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Title: L'incantesimo
Author: Butti, Enrico Annibale
Language: Italian
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                              E. A. BUTTI


                             L’INCANTESIMO


                                ROMANZO.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1897.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

    _Riservati tutti i diritti, compreso in Isvezia e in Norvegia._

                         Tip. Fratelli Treves.



ALLA MEMORIA SACRA DELLA MAMMA

                                                      4 gennaio 1895.



I.

LA SIRENA.



Nota dell’Autore.


Le idee politiche e sociali, attribuite al protagonista di questo
romanzo, sono state attinte in gran parte dagli articoli che il
compianto conte Alberto Sormani pubblicò nella _Idea Liberale_.

Debbo anzi soggiungere che il concetto fondamentale dell’opera nacque
e si svolse in me sùbito dopo la morte del carissimo e nobilissimo
compagno, avvenuta nella estate dell’anno 1893, — morte che tante e
sì belle speranze troncò, disperdendo, per un oscuro capriccio del
Destino, una moltitudine di possibilità insolitamente lusinghiere.

Ne _L’Incantesimo_ non è la Morte che distrugge. Un altro gran fatto
della Vita esercita razione dissolvitrice su l’individuo, un altro
fatto elementare, generale e continuo — come la Morte — che agisce
forse con minore lestezza, ma certo con uguale intensità e altrettanta
efficacia.

Queste cose ho voluto dire, innanzi tutto per ricordare in fronte alla
mia opera il nome dell’amico perduto, che l’ha ispirata; e poi anche,
per mettere in guardia il lettore su la conclusione di questa prima
parte, conclusione che non è definitiva.

                                                             E. A. B.



I.

L’APPARIZIONE.


Una campanella acuta e stridula singhiozzò ostinatamente nel silenzio.

Il giovine conte Aurelio Imberido, allo squillo subitaneo, si scosse
con un moto brusco su la sedia a sdrajo, dov’era caduto in sopore
mentre studiava e meditava con un grosso volume di economia politica
tra le mani; fissò per un attimo, istintivamente, gli occhi ancor
torpidi su la pagina aperta del libro; poi lo scagliò d’un tratto
lontano, verso una tavoletta d’ebano già tutta ingombra di fascicoli e
di fogli scritti. Il libro cadde a terra in piatto, sollevando un romor
secco d’esplosione e un nuvolo di polvere.

Era l’ora del tramonto: dalle stecche delle persiane richiuse, un
livido chiarore penetrava a pena nella camera, come una triste luce
lunare. A poco a poco l’aria ambiente era andata imbrunendo durante
il sonno del giovine, e al richiamo della campanella questi con suo
ingrato stupore s’era trovato là disteso e immemore, avvolto in una
semioscurità che non gli permetteva più di distinguere i caratteri
del libro in lettura. Egli ebbe nel levarsi un gesto d’ira, quasi di
sdegno contro il suo frale organismo che gli aveva rubato per riposarsi
un tempo prezioso; e si diresse a passi concitati verso il vano del
balconcino.

Spalancò le persiane con violenza, e uscì fuori all’aperto. La stanza
da studio guardava a levante, incontro alla collina e al vecchio
giardino del palazzo dagli alti abeti, dai grandi cedri svettati,
dalle innumerevoli statue bianche. In quel chiuso paesaggio i rossori
del tramonto non mandavano un riflesso; ogni tinta vi si ammorbidiva,
assumendo tonalità viepiù discrete e quietanti.

Il cielo appariva già cupo, sebben non anche solcato da stella; le
piante nell’orto, le vigne serpeggianti lungo i lividi scaglioni,
le praterie presso i culmini parevan fresche e umide come dopo una
pioggia; soltanto, dietro la linea pacata dei colli, la nuda solitaria
piramide del Sasso del Ferro si slanciava verso l’azzurro, ancor rosea
e calda dell’ultimo bacio solare.

Aurelio, appoggiato con le braccia alla ringhiera, guardò la montagna
luminosa con uno sguardo corrucciato, in cui una punta d’invidia
pareva. Era pertinace il suo dispetto; egli non poteva perdonarsi
quelle due ore d’incoscienza, che il suo corpo aveva pur dritto
d’esigere dopo una notte insonne. La sua paradossale opposizione alle
leggi della Natura aveva sofferto un’altra piccola sconfitta: egli
s’era imposto di studiare fino all’ora del pranzo, e non l’aveva potuto
perché il sonno gli era piombato sopra d’improvviso, strappandolo alla
sua volontà. — Il giovine, com’era abituato dalla solitudine e dalla
vita contemplativa alle riflessioni larghe e sintetiche, pensò a questo
duello strano, disperante che la sua tempra di ribelle gli imponeva
anche contro l’Invincibile; e sorrise mestamente, non senza però un
certo fondo di simpatia e d’ammirazione per la sua bellicosa debolezza.

Aurelio Imberido contava a quel tempo venticinque anni o poco
più. Di statura media e alquanto esile, se non eran le sue forme
complessive quelle del perfetto tipo virile, aveva egli bensì una
testa singolarmente nobile, che sola bastava a designarlo come il
prodotto d’una razza superiore, diretta da secoli per una serie di
generazioni progressive verso le sommità della Specie. Il naso lungo,
profilato, regolarissimo, partiva dalla fronte estesa, alta e ben
lunata, disegnando una linea diritta, a pena un po’ prona su la fine;
la bocca era larga, sincera, senza pieghe malinconiche o amare; sotto
la breve barba nera a punta, il mento e l’arco dell’osso mascellare,
a bastanza sviluppati, chiudevano armonicamente ed energicamente
l’ovale del suo viso. Contrastavano con la forza e la purezza di
tutti i suoi lineamenti gli occhi e il color della pelle: gli occhi
piccoli e glauchi, che parevan coperti come da una tenue velatura
lattea, nel rossore delle palpebre e della cornea accese da un’ostinata
infiammazione; il color della pelle, ch’era femmineo, bianchissimo,
anzi pallido, d’un pallor tenero e unito senza irradiazioni rosee e
senza livide ombre.

Il portamento altero del capo, la foga del gesto, certi sguardi
profondi, investigatori, talvolta quasi molesti nella loro
velata fissità, l’uso assiduo d’abiti oscuri e di cappelli flosci
caratterizzavan così la sua persona, che vista una sola volta non si
poteva dimenticare mai più.

Estremo discendente d’una famiglia aristocratica, che aveva dato
alla storia più nomi illustri di capitani e di diplomatici, il conte
Imberido dai primi anni di giovinezza aveva sentito il bisogno di
dominare, di farsi largo tra la folla, d’empire il mondo della sua
persona e delle sue virtù. La sua famiglia, un tempo doviziosissima,
aveva attraversato nell’ultimo secolo un periodo disastroso: le
rivoluzioni avevan sottratto gran parte delle antiche ricchezze all’avo
suo Gian Franco, morto gloriosamente in esilio dopo aver sacrificato
ai nuovi ideali democratici anche le tradizioni della sua stirpe,
sposando per amore la figlia d’un martire, povera e di modestissime
origini. Il padre suo Alessandro, superbo e sensuale, forse per
nascondere la sua ruina agli altri e a sè stesso, aveva sperperato in
lusso e in vizii il resto del patrimonio avito e quasi intera la dote
della moglie, un’assai nobile donna che il primo parto aveva condotta
irrimediabilmente al sepolcro. In fine anch’egli, ebete e distrutto,
s’era spento ancor giovine, lasciando nelle strettezze il figliuolo
poco più che trilustre e la vecchia madre sessantenne.

Aurelio rimase così, orfano e quasi miserabile, erede d’una secolare
tradizion di grandezza, in faccia all’avvenire fosco e minaccioso. Il
suo spirito si temprò nella sventura e nell’abbandono. Egli comprese
sùbito che lo studio, solamente lo studio nei tempi nostri avrebbe
potuto renderlo degno del suo nome e capace di riaccendere intorno a
questo una nuova aureola di superiorità e di potenza. Si nudrì adunque
di letture varie e profonde, esercitò il suo ingegno in ogni campo
dello scibile, sviluppò le sue preziose facoltà con le meditazioni più
acute e le ricerche più diligenti. E, sfuggendo ogni occasione di svago
e di riposo, s’appartò in una specie di chiostro intellettuale dove gli
echi del mondo non gli giungevan che affiochiti come voci sotterranee e
irreali.

Fu in una siffatta solitudine che si precisarono a poco a poco le
sue ingenite tendenze di dominatore: gli insegnamenti della filosofia
positiva e sopra tutto quelli della sociologia e dell’economia politica
gli aprirono un vasto orizzonte d’azione e di ridenti possibilità.
Eran le lotte della vita pubblica, che lo chiamavano, che promettevano
al suo sogno d’effettuarsi: per esse non avrebbe mancato, con la
sua intelligenza, la sua coltura e la sua forza morale, di togliersi
dall’oscurità in cui era immeritatamente caduto e divenire una persona
insigne, un condottiere d’uomini inermi, come già qualche suo avo era
stato d’uomini armati.

Uscì a vent’anni, gravido di scienza e d’illusioni, dalla sua
biblioteca, dove omai gli pareva di soffocare, e si gittò tosto
perdutamente nella mischia, tra la folla, alla dolorosa conquista
d’una gloria. La sua ingenua sincerità, la singolarità delle sue idee,
lo splendore della sua dottrina non tardarono ad attirare su lui
l’attenzione malevola di tutti quanti già combattevano nella lizza
politica, sciupati dal contagio popolare, corrotti dall’esperienza,
avvelenati da una vanità insodisfatta o dalle umili esigenze della vita
quotidiana. La Rivista di sociologia, ch’egli aveva fondata con quattro
o cinque coetanei trascinati dal vento del suo entusiasmo, fu accolta
da costoro con l’indifferenza beffarda che schiaccia senza toccare:
essi risero discretamente alle sue spalle, malignarono un poco sul suo
gran nome e su la sua povertà, lo giudicarono uno spirito eccentrico e
malfermo, poi continuarono tranquilli la loro via senza più curarsi di
lui o di quanto egli scrivesse.

Questo primo insuccesso tra le persone più autorevoli della città
non fece che spronare il giovine a proseguir la sua campagna con
maggior pertinacia e con miglior discernimento: abituato in solitudine
a giudicar tutto e tutti indipendentemente dall’opinione comune,
egli si sentì onorato dalla sorda ostilità e dal disdegno, che gli
venivan tributati da gente ambigua, spregevole, senza coltura e senza
convinzioni di sorta. E, più che non mai fiducioso nel suo programma
che sapeva fondato sopra solide affermazioni della scienza e della
filosofia, si diede ben tosto a ricercare altrove il suo pubblico di
seguaci e d’ammiratori.

Era una grande opera di restaurazione sociale ch’egli aveva meditata
e voleva pazientemente iniziare. — Gli statuti, le leggi, le formule
correnti e le teorie preferite nei tempi nostri minacciavano, secondo
lui, il progresso avvenire della Specie, poiché tendevano a soffocare
la lotta per l’esistenza, a rinnegare il principio ereditario, a
distribuire i diritti e i poteri e i beni con criterii astrattamente
numerici in opposizione agli esempii della Natura. Le torbide
condizioni della società contemporanea, abbandonata omai all’arbitrio
delle masse, dipendevano sopra tutto dall’acquiescenza quasi criminosa
delle classi superiori, che avevano piegato il capo sotto la violenza
o si eran morbosamente commosse alle declamazioni e ai sofismi della
democrazia. Rassegnati o apóstati, gli uomini che, affinando il corpo
ed elevando lo spirito con le più aspre discipline, avevan già tenuto
nelle loro mani i destini della razza, erano in atto d’abbandonare armi
e insegne a coloro, che una lunga servitù e una secolare ignoranza
rendevano indegni nonché di governare e di giudicare gli altri, anzi
di godere della stessa loro libertà d’azione e di pensiero. Occorreva
dunque risvegliare dal letargo o dal sogno quei nobili immemori della
loro storia; occorreva chiamare sollecitamente a raccolta tutti quelli
che si erano adattati al presente stato di cose, per debolezza, per
inerzia o per disdegno; occorreva ricostituire una nuova aristocrazia
battagliera con i resti dell’antica e i doviziosi e gli eletti, per
arrestare a forze riunite il cammino della barbarie plebea, ebra dei
successi ottenuti, bramosa di devastazioni e di rapine.

Con un programma così audace e insolente, esposto però con sottile
abilità, senza precipitazione e senza intemperanza di parole,
la Rivista dell’Imberido trovò alfine un pubblico di curiosi e
d’apprezzatori laddove appunto egli desiderava, tra le persone cólte e
facoltose, tra gli uomini di scienza, tra i filosofi, tra gli artisti.
La cerchia dei collaboratori venne man mano allargandosi; la polemica
con gli avversarii, sopra tutto socialisti, s’accese vivace e cortese;
uno scambio elevato d’idee si determinò tra i due campi, precisandone
gli intendimenti, lumeggiandone la profonda divergenza di principii,
preludendo pacificamente alla gran lotta che i tempi maturano e
l’avvenire dovrà decidere in favore degli uni o degli altri.

Ma il giovine non poteva appagarsi del successo di curiosità ottenuto
dal periodico, né della effimera nomea che gli davano i suoi articoli
succosi e cristallini. Egli voleva lasciare una traccia più notevole e
più duratura di sè; egli voleva organizzare in un libro il complesso
delle idee che spargeva disordinatamente e a seconda delle occasioni
nella Rivista.

Ottimo consiglio gli parve, poiché omai il periodico aveva conquistato
pubblico e fortuna, il ritrarsi dalla lotta viva, per qualche tempo;
molto più che la stagione calda incominciava, e la città era divenuta
intollerabile sotto un sole assiduo che fiaccava forza, volontà e
ingegno. Durante la sua assenza, i compagni senza difficoltà avrebber
potuto continuare l’opera da lui intrapresa, e al bisogno egli, anche
da lontano, li avrebbe sorvegliati e consigliati a dovere.

Dopo aver raccomandato la Rivista alla direzione d’uno de’ suoi più
ardenti collaboratori, il giovine avvocato Zaldini, egli, con un’enorme
cassa di libri e di carte, si ritirò in un piccolo villaggio del
Verbano, a Cerro, dove contava di passare l’estate e l’autunno in un
assoluto isolamento.

Il palazzo, di cui l’Imberido aveva preso a fitto soltanto l’ala
sinistra, era un antico monasterio divenuto più tardi dimora padronale.
Seduto maestosamente a mezzo del villaggio su un rialto erboso, esso
apriva le sue rade finestre e i suoi due rozzi balconi laterali a
una vista superba, di fronte alla massima estensione del lago, che
ivi s’ingolfa profondamente verso la valle del fiume Toce e le creste
del Sempione. Era un’architettura primitiva, quasi immutata dal tempo
in cui i monaci l’avevan costrutta: liscia, densa, disadorna nel suo
esterno, s’alleggeriva e s’aggraziava internamente dove un cortile
recinto da un doppio ordine di portici diceva ancora il gusto e la
possanza degli antichi proprietarii. Le stanze eran tutte a vólta,
semplicissime, ben quadrate, sebbene un po’ tenebrose per la scarsità
e l’angustia delle luci. A pian terreno un pertugio a mo’ di grotta
metteva in comunicazione il cortile col primo spianato d’un giardino
veramente mirabile.

Il palazzo confinava da una parte col letto d’un torrente sempre
gravido d’acque, dove i pallidi armenti scendevano al meriggio per
dissetarsi; dall’altra parte, con la piazza principale del Comune, una
ristretta superficie inclinata verso il lago, cui facevan corona alcuni
abituri addossati l’uno all’altro in disordine e l’umile prospetto
della chiesa parrocchiale. Il villaggio poi era quieto, muto, come
spopolato; un rifugio di pescatori insociabili, che parevan uscire
soltanto a vespro dalle dimore per mettere, su la riva già ottenebrata,
mobili profili neri, simili a fantasmi.

La campanella acuta e stridula squillò un’altra volta, anche più a
lungo nel silenzio. Aurelio, ch’era rimasto immobile al balconcino,
gli sguardi perduti nel vuoto, forse oppresso ancora dai residui
della sonnolenza, si scosse. Quel secondo richiamo era dedicato a
lui che, come d’abitudine, tardava a presentarsi alla mensa; ed egli,
dallo strappo vibrato, disuguale, sebbene un po’ debole, che moveva
la campana, riconobbe esser la nonna medesima che lo sollecitava.
Con un atto neghittoso si passò le mani su gli occhi, quasi si fosse
risvegliato in quel punto, rientrò a passo incerto nella camera già
invasa dall’ombra, raccattò il libro caduto a terra, e poi si risolse
non senza sforzo a discendere per il pranzo.

La mensa era preparata nel mezzo d’una gran sala umida e tetra a pian
terreno, assai più lunga che larga, le cui pareti tra le scrostature,
le livide macchie e le pallide emanazioni del salnitro mostravan qua
e là brani a pena decifrabili di pitture a fresco. Quella piccola
tavola rettangolare, così bianca nella bianca tovaglia su cui piombavan
concentrandosi di sotto al paralume opaco i raggi bronzei della
lampada, pareva fosforescente nella vasta oscurità del luogo.

Aurelio, dopo un breve indugio su la soglia, entrò.

Donna Marta, che stava già seduta al suo posto di fronte all’uscio e
mangiava, alzò il viso dalla scodella fumante per gittargli uno sguardo
gonfio di rimproveri. Era una vecchia donna d’oltre settant’anni,
magra, distrutta, rattrappita, pallida d’un pallor cereo, quasi orrida
nei lineamenti che l’età e l’indole impulsiva avevan devastati: un gran
naso aquilino, cartilaginoso, spiccava in maniera grottesca nel mezzo
della sua faccia; il mento, troppo forte e sporgente, faceva sì che il
labbro di sotto soverchiasse quello di sopra fin quasi a coprirlo; i
capelli grigi e copiosi, inanellati alla foggia antica, ondeggiavanle
a cernecchi intorno alle orecchie e su l’occipite con una triste
caricatura di giovinezza. Eppure ella non era fastidiosa nè ripugnante
a vedersi, specialmente se la si osservava con un poco d’attenzione
e di continuità. In fatti nel lampo degli occhi, due grandi occhi
nerissimi dilatati da una lunga malattia al cuore, e nel facile sorriso
che scopriva la dentatura ancor ricca, e nella mobilità vertiginosa
delle espressioni, donna Marta possedeva una specie di grazia
affascinante che accattivava la simpatia di chiunque la conoscesse.

— È almeno mezz’ora che t’aspetto! — ella brontolò sordamente,
fissandolo con la faccia scura. — Come sempre, mi son dovuta risolvere
a pranzar sola. Nessuno al mondo, per tua norma, non mi ha mai fatto
aspettar tanto: nè il tuo povero padre, nè il mio povero marito. Essi
però mi rispettavano, mentre tu non hai proprio alcun riguardo per
me!...

Era la solita occhiata minacciosa che lo riceveva quand’egli compariva
in ritardo su quella soglia; eran le solite parole aspre con le quali
s’inaugurava troppo spesso il pasto familiare. Senz’aprir bocca, con
un lieve sorriso benevolente su le labbra, il giovine sedette a tavola,
versò flemmaticamente la sua parte di zuppa nella scodella e incominciò
a mangiare.

Egli aveva fatto l’abitudine a queste brusche accoglienze. Egli
d’altra parte sapeva che l’umore dell’avola non poteva avere stabilità
e tra poco ella medesima si sarebbe dimenticata d’essere in urto con
lui. In quel cervello bizzarro le idee, le imagini, le volizioni si
rincorrevano con una singolare rapidità, senza un nesso determinato,
per un principio di degenerazion nervosa che la rendeva intollerante
di qualunque stato fisso dello spirito. Tacere adunque, in aspettazione
della prossima crise psichica, era ancora il miglior sistema per vivere
in concordia e in armonia con lei.

Un silenzio seguì. Fu donna Marta che parlò prima; e parlò amabilmente
con la sua voce chiara e giovenile dei momenti buoni, che tanto
contrastava con la decrepitezza della sua figura.

— Aurelio, sai dunque la gran novità?

— Che novità? — domandò il giovine, sorridendo.

— Eh, càspita, sono arrivati i nostri vicini, or fa una mezz’ora.
È stata una festa per questo paese! Cerro è tutto in fermento: la
spiaggia d’avanti al palazzo sembra un magazzeno di casse, di cassette,
di bauli, di valige! Tu vedessi: la popolazione vi si è riversata
in massa per assistere allo sbarco, per prender parte all’opera
di sgombero che continua ancora. E il ricevimento degli ospiti
fu clamoroso, addirittura trionfale: ò visto alcune contadine che
sventolavano i fazzoletti, mentre i monelli grandi e piccini gittavano
in aria i berretti, urlando a squarciagola: «Evviva, evviva!» Ti
garantisco: una scena curiosa che mi à divertita più che a teatro!

La vecchia parlava assai forte, alternando le intonazioni basse della
voce con le acute, sottolineando le frasi con certi gesti enfatici
che la mettevan tutta scompostamente in agitazione. A ogni tratto però
era costretta a interrompersi per riprendere il fiato; e lo sforzo era
visibilmente penoso.

— E perché tanto chiasso per alcuni villeggianti che arrivano? — chiese
Aurelio con un’aria d’indifferenza. — Per noi non si è fatto niente di
simile, mi pare.

— Càspita, si capisce! Tutti li conoscono qui in paese: sono ormai
dieci anni che vengono a passar l’estate e l’autunno a Cerro. E poi
l’ingegnere, lo sai, è amministratore di tutte le possessioni che ha
nei dintorni la marchesa de Antoni. Qui anzi lo si chiama senz’altro:
il Padrone.

— Il Padrone! — ripetè il giovine con un sogghigno amaro, rivedendo
d’innanzi a sè la figura imbelle e servile dell’ingegner Boris.

— Sicuro. Questa buona gente non ha mai visto e conosciuto che lui: se
ha ricevuto del danaro fu dalle sue mani; se ne ha consegnato fu nelle
sue mani. È naturale che lo si creda il proprietario e lo si chiami
così.

— Naturalissimo, — egli soggiunse per troncare il discorso.

La notizia dell’arrivo inaspettato l’aveva turbato e reso un po’
perplesso. Egli non conosceva le abitudini de’ suoi vicini, e temeva
che queste potessero in qualche modo disturbarlo o distoglierlo dalle
sue occupazioni. Aveva voluto esser solo, libero, sottratto agli
strepiti e agli svaghi: per ciò solamente s’era risolto a lasciare non
senza rimpianti la città e a ritirarsi in campagna. Anzi, nel prendere
a fitto una metà del palazzo di Cerro, l’Imberido s’era particolarmente
informato di coloro che avrebbero abitato l’altra metà, e aveva saputo
che la famiglia dell’ingegnere vi sarebbe venuta molto tardi, amando
di passare i mesi caldi dell’anno su l’alta montagna, in Engadina o nel
Tirolo. «Verremo probabilmente in principio di settembre, tutt’al più,
se la stagione non sarà buona, alla fine d’agosto,» gli aveva detto
l’ingegnere medesimo nell’accomiatarlo. Or come mai, proprio quest’anno
per la prima volta, egli anticipava così il suo arrivo a Cerro?

Aurelio, ch’era rimasto per alcuni momenti assorto e pensieroso, si
rivolse d’un tratto a donna Marta, con gli occhi accesi da un primo
lampo di curiosità:

— Sono qui soltanto per pochi giorni, non è vero?

— Chè, ti pare? — ella rispose. — Avrebber portata tanta roba per pochi
giorni? Io credo che si fermeranno tutta la stagione.

— Ma no.... Se l’ingegnere, quando lo vidi l’ultima volta a Milano,
m’assicurò che non sarebber venuti fino a settembre....

— Si vede che han cambiato di parere, — concluse donna Marta con
sicurezza; — ed io certo non me ne lamento. Tutt’altro! In questo paese
maledetto, dove m’hai relegata, morivo di tedio e di tristezza: sempre
sola, sempre sola, sempre sola.... Essi mi terranno almeno un po’ di
compagnia. Son persone assai per bene, e, a quanto pare, simpatiche,
espansive, allegre....

Ella seguitò così per molto tempo a parlare dei nuovi arrivati, con
quella sua loquela colorita e asmatica, che incatenava l’attenzione e
insieme faceva pena. — Questa famiglia Boris, a quanto ella asseriva,
si componeva in tutto di tre persone: l’ingegnere, sua moglie — una
bella donna ancora, bruna, elegante sebbene un po’ pingue —, e la loro
figliuola di vent’anni o poco più, bruna anch’essa come la madre e
singolarmente graziosa: alla descrizione minuta, che donna Marta faceva
di lei, una imperfettibile figurina da oleografia. Il suo nome era
Flavia, ella l’aveva sentita chiamare ripetutamente da’ suoi parenti.
Insieme con loro i Boris avevano anche condotta un’altra giovinetta, —
una nipote, un’amica di Flavia o, forse, un’istitutrice? — della quale
la vecchia non aveva notato che il color dei capelli, e diceva ch’era
bionda, d’una biondezza pallida, cinerea, quasi bianca.

— Quando l’ingegnere se ne sarà andato, poiché certo la sua professione
lo richiamerà presto in città, rimarranno le signore; e con queste,
grazie a Dio, si potrà scambiare qualche parola, passare un po’
di tempo piacevolmente. Tu mi hai trascinata per un capriccio in
quest’eremo, e poi non ti sei più ricordato di me, come proprio non
esistessi. Ti sei segregato nella tua stanza, il cui accesso mi fu
_perfino_ vietato, e chi t’à visto, t’à visto!.... Sai? Se i Boris
non arrivavano, io pensava già di ritornarmene a Milano, e al più
presto!.... anche sola. Da vero non c’è una ragione perchè io vecchia
e malata m’abbia sempre a sacrificare per te che sei giovine e stai
bene. Ho poco da vivere, caro mio; e, quel poco, non lo voglio sciupare
stupidamente in tanta malinconia e tanta noja, per farti piacere.....

La voce di donna Marta a poco a poco ritornava irosa: l’astio
inguaribile contro il nipote, astio che aveva le radici in un profondo
attaccamento affettivo, spuntava di nuovo nelle sue parole. Tutte le
accuse accumulate su di lui rompevan di nuovo dal suo cuore, esacerbato
dalla malattia e dalle acute esigenze senili alle quali Aurelio non
sapeva spesso corrispondere. «Oh, ella lo capiva bene! Quell’arrivo
inaspettato non gli andava a genio: egli avrebbe preferito di lasciarla
morir di tedio in un deserto piuttosto che sopportare un piccolo,
problematico disturbo! Sicuro; egli non si smentiva mai, mai: era
sempre quello stesso egoista che non si curava di nulla e di nessuno,
tanto meno poi di lei, povera vecchia inferma! Ma dove aveva dunque il
cuore? dove l’aveva?»

Il giovine taceva, e il suo ostinato mutismo stuzzicava la collera
dell’avola. Ella infatti seguitava, affannosamente, alzando viepiù
la voce, rimescolando nel passato le colpe e le mancanze e le
trascuratezze del nipote. E incominciava già a intenerirsi su la
propria sorte sventurata, a spargere anche qualche lacrima per amaro
conforto delle sue diuturne sofferenze.

Aurelio intanto, con gli occhi bassi su la mensa, senz’ascoltare
quel fiotto intempestivo di rimproveri, meditava in preda a un sordo
turbamento su le conseguenze possibili d’una siffatta vicinanza. —
C’eran dunque due giovini donne tra i nuovi arrivati al palazzo? Le
avrebbe egli conosciute? Avrebbe forse dovuto vederle ogni giorno per
casa, conversare con loro, accompagnarle nelle passeggiate, sacrificare
in somma una certa parte del suo tempo prezioso per non incorrere nella
taccia di scortese e d’incivile? Tutto ciò lo sgomentava, quasi come
l’aspettazione d’una probabile avversità. E non era tanto l’idea (già
per lui così grave) del tempo disperso, d’un ozio obbligatorio, che più
l’angustiava: era anzi quella d’un’assidua domestichezza con la Donna,
con questo essere inferiore e ammaliante ch’egli non conosceva per
pratica ma aveva teoricamente giudicato come il più terribile nemico
della personalità, il dèmone simbolico della Specie che distrugge
l’individuo.

Fin da giovinetto egli aveva appreso a valutare la fatale potenza
della Sirena: la prima apparizion femminea su la soglia della sua anima
era stata causa d’una commozione così profondamente paurosa, ch’egli
n’aveva avuto mòzzo il respiro e il cuore squassato. D’allora in poi
l’istinto animale di fuggire, di nascondersi, di sottrarsi con un
mezzo vile a un fascino misterioso, l’aveva sempre tenuto e dominato,
ogni qual volta gli fosse occorso di trovarsi al cospetto d’una donna
giovine e piacente. Questa selvatica timidità — forse l’effetto d’un
temperamento eccessivo, forse piuttosto la resultante di due correnti
psichiche in opposizione — rappresentava certamente un lato debole,
il più debole del suo carattere; ma egli si compiaceva, in vece,
d’interpretarla come una forza, anzi come una virtù. Con uno di quegli
artificii maliziosi, che l’uomo usa a sua intima giustificazione,
Aurelio Imberido si giudicava migliore e superiore degli altri, perchè
(fuggendo la donna) egli sapeva vivere senza di lei e poteva evitare i
guai e gli errori di cui son prodighe le relazioni amorose.

Facile inganno, poichè realmente non aveva ancor messo alla prova del
fuoco la sua presunta virtù. Ora l’occasione di saggiarla era venuta,
ed egli, ostinato nella sua arte d’illudersi, preparava già un piano
per iscansare abilmente questa occasione. Egli pensava: «Io non mi
farò vedere nelle ore pericolose! rimarrò chiuso ermeticamente nella
mia camera; se sarò costretto a conoscerle, farò loro intendere dal
principio che non si può assolutamente contare su la mia compagnia,
perchè io sono molto occupato e non debbo essere distratto.» Anche,
pensava: «In fine la mia bella libertà vale un lievissimo sacrificio
d’amor proprio: mi chiamino orso, mi credano scortese e incivile. Che
mi fa della loro opinione? dell’opinione di due femmine!»

— Tu non mi dài ascolto, Aurelio; — proruppe d’un tratto donna Marta;
— tu non ti degni più di sentire nè anche quello che dico!.... Ebbene
bada, Aurelio: la mia pazienza ha un limite! Se un’altra volta, appena
suonata la campana, non discendi sùbito, io faccio immediatamente i
miei bauli, e me ne torno sola a Milano!

Queste parole furon proferite a voce alta e squillante, con tragica
solennità, nel silenzio della gran sala piena d’ombre e di mistero.
Strappato per forza alle sue meditazioni, il giovine dovette ascoltarle
tutte quante con attenzione, e su l’inizio anche con una certa inquieta
curiosità. Come però intese il senso della minaccia, un lieve sorriso
involontariamente gli increspò le labbra: quell’inaspettata ripresa
finale del primo argomento di rimprovero parve a lui una specie di
ritornello con cui l’avola volesse chiudere esteticamente la sua irosa
canzone.

Il pranzo era terminato. Aurelio si levò in piedi, e disse con voce
assai carezzevole:

— Via, mamma, un po’ di calma! Tu ti riscaldi senza motivo: lo sai che
ti fa male!

Quindi, tranquillamente, uscì dalla stanza.

Gli parve, rivarcando la soglia, d’udire dietro di sè uno scoppio di
singulti. Rimase un po’ incerto, titubante se dovesse ritornare presso
la nonna, o se in vece fosse meglio lasciarla sola ad acquetarsi.
Preferì quest’ultimo consiglio. A passi rapidi attraversò l’anticamera
buja e il cortile, i cui portici nella semioscurità sembravano avere
una profondità singolare; e uscì dal palazzo sul rialto erboso, dove si
lasciò cader di peso sopra uno dei sedili di granito ch’erano ai canti
della porta incastrati nel muro.

La spiaggia, d’avanti a lui, era quasi deserta: soltanto l’ombra nera
di qualche pescatore spiccava laggiù presso le barche, di tra i fusti
dei salici, sul lucido riflesso dell’acqua. Non una voce, non un
passo, non uno strepito turbavano il vasto silenzio crepuscolare, che
il fioco anelito dell’onda morta scandeva regolarmente con un ritmo
lento e strascicato. Un lezzo fatuo di pesci e d’alghe fracide saliva
a intervalli dal lago, come una respirazione nauseosa, corrompendo
il profumo delle erbe aromatiche ancor calde di sole e il buon odor
cereale della paglia raccolta a fasci d’oro su l’aja comune.

Nel vespero sereno un estremo chiarore profilava tuttora nettamente
le cime dei monti: prima la linea continua e dolcemente ascensionale
del Motterone, poi il gran dorso gibboso dell’Eyenhorn, poi i picchi
arcigni delle Alpi bianche per neve, poi il pizzo di Proman e la brusca
elevazion dentata della Zeda che declinava novamente verso settentrione
fino a nascondersi dietro il ceppo brunastro delle casupole di Cerro.
Su tutto il paesaggio, sul cielo, su la terra, sul lago si distendeva
uno strato di vapore violaceo, come un fitto velo che ne modificasse
e offuscasse le tinte e i rilievi. A traverso quel velo, la riviera
opposta appariva quasi piana, senza promontorii e senza insenature:
la costa di Stresa, la curva del golfo, le isole Borromee, la punta
di Pallanza sembravan tutte su una linea sola, ininterrotta, ch’era
quella chiara dell’acqua, battuta dall’ultima luce occidentale.
Solamente l’acuta gola di Mergozzo, aperta incontro a Cerro, si vedeva
inabissarsi verso le lontananze dell’orizzonte: e il suo aspetto era
nebuloso, fantastico, sinistro, così sommersa nel vapor violaceo tanto
più denso quanto lo spazio cresceva.

Aurelio, il corpo rilassato su la rigida pietra, la testa appoggiata
per inerzia alla muraglia, fu preso da uno strano senso di stanchezza
e di malinconia al cospetto del paesaggio cupo e grandioso. Avveniva
dentro di lui una di quelle rarissime crisi d’abbattimento, che tal
volta piegavano e vincevano la sua forte fibra di lottatore. Durante
siffatte crisi il suo spirito, che le consuete astrazioni avevan
momentaneamente abbandonato, si smarriva in lente fantasie, cui le
sensazioni delle cose esteriori imponevan come una triste tonalità
minore. Alcuni pensieri insoliti in lui, alcune sepolte aspirazioni
della prima adolescenza, alcuni lontani ricordi del padre morto o
dell’avola vigilante con materna sollecitudine su la sua fragilità
infantile, passavano lievemente in quelle fantasie, a similitudine
di spettri esili e confusi, volanti verso una porta misteriosa.
Senza potersene rendere una ragione, egli si lasciava vincere e
intenerire dalle memorie. Egli sentiva nel fondo della sua anima
levarsi un grido spasimoso: egli sentiva arrivare dalle intime energie
dell’essere un impulso irresistibile verso qualche cosa oscura ma
supremamente necessaria alla sua vita. Ogni suo più ardente desiderio,
ogni sogno, ogni ideale pareva s’avviluppasse nel lugubre sudario
dell’indifferenza: la gloria era vana, l’umanità era trista, l’avvenire
incommutabile o non meritevole d’esser commutato. Uno scontento immane
del mondo e di sè stesso, un tragico bisogno di riposo finivano per
impadronirsi di tutte le sue facoltà; ed egli rimaneva come soffocato
nella stretta di tanta desolazione, deplorando le sue fatiche e le sue
ambizioni, anelando inutilmente a un Bene, ch’era la Morte ma poteva
anche esser l’Amore.

La strana crise sentimentale incominciò questa volta dal ricordo della
scena incresciosa con donna Marta e di quello scoppio di singulti che
gli era parso d’udire varcando la soglia della stanza. Da parecchi
giorni egli sopportava senz’alcun commovimento dell’animo le periodiche
esplosioni di mal umore che l’avola sfogava a preferenza contro di lui:
— un po’ per freddezza, un po’ per abitudine, un po’ per la convinzione
ch’esse fossero conseguenza irrimediabile e inevitabile della lenta
degenerazione ond’era esasperata l’indole di lei. Appena lo sfogo era
esausto o appena egli riusciva con un qualunque mezzo a sottrarsene,
Aurelio dimenticava sùbito le parole amare e non c’era caso che
ritornasse sopra queste con la memoria. Quella sera in vece, come
si trovò solo sul rialto del palazzo d’innanzi al lago silenzioso, i
ricordi del pranzo non tardarono a risorgere nel suo pensiero, più vivi
ed eloquenti degli stessi fatti reali.

Allora un’onda impetuosa di tenerezza, di pietà, di simpatia gli gonfiò
il petto, improvvisamente. L’imagine della nonna, della sua seconda
madre, ischeletrita dal morbo, disfatta dalla vecchiaja, dilaniata
da continue angosce, gli si presentò d’avanti agli occhi dell’anima,
come un’allucinazione. — Le stimate del dolore erano omai impresse
indelebilmente sul povero viso, ch’egli aveva veduto tante volte
curvarsi su di lui, con tanta bontà, con sì amoroso struggimento, nei
dì lontani! Certo: ella soffriva veramente durante quegli scoppii di
collera ingiusta contro di lui; ed egli poteva rimanere impassibile e
quasi irridere alle sue sofferenze! La nonna, la sua seconda madre si
logorava di giorno in giorno, consumava in futili querimonie l’estreme
energie, andava piegando a poco a poco verso la fossa; ed egli non
sapeva trovar nulla in sè per renderle meno triste l’agonia, per
infondere un’ultima gioja in quell’anima moribonda!

La sua coscienza morale era profondamente rimorsa da queste idee;
il cuore era lacerato a sangue dalla tetra previsione. Aurelio si
sentiva legato all’avola da un vincolo indissolubile d’affetto; alla
morte di lei si vedeva già solo e perduto nel mondo, come un viandante
affaticato in una steppa senza confine. Un bisogno intenso d’appoggio,
di compagnia, di convivenza familiare palpitava dentro di lui. Gli
passavan nello spirito, in forma di sentimento vago, alcune afflizioni
del tempo trascorso, che parevagli dovessero rinnovarsi ingigantite
nell’avvenire. L’imagine della nonna sorgeva da tutte quelle memorie,
come un simbolo consolatore. La stessa imagine ondeggiava su quelle
aspettazioni, come un vacuo fantasma cui avrebbe inutilmente invocato
nelle ore dolorose.

Egli si domandò costernato: «A che combattere? In che sperare? Perchè
ostinarmi a vivere, quando ugualmente dovrò morire?»

Così la crise d’abbattimento incominciò; così lo scontento immane di
sè stesso e del mondo, il tragico bisogno di riposo s’impadronirono di
tutte le sue facoltà. La testa del giovine piegò lentamente sotto il
peso dei tristi pensieri involontarii; gli sguardi caddero al suolo,
e vi rimasero lungamente fissi, vitrei, acuiti, come penetrandone i
misteri.

In tanto su la spiaggia, d’avanti al rialto del palazzo, passarono,
di ritorno dai pascoli, le vacche cornute e corpulente, a una a una,
in lunga schiera, barcollando, gittando a tratti nell’aria i tremuli
e sordi muggiti; passarono le pallide pecore, strette e confuse in
gruppo, mute, quasi invisibili sul fondo grigio della terra; passarono
ultimi, salendo dal greto, i pescatori tardivi, recando su le spalle
le pertiche prolisse, le fiocine dentate, gli staggi dalle reti ancora
sgrondanti. Tutti, animali e uomini, scomparvero successivamente dalla
parte del villaggio, dove li chiamava al riposo lo squillo lento e
monotono dell’Ave Maria; e il vasto spiazzo fino al lago rimase affatto
deserto, inanimato, come assopito nell’ombra, in aspettazione della
notte imminente.

Su l’opposta riviera apparvero man mano le luci: Intra, la prima,
scintillò per vivaci fiammelle, disposte a intervalli regolari lungo
la costa; un gran faro d’oro s’accese su la punta di Pallanza e
rischiarò d’un riflesso ondulato l’acqua cupa; altri lumi dispersi
tremolarono qua e là, a Stresa, a Baveno, su i fianchi selvosi del
Motterone, laggiù, lontanamente, nei malinconici abituri di Feriolo.
In alto, quasi presso la vetta della Zeda, ben profilata ancora sul
cielo verdognolo, un enorme fuoco divampò d’un tratto, s’allargò come
un incendio di foresta; poi rapidamente declinò, si ridusse a un punto
rossastro nell’oscurità, si spense.

Quando gli ultimi tocchi dell’Ave Maria caddero inerti e flosci nel
silenzio crepuscolare, Aurelio, sorpreso dall’apparizione di quei
lumi annunziatori della notte, volle scuotersi dal suo accasciamento e
uscire da quella specie di sogno tormentoso. La crise era sul finire;
uno sforzo mediocre di volontà bastava a dissiparne i molesti residui.

Egli d’un balzo s’alzò in piedi, e rientrò nel palazzo. Attraversò il
cortile vuoto e bujo a testa alta, con quel piglio ardito e imperioso,
che talvolta la vision della folla gli suggeriva; si mise su per la
scala ottenebrata; percorse a passi rapidi il breve tratto di loggia
fino alla porta delle sue stanze; ne schiuse i battenti quasi con
violenza; entrò.

Dal balcone spalancato penetrava l’estremo pallore del giorno morto; in
quel pallore i mobili non avevan più tinte, spiccavan neri e angolosi,
simili a ombre più che a oggetti reali. La brezza, che saliva dalla
prossima valle, faceva stormire dolcemente la pineta nel giardino,
agitava gli apici d’alcune fronde di glicina arrampicate lungo la
ringhiera, irrompeva fin nella stanza, suscitando deboli fruscii nelle
carte sparse su la tavola centrale. Di quando in quando al soffio
alterno le tende paonazze si gonfiavano con un largo moto d’espansione,
come un respiro profondo.

Trovandosi nel luogo prediletto, Aurelio riacquistò totalmente la
serenità e la sicurezza consuete dello spirito. S’arrestò, estasiato
dal subitaneo benessere che tutto lo invase, in mezzo alla stanza.
Era ben quello il rifugio sacro agli studii, il tempio delle superbe
ambizioni e delle speranze immortali. Da quell’umil rifugio egli,
come un’aquila destinata ai trionfi, avrebbe preso il gran volo per
il mondo popoloso, alle battaglie del progresso umano, alla conquista
della gloria. Che cosa omai avrebbe potuto arrestarlo? Quale forza
terrena sarebbe riuscita a opporsi all’impeto del suo ingegno e della
sua volontà? Egli si sentiva giovine, sano, energico, incorrotto
anzi incorruttibile dalle avversità e dalle passioni: egli si sentiva
veramente un Eletto fra i suoi simili.

Allargò le braccia vittoriosamente, le stese ritte sopra il capo
orgoglioso, agitò le mani nell’aria, sorridendo trasfigurato dalla
gioja al suo destino, ch’era scritto in alto, molto in alto nei misteri
azzurri del cielo. «Chi, chi può dunque mutare il destino?» egli disse
a voce spiegata, in atto di sfida.

Un acuto scroscio di risa, d’una insolente gajezza, si levò in quel
punto dal parco silenzioso. Alle risa successe una pausa, un susurro di
voci femminili a pena sensibile; poi le risa ricominciaron da capo, più
forti, più gioconde, irrefrenabili. Aurelio, che aveva già dimenticato
l’arrivo dei vicini annunziatogli dall’avola durante il pranzo, fu
sorpreso da quell’insolito strepito nella calma imperturbata della
campagna. Spinto dalla curiosità, e un poco dal dispetto che quel riso
importuno aveva mosso in lui, s’affacciò al balcone per osservare chi
dunque osava disturbarlo nel suo rifugio.

Sopra una delle scalee marmoree, che adducevano al secondo spianato
pensile del giardino e alla pineta, stavan ritte, appoggiandosi con
una squisita grazia signorile alla balaustrata, due giovini donne
assai eleganti nel chiaro costume estivo. Le loro persone uscivan
tutte intere, ben definite dal candore del marmo: entrambe, alte
ugualmente, apparivano snelle, di forme molto leggiadre, con gli omeri
un po’ sostenuti e la cintola strettissima sopra i fianchi leggermente
arcuati. Una, roseo vestita, era bruna di capelli, e gli si presentava
di fronte, con gli occhi e i denti illuminati dal riso; l’altra in un
attillato abito celeste, volgendogli le spalle, mostrava una splendida
capigliatura bionda, raccolta in un denso intreccio su l’occipite. E
nulla superava la grazia di quel gruppo fiorente di giovinezza, sul
bianco della scalea, nella luce favolosa del crepuscolo.

Aurelio, in vederle, le riconobbe. Rammentò le descrizioni dell’avola;
rammentò ancora i molesti pensieri e i disegni di prudenza che l’arrivo
imprevisto di quelle fanciulle aveva in lui suscitati. Volle sùbito
ritrarsi, ma una strana compiacenza gli impedì di muoversi: i suoi
sguardi rimasero fermi come incantati dall’estetica apparizione.
Mentr’egli così la contemplava, un turbamento pànico e pur dolce si
veniva man mano impossessando del suo spirito assorto e maravigliato;
assomigliava questo turbamento alla leggera ebrietà che dà il dolce
vino spumante, mettendo tra i sensi e le cose una specie di velo
sentimentale, malinconico o giocondo, continuamente trepido. Al
giovine pareva di sognare. Passavano in fatti dentro di lui, come in
un sogno, impetuosamente, confusamente ricordi di scene o di letture
lontane, nebbiose imagini romantiche, fremiti fuggevoli di desiderio,
di curiosità o di speranza. Tutto ciò nasceva e si svolgeva per una
forza spontanea di fantasia, senza ch’egli potesse averne coscienza; e
le fibre della sua anima tremavan tutte, come fascio di corde sottili
strappate insieme da un plettro.

D’un tratto un nuovo scoppio fragoroso di risa salì dal parco. La
fanciulla bruna con un movimento repentino si volse, si diede a correre
all’impazzata su per la scalea, e, giunta al sommo, s’internò agile e
veloce nella pineta. Un roseo tremolìo illuminò per un attimo l’ombra
nera del bosco.

— Flavia! Flavia! — l’altra chiamò nel silenzio, ferma al suo posto,
attonita di quella fuga improvvisa.

Nessuno rispose. Solamente un’eco lontana ripetè il nome, come un
gemito indistinto.

Allora anche la bionda si mosse, ascese rapida i gradini marmorei, e
scomparve in corsa tra i pini, dietro la compagna.

Il giardino apparve deserto, muto, misterioso, con le sue piante
cupe e i bianchi fantasmi delle statue mutilate, ritte su gli stalli
invisibili.

— Flavia! Flavia! — s’udì ancora chiamar da lungi, per l’ultima volta.

Aurelio, che aveva seguíto avido con gli occhi le due fanciulle fino
al limite del bosco, quando più non le vide, fu preso da un desiderio
cieco e selvaggio di scendere al basso precipitosamente, d’inseguirle,
di raggiungerle come prede nel folto, dove già la notte doveva esser
profonda.



II.

L’INCONTRO.


— Signorino, un telegramma! — gridò Camilla con la vocina esile e
acuta, entrando impetuosamente nella camera.

Aurelio che, stanco dal lavoro protratto a tarda notte, s’era
riaddormentato dopo aver sorbito alle sei del mattino la solita tazza
di caffè, si levò di scatto a sedere sul letto, fissando gli occhi
spalancati in viso alla fantesca.

— Un telegramma?... Per me?! — egli domandò, stupito.

— Sì, per lei, — rispose Camilla; e, avvicinatasi a lui, gli stese
la busta gialla, sottolineando l’atto con un fatuo sorriso, un poco
ironico.

Poi, sùbito, soggiunse:

— Favorisca di firmare la ricevuta. Il fattorino è giù che aspetta.

— Non posso già scrivere con le mani, — egli borbottò nervosamente.

A passi brevi, dimenando leggermente l’anca, ella attraversò la
camera, prese dal tavolino una penna, che intinse più volte, con lenta
diligenza nel calamajo; ritornò poi senza scomporsi presso il letto, e
la porse ad Aurelio con un gesto assai leggiadro.

Egli, ansioso di leggere, cominciava a indispettirsi per l’indugio.

— Che ore sono? — chiese con la voce aspra.

— Le otto, signorino. Anzi, le otto e mezza.

— Va bene. Prendi, — concluse Aurelio, dopo aver firmato; e le porse la
ricevuta, congedandola con un brusco accenno del capo.

Quando la fantesca fu uscita, il giovine rimase ancora un poco con
la busta chiusa tra le mani. Chi aveva dunque bisogno di lui? Egli
viveva solo, staccato da ogni consorzio grande o piccino, senz’alcuna
comunanza di negozio e senza stretti vincoli di parentela o d’amicizia.
Quale notizia importante poteva giungere fino al suo sconosciuto
ritiro, e con un mezzo così imperioso?

Non potendo trovare una risposta plausibile, si risolse ad aprire il
foglio e leggere lo scritto misterioso. Un sorriso gli passò negli
occhi alle prime parole; con un subitaneo movimento di contrarietà, e
d’impazienza, egli gittò il telegramma a pie’ del letto, e s’attaccò
con tutta la sua forza al cordone del campanello.

— Vengo, signorino! Vengo sùbito, — s’udì gridare Camilla da lontano,
acutamente, mentre lo squillo furioso durava ancora.

Come però tardava a comparire, Aurelio dovette suonare una seconda
volta, anche più forte e più a lungo, per sollecitarla. Finalmente ella
entrò nella camera, tutta accesa in viso come avesse fatto una corsa a
perdifiato, le ciocche della fronte scomposte e riversate all’indietro,
il respiro frequente e affannoso.

— Che vuole? Che comanda?.... Mio Dio, signorino, un po’ di pazienza!
stavo arricciando i capelli alla signora.... Non potevo tralasciare
d’un tratto; ella sa come la signora s’inquieta per un nonnulla!...
Eccomi. Che vuole?

Disse queste frasi interrottamente, anelando, accomodandosi con le mani
le ciocche volanti, senza lasciargli il tempo di sfogare il suo mal
umore per l’involontario ritardo.

— Via, spìcciati! Avverti prima la mamma che oggi avremo un ospite con
noi. Poi corri immediatamente a chiamare Ferdinando perchè m’accompagni
in lancia a Laveno. Dobbiamo essere alla stazione per le nove e mezza.
Non c’è tempo da perdere. Hai capito?

— Perfettamente, — rimbeccò la giovinetta, tutta ilare d’essere
sfuggita a un rabbuffo che s’aspettava. E con insolita lestezza si
diresse alla camera di donna Marta, ch’era all’altro capo del portico.

Aurelio, rimasto solo, balzò dal letto e s’affrettò a vestirsi.
L’annunzio d’una visita dello Zaldini, non ostante i suoi propositi di
solitudine, lo aveva messo lì per lì in un orgasmo di gioja infantile,
che si manifestava con una smania bizzarra e nuova di far romore a
ogni movimento, battendo forte i piedi su l’assito, spostando le sedie,
urtando bruscamente con le mani gli oggetti disposti su le tavole. La
immacolata chiarità della mattina di giugno, il sole che irrompendo
a traverso le tendine illustrava d’una trama aurea il pavimento, i
canti giulivi e il buon odore di resina e di fiori che venivan dal
giardino portati dal vento, tutte quelle vivaci apparenze accrescevano
la sua giocondità, infondevangli nello spirito riposato la luce e il
profumo della vasta campagna lussuriosa. — Finalmente avrebbe potuto
parlare, aprire la sua chiusa anima a una confidenza, comunicare i suoi
pensieri, da oltre un mese contenuti nel cerchio del suo intelletto, a
qualcuno simile a lui! Finalmente avrebbe potuto riattivar con l’amico
quello scambio di idee e di sentimenti, imposto come un bisogno dalla
nativa sociabilità della razza anche agli esseri superiori, per cui la
solitudine non è pure un tedio e un silenzio mortale!

Nell’attendere alle cure della persona, Aurelio, inconsapevole,
pregustava già il primo colloquio con lo Zaldini durante il tragitto da
Laveno a Cerro; pregustava le saporose novelle che questi gli avrebbe
recate da Milano, le discussioni vivaci che si sarebber presto accese
tra loro sopra uno dei temi preferiti. Il desiderio di ritrovarsi con
lui, desiderio che l’aspettazione del prossimo incontro aveva d’un
tratto eccitato, gli acuiva singolarmente il senso dell’amicizia,
gli rievocava d’innanzi oltre modo simpatica l’imagine dell’amico,
quale l’aveva visto ancora ignoto comparire nella redazione della
sua Rivista, due anni addietro. Da quel giorno che rara affinità
d’intendimenti e d’entusiasmi ambiziosi li aveva legati! E che lunghi
voli spirituali avevan tentati insieme nei loro sogni di grandezza e
di felicità! Tutte, tutte le ardenti questioni, che affannano oggidì
il pensiero umano, erano state sfiorate, discusse, talvolta anche
audacemente risolte nelle loro interminabili conversazioni notturne,
che spesso i primi chiarori dell’alba venivano ingrati a interrompere.

Ripensando ora alla vita fraterna ch’egli e lo Zaldini avevan condotta
in quei due ultimi anni a Milano, Aurelio si maravigliava d’essersi
potuto separare dall’assiduo compagno con tanta indifferenza,
e d’averlo potuto totalmente dimenticare durante quel mese di
villeggiatura. In verità, dal dì ch’egli era giunto a Cerro, quella
era la prima volta che il desiderio di lui si risvegliava, che le
memorie della loro lieta convivenza palpitavan vivaci dentro il suo
cuore. Perchè? Egli dunque non l’amava? E avrebbe potuto non rivederlo,
fors’anche mai più, senza un rimpianto del passato e quasi senza un
ricordo? Sì, era così; pur troppo doveva confessarlo, era così! Egli
sentiva che entrambi, non ostante la comunione di vita e d’abitudini,
eran rimasti estranei l’un per l’altro, come due viandanti, riuniti
dal caso, i quali avesser percorso discorrendo uno stesso cammino.
Egli sentiva che la propria anima, asservita a un Ideale superbo, era
infusibile, chiusa nel suo superbo mistero, incapace di sacrificio e
d’amicizia.

La consapevolezza di questa necessità psicologica fu per lui,
nella tenera disposizione in cui si trovava, una pena e quasi un
rimorso. Volle dunque troncar sùbito l’indagine, abbandonare le aride
considerazioni che minacciavan d’amareggiare la spontanea gioja di quel
risveglio. Appena fu vestito, uscì dalla sua camera, passò ad augurare
il buon giorno alla nonna, che pareva d’ottimo umore, e discese sul
greto dove Ferdinando, il vecchio barcajuolo, già l’aspettava.

La mattina era un po’ velata dalla parte delle Alpi: sopra la vetta
del Motterone una gran massa plumbea pendeva, sbrandellandosi verso
levante in tenui nubecole bianchicce. Qua e là, su le altre cime,
qualche fiocco disperso, alcuni lunghi nastri torbidi apparivano; e
il fondo della valle di Mergozzo era cupo, come polveroso, sprofondato
in un’ombra azzurrastra. Da settentrione un vento impetuoso scendeva,
suscitando un vasto scroscio rotto da sibili alterni e un tumulto di
ciuffi lattei al sommo delle onde.

Ferdinando dovette faticare assai per vincere la violenza di quel
vento, che soffiava diritto contro la prua. D’innanzi all’antico
fortino austriaco, che siede smantellato allo sbocco del golfo di
Laveno, il lago divenne, per il rimbalzo dei flutti, così fiero e
minaccioso che Aurelio stesso fu costretto a prendere i remi per venire
in ajuto del vecchio. Giunsero nel porto in ritardo di qualche minuto,
mentre già il treno irrompeva, fischiando, sotto la tettoja della
stazione.

L’Imberido discese rapidamente a terra, e s’avviò a passo sollecito
incontro all’ospite, che apparso per il primo su lo spiazzo, girava
intorno lo sguardo come stupito di non trovare alcuno a incontrarlo.

L’avvocato Luciano Zaldini, accuratamente raso, con due piccoli baffi
bruni a pena accennati, pareva più giovine d’Aurelio, sebbene questi
avesse qualche anno meno di lui. Era alto della persona e ben formato;
elegantissimo in ogni particolare dell’abito. Il suo viso, piuttosto
largo e carnoso, serbava ancora la freschezza dell’adolescenza, nella
soda pastosità della pelle, nello sguardo sempre un poco attonito, nel
riso ingenuo e pronto che scopriva di tra le labbra rosee una mirabile
dentatura d’una regolarità femminina.

— Oh, l’eremita!... — egli gridò, come vide Aurelio che gli
correva incontro. — Tu vedi in me Maometto che viene alla montagna,
semplicemente perchè la montagna non volle venire a lui.

— La montagna sta bene e non si muove, — l’altro rispose ridendo, e gli
stese ambo le mani con sincera espansione.

Durante il tragitto in barca, l’Imberido interrogò sùbito l’amico su le
sorti della Rivista.

— Va bene, molto bene, — rispose l’avvocato; — soltanto si lamenta
il tuo lungo silenzio. Io ho tentato, dopo il tuo ultimo articolo,
di trascinarti in una polemica; ho aspettato per una settimana la tua
replica, che mi pareva non potesse mancare; non venne! Perchè? Era una
domanda che ti volevo rivolgere fin d’allora, per lettera; poi le cure,
i fastidii, le donne.... Sai bene, io non sono un eroe della tua forza;
io pecco, come il savio, sette volte al giorno....

Scoppiò, così dicendo, in una risata sonora, e passò il braccio su le
spalle d’Aurelio con un gesto che gli era abituale.

— Che vuoi? — disse questi dopo una pausa; — tu mi movevi una questione
così stantìa che non valeva proprio la pena d’una risposta. Mi facevi
certi squarci di metafisica dottrinaria, degni tutt’al più d’un Mazzini
o, peggio, d’un mazziniano..... Il miglior servigio che ti potevo
rendere era di tacere: ho voluto essere, almeno una volta in mia vita,
generoso, e lo sono stato con te.

— Come? Come? Facevo squarci di metafisica, io?

— Eh, pur troppo! Mi parlavi di popolo, di diritti, di doveri, di
maggioranza, di uguaglianza, di fratellanza, che so io.... Il frasario
era un po’ retorico e antiquato, confessalo.....

— Per Dio! — gridò, riscaldandosi, lo Zaldini; — non hai dunque capito?
Io non me ne serviva se non per chiarezza. Bisogna pur farsi capire
anche da quelli, e sono i più, i quali si convincono e si convertono
solamente sotto il fascino di date parole e d’espressioni consacrate.
Ogni arma è buona per combattere il Nemico. E il sistema d’una larga
propaganda liberale mi sembra il migliore per richiamare a noi le
maggioranze che ci sfuggono.

— Ma chè! Le maggioranze? Lasciale dunque andare dove credono meglio,
le maggioranze! Tu devi persuaderti che non è a queste che noi dobbiamo
parlare né ora né mai. Noi siamo come gli scienziati che espongono
una questione: non si curano se la folla li capisce o non li capisce.
Ad essi basta d’esser compresi dalle aristocrazie intellettuali,
poichè son queste che hanno e avranno in qualunque tempo il monopolio
delle verità. Per il volgo tanto vale un buon ragionamento quadrato
quanto un pessimo sofisma; se questo poi gli promette la felicità e
la potenza, il volgo approva il secondo e respinge con indignazione il
primo. Gli è per tal motivo che le maggioranze saràn sempre ingannate
e sempre oppresse; e che le loro effimere vittorie, siccome son fuori
della logica delle cose, non apporteranno mai, alla chiusa dei conti,
se non a un nuovo assetto sociale, governato ancora dalle minoranze
aristocratiche più intelligenti e più forti.

L’Imberido pronunciò queste parole con la sua voce calda ed eguale che
non mutava a traverso le più aspre discussioni, sottolineandole a pena
con un leggero sorriso. Quando finì, l’amico, che lo aveva attentamente
seguito, annuendo a tratti col capo, lo guardò tra attonito e
maravigliato, e disse:

— E perchè tutte queste belle cose non le hai scritte e non me le hai
mandate a Milano per la Rivista?

— Perchè le avevo già accennate qua e là in altri miei articoli, e a me
non piace di ripetermi.

Il vento, che soffiava ora favorevole, un po’ scemato di forza
per l’approssimare della calma meridiana, faceva proceder la
barca più leggera, come scivolasse su le onde. Dalle cime i vapori
erano scomparsi: una serenità umida rendeva l’aria d’una singolare
trasparenza, accentuava i rilievi e le tinte del paesaggio maestoso.
Sul promontorio di Pallanza e su la breve elevazione dell’Isola Madre,
le varie forme degli alberi si distinguevano nette e precise, uscendo
dallo sfondo uniforme dei dossi più lontani. Le cave del granito
intorno a Baveno biancheggiavano fastidiose al sole, simili a immani
volute di neve.

— Guarda, — soggiunse Aurelio, indicando con un gesto circolare il
lago, — conosci tu un paese più dolce di questo?

— Davvero, è superbo. Si direbbe che una lunghissima città si distenda
su quella riva, infinitamente.

— E da questa parte, in vece, tu non vedi un’abitazione; il bosco è
profondo e deserto a perdita d’occhio. Io conosco tutti i sentieri che
corrono sotto quelle vòlte di verzura; ve ne ha d’incantevoli, dove la
solitudine ti appar così grave, che li diresti segnati non dall’uomo,
ma dall’oscuro capriccio della terra. Camminando a traverso quei boschi
silenziosi, sopra tutto nel crepuscolo, tu ti senti un altro essere,
nato come in tempi assai remoti, vivente una vita primordiale, il quale
presagisca per una misteriosa divinazione la civiltà dell’età nostra.
Io, vedi, ho provato in questo mese le più bizzarre transposizioni
dello spirito; ho bevuto alle sorgenti della vita le più pure essenze;
ed ora mi pare d’esser così forte, così compatto, così sicuro di me e
del mio destino, come da molti, molti anni non mi sentivo. Credi?

Luciano lo fissava, trasognato. Gli domandò:

— E sei sempre stato solo?

— Sempre.

— Non conosci dunque nessuno? Non ci sono altri villeggianti qui a
Cerro?

— Ci sono, ma non li conosco; e non li voglio conoscere.

— Ti annojerai pure, qualche volta?

— No, mai....

L’amico tacque, meditabondo; e ritornò a guardare con occhio invido
laggiù, all’altra riva, dove una città lunghissima si distendeva
infinitamente nella gloria bionda del sole.

A una svolta, inaspettato nel verde del castagneto, il villaggio
tranquillo apparve.

— Ecco l’eremo! — esclamò Aurelio con gioja, indicando il palazzo allo
Zaldini.

Donna Marta, al riparo d’un largo ombrello nero, era discesa su la
spiaggia a incontrarli, e sventolava un fazzoletto in segno di saluto.
Ella accolse l’ospite con molta cordialità; lo ringraziò d’esser
venuto a portare un ricordo delle consuetudini urbane in quella plaga
abbandonata, che aveva reso il nipote oltre modo rozzo e scortese;
anche, gli domandò amabilmente notizie della Rivista, benché avesse
sempre avuto per questa creazione d’Aurelio una speciale antipatia.

Risalì quindi con loro verso il palazzo, chiacchierando animatamente,
con insolita festività. Come però il suo respiro era rantoloso e
l’ascesa l’opprimeva, ella dovette sostare due volte anelando, e alfine
appoggiarsi al braccio del nipote per raggiungere il sommo del rialto.

— Come ti senti oggi, mamma? — le chiese Aurelio, impensierito.

— Così, così... non troppo bene; soffro un poco d’asma.... stanotte non
ho chiuso occhio....

Soggiunse sùbito rivolta allo Zaldini, sorridendo:

— Sono i maledetti acciacchi dell’età mia. Non c’è di che stupirsene. A
settant’anni battuti la vita è già un prodigio.

E parlò d’altro.

Su la porta del palazzo avvenne un subitaneo incontro: le signore Boris
uscivano per la passeggiata mattutina. Dal giorno del loro arrivo,
Aurelio non le aveva più vedute, quantunque l’avola fosse già entrata
con esse in amichevoli rapporti. Flavia, assai leggiadra nell’abito
roseo, veniva prima, la testa alta, il seno proteso nell’erezione
leggermente arcuata della persona; a fianco l’una dell’altra,
susseguivan poi, in silenzio, la biondissima, un viso esangue e
capriccioso illuminato da due chiari occhi procaci, e la madre, solenne
e trionfante della sua pingue maturità e della sua bellezza ostinata.

Si salutarono, passando. Donna Marta e il nipote entrarono sotto il
peristilio. Luciano, che pareva molto maravigliato di quelle presenze,
si fermò un attimo, involontariamente, su la porta per riguardare le
tre donne, mentre discendevano a passo lento gli scalini del rialto,
incerte ancora su la via da percorrere. Udì le due fanciulle che
mormoravan tra loro alcune parole e ridevano; le vide aprire al sole
gli ombrelli variopinti, e rivolgersi indietro verso la madre per
consultarla. Come i suoi sguardi s’incontraron con quelli di Flavia,
egli sùbito si ritrasse, un po’ confuso della distrazione, e raggiunse
gli ospiti i quali non s’eran peranco avveduti del suo breve indugio.

— Conduci l’amico tuo in camera. Egli avrà bisogno di ravviarsi un
poco, — disse donna Marta al nipote. — Ricordatevi: fra mezz’ora la
colazione è pronta.

Quando i due giovani furon soli su le scale, Luciano non potè più
contenere la sua maraviglia per la piacevole apparizione. Egli inseguì
Aurelio che lo precedeva, gli cinse con un braccio il fianco, lo scosse
con forza e gli susurrò all’orecchio scherzosamente:

— Ah, impostore! Tu chiami dunque un eremo, questo?! Ma questo è il
giardino d’Armida.... con la differenza che Armida era sola e qui è
bene accompagnata. Ah, ora capisco perchè non ti sei mai fatto vivo in
questo mese; ora capisco l’incanto delle viottole perdute nel bosco;
ora so bene a che sorgenti hai bevuto le pure essenze della vita! Se
non ti dà ombra la mia concorrenza, son pronto anch’io a ritirarmi dal
mondo per far l’eremita con te. Mi vuoi? Di’: mi vuoi?

Rideva pazzamente. E anche Aurelio rideva; ma gli scrosci giocondi
di Luciano contrastavano assai col suo ghigno fioco, un po’ beffardo.
Egli pensava: «Costui non vede la felicità che nei piaceri meno nobili
del senso e del sentimento; l’Idea per l’opposto lo lascia freddo,
stupefatto, tutt’al più curioso. E non può assolutamente capacitarsi
che alcuno, migliore di lui, abbia a trovare in Essa il più alto
godimento della vita! La donna, sempre la donna! Sopra ogni pensiero
pende nel suo cervello, come un torbido astro, l’imagine del connubio
immondo. Egli è lo schiavo sottomesso della sua carne: il basso istinto
della generazione lo domina tutto e ne inquina ogni facoltà fisica e
morale. Posso io dunque esser l’amico d’un uomo simile?»

Giunsero nella camera destinata all’ospite, una camera, come tutte le
altre, spaziosa, squallida, forse un po’ più chiara perchè prospiciente
il lago. Aurelio sedette su una vecchia poltrona, e Luciano, mezzo
svestito, interruppe la sua celia per refrigerarsi il capo e le mani in
una tinozza piena d’acqua.

L’Imberido, che fin allora non aveva aperto bocca, si volse
d’improvviso al compagno e gli domandò:

— Tu credi dunque ch’io conosca quelle signore? Ebbene oggi è stata la
prima volta che le ho salutate.

Luciano levò il viso, che grondava da tutte le parti, e lo guardò con
un’espressione singolare d’incredulità.

— Veramente, — ribattè Aurelio sorridendo.

— Dopo oltre un mese di convivenza nella stessa casa?

— Se non dopo un mese, dopo dieci giorni da che sono arrivate.

— Ah, son soltanto dieci giorni.... La cosa è già men grave. Ma, in
tal caso, guàrdati: è l’avvenire che si presenta irto di pericoli, —
insinuò l’avvocato, fissando burlescamente l’amico.

Aurelio scosse la testa, e inarcò le labbra in atto sdegnoso.

— Non credo e non temo, — egli mormorò; — sarà questione di
temperamento, come tu m’hai detto tante volte; ma è così: le donne mi
tentano poco.

— Anche idealmente?

— Ancor meno. Come femmine, via, quando l’estro mi tortura, so ben dove
trovarle col minor dispendio di tempo e di pazienza. Ma, come donne,
che vuoi? io le stimo davvero troppo inferiori ed estranee a me perchè
me ne debba occupare.

— E pure son così divertenti! — esclamò Luciano, scoppiando in una gran
risata.

— Divertenti?... Forse. Ma gli è appunto perchè son tali che non fanno
al mio caso. Io non sento alcun bisogno di divertirmi; la vita nostra
è troppo breve per concedere uno svago a chi s’è prefisso qualche
scopo di là dalla vita stessa e all’infuori degli umili sodisfacimenti
corporali, che son comuni alle bestie come agli uomini. E poi l’amore è
un giuoco troppo assorbente e troppo pericoloso. Si sa come comincia;
non si può sapere come finisce!... E quasi sempre finisce male....
molto male, quand’anche finisce!...

Parlava piano, gravemente, con una leggera intonazion malinconica.
Come ogni volta che l’anima gli si schiudeva a una confidenza, il suo
sguardo velato, in cui la luce esterna pareva rifrangersi, naufragava
mobilissimo nello spazio quasi cercando un ideal punto d’appoggio.
Anche l’amico, vinto dalla suggestione delle sue parole, erasi fatto
d’un tratto serio e meditabondo.

Tacquero.

Sopra di loro il tragico soffio della coscienza vitale passò. Liete o
tristi, legate al senso o all’idea, schiave degli impulsi elementari o
delle più squisite ansietà del pensiero, le vite loro e le altre tutte
avevano una medesima sorte, spezzavansi contro lo stesso ostacolo, si
dissolvevan come gocce nel gran fiume inarrestabile dell’umanità. E, su
quel tumultuar d’esistenze perdute, sospinte verso una foce misteriosa,
il torso della Sirena emergeva, terribilmente bello, simbolo eterno di
fecondità, lusinga ammonitrice d’una Forza suprema che voleva la vita e
contro la quale ogni ribellione era follìa.

I due giovini ebbero insieme, durante il lungo silenzio, la confusa
visione di questa imagine, la torbida consapevolezza della vanità
d’ogni cosa per le loro individualità effimere, condannate a una
breve comparsa su la Terra, e poi, dopo aver procreato, a dileguarsi
fatalmente nel nulla. Il comune destino li affratellò; la vertigine
del tempo li spinse l’un verso l’altro, quasi per sorreggersi a
vicenda su l’orlo della tenebrosa voragine che avevano scandagliata.
Istintivamente si guardarono negli occhi con un’espressione profonda
di simpatia e d’incoraggiamento; sorrisero l’uno all’altro; parvero
attingere in quello sguardo e in quel sorriso il provvido oblio
dell’Abisso, la fiducia nelle proprie forze, il sacro desiderio di
vivere, di combattere o di godere.

Aurelio si levò in piedi di scatto, come si sottraesse a un incubo, e
disse a voce spiegata:

— Veramente si han troppe cose da fare....

Poi soggiunse, alzando il capo con quel suo atto d’orgoglio e quasi di
jattanza:

— Ma siamo giovini: le faremo. Non è vero?

— Oh tu, di certo, — rispose umilmente lo Zaldini; — io? Io farò quel
che potrò. E tutto sarà per il meglio, come sempre.

Discendendo le scale, Aurelio mise il suo braccio sotto il braccio
dell’amico, con familiarità insolita. Sentivano entrambi il bisogno di
parlar di cose leggere, futili, impersonali: a richiesta dell’Imberido,
Luciano spiegò i progressi notevoli fatti dalla Rivista in quegli
ultimi tempi, gli comunicò il numero delle copie che si stampavano,
il crescente afflusso d’abbonati in amministrazione, il reddito netto
dell’impresa che prometteva tra non molto di coprire il disavanzo
ridotto omai a una cifra lievissima. Durante la colazione, essendo
poi venuti a discorrer di Cerro, Aurelio narrò la storia della sua
fondazione, che risale soltanto al secolo XVII nell’anno memorabile
della più cruda pestilenza; anche, narrò la curiosa leggenda del
cimitero villàtico, sòrto — a quanto si dice — sopra il campicello
recinto dove un famoso bandito di nome Polidoro aveva sepolto i resti
delle sue vittime numerose.

Luciano l’ascoltava con un’espression forzata d’attenzione, gli occhi
incantati ne’ suoi, la testa un po’ inclinata dalla sua parte, quasi
per meglio afferrare il senso delle parole che gli sfuggiva; di quando
in quando però, senza volerlo, si distraeva, sembrava concentrarsi
profondamente in sè stesso, si rivolgeva con un moto improvviso a
donna Marta per lodare con qualche frase ammirativa il gusto di una
vivanda, la freschezza dell’acqua, l’eccellenza del vino paesano, un
vinetto limpido, leggero, un poco acidulo. Egli assumeva una specie di
solennità cogitabonda d’avanti a una mensa; assaporava sapientemente,
con una palese volontà di godere; pareva che s’obbligasse a pensare ciò
che sentiva, per una raffinata arte di sensualità.

Quando assaggiò una gran pasta dolce, che donna Marta aveva
preannunciata come una squisita ghiottornia, egli non potè più
contenersi, e l’allegro entusiasmo scoppiò.

— Signora mia, — egli proruppe; — mi permetta di farle le mie più
vive congratulazioni: questa focaccia è un miracolo di bontà, è il
capolavoro delle focacce. Ella deve assolutamente insegnarmene la
ricetta; io poi la comunicherò a mia sorella Maria, la quale sta per
divenire, mercè mia, una cuciniera di prim’ordine. Perchè, signora, io
mi sono imposto un compito da padre previdente: non potendo fare altro
per essa, vado preparandole una dote di sapienza gastronomica, che
la renderà senza dubbio assai preziosa e invidiata tra le ragazze da
marito.

Rideva a tratti, in così dire; e anche donna Marta rideva, mentre
lo incitava a rifornire il piatto, rapidamente sgombro, del dolce
prelibato. E le targhe zuccherine succedevano alle targhe e scomparivan
tra le risa nella bocca vorace.

Udendolo, osservandolo, Aurelio pensava: «Ecco: egli è beato; ha
già dimenticato i nostri discorsi di poc’anzi, e senza serbarne la
minima traccia amara nello spirito. È bastata una semplice sensazione
gradevole per infondergli dentro la gioja di vivere; è bastato un
fatto organico inferiore per ridargli la piena sodisfazione di sè
medesimo. Ogni inquietudine cerebrale è stata vinta e dispersa in
lui dal piacer bruto di nutrirsi!...» Egli l’osservava, soggiacendo
contro l’amico all’invidia istintiva che ognuno prova al cospetto
d’un essere più felice; ma l’invidia era incosciente, assumendo
dentro di lui la fallace parvenza d’un sentimento neutro, quasi d’una
fredda curiosità scientifica. Avveniva assai di sovente ch’egli
s’ingannasse nell’interpretare i suoi moti interni; l’abitudine
continua dell’astrazione e lo sforzo di formular verbalmente i suoi
pensieri distoglievano facilmente la sua attenzione dalle intime cause
psicologiche che originavano il lavorío mentale. Per tal modo i suoi
sentimenti rimanevan quasi sempre oscuri, impenetrabili, sottratti a
ogni freno e a ogni vigilanza della volontà.

Finita la colazione, donna Marta, accusando un po’ di malessere,
si ritirò nella propria camera, e i due giovini vollero tentare una
passeggiata nei boschi circostanti. Ma l’ora non era propizia. Sul
lago, immoto e abbacinante, stagnava l’afa del meriggio; il sole, alto
nel cielo chiaro, lasciava cadere a perpendicolo i suoi raggi infocati,
che si slargavano in macchie rance su le praterie, correvano in accese
strisce lungo le viottole, s’immillavano come strali d’oro a traverso
il fogliame del castagneto, bollando d’innumerevoli cerchietti tremuli
la terra in ombra. Anche nel fitto del bosco la caldura, non mitigata
dal più lieve soffio d’aria, quasi inasprita dallo strepito incessante
delle cicale, era insoffribile. I due giovini furon costretti a
ritornar sùbito su i loro passi e rientrare in palazzo. Luciano,
oppresso dall’afa e dal travaglio della digestione un po’ faticosa,
andò a gittarsi sul letto e s’addormentò. Aurelio si chiuse nella
sua stanza, dove riprese tranquillamente i suoi studii, interrotti
dall’arrivo e dalla presenza dell’amico.

Non ne uscì che ai richiami iterati di Luciano dal giardino e a un
rabbioso squillo della campanella, dopo oltre cinque ore di continua
occupazione.

Entrando nella sala da pranzo, egli al primo sguardo s’avvide che la
nonna era di pessimo umore, probabilmente irritata contro di lui perchè
aveva lasciato solo l’ospite durante l’intero pomeriggio. Ella non levò
gli occhi dalla tavola quand’egli comparve, e rimase poi lungamente
muta, covando dentro lo sdegno che presto o tardi avrebbe dovuto
esplodere.

L’esca fu accesa innocentemente da Luciano, quando domandò all’Imberido
come avesse passato tutto quel tempo nella propria camera. Alla
risposta assai calma di questo:

— Ho lavorato, — la testa irosa della vecchia si rialzò con
impeto fulmineo. Un fiotto di parole aspre ruppe dalla sua bocca,
violentemente.

— Non potevi dunque aspettar domani?... Era proprio necessario che
tu continuassi oggi il tuo lavoro inutile e odioso?... L’amico tuo
è da tre ore che s’annoja, solo, aspettandoti! È venuto a cercarti:
eri chiuso a chiave, come se avessi avuto paura di farti sorprendere!
Si direbbe che tu abbia qualche mistero da nascondere in quelle tue
maledette stanze!... Io.... io, lo sai, mi sono ormai rassegnata: non
ci metto più piede, cascasse il mondo, e non te ne parlo più. Ma che tu
continui le tue abitudini d’orso, nascondendoti nella spelonca anche
quando abbiamo con noi un ospite venuto per te, questo poi no, non lo
sopporto e non lo sopporterò mai!...

Era l’antico rancore che le suggeriva le parole; quel rancore ch’ella
provava sopra tutto contro le occupazioni predilette del nipote, di
cui non riusciva a intender bene le mire e le ambizioni. Donna Marta,
uscita da una famiglia di borghesi intraprendenti, avrebbe voluto che
Aurelio, dappoichè non era più ricco, avesse esercitata una professione
lucrosa, approfittando della sua laurea in giurisprudenza e delle sue
attitudini oratorie. Gli studii e il lavoro di lui eranle per ciò più
intollerabili dell’ozio medesimo; e non poteva trascurare un’occasione
di rammentarglielo.

Mentre l’avola lo rimproverava, il giovine mangiava silenziosamente,
scambiando a intervalli un’occhiata con l’amico. E questi, un po’
confuso, cercava con una qualche uscita burlesca d’interrompere il
sermone o almeno di renderlo meno aspro e inquietante. Ella in vece
proseguiva così concitata, così convulsa che pareva dovesse da un
attimo all’altro rimanere senza respiro.

— Vede, Zaldini? — diceva ora rivolta all’ospite: — è sempre così. Io
vivo assolutamente sola. Non lo posso più vedere che a colazione e a
pranzo, e spesso debbo anche aspettarlo a tavola inutilmente!... Come
non bastassero le tristi figure che son costretta a fare dovunque, per
colpa sua!... Ella non crederà, Zaldini: io non sono ancora riuscita
a persuaderlo ch’egli è in dovere di presentarsi alle signore nostre
vicine. Esse, naturalmente, sanno che c’è; desiderano di conoscerlo;
m’hanno anzi pregata di condurlo meco in casa loro, e non una sola
volta han ripetuto la preghiera! Io, che debbo dire? Che posso fare? È
una vergogna! Una scortesia incredibile e ingiustificabile!... Ma chi
lo fa capire a un ostinato di quella forza?...

— È verissimo! — interruppe d’un tratto lo Zaldini, parendogli questo
un buon appiglio per deviare il tema del discorso, e insieme per
mettere nell’impiccio lo schivo amico. — Perchè dunque t’ostini a star
lontano da quelle signore? Hai paura forse di perdere i tuoi sonni
tranquilli, conoscendole?

— No. Ho paura di perdere il mio tempo, che è ben peggio, — mormorò
sordamente Aurelio.

— Ma chè, ti pare? Non c’è bisogno di rimaner con loro da mattina
a sera e da sera a mattina. M’imagino ch’esse medesime non te lo
permetterebbero. Una mezz’ora al giorno in loro compagnia, credo però
che la potresti passare senza sacrificio.

Donna Marta, già un po’ più calma, intervenne.

— Io non chiedo tanto da lui, — ella disse. — Desidero solamente
ch’egli non scappi quando le incontra nel cortile o per via, e che
venga una sola volta con me a salutarle. Poi lo lascio libero di
rintanarsi dove e come gli piaccia.

— Dunque?! — esclamò Luciano, allargando comicamente le braccia, e
fissandolo con uno sguardo penetrante, pieno di sottintesi maliziosi.

Aurelio, stretto dalle due parti, si difendeva debolmente; mormorava
seccato timide frasi, in cui il diniego si diluiva in giustificazioni,
in desiderii di lavoro, di libertà, di quieto vivere. Alla fine, come
l’angustiava maggiormente quel diverbio che non l’idea stessa d’esser
presentato alle signore Boris, acconsentì.

— Bene! — gridò trionfalmente lo Zaldini, quand’egli ebbe pronunciato
il «sì» strappatogli a forza dalla sua insistenza. — Allora la solenne
presentazione del _monstrum_ avvenga questa sera medesima. Così
avrò anch’io la fortuna di conoscerle, ciò che desidero con tutto il
trasporto dell’anima mia.

Il ritrovo serale di donna Marta con le signore Boris era il piano del
rialto d’avanti alla porta del palazzo. Le ragazze usavano accoccolarsi
su l’erba molle del pendío, le due donne si facevan portare le
poltroncine dall’interno; e la conversazione si prolungava finchè il
tramonto era esausto e le tenebre occupavano intense la valle del lago.

Quella sera, quando donna Marta apparve su la soglia col nipote e con
l’ospite, le vicine eransi già accampate e chiacchieravan giocondamente
tra loro, ridendo forte. Quelle risa fecero su Aurelio un’impressione
singolare: gli ricordarono vagamente voci conosciute. Quali?

— L’avvocato Luciano Zaldini, — disse la vecchia; poi, accennando
Aurelio, soggiunse con un accento diverso, un po’ sarcastico: — E
questo è mio nipote, l’invisibile.

I due giovini s’inchinarono. Le donne abbassarono il capo con
grazioso sussiego: soltanto la bionda aperse la bocca a un fuggevole
sogghigno, che sembrò all’Imberido un’acuta puntura di spillo. Dopo la
presentazione, l’avola andò ad accomodarsi nella sua poltroncina che
era già pronta accanto alla signora Boris; Aurelio s’abbandonò come
stanco sul sedile di granito accosto al muro, e Luciano rimase ritto in
piedi d’innanzi alle due giovinette.

Il vespero non era perfettamente sereno: alcune masse plumbee di vapore
offuscavano l’occidente, anticipando la mezz’ombra del crepuscolo. Su
lo spiazzo, di solito deserto, ferveva un’animazione quasi febbrile;
molte femmine, su la riva, aspettavano ansiose le barche delle
filandaje, di ritorno per la festa del domani dagli opificii d’Intra
e di Pallanza: nel prato, tra i salici e i gattici sottili, quattro
o cinque bambine tutte bionde giocavan silenziosamente, ammontando i
ciottoli del greto.

I discorsi incominciaron sùbito vivacissimi tra le donne e lo Zaldini.
Si parlava, con grande volubilità, delle cose più varie e disparate:
di abitudini di campagna, del caldo in città, di comuni conoscenze, di
futili avvenimenti che parevan degni di memoria sol per il nome noto
delle persone che vi avevan preso parte. E i comenti, le osservazioni,
le sentenze spuntavano di quando in quando a mezzo di quei discorsi —
comenti ingenui, vane osservazioni, sentenze plateali a base di luoghi
comuni e di frasi fatte. Aurelio, rimasto fuori del crocchio ciarliero
delle donne che gli volgevan le spalle, taceva e osservava in preda a
un tedio schiacciante. Quella conversazione gli sembrava intollerabile;
non poteva capacitarsi come l’amico suo vi si frammescolasse con tanta
spontaneità di piacere. Certi scatti subitanei d’ilarità giungevano
a lui più ingrati che il soffio d’un lezzo nauseoso; certe uscite,
che l’obbligavan per poco all’attenzione, riempivano il suo spirito
d’insofferenza, sì ch’egli doveva far forza contro sè stesso per non
allontanarsi da quel posto di tortura.

— Gli uomini son leggeri come farfalle, — udì sentenziare la bionda,
fissando i suoi chiari e cupidi occhi in quelli di Luciano.

— Io, se per caso prendo marito, voglio che....

— Ma se è sempre così: l’uomo si stanca presto della sua casa, della
moglie, dei bambini, e allora...

— No, no, credi a me, Luisa; io lo dico sempre: è assai meglio rimaner
zitelle fin che si può.... Si è sempre in tempo per fare il salto nel
bujo!....

Luciano, difendendo il suo sesso dalle accuse femminili, rispondeva
gravemente, discuteva con calore gli argomenti più sciupati, accusava
a sua volta la donna di leggerezza e di crudeltà; solamente a
intervalli si permetteva qualche facezia arguta e sottile che sollevava
d’improvviso le proteste di tutto il crocchio.

In tanto Aurelio, infastidito da quelle ciarle insulse, erasi distratto
a poco a poco nella ottusa contemplazione della scena. Le barche,
che avevano tragittate le filandaje, giungevano ora confusamente,
ondeggiando, presso il lido. Sul riflesso livido dell’acqua i cerchii,
spogli delle tende, si disegnavan neri e lugubri, come costole d’immani
scheletri ribaltati; e i profili indecisi delle fanciulle, strette e
pigiate tra quei cerchii, avevano una mobilità informe, che pareva un
brulichìo. Cantavano alcune un canto malinconico, all’unisono, seguendo
il ritmo grave dei remi nell’acqua. Quando giungevano a una cadenza,
le altre tutte sposavano le loro voci a quelle poche, e un lungo grido
saliva per l’aria, simile a un appello desolato di naufraghi. Poi
susseguiva una pausa, qualche riso incontenuto, un ululo impaziente
di salutazione alle donne che aspettavano, e il canto incominciava di
nuovo, flebile e basso.

Le barche approdarono. Accorsero in torno le femmine, chiamando,
interrogando, stendendo le avide mani verso le figliuole, che sapevan
fornite del gruzzolo, con un trasporto folle di cupidigia. Si formò un
gruppo compatto, multicolore, strepitante d’avanti alle prue cariche
come d’un denso grappolo vivo. Le filandaje, il capo avvolto negli
scialletti chiari, un canestro appeso al braccio, si contrastavano il
passo, si sospingevan con i gomiti, cadevano a una a una nelle braccia
delle aspettanti, con la bocca aperta a un vacuo sorriso di trionfo.
Le prime discese dalle barche, vogliose d’uscire, avevan determinato
nella ressa una corrente; alcune compagnie si dirigevan già a passo
sollecito, disperdendosi, verso il villaggio. A poco a poco il gruppo
s’assottigliò: lo spiazzo arsiccio si macchiò per qualche istante di
capannelle silenziose che s’affrettavano al povero desco familiare.
E la solitudine consueta riprese il suo dominio severo, nella lenta
mestizia del crepuscolo.

Aurelio seguì con un pietoso sguardo, finchè disparvero, le
miserabili, che la vicina festa e il riposo d’un giorno bastavano
a esilarare. Splendeva su quelle anime semplici e inconsapevoli il
raggio dell’eterna Consolazione: le loro vite, condannate a un perenne
sacrificio, attingevan certo a una qualche miracolosa sorgente la
forza di resistere alle fatiche diuturne, alla monotonia accasciante
delle abitudini, alle umiliazioni, alle privazioni, agli stenti, agli
strazii. E la sorgente del miracolo non poteva esser se non l’Amore,
la sacra febbre di tutti i nati, quella che perpetuava la loro razza
di bruti dolorosi, su le campagne frustate dal sole, nelle fabbriche
attossicate dal fumo, negli squallidi ricoveri del gelo e della fame!
«Perchè? Perchè?» si domandò il giovine, angosciosamente.

Una voce prossima lo trasse d’improvviso dalla sua meditazione.

— Conte, — disse Flavia, piegando indietro il viso verso lui; — ci
scusi se le volgiamo poco amabilmente le spalle. La colpa non è nostra:
è lei che ha scelto quel posto....

Soggiunse poi con un sorriso a pena accennato, socchiudendo le palpebre
alla maniera dei miopi:

— Se lei volesse avvicinarsi un poco a noi.... Io e Luisa invochiamo
la sua autorevole protezione contro gli attacchi ingenerosi dell’amico
suo.

— Eccomi, — rispose Aurelio, alzandosi, fulminato da un’occhiata
imperativa dell’avola.

Lo Zaldini, dimentico omai d’ogni sussiego urbano, s’era disteso
su l’erba del pendìo accanto a Luisa, e le parlava a mezza voce,
concitatamente, mentre la fanciulla, tutta scossa dal riso,
arrovesciava indietro la testina capricciosa, scoprendo la gola liscia
d’un candor d’alabastro, e protendendo le delizie dei seni rigidi e
forti in una pulsazione inebriante. Quand’ella rideva, il giovine per
un minuto ammutoliva, intesi l’occhio e l’animo a raccogliere il dolce
frutto della sua malizia.

Aurelio s’avanzò, come un automa spinto da una volontà esteriore, e
venne a sedersi presso la signorina Boris.

— Ah, così va bene! — gridò allegramente Luciano, vedendolo accostarsi;
— ti giuro che non è cosa agevole tener testa da solo contro due
avversarie gentili, belle ma spietate. Io stava per arrendermi, ed era
una triste e umiliante necessità per un uomo di battaglia com’io sono.
Ora, _viribus unitis_, spero che le sorti della tenzone muteranno.

Si volse di nuovo a Luisa, e riprese sùbito il suo discorso interrotto,
a bassa voce. Flavia, con un cenno cortese e incoraggiante del capo,
domandò all’Imberido:

— Ella lavora molto, non è vero?

— Molto, — rispose Aurelio gravemente.

— Troppo, forse...?

— No, non mai troppo. Io vengo in campagna soltanto per lavorare. Le
distrazioni della città mi rendono affatto incapace d’un’occupazione
continuata e severa.

— Le distrazioni della città...?

— Sì. Ho tante conoscenze a Milano; e queste, non lo crederà, mi fanno
perder tempo in discussioni e in ritrovi. Sopra tutto, gli amici.

— Proprio gli amici...? — chiese Flavia, con un’intonazione insinuante
e così modulata che pareva l’inizio d’una melodia.

Aurelio la fissò stupito negli occhi, e corrugò la fronte.

— Non capisco, — egli disse, dopo una breve pausa di raccoglimento.

Ella ripetè con la stessa voce:

— Proprio gli amici, o non piuttosto...... le amiche?

— Ah, — esclamò il giovine, inarcando le labbra a un’espressione amara,
quasi di sdegno; — m’avvedo che sarà bene per entrambi che faccia
sùbito una dichiarazione aperta e leale, quantunque non molto gentile:
io sono misogine.

— Misogine?.... — fece Flavia, che a sua volta non comprese. — Che cosa
vuol dunque dire: misogine?

— Ohimè, signorina: la parola può essere oscura, ma il significato n’è
fin troppo chiaro! Vuol dire: nemico delle donne.

Nel proferire queste parole, egli non ebbe un’inflession carezzevole
di voce; parlò come un maestro che spieghi la lezione a un allievo
indifferente. S’aspettava un mutamento subitaneo di contegno in
lei: ch’ella s’offendesse e cessasse d’interrogarlo, o almeno che,
rinunciando a ogni inchiesta sentimentale, passasse con la leggerezza
propria delle femmine a tutt’altro discorso. Ella in vece s’accontentò
di guardarlo attentamente, e parve a lui di sorprendere in quello
sguardo anche un lampo di simpatia.

— L’han dunque fatto molto patire le donne per renderselo così avverso?
— ella chiese, scrutandolo sempre negli occhi.

— Affatto.

— Ella non ha mai amato, forse?

— Mai, signorina.

— Proprio: mai?

— Mai, le dico.

— Lei beato! — esclamò Flavia, e abbassò gli sguardi come oppressa da
un assalto di memorie tristi.

Successe un silenzio.

Il dì moriva assai dolcemente: rampollavan le stelle a una a una
dalla cupola del cielo, e le luci dalle ombre ugualmente fosche delle
pendici; l’ultimo chiaror tramontano agonizzava al sommo delle vette,
e il suo riflesso, attraversando il lago, giungeva a illividire
il prospetto roseo del palazzo e i volti degli astanti. Un gregge
attardato passava su la riva. I belati rompevan lamentevoli la calma
della sera.

Maravigliato dall’esclamazione dolente della fanciulla, Aurelio
incominciava a esser morso da una sottile curiosità. Egli fu primo a
parlare.

— Me beato, ha detto..... E perchè?

— Perchè la invidio.

— M’invidia perchè..... non ho mai amato?

— Sì. E non soltanto l’invidio, ma anche sinceramente l’ammiro, e
faccio voti per lei ché possa sempre dire così.

Una strana commozione suscitavan nel giovine le parole e
l’atteggiamento inaspettati di Flavia. Blandito nella sua vanità d’uomo
puro, egli piegava a poco a poco verso lei, in un languido abbandono di
gratitudine e di compassione. La coscienza della sua incorruttibilità
sembrava trarre da quell’elogio e da quell’augurio una conferma
misteriosamente persuasiva, come da un sortilegio; ed egli si concedeva
fiducioso e docile alla lusinga, assaporandone il venefico succo con la
improntitudine d’un fanciullo goloso.

— E, dica, signorina, — riprese Aurelio a voce più fioca: — ella dunque
ha molto sofferto per invidiare con tanto ardore un passato arido e
freddo come il mio?

— Oh, molto sofferto! — assentì Flavia, abbassando le palpebre su
gli occhi scintillanti. E, a frasi sommesse e concitate, recitò il
suo lamento, il viso contratto, gli sguardi smarriti nel vuoto, come
parlasse a sè medesima: — Io fui molto, molto disgraziata!... Se
sapesse che triste esperienza ho già fatta io della vita!... Tutte le
mie belle illusioni furon distrutte!... I miei più puri sentimenti,
calpestati e infranti!... Ah, bisogna nascere senza il cuore per
esser felici! O almeno averlo perduto per sempre.... L’amore è una
menzogna...

Aurelio l’ascoltava con lo stesso piacere che si prova ascoltando una
musica. Delle frasi sconsolate di Flavia egli non percepiva che il
suono, un suono dolce, vellutato, a cadenze malinconiche verso le note
gravi. E in tanto la guardava fisso, attratto per la prima volta dalle
mirabili fattezze di quel viso impallidato da un acre ricordo e dalla
luce crepuscolare.

Era un viso ovale, forse un poco esiguo per quel corpo troppo snello
e troppo allungato. I lineamenti, d’una irregolarità gustosa a pena
sensibile a un qualche osservatore paziente, avevano quell’espressione
complessa di fragilità e insieme di resistenza morale, che rivela bene
spesso l’indole femminilmente decisa ed equilibrata. Un’ombra tenera,
leggerissimamente violetta, le circondava gli occhi che volgevano
un’iride grigia, profonda, cerchiata di nero; maravigliosi occhi, a
cui l’anima pareva affacciarsi, ora triste, ora gioconda, ora calma,
ora agitata, con una singolare mobilità. La bocca, piuttosto larga e
sinuosa, era d’una chiarezza affascinante: mentre ella parlava, di tra
le labbra un po’ smorte e la chiostra dei denti, appariva a scatti la
punta umida della lingua, come un bagliore. E nulla superava la dovizia
della sua chioma, densa e castagna, disposta su la finissima testa a
guisa d’un caschetto di lucido rame.

Donna Marta e la signora Boris conversavano animatamente tra loro; la
voce di Luciano era divenuta un bisbiglio indistinto, e le risa della
bionda s’eran fatte più rade e gutturali, quasi spasmodiche.

Flavia continuava:

— Ora son guarita. Guarita come si può essere da una ferita indelebile!
Ho fatto una mala esperienza e questa mi servirà per l’avvenire;
è l’unico vantaggio che n’ho avuto, e naturalmente non voglio
perderlo. Chi batterà di nuovo alla porta del mio cuore, la troverà
irreparabilmente chiusa, anzi murata. Tanto peggio per colui!

— Ella vuol dunque, con un sistema penale di nuovo genere, infliggere
al secondo la punizione dovuta al primo, non è vero? — domandò celiando
l’Imberido.

— No, conte. Ho perdonato a _lui_; imagini se voglio vendicarmi su
un altro!... Del resto gli uomini son tutti uguali: essi, creda, non
soffrono che nella loro vanità. Quando sanno di non esser posposti a
nessuno, accettano indifferenti qualunque ripulsa.... Io sarò sorda
e muta per essi: ecco tutto. E, chi sa? Forse così potrò ancora esser
felice, — ella soggiunse con un debole sorriso.

— Io glie lo auguro di tutto cuore, signorina.

La notte era discesa. D’innanzi, lo spiazzo giaceva oscuro
nell’abbandono. I gattici e i salici presso il ruscello stormivano
dolcemente al soffio continuo della valle. A Stresa alcuni razzi
colorati salivan nelle tenebre, vi si spegnevano con certi rombi cupi,
che gli echi ripercotevano qua e là lungamente. E il villaggio lontano
appariva a ogni accensione, come devastato da fantastici fuochi.

— Ragazzi, fa fresco. Rientriamo, — ammonì donna Marta, levandosi in
piedi.



III.

I FANTASMI E LE IDEE.


Dopo avere accompagnato l’amico alla stazione, Aurelio Imberido
ritornava solo, a passi solleciti, verso casa lungo la viottola
alpestre, che costeggiando il lago s’inerpica su per i dirupi
scoscesi, quasi impercettibile tra le fittissime macchie dei noccioli
e dei castagni. La mattina era monda, soffusa di luce, dominata dal
silenzio. Su i giovini rami le foglie scintillavano al sole, ancor
madide di rugiada. Di tratto in tratto un merlo si levava strepitando
da una frasca, passava come una freccia nera a traverso il sentiero,
scompariva sùbito nel verde. Poco appresso lo si udiva gittare un
fischio da lontano, come un saluto di scherno.

Tra i prestigi mattutini Aurelio percorreva la via solitaria, chiuso e
indifferente al maraviglioso paesaggio che gli si spiegava d’innanzi.
Com’era solito nelle sue passeggiate meditative, egli avrebbe voluto
concentrarsi tutto per riafferrare il corso delle sue idee, interrotto
da quella serata e da quella mattinata d’ozio obbligatorio; egli
avrebbe voluto raccogliere la mente sul tema del suo lavoro, per
poterlo riprendere dove l’aveva lasciato il giorno innanzi, appena
di ritorno a casa. Ma ogni sforzo di volontà era inutile; l’imagine
dell’amico, i ricordi dell’incontro con le signore Boris, i discorsi
fatti con Flavia gli s’imponevano con insistenza, rievocati dall’ultimo
colloquio con lo Zaldini.

Questi, durante l’intero tragitto in barca e nella lunga aspettazione
della partenza a Laveno, non gli aveva parlato se non della bionda
Luisa, comunicandogli il suo dialogo sommesso della sera prima,
confidandogli le speranze ch’egli nudriva d’un prossimo accordo
sentimentale con lei. E si sarebbe detto dall’espressione del suo volto
che la Felicità gli avesse sorriso dagli occhi di quella fanciulla, una
felicità piena e senza fine alla quale egli correva incontro come a una
madre. Ancora dal finestrino della carrozza, quando il treno era già
in moto, egli aveva voluto sporgere un’altra volta il capo per ripetere
all’amico d’aspettarlo presto, ché non avrebbe tardato a farsi rivedere
in Cerro, dove omai tendevano ansiosamente tutti i suoi desiderii.

Ripensando ora a quelle parole e all’espressione con cui erano state
proferite, Aurelio provava un senso di turbamento, d’inquietudine e
quasi di rancore al quale invano cercava di sottrarsi. — Lo Zaldini,
quella mattina, non si era mostrato più gajo e più vivace del giorno
precedente; soltanto, una nuova cagion d’esultanza aveva preso il
posto d’onore dentro all’animo suo, ed egli, nella perpetua vicenda
di illusioni gradevoli cui fatalmente propendeva, l’aveva accolta come
l’unica, come la precipua origine del suo benessere ostinato. Per tal
modo egli ora credeva d’amare, sperava d’esser riamato, edificava su
le basi di questo amore imaginario un ipotetico avvenire di gioja; e in
siffatto sogno trovava l’energia salutare che lo avrebbe sorretto fino
all’aurora d’un altro sogno. Con ogni probabilità il sogno presente
sarebbe stato effimero; egli non sarebbe più ritornato a Cerro; avrebbe
tra poco dimenticato e la bionda Luisa e la casa ospitale. Non importa:
nella sua sostanza era radicato il prisco senso gaudioso della vita; e
tutte le realità come tutte le illusioni dovevansi offrire a servigio
della sua letizia.

Così Aurelio giudicava l’amico con limpidezza e rigorosa equità
mentali; e pure sentiva in fondo a sè un gorgoglio di pensieri
ingiusti, un movimento cieco d’antipatia contro di lui, che a tratti
interrompeva o deviava lo stesso filo delle sue considerazioni.
Avveniva nel suo spirito, come sempre nei momenti di debolezza, un
dissidio aperto tra le idee e i sentimenti; le idee che objettivamente
cercavano d’analizzare un dato fenomeno per ricollegarlo allo schema
delle sue teorie generali; i sentimenti che s’appigliavano in vece agli
effetti immediati del fenomeno, degenerando in commozioni piacevoli o
ben più spesso dolorose, nel raffronto spontaneo delle altrui con le
sue proprie condizioni d’animo.

Già il giorno prima, durante la colazione, egli aveva provato un
movimento consimile d’antipatia per lo Zaldini; ma, più assorto nel suo
ragionamento, non l’aveva avvertito. Questa volta l’impulso fu più vivo
e definito poi ch’egli sùbito se ne accorse, e fu dall’intima scoperta
profondamente turbato e contristato.

Egli pensò, accelerando il passo: «Io non sono a bastanza forte se
mi lascio sorprendere da un sentimento così indegno di me! Invidiare
costui?! E perchè?... Forse ch’io sarei felice come lui se anche mi
sorridesse l’amor verace d’una donna?... L’Amore, sempre l’Amore,»
egli disse a voce bassa, sogghignando, «l’eterno inganno, l’incantesimo
della Natura bruta per conservar la razza, l’umiliante connubio di due
corpi che l’animalità più inconscia infiamma e fa delirare!» Pensò:
«Io ho rinunciato alle consolazioni dell’Amore, ho rinunciato alle
torbide gioje della folla, alle basse ebrietà del senso! Debbo potere
assisterne allo spettacolo senza rimpianti e anche senza sdegni.»

Era giunto Aurelio alla estrema punta del golfo, dove il pendìo
d’un tratto s’addolcisce e si spiana in ombrosi boschi di querce
e in fresche praterie, assiepate da bassi roghi, declinanti con
lenta ondulazione verso le rovine del Fortino. S’arrestò, udendo un
approssimarsi di voci femminili dalla parte di Cerro.

Alla svolta della strada un cane irsuto e nero s’avanzò primo,
scodinzolando, incontro a lui; poi, lentamente, seguirono una dietro
l’altra tre vacche corpulente, brucando sul terreno, fiutando a
intervalli l’aria, sbirciando in torno con i grandi occhi oscuri;
poi, improvvisamente, apparvero le due fanciulle che guidavan la
piccola mandria al pascolo. Usciron queste dal folto, ridendo forte e
rincorrendosi per il prato, inconsapevoli d’esser vedute: biondicce
entrambe, esili di forme, con le impronte delle privazioni sul viso
magro e pallido, ma così agili nelle movenze, così liete e spensierate
che ricordarono al giovine il giocondo mito pagano delle Driadi.

Egli non volle disturbare il loro giuoco leggiadro. Trovandosi presso
un muro diroccato, vi si nascose dietro rapidamente, e aspettò che le
fanciulle fosser passate. Il cane irsuto e nero, che lo aveva visto,
venne a fiutarlo con diffidenza, e, come rassicurato, riprese il suo
cammino, senz’abbajare; egli udì i passi grevi e cadenzati delle tre
bestie batter su i ciottoli della strada vicino a lui e allontanarsi.
Le risa delle fanciulle risonarono in fine più prossime, stridule,
acutissime, strozzate dall’affanno della corsa.

— Sì, sì: lo so, — una diceva, fuggendo: — Tonio è il tuo amoroso!

— Stupida! Stupida! — gridava l’altra che la rincorreva.

— Io lo so. Il mio fratellino m’ha detto d’avervi incontrati soli, sul
tardi, vicino al camposanto....

— Stupida! Non è vero!

— È vero! E m’ha detto che vi siete baciati....

— Non è vero!

— E che avete preso la strada dei monti....

— Stupida! Stupida! Se ti piglio....

Le grida si confusero, s’affievolirono, si spensero presto nel silenzio
del bosco.

Quando fu sicuro di non esser veduto, Aurelio uscì dal nascondiglio,
e riprese la sua via a passo più veloce, quasi volesse sottrarsi al
fascino della scena inaspettata. Le parole audaci di quelle fanciulle,
il suono delle loro voci, i loro scoppii nervosi d’ilarità, quella
fuga ninfale su l’erba fiorente tra i fusti muscosi delle querce,
gli avevan dato un senso d’ebrezza, che non gli era del tutto ignoto
e lo sgomentava. Dentro di lui la scena aveva risvegliato il ricordo
d’un’altra somigliante: la prima improvvisa apparizione di Flavia e
di Luisa su la scalea marmorea, negli estremi chiarori del vespero, e
la fantastica fuga nella pineta. Anche la commozione provata allora
rassomigliava assai a quella da cui si sentiva posseduto in questo
momento: una specie d’alterazione indefinibile, una violenza di cose
soffocate, come un vaneggiamento leggero che non gli permetteva di
distinguer nettamente dentro né intorno a sè. Ma questa volta la
commozione era men chiara, più complessa, più aspra: pareva avvelenata
da alcunchè di sgradevole e quasi di doloroso.

«L’Amore, sempre l’Amore!» egli si ripeteva cercando di dominare la
strana inquietudine dello spirito, mentre camminava a grandi passi tra
le siepi arborescenti della via. E le due visioni l’accompagnavano
ostinate e moleste, come un profumo troppo forte che lo avesse
investito.

Più d’una volta rimase.

Nulla omai si moveva nella selva: saliva il romore delle onde morte
sul greto, simile a un lento respiro affannoso; e qualche fronda alta
stormiva.

Ah, quella solitudine e quel silenzio e quella mitezza di clima e di
paese! Ah, l’implacabile educazione dell’eterna Natura, che seducendo
ordina e impera!

«Io sono infelice!» mormorò d’un tratto il giovine, arrestandosi
attonito, girando gli occhi intorno a sè per le vòlte capricciose
del bosco, dove il sole irrompeva a fasci, a sprazzi, a scintille,
dispensatore di vivido oro su le foglie polite e su i rami vellutati di
muschi e di licheni. La frase gli era misteriosamente sgorgata dalle
viscere profonde, ed egli l’aveva detta senz’averne coscienza, per un
bisogno irresistibile quasi di liberazione. Non l’anima sua l’aveva
suggerita; aveva parlato in lui l’oscuro Genio della Specie; ed era,
la sconsolata frase, una delle innumeri espressioni di lamento delle
creature che si senton sole e sterili e vane, il grido d’angoscia che
l’Avvenire strappa a queste reclamando le sue vittime in pericolo di
non essere. Non diversamente il cervo solitario gitta al silenzio della
foresta il suo triste bramito; non diversamente dall’eccelse vette
degli alberi l’usignuolo, alato poeta della notte, piange e chiama la
compagna lontana e sconosciuta.

Aurelio alzò lentamente le spalle, parve riflettere un poco; poi
ripetè una seconda volta, con tutt’altro accento: «Io sono infelice!»
Sogghignò, per irridere a sè medesimo, e riprese al passo concitato di
prima il suo cammino.

Il sentiere, dopo essere alquanto disceso, usciva alfine dalla
boscaglia e costeggiava la spiaggia del lago, a pena protetto da una
siepe di mori prugnoli che i fanciulli avevan qua e là abbattuta. Il
sole lo inondava tutto di luce, un bel sole estivo non ancora alto, non
ancora cocente, sospeso in un cielo opalino, d’una singolare purità.
Una calma estatica teneva il lago; avevan le acque tal lucidezza che
ripetevan con perfetta similitudine qualunque imagine. Le montagne
della riva di Piemonte, popolate di villaggi, s’ergevan nette, gaje,
luminose, come spiccando da un tersissimo specchio.

Uscendo dall’ombra a quella luce suprema, parve al giovine di sottrarsi
a un malefizio e di riprendere d’un tratto la sua personalità. Il
turbamento s’acquetò; il suo cuore riprese a pulsare con la regolarità
consueta; le torbide visioni, che lo avevano occupato, a poco a poco
si dissiparono; ed egli potè novamente impadronirsi del governo del suo
pensiero. Senza indugio, per natural reazione dello spirito violentato,
egli sentì il bisogno di formular da capo il suo grande principio di
condotta, d’enunciare a sè stesso il programma della sua vita com’egli
voleva che fosse, d’affermare con una sintesi stringente la solidità
del suo piano e la forza della sua volontà.

«La vita è breve», egli pensava; «occorre affrettarsi. Occorre
sviluppare la propria individualità in tutta la sua potenza; allargarla
fin dove le resistenze esterne lo concedono; giungere possibilmente
fino al punto lontano che gli occhi del pensiero vedono e segnano come
una mèta. Ecco dunque il dovere: non distoglier mai lo sguardo da quel
punto; non deviare mai dal diretto cammino che conduce a quel punto.»
— Poichè il Destino non aveva voluto ch’ei possedesse terre, servi e
cavalli, doveva per altra più ardua via (ed Esso glie ne aveva fornito
i mezzi e le attitudini), raggiungere un alto fine vitale. Gli uomini
della sua stirpe, anche nei tempi meno propizii, non erano stati a
nessuno secondi: l’avolo suo Gian Franco, nell’amor della patria;
il padre Alessandro, nello splendore del fasto e dell’eleganza. E
lo sventurato esule, morto nelle prigioni dello Spielberg, sognando
in una estrema visione profetica l’Italia liberata, doveva nel mondo
delle ombre tendere pietoso la mano al figliuolo demente che, negli
anni torpidi della pace, aveva cercato di salvare il lustro del Nome,
sacrificandogli la fortuna e la salute. Egli veniva terzo: egli,
povero e oscuro, sentiva pur sempre nel sangue lo stesso sfrenato
orgoglio, che aveva già trascinato in turbini diversi le anime de’ suoi
maggiori. Compire e coronare l’opera iniziata dall’avolo, ecco il suo
grande disegno; ed egli, per affrettare l’evento favorevole, sognava
a sua volta, per la patria ormai risorta e già minacciata da ruina, un
dominio d’uomini nobili e possenti, che ne rialzassero e assicurassero
le sorti maravigliose, mostrando al mondo l’indistruttibile
preminenza del più puro sangue latino. «Un popolo fedele, guidato da
un’aristocrazia degna, attiva e sapiente», egli pensava, «ha nell’età
nostra, tra popoli inquieti retti dal malgoverno plebeo, tutte le
probabilità di trionfare e d’imporsi.»

E Aurelio Imberido si sentiva pronto e capace di mettersi alla testa
d’un’agitazione schiettamente aristocratica nel grigio e turbolento
diluvio delle odierne democrazie. Egli, libero da ogni giogo, forte
d’un’antica eredità d’ambizioni, sorretto da una vasta dottrina
positiva, avrebbe trovato, nella lotta viva contro i preconcetti
politici e morali del tempo, il mezzo più sicuro e più nobile per dare
alla sua esistenza un particolare significato e uno scopo superiore;
per estendere la sua personalità oltre i limiti ristretti e oscuri
che s’impongono ai più; per divenire un uomo, nel senso più alto
della parola, e tentare anche l’erta della Grandezza. «Combattere per
un’idea, o, sia pure, per un sogno,» diceva l’Imberido: «ecco l’opera
che sola affranca dall’umiltà delle nostre origini, e fa men grave la
coscienza della nostra vita precaria.» Ma, perché potesse egli attuare
il suo programma, era necessario che ad esso consacrasse intera la
propria attività, era necessario che facesse a sua volta una rinunzia
suprema: non certo quella vile dell’individualità e d’ogni sano impulso
agonistico, che le presenti ambigue tendenze spirituali tristamente
sembrano esaltare; ma bensì quell’altera rinunzia d’ogni sentimento
volgare e d’ogni timida fede e d’ogni morbosa pietà, che inizia l’uomo
all’esercizio delle più feconde virtù e lo dirige sicuro alla prova
delle imprese più memorabili.

Così il giovine, meditando sotto il sole benefico, si tracciava
novamente la prediletta linea di condotta, e ritrovava a poco a poco la
sua volontà adamantina e insieme con questa il geloso tesoro delle sue
speranze di gloria. L’opera futura, ch’egli avrebbe dovuto compire, gli
si veniva per tal modo disegnando e precisando dentro al pensiero nelle
sue diverse possibili estrinsecazioni, — opera di franca propaganda
per mezzo del libro, del giornale, della parola, anche, se fosse
occorso, dell’azione diretta. E le due formule rigorose su cui poggiava
l’edificio della sua concezione riscintillavano d’avanti a lui, come
fossero incise a lettere di fuoco dovunque il suo sguardo cadeva.
«L’umanità resta e progredisce, non ostante ogni scempio più doloroso
de’ suoi individui.» E l’altra: «L’unico ideale degno d’un uomo
intelligente è l’aspirazione a un’umanità superiore, a un’evoluzione
della Specie spinta più che sia dato verso il cielo. Fermarsi a rendere
felici quelli che esistono non è e non può essere che un ingenuo e vano
desiderio sentimentale.»

Un improvviso entusiasmo l’assalì. Dov’erano omai tutti gli
sbigottimenti e le ansie e le fosche imagini che lo avevano prima
oscurato? Dov’erano gli obliqui desiderii e i disgusti e le insidiose
memorie? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito erasi
liberato dai fantasmi, aveva disperso le nebbie che l’attorniavano.
Pareva che un altro principio di vita fosse entrato in lui; pareva che
qualcuno fosse uscito da lui, segretamente, e avesse portato seco il
triste fardello dei dubbii, degli scoramenti, delle debolezze. Egli
riacquistava la fiducia in sè stesso.

A capo alto e raggiante nel viso, Aurelio rientrò in Cerro. Sotto
l’arco caliginoso, che sta in guisa di porta all’inizio del villaggio,
trovò Camilla, frettolosa, tutta rossa e con gli occhi gonfii, la quale
gli venne in contro singhiozzando, coprendosi la faccia col fazzoletto.

— Che c’è di nuovo? — egli chiese stupito.

— La signora.... La signora.... — balbettò a stento la ragazza, e non
potè continuare, interrotta come fu da uno scoppio di pianto.

— La signora?... Ebbene?... Che è avvenuto?...

Aurelio cominciava a inquietarsi. Sempre in timore per la salute
della nonna, egli supponeva già ch’ella avesse avuto un attacco più
atroce del suo male; e un leggero tremito aveva per il corpo e nella
voce, mentre interrogava la cameriera che muta e a viso coperto gli
singhiozzava d’innanzi.

Poi che questa non accennava ancora a rispondere, egli richiese più
vivamente, quasi con ira:

— Ebbene?... Che è avvenuto?.... Parla in nome di Dio!

— Io non ho colpa.... Io non ho fatto nulla.... Pretendeva che avessi
percosso il bambino del guardiano, e non era vero.... Non era vero,
glie lo giuro, signor Aurelio! Il bambino è caduto per caso.... Io non
l’ho visto cadere.... E la signora m’ha licenziata in malo modo....

— Ah, è per questo che piangi? — fece Aurelio, senza lasciarla
continuare, dopo aver tratto un gran respiro.

Ella affermò a pena, col capo.

— Sempre la stessa storia! — mormorò il giovine, stringendosi nelle
spalle. Poi si rivolse ancora a lei: — E dove te ne andavi or ora con
tanta fretta?

— Andavo a Laveno.

— A Laveno? E per che fare?

— Per cercarmi un posto....

— Così sùbito?!.. Via, non far sciocchezze, Camilla! Adesso torna a
casa: avrai tempo più tardi per pensare ai fatti tuoi.

E s’incamminò, sorridendo con un poco d’amarezza, verso il palazzo.

Presso la porta il guardiano, un vecchio robusto e sanguigno dalla
folta capigliatura grigiastra e dagli occhi di volpe, era seduto sopra
una delle lastre di granito infisse nella parete, intento ad affilare
il falcetto, e fischiava allegramente.

— Olà, Giuseppe! — gli gridò Aurelio, salendo i gradi del rialto. — È
vero che il vostro piccino s’è fatto male?

— Oh, signor conte, una cosa da nulla! Il monellaccio è ruzzolato
mentre correva per il cortile.... Che vuole? Non può stare un momento
quieto! Lo si sorveglia tutto il santo giorno; ma non serve. Egli sa
trovar sempre il momento buono per farne qualcuna delle sue!...

— Voi, Giuseppe, eravate presente quando è caduto?

— Sicuro! Era anch’io in cortile con lui.... Fortuna volle che questa
volta non si sia fatto quel male che avrebbe potuto! Una leggera
ammaccatura su la testa.... cosa da nulla, le dico, signor conte.

— Tanto meglio! — concluse il giovine e, salutato il guardiano, entrò
risoluto in casa.

La sala da pranzo, con le persiane chiuse, era avvolta in una
mezz’ombra glauca, appena rotta qua e là da alcune lamine sottili
di sole, a traverso le quali i pulviscoli dell’aria si vedevano
incessantemente roteare. In un angolo, presso l’ultima finestra, donna
Marta era seduta, come d’abitudine, sul suo seggiolone d’avanti al
tavolino da lavoro tutto ingombro di fili, di gomitoli, di ritagli, di
minuti arnesi muliebri.

Il giovine s’avvicinò lentamente a lei. Ella, il capo arrovesciato su
la spalliera, le mani penzolanti dai bracciuoli, giaceva abbandonata
e inerte, come affranta da un immane sforzo; e ansimava. I suoi
lineamenti alterati dalla collera e dal dolore avevano l’immobilità,
la rigidezza, il pallor d’un cadavere: e gli occhi, quei grandi
occhi giovenili, saettavano in giro sguardi sinistri, all’ombra delle
sopracciglia irte e aggrottate.

— Mamma, che hai? Sei così pallida... — mormorò il giovane con la voce
dolce, quando le fu presso.

— Che ho? — ella proruppe. — Sono stanca, capisci? Non ne posso
più! Finirò per commettere una follia, se si continua così. Intanto
t’avverto che ho messo alla porta quella tua serva esemplare, ed era
tempo, per Dio!

— Tu l’hai messa alla porta...?

— E come! L’avessi sentita...! Che lingua! M’ha risposto in un tal tono
che per poco non m’ha spinta all’estremo di cacciarla a ceffoni!..
E tutta la colpa è tua, perchè sei stato tu a non volere ch’io me ne
liberassi a Milano, prima di partire per la campagna.

— Ma infine, mamma: che è successo? Che cosa ha fatto costei?

— Ah, che cosa ha fatto?... Ha percosso a sangue il povero piccino del
guardiano...

— Non è vero, — asserì Aurelio con la stessa voce dolce, fissando
l’avola negli occhi.

Ella ebbe un sussulto repentino. Quasi per un prodigio, parve che il
suo corpo esanime ritornasse d’un tratto alla vita. Si levò ritta a
sedere e, affrontando violentemente lo sguardo di lui:

— Come, non è vero? — gli gridò con tutta la sua forza. — Oseresti
anche smentirmi per difendere quella sguajata?!

— Mamma, via, non arrabbiarti così, — Aurelio s’affrettò a soggiungere
in tono anche più blando, persuasivo: — non è proprio il caso. Parliamo
un poco con calma. Si tratta d’assodare un fatto; non di discutere.
Ora tu affermi, che Camilla ha battuto quel bambino. Lo affermi forse
perchè l’hai sentito piangere. Ebbene, credimi, t’inganni: il guardiano
stesso, ch’era presente, m’ha assicurato che suo figlio è caduto mentre
correva nel cortile. E nota che Camilla non l’ha visto neanche cadere!

Donna Marta ascoltò queste parole, contenendo a stento l’ira che le
bolliva dentro. In verità, ella era così certa della sua supposizione
che ogni più valida prova negativa non sarebbe riuscita a insinuarle
la punta d’un dubbio. Abituata sin dai tempi di suo marito a un imperio
incontrastato su tutti quanti l’avvicinavano, resa anche più irritabile
dai nervi impoveriti di sangue, ella non poteva ormai tollerare una
contradizione, sotto qualunque forma le venisse rivolta; e s’adombrava,
e inviperiva, e perdeva, nello sdegno per l’offesa, ogni senso d’equità
e di misura. Quando poi l’opposizione contro di lei partiva proprio
da suo nipote, che ella considerava come un vassallo per tema di dover
sopportare come un padrone, la rivolta del suo spirito indisciplinato
era così folle e veemente che l’ultimo bagliore di ragione andava nel
tumulto miseramente perduto.

— Tu dunque l’hai vista? — ella disse, mordendosi le labbra. — Tu hai
parlato con lei?...

— Sì, mamma. Ho parlato anche con lei.

— Capisco. Hai voluto ricever l’imbeccata!... E, come sempre, hai
preferito credere a una serva che non a me...

— Oh, Dio, mamma... — esclamò Aurelio, che cominciava a impazientirsi.
— Se debbo parlarti schietto, ti dirò che non ho creduto né all’una
né all’altra. Si trattava di sapere se una cosa fosse avvenuta o
no. Capirai bene che non era il caso di far distinzioni di grado o
d’autorità o di merito tra le persone che contendevano. Ho ricorso alle
testimonianze e mi son persuaso che non era avvenuta. Vuoi forse che ti
affermi ora il contrario, per compiacerti?

Donna Marta ebbe un sogghigno, e disse con sarcasmo feroce, sillabando
quasi le parole:

— Peccato davvero che tu non abbia fatto l’avvocato.... ma non di
queste cause, s’intende!... All’enfasi che metti nel difendere la tua
protetta, si direbbe...

— Che cosa? — interruppe con forza Aurelio, guardandola fissamente.

— Oh! Oh! Credi forse di farmi paura con quegli occhi?

— Ti prego di spiegarti, mamma. Che hai voluto dire?

Ella non rispose sùbito; alzò sdegnosamente le spalle, mentre il
sogghigno di prima le ritornava anche più mordente su le labbra. Il
giovine fece un passo avanti, e ridomandò quasi per violenza:

— Via, rispondi, mamma. Lo esigo! Che hai voluto dire?

— Ebbene: ho voluto dire che al tono, con cui tu ora mi parli, si
crederebbe che costei sia la tua amante!

Aurelio illividì. Benchè alla prima reticenza avesse già imaginato
il pensiero dell’avola, l’enunciazione aperta e brutale di questo
lo colpì atrocemente quasi un colpo di maglio nel mezzo del petto.
Insulto più grave non gli si sarebbe, no, potuto scagliare; egli, il
puro, il casto, l’insensibile era d’un tratto accusato d’amoreggiare
trivialmente con la propria cameriera. Il giovine non ebbe tempo per
riflettere; sentì il soffio ingiurioso passar su la fronte, e la vista
gli si ottenebrò.

— Come sei volgare! — disse sordamente, stringendo i pugni e
atteggiando il volto a un’espressione di profondo dispregio. Poi, per
non aggiungere altro, con un moto subitaneo volse le spalle a donna
Maria, e uscì correndo dalla stanza.

Udì dietro di sè un urlo soffocato, quindi un fiotto impetuoso di
parole aspre, terribili: «Infame! Infame! Egli osa anche insultarmi! A
questo si doveva giungere... Io vado via sùbito... Caschi il mondo, non
mi vedrà più...!» Attraversò in fretta il cortile, ascese rapidamente
le scale, entrò nella propria camera e vi si rinchiuse a due mandate di
chiave, come se la vecchia avesse potuto inseguirlo con le sue minacce.

Poi che fu solo, sottratto alla presenza impositrice dell’avola, nel
luogo dedicato agli studii, la sua eccitazione, invece di scemare,
aumentò. Tutti i pensieri, che già durante la scena eran passati per
la sua mente, gli tornarono alla memoria; tutte le parole che per
prudenza o per rispetto aveva dovuto reprimere, tutte incominciarono
di nuovo a fluirgli alle labbra con insolita irruenza. Ed egli, con
una specie di amaro sorriso interiore, si piacque di ricostruire il
diverbio, aggiungendo quello che avrebbe voluto dire, i ragionamenti
e le objezioni e le proteste sdegnose, senza più blandizie, senza più
eufemismi, senza rispetto o prudenza alcuna.

Così rievocò l’intera scena, accompagnando le parole con una mimica
vivace, percorrendo la camera per il lungo e per il largo a grandi
passi. Quando però giunse all’ingiuria, che l’avola gli aveva lanciata,
ristette perplesso, come se ne avesse afferrato per la prima volta il
senso preciso; e la risposta violenta, che poc’anzi aveva taciuta, non
venne.

Un nuovo ordine di pensieri, più calmo ma non meno ingrato, si svolse
allora nel suo cervello: perchè sua nonna lo aveva tacciato di essere
l’amante di Camilla? Come, come aveva potuto imaginare una simile
assurdità? Non certo perchè egli, col suo contegno e anche con le sue
difese, le avesse mai dato un appiglio per sospettarlo. Non certo
perchè la possibilità di una siffatta tresca fosse una sola volta
balenata nella mente di lei che conosceva troppo bene le sue idee in
proposito e il suo rigido orgoglio e le sue «abitudini d’orso», come
celiando si compiaceva di chiamarle. Doveva esser dunque un’altra
intenzione nella calunnia sanguinosa. Or quale poteva essere questa
intenzione?... Era chiaro: ella lo aveva voluto affliggere, offendere,
umiliare, anche a prezzo d’una bugìa. Inviperita contro il nipote,
perchè era sorto in difesa altrui a ribattere le sue accuse, ella
aveva opportunamente usato di un argomento _ad hominem_ per liberarsi
con un sol colpo del molesto contradittore. Il fatto in sè non era
grave, ma pur troppo non era nuovo né raro: quasi ogni giorno, o per
un motivo o per un altro, ella trovava il modo di rivolgergli frasi
consimili, in cui sempre l’identico sprezzo insisteva, come una nota
tenuta a fondamento d’accordi diversi. Aurelio ne rammentava ora una
serie innumerevole; anche Aurelio rammentava che quelle frasi tendevan
tutte a colpirlo dove più delicata era la sua sensibilità: ne’ suoi
ideali, nelle sue predilezioni, nelle sue stesse virtù, nelle sue
stesse rinunzie. Si sarebbe detto ch’ella traesse dalle mortificazioni
a lui inflitte, una specie di strazio divinamente piacevole; o, meglio,
che una volontà superiore, in mano della quale ella non era se non lo
strumento doloroso, glie le suggerisse per uno scopo oscuro e fatale.
Ma, quale scopo?

«Ah, le donne! Le donne!» esclamò il giovine improvvisamente, tratto
come di consueto a generalizzare le sue considerazioni. «Madri,
sorelle, mogli, amanti, esse non si smentiscono mai, mai! Che cosa
sono per esse i nostri sogni, le nostre speranze, i nostri sacrifici,
la nostra coscienza, in somma tutta l’anima nostra? Nulla, meno che
nulla. Esse non comprendono che gli uomini comuni, mediocri, normali,
quegli uomini che lavorano indefessamente per vivere, generano
figliuoli, li allevano, e lasciano a questi il posto, quando il loro
malinconico cammino è giunto alla mèta. Gli altri tutti, sono per le
donne altrettanti mostri paurosi, che bisogna distruggere, redimere
o avvilire; ed esse li distruggono, li redimono o li avviliscono,
perchè tale è il loro dovere. Non hanno esse forse, nel misterioso
equilibrio della Natura, la missione di conservare le tradizioni della
razza? di mantenerla strettamente legata alle origini? d’impedire che
i caratterismi del tipo umano si perdano o si trasformino? Non sono
esse le sacre custodi della essenza prima di nostra Specie? Vigilare
affinchè questa non traligni, non strisci o non voli: ecco il segreto
potere della anima loro, ecco la base di tutta la loro psicologia.»
Egli soggiunse: «Liberi, liberi dunque bisogna essere dalla tirannia di
queste vilificatrici d’ogni personalità, di queste nemiche implacabili
d’ogni tendenza elevata e d’ogni slancio sublime! Liberi bisogna
essere, per divenire qualcuno e poter fare qualche cosa — prima della
morte!»

Egli si mosse, di nuovo; andò alla finestra, l’aperse, lasciò
ch’entrasse la trionfante luce del giorno.

Il giardino splendeva nel sole, con le sue bianche scalee, con le sue
statue bianche, come intagliate nel verde cupo della pineta. Il poggio,
sopra, aveva un chiarore metallico, come fosse tutto cosperso d’una
polvere d’oro.

Quella visione, dopo lo sfogo benefico, gli ricondusse lo spirito
alta calma, gli ridiede la coscienza piena di sè stesso. Valeva forse
la pena di crucciarsi per quelle futili questioni? Non aveva egli
altro di meglio e di più serio da pensare o da fare? Egli richiuse le
persiane, e venne a sedersi d’avanti alla scrivania. Molti fogli vi
erano sparsi in disordine, quasi tutti vergati, per intero o in parte,
a caratteri grandi, decisi, piuttosto oblunghi, un po’ inclinati da
sinistra verso destra: le cancellature frequenti e risolute mettevano
sul nitor della carta vaste ombre oscure. Tra quella moltitudine di
fogli, dov’egli era solito d’abbozzare i suoi lavori o di fermare le
idee utili, emergevano qua e là alcuni grossi libri aperti e le pagine
fitte di qualche rivista nostrale o forestiera. Sul piano del palchetto
eran poi raccolti i frammenti delle sue tre opere in corso: un enorme
fascio di carte, chiuso in una custodia di pergamena su cui si leggeva
il titolo in inchiostro rosso: _L’avvenire delle società umane_; un
altro fascio meno voluminoso, rattenuto da un semplice foglio piegato
a mo’ di busta, sul quale era scritto: _La Morale dell’Evoluzionismo,
critiche all’opera di Erberto Spencer e conclusioni_; e infine un
terzo fascicolo, alquanto esiguo, con la dizione: _Socialismo e
Cristianesimo_.

Aurelio prese quest’ultimo dal palchetto della scrivania, e se lo
pose dinnanzi. Era uno studio sintetico e impressionante su le comuni
aspirazioni delle nuove idee sociali e della vecchia morale cristiana,
il quale tendeva a dimostrare come la fusione delle due teorie non
potesse esser lontana, e voleva mettere in guardia gli studiosi e i
pensatori contro le fatue lusinghe e i gravi conseguenti pericoli che
un siffatto connubio avrebbe portati con sè. L’Imberido s’era accinto
a scriverlo nell’ultimo mese passato a Milano, avendo intenzione di
pubblicarlo in diverse riprese su la sua Rivista; poi, siccome dal suo
arrivo a Cerro s’era immerso totalmente nella grande opera _L’avvenire
delle società umane_, lo aveva abbandonato, e, sebbene fosse già
presso a concludere, non s’era più dato pensiero per ultimarlo. In
quel momento, forse perchè ricordava le sollecitazioni che lo Zaldini
gli aveva fatte la mattina precedente, o perchè non si sentiva di
riprendere un lavoro troppo intenso e faticoso, Aurelio fu spinto
involontariamente a continuare il breve studio interrotto.

Egli sfogliò il fascicolo lentamente, scorrendo con lo sguardo su le
pagine, già fatte giallognole dal tempo, quasi volesse risvegliare la
memoria precisa di quanto aveva scritto. Come giunse alla interruzione,
indugiò alquanto per rileggere attentamente gli ultimi periodi; e li
rilesse a voce alta, ascoltandosi.

«E questi saranno gli estremi e i più fervidi adoratori di Cristo,
non forse molto dissimili da quelli che primi lo adorarono. Così
le Scritture saranno compite, e così la parabola terminerà com’era
incominciata.

«L’attacco sarà certo formidabile. Il fanatismo dà un coraggio che
le persone calme non hanno e non possono avere. Se dalla parte dei
Ribelli non ci sarà un soverchio equilibrio morale, ci sarà per
compenso il Genio nelle sue più acute manifestazioni. Uomini grandi,
uomini terribili sorgeranno in questa sollevazione disperata, da
questo ibrido connubio di misticismo e d’animalità: spiriti tumultuosi,
dotati d’un potere magnetico irresistibile, dominatori e affascinatori
delle masse, i quali troveranno vie insospettate per trascinarvi
perdutamente i cervelli e i cuori. E a questi s’uniranno con entusiasmo
tutti gli spostati dalle assurde e magiche idealità, e le anime guaste
dall’odio o dalla cupidigia, e i perpetui adolescenti, e i perversi e i
degenerati e i pazzi!

«Con queste bandiere, con queste reclute, con questi capitani, la
parte inferiore della Umanità insorgerà contro la superiore, tenterà
lo sforzo supremo per arrestare il fenomeno fatale della civiltà e
dell’evoluzione. Chi trionferà nel gigantesco cimento?»

Così il manoscritto bruscamente s’interrompeva.

Aurelio Imberido, dopo esser rimasto alcuni minuti pensieroso, fissando
lo spazio d’avanti a sè, prese con un atto improvviso la penna, e
continuò.



IV.

L’ALBERO DEL BENE E DEL MALE.


Il dì successivo, Aurelio, avendo concluso l’articolo, discese in
giardino, e s’inoltrò nella pineta per cercare ombra e riposo.

Era un pomeriggio sereno, d’una serenità incandescente, caldo ma
temperato da qualche soffio d’aria. Per tutto quel giorno egli sapeva
che non avrebbe ripreso la penna, come sempre quando terminava un
lavoro o una determinata parte di lavoro; e, libero e sodisfatto di sè,
seguiva distrattamente i sentieri tortuosi sotto l’ampio padiglione
verde, guardandosi d’intorno, aspirando la diffusa fragranza delle
resine riscaldate dal sole, ascoltando rapito il fruscìo alterno del
vento tra le fronde o il susurro d’un ruscello nascosto.

Nella pineta era una luce pacata e raccolta, come in un tempio. Per
il denso intrico, che formavano i rami, premendosi, intrecciandosi,
confondendosi nella loro antica e tenace espansione, ogni lembo di
cielo veniva occultato. Una parete opaca si distendeva a similitudine
d’un velario sopra la terra; e solo, a traverso gli interstizii
dei tronchi, un chiarore aureo o rancio o verde, a fasci nettamente
visibili, s’insinuava, quel chiarore innaturale che lascian cadere
nell’ombra le finestre a vetri variopinti. Un sentimento mistico e
solenne emanava dal luogo, come da un santuario a pena illuminato,
saturo di vapori d’incenso.

Tra quei profumi, in quella pace, il giovine camminava a rilento,
senza un pensiero, abbandonandosi al fascino che gli veniva dalle
apparenze esteriori. Tutto assorto nella ottusa contemplazione, egli si
perdeva ad accompagnar con lo sguardo il volo d’un insetto nell’aria
o il viluppo appassionato dell’edera intorno a un fusto impassibile:
s’arrestava ogni tratto attonito per ammirare qualche cespo di
ciclamini o di violette sbucante come per prodigio dalle cavità del
tufo. Lo spettacolo d’un ragno in atto d’avvolgere la preda nel suo
sudario mortale lo tenne fermo lungo tempo, sospeso, attratto, commosso
quasi fosse al cospetto d’una rappresentazione tragica. E il suo
spirito si mantenne così semplice durante l’osservazione del minuscolo
conflitto per la Vita, ch’egli non sentì altro impulso se non quello
d’intervenire a favore del debole, predestinato al sacrificio, contro
il forte che pure esercitava il suo pieno diritto all’esistenza.

D’improvviso una voce acuta risonò dietro le sue spalle.

— Buon giorno!

Egli si volse bruscamente. La bionda Luisa, che discendeva in corsa
sul medesimo sentiere con un gran mazzo di fiori in pugno, lo aveva
raggiunto senza ch’egli si fosse accorto della sua presenza.

— Buon giorno, signorina! — egli rispose, arrossendo un poco.

Ella s’era fermata vicino a lui, e lo fissava con quegli occhi
chiarissimi e ardenti, in cui la luce pareva concentrarsi come nel
fuoco d’una lente.

— Bella giornata, oggi, — ella disse sùbito, poi che Aurelio immobile
d’avanti a lei non accennava a continuare.

— Bella, davvero.

— E che delizioso rifugio è questa pineta! Io ci passerei la vita....
L’estate qui dentro è dolce come un autunno.

— Se non erro, ella è stata a raccolta, signorina....?

— Sì, di fiori, — interruppe Luisa con vivacità; — di fiori selvaggi,
come piacciono a me. Ma adesso bisogna che torni a casa e in fretta,
perchè l’ora del pianoforte è già scoccata e la zia è severissima....

Sorrise lievemente, socchiudendo a pena le palpebre ma senza
distogliere gli sguardi dagli occhi del giovine. Poi, chinando il capo
in segno di saluto, con un atto assai leggiadro:

— Con permesso, — soggiunse; e riprese in corsa la sua strada.

Prima d’oltrepassare il gomito del sentiere, si volse ancora verso di
lui per gridargli:

— Se s’inoltra appena un po’ nella pineta, trova Flavia.... A rivederla!

E, così dicendo, la giovinetta scomparve.

Aurelio, che non aveva avuto il tempo di rispondere, era rimasto
fermo e attonito, con gli occhi inerti, alla svolta della viottola.
Quell’incontro gli era stato insolitamente gradito. Sorpreso dalla
comparsa subitanea della fanciulla, egli aveva prodigato a questa la
stessa benevolenza curiosa e quasi tenera, che gli abondava in quel
momento nello spirito e aveva espansa su le mute manifestazioni del
bosco. Le poche parole scambiate non avevan potuto certo risvegliare
in lui un’idea o un sentimento nuovo, diverso da quello ond’era invaso.
Avevan parlato della beltà del giorno, della pineta ospitale, di fiori,
delle cose miti e piacevoli, al cui incanto l’anima sua dolcemente si
concedeva. E la frase, che Luisa gli aveva gittata da lontano, era
giunta fino a lui senza che potesse afferrarne bene il significato.
Egli a pena l’intuì, ripensandoci. Ebbe un attimo di perplessità:
doveva seguitare e farsi incontro a Flavia? Doveva retrocedere ed
evitarla? Inconsciamente il suo pensiero rifuggì da ogni indagine
sul senso esatto della frase, si ribellò a qualunque sforzo a fin di
prendere una risoluzione. Egli proseguì per inerzia la sua passeggiata
contemplativa nel bosco, dove il silenzio era tornato quasi più grave e
più vasto che prima non fosse.

Passò la grotta artificiale, irta di stalattiti superbe, onde
alcune gocce perennemente cadevano su la terra fradicia; arrivò al
crocicchio dei due sentieri che tagliavan la pineta nelle due direzioni
principali; s’arrestò un poco d’avanti all’erma che dominava il luogo,
un gran busto nudo di donna su cui l’assidua carezza del tempo era
passata, corrodendo e levigando il sembiante, ma lasciando rigidi e
intatti i seni, come gonfii d’un desiderio immortale. Procedette poi a
passo più spedito verso l’altura, quasi lo chiamasse, da quell’ombra,
il vivido raggio di sole che illuminava a traverso un pertugio la
sommità del sentiere.

Flavia era là, sola nella luce. Saliva lentamente l’erta d’un
prato contiguo alla pineta. Al di là l’orto incominciava, tutto
lussureggiante di piante pallide, da cui si vedevan pendere i frutti
ancora acerbi o alcuni grappoli vermigli di ciliege. Sopra l’orto, il
poggio coltivato a vigneti s’elevava in una succession di scaglioni
petrosi, intorno ai quali le viti avevan disegnato come un greve
merletto verde.

Ella saliva quella distesa inclinata su cui l’erba cresceva foltissima
e intonsa con una maravigliosa chioma di fioretti d’oro. La sua
persona, un po’ curva in avanti, appariva dal ginocchio in su tra
la verzura profonda, lasciando dietro di sè un mobile solco di fili
prosternati. A volte rimaneva per cogliere con la mano un fiore
sopreminente; a volte s’inchinava alquanto verso il suolo, e scrutava
assorta i misteri di quella selva minuta. Come più s’allontanava,
ella facevasi più lenta, indugiando a ogni passo sul pendìo lubrico ed
erto, arrestandosi, col capo levato in alto, per fissare l’orto o il
poggio solatìo, quasi fosser la mèta del suo cammino. Quando fu presso
al limite estremo, improvvisamente le forze le mancarono, ed ella,
mettendo un piccolo grido, si volse e s’abbandonò tutta quanta, distesa
su l’erba come su un letto.

— Lei, conte?! — esclamò Flavia turbata ma sorridente, poichè vide il
giovine fermo allo sbocco della viottola; e s’alzò di scatto a sedere.

Aurelio senz’aprir bocca la salutò, levandosi il cappello.

— È venuto a sorprendermi, eh?

— Confesserò — egli rispose — che senza volerlo sono stato spettatore
di tutta l’ascensione.

— Male, assai male! Doveva avvertirmi della sua presenza...

— L’avrei desiderato, ma come fare? Potevo prendermi la libertà di
chiamarla per nome?

Ella gridò, ridendo:

— Gran che!.... Del resto non occorreva: bastava tossire, tossire con
molta violenza.... Io, che ho buon cuore, mi sarei sùbito impensierita
per la sua salute e naturalmente, volgendomi, l’avrei scoperto....

— È vero! Mi scusi.. non ci ho pensato!

Risero entrambi. Ella così forte che un’eco lontana rispose; e agitò
le mani, e battè l’una contro l’altra palma in un fresco trasporto di
giocondità.

— Non è indiscrezione domandare dov’era mai diretta per sì mali passi
la signorina? — chiese Aurelio.

— Non so precisamente. Ero stanca di star là giù seduta a lavorare:
e m’è nata la cattiva ispirazione di salire verso l’orto a traverso
questo prato.

— Ah, ella vien fin qui a passare le ore calde della giornata?

— Sì, noi lavoriamo quasi sempre all’aria aperta. Si vuole avere il
gran cielo per testimonio che l’ozio non è tra le nostre abitudini...
Come può vedere, quello è appunto il nostro laboratorio, quando almeno
il tempo ce lo consente.

Il giovine si volse verso il punto che Flavia indicò. All’ombra degli
ultimi abeti del bosco, in una specie di nicchia verde, era disteso
su l’erba un ampio scialle a mo’ di tappeto, tutto coperto di scatole,
scatolette, astucci, astuccini, cestelli, e d’una infinità di gomitoli
colorati; due telaretti per ricamo e due sediuole portatili compivano
quell’improvvisato luogo di lavoro.

— È un rifugio da poeti, questo! — disse Aurelio, rivolgendosi a lei.

— Dove, per buona ventura, poesie non se ne fanno, e né pure se ne
leggono mai! Io odio cordialmente i versi e i verseggiatori.... Non è
per caso tra questi, signor Imberido?

— No, signorina, pur troppo!

— Pur troppo?...

— Sì, perché vorrei esser poeta.

— E a che pro?

— A che pro...?! — ripeté il giovine, fissandola, un po’ impacciato.

La domanda l’obbligava a una lunga esplicazione e non agevole. Egli
ammirava profondamente le opere estetiche: tra tutte le arti, la
poesia e la musica eran quelle che prediligeva come le più perfette
espressioni della bellezza ideale. Pensava anzi che l’arte fosse, con
la filosofia, l’eccelsa fioritura della mente umana, un privilegio
degli spiriti eletti, un titolo tra i più validi e più legittimi nelle
nuove aristocrazie intellettuali. Per lui l’artista era un uomo nobile,
e uomo nobile non poteva essere chi rimaneva estraneo e chiuso al
fascino del bello, alle pure ebrezze dell’intelligenza. Queste cose
egli avrebbe voluto esprimere, e le parole gli salirono spontaneamente
alle labbra. Ma invece rispose:

— Per celebrar le sue lodi, signorina!

Ella lo guardò, come se dalla pausa avesse indovinato i suoi pensieri e
dubitasse della sincerità di quella risposta. Quindi, per non insistere
su l’argomento in cui sentiva esser tra loro una discordia d’opinioni,
domandò:

— E lei, dove andava da queste parti?

— Io? Non so... Verso l’alto, come sempre... Perchè a me piace salire,
continuamente salire... La montagna m’attira con una prodigiosa
potenza. Quando mi metto per una via che tende in su, non posso più
fermarmi, proseguo come un automa sospinto da un’energia ignota,
accelero il passo man mano che l’erta si fa più scoscesa, non rimango
se non ho superato un culmine. Non so perchè: questa strana sensazione
d’ansia e di piacere, l’ho provata dalla prima volta che ho visto la
montagna, quando ero ancor bambino.

Flavia ascoltò grave e attenta, or corrugando e ora spianando la
fronte, tenendo lo sguardo fisso su di lui, ma non ne’ suoi occhi. D’un
tratto si levò ritta in piedi, e disse a mezza voce, così che a pena
egli la intese:

— Su via, dunque, mi dia un saggio della sua abilità d’alpinista. Mi
raggiunga... Andiamo!

Le semplici parole, che parevan dette per giuoco, ebbero
dall’intonazione e dal gesto un significato profondo. Egli non potè
resistere all’invito; s’abbandonò a quel tenue incanto; si lasciò
trascinare da quella voce di donna che lo chiamava discretamente a sè.
Un desiderio oscuro l’assalì: di mostrare la sua vigoria fisica, di
rivelare in uno slancio leonino la sua giovinezza agile e forte. Si
sarebbe detto che l’essere originario, primordiale, selvatico, avesse
avuto in lui un brusco risveglio, fosse uscito libero e fresco dalla
spoglia artificiale che l’opprimeva. Egli ascese in corsa il pendìo
ripido del prato, giunse in un attimo a fianco della fanciulla, si
fermò sicuro d’avanti a lei, rattenendo il respiro per non tradire la
commozione del cuore, per ostentarne la regolarità dei palpiti anche
dopo uno sforzo supremo.

— Bene! Bravo! — ella approvò seriamente, senza sorridere, con
sincerità; poi, soggiunse cambiando tono ed espressione: — Ed ora che
si fa? Dove andiamo?

— Dove andiamo? Dove vuole, signorina.

— Nell’orto?

— Nell’orto.

— Forse non c’è mai stato?

— In fatti, mai.

— Io le farò da guida, — concluse la fanciulla; e s’incamminò spigliata
d’avanti a lui.

Portava un abito grigio, sobrio e attillato, che avvinceva strettamente
il suo torso e scendeva diritto lungo i fianchi, ritraendo a ogni
movimento le forme eleganti della persona. Nessuna guarnizione su
quell’abito; un sol nastro serico d’un color di lilla pallido le girava
intorno alla cintola assai sottile, e ricadeva dalle reni in due lunghe
bande volanti fin quasi a terra. In capo aveva un cappellaccio di
paglia dalle tese larghe e convesse, su cui risaltavan due tulipani
scarlatti in un ciuffo di foglie e di spighe; e in mano, a guisa di
mazza, un ombrellino di raso iridescente, orlato d’una trina bianca.

Aurelio la seguiva da presso, guardandola con curiosità intenta, ma
immemore e spensierato come un fanciullo. Entrarono così nell’orto,
uno dietro l’altra, senza parlare, tenuti entrambi da una specie di
stupefazione dolce, da una specie di torpore, sotto la sferza del sole.

Un gran viale, cosparso di ghiaia fina e quasi candida, tagliava a
mezzo il pianoro dove il vecchio frutteto prosperava. Da ambe le parti,
equidistanti e regolari, altri viali più angusti vi affluivano in
una perfetta simmetria di linee parallele. Nei rettangoli intermedii
gli alberi crescevan poderosamente sopra un suolo grasso e ubertoso,
piantati in ordine sparso, bene esposti alla luce, diritti e sani,
come assistiti nel loro sviluppo da una mano sollecita. Alcuni, troppo
carichi, avevan sostegni obliqui sotto i rami più oppressi dal peso;
alcuni, ancora esili e malfermi, si vedevan protetti da una custodia di
piuoli confitti nel terreno, trattenuti da cerchii di ferro. E v’erano
albicocchi, peri, pruni, mandorli, superbi d’una innumerevole prole di
globuli gialli o verdi; alcuni noci giganteschi dal fogliame smorto,
dal fusto smorto, dai malli smorti, come scolorati dalla soverchia
illuminazione; fichi enormi e serpentini, che parevano celare a fatica
il loro scheletro mostruoso nel manto delle vaste foglie triforcute; e
una moltitudine di peschi fragili, seminudi, maturanti al sole i grossi
frutti penduli e vellutati.

Si spandeva all’aria da quella possente coltura di piante fruttifere un
odor caldo e salubre, molto simile a un alito vivo. Qua e là qualche
vaso di limone o d’arancio, disposto su i margini dei viali, mesceva
alla fragranza diffusa dei grandi alberi il profumo penetrante de’
suoi fiori, come un artificio d’eleganza e di seduzione in una bocca
di donna. E dovunque era silenzio, silenzio profondo; nella pineta, nel
prato, nell’orto, sul poggio, nel cielo.

— Com’è ben tenuto questo frutteto! — esclamò Aurelio, guardando in
torno pieno di maraviglia.

— È l’unica parte del giardino che non fu trascurata dopo la morte del
vecchio marchese. Il guardiano Giuseppe vive in su questa comodamente
con la sua numerosa famiglia. Perciò prodiga qui tutte le sue
attenzioni, impiega tutto il suo tempo; io credo che l’ami più di sua
moglie, più de’ suoi stessi figliuoli.... E ne è geloso, geloso fino
alla manìa, — ella soggiunse, ridendo forte. — Se il pover uomo sapesse
che ora noi gli abbiamo invaso il territorio, chi sa in che pena
starebbe!...

— Non sospetterà certo che noi gli si voglia rubare....

— Sospetta di tutto e di tutti....

— Ritorniamo dunque indietro, — propose Aurelio, seriamente.

— E perchè?.... Se a me piace di venir qui, soltanto perché so che
Giuseppe non lo desidera....

— È una cattiveria questa, signorina!

— No, un capriccio.

— Ma se ci scopre?...

— Peggio per lui!... Non sarebbe poi la prima volta ch’egli mi trova
nel suo orto, sola o accompagnata....

Aggiunse anche, facendosi grave, guardando fissa il giovine:

— D’altra parte noi pure abbiamo un certo diritto su queste frutta,
perché il luogo non è suo e noi lo teniamo in affitto senza alcuna
riserva della padrona.

A queste parole egli ebbe entro di sè un moto ostile contro la
fanciulla, una specie di disgusto istintivo, come fosse stato colpito
da un suono discorde o sgradevole. Ma Flavia non gli lasciò il tempo
di ricercare le intime cause, di rendersi ragione d’un tal sentimento.
Ritornata ilare e leggera, gli susurrò sotto voce all’orecchio, con
un’espressione infantile di malizia e di gioja:

— Ormai le ciliege son mature!..

— Ebbene? — chiese il giovine, senza comprendere.

— Ebbene: se son mature, si possono mangiare.

— Naturalmente, — egli confermò, non potendo trattenere un sorriso.

— E perché non le mangiamo?...

Aurelio indietreggiò d’un passo.

— Come? Come?! Vorrebbe....

— Rubare, certo: rubare!

— Ah, questo poi no! Io mi ribello, o meglio mi ritiro. Non voglio
esser complice d’un furto, e nè pure spettatore....

— Ella sarebbe dunque capace di farmi un affronto simile?... Vorrebbe
lasciarmi qui sola in lotta con gli elementi? Abbandonare una donna in
un momento difficile?... Non sarebbe soltanto scortesia, signor conte;
sarebbe viltà....

Parlava forte e solenne, interrotta a ogni frase da un urto d’ilarità
incontenibile. E in quell’atteggiamento emanava da tutta la persona una
grazia così semplice e schietta che sedusse e maravigliò il giovine,
quasi una rivelazione inaspettata.

— Vede come sono alte?... e come sono belle!

Ella gli mostrava un ciliegio venerabile dal tronco alto e robusto, su
cui i grappoli vermigli rampollavano con sovrana abondanza e levava la
mano verso i frutti desiderati, ridendo, comunicandogli a poco a poco
la sua giocondità fanciullesca.

— Ci deve essere una scala di mia conoscenza nel frutteto, — ella
disse, girando in torno lo sguardo per iscoprirla. Poi, d’un tratto,
gridò trionfante: — Eccola! Eccola!

E si diresse in corsa verso un pilastrello poco discosto, a cui una
lunga scala era appoggiata.

— Io spero che vorrà almeno ajutarmi a portarla fin sotto l’albero. È
troppo pesante per le mie povere braccia!

— Si pretende dunque la mia complicità attiva...?

— No, s’invoca semplicemente un soccorso! Venga!

Ferma ed eretta nel sole, sul candor niveo della ghiaja, tra le masse
degli alberi che s’inarcavano verso di lei carichi di frutti, ella
parve al giovine supremamente bella.

Omai Aurelio seguiva, domato e attonito, ogni suo atto, ogni suo
movimento, ogni sua parola, come se tutto il resto si fosse occultato
a’ suoi sensi. Un potere misterioso e irresistibile lo teneva
soggetto all’agile creatura che gli splendeva d’innanzi, lo piegava
inconsapevole a qualunque stranezza, a qualunque follìa ch’ella gli
avesse potuta comunicare. L’impeto birbesco e tumultuoso della sua
compagna sembrava avere invaso, travolto, rituffato il suo spirito in
un fiume d’oblio e di spensieratezza; ed egli, già ebro della magica
luce in cui si scioglievan le sane fragranze terrestri, s’abbandonava
alla seduzion di quel giuoco, cedeva insensibilmente al fascino di
quella malizia puerile, quasi a traverso una seconda adolescenza.

Flavia ripetè il richiamo, limpida e forte, come volesse meglio
affermare la sua possanza:

— Venga dunque! M’ajuti!

— Ella mi vuol proprio trarre in perdizione! — mormorò Aurelio,
sorridendo, mentre s’avvicinava a lei.

E prese la lunga scala, la sollevò ritta con le mani per mostrare
il vigor de’ suoi muscoli, la portò così senz’inclinarla fin sotto
l’albero, mediante uno sforzo che a pena riuscì a dissimulare. Ella,
tenendogli dietro seria e attenta, lo fissava con uno sguardo ambiguo
tra d’ammirazione e d’ironia.

— Ed ora, bisogna salire! — disse, poi che il giovine ebbe deposta e
bene assicurata la scala tra due rami del ciliegio.

— Anche salire?!

— Mi sembra. Vuol forse che salga io, per rimanersene qua giù
tranquillo a contemplarmi da un nuovo punto di vista? Io non dò di
questi spettacoli, signor mio, e a così buon prezzo!...

Proferì queste parole celiando, ma senza la minima reticenza,
senza un’ombra nella voce o negli occhi, con una sicurezza da donna
spregiudicata. Aurelio, che la guardava, abbassò sùbito gli occhi,
arrossì anche un poco, offeso dal senso volgarmente procace dello
scherzo; poi, per non tradire il suo disgusto, le volse con un moto
subitaneo le spalle, e si mise rapidamente su per la scala.

— Le lasci pure cadere abbasso ché le raccolgo nel mio grembiule, — gli
gridò dietro Flavia, raggiante, trasfigurata dalla gioja.

Il giovine, ritto su l’ultimo piuolo, col capo nascosto nel fogliame
profondo, si vedeva allungar le braccia, pencolare, atteggiarsi in pòse
larghe e snodate tra i viluppi dei rami, alla ricerca dei grappoli
maturi. A quando a quando una fitta gragnuola di chicchi vermigli,
annunziata da un richiamo, accolta da un saluto festoso, partiva
dall’alto, si sparpagliava un poco nell’aria, cadeva solo in parte
nel grembiule spiegato a riceverla. La giovinetta per giuoco fingeva
d’irritarsi perché non poteva contendere alla terra tutti quei chicchi;
protestava ridendo contro di lui; gli raccomandava d’esser più attento
e preciso nel gittarli; a volte si chinava a raccattarne qualcuno più
appariscente, e, con aria di dispetto, se lo mangiava.

Quando Aurelio discese dall’albero erano entrambi come ubbriachi
d’ilarità. Balbettavan frasi insulse con la voce alterata; ammiccavano
con gli occhi piccoli, abbacinati dal soverchio chiarore; si sfioravan
con le mani, esprimendo una specie di piacere a ogni lieve contatto;
e ridevano insieme con la facilità di due fanciulli. La spartizione
del bottino provocò poi tra loro una questione romorosa e vivace,
che finì in una corsa sfrenata a traverso il frutteto. Ella, agile e
astuta, si sottraeva a lui, approfittando della sua conoscenza dei
luoghi, calpestando senza scrupoli le zone coltivate, sgusciando
sotto gli intrichi dei frutici con una perizia singolare. Egli, più
veloce e più cauto, cercava invece di raggiungerla senza batterne le
orme, prevenendola allo sbocco d’un viale, aspettandola a un varco in
agguato, accelerando vertiginosamente il passo quando ella percorreva
una strada dritta. Finalmente Flavia, mentre usciva d’improvviso
fuor da un cespuglio, cadde, come una preda, in suo potere. Accesi,
esausti, anelanti, s’avvinghiarono uno all’altra con un moto istintivo
e selvaggio. Ella, stanca, s’abbandonò, arrovesciò indietro il
capo, prorompendo in una risata nervosa, che squillò acutamente nel
silenzio; Aurelio, stringendola forte a sè e smarrendo ogni senso
nella contemplazione di quel viso illuminato da una strana fiamma,
la sorresse, la tenne così per qualche attimo come sospesa tra le sue
braccia.

— Mi dò per vinta! — ella mormorò d’un tratto.

E si sciolse con un moto languido da lui, invasa da una sùbita
angoscia, intimorita dal suo sguardo vorace.

Non parlarono più. Susseguiva a quel tripudio folle di vita il
turbamento oscuro e quasi pauroso degli eccessi. Provavano ora un
malessere profondo, indefinibile. Si guardavano in faccia attoniti,
arrossendo; si sentivan soli, estranei, divisi da un ostacolo immane;
si sentivano oppressi da un peso morale, rimorsi da un’occulta voce.
L’incanto breve era sfumato; ed essi si trovavano, come al risveglio
d’un sogno voluttuoso, sfiniti, delusi, umiliati.

S’incamminarono così, in silenzio, verso il poggio, sospinti da un’idea
comune: quella d’allontanarsi dal palazzo, forse per acquetarsi, per
riprendere le loro espressioni abituali, sformate dalle agitazioni e
dai turbamenti molteplici. Aurelio era come trasognato e stupefatto. Si
movevano nel fondo della sua anima alcuni pensieri molesti, sorgevano
i ben noti fantasmi a rappresentargli dentro l’eterna Comedia, il
Dramma immortale, in cui egli si vedeva continuamente trascinato dalla
fatalità delle cose. — Che cos’era avvenuto? Da quale possente soffio
di passione o di frenesia s’era lasciato dominare per dimenticarsi
a tal segno? Come aveva potuto cedere senza una resistenza a quei
trasporti insensati? — Ecco: la Donna, il mostro magnifico, era là
accanto a lui, e lo seguiva. Egli ne udiva il passo cricchiare su la
ghiaja con una regolarità da pendolo che misura il tempo; egli, senza
guardarla, la vedeva distintamente procedergli a fianco, alta e serena,
terribile e inconscia come un feticcio. La loro via era comune, ed
eran pari le forze: salivano una dolce erta, tra gli alberi onusti di
frutti caduchi o acerbi, verso un’altura limitata, perduta tra altre
innumerevoli alture. La montagna superba dalle incorrotte solitudini,
dalle larghe visioni, s’ergeva lontana, molto lontana, di là da tutti
quei colli, reale ma pure impervia per entrambi e irraggiungibile. Essi
salivano insieme, quasi tenuti da una stessa catena, la dolce erta
su cui erano impresse le orme di mille passanti; e, giunti al sommo,
sarebber dovuti sostare, sconosciuti pellegrini, stretti in torno
dall’umile giogaja, avendo sempre in vista — come un Ideale beffardo —
la vetta alpestre baciata dal cielo....

— Oh! Guardi! — proruppe Flavia, volgendosi maravigliata verso il lago.

E parve ch’ella, divinando il pensiero di lui, volesse distogliere il
suo sguardo dalla scena simbolica.

Anch’egli si volse.

Dal poggio si rivedevano alfine la superficie azzurra delle acque e la
riviera opposta, dove già qualche obliqua ombra cadeva. Alcune vele,
gonfie e quadrate, apparivano qua e là dirette verso settentrione,
così tarde da sembrare immobili. Un piroscafo presso Intra lanciava
nell’aria un’enorme colonna di fumo nero, che si torceva in grosse
spire senza dissolversi. Le nevi del Sempione, in fondo alla valle
nebulosa, erano pallidamente celesti e parevan fondersi nell’orizzonte.

Ella mormorò fissando il lago con gli occhi incantati:

— Che pace!

Egli aggiunse, gravemente:

— Che silenzio! Non s’ode frusciare una fronda!

Infatti il più piccolo romore non rompeva il sonno dell’universo:
non un soffio di vento, non un murmure d’acque, non una voce, non
un latrato, non un’eco di lavoro lontano. La calma del paesaggio
pesava sopra di loro come un malefizio, infondeva nelle loro anime
una malinconia suprema. Ambedue sentivano ora il tempo scorrere,
disperdersi le cose nella vanità dello spazio, le illusioni e i
desiderii morire. Ambedue sentivano che la vita era triste, e che oltre
la vita eran tristi anche le speranze.

— Discendiamo? — propose Flavia, accasciata dal silenzio, provando uno
sgomento fosco d’avanti a quella solitudine, sotto quel cielo deserto e
impassibile.

— Discendiamo!

Ritornarono su i loro passi; si salutarono freddamente al limite
della pineta, non avendo scambiato durante il cammino che poche frasi
brevi e inconcludenti. Flavia riparò di nuovo al suo luogo di lavoro,
nell’ombra degli ultimi abeti; Aurelio, solo, s’inoltrò nel bosco per
discendere verso il palazzo.



V.

ECHI DEL PASSATO.


Quel giorno stesso, durante il pranzo, donna Marta disse ridendo al
nipote:

— Ho saputo un gran fatto!... una specie di miracolo, di prodigio, di
favola maravigliosa!...

Dalla sera innanzi, ella aveva cambiato totalmente d’umore, come se
l’ultimo alterco l’avesse liberata di tutto il veleno che le stagnava
nell’animo. Era ridivenuta ilare, festosa, ciarliera, garbata, quale
da molto tempo non si mostrava. Verso Camilla specialmente usava
cortesie nuove, delicatezze insolite: non le impartiva un ordine
senza soggiunger sùbito «per piacere»; non le rivolgeva la parola se
non con un’inflessione di voce affettuosa, quasi materna; e talvolta
anche l’accarezzava con la mano. Del brusco congedo non s’era più
fatto alcun accenno tra loro due; e, come di consueto (poiché donna
Marta licenziava le sue cameriere almeno tre volte al mese), non se
ne sarebber più rammentate né l’una né l’altra fino allo scoppio d’un
prossimo litigio.

— Che hai saputo, mamma? — chiese il giovine, distratto, un po’
pensieroso, senza sorridere.

— Ho saputo che ti sei degnato d’accompagnar Flavia per il giardino....

— Ah, tu hai già visto la signorina Boris?

— Sì, or ora. Ella stessa m’ha anzi raccontato le vostre imprese, e
puoi imaginare che allegre risate si son fatte alle tue spalle! Vuoi tu
spiegarmi ora come fu addomesticata la belva selvatica?

Donna Marta, in così dire, rideva forte ancora; e mostrava una specie
di profonda compiacenza, di sodisfazione sarcastica, vedendo il nipote
confondersi e arrossire al soffio vivo di quei ricordi.

— Vuoi dirmelo, dunque? — ella insisteva. — Vuoi confidarti a me? Io
ho già interrogato Flavia in proposito, ma la poverina non mi seppe
rispondere. Proprio vero che i miracoli si fanno senza saperlo!

— Oh, Dio, che storie! — egli interruppe. — Si direbbe che ti sian
saliti i fumi alla testa, questa sera! In fine: che t’ha detto
quella... sciocca?

— Quella sciocca?!... Oh! Oh! Qual disprezzo!... Bada al vecchio
proverbio, figliuol mio: chi sprezza....

Aurelio ebbe un lieve fremito in tutta la persona: le sue labbra,
trattenute nell’atto di pronunciare una qualche parola, s’atteggiarono
a una specie di sorriso ironico a pena percettibile. Contenendosi,
tacque un istante; poi con un’intonazione esagerata d’indifferenza
ridomandò.

— Che t’ha raccontato dunque la signorina Boris? Sentiamo.

— M’ha raccontato.... oh, nulla di compromettente nè per te nè per lei,
puoi imaginarlo; ma, via, per quanto almeno ti riguarda, m’ha detto
cose abbastanza sorprendenti: per esempio, che non hai avuto difficoltà
ad accompagnarla a traverso l’orto fin su alla cima del colle; che hai
perfino rubato per lei le ciliege del fattore.... È vero questo?

— Verissimo. Ma che trovi di straordinario e d’esilarante in tutto ciò?

— La novità! — rispose donna Marta, scoppiando a rider forte, come
prima. — Del resto, — ella soggiunse sùbito, poichè s’accorse che
il giovine incominciava a mostrarsi seccato, — una novità che non
mi dispiace e per cui teco mi rallegro. Tu, caro mio, hai bisogno di
vivere un po’ tra la gente, di distrarti, d’interrompere per qualche
tempo quelle uggiose abitudini da solitario che ti guastano la salute
del corpo e dello spirito! Questo potrebbe essere un buon principio....

— Ah, ora intendo la tua allegria! Tu sei contenta perchè.... costei mi
ha fatto perder del tempo. Si capisce!

Egli disse queste parole senza guardar donna Marta, arrestandosi un
attimo prima di pronunciare quel «costei», e scivolando con la voce
sul resto. Poi lentamente si levò da tavola, conficcò una sigaretta
tra le labbra, e soggiunse volgendosi indietro, quasi per spiare
l’atteggiamento di lei:

— Usciamo fuori per prendere il caffè. Qui fa troppo bujo.

Nella gran sala in fatti, esposta a settentrione e illuminata da due
finestrelle protette da fitte inferriate a rabeschi, la luce si era
a poco a poco affievolita sì che le cose già s’ammantavano in ombre
profonde.

Aurelio uscì sotto il porticato, e si diede a percorrerlo da un capo
all’altro, meditando. Una sorda inquietudine si moveva dentro di lui:
le confidenze fatte da Flavia all’avola, le strane previsioni che
questa n’aveva tratte, le punture benevolmente sarcastiche di lei
turbavano profondamente il suo spirito, sempre vigile e sospettoso.
— Che c’era dunque già di segreto ne’ suoi rapporti con la signorina
Boris, perchè egli si sentisse offeso solo al pensiero che una terza
persona n’era venuta a conoscenza? Da che aveva origine quel sentimento
quasi di pudore, che lo aveva acceso ascoltando dalla bocca dell’avola
le sue gesta innocenti della giornata? Aveva forse fatto male
Flavia, raccontando tutto? — No, in verità: nè male nè bene. E perchè
dunque, provava egli contro di lei una specie di dispetto? perchè
involontariamente, nell’animo suo, ne la rimproverava?

«Son donne entrambe,» egli pensò; «tra loro s’intendono. Certo, la
mamma vedrebbe volontieri ch’io m’inamorassi della signorina; e....
certo quell’altra conosce le mie idee, pe’ suoi colloqui con la mamma.
Che trionfo sarebbe per lei la mia conquista!... Fortunatamente un tal
trionfo non potrà raccontare a nessuno, nè domani nè mai.»

In quel punto, mentre il giovine era tutto assorto ne’ suoi pensieri,
fu sorpreso dal contatto d’un braccio che gli cingeva il fianco. Donna
Marta s’era levata, era uscita anch’essa dalla sala e gli si era pian
piano avvicinata.

— Che pensi, Aurelio? — gli mormorò con dolcezza all’orecchio,
accompagnando il passo a quello di lui.

— Nulla. Perchè?

— Tu non sei in collera con la tua povera vecchia nonna, non è vero? Io
sono talvolta un po’ rude con te, un po’ bisbetica, un po’ violenta.
Devi compatirmi. Non ero così un tempo; son gli anni e le sofferenze
che m’hanno tanto mutata! Ma, dopo tutto, io ti voglio sempre un gran
bene....

— Oh mamma! — egli esclamò d’un tratto commosso. E la cinse, anche, col
braccio e si chinò per baciarla su i capelli canuti.

Camminarono così, un poco, stretti l’uno all’altra, in silenzio.
Sotto le arcate dei portici l’ombra del vespro s’era già diffusa,
pallida e fioca, come una sfumatura più densa della luce verdognola
che colava dal cielo nel cortile: su quell’ombra, in torno, le colonne
si distaccavano biancheggiando, simili a grandi torce di cera. E una
malinconia di fedi spente, di cose passate, d’uomini che non sono più,
aleggiava per il luogo antico, dove le due figure, nere entrambe e
taciturne, parevano i fantasmi di due monaci medievali vaganti ancora
nel crepuscolo tra le mura dell’ospizio disertato.

— Il caffè è pronto! — annunziò improvvisamente Camilla con la sua voce
più squillante, apparendo tutta rosea e leggiadra su la soglia.

Si diresse alla piccola tavola da giardino, che donna Marta aveva fatto
collocare a un capo del portico d’avanti alla sala da pranzo, vi depose
il bacile, e, con la stessa sollecitudine, canterellando, rientrò.

— Eppure quella ragazza non mi dispiace — disse la vecchia, seguendola
con gli occhi sorridenti. — Un po’ d’allegria ci vuole; e noi veramente
non siamo molto allegri!

Mentre essi sorbivano in silenzio il caffè, le vicine uscirono dalle
loro stanze dopo aver pranzato. Come per prodigio, d’improvviso
l’antico cortile si animò: le tre donne parlavan forte, ridevano, si
chiamavan festosamente, suscitando nel luogo sonoro un intenso strepito
d’echi. Quando s’avvidero della presenza di donna Marta, le loro voci
divennero anche più alte nei saluti, i loro passi risonaron rapidi e
concitati sul lastrico per accorrere più presto verso di lei.

— Buona sera, donna Marta!

— Come sta, contessa?

— Che piacere di vederla....

— Si parlava appunto di lei, or ora....

La vecchia s’era levata in piedi e diretta incontro ad esse, sorridendo
alquanto confusa da quel chiasso, curvandosi ora verso l’una ora
verso l’altra, porgendo ad esse le povere mani vizze, ceree, tremanti.
Aurelio in vece era rimasto ritto al suo posto, e aspettava con aria
distratta che le consuete espansioni femminili fosser finite. Dopo
poco, lentamente, s’avvicinò al gruppo; strinse la mano alla signora
Boris; salutò con un inchino e un sorriso la bionda, che rispose
lanciandogli un’occhiata piena di malizia; si volse in fine a Flavia
e, senza guardarla negli occhi, mormorò con un fil di voce, abbassando
alquanto il capo:

— Signorina, buona sera....

Ella pure abbassò il capo, ma non fiatò. Anzi, si volse sùbito
verso Luisa, e si diede a parlarle di cose indifferenti, con un po’
d’alterazione nell’accento e nei gesti.

— Avevamo deliberato di far due passi fino a Ceresolo; — annunziò la
signora Boris. — Di giorno non si può uscire, per il caldo. Se non si
approfitta della frescura della sera....

— È vero, non ci si muove più, — s’affrettò a dire donna Marta. — Io,
per esempio, non so da quanti giorni resto chiusa in palazzo.

Si rivolse quindi ad Aurelio, e chiese sorridendo:

— Se andassimo anche noi fino a Ceresolo?...

— Veramente — mormorò il giovine, angustiato dalla proposta; — mi pare
un po’ lunga la strada per te....

— Ma chè! E poi a questo tu non ci devi pensare. Se mi sentirò stanca,
ritornerò da sola, passo passo.... Andiamo!

Proferì queste parole, fissando il nipote con occhi imperiosi,
come volesse dominarlo con la suggestione; e, sùbito sorridente,
appoggiatasi al braccio della signora Boris, si diresse con lei verso
la porta del palazzo.

— Avanti la gioventù! — comandò la vecchia, fermandosi con la compagna
sul piano del rialto.

S’avviarono così in due file per la via mulattiera, che costeggia a
sinistra il lago, di là dal vecchio ponticello gittato su le povere
acque del Riale. Aurelio e le giovini precedevano; queste tenendosi
strette sotto braccio, quegli solo al fianco di Flavia. Le due signore
venivano in sèguito, a qualche metro di distanza, alquanto più lente sì
che perdevan terreno pressoché a ogni passo.

Il tramonto era oramai esausto: dietro le Alpi lontane il cielo s’era
spento, e solo poche pallide bragi languivano ancora agli orli di
qualche nuvoletta dispersa; la tinta neutra del crepuscolo aveva già
avviluppato tutte le pendici, distendendosi come un drappo cinereo su
la piana superficie del lago. A lunghi intervalli, squilli di campana
a morto venivano dall’altra sponda, non si poteva precisamente capire
da quale villaggio appostato sul golfo; e in torno, nei prati e per
le siepi, il coro degli insetti infervorava. Un odor misto di fieno e
d’acqua stagnante fluttuava nell’aria quasi immobile.

Aurelio, a capo chino, con le mani penzoloni, camminava in silenzio
accanto alle due fanciulle, ch’erano in vece assai gaje e loquaci. Per
quella specie d’orrore che le donne hanno del silenzio, discorrevano
esse di cose vane, rievocando le memorie degli scorsi anni in campagna:
gite, avventure, abitudini o conoscenze perdute. Ed egli, con un
turbamento visibile, seguiva il suono di quelle voci, che parevan
melodiare su le vaghe armonie della notte estiva.

— Ti ricordi? — disse d’un tratto Luisa alla cugina. — Quante volte si
è fatta così, di sera, questa strada con Federico!

— Era la passeggiata preferita da lui.

— Eh, si capisce: è la più buja! — malignò sogghignando la bionda. — Ti
ricordi anche quella volta ch’egli mi fece tanto spaventare, uscendo
d’improvviso da una siepe? Io, per poco, non caddi svenuta; e tu in
vece.... Di’ la verità: voi eravate d’accordo?

Come non avesse udito la domanda, Flavia mormorò quasi tra sè, con voce
triste:

— Già due anni son passati da quel tempo! Come mi sento mutata!...

— A proposito — interruppe Luisa vivacemente; — volevo chiedertelo fin
dall’altra sera sul rialto. Non trovi che il conte Aurelio rassomigli
un poco al Bracci?

— È vero, l’ho notato anch’io; — rispose Flavia, volgendosi a osservare
il giovine. — Negli occhi; nella bocca, specialmente quando parla o
ride; ha perfino alcuni gesti identici a Federico...

Aurelio, da che aveva udito il suo nome, si era avvicinato alle due
signorine, e aveva seguito attentamente le ultime frasi del loro
discorso.

— A chi rassomiglio io? — chiese con curiosità alla signorina Boris.

— A... un tal signor Bracci...

— Bracci...?

— Sì, un amico _suo_, — rispose Luisa, allungando il collo per veder
bene in faccia l’Imberido.

— Un amico d’altri tempi, che ora non conosco più, — Flavia soggiunse,
con la voce concitata.

Il giovine, non avendo compreso l’allusione, si strinse nelle spalle
e non osò interrogare oltre. Fu Flavia medesima che riprese, dopo un
breve silenzio:

— Credo di averle già parlato altra volta di lui; precisamente la sera
che fu a Cerro il signor Zaldini.

— È strano, non rammento... Non so...

— Egli... è stato per tre anni il mio fidanzato...

— Ah, — fece Aurelio con insolita vivacità; — sì, sì; ora ricordo...
Ella però, signorina, non me ne aveva fatto il nome; nè io poteva
imaginarlo.... è dunque per colpa di questo signor Bracci (al quale ho
anche la sventura di rassomigliare) ch’ella ha chiuso per sempre e a
tutti i battenti del suo cuore?...

— Sicuro, proprio per colpa di costui! — rispose Flavia, componendo i
lineamenti del viso a un’espressione di dolore non ancor rassegnato.

E a poco a poco, con qualche interruzione di silenzio, come rispondesse
a un sèguito di domande esatte che il giovine le indirizzasse, narrò
intera la sua storia d’amore, a voce bassissima, senza uno scatto,
mostrando solo dagli occhi l’indignazione profonda e il cordoglio che
i ricordi ancora agitavano in lei. — La famiglia Bracci era venuta
per ben cinque stagioni, senz’intervallo, a Cerro in campagna; e
negli ultimi tre anni aveva preso in affitto appunto quell’ala del
palazzo de Antoni ora abitata dagli Imberido. Quand’ella lo conobbe,
Federico era un giovinetto ancora imberbe, studente di Liceo, biondo,
roseo, paffuto, con due puri occhi celesti d’una rara chiarezza, con
un’anima così semplice come quella d’un fanciullo. Incominciarono a
giocare insieme spensieratamente e finirono per amarsi. Ella, ingenua
fantastica appassionata, s’invaghì perdutamente di lui, forse soltanto
perchè era il primo uomo che aveva saputo aprirle il cuore alla luce
della vita; provò per lui un sentimento irresistibile, esclusivo,
morboso, una specie di feticismo, di soggezione a un tempo umile ed
eroica; lo giudicò in ogni cosa perfetto; ne ornò e corpo e spirito
d’ogni grazia e d’ogni virtù. Perchè negarlo, oggi? Ella, durante quei
tre anni d’illusione, fu in verità molto felice; così obliosamente
felice che non potè nascondere a’ suoi stessi parenti la festa
dell’anima sua. E questi, che su le prime eransi mostrati non poco
ostili al suo nuovo legame, a mano a mano, persuasi dal contegno e più
dalla perseveranza dei due inamorati, parvero alfine accettare il fatto
compiuto con una certa benevola tolleranza. Dopo il secondo ritorno
dalla campagna in palazzo, a Milano, essi permisero anzi a Federico
di frequentare la loro casa; ed egli ben presto ne divenne non solo
assiduo, ma familiare. Ciò significava che anche i suoi genitori avevan
ragione di credere le sue intenzioni assolutamente serie e oneste,
non è vero? Quanto a lei, si sentiva a quel tempo così tranquilla e
fiduciosa nell’amor suo, che, se qualcuno le avesse detto di dubitare
di Federico, avrebbe risposto: «Di Dio piuttosto che di lui.» Oh, com’è
facile ingannarsi quando l’inganno ci è dolce!... E quanto sono indegni
gli uomini d’essere creduti e d’essere amati!... Un anno dopo ogni
rapporto tra loro era rotto, e per sempre.

— Ella ha dunque molto amato quel giovine? — chiese Aurelio sotto voce,
quasi con ansia, quand’ella tacque bruscamente senza dare un sol motivo
a quella separazione.

— Tanto, che non potrò mai più amare. Una delusione, come questa che
ho patita, basta a distruggere in un cuore ogni entusiasmo, ogni fede,
ogni confidenza, per sempre!

— Vuol dire che lo ama ancora? — egli mormorò.

Flavia non rispose; fece solo col capo un segno leggero di diniego.

— Certo, certo! Le pare?... — proruppe d’un tratto Luisa. — Flavia
s’ostina a negare, ma si capisce che lo ama solo a guardarla bene negli
occhi.

Mentre quelle memorie Flavia assembrava e raccontava con la voce
dolente, Aurelio, un po’ chino verso di lei, sembrava che seguisse
attentamente ogni sua parola, benchè di quando in quando fosse
distratto da qualche pensiero intimo che gli sorgeva spontaneo nella
mente. Egli in principio era stato colpito e maravigliato, sopra tutto
dall’aspetto e dal tono inconsolabili di lei. — Era dunque quella
medesima la creatura di gioja, che aveva empito in quel giorno i
silenzii del giardino con lo squillante suo riso? Era quella mesta, la
quale spargeva lacrime e fiori come sul sepolcro della propria anima,
la giovinetta spensierata ch’egli aveva sentita tutta trepida e ardente
palpitare tra le braccia? — Poi, a poco a poco, inavvertitamente era
stato dallo stesso racconto preso, commosso, attristato; era discesa
sul suo spirito, mentre Flavia narrava, una malinconia indefinibile,
quasi un senso di solitudine e di scoramento. In fine, quando Luisa
affermò che la cugina amava sempre quel giovine pocanzi sconosciuto
anche di nome, parve d’un tratto all’Imberido d’esser morso da un sordo
sentimento d’ostilità, da un’antipatia aspra e profonda contro di lui.
«Codesto indimenticabile sarà probabilmente un qualche uomo incolto
e dozzinale,» egli pensò; e, come il suo dispetto si volse da questo
all’inamorata, aggiunse sùbito, gittando a Flavia uno sguardo, pieno
d’irrisione e quasi di sprezzo: «Degno di lei, senza dubbio.»

Eran giunti alle prime case di Ceresolo, dove il sentiere si biforca,
e una viuzza scende alla antichissima chiesa e al lago, mentre l’altra
si dirige su tra i dirupi verso la borgata d’Arolo. Dovettero fare una
sosta nell’oscurità per aspettare le due donne, ch’eran rimaste molto
indietro e si udivan ridere da lontano nel silenzio.

Era discesa la notte; nel cielo, fitto di stelle, non appariva più
che un debole chiarore, una sottil zona di luce verdognola all’estremo
occidente.

Poichè il pendìo declinava non molto ripido in un denso ammanto di
robinie selvatiche, il Verbano, muto e vasto, era invisibile e dava
l’idea d’un largo abisso spalancato tra le due discoste catene di
monti. Si vedevan staccare, nerissimi su lo sfondo uniformemente bigio
del paesaggio, i profili secchi delle case e quelli ondulati degli
alberi più vicini.

— Che bujo, — esclamò Flavia, con la voce un po’ tremula, avvicinandosi
al giovine. — Ho quasi paura!...

— Di che, dunque? — egli chiese, ridendo.

— Di tutto e di nulla. Mi han sempre fatto un senso strano le
tenebre... Tu, Luisa, lo sai: io non ho mai potuto passar sola per una
stanza oscura...

E, con un gesto repentino, ella mise il suo braccio sotto quello
dell’Imberido.

Non dissero altro durante quell’aspettazione. Aurelio e Flavia,
addossati al muro, stettero, quasi con l’animo sospeso, ad ascoltare
i passi e le parole che s’avvicinavano lentamente; Luisa sedette su
un macigno e incominciò a cantare con un filo di voce tenuissimo la
romanza di Faust d’innanzi alla dimora di Margherita; poi, dopo poche
note, anch’ella, attediata, si tacque.

— Ebbene? Che fate? Siete stanchi? — domandò donna Marta, trovandoli
tutti e tre muti nelle tenebre. — E perchè questo silenzio?...

Flavia si sciolse sollecitamente dal braccio d’Aurelio e corse incontro
a sua madre, dicendo:

— Vi si aspettava per sapere se dobbiamo ritornare o se si procede fino
alla chiesa.

— Avanti! — ordinò la vecchia bruscamente.

— Avanti, — ripetè la signora Boris con la sua voce melliflua da
contralto.

Discesero insieme nello stesso ordine di prima.

La chiesa di Ceresolo siede sul colmo del promontorio che protegge
dalle tramontane la piccola baja di Reno, a capo d’uno spiazzo da
tempo immemorabile tappezzato d’alte erbe, recinto da un muricciuolo
quasi diruto. E il tramite per giungervi corre in mezzo a due siepi di
sambuchi, così abbandonato anch’esso che l’erba e i muschi vi hanno
liberamente messo radice tra gli apici della roccia. Così fitta era
quivi l’oscurità e insidiosa l’ineguaglianza del terreno che Aurelio si
volse più fiate ad avvertirne la nonna, la quale già protestava per la
mancanza d’una lanterna. Fortunatamente il percorso era breve, ed essi
usciron presto dall’ombra imprescrutabile in cui le siepi assai folte
avvolgevano il sentiero.

— Un po’ di riposo, adesso, — disse donna Marta, e si soffermò colta da
una sùbita ambascia.

Le due signore sedettero presso la chiesa sopra una pietra rettangolare
che pareva il coperchio d’un antico sarcofago; il giovine, poi ch’ebbe
accesa una sigaretta e scelto il punto d’onde la visuale era più
spaziosa, si pose un po’ discosto a cavalcione sul muricciuolo; Flavia
e Luisa, per iniziativa di questa, s’abbandonarono ridendo sul prato.

Dopo qualche momento non s’udì più nella gran calma delle cose che
il pispiglio ininterrotto delle due donne in un angolo dello spiazzo,
così sommesso che si confondeva con quello degli insetti nelle campagne
circostanti.

— Canta, Luisa! — disse allora Flavia, cui le memorie avevano infuso
una tenera mestizia.

La bionda tosto accondiscese; e la sua voce fluida e forte si levò nel
silenzio, come un zampillo d’acqua balza subitaneamente dalla sommità
d’una fontana muta al girar della chiave. Cantò ella ancora una melodia
del _Faust_, quella lenta e velata con cui s’apre la grande scena di
seduzione nel giardino di Margherita, al cader della notte:

    _Laisse-moi contempler ton visage_....

Poi, come s’avvide che tutti l’ascoltavano intenti, ella proseguì;
e il suo canto divenne caldo e appassionato, a volte s’addolcì
come un sospiro, a volte ascese squillante come un grido, espresse
successivamente l’angosciosa gioja della rivelazione, un desìo
irresistibile di possesso, una disperata tenerezza, una smania oscura e
fatale d’abbandono e di voluttà.

Nella strana disposizione di spirito in cui Aurelio si trovava alla
fine d’una giornata per lui così diversa dalle altre, d’avanti a quei
luoghi solitarii e misteriosi, tra i profumi snervanti ch’esalavano
i prati e le acque, il canto di Luisa ebbe su lui un fascino nuovo
e possente. Egli riconobbe la musica; ricordò le commozioni provate
altra volta, udendola in un teatro; parvegli anche di riveder la
scena rischiarata come da una luce lunare, e la tranquilla casetta
tedesca mezza nascosta dal fogliame, e, in fondo, le due figure confuse
insieme in un amplesso violento, al davanzale della bassa finestra cui
la vergine s’era affacciata per mandare all’amante l’ultimo saluto.
Fu, come già allo spettacolo reale, novamente sedotto e inebriato da
quella magica finzione, alla quale l’arte dei suoni dava la sembianza
di cosa più che vera, eternamente bella; e, nell’incoscienza della
fascinazione, sentì sorgere e gonfiarsi dentro al cuore un desiderio
folle d’amare, di gioire, d’obliar tutto in un gran sogno di felicità,
di giuncare con i fiori più preziosi della sua anima privilegiata
il cammino della donna eletta, affinchè questa passando ignara li
calpestasse.

Quando Luisa si tacque dall’angolo dov’eran sedute le due signore
vennero applausi e approvazioni alla cantatrice: era donna Marta che,
suscitando l’ilarità della signora Boris, batteva calorosamente le mani
e gridava a tutta possa:

— Brava! Brava Luisa!... — con lo schietto, romoroso entusiasmo d’una
bambina.

L’Imberido, come si scotesse da un letargo, si passò più volte le
mani su gli occhi, stese neghittosamente le braccia, poi, facendo
eco debolmente alle approvazioni dell’avola, balzò con un salto dal
muricciuolo a terra.

Nell’immenso silenzio s’udì suonar l’ora alle chiese lontane di Stresa
e d’Intra: eran le nove e mezza. Un gran fuoco brillava su la vetta del
Motterone, che pareva un vulcano; una profonda oscurità si stendeva in
vece su tutti gli altri monti della riva opposta, fuorchè nelle borgate
distese lungo il lago.

— Si va? — chiese Flavia, alzandosi in piedi.

— Andiamo! — risposero insieme sua madre e donna Marta.

Nel ritorno, all’inizio del sentier tenebroso, Flavia passò sùbito il
braccio sotto quello d’Aurelio, e non si staccò più da lui che d’avanti
alla porta del palazzo. Quivi si salutarono senza parlare, quasi
commossi, stringendosi forte la mano.

Quando il giovine si trovò solo nella sua stanza, una gioja pacata
e serena lo prese d’improvviso, come una sensazione assai gradevole
di riposo dopo uno sforzo coronato da esito felice. Egli ristette
qualche attimo sorridente e attonito nel bel mezzo della camera,
col lume acceso in pugno; guardò il cumulo disordinato delle sue
carte su la scrivania, e si compiacque, senza saper perchè, di sè
medesimo, dell’opera sua, del suo destino che gli pareva aperto e
chiaro come non mai. Nessun ricordo preciso di quel giorno era nella
sua coscienza: egli non pensava nè a Flavia, nè al racconto del suo
passato, nè al canto di Luisa, nè alla seduzione della musica amorosa;
pensava vagamente a cose incerte e nebbiose, infinitamente piccole o
infinitamente grandi, a tutto e a nulla. Si sentiva giovine, forte e
sicuro; ed era lieto di vivere.

D’un tratto si mosse. Depose il lume su la scrivania, come usava fare
tutte le sere; si sprofondò nel suo seggiolone d’avanti a questa; prese
risolutamente la penna, e stette un poco con la mano ferma, sospesa
su la pagina incompiuta dell’opera sua. Un soffio tenue di vento, come
una carezza fluida, entrava a intervalli dalla finestra, portando nella
stanza un odore acutissimo di gelsomini.

«Sono stanco,» egli pensò, senza stupore, senza rammarico: «scriverò
meglio domattina.»

Gittò la penna, si levò in piedi, e incominciò sùbito a spogliarsi.



VI.

PRIME NEBBIE.


— Via, conte, coraggio! Faccia un bel salto nel vuoto, — gridò
Flavia giù, dal giardino, ad Aurelio ch’era apparso in quel punto al
balconcino della sua camera, con un libro aperto nelle mani.

Le due giovinette stavano in piedi, col viso levato verso di lui, tra
due statue di ninfe seminude dai gesti raccolti e pudichi, d’avanti a
un denso cespuglio d’ortensie tutto ornato da pallidi corimbi di fiori.

— Io verrò a morire ai loro piedi, — rispose Aurelio per giuoco,
sporgendo il corpo dalla ringhiera come per misurare con lo sguardo
l’altezza.

— No; noi lo riceveremo tra le nostre braccia, — disse audacemente la
bionda; e scoppiò a rider forte, sbirciando la cugina che d’un tratto
si fece seria e abbassò gli sguardi al suolo.

Aurelio sorrise e si ritrasse. Nel tepor blando della sera, l’anima gli
si diffondeva nell’aria con la respirazione. Il vespero estivo aveva
una purità di cristallo; come una grande brage ardente sotto il cielo,
il poggio rosseggiava; tutte le cose sottostanti, penetrate d’ombra,
parevan sommerse in un terso liquido azzurro.

Egli, ancor dubbioso su ciò che avrebbe fatto, venne presso la
scrivania e vi lasciò cadere lentamente il libro che stava consultando.
Il pensiero che Flavia era là ad aspettarlo gli metteva nel petto un
palpito convulso. Provava, come sempre quando doveva andare incontro a
lei, quasi una necessità di sosta, di riposo, di raccoglimento, prima
di prendere una deliberazione; e rimaneva così, a lungo, con il corpo
e il pensiero inerti quasi in attesa d’un impulso esteriore. «Devo
andare? Devo rimanere?» si chiese alla fine; e parve a lui in quel
momento che non solo le convenienze lo consigliassero a trattenersi
nella sua camera, ma altresì la sua volontà e il suo desiderio.

«Discendere?» egli pensò. «E perchè? Forse che mi diverte codesta
compagnia? E non ho perduto già troppo tempo per causa loro? Dai
primi di giugno non ho scritto che una decina di cartelle, e anche
queste dovrò probabilmente rifare. Val dunque la pena ch’io ritardi il
compimento dell’opera mia per quelle donne? No, no, io non discendo. Io
non voglio discendere!»

Si volse; e vide ancora dal balcone spalancato il poggio igneo ai
riflessi del tramonto. Imaginò le fanciulle in basso, nel memore
giardino, tra le due statue goffe, d’avanti ai frutici fioriti. Esse
certamente l’aspettavano ancora, immobili al loro posto, e fors’anche,
aspettandolo, discorrevano di lui. Un’acuta curiosità lo punse: di
sapere come potessero averlo giudicato quelle due ragazze frivole e
astute; di conoscere il sentimento diverso ch’egli aveva suscitato in
ciascuna di esse. Rivolse prima la sua attenzione a Luisa, poi la portò
sùbito su Flavia, di cui si soffermò a indagare con più sottile arte il
pensiero.

Quella creatura così bella e così mesta gli ispirava un sentimento
di fiducia e quasi di protezione, irresistibile. Appena da un mese
l’aveva conosciuta; e solamente da una ventina di giorni egli aveva
incominciato a vivere con lei in una certa domestichezza, qualche ora
ogni giorno. Eppure, in così breve lasso di tempo, egli aveva già fatto
un’abitudine della sua compagnia, e, quando gli mancava, ne sentiva
come un rimpianto. Espansiva, ciarliera, propensa a parlar di sè
stessa, Flavia a poco a poco gli aveva confidato le sue memorie, le sue
speranze, i suoi crucci intimi. Ed egli, da prima indifferente e quasi
ostile, aveva appreso a poco a poco ad ascoltarla con un certo piacere,
a vivere nel ristretto mondo intimo di lei, senza provare angustie o
insofferenze.

Così, lentamente, cedendo per gradi insensibili alla seduzione di quei
colloquii insidiosi, dopo avere accolto amabilmente le confidenze di
Flavia, egli medesimo aveva anche incominciato ad aprirle un poco il
suo mistero, a renderla in qualche modo partecipe de’ suoi pensieri
e delle sue ambizioni. E, come s’era accorto ch’ella lo ascoltava con
un’attenzione profonda, gli occhi fissi ne’ suoi immobilmente, e che
spesso altresì lo approvava con rapidi cenni del capo, aveva posto
un’assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza della
sua coltura, la forza del suo carattere, la sottilità del suo ingegno.
E un orgoglio enorme gli aveva sollevato tutto l’essere, quando ella un
giorno aveva detto con accento di convinzione a lui, che taceva stanco
dopo un lungo discorso:

— Ah, come la invidio, conte! A lei è riserbato certamente un alto
destino. Ella possiede il segreto di dire le cose più astruse e
complicate in una forma così limpida, così piana ch’io stessa, donna e
ignorante come sono, riesco a intenderle e a persuadermene.

Nessun elogio già mai, nessun augurio eragli parso più dolce, più
veritiero, più incoraggiante. Ed egli ora, ritto presso la scrivania,
ripensava a quelle parole e si gonfiava novamente d’orgoglio.

Ma un’ansietà lo stringeva quanto più i minuti fuggivano. Lo urgeva
un’inquietudine confusa, come un bisogno di movimento e di respiro
libero, come un’impazienza che gli saliva su dal fondo del cuore e
gli occupava, annebbiando, il cervello. Altre volte in quei giorni
era stato assalito da una commozione simile; altre volte aveva dovuto
d’un tratto, sotto la spinta misteriosa, interrompere il suo sereno
lavoro, a mezzo d’un periodo che pure aveva già tutto concretato nella
mente e avrebbe potuto compire in un attimo; altre volte, senza saper
come nè perchè, s’era trovato fuori della sua camera, ramingo nel
parco solitario o su la spiaggia, come alla ricerca di qualche cosa
ignota!...

Aurelio lanciò uno sguardo in dietro verso il poggio: parvegli che
il rossore al sommo fosse impallidito; parvegli che nel cielo qualche
luce brillasse. Era un inganno questo, ma egli vide veramente qualche
luce brillare nel cielo. — Quanto tempo era passato? Le due fanciulle
l’aspettavano forse ancora in giardino? Imaginavano esse, — imaginava
Flavia il motivo di quel lungo indugio?

Il dubbio che questa, avendo dato al suo ritardo una causa diversa,
potesse giudicarlo scortese o immemore di lei, l’accorò profondamente.
Si sovvenne in quel punto d’esser rientrato senza salutare, senza pur
rispondere con un rifiuto giustificato all’invito confidenziale; ebbe
contro sè stesso un moto di rimprovero e di rabbia, vivissimo. Pensò:
«Ora bisogna discendere, almeno per iscusarmi presso di loro.»

E si mosse.

Nel giardino non trovò nessuno: per un’istintiva curiosità, s’inoltrò
fin nel mezzo dello spianato; volle riconoscere il luogo preciso
dov’eran già le giovinette, tra le due ninfe marmoree, d’avanti al
cespo florido d’ortensie; e qui lo ferì un profumo strano e complesso,
indefinibile, che non poteva esser quello d’un fiore e gli sollevò il
ricordo come d’un vago sentimento lontano.

Dov’erano esse? Stanche d’aspettarlo, eran rientrate in casa? Eran
uscite dal palazzo? Ritornò su i suoi passi; attraversò la grotta
e il cortile senza incontrar nessuno. Aveva un bisogno smanioso di
cercarle, di vederle, d’interrogarle; temeva sopra tutto che Flavia
fosse indispettita contro di lui; pensava che, solamente presentandosi
in quella medesima sera, sarebbe riuscito a cancellare l’impressione
sgradevole in lei lasciata.

Come uscì sul rialto, la vide finalmente abbasso, presso le barche, in
compagnia di Luisa.

Entrambe gli sorrisero. Disse la bionda, accennandogli con la mano
d’avvicinarsi:

— Ci scusi: siamo discese senz’aspettarlo..... Venga! Venga giù! Noi
andiamo a fare un giro sul lago.

Egli discese verso di loro, sorridendo. E una mirabile mutazione
avvenne nel suo interno, poichè i sospetti, che fino a quel minuto lo
avevano oppresso, ora precipitavano all’imo, dileguavano, cedevano il
luogo alla certezza salutare che nulla era ancor sòrto a turbare i suoi
buoni rapporti con Flavia.

Ella, curva fin quasi a terra, era occupata a sciogliere il nodo della
fune che assicurava la lancia a un grosso anello confitto al suolo; ed
essendo la fune un poco umida, la premeva inutilmente con le piccole
mani, e s’affannava, e sbuffava, e s’accendeva nello sforzo vano. Tutto
in essa, veramente, nell’atteggiamento del corpo e nell’espressione del
viso, era fragile e infantile, e crebbe nel giovine quel sentimento di
superiorità generosa, come di simpatia tutelante che provava sempre al
cospetto di lei.

— Ah, mio Dio, non ci riesco! — mormorò Flavia, ergendosi con un
moto lento, guardando con occhi impietositi le sue palme arrossate e
graffiate dall’asperità della canapa. Poi soggiunse rivolta ad Aurelio,
mostrandogliele: — Guardi le mie povere mani!

— Tenterò io, se permette: le mie sono meno gracili e meno belle, —
egli disse, sorridendo.

Senza durar molta fatica, sciolse il nodo e porse il capo della fune
alla fanciulla.

Il lago era calmo, liscio come una lastra d’acciajo. Una luce incolore
e bassa, la luce dei pigri crepuscoli estivi, si rifletteva sul piano
delle acque, che parevan più chiare del cielo, e lasciava in un’ombra
dilavata i fianchi selvosi delle montagne. Alcune grosse barche da
trasporto, provenienti dal mercato d’Arona, spiccavan nere come ebano
in alto lago; e i loro alberi, spogli di vela, disegnavan con le corde
dell’antenna legate a poppa, immani triangoli sul chiarore.

— Poveretti! — disse Flavia malinconicamente, osservando le barche
quasi ferme. — È sabato, ed essi non hanno un fil di vento che li ajuti
a ritornare a casa!

— Non mi sembra il caso di compiangerli, — notò il giovine, tra serio
e scherzoso: — il vento li ajuta già fin troppo; ed è bene in vece
ch’essi esercitino anche un poco l’unica virtù che posseggono: la forza
dei loro muscoli.

— Vuole che andiamo a vederli da vicino? — chiese ella, come non avesse
udito le parole di lui, fattasi d’un tratto ilare e vivace, grazie a
quella sua speciale facilità di mutar pensieri, umore ed espressioni,
la quale aveva già più volte stupefatto l’Imberido.

E, senza aspettar risposta, si guardò intorno per il lido deserto con
impazienza visibile.

— Dov’è andata mia cugina?

— Era con lei quando son disceso, non è vero? — domandò Aurelio.

— Non si rammenta? È stata Luisa a chiamarla.... Oh, eccola! La vede?

La giovinetta correva rapidamente lungo il greto verso il piccolo
arsenale, dove Ferdinando nella morta stagione occupava il suo tempo a
costruire barche che poi in estate noleggiava ai villeggianti. I suoi
capelli biondi s’erano in parte disciolti e si levavano a guisa di
lingue ignee nel vento della corsa, sì che pareva in lontananza che la
sua testa fiammeggiasse.

— Luisa! Luisa! — chiamò Flavia a voce alta. — Dove corri? Non vieni?

— Andate avanti piano! — ella rispose, senz’arrestarsi, volgendo a
pena il capo per farsi intendere: — vado a prendere il sandalino. Vi
raggiungo sùbito sùbito. Andate avanti!

E disparve, valicando leggera il molo che proteggeva la darsena di
Ferdinando.

Flavia entrò risoluta nella lancia, dicendo al giovine:

— Andiamo noi soli!

Aurelio, per la lunga dimora fatta sul lago, era un forte ed
espertissimo vogatore. La lancia, spinta da’ suoi colpi di remo, tagliò
l’acqua velocemente, e s’avanzò diritta come una freccia verso una
delle grandi barche al largo.

Ambedue tacquero a lungo; ambedue avevan gli sguardi fissi nel vuoto,
instancabilmente; ambedue parevano ascoltare ansiosi, quasi aspettando
una qualche alta rivelazione dal gorgoglio sonoro delle ondette che si
movevano intorno al legno.

Un turbamento invincibile, misto di gioja e di confusione, teneva
Aurelio, da che si trovava, per un caso insperato e inaspettato, solo
con Flavia su quel piccolo schifo perduto nelle acque, a quell’ora
estrema del giorno, in quella luce moribonda. Provava un bisogno
intenso di parlare; ma le parole, che gli si affollavano senza nesso
alle labbra, erano impronunciabili. Sentiva un desiderio quasi doloroso
di guardare la sua compagna, d’osservarla bene e lungamente nel viso;
ma i suoi occhi non potevano staccarsi dalla banderuola azzurra che
sventolava a poppa. Avrebbe voluto almeno provocare una sua parola,
udirne il suono della voce; ma ella, come lui, pareva tenuta astratta e
silenziosa da un incantesimo.

— Luisa è comparsa? La vede? — chiese alfine Flavia con accento
pigro, dispiacendole perfino di volgere indietro il capo, nello stato
d’attonitaggine in cui era caduta.

Aurelio ebbe un sussulto: fissò un attimo interrogativamente
la compagna, come non avesse compreso; poi diresse gli sguardi
al villaggio, e parvegli di vedere agitarsi sul lago, d’innanzi
all’arsenale, una piccola forma oscura. Era certamente Luisa che veniva
a raggiungerli.

— Sì, la vedo: ella viene, — disse.

— È ancora molto lontana?

— Sì, parecchio... Vuol forse che l’aspettiamo? — domandò con
un’alterazione indefinibile nella voce e negli occhi.

Ella rimase alquanto pensierosa, quasi incerta. Poi rispose bruscamente:

— È inutile. Andiamo pure avanti. L’aspetteremo più tardi, laggiù!

Ritacquero. Aurelio, grato in cuor suo a Flavia, d’aver voluto
prolungare il fascino di quell’assoluta solitudine tra le acque,
riprese a vogare con lena anche più vigorosa, quasi cercasse di fuggire
a un molesto inseguitore.

Il Verbano sembrava allargarsi man mano ch’essi si scostavano
dalla riva e l’ombra cresceva: sembrava dileguarsi in una illusoria
lontananza, prolungarsi a mo’ d’un vasto e lento fiume livido che non
avesse per gli occhi nè principio nè fine. E nell’anima del giovine,
inclinata verso quell’unica presenza femminile come da un possente
desiderio di consorzio, era una strana eccitazione sentimentale,
ferveva come un incendio improvviso di tutte le sommità liriche.
Due o tre volte il nome di lei salì alle labbra d’Aurelio, e fu a
pena trattenuto dalla volontà. Due o tre volte i loro sguardi, ora
errabondi, s’incontrarono, parvero per un istante interrogarsi, e si
sfuggirono quasi intimiditi dalla loro reciproca audacia.

— Eccoci! Si fermi! Si fermi! — ella gridò d’un tratto, allungando le
mani verso quelle di lui per trattenergliele.

Aurelio, un po’ sgomento dall’atto e dal grido, abbandonò tosto i remi,
e si volse a riguardare, udendo dietro di sè un tonfo come di cosa
greve che si tuffasse.

Il navicello sorgeva prossimo a loro, con la sua massiccia e cupa
mole uscente dal piano lacustre, alla quale l’alto albero e la stanga
a poco a poco più larga del timone davano un aspetto fantasticamente
geometrico contro l’estrema luce del crepuscolo. Ritto su la sponda del
legno, un vecchio erculeo con le gambe ignude, col torso mezzo ignudo,
tutto ispido di peli grigiastri, moveva faticosamente, facendo tre
passi a ritroso, il gran remo scabro che a ogni spinta mandava stridi e
sibili come un cignale ferito. Di quando in quando s’arrestava, stanco
o affannato, e abbandonava il remo per tergere con l’avambraccio il
sudore che gli colava in copia dalla fronte bassa e rugosa.

Aurelio e Flavia stettero a osservare la sua manovra, intenti.
L’uomo dall’alto, durante una sosta, fece loro un saluto rispettoso,
togliendosi il cappello e agitandolo nell’aria. Entrambi risposero con
la voce, augurandogli a un tempo la buona sera.

— Poveretto! Come mi fa pena! — disse Flavia quasi tra sè, sinceramente
commossa.

L’Imberido, benchè fosse attentissimo a quell’ombra nera che oscillava
con la regolarità meccanica d’un ordigno, rimaneva affatto insensibile
a quegli sforzi senili; e, udendo Flavia impietosirsi, senza volerlo
sorrise.

Allora ella si rivolse a lui e, penetrandogli in fondo agli occhi con
uno sguardo grave di rimproveri:

— Perché quel sorriso? — gli chiese.

— Non so, veramente. Un’idea...

— Ah, capisco! — fece ella, senza cessare di fissarlo, con accento
d’irrisione. — Ricordo le sue parole là, su la spiaggia, ricordo
anche altri suoi discorsi... Ella (credo per ismania di singolarità)
s’è imposto lo scopo di conservarsi impassibile allo spettacolo delle
sofferenze umane!... Come potrebbe dunque aver compassione d’un povero
vecchio, che, non ostante la tarda età, deve continuare senza una
speranza di riposo quel lavoro da schiavo o da galeotto?

Aurelio, attonito, la guardò. Ella non aveva mai parlato così.
Non aveva mai osato contradirlo. Altre volte, quando egli le aveva
manifestato apertamente alcuna delle sue più crude idee sociali,
era rimasta silenziosa ad ascoltarlo, se anche non aveva fatto
cenno d’approvare. Ora da che proveniva quell’ardire, quel calore
di principii, quella voglia nuova e improvvisa di discussione? E
che significavano nella sua bocca i due epiteti di «schiavo» e di
«galeotto», riferiti per ironia a quel rozzo essere ignaro, come
per proclamarlo contro di lui uomo libero e suo pari? Chi le aveva
suggerito le parole ribelli, che non potevano essere il frutto d’una
semplice anima femminile? — Un dubbio attraversò fulmineo il pensiero
d’Aurelio: quelle eran le idee dell’Altro, dell’Indimenticabile,
dell’uomo a lui ignoto ch’ella aveva tanto amato un tempo e forse amava
ancora nel segreto del suo cuore, disperatamente. Certo, certo così
per analogia doveva ragionare in politica quel rètore dell’amore che,
dopo averle infocata la fantasia con un’abile comedia di passione e
d’entusiasmo, s’era da un giorno all’altro comodamente sottratto alle
responsabilità assunte, ripudiando senza scrupoli ogni sua promessa,
ogni suo giuramento, ogni suo impegno morale!

Il giovine ebbe da questo dubbio una specie di gelosia, una specie di
sordo furore vendicativo contro lo sconosciuto e per riflesso contro
la fanciulla che aveva parlato come in suo nome. Rispose dunque con la
voce aspra, contenendosi a stento:

— Signorina, quell’uomo non è soltanto immeritevole della mia
compassione; ne è anche indegno. La fatica per lui non è un dolore;
e le sue occupazioni, se pur sembran gravose, non son certo, anche
considerate come semplice consumo di forze, paragonabili..., ad
esempio, alle mie. Ed io non mi son mai compianto, nè so che altri mi
abbia compianto mai. D’altra parte le sofferenze dell’infima umanità
sono il risultato logico, necessario, anzi provvidenziale della
concorrenza per la vita tra gli individui di nostra specie. Io non
stimo dunque uomo sano, nè forte, nè ragionevole quello che non può
assisterne allo spettacolo senza commuoversi e cedere a un sentimento
di ribellione contro le leggi incommutabili dell’esistenza, che sono
anche quelle del progresso.

— Eppure, — ella insistette, — vi sono molti giovini còlti e d’ingegno
quanto lei, i quali si sono imposto come un ideale la redenzione
di quelle classi sofferenti, ch’ella chiama con disprezzo: l’infima
umanità...

— Quei giovini, — disse impetuosamente Aurelio, esagerando il suo
pensiero, quasi avesse avuto l’Altro per avversario nella discussione,
— quei giovini, se anche hanno ingegno e coltura come lei asserisce,
van pur sempre considerati come imbecilli morali, perchè sono o ingenui
o fiacchi o bugiardi. E il loro ideale per conseguenza non può essere
che un’utopia, una scempiaggine sentimentale o un inganno.

Flavia pareva che traesse dalla sua acredine crescente una sorta di
piacere maligno. Lo guardava fissamente, socchiudendo gli occhi alla
maniera dei miopi, e aveva su la bocca un sorriso quasi impercettibile,
come una lieve ombra agli angoli delle labbra che i denti di sotto
continuamente mordevano.

— Sentiamo dunque; — ella domandò ancora: — qual è, secondo lei,
l’ideale vero, l’ideale sano e onesto, il suo, insomma...?

— Ajutare l’opera fatale della Natura, senza pretendere di correggerla
e di rivederla. Favorire, per quanto ci è dato, il progresso d’un tipo
superiore nell’umanità, non curando la massa degli individui che la
compongono.

Confusa dalla concisione scientifica della formula, ella non potè
ostinarsi nella sua ironica opposizione, e dovette tacere per un
attimo, forse meditando un nuovo possibile attacco. In quel punto una
voce si levò, inaspettata, dietro di loro.

— Disturbo, forse?...

Era Luisa, che nel frattempo li aveva raggiunti e, fermatasi per
discrezione a qualche metro di distanza dalla lancia, li osservava con
la sua solita aria di maliziosa penetrazione.

— Ah, sei tu, Luisa? — disse Flavia, volgendosi a lei con un atto
brusco e inquieto. — Avvicìnati, dunque! Che fai?... Si parlava col
conte di politica, figùrati!...

— Di politica?! — ripeté la bionda, incredula, scoppiando a ridere.

Quindi, con un gesto semplice, riprese nelle mani il remo a due pale, e
si diresse verso la lancia. Era soffusa d’una tenue fiamma su le gote,
e anche aveva l’espressione un poco alterata.

Disse il giovine, mentr’ella s’avvicinava:

— Sa, signorina Luisa? ho scoperto in sua cugina certe tendenze
rivoluzionarie ch’ero ben lungi dal sospettare.

— Eh, che vuole? — fece ella, spensieratamente. — Noi siamo tutte
repubblicane..., almeno fin che troviamo un re che ci governi!

La notte sopraggiungeva, placida notte senza nube, che un ricordo di
sole e una promessa di luna inondavan di timide trasparenze glauche.
Dalle convalli, rinfrescate dall’ombra precoce, qualche soffio d’aria
incominciava ora a discendere verso il lago, che a tratti rabbrividiva
e s’accapponava come epidermide delicata al solletico d’una piuma.
Quasi tutte le grosse barche, che ne macchiavano il piano, erano state
assorbite dall’oscurità. Solo il navicello più vicino si scorgeva
ancora distintamente a una decina di metri innanzi, dove s’era fermato,
e, nella speranza di raccogliere que’ soffii dispersi, aveva inalberata
l’alta vela quadrangolare. Ma questa per il contrasto delle correnti
non poteva gonfiarsi, e si udiva a intervalli sbattere con colpi secchi
e reiterati, come applausi.

Luisa s’accostò alla lancia fino ad afferrarne il bordo con la mano.
Ella pareva molto nervosa, in uno stato d’irritazione allegra,
di facile e spontanea mordacità. Pareva che nudrisse dentro un
dispetto acidulo contro i due, che l’avevan lasciata sola in dietro.
Specialmente contro Flavia ella si compiaceva d’incrudelire: sapeva
trovar per lei parole piene di sottile veleno; sapeva cogliere nel
discorso fatuo e vago ogni occasione propizia per rivolgerle allusioni
velate, che la facevano a volte impallidire, a volte arrossire fino
alla radice dei capelli.

Quando ritornarono, ella, senz’avvertire nè la cugina nè il giovine,
si diede improvvisamente a vogare con tutte le sue forze come per una
gara, e in pochi momenti, sopravanzandoli, scomparve alla loro vista
nelle tenebre.

— Luisa! — chiamò una volta Flavia, seccata.

Poi, non ottenendo risposta alcuna, si volse ad Aurelio, che s’era
lanciato a inseguirla, e gli disse:

— Non so che abbia stasera quella sciocca! Sembra impazzita!... La
lasci andare!... Non s’affatichi inutilmente!... Tanto, non la si
perde....

Rimasero, così, di nuovo soli, su la barca invisibile, in mezzo al lago
deserto e bujo. Ma l’incanto primo era stato disperso, e la solitudine
omai era vana. Persisteva tra loro un distacco, un sentimento di
diffidenza e quasi d’ostilità, che la loro discussione aveva mosso e
poi la presenza e i sarcasmi di Luisa avevano esacerbito. Erano omai
due esseri distinti, separati, infusibili. E lo stesso silenzio, che
prima li aveva accomunati, ora in vece li rendeva viepiù estranei l’uno
per l’altra.

Aurelio pensava, considerando con occhio intento e freddo la sua
compagna, muta e accigliata di fronte a lui: «Come è bassa e angusta
codesta fronte! La sua intelligenza dev’esser chiusa in cerchii di
ferro come una botte vuota. Costei non potrà mai avere un pensiero suo,
che sia generato dal sangue suo, nudrito dall’ingegno suo, cresciuto
e fortificato da una sua meditazione. Ella è andata raccattando fino
a oggi, dalle frivole letture e dalle conversazioni degli uomini che
l’hanno avvicinata, un certo corredo d’idee frammentarie e d’opinioni
sparse; e talvolta, ripetendole, se ne serve, ma esclusivamente a
profitto del suo giuoco sentimentale; poichè un giuoco è quasi sempre
la vita d’una donna, almeno fino al giorno in cui essa giocando
diventa madre. In verità costei riserba tutta la sua indifferenza
e fors’anche un poco di disprezzo alle occupazioni dell’intelletto;
un lampo di convinzione, d’entusiasmo o di mera curiosità non ho mai
visto illuminare il suo sguardo, quando ella parla di cose astratte o
generali. Che cosa sono per lei gli altissimi voli e le maravigliose
penetrazioni del pensiero contemporaneo? Che cosa, la scienza, l’arte,
la filosofia? Che parte prende ella mai ai grandi rivolgimenti della
società moderna? Con quale ansiosa sospension d’animo, con quali
speranze o con quali timori scruta nell’avvenire il destino della
sua razza? Ohimè, il suo mondo è così ristretto che, solo allargando
le braccia, ella ne può toccare i confini! E al di là per lei è il
mistero; peggio, è un mistero che non l’impensierisce e non l’attira!»
Pensava: «Come, come ho potuto perdere il mio tempo in compagnia d’una
creatura sì semplice e sì vana? Come ho potuto confidare a lei sia pure
una minima parte del mio pensiero? Probabilmente, ella non m’ha mai
ascoltato, quando m’approvava; ella ha finto di prestarmi orecchio e
d’intendermi, soltanto per rendermisi piacevole, per tenermi vicino,
per affascinarmi o per burlarsi di me. Come, come dunque non ho inteso
sùbito il giuoco e non ho saputo sventarlo?»

— A che pensa? — ella chiese.

— A nulla. Cioè.... a lei, signorina.

Ella ridomandò:

— A me? Male, non è vero?

— No.... Perchè dovrei pensar male di lei? Nè bene nè male.

Si guardarono un attimo, scrutandosi. Poi ciascuno parve di nuovo
concentrarsi in sè stesso. D’improvviso Flavia scoppiò in una risata
sonora.

Aurelio domandò, stupito:

— Che cosa è avvenuto? Perchè ride?

— Ah, un ricordo! M’è tornato alla mente il nostro primo colloquio,
quella sera, sul rialto.

— Ebbene?

— Sa che l’espressione della sua faccia, quando mi si è dichiarato
nemico delle donne, è stata assai buffa? Io ho dovuto fare una gran
forza su me stessa per rimaner seria....

Aurelio ebbe un vivo sussulto, a queste parole. Esse in fatti parevano
confermare le sue considerazioni, avvalorare il dubbio che la ragazza
avesse sempre sostenuto una parte con lui, per farsene beffe. Egli
lasciò per un istante i remi e disse, piano, con l’amarezza nella voce:

— È strano! Nessuno certo l’avrebbe potuto sospettare! Si vede ch’ella
sa fingere molto bene, signorina!

Flavia tornò a ridere. Poi domandò:

— Ora vorrei da lei una confessione; ma vorrei che me la facesse
seriamente, con tutta la sincerità, senza riguardi per me o per il suo
amor proprio.... M’intende?

— Dica....

— È ancora un nemico delle donne, lei?

Il giovine, che si sentiva corrodere da un sordo rancore e incitare
come da una smania di vendetta, rispose forte, sfidandola con lo
sguardo:

— Schiettamente, più che non mai.

La risposta era stata sincera, ma egli sùbito si pentì d’averla
proferita. Per un’oscura divinazione imaginò l’effetto ch’essa avrebbe
avuto in quel momento, dopo i loro discorsi, nell’anima di Flavia. E
in mezzo alla sua momentanea avversione per lei, provò una specie di
brivido interno, un brivido insieme di paura e di dolore, al pensiero
d’aver reso irrimediabile il loro dissidio, d’aver distrutto in sè per
tal mezzo ogni speranza di prossima conciliazione.

— Grazie di tanta franchezza! — esclamò Flavia, stringendosi nello
scialle, distogliendo con un moto sdegnoso il suo sguardo da quello di
lui.

Su l’atto egli non trovò il modo di mitigare l’asprezza della frase,
togliendole almeno ogni significazione personale; e, nella necessità
di sopportarne tutte le conseguenze, riprese il remeggio in silenzio,
con un’energia maggiore, come gli tardasse omai che la riva fosse
raggiunta.

La notte aveva già disteso il suo mantello bigio sul lago; la riviera
di Piemonte scintillava di fiamme minute, in lunga fila; le creste più
alte, quelle del Motterone e dello Zeda, si vedevan rischiarate dalla
luna sorgente.

Allora la malinconia lo assalì; uno scontento amaro di sè stesso e
del mondo si levò dalle profondità del suo spirito e vi si diffuse
come una nebbia. Il ricordo del suo lavoro lento, interminabile,
che da più giorni progrediva a pena tra difficoltà sempre crescenti;
l’imagine dell’avola debole, decrepita, malata; la previsione d’una
solitudine senza fine; il terrore d’un’esistenza diversa dal suo
sogno, sacrificata alle necessità corporali, oppressa forse da un giogo
ignobile; tutte le sue tristezze, tutte le sue paure gli passaron di
nuovo a traverso la mente con una rapidità fulminea, a similitudine
di spettri esili e confusi volanti verso una porta piena d’ombra. In
vano egli tentò di ribellarsi a quella dominazione di fantasmi neri;
in vano cercò in sè un pensiero gradevole, una speranza o un desiderio
che potesse sottrarlo ad essi. Il proposito di rimettersi assiduamente
al lavoro lo riempì di tedio e di freddo. L’imaginazione d’un possibile
avvenire di gloria si trasformò subitamente in una visione certa di
morte. — A che avrebber dunque servito i suoi studii, le sue fatiche,
le sue opere? E che cosa avrebbe potuto fare egli, solo sconosciuto
povero fiacco, contro l’onda immane dei preconcetti, degli appetiti,
delle ambizioni d’una folla innumerevole?

Egli era scoraggito, deluso, vinto; il suo sogno sfumava; la sua vita
non aveva più scopo; egli si vedeva fuggito da tutti, dannato a un
isolamento perenne tra uomini nemici o estranei a lui. Chi dunque lo
amava? Chi lo avrebbe soccorso, malato o miserabile, quando la nonna
sua fosse scomparsa? E a che farmaco miracoloso avrebbe egli chiesto la
forza nuova per tollerare un’esistenza simile a un esilio?

Alcune parole disperate risonarono dentro di lui, acute come un
grido: «Mio Dio, come mi sento stanco di vivere!» Esse gli eran
misteriosamente scaturite dalle viscere profonde, ed egli le aveva
pensate senz’averne coscienza, come inconsapevole le avrebbe urlate
al silenzio in un momento di supremo abbandono. Non l’anima sua le
aveva suggerite; aveva parlato in lui l’oscuro Genio della Specie; e
la vana invocazione non era se non una delle innumeri espressioni di
lamento delle creature che si senton sole e sterili e inutili, il grido
d’angoscia che la tirannica Natura strappa a queste, reclamando le vite
del domani in pericolo di non essere.

Aurelio guardò istintivamente la sua compagna. Ella s’era levata
d’improvviso in piedi e fissava con intensità un punto lontano d’avanti
a sè. Il suo corpo svelto ed eretto, con le braccia un poco allargate
nello sforzo di tener fermo il governo del legno, si disegnava
sul piano cupamente glauco delle acque e pareva ingigantito. Una
trepidazione continua rendeva incerte le linee di quell’alta figura
gorgónea, cui il vento della corsa agitava i capelli alquanto scomposti
e le pieghe ampie della veste. E partiva dal suo sguardo vitreo e
fosforescente un bagliore magnetico, qualche cosa insieme di procace e
d’imperioso, come una sfida, come un invito muto e fatale al giovine
che lo scrutava. «Io ti potrei soccorrere,» gli dicevan quegli occhi
che non lo guardavano. «Io ti potrei amare. Io ti veglierei malato e
seguirei fedele i tuoi passi nell’esilio. Io, io sola saprei trovare
il farmaco che tu cerchi e te lo porgerei con queste mani carezzevoli
in una coppa illibata. Ma tu dovrai esser mio, appartenermi tutto,
struggerti tutto tra le mie braccia, esser per me lo schiavo che
lavora e che mi nutre col profitto del suo lavoro. Che mi fanno le
tue ambizioni? Che mi fa il tuo sogno? Io non vedo in te che l’uomo
predestinato a generare i miei figli e a rendermi agevole e dolce la
vita.»

E Aurelio, leggendo in quegli occhi le parole dell’Incantesimo,
pensava al corso degli anni venturi, a sè medesimo legato ai polsi da
una catena ferrea con quella creatura mediocre e assorbente, pensava
alla povera casa sempre sudicia, romorosa, devastata dalla barbarie
infantile, ingombra forse di ribelli, forse d’indegni, forse d’intrusi.
E poichè le parole avevan pur sempre su lui un fascino irresistibile,
simile all’attrazione vertiginosa che sale dagli abissi, egli andava
ripetendo a sè stesso: «Diffida e guàrdati! Non credere! Non illuderti!
Ella non ti amerà mai; ella non accetterà mai di dividere la tua sorte
malinconica! Per lei, come per tutti gli altri, tu non sei che un
estraneo.» Ma questi pensieri, ben lungi da confortarlo, aggravavano in
vece il suo scoramento, rendevan più vasto e più squallido il deserto
intorno alla sua solitudine.

— Osservi! — disse Flavia d’un tratto, sempre ritta e attenta,
accennando con la mano un punto dietro le spalle di lui. — Che c’è
laggiù? Che cosa sono quei lumi? Osservi!

Aurelio si volse.

Un’ombra densa premeva sul villaggio, ormai non molto lontano. In
quell’ombra la spiaggia e gli abituri erano invisibili, e soltanto le
poche case intonicate si distinguevano a pena, come pallori incerti.
Presso la chiesa, raccolte in gruppo, molte fiammelle tremolavano,
acute e distinte, diffondendo in torno un’aureola rossastra.

— Che sarà? — ella ridomandò, attonita, volgendosi al giovine.

— Forse un funerale.

— A quest’ora?

— Forse una funzione... Certo: è una funzione. Non vede? Si muove.

Le fiammelle in fatti si movevano. Fu dapprima un’agitazione
disordinata, come un incrociarsi rapido e confuso di tutte quelle luci
in un piccolo spazio; poi alcune di esse si staccarono dal gruppo
e discesero fantasticamente, ondulando e sussultando, la scala del
tempio. Le altre seguirono a poco a poco, mentre quelle prime, disposte
in ischiera, s’allontanavano, e ben presto una lunga processione di
fiamme doppie si sviluppò serpeggiante per l’oscurità del piazzale.

Allora Aurelio s’accorse che una campana rintoccava.

— Sente? — egli disse a Flavia. — Che squilli lenti, lugubri...

— È un’agonia, senza dubbio. Qualcuno muore laggiù, e quelle torce
seguono il Viatico!

Ella aggiunse dopo una pausa:

— Mio Dio, che tristezza! — e si lasciò ricadere su i cuscini come
morta di fatica.

«Che tristezza! Che tristezza!» ripeté l’anima del giovine, facendo
eco. E il ricordo della nonna, della sola persona ch’egli amava e dalla
quale era amato, risorse vivido, risplendette come una stella solitaria
sul cielo opaco della sua mestizia. Un’onda di tenerezza impetuosa
gli gonfiò il petto a quel ricordo sòrto per una secreta associazion
d’idee dopo la funebre visione; tutte le fibre del suo cuore vibrarono
concordemente al sacro nome di Madre. Oh, era quello l’essere caro,
l’essere indimenticabile, a cui egli era legato da un’intera vita
di solidarietà; era quella la creatura di consolazione, di conforto,
d’infinita benevolenza sul seno della quale avrebbe potuto senza viltà
e senza pericolo riposare il capo stanco.

Un desiderio ansioso lo prese: di correre a lei, di stringerla tra le
braccia, di coprirne di baci il povero volto cereo, vizzo, emaciato.
Tutta la sua affettuosità, sempre oppressa da un pertinace proposito
d’indifferenza, si slanciò in quel momento di debolezza sentimentale
verso colei ch’era stata la sua vera madre, verso colei ch’egli aveva
appreso ad amare ne’ suoi giorni più tenebrosi.

«Oh, mamma! mamma!...»

Come un bambino smarrito egli invocava l’assente, ripetendone il nome
nel pensiero. E i rintocchi, che udiva battere ostinati dietro le
spalle, gli infondevano una temenza oscura, quasi il presentimento
d’una notizia triste che l’aspettava insidiosa là su la spiaggia.

Disse Flavia, osservando sempre intenta il corteo delle fiaccole:

— Passano ora il ponte; vanno verso Ceresolo. Chi sa dove abita il
moribondo?

Soggiunse poi con la voce più fioca, come parlasse tra sè:

— La morte! Ecco ciò che tutti ci uguaglia!...

Aurelio, alzando gli occhi verso la fanciulla, ebbe un fremito
profondo. Quelle parole precisavano la causa del suo sgomento. Oh sì,
era la Morte ch’egli temeva; era il fantasma della Morte che projettava
una prolissa ombra nera nella sua mente. La Morte poteva da un momento
all’altro precipitarsi di nuovo nella sua casa, cui aveva già tanto
devastata, e annientare in un colpo tutto il suo bene. Sua nonna era
per essa una facile preda, una vittima pronta; bastava un debole soffio
perchè si spegnesse la fiamma di quell’esistenza, che ogni giorno più
si vedeva infievolire e attenuarsi, consunta dall’età e dal male.
Egli non avrebbe potuto far nulla per contendere alla Distruzione
la vita della sua cara; egli, quando fosse scoccata l’ora fatale,
avrebbe dovuto assistere impotente spettatore al lugubre dramma, che
gli toglieva senza colpa e senza ragione l’ultimo conforto. — Ma che
sarebbe poi stato di lui? E come, solo, avrebbe vissuto nella casa
squallida e severa, che le imagini de’ suoi maggiori, appese alle
pareti, rendevan simile a una critta foderata di lapidi?

Gli occhi di Flavia parvero leggergli nel pensiero e rispondere alle
sue domande angosciose. Fissi su lui, intorbiditi come da un velo di
pietà e di tristezza, essi ricantavano ora più forte il poema della
seduzione, essi ripetevan con maggiore eloquenza il dolce invito alla
Gioja! «Perchè t’affliggi, giovine?» dicevano quegli occhi di donna:
«Perchè non domandi alla vita quel bene, quell’unico bene ch’essa
largisce liberalmente a tutti i nati? Guardami: io son colei che
potrebbe confortarti nella sventura; io son colei che potrebbe prendere
il posto di quella che sta per lasciarti. Amami, sacrificami il tuo
inutile orgoglio, ed io ti allieterò la casa squallida e severa con la
mia beltà e la mia giovinezza.»

Sotto quegli sguardi armoniosi come un canto, la confusione del
giovine crebbe, si trasformò, divenne un’ebrezza tenera e imaginosa,
una specie di spasimo spirituale, misto di temenza e di gaudio. Egli
sentiva il cuore gonfio e convulso, sentiva affluire a fiotti il
sangue al cervello, sentiva l’anima ammorbidirsi e sciogliersi come
fusa da un calore supremo. L’angosciosa mobilità del suo pensiero
s’acquetava; pareva che tutto il suo mondo interiore si dissolvesse in
guisa di nebbia e vanisse rapidamente, disperso da una raffica, nelle
profondità d’un cielo oscuro come quello che si schiudeva sopra il suo
capo. Alcune frasi liriche, inaspettate, si abbozzavano a intervalli
nella sua mente, illuminandola con la fugacità frenetica di lampi:
«Oh, dimenticare tutto, tutto, tutto... Fuggire lontano, molto lontano
dagli uomini in un paese vergine, selvaggio, primaverile... Esser solo,
forte e libero in cospetto della Bellezza... Amare, inebriarsi d’amore,
vivere e morire in un’estasi sublime senza pensieri, senza rimpianti,
senza dolore...» Era il gran Sogno che incominciava, il Sogno
dell’eterna passione umana. Era un desiderio fatale d’integrazione, di
struggimento, di creazione che lo accendeva, ch’esaltava la sua anima
per modo che ogni imagine vi si riproduceva alterata sotto forma di
poesia. E i frammenti del carme immortale continuavano a succedersi
dentro di lui, abbaglianti e sonori, sempre più tenebrosi e sempre più
incantevoli, spontanee polle d’Arte scaturite dai più densi misteri
della Vita.

Gli passava da presso la Felicità, ed egli udiva bene nel silenzio
della notte il rombo delle sue ali; egli sentiva l’aria scossa e
turbata dall’eterna Chimera proteiforme, dietro a cui gli uomini volan
travolti, come foglie nel vento d’un traino impetuoso.

— Rallenti, ci siamo, — disse Flavia con la voce spenta.

Quando ebber lasciata la barca, Aurelio, quasi dimentico di lei, ascese
solo in corsa la spiaggia verso il palazzo. Si vedevano ancora tra
i fusti sottili dei salici e dei gàttici tremolare sinistramente le
fiamme della processione, che s’allontanava salmodiando verso Ceresolo.

Sul rialto eran sedute, in aspettazione di Flavia, la signora Boris e
Luisa.

— La mamma? — chiese Aurelio, trafelato dalla corsa, senza lasciarle
parlare.

— È rientrata, sarà una mezz’ora, — rispose la signora Boris: — non si
sentiva bene..

«Lo sapevo! Lo sapevo!» gridò una voce nel cuore del giovine. Ed egli,
senza salutare, si volse, attraversò velocemente il cortile, salì gli
scalini a due a due tra le tenebre, si trovò con il respiro strozzato
dall’affanno d’avanti alla porta della camera di sua nonna.

Aperse, dopo una breve pausa.

La stanza era avvolta in una penombra bronzea e oscillante. Il gran
letto pareva nel mezzo un catafalco funebre, alto com’era e senza
sporgenze nè a capo nè a piedi; e in torno era un vuoto di squallore.
Sul comodino una candela tutta consunta mandava fumigando gli ultimi
bagliori a scatti, come palpiti d’anima moribonda.

Su le prime Aurelio credette che donna Marta fosse già discesa,
dimenticando di spegnere il lume. Poi, d’improvviso, egli la vide là
distesa, supina sul letto, ancor tutta vestita e con gli occhi chiusi,
forse assopita, forse svenuta, forse forse...!

Gittò un’esclamazione rauca, congiungendo le mani in atto di stupore
e quasi di preghiera. Si precipitò verso di lei, mormorando tra i
singhiozzi:

— Mamma! Mamma! Mamma!



VII.

AL BIVIO.


Era l’ora più calda del giorno.

Aurelio aveva esplorato i sentieri che corrono su la collina tra Cerro
e Laveno, quei sentieri a pena praticabili che, già un tempo comodi e
spaziosi, servirono ai soldati d’Austria per salire al forte, piantato
su la vetta e ora interamente distrutto.

L’altura recava ancora le tracce del vandalismo militare, che per
lungo periodo vi aveva regnato: nessuna coltivazione su quel pendìo
dolce e terrigno dove sarebber potuti prosperare al bacio d’un sole
benefico le viti e i frumenti; allignavano in vece tra l’intrico delle
viottole sabbiose, l’erbe e gli arbusti selvatici, cespugli di ginepro
e di timo, ciuffi di ginestre, folti tappeti di muschio e di menta,
spandendo in torno l’odore aspro e aromatico delle altitudini alpestri.
Non una macchia d’alberi d’alto fusto sorgeva a perdita d’occhio su i
fianchi del colle arcigno, a romperne con l’ombra la radura solatìa:
così gli antichi dominatori lo avevan voluto nudo e libero, come una
rocca, contro le insidie nemiche. Solamente in alto, presso la sommità,
una novella vegetazione di castagni era da pochi anni cresciuta,
e ondeggiava docile al vento su i ruderi della trista tirannide
straniera.

Dopo aver girovagato a lungo e senza scopo per la collina, Aurelio
Imberido, oppresso dalla caldura, s’era rifugiato al rezzo tenue di
quella selva adolescente, in un punto pittoresco di fronte al lago. Ora
immobile e distratto, con gli occhi smarriti nella luce, riposava il
corpo affaticato, steso su l’erba come sopra un giaciglio.

Da qualche giorno quella era la sua vita: i luoghi circostanti non
avevan più segreti per lui; egli aveva percorso ogni sentiere, era
penetrato nel più fitto delle boscaglie, aveva scoperto le vallucce
più nascoste, asceso i pendii più ripidi, superato i passi più ardui.
Un bisogno istintivo di moto, di distrazione, di stordimento lo
spingeva all’aperto appena si trovava solo, d’avanti al suo lavoro
divenutogli omai più che impossibile, intollerabile. Qualunque sforzo
della volontà, qualunque freno della ragione rimanevano irriti contro
l’inquietudine che ferveva nelle profondità del suo essere. Egli
doveva uscire di casa e camminare; egli doveva fuggire sè stesso per
ritrovarsi a ogni sosta, a ogni svolta della via e riprender da capo
disperatamente la sua inutile fuga.

In quei giorni le relazioni tra le due famiglie in palazzo eran
divenute più strette e più cordiali; omai si poteva dire che donna
Marta e le signore Boris vivessero in una specie di comunione
familiare, ritrovandosi sùbito dopo i pasti, facendo le medesime
passeggiate, trascorrendo insieme i pomeriggi più caldi nella frescura
del cortile o in giardino al rezzo della pineta, e le lunghe serate
sul rialto in vista del lago e del tramonto. Aurelio non era sempre
in compagnia delle donne. Pareva anzi che cercasse di sfuggirle,
di sottrarsi ai loro inviti, di tenersi estraneo più che poteva
a qualunque maggiore intrinsechezza con le vicine. Ogni sera però
regolarmente compariva sul rialto e rimaneva a conversare con esse fino
al momento in cui tutte si ritiravano nei loro appartamenti.

Le gite in barca s’eran ripetute soltanto per due volte, prendendovi
parte anche le madri, e poi, interrotte da una giornata piovosa, non
erano state più riprese; si eran fatte in vece alcune brevi passeggiate
a Ceresolo, verso il Fortino o verso Mombello, ma ben presto si era
dovuto rinunciare anche a queste per la salute di donna Marta, afflitta
in quei giorni da una recrudescenza oscura de’ suoi mali. Si passavan
dunque i lenti vesperi estivi invariabilmente d’avanti al palazzo, come
nei primi tempi, le giovini distese su l’erba dello scalere e le madri
sedute nelle loro poltroncine sul piano del rialto; e l’abitudine di
quel ritrovo e l’immobilità prolungata rendevan ciarliere le quattro
donne, favorivano il fluido e vano chiacchiericcio femminile, lasciando
il giovine muto e come dimenticato nel suo angolo a contemplare con
occhi spenti l’immutabile paesaggio e a ruminare dentro di sè propositi
vani di liberazione.

Egli sedeva di solito su la lastra di granito infissa nel muro,
dietro le due signore; qualche volta, per incitazione di donna Marta,
discendeva fin sul margine dello scalere, e si collocava sempre a
fianco di Luisa, deliberatamente. Tra lui e Flavia, dopo la loro gita
in barca, pareva che per ragioni occulte fosse scoppiato un sordo
contrasto, un dissidio profondo delle anime che li teneva lontani,
inconciliabili, sdegnosi o paurosi d’un avvicinamento. In quei convegni
crepuscolari, essi non si rivolgevan mai direttamente la parola se
non costretti dalla necessità; non si fissavan mai negli occhi, o
almeno ciascuno dei due cessava di guardar l’altro appena i loro
sguardi s’incontravano; non si stringevan mai la mano per saluto nè
all’arrivo nè alla separazione. Il contegno gelido e quasi ostile di
Flavia era certo per Aurelio una tortura senza nome; ma, nei momenti di
riflessione, egli lo sapeva intendere e giustificare con il suo stesso
contegno altrettanto freddo e sostenuto. Ciò che più l’angustiava e
l’irritava era in vece la loquacità spontanea di lei, la facilità con
la quale ella prendeva parte alla scipita conversazione generale, la
festività imperturbabile delle sue parole e de’ suoi atteggiamenti.
Questo egli non sapeva comprendere; questo non sapeva scusare: questo
offuscava costantemente la sua ragione, come un’offesa brutale e
ingiusta ch’ella ogni sera gli lanciasse in viso.

Quando si trovava solo nella sua camera già occupata dalla notte,
la ribellione del suo spirito prorompeva alfine senza ritegno. Egli
sentiva crescere il suo dispetto contro Flavia e crescere la sua
umiliazione per la passività colpevole con cui si prestava a quel
martirio quotidiano; sentiva che un atto d’energia si richiedeva
senz’indugio per distruggere il fascino maligno che lo dominava e
riconquistare l’indipendenza e la serenità necessarie al suo lavoro.
Non gli pareva ormai più possibile di continuare una vita simile; ed
egli, come i giorni passavano senza rimedio, si rivoltava contro sè
medesimo, ricercava dentro, con una smania puerile, le cause di quella
sua nuova debolezza, i motivi d’un turbamento così grave delle sue
facoltà.

Una ripugnanza suprema gli si levava dalle radici dell’essere, al solo
pensiero ch’egli potesse amare quella creatura frivola e sdegnosa;
che dovesse un giorno invocare da lei la pace perduta, la forza di
sopportare un’esistenza affatto diversa dal suo sogno. — No, non
l’amava, non l’avrebbe mai amata. Volgendo ora a Flavia il fuoco della
sua mente, provava egli forse un movimento di simpatia intellettuale
o morale per lei, un fremito passaggero di tenerezza, il più tenero
desiderio di sensualità? No, non provava nulla di tutto ciò; egli si
sentiva il cuore arido e gelato come non mai. La sua inerzia dolorosa
doveva aver dunque ben altre origini; ma quali, quali? — Nel più
forte dell’incertezza, per allontanarsi vie più dall’ipotesi temuta,
egli s’indugiava allora a esaminare con maggior pacatezza lo stato
delle cose e dell’anima sua, a indagare dentro e fuori di sè tutte le
cause possibili del male ond’era afflitto; e a mano a mano riusciva a
illudersi con le più umili supposizioni, ora riversandone la colpa su
la nonna che insisteva per volerlo trascinare con sè, ora imaginando
un’infermità del suo sistema nervoso che l’assiduo studio e l’intensità
delle concezioni dovevano avere affranto e debilitato.

Esaurita l’indagine, gli pareva d’esser calmo e libero d’ogni timore:
voleva coricarsi e dormire, ma un impulso cieco lo spingeva d’un
tratto verso il balcone, dov’egli rimaneva lungamente immobile e ritto
nell’oscurità, ad ascoltare commosso il gorgoglio delle acque nel
giardino o il grido querulo dei gufi nelle altitudini della pineta.

Oh, quelle notti tepide, senza luna, che abissi riflettevano
nell’anima del giovine, china per la prima volta su gli abissi sacri
del Divenire! Il cielo fecondo, scintillante d’astri, talvolta a pena
attraversato da un’ala di nebbie, spiegava sul suo capo un poema di
gioja e di passione; la campagna muta e nera spingeva verso di lui
un profumo inebriante di fiori e di resine, il vasto alito della
vegetazione in atto di crescere e di moltiplicarsi; il vento, che a
tratti esagitava le tenebre, gli accarezzava la fronte, gli mormorava
all’orecchio parole divine, rotti sospiri, gridi giubilanti, tutta la
sublime sinfonia della Voluttà che il mistero delle notti protegge
e consacra. In quel viluppo d’apparenze incantevoli egli a grado a
grado s’obliava, si semplificava, smarriva ogni facoltà di critica e
d’analisi, ogni vanità e ogni timore: si sarebbe detto che l’essere
primordiale e selvatico si risvegliasse in lui, uscisse libero, fresco,
infantile dalla spoglia artificiale che l’opprimeva. E questo essere
si sentiva languire nella solitudine, spasimava di desiderio, agognava
febbrilmente a utilizzare la sua fugace giovinezza, a crescere, a
fiorire, a concedersi e a possedere, in un immenso slancio verso la
felicità che integra e che crea. E l’imagine di Flavia, della Donna
conosciuta e vicina, gli si levava nel pensiero, sorgeva alta e fulgida
come un sole nel cielo del suo Destino.

Ma l’incanto dell’Ombra e del Silenzio finiva: sopraggiungevan la
stanchezza, lo snervamento, il bisogno fisico di mobilità e di luce.
Il giovine si scoteva, si ritirava dal balcone, rientrava nella camera
a passi incerti, con gli occhi umidi e tardi, con il cuore oppresso
come da un peso immane. E il noto ordine dei mobili, la rossastra
fiamma della candela, la tavola coperta di libri e di fogli dissipavan
gli ultimi residui del sogno inutile, richiamandolo tosto all’amara
realità della sua vita, alla consapevolezza del suo triste ideale, de’
suoi rimpianti, de’ suoi vani propositi di liberazione e di lavoro.
Egli, affranto e disperato, si gittava sul letto e invocava dal sonno,
dall’unico consolatore dei deboli e degli inetti, il riposo d’un’ora,
l’oblìo mortale di sè stesso e del mondo.

Così i giorni succedevano ai giorni senza rimedio, senza novità, senza
mutamenti; e luglio in tanto era venuto e inoltrava, un luglio torrido
e polveroso, essiccato da un chiarore feroce, petrificato dall’assidua
bonaccia dell’aria e dell’acqua, immobili come cristalli.

A rompere la torbida monotonia di questo periodo, un dubbio nuovo
e inatteso era piombato d’improvviso la sera innanzi nell’anima
dell’inerte, scotendone la volontà, svegliandone la coscienza,
illuminandone la ragione. Non era stato che un attimo, un lampo, uno
di quei bagliori fuggevoli che incendiano per poco l’oscurità e si
spengono; ma in quell’attimo la latebra d’un’altra anima s’era svelata
a’ suoi sensi, e un dubbio era sòrto, il dubbio dolce e tremendo d’una
grande cosa ch’egli non aveva avuto il tempo di desiderare, prima di
conoscere e di temere. Aveva forse traveduto? Era stata un’illusione?
era stato un inganno o un giuoco? Non importava. La cosa era possibile,
se anche non certa. E la sola possibilità valeva per lui, che non aveva
saputo presupporla, quanto una rivelazione.

La sera innanzi donna Marta, assalita durante il pranzo da uno de’
suoi più fieri accessi d’asma, non s’era potuta presentare al solito
convegno vespertino d’avanti al palazzo. Dopo esser rimasto per una
lunga ora ad assisterla e a confortarla durante il parossismo della
crise, Aurelio l’aveva lasciata in custodia di Camilla ed era disceso,
per volontà della nonna stessa, a giustificare presso le vicine
l’assenza di lei. Le signore Boris, consigliate dall’insolita caldura
del tramonto o stanche forse d’aspettare, avevano abbandonato il luogo
di ritrovo per fare un breve giro in barca nelle vicinanze; si vedeva
in fatti, su lo specchio lucido delle acque a un centinaio di metri
dalla riva, la lancia dalla banderuola azzurra, che volgendo la poppa
s’allontanava sempre più.

Un po’ seccato dal contrattempo, egli stava già per rientrare in casa
quando d’un tratto una voce forte dalla parte dell’arsenale, la voce di
Flavia lo aveva chiamato.

— Come qui, signorina? — egli aveva chiesto, confuso e intimorito di
trovarsi solo con lei dopo tanti giorni.

— Ohimè! aspetto da dieci minuti Ferdinando, ch’è in baldoria
all’osteria della Pace. Ho mandato sua moglie a cercarlo, ma sembra
ch’egli non abbia intenzione di scomodarsi per me questa sera!...
Volevo seguir la mamma col mio nuovo sandalino, ch’è stato messo in
acqua jeri per la prima volta... Un capolavoro d’eleganza, vedrà!..

Ella aveva anche soggiunto sorridendo:

— Le confesso però che non mi sento totalmente sicura nella mia nuova
imbarcazione.... Se lei volesse avere la bontà d’accompagnarmi, mi
farebbe proprio un favore.... C’è sempre l’altro sandolino a sua
disposizione, quello di Luisa.

Il vecchio barcajuolo era apparso in quel punto, sbuffando e
barcollando, e Aurelio passivamente l’aveva seguita.

Erano usciti così dalla darsena, al fianco l’uno dell’altra su i
due legni minuscoli, oblunghi e puntuti come spole. Il vespero era
inoltrato; ogni rossore sopra le Alpi era spento; il lago, livido
e vasto, stagnava; in mezzo al lago, lontanissima in apparenza, la
macchia della lancia spiccava informe, nera, immota, simile a un
piccolo scoglio emergente dal lividore.

Poichè Flavia taceva, Aurelio, intenerito dalla mesta serenità del
paesaggio e dai residui delle ansie recenti, aveva incominciato a
parlare del male di donna Marta, delle sue apprensioni per la frequenza
di quei minacciosi accessi d’asma che avrebber potuto una volta o
l’altra soffocarla. Stimolato poi dall’atteggiamento confortevole
della compagna, egli aveva continuato a discorrere, con un insolito
abbandono, di sè stesso, della sua misantropia, del suo attaccamento
esclusivo alla nonna, ch’era stata per lui più che una madre, tutto,
tutto; aveva dato in fine libero sfogo al più recondito e doloroso
suo pensiero, descrivendo le conseguenze terribili della sventura che
gli sovrastava: la solitudine del domani, le incertezze d’un avvenire
irto di difficoltà e di privazioni, senza il conforto d’un affetto,
senza un appoggio, senza una casa. E a poco a poco s’era commosso,
i glauchi occhi velati gli eran divenuti lucidi e tremanti, due
lacrime improvvise erano apparse di tra le palpebre, gli avevan rigato
incontenibili le guance.

Flavia, ascoltandolo con un’attenzione intensa, fissava su lui uno
sguardo carico di maraviglia e di pietà, non senza una sottil punta
d’ironia. Due volte solamente aveva fatto un cenno di diniego col capo,
quand’egli le aveva espresso il dubbio che la nonna morisse; poi era
rimasta ferma e silenziosa ad assaporare il gusto delle sue parole,
come avesse temuto con un gesto, con un’interruzione di risvegliare la
sua diffidenza e di turbare l’inconscia sincerità della confessione.

Quando in fine Aurelio s’era taciuto, sollevato dallo sfogo ma un po’
vergognoso della sua commozione, ella aveva parlato, lentamente, con la
voce grave, guardando il vuoto d’innanzi a sè, avendo su la fronte una
lunga ruga pensosa tra ciglio e ciglio.

— Come vuol bene a sua nonna! — aveva detto. — Io non avrei mai
supposto un sentimento così profondo in lei: l’avevo giudicato male,
e lo confesso. Io la credeva freddo, indifferente, incapace d’amare,
un po’ per egoismo e molto per orgoglio. Quei pochi discorsi che
abbiamo avuti insieme, mi avevano fatto supporre ch’ella fosse uno di
quegli uomini forti che sdegnano qualunque affetto, qualunque legame,
qualunque sacrificio, per meglio riuscire al proprio scopo. Ella in
vece è tutt’altro, ella è un uomo di cuore, di molto cuore...

Aveva soggiunto, dopo una pausa:

— Grazie; grazie, signor Aurelio, d’avermi creduta degna di conoscerla
e di poterla apprezzare.

Ed eran proceduti, senz’altre parole, verso le lontananze che
l’oscurità incominciava ad assorbire, ambedue diversamente turbati:
Aurelio sentendo piovere su l’anima il refrigerio di quell’elogio
impreveduto; Flavia assaporando ancora la dolcezza di quelle
imprevedute confidenze. E le due vite, disgiunte sempre da un ostacolo
immane, s’eran protese con tutte le forze loro una incontro all’altra.

Ella d’un tratto aveva lasciato il remo, mormorando:

— Sono stanca!

Egli pure, nello stesso attimo, aveva cessato di vogare e s’era fermato
accanto a lei, come vinto da un accasciamento improvviso.

La notte era discesa: su le acque il chiarore del crepuscolo s’era
ristretto intorno ai due piccoli schifi come un cerchio cinerino;
al di là l’ombra aveva avvolto ogni cosa in una nebbia azzurra,
imperscrutabile. La lancia lontana, in quella nebbia, era scomparsa.

I due giovini s’eran trovati così, soli e come perduti in una
immensità, vicinissimi sebbene ancor divisi da una sottil lingua
liquida, da un abisso. Non si guardavano, non parlavano, non avevan
cercato d’accostarsi, immobili entrambi su i loro legni immobili. Ma
una virtù misteriosa li aveva sospinti dolcemente uno verso l’altra,
li aveva insensibilmente approssimati, aveva fatto sì che l’abisso
tra loro si chiudesse e le due spole natanti, attraendosi a vicenda
e scivolando silenziose su l’acqua, giungessero fino a combaciare.
All’urto lieve dei legni, essi s’erano scossi sorridendo, s’eran
guardati negli occhi con un’espressione infinitamente lusinghevole; e
Flavia aveva levato con atto pigro una mano dal grembo, aveva preso in
pugno i due bordi perchè di nuovo non si staccassero.

Qualche minuto d’oblio supremo era passato sopra di loro nel crepuscolo
deserto. — Esisteva una Umanità? Esistevano altri esseri su la Terra?
Non eran plaghe sconosciute e inospiti quelle che si stendevano
nell’ombra, oltre il cerchio ancor luminoso che avvolgeva le barche
come un cerchio di magìa? Non bastavan forse le loro due vite per
animare tutto il creato? — Certo, Aurelio aveva avuto in quel breve
lasso di tempo la ferma persuasione d’un’assoluta solitudine intorno
a loro, il sentimento netto e definitivo della loro sufficienza in
un’assoluta solitudine. E, inconscio e risoluto, provando il bisogno
imperioso d’unirsi all’altra creatura superstite d’un mondo inutile
e distrutto, di sentirla, di mescolarsi perdutamente con lei, aveva
posata la sua su la gracile mano femminile che, spontanea al contatto,
s’era rivolta, quasi per offerirsi tutta quanta al suo desiderio.

Oh, quella lunga stretta concorde, che solco vivo di passione aveva
lasciato su le loro palme! E che grande rivelazione era stata più tardi
per il giovine, ingenuo e sensibile ancora come un adolescente!

Rientrando in casa, egli, dopo essere passato da donna Marta e
averla trovata calma e dormente, era corso nella sua camera, vi si
era richiuso a chiave, aveva spalancato i battenti del balcone per
esalare alfine liberamente in un gran sospiro la piena interna della
sua esaltazione, trattenuta fino a quel punto dal pensiero della
nonna sofferente. Che notte, quella! Che notte! Egli non ne ricordava
una simile in vita, nè credeva che fosse possibile di superarne
una più agitata e più folle! Egli aveva riso, aveva pianto, aveva
percorso volte infinite in su e in giù la vasta camera, era rimasto
ore intere immobile sul balcone, ascoltando il tumulto del suo cuore
sul fremito immenso della campagna tenebrosa. Da scoppii d’entusiasmo
indescrivibili, in cui tutta l’anima sua s’era lanciata a volo verso il
cielo, era piombato subitaneamente in prostrazioni supreme, in mortali
desolazioni, durante le quali la terra non gli era parsa a bastanza
profonda per nascondere la sua miseria. Aveva visto a vicenda le più
fulgide speranze dissolversi in paurose ansietà, i dubbii più laceranti
trasformarsi per prodigio in ebre, impazienti aspettazioni di gioja.
Mille volte egli s’era detto: «Bisogna fuggire, non più avvicinarmi a
lei, non più vederla, mai, mai!» Mille volte s’era chiesto: «Perchè non
vado ora a battere alla sua porta e non la chiamo sùbito a me?» E tre
parole, tre sole parole — un canto, un poema — non avevan mai cessato
di ripetersi nel suo cervello sopra i timori, sopra le speranze, su i
propositi di rinuncia, su i propositi di conquista: «Ella m’ama! Ella
m’ama! Ella m’ama!»

Che mutamento era dunque avvenuto in lui durante il breve letargo,
in cui era caduto ai primi chiarori dell’alba con il dolce nome
ancora impresso su le labbra? Per qual segreto processo il gran
fuoco divampato quella notte nella sua anima, s’era così rapidamente
consunto, ed egli, risvegliandosi, non aveva trovato se non un gran
cumulo di cenere arida e fredda?

Quella mattina, sorpreso dal sole, ch’era penetrato per l’aperto
balcone fino al suo letto, Aurelio non aveva avuto che un ricordo
confuso degli avvenimenti e delle commozioni della sera innanzi.
Il tremendo accesso d’asma della nonna sua, che l’aveva tenuto
un’eterna ora in cospetto della morte ad aspettare il rantolo estremo;
l’incontro fortuito con Flavia presso l’arsenale; le proprie spontanee
confidenze; le parole lusinghevoli di lei; la loro stretta di mano
eloquentissima nella solitudine del lago oscuro; l’ansietà che lo aveva
incalzato in vicinanza del palazzo al pensiero improvviso dell’avola,
dimenticata durante quel tempo; la sovreccitazione quasi febbrile di
gioja da cui era stato preso in vederla calma e assopita; e poi le
deliranti agitazioni nella sua camera, gli impeti alterni di tenerezza
e di rivolta, la vicenda vertiginosa delle risoluzioni e degli
scoraggiamenti, i magici sogni vissuti a occhi aperti d’avanti alla
maestà della notte, — tutto al risveglio gli era tornato in confuso
alla memoria dopo la prima stupefazione, trovandosi disteso sul letto,
nel sole mattutino, ancora interamente vestito e così stanco come dopo
una burrascosa notte di piaceri.

Un movimento brusco di dispetto contro sè medesimo lo aveva fatto
balzare a terra; lo aveva spinto con violenza a chiudere le imposte del
balcone, per ricacciare indietro quella luce invadente che gli dava una
specie di sbigottimento misto di rabbia e di molestia. Doveva esser
tardi: il giardino, visto come a traverso un cristallo leggermente
torbido, languiva già sotto un’afa opprimente; nella camera, spalancata
da parecchie ore al gran sole, si soffocava. Egli, dopo avere immerso a
più riprese il capo nell’acqua, era uscito immediatamente su la loggia
ancora in ombra, s’era trovato senza volerlo d’innanzi alla porta di
donna Marta, aveva aperto, era entrato.

La nonna, in un disordine fantastico, stava assisa alla specchiera,
e Camilla, in piedi dietro lei, era in atto di pettinarne le lunghe
trecce argentee. Ridevano entrambe così allegramente nell’ilare
splendore della mattina estiva, che il giovine, apparso su la soglia
in aspetto quasi funereo, aveva dovuto atteggiar sùbito il volto a un
sorriso di maraviglia e di simpatia.

Egli s’era seduto accanto alla vecchia, aveva ascoltato per la
centesima volta una delle molte barzellette tradizionali, ch’ella si
piaceva di raccontare nei momenti lieti e a seconda delle occasioni.
Era poi disceso al suo braccio in sala da pranzo, dove aveva atteso
pazientemente l’ora della colazione, temendo sempre di rimaner solo,
sperando di sottrarsi in compagnia di lei ai rimproveri e ai sarcasmi
che sentiva formicolare incessantemente in fondo al suo pensiero. In
fine, quando ella era salita di nuovo in camera per riposarsi, s’era
lanciato all’aperto, verso i boschi ombrosi della valle, poi su su per
la china aspra e solatìa finchè stanco, madido, accecato dal bagliore,
s’era lasciato cadere su l’erba al rezzo dei giovini castagni, presso
la sommità del colle arcigno.

Là, nella inerzia ristoratrice, udendo sopra il suo capo stormire le
fronde, contemplando con occhi piccoli la placida ridente distesa del
lago, egli rivisse, non più in confuso, lucidamente, pacatamente,
l’ora insidiosa delle confidenze, dei conforti e dei silenzii.
All’eccitazione enorme della notte era succeduta una languida apatia,
uno stato d’esaurimento sentimentale assai propizio alla riflessione
serena dei fatti e al giusto discernimento delle conseguenze e delle
prossime opportunità; le distrazioni della mattina avevan lasciato
calmare la rivolta morale, avevano estenuato negli inutili assalti
i rimproveri e i sarcasmi della sua coscienza irritata. Egli poteva
dunque giudicare e deliberare; egli poteva veder chiaro in sè e
intorno a sè, illuminare col fuoco della pura intelligenza l’errore
del jeri e gli smarrimenti possibili del domani; poteva discernere
ancora nettamente la mèta lontana, che s’era imposta, e rintracciare il
cammino più diritto per raggiungerla.

Egli si domandò freddamente: «Che avviene dunque in me? Che vado
facendo da un mese a questa parte? Come e perchè mi trovo tanto mutato
in poco tempo? Sono io infermo? E il mio male è un male fisico, o non
piuttosto un male della volontà, dell’intelligenza, del sentimento?»
Era inutile negarlo; egli si trovava veramente mutato, così mutato
che a stento riusciva a riconoscersi; si trovava pieno d’inquietudini
dianzi sconosciute, d’ansietà misteriose, di desiderii inafferrabili,
incerto, svogliato, indifferente a tutte le cose che prima lo
appassionavano, incapace d’uno sforzo mentale come d’un qualunque atto
d’energia. Da più d’un mese egli trascinava una vita desolante, senza
ordine, senza idee, senza occupazioni, che simile non avrebbe mai
supposto di poter tollerare; e, non ostante l’immenso vuoto, i giorni
volavano, si disperdevano nel nulla con una rapidità portentosa. Pareva
che fosse sopravvenuta in lui un’altra personalità nel luogo della sua
propria, una personalità primitiva, elementare, che poteva pascersi
di semplici sensazioni, svolgersi naturalmente senza il sostegno
d’un’idealità o d’un’ambizione, accettare oscuramente l’umiltà della
sua essenza, creata per uno scopo a lei inconoscibile.

Malato di corpo egli certo non era. Al contrario, godeva una salute
nuova, non mai avuta, resistente a ogni fatica fisica, a ogni più
grave trambusto morale: il suo sangue fluiva libero e gagliardo nelle
vene; i suoi muscoli s’irrobustivano; il suo viso, di solito pallido
e sfiorente, sfoggiava vivacità di coloriti, freschezza di carni,
limpidità di sguardi, ch’egli sùbito dopo l’adolescenza aveva perdute.
Assolutamente, doveva riconoscerlo, non era mai stato così bene come
in quel tempo; non mai s’era sentito così sano, così forte, così
leggero. E l’aspetto esterno quanto l’interno benessere escludevano
quei disturbi al sistema nervoso, ch’egli tante volte aveva addotti,
illudendosi, a giustificazione della sua inerzia spirituale. «Ma
dunque, non poteva esserne questa stessa la causa?» egli si domandò.
«Il suo mutamento di carattere, d’abitudini, di tendenze non dipendeva
forse da quell’insperato ritorno della salute, da quel soverchio
rigoglio di giovinezza, da quella specie di tarda primavera che gli
fioriva di nuovo maravigliosa nelle fibre?»

Egli sorrise, scotendo malinconicamente il capo. — Ohimè, no, no,
non era più il tempo d’illudersi: colpevole è quell’illusione che può
per altri divenire un inganno! — Egli ben sapeva che la vita oziosa e
spensierata di quei giorni non conseguiva dalla salute, ma piuttosto
questa da quella. Egli sapeva che altra era la causa vera di tutte
quante le novità che l’occupavano: omai dopo le commozioni della
sera precedente, dopo gli strani turbamenti dell’ultima notte, essa
gli appariva più che possibile, necessaria, evidente, irrefutabile.
Bisognava però proferire la gran parola; bisognava riconoscere la
grande cosa; bisognava confessare coraggiosamente la propria fragilità:
«Egli amava; egli, al meno, stava per amare!»

Nessuna confessione sarebbe stata per Aurelio Imberido più grave e più
incresciosa di questa. Nelle sue teorie di filosofia pratica, l’Amore
rappresentava una degradazione, una vilificazione della personalità,
un’indegna rinuncia della propria superiorità di vita e di pensiero;
l’Amore era la funzione bruta e immonda, comune a tutti gli esseri
vivi, che indicava chiaramente l’ignominia delle nostre Origini, — che
rammentava il Passato bestiale, la lenta evoluzione della putredine
terrestre verso un progresso apparente, verso un perfezionamento
relativo e inutile delle Specie, legate pur sempre alle basse necessità
dell’esistenza, sempre sottoposte alle leggi incommutabili che regolano
il trasmutare della materia organica. Egli negava risolutamente ogni
elevazione morale nell’Amore: avendo a lungo meditato su i libri di
storia e su le opere d’arte, s’era convinto che tutte le più celebrate
passioni erotiche avevan distrutto e non mai edificato, erano state la
ruina d’uomini insigni e di stirpi gloriose, avevano sparso in torno
l’infelicità, la sventura, la morte. E, osservando quotidianamente i
casi comuni della vita, aveva appreso che il sentimento dell’amore,
cantato dai poeti, magnificato dalle masse, non era in verità se non
il desiderio tantalico dell’amplesso, un impulso veemente verso l’atto
finale, una fiamma selvaggia e divoratrice che l’indugio rinfocava e
il possesso come per incanto spegneva, coprendone pietosamente con le
ceneri l’ardore fittizio dei sonanti vocaboli, delle vane promesse, dei
propositi generosi e sublimi.

Ma non ancora per queste considerazioni astratte Aurelio Imberido
temeva e respingeva l’Amore: era in vece per l’influenza malefica
ch’esso esercita su gli uomini d’intelletto, su i lottatori per
l’Ideale, in ispecial modo su quei Pochi capaci di belle imprese
e di superbi disegni. Caduti nel dominio della passione, sorpresi
dal primo brivido della sacra febbre, questi come gli altri tutti
dimenticano facilmente la loro missione, i loro doveri, i loro scopi;
divengono indifferenti a ogni lusinga gloriosa, ribelli a qualunque
fatica e a qualunque arduo tentativo; non vedon più con i loro occhi
mortali che l’Oggetto unico onde dipende omai la loro salvezza o la
loro perdizione. Da quel punto lo spettacolo del mondo s’eclissa;
l’esistenza diventa per essi un’azione continua e affannosa; i loro
pensieri e i loro fatti non tendon più se non al successo sessuale,
all’egoistica conquista del Piacere. E gli Eletti, dalle altitudini
a cui s’eran levati, retrocedono precipitando verso le bassure
originarie, smarriscono ingegno e volontà, vanno a confondersi
fatalmente con gli infimi, occupati a vivere, a godere, a conservare
per proprio diletto la Specie che non deve finire.

Quante ascensioni interrotte! quante carriere sviate o infrante!
quante energie disperse! quante primavere gelate! Quanti fiumi,
gonfii da fecondare immense contrade, s’inaridirono sul seno della
Donna, nudo, morbido, cocente come le sabbie d’un deserto! Questa,
l’eterna Sirena, non comprese e non ammirò mai gli esseri superiori,
o troppo forti o troppo belli: li umiliò, disamandoli, e, amandoli, li
distrusse. Così, inconscia, compì nei secoli la sua terribile missione
espiatrice, ridendo, scherzando, cercando per giuoco la voluttà e la
prole; e non ebbe pure un palpito di riconoscenza o di pietà per le
sue grandi Vittime, quando le vide, già prossime a entrare nel paradiso
conquistato, accontentarsi ancora del misero destino comune e avviarsi,
per amore di lei, verso le Terre dell’Oscurità e della Morte!

Queste profonde cose il giovine ripensava in confuso, vagando con
gli sguardi sul calmo paesaggio lacustre, pieno di luce e di gajezza.
Alcune vele quadrate apparivano qua e là, dirette verso settentrione,
così tarde da sembrare immobili. Un piroscafo presso Intra lanciava
nell’aria un’enorme colonna di fumo nero, che si torceva in grosse
spire senza dissolversi. Le nevi del Sempione, in fondo alla valle
velata, erano pallidamente celesti e parevan fondersi nell’orizzonte.

«Ed io amo!» egli esclamò d’un tratto, interrompendo il corso delle
idee generali: «io, al meno, sto per amare!» Se pure la grande
passione, che inebria i sensi e offusca l’intelletto, non era peranco
scoppiata, i sintomi precursori, manifestatisi in lui, non eran dubbii
e l’annunziavano vicina; e alla stregua di quei sintomi il morbo
doveva esser fatale! — Occorreva dunque trovar sùbito un rimedio per
prevenirlo in tempo, per arrestare il progresso dell’infezione, per
riacquistare al più presto la sua salute morale e la sua incolumità. Ma
quale, quale rimedio?

Il più sicuro era ineffettuabile: egli non poteva lasciar la villa
senza la nonna sua, ed era certo che questa non l’avrebbe seguíto,
anzi che avrebbe contrastato il suo proposito con tutte le forze.
E, rimanendo, come avrebbe egli potuto evitare ogni occasione di
ritrovo con le signore Boris e specialmente con Flavia, che forse ora,
desiderandolo, lo avrebbe cercato? — E pure questo era necessario e
doveroso: necessario per la sua pace e per il suo avvenire; doveroso
verso la giovinetta, che poteva illudersi su le sue intenzioni e
soffrire immeritatamente per la sua debolezza.

Ma se la nonna o l’abitudine o la sorte lo avessero ricondotto presso
di lei? Se si fosse trovato un’altra volta solo con lei in uno di
quei momenti di tristezza e d’abbandono, in cui non si risponde dei
proprii atti e delle proprie parole? Se la catena fosse ribadita un
giorno, inaspettatamente, con una frase, con un gesto, in sèguito
a un movimento repentino e concorde delle due anime già pronte a
fondersi? Ciò non era fuori della possibilità: il cammino degli
uomini non è quasi mai segnato dai grandi fatti, preparati di lunga
mano e pazientemente voluti; ma dai piccoli episodii imprevisti,
dalle circostanze sempre mutevoli, dalle risoluzioni subitanee e
inconsiderate, che impongon poi serie responsabilità e provocano, come
dirette conseguenze, gli avvenimenti più gravi e decisivi della vita!

In tal caso, egli da un momento all’altro si sarebbe trovato di fronte
a un fatto compiuto, all’irreparabile, all’oscuro problema dell’amor
casto, della passione corrisposta e insodisfatta, al bivio spinoso
della conquista estrema o dell’estrema rinuncia!

Lentamente, trascinato dall’ardore dell’imaginazione, egli si diede a
esaminare questa possibilità, come già si fosse avverata; a sviscerare
con sottile analisi il problema, per ricercarne tra le varie soluzioni
quella che sola avrebbe salvato insieme il suo Ideale e la tranquillità
della sua coscienza. Pensava: «Io potrei sempre fuggirla, anche più
tardi, anche quando fosse sopravvenuto un accordo esplicito tra noi:
la partenza dalla villa mi separerebbe necessariamente da lei, e il
tempo e la lontananza sanerebbero poi ogni ferita. Ma, secondando in
questo modo gli eventi, non commetterei un’azione obliqua e sleale?
Non mi farei complice d’un inganno consapevolmente, volontariamente,
colpevolmente?» Aurelio si rammentò di quell’Altro, del primo adoratore
di Flavia, il quale aveva agito precisamente così ed egli aveva con
tanta severità giudicato; ed ebbe un moto di rivolta morale contro sè
stesso, contro il suo pensiero che s’era per un istante compiaciuto
nella certezza d’una comoda liberazione. «Ah, no, no! Io questo
non farò mai! Non mi sottrarrò mai per paura o per calcolo alle
responsabilità assunte! Io sono diverso, sostanzialmente diverso da
codesta gente borghese, che pecca per debolezza e si rinfranca per
viltà. Altro sangue scorre nelle mie vene; e altra legge presiede alla
mia condotta. Se un giorno per disgrazia dovessi trovarmi legato a
Flavia da una promessa, da una semplice confessione d’amore, saprei
senza dubbio sopportarne con dignità qualunque conseguenza... Ma qual
conseguenza? «Flavia era zitella, in quella età nella quale tutte
le speranze e tutte le forze della donna tendono a toglierla dalla
casa paterna per creare una casa propria, per ottenere da un nuovo
stato l’indipendenza di sè stessa e la direzione d’una famiglia. Ogni
intesa sentimentale con lei presupponeva dunque una conclusione unica
e necessaria; egli, confidandole il suo amore, si sarebbe moralmente
obbligato a darle il suo nome, a chiamarla compagna della sua vita,
a consacrarle intero il suo avvenire; egli, salvo casi imprevedibili,
avrebbe dovuto sposarla!

«Sposarla?!» egli esclamò stupefatto dal suono stesso della parola,
levandosi d’un tratto a sedere. Ed ebbe una specie di sussulto intimo
istintivo, simile a quello che si prova talvolta quando, camminando
distratti per le vie, ci sembra d’udire improvvisamente il rullo
minaccioso d’un carro dietro le spalle e ci si avvede poi, rivolgendoci
spauriti, che il carro passa senza nostro pericolo dall’opposto lato
della strada. Aurelio sorrise sùbito del suo stupore ingiustificato
e del suo atto repentino: la sola enunciazione della cosa gli parve
così enorme e quasi così assurda che assunse, nel suo spirito calmo e
sereno, aspetto ridicolo.

«Che cosa buffa, la vita!» egli si disse, sogghignando e scotendo
il capo: «Sposarla?! In verità, basterebbe quest’unica prospettiva a
tenermi recluso nella mia camera per un anno intero!»

Il suo pensiero, abituato alle gravi meditazioni, parve sdegnare
l’argomento che non era a bastanza serio e positivo; si distrasse
per qualche istante nella contemplazione delle cose remote, del
lento declinare dei colli dalla parte d’Arona, dove il lago sembrava
allargarsi infinitamente come un mare morto. Il vento cessava: le
barche calavano le vele a una a una, malinconicamente, e prendevan
da lontano l’apparenza d’insetti bizzarri che camminassero a passi
faticosi sul piano delle acque. Il piroscafo, ingrandito dalla
vicinanza, entrava fischiando nella baja di Laveno.

Di nuovo però, dopo la percezione della pace circostante, Aurelio,
(proprio come chi abbia temuto un pericolo anche imaginario), fu tratto
a mano a mano, senza volerlo, a costruire compiutamente quella vaga
possibilità e a considerarla con riflessione, quasi fosse già sul
punto d’effettuarsi. — Chi era dunque costei? Egli la conosceva da poco
tempo e poco la conosceva: era per lui un’estranea, un’ignota piombata
d’improvviso nella sua esistenza per impadronirsi d’una parte del suo
essere, per contendergli la libertà del suo tempo, forse per troncare
il filo del suo destino. Nelle ore che aveva vissute con lei, ella gli
era bene apparsa sotto le forme esteriori più lusinghevoli, ma nulla
gli aveva rivelato dell’anima sua, de’ suoi gusti, de’ suoi istinti,
de’ suoi desiderii, della sua intima essenza. Era ella buona? era
sincera? era pura? Non celava forse, sotto la dolcezza del sembiante e
l’innocenza degli sguardi, la vergogna o la smania insodisfatta d’un
fallo, la maligna curiosità della donna indifferente o la terribile
leggerezza della donna vana, desiosa di lusso, di piaceri, di licenza?
Aveva veramente amato quell’Altro? Cedeva ora di nuovo alla passione,
o la fingeva per giuoco e per vanità? Era dunque capace d’amare, di
sacrificarsi, di comprendere e d’offrirsi? — Egli non sapeva nulla,
nulla! E quel lembo stesso del suo passato, che gli aveva voluto
scoprire, lasciava l’adito a mille supposizioni diverse, non rendeva se
non più oscuro e inquietante il mistero della sua bellezza.

E la sua famiglia? Era essa degna d’imparentarsi con lui? I Boris
erano d’infima origine: insòrti solo da pochi anni dal torbido gregge
degli umili, essi erano giunti rapidamente all’agiatezza e forse omai
all’opulenza per le vie tortuose della speculazione e dell’intrigo.
Il padre Boris, che portava il titolo d’ingegnere senza esercitarne
la professione, era notissimo in Milano come amministratore d’alcune
grandi famiglie e come iniziatore di parecchie imprese più o meno
fortunate. Coinvolto nei più gravi disastri finanziarii, che avevano
scosso negli ultimi tempi la metropoli lombarda, egli n’era sempre
uscito senz’onta e senza danno, acquistando anzi, a traverso le stesse
disavventure della sua instancabile avidità, reputazione e stima sempre
maggiori. Ora al sommo della possanza, egli ambiva a divenire un uomo
pubblico, a conquistare un posto autorevole, a insediarsi comodamente
al Comune tra i degni rappresentanti del Popolo che lavora e che
soffre. Attivo, astuto, intraprendente, egli poteva dirsi il tipo
perfetto della nuova classe dominatrice, che sa sfruttare con esperta
mano il giovine albero della libertà; egli era veramente l’incarnazione
della odierna borghesia trionfante, sorretta da un egoismo feroce,
capace di qualunque simulazione, prosternata fino a terra d’innanzi
all’altare dell’Oro.

Per un uomo simile, il matrimonio dell’unica figliuola con un nobile
d’illustri origini, sarebbe stato certo il coronamento d’un gran
sogno, il trionfo più insigne di sua vita. Con ogni probabilità,
in quel giorno, avrebbe in fine aperto i forzieri gelosi, dov’era
andato accumulando il frutto della sua perspicacia, e dai lastrici,
pazientemente battuti anche negli anni della fortuna, si sarebbe
compiaciuto di veder trascorrere in cocchio per le vie popolose la
contessa sua figlia, rifulgente di beltà e d’orgoglio. — Ma poteva
egli, Aurelio Imberido, accettare un contratto di quel genere? Poteva
vendere il suo nome alla vacua ambizione d’un plebeo arricchito? Ed era
certo che Flavia lo avrebbe sposato per lui e non per la vanità, comune
a tutte le femmine, di divenire la moglie d’un nobile?

Aurelio pensò alla rovina economica e sociale di tante magnifiche
schiatte, private nell’ultimo secolo d’ogni potestà, scomparse
lentamente nelle tenebre per lasciare il posto ai nuovi venuti; pensò
alla sua stessa famiglia, già un poco corrotta nel sangue, piombata
nell’indigenza, forse vicina a scomparire per sempre con lui dalla
faccia della terra. E per un istante l’idea d’un figliuolo, d’un erede,
d’un continuatore occupò tutta la sua mente; fece tacere in lui ogni
scrupolo morale, ogni timore, ogni objezione dell’amor proprio. Non
aveva egli un dovere da adempiere verso i suoi maggiori, che gli avevan
trasmesso un nome glorioso e un’impronta profonda di superiorità? Non
era egli in obbligo di conservare quel nome e quell’impronta alle
generazioni venture? E perchè dunque non avrebbe seguito l’esempio
di tanti suoi pari, i quali, spogliati dei loro averi e delle loro
attribuzioni, s’erano risollevati, accettando un’alleanza di sangue con
quegli stessi che li avevano sopraffatti?

«Ah, no, no!» egli gridò d’un tratto, in una ribellione di tutta la
sua coscienza. Quei suoi pari egli aveva sempre disapprovati; li aveva
anche condannati ne’ suoi scritti come i più acerrimi nemici della
tradizione aristocratica; poichè, portando un nome superbo, lo avevano
esautorato e avvilito, mercanteggiandolo, cedendolo su la piazza al
maggiore offerente. I figli di costoro, se pure potevan chiamarsi
per forma i legittimi discendenti di stirpi illustri, avevan però
nelle loro vene un sangue spurio, eran bastardi creati da un connubio
ineguale, espulsi da un alvo plebeo, cresciuti in un ambiente corrotto.
La nobiltà non aveva più alcuna ragion d’essere, se non cercava di
mantenersi immune dal contagio borghese, se non sapeva conservarsi
estranea e indifferente al trionfo fittizio dei finanzieri e dei
bottegai. Questi eran riusciti a usurparne le ricchezze? la nobiltà,
per riconquistarle innanzi tempo, non doveva, no, cedere ad essi il più
sicuro de’ suoi privilegi: quello del nome e del sangue.

Così l’Imberido aveva crudamente asserito in uno degli ultimi articoli
pubblicati su la Rivista, che tante discussioni e tante critiche aveva
sollevate tra i suoi stessi ammiratori. Ora, che valore avrebbero
poi avuto la sua parola e il suo apostolato, quand’egli avesse in tal
guisa trasgredito alle sue massime sociali? E con che severità l’atto
contradittorio sarebbe stato giudicato, non solo dagli avversarii, ma
dai medesimi suoi amici? Certo, tutto il suo piano sarebbe d’un colpo
crollato sotto il peso della diffidenza e del ridicolo, e le macerie
avrebbero sepolto per sempre il suo decoro e la sua ambizione. Sarebbe
in sèguito bastata la ricchezza a compensarlo di tanta perdita? E
avrebbe egli potuto sopportare un’esistenza da parassita gaudente
nella casa d’un estraneo? Ahimè, egli non avrebbe durato un mese in
una condizione simile: con il suo orgoglio e con la sua ombrosità,
in ogni sguardo della moglie o del suocero avrebbe letto un tacito
rinfacciamento, un’affermazione di padronanza su di lui, un’intenzione
di sindacato su le sue azioni, assolutamente intollerabili. Egli,
per sottrarsi alla tortura umiliante dei sospetti e dei rimproveri,
sarebbe andato ben presto alla ricerca d’un guadagno, d’una qualunque
occupazione proficua, del più umile degli impieghi. E così la sua vita
si sarebbe consumata inutilmente in opere ingrate e ingloriose, al
contatto di gente diversa da lui, tra i rimpianti implacabili d’un bel
sogno volontariamente distrutto.

«No!» egli esclamò, concludendo quel sèguito serrato di considerazioni.
«Io non mi credo degno d’una tal sorte! Io non mi voglio trovare
nella necessità morale di sacrificarmi! Suprema jattura sarebbe per
me s’io sposassi Flavia: io debbo dunque fin d’ora evitarla, fuggirla,
dimenticarla.»

La sua mente era stanca; la luce intensa del pomeriggio, che
s’insinuava a poco a poco tra i fusti sottili, aveva appesantite le sue
palpebre. Il giovine chiuse gli occhi, s’abbandonò con un moto lento,
supino su l’erba, sostenendosi il capo con le due mani intrecciate
dietro l’occipite.

Una gran calma si faceva dentro di lui: il suo pensiero, affaticato dal
lungo dibattito, ottuso dalla canicola, parve distendersi mollemente,
come il suo corpo, in un’inerzia sonnolenta. Qualche imagine vaga
e indistinta si rifletté per un attimo su lo sfondo rossastro delle
palpebre abbassate, si modificò, si trasformò, disparve. D’un tratto il
sembiante di Flavia, sorridente e con gli sguardi luminosi, si disegnò
ben chiaro nello spazio fantastico, e diede una sùbita accelerazione
ai palpiti del cuore. Alcune parole risonarono disperse nel silenzio
del suo cervello, come proferite all’orecchio di lui da una ben nota
voce femminea: «Ho amato e non amerò più.....» Poi, sùbito: «È vero:
gli assomiglia negli occhi, nella bocca, specialmente quando parla e
ride...» In fine: «L’avevo mal giudicato. Ella in vece è un uomo di
cuore, di molto cuore.....»

Egli si scosse con un movimento brusco di tutto il corpo, aperse
gli occhi, li fissò, abbacinati e come ciechi, d’innanzi a sè, sul
paesaggio inondato dal sole.

Il più piccolo romore non rompeva il sonno della natura: non un soffio
di vento, non un murmure d’acque, non una voce, non un latrato, non
un’eco di lavoro lontano.

Istintivamente, offesi dal chiarore, i suoi sguardi s’abbassarono verso
il suolo: a pochi passi da lui, su una zolla nuda tra i ciuffi arsi
dell’erbe, giaceva riverso il corpo esanime d’una grossa lucertola con
il capo schiacciato. La minuscola spoglia, abbandonata dal destino
in quel luogo deserto, attrasse l’attenzione del giovine. Egli
pensò, osservandola, alla fragilità di tutti gli organismi viventi,
all’inutilità d’ogni esistenza, al potere formidabile della Morte,
che nessuno risparmia, che ogni essere indifferentemente colpisce.
Contava egli nell’armonia dell’universo più di quella semplice creatura
inconscia, che il piede d’un fanciullo era bastato ad arrestare d’un
tratto nel suo cammino e a distruggere? Aveva egli una sorte diversa
dalla sua?

Una profonda mestizia l’invase. Egli sentì il tempo fluire
irreparabilmente, le cose disperdersi nella vanità dello spazio, le
ambizioni e i desiderii perire. Egli sentì che la vita è triste, e che
oltre la vita son tristi anche le speranze.

E una voce ammonitrice gli disse:

«Guardati dalla Chimera! Il tuo sogno è fastidioso, è stupido, è vano.
Affrèttati, giovine, a godere quello che la realità ti offre, prima che
le tenebre ti circondino.»

E la stessa voce sùbito dopo soggiunse:

«È vero che la vita è breve, e i suoi piaceri son caduchi e velenosi.
Perché dunque vivere di realità e non d’illusioni? Un giorno tutto
sarà nulla: che importerà allora se tu avrai goduto o avrai solamente
sognato?»



VIII.

UNA FESTA.


Da tre lunghi dì Aurelio Imberido non si faceva più vedere dalle
vicine. Chiuso nella sua camera quasi tutta la giornata, egli lavorava
con gran lena, si sprofondava nelle più gravi letture, dominava così
i suoi desiderii fino a illudersi d’essersene interamente liberato.
Ogni sera poi, sùbito dopo il pranzo, usciva dal palazzo prima che le
Boris avessero occupato il rialto, si dilungava in prolisse passeggiate
meditative su i colli circostanti, e, approfittando del plenilunio, non
rientrava in casa che a notte inoltrata, quando era ben sicuro di non
più incontrarle.

Il quarto giorno (era di domenica) donna Marta, che aveva già dato
qualche segno manifesto di mal umore, apparve inaspettatamente su la
soglia della sua stanza, mentr’egli stava a tavolino scrivendo, e gli
disse con accento imperioso che non ammetteva contradizioni:

— Scusa se ti disturbo. Bada che questa sera siamo invitati in casa
Boris. Non si può mancare, perché l’invito ci viene dall’ingegnere
medesimo e si tratta d’una festa di famiglia: del compleanno di Flavia.
Alle sei precise tròvati abbasso: io ti aspetterò.

Gittato uno sguardo dominatore sul nipote, richiuse con uno strappo
brusco l’uscio e disparve.

Quando donna Marta al braccio d’Aurelio entrò nella sala dei Boris,
la conversazione vi ferveva animatissima. Il luogo era quasi oscuro:
dalle anguste finestre penetrava un chiaror pallido che lasciava in
ombra la maggior parte del vano; in quell’ombra irriconoscibili eran
sedute diverse persone, che all’apparire dei due invitati si alzarono,
interrompendo i loro discorsi.

L’ingegnere si fece incontro a essi, facendo un profondo inchino
cerimonioso e un gesto largo con le mani come per abbracciarli:

— Signora contessa, quale onore.... Signor conte, son ben lieto di
rivederla in casa mia...

Porse mollemente la destra alla vecchia signora e ad Aurelio che,
stringendola, provò di nuovo a quel contatto languido e passivo un
senso di ripugnanza, invincibile. Poi chiamò a sè gli altri invitati, e
fece le presentazioni.

— Donna Marta Imberido, il conte Imberido, suo nipote; l’avvocato
Maurizio Siena, il mio giovine amico Giorgio Ugenti.

Aurelio sorrise ironicamente, abbassando il capo d’avanti a due
giovinotti quasi imberbi, uno altissimo e sottile, l’altro basso e
tarchiato, che s’affrettarono a stringer la mano a sua nonna e a lui,
senza un atto di sussiego o di deferenza, con grande semplicità, come
tra camerati.

Donna Marta sedette sul divano insieme con Luisa; i quattro uomini
si fermarono a discorrere in mezzo della sala. L’Ugenti, il più alto,
biondo, con due esigui baffi su una bocca freschissima e un gran naso
cartilaginoso e arcuato in mezzo alla faccia oblunga, parlava del
gran caldo in città, delle sue occupazioni faticose, del desiderio,
per lui ineffettuabile, di passare una quindicina di giorni libero e
tranquillo alla campagna. L’altro, un tipo ebraico dall’espressione
penetrante e sarcastica, nerissimo d’occhi e di capelli e olivastro di
carnagione, asseriva in vece, sogghignando, che la città non è mai così
piacevole come in estate, quando la società elegante l’ha disertata e
le notti brevi son tepide come giorni di primavera senza la noja del
sole. Incerto tra i due, l’ingegnere ascoltava entrambi con visibile
compiacenza, e approvava a tratti indifferentemente or l’uno or l’altro
con un cenno rapido del capo, con un’interjezione ammirativa, con
qualche breve osservazione in cui si ripetevan sotto forma diversa le
stesse cose dette prima da’ suoi interlocutori.

Mentre i tre discorrevano, Aurelio, muto nel crocchio, considerava
con attenzione il padre Boris, che rivolto verso la finestra era in
piena luce. Il suo viso rugoso dai lineamenti grossolani, dalle labbra
sottili, dalle mascelle robuste, dalla fronte stretta, limitata da
una folta capigliatura setolosa, sarebbe parso quello d’un contadino,
se non fosse stato corretto da due fedine diplomatiche, a pena un po’
brizzolate alle estremità. Alto, ossuto, muscoloso, quell’uomo, non
ostante la potenza della sua complessione, aveva nei gesti, nelle
attitudini, nel suono della voce, sopra tutto negli sguardi, una
espressione così mite, umile o paurosa, che a poco a poco d’avanti
agli occhi dell’osservatore perdeva ogni apparenza di forza e di
salute. Sopra tutto i suoi sguardi eran degni di studio e d’attenzione
— pallidi sguardi obliqui e pietosi, che si volgevano in torno
pateticamente come per rassicurare, per confortare, per ammansare un
nemico o per procurarsi un complice; pallidi sguardi indulgenti, che
sembravan dire a chiunque si dirigevano: «Tranquillizzati: io non ti
voglio rovinare; io ti desidero amico; io non ti tradirò mai, se per
caso conoscerò un tuo fallo segreto; noi siamo fatti per intenderci
e per ajutarci a vicenda.» Il giovine, a ogni incontro de’ suoi con
quegli sguardi ambigui, sentiva crescer dentro l’ostilità sorda che
nudriva contro il Boris, come una specie d’antipatia di razza che glie
ne rendeva intollerabile perfino la vicinanza.

Una porta s’aperse. La signora Teresa entrò, dicendo a voce alta:

— Signori, la zuppa è in tavola.

Portava un abito pomposo da teatro, di tinta viva, quasi scollacciato,
tutto adorno di trine preziose, scintillante di vetri e d’ori. Flavia,
in una veste bianca semplicissima, la seguiva recando nella mano una
lucerna.

Si scambiarono saluti e augurii; l’ingegnere presentò agli Imberido una
sua sorella, esile e smunta, ch’era entrata nella stanza, inosservata,
dietro la signorina Boris; poi tutti, confusamente, si diressero verso
la sala da pranzo, conversando, ridendo, annusando il buon odore che
si propagava in torno dalla cucina contigua. Aurelio veniva ultimo al
fianco di Luisa. Questa, a un tratto, si appoggiò fortemente al suo
braccio e gli disse piano all’orecchio, indicandogli l’ebreo che li
precedeva:

— Vede? è un pretendente alla mano di Flavia! Chi sa che stasera non si
combini qualche cosa in famiglia!

Diede in una risatina acutissima, guardò bene il giovine negli occhi,
e lo lasciò bruscamente senz’altro aggiungere, correndo innanzi alla
conquista del suo posto.

La mensa, ben rischiarata dalle sedici fiamme di due alti candelabri
di bronzo, aveva un aspetto di gran lusso. L’argenteria copiosa e
massiccia, il vasellame miniato in oro, la finezza della biancheria
cifrata e frangiata, parlavano in vero della ricchezza degli ospiti,
ma rivelavano altresì, nella loro lucente e inestetica novità, la
recentissima fortuna di questi e il loro gusto volgare nel prediligere
i prodotti dell’industria moderna alle creazioni dell’arte. Nessuna
cosa memore, nessun oggetto singolare rompeva su quella tavola oblunga
la monotona uniformità di quegli utensili comuni, segnati da un marchio
esatto, fusi in cavi inesauribili o copiati da mani mercenarie, simili
in tutto a mille altri utensili offerti nelle vetrine delle botteghe
all’anonima richiesta dei passanti.

Sedettero intorno alla mensa l’ingegnere, tra donna Marta e Flavia,
poi in ordine l’avvocato Siena, la signora Teresa, Aurelio, Luisa,
l’Ugenti e in fine la sorella del Boris. Aurelio aveva quasi di fronte
Flavia e il pretendente, che lo guardava sotto le lenti da miope con
un’ostinazione pressochè offensiva.

Le conversazioni non tardarono a esser riprese con grande vivacità.
L’Ugenti, espansivo e ciarliero, aveva prima tenuti allegri i
commensali con i racconti delle sue prodezze infantili, che lo avevan
reso uno tra i più temuti e i più battuti fanciulli terribili; ora
il Siena, per contrasto, li annoiava tutti, narrando con pedanteria
curialesca e con una certa solennità di gesti e di parole il caso d’un
giovinetto perverso, che egli aveva in quell’anno difeso d’avanti al
tribunale per ferimento volontario d’un coetaneo e che, assolto per
merito suo, era stato poi rinchiuso in una casa di correzione. La sua
voce tra gutturale e nasale, regolata da una cantilena continua, a ogni
minima interruzione s’elevava bruscamente di tono e squillava come per
dominare un tumulto.

Udendolo, osservandolo, Aurelio pensava: «Flavia lo potrà amare?
potrà esser felice con un uomo simile?» E le parole maligne di Luisa
gli tornavano alla mente, riempiendogli l’animo di rancore e di
desolazione. Pensava: «È possibile ch’ella accetti? È possibile che
ella non sappia distinguere? ch’ella sia affatto indifferente tra me
e lui? che almeno, ricordandosi di me, non abbia un’esitazione prima
d’acconsentire?» Guardava ora la giovinetta, che pareva attentissima
al discorso dell’ebreo. Nulla sul suo viso che indicasse il più
tenue turbamento sentimentale, un passaggio di memorie, un assalto
di rimpianti, uno sforzo della volontà per nascondere agli estranei
l’intima sua inquietudine. Ella, che aveva riso con spontanea gajezza
ai racconti dell’Ugenti, ascoltava adesso seria seria la cantilena
prolissa e tediosa dell’altro, senza un moto d’impazienza, senza mai
rivolgere uno sguardo fuggevole a lui che fissandola lo chiedeva.

Aurelio pensò, vedendo accanto a lei il Boris: «Ella è la figlia
di quell’uomo basso e volgare. Qual maraviglia se ne ha ereditato
gli istinti e le ambizioni? Il pretendente deve esser ricco, avaro
e laborioso: ecco tre ragioni formidabili per non rifiutarlo.» Egli
considerò a più riprese, alternativamente, il padre e la figliuola,
cercandone le rassomiglianze. In verità costui, non ostante la rozza
semplicità del sembiante, poteva ben dirsi la maschera deforme di
lei: aveva la medesima fronte angusta, lo stesso color grigio degli
occhi, un’analoga struttura del capo; perfino la bocca grande e quasi
sdentata rammentava quella bellissima della erede nel colorito acceso
della pelle, nel sorriso, specialmente in una certa piega amara,
che si formava nei momenti d’attenzione a un angolo delle labbra.
Erano entrambi dello stesso sangue, discesi per linea diretta l’una
dall’altro, frutti successivi d’un medesimo albero, le cui radici
s’affondavano in un terreno incolto e malnoto; dovevan dunque agire
entrambi sotto identici impulsi, correre verso una mèta comune,
desiderare un unico destino!

«Ma perchè m’occupo tanto di lei?» egli si domandò d’un tratto. «Che
mi fa s’ella sposa quell’ebreo pedante a preferenza d’un qualunque
altro? Io, certo, non la sposerò mai. Dunque?» Cercò di sottrarsi in
qualche modo al pensiero molesto che lo perseguitava, di cancellare
dalla memoria la confidenza insidiosa della bionda. Volse perciò in
giro uno sguardo indagatore ai suoi commensali: notò che l’ingegnere
e sua sorella portavan spesso il coltello alla bocca, se ne servivano
per scalcare il pesce, non indugiavano per semplicità a metter le
dita sul piatto; anche notò che la sorella in distrazione s’asciugava
talvolta le labbra e il mento col lembo della tovaglia. S’accorse,
osservando bene il giovine Ugenti, che questo teneva appeso alla catena
dell’orologio un distintivo a lui ben noto, la medaglietta d’argento
con l’effigie di Carlo Marx, l’apostolo del Socialismo. S’accorse
che il Siena aveva le unghie lunghe, adunche, non ben polite. Un
senso istintivo di molestia, d’insofferenza, quasi di soffocazione,
quel senso che assale spesso nelle strette d’una calca, si diffuse
rapidamente nel suo essere, parve salirgli alla gola e stringerla a
forza, rendendogli impossibile di trangugiare un sol boccone di più.
Egli si sentiva male tra quella gente diversa da lui; si sentiva
assolutamente isolato, poichè anche sua nonna, in quell’ambiente ch’era
già stato il suo, s’era a poco a poco dimenticata delle abitudini
apprese, s’era confusa con gli altri e discorreva ora animatissimamente
con la sorella del Boris, come si discorre soltanto con una sua simile.

La signora Teresa si volse a lui e gli disse per la decima volta:

— Perchè non mangia? Perchè non beve?

Egli rispose:

— Grazie, ne ho a bastanza. Io mangio sempre poco....

— Ma se non ha mangiato niente! Via, conte, si faccia coraggio!....
Prenda ancora qualche cosa, almeno per farmi piacere.

E gli afferrò il piatto, glie lo riempì di nuovo fino all’orlo.

Il pranzo era interminabile. L’ingegnere, un po’ acceso dalle abondanti
libazioni, proponeva ora una gita in compagnia sul Motterone per una
delle domeniche successive; e il Siena, sempre freddo e solenne, si
scusava di non poter parteciparvi in causa delle sue occupazioni, salvo
che non la si rimandasse almeno di due settimane.

— Ah, — gridò d’un tratto l’Ugenti; — non vorrei poi che coincidesse
proprio col giorno delle elezioni, perchè in tal caso dovrei mancar io,
e ne sarei desolatissimo.

— E che ti fa se ci sono le elezioni? — chiese ridendo il Boris.

— Caro ingegnere, la disciplina del partito esige la mia presenza. Se
ciascuno s’astenesse per una causa o per un’altra fidandosi del voto
dei correligionari, nessuno naturalmente voterebbe, e gli avversarii,
i cari borghesi, trionferebbero in eterno. Nel caso presente poi si
tratta d’una grande battaglia; e la vittoria sarà certo strepitosa per
noi socialisti purchè si vada tutti compatti alle urne.

Il Boris rise del suo riso blando, pieno d’indulgenza, e disse scotendo
il capo:

— E quando bene avrete vinto?....

— Avremo un deputato di più al Parlamento: saremo su la via di diventar
maggioranza e di imporre le nostre leggi anche a chi non le vuole.

— Lei crede? — chiese l’Imberido con sottile ironia.

— Fermamente, — rispose serio e convinto il giovine, volgendosi a lui
senza rancore. — Noi siamo i trionfatori del domani, poiché la nostra
idea va guadagnando, ogni dì più, terreno e potenza.

— Dica meglio: la loro retorica, perché l’idea è piuttosto astrusa
e complicata e non si presta troppo ad adattarsi nelle teste ottuse
in cui la si vorrebbe trapiantare. Ma ammettiamo pure che sia l’Idea
che trionfi, ammettiamo pure che i socialisti si conquistino tutti
i cinquecento seggi del Parlamento; io nego sempre che i loro sogni
febbrili possano per questo semplice fatto divenire realtà, come
nego che l’êra della felicità universale abbia a essere mercè loro
inaugurata.

— E perché, di grazia? — domandò l’Ugenti sempre con grande cortesia.

— Perché l’avvento del Socialismo non esige soltanto una riforma
economica e sociale, già un poco fantastica com’è quella che si
propone; ma sopra tutto una riforma delle anime e delle coscienze.
Esige un’umanità diversa dalla nostra, rinnovata dalle fondamenta;
esige l’abolizione assoluta di tutti gli istinti e i sentimenti che
animano o muovono gli uomini sul nostro povero pianeta. Questo, almeno
che io sappia, non si può ottenere né con la ragione né con la forza: e
non lo si otterrà, mi creda, nemmeno con una legge votata all’unanimità
dal suo Parlamento di socialisti.

L’Ugenti che, mentre Aurelio parlava, continuava a scrollare il capo in
atto di diniego, s’alzò bruscamente in piedi per rispondere con maggior
forza a’ suoi argomenti. Il Siena però, attento e impassibile al suo
posto, lo prevenne.

— Io non sono socialista, — egli disse con la sua voce nasale, con
il suo accento cattedratico — o almeno non sono collettivista nel
senso etimologico della parola. L’abolizione della proprietà privata
è, secondo me, una riforma ineffettuabile. Ma, ciò non ostante, mi
guardo bene dal giudicare il Socialismo con la severità sdegnosa e
con l’antipatia manifesta con cui il signor Imberido lo condanna. Lo
spettacolo delle sofferenze umane, delle ingiustizie sociali non mi può
lasciare inerte, estraneo, indifferente a osservarle o a giustificarle.
Io considero quindi le nuove teorie come il risultato ancora imperfetto
d’una ricerca nobile e generosa per alleviare le une e per rimediare
alle altre. Sotto questo aspetto, bisogna riconoscerlo, il Socialismo è
un’idea altamente rispettabile, che merita l’appoggio di tutti i buoni
e il soccorso di tutti gli intelligenti.

L’Ugenti, ch’era rimasto ritto in piedi, approvò romorosamente; il
Boris stesso annuì col capo, sorridendo; Flavia, che aveva fatto cenni
palesi d’assentimento a ogni pausa dell’avvocato, battè in fine le
mani e gridò con trasporto, guardando per la prima volta negli occhi
l’Imberido:

— È vero! È vero!

Allora un’esasperazione subitanea prese Aurelio. L’antipatia fisica,
che provava contro l’avvocato pedante, il pensiero geloso che Flavia
fosse per appartenergli, il rancore, che avevan mosso in lui quelle
approvazioni concordi e specialmente l’esclamazione entusiastica della
giovinetta, lo fecero sussultare su la sedia e atteggiare il viso a
un’espressione amara di disprezzo e di sarcasmo. Egli disse con la voce
aspra e altezzosa:

— Questa è appunto la parte retorica del Socialismo, alla quale
accennavo pocanzi e che costituisce tutto il suo fascino e tutta la
sua virtù. Ma la retorica è sempre stata retorica; e con le vuote
promesse, con le false lusinghe, con le descrizioni fantastiche d’un
meccanismo sociale imperfettibile, non si ha, no, il diritto di mettere
a soqquadro il mondo intero, d’aizzare le masse brute alla ribellione,
di preparare al prossimo avvenire giorni criminosi di stragi, di rapine
e di vandalismi....

L’Ugenti fece l’atto d’interromperlo.

— I socialisti — egli continuò risoluto — con qualche proposta
generica, che basta un ragionamento infantile a dimostrare insensata,
s’atteggiano evangelicamente a redentori della umanità, e chiamano
in tanto alla riscossa gli ignoranti e i barbari, adulandoli,
solleticandone gli appetiti, rinfocolandone le ambizioni. Ora, sanno
essi se al momento critico questa gente, come sarà padrona del campo,
non li abbandonerà sghignazzando ai loro sogni malati? Possono essi
garentire dell’onestà, della buona fede, dell’obedienza illuminata dei
loro numerosi gregarii? E sono in fine sicuri di poter costruire, sopra
una rivoluzione dei più torbidi elementi sociali, quel monumento di
giustizia, d’equità, di benessere, del quale non son peranco riusciti a
tracciare un piano convincente nei loro libri e nelle loro discussioni
teoriche? Caro signore, — egli soggiunse, volgendosi con un moto brusco
all’avvocato, — di fronte al disastro, che ne minaccia, io intendo
in vece che tutti i buoni e tutti gli intelligenti s’accordino tra
loro per combattere questi rètori pericolosi con ogni arma, con ogni
possibile repressione.

Il socialista e l’avvocato proruppero insieme in una protesta veemente
— il primo balzando di nuovo in piedi, sollevando le lunghe braccia
alte sul lungo corpo sottile; l’altro agitandosi convulsamente su la
sedia, torturandosi con la mano gli esigui baffi neri.

— Le persecuzioni non ci fanno paura! — urlava l’Ugenti stentoreamente.
— Ben vengano le persecuzioni! Esse hanno sempre spianato la via
alle idee nuove; le violenze e gli abusi di potere non fanno se non
inasprire l’opinione pubblica contro le classi dominanti e affrettare
i moti rivoluzionarii. Un anno di dispotismo val quanto mezzo secolo
guadagnato per il trionfo della nostra causa....

— La libertà di pensiero non può essere conculcata in un regime
democratico, — declamava Maurizio Siena, alzando la voce per dominare
quella dell’Ugenti; — essa è una conquista intangibile del nostro
secolo di scienza e di progresso. Gli uomini d’ordine hanno il sacro
dovere di rispettarla....

Parlavano insieme, e le loro parole giungevano confuse all’orecchio
dell’Imberido. Flavia e Luisa, che su le prime avevano protestato,
ridevano ora allegramente del tumulto improvviso. Soltanto il Boris,
sempre tranquillo e sorridente, affermava in silenzio col capo,
ammiccando però con gli occhi stretti e come riconoscenti a colui che
aveva proclamato forte lo sterminio dei disturbatori.

— Basta! — gridò d’un tratto la signora Teresa; e, per richiamar
l’attenzione, percosse ripetutamente con la lama del coltello il suo
bicchiere.

— Basta con la politica! — fece eco donna Marta, che a più riprese
aveva rimproverato il nipote con gli sguardi.

— Voi ci stordite.... Parliamo d’altro, per carità! Si stava
concertando una bella passeggiata in compagnia sul Motterone. Quando
la si fa, dunque? Con le vostre chiacchiere non si verrà mai a una
conclusione!

I due giovini, che gridavano insieme, s’interruppero a mezzo d’una
frase, si guardarono in torno come stupefatti di trovarsi presenti a
un convito ospitale, e scoppiarono insieme a ridere, scusandosi con
le donne per la loro vivacità inopportuna. L’Imberido aggiunse le
sue scuse a quelle de’ suoi avversarii; e la conversazione fu ripresa
senz’altro sul tema meno eccitante dell’escursione in montagna.

Questa fu stabilita per domenica quindici «tempo ed elezioni
permettendo», secondo la espressione finale dell’ingegnere.

— Mi raccomando a lei, — mormorò Luisa all’orecchio d’Aurelio; — faccia
venire anche il signor Zaldini. È così simpatico!

La discussione calorosa aveva lasciato l’Imberido in quello stato
d’accasciamento e quasi di desolazione, in cui egli sempre cadeva sotto
l’urto d’un’opinione altrui, altrettanto salda e inflessibile quanto
la sua. Mentre gli altri, già immemori di tutto, ciarlavano e ridevano
spensieratamente, egli riandava ancora, incerto e umiliato, il corso
della disputa inutile; e una folla di buoni argomenti taciuti, di nuove
risposte efficaci, sorgeva spontanea nel suo pensiero a offuscare le
cose che aveva dette, a dimostrargli l’imperizia della sua dialettica
e l’imprudenza delle sue affermazioni. Perché non aveva saputo rimaner
muto e impassibile alle frasi del giovine socialista? E perché,
anche affrontando una discussione, non aveva riflettuto, non aveva
considerato il valore e la qualità de’ suoi ascoltatori, non aveva
pesato bene le sue parole, prima di ribattere? — In vece egli s’era
lasciato miseramente trascinare dall’impeto de’ suoi sentimenti; aveva
parlato con rancore e non con serenità spassionata; aveva fatto, di
fronte a quegli estranei, la figura meschina d’un retrogrado rabbioso o
d’un volgare nemico della Luce!

Sopra tutto in causa di Flavia egli si rammaricava d’aver discorso in
tal modo. Nel fondo del suo spirito, un poco annebbiato dai vapori
del vino bevuto in copia, incominciava omai a trepidare un senso di
malinconia tenera e obliosa, quel bisogno d’abbandonarsi, di perdonare,
di fraternizzare che assale irresistibile all’inizio di un’ebrietà.
Guardando ora la fanciulla, Aurelio la trovava, nella semplicità della
sua bianca veste virginale, sovranamente incantevole; un soffio di
vaghe memorie gli passava a traverso la mente angustiata, inclinandola
insensibilmente a benevolenza verso di lei, riaccendendo a mano a
mano il fuoco assopito della sua simpatia. Ed egli, inconsapevole, si
stupiva d’aver potuto contrariare la bella creatura che gli splendeva
d’innanzi, e si rimproverava il suo contegno pertinacemente ostile e
scortese, e deplorava il suo indocile orgoglio che ogni dì più scavava
un abisso incolmabile tra le loro due vite. — Ma non era egli dunque
che la gittava deliberatamente tra le braccia del rivale? Non la voleva
egli così, estranea e nemica, divisa sempre da lui da un ostacolo
immane? Non era preferibile per il suo scopo quel dissidio aperto e
sincero a un’intesa lentamente insidiosa, a una domestichezza con lei
che avrebbe potuto generare la catastrofe temuta? — Oh, un suo sguardo
lusinghevole! Egli, certo, avrebbe in quel momento sacrificato il suo
sogno più caro per uno sguardo lusinghevole di lei, che fosse venuto a
traverso la mensa a ricercarlo!

Frattanto intorno a lui l’animazione aumentava. La fine del pranzo
generoso rendeva loquaci e ilari gli altri commensali, li accomunava
in un unico sentimento di benessere, di confidenza, d’espansiva
cordialità. Parlavan tutti insieme, e il frastuono delle voci alte
e delle risate rimbombava sotto la vòlta profonda: l’ingegnere, con
gli occhi sfavillanti e il naso purpureo, raccontava a donna Marta
un aneddoto procace, che pareva scandalizzasse l’anima candida
della sorella zitellona, in atto di turarsi le orecchie con le
mani; il Siena, acceso in viso, discorreva vivacemente con Flavia e
la signora Boris, prorompendo a tratti in ghigni gutturali, che lo
facevan torcere e rannicchiarsi su la sedia come all’impressione d’un
solletico ostinato; l’Ugenti in vece era divenuto patetico e nebuloso,
e declamava chino verso la bionda un’ardente poesia di passione,
sottolineandone i passaggi più teneri con certi sguardi estasiati,
tremuli nel vuoto, battendo con le lunghe braccia aperte il ritmo dei
versi sonanti.

Le bottiglie del vino di Sciampagna, recate per i brindisi, suscitarono
un’acclamazione entusiastica, un grido unanime d’esultanza. Sembrò
quasi che un vento di frenesia passasse d’improvviso nella sala da
pranzo, esagitando le fiamme delle candele, scotendo le sedie e gli
oggetti sparsi in disordine su la tavola. Le fanciulle e donna Marta
applaudirono; Maurizio e Giorgio si levarono d’un balzo in piedi, per
disputarsi con comico accanimento l’onore di stapparle. Come i calici
furon tutti ricolmi del dolce vino propiziatorio, l’Ugenti con un atto
risoluto impugnò il suo bicchiere, lo sollevò alto sopra il capo e
incominciò a parlare.

Il fumo delle sigarette si dilatava omai su le teste, striando l’aria
di tenui strati azzurrognoli, continuamente mobili. L’afa nella stanza
chiusa si faceva sempre più sensibile e opprimente; un odore acre
di vivande e di vini saliva a ondate dalla mensa, intollerabile. Il
giovine socialista, la fronte imperlata di sudore, proseguiva il suo
discorso con una foga enfatica di gesti e d’accenti, esaltando le virtù
e le attitudini della donna, illustrandone l’alta missione morale,
profetizzandole un avvenire glorioso in una società meno egoistica
e più giusta della presente. E gli altri, d’un tratto ammutoliti,
lo guardavano attoniti, stupefatti, senz’ascoltarlo, nell’attesa
impaziente d’una conclusione.

Quand’egli s’interruppe a mezzo d’un periodo per riprender fiato, un
applauso formidabile risonò sotto la vòlta e i calici simultaneamente
s’alzarono per brindare. Il Siena, nell’immenso strepito, urlò con
tutte le forze de’ suoi polmoni:

— Evviva dunque la signorina Flavia! Alla sua salute, alla sua
felicità, all’esaudimento delle sue speranze!

Gli evviva echeggiarono, mentre i calici s’incrociavano, battevan forte
l’un contro l’altro, tintinnando.

Flavia abbandonò prima il suo posto, s’avvicinò a suo padre, poi
a sua madre, e, strettoli tra le braccia, li baciò ripetutamente
sul viso, assai commossa: aveva gli occhi lucidi, un rossor vivo
cosparso su le guance delicate. Così accesa e come trasfigurata,
stretta nella semplice veste bianca, ella emanava dalla persona un
fascino irresistibile, l’incanto sublime della Vergine, quell’acuto
profumo di poesia e di candore, che infiamma l’imaginazione, inebria
i sensi e abolisce ogni volontà. Aurelio, il quale muto e immobile
l’accompagnava con gli sguardi, si sentiva languire d’ammirazione e
di desiderio. Non mai gli era parsa così leggiadra e così nobile di
forme e d’espressione! Non mai gli era parsa così degna d’essere amata,
d’esser preposta a supremo scopo d’un’esistenza mortale! Ella non era
più la fanciulla, ch’egli ben conosceva: era il simbolo della grazia,
l’incarnazione tipica dell’Eterna Bellezza, era l’Unica, era l’Eletta,
era la Dea. — Oh, uno sguardo, un solo sguardo lusinghevole di lei!
Egli avrebbe sacrificato tutta la sua vita per uno sguardo lusinghevole
di lei, che fosse venuto in quel momento solenne a ricercarlo!

Ma la giovinetta pareva che lo avesse affatto dimenticato, pareva che
ignorasse la sua presenza alla festa familiare: tremante di commozione,
guardava fisa il padre o la madre con occhi pieni di gratitudine e
d’affetto, e non si stancava di scoccare su le loro guance quei baci
sonori, che avevano nell’anima del giovine un’eco spasimosa.

Quando la signora Teresa si levò e uscì dalla stanza, Aurelio anche si
mosse: fece qualche passo verso la finestra quasi cercando un soffio
d’aria libera, poi, vedendosi inosservato, infilò pianamente la porta e
riparò solo nel salotto.

Si lasciò cader di peso sul divano. Si prese il capo fra le palme, con
atto disperato. Un ardore molesto gli infocava le tempia. Il cuore gli
pulsava in petto con una violenza non mai avuta. I fumi del vino si
spandevan torbidi e foschi intorno a lui, annebbiandogli la visione
delle cose, dandogli a intervalli il senso ingrato della vertigine. —
Egli si sentiva solo, affranto e desolato: egli soffriva terribilmente,
e nessuno era presso di lui a confortarlo! Il suo dolore si dissipava
inutile e indifferente nell’impassibilità dello spazio, come quello
d’un qualunque bruto ferito a morte in una foresta!... Egli, certo,
avrebbe potuto spegnersi così, senza che un’anima buona fosse accorsa
in suo aiuto, senza turbare con il suo gemito indistinto la gioja
romorosa di coloro che gli eran vicini!....

Impeti subitanei di collera sorgevano nel suo spirito a ogni scoppio
d’ilarità nella stanza contigua; supremi abbattimenti lo prendevano
appena l’ira cessava. E intanto un desiderio folle si faceva strada tra
le tenebre di quel tumulto selvaggio dell’anima, usciva a poco a poco
dal caos delle imagini oscure, si rischiarava, splendeva, scintillava
come astro solitario in un cielo tempestoso: il desiderio di Flavia,
d’una parola benevola di lei, d’una sua carezza su la fronte accesa,
d’uno di quei baci inebrianti, ch’ella aveva pocanzi prodigati con
tanto trasporto a’ suoi parenti. — Oh, perchè ella non veniva? perchè
tardava tanto? Non sapeva ella forse ch’era là, solo, triste, afflitto
da un’angoscia senza nome, ad aspettarla? E la sua pietà, sempre sì
docile all’appello dei sofferenti, non si risvegliava dunque per la
prima volta al suo grido disperato di soccorso?

Un passo leggero che s’avvicinava lo fece sussultare di sgomento e di
giubilo. Egli non respirava più: il suo sangue pareva si fosse d’un
tratto arrestato nelle vene. Era lei? Certo, era lei; doveva esser lei.
La gioja ineffabile del suo cuore non poteva ingannarlo. Egli l’aveva
invocata; ella, ecco, accorreva. — Oh, caderle ai piedi e morire!....

Qualcuno era entrato nel salotto.

Aurelio tolse con lento atto il viso alterato e livido dalla stretta
delle mani, e guardò d’innanzi a sè, come un sonnambulo strappato
repentinamente al suo sogno.

— Signor Aurelio, che cos’ha? — disse spaurita Luisa, avvicinandosi a
lui con vivacità.

Egli continuava a fissarla senza parlare. — Ohimè, l’ultima speranza
andava miseramente tradita. Il mondo non aveva più luce! La sua
vita non aveva più scopo! L’inganno era mortale e palese: un riso
acuto, a lui ben noto, si levò nella stanza vicina e venne a colpirlo
d’improvviso come un’irrisione del Destino.

Luisa sedette al suo fianco, gli prese amorevolmente la mano.

— Signor Aurelio, per carità risponda: si sente male? Ha bisogno di
qualche cosa? Risponda!

— Grazie, signorina, grazie! — egli riuscì a mormorare, rialzando il
capo — Non è nulla: un po’ d’emicrania....

— Faceva forse troppo caldo nella sala da pranzo. Io stessa non ne
poteva più! Vuole che apra le finestre? L’aria libera le farà bene.
Vuole che le ordini qualche cosa di caldo? Vuole che chiami donna
Marta?....

Ella parlava concitatamente, assai commossa, con una specie d’affanno
appassionato nella voce e nel respiro. E intanto gli stringeva forte
la mano, e lo guardava con gli occhi inumiditi, gonfii di pietà e
di tenerezza. «Non è lei! Non è lei! Non è lei!» ripeteva spasimando
l’anima del giovine, mentre quelle dolci parole si disperdevano vane e
sciupate, come semi sparsi sopra un terreno sterile. — Oh, fosse stata
Flavia, la consolatrice! Su la Terra non vi sarebbe stato un uomo più
divinamente felice di lui!

— Grazie, è inutile, signorina, — disse Aurelio, levandosi d’improvviso
in piedi. — Proverò a uscire, proverò a far due passi nel cortile....
Grazie!

Studiando il passo, senza più rivolgersi, s’avviò verso la porta.
L’aperse. Vide le tenebre spalancate d’innanzi a sè; vi si gittò
perdutamente come in un abisso.



IX.

IL SOGNO.


E il gran Sogno fatalmente si svolse.

Il padre Boris era ritornato a Milano; gli ospiti eran partiti. La
solita pace regnava nel palazzo antico, mentre in torno l’opera alacre
degli agricoltori ferveva, ornando i campi rasati d’accese frange
d’oro, empiendo la purezza degli spazii di strepito giulivo. Dall’alba
all’imbrunire, le canzoni della mietitura, disperse di qua e di là
su i colli ubertosi, ondeggiavan nel silenzio, e davano all’orecchio
che le ascoltava un senso di vastità singolare; il buon odor cereale
e l’olezzo del fieno fresco imbalsamavano alternativamente l’aria,
assumendo negli aridi meriggi intensità quasi d’essenze. La festa
dell’ultima ricolta si celebrava così sotto il sole benefico d’agosto,
tra gli inni, tra i profumi, tra i colori smaglianti, in una semplicità
solennemente primitiva di riti e di costumi. E gli inni eran d’amore, e
i profumi eran di vita, e i colori eran di gioja.

Aurelio, dal balconcino della sua camera o nel parco o durante le
peregrinazioni su le colline circostanti, assisteva al grandioso
spettacolo, commosso, attonito, maravigliato. Non mai come in quei
giorni egli s’era sentito così posseduto dal fascino della Natura
feconda; non mai come in quei giorni s’era sentito legato da vincoli
così stretti alla grande madre Terra. Egli, atomo d’un tutto, pareva
fondersi e confondersi tra quelle manifestazioni vaste e benigne,
dimentico d’ogni cosa, conscio soltanto della sua piccolezza e
della sua vanità in un mondo attivo e produttivo, dove la vita si
svolgeva gloriosamente sopra una distesa senza confini. Il suo corpo
illanguidito dalla canicola, il suo spirito ottuso dal desiderio, si
sottraevano ogni dì più al dominio della ragione e della volontà. Egli
non poteva più fermare a lungo la sua attenzione su i soggetti dei
propri studii: appena faceva uno sforzo mediocre d’applicazione, una
stanchezza dianzi sconosciuta gli pesava sul cervello, ed egli doveva
arrestarsi d’un tratto nel suo lavoro, come chi si trovi d’improvviso
su la soglia d’una stanza buja. Passava perciò lunghe ore nell’inerzia
più assoluta, distratto, vuoto, come estatico, seguendo con l’orecchio
il ritmo d’un qualche canto campestre, o accompagnando con gli
sguardi il fumo d’una sigaretta che si smarriva sottilmente nell’aria
cristallina.

Una moltitudine di sensazioni minute, spontanee, incoscienti componeva
in quei giorni l’esistenza materiale di lui. Il suo essere era simile
a una pagina bianca su cui una penna segnasse a caso piccoli segni
indecifrabili: si difformava e s’alterava continuamente alla minima
impressione d’un soffio, d’un profumo, d’un suono, d’un bagliore.
D’avanti a un prato raso di fresco, macchiato dai cumuli più smorti
del fieno, d’avanti a un campo popolato di spigolatrici chine in fila
su le glebe, d’avanti a un albero carico di frutti, al gorgheggio
d’un uccello tra il fogliame d’una siepe, alla voce d’un bambino in
una cascina solitaria, egli si soffermava attento e turbato, come al
cospetto d’un fatto straordinario o d’una cosa supremamente mirabile.
Le imagini delle sembianze esteriori si succedevano per tal modo
inattese nella sua mente, senz’ordine e senza logica, convertendosi in
idee fuggevoli, in confuse astrazioni, in pallidi raziocinii che non
duravano un attimo e si disperdevano. E sotto questa sorta di velario
sensibile e sempre mutabile, ch’era come la superficie della sua
anima, una calda corrente di tenerezza passava, profonda, invisibile,
violenta, — il bisogno istintivo e fatale di pace, di felicità,
d’amore.

Dalle campagne, illustrate magnificamente dal sole, animate dall’opera
umana, gli veniva assai di sovente l’esempio seduttore: era la
Terra stessa, sgravata, nuda e come distesa per un nuovo amplesso
ferace, la quale descriveva alla sua fantasia con muto languido atto
l’insuperabile voluttà del creare; era quella gente umile e travagliata
da ogni tristizia, che gli gittava sul viso l’alito ardente della
sacra febbre, il soffio infocato dell’immortale desiderio. Talvolta,
percorrendo le viottole perdute, egli aveva sorpreso, nascosto in una
macchia, qualche ruvido idillio; talvolta aveva sentito nel silenzio,
dietro una fitta cortina arborea, il susurro di due voci diverse,
interrotto a tratti dai baci; talvolta aveva visto nei campi, integre
nella luce, due alte figure, prossime e sole, esprimere con gli
sguardi l’impazienza della loro mutua simpatia. Il giovine osservava e
ascoltava con l’avidità d’un sitibondo che oda il croscio d’un’acqua
sotterranea. E torbide visioni gli si levavano nello spirito, mentre
un’angoscia soffocante agitava tutti gli elementi della sua sostanza;
poichè egli intendeva di trovarsi in fine d’innanzi al segreto del suo
scontento e della sua fragilità.

A quelle sollecitazioni della Natura imperiosa, il cuore pareva
gli divenisse gonfio e convulso; il sangue gli affluiva a fiotti al
cervello; l’anima gli si ammorbidiva e si scioglieva come fusa da
un calore supremo. Alcune frasi liriche, inaspettate, s’abbozzavano
nel suo pensiero, illuminandolo con la fugacità frenetica di lampi:
«Avere una donna propria, un’amante.... Smarrire ogni senso nella
contemplazione de’ suoi sguardi inamorati.... Perdersi con lei
in quelle selve folte e mute, che ammantano le valli.... Amare,
amare molto, fino alla stanchezza, fino all’esaurimento, fino alla
distruzione, fino alla morte!» Era il gran Sogno che si svolgeva,
il Sogno dell’eterna passione vitale. Era una brama indomabile
d’integrazione, di struggimento, di congiunzione che lo accendeva,
ch’esaltava la sua anima per modo che ogni imagine vi si riproduceva
alterata sotto forma di poesia. Omai egli si sentiva languire nella
solitudine, spasimava di desiderio, agognava febbrilmente a utilizzare
la sua effimera giovinezza, a crescere, a fruttare, a concedersi e a
possedere, in un immenso slancio verso la Voluttà che integra e che
crea. E l’imagine di Flavia, della Donna conosciuta e vicina, gli
sorgeva alta e fulgida nella mente come un sole nel cielo del suo
Destino.

Dalla sera del pranzo in casa Boris, nuovi impulsi eran sopravvenuti
a spingere irresistibilmente il giovine verso la fanciulla: innanzi
tutto, la gelosia viva contro il pretendente noto e disprezzato; poi,
la curiosità di sapere s’ella accettava quest’uomo e se accettandolo
lo amava; in fine, l’ambizione virile di contenderla a questo, di
strappargliela, di trionfare su lui con le proprie qualità e i proprii
meriti. L’impresa gli si presentava oltremodo facile e d’esito quasi
sicuro: il rivale era partito, era lontano, probabilmente senza alcun
rapporto epistolare con Flavia; e non sarebbe riapparso a Cerro che
tra una quindicina di giorni al più presto. Durante la sua assenza,
egli era bene il padrone incontrastato della situazione: avrebbe
potuto agevolmente insinuarsi nelle grazie di lei, vincerne le solite
ritrosie, cancellarle dalla memoria gli ingrati residui del loro breve
passato. Sarebbe certo riuscito, con la sua esperienza psicologica e le
virtù della sua persona, a insignorirsi del cuore ancor titubante della
giovinetta, e a scacciarne ogni altra imagine, ogni altro ideale, ogni
estranea speranza. Non era ella forse già sul punto di cedere, prima
ch’egli avesse deliberato d’evitarla e di fuggirla? E quella sera sul
lago deserto, quando gli aveva stretto con tanta effusione la mano,
non aveva ella confessato in modo indubbio la sua nascente simpatia
per lui? Bastava dunque ch’egli si riaccostasse con una mossa abile
a Flavia; bastava che sapesse riprendere il filo degli avvenimenti
da quell’ultimo tenero colloquio avuto con lei in solitudine, ed era
sicuro che ogni causa di dissidio sarebbe d’un tratto venuta a mancare
ed egli l’avrebbe avuta di nuovo pienamente in suo potere.

La preoccupazione di questo disegno astuto, la speranza ambigua di
poter contrastare al rivale quel bene a cui egli volontariamente
aveva rinunciato, permanevano costanti nel fondo della sua anima,
dove l’azione della coscienza non giunge che a lunghi intervalli e
sotto forma di rimproveri fievoli e inerti. A volte, com’era tratto
a riflettere su qualche atto preciso dalla sua vita indisciplinata,
Aurelio riusciva bene a intendere la bieca intenzione del suo piano,
la slealtà de’ suoi propositi di conquista; riusciva a intendere
ch’egli agiva sotto l’impulso d’un sentimento invido e geloso e che
di là della vittoria sul rivale egli non vedeva e non considerava mai
la conseguente necessità d’una riparazione verso la fanciulla. Allora
aveva momenti terribili di rammarico e di rivolta morale: come un
peccatore credente che si confessi, egli esagerava il rilievo della
sua colpa, e giurava a sè medesimo di mutar linea di condotta, e
s’imponeva, convinto d’eseguirle, penitenze e rinunce esemplari. Ma il
vento della passione si riversava fulmineo sul suo capo, dissipando
in un colpo le nebbie momentanee delle riflessioni, dei rimorsi e
dei buoni proponimenti. Quella specie di sovreccitazione inconscia e
impaziente, ch’era in quei giorni lo stato abituale del suo spirito,
s’impossessava novamente di lui. Egli ricominciava a sognare, a correre
verso la mèta oscura, contro la quale si sentiva spinto come da una
volontà estranea alla sua, a inebriarsi di frasi sonore, di morbide
fantasticherie, d’imaginose aspettazioni di felicità.

Per tre giorni egli non poté avvicinar Flavia se non alla presenza
delle altre signore, in giardino o sul rialto. Nell’impossibilità
di parlarle da solo a sola, d’investigare il mistero dell’anima sua,
Aurelio sofferse veramente torture senza nome. Seduto un po’ lontano
dal crocchio, come per il passato, egli rimaneva intere ore fermo e
silenzioso al suo posto di guardia, osservando con occhi distratti
le cose circostanti o fingendo d’ascoltare i discorsi interminabili
delle quattro donne. Nulla nel suo aspetto che indicasse un turbamento,
un’angustia, la più leggera impazienza; eppure dentro di lui ferveva
una continua tempesta d’idee oblique e di sentimenti dolorosi. Talvolta
era una malinconia profonda, che lo prendeva durante quei ritrovi, come
un desiderio tragico di riposo e di morte; talvolta era un’irritazione
maligna, come una smania di vendetta e di crudeltà contro la fanciulla
che pareva incurante di lui, o contro le estranee che gli paralizzavano
ogni tentativo; talvolta in vece era un senso gelido di apatia e di
malessere, che gli rendeva intollerabili e quasi odiose tutte quelle
donne e tutte quelle ciance.

Flavia d’altra parte, forse consapevole del suo nuovo valore e delle
mutate intenzioni del giovine, sembrava che si piacesse di fomentare
la sua ansietà e d’esasperare per gusto felino i nascosti tormenti del
suo cuore. Sempre appostata accanto alla madre o alla cugina, non gli
si rivolgeva che assai di rado, e solo per indirizzargli fuggevolmente
un’insipida domanda o per lanciare qualche frizzo mordace contro le
sue teorie su la donna e su la società. In verità, ella poteva dirsi
maestra nell’arte d’usare l’ironia e il sarcasmo: sapeva cogliere ogni
più vaga occasione nel discorso comune per colpire direttamente dove
voleva; sapeva dare a una semplice frase un senso recondito e affatto
diverso dal letterale, con un gesto, con un atteggiamento del viso,
con un’inflessione della voce; sapeva trovare l’epiteto pungente e
cortese, che, mentre passa per gli astanti inosservato, fa impallidire
colui al quale si rivolge. E i suoi dileggi maliziosi venivan sempre
accompagnati dal sorriso più dolce e più benigno.

Sotto le sferzate subitanee che lo ferivano nel più vivo della sua
sostanza, Aurelio, costretto a tacere o a ricercare una difesa blanda
e rispettosa, fremeva di rabbia e di dolore; ma provava anche, al
risveglio de’ suoi istinti pugnaci, un sollievo particolare, una
specie di scossa violenta e non disaggradevole, come chi esca da una
camera afosa all’aria gelata della via. Più che le irrisioni, più che
gli scherni, più che le ingiurie, egli aborriva il contegno freddo e
indifferente di Flavia: eran la gioconda loquacità di lei, la calma
imperturbabile della sua faccia, sopra tutto il suo riso schietto e
squillante che provocavano in lui i più lividi rancori, le più fosche
idee, i più desolati abbandoni, spingendolo talvolta fin sul confine
della demenza.

La pena era così amara ch’egli pensava di non poterla oltre tollerare.
Ma omai egli era già al punto in cui l’amarezza sprona, in cui
l’ostacolo cimenta, in cui la passione si pasce sia pur di strazii, di
ripulse, d’umiliazioni. Egli partiva da quei convegni stanco, tediato,
oppresso, ma sempre più infervorato del suo piano, sempre più acceso
dal desiderio e dalla gelosia. Tutte le forze del suo orgoglio s’erano
omai concentrate in una mira unica e costante. Le grandi indignazioni
generavano le maggiori tenerezze. L’odio medesimo non serviva se non
a inasprire l’avidità del sentimento, a rendergli più attraente la
visione prossima della preda. E il pensiero del tempo perduto lo faceva
perseverare e ostinarsi nella sua impresa, come il denaro divorato
dalla Fortuna trascina fatalmente dietro di sè il giocatore che spera
di riaverlo.

Quel giorno, dopo la colazione, Aurelio era salito nella sua camera
in balìa d’un’inquietudine straordinaria. Dopo aver tentato in vano di
continuare la lettura d’un libro, che nei dì precedenti lo aveva molto
appassionato, era uscito all’aperto sul balconcino, e v’era rimasto
a lungo, magnetizzato dalla gran luce del pomeriggio. Il suo cervello
aveva vibrazioni continue, pareva còrso da brividi infocati; i palpiti
del suo cuore eran lenti e faticosi, come trattenuti nello sforzo da
una difficoltà. Un sentimento inafferrabile teneva tutto il suo essere,
il sentimento d’una necessità urgente, d’un’imminenza assai grave,
d’un’occasione propizia, sospesa sopra di lui, che il minuto fuggevole
avrebbe potuta irremissibilmente distruggere per la sua felicità.

Quando udì salire dal basso un suono di pianoforte, Aurelio si mosse.
L’intenzione oscura che lo agitava si dichiarò su l’istante. Egli
voleva veder Flavia nel giardino, in quell’angolo romito al rezzo
degli ultimi abeti, dove l’aveva trovata sola la prima volta; voleva
confidarle tutti i suoi pensieri, tutte le sue pene, per strappare a
lei una confessione esplicita che in un qualunque modo mettesse fine
alla crescente angoscia del suo spirito.

Discese precipitosamente le scale. Salì in corsa a traverso il bosco
senz’incontrar nessuno. L’affanno l’obbligò a sostare qualche attimo
al crocicchio delle due viottole, d’avanti all’antica erma dal volto
corroso e dai seni intatti, come gonfii d’un desiderio immortale. —
Oh, le memorie di quel calmo giorno lontano! Dov’era mai la sua pace?
Dove, la sua gagliarda indifferenza? Dove, i suoi puri sogni di gloria?
— Procedette poi a passo anche più spedito verso l’altura, quasi lo
chiamasse, da quell’ombra, il vivido raggio di sole che illuminava a
traverso un pertugio la sommità del sentiere.

Flavia era là, seduta sotto i pini, un po’ abbandonata su sè stessa,
tenendo su le ginocchia un ricamo che osservava con intensa attenzione.
D’innanzi a lei era disteso l’ampio scialle a mo’ di tappeto, tutto
coperto di scatole, scatolette, astucci, astuccini, e d’un’infinità di
fascetti colorati. Un’altra sediuola portatile all’opposto lembo dello
scialle indicava il posto di Luisa, discesa per l’esercizio quotidiano
di pianoforte.

Vedendola così vicina e così sola, sembrò al giovine che la sua mente
per prodigio si vuotasse e ogni sua energia venisse d’un tratto a
mancare. Rimase immobile allo sbocco del sentiere, incerto ancora
se dovesse avvicinarlesi o retrocedere rapidamente prima d’essere
scoperto. — Perchè era salito lassù? Che cosa avrebbe potuto dire
a Flavia? Con che parole avrebbe incominciato? Egli s’era lasciato
trasportare da un cieco impulso; e non aveva avuto il tempo di
prepararsi al difficile colloquio, di concretare un abile pretesto
di discorso o una qualunque giustificazione della sua presenza a
quell’ora, in quel luogo! Egli si trovava di fronte a lei, dubbioso,
inetto, disarmato, come un capitano che non abbia preveduto
l’incontro d’un nemico formidabile! Che fare? Come presentarsi? E
come allontanarsi? — Nella sua grande confusione, la fuga gli sembrava
impresa quasi più ardua dell’attacco.

Ella alzò per caso gli occhi dal telajo, e lo scorse.

— Signor Aurelio! — esclamò, piacevolmente stupita.

— Buon giorno, signorina, — egli disse, levandosi il cappello e
avanzando. Poi chiese con atto di maraviglia: — Sola?

— Sola, lo vede. Luisa, come sempre a quest’ora, è alla tortura
dell’odioso strumento.

— Difatti..... — egli mormorò.

Voleva dire: «Difatti l’ho sentita studiare dalla mia camera.» Ma si
trattenne in tempo, con il lieve tremito di chi stia per tradirsi o per
isvelare un interno segreto. In vece domandò, concitatamente:

— Ella non ama dunque la musica, signorina?

— Poco. Almeno amo poco la musica ch’io debbo eseguire: al contrario
in teatro mi piace assai, forse perchè mi piace molto il teatro. Se
sapesse quanto han fatto la mamma e il babbo per invogliarmi a imparare
il pianoforte! Essi mi avrebber voluta una grande pianista; io però li
ho scoraggiti presto con la mia inettitudine e con la mia negligenza.

— E ora, non suona mai?

— Mai, mai!... Ma prego, conte, s’accomodi, — ella aggiunse con
cortesia, indicandogli la sediuola disoccupata, d’onde tolse un pajo di
forbici e un rocchetto di filo d’oro.

Aurelio sedette, dopo un’esitazione breve.

Egli era alfine presso di lei, solo, assolutamente libero, come aveva
desiderato, come aveva voluto. In torno, il bosco d’abeti si piegava
discretamente in arco, formando una profonda nicchia verde, una specie
di parete alta e opaca, che s’apriva soltanto da una parte quasi per
ricevere i riflessi aurei del poggio ammantato dal sole. Il silenzio
della campagna circostante proteggeva il luogo nascosto, che pareva
creato per un qualche alto mistero. Su le vette degli alberi e sul
culmine del colle si distendeva l’etereo manto azzurro, il muto e
deserto paese dell’Eternità e della Gloria, a cui volano disperdendosi
i sogni dell’umanità insodisfatta. — Egli era alfine presso di lei,
solo, assolutamente libero, come aveva desiderato, come aveva voluto!

Perchè dunque temeva? E da che proveniva l’angustia del suo cuore? E
perchè non osava? perchè lasciava trascorrere inutili quegli istanti
preziosi di solitudine? Ohimè, la sua mente era vuota, la sua volontà
assopita! Egli s’abbandonava alla corrente come un uomo che disperi di
salvarsi!

Parlarono un tempo incalcolabile di cose indifferenti, con lunghi
intervalli di mutismo. Flavia gli mostrò, perchè l’ammirasse, il suo
ricamo, una combinazione a bastanza armonica di tinte languide, di
viola smorto, di verde smorto, d’oliva smorto, disposte a fiamma e
orlate d’oro. Egli, confuso e timido, teneva gli occhi fissi sul lavoro
paziente, e, per dire qualche parola, chiedeva spiegazioni su lo stile,
sul tempo che occorreva per compirlo, su l’uso ch’ella ne avrebbe poi
fatto. In tanto dentro di lui, i rimproveri sorgevano, a uno a uno,
implacabilmente, a similitudine di spettri maligni che uscissero alla
luce da una porta misteriosa; e una voce corrucciata ripeteva ognor
più forte la sollecitazione: — «Agisci! Spiègati! Domanda! Il tempo
fugge, e tu non sai se domani ti sarà concessa un’occasione altrettanto
propizia. Puoi tu sopportare oltre la tortura che ti ha dilaniato in
questi giorni passati? Puoi tu vivere di timori e non di speranze?
Pensaci: meglio, mille volte meglio lo schianto della più cruda
certezza all’angoscia del dubbio sempre crescente. Quando tu conoscerai
tutta la verità, allora soltanto potrai trovare la via di scampo, che
ora la tua vista ottenebrata non discerne.»

Il giovine ascoltava e fremeva. Durante un silenzio più prolungato, gli
parve alfine di poter sciogliere la lingua, d’aver trovato un appicco
facile per il discorso che voleva tenere; credette che un’ispirazione
buona fosse venuta a scuotere il torpore del suo spirito. Egli non
sapeva ancor bene quale fosse questa ispirazione; ma sentiva che
il momento era giunto per tentar la sorte e si diceva che una volta
gittato il dado la partita sarebbe stata senz’altro risolta. Alcune
parole si precisarono nella sua mente; egli le ripetè più volte con il
pensiero, senza poterle pronunciare. — E poi? E poi? — In fine, con la
voce tremante, abbassando gli occhi, mormorò:

— Signorina, avrei bisogno di parlarle.

Flavia, intenta al suo lavoro, alzò lentamente il capo e fissò Aurelio
con aria sospettosa, interrogando.

— Dica pure, — fece ella dopo una pausa, poi ch’egli non accennava a
proseguire.

Un nuovo e più grave eclisse oscurò per qualche istante lo spirito
di lui. — Che cosa dire? Come incominciare? Era dunque necessario
rispondere? Egli non sapeva più nulla, nulla; ignorava per fino dove
e con chi fosse; egli pensava a cose estranee; egli ora era tutto
occupato a considerare attentamente il disegno d’un gran fiore giallo,
che s’ergeva alto su l’erba del prato. Come staccare gli sguardi da
quel fiore? Come concentrare la mente sopra un determinato soggetto?

Gli occhi di Flavia, che lo fissavan sempre con un’espressione acuta
d’impazienza e d’interrogazione, l’obbligarono a troncare quell’indugio
ingiustificabile. Egli parlò pianamente, cercando le parole,
arrestandosi a ogni frase, quasi aspettando da lei un’interruzione che
gli risparmiasse lo sforzo supremo di concludere.

— Signorina — incominciò — ella deve scusare la mia curiosità...
È stata lei a risvegliarla... con la sua schiettezza, con la sua
espansività, con la fiducia di cui si compiacque d’onorarmi fin dai
primi tempi della nostra conoscenza.... Io vorrei farle una domanda....
una domanda forse un poco indiscreta.... forse inopportuna... e forse
no... Ma desidererei, prima di rivolgergliela, una promessa da parte
sua... desidererei ch’ella m’assicurasse di rispondermi francamente,
senza timori e senza reticenze... perchè dalla sua risposta può
dipendere... io saprei... In breve, signorina, mi permette di farle
questa domanda?

Flavia, rassicurata dal lungo preambolo, lo ascoltava sempre più
indulgente nell’aspetto, sempre più benevola, con un lieve sorriso di
sodisfazione su le labbra. Ella aveva in quel momento la coscienza
della sua superiorità di fronte a quell’uomo forte, intelligente e
coltissimo, che balbettava con lei come un bambino; e cedeva senza
riflettere al sentimento insidioso di pietà e di condiscendenza,
che suscita assai di sovente nelle donne l’omaggio timido o servile.
Rispose:

— M’interroghi pure quanto vuole; io cercherò d’esser più franca che
m’è possibile.

Il giovine, osservandola di sottecchi, s’avvide del suo mutamento e fu
investito come da un soffio subitaneo di speranza e d’audacia. Rialzò
con un moto brusco il capo e rivolse sicuro gli occhi verso quelli di
lei.

— La porta del suo cuore, — egli domandò, con accento leggero, — è
dunque sempre chiusa, anzi murata, come due mesi or sono?

Il dado era gittato. Ogni ansietà non aveva più ragion d’essere:
Aurelio si sentiva calmo, sereno, quasi indifferente, pronto a
sopportare qualunque più fiero colpo. E la fanciulla, offesa dalla
forma della richiesta e ancor più dalla espressione con cui era stata
proferita, aveva cessato di sorridere e sosteneva gagliardamente lo
sguardo di lui.

Si fissarono così un poco senza parlare, in atto di sfida. L’eterno
odio dei sessi, fatto di diffidenza, di paura e d’orgoglio, irritò e
disgiunse le loro anime, le quali un istante prima eran già in atto
di fondersi. Parve che ciascuno di essi volesse penetrare con gli
occhi nell’intimo dell’altro, senz’esserne a sua volta investigato;
parve, come in un duello, che ciascuno, raccolto nella posizione forte
di guardia, indugiasse a muoversi per la tema di scoprirsi o nella
speranza di sorprendere l’avversario con una botta fulminea.

Ella in fine si risolse a parlare.

— Io le risponderò, — disse con la voce grave, — come lei ha già
risposto a una mia domanda altrettanto indiscreta: schiettamente, più
che mai.

Aurelio la guardò, impassibile. Le parole crudeli non gli suscitarono
in quel momento nessuna commozione: le ascoltò sorridendo, e concluse
in tono scherzoso, ironicamente:

— Me ne rallegro molto con lei, signorina. E le chiedo perdono d’aver
dubitato della sua coerenza.

Più tardi però, quando fu solo, quando l’imagine dell’amata si sostituì
alla sensazione e la fantasia smussò gli spigoli pungenti della
realità, egli, ripensando a quell’ultimo colloquio avuto con Flavia,
ebbe le ore più torbide e più agitate della sua vita. L’idea d’aver
sciupato un’occasione favorevole, d’aver distrutto con un movimento
brusco e temerario l’incanto che stava già per avvolgerli entrambi,
lo rese folle d’ira, di rimorso, di dolore. Il flutto di tenerezza e
di passione, ond’era invaso, sommerse i piccoli rancori, gli impulsi
vendicativi, le ribellioni dell’amor proprio; ed egli non sentì più se
non lo schianto atroce della delusione, l’angosciosa tristezza del suo
povero amore incorrisposto e spregiato.

Su le prime accettò senza discutere il senso letterale delle parole di
Flavia, e giudicò irreparabile e definitivo uno stato di cose che era
fuori del suo potere e della sua volontà. «Ella non l’amava; lo aveva
respinto: ogni speranza dunque era omai perduta per lui.» Egli si vide,
per il capriccio d’una sorte cattiva o per una tragica disposizione
della Natura, perennemente solo e abbandonato tra esseri estranei
o nemici. Pensò che la vita a tal prezzo non valeva la pena d’esser
vissuta; pensò che la gloria era vana, l’umanità era trista, l’avvenire
incommutabile o non meritevole d’esser commutato. Uno scontento immane
del mondo e di sè stesso s’impadronì di tutte le sue facoltà. Egli
rimase soffocato nella stretta di tanta desolazione, maledicendo
all’esistenza e alle sue miserie, anelando inutilmente a un Bene,
ch’era l’Amore e poteva anche esser la Morte.

Ma una reazione benefica, il ritorno spontaneo e naturale
dell’illusione dopo lo scoramento supremo, non tardò a risollevare
il suo spirito e a infondervi di nuovo il soffio vivificatore della
speranza. Le sue abitudini di riflessione e d’analisi lo spinsero
in buon punto a ricercare sotto il velame delle parole il loro senso
recondito e a costruire pazientemente quelle ipotesi ch’eran per lui
meno avverse e meno scoraggianti. — Era dunque ben certo che Flavia non
l’amava? La sua ripulsa sdegnosa non poteva esser dettata da un tardo
desiderio di rivincita, dall’istinto femminile di difendersi con la
bugia, con l’astuzia, con l’offesa? E non l’aveva egli forse provocata
e meritata quella ripulsa, con la sua domanda importuna e piena di
sarcasmo? — Aurelio ricordò il sorriso che aveva a grado a grado
modificato l’espressione della fanciulla, mentr’egli parlava a frasi
interrotte e la corda della tenerezza vibrava ancora nel suo balbettìo
confuso: Flavia certamente in quell’attimo aspettava da lui una qualche
appassionata rivelazione, e l’aspettava palpitando d’impazienza e di
piacere. S’egli, in vece d’inorgoglirsi e di reprimersi, avesse aperto
con lealtà il suo cuore, probabilmente ella non avrebbe mutato contegno
e non gli avrebbe risposto in tal guisa. «Ella dunque lo amava; ella
non aveva inteso di respingerlo; ella poteva sempre divenire, quando
egli lo volesse, la donna tua.» Un impeto folle di gioja trasportò la
sua anima dagli abissi della disperazione al colmo della fiducia in
sè stesso e nel suo destino. Egli tremò di soavità, pensando d’essere
amato. Egli, imaginando l’avvenire, credette che la sua vita interna
acquistasse d’improvviso un’accelerazione prodigiosa. La gloria era in
lui; il trionfo della sua persona empiva di letizia l’universo. Ogni
cosa si rischiarava; ogni ostacolo cedeva, come disperso dalla passione
soverchiatrice. Gli passava da presso la Felicità, ed egli udiva bene
nel silenzio il rombo delle sue ali; egli sentiva l’aria scossa e
turbata dall’eterna Chimera proteiforme, dietro cui gli uomini volan
travolti, come foglie nel vento d’un traino impetuoso.

Ma i dubbii e i timori lo circuirono da capo, appena l’analisi si
spinse un poco oltre lo scopo per cui era fatta. Chi cerca il conforto
negli artifizii del raziocinio corre gli stessi rischi di colui che
cerca un tesoro nascosto nel fondo d’una palude. Il pensiero, nella
sua indagine, non può d’un tratto arrestarsi contento alla migliore
ipotesi, e trova sempre accanto a questa un’interpretazione contraria
che ne abolisce ogni valore di certezza e ogni virtù di consolazione.
— L’imagine del pretendente venne a frammescolarsi allora alle sue
considerazioni, e distrusse con il suo solo apparire tutto l’edificio
delle liete aspettative. Non era dunque possibile che il sorriso di
Flavia fosse dedicato a costui? Non era possibile che un’analogia di
situazione o di parole le avesse risvegliato nella mente il ricordo
del fidanzato lontano, illuminandole il volto di dolcezza e di
bontà? E l’ultima sua risposta non poteva essere in vece una superba
menzogna, ch’ella aveva detto volontariamente, per nascondere a un
estraneo il geloso segreto del suo cuore? Tutto ciò era possibile, ed
era più disperante d’ogni altra supposizione! La gelosia rinasceva;
l’odio contro il rivale noto e disprezzato saettava dentro di lui;
il desiderio della fanciulla, inacerbito da quell’odio e da quella
gelosia, diveniva uno spasimo inumano, una follia cupa e maligna che
fomentava nel suo spirito i più temerarii e i più obliqui divisamenti.

Nei dì successivi il dibattito continuò viepiù fiero: ogni frase,
ogni gesto di Flavia assunse nella sua imaginazione due sensi
contradittorii, ai quali egli rimaneva a lungo aggrappato come
agli orli d’una voragine. «Ella lo amava? Amava quell’altro o
rimaneva fedele al primo che aveva amato?» Egli rispose mille volte,
successivamente, a queste diverse domande con la stessa affermazione
convinta, interpretando una parola di lei scelta a caso nel corso d’una
conversazione indifferente, una sua occhiata fuggevole o un tremito
delle sue palpebre, un sospiro, un sorriso o un silenzio.

Non si eran più trovati soli dopo d’allora. Aurelio per una settimana
non aveva osato ripresentarsi a lei in quel luogo determinato, a
quell’ora fissa del giorno. Si vedevan dunque, come per il passato,
ai convegni comuni, dove non riuscivano a scambiare che qualche
breve discorso o di quando in quando qualche sguardo eloquente. Una
mutazione sensibile era però avvenuta nel contegno di Flavia: ella
aveva deposto la sua maschera sarcastica e lo trattava ora con la
massima cortesia, sempre un po’ fredda nell’aspetto ma con inflessioni
di voce sottilmente insinuanti e con una certa gravità di linguaggio
che dimostrava una deferenza insolita per lui, un rispetto nuovo per
i suoi principii e per le sue ambizioni. Una sera che donna Marta si
lagnava del nipote e delle sue trascuratezze verso di lei, ella disse
inaspettatamente, senz’ombra d’ironia:

— Per carità, contessa, non si lamenti! Io so che il signor Aurelio le
vuole molto bene. E poi, creda a me, noi donne non abbiamo il diritto
di pretendere dagli uomini, che hanno un ideale e interamente vi si
consacrano, più di quanto essi ci possono concedere. Se noi vogliamo
esser per loro un appoggio e non un ostacolo, è giuocoforza che ci
pieghiamo alle loro esigenze e accettiamo senza protesta il posto
ch’essi ci assegnano nella loro vita. Il signor Aurelio avrà certo uno
splendido avvenire; farà un grande onore al suo casato: ella dovrebbe
esserne superba e non chiedergli di più.

E un’altra sera che tutte a vicenda avevan pianto su la loro sorte,
ella disse anche, rivolgendosi a lui direttamente:

— Chi proprio deve esser felice tra noi è lei, conte; lei, che non ha
pensieri, non soggiace alla comune debolezza dei sentimenti, e vive una
vita speciale, tranquillo, sereno, appartato in mezzo alle sue idee,
come in un mondo creato a sua imagine e somiglianza. Ella non sa quanto
io la invidii, certe volte. Se fossi nata uomo, avrei voluto essere
come lei, forte, solo, libero e sdegnoso d’ogni giogo.

Non sospettava dunque ancora la fiamma divoratrice che gli ardeva nel
cuore? O diceva queste cose per accertarsene, per studiare sul suo viso
l’effetto che avevano dentro di lui?

Così passò un’altra settimana, e il piano di conquista imaginato
da Aurelio rimaneva tuttora allo stato di mera intenzione, sempre
più incerto e più difficile. Le sue speranze s’estinguevano,
progressivamente; il suo sogno di felicità andava avvolgendosi
ogni dì più in cupe ombre, da cui l’imagine di Flavia usciva a pena
visibile, tentatrice e irreale come un’apparizione d’incubo. Tutta la
sua giornata non era omai che una lunga agonia. Egli, come pensava al
giorno in cui il rivale sarebbe ritornato, si sentiva morire d’ansia e
di raccapriccio. E quel giorno era vicino; e ogni ora inerte, anzi ogni
attimo, che il suo cuore pulsando annunziava perduto, lo approssimava
di più! Che fare adunque? Che tentare? Eppure qualche cosa ancora
bisognava fare e tentare, prima di risolversi all’ultima rinuncia,
prima d’abbandonare il campo all’odiato vincitore.

In tanto, l’ora era giunta per lui del grande verace amore di sua vita.
Pareva che sotto l’azione del fuoco violento, tutto il suo essere
si fosse trasmutato, dilatato oltre i limiti consueti, alleggerito,
e arricchito di nuove e sconosciute proprietà. Pareva che fosse
sopravvenuta in lui un’altra anima in luogo della sua propria, un’anima
sensitiva e imaginosa che, avendo a sdegno le nozioni precise e le
fredde astrazioni, amava appassionatamente le cose incerte, mobili
e colorite, i facili errori della fantasia, i trepidi voli dell’idea
nell’aria crepuscolare dei sogni e delle leggende. Egli si rinnovava;
egli aveva cessato d’essere pensatore per divenire artista. Egli
sentiva ora il bisogno d’adornarsi, d’abbellire tutto ciò ch’era
intorno a lui, di vivere una vita estetica, composta di sensazioni
armoniche e ritmate.

La sua squallida camera, già ingombra di libri e di fogli gittati qua
e là in disordine, s’assestò, si trasformò, apparve sotto un aspetto
nuovo, femminilmente gradevole. Egli prese dalle stanze superflue
alcuni tappeti, un grande specchio e due o tre quadri, e ve li dispose
con cura, quelli sul suolo e questi su le pareti; con un drappo,
scoperto nella chiesuola annessa al palazzo, si foggiò un ricco
padiglione sopra il capezzale del letto; discese in giardino, e colse
molte rose, alcuni mazzi di fiori campestri, alcune fronde d’edera
per riempire i vasi polverosi e ornare con essi la tavola da lavoro,
il vecchio canterano e la specchiera. Persino nel suo modo di vestire
e d’atteggiarsi, egli dimostrò una sollecitudine non mai avuta, una
preoccupazione assidua e intensa di piacere, un gusto raffinato nella
scelta delle forme e delle sfumature, il cui segreto non avrebbe mai
sospettato di poter conoscere. E per occupare i suoi ozii agitati, si
fece mandare dalla città diversi libri di liriche, che lesse per la
prima volta, fremendo, esaltandosi, spasimando, quasi gli rivelassero
nel loro linguaggio poetico e ardente l’ardore e la poesia de’ suoi
sentimenti inesprimibili.

Alte idee, in vero, sorgevan nella sua intelligenza, mentr’egli compiva
inconscio la profonda metamorfosi. «Perché non debbo io amare?» egli
si domandava. «Perché questa rinuncia, questa mortificazione, questa
restrizione? Non sono io giovine? Non son forse degno del supremo
godimento della vita? L’attimo è fuggevole; e dopo l’attimo vengono
ininterrotte le tenebre del nulla. Posso io sacrificare questo attimo
a un avvenire, di cui non avrò mai più visione, nè coscienza? Posso
io ragionevolmente opprimere e disconoscere i diritti di questa carne
mortale, che _forse_ è tutta quanta la mia sostanza?» Egli anche
pensava: «Io ho saputo fino a oggi trionfare de’ miei sensi, per esser
libero e consacrarmi interamente alla preparazione d’una vasta coltura
e d’una chiara comprensione della vita. E per trionfare de’ miei sensi,
ho giudicato l’Amore un’inferiorità, una bruttura, un pericolo. Ma se
mi fossi ingannato? Se le commozioni dell’Amore, ch’io non ho voluto
conoscere, fossero diverse da quelle che ho supposte, e rafforzassero
in vece il carattere e sollecitassero l’ingegno alle imprese
memorabili?»

Dai libri di poesia, ch’egli continuamente leggeva, saliva al
suo cervello, come un profumo inebriante, il culto fanatico, la
glorificazione, l’apoteosi della grande passione, che l’Arte ha
generato e cui l’Arte filialmente venera. Per quei poeti, gente
nobile e illustre, l’Amore era tutto: era l’armonia dell’universo,
la fiaccola del genio, era la gioja, era l’ideale, era la divinità.
Senza l’Amore, il mondo non aveva più sole; senza l’Amore, la pace, la
gloria, le ricchezze, la stessa fede non eran se non parole vuote di
senso, ornamenti derisorii gittati sopra un corpo piagato e difforme. —
Perchè vivere se non per amare? — si chiedevan quei poeti, volgendo in
torno gli sguardi assetati di felicità. E il cuore del giovine ripeteva
profondamente, come un’eco fedele: «Perchè, perchè vivere se non per
amare?»

In quegli ultimi giorni, ispirato da quelle voci fascinevoli, sospinto
dal pensiero che l’altro stava per ritornare, Aurelio divenne ardito,
risoluto, intraprendente, non trascurando mezzo alcuno a fin di
raggiungere il suo scopo nel termine prefisso. Ormai nessuna incertezza
rimaneva in lui su quanto avrebbe dovuto fare per costringere Flavia
a una risposta sincera e decisiva: occorreva parlarle a cuore aperto,
dichiararle senza ambagi il suo sentimento, chiederle con lealtà se
lo potesse ella, ora o in un giorno non lontano, contraccambiare;
bisognava abbandonare i piani lenti e astuti per appigliarsi alle
risoluzioni rapide ed energiche. Ma come trovarla sola? Con qual
pretesto domandarle un colloquio in disparte? Ed era forse possibile
ottenere un risultato da una conversazione a bassa voce in cospetto
delle altre donne?

La migliore occasione per trovarla sola era irremissibilmente sfumata.
Dal giorno, in cui egli s’era spinto fino al sommo della pineta, Luisa
aveva pregato la zia di trasportarle l’esercizio di pianoforte alla
mattina, e non aveva più lasciato Flavia durante l’intero pomeriggio.
Aurelio, risalito là per ben due volte pien di speranza, aveva dovuto
ritornarsene deluso e scorato in palazzo, dopo aver passato un’ora di
supplizio ineffabile accanto alle due giovinette.

Egli procurò dunque di farsi intendere da lei a sguardi, a reticenze,
ad allusioni velate durante i ritrovi comuni sul rialto; si diede a
corteggiarla nettamente e volgarmente, sedendole con ostentazione
sempre vicino, cercando di trascinarla per gradi ad appartarsi
dal crocchio, a discorrere con lui solo di cose intime, discrete,
confidenziali. Più volte, nella mezz’ombra dei crepuscoli caduchi,
sdrajato al suo fianco su l’erba dello scalere, egli, approfittando
d’un momento opportuno, riuscì a parlarle del mutamento avvenuto in
lui negli ultimi tempi e ad accennarle i suoi nuovi desiderii; anche
tentò, con qualche inchiesta astuta, d’investigare a fondo nel mistero
della sua sensibilità. Ma le presenze estranee esercitavan pur sempre
sul suo spirito una bizzarra influenza: egli, per sottrarsi alla loro
soggezione, doveva dare alle sue frasi sentimentali un tono fatuo
e giocoso; egli doveva discorrere scherzando, a similitudine d’un
balbuziente che, per vincere la difficoltà di parola, bisogna che
canti.

Flavia, d’altra parte, pareva che si prestasse amabilmente a quel
giuoco: lo ascoltava con visibile piacere, e gli rispondeva a tratti
ridendo, schermendosi dalle celie con altre celie più leggere.

— Via, signor Aurelio, — gli diceva talvolta, oppressa dalla sua
insistenza: — sarebbe tempo di finirla con questa burla. Io non posso
credere a una sola dalle sue parole. Non posso credere ch’ella parli da
senno; e, le confesso, non mi garba d’esser burlata.

— Ma io parlo da senno, signorina, — egli affermava, cercando
d’atteggiare il viso a una espressione più seria.

— Lei? con le sue idee? con il suo orgoglio? con le sue belle opinioni
su le donne?... Ma mi stima dunque così ingenua e, diciamolo pure, così
sciocca da credere cecamente a tutto quanto mi si racconta? Ella, caro
signore, vuol divertirsi un poco alle mie spalle; ma io, benchè non
sia che un povero essere inferiore, ho però almeno tanta intelligenza
quanta ne occorre per intenderlo.

Altra volta, gli chiedeva anche con voce grave, quasi malinconica:

— Perché mi dice queste cose, signor Aurelio? Se scherza, ha torto di
scherzare. E se parla sul serio, ho torto io d’ascoltarlo.

E il giorno ultimo venne, inaspettato, senza che Aurelio avesse potuto
effettuare anche in minima parte il piano di conquista, che gli era già
sembrato così agevole e d’esito quasi sicuro!

Ritornò il padre Boris, ritornarono gli ospiti, riapparve il
pretendente basso e tarchiato, dalla pelle olivastra e dagli occhiali
d’oro. Venne anche a sera lo Zaldini, più fresco e più giocondo che non
mai, essendo stato chiamato per lettera dall’Imberido in sèguito alle
preghiere insistenti di Luisa.

La comitiva a bastanza numerosa, divisa in tre imbarcazioni, lasciò il
villaggio verso le cinque del pomeriggio per passare la notte a Baveno
ed esser pronta, la mattina dopo per tempo, a intraprender l’ascensione
del monte. In una lancia erano l’ingegnere Boris, il Siena e le due
fanciulle; in un’altra la signora Teresa, sua cognata e Giorgio Ugenti;
e nella terza infine, donna Marta accompagnata da Camilla, e Aurelio e
Luciano ai remi. La vecchia quantunque indisposta e sofferente, aveva
voluto seguire la comitiva almeno fino a Baveno, dove sarebbe rimasta
con la fantesca in aspettazione, per far ritorno a Cerro insieme con
gli altri nella sera successiva.

Una grande tristezza occupò l’anima del giovine durante la lunga
traversata e durante il pranzo interminabile alla tavola rotonda
dell’_Hôtel Belle-Vue_. Nel silenzio del lago, battuto da un sole
bianchissimo, nella gran sala oblunga, popolata d’Inglesi impassibili e
di Tedeschi ciarlieri, il pensiero di Flavia non lo abbandonò un solo
istante, e la presenza del rivale, sempre accanto a lei, non cessò
di martoriarlo, come un cancro ostinato che gli rodesse il cuore.
In vano lo Zaldini tentò più volte di farlo sorridere con le sue
storielle e il racconto grottesco d’una sua recente avventura d’amore;
Aurelio rimase pertinacemente muto e grave, finchè questi, tediato
dalla sua indifferenza, si risolvette a volgergli le spalle e ad
appiccar discorso con un vecchio signore inglese, suo vicino di mensa.
Ora Luciano chiacchierava allegramente e senza ritegni con il nuovo
suo amico, decantando nel più pretto idioma britannico la bellezza
incomparabile delle _misses_ e l’eccellenza del gin e del _whisky_ come
eccitanti delle più pazze fantasie.

— Io, se per avventura m’ammoglierò, — diceva lo Zaldini a voce alta,
— sarà senza dubbio con una signorina del vostro felice paese, perchè
adoro il biondo dei capelli e delle sterline. E voglio, la sera delle
nozze, rinnovare il celebre aneddoto del campanello elettrico, che voi
probabilmente conoscete, poichè l’eroe ne fu un vostro compatriota,
anonimo ma non per questo meno degno di memoria...

Il vecchio accennava di no col capo, incoraggiandolo a continuare con
un’occhiata piena di curiosità lasciva. E il giovine infatti, senza
farsi pregare, raccontava l’aneddoto salace, piegando il capo verso di
lui, soffiandogli le parole fioche all’orecchio, scoppiando a tratti in
una risata sonora, che trasfigurava per incanto il viso terreo e severo
dell’ascoltatore.

Nulla irritava di più lo spirito ansioso dell’Imberido che il
cicaleccio frivolo e ininterrotto de’ suoi due vicini. A intervalli,
tra lo strepito dell’acciottolìo e delle conversazioni diffuso per la
vasta sala, giungeva a lui, come un avvertimento di sventura, la voce
fessa e nasale dell’avvocato, seduto al fianco di Flavia a quattro
posti in distanza dal suo. Egli, roso dalla gelosia, aguzzava l’udito
a quel suono sgradevole, che pareva per poco dominare ogni altro
romore; a volte, credeva di comprendere qualche frase inconcludente,
un’affermazione, un ringraziamento, il nome dell’amata proferito
dalle labbra odiose; ratteneva profondamente il respiro per afferrare
il senso dell’intero discorso. Ma uno scroscio d’ilarità si levava
d’improvviso presso di lui, e tosto la voce si disperdeva nel clamore,
vinta e soffocata.

Aurelio doveva fare un enorme sforzo di volontà per contenere il
suo dispetto contro l’amico e vincere l’impulso cieco di levarsi in
piedi e allontanarsi da quella sedia di tortura. Almeno gli fosse
toccato in sorte un posto di fronte a Flavia e al rivale! Avrebbe
potuto scrutarli, spiare i loro movimenti, i loro sguardi, le loro
espressioni! Avrebbe potuto leggere su le loro facce il sentimento che
li occupava! In vece, da quel posto, non gli era dato nè di vederli nè
d’ascoltarli! Egli, anche sporgendo il capo in avanti, non riusciva a
scorgere se non le loro mani, così prossime che parevan toccarsi, così
mobili nella comune bisogna, che tal volta egli non sapeva distinguere
le une dalle altre!...

Dopo il pranzo, la comitiva uscì dall’albergo per fare una breve
passeggiata prima di coricarsi, e si diresse a piccoli gruppi verso
Stresa su la gran via provinciale che costeggia il lago fino ad Arona.
Il vespero era chiaro, pallido, còrso come da un brivido voluttuoso.
I vasti boschi di castagni, che avvolgono le falde del Motterone,
piovevano su la strada polverosa una frescura umida, un profumo
penetrante di terra e di vegetazione. Dal lago, a pena increspato
presso le rive, saliva un odor caldo di pesci e d’erbe fracide. L’isola
Superiore, sola su le nebbie delle lontananze, spiccava nitida dalle
acque, con le sue case fitte e inghirlandate, con il bianco campanile
della chiesuola acuminato verso il cielo, come un ideale.

Le donne procedevano insieme; poi venivan gli uomini in due file: il
Boris d’avanti tra l’Ugenti e il Siena; e Aurelio e Luciano in coda.
Luisa, accanto a Flavia, accennava a mezza voce, malinconicamente,
l’aria preferita del _Faust_; donna Marta, eccitata dalla novità
del luogo e dalla compagnia numerosa, parlava forte, con animazione
quasi febbrile, al braccio della signora Teresa e della sorella
dell’ingegnere.

L’Imberido, che si sentiva più calmo e come rassicurato, domandò
sorridendo all’amico:

— Perchè hai tardato tanto a ritornare a Cerro? Hai dunque sùbito
dimenticato la signorina Luisa e i tuoi entusiasmi sentimentali per
lei?

— Dimenticata? non del tutto. Ma, che vuoi? appena giunto a Milano fui
travolto in quell’avventura eroica, che t’ho narrata e tu non hai avuto
la bontà d’apprezzare. Ho corso due volte serio pericolo di vita; ho
passato intere ore rinchiuso in un armadio, come un vecchio soprabito;
ho visto un marito passarmi d’innanzi col lume in una mano e un’enorme
mazza ferrata nell’altra. Capirai: le commozioni violente esercitano
una certa influenza su la memoria: ed io per il momento ho scordato la
bionda incantatrice e l’innocente idillio campagnuolo. Però, come vedi,
al solo nome di lei apparso in una tua lettera d’invito, io non ho
esitato a lasciar Milano, ed ora sono qui. Che puoi pretendere di più
dalla mia fedeltà?

— E... come hai trovato Luisa al tuo ritorno? — ridomandò Aurelio con
ironia.

— Ah, per questo, mutata, molto mutata! Forse, te lo confesso, mi son
lasciato troppo desiderare. Ma... e tu, tu come te la sei passata in
questi due mesi di convivenza con l’altra, con la bruna, nel palazzo
fatato, tra i boschi maravigliosi? Sarei curioso d’accogliere oggi le
tue confidenze: credo che ne sentirei di carine. L’eremita mi ha l’aria
d’essersi fatto diavolo. M’inganno?

— Assolutamente, — rispose sicuro l’Imberido, fissando gli occhi a
terra. — La signorina Boris è in teneri rapporti con quel signore dagli
occhiali d’oro, che ci precede. Si parla anzi d’un prossimo matrimonio
con lui.

Lo Zaldini parve molto maravigliato dalla notizia.

— Davvero? Ma ella sarebbe fortunatissima, caro mio! — egli esclamò.
— Io conosco il Siena da molti anni. È un giovine coltissimo e
simpaticissimo! Uno degli avvocati più apprezzati e meglio retribuiti
di Milano! E poi, è molto ricco: figùrati che ha ereditato, or non
è un anno, cinquecento mila lire da uno zio di Ferrara. E sua madre
è nata di casa Orbetello, figlia del celebre banchiere di Roma,
arcimilionario. Se è vero quanto mi racconti, la signorina Boris fa uno
dei più splendidi matrimonii che si possano imaginare.

Aurelio ascoltò, contenendosi a stento, l’elogio del rivale aborrito,
detto senza malizia da una bocca fraterna. Non ebbe un gesto di
protesta; non una contrazione di spasimo, non un tremito delle mani,
non un battito delle palpebre. Ammutolì, si fece smorto in viso,
sentendo penetrare nel cuore a una a una le parole dell’amico, come
trafitture di spillo. Gli parve che tutto crollasse intorno a lui.
Gli parve di udire la sua condanna mortale pronunciata da un giudice
inappellabile. — Che valeva omai resistere? Che valeva lottare? A che
servivan la sua ostinazione e il suo orgoglio? Costui era il preferito,
era il vittorioso, era il più forte. Costui era l’invincibile,
d’avanti al quale bisognava per necessità cedere o soccombere.
Una divina speranza si spegneva, troncata da quelle affermazioni,
irreparabilmente. La luce non era più luce, la vita non era più vita!

Nel ritorno egli non parlò più.

Scendeva la sera e il vento aumentava su la montagna oscurata. Dalla
gola di Mergozzo, già invasa dalle tenebre, venivano a intervalli i
soffii striduli e subitanei, si riversavano scrosciando su le acque,
giungevan senza freni alla terra, e quivi, irritati dall’ostacolo,
imperversavano contro la foresta, che si piegava e si torceva con un
fragor formidabile di ruina. E l’anima del giovine avvizzita e divelta
dal dolore, pareva seguire travolta il cammino della corrente aerea,
anelando alla distruzione, alla dispersione, all’annientamento totale
di sè stessa, tra il folto di quegli alberi conquassati, verso le
lontananze misteriose, dove le raffiche ululando s’inabissavano.

La notte era ancora profonda, quando la comitiva lasciò l’albergo e
s’incamminò al lume fioco delle lanterne su per le falde boscose del
monte. Durante un lungo tratto nessuno parlò per il calle aspro e
angusto, serpeggiante sotto la verzura profonda: procedettero tutti,
uno dietro l’altro, in silenzio, ancora un poco ottusi dal sonno
bruscamente interrotto, intenti con gli sguardi al suolo, che le
sporgenze delle radici e delle rocce rendevano insidioso. A metà della
selva per la prima volta riposarono: le donne più affaticate sedettero
su i macigni o su l’erba, gli uomini rimasero in piedi vicino a esse,
in aspettazione.

L’aria era fresca e ancor buja: il vento, alquanto scemato di forza,
stormiva tra le fronde, spostando i brani di cielo visibili in cui
palpitavano gli astri. Verso l’oriente l’azzurro incominciava a
impallidire.

Si scambiarono poche parole durante la sosta, che fu assai breve:
le signore, assalite dai brividi, si lamentarono del freddo e
sollecitarono la partenza. Ripresero tutti insieme il cammino, nel
medesimo ordine di pocanzi, con la stessa svogliatezza muta, con
una maggiore preoccupazione del terreno. Man mano che salivano, il
sentiero si faceva più ripido e più scabro, l’ànsito dei viandanti,
più frequente e più grave. E il bosco si diradava, e i castagni
immiserivano tra la ghiaja, e il cielo costellato si schiudeva più
libero sopra le loro teste. Si udiva solo, nel silenzio antelucano, il
ticchettare monotono dei passi contro le pietre mobili del calle, si
scorgeva omai là, lontano sotto di loro, il lago, simile a una vasta
distesa di pece brunastra, simile a un immane stagno limaccioso in
mezzo alle incerte forme delle montuosità.

La comitiva, un poco avvivata dall’aria più leggera, giunse al confine
della selva e in vista della vetta, quando l’alba imperlava già
l’orizzonte sopra i colli di Lombardia. Gli ultimi alberi crescevano
sul ciglio d’uno sprone scosceso, al sommo del quale l’erta d’un
tratto s’addolcisce larghe praterie irrigue s’incurvano mollemente,
appoggiate a una tenue concavità e quindi al pendìo terrigno del monte.
Nel chiaror livido dell’ora, quei prati avevano una tinta cupa e unita,
d’una inimitabile morbidezza; e qua e là, di tra l’erbe, balenavano
foscamente le grandi pozze degli abbeveratoi o spiccavano le macchie
nere delle stalle e delle capanne pastorizie. Un tintinnìo languido
di campani e qualche sordo muggito venivan dall’alto, dove una mandria
usciva in quel punto per il pascolo.

Come la viottola si stendeva più larga e più agevole, la comitiva
ruppe per ragunarsi l’ordine primiero di marcia, e le conversazioni
non tardarono ad accendersi. Camminavano tra i prati, quasi su un
piano, disposti in due schiere, stretti gli uni agli altri, rinvigoriti
e imbaldanziti dalla brezza e dalla vision della mèta. L’Ugenti e
lo Zaldini apparivano allegrissimi, e gareggiavano in dir motti e
sciocchezze, che sollevavan l’ilarità delle quattro donne; e il Siena
a volte li secondava, con la sua flemma mordace e quasi maligna. Ma
Aurelio seguiva astratto e taciturno i compagni, volgendo gli occhi
inquieti su la severa maestà del paesaggio.

Era in lui, dal momento in cui aveva lasciato l’albergo, una
perplessità strana e confusa, che era andata a grado a grado
addensandosi fino a opprimerlo come un’angoscia. Aveva passato
una notte insonne, sprofondando gli sguardi nel vortice della
sua infelicità; aveva sentito più volte morire le sue speranze e
risuscitare per novamente morire; aveva singhiozzato come pazzo nelle
tenebre, immemore dell’amico che dormiva tranquillamente accanto a lui.
Ma poi, quasi per un prodigio, appena su la via, ogni triste ricordo
s’era spento, ogni doloroso residuo erasi dileguato nel suo pensiero;
ed egli era caduto in una specie di torbida incoscienza animale, rotta
da fuggevoli proponimenti e da incerte fantasie. Ora egli seguiva i
compagni astratto e taciturno, occupato tutto da un pensiero ignoto,
da un’ignota volontà, da un’intenzione che rimaneva occulta nei recessi
impenetrabili dell’essere.

Il pianoro fu ben presto attraversato. Il calle per giungere alla cima
si drizzò più arduo che non mai, lungo il dorso eretto, sdrucciolevole
per le infiltrazioni delle acque, che costituisce la mole centrale
della montagna. La comitiva dovette sbandarsi di nuovo, e ciascuno
separatamente intraprese l’ultima ascensione, chi seguendo il cammino
più comodo tra i margini del sentiere, chi cercando il tramite più
diretto su le zolle madide del prato.

Un superbo spettacolo si svolse frattanto, da ogni parte, intorno
a loro. La luce aumentò con rapidità, come regolata da una mano
impaziente: l’erbe splendettero, si copersero d’innumerevoli fiori;
le pozze degli abbeveratoi si rischiararono; le stalle e le capanne
pastorizie spiccarono con le loro forme pittoresche tra il verde
uniforme delle praterie. Di qua e di là, su la frescura dei pascoli,
apparvero distintamente le mandrie e i greggi, che si udivan prima
tintinnare, muggire e belare nell’ombra. Quando il chiarore si
diffuse più crudo, le catene dei monti, abbraccianti il Verbano, si
fecero tutte palesi nella loro ricca vegetazione fino alle estreme
punte settentrionali, si propagarono come un’immensa successione
di gigantesche onde impietrite rimaste a vestigio d’una qualche
primordiale fluttuazione tellurica. E, in basso, il lago opaco e inerte
si mostrò lucido e bianco nell’alba, simile a un bel fiume di latte,
simile a una favolosa lama d’argento piombata dall’alto e affondatasi
per la sua gravità nelle onde della terra molle.

In fine l’aurora venne a tinger di rosa l’orizzonte lontano. Sul
monte Nudo, sul Sasso del Ferro, su i colli di Mombello, lungo la
linea quasi diritta delle campagne d’Ispra e di Ranco, una zona di
luce rancia si prolungò in guisa d’un nastro serico che orlasse per
vaghezza i capricci del litorale. Quasi sùbito, alcune strisce di
vapori si formaron per incanto nell’aria pura; parvero imbeversi,
come spugne, delle tinte calde dell’aurora; s’accesero, fiammeggiarono
preannunziando l’avvento glorioso del sole. E questo maravigliosamente
comparve, fuor del dosso precipitoso che incombe sopra Laveno, prima
come un punto incandescente e poi come una gran bolla di fuoco espressa
dalle viscere del monte. Le vette s’imporporarono; i raggi discesero
a grado a grado per le chine, cospargendole d’oro; avvolsero in una
nebbia adamantina le falde boscose; s’infransero in ultimo su la
superficie delle acque, provocando nell’urto l’accensione subitanea
d’infinite scintille.

Il nuovo giorno era fatto. Le campane dei villaggi squillarono a festa,
in segno di saluto.

La comitiva fu sbandata e dispersa dalle difficoltà sempre crescenti
dell’ascesa. I più giovini e i più validi, procedendo lunghesso i
prati, s’allontanarono dagli altri che rimasero in basso, trattenuti
dall’affanno e dal calore. L’Ugenti e lo Zaldini, offrendo le mani
a Luisa, trascinandola a forza su per l’erta, scomparvero primi
alla vista dei compagni in una valluccia angusta, avvivata da un
ruscello garrulo e schiumeggiante. Il Siena più cortese restò sul
sentiere tortuoso con la signora Boris, l’ingegnere e sua sorella, per
soccorrerli nei passi disagevoli. Aurelio e Flavia si trovarono d’un
tratto soli e liberi, come smarriti nel monte deserto, su una piccola
prominenza erbosa a metà della china.

Quando il giovine se n’avvide, volgendo gli occhi in torno, ebbe
un sussulto improvviso e violento in tutto l’essere. — Flavia era
là, d’avanti a lui, come in quel giorno lontano sul minuscolo prato
al sommo della pineta! Ella saliva pianamente per quella distesa
inclinata, tra l’intonsa verzura, lasciando dietro di sè un mobile
solco di fili prosternati. Portava ancora, come in quel giorno, l’abito
grigio, attillato, senza guarnizioni, che una cintura d’un color di
lilla pallido avvinceva strettamente sopra i fianchi sobrii e a pena
arcuati. E recava in testa il cappellaccio di paglia dalle tese larghe
e convesse, su cui risaltavan due tulipani sanguigni in un ciuffo di
foglie e di spiche.

Oh, le memorie, le memorie! — Aurelio si volse, fissò gli sguardi
laggiù verso il lago, all’opposta riviera dove biancheggiava il
villaggio solitario. Era là, sotto di lui, remotissima, la pineta
del palazzo, simile a un ammasso di cose oscure, indefinibili; era
là il luogo nascosto e favorevole, dov’ella aveva per la prima volta
incantato la natura e la sua anima. Ancora ella lo incantava; ancora
e più, ella con la sua grazia annobiliva e irraggiava le apparenze
per mezzo a cui passava. Eretta su lo sfondo verde e fiorito, come
in quel giorno lontano, ella era simile a un’imagine immortale e
immutabile. Anche una volta il giovine, contemplandola, non vide in
lei la fanciulla ch’egli ben conosceva: vide l’arbitra del suo destino
mortale, la custode della sua felicità, l’incarnazione portentosa del
suo più schietto Sogno di giovinezza; vide l’Unica che avrebbe potuto
far di lui un essere giojoso.

Con un impeto subitaneo, come spinto a tergo da una forza esteriore,
accelerò il passo sul pendìo; e, giunto presso colei che lo precedeva,
disse:

— Flavia, m’ascolti. È la prima volta, dopo molti giorni, che ci
troviamo soli. Io ho passato due settimane di tortura ineffabile,
cercando un mezzo per poterle liberamente parlare..... Oggi finalmente
il caso mi ha favorito.... Ho bisogno di farle una confessione assai
grave e di chiederle un consiglio.

— A me? — ella domandò con un accento ambiguo, d’incredulità e
d’ironia, volgendo a pena il viso verso di lui.

— A lei, Flavia, a nessun altri che a lei.

Poi, dopo una pausa in cui parve ch’egli ascoltasse i palpiti
accelerati del suo cuore, soggiunse:

— Ella mi troverà molto mutato; si stupirà del mio cambiamento
radicale da un mese a questa parte. Io non ne ho colpa alcuna; ho
fatto il possibile, signorina, per soffocare i nuovi desiderii e le
nuove commozioni del mio spirito, per esser forte, per riprendermi e
per dominarmi. Tutto fu inutile. Dirò meglio: ogni sforzo della mia
volontà ribelle non riuscì che ad accrescere i miei turbamenti e le mie
angosce. Io sento oggi che una sola via di salvezza mi rimane: quella
di rivolgermi con tutta franchezza a lei, e di rimettere fiduciosamente
nelle sue mani il destino della mia vita.

— Mio Dio! — esclamò la fanciulla, tentando di sorridere. — È una
responsabilità troppo grave ch’ella mi vuole addossare! Io non credo
d’esser da tanto, signor Aurelio.

Il viso del giovine si coprì di pallore; le sue mani tremarono; i suoi
occhi si volsero inquieti in torno, come se un passo estraneo fosse
risonato d’improvviso dietro di lui.

— Per carità, Flavia, non rida, non scherzi! — egli riprese a dire,
rassicurato dalla solitudine; — ella deve comprendere ch’io parlo ora
con tutta l’anima mia; ella da molto tempo deve aver compreso ch’io
la cerco, ch’io la seguo, ch’io non perdo un’occasione di potermi
avvicinare a lei. Ricorda, Flavia, quel giorno che son salito lassù,
sapendo di trovarla sola, e l’ho interrogata? Ricorda il mio sgomento,
la confusione delle mie parole? Ricorda bene la mia ultima domanda? Già
fin d’allora avrei voluto confidarmi a lei interamente.... Era salito
per questo, ella deve averlo compreso... E m’ha dato una risposta così
fredda, così crudele!

Ella, che sempre camminava, sorrise.

— Crudele, ma meritata, — mormorò con un fil di voce, senza levar gli
sguardi dal prato.

— No, meritata, no. Forse, prima; ma poi, poi.... e in quel momento!..
Ebbene, Flavia, ella non sa, non può sapere quanto io ne soffersi.
Ella non sa ch’io ho passato giorni e notti intere, meditando quella
risposta, analizzandola, rivolgendola dentro di me, cercando sotto le
parole i sentimenti che potevano averla dettata.

— E perchè? — ella domandò, interrompendo, con un tono forte di voce
e un atto superbo della testa, che diedero al semplice motto una
significazione profonda.

Egli anche si eresse; egli anche per poco la fissò, sicuramente. Ma lo
sguardo di lei dal basso in alto, uno sguardo armato, turbinoso, pieno
di mistero, lo vinse, obbligandolo ben tosto a distoglier di nuovo gli
occhi dal suo viso. Egli rispose dunque, umilmente, a capo chino:

— Perchè io l’amo, signorina Flavia.

La fanciulla non si scosse alla grande confessione. Si fermò, in
aspetto indifferente, e mormorò dopo una pausa, abbassando le palpebre:

— Fermiamoci qui. Aspettiamo gli altri.

— Oh, Flavia! Flavia! — proruppe egli con impeto, irritato da quella
freddezza, esaltato dalla sua audacia, deciso a combattere fino
all’estremo. — Ella non mi risponde? Non ha nulla da dirmi, almeno per
cuore, per pietà? Ella mi respinge dunque così....?!

— No, io non la respingo, — disse Flavia tranquillamente, rimanendo
ritta di fronte a lui. — Non è ch’io la respinga. M’aveva chiesto un
consiglio, e volevo pensare coscienziosamente prima di risponderle,
appunto perchè le sue parole m’hanno colpita e il suo sentimento non
mi può che insuperbire. Essere prescelta da lei, nobile, intelligente,
coltissimo: è certo l’ideale sognato da una donna. Ma io ho sofferto,
signor Aurelio; le tristi vicende della vita m’hanno resa cauta e
diffidente.... Io so, io sento che, secondando l’impulso momentaneo,
preparerei la mia, la nostra sventura avvenire... E questo non voglio.

— Oh, Flavia....

— Ricordo bene le sue parole, — ella continuò, senz’interrompersi, con
un accento vibrato e sicuro, sempre ritta, sempre immobile di fronte a
lui. — «L’uomo deve rimaner solo, libero, senza impegni, senza legami,
se vuol riuscire nel suo intento, se vuol vincere e dominare....
L’amore è un’umiliazione... La donna è una ruina, un essere inferiore
che affascina e che distrugge!...» Ella vede, Aurelio, io le ricordo
tutte; e le ricordo perchè le ho a lungo considerate e meditate. Ho
creduto allora a lei, come credo adesso; ma devo alle prime parole
prestare una fede maggiore, perchè quelle eran dette pacatamente,
risolutamente, senza influenza di commozione o di sentimentalità.
Ora, pensi, pensi, Aurelio: come potrei, con la memoria lucidissima
delle sue massime sconfortanti, abbandonarmi, spensierata e fiduciosa,
all’illusione presente, al fascino ingannevole d’un sentimento, che in
lei non può durare?...

— Oh, Flavia, ella dubita di me? — egli chiese, con la voce strozzata
dall’affanno.

— Dio me ne guardi! Ma anche lei oggi si illude; anche lei s’inganna,
in preda a un’esaltazione passaggera, che basterà la più piccola
contrarietà a calmare e a disperdere.... Se io poi le intralciassi il
cammino? Se io potessi un giorno esserle d’ingombro? Se in avvenire
le dovessi costare il sacrificio de’ suoi ideali e delle sue giuste
ambizioni? Ella avrebbe pure il diritto di rimproverarmi questo momento
di debolezza e di malintesa condiscendenza; ed io avrei segnata per
sempre la mia condanna!

— Le mie ambizioni! — egli esclamò, con doloroso sarcasmo. — I miei
ideali! Io non rammento più neppure d’averli sognati!...

— E questo è appunto ciò che più mi sgomenta. Perché un giorno ella
potrà dire con uguale sincerità: «Il mio amore! Io non ricordo più
neppure d’averlo supposto!» E in quel giorno, gli ideali e le ambizioni
si saranno di nuovo impadroniti di tutta la sua anima, come e forse
più che in passato!... Ah, no, no, rifletta bene, signor Aurelio: è
impossibile, impossibile! A lei è riserbato un avvenire di gloria, ben
diverso dal mio. Ella deve restar solo. Alle sue idee predilette, alle
grandi battaglie della vita, ella deve consacrare tutto quello che
v’ha di alto, di buono, di nobile nel suo intelletto e nel suo cuore.
Solamente così potrà vedere giorni felici; poichè il sogno, che ella
ha accarezzato dai primi anni di sua giovinezza, è ben di quelli che si
realizzano o rendono intollerabile qualunque altra realità.

Ella parlava con una tale sicurezza e una tal limpidità, che le sue
affermazioni assumevano su l’animo dell’ascoltatore un’irresistibile
virtù persuasiva. Egli non osava più interromperla; egli la guardava
con un’indicibile angoscia, sentendo a poco a poco passare nell’anima
sua le idee ch’ella gli veniva esponendo e impossessarsi contro ogni
volontà della sua ragione. E vedeva l’ostacolo crescere tra loro,
salire a mano a mano come una nebbia densa, dividerli per sempre e
respingerli indietro, sempre più indietro, verso due plaghe remote,
inaccessibili l’una per l’altra.

— Pensi poi al mio passato, al mio tristissimo passato, signor Aurelio!
Esso pesa sopra di noi non meno grave del suo lieto avvenire. Pensi
alla delusione, ch’io ho sofferta e m’ha distrutto ogni ingenuità del
cuore, ogni fede, ogni entusiasmo! Che cosa potrei darle io oggi, in
cambio del suo affetto? Un povero fiore, sì, ancora, ma senza profumo
e che la bufera ha già fatto baciar la terra!.. Ella vede dunque:
è meglio, è necessario per entrambi che questa follìa non continui.
Lasciamoci da buoni amici, che si conoscono e si stimano. E proseguiamo
senza rimpianti le nostre due vie, che son diverse e non possono
confondersi. Più tardi, creda, ella penserà a me con riconoscenza; più
tardi mi saprà grado d’essere stata forte e riflessiva in un momento in
cui ella non lo era.

Flavia s’arrestò, calma, pensierosa, un poco triste, e lo fissò negli
occhi intensamente.

— Ella, in cuor suo, già m’approva, non è vero? — chiese, con un
pallido sorriso. — Addio, dunque. E... grazie!

Disse anche, dopo un silenzio:

— Si ricordi di me come d’un’amica sincera, devota, immutabile. Io non
dimenticherò quest’ora della mia vita mai, mai...

E gli stese con un atto franco la mano.

Aurelio, passivo e attonito, la prese nella sua, la strinse con forza.

Si udivan da lontano le risa della bionda echeggiare contro il monte
solitario; si udivan di qua e di là tintinnare i campani delle mandrie
e dei greggi su i pascoli.

Il Sogno pareva disperdersi, e il risveglio era assai desolato. Egli
era solo, senza più una speranza, senza più un’illusione. Egli sentiva
nell’anima la necessità fatale d’esser solo, «per riuscire nel suo
intento, per vincere e dominare.» Qualcuno aveva affermata questa
necessità; ed egli se n’era persuaso. Su, su, sempre più in alto, egli
sarebbe dovuto andare, continuamente andare, portando la croce della
sua sapienza, anelando affaticato alla sommità del suo Golgota, dove
avrebbe trovato ad aspettarlo la Morte. Quale forza terrena sarebbe
riuscita a opporsi a una disposizione superna? «Chi, chi può dunque
mutare il destino?»

Così era e così doveva essere. Le gioje dei mortali non eran per lui,
non eran per quelli che son destinati a sacrificarsi a un Ideale, a
versare il loro sangue più puro per fecondar la terra o per imbevere
le sabbie. Su, su, sempre più in alto, egli avrebbe dovuto andare,
continuamente andare, chiudendo gli occhi agli spettacoli giocondi
della vita, per non morire lungo il cammino d’invidia e di desiderio!

Ma non gli era dunque riserbato un conforto, un unico conforto nella
sua gloriosa sventura? Egli cercò avidamente nel suo cuore se un
conforto esisteva. E l’imagine sparuta della nonna gli sorrise benigna
di tra le tenebre, come la prima e l’ultima dolcezza del suo infinito
abbandono.



X.

TRA L’AMORE E LA MORTE.


La sera del dì successivo l’ingegnere e gli ospiti partirono. Anche
Luisa, richiamata dal padre, dovette lasciare la villa e far ritorno a
Milano in compagnia della sorella Boris. Su la spiaggia donna Marta e
il nipote discesero a salutarli.

Quando le due barche piene, dove avevan preso posto anche Flavia
e sua madre, scomparvero alla vista, la vecchia, ch’era stata
prodiga d’effusioni per tutti e aveva versato anche qualche lacrima
abbracciando la bionda che pure piangeva, ebbe d’improvviso un colpo di
tosse secca, violenta.

— Vedi? Vedi? — le disse Aurelio, impensierito, prendendola sotto il
braccio per ricondurla in palazzo. — Tu oggi dovevi fermarti a letto.
Dopo l’imprudenza di jeri, tu non saresti dovuta alzarti. Prendere
tutta quell’acqua! Arrivare a casa inzuppata come se avessi fatto un
bagno nel lago! E tutto questo, per la tua ostinazione, per non volermi
ascoltare mai, mai!... Non si poteva forse restare un’altra notte a
Baveno? Non si poteva, poiché il tempo minacciava, rimandare il ritorno
a questa mattina? Ma tu, no, tu, come sempre, hai voluto agire di
tua testa; tu hai voluto tentare la traversata, soltanto perché io ti
pregava di non farlo! E, lo sai, io te ne pregava soltanto per la tua
salute.... Ora, vedi? Vedi? Hai la tosse. Ora ti ammalerai...

— Crepi l’astrologo! — esclamò donna Marta, ridendo.

— Non scherzare, mamma, — proseguì serio e accalorato il giovine:
— quella tosse non mi piace, e bisogna che tu la curi prima che
sopravvenga una qualche complicazione. Alla tua età i mali più leggeri
son sempre pericolosi. Domani in tanto rimarrai a letto. Io esigo che
domani tu rimanga a letto.

— Domani farò quel che mi piacerà.

— No, domani invece farai quel che a me piace, e sarà forse la prima
volta che un caso tanto straordinario accade nella nostra vita.

Donna Marta, ancora commossa dalla scena dei saluti, non era in vena di
discutere e di litigare; e concluse con un sorriso di compatimento per
il nipote:

— Ebbene, domani ne riparleremo.

La mattina dopo; quando Aurelio si presentò nella camera dell’avola, la
ritrovò mezzo vestita d’avanti alla specchiera, in atto di pettinarsi.
Egli ebbe un moto subitaneo d’irritazione che a stento potè contenere.
Le domandò guardandola negli occhi:

— Come? Ti alzi?

Ella rispose:

— Sì, mi alzo.

Ma era più pallida del giorno prima. Era bianca come i suoi capelli,
come la sua camicia. Egli richiese:

— Hai tossito stanotte?

Ella rispose:

— A bastanza. Non ho potuto chiuder occhio fin verso l’alba.

— E ti alzi ugualmente?

— Sì.

— Perchè, mamma? Perchè?

— Perchè lo voglio. Perchè so che, se rimango a letto un giorno, non mi
rialzo più.

— Che sciocchezza!... Del resto, se farai così, quando ti deciderai
infine a rimanervi, sarà troppo tardi e forzatamente il tuo triste
presagio si avvererà.

Egli si avvicinò a lei, la baciò su i capelli, le disse con la voce più
dolce, implorando:

— Sii buona: ritorna a letto, mamma! Ascoltami!

— Non seccarmi! — ella proruppe d’un tratto, irosa. — Non ho voglia
d’esser seccata, stamane! Lo vedi, non mi sento bene! Mi sembra
d’avere il cuore sospeso a un filo! È una crudeltà questa tua di farmi
arrabbiare nello stato in cui sono! Vattene via! Lasciami in pace!

Aurelio comprese ch’era inutile insistere. Uscì dalla camera di donna
Marta, inseguito da un presentimento sinistro. Come fu solo su la
loggia, sentì gli occhi bruciare e inumidirsi; mandò un gran sospiro
di rassegnazione desolata. «Mio Dio! Quanto era pallida! Quanto era
breve la sua respirazione! Se mi morisse?!» egli pensò, trasalendo,
affondando per un attimo paurosamente gli sguardi nell’avvenire.

Durante la colazione, donna Marta si mostrò vivace, ciarliera,
oltremodo allegra, di quella sua allegria nervosa e scomposta che
ricordava un poco l’eccitazione d’un ebro. Domandò con insistenza
al nipote i particolari dell’ascensione, alla quale era stata
afflittissima di non poter prender parte; discorse a lungo dei vicini,
profondendosi in elogi e in attestazioni di simpatia per essi; lo
rassicurò anche a più riprese su la sua salute, affermando che in
verità ella non si sentiva nè meglio nè peggio di prima. Quanto a quel
po’ di tosse, càspita, non c’era proprio di che impensierirsi: ella
aveva già ordinato a Laveno certe polveri miracolose, le quali senza
dubbio ne l’avrebbero liberata in due o tre giorni al più tardi.

— E se non ostante le tue polveri, la tosse continuasse? — chiese
Aurelio, sempre serio, sempre più triste quanto ella si dimostrava più
gaja.

— Non temere: passerà.

— E se non passasse? Due o tre giorni senza cure posson esser causa
di complicazioni anche molto serie, che oggi si riuscirebbe senza
difficoltà a evitare. Pensaci! Vuoi che vada io a Laveno per chiamare
il medico?

— Il medico? Guàrdati bene! Io non voglio saperne di medici! Non ne
ho mai voluto sapere! E poi, ora, non è il caso neppur di parlarne.
Si tratta probabilmente d’un semplice raffreddore; e tu, al solito,
esageri....

Finita la colazione, il giovine uscì dal palazzo, sedette al sole sul
rialto, invaso da una strana malinconia, da un’ansietà inesplicabile.
Erano i residui del colloquio definitivo avuto con Flavia su la
montagna, che gli infondevan quella cupa tristezza? No; gli avvenimenti
di due giorni innanzi gli sembravano irreali e lontanissimi. Sentiva
anzi una discontinuità profonda tra lui e il suo essere anteriore,
tra quel che era stato e quel che era. Le sue speranze distrutte, il
suo amore respinto, la coscienza del suo avverso destino lo lasciavano
freddo e impassibile, com’esse non riguardassero più la sua persona,
ma bensì un’altra ch’egli aveva già amata ed ora a pena ricordava. Che
gli importava di Flavia? Che parte rappresentava ella nella sua vita?
Che conforto avrebbe egli potuto trarre anche dalla speranza d’essere
amato da lei? Ohimè, nell’ora presente, nessun conforto, nessuno!
Altre cure, e più gravi, assai più gravi, occupavano omai tutto il suo
spirito: altri dubbii, altri pensieri, altri sentimenti. Quali? Egli
non sapeva bene e non cercava di sapere. Egli aveva paura di inoltrarsi
nel mistero del suo accasciamento; provava orrore solo a rivolgervi
di sfuggita gli occhi dell’anima; evitava d’investigarsi, per la tema
di precisare il fantasma, d’udire in fondo a sè l’eco d’una tremenda
profezia.

Il sole, un sole autunnale senza forza e senza vita, slargava i
suoi raggi pallidi e velati sul prospetto del palazzo. Qua e là nel
cielo alcuni fiocchi bianchicci di vapore intorbidivano l’azzurro,
oscurandosi e addensandosi verso la pianura. Un silenzio di morte
teneva la spiaggia deserta, dove le barche s’allineavano in disordine,
immobili e abbandonate come carcasse respinte dall’onda.

Aurelio rimase a lungo seduto là, sotto quel sole scialbo, col corpo
inerte e gli occhi incantati nelle nebbie. Poi, d’un tratto, sospinto
da un’idea oscura, balzò bruscamente in piedi, rientrò a passi
solleciti in palazzo, si trovò senza volerlo nella camera della nonna.
Era vuota, spalancata, piena di luce: nessuna novità nella disposizione
d’ogni minima cosa; nessun oggetto estraneo, su i mobili; il gran
letto, coperto come di solito dall’ampia coltre verde, appariva piano,
intatto, senza una piega e senza una concavità. Egli, quasi incredulo,
volse a più riprese, attentamente gli sguardi in torno, per ricercare
un segno che rispondesse alla sua inquietudine. La camera aveva pur
sempre l’aspetto tranquillo e sereno dei giorni passati; nulla indicava
in essa un cambiamento, una perturbazione, una precauzione recente. Le
due fiale dello strofanto e della stricnina erano sole sul comodino,
chiuse come sempre nei loro astucci neri.

Aurelio, illuso dalle apparenze, pensò: «Nulla è mutato; nulla si
muterà.» E gli parve di liberarsi da un peso enorme, di respirare
ancora liberamente dopo una lunga soffocazione.

Egli uscì su la loggia più calmo, quasi lieto, quasi immemore de’ suoi
sospetti tenebrosi. Per un’astuzia incosciente, non volle presentarsi
sùbito alla nonna, non volle rivedere il suo viso smorto e sparuto,
temendo di distruggere o di menomare il beneficio superstizioso avuto
da quell’ispezione nella camera di lei, piena di luce e di pace.
Ridiscese al basso, attraversò difilato il cortile, si diresse a caso
lungo la riva verso il villaggio di Ceresolo.

A pranzo, donna Marta non si mostrò meno gaja e meno spensierata
che alla mattina. Parve anche al nipote che una lieve irradiazione
rosea tingesse le sue povere guance avvizzite, — che i grandi occhi
neri avessero il loro lampo consueto. Pensò, guardando l’avola, che
discorreva senza tregua: «Ella è forte; ha una vita misteriosamente
tenace; ella guarirà; ella vivrà a lungo con me.» Ma un accesso di
tosse ostinato venne a interrompere il corso delle sue considerazioni
per ripiombarlo nelle tenebre dei dubbii e degli scoramenti. Il corpo
debole della vecchia piegò sotto l’urto, le sue palpebre si gonfiarono
di lacrime; un gorgoglio umido si udì in fine nel fondo della sua
gola. Aurelio impallidì. — Quel rossor vivo su gli zigomi, quegli occhi
scintillanti non eran dunque sintomi di febbre?

— Come ti senti, mamma? — egli domandò, ansiosamente.

— Meglio, — ella rispose, e scosse con un atto blando il capo. — Non
bisogna impensierirsi per un po’ di tosse. Non ti sembra già diminuita
da stamattina?

— No, non mi sembra, — mormorò Aurelio tra i denti.

E s’oscurò in viso, sentendo nascere un sordo rancore contro la vecchia
che tentava d’ingannarlo.

Dopo una pausa di silenzio (anche donna Marta era ammutolita),
egli, viepiù inquieto, prese in mano il polso di lei. Aveva il
calor naturale, anzi era quasi freddo. Ma l’arteria batteva con
un’irregolarità straordinaria: aveva sùbite accelerazioni, che
somigliavano alla caduta d’una pietra per una balza assai ripida; aveva
arresti subitanei, come se la pietra precipitando avesse toccato il
fondo della balza e fosse rimasta.

— Vedi? Non stai bene; il cuore è agitatissimo! Spero che stasera
non uscirai sul rialto; spero che te ne andrai a letto sùbito dopo il
pranzo.

Donna Marta, per la prima volta, non si ribellò al desiderio del
nipote. Gli rivolse uno sguardo attonito e sgomento, e acconsentì
con la voce tremula, incerta, sommessa d’un bambino impaurito. La sua
fittizia esaltazione era caduta. Ella, che non aveva voluto credere
alle sue stesse sofferenze, era stata d’un tratto vinta e persuasa
dall’ultima affermazione d’Aurelio. I consigli, gli ammonimenti, i
rimproveri di lui le tornarono alla memoria, la turbarono. «Senza
dubbio, era stata una gravissima imprudenza, quella commessa... Senza
dubbio, avrebbe fatto meglio a rimanersene a letto in quei due giorni,
dopo il primo accenno di tosse! Ora, che sarebbe avvenuto? Che sarebbe
avvenuto di lei così debole, così affranta, così vecchia?»

— Se dovessi morire? — ella chiese, con un sorriso timido su le labbra
esangui. — Ho tanta paura della morte!

— Questo non sarà, — disse Aurelio con forza, quasi per rassicurare
anche sè stesso; — ma ti devi curare; ma non devi commettere altre
follìe; ma bisogna che mi ascolti quando parlo per il tuo bene.

— Sì, sì, hai ragione: lo farò, — assicurò la vecchia, mentre il suo
viso assumeva un’espressione indefinibile di terrore e d’ansietà,
come avesse ella visto per un attimo balenare sopra il capo un’arme
spaventosa.

E di nuovo ripetè, fremendo e sorridendo timidamente:

— Ho tanta paura della morte!

Si levò in piedi con uno sforzo visibile; salutò il nipote,
rivolgendogli uno sguardo pieno di tenerezza (insisteva sempre su le
sue labbra quel sorriso contratto, ch’era l’estrema dissimulazione
pietosa del suo spirito già invaso dalla paura); e, chiamata Camilla,
uscì al braccio di questa, faticosamente, dalla sala, — povero essere
rattrappito, deforme, ignobile cui l’argento della chioma infondeva
pure un’ultima tragica maestà.

La mattina seguente, Camilla si presentò inaspettata nella camera
d’Aurelio poco dopo l’aurora.

— La signora la vuole, — disse con la voce rotta dall’affanno,
precipitosamente: — venga sùbito!

Il giovine, che stava vestendosi, ebbe un sussulto violento. Non osò
interrogare la giovinetta, non osò trattenerla. La seguì, passivo e
taciturno, lungo il portico, con il viso alterato dall’angoscia. Entrò
dietro di lei, quasi sospinto da un turbine, nella stanza dolorosa; e
corse al letto, al gran letto bianco, dove la vecchia stava seduta,
appoggiata con le spalle a molti guanciali sovrapposti, i capelli
canuti erti su la fronte, gli sguardi stravolti e immobili come perduti
in una visione terrifica.

— Che hai, mamma? — egli domandò, ponendole una mano sul capo,
chinandosi fino a guardarla nelle pupille. — Che hai?

Ella mormorò, desolata:

— Ah, figliuol mio! Io muojo....

— Ma no... Perché dici questo? Che ti senti?

— Mi sento male, molto male. Ho passato una notte spaventevole. Se
avessi potuto, ti avrei chiamato. Ma come fare? Ero sola!... Ho temuto
di non rivederti più, di morire senza salutarti....

— Bisognerà chiamare un medico, sùbito.

— È quello che volevo dirti, — ella aggiunse, alzando le spalle con un
atto rassegnato. — Telegrafa a Milano al dottor Demala.

— Sì, mamma. Intanto però faccio venire il medico di qui. Credo che tu
ti spaventi a torto; credo che tu esageri: egli sarà a Cerro fra un’ora
e ti potrà ridare un po’ di coraggio.

Aurelio discese da Ferdinando, lo mandò a Laveno con un telegramma
urgente per il dottor Demala e l’ordine di ricondur sùbito con sè il
medico del Comune. Quindi risalì sollecitamente nella camera della
nonna.

Donna Marta, che pareva più tranquilla, gli disse:

— È tempo ch’io muoja, figliuolo mio! Forse la morte mi darà la pace
che non ho mai goduta in vita. La morte potrà sola farmi dimenticare
tutto il male, che ho visto e ho sofferto. Son vecchia, stanca, logora,
travagliata da mille dolori! Credilo: è tempo ch’io muoja; è bene ch’io
mi riposi alfine sotto la terra.

Il giovine cercò di disperdere il livido presagio che occupava la mente
dell’avola. Sedette al capezzale, prese una mano di lei nella sua, le
parlò sorridente del domani, componendole una prospettiva d’illusioni
serene, un’apoteosi di calma e d’amore su le rovine del passato
crudele. E non tacque, finchè non vide accendersi un fievole raggio di
speranza in quegli occhi indeboliti e dilatati dal lungo pianto, dal
morbo e dall’età.

La nonna in fine s’assopì. Egli fece chiudere le persiane, e rimase
seduto presso di lei a vegliarla, nell’ombra. Un gran silenzio era
d’intorno. Dal parco veniva il croscio sordo d’una fontana e a tratti,
appena sensibile, il canto melodioso d’una capinera. Null’altro. Il
respiro dell’inferma, fattosi nel sonno più aspro e più forte, pareva
dominare la calma mattutina e scandire con ritmo sinistro il tempo che
fluiva.

«Povera creatura!» pensava Aurelio, osservando il volto della
progenitrice, irriconoscibile con gli occhi chiusi, contraffatto dalle
rughe e dalle pieghe, con il mento spostato in avanti, con i capelli
scomposti su la fronte in guisa di fiamme nivee. «Povera creatura! Ella
è stata veramente infelice! La corona degli Imberido pesò su la tua
testa più grave d’una maledizione!» E, poichè nelle ultime parole della
vecchia eran passate le imagini atroci che ne avevan già insanguinata
la memoria, più profonda risorse in lui la pietà per quella fragile
donna a cui gli eventi avevano riserbato d’assistere alla fine di tre
generazioni d’uomini amati, spenti tutti nel fior degli anni da una
stessa tragica sorte.

In che dramma luttuoso doveva risolversi per lei il dolce idillio
sbocciato per incanto, tra i sogni ribelli e i propositi guerreschi,
nel piccolo giardino di casa Imberido, profumato dalle rose e dagli
aranci! Là, ella aveva visto il padre e colui, che sarebbe poi divenuto
il suo sposo, stringersi la mano in un patto di fratellanza mortale.
Là, tra il susurro feroce delle cospirazioni, ella aveva sentito
nascere, come un fiore dal sangue, il primo e solo amore di sua vita.
Oh, con che accelerazione prodigiosa aveva dovuto battere il suo cuore
d’adolescente in quel giorno illusorio, quando il giovine patrizio,
circonfuso da un’aureola d’eroismo, le aveva confidato all’ombra d’un
viale solitario le sue fiere speranze e il suo affetto sconfinato!
Fu quello l’unico tempo felice della sua vita, e fu così breve!...
Un anno dopo, il padre usciva per l’ultima volta dalla sua dimora,
pallido, ammanettato, stretto in torno dai birri austriaci per salire
il palco infame e penzolare nel vuoto, tra i chiarori dell’alba,
d’avanti alle mura del Castello. Tre anni più tardi anche lo sposo
doveva lasciarla sola per sempre, e partire verso una città remota,
verso una carcere sotterranea e bieca, dove la paura degli oppressori
lo aveva segregato e d’onde una morte precoce non l’avrebbe lasciato
mai più ritornare! Ah, quella sera lontana d’agosto, quando le era
giunto inaspettato l’annunzio funereo nella gran sala del palazzo
deserto, mentre il fanciullo, inconscio e immemore, giocava e rideva
a’ suoi piedi!... Ella se ne ricordava come d’una cosa avvenuta jeri;
e, ogni volta che ne discorreva con lui, i suoi occhi si riempivan
di lacrime, irresistibilmente. Non poteva essersi placato il destino
dopo le due prove funeste? No, il destino glie ne imponeva una terza,
e forse la più inumana di tutte! Di nuovo, trascorso un periodo di
calma rassegnata, erano incominciate per lei le lotte, le angosce,
gli spaventi, le disperazioni nel contrasto con il figlio indocile,
caparbio, violento, smanioso di piaceri e di prodigalità. Ella,
impotente a frenarne desiderii e ambizioni, aveva tentato in vano
di salvare con un’alleanza fortunata i più sacri tesori familiari:
la nuora, per colmo di sventura, era spirata mettendo alla luce un
bambino, e Alessandro aveva tosto ripreso le sue abitudini grandiose,
dissipando in pochi anni il resto della ricchezza paterna e la dote
della povera morta. Da allora i tristi fantasmi si succedevano senza
tregua nella memoria infaticata della vecchia; e il nipote, vegliando
sul suo sonno inquieto, li evocava tutti in ordine come li aveva uditi
raccontare da lei nelle sue ore di confidente abbandono: il mesto esodo
dall’antico palazzo, consacrato da tanti ricordi e venduto all’asta
dai creditori impazienti; i prodromi del male misterioso, che doveva
condurre al sepolcro il figliuolo, apparsi sul finir d’una notte
al suo ritorno da un’orgia; il graduale deperimento d’Alessandro,
inesplicabile ai medici che lo curavano; l’indebolirsi della sua
ragione; i primi vaneggiamenti, le prime stranezze, le paure infantili,
gli scoppii improvvisi di pianto; poi il rapido aggravamento e gli
strazii inenarrabili di lei, che non poteva più farsi riconoscere, che
si sentiva una estranea, un’ignota di fronte al figlio inebetito; in
fine la terribile agonia, le imprecazioni mute del morituro contro di
lei, contro la madre, l’ultimo grido e l’atto di lanciarsi verso la
finestra spalancata, il rantolo breve e l’immobilità della fine!

Tutti gli episodi amari di quell’esistenza tornavano nella memoria
d’Aurelio, a uno a uno, osservando il volto cadaverico della nonna
assopita, che agitavano a intervalli moleste visioni. Ed egli,
riandandoli, pensava con maraviglia alla resistenza tenace del
suo fragile organismo, alla freschezza incorrotta della sua anima,
che a traverso tante e così gravi avversità non s’era sciupata, nè
invecchiata, nè inacidita, nè delusa. Come, come non era ella già morta
di dolore? Come aveva potuto trovare ancora un sorriso, dopo tante
lacrime sparse inutilmente sopra le cose irrimediabili? Eppure ella era
rimasta semplice, innocente, spensierata, amante della vita, come nei
primi anni felici della sua adolescenza, come una bambina ignara d’ogni
tristizia! Ella aveva piegato, a mo’ d’un giunco, sotto le raffiche
veementi, e s’era sempre rilevata per ricever di nuovo, pienamente,
l’impeto d’altre raffiche! «Ma ora? ora?» si chiese il giovine
riguardandola, angosciato. «Ora che è tranquilla, che è libera d’ogni
cruccio, d’ogni angustia, d’ogni paura, ora potrebbe dunque morire?»

Dopo due ore d’ansiosa aspettazione, il medico giunse. Era un giovine
di trent’anni, pallido, bruno, con una foltissima capigliatura
castagna, con un sorriso ironico continuamente fisso su le grosse
labbra escoriate. Egli visitò l’inferma con cura minuziosa, si chinò
a più riprese sul suo torso denudato (oh, come spiccavan le costole a
traverso il debole involucro della pelle!), glie lo percosse in ogni
parte, ascoltò i battiti del cuore, rivolse a lei e al nipote molte
domande precise, e concluse in fine sorridendo che non c’era ancora
motivo d’impensierirsi, che bisognava attendere, che si trattava per il
momento d’una leggera bronchite, un poco inquietante solo per le tristi
condizioni del cuore.

— Non morirò, dottore? — gli chiese donna Marta, in forma di scherzo,
salutandolo.

— Signora mia, — egli rispose allegramente, — la nostra vita è in
mano di Dio; ma, per quanto ne sappia, non credo ch’ella sia finora in
disgrazia di Quello lassù. In tanto, pensi a scacciare le cattive idee
per discendere al più presto da quel letto, dove si sta bene di notte
ma non di giorno, e sopratutto in campagna. A rivederla.

E al nipote, che lo interrogava ansioso, lungo le scale, egli rispose
asciutto e risoluto:

— Non ho altro da aggiungere, signor conte. Speriamo che non
sopraggiunga qualche complicazione. Ora le scriverò una ricetta, e
passerò stasera o domattina a rivederla.

Nel pomeriggio le signore Boris, avvertite della visita del medico,
vennero premurosamente a chieder notizie di donna Marta. Parevano
entrambe molto addolorate, e non entrarono nella sua camera che in
sèguito alle esortazioni insistenti d’Aurelio. La vecchia, già alquanto
sollevata dalle parole del dottore, ebbe dalla loro presenza quasi
una conferma della poca gravità del suo male: le accolse dunque con
visibili segni di gioja, le fece sedere amabilmente accanto al letto,
ritrovò con esse per un’ora la sua loquacità ilare e giovenile. Anche
la signora Teresa, rassicurata dall’umore eccellente dell’inferma,
dimise ben presto il suo contegno grave e compunto; e la conversazione
s’accese tra loro viva, leggera, volubile, come già sul rialto negli
ultimi convegni.

Aurelio, seduto dall’altra banda del letto, guardava fissamente Flavia:
non l’aveva mai veduta così smorta e così commossa; ella non diceva
che una qualche parola di quando in quando, allorché era direttamente
interrogata da sua madre o da donna Marta, e teneva gli sguardi bassi:
una ruga prolissa le solcava la fronte tra ciglio e ciglio. Il giovine
la guardava, cercando d’immaginare la causa di quella sua mestizia; e,
inconsapevole, traeva dalla vista di lei una dolcezza serena, un senso
indefinibile di pace e d’oblìo, che si stendeva come un fitto velo su
le angosce profonde della sua anima.

Il giorno declinava: il sole era scomparso dal giardino; un soffio
di brezza entrava dalla finestra aperta, gonfiando le tende, movendo
il lembo delle coltri a pie’ del letto. D’un tratto la vecchia, che
discorreva animatamente, ammutolì, s’abbandonò inerte su i guanciali.
Un tremito agitò i suoi occhi, che parvero appannarsi, confondersi nel
vuoto, perdere ogni luce; un fioco rantolo, come un cigolìo interno,
s’udì distinto nella sua respirazione accelerata.

— Donna Marta! Donna Marta! — chiamò la signora Teresa, alzandosi di
scatto in piedi, avvicinandosi a lei, sgomenta dal suo aspetto e dal
suo silenzio improvviso.

L’inferma non rispose, nè si mosse. Anche Flavia e Aurelio s’eran
levati e l’osservavano ansiosamente.

— Che l’abbia fatta parlar troppo?... — chiese confusa la Boris
all’Imberido. — Dio mio! Se l’avessi imaginato!... Forse sarà stanca;
forse avrà bisogno di riposo....

— Sì, di riposo.... — mormorò con un sospiro l’inferma, quasi si
scotesse allora da un deliquio momentaneo. E tentò di sorridere, e
stese con uno sforzo la mano per salutare.

Le donne, prima d’uscire, la baciarono entrambe sul viso con sincera
effusione.

— Non ci tenga in pena! Si alzi presto. Noi siamo perdute senza di
lei; — aggiunse Flavia con la voce tremula, mentre stava per varcare la
soglia.

Aurelio, incitato dall’avola, le accompagnò lungo il portico fino alla
scala.

— Se ha bisogno di noi, ci comandi, — gli disse la signora Teresa. —
Io e Flavia saremo ben liete di poterle esser utili in qualche cosa.
Se vuole, per esempio, che qualche notte la vegliamo noi.... Flavia
è una buona infermiera; io ne conosco tutta la pazienza e tutta la
sollecitudine.... Ella non cerca altro.

— Oh, sì, signor Aurelio, — esclamò impetuosamente la giovinetta; —
voglio tanto, tanto bene a donna Marta!

Ella arrossì così forte che parve le si fosse raccolto tutto il
sangue delle vene sul viso. E distolse sùbito con un atto timido gli
occhi, che scintillavano, da quelli del giovine. — Perché Aurelio
fu assalito da un brivido alle sue parole e al suo turbamento? Egli
ebbe un’intuizione fulminea dei tristi pensieri che si movevano
nella mente di lei; egli credette d’indovinare il perché della sua
malinconia presso il letto della nonna ammalata. — Era vero! Era
vero! Ella lo amava: ella temeva per lui; ella tremava per lui su la
vita della sua cara! — Un trasporto di tenerezza e di gratitudine
lo spinse irresistibilmente verso la fanciulla; ma non fu che un
attimo. L’eccitazione sentimentale si placò; il tumulto del cuore si
tacque; alla certezza della prima supposizione successe il dubbio, lo
scoramento, l’indifferenza. Egli rientrò, già immemore di lei, nella
camera di donna Marta, tenuto da una sola ansietà, sorretto ancora da
un’unica speranza.

Quella notte Aurelio non si coricò nè potè chiudere occhio. Rimase
sempre al capezzale dell’inferma, assistendo inutile e straziato
alle sue inquietudini, alle sue sofferenze, a’ suoi delirii, alle sue
soffocazioni. Dieci lunghe ore, interminabili, egli rimase accanto a
lei, nell’ombra della vasta stanza a pena mitigata da una debole fiamma
oscillante, nel lugubre silenzio della campagna rotto a tratti dai
lamenti dei gufi o dallo strepito sordo del vento. Donna Marta non ebbe
un attimo di requie durante l’intera notte: oppressa dall’affanno, ora
accesa da un calore intollerabile, ora assiderata da un gelo mortale,
s’agitò, smaniò, rigettò indietro le coltri, s’avviluppò in queste
fino ai capelli, domandò di vestirsi, d’uscire; sotto un accesso più
violento, supplicò perfino il nipote d’andar sùbito a prendere il prete
perchè si sentiva morire, morire. Livida, stravolta, con le chiome in
un disordine fantastico, con gli sguardi spenti o inferociti, ella a
ogni momento lo chiamava a sè, gli afferrava con forza una mano, gli
chiedeva come folle se quel martirio doveva durare eterno, se quella
notte non doveva finire mai più.

In vano Aurelio cercò di rassicurarla, ricordandole le parole dette dal
medico alla mattina; in vano cercò di frenarla, spiegandole il danno
di quelle smanie e di quelle frenesie, supplicandola, almeno per amore
di lui, d’esser più calma, di dominarsi, di non abbandonarsi in tal
guisa alla disperazione. Ella non lo ascoltava più; ella non sentiva
se non i bisogni momentanei del suo corpo addolorato: aveva caldo, e
violentemente si scopriva; aveva freddo, e si sprofondava rabbrividendo
sotto le coltri; non poteva respirare, e chiedeva l’aria libera, e
voleva uscire così, sola, nelle tenebre, verso l’aperta campagna dove,
tremando di desiderio, udiva il vento frusciare.

Su l’alba finalmente ella s’acquetò un poco. Esausta, ricadde su
i guanciali, chiuse gli occhi e parve assopirsi. La candela, tutta
consunta, agonizzava a pie’ del letto. Aurelio s’alzò con precauzione,
andò in punta di piedi a spegnerla, ritornò sùbito al suo posto
vicino all’inferma. Si sentiva stanco, sfibrato, aggranchito; ma non
aveva sonno. Un’apatia desolata fasciava la sua anima; non un palpito
di pietà, di dolore, di sgomento sollevava il suo petto; egli era
vuoto, vuoto e nero come una caverna senza luce. E stette immobile,
lungamente, finché apparve il sole, a contemplare quel viso cereo,
ossuto, spettrale che, senza il rantolo umido gorgogliante nella gola,
si sarebbe detto l’imagine d’una morta.

Il medico di Laveno entrò verso le nove nella camera di donna Marta,
tranquillo, indifferente, con il suo immutabile sorriso un poco ironico
su le grosse labbra escoriate. Sedette, senz’aspettare un invito,
su la sedia prossima al letto; ascoltò, stupito e quasi incredulo,
la descrizione della notte tormentosa che gli fece l’ammalata e
il vegliante confermò. S’era appena levato in piedi per esaminarla
novamente, quando Camilla venne ad annunziare l’arrivo del dottor
Demala.

Questi, un uomo tarchiato e possente dalla testa enorme, dagli occhi
piccoli e brillanti sotto due foltissime sopracciglia brizzolate, era
un vecchio amico di famiglia: aveva prestato le sue cure amorevoli
durante la lunga infermità del padre Imberido; e conosceva a fondo
le tristi condizioni di salute della contessa per averla assistita
più volte nelle sue frequenti indisposizioni di cuore e di bronchi.
S’avvicinò sinceramente commosso a lei, le prese con affetto una mano
nelle sue.

— Che mi fa, donna Marta? — disse con la sua voce cordiale. — Che
brutte sorprese mi riserba, vivendo lontana da me?

— Caro dottore, — ella rispose puerilmente, rianimata dalla sua
presenza. — Avevo tanto desiderio di vederla, che ho fatto il possibile
per ammalarmi....

— Ho sentito! Ho sentito!... — soggiunse il dottore, avendo già
interrogata Camilla su le cause del male. — Sempre imprudenze! E sì,
che sarebbe ornai tempo di metter giudizio!... Vediamo dunque che c’è
di nuovo.

I due medici la visitarono insieme alla presenza d’Aurelio. Poi,
rassicurata l’inferma, uscirono insieme dalla stanza, seguiti da lui
più pallido e più ansioso che non mai. Quando furono al basso, il
dottor Demala dichiarò schiettamente trattarsi d’un’infiammazione
piuttosto estesa al polmone sinistro, che lo stato del cuore rendeva
oltremodo grave e pericolosa. Non potendo ritornare a Cerro il giorno
successivo, raccomandò l’ammalata alle cure del collega e pregò
l’Imberido di telegrafargli sùbito in caso d’urgenza: ordinò le punture
di caffeina, una soluzione espettorante e le polveri di chinino se la
febbre fosse ricomparsa.

Nel risalire in barca, disse al giovine che lo guardava muto, attonito,
accasciato, quasi implorando una parola di conforto:

— E tu, Aurelio, non perderti d’animo. Io doveva dirti tutto; ma ora
soggiungo che finora non s’annuncia alcun pericolo imminente. Si può
sperare.... Si ha diritto di sperare che tutto si risolva secondo
i nostri desiderii. A doman l’altro; e fate in modo ch’io la trovi
meglio.

E la barca s’era allontanata, mentre i due medici discorrevano tra loro
animatamente.

Il giovine rimase solo su la spiaggia, ritto, immobile, accompagnando
con gli occhi il vecchio amico che forse aveva cercato d’illuderlo.
«Sarebbe troppo, troppo!» ripeteva meccanicamente dentro di sè; e le
ginocchia gli vacillavano, e il battito del cuore pareva soverchiare
lo strepito dell’onda contro il greto. Quando la barca s’eclissò, egli
si mosse: andò a gittarsi sul divano in sala da pranzo; si strinse il
capo tra le mani, come volesse spremere le lacrime che non volevano
sgorgare. «Sarebbe troppo, troppo!» esclamava a tratti, senza più
intendere il significato delle sue parole; e aveva la sensazione
d’esser seduto nella più fitta oscurità e di non potersi alzare, non
sapendo dove mettere i piedi, dove dirigersi, dove trovare una via di
salvezza. Come levò gli occhi trasognati, quasi uscisse da un letargo
profondo, vide d’avanti a sè nel sole il tavolino da lavoro della
nonna e la grande poltrona vuota. Quell’apparizione subitanea di cose
memori su la soglia della sua coscienza lo riempì di terrore e di
cordoglio: nulla, nulla al mondo, neppure la stessa presenza dell’avola
spenta, avrebbe potuto dargli un’idea più chiara e più tremenda della
sua sciagura. «Ecco,» egli si disse, «quelle cose non mutano e non
muteranno; il sole scendeva a illuminarle quand’ella le occupava; il
sole scende sempre a illuminarle, ed ella non vi è più!» Sentì che
il pensiero di nuovo gli si confondeva; che il cuore a poco a poco
rallentava il palpito; che la tension dei nervi s’ammorbidiva, sotto il
peso d’un’immane e schiacciante fatalità. Un nodo di pianto gli salì
alla gola. La vista gli si offuscò. Egli piegò la povera testa su le
palme, e ruppe alla fine in singhiozzi, perdutamente.

Nel pomeriggio ritornarono le signore Boris a veder l’ammalata;
rimasero a lungo presso di lei, quasi sempre silenziose; se ne andarono
tristi e scorate quando il giorno tramontò, raccomandando ancora ad
Aurelio di non dimenticarle, di ricorrere a loro senza riguardi per
qualunque servizio. La sera cadde; e donna Marta, ch’era stata fino
allora a bastanza tranquilla, riprese ad agitarsi, a lamentarsi, a
rantolare. Nè il nipote nè la fantesca poterono abbandonarla un sol
momento durante l’intera notte, che fu assai più torbida e spaventosa
della precedente. Verso il tocco un temporale scoppiò sopra il golfo,
riempiendo l’aria di bagliori e di boati; e l’inferma incominciò a
delirare. Ella voleva alzarsi, voleva partire, voleva fuggire; e, come
Aurelio la tratteneva, in un risveglio di memorie antiche chiedeva
soccorso alla madre, non riconoscendo più il figlio di suo figlio,
credendolo un estraneo che volesse chiuderla per violenza in quel luogo
di tortura.

— Mamma, mamma, ajutami! Portami via! — ella urlava con la voce rauca,
strozzata dall’affanno, mentre cercava di svincolarsi e di precipitarsi
dal letto.

E nulla nella notte, tra il frastuono della bufera, era più tragico di
quel grido infantile nella bocca d’una vecchia canuta e moritura!

L’alba alfine s’annunciò, una lugubre alba piovosa come d’autunno
estremo. L’inferma ricadde affranta su i cuscini, invocando la madre
in un ultimo fievole grido; Camilla, pallida e disfatta dalla veglia,
s’assopì reclinando il capo sul piano del letto; Aurelio, in punta di
piedi, uscì sotto il portico per respirare, per sottrarsi alle visioni
di follìa che l’assediavano nella camera dolorosa.

Su la loggia di fronte, dalla parte abitata dai Boris, splendeva ancora
nel timido crepuscolo un lucignolo d’avanti a un’icona. L’imagine,
consacrata dalla fede, rispettata dal tempo e dagli uomini, era un
piccolo brano del fresco, che illustrava in origine tutte le pareti
del portico superiore e che più tardi era stato ricoperto da un
intonico bianco per la volontà d’un marchese de Antoni, pauroso di
quelle figure allegoriche e oscure tra cui a ogni tratto si vedeva la
Morte spietatamente falciare. Era un gran volto di donna giovine dai
lineamenti incerti e rozzi, ma d’una singolare espressione mistica
nei larghi occhi smunti rivolti verso il cielo. Rappresentava forse
in origine una martire nella estatica aspettazione del supplizio;
ora però quel volto appariva coronato da una aureola circolare di
fattura recente, e si diceva l’imagine della Madonna. I guardiani
del palazzo e la gente del villaggio asserivano poi che l’icona aveva
compiuto nel tempo trascorso molti miracoli, e che, velata anch’essa
dall’intonico, se n’era liberata ed era riapparsa sola in una notte,
maravigliosamente.

Il giovine, inconsapevole, fu attratto da quel lume, che oscillava al
vento umido dell’alba. Attraversò cautamente i due lati della loggia,
giunse presso al sacro emblema e si fermò, come arrestato da un
ostacolo, d’innanzi ad esso. Un’immensa desolazione era in lui: la sua
anima era piena d’ombra e di mistero. Grandi fantasmi vi si levavano
a tratti, fluttuavano alquanto nel vuoto, svanivano verso l’alto,
quasi assorbiti da una fauce immane spalancata sopra di essi. — Tutto
era vano! Tutto era triste! Tutto era irreparabile! A che valevan gli
strazii, i timori o le speranze? — Quel volto, ch’egli contemplava,
gli diceva l’inutilità d’ogni nostro sforzo; gli diceva la fatalità
degli umani eventi, i quali son come prescritti in un libro secreto
e immutabile; gli insegnava che all’ora scoccata il destino si compie
inesorabilmente contro ogni volontà, contro ogni opposizione, contro
ogni rivolta; gli insegnava ancora che agli uomini non resta che
pregare o piangere, pregare per rassegnazione, o piangere su la loro
sventura e su la loro impotenza!

La vita perdeva pregio, significato, valore. Essa non era che una
lotta disperata, una lunga sofferenza, un perenne sacrificio nella
sola aspettazione della fine. E i piaceri, le ambizioni, le glorie di
questa terra eran gli inganni d’una Natura ostinata, forse le insidie
d’un Ente vendicativo per tenerci legati fino all’estremo soffio alla
nostra catena. E poi? Poi veniva il nulla, l’ignoto, l’eternità. Il
nulla, proprio il nulla? dopo tanto soffrire, dopo tanto sognare, dopo
tanto pensare? Era dunque possibile che l’esistenza individuale, questa
unica realità intelligente, non avesse uno scopo? — L’idea religiosa
batteva alla sua porta: l’eredità mistica si risvegliava nel suo
sangue cristiano, in quell’ora di prostrazione, d’avanti a quell’antica
imagine che aveva fatto miracoli. Egli, il superbo, s’umiliava; egli,
il sapiente, rinnegava d’un tratto la sua dottrina, il nobilissimo
frutto di lunghi studii e di profonde meditazioni. Il mistero
dell’Irreparabile, ond’era tutto circondato, compiva il prodigio
della sua conversione, distruggeva la sua vanità, risuscitava dalle
ceneri la sua fede sopita. Era la scintilla repentina; era la percossa
improvvisa: egli provava il bisogno di credere in qualche Essere
superiore, onnipotente, a cui rivolgere in quell’ora i suoi voti.
Alcuni ricordi lontani ricorsero nel suo cervello; preludii d’orazione
s’illuminarono; una suprema speranza gli cantò deliziosa nel cuore.
Egli piegò le ginocchia fino a terra, congiunse le palme, chinò sul
petto il capo orgoglioso; e in quell’atto di devozione puerile, come
già negli anni ottusi dell’infanzia, recitò le preghiere obliate da
tempo immemorabile, invocando dalla pietà divina la salvezza della sua
cara, che disperava omai d’ottenere dalla scienza e dalla sollecitudine
degli uomini.

Per alcuni dì donna Marta vacillò tra la vita e la morte. Durante il
giorno pareva che si riavesse un poco, aveva ore di calma e di sonno
tranquillo; appena scendeva la sera, ricadeva subitamente nello stato
febbrile, era ripresa dalle soffocazioni, dalle nausee, dalle smanie,
dai delirii. E allora diveniva veramente terribile: respingeva con
violenza il dottore, rifiutava cibi e rimedii, vituperava il nipote e
la fantesca; intollerante d’ogni freno, ribelle a qualunque consiglio.
Sopra tutto contro Camilla ella nudriva un astio e un rancore,
inesplicabili. Tal volta, durante una tregua, ella chiamava a sè
Aurelio, e gli diceva sotto voce, con circospezione paurosa:

— Manda via costei! Te ne prego, mandala via! Non la posso vedere....

E i suoi occhi avevano lampi d’odio, come al cospetto d’un nemico
temuto e minaccevole.

Fortunatamente, dopo due notti insonni, la ragazza, gracile e
impressionabile, non potè più reggersi in piedi e per ordine dello
stesso medico dovette ritirarsi. Flavia venne a sostituirla, e parve
che portasse, con la sua grazia e la sua dolcezza, un ultimo impulso di
vita a quella povera anima esausta.

La notte, donna Marta si mostrò in fatti più calma, più coraggiosa, più
ragionevole. Era per simpatia? Era per deferenza? Era per soggezione
o per vergogna? Bastava che Flavia si rivolgesse verso di lei,
perchè d’un tratto si ricomponesse, frenasse le sue irrequietudini,
dissimulasse sotto un pallido sorriso di persona stanca i suoi interni
tormenti. Quando la giovinetta si inchinava sul suo viso per baciarla
o le prendeva una mano per sentirne il battito del polso, i suoi
lineamenti contratti si rilassavano per incanto, sembrava ch’ella
provasse un gran sollievo, che le si comunicasse al solo contatto un
po’ di quella forza giovenile. Quando le porgeva le medicine, ella si
sollevava sùbito a sedere e le sorbiva in fretta, senza una protesta,
sogguardandola anzi con occhi gonfii di riconoscenza. Tal volta, come
il male le strappava un gemito incontenibile, ella si volgeva pentita
alla vegliante, e, se per caso incontrava il suo sguardo, mormorava con
la voce tanto mite:

— Ho parlato?... Non so.... Dormivo....

E socchiudeva tosto le palpebre, fingendo di riprendere il sonno
interrotto.

Aurelio rifinito dalle fatiche e dalle angosce di quei giorni, eppure
tenuto desto dall’insonnio nervoso, stava seduto in un angolo bujo,
e osservava. Era vero tutto quanto gli stava d’intorno? A lui pareva
di sognare: come in un sogno, in fatti, gli si presentava la camera
grande, che una candela posata in terra illuminava fantasticamente
dal basso in alto, rilevando le cose che di solito non eran visibili,
lasciando in un’ombra densa quelle altre a lui note. Come in un
sogno, la figura di Flavia si moveva continuamente tra quelle strane
apparenze, e non suscitava nei passi il benché minimo strepito: il
lembo delle sue vesti chiare era dorato dai riflessi della luce, ma
la sua testa si perdeva nell’oscurità ed era irriconoscibile. Egli,
ottuso dalla stanchezza e dall’immobilità, guardava, attonito e quasi
incredulo, intorno a sè: — era proprio la camera dell’avola, quella?
era Flavia, colei che gli passava d’innanzi in silenzio, più leggera
d’uno spettro?

Il giovine non poteva credere alla sua ragione; non poteva credere
alla stessa evidenza. A tratti le idee gli si confondevano, la realità
gli sfuggiva, e la fantasia dava alle sue sensazioni aspetti falsi,
difformi, inaspettati. Egli allora vedeva una donna nuova nella sua
casa, sola padrona e arbitra; la vedeva in una stanza sua aggirarsi,
frugare nei tiretti, cercare e trasportare le cose sue, accostarsi
sicura a un gran letto bianco, che nell’ombra grave imaginava deserto.
Quella era bene la sua donna; era la sua compagna, e quel gran talamo
bianco era il loro. Flavia o un’altra? Era Flavia, non poteva esser
che Flavia. Grandi fatti erano avvenuti, che ora non rammentava più;
ed egli l’aveva sposata!... L’ipotesi non lo sgomentava, anzi gli
dava un’impressione profonda di ristoro. Non era egli solo, triste,
abbandonato nel mondo, senza parenti e senz’amici? Aveva una donna
accanto a sè, che lo amava, che lo curava, che lo assisteva vigile e
solidale nelle lotte della vita....

Ma un gemito lieve o un fruscìo di coltri smosse venivan dal letto,
dove giaceva l’inferma; ed egli d’improvviso era richiamato al senso
esatto della realità. Allora un’irritazione amara s’impossessava
del suo spirito; una specie di rimorso gli feriva il cuore, da prima
fievole e confuso, poscia lucido e tagliente come una lama affilata: —
irritazione contro sè stesso, contro la sua debolezza che aveva evocato
un mondo chimerico in contrasto con tutte le sue ambizioni, con tutti
i suoi principii — rimorso per l’obliquo disegno riparatore, ch’egli
aveva già inconsciamente abbozzato, in presenza dell’avola ancor
viva. Oh, al risveglio, riflettendo, quel suo sogno di pace futura gli
sembrava abbominevole! Come, come aveva osato persuadersi e compiacersi
d’una simile supposizione? Non amava dunque sua madre? Non amava quella
povera creatura, legata a lui dai più sacri vincoli di sangue e di
consuetudine? — Sì, certo, egli l’amava, l’amava sopra ogni cosa al
mondo; avrebbe dato la vita per salvarla; sinceramente, sarebbe morto
felice prima di lei, pur di non vederla morire! E, non ostante il suo
verace affetto, aveva potuto in sua presenza adattarsi all’ipotesi più
tremenda, accettarne le conseguenze, ricercarne perfino i rimedii!...

La sua coscienza morale era profondamente rimorsa da queste idee:
egli si giudicava vile, egoista e perverso; egli si sentiva macchiato
da quelle speranze, ch’eran fiorite spontanee sopra le minacce
d’un’immensa sciagura. «Ella non morirà,» si ripeteva, per disperdere
i residui del sogno: «ella guarirà; ella deve guarire; qualche giorno
ancora, e lascerà il letto.» Ma in fondo a lui un altro pensiero si
moveva e s’imponeva alle vacue parole, ostinato, invadente: «Sarà così,
certo sarà così! Se anche dovrà morire, io mi rassegnerò, io continuerò
a vivere, io la dimenticherò.» E la previsione d’una siffatta necessità
lo sprofondava in uno scoramento infinito, più lacerante di qualunque
rimorso, più doloroso di qualunque cordoglio.

Ahi, miserabile carne, eternamente schiava dei proprii istinti
bestiali!.. — Egli ora vedeva il destino della Vita in una vasta
astrazione simbolica; vedeva il gran fiume scorrere, inarrestabile,
a traverso il tempo, a traverso lo spazio. Una goccia scompariva
assorbita dalle sabbie: altre gocce sopraggiungevano a colmarne la
minuscola lacuna, a ingrossare il corpo delle acque, che scendeva
sempre gonfio, tumultuosamente, verso la foce remota e sconosciuta.
Chi s’accorgeva dell’umile goccia scomparsa? Le altre tutte, per una
necessità fisica intrasgressibile, eran trascinate via dalla corrente,
sospinte da quelle che seguivano, attratte da quelle che precedevano.
E il letto del fiume continuava nelle profondità la sua monotona
opera d’assorbimento, inavvertita e provvidenziale!... Via, via, a
traverso il tempo, a traverso lo spazio! Bisognava vivere, bisognava
fluire, bisognava rifondere le gocce perdute perchè il gran fiume
non s’asciugasse!... Ed egli in fatti, atomo dell’universo, soggetto
indistinto delle sue leggi oscure, aveva già pensato a vivere dopo, a
seguitare il suo inutile cammino, a sostituire con altre le esistenze
che crollavano dietro di lui. Egli, in cospetto del passato che stava
per dileguare nel nulla, aveva già ideato un piano d’adattamento,
un dolce nido d’amore dove festeggiare il suo attimo di luce; aveva
già concepito in potenzialità i nuovi esseri che avrebbero popolato
l’Avvenire!...

Questi pensieri, sotto altre forme, con diverse imagini, lo torturarono
anche nei due giorni che seguirono.

Flavia era sempre là, attenta, vigile, infaticabile al capezzale di
sua nonna: egli la poteva vedere a ogni ora, in ogni momento, come una
familiare, come una sorella. Era sempre là vicina a lui, così vicina
che molte volte le loro vesti si sfioravano, le loro mani si toccavano,
i loro respiri si confondevano, chini come erano entrambi sul letto
dell’inferma. E quella convivenza ininterrotta, quella comunione
d’intenti, di timori e di speranze, assimilavano a poco a poco le
loro due anime, accrescevano la mutua confidenza, li appartavano
in una specie di solitudine mistica assai propizia agli abbandoni,
alle illusioni, alle insidiose idealità. Non si scambiavano se non
poche parole durante le veglie interminabili; ma i lunghi silenzii
nella camera dolorosa eran più eloquenti d’un poema, scendevano su
i loro cuori più incantevoli d’un filtro. In vano il giovine cercava
di sottrarsi al fascino di quei silenzii; in vano si ribellava alle
molli lusinghe che assediavano il suo spirito illanguidito; in vano
respingeva, sdegnato, le onde ineffabili di voluttà che si riversavano
a tratti su i suoi nervi scoperti dalla spossatezza e dalle angosce
molteplici. Ella era là; ed egli non poteva chiudere gli occhi per non
vederla! Omai, egli non poteva non vederla, anche avendo ben chiusi gli
occhi! E dall’imagine di lei, sempre presente, divinizzata dall’alta
poesia del suo còmpito pietoso, gli veniva incessantemente il conforto
non chiesto, non voluto, il conforto umiliante e sacrilego.

La malattia di donna Marta si svolgeva frattanto con una continua
vicenda di brevi fallaci miglioramenti e di ricadute viepiù gravi
e inquietanti. Il medico di Laveno era venuto parecchie volte a
visitarla, aveva cambiato ordinazioni per sodisfare alle richieste
dell’ammalata e, persuaso della inefficacia d’ogni rimedio, se
n’era andato, alzando le spalle, aspettando rassegnato la morte o
un miracolo. In fatti tutte le cure erano inutili: anche le punture
di caffeina, che si facevano ora due volte al giorno, ottenevano
soltanto un momentaneo sollievo e la lasciavan poi più abbattuta
e più affannata di prima. I germi del triste morbo avevan trovato
un terreno ben preparato a riceverli e si propagavano fecondi e
indistruttibili, come una mala erba in una maremma. La respirazione
diveniva ogni dì più corta e frequente; i rantoli umidi, i
tintinnamenti metallici risonavano in ogni parte del suo povero
torace scarno; i delirii si moltiplicavano, provocati dalla debolezza
sempre maggiore dell’organismo — foschi e tragici delirii in cui ella
con la voce spenta parlava del futuro, non parlava che del futuro,
confondendo nomi, date, luoghi, dimenticando le persone prossime a lei,
risuscitando e rivedendo d’innanzi a sè quelle morte da anni, sopra
tutto il figlio e la nuora!

— Quest’inverno, — ella talvolta diceva, prendendo nelle sue le mani
dei due giovini, — quest’inverno andremo in Riviera, noi tre soli,
soli... Son tanti anni che non vedo il mare!... Prenderemo una villetta
su uno scoglio, contro cui si oda nella notte sbattere le onde, dove
non ci sia il silenzio che qui ci opprime, questo silenzio che non
finisce mai, mai... Vero? Vero? Ci condurrai al mare, Alessandro? Mi
farai rivedere il mare, Alessandro?

Altra volta si scoteva d’improvviso, faceva l’atto di scendere dal
letto.

— Andiamo! Andiamo! — diceva con grande impazienza. — Ci aspettano.
Non bisogna farci aspettare. Domani saremo là: ci fermeremo un mese, un
lungo mese... Là c’è aria buona, là si respira, là si può passeggiare
al sole.... Andiamo! Andiamo!

E gli occhi allucinati si perdevano in una lontananza fantastica,
parevan rispecchiare nelle loro pupille dilatate la felice utopia dove
l’aria salubre non soffocava, dove ancor si poteva liberamente uscire
per rivedere il sole.

Ma il terzo giorno sembrò in vero che la fine fosse prossima e che la
vita di donna Marta non dovesse arrivare al domani. Già dal mattino
ella, sentendosi mancare, aveva chiamato a sè Aurelio e gli aveva detto
con accento desolato:

— Figliuol mio, è l’ultimo giorno. È inutile illudersi: io mi sento
morire. E non puoi credere quanto m’affligga il pensiero di lasciar qui
solo te che hai tanto bisogno d’appoggio, sognatore e inesperto come
sei di tutte le cose della vita. Che farai tu, povero Aurelio? Che sarà
della nostra casa?

— Mamma, — proruppe il giovine, trattenendo a pena un singhiozzo, — non
parlare così! Tu non stai peggio. Un po’ di pazienza ancora. Tu devi
guarire.

— Dovrei ma non posso. Oh, fosse possibile!... Per te, per te solo,
credilo, ho tanto pregato Iddio di farmi guarire!... Ma era tardi; era
troppo tardi. Dovevo pensarci prima. Ho commessa una grave imprudenza,
ed ecco il castigo! La colpa è mia. Tutta mia... Perdonami, Aurelio...

— Oh, mamma! — egli esclamò, afferrando la mano ch’ella gli offriva.

E cadde in ginocchio presso il letto; e compresse il volto contro i
guanciali per nascondere le lacrime che già gli solcavano le guance.

Il dottor Demala giunse verso mezzodì a Cerro. Udì da Camilla le
cattive notizie; salì concitatamente nella camera dolorosa, e, senza
salutar nessuno, con il cappello in testa, si avvicinò, visibilmente
turbato, all’inferma. Le tastò il polso, l’esaminò, s’oscurò in viso.

— Presto, un po’ di bambagia, alcuni bicchieri... Presto!

— Dottore, come soffro! — mormorò donna Marta, appena Aurelio fu
uscito. — Come si soffre a morire!...

— Ma chè morire! — fece il dottore bruscamente, quasi con ira, alzando
le spalle.

Non disse altro per confortarla. Si volse, guardò attentamente
Flavia che ancora non conosceva; poi, toltosi il cappello, sedette in
aspettazione.

— Pessimo tempo! — soggiunse dopo una pausa. — E noi avremmo bisogno
del sole, d’un bel sole per la nostra ammalata.

— Oh, il sole! — esclamò questa con un profondo rammarico nella voce.

Tacquero. Aurelio rientrò, seguito da Camilla, portando i bicchieri
e la bambagia; e il medico s’accinse sùbito ad applicar le ventose,
ajutato a stento da Flavia, che la sua nervosa impazienza confondeva, e
sbigottiva la vista del fuoco su quelle misere carni.

Donna Marta non diede segno di dolore. Ma la pelle sotto le coppe
ardenti si gonfiò e al distacco apparve tutta macchiata di cerchii
sanguigni.

Il dottore uscì insieme con Aurelio.

— Ebbene? — chiese questi tremando d’ansia e di paura.

— L’infiammazione si estende: il catarro ha invaso già una gran parte
del polmone destro. E il cuore è sempre più debole: gli sforzi di
questi giorni l’hanno estenuato. C’è da temere un’asfissia....

— La morte, dunque?!...

— Eh, pur troppo.... Ma speriamo che non avvenga; speriamo d’arrivare
in tempo a scongiurarla. Ora scriverò una lettera al dottor Redi....
e una ricetta. Sono pillole di muschio: glie ne darai una ogni
due ore.... regolarmente. Io debbo essere stasera a Varese per un
consulto.... sarò qui di nuovo domattina.... più presto che potrò.
Coraggio, in tanto, coraggio, amico mio!

Aurelio rimase stordito dalla fiera minaccia, come da un colpo di
maglio ricevuto nel mezzo del cranio. Non era dolore quel che provava:
era un senso di vuoto, d’accasciamento, di desolazione indefinibile.
Gli pareva d’esser perduto in un’immensa foresta, e di sentir la notte
scendere su lui a traverso i rami degli alberi secolari: nessuna via,
nessuna speranza, nessuna salvezza! Egli vedeva il destino, come vedeva
il paesaggio, di là d’un velo di nebbie e di piogge: d’avanti a lui
una parete fluida si drizzava fino al cielo per separarlo dalle cose
esteriori. E nel suo cervello continuava a passare, lento e infinito,
come una migrazione di larve pallide, tutto il corteo delle astrazioni,
delle parole vaste, incerte, chimeriche....

L’intero giorno egli restò in quello stato di stordimento e quasi
d’ebetudine, che non gli permetteva pur di soffrire. S’aggirò come
un sonnambulo per le camere, per gli anditi, per le logge; stette
lungamente, immobile e taciturno, seduto su una poltrona nella stanza
di donna Marta; s’assopì anche un poco nel pomeriggio, ma il sonno
fu torbido, inquieto, attraversato da baleni sinistri. Si svegliò di
risalto a un gemito più forte della sofferente. «Non valgono a nulla
anche le preghiere, dunque?» si domandò, rivedendo il volto cadaverico
della nonna, ricordando d’un tratto la lugubre previsione del medico.
— Oh, con che fervore, con che umiltà aveva egli saputo pregare quel
mattino, dopo tanti anni che la sua fede era muta! Con quanta umiltà
e con quanto fervore egli era ritornato di poi al luogo dei miracoli,
e si era ancora genuflesso d’avanti alla sacra imagine! A nulla era
valso: umiltà e fervore erano stati inutili, s’eran dispersi come un
fumo nell’impassibilità dello spazio!

Si levò, uscì dalla stanza, sentendo prorompere dall’anima l’odio e la
bestemmia contro le leggi tenebrose della vita, contro la sorte, contro
Dio. Non vi rientrò che un’ora più tardi, accompagnando il dottor Redi.

— Aurelio! — chiamò l’inferma con un grido, come lo vide comparire su
la porta. — Ah, non lasciarmi, non lasciarmi più! Sta qui vicino a me,
molto vicino.... Perché sei andato via? Ho paura! Ho paura!...

Era più alterata e più deforme che non mai: parve al giovine che
in quell’ora fossero piombati vent’anni di torture su quella faccia
miserabile.

— Eccomi, mamma! — egli balbettò con la voce tremula, avvicinandosi al
letto.

Mentre il medico l’esaminava, Flavia s’accostò pianamente a lui e gli
disse sotto voce all’orecchio:

— Mio Dio, quante volte l’ha chiamata durante la sua assenza! Io ho
pensato ch’ella dovesse riposare e non ho voluto disturbarla. Ho fatto
male?

— Grazie! Grazie! — egli rispose, e le stese indietro la mano,
involontariamente.

Sentì un contatto caldo, una stretta energica, un intrecciarsi furioso
con le sue dita d’altre dita più sottili. E quelle dita tremavano,
d’un tremolìo incessante, quasi la vibrazione d’una corda sfiorata.
Il brivido si comunicò più forte alla sua mano, gli ascese lungo il
braccio su su, come un’onda elettrica, verso il cuore, verso la gola.
La sua anima si gonfiò di confuse aspirazioni.... Egli comprese: era
il conforto, il conforto non chiesto, non voluto. Fece per ritrar la
mano ma non gli fu possibile; e rimase così, avvinto a lei nell’ombra,
in cospetto della moritura, finchè il medico, compiuta l’opera, non si
mosse.

La sera calò rapida tra i nembi. Pioveva, pioveva sempre. Si udiva
lo scroscio sordo dell’acqua su la campagna buja: si udiva il rombo
alterno dei flutti contro la spiaggia. Di quando in quando qualche
foglia divelta dal vento cadeva sul davanzale delle finestre, stridendo
lieve contro i vetri. Era la triste monotonia dell’autunno in tutta
la sua funebre maestà, la lenta decadenza della stagione, la malattia
irreparabile di tutte le cose vive sotto l’inclemenza di un cielo
plumbeo. La luce affievoliva, le piante si sfrondavano, l’erbe e i
frutici infracidivano, la terra stava per chiudersi assiderata nella
compostezza brulla della morte. E, nel crepuscolo, la campana della
chiesa, battendo tra lo strepito della pioggia l’Ave Maria, sembrava
annunziare ai fedeli che un’agonia incominciava e convocarli per una
preghiera di requie eterna.

Al calar delle tenebre, ai lugubri squilli, principiò ad allentarsi
il viluppo d’apatia che teneva fasciata l’anima del giovine fin dal
mattino. A mano a mano egli venne riprendendo coscienza di sè stesso,
ritrovando il sentimento normale della sua persona, rientrando nella
realità con i sensi vigili e la mente perspicace. Allora intese tutta
la gravità della sciagura che gli incombeva; allora ebbe veramente
l’intera e lucida consapevolezza della sua infelicità. — Sua nonna, la
sua seconda madre era là, china e sospesa su l’abisso senza confine.
Tutta la sua giovinezza, tutta la sua vita anteriore, tutti i suoi
sogni medesimi erano intimamente legati alle memorie di quell’essere
precario, che nessuna forza umana poteva contendere alla sua sorte.
Ella precipitava; e avrebbe forse trascinato con sè memorie, sogni,
giovinezza. Che fare? Ogni cosa era inutile. Bisognava aspettare,
assistere, rassegnarsi. E poi? Ahi, questo era il più terribile: poi
bisognava vivere, vivere ancora, portando in cuore il peso di tutte
le disperazioni, di tutte le maledizioni, di tanta amara esperienza;
bisognava scegliere una via nuova da percorrere, sapendo già la vanità
di ogni nostra impresa e la mèta fatale d’ogni nostro cammino!

Era affondando gli sguardi nel futuro che Aurelio provava lo sgomento
maggiore: lo stesso spaventoso attimo del trapasso impallidiva di
fronte all’idea della lunga serie di giorni grevi che lo avrebbe
seguito. Egli era solo: dentro di lui non restava che il rimpianto
d’un unico affetto distrutto; e d’intorno a lui, un mondo impassibile,
aspro, prodigo di sarcasmi per l’anima in pena. In quel momento nessun
conforto estraneo, nessuna obliqua aspettativa mitigavano la cruda
evidenza della sua previsione: il cordoglio, il grande cordoglio nobile
e puro, dominava, autocrata severo, tutte le sue facoltà.

Donna Marta, dopo la puntura di caffeina, aveva avuto un’ora di
sollievo, aveva anche mangiato qualche cosa; poi d’improvviso era
ricaduta nello stato di prostrazione mortale. Ora, riversa su i
cuscini, delirava fiocamente; e Flavia, tenendole una mano, assecondava
con qualche blanda parola il suo delirio.

— Andiamo! Andiamo! — diceva l’inferma, senza muoversi, senza potersi
muovere.

— Ma dove, donna Marta? Dove vuole andare a quest’ora?

— Via, lontano... Qui si sta male. Andiamo?

— Eh, si sta male dovunque, cara signora. E non si può uscire. Piove,
piove a dirotto.

L’inferma taceva un istante, poi ricominciava a supplicare, guardando
la fanciulla con occhi stravolti, pieni d’una luce innaturale,
biancastra come quella dei lampi:

— Andiamo! Andiamo!

La notte era discesa. La candela, posata in terra a piedi del letto,
spandeva un chiarore dorato su le cose ignote, lasciando in un’ombra
densa quelle altre di solito visibili. L’orologio a pendolo sonò le
nove, nell’oscurità.

— Ho sonno, — disse l’inferma d’un tratto.

Aurelio s’avvicinò al capezzale. Le prese l’altra mano nella sua,
susurrandole all’orecchio:

— Dormi, mamma. Sarai stanca. Dormi.

Ella fece cenno di sì col capo. Sorrise debolmente (oh, quel sorriso
non era, non era di questa vita!). Poi, avendo chiusi gli occhi, con un
atto repentino avvicinò le mani di Flavia e d’Aurelio, le riunì sopra
il suo cuore, ritirò le sue con lenta precauzione, e parve assopirsi
sotto il calore di quel nodo di giovinezza ch’ella medesima aveva
voluto stringere in un estremo risveglio della coscienza.

I due giovini, chini su di lei, non si guardarono: stettero immobili,
compresi come dalla solennità d’un rito religioso. E l’orologio sonò di
nuovo il tempo fuggitivo, sorprendendoli ancora con le mani sovrapposte
al cuore della morente, che si sentiva battere folle e disperato quasi
lottasse contro un nemico implacabile.

— Dorme? — chiese Aurelio, con un fil di voce.

— Dorme — rispose Flavia.

Si sciolsero, s’allontanarono in punta di piedi, sedettero discosti
l’uno dall’altra ai due angoli della vasta camera. Pioveva, pioveva
sempre. Si udiva lo scroscio sordo dell’acqua su la campagna buja; si
udiva lontano il rombo cadenzato delle onde contro il greto. Di quando
in quando i vetri della finestra stridevano lievemente, percossi da
uno spruzzo o da qualche foglia secca, che il vento spingeva verso il
palazzo.

Un’ora passò, silenziosa.

Donna Marta dormiva supina, rialzata da tre o quattro guanciali, e
l’estrema debolezza le toglieva ogni moto, ogni segno esterno di vita;
l’avrebbe fatta credere esanime se non fosse stato il fioco ritmo della
respirazione, così rauco e frequente come l’anelito d’un cane dopo una
corsa a perdifiato. Ella giaceva inerte, con gli occhi chiusi, con la
bocca spalancata; e lo stesso affanno non le sollevava il petto, non
dava la più piccola scossa all’esile persona che a pena formava rilievo
sotto le coltri scomposte. Aurelio, dal fondo della camera, teneva
gli sguardi fissi al funereo chiarore che rompeva l’ombra al sommo
del letto. Non poteva distinguer nettamente la figura dell’inferma dal
bianco dei guanciali e dei lenzuoli; ma il rantolo breve e l’immobilità
d’ogni cosa richiamavan la sua attenzione, accrescendo d’attimo in
attimo la sua inquietudine. Più d’una volta, assalito da una paura
repentina, fece l’atto di levarsi, di correre a lei per toccarla,
poichè gli pareva che dovesse esser già fredda e stecchita. Ma lo
trattenne la vista di Flavia, vigile come lui e ferma al suo posto. In
fine, dopo un’aspettazione eterna, si risolvette: in punta di piedi
attraversò la stanza, venne accanto alla fanciulla, le disse piano,
senza voce:

— Bisognerà darle il muschio. Son già passate tre ore dall’ultima
pillola.

— Svegliarla?

— Mi sembra.

— Credo sia meglio lasciarla quieta. Dorme. È la prima notte che può
riposare un poco...

Aurelio voleva aggiungere: «Quel sonno non mi piace;» e non l’osò. Fece
un gesto vago d’assentimento.... si ritirò ancora in punta di piedi nel
suo angolo oscuro.... ricadde costernato su la sedia, afferrandosi il
capo che bruciava tra le palme gelate. Il sospetto tremendo aumentava
continuamente dentro di lui: egli s’esaltava. La camera era fosca,
irriconoscibile; il volto dell’inferma assumeva nella sua fantasia
l’apparenza d’una spaventosa maschera di cera sul pallor della tela; e
la sua contemplazione prolungata diveniva tragica, poichè egli sentiva
nell’aria, sopra quel volto, la presenza della Morte invisibile.
Tutta la sua anima era sospesa al respiro di lei, che strepitava in
una corsa matta, come un congegno guasto che il freno non regga più e
stia scaricandosi per ristare d’improvviso e per sempre. Egli pensava
con raccapriccio: «Ella non dorme. Quel letargo greve e affannoso
non è sonno, è coma. L’asfissia è incominciata: ella non si sveglierà
più.» Cercava di scacciare da sè il sospetto.... d’illudersi un poco
ancora... di credere cecamente alle apparenze tranquille ch’erano
intorno a lui, «Dorme,» si diceva; «non ha accusato alcuna sofferenza
prima d’assopirsi. Io mi spavento senza ragione.» Ma le parole
confortevoli risonavano senza eco nel suo cervello; e quelle paurose le
soverchiavan sùbito, più forti, più convincenti, più imperative, come
proferite al suo orecchio da un estraneo che non poteva ingannarsi.

Un tempo incalcolabile passò, senza che avvenisse un movimento nella
camera dolorosa. Pioveva.... pioveva sempre. Si udiva il rombo cupo
della pioggia su la campagna oscura.... si udiva lo strepito delle onde
contro la spiaggia.... Di tratto in tratto un baleno muto rischiarava
le vetrate, rivelando un paesaggio grigio, informe, spugnoso a traverso
i fili lucidi dell’acqua cadente.... Nel suo angolo, Flavia a poco a
poco s’era addormentata.... L’inferma rimaneva nella sua compostezza
immutabile.... e il suo respiro, accompagnato da un gorgoglio liquido
nella gola, continuava senza tregua, rapido e anelante, prevenendo
i battiti regolari del pendolo.... La campana della chiesa sonò
lungamente la mezzanotte.... l’orologio nella stanza la ripetè
lungamente sùbito dopo.

Quando il giovine s’accorse che anche Flavia dormiva, si levò
in piedi di nuovo, s’avvicinò con passo furtivo al letto, giunse
inavvertito presso al capezzale.... Toccò la fronte dell’inferma....
era fredda e un poco madida!... Le prese il polso.... era di gelo,
e l’arteria batteva a pena, ora agitata ora lentissima!... Si
rialzò, inorridito.... Si passò una mano su i capelli, con un gesto
di smarrimento supremo.... — Era possibile? Era possibile? — Un
terrore subitaneo lo irrigidì, gli agghiacciò il sangue, gli offuscò
l’intelletto. Tutto era oscurità e silenzio: egli non sentiva più,
non vedeva più, non pensava più.... Parvegli veramente in quel punto
che fosse la fine del mondo.... ed era la fine del mondo, ma non per
lui!... Restò qualche istante immoto, attonito, ottenebrato d’avanti
all’avola, che al suo contatto non aveva dato un segno di vita.... Poi
la chiamò.

— Mamma!

Più forte la chiamò una seconda volta.

— Mamma!

La scosse, la chiamò una terza volta quasi con un grido.

— Mamma!

La voce nel silenzio notturno ebbe un suono così strano, ch’egli si
volse spaurito a riguardare, come se qualcuno avesse gridato con lui
dietro le sue spalle. La camera era quieta, e sembrava deserta....
Flavia, morta di fatica, non s’era risvegliata, e nell’ombra densa era
quasi invisibile.... Egli si sentì solo, assolutamente solo di fronte
al mistero: gittò un ultimo sguardo obliquo all’inferma, immobile sul
letto come una statua di cera; e, pazzo di dolore e di sgomento, si
precipitò in corsa fuor della stanza.

Le tenebre eran fitte sotto il portico.... si vedeva soltanto,
dall’altro lato, fumigare il lucignolo votivo d’innanzi all’icona
miracolosa.... Aurelio si diresse risoluto verso la porta della
scala.... discese brancicando fino al cortile.... l’attraversò a passo
concitato, senz’accorgersi dell’acqua che gli pioveva in testa...
Anelante, con le arterie che gli battevan su le tempia quasi colpi
di martello, entrò nella sala da pranzo ch’era buja, fredda, umida
come una grotta. Non pensò d’accendere un lume.... si lasciò cader di
peso sopra il divano.... — Tutto era finito! Le tristi previsioni del
medico s’erano avverate: il cuore non aveva potuto oltre resistere
agli immani sforzi di quei giorni, e l’asfissia era incominciata: sua
nonna moriva! Ogni speranza omai era vana; ogni illusione, dispersa;
la vita gli si stendeva, d’avanti agli occhi sbarrati nell’ombra,
arida, tetra, desolata, infinitamente. Che cosa gli restava da fare?
Attendere rassegnato la fine? Così solo, gli pareva impossibile: gli
pareva superiore alle sue povere energie. Partire, fuggire? Ma come,
a quell’ora? e chi, chi dunque avrebbe poi pensato al resto? — La
sofferenza diventava orribile.... Egli non sapeva risolversi a nulla,
e provava il bisogno istintivo di muoversi, d’agire, di sottrarsi a
quell’inerzia fatale che gli pesava sul cuore come un rimorso. Per
un attimo, un’idea gli attraversò il cervello: quella di correre
alla casa parrocchiale, di svegliare il prete, di chiamarlo sùbito
per l’estrema unzione della morente. Non ebbe tempo di considerarla:
l’idea passò ratta come un lampo, e si confuse nel tumulto delle altre
idee che sopraggiungevano. Egli la dimenticò. — E se fosse disceso da
Ferdinando? Se lo avesse mandato in tutta fretta a prendere il medico?
— Ohimè, era tardi, era troppo tardi; e anche prima, sarebbe stato
inutile. Gli uomini non potevano opporsi alla volontà del Destino; ed
era scritto, come in un libro infallibile, che sua nonna dovesse morire
in quella medesima notte!

Tutto era fatale! Tutto era irreparabile! Bisognava aspettare,
rassegnarsi e soffrire. Ed egli s’abbandonò intero al suo dolore,
come un naufrago, allo stremo delle forze, si concede alla corrente
impetuosa che lo travolge. Seduto sul divano, con la testa, che ardeva,
stretta tra le palme gelide, pianse, pianse a lungo, senza più saperne
il perchè; cercandolo dove non era, nei tristi ricordi, nelle delusioni
patite, negli sconforti che l’avvenire gli riserbava. Poi non avendo
più lacrime, si mise a singhiozzare, a ripeter forte il nome adorato,
a invocare come un bambino smarrito la madre assente — quella povera
creatura omai sorda e muta che rantolava lassù tra gli ultimi spasimi
d’un’agonia senza coscienza.

Rimase così non seppe quanto, avvolto nell’oscurità che i baleni a
intervalli debolmente rischiaravano. Un brontolìo di tuono lontano,
qualche rovescio veemente di pioggia o di grandine rendevano il
silenzio più sensibile e più pauroso. D’un tratto una finestra si
spalancò con un fragore formidabile, e una folata di vento invase la
sala, sollevando tende e tappeti, trascinando a terra alcuni giornali
spiegati che parvero alla luce d’un lampo pallidi spettri fuggenti.
Aurelio si alzò di sbalzo, in preda all’orrore; ricadde tosto sul
divano, senza poter fare un passo, imprigionando ancora disperatamente
il capo tra le palme.

Fu scosso dal romore della porta che s’apriva. Flavia apparve livida,
convulsa, agitatissima, con il lume stretto in pugno.

— È mezz’ora che la cerco, — disse con la voce alterata. — Mi ha tenuto
tanto in pena!...

Poiché il vento minacciava di spegnere la fiamma, ella depose il
candelliere su la tavola e corse a richiudere la finestra.

Aurelio non s’era mosso, non aveva levato la testa: l’aveva
riconosciuta e, supponendo ch’ella venisse a comunicargli la cosa
tremenda, era rimasto con il viso nascosto, con l’anima chiusa come per
difenderli da un colpo mortale.

Flavia ritornò indietro, venne presso di lui, gli si fermò d’innanzi,
più calma, fissandolo con uno sguardo umido di pietà.

— Ma perché fa così, signor Aurelio? — disse dolcemente, dopo una
pausa. — Perchè scoraggirsi a questo modo?

— È morta? Dica: è morta? — egli chiese d’improvviso con la voce rôca,
senz’alzare il capo dalle mani.

— Ma no, Dio mio, no! Dorme, dorme sempre. È tranquilla. Ciò che più
m’addolora è veder lei così debole, così afflitto, così disperato! Son
giorni terribili, lo so; ma passeranno, vedrà, passeranno. Donna Marta
guarirà, tornerà sana e lieta; si stenderà un velo d’oblio su queste
tristezze. Ma se lei non reagisce, se s’abbandona così allo sconforto,
finirà per ammalarsi a sua volta, e darà altri giorni d’ansie e
d’apprensioni alla sua nonna e.... a chi le vuol bene!.... Su via, mi
guardi! Mi lasci veder la sua faccia!...

Il giovine sentì le dolci parole passar su l’anima assiderata, perduta
nelle nebbie alte del dolore, come un soffio tepido di primavera che
disciolga i ghiacci d’una vetta. Il singhiozzo rincominciò più fitto,
irresistibile. Un nodo di commozione gli strozzò la gola, ed egli ruppe
di nuovo in pianto, violentemente.

— Ma no!.... Perchè piange, adesso? Ma perchè? Mio Dio! Non faccia
così!... Aurelio!... La supplico.... Aurelio! Aurelio!...

Ella lo chiamava, ella lo pregava inutilmente. A ogni sua esortazione,
il singulto aumentava, le spalle sussultavan più forte negli spasimi
del convulso; e le lacrime in tanto continuavano a sgorgare copiose di
tra i cigli, scendevano a rivi per le gote, piombavano a una a una su
la terra nuda, come gocce di sangue.

— Aurelio, per pietà, m’ascolti! — ella gridò, con un brivido di
tenerezza irresistibile; e non sapendo che fare, si chinò, si protese
verso di lui, e gli afferrò con ambo le mani gli òmeri sussultanti.

Il singulto cessò d’improvviso. Egli scoperse la faccia tutta madida,
solcata dai segni delle dita, sformata dalle sofferenze atroci, con la
bocca viscida, con le palpebre gonfie e infiammate. La guardò come non
la riconoscesse, attonito e smarrito come uno che abbia portato a lungo
la benda su gli occhi.

Ella era china su lui, appoggiata alle sue spalle, e gli sorrideva
dall’alto tenuamente, con un sorriso ambiguo di pena e di beatitudine,
tra materno e inamorato, insostenibile e affascinante come un bagliore.
Si fissarono così un tempo indefinito senza muoversi, senza parlare,
comunicandosi con le pupille i loro pensieri ch’erano immensi e
ineffabili, tendendo le loro anime su cui pesava tutta la mestizia e
tutto il mistero delle umane miserie. Nello sguardo della donna era
come una promessa, e nello sguardo del giovine era quasi un desiderio.
E a grado a grado il dolore dell’uno divenne il dolore dell’altra;
e la pietà di questa divenne la pietà di quello; e le loro due vite
segrete, sempre disgiunte, aderirono, si sciolsero, si confusero in un
sentimento unico d’una grandezza muta ed esclusiva. Essi rimasero soli,
in una solitudine senza confini, fuori del tempo e dello spazio, fuori
della realità, nel nulla.

E d’un tratto ella piegò, come vinta da un languore subitaneo, cadde
con i ginocchi a terra, e s’abbandonò tutta quanta sul petto di lui,
singhiozzando. Aurelio sentì il contatto molle del suo corpo, sentì
il profumo sottile de’ suoi capelli, vide qualche cosa oscura passar
d’avanti ai proprii occhi. E senza poter parlare, soffocato da un
accesso violento di commozione, s’aggrappò a lei con le braccia
disperatamente per il bisogno istintivo di vivere, di salvarsi,
d’uscire alfine all’aria libera da quell’onda mortifera che lo
sommergeva e l’annegava... E così stretti, mescolarono insieme le loro
lacrime, piangendo in vano su la sorte di colei che si dipartiva e
fors’anche su quella più triste di coloro che dovevan venire!

Egli primo si rialzò; egli primo riebbe negli occhi la luce e fece
attenzione alle cose circostanti. La candela ardeva su la tavola, e
la fiamma era immobile, acuta come una punta d’oro. La pioggia pareva
cessata; nel silenzio imperturbato dell’alta notte il suo orecchio
percepì il lamento lontano d’un gufo nella pineta. Egli contemplò per
alcuni istanti la fanciulla prostrata a’ suoi piedi, che ancora qualche
raro singulto scoteva; e poi d’improvviso le strinse la testa fra le
mani, glie la rovesciò indietro, le soffiò in volto l’impeto folle
della sua passione:

— Ma tu mi ami, dunque? Tu mi ami? — le domandò, investigandola da
presso nelle pupille lacrimose.

Ella esitò un poco, con la fronte corrugata, come chi considera e
risolve rapidamente. Poi agitò il capo, parve illuminarsi tutta nel
supremo abbandono, e rispose forte e sicura:

— Ti amo! Ti amo! Darei la vita per vederti felice!

— Ma se tu mi ami.... — egli gridò con un accento indefinibile di
strazio, di desiderio e di terrore, insortogli chi sa da quale profondo
abisso dell’anima.

Non potè proseguire con le parole. Ma gli occhi espressero bene con
il loro lampo bieco, selvaggio, terrifico il suo pensiero disperato di
felicità e d’oblìo: «Se tu mi ami, porgimi la tua bocca, cingimi con le
tue braccia, fammi dimenticare tutto in un tuo bacio! Prendimi e fammi
felice, poichè il dolore è inutile, e questa vita miserabile non merita
che si soffra un’ora pe’ suoi destini!»

La donna da quel lampo intese l’invito fatale, e si sgomentò.

— Andiamo, Aurelio! — disse ritraendosi dolcemente, ritornata padrona
di sè stessa, già fatta cauta e previdente dal pericolo, già sorretta
da un intuito chiaro della propria convenienza. — Andiamo di sopra! Se
la mamma si sveglia e non ci trova... Vieni!

Si rialzò, gli offerse sorridendo la mano. Egli la prese, e si lasciò
trascinare da lei passivo e taciturno, quasi caduto in uno stupore
profondo. Così la Coppia novella, legata dal nodo simbolico d’Amore,
s’avviò lenta nella oscurità, avvolta come da un nimbo irreale, verso
la stanza funesta dove la Morte aspettandola indugiava.



XI.

SOLO.


Appoggiato con le braccia al davanzale della finestra nel suo studio
in Milano, Aurelio Imberido contemplava malinconicamente la via
popolosa ancora un po’ dorata dai riflessi del sole cadente. Sul corso
Venezia e sul corso Vittorio Emanuele una moltitudine di carrozze
e di tranvie passava in corsa; e il romorìo confuso e ininterrotto,
dilatandosi in torno, giungeva fino all’estremità di via Monforte,
a pena attenuato. Un piccolo treno, di là dei cancelli del Dazio,
fischiava e scampanellava ostinatamente, avanzando lentissimo lungo la
strada di circonvallazione, che alcuni veicoli carichi di masserizie
attraversavano a fatica; le voci dei conduttori si udivan distinte
tra gli scocchi delle fruste incitare aspramente i cavalli con le
bestemmie, con le ingiurie, con gli urli. Nell’appartamento di fronte
alla finestra dell’Imberido si procedeva con alacrità all’opera di
sgombero; e le stanze apparivan già quasi vuote, in un nuvolo fitto
di polvere, con le tappezzerie lacerate, con le poche suppellettili
rimaste, radunate a cumuli negli angoli. In basso, d’avanti alla porta,
un enorme carrozzone giallo attendeva, intorno al quale una torma di
facchini s’affaccendava silenziosa, mentre altri uscivano di continuo
dalla casa con qualche mobile su le spalle.

Aurelio guardava triste quello spettacolo intenso, quella smania
febbrile di mutamento e di lavoro che agitava la grande città senza
una tregua, dal mattino fino alla notte. A che si affannavano codesti
uomini laggiù? Che insani desiderii, che vili ricompense, che stolte
ambizioni li urgevan dunque così, a logorarsi l’esistenza, a disperdere
il tempo fuggitivo, a ritardare l’unica dolce ora del riposo? La vita
ferveva dovunque inarrestabile, come prima, come sempre; e il dolente
ne ricercava in vano le ragioni e gli scopi. In fondo a lui era quel
senso lucido dell’inutilità d’ogni cosa, quell’apatia serenamente
desolata e quasi superba, che infonde negli spiriti sensibili, proclivi
alle meditazioni astratte, l’idea della morte fissa nel centro della
loro intelligenza. Egli si sentiva lontano da codesti uomini attivi
e spensierati, come se li avesse veduti da una vetta altissima in una
valle profonda; essi parevano a lui uno sciame di formiche minuscole
e industriose, costrette a una perpetua fatica da un istinto oscuro:
i loro pensieri, i loro sforzi, i loro intenti gli erano estranei e
quasi inesplicabili. Egli provava per costoro un sentimento complesso,
insieme di maraviglia, d’indulgente superiorità e di compassione
amara, molto simile a quello che avrebbe avuto in cospetto d’un avaro
decrepito e infermo, che patisse la fame per rimpinzar di monete il già
colmo forziere.

Il piccolo treno si celò dietro le mura, sempre fischiando e
scampanellando; i veicoli carichi di masserizie s’allontanarono
per il viale della Concordia verso l’aperta campagna; altri carri
sopraggiunsero, s’incrociarono, disparvero. Man mano che il tramonto
s’approssimava, il movimento cresceva nella città e nel suburbio:
frotte di lavoratori passavano in fila, di ritorno dagli opifici o
dalle botteghe; coppie d’inamorati s’affrettavano impazienti alla volta
dei bastioni o dei pubblici giardini; gruppi di borghesi azzimati e
tranquilli uscivano dalle dimore per l’abituale passeggiata avanti
pranzo.

Il giovine, immobile alla finestra, pareva non saziarsi dello
spettacolo. Osservò attentamente un cocchio padronale, che sbucò con
gran fragore dall’androne sottostante e si diresse al trotto di due
sauri focosi verso il Corso, portando una giovine donna e un bimbo
ricciuto e biondo. Vide dopo poco un convoglio funebre spuntare tardo
e nero su la strada esterna. La sua tristezza s’aggravò: egli piegò il
capo come oppresso da una memoria crudele, e con le mani furtivamente
si terse gli angoli degli occhi dove già due lacrime luccicavano.

— Povera nonna! — mormorò con accento d’infinito sconforto.

E seguì con gli sguardi, fin che gli fu dato, quel feretro miserando,
che dietro trascinava altri dolori, altre disperazioni a traverso la
città impassibile, indurita alle scene dei lutti, distratta dalle opere
e dalle vanità della vita.

Quando il sole esulò anche dai fastigi più alti delle case, Aurelio si
ritrasse, rientrò nell’ombra della stanza, s’abbandonò su una poltrona
d’avanti allo scrittojo sgombro d’ogni carta. Egli si sentiva vacuo,
stanco, svogliato: non un desiderio, non un’intenzione, non un impulso
pungevano la suprema inerzia del suo spirito. Che fare? Dio mio, che
fare? I giorni erano eterni; le ore, interminabili; lenti lenti, i
minuti. E la sua anima pareva cristallizzata in una forma immutabile,
su cui il tempo scorresse pigro e lieve senza lasciare la benchè minima
traccia. Che fare? Mio Dio, che fare? Tutto omai gli era indifferente;
tutto gli sembrava inutile; la sua stessa persona non aveva esigenze,
non provava bisogni, non richiamava su sè stessa, con un sol palpito
passaggero, la sua attenzione costantemente fissa nel nulla. Lavorare;
e perchè? Correre in cerca d’uno svago, d’una distrazione, di
compagnia; e con qual costrutto? Nessuna cosa al mondo più non gli
sorrideva; egli si guardava d’intorno e non vedeva che il fondo delle
varie apparenze per mezzo a cui passava. E il fondo era grigio, senza
luci e senza ombre, uniforme e tedioso come un deserto sconfinato di
sabbie.

Da quindici giorni questa era la sua vita; da quindici giorni, egli
languiva così in un ozio schiacciante, nella casa paterna che le
imagini de’ suoi maggiori, appese alle pareti, rendevan simile a
una critta foderata di lapidi: — solo, assolutamente solo, smarrito
nella foresta degli uomini, incapace e sdegnoso di trovare una via di
salvezza o un luogo tranquillo di rifugio.

Nella vecchia casa, le memorie sorgevano da ogni parte; una moltitudine
di fantasmi leggeri e mormoranti si levava incessantemente intorno
a lui e veniva ad assediarlo. Era tutta la sua adolescenza, che gli
si riaffacciava in un velo di sogno, idealizzata da un sentimento
superiore, circonfusa come da un’aureola tenera di poesia e di
malinconia; era tutta la sua vita che usciva a brani dispersi da quegli
oggetti ben noti, evocata da una forma, da un suono, da un profumo
indistinto; erano i fiori più ingenui dell’anima sua, poveri fiori
omai secchi e a pena riconoscibili, che gli riapparivano d’improvviso
in qualche angolo dimenticato, nei tiretti polverosi, nelle casse
chiuse da tempo. E insieme con i suoi ricordi si confondevano i
ricordi altrui, i ricordi anche più tristi e suggestivi di coloro che
lo avevano preceduto: talvolta per le stanze deserte e silenziose
pareva a lui che vagassero ancora le figure de’ suoi consanguinei
scomparsi, richiamate a una vita incorporea dalla stabilità delle cose
circostanti.

Il luogo in fatti non era quasi in nulla mutato da venti lunghi anni,
da quando il conte Alessandro, scacciato a forza dal palazzo avito,
era venuto con lui e con la vecchia ad abitarlo. La camera dov’egli
dormiva era la medesima in cui suo padre era morto: i mobili antichi
e sontuosi, che ornavano le sale, i grandi quadri e gli arazzi, che
coprivano le pareti, eran nell’ordine preciso in cui il padre aveva
voluto disporli; i piccoli oggetti muliebri, sparsi un po’ dovunque,
attestavano la recente presenza dell’avola in tutte quelle stanze,
ch’egli partendo aveva lasciate l’ultima volta con lei! Come poteva
egli dissociare l’imagine dell’assidua compagna dalle cose ch’ella
aveva guardate o toccate, — dal luogo familiare, in cui egli l’aveva
sempre veduta? Veramente, ella esisteva ancora per lui come prima,
più di prima. Dal dì del suo ritorno a Milano, egli ne aveva sentita
la vicinanza in ogni ora, come se l’avesse ricondotta viva con sè e
non rinchiusa in una cassa eternamente chiodata. E l’illusione era
in lui così forte, che bastava talvolta il più piccolo romore in una
stanza contigua, il fruscìo d’una tenda, lo stridìo d’un tarlo, la
scricchiolata d’un mobile, per farlo volgere d’improvviso, con il cuore
in sussulto e l’anima sospesa, quasi aspettandone l’apparizione dalla
soglia oscura.

Abbandonato su la poltrona, Aurelio guardava ora fissamente un
ritratto, appeso sul muro, di fronte a lui. Era l’effigie d’una donna
giovinissima, non bella, ma illuminata da una strana fiamma di volontà
e di passione nei vasti occhi neri, nella linea ferma della bocca,
su la fronte convessa che ingombravano due folte ciocche di capelli
notturni, cadenti a onde da una scriminatura mediana fin su le tempie
e su gli orecchi. Fuor dall’ombra cupa dello sfondo, il volto un po’
pallido, il collo di cigno e i nudi omeri arcuati spiccavan bianchi
nella rara luce, come uscissero in rilievo dal quadro. L’imagine
raffigurava donna Marta Imberido cinquant’anni prima, sposa novella,
nel pieno rigoglio della sua giovinezza; ed era l’opera d’un artefice
squisito, che aveva saputo infondervi con maestrevoli segni l’evidenza
dell’anima e della vita.

Aurelio, immobile e come affascinato, non poteva distoglier gli sguardi
da quel ritratto dove convergevano gli ultimi riflessi del tramonto.
— Era mai l’avola sua stata così?... Oh, il tempo, il tempo! Come
l’aveva mutata! Come l’aveva distrutta! Come tutto muta e distrugge
il tempo!... Quella figura amabile, fresca, adolescente egli non
riserbava pur tra le memorie fioche della sua infanzia; e certo non
avrebbe potuto riconoscerla, se gli si fosse offerta in quel momento
per la prima volta alla vista. Egli dell’avola ricordava un altro
aspetto, tutt’altro aspetto: la imaginava curva, bianca di capelli,
con il labbro di sotto che soverchiava quello di sopra, con la pelle
avvizzita, il collo rugoso, le iridi anche più larghe, attraversate da
sprazzi di follia.

Eran dunque la medesima persona quella che gli si presentava d’innanzi
reale, e l’altra imaginaria ch’egli vedeva con gli occhi dell’anima?
Potevano essere così diverse nelle apparenze, così disgiunte nel tempo,
una sola persona? Il giovine non riusciva a riunirle, a fonderle nella
sua mente, ad afferrarne la personalità unica e continua a traverso
due differenti età; per quanto cercasse, non trovava una rassomiglianza
anche lontana tra il fantasma e l’effigie, e contemplava questa, senza
che un palpito di commozione ne derivasse al suo cuore.

Ma il crepuscolo cadde e le tenebre della sera invasero a poco a poco
la stanza del solitario. Il ritratto parve retrocedere, rientrare nel
cerchio della cornice e rimanere come una figura affacciata a un vetro
un poco torbido. Le guance si riempirono d’ombre simili a incavi; i
capelli si confusero con il fondo neutro della tela: una vecchiezza
subitanea rese flaccida e smunta la nudità del collo e delle spalle.

Fu un attimo: l’effigie si rivelò. Egli riconobbe il sembiante
dell’avola lassù, com’egli lo ricordava, come già gli aveva
tenuamente sorriso sul letto di puerizia. I tratti erano bene i suoi;
l’espressione era la sua, quella dei momenti teneri e obliosi; lo
sguardo, oh, lo sguardo non poteva esser più vivo e più materno, e gli
cadeva sopra dall’alto come un ammonimento supremo! — Era lei! Era lei,
la madre, la santa, l’adorata! — Dall’oro cupo della cornice, quasi da
una finestra ideale, ella lo contemplava ancora, ella ritornava a lui
misteriosamente, nella fosca ora del vespero, forse per confortarlo,
forse per rimproverarlo, forse per rivolgergli l’ultimo saluto.
«M’esalto?» egli si domandò, sentendo un brivido freddo correr su
dalle reni alla nuca, mentre fissava l’imagine, che appariva lassù
con una straordinaria evidenza, sempre più illusoria sì che sembrava
ora commossa dal ritmo della respirazione. «Quella parvenza è dunque
scevra di ogni elemento soprannaturale? Son gli occhi che la vedono
in sensazione reale? o è il fantasma interno che si projetta sopra
l’effigie e la trasforma?»

Egli restò perplesso, avviluppato nel mistero, senza saper rispondere
alle sue domande tenebrose. Sentì che la radice dei capelli diveniva
sensibile; ebbe nell’anima un tumulto di cose oscure, un flusso
improvviso di cordoglio, soffocante. Protese lentamente un braccio
verso il ritratto, e chiamò la morta con la voce bassa, trasalendo:

— Mamma! Mamma! Oh, mamma!...

Un silenzio grave susseguì. Nelle stanze contigue non era il benchè
minimo romore; dalla via saliva soltanto il ticchettare di qualche
passo, monotono e regolato come lo strepito d’un meccanismo.

— Che fare? Dio mio, che fare? — disse il giovine, levandosi d’un balzo
a sedere, cercando di sottrarsi in alcun modo al fascino della visione
paurosa.

Le tenebre avevano omai occupato ogni angolo della camera. Il ritratto,
anche il ritratto di fronte alla finestra, era scomparso. Agli occhi
del solitario, sempre intenti al medesimo punto, non veniva più a
tratti che qualche tenue bagliore dall’oro della cornice, — forse uno
sguardo, forse un sorriso, forse una lacrima? Uno sguardo, un sorriso,
una lacrima.

Allora un nuovo fantasma si disegnò terribile nell’oscurità d’avanti a
lui. La figura di donna Marta, stesa sul letto, supina, con la faccia
sconvolta, con i capelli irti e dispersi, con la bocca vacua, con la
pupilla fissa a un segno inconoscibile tra le palpebre socchiuse,
riapparve. Teneva le braccia inerti lungo i fianchi. Sussultava
orribilmente, cercando l’aria, come lottando disperata contro qualcuno
che le tenesse stretta la gola nel pugno. Talvolta il busto s’arcuava
nello sforzo inane. Talvolta le mani graffiavano il lenzuolo, in una
crespazione suprema di dolore e di rivolta. E la vita si vedeva fuggire
a ogni anelito dalle labbra contratte, come un liquido leggero che
svapori da una boccetta scoperta.

Riapparve così, al superstite, l’avola nell’ultima sua ora. E tutte
le particolarità del giorno funesto gli tornarono alla memoria: —
il Viatico portato inutilmente all’alba, pochi istanti prima che
l’agonia volgesse al suo termine; il tragitto affannoso in barca con
Ferdinando e un altro uomo fino a Laveno, innanzi il levar del sole,
in un mattino fresco, nitido, purgato dall’uragano recente, e durante
il tragitto gli irresistibili scoppii di pianto; e poi la casa tutta
piena d’estranei, piena d’un susurro di voci sommesse, di preghiere e
di comenti, piena di un lezzo acro di folla bruta; e poi l’arrivo dei
due medici, dello Zaldini e d’un cugino materno, avvertiti da lui per
telegramma; e in fine la veglia orribile al cadavere e l’improvvisa
apparizione d’un uccello notturno alla finestra spalancata, la sua
discesa precipitosa verso il letto intorno alle torce mortuarie, il suo
grido raccapricciante d’angoscia mentre riprendeva in fuga il volo e
scompariva di nuovo nelle tenebre dell’aperta campagna....

E poi? E poi? Che giorni, che giorni cupi, fatali, tremendi eran
seguiti a quel giorno!.... I ricordi si moltiplicarono, galopparono
come un branco di cavalli apocalittici a traverso la sua mente
esaltata. Egli si rivide, al fianco di un prete salmeggiante, nella
gran barca parata a nero, occupata tutta dal feretro quasi invisibile
sotto il cumulo dei fiori; si rivide con lo Zaldini pigiato tra gente
ignota nel treno, che trascinava dietro, entro un carro chiuso, come
una merce, la cara spoglia; si rivide nei sotterranei del Cimitero
Monumentale, tra un’esigua compagnia d’indifferenti, fermo rigido
impietrito d’avanti alla nicchia oscura, in cui la cassa era scomparsa
adagio adagio verso il fondo con un cigolìo stridulo e lungo come
un lamento. Egli era uscito dal luogo sepolcrale senza una lacrima,
oppresso da una disperazione arida e muta; era stato accompagnato in
silenzio fino alla sua casa dallo Zaldini e da tre altri suoi amici,
congedatisi per discrezione su la porta da via; era salito solo nelle
sue stanze, credendo di ripartir la dimane per la campagna. E quindici
giorni erano omai trascorsi, eterni e fuggitivi, senza ch’egli avesse
potuto sottrarsi all’apatica inerzia che lo dominava, senza che
avesse potuto trovare un momento d’energia per accingersi a quel breve
viaggio.

Come eran trascorsi? Che cosa aveva egli fatto? Non sapeva. Sapeva
di non aver veduto una faccia amica durante quel tempo; di non aver
pensato una volta al suo lavoro; d’aver vissuto una vita fantastica
e contemplativa nell’immobilità morale d’un Asiatico in aspettazione
del Nirvana. «A che combattere? In che sperare? Perché ostinarsi
a vivere quando ugualmente si dovrà morire?» In queste tre domande
aveva compendiato ogni regola di condotta in quei giorni; e, soffrendo
fino alla noja, filosofando fino al dolore, era caduto di tristezza
in tristezza nel profondo mistero delle cose, dove tutto è ombra e
silenzio.

— Flavia! Flavia! — egli chiamò, come per ajuto, spaventato da tanta
solitudine, oppresso da tanto cordoglio.

E l’imagine gentile passò in un baleno d’avanti a’ suoi occhi,
chiudendo con una speranza il corteo funerario delle sue memorie.

Aurelio si levò in piedi e ritornò di nuovo al davanzale. Doveva esser
tardi: la sera era discesa, una tepida sera di settembre popolata
di stelle, temperata da un’alba di luna. I fanali del gas, nella
strada, sul bastione, lungo i viali del suburbio erano stati accesi
e scintillavano in file diritte, spandendo su i muri e sul lastricato
un mobile chiaror giallastro. A basso l’animazione era scemata; molte
finestre si vedevano lucenti di qua e di là negli edifici circonvicini.

«Che pace!» pensò il giovine, volgendo malinconicamente gli sguardi
intorno a sè. «Quanti felici sederanno ora raccolti alla mensa
domestica?» Stette in ascolto. Gli giunse nella calma, da una stanza
di sotto, il grido capriccioso di un bambino; poi, un tintinno confuso
di bicchieri e di stoviglie. Guardò una finestra illuminata; e vide,
nel rettangolo chiaro, disegnarsi l’ombra d’una donna, con le braccia
tese in avanti, portando un piatto che fumava. Un bisogno spasimoso
d’appoggio, di compagnia, di convivenza familiare palpitò dentro di
lui. «La vita è dunque triste per me solo?» si domandò. Stette in
ascolto. Gli parve d’udire un fruscìo di vesti nell’anticamera, e
quindi un battito lieve contro l’uscio. Andò, nel dubbio, ad aprire.

Era la portinaja, che saliva come di solito in quell’ora ad
apprestargli la stanza per la notte.

— In casa ancora, il signor conte! — disse ella, stupita, facendo un
piccolo inchino. — E all’oscuro!... Non esce dunque stasera? Desidera
forse che le faccia portare il pranzo in camera?

— No, buona Felicita. Non desidero nulla. Non ho fame.

— Sempre così! — esclamò la portinaja, scrollando il capo, guardandolo
con occhi impietositi. — Se io potessi darle qualche consiglio....

Il giovine sorrise blandamente.

— Proverò ad uscire, — egli annunziò dopo una pausa, poi ch’ella non
sapeva dire altro e continuava a fissarlo con peritanza. — Chi sa? un
po’ di moto mi farà bene. Fatemi lume, Felicita.

La donna l’accompagnò fino alla porta. La lampada su la scala era già
accesa. Egli discese rapidamente, s’incamminò a passo spedito lungo la
via Monforte verso il Corso.

Giunto all’angolo della chiesa di S. Babila si fermò incerto. Veniva
un’intensa luce bianca dalle bocce elettriche sospese a mezzo della
strada. Nella piazzetta, presso la colonna del Leone, alcuni cocchieri
sghignazzavano, proferendo parole oscene, e le loro voci rauche
si ripercotevan forte contro il prospetto del tempio. Egli notò un
crocchio di fanciulle che passava vicino alle carrozze, con gli orecchi
intenti a raccogliere il senso del turpiloquio e la bocca contratta da
un sorriso irrefrenabile. Anche, notò su l’opposto andare tre operai
avvinazzati, che barcollavano al braccio l’uno dell’altro, sospingendo
i viandanti, lanciando occhiate e motti bassi alle donne che
incontravano. «Ecco il Popolo Sovrano!» egli esclamò con amara ironia,
sentendo risorgere nell’anima l’antico astio contro la plebe rozza
e spregevole. E per togliersi a quei contatti umilianti, si diresse
risolutamente verso il Caffè delle Colonne, le cui vetrine a smeriglio
splendevano di fronte a lui.

La sala rotonda era quasi vuota, e silenziosa: un vecchio cameriere
stava sparecchiando una tavola, e due ufficiali, avendo finito di
mangiare, giocavano una partita di carte su la tovaglia ancora ingombra
di piatti, di calici e di bottiglie. Egli sedette discosto da loro,
ordinò un pranzo assai frugale, si fece portare le gazzette del giorno
per allontanar la mente, almeno in quell’ora, dai tristi pensieri
consueti.

Ne prese a caso uno e, non attratto da nessuna curiosità, si diede
a leggerne svogliato e disattento il primo articolo, che portava per
titolo: _I soliti soprusi_. Era una critica violenta contro il Ministro
dell’Interno, il quale aveva sciolto alcuni circoli socialisti in
Romagna e impedito un’adunanza di protesta in un teatro di Ravenna:
aspro, velenoso, aggressivo, lo scrittore, per difendere la libertà
d’opinione e di riunione, si scagliava contro la persona del Ministro
— un vecchio e illustre patriota — vituperandola con le ingiurie più
triviali, e augurava in termini nebulosi il tramonto delle istituzioni
monarchiche, causa suprema d’ogni pubblico malessere.

L’Imberido gittò irritato il foglio in disparte e ne spiegò un altro
d’avanti a sè. Nel contrasto delle sue idee con quelle dello scrittore
anonimo, il suo spirito battagliero s’era a poco a poco risvegliato;
il dolore assiduo, che gli mordeva l’anima, s’era alquanto assopito;
un desiderio confuso di vita e di lotta aveva incominciato a palpitare
dentro di lui. Egli andò sùbito ricercando nel secondo giornale, di
partito contrario al primo, il diverso comento che avrebbe potuto fare
all’atto energico del Ministro. Non trovò nulla: soltanto il fatto
era narrato brevemente nella rubrica delle notizie politiche, e si
soggiungeva che alcuni deputati avevan presentato in proposito una
vivace interrogazione alla Camera. La sua irritazione aumentò. Con mano
nervosa egli sfogliò una dopo l’altra tutte le gazzette: o rimanevan
prudentemente mute come la seconda, o inveivano in modo minaccioso,
come la prima, contro il vecchio Ministro e contro il sistema delle
repressioni arbitrarie.

Aurelio Imberido levò gli occhi da quei fogli e li fissò pensosi e
corrucciati in alto, nello spazio. — In verità il fatto era molto
grave: quei circoli socialisti esercitavano un’influenza formidabile su
le popolazioni incólte, attiravano a sè ogni giorno nuovi proseliti;
da quei circoli veniva pubblicamente impartito l’insegnamento della
ribellione, e già in due o tre borgate la forza aveva dovuto accorrere
per sedare i tumulti improvvisi della plebaglia; i capi di quei circoli
predicavano alla piazza l’odio contro le classi dirigenti, l’iniquità
dei privilegi e dei diritti legali, la necessità di distruggere la
famiglia, la patria, la proprietà. Sospinti da una cieca fede, animati
d’una straordinaria attività, essi correvan la campagna, propagando
dovunque il contagio del malcontento, solleticando gli appetiti con
le più insinuanti promesse, rimovendo gli istinti brutali nelle anime
semplici e inconsapevoli. Non era bene, non era giusto che un uomo
di Governo troncasse in tempo la pericolosa propaganda, cercasse
d’impedire con qualunque mezzo l’opera funesta di quei fanatici untori
d’una novella pestilenza?

Il giovine restò un istante perplesso, prima di rispondere. Altra
volta, egli medesimo avrebbe forse acerbamente combattuto una sì aperta
offesa portata alla libertà individuale. «La funzione dello Stato»
egli aveva scritto «deve esser sempre più ristretta e limitata, in
una nazione veramente civile.» E ancora: «L’evoluzione delle società
tende all’emancipazione totale dell’individuo dalla tutela e dalla
tirannia dello Stato. Solo in un regime d’assoluta libertà, i forti
e i meritevoli avranno ragione dei deboli e degli indegni; e solo per
mezzo della libera concorrenza per la vita, la razza potrà progredire
e raggiungere la sua perfezione.» Come mai dunque inconsciamente, aveva
egli approvato la disposizione illiberale del Ministro? Era forse stato
anche lui un rètore in passato? O la sua bella serenità era andata
miseramente perduta a traverso gli anni e gli eventi?

«Bisogna esser pratici!» egli si disse d’un tratto, vincendo i suoi
scrupoli di coerenza. «Non è più il tempo di proseguire serenamente
un ideale. Bisogna difendere la realità ch’essi minacciano; difendere
la nostra casa ch’essi appetiscono, la patria ch’essi rinnegano, la
stessa anima nostra ch’essi vorrebbero violentare. Verrà un giorno
in cui, approfittando della libertà che fu poeticamente largita e
conservata, essi imporranno su le nostre spalle il giogo più ignobile,
insulteranno trionfanti la verità e la bellezza, vorranno chiudere a
forza il cervello d’ogni uomo in una scatola angusta e uniforme! Che
ci varrà in quel giorno d’essere stati fedeli alle nostre massime,
d’aver proseguito sereni e superbi il nostro puro ideale?» Una folla di
pensieri fece ressa d’improvviso nella sua mente: fu in un colpo come
l’accensione d’infinite scintille, spente da tempo immemorabile. Egli
rimase, trasfigurato in viso dallo stupore, con gli occhi fissi in alto
nello spazio, sentendo la gran luce diffondersi dentro di lui, sentendo
l’anima inondata e ravvivata da quel caldo getto d’idee, che sgorgava
veemente e inatteso come da antiche sorgenti inaridite.

Oh, finalmente egli riviveva! Finalmente usciva dalle nebbie del suo
tenero sogno e dalle tenebre del suo tragico letargo, e rientrava
nella vita, con lo stesso ardore di fede, con gli stessi entusiasmi,
con la medesima volontà d’un tempo! Che aveva fatto in quegli ultimi
mesi d’ozio, di trepidanze e di dolori? In che attorti sentieri s’era
smarrito, alla ricerca d’un bene ignoto e forse insussistente? Come non
aveva saputo discernere la via di salvazione? — Quella, quella era ben
la sua via; questo era il suo ufficio: agire, lottare, appassionarsi
nella mischia degli uomini, conoscere in tutta la sua intensità
l’ebrezza dell’apostolato e della dominazione. «Combattere per un’idea,
o sia pure per un sogno,» aveva detto, «ecco l’opera che sola affranca
dalla umiltà delle nostre origini e fa men grave la coscienza della
nostra vita precaria.» Tale era la Legge; e dalla Legge doveva venire
il prodigio; con la Legge soltanto sarebbe incominciata per lui la
nuova esistenza.

Già troppo egli s’era concesso e compiaciuto nelle afflizioni:
troppo aveva languito e pianto su le cose vane e irrimediabili. Il
dolore che abbatte, che assorbe, che uccide non è virile; e misero è
quell’uomo, cui lo spettacolo solenne della Morte e l’austero senso
della solitudine non infondono una forza e una speranza maggiori. Il
cordoglio e la rinuncia non gli rendevano il Passato e gli toglievano
l’Avvenire! Occorreva dunque volger gli occhi e tender gli orecchi
altrove.

Un improvviso entusiasmo l’assalì. Il suo spirito erasi liberato dai
fantasmi, aveva disperso i vapori che l’attorniavano. Pareva che un
altro principio di vita fosse entrato in lui: pareva che qualcuno fosse
uscito da lui, furtivamente, e avesse portato seco il triste fardello
delle debolezze, degli scoramenti, delle disperazioni. Senz’indugio,
egli provò il bisogno di concentrarsi, di mettersi all’opera,
d’organizzare e di concretare le idee, che gli eran nate spontanee e
confuse dopo la lettura dei giornali. Non era in esse la materia d’un
articolo vivace e concettoso? Non era tempo di riprendere la penna,
di ritornare al suo posto di battaglia, alla direzione della sua
Rivista?... Oh, lo stupore de’ suoi amici, vedendolo ricomparire come
un risorto su la soglia di redazione, con in mano uno scritto pronto
per le stampe! Oh, l’alto grido di saluto e di giubilo, che lo avrebbe
accolto trionfalmente nella vasta stanza, tappezzata di manifesti
multicolori, pregna dell’odore acre e dello strepito delle macchine
vicine!

Un sorriso gli inarcò le labbra, forse il primo ingenuo e
schietto dopo il suo lungo errore. Egli s’abbandonò all’incanto di
quell’aspettazione; si lasciò avvolgere da quella lusinga che gli
pareva nuova. Ebbe la visione allucinante dei giorni futuri in cui
egli, affrancato dal peso dei funebri ricordi, da ogni estranea
influenza, da ogni triste soggezione, avrebbe ripreso il suo cammino
interrotto, come a traverso un’aria eroica, verso la Gloria. E,
indugiandosi nell’imaginare quel ritorno alle antiche abitudini, egli
sentì nascere in sè e dilatarsi un fervore ineffabile, misto d’orgasmo
fisico, d’orgoglio spirituale, di confuse aspirazioni; un fiotto
di poesia gli eruppe dall’intimo empiendogli l’anima di luce e di
freschezza. Era una febbre, un’impazienza senza nome: gli tardava di
ritrovarsi là, nella stanza nota e favorevole, dove aveva passato il
periodo più intenso di sua vita; gli tardava di rivedere gli amici, di
stringere le loro mani nelle sue, di parlare, di discutere, di agire...

A capo alto e raggiante nel viso, Aurelio uscì nella via. Certo, egli
si sarebbe sùbito diretto verso la redazione della Rivista, se non lo
avesse trattenuto il pensiero che in quell’ora il luogo era deserto
e la porta chiusa. «A domani!» si disse. «E questa notte stessa, al
lavoro!»

Accese una sigaretta. S’incamminò a passi tardi lungo il Corso verso la
piazza del Duomo. La notte autunnale era tepida, molle, attraversata
appena da languidi moti di brezza. Su la città, già invasa dal sonno,
si slargava un bel chiaro di luna, illustrando da un lato i prospetti
delle case che parevan tutti di marmo, stendendo ampii tappeti d’ombra
su i prospetti opposti dove tremolava timidamente la luce delle lampade
elettriche. Nelle strade ogni animazione era cessata; qualche rara
carrozza passava ancora a lunghi intervalli; pochi gruppi di viandanti
macchiavano qua e là i lastrici, e le loro parole s’udivano distinte
nel silenzio.

In quella gran pace il giovine procedeva assai a rilento. L’aria
libera, gli effluvii sapidi della notte, lo spettacolo bianco e
monumentale avevano a poco a poco temperato la sua prima febbrile
eccitazione; gli avevano infuso nell’anima un senso di calma e di
benessere. La mente, stanca del gran volo improvviso e concitato,
languiva; il cuore non palpitava al soffio della più lieve memoria;
egli guardava, ascoltava e s’obliava.

Come giunse alla svolta della via, una prodigiosa visione l’arrestò:
la immensa mole del Duomo, circonfusa d’un’atmosfera di sogno, s’ergeva
candida, delicata, chimerica su dall’ammasso nero delle case in ombra.
Egli restò maravigliato ed estatico a contemplare il miracolo. Nel
chiaror blando della luna, l’armonia della basilica appariva più
limpida e più pura: i contorni tormentosi si fondevano, le linee troppo
nette s’addolcivano, i rilievi sfumavano in una trasparenza semplice di
velo. Quell’accordo audacissimo d’archi acuti, di sagome, di cuspidi,
di fregi, di fiorami e di fogliami, di statue e di mostri, si rivelava
nella sua vera luce, pallido in un pallore uniforme, incerto su un
cielo a pena luminoso, etereo e vasto e lontano come il pensiero che
l’aveva creato. Era un paesaggio fantastico campato nell’aria quello
che si vedeva bianco là sopra le case oscure, una foresta d’alberi
favolosi cresciuti al bacio come di qualche ignoto sole moribondo, un
cimitero di mitici eroi segnato non dalle umili croci ma dai pinnacoli
superbi raggianti in guisa di spade verso l’immutabile vanità degli
spazii.

Una voce prossima trasse il giovine dalla sua contemplazione.

— Buona sera, Aurelio!

Egli si volse, non avendo riconosciuto la voce. Un giovine
elegantissimo nel lungo soprabito aperto, che lasciava vedere l’ampio
sparato della camicia e l’abito nero, si fermò, retrocedette di qualche
passo, venendogli incontro.

— Oh, Vincenzo! — esclamò l’Imberido; e gli stese con un atto cordiale
la mano.

Era il conte Sforza, quel cugino materno che era accorso a Cerro dopo
la sua sciagura.

— A Milano, tu, di questi tempi? — soggiunse Aurelio, poi che l’altro
lo guardava muto, sorridendo.

— Certo, a Milano; ma, grazie a Dio, per un giorno solamente. Domani
mattina sarò di ritorno a Varese per le corse: ho i miei migliori
cavalli iscritti, due nuovi superbi acquisti fatti nel mio ultimo
viaggio a Parigi; ed ho anche una bella somma in gara.

Lo Sforza parlava piano, in dialetto, mordendo forte la erre, per vezzo
non per difetto di pronuncia.

— Augurii di vittoria e di fortuna!

— Grazie, grazie! Ho buone speranze. Ma tu, tu che fai qui? — chiese il
cugino a sua volta, cambiando tono, fissando con attenzione l’Imberido
negli occhi.

— Nulla. Mi rattristo e mi annojo. Vorrei, dovrei mettermi presto al
lavoro...

— Povero Aurelio! Capisco! La è dura! — esclamò l’altro, con accento
di sincero rammarico. Aggiunse, dopo una pausa: — E pensare che tutto
questo.... lo devi a tuo padre, che aveva le mani bucate come le
mie!...

L’Imberido, non avendo afferrato sùbito il pensiero del cugino, ebbe un
sussulto subitaneo e levò il capo orgogliosamente.

— Non m’hai compreso, — disse con la voce alquanto alterata. — Vorrei,
dovrei lavorare; ma per distrarmi, per togliermi alle tristi memorie,
per non essere ozioso e inutile....

Lo Sforza fece un gesto vago, indifferente, annuendo con il capo e
abbassando gli occhi a terra.

Tacquero un poco entrambi.

— M’accompagni? — chiese l’altro in fine. — Vado in Monte Napoleone
da donna Bice Ferrati. Sono scappato dalla Galleria per non farmi
schiacciar le ossa... C’è una mezza rivoluzione stasera in Milano...

— Una mezza rivoluzione?

— Ma sì, le solite buffonate! Un branco di monellacci che urlano:
«Evviva! Abbasso!», un nuvolo di guardie e di carabinieri, una fanfara
che stona maledettamente, una folla di curiosi.... Per un po’, mi son
divertito; ma poi la ressa cresceva, il clamore diveniva assordante, e
ho pensato meglio di prendere il largo.

— È strano. Qui non si sente nulla.

— Ascolta! — interruppe lo Sforza, indicando la piazza del Duomo. — Non
odi?

Ascoltarono entrambi. Veniva in fatti da lontano a ondate, sul vento,
un brulichìo, un ronzìo confuso, come sotterraneo, e di tratto in
tratto qualche suono fesso di trombe.

— Io vado a vedere, — annunziò l’Imberido, punto dalla curiosità,
agitato da un desiderio oscuro di sfidare l’urto della Folla, di
conoscere da presso l’implacabile nemico.

— Dio ti salvi le ossa! Io vado in più spirabil aere: per sorbire un tè
eccellente e per fare un po’ di maldicenza. Buona sera, Aurelio.

— Buona sera, Vincenzo.

— Ricòrdati: in novembre la mamma sarà a Milano: vienla a salutare. Le
farai molto piacere.

— Grazie. Addio.

I due giovini s’incamminarono in opposte direzioni. L’Imberido, fatti
pochi passi, si volse a riguardare lo Sforza, che s’allontanava lento,
superbo nella sua indolenza signorile, impettito, come chi sa d’esser
sempre osservato e invidiato lungo la pubblica via. «Chi più nobile di
costui?» pensò Aurelio, considerando con occhio intento e lucido il
cugino. «Nelle sue vene scorre il più puro e forse il più bel sangue
d’Italia: sangue di principi, di condottieri, di mecenati, d’artisti.
E chi più vano, più vacuo, più incosciente di lui?... Che impronta
di superiorità gli han mai lasciato in retaggio i suoi maggiori? Che
virtù di stirpe gli han trasmessa? Egli ignora la febbre di gloria e
d’impero, che ha fatti grandi quelli del suo nome e ricchi e possenti;
egli disprezza il lavoro, come un’occupazione ignobile, umiliante
e venale; egli ride del pericolo imminente, non perché lo misuri e
raffronti con le proprie energie, ma perché non lo sa prevedere e non
lo discerne. Le donne e i cavalli: ecco il suo piacere più acuto e la
sua più alta ambizione!... E, come lui, sono tutti i suoi pari; come
lui, vivono e pensano e si perdono gli eredi dei re, dei patrizii,
dei dominatori. Forse, chi sa? anch’io sarei oggi come lui, se una
provvida sventura non m’avesse sottratto in tempo alle mollizie degli
ozii lussuosi e all’esempio corruttore de’ miei stessi consanguinei.»
Una profonda amarezza l’invase: la sua momentanea esaltazione era già
irremissibilmente caduta; i dubbii eran risorti, più terribili e più
scoraggianti d’innanzi alla realità. Egli si chiese, quasi con ira: «Ma
è proprio nelle mani di questi uomini imbelli e insipienti ch’io vorrei
riconsegnate le insegne del potere e dell’autorità? È dunque possibile
che dalle nostre razze degeneri e moriture escano d’improvviso, per un
prodigio divino, i nuovi eroi, i nuovi re della Terra?»

Aurelio, così pensando e amareggiandosi, era disceso lungo il Corso
fino alla piccola piazza di San Paolo. Di là lo strepito della sommossa
s’udiva distinto e continuo, simile a un sordo boato di tuono: di
quando in quando, alcune grida più alte giungevano a ondate, con il
vento, passando ratte su la città muta, assopita al chiaror della luna,
come brividi di sgomento nel sonno. Quel soffio prossimo di bufera
distrasse il giovine dalle sue riflessioni: egli accelerò il passo,
raggiunse in breve l’ultima svolta del Corso e si trovò all’imbocco
della piazza del Duomo.

Nelle vicinanze non era anima viva: il braccio della piazza, che
si protende verso il Corso, circuendo il lato settentrionale della
cattedrale, languiva deserto nell’ombra grave, che projettava dall’alto
la massima aguglia. Ma in fondo, d’innanzi al grande Arco, nel chiarore
trionfante, un nembo nero s’addensava, ingolfandosi viepiù fitto nel
vano dei portici e della Galleria. Un clamore formidabile veniva dal
nembo, urlo di mille gole insieme, ruggito minaccioso d’un’immane belva
inferocita.

Il giovine ristette un poco su l’angolo, osservando quella massa
confusa, che sembrava immobile, avviticchiata con le radici alla terra:
non vi si distingueva una figura, non si percepiva il senso d’una
parola. La Folla appariva una, compatta, indivisibile, informe come un
organismo elementare, pigiata e fusa come una colonia di crostacei su
uno scoglio marino. E, aggregazione di migliaja e migliaja d’individui,
essa era un solo corpo, aveva una sola voce, un sentimento unico,
un’unica volontà, oscura e invincibile più d’un istinto.

Egli stava per procedere, quando una raffica si precipitò nel nembo
e lo squarciò. D’un tratto il preludio dell’inno garibaldino risonò
forte e giojoso sotto la vólta dell’Arco che rimbombò lungamente: una
macchia rossa, come il sangue d’una ferita, comparve alla superficie
della massa e se ne staccò, avanzandosi verso di lui tra le grida e gli
applausi della moltitudine.

L’Imberido si fermò in aspettazione del corteo. Ben presto la
fanfara sanguigna, che riempiva l’aria di squilli guerreschi, avendo
attraversato il braccio ombroso della piazza, lo raggiungeva all’inizio
del Corso. Dietro a essa la folla si affrettava densa, innumerevole,
slargandosi o restringendosi, con l’elasticità d’un mollusco, a seconda
dei capricci della via. Turbe d’adolescenti quasi imberbi, pallidi,
viziosi, dalle facce trasfigurate dall’entusiasmo; compagnie d’operai
logori, tristi, incomposti, con le bocche dolenti e gli occhi febbrili;
gruppi di fanciulli del popolo sbraitanti e sgattajolanti tra le gambe
degli uomini; qualche viragine ossuta, qualche contento borghese
sedizioso, qualche povero vecchio, fregiato il petto di medaglie
— tutta questa gente s’accalcava e scorreva come trasportata da un
turbine veloce, segnando con il passo il ritmo della marcia bellica,
alzando a intervalli grida di minaccia o d’osanna nel silenzio della
notte lunare.

— Evviva la Repubblica! Evviva la rivoluzione sociale!

— Morte agli sfruttatori del popolo!

— Morte al Governo!

— Evviva i fratelli di Romagna!

— Evviva il Socialismo!

Una, due voci proponevano il grido: cento, mille voci in coro
subitaneamente rispondevano, voci acute o basse, rauche o squillanti,
irate o festose, tutte dissimili e tutte discordi.

Aurelio, a ridosso contro il muro, doveva tenersi aggrappato
allo spigolo d’una porta per non esser travolto dalla fiumana che
l’investiva. I volti di tutti quegli uomini si presentavano a lui e
s’occultavano, come in una tormentosa visione di dormiveglia: egli
non poteva distinguer bene una sola di quelle fisonomie, e aveva
l’impressione che si riproducessero di continuo, sempre le stesse, con
i medesimi caratteri, con i tratti medesimi, passando e ripassando
come fanno le comparse su un palcoscenico. A intervalli una qualche
figura singolare, diversa dalle altre, lo attraeva maggiormente; ed
egli l’accompagnava con gli sguardi fin che gli era possibile. Così
notò un gigante fuligginoso, che pareva sbucato in quel momento da una
fucina, e che, in vece di gridare, ululava in falsetto levando in alto
il muso alla maniera dei cani gementi; notò un giovincello biondo,
elegantissimo, che incedeva altero e taciturno, movendo continuamente
il capo in atto d’approvare; notò un uomo vestito a nero, con il
cappello floscio gittato indietro e l’aria affaccendata di un duce
durante la battaglia, il quale si volgeva a destra e a sinistra per
parlare con i vicini e poi si sollevava su la punta dei piedi come
per abbracciar con lo sguardo l’imponenza del suo esercito. Anche a un
certo punto parve a lui di riconoscere, lontano tra la folla, Giorgio
Ugenti che, altissimo, emergeva con tutta la testa fuori dell’onda
umana.

— Evviva la rivoluzione! Evviva la libertà!

— A morte i prepotenti!

— A morte i borghesi!

— Abbasso il Ministero!

Il corteo serpeggiante si sviluppava, interminabile; e lo schiamazzo
cresceva, si dilatava, si ripercoteva contro le muraglie, pareva
venir da ogni lato, come se la città tutta si fosse svegliata dal suo
sonno e partecipasse al furore della sommossa. In alto, anche in alto
si propagava lo strepito; molte vetrate, aperte con precipitazione,
sbattevano violentemente e i colpi secchi rintronavan sul tumulto della
via simili a scariche di fucili.

Passava ora d’innanzi all’Imberido, sempre fermo e attento al suo
posto, una falange di giovinetti affatto imberbi, disposti in lunghe
schiere rettilinee, procedenti in perfetto ordine come milizie in
marcia. Alcuni tra essi portavano un fiore scarlatto all’occhiello;
tutti, accurati nell’abito lindo e assai contegnosi, avevano
un’espressione quasi estatica di fiducia e di serenità negli occhi
ingenui e su le labbra sorridenti. Non gridavano nè vita nè morte;
cantavano in coro, all’unisono, un inno lento e uniforme, e le loro
voci, ancora immature, s’elevavano e s’abbassavano, forti nelle note
alte e fievoli nelle profonde, dominando a volte il clamore e a volte
perdendosi in questo come un susurro indistinto. Aurelio li riconobbe:
erano studenti; era la Giovinezza illusa e irriflessiva, che portava il
suo giocondo tributo alla ribellione e, piena di baldanza, credeva di
avviarsi alla conquista della Felicità universale!

Ma dietro a essa il nembo s’oscurava novamente, e più che non mai
dianzi. Il corteo dei dimostranti era finito, e sùbito in coda un
secondo corteo incominciava, senza un intervallo, confuso e come
riunito con il primo, più torbido, più romoroso e ben più minaccevole
di questo: era la caterva infame dei miserabili, degli oziosi, dei
vagabondi, dei malviventi, ch’erano accorsi al fragore della sommossa
dai vicoli immondi, dalle taverne e dai postriboli, e la seguivano
e la secondavano, solleticati da una bieca speranza di rapina e di
saccheggio. Venivan essi fluttuando, a crocchi distinti e serrati,
sudici, abjetti, striscianti, e diffondevano intorno un lezzo
nauseabondo di vino, di tabacco e d’immondizie: giovini per la massima
parte, alcuni giovinissimi, eran tutti abbigliati in fogge curiose,
tutti lividi, con le occhiaje violacee, con le bocche infiammate, con
le mani nere, con l’espressione obliqua di bestie rapaci e notturne.

— Morte ai borghesi!

— Evviva il Socialismo!

— Evviva la libertà!

Eran le stesse grida ch’essi proferivano; eran le stesse minacce e le
stesse acclamazioni. Qualcuno tra costoro cercava anche d’intonare
il medesimo inno lento e uniforme, che già più innanzi gli studenti
cantavano. Ma nelle loro bocche le grida, accompagnate da sghignazzi
beffardi, divenivan terribili; e l’inno di fratellanza, mescolato a
motti e a gesti osceni, metteva i brividi della paura.

Incalzato dai bruti, Aurelio fu spinto violentemente nel vano della
porta chiusa. Per alcuni minuti, per un secolo, rimase là prigioniero,
stretto da ogni parte, assordato dallo schiamazzo, soffocato dalla
calca e dalle esalazioni immonde. Il disgusto lo prese alla gola,
l’eccitò a fuggire; egli cercò di farsi largo, di rompere la cerchia
della moltitudine a forza di braccia, ma non gli fu possibile. Uno di
quei vagabondi lo rigittò indietro con un urtone poderoso, urlandogli
sul viso:

— Alla forca gli aristocratici! — e poi un’ingiuria turpe e scurrile,
che sollevò le risa tra i compagni a lui d’intorno.

Un’esasperazione subitanea prese l’Imberido; una di quelle
esasperazioni che offuscano la vista e fanno balenare nel vuoto imagini
criminose. Lo sdegno a lungo compresso contro la torbida comedia della
libertà; l’antico suo odio contro la plebe rozza e ignobile; il furore
della vendetta, della punizione esemplare e istantanea: tutto si levò
improvvisamente nel suo spirito ed egli non sentì più se non il cieco
impulso alla percossa mortale. Divenne pallido come un cencio; e pure
non osò, non fece un gesto, non rispose una parola. Comprese che costui
era il più forte e che quei bruti avrebber potuto schiacciarlo senza
che alcuno fosse accorso in suo ajuto; comprese ch’egli era nulla tra
quel branco oscuro e inferocito; e stette immobile sotto l’offesa, come
fosse legato con le corde a un palo d’infamia.

L’insultatore scomparve; altri, altri uomini biechi passarono d’avanti
a lui gridando, sghignazzando, urtandolo, sfidandolo con gli occhi
rapaci. Finalmente la ressa diminuì; i gruppi s’assottigliarono;
apparvero i pennacchi rossi dei carabinieri, come fiammelle accese
su l’onda tenebrosa della calca. Egli potè uscire dalla sua carcere
e trovare una via di salvezza tra le ultime capannelle disperse e lo
stuolo sbuffante e tintinnante delle guardie. Convulso, affranto e
scorato, si diresse in corsa verso la piazza del Duomo, che appariva
ora deserta, solenne, pacifica nel chiarore intenso della luna.

«Quella era la Folla! Quello era il nemico!... Ohimè, come vincere un
tal nemico? Con quali mezzi? Come respingere nel suo corso il torrente
che precipita? Come, come rivolgersi da solo all’uno e all’altro,
aprire con le sue sole povere mani tutti gli occhi che sono ciechi,
farsi intendere con la sua sola esile voce da tutti gli orecchi che
sono sordi?» Era inutile ogni sforzo, pazzo ogni tentativo, miseranda
ogni illusione! La Folla era sovrana; correva, travolgeva, calpestava,
annientava ogni ostacolo sul suo passaggio. L’Idra vorace e scatenata
stava per inghiottire nelle sue fauci innumerevoli ogni cosa grande e
nobile e bella, ogni idealità, ogni tradizione, ogni fede. E nessuno,
nessuno al mondo era in grado di contenderglielo, poiché nessuno, che
non fosse un Dio, poteva rimetterle le catene e rigittarla vinta e
umiliata nella sua gabbia.

Che valeva omai l’individuo di fronte alla massa? Egli era un voto,
contro mille e mille voti; era una voce, contro mille e mille voci; era
un’unità contro una pluralità senza numero. Due di quei malviventi, pur
che sapessero scombiccherare il loro nome, pesavano più di lui su la
bilancia della Democrazia. Uno di quei fanatici, senza ingegno e senza
cuore, poteva con poche parole insensate sollevare la moltitudine e
dirigerla a suo mal talento; egli con tutta la sua eloquenza, con tutta
la sua dottrina non sarebbe riuscito a convincerne una minima parte, ad
arrestarla per un solo attimo nel suo cammino. — O esaltare i diritti
sconfinati del nuovo Despota, o cadere irremissibilmente sotto la sua
condanna.

Aurelio si risovvenne in quel punto di suo cugino; si risovvenne
delle amare riflessioni ch’egli aveva fatte pocanzi intorno a quei
nobili oziosi, scettici, senz’ambizioni e senza idealità, non ad altro
occupati se non a ricercare il Piacere. «Non hanno essi forse ragione?»
egli si domandò. «Che cosa potrebbero fare? Che cosa dovrebbero
fare?... Il loro crepuscolo precipita; la notte incombe fatale sopra
di loro; ed essi la aspettano stoicamente, ridendo in faccia alla
morte, aggradendo con raffinata cortesia gli ultimi favori della loro
fortuna fuggente. Non sono essi mirabili in questa loro indifferenza
ai capricci del destino come in quel loro indistruttibile amore per
la Vita e pe’ suoi godimenti? Non sono essi mille volte più lodevoli
che se scendessero in campo, irosi e meschini, a difendere i loro
privilegi, sollecitando vanamente i suffragi popolari, predicando
al deserto le loro teorie antiquate, misurandosi tra i fischi nelle
assemblee con gli avversarii acclamati e portati alle stelle?»

Aurelio era giunto senz’accorgersi in mezzo alla piazza del Duomo: si
fermò, incerto. L’apatia desolata di quei giorni l’aveva ripreso; ed
egli, riudendo da lontano gli squilli delle fanfare e il gridìo della
folla, sorrise mestamente, come già dalla sua finestra, mentre il
sole esulava su i fastigi delle case, aveva mestamente sorriso della
smania di lavoro che affaccendava gli uomini laggiù, nella via. «Perchè
lavorare? Perchè agitarsi, così? Perchè soffrire e appassionarsi? Si
muore, e questa vita triste e precaria non vale che si soffra un’ora
pe’ suoi destini.»

Egli si guardò d’intorno. La luna colma spaziava alta, quasi alla
sommità del cielo immacolato. Il Duomo, avvolto dai raggi, era bianco
e fantastico come una di quelle montagne di ghiaccio che navigano nei
mari polari. Milano di nuovo s’assopiva, nel silenzio. L’aria commossa
odorava d’aperta campagna.

«Ritorna, ritorna presto!» disse una voce sommessa nel cuore del
giovine. «Ritorna, ritorna presto!» Il saluto di Flavia ricantò
in lui, accorso dagli orizzonti delle sue memorie in quell’ora di
supremo accasciamento. — Dov’era dunque Flavia? Che faceva? A che
pensava? Perchè, perchè non aveva risposto all’ultima sua lettera? Non
l’aspettava forse più? Incominciava a dimenticarlo?... Oh, se l’avesse
avuta al suo fianco in quel momento! Se avesse potuto sentir nella sua
la mano di lei, come nei lugubri giorni al letto della morente!...

Al giovine parve d’un tratto che scendesse uno spiraglio di luce nelle
tenebre dell’anima sua. Parve come di vedere nelle onde oscure, che
circondavan furenti la sua navicella smarrita, il chiarore d’una figura
viva e misteriosa che lo invitava a sè con un sorriso divinamente
incantevole. — A lei, a lei egli doveva andare. Verso quell’unico
sorriso, che rompeva l’aspro cipiglio di tutte le cose, doveva tendere
la sua anima travagliata. Verso quelle candide braccia aperte egli
doveva piegare e abbandonarsi dolcemente come nel grembo alla Morte!...
Non era là, tra quelle onde, nell’oblio, il riposo, la salvezza, la
luce, la gioja? Là certo era l’Amore, e l’Amore era tutto: era la
gioja, era la luce, era la salvezza, era il riposo. «Senza l’Amore,»
cantavano i poeti, «il mondo non avrebbe più sole; senza l’Amore, la
gloria, la ricchezza, la fama, la pace, la stessa fede non sarebbero
se non parole vuote di senso, ornamenti derisorii gittati su un corpo
piagato e difforme. Perchè, perchè vivere se non per amare?» Oh, quei
poeti gli avevano spiegato il vero; quei poeti gli avevan già da tempo
indicato la via sicura, insegnandogli che una sola dolcezza certa e
durevole si può gustare su la Terra: l’Amore.

Il giovine levò in alto il capo risolutamente. Si disse: «Domani
partirò! Domani sarò lontano di qui! Domani sarò presso di lei!»
Gli apparvero in un baleno il palazzo, la pineta, l’orto, il colle
solatìo; gli apparve la sala ombrosa dove l’aveva stretta a sè la prima
volta nella notte tragica, tra il frastuono della bufera; gli apparve
l’imagine di lei, alta e agile, in un’attitudine di grazia, su lo
sfondo verde del prato.

«O Flavia! Flavia!...»

Si mosse, si diresse verso casa.

Udì il clamore della folla, che ritornava indietro confusamente,
ventargli di nuovo sul viso. Non si sgominò: non cercò pur d’evitarla.

Procedette tranquillo e sdegnoso il suo cammino, andandole incontro.



XII.

IL POEMA ETERNO.


Notte d’autunno calma, lucida, benigna come una notte d’inoltrata
primavera.

Nell’antico parco è il silenzio: qualche fievole fruscìo di piante,
qualche gemito alto di gufi, qualche sospiro, qualche fremito, qualche
brivido, ignoti....

In quel silenzio la luna, saliente per l’arco del cielo, dispensa
pallidi baci di luce e cupe carezze, d’ombra....

Cadono i baci, strisciano le carezze ma non sembran toccare che il
tenue velo di vapore, che avvolge tutte le apparenze come per custodia.

Solamente i vertici degli alberi nella pineta, sopra il velo, sentono i
timidi contatti e rispondono: le fronde eccelse son madide di rugiada,
e le innumeri gocce scintillano al chiarore, quasi piccole iridi
tremanti, inumidite da lacrime di tenerezza.

Il luogo par deserto.

Ritte su gli stalli muscosi, le statue rigide e tristi aspettano,
stendendo i loro monconi verso un fantasma invisibile....

E le grandi scalee biancheggiano, a pena turbate qua e là dalla macchia
di qualche foglia vizza caduta.

Un profondo incantesimo sembra pesare su la stabilità di tutte le cose
presenti....

Non un soffio di brezza attraversa a intervalli la notte: il fogliame
della selva stanco riposa; i crisantemi restano fermi e diritti su
i loro steli, come chiusi in un cristallo diafano; e nei cespi delle
ortensie ramificano ombre immutabili....

Perfin dai tralci delle rose rampicanti, dove gli estremi fiori pendono
moribondi, non un petalo solo si distacca e vola oscillando nell’aria.

Tutto è muto e tutto è stabile.

Tutto pare stabile e muto da tempo infinito.

Si direbbe che, senza cessare, la vita del parco sia stata arrestata da
una volontà misteriosa in una immortale compostezza d’arte. Si potrebbe
credere che a un cenno di questa volontà, non solo gli alberi e i fiori
dovessero muoversi, ma le statue medesime discender vivificate dai loro
stalli e avviarsi sollecite verso il fantasma che invocano.

Una campana batte l’ora, da presso....

Squilla lentamente, come per riprender lena a ogni rintocco, e poi si
tace.

Mentre l’ultimo suono vibra ancora nell’aria, alcune frasche lassù, al
sommo della scalea, si piegano, scricchiolando forte; e una piccola
ombra si sposta....

Che avviene? È il vento della valle che sorge?...

No: una figura, prima invisibile dietro i fusti d’un oleandro, s’avanza
a passo furtivo verso i balaustri....

Entra nella luce....

S’appoggia con le braccia al marmo....

Affonda intenta gli sguardi al basso, verso l’oscurità del pertugio....

Come partecipe dell’incantesimo, la figura rimane là lungamente,
rigida, immota nell’immobilità del parco favoloso.

Un’altra volta, dopo una pausa, la campana batte la stessa ora con
uguale lentezza. Ahi, quanto scorre tardo il tempo nell’aspettazione!
L’uomo non ha un gesto d’impazienza; ma i suoi occhi, sempre fissi,
lampeggiano e il suo petto si gonfia a un respiro profondo. Sul suo
pallido viso, rischiarato dal plenilunio, è impressa un’ansietà
mortale: forse, egli pensa che ogni attimo scoccato è un attimo
perduto in eterno per la Felicità che egli aspetta.... Ed è veramente
un’apportatrice di Felicità, ch’egli aspetta là, al sommo della scalea;
un’apportatrice fragile e segreta, che gli correrà incontro tremando,
ansimando, paventando come lui a traverso i misteri della notte. «Se
non venisse?..» si domanda a ogni tratto il giovine, mentre i suoi
sguardi non si stancano d’interrogare le tenebre dell’andito, sempre
chiuse e sempre avare. «Se non venisse?!...» Ogni volta, la richiesta
dubbiosa apre nella sua anima abissi senza fondo. Ogni volta, per
soffocarla, egli deve riandare le memorie di quel giorno e ripetere
a sè stesso le parole precise che stabilirono il convegno. — È stato
dopo il pranzo, sul rialto. Parecchie persone vi stavan raccolte, gli
ospiti dei vicini, per la più parte a lui sconosciuti; e l’ebreo era
tra questi e guardava a tratti lui o la fanciulla, con aria sospettosa.
Essi parlavan piano, di cose indifferenti, in un angolo, presso il
sedile di pietra infisso nel muro. Egli era calmo, quasi felice: aveva
dimenticato i mutamenti terribili ch’eran sopravvenuti; credeva che
tutto fosse come per il passato, e aveva quasi la coscienza che la
povera nonna fosse presente. La sera scendeva in fatti tepida e mite,
tra i noti rossori del cielo sopra le Alpi; l’odor di pesci e d’alghe
fracide saliva blandamente dal lago, odore acre ma pieno di soavi
rimembranze per lui; le vacche traballanti, le pecore mute, i pescatori
tardivi passarono su lo spiazzo d’avanti a loro nell’ordine consueto,
come ogni sera, un tempo. Ed egli d’improvviso la interrogò: — Perchè
non hai risposto all’ultima mia lettera? — (È la domanda che l’aveva
torturato durante tutta la notte, durante tutto il viaggio, la domanda
che in vano aveva cercato di rivolgerle sùbito, al suo arrivo, nel
salutarla). Ella è impallidita, s’è turbata, s’è guardata d’intorno
timorosa come se qualcuno li dovesse spiare. — È impossibile che ti
risponda, qui, — ha detto in fretta, con visibile concitazione, così
piano che a stento egli la udì. E poi, dopo un silenzio, in cui parve
profondamente riflettere: — Tròvati stanotte in giardino. Quando tutti
si saràn ritirati, io verrò. Aspettami. Ci parleremo.

Queste sono state le sue precise parole. Il giovine ricorda persino il
suono basso e un po’ rôco della voce e il tremito continuo, che agitava
le belle labbra nel proferirle. Oh, sopra tutto quelle labbra egli
ricorda, egli rivede d’innanzi a sè in imagine allucinante.... quelle
tumide e fresche labbra, su cui le più semplici parole acquistano il
valore d’una rivelazione o d’un enimma!

Ella gli ha dato convegno in quel luogo; ella non può mancare.

Ma il tempo fluisce, e nulla si muta nel parco deserto e silenzioso:
le statue stendon sempre, infaticabilmente, le braccia mutilate a un
fantasma increato, ed egli fissa sempre, infaticabilmente, gli sguardi
alle tenebre dell’andito, dove la sua accesa imaginazione dipinge
talvolta il gesto repentino d’un altro vano fantasma!... Tormento
fiero dell’attesa, in cui la mente si perde nelle ipotesi più assurde
e i sensi troppo vigili riempion l’anima d’illusioni e di delusioni
fulminee!

La campana da presso, a tocchi lenti come per un’agonia, batte l’ora
successiva, e poi si tace.

L’aspettante di sbalzo si solleva ritto in piedi: il dubbio si
ripete più forte dentro di lui e l’impazienza si fa manifesta. «Se
non venisse?... Dio, se non venisse!...» Il suo cuore non regge più
all’ansietà che lo sprona; i suoi polsi hanno palpiti affrettati e
sonori come in un accesso di alta febbre. Un solo pensiero lo tiene,
un solo pensiero lo tormenta: ch’ella possa mancare. E non mai una
possibilità in vita gli ha dato un’ambascia e un’inquietudine maggiori!
Egli ha la certezza assoluta, limpida, evidente che senza lei quella
notte non debba avere un termine.

E la solitudine incomincia già a turbarlo, e quella luce uniformemente
bianca lo agghiaccia, e le apparenze irreali che lo avvolgono nel
loro incantesimo, infondono in lui a poco a poco una strana temenza
superstiziosa.

Allora tutto il suo essere si scioglie in un’invocazione suprema: «O
Flavia, vieni, vieni! Non farmi soffrire così; non prolungare oltre
questo mio supplizio!... Come, come ti desidero!... M’intendi? Voglio
vederti, parlarti, accarezzarti: vieni! Voglio morire a’ tuoi piedi
di tenerezza e di passione! Vieni, anima, vieni!» E, con uno sforzo
cerebrale a lungo insostenibile, egli lancia le parole infocate nel
vuoto, lontano lontano, oltre le cose presenti, oltre la massa nera
che chiude e adombra il parco laggiù, come se l’assente dovesse
raccoglierle per qualche occulto senso e commuoversi e accorrere
affascinata al suo richiamo.

È un abbaglio?... Uno scalpiccìo lievissimo s’ode ora nell’andito....
Qualche cosa si muove veramente sotto la grotta tenebrosa, che mette
in comunicazione il giardino con il cortile del palazzo. Non è più
un abbaglio; no, no, no, non è più un’illusione!... Una figura alta e
velata di donna appare su la soglia del pertugio e si ferma un attimo
sospesa, forse maravigliata dal superbo spettacolo notturno.

Il giovine si scuote, accenna con un braccio dall’alto.

Ella lo vede, attraversa a passi celeri lo spianato delle statue e
s’avvia su per la scalea bianca, in corsa.

— Finalmente!... — esclama il giovine, quand’ella gli è vicina,
stendendole ambo le mani.

Il suo volto s’è trasfigurato: un rossor vivo ne tinge le guance; gli
occhi raccolgono nelle pupille dilatate il più fulgido raggio lunare.
Tutta l’onda di felicità, che l’ha investito d’improvviso, passa nella
sua voce maschia e sonora.

— Perdonami. T’ho fatto aspettar molto... — mormora la donna, agitata,
rauca, convulsa. — Ma che vuoi? La mamma è alzata ancora adesso: il
babbo s’è sentito male, d’un tratto... Non sapevo come lasciarlo...

Aurelio è felice, indicibilmente felice. Ogni ansietà è scomparsa; ogni
temenza, fugata; ogni nube, dispersa. La guarda con occhi intenti,
e a pena ode il murmure delle sue parole. Ella ha il viso mezzo
nascosto in uno scialletto nero, che le cade a punta su la fronte e
si piega in doppio giro intorno al collo fino a coprirle il mento e le
orecchie. La sua bellezza appare più regolare, più pura, quasi mistica
in quel contorno oscuro e fittizio; e gli occhi come la bocca hanno
un’espressione nuova e complessa, insieme di sgomento e di volontà
tenace, che il giovine, senza interpretare, contempla e ammira.

— Vieni, dolcezza, — le dice amorosamente.

Circonda i suoi fianchi con un braccio e la trascina, passiva e quasi
inerte, su su per il viale ombroso, nella pineta.

— Dio, che imprudenza mi fai commettere! — continua Flavia con la voce
sommessa, sempre più affannata e più convulsa. — Pensa: per liberarmi,
ho detto alla mamma che avevo l’emicrania e che andavo a coricarmi
sùbito. Ma il babbo era ancora sofferente, ed ella mi ha guardata con
certi occhi pieni di rimprovero!... S’ella mi venisse a cercare nella
camera e non mi trovasse! Dio, sarei perduta, perduta... Non verrà a
cercarmi, non è vero? Di’, Aurelio: non verrà a cercarmi?

— Ma no! Tranquillizzati. Non verrà. Perché dovrebbe venire?

— Non so, non so... Sono così inquieta, così nervosa; ho come il
presentimento d’una disgrazia. Tutte le paure son dentro di me,
stasera; non ho più una goccia di sangue nelle vene. Senti, senti come
son fredda, — ella soggiunge, prendendogli la mano che le cinge il
fianco, gelida quanto la sua.

— Povero amore!

— E quanto sono stata in pena per te, Aurelio! Sapevo che tu eri qua ad
aspettare, e non potevo muovermi e vedevo là, sul caminetto, la sfera
dell’orologio che correva, correva senza misericordia, con una celerità
non mai avuta! Imagina, Aurelio, il mio tormento. Imagina: ho temuto di
non poter venire...

— Guai, guai se non fossi venuta! — egli prorompe, rabbrividendo al
ricordo della lunga aspettazione, esaltandosi al pensiero della gioja
presente, provando un bisogno folle di travolgere, di confondere nel
suo sogno di felicità colei ch’è sempre trepida e smarrita al suo lato.
— Sarei morto d’angoscia! Sarei morto di desiderio! Credo che non avrei
potuto veder l’alba di domani.

Son giunti nel folto della selva, dove l’ombra è più fitta e il
silenzio più misterioso.

Gli alberi li circondano da ogni parte, neri e profondi; è impossibile
distinguerne le forme dei tronchi e dei rami.

Tutto si ammanta nell’oscurità, e a pena qualche livido raggio di
luna occhieggia qua e là, insinuandosi tra le fronde più alte, senza
illuminare.

I pini odorano di resine.

Un uccello notturno si lagna ostinatamente sopra una vetta.

In basso, al termine del sentiere, un brano della balaustrata
s’intravede ancora, candido e funereo come una pietra cimiteriale.

Il giovine si ferma. Non regge più all’émpito della commozione, e sente
sgorgare dall’intimo del cuore un fiotto incontenibile di parole dolci
e appassionate.

— Flavia! — esclama con una voce nuova, tremula e bassa, infinitamente
carezzevole.

Tenendola sempre stretta con un braccio, le appoggia l’altra mano su la
spalla e l’attira lentamente a sè.

— Flavia, — egli prosegue, — tu non sai, tu non puoi imaginare da
quanto tempo io sogno quest’ora di solitudine e d’abbandono. Nessuna,
nessuna ansietà mai nella vita ho provata simile a quella che m’ha
tenuto e torturato mentre t’aspettavo. Era una febbre, un delirio,
una sofferenza così forte che mi toglieva il respiro, m’opprimeva il
cuore fino a fermarlo, mi faceva barcollare come ebro a ogni passo!...
Son pochi mesi che ti conosco: mi sembrano anni ed anni che ti amo
e ti sospiro. La mia giovinezza è così piena della tua imagine che
per quanto affondi gli sguardi nel passato non trovo che te, te sola,
padrona e arbitra d’ogni mio momento. Non sei tu quella che ho sognata
nelle mie prime fantasie d’adolescenza? Non è per te che ho avuto un
giorno il desiderio della gloria? Non è per te che ho studiato, ho
scritto, ho voluto esser qualcuno?.... Perchè, perchè avrei sacrificato
i miei più begli anni su i libri e con le vane meditazioni, se non
per te, per attenderti e per riserbarti intatto il fiore della mia
anima?.... Tu non mi credi, forse; lo so, altri, prima di me, ti ha
insegnato a diffidare di tutto e di tutti; altri ti ha detto le stesse
parole e ti ha delusa; ma io voglio oggi ridarti la fede, io sento oggi
d’averne in me tanta che non mi sarà difficile d’infonderne una parte
nel tuo cuore... Ti ricordi tu i primi tempi della nostra conoscenza?
Hai tu compreso allora il perchè della mia continua, crescente
malinconia?... Io ti posso dire che un’ora innanzi ch’io ti vedessi
la prima volta, qui appunto nel giardino, ero sfiduciato, accasciato,
triste da desiderar la morte, e che la tua sola apparizione è bastata a
ricrearmi, a ridonarmi il desiderio della vita, a rendermi d’un tratto
consapevole del mio lungo errore passato. Da quel momento io credo
d’averti amata; certo, da quel momento avrei dovuto abbandonarmi lieto
e fiducioso all’incanto che da te mi veniva. Eppure no, non è stato
così. Ho lottato contro di te, ora per ora, come tu fossi la nemica
mandata a mio danno da qualche Genio malefico. Ah, sciocco, illuso,
misero! Tu eri la gioja, ed io non ti vedevo. Tu, diletta, mi movevi
incontro, e l’essere fittizio, che viveva in me, mi gridava: «Fuggila!»
ed io ti fuggivo! No. Ora, ora che son tuo (perchè son tuo, Flavia, lo
senti? tutto tuo), ora maledico me stesso per aver ritardato questo
istante divino; ora che ho aperto gli occhi e visto la luce, io ti
dico: «Flavia, Flavia mia, perdona! Io ti amo!» Mi credi, Flavia? Di’:
mi credi?

Ella è sempre passiva, sempre inerte. Cede a ogni suo minimo impulso,
come una cosa morta. Attratta, gli si è abbattuta sul petto, con
l’atto di chi sta per cader bocconi, pesantemente. Avvinta tra le
sue braccia, rimane immobile e taciturna, con le mani pendule lungo i
fianchi, con il capo reclinato su la spalla di lui. Ascolta ella le
parole appassionate e dolci? Si direbbe che queste passino sopra di
lei inavvertite, come il gemito del gufo in alto della pineta, come il
fruscìo leggero che suscita ora nei rami un primo soffio di brezza.

— Non rispondi? — prosegue il giovine, oppresso d’un tratto da un
vago senso d’inquietudine. — Non hai nulla da rispondermi?... Non mi
credi da vero, dunque! Tu temi ch’io t’inganni o pensi ch’io m’illuda,
parlandoti così in quest’ora fuggevole d’abbandono... Oh, dovresti
rammentare, Flavia, il dramma terribile a cui abbiamo assistito
insieme; dovresti rammentare le mie lacrime e le mie disperazioni, che
non ho cercato di nasconderti; dovresti rammentare l’ultimo gesto della
mia povera mamma, quando morendo riunì le nostre mani sul suo cuore....
Non sono, lo sai, nè un uomo perverso nè un fanciullo esaltato. Quei
lugubri ricordi, a cui si lega indissolubilmente il nostro amore,
ti dovrebbero persuadere ch’io non posso illudermi e non saprei
ingannarti. Son solo, schiacciato ancora sotto il peso d’un lutto
tremendo, in un momento assai grave e penoso della vita.... Come non
credermi? Come puoi tu, Flavia, diffidare di me?

Egli pronunzia le ultime frasi con una voce più debole e più
incerta, in cui si sente palese lo sforzo per contenere i singhiozzi.
L’evocazione della sciagura recente ha riaperto la piaga profonda della
sua anima, e l’ha fatta sanguinare. Una grossa lacrima discende per le
sue gote, si stacca e piomba su la testa china di Flavia.

— Ti credo, sì, ti credo..., — mormora ella, scotendosi vivamente,
sollevando il volto incontro al suo, cercando di scorgere tra le
tenebre gli occhi che l’hanno bagnata.

— E mi ami?

— Aurelio!... Sarei qui, se non t’amassi?

— Flavia, mia consolazione, mia vita, mia gioja!... — grida il giovine,
con un brivido di ebrezza suprema, stringendola più forte più forte tra
le braccia.

Le loro teste si toccano: le loro bocche son vicine; egli sente l’alito
di lei sfiorare la sua pelle come una carezza infinitamente leggera.
Un attimo d’indugio; un lampo, un vero lampo visibile, negli occhi;
una breve esclamazione, e il suo viso si piega e le sue labbra cercano
il caro viso, lo percorrono tutto in un bacio lungo e molteplice,
s’accostano alla bocca, alla divina bocca sospirata, e vi si arrestano
umide e protese come per ferirne il mistero. Ella, sotto la furia
improvvisa, sembra smarrita e sgomenta: non parla, non si muove, non
cerca di sottrarsi al suo ardore e neppur lo seconda. Fredda, rigida,
scossa tutta da un tremito, riceve la pioggia dei baci senza rispondere
e si abbandona a lui come soggiogata dalla paura.

D’un tratto, un singulto profondo sale dalle sue viscere e un pianto
dirotto le si sparge a rivi caldi su le guance.

— Anima, tu piangi! — le susurra all’orecchio l’amante, beato, immemore
di tutto, avviluppandola più forte, vie più forte nella sua stretta. —
Perchè piangi, ora? Perchè?...

— Anche tu piangi, Aurelio...

In fatti anch’egli piange; anch’egli ha la faccia inondata dalle
proprie lacrime. Entrambi piangono insieme, come già nella tragica
notte spasimosa; piangono avvinti, inconsci, disperati, — disperati
come se sentissero l’ombra della Morte sempre presente tra le loro due
beatitudini.

— Dio, Dio, mi par d’impazzire! — ella prorompe, sciogliendosi con un
movimento brusco dall’amplesso, indietreggiando un poco, passandosi
una mano nei capelli, che lo scialletto cadendo ha scoperti. — Andiamo
avanti. Qui fa troppo bujo. Andiamo, Aurelio!

E sola, d’innanzi al giovine, s’interna per il viale, con un passo più
celere.

Egli la segue in silenzio, turbato da una folla di pensieri
inquietanti. Dopo il distacco repentino, si è fatta dentro di lui
un’oscurità imperscrutabile; egli s’è svegliato come da un sogno
luminoso e s’è trovato d’improvviso nel più fitto d’una notte. Non
riesce a spiegarsi il contegno di lei, quello smarrimento pertinace,
quel mutismo opaco mentr’egli le parlava, quella passività gelida e
quasi repugnante tra le sue braccia. — Che pensa ella? Che teme? Che
vuole? — Egli lo ignora, egli non sa, egli s’interroga in vano; e
pure, in confuso, intende che nell’animo di lei si cela qualche cosa
indubbiamente avversa al loro amore e minaccevole per la loro felicità.

Così procedono uno dietro l’altra, disgiunti da un ostacolo misterioso,
lungo il sentiere che monta ora un po’ ripido a traverso la pineta.

Le tenebre son sempre densissime, rotte soltanto qua e là da qualche
bolla di luce che filtra dagli interstizii e piomba sul verde cupo
delle conifere.

I soffii lievi di brezza, passando tra i rami, agitano a intervalli
quelle bolle livide, che salgono, scendono, si spostano, si gonfiano,
si restringono con una irrequietezza nervosa di cose viventi.

Al sommo però, un fascio compatto di raggi precipita sul viale, e pare
in distanza un’immane colonna bianca e diafana, che sorga dalla terra
tra il nero dell’ombra circostante.

In silenzio essi raggiungono il luogo rischiarato dalla luna.

Sono al crocicchio delle due stradette, dov’è un sedile, dove sta
custode impassibile l’antica erma dal viso corroso e dai seni intatti,
come gonfii d’un desiderio immortale.

— Sono stanca! — ella mormora, fermandosi di fronte a lui. — Vuoi che
sediamo, un poco?

Siedono entrambi, alquanto discosti sì che l’ombra dell’erma si compone
sul suolo tra le loro due ombre.

Tacciono.

Ella tiene il capo reclinato sul petto e le palpebre socchiuse; egli in
vece guarda d’intorno curiosamente quasi distratto dallo spettacolo, ma
ha una lunga ruga pensosa, su la fronte, tra ciglio e ciglio. In fine
si volge a lei e con accento d’indifferenza simulata:

— Vuoi dirmi ora, — le chiede — perchè non hai risposto all’ultima mia
lettera?...

— Perchè non ho risposto...?! — esclama Flavia concitatamente,
rialzando di scatto la testa come sbigottita dal suono della sua
voce. E gli occhi, ancora umidi di lacrime, le si dilatano esprimendo
un’ambascia profonda. — Ah, è vero: debbo dirti perchè non ho risposto,
perchè non ho più scritto... Ora ricordo: è stato per questo che t’ho
dato convegno qui, non per altro, non per altro...

Pronunzia le ultime parole con una voce spenta che non par più la
sua. Poi, dopo una pausa di raccoglimento in cui gli occhi si son per
poco sottratti all’investigazione acuta del giovine, lo fissa di nuovo
deliberatamente, con una specie di violenza spasmodica; e riprende:

— Ebbene, Aurelio, giacchè vuoi sapere.... io non voleva più scriverti,
ero decisa a non scriverti mai più...

— E perché?

— Perché... Perché credevo che non saresti più ritornato, credevo che
le abitudini cittadine ti avrebbero ripreso interamente a me, facendoti
sentire tutto il peso e l’impaccio del legame che si era stretto tra
noi in un momento di comune debolezza. Che vuoi? Mi pareva che il
nostro amore non fosse che un sogno, un bel sogno che, come gli altri
tutti, non si sarebbe mai realizzato!... E ancora adesso, vedi, io non
so convincermi che possa essere una cosa durevole, seria, resistente
agli attacchi del tempo e degli eventi. Mi amerai tu sempre come oggi
dici di amarmi? Non verrà un giorno in cui ti sarò d’ingombro nella
tua via e sarà troppo tardi per potertene liberare? In quel giorno che
sarà di noi?... Tu non hai mai considerato questa possibilità; ma io,
intendi? io, qui sola, da che sei partito, non ho pensato ad altro.
E, certo, se tu m’avessi dimenticata, se avessi cercato in qualunque
modo d’allontanarti da me, credi pure che non avrei fatto un passo per
richiamarti, non avrei scritto una riga per rammentarti ch’io t’amava e
ti aspettava.

Egli l’ha ascoltata a testa bassa, guardando la terra, senza fare un
atto di protesta. Le tre ombre vicine, ch’egli vede sul suolo, sembrano
attirare tutta la sua attenzione; e in verità egli sente, sente
che qualcuno estraneo sta tra loro in quel momento, a dividerli e a
spiarli.

— O Flavia, — egli dice con voce dolente, poi ch’ella non accenna a
proseguire: — e così tu mi parli ora, dopo quel che hai udito dalle
mie labbra, uscendo appena dalle mie braccia, ancor bagnata dalle mie
lacrime e da’ miei baci?...

— Aurelio, per carità, non fraintendermi! Non credere ch’io non t’ami;
non credere neppure che dubiti del tuo amore. Ci amiamo, lo so. Pur
troppo, so che io, io t’amo come una pazza. Ma, vedi, temo.... penso
che non potrò mai renderti felice; ed è questo che mi spaventa, questo
che mi fa guardare l’avvenire con una specie di terrore, come vi
vedessi scritta la nostra condanna sicura!... Sai tu che non ho avuto
un momento di pace, con questo pensiero sempre fisso in mente? Sai tu
che ho letto le tue lettere appassionate, tremando d’angoscia per me,
per te..? Sai, sai che son giunta perfino a desiderare che tu, tu per
il primo non mi scrivessi?...

— Anima sublime! — egli esclama, con accento d’amaro sarcasmo,
alzandosi in piedi, non per allontanarsi da lei ma per togliersi alla
visione molesta delle tre ombre vicine. — Intendo: l’idillio t’ha già
stancata. Vuoi che ci lasciamo? Lasciamoci.

— Oh, Aurelio!

È un grido che è uscito dalla gola di Flavia, un grido di dolore, di
stupefazione, d’implorazione disperata; e le due mani si son levate con
un atto istintivo verso il giovine, come per trattenerlo.

— Quanto sei ingiusto e crudele! — continua ella, dopo un silenzio,
scotendo mestamente il capo. — Come mi tratti male!... Dimmi, dimmi
tu, Aurelio; che fiducia posso io avere in te, quando mi parli
così?... E tu non puoi giudicarmi; tu non sai le torture ch’io ho
sofferte in questi giorni per causa tua, mentre tu eri lontano e
tranquillo, torture d’ogni genere, torture che mi venivano da ogni
parte come una persecuzione! Se fossi libera della mia volontà come
tu sei, se potessi liberamente disporre della mia vita, forse avresti
ragione di sospettare di me, di rimproverarmi questi scrupoli, queste
paure, queste esitazioni... Ma io, lo sai, non sono sola, io vivo in
famiglia, e molte volte debbo seguire la volontà altrui più che la
mia, debbo pensare agli altri più che a me stessa. E non ho il diritto
di rendere infelici i miei cari, di sacrificarli leggermente al mio
egoismo, di ricambiare il loro affetto con la disobbedienza e con
l’ingratitudine...

— Flavia, — egli interrompe, mettendosi in faccia a lei con le braccia
conserte, fissandola violentemente come per penetrare a forza nel fondo
della sua anima, — tu mi nascondi qualche cosa...

— Ma no... voglio dire...

— Sì, sì, tu mi nascondi qualche cosa!

Una breve pausa, in cui i loro respiri affannosi s’alternano, in cui i
loro sguardi s’interrogano reciprocamente, avidi e sospesi....

E poi, d’improvviso, un’esclamazione rauca di lui, l’urlo breve e
soffocato d’un uomo colpito a morte.

— Ah, ho compreso!... So, so di che si tratta!

— Che cosa sai?

— So tutto!

— Aurelio?...

— Tutto, tutto. Nega, se puoi: tu devi sposare l’avvocato Siena!

— Chi ti ha detto...?

— Ah, lo confessi?... È vero, dunque?

— Ma chi ti ha detto questo?

— Presto, rispondi: è vero? È vero?

Ella sùbito non risponde. Appoggia i gomiti alle ginocchia e nasconde
il viso tra le palme, in un atteggiamento di prostrazione suprema.
Piange?

Il suo corpo reclinato non ha un fremito: la sua ombra è immobile,
accanto all’altra ombra immobile dell’erma.

— È vero! È vero! — ripete il giovine nel silenzio, come un’eco fioca e
lontana.

Lascia cader le braccia lungo i fianchi, e rimane a lungo attonito, in
contemplazione della donna così prostrata e quasi vergognosa d’avanti a
lui.

— Ascoltami, Aurelio. Ormai è necessario ch’io ti dica tutto...
perché tu possa giudicarmi, e al caso anche consigliarmi. Sì, è vero:
l’avvocato ha chiesto la mia mano e mio padre glie l’ha accordata...
senza chiedere un mio cenno d’assenso, puoi imaginare, perché, se
l’avesse fatto, avrei risposto senz’altro con un rifiuto aperto e
decisivo. È inutile che ti racconti ora le scene che son successe
in quest’ultima settimana tra me, il babbo e la mamma, quando poi ho
cercato di ribellarmi, di far prevalere i diritti del mio cuore su le
dispotiche pretensioni della loro esperienza e della loro autorità.
Il babbo ha gridato, ha imprecato, ha detto che aveva impegnata omai
la sua parola per concludere ogni volta con la stessa terribile frase:
«Devi sposarlo e lo sposerai»; e la mamma, poveretta, non ha fatto che
piangere, supplicarmi, dimostrarmi tra le lacrime e le carezze ch’io
respingeva per un capriccio la fortuna della mia vita, infliggendo un
dolore immenso e immeritato a loro due che in fine non volevano se non
la mia felicità!... Tu, tu, Aurelio, eri lontano.... Se fossi stato
qui a sostenermi nella lotta, a consigliarmi, a infondermi la fede nel
tuo amore, oh, non avrei ceduto.... Ma tu non arrivavi mai, mai.... e
i dubbii nel mio cuore, quei dubbii che tu conosci, divenivan sempre
più forti, mi circondavano, mi schiacciavano, mi toglievan forza e
coraggio assai più delle rampogne del babbo, assai più delle preghiere
della mamma!.. Quando io mi rifugiavo nella mia camera per sottrarmi
alle pressioni dell’uno o dell’altra, i dubbii, vedi, incominciavano
ad assalirmi da ogni parte; ed io, affranta, smarrita, sfiduciata mi
chiedeva se non sarebbe stato meglio anche per te che accettassi, se
non avrei fatto sopra tutto il tuo bene, liberandoti da ogni legame
con me.... Jeri, proprio jeri, poco prima che l’avvocato giungesse, la
mamma mi chiamò a sè e, implorando, singhiozzando, ricorrendo a ogni
mezzo di persuasione, riuscì a trascinarmi vinta e rassegnata d’avanti
al babbo!.... Ora che si fa, Aurelio? Che posso fare? Che debbo
fare?... Consigliami tu, dimmi, ordinami tu quel che debbo fare ed io,
lo giuro, ti obedirò a costo di qualunque follìa!

Ella ha parlato calma, senza un gesto, con un’espressione di serietà
ferma e misurata, tenendo continuamente fissi gli occhi, che sono
asciutti e solo un po’ rossi per le lacrime di prima, in quelli intenti
d’Aurelio.

— Flavia, — dice questi, dopo un’esitazione cupa, — non bisogna che
t’illuda: io sono povero, molto povero. L’agiatezza, di cui la mia
povera mamma ha potuto fortunatamente godere fino all’ultima sua ora,
ella la traeva da un vitalizio... Io sono povero; e costui in vece è
ricco; egli può assicurarti un’esistenza felice, senza privazioni di
sorta e senza preoccupazioni per il domani. T’amo troppo, Flavia, per
esigere da te un sacrifizio di questo genere: se tu credi di potermi
lasciare senza grande dolore, io mi rassegnerò, m’eclisserò, andrò
lontano e, t’accerto, non sentirai mai più parlare di me in vita. Vuoi
che ti consigli, come un amico, come un fratello?... Sposa quell’uomo e
dimenticami.

— Anche tu! Anche tu m’abbandoni!.... — ella grida esterrefatta,
congiungendo le palme come in atto di preghiera. — Ma non capisci,
Aurelio, ch’è impossibile? Non capisci che non l’amo, non l’amo e
mai non potrò amarlo? Non capisci che non potrò mai esser felice,
insieme con un uomo che mi spiace e mi ripugna?.... Oh, è con un senso
d’orrore indicibile ch’io penso al giorno in cui sarò sua, in cui dovrò
appartenergli tutta, anima e corpo, per sempre!...

Ella s’interrompe, senza respiro: ha un sussulto violento, un moto
istintivo di raccapriccio, quasi avesse già visto la mano del tiranno
avvicinarsi sicura e audace alle sue carni. Si passa le dita nei
capelli, e soggiunge con un accento di disperazione infinita:

— Dio, o mio Dio, quanto sarò infelice!

— Ed io, Flavia, ed io?!.... Io, che non ho nessuna persona cara vicina
a me? Io, che non ho altri che te al mondo e, perdendoti, non posso
sperare in una parola di conforto e d’incoraggiamento da nessuno,
intendi? da nessuno....?! Pensa, pensa quando ritornerò solo nella
mia casa deserta e dirò a me stesso: «Tutto, tutto è finito!» Che sarà
poi? Dove porterò il mio dolore? Come potrò trovare un mezzo, se non
di vincerlo, di lenirlo, di renderlo sopportabile al mio povero cuore
ancora affranto dall’altra terribile sciagura?... Oh, la morte, Flavia,
non c’è che la morte che possa sorridermi, quando ti avrò perduta.

— No, la morte no! Non la morte! — esclama ella, precipitosamente,
poichè vede le palpebre del giovine gonfiarsi di nuovo e luccicare.

Qualche cosa d’oscuro passa come un fulmine ne’ suoi occhi. Ella sembra
concentrarsi tutta in un suo pensiero, come chi riflette e delibera
su l’istante. Poi scrolla il capo, il suo viso fiammeggia d’una gioja
selvaggia, e, inchinandosi verso di lui:

— Ascoltami, Aurelio, — dice. — Ho un’idea pazza, pazza come sono io in
questo momento. Un solo rimedio c’è omai per salvare te, me, la nostra
vita, il nostro amore!... Dopo che t’ho visto, dopo quel che ho udito
dalle tue labbra stanotte, io sento che non potrò mai esser d’altri
che tua.... e tua sono da questo momento, pronta a offrirmi a te così,
tutta quanta, appena tu lo voglia!... Nessuno sa che sono uscita di
casa; le notti son lunghe, ora, e l’alba è lontana:... se mi vuoi,
Aurelio, (bada: se mi vuoi) stanotte stessa abbandono la mia famiglia,
ti seguo, fuggo con te.... Sarà un colpo tremendo per il babbo, e sopra
tutto per la povera mamma.... Non m’importa: sono essi che l’hanno
voluto.... E, non temere, Aurelio; più tardi essi medesimi finiranno
per cedere, per acconsentire alla nostra unione e perdonarci..... Al
punto in cui siamo, soltanto una follìa, una grandissima follìa ci può
salvare!

Straordinario è lo slancio di passione e di volontà, che ha rialzato la
voce, tutta la persona di Flavia in quel momento. Una nuova creatura è
apparsa in lei d’improvviso e s’è rivelata all’amante in tutta la sua
magnificenza: una creatura superbamente bella, sostanziale, foggiata
per l’esperienza d’amore, maturata dalla avversità, forte, pugnace,
sicura del suo scopo, schiusa a tutte le sensazioni e pronta a tutti
gli ardimenti.

Il giovine la guarda stupito, incerto, come sopraffatto da tanta
bellezza e da tanta energia morale. Ma la sua esitazione non dura
che un attimo. Anche il suo capo si scuote, anche i suoi sguardi
fiammeggiano, anche la sua persona s’aderge fiera e possente nella
notte come la figura d’un eroe.

— Vuoi? — egli chiede.

E la sua voce è dolce, serena e pur risoluta.

— Aurelio?!

— Vuoi? — egli ripete, stendendole la mano con un gesto semplice e
solenne.

— Oh, grazie!

È un grido, ma un divino grido d’ebrezza, di gratitudine e d’abbandono.
Ed ella di sbalzo s’è levata in piedi per gittarsi perdutamente tra le
sue braccia. E le labbra hanno cercato spontanee quelle di lui, si sono
unite con queste, si son fuse insieme in una prima concordia di voluttà
furiosa, quasi frenetica, come labbra arse dalla sete che suggano
l’acqua d’una sorgente impreveduta.

— Grazie, Aurelio! — ella prosegue, staccandosi dal bacio, interrotta
a tratti da un breve riso nervoso. — Tu m’hai ridato la forza, m’hai
ridato la vita, la fede, la felicità!... Ora, vedi, non son più
sgomenta, ora non tremo più... Qui, tra le tue braccia, mi sento così
sicura che sfiderei il mondo.... Oh, il dubbio, l’orribile dubbio che
tu avessi a sdegno il mio amore e provassi onta del tuo!... È finito,
è finito, non c’è più!... Dio, mi sembra di morire, tanto sono beata!
Mi sembra d’esser divenuta un’altra donna.... Non temo più nessuno,
non temo più nulla.... Sono tua, tua, tua.... a dispetto di tutti, a
costo di qualunque felicità che non sia la nostra!... Vedi, Aurelio:
adesso sento che potrei anche affrontare il babbo e farlo piegare
alla mia volontà.... In fine, perchè dovrei aver paura di lui? Che mi
può fare? Sono io dunque la sua schiava? E il nostro amore è forse un
delitto, chè noi per difenderlo si debba fuggire?... Grazie, Aurelio,
mille volte grazie! Tu sei buono.... e mi ami.... ora son certa che
mi ami.... Una tua parola è bastata a rischiararmi tutta l’anima; è
bastata a ridonarmi la ragione e la calma, a indicarmi la via migliore
per raggiungere il nostro intento.... Io resto, ora, io resto qua....
Non bisogna più fuggire.... Ieri ho detto: «Sì»; ebbene domani dirò:
«No, no, no», e il mio rifiuto sarà irremovibile.... Oh, Aurelio,
amore, mio amore!...

E, con un moto languido e felino, si raccoglie palpitando sul suo
petto, umile d’un tratto, tanto debole e sottomessa quanto le sue
ultime frasi sono state energiche e risolute.

Il giovine non pensa più, non considera più. Estatico, travolto da
quell’onda improvvisa di passione, egli segue e rispecchia ogni atto di
lei, ogni moto delle sue labbra, ogni capriccio della sua volontà, come
se tutto si fosse annullato nella sua mente. Una cosa egli intende, una
sola cosa, questa: la donna ch’egli ama è lì, avvinta a lui, fiduciosa,
inebriata dal suo bacio, tutta sua alfine; è l’ora suprema delle
delizie e degli oblii; e in torno si distende una notte profonda, piena
di segreti e d’incanti. Bisogna amare, inebriarsi, sognare.

— Vedi, anche la mia stanchezza è passata! — ella continua, scossa
sempre da quel breve riso spasmodico. — Vuoi che ci muoviamo? che
andiamo più in su, verso l’orto (ti ricordi le ciliege, quel giorno?),
verso il mio nascondiglio, dove tu venivi a trovarmi, forse troppo di
rado?... Chi sa che effetto farà con questa luna!... Sarà bello! Se
andassimo là?...

— Andiamo, sì, andiamo....

Ella è, questa volta, che lo spinge; ella che lo guida su per il
sentiero un po’ ripido, a traverso la pineta in cui le tenebre si son
di nuovo addensate. Tenendolo stretto a sè e sollecitandolo, ella gli
parla senza tregua all’orecchio con quella voce che vien di lontano,
trepida, un po’ affannosa, indefinibile. Ed è palese lo sforzo ch’ella
fa per distrarlo, per dissipare in lui qualunque ombra, nella sua
animazione eccessiva, nell’alterazione nervosa de’ suoi movimenti,
nell’incoerenza delle sue parole. Le ricordanze, le più fioche
ricordanze del loro amore passano così a una a una su la sua bocca,
evocate in confuso, trasformate dal suo sentimento nascosto, dalla
confessione dei suoi intimi pensieri, che il giovine conosce per la
prima volta, estasiandosi, maravigliandosi.

— Ti ricordi, nell’orto? — ella mormora: — tu mi raggiungesti, io
ti caddi tra le braccia, e mi parve di morire, non so se per la
gioja o per la vergogna.... Ti ricordi? Io t’amava già e ho cercato
d’interrogarti: tu sei stato scortese, molto scortese con me, quella
sera in barca.... non puoi imaginare il dolore che mi hai dato....
Rammenti? Oh, che rivelazione sono state per me due lacrime, due
goccioloni tremanti ne’ tuoi occhi sempre serii, sempre aridi, sempre
attenti e così freddi!... E quel giorno, su al mio rifugio? Io ho
voluto vendicarmi con le tue stesse armi; ma che forza ho dovuto fare
su me stessa per non saltarti al collo e non coprirti la faccia di
baci.... E quella mattina, sul Motterone, quando ci siam trovati soli e
m’hai parlato? Io mi sono fermata, ho detto: «Aspettiamo gli altri!»;
ero così commossa, così confusa, così turbata dalla tua dichiarazione
improvvisa! Se non avessi preso tempo, mi sarei tradita!... Tu non
crederai, Aurelio, tu non potrai credere a quanto sto per dirti; e pure
quella sera lontana, la stessa sera, in cui t’ho raccontato il mio
primo amoretto infantile, io simulavo un rammarico enorme, soltanto
perchè temevo che tu e Luisa mi leggeste in volto la nuova passione,
che già mi infiammava. La memoria dell’altro era già morta e avvizzita;
io era già tutta piena di te, come adesso, intendi, come sempre.....

Così arrivano al limite più alto della pineta, leggeri, stretti, come
volando sul suolo. E Flavia parla sempre, non altro forse che per
affascinar l’amante con la musica della sua voce. E Aurelio obedisce,
sempre docile e rapito, alla minima pressione del braccio che lo
circonda.

La cerchia degli alberi si rompe; l’oscurità li abbandona, rifugiandosi
dietro le loro spalle; il chiarore li riprende, li avviluppa, li
divinizza, arrestandoli attoniti e maravigliati su la soglia tenebrosa
della selva.

Allora, istintivamente, Aurelio e Flavia levano la testa. Di fronte
a loro il prato dalle erbe intonse, l’orto lussureggiante di piante
fruttifere, il colle coltivato a vigneti fin quasi alla sommità,
si ergono pallidi per nuova luce, trasfigurati da nuove ombre,
nell’inondazione dei raggi lunari. Il prato sembra scosceso come un
bastione tappezzato dal muschio; nell’orto, le diverse forme degli
alberi si fondono tutte insieme in un’unica massa porosa e fiorita, su
cui ondeggia un fluido grigio e iridescente; e gli scaglioni petrosi
risplendono nitidi e ben definiti tra il bruno della terra, simili a
lunghe strisce candide distese per uno strano ornamento su i fianchi
della collina. Ogni colore è scomparso; ogni rilievo, spostato. Tinte,
linee, contorni, sporgenze, sinuosità, tutto resta vago, trasparente,
fantastico, come languente sotto una carezza diffusa che prostra,
snerva, dissangua, disanima ogni apparenza.

— Osserva! Che maraviglia!... Un sogno! — ella esclama.

Egli ripete, come un’eco:

— Un sogno!

Ella domanda:

— Credi tu che riconosceresti il luogo, se t’avesser condotto qui con
gli occhi bendati?... Io, no: io credo che non lo riconoscerei.

Poi, dopo una pausa, aggiunge sorridendo, abbracciando il paesaggio con
un gran gesto circolare:

— Tutto nostro, non è vero? Tutto nostro!...

— Oh, Flavia! — egli prorompe con un singhiozzo violento di commozione,
quasi oppresso e sfinito dal peso di tanta felicità.

Le sue braccia si aprono, si chiudono di nuovo sopra Flavia, ch’egli
afferra come una preda, preme contro il suo petto con tutta la frenesia
de’ suoi muscoli. E la sua bocca si attacca a quella di lei in un
secondo bacio più lungo, più profondo, e pure infinitamente men dolce
del primo. Così intensa è la sensazione di quel contatto, e pure così
smaniosa e imperfetta, che le sue mani s’aggrappano alle spalle di lei,
ed egli crede di cadere come se la terra gli mancasse sotto i piedi. La
vista gli si offusca; il battito delle arterie diventa insostenibile.
È il delirio che lo prende; è l’eterna fiamma della sessualità che si
sprigiona da tutto il suo essere, investendo impetuosamente la donna
che gli sta vicina. Un flutto bruciante di parole, l’invito inconscio
e fatale alla dedizione, sale fino alle sue labbra e si disperde
senza suono, vaporando, nel vuoto. Egli la stringe più forte a sè; le
accarezza le guance, il collo, le vesti; la bacia ancora; le soffia in
viso il suo desiderio ineffabile, non sapendo più che fare, non sapendo
più che dire, esultando di piacere e spasimando d’un’ansietà senza
nome....

— No, Aurelio, lasciami! Mi fai male!... — ella dice d’un tratto; e si
scioglie dall’abbraccio con un respiro profondo.

Accesa, anelante, con gli occhi semichiusi, ella sembra risvegliarsi da
un letargo malefico: si guarda d’intorno con un’espressione angosciosa
di smarrimento; si passa le palme su le tempia, su i capelli omai
disciolti e sparsi; si piega convulsamente su le reni, quasi curvata in
dietro dalle gravità delle folte trecce cadenti.

Poi prende una mano di lui, e se la porta sul seno.

— Senti il mio povero cuore!... Quasi si spezzava nella stretta...
Credevo di morire... Oh, dimmi, Aurelio, se fossi morta tra le tue
braccia?

— Anch’io sarei morto tra le tue, — risponde il giovine, con un pallido
sorriso. — Saremmo morti insieme, avvinti, immemori, felici....

— Felici!... Forse era meglio, non è vero?

— No, — egli esclama con forza, ergendosi di tutta la persona, mentre
il suo volto si rischiara come alla visione prossima d’una gioja anche
più grande.

Ella sùbito ha inteso; ella sùbito approva con il capo, ripetutamente,
senza poter parlare. Ambedue, senza poter parlare, si comunicano ora
con gli occhi lo stesso pensiero inebriante: «È vero! Non bisogna
morire! Guai, guai se fossimo morti! Bisogna vivere, vivere molto per
amarci, per provare ogni gaudio, per conoscere ogni segreto, per vedere
tutte le forme, udire tutte le armonie, aspirare tutti i profumi. La
vita è bella, maravigliosamente bella; e noi abbiamo le mani colme
de’ suoi doni più preziosi: la giovinezza, la libertà, l’amore. Di che
temiamo? Tutto il male che abbiamo sofferto non era in noi, era fuori
di noi; non traeva origine dalla nostra sostanza, ma ne veniva dalle
cose estranee che ci toccavano. Conviene adunque che ciascuno di noi
faccia scudo all’altro della propria persona; conviene che ci chiudiamo
nella nostra realità, come in una rocca impenetrabile, non accettando
dall’esterno che quelle sole comunioni le quali possan rendere più
gradevole la nostra gelosa dimora. Abbiamo con noi il favore della
Fortuna; e la Felicità ci parla dai nostri occhi, dove si riflettono
e si moltiplicano senza fine le stesse nostre imagini. L’Universo è in
noi, poichè noi siamo un universo. Viviamo per intensamente amarci, per
sfruttare ramo per ramo l’albero fecondo della nostra giovinezza, per
provare ogni gaudio e conoscere ogni segreto.»

Rimangono così lungamente taciti, tenendosi per mano, guardandosi,
sorridendosi.

E la luna, come in un sogno, li avvolge nel suo pallido incantesimo.

— Vieni, — ella mormora in fine con una voce morbida e insinuante,
in cui trepidano tutte le promesse. — Andiamo alla mia casa, nel mio
nido... Bisogna rivederlo questa notte... È là ch’è nato veramente il
nostro amore... Vieni!

E s’avvia prima, la faccia mezzo rivolta in dietro verso di lui,
traendolo per la mano.

Attraversano il breve prato senza sollevare il minimo strepito, più
leggeri delle loro ombre; s’affacciano al luogo memore e s’arrestano
ancora su la soglia, trattenuti da un nuovo stupore, come da un
sentimento religioso, da un timore oscuro di profanazione.

Nell’ombra densa della notte, che il riflesso del colle a pena
addolcisce, il piccolo spiazzo tondo pare un tabernacolo misterioso,
creato per qualche antico culto silvano nel cuore di un bosco sacro.
In torno gli abeti venerabili si piegano discretamente in arco,
riparandolo da ogni lato, non lasciandovi penetrare un sol raggio
di luna. E un languore d’alcova, un silenzio di solitudine non mai
turbata, un profumo complesso d’essenze selvagge native, stagnano
nell’immobilità dell’aria, che non un fremito muove. Tutto è chiuso,
raccolto, nascosto in quella nicchia vegetale. Perfino il brano
d’aperto cielo, che si stende su le vette degli alberi, dà l’illusione
d’una cupola, dipinta in tempi assai remoti, su cui le figure siano
a poco a poco svanite, lasciando solo nel fondo azzurro l’oro delle
stelle, onde le loro vesti splendevano.

— Entriamo. Che si aspetta? — ella dice, esultante ma con la voce
sommessa di chi sta per varcare la soglia d’un tempio.

— Entriamo.

Ella s’avanza cautamente, d’avanti a lui.

— Oh, Dio, guarda! — esclama d’un tratto, accennando verso il suolo.
— Giuseppe stasera s’è dimenticato di portar giù le sedie, i miei
scialli, i miei arnesi. Guarda!

Entrambi sorridono alla scoperta; entrambi si stringono la mano con la
medesima intenzione. A entrambi la presenza di quegli oggetti in tal
momento pare un segno straordinariamente favorevole alla loro felicità;
pare la conferma sicura che ogni loro desiderio abbia a essere in ugual
modo esaudito.

— Si direbbe ch’egli abbia preveduto la nostra visita — ella soggiunge.
— Tutto è come doveva essere. Tutto è come tu ricordi.

E, staccandosi da lui, s’avvicina con aria di malizia infantile a uno
degli sgabelli, vi siede e, a testa china, un po’ abbandonata su sè
stessa, finge di riprendere con grande alacrità il suo paziente lavoro
di ricamo.

— Eccomi al posto. Ora io t’aspetto.

— Anima! — mormora l’amante affascinato da quel giuoco, con un brivido
di gioja orgogliosa, mentre tutte le memorie dell’incerto passato si
accumulano nell’anima sua e si disperdono a brani, nebbie dissolte dal
sole.

Barcollante in guisa d’un ebro, egli s’accosta all’incantatrice; si
gitta alle sue ginocchia, le mette supino la testa nel grembo e, con
un gesto tremulo d’invocazione le tende in dietro le mani aperte per un
invito d’amplesso delirante.

Non è che un attimo.

Ella si solleva ritta sul busto e rimane seria e immobile a osservarlo
dall’alto con un’espressione dura e quasi ostile di penetrazione.
Su la sua fronte, dove i capelli più brevi insorgono come i raggi
d’un barbaro diadema, un pensiero cupo e profondo si disegna nella
profondità delle rughe. Pare che la sua fisonomia si complichi,
s’oscuri fino a divenire enimmatica....

Poi d’un tratto il suo capo si scuote vivamente ed ella, come vinta da
un languore repentino, piega sopra di lui e gli si concede sospirosa
tra le braccia.

— Flavia, — egli implora sommessamente, non potendo dal basso vederla,
non potendo sentirla bene contro il suo cuore, non riuscendo a
incontrare con la sua bocca le labbra desiderate — Vieni, vieni qui più
vicina.

— Dove vuoi, — mormora ella come in sogno.

E, attratta con dolce violenza dalle mani del giovine, scivola senza
resistere giù dalla sediuola per cadergli mollemente al fianco su
l’ampio scialle disteso al suolo a mo’ di tappeto.

L’oscurità del luogo li assorbe; taciti, confusi in gruppo, invisibili
nell’ombra, essi restano là protetti dalle ali della notte clemente,
mentre nel cielo la luna incomincia a dichinare verso i monti occidui
e su la terra i primi segni antelucani si manifestano di qua e di là,
perduti nell’infinita calma, come timide inascoltate sollecitazioni
all’alba che indugia.

Lo strillo acuto d’un gallo ha già risonato d’improvviso, simile a
un grido guerriero, là su i colli, in lontananza; sùbito dopo, un
altro strillo solitario ha risposto da presso, sotto la chiesa, men
forte, meno libero del primo, rauco e come soffocato in gola dal
sonno bruscamente interrotto. E già a più riprese il brivido del gelo
crepuscolare ha percorso il giardino, turbando la quiete della selva e
del prato, diffondendo intorno un susurro fioco di vita che si ridesta,
preannunziando alle cose tutte il termine delle tenebre e del silenzio.
Ma gli amanti, chiusi e isolati nel cerchio del loro gaudioso mistero,
non sentono, non odono, non vedono più nulla. In vano il soffio della
brezza bisbiglia alle loro orecchie il suo gelido ammonimento; in
vano gli abeti s’agitano in giro con un fragore sordo di minaccia; in
vano trepidano sgomente l’erbe ai loro piedi; in vano su le loro teste
intona una capinera il melodioso inno mattutino. Nulla vale a vincere
la potenza fatale ed esclusiva del Sogno! Essi non sentono se non il
tepore delle loro carni; non odono se non i sospiri delle loro bocche;
non vedono se non la luce delle loro anime, dove l’eterno fuoco brilla
e avvampa, omai inestinguibile. Qualunque comunicazione con l’esterno
è rotta; il mondo delle apparenze è scomparso; il passato è abolito;
l’avvenire non è che un velo opaco e fluttuante su cui l’attimo
fuggevole projetta il bagliore della sua bellezza. Essi son soli,
assolutamente soli, in uno squallore senza confini, fuori del tempo e
dello spazio, fuori della realtà, nel nulla. E vivono, vivono, e son
felici di vivere, ignari di tutto e di tutti, immemori forse anche di
sè medesimi, sconosciuti, umili, abjetti; vivono, paghi di quell’attimo
più che d’una eternità, contenti del palmo di terra, che li raccoglie,
più che d’un immenso magnifico impero.

È l’ora delle delizie e degli oblii, supremi. — Esiste un’umanità?
Esistono altri esseri su la Terra? Non son plaghe ignote e deserte
quelle che si distendono nell’ombra oltre la spira avvolgente delle
loro braccia intrecciate? Non bastan forse le loro due vite ad animare
tutto l’universo? — Certo, entrambi hanno in quel breve lasso di tempo
la ferma convinzione d’una assoluta solitudine intorno a essi, il
sentimento netto e definitivo della loro sufficienza in una assoluta
solitudine. E ciascuno, inconscio e risoluto, prova il bisogno
imperioso d’unirsi all’altra creatura superstite d’un mondo inutile
e distrutto, di sentirla, di mescolarsi perdutamente con essa in un
abbraccio quasi cruento, in una congiunzione così intima da divenire
insieme un solo unico essere.

— Flavia!

— Aurelio!

— Anima mia!

— Mia vita!

— Amore! Amore! Amore!.....

Essi si chiamano a vicenda, continuamente. Essi si allettano piano,
senza voce, soffiando le proprie parole più che non proferendole,
bevendo le parole altrui più che non udendole. E tutte le dolcezze,
tutte le tenerezze, tutte le delicatezze del linguaggio umano
rampollano dai loro labbri, spontanee e vive come le stelle dal cielo
in un vespero sereno; e tutte le eloquenze parlano nelle loro anime,
tutti i gaudi sospirano, pregano tutti i fervori, osannano tutti gli
entusiasmi che nessun linguaggio mai riuscì a esprimere. È l’estro
oscuro della Specie che stimola e infiamma le loro facoltà liriche,
quell’estro medesimo onde sono ispirati i canti maravigliosi degli
uccelli nel tempo sacro alle nozze. È l’eterno Poema della Passione
che si svolge impetuosamente dentro di loro, attingendo i culmini
dell’estasi e dello spasimo. È il turbine della Felicità creatrice,
che li avviluppa, li acceca, li inebria, ne precipita i corpi avvinti
in fondo agli abissi della materia per sollevarne gli spiriti fusi in
alto, sempre più in alto, verso le magiche regioni invocate dal loro
desiderio, là dove non dominano nè orgoglio nè vanità nè convenienza,
là dove è sola realità il Sogno, sola e suprema legge l’Istinto.

— Flavia, ti amo!

— Ti amo, Aurelio! Ti amo!

«Amore! Amore! Amore!» La più che dolcissima parola ritorna a
ogni tratto nel loro bisbiglio continuo, come il motivo dominante
d’un’irrequieta e sublime polifonia; si ripete senza fine, sempre la
stessa e sempre nuova, — sintesi insuperabile d’ogni loro pensiero,
di ogni sentimento, d’ogni sensazione, — sovrano Verbo che tutto
significa, tutto spiega e giustifica.

— Sei felice? — egli domanda, stringendosi più forte a lei, come se un
dubbio improvviso l’avesse turbato.

— Son tua, tua, tua.... — ella risponde con la voce rauca, follemente,
smarritamente.

E gli afferra il capo nelle mani, gli avventa in faccia la sua
intenzione disperata d’ebrezza e d’oblio:

— Son tua, tua tutta quanta, anima e corpo.... non d’altri che tua,
perché io voglio così, intendi? da ora, per sempre... Amo te, amo
te solo, non ho amato che te in vita, lo giuro, lo giuro.... Per
accontentarti, son pronta anche a sacrificarmi, anche a perdermi, anche
a morire.... Fa ciò che vuoi di me, Aurelio.... Prendimi, soffocami,
uccidimi, se ti piace.... Il tuo piacere è tutta la mia felicità!

Un attimo d’esitazione nel giovine; e poi l’effetto d’un impulso
oscuro, selvaggio, irresistibile. Ella si abbandona a lui quasi
senz’anima, supina, inerte, con due lacrime fisse negli angoli degli
occhi come due gemme, trasfigurata.

...... E il tempo vola. Il tempo si precipita nel nulla inavvertito,
sopra la loro letargica voluttà. Quanti istanti ha battuto il palpito
dei loro cuori? Quante ore son passate? Quanti secoli?....

..... D’improvviso ella riapre gli occhi faticosamente, come destandosi
da un sopore mortale, come tornando alla vita da un’altra vita increata
e divina, di cui non serba nella memoria che un rammarico immenso
e confuso. — Mio Dio, che freddo! Che chiaror livido! Che strani
suoni dispersi nell’aria!.... Dove si trova ella mai? D’onde proviene
quell’umido gelo che tutta la intirizzisce? Chi le opprime il respiro?
Chi bisbiglia, chi si muove, chi fugge intorno a lei?... — Passano
alcuni minuti in cui ella lotta in vano contro la nebbia che le offusca
il cervello; in cui cerca inutilmente di coordinare i suoi pensieri,
di rendersi conto delle sensazioni inesplicabili ond’è sorpresa....
Finalmente con uno sforzo enorme, solleva un poco il capo e si guarda
in giro, smarrita.

È l’alba.

È la fredda livida alba che succede alla benigna notte lunare.

È la realità che succede al Sogno.

È la luce nemica e beffarda che fuga trionfando la coorte delle Tenebre
e sembra disperdere con queste l’incanto breve che esse hanno tramato.
Per sempre? Forse, per sempre!...

— Aurelio! — ella chiama, invasa dall’orrore, con un fioco grido. —
Lévati! È giorno.

— È giorno? — domanda il giovine, aprendo a sua volta gli occhi,
balzando fresco e agile a sedere, mentre un vasto sorriso illumina la
sua faccia a quel risveglio inaspettato.

Una profonda gioja è dentro di lui: nessuna nebbia offusca il suo
cervello; nessuna paura turba il suo spirito. Egli vede, ode, respira
liberamente. E l’aria del mattino lo delizia come un elisire; e il
frullo d’ali, il cinguettìo dei passeri su gli alberi, gli strilli dei
galli sparsi per la campagna gli accarezzano dolcissimamente l’udito
come una musica; e quel cielo pallido pallido, dove qualche raro astro
tremula ancora, quel paesaggio raccolto, vergine, un po’ nebbioso,
affascinano la sua vista e lo rapiscono. Egli esce dall’estasi e
rientra nella vita col sentimento orgoglioso e sereno di chi ritorna
in patria dal paese della Fortuna. — È giorno? È un nuovo giorno che
s’avanza? E benedetto sia questo giorno che lo ridesta alfine tra le
braccia della Felicità!

— Flavia, ti amo — egli esclama, volgendo le pupille piene di luce
verso di lei, prendendole la mano come per esprimerle tutta la
gratitudine che gli fluttua nell’animo.

Ella arrossisce, si turba, si svincola tremante e inquieta dalla sua
stretta. Lo sgomento, onde fu assalita, in vece di diminuire, sembra
che aumenti sotto lo sguardo beato e riconoscente che tutta l’avvolge.

— Dio mio, che ho fatto! — mormora, coprendosi il viso colle palme,
rabbrividendo forte al ricordo del fallo irreparabile. — Che penserai
tu di me, ora?

— Penso che tu sei la _mia_ donna e che nessuno omai mi ti può
contendere, perchè sei mia, interamente mia.

Ella gli gitta un’occhiata obliqua e paurosa, e s’avvicina un poco a
lui, timida, umile, sottomessa come una schiava.

— Oh, Aurelio, — continua con la voce implorante: — tu non devi pensar
male di me, non devi accusarmi.... Sei tu che l’hai voluto, tu che
m’hai inebriata, tu che m’hai resa folle... Ora tu devi amarmi molto,
soccorrermi, salvarmi, perchè, lo vedi, io son debole e non ho più che
te solo al mondo.... Puoi far di me ciò che tu vuoi... Io sono una cosa
tua, io t’appartengo....

— Tu m’appartieni ed io pure t’appartengo, Flavia, — egli interrompe,
sorridendo, rassicurandola con un gesto calmo e affettuoso. — Se tu
temi, se dubiti di me, sei ingiusta. Quest’ora di beatitudine che m’hai
data, è la prima ora felice della mia vita, ed anche la prima sincera.
Io non potrò dimenticarla mai, intendi? mai, ed essa mi lega a te più
di qualunque giuramento, di qualunque rito, di qualunque legge.

— Bisogna ch’io discenda, adesso, — ella prorompe d’un tratto,
concitata, scrollando la testa, distogliendo gli occhi da quelli di
lui. — Forse è già troppo tardi!.. Ah, che imprudenza! Che imprudenza!

Fa l’atto di levarsi bruscamente in piedi, ma le forze l’abbandonano ed
ella ricade di peso su la terra.

— Lo vedi? Son morta!... Ajutami, per piacere.

Il giovine di scatto s’è alzato. Sembra che sia più grande, più valido,
più forte che non mai, tanto energico e fiero è il suo portamento.
Offrendole le due mani aperte, egli l’attira a sè e la solleva ritta
senza il minimo sforzo, come una piuma.

— Addio, Aurelio, — ella dice freddamente, sotto voce, senz’osare di
guardarlo, arrossendo di nuovo poi che si trova in piedi d’avanti a
lui.

— Non vuoi che t’accompagni?

— No, no! È meglio che tu resti qui, è meglio ch’io discenda sola....
Posso incontrare qualcuno in giardino....

— A più tardi, dunque!

La riprende con dolcezza tra le braccia e soggiunge con un accento
teneramente carezzevole:

— A più tardi, anima, e.... per sempre!

— Oh, sì, per sempre, Aurelio! Per sempre!

È questo l’ultimo fuggevole lampo di passione in lei — il primo dopo il
risveglio.

Ella lo bacia su le labbra con un furore disperato; si scioglie
immediatamente da lui; tenta di ricomporre un poco il disordine dei
capelli e delle vesti; poi, senz’altro, gli volge le spalle ed esce in
corsa dal nascondiglio.

— Ti amo! Ricordami! — le grida dietro il giovine, che il suo sgomento
e la sua confusione sembrano aver reso anche più sereno e più grato.

Ella non fa cenno d’averlo udito.

Attraversa il prato a brevi passi assai rapidi; giunge all’imbocco
oscuro della pineta e, senza più rivolgersi, s’occulta d’un tratto in
questa, — anzi meglio è dire, per esprimere la sensazione ch’egli n’ha
avuta, vi si sprofonda.

Rimasto solo, Aurelio s’incammina lentamente verso il poggio, sospinto
da un bisogno intenso di spazio e di frescura. Persiste dentro di lui
quel sentimento di placida allegrezza, che l’ha invaso destandosi dal
suo sogno di delizia, riprendendo la coscienza della vita al fianco
d’una donna amata, nei limpidi prestigi mattutini. Pare a lui in quel
momento che tutta la bellezza dell’Universo gli si spieghi d’avanti
agli occhi soltanto per festeggiare la sua presenza. Pare a lui che
la luce della propria persona sia quella che illumini con palpito
crescente le cose circostanti e la vólta del cielo. Un’onda di poesia
gli scorre nel sangue; i polmoni gli si dilatano ai sapidi effluvii
della campagna; le idee gli balzano dalla mente agili e leggere,
ciascuna portando in sommo l’imagine incantatrice; e una rifioritura di
giovinezza gli si schiude nel cuore, come un’aspirazione possente alla
semplicità originaria, ai salubri esercizii corporali, a una vita di
piacere quasi selvaggia, alla grande e spensierata e primitiva libertà
degli infimi o degli eroi.

E la sua anima dice, esultando: «Ah, finalmente: anche la mia festa
è incominciata! Finalmente: anche per me è battuta l’ora divina
della rivelazione! A che soffrire? A che combattere? Perché inseguire
affannosamente una Chimera, che sfugge a ogni presa e, anche raggiunta,
non lascia tra le mani se non un cencio vacuo e inutile? Amare!
Magnificamente amare! Ecco il segreto della gioja di vivere! Ecco la
causa suprema e il supremo scopo d’ogni esistenza creata!»

Egli vuol rivolgersi in dietro ancora una volta verso il Dolore e verso
l’Ideale; ma non riesce più a scorgere nè l’uno nè l’altro. La Donna è
venuta; e con essa il riposo, l’oblio, l’umiltà, l’acquiescenza beata
all’eterna incommutabile legge che regola nell’infinito spazio il
trasmutare della materia organica.

Così egli sale, solitario tra i mobili rossori dell’aurora, la dolce
erta impressa dalle orme di mille passanti, verso un’altura limitata
perduta tra altre innumerevoli alture.

Intorno a lui, i rami degli alberi vacillano a pena a pena,
abbandonando al vento qualche foglia vizza o qualche stilla di
rugiada. Nella calma pallidezza dell’aria un nuvolo di passeri mette
un cinguettìo vivace; i galli, delle fattorie sparse su le colline,
mettono i loro gridi spavaldi; e le pecore dai chiusi, qualche tenero
belato; e le giovenche, qualche profondo cupido mugghio; e un asino
dalla valle, il suo immenso singhiozzo, unico lamento nell’universale
gajezza delle cose.

Egli è giunto al sommo dell’altura e deve sostare, sconosciuto
pellegrino stretto intorno dall’umile giogaja, avendo a tergo,
invisibili, le creste alpestri baciate dal cielo.

D’innanzi è la natività del sole, e in questa s’affissa ebro il suo
sguardo. Da un mare di nebbie quasi sanguigne si libera un gran disco
vermiglio e s’estolle con lento moto fatale verso l’alta purezza degli
spazii.

L’Illuso leva le due braccia trionfalmente e lo saluta, come
l’apportatore d’un giorno senza tramonto.

  _Cerro Verbano, luglio 1894._

  _Quinto al Mare, dicembre 1896._


  FINE DE _LA SIRENA_.



INDICE.


  LA SIRENA.

     I.  L’apparizione                _Pag_. 1
    II.  L’incontro                      »  30
   III.  I fantasmi e le idee            »  63
    IV.  L’Albero del Bene e del Male    »  86
     V.  Echi del passato                » 105
    VI.  Prime nebbie                    » 123
   VII.  Al bivio                        » 151
  VIII.  Una festa                       » 183
    IX.  Il Sogno                        » 205
     X.  Tra l’Amore e la Morte          » 251
    XI.  Solo                            » 303
   XII.  Il Poema eterno                 » 338

  Segue LA CHIMERA.



_OPERE DI E. A. BUTTI._


  ROMANZI E NOVELLE:

  L’Automa. 4.ª ediz. (Ed. Treves)          L. 4 —
  L’Anima. 4.º migliaio. (Ed. Galli)           4 —
  L’Immorale. 3.ª ediz. (Ed. Galli)            3 —
  L’incantesimo. (Ed. Treves)                  4 —
  La Chimera (_di prossima pubblicazione_).
  Un apostata (_in preparazione_).
  L’Eroe del domani (_in preparazione_).

  TEATRO:

  Il Vortice. (Ed. Galli)                      1 50
  L’Utopia. (Ed. Galli)                        2 —
  Gli atei (_in preparazione_).

  VERSI:

  Le dolorose (_in preparazione_).

  CRITICA:

  Né odii né amori. (Ed. Bocca)                3 50



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




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