frati perchè non ce n’era al tempo degli apostoli,
bensì soldati per difendersi dagl’infedeli e dagli eretici; il
papa s’assoggetti alla federazione italiana; se no, appellerà ad un
concilio, e occuperà lo Stato della Chiesa, necessario per assicurare
alla Francia quell’Italia, che egli (dimenticandosi de’ sovrani che
v’avea collocati) considerava come parte integrante dell’impero.

Gl’impiegati che venivano a portare tali minaccie a cotesto ambizioso,
sommovitore di popoli, istigatore del regicidio, non trovavano che
un vecchietto, tutto pace, tutto rassegnazione, disposto a qualunque
sacrifizio fuorchè a buttare la tiara nel fango imperiale; che ripetea
quel sacrosanto _Non possumus_: non poter prescindere dai canoni; e
del male che venisse piangerebbe di cuore, ma si sentirebbe scarco di
colpa.

Pure, in procinto di rompere del tutto con quel prepotente, Pio
si sgomentò dei danni che poteano derivarne alla cristianità, e
si rassegnò a soscrivere alla federazione italiana, e mostrarsi
ostile all’Inghilterra, purchè rimanessero intatte le quistioni
religiose. Anche Bayane e Caprara credettero che, concedendo tutto,
placherebbero Napoleone; e formularono un amplissimo trattato, ove
Roma si sgiojellava delle sue migliori prerogative. Ma ecco notizia
che l’imperatore (1807 29 7bre), per non avere interruzione fra il
_suo_ regno d’Italia e il _suo_ regno di Napoli, manda a occupare le
Marche; ordine che convincea come quelle intimazioni fossero fatte
unicamente per ispingere agli estremi il papa, e coll’aspettato rifiuto
giustificare la violenza.

L’occupazione delle provincie privava delle migliori entrate molti
prelati e la santa Sede; e Pio VII, vilipeso come principe, come
pontefice, come uomo, d’accordo col sacro Collegio repudiò il trattato
di Parigi (1808), lesivo alla indipendenza, alla dignità, a’ diritti
spirituali del papa, e ritirò ogni potere al Bayane. L’imperatore non
desiderava che questo, e ordinò al generale Miollis occupasse Roma
«per punire quella Corte insensata e cieca», e per «abituare il popolo
romano a vivere colle truppe francesi e alla loro polizia, in modo che
la Corte papale cessasse d’esistere insensibilmente»[123]. Vi si unì la
frode, notificando a Pio dovere truppe passare al regno di Napoli, ma
non toccherebbero Roma; e continuando le proteste insieme cogli scherni
ai preti e al papa, vi entrarono. Pio si rassegnò, solo protestando
contro l’occupazione, ed esortando i sudditi a imitarlo. Vicario in
terra del Dio della pace, che col divino esempio insegna mansuetudine
e pazienza, non dubita che i suoi amatissimi sudditi metteranno ogni
studio a conservare la quiete e la tranquillità com’egli esorta e
ordina espresso, e rispetteranno gl’individui d’una nazione da cui nel
suo viaggio ricevè tanti segni d’affetto. Da quel momento si considerò
come prigioniero nel Quirinale, più non uscendo alle passeggiate o
alle devozioni consuete, e ricusò di più trattare finchè armi straniere
durassero in Roma.

Noi conosciamo questo Miollis semiletterato, il quale avendo espresso
voto contrario al consolato a vita, erasi nimicato Napoleone, e dappoi
attese a riconciliarselo colla più cieca obbedienza. Si fa dunque
stromento contro il papa, e sorpreso Castel Sant’Angelo col pretesto
d’una sommossa de’ Transteverini, puntate le artiglierie contro il
Quirinale, fa arrestare chi gli spiace; s’ingelosisce fino de’ pochi
battaglioni romani che servivano a tenere la quiete, e gl’incorpora
ne’ francesi, congratulandoli che non avrebbero più a ricevere comandi
da preti e donne, bensì da altri soldati, capaci di condurli al fuoco:
alcuni uffiziali che ricusarono, furono mandati in fortezza a Mantova.

Per iscomporre il sacro Collegio che Napoleone non avea potuto
corrompere, ordinò che tutti i cardinali non oriondi di Roma tornassero
alle patrie loro, benchè alcuni vi stessero da trent’anni, e come
cardinali più non appartenessero ad alcun sovrano particolare, bensì al
papa cui aveano professato sudditanza. Bisognarono soldati per portare
via i cardinali napoletani, poi i genovesi, i milanesi, i veneti, i
toscani, i parmigiani, indi i vescovi, persino il Casoni segretario di
Stato. Così fu sfasciata l’amministrazione, e Pio VII si trovò isolato
di consigli e come principe e come pontefice.

Miollis ebbe l’ordine di assumere anche il governo civile; ma Pio
proibì d’obbedire ad altri decreti che ai suoi, nè di festeggiare in
chiesa le nuove inaugurazioni; il popolo serbò contegno e, malgrado
le suggestioni, s’astenne da’ tripudj carnevaleschi, e solennizzò
l’anniversario della coronazione del pontefice.

Da tutto ciò contrasti, bandi, deportazioni; e annicchiati i ribaldi
negli impieghi che i migliori faceansi coscienza di accettare. Man
mano che uno fosse dal papa nominato governatore di Roma, era côlto e
mandato in lontane fortezze: un’attivissima polizia vigilava tutti gli
atti, gli scritti, le manifestazioni: e tale e tanta era la servitù
(come se ne dolse Pio nella sua allocuzione), che tutto quello che
potrebbe ricusarsi di fare spontaneamente era estorto dalla violenza
e dalle armi. Intanto Napoleone sopprime i conventi, staggisce i beni
ecclesiastici che ascendeano a 250 milioni, cento dei quali assegna
al debito romano e alle spese del culto, il resto incamera. Temendo
resistenza, manda un diecimila uomini di rinforzo a Miollis, e dice: —
Grazie alla pace, ho tempo e truppe disponibili, e bisogna profittarne
per terminare gli affari in pendente. Fra due mesi tratterò col papa,
e poichè il resistere è impossibile, bisognerà che s’accomodi; e
accettare i cambiamenti da me recati allo Stato e alla Chiesa».

L’eccesso della persecuzione diede al pontefice una fermezza che
non era del suo carattere; vedendo il mondo prostrarsi al violento,
rivolgea l’anima al cielo e gli occhi alla posterità, e — Se bisognerà
rinunziare alla tiara, vedano almeno gli avvenire che non n’eramo
indegni». E soggiungeva: — Il mio predecessore nei giorni prosperi avea
l’impeto d’un leone, e morì come un agnello; io vissi come un agnello,
ma saprò difendermi e morire da leone». E all’imperatore scriveva
cambiasse consigli, tornasse ai sentimenti primitivi: — Sovvengavi che
Dio è re sopra i re; che non eccettuerà nessuno, che non risparmierà
qual si sia grandezza; si mostrerà e presto in forma terribile, e i
forti saranno giudicati con rigore».

Qual fu la risposta? Miollis chiude in Castel Sant’Angelo le guardie
nobili; e tra per frode e per forza penetra nel palazzo del papa per
arrestarne il segretario Pacca. Pio se ne querela con Napoleone,
e Napoleone per risposta da Vienna, ove risedeva come vincitore,
proferisce l’unione degli Stati papali all’impero francese (1809
17 maggio), donati, diceva egli, da Carlo Magno «nostro augusto
predecessore» come feudo, senza che Roma cessasse di far parte del
suo impero; adesso ripigliarsi quel dono, e separare di nuovo la
croce dalla spada[124]: i papi alla loro esaltazione giurino non
intraprendere nulla contro le quattro proposizioni gallicane, che sono
dichiarate comuni a tutte le chiese cattoliche dell’impero; godranno
due milioni di rendita in beni immuni; imperiali sieno le spese del
sacro Collegio e della propaganda: ma questi e la dateria e gli archivj
delle missioni e tutto passino a Parigi, dove con milioni si prepara un
nuovo Vaticano.

Al paro dei re di Prussia, di Russia, d’Inghilterra, voleva essere capo
della religione e farla servire alla sua politica; sentiva che un papa
collocato a Parigi gli darebbe efficacia sulla Spagna, sull’Italia,
sulla Confederazione Renana e la Polonia; missioni in America e in
Asia diffonderebbero la gloria e il potere della Francia; i concilj di
Parigi rappresenterebbero la cristianità.

Pio fece affiggere una bolla, dove, esposti gli attentati di Napoleone
contro l’autorità spirituale e temporale dal concordato in poi, colpiva
di scomunica chiunque, dopo l’invasione di Roma, avesse operato contro
l’immunità ecclesiastica e i diritti della santa Sede; egli non avrebbe
cessato di pregare per il loro ravvedimento. Napoleone, ferito con armi
che non erano di ferro, sentì il dispetto del prepotente a cui nulla
più resisteva; e mentre ai vescovi intimava inni per le sue vittorie,
prova evidente della protezione del Dio degli eserciti, inveiva
contro questo tentativo della debolezza e della pazzia per ispargere
turbolenze nell’impero.

Ma anche chiuso nel Quirinale, il papa facea paura, e il generale Radet
nottetempo lo sorprende (1809 6 luglio), e tra gendarmi lo scorta fino
alla Certosa di Firenze. La granduchessa Elisa, che non n’era avvisata
nè sapea come comportarsi, pregò di menarlo oltre. Anche a Torino il
principe Borghese ignorava come trattare questo prigioniero che dava
tanti pensieri a’ regnanti, e che fu trasportato oltre il Cenisio,
poi retrocedendo a Savona, quivi fu deposto, secondo gli ordini del
padrone. L’esecuzione de’ quali era stata affidata a Murat, nuovo re di
Napoli, il quale, nel predominio della forza fantasticando la signoria
di tutta Italia o almeno della meridionale, vuolsi istigasse Napoleone
a trarre in Francia Pio VII, sperandone occasione di arraffare alcuna
provincia.

Ma la tiara vilipesa divenne più veneranda, e se i re erano a
tale sbigottimento che niuno protestò, mentre tutto il mondo erasi
commosso alla prigionia di Clemente VII[125], il popolo ne fu scosso;
nell’aspro tragitto, Pio potè serenarsi degli omaggi resigli da tutte
le plebi; e se la folla devota per lo più s’accontentava di riceverne
benedizioni e d’offrirgli rinfreschi, non mancava chi, con un gesto
risoluto accennando i gendarmi, gli domandasse, — Vuole? dica!» ma il
mansuetissimo non facea che ripetere, — Coraggio e pregate, figliuoli
miei».

Le violenze hanno sì pessima natura che, cominciate, forza è spingerle
all’estremo. Pio a Savona è trattato non altrimenti che un vulgare
prigioniero, assegnatigli tre franchi al giorno, segregato da’ suoi
consiglieri, frugate le lettere e ogni cosa che a lui vada, e cinto
di sempre più spie e guardie, sotto pretesto che gl’Inglesi pensassero
rapirlo. Egli, acconciato nella resistenza passiva, ricusa le comodità
e il lusso offertigli; ad ogni interpellazione risponde «Rendetemi la
libertà»; nega istituire i vescovi nominati dal persecutore, talchè le
chiese rimangono vedove, per quanto Napoleone cacci in carcere i vicarj
generali che si dichiarano non autorizzati a conferire l’istituzione
ai nominati da lui; altri vescovi incarcera o relega perchè ricusano
il giuramento d’osservare le libertà gallicane, e sopprime diciassette
diocesi romane e tutte le abazie.

Eppure Napoleone avea bisogno del papa affinchè proferisse il
suo divorzio da Giuseppina, e così la seconda donna non fosse una
concubina, nè spurio il futuro erede. Alle nozze di Maria Luigia (1809
aprile) tredici cardinali non vollero intervenire, perchè non erasi
sul divorzio interpellata la santa Sede; onde Napoleone vietò loro di
portare le insegne cardinalizie, ne confiscò i beni, e li relegò in
varie città; ed erano nominati cardinali neri, a differenza dei dodici
rossi che v’intervennero[126].

Al vacante arcivescovado di Parigi è nominato il cardinale Maury,
vescovo di Montefiascone ligio a Napoleone; e viene radunato quel
capitolo per discutere se si possa confidargli l’amministrazione della
diocesi senza l’istituzione pontifizia. I più stanno pel sì, allegando
le libertà gallicane e che la giurisdizione mai non muore: alcuno crede
indispensabile l’autorizzazione papale, e brevi in tal senso circolano,
malgrado i divieti e le persecuzioni della polizia. Per provvedervi
e per fiaccare la resistenza del pontefice, Napoleone sottiglia di
spedienti; fa da tutti i vescovi e capitoli dell’impero rispondere alla
dichiarazione del capitolo di Parigi; e quelli d’Italia, indettati dal
vicerè, scendono ancor più basso, asserendo che il corpo dei vescovi
_in attività_ rappresenta la Chiesa[127], che qualunque istituzione
romana è affatto estranea alla gerarchia ecclesiastica nel governo
della Chiesa, che l’istituzione canonica e la professione di fede e
obbedienza sono restrizioni messe tardi dai pontefici alla podestà
vescovile, ch’è d’origine divina.

Fidato in tale docilità, l’imperatore intima un concilio di tutti
i prelati dell’impero e della confederazione Renana, per rimovere
le difficoltà nate in grembo della Chiesa. In quella parata di
nuovo genere egli imitava Costantino e Carlo Magno; e davanti alla
commissione preparatoria discuteva coi prelati sull’autorità temporale
del papa, egli che sapea di tutto; e se l’ottagenario abate Emery, con
argomento _ad hominem_, gli mostrava che Bossuet stesso avea dichiarato
necessario quel dominio, egli rispondea: — Ciò poteva essere vero
quando l’Europa riconoscendo diversi signori, non era decente che il
papa fosse sottoposto ad uno in particolare. Ma ora che tutt’Europa non
conosce altro signore che me?»

All’assemblea si proposero questi punti: «Il papa può, per ragioni
temporali, ricusare d’intervenire agli affari spirituali? — Non sarebbe
dicevole che il concistoro del papa fosse composto di prelati di tutte
le nazioni? — Se il Governo francese non violò il concordato, può il
papa arbitrariamente ricusare l’istituzione ai vescovi nominati, e
rovinare la religione in Francia come la ruinò in Germania, ove da
dieci anni non c’è vescovo? — Una bolla di scomunica fu affissa e
diffusa clandestinamente: come prevenire che i papi non si rechino ad
eccessi tanto repugnanti alla carità cristiana e all’indipendenza dei
troni?»

Ma ai vescovi, prima di tali quistioni, se ne affacciava un’altra:
aveano essi il diritto di adunarsi senza permissione del pontefice? Se
individualmente mostraronsi aderenti al capitolo di Parigi e docili
al Ciro che avea riedificato Gerusalemme, non osarono considerarsi
come assemblea religiosa là dove mancava Pietro; elusero le quistioni,
teneano segreta corrispondenza con Savona, e spedirono al papa la loro
sommissione: sicchè l’imperatore affrettossi a sciogliere il concilio.

Come alle brutali minaccie, così alle insidiose proposizioni di lui,
Pio resisteva, e — Lasciatemi morire degno dei mali che ho sofferto».
Napoleone s’irrita, lo bistratta, i suoi fedeli fa frugare dalla
polizia, o costringe a dimettersi o getta nelle prigioni.

Perocchè egli, erede della rivoluzione il cui vanto più bello era
stato l’abolire le lettere di sigillo e distruggere la Bastiglia,
otto prigioni di Stato avea stabilite, e senza processo, per mero
decreto vi mandava i suoi avversarj: vescovi e preti, traversate
le città ammanettati, empivano il forte di Fenestrelle[128], ove,
se cercavano un breviario, riceveano un volume di Voltaire. Poi al
papa fu intimato «divieto di comunicare con veruna chiesa o suddito
dell’impero, sotto pena di disobbedienza dalla parte sua e dalla loro;
cessi d’esser organo della Chiesa colui che predica la ribellione, e la
cui anima è tutta fiele; e poichè nulla può tornargli il senno, vedrà
che l’imperatore è potente quanto basti per fare quel che altri suoi
predecessori, e deporre un papa».

Un giorno Pio VII è secretamente chiuso a chiave in una carrozza,
con abiti mutati; e senza permettergli d’uscirne giorno nè notte, è
portato di là del Cenisio, mentre a Savona si continua a fingere che
sia presente. Sentendosi malato e incerto dell’avvenire, volle ricevere
il viatico, e dispose di tutto come in articolo di morte, riperdonò
ai persecutori; pure giunse a Fontainebleau, e in quel palazzo fu
detenuto a voglia di chi tutto poteva, e finchè questo non cessò di
tutto potere. Ma colà pure ripeteva: «Coraggio e preghiera. Coraggio e
pazienza. Può darsi che i nostri peccati ci rendano indegni di rivedere
Roma, ma i nostri successori recupereranno tutti gli Stati che loro
appartengono».

Lo Stato Pontifizio, ridotto a 800,000 abitanti, fu diviso nei
due dipartimenti del Tevere e del Trasimeno; si nominò un senato
di cinquanta cittadini, ma non seppero mai a qual uso, nè mai si
radunarono, nè la promessa costituzione comparve mai, tutto regolando
la consulta, composta di Miollis, Saliceti, Degerando, Janet francesi,
e del piemontese Dal Pozzo. Roma, benchè dichiarata seconda città
dell’Impero, e desse titolo regio al principe ereditario, decadde.
Il Governo decretò si potesse usare nei tribunali e negli atti anche
la lingua italiana; anzi si facessero annui concorsi onde premiare
gli scritti «più capaci di mantenere essa lingua nella sua purità;
un istituto di beneficenza, e un milione per abbellimenti, si fecero
dissotterrare antichi edifizj, massime l’anfiteatro Flavio, i contorni
del Foro Romano e il Foro Trajano; si posero giardini pubblici sul
monte Celio e sul Pincio; si favorì la manifattura de’ musaici per
copiare i quadri napoleonici; si divisò l’asciugamento delle paludi
Pontine.

Erano scarsi compensi alla vedovanza del Vaticano, e al vedere tanti
vescovi, canonici, parroci, deportati o rinchiusi per non avere voluto
giurare fedeltà a un sovrano che non credeano legittimo. Il Canova,
che lungamente ricusò d’immortalare «quello che avea tradito la sua
patria, poi vendutala all’Austria», per insinuazione del papa che
temea corrucciare il Grande, si recò a Parigi onde ritrarlo, e della
confidenza artistica si valse per cantargli molte verità, e come Roma
giacesse al fondo della miseria dopo perduto il principale alimento
della sua vita. In fatto il debito (_luoghi di monte_) elevato a 50
milioni di scudi, spariva in gran parte perchè abolironsi le Opere
Pie, che n’erano le principali creditrici; il resto fu liquidato a due
quinti del valore originario. La popolazione di Roma che, fino al 1796,
era stata di 165 mila anime, e per la prima invasione francese erasi
ridotta a 135 mila, adesso venne a sole 113 mila[129]. I moltissimi
poveri, al cui alimento provvedeano le istituzioni religiose, costarono
5 milioni di franchi in quattro anni. Al 3 giugno 1811 festeggiossi la
nascita del re di Roma, ma il pontefice vietò di prendervi parte, nè
gli ecclesiastici prestavano il giuramento all’usurpatore, onde 500
furono deportati; e i monaci cacciati dai chiostri ricusavano fin la
pensione di cui avrebbero dovuto vivere. Al papa spossessato mandavansi
sempre offerte e omaggi, e durava con esso un’attiva corrispondenza,
che l’occulatezza della Polizia non riuscì mai ad interrompere. «La
resistenza di questi pretocoli fu veramente meravigliosa: fu la sola
resistenza italiana del tempo». Queste parole sono di Cesare Balbo, che
giovinetto affatto, servì di segretario alla consulta, e se ne dolse
sempre.

Confessano anche i Francesi che il più deplorabile errore di Napoleone
fu l’ostilità col papa; Francia n’era vergognosa; Italia fremeva
in silenzio, e si inchinava al prigioniero. Invano Napoleone fece
pubblicare un catechismo che fosse unico per tutto l’impero, dove
l’obbedire a lui e il servirlo nel civile e nel militare veniva posto
fra i comandamenti di Dio: le coscienze restavano turbate, i preti
vacillavano nell’eseguire gli ordini dello scomunicato, la plebe
rabbrividiva e pensava.

Di tutto ciò cresceva il malcontento della popolazione, «la cui
esistenza, sotto il papa, era stata dolce e tranquilla, più che
brillante, e il cui carattere piegavasi facilmente al Governo de’
suoi principi»[130]; e sotto alle feste chiassose, agli sfolgoranti
circoli della Corte e de’ ministeri, a’ festini, alle mascherate,
ricantateci ancora tuttodì dai gaudenti di quel tempo, sentivasi un
fremito silenzioso e iracondo, guardavasi donde verrebbe il sassolino
che abbatterebbe la statua di bronzo, e la splendida cometa apparsa
nel 1811 parve il preludio straordinario della caduta dell’uomo
straordinario.

Ma a lui, nell’apogeo di sua grandezza, dovevano incutere spavento
maggiore le grida di patria e d’indipendenza che rintronavano d’ogni
parte: tradì la libertà, e in nome di questa insorgeano i popoli e
perfino i re: tradì la religione, e la voce di questa dalle coscienze
doveva risonare nelle volontà, ed attestare solennemente che la forza
non è tutto, e che un Governo deve soccombere quando immorale.



CAPITOLO CLXXXII.

Campagne di Spagna e di Russia. Caduta dei Napoleonidi.


Obbedito da 72 milioni di sudditi, temuto da tutti i re, guardato tra
meraviglia e spavento da tutte le nazioni, con esercito impareggiabile,
e co’ migliori generali formatisi nelle guerre della rivoluzione, con
un tesoro non limitato da riguardi o da opposizione, con profondo
disprezzo dei sentimenti di coloro che volea vincere, del sangue e
dei beni di coloro con cui volea vincere, Napoleone non era disposto
a tollerare la pace se non a patto che tutto procedesse a sua
obbedienza. Non cessavano l’Inghilterra drizzargli incontro la potenza
dell’oro e delle navi; Spagna la potenza del popolo; tutti sordamente
l’inestinguibile desiderio dell’indipendenza, la riazione della dignità
contro la violenza, dell’attività individuale contro il comando di
reggersi e pensare e operare come Francia. Alessandro di Russia,
che erasi un tratto invaghito di quella forza anormale, negò poi di
sagrificarle i suoi popoli; onde Napoleone deliberò andar a ferirlo
nel proprio paese, e come già s’era seduto nelle reggie di Madrid,
di Dresda, di Berlino, di Vienna, così troneggiare in quelle di Mosca
e Pietroburgo. Nol si potrà che con torrenti di sangue. Che importa?
purchè s’arrivi a domare la barbara Moscovia e l’avara Albione, e dare
la pace al mondo, cioè l’incontrastata servitù.

Il punto cui più mirava Napoleone nel regno d’Italia, come negli altri
suoi paesi, era la coscrizione. La Cisalpina, appena creata, armò
guardie nazionali e corpi regolari di giovani, che incideansi sul
braccio _Repubblica o morte_; come accadde nelle subitanee scosse,
s’improvvisarono sino dal principio prodi uffiziali, Lahoz, Fantuzzi,
Pino, Teulié, Ballabio, Fontanelli, Rossignoli, Porro, Pittoni ed
altri, che ben comparvero alle battaglie d’Arcole e Bassano, alla presa
di Mantova, Faenza, Ancona, ed altre fazioni. Nel 1801 l’esercito
cisalpino constava di 22,000 uomini: la repubblica italiana ne
aggiunse 60,000 di riserva, comprò dalla francese i cannoni delle
proprie piazze per quattro milioni, e prese a stipendio due mezze
brigate e un reggimento di cavalleria leggiera polacca; ebbe due
equipaggi da ponte, armeria a Mantova e Pizzighettone, mille seicento
gendarmi, un reggimento di granatieri per guardia del Governo, oltre
la guardia nazionale de’ cittadini dai diciotto ai sessant’anni.
Nel 1803 una divisione sotto Teodoro Lechi campeggiò coi Francesi
da Genova a Napoli; un’altra sotto Pino preparavasi a Boulogne per
invadere l’Inghilterra; per la quale impresa noi avevamo offerto
quattro milioni di lire milanesi onde costruire due fregate e dodici
scialuppe cannoniere col nome dei dodici dipartimenti. Stabilito il
regno, l’esercito fece di sè bella mostra all’imperatore nella spianata
di Montechiaro; ed avendo i Borboni di Napoli accennato un movimento,
Eugenio concesse ad ogni dipartimento l’onore di spedire da cinquecento
a mille uomini, e un corpo di guardie nazionali, che accolse fra
Modena e Bologna, gente inesperta e divelta alle case. Militare fu
tutta l’intenzione del viaggio che Napoleone fece nel 1807, e postava
corpi di riserva sul Po e sull’Adige, flottiglie in mare. Il Piemonte,
incorporato all’impero, diede a questo i soldati suoi: Genova,
fortificata come Alessandria, dovette assegnare tre milioni per la
marina, aver arsenale da costruzione, e mantenere almeno due vascelli
da settantaquattro, due fregate, quattro corvette.

Ma i soldati per Napoleone non figuravano che da macchine da guerra;
loro danno se non erano di bronzo come i cannoni. La coscrizione,
sempre gravosa a popolo non avvezzo, andò via via ingrossando; ed
acciocchè le classi elevate non se ne sottraessero, nei veliti della
guardia non s’ammettevano supplenti, e per ogni soldato dovevano le
famiglie 200 lire l’anno; un reggimento di dragoni della guardia,
due compagnie d’artiglieria a piedi, una di leggera, una di marinaj,
oltre l’antico reggimento di granatieri. Le guardie d’onore erano
principalmente destinate alla pompa regia, ciascuno provvisto dalle
famiglie con 1200 lire. Ben presto avemmo corpo del genio e della
marina, armerie nelle Marche e nelle Legazioni, fonderie a Brescia e
Pavia, e collegi per gli orfani, spedali e ricoveri per gl’invalidi.
Pei disastri del 1809 trentasettemila uomini, cinquemila cento cavalli
dell’esercito nostro trovaronsi ridotti a 20,000 uomini e ottocento
cavalli.

Scoppiata la famosa guerra di Spagna, vi fu mandato Giuseppe Lechi
con un nerbo di 2963 uomini, poi una divisione di 13,280 col general
Pino: poi un’altra con Severoli, e quattro reggimenti napoletani. Ma di
30,183 soldati che vi passarono dal regno d’Italia, ne uscirono appena
8858; 1800 de’ 10,000 Napoletani.

L’antico valore rinasceva alle scuole, alle bandiere, ai guiderdoni
promessi o sperati. Ma i nostri non campeggiavano che sotto marescialli
forestieri; e i loro nomi figuravano appena in seconda fila; mentre
riportavano le imprecazioni dei popoli cui andavano a porre il
giogo[131]. — È necessario armarsi per divenir nazione; qual vanto il
partecipare ai vanti d’un genio immortale!» così ci ripetevano: ma per
quanto sia comune l’entusiasmo per quel macello che s’intitola gloria
militare, archi e trofei mal coprivano i tanti sepolcri; l’esercito
non guardavasi più con meraviglia ma con compassione, dacchè parea
certa morte il marciar là dove sì pochi ritornavano; e il buon senso
avvertiva che i nostri giovani, rapiti in sempre maggior numero e
sempre più giovane età, non militavano pel bene della patria, ma per
ambizioni estranee ad essa; soffrendo e morendo non poteano acclamar
la libertà nè tampoco la gloria, ma soltanto _Viva Napoleone_;
nell’inneggiar le vittorie domandavasi qual causa buona avesse
vantaggiato, e conchiudevasi che il miglior governo sia quello ch’è
più parco del sangue e dell’avere de’ cittadini, e che meno n’impaccia
l’industria e l’azione. Molti dunque sotterfuggivano alla dura
legge[132], buttandosi armati al bosco o alla montagna: anzi il valore
italiano mostrossi meglio, perchè indipendente, nelle riscosse contro
la dominazione forestiera a Verona, a Salò, in Valsabbia, a Napoli,
ad Arezzo, al Bisagno, a Civitavecchia, ad Orvieto, in Piemonte, negli
Abruzzi, nelle Calabrie.

Il regno trovavasi in arme 75,000 uomini, due divisioni in Ispagna,
quattro in Dalmazia e in Italia; allorchè sonò di nuovo l’intimazione
di guerra (1812), non sapeasi per dove nè contro chi, ma bisognava
far soldati e marciare, marciare tutti. Fu sistemata nell’impero e
nel nostro una guardia nazionale, iscrivendovi anche la gioventù che
la sorte aveva campato dalla leva, e divisa in tre bandi, dai venti
ai ventisei nel primo, dai ventisei ai quaranta nel secondo, nel
retrobando quei dai quaranta ai sessanta: gran riserva di sangue per
quando sarebbesi esausto quel di cinquecentomila soldati. L’esercito
italiano, comandato da Eugenio vicerè, prese nome di quarto corpo
della grand’armata, la quale ne avea dieci; e formavanlo due divisioni
francesi, parte della guardia reale italiana sotto Lechi bresciano,
una divisione sotto Pino e una brigata di cavalleggieri sotto Villata
milanesi. Re Gioachino, che aveva in piedi cinquantamila Napoletani,
guidava la riserva della cavalleria.

Il 18 febbrajo 1812, dopo scarnovalato nelle varie città, trentamila
Italiani si mossero gaj, speranzosi, disciplinati, confidenti nel capo
e in sè: e giunti a Kalwary di Polonia (1812 29 giugno), conobbero
ch’erasi intimata guerra contro la Russia. Passato il Niemen a
cinquecento leghe dalla patria (1 luglio), fra meteore spaventose e
diluvj di pioggie e faticosissimi bivacchi, sfavillavano di ambizione,
di cortesie, di fidanza.

Il Governo polacco, lusingato da Napoleone colla speranza
dell’indipendenza, confortava i nostri a liberare un paese tanto
simile al loro, e come il loro sbranato dalla prepotenza; nel tempo
medesimo i Russi ritirandosi lasciavano proclami, dove eccitavano
gl’Italiani a disertare dal loro tiranno. Però ai nostri non vennero
meno la fedeltà nè il coraggio, benchè Napoleone non gli onorasse
neppure di una rivista, nè quasi di menzione ne’ bullettini; benchè
Eugenio rammentasse troppo che non era italiano, e non dissimulando la
diffidenza, in un alterco 28 giugno si lasciasse fuggire, — Non temo nè
le vostre spade nè i vostri stili».

Re Gioachino entrò primiero sul territorio russo, prese Vilna; e
avanti, avanti. Ma le marcie diventavano sempre più faticose; i nemici
si ritiravano distruggendo viveri e case; i Cosacchi scorrazzavano
continuamente sui fianchi, uccidendo chi tardasse o si sperdesse.
Stracchi morti si arrivava talvolta in una situazione, piantavasi
il campo; chi si gettava al sonno, chi a preparare il cibo; ma ecco
batter l’appello di levarsi e partire. Gli spossati che bisognassero
d’un riposo, gli arditi che sviavansi a foraggiare, cadeano in man de’
nemici: il cattivo vivere, la pessima acqua moltiplicava le malattie,
talchè sformavasi la bella disciplina.

Pure s’andava innanzi vincendo: il Boristene, dove le aquile romane
arrestarono il volo, lo passarono primi i nostri, ma ausiliarj e
servi: a Smolensko, prima città russa, si ebbe alfine una battaglia
(17 agosto), dove entrambe le parti cantarono vittoria; ma i nostri
entrarono sulle ruine della città.

I veliti e granatieri italiani decisero della giornata di Borodino
sulla Moskowa (7 7bre), contrastata da 132,000 Russi con 587 cannoni:
ma i soliti canti non esultavano dopo una vittoria che costava
ventottomila vite: poi non si avea pane, non vedeasi riposo, nè potea
sperarsi se non in Mosca. Napoleone, che credeva consistere la vittoria
nella presa delle capitali, prometteva colà riposo nella svernata e
abbondanza. A quella si spinsero dunque fra inenarrabili patimenti. Ma
perchè niun tumulto di viventi attorno a quella città? perchè non viene
incontro nè un amico nè un nemico? è insidia? è frode? No: la città fu
abbandonata; non restano che pochi miserabili; e Napoleone, uso entrare
fra le acclamazioni a Vienna, a Madrid, passa in silenzio per le vie
della Sionne russa, e assidesi nel Kremlin (14 7bre), santuario e
reggia dei czar.

Il primo giorno cominciano a scoppiare incendj, creduti accidentali; ma
eccoli riprodursi, crescere; invano faticano i soldati per ispegnerli;
sui loro passi più non aveano che carboni ardenti. Era uno di que’
sagrifizj che imporre può soltanto immenso amor di patria o immenso
dispotismo: tutta in fiamme la città e i magazzini e le armerie,
l’esercito dovette accampare alla serena, vincitore attorno una città
divampante. Per le campagne allagate dalle pioggie con quadri e mobili
alimentavansi i fuochi, intorno a cui coricavansi uffiziali e gregarj,
laceri, bruciacchiati, fangosi, ma sdrajati sopra scialli di cachemire,
pelliccie di Siberia, stoffe di Persia, fra una profusione di posate,
piatti, coppe di argento: qui il velite era trasformato in un cosacco,
il cacciatore in un pope, là il milanese vestiva da baskiro, il
savojardo da taurico, il romano da cinese; e toccavano ghitarre,
flauti, violini, pianoforti superbi, per distrarsi da un immenso
disastro, che non voleasi ancor confessare.

La nostra divisione Delzons fu spedita un tratto oltre Mosca, e fu
quella che spinse più avanti le armi napoleoniche: ma Alessandro,
benchè avesse il vincitore nel cuore del paese, non rispondeva a
proposte di pace, fermo come i Romani contro Pirro; onde Napoleone
non potè più che pensare alla ritirata. Già la divisione Pino di
quattordicimila fanti e mille cavalli, era ridotta a quattromila
combattenti; uccisi da dissenteria e da stenti; soli duemila
in battaglia. Partivano da Mosca (19 8bre) novantamila fanti e
quindicimila cavalieri, cinquecentosessantanove cannoni, duemila
settanta carriaggi e fucine, abbandonando i feriti, e cominciando la
più funesta ritirata che si ricordi.

— Ora comincia la nostra guerra», dissero i Russi, e presa l’offensiva,
molestarono i nostri fianchi senza mai affrontarci. Alcuni che
il bottino fatto a Mosca desideravano conservare, scostavansi
dall’esercito e trovavano la morte. Alcuni, discendendo una traversa,
uno scenderello, lo seguivano sperando incontrarvi un villaggio, un
ricovero; ma sorpresi dagli abitanti o dai Cosacchi erano uccisi
e lasciati perire sul gelato terreno. Fortunato chi le ricche
spoglie di Mosca può cambiare con un tozzo! Pure una volta si potè
combattere a Malojaroslavetz (24 8bre); battaglia che Rapp ascrive
all’esercito d’Italia: sir Roberto Wilson inglese, che combatteva da
avventuriero dovunque vedesse libertà da sostenere, ammirava questi
eroi italiani, che in numero di 16,000 aveano respinto 80,000 nemici:
il russo Buturlin, di quella giornata dà tutto l’onore alla guardia
del vicerè. E sarebbe stata decisiva se esso vicerè lasciava da Pino
movere la guardia reale, ch’e’ tenne invece a spettacolo sotto i
tiri del cannone. Perocchè Eugenio, prode soldato più che capitano,
eccedeva nelle riserve, e spedendo le truppe a spizzico lasciava questi
piccoli rinforzi distruggere senza risultato. Anche a Wiasma il valore
degl’italiani liberò il corpo di Davoust stato tagliato fuori.

Già non combatteasi più per la vittoria, ma pel minore disastro: pure
una speranza sopravvivea, l’avvicinarsi a Smolensko, ove riposo, caldo,
viveri, la fine de’ patimenti. Ma giuntivi (13 9bre), odono che il
corpo di Victor, che ivi credeano acquartierato con 30,000 uomini,
erasi diretto contro Witgenstein, dopo consumate le provvigioni della
città. Bisognò dunque uscir pure di qui; e i feriti che venivano
abbandonati, dal giaciglio de’ loro dolori ghermivansi alle ginocchia
de’ partenti, carponavansi dietro al camerata finchè li vedessero, e
additavano i Cosacchi di cui cadrebbero preda e strazio: per la patria,
per l’amante, pei padri supplicando di non lasciarli quivi al nemico e
alle fiamme, almeno chiedeano una fucilata.

E intanto continuavasi a non trovare che villaggi arsi, che magazzini
consumati; tutta la forza morale occorreva per sostenere la fisica:
eppure ogni tratto erano costretti combattere un nemico forte
e irritato. Se poteasi rinvenire una bracciata di combustibile,
se rimanesse qualche capanna cui metter fuoco, vi si affollavano
ingordamente, attaccavano la pentola, conservata preziosissima più che
le gemme e gli argenti; e coceasi un poco di carne di cavallo sulla
brace, un pugno di farina di segala salata colla polvere: ma a mezzo
del rancio ecco si ode l’urrà de’ Cosacchi; onde pigliansi quei brani
di carne, e così sanguinenti si divorano fuggendo.

Quattrocento miglia erano segnate da cadaveri d’uomini e cavalli, da
feriti abbandonati, da cassoni di polvere fatti saltare, da vetture
a pezzi, quando si arrivò al fiume Beresina (28 9bre). L’esercito
italiano assottigliato, fu spinto da Napoleone come avanguardia; e
sul ponte improvvisato affollaronsi i soldati, confusi, disordinati,
gettando gli altri nel fiume chi avesse ancor forza di urtare,
i sopraggiunti calpestando i caduti, i carri rovesciandosi sulla
folla, nella comune pressa di sottrarsi ai Russi, che arrivavano ben
provvisti, ben pasciuti, avvezzi al clima, e coll’entusiasmo di chi
salva la patria. E questi giunsero allorchè sol parte dell’esercito
era tragittato, ma per salvar l’imperatore si mise fuoco al ponte.
De’ miseri rimasti sulla sinistra, chi bestemmiava, chi gemeva, chi
s’agitava convulsamente, chi lanciavasi nel fiume bilanciandosi sui
massi di ghiaccio, chi nelle fiamme del ponte per sottrarsi a una
prigionia che equivaleva alla morte; molte migliaja caddero in man dei
Cosacchi, che colle picche li spinsero verso l’esercito russo.

Dopo quel passaggio quasi più non rimase aspetto di ordinanza militare,
non disciplina o servizio; appena qualche bajonetta luccicava tra le
file; rozzi cenci e pelli avvolte ai piedi dopo mancate le scarpe,
faceano più faticose le marcie: camuffati in grosse pelliccie, al
capo acconciature strane, barba lunga, irti i capelli, gote scarne,
occhi incavati, sozzi di polvere, di fango, di fumo, appena i più
intrinseci conoscevansi l’un l’altro; procedeano con feroce serietà o
riso convulsivo; trascinavansi dietro i magri cavalli, non più abili
a portare il signor loro, e che sprovvisti d’ogni cibo, rosicchiavano
le scorze degli alberi, pestavano il gelo per trovarvi sotto qualche
bever d’acqua; poi non ferrati a ghiaccio, ad ogni mutar di passo
scivolavano, sicchè sfiniti, cadeano, e a pressa a pressa se ne levava
il cuojo per vestirsene, per tuffar le mani e i piedi nelle viscere
ancor palpitanti, per divorarne qualche brano.

Col dicembre cominciò la neve a grandi falde; e ventata negli
occhi, confusi cielo e terra, cancellate le strade, più non sapeasi
ove s’andasse, erravasi per le sconfinate campagne, cadeasi ne’
pantani. Il vento toglieva il respiro; l’umidità penetrava ne’ laceri
vestimenti; spenzolavano ghiacciuoli dalla barba e da’ mustacchi; i
fucili cascavano dalle mani intirizzite; pareva il sangue fosse tutto
salito al viso livido e gonfio. Era necessario un moto continuo,
poichè fermarsi equivaleva a morire; gelavano le orecchie, il naso, le
mani; prima perdeasi la vista, poi l’udito, poi la conoscenza, infine
la potenza di moversi; un sasso, un tronco bastava a far cascare; e
l’uomo più non sentiasi forza o volontà di rialzarsi, fissava quel
che stavagli intorno con guardatura incantata degli occhi rossi, da
cui spesso il sangue trasudava; ben tosto la neve lo sepelliva, e un
piccolo rialzo accennava che ivi giaceva un prode.

Dopo il 6 dicembre il freddo crebbe sino a venti gradi; molecole
ghiacciate volteggiavano per l’aria, cadevano uccelli gelati, il
terreno era una superficie di cristallo; e il solenne silenzio
dell’inverno non era interrotto pei nostri che dallo strepito de’
passi, dallo sgretolar della neve, dal lento cigolar delle ruote, dai
gemiti de’ moribondi, cui volta a volta rispondeva il terribile urrà
de’ Cosacchi. Alla fratellanza di giovani e di militari sottentra
allora l’egoismo della conservazione; non più distinzione di gradi
o di fortuna; non pensare più che alla salvezza propria; rubavansi
a gara e disputavansi fin colla sciabola un seccherello di pane, un
pugno di farina, una bracciata di legna o di paglia; vedeano cadersi
a’ piedi il camerata, e non gli davano nè una mano nè una lacrima;
l’amico passando presso l’amico ferito non mostrava conoscerlo per non
dividere con lui l’esigua prebenda o un bicchier d’acqua, o sentirsi
pregato d’ucciderlo; se alcuno cadeva, prima che fosse stecchito gli
altri strappavangli le vesti per intiepidire se stessi. La convinzione
che nulla potea toglierli a quell’infelicità, annichilava il vigore
necessario per sostenervisi; molti cadevano in delirio, e già ciechi,
sordi, cancrenati, dallo spasimo si morsicavano le mani e le braccia;
aveano gli occhi pieni di lacrime che non potevano sgorgare; senza
verun male, ma di pura inanizione molti cadevano nel cammino, e i
seguenti gli accavalciavano senza badarvi. La notte sdrajavansi a piè
delle betulle e dei pini o sotto i carri, il cavaliere colla briglia
al braccio, il fante col sacco in ispalla, cumulati a guisa di mandre;
s’abbracciavano un l’altro per tenersi caldi; la mattina trovavansi
stretti ad un cadavere, e l’abbandonavano senza compiangerlo.
Alcuni avvicinandosi improvvidamente al fuoco, n’aveano incancrenite
spasmodicamente le membra; altri neppur sentendo l’impressione della
fiamma, rimanevano bruciati; o addormentandosi in qualche casolare,
vi erano soffogati dall’incendio, per la loro imprevidenza suscitato.
Insomma ad ogni bivacco rimaneva un circolo di cadaveri.

Eppure non mancavano atti generosi: un coll’altro dividere l’ultima
pagnotta e la biancheria; portar sulle spalle l’amico, il padrone; un
vecchio trascinava sopra una slitta il figliuolo ferito e coi piedi
gelati; una sposa recossi il marito a spallucce; uno ben coperto
gettava la propra pelliccia sopra quel che gelava. Lucini velite,
venuto cieco, da Pieroni e Tiraboschi fu accompagnato da Molodezno fino
all’erta di Ponary, ove difendendolo furono uccisi. Altri consegnavano
ai camerata la croce d’onore: un alfiere morendo sotterrò l’aquila
ricevuta ad Austerlitz.

La nostra guardia d’onore era di cinque compagnie, tutte di nobili,
serviti dalle ordinanze, destinati in origine alla persona del
principe, e a scortarlo nelle cerimonie e ne’ viaggi. Nel 1809 aveano
chiesto e ottenuto d’entrare nell’esercito attivo: vergognandosi di
vedersi risparmiati, chiesero pericoli, incontraronli con onore, e
produssero prodi uffiziali. Ora essi pure furono posti in marcia, anche
perchè servissero a malleveria della tranquillità interna: e quelli di
Piemonte e Toscana giunsero solo a Varsavia, come pure i loro veliti:
ma quelli del regno d’Italia procedettero, ed obbligati a serenare e
cercar lontano i foraggi, non avvezzi a servire a piedi, e portando
stivali alla dragona, perivano miserabilmente.

La meta comune, la grande speranza era Vilna; e quando vi giunse
(9 xbre) lo scheletro del grand’esercito, sulle porte urtandosi,
premendosi, s’ammazzavano tra loro; ma ecco vedonsi chiudere le
case, non trovano nulla di preparato; ond’essi, furibondi dalla fame,
sfondano le porte; fan ogni oltraggio ai poveri abitanti; chi trova
cibo e viveri, se ne satolla in modo che muore; alcuni svanite le
speranze, non vollero più partire, immaginando non poter incontrar di
peggio di quel che aveano sofferto; gli altri si rimisero in marcia
verso Kowno, costernati al sentire che restassero ancora pericoli.

I Russi ingrandivano delle nostre ruine; ai cannoni da noi abbandonati
per via aggiogavano i loro cavalli, e li spingevano contro i nostri;
entrati in Vilna, a nome di patriotismo trucidarono i malati nello
spedale di san Basilio. Due leghe da questa città ergesi la montagna
di Ponary, tutta ghiaccio, e il sormontarla costò innumere vite. A
Kowno, nuova speranza d’acquartierarsi, e nuovamente delusa; mancando
ogni ordine, si diguazza nelle provvigioni, e ubbriachi gettandosi per
terra sulla neve, non sorgono più. Il giorno dopo (13 xbre) si parte
per Gumbinen, e le fiamme de’ magazzini di Kowno attestarono ai Russi
che i nemici non erano più entro le loro frontiere. Essi pure quanto
non soffrirono! ma Alessandro gl’invitava a tripudiare nel chiudersi
d’un anno eternamente memorabile. Le loro campagne rifiorirono anche
pe’ nostri cadaveri, le città rifabbricaronsi, sono cancellate affatto
le traccie del guasto, e conservaronsi indipendenti; e diedero una gran
lezione a chi deve riscattare o vuol conservare la patria.

Allora incontrammo i Prussiani: i quali alleati per forza e persuasi
di dovere la loro schiavitù ai Francesi, gioivano in vedere così
miserabile l’esercito, da vent’anni vincitore; e presto si arrolarono
col nemico (1813). Dell’esercito italiano cinquemila soldati rimasero
alla Beresina; e all’appello non risposero che ottomila ottocento.
Passato il ponte di Brison, trovavansi ridotti a duemila seicento
uomini; al fine della campagna, a Marienwerder il vicerè non contava
più che centoventun uffiziali e cendodici tra bassi uffiziali e
soldati; talchè in censessantacinque giorni eransi perduti ventiseimila
trecento novantasette uomini, novemila cavalli, cinquant’otto cannoni,
trecentonovantun cassoni, settecentodue carri di trasporto[133]; e non
per la salvezza del proprio paese, nè tampoco per la sua gloria.

Qual altro eroe potè inaffiare i proprj allori colle lacrime di
450,000 soldati, spenti, agonizzanti, prigionieri senza gloria e senza
esaltamento?

In Italia, come in Francia e in Germania, la mesta taciturnità di
tanti orbati, privi o scarsi di notizie cercanti sulle mappe quelle non
più intese lontananze, e una speranza in qualche lettera o in qualche
rara gazzetta, veniva addolcita dal ripetuto annunzio «che il nostro
esercito era nel migliore stato, ed ottimo quel dell’imperatore e del
vicerè», quando di colpo nel XXIX bullettino (1813 18 xbre) Napoleone
annunzia il gigantesco subbisso; perchè gli uomini non n’avessero
il vanto, lo attribuisce al freddo, e quasi insultando ai patimenti
soggiunge: — Quelli cui natura non avea dato tempra robusta contro le
vicende della fortuna, perdettero il gajo umore, e non pensarono che a
disgrazie e catastrofi; quelli che essa creò superiori ad ogni evento,
conservarono la vivacità e le maniere consuete, o videro nuova gloria
nelle difficoltà da sormontarsi», e conchiudeva: — La salute di sua
maestà non fu mai migliore».

Se ne consolino tanti padri, tante vedove e amanti! egli è sano: di
533,000 soldati che aveano passato il Niemen, 350,000 sono periti,
100,000 prigionieri; ma sua maestà è sana; e non ha una voce di
compassione per gli estinti, non una consolazione pei sopravvissuti!

Sentendo la necessità di ritornare nel centro d’una macchina che solo
per lui sta connessa e si muove, di comprimere le speranze eccitate dal
suo disastro, e di preparare nuova carne ai cannoni, Napoleone fugge
dai tanti che avea trascinati a perire, e cede a Murat il comando.
La costui spada avea servito mirabilmente in quella campagna; ai
Cosacchi ispirava uno spavento misto d’ammirazione, che esprimevano
coll’urlare qualora lo vedessero in quello sfarzo scenico, tutt’oro e
pennacchi, avanzarsi come un cavaliere antico per compiere prodigi di
valore. Ardito però alla carica, nulla valeva a una ritirata; e poichè
Napoleone non avea lasciato ordini, e, come avviene nel despotismo,
tutto in lui riteneva, Murat si desola della responsabilità che gli
pesa addosso, avvezzo a obbedire non sa comandare, inveisce contro
Napoleone che mette in pericolo tutte le Corone napoleoniche, e non
volendo che un re abbia a restar prigioniero, fugge anch’egli (17
genn.) senza aspettar ordini da Parigi, e da Posen vola a Napoli.
Perchè sarebb’egli stato eroe più del suo padrone?

Invece di Ney, vero corifeo di quella ritirata, si conferì il supremo
comando ad Eugenio, perchè regio. Ogni reggimento contava appena
cinquanta o sessanta uomini, pure aveano tutte le bandiere e le
aquile in mezzo a loro. Presto agli antichi rimasugli si unirono
nuove reclute. Ma esercito non potea più dirsi; miserabili drappelli
scomposti e assaliti incessantemente; e se i Polacchi e i Prussiani
s’affrettavano a dar pane e pietose cure, poteva anche temersi
cogliessero l’istante per farli tutti prigionieri.

Perocchè all’annunzio di quella ruina fu un’esultanza fra le nazioni,
che di Napoleone non aveano provato che la tirannia. Anche nell’interno
i disgustati antichi e nuovi s’alenano ne’ maneggi, sperando vendetta
e preparandola: ma mentre la popolazione stanca di tanto sangue, di
tante perdite, di tanti insulti alla nazionalità ed alle coscienze,
si sfoga in allusioni e in pasquinate, Napoleone palesava la potenza
della sua amministrazione. Perocchè, appena arrivato a Parigi, loda,
rimprovera, rincalorisce le idee monarchiche, domanda nuovi sacrifizj
senza voler ripagarli con concessioni ai popoli, ai quali i re hanno
parlato di libertà. Non resta più artiglieria, non cavalleria, non
denaro, non gioventù; eppure egli favella come nei giorni della
grandezza, fa il quadro d’una prosperità che tutti sentono mendace,
con attività implacabile chiama a servizio di terra gli artiglieri di
mare, anticipa un’altra coscrizione, move il primo bando della guardia
nazionale, toglie i fondi dei Comuni e gli obbliga a levare prestiti;
dai prefetti, dai corpi dello Stato si fa mandare congratulazioni e
offerte; tutto può, giacchè nulla lo rattiene, neppur la compassione.

Stupì il mondo al vederlo rialzarsi (aprile) di tratto contro
tutt’Europa (1813), e rinnovando i prodigi della Convenzione, comparire
in Germania, ripigliare l’offensiva con coscritti, e spiegare la sua
grande strategia. Avesse avuto a combattere solo contro eserciti,
vinceva ancora, benchè l’Austria avesse ritorte contro di lui (15
agosto) le duecento mila bajonette che aveagli date in sussidio,
avrebbe egli ancora potuto conservare la barriera al Reno che la
Rivoluzione aveva conquistata; a Lützen (maggio), a Wurtchen, a Bautzen
la vittoria gli sorride di nuovo; ma dietro agli eserciti rugge la voce
de’ popoli germanici, che ebbero anche quel che mancò agl’Italiani,
poeti nazionali in Körner, Arndt, Schenkendorf, e la libertà esultò
sotto i vessilli dei re, in quella che gli stranieri intitolarono
_battaglia delle nazioni_. Napoleone, vinto a Lipsia (16-18 8bre),
ridomanda sangue per supplire al secondo esercito distrutto; intima
l’insurrezione generale; prefetti e podestà armino chiunque appena lo
può; il minimo ostacolo abbiasi per fellonia: ma allora apparve che
neppure in guerra la forza è tutto. Finchè aveva significato difesa
dell’indipendenza e grandezza nazionale, la Francia erasi rassegnata
all’interminabile guerra e vinse: quando la vide a mutare in conquista,
cioè immolamento delle nazioni all’ambizione d’un solo, più non
secondò il genio, e proruppe in desiderio accesissimo di venire a un
fine. Napoleone perdea la sua legittimità perdendo la sua fortuna;
sconnetteasi quell’edifizio, tenuto solo dalla vittoria; i re, i duchi
improvvisati ch’egli avea sparpagliato sui troni, antipatici ai popoli,
deboli come dipendenti, devoti solo per necessità, rubano e fuggono;
Illiria e Tirolo si scuotono; Italia freme d’indipendenza; Murat da
Napoli, Elisa da Firenze patteggiano coi nemici; ultima la Svizzera si
unisce agli alleati.

Anche al regno italico sempre nuovo sangue e oro domandava Napoleone,
senza mostrarne quel conto che avrebbe convertito in adoratori coloro
che erangli servi. Eugenio, appena uscito di Russia, spietatamente
scriveva al ministro della guerra, dei ventisettemila combattenti solo
ducentotre rimanergliene (così credeva); si facesse coscrizione per
surrogare i morti; nè una parola di lode lasciava cadere su questi;
nè una ragione o un pretesto adduceva per indurre a nuovi sagrifizj un
regno che pur doveva figurare come indipendente[134]. Poi da Napoleone
fu spedito a Milano perchè tutto riducesse ad armi, allestisse
ottantamila uomini sì del regno, sì de’ dipartimenti italiani
aggregati alla Francia, traesse armi dagli arsenali. Eugenio emette
cedole; chiede prestiti, pone in moto le guardie della città e della
polizia; ma non giunge a compiere neppure i quadri di 50,000 soldati,
tra francesi e italiani, mal in arnese e in armi, e troppo giovani
e inesercitati; mentre si vantava come un esercito fortissimo, e vi
si faceano figurare ancora i reggimenti distrutti in Russia sotto il
comando di Grenier, Verdier e Pino, li pose nell’Illiria e nel Friuli
per tenere in rispetto l’Austria che s’era rinforzata sulla Sava, e
per impedire i due valichi di Lubiana e della Ponteba. Da Gradisca
l’11 ottobre 1813, mostrato come ci venissero a minacciare gli antichi
padroni, proclamava: «Italia! Italia! questo sacro nome che in antico
creò tanti prodigi, sia oggi il nostro grido di convegno: a questo
nome i giovani si levino, accorrano in folla a formare alla patria un
secondo baluardo, innanzi al quale il nemico non oserà presentarsi. È
invincibile il prode che combatte pei focolari, per la famiglia sua,
per la gloria e l’indipendenza del suo paese. Sia il nemico costretto
allontanarsi, e noi possiamo dire, confidenti al nostro sovrano: Sire,
siamo degni di ricevere da voi una patria: abbiamo saputo difenderla».

Il 21 agosto erano cominciate le ostilità, ove molte vite preziose
furono scialacquate con avvicendati successi: ma dopo l’infelice esito
delle grandi battaglie, visto che l’Italia poteva essere minacciata
verso il Tirolo, Eugenio si ridusse dall’Isonzo alla Piave, poi
all’Adige; si fortificò in Verona, d’onde sortito, tanto per imitare
la paterna prodigalità di sangue, sorprese il nemico (1813 15 9bre) a
Caldiero, e lo respinse sull’Alpone; ma non potè seguitare la vittoria
per tema che i Tedeschi scendendo dal Tirolo, non sollevassero le
popolazioni. Tutta la speranza consisteva nell’esercito. Verdier
e Palombini custodivano Peschiera e il ponte di Mozambano; Grenier
e Zucchi Mantova con Eugenio[135], la guardia reale e la divisione
Rougier; Quesnel il ponte di Goito; Freyssinet, Borghetto e Volta
mantovana; la cavalleria di Mermet volteggiava tra Cereto e Guidizzolo.
Ma il nemico s’avanza; Mayer blocca Mantova; Sommariva, Peschiera;
Bellegarde con settantamila Austriaci entrato in Verona, e stabiliti
gli avamposti a Pozzuolo, solo per riguardi politici non invade
la Lombardia, e corre a Bologna ad affiatarsi con Murat. Eugenio,
desideroso d’acquistare con fatti guerreschi l’affezione dei soldati,
rinnovò sperimenti d’arme a Roverbella, a Borghetto, a Guastalla, a
Parma, massime dopochè gli si furono aggiunti i veterani, reduci di
Spagna: ma si sentì costretto a ricoverare dietro al Mincio[136].

Nugent avea messo il blocco a Venezia, comandata da Seras con
undicimila soldati; i censessantamila abitanti non prendeano parte
alla difesa, e cercavano distrarsi e divertirsi, indifferenti
all’esito[137]; in carnevale si vollero e teatri e maschere; e quando
Seras vietò di uscire dopo mezzanotte senza lume, folleggiarono uomini
e donne girando con fiaccole e lampioni a forme e colori variati; con
uva passa faceasi un tristo vinetto; l’acqua scarseggiava; pagossi fin
sei lire una libbra di carne, trenta un cappone, cinquanta un tacchino,
e quarantaquattromila poveri erano mantenuti dal pubblico; poi tra i
militari scoppiò il tifo, che si comunicò ai borghesi, mal arrivati se
tardava la liberazione.

Il blocco continentale e la guerra incessante aveano scosso
gl’interessi privati: nel 1813 molti grossi fallimenti avvennero non
solo a Venezia, ma a Milano, singolarmente quel della casa Bignami;
locchè sminuì la confidenza, e fe serrare le borse, togliendo così
molti spedienti al tesoro. I patimenti faceano le popolazioni
più ardite a manifestare la noja della dominazione straniera;
quell’obbedire forzato cessava col cessar della forza; i magazzini
erano vuoti d’arme e di vestiti; l’imposta si incassava difficilmente;
i soldati delle provincie occupate disertavano; nelle intatte, i
coscritti rifuggivano ai monti in grosse squadriglie vivendo di
ruba e le città formicolavano di accattoni, che a titolo di poveri
coscritti, voleano denari per amore o per forza; fin Milano, così
vantaggiata dall’essere capitale, soffocava l’entusiasmo stipendiato
sotto all’universale scoraggiamento, e rinvalidava l’indestruttibile
desiderio dell’unità e dell’indipendenza. Della prima ci lusingò
Napoleone col nome di regno d’Italia, poi ben presto aggregò tanta
parte della penisola all’impero francese, sancì la separazione
del Napoletano, nè tampoco tentò ridurre la penisola a tre Stati
soli, i due regni e il patrimonio pontifizio, confederati fra loro,
senz’interesse d’offendere altri, e dalle altrui offese garantiti per
la gelosia d’Austria e Francia.

Disperati d’ottenere da lui quest’unità dopo che il sentimento se n’era
avvivato nella comunanza dei campi e dei pericoli, e nell’aggregazione
a Governi o a vessilli stranieri, prepararono con società secrete,
siccome quella dei Raggi a Bologna e de’ Carbonari nelle Calabrie;
e parve porgervi buon destro il sinistrare di Napoleone. Al quale il
ministro di polizia Fouchè da Roma scriveva il novembre 1813: — Qui,
come in tutt’Italia, la parola d’indipendenza ha una virtù magica;
sotto la sua bandiera militano certi interessi diversi, ma tutti
vogliono un Governo locale; ciascuno si duole d’essere obbligato andare
a Parigi per riclami della minima importanza. Un Governo così distante
non presenta che pesi senza compenso. Coscrizione, imposte, vessazioni,
privazioni, sacrifizj (dicono i Romani) ecco quel che conosciamo del
Governo francese; nessun commercio nè interno, nè esterno; i nostri
prodotti mancano d’esito, e il poco che vien di fuori costa un occhio».

Ed Eugenio a Napoleone da Verona (25 gennajo 1814): — Io non nascondo a
V. M. che in Italia molti uffiziali, e più ancora la truppa si lasciano
sedurre dall’allettativa che il nemico adopera, _l’indipendenza
d’Italia_. M’è forza dire che, dacchè l’esercito di V. M. l’avrà
abbandonata, l’Italia sarà perduta per assai lungo tempo».

Qual sarebbe il principe o l’uomo che alzerebbe la bandiera
dell’italiana indipendenza? Si tentò in prima Eugenio; ed egli,
esitando fra l’ambizione e il tradimento, non mostrò quella risolutezza
che decida dei gran casi. Da Spreziano, ai 29 ottobre 1813, dirigeva
a Napoleone un ragguaglio dello spirito pubblico: — Devo rendere
giustizia agl’Italiani, che in generale non diedero accesso alle
insinuazioni degli emissarj dell’Austria. Non la dominazione austriaca
ribramano essi, non repugnano al Governo di V. M., ma una specie
d’apatia, di non me n’importa, di abbandono irreflessivo gli ha
presi: ognuno si chiude in un egoismo, di cui non vede il pericolo.
Quelli che, posti a capo della società dalla fortuna e dagl’impieghi,
dovrebbero dar l’esempio, non ne danno alcuno... Fa dolore che la
sola attività rimasta agli spiriti sembri oggi esercitarsi in giudizj
erronei sul presente, e vane congetture sull’avvenire. Ben più ho
a dolermi, o sire, quando sento mescolare il mio nome a progetti, a
combinazioni, a speranze del pari assurde e ripugnanti al mio cuore....
Lo dirò colla forza che mi dà l’indignazione; non per me mi sgomento,
giacchè V. M. conosce il mio attaccamento e il mio onore: ma come non
gemerei vedendo un tal pretesto dar ardire ai mali intenzionati, e
accrescere l’inquietudine dei buoni, che fra tante funeste oscillazioni
ben presto non sapranno su qual base appoggiar la loro debolezza».

Più opportuno agli speranti parve Murat; egli buon soldato, egli con un
esercito alla francese, eppure dal francese staccato. Già reluttando
alla aspreggiante supremazia di Napoleone, avea tardato a pagargli il
milione annuo che quegli erasi riservato, e il frutto di quattro grandi
feudi della Romagna, tenendosi offeso del veder questa data in titolo
al principe ereditario. Passando per Milano e per Bologna non avea
dissimulato che voleva ormai badare alla felicità de’ suoi popoli e
alla sua indipendenza, e che aprirebbe i porti agl’Inglesi. Dei favori
compartiti a Beauharnais prendeva gelosia; e gliela fomentava Napoleone
sì in lettere private, sì nel suo giornale, facendo vilipendere l’uno,
l’altro esaltare. Murat per dispetto decretò che soli Napoletani
entrassero negl’impieghi civili e militari, e rimbrottato severamente,
rispondeva: — Mille volte ribramo i tempi quando, semplice uffiziale,
avevo de’ superiori, non un padrone. Fatto re, tiranneggiato da voi,
dominato in famiglia, ho sentito bisogno d’indipendenza, massime che
voi m’immolate a Beauharnais, più gradito perchè mutamente servile,
e perchè gajamente annunziò al senato di Francia il ripudio di sua
madre. Non posso al popolo mio negare col commercio qualche ristoro
ai gravissimi danni della guerra marittima». Solo la moglie, correndo
da Napoli a Parigi, aveva potuto impedire una rottura tra il fratello
e il marito, il quale cominciò a dare ascolto a quelli che lo
istigavano divenire spada dell’italica indipendenza. Quando poi ai geli
settentrionali si fu avvizzita quella gloria ch’era sbocciata ai nostri
Soli, i liberali se gli fecero attorno con maggior istanza: essere
opportuna l’ora, vuota d’eserciti l’Italia, indecise le sue sorti;
i popoli disgustati degli antichi e del nuovo dominio; gli alleati,
intesi a dar libertà al mondo, non si brigherebbero dell’Italia, purchè
la vedessero pronunziarsi contro Napoleone; gli antichi ostacoli a
riunirla essere omai scomparsi quando le provincie aggregate alla
Francia se ne staccavano per forza delle cose, e tutt’il resto fremeva
di spirito nazionale; sorgesse dunque, levasse il grido a cui tutti
risponderebbero; co’ suoi quarantamila uomini salisse incontrastato
fino al Po, ivi si congiungesse coll’esercito d’Italia, formandone uno
superiore a quello di cui potessero disporre Austria e Francia[138].

Murat non osò fidare nei popoli, e tenne pratiche con Bentinck,
generalissimo delle armi inglesi in Sicilia; ma poichè questo esigeva
ch’e’ cedesse il regno e accettasse compensi, egli si volse ancora
verso Napoleone, e andò a combattere per lui in Germania, il suo
scettro affidando alla moglie, disposta a immolarlo al fratello.

Al precipitare degli avvenimenti, re Ferdinando cercò ripigliare il
governo della Sicilia; ma Bentinck, il quale vi operava da padrone,
lo fece circondare di truppe, e separò da lui Carolina ispiratrice
sua, la quale dovè recarsi a Vienna. Il vicario convocò il Parlamento
siciliano, che eletto sotto gl’influssi forestieri sempre corruttori,
molto discusse, poco conchiuse, e rivelò le insane gelosie dei Pari coi
Comuni, le ire dei democratici contro i costituzionali. Da una cronaca
che stampavano si dissero Cronici questi ultimi, e Anticronici i
realisti puri; fazioni che si palleggiavano libelli e ingiurie, e nulla
traevano a riva; sicchè il vicario sciolse il Parlamento, e Bentinck
conservò la tranquillità colla forza.

I Carbonari napoletani spasimavano d’una costituzione: ma Murat
napoleonescamente ne abborriva; sicchè i Carbonari, vedendo che,
per interposto inglese, l’aveano ottenuta i Siciliani, legarono
intelligenza con questi e col Bentinck, il quale assicurava l’avrebbero
se fossero ripristinati i Borboni. N’ebbe sentore Murat, e proscrisse
i Carbonari, raddoppiò di vigilanza, spedì in Calabria il formidabile
generale Manhés, che usò violenze come ancora si trattasse di
masnadieri: per basso tradimento ebbe preso e ucciso Campobianco,
fattosi capo d’una repubblica a Cosenza. Così, mentre perdeva il
prestigio della vittoria, perdeva anche l’opinione di bontà.

Gioachino combatteva ancora alla testa degl’imperiali quando diede
ascolto agli alleati che gridavano, — A chi vuol tradire Napoleone
noi assicureremo i possessi», e che conobbero come egli potrebbe fare
utilissima diversione alla Francia. Quando, dopo la rotta di Lipsia,
egli fu tornato nel suo regno, il ministero inglese ordinò a Bentinck
di sospendere le ostilità «contro la persona che occupava il trono
di Napoli»; e per quanto paresse ignobile il patteggiare con uno che
volevasi guardare soltanto come un capobande, Inghilterra ed Austria
se gli allearono (1814 gennajo), promettendo egli portar contro Francia
trentamila uomini, e non fare accordi se non insieme con loro: esse di
rimpatto lo conserverebbero re del napoletano, accresciuto con brani
dello Stato romano per quattrocentomila abitanti. Subito riapresi il
commercio, e rifluisce il denaro nel Reame: ma gli Inglesi pretendeano
per garanzia Ischia, Procida, Capri e tutta la marina napoletana, e
tenere venticinquemila uomini a combattere co’ suoi. Queste precauzioni
doveano aprire gli occhi a Murat; e Fouché, spedito per tenerlo ben
edificato, gli ripetea, — Voi fatto re da Napoleone, non resterete
re senza di lui; dietro di voi guardate la famiglia borbonica, che da
niun altro che da Napoleone può essere frenata». Gioachino or da una
parte pendeva, ora dall’altra, come gli uomini non fatti alle grandi
risoluzioni; alfine mosse l’esercito, dando al generale Pignatelli
Strongoli speciale incarico di disporre gli uffiziali e i patrioti
a sostenere l’indipendenza italiana. Se, deliberato a salvare il suo
creatore, si fosse unito ad Eugenio sull’Adige, poteva ricacciare gli
Austriaci nell’Illiria, spingersi sul Reno alle spalle dei nemici di
Francia, e difilare sopra Vienna; ma essendosi fermato coll’Austria,
costrinse Eugenio non solo dall’Adige a ritirarsi sul Mincio,
ma a mettere truppe sulla destra del Po per custodire Parma e il
passaggio del fiume a Piacenza. L’esercito napoletano occupò Ancona,
Roma, Firenze, Lucca quasi senza ferir colpo, giacchè i Francesi
si raccoglievano nelle fortezze: e la Toscana, dispettando il suo
Napoleonide, acclamava Francesco I e Ferdinando; nelle Romagne alzavasi
la bandiera italiana.

Gioachino, tolta forza all’antico, non osava piantare un governo nuovo;
pure da Bologna proclamava: — Fin quando credei Napoleone combattesse
per la pace e felicità della Francia, feci della sua voglia la mia:
vistolo in perpetua guerra, per amore de’ miei popoli me ne separo.
Due bandiere sventolano in Europa: su l’una è scritto _religione,
morale, giustizia, moderazione, legge, pace, felicità_; su l’altra
_persecuzione, artifizj, violenza, tirannia, lagrime, costernazione in
tutte le famiglie_. Scegliete». Ancor più francamente il suo generale
Carascosa da Modena arringava gli abitanti dell’alta Italia: — Dopo
secoli di divisione, di debolezza e d’occulte virtù, spunta per noi
il desiderato giorno in cui, combattendo per gli stessi interessi,
difendendo la stessa patria, non abbiamo che ad unirci intorno
al magnanimo re, al primo capitano del secolo, per essere sicuri
d’arrivare di vittoria in vittoria al placido e tranquillo possesso
dell’unità e dell’indipendenza. Italiani! confondetevi nelle nostre
file, abbandonate quelle de’ vostri oppressori, e non date all’Europa
lo spettacolo lagrimevole d’Italiani del mezzogiorno combattenti
con quelli d’oltre il Po, nel momento in cui un magnanimo li chiama
ugualmente all’onore, alla gloria, alla felicità».

Quest’italianità fece mal suono a Bellegarde, comandante degli
Austriaci in Italia, e intonò un proclama (5 febb.) nella chiave
d’allora, ma di conclusione differente: — Italiani, di tutte le nazioni
che l’ambizione di Napoleone curvò sotto il suo giogo, voi siete
l’ultima per cui sonò l’ora della redenzione: vedete in noi i vostri
liberatori; noi veniamo a proteggere i vostri legittimi diritti, e
ristabilire ciò che la forza e la superbia abbatterono; vi chiamiamo
alla difesa comune. Italia, come le altre nazioni, faccia prova di
forza e di coraggio. È tempo che le Alpi s’inorgoglino di nuovo delle
loro cime inaccessibili, e formino una barriera insormontabile: è tempo
che quelle strade aperte per introdurre nel vostro paese la schiavitù,
siano distrutte, nè più si vedano Brenni in Campidoglio». Ma seguendo,
affrettavasi di ricordare le antiche e future divisioni; i Piemontesi,
dalla natura e dal coraggio destinati primo schermo alla bella
Italia, accorressero alla bandiera del loro re; i Toscani rivedrebbero
ben tosto l’amato loro principe, e con lui le lettere, le arti, la
felicità; ricomparirebbe l’antica Casa d’Este; la prima città del mondo
cesserebbe di essere la seconda d’un impero straniero; volere i sovrani
alleati voler ricostruire l’antico edifizio sociale sulle basi che
aveano portato tanta felicità.

Gl’Italiani, abboccavano l’adulazione, non faceano riflesso al fondo;
Gioachino sì: onde cresceangli le titubanze, manteneva carteggio con
Eugenio, modificava le operazioni degli Austriaci, sbigottivasi di
qualche avvisaglia ben succeduta a Napoleone in Francia, e del vedere
gli alleati non volere far pubblico il trattato con lui conchiuso,
anzi gl’Inglesi dalla Sicilia inviare una spedizione in Toscana senza
dargliene contezza.

Napoleone vedea tutto e se n’arrovellava, ma non potea più nè
impunemente insultarlo nè punirlo. E a Murat si erano rannodati quei
che nel regno d’Italia covavano rancori contro Eugenio, pretessendo
l’indipendenza e l’unità italiana; e principali Giacomo Luvini capo
della polizia, e i generali Giuseppe Lechi e Pino, il quale, avverso
a Montanelli ministro della guerra, e per sospetti tolto dal governo
di Bologna, ritiratosi a viver privato in Milano aspettava gli
avvenimenti. Ma nè costoro, godeano opinione nel popolo, nè la godea
Murat, sì pel carattere personale, sì perchè francese.

Intanto il generale austriaco Nugent, più non avendo a combattere
Francesi in Istria, da Trieste venne a Ferrara per assalire Venezia,
e dal Po si stendea sino a Faenza, trescando nelle Legazioni, e
da Ravenna intonava agl’Italiani: — Abbastanza soffriste un giogo
insopportabile. È del vostro interesse il farvi strada colle armi al
risorgimento, e vi sarete protetti ed assistiti. Fatti indipendenti,
in breve sarà invidiabile la sorte vostra, ed ammirata la vostra
situazione». L’Inghilterra che avea sorpreso Lucca, ordina a Bentinck
d’avvicinarsi al Genovesato, e incoraggiare i movimenti che vi
prevedeva: ed egli, sbarcato con quindicimila uomini a Livorno, difila
per la Riviera drappellando sugli stendardi _libertà e indipendenza
italiana_[139]. Insomma Tedeschi e Inglesi, Murat e Beauharnais
promettono le cose più diverse e le meno attendibili agl’Italiani,
che in quella sospensione affannosa non sapevano a chi credere, nè
credeano abbastanza in se stessi; onde abbandonandosi alla decisione
dell’armi, perdettero quel preziosissimo momento. Fin allora non si era
pensato che a ridurre la Francia entro i confini del Reno; ma i re,
di colpo rifatti dalle perdite d’un decennio, ripigliano l’ambizione
di nuovi acquisti: Pozzodiborgo, uno dei tanti Côrsi che portavano a
stipendio altrui o il valore o il talento, e che serviva alla Russia
con un odio da compatrioto contro Napoleone, persuadendo a marciare
sopra Parigi «decise delle sorti del mondo», e potè vantarsi, — Non son
io che l’uccisi, ma gli gettai l’ultima palata di terra». Alessandro
smaniava d’entrare a Parigi a capo della sua guardia imperiale, «giusta
retribuzione delle calamità inflitte a Mosca, Vienna, Madrid, Berlino,
Lisbona dal desolatore d’Europa», e farvi mostra di clemenza, a
contrasto colla desolazione della sua città santa.

Or dove sono i tanti acquisti che avea fatti la Rivoluzione? dove
quella magnifica Francia? dove quell’esercito che essa avea commesso a
Napoleone affinchè assicurasse la pace? Tutto egli ha consumato, e due
milioni censettantremila coscritti; e in diciotto mesi indietreggiò
di settecento leghe. Ciò solo si ricorda, e il pensiero represso,
il commercio estinto, la libertà conculcata, la Francia affidatagli
nel colmo della prosperità, ed ora calpesta dai cavalli ungheresi
e cosacchi, e l’onda della Senna bevuta dai Baskiri. Pure Napoleone
si terrà per vinto finchè la bandiera tricolore a Venezia, Genova,
Mantova, Alessandria? Osi uno dei suoi gran colpi; passi le Alpi con
cencinquantamila uomini e rinnovi il duello sui campi che gli hanno
dato la prima gloria, e che se non altro gli assicureranno condizioni
onorevoli.

In fatti è a capo d’un rinnovato esercito, ma sentesi abbandonato dai
popoli. Risoluto all’estremo, ordina ad Eugenio che getti guarnigioni
in Mantova, Alessandria, Genova, pel Cenisio raggiunga Augereau in
Savoja, a Lione si metta capo delle truppe, assalga Bubna, salvi la
Francia. Meglio per lui se obbediva! ma anche senza supporlo preso alle
blandizie degli Alleati[140], il buon esito d’alcune avvisaglie diede
ad Eugenio speranza di poter ancora sostenersi in un regno che gli era
promesso o lusingato.

Anche l’esercito napoletano avea preteso vincere le dubbiezze di Murat
col deliberare sui modi della guerra; e diciassette generali, fra cui
Colletta e i due Pepe sottoscrissero un indirizzo per ottenerla; i
Carbonari già tengono Calabria e Abruzzo, e proclamano la costituzione,
onde il re è costretto prometterla; intanto introduce riforme, allevia
i dazj, abolisce la coscrizione. Sbigottito poi da alcune vittorie
francesi, rinnova proposte ad Eugenio di spartirsi l’Italia e offrire
la loro alleanza a Napoleone; ed Eugenio lo tiene a bada affinchè resti
inattivo, lascia che dal regno italico riceva e viveri e soldi, poi ne
rivela le ambagi agli Alleati; ond’egli, per cancellare il sospetto,
opera più sbrigato ed efficace, chiarisce guerra alla Francia, ma
dopo udita la catastrofe di Napoleone. Perocchè il senato raccoltosi
a Parigi, decreta decaduti Napoleone e la sua famiglia; e gli alleati
pronunziano non tratteranno più con questo, ed entrano in Parigi fra
gli applausi 2 aprile; mentre a Napoleone si va a cercar l’abdicazione
in quel palazzo di Fontainebleau, ove testè egli teneva prigioniero
Pio VII. Ed egli «pel bene della Francia e la pace del mondo» abdica
(11 aprile), riservandosi la sovranità dell’isola d’Elba e due milioni
di rendita per sè; per Maria Luigia il ducato di Parma e Piacenza; ad
Eugenio uno stabilimento fuori di Francia; dei popoli neppur parola; e
l’ultimo suo saluto non è alla nazione, bensì all’esercito.

Ridotto, come scriveano gli Alleati, «a quella degradazione che sì bene
avea meritata, abbandonato da tutti i suoi, non potendo ispirar più che
la pietà dovuta dai cristiani agl’infelici», ritirandosi verso l’isola
d’Elba fu costretto stravestirsi per isfuggire all’indignazione del
popolo. E si sarà lamentato di quell’ingratitudine che a piene mani
avea seminata.

Allora Eugenio a Schiarino Rizzino presso Mantova (16 aprile) patteggiò
un armistizio con Bellegarde, sicchè venticinquemila Francesi con
quaranta bocche d’artiglieria comandati da Grenier ritornassero in
Francia; le truppe italiane conserverebbero la linea del Mincio e
del Po, finchè del regno fosse deciso; Venezia, Palmanova, Osopo,
Legnago si consegnassero agli Austriaci. Eugenio, congedando quelle
truppe francesi parlò da re: dover rimanersi in mezzo ad un popolo
generoso, buono, fedele, che gli affidava una felicità la quale era
stata e sarebbe lo scopo di tutta la sua vita; volendo così illudere
gli Alleati col farsi credere voluto dal popolo, illudere il popolo col
parere predestinato dagli Alleati.

Per verità, appoggiato dal re di Baviera suo suocero e dall’imperatrice
Giuseppina sua madre, avea molti fondamenti di speranze, e brogliava
per ottenere indirizzi dai reggimenti italiani, e perchè il senato
italico lo cercasse re. Questa idea sorrideva a molti, perchè la
sospirata indipendenza si otterrebbe con solo mutar il capo, senza
quei cambiamenti che tornano sempre di noja, di spesa, di titubanza.
Ma troppe avversioni aveva eccitate Napoleone, troppe Eugenio stesso
colle maniere soldatesche, col conculcare le piccole ambizioni e i
sentimenti, colle indiscrete galanterie, col condiscendere a indegni
favoriti. Fin nell’esercito, unica rappresentanza della nazione, unico
fondamento ragionevole delle speranze, Eugenio era contrariato da molti
uffiziali, fra’ quali e fra i cospiratori otteneva preferenza Murat,
miglior soldato, già re, ed alleato coi vincitori. Nobili, preti, e
il grosso della popolazione propendeano per l’Austria, rimpiangendola,
come sempre si suole i governi caduti; sicchè anche allora ai partiti
mancava quel senso supremo d’intelletto politico, il saper sottomettere
gl’interessi, le idee, le passioni particolari alle comuni, non
badare a ciò che ciascuno preferirebbe, ma a ciò che vogliono tutti;
anzi l’uno tacciava l’altro di vile, di traditore, di venduto allo
straniero. Ben è degno di riflessione, che, in uno stato di cose qual
tuttodì ci viene citato con ammirazione, nessuno si trovò a sostenerlo;
e quelle migliaja d’impiegati senza convinzioni, plaudenti finchè
trattavasi di ciancie e di feste, s’acquetavano nella persuasione
che anche sotto nuovi padroni sarebbero cancellieri, secretarj,
consiglieri.

Tra i discordi prevalgono gl’intriganti. Il senato, corpo senza volontà
nè virtù, in secreto deliberò di deputare Guicciardi e Castiglioni
agli Alleati cercando l’indipendenza. Uscì sentore dell’adunanza, se
ne ignorava la decisione, e temendo si fosse cercato re Eugenio, si fa
correre un epigramma — Re no chi vicerè Italia spogliò e disprezzò»; e
un epigramma a Milano può sempre moltissimo; si grida, si protesta; una
petizione firmata da Confalonieri, Luigi Porro, Ciani, Verri, Bossi,
Trivulzio e cencinquant’altri domanda l’indipendenza come Spagna e
Germania. Nuovo perditempo quando l’importanza consisteva nel pronto
e uniforme risolvere; intanto la bordaglia, che sente rotte le catene
ed è istigata da’ suoi adulatori, infuria sotto al palazzo del senato,
ed esige che richiami la deputazione e convochi i collegi elettorali,
rappresentanza nazionale; applaudisce e insulta ai senatori man mano
che arrivano; v’entra anche, e dopo rotte le effigie napoleoniche e
i segni dell’antico potere, corre alla casa del Prina ministro delle
finanze, e coltolo lo trascina brutalmente per le strade fin a morte
(20 aprile). La guardia civica messa in piedi salvò la città dai
soliti eccessi d’una plebe, cui eransi lasciati gustare il sangue e il
saccheggio.

Così fu disonorevole quell’assassinio, così sciagurate le conseguenze,
che ciascun partito volle riversarlo sopra l’avverso; consueto
refrigerio delle colpe irreparabili. Villa, prefetto della polizia,
che iniziò processi contro i tumultuanti, fu congedato. Possibile
che Luvini, ministro di polizia ignorasse la trama? diceano non volle
prevenirla perchè muratiano, come non volle reprimerla Pino che messo
a capo delle milizie, blandiva la plebe, e ne accettava gli evviva sin
come re. Confalonieri ed altri redenti poi dal martirio, certamente
comparvero tra le prime file, e poterono scusarsi non iscolparsi. Altri
vollero al solito vedervi l’oro austriaco, e anche oggi si asserisce
che un conte Ghislieri avesse celatamente coi partigiani dell’Austria
spinto a quell’assassinio.

Napoleone andandosene di Francia aveva detto: — Addio terra de’
prodi; qualche _traditor_ di meno, e saresti ancora la regina delle
nazioni»; spiegazione vulgare, e fu la stessa che la plebe diede allo
sfasciamento del regno d’Italia; ma certo i partigiani nocquero quanto
i traditori. Quell’amministrazione ardita, prodigiosa, sprezzatrice
d’ogni ostacolo, non avea fondato alcuna istituzione che da se stessa
si reggesse, nulla che potesse sopravvivere alla volontà creatrice; era
una meccanica dotta, sotto cui si cancellavano la ragione, la sorte
dei popoli, la dignità umana, sempre svilita dal giogo straniero.
Come un decreto l’avea costituito, così un decreto sciolse il senato;
convocati i collegi elettorali, s’istituì una reggenza provvisoria, la
quale rabbonacciò promettendo «dimandare quel ch’è il primo bene e la
principale sorgente della felicità d’uno Stato»; vale a dire si abbattè
il sicuro e regolato per avventurarsi in cieche eventualità, e fare che
nè amici nè nemici potessero e dovessero tener conto di un regno che
da dieci anni sussisteva. Entrata la consueta febbre degl’indirizzi,
tre deputazioni si misero in corso, una dal senato, una dall’esercito,
una dai collegi elettorali; moltiplicità che convincea gli Alleati
come non avrebbero a lottare con una volontà nazionale risoluta;
sicchè col pretesto di reprimere il tumulto, essi passano il Mincio
ch’era il confine stipulato, ed occupano Milano. Allora il bel modo,
le gazzette, i libelli a sputacchiare caduti quelli che dianzi aveano
incensati; chiamar malefico, orco, senacheribbo, anche codardo colui,
del quale fin allora aveano leccato la spada insanguinata; tacciare i
ministri d’aver rubato, massimamente Prina e Fontanelli; mentre l’unica
loro colpa era l’essersi creduti ministri del re, anzichè del regno; e
Luigi Giovio, gran napoleonista, aprendo i collegi elettorali dicea: —
Possano le Alpi, le une sopra le altre ammassate, separarci per sempre
da quella nazione, che sempre portò l’infortunio e la desolazione nella
patria nostra».

La reggenza provvisoria cercò popolarità coll’abrogare le istituzioni
che più offendevano; rimandò a casa i nuovi coscritti, chiese dalle
Potenze i prigionieri di guerra; abolì il blocco continentale, il
registro, le corti speciali, le caccie riservate; attenuò i dazj e
le regalìe; e soldati che rimpatriavano vivi, coscritti refrattarj
che uscivano dai boschi, prigionieri di Stato o per contravvenzione
finanziaria che rientravano nella società, pareano preludj d’un secol
d’oro; si gavazzavano i soliti carnevali sulle ruine, anzichè pensare
alla ricostruzione. Quella reggenza non avea fatta la rivoluzione nè
la intese; ed insufficiente ad ore piene di tanto dubbio avvenire,
credette suo unico uffizio il trasmettere il paese senza trambusti da
un padrone all’altro[141]; ai deputati dell’esercito di Mantova, venuti
ad offrirsi alla patria, il generale Pino rispondeva: — Fate torto alle
alte Potenze col dubitare non vogliano l’indipendenza italiana; bisogna
fidarsi interamente alla loro probità». Sempre gli stessi inganni, le
stesse lusinghe, fin le parole stesse!

Beauharnais, vedendo perduta la sua partita fra il popolo e sperando
ancora dai re, per dispetto rende a Bellegarde Mantova 1814 23 aprile
e l’esercito che non era suo ma dell’Italia; e con molte ricchezze
traversato il paese non senza pericolo, massime nel Tirolo indignato
della perfida fucilazione di Hoffer, passa a Parigi a trescar anch’egli
sul tavoliere dove si biscazzavano le sorti del mondo e le nostre.

Quando nel 1805 si ordì la terza coalizione fra i nemici di Francia,
nelle combinazioni preparate dalla Russia pel caso di vittoria era
che si costituisse pei reali di Savoja un regno subalpino, composto
del Piemonte, con Genova, la Lombardia ed il Veneto; Savoja colla
Valtellina e co’ Grigioni formerebbe un cantone svizzero; una
federazione di cui il papa sarebbe grancancelliere, unirebbe il
regno col pontefice, colle Due Sicilie, col regno d’Etruria e coi
piccoli Stati di Lucca, Ragusi, Malta, isole Jonie, alternandone
l’egemonia fra i re del Piemonte e delle Due Sicilie. Questi concetti
poteano effettuarsi adesso, quando in nome della nazionalità e delle
istituzioni liberali si erano mossi gli Alleati; ed Alessandro,
graziosa personificazione del regio liberalismo, inclinava a metter
Eugenio a capo d’un regno indipendente; gli ambasciatori esteri
fomentavano le aspirazioni nazionali nei nostri, e ai deputati della
reggenza provvisoria[142] quel d’Inghilterra diceva: — Vuolsi avere
idee e sentimenti liberi; manifestateli, e la grande mia nazione vi
proteggerà». Ma allorchè essi inviati presentaronsi a Francesco I
d’Austria, questo rispose: — Lor signori sapranno che la Lombardia
m’era già assicurata nel trattato di Chatillon; non v’è dunque a
disputare d’indipendenza italica nè di costituzione; Milano dovrà
decadere, cessando d’esser capitale; mia cura sarà che decada
lentamente: del resto so non convenire all’Italia le leggi austriache;
chiamerò a Vienna gl’Italiani più illuminati d’ogni classe per
formolare l’ordinamento del paese». Era un accertare che non poteasi
più sperare se non nella clemenza d’un vincitore; ch’era sfuggita
un’altra di quelle occasioni, che, non così rare come cianciano
i poltroni, Iddio manda a questa bella parte d’Italia, e ch’essa
scialacqua.

Napoleone, al primo tornare di Russia, era corso a Fontainebleau,
e a Pio VII, vecchio, infermo, non cinto che da cardinali ligi
all’imperatore, timoroso per la Chiesa quant’era intrepido per se
medesimo, strappò la firma d’un concordato, in cui rinunziava al
dominio temporale, e se tardasse sei mesi l’istituzione ai vescovi
nominati, autorizzava a darla il metropolita o il vescovo anziano.
Napoleone ne esultò come d’un trionfo, e aperse le carceri ai
cardinali. Ma il rinunziare all’istituzione de’ vescovi importava
ben più che il ceder Roma, poichè toglieva al pontefice il diritto di
escludere i prevaricanti e servili: onde Pio VII, «pieno di pentimento
e di rimorso»[143], divulgò una protesta contro quest’atto di sua
debolezza. Ne infuriò Napoleone, ed espulse di nuovo o imprigionò i
cardinali: ma quando si vide perduto, ordinò che Pio fosse riportato a
Savona. Caduto lui, il nuovo Governo di Francia ordinava la liberazione
del papa, il quale allora s’avviò a’ suoi Stati in trionfo. Murat,
che li occupava militarmente, mandò insinuargli di non avventurarsi
in paesi troppo lieti d’essersi sottratti alla dominazione pretina:
ma egli procedette, e accolto dappertutto festosissimamente, si fermò
a Cesena sua patria, ove fece accordo che il re tenesse le Marche
promessegli dagli Alleati, restituisse Roma, l’Umbria, la Campagna,
Pesaro, Fano, Urbino.

L’entrar di Pio in Roma fu una delle più affettuose solennità, e gli
faceano corteggio i detronati reali di Spagna, di Sardegna, di Parma,
cardinali intrepidi e vacillanti, e truppe austriache e napoletane. Le
potenze convenivano di considerare il pontefice come non mai stato in
guerra, nè quindi conchiuso il trattato di Tolentino; restituivangli i
pristini Stati, neppur escludendo i disgiunti possessi di Benevento e
Pontecorvo; bensì la Francia si tenne Avignone e il contado Venesino, e
l’Austria il Polesine di Rovigo, e, malgrado le proteste del pontefice,
il diritto di guarnigione a Ferrara e Comacchio, che privava lo Stato
papale d’una linea militare e della padronanza del Po.

Quanto al Napoletano, si propose di restituirlo ai Borboni di Sicilia;
ma vuolsi che Alessandro rispondesse, or che si trattava di popoli,
non potersi rendere lo scettro a re carnefice; e che Carolina se
ne accorasse tanto da morire improvviso. Veramente l’Austria amava
restasse a Murat, nemico naturale de’ nuovi padroni della Francia,
della quale era sempre gelosa; le altre potenze a vicenda desideravano
in Italia chi tenesse in bilico l’Austria: ma caduto Napoleone,
Murat era un’anomalia; l’Inghilterra volea mantener la parola data ai
Borboni di rimetterli nel regno, e il ministro Castlereagh sottigliava
a mostrare che Murat avesse fallito agli obblighi, e trattato
coll’imperatore. Murat confidava nelle promesse degli Alleati, fin
quando non si udì intimare di ceder le Marche al papa. Mostrò egli
farlo di buona grazia e per amor della pace generale; ma vedendo a che
s’avviassero, e il re siciliano chiedere intero il regno avito, egli
fece armi e rannodò intrighi, diede ascolto a Paolina, a Girolamo,
al cardinale Buonaparte venuti dall’Elba nel suo paese, e credendo
ostinati contro di lui i Borboni ristabiliti in Francia, domanda
all’Austria di dargli il passo con ottantamila uomini per combatterli;
onde quelli mettono un grosso esercito nel Delfinato.

Erasi intanto raccolto a Vienna, tra feste e gajezza d’arti e gioja di
piaceri, un congresso per rassettare l’Europa[144]; e coll’escluderne
le piccole potenze, chiarivasi di voler rimpastarla a senno delle
grandi. Quelle dunque si lamentavano, queste venivano a rissa nel
dividersi le prede inaspettate; e prevedeasi una rottura.

Buonaparte sta in orecchio dall’isola d’Elba, che avea ritenuta
in sovranità, e dove era giunto con Letizia e Paolina, cinquecento
soldati della guardia, e marescialli e generali. I Francesi, sempre
insofferenti di quel che hanno per desiderare quel che non hanno più,
poco tardarono a trovare tutti i torti ai Borboni, e singolarmente i
soldati che vedeansi tolti a quella febbre d’azione, a quell’anelito
di gloria, di promozioni. La ostentata devozione, i revocati
emblemi di nobiltà rincrudivano le dimenticate repugnanze religiose
e aristocratiche; e a Napoleone, dianzi detestato, restituivansi
l’aureola della gloria e la missione di liberatore. Ortensia a Parigi
diffondeva l’ammirazione di lui sotto il nome di libertà; Paolina
correva a suscitarne il culto fra gli Italiani, che trovandosi ancora
sbranati e ridotti al nulla, ricorrono al ripiego dei fiacchi, la
cospirazione, massime i soldati. Alcuni facendosi (come si usa nelle
congiure) espressione del voto nazionale, si rivolgono a Napoleone
rammentandogli le sue prime vittorie in Italia e le speranze di
rigenerazione che questa pose in lui e che porrebbe ancora nella
sua stella, la quale dall’Italia potrà illuminare di nuovo il mondo:
offrivangli perciò il braccio, purchè egli non pensasse a conquiste e
accettasse una costituzione, che rendesse l’Italia una e indipendente;
Napoleone imperatore de’ Romani e re d’Italia, inviolabile, residente a
Roma, con venti milioni di lista civile, dividerà il potere legislativo
con un Senato e con una Camera di rappresentanti triennali, radunati
alternamente a Roma, Milano, Napoli, eletti secondo il censo ed
incompatibili con impieghi amovibili; liberi i culti e la stampa;
proibita ogni ampliazione di territorio o l’intervenire negli affari
degli altri popoli; responsali i ministri, inamovibili i giudici;
guardia nazionale, giurati, nobiltà nuova e senza privilegi; pubblicità
delle Camere e de’ tribunali.

Napoleone non esitò ad accettare; ma d’altra parte Murat, divenuto
ingordo di tutta l’Italia da che si vedeva disputato fin il brano
rimastogli, accoglieva (1815) quanti veterani ricusavano servire
ai principi rimessi, spediva il Maghella suo ministro di polizia
a chiedere e promettere appoggio ai Carbonari, che molto diffusi a
Milano, a Bologna, ad Alessandria, nella terraferma veneta, si diedero
mano coi vecchi soldati del regno italico, fidenti nelle vittorie
come chi le sconfitte attribuisce soltanto a tradimenti. Il papa si
accorgeva di trovarsi fra due nemici l’uno più scoperto, l’altro più
pericoloso; ma in confidenza facea voti per l’Italia, professando
di temere Murat, ma non amare gli Austriaci. A Francia, Russia,
Prussia, non dispiaceva che l’Austria venisse inquietata nel possesso
dell’Italia che ormai artigliava; l’Austria invece e i Borboni di
Sicilia speravano trarne pretesto a spossessare Murat. Probabilmente
è una delle troppo solite dicerie, che Talleyrand, mutatosi in
ministro dei Borboni, e che voleali rimessi anche a Napoli, mettesse
nella congiura un suo fidato, dal quale saputa ogni particolarità, la
rivelasse all’Austria. Il fatto che Fontanelli, destinato attor primo
della mossa, esitò; così il Lechi; e Bellegarde, luogotenente austriaco
in Lombardia, arrestò i cospiratori[145].

In quello stante (1 marzo) Napoleone, fidato nelle trame e nella
propria stella, sbarca dall’Elba in Provenza; i battaglioni spediti a
rincacciarlo s’arruolano con esso, con esso quell’esercito raccolto nel
Delfinato; il vessillo tricolore ridesta l’entusiasmo de’ primi suoi
lampi; «l’aquila di campanile in campanile» fino a Parigi. Napoleone,
entratovi 20 marzo in voce di difendere l’indipendenza e felicità
della Francia, subito scioglie le Camere, abolisce la nobiltà, convoca
un’assemblea nazionale per istabilire i limiti del potere: ma la
maschera democratica non si attagliava al suo viso imperatorio.

Murat tosto gli scrisse che vedea giunto il tempo di «riparare i
suoi torti, e mostrargli la sua devozione»; e Napoleone gli rispose
si allestisse d’armi, ma attendesse gli ordini, e nulla avventurasse
contro l’Austria, colla quale era in trattati. Anche il Colletta,
allora consigliere di Stato, dissuadeva Gioachino dalla guerra;
l’unione di tutta l’Italia essere sogno d’un pugno di teste calde; il
grosso della nazione sentirsi stanco di venticinque anni di guerra,
e desideroso unicamente della propria conservazione, disingannato
dai paroloni simpatici, usati troppo e slealmente; nè potersene
sperare la cooperazione se non procurando beni stabili, e spiegando
forze rassicuranti. L’esercito napoletano si crederà mai più forte
dell’austriaco? il gabinetto reale più influente che il congresso di
Vienna? Gl’Italiani calcoleranno, e non vorranno partecipare a una
causa disgraziata. Quand’anche fossero veri i trionfi di Napoleone,
egli penerebbe tanto a ordinare in casa, tanto a difendersi sul Reno
e nel Belgio, che non potrebbe far mente alla frontiera d’Italia:
anche vincendo, non troverebbesi tanto in vantaggio da dettar patti
agli Alleati. Un movimento contemporaneo a quel di Napoleone parrebbe
agl’Italiani un accordo, e perciò offenderebbe il loro idolo,
l’indipendenza.

In fatto Murat aveva un esercito ch’era appena un quinto
dell’austriaco; e la nazione, scossa da partiti, era restìa a nuovi
patimenti dopo esausta di sangue e di denaro. Per vero, se egli
si fosse trincerato minaccioso fra gli Abruzzi, bastava a tenere
in soggezione gli Austriaci: ma ascoltando di quei consigli che
s’intitolano magnanimi se riescono, manda una colonna comandata da
Giuseppe Lechi sopra Roma, donde il papa fugge; egli con l’altra invade
le Marche, e, pur continuando proteste agli Alleati, affronta gli
Austriaci in Pesaro, e da Rimini proclama: — Italiani, la Provvidenza
vi chiama infine ad essere una nazione indipendente; dall’Alpi allo
stretto di Scilla odasi un grido solo, _Indipendenza d’Italia!_ Questo
primo diritto e bene di ogni popolo, a qual diritto gli stranieri
intendono torvelo? a qual titolo signoreggiano essi le più belle
contrade, si appropriano le vostre ricchezze, vi strappano i figli per
servire, languire, morir lontano dalle tombe degli avi? Adunque invano
natura alzò per voi le barriere delle Alpi? vi cinse invano di barriere
più insormontabili ancora, la differenza dei linguaggi e dei costumi,
l’invincibile antipatia de’ caratteri? No, no; via ogni dominio
straniero; mari e monti inaccessibili siano i limiti vostri; non
aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingete lo straniero che gli ha
violati. Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli, comandati dal loro
re, marciano giurando non domandar riposo se non dopo la liberazione
d’Italia. Italiani delle altre contrade, secondate il magnanimo
disegno; torni all’arme deposte chi le usò; vi si addestri la gioventù
inesperta: chi ha cuore e ingegno ripeta una libera voce, e parli in
nome della patria ad ogni petto veramente italiano; tutta si spieghi
ed in tutte le forme l’energia nazionale. Oggi si deciderà se l’Italia
deve esser libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al
servaggio. Lacera ancora ed insanguinata, essa eccita tante avidità
straniere. Gli uomini illuminati d’ogni contrada, le nazioni degne d’un
governo liberale, i sovrani d’alto carattere godranno della vostra
impresa, applaudiranno al vostro trionfo. Stringetevi saldamente, ed
un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale,
una costituzione degna del secolo e di voi, vi garantiscono la libertà,
tostochè il vostro coraggio vi avrà garantita l’indipendenza».

Noi riportiamo questi passi per coloro che credono tali idee e
tali parole zampillassero primamente nel 1848. Ma la proclamazione
dell’indipendenza non aveva aspetto che d’un ordigno da guerra; i
più la udivano indifferenti: i sommovitori prometteano immensi ajuti
a lui che millantava immensi soldati. Ingannavansi reciprocamente,
poichè in realtà egli contava trentaquattromila trecento uomini, con
cinquemila cavalli e cinque bocche da fuoco; ma cerniti alla peggio dai
trivj e dalle prigioni: ufficiali straboccavano, ma quali di libero,
quali di servile sentimento, quali affigliati alla Carboneria, quali
persecutori di quella, tutti poco riverenti al re, tutti gelosi de’
Francesi, de’ quali erano rimasti nove generali, tredici colonnelli e
Millet capo dello stato maggiore. Gli Austriaci, oltre aver arrestati i
suoi aderenti in Lombardia, gli opponeano cinquantamila fanti, tremila
cavalli, e sessantaquattro pezzi d’artiglieria: che se fremeasi,
cantavasi, correasi ad esibir consigli al re e vantarsi d’aver
cospirato per chiedergli onori ed impieghi, se a Bologna il cavaliere
Pellegrino Rossi abbattè le ripristinate insegne pontifizie, pochissimi
afferravano le armi, non cinquecento uomini gli si arrolarono in
tutte le Marche, e stentavansi i viveri all’esercito liberatore. Gli
Austriaci, guidati da Frimont, si raccolsero dietro al Po e al Panáro:
e Murat pensava tragittare ad Occhiobello per dar mano a’ Lombardi e
Veneziani, che sperava insorgessero; ma ecco lettere di sua moglie il
richiamano nel reame, minacciato dagl’Inglesi.

Conoscendosi tradito, perdette il coraggio e lo tolse a’ suoi;
ritirandosi a rotta, presso Macerata (2 maggio) cadeva prigioniero
col suo stato maggiore, se un battaglione di cerne delle Legazioni
con vecchi uffiziali non gli aprivano il passo. Il generale Bianchi
lo sconfigge a Tolentino; Nugent per la Toscana e per Terracina difila
sopra il regno: onde proteggere la ritirata, Murat cimentasi ancora a
Ceprano, ma colla peggio, e senza salmerie nè parco arriva a Napoli (19
maggio). Quivi procura amicarsi gli animi col dare la costituzione,
ma troppo tardi; ogni sua domanda d’accomodamento è rejetta dagli
Alleati; il comodoro inglese Campbell minaccia bombardare la capitale.
Murat manda a rassegnar tutto, ma almeno nel trattato conchiuso in Casa
Lanza garantisce il debito pubblico, le rendite dello Stato, la nuova
nobiltà, i gradi, gli onori, le pensioni ai militari che passassero
al nuovo re, e amnistia per tutti. Tumulti destatisi in Napoli fanno
accelerare la chiamata degli Inglesi e degli Austriaci, che con molto
sangue chetano la plebaglia.

Carolina Buonaparte, che virilmente erasi condotta in que’ rovesci,
ottenne d’essere trasportata a Trieste coi figli, dopo sofferti
gl’insulti della plebaglia. Gioachino con pochi fedeli e poco denaro
andò fuggiasco, raccomandandosi al terzo, al quarto; dopo lungo
ascondersi e romanzesco vagare approdò in Corsica, e rifiutando l’asilo
offertogli come privato in Austria, raccolse un pugno di fidati per
imitare lo sbarco di Napoleone, e ravvivare in Calabria contro i
Borboni la guerra minuta ch’essi aveano alimentata contro di lui.
Sgominati da fortuna di mare, egli con solo ventotto raggiunge terra a
Pizzo, ed alza la bandiera; ma è preso, e da Napoli, che ad un tempo
intese il pericolo e la salvezza, viene ordine: — Il generale Murat
sarà tradotto avanti una commissione militare; non sarà concessa al
condannato che mezz’ora per adempiere ai doveri della religione».
Era dunque sentenziato prima che processato; ed egli non rispose
agl’interrogatorj se non — Sono Gioachino re delle Due Sicilie; un re
non può esser giudicato che da un altro re».

Aveva appena quarantott’anni, e sul punto di essere fucilato scrisse:
— Carolina mia, l’ultima mia ora è battuta, fra pochi istanti non
avrai più marito. Non dimenticarmi. La vita mia non fu contaminata da
veruna ingiustizia. Addio, Achille mio! addio, mia Letizia! addio, mio
Luciano! addio mia Luigia! mostratevi al mondo superiori alla sventura
e degni di me. Vi lascio senza regno, senza beni, in mezzo a numerosi
nemici: siate sempre uniti. Pensate cosa foste, e Dio vi benedirà. Non
maledite la mia memoria. Quel che più m’accora è di morir lontano da’
miei figliuoli. Ricevete la mia benedizione paterna, il mio amplesso e
le mie lacrime: nè mai vi cada di memoria il vostro povero padre».

È gemito d’uomo, quale non mai risuona nelle memorie di Napoleone: ed
egli veramente apparve il più eroico fra i soldati di Napoleone, il
solo cavalleresco. Intrepido in battaglia, fu povero ed irresoluto di
consigli, e colpa in parte la sua presunzione, in parte le circostanze,
ne trasse apparenza di menzognero: ma cuore mostrò; e il popolaccio,
sparando contro lui, puniva in esso le colpe napoleoniche[146]. I suoi
seguaci furono rimandati senza processo.

La morte di esso scioglieva da gravissimi imbarazzi l’Austria che
avevagli promesso un aumento di territorio nelle Marche, e gli altri
Alleati che aveano promesso un compenso a Ferdinando in Italia. Il
quale allora ricuperava anche la terraferma; ma non che ottenere
accrescimenti come gli altri principi tutti, fu scemato de’ Presidj di
Toscana, di Piombino, e di parte dell’Isola d’Elba, posseduti da tre
secoli, per darli al granduca austriaco[147].

Contro di Napoleone intanto si era confederata tutta Europa, bandendo
due milioni sulla testa di lui, come ai tempi barbari; ricusando ogni
accordo come d’uomo alla cui parola non si può fidare. Tre eserciti
avventatigli, d’Austriaci con Schwartzenberg, d’Inglesi con Wellington,
di Prussiani con Blücher, a Waterloo (18 giugno) riescono vincitori; il
francese va sperperato; Napoleone fuggendo traverso a morti e morenti,
arriva a Rochefort per tragittarsi agli Stati Uniti, e non trovando
navi, rendesi agl’Inglesi, che considerandolo prigioniero di guerra,
lo portano a Sant’Elena, isola perduta nell’immensità dell’Oceano, dove
visse fino al 5 maggio 1821.

I sovrani alleati ripigliano il congresso per rassettare l’Europa.
Vi primeggiava fra i re Alessandro, che aveva potuto comandare
s’incendiasse la sua capitale e comandare si risparmiasse la
capitale del gran nemico: e secondo il tono di lui, liberali massime
si professavano; principi e popoli non dovere far guerra che per
indispensabile necessità; la schiavitù e il servaggio abolirsi,
qualunque ne sia la forma; connettersi religione, politica, morale; la
spada non conferire diritti; aver ognuno a rispettare l’indipendenza
dell’altro; ai Governi esser necessario fondarsi su canoni precisi
ed espressi; ai popoli competere il diritto di partecipare alla
legislazione, di determinare le imposte, di liberamente manifestare il
pensiero colla parola e colla stampa. Sciaguratamente fra le precedenti
combinazioni di difesa o di assalto nessuno erasi preparato all’opera
della restaurazione; e sbalorditi dalla rapidità degli avvenimenti,
quando uscirono trionfanti dal rinnovato tumulto operarono con maggiore
fretta e minori riguardi: non che ridurre in fatto quelle intenzioni
generose, nè tampoco seppero risolversi francamente tra la scuola
storica e la razionale, tra lo spirito teutonico e il liberale; e
tutti sentivano bisogno di riposo, d’una soluzione a tanti viluppi,
qualunque ella si fosse, comunque si sentisse non duratura. E poichè
ogni rivoluzione ed ogni riazione dee avere una parola d’ordine, qui fu
la legittimità, inventata da Talleyrand pel caso speciale di salvare la
Francia dalle minacciate sottrazioni, estesa dagli Alleati a tutte le
altre quistioni, talchè l’opera loro dovesse parere un rintegramento
del passato, una restituzione dei diritti che l’usurpatore avea tolti
ai principi.

L’Austria erasi mostrata la più pertinace, in una lotta quasi
incessante di ventidue anni non badando a sagrifizj, a spese, ad
affetti, a dignità; ultima sempre a ritirarsi dal campo, sempre nella
pace allestendosi alla guerra, e nell’alleanza col nemico spiando
le occasioni di dargli il colpo. Dritto parve dunque che, non solo
ricuperasse quanto avea perduto in tante guerre e paci, salvo i Paesi
Bassi, ma anche ringrandisse con comode comunicazioni verso Italia, e
con opportunità di tenere la briglia alla Francia. Se la legittimità
proclamata avesse riguardato i popoli, non soltanto i re, Venezia,
non rea d’avere favorito Napoleone, sarebbe dovuta risorgere: invece
fu assegnata all’Austria insieme colla Lombardia, cresciuta della
Valtellina, e col territorio dell’antica repubblica di Ragusi.

Il Canton Ticino, sotto pretesto del contrabbando, era stato
occupato dalle truppe del regno d’Italia, e le brighe per unirlo a
questo venivano secondate da coloro che ambivano cariche e denaro,
o lasciavansi abbagliare dalle gemme del diadema napoleonico, senza
vedere che eranvi incastonate col sangue. Caduto l’imperatore, anche i
vecchi signori svizzeri ridomandavano i loro sudditi: ma il congresso
di Vienna riconobbe la libertà di tutti, e il Ticino formò un cantone
della Confederazione elvetica, che dovette darsi una costituzione
ristretta, secondo il volere di chi allora poteva, ma che venne poi
riformata nel 1830, indi ancora nel 1847 quando la Svizzera abjurò le
sue locali tradizioni per aspirare alla centralità come i regni.

I Grigioni ridomandavano la Valtellina; dove in fatto il basso popolo
rimpiangeva l’antica tranquillità, e il non pagare, e il non militare,
e il sale buon a mercato, e il privilegio di commercio e di transito;
e Parravicini e Juvalta, capi della sollevazione del 1809 (pag. 191),
ora sollecitavano l’unione agli Svizzeri. Ma troppi ambivano tenersi
uniti alla ricca Lombardia, e ad una Corte che poteva dare pensioni,
titoli, impieghi; Diego Guicciardi, spedito a Vienna a invocare la
fusione colla Lombardia, ostentava le ragioni per cui la valle non
potea essere svizzera; e se Capodistria, rappresentante della Russia,
esaltava i vantaggi dello stato libero, Guicciardi rimbalzavali col
solito pretesto che i Valtellinesi non erano maturi per la libertà.
Quasi non potesse dirsi altrettanto de’ Ticinesi! L’Austria carezzò
quest’opportunità di congiungere a’ suoi dominj d’oltre alpe il
cisalpino; e l’ottenne allorchè lo sbarco di Napoleone fece sentire la
necessità di tenersela amica nel nuovo frangente; Guicciardi ringraziò
a nome del popolo, godendo di gridare egli primo — Viva Francesco I
nostro imperatore e re»; e la Valtellina rimase provincia del regno
lombardo-veneto.

Della cui istituzione Bellegarde pubblicando (16 aprile) la regia
patente, diceva: — Una tale determinazione conserva a ciascuna
città tutti i vantaggi che godeva, e ai sudditi di sua maestà quella
nazionalità che a ragione tanto apprezzano». Subito l’esercito italiano
fu sciolto, e molti uffiziali cercarono fortuna altrove, come Ventura
che andò a sistemare gli eserciti del re di Lahor nelle Indie, Codazza
che nelle repubbliche dell’America meridionale fece da ingegnere, e
colonizzò l’alta regione della Cordiliera marittima del Venezuela, e
così altri. A Venezia erano in costruzione sette grossi legni francesi
e quattro italiani, e molt’altri in armamento, e gran cumulo di quanto
occorre ad attrezzare: e furono interrotti i lavori, legnami e boschi
venduti agl’Inglesi, che li fecero spaccare.

Pertanto l’Austria che, nel secolo precedente, non teneva in Italia
che il Milanese, separato dagli altri suoi Stati ereditarj, trovossi
un regno di cinque milioni di abitanti e ottantaquattro milioni di
rendita, con Venezia e trecento miglia di litorale, e selve e uomini
per una forza marittima; da un lato aperti la Svizzera e il Piemonte,
mal guarnito dall’indifeso Ticino; dall’altro assicurato il tragitto
del Po colle guarnigioni di Ferrara, Piacenza e Comacchio; unite le sue
provincie alle transalpine mediante il Friuli e la Valtellina, potea
scendere per le valli tutte dall’Adda all’Isonzo; invece della sola
Mantova, fortezza poco rassicurante, coprivasi colle robustissime linee
del Mincio e dell’Adige; Legnago, perduta dapprima nelle basse pianure,
diveniva importante anello fra Mantova e Verona: vuole offendere?
può spingersi nella Romagna e nella Toscana, dimezzando l’Italia; è
costretta a difendersi? le si prestano le linee del Po e del Ticino,
dopo queste l’Adda, indi il Mincio, infine l’Adige, dove Verona ridotta
a campo trincerato di prim’ordine, tiene alle spalle tutte le riserve
e i depositi dello Stato, e per una serie di fortalizj da monte a
monte si connette fino colla metropoli. Collocando parenti suoi sui
troni di Toscana, di Modena, di Parma, l’Austria teneva la mano sulla
media Italia. Se non che nei paesi italici si erano diffuse, durante
la dominazione francese, idee mal consonanti col sistema di essa, onde
avrebbe a stentare nel soddisfarle e nel reprimerle.

La dinastia toscana, quantunque compensata già con lauti possessi in
Germania, ricuperò l’antico granducato, aggiungendovi que’ Presidj
e la porzione dell’isola d’Elba che tanto erano costati a Napoli;
nel principato di Piombino erano riservati i beni e i diritti proprj
della casa Ludovisi Buoncompagni, la quale poi ne fe cessione per
ottocentomila scudi romani.

La vedova del vivo Napoleone era figlia dell’imperatore d’Austria,
onde si volle fosse collocata in una reggia: e le assegnarono Parma,
Piacenza e Guastalla a vita, a scapito del Borbone già re d’Etruria,
a questo attribuendo la libera Lucca, che alla morte di Maria Luigia
lascerebbe alla Toscana per occupare Parma e Piacenza[148]: intanto
Austria e Toscana gli pagherebbero cinquecentomila lire. In quel
raffazzonamento nè tampoco si badò alle convenienze geografiche:
Benevento e Pontecorvo papali rimasero chiusi nel regno; un distretto
della Lombardia nella Svizzera; Castiglione e Gallicano lucchesi nel
Modenese: a un brano di Toscana non si giungeva che traverso a Lucca,
come i Modenesi doveano attraversare Toscana per giungere a Massa e
Carrara: la Corsica fu tolta alla vicina Liguria, a’ cui padroni si
lasciava invece la lontana Sardegna: Sicilia perdea la sovranità sopra
Malta e Gozzo, pur conservando le smarrite isolette di Lampedusa e
Pantelleria.

Il ristabilimento del re di Sardegna era sempre stato a cuore
agl’Inglesi, che pensavano anche invigorirlo perchè fosse barriera
alla Francia, attesochè soltanto per la debolezza del Piemonte era
Buonaparte potuto penetrare in Italia: anzi dei prigioni di guerra
aveano formato una legione reale piemontese. Al cadere di Napoleone
(1814 27 aprile), il principe Borghese stipulò con Bellegarde e
Bentinck che anche dal Piemonte si ritirassero le truppe francesi,
consegnando agli Alleati le cittadelle d’Alessandria, Gavi, Savona,
Fenestrelle, Torino; una dichiarazione del maresciallo austriaco
Schwartzenberg annunziò agli abitanti di terraferma e del contado di
Nizza: — I vostri desiderj sono appagati; voi vi troverete di nuovo
sotto il dominio di quei principi amati che hanno fatto la felicità
e la gloria vostra per tanti secoli»; prometteva oblìo del passato,
lodando chi, sotto al dominio straniero, avea conservato la reputazione
di valore e probità.

Tentata invano la Lombardia al momento della insurrezione di Milano,
il re e il suo ministro Agliè trescarono al congresso di Vienna
per spingere il dominio fino alla Magra e all’Adige; ciò tornar
opportuno ad impedire gl’incrementi eccessivi dell’Austria; nè potersi
considerare sicuro il Piemonte se non avesse Mantova e Peschiera. Altre
influenze impedirono la domanda.

Al ricomparire di Napoleone, il Piemonte improvvisò un esercito di
quindicimila uomini cogli avanzi del francese, e postosi in linea
cogli Alleati, occupò i dipartimenti delle alte e basse Alpi, e sperò
ottenere qualche brano che rendesse migliore questa frontiera, schiusa
colle strade del Ginevro e del Cenisio: e in fatto mediante reciproche
concessioni determinò i suoi limiti verso la Svizzera, e convenne che
le provincie del Ciablese, del Faucigny, della Savoja a settentrione
di Ugine godessero la neutralità elvetica, rimanendo sgombre di truppe
in evenienza di guerra, e il re potesse fortificare come voleva. Il
principato di Monaco fu conservato ai Matignoni, ma sotto la protezione
della Savoja.

Bentinck, avuta per capitolazione Genova, dove stavano
ducentonovantadue cannoni ma debolissima guarnigione, vedendo «il
desiderio generale della nazione genovese essere per l’antica forma
di governo, sotto cui ebbe libertà, prosperità, indipendenza, e tale
desiderio parendo conforme ai principj professati dalle Potenze alleate
di rendere a ciascuno gli antichi diritti e privilegi», ristabiliva
lo stato come nel 1797 «colle modificazioni che la volontà generale,
il bene pubblico, lo spirito dell’antica costituzione potessero
domandare». Ma il proposito d’opporre nel Piemonte una barriera robusta
alla Francia, fece che a quello si donasse Genova. Invano quel Governo
provvisorio protestò richiamandosi all’indipendenza garantitale nel
1745 ad Aquisgrana; invano Mackintosh al Parlamento di Londra mostrava
il Genovesato essere un territorio amico occupato da nemico, sicchè,
espulso questo, rientra in proprietà di se stesso.

Perduta la speranza dell’antico stato, volevano almeno formare un
principato indipendente, e si offrirono al duca di Modena, a Maria
Luigia di Spagna; poi vedendosi «dati a un principe forestiero», almeno
chiedeano assumesse il titolo di re di Liguria, con una costituzione
garantita dalle Potenze. Non ottennero se non che agli altri titoli di
re di Sardegna unirebbe quel di duca di Genova: la città avrebbe porto
franco, senato, e Università, non imposte maggiori di quelle che allora
subivano gli Stati sardi; in ogni provincia un consiglio di trenta
possidenti ogn’anno si radunasse per trattare dell’amministrazione
comunale, e dovesse aversene il voto per istabilire nuove imposte[149].
Così quella Casa che, contro il proprio interesse, erasi mostrata
avversissima alla rivoluzione, conservava tutti i suoi dominj di qua e
di là de’ monti, e veniva rinvigorita come guardiana dell’Alpi contro
i due colossi confinanti. Gli Austriaci, dopo aver fatto saltare le
mura di Alessandria e le opere esteriori in cui Napoleone aveva speso
venticinque milioni, la sgomberarono, e divenne arcifinio verso la
Lombardia l’indifeso Ticino.

Francesco IV d’Este, cugino e cognato dell’imperatore d’Austria, avea
sperato la corona d’Italia, o almeno il Piemonte, nel quale intento
aveva anche sposato Maria Beatrice figlia maggiore di Vittorio Emanuele
suo cognato; ma non ebbe che gli Stati di Modena, nei quali sedutosi
alla morte di sua madre, proclamò ancora il codice del 1774 e le leggi
vigenti prima del 97.

Si parlò di confederare gli Stati italiani fra loro; ma le gelosie
degli uni verso gli altri e di tutti contro della preponderante
impedirono un fatto, che gli avrebbe tolti dal rimanere zimbello della
politica esterna[150]. Sulle isole Jonie poteva ostentare qualche
pretensione la Russia; ma il disinteresse d’Alessandro o la gelosia
de’ suoi amici fecero riconoscerle repubblica sotto il protettorato
dell’Inghilterra, la quale vi teneva guarnigione e un lord commissario,
e nominava il presidente del senato.

Per debiti verso particolari nei paesi perduti, la Francia dovè pagare
ducenquaranta milioni, di cui toccarono cinque allo Stato pontifizio,
quattro e mezzo alla Toscana, uno a Parma, venticinque al Piemonte;
dei centrentasette impostile per costruire fortezze contro di lei,
dieci gli ebbe la Savoja per munire la frontiera. Riguardo ai fiumi che
lambono diversi Stati, fu convenuto che la loro navigazione rimanesse
libera, salvo i regolamenti di polizia; uniforme e invariabile la
tariffa dei diritti; ciascuno Stato provvedesse al mantenimento delle
sponde e del letto dalla sua parte.

Tutto ciò erasi fatto per mera utilità, senza riguardo a nazionalità,
a storia, a convenienze morali, a guisa d’un raffazzonamento
istantaneo, imposto dalla necessità, e contro cui reclamerebbero e
principi e popoli. Lord Castlereagh, plenipotente dell’Inghilterra,
reduce dal congresso di Vienna, interpellato dal Parlamento sopra il
«mercato de’ popoli fattosi colà», rispondeva che l’intento suo era
stato «di stabilire un sistema, sotto al quale i popoli potessero
vivere in pace tra loro; però non resuscitare quelli periti, il
cui ristabilimento ponesse in nuovi pericoli l’Europa. L’Italia che
fece ella per iscuotere il giogo francese? perciò non poteva essere
considerata che come paese conquistato: bisognava cederla all’Austria,
affinchè questa rimanesse strettamente unita a noi... I pregiudizj
dei popoli non meritano riflesso se non quando non si oppongono a uno
scopo prestabilito. Ora le potenze confederate essendosi obbligate a
garantire la sicurezza dell’Europa, questo obbligava a fare violenza ai
sentimenti degl’Italiani»[151].

Una rivoluzione cominciata in nome della democrazia, toglieva di mezzo
tutte le antiche repubbliche e gli Stati elettivi, mentre assodava
le monarchie: tante conquiste per l’incremento della Francia erano
riuscite a ingrandire solo i suoi nemici, poichè l’Austria si trovò
padrona dell’Adriatico e delle Alpi, del mar Ligure il Piemonte,
del Reno la Prussia, la Russia del Baltico; e l’Inghilterra n’ebbe
l’occasione o il pretesto di soperchiare ogni rivale.

Spogliati o mozzi i deboli, non restano che i colossi; ed Alessandro
stese l’atto della santa alleanza, in istile mistico come tutti i
proclami suoi, coi regnanti d’Austria e di Prussia, obbligandosi
diplomaticamente alle virtù evangeliche: singolare espressione della
politica in forma biblica, che rivela come fosse sentito generalmente
il bisogno di posarsi in qualche idea generale. Prometteano dunque,
«conforme al precetto evangelico, di restare legati indissolubilmente
d’amicizia fraterna, prestarsi mutua assistenza, governare i sudditi da
padri, mantenere sinceramente la religione, la pace la giustizia; essi
re si considerano membri d’una medesima nazione cristiana che ha per
unico sovrano Gesù Cristo verbo altissimo, e incaricati ciascuno dalla
Provvidenza di dirigere un ramo della famiglia stessa».

Un accordo fatto nel nome di Dio e pel bene dell’umanità dava lusinga
alle menti: ma queste frasi che cose significavano? ch’essi erano
padri, i quali si univano per disporre da soli ciò che credessero
il meglio de’ loro figliuoli, senza questi ascoltare. E in fatto
l’ordinamento interno di ciascun paese si considerò come sacra
proprietà del principe, il quale dovesse provvedervi secondo la sua
buona volontà, senza riconoscere diritti di popoli.

Omaggio alle idee liberali fu il restituire i capi d’arte, adunati
dalla vittoria a Parigi nel museo Napoleone; e il non darli ai nuovi
padroni, bensì ai paesi stessi; al Belgio i quadri d’Anversa, benchè
assoggettato all’Olanda; a Venezia serva quelli tolti a Venezia libera.
Allorchè Denon a Pio VII mostrava quel museo, e compassionavalo del
rammarico che proverebbe in vedervi le opere tolte al suo paese, il
pontefice gli rispose: — La vittoria le avea portate in Italia; la
vittoria le depose qui; chi sa dove un giorno le riporterà?» Ed ecco
la profezia adempiuta: ma tanto più restavano scontenti i Francesi
del vedersene spogliati, e faceano pasquinate contro il Canova, non
_imbasciatore_ ma _imballatore_, venuto a sovrintendere al ritorno
delle statue e de’ quadri italiani[152].

Un altro fatto onora quel congresso. L’Africa settentrionale fu sempre
strettamente congiunta alle vicende italiane. D’Italia, di Spagna,
dalle Baleari in ogni tempo v’affluì gente, trovandovi clima acconcio,
terre da lavorare, industria da esercitare: la pesca de’ coralli a Bona
e alla Calla v’era fatta da Siciliani e Napoletani. Nel 1520 i Turchi,
occupatala per opera del famoso corsaro Barbarossa, vi formarono Stati,
col nome di Barbareschi, che violano tutte le leggi della civiltà
insultando alle bandiere d’ogni potenza, e corseggiando le navi che
solcano il Mediterraneo, per rapirne robe e persone da rendere poi a
grossi riscatti o da tenere in servitù. L’Europa si rassegnò lungamente
a pagare loro un tributo per far rispettare questa o quella bandiera;
il reprimerli fu scopo ad imprese degli Spagnuoli, dei Veneziani, dei
cavalieri di Malta e di Santo Stefano; a volta a volta qualche potenza
vi recò guerra, ma non mai col proposito di sterminarli.

Il blocco continentale crebbe baldanza ai Barbareschi; ma venuta la
pace, l’Inghilterra fu incaricata dal congresso di Vienna di procurare
s’abolisse la schiavitù de’ Cristiani. Essa contrattò riscatti a
nome della Sardegna e di Napoli, che s’obbligavano a un tributo e
a pagar centinaja di piastre per ogni liberato; poi vergognatasi,
spedì lord Exmouth a imporre fossero rilasciati i Cristiani senza
riscatto, e abolitane la servitù. Tunisi e Tripoli sbigottite si
obbligarono a rispettare la bandiera cristiana, e rilasciarono Tunisi
ducenquarantaquattro schiavi sardi e ottantatre romani, Tripoli
molti altri. Algeri ne rendè cinquantun sardi, trecencinquantasette
napoletani, ma al prezzo stipulato: poi tardando a dichiarare
l’abolizione, l’ammiraglio bombardò la città, che vistasi incendiare la
flotta, cassò la schiavitù de’ Cristiani, e restituì quanti ne teneva
cattivi. Trovaronsene quarantanovemila fra tutti gli Stati barbareschi,
e mille cinquecento ad Algeri, di cui settecentosette napoletani e
censettantanove romani.

Effimero riparo; e la pirateria continuò finchè l’ingiuria portata
all’eccesso non recò la bandiera francese sulle mura d’Algeri.



LIBRO DECIMOSETTIMO



CAPITOLO CLXXXIII.

La restaurazione. Il liberalismo. Rivoluzioni del 1820 e 21.


Italia è dunque rimessa sul piede antico, almeno all’intendere di
coloro che nelle paci si appagano della firma dei sovrani, anzichè
cercare l’unico stabile fondamento, il rassetto delle idee. Le comuni
sventure aveano avvertito i re che, separati dai popoli, restavano
preda della prima bufera: i popoli da tante sciagurate prove aveano
attinto un vivissimo desiderio della quiete, fino ad immolarle
parte della dignità; sicchè con esultanza i principi furono accolti
dappertutto. Nessun di loro accompagnò il ristabilimento colle vendette
che la disonorarono quindici anni prima: sentivano d’aver fallato
ed essi e popoli; e in tal caso nulla s’ha meglio a desiderare che
la reciproca dimenticanza. Ma nell’improvvida loro bontà i principi
si davano a credere bastasse il dimenticare: quindi, dopo aver tutti
fomentato le idee liberali, e riconosciuta la sovranità dei popoli
coll’invitarli a ribellarsi, pretesero ridurli alla passiva obbedienza,
ad affidarsi nel cuor loro paterno. E poichè è natura di tutte le
riazioni di spingersi colle speranze più in là che non possano giungere
i fatti, non s’accorgeano che il tempo fa ruine cui nessuno può
ripristinare, e sciagurato chi vi si ostina invece di profittarne per
erigere edifizj nuovi. Se dunque i primi effetti della pace arrisero,
se la pace stessa rallentava l’oppressione togliendo o pretesto od
occasione agli arbitrj, ben presto rivisse l’attività della repressa ma
non tolta rivoluzione, e apparve quanto cambiati fossero i governanti
non meno che i governati.

Napoleone, coll’abbattere a voglia i re o tenerseli vassalli, ne
offuscò l’aureola; rotta la storia, ruppe anche la patria e la famiglia
col render l’uomo cosmopolita, cioè soldato e mero elemento di forza;
alla religiosa venerazione pel passato surrogò l’entusiasmo politico,
alla fraternità una comunanza di obbedienza che mentre annichilava i
sudditi, rendeva più facile ad abbattere l’autorità.

Vent’anni di guerra aveano rinvigorito gli ordigni
dell’amministrazione, abituato i Governi agli arbitrj dei tempi
eccezionali, quando lo Stato è tutto, nulla l’individuo[153].
Quest’assolutezza parve un acquisto, nè i principi vollero rinunziarvi
nella pace; tutto regolarono per decreti; guardarono come concessione
l’esercizio delle naturali libertà; non viaggiare senza passaporti, non
tener armi senza licenza, non istampare senza censura, non istudiare
che nelle scuole regie; necessaria la regia approvazione per istituire
compagnie, per esercitare la beneficenza, per divertirsi, per le spese
e pei magistrati comunali, per l’elezione dei vescovi e de’ parroci;
affidata ogni cosa alla parassita turba degl’impiegati: insomma si
fecero dipendere dal beneplacito del Governo mille atti, di cui prima
della rivoluzione godeasi e non prezzavasi la libertà. Lo spirito di
famiglia, di corpo, di città, di patria, di religione, insomma quello
spirito pubblico che è vita e forza della società, soccombeva alla
simmetria d’un’amministrazione centrale e all’oculatezza della Polizia,
la quale sempre acquista importanza primaria dopo una rivoluzione[154].

Dacchè i Governi vollero concentrata in sè tutta la vita, restò ad essi
tutta la responsalità; ucciso lo spirito di sagrifizio, tolto il dovere
o l’impulso dell’attività individuale, gli uomini non furono che cifre,
e il dirigerli un atto di forza; talchè non rimase a scegliere che tra
una dipendenza cieca o una forsennata anarchia. I Governi trovavansi
per avversario non un uomo o una classe, ma il libero arbitrio, il
quale ricalcitrando da quella meccanica classificazione, obbediva
solo in quanto costretto; e così agevolavasi l’opera del despotismo,
cioè delle rivoluzioni, dove una piccola minorità o un prepotente o un
esercito cambiano le istituzioni d’un popolo per darvene altre non meno
dispotiche.

Realmente la libertà, come altrove, così in Italia era antica, e
nuovo il despotismo, giacchè solo la rivoluzione francese annichilò
que’ privilegi municipali e provinciali che sono la forma del diritto
prima che diventi comune[155]. I principi accettarono la restaurazione
in quanto ripristinava la loro potestà, non in quanto rifletteva ai
popoli; e così si fecero rivoluzionarj sia calpestando gli antichi
diritti storici de’ sudditi, e con ciò traendo questi a chiederne
di nuovi e radicali, sia accettando i doni della vittoria, cioè
consacrando la forza, e riducendo il diritto al fatto, la ragione alla
riuscita.

Tutti quegli ordigni gli aveva introdotti Napoleone, e ne ritrasse odio
e debolezza; i succeduti faceano altrettanto, ascrivendone ad esso la
colpa. Ma il popolo diceva: — Siam servi come prima, paghiamo quanto
allora, diamo ancora i nostri figli a marcire nelle guarnigioni o su
terre straniere, e non ci restano tampoco il fragor della gloria, il
compenso delle apparenze». Le divise militari, l’apparato teatrale
delle magistrature, le rassegne, le pompe lasciarono il barbaglio
dopo cessate le fitte; e poichè il passaggio dalla vita militare alla
civile è naturalmente prosastico, que’ Governi positivi, misurati,
paterni sentivano di meschinità a fronte della preceduta carnevalesca
splendidezza, della rapidità di eseguire o almeno comandare tante
opere pubbliche, incompatibile con amministrazioni ponderate e
massaje. Impiegati tolto di posto o sminuiti di grado e di potenza,
arrangiavano continue lodi del passato; speculatori cui erano mancate
le occasioni d’improvvisi guadagni, moltiplicate in tempi turbinosi;
militari avvezzi a rapidamente acquistar gradi e sperarne di sempre
maggiori, e che coll’occasione d’uccidere e farsi uccidere vedeansi
tolta quella di diventar generali, e che, tutti fede nell’onnipotenza
delle armi, si persuadevano che un pugno di veterani d’Austerlitz o
di Catalogna basterebbe a sgominare un esercito di costoro che parean
nani a confronto del gigante di Marengo e di Jena, ridestavano il culto
di Napoleone, inneggiato non per i beni che recò o rappresentò, ma per
izza ai dominanti nuovi, che ne proscriveano i ritratti e il nome.

Perocchè Napoleone, mentre in Francia per tiranno, fuori passava per
liberale, avendo diffuso qui alla cheta ciò che per la furia erasi
guasto colà, ed operato assai più che i principi del secolo precedente,
non limitandosi a riforme amministrative, e dando statuti e leggi
fondamentali ch’erano una scuola politica iniziatrice. Il regno
d’Italia e quegli altri alla francese erano costati sangue e tesori e
servitù, ma in effetto aveano surrogato codici metodici e brevi alla
farragine di decreti e di pratiche, risultanti da molti secoli e da
eterogenee dominazioni; la procedura semplificata ed evidente sottraeva
ai lacciuoli de’ mozzorecchi e alle ambagi dei legulej; l’inestricabile
varietà dei tributi erasi ristretta in pochi e chiari; pubblici il
debito e le ipoteche; garantiti con queste e coll’intavolazione le
proprietà e i contratti; distinta la potestà civile dalla militare,
l’amministrativa dalla giudiziale; sistemati i municipj, parificato il
diritto di tutti in faccia alla legge. Questi erano benefizj effettivi;
e quantunque già fossero qui predisposti e in parte attuati, se ne
ascriveva il merito a que’ Governi. Ora molti de’ principi ristabiliti
credettero vantaggio del popolo il derogarli, per tornare ai vecchi di
cui era cessata la ragione, cioè l’abitudine; e coll’astiare il passato
più che affidar nell’avvenire, favorirono l’inclinazione ingenita nei
popoli di rimpianger l’ordine caduto per raffaccio del presente.

Mentre abolivasi il buono, conservavasi il peggio. In quello stato
violento e di guerra, i principi aveano dismesso i primitivi comporti
paterni, a fronte di nemici che bisognava combattere, di popoli
che aveano esultato ai loro disastri. La lebbra napoleonica degli
eserciti numerosi non guariva perchè non se n’erano tolte le cause;
e si continuò a sagrificarvi la quiete, gli affetti, la moralità, le
famiglie: in conseguenza bisognò mantenere le imposizioni come in tempo
di guerra rotta, eppure deteriorare le finanze, acciocchè la forza
armata desse ai Governi il sentimento di poter ogni cosa senza far
mente alle inclinazioni o ai bisogni de’ popoli.

Ma l’operosità, distolta dalla gloria militare, avea preso un
indirizzo nuovo, occupandosi di trattati, di miglioramenti, di lotte
parlamentari, e insieme dell’industria e del credito pubblico, di
statistica e politica; e tornossi a ragionare di diritti e libertà.
Gli Stati prima della rivoluzione poggiavano sul privilegio e la
gerarchia delle classi, e sull’unione di queste tra loro in modo,
che il clero, la nobiltà, le maestranze delle arti, le municipalità,
protette da concessioni o da consuetudini, impedivano ai Governi
d’essere assoluti, e sminuzzavano fra moltissimi corpi l’azione
amministrativa. Altrettanta disuguaglianza sussisteva nei beni, alcuni
legati indeclinabilmente in manimorte, altri tenuti a certe servitù
di livelli e prestazioni, altri ristretti in fedecommessi, godibili
non alienabili, che dovevano trasmettersi intatti di generazione in
generazione.

Camminando nel solco avito, gli uomini compivano per usanza
un’infinità di atti, e veneravano tradizionalmente l’autorità, non
tanto rassegnandosi, quanto neppure riflettendo al peso di essa:
e le abitudini di dipendenza da una parte, di patronato dall’altra
tutelavano la società che aveva l’arbitrio per massima, la libertà per
effetto. La rivoluzione richiamò in disputa tutti i principj, tutte le
autorità, fin la paterna; e stabilì la naturale indipendenza dell’uomo,
che abbandonato agli impulsi della propria natura, userà tutte le
sue forze a procacciarsi il maggior numero di sensazioni piacevoli,
il che si chiama felicità. A tal uopo egli si elegge dei governanti,
e si rassegna ad essere governato: ma se coloro riescano d’impaccio
all’incremento di tal sua felicità, egli potrà abbatterli; potrà
surrogarsi ad essi quando ne invidii la quantità maggiore di sensazioni
gradevoli.

Come ciascuno fu dichiarato uguale all’altro in diritti, pretese
esserlo in fatti, sicchè parvero legale ingiustizia le disuguaglianze
inerenti alla convivenza; e ciascuno si arrancò a salire, ad
acquistare, nessuno più rassegnandosi a quel che prima si chiamava
il proprio stato. Ma il livellamento è un fatto puramente materiale,
manchevole delle prime condizioni di cuore e di mente; ed ora che
non v’è più classi ma soltanto posizioni, sempre sono incerte, sempre
minacciate; ciascuno, per mantenersi nella sua o per migliorarla, cerca
arricchire; quell’arricchire che altre volte era il piacere di alcuni,
ora è fatto passione di tutti.

Lo svincolo dei possessi agevolò i trapassi, crebbe la cura di
migliorarli; e i latifondi, testè abbandonati alla patriarcale
negligenza di corporazioni e luoghi pii, furono sminuzzati fra
particolari, che s’industriarono a trarne il maggior frutto possibile.
Così crebbe la ricchezza, e per essa l’industria, e con esse il
desiderio de’ godimenti materiali; tanto più che, revocata in dubbio la
vita avvenire, non si accettarono i mali di questa come un’espiazione;
e posta per iscopo della vita la felicità, la si volle goder alla
presta, fin rinnegando il primo ministro di Dio, il tempo.

Adunque mancanza di principj fissi e universalmente accettati, smania
di possessi, di godimenti, di miglioramento materiale, obbedienza
violenta alla forza piuttosto che alla legge, erano i nuovi spiriti
sociali. Internamente non rimanevano più istituzioni tutrici storiche,
non corpi rappresentativi, ma quell’eguaglianza che lascia libertà
agli arbitrj: i nobili, mero apparato, non formavano un corpo,
difesa e limite al trono, alla cui ombra crescevano; i preti non
s’affezionavano a un potere che guardavali con gelosia; i borghesi non
poteano rivoltarsi che immediatamente contro il principe; i popoli
non s’adagiavano nella quiete, perchè d’un nuovo cambiamento erano
lusingati dai tanti che già aveano veduti. Cresceva dunque il desiderio
d’una intervenzione attiva ed efficace del Governo nel proprio
paese. Non lo ignoravano i principi, i quali della rivoluzione aveano
conosciuta la potenza a segno, di valersi dei dogmi e degli stromenti
di essa per abbattere colui che l’aveva infrenata. E avrebbero
presunto di rimetter il mondo qual era prima di essa? Le idee morali
erano svanite tra quella serie d’astuzie, d’abusi della forza, di
perfidie; era crollata la reciproca confidenza, che è la più difficile
a restaurarsi; i re non erano più i padri d’una gran famiglia, ma
conquistatori e capi d’eserciti; alle loro corone era venuta meno
fin la consacrazione della durata, dacchè per capriccio o per forza
erano state tolte, divise, restituite; dacchè essi medesimi voleano
riconoscerle soltanto dalla vittoria, che è un fatto non un diritto;
tutti si erano prosternati a un soldato per conservarsele; prosternati
al popolo per ricuperarle, senza dignità nè buona fede; il congresso
medesimo avea conculcato il diritto de’ popoli, ma insieme sconosciuto
quello de’ principi, mutandoli, barattandoli. Intanto i Governi neppur
possedeano il vigore d’un assolutismo confessato, ond’erano costretti a
turpe discordanza fra quel che promettevano e quel che lasciavano fare;
e come i poteri egoisti, credeano assai il guadagnar tempo.

Quindi i principi si lamentavano di non trovare più que’ sudditi docili
del Settecento; i popoli si dicevano traditi nelle promesse, delusi
nell’aspettazione; Governo e governati non procedeano più di conserva
ma gli uni attenti a comprimere, gli altri a rialzarsi, e intanto
fremere, denigrare, disapprovare. Cessato di credere alla moralità de’
governati, diveniva necessaria la repressione: cessato di credere alla
moralità de’ governanti, diveniva necessario un patto, un freno. Si
trovò strano che pochi forti dessero assetto a tutt’Europa, ed uno in
ciascun paese facesse le leggi, disponesse delle entrate a vantaggio
proprio, non dei più: e vagheggiavasi un meglio che pareva più bello
quanto meno era determinato. Alcuni principi fuor d’Italia aveano
adempiuto le promesse concedendo una costituzione ai loro popoli;
costituzione non fondata sulla storia, come la inglese; neppur patto
bilaterale fra il regnante e i sudditi, ma donata da essi principi,
i quali del passo medesimo poteano ritoglierla. Le più avanzate fra
quelle costituzioni portavano l’eguaglianza di tutti in faccia alla
legge, libertà della parola e della stampa, più o meno partecipazione
de’ rappresentanti del popolo a far le leggi e ad assettare le imposte,
inamovibilità de’ giudici, responsalità dei ministri. Tale l’avea
ottenuta la Francia; e messa come è nel centro dell’Europa, e mirata
come il tipo della civiltà, e con una lingua a nessuno ignota, traeva
l’attenzione sulle quistioni costituzionali che alla sua tribuna pareva
si agitassero in nome di tutto il mondo; e di colà erompeva quella
pubblicità che altrove teneasi repressa.

I Governi eransi data aria di mecenati coll’estendere gl’insegnamenti
classici; aumentando la folla de’ saputi, che più presuntuosi nelle
aspirazioni quanto meno atti all’opere, colla parola audace insieme e
inesperta sovvertono le indisputabili verità, e tirano l’opinione in
balìa di chi meno ha senno di guidarla[156]. Aperta che fu l’Italia,
affluirono forestieri a venerarne le ruine, ammirarne il cielo, goder
le bellezze che vi nascono dal bacio immortale dell’arte e della
natura, diffondervi il denaro e insieme le idee. Memorabile fra questi
fu la principessa di Galles, che menò pompa di libidini principalmente
in Romagna e sul lago di Como, poi non voluta ricevere dal marito
divenuto re d’Inghilterra, diede origine ad un processo scandaloso,
dove i nostri accorreano a testimoniare in difesa di quell’indegna,
o perchè pagati o perchè perseguitata. Il francese Beyle col nome di
Stendhal, scettico e volteriano ancora, ma già piegato ai concetti
romantici e fino al misticismo sentimentale, viaggiò l’Italia,
panegirista di essa e della passione, legandosi col meglio della
società e della letteratura, e carezzandovi l’amore delle novità. Lord
Byron, l’Alcibiade britannico, che non soddisfatto della sua patria, ne
esulò volontario, e invece delle assodate libertà di quella, fomentava
le avventurose dei rivoluzionarj, venne coll’esempio a sparger gusti
strani e falsi sentimenti di raffinato egoismo e voluttuosa misantropia
fra i nostri giovani, e contaminare le nostre donne, finchè diede
un nobile scopo alla sua vita andando a combattere per la risorta
Grecia[157]. Questi e tanti altri ci metteano sott’occhio passioni,
sentimenti, atti, lettere, che distoglievano più sempre dalle abitudini
nazionali, e invogliavano delle innovazioni, dell’operosità.

Speciali malcontentezze aveva l’Italia. Chiamata all’unità dalla sua
ben distinta postura e dalla religione che qui tiene suo centro,
è tratta all’isolamento di ciascuna provincia dalla bellezza di
tutte, dalla conformazione geografica, e dal non esservi predominato
verun conquistatore, quanto i Franchi nelle Gallie, i Normanni in
Inghilterra. Non che da ciò le derivasse pregiudizio, ebbe l’età
più splendida quando ciascuna città ricca d’ubertà, di commercio, di
dottrina, sentiva bastarle intelligenza, coraggio, mezzi di divenir
capitale. La nazionalità fermavasi dunque alle frontiere di ciascun
dominio: Genova non provava bisogno d’unirsi a Napoli; nulla chiedeva
Milano a Firenze; le guerre da Venezia a Romagna, da Toscana a Sicilia
non guardavansi come fratricide, nulla più di quelle tra Francia e
Borgogna, tra Castiglia ed Aragona.

Ma come il pressojo connette materie scomposte, così rimpetto
all’oppressione straniera l’Italia sentì d’esser una; lo sentì
nella lingua, nelle arti, nella letteratura, supremamente nazionale
già fin da Dante, e nella quale il nome di lei visse anche quando
lo cancellavano le spade e la diplomazia. Tale sentimento però
restringevasi nelle classi colte; e queste pure non facea repugnanti
alla dominazione forestiera, contro la quale appena trovereste un
lamento negli scrittori del secolo passato. Merito della natura dei
Governi d’allora che, non ancora ossessi dal demone regolamentare,
usavano riverenza alle forme storiche, e qualunque fosse il dominio,
conservavansi nazionali, moltissima azione lasciando a’ rappresentanti
de’ municipj e delle provincie; sicchè molti partecipavano in qualche
porzione all’autorità, colla nobile compiacenza d’affaticarsi pel
proprio paese.

Buonaparte proclamò non saremmo nè tedeschi nè francesi, ma italiani;
poi ci divise, ci barattò, ci vendette; costituì un regno d’Italia,
ma sconnettendone importanti porzioni, e col pomo della sciabola
foggiandolo alla francese. Al cader suo, dagli Alleati che aveano
trionfato in nome della libertà e dell’indipendenza, sperò vita
l’Italia: ma essi la spartirono fra signori, quali antichi, quali
nuovi, quali perfino a tempo, e tutti patriarcali. Il Governo
intermedio aveva cassato le antiche rappresentanze tutorie, sicchè non
rimase che l’assolutismo amministrativo, infelicità nuova. Le tante
dogane impacciavano il commercio, e que’ cambj da cui i comodi e la
ricchezza. Leggi discusse, giudizj pubblici e di gradi determinati,
sicurezza del debito pubblico, moderazione d’imposte, franchezza del
pensiero, pubblicità d’amministrazione, larghezza di censura, erano
bisogni che il progresso facea sentire tanto più, quanto che se n’era
già fatto il saggio. Ma ad ottenerli il maggior ostacolo pareva il
Governo straniero, che a tutti gli altri sovrastava; e poichè l’Austria
avea professato sosterrebbe i Governi patriarcali d’Italia, in essa
concentravasi l’avversione dei liberali.

Si aggiunsero fortuite disgrazie; e a Napoli, oltre l’incendio del
gran teatro, la peste s’introdusse nella terra di Bari: la carestia
desolò tutta la penisola il 1816 e 17, sicchè dagli Appennini calavano
i poveri a torme, a guisa di zingari vagando di terra in terra, e
rubando o accattando, or in cupo silenzio, or con grida minacciose: e
fin nella pingue Lombardia le radici e le erbe erano pascolo disputato.
I Governi vi opposero provvedimenti dispotici insieme ed insulsi, che
aggravavano il male[158]; lo temperava la carità, operosissima: ma
il tristo nutrimento predispose i corpi a un contagio di petecchie
che moltissimi uccise: la Toscana perdette innumere vite, mentre
della fame si imputavano furiosamente i fornaj. Intanto i medici o
credendole asteniche con Brown, o steniche con Rasori, applicavano a
quelle malattie rimedj opposti; e tutte in favor proprio allegavano le
statistiche, le quali forse non provano se non l’impotenza dell’uomo
contro questi flagelli, di cui non è insolito che i popoli dieno colpa
al Governo, e dicano anche qui, — Oh al tempo de’ Francesi! — Oh sotto
l’altro Governo!»

Di tutti questi elementi formossi quel che fu nominato liberalismo.
Che sovrano sia il popolo, in modo che la generalità rimanga sempre
autorità suprema, e i magistrati esercitino i poteri soltanto per
trasmissione fattane loro dal popolo, il quale può anche privarneli, e
a cui sono sempre obbligati a render conto; che tale massa collettiva
eserciti il potere supremo realmente e direttamente, nel che consiste
la _democrazia_; che il cittadino nell’uso della propria libertà non
sia limitato da riflessi al ben pubblico, alla costumatezza, alla
fede, ma soltanto dalla libertà altrui, sicchè non v’abbia restrizioni
nello spartimento dei beni, nell’esercizio de’ mestieri, nel domicilio,
nella predicazione, negli atti comunque scandalosi, nel che consiste
la _libertà_; che in tutte le relazioni pubbliche nessuna diversità
di diritti nasca dalle condizioni reali, cioè dai possessi, nè dalle
professionali o dal ceto e dalla corporazione, nel che consiste
l’_uguaglianza_; che le istituzioni riconosciute ragionevoli dalla
maggiorità vengano tosto attuate, senza riflesso a condizioni storiche
o morali nè a diritti acquisiti, nel che consiste il _trionfo della
ragione_; infine che, abolita la religione dello Stato, non si badi
a professione di fede, a culto, a sanzione di atti civili; sono
questi postulati che la Rivoluzione erasi proposto di ridurre ad
atto, e sono i medesimi che il liberalismo caldeggiava. Ma poi, o per
illogica transazione o per forza, rispettava le autorità esistenti, le
naturali condizioni della vita e gl’interessi materiali; e se alcuni
vagheggiavano l’America, prosperante senza re nè nobili nè clero, i
più accontentavansi di sollecitare lo sviluppo delle condizioni sociali
com’erano. Ne veniva una specie di dottrinale compromesso tra la verità
e la menzogna, il quale bisogna ben distinguere dalla vera libertà, che
porterebbe il massimo del potere privato col minimo del governativo,
il più ampio uso delle facoltà individuali coll’esercizio del diritto
universale. La perpetua tutela, l’accettare i magistrati invece di
sceglierli, la volontà sottomessa a irragionati comandi, la niuna
garanzia dei diritti, l’autorità incondizionata possono conciliarsi
colla materiale felicità; non colla dignità d’uomo che ha bisogno
d’aver fiducia nel proprio diritto e sicurezza contro l’abusata potestà
e contro vessazioni arbitrarie, di poter ritenere o spendere a modo
suo il frutto del suo lavoro, di partecipare alle ordinanze dalle quali
penderà il suo ben essere, insomma d’un governo intelligente e probo.

Di tal passo, alla consuetudine e alla fede perdute surrogavansi
negli animi l’opinione e l’individualità, cioè il vacillamento e
l’egoismo; l’assoluta eguaglianza portava alla sovranità del popolo,
e per conseguenza alla preponderanza del numero, il che riesce ancora
alla superiorità della forza e alla perpetua mobilità; un’immedicabile
scontentezza del presente, qualunque esso sia; un attribuire merito
alla opposizione ragionevole o no, dissolvente o restauratrice; un
credere all’onnipotenza della parola, scritta o declamata, e che con
essa e con decreti si possa cambiare il mondo, nulla riguardando alla
storia nè alle idee e alle abitudini del popolo; un volere che certe
dottrine di pochi, e per lo più negative, vagliano come dogmi, e siano
accettate anche dal popolo che non le intende, e per cui non hanno
importanza. Come tutti i partiti, questo considerava traditore il
pensante che conservasse l’indipendenza morale, e degradava il popolo
facendogli maledire o adorare feticci, a volontà degli ambiziosi e
de’ viziati, invece di adoprarsi nel surrogare la riflessione alla
passione.

Da Napoleone aveano imparato i re a ledere i possedimenti privati con
imposte e contribuzioni illimitate, e il possedimento più sacro, la
nazionalità: i liberali ne appresero a non calcolar mai la possibilità,
proporsi un fine senza misurarlo ai mezzi, e scordarsi che, nella
lotta delle idee contro le cose era soccombuto anche il gigante. Molti
erano fior del paese, generosi e d’integra fede: ma come accade, vi
si aggregavano i malcontenti di diverso merito e colore; que’ nobili
e quel clero che aveano sognato recuperare i vecchi privilegi, e
svogliavansi di Governi che gli aveano ripristinati soltanto per
sè; que’ letterati cui tardava l’occasione di metter in piazza le
proprie abilità; quei tanti che, sentendosi capacità od ambizione per
governare, non si vedevano adoperati[159].

Le società secrete, durante l’Impero, avevano ritemprato il sentimento
nazionale contro l’invasione delle idee e della dominazione forestiera;
conservato la memoria e il desiderio di quella libertà che lo stivale
ferrato conculcava. I re n’avevano profittato contro i loro nemici:
ma le perseguitarono, dacchè, cangiando non direzione ma oggetto, si
rannodavano contro le nuove oppressioni.

I Carbonari, costituitisi nelle montagne calabresi dominando Murat,
si attenevano in gran parte ai riti massonici; se non che in questi
proponevansi la vendetta dell’ucciso Iram e i godimenti d’un deismo
confacente colla filosofia del secolo passato, mentre la forza
melanconica dei Carbonari assumeva di vendicare la morte di Cristo, e
ristabilirne il regno. Vi si aggregarono anche magistrati e lo stesso
re dopo che ruminò l’indipendenza: e l’esercito di lui nell’ultima
incursione lasciò numerose _vendite_ nelle Legazioni, donde si
diffusero alla Lombardia, e massime a Bologna, Milano, Alessandria. Nel
costoro ordinamento, una vendita particolare non comprende più di venti
_buoni cugini_, in relazione fra sè ma isolati dalle altre vendite: i
deputati di venti parziali vendite ne formano una centrale, che per via
d’un deputato comunica coll’alta vendita; e questa per un emissario
riceve gli ordini dalla vendita suprema e da un comitato d’azione.
Tale gerarchia favorisce il segreto, la diffusione, i ritrovi, senza
togliere l’unità. Nulla scrivere ma partecipare a voce, riconoscersi
per mezzo di carte tagliate e delle parole _speranza_ e _fede_,
alternare le sillabe _ca-ri-tà_, stringendosi la mano fare col pollice
il _c_ e la _n_, erano i segnali e il regolamento, il rivelare i quali
ai _pagani_ o lo spergiurare punivansi di morte, inflitta di fatto ad
alcuni avversarj o disertori. Dovea ciascuno procacciarsi un fucile e
venticinque cartuccie; versare alla cassa comune una lira per mese, e
cinque all’ammissione; giurare di «far trionfare i dogmi di libertà,
d’eguaglianza, d’odio alla tirannia; e se non fosse possibile senza
combattere, combattere fino alla morte».

Da questo tronco erano usciti moltissimi rami; dei _Protettori
repubblicani_, degli _Adelfi_, della _Spilla nera_, e via là. Più
franca l’_Ausonia_, giurava formare una repubblica italiana, divisa in
ventuno Stati, ciascuno dei quali manderebbe un deputato all’assemblea
sovrana, di cui uno ogni anno farebbe posto ad un altro; assemblee
provinciali nominerebbero le corti di cassazione, i consigli di
dipartimento, distretto e cantone, il capo della guardia nazionale,
l’arcivescovo, i superiori dei seminarj e licei; il potere esecutivo
affidavasi a un re del mare e un della terra, eletti per ventun
anno dalla assemblea sovrana, senza distinzioni ereditarie; imposta
progressiva a proporzione dell’agiatezza, il più povero pagando un
settimo di sua rendita, il più ricco sei settimi; il papa sarebbe
pregato a divenire patriarca della repubblica, risarcendolo dei
possessi temporali toltigli; il Collegio de’ cardinali non risiederebbe
nella repubblica, e se eleggesse un nuovo papa, questo dovrebbe
trasferire altrove la sua sede; conservati i soli frati Mendicanti,
ma libero l’uscirne chi vuole, e non vi si ascriva alcuno se non abbia
servito come militare.

In questo segretume tramestavano sempre i Buonaparte, e Luciano ebbe
il grado supremo di Gran Luce. Nel 1817 giovandosi della fame e d’una
malattia del papa, si tentò una sollevazione in Macerata col proposito
di ridurre tutta Italia sotto il consolato di un Cesare Gallo d’Osimo;
ma scoperti, e processati da monsignor Pacca, tredici capi ebbero
condanna di morte, e grazia dal papa. Anche l’imperatore d’Austria ne
processò alquanti del Polesine, e tredici condannò a morte, commutata
in carcere.

Le società segrete variavano natura o forma secondo i paesi: e parvero
loro opera le turbolenze scoppiate in molte parti; in Inghilterra una
congiura per trucidare i ministri; in Germania l’assassinio del comico
Kotzebue per mano dello studente Sand; in Francia quello del duca di
Berry, presunto erede della Corona, pel coltello di Louvel; in Russia
la rivolta d’un reggimento; e quella che ebbe maggiori conseguenze,
l’insurrezione della Grecia contro i Turchi, nella quale si trattava
di compiere l’antico voto dell’Europa col riscattare i Cristiani dal
giogo musulmano. Molti Greci venivano a studiare nelle Università di
Padova e Pavia, fra cui Coletti e Capodistria; molti adottarono la
nostra lingua, come Foscolo, Mario Pieri, Petrettini, Mustoxidi; e fin
dai tempi napoleonici erasi formata in Italia una eteria o società per
ricostruire l’impero greco; lusingata di promesse dall’imperatore, avea
disposto armi per tentare dalle Jonie uno sbarco che le popolazioni
seconderebbero; ma la caduta del regno d’Italia sparse ogni cosa al
vento. Dappoi fidando nella Russia, fu ritessuta un’eteria, frutto
della quale fu la sollevazione della Grecia. Benchè fosse la croce
che lottava contro la mezzaluna, la civiltà cristiana contro la
barbarie musulmana, le Potenze sfavorirono quel tentativo, sol perchè
avea aspetto di rivolta o sentore di liberalismo: l’Austria facea
vituperarlo ne’ suoi giornali, e tenne prigionieri i capi di quella che
potè cogliere.

La Carboneria era stata trapiantata in Francia, massime dal fiorentino
Buonarroti, già apostolo di Babœuf, e vi abbracciò studenti,
negozianti, soldati. Gli ambiziosi e gl’inquieti che vi trescavano,
ammantavansi coi nomi di La Fayette, di Dupont de l’Eure, di più
onorevoli; asserivano loro corrispondenti principali Napoleone e
Luigi Buonaparte figli del re d’Olanda; e intendeansi soprattutto
coi vecchi e coi nuovi militari. Ma se i cospiratori convenivano nel
concetto di distruggere ciò che sussisteva, non bene risolveano che
cosa sostituirvi; e chi era fido alla repubblica, chi mirava al figlio
di Napoleone, chi a Luigi Filippo d’Orléans. Si stabilì a Parigi un
comitato, che fomentasse le rivoluzioni dappertutto e principalmente
in Ispagna e in Italia, fantasticando una lega latina da opporre alla
lega nordica, per ridurre l’Europa ad un assetto differente da quello
impostole dai trattati del 1815.

I sovrani alleati, accortisi dell’ampliarsi del liberalismo e
dell’operosità delle società secrete, si congregarono ad Aquisgrana
(1818), e rinserrarono la loro unione non più coi soli intenti
evangelici della Santa Alleanza, ma collo scopo espresso d’impedire
i Governi costituzionali, e di reprimere ogni rivoluzione. Allora
si tolse a perseguitare non solo gli atti, ma l’opinione, la quale
in tali casi trasformasi in sentimento, e il sentimento elevandosi
all’entusiasmo, si propaga, offusca il raziocinio, fa ammirare i
perseguitati, aborrire chiunque resista, tremare gl’indifferenti, e
gli stessi avversarj piegarsi al vento che spira o alla paura. Allora
prendono coraggio que’ ribaldi, che di proposito inimicano al popolo
il sovrano, fomentando i sospetti; per rendersi necessarj fingono
cospirazioni ove non sono che aspirazioni; e inducono il bisogno
di castigare l’opinione o il desiderio di premiare la delazione, di
rimuovere dai posti i meritevoli, di cercare dalle carceri o dalla
gendarmeria una sicurezza che più non s’ha nella docile benevolenza. Il
poliziotto che riferì formicolare il paese di Giacobini e Carbonari, è
impegnato a mostrarsi veritiero col fiutare e origliare e moltiplicare
processi; nei quali l’accusa essendo d’opinione, è quasi impossibile
scagionarsi; se non si trova da condannare, se ne imputano la furberia
degli accusati, il talento, le relazioni loro.

Con siffatte arti cercavasi e combattevasi la libertà; e frutto
immediato n’era uno scontento indeterminato, quel mal umore che è
proprio di persone dotate d’intelligenza e non di genio. E certamente
la libertà nobilita l’individuo come la nazione: ma bisogna esserne
degni e usarla convenientemente; ed al fanciullo non ancora provvisto
di ragione, o al mentecatto che la perdè, o al vizioso che ne abusa,
legalmente vien tolta. Ora fra l’autorità che, non conoscendo misura,
precipita al despotismo, e la libertà che, rifiutando ogni freno,
degenera in licenza, se ponete unicamente la forza per comprimere o per
abbattere, arriverete o all’eccesso dell’assolutezza che giustifica le
rivoluzioni, o all’abuso delle rivoluzioni che scusa l’assolutezza.
Le costituzioni, che erano l’espressione del liberalismo d’allora,
eliminavano dalla scienza politica la morale, sistemando il mondo con
pure combinazioni d’interessi, nessun uffizio nei rapporti politici
riservando alla sincerità, all’onoratezza, tutto riducendo allo
spiarsi reciproco e soperchiarsi dei due poteri, contrastantisi anzichè
cooperanti, fino a dire che il re non deve governare, cioè la monarchia
riducendo ad istituzione meccanica e giuridica, non già organica ed
etica. Così destituiti di fondamenti sodi, qual meraviglia se dal 1789
al 1830 ben cencinquantadue costituzioni si pubblicarono?

Perchè cessi d’essere necessaria la coazione, il freno dev’essere
morale; nè altro migliore v’avrebbe che la religione, la quale insegna
a chinarsi all’autorità e insieme l’autorità raffrena. Or la religione
avea sofferto tali scosse vuoi nel fondo vuoi nell’esterna attuazione,
che tempo, longanimità, prudenza voleasi per rimetterla ne’ cuori,
non meno che nell’ordine civile. Intanto, quasi una protesta contro
il passato, Pio VII annuendo «alle pressanti suppliche d’arcivescovi,
vescovi e personaggi altissimi», ripristinò i Gesuiti (1814) che, per
volontà di altri altissimi, un suo predecessore aveva aboliti, e che
rinascevano gravati dei rancori dell’antica società, non della sua
sapienza e robustezza.

L’arbitrario mescolamento di nazioni, fatto dal congresso di Vienna,
riuscì a vantaggio della tolleranza, ponendo il papa in corrispondenza
colla Russia, coll’Olanda, con altri eretici o scismatici, dai quali
otteneva miglioramenti pe’ loro sudditi cattolici. Ma fra i cattolici
gran fatica gli costò il combinare coll’inveterata disciplina le nuove
pretensioni giansenistiche e filosofiche dei principi che, mentre
avrebbero dovuto consolidare il dogma dell’autorità, lo scassinavano
coll’ingelosirsi del papa[160]; vantavano come libertà l’abbattere
qualche ostacolo che i privilegi clericali mettessero all’onnipotenza
amministrativa; il proibirne o sorvegliarne l’istruzione, le adunanze,
le comunicazioni col capo supremo; il sottoporre a revisione le
encicliche de’ vescovi, le nomine de’ parroci, i brevi di Roma.

Fin il piissimo Vittorio Emanuele, spinto da consiglieri zelanti
l’indipendenza della civile dall’ecclesiastica giurisdizione, voleva
assettar a sua voglia le diocesi, e in quelle di fresco acquistate
del Genovesato operare non altrimenti che nelle antiche; poter dare
il consenso alla nomina de’ cardinali delle altre Corti, e averne un
suo; ricusava come anticaglie l’invio che Roma facea delle fasce pei
principi neonati, dello stocco benedetto, della rosa d’oro; non voleva
ripristinare la nunziatura; muovea lagni che l’Austria condiscendesse
troppo col papa, quasi per averlo stromento alle sue ambizioni. Il
cardinale Consalvi ministro di Pio VII, avendo conosciuto le Corti
e la sventura, inclinava ad annuire fin dove fosse compatibile
colla dignità, sebbene lo disapprovassero gli zelanti; e disfacendo
il concordato di Buonaparte, ne stipulò un nuovo col Piemonte,
circoscrivendo altrimenti le diocesi, sotto i metropoliti di Torino,
Genova, Ciamberì, Vercelli; alla Corte risederebbe un nunzio di primo
grado, il quale non ne partirà che decorato dalla porpora. Poi in
quel regno furono chiamati i Gesuiti a educare la gioventù; a Pinerolo
s’istituirono gli Oblati della Beata Vergine, preti secolari, con voto
speciale d’obbedienza al pontefice; altrove i Sacerdoti della Carità
del Rosmini; oltre gli Ordini antichi.

L’Austria, fedele alle tradizioni giuseppine, non solo nella Lombardia
nominava i vescovi ed esercitava poteri già competenti a Roma, ma lo
voleva anche nei nuovi acquisti di Ragusi e Venezia; del che ottenne
poi privilegio dal papa (1817).

Allorchè Ferdinando assunse il titolo di _re del regno delle Due
Sicilie_, il papa fece riserva degli antichi suoi diritti, ma il
re non gli riconobbe altra supremazia se non di capo della Chiesa.
L’omaggio della chinea che nel 1806 aveva egli giurato prestare, adesso
negò come uno di que’ pesi feudali che nei recenti trattati s’erano
aboliti; donde una disputa, esacerbata da molte scritture e dall’avere
il papa ricusato cedere per denaro Benevento e Pontecorvo, reciproco
ingombro. Finalmente Consalvi e il ministro Medici in Terracina (1818)
convennero fosse conceduto al re di nominare alle sedi del suo regno,
da cenquarantasette ridotte a novantadue; non s’inquieterebbero i
possessori di beni ecclesiastici; gl’invenduti sarebbero divisi fra i
ripristinati conventi, senza guardare di chi fossero prima; i corpi
religiosi dipenderanno da proprj generali; i vescovi, liberi nel
pastorale ministero a norma dei canoni, potranno convocare sinodi,
visitare le soglie degli apostoli, pubblicare istruzioni su materie
ecclesiastiche, intimar preghiere pubbliche o altre pie pratiche;
al loro fôro le cause ecclesiastiche, le matrimoniali, e la censura
dottrinale sui libri che s’introducono; la santa Sede sopra le rendite
de’ vescovadi si riservava dodicimila ducati l’anno, da disporre a
favore di proprj sudditi. Restava in arbitrio di ciascuno l’appellare
al papa; ma il re dichiarò, con questo non derogavansi i privilegi
del tribunale della monarchia di Sicilia. Non erasi stipulata veruna
immunità personale per gli ecclesiastici; ma nel 1834 fu convenuto che
i vescovi potessero esaminare i processi di quelli condannati a morte,
prima di disacrarli.

Questi ed altri concordati essendo parziali, non toglieano le varietà
disciplinari; in molti paesi restava colpa pe’ dignitarj ecclesiastici
il comunicare direttamente con Roma; in nessuno si ripristinarono
intere le immunità reali, personali e locali; nè illimitato il diritto
d’acquisto delle manimorte; la più parte delle prelature restò di
nomina, o almeno di proposizione governativa; erano sorvegliati i
possessi ecclesiastici, voluto l’_exequatur_ ai decreti di Roma. La
Chiesa perdette inoltre gli Ordini militari, e que’ feudi che erano di
rinforzo al potere ecclesiastico, mentre al civile recavano debolezza i
feudi laici; e nella sola Germania le erano state tolte duemila leghe
quadrate di dominio con tre milioni di sudditi. Il clero, sentendosi
indebolito dalla Rivoluzione, s’appoggiò sui re, ai quali sin allora
facea contrappeso; e i re quando videro ampliarsi il liberalismo, oltre
i modi giuridici e le chiassate dei giornali e i freni alla stampa,
ricorsero alle repressioni morali, e da Pio VII fecero condannare
le società secrete (_Ecclesiam a J. C_), imputandole d’insinuare
l’indifferenza col «lasciare che ciascuno foggi a voglia una religione,
pur affettando rispetto e mirabile preferenza per la cattolica, e per
la persona e la dottrina di Gesù Cristo, che chiamano rettore e gran
maestro della società».

I principi mostravansi ombrosi d’un’autorità affatto morale, nel
tempo stesso che sentivano il bisogno di instaurarla. Quando Leone
XII proclamò il giubileo, da gran tempo impedito, la bolla fu mal
gradita da essi; in Francia non si permise di pubblicarla; l’Austria ne
accettò le disposizioni solo in quanto fossero compatibili colle leggi
e cogl’interessi dello Stato[161]. Al qual giubileo vennero a Roma da
quattrocentomila pellegrini; a novantaseimila diede tridua ospitalità
l’arciconfraternita della Santissima Trinità, de’ quali però ventimila
sudditi pontifizj, quarantacinquemila del Napoletano, giacchè ai
lontani mancava o lo stimolo della fede o la licenza de’ superiori.

Dei misfatti della Rivoluzione, accagionandosi le dottrine che
la precedettero, ed una filosofia che vuole dedurre tutto dalla
ragione e secondo la ragione, se ne eressero altre che possiam dire
della controrivoluzione, opponendo alla sovranità del popolo la
_legittimità_, ossia il potere costituito sovra la propria autorità;
al patto sociale, l’unità primitiva dello Stato; la costituzione
organica di elementi naturali, alla democrazia astratta e ai meccanici
statuti; la conservazione tradizionale, alla smania innovatrice.
Insomma ricercavano ciò che si deve mantenere del passato, mentre
la rivoluzione proclamava ciò che dell’avvenire può desiderarsi; e
poichè invece d’un astratto concetto, guardavano a ciò che fu, alla
storia specialmente della propria nazione, assumevano colore distinto
secondo i paesi, migliori qualora lo spirito della storia nazionale
riproducessero senz’alterarlo con concetti personali. Questa scuola
ebbe anch’essa adepti e apostoli, e superiore a tutti Giuseppe De
Maistre da Ciamberì (1753-1821), sul quale è dovere di trattenerci, non
tanto come savojardo, che come la più elevata espressione del ritorno
del mondo verso le idee religiose e patriarcali.

Combattuto nelle prime guerre del Piemonte, egli andò a Pietroburgo
ambasciatore del suo re, al quale conservò fede anche dopo scoronato.
Venuto da paese che diede alla Francia insigni scrittori[162], la
sdulcinata lingua rinvigorì facendola parlare d’altro che di passioni,
di materia, di tornaconto, con uno stile fatto pittoresco dalla
collera, dagli ardimenti del genio, da animatissima convinzione; e
definiva lo stile l’alleanza del sentimento col gusto. Il problema
fondamentale della filosofia spiega egli col supporre una primitiva
rivelazione della parola, e delle idee con essa, offuscata poi dal
peccato originale. Il governo visibile della Provvidenza, l’esistenza
del male, l’origine divina dell’autorità regia, l’origine regia
di tutti i privilegi nazionali, l’universale fiducia delle nazioni
nell’efficacia de’ sacrifizj cruenti per redimere i delitti, dispone
egli con logica irrefrenabile in un sistema teosofico, dove son
pareggiati i dogmi della rivelazione cogli acquisti della semplice
ragione naturale, e ridotta la scienza a fede. Assimila il mondo a
un immenso altare, dove ogni cosa dev’essere immolata in perpetua
espiazione del male causato dalla libertà dell’uomo. Che altro rivela
la storia se non fra i selvaggi l’abbrutimento, fra i civili la
strage continua? Anche il giusto n’è vittima, perchè nella stabilita
solidarietà egli sconta pel colpevole, e perchè altrimenti occorrerebbe
un miracolo ad eccettuarlo, e conseguirebbe quaggiù la sua mercede. E
con forza di sentimento e fantasia mostrando dappertutto la mano di
Dio e l’ordine provvidenziale, considera la storia terrena come un
regno di Dio immediato e visibile: e per rimbalzo contro lo spirito
rivoluzionario corre più in là del medioevo, fondando sulla sanzione di
Dio non solo l’autorità suprema, ma anche la interna condizione sociale
e il segregamento delle classi. Di Dio son opera i re, gli Stati, le
costituzioni; e quando l’uomo presume stabilirli da sè, necessariamente
s’appiglia al peggio, e fa non fabbriche ma ruine. La razza umana
è così perversa, che vuolsi gagliardamente infrenarla. Tra le
costituzioni quella che Dio vuole è la monarchia ereditaria. Necessario
elemento di questa è la nobiltà, e Dio stesso la scevera dalle
altre classi, e discerne le schiatte. Difendersi contro l’arbitrio e
l’ingiustizia, garantirsi un governo legale che promova la felicità de’
sudditi, è ben giusto: ma «il credere a promesse di re è un mettersi
a dormire sull’ale d’un mulino». Chi li reprimerà e correggerà? Le
bajonette, le tribune, le parodie della sovranità popolare? barriere
inefficaci! Elevare la plebe sopra i re è un sovvertire la logica;
il contrappeso del potere dev’essere in alto, non in basso. Il papa
che nel medioevo tutelava i popoli e fulminava i tiranni, deve anche
adesso francheggiare la giustizia e la libertà; a lui si curvino
l’intelligenza e le spade, la libertà e i despoti. Alla corruzione
dello stato morale provveda l’infallibilità della Chiesa, fondata sulla
supremazia del romano pontefice; supremazia estesa anche ai vescovi ed
ai concilj in modo, che nè esso decida senza i vescovi, nè i vescovi
senza di lui.

Con ciò tornava in armonia il sistema papale coll’episcopale, e
bersagliò le dottrine giansenistiche e le gallicane, formando della
Chiesa una monarchia temperata, giacchè il papa è sovrano, ma son
necessarj altri elementi a compirne la potestà; onde, surrogate la pace
e l’armonia all’antagonismo, può con tutte le sue forze combattere
la filosofia irreligiosa e impolitica. La logica il porta fino
all’apoteosi dell’Inquisizione, fin alla sistematica crudeltà; per
le quali teorie lo esecrano coloro stessi, che poi ne’ tempi e nella
necessità trovano giustificazioni al Comitato di salute pubblica che le
avea messe in pratica. E mentendo dissero, e avvezzarono i cialtroni a
ripetere epigrammaticamente, ch’egli santificasse il carnefice perchè
disse che, nelle società frenate soltanto dalla pena, il carnefice è il
gran sacerdote che procura l’espiazione, come le pesti, come la guerra,
come gli animali viventi di distruzione. Perocchè, come la vendetta,
così egli fa riversibili la preghiera e l’espiazione; donde i sacrifizj
antichi, i supplizj, la redenzione divina.

Tutto ciò espose non con teoremi scientifici, ma con discorso
conversevole, e con forza sì traboccante, da lasciare dubbio s’egli sia
un sofista o un profeta: certo fu grande in mezzo a tanti mediocri. La
rivoluzione, il filosofismo non ebbero mai più inesorabile avversario;
e mentre quelli adulavano il secolo e l’uomo pure assassinandolo, egli
lo sbeffeggia per salvarlo; le nubi da quelli accavallate squarcia
colle saette; confuta col recriminare, colpisce coll’esagerare e
coll’opporre all’affermazione affermazioni imperterrite. Quando più
giganteggiava la Rivoluzione francese la conobbe effimera, nè possibile
una grande repubblica, sovrattutto in Francia, perchè non uscita
spontaneamente dalla nazione, dai costumi, dalle opinioni; schernì
coloro che presumeano guidarla, mentre Dio solo la spingeva in modo
d’espiare le colpe della Francia, dei re, della rivoluzione stessa.
A Pietroburgo tutelò sempre i suoi re, e predisse la ruina del loro
persecutore. Allorchè delle sorti italiane si disputava a Parigi, egli
si oppose gagliardo all’ingrandir l’Austria col cedere l’alto Novarese:
— Se ciò si fa, non resta più equilibrio, tutti i principi italiani
essendo vassalli dell’Austria, che presto gli assorbirà. Il re di
Sardegna è il primo minacciato, perchè da gran pezzo l’assoggettamento
dell’Italia non ha nemico più costante di lui: la tempesta gittatasi
sulla penisola, ivi non si fermerà, e dal mezzogiorno scaglierassi sul
settentrione».

E vedendo quel traffico di popoli, — Povera Italia (esclamava), in
qual abisso va a cadere! È la moneta con cui pagheranno altre compre.
Eppure l’unione e separazione forzata delle nazioni non è soltanto un
gran delitto, ma una grande assurdità. Facciasi qualunque sforzo per
non essere condannati all’uffizio di satelliti»[163]. Non stancavasi
d’insistere presso Nesselrode perchè fosse «data soddisfazione allo
spirito italiano»; ma il ministro russo gli rispondeva, questo
spirito italiano essere appunto il peggiore ostacolo a un buon
assetto dell’Italia. Al Savojardo non restava dunque che lamentarsi
all’imperatore Alessandro perchè non si tenesse conto delle nazioni
e dei loro sentimenti, affetti, desiderj; che un segretario sopra
la carta geografica sconnettesse paesi uniti per lingua, caratteri,
abitudini; e gli uomini si contassero e dividessero per testa come gli
armenti.

L’instaurazione del passato egli la voleva piuttosto nelle idee e
compiuta; domandava che la Santa Alleanza annichilasse i fatti della
Rivoluzione; non riconoscesse la compra de’ beni nazionali «latroneccio
il più odioso che abbia deturpato la storia», ma fossero ritolti a
quelli che gli avevan ottenuti a bassissimo prezzo, e già se n’erano
rifatti a josa; non dovendo la compassione riservarsi soltanto a’
ribaldi, nè sol per questi invocare le sante leggi della proprietà.
Altre volte scriveva al suo re: — Io propendo alla libertà di commercio
per una ragione di teoria ed una di pratica; la prima è ch’io non
credo possibile ad una nazione di comperare più che non vende; la
seconda, ch’io non ho mai veduto un Governo mischiarsi direttamente
del commercio dei grani e proibirne la tratta, senza produrre caro
e fame. Lo stesso è di tutte le altre mercatanzie: proibite l’uscita
del denaro, e scarseggerà; se il Governo lascerà fare, si farà sempre
meglio di lui».

Solo a chi giudica gli uomini e le dottrine da ciò che ne cianciano la
piazza e i giornali sapran di strano questi accordi fra i liberali e i
teocratici. Dei quali un altro campione fu Carlo Luigi Haller da Berna,
che da protestante resosi nostro, nella _Restaurazione della scienza
politica_ (1824) combattè accannito il filosofismo e la rivoluzione,
condannando i pubblicisti vantati e i re riformatori, fra cui Maria
Teresa, Giuseppe II, Leopoldo granduca; e traverso ai secoli indagava
con vasta erudizione e arguta logica i semi delle idee liberali,
ripudiando gli acquisti di cui si gloria la moderna civiltà. E poichè
l’eguaglianza politica viene dall’eguaglianza civile, patrocinava la
nobiltà come prodotto della natura, i privilegi come effetto della
naturale giustizia; mentre pareagli tirannia l’uniforme generalità
delle leggi. Dalla natura (egli insegna) nascono gli Stati, ed ella
assegna il comando al potente, al debole l’obbedienza, e porge i mezzi
per far rispettare la legge come per impedire gli abusi degl’imperanti.
Gli Stati primeggiano quanto più poderosi e liberi, e quanto più
indipendente il governante, sia un uomo o un corpo. Il diritto
de’ principi deriva dal diritto di proprietà; nè vi ebbe contratto
sociale, bensì una moltitudine di convenzioni particolari, spontanee,
varie, non per alienare la libertà individuale, ma per conservarla
più pacificamente che si può; onde non deve esservi sovranità e
indipendenza del popolo, ma sovranità di quello che per potenza e
ricchezza è indipendente; non potestà delegata, ma diritto personale
del principe; non mandati e statuti, ma doveri di giustizia e d’amore;
non governo delle cose pubbliche, ma amministrazione de’ proprj affari;
e le leggi non venire dal basso ma dall’alto, siccome in una famiglia,
cui in fatto somiglia lo Stato, se non che non ha un potere superiore.
Ma anche de’ sudditi il diritto è inviolabile; il principe non può
intaccarne la libertà e gli averi, nè essi devono pagare imposte
senza consentirle, non servire in guerra di principe; e quando esso li
tiranneggi, possono non solo emigrare, ma resistere armata mano.

Ancor più di De Maistre era letto il visconte Bonald perchè
meno profondo; il quale la religione faceva politica, uffiziale,
principesca, mentre il Savojardo proclamava l’intima unione della
Chiesa coll’ordine privato e pubblico, con tutto l’insieme del cuore e
dell’ingegno umano, senza riguardo a politica locale o nazionale.

A queste idee non mancarono fautori anche in Italia, e le propugnarono
in iscritto il Cavedoni, Monaldo Leopardi, il principe di Canosa; ma il
vulgo che le dottrine personifica, volle incarnarle in una setta che
intitolò de’ Sanfedisti, e dei Concistoriali, che doveva sostenere i
monarchi e i sacerdoti, come la Carboneria propugnava le costituzioni e
il pensare indipendente. Diceasi diffusa per tutta Italia con diverse
sembianze: e come avviene ne’ partiti, non v’è stranezza che non
se ne sia raccontata, nè ancora il tempo vi portò luce. Credeasene
istitutore esso De Maistre, e affigliati il duca di Modena, il duca
del Genevese, altri principi e prelati, nell’intento di congiungere
costituzionalmente Italia tutta sotto la supremazia del pontefice[164].
E fu allora che prima nacque codesto concetto di Neo-Guelfi, deriso dai
Liberali come stupida resurrezione d’idee quatriduane, ma venticinque
anni più tardi ridesto come unica speranza d’Italia da buoni pensatori
e da caldi oratori, ai quali un tratto parve che gli eventi dessero
ragione.

Delle costituzioni, la più liberale che siasi veduta fu quella che si
diede la Spagna quando respingeva i napoleonici; quella Spagna che
dicono infracidita dal cattolicismo come l’Italia. Ratificava essa
l’antico diritto delle municipalità, a queste affidando la polizia,
l’igiene, la tutela delle persone e delle proprietà, l’educazione e la
carità pubblica, le strade e gli edifizj comunali, il dazio consumo,
il preparare le ordinanze, che sarebbero sottomesse alle assemblee
o cortes dalle deputazioni provinciali. Queste sono una specie di
municipalità superiore, eletta dai consigli di città, con diritto di
proporre le imposte comunali, chiamare l’attenzione superiore sugli
abusi di finanza e sugli intacchi alla costituzione. La sovranità
risiede nel popolo; distinte le tre podestà; il re fin nel sanzionare
le leggi è subordinato alle assemblee, formate di deputati scelti a tre
gradi dagli elettori di parrocchia, di distretto, di provincia; fin ai
soldati rimane il diritto di esaminare lo statuto e la giurisdizione.

Ferdinando VII, recuperando il trono spagnuolo, prometteva conservare
quella costituzione, poi la abolì (1820 marzo); ma l’esercito
sollevatosi lo obbligò a proclamarla. Basta essere vissuto dieci anni
per sapere quanto nelle opinioni e negli avvenimenti convenga ascrivere
all’imitazione: debolezza della natura umana, che alcuni s’ingegnano
di nobilitare col supporre che le circostanze medesime maturino il
medesimo seme contemporaneamente in diverse contrade. Allora dunque
dappertutto scoppiano rivoluzioni militari e costituzionali, nè tardò a
venire la volta dell’Italia.

Ferdinando che già era IV in Napoli e III in Sicilia (1815), e allora
s’intitolò I del regno delle Due Sicilie, rimesso in questo dalle
armi straniere, prometteva un governo stabile, saggio, religioso; il
popolo sarà sovrano, e il principe depositario delle leggi che detterà
la più energica e la più desiderabile delle costituzioni». Oltre
che nazionale, egli non trovavasi legato all’Austria per parentele
o riversibilità, nè per vicinanza; pure strinse alleanza con essa a
reciproca difesa, obbligandosi darle venticinquemila uomini in caso di
guerra, e non introdurre nel governo innovamenti che discordassero dal
sistema adottato dall’Austria nelle sue provincie d’Italia.

In vent’anni di tante rivoluzioni, nell’avvicendarsi di vincitori e
vinti, il paese avea fatto miserabile tesoro di rancori e vendette;
pure Ferdinando non veniva anelando sangue come l’altra volta, ma
aborriva ciò che appartenesse al decennio, fino a non camminare nelle
strade aperte da’ Francesi; considerava come occupazione militare un
regno sì lungo, come ribellione ogni atto di quella; aboliva le cose,
o almeno i nomi. Divise il regno continentale in quindici provincie,
organandone l’amministrazione di provincia, di distretto, di municipio;
l’accademia già Ercolanense poi Reale trasformò in Borbonica, con
tre sezioni di archeologia, di scienze, di belle arti; fece trattati
coi Barbareschi, coll’Inghilterra, la Francia, la Spagna. Nuovi
codici a cura del Tommasi ministro, poco mutarono del francese quanto
al commercio e alla procedura; il civile tornava indissolubile il
matrimonio, e ingagliardiva l’autorità paterna; nel penale si tolsero
la pena del marchio e le confische, ma anche i giurati, facendo giudici
del processo i giudici dell’accusa; s’introdussero i delitti di lesa
maestà divina, e quattro gradazioni nella pena di morte, secondo
che il reo mandasi al patibolo vestito di giallo o di nero, calzato
o scalzo: pure tutti i cittadini restavano sottoposti alle leggi
medesime, alle medesime taglie. Di titoli abbondava la nobiltà, ma
non portavano privilegi; nè degli antichi bracci e seggi sussisteva
più che la memoria; onde il re operava affatto indipendente co’ suoi
ministri. L’esercito fissò in sessantamila uomini sotto all’irlandese
Nugent, generale al servizio dell’Austria: non guardò a spesa nel
fabbricare il tempio votivo di San Francesco di Paola, nè il teatro
di San Carlo, e ventiquattromila ducati l’anno spendeva in limosine e
in arricchir chiese: sistemò gli archivj, e stabilì che delle carte e
diplomi si pubblicasse un catalogo, e sopra le memorie raccolte dalla
giunta diplomatica si tessesse una storia del regno. Oltre il debito
pubblico, pesavano i ventisei milioni di franchi dovuti all’Austria,
e i cinque al principe Eugenio; ma vendendo le proprietà dello Stato e
de’ pubblici stabilimenti, e obbligando questi a ricevere iscrizioni di
rendite sul gran libro, legava l’avvenire di essi alle finanze dello
Stato; e poichè il ministro Medici ebbe cura che puntualissimi si
facessero i pagamenti, rinacque la fiducia.

È noto come, dopo che dalla peste nel XIV secolo fu spopolato un
estesissimo paese di Puglia, i re se l’appropriarono col nome di
Tavoliere, lasciando che, col pagamento d’una _fida_, vi pascolassero
alla libera gli armenti sotto la guardia di pastori, nomadi e quasi
selvaggi, senza legami di casa o di famiglia, e obbedienti a capi
proprj, anzichè al Governo. Tra siffatti nella rivoluzione del 1799
eransi reclutate le bande assassine, poi molte parti se ne diedero a
censo; infine il dominio francese emancipò il Tavoliere, sicchè rendeva
cinquecentomila ducati, distribuito fra piccoli possessori, i quali per
interesse divenivano fautori di quel Governo. Ferdinando lo restituì
a possesso comune, talchè una quantità di spropriati ne concepirono
malevolenza.

Il re, quando stava ricoverato in Sicilia, domandò forti sussidj a
quel Parlamento per recuperare la terraferma; e perchè i baroni glieli
stiticarono, egli, loro malgrado, vendette i beni comunali, e gravò di
tasse i contratti. Il Parlamento protestò, e il re incarcerò i capi;
ma gl’Inglesi l’obbligarono a dare una costituzione (1812), secondo
la quale, la rappresentanza nazionale divideasi fra due Camere, che
poteano pregare il re a proporre una legge, cui esse non aveano che a
discutere; il re, inviolabile, potea sciogliere il Parlamento, i cui
atti non valeano senza la sanzione di lui; responsali i ministri, piena
libertà civile e di stampa e d’opinioni, inamovibili i giudici. La
legge elettorale favoriva ai minuti possidenti; dalla rappresentanza
restavano esclusi i funzionarj pubblici, eccetto i ministri; largo
l’ordinamento comunale.

Rinforzatosi nel 1815, il re s’invoglia a recuperare intera la potestà
e uniformar l’isola al continente. Gl’Inglesi più non aveano interesse
a favorirvi la libertà; all’Austria sgradiva quest’esempio di Governo
rappresentativo, sicchè la costituzione siciliana fu abolita (1818
agosto), allegando che il re non l’avesse giurata. Ed era così; ma avea
spedito a giurarla in suo nome il figlio duca di Calabria, vicario del
regno. Istanze e proteste non valsero; carceri ed esiglj punirono i
reluttanti[165]; solo rimase scritto che le cariche non si darebbero
che a Siciliani, le cause dei Siciliani si deciderebbero nell’isola,
le taglie sarebbero fissate in 1,847,687 onze, non potendo accrescerle
_senza il consenso del Parlamento_.

Questo dunque sussisteva di diritto; e Guglielmo A’ Court, succeduto
al Bentinck come ambasciatore d’Inghilterra, congratulavasi d’avere
con quella parola assicurato la rappresentanza siciliana; Castlereagh
felicitava il re d’aver sì bene composte le cose: ma erano parole,
senza modo di darvi sostanza. L’amministrazione della Sicilia fu
uniformata a quella di qua del Faro, dividendola non più in tre, ma in
sette valli, di cui erano capi Palermo, Messina, Catania, Girgenti,
Siracusa, Trapani, Caltanisetta; abolita la feudalità, accomunatovi
il codice napoletano. Era certo un gran miglioramento, ma guasto per
avventura dai modi: cessato lo spendio ingente dell’esercito inglese
e quel della nobiltà che voleva emulare la Corte, il denaro parve
scomparire: se alcuni signori andarono a brigar favori a Napoli, altri
sequestraronsi in dispettosa astinenza: e l’invidia contro la nuova
capitale prorompea in quell’ultimo ristoro del parlar male sempre e di
tutto, e d’ogni danno recar la colpa alla tolta indipendenza.

Nè i sudditi di Terraferma s’adagiavano alla ripristinata condizione,
i servi di Murat guardavano con disprezzo i servi di Ferdinando, e
questi quelli con isdegno; a molti furono ritolti i doni di Gioachino;
si ridestarono liti già risolte, si concessero favori contro la
legge, mentre contro i patti di Casa Lanza si degradò qualche
uffiziale: si esacerbavano nell’esercito le gelosie fra i così detti
Siciliani, improvvidamente distinti con medaglia, e i Muratisti,
ne’ quali sopravviveano l’entusiasrno della gloria e il sentimento
dell’indipendenza italiana; la coscrizione rinnovata aumentò i
briganti, mal frenati da un rigore insolito fin nel decennio[166].

Crescevano dunque i malcontenti e le trame, e la Carboneria nel 1819
contava seicenquarantaduemila adepti: anche persone d’alta levatura,
sgomentate dall’impotenza del Governo o desiderose di prepararsi
una nicchia nelle novità che ormai vedeano sovrastare, le diedero
il proprio nome, aggiungendo la forza morale a quella del numero;
e sperando che con istituzioni fisse si sottrarrebbe il paese alle
rivoluzioni, che in breve tempo l’aveano sovvertito sì spesso, e due
volte sottoposto a giogo straniero. Il re, ascoltando solo ad uomini
del passato, non volle condiscendere in nulla; e il principe di Canosa,
ministro di polizia, credette bell’artifizio l’opporre ai Carbonari
la società segreta de’ Calderari, cospiranti coi famosi Sanfedisti
a sostenere il potere dispotico: ma poichè i suoi eccedeano fino ad
assassinj, egli fu congedato con lauti doni, e i Carbonari parvero
tutori della vita e della proprietà[167].

Allora cominciarono nel Regno (1820) le persecuzioni contro di questi,
ma le prigioni si tramutavano in vendite; ben presto ai moti di Spagna
si scuote anche il nostro paese, parendo che la somiglianza d’indole
e l’antica comunanza di dominio chiedessero conformità d’innovazioni:
gli applausi dati da tutta Europa a Riego e Quiroga, generali voltatisi
contro il proprio re, lentano la disciplina degli eserciti, e fanno
parer facile una rivoluzione militare. Era la prima volta che si
vedesse un esercito insorgere per la libertà, e l’assolutismo parve
ferito nel cuore dacchè contro lui si torceva l’unico suo sostegno:
i ministri che fin allora aveano inneggiata la felicità de’ sudditi e
riso della setta, allora ne ravvisano l’importanza (1820); diffidano
de’ buoni soldati, e col sospetto gli esacerbano; conoscono inetti
quelli in cui confidano, ma non osano nè secondare i desiderj, nè
comprimerli chiamando i Tedeschi. Fra tali esitanze la setta procede;
a Nola e ad Avellino (2 luglio), istigati dal tenente Morelli e dal
prete Minichini, alcuni soldati e Carbonari gridano, _Viva Dio, il re
e la costituzione_, e senza violenze nè sperpero, ma tra gl’inni e i
bicchieri e le danze tutto l’esercito diserta dalla bandiera regia; e
il re, «vedendo il voto generale, di piena sua volontà promette dare
la costituzione fra otto giorni, e intanto nomina vicario il duca di
Calabria» (7 luglio).

Come la Spagna avea preferito quella del 1812, solo perchè riconosciuta
dalle Potenze, così ai Napoletani sarebbe stata a scegliere la
carta siciliana, già sanzionata dall’Inghilterra, e che avrebbe
prevenuto ogni dissenso coll’isola sorella: ma ai liberali parve
assurdo un Parlamento fondato sull’aristocrazia, e per seguire la
moda proclamarono la costituzione di Spagna, sebbene non se n’avesse
tampoco una copia per ristamparla. Allora applausi e feste alla follia;
Guglielmo Pepe, gridato generale dell’esercito insorto, entra in città
trionfante coi colori carbonari, rosso, nero, turchino, seguito da
migliaja di settarj stranissimamente divisati e condotti dal Minichini;
sfilato sotto il palazzo, si presenta al re, che gli dice: — Hai reso
un gran servigio alla nazione e a me; adopra l’autorità suprema per
compiere l’opera santa dell’unione del re col popolo: avrei dato la
costituzione anche prima, se l’avessi creduta utile e desiderata;
ringrazio Dio d’avere serbato alla mia vecchiezza di fare un tanto bene
al mio regno». Con solennità cittadina e religiosa Ferdinando giura la
costituzione (13 lugl.), e dopo la formola scritta aggiunge spontaneo:
— Dio onnipotente, il cui occhio legge ne’ cuori e nell’avvenire, se
presto questo giuramento di mala fede, o se debbo violarlo, lanciate
sulla mia testa i fulmini della vostra vendetta».

Fare una rivoluzione in Italia è tanto facile, quanto difficile il
sistemarla. Subito irrompono i mali umori; alcuni non intendono la
libertà che alla giacobina; altri vogliano scomporre il paese in
una federazione di provincie; chi domanda la legge agraria quale
gliel’aveano spiegata in collegio; i soldati muratiani pretendono i
primi onori; quelli del campo di Monforte non soffrono essere posposti;
tutti voleano essere Carbonari quando ciò portava sicurezza e gradi,
e settantacinque vendite si eressero nella sola capitale, di cui una
contava ventottomila cugini; tutti i militari v’erano ascritti, con
gradi che pretendeano conservare nell’esercito; molta gente onesta per
far quello che faceano tutti; molte donne col nome di giardiniere;
e accusando, investigando, promettendo impacciavano il Governo, che
non poteva abbattere le scale per le quali era montato. Così tutto
scomponeasi, nulla s’instaurava; disordinavasi e Governo ed esercito e
pubblica sicurezza, e si diffondeano reciproci sospetti.

In Sicilia i Carbonari poche fila aveano, per quanto il pisano
improvvisatore Sestini vi fosse andato ad annodarne; odiavasi tutto
ciò che fosse napoletano, talchè nell’insurrezione di Napoli non
si vide che un’occasione d’emanciparsi, e alle solennità della
santa Rosalia in Palermo (15 luglio) si proclamava Dio, il re,
costituzione e indipendenza da Napoli, ai tre colori unendo il giallo
dell’isola; intanto si abbattono gli uffizj del bollo, del catasto,
del registro, delle ipoteche, di tutto ciò ch’era venuto da Napoli;
si saccheggia, s’insulta; ai soldati si tolgono i forti e le armi, e
trenta sono uccisi, quattrocento feriti, sessantasei cittadini feriti
e cinquantatre morti, fra cui il principe Catolica capo della guardia
civica, poi i principi di Paternò e d’Aci, non meno del Tortorici
console de’ pescatori; liberati prigionieri e galeotti; l’anarchia
gavazza fra quella mescolanza di scarcerati, contadini, marinaj,
_bonache_ come là dicono i mascalzoni; gl’impiegati fuggono, ogni
onest’uomo si trincera in casa e nell’arcivescovado[168], e la giunta
provvisoria, in balìa della ciurma armata, delle vendite, de’ consoli
d’arte, di frate Vaglica, non trovavasi nè denaro nè forza nè senno.
Intanto i nobili vogliono la costituzione siciliana; i settarj la
napolitana; onde ai valli di Palermo e Girgenti s’oppongono in arme
gli altri e la memore Siracusa e la ricca Messina, e ne nasce guerra
non solo civile ma domestica, come ogniqualvolta la piazza equivale
al palazzo; dappertutto capi violenti raccolgono bande feroci;
Caltanisetta, assalita dai Palermitani e con molto sangue presa e
mandata a macello e vituperio, sgomenta le piccole città, inviperisce
le maggiori; tutta l’isola è infetta di sangue; i Palermitani mandano
a Napoli a chiedere l’indipendenza e re distinto, e avuto il niego
gridano _Indipendenza o morte_, e aggiungono ai quattro colori un
nastro con quelle parole e col teschio.

Napoli, uditi quegli orrori colle esagerazioni dei fuggiaschi, grida
morte ai Siciliani; si vuole cacciarli d’impiego, tenere ostaggi quanti
se ne colgono; a un atto non men giuridico che quello de’ Napoletani,
si dà il titolo di ribellione, e mandasi un esercito col generale
Florestano Pepe per mettere l’isola all’obbedienza. Come al solito,
fu attribuita alla Corte la ribellione della Sicilia; averla fomentata
per contraffare alla napoletana, ora volerla rendere irreconciliabile
colle armi. I rivoltosi, da Pepe ridotti in Palermo, dove pure fra loro
si trucidavano, patteggiano (1820 3 8bre), assicurati d’un Parlamento
distinto: ma il Governo napoletano dichiara viltà questo cedere a
fronte di poca bordaglia colpevole, e concedere a città vinta quanto
avea chiesto ancora intatta: Messina se ne duole, i Napoletani ne
urlano, il Parlamento cassa la capitolazione pur lodando Pepe, il quale
le lodi e la decorazione repudiò, e viene spedito Pietro Colletta a
frenar col rigore, cioè ad esacerbare.

Fra tali scogli navigava il Governo costituzionale mentre si facevano
le elezioni del Parlamento[169], aprendo il quale (20 8bre) nella
chiesa dello Spirito Santo, il re dichiara «considerar la nazione
come una famiglia, di cui conosceva i bisogni e desiderava soddisfare
i voti». Ma il Parlamento, nel bisogno di secondare gl’impulsi
esterni, spinge a novità incondite, disputa se fosse costituto o
costituente, muta i nomi delle provincie coi classici, e trovasi eliso
dall’assemblea generale della Carboneria, composta dei deputati delle
vendite provinciali, più gagliarda del Governo stesso, il quale dovè
più volte invocarla per levar milizie, rivocare congedati, arrestare
disertori, esigere tributi. Terzo potere sorgeva la guardia nazionale,
massime da che vi fu posto a capo Guglielmo Pepe.

In dicerie e in decasillabi applaudivasi a una rivoluzione senza sangue
nè sturbi, ove concordi popolo e re, ove questo non fece che estendere
la propria famiglia: ma la setta vincitrice impaccia, decreta infamia
o lodi, molesta per alti passati e per opinioni, unica libertà concede
il pensare e parlare com’essa, unica legge il proprio senno. Quei
tanti che sparnazzano coraggio finchè il pericolo è remoto, vantavano
formato un terribile esercito, disposte fortezze insuperabili, coraggio
spartano: ma realmente gli uffiziali, esposti agli attacchi delle
congreghe settarie, indignavansi e rompeano la spada: Pasquale Borelli,
direttore della Polizia, non osando reprimere, fingeva secondare; e
intanto spargeva terrore di congiure e d’assassinj per ottenere lode
d’averli scoperti e prevenuti: e i trionfi e le baruffe distraevano
dall’avvisare al crescente pericolo[170].

Ciascun ministro presentò al Parlamento un ragguaglio, donde
raccogliamo la statistica di quel tempo. La popolazione sommava a
5,034,000; nati in otto anni 1,872,000, di cui soli 280,000 vaccinati;
15,000 i trovatelli, di cui nove decimi perivano nei primi giorni
dell’esposizione. A’ luoghi pii nelle provincie soccorreva l’assegno
annuo di 1,080,000 ducati; 438,000 ai ricoveri di malati e poveri della
città, fra cui 5100 erano mantenuti nell’Albergo dei poveri: 560,000
ducati destinavansi all’istruzione pubblica, 80,000 al teatro di San
Carlo, ove una coppia di ballerini costò 14,000 ducati. L’introito
dell’erario valutavasi 19,580,000 ducati, in cui la Sicilia figurava
per soli 2,190,000 assegnatile come quarta parte delle spese di
diplomazia, guerra, marina; chè pel resto teneva conti distinti. Il
debito, consolidato nel 1815 in annui ducati 940,000, or ascendeva a
1,420,000; il debito vitalizio a 1,382,000. Dal 1683 in poi la zecca
avea coniato 25,000,000 di ducati in oro, 69,741,000 in argento,
320,000 persone traevano sussistenza direttamente dal mare, sul quale
era necessario tenere una forza per respingere i Barbareschi, che in
altri tempi aveano ridotte deserte le coste, e in conseguenza ingorgati
i fiumi e peggiorata l’aria. Si aveano di qua dal Faro 3127 bastimenti
da traffico, 1047 barche da pesca; di là 438, con 1431 legni da
traffico; e il crescente commercio marittimo porterebbe a decuplicarli.
Di 242 navi da guerra non erano atte al servizio che un vascello, due
fregate, una corvetta, tre pacchetti con settantatre legni minori.
L’esercito di 40,000 uomini sentivasi la necessità di crescerlo e
rifornirlo.

Perocchè i liberali di tutta Europa fissavano gli occhi sull’Italia,
bollente di speranze; chi offre denari, chi la persona e soldati; si
fanno prestiti al Governo nuovo; s’insegna a difendersi, a fare la
guerra di bande, se mai l’Austria ponesse ad effetto le cupe minaccie
che le poteano tornare in capo: ma da nessuna potenza venivano
conforti[171], anzi si udì che il principe di Cariati, ambasciatore
costituzionale, non fu voluto ricevere alla Corte di Vienna, la quale
all’Europa dichiarò voler intervenire armata mano, ed assicurare ai
principi italiani l’integrità e indipendenza de’ loro Stati. Ferdinando
trasmette alle Corti una nota del suo operato (1 xbre); «libero nel suo
palazzo, in mezzo al consiglio composto de’ suoi antichi ministri, aver
determinato di soddisfare al voto generale de’ suoi popoli: vorrebbero
i gabinetti mettere in problema se i troni siano meglio garantiti
dall’arbitrio o dal sistema costituzionale? All’articolo segreto della
convenzione coll’Austria nel tempo della restaurazione egli s’attenne
fin qua: ora egli re e la nazione erano risoluti a proteggere fino
all’estremo l’indipendenza del regno e la costituzione»[172].

L’alleanza perpetua delle quattro Potenze costituiva una specie
d’autorità suprema per gli affari internazionali d’Europa, attenta che
nessun cambiamento degli Stati attenuasse le istituzioni monarchiche.
Or dunque che novità erano minacciate in tutte le tre penisole
meridionali, i principi alleati si raccolsero a Troppau. Alessandro
czar, che erasi sempre mostrato propenso alla libertà, che in nome di
essa guerreggiò nel 1814, che nella pace avversò ai calcoli freddi
ed egoistici, che fece dare la Carta alla Francia, ispirato anche
dal ministro Capodistria, trovava che i Napoletani erano nel loro
diritto, e repugnava dal violentarli. Ma alla politica di sentimento
ne opposero una positiva Metternich ministro dell’Austria, e Francesco
IV di Modena[173], i quali, mostrandogli in pericolo la pace d’Europa,
e sgomentandolo delle rivoluzioni militari, lo resero ostile alle
costituzioni, e persuaso d’essere dalla Provvidenza chiamato a
difendere la civiltà dall’anarchia, come già l’avea salvata dal
despotismo.

A quel congresso pertanto si stabilì il diritto d’intervenire
armati negli affari interni di qualunque paese, ogni rivoluzione
considerando come attentato contro i Governi legittimi. Metternich
dichiarò all’ambasciatore napoletano, unico scampo pel Regno sarebbe
il rimettere lo stato antico; gli uomini meglio pensanti andassero al
re, e lo supplicassero d’annullare quanto avea fatto; se occorresse,
centomila Austriaci li sosterrebbero nel comprimere la rivolta.
Russia e Prussia secondano quel dire: ma l’Inghilterra vedea d’occhio
geloso l’intervenimento austriaco in un paese che tanto le fa gola;
Francia sentiva spegnersi l’influenza che la parentela le dava, onde
s’interpose, promettendo che gli Alleati soffrirebbero la rivoluzione,
se, invece della spagnuola, si accettasse la costituzione francese. I
Napoletani persistettero per la Camera unica, la deputazione permanente
e la sanzione forzata del re: ma avessero anche ceduto, la loro sorte
era decisa, in nulla volendo prescindere i sovrani del Nord[174]. Da
questi invitato (7 xbre), Ferdinando chiese al Parlamento di andare
per «far gradire anche alle Potenze estere le modificazioni alla
costituzione, che senza detrarre ai diritti della nazione, rimuovessero
ogni ragione di guerra». I Carbonari proruppero in tutto il regno
per impedire quest’andata, esclamando contro il re che fin allora
aveano glorificato; alle proposizioni non si rispondea se non, _La
costituzione di Spagna o morte_; d’ogni parte venivano armi, e d’armi
si muniva la reggia. Questa è opportunissimamente situata sul mare:
in rada stavano la flotta napoletana e legni francesi e inglesi per
impedire ogni violenza, sicchè il re trovavasi pienamente arbitro della
sua volontà: e i giuramenti che, con espansione di sincerità, egli
ripetè alla costituzione, e di volere, se non potesse altrimenti, venir
a sostenerla in armi a capo del suo popolo, gli ottennero di partire
fra benedizioni e speranze, lasciando vicario il figliuolo (14 xbre),
al quale scriveva in sensi di padre più che di re.

Trovava egli il congresso trasferito a Lubiana, dove erano stati
invitati i ministri degli Stati italiani per discutere sulle
pretensioni dei popoli. Ogni concessione si sapeva «diverrebbe pretesto
a domandare innovazioni, e ogni esempio un motivo d’agitazione
negli spiriti»[175]; una novità introdotta in un paese sarebbesi
desiderata in tutti, poi voluta: onde parve più spediente il negar
tutto; escludere ogni partecipazione del popolo al governo, e ogni
confederazione di Stati italiani, che seminerebbe gelosie fra essi;
nessun principe d’Italia innovi le forme di governo senz’avvertirne
gli altri acciocchè provvedano alla loro sicurezza; i turbolenti sieno
deportati in America; intanto si assalga Napoli senza aspettare i
centomila Russi, che muoveano un’altra volta dal Nord per rassettare il
freno all’Italia[176].

Castlereagh, ministro inglese, non vuole s’intervenga a nome di tutti
gli Alleati; però lascia libera azione all’Austria[177]. La quale,
malgrado l’unico dissenso di monsignor Spada inviato pontifizio,
annunzia che, d’accordo colla Russia e Prussia, manderà un esercito di
50 mila uomini capitanati dal generale Frimont ad appoggiare il voto
de’ buoni Napoletani, qual era il ristabilimento dell’ordine primitivo;
e se trovasse ostacolo, poco la Russia tarderebbe. Re Ferdinando,
cambiato tenore, scrive minaccie eguali (1821 9 febb.); volere svellere
un Governo imposto con mezzi criminosi, dare stabili istituzioni al
regno, ma quali a lui pajano e piacciano; e rimesso nella pienezza de’
suoi diritti, fonderà per l’avvenire la forza e stabilità del proprio
Governo, conformemente agl’interessi de’ due popoli uniti sotto il suo
scettro.

Il Parlamento ripudia quell’atto, come di re non libero, e accetta la
sfida di guerra con quel fragore che sembra coraggio ed è rispetto
umano; armansi fino i fratelli e amici del re; i veterani tornano
volenterosi alle bandiere, che ricordavano recenti vittorie; i giovani
vi sono spinti dalle mogli, dalle madri, dall’esempio; trentaduemila
vecchi e quarantaduemila soldati nuovi sono in armi, si restaurano le
fortezze, preparansi bande a guerra paesana, difendesi il mare; eppur
si vieta agli armatori del pari che all’esercito d’uscire dai confini
per non parere aggressori. Se poco era mancato perchè Murat riuscisse
nella guerra offensiva, quanto più facilmente basteranno ora alla
difensiva?

Ma l’esercito costituzionale era nuovo, e scarso di disciplina come
avviene nelle rivoluzioni; insufficienti l’armi e i viveri; impacciate
le operazioni dal rispetto al confine forestiero, e dalla discrepanza
dei due generali Carascosa e Guglielmo Pepe. Il primo mena un corpo
sulla strada di Roma fra Gaeta e gli Appennini, donde più probabilmente
aspettavansi gli Austriaci; ma accortisi quanto le parole distassero
dalla realtà, consiglia di patteggiare cogli Alleati. Pepe, con
disordinate e sprovvedute cerne ch’egli supponeva eroi, munisce gli
Abruzzi, per dove appunto si accostano i nemici, secondati dalla flotta
dell’Adriatico, e dietro a loro Ferdinando, ingiungendo ai sudditi
(27 febb.) d’accogliere gli Austriaci come amici. O per baldanza di
far parlare di sè almeno un giorno, o spintovi dai sellarj di cui
era stromento, Pepe, quantunque tenesse ordine di limitarsi sulla
difensiva, e senz’avere nè concertato con Carascosa, nè preparato i
rifugi da una sconfitta, fa una punta sopra Rieti, sperandosi secondato
da insorgenti Papalini: ma un corpo di cavalleria austriaca accorrendo
gli rapisce la sua posizione; quando vuole riprenderla è battuto (6
marzo), e i Tedeschi occupano le gole di Antrodoco e Aquila, porte del
regno.

È insulto gratuito il trattare da vili le truppe napoletane. Non aveano
coraggiosamente combattuto in terra e sul mare a Tolone e in Lombardia
ne’ primordj della rivoluzione? se nel 1798 furono sbaragliate, la
colpa ricade sul generale Mack, straniero, presuntuoso e troppo fidente
in reclute, malgrado gli ammonimenti di Colli e di Parisi. Ritiratosi
in fuga l’esercito, cedute le fortezze, il popolo, i lazzaroni teneano
testa a Championnet, se i loro capi non gli avessero quietati.
L’assedio di Gaeta e di Civitella del Tronto nel 1806, i briganti
delle Calabrie, i tentativi realisti della Sicilia fecero costar caro
ai Francesi l’acquisto del Reame; uniti poi ad essi, i Napoletani
combatterono con buona sentita in Ispagna e in Russia. Perchè sarebbero
stati vili soltanto all’Antrodoco? Ben vuolsi avvertire che sempre
mutabili governi aveano ad ogni momento introdotto cangiamenti di
disciplina e di tattica, sicchè l’esercito, stato alla spagnuola fino
al 1780, barcollò poi fra la tattica prussiana e la francese; tornò
francese sotto Murat; pigliò dell’inglese dopo unitovi il siciliano,
sotto lo straniero Nugent; tirocinio continuo che togliea vigore, oltre
che la gelosia de’ realisti aveva rimossi molti uffiziali muratiani.

Qui poi erasi creduto che una rivoluzione tutta interna ed unanime
non abbisognerebbe d’armi; come il vanto più bello cantavasi il non
essere costata una stilla di sangue[178]; col restare inermi voleasi e
mostrar fidanza nella propria causa, e togliere ad altri il pretesto
d’intervenire col togliere la paura che s’invadesse il paese altrui,
perciò ricusando, non solo di eccitare i vicini Stati, ma neppur
d’accettare Benevento e Pontecorvo, insorte contro il dominio papale.
Quindi il precipitoso armarsi dopo che il pericolo si manifestò, gli
scarsi provvedimenti, le rivalità fra i due capitani, la persuasione
dell’inettitudine della proclamata costituzione e dell’inutilità del
resistere, comunicatasi dalla moltitudine all’esercito, l’inesperienza
d’un Governo improvvisato, a fronte d’uno che procedea con fine
determinato e colle spalle munite, bastano a spiegare le rotte, senza
ricorrere al solito macchinismo de’ libellisti, tradimento e viltà,
apposti anche a nomi onorevoli.

Quel popolo vivo, chiassoso, scarso di bisogni, lieto di starsi
contemplando lo splendido cielo e il mare ondeggiante, e che considera
libertà il non far nulla, come avrebbe inteso queste metafisiche
liberali, che cominciavano con una menzogna, e sospendeano a mezzo
le conseguenze? Poi tali scosse di popoli traggono sempre alla
superficie la feccia, e questa è la più attuosa; oltre coloro che
del nome di libertà fansi un talismano con cui guadagnare e dominare.
Nella breve durata, il Parlamento avea mostrato facondissimi oratori,
principalmente Poerio, Borelli, Galdi, e qualche pensatore, come
Dragonetti e Niccolini: valenti ministri parvero Tommasi e Ricciardi:
proposizioni savie non erano mancate: non si sciupò il denaro pubblico,
e più d’uno del governo dovette andarsene pedone, e ricevere le razioni
dell’Austria per arrivare ai luoghi ove questa li relegava.

Il Parlamento in agonia dirigesi al vecchio re, supplicandolo
«comparire in mezzo al suo popolo, e svelare le sue intenzioni paterne
senza intervenzione di stranieri, acciocchè le patrie leggi non
rimangano tinte dal sangue de’ nemici o de’ fratelli»; ma gl’invasori
non si arrestano, ed entrano in Napoli (24 marzo); il Parlamento,
per l’eloquente voce del Poerio, protesta avanti a Dio e agli uomini
per l’indipendenza nazionale e del trono, e contro la violazione del
diritto delle genti, e si scioglie.

Pari sorte corse la Sicilia. Soli i Messinesi risolsero sostenersi e
il generale Rossarol che comandava la guarnigione, prendea parte con
loro (28 marzo); ma non secondato dalle altre città, egli andossene
a combattere in Ispagna e morire in Grecia; e Messina cedette.
L’occupazione austriaca costò trecencinquanta milioni di franchi[179];
un milione fu regalato al generale austriaco Frimont col titolo di
principe d’Antrodoco; e con enormi prestiti bisognò coprire le enormi
spese.

Allora cominciansi i processi; e ad una commissione speciale sottoposti
quarantatre, principali nel movimento di Monforte; cioè in un fatto
innegabile, ma sancito dalla posteriore adesione del re e della
nazione, dopo molti mesi si condannano trenta a morte, tredici ai
ferri. Morelli e Silvati, presi a Ragusi nel fuggire e consegnati,
sono uccisi; agli altri grazia; condannati molti in Sicilia a cagione
degli assassinj; poi dall’amnistia eccettuati alcuni capi profughi
come Pepe, Carascosa, Russo, Rossarol, Concili, Capecelatro, il prete
Minichini; moltissimi andarono esuli. L’esercito fu sciolto, molti
uffiziali degradati, altri chiusi nelle fortezze austriache; e il re
soldò diecimila Svizzeri, con laute convenzioni e con diritto di codice
loro proprio. Il pensiero fu messo in quarantena mediante un gravoso
dazio sopra le stampe forestiere, dal che fu rovinato il commercio de’
libri, colà fiorentissimo. Canosa, tornato ministro della Polizia,
l’esercita inesorabile; pubblicamente applica la frusta per mezzo
alla città; empie le prigioni, moltiplica le spie; molti unisconsi in
bande, consueto postumo delle rivoluzioni; lo stiletto risponde spesso
alle detenzioni e alle condanne; e l’anno corre sanguinoso, quant’era
stata incruenta la rivoluzione. Ferdinando stabilì che Sicilia e il
Napoletano, sotto un solo re, si reggessero distintamente, con imposte,
giustizia, finanze, impieghi proprj; le leggi e i decreti fossero
esaminati da consulte separate in Napoli e Palermo.

La rivoluzione di Napoli non sarebbe caduta sì di corto se le
fosse ita di conserva quella di Piemonte. Colla caduta dell’impero
francese ricuperato l’indipendenza, il nuovo re dichiarava abolita la
coscrizione e la tassa sulle successioni; Torino da capo dipartimento
tornava capitale d’un regno di quattro milioni e mezzo d’abitanti: qual
meraviglia se, quantunque ricevesse il regno da soldati austriaci,
la Liguria da inglesi, fu accolto con tripudio il re[180] quando da
Cagliari passò all’antica reggia, in vestire e contegno modesto che
facea contrasto collo sfarzo del Borghese? «Non v’è cuore che non serbi
memoria soave del 20 maggio 1814: quel popolo s’accalcava dietro al
suo principe, la gioventù avida di contemplarne le sembianze, i vecchi
servidori e soldati di rivederlo; grida di gioja, spontaneo contento
dal volto di ciascuno; nobili, persone medie, popolani, contadini,
tutti legava un sol pensiero, a tutti sorrideano le stesse speranze,
non più divisioni, non triste memorie; il Piemonte doveva essere una
sola famiglia, e Vittorio Emanuele il padre adorato». Queste parole
d’un caporivoluzione[181] possono indicare che i Piemontesi erano
ancora realisti, come quando l’Alfieri si lamentava che non s’udisse a
Torino parlar d’altro che del re.

Beati i principi che sanno profittare di queste disposizioni! Vittorio
che non avea patteggiato col forte, nè s’era avvilito a’ suoi piedi
come i gran re, potea meglio di qualunque altro operare il bene: ma
si conservò re patriarcale, persuaso che il regnante è tutto, ed ogni
novità un male, e che i popoli devono credere altrettanto; ingannato
dai soliti camaleonti, che si misero vecchie decorazioni, e calzoni
corti e code, non seppe riconoscere che alcune ruine non si devono
più riparare. Non punì; stracciò una lista sportagli di Framassoni
e Giacobini: ma ostinandosi a ripristinare il passato, anche dopo
cessate e la fiducia reciproca e l’economia d’una volta, abolì tutte le
ordinanze emanate dai Francesi; ripristinò quanto essi aveano disfatto,
i conventi, la nobiltà, le banalità, le commende, i fidecommessi,
le primogeniture, i fôri privilegiati, gli uffizj di speziale e di
causidico, le sportule de’ giudici, l’interdizione de’ Protestanti,
i distintivi degli Ebrei, le procedure secrete colla tortura e le
tanaglie e lo squartare e l’arrotare. L’editto 21 maggio 1814, che
ripristinava le antiche Costituzioni del 1770, turbava persone e
sostanze; cassati fino i grossi affitti che s’estendessero oltre
il 14; sbanditi i Francesi che qui aveano preso stanza dopo il 96.
Coll’ajuto del conte Cerutti e dell’almanacco 1793 rimettea persone e
cose com’erano avanti la rivoluzione. Fin nell’esercito si richiamarono
alle bandiere i coscritti del 1800, e poichè erano morti o invalidi,
si supplì coll’ingaggio; poi si dovette tornare alla coscrizione,
pur conservando gli antichi pregiudizj, escludendo l’esperienza di
chi conoscea la tattica nuova sol perchè avea servito coi Francesi, e
proibendo di portarne le decorazioni meritate, mentre si davano i gradi
ai cadetti delle famiglie patrizie. Ma a quel suo ritornello d’aver
dormito quindici anni, Potemkin segretario dell’ambasciatore russo,
rispose: — Fortuna che non dormisse anche l’imperatore mio padrone,
altrimenti vostra maestà non si sarebbe svegliata sul trono».

Il non aver servito a Napoleone, che spesso era indizio d’incapacità,
diveniva merito ad impieghi, dai quali escludeansi i meglio abili,
perchè giacobini o framassoni: buoni professori dell’Università furono
cassati, fra cui l’abate Caluso amico d’Alfieri, il giureconsulto
Reineri, il fisico Vassalli Eandi, il botanico Balbis, il chimico
Giobert. Le ipoteche, le riforme amministrative, la regolata gerarchia
di giudizj cessarono: alle provincie s’imposero comandanti militari:
i giudici mal pagati, erano costretti a trarre stipendio legale dalle
sportule dei litiganti, illegale dalle lungagne e dalla corruzione.

Abbatteasi il Governo napoleonico, ma conservavasi l’istituzione più
repugnante ai Governi paterni, la Polizia, esercitata da carabinieri
e da uffizj che decidevano in via economica, cioè fuor delle forme
giuridiche. Il risparmiare, studio supremo de’ Governi antichi,
abbandonavasi per moltiplicare impiegati; conservavansi i dispendiosi
statimaggiori, perchè d’illustri famiglie. In conseguenza bisognò
stabilire le imposizioni alla francese; alle disgrazie naturali di
carestia e tifo, all’invasione di lupi e di masnadieri, si aggiunse
la fama di enormi malversazioni nel liquidare il debito pubblico, e fu
duopo ricorrere a prestiti forzati.

I senati di Torino, Genova, Nizza, Ciamberì aveano diritto d’interinare
gli editti del re, ma si lasciò cader in dissuetudine; di maniera
che al potere assoluto non restava barriera alcuna, e un ministro
potè dire: — Qui vi è soltanto un re che comanda, una nobiltà che
lo circonda, una plebe che lo obbedisce». La legge non era sovrana,
potendo il re con un suo biglietto cancellare o sospendere le sentenze;
e centinaja di lettere regie circoscrissero contratti, ruppero
transazioni, annullarono giudicati, per sottrarre alla ruina la nobiltà
impoverita, a’ cortigiani dar dilazione al pagamento dei debiti,
concedere la rescissione di vendite antiche, obbligare ad accomodamenti
gravosi. Il conte Gattinara, reggente della cancelleria, nel 1818
confessò che da questo turpe traffico egli ricavava non men di duemila
franchi al mese[182]. Avendo il re decretato che la regia autorità
non si mescolerebbe più a transazioni private, gli si fece vergogna
dell’aver messo limiti alla propria onnipotenza, ed egli revocò
l’editto. Maria Teresa, moglie del re, mostravasi dispotica; ed un
intendente che esprimeva d’esser venuto colle autorità della provincia
a inchinarla, essa lo interruppe dicendo — Ove è il re non avvi altra
autorità»; al ministro Valesa che faceale qualche rimostranza sui
milioni che mandava in paese estero, disse: — il ministro non è che un
servitore», ond’egli si dimise.

Di poi si confessò la necessità di migliorare, s’abolì la tortura, si
ricomposero l’Università con cattedra d’economia politica e diritto
pubblico, l’Accademia delle scienze e la Società agraria, e gli studj
sottentrarono alla bravería guerresca: l’istruzione non era sfavorita,
sebben nelle scuole si desse piuttosto l’abitudine dell’assiduità
meccanica e della sommessione irragionata[183]. Plana scandagliava
gli abissi dello spazio col calcolo e coi telescopi: Grassi e Napione
zelavano a disfranciosare il linguaggio: Casalis, Saluzzo, Richeri,
Andrioli poetavano, e meglio la Diodata Saluzzo, mentre di Edoardo
Calvi divulgavansi versi in dialetto rimasti popolari: Alberto Nota
esibiva le sue commedie che pareano belle interpretate da Carlotta
Marchionni.

Ma questo destarsi del pensiero facea viepiù dolere il vederlo
sagrificato all’assolutezza del Governo e alle pretensioni
dell’aristocrazia, che quivi rimaneva qualcosa meglio che un nome,
provenendo da origine feudale, cioè da case che erano state sovrane
quanto quelle di Savoja e d’aspetto militare, separata dal popolo
e sprezzandolo, e che fece sua causa la causa della Casa regnante,
difendendola e ingrandendola col proprio sangue, e perciò sola a
dar uffiziali alle truppe e aver privilegi, che la faceano astiosa a
progressi. Rimanea dunque malvista alla classe media che allora veniva
su, e che se ne vendicava coll’ira e col sarcasmo; neppure riconoscendo
che sempre i re ebbero fra i ministri qualche popolano o di nobiltà
inferiore, che molti nobili primeggiavano per ingegno e virtù, e
che anche ignobili studiosi poteano farsi strada, massime se preti e
penetrati nell’Accademia.

I Gesuiti, reputati l’argine più robusto alle idee rivoluzionarie,
doveano essere aborriti o venerati all’inverso di quelle. Una società
senz’armi, senz’impieghi, senza tampoco una cattedra nell’Università,
non potea avere quella tanta efficacia che si asserisce; se
affollatissimi i suoi collegi: se nelle case de’ grandi erano i bene
accolti, consultati negli affari, interrogati sulle persone da mettere
negl’impieghi, di chi la colpa?

I Piemontesi erano un popolo savio e calmo, sicchè li chiamavano
gl’Inglesi d’Italia; non chiassi, non risse, silenziosi i caffè,
contegnosi i passeggi, la conversazione signorile regolata da
cerimoniale aulico e con impreteribili esclusioni; pochi i delitti;
della morale rispettate almeno le apparenze. Riverenza ben rara in
questi tempi otteneva quella dinastia che non s’era logorata in vizj,
e veniva considerata come tutrice dell’indipendenza della patria, nome
che restringevasi al Piemonte.

Il malcontento fermentava negl’impiegati destituiti, negli antichi
uffiziali, ne’ Buonapartisti, negli aggregati a società segrete,
più nei Genovesi, che careggiando le reminiscenze repubblicane,
trovavansi non uniti, ma sottoposti a un altro popolo eminentemente
realista. Fin quando i nobili Piemontesi esultanti e plaudenti corsero
a Genova incontro ai reduci reali, i Genovesi non si espressero
che col silenzio; molti si ritirarono in campagna, come fecero poi
ogniqualvolta il re vi tornava, e ben pochi s’attaccarono alla fortuna
del nuovo signore. Mentre la nobiltà ribramava l’antica dominazione, le
persone colte stomacavansi d’un assolutismo non palliato dalla gloria;
la plebe rimpiangeva i tempi in cui non pagava nulla; e a guarnir la
città, non tanto contro i forestieri come contro i cittadini, bisognava
tenere più soldati che non ne desse il Genovesato, ed erigere fortezze
minacciose.

Re Vittorio Emanuele, si dicesse pur raggirato dalla moglie, dal
confessore, dal confidente, palesava però intenzioni benevole;
lasciava poc’a poco sottentrare le nuove idee e nuove persone; e
dopo gli odiati Cerutti e Borgarelli, chiamò al ministero il conte
Prospero Balbo, onorato per mente e per liberalità secondo i tempi
e il ceto, che impacciato da tutto l’organamento burocratico, sperò
alle urgenti riforme supplire con palliativi. Secondando la moda,
si diè voce che stava in lavoro una costituzione, e se non veniva
agli effetti, imputavasene l’Austria, la cui vicinanza impacciava
l’indipendenza del regno; l’Austria, potenza preponderante in Italia,
spauracchio universale, su cui i governanti versavano anche le colpe
proprie. Rimedio unico, infallibile a tutti gli abusi acclamavasi la
costituzione: questa al Piemonte attirerebbe l’attenzione e i voti
di chiunque aspira al meglio nazionale, e d’un soffio diroccherebbe
l’Austria, reggentesi solo sul despotismo: gli impazienti raddoppiavano
d’attività nelle combriccole dei Carbonari, degli Adelfi, de’ Maestri
sublimi; e quando scoppiò la rivoluzione di Napoli, più sorrise il
desiderio d’emancipare il Piemonte dalla tutela austriaca, e metterlo a
capo dell’Italia redenta.

Allora le società secrete abbracciarono moltissimi soldati, più
avvocati e professori, e gl’impiegati fin nelle somme magistrature,
e non pochi del clero, e tutti gli studenti; poi propagate nelle
provincie compresero sindaci e parroci, legarono intelligenze colle
lombarde e romagnole. L’antica lealtà savojarda repugnava dalle
congiure; l’onor militare rifuggiva dal calpestare il giuramento di
fedeltà; ma si fece intendere che non trattavasi di ribellarsi al
re, bensì di salvarlo dalla congiura dei preti e dei nobili e dalla
servitù, dell’Austria, che si spargeva volesse obbligare a ricevere
guarnigione tedesca, e concorrere alla spedizione contro di Napoli;
anzi, essa pensasse trarre in un arciduca il Piemonte, a danno di
Carlalberto principe di Savoja Carignano.

Questo giovane rampollo del ramo cadetto reale, educato popolarmente
a Parigi, erasi mescolato d’amicizie, di studj, di godimenti,
d’intelligenze colla gioventù coeva; e poichè de’ quattro fratelli
della Casa regnante nessuno lasciava figliuoli maschi, trovossi
vicino al trono, e fu messo granmastro d’artiglieria. In quest’arma
molti aderivano a’ Carbonari, ed essi gli posero indosso la febbre di
divenire illiberatore d’Italia. Il conte Santorre Santarosa spingeva
a venire ai fatti, mentre sollevata Napoli, incalorite le menti dalla
rivoluzione greca e dalla spagnuola, imbarazzate le Potenze; Francia
commossa parlava di vessillo tricolore, di costituzione del 1791; la
Germania, reciso il nervo austriaco, volea rialzare il liberalismo;
Italia esser matura; leverebbesi come un uomo solo per acquistare la
libertà, l’unità, l’indipendenza. Quando poi gli Austriaci mossero
verso Napoli, certo (diceasi) gli eroi popolari terranno testa
lungamente (1821); i monti sono le barriere della libertà, nè i
briganti furono mai domabili: intanto l’insurrezione in Piemonte si
compirà senza ostacoli, Milano seconderà, Romagna e i piccoli Stati
non tarderanno, e tutta l’Italia superiore si troverà costituita prima
che gl’Imperiali tornino a reprimerla; Francia, se anche non favorisse,
non permetterà mai che l’Austria entri armata in paese che confina con
essa.

Si cominciò al solito dalla stampa clandestina, e girò un reclamo, in
cui pretendeasi strappare al re la benda postagli da’ suoi cortigiani,
rivelandogli esausto l’erario, il denaro stillato dalla fronte del
popolo è prodigato a impinguare le più alte e inutili persone dello
Stato; gli uomini a cui è affidata l’economia pubblica sagrificano
all’egoismo personale gl’interessi della patria. — Maestà, se
invece di cumulare i poteri in una classe sola, aveste chiamato il
consiglio di tutta la nazione, i lumi generali avrebbero riparato a
questi mali, nè voi avreste il rimorso d’aver condotto a rovina lo
Stato. Il vostro Governo avversò sempre la dottrina; l’istruzione
primaria è abbandonata all’ignoranza e all’impotenza dei Comuni;
l’educazione media è tiranneggiata dai Gesuiti; gli studj filosofici
involti nella ruggine monacale; i legali, disordinati per mancanza
di legislazione; l’Università condotta da uomini o inetti o stupidi
o maligni, gl’ingegni migliori vanno a cercare un pane altrove,
o vivono sprezzati. I favoriti hanno il monopolio dei diritti e
dei privilegi, pesando sulla classe industriosa della società. Le
provincie dai governatori delle divisioni sono rette come paese di
nemici. Le amministrazioni civiche e comunali cascano in disordine per
l’indolenza, l’incapacità, la discordia dei capi. La religione, in mano
dei Gesuiti, è strumento d’ambiziose voglie e di tenebrosi raggiri. La
legislazione civile ha l’arbitrio per base, la criminale il carnefice
per sostegno. Uno strano ed informe accozzamento di leggi romane, di
statuti locali, di costituzioni patrie, di editti regj, di sentenze
senatorie, di consuetudini municipali, hanno tolto la bilancia alla
giustizia, e lasciata la strada al despotismo dei tribuni. L’esercito
non ha forza morale, perchè composto di elementi contrarj, di corpi
privilegiati, di brigate varie tra loro di dottrine, di lingua, di
diritti, comandati da capi promossi non per merito ma per favore. Dei
militari una parte è avvilita, perchè si vede preclusa la strada ai
gradi maggiori; tutti indignati ai maneggi del vostro Governo, il quale
medita di trafficare la loro vita col gabinetto d’Austria. No: il nome
de’ soldati piemontesi non si confonderà mai col tedesco; essi sono e
saranno italiani».

L’11 gennajo 1821 alquanti studenti dell’Università comparvero al
teatro d’Angennes con berretti rossi alla greca. Arrestati, in onta del
privilegio che li sottoponeva al magistrato degli studj, furono messi
in fortezza: i condiscepoli irritati si asserragliano nell’Università,
a gran voce domandando la scarcerazione de’ colleghi: il reggimento
Guardie mandato a calmarli trova resistenza, e fa sangue. Tali
manifestazioni sogliono chiamarci primizie di martiri; e ne rimase
una cupa irritazione. Se n’incaloriva la faccenda delle società
secrete; ma quale costituzione adottare? la francese, la spagnuola,
o l’inglese? perocchè sempre si stava all’imitare, anzichè fondarsi
sulle basi storiche e nazionali. Per risolvere si mandano tre deputati
alla vendita suprema di Parigi, alla quale faceano centro i Liberali
di Spagna, i Radicali d’Inghilterra, gli Eterj di Grecia, i nostri
Carbonari; e vien data la preferenza alla costituzione spagnuola,
come scevra d’elementi aristocratici e tutta popolare. Ma il Governo,
istruitone forse dalla Polizia francese, intercettate le lettere
del principe La Cisterna e del marchese Priero, conobbe partecipi
gl’impiegati e i militari, cioè quelli che doveano opporsi, onde non
sapeva o non poteva impedire. Il conte Moffa di Lisio e il marchese
Sanmarzano, uffiziali sospetti, invitati a partire da Torino, ricusano,
e con Giacinto Collegno, ajutante di Carlalberto, con Santarosa,
Morozzo, Ansaldi, Bianco, Baronis, Asinari ed altri uffiziali prendono
concerto di rivoltare l’esercito, sorprendere Alessandria, acclamare
Vittorio re costituzionale dell’alta Italia.

I cospiratori non si erano intesi co’ Napoletani, onde non fu nè
contemporaneo il sollevarsi, nè uniforme l’intento; poi i preparativi
erano impacciati dal tentennare del principe di Carignano fra la
gloria e la fedeltà. Ma la rivolta scoppia fra i militari a Fossano
ed Alessandria (9 marzo), costituendo una _giunta della Federazione
italiana_; fra il restante esercito corre il grido d’Italia, di
francare dall’Austria il re, sicchè possa seguire i moti del suo
cuore italiano, di porre il popolo nell’onesta libertà di manifestare
i proprj voti al trono, come i figli a un padre; e scritto sui
vessilli, _Regno d’Italia, Indipendenza italiana_; e gridando, _Viva
la costituzione, Morte agli Alemanni_, i sollevati s’accostano a
Torino. Quivi gli studenti e alquanti militari col capitano Ferrero
attruppatisi a San Salvario, che allora giaceva un pezzo fuor di città,
gridano la costituzione; altri uccidono il colonnello Raimondi che li
richiama al dovere; ma non secondati dal popolo, con disastrosa marcia
sfilano come vinti verso Alessandria, il cui comandante fu ucciso[184].

Il re non osa ricorrere alla forza, ma espone lealmente la
dichiarazione fatta dai re a Troppau contro ogni novità, mostrando come
ne resterebbe pericolata l’indipendenza; e non volendo nè promettere
quel che non è disposto a mantenere, nè autorizzare atti che agli
stranieri diano pretesto d’invadere il suo paese, depone una corona (13
marzo) ch’egli non potea conservare se non colla guerra civile.

Il Carignano, da lui nominato reggente, esitava a palesare le sue
intenzioni, sicchè schiamazzi, poi armi. Dalla cittadella sorpresa
gl’insorgenti minacciano far fuoco sulla città: molti soldati lasciano
le bandiere, considerandosi come sciolti dal giuramento dato al re;
l’anarchia sottentra; quando il Carignano proclama la costituzione
spagnuola, gli applausi vanno al cielo, e al nome di Carlalberto si
accoppia quello di re d’Italia.

In Lombardia avea preso piede la setta della Federazione italiana, e
da un pezzo tramava nelle sale del marchese Gattinara di Breme[185] e
del conte Federico Confalonieri, mascherata sotto il velo d’imprese
benefiche o progressive, come una distilleria d’aceto a Lezzeno, un
battello a vapore sul lago di Pusiano e sul Po, l’illuminazione a
gas, il mutuo insegnamento, un bazar, il giornale del _Conciliatore_,
apostolo del romanticismo. L’Austria, avutone fumo, arrestò Silvio
Pellico, giovane saluzzese educatore in casa Porro, la cui _Francesca
da Rimini_ avea fatto sperare all’Italia un secondo Alfieri. Allo
scoppiar della rivoluzione piemontese si rinserrarono le file in mano
del conte Confalonieri, principale nella sciagurata insurrezione del
1814, poi nei suoi viaggi legatosi co’ primarj liberali, e che si
mise attorno Demester e Arese antichi uffiziali napoleonici, Giuseppe
Pecchio economista, Pietro Borsieri letterato, i marchesi Giorgio
Parravicini e Arconati, Benigno Bossi, i fratelli Ugoni di Brescia, il
cavaliere Pisani di Pavia, il conte Giovanni Arrivabene di Mantova,
l’avvocato Vismara novarese, Castiglia, altri ed altri. Essi aveano
già disposta sulla carta una guardia nazionale, una giunta di Governo;
neppur l’inno mancava, opera d’un sommo poeta; e appena l’esercito
piemontese varcasse il Ticino, insorgerebbero Milano, Brescia, le
valli, le campagne, occupando le casse e le fortezze di Peschiera e
Rôcca d’Anfo.

I Lombardi spedirono al Sanmarzano, generale degli insorgenti
piemontesi, con numerose firme esortandolo a venire. — Cominciate ad
insorgere voi», ci diceano i ministri piemontesi; e noi rispondevamo:
— Da soli non bastiamo a vincere; ma senza noi, voi non bastate a
difendervi». Il vero è che Sanmarzano contava appena ducento dragoni
e trecento fanti; ma poichè coll’audacia dominansi le rivoluzioni,
risolvea ritentar l’impresa, massime che gli Austriaci, collo sgomento
di chi accampa in terra nemica, aveano ritirato ogni truppa dal Ticino,
e il vicerè lasciavasi vedere a incassar mobili e vendere vasellame.
Ma il ministro piemontese Villamarina disapprovò quella temerità; e
il reggente che, come dice il Santarosa «voleva e non voleva», mandò
quel reggimento ad Alessandria. Così la rapidità degli avvenimenti,
la inconcepibile mancanza di concerti, la titubanza dei capi, la paura
che Torino cessasse d’essere capitale del Regno, elisero il moto della
Lombardia, donde sol pochi giovani corsero in Piemonte ad aggregarsi al
battaglione di Minerva.

Binder ambasciatore austriaco, insultato fin nel suo palazzo, parte
lasciando una nota minacciosa. Il duca del Genevese che, per la
rinunzia del fratello, diventava re col nome di Carlo Felice, da
Modena dichiara ribellione ogni attenuamento della piena autorità
reale, e punibile chi non torni all’ubbidienza; ed ordina le truppe
si concentrino a Novara sotto il generale La Torre. Carlalberto, anche
dopo giurata la costituzione, non si era risoluto a convocare i collegi
elettorali, bandir guerra all’Austria, entrare in Lombardia. Udita poi
la dichiarazione del nuovo re, e che questo avea invocato l’Austria,
dicendo minacciata la propria vita, e sè incapace di padroneggiare
la rivoluzione, fugge all’esercito regio a Novara, e di là pubblica
che «altro ambir non saprebbe che di mostrarsi il primo sulla strada
dell’onore, e dar così l’esempio della più rispettosa obbedienza ai
sovrani voleri».

Era il 23 marzo, il giorno stesso d’un altro proclama ventisette anni
dopo.

Quella fuga toglieva agl’insorgenti ogni apparenza di legalità: ma
risoluti di non cedere, creano una giunta provvisoria[186]; sparigliano
proclami e bugie. Intanto ogni cosa va sossopra; la Savoja si
chiarisce pel re; la brigata che porta quel nome, ricusa disertare,
onde fu dovuta rimandare in patria; i carabinieri in arme si recano
all’esercito regio; a Genova il governatore Des Geneys, che annunziò
la defezione di Carlalberto, è assalito, trascinato per le vie, e a
fatica salvato dai generosi che non voleano contaminare con violenze
la rivoluzione; i Liberali medesimi discordano, quali caldeggiando
la Camera unica, quali la duplice, quali unitarj, quali federalisti.
Santarosa, fatto ministro della guerra, cerca destare il coraggio
colle speranze, e collo spargere che gli Austriaci furono disfatti dai
Napoletani, e le valli Bresciane insorsero furibonde; ma ecco giungere
certezza della disfatta degli Abruzzi, e che centomila Russi sono in
mancia; poi addosso ai Liberali muovono i Realisti col generale La
Torre e gli Austriaci col generale Bubna (9 aprile), che in Lombardia
aveva, se non alle trame, partecipato alle speranze de’ Carbonari;
presso Novara succede un’affrontata, e la rivoluzione piemontese è
finita.

Carlalberto ricoveratosi a Milano, è dal generale austriaco
beffardamente presentato come re d’Italia: Carlo Felice a Modena lo
tratta come uno scapato, e la lettera di lui getta in viso al suo
scudiere: egli si ritira a Firenze a digerire l’obbrobrio, confessare
i suoi torti e farne scusa, solo appoggiato dall’ambasciatore francese
per rispetto alla legittimità[187].

La società de’ Maestri Sublimi, raffinamento della Massoneria, e
che professava il regicidio, fu dalla Francia trapiantata a Ginevra
dal fiorentino Michelangelo Buonarroti, antico adepto di Babœuf, che
v’istituì un congresso italiano per diffonderne i dogmi nel nostro
paese. Alessandro Adryane, che n’era diacono straordinario, fu spedito
qui per rannodare le rotte fila; ma a Milano lasciossi cogliere con
tutte le carte, le quali diedero a conoscere la trama, senza bisogno
che la rivelasse Carlalberto, come si ciancia. Da nove mesi era finito
il parapiglia di Piemonte quando si cominciarono i processi contro
i Lombardi, parte a Milano, parte a Venezia[188], da una commissione
speciale, alla cui testa il tirolese Salvotti. In quelli l’imputato
si trovava all’arbitrio d’un giudice, senza difensori, senz’avere
sott’occhio le sue e le altrui deposizioni; durava interi mesi
di solitudine nel carcere fra un esame e l’altro; e qualche volta
l’inquirente, fattosi mansueto, gli diceva: — Ecco, ella è interamente
nelle mie mani. Qui non siamo in paese di pubblicità compromettente.
Confessa ella quel che del resto noi sappiamo? l’imperatore le fa
grazia, ella torna a casa sua onorato. Persiste al niego? sta in me il
diffamarla, e spargere che ha tutto rinvesciato, che tradì i compagni,
e così torle quel ch’ella mostra valutare tanto, la pubblica opinione».

Ad arti di simil genere, piuttosto che a torture fisiche, non tutti
resistettero; vi fu uno che, per generosità di salvare un amico, corse
a denunciare se stesso, poi accortosi dell’errore si finse pazzo, e
per mesi sostenne la straziante simulazione; altri credette scagionarsi
col provare che aveva dissuaso i Piemontesi dall’invadere la Lombardia;
altri ammise di quelle tenui concessioni che conducono ad altre; tanto
che si potè raccogliere onde condannare Confalonieri[189], Adryane,
Castiglia, Parravicini, Tonelli, Borsieri, Arese e molt’altri a Milano,
dove furono esposti sulla gogna il 24 gennajo 1824. E già a Venezia,
la vigilia di Natale, giorno di gratulazioni e feste ecclesiastiche e
civili, erasi letta la sentenza di Pellico, Maroncelli, Solera, Villa,
Oroboni, Foresti, Fortini ed altri e, cosa insolita in quella stagione,
l’accompagnarono tuoni e ruggito del mare sotto un insistente scirocco,
onde al domani la città fu invasa dall’acqua, e tutto il litorale ne
patì fin alla Spezia e a Genova. Furono portati allo Spielberg, ove
alcuni soccombettero, quali il conte Oroboni, il veterano Morelli, il
Villa; Maroncelli perdette una gamba; altri poterono dopo molti anni
uscire ancora a narrare i proprj patimenti[190]. E mentre alcuni li
esagerarono, o posero in evidenza se stessi, o denigrarono altrui,
Silvio Pellico li raccontò senza rancori, senz’arte; e tutto il mondo
lesse le sue _Prigioni_, e la pietà per quei sofferenti partorì
esecrazione a colui che così facea soffrire: e che pure non avea
mai lasciato che l’applicazione dell’estremo supplizio gli togliesse
di esercitare il diritto più prezioso pei re, il ripiego più nobile
pell’uomo, la grazia e la riparazione.

Gioja, Romagnosi, Trechi, Mompiani, Visconti e altri fur on rilasciati
senza condanna[191]. I quali poi restavano in condizione tristissima,
chè, mentre la Polizia perseverava nell’adocchiarli e vessarli, quasi
a giustificarsi dell’averli perseguitati, il pubblico (troppo solito
complice degli oppressori) dubitava di loro perchè non condannati, e
accogliendo le sinistre insinuazioni sparse d’alto luogo, finiva per
temere e odiare quelli ch’erano temuti e odiati dal Governo.

In Piemonte si fecero 92 sentenze di morte, 432 di lunga o perpetua
prigionia[192], ma tutti in contumacia, essendosi lasciato partire chi
volle; il notajo Garelli e il sottotenente Laneri furono messi a morte,
e in effigie La Cisterna, Caraglio, Collegno, Lisio, Morozzo, Regis,
Santarosa; di seicennovantaquattro uffiziali inquisiti, dugenventi
furono destituiti, e così molti impiegati civili.

Anche negli Stati Pontifizj i cospiratori abbondavano: e il Puccini,
direttore della Polizia toscana, scriveva al Corsini plenipotenziario
al congresso di Lubiana: «Nelle Marche e nelle Legazioni sono assai
numerose le sêtte, e grandi mezzi adoprano per diffondere l’odio
contro i Governi monarchici, e sperano nei torbidi d’Italia, comunque
arrivino. L’odio di questi partiti si sfoga colle maniere dei tempi
del duca Valentino. Molte uccisioni vennero commesse negli anni scorsi
sopra ecclesiastici ed impiegati pubblici a Forlì, Ravenna, Faenza;
altre in maggior numero modernamente, certo per odio di parte».
Istantemente aveano chiesto che le truppe sarde si avvicinassero
al confine, ma non ne fu nulla; e quel Governo, ripigliata forza,
cominciò gli arresti; di quattrocento processati, molti, principalmente
per opera del Rusconi legato di Ravenna e del Sanseverino di Forlì,
condannò alla pena capitale, che il papa commutò nella reclusione.
Il granduca non credette necessarj i processi perchè non ebbe paura.
Maria Luigia li lasciò fare, e vi furono involti Ferdinando Maestri e
Jacopo Sanvitali professori; ma commutò le pene in esiglio. A Modena
nel 1817 erasi formata una società della Spilla nera per rassicurare
i Napoleonidi: e al tempo stesso i Massoni, gli Adelfi, le Chiese
dei sublimi maestri perfetti aveano adepti, e s’erano ascritti i
dottori Carlo e Giuseppe Fattori di Reggio, nella cui casa teneansi le
adunanze, il capitano Farioli di Guida, il dottore Pirondi, Prospero
Rezzio e molti ebrei[193]. Tutte le Società aveano statuti proprj, ed
alcune v’univano l’obbligo di farsi vicendevoli correzioni e di non
vagheggiare la moglie dell’amico: comune era quello di uccidere chi
fosse condannato o avesse rivelato il segreto: pagare una certa somma,
manifestare a tutta la società le operazioni del Governo.

Sconfitti su tutti i punti, i Liberali rifuggono in Ispagna a
fiancheggiare una causa che sentiano dover soccombere, ma che era la
loro; e a mostrare, colle generose morti, che non erano colpevoli delle
fughe di Rieti e di Novara. Altri crociaronsi in ajuto della Grecia,
dove a Sfacteria perì il Santarosa, eroe all’antica.

Gli alleati, all’udire l’inaspettato successo, esclamano «doverlo
attribuire non tanto ad uomini che mal comparvero nel giorno della
battaglia, quanto al terrore onde la Provvidenza colpì le ree
coscienze»; e protestando di lor giustizia e disinteresse, annunziano
all’Europa d’aver occupato il Piemonte e Napoli, e nella lora
unione «una sicurezza contro i tentativi de’ perturbatori». Insieme
partecipano ai loro ministri presso le Corti «essere principio e fine
di loro politica il conservare ciò che fu legalmente costituito, contro
una setta che pretende ridurre tutto a una chimerica eguaglianza»;
annunziano altamente che «i cambiamenti utili o necessarj nelle leggi
o nella amministrazione degli Stati, non devono emanare che dalla
libera volontà di quelli che Dio rese responsali del potere[194].
Così essi erigonsi custodi e dispensieri unici della verità, della
giustizia, delle franchigie: e i Liberali ebbero servito agl’interessi
dell’Austria, dandole occasione di estendere l’alta vigilanza e
quasi l’impero su tutta la penisola, da lei sottratta ai tumulti o al
progresso.

Poi a Verona (1822) s’adunarono a congresso i re di tutta Europa
colla grandezza loro e cogli avanzi di loro miserie: e i diplomatici
più vantati dichiararono che «resistere alla rivoluzione, prevenire i
disordini, i delitti, le calamità, assodar l’ordine o la pace, dare ai
Governi legittimi gli ajuti che aveano diritto di chiedere, fu l’unico
oggetto degli sforzi dei sovrani; ottenutolo, ritirano i soccorsi
che la sola necessità avea potuto provocare e giustificare, felici
di lasciare ai principi il vegliare alla sicurezza e tranquillità del
popolo: e di togliere al mal talento fin l’ultimo pretesto di cui possa
valersi per ispargere dubbj sull’indipendenza dei sovrani d’Italia».
In fatto l’Austria si persuase a sgombrare il Piemonte e abbreviare
l’occupazione del Napoletano; della Grecia non si ascoltarono tampoco i
deputati, benchè il papa gli avesse accolti ad Ancona e raccomandati;
si convenne dei casi in cui i re si dovrebbero sussidj reciproci;
si stabilì soffocare la rivoluzione anche in Ispagna, e l’incarico
ne fu commesso all’esercito francese, che tra le grida di _Muoja la
costituzione, Viva il re assoluto_, procedette senza ostacolo fino a
Siviglia. Carlalberto, combattendo al Trocadero, aveva in faccia ai re
lavato la macchia dell’essersi lasciato salutare re d’Italia[195].

La facile caduta di rivolte militari o di popolari sommosse, fecero
persuasi i re d’essere sicuri, e che niuna reale efficacia possedesse
lo spirito liberale, che amavano confondere col rivoluzionario;
bastasse affrontarlo per vincerlo; e pesarono sull’Italia con una
taciturna oppressione non ricreata da verun lampo di speranza.



CAPITOLO CLXXXIV.

La media Italia. Rivoluzioni del 1830.


Nei Liberali questo momentaneo agitarsi sotto le bajonette de’ padroni
lasciò scontentezza, ma non sconforto: e poichè, invece di studiar
le vere cause della ruina, la spiegavano colla plateale ragione
del tradimento, altra lezione non se ne traeva se non d’esecrare i
traditori, e non isperare nei principi.

Tanti profughi ond’erano piene non solo Francia, Inghilterra e
Svizzera, ma Barberia e Turchia, rodendo il pane dell’esiglio
rinnovavano que’ tempi del medioevo quando le trame dei fuorusciti
decideano le sorti della patria, e co’ loro scritti mantenevano
l’irrequietudine, eccitando sdegni che pareano speranze. Giuseppe
Pecchio descrisse i proprj viaggi e la vita di Foscolo e la storia
dell’amministrazione finanziera del regno d’Italia e quella
dell’economia politica nel nostro paese, adulandoci: Giovanni
Arrivabene applicavasi all’economia e alla beneficenza pubblica:
Camillo Ugoni continuava la critica letteraria, come il Salò:
Santarosa ed altri raccontavano la rivoluzione di Piemonte, mentre
Pepe e Carascosa duellavano su quella di Napoli: il capitano Bianco
insegnava la guerra per bande: Giannone ordiva un poema l’_Esule_: il
conte Alerino Palma sedeva nell’areopago della risorta Grecia, e in
quella lingua scriveva delle viti e del vino: le romanze di Giovanni
Berchet milanese rendevano popolare l’esecrazione contro l’Austria e
contro Carlalberto. I libri che si faceano leggere, erano proscritti
o di proscritto; le opere statistiche del Gioja, le giuridiche del
Romagnosi, le mediche del Rasori, le filologiche del Giordani e del
Foscolo, le storiche del Troya, del Colletta, del Sismondi, le poetiche
del Pellico e del Rossetti, le filosofiche del Borelli, prediligeansi
perchè d’autori perseguitati; voleano vedersi allusioni e condanne
contro l’autorità che le proibiva, e il divieto aguzzava le voglie,
e toglieva il criterio di sceverare il vero dal falso. Così crebbe
la smania del leggere e scrivere, del ragionare e ragionacchiare di
politica e d’economia; e si moltiplicarono i giornali.

Era anche questa un’imitazione di Francia, dove i Carbonari, non avendo
potuto insorgere nel 1821, si erano diretti a preparare l’opinione
sia alla tribuna, sia colle gazzette, lanciandosi in una politica
avventurosa, com’è sempre quella che non ha il riscontro della realtà,
ed esercitando quell’opposizione negativa, ch’è facilissima perchè ha
bisogno solo di collocarsi in un punto di vista differente da quello
del Governo, ed è insufflata dalle passioni invidiose e malevole. Di
là quei giornali arrivavano in Italia: i Governi che ne capivano la
potenza a segno di proibirli, non riuscivano ad opporvene alcuno, il
quale alla savia moderazione che concilia anzichè irritare unisse
la prudente franchezza che fa rispettare la ragione anche quando
contraria, e all’elogio dà valore e dignità col saper disapprovare.
Intanto sui Francesi formavasi quel poco di spirito pubblico, creando
bisogni e affetti che non erano i nostri; lodando una beneficenza che
storpia l’uomo per avere il vanto di dargli le stampelle; erudendosi
a una storia tessuta con luoghi comuni e paradossi; allucinandosi
ad un liberalismo che abbaja contro ciò che s’ha a distruggere, non
ragiona sopra ciò che bisogna sostituire, e vagheggia una democrazia
che sconoscendo le parti più vitali delle nazioni e degli individui,
condanna ad abdicare ogni valore proprio ed inabissarsi nella così
detta opinione pubblica, cioè volgare.

Quest’indeclinabile imitazione de’ Francesi, della loro scienza
incompleta, della filosofia eclettica, della letteratura improvvisata,
della politica rischiosa fu sempre una delle più funeste endemie
degl’Italiani. Intanto i principi nostri credevano che i mali si
rimediassero col negarli, e se la compressione materiale ristabilì
l’ordine esterno, non si provvide all’interna agitazione, cresciuta
anzi ne’ paesi dove non s’era dianzi sfogata, e dei quali or ci avanza
a parlare.

Il papa era stato rintegrato ne’ suoi possessi, eccetto Avignone e il
contado Venesino che Francia si tenne, e le fortezze di Comacchio e
Ferrara a cavallo del Po, volute dall’Austria ad onta delle proteste
pontifizie.

Roma aveva esultato nel ricuperare il Laocoonte, l’Apollo, la Corte,
le solennità, l’aurifera affluenza dei forestieri. Pio VII, tornando
ingloriato dal martirio, non ricercò alcuno per l’operato durante il
Governo francese o nell’invasione di Murat; anzi il generale austriaco
Stefanini, col fare qualche persecuzione, scemò la propensione che
non piccola v’era per gli Austriaci. Col consiglio del cardinale
Consalvi e del Bartolucci, il papa con motuproprio (1816 6 luglio)
sistemò l’amministrazione pubblica in aspetto di legge generale che
tenesse dell’antico senza ripudiare tutto il nuovo, tenendo all’unità
e uniformità collo sbandire quelle amministrazioni molteplici, e
ridurre a un centro le giurisdizioni. Lo Stato fu diviso in diciannove
provincie, oltre la metropoli colla comarca; ogni delegazione in
distretti ch’erano quarantaquattro: questi in seicenventisei Comuni
sotto delegati prelatizj. Le Comunità regolavansi da un consiglio
che deliberava, da una magistratura che amministrava, scegliendone i
membri fra il clero, i possessori, i letterati, i negozianti, salva
la conferma del delegato. Roma ebbe un senatore e conservatori; e così
Bologna.

Ai fidecommessi poteasi rinunziare: abolite le servitù e le riserve;
abolite le giurisdizioni baronali, eccetto quelle del cardinale decano
in Ostia e Velletri, e del maggiordomo papale in Castelgandolfo;
aboliti gli statuti municipali, se non in quanto concerne
l’agricoltura. Si sistemò l’imposta, alleggerendola d’un quarto, e
doveasi erigere il rendiconto annuo, compilare un catasto regolare, un
registro di tutto il debito pubblico fruttante il cinque per cento, con
una cassa di redenzione.

Abolito il codice civile e il criminale francese, le commissioni,
i giudizj privati, si accentravano le giurisdizioni, determinando
i tribunali collegiali e le loro gradazioni, con appelli a Bologna,
Macerata e Roma, e una cassazione detta Segnatura; le cause trattate in
italiano, motivate le sentenze criminali, difeso il reo e confrontato
coi testimonj, abolita ogni guisa di tortura; indipendente l’autorità
giudiziale, responsali i magistrati. Ma regolamenti soggiunti
smentirono i preamboli, nè i codici promessi comparvero mai: i fôri
vescovili impacciavano col trarre a sè ogni lite ove fosse implicato
un ecclesiastico: rinacquero i vecchi tribunali della fabbrica di
San Pietro che conosce di qualunque eredità a suffragio delle anime,
e della congregazione de’ chierici di camera per le cause demaniali:
la Segnatura non giudicava definitivamente, ma rimetteva alla sacra
Rota, la quale cogli _opinamenti_ (del resto opportuni a raggiungere la
verità) poteva eternare le cause, ripetendo l’_audiatur_ invece dello
exequatur.

Alla francese continuarono l’ordinamento delle finanze, le ipoteche,
il bollo, il registro: ma il commercio era incagliato da privative e
protezioni; arbitraria la Polizia, diretta dal governatore di Roma, e
che applicava fino la pena del cavalletto. I soldati raccoglievansi per
ingaggio: privilegio dei chierici la istruzione e la censura, come a
soli prelati la diplomazia, e le supreme magistrature amministrative
e giuridiche, e fino il governo delle armi. Il papa ripristinò le
accademie della Religione cattolica, d’Archeologia, di San Luca;
malgrado le indomabili paure dei re, concesse ospitalità alla famiglia
Buonaparte; rielesse cardinali; colle antiche cerimonie canonizzò molti
santi, fra cui gl’italiani Andrea da Peschiera, Costante da Fabiano,
Antonio da San Germano vercellese, Ranieri da San Sepolcro, Francesco
Caracciolo, e le beate Angela da Desenzano, Caterina da Racconigi,
Giacinta Marescotti, Bartolomea Bagnesi fiorentina.

Alla basilica di San Paolo, fondata da Costantino, arricchita
dagl’imperatori e dai pontefici con quadri, musaici, porte di
bronzo, cimelj, marmi, s’apprese il fuoco accidentalmente, e que’
tesori d’arte e di devozione e ventiquattro colonne di marmo frigio
ne rimasero distrutte. Parve preludere alla fine del pontefice, il
quale allora appunto cascando in camera, si ruppe l’osso del femore,
e soccombette (1823 20 luglio). Eroe da che la prigionia pose fine
alle sue debolezze, nè gradi nè ricchezze attribuì ai parenti; non
commise crudeltà, ma non impedì le malversazioni; e inetto al governo,
abbandonava il paese più povero, disordinato e bollente di ire. Gli fu
dato successore Annibale Della Genga (28 7bre), col nome di Leone XII;
il quale congedò il Consalvi, che lascerà buon nome fra i ministri di
Stato per lo spirito conciliativo ed opportuna fermezza, e che poco
dopo morendo, i molti donativi diplomatici destinò ad erigere una
statua al pontefice, di cui era stato sostegno.

Leone XII, reputato per moralità non meno che per l’accorgimento
politico mostrato come nunzio in Francia, proseguì le cure pastorali
contro «l’irruente empietà, e contro la meticolosa politica, invasata
dalla paura dei forti ed affettante alterigia coi deboli»; comprò la
ricca biblioteca artistica del Cicognara, che l’imperator d’Austria
avea ricusata; fece da giureconsulti esaminare il motuproprio del
suo predecessore; nominò anche una congregazione di Stato, ma subito
la risolse in mera assemblea consultiva. Parve anzi condiscendere ai
retrivi col lasciar vivere gli arbitrj di ciascun dicastero: vennero
estesi i diritti delle comunità; ma se ne’ consigli entravano tutte
le classi, rimaneva separata la nobiltà, con le primogeniture e
fedecommessi, credendo «influisca al decoro del principato»: volevasi
anche ripristinare le giurisdizioni baronali «come l’unico mezzo
di ridonare il lustro alla nobiltà romana», se il concistoro non si
fosse opposto. Le femmine dotate furono escluse dalla successione;
rimessi i giudizj a singoli, invece de’ collegi; aboliti i tribunali
di distretto; introdotto di nuovo il latino ne’ giudizj, e nelle più
grandi Università e nelle cinque minori; ad ecclesiastici affidato il
condurre anche il processo dei laici; attribuito ai Gesuiti il collegio
romano, il museo, e l’osservatorio, con dodicimila scudi di rendita
sul tesoro pontifizio; ripristinato il Sant’Uffizio; estesi i privilegi
della manomorta.

Forza era dunque dar torto al papa di prima o al presente, e facilmente
si dava torto ad entrambi, cioè si perdea la fede nell’autorità.
Commissioni di preti ed uffiziali sgomentarono le Legazioni, solcate
da società segrete, che manifestavansi ad ora ad ora con assassinj di
pretesto politico, e contro avversarj che denunciavansi per Sanfedisti:
e un tentativo d’insurrezione nel 1825 in occasione del giubileo,
costò la testa a un Targhini. Il cardinale Rivarola nella legazione di
Ravenna in una sola volta, udito il parere de’ giudici, condannò (1825)
cinquecentotto persone; poi ad un tratto perdonò a tutte, assegnò
pensioni ai loro parenti, e cercò rappattumare Sanfedisti e Carbonari
per via di matrimonj, che riuscirono come Dio vel dica. Essendosi
poi attentato alla vita del legato, egli istituì una commissione
severissima, moltiplicò le spie, lasciò andare alla forca sette
omicidi (1828), che il pubblico compassionò come vittime politiche.
Del resto, allorchè si promise perdono a chi _spontaneo_ venisse a far
dichiarazioni, a centinaja vi accorsero. Tali erano i governati, tali i
governanti.

Leone XII aveva divisato di riformare le regole ed il vestire dei
frati, riducendoli a tre soli Ordini: uno di regolari, poveri, di
scienza discreta e gran cuore, che servissero al popolo sussidiando i
parroci e prestandosi agli spedali. Il secondo, tutto all’educazione e
istruzione della gioventù, e a sostenere gl’interessi della religione
e del buon costume. Il terzo di contemplativi, che salmeggiassero,
predicassero, e cercassero l’evangelica perfezione.

Non mancavano i Barbareschi di molestare le coste; ma peggior vitupero
allo Stato Pontifizio veniva dai briganti. L’antico paese dei Volsci,
fra gli Appennini, le paludi Pontine e i monti d’Albano e Tuscolo,
fino al 1809 appartenne alla famiglia Colonna, che all’armi addestrava
quelle popolazioni per ajutarsene nelle sue emulazioni cogli Orsini
e coi papi. E i papi non vi poteano nulla; se non che, alle persone
probe dando un brevetto di cherico, le sottraevano alla giurisdizione
territoriale. I Francesi abbatterono questa feudalità; ma gli eccessi
della coscrizione del 1813 tornarono in armi la popolazione, e bande
di _politici_ vi si formarono in opposizione di re Gioachino. Sotto
il debole Governo sottentrato crebbero di baldanza: obbedienti a
capi quali De Cesaris e Gasparone nelle provincie romane, Furia
e Vandarelli nelle napoletane confinanti, e carichi d’armi e di
reliquie, a torme fin di cento scorrazzavano la campagna spopolata,
e rendeano pericolosissimo il tragitto da Roma al Napoletano;
assalirono e taglieggiarono un collegio alle porte di Terracina, i
Camaldolesi presso Tuscolo; molte famiglie ridussero sul lastrico;
guastarono i commerci, l’agricoltura, la pastorizia. Chi avrebbe
osato negare ricovero e vitto a questi formidabili? Assai volte il
Governo dovette scendere a patto con essi, pure beato quando qualcuno
tornasse a penitenza, e venisse a sospendere a una Madonna il coltello
insanguinato. Il Consalvi, fisso di sterminarli, s’accontò col Governo
napoletano acciocchè non li ricoverasse nel suo territorio, arse le
capanne e i villaggi ove annidavano, e potè consacrare una festa a
commemorazione d’averli distrutti. Ma non lo erano così, che molto non
restasse a fare. Leone XII spedì il cardinale Pallotti legato a latere
con un editto, ove, cessata ogni misericordia o transazione, intimavasi
morte immediata ai briganti côlti; pena cinquecento scudi ai Comuni ove
succedesse un loro latroneccio. Di fatto si trovarono ridotti aventi,
che a Sonnino capitolarono: ed essi furono mandati nelle fortezze, il
paese distrutto.

Lo Stato romano si estendeva fra il 41 e il 45º parallelo per
centrentadue miglia da Ancona a Civitavecchia e ducenquaranta dal Po
a Terracina, con due milioni e settecensettantaduemila abitanti, e
con fama di sterilità a terreni calcari e vulcanici, che sarebbero
ubertosissimi. Il pendìo dell’Appennino che scende al Mediterreneo
presenta vaste pianure, esercitate colla coltivazione grande; verso
l’Adriatico le varietà della piccola trovansi nelle Legazioni, nelle
Marche, nelle valli dell’Appennino. Le Legazioni partecipano della
fertilità della Lombardia; e una popolazione intelligente e laboriosa
prospera la coltura della seta, del frumento, del riso, del vino, della
canapa. Altrettanta è la fecondità delle Marche, ma i possessori meno
ricchi s’accontentano delle produzioni meno costose, quali il vino e la
seta: il colono è a mezzerìa, non affittajuolo. Lo Stato guadagna assai
dalle saline di Cervia e di Comacchio.

L’inameno Appennino verso settentrione vestesi di foreste; ma di sotto
di Roma restò ignudo, dacchè Sisto V le fece distruggere per togliere
il nido ai masnadieri: da quelle che sopravanzano verso il lago di
Bolsena e le fonti del Tevere si taglia eccellente legname anche da
navi. Le valli interposte si lavorano a piccola coltura, e bellissime
quelle della Nera e del Velino: la scabra dell’Anio è atta appena
all’ulivo: verso il Napoletano si allargano i piani di Sacco. Le rive
del Tevere mostrano la piccola coltivazione fino al monte Soratte,
ove comincia l’Agro romano, vastità di ducencinquantamila ettari
ubertosissimi, ma che accumulati in possessioni non minori di trecento
ettari, e fino di cinquecentomila, spesso con una sola casa rustica, la
più parte rimane soda, o soltanto lavorata a lunghissimi intervalli.

Nel medioevo le famiglie romane viveano alla campagna e de’ prodotti
di questa, e se le guerre private vi recavano guasti, adoperavasi
però ogni cura a farle fruttare come unica ricchezza. Quando i papi
cominciarono a impinguare i nipoti, questi comprarono i beni de’
piccoli proprietarj, che volentieri li cambiavano contro _luoghi di
monte_, oggi diremo azioni di banca, molto fruttuosi. Nel 1470 Sisto
IV permise a qualunque avventiccio di seminare per proprio conto un
terzo del terreno che fosse rimasto sodo: tale idea avevasi allora
della proprietà! Sisto V nel 1585 con un milione di scudi stabilì
una cassa di credito agricola a favore de’ proprietarj dell’Agro
romano; ma ben poco vantaggiò. Intanto i Borghesi vi comprarono
da ottantamila terre, e Paolo V le decretava immuni da confisca:
i Barberini altrettanto, impiegandovi, si disse, cento milioni di
scudi. Così sparve la proprietà suddivisa, e molte famiglie di Parma,
Firenze, Urbino lasciavano le proprie terre per venire a Roma a goder
le rendite dei Monti; ma non tardarono ad accorgersi d’aver ceduto il
certo per l’incerto. Alessandro VII cominciò le riduzioni d’interessi:
onde il credito ebbe una scossa tanto maggiore perchè la cosa era
inusata, i capitali si ascosero o sparvero, e così la terra appartenne
a proprietarj cui mancavano i capitali da utilizzarla. Scemata la
produzione, si dovette assicurare il vivere alle popolazioni col
proibire l’asportazione; laonde l’agricoltura si restrinse a produrre
soltanto quant’era necessario per l’interno.

Oggimai quell’ampiezza era posseduta da centredici famiglie e
sessantaquattro congregazioni: i Borghesi davano a fitto ventiduemila
ettare, i Chigi cinquemila seicento, i Cesarini Sforza undicimila, e
così via, cavandone da otto a diciotto franchi l’ettare: e i grandi
fittajuoli sopperivano alle spese cui non basterebbero i proprietarj.
Nella stagione che l’aria è men micidiale, si fa ressa ad ottenere
le ricchezze del suolo; centinaja d’aratri, a quattro, a sei, a otto
paja di bufali di fronte lo solcano; quella che credevi una sodaglia
incolta, in pochi giorni trovasi arata e sementata; poi si dimentica
fino all’ora della messe, quando un nugolo di montanari scende alla
mietitura; e dove parea un mare di biade ondeggianti, in pochi giorni
non rimane spiga in piede, e sottentra aspetto di deserto. La gente
degli Abruzzi, compiuta l’opera, riporta a’ suoi monti pochi denari
e le febbri. Il resto si abbandona alla pastorizia che frutta senza
spese nè pericolo, ed offre un cibo sano e nutritivo alla città: ma
neppur le mandre si pensa a moltiplicare, o introdurvi migliori specie
di montoni e di cavalli, in modo da farne lontane asportazioni. Un
pastore sceso dalla montagna, a cavallo addirizza i numerosissimi
armenti, trafiggendo con un lancione il puledro o la bufala che
scompigli il branco; e pochi bastano a migliaja d’animali. Di cui in
tutto lo Stato contansi oggi quattro milioni ducentomila capi, dove
seicentosessantatremila sono bovini, quindicimila muli ed asini, due
milioni e mezzo di pecore, trecentoventimila capre, settecentomila
majali. Ecco perchè delle 4,166,297 ettare dello Stato Pontifizio,
1,046,861 tengonsi a prati.

Le alture d’Albano che fanno cornice all’Agro romano, nutrono una
popolazione robusta, e d’uva e frutti provvedono la capitale: ma neppur
qui abbastanza si cerca migliorare le produzioni, e il vino e l’olio.

Di là da Velletri cominciano le paludi Pontine su quarantadue
chilometri di lunghezza per diciotto di larghezza. Pio VI vi sanò
ottomila ettare, che furono distribuite in enfiteusi coll’obbligo
di coltivarle e mantenere i canali secondarj, ma non che adoprarvi
tutta la cura, è assai se s’adempiono i contratti. Principali
concessionarj sono le famiglie Massimo, Fiano, Gaetani, e la fabbrica
di San Pietro, alla quale appartiene il Campo Morto di ottomila
cinquecento ettare, dove, fra gli altri allettativi per attirar gente,
i malfattori sono tenuti immuni dalla giustizia purchè subiscano la
disciplina prescrittavi. Quel podere alla semenza di mille ettolitri
di frumento e quattrocentoventi d’altre granaglie risponde l’annuo
ricolto di quindicimila trecento ettolitri; quattrocento giornalieri
lavorando alla seminagione, il doppio alla messe, oltre gli
ordinarj; trecentoventi bovi con sessantacinque aratri alla coltura;
ducencinquanta bovi sonvi ingrassati: ottocento vacche, cento bufali
e duemila pecore pascolano nel maggese: cento cavalli servono ai
sorveglianti e pei trasporti, oltre ducencinquanta giumenti e i loro
piccoli. Eppure non si affitta che tredici franchi l’ettara.

Il sistema di far rendere senza intervento d’uomini nè spese di
coltura, contentandosi de’ prodotti spontanei, non è dunque generale
nello Stato; e la grande coltura è propria solo delle paludi e della
campagna: ma insalubrità, spopolamento, mancanza di sfoghi sono
reciprocamente cause ed effetti di danno, nè si può riparare ad uno
in particolare; e vuolsi ben altro che decreti, fossero anche ben
consigliati. Clemente XIII vietò di tagliar legnami nei possessi dei
Comuni o della Camera apostolica senza licenza; nel 1789 Pio VI diede
un buon regolamento pei boschi, e fece erigere un nuovo catasto;
colla libera asportazione de’ grani ne sollecitava la produzione;
nel conferire le doti si preferirebbero le figlie d’agricoltori; si
stabilirono premj e pene che non ottennero effetto. La dominazione
francese brevissima non ebbe tempo di spartire fra operosi proprietarj
i latifondi di manomorta che traeva al fisco; e una commissione
istituita nel 1810 per migliorare le paludi Pontine, nulla trasse a
riva. Nel 1819 una società straniera offerse di prendere in affitto
tutto l’Agro romano, retribuendo al fisco un canone annuo, e a
ciascun proprietario un fitto pari a quello che allora godeva; e dopo
cinquant’anni restituirgli i terreni migliorati: intanto la società
avrebbe dissodato il fondo, rasciutte le paludi Pontine e quelle
di Macarese ed Ostia, resi navigabili il Tevere e il Teverone per
l’intero loro corso, aprendo così una uscita ai prodotti della Sabina;
costruito villaggi con chiese, scuole, ospizj, strade; utilizzato le
acque minerali e sulfuree; piantato modelli di podere dove introdurre
produzioni nuove, l’indago, la cannamele ed altri; tutti questi
lavori sarebbero fatti da indigeni, alloggiati in situazioni salubri,
congedati ne’ mesi pestilenziali. Erano forse le solite lustre di
speculatori: fatto è che la proposizione, dal nuovo papa accolta
favorevolmente, fu lasciata cadere forse per opera di chi ne temeva
scapito.

Il nuovo papa Pio VIII (Saverio Castiglioni) (1829 31 maggio), uomo
austero e dotto, lodato del far poco, dopo che Leone XII avea fatto
troppo; non arricchì parenti; usò a ministro il cardinale Albani,
impinguatosi con appalti e speculazioni, inclinato all’Austria, nè
troppo sottile in fatto di religione e amante i piaceri tanto più che
non era prete. Di corto il papa moriva (1830 30 9bre), e nell’orazione
solita recitarsi nel conclave _de eligendo pontifice_ il dottissimo
cardinale Maj diceva ai radunati: — Dateci un papa che sia per la
fede Pietro, per costanza Cornelio, per felicità Silvestro, per
eleganza Damaso; abbia di Leone la nitida eloquenza, di Gelasio la
dottrina, di Gregorio la pietà, di Simmaco la fortezza, di Adriano
l’amicizia dei principi; sia per la concordia delle Chiese Eugenio,
pel patrocinio delle lettere Nicolò, per grandezza di consigli Giulio,
per liberalità Leone, per santità Pio, per vigore d’animo Sisto; e per
non ricorrere solo le prische età, dateci un pontefice che non manchino
nè l’erudizione di Benedetto XIV, nè la munificenza del sesto Pio, nè
la forza e benignità del settimo, nè la vigilanza di Leone XII, nè la
rettitudine di Pio VIII».

Campione della religione e dell’autorità era Francesco IV di Modena,
carattere robusto, mente estesa, operante per fredda ragione e col
profondo convincimento nelle idee patriarcali che il popolo fosse roba
del principe e da questo dovesse aspettare il bene, e il principe
fosse obbligato a farglielo. Ricchissimo di patrimonio, e più dopo
che Beatrice d’Este sua madre gli lasciò 50 milioni di lire e la
signoria di Massa e Carrara, fu il solo principe che alleggerisse le
imposte; nella fame del 1816 tirò grano dall’Ungheria e lo rivendette
a basso prezzo, oltre dar minestre gratuite; in quella del 1829
distribuì centomila pesi di canapa da filare, duemila e cento pesi
di farina per mano de’ parroci, e cenventimila lire fra limosine e
lavori straordinarj; istituì monti frumentarj per sovvenire i piccoli
possidenti e gli agricoli. I nobili si amicò, dei perduti diritti
feudali compensandoli con carte pubbliche: ripristinò gli Ordini
religiosi, e risarcì in parte la Chiesa dei beni confiscatile. Nelle
leggi mitigava i rigori della giustizia punitiva, tutelava gl’interessi
domestici, migliorava il regime delle ipoteche, accolse la società
scientifica dei Quaranta; manteneva alle accademie forestiere giovani
che si raffinassero nell’arti e nelle scienze; raccolse libri,
quadri, medagliere, museo ricchissimo. Dotato di gran memoria, notava
moltissimo; scriveva lunghe dissertazioni, che in parte si hanno, come
migliaja di suoi rescritti a petizioni[196].

Viene il tremuoto? imperversa il cholera? esso gli annunzia come
castighi di Dio contro i riottosi; tutti i proprj atti motiva dal
meglio del popolo; ma vuole che il popolo obbedisca; e perchè la
Rivoluzione scassinò la docilità, adopera ogni mezzo per ottenerla
a forza. Tutt’occhi a vigilare gl’interessi de’ principi, per lui
l’Austria venne informata delle trame de’ Carbonari. Al congresso
di Verona offrì un lungo scritto contro le costituzioni, suggerendo
come mezzi a impedirle il favorire la religione, rialzare la nobiltà,
interessandola negli affari pubblici e alla conservazione dell’ordine;
ampliare l’esercizio dell’autorità paterna, correggere la legislazione
quanto al crimenlese, e semplificare la procedura in modo che i
negativi non isfuggano al rigore delle leggi; migliorare il sistema
dell’educazione, adattandola alle condizioni, e restringendo il numero
di quelli che applicano agli studj; s’invigilasse la stampa; insieme le
imposte fossero fisse e non vessatorie, e libera la circolazione delle
derrate.

In fatti nel suo paese era gelosissima la censura, di cent’occhi
la Polizia, potenti i devoti, tollerati quei soli scrittori che si
facessero appoggio a quella che diceasi causa dei troni e degli altari.
Orribil fama avanza dei processi fatti dopo il 1821; e Giulio Besini,
ministro della Polizia che pareva inasprirli, cadde scannato (1822 17
8bre) da un giovinetto Morandi. Il duca ne restò esacerbato, e sopra
quaranta inquisiti e sette contumaci alcuno lasciò andare a morte, fra
cui il prete Andreoli di Correggio. Altri processi tesseronsi di tempo
in tempo, e un colonnello Cavedoni se ne sottrasse uccidendosi.

Per verità l’azione delle società secrete non erasi mai rallentata;
e i vanti che se ne menarono dopo la riuscita, accertano che la
rivoluzione di Parigi nel 1830 non fu spontanea rivolta contro
ordinanze incostituzionali, ma lunga preparazione delle combriccole.
Queste aveano fila anche in Italia, onde nel 1829 il papa le colpì di
scomunica, e istituì una commissione che processò ventisei Carbonari.
Châteaubriand, allora ambasciadore a Roma, scriveva al conte Portalis
ministro a Parigi: — Leggete con cautela ciò che vi scriveranno da
Napoli e d’altrove. Si reputa cospirazione il malcontento universale,
il frutto de’ tempi, la lotta dell’antica colla nuova società, delle
istituzioni decrepite contro le giovani generazioni, il confronto
che ciascuno fa di ciò che è con ciò che potrebb’essere. I Governi
rappresentativi con Governi assoluti non potranno durar insieme.
Confini doganali possono oramai dividere la libertà dalla schiavitù? nè
un uomo essere impiccato di qua d’un ruscello per principj che al di là
sono reputati sacri? Questa, e questa sola è la cospirazione in Italia;
ma dal dì che entrerà nel godimento de’ diritti portati dai tempi,
sarà tranquilla e puramente italiana. Non sono oscuri Carbonari che
faranno sollevare questo paese. Queste sono le condizioni dell’Italia;
ma ciascuno Stato, oltre i dolori comuni, è tormentato da qualche
malattia sua particolare. Il Piemonte in balìa d’una fazione fanatica;
il Milanese divorato dagli Austriaci; i dominj del santo padre rovinati
dalla cattiva amministrazione delle finanze, poichè l’imposta si eleva
a quasi cinquanta milioni, e non lascia al proprietario l’un per cento
delle sue rendite; le dogane non danno quasi niente, e il contrabbando
è generale. Il principe di Modena stabilì nel suo ducato (luogo di
franchigia per tutti gli antichi abusi) magazzini di merci proibite,
che nottetempo fa entrare nella legazione di Bologna. Il Governo delle
Due Sicilie è caduto nell’ultimo disprezzo: il vivere della Corte in
mezzo alle sue guardie, non offrendo altri spettacoli che cacce ruinose
e forche, rende vituperevole la monarchia agli sguardi del popolo. La
mancanza di virtù militare prolungherà l’agonia dell’Italia. Buonaparte
non ebbe il tempo di far rivivere questa virtù; le abitudini d’una vita
oziosa e i prestigi del clima contribuiscono a togliere agl’Italiani
del mezzogiorno il desiderio di agitarsi per migliorare. Le antipatie
nate dalle divisioni territoriali accrescono le difficoltà degl’interni
moti; ma se qualche impulso venisse di fuori, o se qualche principe
fra l’Alpi concedesse uno statuto a’ suoi sudditi, avrebbe luogo una
rivoluzione, a cui tutto è maturo. Di noi più felici e della nostra
esperienza istruiti, questi popoli saranno parchi de’ delitti di cui
noi femmo scialacquo».

Così, da alto ingegno e da occhio sperimentato giudicavasi la
condizione della patria nostra. Così ministri e ambasciadori possono
ingannare ed aizzare, peggio che non facciano libellisti scalmanati.

Diceasi che Sanfedisti e Concistoriali volessero anche essi
l’indipendenza, ma coll’appoggiarsi a principi nazionali, e un nuovo
riparto dell’Italia, ove al papa si attribuisse porzione della Toscana
e il Polesine di Rovigo, in compenso delle Marche, le quali coll’isola
d’Elba andrebbero al re di Napoli; al duca di Modena, parte della
Lombardia, Parma, Piacenza, il Veneto col titolo di re; il resto della
Lombardia, il Tirolo italiano, Massa, Carrara, Lucca al Piemonte.
Queste potean essere aspirazioni, e si disse che qualche capo liberale
facesse proposizioni in tal senso al duca di Modena; egli denaroso e
potente, egli avveduto e ambizioso, qualora desse mano ad una rivolta
potrebbe farsi re di tutta Italia, se non altro, del Piemonte. Se la
proposta fu fatta, se egli vi ascoltò, del che mancano prove, fu un
intrigo ignobile, dove nessuna delle parti operava di buona fede, ma
donde appare che già allora, e nei due campi opposti, il sentimento
comune era il desiderio di diventare nazione, appena un impulso esterno
desse il crollo ai principati, destituiti del fondamento vero, l’amore
dei popoli.

E parve venuto allorchè i Francesi (1830), i quali aveano una
Costituzione e tutti i mezzi legali di correggerla e svilupparla, si
precipitarono alle vie illegittime; e nelle tre giornate di luglio,
con grande sacrifizio di vite, cacciarono la dinastia de’ Borboni,
e al domani vi sostituirono quella degli Orléans. Non era però
soltanto una rivoluzione di palazzo; cambiavasi il diritto pubblico,
al re discendente da re, capo de’ nobili, largitore della libertà,
surrogandosene uno eletto da una turba parigina che intitolavasi popolo
francese; alla dinastia ripristinata dagli stranieri, una che fondava
i suoi diritti sulla rivoluzione, cioè sovra ciò che, per l’istesso suo
nome, manca di stabilità. Poichè non può scuotersi la Francia senza che
tutt’Europa se ne risenta, vi tennero dietro sollevazioni nel Belgio,
in Polonia, in Grecia, e commovimenti per tutta Europa.

La Francia sta sempre in occhio che l’Austria, sua antagonista, non
ingrandisca di troppo in Italia, solletica le aspirazioni nazionali,
ostili all’Austria: eppure ripugna dal lasciare che vi si formi
uno Stato poderoso, e noi ci diciamo traditi perchè supponiamo
gratuitamente che sia generosità disinteressata quel ch’è tornaconto
nazionale. Da un pezzo gli accorti denunziano una siffatta politica:
eppure coloro che vedono unica salvezza nelle rivoluzioni, ne
considerano unica leva la Francia, e perciò l’invocano, e dai movimenti
di essa prendono impulso e norma ai proprj; delusi cento volte, cento
ricascano, come l’amante coll’amica infedele, o come il naufrago che
s’aggrappa a qualunque corpo, foss’anche un altro naufragante.

Ora però sembrava affatto al caso nostro il simbolo della nuova
rivoluzione francese: perchè, alla Santa Alleanza, ch’erasi arrogato
d’intervenire in qualunque paese onde impedire le istituzioni
dissonanti dal sistema di lei, Francia contrapponeva il non-intervento,
cioè che nessuna nazione potesse impedire che un’altra mutasse gli
ordinamenti interni, secondo la volontà del principe o del popolo.
Chi sbandì sempre le Costituzioni d’Italia? L’Austriaco, diceano.
Ora che la magnanima Francia proclamò il non-intervento, potranno
i popoli di essa costituirsi, forse d’accordo coi re: se non resta
altra via che l’insurrezione dove mancano rappresentanza e diritto
di petizione, la Francia democratica sosterrà certo una rivoluzione
democratica; tanto più che così l’Austria sarà costretta occupare in
Italia le armi, che affilava contro la nuova rivoluzione. Il ministro
Lafitte avea dichiarato alla tribuna: — La Francia non permetterà che
il non-intervento sia violato»; e Dupin soggiunse: — Se la Francia,
rinserrandosi in un freddo egoismo, avesse detto che non interverrà,
sarebbe vigliaccheria: ma dire che non soffrirà s’intervenga, è la più
nobile attitudine che possa prendere un popolo forte e generoso»[197].

La Santa Alleanza e i principi nostri sentirono il pericolo, e
prepararonsi: il re di Piemonte tolse le armi alla Savoja, mise le
fortezze e l’esercito in istato di guerra, ma subito stendeva la
mano al nuovo re Luigi Filippo come al solo che poteva allora salvare
l’autorità. Al contrario il duca di Modena mai nol volle riconoscere,
ebbe sempre come legittima soltanto la linea primogenita, e lasciava
che in Parlamento i Francesi minacciassero cacciarlo a colpi di
scudiscio. La situazione restava complicata dall’essere allora appunto
vacanti i troni di Piemonte, di Sicilia, di Roma.

L’interregno papale fu tumultuoso, non solo fra gli ambasciadori
che imponevano chi eleggere o no a pontefice, ma nella città dove si
tentò una sollevazione (9bre), istigandola principalmente la famiglia
Buonaparte colà ospitata; anzi Napoleone e Luigi, figli del già re di
Olanda, con alcuni Côrsi e con vecchi soldati corsero gridando Italia
e Libertà, ma non trovando consenso, andarono dispersi o furono presi.
Tra siffatte irrequietudini era elevato alla tiara Mauro Cappellari,
dotto e pio camaldolese di Belluno (1831 2 febb.); e col nome di
Gregorio XVI «si assunse liberamente in faccia all’Europa gl’impegni
che si rendeano necessarj per la durevole unione tra gl’interessi del
trono e quelli della nazione»[198].

La rivolta, che era fallita in Roma mercè l’attenzione del cardinale
Bernetti segretario di Stato, meglio riuscì in provincia. I
cospiratori, sempre tenendosi sicuri del non-intervento, divisavano
far in ciascuno Stato particolari rivoluzioni, salvo poi a fondersi
in un solo che avesse centro Bologna. I Menotti di Carpi erano ricca
famiglia e industriosa, con estesa fabbrica di cappelli di trucioli;
col qual pretesto Ciro viaggiò, ed affiatossi colla propaganda a
Parigi e coi Buonaparte a Roma. Ch’egli si facesse intermedio di questi
presso il duca di Modena, col quale era associato per negozj, e che il
duca lo lusingasse per tradirlo, è smentito da lettere; Enrico Misley
riceveva denari dal duca per ispiare i cospiratori a Parigi, mentre da
questi faceasi credere devoto alla libertà[199]. La tresca cresceva;
ma di mezzo al preparare vien arrestato Nicola Fabrizj modenese,
principalissimo fra i cospiratori, sicchè questi non potendo più
mettere indugio, raccolgonsi in numero di quindici nella casa Menotti
(3 febb.), e spacciano per sollecitare soccorsi dalla campagna e
dalle città. Il duca informatone, unisce i pochi soldati, e segnatosi,
marcia a capo di quelli, e con pochi colpi obbligatili a rendersi, li
caccia prigione, e scrive: «Mandatemi il boja». Al domani però, udendo
che anche gli Stati vicini insorgeano, egli non credesi più sicuro,
e rifugge sul Mantovano, seco traendo Ciro Menotti, che confida ai
carcerieri austriaci. Subito Modena si grida libera, e con un atto di
sole settantadue firme proclama dittatore l’avvocato Nardi 1831 con tre
consoli Maranesi, Minghelli, Morano. Reggio, dove le trame faceano capo
alla Giuditta Sidoli, fece rivoluzione da sè, poi si unì alla modenese,
preponendo al governo l’insigne giureconsulto Pellegrino Nobili; e
si cominciò a disfare il vecchio, e cacciare i Gesuiti, soliti capri
emissarj.

A Parma e Piacenza l’austriaca Maria Luigia mostrava cuor buono e
generosa carità; istituì un ospizio della maternità; se, come tutti
gli Stati, contrasse debiti[200], alle scarse rendite del paese
suppliva col proprio lauto appanaggio; in occasione di feste di Corte
mandava abiti e ornamenti alle dame; arricchì d’insigni professori
l’Università; a disegno del Coconcelli fece costruire i ponti del
Taro e della Trebbia, spendendo in questo un milione, quasi due in
quello; e conservò i codici, gli ordinamenti amministrativi, la moneta
di Francia: ma l’essere austriaca e l’avere rotto fede all’ancor vivo
Napoleone screditava la duchessa, di cui solo quando morì lasciando ben
fornite le casse, confessaronsi i meriti. Regnante al modo del secolo
passato anche pei costumi, un generale austriaco (Neipperg), poi un
conte francese (Bombelles) da governatori si fece amanti e mariti; e ad
essi abbandonava il paese nelle lunghe sue dimore ai bagni o a Vienna.
Non mancarono cortigiani che coll’avidità e l’ignoranza corruppero le
benevole intenzioni di essa e il denaro pubblico malversarono, mentre
al commercio, all’industria, alle miniere, ad ogni durevole istituto
non si badava, com’era naturale in dominio goduto a vita. E di tal
condizione provvigionale risentivansi tutte le ordinanze, oggi fatte,
domani casse, e mutate le persone. Anche la rivalità della pingue ma
abbandonata Piacenza colla preferita Parma seminava zizzania.

Nè i sudditi odiavano l’arciduchessa, bensì il ministro Werklein, in
cui tutta affidavasi dopo morto lo splendido Neipperg: ed avendo anche
i Parmigiani inalberato la bandiera italiana, ed ella dichiarato che
i suoi legami le impedivano di fare le chieste concessioni, venne
cortesemente accompagnata al confine austriaco, e istituito il Governo
con Linati, Casa, Castagnola, Sanvitale, Melegari, Ortalli, Macedonio
Melloni. Piacenza fu tenuta in fede dalla rivalità o dalla cittadella.

Bologna compiva la sua rivoluzione, incruenta come le altre; e il
prolegato rimetteva i poteri ai cittadini che eressero un Governo
provvisorio (8 febb.). Il cardinale Benvenuti, legato a latere, fu
arrestato; e gl’insorgenti, formato un piccolo corpo sotto Armandi,
intitolatosi generale e ministro della guerra, bloccano la fortezza
d’Ancona, e l’hanno dopo pochi giorni: il colonnello Sercognani, avendo
per commissario Carlo Pepoli, avanza con duemila cinquecento uomini
nelle Marche; Perugia, Spoleto, Foligno, tutta l’Umbria rispondono al
suo appello, quasi a una festa; e senz’opposizione del Governo, senza
riazione di partiti, senz’ombra di pericolo, la bandiera tricolore
sventola fin a Orticoli, a Terni, a Ponte Felice, insomma in vista di
Roma: dappertutto istituivasi la guardia nazionale, diminuivansi i dazj
del sale e del macinato, spandevansi proclami.

Faville che traevano importanza dalla conflagrazione di tutt’Europa.
Perocchè, sull’esempio di Francia, e forse pe’ suoi incitamenti, la
Grecia che da dodici anni combatteva per respingere la mezzaluna
dalle fronti segnate dalla croce, ripigliava spiriti alla lotta
in cui l’Europa principesca l’avea sfavorita; Spagna e Portogallo
rialzavano le abbattute bandiere costituzionali; Germania credea
venuto il tempo di ottenere ciò che le era stato promesso e mentito; la
Svizzera già prima aveva riformato i suoi statuti in senso popolare;
in Inghilterra, al grido dei radicali chiedenti libertà mesceasi
terribile la voce della plebe chiedente pane; il Belgio, a nome del
cattolicismo conculcato, ribellavasi all’Olanda; la Russia che muoveva
gl’innumerevoli suoi eserciti per rimettere la quiete in Europa,
vede la vanguardia sua rivoltarsele, cioè la Polonia, che con valore
segnalato invoca il nome di Maria e la sua nazionalità.

Tutti questi insorti fissavano gli occhi alla Francia, come a promessa
salvatrice. Di là, mezzo secolo prima, era venuta una scossa, per
cui que’ medesimi che non avevano acquistato la libertà aveano però
spezzato la servitù; era fresco il ricordo delle irresistibili vittorie
di Napoleone; la bandiera tricolore riuscirebbe meno gloriosa ora che
veniva portata, non più da un conquistatore, ma dalla libertà? non per
minacciare l’indipendenza dei popoli, ma per restituirla? Tali e più
belle speranze vagavano per le menti: ma la Francia non era diretta
da una Convenzione, bensì da un re nuovo, rinvenuto più che cercato,
accettato più che voluto, e come unica tavola in un naufragio nel quale
si temeva perisse l’ordine sociale.

Luigi Filippo, intento a farsi soffrire dagli altri re, e assodare la
propria dinastia col rispettare le altre, invece di convergere quelle
sparse resistenze ad un rimpasto europeo, s’incaricò di eliderle; e per
un pezzo vi riuscì. Casimiro Perrier, abile ministro, professa voler
fiaccare le fazioni anzichè dar mano ai sollevati, e alle turbolente
Camere (8 marzo) intimava: — Noi sosteniamo che lo straniero non ha
diritto d’intromettersi a mano armata negli affari interni; ma forse
ci terremo obbligati a portare l’armi dovunque non venga questo dogma
rispettato? Sarebbe un’intervenzione anche questa. Lo sosterremo
per via di negoziati; ma sol l’interesse o la dignità della Francia
potrebbero farci prendere le armi: il sangue de’ Francesi appartiene
solo alla Francia».

Subito si formò a Londra una conferenza di ministri che non
rappresentavano le nazioni ma i re, e che si accingeano a ripristinare
ciò che le tre giornate aveano abbattuto; e il Governo francese,
che avea favorito le sommosse finchè opportune a sviare i nemici
minaccianti, s’affrettò a comprimerle. Guglielmo Pepe, il capitano
infelice della prima rivoluzione napoletana, e che struggeasi di
condurne un’altra, erasi diretto a Lafayette, generale della guardia
nazionale e centro di tutte le cospirazioni, chiedendogli duemila
uomini, diecimila fucili e due fregate, con cui sollevare le Sicilie.
Ebbe le buone parole che colui prodigava a tutti: ma all’atto non
trovò che tergiversazioni; onde esso meditò passare in Corsica,
reclutarvi a denaro da seicento a mille di que’ robusti, e arrischiare
uno sbarco, che fra otto giorni lo renderebbe padrone di Napoli.
Tanto sono irrimediabilmente ciechi i cospiratori di professione! Ma
quand’egli, solo con due uffiziali, era per salpare, n’ebbe divieto,
e fu rimandato a Parigi ad aspettare ancora e sognare per diciassette
anni. Altrettanto erasi usato cogli Spagnuoli. L’Austria, irremovibile
nel guardare come sua propria la causa di tutti i Governi d’Italia,
rise del proclamato non-intervento, e mosse sopra i ducati insorti, o
allegando le riversibilità, o l’esservi invitata; assalirebbe anche il
Piemonte se i rivoluzionarj vi prevalessero.

La insurrezione della media Italia non era costata nè pericoli
nè sagrifizj; leggermente abbracciata, fiaccamente sostenuta, nè
grandi virtù nè grandi vizj palesò. I rappresentanti delle città
di Romagna (26 febb.) dichiarano scaduto dal dominio temporale il
papa, e stringonsi in uno Stato solo, con presidente, consiglio di
ministri, consulta legislativa[201]; si pongono a moltiplicare atti,
come suole ogni amministrazione che si sente di breve durata; e il
proclama dell’avvocato Vicini vuolsi confrontare colla dichiarazione
degli Stati Uniti per vedere quali guasti faccia tra noi la retorica.
È codardo quanto facile il calunniare la sventura, ma perchè
farsene adulatore? Certamente al popolo non si mostrò lo scopo
d’un’insurrezione, a cui non era spinto da eccesso di sofferimenti;
mancarono capi che colla risolutezza e col gran nome abbagliassero
e strascinassero gl’indifferenti, che son sempre il numero maggiore;
inesperti delle politiche cose, come gente a tutt’altro allevata, i
governanti s’impigliavano nelle minime difficoltà; onesti, leali,
con quella moderazione che onora ma che non salva, in un mondo il
quale compassiona i deboli, ma s’allea solo coi forti, esitavano
per paura di compromettere una patria che amavano, una pace di cui
sentivano la necessità; e cullandosi nel promesso non-intervento,
invece di profittare dell’impeto popolare, assalire Roma, suscitare
Piemontesi, Lombardi, Toscani, raccomandavano la quiete come garanzia
dell’inviolabilità, rimandavano a casa i campagnuoli chiedenti armi.
Nulla dirò delle gelosie rideste fra le città; nulla dei disordini
inseparabili da Governi che, nati da vittoria popolare, restano schiavi
della moltitudine, guidata da chi più grida, più esagera, più promette.
Napoleone e Luigi Buonaparte, falliti in altri tentativi di sollevare
Roma, accorsero a infervorare la rivoluzione romagnuola, e scrissero
al papa, esortandolo a deporre il temporale dominio prima che le forze
giungessero su Roma invincibili[202]. Nuovo pretesto ai nemici di dire
l’indipendenza italica minacciata da un’usurpazione napoleonica.

Ma di pretesti non facea mestieri dove francamente era stata dichiarata
l’inimicizia. Una colonna d’Austriaci guidata da Geppert, passato
il Po, ripose in dominio il duca di Modena e Maria Luigia (9 e 13
marzo): il veterano generale Zucchi, che dal servizio dell’Austria era
disertato a comandar la rivoluzione della sua Modena[203], ritirasi
col piccolo esercito sul Bolognese; ma quel Governo, scrupoloso al
non-intervento anche quando il vede conculcato, ricusa ricevere quei
fratelli se non disarmati. Quel Gregorio, che fu poi moda di trattar
da imbecille, era stato ricevuto dalla plebe romana con applausi
strepitosissimi; ma egli da savio non lasciossene lusingare, e «poichè
rare sono le clamorose riunioni che disgiunte vadano da qualche
discordia», sapendo che allestivasi altra festa, fece pubblicare
che «non aveva egli bisogno di tali dimostrazioni per misurare
l’attaccamento che gli porta questo suo amatissimo popolo»[204].

Al primo annunzio della sollevata Romagna, la Corte mostrossi
disposta a larghi patti, volendo il Bernetti prevenire l’invasione
austriaca; intanto erangli venute assicurazioni non solo dall’Austria
ma e dalla Francia, dove quel non-intervento che offriva il tema
di mille variazioni alla tribuna parigina ed ai giornali, due campi
dell’eroismo parolajo, or sottoponeasi ad interpretazioni da casisti:
che l’imperatore d’Austria poteva bene prender parte alle vicende
della duchessa di Parma sua figlia; anche a quelle di Modena, ducato a
sè riversibile; ma quanto alla Romagna, mai non gli si permetterebbe.
Per verità, se i Francesi non ajutavano la Polonia col pretesto della
lontananza, per l’Italia sarebbe bastato affacciarsi al ciglio delle
Alpi. Ma Metternich, che vedeva pericolare o le provincie austriache o
l’ingerenza sul bel paese, negò alla Francia il diritto d’impedirgli
di ripristinare il dominio papale; — Se si ha a morire, tanto vale
un’apoplessia, quanto la lenta soffogazione: faremo la guerra»; ed
entrò sul territorio pontifizio. Allora la fragorosa Francia a gridare
vilipesa la dignità nazionale e traditi i patrioti, e volersene
vendetta; l’ambasciadore Maison da Roma incalzava a gettar il fodero,
e spedire un esercito in Piemonte: ma il casismo soccorse di nuovo
mostrando che l’Austria non v’interveniva per proprio conto, sibbene a
richiesta del papa; e che del resto, guaj a lei se pensasse invadere il
Piemonte[205], il quale in fatto non n’avea bisogno. L’ardore esalò in
magnanime ciancie, e i Romagnoli videro non poter sostenersi che da sè.
«Italiani, all’armi! chi ha un fucile, una spada, una falce, la prenda
e venga con noi, che la vittoria non ci può fallire»; ebbero raccozzato
un esercito di circa settemila uomini; ma vedendo presa Bologna, si
ritirarono innanzi agli Austriaci, che procedeano a passo di carica
sulla via Emilia: a Rimini tennero testa (25 marzo) quel tanto che
bastasse perchè la loro bandiera fosse vinta, non macchiata; e avendo
con quel fatto protetta la ritirata sopra Ancona, lasciato molti morti
sul campo e trasportatine i feriti, si rassegnarono ad evitare una
resistenza disastrosa quanto inutile.

Il Governo, ridottosi in Ancona, dichiarando non essersi mosso se non
per fiducia del non intervento, dai Francesi proclamato in pubblico
e promesso in particolare, rimette in libertà il legato Benvenuti; il
quale promette l’oblio di qualunque atto della rivoluzione, e firma il
passaporto de’ capi. Questi s’imbarcano; Ancona è resa pacificamente
dal generale Armandi (29 marzo): ma la convenzione viene dichiarata
nulla a Roma, giacchè il Benvenuti avea cessato dalla sua carica
col divenire prigioniero; s’istituisce processo contro quelli che
avessero firmato l’atto di decadenza, o violato il giuramento militare,
o pubblicato scritti empj o sediziosi; agli altri intero perdono.
Il colonnello Sercognani, ch’era proceduto fin a Rieti, udito quel
rovinío, volta per la Toscana, e ben accolto dal popolo e soccorso
dal Governo rifugge in Francia. Tre navi portarono altri profughi in
Francia, in Inghilterra, a Corfù; ma una fu arrestata da due golette
austriache, e ventun pontifizj e sessantasette modenesi che vi stavano
furono gettati nelle prigioni di Venezia. Poco poi i pontifizj, più
tardi i modenesi furono rimessi in libertà; processati gli austriaci,
e Zucchi, come disertore, sottoposto a giudizio militare e condannato
in fortezza per tutta la vita. Paolo Costa di sessant’anni e malato
della pietra, andò a Corfù ad insegnare filosofia, come l’archeologo
Orioli; Pellegrino Nobili di settantasei anni, dopo una fuga piena di
pericoli, raggiunse in Francia suo figlio, insigne fisico fuggente
anch’esso, sinchè ottennero di ricoverarsi in Toscana. Questi e il
filosofo Mamiani, i fisici Amici e Melloni, il medico Sterbini, il
poeta Pepoli ed altri colla loro civiltà e sapienza cresceano la pietà
per le sventure d’Italia in quella Francia dove i nostri ricevettero
ospitalità benevola, stentati sussidj e fallaci promesse[206].
Napoleone Buonaparte era finito di morte violenta: suo fratello Luigi
dall’amorevole madre Ortensia fu campato a preparar nuove trame, che
doveano portarlo alla prigionia poi al trono. Gli Austriaci tennero
occupati i ducati della media Italia e le Legazioni; in Lombardia
spaventarono con processi rigorosi, pure mondi di sangue; e Metternich
fu decorato dall’imperatore d’Austria «per aver tanto contribuito a
mantenere l’indipendenza degli Stati italiani».

Maria Luigia, non avendo destinato alcuno a governare in sua vece,
non poteva far colpa a chi erasi assunto gli affari; tornata a Parma,
presto bandì generale perdono, eccettuandone ventun profughi. L’odio
concentravasi sul Mistrali ministro, più ambizioso che tristo[207],
sul Sartorio, capo della polizia, che poi fu accoltellato; sui Gesuiti
annidati nel collegio di Piacenza, e contro i quali si fece poi una
chiassosa dimostrazione; mentre l’arciduchessa pensava a goder la
vita, e i resti d’un corpo ch’era stato di Napoleone diede al conte di
Bombelles che la ridusse e parca e devota.

Francesco di Modena, più irritato perchè avea previsto eppur non
ovviato, e persuaso che «i settarj si ostinano a voler abbattere altari
e troni, e che un sovrano è responsabile in faccia a Dio se tollera
il trionfo dell’irreligione» mandò al supplizio Vincenzo Borelli e
Ciro Menotti, il quale salì al patibolo esclamando — Italiani, non
lusingatevi a promessa di stranieri»[208]. Coll’editto 18 aprile 1832
sopprimeva le formole giuridiche contro i rei di Stato, abbandonandoli
agli sgherri e alle spie; e sparsasi voce d’un attentato contro la vita
di esso, i soldati giuravano, «Se l’inferno vomitasse un’anima capace
di rinnovare le ribellioni, noi renderemo i concittadini responsali
sulla vita loro della sicurezza di Francesco IV con giustizia militare
pronta sicura». Da tremilacinquecento volontarj estensi rimanevano
alle proprie case ma in armi, vigilando alla pubblica tranquillità, e
pronti ad accorrere quando bisognasse. Il duca non curossi che Francia
e Inghilterra interrompessero le relazioni diplomatiche con lui,
lasciava stampare contro di esse e contro il liberalismo, e francamente
si collocava campione de’ Governi assoluti, alla riazione pretendendo
imprimere il carattere religioso e patriarcale, dopo sei anni di
processi, furono condannate a gravissime pene cenquattro persone, ma
tutte contumaci e due morte; e quelle pene stesse ebbero mitigazione.
Giuseppe Ricci, guardia nobile del duca, al quale era rimasto fedele
nei movimenti del 1831, e che passava pel favorito di esso, accusato
che cospirasse ad assassinarlo, fu fucilato: vittima forse d’una
ingiustizia, ma non eroe politico.

Quel Canosa, che, parendo eccessivo a Napoli, n’era stato rinviato
con doni e mortificazioni, viveva oscuro a Genova, allorchè il duca
di Modena lo chiamò a capo della sua Polizia, dove per molti anni fu
lo spauracchio de’ liberali di tutta Italia. Più tardi ritiratosi a
Nizza, si congratulava seco «d’aver processato, imprigionato, frustato,
ma non impiccato; d’aver prevenuto le colpe collo sbigottire, ma non
ucciso un solo per crimenlese nè stando governatore militare a Ponsa,
nè ministro di polizia a Napoli; mentre dappoi abbondarono congiure,
sêtte, mandati di morte, e in conseguenza commissioni militari, e un
numero estesissimo di esiliati, vera e bestiale misura per chi conosce
il mestiere»[209].

In Piemonte Carlo Felice poco avea fatto per rimarginar le piaghe del
suo paese; pieno di sè, nè cerimonie volea nè malinconie, ripetendo
— Non son re per essere seccato». Ad un capitano di bastimento che
avea durato fatica nel salvarlo in una procella, volea dare qualche
centinajo di scudi, ma il ministro gli suggerì avrebbe meglio aggradito
la croce di san Maurizio e Lazzaro. — Oh che zugo! (esclamò) dategliela
subito». Intanto la giustizia era pessimamente amministrata[210],
sospetti i pensatori, mesto il paese pei tanti profughi e per gli
arbitrj della Polizia. Il re, disgustato di Torino come covile di
faziosi, sene teneva lontano; non raccoglieva regolarmente i consigli
di Stato, puzzandogli di costituzione, e lasciava far ai ministri e
principalmente al Latour. Avrebbe rinnegato la tradizione di tutta la
sua stirpe se si fosse accordato coll’Austria, delle cui spoglie par
destinata a ingrandire: onde avendogli questa offerto soccorsi contro
i faziosi, egli ricusò risoluto, e represse qualche tentativo de’
Savojardi.

Non ebbe figli, e con lui terminato (1831 27 aprile) il ramo
primogenito di casa di Savoja, appunto nel bollore delle sommosse
gli sottentrava il ramo cadetto di Carignano[211] nella persona
di Carlalberto, quel desso che vedemmo nella rivoluzione del 1821.
Giovane, allevato in mezzo alle armi, partecipe delle speranze se non
delle trame liberali, avea subíto gl’insulti dell’Austria, che diceano
si fosse adoperata a farlo credere indegno del trono per le macchie
del 21, mal lavate al Trocadero, e surrogargli il duca di Modena. Tanto
bastava perchè, dimenticando il passato, sopra di lui si fissassero le
speranze de’ Liberali, e girò l’indirizzo di un Italiano (Mazzini),
il quale gli mostrava come non gli restasse che essere tiranno ed
esecrato, o farsi costituzionale e italiano francamente rompendola
coi potentati; parziali riforme gli nimicherebbero l’Austria senza
amicargli i popoli, mentre con una parola libera e sincera potea
ricreare l’Italia, riunirne le membra sparte, e se pronunziasse, «È
mia tutta e felice», venti milioni d’uomini esclamerebbero, «Dio è
nel cielo, e Carlalberto sulla terra! — Respingete l’Austria, lasciate
addietro la Francia, e stringetevi a lega l’Italia; ponetevi alla testa
della nazione, e scrivete sulla vostra bandiera, _Unione, Libertà,
Indipendenza!_ proclamate la santità del pensiero, liberate l’Italia
dai barbari, date il vostro nome ad un secolo, siate il Napoleone della
libertà italiana. Or che temete? il Tedesco? gridategli guerra, ardite
guardar da vicino questo colosso eterogeneo, forte solo perchè altri
è debole. Una voce ai vostri, una voce alla Lombardia, e avanti. Là,
nella terra lombarda hanno a decidersi i fati dell’Italia ed i vostri;
nella terra lombarda, che non aspetta se non un reggimento ed una
bandiera per levarsi in massa: ma siate forte e deciso; rinnegate i
calcoli diplomatici, gl’intrighi de’ gabinetti, le frodi dei patti. La
salute per voi sta sulla punta della vostra spada... Se voi non fate,
altri faranno, e senza voi e contro voi...».

Carlalberto re vedeva altrimenti che l’antico granmastro d’artiglieria,
e conobbe che un movimento avrebbe posta in compromesso l’indipendenza
del suo paese, determinando una nuova invasione austriaca. Nonchè
parlare di costituzione, nemmeno l’amnistia concesse; nominò un
consiglio di Stato, esprimendo che volea fare miglioramenti, ma «senza
scostarsi dagli esempj lasciati da’ suoi maggiori», e «conservando
inalterata la dignità della Corona». Si disperò dunque anche di lui;
onde molti s’affrettarono a ricoprire la polvere di carbone colla
polvere delle anticamere, altri si annoiarono nelle società secrete.

Perocchè, mentre le rivoluzioni del 31 eransi fatte a pieno giorno
confidando nell’iniziamento del Governo francese, allora i novatori si
ridussero a trame sotterranee; e appoggiatisi ai radicali, meditarono
sommosse invece dell’insurrezione. Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel
1808, ivi fondò l’_Indicatore genovese_; soppresso questo giornale,
andò a piantare l’_Indicatore livornese_; poi a Genova processato nel
30 e sbandito, ricoverò a Marsiglia, e con Bianchi piemontese e Santi
di Rimini istituì la società della _Giovane Italia_. Suo simbolo un
ramo di cipresso; parola d’ordine _Ora e sempre_. Direttosi a «tutti
quelli che sentivano la potenza del nome italiano e la vergogna di
non poterlo portare francamente», escludeva ogni uom maturo; confidava
nell’insurrezione armata; accennava anche ad una religione da surrogare
al cattolicismo, di cui dicea finito il tempo; e d’accordo coi
Carbonari nel volere sbrattar la patria dai forestieri, ne discordava
nel non chiedere più costituzione ma repubblica, abbattere ogni
privilegio, confidare nel popolo a cui quelli non erano ricorsi. Venne
sistemata a modo delle guerriglie, giacchè derivava dalla solita fonte;
e la dirigevano da Londra Mazzini, da Malta i modenesi Giovanni e
Nicola Fabrizj; stampava le sue declamazioni e i suoi intenti; e fin
dai primordj apparve una sentenza di morte, eseguita col pugnale contro
un preteso traditore.

Anche questa società parve più diretta a generare martiri che ad
assicurare la vittoria, mostrando perseveranza di moto più che
evidenza di meta. Il primo atto importante ne fu la spedizione di
Savoja. I nostri rifuggiti comprarono una mano di que’ Polacchi che
erano scampati dalla loro patria quando fu anch’essa abbandonata e
vinta, e sotto al generale Ramorino, genovese che avea combattuto in
Polonia, mossero dal lago di Ginevra e da Grenoble verso la Savoja
(1834 gennajo). I proclami dicevano, dovunque è despotismo, essere
sacro dovere l’insurrezione; delitto il non seguire la bandiera di
questa allorchè il momento sia giunto; non concepire essi l’Italia che
repubblicana, una dall’Alpi al Faro, non federativa; aspirare a fondare
una Roma del popolo, centro d’una grande e libera unità religiosa,
politica, sociale.

Ma parte furono arrestati sul territorio svizzero; alcuni entrati in
Savoja non incontrarono il minimo assenso nel popolo, nè disertori
dalla truppa, e pochi gendarmi li dissiparono. Malissimo concepita,
peggio condotta; pure volle spiegarsi colla solita bubbola del
tradimento, affisso al Ramorino.

Carlalberto avea già prima istituito corti marziali sotto di uffiziali
inesorabili, come il generale Galateri governatore d’Alessandria e il
Cimella nizzardo, e di cavillosi curiali; processati sessantasette
militari dal sergente in giù, dodici furono fucilati, anche alle
spalle, trenta alle galere «per aver avuto notizia della congiura,
per aver letto o fatto circolare un libro contrario ai principj della
monarchia». Coll’avvocato Andrea Vochieri d’Alessandria il Galateri
insisteva perchè rivelasse, promettendogli grazia; ed esso gli
rispose: — La sola grazia che desidero è che mi liberiate della vostra
presenza». Il generale gli dà un calcio nella pancia, e l’inquisito gli
sputa in viso. Galateri esacerbò la morte di lui facendolo traversar
le vie dove abitava, sicchè la moglie e i figliuoli lo vedessero, e
alla fucilazione assistette in grand’uniforme, pippando appoggiato a
un cannone[212]. Giacomo Ruffini genovese si ammazzò in prigione: suo
fratello fuggì in tempo per narrare, più tardi e ricreduto, le trame e
le speranze. E molti furono gli esigliati[213], molti i dolenti, molte
le decorazioni al Galateri e ad altri zelanti.

Dopo la spedizione di Savoja furono fucilati Volonteri e Borrel caduti
prigionieri in quella, ed altri processati; e il non sospetto Gualterio
assicura che Carlalberto ne provasse poi dolore e rimorso, e dal
bisogno d’espiazione cominciasse la sua vita ascetica. Certo quel re
assentiva ai concetti e ai comporti del duca di Modena[214], e lasciò
rinnovarsi l’onnipotenza della Polizia: in conseguenza tornò odioso
ai Liberali, che gl’imputavano di favorire a Gesuiti e missionarj,
aver cercato la beatificazione d’Umberto di Savoja e di Bonifazio
arcivescovo, dato ricetto a un prelato Pacca, già direttore della
Polizia di Roma, poi scacciatone per sozzure; favoreggiato alla fazione
che in Ispagna ed altrove contraddiva alle costituzioni: garantito
un prestito di seicentomila lire fatto dai Pallavicini di Genova alla
duchessa di Berry per tentare una controrivoluzione in Francia, dove
su bastimento genovese sbarcò infelicemente[215]: sicchè Carlalberto
fu denunziato per sanfedista con tanta giustizia, quanto una volta per
Carbonaro.

Anche l’Austria cominciò processi, dove il tirolese Zajotti, già
partecipe alle cospirazioni o alle speranze italiche, nel 1815, fu
chiamato a tradurre in requisitorie criminali i suoi epigrammi da sala
e le sue critiche di giornale: molti furono condannati a morte, a tutti
commutata in carcere temporario, poi nella deportazione in America.

E di nuovo ne usciva un effetto opposto di quel che i Liberali aveano
sperato, crescendo l’influenza dell’Austria sulla penisola. Che essa
mirasse a ingrandire di territorio è una baja, accettata da quella
credulità ch’è propria de’ tempi di rivoluzione; ma è vero che,
sentita necessaria dai principi, e ai popoli non suoi men odiosa,
che i principi proprj, essa poteva dirsi arbitra dell’italiche
sorti. Nesselrode, Fiquelmont, Ancillon, rappresentanti della Russia,
dell’Austria, della Prussia, a Berlino convenivano che i loro sovrani
cercherebbero far adottare, che un principe, nel cui dominio scoppiasse
una rivolta, ha diritto di chiamar in soccorso il sovrano vicino
che sia in grado d’ajutarlo a ristabilire la tranquillità, senza che
verun altro Governo possa opporvisi o rimostrare. Francia dichiarò
non lascerebbe applicare questo dogma di diritto pubblico al Belgio,
alla Svizzera, al Piemonte, ma Metternich incaricava il conte Appony,
ambasciadore austriaco a Parigi, di chiarire quel ministero che il
suo imperatore era risoluto di portar soccorsi anche al re di Sardegna
qualora li domandasse, quand’anche dovesse seguirne una guerra. A ciò
risolveasi il proclamato non-intervento.

Che che ne blatterino i caffè, la politica pontifizia fu sempre gelosa
del predominio austriaco; Leone XII non meno che Pio VII ne stettero
in guardia; molto più il cardinale Bernetti, segretario di Stato di
Gregorio XVI. S’adoprò egli vivamente perchè gli Austriaci uscissero al
più presto: e di fatti non rimasero in Bologna che fino al 15 luglio
1831, quando le varie potenze si furono obbligate a conservare il
dominio temporale della santa Sede. Ma persuase che non si otterrebbe
mai tranquillità se non adattando il Governo ai tempi, chiesero al papa
v’istituisse assemblee comunali e provinciali di elezione popolare; una
giunta centrale sindacasse gli uffizj amministrativi; secolarizzate le
cariche pubbliche; con cittadini notabili si componesse un consiglio di
Stato[216].

Tali promesse arrisero ai Romagnuoli, e confidarono nell’êra nuova
che il Bernetti aveva preconizzata pubblicamente: ma ben presto fu
disdetta, e negate le riforme che era bello attuare quando non avevano
aria d’essere strappate a forza. L’editto del 5 luglio 1831 la nomina
de’ consigli comunali e provinciali attribuiva non al popolo, ma al
preside di ciascuna provincia; esclusi i secolari dal Governo delle
Legazioni; nè consentito d’aggiungere un Consiglio di Stato laico
al sacro Collegio[217]. Prendeasi paura de’ moderati quanto de’
sommovitori, e forse più, perchè contro loro non si poteva invocare gli
Austriaci.

Si dovettero aggravare le imposte, giacchè in que’ tre anni lo Stato
ebbe a spendere otto milioni cennovantottomila scudi più dell’entrata:
si comprarono due reggimenti svizzeri, il cui impianto costò
cinquecentomila scudi, e trecensessantamila l’annuo mantenimento: si
ordinò il disarmo delle Legazioni, alle guardie urbane surrogando corpi
di volontarj, cerniti alla peggio, che diventarono tiranni e ladri
atroci. Inveleniti gli animi, si ripigliarono le coccarde tricolori;
la guardia urbana si fece deliberatrice, e fioccarono petizioni;
una deputazione d’onorevoli cittadini andò a Roma a chiedere i
miglioramenti cui il paese pareva maturo. Non ascoltati, l’opposizione
prorompe; avvisaglie in molti luoghi (1832); a Cesena la guardia
urbana sostiene giusta giornata; e le truppe pontifizie (20 genn.)
sconfiggono, trucidano, saccheggiano Cesena e Forlì. Decentissimo
titolo d’invocare gli Austriaci, che si schierarono da Bologna a
Rimini, ricevuti con applausi e feste perchè terminavano l’anarchia.
A governo delle sottomesse Legazioni stette l’inetto Albani, e a suo
fianco il Canosa, minacciando forche.

La Francia si era fatto perdonare dalle Potenze le sue _gloriose
giornate_, ma stava sempre in sospetti perchè le sapeva avverse; e il
robusto ministero di Perrier, mentre reprimeva le sommosse interne,
vigilava che altri non soverchiasse di fuori. Della libertà o dei
diritti delle nazioni più non si discuteva: ma l’equilibrio gli
pareva scomporsi quando l’Austria tenesse un esercito là dove le altre
Potenze non recavano che trattative. Ecco dunque tre legni francesi,
con rapidità inusata traverso il faro di Messina occupano Ancona (22
febb.), la cui fortezza, munita di trentasei cannoni e seicento uomini,
non fece la minima resistenza ai mille ottocento Francesi, i quali
professavansi amici della santa Sede. Il colpo inaspettato stordì noi
e i nemici; il papa protestò e fece levare le proprie insegne; già si
moveano Pontifizj e Austriaci per togliere in mezzo Ancona; e d’una
conflagrazione generale si lusingavano quei che nella guerra ripongono
le loro speranze. Ma anche questa volta la diplomazia sviò il nembo; e
il papa consentì all’occupazione, che fu resa regolare sostituendo il
generale Cubières a Combes e Gallois che aveano fatto lo sbarco.

Mentre in Ancona le parti agitavansi in modo che il papa scomunicò
i capi e Cubières espulse i rifuggiti, condannò, represse, questa
bandiera tricolore in Italia rimaneva iride pei molti, che non
ancora s’erano disingannati degli esterni rinfianchi. Anche a Jesi
un Riciotti, schiuso allora dalle carceri politiche, menava una
colonna mobile a taglieggiare i facoltosi, assassinò il gonfaloniere
Bosdari, e presentò una domanda di moltissime riforme; e di politica
mascheravansi i latrocini e gli omicidj, fatti universali i sospetti
e l’ire, il Governo ristabilito si trovò costretto a mantenere costose
truppe, a seguire la politica straniera, e appoggiarsi ad una fazione
che pretendeva poter abusare sia in violenza sia in denaro. Bernetti
accattò reggimenti svizzeri, buoni e fedeli, sistemava le provincie
e i Comuni a modo della antica libertà, sebbene quelle istituzioni,
altra volta opportunissime, repugnassero all’accentramento, vagheggiato
dai moderni: e un corpo de’ volontarj, che presto salì a cinquantamila
uomini, divisi in centurie sotto capi conosciuti, col che il popolo si
avvezzava all’armi, nè sarebbe stato difficile un giorno trasformarlo
in esercito. Ma ciascun milite dovea dare giuramento, sicchè più che
esercito, era una setta contro i Liberali, e che opponendo violenze a
violenze sistemava la guerra civile.

Il Bernetti avea maggior pratica e accorgimento politico che tutti
i cardinali, e proposito di conservare l’indipendenza dello Stato
romano; del resto ignorava le particolarità dell’amministrazione,
lasciò dilapidare le finanze e impinguare sue creature: ed esecrato
dai Liberali come repressore della rivoluzione, dai Pontifizj come
novatore, dagli Austriaci come quello che aveva dimezzato l’ingerenza
data ad essi su tutta Italia dalla rivoluzione, Gregorio XVI lo
congedò, procacciandosi così un’opposizione in lui e ne’ suoi.

Gli sottentrava (1836) Luigi Lambruschini genovese, nunzio in Francia
sino alla caduta di quei re da cui era amato; dotto, leale, costumato,
zelantissimo dell’autorità pontifizia e de’ diritti clericali, ma
repugnante da’ Governi ammodernati, credendo l’assolutezza necessario
riparo alla irreligione non meno che agli scompigli politici. Non
curante delle ricchezze, ma gelosissimo del potere, non mitigava i
comandi, locchè rendevalo esoso in paese di tanti orgogli e in tempi
ove uno non si accontenta di abbassarsi se non per la certezza di
essere tosto rialzato. Venne dunque imprecato per austriacante, come
erasi imprecato il Bernetti all’Austria discaro.

Intanto da una parte il liberalismo, le società segrete e lo spirito
d’insubordinazione dichiaravansi causa di tutti i mali; ma che essendo
opera di pochi agitatori, colla forza potrebbonsi reprimere: dall’altra
parte lanciavansi accuse assurde contro chiunque esercitava il potere
o lo serviva; tutti doveano essere emissarj dell’Austria, ogni delitto,
ogni sventura imputarsi a loro; uno era promosso a dignità o a carica?
bastava perchè venisse gridato sanfedista e se ne dissotterrassero
mille antichi e nuovi reati. Ogni tratto rinnovandosi qualche sommossa
o clamorose dimostrazioni, e più spesso assassinj, detti politici,
bisognavano la forza e gli spioneggi. Inoltre per tutto ciò bisognava
levar prestiti, ipotecare, vendere, por tasse anche sui beni del clero,
ritenere sul soldo degl’impiegati. Di riforme si cessò di parlare: se
i potentati ne rinnovassero le istanze, opponeasi l’indipendenza che
ciascun Governo deve avere nei proprj atti.

I mali furono accresciuti da un nuovo, il cholera, che non solo
patimenti aggiunse ai patimenti degl’Italiani, ma ebbe importanza
politica.

Nell’India serpeggiava da lungo tempo questa malattia, che talora
manifestavasi fulminante con atroci coliche e tetano e pronta morte;
talvolta comincia da prostrazione di forze, scioglimento di corpo,
strazj allo stomaco, borborigmi, vomito; vi seguiva l’algore, con
sete inestinguibile, affannoso respiro, spasmodiche contrazioni,
color violaceo alla pelle, chiazzata di nero; intanto dejezioni e
vomito, e sudori freddi e morte. Varie le opinioni sull’indole sua,
incertissima la cura, e quasi sempre inutile dopo i primi momenti; e
poichè gl’inglesi la trovarono somigliante al _cholera morbus_ del 1669
descritto da Sydenham, le applicarono quel nome, ahi presto ripetuto in
tutte le lingue. Desolata l’India e principalmente il Bengala, invase
l’Arabia, e colle ossa di migliaja di pellegrini segnò la strada che
percorrono le carovane devote e le mercantili: per tredici anni corse
micidiale l’Asia e l’Africa, sinchè nelle guerre contro la Persia
gittossi sull’esercito russo che lo recò in patria, donde nella Polonia
quando questo andò a sottometterla, e di là propagossi a tutta Europa
per Berlino e Vienna, ove giunse il settembre 1831, mentre per Amburgo
spingeasi in Inghilterra e a Parigi il marzo 1832.

Devastò le Americhe nel 1833; nel 34 e 35 la Spagna, gli Stati
barbareschi, di nuovo la Francia: infine accostatosi a noi, nel
luglio del 35 attaccò Nizza, di ventiseimila abitanti uccidendone
ducenventiquattro; a Cuneo quattrocenventicinque di diciottomila; poi
a Torino ducentosei; a Genova duemila cencinquanta sopra ottantamila
abitanti, morendone fino trecento in ventiquattr’ore; sopra novantamila
a Livorno mille centrentanove. Serpeggiò poi sul litorale Adriatico,
e nelle Provincie di Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Verona, dallo
ottobre del 1835 all’ottobre del 73, colpì quarantatremila quattrocento
ottantadue persone, uccidendone ventitremila cenventitre; in Lombardia
di cinquantasettemila che malarono, morirono trentaduemila. Di qui
si comunicò al Parmigiano e Piacentino; poi alla riviera di Levante,
mentre invadea pure il canton Ticino e la Dalmazia. Entrato in Ancona
nell’agosto del 35, uccise settecentosedici persone; passato in Puglia
malgrado la severissima quarantena, s’appigliò a Napoli in ottobre,
facendovi cinquemila ducentottantasette vittime; ripigliò nel marzo
del 37, uccidendo in un giorno fino quattrocenventicinque persone,
e in tutto tredicimila ottocento; e per tutto il regno si dilatò in
modo, che mentre la popolazione crescea di cinque per cento l’anno,
si trovò diminuita di sessantamila settecento. Di peggio sofferse la
Sicilia, e nella prima metà di luglio in Palermo perirono fino mille
persone il giorno; milleottocento nel giorno 10; e di sessantamila
abitanti in quattro mesi ventiquattromila, e duemila della guarnigione,
sicchè presto mancarono impiegati agli uffizj, medici ai malati,
preti alle esequie, sepoltori ai cadaveri. Messina restò immune, ma
a Catania di cinquantaquattromila abitanti soccombettero cinquemila
trecensessanta; e sui due milioni di tutta l’isola, ben sessantanove
mila ducencinquanta. A Roma penetrò uscente luglio del 1837, e ai 29
agosto contaronsi ducentottantasei vittime; in due mesi cinquemila
quattrocendiciannove, e i cencinquantaseimila abitanti trovaronsi
scemi di ottomila. Altrettanto infierì ad Anzo, Civitavecchia, Tivoli,
Subiaco, altrove, risparmiando Frascati, Albano, Velletri. A Firenze
pochi guasti, gravissimi a Livorno: nè venner meno la costanza de’
medici, la pazienza di preti e frati, l’abnegazione dei Fratelli della
misericordia e delle Suore di carità; persone derise e insultate nel
tripudio, cerche e benedette nella sventura, per vilipenderle subito
cessata.

Disputavasi sulla natura di quel morbo se fosse contagioso od
epidemico; e se il progredire suo naturale e la provata derivazione
de’ primi casi faceano crederlo propagato per contatto, si vedea
poi spiegarsi col furore e coll’intrepidità d’un’epidemia. Da qui
incertezza sui ripari; alcuni paesi chiudeansi con cordoni militari
e lazzaretti; col male entravano lo sbigottimento e il disamore, i
medici, avvolti in cappe cerate, gli spedalinghi colle maschere, i
sacerdoti con essenze odorose e aceto e cloruri, cresceano lo sgomento.
Eransi vantate come un acquisto della civiltà le contumacie, per cui
l’Europa potè relegare fra i Musulmani la peste orientale; ora il
secolo che tutto calcola, trovava che esse rallentavano i commerci e
la necessaria rapidità delle comunicazioni: quindi sosteneva non essere
contagioso il cholera; fosse anche, peggior danno veniva agl’interessi
dalle quarantene che non dalla perdita d’alcune migliaja di vite.

I Governi principalmente, avendo bisogno di mandare eserciti qua e là a
spegnere le rivoluzioni, e di non istaccare dal centro amministrativo
le estreme membra a cui non aveano lasciato altra vitalità, pendeano
a dirlo epidemico. Ma mentre da prima si era imprecato contro i
Governi che non metteano cordoni sanitarj, dappoi si esclamò perchè
gli avessero messi quando impacciavano le fughe e le comunicazioni; se
questi Governi onnipotenti non tennero indietro il morbo, fu a bella
posta per decimare i sudditi, per deprimere gli spiriti; giacchè un
potere senza limiti deve subire una responsabilità senza limiti.

La gente che si crede savia, diceva tali propositi per l’insito
spirito di opposizione; ben presto li disse terribilmente il vulgo,
che, quasi ad attestare come poco avesse progredito in ducent’anni
e malgrado la diffusione d’un romanzo popolarissimo, volle subito
vedervi morti procacciate ad arte. I sintomi del male, tanto simili
a quei dell’avvelenamento, induceano siffatta credenza: gli ampollini
che i medici ordinavano per guarire, i profumi di materie corrosive,
credeansi veleni stillati a bella posta: a chi riflettesse che nessun
motivo poteva spingere a tanta scelleraggine, rispondeano, troppo
fitta essere la popolazione, i Governi volerla diminuire, e perciò
avere ordinato ai medici d’attossicarli; o i medici stessi volerli
spingere subito al sepolcro perchè il morbo non si propagasse. Da
qui un sottrarsi alle cure, nascondere gl’infetti, e così fomentare
la diffusione; poi a volte assalire i medici, obbligarli a bevere i
medicamenti, batterli, ucciderli, se non altro guardarli con truce
iracondia. Tali scene furono universali; i modi della manifestazione
variati secondo il paese e il Governo. La Compagnia della misericordia
in Toscana, ammirata per eroica carità in tutte le epidemie e
in questa, si gridò che avvelenava, e fu aborrita, violentata. A
Roma, dove nè ospedali nè soccorsi eransi preparati, si permise
un’illuminazione per ottenere e per ringraziare d’esserne liberi, si
espose un angelo che riponea la spada nel fodero, e poichè appunto in
que’ giorni raffittì la mortalità, il popolo ne diè colpa a un Kausel
maestro d’inglese e lo trucidò.

Nel Regno questo male esacerbò le ire contro il Governo e quelle degli
isolani contro i continentali, inducendo che da Napoli fosse venuto
il veleno e l’ordine di sterminare i Siciliani, tanto più dacchè,
quando il cholera ebbe invaso Napoli, si sciolse la rigorosa quarantena
fin allora tenuta. I Siciliani dunque si ostinarono a respingere
le navi provenienti da Napoli, a non voler ricevere truppe perchè
infette, a non mandar denari perchè erano quivi necessarj: le città
chiudeansi come in assedio: guardie ai pozzi, ai forni, alle porte.
Un vecchio fugge con suo figlio alla campagna, e i villici gridano
all’avvelenatore, li battono, li arrostiscono; otto altri al domani,
diciassette ne’ dì seguenti, poi trenta a Capace, ventisette a Carini,
sessantasette a Misilmeri, trentadue a Marineo, fra cui il parroco e
il giudice; molti altrove, alla fiera superstizione intrecciandosi le
vendette e le passioni particolari. Taciamo del vulgo, ma il cardinale
Trigona arcivescovo di Palermo, côlto dal morbo, non volle rimedj, come
inutili contro il veleno; lo Scinà, fisico valente e buono storico, ai
primi sintomi corse dal direttore di Polizia suo amico, scongiurandolo
a dargli il contraveleno, che supponeva dovesse aver da Napoli ricevuto
insieme col veleno stesso. Un farmacista, accusato d’attossicare,
nasconde l’arsenico sotto il letto: la serva che vede, lo denunzia,
e trovata la polvere, e fattane l’esperienza su cani, si vien nella
persuasione ch’egli volesse assassinare. A Siracusa si trucidano
l’ispettore di Polizia, l’intendente della provincia, il presidente
della gran Corte ed altri fin a quaranta, e molti nel contorno. Un
avvocato Mario Adorno, che a capo d’una banda promoveva il tumulto,
pubblicò quel morbo aver trovato la tomba nella patria d’Archimede,
essendosi scoperto che proveniva dal nitrato d’argento, sparso
nell’aria da scellerati che n’ebbero degno castigo. Tal persuasione si
mesce ai rancori politici: a Catania, spiegata la bandiera siciliana,
si grida che il cholera non è asiatico ma borbonico, si abbattono le
statue e le arme regie, si forma un Governo provvisorio, proclamando
la costituzione del 1812; i cento uomini appena che stavano di
guarnigione in una città di settantamila, vennero facilmente disarmati;
Santanello, comandante di piazza, si offerse vittima espiatoria; ma
inseguito come avvelenatore, a stento campò. I prudenti giunsero a
reprimere quel movimento; e già era calmato quando v’arrivò il Del
Carretto ministro di Polizia coll’_alter ego_, e cominciò a servire
contro i sollevati; da settecencinquanta furono arrestati, cenventitre
condannati a morte, centrenta a pene minori; passato per l’armi Mario
Adorno; Siracusa privata dell’intendenza e dei tribunali provinciali,
trasferendoli a Noto. Rimase l’odio, rimase la persuasione d’un’immensa
scelleraggine[218], quasi a dare un’altra lezione di umiltà al secolo
che si vanta di ragionevolezza.

Anche altrove si tentò profittare del disordine per ribellare i popoli,
e massime in Romagna: Viterbo si ammutinò, e fu repressa con forza
e condanne: a Penne, col pretesto si fosse attossicata una fontana,
sventolossi la bandiera tricolore, e ne seguirono supplizj: in altri
paesi di Calabria vuolsi che veramente alcuni spargessero veleni
per confermarne la voce e lo scredito del Governo, e se ne eressero
processi regolari, suggellati con supplizj.

Eppure il cholera coadjuvò non poco a chetar le rivoluzioni, giacchè
da una parte i popoli, sgomentati dal nuovo flagello, restrinsero
sulle vite minacciate l’attenzione che volgeano alle ambite libertà,
e i Governi poterono trarsi in mano i mezzi necessarj a prevenire
il male o a reprimere il disordine, rinvigorendo i rilassati loro
ordigni, e coi cordoni sanitarj opponendosi anche al contagio delle
idee, e compiacersi ancora una volta d’aver rimesso al dovere l’Italia
senz’accondiscendere a’ desiderj di essa.



CAPITOLO CLXXXV.

Letteratura. Classici e Romantici. Storia. Giornalismo.


A questi movimenti politici accompagnavansi altri non meno notevoli
nella letteratura. Sulla quale noi ci badammo sempre più che sulle
scienze, perchè queste son d’ogni paese e al loro progresso tutte le
nazioni contribuiscono, quella porge il carattere de’ popoli. Essa avea
poco contribuito in Italia a preparare la prima rivoluzione, poco a
impedirla, poco a propagarla, attesochè i giornali repubblicani erano
polve quando non fossero sterco, e il Monti (1733-1828), unico che
sopravviva, fece discredere alle bestemmie colle lodi e viceversa.
In Roma abate ed arcade, primeggiando fra poetonzoli, simili a
uccelli in muda che ogni rumore eccita al canto, egli preconizzava
gli Odescalchi e i Braschi, i matrimonj e le feste, abituandosi a
veder le cose da un solo aspetto e ad ispirarsi delle cose presenti,
dal che doveano derivare tanta leggiadria alle sue produzioni, tante
macchie al suo carattere. Nella _Visione d’Ezechiello_ e nei sonetti
su Giuda parea smarrito nel mal gusto fra il Marini e l’Ossian,
ma Ennio Quirino Visconti lo invogliò de’ classici; ed egli, che
sempre s’informò sopra gli autori che ammirava, ne colse frasi
d’irreprensibile eleganza, splendide immagini, artifiziose perifrasi,
larga onda armonica, accoppiando la maestà de’ Latini, la limpidezza
del Cinquecento, la pompa del Seicento, le immagini de’ coloristi, la
fluidità de’ frugoniani. V’aggiungeremo l’arte di addobbare all’antica
le cose nuove, alla poetica le positive, come fece nella _Bellezza
dell’Universo_ e nell’ode per Montgolfier. Ma chi questa paragoni con
quella del Parini a Silvia s’accorge quanto egli arretrasse dal punto
ove la poesia era stata portata dall’austero Milanese. Nè in verità
può dirsi che il Monti creasse e lasciasse alcuna maniera sua propria.
Colla _Bassvilliana_ parve raggiungere il senso mistico de’ Trecentisti
nel fare il mondo dei vivi stromento d’espiazione e riconciliamento ai
morti; ma collo sviluppo di quella macchina e col riprodurla in cento
occasioni senza amore nè fede, palesò che dal mondo postumo non sapea
trar fuori che ombre.

Suo vanto lo splendore delle immagini; suo debole la scarsezza di
senso morale, avendo ambito la lode di gran poeta più che quella di
cittadino coscienzioso. Corso nella Cisalpina a farsi perdonare gli
encomj dati ai re col bestemmiarli, di nuovo dovette farsi perdonare il
repubblicanismo da Napoleone col cantarne tutti gli atti (pag. 172):
poi quando Napoleone cadde, celebrò il _Ritorno d’Astrea_ in paese
grondante sangue e fiele; ma «il sapiente, il giusto, il migliore dei
re Francesco Augusto», ch’egli chiamava «turbine in guerra e zefiro in
pace», gli sospese il titolo di storiografo e gli assegnamenti. Eppur
egli «per secondare le generose intenzioni della illuminala superiore
sapienza», scrisse la _Proposta_, e col Giordani e col mantovano
Acerbi piantò la _Biblioteca italiana_, giornale governativo; mentre
mancatigli i re, cantava gli Archinti, i Trivulzj, altri mecenati
e un Aureggi che lo teneva a villeggiare. Giovane avea cominciato
un poemetto _La Feroniade_, tutto diamanti mitologici per celebrare
l’asciugamento delle paludi Pontine. Lo indirigeva al principe Braschi:
ma nol compì, e sotto il regno d’Italia dedicollo ad Amalia viceregina;
spodestata questa, pensò intitolarlo a Pio VII; infine si risolse per
la marchesa Trivulzio, e così il pubblicò, e saranno forse i più bei
versi di fattura mitologica, e probabilmente gli ultimi.

I tempi, strascinando a cambiare fra tanti cambiamenti, non lasciano
se non da esaminare se l’uomo fosse di buona fede: ma a chi si pente,
non rimane che ritirarsi in silenzio; conosciuto falso il sistema
sostenuto, non può farsi apostolo del contrario; salvo in verità
evidenti come le religiose. Il Monti metteva ingenuità nelle sue
affezioni, forte sentendo comechè illuso, colorando con entusiasmo le
immagini che gli attraversassero la fantasia; ma al termine di ciascuna
composizione chiudea le partite: aveva empito le orecchie con torrenti
d’armonia; domani verrebbero altre impressioni, e su quelle ordirebbe
un altro componimento, cangerebbe la sonata sul suo istromento senza
brigarsi di quella di jeri mentre ancora rimbomba nelle orecchie
degli ammiratori. Difetto della scuola, la quale attendeva alla forma
non all’essenza, a presentare una sola faccia; insegnava a cantare,
non qual cosa si dovesse cantare; vagheggiava unicamente il bello,
non la connessione dell’arte colla vita, del poeta coll’uomo e col
cittadino. Allevato a lodare, il Monti lodò sempre, o bestemmiò per
lodare; tutto occupato della forma, col fare largo e sicuro, colla
sprezzatura maestrevole, colle reminiscenze così assimilate da parere
spontaneità, conquistò il titolo di principe de’ poeti. Ma la primazia
non fu indisputata; e durante la repubblica bestemmiavasi il cantore
di Bassville da tutti quelli che aspiravano alla gloria col porsi
ostili a un glorioso: Berardi celebre improvvisatore avventogli uno
sconcio sonetto; con un sonetto infame, il Monti marchiò tutti i suoi
avversarj, poi colle splendide contumelie della _Mascheroniana_. Le
ostilità prolungaronsi durante il regno d’Italia; e massimamente il
Gianni alleatosi col giornalista Urbano Lampredi, col Latanzio, col
Leoni, attossicarono le lodi e le dignità conferite all’illustre: ma
neppur l’ira li elevò a quella critica generosa, davanti alla quale
affiocavasi la fama del Monti; ed esso ripagò ad usura nel _Poligrafo_,
pur troppo col suo nome togliendo vergogna a’ manigoldi della
letteratura, i quali ne appresero gli scherni, non quello spirito che
fa parer meno acerbo il morso d’un’ape che d’una vespa. Eppure il Monti
era onestissimo uomo, subitaneo all’ira ma pronto alla riconciliazione,
volenteroso di giovare, capace di calde amicizie, prodigo di lodi anche
a mediocri, che vivran solo perchè da lui mentovati, non disprezzatore
de’ principianti, nè astioso a’ preveduti suoi successori.

Pari inconsistenza nelle opinioni letterarie. Egli ingrandito col
celebrare gli avvenimenti giornalieri; egli che avea ridotto lirico il
poema e fin la tragedia, redimendola dall’aridità alfieriana; egli che
erasi agevolate le invenzioni con tante ombre e fantasmi, e ricalcato
un poema intero sopra il falso Ossian, vecchio uscì a rimpiangere la
mitologia bersagliata.

Fra i letterati interamente retori, e quelli per cui la letteratura
era un’azione e un sacramento, stava Ugo Foscolo (1776-1827). Jonio,
ma italiano di origine, di educazione, di studj, prese viva parte
alle commozioni rivoluzionarie, poi allo sfavillante regno italico,
fin dall’origine diviso tra generosi impeti e materiali istinti, tra
elevatezza di parole e bassezza di fatti, tra forme rigorosamente
classiche e pensieri nuovi. Dal _Werter_ di Göthe prese il concetto
del suo _Jacopo Ortis_: ma mentre l’autor tedesco conserva rigorosa
semplicità di passione, cioè un amore di fantasia più che di cuore,
nudrito d’orgoglio e d’egoismo, Foscolo vi mescolò l’elemento politico,
dividendo il suicida fra l’amore per Teresa e il disgusto della mal
donata libertà italiana. Così svanisce l’interesse che uom prende a un
carattere che spiega tutto l’accordo delle qualità molteplici, eppure
conserva l’individualità propria; mentre la passione non è nobilitata
dallo sforzo del resistervi. Il mondo non solo, ma egli pure identificò
se stesso col suo eroe; e la vita di lui vi si prestò, nella quale
ostentando eccellenza morale nell’atto di abbandonarsi a passioni
procellose insieme ed effimere, piaceasi di affrontare lo scandalo e
vantare le proprie debolezze; come que’ sensuali esaltati che godono
filosofando, tradiscono moralizzando, mendicano bassamente con frasi
pompose. Col titolo di soldato e coll’affettarsi spadaccino, tentava
soverchiare chi se ne sgomentasse, pronto a recedere davanti alla
risolutezza: caro alle donne, che facilmente sono attratte da ciò ch’è
alto, affascinate da ciò che soffre, rinterzava intrighi sui quali
non stendeva un velo prudente, anche prima che indiscrezioni postume
li traessero al pieno giorno: bisognoso di catastrofi e di fuggir la
noja mediante l’azione, la cercò col far della letteratura un campo
di assalti e difese, della polemica una professione di dottrine. Fra
gente dedita alla più comoda eresia, la noncuranza di principj, esso
vuol averne; e poichè il cristianesimo era affatto fuor d’uso, egli
si ricovera nello stoicismo, che quanto facilmente coincidesse colla
pratica epicurea l’abbiamo potuto vedere nel tramonto dell’impero
romano. Sentendo molto, poco ragionando, ha concetti sempre dedotti
da altri, senza precisione e avvolti in nebbia; per paura del senso
comune avventasi nel paradosso, mirando a un bersaglio, ma sempre
travalicandolo; pure vede nella letteratura meglio che un trastullo,
e la necessità di darle un fondamento più largo e più solido, sebbene
non l’abbia egli fatto, e di non separare il letterato dal cittadino;
coi _Sepolcri_ e colla prolusione costringeva a pensare, lo che non
faceano i letterati di moda; sicchè gli scritti suoi sono tanta parte
della storia contemporanea. In quell’anima sua «che domandava sempre
d’agitare e d’agitarsi perchè sentiva che nel moto sta la vita, nella
tranquillità la morte», fece specchio di tutti gli avvenimenti, e
poichè non erano comuni, partecipò della loro grandezza. Dalle passioni
e dalla moda tratto a sollecitare i favori de’ ministri, rifuggiva
dal prostituirvi la dignità delle lettere: e qualche cenno, qualche
illusione, fin la parsimonia della lode vogliono essergli contate a
merito, perchè allora glien’era fatta colpa dalle sale dei grandi,
dispensatori de’ pranzi e della gloria; dalla gioventù che scoteva
colla potente parola, ottenne culto; la ciurma dei retori lo temette; i
principi reazionarj ne perseguitarono la memoria: sicchè amici e nemici
cooperarono a ringrandirlo, e la elevatezza di alcuni suoi concetti
trasse sciaguratamente a imitarne cert’altri che più s’opporrebbero
all’effettuazione di quelli.

«Anzichè un italiano moderno (dice Byron) egli è un greco antico»: e
in fatto nell’Ortis, non che discolpare, santifica il suicidio; dalla
mitologia vi deduce pensieri e affetti; all’amica legge l’odicina
di Saffo; si volge per consolarsi all’astro di Venere; pagano nelle
immagini e nei sentimenti, rinnega fino le speranze postume nel
Carme ove alle tombe chiedeva rispetto e ispirazione. Ma all’Italia
offriva uno sciolto, che non era quel del Parini nè di verun
predecessore; grandeggiante di cose, variato di suoni, con oscurità
affettata, e apparenza di voli lirici ottenuta col sopprimere le
idee intermedie e col surrogare alla prova le immagini, l’amor delle
quali e l’osservazione materiale aveva egli sviluppati nella vita
avventurosa. Il proposito d’uscir dal comune imprime al suo verso una
selvaggia grandezza; ma la prosa gliene riesce contorta, anelante,
impropria, cadendo nella gonfiezza per cercare l’eloquenza, sebbene
di conoscere il pregio della naturalezza siasi mostrato capace nella
traduzione del _Viaggio sentimentale di Yorik_. Lamberti, Lampredi,
il ministro Paradisi lo bersagliavano, scuola meramente retorica,
ed egli ripicchiava, — Odio il verso che suona e che non crea»: non
dissimulava il disprezzo pel_ Bardo della selva nera_; e lanciò al
Monti un epigramma invidioso più che arguto; Monti ne rispose uno nè
da poeta nè da uom civile[219], e minacciava di «sperdere fin la polve
de’ suoi _Sepolcri_»; il Governo «s’era fatto incettatore universale
delle gazzette, per notare sommariamente d’infamia gli uomini che non
ardiva opprimere sotto la scure», e Foscolo avventò l’_Ypercalipsis_
contro quella consorteria, donde trapela un orgoglio che par dignità e
non salva da bassezze, che, non domanda i favori del Governo ma invidia
quei che gli ottenevano. Avendo arrischiata qualche allusione alle
stragi napoleoniche, dovette uscire dal regno: ma più che de’ Governi
si lamenta de’ nostri «sciagurati concittadini, che gli uni sospettano,
gli altri si fanno merito a provocare sospetti; nè la prudenza giova
quando v’è chi, o per rimorso o per mestiere, interpreta le parole e
i cenni e il silenzio»[220]. Ricoverato in Toscana, e meglio accetto
quanto men grata v’era l’amministrazione francese, vi godeva pace
e nuovi amori, quando udì che crollava il colosso; e non parendogli
conveniente che i casi italiani si risolvessero senza di lui, tornò
esibendo la sua spada, e procurò imporre coll’urlo suo agli urli plebei
nella sordida giornata del 20 aprile. I nuovi padroni esibirono di
assoldar lui come militare o la sua penna come giornalista; ed egli,
esitato alquanto, preferì andar ramingo in Isvizzera, e la calunnia ve
lo inseguì fin a dirlo spia tra i profughi, e incaricato dall’Austria
d’indurre i Cantoni a estradire gli uffiziali rifuggiti. Ond’egli potè
applicare a sè quello che già nel 1798 scriveva in difesa del Monti:
«Coloro che hanno perduto l’onore, tentano d’illudere la propria
coscienza e la pubblica opinione dipingendo tutti gli altri uomini
infami. Quindi oppresso l’uom probo, sprezzato l’uomo d’ingegno, si
noma coraggio la petulanza, verità la calunnia, amore del giusto
la libidine della vendetta, nobile emulazione l’invidia profonda
dell’altrui gloria. Taluno, cercando invano delitto nell’uomo sul
quale pure vorrebbe trovarne, apre un’inquisizione sulla di lui vita
passata, trasforma l’errore in misfatto, e lo cita a scontare un
delitto di cui non è reo perchè niuna legge il vietava. Lo sciocco
plaude al calunniatore, il potente n’approfitta per opprimere il
buono, il vile aggrava il perseguitato per palpare il potente. Vecchia
italiana consuetudine di mietere e ricoltivare a sole splendido le
calunnie politiche che certi vostri uomini di Stato, offerentisi ad
ogni straniero, vanno seminando di notte; e a chi poi se ne lagna e gli
accusa e gl’interroga, lo consolano o lo confondono con l’abominare i
calunniatori, e col dire Nol so... Forse col restringervi ad arrossire
del livore, dei vituperj scambievoli, de’ sospetti inconsiderati, del
malignare le generose intenzioni, del presupporre impossibile ogni
virtù, del cooperare delirando fra i traditori, i quali col tizzone
della calunnia rinfiammano nelle città vostre le sêtte che sole
smembrarono le vostre forze, per lasciarle a beneplacito di qualunque
straniero, ed oggi pure vi trascinano a straziarvi l’onore, onde siate,
non che incatenati, ma prosternati, perchè essendovi schiavi infami
sarete più utili... adempierò all’assunto mio principale; ed è il
persuadervi che non vi resta partito, o Italiani di qualunque setta
voi siate, se non quest’uno, _di rispettarvi da voi, affinchè s’altri
v’opprime, non vi disprezzi_»[221].

Caratterizzando gl’Italiani, soggiungeva che «mentre quasi
tutti aspiriamo all’indipendenza, cospiriamo pur tutti alla
schiavitù... Questa setta è contenta dell’onore di bramare a viso
aperto l’indipendenza, e lascia ad altri il pensiero e i pericoli
d’affrettarla, e, per giunta, si lusinga d’impetrarla quando che
sia dalla commiserazione delle altre nazioni... Voi siete accanniti
in battaglia, accorti a discernere l’arti della tirannide, concordi
a dolervene, e inerti ogni sempre, e odiosamente diffidenti a
sottrarvene: e presumete di non vivere servi?»

Queste voci di petto quando non se n’udíano che di testa, spieghino ai
retori la costui grandezza, e l’influenza che ebbe sulla generazione
seguente, e il rincrescimento che si prova di non poterne altrettanto
ammirare il carattere. Fermatosi in Inghilterra, adoperò la penna per
vivere e per domandare, com’era costretto da un improvvido lusso e da
costosi vizj, i quali lo trassero a curvarsi alla fortuna in guisa,
che di gran lunga appajono a lui superiori le donne che amò, e che lo
ammansarono e nutrirono. Scrisse a difesa della Grecia sua; dell’Italia
compassionò più che non ammirasse le libertà infelicemente tentate; e
dopo i moti del 1821, i profughi giudicava o fanatici senza ardire,
o metafisici senza scienza, e deliranti dietro a cose impossibili;
«diffidenti calunniatori, avventati contro chiunque per carità della
loro e dell’altrui quiete, si prova a persuaderli di non assordare i
paesi forestieri con vanti, querele, minacce, le quali alla miseria
dell’esiglio aggiungono il ridicolo». E schivava costoro «i quali, e
come oziosi e come Italiani, sono indiavolati anche qui dalla discordia
calunniatrice, loro fatale divinità avita, paterna e materna, che li
segue e li seguirà perpetuamente in tutti i paesi e che temo rimarrà
eterna eredità a tutti i nostri nipoti». E a coloro che imputano gli
stranieri dell’infamarci con calunnie, delle quali in realtà siamo noi
gli artefici, intonava: «Quando il tempo e la violenza dei fatti vi
desta, voi vi guardate d’attorno colla sonnolenza dell’ubriachezza,
ad esecrare Francesi e Tedeschi, e missionarj di sante alleanze,
e ambasciadori che hanno versato sospetti e scandali a disunire e
infamare l’Italia ed ogni Italiano. Pur da che vi soggiogano senza
spandere sangue, hanno merito di prudenti. Ma se voi non voleste
ascoltare, nè credere, nè ridire sospetti e scandali; e se aveste fede
gli uni negli altri; e se non vi accusaste fra voi d’essere nati,
allattati ed allevati figliuoli di patria lacerata da dissensioni;
e se non vi doleste che ciascheduno di voi sta apparecchiato a
prostituirla per oro o per rame alle libidini di tutti gli adulteri;
e se non nominaste oggi l’uno, domani l’altro, a fare Tersiti de’
vostri Achilli, credo che la prudenza de’ vostri oppressori tornerebbe
in ridicola furberia, e l’avrebbero oggimai pagata del loro sangue;
sareste servi, ma non infami nè stolti. Se non che voi sciagurati
non lasciate nè lascierete mai che neppure i fatti, i quali fanno
ravvedere anche gli stolti, assennino voi, che pur siete scaltrissimi
ed animosi».

Cerniamo queste parole dalle lettere sue, raccolte a pericolo della sua
reputazione morale, ma a grande acquisto della letteratura, giacchè
saranno la più letta, forse la sola letta delle prose di lui dopo il
_Jacopo Ortis_; e dove, ritraendo in sè le malattie del secolo, pare
sottrarsi anche al definitivo giudizio della posterità, incerta se fu
un angelo o un demonio, un franco pensatore o un servile mascherato.

Terzo a rappresentare quella fase della letteratura viene Pietro
Giordani di Piacenza (1774-1848), che animato «da furiosa passione e
da violenta necessità di vivere studiando», ostinandosi sui classici
nostri e sui latini, faticosamente raggiunse uno stile lindo ma non
vivo, una frase naturale ma scarsa di concetti. Innamorato dell’arte,
l’applica accuratissimamente a tenui argomenti, ove le idee accessorie
soverchiano le principali; qualche grandioso soggetto gli balenò,
come la storia della lingua nostra, ma ricascava a descrizioncelle,
ad elogi, ad articolucci di circostanza, ove appena fra la retorica
dà qualche baleno dell’erudizione portentosa e del sicuro giudicare
per cui faceasi ammirare nella conversazione. In questa appariva
abbondante di parole, arguto di concetti, a volta fin eloquente,
largo di consigli, riboccante di benevolenza: eppure nelle epistole,
invece di abbandonarsi al sentimento, le stillava a segno, che tre
o quattro se ne trovano rigirantisi attorno a un pensiero stesso, o
affinchè vi ricorra una stessa frase; il pensiero e la frase di quel
giorno. Egli avrebbe voluto che tutte fossero distrutte[222]; invece
se ne pubblicò un’improvvida congerie, dove preziose sono le poche,
le quali trattano dell’arte, cercando sempre condurre i giovani «a
studiare ne’ sommi autori con qual sottile artifizio si lavori e
si pulisca lo specchio de’ pensieri», ad ottenere la semplicità, la
facilità, la chiarezza, la collocazione naturale. E certo merito suo
è l’avere, dall’infranciosamento o dalla pedanteria, rialzata la prosa
italiana verso quel ch’essa dovrebbe essere veramente per esprimere con
sembianza propria le idee e i sentimenti moderni, e d’avere proclamata
l’italianità. «Finchè scrivemmo italiano, le altre nazioni traducevano
i nostri libri; finchè dipingemmo italiano, venivano di là dai monti
e dal mare a imparar a casa nostra la pittura. Chi ci legge ora? chi
ci studia? chi ci prezza? E _questo è pure dappoichè_ non siamo per
nulla Italiani. Mi si dica che colpa è delle guerre? che insolenza
di vincitore? Quale spada ci minaccia, quale editto ci sforza a tanta
servitù?»

Secondo il diapason in uso, egli _adora_ il Canova e Michele Colombo,
Gino Capponi e il Dodici; gli è _divino_ Napoleone come il Cicognara,
come il Leopardi e molte signore; e del pari secondo lo stile corrente
affetta disprezzare tutto e tutti[223]; ne’ giudizj seconda la passione
più che il vero[224]; non rifugge dallo scrivere contro animo per
ordine del governatore austriaco[225].

Fra i molti che gli dirigeano espressioni di venerazione e domande di
consigli, fu Giacomo Leopardi di Recanati (1798-1837). Il conte Monaldo
suo padre, autore di scritture contro i progressi del secolo e la falsa
carità, avea copiosa biblioteca, di cui profittò Giacomo a segno, che a
quindici anni sapeva già tanto di greco e latino da comporre un inno,
che gli eruditi credettero antico; come fu creduta del Trecento una
da lui finta relazione di santi padri. Struggendosi del desiderio di
fama, scrisse al Giordani; e questo ne indovinò il valore, e scarco
delle invidie troppo solite nei già celebri, lo confortò, lo ammirò,
lo diede a conoscere ai famosi d’allora. Sventuratamente il Giordani
poteva invaghirlo della forma, non istillargli idee; e tutto fu
in persuadergli lo studio de’ classici, mai in elevarlo a pensieri
nazionali e religiosi, e al bisogno dell’originalità.

Era un altro vezzo di quella scuola il dir ogni male del loro paese
e del loro tempo: Foscolo lo bestemmia continuo; fino il buon Cesari
chiamò _miterino_ il secolo; e il Monti che gliene fece severo
ripicchio, disse tanto male del suo tempo quanto niun mai; il Giordani
si proponea di far un libro onde mostrare «per che gradi si siano
le lettere italiane condotte a questa barbara confusione, che ha
sommesse tutte le buone parti dell’arte di scrivere»: all’inesperto
Leopardi parlava sempre di mondaccio, di tempacci, di armento umano,
dove un buono e bravo è un’eccezione casuale e mostruosa, dove «non
resta che sopportare tacendo, e andare dal doloroso silenzio breve
all’insensibile riposo eterno».

Il Leopardi, predisposto all’ipocondria da una corporatura disgraziata
e da tale salute che diceva non fare movimento, non passar istante
senza dolore, sorbiva così la scontentezza di sè, degli altri, d’un
mondo che non conoscea, ma credeva tutto ribaldo. Impetrato dal
padre di vedere Roma, vi era consultato da grandi eruditi, i quali
sapeano applicare vitali faville ai materiali ch’egli non facea se non
raccorre; cercava qualche impiego, e mai non l’ebbe; venne a Milano
a lavorare pel librajo Stella; e intanto diede fuori poesie, che
ringiovanivano le forme di Dante e Petrarca, piene d’immagini, eppure
nutrite di sentimento. Il Monti, il Perticari, il Maj, stimolati dal
Giordani, gli sorrideano: ma deh! avesse trovato chi gli mostrasse la
sublime destinazione dell’uomo; gli eccelsi fini della letteratura,
la santificazione per mezzo del dolore, quell’affetto delle alte cose
ch’è principio della poesia! Pagano d’idee come quel Foscolo «che
pur faticando sull’orma del pensiero moderno, s’ostinò nelle forme
greche» (Mazzini), il Leopardi soffriva in sè e desolavasi, mentre
Ugo bestemmiava e godeva: questo sapeva la Bibbia non men che Omero;
inorgoglivasi della grossa voce, delle membra torose, vanto dei tempi
napoleonici; mentre nella pace meditabonda che succedette, il Leopardi,
logoro dagli studj e tossicoloso, stillava la quintessenza delle
angosce senza rassegnazione, mandando talvolta fin all’anima un gemito,
simile ai gridi idrencefalici. Per stile fermo, spontaneità di prosa
pensatissima, verso pieno di cose, Italia lo colloca fra i migliori
antichi, mentre era degno di sedere fra i primi scrittori moderni;
ma il Gioberti, suo grande ammiratore, riflette argutamente com’egli
fosse antico soltanto a metà, perchè al genio antico toglieva la fede
per surrogarvi la miscredenza moderna. In fatto, abbandonavasi alla
desolante filosofia che ci avvilisce sotto pretesto d’analizzarci, e
che esprime il rantolo d’una società agonizzante, non i potenti aneliti
della risorgente (dei risorgimenti egli si beffava); e col pensiero
scettico avvelenando un cuore che riboccava di affetto, Leopardi si
sgomenta «alla vista impura dell’infausta verità», nella vita trova
«arcano tutto fuorchè il nostro dolore», piange sull’infinita vanità
del lutto, e dispera. A Leonardo Trissino scrive che «la facoltà
dell’immaginare e del ritrovare è spenta in Italia... è secca ogni
vena di affetto e di vera eloquenza»: nella _Ginestra_, che danno per
la miglior sua poesia, insulta quelli che credono al progresso: e nel
guardare la «mortal prole infelice», non sa se ridere o compatire,
giacchè natura «non ha al seme dell’uomo più stima o cura che alla
formica», conchiudendo che la ginestra è «più saggia dell’uomo, perchè
non si crede immortale».

Così uno de’ più nobili ingegni che Italia abbia partorito, passò
rapidamente gemendo sui mali, proverbiando le follie e i vizj degli
uomini, senza conoscere le virtù nè credere alle generosità; in lotta
coi sofferimenti proprj e colla pubblica trascuranza, e negligendo «le
frivole speranze d’una pretesa felicità futura e sconosciuta»[226].

In coda a questi veniva la solita turba, devota a quell’antica
maniera stereotipa, composta d’un poco di immaginazione e un poco
di forme, con idee vaghe, espressioni esagerate, i fronzoli d’un
genere verboso e sterile, da cui fummo impediti d’avere fin ad oggi
una prosa nazionale; vagheggiavano gli stili mollicichi, prodighi di
epiteti generici e di classiche intarsiature, e privi di fisionomia
come donne imbellettate: pure discosti oh quanto dalla maestà e dalla
squisitezza del Monti! A Luigi Lamberti, al Paradisi, al Cerretti,
agli altri imperialisti mancarono l’elevazione di anima, la nobiltà
e costanza di pensiero, senza cui non si merita nome di poeta.
Abbondarono applausi al Biondi, al Betti, al Cassi che tradusse Lucano
più prolissamente dell’originale; al Mordani, al Perticari, ad altri
inzuccherati, che per darsi aria austera, rimbrottavano il secolo con
grosse ingiurie in classico stile, abbastanza indeterminate per non
irritare nè correggere. Paolo Costa ravennate (1771-1836), che non si
lasciò abbagliare dalla luccicante libertà[227], cercò trarre le regole
dell’elocuzione non dai precettori ma dall’indole dell’intelletto e
del cuore umano. Salvator Betti (1768-1830), buono perchè provveduto di
scienza, rivendicò molti vanti patrj nell’_Italia Dotta_. Il Biagioli
da Vezzano, buttatosi nella rivoluzione, nel 1799 si accasò a Parigi,
e vi aprì un corso di letteratura, a cui attirava gente col dare due
concerti musicali il mese; devoto alla scuola retorica, prendeva
entusiasmo per tutto, e fece non commenti, ma giaculatorie sopra
Dante e Petrarca. Anche Giovanni Ferri da San Costante di Fano prese
parte alla rivoluzione di Francia, poi vedendola eccedere rifuggì in
Inghilterra; reduce, è mandato a Roma a impiantare le scuole; al 1814
si ritira, e scrive _Ritratti e Caratteri_ e _Lo Spettatore italiano_,
ove profitta della cognizione dell’inglese per darci novelle, cui
la forma stentata scema l’allettamento. Anche molti traduttori, per
l’importanza che in Italia si attribuisce allo stile, acquistaron nome
a paro cogli originali; eppure non un solo ve n’ha forse che abbia
tolto la speranza di fare meglio.

Ippolito Pindemonti veronese (1753-1828), anima pura e inattivamente
gemebonda in estri «melanconici e cari», declama ora contro il
viaggiare, or contro la caccia, or contro i rivoluzionarj; esalta
la campagna, gli amici, le pie ricordanze de’ morti; a Foscolo fece
rimprovero di non saper «trarre poetiche faville» da oggetti men
lontani che Troja; lottò con Omero nel tradurre la difficile _Odissea_;
e palpitò di libertà nella tragedia dell’_Arminio_, nobile carattere
d’un difensore della patria indipendenza. Cesare Arici (1782-1836),
secretario all’ateneo di Brescia, ottenne fama estesa per molte
liriche mediocri, per una povera epopea sulla caduta di Gerusalemme,
per migliori didascaliche sulla pastorizia e sulla coltivazione degli
ulivi. E la didascalica, che un pensiero prosastico orna poeticamente,
apriva bell’arringo alle immagini, la ginnastica più consueta di quella
poesia; la quale fermava l’attenzione sulla frase, e colla forbitezza
delle parole, col cumulo delle metafore, col vezzo della perifrasi, la
sottigliezza de’ concetti, la peregrinità delle figure, la lambiccatura
de’ sentimenti, il rimbombo de’ suoni palliava la vulgarità del fondo.
Vi ottennero lode molti, nessuno raggiunse l’efficace parsimonia di
Mascheroni e di Foscolo, alla descrizione della natura mescolando
sempre i pensieri dell’uomo.

Mentre nei più l’allettativo delle fantasie sceveravasi dalla
convinzione delle anime, altri aveano esteso lo sguardo e veduto un
intero mondo di là dal serraglio accademico, e leggiadrie e sublimità
di poesia, ed elevatezza di sentimenti, e profondità di ragione,
convincendosi che la ricerca del bello non vuol essere limitata ad un
tempo, ad un paese, ad una forma. La Spagna si presentava coll’immensa
ricchezza drammatica, e colla cristiana e incondita originalità de’
comici e de’ romanzieri: l’Inghilterra col sentimento profondo e
la penetrazione della natura umana nel gigantesco Shakspeare e ne’
moralisti: la Germania con una folla di cantori ironici o passionati,
religiosi o scettici, tutti vibranti all’unissono delle idee umane,
alla cui testa Schiller, Göthe, Tieck, Schlegel, emancipavano l’arte
affinchè rappresentasse l’uomo, i tempi, la natura, cercavano il
ritorno estetico verso l’antica bellezza, meglio valutata e sotto forme
nuove e potenti, non isgomentandosi della trivialità purchè naturale;
dappertutto poi una poesia popolare, qual frutto spontaneo di ciascun
paese, di ciascuna età, che ha la verità non della storia, ma della
passione, che evoca le potenze della vita, dolore, piacere, onore,
virtù, voluttà; e in tutta la società moderna un movimento lirico
coll’ardore della libertà, col disgusto del presente, coll’inquietudine
intima e la speranza tormentosa, col tumulto delle idee nuove e il
presentimento delle loro metamorfosi.

Con ciò alla critica negativa, che stitica i difetti dei grandi, o le
bellezze ne misura a tipi prestabiliti, sottentrava l’iniziatrice,
laboriosamente profonda nell’esercizio del pensiero, paziente nella
pratica, colla potenza idealista che discerne il fondo della forma,
che coglie l’unità dello spirito sotto la varietà della lettera, che
indovina bellezze originali, che getta la congettura sul mare del
possibile, e da quel che fecero i genj più diversi impara ove potrebbe
arrivare un genio nuovo, mediante l’intima cognizione d’ogni bello; che
infine colle dottrine eccita sentimenti ed azioni.

La civiltà nostra non deriva soltanto dalla greca e romana, ma anche
dalla germanica; gloriose e più dirette antecedenze abbiamo nell’età
romantica, cioè nel medioevo, e il viver nostro è conformato al
sentimento e alle dottrine cristiane. Perchè dunque rifarci sempre ad
Ilio e a Tebe, e tessellare frasi di classici, e invocare un Olimpo di
cui deridiamo le divinità, aborriamo i costumi?

Più che i Tedeschi, maestri di tali novità, qui si divulgavano i
libri francesi della baronessa di Staël, che obbligata da Napoleone ad
esulare da Parigi, avea concepito ammirazione per gli autori tedeschi;
e dai loro critici, principalmente dallo Schlegel, aveva dedotto il
sottilizzare la critica non tanto ad appuntare gli errori, come a
presentire le bellezze, non tanto a censurare un autore di ciò che
fece, come a scorgere cosa e come avrebbe dovuto fare; e considerando
l’arte per la più alta manifestazione dello spirito, non fermarsi
alle diverse forme delle varie letterature, ma penetrare la ragione
della vita e della durata[228]. La _Corinna_ di lei, il _Genio del
cristianesimo_ di Châteaubriand, l’entusiasmo de’ tanti che visitavano
la riaperta Italia (p. 308), venivano a modificare i criterj poetici
antichi: Stendhal, la Morgan ed altri ripudiavano il senso comune
per affettare spirito e novità: lord Byron, elegante inglese, che
volontario esule e volontaria vittima, atti e sentimenti epicurei
traeva in pompa per l’Europa, e principalmente in Italia, e dopo
cominciato coll’elegia, finì con satira amarissima, faceva stupire di
tanta realtà unita a tanta fantasia ne’ suoi poemi, dove, anatomizzando
ironicamente la società, dipingendo le attrattive del vizio e l’eroismo
degli scellerati, sostituendo l’eccezione alla regola, esistenze
tempestose, situazioni violente, paesi diversi dai poetici, uomini
audacemente ribellati al dovere, staccavasi ricisamente dall’arcadico
concetto che s’avea della poesia, per cogliere la natura sul vero,
insegnando a non permettere nessuno degli spedienti dell’arte, ad
erudirsi ed ispirarsi in quanto fu fatto, per far poi diversamente.

Ed esso e i suddetti e i loro imitatori erano epicurei; eppure
quell’ampia concezione dell’arte, il rispetto del passato,
il sentimento dell’infinito che imparavansi alle loro scuole,
disponevano i cuori alla fede. E già tra noi menti più serie aveano
tolto a considerare i misteri della vita, e capito ch’essa non trae
spiegazione se non da un primitivo mistero e da un postumo snodamento;
e rinnegarono i miserabili trionfi dell’empietà, che dichiarate
ipotesi l’ordine provvidenziale e l’immoralità, vi avea sostituito
altre ipotesi, la fatalità e il nulla, e non lasciava all’uomo se non
l’orgoglio d’un bugiardo sapere, le irrequietudini d’un’ambizione
impotente. Che se la vita è un’espiazione e un preparamento, non
le converranno la bacchica esultanza d’Anacreonte e la sibaritica
spensieratezza di Flacco, ma una melanconia rassegnata, un ravvisare
dappertutto l’ordinamento provvidenziale, un valutare le azioni dal
loro fine o particolare o complessivo.

L’ampliarsi della democrazia facea fissare gli occhi sul popolo;
esaminarne senza superbia i costumi; senza disprezzo gli errori;
ascoltarne le leggende e le canzoni; nè tutto riferire ad un tempo,
ad un luogo, ma le consuetudini e le opinioni considerare siccome
un’efflorescenza di date circostanze, gli errori siccome viste false
o imperfette della verità, sicchè al fondo la umana specie progredisce
sempre verso un perfezionamento, che non si raggiungerà mai in questa
bassa gleba.

Da tutto ciò nuovi criterj del bello: sgradite non meno le contorsioni
dell’Alfieri, che la rosea prodigalità del Monti, e quello sfumare
ogni tinta risentita, soffogare le fantasie sotto al convenzionale, la
franchezza sotto pallide circonlocuzioni e lambiccature cortigianesche
ed accademiche; rivendicavasi la semplicità adottata dai primi nostri
scrittori; affrontavasi la parola propria, la maniera più schietta,
raccolta di mezzo ai parlanti; voleasi interrogare i sentimenti e
il linguaggio del popolo; scegliere sì la natura ma non cangiarla,
portandole quell’amore rispettoso che nasce da profonda intelligenza
delle cose; proporsi conformità fra le opere e la vita; tornar
la poesia quale era in Dante, fantasia subordinata alla ragione
geometrica. Che se la letteratura degli accademici erasi guardata come
incentivo o sfogo di passione, un modo d’accattar piaceri e denaro
con opere concepite a freddo, computate con pedantesche convenienze,
e quindi astiosa, superba, gaudente; ora studiavasi surrogarne una
d’ispirazione e meditazione, che prendesse per iscopo il buono, per
soggetto il vero, per mezzo il bello. La storia non sarebbe più
raccozzo di aneddoti, o galleria dove campeggiano solo gli eroi,
i re, i fortunati, negligendo o celiando sull’umanità preda de’
forti o balocco degli scaltri; ma dovea contemplarsi come attuazione
contingente di provvidenziali concetti, guardando il genere umano
come un uomo solo che errando procede, e gli atti e i concetti dei
personaggi conguagliando col loro tempo e colle idee correnti. Romanzi
e novelle, anzichè frastornare con avvenimenti implicati, descrizioni
sceniche, sfarzo della vita esteriore, esaminassero l’uomo interno e
l’andare delle passioni in ciò che hanno di comune in tutti i tempi e
luoghi, e di speciale a persone, a paesi, a età. L’eloquenza valersi
della spettacolosa efficacia del momento per condurre a conoscere il
vero, volere il giusto, accettare il sagrifizio. Divenuto riflessione
attiva dell’uomo sopra se stesso, il dramma cambiavasi essenzialmente,
e doveva empirsi d’azione, ritemprarsi a passioni meno strofinate, usar
fatti, costumi, caratteri, linguaggio consoni colla storia; a tal uopo
svincolarsi dalle unità precettorie, sconosciute ai Greci, consacrate
dai Francesi per amor d’ordine, dall’Alfieri per amor del difficile.
Ciò che più cale, il teatro non doveva traviare i giudizj e ubriacare
le passioni, ma consolidare il buon senso e dirigere gli affetti,
rappresentare la società e l’individuo quali sono, misti di bene e
male, e divenire istruttiva intuizione di quella vita che non riceve
spiegazione se non dalla morte.

Il pedante faccia in letteratura come il fazioso in politica, che
giudica dietro a parole, non soffre opinioni contrarie, sentenzia
non dando i motivi, arbitrario e intollerante: per noi le regole
saranno una storia di ciò che fecero i migliori, non un ceppo per chi
s’arrischia al nuovo; vera poesia non sarà se non quella che abbia
alito e ispirazione propria, e l’ideale suo non tolga a prestanza, ma
lo deduca da costumi, cognizioni, istituzioni, convenienze nazionali:
s’immedesimi con tutti gli affetti, con tutte le solenni contingenze
della vita; metta sott’occhio l’esistenza reale, ed ecciti l’esistenza
più sublime del sentimento: sia mezzo di fede, di consolazione, di
benevolenza.

Insomma verità del fondo, infinita varietà delle forme, bontà di
scopo pretendeansi dal genere che fu detto romantico in opposizione a
quello che s’intitolava classico; e che è caratterizzato interiormente
da senso più profondo del presente in relazione al passato e col
presentimento dell’avvenire; esteriormente da maggior lirica in ogni
concepimento.

Io dico quel che pensavano i migliori: ma da una parte v’aveva i
trascendenti e i vulgari, zavorra di qualunque innovamento, che voleano
mostrarsi liberi col saltabellare da pazzi: dall’altra libri, articoli,
improperj erano lanciati da quei tanti che esultano per ogni occasione
di sfogare le passioni malevole all’ombra di un partito: la polemica,
secondo è consueta, approfondiva l’abisso complesso delle cose,
rinfacciavansi ai Romantici i fantasmi, le stregherie, l’anteporre alle
decorose bellezze di Virgilio le rabbuffate di Shakspeare; e i nomi di
classico e romantico fecero dimenticare quelli di buono e cattivo, come
più tardi i nomi accidentali di repubblica e costituzione eclissarono
il fondamentale d’Italia libera.

Osteggiava la novità _La Biblioteca Italiana_ giornale milanese, che,
prodigo d’encomj alle mediocrità striscianti, non lasciava impunito
verun lampo d’ingegno, ardimento di scrittura, integrità di carattere,
elevazione di sentimento, originalità di concetto, speranza di giovane.
Ai pochi rassegnanti a vendere la penna, il Gironi, direttore, diceva:
— Eccovi questo libro da incensare, e questo da scompisciare»; ed essi
vi metteano l’impegno della viltà; oltre quelli che per proprio zelo
s’incaricavano di denunziare opinioni e pensieri che poi sarebbero
essi chiamati a processare. Vi fu chi disse: — Mostrerò il Biava
come un Ilota ubriaco, finchè gli sia tolta la cattedra»; vi fu chi
disse a proposito dell’Ugoni: — Aprirò quei sacchi per far vedere
che contengono carbone»; vi fu chi, per impedire che l’imperatore
gli mandasse un anello destinatogli, tolse a provare che la storia di
Milano di Carlo Rosmini «era pericolosa alla religione, alla politica,
al principato». Da quest’afa di sentina tolsero esempj e scusa
que’ diffamatori, la cui bassezza si ajuta di perfidia, e che sono
operosissimi dove la libertà della parola e la franchezza de’ pensanti
non la condannino al giusto vilipendio.

A tali vergogne animosi giovani opposero il Conciliatore, con cui
Pellico, De Breme, Berchet, Borsieri, Ermes Visconti, Giambattista De
Cristoforis cercavano introdurre anche qui la critica iniziatrice, che
ispirandosi al sentimento e alla verità, le teoriche di gusto traduce
in consigli di dignità e coraggio. Queste novità portavano franchezza
d’esame, onde non è meraviglia se la rivoluzione letteraria parve
rivoluzione politica, e il ribellarsi alle regole fu denunziato per
ribellione alla legge; il giornale fu proibito, e i redattori o in
carcere o in esiglio, ma la controversia continuò con armi buone o
con cattive. Milano pareva il vivajo de’ novatori, mentre nel resto
d’Italia i Classicisti, intitolavano romantico tutto ciò che fosse
brutto, disordinato, pazzo, e asserendo che i novatori proscrivessero
lo studio e l’imitazione degli ottimi. Il Pagani Cesa[229] definiva i
Romantici persone intese a sovversioni e letterarie e politiche; folla
d’avventurieri fortunati, di briganti politici, di gente d’arme, di
giovinastri, non pratici che del disordine in cui sono nati. L’Anelli
da Desenzano (-1820), in certe Cronache di Pindo grossolanamente
lepide, denticchiava quella scuola, senza giungere al vivo. Gugliuffi
(-1834) diceva ch’essi _emicant fortasse aliquando, sed more nocturni
fulguris_; egli che sosteneva le scienze farebbero grandi progressi
qualora adoperassero la lingua latina[230].

Più s’accannì Mario Pieri corcirese, che vagò assai per Italia, bene
accolto dappertutto e come forestiero e come letterato; in gioventù
godette la domestichezza del Cesarotti e del Pindemonti, e per loro
mezzo conobbe nel Veneto il Lorenzi, il Mazza, il Barbieri, poeta
allora e futuro oratore, l’abate Tália autore di una estetica, il padre
Ilario Casarotti arguto autore di poesie bibliche e di molti opuscoli
polemici, Francesco Negri traduttore di Alcifrone, l’abate Zamboni e
Benedetto del Bene educatissimi ingegni, il Morelli, il Filiasi, lo
Zendrini, il Cesari, e quelle coltissime adunatrici della migliore
società che furono Isabella Albrizzi e Giustina Michiel in Venezia,
Silvia Curioni Verza ed Elisabetta Mosconi in Verona, e così il fiore
delle persone di Vicenza, Belluno, Padova e Treviso dove fu professore.
Altri a Milano incontrava alla conversazione del ministro Paradisi,
altri ne’ ripetuti viaggi, poi nella lunga dimora a Firenze, dove,
oltre i suoi connazionali Mustoxidi e Foscolo, usò famigliaramente
col Capponi, col Niccolini, col Pananti, coll’eruditissimo Zanoni,
col Becchi succedutogli segretario della Crusca, col Rosini filologo
di amenissima conversazione, quanto era nojosa quella del Micali,
col Del Furia bibliotecario, rinomato per l’abbaruffata sua contro
l’argutissimo Gian Paolo Courier[231], coll’incisore Morghen, col
pittore Benvenuti, col matematico Ferroni, col numismatico Sestini, col
dottor Cioni, col Benci, col Puccini direttore della galleria, e colle
amabilmente dotte Teresa Fabbroni, Rosellini, Lenzoni. Qual piacere
non darebbe a’ curiosi, quale istruzione agli studiosi il vedersi
ricondotti a conversare con questi, che solo in parte vivranno ne’
libri! E il Pieri, oltre prose e versi, dettò la propria vita senza
elevazione nè larghi aspetti, bensì osservazione triviale, lineamenti
vacillanti, passioni piccole, idolatria di se stesso.

Questi e tutta la consorteria del Monti poneano in canzone i Romantici,
quasi gente che insorgesse pel solo piacere d’insorgere; e sarebbero
tutt’altro che condannabili se avessero avuto la mira d’opporsi al
forestierume, e non dimenticato che, isolandoci, noi resteremmo sempre
nel falso e nel meschino. Intanto l’averlo avvertito bastava per
rendere ridicolo e vergognoso quell’inneggiare Venere ed Imeneo[232], e
imprecare Atropo e il Fato, applaudire ai Giovi e alle Cintie, pregare
salute da Igia, senno da Minerva, giustizia da Temi: il verso di mera
sensualità, gli eterni ricalchi d’Orazio o del Petrarca, insomma le
forme convenzionali perivano, più l’idea non volendo incarnarsi in
esse, nè il sentimento contenersi entro ai vincoli antichi, o la
lingua limitarsi alle parole autenticate: l’ambiziosa fraseologia
abbandonavasi ai vecchi incorreggibili o ai novizj rassegnati a
non maturare più: e se il Monti chiedea, com’è mai possibile senza
mitologia lodare un principe, celebrare un imeneo? gli si rispondeva: —
È egli necessario belare le nozze e i natalizj de’ re e dei mecenati?»

Vero è che anche nella scuola romantica affluirono astrazioni
sentimentali e mistiche, la moralità si angustiò in picciolezze di
sacristia, all’eleganza sparuta surrogaronsi fantasie dissennate;
avemmo novelle con spettri, e leggende con magie[233] e gnomi e
silfidi e ondine, ingredienti non meno convenzionali che le ninfe e le
stelle e le cetre e le tede e l’altre fracide espressioni di concetti
indeterminati; riponendo l’innovazione nella forma delle idee anzichè
nelle idee, nella verità storica anzichè nella verità morale, si
credette fare libero il dramma collo scapestrarlo; si pindareggiarono
i medesimi affetti sebbene con parole nuove. Ma nelle campali battaglie
non si contano le migliaja di gregarj, e chi decide sono i capitani: e
di eccellenti ne ebbe la scuola nuova.

Tommaso Grossi (1791-1853), anima affettuosa, mente ordinata, vivrà
come il primo o de’ primi che le idee romantiche qui applicasse non
colla polemica ma colle due novelle della Fuggitiva in vernacolo,
e dell’_Ildegonda_ in ottave italiane di ariostesco impasto, con
semplicità colta e affettuose particolarità. Un’altra novella tesseva
intorno alla prima crociata, quando il disprezzo che i suoi amici gli
istillarono pel Tasso lo indusse a trattare come quadro di genere un
soggetto che Torquato avea trattato alla grande. Sgraziato pensamento,
che affogò nelle generalità il bell’insieme della sua favola
domestica, convertì il flauto e la mandóla in tromba di battaglia, e
l’ispirazione affettuosa in istudj d’erudizione, dove riuscì non meno
infedele che il Tasso, benchè in maniera differente. Gl’invidiosi, che
avrebbero perseguitato il Tasso, del Tasso si valsero per opprimere
il Grossi come sacrilego, istituirono assurdi confronti, e ne derivò
una capiglia villanissima, la quale in fondo riduceasi a dispetto
ch’egli avesse trovato tremila soscrittori, cioè un guadagno insolito
ai nostri letterati. Non si taccia che altrettanti difensori ebbe;
ma egli stomacato lasciò la carriera letteraria per mettersi notaro.
Cessata allora la paura di vederlo fare qualche altra cosa grande,
cessò la malevolenza; lo ascrissero fra i grandi poeti; accettarono
con indulgente simpatia altre produzioni sue di studio non di lena,
ma rialzate da qualche pagina tutta affetto; e i censori poterono
consolarsi che non diede a metà i frutti, aspettabili dal suo limpido e
coltissimo ingegno.

Altrettanta pacatezza d’armonia e maggiore intelligenza critica ebbe
Giovanni Torti 1773-1851, che togliendo ad esame i _Sepolcri_ di
Foscolo e la debole risposta del Pindemonti, si pose a fianco loro; poi
versificò la nuova poetica mostrando come, da qualunque siasi tempo si
desuma un tema, vogliasi dargli la verità di colorito e di affetto.
Avea cominciato del medesimo passo Giovanni Berchet; poi invelenito
dall’esiglio, contro i tiranni avventò romanze, che per forme e per
modi erano nuove all’Italia, e tutti i giovani le appresero, e molto
valsero sui sentimenti non solo, ma e sui fatti successivi.

In mezzo a questi e ad alcuni minori lombardi giganteggiava Alessandro
Manzoni. I primi suoi componimenti furono di dipinture, d’affezioni
e d’ire profane, sopra un sentiero dove il Monti avea raggiunta tal
perfezione, che, chi si accontentasse alla poesia di impasto classico,
al verso armonioso, alle grazie mitologiche non potea che rassegnarsi
a rimanergli inferiore. Il genio, che ha bisogno di vie intentate,
domandava, — Non c’è un’altra poesia oltre quella delle forme? non c’è
diamanti, oltre quelli già faccettati da’ gioiellieri precedenti? non
ha l’arte un uffizio più sublime che quello di dilettare?»

Tali pensieri furono eccitati o svolti nel Manzoni da amici di
Francia, ai quali l’opposizione al Governo napoleonico serviva di
libertà; quando poi, dalle coloro idee volteriane ricoveratosi con
piena sincerità alle credenze e alle pratiche cattoliche, sentì il
dovere di coordinare ogni atto della vita e del pensiero all’acquisto
della verità, all’attuazione del bene, al consolidamento della
religione, potè dare saggi d’una poesia sobria, che subordina la
frase al concetto, che gli abbellimenti deduce soltanto dall’essenza
del soggetto, che sovrattutto si nutre di pensieri elevati e santi,
e si crede un magistero, un apostolato. La semplice originalità degli
_Inni_, quella sublimità di concetti espressa colla parola più ingenua,
li fece passare inosservatissimi: il _Carmagnola_ e l’_Adelchi_
soffersero i vilipendi de’ giornali e l’indifferenza del pubblico, che
solo al comparire del _Cinque maggio_, ode inferiore alle altre, parve
accorgersi di possedere un sommo.

Lontano dalla felicissima agevolezza del Monti, egli stenta
ciascuna strofa, incontentabilissimo; ma l’uno ha la fluidità de’
Cinquecentisti, l’altro la concisione tanto necessaria nella lirica, e
quel contesto virile che non s’occupa de’ fioretti; l’uno dipinge più
che non pensi, l’altro pensa più che non dipinga; nell’uno predominando
il dono della fantasia, nell’altro la facoltà del riflettere, che è
la coscienza dell’ispirazione; onde quello guarda le idee sotto un
aspetto solo, questo vuol presentarle nella loro interezza di vero
e di falso, l’uno lascia meravigliati, l’altro soddisfatti, e più
soddisfatti i forti, che vedendo quelle maniere sì vive e profonde,
avvertono meno al ben detto, che al ben pensato. Monti, il più insigne
fra gl’improvvisatori, cerca il bello dovunque creda trovarlo, da
Omero come da Ossian, ma senza connessione col buono e col vero; le
ipotiposi, le apostrofi, le circonlocuzioni, le intervenzioni d’ombre
o di numi ripete continuo, perchè non costa fatica l’aleggiare colla
fantasia mettendo da banda il giudizio; la sonorità del verso e l’onda
della frase surroga al sentimento e al concetto, le reminiscenze
classiche all’emozione personale; crede che la poesia non abbia
mestieri d’essere giusta, purchè ardente e passionata, donde l’enfasi
e l’alta persuasione di sè, e la continua esagerazione, e il secondare
l’impressione istantanea, e perciò frequente mutarsi. Manzoni vuol
richiamare ogni asserto al cimento del giudizio, escludendo il
declamatorio, deponendo nel lettore il germe di idee che sviluppano
l’intelligenza e la volontà: onde l’uno è puramente poeta, e in
ciò stanno la sua vocazione, la sua gloria, la sua scusa; l’altro è
considerato piuttosto come argomentatore da quelli, che non avvertono
quanto movimento lirico esondi nella _Pentecoste_ o nella _Morte
d’Ermengarda_, e come la squisita verità gli detti di quegli accenti
che risvegliano un’eco in tutti i cuori. Adunque del Monti è carattere
il trascendere, sia che lodi, sia che imprechi; del Manzoni la
mansuetudine, fin quando intima allo straniero di «strappare le tende
da una terra che patria non gli è», e che Iddio non gli disse: «Va,
raccogli ove arato non hai; spiega l’ugne, l’Italia ti do». Il Monti si
erige signore dell’opinione, consigliero di re e di nazioni; l’altro
dubita sempre di se stesso: quello non ha proposito più elevato che
d’insegnare e praticare l’arte, laonde i fortunati che se ne divisero
il mantello, fecero di belle cose; i seguaci di Manzoni cercarono
piuttosto le buone: quelli l’ideale, questi il reale. Ambidue tentarono
il teatro; e Monti cogli artifizj antichi riscosse applausi; all’altro
venne meno l’abilità, che è tanto diversa dal raziocinio. Anche Manzoni
sostenne polemiche; ma invece della critica provocatrice, più simile a
schermaglia di partito che a discussione di sistema, offerse esempio
di quella che, calma nella certezza dell’esito, richiede cuor retto,
criterio sicuro e buona coscienza. Nè egli lottò per propria difesa o
per un angusto patriotismo, ma tutte le volte ebbe l’arte di elevare
il punto di vista, e trasformare sin la disputa letteraria in lezione
morale.

La servilità alla legge rigorosa quanto capricciosa delle unità
di tempo e luogo, i soliloquj, i confidenti, i lunghi racconti, la
dignità inalterabile che ripudia le famigliarità così allettanti nel
dramma greco, le espressioni altrettanto forbite nel principe come nel
servo, erano difetti della tragedia alla francese; che se i grandi li
redimevano con bellezze insigni, è natura de’ pedissequi l’esagerare i
difetti; donde una nojosa eleganza, perifrasi per aborrimento al nome
proprio, esilità di idee mal rimpolpata con fronzoli retorici, e frasi
raggiranti entro un circolo di sensazioni fittizie e prevedute, in
dialoghi tanto poetici, da non ritrarre la natura, tanto vaghi da non
rappresentare un tempo e un luogo determinato; fatte insomma unicamente
in riguardo de’ lettori o degli spettatori. A ciò richiedevasi studio
anzi che genio, chi non vi si rassegnò risalse ai Greci, inimitabili
per la naturalezza come inimitabile per la fatica era l’Alfieri: ma in
generale la tragedia perseverò ad essere un’alternativa di parole non
di azione, declamatoria non veritiera.

Ugo Foscolo accostò più di tutti il grande Astigiano per dignità e
altezza di sentenze; ma la realtà della storia nè della passione non
raggiunse mai, benchè nella _Riciarda_ esprimesse il concetto italico
e il gemito sulle nostre divisioni. L’_Arminio_ d’Ippolito Pindemonti
elevasi per sentimento e stile: eppure le incolte tragedie di Giovanni
suo fratello sovrastano per abilità scenica; per la quale ebbe applausi
anche il duca di Ventignano. Belle speranze destò Silvio Pellico colla
_Francesca da Rimini_, per quanto debole. G. B. Niccolini di Firenze,
erede dell’ira ghibellina di Dante, entrò sull’orme dei Greci fino
a ritentare i loro soggetti; dappoi ne assunse di moderni, quali la
_Rosmunda_, l’_Antonio Foscarini_[234], il _Giovanni da Procida_, o
allusivi a moderni, come il _Nabucco_ e l’_Arnaldo_. Era un frutto
della inclinazione morale introdottasi nella letteratura; e ne
ottenne ovazioni da quella pubblica opinione, che egli mostrò sempre
disprezzare; ma quando la vide ubriacarsi nel 48, quell’austero giudice
apparve abbagliato dai vorticosi movimenti.

Per riuscire nella tragedia storica non basta la sceneggiatura e il
vestire secondo le nazioni e le età fantocci di nome eroico, non basta
conoscere qualche accidente, ma vuolsi abbracciare intera l’età ove si
collocano gli attori; nè ciò si ottiene che con pazientissimo studio.
Così fece Manzoni. I moralisti rigorosi riprovarono sempre il teatro,
giacchè lo spettacolo delle passioni lottanti o lo svolgimento di una,
incitano quelle dello spettatore; se non ne ispirano di criminose,
vi predispongono; se non danno amore ed odio, vi aprono il cuore. Ma
poichè il teatro sempre più invade la società, alcuni studiarono se
fosse possibile ridurlo tale che non ecciti gli scrupoli d’un padre,
d’un marito; che accheti e diriga, anzichè sopreccitare e spingere
le passioni. Tale scopo si prefisse Manzoni come nel romanzo così
nei drammi; presentando nel _Carmagnola_ l’uomo perseguitato ma non
da feroci invidie, sdegnato ma non con violenza, e consolando colle
domestiche affezioni l’ora fatale; nell’_Adelchi_ lo spettacolo d’un
popolo dominatore vinto da un altro che alla sua volta si fa dominatore
d’un vulgo innominato; prepotenze contro prepotenze, fra cui trovano
luogo l’affanno di patimenti personali e la generosa proclamazione
della giustizia, e dove la lotta umana finisce nella conciliazione
religiosa, quando nell’anima sottentra il sentimento d’una felicità
superna e inalterabile, rassicurata che sia contro la distruzione
della sua terrestre individualità. Il secolo, avvezzo agli stimolanti e
bisognoso di cacciare la noja, domanda emozioni, e trova più poetica la
procella che non i murazzi da cui è frenata: ed è questa la sola parte
dove il nostro o non fu inteso o non seguìto.

Genere coevo delle lingue nuove, il romanzo aveva anche fra noi
trasformato le imprese di Carlo Magno e de’ suoi paladini o della
Tavola rotonda, e di Amadigi e di Guerrino Meschino e de’ Reali di
Francia, ben tosto dimentico per la carnevalesca esultanza dei poemi
romanzeschi: altri nel Seicento, sempre ad imitazione di Francia,
confezionarono romanzi scipiti: nel secolo passato furono tradotti
i tanti francesi e imitati con isguajato abbandono, e nè tampoco
scintillarono di quella luce momentanea che sembra privilegio d’un
genere, il cui principale intento è piacere, e perciò accarezzare
passioni e abitudini che passano presto, e con esse il libro. Ma il
_Don Chisciotte_, il _Robinson_, il _Gil Blas_, la _Pamela_, il _Tom
Jones_, il _Paolo e Virginia_, la _Nuova Eloisa_ attestano che possono
farsi opere durevoli ed efficaci sulla società anche in questo genere,
atto a tutte le passioni del cuore, ai capricci dello spirito, alle
ispirazioni serie e beffarde.

Tale fu ripigliato il romanzo nell’età nostra; e del _Werter_ di
Göthe, che ebbe la trista gloria di spingere molti al suicidio,
l’imitazione fatta da Foscolo acquistò voga quasi opera originale,
e piacque il sentimento di nazione e di libertà ch’egli intarsiò al
concetto tedesco[235]. Sulle traccie del Barthélemy, Luigi Lamberti
descrisse i viaggi d’Elena, Ambrogio e Levati i viaggi del Petrarca,
aridi e pesanti. Altri sentirono l’effetto della Corinna, del
Pienato, dell’Atala; ma viepiù i romanzi poetici di Byron avvezzarono
agli affetti smisurati, alle situazioni eccezionali, ai caratteri
sforzati, alle evidenti descrizioni, in opposizione colle stereotipie
e colle languidezze degli antichi. A quelli e ad altri inglesi e al
D’Arlincourt francese s’ispirò Davide Bertolotti, i cui romanzetti
erano, verso il 1820, la più ambita fra le letture leggiere. Intanto
d’Inghilterra ci arrivavano i romanzi di Walter Scott, dove si descrive
una data età o un fatto o un carattere storico, appagando così due
passioni del nostro tempo, l’indagine erudita e l’attività romanzesca.
Non analizza egli il cuore, non si eleva ardito sull’immaginativa,
ma nell’inesauribile sua fecondità dipinge sensibilmente, dialoga con
estrema verità, interessa artifiziosamente, e schivando le caricature
troppo consuete in questo genere, procede naturale, limpidissimo, ma
alla ventura, verso uno scioglimento che non premeditò.

Di là il Manzoni derivò evidentemente il suo romanzo, ma applicandovi
quell’arte cristiana, che medita sull’uomo interno e segue gli
andirivieni d’una passione dal nascere suo fino quando trionfa o
soccombe. Walter Scott fece cinquanta romanzi, egli uno; l’Inglese
tutto colori esterni, il nostro vita intima; quello per dipingere
e divertire, questo per far pensare e sentire. Già nelle tragedie
Manzoni avea mostrato come della storia non facesse un’occasione o
un’allusione, pigliandone a prestanza un nome o un fatto per gittarlo
in un componimento di fantasia. Ora quella indagine scrupolosa che
ridesta i tempi e i loro sentimenti spinse egli fino alle minime
particolarità, esattissimo anche quando non è vero. La potenza
sua satirica, che gli dettò il primo componimento, e che poi fu
virtuosamente temperata dalla mansuetudine, trapela grandissima dal
romanzo; e singolarmente nella dipintura de’ caratteri, ciascuno de’
quali vive innanzi a noi come un’antica conoscenza, e diviene un tipo;
perocchè, quivi come nelle poesie, ci offre sempre un’immagine netta
e reale che più non si dimentica. Prima che l’ammirazione diventasse
culto, noi divisammo lungamente dei meriti dei _Promessi Sposi_[236],
e di quel fare così dabbene fino nell’ironia, così civile nella satira,
così semplice nella sublimità, per cui divenne il libro della nazione.

Da Dante in giù la lingua nostra, se molto cambiò quanto a
immaginazione e gusto, rimase identica quanto al fondo; sicchè,
eccettuato il gergo pedantesco d’alcuni Quattrocentisti, i libri
s’intendono correntemente, a differenza del tedesco prima di Lessing,
e del francese di cui nel 1650 Pellisson diceva: _Nos auteurs les plus
élégans et les plus polis deviennent barbares en peu d’années_. Eppure
si continuò a disputare qual nome attribuirle, quali regole seguire
nella scelta e disposizione delle parole, a quale canone appigliarsi
ne’ dubbj. Alla lingua parlata? all’uso degli scrittori? e de’ soli
scrittori del Trecento, o anche de’ Cinquecentisti, o fin de’ moderni?
La scelta competerà a ciascuno, o bisognerà attenersi a quella fatta
dal dizionario? O dovrà la lingua essere progressiva, ed arricchirsi
di quanto le offrono l’immaginazione di ciascun scrittore, i dialetti
di ciascun paese e l’importazione forestiera? Quest’ultima opinione
era prevalsa nel secolo passato, scrivendosi come si parlava, senza
riflettere che in Italia soli i Toscani e alquanti Romani parlano
una lingua scrivibile, e che la mancanza di un centro politico o
scientifico toglie di riportarci effettivamente all’uso di questo:
laonde ciascuno si sarebbe valso o delle voci somministrategli dal
proprio dialetto ridotte a desinenza toscana, o dalle scritture, le
quali, destituite di norme fisse, e dipendendo dall’abilità o dal
capriccio individuale, mancavano d’uniformità e durevolezza.

Per vero, qualora si tratti d’esprimere generalità di falli o di
sentimenti, la lingua letteraria può bastare, giacchè tutti i paesi
convengono in un gran numero, anzi nel massimo numero delle parole. Ma
occorrano materie famigliari o tecniche, e quella precisione di termini
che è imposta dal bisogno d’idee precise; vogliasi non solo ripetere
sentimenti e idee comuni, ma darvi carattere e individualità, come è
proprio degli intelletti originali; allora rampollano le difficoltà
e il bisogno di regole indefettibili. La vanitosa rozzezza in cui
era caduta la lingua nel Seicento, fu corretta nel secolo seguente,
ma per cadere in una leziosa ricerca di ornati posticci, di vocaboli
mozzi e peregrini emistichj, eleganzuccie, attortigliate rinzeppature
e ridondanze, bagliore di frasi, cadenze sonore, periodo oratorio
uniforme e nojoso; ammanierandosi insomma da accademia e da collegio,
come avveniva della poesia, e pretendendo al vacillante pensiero dare
per rinfianco vanità di forme.

Alcuni professavansi devoti alla lingua pura, ma per tale considerando
la sola scritta dai classici; e in tale senso lavorarono il Corticelli,
il Vannetti, il Bandiera. Quale scandalo non eccitò a Milano un Branda
col preconizzare il dialetto toscano! Di rimpallo la lingua dei libri
era proclamata dai liberali, sprezzatovi delle stitichezze grammaticali
e del vanume retorico: ma poichè i libri che correano erano francesi
di idee e di forme, queste irrompevano a pieno sbocco, e deturparono
anche i migliori, come il Verri, il Beccaria, il Filangeri, il
Denina. L’imbarbarimento della lingua non venne dunque dalla conquista
francese, bensì da accidia innazionale; volle anzi ridurla a teoriche
l’abate Cesarotti (t. XII, p. 250), pretendendo l’italiano abbia
ringalluzzarsi continuamente colle ricchezze forestiere; alla quale
dottrina consentaneo, s’imbratta di francesismi anche dove affatto
inutili. Lo combattè il Napione[237]: ma allora l’invasione francese
infistoliva questi morbi; e i giornali e gli atti e i trattati collo
stomachevole francesume esprimono l’invalsa gracilità del pensiero.

Di sotto a questa rimbalzava il sentimento nazionale; e dacchè fu
stabilita la repubblica italiana, con Governo e magistrati nostrali,
per protesta contro il predominio francese, e perchè, avendo cose
da dire, bisognava pensare al come dirle, si favorì lo studio della
lingua. Fu allora ordinata un’edizione dei classici italiani, concepita
largamente, meschinamente eseguita; con irrazionale e imitatrice
scelta degli autori e dei testi, e inezia di prefazioni e note. Pure
l’impresa buttò in giro molti autori, peregrini dalle biblioteche; e se
non altro, all’uscire di ciascun volume, ne’ circoli e sulle gazzette
biascicavansi i nomi dimenticati del Firenzuola, del Cennino, del
Serdonati, del Varchi.

Allora fu proposto dall’Accademia italiana di «determinare lo stato
presente della lingua italiana e specialmente toscana, indicare le
cause che portare la possono a decadenza, e i mezzi per impedirla».
Toccò il premio al padre Antonio Cesari veronese (1828), che vi
combattè ad oltranza il Cesarotti, sebbene con fragili armi. Il Cesari,
innamorato de’ Trecentisti nostri, molti ne ristampò con migliorate
lezioni, e sempre intese a correggere la gonfiezza, l’affettazione, il
barbarismo, l’improprietà: ma come avviene nelle riazioni, de’ classici
ne portò il culto all’idolatria, considerando oro schietto tutto quello
che apparteneva al Trecento, imitabile anche il Cinquecento in quanto
a quello si attenne; e, quasi si trattasse di testi rivelati, non si
credette in diritto di cernire fra le scritture, nè dubitò che una
parte fosse antiquata; l’aveano detto essi, dunque era buono; quanto
alla possibilità di secondare con voci e frasi loro il progresso delle
scienze moderne, egli accettava la sfida di tradurre l’_Enciclopedia_
in italiano pretto.

Con tali persuasioni tolse a ristampare il Vocabolario della Crusca,
aggiungendo un’infinità di termini e frasi ripescate ne’ classici.
Il gran numero di quelli che poi seguitarono quello spigolamento
convince che non richiede se non pazienza; ma il Cesari e i suoi
collaboratori vi buttarono col vaglio rancidumi, storpiamenti, errori
che gli accademici della Crusca aveano saviamente tralasciati, e non
all’intento che il Vocabolario giovasse agli scriventi attuali, ma per
impinguarlo, o al più perchè spiegasse gli autori antichi.

L’opera si prestava facilmente al riso, come chi si veste colle giubbe
dei nonni; e il Monti nel _Poligrafo_ spassò il _glorioso italo regno_
alle spalle del buon prete. Eppure il Cesari in fatto di lingua potea
menare a scuola il Monti; e assai scritture lasciò di cara limpidezza,
avvicinantisi alla semplicità de’ Trecentisti, sebbene nessuna vada
netta da arcaismi e dal vezzo retorico d’incastrare una frase per
mostrare che la si sapeva[238]. Come i campi di biada dalle gramigne,
così vuolsi tenere mondata la lingua, mediante l’intervenzione
emendatrice dello scrittore; e all’arcaismo come correttivo
dell’imbarbarimento moderno ricorsero alcuni: ma questo purismo
astratto dava in fallo esagerando; e gli sbagli proprj del Cesari o de’
suoi, dal bel mondo che ama generalizzare furono imputati alla Crusca.

Nell’universale sovvertimento anche quest’accademia era stata scossa
e riformata[239], ed assegnato da Napoleone un annuo premio di lire
diecimila all’opera che essa dichiarerebbe più italianamente scritta.
Carlo Botta, che come piemontese mancava dell’uso pratico, avea
descritto la fondazione dell’indipendenza americana con voci antiquate,
alcune delle quali frantese egli stesso, altre fu duopo dichiarare
al fine del volume. Se prima condizione d’un libro è l’essere
intelligibile, non potea la Crusca approvare questo musaico: ma ecco il
bel mondo farle colpa di quello che era giusta illazione dei dogmi sul
progresso della lingua, da lei professati non solo coll’aggregarsi i
migliori scrittori della nazione, ma coll’attribuire autorità di testo
a sempre nuovi, ogni qualvolta ristampò il Vocabolario.

Chi diviserà le vicende letterarie di quel tempo, avrà ad estendersi
sulle contese nate in proposito. Perocchè il premio fu diviso tra il
Micali per l’_Italia avanti i Romani_, il Niccolini per la _Polissena_,
il Rosini per le _Nozze di Giove e Latona_. I letterati del regno
d’Italia alzarono le grida contro il municipalismo di premiare soli
toscani, tacendo che nessun’opera lombarda si era presentata al
concorso; e cominciarono di qui le ire, che, quietato il turbine di
guerra, vennero a sfogarsi nella _Proposta di aggiunte e correzioni al
Vocabolario della Crusca_, intrapresa a Milano dal Monti. In questo
convenivano tutti gli elementi di felice riuscita; era cresciuto in
paese ove il buon italiano corre per le vie; avea fatto tesoro delle
migliori maniere de’ classici; deliziavasi di Virgilio; cuculiando il
Cesari come arcaico, pareva dar ragione a chi la lingua scritta vuole
avvicinare alla parlata; laonde, affidatosi allo scrivere naturale,
spiegò nella prosa quella ricchezza ed eleganza che nella poesia, con
capresterie tutte vive rese ameno un trattato pedantesco, e Italia
potè rallegrarsi d’avere un altro insigne prosatore, merito assai più
raro che quello di buon poeta. Ma egli confondeva un’accademia, spesso
fallibile, con la lingua stessa; gli scrittori coi parlanti; affollava
arguzie in luogo d’argomenti; e soffiando nelle invidie municipali,
resuscitava antiche e irresolubili quistioni. Gli errori che apponeva
alla Crusca, erano in gran parte stati avvertiti dall’Ottonielli, dal
Tassoni, da altri anche membri dell’Accademia; molti risultavano da
miglior lezione de’ classici e dal buon senso; non pochi riduceansi
a quelle fisicherie, che trova in qualunque libro chi si proponga
unicamente di censurarlo. Quanto alla teoria, se una può dedursene
dal balzellante raziocinio e dalle incoerenti applicazioni, esso
preconizzava la lingua cortigiana, scelta, letteraria, o comunque la
denominino; che insomma non conosce nè tempo nè luogo determinato, ma è
il meglio di quello che scrissero i buoni autori in tutta Italia.

La _Proposta_ divenne arringo di elucubrazioni su tal proposito,
molti aspirando alla gloria d’associare il loro nome a quello del
poeta più lodato in Italia, molti a combatterlo. Giulio Perticari,
genero di lui, con una gravezza che parve maestà, e un accozzamento
d’autorità che simulava erudizione, rinfiancò le teorie del Napione,
ripetè il paradosso del Renouard che il nostro derivi dall’idioma della
Linguadoca ed entrambi da un idioma comune uscito dal corrompersi del
latino; per disgradare la Toscana sostenne che l’italiano siasi parlato
in Sicilia prima che colà, e all’uopo ne’ cumulati esempj alterava il
provenzale e l’antico siculo, per mostrarli conformi al buon toscano;
e ne conchiuse che nel Trecento scriveasi bene dappertutto, e perciò il
buon vulgare s’ha a dedurre dagli scrittori d’ogni paese.

Ma questi scrittori si valsero forse dei dialetti natìi? o non
cercarono imitare il toscano? ed egli stesso non li considera migliori
quanto più s’avvicinano ai Toscani che scriveano come parlavano?

Quei che leggono solo per disannojarsi, e danno ragione all’ultimo
che parla o parla meglio, decretarono alla _Proposta_ gli onori del
trionfo; trionfo che si riduceva a dichiarare spesso fallace, spesso
ignorante la Crusca. Ma alle teorie, ed ancor più alle applicazioni
di quella si opposero Niccolini, Rosini, Capponi, Biamonti, Urbano
Lampredi, Michele Colombo, il Montani, il Tommaseo; e ne originò
una guerra, dibattuta con vivacità, con passione, con pazienza, con
ingiurie, insomma con tutto fuorchè con quella filosofia che eleva
le quistioni ad un’altezza, nella cui prospettiva si smarriscono le
particolarità.

Quando il problema fu bene avviluppato, si disse risolto: ma non che
terminare, si era invelenita la quistione della lingua; e l’esempio
del Monti valse di scusa ad acrimonie inurbane e a quelle personalità
da piazza, che fanno ridere la plebaglia e velarsi il buon senso. Sul
modello del Monti ripigliò Giovanni Gherardini milanese il più vasto
e paziente esame che mai si facesse della Crusca; poi con aggiunte,
voluminose quanto il Vocabolario stesso, convinse che questo pozzo
dei testi è inesauribile. Il quale Vocabolario, quando appunto
era bersaglio a tante beffe, più volte si ristampò con variamenti,
correzioni, aggiunte; accompagnato da altri speciali d’alcun’arte, o
domestici, o di sinonimi; dove rimarranno memorabili, dopo i tentativi
del Grassi e del Romani, il _Dizionario dei sinonimi_ del Tommaseo,
perchè contiene molto di più che mera grammatica, e il _Prontuario_ del
Carena, perchè francamente si rivolse alla lingua parlata a Firenze. Il
Nannucci e il Galvani si affissero alle derivazioni provenzali.

Altri intanto stillava alcune parti della grammatica; e il Puoti,
il Parenti, il Fornaciari, il Bolza, il Betti, il Mastrofini,
l’epigrafista Muzzi, lo Zaccari, l’Ambrosoli, il Franscini, il
Bellisomi davano teoriche o schieravano esempj: ma fa meraviglia
l’incertezza delle loro regole, le quali del resto non varrebbero
che per una sintassi pallida e astratta: nessuno ancora ci esibì
una grammatica compiuta, nè tampoco generalmente accettata sia per
concetto filosofico, sia per pratica applicazione. Alcuni rivolsero
alle etimologie un’erudizione più estesa, non più concludente, talchè
vengono considerate nulla meglio che esercizio e trastullo[240].
Intanto si rimane ancora indecisi quali siano coloro che scrivono
bene. L’Accademia della Crusca sceglie i suoi membri in un modo che
sembra fatto espresso per isgarrare ogni criterio; scrittori stenti,
retorici, arcaici collegando ad altri limpidi, vivaci, toscani; badando
all’impiego, alla dignità, all’opinione; onorando della sua fraternità
quegli appunto che l’osteggiano. D’altra parte i premj suoi toccarono
ad opere o di nessun merito letterario come il Micali, o per simpatie
come il Botta. Questo vacillamento la impedisce di acquistare autorità
presso la nazione; e i molti che trovano comoda la critica negativa e
l’imitazione, la sobbissano d’epigrammi, a segno che pare destituito di
spirito chi non la piglia in beffe.

E la beffa (sciagurato manigoldo di tutte le quistioni grandi e piccole
nel nostro paese) cade su quello dove essa più ha ragione, o dove per
avventura ha solo il torto di non aver tirate tutte le conseguenze.
Perocchè essa credette non poter autorizzare che parole toscane,
ma delle quali trovasse esempj in autori buoni. Ora chi li dichiara
buoni se non ella stessa? e questi adoprarono forse ciascuno l’idioma
della propria provincia? o da chi dedussero quel buono? Dal capriccio
no: dunque o da altri autori, il che non farebbe che allontanare la
quistione; o dai parlanti, e in tal caso perchè non ricorrere a questi
direttamente?

Tali dubbj affacciavano coloro che questo studio assumevano
conformemente alla filosofia e alla storia, comprendendo che la lingua
è un organismo vivente, e perciò assume forme diverse secondo le età,
cresce e decade, si combina con altre, può essere rigenerata mediante
parole e forme nuove, portate dallo svolgersi della vita sociale,
dai progressi delle scienze, delle arti, dell’industria, dai nuovi
bisogni delle generazioni. Non può dunque servire di canone che una
lingua viva; e nella nostra, come in tutte le altre, il legislatore
deve essere il popolo che parla meglio, e che qui è il fiorentino.
L’Accademia della Crusca, la prima che formasse un vocabolario di
lingua vivente, lo fazionò al modo onde soleansi i dizionarj delle
morte, cioè ripescando le voci dai libri, e rinfiancandole d’esempj.
Ma perchè ricorrere ad un’autorità morta, invece della vivente? tanto
più che, non scegliendoli se non da Toscani e da pochi che toscanamente
dettarono, veniva a confessare un’autorità superiore e anteriore a
quella degli scriventi; l’autorità che questi traggono dalla nascita e
dalla favella.

Ciò non volle intendersi. Perchè in altre parti d’Italia sorsero
scrittori insigni, si pretese dovesse la lingua essere cernita da tutte
le provincie: quasi un uomo privato nè un’Accademia potesse sapere
quali voci diconsi per tutta Italia, e confrontarle per iscegliere la
migliore. Adunque si sentenziò arroganza de’ Fiorentini il volere il
privilegio della buona favella; si confusero il parlare collo scrivere,
lo stile colla lingua; e i popolari furono tacciati di pedanti da
quelli che voleano si stesse ai libri, ai morti! Così da quistione
rampolla quistione, nè risolversi potranno finchè, ricreata la Nazione,
possa anche il popolo star giudice dove ora solo le accademie e i
giornalisti.

Intanto si vaga alla ventura, e quel che sconforta un principiante, è
il vedere gli autori stessi cambiar modo. Il Botta comincia arcaico, e
finisce con isguajati neologismi: il Monti detta le _Prolusioni_ come
un maestruccio, poi arriva alla vivezza della _Proposta_: il Tommaseo
cambia tre o quattro volte, e pure venerando l’uso, per amore della
forza e della concisione urta nell’epigrammatico. Abbiamo scrittori
che tirano il discorso a fare sfoggio d’una frase, d’una parola; altri
che rendono la lingua stessa materiale e meccanica[241]: pochi scrivono
toscano come parlano, quali il Thouar, il Lambruschini, il Giusti, il
Fanfani, il Tabarrini; ma i più pajono dimentichi del bel loro idioma
per iscrivere come potrebbe fare qualunque studioso lombardo: di
rimpatto qualche Lombardo ingegnandosi di scrivere toscano, inciampa
in improprietà di cui ridono i bimbi. A quella naturalezza della base e
semplicità dello stile che rendono necessaria la chiarezza e precisione
del concetto e l’ordinata disposizione, aspirano molti; ma nei più
riesce incolta o vulgare o superficiale, somigliante a sbozzo, non a
quell’ultimo termine di perfezione che è il nascondere l’arte.

Parve a questo dirigersi il Manzoni, che, dopo le prime scritture
pedestri e infranciosate, assunse il tono di bonarietà anche ad
esprimere cose meditatissime; e (malgrado la parola talvolta troppo
guardinga di sè) alcuni v’incontrarono il tipo della vera prosa. Ma
altri gridarono allo scandalo, quasi avesse imbrattato il suo libro
di modi lombardi, che autorizzando gl’idiotismi d’altri dialetti,
introdurrebbero la confusione babelica. Non era vero, nè egli avrebbe
voluto retrospingere la quistione fino a togliere l’unità della lingua;
esibiva anzi di provare che tutti i pretesi lombardismi trovavansi in
autori toscani: ma poi affinandosi nella ricerca, e in questo quanto in
ogni altro punto abbisognando d’un’autorità competente e infallibile,
venne a stabilire che, come negli altri paesi, così nel nostro si
recidano le dubbiezze e le pedanterie coll’adottare per comune il
dialetto che a confessione di tutti, è il migliore; che, come vivo, è
compiuto, indefettibile, e seconda il progredimento delle idee. Sopra
tali convinzioni ebbe pazienza di «lavare in Arno i suoi cenci», i
cenci che erano tanto piaciuti; e vestire ai concetti suoi una lingua
colla quale non erano nati, una ch’egli stesso dovea conglomerare di
reminiscenze e di consigli, come altri già solea colle frasi racimolate
dai libri; e mentre il Lombardo non vi riscontrava più la primitiva
ingenuità, il Toscano lo riconosceva ancora per forestiero.

Pure quell’opera e quelle discussioni valsero potentemente a revocare
dal ridondante, dal sentimentale, dal declamatorio, dall’eccesso
del colorito e dell’immagine, al semplice, al vero, al popolare;
convincendo che la forza non sta nella figura ambiziosa, bensì ne’
pensieri solidi enunciati in termini proprj, precisi, evidenti[242].

Tale fu l’opera del Manzoni. Quel pudore poetico, quella costante
dignità quasi di profeta, derivatagli da un’ispirazione che ascolta se
stessa, da studj silenziosi ed intimi, da vita modesta, da abnegazioni
spontanee, dall’armonia soave e feconda della famiglia; quello
scrupoleggiare ogni parola come chi è persuaso che sonerà oracolo
per l’avvenire, e si sente responsale de’ sinistri giudizj o delle
false azioni che potessero derivarne, fecero che il gran poeta fosse
ancor più venerato che onorato. La sua luce divenne il nostro calore,
e con tali esempj la causa era vinta; i campioni di essa crebbero
fra la contraddizione uffiziale, e però men traviati, invigorendosi
nella lotta, consolando altre anime coll’espansione della propria, ed
esprimendo i bisogni e le speranze della generazione crescente. Così
restituita alla verità, alla sincerità, al buon senso, una dignità
insolita acquistava la letteratura, considerata come sacerdozio e
missione; la poesia ritorceasi verso le origini, quando Dante la facea
maestra di civiltà e rappresentante dei sentimenti ch’egli reputava
migliori; e mentre sotto l’impero, unicamente stimandosi la forza e lo
spadaccino, erano derisi il credente, il pensatore, l’ideologo; i nuovi
scrittori elevarono i cuori; il secolo, già vergognoso di credere,
prese vergogna del non credere quando il faceano storici, filosofi,
poeti insigni.

Allorchè in una parte alcuno riuscì sommo, chi sentasi la potenza
del creare più non ritenesse una via dove non potrebbe che rimanere
secondo; i mediocri invece s’affollano dietro a quel primo, quasi
per involgere nella sua gloria la loro pochezza. Così avvenne de’
Romantici. Alcuni cercarono applauso di novatori col riprodurre metri
e formole del maestro, e colle credenze vaghe di un cristianesimo
rincivilito surrogarono alla mitologia personificazioni parassite,
l’ipocondria al dolore, la fantasticaggine alla meditazione,
allo studio del cuore passioni di cervello; della tragedia fecero
un’accozzaglia di scene, ove pagane passioni nutricano accadimenti
nuovi; tesserono idillj che sentono di giardino non di campagna; e le
amplificazioni e le arcadicherie, gittate per la finestra, accolsero
con altra livrea dalla porta. Quella ingenua e fresca ispirazione
della natura, primo fiore della poesia, e che sia riflesso delle cose
attuali, non di un’altr’epoca, così di rado si presenta, da mostrare
come pochi si accorsero che l’essenza della verità non riscontrasi
negli oggetti isolati, ma nella loro connessione.

I sobrj colori che ritraggono la vera società non la fittizia,
quell’alito di pacata religione, quel sommettersi alla volontà divina,
quell’amore della regola che rende facile la vita e ne disacerba
le amarezze, sgradirono a molti, che li credono pregiudicevoli a
quel che più ci manca, la gagliardia del volere. Eppure un libro di
pacata rassegnazione a martirj atroci, e di quella calma solenne che
non lasciasi sommuovere nè dalla persecuzione dei forti, nè tampoco
dall’ingratitudine de’ fratelli, servì la causa de’ popoli ben meglio
che non le liriche iracondie e i luoghi comuni d’un patriotismo
stizzoso e arrogante. Per ciò Pellico fu vilipeso in patria, mentre
Europa lo ammirava; e piuttosto con Foscolo adoperatasi l’inesorabile
necessità, e con Alfieri il tirannicidio alla romana, il quale
non migliorò mai gli ordini, mai non assicurò una libertà; ovvero
coi retori affocavansi gli entusiasmi che forzano la simpatia, le
esorbitanze nel dir bene o male degli uomini e del paese.

Nel genere più coltivato, il romanzo, chi, non dico raggiungesse, ma
imitasse il Manzoni non vediamo, giacchè i più ne conobbero la forma
non l’essenza, ed anzichè nella dipintura del pensiero, del sentimento,
della morale, aggiraronsi in viluppi di venture e pateticume di
sentimento, e lungagne di dialoghi e distraenti particolarità; non
facendo sentire le grandi gioje e i grandi patimenti dell’umanità,
ma solo a volta qualche emozione i lirici ruggiti del _Jacopo Ortis_;
non volendo il vero costante ma l’accidentale, non i dogmi perenni ma
opinioni personali. Le ricche diversità della curiosa intelligenza
di Massimo d’Azeglio toccarono fibre generose, a cui rispondono i
cuori italiani. Grossi pizzicò le patetiche in quadretti di finezza
fiamminga, sicchè nessun altro offrirà alle antologie tanti pezzi
scelti; ma fallendo alle convenienze di tempo e di luogo, mettendo al
XIV secolo un duello giudiziario quale usava nell’VIII, ad un buffone
grossolano la soave cantilena della rondinella, sparpagliando l’azione,
invece di concentrarla; assolto di tutto perchè nella prosa come nel
verso potè far piangere. Giulio Carcano lo emula per armonie patetiche.

Un romanzo diffuso quant’altri[243], e lodato di fedeltà storica
forse in grazia d’altri studj dell’autore, fu composto in prigione,
senza verun sussidio di libri, e l’autore, come altri, prendeva nomi
storici per velo e allegoria; modo infelice di far conoscere un tempo,
se questo ne fosse stato lo scopo, o se fosse lodevole il togliere
dalla storia caratteri e situazioni che ivi eternamente vivi, mentre
copiati riduconsi a inanimi fotografie. Questi accoppiatori del vero
col falso, ogni merito riponendo nella decorazione e nel vestiario,
cercarono il color locale di paesi che non aveano veduti, d’un
medioevo che non aveano studiato sopra gli scrittori primitivi, e che
atteggiavano senza la fede ond’era animato; cristiani di soggetto e
liberi di testura, posero per fondo lo stoicismo o la fatalità, non
quel cozzo tra il bene e il male, non quel conflitto de’ principj
aspiranti al predominio, non quella energia che pure s’innesta colla
tenerezza, quel peccato che si redime colla bontà o colla penitenza.
Altri sull’orme del Grossi avviarono una scuola plastica priva di
coscienza, facendone esercizio di lingua, dov’è sacrificato il pensiero
al proposito di sfoggiare una frase, d’intarsiare una parola: nel che
riuscì poi sommo e non inimitabile il gesuita Bresciani, i cui scritti
sono anche atti di politica e di morale. I più non vedono nel romanzo
se non la facilità di raccontare un’avventura, dipingere una passione,
senza l’inceppamento di canoni precettorj; cercano l’emozione fuori
della verità, piuttosto la gajezza comica e l’arguta osservazione;
di rado mostrano l’intenzione d’esser veri, e non domandare a facili
esagerazioni effetti ambiziosi insieme e vulgari.

Non mancarono tentativi di sceneggiare l’orrido e lo schifoso,
di presentare l’uomo in faccia alla sua miseria e al suo nulla, e
indebolirlo sviluppandogli una falsa sensibilità, e dove arte, storia,
lingua, ragione, natura erano oltraggiate quasi per scommessa: ma
fortunatamente i nostri romanzi eccitano lo sbadiglio anzichè il
fremito dei romanzi traboccanti in Francia, reati sociali diretti a
sovrapporre l’immaginazione alla coscienza, il capriccio alla regola,
l’interesse al dovere. Pure non ne appare colà un così ribaldo o
dappoco, che non venga qui subito tradotto, e buttato a deplorabile
pascolo dei giovani e delle donne, par disarmarli contro le lotte della
vita, ed aizzarli contro le inevitabili necessità di quella.

De’ nostri i più tendono a morale pratica, ad insinuare certe
virtù, certi affetti, specialmente l’amor di patria; ma difettano
di fantasia. Invece di moderare le passioni volle aizzarle, invece
di cogliere qualche fiore della vita, volle acuirne tutte le spine
Domenico Guerrazzi, su ogni bruciatura versando corrosivo; loda sempre
la passione, per quanto brutale, accrescendo il lievito dei peccati
capitali; storia e personaggi travisò, affinchè fossero la «protesta
d’anima disonestamente straziata, scritta come si combatte, quando
lo spirito fremente non volgea tra sè che fieri proponimenti»; cogli
indeclinabili apoftegmi contro i papi, i principi, i Governi, la razza
umana, attacca ai giovani il parossismo della disperazione. Non basta
alle sue vendette uccidere un nemico, ma bisogna tagliargli le mani e
porle al posto de’ piedi e viceversa; non basta che l’ingiustizia mandi
al patibolo una vecchia matrona, ma bisogna che nell’ultimo movimento
le si svolgano dalla veste le vizze mamme. E inebriò la gioventù, alla
quale altri credea fosse piuttosto da insinuare la ragionevolezza,
la spassionata indagine del vero, l’obbligo di formarsi sopra ciascun
oggetto idee chiare e giudizj retti[244].

Mentre si ripete che la poesia è morta, forse mai tanto si verseggiò
quanto ai dì nostri, anche non tenendo conto di quei petulanti, che
infestano il pubblico coi _primi fiori_, colle _speranze_, cogli
_esperimenti_, insomma cogli imparaticci loro. Chi si rassegna ad
essere secondo o terzo, senza il bisogno di tendere a nuova meta o
per nuova via, potrà mai, per compre lodi e per ricambiati incensi,
togliersi da quella mediocrità che è intollerabile, per antica
sentenza, e agli uomini e agli Dei?

Nella lirica tentarono novità di forme e di cose il Tommaseo e il
Biava: ma a quello parve riservata la gloria della prosa, l’altro
perì sotto la noncuranza di un’età ch’e’ non voleva accarezzare.
Eppure quell’età lodò e ristampò gl’inni del Borghi, dell’Arici, del
Muzzarelli, e i _fiori_ del Montani, e altre fatture che non voglio
qualificare. Pellico si direbbe che verseggiava perchè ignaro della
potenza e dell’arte della prosa, e languisce fra bei lampi d’un’anima
più buona che forte, e che persiste a proclamare «Il vincitore è
Abele». Giulio Uberti nelle _Stagioni_ imitò felicemente il Parini.
Montanelli accoppiò soavità di forme a vigoria di concetti. Mamiani
avvolge pensamenti filosofici in veste classica. Revere fece rivivere
qualche forme antiche, mentre Dall’Ongaro canterellava la ballata
moderna. Del novarese improvvisatore Regaldi qualche poesia forbita è
degna di vivere.

Ogni città poi vanta qualche poeta, e Carrer, Betteloni, Cabianca,
Occioni, Aleardi... sono gloriati ad una estremità d’Italia, mentre
gl’ignora l’altra che esalta Poerio e Baldacchini[245]; e la connivenza
de’ giornalisti impone per un mese o due al pubblico d’ammirare
certuni, che appena meriterebbero il compatimento. Tanto più ciò
s’avvera colle donne, alla cui valutazione s’innesta sempre qualche
bricciolo di simpatia: ma la Ferrucci mostrò nella canzone petrarchesca
forza virile; i sermoni della Vordoni veronese cedono appena a quei
del Gozzi, la satira temperando colla grazia femminile; la Diodata
Saluzzo unì la severità della vecchia scuola agli impeti della nuova;
la Guacci, la Mancini, la Terracina, la Ricciardi, la Torisi, e la
Milli nelle Sicilie, la Palli, la Rosellini in Toscana, la Bon Brenzon
a Verona, cantatrice de’ Cieli e di Dante, e Beatrice, la Fuà, la
Poggiolini a Milano, e poc’altre non hanno bisogno dell’indulgente
patronato maschile.

Le romanze di Giovanni Berchet, se non altro appresero ai giovani che
la poesia non vuol cetre ma trombe. Anche un’ode di Gabriele Rossetti
per la rivoluzione napoletana del 1820 diventò popolare; il che non
può dirsi delle tante che accompagnarono le posteriori. Eppure merita
s’indaghi perchè sieno vissute sul cembalo signorile e sulla ghitarra
popolare le canzonette, povere in grazie di stile, monotone di forme
del Vittorelli bassanese, e che vecchissimo continuò fin al 1835
ad essere poeta di Clori e d’Irene. Alcuni al desiderio di rendersi
popolari sagrificarono sin la forma, come il Berti, il Pezzi, il Buffa,
il Bertoldi; altri credettero arrivarvi coll’usare il dialetto, lo che
ne restringeva più sempre la diffusione.

V’è un paese di lingua e cielo e postura italiano, benchè da un pezzo
annesso a un altro germanico; vogliamo dire il Tirolo di qua dal
Brenner. Ne’ suoi studiosi durò sempre l’amor dell’Italia, e della
lingua di essa mostraronsi zelanti nel secolo passato il Vannetti,
il Pederzani, il Tartarotti, nel nostro lo Zajotti e il Bresciani;
e un’eletta di begl’ingegni vi mantiene le tradizioni studiose,
come l’educatore Tecini autore delle _Serate d’inverno_, gli storici
Rosmini, Garzetti, Canestrini, Gar, Perini, Sizzo, e specialmente il
Giovanelli, lo Stoffella, il Moschini, il Frapporti che scrissero di
storia patria e disputarono sulle retiche antichità; Andrea Maffei,
elegantissimo traduttore, Gazzoletti, Giovanni Prati. Gli ammiratori
di questo potranno citare la divulgazione che ottenne tra la gioventù;
l’esser divenuto capo scuola; l’accannimento stesso degli avversarj,
i quali gli appongono di sagrificar le forme al colorito, alla frase
armoniosa la profondità e giustezza del pensiero: forse gl’imparziali
lo reputano ingegno troppo bello per dirne male, troppo prodigatosi per
poterne dir bene[246].

Che la negazione e la critica aduggino la poesia, è ben certo; pure la
sublime ispirazione e il dubbio dissolvente hanno suscitato fra altri
popoli qualche cosa di grande, o almeno d’interessante. Da noi corre
una lirica di dolci armonie ma scarsa efficacia di immagini belle
ma appena adombrate, d’un sentimentalismo morboso, d’una devozione
claustrale, d’una teatrica generosità; ove bestemmiano o piagnucolano;
palesano di comporre per arte, non per un pensiero ch’è tormento o
passione; e perciò non aver fede in qualcosa di grande, non saper
sorgere a quella verità che, anche non vedendola, tutti credono che
esista; a quell’altezza ove gli interessi della patria si sposano con
quelli dell’umanità.

Di poemi epici, che attestano non si credette irrugginita la forma
virgiliana, alcuni furono lodatissimi nell’aspettazione o al primo
comparire; alcuni veramente splendono di qualche bella parte, smarrita
in un tutto a cui non sanno acconciarsi l’impazienza e la positività
del secolo. Quanti ne improvvisò Bernardo Bellini! Angelo Maria
Ricci se non altro tentò argomenti nuovi col _Carlo Magno_ o col
_San Benedetto_, pei quali assalito villanamente dalla _Biblioteca
italiana_, nella ristampa «cambiò (dic’egli) tutto quello che anche
a torto dispiacque all’acerbo censore»: condiscendenza che mostra
un fiacco bisogno di assenso, non la coscienza del genio. Di lunga
mano erasi preconizzato il _Colombo_ di Lorenzo Costa: eccellente
dipintore della natura esterna, non penetra nell’intima ragion delle
cose, non afferra quell’unica idea che poteva dare verità poetica e
storica al suo eroe e all’impresa di lui, quel sentimento religioso cui
pareva preludiare la lunga sua invocazione alla Trinità. Il Giannoni
nell’_Esule_ verseggiò i dolori di quei tanti che dai disastri italiani
furono spinti raminghi o imprigionati; uno de’ quali il Rossetti,
stillò nel polimetro il _Veggente in solitudine_ tutta l’ira contro
i pontefici e la fede, mentre egli stesso nell’_Arpa evangelica_, e
Bertolotti e Mezzanotte cantavano la Redenzione e i riti cristiani.

Come il quadro di genere al quadro storico, alle epopee stan le
novelle, e alla _Nella_ del Barzoni, all’_Ildegonda_ del Grossi, alla
_Pia_ dell’improvvisatore Sestini, all’_Algiso_ del Cantù non poche
seguirono, lodate e dimentiche.

Non mancò chi solleticasse al riso; alcuni per seminare qualche fiore
fra tante spine, altri per beffare il dolore, impacciare l’operosità,
satireggiare la virtù o la bontà, fomentare l’egoismo, impicciolire
qualcosa di grande. Il _Poeta di teatro_ del Pananti diletta per la
nativa festività toscana, sebbene s’arrabatti nella vita artifiziale
de’ teatranti. Fra i troppi che ad oscenità si valsero dei dialetti
municipali, il Porta, usò il milanese con inesauribile giocondità, allo
stile ricco, variato, colorito unendo fina osservazione; e sebbene
nè coraggio nè nobiltà si richieda per far ridere delle gofferie del
vulgo o della sua sofferenza minacciosa, e per ripetere accuse plateali
contro all’aristocrazia, ai preti, alla beneficenza, e sebbene cantasse
un brindisi a Napoleone, un altro al suo vincitore, mostra voler
dirigere la poesia a scopo sociale; disapprova gl’incensieri rivolti a
un nordico conquistatore scismatico, cui sant’Ambrogio avrebbe escluso
di chiesa; ritrae le prepotenze de’ soldati francesi: poi si lagnò
quando, in premio d’aver fatto ridere, veniva supposto autore d’una
memorabile satira, di cui confessossi autore il Grossi.

Quanto il veneziano è più colto e diffuso, tanto fu più letto il
Buratti, che in settantaseimila versi con dissoluta audacia rivelava
i vizj, e gareggiò del primato con Antonio Lamberti, vissuto come
lui fin al 1832, e del quale le più ghiotte poesie rimangono inedite
a vantaggio della morale. Il Guadagnoli d’Arezzo, disposto a far
ridere anche di se stesso, e diletticando più che straziando,
coll’amena garrulità toscana si rese divulgatissimo. Di quella scuola
vengono Norberto Rosa e il Fusinato, che ha prontezza a cogliere le
impressioni, fantasia a colorirle, facilità ad esprimerle: ma non
affinarono la forma quanto vuolsi ad eternar le opere; entrambi poi
seppero elevarsi all’inno della gloria ed alla patriotica elegia.

Raccorre in un complesso breve e sfavillante le interminabili
mormorazioni della società, le distillate interpretazioni, le
ripetizioni insulse, è uffizio della satira. In questa facilmente si dà
nella personalità, come avvenne al D’Elci, al Lattanzi, allo Zanoja;
e il libello muore colla persona contro cui era diretto. Giuseppe
Giusti toscano (1809-50), più arcigno, più profondo, più sociale,
ridendo per non piangere, rimeggiò melanconie ed ire «sbrigliando
il suo vernacolo senza tanto rispetto al tabernacolo». Quanto
studiasse quelle sue sì facili composizioni, lo sa chi il conobbe;
eppure professava di scrivere in giacchetta o in falda, «pigliando
arditamente in mano il dizionario che gli sonava in bocca», ed esorta
a mostrare la propria figura nella giubba propria, anzichè svisare i
pensieri nel prisma dell’arte, nè affogar le idee nel calamajo. Nella
città cinguettiera non altro impara che a riarmare di dardi il verso
amaro; ma sant’uffizio assume finchè s’irrita contro il secolo che
«malinconicamente sbadiglia in elegia gli affanni che non sente»; che
«del pari ostenta bestemmie e miserere»; che predica le virtù cristiane
ma non la tolleranza; e gli scrittori che scrivacchian affetti che
non sentono; e i giornalisti che usano una lingua mescolata di frasi
aeree; e il furore per le cantatrici; e i giovani che a ventun anno
hanno le grinze nel cuore, anime leggere sfiorite in primavera, martiri
in guanti gialli che atteggiano al malumore il labbro che pippa
eternamente, e per inedia frignano elegiaco vagito, annebbiando il
cipiglio fra l’inno e lo sbadiglio. Del secolo vano e banchiere, che
conta il sembrare più dell’essere, pajongli carattere la voltafaccia,
la meschinità, l’imbroglio, la viltà, l’avidità, la grettezza, la
trappoleria, appartenenti a una mitologia che a conto del Governo
educa e doma i figli di famiglia. Ma per lui son ridicoli del pari
e i poeti che si mascherano di salmista tuffando la penna nell’acqua
benedetta, e gli umanitarj che vogliono valersi delle moderne scoperte
per fondere le razze, sicchè il mondo (dic’egli) sarà di mulatti
vestiti d’arlecchino; beffa chi colla storia pesca nel passato e nel
futuro; beffa i congressi scientifici e la frenologia e gli studj
geologici; beffa l’amor pacifico del pari che il convulsionario; chi
si racchiude in sè come la chiocciola, del pari che il ferito nelle
battaglie rivoluzionarie, e che del patibolo si fa bottega; beffa il
re travicello e i Croati in Sant’Ambrogio; beffa il frate maestro che
ci facea muggi, grulli ed innocenti come tanti pecori, e l’educatore
moderno che vuol tutto appoggiare al calcolo e ridurre al positivo, e
crescer teste ritondate colle seste; beffa gli eroi che ponzano il poi;
beffa chi canta l’Italia, i lumi, il popolo, il progresso.

Inoculato così l’umor negro, lo cuculiava poi d’essere diventato
«legge di galateo», e sghignava questi Geremia che si sdrajano nel
dolore. Poi quando cadde Sejano e sorsero i Bruti cinguettando, e i
Gracchi pullularono d’ozio nell’ozio nati, egli fischiò i tresconi alla
festa de’ pagliacci, mercanti e birri in barba liberale; e libero e
feroce infliggeva ancora protesta e bollo: pure, col «circoscriversi
nel cerchio ristretto del no» professò non avrebbe «la caponeria
d’ostinarsi a sonare a morto in un tempo che tutti sonavano a
battesimo». Sulle prime «non vide il vacuo di facile jattanza, e prese
gioja al subito gridare di tutti a festa», s’infervorò alle nuove sorti
d’Italia; e al vedere il popolo svolgere la sua meravigliosa epopea
a petto de’ miseri accozzatori di strofe, sentì «l’inno della vita
nuova accogliersi nel petto animoso de’ giovani, accorrenti nei campi
lombardi a dare il sangue per questa terra diletta; e — Toccò a noi
(esclamava) il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di
piantarvi i lauri e le querce, all’ombra delle quali proseguiranno le
generazioni che sorgono». Ma presto gli sottentrò lo scoraggiamento,
non volendo farsi sgabello all’adulato popolo, nè bere nell’orgia
ove schiamazza la frenetica licenza; e alla cara Italia domandava gli
perdonasse le amare dubbiezze e il labbro attonito nelle fraterne gare.
È notevole come le sue satire sieno più ripetute, più applicate quando
tempi nuovi successero a quelli, a cui vitupero e’ le avea composte.

Chi possiede quest’infelice abilità della satira, invece di fomentare
gl’istinti malevoli e codardi, far caricature bugiarde, cospirare
coi violenti nell’esporre qualche nobile idea o qualche bel nome alle
risate degli sciocchi, e usurpare l’uffizio del delatore disponendo
colla celia alla spudorata calunnia o alla cupa denunzia, potrebbe
esercitarsi nell’ispirare benevolenza ed azione, al livido spregio
surrogare la riflessione riformatrice, battendo le ambizioni materiali,
la faccendiera insolenza, gli sbagli della vanità, la grettezza
positiva, le anguste convenzioni sociali, l’inerzia camuffata d’eroismo
e la paura coperta di ditirambiche vanterie, la credulità surrogata
alla fede, l’elegante fatuità eretta giudice della pensosa sapienza, la
leggerezza cittadina fatta negatrice di virtù che la mortificherebbero,
denunziatrice di atti che non è capace di comprendere, e la legge, or
imposta a chi vale e vuole, d’inchinarsi sotto alla sferza di chi nè
sa nè fa, e alla petulanza di chi decide di tutto, eppur non crede a
nulla.

Poco fu compresa la radicale riforma della tragedia, nella quale si
avventurarono Tedaldi-Fores, De Cristoforis e molti altri, e meglio
Carlo Marenco da Ceva, che si propose innestare i due generi classico
e storico: ma restò lontano come dallo stile del Niccolini, così
dalla sapienza storica di Manzoni, deducendo la sua quasi unicamente
dal Sismondi, e all’intima intelligenza cercando supplire colle
particolarità esteriori. Ciò vuolsi inteso pure dei molti drammi in
prosa, più vicini alla commedia, come quei del Battaglia, del Sonzogno,
del Sabbatini, del Revere, ove talvolta con felicità vediam posti in
azione personaggi o momenti capitali della storia nostra: ma più spesso
non si fa che chiedere alla storia un nome siccome tipo d’un carattere
o d’una passione; o procurasi coll’intrigo eccitare nella frivola e
logora folla emozioni fittizie, incessantemente rinnovandole.

E in questi, e più nella commedia, anzichè le festive ispirazioni
della critica morale e urbana che si propone abusi veri da
correggere, attuali ridicolaggini da colpire, troppo comune si sente
l’imitazione; colpa del recitarsi quasi sole composizioni francesi, e
dell’accontentarci alla pittura triviale della vita, senza i grandiosi
prospetti di chi guarda da ben alto. Dalla lepida vivacità del Goldoni
quanto non distano i compassati dialoghi del Nota! Dallo spiritoso
Avelloni, dall’ingegnoso Gherardo de Rossi, dal Giraudi, dal barone di
Cosenza, dal Brofferio, dal Bon, dal Fambri, dal Gherardi del Testa,
dal Ferrari, dal Servadio, dal Gualtieri, dal Giacometti, dal Fortis...
si potrebbe cernire un repertorio da reggere a petto de’ forestieri,
se l’accattar da questi non ci avesse svogliato dei nostri, se non si
scrivessero o nel francese italianizzato che parlano le botteghe, o
in quel gergo freddo e povero che si chiama lingua letteraria. Io non
so che alcun dramma nostro sia passato nella lingua e ancor meno sulla
scena di stranieri.

Entrata la febbre politica, anche il teatro ne venne invaso,
adulterando perciò la storia, e all’azione supplendo colla
declamazione, e aprendolo all’ira, alla beffa, alla denigrazione: ma
stiamo tuttora osservando se, coi misfatti d’Aristofane, ci si presenti
qualcuna delle immortali sue bellezze[247].

L’avvocatura non avea mai taciuto in Italia, e principalmente rinomata
era l’eloquenza de’ Veneziani. Il regno d’Italia, indi i paesi dove
sopravvisse o rivisse la pubblicità de’ giudizj, continuarono ad
offrire esempj di quello stile prodigo che designa per avvocatesco,
e che trovò poi a sfoggiare nei Parlamenti, ancora contaminati dalla
retorica.

L’eloquenza evangelica, usata nelle missioni e nelle istruzioni
improvvisate, non si scrive; e la fama del Quadrupani, del Devecchi,
del Valdani, del Branca appartiene alla pietà più che all’arte: la
scritta eccitò ad ora ad ora applausi e rinomanze, che poi il tempo
e la lettura cancellarono, Giuseppe Barbieri da Bassano, che più di
tutti ebbe encomiasti e detrattori, cominciò con tono filosofico, non
opposto ma scevro di teologia; si mise poi ai dogmi, ma l’unzione gli
mancò sempre: quand’è eloquente, l’è in maniera ingegnosa, non mai
ingenuamente e di slancio; sempre l’arte lascia sentire anzichè la
santità; e la frase lambita, ridondante, il periodo pretensivo non
possono che nuocere all’effetto di quella parola santa, che vuol essere
ornata sol di se stessa.

Della letteratura nostra molti scrissero le vicende; e trasandando le
compilazioni del Maffei, del Cardella, del Salfi, del Levati, vuote
d’ogni concetto, pinze di nomi e date, e rassegnantisi ad oracoli
altrui ed ai pregiudizj, Antonio Lombardi modenese continuò quella
del Tiraboschi per tempi la cui vicinanza risparmiava la fatica
d’indagini; eppure, invece di pronunziare in testa propria come chi
lesse, si adagia fino alle peggiori autorità, quelle de’ giornali e
delle necrologie. Giambattista Spotorno non compì la storia letteraria
della Liguria, e mostrò scienza ed ira nell’asserire a Genova sua
la cuna di Colombo. Pezzana illustrò la parmense, laboriosamente
supplendo all’Affò; Vermiglioli la perugina, Fantuzzi la bolognese,
Cesare Lucchesini la lucchese, Vallauri la piemontese, Boccanegra,
Sorio, Barbieri la napoletana, Carbone la sicula, Marini e Audifredi
la romana, Nannucci quella de’ primi secoli. Camillo Ugoni continuò
i _Secoli della letteratura_ del Corniani con maggior franchezza di
stile e di sentenze. Emiliani Giudici si propose di «dedurre le vicende
della letteratura dai grandi avvenimenti della mente umana»; pur rimase
dispettoso alle novità e ai maggiori moderni; sebbene venisse dopo
tanti emendatori dell’opinione vulgare, dopo sì copiosa eruzione di
documenti, scrive di Manfredi, di Corradino, del Vespro siciliano, di
Federico II, di Bonifazio VIII colle favole del secolo passato; accampa
orribilità di vizj politici, non temperate da virtù private, onde suona
ragionevole quel suo desiderare che la stirpe umana venga sterminata.
Diede anche una storia de’ Comuni: ma arrivato a Enrico VII, la cui
fine egli considera come la maggior disgrazia d’Italia perchè diroccava
le speranze de’ Ghibellini, fu costretto accorciare il resto, levando
le annotazioni e intere parti, «affrettandosi come pellegrino traverso
un orrido deserto».

E come dagli stranieri si accettarono le storie de’ fatti nostri che
vennero più divulgate, dal Laugier e dal Daru quella di Venezia,
dall’Hurter, dall’Hock, dal Ranke, dal Rohrbacher, dall’Henrion,
dall’Artaud quelle dei papi, dal Roscoe quella de’ Medici, dal Leo
la generale d’Italia, perfino dal duca di Dino, dal Ballaydier,
dal Monier, dal Brunner, dal Goureau, dal D’Arlincourt quelle delle
ultime vicende, così fu applaudita la storia letteraria del Ginguené
(1748-1815) (tom. VII, pag. 358), il quale non avea veduto il nostro
paese oltre Milano, e la tesseva accademicamente senza idee ferme
nè proporzione, talchè compito il terzo volume, vide la necessità di
restringersi, e presto la morte gli troncò il lavoro.

L’erudizione troverebbe natural campo in Italia, dove è parte del
patriotismo, e dove ad ogni mutare di passo urtiamo in monumenti e
cimelj. Quella di gergo ciarlatanesco che accumula testi anche su
punti già consentiti, ed appoggiasi all’autorità invece di indagare
la verità, resta abbandonata a qualche prete e a qualche segretario.
Quando il Monti volle sfoggiarne intorno ai cavalli di Arsinoe, buscò
le beffe: e si dubita sia uno scherzo lo studio di Foscolo intorno
alla chioma di Berenice: nessuno ignorando quanto dai lessici e
repertorj sia facile accatastare erudizione. Il Forlanetto di Padova
mostrossi molto addentro nel latino con particolari illustrazioni
e colle aggiunte al _Vocabolario_ del Forcellini; opera compita col
Dizionario epigrafico di Michele Ferrucci, e con quel delle lingue
anteromane del Fabretti. Il Marchi côrso diede l’etimologia de’ termini
scientifici, abbandonando ai curiosi quella dei termini vulgari, che il
Borelli pretese ridurre a teoria nel Dizionario del Tramater, abusando
della cognizione di qualche lingua parziale e non distinguendo la
maternità dalla fraternità. Il Morcelli, prevosto di Chiari, salutato
principe nell’epigrafia latina, ne porse anche le teorie (_De stilo
inscriptionum_), colle quali non pochi sputarono a formarne, e forse
meglio di tutti lo Schiassi. A Torino ebbero bel nome Costanzo Gazzera,
il Boucheron latinista di prima forza, il Vallauri, il De Vesme che
potè dare un’edizione più compita del _Codice Teodosiano_. Tutti han
compreso che l’erudizione non deve essere fiaccola piantata alla poppa,
la quale non illumini se non gli spazj già trascorsi.

Nessuno fu fortunato di trovamenti più che Angelo Maj bergamasco
(1782-1854). Già nella biblioteca Ambrosiana avea da palimsesti
raccolto brani di sei orazioni di Cicerone e otto di Simmaco, la
corrispondenza tra Frontone e Marcaurelio, molti scrittori greci
e scoliasti, la versione di Ulfila delle epistole di san Paolo in
mesogotico, e alcune parti della _Repubblica_ di Cicerone; altre ne
trovò dopo chiamato bibliotecario della Vaticana, e opere greche e
latine, e frammenti legali e cronache, e libri sibillini, onde formò lo
_Spicilegium romanum_, la _Nova bibliotheca Patrum_, ed altri numerosi
volumi d’aneddoti. Fatto cardinale e segretario della Propaganda,
pubblicò il _Diritto canonico caldaico_ di Ebendiesu, il _siro_ di
Abulfaragio, l’_armeno_ d’un anonimo.

Moltiplicaronsi traduzioni dal greco, come l’_Erodoto_ dal Mustoxidi,
italiano d’adozione, in maniera arcaica; e gli altri che formano la
_Collana_ del Sonzogno. Più vantate sono le poetiche, l’_Iliade_ dal
Monti, l’_Odissea_ dal Pindemonti, ed entrambe dal Mancini; i _Tragici_
dal Bellotti, il _Pindaro_ dal Borghi e dal Mezzanotte, l’_Aristofane_
dal Cappellina, il _Callimaco_ dallo Strocchi, l’_Apollonio Rodio_ dal
Rota; ai quali vanno aggiunti l’_Orazio_ da Gargallo e Colonnetti, il
_Virgilio_ da moltissimi, facilmente superiori al Caro in fedeltà,
non in impasto e candore. Da noi lo studio delle forme è ancora
sì riputato, che alcuni salsero in fama con null’altro che col ben
tradurre.

Lo studio filosofico sulle lingue chiarì che non sono risultanza
del caso, ma prodotto normale e necessario dell’intelligenza e
dell’organismo umano; le variazioni da popolo a popolo, i cambiamenti
d’età in età hanno cause intime, che coll’attenzione possono ridursi
a leggi generali. È questo il proposito della filologia comparata,
sorta può dirsi colla grammatica tedesca di Jacobo Grimm nel 1819, e
che gl’idiomi aggruppa sotto varj capi, e ne coglie le somiglianze e le
differenze. In tal genere, a tacere le compilazioni, quali l’_Atlante
etnografico_ del Balbi e le promesse del Biondelli, a vasti intenti
si elevarono Janelli nelle _Lingue criptiche_ e nell’_Ermeneutica
jeroglyphica_, il Vegezzi, il Marzolo ne’ _Monumenti storici rivelati
dall’analisi della parola_: ma ci resta troppo ad imparare dagli
stranieri. Da Samuele Luzzato professore a Padova, che nel _Giudaismo
illustrato_ (1838) portò gran luce sulle dottrine e le credenze
ebraiche, nacque Filosseno (1829-54), che indagò l’elemento sanscrito
nelle lingue assira ed egizia, studiando le iscrizioni di Persepoli e
Korsabad, e illustrò varj punti della letteratura giudaica; ma morì
giovanissimo. Ne ereditò i meriti l’Ascoli, il quale nella piccola
Gorizia maturò studj linguistici, ove poi divenne maestro, e quasi
fondatore della nuova filologia che studia il linguaggio nelle sue
relazioni col pensiero e le lingue nell’interna loro struttura e nelle
analogie e dissomiglianze loro. Le ardite interpretazioni bibliche
proposte dal romano Lanci, caddero con esso. Su quelle esposte dal
Tiboni nel _Misticismo biblico_ pendono i giudizj, che da noi sogliono
venire tardi, e per lo più di riporto[248]. Il milanese Ottavio
Castiglioni (1785-1849) s’approfondò sulle medaglie cufiche e sul
gotico antico. I Lazzaristi faticano intorno agli autori armeni,
letteratura che da Venezia fu rivelata all’Europa. Rosellini ebbe gare
col Chiarini professore a Varsavia intorno ai punti vocali del testo
ebraico, ch’egli crede antichi ed autentici. La festa delle lingue che
si fa ogni epifania alla Propaganda di Roma, cresce sempre il numero
di quelle, in cui si porge sperimento agli attoniti e non competenti
spettatori.

Portentoso poliglotto fu il Mezzanotte, ed ancora più il bolognese
Mezzofanti (1774-1849), che la meravigliosa facilità a imparare le
lingue sviluppò versando negli ospedali pieni di soldati d’ogni nazione
nel 1799, poi cogliendo ogni occasione di parlare con missionarj
stranieri e d’avere dizionarj, e così acquistò moltissime lingue, e i
loro dialetti. Però in lui la potenza di generalizzare fu piuttosto
d’istinto che di ragione, nè indagò per qual meccanismo arrivasse a
tanta cognizione, nè studiò quel ch’egli potea meglio d’ogni altro,
la parentela fra gl’idiomi, e ingenuamente diceva: — Il Signore mi
concesse grazia di capire; è Domenedio che mi ha data tanta memoria».

Più proprio del nostro paese fu l’illustrare le antichità, che qui
abbondano e che sempre nuove si scoprono, seguitando le traccie
di Ennio Quirino Visconti (t. XII, p. 525). Sulla storia romana si
moltiplicarono indagini parziali, massime dacchè il Niebuhr aperse
orizzonti così arditi alla congettura. Contro di lui l’Orioli sostenne
la genuinità dei re di Roma, e pretese trovare nella loro successione
un ordine speciale cognatico. Bartolomeo Borghesi da Savignano,
assiso nella piccola repubblica di San Marino, acquistò fama di primo
archeologo, principalmente nell’illustrare i fasti consolari. Labus
descrisse i musei di Mantova e di Brescia sua patria, singolarmente
perito nel supplire le lapidi mutilate e in un metodo di asseverare le
parentele fra gli antichi.

Luigi Canina di Casal Monferrato (-1856), che diede la storia
dell’architettura greca e romana, delle basiliche primitive, della
via Appia, tolse a «dimostrare la Campagna romana nello stato antico,
cominciando dal tempo in cui si ebbero memorie storiche dei popoli
primitivi, sino a tanto che la sede imperiale venne trasferita in
Oriente», e conservossi devotissimo agli antichi, a costo d’essere
tacciato di credulità. M. Nicolai molto si occupò dell’Agro romano, non
solo chiarendone la geografia antica, ma cercandone i miglioramenti,
e soprattutto discorrendo delle paludi Pontine[249]. Gaetano Pinali,
oltre le fabbriche del Sanmicheli, illustrò le molte anticaglie di
Verona, Aldini le epigrafi comasche, Kandler le triestine. Il romano
Guatani proseguì i _Monumenti_ del Winckelmann, e pubblicò i sabini;
come quelli della Sardegna ebbero luce da La Marmora, da Martini, da
Spano. Ogni paese ebbe qualche studioso che dalle ruine dedusse più
ampia cognizione del passato.

Sulle antichità ecclesiastiche è a dolere sia rimasta in tronco l’opera
del padre Marchi intorno alle catacombe, animata da ben più eccelso
sentimento e da scienza più profonda che non la divulgata di Raoul
Rochette: superato anch’egli dal De Rossi.

L’erudizione ebbe a rinnovarsi totalmente mercè le grandiose scoperte
di monumenti, siano artistici, siano scritti. Intorno ad Ercolano
e Pompej proseguironsi dotte elucubrazioni, massime dall’accademia
Ercolanense: ma l’attenzione de’ nostri e de’ forestieri si portò
più arguta sulle mura ciclopiche, le necropoli, le città etrusche.
Una società di corrispondenza archeologica, da Prussiani istituita
a Roma, divenne centro di studj, e pubblicò anche una descrizione
di Roma, con novità qualche volta paradossali, ma spesso correggendo
errori canonizzati dai ciceroni e da quelli che su di essi farciscono
le guide. Francesco Inghirami, ritiratosi nella badia fiesolana, vi
allevò giovani nella tipografia e calcografia e nel disegno, e con
questi sussidj compì l’opera de’ _Monumenti etruschi_ in dieci volumi,
e le _Pitture de’ vasi fittili per servire allo studio della mitologia
ed alla storia degli antichi popoli_, oltre la descrizione del museo
Chiusino e la storia della Toscana in sette epoche distribuita.
Giambattista Vermiglioli (1799-1855), uomo tutto degli studj severi e
principalmente degli archeologici, trovò ampio pascolo nelle antichità
che continuamente rivela la sua Perugia, sempre e unicamente fedele
al sistema greco-latino. Secondo questo, interpretò le iscrizioni
perugine, e quella scoperta nel 1822, ch’è il maggior documento di
essa lingua; come il più importante cimelio di quella civiltà è il
sepolcro dei Volunnj, aperto a Perugia il 1840, pure illustrato dal
Vermiglioli. Lasciò lezioni elementari d’archeologia, dissertazioni
sulla topografia perugina nel secolo XV, sugli storici perugini, su
altre materie storiche talvolta offuscate da vanità di patria. Il
Coltellini contraddisse a lui ed al Lanzi quanto alla lingua etrusca,
che il gesuita Garucci vorrebbe spiegare coll’ebraica, e che, malgrado
tante fatiche, e gli studj del Corsen, rimane arcana.

Bisognerebbe che i nostri dessero col fatto la mentita a quell’asserto
del Niebuhr, che da noi si dissotterrano medaglie, si dicifrano lapidi,
ma è la dotta Germania che di tempo in tempo ne fa la rivista, e le
anima colle idee. E per verità nessuno ancora è comparso a trarre
una sintesi dai lavori dell’Avellino, del Fabretti, del Momssen, dei
gesuiti Secchi e Marchi, di Pietro Visconti, del Garucci, del San
Quintino, del Guarini, dello Zanoni, del De Rossi, del Minervini, del
Conestabile, del Promis..., e a darci una storia de’ primitivi tempi
italici, ove la congettura sia appoggiata da quanto l’erudizione offre
di positivo. Giuseppe Micali (-1844) la tentò nella _Storia degli
Italiani avanti i Romani_ (1810), ma nella _Storia degli antichi popoli
italiani_ (1833), era mero divulgatore; cresciuta la messe, dopo molti
anni dovette rifonderla: l’entusiamo patriotico non lasciogli ponderar
bene le divergenti opinioni; e qui pure noi generalmente camminiamo
sulle orme altrui, echeggiando le novità che ci vengono di fuori, e
che spesso non consistono che in una più compita monografia, in una
definizione più precisa, in una denominazione calzante.

L’Egitto, aperto dalla spedizione di Buonaparte agli scienziati
europei, dopo la pace destò interminabili ricerche, sino a credersi
d’avere alfine trovato il modo di leggere quelle enormi pagine
di granito, esposte da quaranta secoli agli occhi di tutti, quasi
ad insultare l’umano orgoglio, che non riuscì ancora ad accertare
la lezione d’una sola. Belzoni (1778-1825), figlio d’un barbiere
padovano, perlustrò quel paese aprendo alcune piramidi, e descrisse con
verità, sebbene insufficiente di erudizione e di quella penetrativa
che somiglia a divinazione. Mentre cercava la misteriosa Tomboctu,
egli morì al Benin. Il piemontese Amedeo Peyron, inesauribile
nell’erudizione classica, indovinò che il copto era la lingua antica
degli Egizj, e che ad esso bisognava ricorrere per interpretare i
geroglifici, il cui studio di molto egli fece progredire; e dicifrò i
papiri del museo torinese, impreziosito dai monumenti vendutigli dal
piemontese Drovetti. Quando il Governo francese mandava Champollion ad
esplorare l’Egitto, la Toscana gli associò Ippolito Rosellini di Pisa,
col naturalista Raddi e dieci disegnatori; il frutto di loro indagini
si espose nei _Monumenti dell’Egitto e della Nubia_. Il Valeriani,
il Segato ed altri divulgarono su tal conto le nozioni esposte dai
Francesi. Salvolini di Faenza, allievo del Mezzofanti, nell’_Analisi
grammaticale de’ varj testi antichi egizj_ (Parigi 1836) tentò
spiegazioni diverse dal Champollion.

Più in là sta l’India, terra di misteri, e che sotto una maestosissima
lingua involge le origini e i primordj della civiltà di tutto
l’Occidente. Ad essa ed a quei libri sacri e poetici si rivolsero
alcuni nostri, come il Flecchia, il Maggi e principalmente il Gorresio,
che, secondato dal Governo sardo, fece un’edizione e traduzione del
_Ramayana_.

L’erudizione è lavoro preparatorio indispensabile, e lo sprezzarlo è
come sprezzare la chimica e l’anatomia: ma deve condurre al frutto
suo più elevato, la storia. Sì strepitosi eventi e tanto cumulo
d’esperienza doveano elevar a considerare gli avvenimenti umani
non più come una successione fortuita, ma come la manifestazione di
leggi costanti, ove le perturbazioni, vale a dire gli accidenti e
il capriccio, hanno parte tanto più piccola quanto più grossa è la
moltitudine su cui operano; mentre nella genesi delle istituzioni
sociali si procede da un avvenimento all’altro per forza d’evoluzione.
Eppure in Italia ottengono lode di storia mere esercitazioni
letterarie. Carlo Botta da San Giorgio nel Canavese (1766-1837),
narrando l’indipendenza dell’America[250], della quale gli erano
estranei e gli uomini e le cose, procedette senz’ira e partito; e
diffidente ancora di sè, non trinciava a baldanza, nè giudicava per
epifonemi, rispettando se stesso e i lettori[251]. Mescolatosi nella
invasione francese e presto disgustatone, collocossi a Parigi, dove
campò tanto da vedere suo figliuolo Emilio (-1870) raccomandarsi alla
posterità per le antichità di Korsabad che scoperse sul presunto
posto dell’antica Ninive. Carlo, per ispirazione borbonica avea
scritto la storia d’Italia dal 1790 in poi. Già vecchio, in soli
quattro anni dettò la continuazione del Guicciardini, per due secoli
e mezzo pienissimi di eventi, ciascuno dei quali esigerebbe diuturne
ricerche; ma egli, già sicuro della propria fama, lavorò di seconda
mano, nè tampoco correggendo materiali falsità, nè accordando due
autori qualora di uno non si contenta, «dilatandosi ove trova materiali
già disposti»; eccellente dipintore delle esteriorità, dilungasi in
marcie[252], battaglie, tremuoti, fami; e non istà a vagliare quando
gli capitano avventure straordinarie, orribili, pittoresche; pago di
recamare su altrui orditura frasi galanti, colle quali e colle aggiunte
arbitrarie guasta le particolarità caratteristiche; e nella impreveduta
composizione riesce sproporzionato. Tale compilazione scarsa e
illaudabile pel contenuto, anche per la forma resta inferiore alla
precedente. Avea cominciato cogli arcaismi ripescati nel vocabolario,
finì col neologismo più sbadato, eppure non mondo di affettazione:
la brevità del periodare solo dagl’inesperti può farlo giudicare un
Tacito, mentre è appena uno Svetonio. Quanto alle cose, il medioevo
ritrae come età pazza, scarmigliata, degna delle cronicacce di frati
e di castellani ignoranti; un «misero tempo, in cui le promesse e
le minaccie della vita futura regolavano la macchina sociale». Vi
porta qualche barlume il gran triumvirato italiano, poi la luce
si effonde mercè della insigne famiglia dei Medici. Come a questa
grandezza venisse o compagna o seguace la servitù d’Italia, non ebbe
egli a raccontare, nè mostrò comprendere; ma descrisse i patimenti
indecorosi della nazione dal 1534 fino alla rivoluzione. L’unica
grandezza superstite all’Italia non conosce; anzi i papi ne considera
come la peste; sul sinodo Tridentino celia, come il Sarpi che copia a
man salva; nei frati vede soltanto oziosi mascalzoni, o gabbamondo.
Alla fine i principi, ispirati dai filosofi, dai Giansenisti,
da quegli insigni che caldeggiarono la _libertà del principato_,
avviavano a meravigliosi progressi l’Italia, quando sopraggiunse
un’orda di Giacobini, guidati da un fortunato che, sbagliando sempre,
sempre vinceva. E il lato orrido e lo schifoso unicamente ravvisa
il Botta della rivoluzione; s’adira alla ghiotta prepotenza delle
amministrazioni militari e ai pazzi imitatori delle pazzie francesi:
eppure della descrizione di quegli effimeri delirj empie la sua opera,
ben dieci libri consumando attorno a un anno solo; a qualche festa
d’un giorno, alle mattìe d’un esaltato concedendo lunghissime pagine,
mentre sorvola alla creazione d’un regno, meravigliosa fino ai nemici;
non nomina o appena tanti letterati e scienziati che rabbellirono, e
il prode esercito; se impreca alle prepotenze forestiere, anche nei
nostrali non riconosce che vigliaccheria e ferocia; sol quando vengano
a soccombere li largheggia di compassione, scuse, elogi. Vero è che
diffuse sugli Italiani piuttosto beffa che infamia, come si piacquero
altri dappoi; sentesi ch’egli ama la nazione, quantunque non mostri
stimare che i Piemontesi; benchè il fosse non solo senza pericolo ma
per condiscendenza, tiene del liberale quel parlare del Buonaparte con
un’ira che somiglia disprezzo, e il continuo protestare contro la forza
in quella Francia, dove ben presto una colluvie di storie, di canzoni,
di pitture, di opuscoli popolari ed elementari dovea rinnovare quel
fascino della gloria, che è il dissolvente della libertà.

Ma la libertà il Botta non intendevala alla moderna; professa di «non
amare gl’imperj dimezzati»; si accanisce contro le costituzioni fino ad
esclamare che in Italia «le nazionali assemblee sono pesti»; l’Europa
chiama «feroce, miseranda»; non crede che «paese più matto di essa sia
stato al mondo» (lib. XXXII); sprezza l’umanità, sprezza l’uomo, questo
«verme in cui la formazione ha fallato..., razza gladiatoria ove chi
non accoltella è stimato goffo»; nè crede a perfezionamento, a ragione
o a compassione; «un anelito ferino l’umana razza conserva, e il
diavolo la trae»; e «pazzo chi vuole seminare, tra gli uomini odierni,
semi salutiferi».

Di ciò sarebbe a domandargli severo conto s’egli mostrasse quell’unità
che rivela un autore serio, un intento ponderato. Ma il suo bestemmiare
o deridere è vezzo di scuola; chè del resto il fondamento di soda
politica, il criterio morale, la chiara intelligenza dei tempi gli
mancano, del pensare dispensandosi mediante comodissime frasi, «il
fato, la fortuna, ritirare verso i principj». Amplificazioni dove
prevale l’accessorio e nelle particolarità si perde ogni senso degli
universali, dove non sia nè amor del vero, nè studio di cercarlo,
nè critica di distinguerlo, nè lealtà di esporlo, non costano
sforzo all’autore nè fan profitto al lettore; e nessuno certamente
vorrà imparare dal Botta le vicende patrie: ma poichè quel libro
sarà raccomandato sempre per la pulizia del dettato e la varietà
di modi e il dire italianamente tante cose inusate, e la serenità
dell’esposizione, e la spiccata evidenza di ciascun fatto, quale appena
si trova nel Boccaccio, converrebbe con sobrie note avvertire degli
errori di fatto, e delle opinioni illiberali, acciocchè, ammirandolo
come arte, non se ne assorbano falsità e sconsideratezze. È vero che
bisognerebbe annotare quasi ogni periodo; ma è pur vero che tuttodì
ai giovinetti si porgono autori latini, pieni d’inesattezze di fatto
e d’errori di giudizio, che non potrebbero darsi i peggiori quando si
trattasse non di educarli, ma di pervertirli[253].

Lusingati da quest’esempio, molti ingegni diedero frondi d’elocuzione
ove chiedeansi frutti; niun peggio dell’Angeloni nell’_Italia_, e
del Drago nella _Storia della Grecia antica_, ridicoli per frasi
rugginenti. Della Grecia nuova scrisse con toscana semplicità Luigi
Ciampolini. Lazzaro Papi da Lucca (1763-1834) si perigliò al gran
dramma della rivoluzione francese, ma al modo che si narrerebbe quella
di un popolo antico; inoltre fece lettere sulle Indie orientali, una
traduzione del _Paradiso perduto_ ed altre dal greco. Il duca di Lucca
lo fece bibliotecario e precettore di suo figlio; e quando poco dopo
morì, voleva erigergli una statua.

E per l’origine sua pisana, e per la lunga dimora, e più per l’affetto
onde guardò le cose nostre vuol qui menzione Carlo Sismondi da Ginevra
(1773-1842). Nel _Quadro dell’agricoltura toscana_ (1801), ai vasti
poderi e agli uniformi ricolti che avea visti in Inghilterra paragona
quella suddivisa coltura, dove ogni arboscello è accurato dal padrone,
e dappertutto trovasi luogo a un gelso, a un fico, a un olivo, mentre
la vigna s’arrampica sulle nude pendici, e ad ogni svolta d’angolo una
coltivazione diversa, e piccole cascine modello di pulitezza, dove un
proprietario lo accoglieva ospitalmente, e dall’aja, ch’è il piano più
vasto dell’esigua tenuta, gli mostrava il sorriso di quella natura,
e i sudanti villani che talvolta sospendeano i lavori per ricrearsi
al canto, e le forosette che riposavansi novellando sotto all’arancio
e ai pergolati di gelsomino. Il Sismondi ammirava l’agiatezza così
diffusa; quelle fatiche il cui eccesso non rapiva la bellezza nè
prostrava le forze; quella diuturnità di possesso o di coltivazione,
che faceva fratelli tutti i conterranei; quel culto cattolico, che
ogni tratto raccoglie alle stesse pompose cerimonie il ricco col
povero, l’ignorante col dotto, ed eccita l’immaginazione e moltiplica
i riposi. A Pescia comprò un poderetto, coltivato da un mezzajuolo; e
quest’associazione del capitale col lavoro, del possidente col colono,
il Sismondi continuò tutta sua vita a invocarla per tutti, e ripetere
che la terra è la cassa di risparmio ove il povero deposita a frutto
ogni istante di libertà, e su cui fonda il riposo e la prosperità
fra le vicende politiche. Solo lagnavasi che gl’incrementi economici
degradassero la condizione del contadino, e il monopolio invadesse
non solo la campagna di Roma in poche mani restringendo i latifondi,
ma anche la Toscana col sostituire grandi bigattiere all’individuale
operosità de’ villici.

A queste idee filantropiche si conforma l’amore dei Governi popolari.
Con madama di Staël, che cercava impressioni pel suo romanzo _Corinna_,
egli percorse la nostra penisola, rintracciando documenti e ispirazioni
per la _Storia delle repubbliche italiane_. La pubblicò dal 1808 al
18 in sedici volumi; ed era una protesta contro gl’incensi che alle
idee militari e assolute prodigava la letteratura. Scrivendo del paese
ch’è centro all’unità cattolica, dell’età organata sopra la Chiesa, e
dove la potenza prevalente erano i papi, e manifestazione lo splendore
delle arti e del culto, fu pregiudicato dall’aridità calvinica e dal
razionalismo: e noi, riconoscenti a un amico che confortò i primi
nostri passi come avea ispirato le prime nostre concezioni storiche,
dovemmo spesso contraddirne le asserzioni, più spesso i giudizj (tom.
VII, pag. 355).

Anche per la _Biografia universale_ del Michaud egli dettò articoli
che concernono gl’Italiani; e nella _Letteratura dell’Europa
meridionale_ ragionò dell’italiana con franchezza non ispassionata
e colle intenzioni romantiche. Volentieri egli tornava in Italia e
nella sua Toscana: stabilitosi poi presso Ginevra, che piacevagli come
«ultimo rifugio ove l’amor della città si confonde coll’amore della
patria», passò vent’anni amato, riverito, ospitale ai forestieri,
largo di conforti e di pietà alle vittime delle rivoluzioni italiane
del 1821; esultò a quelle del 30 profetizzando l’_avvenire d’Italia_,
poi compianse ai disinganni; e pure guardando la Francia come «il solo
paese su cui possa farsi conto per mettere barriere al despotismo»,
deplorava il mancarvi stabilità. Sebbene considerato come gran
liberale, e applaudisse i tentativi verso più larghe condizioni
politiche, egli professava che «nelle rivoluzioni i ciechi poteri delle
bajonette e della ghigliottina surrogansi a tutta la forza che l’ordine
desumeva dianzi dal rispetto o dall’abitudine»; crede alla sovranità
del popolo, ma s’eleva contro la tirannia della maggiorità, ch’e’
distingue dalla volontà nazionale. Quando poi vide Ginevra mettersi
in fuoco per proteggere le tresche di Luigi Buonaparte, si oppose, e
n’ebbe scherni e minaccie dal vulgo subornato. Poi venuta su una gente
nuova, ci toccò di vedere il venerabile vecchio escluso dagli affari
pubblici, che sono tanta parte della libertà cittadina, e vilipeso come
aristocratico.

Il Sismondi aveva saltata a piè pari quistioni cardinali della storia
nostra, la condizione de’ natii sotto i Barbari, e l’origine de’
Comuni. Questa era stata piuttosto tocca che discussa fra noi, i più
col Pagnoncelli derivandoli dai Piomani: ma un discorso del Manzoni
intorno ai Longobardi fece conoscere qui la distinzione che Agostino
Thierry diffuse[254] in Francia, tra il popolo vinto e il vincitore,
e così un nuovo modo di valutare la condizione degl’italioti nelle
età barbare. Secondo il qual modo furono meditati quei tempi da Carlo
Troya napoletano, autore d’una _Storia del medioevo d’Italia_ così
ampiamente divisata, che non era a lusingarsi di vederla inoltrata.
Analizzò egli scrupolosamente ogni parola degli scarsissimi documenti
dell’età lombarda, dispensandoli in un ordine cronologico che bastava
a dissipare cento vecchi pregiudizj, invano rimpellati da articoli
e opuscoli che improvvisavano la confutazione d’un lavoro di lunga
fatica e di austera coscienza. Allora tal quistione e quelle che ne
derivano furono agitate da molti, principalmente con idee venuteci dai
Tedeschi[255], i quali, poniamo che esagerassero, convinceano che molto
doveva attribuirsi all’influenza germanica.

A dare cognizione del medioevo contribuì la passione invalsa di
pubblicare documenti. In alcuni paesi un villano sperpero e un
turpe mercato n’era avvenuto allorchè furono aboliti i conventi;
poi s’ammucchiarono in archivj, senza quelle cure che alcune
corporazioni vi avevano applicate nel secolo precedente. Altrove
se ne trasse profitto, e principalmente del ricchissimo archivio di
Lucca si cominciarono a pubblicare gli atti, regnante Elisa e colle
vedute d’allora, sicchè i primi volumi sono lontani dall’elevazione
ora raggiunta dalla storia; nei posteriori il Borsacchini ed altri
mostrarono intendere l’erudizione nuova, sia in fatto di governo, sia
di filologia. Delle scritture riferentisi all’Italia nelle biblioteche
parigine, fece un catalogo il Marsand con iscarsa intelligenza,
e preziose lettere ne ricavò Giuseppe Molini. Eugenio Albéri,
autore d’un’apologia di Caterina de’ Medici, stampò le _Relazioni
d’ambasciadori veneti_, tesoro di cognizioni positive intorno ai varj
Stati nostri e forestieri, continuata da Guglielmo Berchet e Barozzi. A
Firenze l’_Archivio storico_ del Vieusseux raccoglie opere, sconosciute
la più parte, scelte con senno, bene edite, e con que’ sobrj e savj
avvertimenti che ne agevolano l’uso a chi una volta avrà potenza di
ridar vita alle aride ossa.

Il Piemonte, che sentì il bisogno di mostrarsi italiano più che nol
potessero le avite tradizioni, cercò sollecito nel suo passato; il
Cibrario per ordine regio trasse dagli archivj nostrali e forestieri
_I sigilli della monarchia di Savoja_, una storia di questa, una
di Torino, una di Chieri, una dell’economia del medioevo, una delle
finanze del regno: lavori che desidererebbero migliore forma. Gli atti
dell’Accademia torinese ridondano di dissertazioni intorno a monumenti
o a punti speciali della storia dell’alta Italia. Gli archivj di
quel paese rimasero chiusi alle istanze del Muratori e agli studiosi
fin quando Carlalberto non istituì una deputazione che gli indagò,
pubblicandoli con intelletto e con amore. L’istituzione fu poi imitata
in tutte le parti d’Italia. Nè vogliamo dimenticare i lavori del
Muletti sulla città e i marchesi di Saluzzo, del Carruti su Amedeo
II, del Sauli sulla colonia di Gálata, del Bottazzi e del Carnevale
su Tortona, del Promis sulle monete ossidionali e quelle dei principi
di Savoja e Piemonte, di Leone Menabrea sulle Alpi, di Novellis su
Savigliano, di Vallauri sulla letteratura, di Sclopis sulla politica
e la diplomazia, del La Margarita sui trattati pubblici della Casa
di Savoja, del Manno e del Martini sulla Sardegna, dell’Adriani sui
Fieschi di Lavagna e su altre famiglie. Fanno casa a parte quelli di
Genova: Girolamo Serra ne racconta la storia civile fino al 1483,
ove comincia il Casoni; cercatore coscienziato e lucido spositore,
scevro di forestierume e di arcaismi, ma senza genio; e la costante
ribrama della patria libertà, che avea tentato rialzare nel 1814, fa
che giudichi gli avvenimenti con parzialità municipale. Dalla quale
traggono anima i recenti lavori del Canale sull’intera storia, e del
Celesia sull’episodio del 1747, e la storia popolare del Bargellini.

Dagli archivj di Roma, i più ricchi del mondo, principalmente gli
stranieri poterono trarne o i registri interi di alcuni pontefici, o di
che riformare alcuni parziali giudizj. Laonde, se la podestà prevalente
nel medioevo trovò sempre detrattori, massime fra i pedissequi dei
Francesi, da altri fu considerata da più alto punto, come dal Trova
nel _Veltro allegorico_, da Cesare Balbo nella _Vita di Dante_ poi
nel _Sommario della storia d’Italia_, libro di circostanza e perciò
molto diffuso. A chi lo tacciava di avere in esso blandito al papato
perchè tale correva la moda dopo il 1843, rispondeva che «un Manzoni,
un Pellico, un Rosmini, un Cantù, un Gioberti, gli scritti di tutti
i quali palesano almeno un lungo e indigeno studio delle cose patrie,
hanno fatta italiana la moda nostra da vent’anni, cioè prima che fosse
straniera»[256].

Il cassinese Tosti nella _Vita di Bonifazio VIII_ e nella _Storia del
Concilio di Costanza_ e _dello scisma greco_ applicò gl’intendimenti
moderni. Quella della Lega Lombarda risente i tempi, invocando che Pio
IX impugni la bandiera italiana, eccitando i fratelli a osare perchè
«la storia degli uomini è compita, e beato chi scriverà la prima pagina
della storia dell’umanità». Guelfo di fondo, caldo nell’esposizione,
non evita sempre le pedanterie, nè cerca carte inedite[257]. In
senso diverso Antonio Raineri napoletano, amico ed ultimo ospite del
Leopardi, tessè la storia de’ primi nove secoli, nella cui introduzione
annunzia che «l’uomo è un’anima incastrata in questo pianeta detto
terra, la quale i veri filosofi considerano essa stessa come un grande
animale, incastrato esso stesso fra le forze eterne... Come la terra
è soggetta fatalmente alle leggi terrestri e universali. Ma fra la
certezza dell’ordine materiale e intellettuale dell’universo, egli ha
la libertà di operare in un modo piuttosto che nell’altro. E questa
libertà non di sostanza ma di modo, non di azione ma di passione, non
assoluta ma rispettiva, è bastante a salvare le ragioni della virtù».

E quanti non hanno almeno cominciato la storia d’Italia! e quanti
non la interruppero perchè non trovaronvi un concetto unico, un’idea
predominante! Il canonico Luigi Bossi di Milano (1758-1835), nella
rivoluzione avuto incarico di spogliare archivj, formossi una ricca
suppellettile di documenti e monumenti, ed una altrettanto ricca
n’avea nella memoria. Di quella fece traffico, di questa abuso,
giacchè fino lavori d’erudizione che impongono scrupolosa esattezza,
tesseva a memoria, e mentre i vulgari stupivano a quello sterminato
sapere, gli eruditi compassionavano. Certe vite beffarde di santi
dovette sospendere; le molte storie che compilò perirono; ed anche la
voluminosissima d’Italia, transunto di pochi libri, senza proporzioni,
senza vedute, senza sincerità, senza stile.

Giuseppe Borghi, traduttore del Pindaro e autore di poesie
encomiastiche e religiose, cominciò un discorso sulla storia d’Italia,
amplificazione sempre in tono declamatorio e senza critica: e non
trascese il ix secolo. È onorevole ricordare come gli apprestassero
i fondi molti profughi, poi i generosi Siciliani. D’alta levatura è
quella intrapresa per la parte antica da Atto Vannucci, per la moderna
da G. La Farina, con viste politiche.

Sarebbe un non finir più il voler numerare le storie municipali; e
fra quelle che ci passarono sott’occhio, a titolo di lode ricorderemo
i _Carraresi_ del Cittadella, la milanese di Carlo Rosmini per
contraddizione alla filosofica del Verri; quella di Mantova del D’Arco,
di Pavia del Robolini, di Valtellina del Romegialli; del Ciani sul
Cadore, del Bianchi sul Friuli, la toscana dello Zobi, la bergamasca
del Ronchetti, la lucchese del Mazzarosa, la comense di Maurizio Monti,
del Rebuschini, dell’Arrigoni, di Cesare Cantù, la brianzuola del
Redaelli e di Ignazio Cantù, la bresciana dell’Odorici, una di Lodi
del Vignati, una di Todi del Leonj, due veneziane del Capelletti e del
Romanin. L’affetto repubblicano appare nei lavori sul Canton Ticino e
sulla Svizzera di Giuseppe Curti, di Stefano Franscini, lodevole uomo
di Stato. Gaetano Milanesi pubblica documenti sulle arti in Siena, e
annotando il Vasari avanza la storia, così importante e allettativa
delle arti. Ed ogni città può dirsi abbia avuto uno storico; ma pochi
che intendessero l’ufficio delle municipali, qual è di rivelare la
vita del Comune, connessa colla nazione eppure avente glorie, dolori,
turpitudini, interessi suoi proprj[258].

Di Chiese parziali s’occuparono l’Aporti per la cremonese, il Nardi per
l’aquilejese, il Morcelli per l’africana, il Capelletti per le venete e
in generale per le italiane, l’Emanuel per la nizzarda, il Semeria per
quella di Torino oltre i secoli cristiani della Liguria; per quelle del
Piceno il Lanzi, il Compagnoni, il Turchi, il Catalani, il Wogel, il
Lancellotti.

La _Storia del regno di Napoli_ del Vivenzio, il _Progetto della Storia
universale_ del Mazzarella, la _Storia del regno sotto i Borboni_
del De Angelis, il _Regno e la città di Napoli_ del Rosselli, il
_Dizionario storico del regno_ di Oliviero Poli e la _Biografia degli
uomini illustri del regno_ da una società di letterati, non vissero che
il tempo d’essere lodati da giornalisti. Il duca di Ventignano nella
_Scienza della storia_ confutò leggermente la leggera del Delfico.
Nella _Storia della rivoluzione di Napoli_ Vincenzo Coco ha il calore
di chi ne fu parte e il senno di chi profittò degli errori, non
discredendo alla libertà, quantunque lodi i Napoleonidi d’aver rimesso
il freno. Tornato il paese a’ suoi re, egli rimpatriò, ma dopo otto
anni di mentecataggine morì il 1823. Nicola Palmieri, morto del cholera
nel 36, oltre una debole storia lasciava un _Saggio storico e politico
sulla costituzione del regno di Sicilia fino al 1816_. Più divulgossi
quella del generale Colletta, che tolto dall’attività de’ tempi e
sturbato dalla patria, si pose in età matura a imparare a scrivere
da Gino Capponi, dal Niccolini, dal Giordani, il quale ne rivide sei
volte il manoscritto, e alcuni brani rifece[259]: così acquistò, se non
uno stile, una maniera, che da facili amici fu qualificata tacitiana.
Anzichè chiarire le verità e accertare i fatti, cercò piacere col
blandire contemporanee passioni.

La Sicilia ebbe una storia generale dal Ferrara, che attribuì molta
attenzione alle antichità (1814); delle quali si occuparono pure
Leante, Capodieci, Maggiore, Avolio, Politi, Judica, e più il duca di
Serra di Falco. Napoli Signorelli ne fece la storia letteraria, poi
il Narbone con troppe generalità, autorità cumulate e male discusse,
divagazioni interminate, arrogando alla Sicilia glorie straniere,
appoggiandosi al Ragusi, al Mongitore e simili, e sconoscendo i più
moderni acquisti dell’archeologia e filologia. Domenico Scinà di
Palermo (1765-1837) nel 1803 pubblicava un’introduzione alla fisica,
dividendola in tre epoche, di Galileo, di Newton e l’odierna quando
fisica e chimica formerebbero una scienza sola; divinazione notevole;
nella _Topografia di Palermo_ insegnò ad applicare tutte le scienze
naturali allo studio speciale d’un paese; meglio ancora riuscì
studiando Archimede, Maurolico, Empedocle, poi la storia letteraria
della Sicilia nel XVIII secolo. Fautore del Governo costituzionale,
avverso alla unione coll’Italia, onest’uomo ma superbo, intollerante e
litigioso, nulla sperava, ripetendo, — Siamo birbi», e morì del cholera
credendosi avvelenato.

Pompeo Litta milanese (1781-1852) nelle _Famiglie celebri_ avviò
un’opera di pazienza e spesa, la quale comechè inesatta per la
cronologia e la genealogia, si distingue per giudizj non vulgari e
passionati e per epifonemi. Opere fastosissime, come il _Costume di
tutti i tempi e di tutte le nazioni_ del Menin di Padova, e peggio
il _Costume antico e moderno_ che va col nome di Giulio Ferrari
di Milano, sono compilazioni di nessun vantaggio alla storia. V’è
qualcuno che scrisse cinquanta volumi storici senza meritare altro
posto che nella bibliografia. Alcune biografie del Lomonaco piacquero
per calore giovanile e per quelle passioni, alle quali poi indulgendo
egli si uccise: alcune di Carlo Rosmini s’allargano all’importanza di
storia. Gli _Uomini illustri di Ravenna_ di Filippo Mordani tra frasi
compassate e generiche non danno giusto concetto del lodato nè il fanno
amare[260]. Sono più vivi il Fabretti ne’ _Capitani dell’Umbria_,
il Ricotti ne’ _Capitani di ventura_, il Promis negli _Architetti
militari_, e pochi altri che in tali lavori sanno far convergere que’
fatti minuti, privati e pubblici, che danno giusto criterio d’un uomo e
della condizione d’un popolo[261].

Agli _Annali musulmani_ del Rampoldi scema fede il non avere egli
conosciuto le fonti e valersi delle traduzioni francesi, perfino nella
trascrizione dei nomi; cita senza lealtà, e fin dicendo l’opposto;
millanta Amari, dopo avere illustrato i Vespri siciliani, con amore e
cognizione tessè la storia della Sicilia sotto la dominazione araba,
grandemente esaltando quegli estranei signori.

Qualcuno abusò della pietà con leggende indiscrete; qualche altro
si pasce di idee antiquate o servili o irose, sconnesse dal popolo
e senza educare gli avvenire nella scienza del giusto e dell’utile,
nella fratellanza operosa, in cui sta tutta l’italica speranza.
Coloro che ebbero mano nelle vicende, coloro se non altro che patirono
immediatamente, amano rivelarsi ai posteri, giustificare sè, accusare
altrui: donde fra gli stranieri quell’infinità di memorie e di racconti
contemporanei, che riaprono la feconda sorgente delle reminiscenze.
Pochissimi da noi, fra’ quali levarono fama il fiorentino Laugier e
il milanese Vacani descrivendo le battaglie napoleoniche. Appartengono
alla polemica più che alla storia i racconti parziali delle vicende del
1821, del 30, del 48, e le tante della successiva trasformazione.

Adulterare di proposito la storia non è che di pochi sicofanti; ma
l’impressione che sul lettore è prodotta dalla vista delle cose attuali
e la forza delle opinioni correnti, false o vere, generose od abjette,
trasfigurano i fatti all’occhio che più vantasi spassionato: e chi
abbracci abbastanza cose per essere imparziale, nutra virtù sufficiente
per dar merito ai nemici e torto agli amici, e proclamare le virtù
che giovino in ogni luogo e tempo, infondendo benevolenza e tolleranza
colla certezza di non ottenere per sè nè questa nè quella, raro sorge
fra noi. Ecco perchè al giorno della prova ci trovammo tanto minori di
noi, e vagammo nelle astrazioni per difetto d’esperienza, disposti a
gittar via le buone armi per afferrare le cattive.

Sulla filosofia della storia entrò di moda, principalmente fra’
Tedeschi, d’inventare sistemi, deducendone l’andamento dalle leggi
dell’intelletto umano, talvolta sino a negare la libertà morale. Allora
fu resuscitata la gloria del nostro Vico: alcuni vi tentarono qualche
novità, e singolarmente il napoletano Janelli, e bizzarramente Giuseppe
Ferrari.

Dall’indipendenza individuale, vagheggiata nel secolo scorso, il
nostro era passato a proclamare l’importanza della sociale convivenza,
nè fuori di questa potere effettuarsi le condizioni del progresso,
mentre in questa anche i supposti disordini appajono o beni o il
minor male. Quindi venerazione al senso comune; e quindi migliore
intelligenza nelle varie età, tutte connesse colle antecedenti e colle
susseguenti; quindi a fatti che sembrano stranianze ed eccezioni,
trovata ragione nei tempi e nelle concatenazioni; i legislatori e i
filosofi non essere isolati, non onnipotenti formatori d’una civiltà,
ma efflorescenza naturale d’un dato stadio di forme civili e sociali,
che gradatamente promuovono il progresso dell’individuo nel progresso
dell’intera società. Nei fatti particolari non s’ha dunque a voler
rinvenire il bene immediato dell’individuo, ma spiegare le vie per
cui il genere umano anche errando s’avvicina alla migliore attuazione
del vero, del bello, del buono, librandosi tra la violenza logica
dei radicali riformatori, e l’ottimismo indolente de’ fatalisti. La
storia non fermasi ad alcuna parte distinta dello spazio e del tempo,
ma all’intero andamento del genere umano con certe leggi, non intese
eppure intravvedute, per cui le quistioni più particolari si annettono
alle supreme, e a quelle che pajono metafisiche speculazioni.

Pertanto un Italiano, che da un pezzo guardava ai passi dell’umanità
anche fuori di paese, si persuase che tutte le verità importanti alla
vita si racchiudono nella storia, scienza generale e non isolata, e
dapprima storicamente furono e possono essere enunciate; che nè un
individuo nè una nazione si può conoscere appieno se non si studii
in tutta la serie della sua vita; che la moralità de’ fatti privati
e pubblici deriva dalla conoscenza delle circostanze, nè queste
possono abbracciarsi se non nel complesso delle cose che precedettero
e seguirono; mentre restringendosi a un punto solo, si distruggono
la ragione storica e la ragione umana. Ebbe dunque l’ardimento o la
temerità di riassumere in una storia universale quello che sui singoli
punti di essa aveano discusso e pronunziato nostrali e forestieri, e
darvi non solo esterna simmetria, ma intima unità, seguitando il genere
umano che tutto insieme migliora di continuo, sotto la guida della
Provvidenza: e quel progresso additò nelle idee, nelle dottrine, nei
sentimenti, nell’acquisto di libertà e di dignità; perciò studiando in
complesso le scienze, le religioni, le arti, le costumanze; procurando
si apprezzasse il passato senza voglia di rifarlo, non si guardasse il
medioevo come un grande abisso fra due mondi[262], negando conservasse
e producesse germi di civiltà, ma non pretendendo trovarveli appieno
svolti e maturati; insomma si riponesse l’uomo al posto dove i
filosofisti aveano collocato delle astrazioni. In conseguenza notabili
riuscirono i giudizj ch’ei portava sugli uomini, collocandoli in mezzo
alle circostanze e alle idee del loro tempo, eppure in ogni età e luogo
raffrontandoli alla morale indefettibile, e deducendone la ragione
filosofica e il criterio morale. Anche artisti e letterati circondando
di ciò che doveva ispirarli, non li valutava soltanto secondo la
bellezza formale, ma stimando gli antecedenti passi dello spirito,
le tendenze verso il futuro, il nuovo impulso che ciascuno aggiunse
all’impulso continuo provvidenziale.

Chiedeano i grandi dottori: A quale scuola appartiene egli? è novatore
o retrivo? perchè tanto rumore? come si elevò senza il nostro voto,
senza incensare agli idoli che giorno per giorno noi gridiamo immortali
e domani sotterriamo? porta un metodo o una dottrina? è una scoperta?

Era la perseveranza di cercare la verità, la buona fede in
riconoscerla, la franchezza in esporla tutt’intera e complessiva, senza
timore di nemici, e, ciò che più costa, senza connivenza ad amici.
Considerata come evoluzione dello spirito universale nel tempo, e in
particolare come progresso della coscienza della libertà, la storia
diveniva opera di morale e politica più che di letteratura: e in fatto
quelli che si proposero con dottrina e coerenza di mettere quell’opera
nel fango o sul piedistallo, tolsero appunto di mira i suoi giudizj.
Nuovi o no che fossero, giusti o meno, traevano vigore dall’essere per
la prima volta applicati non a fatti e personaggi singoli e speciali,
ma all’intera storia; la quale ordendosi sulla conoscenza della
natura dell’uomo, sull’efficacia delle istituzioni e dei fatti nella
condizione dei popoli, non destava minore interesse al tempo di Cesare
e di Confucio, che a quello di Napoleone e di Saint-Simon.

A noi non pareva che, d’una scuola che ora udiamo compassionare come
sfruttata e «immiseritasi nella religione e nella morale», riuscirebbe
compiuto il quadro se non avessimo accennato a un’opera, la quale
(non essendosi comprata l’impunità con forme elastiche ed espressioni
mitigate a norma del giusto mezzo che si pretende) aperse campo a
rumorosi dissensi, produsse critiche più voluminose di essa, ma i
cui sentimenti e l’esempio non rimasero inefficaci neppure su quelli
che la rinnegavano. Se non che l’autore, mentre conosceva come si
abbia diritto di chiedere ad un libro la trasparenza d’ogni frase, la
precisione d’ogni pensiero, la sicurezza d’ogni giudizio, affinchè,
lucido e ardente, ispirato dalla passione, temperato dalla ragione,
rechi lume all’intelletto, calore al sentimento, rinforzo alla volontà,
sentiva quanto ad adempiere tali doveri lo rendessero impotente il suo
ingegno, il suo isolamento, i suoi contemporanei.

Chi ci trovasse o ingrati agli antecessori o malevoli ai successori,
voglia indicarci perchè, non dirò non li lodino, ma non se ne valgano
gli stranieri; perchè quivi stesso si ricevano così scuratamente i
lavori nazionali, mentre con deplorabile leggerezza si traduce ogni
miseria che sgorghi di Francia[263]; perchè alcuni sfacciati od
ignoranti osino asserire il falso, addurre testi bugiardi, documenti
sfigurati, e ottengano assenso dai giornali e persino reputazione di
eruditi; perchè sì rara s’incontri quella critica che ricostruisce il
passato vagliando le sodezze del vero dalla pula dell’immaginazione
e dell’arbitrio, dai miti e dalle frodi. Italia aspetta ancora lo
storico, il quale la metta sulle vie che solo possono convenirsi
all’avvenire, colle maschie melanconie; con quel coraggio tranquillo
che sa dare torto anche alle persone ed ai partiti che venera; ed
affrontando i pericoli della sincerità, maggiori in paese che non c’è
avvezzo, e dove la tribuna è riservata ai sofisti, non guarda quali
simpatie e quali rancori ecciterà, non teme applausi che gli varranno
calunnie, nè dissensi che gli varranno la persecuzione dei forti o la
denigrazione de’ gaudenti, de’ quali è legge l’esagerazione e vanto
l’astrazione inapplicata.



CAPITOLO CLXXXVI.

Scienze morali e sociali.


E chi ci dirà che la precipua causa del poco bene scriver nostro e del
non farci leggere sia lo scarso studio della filosofia, ci parrà uomo
che nell’arte sa elevarsi dai canoni consueti della scuola.

Dalle meschinità di Francesco Soave uffizialmente adottate, l’Italia
era stata buttata nel sensismo vulgare di Condillac, benchè serj
filosofi il combattessero; come il Gerdil, che sostenne non poter
l’idea dell’ente derivare dai sensi, eppure essere idea formata; il
Falletti, che al canone della sensazione surrogò il leibniziano della
ragione sufficiente e la generale idea dell’essere, dedotta dal _me_
pensante; il Draghetti, che divisò una più compiuta dottrina sulle
facoltà dell’anima, fondandola sopra l’istinto morale e sopra la
ragione; il Miceli che, ripulsando l’_Ontologia_ di Wolf, prevenne
Schelling nel divisamento di un nuovo sistema delle scienze. Il padre
Pino (1779-1823), nella _Protologia_, il principio e il fondamento
d’una scienza universale trova nella natura divina, sorgente della
ragione umana, ch’è distinta dai sensi; è una e identica in tutti gli
atti del pensiero: ma a malgrado di quest’unità, noi siamo il soggetto
e l’oggetto dell’intelligenza, e lo spirito intelligente che in Dio
cerca la causa e il modello. Ogni luce e verità proviene da Dio; e la
natura divina, cioè il dogma della Trinità, si riflette necessariamente
in tutti gli oggetti che noi conosciamo, e diviene la base di tutte le
scienze e della morale. Con ciò opponevasi all’incredulità irruente
e alle inezie condiliachiane, e preveniva De Maistre e Donald nel
professare che la parola non potè che essere rivelata. Al tempo stesso
Palmieri e Carli combattevano le conseguenze del sensismo nella
religione e nel diritto pubblico. Anche Pietro Tamburini bresciano
(1737-1827), ripudiando il sensismo e la morale dell’interesse, traeva
l’obbligazione morale dal bisogno della perfezione, pur confutando il
progresso indefinito di Condorcet. Meno ascoltati, non impedirono che
a braccia aperte si accettasse da noi la gretta ideologia del Tracy,
cui il traduttore Compagnoni aggiunse un catechismo morale, prettamente
empirico.

Così il sensismo si diffuse: e la sensazione essere l’idea fu
sostenuto dal pseudo Lalebasque (Pasquale Borelli) nella _Genealogia
del pensiero_. Pasquale Galuppi di Tropea (1770-1846), pur tenendosi
alla filosofia sperimentale, diverge dai puri sensisti in quanto,
cogli elementi objettivi della cognizione ammette anche lo spirito
umano, che meditando ascende dal condizionale all’assoluto in forza
dell’intuizione mediata del raziocinio stabilito sulle nozioni.
Scrittore scorrettissimo e tutto infranciosato, pure chiaro, senza
formalismo nè pedanterie, senza abbaruffamenti, e con aria di una
persuasione dabbene e il tono d’amichevole maestro, si fece leggere
più d’altri che di gran lunga il superavano; divulgò l’analisi
psicologica della scuola scozzese; diede a conoscere la tedesca, poco
conoscendola egli stesso; alle empiriche formole condiliachiane surrogò
il linguaggio della scienza moderna, impastandola fra Locke e Reid.
Ammette verità primitive di sperienza interna; non procedenti da mero
empirismo o dai principj _a priori_ di Kant, bensì dalla subjettività
stessa dello spirito, come sue leggi originali. L’ontologia confonde
colla psicologia: mal procede nella logica; della filosofia, «scienza
del pensiero umano», non scorge le attinenze colla morale, colla
politica, coll’economia pubblica. Nell’estetica è affatto gretto:
nella dottrina morale ammette giudizj pratici _a priori_, qual sarebbe
l’imperativo _Fa il dovere_; e colloca la legge morale nella retta
ragione che dirige la volontà al nostro ben essere, indicandoci quali
atti possono produrre o impedire la felicità. Nel suo paese Mancini e
Tedeschi vacillarono nell’eclettismo; Winspeare giureconsulto espose
le teoriche di Kant, ma serbando venerazione per Reid, e in lontananza
per Leibniz; De Grazia (_Sulla realtà della scienza umana_) sta fedele
a Locke, pur attento ad ovviare le conseguenze del sensismo, e lasciava
all’intimo senso il giudicare inappellabilmente la verità del metodo
sperimentale, svincolata dal razionalismo.

Le teorie che Giuseppe De Maistre oppose alla filosofia sensista e
alla storia enciclopedistica, parvero eccessive, e si tentò conciliare
l’esperienza colla ragione, quasi soltanto dal loro accordo possa
venire un accettabile sistema[264]. Con questo si scivolò in un
eclettismo, pel quale Cousin non trovava ne’ nostri che un gretto
raccogliere di ciò che i Francesi hanno già repudiato[265]; mentre
Baldassare Poli volle rionorare la scuola italiana, seguendone le
traccie attraverso ai secoli fino a noi, e correggendo l’eclettismo in
modo che non si limiti a scernere ciò che v’ha di vero nei discordanti
sistemi, ma metta in relazione fra loro i due supremi principj
dell’empirismo e del razionalismo.

Per Terenzio Mamiani pesarese, sbrigliatosi dalle tradizioni
religiose e dal formalismo scolastico, Filosofia è storia naturale
dell’intelletto, e suo uffizio lo studio de’ metodi antichi; attesochè
il metodo sia tutto, e ogni riforma nasca dal suo cangiamento; la
scienza non sia che la verità metodica, e ogni discussione filosofica
possa ridursi a quistione di metodo. Il tempo, cioè lo spirito umano,
fa sempre una scelta; e di ciò che v’ha di vero in ciascuno accresce le
proprie ricchezze; il resto porta via. Gli antichi Italiani conobbero
il metodo vero, e chi lo rinnovasse integrerebbe la scienza, da cui si
dedurrebbe che le estreme conclusioni della filosofia razionale devono
coincidere coi dettami del senso comune: e col titolo di _filosofia
italiana_ blandisce la boria patriotica: ma avvi nazionalità nella
filosofia, cioè nella ricerca del vero?

In questo ristauramento del passato il padre Gioachino Ventura
siciliano (-1861), all’opposto resuscita la scolastica per innestare
la filosofia sulla rivelazione; mostra il valore del sillogismo e
i meriti di san Tommaso, al quale s’appoggia per sostenere che la
ragione abbandonata a sè è bensì dimostrativa, ma non inventiva, e
nessuna verità può trovare, neppure l’esistenza di Dio. Nè però nega
all’uomo la ragione, ma ne fa un’esistenza sostanziale, che ogni
verità trae dalla ragione di Dio; sicchè, ammettendo un principio solo
di conoscenza e per ciò una sola sostanza, cadrebbe nel panteismo
se la fede nol rattenesse. Perocchè la filosofia cristiana sempre
ammise due principj di conoscimento, la rivelazione e la ragione,
essendo necessario discernere essenzialmente lo spirito dalla materia,
l’individuo dalla specie, la specie da Dio.

Posto il qual canone, fa stupore come la taccia di panteismo si lancino
a vicenda i due grandi filosofi cattolici. L’abate Antonio Rosmini
di Rovereto (1797-1835) con logica irresistibile abbatte i sistemi
dei precedenti, i quali, nel ricercare l’origine delle nozioni che
sono indispensabili per formare un giudizio, o troppo negano o troppo
suppongono; e dimostra che non è necessario ammettere d’innato se non
l’idea della possibilità dell’ente, la quale, unita alla sensazione,
basta a produrre le altre, e l’intelletto è quel lume della ragione pel
cui mezzo arriva a conoscere. Pensare è sentire, dicevano i sensisti:
pensare è giudicare, dice Rosmini; e comincia a distinguere nella
conoscenza umana il materiale dal formale. Materia della cognizione
sono soltanto gl’individui sussistenti d’una specie: ma la sussistenza
non è conoscibile per sè, non entra nell’intelletto; mentre oggetto di
questo non è che l’idea, la specie. La sussistenza viene percepita con
un atto essenzialmente diverso da quello onde s’intuisce la specie;
con un atto che per sè non è cognizione, attesochè un’azione dei
corpi sopra di noi produce impressione ma non cognizione. Se poi alla
percezione degli oggetti esterni noi applichiamo l’intuizione dell’idea
che è in noi, diciamo che quella è la realizzazione di questa; e per
tal modo la percezione diviene intellettiva. Quest’atto non è una
semplice intuizione dell’idea; bensì un giudizio, un’affermazione che
ci fa persuasi della realtà d’un ente, il quale corrisponde all’oggetto
intellettivo da noi intuito. Tutte le qualità delle cose hanno la loro
idea, e perciò appartengono alla cognizione pura e formale; solo la
sussistenza è estrania alla conoscenza, e ne costituisce la materia.

Così ridotta la cognizione alle pure idee, ai possibili, alle essenze,
egli paragona le idee fra loro, e vede che le più determinate rientrano
sempre nelle meno determinate, sicchè, distribuendo le più particolari
e molteplici prima, poi le meno particolari e meno numerose, via
via si giunge a un’idea prima, che vale per tutte, e che in tutte si
moltiplica mediante differenti determinazioni.

A tal modo coglie l’idea dell’essere possibile indeterminato, come
fonte pura di tutto lo scibile; idea che esiste indipendente dall’uomo
e da ogni realtà. Se l’uomo consideri tutte le cose sussistenti e da
lui conosciute, s’accorge che in esse non trovasi nulla di ciò che
si chiama la conoscenza. Eppure la conoscenza vi è, perocchè egli
conosce. Quest’è segno che sono cose affatto distinte la conoscenza
e la sussistenza; e la prima è una forma di essere, in opposizione
alla sussistenza. Non può dunque formarsi da nessuna delle sussistenze
cognite, nè dal mondo materiale, nè dall’anima, ma procede da qualche
altro principio, la cui essenza mantiene tale opposizione a tutto ciò
che esiste. Tale principio, che non è sostanza reale nè accidente, è
l’ente intelligibile, la possibilità delle cose, l’idea; principio che
si raggiunge ancora più col contemplare che col ragionare.

Questa prima percezione dell’ente, intuíto in universale, non possono
neppure gli scettici dubitarla illusione; onde è fondamento della
certezza, e genera la cognizione dei corpi, di noi, di Dio, della legge
morale, il nesso del mondo ideale col reale, della vita teoretica e
speculativa colla pratica. Sommo teorico del pensiero, sebbene usi
una lingua pulitamente stentata, e più prolissa che non converrebbe a
quell’irrepugnabile argomentare; e sebbene l’insistente dialettica,
specialmente nella confutazione, sappia di cavillo, nuovo movimento
impresse al pensiero filosofico, tolto dalle angustie dell’empirismo,
e diretto ad abbattere il mondo della sofistica e dell’errore, per
elevare il mondo della scienza e della verità. Indipendente di atti e
di pensare, coerente nelle opere come nei principj, il ricco patrimonio
erogava in opere pie e nel sorreggere i Sacerdoti della Carità (-1854),
da lui istituiti per formare buoni ministri dell’altare.

Pure la vita eragli stata amareggiata da contrarietà, non solo per
parte de’ materialisti ch’egli bersagliò in Gioja, Foscolo, Romagnosi,
ma anche de’ religiosi, dai quali fu promosso avanti al pubblico
un attacco d’inverecondi improperj, e avanti alla Congregazione
dell’Indice un’accusa di errori teologici, ma la suprema autorità lo
mandò irreprovato.

Suo antagonista il torinese Gioberti (1801-52) asseriva «che al dì
d’oggi in Europa non v’ha più filosofi», colpa del metodo psicologico,
al quale vuol sostituire l’ontologico di Leibniz, Malebranche, Vico;
ultimi filosofi, la cui via fu guasta da Cartesio, «nuovo Lutero, che
all’autorità cattolica surrogò il libero esame». Poichè questa ricerca
dell’ente mena difilato al panteismo, sia l’ontologico che confonde
il reale infinito col possibile, sia il cosmologico che immedesima
Iddio col creato, Rosmini avea voluto garantirsene coll’asserire che
l’intelletto non intuisce l’ente reale ma il possibile; Gioberti
accetta l’idea dell’ente come primo psicologico, ma crede repugni
il dedurre il concetto di realtà da quello di possibilità, e che
precipita nel panteismo il supporre che questo esista senza di quello.
Li distingue dunque per mezzo dell’atto creativo, mediante la formola
_L’ente crea l’esistente_.

Questa formola è il primo filosofico, che comprende il primo
psicologico e il primo ontologico, vale a dire la prima idea e il primo
ente. Toglie dunque, nell’intuizione dell’assoluto, ogni intermedio
fra lo spirito creato e l’ente in cui stanno objettivamente tutte
le idee, e vuole che l’intuizione dello spirito umano sia nell’ente
divino, ideale, reale, creante; mentre Rosmini fa l’intuizione per sua
natura ideale, e il reale colloca come scopo del sentimento: laonde
lo spirito nostro non intuisce direttamente Dio; l’idea dell’ente,
rappresentandogli l’essere come possibile e universale, non gli
discerne il necessario dal contingente, mentre il sentimento della
realità divina appartiene ad uno stato soprannaturale. Se in Rosmini
l’ente è possibile e indeterminato, in Gioberti è reale e creante;
perocchè, in quella sua proposizione egli avvisa nel primo membro
una realità assoluta e necessaria, nell’ultimo una contingente, e
vincolo tra essi la creazione, atto positivo e reale, ma libero.
Ecco tre realtà indipendenti dallo spirito nostro; ecco affermati
il principio di sostanza, quel di causa, l’origine delle nozioni
trascendenti, e la realtà objettiva del mondo esterno. Da quella
deduce egli l’intera enciclopedia, divisa in tre rami; filosofia o
conoscenza dell’intelligibile, fisica e matematica. La prima appartiene
all’essere, la seconda all’esistenza, la terza alla copula, cioè
al creato. Viene poi la teologia rivelata, dov’è l’ente che redime
l’esistente.

È un tentativo di ricondurre all’ontologia gli spiriti, traviati
dall’analisi psicologica, ripristinando la scienza in opposizione
alle scuole tedesche, vergenti al panteismo. Ma Gioberti, declamando
incessante contro i psicologi, ingombrò la dottrina con metafore
e tono oratorio, con parole artificiosamente inintelligibili e
sinonimi in mancanza d’idea precisa; con neologismi inutili e formole
nuove indossate a idee anche comuni, mentre gli studj speculativi
vogliono elocuzione chiara, precisa. Il razionalismo combattendo in
Lutero che scosse l’autorità della Chiesa, in Cartesio che sconficcò
l’infallibilità della Bibbia, in Kant che annichilò la validità della
metafisica cristiana, ripone l’essenza del cattolicismo nel riconoscere
l’assoluta sovranità della Chiesa nel definire il vero morale e
religioso: sovranità che si annichila col negarne anche una minima
parte. Lo avesse egli ricordato anche tra l’ardore della polemica,
dove, fatto del vero un mezzo, non un fine, si prostrò davanti ai
proprj equivoci, secondando l’opportunità.

Attorno a Rosmini e Gioberti si dibatterono le capitali quistioni
dell’ontologia, della psicologia, dello scetticismo, del panteismo,
dell’origine ed autenticità delle cognizioni, del valor logico della
dialettica nel conciliare i contrarj, della natura dell’assoluto,
dell’ideale, del reale, degli universali, del primo enciclopedico che
spiega l’universo. Conciliava i due sistemi onde raggiungere la sintesi
che meglio giovi alla vita individuale in relazione coll’universale
civiltà. Tentarono Tommaso Mora e Francesco Lavarino nell’_Enciclopedia
scientifica_ (1856), associando l’intuito dell’ente creato e quel
dell’ente possibile non sequestrato dal reale, in modo che l’ontologia
sia reale, ideale, mista, e il filosofo deva contemplarne tutte le
parti, ma non gli sia possibile impossessarsene senza l’autorità della
Chiesa, la quale è l’ontologia stessa fatta sensibile, e la sola che
possa insegnare la realtà oggettiva delle cose; è il vero principio
del mondo scientifico, dove la filosofia non è che il mezzo. I criterj
filosofici usitati sono sempre arbitrarj e gratuiti, destituiti
di valore enciclopedico, il cui supremo valore è quello della
contraddizione: ed essi con logica serrata lo riscontrano attuato in
tutte le cose, da Dio sino all’atomo.

V’ha altri cui viene paura che gli studj dell’ente e quelli dell’idea
non conducano dalle universalità dell’essere alle universalità della
sostanza, dall’unità ideale alla sostanziale, cioè dalla semplice
unità ideale alla negazione delle realtà estrinseche. A tal pericolo si
oppongono gagliardamente i filosofi religiosi, fra’ quali segnaliamo
il gesuita Pianciani (-1876), che dopo avere colla molta sua scienza
fisica commentati i sei giorni della creazione, volle con quella
scienza stessa illustrare la metafisica.

Altri credono che la filosofia abbia fondamento in san Tommaso, giovata
dalle ricerche de’ moderni; e tale è l’opinione del Liberatore, che i
Gesuiti oppongono al Rosmini. Con quest’ultimo accampano Pestalozza,
Curti, Sciolla, Manzoni...; con Gioberti stanno Bertinaria, Vittorio
Mazzini e molti piemontesi. V’ha chi risale a Kant, pur declinandone
gli errori, come Baroli; chi tiensi agli scozzesi, come Ravizza;
Bertini nella _Filosofia della vita_, deriva la morale dall’amore
disinteressato della bellezza morale degli atti virtuosi: il Centofanti
con vigoria ed ardimento fino nell’erudizione tesse la storia de’
sistemi filosofici.

L’ontologia e le aspirazioni alla scienza assoluta sono combattute
da Giuseppe Ferrari, il quale asserisce che con ciò non si fa che
duplicare i misteri, trasportando la verità prima fuor della certezza
descrittiva; e poichè non è data all’uomo che la descrizione, facile
riesce abbattere i sistemi ontologici e, confutati questi, sembrano
distrutti anche i fatti che essi spiegavano. Passaggio matematico non
v’ha dall’ente ai fenomeni, dall’uno al vario, dalla sostanza alla
creazione; sicchè fra tali ricerche la ragione isterilisce nel dubbio,
mentre dovrebbe limitarsi alla descrizione de’ fenomeni, ripudiando
come impossibile ogni dimostrazione di là dai limiti della certezza
vulgare. Neppur alla morale dà fondamento l’ontologia, avvegnachè la
virtù è una poesia, la morale un irresistibile impulso del cuore, la
libertà e la responsabilità un fatto di coscienza, inseparabile dalla
moralità e inesplicabile come questa[266]. Con Ausonio Franchi proclama
i diritti della ragion pura, e che sol dopo ottenuta la libertà del
pensiero potrà conseguirsi la libertà degli atti; sicchè è mestieri
distruggere dogmi se vogliasi arrivare al riscatto politico della
nazione.

Queste divergenze accertano il bisogno di dare un fondamento alla
filosofia, la quale più non s’isfrivolisce coll’acquisto individuale
di idee e di cognizioni, ma ricorre all’universalità, o chiamisi
senso comune, o idea innata, o forme universali, o spontaneità della
ragione, o indaghi nel linguaggio i depositi della comune, la sintesi
dell’umanità; certo però collo spirito negativo non risolverà i grandi
problemi della natura e della civiltà, nè ripristinerà nell’uomo
l’immagine divina.

La filosofia sensista aveva avuto rinfianco da Melchior Gioja prete
piacentino (1767-1829), che buttatosi alla repubblica, parve eccessivo
fino ai demagoghi; poi dal Governo italiano fu destinato a coordinare
le statistiche. «Cercare i fatti, vedere quel che ne risulti, ecco
la filosofia», diceva egli: «le scienze non sono che risultanze di
fatti, concatenati in modo che facile ne sia l’intelligenza, e tenace
la ricordanza»; umile uffizio per una scienza! Conseguente al quale,
raccolse fatti sconnessi e neppur provati, e fenomeni disgiunti dalla
propria causa; e pretendeva dedurne verità generali. Così diede una
filosofia e una scienza sociale affatto vulgare, dove spesso sagrifica
la verità al sistematico spirito di contraddizione, al gusto di celiare
e diffondere il dubbio. Per rendere quasi visibili le teorie, e offrire
simultaneo ciò che nel discorso è successivo, moltiplicava i quadri
sinottici, solo metodo, secondo lui, per «provare qualche cosa in
morale ed in economia, rinvigorire le idee col mezzo della sensazione,
e avere un esatto confronto dei diversi elementi». Ma questo formolare
stanca l’attenzione, e aggrava la memoria di particolari, a scapito
degli universali.

La tirannide amministrativa non ebbe campione più risoluto di lui,
che domanda una direzione dispotica sopra l’esercizio delle arti e
le professioni, e privilegi, tariffe, corporazioni; si scandalizza di
Smith che disse, le passioni private abbandonate a se stesse tendere
al pubblico bene; riduce tutta la grandezza nello Stato, tutte le cure
allo sviluppare la forza amministrativa[267]; all’esperienza, alla
libertà, alla dignità umana surroga decreti che guidino o frenino
questo pazzo imbecille che è l’uomo, non esitando a introdurre
l’occhio della Polizia fin nel sacrario domestico per valutare il
merito e le ricompense, le ingiurie e i danni. Ma nel cercare le
soddisfazioni dell’ingiuria cambia spesso di criterio; spesso lo desume
dagli accidenti della natura umana, anzichè dalle sue leggi costanti
e universali, o dal risentimento che nell’uomo nasce da passioni
disordinate. Non crede la moneta possa servire di misura ai valori, nè
che convenga al solo argento conservare la funzione di moneta[268];
combatte i Fisiocratici dove prendono la terra per unica sorgente
della ricchezza, ma sconobbe l’ampiezza della dottrina di Beccaria e
di Smith che la fanno nascere dal lavoro; delle politiche istituzioni
non si diè briga, nè del nesso fra l’economia e la legislazione, nè
delle finanze. Oltre la produzione e la distribuzione delle ricchezze,
tratta anche della consumazione: ma volge il dorso alle moltitudini,
della poveraglia non tratta, antepone i grossi manifatturieri ai
minuti, i grandi possessi ai frazionati; si sgomentò della libertà di
commercio e dell’aprirsi del porto di Odessa che svilirebbe le mercedi
e porterebbe il pane a buon mercato, e loda l’Inghilterra che proibiva
l’introduzione dei grani, cioè condannava molti a morire di fame[269];
le tariffe considerava come «mezzo di difesa dell’industria nazionale
contro una concorrenza più potente»[270], ed esclama: — La libera
importazione equivale a diminuzione de’ prezzi; diminuzione de’ prezzi
equivale a diminuzione dei capitali della classe agricola; diminuzione
di capitale in quella equivale a scarsezza o mancanza di mercedi;
scarsezza o mancanza di mercedi equivale ad impotenza a comprare il
pane a basso prezzo».

Abbiatelo a saggio del formulario matematico che indossava alle
sue idee, per cui la felicità definiva il numero delle sensazioni
gradevoli, sottrattone quello delle spiacevoli: e nel Merito e
Ricompense e nell’Ingiuria e Danni riduceva a cifre e valore persino
i fatti morali; e con Bentham asseriva che «leggi, diritti, doveri,
contratti, delitti, virtù, non sono che addizioni, sottrazioni,
moltipliche, divisioni di piaceri e dolori, e la legislazione civile e
penale non è che l’aritmetica della sensibilità»[271].

«I mezzi primarj per accrescere la civilizzazione consistono
nell’accrescere l’intensità e il numero de’ bisogni, e la cognizione
degli effetti che li soddisfano[272]. I discorsi al pari delle azioni
sono subordinati alla legge generale del maggior utile e del minor
danno[273]; e una buona digestione val cento anni d’immortalità»[274].
La speranza di procurarsi i piaceri del lusso è pungolo potentissimo
pel basso popolo, senza del quale egli si avvicina allo stato
d’inerzia, e al vizio che l’accompagna[275]: per quello la donna si
vende; ma l’uomo onde comprarla lavora, e così sviluppa l’industria,
talchè il lusso conduce alla morale. E morale per lui è la scienza
della felicità; la società è un mercato generale, in cui ciascuno vende
le cose sue e i suoi servigi per ricevere gli altrui; anche quando si
rendono servigi in apparenza gratuiti, gli è per procurarsi un piacere
vivissimo, come chi spende per procurarsi un fuoco d’artifizio[276].
Vuole il divorzio, giacchè l’uomo non può rispondere de’ suoi affetti
futuri; la prostituta ottenga onore qual ministra di felicità:
impudenze che non han tampoco il merito dell’originalità, essendo
levate di pianta da Bentham, dietro al quale poneva fra i delitti
punibili il digiunare, il celibato, il mortificare la carne; fra le
superstizioni il battesimo de’ bambini, la festa degli ulivi, il sonar
le campane ne’ temporali.

Vanto di lui fu la statistica, scienza de’ fatti primarj e attuali,
che si manifestano nei differenti dominj della vita sociale, e che
servono di lume alla pubblica amministrazione, e di computo dei mezzi
nazionali. Accentrati i Governi, dovette diventare importantissima
questa scienza, che però molti riducono ad arte; mentre il suo creatore
Schlözer voleva fosse l’applicazione del proverbio _La pubblicità è il
polso della libertà_. Il Gioja, col definirla «descrizione economica
delle nazioni», dispensa dal tener calcolo complessivo di tutte le
forze politiche, mediante le quali misurare la vera potenza intima
della società.

Nel Prospetto delle scienze economiche, il quale insomma è raccolta non
di scienza ma di materiali, radunò «sopra ciascun oggetto d’economia
pubblica e privata quanto pensarono gli scrittori, sancirono i Governi,
costumarono i popoli». Poi nella _Filosofia della statistica_ insegnò
a coordinare gli oggetti e i fatti sociali sotto sette categorie: ma
è possibile mai ridurre tutto a numero e misura? è desiderabile una
società, dove si tenga conto d’ogni uovo e d’ogni pensiero che nasce?
Su quel modello molti secondarono la materialità dell’amministrazione,
ove l’uomo non è considerato come un essere intelligente, ma come
macchina da produr denaro.

In fatto ai grandiosi e inquietanti sobbalzi della Rivoluzione
sostituivasi una nuova dottrina, il soddisfacimento degl’interessi, e
a ciò mira l’economia pubblica; ma essa «riveste un’aria di gretta e
tirannica sensualità, nella quale la parte più preziosa della carità
e dignità della specie umana viene dimenticata». Così lamentava Gian
Domenico Romagnosi piacentino (1771-1835), il quale pertanto non
volle considerarla come puro studio della produzione, distribuzione
e consumazione delle ricchezze, ma come l’ordine sociale di queste; e
porla sotto al diritto pubblico, come questo sotto al diritto naturale.
S’accorge egli che «ciò che rende sociale la ricchezza è il commercio»,
e disgrada l’inutile ingerenza de’ Governi; ma a ciò lo conduce
piuttosto il buon senso pratico, che una logica deduzione dalle sue
teorie, giacchè anch’egli inciampa allo scoglio comune, e nel mentre
ripete «Lasciate fare, lasciate passare», all’autorità attribuisce
poteri che assorbono la libertà dell’individuo; quasi fossero necessarj
per dare unità, concordia, efficacia alle azioni e ai voleri singoli:
insomma al posto del naturale surroga l’ordine artifiziale.

Da Wolf, testo filosofico nel collegio Alberoni dov’egli fu educato,
trasse l’unità, la vastità, la concatenazione sistematica, la precisa
distinzione delle idee, la ben determinata terminologia, ma anche un
formalismo faticoso tra il procedimento matematico e l’argomentazione
scolastica. Testa geometrica, faticò tutta la vita ad armonizzare
principj in apparenza repugnanti, l’equità romana e il formalismo
britannico, la virtù di Platone e l’utilità di Bentham, la giustizia
metafisica di Vico e la necessità di Hobbes, l’amministrativa e
l’attività privata, la stabilità e il progresso; coordinamenti troppo
difficili. Romagnosi ripudia francamente il contratto sociale come
base dei diritti e doveri, ma vi surroga una ragione presuntiva, una
volontà generale e sovrana, una legge che tutta la forza deduce da
legge anteriore, qual è il bisogno assoluto del viver sociale; e il
diritto umano e pubblico fonda sulla necessaria tendenza dell’uomo
a cercar il piacere ed evitare il dolore (§ 97) e sulla conseguente
necessità del viver sociale (§ 415); di modo che il diritto deriva dal
complesso degli attributi essenziali dell’uomo e delle relazioni co’
suoi simili, raccolti e tutelati nella convivenza civile, la quale è
lo stato naturale dell’umanità. Ma fuori e prima della società non
v’è nulla; «non esiste una potenza esterna superiore, illuminante
l’uomo sull’ordine dei beni e dei mali, sui beni e i diritti. Dunque
ha dovuto precedere un lungo periodo, nel quale, a forza di milioni di
sperimenti, d’errori, di vicende, l’uomo grezzo e ignorante è passato
bel bello allo stato di ragionevolezza e di lumi. Questo corso si può
considerare come una legge di fatto della di lui natura»[277].

L’uomo dunque senza la società non sarebbe che un bruto, lo che
riconduce alla primitiva bestialità di Rousseau, e a sagrificare
l’individuo alla società, l’uomo non avendo che un valor sociale;
e l’attribuirlo al maggior numero dei conviventi è lo scopo della
scienza e dell’arte. Male non è che il nuocere alla società, «tanto
che un uomo il quale per tutta la sua vita pensasse ed amasse il male,
e operasse giusta l’ordine, non potrebbe essere chiamato ingiusto;
anzi giusto sarebbe ad ogni modo»[278]: esclusione del concetto morale
che genererebbe l’ipocrisia. Il suo confondere sempre il desiderio
di sentire aggradevolmente coll’amor del bene, cioè il piacere
coll’ordine, esclude ogni concetto morale superiore; nè vi rimedia col
porre fine ultimo della società la pace, l’equità, la sicurezza, poichè
ciascuna di queste importa una moralità, cioè pace nell’ordine, equità
ma con giusta proporzione, sicurezza ma per la sola virtù. Costituito
il diritto di proprietà sopra il diritto di sussistere, dovette dar in
fallo discorrendo dell’eredità.

Fra i diritti della società è quello di punire; la necessità, come
ne è la fonte, così ne è il limite. Sebbene nella pena introduca un
elemento morale, facendo che colla colpa l’uomo decada dal diritto
che aveva alla vita e sicurezza propria; non per questo si eleva sino
all’espiazione, portata da tutt’altro ordine di idee, e si arresta
alla difesa indiretta. Questa non è più necessaria quando il delitto
è consumato; ma poichè alla società sovrasta la minaccia di rinnovata
offesa, ella ha diritto di prevenirla punendo. Qui manca il nesso,
giacchè pel nome medesimo, una punizione non può concernere che il
passato; il padre punisce il figlio che percosse un altro, sebben nulla
abbia a temere per sè; e Dio punisce anche quando l’essere misto cessò
di poter delinquere. Scolaro degli Enciclopedisti, il Romagnosi trae da
quelli molti pregiudizj, sebbene non ne accetti il gretto materialismo;
da gran legista ripudia molte conseguenze, pure distingue le leggi
come sono dalle leggi come devono essere; se ne’ particolari è spesso
utilitario, nel complesso investiga il principio razionale: insomma ha
il merito di mostrare gli sbagli del sistema vecchio, ma non ne erige
un nuovo; e se anche se ne rifiutano i canoni, la mente è giovata dal
suo metodo.

Nell’Introduzione allo studio del diritto pubblico universale vuol
congiungere l’ordine dottrinale coll’operativo, la scienza della
ragione con quella della volontà, troppo dimentica dai pubblicisti;
la quale scienza si collega nel tempo col diritto d’opportunità,
ch’è spiegazione della storia. Cercando dunque ajutare il triplice
perfezionamento economico, morale, politico, formò una filosofia
ch’egli intitolava civile, media fra la razionale e la scienza della
legislazione. E come suo carattere udiamo attribuirgli l’insistere
sulla fusione della giurisprudenza coll’economia, la quale altrimenti
è scienza sbranata e disastrosa; sebbene non precisano la natura di
questa relazione fra l’economia, la morale, la giurisprudenza, la
politica. Anche quel suo ampliare l’oggetto dell’economia politica,
nelle ricchezze comprendendo e il giusto e l’onesto, l’utile
dell’individuo e della società, è un eccesso che, se impiacevolisce la
scienza e corregge l’egoismo, scema però la precisione.

Nella giurisprudenza adoprò a sottrarre le materie legali dal
grossolano e pigro senso comune, soggiogato dall’autorità. Tardi,
quando rinasceva l’amor della storia e qualche scolaro oppose i
fatti alle sue idealità, egli entrò in questo campo, ma con teorie
preconcette. Allora ripudiò il passaggio spontaneo dell’uomo dalla
barbarie alla civiltà, e «quei mal informati tessitori di civili
società, i quali mediante fantastiche speculazioni pretendono far
sorgere ove lor piace le città. La storia non ci fornisce verun esempio
d’incivilimento nativo, e ricorda solamente il dativo... Le notizie
rimaste dei primordj delle nazioni tutte, segnano uno stato anteriore
di nativa barbarie, e la derivazione dell’incivilimento da gente
straniera». E per conciliare questa contraddizione colle sue prische
dottrine, ammetteva che «pel concorso di felici circostanze, in un
paese unico spuntò, crebbe e si diffuse l’incivilimento; donde colla
maniera sperimentata efficace fu trapiantata di fuori»[279]. È questo
il sistema di Bailly; ma non fa se non allontanare la difficoltà.

Dal Rosmini la filosofia del diritto fu trattata in modo originale,
siccome pur dal gesuita Tapparelli, entrambi il diritto subordinando
alla morale, anzi il Tapparelli lo ridurrebbe alla rettitudine, in
opposizione alla scuola filosofica tedesca che lo deduce dalla libertà,
separandolo dalla morale, e guardandolo come un ragguaglio meramente
esterno, il cui formale principio è riposto nell’autonomia morale.
Non però confondono il giusto che è principio del diritto, coll’onesto
che è principio della morale; esterno quello, questo interno; quello
obbligatorio, questo spontaneo.

Il diritto naturale fu sospetto a molti Governi, quasi conduca al
razionalismo e a sciogliere l’uomo da ogni vincolo di religione
rivelata e fin di morale naturale. Antonio Bartoli Avveduti (1854)
sbuffa contro quanti ne trattarono e fin contro la parola diritto,
credendola manto de’ razionalisti utilitarj, atei, comunisti; non darsi
diritto ma solo dovere, nè altro averne l’uomo che quello di compire
il proprio dovere; Dio ha dovere di creare, felicitare, perdonare,
punire (pag. 55); le bestie hanno «il diritto di essere governate,
accarezzate, bastonate, ammazzate ed anche straziate, come si fa negli
studj anatomici; Mirabeau, Robespierre, il diavolo hanno il diritto ad
essere esecrati e maledetti (pag. 52-59); nè si danno opere lecite e
non doverose (pag. 46)».

La giurisprudenza come arte trovò nobile campo dove era chiamata
alla pubblicità; ma i più s’applicavano alla pratica, nella quale il
diritto è il codice. La filosofica ebbe per altro qualche cultore,
e qualcuno la storica, o sulle orme nazionali come fecero Romagnosi
e Nicola Niccolini che applica la filosofia alla legislazione, o
sulle tedesche come Capei, ma più sulle francesi. I napoletani Mario
Pagano, Liberatore, Delfico, Giovine, Durini, De Thomasis, De Martire,
Martinengo, Winspeare, Capone, Starace, Vecchioni, Lauria, Canofori,
Raffaelli, Agresti, Mancini; i toscani Biondi, Poggi, Paoletti,
Marzucchi, Galeotti, Giuliano Ricci; i romani Capitelli, Contoli; i
lombardi Nani, De Simoni, Giuliani; i piemontesi Sclopis, Albini, son
nomi che possiamo intonare ai forestieri quando troppo generalmente
asseriscono che l’Italia non ha fatto nulla per la giurisprudenza.

Carmignani diede la teoria delle leggi della sociale sicurezza; Forti
le istituzioni civili; Luigi Cappelli pistoiese insegnò legislazione
civile, penale e canonica all’Università di Wilna, dove professò anche
il filologo Sebastiano Ciampi. Emidio Cesarini (-1876) offrì i principi
del diritto commerciale secondo lo spirito delle leggi pontifizie
(1836). Come il Romagnosi, così il napoletano Manna adoprò a ridurre a
forma scientifica il diritto amministrativo. Pellegrino Rossi (-1849)
conobbe la necessità di legittimare il diritto di punire, contro le
opinioni divulgantisi; confutò la scuola storica che alla ragione
filosofica contende il diritto di far leggi, appropriandolo unicamente
alla consuetudine, alla spontaneità popolare; cercò porre in sodo il
fondamento razionale, già indicato da Kant, da Cousin, da De Broglie,
e fabbricarvi sopra il diritto penale, e trovare l’arcano attacco
della giustizia penale coll’assoluta. Unico trattato completo dopo il
Beccaria, concepito con unità, dedotto con metodo, spinto con potente
dialettica: ma non osando ribellarsi ai giudizj correnti, si tiene al
giusto mezzo dei dottrinarj; sciogliesi dall’ideologia sensista, ma
senza abbracciare francamente lo spiritualismo; non accorgendosi che il
razionalismo non può produrre che la variazione.

Nel diritto canonico van citate principalmente le opere del novarese
Scavini e del chierese Perrone, e in senso contrario quello del
torinese Nuytz. La teologia da cinquant’anni discute se «nel conflitto
tra due opinioni egualmente probabili, si deva stare a quella ch’è più
sicura, perchè conforme alla legge, o possa pigliarsi la meno sicura
e più favorevole alla umana libertà». Gli uni tengono doversi nel
dubbio eleggere la parte più sicura (Probabilioristi o Tuzioristi). I
Probabilisti assoluti, pei quali è lecito seguire l’opinione probabile
anche quando sia in conflitto con altra più probabile appoggiata
alla legge, oggimai son fuori di quistione; e Probabilisti moderati
convengono non possa operarsi con dubbio pratico, bensì nel contrasto
di due opinioni di equiprobabili potersi tener quella ch’è più conforme
alla libertà umana, qualvolta nel dubbio speculativo l’operante si
renda praticamente certo mediante alcun principio riflesso. Tali
sarebbero, che la legge dubbia non sia sufficientemente promulgata,
e perciò non obbliga; che la legge incerta non produce obbligazione
certa; che nel dubbio si può attenersi al partito più benigno; che nel
dubbio è migliore la condizione del possidente, sicchè nel conflitto
tra legge e libertà può preferirsi quest’ultima, posseduta dall’uomo
prima della legge. Quanto sieno solidi e quanto devansi estendere
questi principj è controverso tra Probabilisti e Tuzioristi in genere;
e nominatamente tra i Rosminiani e i teologi di cui fu sapiente
compilatore lo Scavini.

Favorevoli alla legge apparvero tra noi, oltre l’antico Bellarmino,
nel secolo passato i fratelli Ballerini, il Cóncina, il Fagnani, il
Franzoja, il cardinal Gatti, il Patuzzi, lo Scarpazza, e modernamente
il comasco Luraschi e il milanese Speroni. Quelli che nel dubbio
propendono alla libertà, citano fra gli antichi sant’Antonino e
Alberto Magno, poi i cardinali De Lugo e Pallavicino, Cristiano Lupo,
il Possevino, il Segneri, lo Sfondrati, e recentemente il Tamburini.
In capo a tutti procede sant’Alfonso de’ Liguori (tom. XII, pag. 182)
che, seguendo le norme di Busembaum, e copiandolo tanto vigore vi pose,
tanta copia di prove, tanta costanza di principj, da parer l’autore di
questa dottrina, che fu adottata quasi universalmente, a segno che i
trattati di morale posteriori riduconsi quasi ad un ricalco de’ suoi.

Ai progressi della teologia ermeneutica, che furono così segnalati
di fuori, non abbastanza contribuirono i nostri, fra cui pochi
sono provveduti di quell’alta filologia che eleva la critica ed
invenzione[280]. Più larghi campi e battaglie più severe offre
l’alleanza dello spirito di Dio colla ragione umana. Nè la filosofia
potrà forse procedere se non ammettendo a titolo di postulato la
coesione del finito coll’infinito, della libertà colla necessità, della
creatura col creatore; invocando la fede ad attestare la permanenza
del me, e dare al vero una sanzione superiore alla filosofica. Col
coraggio della fede e la saviezza della speranza, ben meglio che
colla presunzione individuale si compisce la saviezza de’ padri e si
trasmette migliorata ai figliuoli, e si abbatte il nemico comune, lo
scetticismo, separando le verità sperimentali da que’ disegni che Dio
realizza nel mondo, e di cui vuole nasconderci il mistero.

Nelle leggi non men che nell’economia bel nome godrebbe Luigi
Valeriani d’Imola (1758-1828), professore all’Università di Bologna,
se la barbara esposizione nol rendesse a pochi accessibile, e se
non avesse tirato che pochi esemplari delle opere sue. Scrisse del
prezzo delle cose tutte mercantili (1815); e affatto geometrico, da
pochi principj generali discende a spiegare i fenomeni e dimostrare
i problemi e teoremi tutti. Dalla proprietà individuale sui mobili,
poi sui semoventi, poi sugli stabili deduce l’origine della società
civile e dei suoi tre grandi ordini, la divisione del lavoro, la
maggior riproduzione, le permute estimatorie, le misure del valor
delle cose, i loro baratti, l’amministrazione pubblica, la giustizia
distributiva e la commutativa, i giudizj, la difesa, il tributo.
Ricchissimo d’erudizione, forte di logica, volendo associare l’economia
colla morale e la religione, saviamente discorse de’ cambj e della
moneta reale e di conto: ma preoccupato dall’autorità de’ filosofi e
dei Governi, col maggior numero antepone la pubblica alla sicurezza e
comodità privata.

Il Mengotti di Feltre dissertava sul colbertismo; la sua memoria
sul commercio de’ Romani; premiata dall’Accademia di Francia l’anno
che scoppiò la rivoluzione, ebbe un successo di circostanza, perchè
nei ladri proconsoli romani si volle vedere adombrati i provveditori
veneti.

Il comasco De Welz diede qualche aspetto di novità alla sistemazione
del credito proponendo una banca per la Sicilia, poi nell’operetta
della _Magia del credito svelata_ (Napoli 1834). Aggiungiamo Carlo
Bosellini di Modena (_Nuovo esame delle sorgenti della privata
e pubblica ricchezza_, Modena 1816), il Fabroni, il Costanzo, lo
Scuderi, il Longo, il Morreno, l’Intriglia, il Deluca, il De Augustini,
il Rossi, il Meneghini, il Parisi, il Trinchera, il Poli (_Studj
d’economia politica_); il Ferrara, che sovraintese a Torino a una
raccolta d’economisti, tutti forestieri eccetto un volume; lo Scialoja,
che più degli anzidetti inclina alla libertà, però legale e protetta.
Di tali studj e delle loro applicazioni l’organo più longevo e perciò
meglio opportuno alla storia furono gli _Annali di statistica di
Milano_ compilati da Giuseppe Sacchi, che sopravvissero alla crisi
del 1848, a cui soccombettero quelli di Napoli. Lodovico Bianchini,
nella _Scienza del ben vivere sociale_, allargò a teorie quel che avea
raccolto negli studj particolari sopra il reame delle Due Sicilie;
conosce le imperfezioni di questa scienza, pure s’affigge anch’esso
allo Stato, qual albero maestro della macchina sociale, e alle leggi
arbitrarie e alle sociali contingenze.

In generale fra noi furono discusse e svolte le dottrine economiche
di Malthus, di Say, di Smith, anzichè surrogarne di originali. Ben
vollero intitolare italiana una scuola, della quale Blanqui darebbe per
contrassegno il riguardar le questioni in maniera larga e complessa,
e la ricchezza non in modo stretto ed assoluto, ma in relazione col
ben essere universale: e il napoletano De Luca il dedurre le verità
economiche dai principj del diritto e della morale, richiamandole
a sintesi giuridica e di pubblica moralità, non precipitarsi agli
estremi, ma tenersi a un giusto mezzo, e mirare al miglioramento della
classe più numerosa[281]. Non troviamo che questi caratteri siano nè
comuni ai nostri, nè speciali ad essi; i quali in generale propendono
ad una libertà di commercio moderata, si occupano molto della
popolazione, poco del credito pubblico, delle grandi industrie, delle
macchine, e spesso mancano del senso pratico di chi vide e provò.

Il Gianni avea già proposto[282] una moneta di carta che nessuno
potesse ricusare, e di quantità equivalente all’imposizione; l’erario
non pagherebbe e non riceverebbe che in questa specie; sicchè non
estenderebbe nè il commercio nè la circolazione de’ metalli, dando
fuori solo quanto ripiglia; e con ciò si cesserebbe d’avere e
imposizioni e spese pubbliche. Quel pensiero sviluppò il siciliano
barone Corvaja, stabilendo un banco-governo che stampasse tanta carta
quanta ne domandano i cittadini a contanti; non sarà una banconota
che rappresenti un atto di fede, sibbene un certificato di rendita;
l’interesse del denaro frutterà per tutti i cittadini indistintamente,
variando a norma del cumulo di tutti gli utili. Da principio il denaro
affluirebbe verso gli Stati ove più alti i fondi pubblici; quando fosse
livellato in tutti gli Stati, si conoscerebbe che trascende i bisogni
giornalieri, e quest’eccedente diverrebbe oggetto di lusso. In questa
banca universale, dove tutti i proventi diventerebbero accomandatizj,
si raccoglierebbero tutti i fondi pubblici, tutto il metallo: laonde
se mai fosse stata possibile, avrebbe recato un tale accentramento
governativo, da assorbire ogni attività individuale, e spegnere la
libertà a nome dell’eguaglianza come nel comunismo. Anche Rusconi (_La
rendita e il credito_) si vale delle idee di Proudhon per suggerire un
banco-governo, i cui frutti paghino il prestito. Vi arieggia la banca
nazionale di Gabriele Rossi, poco diversa da quella di Law. Anche altri
si piacquero ai concetti socialisti, che alla debolezza degli individui
vorrebbero rimediare col ridurre la società ed una massa unica, nella
quale l’individuo andrebbe affatto perduto. E massime in questi ultimi
tempi, dopo cresciuta la libertà e pubblicità, molti studiarono i
modi di crescere la rappresentazione de’ valori e la circolazione dei
capitali mobili ed immobili[283].

Nel campo pratico è a ricordare il genovese Luigi Corvetto (1756-1822),
che fu nel Consiglio di Stato di Napoleone, e contribuì a formare
il codice di commercio e il penale, sotto Luigi XVIII fu ministro
delle finanze, e uno dei fondatori della società per migliorare le
prigioni. Anche il côrso Antonio Bertolacci, fuoruscito nel 1793,
in Inghilterra s’applicò agli studj economici, fu adoprato al Seilan
come amministratore; scrisse varj trattati, e specialmente il progetto
d’un’assicurazione generale sulla vita, che dovrebbe amministrarsi dal
Governo in modo di avvincere i popoli allo Stato e viceversa.

Pellegrino Rossi pretende l’economia politica abbia teoriche certe
quanto le matematiche; e le assegna per oggetto la ricchezza, e per
termine gl’interessi materiali; il che la discerne dalla politica.
Teorie proprie egli non posa, ma prepondera pel metodo; ben sceglie fra
i predecessori, concatena e deduce con un rigor logico che non irriti
il buon senso. Attentamente distingue la scienza pura, indipendente
nei canoni e nelle dimostrazioni, dall’applicata che deve lottare
coi fatti esterni, ed egli attese piuttosto a questa; sempre ebbe
in vista l’uomo, e più nell’ultima parte, pubblicata postuma, e che
concerne la distribuzione delle ricchezze. Ma neppure qui elevandosi
dall’eclettismo, produce una scienza troppo liberale per essere di
Stato, troppo razionale per piacere ai socialisti. Scrisse sempre in
francese, come pure Giovanni Arrivabene di Mantova, posto nel Belgio
fra i migliori cultori di queste discipline.

De’ vecchi economisti italiani una raccolta stampò il barone Custodi
a Milano, erudizione poco concludente alla scienza, per quanto esso
li magnifichi colla passione d’un editore. Un succoso estratto ne
fece Giuseppe Pecchio (_Storia dell’economia politica in Italia_),
col solito andazzo di arrogare ai nostri ogni merito perchè abbiano
enunciato qui e qua alcuni veri, che traggono vigoría unicamente
dall’essere provati, e connessi in un sistema efficiente; eppure asserì
che, ne’ primi trent’anni del secolo, l’Italia non avea nulla prodotto
in tale scienza.

Con altro ingegno il Marescotti esaminò gli economisti italiani del
secolo nostro, pretendendo cambiare il centro dell’economia politica,
come Galileo e Newton fecero della planetaria, e coll’esposizione
scientifica di tutte le scuole economiche non solo, ma delle morali,
religiose, sociali, risolvere i problemi più dibattuti, mostrare che
quel centro non è lo Stato, bensì l’uomo, e intorno a questo deve
acconciarsi e moversi il Governo. Fedele pertanto alla tradizione
religiosa degli alti intelletti italiani che attesero a dar vigore
alle leggi naturali e divine, mira a ristabilire il diritto della
creatura autonoma, oppressa dalla violenza artifiziale, al contrario
de’ consueti nostri economisti che l’individuo avviluppano nella
sovranità legale. L’uomo ha un’esistenza subjettiva e indipendente,
e di lui bisogna fare la pietra angolare dell’economia e del diritto
universale se vogliano ridursi a scienza. La libertà sia intera, come
dritto non come concessione, per ottenerla abbiasi una tassa unica,
semplice, proporzionata, in ragione aritmetica diretta sopra ogni unità
che rappresenta un valore netto pel contribuente, vale a dire una tassa
unica sopra la rendita netta. La giustizia artifiziale emanata dal
Governo, cioè dalla forza, non deve preponderare alla naturale, dettata
dalla ragione dell’uomo; chè al vertice della società non siede un
Governo umano, bensì la coscienza e la ragione per dirigere le morali e
le fisiche inclinazioni.

Insomma egli incolpa la scienza economica d’essersi fatta servile
all’onnipotenza governativa, e di tendere ad annichilare le
individualità, abolendo le corporazioni dei piccoli artieri, mentre si
applicavano quelle de’ grandi capitalisti. Dopo di che non resta che un
passo per arrivare ai teoremi de’ Socialisti, che, vedendo l’adulterio
introdotto all’ombra del matrimonio, la corruzione all’ombra della
politica, la mediocrità all’ombra dello intrigo, l’ozio e la miseria
all’ombra della ricchezza ereditaria, scalzano e rimpastano l’ordine
sociale odierno; premettendo rendere felice l’uomo, ma di felicità
passiva, indipendente da’ proprj sforzi, quasi condannato alla
beatitudine terrestre, e a virtù che sono fuori dei nostri istinti.
E a deplorare che, mentre una volta l’economia sociale studiavasi per
elevare le anime, ora non badi che a soddisfare gl’interessi materiali,
e a farsi mezzo all’indipendenza dello Stato, favorendo la sete
dell’oro e la febbre di speculazioni che arrestano lo slancio delle
intelligenze e la moralità.



CAPITOLO CLXXXVII.

Scienze matematiche e naturali.


Parve che il turbine politico scotesse le menti, sicchè repudiando la
belante letteratura, l’abitudinaria industria e le barcollanti teorie,
spinsero le scienze a tal volo, quale mai in verun tempo, munendole
coll’osservazione e col calcolo preciso degli spazj e della quantità.

Alla geografia poco ajutammo noi Italiani, giacchè non si può tener
conto di libri compilati su libri, degli atlanti, delle tabelle; lavori
di pazienza, di cui scorgesi l’inutilità quando occorra di valersene,
non concordando tampoco nei dati positivi, quali sarebbero la
popolazione o la qualità dei terreni. Il _Compendio di geografia_ del
Balbi, arrivando primo, fu adottato come manuale anche dai forestieri.
Utili vennero alcuni dizionarj geografici di paesi speciali, come
quello del Bergamasco pel Maironi, del Modenese pel Ricci, del Piemonte
pel Casalis e lo Stefani, e principalmente del Repetti per la Toscana,
dove, valendosi delle ricerche già fatte dal Targioni Tozzetti, non
porse solo la corografia e la statistica, ma tenne conto de’ monumenti,
delle carte, della storia civile come della naturale di ciascun paese.
Ebbero passaggera lode l’_Atlante statistico d’Italia del Serristori_,
la _Geografia d’Italia_ del Marmocchi e dello Zuccagni Orlandini,
l’_Annuario_ cominciato dal Ranalli.

Quanto a viaggiatori, Giuseppe Acerbi mantovano giornalista pubblicò
_Viaggi al capo Nord_, dove si asserì non essere egli mai arrivato.
Antonio Montucci di Siena (1762-1829), ito con Macartney alla Cina,
di quella lingua fece il dizionario più comodo per Europei: insegnò a
Londra, a Berlino, a Dresda, infine a Roma, ove a Leone XII cedette i
libri e manoscritti suoi, e i tipi da stampa cinesi. La storia naturale
del Chilì, stampata in italiano a Bologna il 1810, è dell’americano
Molina. Il milanese conte Fagnani dettava lettere sopra la Russia,
troppo personali. Dal Belzoni e dal Brocchi avemmo notizie sull’Africa,
oltre le aneddotiche del Pananti. A Venezuela e alla Nuova Granada
portò sue ricerche il Codazzi di Lugo (1785-1830), colonnello del genio
nell’esercito muratiano. Carlo Vidua di Casal Monferrato cercò notizie
civili ed erudite per tutta Europa, in Crimea, in Egitto, nel Deserto,
in Terrasanta, alle isole; nelle due Americhe raccolse moltissime
curiosità; altre nella Cina e nell’India; ma a Lachendon accostatosi
troppo a una solfatara, si scottò una gamba, e ne morì in vista di
Amboina. Molti suoi scritti smarrironsi, altri furono pubblicati da
Cesare Balbo, tra cui uno sullo stato delle cognizioni in Italia.

Giovan Raimondo Pacho di Nizza 1749-1829 corse l’Arabia, l’Egitto,
la Cirenaica, raccogliendo fatti importantissimi, e reduce voleva
compilarli; ma trovandosi sprovvisto di denari, si uccise. Costantino
Beltrami bergamasco lungamente percorse l’America, e risalì alle fonti
del Mississippi, investigando i monumenti che chiariscono le origini di
que’ popoli. Omboni perlustrò rapidamente l’Africa e l’America; Moro,
Beltrami, Codazzi crebbero le cognizioni sull’America; sull’Africa il
Della Cella. Altri paesi videro e descrissero il marchese Carlotti,
il duca di Vallombrosa, i lombardi De Vecchi, Dandolo, e più ardito
l’Osculati. Vi si vogliono aggiungere le _Lettere Edificanti_,
dettate dai Missionarj, e le _Memorie sull’Australia_, pubblicate
a Roma il 1854 dal vescovo di Porto Vittoria. I _Viaggi al Polo_ di
Francesco Manescalchi veronese appartengono alla storia, lodati di
esattezza[284].

Giuseppe Piazzi benedettino (1746-1826), natìo di Ponte in Valtellina,
montato l’osservatorio di Palermo, ampliò il catalogo delle
stelle fisse di Flamsteed e Wollaston, e le portò fino a seimila
settecenquarantotto. Valendosi di un pensiero di Galileo, adottato
dall’inglese Herschel, osserva il piccolo angolo formato tra una stella
brillante e una minore che la accompagna, e dal variare dell’apertura
ogni sei mesi argomenta la distanza degli astri. Nell’applicazione non
riuscì così felice; e meglio studiò l’obliquità dell’eclittica, sebbene
l’irregolare refrazione del sole in inverno gl’impedisse di precisare i
due solstizj. Mentre in tutta l’antichità conosciuta non erasi scoperto
alcun pianeta nuovo, primo nel 1789 Herschel trovò il pianeta urano:
poi Piazzi al 1º giorno del 1801 la cerere ferdinandea; scoperta che
destò rumore perchè prima, e perchè parea verificare l’ipotesi di
Keplero che i pianeti fossero disposti intorno al sole nelle distanze
di 4, 7, 10, 16, 23, 52, 100, dove mancava il quarto fra marte e giove,
vuoto che restava empiuto da cerere. Ma dopochè l’Accademia di Berlino,
diviso il cielo in XXIV ore, ne affidò una a ciascuno de’ più valenti
osservatori, in modo da formare esattissime carte, divenne cura più
ch’altro meccanica lo scontrare altri asteroidi fra marte e giove, che
passano già il centinajo.

Oriani (1752-1832), povero fanciullo d’una terra suburbana di Milano,
raccolto dai Certosini e divenuto frate Barnaba, poi messo alla
specola di Milano, la amò passionatamente; quando Napoleone esibivagli
onori, esso gli cercava qualche stromento, e morendo lasciolla erede.
Risolse difficoltà dichiarate irresolubili da Eulero col trovare
tutte le relazioni possibili fra i sei elementi di qualsiasi triangolo
sferoidico; e precisò gli elementi di urano.

Giovanni Inghirami da Volterra 1779-1854 scolopio continuò la gloria
dell’osservatorio Ximeniano di Firenze; con somma lode eseguì una delle
ore per la gran carta uranografica; seguì le giornaliere occultazioni
delle piccole stelle sotto la luna con metodo semplicissimo, sicchè
con mere addizioni e sottrazioni possono effettuarsi difficilissimi
computi astronomici: laonde l’Accademia di Londra lo dichiarò ingegno
meraviglioso, e le principali nazioni marittime vollero che alle loro
effemeridi astronomiche fosse aggiunta la planetaria dell’Inghirami.
Illustrò difficili opere di calcolo sublime, pubblicò un corso di
matematiche e i Principj idromeccanici, e nel 1817 misurò una base di
cinque miglia sopra cui fu eretta la triangolazione della Toscana.
A simile operazione la matematica celeste fu applicata in tutta la
penisola per servire di norma alle operazioni del censo; nel che bella
lode meritarono gli astronomi di Napoli[285].

Giovanni Plana da Voghera colla profonda analisi portò innanzi le
idee di Laplace, trattando della costituzione atmosferica della terra,
delle refrazioni astronomiche e delle perturbazioni planetarie, e del
movimento della luna, dedusse le tre coordinate dall’unico principio
dell’attrazione universale. Tracciò un meridiano attraverso il Piemonte
insieme col milanese Carlini, il quale trovò un nuovo metodo per
costruire le tavole astronomiche; e va posto fra i buoni osservatori
col Colla di Parma, il Calandrelli e lo Scarpellini di Roma, il De
Cuppis, il Cappocci, il Nasili di Napoli, lo Schiaparelli, il Respighi,
il Bianchi di Modena, il Santini d’Arezzo, allievo del celebre Paoli,
poi professore a Padova, diede una teoria degli stromenti ottici. Del
novarese Mossotti sono vanto il lavoro analitico sulla determinazione
delle orbite dei corpi celesti, e il metodo per dedurre gli elementi
d’un pianeta o d’una cometa da quattro osservazioni con equazioni
di primo grado; il Cavezzini anch’esso piemontese, inventò le tavole
geocentrica ed eliocentrica. Il gesuita Francesco De Vico di Macerata,
direttore dell’osservatorio romano, studiò le nebulose e principalmente
quella d’orione e le comete, e pel primo vide in Italia quella d’Halley
nel 1835, e ne calcolò il ritorno; esaminò venere, precisandone la
rotazione, e l’anello e il sesto e settimo satellite di saturno.
Benchè ungherese, dobbiamo nominare il barone di Zach, che diresse la
costruzione degli osservatorj di Napoli e di Marlía presso Lucca, e
dal 1816 al 26 pubblicò a Genova la sua importantissima Corrispondenza
astronomica, geografica, idrostatica e statistica.

Il perfezionamento degli stromenti molto giovò all’astronomia, e
se i migliori telescopj ci vengono di fuori, quelli del modenese
Giambattista Amici non iscapitano da quelli d’Herschel[286]; fece
camere lucide, microscopj a riflessione e catadiottrici; e osservazioni
celesti moltiplicò dopo che, profugo, ricoverò a Firenze. Molto si
esaltarono pure i telescopj e i cannocchiali del piemontese Porro,
inventore del Cleps.

I varj osservatorj pubblicano annuarj e memorie, estendendo le
osservazioni anche a’ fenomeni magnetici pei quali un osservatorio
apposito venne piantato sul Vesuvio. Il gesuita Secchi vorrebbe aver
riconosciuto la legge che regola i bizzarri movimenti di declinazione
e inclinazione dell’ago magnetico, trovando che il sole opera su
di esso come fosse una potente calamita, situata a somma distanza
dalla terra, e avente i poli omonimi dei terrestri, dirizzati alla
medesima parte del cielo. Egli stesso potè pel primo valersi a Roma
delle comunicazioni elettriche per istabilire la contemporaneità
delle osservazioni metereologiche, sperata fonte di molte utilità
pratiche[287] e scrisse sull’unità delle forze.

Nel più potente stromento d’analisi, la matematica, quali nomi
opporremo al nostro Lagrangia e agli stranieri?

Lorenzo Mascheroni (1750-1800) (p. 576) morì profugo e povero in
Francia, ove fu consultato intorno al nuovo sistema di pesi e misure,
a cui collaborarono Lagrangia, Vassalli, Fabroni, Balbo e il lucchese
Pietro Franchini (1768-1837), autore d’un corso d’analisi, della
scienza del calcolo, di risoluzioni delle equazioni algebriche d’ogni
grado; e che fu dell’Istituto di Francia e senatore dell’Impero. Come
il veneto Collalto, così il Brunacci di Firenze sostennero fra noi il
metodo lagrangiano, mentre i Francesi preferivano quello di Liebniz,
o piuttosto li fuse. Il Mossotti suddetto, professore di fisica,
matematica e meccanica celeste a Pisa, i lombardi Mainardi, Frisiani,
Bordoni, Brioschi, Turazza, Cremona, Ruffini di Valentano... continuano
profonde ricerche matematiche, come i veneti Conti e Minich, e il
Bellavitis sul calcolo sublime e sul metodo delle equipollenze, il
vicentino Fusinieri sulla trisezione di qualunque arco di circolo, il
savojardo Luigi Menabrea sulle vibrazioni.

Quando Wronscki pubblicò la _Filosofia della tecnica_, posando pel
primo il teorema generale e il problema finale delle matematiche, delle
quali riponeva il carattere distintivo nella certezza d’un principio
unico trascendente assoluto, volle confutarlo il Romagnosi: ma oltre
mancare il rispetto dovuto a un grand’uomo, si mostrò incerto anche nel
maneggio della geometria.

Pietro Cossali veronese (1748-1815) nella Storia dell’algebra rivendicò
contro Montuela alcune glorie all’Italia, ma stanca col rozzo stile e
colle divagazioni. La Storia delle matematiche in Italia, scritta in
francese dal toscano Guglielmo Libri, erudito che per la bibliografia
concepì una passione divenutagli funesta, lo mostra esperto matematico
più che buono storico, accumulando e divagando, e fino alterando i
fatti per secondare le passioni sue e del momento. Nessuna cosa è
meno nazionale della scienza, e un paese può offrirne un episodio,
non mai quella concatenazione, che unica costituisce le scienze.
Troppo facilmente poi vi si mescolano la passione e la boria fino al
paradosso, s’arrogano alla patria invenzioni certamente forestiere, ed
anche senza volontaria infedeltà si vagheggia come vero ciò che non è
se non faticosamente trovato.

Il reggiano Giambattista Venturi (1746-1822), in Francia prese
pratica coi migliori fisici, dettò articoli e dissertazioni,
lavorò sui manoscritti di quelle biblioteche, e scrisse intorno a
Lionardo, a Galileo, al Castelvetro, ed all’origine e ai progressi
dell’agricoltura; uomo semplice fino all’avarizia, nelle tasche
foderate di latta portava la scarsa prebenda nei viaggi che, per
confrontare manoscritti, faceva alle diverse città.

Il vanto de’ nostri nell’idraulica fu sostenuto piuttosto con
la pratica che con teorie; ma vanno nominati con lode i toscani
Fossombroni e Brunacci suddetto, autore dell’_Ariete idraulico_, e il
bergamasco Tadini, la cui teorica delle onde è invano usurpata dagli
stranieri. Pessuti semplificò e ridusse intelligibile anche ai novizj
la formola complicata di Laplace per l’attrazione capillare.

L’asciugamento delle maremme toscane e venete, le dighe ai fiumi e
al mare, i canali di navigazione ed irrigui diedero grand’esercizio
agl’idraulici. Giuseppe Bruschetti preparò una buona storia de’ canali
di Lombardia; e dotte ricerche e sperienze sui nostri fiumi e laghi
il Parea, il Lombardini, il Paleocapa, il Colombani, il Brighenti, il
Possenti. Pietro Ferrari da Spoleto 1753-1825, architetto della Camera
apostolica, oltre i progetti per prosciugare il lago Trasimeno e il
Fúcino[288], lasciò quello d’un canale navigabile che dall’Adriatico
sboccherebbe in due luoghi del Mediterraneo. Nè di progetti fu od è
scarsezza. Ma gli è tempo che l’idraulica, l’economia e l’agricoltura
si associno seriamente per riparare ad uno de’ peggiori guai della
nostra penisola, l’irruzione de’ torrenti, cagionata dal diveltare e
tagliare a vendetta le selve, onde i monti scollegansi e franano, e le
dirotte pioggie non più rattenute dalle foglie nè dalle radici, colmano
le valli e rovinano i colti.

In fronte alle scoperte moderne sta la pila del Volta (t. XII, p.
589), il quale però visse fino al 1826 senz’ajutare d’un passo i
progressi che nella fisica e più nella chimica produsse quel suo
trovato, divenuto ben presto non solo potentissimo stromento di
decomposizione, ma fonte di luce, di forza, poi d’inesauribili
meraviglie dopo combinatosi col magnetismo. Questi sono meriti degli
stranieri; ma non vuolsi dimenticare il professore Brugnatelli
che fino dal 1801 adoprò la pila a decomporre i sali, ottenne la
doratura col precipitare il rame, l’oro, spiegò il fenomeno delle
pile secondarie: splendidi veri, registrati negli Annali di chimica,
che lo fanno predecessore di Davy, Nicholson, Jacobi, Kemp, sebbene
non conosciuto[289]. Stefano Marianini piemontese sostenne con
perspicaci osservazioni l’origine fisico-meccanica dell’elettricità,
contro coloro che vi vedono un’azione chimica, come il genovese
Botto, che studiò pure l’applicazione dell’elettromagnetismo alla
meccanica. Matteucci forlivese (-1868) studiò il passaggio delle
correnti traverso ai liquidi, e l’elettrofisiologia principalmente
nella torpedine, e costruendo pile d’animali appena morti[290]; ma
non pare intenda connettere que’ fenomeni alle funzioni dei nervi, se
non indirettamente. Isolati i muscoli delle rane, scoprì che questi
assorbono l’ossigeno ed emettono l’acido carbonico a guisa de’ polmoni,
e da essi ottenne fenomeni chimici e correnti elettriche. Zamboni,
repugnante alla teoria elettro-chimica, colle pile a secco fece un
pendolo perpetuo.

Nel 1790 Romagnosi osservava che una bussola, posta sotto l’azione
della corrente elettrica, deviava: annunziò il fatto sui giornali,
ma nè altri vi pose mente, nè egli vi diede sviluppo o esattezza
scientifica; sicchè al danese Oersted rimase intatta la gloria di
questa scoperta, per la quale potemmo a fili metallici, colle correnti
di induzione, comunicare tutte la proprietà d’un magnete, e a tal modo
ottenere le calamite intermittenti, fondamento delle tante combinazioni
elettro-magnetiche, per le quali si fecero e telegrafi e macchine
locomotrici. Ottenere pile di sì lieve costo, che divenga economica
la decomposizione dell’acqua, e così abbiasi a basso prezzo il gas
illuminante e il calefaciente, è lo studio pertinace e la speranza del
genovese Carosio.

La scienza del più bello e del più maraviglioso degli imponderabili, la
luce, ch’è la più avanzata delle fisiche perchè la più indipendente, fu
mutata di punto in bianco col tornare dalle emissioni di Neuton alle
ondulazioni di Huygens, donde gli stupendi fenomeni dell’interferenza
e della polarizzazione. Leopoldo Nobili reggiano (1823) studiò
quest’ultima; e la metallocromia, la doppia calamita elettrica, la
teoria delle induzioni prometteano in esso uno de’ maggiori fisici,
se non moriva immaturo. La sua pila termoelettrica, ove il calore
opera sul galvanometro, più di qualunque termoscopio è sensibile
alle variazioni di calorico, potendosene dimostrare la velocità
della trasmissione e la quantità d’irradiazione traverso ai corpi
trasparenti, colla sensibilità fino di un terzo e di un quarto di
grado.

Macedonio Melloni, costretto coll’Amici a fuggire da Parma dopo
la rivoluzione del 1830, portò seco nell’esiglio un perfezionato
telescopio, e, compiute le sperienze, le offrì all’Istituto di Francia.
Biot ne stese una relazione in tutta lode. Le sue scoperte consisteano
nel ravvisare nel calorico raggi di natura differente, alcuni essendo
trasmessi, altri intercetti da certi corpi; oltre il calore ordinario
che si propaga lentamente e per diverse vie, ve n’ha uno radiante, che
si comunica non per contatto, ma istantaneamente, e va sempre retto a
guisa della luce. Il calore radiante è un agente distinto dalla luce?
Melloni risponde di sì; laonde la triplice proprietà di scaldare,
illuminare, produrre impressioni fotografiche. Morendo a Napoli, lasciò
un elettroscopio (1801-1856) assai migliore de’ precedenti.

Sul calorico sono pure ammirati gli studj del Belli (-1860) di
Vallanzasca. Amedeo Avogadro piemontese (1776-1856) ne stabilì questa
legge, che i calori specifici dei gas composti, ritenuti sotto volume
costante, paragonati a quelli d’un egual volume d’aria o di un gas
semplice sotto eguale temperatura e pressione, sono espressi dalla
radice quadrata della somma dei numeri interi e frazionarj dei volumi
dei gas semplici.

E d’altri fisici illustri ci gloriamo, quali Vincenzo Antinori
fiorentino; monsignor Gilj, che armò la cupola di San Pietro a
Roma, isolandola con un solo parafulmine, opera gigantesca, come
la meridiana tracciata su quella piazza, cui serve di gnomone
l’obelisco; Lorenzo Fazzini napoletano (1787-1837) che sviluppò molti
fenomeni dell’elettricità e introdusse certe eliche molto acclamate;
Zantedeschi, che al domani d’ogni grande scoperta si presenta a
reclamarne la priorità, quasi genio che intraveda le verità, ma senza
quella pienezza scientifica che le rende effettive.

Il botanico Giuseppe Raddi fiorentino, incaricato nel 1817 d’un viaggio
al Brasile, poi in Egitto col Rosellini, stampò sopra alcune nuove
crittogame; sulle quali il De Notaris studia in bella emulazione col
Moris, cui è dovuta la _Flora sarda_, come la _Flora dalmatica_ al
Devisiani. Ciro Pollini la _Flora veronese_, la piemontese il Re, la
comasca il Comolli, la bergomense il Bergamaschi, la valtellinese il
Massara, la tirolese il Perini e l’Ambrosi che senza maestri si meritò
la stima de’ più illustri, la Pisana il Savi, che poi nella _Flora
italiana_ (1818-24) raccolse le piante più belle che si coltivano
nella penisola; al Bertoloni è dovuta la prima _Flora italica_,
cominciata nel 1815. I veneti meneghini (_Algologia euganica_),
Zanini, Massalungo; i lombardi Balsamo-Crivelli, Cornaglia, Cesati,
Garovaglio faticano negli arcani di questa bella scienza, per la quale
si segnalarono nel napoletano il Piccioli, il Tenore, il Gasperini, il
Parlatore. Molti vegetali e insetti conservano il nome di Francesco
Andrea Bonelli da Cuneo 1748-1830 buon naturalista. Giorgio Gallesio
fece la _Pomona italiana_: il milanese Vittadini preparò in cera
tutti i funghi. Mauro Rusconi da Pavia portò luce sulla generazione
delle rane. De Filippi milanese sta fra’ megliori cultori del regno
animale[291], di cui la parte ornitologica trovò un acclamato cultore
in Carlo Buonaparte (-1857), e tutto un felice espositore in Giuseppe
Gené. I molluschi dell’Adriatico furono studiati da Stefano Renier di
Chioggia in opera che dopo trent’anni pubblicò nel 1816. Il bellunese
Doglioni raccolse e pubblicò gli uccelli della sua provincia, come il
Carraro da Lonigo. Il bergamasco Mangili (1767-1829) scoprì il sistema
nerveo delle mignatte e delle conchiglie bivalvi, illustrò i mammiferi
soggetti al letargo, la fecondazione artifiziale de’ girini, la
circolazione del sangue nel mesenterio delle rane e nelle branche de’
pesci, e insegnò a rimediare coll’ammoniaca al veleno della vipera.

La zoologia, non contenta di svelare l’infinitamente piccolo, cercò
in grembo alla terra i frammenti d’un mondo perito, e secondo quelli
determinò l’età dei terreni. Il bassanese G. B. Brocchi (1772-1826)
oltre lo stato fisico del suolo di Roma, descrisse alcune località
d’Italia, e massime le colline conchigliacee subappennine; preparando
a indurre l’identità di formazione dei terreni terziarj non dalla
giacitura, ma da’ corpi organici che contengono. Morì al Sennaar
nel 1826. Scipione Breislak diede un’introduzione alla geologia, e
descrisse la provincia di Milano e la Campania, e mostrò che i sette
colli di Roma sono crateri di vulcani estinti. Da Gaetano Rosina avemmo
ricerche mineralogico-chimiche sulle valli dell’Ossola, e osservazioni
sul moto intestino dei solidi.

Marzari Pencati vicentino (1769-1830) descrisse i terreni veneti
e una corsa pel bacino del Rodano e per la Liguria occidentale; e
s’accorse che i graniti erano emersi dopo la deposizione de’ calcari
conchigliferi. Da poi la geologia trovò nel Napoletano passionati
cultori Nicola Covelli, il Monticelli, il Sacchi, il Pilla; in Romagna
lo Scarabelli, l’Orsini, lo Spada; in Toscana Cocchi, Meneghini, Savi;
in Sardegna Lamarmora; nell’alta Italia Collegno, Pasini, Zigno,
Pareto, Gastaldi, Curioni, Catullo, Stoppani, Sismonda; e cogli
stranieri De Buch, Dolomieu, Beaumont, Agassiz, Lyell esaminarono i
nostri terreni, ed agitarono quistioni animatissime. La emersione,
predicata da Beaumont, e già enunciata da Lazzaro Moro (vol. XII, pag.
585), dovè cedere alla teoria del restringimento della crosta della
terra, prodotto dal raffreddarsi di essa. Nella geologia, perchè troppo
ancora conghietturale, difficilissimo è determinare il merito de’ suoi
cultori, talun de’ quali è appellato sommo, mentre altri lo dichiara
ciarlatano. Ecco in fatti il Gorini di Lodi uscire colla teoria del
plutonismo, che sventerebbe tutte le precedenti, e che in conseguenza
è da tutti i precedenti repudiata. E tanto sono squisite le diligenze,
che oggi si esigono dagli osservatori, che nessuno può avventurarsi,
non soltanto a diversi regni della natura, ma neppure a diverse
provincie del regno stesso; nè la scienza si fa progredire che colla
longanime perseveranza s’un punto solo, finchè verrà qualche poderoso
sintetico che valga a tutto riunire.

Molti scrissero d’agraria; Filippo Re che compilava gli _Annali
d’agricoltura del regno d’Italia_, il Ricci, il Malanotti, il Ridolfi,
l’Onesti, il Lambruschini[292] in Toscana, a Pavia il Moretti che
diè fuori una biblioteca agraria; come il bolognese Berti Pichat che
riunisce una farragine di cognizioni onnigene. Già prima il Dandolo
avea trattato della pastorizia, de’ bachi da seta, dei vini. Nicola
Giampaolo napoletano (1751-1832) scrisse un catechismo d’agricoltura e
sul rimediare all’immoralità derivata dalle ultime vicende politiche.
Jacini, trattando della cognizione de’ villani in Lombardia, cercò
suggerirvi miglioramenti. Agostino Bassi lodigiano (1773-1856) attese
all’educazione dei merini, propagò migliori metodi della vinificazione
e del caseificio; e le malattie contagiose volle dedurre da parassiti
animali o vegetali. Il Gera da Conegliano, il Rizzi da Pordenone,
il Freschi da San Vito, il piemontese Ragazzoni... adoprano lodevole
zelo a queste applicazioni: molti cercano il rimboscamento, molti il
miglioramento degli animali rurali: e gli studj di Giuseppe Gazzeri di
Firenze sugl’ingrassi recherebbero gran vantaggio, se la popolazione
nostra agricola gli applicasse. E società e giornali ampliano queste
discipline, dove ha singolar nome l’Accademia dei Georgofili di
Firenze.

La chimica, magistero d’analisi per eccellenza, che persegue la
materia sin nell’infima attenuazione, venne tra l’ultime scienze, e
di tutte approfitta per far ogni giorno passi tanto giganteschi, da
antiquare prontissimamente ciò che era fresco pur jeri. Le teoriche
del flogisto di Lavoisier furono schiarite e in parte combattute dal
savojardo Berthollet (1748-1822), sperimentatore diligente; il quale
credette le sostanze animali si distinguessero dalle vegetali per
l’azoto, conchiusione affrettata: studiò i clorati, e ottenne l’argento
fulminante, che dovea poi mutar il modo d’inescazione delle armi da
fuoco. Luigi Valentino Brugnatelli suddetto (pag. 541) credette la
teoria di Lavoisier non rendere ragione del calorico e della luce
che si sviluppano in certe emergenze, e ne trasse una teorica sua
propria, denominata termossigene. Trovati suoi son pure l’acido
suberico e l’eritrico; diede _Elementi di chimica_, i primi in Italia
nel senso delle teoriche francesi, e una _Farmacopea_, lodata anche
da forestieri. Porati migliorò la chimica applicata alla farmacia, e
dappertutto s’introdussero per applicarla alle arti.

Impadronitasi della pila, e collocato Davy al posto di Lavoisier, la
chimica potè elidere le maggiori affinità, nè trovò corpo che non le
cedesse il suo principio efficace, la sua essenza; donde le mirabili
teorie degli equivalenti e del dimorfismo, che abbattono quella delle
forme primitive, posta da Haüy. Gioacchino Taddei di Sanminiato
(1792-1860) cercò principalmente le relazioni della chimica colla
medicina e colle industrie, diede un prezioso trattato di farmacologia
(1819), coprì in Firenze la prima cattedra di chimica organica (1840),
migliorò i sistemi della metallurgia e della zecca, e molto occupossi
dei concimi. I begli studj di Giovanni Polli milanese e del Beltrami
sul sangue, le larghe applicazioni del milanese Kramer, del toscano
Gazzeri, di Lorenzo Cantò da Carmagnola, del Grimelli da Modena, del
Sobrero da Torino... non lasciano troppo invidiare gli stranieri,
sotto de’ quali eccellenti riuscirono l’Usiglio, il Canizzari, il De
Luca, il Malaguti, il veneziano Bixio, il napoletano Piria, il modenese
Selmi. I romani Viale e Latini nell’atmosfera scopersero l’ammoniaca
come sottocarbonaio ammoniacale, la credono dovuta alla respirazione,
e che sciolta dall’acqua, ricada colla pioggia sulla superficie della
terra; in opposizione a Boussingault, che crede l’ammoniaca dell’aria
prodotta dai temporali. Questa scienza aspira a divenire scienza prima,
e spiegherà arcani patologici e fisiologici mediante lo studio de’
fermenti.

La medicina si fece migliore col distinguersi dalle affini in modo,
che ciascuna si migliorasse a parte, ed essa raccogliesse il frutto
di tutte per divenir sempre più vantaggiosa all’umanità. La fisiologia
era in fasce, nè i fenomeni della vita si investigavano che sulle orme
di Haller, e se ne curavano le alterazioni secondo gli istituti di
Boerhaave e di Van Swieten: alla scuola dell’irritabilità halleriana
alcuni opponevano la sensibilità; altri variavano nell’attribuirla
a questo o a quell’organo; e la combattuta insensibilità dei
tendini fu sostenuta dal trentino Borsieri e dal milanese Moscati
(1739-1824). Questi ben meritò quando, essendo preposto alla sanità
nel regno d’Italia, si raccolse intorno i giovani d’ogni capacità,
ajutandoli a far prova de’ loro talenti: ma egli distrattosi in
variissime discipline, non potè in alcuna primeggiare; il Borsieri
applicò con maggior esattezza l’irritabilità halleriana alla teorica
dell’infiammazione, sbandendo le antiche ipotesi dell’ostruzione, e
squisite osservazioni esponendo con semplicità.

Il cuore è l’organo più irritabile, eppure non ha nervi; prova che
l’irritabilità non risiede in questi. Così dicevano gli Halleriani:
ma Antonio Scarpa (tom. XII, pag. 596) ve li rinvenne, e mostrò non
esistere divario di struttura fra essi nervi e quelli de’ muscoli
soggetti alla volontà; non poter dunque conchiudersi che il cuore abbia
un’irritabilità indipendente dai nervi cardiaci; e questi tutt’al più
esser inefficaci ai moti di quello.

Intanto Guglielmo Cullen di Edimburgo derivava la febbre e
l’infiammazione da alteramenti dell’irritabilità; e questa teoria
diffondendosi, escluse le malattie umorali, e tutto ridusse al solido
vivo. Il toscano Vaccà Berlinghieri (1732-1812) lo affrontò, sostenendo
che gli umori non possono soggiacere a corruzione se non fuori de’
vasi, ma che le alterazioni salubri o nocive del corpo provengono da
riazione dei solidi sopra i fluidi, suscitata da fisica necessità;
col che avviava al puro dinamismo e all’eccitabilità de’ moderni. Più
lungo rumore levava lo scozzese Brown, che distinguendo la natura morta
dalla vivente, pone la salute in una dose regolata di eccitabilità,
stimolata dagli agenti esterni, sicchè le malattie si riducono a due
diatesi, steniche dove cumulo, asteniche dove esaurimento del principio
irritabile; e la cura nell’osservare quanta capacità abbia il malato a
sopportare il rimedio opposto.

Quest’apparente semplicità allettò molti, che non istettero ad
osservare se, come forse tutte le teorie patologiche, fosse dedotta da
principj a priori; ma sì poco cercavansi le fatiche di forestieri, che
sol dieci anni dopo pubblicata, Giovanni Rasori parmense (1766-1837)
conobbe a Firenze quella teoria, e cominciò sua fama col tradurla
e sostenerla con vivezza di parola, penna arguta, sprezzo del senso
comune, irosa beffa di chi la credea pura moda. Eppure egli stesso la
modificò, o piuttosto la invertì all’occasione della petecchiale di
Genova nel 1800, dove, vedendo morire i malati che curava coll’oppio e
cogli spiritosi, secondo il Brown che gli stimolanti adoprava in tutte
le affezioni morbide e fin nell’apoplessia, tornò alla pratica del
salasso e delle purghe. In allora al lemma di Brown che tutto stimola,
oppose una fondamentale distinzione de’ medicamenti, appoggiandola
sulla sua teoria, detta del controstimolo. Secondo la quale, fondamento
della vita sono l’azione esterna e l’eccitabilità prodotta, modi
della quale sono il senso, la contrazione muscolare, i fenomeni
della mente e della passione; l’eccitamento ha un’unità, talchè non
si deve curare questo o quell’organo ma l’insieme; i farmachi sono
stimolanti o controstimolanti, e come tali si applicano alle malattie,
che provengano da eccesso o difetto di stimolo. La flogosi deriva
da sviluppo di vasi venosi ingorgati, nè distrugge nè genera parti
organiche. Questo dinamismo trovò molti seguaci: e Rasori lo sostenne
colla pratica degli ospedali; sebbene poi sul fine ammettesse l’azione
specifica di qualche rimedio, come della china nelle intermittenti.

La teorica del controstimolo fu elevata e modificata da Giacomo
Tommasini (1769-1846), che studiando la febbre di Livorno del 1804,
la febbre gialla ed altre analoghe, diede chiare idee della diatesi, e
formò una _Nuova dottrina medica italiana_, secondo la quale è negata
la debolezza indiretta di Brown, proveniente da eccesso di stimolo;
l’infiammazione è sempre stenica, cioè un processo vitale consistente
in eccesso di stimolo; e a flogosi vanno attribuite molte malattie e
febbrili e no, e acute e croniche, assegnate in prima a tutt’altre
cagioni. Riduceva dunque le malattie a stimolo, controstimolo e
irritazione; pure ne riconosceva alcune appartenenti ad entrambe le
diatesi: e l’uso della digitale e del tartaro stibiato, e le prodighe
cacciate di sangue resero famosa la scuola di quest’insigne.

La sua dinamica organica segna una transazione fra la dottrina
dell’eccitabilità e quella del particolarismo o mistionismo, fondata
da Maurizio Bufalini di Cesena, il quale, invece d’accontentarsi delle
forze, come Rasori, ripudia tutto ciò che non sia materia e azione
chimica, e deriva le malattie da profonda e molecolare alterazione
dell’umano organismo; e così crea la _patologia analitica_. Più
si generalizzò la dottrina del francese Broussais, derivata ancora
dall’irritabilità halleriana, stimolata da agenti esterni, turbandosi
le funzioni se lo stimolo sia o eccessivo o deficiente: donde la
localizzazione primitiva delle malattie, il carattere stenico quasi
generale, l’infiammazione degli organi digestivi, e in conseguenza
la cura simile a quella delle infiammazioni esterne, cioè sanguigne,
bibite, ghiaccio.

Anche altri contraddittori ebbe il Tommasini, quali Giuseppe
Giannini da Parabiago (-1818), capo della clinica di Milano, che
scrisse sulla natura delle febbri (1805), contro queste raccomandò
l’immersione nell’acqua diaccia[293], gli acidi e il mercurio: lo
Speranza di Cremona, repugnante agli abusi del salasso, non meno
che al misto organico, all’omiopatia ed al mesmerismo, per attenersi
all’osservazione pratica: il Geromini, che attribuisce gli errori della
medicina all’ontologismo, e fonda la patologia sull’irritazione. Il
bresciano Giacomini alle dottrine della diatesi unì scientificamente
quella dell’elettività de’ medicamenti. Francesco Puccinotti urbinate,
clinico nell’Università pisana, proclamò la Scuola ippocratica
italiana o degli etiologi, unendo le dottrine positive dei vitalisti
e dei mistionisti, conservando la validità clinica col decoro
d’un’interpretazione scientifica, e accettando il progresso delle
scienze ausiliari. Ai diatesisti, che fanno passivo il principio della
vita, oppone gli atti spontanei naturali, e dalla natura medicatrice
muove nella _Patologia induttiva_; studia assai le epidemie; divisa
una filosofia medica, e traccia una _Storia filosofica della medicina_,
versatissimo come è nella conoscenza degli antichi.

Questo variare di sistemi fa ridere i lepidi, e fremere gli austeri;
ma in realtà la pratica riesce per lo più alle medesime conchiusioni,
e chi esaminò gli ospedali avverò che generalmente il numero de’ morti
sta a quel de’ malati nelle medesime proporzioni, sia quando si svena,
sia quando si lascia morire di pletora. Il ripetere che la scuola
italiana s’attiene all’osservazione più che alle teorie, crede molto
ai fatti, pochissimo alle opinioni, studia i fenomeni naturali, va
cauta ne’ giudizj, indaga semplicemente il vero, e sfida abbastanza
nelle forze medicatrici della natura, esprime un desiderio più che
non formoli una teoria. I savj s’attengono all’osservazione, ajutata
dai progressi della chimica e dell’anatomia patologica, dall’uso
dello stetoscopio, modificando il trattamento a norma de’ sintomi e
dell’individuo: che se alla diatesi generale prevale la localizzazione,
questa si fissa men tosto sopra un organo che sopra qualche sistema.
Certo è che nei medici si fa sempre più indisputata la dignità[294]
ed estesa la coltura, molti occupandosi oltre la pratica, in ricerche
proprie e in conoscere le altrui; la diagnosi e il trattamento sono
d’assai migliorati; donde una quantità di medici buoni, mentre si
deplora manchino que’ famosi, che un tempo capitanavano od anche
tiranneggiavano la scienza salutare.

Fra i quali Siro Borda da Pavia gran fautore del controstimolo,
moltiplicò sperienze sull’acido idrocianico, sull’acqua coobata di
lauroceraso, sulla digitale e altre sostanze; Locatelli da Canneto,
ricusando le teorie per la pratica, combattè i Browniani; Antonio Testa
(1746-1814) da Ferrara, insigne per l’opera sulle malattie del cuore,
studiate pure dal piemontese Giacinto Sachero (1787-1855) che professò
la dottrina de’ polsi organici, introdotta in Italia dal Gandini.
Giambattista Monteggia di Laveno (1762-1815), autore delle _Istituzioni
chirurgiche_, il Paletta da Montecretese, che nelle _Exercitationes
patologicæ_ moltissimi fatti e vedute nuove bellamente espresse,
onorarono lungamente la clinica di Milano, dove poi il Verga approfondò
le malattie mentali; nelle quali, dopo Chiarugi, Baccinelli, Calvetti,
Ferrarese, si esercitarono Gualandi, Bonacossa, Monti, Bini. Lodasi
il trattato di Brofferio sulla emormesi. Brera migliorò la medicina
jatroleptica, fondata sulla facoltà assorbente della pelle. Fossati,
Pirondi e principalmente Rognetta sostengono in Francia l’onore della
medicina italiana, come in Egitto Ranzi, Raggi, Grassi, Gaetani,
Morandi, in Turchia, Mongeri, in Barberia Castelnuovo e Mugnaini.
Eusebio Valli lucchese (-1886) studiò in Oriente il vajuolo e la peste
bubonica, innestandosela; e al fine soccombette alla febbre gialla, che
si procurò apposta all’Avana.

Rasori pel primo esperì una statistica medica dopo il 1712
nell’ospedale di Milano, per dimostrare la superiorità del proprio
metodo; e subito crebbero annali clinici, rendiconti, prospetti; viepiù
da che Tommasini, nella prolusione del 1821, parlò della necessità
di sottoporre a una statistica i fatti della medicina pratica,
divisando anche le classificazioni. Idea lodevole, ma nell’applicazione
riducendosi spesso a provare soltanto una teorica prestabilita, diviene
qui, come in altre materie, un giuoco di numeri.

La medicina legale ebbe ottime applicazioni; e vi attesero Speranza,
Gianelli, Puccinotti, Barzelotti (1768-1739), di cui si lodarono il
_Parroco istruito nella medicina_ e le _Relazioni della medicina
coll’economia politica_; Omodei, autore del _Sistema di polizia
medico-militare_; Buffini che ragiona sui trovatelli, piaga del secolo.

Nuovi farmachi sono esibiti dalla progredente chimica, e tutti
semplificati, sbandendo le ricerche polifarmache; si voltano a sanità i
veleni più tremendi. Dell’innesto del vajuolo vaccino (t. XII, p. 598),
esteso per quanto contrastato, il ridestarsi delle epidemie vajolose
mise in dubbio la potenza preservatrice. Lunghi e pur troppo inefficaci
studj occasionarono il cholera e le migliari; e la pellagra, di cui
scrissero Cerri, Strambio, Marzari, Frapolli, Ballardini, Carlo Gallo,
Caldarini, Rizzi, Fanzago ed altri lombardi.

Gli stromenti chirurgici furono perfezionati, e molti ne introdussero
l’Assalini di Modena per l’ostetricia, il Signoroni di Adro per
le ernie e per avere primo tentato la demolizione della mascella
inferiore. Il Donegani di Como e lo Schiantarelli di Brescia ebbero
nome per operazioni intorno agli occhi. Paolo Mascagni sienese
(1755-1815) volle passare in rassegna tutte le scoperte astronomiche
d’antichi e moderni, e valutarne il merito; colle injezioni esaminò
le parti tutte della testura umana, principalmente vasi linfatici;
nell’_Anatomia per uso degli artisti_ offrì le più giuste proporzioni
del corpo umano ben conformato e lasciolla postuma, come anche la
_Grande anatomia_, dove con incomparabile esattezza sono rappresentati
gli elementi del corpo. Si pretende volesse usurparsela quel côrso
Antonmarchi, che assistette agli ultimi momenti di Napoleone nell’isola
di Sant’Elena; e i professori Vaccà e Barzelotti si unirono al
professore Rosini stampatore per terminarla e pubblicarla a grave
dispendio.

Fra gli anatomisti il torinese Bianchi intorno al fegato dissentì da
Morgagni; il Rolando pure torinese è arguto esploratore del cervello,
il Bellingeri del sistema nervoso e del midollo spinale, il Lippi
della comunicazione delle vene coi vasi linfatici, il Barbieri delle
vescicole spermatiche, corretti e superati dal vicentino Panizza, che
la gloria del Mascagni sostiene co’ suoi studj sui vasi linfatici,
sul fungo midollare e la depressione della cataratta. Porta mostrasi
indagatore sottile non meno che esperto operatore: il Corti esplora
il magistero dell’udito; De Filippi, Gastaldi, Pacini volgonsi
principalmente all’istiologia; Giuseppe Cantù cresce il museo anatomico
torinese con bei preparati in cera.

Tra i fisiologi, dopo il napoletano Tommasi, non potrebbero
dimenticarsi i veneti Nardo e Berti. Il Vittadini pretendea mutare la
teoria della visione, ad onta degli anatomici e dei fisici; alla quale
ricerca si volsero e Dell’Acqua, e Polli, e Cattaneo, e Trinchinetti.
Il Petropoli, che nel 1808 coll’_Etiologia_ riprovava i sistemi
adottati nelle scienze fisiologiche, qui ricordiamo solo pel suo famoso
paradosso, _Matematica e poesia condannate dalla ragione_. Coi metodi
di Tronchina e Passeri si agevolò l’imbalsamazione; e gran rumore
di prose e versi levossi attorno al bellunese Segato (1793-1836),
allorchè annunziò poter ridurre lapidei i tessuti animali. Non trovando
soscrittori per trentamila lire onde pubblicare la sua scoverta, viveva
a Firenze lavorando da calcografo, esponendo i viaggi che aveva fatto
in Africa, e presto morì. Lo contraddissero il tempo e Giovanni Rossi
sarzanese, valentissimo operatore, che l’Università di Parma arricchì
di preziosi preparati, e primo in Italia eseguì l’esofagotomia: ma sul
modo di conservare i cadaveri e le carni mangereccie volgonsi ora tante
attenzioni, che fanno sperare la riuscita[295].

Francesco Aglietti bresciano, trovando a Venezia già preoccupati
i seggi dell’arte sua dal Paitoni, dal Lotti, dal Pellegrini, dal
Cullodrowitz, dal Pezzi, fondò il _Giornale per servire alla storia
della medicina_ (1783), coadjuvato da Stefano Gallino illustre
fisiologo e da altri; e può dirsi instauratore dell’anatomia
patologica. Pubblicava pure le _Memorie per servire alla storia
letteraria e civile_ (1793), con retti giudizj e buoni estratti di
opere, e promosse la fondazione della società veneta di medicina (1789)
di cui fu segretario e presidente. Luigi Valeriano Brera illustre
clinico cominciò nel 1812 un giornale di medicina pratica. Gli _Annali_
a Milano furono tenuti in lungo credito dall’Omodei, poi dal Caldarini
e dal Griffini, ed emulati dalla _Gazzetta medica_ dello Strambio e
del Bertani. E ne’ giornali moltiplicatisi, meglio che in questi nostri
cenni da ignorante, saranno a cercare i nomi illustri d’una scienza, di
cui, come della politica e con altrettanta presunzione ed ignoranza,
vogliamo parlare tutti, e che fu estesa, quanto al passato, con
copiosa erudizione dal dottore De Renzi napoletano, arricchendola di
particolarità e sui sistemi e sulle persone: e meglio dal Puccinotti,
mentre altre prolissamente sono aggiunte alla traduzione della _Storia
pragmatica_ dello Sprengel; altre ogni giorno compajono in sapienti
monografie, fra cui vogliamo citare quelle del Perini e del Ferrario.

Come Broussais localizzava le malattie, così Gall localizzò le facoltà
colla frenologia, alla quale non mancarono cultori e contraddittori
in Italia[296], benchè i più siansi accontentati alla codarda
futilità di celie ed epigrammi. Altrettanto avvenne dell’idropatia
e dell’omiopatia. Quest’ultima fu coltivata specialmente dal Rucco
napoletano, e che ito in Francia nel 1814, pubblicò i _Nuovi elementi
di materia medica_, e più tardi l’_Esprit de la médecine ancienne et
nouvelle comparée_ (1846), e la _Médecine de la nature protectrice de
la vie humaine_ (1855).

Fino dal primo estendersi delle scoperte elettriche, il veneziano
Pivati avea preteso potersi ottenere l’effetto da farmachi senza
introdurli nel corpo, e solo col metterli in bottiglie vitree
elettrizzate. Il mesmerismo risorse testè con nuove forme e nuovo
corredo di scienza e di fatti tali, da non poter più gettarsi da
un canto come fanciullaggine; e se è troppo lo sperarne portentose
guarigioni nè scoprimento di verità, offrirà ragioni di molti fatti
che nella storia è temerità il negare, sebbene non sia possibile
spiegare. Fa vent’anni noi proclamavamo che «coloro i quali ammettono
solo ciò che comprendono, e ripudiano ciò che non si brancica e taglia,
trovando le teorie fisiologiche inette ad abbracciare e spiegare i
fatti magnetici, li negano risolutamente: ma più che dai nemici, dalle
esagerazioni de’ sostenitori è posta in compromesso questa scienza, che
forse recherà tanta luce sopra l’azione nervosa.»

Davanti a questi avanzamenti delle scienze fisiche, allo smisurato
aumentarsene della potenza dell’uomo e del suo imperio sulla natura,
inorgogliscono alcuni: altri mestamente si domandano se tali incrementi
sieno civiltà, quanto ajutino il progresso morale e civile, e se non
diano viziosa prevalenza al sensibile sovra l’intelligibile.



CAPITOLO CLXXXVIII.

Belle arti.


Il privilegio di esprimere in creazioni concatenate l’evoluzione del
genio dei popoli fu tolto alle belle arti dalla letteratura, sicchè
esse decaddero ne’ tempi nuovi, ma subirono i medesimi influssi di
questa. Nella rivoluzione, tutta di Bruti e Timoleoni, stettero
classiche affatto; e la scuola di David, imitante il movimento
esterno antico colla pretensione di rappresentare idee gravi in istile
castigato, dominò l’età napoleonica, per ricerca della correzione dando
nel freddo, pel contegno arrivando a una semplicità manierata, e sotto
la pompa di una falsa scienza comprimendo l’originalità, così propria
de’ primi maestri di Grecia e d’Italia. Che il revocare all’arte greca
come temperamento transitorio è opportunissimo, ma non il volerla
costituire principio estetico rigeneratore. Andrea Appiani (tomo XII,
p. 532) nei chiaroscuri pel reale palazzo di Milano ritraendo i fasti
di Buonaparte, s’ingegnò di adattare il panneggiare antico alle truppe
moderne; poi ivi stesso e alla Villa frescò l’apoteosi di Napoleone:
lavori che gli meritarono il titolo di pittore delle Grazie; e come
arte classica, difficilmente sarà superato. Da questa scuola uscirono
Pietro Benvenuti d’Arezzo (1769-1844), che a Firenze, dove fu direttore
dell’Accademia, effigiò nel palazzo Pitti le fatiche d’Ercole, l’opera
più acclamata del tempo[297], e la cupola di San Lorenzo, ad Arezzo il
trionfo di Giuditta, il conte Ugolino ed altri quadri; il parmigiano
Gaspare Landi (1756-1830), di cui fu tanto lodato il Cristo che va al
Calvario: il Camuccini, Giuseppe Colignon, Giuseppe Bezzuoli, Francesco
Nenci fiorentini, l’Errante siciliano, il Boldrini vicentino, altri
grandiosi ed esanimi dipintori, i quali, fioriti in età retorica,
ebbero magnifici encomj, mentre ai successivi toccò comprarsi qualche
povero articolo di giornali. In gara col gloriato Benvenuti lavorò
Luigi Sabatelli (1772-1850), professore dell’Accademia di Milano,
che meglio pratico dell’affresco, parve scarso di stile, e non bene
intelligente del chiaroscuro e delle distanze prospettiche: nella
tribuna di Galileo riuscì meglio che a Pitti e a Pistoja e nella peste
di Firenze, nella benedizione dei fanciulli unì ricca fantasia e stile
grande. Più che Rafaello raccomandava a’ giovani di studiare i Caracci
nella sala Farnese in Roma. I due suoi figli Francesco e Giuseppe
prometteano largamente se non fossero morti così giovani.

Molti costruivano in quel modo, strettamente imitatore, con
distribuzioni grandiose, ed absidi ed esedre frequenti, escludendo
le lesene dagli intercolunnj, attenendosi quasi solo al dorico, e
riuscendo a un liscio freddo e monotono. Camporesi a Roma dirigeva
le feste imperiali, e disegnò piazza Popolo coll’attiguo giardino. Il
marchese Luigi Cagnola (1762-1830) alzò in Milano l’arco del Sempione,
ch’è de’ più grandi e il più bello di tal genere; e chiese, palazzi,
torri disegnò con gusto correttissimo, dai classici non si scostando
neppure in edifizj di cui quelli non poteano aver idea.

Della qual maniera sarebbe stato il capolavoro il Foro Buonaparte,
vasta spianata attorno allo smantellato castello di Milano, che si
pensò circondare di tutti gli edifizj occorrenti a gran città; tempio
(non dovea dirsi chiesa), ginnasj, palestra, teatro, odeon, terme, e
insieme uffizj, cantieri con canali, caserme. Fu ideato dall’Antolini,
che negli _Elementi di architettura_ aveva fatto una rapsodia di
Palladio e Vignola: alla stampa de’ disegni accompagnò una descrizione
il Giordani: tutto nel classico più pretto, senza commettere una sola
originalità, se non fosse quella di Gaetano Cattaneo, che nel mezzo
collocava una gran torre, rappresentante l’erma di Napoleone, su cui
la corona ferrea serviva di terrazzo accessibile. Non si edificò che
l’anfiteatro veramente bello, pure non credemmo vano addurre questo
testimonio delle fantasie d’allora.

Nella città stessa si appose fretta e furia una facciata al duomo,
rimpastando disegni anteriori, e conservando quello che di barocco o di
romano aveanvi intruso i secoli precedenti; nel che all’Amati servono
di scusa gli ordini imperiali, che non soffrivano nè riflessioni nè
dilazione. Ma egli stesso quando, più tardi e liberissimo, ebbe ad
erigere di pianta una chiesa a San Carlo, non seppe che copiare il
panteon, alterandone le proporzioni, e sepellendolo fra due edifizj
giganteggianti.

Maggior lavoro diede allora il convertire in teatri, in caserme, in
prigioni i monasteri e le chiese; e il farnetico dell’abbellire, del
rinfrescare, dell’allineare, non è a dire quanto guastasse in un tempo
che niun rispetto usava all’antichità, se non fosse romana o greca.

Il Canova, nel ritrarre i Napoleonidi e nel supplire alle statue
trasportate a Parigi, riuscì minore di sè; pure lungo tempo rimase
indisputato re della scultura. A Milano Pacetti, Comolli, Acquisiti,
Grazioso Rusca, Gaetano Monti, Pompeo Marchesi teneansi al sajo di
quel maestro, e quest’ultimo ebbe poi le più segnalate commissioni
che ad artista toccassero, in monumenti regj e nel gruppo del Venerdì
santo, il più grandioso che modernamente si eseguisse e uno dei più
infelici. Solo a fianco di Canova reggeasi Thorwaldsen (1844); e mentre
quello aspirava alla grazia, modificando e la natura e i classici, il
danese voleva la grandezza e la forza, per le quali però talora dava
nell’enfasi e mancava di finezza, e sebbene studiasse il concetto,
abbandonavasi poi nell’esecuzione. I ticinesi Albertolli a Milano
rendeano corretto e sobrio il gusto fino al secco; poi, dopo Gerli e
Vacani, il Moglia introduceva uno stile castigato eppure di effetto;
nelle superbe modanature dell’arco della Pace, e nella _Collezione
d’oggetti ornamentali e architettonici_ congiungeva l’assiduo studio
dell’antico coll’abilità di applicarlo al moderno.

Teoriche superiori al bello sensibile e all’eclettismo non si
conosceano; e coloro che, al principio del secolo, ci rubavano i Guidi
e i Caracci, non c’invidiavano i Gioito, i Masaccio, i Signorelli:
tanto una spigolistra illibatezza era insensibile a quanto non fosse
artisticamente acconciato. Giuseppe Bossi milanese (1777-1815),
uomo dei più colti ed amabili, appassionato de’ libri, disegnava
correttissimo, ma non avea l’organo del colorito; all’Accademia di
Milano formò una scuola, propensa a sentenziare più che abile ad
eseguire, e incaricato di copiare il Cenacolo di Leonardo, scrisse
su di esso un’opera dove mai non sorge dall’analisi delle forme
alla sintesi del concetto. La principessa di Galles (pag. 308) che
lungamente divertì e scandalezzò l’Italia, volle essere ritratta dal
Bossi seminuda; sicchè dovendo tenersi in ambiente caldissimo, egli ne
contrasse una malattia che precipitò la sua fine.

Leopoldo Cicognara ferrarese (1767-1831) nella _Storia della scultura_
non osa negare ogni senso di bellezza al medioevo, ma non vede
risorgimento che col rifarsi all’antico; tutto è più bello e grande
quanto meglio all’antico si accosta. L’idea poi, la convenienza non
sono quistioni da lui; Napoleone e Canova devono segnare l’apogeo
dell’arte possibile: divaga in quistioni biografiche di lieve conto,
eppure incoglie in molte inesattezze; descrive a lungo monumenti di
secondario interesse, nè ha estesa comprensiva dell’arte; per l’Italia
dimentica Francia e Germania, e vuol persuadere che le guerre dieno
impulso alle arti. Così ispiravano o imponevano i tempi.

Ma già alla vita napoleonica tutta esterna, rappresentata da Monti,
Gianni, Canova, Camuccini, Rossini, Viganò, era sottentrato il genio
tranquillo e pensieroso della storica verità, dell’ingenua natura.
Appreso allora a rispettare il medioevo, a cercare sotto alla forma
il pensiero, e vedere l’arte come un linguaggio dell’umanità, una
manifestazione dell’incivilimento, si applicarono le teoriche, maggiore
indipendenza di giudizj, più profondità nelle ricerche d’un piacere
estetico, il quale spesso va in ragione inversa del diletto sensuale.
Già può vedersene lampo in G. B. Niccolini, che talvolta elevò
l’arte al patriotismo; in Serradifalco, che riprodusse i monumenti
siculi con riverenza; fino nel Canina e nel Nardini-Nespolti, che
devotissimi all’arte classica, pur cercano intenderla alla moderna;
ma più in Tommaseo e in Selvatico, rivolti a discoprire nelle opere il
pensiero, che doveva essere creato nella mente dell’artista prima che
egli lo esternasse sulla tela o col marmo. Quest’ultimo, applicando
a noi l’estetica tedesca, della scuola veneta principalmente offre
un concetto differente dal vulgato; richiama in onore i Trecentisti
e Quattrocentisti, ed altri vanti prima dei Bellini, del Giorgione,
dello Squarcione; deplora il naturalismo introdotto dal Mantegna e dal
Cima, che pure loda assai; come loda Tiziano ma non l’adora, credendo
suo dovere l’additarne ai giovani i traviamenti. Ne crollano il capo
quei che pretendono che il sentimento e la pratica devano prevalere
alle ingegnose combinazioni teoriche, e che i concetti estetici sieno
baje in un’arte, diretta principalmente a toccare i sensi, e che il
bello non sia scienza metafisica, ma raccolta empirica. E come si
fischiò ai Romantici che dagli Arcadici voleano richiamare a Dante e al
Trecento, così scandolezzarono coloro che dissero Guido e i Caracci non
essere modelli, e meglio valere Giotto e frate Angelico; e il titolo
di Puristi fu una taccia in opposizione degli Accademici. Ma essi a
Roma posero fuori una specie di professione di fede, sottoscritta da
Federico Owerbeck tedesco, e da Tenerani, Tommaso Minardi, Antonio
Bianchini: gente che dall’arte pretendeano qualcosa più che le forme
e il luccicante e il prestigio; più che la semplice imitazione della
natura, per la quale non differirebbero di merito il pittore storico e
quello di fiori e d’animali.

Già la scoperta dei marmi d’Egina e del Partenone aveva alzato a
riconoscere un bello robusto, superiore a quello della seconda età,
che unica s’era fin là ammirata; e Tenerani, chiesto con Thorwaldsen
a restaurarli, comprese lo stile grande di Fidia, che pareva duro agli
idolatri della correttezza. Ma nemico dell’esclusivo, ed accettando il
bello semplice e d’ogni tempo, il Tenerani riuscì grande, vuoi nelle
grazie della Psiche o nella grandiosità del Giovanni evangelista e
dell’Angelo del giudizio, e principalmente nei monumenti sepolcrali,
siano eroici come quello di Bolivar, o domestici come quelli di Merser
o della Sapia.

Allora Finelli concepiva robustamente ed eseguiva squisitamente opere
originali, fra cui il Lucifero; e dietro a que’ maestri spingeansi
a Roma il Galli, l’Amici, il Bienaimé, il Revelli, l’Obici, il
Tadolini.... Lorenzo Bartolini (1777-1850), nato a Savignano da un
ferrajo, si ostina alla scultura, e, lottando coll’indigenza, pur si
trafora a Parigi nello studio di David: ma non che copiarlo, si volge
alla natura; quanto gli antichi, stima i Quattrocentisti nostri; nelle
opere sue mira ad una verità, che pareva sregolatezza e gli attirava le
beffe. Concorso al premio, non l’ottiene, eppure fissa l’attenzione,
e gli si affida la battaglia d’Austerlitz per la colonna di piazza
Vendôme: poi la granduchessa Elisa lo chiama professore a Carrara. Si
arricciavano gli idealisti adoratori di Canova, chi compassionandolo,
chi non parlandone; inoltre era odiato come napoleonista, e al cadere
dei Buonaparte gli fu invaso lo studio e spezzati i modelli. Egli,
per guadagnare, lavora a Firenze vasi d’alabastro e statuine: ma i
forestieri gli moltiplicano commissioni, una Baccante per Londra,
il Pigiator d’uva per Parigi, ritratti per molti; intanto che gli
artisti compatrioti non rifinivano d’osteggiarlo per quest’audacia
di cercar il vero, risalire ai Quattrocentisti, non compassare le sue
statue sulle antiche; e diceano materializzasse invece d’idealizzare,
come i Classicisti diceano che i Romantici repudiavano la correzione,
intendendo una correzione tutta esterna, la sintassi non l’ispirazione,
l’applicare l’antico a tutti i soggetti per quanto differenti.

Ma Bartolini variava e concetti e stile nel Machiavelli agli Uffizj,
nella Carità ai Pitti, nell’Astianatte precipitato dalle mura di
Troja, ne’ monumenti funerarj, sebbene, troppo lavorando, negligentasse
l’esecuzione e il pensiero, e abbandonando la squisita scelta greca,
non giungesse all’idealità cristiana, per puntiglio cadendo nel
naturalismo. Nel 1839 fatto finalmente professore all’Accademia, offre
per modello anche dei gobbi: il _Diario_ di Roma prorompe contro il
nuovo Erostrato, adoratore del brutto; il Bartolini risponde[298] che
il suo Esopo meditando le favole doveva avvezzare a sottrarsi dalle
solite generalità, e cogliere forme caratteristiche, poichè ogni cosa
in natura ha una bellezza propria, relativamente al soggetto che si
tratta; e perciò erano grandi Fidia, Murillo, Donatello, Michelangelo
e Leonardo; doversi cercar quel _bello naturale_ che è la verità
profondamente risentita, compiuta da un’intenzione morale, che non
può essere annichilita nè degradata dalle condizioni fisiche più
apparentemente sgradevoli.

Stizzito delle violenze, adottò per sigillo un gobbo che strozza una
serpe; nel suo giardino collocò un monumento colle parole criticategli
dal _Diario_: rispondendo all’insistente critica, spiegava meglio a
se stesso il suo concetto, modificandone l’assolutezza, ma insieme
esagerava: e protestando del suo rispetto per l’arte antica, veniva a
tradirla.

Il romanticismo insomma penetrava anche nelle arti: ma qui pure,
anzichè impararne la necessità del vero, l’espressione d’un pensiere
studiato, d’una fede profonda, il parlare alla ragione e al sentimento
più che ai sensi, la turba, massimamente fra i pittori, limitavasi a
cambiar soggetti, preferendo i moderni e del medioevo o della Grecia,
con pittoresca novità e con attrattiva storica e scene passionate;
ancora contentandosi del primo concetto che rampolla, comechè meramente
esteriore e materiale; sopperendo allo scarso sentimento colla maggior
verità di costumi e d’espressione, con linee più pure, miglior ordine,
più gustosa distribuzione, ma lasciando mancare quell’alito interno,
che palesi avere l’artista studiata l’idea, prima di disporre le forme,
essersi accorto che il bello dev’essere splendore del vero e divenir
educatore, eccitando la commozione, combattendo l’istinto o il calcolo
egoistico.

In tal campo grandeggiarono i pittori Politi, Lipparini, Grigoletti,
Bezzuoli, e principalmente Francesco Hayez veneziano (n. 1791). Creato
alla scuola statuaria, vi sovrappose un magico colorito, che vela gli
atteggiamenti convenzionali e l’aggraziata eleganza, viepiù spiccando
di mezzo allo smunto di Agricola e di Camuccini, sicchè anche gli
stilisti lo pregiarono, e Andrea Appiani fece premiare il Laocoonte,
esposto a concorso a petto d’un lavoro a cui egli medesimo avea messo
mano; e quando il gazzettiere ostinavasi a vilipenderlo, l’incisore
Longhi uscì protestando che se il tempo e l’età glielo permettessero,
tornerebbe a incidere una di quelle opere. Questo indefesso artista,
più immaginoso che filosofico, sollecito della linea più che
dell’espressione morale, preferisce soggetti simpatici, quali l’addio
del Carmagnola alla famiglia, il bacio di Giulietta e Romeo, i Vespri
siciliani, Maria Stuarda, Pietro Eremita ed altri lodatissimi, di cui
si chiesero ripetizioni. Appostogli che ogni cura desse al vestito
e facesse solo fantoccini, e composizioni di genere piuttosto che
storiche, eseguì dei nudi come la Bersabea, l’Ajace Oileo, le figlie
di Lot, la Maddalena; oltre il gran quadro accademico della sete di
Gerusalemme. I ritratti suoi non cedono a qualunque sommo, e quando
volle esprimere un affetto, seppe ritrarre le più difficili gradazioni,
e fino la dissimulazione; con infinita varietà di fisionomie, se
anche non sempre decorose e talora peccanti di naturalismo. Quanta
distanza da lui ai tanti che lo imitarono, rappresentanti e coloristi,
alcuni dei quali degenerano nel lezioso, alcuni s’affidano con superba
negligenza al tocco, mancando e di verità e d’ideale!

Il bolognese Pelagio Palagi, coloritore splendido e compositore
grandioso fece ottimi scolari nell’Accademia di Milano prima che a
Torino si buttasse all’architettura. Giovanni Demin bellunese gettò
grandiosi affreschi a Ceneda, a San Cassiano del Meschio, a Caneva, a
Belluno, e in molte villeggiature. Nel quale artifizio primeggiò anche
il milanese Comerio. Chi pareggia la femminea venustà degli Schiavoni
veneziani? E Gazzotto, De Andrea, Peterlin, Busato, Zona, Gatteri,
Molmenti... sostengono l’onore della scuola veneta, alla quale Paoletti
(-1847) si conservò fedele anche tra le commissioni estemporanee di
Roma, e sarebbe salito ad alto punto se non periva giovane: sorte
toccata pure a Vitale Sala brianzuolo, al Nappi, ai figli di Sabatelli,
al Bellosio comasco, di cui ammirano a Torino la scena del diluvio.

A Roma il bergamasco Coghetti contrasse del manierato nell’eseguire
dipinti che tengono piuttosto del decorativo; nè se ne schermì il
Podesti, tutto festoso di colorito e d’azione, e vario ne’ caratteri.
Questi, con Gagliardi, Mariani, Cisari, Calamaj, Oberici, Consoli...
tengono il campo della pittura in quella città, dove Minardi richiama
sempre a pensamenti severi e dignitosi. Il milanese Arienti con forza
e sentimento commove ed eleva in soggetti bene scelti e sobriamente
trattati. Il modenese Malatesta raggiunge il carattere storico e la
splendida espressione. Il toscano Pollastrelli levò rumore coll’esiglio
volontario de’ Sienesi, composizione tutta vita e sentimento. Giuseppe
Diotti, tutto accademico, nella scuola di Bergamo formò lodati scolari,
fra cui primeggiano Scuri e Trecourt. E a ciascuno di questi s’affiglia
uno stuolo di valenti: ma se anche gli onori della storia non fossero
riservati ai caposcuola, tant’è l’abbondanza de’ pittori in ogni paese,
dall’Oliva, dal Morelli, dal Rapisardi di Napoli sino al Gonin, al
Gamba, al Beccaria, al Ferri piemontesi, che una lunga commemorazione
non farebbe se non offendere i molti che inevitabilmente resterebbero
dimentichi, o giudicati a detta.

Tante chiese disacrate offersero quadri e statue da formar gallerie, le
quali spostandole ne tolsero metà della significazione, ma sembrarono
ornamento necessario delle città quando il dar favore alle arti fu
creduto un dovere o un orpello dai Governi che istituirono dappertutto
accademie, premj, esposizioni. Ma che? gli artisti non pensarono tanto
a far bene secondo il sentimento, quanto a carezzare il pubblico, e
meritarsi lode dai giornalisti e commissioni. Se ne immiserì l’arte,
fatta servile alla moda, ai piccoli appartamenti, alla decorazione,
al teatrale; nelle accademie s’insegnò nel modo e dalle persone che
piacevano al Governo; colla regolarità impedendo gli ardimenti, i
quali traverso alla scorrezione possono riuscire all’originalità. Ne
derivò estensione di buon gusto, scarsezza di genio; moltiplicazione di
artisti, penuria di sommi.

E la diffusione fu favorita anche dalla litografia, per la quale si
divulgarono i capolavori d’altri paesi: ma i nostri v’ebbero poca lode,
se eccettuiamo il Fanolli di Cittadella che nelle Willis raggiunse
forse il supremo di quella maestria. Ne restò trafitta l’incisione;
e se Giuseppe Longhi, il quale aveva anche pretensioni letterarie e
scrisse della calcografia[299], se Toschi, Jesi, Anderloni, Garavaglia,
Raimondi, Aloisio e poc’altri attesero ancora al gran genere, i più
dovettero ridurla a mestiere, eseguendo di fretta piccoli intagli
per ornare libri. Mauro Gandolfi bolognese (-1834), uomo bizzarro
ed eccellente acquarellista, seppe variare a norma dei soggetti; e
la sua gloria rivisse nel figlio scultore. Vuole un ricordo a parte
Battista Pinelli (-1835), figlio d’un fabbricatore di figurine di
majolica, che ajutato dal principe Lambertini di Bologna, a Roma,
oltre moltiplicare disegni di quadri classici per vendere a curiosi
e forestieri, studiò su Michelangelo e Rafaello l’arte d’aggruppare
figure, e si applicò a schizzare alcuni fatti storici, lodatigli dagli
amatori del fare spiritoso, quanto disapprovati dagli accademici; e
acquistò tal facilità, che quale si fosse soggetto schizzava lì lì con
vigore e nettezza singolare; vero improvvisatore in disegno. Cominciò
una raccolta di costumi, verissimi e pieni di carattere, e paesaggi
dei contorni di Roma, poi i Buffi, e via via innumerevoli collezioni
di disegni, e illustrazioni di Virgilio e Dante, ma principalmente
le scene di Trasteverini, di Ciuciari, di Minenti, dell’altre così
caratteristiche figure della plebe romana. Il più lavorava all’acqua
forte, al qual modo eseguì cinquantadue tavole d’illustrazioni al Meo
Patacca[300]. Dipingeva pure all’olio o all’acquarello, facea statue e
gruppi di popolani della campagna romana; obbligato sempre per vivere a
vendersi a mercanti, e confuso col popolo che copiava.

Dalla scuola di San Michele a Roma vennero incisori, che levarono
fama in tutt’Europa, quali Mercuri, Lelli, Martini, Calamatta, che
dal ministero francese fu incaricato d’incidere tutta la galleria
di Versailles o dirigere, e nel voto di Luigi XIII di Ingres, nella
Francesca da Rimini di Ary Scheffer, seppe dare a quelle belle opere
ciò che loro mancava pel colorito. Lodano pure la sua maschera di
Napoleone, il ritratto di molti insigni; attorno alla Gioconda di
Leonardo faticò vent’anni; e sarà forse l’ultimo gran maestro di
bulino, dacchè la fotografia riproduce i quadri con un’irraggiungibile
finezza, e ogni giorno acquista un nuovo perfezionamento.

Quella tradizione di metodi e di idee, che ricevuta dagli antecedenti,
si trasmette ai successivi come eredità vitale, e che costituisce
le scuole, più non trovasi oggi, qualora escludiamo coloro che
s’acchiocciolarono nell’imitazione: nessuno pensa ad aggiungere un
nuovo raffinamento a un’intenzione comune, conservata con coerenza;
si vorrebbe ogni cosa a fantasia, ma neppure questa è inventrice,
attesochè si piglia per modello da chi frate Angelico, da chi Van
Dick, da chi Tiziano, da chi il Tiepolo, e questa si pretende novità.
Nella stessa imitazione del vero, l’esclusione dell’ideale restringe a
riprodurre copie esatte della natura; il che dispensa dall’addentrarsi
nelle tradizioni, elaborate dai secoli; e l’attività intellettuale,
ch’è tanto cresciuta, si esercita sopra accessorj con sottigliezze
superflue, poi con nocevoli.

E in fatto viepiù si attese ai generi inferiori, il ritratto, i quadri
di genere, il paesaggio. Le nevicate di Fidanza, i paesi del Gozzi
destavano applausi nel regno d’Italia: Migliara parve prodigioso
nel diffondere e raccogliere la luce, ma ben presto gli fu tolto il
campo da Canella, da Bisi, da Ricardi, da Renica, da Moja, da cento.
Le scene di genere, se troppo spesso cadono nella vulgarità, sono
talvolta affettuose, ed anche educatrici sotto il pennello di Induno,
di Stella, di Mazza, di Scatola, di Zuccóli. Nè vuolsi dimenticare
un lavoro speciale, le scene da teatro, sfoggi di ricchezza e
prospettiva, talvolta veramente stupendi, e che durano soltanto una
rappresentazione. La scuola fondata a Milano dal Perego, s’illustrò del
Sanquirico e de’ migliori suoi discepoli.

L’esempio di Bartolini e la maggior coltura introdottasi negli artisti,
operò in questi ultimi anni un felice ritorno verso il naturale,
massime nelle sculture. E già il Zandomeneghi e il Fracaroli, allievi
del vecchio Ferrari, s’erano posti in alto, donde con Sangiorgio,
Cacciatori, Fedi, Fantachiotti, Somaini allevarono una generazione di
epigoni, quali il Minisini, il Galli, il Miglioretti, il Cambi, il
Rinaldi, il Costoli, l’Obici, il Seleroni, il Pierotti, il Motelli,
il Benzoni, lo Strazza... mentre il Pandiani s’affina nelle grazie
voluttuose. Ma quando fra gli accademici tipi del Marchesi, del
Monti, del Baruzzi arrivò la Fiducia in Dio, quella naturalezza parve
inaspettatissima originalità, e gl’imitatori si rivolsero al Trecento,
oppure colsero la natura sul vero, e la copiarono con sincerità. Da qui
uscirono il Fanciullo pregante di Pampaloni, l’Abele morente di Duprè,
le Madonne dell’affettuoso Santarelli, le ascetiche figure del Mussini
a Firenze; a Milano nel Masaniello di Putinatti, nel Socrate e nella
Leggente del Magni (-1877), nella Sposa de’ Cantici... apparvero felici
tentativi di trasfondere nel marmo il pensiero; e generosi prodotti
ne furono l’Angelo della risurrezione e i Pitocchi del Ferrari e lo
Spartaco del Vela, nomi che col Duprè rimarranno fra i sommi.

All’architettura si offersero molteplici occasioni, ma piuttosto
nel genio civile, dove poi si tende a improvvisare e colpire
istantaneamente, più che ad acconciar l’arte ai nuovi bisogni. Al
più manca, ed è tristissimo sintomo, il carattere; nè, scrutati gli
elementi dell’arte antica, sanno concatenarli con ordine diverso
e a diversa destinazione. Quelle facciate con cornici e lesene non
lasciano spazio alle gelosie, perchè sconosciute agli antichi; le
sporgenze rimbalzano la pioggia; elmi ed archi repugnano alla vita
pacifica odierna; le case dovrebbero conformarsi al viver isolato
d’adesso, quando cessò ogni numerosa clientela, ed ornarsi col meglio
de’ diversi paesi, bellezza cosmopolitica, opportuna se sappiasi
regolare la scelta. Dogane, bazar, stazioni di strade ferrate, sta bene
il modellarli ancora sugli edifizj di Pesto e di Pompej? divulgato
il ferro e il legno, sarà necessario stringersi alle proporzioni, a
cui obbligava la pietra? Moltissime chiese ebbero a rifabbricarsi,
molte ad erigersi di pianta, e le più segnalate furono imitazione
sconveniente d’antichi, come il San Francesco di Paola a Napoli e il
San Carlo a Milano. Il luganese Canonica eseguì con grande intelligenza
molti teatri e l’arena di Milano; dove poi belle case e buone chiese
produssero il Moraglia, il Tatti, il Peverelli..., e dove la scuola
ornamentale fu sostenuta dal Sidoli e dal Durelli, che copiò e incise
i lavori della Certosa di Pavia, lavoro squisito, eppur infedele al
carattere; sentimento nel quale i nostri rimangono al dissotto. Il
Miglioranza abbella Vicenza, e fa arguti studj sul teatro di Berga che
vi si dissepellisce. Il feltrino Segusini, oltre i teatri di Belluno
e di Innspruk, di Conegliano, rimodernò chiese e palazzi e preparò
un ammirato progetto pel duomo di Rovereto. Al Vantini di Brescia
(-1856) porse insigne occasione quel camposanto, che lo loda ben più
della porta Orientale a Milano. Giuseppe Bonomi romano (1739-1808)
molto e bene architettò in Inghilterra, e insignemente nel palazzo
del duca d’Argyle nel Dumbartonshire. Pasquale Poccianti (-1858)
mantenne lo stile classico in Toscana. Il Digny di Firenze (-1844)
fece il lazzaretto di Odessa e molte opere in Toscana, ove promosse
quanto volgeasi al progresso, e dove i posteri gli vorranno tener conto
degl’infiniti studj fatti per terminare la facciata del duomo. Spaziare
in piccola area, spinger l’occhio ove non arriva il piede, e illudere
sulle dimensioni per mezzo degli oggetti interposti, e sussidiarsi
con storia, mitologia, pittura, epigrafia, furono le arti per cui il
padovano Jappelli (1783-1852) fu salutato l’Ariosto dei giardini. Le
costruzioni in ferro e cristallo furono un campo nuovo, non ancora
pienamente esplorato.

Dalle fonderie del Manfredini di Milano uscì lo stupendo soprornato
dell’arco del Sempione: nè minori eleganze produssero quelle del
Pandiani. Silvestro Mariotti di Pontedera (1794-1837) meravigliò con
stupendi ceselli Pistoja e Livorno, come Milano Desiderio Cesari.
Per incidere medaglie si segnalarono i romani Giovanni Calandrili
a Berlino, Benedetto Pistrucci a Londra, Giuseppe Girometti; e
nell’incavo delle pietre dure il milanese Berini, il cremonese
Beltrami, i romani Giovanni e Luigi Pichler. L’arte dei vetri dipinti
fu ridesta dai Bertini milanesi e dal fiorentino Botti. Si possono
ricordare e Gioachino Barberi romano valente mosaicista, e lo smaltista
Bagatti, e il Barbetti sienese e Sante Monelli fermano, intagliatori di
cofanetti e altre opere di legno.

Continuarono artisti nostri a ornar i paesi forestieri. Un figlio di
Ennio Quirino Visconti invidiato e lodato durò tutta la vita a Parigi,
architetto di quei re: il Bosio ornò quella capitale di buone opere,
come il Marochetti d’origine italiana. Mosca fu riedificata dai nostri,
massime dal luganese Gilardi: il bergamasco Quarenghi, poi il luganese
Fossati furono architetti della Corte russa; e quest’ultimo lavorò
assai a Costantinopoli, e vi restaurò Santa Sofia, della quale moschea
diede una suntuosa descrizione. Principalmente dai laghi lombardi e dal
canton Ticino vanno architetti e scultori dovunque la civiltà faccia
nuovo passo, o la potenza voglia ornarsi di bellezza. Pure l’Italia
non è più la sovrana di queste arti; ci sembra dire un gran che de’
migliori nostri quando li pareggiamo ai forestieri; nell’architettura
manca la grandezza e l’originalità, manca più spesso l’opportunità;
nella scultura facilmente si oscilla fra il meschino e l’enfatico,
con certe grandiosità tutte d’apparato, qual vediamo nei mausolei del
Tiziano e di Canova a Venezia, e dei Demidoff del Bartolini a Firenze.
E in generale ne’ sepolcri, esercizio il più consueto degli scultori,
nuoce la disacconcia imitazione degli antichi, mentre gli artisti di
quel medioevo, che domandiamo nuovamente perdono di non voler credere
tutto barbarie e ignoranza, erano stati condotti a rappresentare un
sistema nuovo, con simbolismo differente, con altre decorazioni; dove
poi quelli del Cinquecento levandosi dal simmetrico e dal limitato,
impressero una poetica nobiltà e un’eleganza che li rendeva imitabili;
mentre rimarrà sempre imitatore chi non abbia educato l’intelligenza
e il sentimento, s’appaghi d’improvvisare e di farsi lodare, anzichè
ostinarsi a comprendere come dalla meditazione sui maestri e sulle
arcane armonie del creato si possa elevarsi a collegare l’esecuzione
classica collo sviluppo vario degli stili, appropriati al tempo e alla
nazione.

Della rappresentazione teatrale non si mostra conoscere la civile
importanza, benchè occupi tanta parte dell’odierna civiltà, e l’attore
sia coadjutore supremo del poeta drammatico, del quale attua le idee,
esterna l’ispirazione, anzi crea veramente i caratteri. Mal retribuita,
non onorata, abbandonasi come mestiero a chi altro non ha: anche i
buoni lasciansi esposti alle eventualità delle imprese, e ai capricci
di quel Belial inesorabile ch’è il pubblico. Non passino irricordati il
De Marini milanese (-1829) e il Vestri fiorentino (-1841) che valeva
altrettanto ad eccitare il pianto e il riso, e che lasciò eccellenti
scolari nel Taddei e nel Gattinelli; la Marchionni, il cui nome
sopravvivrà negli scritti degli autori che ispirò, ed è accompagnata
dalla Pellandi, dalla Bettini, dalla Robotti, dalla Shadowski, dalla
Marini...; il Bon, che alla naturalezza univa l’intelligenza di
compositore; il Ventura, destro anch’esso nel comporre. Gustavo Modena,
che vale in tutte le parti mercè della squisita intelligenza, e che
dal sentimento della verità storica ed umana trae correzione, decoro,
eleganza, aprì una scuola nuova, dove or grandeggiano per espressione
temperata eppur profonda il Morelli, il Boccomini, il Salvini, il
Rossi... e quella Ristori che potè emulare i trionfi e i compensi
delle cantatrici. In qualche teatro sopravvive l’improvvisazione delle
maschere, e specialmente nel San Carlino di Napoli.

Fra le belle arti la prediletta fu la musica, così opportuna a
distrarre, a spensierire, a dar l’aspetto di occupazione all’ozio, a
porgere incentivo di partiti garrosi, di discussioni inconcludenti,
dell’altre amabili futilità di cui si nutrica l’odierna società
gaudente. Haydn, Mozart, Beethoven «il navigatore più ardito
nell’oceano dell’armonia» aveano condotto a perfezione la sinfonia
e la ricchezza dell’orchestra, e da secondaria resa principale
l’istromentazione, talchè la parola restò schiava della nota,
bastarono assurdi libretti a musiche divine, e fin le belle voci furono
sagrificate all’accompagnamento. Mentre dapprima gli stromenti, come
dicea Buratti, faceano col canto una conversazione rispettosa, allor
divennero un baccano; se poc’anzi era parso ardimento l’introdurre il
clarinetto, ben presto irruppero e gli oricalchi e i timballi e le
casse e le campane e il cannone; il violino soccombette; il vezzoso
e tenero della voce umana s’inabissò tra difficoltà, non riservate
solo per poche obbligazioni, ma fatte continue; e il concetto andò
sagrificato all’artifizio.

L’Italia, al principio del secolo, possedeva ancora insigni maestri,
quali Paisiello, Cimarosa, Cherubini, che fino al 1843 continuò
a scrivere, e con Spontini fu il maestro dell’êra napoleonica in
Francia, mentre qui piaceano maggiormente Generali tutto brio e
melodie all’italiana; Meyer che avendo a Vienna imparato la piena
stromentazione, era accuratissimo dell’orchestra, e usava melodie
non ingenue, pur non prive d’affetto; il parmigiano Paer, che pure a
Vienna aveva attinto da Mozart l’energico istromentare, e compreso
le combinazioni che trar se ne poteano. Di tutti il meglio seppe
cogliere il pesarese Gioachino Rossini (1792-1868), e coll’_Inganno
felice_, poi colla _Pietra del paragone_ prodotti a Milano, ch’è come
il Campidoglio degli artisti, trasse applausi dai più schifiltosi, e
fece dimenticare i disastri di Russia. Il _Tancredi_, prima sua opera
eroica, poi l’_Italiana in Algeri_ lo posero tra i primi compositori;
poi l’_Otello_ e il _Barbiere_ tolsero la speranza di superarlo: e
quella pompa nuova, que’ canti deliziosi con accompagnamenti singolari
e impreveduti, rapirono gli animi in modo, che più non si sonava e
cantava che arie sue; divenuto l’uomo più rinomato in Europa dopo
Napoleone, egli fra plausi, pranzi, amori incantava la vita. Non
italiano più che francese o tedesco, scelse il buono da tutti, unì il
progresso dell’armonia moderna colla frase melodica ch’è un bisogno
per l’Italia, e ne formò una musica ornatissima e fioreggiata, pur
non destituita di semplicità nel primitivo concetto, meno elaborata
e maestosa, e perciò compresa da tutti, con simmetria ritmica, senza
irregolarità e sproporzioni. Non inesperto del delicato, più valente
nel festoso e burlesco, tutto gajezza e spirito, tutto fragore e moto
siccome l’età napoleonica in cui fu educato, quando gli si dicea perchè
non seguisse lo stile di Mozart e Haydn, rispondeva, — Temo il pubblico
italiano».

Gli antichi maestri non sapeano darsi pace di questo corruttore
dell’armonia e della melodia, e Zingarelli, disperato che gli scolari
tutti s’avviassero su quell’orme, ripeteva: — Imitar Rossini è facile,
non così l’imitar me». Lo tacciarono d’uniformità di stile e povertà
di maniere per quel ritornar sempre ai crescendo, alle terzine, alle
appoggiature; d’appropriarsi a fidanza pensieri altrui, e ripetere i
proprj; d’aver pregiudicato all’arte del canto collo scrivere tutto,
e far la battuta sì piena, da non concedere campo all’abilità ed al
gusto del cantante; lo che mascherò la mediocrità degli esecutori, come
lo strepito delle orchestre soffogava la parola. Quell’idealità, che
Cimarosa mette perfino nelle più baldanzose buffonerie, non cerchisi in
Rossini, al quale, come in generale ai nostri maestri, mancano studj
serj e penetrazione de’ caratteri; contento all’orpello e abusando
de’ processi tecnici, scivola anzichè insistere sulle impressioni,
non istima un libretto più che un altro, tutto facendo dipendere dal
talento del maestro; laonde alle sue note si cangiano spesso le parole
senza che perdano d’opportunità, nè ben si discerne ove ben parli il
re o il villano, ove la gioja si esprima o la tristezza; confonde i
generi; più che alla natura applicasi a un convenzionale di crescendo,
di pieni, che per tenere desta l’attenzione dell’uditore finiscono
in monotonia. E forse è vero che, se in alcuni pezzi egli è veramente
insuperabile, nessun’opera sua regge all’esame e all’analisi del tutto.

Ma egli ebbe per sè il successo d’una tale popolarità, che ogni
altra musica ammutolì, fin quando il _Freyschüts_ di Weber (-1825)
ridestò le ispirazioni dell’antica scuola germanica, una freschezza
montanina opponendo a quel turbinìo dei sensi. Era il tempo che
Rossini, per le solite intermittenze della gloria, veniva deriso
e insultato dai liberali come il maestro della Santa Alleanza, da’
cui re aveva ottenuto onori; da altri come l’epicureo commensale del
banchetto Aguado; sicchè stupì il mondo quand’egli, modificandosi alla
nuova scuola, buttò fuori il _Guglielmo Tell_, poema riboccante del
sentimento della natura e della libertà.

Era intanto ammutolito il fragore delle battaglie e vi sottentrava il
patetico, eccitato da Byron e dagli altri scrittori gemebondi; e il
romanticismo domandava che le arti fossero l’espressione di sentimenti
veri ed intimi. Allora comparve il siciliano Vincenzo Bellini (1804-35)
col _Pirata_ esposto a Milano nel 1826, seguíto dalla _Straniera_,
dalla _Sonnambula_, dalla _Norma_ ecc. Al tempo di Zeno e Metastasio la
musica tenevasi ancora subordinata alla poesia, negletto il cantabile
lirico pel recitativo, canto lento e declamato come nelle tragedie
greche, poca parte all’orchestra. Ora invece la poesia più non conta,
abbandonata a gente di mestiere, che si rassegna alle esigenze d’un
maestro. Bellini, volendo por argine agli eccessi, nè soffrendo che le
note affogassero le parole, non preferiva, come Rossini, i libretti
mediocri, ma li chiedeva al poeta Romani o al Solera, d’interesse
drammatico intenso al possibile, con esaltamenti o cupe concentrazioni,
impeti passionati e drammatici, anche a scapito dell’effetto musicale.
Elegiaco sempre è il suo fare, e direbbesi intento solo a correggere le
trascendenze di Rossini; epperò, se alcuni lo sbertavano di novatore,
altri non vi riconosceano che sterilità d’immaginativa, come anche nel
frequente interrompere dei motivi invece della ripetizione insistente,
e nella breve durata della melodia. E la melodia è la parte spirituale
della musica; ma Bellini per attendere a questo fascino lasciò debole
la stromentazione e senza originalità. Però, sostenuto dalla Pasta,
da Rubini, da Tamburini, dalla Grisi, da Lablache, e dall’impresario
Barbaja e dalle crescenti idee rivoluzionarie, tenne il campo, tanto
più da che espose i _Puritani_, l’opera sua di miglior dettatura,
e dove meglio s’allargò ed elevò, per immaturamente soccombere
alla morte, lasciando immenso desiderio di sè, e persuasione de’
perfezionamenti cui sarebbe arrivato.

I compositori contemporanei bilanciaronsi fra questi due e l’influsso
della scuola tedesca. Imitatore or di Rossini or di Bellini, il
bergamasco Gaetano Donizetti (1798-1848) che improvvisava con feconda
varietà, nella _Lucia di Lammermoor_ esultò di vivezze, massime
quando era sostenuta da Rubini, dalla Pasta, da Galli; coll’_Elisir
d’amore_ meritò bel posto anche nel buffo: istromenta bene, ma nè
studia abbastanza la composizione, nè sa elevarsi dall’eclettismo
all’originalità, come nol seppero l’ingegnoso e studiato Mercadante,
Pacini, Nini, Coccia, Vaccaj, Petrella, molti altri che camminarono
dietro ai sommi. Morlacchi di Perugia (-1841) le melodie unì
all’ampiezza della scuola tedesca. Sempre meno sono quelli che
s’appigliano al genere buffo, ma v’ottennero lode i Ricci, il Rossi, il
Fioravanti, il Cagnone...

Giuseppe Verdi da Busseto (n. 1814), dopo stentati i primi passi, col
_Nabucco_ cominciò una carriera luminosa, ove continua ad empiere il
mondo d’una gloria, che gli è vivamente disputata. Sentimento degli
effetti drammatici, alquante idee potenti, certe melodie sue proprie
e passaggi arditi, una foga passionata nell’istinto del ritmo, per lui
divenuto più preciso e sicuro, lo resero popolare: ma i teorici trovano
che nella splendida sua sonorità sia sempre sagrificata la grazia,
povere le armonie in una stromentazione poco variata, uniforme la
combinazione degli effetti, sicchè cade in formole e cavatine vulgari,
stile sempre violento, che mena all’esagerazione e alla monotonia. La
folla accorrente alle sue opere confuta i censori, e assolutamente
grande fu riconosciuto dopo che affrontò le difficoltà della scuola
tedesca, che prelude una _musica dell’avvenire_.

Le teorie musicali furono coltivate nelle scuole che dappertutto
s’istituirono. Giuseppe Carpani milanese, fuggito nel 96 cogli
Austriaci, a’ cui interessi adoprò sempre la penna, nelle _Lettere
Haydine_ pel primo, dopo l’Arteaga, trasse la critica musicale dai
formularj scolastici, e fu copiato sfacciatamente dallo Stendhal.
Dappoi alcuni giornali introdussero criterj sensati e larghe
applicazioni, quando non gli acciechi o spirito di parte, o la
venalità, che qui più che altrove fa prova sfacciata. Delle scuole
venete non rimase traccia; conservano lode la napoletana, la milanese,
la bergamasca, donde uscirono Donizetti, David, Donzelli, Bordogni che
lasciò i trionfi del teatro per farsi professore.

Agli stromenti si recò perfezione, e divenne universale il pianforte;
dove non vogliamo preterire il violacembalo, inventato o piuttosto
pensato da Haydn, poi nel 1821 dal nostro Gregorio Trentin, e
perfezionato nel 1855 dal padre Tapparelli. Il violinista Nicola
Paganini genovese (1781-1840) diresse a Lucca l’orchestra della
regina Elisa, più spesso sonò a Milano, poi nel 1828 cominciò il suo
«gran giro d’Europa», cogliendo applausi e denari, e distraendosi al
giuoco e ai piaceri, ma sapendo crescersi fama colle singolarità,
e coll’avvolgersi di mistero. Stupivano le affollatissime adunanze
allorchè eseguiva pezzi sopra una corda sola, ed ora imitava i
gorgheggi d’un usignuolo, or somigliava ad un’intera orchestra; e la
stessa Parigi denominava le sue mode alla Paganini. Oggi il bresciano
Bazzini collo stromento stesso eccita ammirazione in ogni paese; e così
le Milanolo e le Ferni.

La parola fu talmente subordinata alla musica, che si vide poterne
far senza, e presero gigantesco incremento i balli. Nè solo bizzarre
fantasticherie o mitologia, ma ritrassero fatti storici, fin
contemporanei, per quanto risulti assurda quella mimica sprovvista di
parola. I balli di Salvatore Viganò furono un’altra efflorescenza del
fasto napoleonico, tutti mitologia, macchinismo, quadri di scene or
magnifiche, or incantevoli: riprodotti in diverso tempo, non piacquero
altrettanto.

Ormai la musica è ristretta al teatro; composizioni teatrali ripete
la banda militare; le sacre volte non echeggiano che stromentazione
od arie da drammi. Che bel campo per chi gli bastasse il genio
d’erigersi riformatore d’un’arte, la quale occupa la società a troppo
scapito delle altre, e di qualche cosa che più dell’arti importa!
Chè sentimento d’artisti, nè abilità di maestri, e tanto meno virtù
civili o pubbliche non possono sperare i trionfi, che ripetonsi a
cantanti[301] e ballerine. Spargerli d’applausi, di fiori, d’oro, sta
bene, perchè il secolo serio paga chi lo diverte, gli scaltri pagano
chi il secolo distrae: ma quando a un teatro si destina dotazione
maggiore che a tutta l’istruzione pubblica d’un paese; quando a una
capriola e ad un gorgheggio si tributano anche monumenti perenni,
si può riderne in paesi che ad altri entusiasmi si animano, e che
alla pienezza d’affari interpongono ore di dissipamento; non si può
che gemerne dove quelle distrazioni inabilitano le menti alle serie
verità, e stornano dal sentire i virili dolori, da cui s’aspetta la
rigenerazione.


  FINE DEL LIBRO DECIMOSETTIMO E DEL TOMO DECIMOTERZO



INDICE


  LIBRO DECIMOSESTO

  CAPITOLO
      CLXXV.  La rivoluzione francese              _Pag_.  1
     CLXXVI.  Buonaparte in Italia. I Giacobini.
                Fine di Venezia                      »    24
    CLXXVII.  La Cisalpina. Conquista di Roma,
                Napoli e Piemonte                    »    63
   CLXXVIII.  Riazione. I Tredici mesi. Italia
                riconquistata. Pace di Luneville     »    97
     CLXXIX.  Buonaparte ordinatore. Rimpasto
                di paesi. Concordati. Pace di
                Presburgo. Regno d’Italia            »   130
      CLXXX.  I Napoleonidi a Napoli                 »   194
     CLXXXI.  Ostilità col papa                      »   213
    CLXXXII.  Campagne di Spagna e di Russia.
                Caduta dei Napoleonidi               »   237

  LIBRO DECIMOSETTIMO

  CAPITOLO
   CLXXXIII.  La restaurazione. Il liberalismo.
                Rivoluzioni del 1820 e 21            »   299
    CLXXXIV.  La media Italia. Rivoluzioni del
                1830.                                »   371
     CLXXXV.  Letteratura. Classici e Romantici.
                Storia. Giornalismo                  »   418
    CLXXXVI.  Scienze morali e sociali               »   506
   CLXXXVII.  Scienze matematiche e naturali         »   534
  CLXXXVIII.  Belle arti                             »   558



NOTE:


[1] Il decreto 17 giugno 1791 dell’Assemblea Costituente contesta che
le persone della stessa professione possano avere interessi comuni.

[2] Napoleone Buonaparte, allora tenente d’artiglieria, scriveva contro
costui: — O Lameth, o Robespierre, o Pétion, o Volney, o Mirabeau,
o Barnave, o Bailly, o Lafayette, ecco l’uomo che osa sedersi al
vostro lato. Grondante del sangue dei fratelli, lordo d’ogni specie
di delitti, presentasi sotto l’abito di generale, iniqua ricompensa
de’ suoi delitti; osa dirsi rappresentante della nazione egli che la
vendette, e voi lo soffrite! osa alzar gli occhi e tender le orecchie
a’ vostri discorsi, e voi lo soffrite! Non è la voce del popolo, ma
sol quella di dodici nobili ch’egli ebbe. Ajaccio, Bastia, la più parte
de’ contorni han fatto della sua effigie quel che avrebbero voluto fare
della sua persona».

[3] _Cum omnibus regni incolis enixissime gratulamur de egregia
comparata sardo nomini regnoque nunquam interemtura gloria_. Breve 31
agosto 1793.

[4] Quelle intenzioni ci sono rivelate dall’elogio del Semonville,
recitato alla Camera dei pari il 7 febbrajo 1840. Era con essi
Montholon, che avea fatto le prime armi in Corsica sotto Buonaparte, e
dovea poi raccorne l’ultime parole a Sant’Elena.

[5] Allocuzione 17 giugno 1793.

[6] Il contado Venesino era appartenuto a Raimondo VII di Tolosa, il
quale, sospettato d’eresia e scomunicato da Gregorio IX, per sottrarsi
a Luigi XVIII di Francia rassegnò le terre di là del Rodano al papa,
che tenne quel contado. I re di Francia più volte l’aveano reclamato
invano: or ecco il popolo stesso vuole staccarsi dal papa per darsi
alla rivoluzione. Subito si trovarono divisi fra patrioti e papisti:
Carpentras, gelosa d’Avignone, non volea unirsi a lei per non esserle
sottoposta, e pretendeva esser capo di dipartimento, e cominciossi ad
assassinare d’ambe le parti; gli Avignonesi v’entrano armati, e si
canta il _Tedeum_; Carpentras respinge gli assalitori, per tutto si
uccide, si beve il sangue, si mangia la carne de’ nemici. Si manda a
domandar la fusione: allora l’Assemblea e tutti i circoli di Parigi
prendono parte per gli uni o per gli altri. In queste fusioni un
Governo non insano sa sopire l’avidità del momento per addomandarsi
se un popolo abbia diritto di disporre di sè e di cangiare la propria
amministrazione, e a che porterebbe un tal diritto applicato a tutti.
Menou agitò tal quistione davanti all’Assemblea, e conchiuse che i
Venesini e gli Avignonesi n’aveano il diritto secondo il sistema antico
quando la Francia non era una; cessava dacchè, messisi in rivoluzione,
volontariamente eransi legati a un patto sociale con tutti. S’apersero
dunque i registri; e quelle quarantacinque leghe quadrate di paese,
così opportunamente situate fra il Rodano e i dipartimenti della Drôme
e delle Basse Alpi, furono aggregate alla repubblica. Ma Liancourt
mostrava che è impossibile accertar il voto della pluralità durante la
guerra civile; Mably, che a spogliar il papa non v’avea nè generosità
nè giustizia; Jessé, che abbastanza litigi religiosi agitavano la
Francia; Malouet, che la Francia accettando Avignone sgomentava
tutt’Europa: e per quanto Robespierre, Goupil, Pétion sostenessero
il contrario, l’Assemblea dichiarò che «Avignone e il contado
non formavano parte integrante della Francia». Avignone era stata
venduta al papa per ottantamila fiorini: acquisto regolare dunque, ma
pretendeasi infirmarlo perchè Giovanna aveva ereditato la contea di
Provenza come inalienabile, e di tenerla tale avea giurato ella stessa;
perchè era in età minore; e perchè è «da supporre avesse operato
per comprare dal papa l’assoluzione». Intanto però la guerra civile
menava sterminio in quei paesi; i faziosi scannavano chi repugnasse,
e insistevano presso la repubblica perchè li ricevesse nella gran
famiglia; talchè finalmente l’Assemblea li accettò, benedetta da quei
ch’erano stanchi di tante stragi. Ma non cessarono per questo, e i
_bravi briganti dell’armata di Valchiusa_, com’erano intitolati nei
proclami, esercitarono ogni peggior misfatto: avendo un commissario
voluto rapire i pegni del Monte di pietà e i voti alla Madonna, il
popolo lo trucidò; e lo spaventevole mulattiere Jourdan, il quale una
volta tagliò tutte le dita d’un nemico, e se le pose in bocca un dopo
l’altro a guisa di sigaro, lo vendicò con centinaja di vittime, che
invece di sepolcro furono buttati a riempiere una ghiacciaja.

Questo da Luigi Blanc e dal Michelet è dato tra i fatti che mostravano
«la potente attrazione, il sorprendente effetto del poter morale
esercitato dalla rivoluzione francese», una gloriosa conquista non
della forza, ma dello spirito nuovo. Blanc sopra tutto dice che
«bisogna confessare che la dominazione di Roma non presentava nulla
che di ben tollerabile»; e domandandosi perchè dunque gli Avignonesi
avessero voluto essere alla Francia, esclama: — Oh prestigio del
diritto vittorioso! o potenza per sempre santa della giustizia sopra
gli uomini».

[7] Secondo una dissertazione di Depoisier, inserita
nell’_Investigateur_ del 1855, le relazioni sopra quella campagna sono
molto inesatte. Tutti i documenti d’allora attestano la meraviglia
de’ Francesi per l’inattesa ritirata, e Lebrun, ministro degli affari
esteri, scriveva a Montesquiou: _La retraite subite des troupes du
roi de Sardaigne, et ce qu’il peut avoir concerté avec les Suisses,
donnent lieu à tant de réflexions, qu’on ne peut trop multiplier les
précautions_.

Prese parte a quella spedizione il famoso conte Giuseppe De Maistre,
e scrisse un’_Adresse de quelques parents des militaires savoisiens
à la Convention Nationale_, ove, dopo detto che le truppe _dans une
honorable impatience attendaient le moment de signaler leur valeur_,
soggiunge: _Mais il était écrit que leur bonne volonté devait être
inutile: il fallut s’éloigner sans combattre. Tirons le rideau sur des
événements inexplicables, et surtout gardons-nous d’insulter l’honneur.
Le courage malheureux et trompé doit exciter dans tous les cœurs
bienfaits une compassion respectueuse, fort éloignée du langage adopté
par tant d’hommes inconsidérés_.

Con De Maistre militava pure il marchese Enrico Costa de Beauregard,
che scrisse un ragguaglio di quella spedizione, poi i _Mémoires
historiques sur la Maison de Savoie_ (Torino 1816), e altre opere,
fra cui merita attenzione il _Saggio sull’eloquenza militare_. Nella
spedizione del 94 perdette suo figlio Eugenio, e De Maistre ne scrisse
quel bellissimo _Discours à madame la marquise de C... sur la vie et la
mort de son fils lieutenant au corps des grenadiers royaux_.

Sull’_Investigateur_ di Parigi (1856 giugno: luglio...) comparvero
alcune memorie sulla situazione della Savoja e sull’occupazione di
Montesquiou. Allora il paese contava 402,724 abitanti, e ventimila
migravano; le imposte salivano a due milioni e mezzo di lire tornesi;
il sale a due soldi la libbra. COSTA DE BEAUREGARD, _Mém. historiques_
precitate, vol. III.

[8] Come Mazzini a Carlo Alberto, così l’_ex-marchese_ Gorani scriveva
consigli a Vittorio Amedeo. Dipingeagli la sua posizione, e come
quattro occasioni avesse avuto Casa di Savoja d’ingrandirsi: sotto il
Conte Verde impadronendosi della Francia, sotto Carlo III profittando
della Riforma, sotto Carlo Emanuele valendosi dei disastri di Maria
Teresa, e adesso. «Perchè si vedono nel Canavese e fin alle porte di
Torino tante sodaglie? perchè ricusò i progetti di canali navigli e
d’irrigazione? perchè non accettò l’offerta de’ Ginevrini di render
navigabile l’Arve, e così utilizzare le selve della Tarantasia? perchè
invece volle favorire quegli otto o dieci signori che non voleano
veder deprezziate le loro foreste del Sciablese? perchè abbandonar
l’isola di Sardegna a vicerè e preti che ne scemarono la fertilità e la
popolazione? E tutto ciò potea farsi colla metà del denaro sprecato in
ricompense a indegni, in costruzioni inutili, in una Corte trista, in
un compassionevole esercito, in inutili ambasciadori». E qui s’avventa
contro il servidorame grande e piccolo, gli esuberanti uffiziali, le
fastose ambascerie, le grandi cariche, e peggio gli ecclesiastici, dei
quali non rifina di sparlare. «Con ciò, con tanti biglietti di banco
senza ipoteca ruinò le provincie, mentre, se le avesse prosperate,
sarebbero l’asilo di tutti i malcontenti d’Europa, e il Milanese si
getterebbe nelle sue braccia». Lo sconsiglia dal romper colla Francia,
potenza tanto maggiore e con eserciti invincibili; «ritiri dunque le
truppe dai confini, congedi le austriache, si dichiari neutro negli
affari di Francia, altrimenti non avrà che accelerato la sua ruina».

Pensate quel che costui diceva al papa in un altro indirizzo!

[9] Kellermann il 1º luglio 1795 si lagna con Devins perchè i soldati
austriaci infierissero contro i prigionieri e i vinti, sin a tagliarli
a pezzi. Devins risponde che ciò è contro i suoi ordini; _mais vous
savez que nous avons des corps francs et d’autres troupes, en partie
sujets turcs, et en partie des confins de la Turquie: vous savez
que, par leur éducation, ces peuples sont beaucoup plus cruels que
toutes les autres troupes de l’Europe_. PINELLI, _Storia militare
del Piemonte_, documento IV. Kellermann fu poi chiamato a Parigi a
giustificarsi dell’umanità usata verso i Lionesi, e gli sottentrò
Dumas.

Il libro _Victoires et conquêtes des armées françaises_ esagera
stranamente la forza degli eserciti nemici ai Francesi; e per
esempio nel 1795 dà all’esercito austro-sardo centomila Piemontesi,
quarantacinquemila Tedeschi e cinque in seimila Napoletani, mentre in
tutto giungeano appena ai cinquantamila. Così esagerate vi sono sempre
le perdite dei nostri.

[10] «Lo spettacolo dell’armata (quand’entrò in Milano) facea stupore
a chi ha conosciuto quelle di Federico. Accampavano i Francesi senza
tende, marciavano senza compassata forma; erano vestiti di colori
diversi e stracciati; alcuni non aveano armi; pochissima artiglieria;
cavalli smunti e cattivi; stavano in sentinella sedendo; anzichè d’un
esercito, avean l’aspetto d’una popolazione arditamente uscita dal
suo paese per invadere le vicine contrade. La tattica, la disciplina,
l’arte cedevano costantemente all’audacia e all’impegno nazionale d’un
popolo che combatte per se medesimo, contro automi costretti a battersi
per timore del castigo». PIETRO VERRI _mss_.

[11] Il maggior elogio di Ercole III di Modena sta nella Memoria che
Giambattista Venturi scrisse intorno alla vita del marchese Gherardo
Rangone, che fu ministro di quel duca (Modena 1818). Annovera tutti i
miglioramenti che esso introdusse nel ducato.

[12] Vent’anni appresso, nella calma della sfortuna, Napoleone
descriveva la punizione di Pavia, e come n’avesse concesso ai soldati
il sacco per ventiquatt’ore; dopo tre ore le grida della popolazione
gliel fecero sospendere, attesochè aveva soli mille cinquecento
soldati: se n’avesse avuto ventimila, avrebbe lasciato intero il
castigo. _Mémoires de Sainte-Hélène_, tom. IV. p. 280.

[13] Il Gianni era fuggito da Roma dopo l’assassinio di Bassville col
Salfi, che su questo fatto compose un poemetto. A Firenze il Gianni
improvvisava colla Fantastici; e l’Alfieri ammirandolo diceva però che
quello non era improvvisare, ma un comporre in fretta, alludendo al suo
lento declamare.

[14] Notificazione del comitato centrale di polizia, 14 brumale, anno V.

[15] Vedasi _Mémoires et correspondance du roi Joseph_. Parigi
1853. Al 10 dicembre Buonaparte scriveva a questo: — La pace con
Parma è fatta. Torna al più presto; metti sesto ai nostri affari
domestici, principalmente alla nostra casa (in Corsica), che per
tutte le evenienze desidero sia capace e degna d’esser abitata:
bisogna rimetterla nello stato di prima, attaccandovi l’appartamento
d’Ignazio».

[16] _Correspondance de Bonaparte_, tom. II. p. 518.

[17] Il pittore Gros ricusò le offerte de’ Perugini, pur promettendo
levare sol due o tre quadri.

[18] Era console allora Antonio Onofrio, sul cui mausoleo nella pieve
fu poi scritto Patri patriæ.

[19] _Raccolta cronologica dei documenti veneti_, tom. II. part. II.

[20] Forfait, nell’_Extrait d’un Mémoire sur la marine de Venise_,
espose le forze di questa al suo cadere; ma più attendibile ci pare il
quadro esibito dal Tonello nelle _Lezioni intorno alla marina_, Venezia
1829, e ch’è siffatto:

  Vascelli da 70 cannoni                             Nº  10
      »    da 66                                     »   11
      »    da 55                                     »    1
  Fregate  da 42 a 44                                »   13
      »    da 32                                     »    2
  Galere                                             »   23
  Bombarde                                           »    1
  Cutter                                             »    2
  Barche cannoniere, armate di un cannone da 4, e
    quattro da 6                                     »   16
  Brich da 16 a 18 cannoni                           »    3
  Golette da 16                                      »    1
  Galeotte da 30 a 40 remi                           »    7
  Sciabecchi                                         »    7
  Feluche                                            »    5
  Barche obusiere armate con due obici da 40 o da
    50, e quattro cannoni da 6                       »   31
  Galleggianti sulle botti, armati con due cannoni
    da 30                                            »   10
  Passi, armati d’un cannone da 20 o quattro da 6    »   40
  Batteria galleggiante di sette cannoni da 50 sul
    perno, detta Idra                                »    1

Baraguay-d’Hilliers, il 16 maggio 1797, scriveva a Buonaparte: —
Ho visitato l’arsenale, e l’ho esaminato minutamente; è uno de’ più
belli del Mediterraneo, e c’è dentro ogni cosa a proposito per armare
in due mesi e colla spesa di due milioni un’armata da sette ad otto
vascelli da settantaquattro, sei fregate da trenta a quaranta, e cinque
cutter. C’è un’immensa artiglieria sì di ferro che di bronzo, fonderie,
legnami, una corderìa superba, cantieri sommamente belli. I fondachi
sono zeppi di legnami, di canapa, di ferro, di catrame, di sartiame e
di tele. Ci sono circa due mila fucili, seimila pistole d’arcione, e
pezzi per montarne altri assai, e tutti i lavorieri sono nel massimo
buon ordine».

Nell’arsenale aveasi una preziosa raccolta d’armi vecchie; e parchi di
ben 5293 bocche da fuoco, delle quali 1518 di bronzo; inoltre ne’ forti
di Venezia, di terraferma, di Levante e sulle navi, non contando le
piazze dell’Istria, della Dalmazia, dell’Albania, v’erano pezzi 4468,
di cui 1925 di bronzo. Vedasi da ciò quale depredamento fecero gli
avvicendati conquistatori.

Dopo tanto rubare che fecero i Francesi, dopo aver mantenuto diciotto
mesi l’esercito, collo sperpero che si suole, l’erario veneto potè
sussidiare tutte le città di terraferma più devastate dai Giacobini, e
diede per provvedere l’esercito francese a

  Verona                                ducati  2,070,026
  Brescia                                 »       200,010
  Padova                                  »       800,781
  Vicenza                                 »        52,332
  Crema                                   »        21,000
  Feltre                                  »         7,000
  Treviso, Belluno, Ceneda, Cadore,
    Pordenone                             »        91,026
  Cividal del Friuli                      »         4,000
  Oderzo                                  »         5,000
  Asolo                                   »        10,000
  Conegliano                              »        39,000
  Bassano                                 »        70,976

_Quadro economico delle rendite straordinarie, percepite dal
veneto aristocratico Governo dal 1º giugno_ 1796 _fin al cadere
dell’aristocrazia_. Italia 1799.

Sei erano le grandi confraternite di Venezia, dotate di amplissimi
privilegi, e che dai ricchi erano lasciate amministratrici de’ legati
che istituivano pei poveri. L’annuale loro guardian grande avea dignità
pari ai procuratori di San Marco. La più insigne era quella di San
Rocco, che disponeva dell’annua rendita di sessantamila ducati in
beneficenze, massime pei carcerati e gli appestati. In tempo di guerra
mantenea molti soldati ai servigi della repubblica; per questa si fece
garante di un prestito di sei milioni di ducati; avea ottocentomila
ducati a censo nella zecca; e negli ultimi disastri diede diciottomila
oncie d’argento, un dono di cinquantamila ducati, e garantì la
repubblica per un prestito di ducati ducentomila. Tutto perdette nella
rivoluzione.

[21] _Mémoires de Sainte-Hélène_.

[22] Mutinelli ebbe la pazienza di notare che, negli otto giorni che
i quaranta elettori stettero in conclave per eleggere l’ultimo doge,
si spese in pane, vino, olio, aceto lire 129,421; in pesce 24,410; in
carni, polli, selvaggina 23,360; in salami, salciciotti, prosciutti
3980; in confetti e candele di cera 47,660; in vini, caffè, zuccaro
63,845; in frutti, fiori, condimenti 6314; in masserizie da cucina,
legna, carbone 31,851; per guasto di mobili noleggiati 41,624; per
spese minute 108,910; stuzzicadenti 25: tabacco 4931; carte da giuoco
200; altri giuochi 606; berrette di notte 506; calze e borse di seta
nera per la coda 64; tabacchiere 3067; pettini 2150; essenze 182.

[23] Avea promesso salvar Venezia se gli pagassero ducentomila ducati;
Buonaparte sventò il negozio, e Venezia perì. Ma l’ambasciadore Querini
aveva già emesso obbligazioni per quei seicento mila franchi, e caduta
Venezia, non potè pagarle, onde fu messo prigione a Milano, ma riuscì a
fuggire.

[24] Leggendo la _Correspondance inédite_ di Napoleone col Direttorio,
ogni onest’uomo freme al vedere que’ disegni prestabiliti d’iniquità,
che appena sarebbero compatibili nel calore della guerra; e gl’Italiani
sempre vilipesi come la peggior canaglia: _Venise va en décadence
depuis la découverte du cap de Bonne Espérance et la naissance de
Trieste et d’Ancône; elle peut difficilement survivre aux coups que
nous venons de lui porter; population inepte, lâche, et nullement
faite pour la liberté. Sans terre, sans eau, il parait naturel qu’elle
soit laissée à ceux à qui nous donnons le continent. Nous prendrons
les vaisseaux, nous dépouillerons l’arsenal, nous enlèverons tous les
canons, nous détruirons la banque, et nous garderons Corfou et Ancône_.
26 maggio 1797.

[25] Il maresciallo Marmont nel vol. I, p. 36 delle sue Memorie
(Parigi 1857), racconta che i Veneziani mandarono Dandolo ed altri
al Direttorio per lamentarsi del turpe mercato di Buonaparte, e che
questo, prevedendo come un tal passo sarebbe stato la sua ruina,
spedì Duroc dietro alla deputazione, e se la fece condurre a Milano.
_J’étais_ (soggiunse) _dans le cabinet du général en chef quand
celui-ci les y reçut: on peut deviner la violence de sa harangue.
Ils l’ecoutèrent avec calme et dignité, et quand il eut fini, Dandolo
répondit. Dandolo, ordinairement dénué de courage, en trouva ce jour-là
dans la grandeur de sa cause. Il parlait facilement: en ce moment il
eut de l’éloquence. Il s’étendit sur le bien de l’indépendance et de
la liberté, sur les intérêts de son pays et le sort misérable qui lui
était réservé; sur les devoirs d’un bon citoyen envers sa patrie.
La force de ses raisonnements, sa conviction, sa profonde émotion
agirent sur l’esprit et sur le cœur de Buonaparte au point de faire
couler les larmes de ses yeux. Il ne répliqua pas un mot, renvoya les
députés avec douceur et bonté, et, depuis, a conservé pour Dandolo
une bienveillance, une prédilection qui jamais ne s’est démentie: il
a toujours cherché l’occasion de le grandir et de lui faire du bien:
et cependant Dandolo était un homme médiocre: mais cet homme avait
fait vibrer les cordes de son âme par l’élévation des sentiments, et
l’impression ressentie ne s’effaça jamais. Celui qui pouvait éprouver
de pareilles émotions, et garder de semblables souvenirs, n’était pas
assurément tel que tant de gens ont voulu le représenter_.

Questo Dandolo non appartiene all’antica nobiltà: era un chimico, che
salì poi ad alti posti ed ebbe il titolo di conte come senatore del
regno.

[26] Credesi da molti fosse un prezioso documento di storia italiana;
ma realmente era un almanacco della nobiltà che stampavasi ogni anno.
Fra le mille prove del disprezzo in che si presero allora le cose
patrie, racconterò che i dogi portavano un anello come distintivo di
lor dignità, e il giorno dell’Ascensione lo buttavano in mare, ma
legato a una cordicella con cui si ritirava. Quello del doge Manin
aveva sul diritto l’impronta stessa dello zecchino, e sul rovescio lo
stemma della casa. Al momento della caduta della repubblica l’aveva il
cavaliere del doge, cioè il capo degli scudieri, e andò a venderlo a un
orefice per censessanta lire venete. Trovossi chi lo ricomprò, e finì
nel tesoro imperiale di Vienna. Il doge Manin lasciò centomila ducati
da adoprarsi a mantenere pazzi e figliuoli abbandonati, pei quali dura
col suo nome uno de’ meglio ordinati istituti.

De’ capi d’arte tolti a Venezia è il catalogo nel MUTINELLI, _Ultimi
cinquant’anni_, pag. 226. Dei preziosissimi ornati del famoso breviario
Grimani la più parte andò perduta: il bassorilievo rappresentante le
suovetaurilia è rimasto nel museo del Louvre. Nelle altre città si fece
altrettanto; ma qui noi vogliamo notare soltanto gli undici preziosi
manoscritti, tolti dalla biblioteca di San Daniele nel Friuli. Da
Verona Buonaparte tolse la raccolta d’ittioliti del conte Gazzola.

[27] Berthier scriveva al Direttorio: _Je n’ai pu réussir_, COMME VOUS
M’EN AVIEZ CHARGÉ _par votre lettre, à enlever à Venise la fabrique des
marguerites_.

[28] Or ora il conte Ermanno Lanzi di Zacinto stampò la storia della
dominazione veneta nelle isole Jonie, περὶ τῆς πολιτικῆς καταστάσεως
τῆς Επτανῆσου ἐπὶ Ἐνετῶν. Atene 1856.

[29] A Campoformio fu messa la statua della Pace, di Comolli, che poi
fu trasferita sulla piazza Contarena di Udine.

[30] Lettera del 5 messidoro anno IV.

Quando si pretendeva da tutti gl’impiegati il giuramento d’odiare i
tiranni, esso astronomo scrisse al cittadino Baldironi commissario del
Direttorio esecutivo della repubblica Cisalpina presso il dipartimento
dell’Olona: — Barnaba Oriani stima e rispetta tutti i Governi ben
ordinati, nè sa comprendere come, per osservare le stelle ed i pianeti,
sia necessario di giurare odio eterno a questo o a quel Governo. Egli
è stato in età di ventitre anni impiegato nella specola di Brera da un
Governo monarchico, e si acquistò qualche nome in questa professione
coi mezzi che gli vennero dal medesimo Governo accordati per vent’anni
continui. Sarebbe dunque il più ingrato degli uomini se ora giurasse
odio a chi non gli ha fatto che del bene. Pertanto egli dichiara che,
non potendo giurar odio al Governo dei re, si sottomette alla legge
che lo priva del suo impiego alla specola di Milano, e malgrado questo
castigo, non cesserà mai di fare i più fervidi voti per la prosperità
della sua patria».

Scarpa pure fu dimesso per lo stesso titolo: ma quando Buonaparte andò
a visitare l’Università, chiese di lui, e udito il motivo della sua
rimozione, — E che? le scienze son esse d’alcun partito? A qualunque
appartengano, i grand’uomini devono essere onorati»

Dell’Oriani stesso si ha una lettera al Pioltini ministro di polizia,
del 22 piovoso anno VII, ove, a nome suo, del Parini, del Reggio,
del Brambilla, si lagna delle prepotenze che ai professori di Brera
usava un uffiziale della guardia nazionale per obbligarli a montar la
guardia, e a pagar doppia tassa come _così detti preti_.

[31] Il 1º giugno 1797, cioè nel maggior parossismo repubblicano,
Buonaparte, discorrendo con Melzi e col conte Miot de Melito, diceva:
«Credete ch’io trionfi in Italia per la grandezza degli avvocati
del Direttorio, dei Carnot, dei Barras? Credete sia per fondar una
repubblica? che idea! una repubblica di trenta milioni d’uomini,
coi costumi nostri e i nostri vizj! Possibil mai? È una chimera de’
Francesi, ma che passerà come tante altre. Essi han duopo di gloria,
di soddisfare la vanità, ma della libertà non s’intendono un’acca. La
nazione ha bisogno d’un capo: capo illustre per la gloria, non delle
teoriche di governo, delle frasi, dei discorsi di ideologhi. Diansi
loro dei balocchi, e basta: si spasseranno e lasceransi guidare, purchè
si dissimuli la meta a cui sono incamminati». _Mém. du comte_ MIOT DE
MELITO, tom. I. p. 163.

[32] Di que’ Governi esponemmo i disordini nella _Storia della città e
diocesi di Como_, lib. IX.

[33] Quelle pazzie venivano così riferite dal cittadino Poggi alla
Società di pubblica istruzione di Milano: — Il popolo tutto ondeggiava
nelle dolcezze, ai puri repubblicani serbate, se il truce oligarca si
tragga, che in segreto angolo appiattato mordeva forse la polvere,
vedova rimasta del mal seminato oro fatale; quando improvvisa fama
annunzia clamorosa, che nel quartiere di Prè, creduto per influsso
molesto il men democratico, si è innalzato il primo albero di libertà
per mano del popolo esultante. Fu questa una voce creatrice: in un
istante comparvero alberi su d’ogni piazza, entro poche ore parve
Genova un bosco, e, meraviglia ai presenti ed ai lontani popoli, più
di cento ne sursero lo stesso giorno! I sermoni dettati dall’eloquenza
repubblicana si udivano per le vie tutte e appiè degli alberi, e varj
d’abito e di colore i ministri del culto peroravano collo zelo maggiore
la causa del popolo; ben diversi da quegli impostori, che non bramando
esser utili, anzi cercando di nuocere alla pubblica cosa, protestano di
non volersi immischiare in oggetti politici.

«I pranzi repubblicani, tanto opportuni per nodrire il piacere
dell’eguaglianza, e per stringere i nodi della fraternità, erano
pubblici, e senza numero moltiplicati: i suoni di numerose bande,
gl’inni ed i balli patriotici e marziali, che allumarono in Francia
il fuoco della libertà, e scossero i debellatori dei re, condivano
le mense di non mai gustate dolcezze: i saporosi brindisi alla morte
de’ tiranni, alla salute della patria, alla libertà dell’Italia,
alla memoria del liberatore de’ popoli Buonaparte, si rispondevano
all’unissono da mille canti.

«L’ora s’accostava intanto, in cui il popolo ligure dovea dar prova
dell’odio profondo che nodrir denno i figli di Bruto contro ogni
ombra di tirannia: quindi abbattutosi egli nelle due statue colossali
dei tiranni Doria, animato dal genio siracusano, a cui l’immortale
Timoleone fu padre, le diroccò, le stritolò, le teste e le braccia ne
appese all’albero della salute, e alcuni pezzi del busto ne destinò a
formar patere e vasi per la Dea Cloacina.

«Sul declinare del giorno il popolo sovrano richiese l’esecrabile libro
d’oro: si tentò d’ingannarne l’ordine assoluto colla esibizione di
altri libri: era già pronta la pubblica vendetta, se i veri originali
in cinque volumi non venivano immediatamente consegnati. Un decreto
del nuovo Governo consolò il popolo, e que’ libri, che come in
Roma i sibillini, si tenevano in venerazione, furono con universale
esecrazione lacerati ed arsi solennemente all’Acquaverde in presenza di
venti e più mila cittadini. Ma chi descriverà colle tinte della natura
la brillante energia, i vivi trasporti e la nobile fierezza, onde fu
accompagnata la gloriosa impresa? Le ceneri furono consegnate ai venti,
che le recarono sul mar Tirreno, onde confonderle con quelle del libro
d’oro pochi dì prima abbrugiato sulle adriatiche Lagune, che sull’ale
di altri venti si trasportavano alla cumea voragine d’Acheronte.

«Popolo lombardo che belle lezioni repubblicane!

«Nuovi canti, nuovi balli, nuove grida di tripudio chiusero
quest’illustre giornata, che viverà eterna nella memoria de’ liberi
nipoti».

[34] _Moniteur_, anno VI, nº 167.

[35] Per le incertezze che accompagnano ogni minaccia di guerra, il
debito pubblico di Roma era ingrossato sotto Pio VI, che fece cavare
da Castel Sant’Angelo scudi cinquecento mila del fondo di riserva,
che diceasi tesoro di Sisto V; fece prestiti, levò per venti milioni
sui beni ecclesiastici, impose tasse; chiese la volontaria consegna
degli ori e argenti, che salirono, per parte de’ privati, a scudi
560,438; del monte di Pietà a 962,102; della casa di Loreto a 179,517.
Per l’armistizio di Bologna si dovette dare ai Francesi quindici
milioni in denaro, e quasi sei in merci e animali, onde si fecero
pegni e debiti e si vendettero molte proprietà: undici milioni si
ebbero da gioje del tesoro pontifizio: sicchè in quattro mesi lo Stato
papale pagò trentadue milioni di franchi: e al 1797 avea il debito di
settantadue milioni di scudi, non compresi i debiti delle comunità,
mentre era ridotto a soli 1,700,000 abitanti. Dal solo tesoro di Sisto
V (che allora fu vuotato) si mandarono alla zecca 3155 libbre d’oro: i
cardinali dovettero dare le mazze d’argento dorato, da cui si faceano
precedere nelle funzioni, e dove il lavoro superava la materia. La
succeduta repubblica mandò tutto a sconquasso.

Oltre i libri levati alla Biblioteca Vaticana e i quadri e le statue,
si tolse un ricchissimo medagliere di numismi antichi e moderni,
spesso donati dai regnanti, o comprati da diversi papi, fra’ quali
il medagliere Albani con 323 medaglioni d’imperatori di gran modulo,
quel dei Carpegna con 175 medaglioni; quel di Clemente XIV colla serie
degl’imperatori e delle famiglie romane in numero di 1261 in argento,
e 1989 di altri popoli e città in argento e bronzo; altre 737 da Giulio
Cesare a Probo; e la serie dei papi: 200 stupendi cammei, insignemente
legati in oro, una croce pettorale gemmata, un prezioso vaso d’oro,
105 cammei della regina Cristina illustrati da Sante Bartoli; un
ricchissimo forziere regalato da Maria Teresa colle sue medaglie in
oro.

Inoltre da Roma si portarono via moltissimi reliquiarj preziosi, e
principalmente da Santa Croce di Gerusalemme; e da Santa Maria Maggiore
la lunga cassa d’argento, in cui Filippo IV avea fatto chiuder gran
parte del presepio; dalla basilica lateranense due grandi busti
d’argento giojellati.

Fu pure tolto un famoso ostensorio, che la casa Doria Pamfili possedeva
e imprestava per le quarant’ore alla chiesa di Sant’Agnese in piazza
Navona, e che si valutava da 174,000 scudi.

Poi nel 1807 fu dall’imperatore comprato il famoso museo Borghesi con
255 preziosi monumenti, contro voglia del proprietario e con protesta
del Governo.

Al fine del III vol. della _Correspondance de Napoleon I_, che si
pubblica ora da Napoleone III è il catalogo de’ capidarte spediti da
Roma a Parigi da Buonaparte e da Berthier.

[36] TAVANTI, _Fasti di Pio VI_.

[37] Lettera del Milizia, 2 marzo 1798, in DE POTTER, _Vie de Ricci_.
A Tavoleto nell’Urbinate altre sollevazioni, dove accorso il generale
Sahuguet, pose il fuoco al paese, bruciandovi vecchi, donne, fanciulli;
e innocenti ben più che malfattori.

[38] I tribuni fatti da Berthier erano i poeti Monti, Gagliuffi, Solari
genovese e il medico Corona. L’editto 5 ottobre del senato di Bologna
dice «d’ordine del comandante di piazza a cui siamo in dovere di
obbedire».

[39] _Correspondance de Napoléon I_, t. IV. p. 14.

[40] Secondo la corrispondenza di Nelson, le sole gioje che la regina
confidò a Emma Leona, passavano il valore di sessanta milioni di
franchi.

* Si è molto detto ed esagerato sulle frodi usate da Ferdinando
IV al Banco pubblico, ma vuolsi correggere coll’opera del barone
Savarese _Sulle carte dei Banchi di Napoli, emesse dal 1796 al 1799,
e ritirate nel 1800_. I Banchi, riordinati da Carlo III, rilasciavano
fedi di credito, dinotanti la somma depositata, ed esigibili a vista;
comodo impiego, pel quale eransi accumulati quindici milioni di
ducati. Il Governo pensò profittare di questa fiducia con pagare le
sue spese mediante fedi di banchi senza deposito precedente: niuno
se n’accorgeva, sicchè non alteravasi il valore. Ove se ne fossero
accorti, bastava a pagarli il patrimonio de’ banchi stessi in terre
e capitali fruttiferi. Prima si andò con misura, ma imminendo la
guerra, si attinse largamente a questa fonte; e allora il valore
delle fedi scadde, stentaronsi i pagamenti, e più quando la Cassa
di guerra si dotò con cedole siffatte di nuova emissione; e l’aggio
fu sino di cinque sesti del valor nominale. I debitori pretendeano,
come avanti, pagar in carta, e i creditori ricusavano, ma il Governo
ordinò ai tribunali di tenerle buone. Ciò scompigliò non poco gli
averi, e sopraggiunta la repubblica, si trovò ch’eransi emessi venti
milioni di ducati senza deposito; talchè le carte scaddero al decimo
del valor nominale. Ristabilito il Governo regio, e dirigendo le
finanze l’abilissimo Giuseppe Zurlo, il Governo confessò il torto
suo, giacchè ritirò i ventiquattro milioni di cedole, che costarono
cinque milioni di ducati di beni dello Stato, e la rendita iscritta
d’annui quattrocento mila ducati. L’operazione piacque al re, che volle
premiarne lo Zurlo con sessanta mila ducati, ma esso ricusò dicendo non
voler trarre un utile privato da una pubblica sventura.

[41] Perchè non si vantino d’originalità i nostri contemporanei, ecco
il proclama che allora divulgò:

«Championnet generale in capo dell’armata di Napoli a tutti gli
abitanti del fu regno napolitano.

«Siete liberi finalmente; la vostra libertà è il solo prezzo che la
Francia vuol ritrarre dalla sua conquista, e la clausola del trattato
di pace, che l’armata della Repubblica giura solennemente con voi
fin dentro le mura della vostra capitale, e sopra il trono rovesciato
dell’ultimo re vostro.

«Guaj a chiunque rifiuterà di segnare con noi questo onorevole patto,
in cui tutto il frutto della vittoria è pel vinto, e che altro non
lascia al vincitore, che la sola gloria d’avere consolidata la vostra
felicità! sarà egli trattato come un pubblico nemico, contro del quale
noi restiamo armati. — Se si trovano dunque fra voi persone di cuore
così ingrato da rigettare la libertà, che abbiamo loro conquistata
a prezzo del sangue nostro; se si trovano uomini così insensati da
richiamare un re decaduto dal diritto di comandarli mercè la violazione
del giuramento che aveva di difenderli, fuggano eglino sotto le
bandiere disonorate dello spergiuro, la guerra contro di loro è a morte
ed esterminati saranno.

«Repubblicani, la causa per la quale avete così generosamente sofferto
è finalmente decisa: ciò che non aveano potuto terminare le brillanti
vittorie dell’armata d’Italia, ciò che aveano sì lungo tempo ritardato
gl’interessi pubblici dell’Europa intiera, ciò che aveano sospeso le
speranze d’una pace generale, ciò che avevano impedito fino a questo
giorno la religione dei trattati, ed il timore d’una nuova guerra:
l’acciecamento dell’ultimo re l’ha felicemente operato. — Accusi egli
dunque solamente il proprio orgoglio insensato e l’audacia della sua
oppressione, della felicità dei vostri destini e delle sue disgrazie:
ma sia egli giustamente punito colla perdita di una corona che ha
disonorata, e col rammarico di avervi egli medesimo resi liberi, e aver
attaccato contro la fede dei giuramenti una nazione alleata, e d’aver
voluto rapire la libertà ad un popolo vicino.

«Il sentimento d’una felicità tanto inaspettata non sia in voi per
niun modo avvelenato da alcun timore. L’armata che comando resta fra
voi per difendervi: perderà essa financo l’ultimo de’ suoi soldati,
e spargerà fino l’ultima goccia del suo sangue pria di soffrire che
l’ultimo vostro tiranno conservi nè tampoco la speranza di rinnovare
le proscrizioni delle vostre famiglie, e di riaprire le prigioni oscure
nelle quali vi ha fatto gemere per lungo tempo.

«Napoletani, se l’armata francese prende oggi il titolo di armata di
Napoli, e ciò che in sequela dell’impegno solenne che essa prende di
morire per la vostra causa, e di non fare altro uso delle sue armi
che quello di conservare la vostra indipendenza, e sostenere i vostri
diritti, che essa ha conquistati per voi. — Si rassicuri dunque il
popolo su la libertà del suo culto, cessi il cittadino d’inquietarsi
sui diritti della sua proprietà: un grande interesse ha stimolato i
tiranni a grandissimi sforzi che hanno fatto per calunniare agli occhi
delle nazioni i sentimenti e la lealtà della nazione francese; ma pochi
giorni sono necessarj ad un popolo tanto generoso per disingannare gli
uomini creduli delle odiose presunzioni di cui si serve la tirannia
per condurli ad eccessi deplorabili. — L’organizzazione della rapina,
e dell’assassinio dall’ultimo re vostro immaginata, e da’ suoi agenti
perversi eseguita, quale un mezzo di difesa, ha prodotto disastrose
e serie conseguenze funestissime; ma rimediando alla cagione del
male facile cosa sarà arrestare gli effetti e di riparare a queste
conseguenze.

«Che le autorità repubblicane, che saranno create, ristabiliscano
l’ordine e la tranquillità su le basi d’un’amministrazione paterna,
dissipino gli spaventi dell’ignoranza, e calmino il furore del
fanatismo con un zelo eguale a quello ch’è stato impiegato dalla
perfidia per inasprirli ed irritarli, ben presto la severità della
disciplina, che si ristabilisce con tanta facilità nelle truppe d’un
popolo libero non tarderà di mettere un termine ai disordini provocati
dall’odio, e che il diritto di rappresaglia ha permesso di reprimere.

«Fatto in Napoli il cinque piovoso anno VII (24 gennajo v. st.).

                                                        CHAMPIONNET».

[42] L’avvocato Brofferio, nella _Storia del Piemonte_, part. I. c. 5,
addurrebbe un fatto, ch’egli attesta avere diligentemente verificato.
I cittadini d’Alba erano stati dei primi a chiarirsi pei Francesi; ma
dopo la pace di Cherasco si avvidero che Buonaparte amava tutt’altro
che la repubblica, onde mandarono al Direttorio una protesta contro il
generale. Dovendo poi pagare una contribuzione di ottantamila lire,
spedirono a Buonaparte a Milano per chiedere una proroga. L’inviato
fu Parussa, uno de’ primi patrioti, e che aveva firmato la protesta
suddetta. Buonaparte gli mostrò questa protesta e congedollo; ma
nell’uscire fu preso e subito fucilato nel cortile della villa di
Milano.

Per esortare i Piemontesi ad unirsi colla repubblica Cisalpina,
Leopoldo Cicognara che ne era commissario a Torino, scrisse un opuscolo
_Agli amici della libertà italiana_, Torino 1798. I Francesi vi fecer
fare dal cavaliere Gaspare Gregori piemontese la _Risposta agli amici
della libertà italiana_.

[43] Pettegolezzi chiariti nei _Mémoires tirés des papiers d’un homme
d’Êtat_, tom. VII.

* La nota del _Moniteur_ conchiudeva: _On regarde cette innovation
comme une victoire de la grande nation_: ma a Ginguené fu scritto
che il Governo francese era rappresentato da ambasciadori, non da
ambasciatrici.

Fra le altre insistenze con cui Ginguené molestava incessantemente il
Governo piemontese, era che fosse punito di morte chiunque si trovasse
con uno stilo o coltello, per qualsivoglia uso. Gli si domandava se
un codice, dove fosse scritta tal legge, s’addirebbe alla filantropia
tanto predicata dall’ambasciadore.

Barante, nell’_Histoire du Directoire_, stampata al tempo stesso di
questa nostra, e che noi conoscemmo solo adesso, parla a lungo delle
vicende d’Italia nel triennio; ma non ci parve una novità, nè in modo
da cambiare i giudizj da noi portati. Sulla lettera del Pignatelli
al Priocca (pag. 86) non mette alcun dubbio. Si estende su questo
incidente del Ginguené; _honnête homme, mais la philosophie et la
révolution lui avaient inspiré des opinions absolues et orgueilleuses.
Les chimères systématiques et l’emphase sentimentale étaient devenues
dans son esprit une croyance sincère et intolérante,... il attribuait_
(_aux princes d’Italie_) _des complots, et révait les poignards et
les poisons, tandis qu’il parlait avec admiration de la loyauté du
Directoire, qui l’avait chargé d’exciter contre le roi les révoltes de
ses sujets_.

Segue a dire che aveva preparato un discorso accademico e panegirico;
ma vista la semplicità della Corte, ne proferì uno meno enfatico, ma
sconveniente, lodando la lealtà del Direttorio, a fronte della perfidia
degli altri Governi, ecc. Carlo Emanuele, invece di rispondergli, gli
domandò se avea fatto buon viaggio, se stava bene di salute; gli parlò
della propria infermità, dei dispiaceri, delle consolazioni che gli
dava la santa sua moglie Clotilde, ecc. ecc.

[44] Il Bossi finì prefetto in Francia nel 1823; compose l’_Oromasia_,
poema italiano sui fatti della rivoluzione, ma freddo. Il dottore Botta
divenne poi storico famoso.

[45] «Suwaroff detestava di cuore i Francesi. Era magro, ossoso:
la brillante divisa ondeggiava s’un corpo scarnato, e traverso le
innumerevoli croci sul suo petto vedevasi una camicia di tela grossa
come i soldati. Capelli bianchi, rasi davanti secondo l’ordinanza
militare: piccoli occhi, scintillanti di passione e di indomita
energia. Il giorno che arrivai al campo, il feldmaresciallo mi tenne
a pranzo. Due cosacchi posero sulla tavola, coperta d’una grossolana
tovaglia e senza mantili, un enorme piatto di salcraut e uno di
aringhe, e qui consistette tutto il desinare. Dopo si portò il punc,
e Suwaroff dava un bicchiere a ogni soldato che entrasse, e che dopo
trangugiatolo non mancava mai di dire: «Su, papà, ancora un altro».
Adorato dai soldati e dai bassi uffiziali, benchè non potessero fidarsi
delle sue promesse: sua passione era la gloria. Niente scrupoloso di
mentire o ingannare, detestando di tutto cuore gli Alleati, l’unica
cosa di cui tenesse conto era battere Napoleone: il resto, dice non
valere una pipa di tabacco. Prode, freddo di sangue ma vendicativo,
univa le qualità più disparate. Ostentava pietà, ma abbandonavasi a
tutta la foga della passione. Passava per rozzo e ignorante, mentre
aveva un’istruzione estesissima, un cervello da pensatore, una
conoscenza perfetta della storia: non poteva soffrire quei che scrivono
lungo, e diceva: «Quand’uno non vale nè pel pensiero nè per l’azione,
attacca grand’importanza all’inutile scribacchiare». Guaj all’ajutante
di campo che non sapesse esser conciso ne’ rapporti! li stracciava a
bocconi, e gettandoli via diceva stizzoso: «Rifate, e corto». Quando il
segretario della guerra gli dirigeva un rapporto, dicea sempre: «Questi
asini non saprebbero scrivere senza far sempre marciare un esercito
di cento mila lettere?» D’attività prodigiosa, non lasciava far nulla
agli uffiziali: non dormiva si può dire mai; nè mai riposava: spesso
correva in manica di camicia, e sprezzava mille cose, che son bisogni
per gli altri. Il suo difetto come capitano era l’impazienza, che
sperdeva spesso i piani meglio concepiti, e lo privava del frutto de’
suoi vantaggi». _Memorie d’un legittimista dal _1770_ al_ 1830, _sopra
il giornale manoscritto, le lettere e le note lasciate dal marchese
Enrico Gastone di B***_ (ted. 1861), per Giulio de Wickede. Quel
marchese scrive che, dopo la battaglia di Cassano, Suwaroff gli disse
solo «Contento», e quest’unica parola lo eccitò in modo, che si sarebbe
fatto uccidere per lui.

[46] Di questo Mammone, così orribilmente dipinto dal Coco, non fa
il minimo cenno Lomonaco, la cui relazione a Carnot è vera opera d’un
frenetico, eppure è la fonte a cui principalmente attinsero i narratori
di quelle tragedie, e principalmente Carlo Didier nella _Caroline en
Sicile_. Molte falsità emendò il barone Leon d’Hervey Saint-Denys nella
_Histoire de la révolution dans les Deux Siciles depuis 1793_: ma resta
ancora il dovere a qualche storico onesto di vagliare la verità dalla
sistematica menzogna delle gazzette e dei settarj. Il tempo nostro v’è
meno adatto che nessun altro.

[47] Il fatto è asserito comunemente, ma di tal lettera non c’è
vestigio; la negano il Sacchinelli (_Vita del Ruffo_) e il barone
d’Hervey, e che più monta, non la adducono gl’Inglesi, interessatissimi
a discolpare Nelson.

Nelson scriveva al cardinale Ruffo. «Milord Nelson informa V. E.
che egli disapprova affatto cotali capitolazioni, e che egli è
risolutissimo di non restare neutrale, colla forza rispettabile che ha
l’onore di comandare.... Milord spera che il cardinale Ruffo sarà del
suo avviso e che allo spuntar del giorno di domani esso potrà agire
d’accordo con S. E. I loro intenti non possono esser che gli stessi,
cioè di ridurre il nemico comune, e di sottomettere alla clemenza di S.
M. Siciliana i suoi sudditi ribelli».

Il Cacciatore nell’_Esame della storia_ del Colletta (Napoli 1850),
difende il Ruffo, e ne reca una lettera con cui il comandante del
Castelnovo significava che «sebbene egli (Ruffo) e i rappresentanti
degli Alleati tenessero per sacro e inviolabile il trattato,
nulladimeno il contrammiraglio Nelson non voleva riconoscerlo; e
siccome era in libertà delle guarnigioni di avvalersi dell’articolo 5º
della capitolazione, come avevano fatto i repubblicani della collina di
San Martino che erano tutti partiti per terra, così gli faceva questa
partecipazione, affinchè, sulla considerazione che in mare comandavano
gl’Inglesi, le guarnigioni potessero prendere quella risoluzione che
meglio loro piacesse e che sicuri li rendesse»; lib. I, pag 145. Vedasi
pure _Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo_,
scritte dall’abate DOMENICO SACCHINELLI (Napoli 1836): e marchese
_Filippo Malaspina_ _Occupazione de’ Francesi nel regno di Napoli
dell’anno 1799; invasione del regno nel 1806, e l’impresa intrapresa
dal cardinale F. Ruffo_, ecc. Parigi 1846. Il Malaspina fu ajutante
di campo del Ruffo, che per sospetto lo fe gettar in carcere. Il
Sacchinelli, segretario del Ruffo, reca documenti irrefragabili.

[48] La vita del Coco, inserita nella _Biographie Universelle_,
racconta che egli viveva in intimità colla San Felice: un Bacher
per rivalità minacciò di denunziarlo: ma la San Felice denunziò più
prontamente il Bacher come reazionario, e fu mandato al patibolo.
Cambiato vento, essa pure fu condannata. Il Coco divenne giornalista
nella repubblica Cisalpina, poi nel regno d’Italia; fu impiegato
sotto Murat, ma aspirava a esser capo dell’istruzione o ministro, e
non ottenendolo, trescò contro i Napoleonidi. Di ciò gli fece merito
Ferdinando IV, che lo conservò direttore del tesoro. Trovavasi così
a una Corte che egli avea violentemente denigrata: e una volta il
principe reale avendogli espresso il desiderio di leggere la sua
_Storia della rivoluzione di Napoli_, egli ne prese tale sgomento, che
divenne pazzo, e sopravvisse in tale infelicità fino al 1823.

[49] Il Colletta dice furono parecchie centinaja: il parabolano Coco
li porta a quattro mila: il marchese Gualterio a quaranta mila!! La
lista che ne dà il Lomonaco è di cendiciannove, oltre la San Felice. Il
Sacchetti riduce i giustiziati a novantanove.

[50] Fra i detenuti era il famoso naturalista Dolomieu, che, partitosi
dalla spedizione d’Egitto, fu spinto sulle coste napoletane il giugno
1799, e toltogli il portafoglio, fu gettato in un fondo di torre
senza libri e penne; dove, fattosi inchiostro col fumo della lampada,
sui margini di qualche volume sottratto alla vigilanza scrisse la
_Filosofia mineralogica_. Fu liberato il 15 marzo 1801.

[51] Motuproprio del 10 febbrajo 1800. In una circolare del 20 aprile
successivo l’arcivescovo Martini di Firenze invitava i pievani della
sua diocesi a dar una nota dei Giacobini, assicurandoli del massimo
segreto; chiesti da qualche altra autorità d’informazioni simili, se
ne disimpegnino come possono, giacchè il Governo non terrebbe conto
se non della nota che trasmetterebbero mediante l’arcivescovo; e così
concorrano «ad estirpare una cancrena che tanto male ha prodotto, ed è
capace di produrre sino all’esterminio delle nazioni».

[52] Lettera all’abate di Caluso, 27 luglio 1799.

* Il furore dell’Alfieri contro i Francesi appare, non solo dal
_Misogallo_, ma dalla _Vita_ e dalle lettere. Basti per tutte una
del 5 agosto 1800 al famoso Lagrange. — La Grangia, sei tu francese o
italiano? Se francese, non contaminerò la mia voce parlandoti, ma se
italiano pur sei adempirò l’indispensabile sacro dovere d’indipendente
e verace scrittore italiano col dirti; che non può nè deve un tuo
pari menare i suoi giorni in Francia tra codesti schiavi malnati, e
sotto una sì infame e stolta tirannide. Aggiungo che molto meno tu dei
(e fosse pur anco a costo di una onorevole anzi gloriosa mendicità)
ricevere tu il tuo pane dagli oppressori, assassini della desolata tua
terra natale».

[53] Lavergne, nella _Vie de Souwaroff_, racconta che Paolo di Russia
interpellò uffizialmente l’Austria se volesse ripristinare il re di
Sardegna e la repubblica di Venezia; in tal caso Suwaroff resterebbe, e
sarebbegli mandato un altro esercito: l’Austria non volle promettere.
Vedi anche _Lettres et opuscules inédits_ di J. DE MAISTRE. Parigi
1851, tom. I. p. 178.

Il conte di Cobentzel, nel novembre 1799, rispondeva al conte Panin
ministro russo: — Come potrebbe esigersi in cessione delle tre
Legazioni, che nel trattato di Tolentino furono annesse alla repubblica
Cisalpina da noi conquistata? È un giusto compenso delle spese di
guerra. Io non dubito che la mia Corte non renda il Piemonte al re di
Sardegna; ma Alessandria e Tortona, che furono già coll’armi staccate
dal Milanese, devono per l’armi ancora tornare alla dominazione
austriaca». Vedi anche l’_Histoire des cabinets de l’Europe pendant le
Consulat et l’Empire, par_ ARMAND LEFÈVRE, 1840.

[54] La rivoluzione aveva divorato tre bilioni di proprietà del clero,
cinque bilioni di proprietà degli emigrati; gli argenti e le campane
e le gioje delle chiese, i beni della Corona; imposte infinite, tasse
e prestiti forzosi, creato assegnati per 33,430 milioni: dall’89 al
98 aveva speso novantasei bilioni, oltre cinquanta bilioni a cui era
fallita nel 97, e quando Napoleone, reduce d’Egitto, volea mandar un
messaggiere in Italia, non trovò nell’erario millecinquecento franchi
da ciò.

[55] Esiste il conto originale delle spese sostenute nel 1436 per
condurre una grossa bombarda ed altre artiglierie per l’assedio di
Chivasso, traverso al gran Sanbernardo. CIBRARIO, _Memorie di Savoja_,
350.

[56] Il generale Soult assicura che, alla battaglia della Moglia
fra gli Appennini, i suoi soldati privi di pane e di munizioni, si
buttavano sui cadaveri degli Ungheri e li mangiavano. _Mémoires_, tom.
III. p. 51.

[57] Ho sempre creduto della massima inutilità alla storia le
descrizioni di battaglie. I lettori ordinarj non capiscono; i militari
non imparano, e ricorrono alle opere speciali. D’altra parte una
battaglia succeduta sotto gli occhi nostri, nel maggior profluvio delle
gazzette, dei bullettini, delle memorie, è narrata diversissimamente
dai diversi: e senza citare il Botta, chi l’abbia letta in Thiers,
che pur vanta aver avuto alla mano i più preziosi documenti, stupisce
di trovarla affatto differente in due generali che vi presero parte,
Marmont e Soult. Qui come altrove noi crediamo bene cercar le cause,
abbreviare le particolarità, e affrettarsi alle conseguenze.

Il sepolcro di Dessaix all’ospizio del gran Sanbernardo è opera di
Moitte, morto il 1810; e lo rappresenta in atto di cader morto dal
cavallo, sostenuto dal colonnello Lebrun. Bourienne confessava che le
circostanze della morte di esso e il discorso messogli in bocca, gli
erano stati dettati da Napoleone; e che in realtà nessun lo vide o lo
udì in quella confusione. Era romanzesco pure il bullettino quando
gli faceva dire: — Andate a riferire al primo console che muojo col
dispiacere di non aver fatto quanto basti per vivere nella posterità».

[58] Ercole Rinaldo, ultimo duca di Modena, moriva a Treviso il 14
ottobre 1803.

[59] Proclama del 1º gennaio 1801.

[60] _Almanach catholique pour 1801_.

[61] Mentre il conclave eravi adunato, morì il patriarca Giovanelli,
sant’uomo, ed ebbe insigni esequie. Alla chiesa di San Giorgio, nel cui
convento s’eran accolti i cardinali, il nuovo papa regalò magnifici
candellieri, che poi il Governo d’Italia portò via per ornare la
cappella reale di Milano.

[62] _Motu proprio_, 11 marzo 1801.

[63] Tal era a Milano Petiel, dove la commissione componeasi di Melzi,
Aldini, Sommariva, Paradisi, Ruga, Arauco, Birago, Visconti, Bargnani:
nella consulta de’ quaranta entravano Moscati, Luosi, Testi, Opizzoni,
Serbelloni, Maniscalchi.

[64] Furono Diego Guicciardi segretario di Stato, Spanocchi
grangiudice, Felici ministro dell’interno, Bovara del culto, Prina
delle finanze, Veneri del tesoro, Pino della guerra, Maniscalchi degli
affari esteri.

* Capo della commissione legislativa era l’avvocato Sommariva,
che meglio degli altri profittò dei mezzi di guadagno offerti dal
disordine. Nel rimettere il potere in mano del vicepresidente, al 16
piovoso anno I della repubblica italiana, diceva: «Non dissimuleremo
che la moltiplicità degli obblighi contratti, e i pesi straordinarj ci
determinarono a provvedimenti spiacevoli ma necessarj. Per sostenere
l’economia pubblica abbiamo dovuto colpire la privata; ferire i
cittadini nel vivo, e riaprire piaghe vicine a rimarginarsi. Ma de’
mali passati ci consola l’idea che i nostri successori, animati da
fervido zelo, e secondati da circostanze migliori, potranno coronare
i voti di un popolo che, stanco di tante vicende, ha diritto di
finalmente godere la felicità a cui aspirava».

[65] Il bilancio del 1803 stava su novanta milioni di lire milanesi
(sessantotto milioni di franchi); di cui cinquantadue al ministero
della guerra: cioè venticinque e mezzo per l’esercito francese,
ventidue e mezzo pel nazionale, quattro per le fortificazioni.

Il conte Sclopis, in un bel libro pubblicato dopo il nostro, diè
fuori due preziosi rapporti del vice presidente Melzi a Napoleone
sopra lo stato della Repubblica. Il Melzi si diffonde sulla propria
incapacità. «Sì, cittadino presidente; senza la vostra grand’ombra che
ci protegge, non saremmo che caos e sventura. L’Europa n’è convinta:
ogni passo nostro n’è novella prova... Troppo grandi ragioni e troppo
ben giustificate dall’esperienza vollero che il capo del nostro Governo
fosse a Parigi, anzichè a Milano. Guaj a noi se fosse altrimenti!

«Più avanziamo, la strada non sembra allargarsi che per offrirci nuove
difficoltà. I Giacobini e i ladri sono collegati; e le loro speranze,
nudrite da intriganti lor pari, che son a Parigi, van sino al generale
sovvertimento: e poichè sembra che ogni nostra forza è in voi, non vi
risparmiamo punto... La nazione è contenta, poichè essa gode il riposo
ch’era il suo primo bisogno. La confidenza nel Governo è ristabilita
perchè si spera: ma tante speranze io non le trovo nè in me nè attorno
a me. La mancanza d’uomini è grande più che non l’avrei pensato».

E dipingendo i varj ministeri e i varj corpi dello Stato, sovente
ritorna sull’apatia pubblica a fronte de’ Giacobini, come sempre
chiama gli antichi repubblicani. «I legislatori che mostrarono
sempre buone intenzioni, son troppo pochi: tutto il resto ostentò
una leggerezza, una trascuranza che troppo contribuì ad avvilire quel
corpo nell’opinione generale. Più volte mi sentii afflitto, umiliato
udendo che legislatori, in assenza di stranieri che ci spiano, nelle
assemblee, al ridotto, ne’ palchetti sfogavansi a coprir di ridicolo
e d’odio le stesse leggi ch’essi aveano fatte il giorno prima. E
ciò non per vedute determinate, ma ben peggio, per mancanza totale
di sentimento e interesse per la cosa, non dissimulando nè la loro
diffidenza sul destino della repubblica, nè la persuasione che i
nostri sagrifizj non andrebbero a profitto di essa, fino a guardar
il Governo come trastullo o complice... Per evitare il grande sconcio
della discussione pubblica si stabilì nella Costituzione la discussione
privata fra gli oratori e i consiglieri, e non se n’ebbe che meglio...
Voi conoscete tutte le persone che le circostanze fecero entrare nel
consiglio legislativo. Certo v’è del merito, e cognizione, e zelo,
ma anche troppi interessi e vedute personali, mancanza assoluta delle
abitudini richieste dalle loro funzioni: non contegno, non segreto, non
sentimento di far parte del Governo; tendenza evidente a separarsene
per far più liberamente gli interessi de’ dipartimenti, e compiere
intenti affatto personali.... Il maggiore imbarazzo de’ ministri non
consiste tanto nella farragine degli affari, quanto nella mala volontà
de’ loro dipendenti. L’antico Governo (della Cisalpina) aveva creato
un’immensa falange d’impiegati, diffusi in tutti gli uffizj, che
divennero una fazione numerosa quanto pericolosa pel nuovo Governo di
cui erano i nemici naturali...

«Uno de’ maggiori impacci ch’io incontrai fu di trovare impiegati
capaci di buon lavoro. Stiamo abbastanza bene quanto alla ragioneria;
malissimo nel resto. Gli antichi secretarj sono morti, o via: i nuovi
sono mediocri e mal educati, lavorano poco e non bene. Se trattasi di
cosa che dovrebb’essere scritta in modo distinto per la forza della
logica o per l’accuratezza dello stile, non si sa come fare. Quei che
sanno scrivere non han la minima idea d’affari: quei che lavorano negli
affari non sanno scrivere.

«I dipartimenti ci offrono uno stato morale affliggente. Quei
dell’antica Lombardia recansi in pazienza, per effetto dell’abitudine,
la dipendenza dalla centrale; gli altri vi ripugnano più o meno, e
s’ingegnano sottrarvisi in ogni modo, tendendo ad assoluto federalismo.
L’idea che bisogna accentrar tutto per esser forti non entra nelle
teste, giacchè nessuno attacca importanza a questa. La forza nazionale,
ch’è in contrasto con tutte le idee e le abitudini ricevute...
L’esercito essendo il grande oggetto della spesa annuale, è la causa
che allontana i più; e può dirsi che per l’esercito italiano non v’è
altri voti che quei dell’esercito. Tutto il resto gli è contrario, più
o meno apertamente; prova dell’assenza completa di spirito nazionale, e
il massimo ostacolo a crearlo. Nobili, clero, campagne, popoletto delle
città, salvo poche eccezioni, non sono per la repubblica, se anche non
le son contro. Il resto, che si chiamano patrioti di molte gradazioni
e fazioni, non è per essa, giacchè ognuno la vorrebbe per sè, e ognuno
in maniera diversa... Fra gli elementi discordi, la fazione del Governo
anteriore, cioè quello dei ladri, ha il miglior giuoco; diffonde le
idee più opportune a screditare il sistema, e seminare l’inquietudine e
lo sgomento...

«È un nascer morti il cominciare con un deficit nelle finanze: e noi
siamo in quel caso...

«S’è più volte notato che la mia condotta fu più conciliante che
imperiosa, più dolce che forte. Confesso che la mia maggior fatica
fu diretta a non dover ricorrere alla forza, perchè non ne avevo il
sentimento. Bisogna aver il piede assicurato per batter forte; ed
io non sono in questo caso. Quando avrò i mezzi di chetare i clamori
de’ sofferenti, di alleviare i pubblici carichi, di sostenere spese
straordinarie, allora solo il Governo potrà prender un altro tono...

«Io non trovo altri spedienti d’assicurare radicalmente la
tranquillità, conquistare la volontà generale in favor del sistema,
e sottrarne così la repubblica ai mali onde l’Italia è minacciata,
che migliorare dal fondo la sorte de’ suoi abitanti». E suggerisce la
diminuzione d’imposte, e la attenzione di quel genio paterno, che è la
prima come l’ultima speranza della patria.

[66] Nelle Memorie del conte Miot, che fu poi ministro del re Giuseppe
a Napoli e in Ispagna, esso Giuseppe si lagnava della nessuna libertà
che il fratello gli lasciava già da quando era console. «È vero ch’egli
mi ha offerto il posto di presidente della repubblica italiana, posto
tanto da me desiderato: ma voleva mettermivi in catene, e ridurmi alla
parte che ora vi fa il Melzi: ond’io, che conosco a fondo mio fratello,
e che so quanto il suo giogo sia pesante, e che preferii sempre
un’oscura esistenza a quella di fantoccio politico, dovetti ricusare.
Io esigevo che il Piemonte fosse riunito alla repubblica italiana, che
mi si lasciasse ripristinare le principali fortezze, che si ritirassero
dal territorio italiano le truppe francesi. Ottenendo tali condizioni,
sarei stato vero padrone. Dipendevo dalla Francia pel gabinetto, per le
relazioni politiche, ma non materialmente. Mio fratello, d’ambizione
smisurata, non volle consentire a tali patti, e si fece nominare
presidente».

Quanto poi si trattò di mutare quella repubblica in regno, non avendo
potuto farne accettar la corona a Giuseppe, Napoleone voleva darla al
figlio di suo fratello Luigi, fanciulletto sul cui conto la cronaca
aveva a che dire; Luigi governerebbe fin alla maggior età di esso. Ma
Luigi ricusò risoluto: «Finchè vivo, non consentirò nè all’adozione di
mio figlio prima dell’età assegnata dal senatoconsulto, nè ad altra
disposizione, che a scapito mio collocandolo sul trono d’Italia,
resusciterebbe le voci sparse sul conto suo. Se volete, andrò in
Italia, ma a patto di condur meco mia moglie e i figli». L’imperatore
montò sulle furie a segno, che afferrò Luigi alla vita, e con violenza
lo spinse fuori del suo appartamento. _Mém. du comte Miot_, tom. II. p.
257.

[67] Entusiasmo s’intende de’ soliti ciurmadori e ciurmati, e di quella
plebaglia che vuol feste e dimostrazioni. La consulta di Stato dirigeva
al ministro Marescalchi una memoria sullo stato dell’opinione pubblica,
dove diceva: «In genere i dipartimenti, e viepiù la città di Milano
verso il nuovo ordine di cose non mostra che apatia profonda: colla
differenza che i dipartimenti potrebbero essere scossi e riscaldati al
minimo vantaggio che loro si proponesse, mentre Milano, i cui abitanti
sono dabbene ma alquanto inerti, e hanno prevenzioni cattive più che
altrove, è sempre difficile a muovere ed eccitare». Rapporto del 15
aprile 1805. Esso Marescalchi scriveva a Napoleone, che erasi fermato a
Stupinigi: «Ne’ tre giorni dacchè son a Milano, non perdetti un istante
per far conoscere V. M. e le sue intenzioni. Devo confessarle che v’è
molti ostacoli. Trovo le porte dei gran signori chiuse; gli spiriti
preoccupati da prevenzioni funeste e ridicole... Sol la presenza di V.
M. può operar il miracolo di convincerli e acquistarli. Spero riuscire
a far organizzare una guardia d’onore. Se l’ottengo, chiedo a V. M. di
presentarle a Stupinigi una deputazione de’ principali proprietarj per
pregarlo a voler accettarla, ecc. ecc.»

Così questi codardi cortigiani mentono l’opinione pubblica. E M.
Thiers dice che il regno d’Italia fu sempre _l’objet de toutes les
prédilections de Napoleon_ (_Histoire du consulat_, t. V. p. 372.)

[68] Le spese annuali erano di nove milioni e mezzo, cioè quasi il
doppio di quel che costava la repubblica aristocratica; e le entrate
non toccavano i cinque milioni. Vedi _Annali della repubblica Ligure
dal 1797 al 1805_. Genova 1853.

[69] Dispaccio 11 agosto 1805 da Boulogne.

[70] MAZZAROSA, _Storia di Lucca_.

[71] Girolamo Lucchesini (1752-1825), scolaro dello Spallanzani che
l’ammirava come un nuovo Pico, stette buon tempo a Milano poi a Vienna;
ma poichè Kaunitz nol lasciava penetrare nelle grazie di Maria Teresa,
passò in Prussia, dove Federico II lo apprezzò e lo prese a segretario
particolare. Anche il re successore l’adoprò in cose di Stato, e
Mirabeau, nel codardo libro sulla Corte di Prussia, ne dice ogni
male. Fu spedito in Italia per guadagnar i principi contro l’Austria.
Benchè ostilissimo alla rivoluzione francese, risedette a Roma ed
altrove, ebbe parte a tutti i trattati d’allora, benchè non fosse
robusto negoziatore, ma piuttosto insinuante. Alla Prussia spiaceva
si sacrificasse Venezia, accrescendo così forze all’Austria, e mandò
Lucchesini a dissuaderne Buonaparte, nelle cui grazie s’introdusse
colle adulazioni, e gli mostrò come la Prussia il seconderebbe
nell’umiliare l’Austria: ma Buonaparte era già d’accordo coll’Austria.
Lucchesini ebbe mano nello sfasciamento dell impero germanico; poi
come a Jena fu sconficcata la Prussia, ricoverossi in patria, e
fu maggiordomo e devotissimo suddito di Elisa. Cesare suo fratello
(1756-1832) scrisse la storia letteraria di Lucca ed altre cose molte.

[72] Napoleone avea stabilito che ai veterani di Francia, invece di
soldo, si dessero terreni sul Reno e in Piemonte, e cinque campi avea
destinati fare con sei milioni di beni nazionali presso a Fenestrelle
ed Alessandria; istituzione che non ebbe poi effetto.

[73] Trattato di Pietroburgo 11 aprile 1805.

[74] Vuolsi menzionare anche Francesco Apostoli, che di buon’ora
viaggiò in Germania, poi fissossi a Vienna, donde accorse a Venezia
a propagar le idee demagogiche; sbandito ricoverò nella Cisalpina;
tornati i Tedeschi, fu deportato a Cataro, e que’ patimenti descrisse
nelle _Lettere Sirmiesi_; liberatone, fu a Parigi, _piccolo_
ambasciadore della piccola repubblica di San Marino; poi venne nel
regno d’Italia, vi fu fatto censore, e negletto e povero morì nel 1816.

[75] È divulgato il titolo di _Semiramide di Lucca_, che Talleyrand
dava ad Elisa. Pure ella era tutt’altro che un’intelligenza vulgare, e
fece molto nel piccolo ducato di Lucca, moltissimo nel regno d’Etruria,
e avrebbe fatto di più se non fosse stata l’onnipotenza di Napoleone,
col quale teneva un carteggio vivissimo. Il 9 marzo 1806 gli scriveva:
«L’abitudine del lavoro è divenuta per me quasi una passione: mi tien
luogo d’ogni altra idea, e quando entro nel mio gabinetto, vi resto
con tanto piacere, quanto alla festa più brillante». Essendosi fatte
passar delle truppe sul suo territorio nell’estate del 1808, essa ne
rivolse vivi richiami al fratello. «Se V. M. riunì i miei principati al
grande impero, renderò senza rincrescimento la mia sovranità a quello
da cui l’ebbi. Ma se ella mi lascia al mio posto, io non soffrirò che
la sorella del più gran monarca sia trattata con disprezzo, e il suo
territorio come un paese conquistato. Lo dico francamente a V. M. Io
ero felice nella mia vita privata; ma d’essere un sottoprefetto di
Lucca non può nè dee convenirmi».

Vedi SCLOPIS, _La domination française en Italie_, Paris 1861.

Abbiamo dall’archivio dell’Impero a Parigi una relazione fatta da Menou
a Napoleone sull’ordine giudiziario in Toscana. Espone i miglioramenti
che vi aveva introdotti Pietro Leopoldo, pur rispettando molto di quel
che era precedentemente. È notevole questo passo: «Farà meraviglia
che i delitti commessi nel regno di quel principe, e singolarmente
negli ultimi tre anni, siano men della metà di quelli processati in
egual tempo sotto la regina d’Etruria, BENCHÈ riformando la legge
del predecessore, essa abbia aggravato i supplizj, ristabilito la
pena capitale, e moltiplicato i casi d’applicarla. Pure quest’enorme
differenza bisogna ricondurla alle cause principali, cioè 1º alla
maggiore agiatezza diffusa nelle classi della popolazione al tempo
di Leopoldo; 2º alla sua polizia, divenuta così attiva e penetrante
ch’era quasi insopportabile; e tutto quel che le pene aveano perduto
in intensità, era stato convertito in una sorveglianza minuta e quasi
personale».

[76] Il Puccini era riuscito a trafugare da Firenze in Sicilia la
Venere de’ Medici: ma Napoleone la voleva, e avendo indarno insistito
con modi da Verre, riuscì per frode a ottenerla dal ministro Acton.

[77] Adda con Sondrio, Adige con Verona, Adriatico con Venezia, Agogna
con Novara, alto Adige con Trento, alto Po con Cremona, Bacchiglione
con Vicenza, basso Po con Ferrara, Brenta con Padova, Crostolo con
Reggio, Lario con Como, Mella con Brescia, Metauro con Ancona, Mincio
con Mantova, Musone con Macerata, Olona con Milano, Panaro con Modena,
Passeriano con Udine, Piave con Belluno, Reno con Bologna, Rubicone con
Forlì, Serio con Bergamo, Tagliamento con Treviso, Tronto con Fermo.

Fra le celie del Botta, le denigrazioni del Colletta, le ammirazioni
del Pecchio e le critiche del Coraccini (pseudonimo del francese La
Folie) è difficile che paja giusto lo storico del regno d’Italia; nè
dalla critica de’ nostri tempi può sperarsi tanta lealtà che ai fatti
opponga de’ fatti, anzichè delle parole.

[78] Augusta di Baviera, della quale, col nome di Amalia, i Milanesi
conservarono cara memoria, e che noi stessi, a Monaco, udimmo poi
ricordare con desiderio gli anni qui passati, era tenuta per la più
bella principessa di Germania. Alla pace di Presburgo, Napoleone la
destinò sposa al Beauharnais, ma essa era invaghita e promessa al
principe Carlo di Baden. Il padre le scriveva dunque il 25 dicembre
1805: «Se v’avesse lampo di speranza che mai poteste sposare Carlo, io
non vi pregherei a ginocchio di rinunziarvi. Nè insisterei, mia cara
e amata Augusta, perchè voi deste la mano _al futuro re d’Italia_,
se questa corona non dovesse esser garantita da tutte le potenze alla
conchiusione della pace... Pensate che voi farete la felicità non solo
di vostro padre, ma de’ fratelli e della Baviera, che ardentemente
desidera quest’unione.... M’è grave l’amareggiar il cuor vostro, ma io
conto sulla vostra amicizia, sull’attaccamento che sempre mostraste a
vostro padre; nè voi vorrete avvelenarne gli ultimi giorni. Pensate,
cara Augusta, che un rifiuto renderebbe tanto nemico l’imperatore,
quanto ora è amico della casa nostra. Risparmiateci il dolore d’una
spiegazione, che potrebbe diroccare la mia trista salute. Rispondetemi
per iscritto, o per mezzo di vostro fratello. Credete, cara amica, che
mi costa infinitamente lo scrivervi così, ma le circostanze più che
imperiose, e il mio dovere di badar agl’interessi del paese confidatomi
dalla Provvidenza mi vi costringono...»

La principessa lottò, poi gli scriveva: «Mi obbligano a romper la fede
data al principe Carlo. Io vi acconsento per quanto mi costi, se ne
dipende il riposo d’un padre amato e la felicità d’un popolo. Ma non
posso dar la mia mano al principe Eugenio se la pace non è fatta, e
s’egli non è riconosciuto re d’Italia. Io rimetto la mia sorte nelle
vostre mani: per quanto crudele deva essere, mi sarà addolcita dal
sapere che mi sono sagrificata per mio padre, per la mia famiglia e la
mia patria. In ginocchio vostra figlia domanda la vostra benedizione:
essa m’ajuterà a soffrir con rassegnazione il tristo mio destino». V.
_Mémoires du prince Eugène_, Parigi 1858, tom. II. p. 16.

Lo strano è che Eugenio non sapea nulla di quest’affare; e Napoleone,
dopo tutto conchiuso, al 31 dicembre gli scriveva: «Son arrivato a
Monaco. Ho combinato il vostro matrimonio colla principessa Augusta:
fu già pubblicato. Essa è molto bella, ve ne mando il ritratto, ma la
è molto migliore». E al 3 gennajo seguente: «Dodici ore al più dopo
ricevuto la presente, partite in tutta diligenza per Monaco». Nella
risposta di Eugenio non v’è motto del matrimonio. Arrivato che fu a
Monaco, Napoleone cominciò a beffarlo de’ suoi mustacchi, e ch’erano
troppo marziali per conquistar una fanciulla, e glieli fece tagliare.
Vedi DARNAY, _Notices historiques sur le prince Eugène_.

[79] «Napoleone aveva in disegno di rigenerare la patria italiana,
riunire gli Italiani in una sola nazione indipendente.... Era il trofeo
immortale ch’egli alzava alla sua gloria... Tutto era disposto per
creare la gran patria italiana... L’imperatore aspettava impaziente un
secondo figlio per menarlo a Roma, coronarlo re d’Italia, e proclamare
l’indipendenza della bella penisola sotto la reggenza del principe
Eugenio». _Memorie dettate a Montholon_. — Ma nell’esiglio Napoleone
pensava, o i suoi gli faceano dire tutt’altro da quel che sul trono.

* Quando Napoleone III conquistava la Lombardia nel 1859, io ebbi a
dirgli d’essermi sempre mostrato avverso al suo gran zio perchè esso
non avea voluto dare all’Italia l’unità, e almeno l’indipendenza che
stava in sua mano. Egli mi rispose che tale fu sempre il suo pensiero,
ma le circostanze glielo impedirono: e seguì coll’altre ragioni che del
resto aveva già esposte ne’ suoi scritti. Io non potetti che augurargli
d’essere esecutore delle volontà del grande zio.

[80] Si occupò la villa de’ Durini, i quali mai non assentirono
nè vollero riceverne il prezzo, che perciò fu deposto in una cassa
pubblica, donde il ritirarono sotto la succeduta dominazione.

[81] Scrive a Eugenio: _J’ordonne que le Corps législatif termine ses
séances. Mon intention, pendant que je résiderai en Italie, est de
ne plus le réunir. J’avais trop bonne opinion des Italiens; je vois
qu’il y a encore beaucoup de brouillons et de mauvais sujets... Ce
n’est pas l’autorité du Corps législatif que je voulais; c’est son
opinion... Si vous tenez à mon estime, à mon amitié, vous ne devez sous
aucun prétexte, la lune menaçât-elle tomber sur Milan, rien faire de
ce qu’est hors de votre autorité... Vous êtes le premier qui m’ayez
fait avoir tort avec trente au quarante polissons_, cioè il Corpo
legislativo. E il 15 luglio 1805: _Si la loi sur l’enregistrement
ne passe pas, je la prendrai de ma propre autoritè, et, tant que je
serai roi, le Corps législatif ne sera point réuni... Faites leur bien
entendre que je puis me passer d’eux, et que je leur apprendrai comment
je puis m’en passer puisqu’ils se comportent ainsi envers moi_.

Anche dal suo segretario Duroc gli facea rispondere forti rimproveri,
svillaneggiando l’opposizione italiana; e conchiudendo: _Par exemple,
si vous demandez à sa majesté ses ordres et son avis pour changer le
plafond de votre chambre, vous devez les attendre: et si, Milan étant
en feu, vous lui demandez pour l’éteindre, il faudrait laisser brûler
Milan, et attendre ses ordres_. 31 luglio 1805.

Eugenio, l’11 luglio 1805, scriveva a Napoleone: _Les Italiens sont
réellement comme des enfans. On peut les comparer à des gens qui
dorment, et qui ne veulent pas se réveiller pour être heureux. _E
Napoleone rispondeva il 27_: Vous avez tort de penser que les Italiens
sont comme des enfans: il y a là-dedans de la malveillance. Ne leur
laissez pas oublier que je suis le maître de faire ce que je veux. Cela
est nécessaire pour toutes les peuples, et surtout pour les Italiens,
qui n’obéissent qu’à la voix du maître. Ils ne vous estimeront
qu’autant qu’il vous craindront, et ils ne vous craindront qu’autant
qu’ils s’apercevront que vous connaissez leur caractère double et faux.
D’ailleurs votre système est simple: l’empereur le veut_. Tom. _i_,
dei _Mém. et correspondance du prince Eugène, publiés par_ M. DU CASSE.
Paris 1858.

[82] E ancora, tutto era guasto dall’adulazione de’ nostri gaudenti,
a segno che Napoleone scriveva al vicerè: «Gl’indirizzi che vi fanno
gl’Italiani non sono decenti: e’ non pesano le parole come si deve. Il
rimedio è di non stamparli mai. Questa sia la vostra regola». Lettera
del 4 febbraio 1806 nella _Correspondance du prince Eugène_.

[83] Rapporto ministeriale 11 dicembre 1806, che accompagnava il
progetto del codice di procedura. Nello studio delle scienze civili
merita di non esser dimenticata la _Collezione dei travagli del codice
penale pel regno d’Italia_. Brescia 1807, 6 vol. in-8º.

[84] E la Cena e il Teseo furono poi, dalla sopravvenuta dominazione
austriaca, trasportati a Vienna, dove ora s’ammirano. La statua
di Napoleone, riposta ne’ magazzini di Brera per sottrarla
all’indignazione popolare, fu ora collocata in pubblico.

[85] La scuola del genio militare era stata, dal valente matematico
Leonardo Salimbeni di Spalatro, istituita a Modena, mettendovi maestri
il Cassiani, il Venturi, il Ruffini modenesi, e chiamandovi da Verona
il Cagnoli, il Maffei, il Bidasio, il Tramontini.

[86] È notevole il numero di valent’uomini che somministrò allora
il piccolo ducato di Modena: Veneri ministro del tesoro, Luosi della
giustizia, Fontanelli della guerra, Testi degli affari esteri, Vaccari
segretario di Stato, Paradisi presidente del senato, dell’Istituto
e del consiglio di Stato, Lamberti Giacomo senatore e diplomatico e
fratello del letterato Luigi; Venturi matematico, e ministro presso
la Confederazione elvetica, Dall’Olio commissario della contabilità
nazionale, i professori Ruffini, Jacobi, Fattori; Bolognini ingegnere
in capo del dipartimento del Cróstolo, Soli architetto, Filippo Re
agronomo. Su di che vedasi la _Bibliografia del conte Luigi Valdrighi_,
pel prof. Bosellini, Modena 1863. Il Valdrighi, pure modenese, fu
procurator generale della corte di cassazione. Il generale Zucchi fu di
questi paesi come Pellegrino Rossi.

[87] Scriveva al Cesarotti: — Il Governo mi ha comandato, e m’è forza
obbedire. Batto un sentiero ove il voto della nazione non va molto
d’accordo colla politica, e temo di rovinare. Sant’Apollo m’ajuti, e
voi pregatami senno e prudenza». Eppure finiva quella _Visione_ così:

                          Vate non vile
    Scrissi allor la veduta meraviglia;
    E fido al fianco mi reggea lo stile
    Il patrio amor che solo mi consiglia.

[88] Lo sforzo dello Sgricci (-1822) fu poi emulato dal romagnuolo
Luigi Cicconi (-1855) che a Parigi sostenne gara col Pradier, il
quale tentò simile esperimento in francese. Non va dimenticato il
Menchi, che nella montagna pistoiese andava improvvisando, e di cui si
ripeterono a lungo il _Napoleone a Mosca_ e l’_Alessandro a Parigi_:
ultimo forse di quei cantastorie popolari, che un tempo abbondavano
principalmente in Toscana e in Romagna. Anche Valerio di Pos, nelle
alpi di Canale d’Agordo, poetò fin agli ottant’anni, e talora bene, e
una sua biografia è anteposta dal dottore Paolo Zanini alle _Poesie
di Valerio da Pos contadino delle alpi Canalesi_. Venezia 1822.
Spontanea improvvisatrice era pure riuscita la sua compatriota Angela
Veronese, che dal Cesarotti educata, divenne celebre col nome di Aglaja
Anassilide.

[89] Il divinizzare Napoleone fu un luogo comune de’ nostri retori.
Pietro Giordani, nel panegirico, dove si vanta di «altamente sentire la
dignità del secolo», abbonda d’espressioni simili a queste: — Il mondo
è venuto in potestà di tale, non oso dir uomo... Dirò pure salva la
riverenza alla tua maestà, o _divo_ Napoleone, quest’unica delle umane
cose io veggo esserti impossibile, non essere eccellentemente buono...
Invitando gl’Italiani a considerare e _adorare_ la grandezza de’ suoi
benefizj... Augusto principe, in cui la nostra nazione _adora_ il più
caro benefizio che riconosca dall’imperatore in Italia. Sorgeranno
statue al _divo_ Napoleone... avrà in ogni cittade un tempio, in ogni
casa un altare... Quale altro che uno Iddio, o virtù somiglievole
agli Dii, poteva fare sì stupenda consonanza?... La virtù di questo
_divino_ spirito non ci lascia sembrar temeraria qualunque speranza».
È vero ch’egli chiamava divino anche il Leopardi, e _divina amica_ la
contessa Cicognara, e _mio adorato signore_ un direttore della polizia,
galantuomo del resto. Quel panegirico parve non abbastanza lusinghiero,
e non gli furono regalati che mille franchi.

Esso Giordani nel 1825 scriveva al Leopardi: — Vanità detestabile
celebrar ciò che l’armento umano mai non potrebbe esecrar abbastanza,
voglio dire i suoi distruttori. Io non voglio dire che, se non vi
fossero poeti lodanti le conquiste, non vi sarebbero conquistatori;
poichè vedo che senza poeti vi sono assassini e corsari. Dirò che tutti
gli ammazzatori o rubatori si hanno a detestare e maledire da tutti...
M’inviteresti ad amare chi m’uccide il padre o il fratello? e mi chiami
ad ammirare chi uccide un popolo? Taci, o vilissimo, taciamo tutti, se
pur non osiamo gridare quel che si dee. Ci potranno trovare scuse al
silenzio: ma dov’è il Nerone, dove il Tigellino che v’abbia cacciati
tra ’l morire e l’adulare?» Egregiamente! ma allora da undici anni le
conquiste erano finite.

[90] La lettera di scusa che diresse al vicerè, egli anima sì forte,
oggi per certo nessuno la scriverebbe: tant’è lontana l’abjettezza
d’allora.

[91] _Sciolti di Timone Cimbro a Cicognara_, invettiva contro i mali
dell’Italia nel 1802. Leopoldo Cicognara fu destituito da consigliere
di Stato. Al tempo della coronazione, Napoleone gli stese la mano,
dicendogli: — La nostra pace è fatta»; ma soggiunse parole aspre
contro la moglie di lui, coltissima donna, e troppo memore di Venezia
sua perchè volesse adularne il distruttore. Essa teneva un circolo
frequentatissimo: bastarono quelle parole perchè fosse deserta da
tutti, eccettuati Ippolito Pindemonte e Carlo Rosmini, due forze
pacate. Il Cicognara ebbe poi alti posti, ma nella sua autobiografia
dice essere stato l’unico italiano che «ottenesse a forza la demissione
dagli onori, dalle cariche, dagli emolumenti, nel convincimento che
nulla poteva farsi in tale stato di cose per la vera e reale felicità
dell’Italia».

[92] Napoleone a Eugenio il 15 settembre 1808: _Je n’ai jamais
supposé que le chemin de Pordenone à Osopo dût coûter 1,500,000 fr.:
si cela est, j’y renonce: que le canal de Palmanova dût coûter 3
millions, on m’avait assuré qu’il coûterait 500,000 fr.; s’il doit
coûter 3 millions j’y renonce. Je n’ai jamais pu penser non plus que
la digue de Mantoue coûtât un million. Causez avec les officiers du
génie sur ces trois objets, et faites-moi connaître leur opinion.
Mon intention est que les 300,000 fr. que j’ai accordés cette année,
soient employés à la digue de Mantoue_. Nella seduta del 25 febbrajo
1813, Montalivet ministro dell interno presentava al corpo legislativo
francese _la situazione dell’impero_, dalla quale caviamo ciò che
concerne l’Italia. La strada da Parigi a Torino per la Morienna e il
Moncenisio, e quella dalla Spagna all’Italia pel Monginevra, erano
aperte con immensi sforzi, e col costo di ventidue milioni e mezzo,
e il progetto totale sommava a trenta milioni. La strada da Lione a
Genova pel Lantaret dovea costare tre milioni e mezzo, e già n’erano
spesi un milione e ottocento mila. La strada da Cesane a Fenestrelle
pel colle di Sestriera, compimento della precedente, ottocento mila.
Con sei milioni e mezzo erasi stabilita la comunicazione fra Nizza e
Ventimiglia, e fra Savona e Genova; con due milioni e seicento mila
quella da Savona ad Alessandria per l’Appennino: più di tre milioni per
quelle da Porto Maurizio a Ceva, da Genova ad Alessandria pel col dei
Giovi, da Genova a Piacenza, dalla Spezia a Parma. Tre milioni e mezzo
pel ponte sul Po a Torino; un milione e cento mila pel ponte sulla Dora
a Rondissone; cinquecensessanta mila per quel sulla Sesia a Vercelli;
trecento mila per quel della Scrivia. Per la navigazione del Tevere,
e per abbellimenti a Roma, sei milioni; poi ducento mila lire annue
erano assegnate per sanar le Paludi Pontine, ma il nessun esito venne
attribuito all’aver lasciato quell’immenso tratto nelle mani di trenta
livellarj, anzichè spartirlo in piccoli appezzamenti. Nessun vantaggio
pure si trasse dalle spese fatte per introdurre la coltura del
cotone e dell’indigo e la fabbrica dello zucchero. Le fortificazioni
d’Alessandria costarono venticinque milioni.

[93] Durante la repubblica s’erano soppresse le cattedre di belle
lettere, e di lingue orientali e greca, come anche di storia e
numismatica; sicchè Foscolo, Mezzofanti e ventiquattro altri si
trovarono sul lastrico.

[94] Il 16 settembre 1805 scriveva ad Eugenio: _Il ne faut pas
vous épouventer des cris des Italiens. Ils ne sont jamais contents:
mais faites-leur faire cette seule réflexion, Comment faisaient les
Autrichiens, comment faisaient ils?.... Arrangez vous de manière à
pouvoir toujours être le maître de la couronne de fer, et à l’enlever
sans qu’on s’en aperçoive._

E il 14 aprile 1806: _Quant à l’établissement de l’hérédité, je n’ai
point l’habitude de chercher mon opinion politique dans le conseil
des autres, et mes peuples d’Italie me connaissent assez pour ne
devoir point oublier que j’en sais plus dans mon petit doigt, qu’ils
n’en savent dans toutes leurs têtes réunies. A Paris, où il y a plus
de lumières qu’en Italie, lorsqu’on se tait et qu’on rend hommage a
l’opinion d’un homme qui a prouvé qu’il voyait plus loins et mieux
que les autres, je suis étonné qu’on n’ait pas en Italie la même
condescendance._

Il 21 aprile, del qual giorno esistono ben cinque lettere ad Eugenio:
_Il ne doit pas être question de rembourser à Venise les deux millions
de contributions, qui lui ont été imposés. Ne dirait-on pas, à entendre
les Vénitiens, qu’ils se sont donnés à moi par pure volonté?... Mon
intention n’est pas d’appeler aucun Italien, ni aucun Vénitien aux
duchés qui doivent être la récompense exclusive de mes soldats. J’ai
traité Venise comme pays conquis, sans doute. L’ai-je obtenu autrement
que par la victoire? Il ne faut donc point éloigner trop cette idée;
mais le droit de victoire terminé, je la traiterai en bon souverain,
s’ils sont bons sujets. Je vous défend de laisser jamais espérer
qu’aucun Italien Vénitien puisse être nommé à aucun des duchés_.

Il 7 agosto 1806: _Je vous envoie un exemplaire du catéchisme qui vient
d’être adopté pour toute la France. S’il pouvait sans inconvénient
l’être pour le royaume d’Italie, ce serait un grand bien: mais
ce sont des matières très-délicates, sur lesquelles il faut être
très-circonspect. Consultez le ministre des cultes. Le mieux serait que
quelque évêque le publiât dans son diocèse comme catéchisme diocésain:
mais il faut mettre à cela beaucoup de prudence et de secret_.

Infatti quel catechismo fu tradotto, e nella sez. VII si legge:

_D_. Quali sono i doveri de’ cristiani verso i principi che li
governano, e in particolare i nostri verso Napoleone I imperatore e re?

_R_. I cristiani devono ai principi, e noi in particolare dobbiamo
a Napoleone I, nostro imperatore e re, l’amore, il rispetto,
l’obbedienza, la fedeltà, il _servizio militare_, i tributi per la
conservazione dell’impero e del suo trono. Inoltre gli dobbiamo fervide
preghiere per la salute sua, e la prosperità spirituale e temporale
dello Stato.

_D_. Perchè siamo tenuti a questi doveri verso il nostro imperatore e
re?

_R_. Primo, perchè Dio, che crea gl’imperi e li distribuisce a volontà,
colmando l’imperatore di doni in pace e in guerra, lo stabilì nostro
sovrano, lo rese ministro della sua potenza, e _sua immagine in terra.
Onorare e servire il nostro imperatore e re è dunque onorare e servire
Dio stesso_. Secondo, perchè Nostro Signore Gesù Cristo colla dottrina
e coll’esempio c’insegnò quel che dobbiamo al nostro sovrano: nacque
obbedendo all’editto di Cesare Augusto: pagò l’imposta: e come ordinò
di render a Dio quel ch’è di Dio, così ordinò di render a Cesare quel
ch’è di Cesare.

_D_. Non vi sono doveri particolari che ci attacchino più fortemente a
Napoleone I, nostro imperatore e re?....

_D_. I doveri che ci legano all’imperatore, ci legheranno anche ai
successori suoi legittimi nell’ordine stabilito dalla costituzione
dell’impero?

[95] Nei _Saggi di Critica_ del Foscolo, p. 209, vol. II, è detto
che nel regno d’Italia i nobili novelli creati da Buonaparte non
sarebbero mai stati ammessi alle feste o ai circoli degli antichi
patrizj milanesi. In ciò il Foscolo non vede che assurda e boriosa
ostentazione: dappoi parve nobile disdegno della servitù straniera.

[96] La creazione dei dodici grandi feudi nel regno, e tanto peggio
le aggiunte che poi fece di altri ne’ paesi novamente annessi e nel
regno di Napoli, è uno degli errori di Napoleone, che, figlio della
rivoluzione, retrocedeva sino ai tempi feudali e barbari, quando un
capo di invasori spartiva i territorj conquistati fra i suoi generali,
e gl’investiva colla spada, e creava ai confini del regno le grandi
marche, come un tempo era stata la Marca trevisana. Per indietreggiare
fin a questa distinzione di terre e ai possessi feudali, Napoleone
non dava la minima ragione, salvo la conquista; e ciò ch’è deplorabile
ancora più che gli abusi della forza, non trovo che il minimo lamento
ne movessero gli Italiani. Eppure il loro amor proprio doveva sentirsi
oltraggiato da questa istituzione, tutta a favor dell’impero, di questo
vassallaggio del patrio suolo alla conquista forestiera; ma v’è tempi
ove quei che potrebbero e dovrebbero alzar la voce contro gli abusi,
o almeno protestare col silenzio, s’affrettano ad applaudirli, purchè
possano profittarne.

[97] Jacopo Morelli, celebre bibliotecario della Marciana, patì
immensamente delle sottrazioni fatte a questa biblioteca ch’egli
guardava come propria cosa. Pranzando un giorno col vicerè, venne
richiesto se, fra tante ricchezze, egli saprebbe indicare i dodici
volumi che soli volesse salvare perdendo gli altri. Impaurito che si
abusasse della sua decisione disse: — In questo momento di piacere
m’è impossibile affaticar la mente su domanda così scabrosa». E il
vicerè: — Bene, bene; non si devono mai svelare tutte le attrattive
della propria amante». Il Morelli fu soprattutto cercatore d’opuscoli,
ne lasciò ventimila a quella biblioteca, e volea scriver un trattato
_Dell’utilità che si può trarre dagli opuscoli_.

[98] Lettera 14 aprile 1806 nella _Correspondance du prince Eugène_.

[99] Nel febbrajo 1806 Napoleone scriveva al vicerè: _Partez du
principe que j’ai besoin de beaucoup d’argent. On voudrait dans ce
pays l’impossible: payer peu de contributions, avoir peu de troupes,
et se trouver une grande nation: tout cela est chimère. Quant aux
impositions, la seule réponse à faire est celle ci: Paye t-on plus
qu’en France?_ Anche il conte di Cavour ripetea sempre: «Bisogna
pagare, e pagare, e pagare». I suoi successori calcano le sue orme.

[100] Nei _Mémoires tirés des papiers d’un homme d’État_, che sono una
delle pubblicazioni più curiose dei nostri giorni, si legge: _Prina
souple instrument des exigences de Napoléon, torturait son génie pour
trouver les moyens de pressurer un pays, auquel on avait solennellement
promis tant de prospérité, et il acquérait la faveur de son insatiable
maître au prix de la haine générale. Les projets de ce ministre, qui
fut pour l’Italie ce que le trop célèbre abbé Terray avait été jadis
pour la France, n’était soumis à aucun genre de contrôle: Napoléon
voulait, il fallait obéir. Cependant toutes les ressources de son
habilité tortionnaire se trouvaient épuisées avant qu’on renonçât à y
recourir pour de nouvelles exactions: les améliorations imaginaires
pompeusement combinées afin de couvrir tant d’oppression réelle,
et publiées dans les gazettes comme une preuve des soins paternels
du monarque français, étaient pour la plupart ou suspendues ou
abandonnées, d’autant plus que, de leur côté, les généraux français
employaient tous les moyens en leur pouvoir d’épuiser le pays pour
accroître leur propre fortune_.

L’Italia francese (escluso il regno d’Italia) produceva alla Francia
quaranta milioni; di cui diciotto pagavano l’amministrazione, polizia e
strade; ventidue per piazze forti, e per mantenere cenventimila uomini
a tutela del paese (1807). Vedi THIERS, _Histoire du Consolat et de
l’Empire_, vol. VIII.

[101] L’adulazione postuma, che venne di moda verso il regno d’Italia,
fa esaltare ancora i rendiconti del Prina e le illazioni del Pecchio,
che si appoggia unicamente su quelli, colla fede d’un gazzettiere
ufficiale. Senza cercare altre autorità, adduciamo quella sola del
vicerè, che scriveva a Napoleone il 26 dicembre 1810: «V. M. mi fece
l’onore di ripetermi più volte che diminuirebbe i carichi del suo
regno a misura che s’assoderebbe; e nel lavoro dell’anno passato
mi fece l’onore di dirmi che non avrebbe esatto dal suo regno che
cenventi milioni. Di fatto non è possibile imporgli maggiore aggravio.
L’interruzione totale del commercio, il deperimento delle manifatture
di seta e di cotone, l’annichilamento del prodotto delle dogane sia
pel divieto d’introdurre merci forestiere, sia pel tenue dazio delle
francesi; infine la distrazione di due milioni del prodotto delle
dogane per incoraggiare le manifatture di seta, ordinata da V. M.;
tutto ciò impedisce di ripromettersi un’entrata più considerevole».

[102] Nelle Memorie del principe Eugenio, tom. II, p. 12, riferendosi
l’ammutinamento di Crespino, si dice: _Cette révolte était d’autant
moins motivées, que jamais ce pays n’avait appartenu à l’Autriche_.
Strana ragione davvero, sol conveniente a coloro che dicono, tutto il
liberalismo degli Italiani consistere nel ribramare i Tedeschi quando
sono sotto ai Francesi e viceversa.

E a pag. 179 è la lettera 21 marzo 1806 di Napoleone: _J’ai reçu la
réclamation de la commune de Crespino: je n’entends pas raillerie;
mes drapeaux ont été insultés, mes ennemis accueillis; il faut du sang
pour expier le crime de cette révolte. Si cette Commune veut se laver
de l’opprobre dont elle s’est couverte, il faut qu’elle livre les
trois principaux coupables pour être traduits devant une commission
militaire, et être fusillés avec un écriteau portant ces mots_
Traditori al liberatore d’Italia ed alla patria italiana. _Alors je
pardonnerai à la Commune, et je révoquerai mon décret_.

Dopo la battaglia della Piave, Napoleone scriveva a Eugenio, il 10
maggio 1809: _On dit que l’évêque d’Udine s’est mal comporté: si cela
est, il faut le faire fusiller. Il est temps enfin de faire un exemple
de ces prêtres, et tout est permis au premier moment de la rentrée.
Que cela soit fait 24 heures après la réception de ma lettre, c’est
un exemple utile. S’il est quelqu’autre individu qui se soit mal
comporté, faites-les arrêter. Si Trieste vient à être en votre pouvoir,
imposez-lui 50 millions de contributions, et faites arrêter quarante
des principaux habitants, pour vous assurer du payement. Faites mettre
le séquestre sur tous les navires jusqu’à ce que cette contribution
soit acquittée. Vous suivrez cela à la lettre; j’ai pardonné trop
souvent à cette ville_.

[103] Questo proclama è dato come una scoperta, una rarità in una
storia recente, bassamente adulatrice dell’antico Piemonte (Del
Gualterio). Esso leggesi fin nel Botta: in pieno dominio austriaco io
lo stampai nella _Storia della diocesi di Como_; nè l’Austria se ne
ascondeva, dicendo che tali promesse erano condizionate al ribellarsi
de’ paesi: e questi nol fecero.

[104] Il vicerè annunziò aver perduto duemila combattenti e due
generali feriti; gli Austriaci d’averne uccisi ottomila, preso
quattromila seicensessantasei prigioni, dodici cannoni, mentre essi
perdettero tremila seicento uomini. Il Coraccini parla di dodicimila
Italiani periti. Fu stampata allora una _Histoire de la campagne de S.
A. I. Eugène Napoléon_, in tono così iperbolico, che si dubitò fosse
ironia; e la Corte fece comprare tutti gli esemplari, e ricattare i già
venduti.

[105] Marzio Mastrilli marchese del Gallo, palermitano, era
ambasciatore a Vienna quando nel 1797 si temè che Buonaparte marciasse
contro di essa, e fu spedito a trattare privatamente con quello. Firmò
i preliminari di Leoben, e più conciliativo di Cobentzel, meglio valse
a condur la pace. Ebbe poi gran parte in tutte le vicende seguenti
fino al 1821, quando adoprò a dissuadere Ferdinando dal tradimento di
Lubiana.

[106] È un vastissimo piano di 103 chilometri sopra 50, irrigato da
fiumi, cinto da monti e feracissimo; da Alfonso d’Aragona, verso il
1450, fu concesso in enfiteusi, ed è goduto da pastori, che pagano allo
Stato un canone, fruttante circa sei milioni; e non può esser chiuso da
mura nè siepi, dovendo restar aperto al pascolo vago.

[107] Pasquale Borelli m’assicurò che, come segretario della prefettura
di polizia, aveva dovuto compilare il processo contro un tal Abussi
che, per incarico della polizia, avea scritto finte lettere, sopra le
quali furono condannati alla forca il marchese Palmieri, il figlio del
duca Filomarino ed altri. Capo della commissione straordinaria era lo
storico Colletta.

[108] Vedi la preziosa _Correspondance du roi Joseph_, Parigi 1853, e
specialmente al vol. II, pag. 422-433; e le lettere di Napoleone del
6 marzo, 22 aprile, 31 maggio, 9 agosto, 2 settembre 1806, citate da
Thiers, _Histoire du Consolat_, lib. XXV.

[109] _Correspondance_, tom. II, pag. 131, 810.

[110] _Correspondance_, tom. II. p. 121.

[111] Pag. 127, 230, 417, 418.

[112] È pubblicata nel bullettino delle leggi delle Due Sicilie
del 1808, pag. 146. Confermando i provvedimenti già presi, rendeva
costituzionali il ministero, il consiglio di Stato, e introduceva un
Parlamento di cento membri, divisi in cinque sedili, del clero, de’
nobili, de’ possidenti, de’ dotti, dei negozianti; gli altri a vita;
possidenti e negozianti eleggibili ad ogni sessione; il Parlamento non
propone, ma tratta le materie sottopostegli dagli oratori del Governo;
secrete le tornate; punita la pubblicazione dei dibattimenti e dei
voti.

[113] Nella costituzione siciliana del 1812 leggiamo: «Le angarie e
parangarie, introdotte soltanto dalla prerogativa signorile, restano
abolite senza indennizzo. Quindi cesseranno le corrispondenze di
gallina, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazioni di
trasportare in preferenza i generi del barone, di venderne con
prelazione i prodotti, e tutte le opere personali e prestazioni
servili, provenienti dalla condizione di vassallo a signore. Sono
egualmente aboliti senza indennizzo i diritti privativi e proibitivi
per non molire (_macinare_) i cittadini in altri trappeti e molini
fuori che in quello dello stesso, di non condursi altrove che ne’ di
lui alberghi, fondachi ed osterie: i diritti di zagato per non vendere
comestibili e potabili in altro luogo che nella taverna baronale e
simili, qualora fossero stabiliti dalla semplice prerogativa signorile
e forza baronale».

Da qui appaja quante antiche servitù esistessero ancora. David
Winspeare annoverava che nel Napoletano sussistessero 1395 diritti su
cose e persone, quando vi giunsero i Napoleonidi.

[114] Tra il resto, imponeva ai vescovi un giuramento di fedeltà al
re, sino ad obbligarsi di denunziare chi sapessero far trame contro di
esso. È il giuramento che si usa ancora.

[115] «Intanto innumerevoli spie son qui mantenute, e tutta Roma,
tutto lo Stato Pontifizio sono in preda alle loro calunnie; il palazzo
apostolico n’è assediato, come fosse un castello munito». Nota del
Consalvi a Talleyrand, 1805.

[116] Lettera da Monaco, 7 gennajo 1806.

[117] Nella vita del cardinale Fesch, scritta dall’abate Lyonnet,
viene raccontato che un Marseria côrso, emissario del ministro inglese
Pitt, venne ad esortar Napoleone primo console a riconciliarsi
con Inghilterra, e insieme dare a questa la pace interna col far
abbracciare il protestantismo alla Francia. Napoleone avrebbegli
risposto che, quanto alle cose del mondo, fidava nella propria spada;
delle cose del cielo toccava a Roma sola il decidere: che del resto una
religione non può crearsi se non montando al Calvario, e ch’egli non
avea di tali voglie.

[118] Napoleone scriveva al vicerè: _J’ai lu votre lettre au pape.
Elle m’a paru fort bien; mais je doute qu’elle produise quelque chose,
car ces gens-là sont ineptes au delà de ce qu’on peut imaginer. Toute
réflexion faite, je n’écrirai pas au pape. Je ne veux pas me jeter dans
les tracasseries avec ces nigauds. Le plus court c’est de s’en passer_.

[119] Di Venezia fu nominato patriarca nel 1811 Stefano Bonsignori,
già vescovo di Faenza, ma fu considerato come intruso; e quando nel
1814 cessò di essere amministratore capitolare, vennero sottoposti a
penitenza quanti da lui aveano avuto il presbiterato; a otto giorni di
esercizj spirituali quelli da lui promossi agli ordini maggiori, a tre
giorni quelli ai minori.

[120] Lettera di Talleyrand al legato Caprara, 28 aprile 1806.

[121] Il Borghese, benchè cognato dell’imperatore, negava cederla,
perchè fedecommessagli; alfine acconsentì, comprendendovi pure i
Monumenti Gabinj: e malgrado la protesta del Governo romano, furono
spediti a Parigi ducencinquantacinque capi d’arte; pagati quattordici
milioni inscritti sul gran libro, o piuttosto ciuquecentomila lire di
rendita, a quanto si disse. Caduto Napoleone, il principe li reclamò;
ma Luigi XVIII non volle rescinder il contratto, e rimasero in Francia.

Dicono che Paolina Borghese posasse avanti il Canova; e avendo una
sua damigella esclamato, — Come! gli steste davanti così nuda?» essa
rispose: — Oh, ma la stanza era calda». I nostri padri la vedeano
talora comparire ad un ballo con un gran manicotto di famosissimo
pelo, ed ivi gettarlo a terra per posarvi i piedi. Delle satire de’
Romani contro di lei alcune sono sanguinose come quella: _Dos ficta,
facies picta, v.... refricta_, e in occasione dei restauri alle ville
Borghesi: _Paulus struxit, Paulina destruxit_.

[122] Napoleone ad Eugenio il 16 agosto 1807: _Le pape est résolu de
m’envoyer le cardinal Litta. Nous verrons ce que ces gens-là veulent
faire. Le cardinal Litta est un des plus mauvais hommes du sacre
Collège. Il passera par Milan. Il faut que le vieux Litta le tance
fortement comme chef de la famille, lui disant qu’ils sont des....;
qu’ils veulent perdre leur temporel: que ce n’est pas le pape qu’on
accusera, mais que le blâmes des hommes sensés en tombera sur les
cardinaux qui le conseillent si mal._

E al 17: _Après les renseignements que j’ai pris sur le cardinal Litta,
je me suis résolus à ne pas l’accepter. Si jamais il avait quittè
Rome, mon intention est que vous lui donniez l’ordre de se rendre dans
les terres de son frère, sans qu’ils puisse retourner à Rome, ni se
rendre en France. Faites-lui écrire par son frère qu’il ferait mieux
de rester tranquille, et de ne pas se mettre avec la tourbe des gens
qui seulement me contrarient: que mon intention, s’ils ne se tiennent
pas tranquilles, est d’envoyer dix-milles hommes à Rome, d’en exiler
à soixante lieues tous le cardinaux turbulents, dont lui, Antonelli et
Pietri sont du nombre_.

[123] Istruzioni segrete di Champagny a M. Alquier, 23 gennajo 1808.
Fino Léfèbvre, _Histoire des cabinets de l’Europe_, cap. 27, che nel
tono consueto de’ Francesi giustifica sempre il forte, qui esclama: —
Fa pena a vedere il padrone della Francia, uomo di tanta forza e tanto
genio, adoprare la bella sua intelligenza a ingannare e abbattere un
vecchio, le cui resistenze provenivano da convinzioni ardenti e da
scrupoli di coscienza, al postutto rispettabili».

[124] Il cardinale Pacca professa che sarebbe stato «lecito di
permettere al popolo di liberarsi da quegl’ingiusti aggressori. Tutte
le leggi naturali, divine ed umane danno il diritto agli oppressi
ingiustamente di respingere la forza colla forza, e di scuotere un
giogo che senz’alcuna ragione fu loro imposto»; _Memorie storiche_,
parte I, cap. 4. E adduce il passo di Wattel: _Qu’un avide et
injuste conquérant subjugue une nation, qu’il a forcée à accepter des
conditions dures, honteuses, insupportables, la nécessité la contraint
à se soumettre: mais ce repos apparent n’est pas une paix; c’est
une oppression que l’on souffre tandis qu’on manque de moyens pour
s’en délivrer, et contre laquelle des gens de cœur se soulèvent à la
première occasion favorable._ Egli reca il viglietto di M. Alquier
al papa quando le truppe occuparono Roma. _Cet événement n’a rien
d’allarmant; je prend sur moi de le garantir. Si les troupes de sa
majesté devaient rester pendant quelques jours à Rome, cette mesure ne
serait que passagère: elle n’offrirait aucune apparence de danger ni
pour le présent, ni pour l’avenir_.

[125] «Ciò permise la Provvidenza per confermare sempre più la divina
lezione data ai papi, ed ai ministri della Chiesa, spesso ripetuta
dalla sacra Scrittura, di non riporre la loro fiducia ne’ principi
della terra». PACCA, _Memorie storiche_, introduzione alla parte II.

[126] Thiers, raccontato l’affare dei cardinali che non comparvero al
matrimonio, e come Napoleone ordinò fossero sporporati, dispersi per
le provincie, sequestrate le rendite loro e fin i beni patrimoniali,
soggiunge: «Non poteasi rispondere con più violenza a un’opposizione
più _imprudente e condannabile_. Fra i tredici cardinali trovavasi
Opizzoni arcivescovo di Bologna. Lo fece chiamare dal vicerè d’Italia,
e minacciare dei più severi castighi se non si dimetteva immediatamente
di tutte le dignità ecclesiastiche. Quest’_ingrato_, colpito di
terrore, diede la dimissione richiesta versando torrenti di lagrime,
e subito lasciò Parigi pel ritiro fra d’esiglio e di prigionia
assegnatogli». _Histoire du Consolat et de l’Empire_, lib. XXXVIII.
(Su ciò vedasi la lettera di Napoleone ad Eugenio 3 aprile 1810, ove
qualifica d’_infame conduite_ quella dell’Opizzoni).

Thiers istesso poco prima, giudicando il blocco, scrive: «Per quanto
violenti fossero i mezzi a cui Napoleone era costretto, l’importanza
dello scopo era sì grande, ch’è forza scusar ciò che e’ fece per
raggiungerlo; anzi il principal suo torto fu di non essere stato
abbastanza perseverante».

[127] Gl’indirizzi furono messi all’indice de’ libri proibiti, con
decreto 30 settembre 1817, avvertendo che erano parte finti, parte
alterati; e tutti, appena i tempi lo permisero, furono riprovati da
quelli di cui portavano i nomi, con lettere ossequiose, spontaneamente
dirette al papa. Vuolsi che i più fossero scritti da un Ferloni, prete
cremonese, autore d’un libro «Dell’autorità della Chiesa secondo la
vera idea che ne ha data l’antichità, libro da cui si dimostra l’abuso
che se n’è fatto e la necessità di circoscriverlo», e che aveva messo
la penna e il talento a servigio del Governo, il quale scarsamente lo
compensò. Spiridione Beroli, vescovo d’Urbino, professò altamente che
la Chiesa universale non può separarsi dal papa. Napoleone contro del
papa era sostenuto dall’ex-vescovo Gregoire, il quale poi tramò la
caduta dell’imperatore, e di questo scriveva che «l’unione delle parole
_machiavellismo, despotismo, tirannia_, non presentano che gl’informi
elementi della scienza infernale, di cui egli perfezionò la teoria e la
pratica».

[128] Il manoscritto di Sant’Elena dice che «per le differenze con
Roma stavano arrestati cinquecento preti». Altre memorie dettate da
Napoleone negano l’autenticità di quello, e li riducono a cinquantatre,
e soggiungono: _Ils l’ont été légitimement_ (Note sul libro dei Quattro
Concordati).

Il ragguaglio più importante di questi avvenimenti sta nelle _Memorie
storiche del ministero, dei due viaggi in Francia, e della prigionia
nel forte di San Carlo a Fenestrelle_, del cardinale Bartolomeo Pacca;
Roma 1828. Egli si dice «indotto a raccontarle perchè gli onest’uomini
esposti a dure e difficili circostanze, apprendano che gli esiglj, i
sequestri dei beni, le prigionie ed altri mali, che tanto ci spaventano
quando ci sono minacciati, allorchè s’incontrano nell’adempimento de’
proprj doveri perdono gran parte della loro amarezza, e sono da altre
consolazioni e dolcezze largamente compensati». Riflette giustamente
che Napoleone all’isola di Sant’Elena continuava lamenti perchè non
potea scrivere o ricevere lettere se non vedute dai ministri inglesi;
e Montholon a nome di lui esclamava: — Questo non si tollererebbe
nemmanco ad Algeri». Eppure Napoleone stesso n’aveva dato l’esempio coi
cardinali deportati e fin col papa.

* Napoleone, nel gennajo 1811, nelle lettere ad Eugenio molto si occupa
delle cose del papa e dei preti. Il 5: «Jeri in Consiglio di Stato
domandai al conte Portalis se conosceva un libello del papa, tendente
a provocare la disobbedienza e il disprezzo dell’autorità. Esitato
alquanto, rispose di sì, ed io lo cacciai dal Consiglio, gli tolsi
tutti gl’impieghi, e l’ho relegato a quaranta leghe da Parigi. Ve lo
scrivo perchè vediate la mia intenzione assoluta di far cessare questa
lotta scandalosa del pretume contro la mia autorità».

Il 6: «A Venezia c’è de’ movimenti: vi si fanno delle scene religiose
inutili. Date ordini e esempj che mettano freno a queste turbolenze».

[129] Del novembre 1809 si ha lettera di Murat all’imperatore, che
lo informa della situazione di Roma: «Non devo dissimularvi ch’essa
soffre. L’assenza del Governo produsse molti infelici: mi accertano che
la sua popolazione scemò di 40,000».

[130] Rapporto di A. De Pastoret _sulla situazione degli Stati romani
nel giugno_ 1809.

[131] Per la storia nostra militare vedansi VACANI, _Gl’Italiani in
Ispagna_; LAUGIER, _Guerre degli Italiani_; ZANOLI, _Della milizia
cisalpina_; e le biografie del Fontanelli, del Pino, di altri.
Fra i prodi distinguono Bernardo Rossi, proletario bergamasco, che
combattendo in Italia e in Germania, salì grado grado, e divenne
capitano e cavaliere in Ispagna, ebbe gran parte all’assedio di
Tarragona e alla presa del forte Olivo, dove la divisione italiana
si segnalò con Palombini, Bertoletti, Banco, Severoli, Mazzuchelli,
Vacani, Bianchetti, Santandrea, Ceroni, Peyri, poi in Russia e nelle
ultime fazioni in Italia. Giovanni Ettore Martinengo Coleoni, versato
nell’architettura militare, servì la Prussia, poi la rivoluzione
francese nelle armi e nella diplomazia; presentò a Melzi una memoria
sul rendere indipendente l’Italia; poi corteggiò Napoleone e fu
capitano della guardia d’onore, senatore, ciambellano.

I coscritti dei quattordici dipartimenti franco-italiani salirono a
censessantaquattromila; altrettanti in circa quelli dei ventiquattro
dipartimenti italiani: trentamila furono dati dal regno di Napoli: onde
sarebbero trecensessantamila i soldati che la Penisola nostra diede
alla grand’armata dal 96 al 14.

[132] Eugenio scriveva a Napoleone il 20 ottobre 1810: _Sire, j’ai
l’honnenr d’adresser à V. M. deux tableaux; l’un indiquant le nombre
des conscrits réfractaires de ces quatre dernières années, se montant à
22,227 hommes; l’autre indiquant les déserteurs, dans le même temps, et
porté à 17,750: total 39,977 hommes. Ce résultat est affligeant. L’on
emploie tous les moyens pour l’empêcher ou y remédier.... On arrête
journellement de ces déserteurs. La totalité se monte à plusieurs
milliers par an. On est peiné d’être obligè de porter une condamnation
aux fers envers une quarantaine de mille individus_.

[133] ZANOLI, op. cit., tom. II, p. 205. Egli computa che, per numero
medio, durante il regno d’Italia perissero 7337 uomini all’anno, cioè
in tutto 124,729, sopra la popolazione media d’un dieci milioni e
mezzo; e vi si spendessero 723 milioni, oltre le esazioni forzose e
i 30 milioni annui tributati alla Francia. I dipartimenti aggregati
alla Francia diedero 164,000 coscritti. Secondo lui, le truppe che
mossero dal regno d’Italia furono 27,397, cavalli 9040, e tutto il
corpo franco-italiano 52,000 uomini. Egli calcola i soldati del regno
d’Italia periti in quella guerra 26,597, tutti i 9040 cavalli, 58
cannoni, 391 cassoni di munizione, 702 carriaggi di trasporti: ma altri
elevano molto di più queste cifre. La gazzetta di Pietroburgo stampò il
prospetto di uffiziali prigionieri 6000, soldati prigionieri 130,000,
cadaveri bruciati da Mosca a Wilna 308,000, cannoni avuti in mano 900,
fucili 100,000, carri, cassoni, vetture 25,000. È probabile v’abbia
esagerazione,

Napoleone diceva a Metternich che, nella guerra di Russia, perirono
200,000 uomini, però (soggiungeva) molti erano tedeschi.

[134] Realmente i battaglioni nostri non contavano meglio di venti
uomini d’ogni grado. _Mémoires du prince Eugène_, IX. 104. Le relazioni
d’allora, e massime quelle del Vaudencourt, come pure il Du Casse nelle
Memorie del principe Eugenio, sprezzano assai le truppe italiane, fino
a dire che unico loro incoraggiamento era la speranza di arricchirsi,
come nella Spagna. Del generale Lechi fanno unico vanto la bella
presenza, e gli attribuiscono i disastri del 1813. Pino è qualificato
come negligente e pusillanime a segno, che il vicerè, per risparmiargli
l’affronto di torgli il comando, lo indusse a domandare un congedo a
titolo di salute.

Nelle istruzioni che mandava al vicerè nel novembre 1813, Napoleone
scriveva: «Il vicerè può avere grande confidenza in Zucchi. Io ne fui
contentissimo. Non bisogna dar credito a Pino, bensì elevare Palombini
e Zucchi, e sostenere Fontanelli. Il nemico cerca guadagnare i generali
stranieri che noi abbiamo innanzi. I tre che indico bisogna avanzarli,
e annichilar Pino».

[135] La fortezza di Mantova era comandata da Julien di Tolosa,
generale di brigata al servizio italiano, che credesi autore del
libretto _Dernière campagne de l’armée franco-italienne en Italie_.

[136] Che i bullettini mentiscano è convenuto. Ma Napoleone, in lettera
privata a Eugenio, da Dresda il 30 agosto scriveva: «Ho battuto il
grand’esercito degli alleati, ch’era di ducento mila uomini, di cui
ottantamila russi: gli ho preso trentamila uomini, trenta bandiere,
cinquanta bocche di cannone, e ottocento cassoni di munizioni e vetture
di bagagli. Fuggì spaventato in Boemia, e lo fo inseguire vivamente».

E il 17 novembre: «Figlio mio, voi avete ancora un bell’esercito, e se
vi unite cento cannoni, il nemico è incapace di forzarvi. Non si tratta
che di guadagnare tempo. Io qui (a Parigi) ho seicentomila uomini in
movimento: ne riunirò seicentomila in Italia. Vo a provvedere acciocchè
i vostri quadri siano completi di novecento uomini ogni battaglione».

Informato il giorno stesso delle strettezze dell’esercito italiano,
scriveva ad Eugenio: «Non bisogna abbandonar l’Adige senza una gran
battaglia. Le grandi battaglie si guadagnano coll’artiglieria». Ciò
parrebbe smentire l’ordine dato a Eugenio d’abbandonare l’Italia e
recarsi sull’Alpi, l’avere disobbedito al quale viene gravemente
imputato al vicerè. È però vero che al 24 gennajo Napoleone gli
ordinava, caso che i Napoletani si dichiarassero nemici, di portarsi
alle Alpi con tutto l’esercito. Il 18 febbrajo informava Eugenio
d’aver distrutto l’armata di Slesia composta di Russi e Prussiani,
cominciato jeri a battere Schwarzenberg: in quattro giorni fatto trenta
o quarantamila prigionieri, una ventina di generali, cinque a seicento
uffiziali, cencinquanta a ducento cannoni, e immensi bagagli, _senza
quasi perder uomo_.

[137] Una brigata di giovani componea sibilloni, che furono poi
stampati nel 1815.

[138] Eugenio scriveva alla moglie il 26 novembre 1813 che ad Aldini
aveva l’imperatore detto: «Finalmente farò la pace: devo rinunziare
al sistema continentale, cederò anche all’Austria il Veneto; ma in
ricambio l’Italia avrà il Piemonte, e la Francia resterà ne’ suoi
confini naturali. Il regno d’Italia sarà dichiarato indipendente».

[139] La difesa di Genova e della Riviera furono affidate al barone
Maurizio Fresia di Saluzzo, che combattè tutte le guerre del secolo, fu
anche governatore di Venezia, e morì il 1827.

[140] Beauharnais, il 29 novembre 1813, scriveva a Ortensia in
lettera evidentemente destinata ad esser mostrata: _Ma bonne sœur...
Un parlementaire autrichien a demandé avec instance à me parler...
Il était chargé de la part du roi de Bavière de me faire les plus
belles propositions pour moi et pour ma famille, et assurait d’avance
que les souverains coalisés approuvaient que je m’entendisse avec
le roi pour m’assurer la couronne d’Italie. Il y avait aussi un
grand assaisonnement de protestations d’estime... Tout cela était
bien séduisant pour tout autre que pour moi. J’ai répondu à toutes
ces propositions comme je le devais, et le jeune envoyé est parti
rempli d’admiration pour mon caractère, ma constante fermeté et mon
désintéressement: j’ai cru devoire rendre compte de tout à l’empereur,
en omettant toutefois les compliments qui ne s’adressaient qu’à
moi... Ce qui pour moi est la plus belle des récompenses, c’est de
voir que, si ceux que je sers ne peuvent me refuser leur confiance
et leur estime, ma conduite a pu gagner celle des ennemis. Adieu,
ma bonne sœur, je ne saurais assez te dire combien je suis heureux
des sentiments de ma femme en cette circonstance. Elle a tout-à-fait
suspendu ses relations directes avec sa famille depuis la déclaration
de la Bavière contre la France, et elle s’est réellement conduite
divinement pour l’empereur._

Nei patti che proposero a Napoleone gli Alleati da Chatillon, v’era che
l’Italia restasse indipendente, data ad Eugenio colle isole Jonie.

Su questi atti di Beauharnais sparsero luce le sue Memorie, stampate
nel 1858, per quanto parziali.

[141] La reggenza del Governo provvisorio.

Le armate delle alte Potenze coalizzate entrano nel territorio
italiano; vogliono l’ordine e la felicità della nazione. Italiani, voi
avete sviluppato il nobile carattere vostro; ed il generale sentimento
dell’amore per la patria ha escluso la possibilità di opposti partiti.
L’interesse privato è intieramente dimenticato da ciascuno di voi;
il riposo, la tranquillità, la brama d’un saggio Governo indipendente
stanno fissi nel cuore di tutti; nè vi è Italiano, il quale non senta
il bisogno d’un nuovo ordine di cose.

Le alte Potenze coalizzate non ad altro fine hanno impugnate le armi se
non per il bene de’ popoli, nè giammai si è combattuto con principj più
virtuosi...

Secondate, o Italiani, queste benefiche sovrane intenzioni; accogliete
come veri liberatori i militari che hanno esposti se stessi per il
vostro bene, accoglieteli coll’affettuosa ospitalità a loro dovuta.
Il trasporto della pubblica esultanza sia vivace, ma tranquillo e
dignitoso...

La reggenza conscia delle intenzioni dei nostri liberatori, è persuasa
che la dovuta riconoscente accoglienza della capitale sarà di nobile
esempio a tutto il regno. Milano, 27 aprile 1814.

_Verri_ presidente-_-Giulini Giorgio — Borromeo Giberto — Mellerio
Giacomo — General Pino — Mazzetta Giovanni — Strigelli_ segretario.

La reggenza del Governo provvisorio.

La rappresentanza nazionale ha esternato il suo voto per l’indipendenza
del regno d’Italia, e per una costituzione, le cui basi liberali
saggiamente contrabbilancino i rispettivi poteri.

I desiderj del popolo italiano non potevano non esser conformi al
principio, che l’indipendenza è il primo bene e la principale sorgente
della felicità di uno Stato. La deputazione, al cui patrio zelo la
reggenza ha confidato il sacro deposito dei voti della nazione, gli
avrà già manifestati alle alte Potenze alleate.

Spagna, Francia, Olanda attestano nei trasporti della loro riconoscenza
che la magnanimità delle alte Potenze alleate ha sostituito, con nuovo
genere di trionfo, alla sanguinosa gloria delle conquiste quella ben
più reale e durevole di ristabilire la felicità de’ popoli col mezzo
d’istituzioni sagge e liberali. Italiani, vorreste voi obliare questi
numerosi esempj di generosità a segno di temere che per voi soli le
alte Potenze alleate ricusino di essere magnanime, di far risorgere la
vostra nazionale indipendenza?

Le negoziazioni che saranno già intraprese, sono dirette da
concittadini che, circondati dalla pubblica confidenza, hanno e lumi e
zelo pari all’eminente oggetto della loro delegazione. Il loro unanime
interesse è identico col vostro, che è pur quello della reggenza.

Mentre le alte Potenze stanno compiendo la grande opera, rimanetevi
dunque in quel dignitoso contegno di calma che si conviene ad un
popolo, il quale attende i suoi destini da nazioni che l’Europa tutta
venera ed ammira come suoi liberatori. Milano, 4 maggio 1814.

_Verri_ presidente, ecc. ecc.

[142] Erano Marcantonio Fe, Federico Confalonieri, Alberto Litta,
Giangiacomo Trivulzio, Giacomo Ciani, Somaglia, Sommi, Ballabio:
segretario Giacomo Beccaria. Le loro domande portavano: I. Indipendenza
assoluta del paese, il quale abbia la maggior estensione possibile; II.
Costituzione liberale, fondata sulla divisione del potere esecutivo,
legislativo, giudiziario, e sull’intiera indipendenza di quest’ultimo;
una rappresentanza nazionale faccia le leggi, regoli le imposte; sieno
assicurate la libertà individuale, la libertà di commercio, la libertà
della stampa; i pubblici impiegati sieno sottoposti a sindacato; III.
Tale Costituzione sia fatta dai collegi elettorali, eretti in assemblea
costituente; IV. Si preferisca un Governo monarchico ereditario. Quanto
alle maggiori guarentigie, non si era creduto «conveniente di legar le
mani alle Potenze alleate».

[143] Vedi l’allocuzione 21 marzo 1813.

[144] Al congresso di Vienna erano rappresentanti del pontefice il
cardinale Consalvi; del re di Sardegna il marchese di Sanmarzano e
il conte Rossi; di Gioachino il duca di Campochiaro e il principe
di Cariati; di Ferdinando di Sicilia il conte Ruffo, il duca Serra
Capriola, il cavaliere Medici; della Toscana Neri Corsini; di Modena il
principe Albani; di Luigia di Parma lo spagnuolo Labrador; di Genova
il marchese Brignole Sale; del principe di Piombino il giureconsulto
Verra; di Lucca il conte Mansi.

[145] Furono il generale Teodoro Lechi, il tenente colonnello
Gasparinetti, l’ispettor generale Demester, Ragani caposquadra,
Lattuada, Brunetti, Cavedoni, Pagani, Gerosa, Caprotti, Marchal,
Varesi, tutti uffiziali; i professori Rasori, Gioja ed altri. Dopo
tre anni di processi furono condannati a morte, commutata in carcere
temporario.

[146] Carolina coi figli abitò Trieste, poi morì a Firenze il 1839.
Luciano che era accorso da Roma ad offrire i proprj servigi al reduce
fratello, al cadere di questo tornò a Roma, e nel suo principato di
Canino scoprì le necropoli e i vasi che innovarono la storia delle
belle arti etrusche, e raccolse un insigne museo, che poi vendette
al britannico: morì nel 1840, e suo figlio Carlo meritò nome fra i
naturalisti, poi fra i rivoluzionarj (-1857), e Luigi fra i chimici.
Re Giuseppe, dopo i disastri di Waterloo ricoverò a Nuova York, poi a
Firenze col nome di conte di Survilliers, e vi morì nel 1844. Ivi pure
morì re Luigi il 25 luglio 1846; e suo figlio Luigi, dopo vicende da
romanzo, rinnovò l’impero francese. Girolamo, già re di Westfalia, morì
capo dell’Ospizio degli Invalidi a Parigi; suo figlio rimane famoso col
nome di principe Napoleone. Madama Letizia, madre di cinque regnanti,
visse in Roma fino al 2 febbrajo 1836. Felice Baciocchi, principe di
Lucca, morì a Bologna il 1841. Beauharnais ebbe rendita di sei milioni,
e dal re di Baviera il principato di Eichstädt, ove fece moltissimi
miglioramenti: visse fin al 1824, e di Amalia sua moglie restò cara
ricordanza fra gli Italiani, che sempre ben accolse anche a Monaco.
Una loro figlia sposò il principe reale di Svezia, e si assise su quel
trono (-1876); l’altra il duca di Braganza; un figlio sposò la regina
di Portogallo; l’altro la primogenita dell’imperatore Nicolò di Russia.

[147] Gli alleati aveano imposto a Ferdinando di dare al principe
Eugenio un distretto di cinquantamila abitanti! che fu cambiato
in cinque milioni di lire. Anche a carico del papa si mantenne il
ricco appanaggio d’Eugenio nelle Marche, mascherandolo col titolo
d’enfiteusi, redimibile per 3,170,000 scudi. Ferdinando regalò
splendidamente i cooperatori della sua restaurazione: al generale
Bianchi il titolo di duca di Casa Lanza con novemila ducati annui; a
Metternich il titolo di duca di Portella con sessantamila; altrettanti
a Talleyrand col ducato di Dino; seimila ducati annui al cavaliere
Medici; altrettanti al plenipotenziario Alvaro Ruffo; duemila all’altro
plenipotenziario Serra Capriola; le quali rendite furono capitalizzate
con 1,010,722 ducati. Vedi il rapporto del ministero delle finanze al
Parlamento in ottobre e dicembre 1820.

[148] Secondo un articolo addizionale e separato del 20 maggio 1815,
nel caso che il ducato di Parma ricada all’Austria, la città e fortezza
di Piacenza con un circondario determinato spetta al re di Sardegna.
Il 28 novembre 1844 a Firenze fra i duchi di Lucca e Modena, il
granduca di Toscana, il re di Sardegna e l’imperatore d’Austria fu
conchiuso cambio di varie porzioni di Stati, per meglio arrotondarsi
quando avvenisse il passaggio del ducato di Lucca alla Toscana, e
di Parma e Piacenza all’infante di Spagna. La Toscana conserverà i
vicariati di Barga e Pietrasanta, e al futuro duca di Parma cederà
Pontremoli, Bagnone e le terre annesse di Lunigiana. Il duca di Parma
cederà a quello di Modena il ducato di Guastalla e la lingua di terra
parmigiana sulla destra dell’Enza. L’imperatore riconosce la cessione
del ducato di Guastalla; e il diritto di riversibilità che gli competea
su quello, e sul territorio oltr’Enza, lo trasferisce sul distretto di
Pontremoli e sulla restante Lunigiana, ceduti al duca di Parma. Se mai
il ducato di Parma ricada all’Austria, l’imperatore cederà al re di
Sardegna la suddetta porzione di Lunigiana e i distretti ora estensi
di Treschietto, Villafranca, Castevoli, Mulazzo; e ciò invece della
convenuta città e fortezza di Piacenza.

[149] I Genovesi mostrarono i danni che verrebbero «dall’aggregamento
di genti così tra loro avverse e discordanti, come furono sempre la
ligure e le subalpine» (_Lettere di Pareto a lord Castlereagh_, 11
maggio 1814); e invocavano piuttosto «un sovrano, parente delle auguste
famiglie che governano l’Europa, purchè indipendente, troppo recenti
ed altamente fitti negli animi essendo i mali che tiene congiunti la
dominazione straniera» (_Nota del Serra al congresso di Vienna_). La
discussione fattasi allora al Parlamento inglese, dove l’opposizione
stava pei diritti, il Governo pei fatti e per le convenienze, e delle
più importanti sulla politica e sul gius delle genti. Può vedersene
un estratto in SCLOPIS, _Delle relazioni politiche tra la dinastia
di Savoja e il Governo britannico_, Torino 1853, che reca pure una
Memoria del conte d’Agliè a Castlereagh per mostrargli quanto importi
render forte il Piemonte unendovi tutta l’alta Italia. Su questi fatti
son a vedere _Correspondence, despatches and other papers of Viscount
Castlereagh_, Londra 1853.

Il cardinale Pacca, in un opuscolo sui _Grandi meriti verso la Chiesa
cattolica del clero di Colonia_, Modena 1840, moveva lamento che nel
congresso di Vienna «non si restituì a varie repubbliche cattoliche
quella libertà e indipendenza che avevano perduta per la sfrenata
ambizione di Napoleone, mentre la si restituì alla repubblica di
Ginevra, irreconciliabile al nome cattolico, e le si volle anche
accrescere il territorio, staccando alcune terre e paesi dal paterno
Governo de’ principi di Savoja, per sottometterli a Ginevra che si
gloriava di esser chiamata la Roma protestante».

[150] La Farina, nel _Proemio_, pag. 79, dice che «fuvvi chi propose
una confederazione italiana a somiglianza dell’alemanna; ma l’Austria
che ben sentiva ogni confederazione italiana non poter essere che
a sè nemica, si oppose, ecc.». Il Farini tutto all’opposto (_Storia
d’Italia_, lib. VII) insiste sulla smania dell’Austria a volere una
lega italica, e sul pericolo che ne sarebbe venuto alla libertà; e
ingloria i re sardi d’esservisi opposti, e così salvato l’Italia.

[151] Adunanza del 20 marzo 1815. Al conte di Brusasco, ambasciadore
di Vittorio Emanuele, che si lagnava de’ mali fatti all’Italia dal
congresso di Vienna, Capodistria diceva: — Verissimo, ma le circostanze
non permetteano di meglio. Era necessario dar la pace all’Europa,
darla subito; il riposo era il primo bisogno; e l’esperienza passata e
presente mi fanno tenere di sommo momento la forza delle circostanze,
che tutto trascina. Quali sono le cause che condussero Buonaparte alla
perdizione? non certamente i disegni politici de’ suoi nemici. La
medesima forza delle circostanze ha generato il sistema europeo che
esiste oggi: non il genio nè la volontà dell’uomo. Il riposo era il
bisogno universale, e non potea conseguirsi che per mezzo dell’unione.
Se mi domandate quanto durerà l’odierno sistema europeo, vi risponderò,
durerà finchè la forza delle circostanze lo rende necessario. Ma
sin d’ora si può affermare, che allorquando il riposo non sarà o
non parrà il primo de’ bisogni, quando saranno distrutte tutte le
parti che erano legate a quel colosso che si rovesciò da sè, e quando
nuove leghe, nuove relazioni, opinioni nuove, nuovi interessi avranno
dato un indirizzo differente agli spiriti umani, allora il sistema
presente cadrà, ogni cosa prenderà un assetto stabile e durevole,
perchè sarà secondo natura e secondo giustizia. Intanto a me son noti
come all’imperatore i portamenti dell’Austria in Italia: ma non ci
pare devano dispiacervi troppo, perchè, se occasioni imprevedibili
portassero la guerra in Italia, esse potrebbero riuscirvi di grande
vantaggio; e l’idea dell’indipendenza italiana, accortamente svegliata,
potrebbe procacciarvi molti partigiani, e fare gran male all’Austria».

[152] I commissarj pontifizj lasciarono a Parigi moltissime
pergamene di monasteri antichi; alcuni quadri e sculture, regalati in
riconoscenza, o ceduti per istanze, fra cui il colosso del Tevere,
la Pallade di Velletri, la Melpomene. I deputati dell’Università
di Eidelberga reclamarono i codici palatini, che Gregorio XV avea
comprati nel 1622 da Massimiliano di Baviera; e le furono resi in
fatto trentanove codici greci e latini già trasportati a Parigi, e
ottocenquarantasette tedeschi ancora esistenti a Roma, col famoso
Gladiatore, il vaso, l’educazione di Bacco. Il museo Borghese restò
a Parigi, come formalmente comprato, e benchè una parte ne reclamasse
il re di Piemonte, perchè era stato pagato co’ suoi beni. Gl’Inglesi
diedero duecentomila lire pel trasporto dei capi d’arte. Il Martirio di
santo Stefano di Giulio Romano, che la città di Genova avea regalato
alla Francia nel 1807, ed era stato restaurato da Girodet, fu chiesto
dal re di Piemonte e messo a Torino.

[153] Anche il famigerato principe di Canosa rimproverava ai
principi, per idee diverse, questo accentramento, quest’abolizione
dell’individuo; e nella _Esperienza ai re della terra_ scriveva: —
Principi miei, che cosa fate? Il mondo va tutto in precipizio, il
fuoco arde sotto i vostri troni, la cancrena corrompe la società;
e voi vi battete le mani sull’anca, applicate qualche cerottello
inconcludente su piaghe sterminate, e non adottate provvedimenti
vigorosi e validi?... Voi per zelo male inteso della sovranità avete
levato ai Comuni tutti i loro privilegi, tutti i loro diritti, tutte
le loro franchigie e libertà, e avete concentrato nel potere ogni moto
e ogni spirito di vita. Con questo avete reso gli uomini stranieri
nella propria terra, abitatori e non più cittadini delle loro città;
e dall’abolizione dello spirito patrio è sorto lo spirito nazionale.
Distrutti gl’interessi privati di tutti i municipj, avete formato
di tutte le volontà una massa sola; ed ora vi trovate insufficienti
a reprimere il moto di quella mole terribile e smisurata. _Divide
et impera_. Voi vi siete dimenticati di questa massima scolpita nel
fondamento dei troni: avete preteso reggere il mondo con una redine
sola, e questa vi si è spezzata nelle mani. _Divide et impera_.
Dividete popolo da popolo, provincia da provincia, città da città,
lasciando ad ognuna i suoi interessi, i suoi statuti, i privilegi suoi,
i suoi dritti e le sue franchigie. Fate che i cittadini si persuadano
d’essere qualche cosa in casa loro; permettete che il popolo si diverta
coi trastulli innocenti de’ maneggi, delle ambizioni e delle gare
municipali; fate risorgere lo spirito patrio colla emancipazione dei
Comuni; e il fantasma dello spirito nazionale non sarà più il demonio
imbriacatore di tutte le menti...»

[154] Eppure Napoleone nel 1814 a re Giuseppe scriveva: _J’ai toujours
reconnu que la police fait un mal affreux: elle alarme sans éclairer_.

[155] Quando la Rivoluzione credeva togliere tanti poteri al re,
Mirabeau, nella sua corrispondenza secreta, mostrava a Luigi XVI che
anzi li consolidava: — È dunque nulla il non esservi più nè Parlamento,
nè paesi di stato, nè corpo di clero, di privilegiati, di nobili?...
Molti regni di Governo assoluto non avrebbero fatto altrettanto quanto
questo sol anno per l’autorità reale».

[156] Il suddetto Canosa esclamava: — Un’altra causa principale dello
sconquassamento del mondo è la troppa diffusione delle lettere, e
quel pizzicare di letteratura che è entrato anche nelle ossa de’
pescivendoli e degli stallieri. Al mondo ci vogliono i dottori e i
letterati, ma ci vogliono anche i calzolari, i sartori, i fabbri, gli
agricoltori e gli artieri di tutte le sorti; ci vuole una gran massa
di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla
fede altrui, e lasci che il mondo sia guidato coi lumi degli altri,
senza pretendere di guidarlo coi lumi proprj. Per tutta questa gente
la letteratura è dannosa, perchè solletica quegl’intelletti che la
natura ha destinati ad esercitarsi dentro una sfera ristretta, promove
dubbj che la mediocrità delle sue cognizioni non è poi sufficiente
a risolvere, accostuma ai diletti dello spirito, i quali rendono
insopportabile il lavoro monotono e nojoso del corpo, risveglia
desiderj sproporzionati alla umiltà della condizione, e con rendere
il popolo scontento della sua sorte, lo dispone a tentativi di
conseguire una sorte diversa. Perciò, invece di favorire smisuratamente
l’istruzione e la civiltà, dovete con prudenza imporle qualche confine,
e considerare che, se si trovasse un maestro, il quale con una sola
lezione potesse rendere tutti gli uomini dotti come Aristotele,
e civili come il maggiordomo del re di Francia, questo maestro
bisognerebbe ammazzarlo subito per non vedere distrutta la società.
Lasciate i libri e gli studj alle classi distinte, e a qualche ingegno
straordinario, che si fa strada a traverso l’oscurità del suo grado;
ma procurate che il calzolaro si contenti della lesina, e il rustico
del badile, senza andarsi a guastar il cuore e la mente alla scuola
dell’alfabeto».

[157] Fra gli illustri ospiti è a contare la duchessa di Devonshire
figlia del conte Spenser, che più volte avea scorsa l’Italia e il resto
d’Europa col proposito di riconciliar le due Chiese. Qui fece stampare
la quinta _Satira_ di Orazio con grandissimo lusso di caratteri
e d’incisioni, e in molte edizioni sempre di pochissimi esemplari
per migliorare or il sesto or la traduzione; l’ultima, eseguita nel
1818 dal successore di Bodoni, riuscì un capolavoro con incisioni
di Ripenhausen e Caracciolo, riproducendo i luoghi e valendosi delle
antichità pompejane. Fece anche stampare l’_Eneide_ del Caro (Roma, De
Romanis, 1819) in censessantaquattro esemplari mandati a soli principi,
con ventidue incisioni nel primo volume e trentotto nel secondo, oltre
i ritratti della duchessa, di Virgilio, del Caro; ed è peccato non
abbia potuto far altrettanto della _Divina Commedia_, come divisava.
Grande amica della Stael e della Récamier, accogliendo attorno a sè la
più splendida società, potè anche far servigi a Roma, sia col chiedere
al Governo inglese i gessi dei marmi d’Elgin, sia qualche mitigazione
pe’ Cattolici d’Irlanda.

[158] I fautori del libero scambio asseriscono che nel regno d’Italia
erasi posta una tassa sull’esportazione dei grani, onde si coltivarono
a preferenza altri generi, e da ciò o venne o peggiorò la carestia
del 1817: soggiungono che in questa i grani costavano carissimo nella
Sicilia dov’erano le tratte, mentre in Toscana si continuò la libertà,
e non mancava fromento indigeno, e Livorno guadagnava all’affluirne di
straniero. Son fatti tutt’altro che accertati.

[159] La baronessa di Stael fin nel 1805 diceva: _Il y aura des
révolutions en France jusqu’à ce que chaque Français ait obtenu une
place du gouvernement_.

[160] Se è vero quel che riferisce lo Zobi, vol. V, p. 57, don Neri
Corsini soleva ripetere confidenzialmente agli amici: — I venti vescovi
del granducato, se non sono continuamente sorvegliati dal Governo, da
un momento all’altro, secondo il piacere di Roma, possono rivoltare
il paese. E la sorveglianza conviene che sia continua, circospetta e
preventiva, onde evitare scandali e clamori, i quali irritano i devoti
che credono e non ragionano, e non sono pochi».

Pejretti, primo presidente in Piemonte, a Barbaroux ambasciadore a Roma
scriveva: — Tutto quanto è oggetto di speranza in Roma, dev’esserlo a
noi di timore, e dobbiamo astenerci dall’accordarlo».

[161] ARTAUD, _Vita di Leone XII. — Contra hæc repugnabant acerrime
recens impietas et ipsa meticulosa sæculi deciminoni politica_. NODARI,
_Vita Pii VII_.

[162] Savojardi furono il purista Vaugelas, Claudio di Seyssel istorico
di Luigi XII, Ducis, Michaud, ecc.

[163] Vedi la sua _Correspondance inédite_.

[164] Un trasunto dei processi del 1821, che io possiedo e che
porta la storia di ventotto società segrete, toccando di quella
de’ Sanfedisti o Concistoriali dice: — Di questa parlano continuo
i Carbonari pontifizj, e pretendono sia diretta a espellere gli
Austriaci, e ristabilire la preponderanza della Corte di Roma. Però
di queste intenzioni non seppero mai esibire più accertate notizie;
e siccome si trattava di svelare le mosse d’una società segreta che
avrebbe mirato principalmente a combattere il moderno liberalismo,
pare che essi cercassero piuttosto deviare l’attenzione del Governo
dalle loro combriccole, dirigendola sulle traccie d’una setta, la
quale, quand’anche esistesse, non potea meritare seria considerazione.
Non favoreggiata dallo spirito del tempo, essa non potea fare giammai
progressi pericolosi: e non ci è mai avvenuto d’avvertirne l’esistenza
fra noi».

[165] Il principe di Castelnuovo, che grandemente si adoprò per
ritrarre il re da questo partito, quando morì lasciò un grosso legato a
chi potesse ottenere dal re il ripristino della costituzione siciliana.

[166] Il Colletta, dopo raccontato a disteso gli errori e delitti
del Governo napoletano, conchiude che «i governanti erano benigni, la
finanza ricca; felice il presente, felicissimo si mostrava l’avvenire;
Napoli era tra’ regni d’Europa meglio governati, e che più larga parte
serbasse delle idee nuove». Lib. VIII. n. 51.

* Ecco il saviissimo decreto de’ 10 giugno dell’anno 1817, sulla
fondiaria.

.... Essendo nostra intenzione di tener come costante il valore
imponibile delle proprietà fondiarie, e così incoraggiare l’agricoltura
dando a’ proprietarj la nostra sovrana garentìa, che pel miglioramento
de’ loro fondi per lungo corso di anni non ne sarà annullato il valore
imponibile, decretiamo:

Art. 1. La contribuzione fondiaria ha per base la rendita netta de’
fondi. Questa rendita, che consiste nel prezzo del prodotto depurato
dalle spese di cultura, di conservazione e di mantenimento, può essere
rappresentata dagli affitti fatti in un decennio, o dall’interesse
del prezzo de’ fondi, quando la compra ne sia stata fatta, durante lo
stesso tempo.

Art. 2. Ogni terra colta o incolta, ogni suolo urbano con edifizj
o senza, è soggetto a contribuzione per l’intera sua estensione.
Un errore in più o in meno di valutazione, che non oltrepassi il
ventesimo, non darà luogo ad aumento, o riduzione di contribuzione,
salvo il riportare ne’ catasti la estensione vera.

Le terre addette a delizia debbono essere valutate come i migliori
terreni coltivati del Comune.

Le case di abitazione entrano in tassa, al pari delle terre, per la
loro rendita netta calcolata in ragione degli affitti del decennio,
colla deduzione del quarto per la riparazione e pel progressivo
deperimento.

Gli edifizj o parti di edifizj appartenenti allo Stato, ed addetti per
disposizione del Governo ad un uso pubblico non produttivo di rendita
alcuna, sono esenti dalla contribuzione fondiaria, e rimanere debbono
registrati ne’ catasti per semplice numeraria.

La rendita dei molini e degli edifizj addetti a manifatture debbe
essere valutata similmente sugli affitti del decennio, colla deduzione
del terzo.

Le fabbriche rustiche, costrutte nell’interno delle terre per servire
ai soli usi dell’agricoltura o della pastorizia, debbono essere
valutate in ragione del suolo, assimilato pel valore imponibile alle
migliori terre del Comune.

[167] Tanto asserì il conte Orlof nelle Memorie del regno di Napoli.
Ma il Canosa nei _Piffari di montagna_ (Dublino 1820) lo smentisce
risolutamente. Crede egli che, quando si sciolsero le maestranze
durante l’occupazione inglese, si levasse tumulto principalmente
fra’ calderaj, che protestarono della loro devozione alla regina, e
le si profersero: onde furono accarezzati dai fuorusciti napoletani.
Quando questi rimpatriarono, si addissero alle società segrete avverse
a Murat, e ad un’antica setta dei _Trinitarj_ posero il nome di
Calderari. V’apparteneva gente di basso stato, e forse in realtà era un
avanzo delle bande del 1799.

[168] Saccheggiandosi il palazzo di Palermo dov’è la specola,
l’astronomo Nicolò Cacciatore si oppose alla ciurma che voleva
manomettere l’osservatorio; onde «fu trascinato per la città quasi
ignudo, rinchiuso in fondo d’oscura e fredda prigione in compagnia
d’una ventina d’uomini della massima depravazione. Per miracolo ne uscì
il giorno seguente». _Autobiografia_.

[169] Queste in Sicilia diedero un terzo di nobili, un quarto di preti:
a Napoli invece il Parlamento riuscì di sei nobili, diciannove preti,
tredici possidenti, dodici magistrati, altrettanti legisti, otto
militari, sei medici; quattro impiegati attivi e due in ritiro, due
negozianti e un cardinale.

[170] Molti furono i perseguitati dalla setta: Giampietro, direttore
della Polizia, fu tratto di mezzo a nove figliuoli e trucidato; lo
che spaventò moltissimi che s’ascosero, mentre correvano liste di
proscrizione.

[171] A’ Court, inviato d’Inghilterra, non avea parole bastanti
per disapprovarli: — Neppur un’ombra di biasimo s’avventurarono a
gittare sul Governo esistente; non altro promisero al popolo che la
riduzione del prezzo del sale. Mai non erasi avuto Governo più paterno
e liberale: maggiore severità e meno confidenza sarebbero riusciti
ad altro... Spirito di setta, e l’inudita diserzione di un esercito
ben pagato, ben vestito e di nulla mancante, causarono la ruina d’un
Governo veramente popolare. Temo non si riesca a scene di carnificina
e confusione universale. La costituzione è la parola d’ordine, ma in
fatto è il trionfo del giacobinismo, la guerra dei poveri contro la
proprietà».

[172] Nota del ministero degli affari esterni delle Due Sicilie alle
Corti d’Europa, 1º dicembre 1820.

[173] Vedi le sue _Memorie_ scritte dal Galvani.

[174] Metternich scriveva al duca di Modena, invitandolo al Congresso,
e divisandogli il fatto e da farsi. «Ogni rivoluzione passa per periodi
distinti. Il carattere della _rivolta_ è stampato chiaramente ne’ suoi
primi eccessi, ma presto si cancella, e agli occhi vulgari prende
l’aspetto di _riforma_. La debolezza dei principi e de’ Governi, le
paure degli onest’uomini, i clamori dei faziosi, l’ipocrisia e furberia
loro, tutto insomma vi contribuisce. Coloro che vogliono combattere il
flagello bisogna che badino bene di non ingannarsi sulla differenza di
tali periodi, e accomodare a ciascuno mezzi differenti, se non vogliono
fallire. Se avessimo avuto ventimila uomini disponibili sul Po, si
correva su Napoli: avremmo spenta la rivoluzione, e il mondo avrebbe
applaudito, come fa sempre ad ogni buon successo. Non avendoli, dovemmo
attendere a combattere la rivoluzione nel suo secondo periodo. Il re
avea giurato la costituzione, un Parlamento dovea servire di guida
all’opinione che si diceva nazionale (_Notino la parola i rivoluzionarj
del_ 1859): i liberali e radicali di tutta Europa non poteano a meno
d’unirsi in fascio per cantare in verso e in prosa gl’ineffabili
benefizj delle restaurate libertà napoletane.... Gl’indugj non
ci spaventarono; anzi. Il Governo rivoluzionario di Napoli ebbe a
combattere un male che non perdona, la penuria di denaro. Chi quattro
mesi fa avesse creduto che le operazioni dell’esercito austriaco
opprimessero la libertà nascente, col ricco corteo de’ benefici
frutti, avrà avuto il tempo di persuadersi che questa così detta
libertà è morta in brevissimo per l’opere sue proprie. Le stesse cose
cattive, contrarie alle nostre intenzioni, che succedeano a Napoli, si
volgeranno a pro della giustizia e della ragione. Il liberalismo vi è
stato fulminato dal radicalismo: i Carbonari e il Parlamento rovinarono
i Muratiani; i mezzi termini furono ridotti al giusto loro valore
da una fazione che, per ora, è forte perchè vuole o tutto o niente.
Fondandoci dunque sull’essere il napoletano un affare europeo, e dovere
comune la repressione della rivolta, abbiamo terminato il primo atto di
questo grave dramma».

[175] _Memorandum_ di don Neri Corsini, 20 gennajo 1821.

[176] Capodistria, ambasciadore di Russia, avendo domandato a
Metternich se l’Austria approverebbe un sistema che si avvicinasse
al rappresentativo, quegli aveva risposto che si farebbe piuttosto la
guerra. Capodistria soggiunse: — Ma se lo stesso re stabilisse un tale
sistema?» E Metternich: — L’imperatore farebbe guerra al re di Napoli».
Lo racconta Sanmarzano ambasciadore del Piemonte in dispaccio alla sua
Corte.

[177] In lettera del 5 gennajo 1821 egli diceva: — Dopo tutte le
dichiarazioni e ritrattazioni del re di Napoli, se io fossi al posto di
Metternich non vorrei mescolare la mia causa col tessuto di duplicità e
menzogne ond’è composta la vita di S. M.».

[178]

    E su tante migliaja di spade
    Una stilla di sangue non v’è.
                    ROSSETTI.

[179] Nei cinque anni d’occupazione in Sicilia perirono da seimila
Austriaci per clima, per vino, per vizj. Secondo il Bianchini (_Finanze
del regno_, III, 794), dal 1801 al 27 il Regno avea speso in truppe
forestiere cencinquantasette milioni di ducati. Per le gravi spese nel
1826 si ritenne un decimo sopra tutti i soldi e le uscite. Frimont era
comandante generale dell’esercito austriaco in Italia; e morto il 28
dicembre 1831, ebbe a successore il maresciallo Radetzky.

[180] Carlo Emanuele IV, abdicato nel 1802, erasi fatto gesuita con
voti semplici, continuando a vivere come prima in sempre maggiore
pietà, fino al 6 ottobre 1819. Eragli succeduto il fratello Vittorio
Emanuele.

[181] SANTAROSA, _Histoire de la révolution piémontaise_ 1821.

[182] Così uno de’ più smaccati adulatori del Governo piemontese,
GUALTERIO, tom. I. p. 509. Vedi meglio SANTAROSA in generale, e
BROFFERIO con minute particolarità, parte I. c. 7.

[183] Ruffini dice dell’Università di Genova: — La lettera era tutto,
nulla lo spirito. Erasi proposto di formare delle macchine, non degli
uomini. L’Università parea destinata a estirpare dalla generazione
presente ogni indipendenza di spirito, ogni dignità, ogni rispetto
di se stesso; e quando passo in rassegna tanti nobili caratteri che
sfuggirono _a questo di Procuste orrido letto_, non so trattenermi dal
pensare con orgoglio quanto devono essere forti gli elementi morali
della natura italiana tanto calunniata, per uscir puri e vigorosi da
un’atmosfera così deleterica». _Memorie d’un proscritto_.

[184] Il Gualterio dice che quei che chiedevano la costituzione erano
assoldati dal conte di Binder ministro d’Austria (I. 570); e dipinge
come minacciata la vita, non solo del re, ma della sua famiglia «che
in quei frangenti non furono tutelate fuorchè da Carlalberto» (_i_.
564). È calunnia al mite popolo piemontese, e ad una rivoluzione
quasi incruenta. Il realismo di quei rivoluzionarj scoppia fin con
entusiasmo in queste parole del Santarosa: — O notte fatale!... la
patria coi re non cadeva, ma questa patria era per noi nel re, anzi in
Vittorio Emanuele incarnata; gloria, successi, trionfi e tutto per noi
compendiavasi in quel nome, in quella persona».

[185] Luigi Giuseppe Arborio Gattinara di Breme, da famiglia vercellese
ricca di prelati e diplomatici, si pose alla diplomazia, fu consigliere
di Stato del regno d’Italia e commissario generale delle sussistenze
dell’esercito, poi ministro dell’interno e presidente del senato
(1754-1828). Luigi, suo secondogenito, scolaro dell’abate Caluso,
cappellano del vicerè e governatore dei paggi nel regno, pizzicava di
letterato, e scrisse _Sull’ingiustizia d’alcuni giudizj letterarj in
Italia_, ed altre cosuccie (1781-1820).

[186] Fu ministro dell’interno il conte Ferdinando Del Pozzo, valente
giureconsulto, che già in uno scritto pseudonimo avea dimostrato che
le ragioni acquisite sotto il Governo francese non potevano abrogarsi;
poi profugo, stampò nel 1833 _Della felicità che gl’Italiani possono
e devono dal Governo austriaco procacciarsi_, dove a Carlalberto,
divenuto re, dava esortazione d’imitar l’Austria in molte cose, fra cui
nel dotare di centomila lire il teatro dell’Opera a Milano.

[187] Il marchese La Maisonfort, ministro di Francia a Firenze,
s’adoprò a scusare Carlalberto, e tenerlo raccomandato a Pasquier
ministro degli affari esteri: _Les torts qu’on reproche au prince
de Carignan, sont presque tous dans ses liaisons en précédence de la
révolution. Il ne les nie pas, mais il assure que l’on exagère... Chef
d’une espèce d’opposition qui, selon lui, était purement militaire,
le prince eut le malheur de se brouiller ouvertement avec le duc de
Génevois. Le jeune prince était donc dans une situation, dont ses
entourages abusaient quand la révolution a éclaté. Trop jeune pour
s’apercevoir que cette rébellion était sans base, il la jugea trop
puissante pour ne pas croire de son devoir de se jeter à travers, afin
d’obtenir_ la confiance et le pouvoir, qui seuls pouvaient l’étouffer
(_Correspondance du 19 juin 1821_). E più basso: _Arrivé à Novare, où
il reçut l’ordre d’abdiquer tout pouvoir et de se rendre en Toscane,
quel fut, m’a-t-il dit, son étonnement et son désespoir de ne pouvoir
être reçu à Modène, où le roi Charles Félix jeta à la figure du comte
Costa, son écuyer, la lettre de soumission qu’ il lui portait!_ E al 22
dicembre: _On continue de calomnier et décarter le prince de Carignan
de Turin. On irait bien plus loin si la France n’avait semblé le
couvrir de cette égide, qu’ elle offrira toujours à la légitimité._ Il
m’a promis patience et conduite irréprochable.

Quando noi scrivevamo la _Storia Universale_, Cesare Saluzzo,
granmastro d’artiglieria ed ajo de’ figli del re, ci promise documenti
importanti sulla rivoluzione del 21: ma quando li reclamammo, non
seppe darci che questi carteggi, i quali a noi parvero tutt’altro che
nobilitare il re, anzi dire peggio che molte declamazioni de’ suoi
avversarj. Pure furono più tardi pubblicati da suoi apologisti. Rimane
una relazione di que’ fatti, stesa dal principe stesso a suo disgravio.

[188] A Venezia Pellico, Solera, Romagnosi, Rossi di Cervia che vi
morì: a Milano Castiglia, Arrivabene, Pallavicini, Confalonieri,
Adryane, Trechi, Mompiani, Visconti... Vedasi un mio discorso, su _Il
Conciliatore, episodio del liberalismo in Lombardia_.

[189] Finita la rivoluzione piemontese, egli scriveva ad Ugo Foscolo:
— Siam condotti a tale, da chiamare felici gli esuli, e molto più
felici quelli che, se divideranno il danno generale che la perversità
di quest’epoca ha serbato a tutti gli sforzi cauti e generosi, sono ben
lontani dal dividere la vergogna di quelli che non seppero volere il
bene se non imbecillemente e fanciullescamente». Avvertito d’in alto a
fuggire, il Confalonieri non volle: côlto in casa, trovò arrugginiti
i congegni della bottola per cui s’era preparata una fuga. Singolare
venerazione professarono per lui quei che gli furono compagni di
sventura. Uscito dallo Spielberg nel 1837 per l’amnistia, morì il
1847, e i suoi funerali a Milano furono un dei preludj della nuova
rivoluzione.

[190] Maroncelli, Frignani, Adryane, Parravicini, Arrivabene ed
altri pubblicarono la storia de’ loro patimenti. La _Semplice verità
opposta alle menzogne di E. Misley nel suo libello «L’Italie sous la
domination autrichienne»_, opera scritta dal tirolese Zajotti, che fu
poi nostro processante di Stato nel 1833, asserisce che gli arrestati
non furono ottomila, ma settantaquattro. Il Giordani (lettera 25 giugno
1825) chiama Zajotti «il solo vero ingegno italiano che siasi venduto
all’Austria».

[191] Laderchi, come romagnuolo, fu consegnato al papa, che gli destinò
per carcere la fortezza di Ferrara. Vi era legato il cardinale Tommaso
Arezzo, che fe dichiarare fortezza tutta la città. Laderchi, potè
finire i suoi studj, poi esercitare la professione d’avvocato; finchè
liberato, divenne uno de’ migliori giureconsulti, fedele all’ordine
e al giusto anche quando la rivoluzione del 59 riducea le vittime
dell’Austria in vittime di nuovi sacrificatori.

[192] Fra questi Ansaldi, il medico Ratazzi, Dossena, Bianco, Radice,
Ferrero, Marochetti, Avezzana, Ravina, che la più parte ricomparvero
dopo venzett’anni d’esiglio con miglior esito.

[193] Vedi i Documenti del Governo di Modena, stampati nel 1860, p. 34.

[194] Dichiarazione a nome delle Corti d’Austria, Prussia e Russia alla
chiusa del congresso di Lubiana; Circolare accompagnatoria ai ministri
delle tre Corti. — In Capefigue (_Diplomates européens_. Milano 1844,
pp. 41 e 42) appare che la Francia non acconsentì all’occupazione
del Piemonte se non per brevissimo tempo, _car la France ne pourrait
souffrir les Autrichiens sur les Alpes. Tous ces actes de cabinet,
toutes les proclamations qui suivent la tenue d’un congrès, étaient
spécialement l’œuvre de M. de Metternich. Le chancelier d’Autriche
possède... un goût pur.... etc_. Châteaubriand, nel _Congresso di
Verona_, dà lode al cardinale Spina, capo della legazione pontifizia,
dell’essersi opposto all’invasione austriaca nella bassa Italia.

[195] È una rarità la medaglia allora coniata, di 0,041 di diametro,
portante il ritratto di Carlalberto e la leggenda «Presa del Trocadero
31 agosto 1833». I reggimenti della guardia reale gli offersero le
spalline di granatiere.

[196] Le _Memorie storiche intorno alla vita di Francesco IV di
Modena_ (Modena 1848-55) di Cesare Galvani (morto nel 1860) sono
piuttosto un panegirico; ma per la cordialità con cui son dettate, e
per la ricchezza di fatti devono consultarsi anche da chi non voglia
ricredersi intorno a quello che apparve come il duca d’Alba dell’età
nostra.

[197] Tornate delle Camere al 1 e 6 dicembre 1830.

[198] Risposta dell’ambasciatore Lützow al signor Seymour, 12 settembre
1832.

[199] Vedasi il Galvani suddetto.

[200] Nel bilancio del 1830 stampato, sono stanziate lire seicentomila
per interessi del debito pubblico.

[201] Presidente Vicini; ministri Armaroli, Mamiani, Sturani,
Bianchetti, Armandi, Sarti, Orioli.

[202] GUALTERIO, _Docum_. 87.

[203] Il Galvani racconta che il duca partendo levò dalle casse
un milione per pagare i soldati, oltre le gioje; e che Zucchi levò
centomila lire: centoseimila i membri del Governo provvisorio. Levarono
appena quello che occorreva per mantenersi.

[204] Notificazione del segretario di Stato, 23 febbrajo.

[205] Vedi il _Moniteur_ dell’agosto 1831, e massime il discorso del
signor Cabet.

[206] Dalle relazioni ministeriali consta che, al fine di settembre del
1831, la Francia dava sussidj a 2867 Spagnuoli, 962 Portoghesi, 1524
Italiani.

[207] Con atto insolito fra’ principi italiani d’allora, ridusse
l’arciduchessa a una lista civile, e potè rifiorire l’erario, levando
le corruzioni dell’amministrazione e gli scialacqui.

[208] Chi disse averlo ucciso il duca perchè non ne potesse rivelare
all’Austria le trame, dimenticò che questi avealo lasciato a lungo
nelle carceri di Mantova.

[209] Sue lettere al marchese D’Azeglio, nella _Rivista contemporanea_
1854. Egli morì improvviso a Pesaro nel 1838.

[210] «L’amministrazione della giustizia era abominevole», lo assicura
il Brofferio, _Storia del Piemonte_, tom. II. p. 87.

[211] Da Carlo Emanuele I di Savoja nacque Tommaso Francesco (-1656),
che sposò Maria di Borbone, erede del contado di Soissons, e generò
Emanuele Filiberto Amedeo sordomuto (1709), capostipite dei principi di
Carignano. Da Eugenio Maurizio suo cadetto e da Olimpia Mancini nipote
del cardinale Mazarino, ceppi d’una nuova casa di Soissons, nacque
il celebre principe Eugenio. Dal primogenito Vittorio Amedeo (-1741)
discendono Luigi Vittorio Amedeo (-1778); Vittorio Amedeo (-1780);
Carlo (-1800); Carlalberto (1798-1849); Vittorio Emanuele nato 1821.

[212] Fa raccapriccio il leggere que’ supplizj nel Brofferio. Il
ministro L’Escarène scriveva al Galateri: _J’ai rendu comte à sa
majesté de la manière dont votre excellence a fait exécuter la sentence
proférée par le conseil de guerre. Dans les moindres choses V. E.
prouve son zèle pour le bon service du roi... Le roi m’a entendu avec
intérêt, et m’a plusieurs fois interrompu pour exprimer toute l’estime
et toute la confiance que V. E. mérite, et que sa majesté lui accorde_.

Carlalberto, in un manoscritto citato dal Cibrario, nel 1839 scriveva
a proposito de’ suoi nemici: _Je n’ai persécuté personne; je n’ai pas
adressé un seul reproche_. Il Gualterio (tom. I, p. 71). sostiene che
capo de’ Carbonari era Luigi Filippo, e ch’egli denunziò i cospiratori
italiani all’Appony ambasciatore austriaco a Parigi!

[213] Tra cui Vincenzo Gioberti, Anfossi medico, Durando avvocato,
Giuseppe Garibaldi, divenuti poi famosi nel 1848. Furono per alquanto
imprigionati Cambiaso, Balbi-Piovera, Durazzo, De Mari, Pareto, Spinola
e altri patrizj genovesi.

[214] È quasi comune il credere che il duca di Modena tentasse
spossessare Carlalberto; ma il Galvani, nel vol. III, sventa questo
concetto, adducendo anche lettere del re che al duca professava
gratitudine e consenso. Nel 1832, avendogli il duca chiesto fucili
e cannoni, Carlalberto gli scriveva: _Je prie V. A. R. de croire que
toutes les fois qu’elle me mettra à même de lui prouver mon profond
attachement et la vénération que m’inspirent son beau caractère et ses
principes, elle me fera resentir un vrai bonheur_.

E nel 1834: _La grande crise ne peut être que plus ou moins retardée,
mais elle arrivera indubitablement. Elle sera terrible, car un des deux
partis doit y succomber entièrement. V. A. R. pourra alors rendre de
grands services à l’Italie. Quant à moi, elle peut être assurée que je
suis résolu à y périr si nous ne pouvons triompher; mais que jamais je
ne pactiserai en la moindre des choses avec la révolution._

E altrove: _Quant à nous deux, j’en ai l’intime conviction, nous
marcherons toujours invariablement avec fermeté et assurance dans
la même et constante voie... Il est impossible de vous porter un
attachement plus vif que le mien, de vous être plus entièrement dévoué,
et de partager plus complètement sur tous les points votre manière de
penser_.

E ancora nel 1834: _Je suis bien touché, mon cher cousin, de ce que
vous me dites, que l’empereur vous a dit d’obligeant et de flatteur
à mon égard. Son approbation et son estime forment le but de tous mes
souhaits_.

E nel marzo 1835: _J’ai bien partagé l’affliction que V. A. R.
a ressenti de la cruelle perte que nous venons de faire de S. M.
l’empereur d’Autriche, car je lui étais profondément attaché et dévoué,
et je lui portais une très-vive reconnaissance pour toutes les bontés
qu’il avait eu pour moi. Il ne pouvait, dans les tems malheureux où
nous sommes, nous arriver un plus grand malheur._

E il 25 novembre 1835: _Les libéraux de tous les pays sont furieux
contre moi, n’étant pas accoutumés à être ainsi pris de front._

In altre moltissime lettere l’informa di tutte le mene della Giovane
Italia, d’attentati contro la vita di lui ecc., com’è a vedere nel tom.
III, c. 3 del Galvani.

[215] Essa è sorella del re di Napoli. Perdute le speranze, sposò il
siciliano Lucchesi Pali dei principi di Campofranco, visse assai a
Venezia, e vide sua figlia duchessa di Parma.

[216] _Memorandum_ del 31 maggio 1831. L’imperatore d’Austria «non
cessò d’inculcare nel modo più incalzante al sovrano pontefice, non
solamente di dar piena esecuzione alle disposizioni legislative già
pubblicate, ma ancora di dare loro un carattere di stabilità, che
le mettesse fuori d’ogni rischio di futuri cambiamenti, eppure non
impedisse utili miglioramenti». Nota del principe Metternich a sir F.
Lamb, 28 luglio 1832.

[217] «Il gabinetto austriaco fu costretto cedere su questo punto così
alla legittima resistenza del papa, come alle unanimi proteste degli
altri Governi d’Italia, che in simili concessioni vedeano un imminente
pericolo alla tranquillità dei loro Stati, alle cui istituzioni il
principio dell’elezione popolare è affatto estraneo». Nota suddetta.

[218] Tale opinione sentii ripetere generalmente, e massime nel
mostrarmi il cimitero di Santo Spirito, ove allora furono accumulati
quarantamila morti. Ciò che è notevole, nella rivoluzione del 1848
un valente economista siciliano scrisse che «si era dato il cholera
alla Sicilia perchè l’avea Napoli»; e nella Memoria sporta dai signori
Bonaccorsi e Lumía al congresso di Bruxelles del 1849, è detto che _on
s’écria, non sans quelque raison, que le Gouvernement de Naples avait à
dessein introduit la maladie_. Storici passionati accolsero quest’idea
per farne oltraggio a Napoli e al re.

[219]

    Quest’è Vincenzo Monti cavaliero
      Gran traduttor dei traduttor d’Omero.
    Quest’è il rosso di pel Foscolo detto,
      Sì falso che falsò fino se stesso
      Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto:
      Guarda la borsa se ti vien appresso.

Nicola era il nome di battesimo di Foscolo.

[220] _Epistolario_, tom. III. p. 15.

[221] — Che non ha ella corrotto in Italia sì fatta peste della
calunnia, e più che altrove in Milano? città accannita di sêtte, le
quali intendendo sempre a guadagni di vili preminenze e di lucro,
hanno per arte imparato ad esagerare le colpe e dissimulare le doti
degli avversarj. O monarchi, se ambite avere più servi che cittadini,
lasciate patente l’arena de’ reciproci vituperj». E a chi (solita
celia) lo disapprovava del difendersi, — Dovremo dunque sentirci
onesti e vederci infami, o per sinistra modestia tacere? e mentre altri
s’apparecchia ad affliggere l’ignominia anche ai nostri sepolcri, ci
aspetteremo che la posterità ci giustifichi?»

[222] — La prego, e le raccomando strettamente di fare quello che fan
tutti quelli che mi amano ed ai quali scrivo di cuore, di bruciare
subito senza eccezione ogni mia lettera. S’ella non vuole promettermi
e mantenermi religiosamente questa cosa, ella non avrà da me se non
lettere vanissime, brevissime, freddissime... La mia fantasia è in
questo, che, per quanto io posso, non duri una linea di mia mano». Al
Grillenzoni, 19 gennajo 1821.

[223] — Sei malignosamente spiritosa offrendoti di volere parlare male
di tutti e di tutto per intenderla bene con me. Sappi dunque che io
starò ad ascoltarti molto volentieri; ma io disprezzo tanto gli uomini
e le cose e le opinioni, che non mi curo di biasimarle». 28 febbrajo
1818.

[224] — Foscolo, al quale rimane anche oggi chi, per pochi versi
facendolo poeta, e per non buoni versi gran poeta, ammiri il famoso
enigma de’ suoi _Sepolcri_». _Opere_, tom. I. p. 148.

[225] — Quell’articolo (della _Biblioteca italiana_) sugli
improvvisatori, l’ho fatto contro voglia più che mai altra cosa al
mondo. Ma fu ordine espresso, ripetuto, inculcato dalla propria persona
del governatore di farlo, e farlo così». 5 febbrajo 1817.

[226] A De Sinner, lettera 24 maggio 1832.

[227]

                       Libertade è frutto
    Che per virtù si coglie; è infausto dono
    Se dalla man dello straniero è pôrto.
    I depredati campi, i vuoti scrigni
    Piange il popol deluso: ira di parte
    I petti infiamma: ad una stessa mensa
    Seggon nemici il padre e ’l figlio: insulta
    Il fratello al fratel: ascende in alto
    Il già mendico e vile, e della ruota
    In fondo è posto chi n’avea la cima.
                    _Carme al Roverella._

[228] Quando la Staël fu a Milano, il Monti le portò la traduzione
del suo _Perseo_; ed essa il contraccambiò con un volume di Necker
suo padre. Il Monti passò dalla signora Cicognara, e vi depose il suo
libro, dicendo lo prenderebbe un’altra volta. Ed ecco poco poi giungere
la Staël che avea leggicchiato il _Perseo_ in carrozza, ed essa pure
glielo lasciò, per prenderlo un’altra volta; e dopo molti mesi la
Cigognara li mostrava, un sovrapposto all’altro, qual segno della stima
che si hanno fra loro i letterati.

[229] _Considerazioni sopra il teatro tragico italiano_. Firenze
1825. Una recente storia della letteratura dell’Emiliani Giudici fa i
Romantici complici del Governo austriaco, perchè accettavano dottrine
predicate da grandi tedeschi.

Quelle ironie ed accuse sono riprodotte da Carlo Cattaneo nella
prefazione alla raccolta degli scritti suoi, e in un giornale, dove,
com’egli dice, «lasciò trapelare fra cosa e cosa qualche _spiraglio_
d’altri pensieri». Eppure aveva scritto altrove: «Quando si devono
abbattere gli steccati che serrano il nobile campo dell’arte, non monta
con che povero mezzo lo si consegua. L’effetto della disputa si fu che
ora siamo liberi signori del luogo e del tempo, e che ci sta solo a
fronte il senso comune e il cuore umano». Tom. I. p. 48. Peggio fece il
Settembrini.

[230] _De varia latinæ linguæ fortuna_.

[231] Il francese Courier, uno de’ più vivaci e tersi libercolisti,
trovò nella Laurenziana un frammento inedito del _Dafni e Cloe_
romanzo di Longo Sofista. Lo copiò; poi, acciocchè nessun altro potesse
averne copia, vi versò sopra il calamajo. Naturalmente asserì ch’era
mero caso, ma si trovò che l’inchiostro era differente da quello
somministrato nella Laurenziana; e ne sorse un pro e contro, come d’un
affare di Stato. E di fatto ci andava di mezzo l’onoratezza.

[232] Per le nozze della figlia di Monti col conte Perticari, dodici
poeti si erano accordati per comporre ciascuno un inno ad uno degli Dei
Consenti, e nessuno mancò d’incenso a Napoleone.

[233] Vedi la _Narcisa_ di Tedaldi-Fores cremonese, 1818.

[234] Le ingiurie che in questa lanciò contro Venezia, furono ribattute
nell’_Esame_ fattone da Giambattista Gaspari.

[235] Cesarotti disse del _Jacopo Ortis_: — È fatto per attaccare
un’atrabile sentimentale da terminare nel tragico. Io lo ammiro e lo
compiango». Foscolo nel _Gazzettino del Bel Mondo_, pag. 17, scrive
del suo romanzo: — E temo non sia luce tristissima, da funestare a’
giovanetti anzitempo le vie della vita, e disanimarli dall’avviarsi
con allegra spensieretezza. I molti lettori ch’io non mi sperava, non
mi sono compenso del pentimento ch’io pure non temeva; ed oggi n’ho, e
n’avrò anche quando quel libro e questo saranno dimenticati».

[236] _La Lombardia nel secolo XVII, ragionamenti per commento ai
«Promessi Sposi»._ Milano 1834; più volte ristampati, e con molte
aggiunte nel 1854 e 1874.

[237] _Usi e pregi della lingua italiana._ — Il difetto del buon
vecchio si era una parzialità cieca contro tutte le novità buone o
cattive, recate da Francesi, a segno tale che non vi avea in Torino
memoria francese che a lui non sembrasse una bruttura, ed avrebbe
infino anteposto il ponte di legno sopra cui per lo innanzi valicavasi
il Po, al magnifico ponte di pietra che vi avea sostituito Napoleone».
Mario Pieri.

[238] Vedi persino la prefazione d’uno de’ libri meglio tradotti,
l’_Imitazione di Cristo_.

[239] I socj naturalmente erano tutti toscani, ma fra’ corrispondenti
contava Monti, Morcelli, Cesari, Colombo, Pindemonti, Mengotti,
Napione, Carlo Rosmini.

[240] Tentativo di genere distintissimo fece il famoso giurista
Nicola Nicolini (-1857) nel libro _Dell’analisi e della sintesi,
saggio di studj etimologici_, Napoli 1842; dove vuol anche provare
che la Divina Commedia è la forma sensibile della grande operazione
analitico-sintetica, per la quale in una città corrotta può, nel
ricorso delle nazioni, restaurarsi l’ordine civile.

[241] Il primo e migliore di costoro è Carlo Cattaneo, in cui troviamo
«il tubere della giovialità, l’eruzione critica, alleggerire il
piombo delle astrazioni, il termometro della satira, gli spelati panni
dell’arte bisantina, lingue cementatrici, spiegare tutto il ventaglio
delle umane idee, l’ideologia sociale è il prisma che decompone
in distinti e fulgidi colori l’incerta albedine dell’interiore
psicologia....».

[242] Venuti i tempi nuovi, l’uso universale de’ giornali che uccisero
i libri, cioè le opere pensate; e i discorsi al Parlamento e ne’ tanti
ritrovi, diedero alla prosa un andamento diverso dallo scolastico,
accostandola al naturale, a costo di rendersi plebea.

[243] La _Margherita Pusterla_ di Cesare Cantù.

[244] L’età nuova portò un’altra farragine di romanzi, che non frenati
dalla censura, sempre inetta anche prima, nè dal pudore d’una società
scarmigliata, si buttarono a servire gli istinti bassi e il bisogno
di quotidiane soddisfazioni a un’ineducata curiosità. Nella poesia si
tentò il nuovo coll’imitare fantasie sfrenate di stranieri, e insultare
al buon senso e alle credenze più venerate.

[245] Per la letteratura napoletana non potrebbero aversi indicazioni
migliori che dai _Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine
du royaume de Naples_, par PIERRE C. ULLOA. Ginevra 1860. due vol.
in-8º.

[246] Vogliamo aggiungere il padre Ricci francescano, che rifece
la teologia morale di Reiffensteul, e fu chiamato da Giuseppe II
a insegnarla ad Innspruck, poi a Pavia, dove non piegossi alle
esagerazioni del Tamburini. Giampietro d’Anterivo, che lasciò una
relazione sui costumi de’ Turchi e sulla perdita della Grecia fatta
dalla Repubblica di Venezia, sotto la quale egli era confessore
delle truppe dal 1757 al 1771. Il teologo Knoll morto il 1863. Il
padre Prucker di Castelnuovo, missionario fra i Montenegrini, mandò
alla Propaganda un dizionario epiroto-italo con catechismo bilingue.
Il padre Montebello stampò nel 1793 una storia della Valsugana con
documenti. Il padre Bonelli pubblicò le opere di san Bonaventura, e
_Monumenta ecclesiæ tridentinæ_, 4 vol., e _Notizie storiche della
chiesa di Trento_. Il padre Tovazzi, studiosissimo delle cose patrie,
campò molte carte dallo sperpero fatto degli archivj principeschi
e religiosi nel 1802, lasciò assai cose inedite, fra cui un Diario
minuto fino al 1806 in cui morì. Furono tutti francescani. Del canonico
Santoni si hanno manoscritte notizie della città di Arco: del canonico
Leopoldo Pilati le fonti del diritto canonico.

Del Vanetti è famoso in paese un sonetto, che mostra come sia antica
ne’ Trentini la voglia di dirsi italiani. Comincia

    Del Governo alemanno, o Marocchesi,
      Fûr queste valli sol per accidente
      Fatte suddite un dì: del rimanente
      Italiani siam noi, non tirolesi.

[247] In questa parte che richiede profonda conoscenza del cuor umano
e viva rappresentazione de’ caratteri, sorsero di poi Paolo Ferrari,
il Torelli, il Cossa, il Marenco, il Giacosa..., avventurandosi anche
a qualche novità, e cercando i concetti e le parole più naturali. Fu
un tentativo de’ più felici quel del teatro piemontese, ove il Toselli,
il Bersezio ed alcun altro accoppiavano alla festività e all’intreccio
l’esemplarità.

[248] Già indicammo (Cap. CXXXIV, nota 42 e t. X, pag. 124) come la
letteratura ebraica dell’Occidente nacque in Italia. Carlo Magno chiamò
da Roma Rabbi Mosè di Calonimos lucchese, perchè insegnasse aritmetica
a Magonza. Nel XII secolo correva il proverbio, — Da Bari uscirà la
luce, e da Otranto la parola del Signore»: e le stamperie cremonesi non
furono ancora eclissate.

[249] _Proemio alla storia dei luoghi una volta abitati dell’Agro
romano_. Roma 1817 e seguenti. L’opera fu proseguita dall’abate Coppi.

[250] Argomento trattato contemporaneamente e con altre viste dal
milanese Carlo Londonio.

[251] Il Botta scriveva della prima sua opera: «La metà della prima
edizione se n’andò al pepe; ed io stesso ve la mandai, chè dovendo
partire pel Piemonte la mia povera e santissima moglie, io non aveva un
soldo da farle fare questo viaggio. Allora dissi fra me medesimo: Che
ho io a fare di questo monte di cartacei che m’ingombra la casa e che
nissuno vuole? chè non la vend’io a qualche droghiere o ad un treccone?
Così dissi, e mi presi la cartaccia e la vendei al droghiere, e ne
cavai seicento franchi che diedi alla mia santa moglie». Lettera del 28
agosto 1816 nell’_Epistolario_ del Giordani, tom. V. p. 364.

[252] Si guardi la sua descrizione del passaggio del San Bernardo.
_S’extasier devant le passage des Alpes, et pour faire partager son
enthousiasme aux autres, accumuler les mots, prodiguer ici les rochers
et là les neiges, n’est à mes yeux qu’un jeu puéril, et même fastidieux
pour le lecteur. Il n’y a de sérieux, d’intéressant, de propre à
exciter une véritable admiration que l’exposé exact et complet des
choses comme elles sont passées._ THIERS, _Avertissement au tome XII
de l’Histoire du Consulat et de l’Empire_. Eppure lo Zobi (tom. III. p.
171) qualifica il Botta «il più profondo fra i moderni storici».

[253] Nella corrispondenza di Camillo Ugoni, stampata nel 1858 a
Milano colla sua vita, troviamo una lettera di A. Pezzana del 1814 ove
dice del Botta: — Se manterrassi in reputazione di forbito scrittore,
certo non potrà mai avere quella di storico imparziale e fede degno».
E una di Giuseppe Pecchio del 1833 che, dopo avere letto il Botta
continuazione al Guicciardini, scrive: — Non so se sia effetto della
storia o dello storico, questa lettura mi dava ogni giorno malumore
e malinconia. Ma credo che la colpa sia dello storico, perchè nè la
storia degli Ebrei, nè quella de’ Messenj o de’ Polacchi a’ nostri
giorni, zeppe anch’esse d’ingiustizie, d’orrori, di sciagure, pure non
mi contristarono mai l’animo tanto, come la storia del signor Botta:
quella del Sismondi mi fa fremere, anche corrucciare, ma non oscura ed
abbatte l’anima mia, anzi la riempie di fuoco. Mi disgusta all’estremo
quell’insolente accanimento del Botta contro Daru in palese, ed in
secreto contro Sismondi e Manzoni, che per talento, buon cuore e buone
azioni valgono dieci volte più del Botta. Mi fa poi perdere un tempo
infinito con quelle sue minute descrizioni di battaglie e d’assedj che
non fanno alcun profitto. Non cita mai, o rarissime volte, un’autorità.
È egli nuovo Mosè che scrive la storia per ispirazione di Dio? Non v’è
mai una vista filosofica spaziosa, ma soltanto della morale e delle
sentenze appiccicate ad ogni caso particolare. In politica poi dice
e si disdice le cento volte, e fra le altre non vuole le repubbliche
del medioevo, e poi, alla fine della storia, dopo avere scomunicate
quelle repubbliche le tanto volte, finisce col dire che la repubblica
di Firenze aveva sopravanzato Atene; ed è ingiusto anche nell’elogio,
perchè è esagerato. Sono però contento che una tale storia esista,
perchè vi regna molta imparzialità (Pezzana e noi diciamo l’opposto) e
franchezza: in alcune parti è eloquentissima: in altre le descrizioni
sono capolavoro: spira sempre l’amore del giusto, dell’onesto,
dell’umano: la lingua poi è aurea, vigorosa, e se ne togli alcuni
proverbj troppo plebei, direi quasi impareggiabile per la sua ricchezza
e varietà».

[254] Dico diffusa soltanto perchè già il duca di Lévis, nel libro
_De l’Angleterre au commencement du XIX siècle_, 1814, cap. XVI, p.
401, scriveva: _Partout ailleurs qu’en Angleterre, en dépit de la
philosophie et même des révolutions, la distinction du noble et du
roturier, c’est-à-dire du fils du vainqueur et du vaincu, subsiste dans
l’opinion, si ce n’est dans la loi._ E Guizot disse: _Depuis plus que
treize siècles la France contenait deux peuples: un peuple vainqueur
et un peuple vaincu. Depuis plus que treize siècles, le peuple vaincu
luttait pour secouer le joug du peuple vainqueur. Notre histoire est
l’histoire de cette lutte. De nos jours, une bataille décisive a été
livrée: elle s’appelle la révolution_.

[255] Una dissertazione di Fossati e De Vesme _Sulle vicende
della proprietà in Italia_ applicava a noi i concetti maturati dai
forestieri. Vedi il nostro tom. VI, cap. LXXXI.

[256] Nota al cap. IV delle _Speranze d’Italia_.

[257] «Non vadano gli eruditi cercando in questi libri peregrine
scritture, rivelazioni d’ignoti fatti, lucubrati veri; qui è un ingenuo
racconto che io ho fatto ai miei fratelli, assiso al focolare domestico
della patria, alla vigilia di un grande viaggio». Pare ignori l’opera
del Carlini sulla pace di Costanza, e quella del Dall’Olmo sul convegno
di Venezia.

[258] È dovere il ricordare l’_Illustrazione del Lombardo-Veneto_,
raccolta di storie municipali che s’intendeva ampliare a tutta Italia,
e che si pubblicò a Milano sotto la direzione e colla cooperazione
del Cantù. Noi ce ne siamo valsi nella presente edizione per estrarne
alcune giunte. _Gli Editori_.

[259] Del Colletta scrivea Giordani l’aprile del 1826: — Ha compito un
libro doppio di mole e molti doppj di merito, dove descrive tutto il
regno di Gioachino. Libro veramente stupendo, stupendissimo. Figurati
che i due che sentisti sono appena un’ombra di questo: la ricchezza,
la varietà, lo splendore della materia è indicibile; lo stile
miglioratissimo. Ora corregge Giuseppe: correggerà il quinquennio.
Bisognerà rifare di pianta il nono libro, che è veramente debole e
sparuto, come il primo che fu scritto, ma che per la materia è tanto
importante». Il Colletta confessava che «ancora due o forse tre anni
sarebbero bisognati a rendere la sua opera un po’ meglio».

[260] «Veramente Gaspare Garattoni fa un valentuomo e degno che di lui
si faccia onorata memoria; perocchè, quanto ad erudizione, io tengo
ch’ei non fosse secondo a niuno della sua età (l’età di Ennio Quirino
Visconti e di Heyne): ma vuolsi cominciare da capo. Suo padre ecc...».

Altro cominciamento: «La pittura da cui viene un bel diletto al vivere
civile, fu cara a Luca di Francesco Longhi, come ne fanno fede i molti
dipinti di lui, che adornano la sua terra natale».

Di molti storici odierni diemmo notizia e giudizio nel corso di
quest’opera, toccando de’ soggetti da loro trattati.

[261] Ci si perdoni di citare gli _Italiani Illustri, ritratti_ da C.
Cantù. Tre vol. in 8º. Milano 1870.

[262] «Quando osservavamo con insultante dispregio que’ secoli che ci
trovarono servi e ci lasciarono uomini, non somigliavamo a persona che
siasi dimenticata della famiglia e de’ primi suoi anni? Or ne troviamo
la ricordanza; e senza ribramarlo, perchè il passato compì la sua
destinazione, e l’avvenire deve crescere per esso non già con esso, non
possiamo che ammirare secoli di tanta vita, ecc.» Epoca XII, p. 334.

[263] Pur dianzi un giornale grave contrapponeva a giudizj da noi
dati nella presente opera, i giudizj portati da Lamartine nel _Cours
familier de littérature_; e un giornale leggero riproduceva questo
parallelo, applaudendovi.

[264] Non discompagniamone suo fratello Saverio, combattente anch’esso
pel re di Sardegna, e avverso alla rivoluzione francese. Rinchiuso per
un duello, scrisse il _Viaggio attorno alla mia camera_, opericciuola
non indegna di Sterne; come il suo _Lebbroso della val d’Aosta_. A
servizio della Russia fece la campagna del Caucaso.

[265] _Se traînent à la suite de la France... leur présent est le passé
de la France_.

[266] _Essai sur le principe et les limites de la philosophie de
l’histoire_. 1843.

[267] Secondo lui, i sintomi d’una buona amministrazione sono: 1.
Desiderio di conoscere lo stato della nazione; 2. Pubblicità dello
stato della nazione; 3. Buone qualità degl’impiegati; 4. 5. 6.
Semplicità, Rapidità, Poco costo nelle operazioni; 7. Esattezza nei
pagamenti; 8. Solido impiego del denaro pubblico; 9. Rispetto pratico
alle leggi; 10. Moderazione nei partiti; 11. Sicurezza e felicità
pubblica; 12. Mancanza d’uomini oziosi e di terre incolte.

[268] _Nuovo prospetto_, p. 194-218.

[269] Teme che la Russia ci mandi per Odessa i grani, sicchè i paesi
d’Italia si cambierebbero in deserti. _Nuovo prospetto_, tom. V. p. 127
e _Filosofia della statistica_, tom. II. p. 159.

[270] «Il dazio sulle importazioni delle manifatture estere è ottimo
finchè le fabbriche nazionali bambine devono lottare colle estere
adulte». _Filosofia della statistica, Arti e mestieri_.

[271] _Teoria del divorzio_, part. V.

[272] _Nuovo prospetto_, part. I. c. 3.

[273] _Merito e ricompense_, tom. I. p. 231.

[274] _Nuovo Galateo_, p. 355.

[275] _Nuovo prospetto_, part. I. c. 3.

[276] _Elementi di filosofia_, lib. II. c. 1.

[277] _Assunto primo_, § IX.

[278] _Introduzione alla genesi del diritto penale_.

[279] Nella logica del Genovesi; _Veduta sull’incivilimento_.

[280] Sono fra queste eccezioni i teologi dell’Università torinese
Marchini, Regis, Bardi, Ghiringhello ed altri, che vi cercano meglio
che gloria letteraria. Il gesuita Patuzzi dell’ermeneutica fece un
trattato e la applicò a molti punti; il padre Ungarelli ebbe a scolaro
il padre Vercellone, che con gran franchezza pubblicò la Bibbia greca
del manoscritto vaticano in cinque volumi (1857) e le varianti della
vulgata.

[281] Nel 1874 si pronunziò una divisione fra gli economisti italiani:
gli uni volendo l’assoluta astensione dello Stato nelle ragioni
economiche, gli altri ammettendone, anzi credendone necessaria una
moderata ingerenza.

[282] _Pensieri sulla moneta cartacea_.

[283] Messedaglia, Levi, Mora, Zanini, Boccardo, Leone Carpi, Luzzato,
ecc.

[284] Una Società Geografica qui formatasi contribuì alle esplorazioni
massime dell’Africa, oltre raccogliere i fasti patrj dei tempi andati.
I viaggi de’ semaj e delle corvette militari diedero a conoscere la
Cina e il Giappone.

[285] Ora si sta eseguendo una nuova triangolazione di tutta la
penisola, sotto la presidenza del padre Secchi.

[286] Il Governo italiano gli commise nel 1811 il più gran telescopio
che ancora si fosse veduto in Italia. Il fisico Gualtieri di Modena ne
pretese il merito, e ne fabbricò uno più grande, cioè di undici piedi
di fuoco e nove e mezzo d’apertura, che darà luce doppia di quello
d’Herschel.

[287] Bisogna aggiungere l’analisi spettrale, che ci portò a conoscere
la natura del sole e delle altre stelle: e gli studj dello Schiaparelli
sulle stelle cadenti.

[288] L’asciugamento di questo fu compito nel 1876 per munificenza del
principe Torlonia di Roma.

[289] Grimelli (_Storia della elettro-metallurgia italiana_. Modena
1844) annovera quanto i nostri operarono in tale materia fino a
quell’anno.

[290] Vanno rammentati in proposito i fisici napoletani Miranda e Paci,
e gli studj anatomici del Pacini sugli organi elettrici del gimnoto e
del siluro elettrico.

[291] Accenniamo fra le sue scoperte quella del piccolo verme entro le
perle degli _unio_ e degli anodonti, dalla cui molestia crede originata
la preziosa concrezione.

[292] È curioso a notare che erano preti anche i più di quelli che,
nel secolo passato, ridestavano l’agricoltura in Toscana: il pievano
Paoletti, il parroco Landeschi, il preposto Lastri, gli abati Lupi,
Lami, Manetti, Giovan Gualberto Franceschi, l’arcidiacono Giuseppe
Albizzi, il canonico Zucchini, il monaco Soldani, e a tacer altri,
il canonico Ubaldo Montelatici che nel 1753 fondava l’accademia de’
Georgofili. Così canonico era il Guasco agronomo piemontese, abati il
Genovesi e lo Scrofani e molti della Società patriotica a Milano.

[293] L’uso dell’acqua come rimedio esterno è raccomandato anche dal
Nessi medico comasco (1741-1820), che diede un buon corso d’ostetricia.

[294] Al 20 gennajo 1774, Ferdinando III di Napoli mandava un
rescritto, qualmente la Facoltà medica gli aveva esposto la repugnanza
delle comunità religiose a ricevere figli, sorelle, nipoti di medici,
mentre ammettono quelli di avvocati, dottori, negozianti. Per ciò
espone il merito e la dignità di questa condizione.

[295] Il bellunese Zanon pretende ora di saper dare solidità lapidea
alle sostanze animali, mentre Gorini crede poterne mantenere la
morbidezza e le altre qualità fisiche.

[296] Alla confutazione che fino dal principio del secolo ne faceva
il Moreschi, professore d’anatomia a Bologna, è messa quest’epigrafe
tolta dal Menkenio, che proverebbe già da un pezzo conosciuta quella
teoria: _Quis nescit nostris temporibus extitisse plures, qui novam
quamdam artem exploratoriam commenti, intimos mentis humanæ recessus
perreptarunt, et iræ, avaritiæ, cupiditatis nunc semiuncium, nunc assem
deprehendisse sibi visi sunt?_

[297] Erangli assegnati quindicimila scudi: il duca ne aggiunse
tremila, e il titolo di commendatore, e fu sepolto in quella cappella
medesima.

[298] Nel _Commercio_ di Firenze, 12 gennajo 1842.

[299] _Materiali per la storia dell’incisione in rame e in legno_
furono pubblicati dall’abate Zani di Borgosandonnimo (1801), autore
anche dell’_Enciclopedia delle belle arti_ (1819-24).

[300] Vedi la nota 15 del Cap. CLVII.

[301] Non saranno dimenticati Marchesi, Marini, Lablache, Pacchiarotti,
Moriani, Gaillard..., e la Grassini, la Catalani, la Pasta, l’Alboni,
la Frezzolini, la Galletti, la Stolz... Il Barili (-1824) buffo
cantante, pareva inimitabile nelle _Cantatrici villane_; ma i continui
trionfi gli furono amareggiati dalle disgraziate amministrazioni di
teatri. Sua moglie sassone, rinomatissima, empì il mondo delle sue gare
colla Festa-Mattei, siccome da poi quelle fra la Taglioni e la Cerrito
poterono far all’Italia dimenticare le supreme quistioni sociali.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this Doctrine Publishing Corporation Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 13 (di 15)" ***




Home