Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Il tallone di ferro
Author: London, Jack
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.

*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il tallone di ferro" ***


                              JACK LONDON


                                   IL
                            TALLONE DI FERRO

                    _ROMANZO DI PREVISIONE SOCIALE_


                          A cura di GIAN DÀULI



                              MODERNISSIMA
                        MILANO — Via Vivaio, 10



                     PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

  Stab. Tipo-Lit. FED. SACCHETTI & C. — Via Zecca Vecchia, 7 — Milano (7)



                         «E io so che un terzo di tutto il genere
                         umano sulla terra perirà nella Grande
                         Guerra, e un terzo perirà nella Grande
                         Distruzione, ma l’ultimo terzo vivrà nel
                         Grande Millennio, che sarà il Regno di Dio
                         sulla Terra».

                                                   _Selma Lagerfel_


_Jack London scrisse il_ Tallone di ferro _nel 1907[1]. Dopo un attento
esame del disordine economico del secolo XIX e delle condizioni di
lotta tra plutocrazia e proletariato egli, seguendo i maggiori uomini
di scienza e statisti del suo tempo, comprese come un inesorabile
dilemma si dibattesse nella coscienza della Società contemporanea
oppressa dagli armamenti e da una produzione inadeguata, eccessiva ed
artificiosa insieme: la_ rivoluzione, _o la guerra._

_Davanti a questo terribile dilemma, la sua grande anima di poeta, di
sognatore e di ribelle previde l’avvenire, e visse, con le creature
immortali della immaginazione, parte del grande dramma che culminò,
sette anni dopo, nella guerra mondiale._

_Ma più che la guerra, il London previde la rivoluzione liberatrice,
per successive rivolte di popolo, delle quali egli descrisse una,
così sanguinaria e feroce, che fu accusato, nel 1907, di essere «un
terribile pessimista». In realtà il London anticipò con l’immaginazione
ciò che accadde negli Stati Uniti ed altrove tra gli anni 1912 e 1918;
così che oggi, nel 1925, noi possiamo giudicarlo profeta di sciagure,
se si vuole, ma profeta._

_Infatti, nell’autunno del 1907, mentre il mondo s’adagiava nelle
più rosee e svariate ideologie umanitarie, Jack London, osservatore
acuto e chiaroveggente, anticipando e descrivendo gli avvenimenti che
sarebbero accaduti nel 1913, scriveva: «L’oligarchia voleva la guerra
con la Germania, e la voleva per molte ragioni. Nello scompiglio che
tale guerra avrebbe causato, nel rimescolìo delle carte internazionali
e nella conclusione di nuovi trattati e di nuove alleanze, l’oligarchia
aveva molto da guadagnare. Inoltre, la guerra avrebbe esaurito gran
parte dell’eccesso dì produzione nazionale, ridotto gli eserciti di
disoccupati che minacciavano tutti i paesi, e concesso all’oligarchia
spazio e tempo per perfezionare i suoi piani di lotta sociale._

_«Tale guerra avrebbe dato all’Oligarchia (si parla di quella degli
Stati Uniti) il possesso del mercato mondiale. Inoltre, avrebbe
creato un esercito permanente in continua efficienza, e nello stesso
tempo avrebbe sostituito nella mente del popolo l’idea di «America
contro Germania» a quella di «Socialismo contro Oligarchia». In
realtà, la guerra avrebbe fatto tutto questo se non ci fossero stati
socialisti. Un’adunanza segreta dei capi dell’Ovest fu convocata
nelle nostre quattro camerette di Pell Street. In essa fu esaminato
prima l’atteggiamento che il partito doveva assumere. Non era la
prima volta che veniva discussa la possibilità d’un conflitto armato;
ma era la prima volta che ciò si faceva negli Stati Uniti. Dopo la
nostra riunione segreta, ci ponemmo in contatto con l’organizzazione
nazionale, e ben presto furono scambiati marconigrammi attraverso
l’Atlantico, fra noi e l’Ufficio Internazionale del Lavoro. I
socialisti tedeschi erano disposti ad agire con noi... Il 4 dicembre
(1913), l’Ambasciatore americano fu richiamato dalla capitale
tedesca. La stessa notte una flotta da guerra tedesca si lanciava su
Honolulu affondando tre incrociatori e una torpediniera doganale e
bombardando la città. Il giorno dopo, sia la Germania che gli Stati
Uniti dichiararono la guerra, e in un’ora i socialisti dichiararono
lo sciopero generale nei due paesi. Per la prima volta il Dio della
Guerra tedesco si trovò di fronte gli uomini del suo impero, gli uomini
che facevano funzionare il suo impero. La novità della situazione
stava nel fatto che la rivolta era passiva: il popolo non lottava. Il
popolo rimaneva inerte; e rimanendo inerte legava le mani al Dio della
Guerra... Neppure una ruota si muoveva nel suo impero, nessun treno
procedeva, nessun telegramma percorreva i fili, perchè ferrovieri
e telegrafisti avevano cessato di lavorare, come il resto della
popolazione»._

_La guerra mondiale preconizzata da Jack London pel dicembre del 1913
ebbe inizio, invece, otto mesi dopo, nell’agosto del 1914, ma l’azione
delle organizzazioni operaie per impedire il conflitto, benchè tentata,
non ebbe buon successo per colpa del proletariato tedesco[2]._

_Se Jack London avesse potuto prevedere la sconfitta del socialismo
nella guerra, avrebbe certamente mutato corso allo svolgimento del suo
racconto, pur lasciandone immutata la sostanza, ma non è da pensare
— dato il carattere sociale e ideale di tutta la sua opera — che egli
potesse seguire l’illusione di quelli che accettarono la guerra come
una soluzione tragica, ma definitiva della crisi mondiale, o dei
sognatori wilsoniani che credettero di aver combattuto e vinto la
guerra contro la guerra, e di poter ottenere il disarmo mediante la
Società delle Nazioni, o di coloro che vanno ripetendo che la guerra ha
trasformato la società e iniziato un’êra nuova._

_Non c’è menzogna maggiore e peggiore di questa, e, a volerle credere,
più fatale ai destini umani._

_La guerra_ non fu la soluzione di una crisi, _ma tragico inevitabile
risultato delle condizioni della Società di prima della guerra, per
amoralità, immoralità, egoismo, ignoranza, avidità di ricchezza e di
piacere, squilibrio economico, ingiustizia sociale, e un’infinità
di altri mali nascosti dall’ipocrisia, svalutati dall’ottimismo,
giustificati con sofismi. La crisi perdura tuttora, perchè gli uomini,
anzichè ravvedersi degli errori passati che causarono la guerra,
sembrano quasi compiacersene e gloriarsene, giudicando la grande strage
come un fenomeno meraviglioso, e vanto non vergogna dell’Umanità._

_La spaventosa esperienza collettiva, che dovrebbe essere considerata
come un’esperienza di colpe comuni o, almeno, come una dura e crudele
necessità imposta da colpe altrui, e tale da far ravvedere e rendere,
comunque, pensosi delle cause che recarono tanti lutti e tante rovine,
pare, infatti, che faccia perdere ai più coscienza del bene e del
male, e li imbaldanzisca come se fossero tutti trionfatori e salvatori
della Patria e dell’Umanità. Ed è di oggi il triste spettacolo dei
pusillanimi, degli imboscati e intriganti di ieri, che, sorretti dagli
arricchiti di guerra, dòminano la piazza e tentano di usurpare la
gloria dei pochi veri benemeriti della Nazione, per creare, a proprio e
totale beneficio, l’ingiusto privilegio del governo del proprio paese e
dell’amministrazione della cosa pubblica._

_Ma ritorniamo a Jack London, a proposito del quale questa digressione
non può considerarsi oziosa. Vien fatto di pensare, infatti, che
se le condizioni della Società prima del 1914 crearono la Grande
Guerra, il perdurare e l’aggravarsi delle stesse condizioni non possa
che preparare quella catastrofe anche maggiore, a breve scadenza, e
cioè quella Grande Distruzione prevista e magistralmente descritta
dal London. La Grande Distruzione sarà inevitabile e vicina se gli
uomini di buona volontà non agiranno prontamente, con coraggio, e
perseveranza._

_Ma come agire, come evitare la nuova sventura?_

                                 * * *

_Anatole France scrisse che è necessario che coloro che hanno il dono
prezioso e raro di prevedere, manifestino i pericoli che presentono.
Anche Jack London «aveva il genio che vede quello che è nascosto
alla folla degli uomini, e possedeva una scienza che gli permetteva
d’anticipare i tempi. Egli previde l’assieme degli avvenimenti che si
sono svolti nella nostra epoca». Ma, ahimè! chi gli diede ascolto? Le
sue previsioni furono lette prima della guerra da centinaia di migliaia
di uomini sparsi in tutto il mondo. Forse qualche pensatore solitario
gli credette, ma i più lo considerarono pazzo o visionario, molti
lo chiamarono pessimista, e i suoi compagni di fede l’accusarono di
seminare lo spavento nelle file del proletariato._

_Pertanto, l’ottimismo di prima della guerra non dovrebbe essere più
possibile._

_Chi non vede che la guerra ha reso più selvaggio l’urto degli
interessi, accresciuto smisuratamente l’avidità del potere, della
ricchezza e del piacere, fra contese sociali e politiche esasperate e
il terrore delle continue minacce fra nazioni, e classi, segni tutti
del rapido processo di decomposizione della società contemporanea? Mai
nella storia dell’Umanità fu vista una maggiore miseria spirituale e
morale, mai l’anima umana fu così offesa e degradata da tanti delitti!_

_Perciò il_ Tallone di ferro _riappare oggi, dopo quasi vent’anni
dacchè fu scritto, come specchio di dolorosa attualità, riflette
fedelmente i mali che travagliano la vita e la coscienza degli
individui e delle nazioni, mostra i pericoli del nostro disordine
sociale. Però, mentre vediamo quello che in realtà fu ed è il
tallone di ferro della plutocrazia, non possiamo non meditare
sulle deformazioni del movimento operaio che, incapace, ieri, per
insufficiente preparazione morale e spirituale, d’impedire la guerra,
minaccia oggi la società col terribile tallone di ferro della demagogia
e dell’ignoranza. Se volessimo generalizzare, dovremmo ricordare un
infinito numero di talloni di ferro! Ma già il quadro è troppo fosco
e pauroso nel suo assieme per attardarci nei particolari. Lasciamo
anzi che la speranza rientri nei cuori, sia pure per un istante, con
le immagini delle creature che raddolciscono e rendono caro questo
libro di orrori: con l’immagine di Ernesto Everhard, il rivoluzionario
«pieno di coraggio e di saggezza, pieno di forza e di dolcezza», che
tanto somiglia allo scrittore che l’ha creato: con quella della moglie
di Everhard, dall’anima grande e innamorata e dallo spirito forte; con
quelle del vescovo Morehouse e del padre di Avis, indimenticabili,
l’uno per l’ingenua anima evangelica, l’altro per l’amore della
scienza, che lo rende immune dalle cattiverie degli uomini e superiore
alle traversie della vita. Creature buone e sublimi come queste
creature del London esistono pure nella vita reale e mantengono accesa,
anche nelle epoche più buie, con la fiamma dell’amore, la lampada della
civiltà._

_È da sperare comunque che se la società contemporanea dovrà
precipitare, con tutte le passate ideologie e gli antichi ordinamenti,
nell’abisso approfondito dalla guerra, sia almeno rapida la rovina
per una più rapida rinascita, e che non occorreranno i tre secoli di
tallone di ferro preconizzati dal London perchè l’umanità rinnovata
riprenda il cammino verso altitudini mai toccate. È certo intanto
che il problema, da economico e politico qual era nel secolo scorso,
è divenuto oggi essenzialmente morale; e sarà domani semplicemente_
religioso. _Ormai sappiamo che non trionferanno nè le idee di Carlo
Marx, nè quelle di Guglielmo James, nè del Sorel, nè del Bergson. Vi
sarà probabilmente un ritorno alla morale cristiana, e si considererà
nuovamente la vita come una_ prova _di rinuncia e di dolore; ma
dovranno alla fine cadere le barriere tra classe e classe, tra nazione
e nazione, scomparire le diversità di lingua e di religione, perchè
gli uomini possano riconoscersi membri di un’unica famiglia umana.
Abbandonate le discordie, i vivi ascolteranno la voce dei morti, si
caricheranno con lietezza la loro parte di lavoro per il progresso
umano, e comprendendosi ed amandosi, prepareranno un mondo migliore per
le future generazioni. Allora le antiche verità degli Evangeli avranno
una nuova interpretazione e, soprattutto, una nuova pratica; sarà, in
altre parole, il trionfo dell’amore, della Religione, dell’Umanità
secondo una nuova disciplina morale, coscientemente accettata in
regime di libertà Universale; e la devozione del forte per il debole,
la venerazione del debole per il forte diventeranno norma di vita
veramente civile. Jack London ha previsto e auspicato tutto ciò, con
grandezza di cuore._

_La certezza di una Umanità riconciliata, unita, concorde, solidale
davanti al dolore ed al mistero illumina, appunto, e riscalda come
un chiarore di sole, tutte le opere di Jack London; il quale ci
appare come un Cavaliere della Verità, e poeta e profeta dell’amore
universale._

  Rapallo, gennaio del 1925.

                                                          GIAN DÀULI.



                                        _Questa traduzione è dedicata
                                          allo spirito formidabile di
                                          GIOVANNI ANSALDO_.

                                                              G. D.



IL TALLONE DI FERRO

(THE IRON HEEL)



CAPITOLO I.

LA MIA AQUILA.


La brezza d’estate agita i pini giganteschi, e le onde della Wild
Water rumoreggiano ritmicamente sulle pietre muscose. Numerose farfalle
danzano al sole e da ogni parte freme ed ondeggia il ronzio delle api.
In mezzo ad una quiete così profonda, io me ne sto sola, pensierosa ed
agitata.

È tale e tanta la mia serenità, che mi turba, e mi sembra irreale.
Tutto è tranquillo intorno, ma è come la calma che precede la tempesta.
Tendo l’orecchio e spio, con tutti i sensi, il minimo indizio del
cataclisma imminente. Purchè non sia prematuro, o purchè non scoppi
troppo presto[3].

La mia inquietudine è giustificata. Penso, penso continuamente,
e non posso fare a meno di pensare. Ho vissuto così a lungo nella
mischia, che la calma mi opprime, e la mia immaginazione prevede,
istintivamente, quel turbine di rovina e di morte che si scatenerà
ancora, fra poco. Mi pare di sentire le grida delle vittime, mi pare
di vedere, come pel passato, tanta tenera e preziosa carne contusa e
mutilata, tante anime strappate violentemente dai loro nobili corpi
e lanciate verso Dio[4]. Poveri esseri noi siamo: costretti alla
carneficina e alla distruzione per ottenere il nostro intento, per far
regnare sulla terra una pace e una felicità durature!

E poi sono proprio sola! Quando non penso a ciò che deve essere, penso
a ciò che è stato, a ciò che non è più. Penso alla mia aquila che
batteva l’aria colle sue instancabili ali, e prese il volo verso il suo
sole, verso l’ideale radioso della libertà umana.

Non potrei starmene inerte ad aspettare il grande avvenimento, che è
opera sua, un’opera della quale egli non può più vedere il compimento.
È lavoro delle sue mani, creazione della sua mente. Egli le ha dedicato
gli anni migliori, l’ha nutrita della sua vita[5].

Perciò voglio consacrare questo periodo di attesa e di ansia al ricordo
di mio marito. Io sola, al mondo, potrò far luce su quella personalità
così nobile, che non sarà mai abbastanza nota.

Era un’anima immensa! Quando il mio amore si purifica di ogni
egoismo, rimpiango sopratutto che egli sia scomparso e che non veda
l’aurora vicina. Non possiamo fallire! Egli ha costruito troppo
solidamente e con troppa sicurezza. Dal petto dell’umanità atterrata,
strapperemo il maledetto Tallone di Ferro! Al segnale della riscossa
insorgeranno, ovunque, le legioni dei lavoratori, così che mai, nella
storia, si sarà veduto alcunchè di simile. La solidarietà delle masse
lavoratrici è assicurata; per la prima volta scoppierà una rivoluzione
internazionale, in tutto il mondo[6].

Vedete bene, sono così assillata da questo pensiero, che da lungo tempo
vivo, giorno e notte, persino i particolari del grande avvenimento. E
non posso disgiungerli dal ricordo di colui che ne era l’anima.

Tutti sanno che ha lavorato molto e sofferto crudelmente per la
libertà; ma nessuno sa meglio di me che, durante i venti anni di
tumulto nei quali ho condiviso la sua vita, ho potuto apprezzare la sua
pazienza, il suo sforzo incessante, la sua totale dedizione alla causa
per la quale è morto, or sono appena due mesi.

Cercherò di raccontare semplicemente come mai Ernesto Everhard sia
entrato a far parte della mia vita, come il suo influsso su me sia
cresciuto al punto di farmi diventare parte di lui stesso, e quali
mutamenti meravigliosi abbia operato sul mio destino; così, potrete
vederlo con i miei occhi e conoscerlo come l’ho conosciuto io, a parte
certi segreti troppo intimi e dolci per essere rivelati.

Lo vidi la prima volta nel febbraio del 1912, quando, invitato a pranzo
da mio padre,[7] entrò in casa nostra a Berkeley; e non posso dire
che ne ricevessi una buona impressione. C’era molta gente in casa; e
nella sala dove aspettavamo l’arrivo degli ospiti, egli fece un’entrata
molto meschina. Era la sera dei «predicatori», come mio padre ci diceva
confidenzialmente, e certo Ernesto non era a suo agio fra quella gente
di chiesa.

Prima di tutto, era mal vestito. Portava un abito di panno oscuro,
acquistato già fatto, che gli stava male. Veramente, anche in seguito,
non riuscì mai a trovare un vestito che gli stesse bene addosso. Quella
sera, come sempre, quando si moveva, i suoi muscoli gli sollevavano
la stoffa, e, a causa dell’ampio petto, la giacca gli si aggrinziva in
una quantità di pieghe fra le spalle. Aveva il collo d’un campione di
_boxe_[8], grosso e robusto. Ecco dunque, dicevo fra me, quel filosofo
sociale, ex maniscalco, che papà ha scoperto. Infatti, con quei
bicipiti e quel collo, ne aveva l’aspetto. Lo definii immediatamente
come una specie di prodigio, un Blind Tom[9] della classe operaia.

E quando, poi, mi strinse la mano; era la sua, una stretta di mano
sicura e forte, ma mi guardò arditamente con i suoi occhi neri...
troppo arditamente, anzi, secondo me. Capirete, ero una creatura nata
e vissuta in quell’ambiente, ed avevo, a quel tempo, istinti di classe
molto forti.

Quell’ardire mi sarebbe sembrato imperdonabile in un uomo della mia
stessa classe. So che dovetti abbassare gli occhi, e che quando me ne
liberai, presentandolo ad altri, provai un vero sollievo nel voltarmi
per salutare il Vescovo Morehouse, uno dei miei prediletti, uomo di
mezza età, dolce e serio, dall’aspetto buono di un Cristo, e di un
sapiente.

Ma quell’ardire, che io attribuii a presunzione, fu, in realtà, il
filo conduttore per mezzo del quale mi fu possibile conoscere il
carattere di Ernesto Everhard, ch’era semplice e retto, non aveva paura
di nulla, e non voleva perdere il tempo in forme convenzionali. «Mi
siete subito piaciuta», mi disse molto tempo dopo. «Perchè, dunque,
non avrei dovuto riempire i miei occhi di ciò che mi piaceva?». Ho
detto che nulla lo intimoriva. Era un aristocratico per natura, sebbene
combattesse l’aristocrazia; un superuomo, la bestia bionda descritta da
Nietzsche[10], e, nonostante ciò, un democratico appassionato.

Occupata com’ero ad accogliere gli altri invitati, e forse anche per
la cattiva impressione avuta, dimenticai quasi del tutto il filosofo
operaio. Attirò la mia attenzione una o due volte, durante il pranzo,
mentre ascoltava la conversazione di alcuni pastori. Gli vidi brillare
negli occhi una luce strana, come se egli si divertisse; e conclusi che
doveva essere pieno di umorismo, e gli perdonai quasi il modo ridicolo
di vestire.

Ma il tempo passava: il pranzo era inoltrato, ed egli non aveva
aperto bocca una volta sola mentre i pastori discorrevano animatamente
della classe operaia, e dei suoi rapporti col clero, e di tutto ciò
che la chiesa aveva fatto e faceva per essa. Osservai che mio padre
era seccato di quel mutismo, e approfittò di un momento di calma per
chiedergli quale fosse il suo parere. Ernesto si limitò ad alzare le
spalle, e dopo un secco: «non ho niente da dire», riprese a mangiare
delle mandorle salate.

Ma mio padre non si dava tanto facilmente per vinto, e dopo pochi
secondi, disse: «Abbiamo in mezzo a noi un membro della classe operaia.
Sono certo che egli potrebbe presentarci le cose da un punto di vista
nuovo e interessante. Alludo al signor Ernesto Everhard».

Tutti manifestarono il loro interesse, e sollecitarono Ernesto ad
esporre le sue idee, con un atteggiamento così largo, tollerante,
benevolo, che pareva condiscendenza. E vidi che anche Ernesto osservò
questo con una specie di allegria, perchè girò lentamente gli occhi
intorno, lungo la tavola, e io scorsi in quegli occhi uno scintillare
di malizia.

— Non sono tagliato per le cortesi discussioni ecclesiastiche, —
cominciò modestamente: poi esitò.

Si udirono delle voci di incoraggiamento:

— Avanti, avanti!

E il Dottor Hammerfield aggiunse:

— Non temiamo la verità da chiunque sia detta, purchè in buona fede.

— Voi separate dunque la sincerità dalla verità? — chiese vivamente
Ernesto, ridendo.

Il Dottor Hammerfield rimase un momento perplesso e finì col balbettare:

— Il migliore fra noi può sbagliare, giovanotto, il migliore.

Un mutamento improvviso apparve in Ernesto. In un attimo, sembrò un
altro uomo.

— Ebbene, allora lasciatemi cominciare col dirvi che vi sbagliate
tutti. Voi non sapete niente, meno che niente della classe operaia.
La vostra sociologia è errata e priva di valore come il vostro modo di
ragionare.

Più che le parole, mi colpì il tono con cui le diceva, e fui scossa
alla prima parola. Era uno squillo di tromba che mi fece vibrare tutta.
E tutti ne furono scossi, svegliati dalla solita monotonia e dal solito
intorpidimento.

— Che c’è dunque di così terribilmente falso e privo di valore nel
nostro modo di ragionare, giovanotto? — chiese il Dottor Hammerfield,
con voce che rivelava dispetto.

— Voi siete dei metafisici, potete provare ogni cosa con la metafisica,
e naturalmente qualunque altro metafisico può provare, con sua
soddisfazione, che avete torto. Siete degli anarchici nel campo del
pensiero. E avete la passione delle costruzioni cosmiche. Ognuno di voi
vive una concezione personale, creata dalla sua fantasia, e secondo i
suoi desiderii. Ma non conoscete nulla del vero mondo nel quale vivete,
e il vostro pensiero non ha posto nella realtà, se non come fenomeno di
squilibrio mentale.

«Sapete che cosa pensavo sentendovi parlare a vanvera? Ricordavo quegli
scolastici del Medio Evo che discutevano gravemente e saggiamente
questa questione: Quanti angeli possono ballare sulla punta di un
ago? Voi, signori, siete lontani dalla vita intellettuale del secolo
XXº, quanto poteva esserlo, una diecina di migliaia d’anni fa, un mago
pellirossa che facesse incantesimi in una foresta vergine.

Ernesto lanciò questa frase come se fosse adirato, a giudicare dal
volto acceso, dalle sopracciglia contratte, dal lampeggiare degli
occhi, dai movimenti del mento e delle mascelle; tutti segni di un
umore aggressivo. In realtà, quello era il suo modo di fare, che però
eccitava le persone, esasperandole con quegli assalti improvvisi. Già
i nostri convitati perdevano il loro contegno abituale. Il Vescovo
Morehouse, inchinato in avanti, ascoltava attentamente; il viso del
dottor Hammerfield era rosso d’indignazione e di dispetto; gli altri
erano anch’essi esasperati; solo alcuni sorridevano con aria di
superiorità. Per me, la scena era divertentissima. Guardai mio padre,
e mi parve di vederlo scoppiare dalle risa, all’effetto di quella bomba
umana introdotta audacemente nella nostra cerchia.

— Vi esprimete in modo un po’ vago, — interruppe il dottor Hammerfield.
— Che volete dire precisamente, chiamandoci metafisici?

— Vi chiamo metafisici, — riprese Ernesto, — perchè parlate
metafisicamente; il vostro metodo è contrario a quello della scienza
e le vostre conclusioni non hanno validità alcuna. Provate tutto e non
provate nulla: e non riuscite in due a mettervi d’accordo su un punto
qualsiasi. Ognuno di voi si tuffa nella propria coscienza per spiegare
l’universo e se stesso. E voler spiegare la coscienza con la coscienza,
è come se voleste sollevarvi tirando a voi i legacci delle scarpe.

— Non capisco, — interruppe il Vescovo Morehouse. — Mi sembra che
tutte le cose dello spirito sieno metafisiche. La matematica stessa, la
più esatta e profonda di tutte le scienze, è puramente metafisica; il
minimo processo mentale dello scienziato che ragiona, è atto di natura
metafisica. Certo, sarete d’accordo con me su questo punto, non è vero?

— Come dite voi stesso, non capite, — replicò Ernesto. — Il metafisico
ragiona per deduzione, partendo dalla sua stessa soggettività.
Lo scienziato ragiona per induzione, basandosi sui fatti forniti
dall’esperienza. Il metafisico procede dalla teoria ai fatti, lo
scienziato va dai fatti alla teoria. Il metafisico spiega l’universo
secondo se stesso, lo scienziato spiega se stesso secondo l’universo.

— Dio sia lodato che non siamo scienziati, — mormorò il dottor
Hammerfield, con un’aria di soddisfazione beata.

— Che siete, dunque?

— Siamo filosofi.

— Eccovi lanciati, — disse Ernesto ridendo. — Avete abbandonato il
terreno reale e solido, per lanciarvi in aria con una parola, come
macchina volante. Per favore, ridiscendete quaggiù, e vogliatemi dire,
alla vostra volta, che intendete esattamente per filosofia?

— La filosofia è... — il dottor Hammerfield si raschiò la gola —
qualche cosa che non si può definire in modo comprensibile se non
a menti e a temperamenti filosofici. Lo scienziato che si limita a
ficcare il naso nei suoi provini non potrà mai capire la filosofia.

Ernesto sembrò insensibile a quella puntata. Ma aveva l’abitudine di
ritorcere l’attacco contro l’avversario, e così fece subito, con viso e
voce oltremodo fraterni.

— In questo caso, voi capirete certamente la definizione della
filosofia, che voglio proporvi. Ad ogni modo, prima di cominciare, vi
prego, o di rilevarne gli errori, o di serbare un silenzio metafisico.
La filosofia è semplicemente la più vasta di tutte le scienze. Il suo
sistema di ragionamento è uguale a quello di una scienza particolare
qualunque o di tutte le scienze in generale. Ed appunto per questo
sistema di ragionamento, il sistema induttivo, la filosofia fonde
insieme tutte le scienze particolari, in una sola grande scienza.
Come dice Spencer, i dati di ogni scienza particolare non sono altro
che nozioni parzialmente unificate; mentre la filosofia sintetizza
le nozioni fomite da tutte le scienze. La filosofia è la scienza
delle scienze, la scienza maestra, se volete. Che pensate di questa
definizione?

— Molto bella, degna di credito, — mormorò il Dottor Hammerfield.

Ma Ernesto era senza pietà:

— Guardatevene: la mia definizione è fatale alla metafisica. Se fin
da ora non potete trovare un’incrinatura nella mia definizione, sarete
squalificati quando vorrete opporre poi argomenti metafisici. Dovrete
passare la vita a cercare questo filo di appiglio, e restare muti fin
quando l’avrete trovato.

Ernesto aspettò. Il silenzio si prolungava e diventava penoso.

Il dottor Hammerfield era tanto mortificato, quanto incuriosito.
Quell’attacco a colpi di maglio lo disorientava. Non era abituato a
quel metodo semplice e diretto di discussione.

Egli, con uno sguardo implorante, fece il giro della tavola, ma nessuno
rispose per lui. Sorpresi il babbo che soffocava le risa dietro il
tovagliolo.

— C’è un altro modo di squalificare i metafisici, — riprese Ernesto,
quando la sconfitta del dottore fu ben verificata — e consiste nel
giudicarli dalle loro opere. Che cosa fanno per l’umanità se non
tessere delle fantasie aeree e scambiare per divinità la propria
ombra? Ammetto che abbiano aggiunto nuovi motivi all’allegria del
genere umano, ma quale bene reale hanno mai apportato? Essi hanno
filosofeggiato, scusatemi la parola di cattivo gusto, sul cuore,
considerandolo come la sede delle emozioni, mentre gli scienziati
studiavano la circolazione del sangue. Hanno declamato sulla peste e
sulla carestia, considerandole flagelli di Dio, mentre gli scienziati
costruivano depositi di rifornimento o epuravano gli accentramenti
urbani. Descrivevano essi la terra come centro dell’universo,
mentre degli scienziati scoprivano l’America e scrutavano lo spazio
per scoprirvi le stelle e le leggi degli astri. In conclusione, i
metafisici non hanno fatto niente, assolutamente per l’umanità. Hanno
dovuto indietreggiare a passo a passo davanti alle conquiste della
scienza. Ma, appena i fatti constatati scientificamente rovesciavano
le loro spiegazioni soggettive, essi ne fabbricavano altre su più
vasta scala per spiegare gli ultimi fatti accertati. E così, senza
dubbio, continueranno a fare sino alla fine dei secoli. Signori, i
metafisici sono impostori. Fra voi e l’esquimese che immaginava Dio
come un mangiatore di grasso e rivestito di pelliccia, non intercorre
alcun divario se non quello costituito da qualche migliaio di anni di
constatazione di fatti. Ecco tutto!

— Eppure il pensiero di Aristotele ha governato l’Europa durante dodici
secoli, — disse pomposamente il dottor Ballingford, — e Aristotele era
un metafisico.

Il dottor Ballingford girò lo sguardo intorno alla tavola e fu
ricompensato con cenni e gesti di approvazione.

— Il vostro esempio non è felice, — rispose Ernesto. — Voi rievocate
proprio uno dei più oscuri periodi della storia dell’umanità, di quelli
che noi chiamiamo secoli d’oscurantismo, un’epoca in cui la scienza era
schiava della metafisica, e la fisica si limitava alla ricerca della
pietra filosofale, e l’alchimia aveva preso il posto della chimica,
e l’astrologia quello dell’astronomia. Triste dominazione, quella del
pensiero di Aristotele!

Il dottor Ballingford sembrò indispettito, ma subito il viso gli si
rischiarò, ed egli riprese:

— Anche ammettendo il nero quadro che ci avete dipinto, dovete però
riconoscere alla metafisica un grande valore intrinseco, poichè ha
potuto liberare l’umanità dall’oscurantismo e avviarla verso la luce
dei secoli posteriori.

— La metafisica non c’entra in questo, — ribattè Ernesto.

— Come! — esclamò il dottor Hammerfield, — ma, forse, il pensiero
speculativo non ha condotto alle grandi scoperte?

— Ah! caro signore — disse Ernesto sorridendo, — vi credevo
squalificato. Non avete ancora trovato una pagliuzza nella mia
definizione della filosofia, e siete sospeso nel vuoto. Ma è
un’abitudine dei metafisici e vi perdòno. No, ripeto, la metafisica
non ebbe alcun influsso in tutto questo. I viaggi di scoperta furono
provocati da quistioni di pane cotidiano, di seta e gioielli, di monete
d’oro e danaro, e incidentalmente, dalla chiusura delle vie commerciali
di terra verso l’India. Alla caduta di Costantinopoli, nel 1453, i
Turchi chiusero il cammino delle carovane dell’India, e i trafficanti
Europei dovettero cercarne un altro.

Tale fu la causa vera, originale di quelle esplorazioni. Cristoforo
Colombo navigava per trovare una nuova via per le Indie; tutti i libri
di storia ve lo diranno. Si scopersero incidentalmente dei fatti nuovi
in natura: la grandezza, e la forma della terra: e il sistema Tolemaico
diede loro nuova luce.

Il dottor Hammerfield emise una specie di grugnito.

— Non siete d’accordo con me? — gli chiese Ernesto. — Allora ditemi in
che consiste il mio errore.

— Posso sostenere soltanto il mio punto di vista, — replicò aspramente
il dottor Hammerfield. — Sarebbe una storia troppo lunga.

— Non c’è storia troppo lunga, per uno scienziato. — osservò con
dolcezza Ernesto. — Ecco perchè lo scienziato scopre e ottiene, ecco
perchè è arrivato in America.

Non ho intenzione di descrivere tutta la serata, sebbene sia una gioia
per me ricordare ogni particolare di quel primo incontro, di quelle
prime ore passate con Ernesto Everhard.

La discussione era animatissima, e i ministri avvampavano, quando
Ernesto lanciava loro gli epiteti di filosofi romantici, di proiettori
da lanterna magica, e altri del genere. Ad ogni istante li fermava per
ricondurli ai fatti.

— Il fatto, mio caro, il fatto irrefragabile, — proclamava trionfante,
ogni qualvolta assestava un colpo decisivo. Era irto di fatti e
lanciava loro i fatti fra i piedi, per farli inciampare: drizzava loro
davanti i fatti per farli cadere in una imboscata, li bombardava con i
fatti a volo.

— Tutta la vostra devozione è per l’altare del fatto — lanciò a sua
volta, con aria sprezzante, il dottor Hammerfield.

— Il fatto solo è Dio, e il signor Ernesto è il suo profeta, —
parafrasò il dottor Ballingford.

Ernesto, sorridendo, approvò col capo.

— Sono come un abitante del Texas, — disse. E poichè insistevano perchè
spiegasse, aggiunse: — L’uomo del Missouri dice sempre: Bisogna farmi
vedere questo; ma l’uomo del Texas dice: Bisogna mettermelo in mano.
Donde appare evidente che non è un metafisico.

In altro momento, avendo Ernesto detto che i filosofi metafisici non
potrebbero sopportare la prova della verità, il dottor Hammerfield
tuonò:

— Qual’è la prova della verità, giovanotto? Vorreste avere la bontà
di spiegarci ciò che ha lungamente imbarazzato menti più sagge della
vostra?

— Certamente, — rispose Ernesto con quella sicurezza che li
indispettiva. — Le menti sagge sono state a lungo imbarazzate dalla
ricerca della verità, perchè la cercavano per aria, lassù! Se fossero
rimaste sulla terra ferma, l’avrebbero facilmente trovata. Quei saggi
avrebbero certamente scoperto che essi stessi costituivano precisamente
la prova della verità, in ogni azione e pensiero pratico della loro
vita.

— La prova, la prova. — ripetè con impazienza il dottor Hammerfield. —
Lasciate da parte i preamboli. Datecela e diventeremo come gli Dei.

C’era in queste parole e nel modo con cui erano dette, lo scetticismo
aggressivo e ironico che provava la maggioranza dei convitati,
quantunque il Vescovo Morehouse sembrasse colpito.

— Il dottor Jordan[11] l’ha stabilito molto chiaramente. — disse
Ernesto. — Ecco il suo modo di verificare una verità: È essa concreta,
in atto? le affidereste la vostra vita?

— Bah! — sogghignò il dottor Hammerfield.

— Dimenticate, nei vostri calcoli, il Vescovo Berkeley[12]. In
conclusione, non gli hanno mai risposto.

— Il metafisico più nobile di tutti, — disse Ernesto ridendo, — ma
scelto proprio male come esempio. Si può considerare Berkeley stesso
come testimonio che la sua metafisica era campata in aria.

Immediatamente, il dottor Hammerfield si infuriò, come se avesse
sorpreso Ernesto nell’atto di rubare o mentire.

— Giovanotto, — esclamò con voce tonante, — questa dichiarazione è
pari a tutto quanto avete detto stasera. È un’asserzione indegna e
senz’alcun fondamento.

— Eccomi annientato — mormorò Ernesto, con aria compunta. —
Disgraziatamente non mi pare d’essere colpito. Bisognerebbe farmelo
toccare con mano, dottore.

— Benissimo, benissimo, — balbettò il dottor Hammerfield. — Non potete
dire che il Vescovo Berkeley abbia dimostrato che la sua metafisica non
fosse pratica. Non ne avete le prove, giovanotto, non ne sapete niente.
Essa è stata sempre concreta e reale.

— La miglior prova ai miei occhi, che la metafisica di Berkeley era
pura astrazione, sta nel fatto che Berkeley stesso, — ed Ernesto
riprese fiato tranquillamente — aveva l’abitudine inveterata di passare
per le porte e non attraverso i muri, e s’affidava, per nutrir la sua
vita, al pane e burro, e al buon arrosto, e si radeva con un rasoio che
radeva bene.

— Ma queste sono cose della vita fisica, — esclamò il dottore, — e la
metafisica è dello spirito.

— E funziona in spirito anche? — chiese con dolcezza Ernesto.

L’altro assentì con un cenno del capo.

— E, in ispirito, una miriade di angeli può ballare sulla punta di
un ago, — continuò Ernesto, con aria pensosa. — E può esistere in
ispirito, un Dio impellicciato e bevitore d’olio, perchè non ci sono
prove contrarie in ispirito. E suppongo, dottore, che lei viva in
ispirito non è vero?

— Il mio spirito è il mio regno, — rispose l’interrogato.

— Cioè, vivete nel vuoto. Però ritornate sulla terra, ne sono sicuro,
all’ora dei pasti, o al sussultare d’un terremoto. Obiettereste per
caso, che non avreste nessun timore, in un simile cataclisma, perchè
convinto che il vostro corpo immateriale non può essere colpito da una
tegola immateriale?

Istintivamente e in modo insolito, il dottor Hammerfield si toccò la
testa, dove i capelli nascondevano una cicatrice. Ernesto aveva toccato
proprio un fatto avvenuto, perchè, durante il grande terremoto[13],
il dottore aveva corso il rischio di essere schiacciato da un camino.
Risero tutti.

— Ebbene, — disse Ernesto quando l’ilarità cessò, — aspetto sempre
la prova del contrario. — E nel silenzio di tutti, aggiunse: — Passi
quest’ultimo vostro argomento, ma non è ancora ciò che desidero.

Il dottor Hammerfield era fuori di combattimento; ma la battaglia
continuò in un’altra direzione. Su tutti i punti, Ernesto sfidava i
ministri.

Quand’essi pretendevano di conoscere la classe operaia, egli esponeva
loro delle verità fondamentali che essi non conoscevano, e li sfidava a
contraddirlo. Esponeva loro fatti, sempre fatti, frenava i loro slanci
verso la luna e li riconduceva verso un terreno solido.

Come mi ritorna alla mente tutta questa scena! Mi pare di rivederlo,
col suo tono aggressivo, colpirli col fascio dei fatti di cui ciascuno
era una verga sferzante! Senza pietà: non chiedeva tregua e non ne
accordava. Non dimenticherò mai la scudisciata finale che inflisse
loro:

— Avete riconosciuto questa sera, più volte, spontaneamente o con
le vostre dichiarazioni d’incompetenti, che non conoscete la classe
operaia. Non vi biasimo per questo: come potreste conoscerla infatti?
Non vivete fra il popolo, ma pascolate in altre praterie, con la
classe capitalista. E perchè dovreste agire diversamente? La classe
capitalista vi paga, vi nutre, vi dà gli abiti che portate questa
sera. In cambio, voi predicate ai vostri padroni le poche citazioni
di metafisica che sono loro gradite e che essi accettano perchè non
minacciano l’ordine naturale delle cose.

A queste parole, ci fu una protesta generale.

— Oh! non metto in dubbio la vostra sincerità. — proseguì Ernesto. —
Voi siete sinceri. A ciò che predicate voi credete! In questo consiste
la vostra forza e il vostro valore agli occhi della classe capitalista.
Ma se pensaste di modificare l’ordine stabilito, la vostra predicazione
diverrebbe inaccettabile agli occhi dei vostri padroni, i quali vi
metterebbero fuor dell’uscio. Così, ogni tanto, qualcuno di voi viene
congedato. Non ho forse ragione?[14].

Questa volta, non ci fu nessuna protesta: tutti conservarono un
silenzio significativo, tranne il dottor Hammerfield, che dichiarò:

— Solo quando il modo di pensare di questi tali è falso, si chiedono le
loro dimissioni.

— Cioè quando il loro modo di pensare è inaccettabile. Così vi dico
sinceramente: continuate a predicare e a guadagnare il vostro danaro,
ma, per amor del cielo lasciate in pace la classe operaia. Non avete
nulla di comune con essa; voi appartenete al campo nemico. Le vostre
mani sono bianche perchè altri lavorano per voi i vostri stomachi
pieni, i vostri ventri rotondi. A questo punto il dottor Hammerfield
fece una smorfia e tutti sbirciarono la sua straordinaria corpulenza;
a causa della quale si diceva che da anni egli non vedesse più i suoi
piedi! — E le vostre menti sono infarcite di dottrine che servono a
reggere l’arco dell’ordine stabilito. Siete dei mercenari sinceri,
lo ammetto, ma come lo erano gli uomini della Guardia Svizzera[15]
sotto l’antica monarchia francese. Siete fedeli a coloro che vi danno
il pane, il sale e la paga: sostenete con le vostre predicazioni gli
interessi dei vostri signori, ma non scendete verso la classe operaia
per offrirvi come falsi condottieri! Non potreste vivere onestamente
in due campi opposti. La classe operaia ha fatto senza di voi, e
credetemi, continuerà a farne senza. E inoltre potrà sbrigarsi meglio
senza di voi che con voi.



CAPITOLO II.

SFIDE.


Appena gli invitati se ne furono andati, mio padre si lasciò cadere su
una poltrona, e si abbandonò all’allegria d’una pantagruelica risata.

Mai, dalla morte della mamma, lo avevo visto ridere così di cuore.

— Scommetterei che il dottor Hammerfield non ha mai affrontato nulla
di simile in vita sua — disse fra l’uno e l’altro scoppio di risa.
— La cortesia delle dispute ecclesiastiche! Hai osservato che ha
cominciato come un agnello, parlo di Everhard, per mutarsi subito in un
leone ruggente? Ha una mente disciplinata meravigliosamente. Sarebbe
diventato uno scienziato di prim’ordine se la sua energia fosse stata
orientata in tal senso.

Occorre confessare che Ernesto Everhard mi interessava molto: non
soltanto per quanto aveva detto, e per il modo con cui l’aveva detto,
ma per se stesso, come uomo. Non ne avevo incontrato mai di simile,
e credo che per questo, a ventiquattro anni suonati, non ero ancora
sposata. Comunque, sentii che mi piaceva e che la mia simpatia era
dovuta non alla sua intelligenza nella discussione, ma ad altra
cosa. Nonostante i suoi bicipiti e il torace di _boxeur_, mi pareva
un giovanotto d’animo puro. Sotto l’apparenza di chiacchierone
intellettuale, indovinavo uno spirito delicato e sensibile.

Le sue impressioni mi erano trasmesse in modo che non posso definire
altrimenti, se non come per intuito femminile. C’era nel suo dire
tonante qualcosa che mi era andato al cuore: e mi sembrava sempre di
udirlo e desideravo udirlo ancora. Sarei stata lieta di vedere nei suoi
occhi quel lampo di gaiezza che smentiva l’impassibilità del resto del
viso.

Altri sentimenti vaghi, indistinti, ma più profondi si agitavano in me.
Lo amavo già quasi. Pertanto, se non lo avessi più riveduto, suppongo
che questi sentimenti indefiniti si sarebbero cancellati ed avrei
dimenticato facilmente.

Ma non era nel mio destino non rivederlo più: l’interesse che prendeva
mio padre, da un po’ di tempo, alla sociologia, ed i pranzi che dava
regolarmente, escludevano una simile possibilità. Il babbo non era
un sociologo. La sua specialità scientifica era la fisica, e le sue
ricerche in questo campo erano state fruttuose. Il matrimonio lo aveva
pienamente soddisfatto, ma dopo la morte della mamma, le ricerche che
egli faceva non riuscivano a colmare l’orribile vuoto. Si occupò di
filosofia con poco interesse dapprima, poi con maggiore attrattiva, e
fu trascinato verso l’economia politica e le scienze sociali, e siccome
possedeva un vivo sentimento di giustizia, non tardò ad appassionarsi
e a volere la riparazione dei torti. Osservai con somma gioia questi
indizî d’un rinascente interesse per la vita, senza immaginare dove la
nostra vita potesse indirizzarsi.

Il babbo, con l’entusiasmo degli adolescenti, si immerse in nuove
ricerche senza chiedersi menomamente dove l’avrebbero condotto.

Abituato da tempo al laboratorio, trasformò la sala da pranzo in
un laboratorio sociale: persone di ogni specie e condizione vi si
trovavano riunite, scienziati, politicanti, banchieri, commercianti,
professori, capi d’officina, socialisti ed anarchici. Ed egli li
spingeva a discutere fra loro, poi esaminava le loro idee sulla vita e
sulla società. Aveva conosciuto Ernesto poco tempo prima della «serata
dei predicatori». Dopo la partenza degli ospiti, mi raccontò come
l’avesse incontrato. Una sera, in una via, si era fermato ad ascoltare
un uomo che, salito sopra una cassa di sapone, parlava a un gruppo
di operai. Era Ernesto. Molto apprezzato dalla Direzione del partito
socialista, costui era considerato come uno dei capi del partito, e
riconosciuto tale dai dottrinarî del socialismo. Possedendo il dono
di presentare in forma semplice e chiara anche le questioni più ardue,
questo educatore nato, non credeva di avvilirsi salendo su di una cassa
di sapone per spiegare l’economia politica ai lavoratori.

Mio padre si fermò per ascoltarlo, si interessò al discorso, stabilì un
convegno con l’oratore, e, fatta la presentazione, lo invitò al pranzo
dei reverendi. E solo in seguito mi rivelò alcune informazioni che
aveva potuto raccogliere su di lui.

Ernesto era figlio di operai, quantunque discendesse da un’antica
famiglia stabilitasi da più di duecento anni in America[16]. All’età
di 10 anni era andato a lavorare nelle officine, e più tardi aveva
imparato il mestiere del maniscalco. Era un autodidatta, aveva
studiato, da solo, il francese e il tedesco, e in quell’epoca si
guadagnava modestamente la vita, traducendo delle opere scientifiche e
filosofiche per una casa precaria di edizioni socialiste di Chicago. A
questo stipendio egli aggiungeva i diritti di autore provenienti dalla
vendita, ristretta, delle opere sue.

Ecco ciò che seppi di lui prima di coricarmi, e stetti a lungo sveglia
ascoltando, con la mente, il suono della sua voce. Mi spaventai dei
miei stessi pensieri. Assomigliava così poco agli uomini della mia
classe! Sembrava così estraneo a tutti, e così forte! La sua padronanza
mi piaceva e mi spaventava insieme, e la mia fantasia galoppava
tanto, che mi sorpresi a considerarlo come innamorato e come marito.
Avevo sempre sentito dire che la forza in un uomo è un’attrattiva
irresistibile per le donne; ma egli era troppo forte.

— No, no! — esclamai, — è impossibile, è assurdo! — E il giorno dopo,
svegliandomi, sentii in me il desiderio di rivederlo, di assistere
alla sua vittoria in una nuova discussione, di vibrare ancora al suo
tono di combattimento, di ammirarlo nella sua sicurezza e nella sua
forza, quando spezzava la loro albagia e distoglieva il loro pensiero
dal solito circolo vizioso. Che cosa importavano le sue smargiassate?
Secondo quanto aveva detto egli stesso, esse trionfavano in realtà,
raggiungevano la mèta. Inoltre, erano belle a sentirle, eccitanti come
un principio di lotta.

Passai parecchi giorni a leggere i libri di Ernesto, che il babbo mi
aveva prestato. La sua parola scritta era come quella parlata, chiara e
convincente. La sua semplicità assoluta vi convinceva mentre dubitavate
ancora. Aveva il dono della lucidità. L’esposizione dell’argomento
era perfetta. Ciò nonostante, malgrado il suo stile, molte cose mi
spiacevano. Dava troppa importanza a ciò che chiamava la lotta di
classe, all’antagonismo fra lavoro e capitale, al conflitto degli
interessi.

Il babbo mi riferì allegramente l’apprezzamento del dottor Hammerfield
su Ernesto: «Un insolente bòtolo, gonfiato di boria da un sapere
insufficiente», e come non avesse punto voglia di rivederlo.

Invece, il vescovo di Morehouse si era interessato molto di Ernesto
e desiderava vivamente avere una nuova conversazione con lui. «Un
giovanotto forte», aveva dichiarato, e «vivace, molto vivace, ma troppo
sicuro di sè, troppo sicuro!».

Ernesto ritornò un pomeriggio, con papà. Il vescovo di Morehouse
era già arrivato, e sorbivano il thè sulla veranda. Devo dire che
la prolungata assenza di Ernesto a Berkeley si spiegava col fatto
che egli seguiva dei corsi speciali di biologia all’Università, e
anche perchè lavorava molto a un’opera nuova intitolala: «Filosofia e
Rivoluzione».[17]

Quando Ernesto entrò, la veranda sembrò improvvisamente rimpicciolita:
non perchè egli fosse straordinariamente alto (era alto un metro e
settantadue) ma perchè sembrava irradiare un’atmosfera di grandezza.
Fermandosi per salutarmi, mostrò una leggera esitazione, in istrano
contrasto con i suoi occhi arditi e la sua stretta di mano ferma
e sicura. I suoi occhi non erano meno sicuri, ma, questa volta,
sembravano interrogare, mentre mi guardavano, come il primo giorno,
indugiando un po’ troppo.

— Ho letto il vostro libro: «Filosofia delle classi lavoratrici», — gli
dissi, e vidi i suoi occhi brillare di contentezza.

— Naturalmente, — rispose, — avrete tenuto conto dell’uditorio al quale
la conferenza era rivolta.

— Sì, ed è appunto su ciò che vorrei interrogarvi.

— Anch’io, — disse il vescovo di Morehouse, — ho una questione da
definire con voi.

A questa doppia sfida, Ernesto alzò le spalle, con aria di rassegnato
buon umore, e accettò una tazza di thè.

Il vescovo s’inchinò per darmi la precedenza.

— Voi fomentate l’odio di classe, — dissi a Ernesto. — E mi pare
che sia uno sbaglio, un delitto, fare appello a tutto ciò che vi è
di ristretto e di brutale nella classe operaia. L’odio di classe è
anti-sociale, e mi sembra anti-socialista.

— Mi difendo, pur essendo innocente, — rispose Ernesto. — Non c’è odio
di classe nè nella parola, nè nello spirito di nessuna mia opera.

— Oh! — esclamai in tono di rimprovero.

Presi il libro e lo apersi.

Egli beveva il suo thè, tranquillo e sorridente mentre io sfogliavo il
volume per trovare il punto che cercavo:

— Pagina 132 — lessi ad alta voce: «Così la lotta delle classi si
produce nelle attuali condizioni di sviluppo sociale, fra la classe che
paga i salarii, e le classi che li ricevono».

Lo guardai con aria di trionfo.

— Non si tratta di odio di classe, là dentro, — mi disse sorridendo.

— Ma voi dite «lotta di classe».

— Non è affatto la stessa cosa. E credetemi, noi non fomentiamo l’odio.
Noi diciamo che la lotta delle classi è una legge dello sviluppo
sociale. Non ne siamo responsabili. Non siamo noi a farla. Ci limitiamo
a spiegarla, come Newton spiegava la gravitazione. Noi esaminiamo la
natura del conflitto d’interessi, che produce la lotta di classe.

— Ma non dovrebbe esserci conflitto di interessi! — esclamai.

— Sono del vostro preciso parere, — rispose. — E noi socialisti
tendiamo all’abolizione di questo conflitto di interessi. Scusate,
lasciatemi leggere un altro punto. — Prese il libro e ne voltò alcuni
fogli. — Pagina 126: «Il ciclo della lotta di classe, cominciato con
la dissoluzione del comunismo primitivo della tribù e la nascita della
proprietà individuale, finirà con l’abolire la proprietà individuale
dei mezzi dell’esistenza sociale».

— Ma non sono d’accordo con voi, — interruppe il vescovo, dal
pallido volto d’asceta, leggermente arrossato dall’intensità dei suoi
sentimenti. — Le vostre premesse sono false. Non esiste conflitto
d’interessi fra il lavoro e il capitale, o almeno, non dovrebbe
esistere.

— Vi ringrazio, — disse gravemente Ernesto — di avermi restituito le
mie premesse, con la vostra ultima proposizione.

— Ma perchè ci sarebbe conflitto? — domandò il vescovo, con calore.

Ernesto alzò le spalle:

— Perchè siamo fatti così, suppongo.

— Ma non siamo fatti così!

— Parlate forse dell’uomo ideale, divino, privo di egoismo? — chiese
Ernesto, — ma ce n’è tanto pochi, che si ha il diritto di considerarli
inesistenti, oppure parlate dell’uomo comune, ordinario?

— Parlo dell’uomo ordinario.

— Debole, fallibile, e soggetto ad errare?

Il vescovo fece un segno di consenso.

— E meschino, egoista?

Il pastore rinnovò il gesto.

— State attento, — dichiarò Ernesto. — Ho detto egoista.

— L’uomo ordinario è egoista. — affermò calorosamente il vescovo.

— Che vuole avere tutto ciò che può avere?

— Vuole avere il più possibile. È deplorevole, ma è vero.

— Allora ci siete. — E la mascella di Ernesto scattò come una molla.

— Consideriamo un uomo che «lavora sui tranvai».

— Egli non potrebbe lavorare se non ci fosse il capitale, — interruppe
il vescovo.

— È vero, e voi sarete con me nell’ammettere che il capitale perirebbe
se la mano d’opera non facesse guadagnare i dividendi.

Il vescovo non rispose.

— Non siete del mio parere? — insistette Ernesto.

Il prelato acconsentì col capo.

— Allora le nostre due proposizioni si annullano reciprocamente, e
ci ritroviamo al punto di partenza. Ricominciamo: I lavoratori dei
tranvai forniscono la mano d’opera, e gli azionisti il capitale. Da
quest’unione del lavoro col capitale nasce il guadagno[18]. I due
fattori si dividono questo guadagno: la parte che tocca al capitalista
si chiama dividendo, la parte che tocca al lavoro si chiama salario.

— Benissimo, — interruppe il vescovo. — Ma non c’è motivo perchè questa
divisione non avvenga amichevolmente.

— Avete già dimenticato le premesse, — replicò Ernesto. — Eravamo
già d’accordo nell’ammettere che l’uomo ordinario è egoista; l’uomo
ordinario così com’è. Voi svisate la questione se volete fare una
distinzione fra quest’uomo e gli uomini come dovrebbero essere, ma come
non sono in realtà. Ritorniamo al soggetto: il lavoratore, essendo
egoista, vuole avere quanto più può nella divisione; il capitalista,
essendo egoista, vuole, del pari, avere tutto ciò che può prendere.
Quando una cosa esiste in quantità limitata, e due uomini vogliono
averne ciascuno il massimo, nasce un conflitto d’interessi. È il
conflitto che esiste fra capitale e lavoro, ed è una lotta senza
possibilità di conciliazione. Finchè esisteranno operai e capitalisti,
litigheranno per la divisione del guadagno. Se foste stato a S.
Francisco, questo pomeriggio, sareste stato obbligato ad andare a
piedi: neppure un tranvai girava per le vie.

— Un altro sciopero?[19] — chiese il vescovo, preoccupato.

— Sì, litigano per l’equa divisione dei guadagni delle ferrovie urbane.

Il vescovo si stizzì.

— Hanno torto! — esclamò. — Gli operai non vedono di là dal loro naso.
Come possono sperare di conservare la nostra simpatia?...

— Quando ci obbligano ad andare a piedi — disse maliziosamente Ernesto.

E il vescovo, concluse, senza badargli:

— Il loro punto di vista è troppo angusto. Gli uomini devono agire
da uomini e non da bruti. Ci saranno ancora violenze ed uccisioni, e
vedove ed orfani addolorati. Il capitale e il lavoro dovrebbero essere
uniti, dovrebbero procedere insieme, per il reciproco interesse.

— Eccovi di nuovo nelle nuvole, — osservò freddamente Ernesto. —
Vediamo, ridiscendete sulla terra, e non perdete di vista la nostra
asserzione: l’uomo è egoista.

— Ma non dovrebbe esserlo! — esclamò il vescovo.

— Su questo punto sono d’accordo con voi: non dovrebbe essere egoista,
ma lo sarà sempre finchè vivrà secondo un ordinamento sociale fondato
su una morale da porci.

Il dignitario della Chiesa ne fu spaventato, mentre il babbo si torceva
dal ridere.

— Sì una morale da porci. — riprese Ernesto, senza rimorso. — Ed è
l’ultima parola del vostro sistema capitalista, è ciò che sostiene la
vostra Chiesa, ciò che voi predicate ogni qualvolta salite sul pulpito:
un’etica da porci, non c’è altro nome da darle.

Il vescovo si voltò come per appellarsi a mio padre, ma questi alzò la
testa ridendo.

— Credo che il nostro amico abbia ragione — disse. — È la politica del
_laissez-faire_, dell’ognuno per sè e che il diavolo trascini l’ultimo.
Come disse l’altra sera il signor Everhard, il compito vostro di gente
di Chiesa consiste nel mantenere l’ordine stabilito, e la Società è
fondata su tale principio!

— Ma non è la dottrina di Cristo. — esclamò il vescovo.

— Oggi la Chiesa non insegna la dottrina di Cristo. — rispose Ernesto.
— Perciò gli operai non vogliono avere a che fare con essa. La Chiesa
approva la terribile brutalità, la forza selvaggia con la quale il
capitalista tratta le masse dei lavoratori.

— Non l’approva affatto. — obbiettò il vescovo.

— Ma non protesta neppure. — replicò Ernesto; — e perciò approva,
perchè non bisogna dimenticare che la Chiesa è sostenuta dalla classe
capitalistica.

— Non avevo mai considerato le cose da questo punto di vista — disse
innocentemente il vescovo. — Ma credo che sbagliate. So che sono molte
le tristezze e le brutture del mondo; so che la Chiesa ha perduto il...
ciò che voi chiamate proletariato[20].

— Non lo avete mai avuto il proletariato, — esclamò Ernesto. — Esso si
è sviluppato fuori della Chiesa, e senza di essa.

— Non afferro più il vostro pensiero, — disse debolmente il vescovo.

— Vi spiego. Dopo l’introduzione delle macchine e delle officine, verso
la fine del sec. XVIII, la grande massa dei lavoratori fu distolta
dalla terra, e l’antico modo di lavorare, mutato. I lavoratori, tolti
dai loro villaggi, si trovarono rinchiusi nelle città industriali: le
madri e i fanciulli furono impiegati a servizio delle nuove macchine;
la vita di famiglia ne fu infranta, e le condizioni divennero atroci. È
una pagina di storia scritta col sangue e con le lagrime.

— Lo so, — interruppe il vescovo, con espressione angosciosa. — Fu
terribile, ma ciò avvenne in Inghilterra, un secolo e mezzo fa.

— Così un secolo e mezzo fa, nacque il proletariato moderno, — continuò
Ernesto. — E la Chiesa stava muta, ed oggi conserva la stessa inerzia.
Come dice Austin Lewis[21], parlando di quell’epoca, coloro che
avevano ricevuto il comandamento: «Pascete agnelli miei», videro, senza
protestare, quegli agnelli venduti e mortalmente sfruttati[22]. Prima
di continuare vi prego di dirmi sinceramente se siamo o non d’accordo.
La Chiesa ha protestato o no, a quel tempo?

Il vescovo Morehouse esitò: come il dottor Hammerfield, non era
abituato a quel genere di offensiva a domicilio, secondo l’espressione
di Ernesto.

— La storia del secolo XVIII è scritta, — suggerì questi. — Se
la Chiesa non è stata muta, si devono trovare le tracce della sua
protesta, in qualche libro.

— Disgraziatamente credo che sia stata muta, — confessò il dignitario
della Chiesa.

— E rimane muta anche oggi.

— In questo non siamo più d’accordo.

Ernesto tacque, guardò attentamente il suo interlocutore e accettò la
sfida.

— Benissimo, — disse, — vedremo. Ci sono, a Chicago, delle donne che
lavorano tutta la settimana per novanta _cents_. Protesta forse la
Chiesa?

— È una novità per me, — fu la risposta. — Novanta _cents_? È orribile!

— La Chiesa ha forse protestato? — insistette Ernesto.

— La Chiesa lo ignora. — E il prelato appariva penosamente agitato.

— Eppure la Chiesa ha ricevuto il comandamento: «Pascete, agnelli
miei!», — disse Ernesto, con amara ironia. Poi, riprendendosi:

— Scusatemi queste parole acri, Monsignore, ma potete essere sorpresi
se perdiamo la pazienza con voi? Avete forse protestato con le vostre
congregazioni capitalistiche per l’impiego dei fanciulli nelle filature
di cotone del Sud?[23]. Bimbi di sei o sette anni lavorano tutte le
notti, in isquadre, per dodici ore: non vedono mai la santa luce del
giorno, e muoiono come le mosche. I dividendi sono pagati col loro
sangue. E con quel danaro si costruiscono chiese magnifiche nella Nuova
Inghilterra, e i vostri simili predicano in esse delle piacevoli frasi
davanti le pance ripiene e lucenti dei salvadanai dei dividendi.

— Non sapevo, — mormorò il vescovo, con un filo di voce, e con viso
pallido, come per effetto di nausea.

— Così, non avete protestato, vero?

Il pastore fece un debole cenno di diniego.

— Così la Chiesa è muta oggi come lo era nel secolo XVIII.

Il vescovo non rispose, e per una volta tanto, Ernesto non insistette
oltre.

— E non dimenticatelo: tutte le volte che un membro del clero protesta,
lo si congeda.

— Vedo che non è giusto.

— Protestereste voi? — chiese Ernesto.

— Fatemi vedere, nella vostra comunità, dei mali come quelli di cui mi
avete parlato, e farò sentire la mia voce.

— Mi metto a vostra disposizione per farveli vedere, — disse
tranquillamente Ernesto, — e vi farò fare, un viaggio attraverso
l’inferno.

— Ed io protesterò!... — Il pastore si era raddrizzato nella poltrona,
e sul suo dolce viso apparve un’espressione di durezza battagliera. —
La Chiesa non starà muta.

— Sarete licenziato, — lo avvertì Ernesto.

— Vi fornirò la prova del contrario, — replicò l’altro. — Vedrete
se tutto ciò che dite è vero, e se la Chiesa non abbia sbagliato per
ignoranza; se tutto quanto v’è di orribile nella società industriale
non sia dovuto all’ignoranza della classe capitalistica. Essa rimedierà
al male appena riceverà il messaggio che la Chiesa avrà il dovere di
comunicarle.

Ernesto si mise a ridere, d’un riso così brutale, che mi sentii indotta
a prendere le difese del vescovo.

— Ricordate, — gli dissi, — che voi vedete un solo lato della medaglia.
Benchè non ci crediate capaci di bontà, sappiate che c’è molto di
buono in noi. Il vescovo Morehouse ha ragione. I mali dell’industria,
per quanto terribili sieno, sono dovuti all’ignoranza. Le diversità di
condizioni sociali sono troppo profonde.

— L’Indiano selvaggio è meno crudele e meno implacabile della classe
capitalistica, — rispose l’altro, e in quel momento sentii d’odiarlo.

— Voi non ci conoscete; non siamo nè crudeli nè implacabili.

— Provatelo, — diss’egli, in tono di sfida.

— Come posso provarlo... a voi?...

Cominciavo ad adirarmi.

Egli scosse il capo.

— Non pretendo che lo proviate a me; vi domando di provarlo a voi
stessa.

— So che cosa pensare in proposito.

— Non sapete proprio nulla, — rispose egli brutalmente.

— Andiamo, andiamo, figlioli, — disse il papà, con tono conciliante.

— Me ne infischio... — cominciai indignata; ma Ernesto mi interruppe.

— Credo che abbiate dei capitali impiegati nelle filature della Sierra,
o che vostro padre ne abbia; il che è lo stesso.

— Che cos’ha di comune questo, con la questione di cui si tratta? —
esclamai.

— Oh, poco, poco, — diss’egli lentamente. — tranne il fatto che l’abito
che avete, è macchiato di sangue. Le travi del tetto che vi ripara,
gocciolano del sangue di fanciulli e di giovani validi e forti. Basta
che chiuda gli occhi per sentirlo scorrere a goccia a goccia, intorno a
me.

E accompagnando con la parola il gesto, si arrovesciò sulla poltrona e
chiuse gli occhi.

Io scoppiai in lacrime, dalla mortificazione, e per vanità ferita. Non
ero mai stata trattata così duramente in vita mia. Anche il vescovo
e mio padre erano imbarazzati e turbati. Essi cercarono di sviare
la conversazione rivolgendola verso un argomento meno scottante, ma
Ernesto aprì gli occhi, mi guardò e volse altrove lo sguardo. La sua
bocca era severa, il suo sguardo pure; non c’era nei suoi occhi il
minimo riflesso di gaiezza.

Che cosa stava per dire? Quale nuova crudeltà mi avrebbe inflitta?
Non potei immaginarlo, perchè in quell’istante un uomo che passava sul
marciapiede si fermò a guardarci. Era un giovanotto robusto e vestito
poveramente, che portava sulla schiena un pesante carico di cavalletti,
dì casse, scrigni di bambù e lana cotonata. Guardava le casa come se
non osasse entrare per tentar la vendita della merce.

— Quell’uomo si chiama Jackson, — disse Ernesto.

— Forte com’è, — osservai seccamente, — dovrebbe lavorare, anzichè fare
il merciaio ambulante[24].

— Osservate la sua manica sinistra, — mi disse Ernesto dolcemente.

Gettai uno sguardo e vidi che la manica del giovane era vuota.

— Anche da quel braccio scorre un po’ del sangue che sentivo gocciolare
dal vostro tetto, — continuò, con lo stesso tono dolce e triste. — Ha
perduto il braccio nella filanda della Sierra, e voi l’avete gettato
sul lastrico, a morirvi, come un cavallo mutilato. Dicendo voi, intendo
il vice direttore e le altre persone impiegate da voi e gli altri
azionisti che fanno funzionare le filande in nome vostro. La disgrazia
avvenne per lo zelo di quell’operaio nel far risparmiare qualche
dollaro alla Società. Il suo braccio fu preso dal cilindro dentato
della cardatrice. Avrebbe potuto lasciar passare il sassolino che aveva
intravisto fra i denti della macchina e che avrebbe spezzato una doppia
fila di punte; volle, invece, toglierlo ed ebbe il braccio preso e
spezzato, dalla punta delle dita alla spalla. Era notte: nella filanda
si facevano ore supplementari di lavoro. In quel trimestre fu pagato un
forte dividendo. Quella notte Jackson lavorava da molte ore e i suoi
muscoli avevano perduto la solita vivacità: ecco perchè fu afferrato
dalla macchina. Ha moglie e tre bambini.

— E che cosa fece la Società per lui? — chiesi.

— Assolutamente nulla. Oh! scusate, ha fatto, sì, qualche cosa. È
riuscita a far rigettare l’istanza che l’operaio aveva presentata per
danni e interessi quand’egli uscì dall’ospedale. La Società ha degli
avvocati abilissimi.

— Non avete detto tutto, — feci con convinzione. — e forse non
conoscete tutta la storia. Forse quell’uomo era un insolente.

— Insolente! ah! ah! — Il suo riso era mefistofelico. — Gran Dio,
insolente col braccio sfracellato! Era un servitore dolce e umile, e
nessuno mai ha detto che fosse un insolente.

— Ma in tribunale, — insistetti, — la sentenza non gli sarebbe stata
contraria, se non ci fosse in quest’affare qualche cosa d’altro oltre
quanto ci avete detto.

— Il principale avvocato consulente della Società è il colonnello
Ingram, un uomo di legge, molto abile.

Ernesto mi guardò seriamente, per un momento, poi continuò:

— Voglio darvi un consiglio, signorina Cunnigham; potreste fare
un’inchiesta privata sul caso Jackson.

— Avevo già presa questa risoluzione, — risposi freddamente.

— Benissimo, — diss’egli raggiante. — E vi dirò dove potrete trovare il
nostro uomo. Ma fremo al pensiero di tutto ciò che proverete, circa il
braccio di Jackson.

Così, il vescovo ed io accettammo la sfida di Ernesto.

I due ospiti se ne andarono insieme, lasciandomi scossa per
l’ingiustizia fatta alla mia casta e a me stessa. Quel giovanotto era
un bruto. Lo odiavo, in quel momento, e mi consolavo al pensiero che
la sua condotta era quale poteva aspettarsi da un uomo della classe
operaia.



CAPITOLO III.

IL BRACCIO DI JACKSON.


Non immaginavo punto la parte importante che il braccio di Jackson
avrebbe rappresentato nella mia vita. Il protagonista, quando riuscii
a trovarlo, non mi fece grande impressione. Abitava in vicinanza
della baia, sulla sponda della palude, una casupola indescrivibile,
circondata da pozzanghere d’acqua verdastra che esalavano un odore
fetido. Era veramente la persona umile e bonaria che mi avevano
descritto; e intento a lavorare una latta, lavorava senza tregua,
mentre parlavo con lui. Nonostante la sua rassegnazione, afferrai nella
sua voce come un senso di amarezza nascente, quando mi disse:

— Avrebbero potuto impiegarmi come guardiano notturno, almeno[25].

Non potei cavarne gran che: aveva un’aria ebete che male si addiceva
alla sua abilità nel lavoro. Questo mi suggerì una domanda:

— In qual modo il vostro braccio è stato preso nella macchina?

Egli mi guardò come trasognato, riflettendo, poi scosse il capo.

— Non so, non so come sia accaduto.

— Per un po’ di negligenza, forse?

— No, non direi, per negligenza: facevo delle ore supplementari,
e credo che fossi stanco. Ho lavorato diciassette anni in quella
officina, ed ho osservato che le disgrazie capitano proprio poco prima
del fischio della sirena[26]. Scommetterei che ne accadono più nell’ora
che precede l’uscita, che nel resto della giornata. Un uomo non è così
vigile quando ha sfaccendato per parecchie ore senza fermarsi mai.
Ho veduto abbastanza casi, per saperla lunga; bravi operai tagliati a
pezzi, o presi nella piallatrice o schiacciati.

— Ne avete visti tanti?

— Cento e cento; e dei fanciulli anch’essi vittime.

Tranne alcuni particolari orribili, il racconto dell’accidente era
perfettamente conforme a quanto avevo già udito. Siccome gli domandavo
se avesse mancato a qualche norma regolamentare circa il funzionamento
della macchina, alzò la testa.

— Ho fatto saltare la correggia con la destra ed ho voluto levare il
sasso colla sinistra. Non ho guardato bene se la correggia fosse tutta
staccata: credevo che con la destra avessi fatto il necessario, e
allungai il braccio sinistro... e, siccome la correggia era staccata
solo a metà, il mio braccio fu preso e schiacciato.

— Avete dovuto soffrire atrocemente, — dissi, con simpatia.

— Perdio, lo schiacciamento delle ossa... non è divertente!

Le sue idee erano un poco confuse circa la richiesta del pagamento
dei danni e interessi. La sola cosa chiara per lui era che non avevano
voluto dargli il minimo compenso. Secondo lui, la decisione contraria
del tribunale era dovuta alla testimonianza dei capi-operai e del
vice-direttore che, secondo la sua espressione, non avevano detto ciò
che avrebbero dovuto dire. E risolvetti di andare da loro.

Il fatto positivo in tutta questa faccenda era che Jackson era ridotto
in una condizione pietosa. Sua moglie era malaticcia, e quel mestiere
di merciaio ambulante non gli permetteva di guadagnare abbastanza
da mantenere la sua famiglia. Era in arretrato nel pagamento della
pigione; e il figlio maggiore, un ragazzo di undici anni, lavorava già
nella filanda.

— Avrebbero ben potuto darmi il posto di guardiano notturno, — furono
le sue ultime parole, mentre me ne andavo.

Dopo un colloquio con l’avvocato che aveva patrocinato la causa di
Jackson, e con il vice-direttore e i due capi-operai sentiti come
testimoni del fatto, cominciai a rendermi conto che le affermazioni di
Ernesto erano ben fondate.

A prima vista giudicai l’avvocato un essere debole ed inetto, e non mi
stupii come Jackson avesse perduto la causa.

Il mio primo pensiero fu che aveva avuto ciò che si meritava per
avere scelto un difensore simile. Poi mi ritornarono alla mente le
dichiarazioni di Ernesto: «La Società ha degli avvocati abilissimi», e
l’altra: «Il Colonnello Ingram è un uomo di legge molto abile». Pensai
allora che la Società era in grado di pagarsi difensori migliori di
quelli che potesse scegliere un povero diavolo di operaio come Jackson,
ma questo particolare mi sembrava secondario, e a mio avviso ci doveva
essere qualche buona ragione se Jackson aveva perduto la partita.

— Come mai avete perduto il processo? — chiesi.

L’avvocato sembrò, per un attimo, perplesso e seccato, e fui presa da
pietà per quella povera creatura. Poi cominciò a lamentarsi. Credo
che sia nato piagnucolone, e appartenga alla razza dei vinti, fin
dalla culla. Si lamentò dei testimoni che avevano reso deposizioni
favorevoli solo alla parte avversaria. Egli non aveva potuto strappare
loro una parola in favore di Jackson. Sapevano bene da qual parte avere
benefizii. Quanto a Jackson, era stupido: si era lasciato intimidire e
confondere dal colonnello Ingram. Costui eccelleva nei contraddittori.
Aveva confuso Jackson con le sue domande, e gli aveva strappato delle
risposte compromettenti.

— Come mai le sue risposte potevano essere compromettenti, se aveva
dalla parte sua il diritto? — chiesi.

— Che c’entra in tutto questo il diritto? — chiese egli, a sua volta.
E mostrandomi i numerosi volumi disposti negli scaffali del suo
povero studio: — Vedete tutti questi libri? leggendoli ho imparato a
distinguere il diritto dalla legge. Chiedetelo a qualsiasi avvocato.
Bisogna andare alla scuola della Domenica per sapere ciò che è giusto;
ma bisogna rivolgersi a questi libri, per imparare ciò che è legale.

— Volete dirmi, con ciò, che Jackson aveva il diritto dalla sua parte
e che, non pertanto, è stato vinto? — gli chiesi esitando. — Volete
insinuare che non c’è giustizia alla corte del giudice Caldwell?

Il piccolo avvocato spalancò gli occhi un istante e poi ogni traccia di
combattività si cancellò dal suo volto.

Ricominciò a lamentarsi.

— La partita non era uguale per me. Si sono fatti beffe di Jackson,
e di me con lui. Quale probabilità di riuscita avevo? Il colonnello
Ingram è un grande avvocato. Se non fosse un giurista di prim’ordine,
credete voi che avrebbe in mano le Filande della Sierra, del Sindacato
Fondiario di Erston, della _Berkeley Consolidée_, dell’_Oakland_, della
_S. Leandro_ e della _Società Elettrica Pleasantos_? È un avvocato
delle corporazioni, e questi avvocati non sono pagati per essere
stupidi. Perchè mai le Filande della Sierra, esse sole gli dànno
ventimila dollari l’anno? Perchè, capirete bene, agli occhi degli
azionisti vale quella somma. Io, non volgo tanto. Se valessi tanto,
non sarei uno spostato, un morto di fame, obbligato ad assumere degli
affari come quello di Jackson. Che cosa credete che avrei guadagnato se
anche avessi vinto il processo?

— Penso che l’avreste spogliato[27].

— Naturalmente, — esclamò irritato. — Bisogna pure che io viva[28].

— Ma egli ha moglie e figli.

— Io pure ho moglie e figli. E non c’è nessuno al mondo, me eccettuato,
che si preoccupi che non muoiano di fame!

Il suo viso si addolcì improvvisamente. Egli aprì la cassa
dell’orologio e mi fece vedere le fotografie di sua moglie e di due
bimbette.

— Guardate, eccole! Ne abbiamo viste! Le posso ben dire. Avevo
intenzione di mandarle in campagna se avessi vinto quel processo. Non
stanno bene qui, ma non ho i mezzi per farle vivere altrove.

Quando mi alzai per congedarmi, ricominciò il suo piagnisteo:

— Non ho avuto la più piccola fortuna! Il colonnello Ingram e il
giudice Caldwell sono amicissimi. Non dico che quell’amicizia avrebbe
influito sulla causa se avessi ottenuto una deposizione come si deve,
all’esame dei testi, ma devo aggiungere, però, che il giudice Caldwell
e il colonnello Ingram frequentano la medesima loggia, lo stesso
circolo. Abitano nello stesso quartiere, dove non posso vivere io. Le
loro mogli sono sempre insieme. E fra loro è uno scambio di partite di
Whist, ed altri trastulli del genere.

— E voi credete, pertanto, che Jackson avesse il diritto dalla parte
sua?

— Non lo credo: ne sono sicuro. In principio credetti, persino, che
avesse probabilità di riuscita; ma non l’ho detto a mia moglie per non
darle un’inutile speranza. Era ossessionata dall’idea di un soggiorno
in campagna. È stata abbastanza delusa, anche così.

A Pietro Donnelly, uno dei capi-operai che avevano deposto al processo,
domandai: — Perchè non avete richiamato l’attenzione sul fatto che
Jackson era stato ferito perchè aveva cercato di evitare un guasto alla
macchina?

Riflettè a lungo prima di rispondermi; poi si guardò attorno, con aria
sospetta e dichiarò:

— Perchè ho una moglie e i tre più bei bimbi che si possa immaginare.

— Non capisco.

— In altre parole, perchè sarebbe stato imprudente parlare così.

— Volete dire...

M’interruppe con foga:

— Voglio dire quello che dico. Da lunghi anni lavoro come filatore. Ho
incominciato da piccolo, e in seguito non ho più smesso di lavorare.
A forza di lavoro, sono giunto alla mia posizione attuale, che è un
impiego privilegiato. Sono capo operaio. E mi chiedo se ci sarebbe
un solo uomo all’officina, tale da porgermi la mano per impedirmi di
annegare. Un tempo facevo parte dell’Unione, ma sono stato in servizio
della Società durante due scioperi, e mi hanno tacciato di «krumiro».
Guardate le cicatrici sulla mia testa; sono stato lapidato a colpi di
tegola. Oggi non c’è uomo che voglia bere un bicchiere con me se lo
invitassi, e non c’è un apprendista che non maledica il mio nome. Il
mio solo amico è la Società. Non è mio dovere sostenerla, ma essa è il
mio pane, il mio companatico e la vita dei miei bambini. Ecco perchè
non ho detto nulla.

— Jackson era forse da biasimare? — gli chiesi.

— Avrebbe dovuto ottenere il pagamento dei danni. Era un buon operaio
che non aveva mai dato noia a nessuno.

— Non eravate dunque libero di dire tutta la verità? — aggiunsi in tono
solenne.

Il suo viso si contrasse ancora; ed egli lo sollevò, non verso di me,
ma verso il cielo.

— Mi lascerei bruciare anima e corpo, a fuoco lento, nell’inferno
eterno per amore dei miei piccoli, — rispose.

Enrico Dallas, il vice-direttore, era un individuo dal volto di lepre,
che mi squadrò con insolenza e rifiutò di parlare. Non potei cavargli
una parola concernente il processo e la deposizione resa.

Ebbi miglior fortuna con l’altro capo-operaio James Smith. Era un
uomo dall’espressione dura, così che provai una stretta al cuore
avvicinandolo. Egli pure mi fece capire che non era libero, e durante
la conversazione mi accorsi che oltrepassava, per mentalità, la media
degli uomini della sua specie. D’accordo con Pietro Donnelly, diceva
che Jackson avrebbe dovuto avere almeno i danni. Disse di più, e
qualificò una fredda crudeltà il fatto di aver gettato sul lastrico,
dopo un accidente che lo privava di ogni capacità, quel povero
lavoratore. Raccontò egli pure, che avvenivano frequenti casi dolorosi
nella filanda, e che era tattica costante della Società, opporsi ad
oltranza alle istanze sporte in tali casi.

— Rappresentano migliaia di dollari l’anno per gli azionisti, — disse.

Allora mi ricordai dell’ultimo dividendo dato al babbo, che aveva
servito per comperare un bell’abito a me, e dei libri a lui. Ricordai
l’accusa di Ernesto quando mi aveva detto che il mio vestito era
macchiato di sangue, e sentii la mia carne fremere sotto gli abiti.

— Nella vostra deposizione non faceste rilevare che Jackson fu vittima
di quell’accidente perchè volle evitare un guasto alla macchina?

— No, — rispose, e strinse le labbra amaramente. — Ho testimoniato che
Jackson era stato ferito in seguito a negligenza e noncuranza, e la
Società non era responsabile nè da biasimare.

— C’è stata dunque negligenza da parte di Jackson?

— Si può chiamare negligenza se si vuole, si può adoperare qualunque
altro termine. Il fatto è che un uomo è stanco quando ha lavorato
parecchie ore consecutive.

Cominciavo ad interessarmi di quell’individuo. Era certamente un tipo
meno comune.

— Siete più istruito della maggior parte degli operai, — gli dissi.

— Ho frequentato le scuole secondarie, — rispose. — Ho seguito i corsi,
coprendo la carica di portinaio. Il mio sogno era di farmi iscrivere
all’Università, ma mio padre è morto e sono venuto a lavorare nella
filanda. Avrei voluto diventare un naturalista, — aggiunse timidamente,
come se avesse confessato una debolezza. — Adoro gli animali. Invece
sono entrato in un’officina. Promosso capo-operaio, mi sposai, poi la
famiglia è venuta e... non fui più padrone di me stesso.

— Che cosa intendete dire?

— Voglio spiegare perchè ho testimoniato, come ho fatto, al processo,
perchè ho seguito le istruzioni datemi...

— Date da chi?

— Dal colonnello Ingram... Fu lui a suggerire la deposizione che dovevo
fare.

— E che ha fatto perdere il processo a Jackson.

Egli fece un cenno affermativo e arrossì.

— E Jackson aveva moglie e due bambini da sostenere.

— Lo so. — disse tranquillamente, ma il suo viso si oscurò ancora di
più.

— Ditemi, — continuai, — è stato facile a voi, quale eravate quando
frequentavate i corsi della scuola secondaria, trasformarvi in un uomo
capace di una cosa simile?

La sua pronta collera mi spaventò. Vomitò[29] una bestemmia
formidabile, e strinse il pugno come per battermi.

— Scusatemi. — disse dopo un momento. — No, non è stato facile... Ed
ora credo che fareste meglio ad andarvene. Avete saputo da me tutto
quello che volevate sapere. Ma lasciate che vi avverta di una cosa,
prima che partiate. Non vi gioverà a nulla ripetere ciò che vi ho
detto. Lo negherei, e sapete che non ci sono testimoni. Negherò fino
all’ultima parola, e se fosse necessario, negherei anche sul banco dei
testimoni, con un giuramento.

Dopo questo colloquio, andai a trovare mio padre nel suo studio
nel reparto della chimica, dove incontrai Ernesto. Era una sorpresa
inaspettata: ma egli mi si fece incontro con i suoi occhi arditi e la
sua stretta di mano forte e sicura, e con quello strano miscuglio di
sicurezza e di goffaggine che gli era famigliare. Sembrava che avesse
dimenticato la nostra ultima riunione e la sua atmosfera burrascosa; ma
io non ero disposta a lasciar svanire quel ricordo.

— Ho approfondito l’affare Jackson, — gli dissi bruscamente.

Immediatamente, la sua attenzione e il suo interesse si concentrarono
su quanto stavo per dire, e indovinavo intanto ne’ suoi occhi la
sicurezza che le mie convinzioni precedenti erano scosse.

— Mi sembra che sia stato molto maltrattato, lo confesso, e credo che
un poco del suo sangue arrossisca effettivamente il pavimento della mia
casa.

— Naturalmente, — rispose, — se Jackson e tutti i suoi compagni fossero
trattati più umanamente, i dividendi sarebbero minori.

— Non potrò più gioire mettendomi un bel vestito, — aggiunsi.

Mi sentivo umile e contrita, ma sentivo ch’era molto dolce per me
immaginare Ernesto come una specie di confessore. In quel momento, come
sempre, la sua forza mi seduceva. Mi sembrava che essa risplendesse
come una promessa di pace e di protezione.

— Sarebbe lo stesso se vi vestiste con abiti di tela di sacco, — disse
gravemente. — Ci sono, come sapete, filande di juta, dove succedono le
stesse cose. Dovunque è lo stesso. La vostra vantata civiltà è fondata
sul sangue, imbevuta di sangue, e nè voi, nè alcuno può sfuggire alla
macchia rossa. Con quali uomini avete parlato?

Gli raccontai tutto quanto mi era occorso.

— Nessuno di loro è libero delle proprie azioni. Tutti sono incatenati
all’implacabile macchina industriale. E il più doloroso in questa
tragedia è che sono vincolati da legami di cuore: per mezzo dei
bambini, sempre per questa giovane vita che per istinto essi devono
proteggere; e questo istinto è più forte della loro morale. Mio
padre stesso ha mentito, ha rubato, ha commesso ogni sorta di azioni
disonoranti per dare alle nostre bocche un pezzo di pane; a me, ai miei
fratelli e sorelle. Era uno schiavo della macchina, che gli ha infranto
la vita, lo ha fatto morire.

— Ma voi almeno. — interruppi, — siete un uomo libero.

— Non del tutto, — replicò. — Non sono vincolato da legami di cuore.
Ringrazio il Cielo di non avere bambini, quantunque li ami alla follìa.
Se però mi sposassi, non oserei averne.

— È certo una cattiva teoria, — esclamai.

— Lo so, — disse tristemente. — Ma è una dottrina opportunista. Sono
rivoluzionario, ed è una vocazione pericolosa.

Mi misi a ridere con aria incredula.

— Se tentassi di penetrare di notte nella casa di vostro padre per
rubargli i dividendi della Sierra, che farebbe?

— Dorme tenendo una rivoltella sul tavolino da notte, vicino al letto.
Probabilmente vi sparerebbe contro.

— E se io e qualche altro conducessimo un milione e mezzo di uomini[30]
nelle case di tutti i ricchi, ci sarebbe uno scambio vivace di
fucilate, non è vero?

— Sì, ma voi non lo fate.

— È precisamente ciò che vogliamo fare. E la nostra intenzione è di
prendere non solo le ricchezze che sono nelle case, ma le fonti di
quelle ricchezze, tutte le miniere, le ferrovie, le officine, le banche
e i negozi. Ecco la vera rivoluzione. È una cosa sommamente pericolosa.
E temo che il massacro sarà più grande di quanto immaginiamo. Ma,
come dicevo, nessuno è oggi perfettamente libero. Siamo tutti presi
nell’ingranaggio della macchina industriale. Avete scoperto che
eravate presa anche voi nell’ingranaggio, come tutti gli uomini ai
quali parlavate. Interrogatene altri, andate dal colonnello Ingram,
perseguite i giornalisti che non hanno voluto pubblicare il caso
Jackson sui giornali, e i direttori medesimi dei giornali, e scoprirete
che tutti sono schiavi della macchina.

Un poco più tardi, durante la nostra conversazione, gli feci una
domanda semplice circa i rischi di accidenti incorsi dagli operai, ed
egli mi fece una vera e propria conferenza infarcita di statistica.

— Ma ciò si trova in tutti i libri, — disse. — Si sono confrontate le
cifre, ed è formalmente provato che le disgrazie, relativamente rare
nelle prime ore del mattino, si moltiplicano con crescente progressione
a mano a mano che gli operai si stancano e perdono le loro energie
muscolari e mentali. Può darsi che voi ignoriate come vostro padre
abbia una probabilità tre volte maggiore di un operaio, di conservare
la sua vita e le sue membra intatte. Ma le società di assicurazione
lo sanno[31]. Esse pretenderanno da vostro padre quattro dollari e
qualcosa di premio annuale per una polizza di mille dollari, per la
quale essi chiederanno invece quindici dollari a un lavoratore manuale,
a un operaio.

— E voi? — chiesi. E nel momento stesso in cui gli rivolgevo questa
domanda, mi rendevo conto che provavo per lui un’inquietudine più che
ordinaria.

— Oh! io, — rispose con noncuranza, — come rivoluzionario, ho circa
otto probabilità su una, di essere ucciso o ferito. Ai chimici esperti
che manipolano gli esplosivi, le società di assicurazione chiedono otto
volte di più di quanto chiedono agli operai. Credo che non vorrebbero
assicurarmi affatto. Perchè mi chiedete questo?

Le mie palpebre batterono, e sentii una vampa salirmi al viso, non
perchè egli avesse osservato la mia ansia, ma perchè io stessa l’avevo
sentito.

Proprio in quel momento entrò mio padre e si preparò per uscire con me.
Ernesto gli restituì dei libri che aveva in prestito e uscì per primo.
Sulla soglia si voltò e mi disse:

— Oh! a proposito, poichè state turbando la vostra tranquillità di
spirito, mentre io faccio lo stesso col vescovo, potete andare a
trovare le signore Wickson e Pertonwaithe. Sapete, credo, che i loro
mariti sono i due principali azionisti della filanda. Come tutto il
resto dell’umanità, quelle due donne sono vincolate alla macchina, ma
avvinte in modo eccezionale.



CAPITOLO IV.

GLI SCHIAVI DELLA MACCHINA.


Più pensavo al braccio di Jackson, e più ero scossa. Mi trovavo di
fronte ad un caso concreto; per la prima volta vedevo la vita. La mia
giovinezza passata all’Università, l’istruzione e l’educazione che vi
avevo ricevuto, restavano fuori della vera vita. Avevo imparato solo
delle teorie sull’esistenza della società, cose che fanno un bellissimo
effetto sulla carta; ma ora soltanto vedevo la vita come essa è, in
realtà.

Il braccio di Jackson era un fatto, e nella mia coscienza
ricordavo l’apostrofe di Ernesto: «_È un fatto, compagno, un fatto
irrefragabile_».

Ma che tutta la nostra società fosse fondata sul sangue, mi sembrava
mostruoso, impossibile. Pertanto Jackson si rizzava davanti a me e non
potevo sfuggirgli, il mio pensiero ritornava continuamente a lui, come
la calamita verso il polo. Era stato trattato in modo abominevole. Non
gli avevano pagato la sua carne, per poterne ricavare un più grosso
interesse. Conoscevo una ventina di famiglie prosperose e soddisfatte,
che, avendo avuto i loro dividendi, ingrassavano, per la loro parte,
col sangue di Jackson. Ma se la società poteva seguire il suo corso
senza curarsi dell’orribile trattamento inflitto ad un uomo, non era
dunque ammissibile che molti altri fossero stati trattati ugualmente?
Ricordavo ciò che Ernesto aveva detto delle donne a Chicago, che
lavoravano per novanta cents la settimana, e dei fanciulli, schiavi
nelle filande di cotone del Mezzogiorno. E mi sembrava di vedere le
loro povere mani scarne, logorate nel tessere la stoffa di cui era
fatto il mio abito; poi, ritornando col pensiero ai filatoi della
Sierra ed agli interessi divisi, vedevo il sangue di Jackson sulle mie
mani. Non potevo sfuggire a quell’uomo: egli era oggetto di tutte le
mie meditazioni...

In fondo all’animo, avevo l’impressione di essere sull’orlo di un
precipizio; mi aspettavo qualche nuova terribile rivelazione della
vita. E non ero la sola: tutti i miei famigliari stavano per rimanerne
sconvolti; prima di tutti, mio padre. L’influsso di Ernesto su di lui,
mi era visibile. Poi, il vescovo Morehouse, che l’ultima volta che
l’avevo veduto mi era parso un uomo malato. Era in uno stato di estrema
tensione nervosa ed i suoi occhi manifestavano un orrore indefinibile.
Le sue brevi parole mi fecero capire che Ernesto aveva mantenuto la
promessa di fargli fare un viaggio attraverso l’inferno; ma non riuscii
a sapere quali scene diaboliche gli fossero passate davanti agli occhi,
perchè era troppo agitato per parlarne.

Ad un certo punto, colpita dallo svolgimento del mio piccolo mondo, e
dell’universo intero, pensai che Ernesto era la causa.

Eravamo così felici e tranquilli prima della sua venuta! Ma subito dopo
capii che quest’idea era un tradimento alla realtà.

Ernesto mi parve trasfigurato in messaggero di verità: Con gli occhi
scintillanti e la fronte intrepida d’un arcangelo dichiarante guerra
per il trionfo della luce e della giustizia, per la difesa dei poveri,
degli abbandonati, dei diseredati della sorte. E davanti a me si rizzò
un’altra visione: quella di Cristo. Anche Lui aveva preso le difese
dell’umile e dell’oppresso contro i poteri riconosciuti, dei preti
e dei farisei. Ricordai la Sua morte sulla croce, e il cuore mi si
strinse di angoscia al pensiero di Ernesto. Egli pure era destinato al
martirio; lui, col suo accento di lotta, e la sua bella virilità?

E immediatamente capii che l’amavo. Il mio essere si struggeva dal
desiderio di consolarlo. Pensavo alla sua vita sordida, meschina e
dura. Pensai a suo padre che per lui aveva mentito e rubato, e si era
affaticato sino alla morte. Ed egli stesso aveva cominciato, sin da
dieci anni, a lavorare nella filanda. Il mio cuore si gonfiava dal
desiderio di prenderlo fra le braccia, di posare la sua testa sul mio
petto, la sua testa stanca di tanti pensieri, e di dargli un istante di
riposo, un po’ di conforto e di oblìo, un attimo di tenerezza.

Incontrai il colonnello Ingram ad un ricevimento di ecclesiastici.
Conoscevo da anni il colonnello; e feci in modo di attirarlo dietro
alcune casse di alte palme e alberelli di gomma, in un angolo, dove,
senza che potesse sospettare, si trovava come preso in una trappola.
Il nostro discorso incominciò con le solite galanterie e spiritosaggini
d’uso. Era sempre stato un uomo di modi piacevoli, pieno di diplomazia,
di tatto, di riguardo, e, dal punto di vista esteriore, la persona
più distinta della nostra società. Perfino il venerabile preside
dell’Università sembrava meschino e artificioso vicino a lui.

Nonostante queste qualità, scopersi che il colonnello Ingram era nelle
stesse condizioni dei meccanici analfabeti, coi quali avevo avuto a che
fare. Non era un uomo padrone delle sue azioni: anch’egli era legato
alla ruota. Non dimenticherò mai la trasformazione che si operò in lui
quando avviai il discorso sul caso Jackson. Il suo sorriso gaio svanì
come per incanto, ed un’espressione spaventosa sfigurò all’istante i
suoi lineamenti d’uomo ben educato. Sentii lo stesso timore provato
davanti all’accesso di collera di James Smith. Il colonnello non
bestemmiò: ecco l’unica differenza fra lui e l’operaio. Godeva la fama
di uomo di spirito, ma per il momento il suo spirito era in rotta.
Inconsciamente egli cercava, a destra e a sinistra, una via d’uscita
per scappare, ma io lo tenevo come in trappola.

Oh, quel nome: Jackson, lo faceva soffrire! Perchè avevo avviato un
simile discorso? Lo scherzo gli sembrava privo di spirito. Era segno di
cattivo gusto e di mancanza di tatto da parte mia. Non sapevo forse che
nella sua professione i sentimenti personali non hanno alcun valore?
Egli li lasciava a casa, andando in ufficio, e dentro l’ufficio non
ammetteva che i sentimenti professionali.

— Jackson avrebbe dovuto avere un’indennità? — gli chiesi.

— Certamente... almeno il mio parere personale è che ne aveva diritto.
Ma ciò non ha nessun rapporto col punto di vista legale della cosa.

Cominciava a riafferrare il suo spirito smarrito.

— Ditemi, colonnello, la legge non ha alcun rapporto col diritto, la
giustizia, il dovere?

— Il dovere... il dovere... Bisognerebbe cambiare la prima sillaba
della parola.

— Capisco; è col potere che avete a che fare?

Egli annuì con un gesto di approvazione.

— Pertanto, la legge è, si dice, fatta per renderci giustizia?

— E il più paradossale è che ce la rende.

— In quest’istante esprimete un’opinione professionale, non è vero?

Il colonnello Ingram avvampò; arrossì, certo, come uno scolaro; di
nuovo cercò una via di scampo, ma io chiudevo la sola via d’uscita
possibile, e non facevo atto di muovermi.

— Ditemi, — continuai, — quando si abbandonano i propri sentimenti
personali per i sentimenti professionali, non si compie un atto che
potrebbe essere definito come una specie di mutilazione spirituale
volontaria?

Non ebbi risposta alcuna. Il colonnello era scappato, senza gloria,
rovesciando un palmizio nella fuga.

In seguito feci tentativi presso i giornali, senza passione di sorta,
con calma e moderazione. Scrissi un semplice resoconto dell’affare
Jackson. Mi astenni dall’esporre le persone con cui avevo parlato, e
perfino di fare i loro nomi. Raccontavo i fatti come erano accaduti,
ricordavo i lunghi anni durante i quali Jackson aveva lavorato
all’officina, il suo sforzo per evitare un guasto alla macchina, la
disgrazia accaduta e la miserabile condizione attuale di lui. Con
solidarietà perfetta, i tre quotidiani ed i due settimanali del luogo
rifiutarono il mio articolo.

Feci in modo di poter mettere le mani su Percy Layton, un giovine
uscito dall’Università, che voleva far carriera nel giornalismo come
corrispondente del più autorevole dei tre quotidiani. Egli sorrise
quando gli chiesi perchè i giornali avessero soppresso ogni allusione a
Jackson ed al suo processo.

— Politica editoriale, — disse. — Non ne sappiamo nulla, noi: sono
affari del Direttore.

— Ma perchè questa politica?

— Noi formiamo un gruppo compatto con le corporazioni. Anche pagando
il prezzo di un annuncio, anche pagando dieci volte tanto la tariffa
ordinaria, non potrete fare pubblicare quella informazione su nessun
giornale; l’impiegato che volesse farla passare di nascosto, perderebbe
il posto.

— E se si parlasse della vostra politica? Mi sembra che la vostra
funzione sia di deformare la verità, secondo gli ordini dei vostri
padroni, che, alla loro volta, ubbidiscono ai capricci delle
corporazioni.

— Non ho niente a che vedere in ciò...

Sembrò sulle spine per un istante, poi il suo viso si rischiarò: aveva
trovato una scappatoia.

— Personalmente, non scrivo mai nulla che non sia vero. Sono in regola
colla mia coscienza. Naturalmente capitano molte cose ripugnanti nel
corso di una giornata di lavoro, ma, tutto ciò, capirete, fa parte
della monotonia solita, quotidiana, — concluse con logica infantile.

— Però, sperate di assidervi, in seguito, su un seggio direttoriale e
seguire una politica, non è vero?

— Allora, sarò indurito.

— Poichè non siete ancora indurito, ditemi che cosa pensate, ora, della
politica editoriale in genere.

— Non penso nulla. — rispose con vivacità. — Non bisogna dare calci di
traverso, se si vuole riuscire nel giornalismo. Ho sempre imparato ciò,
se non altro. — E alzò la testa con aria di saggezza giovanile.

— Ma dove mettete voi la rettitudine?

— Voi non capite il trucco del mestiere. Tutti sono naturalmente
corretti, perchè tutto finisce sempre bene; non è vero?

— È molto incerta la vostra asserzione, molto indefinita, — mormorai.

Ma il mio cuore sanguinava per quella giovinezza, e avrei voluto
invocare soccorso e scoppiare in lagrime. Cominciavo a rompere le
apparenze superficiali di quella società nella quale ero sempre
vissuta, e scoprivo la terribile realtà nascosta. Una tacita
cospirazione era stata ordita contro Jackson, e sentivo un fremito di
simpatia perfino per l’avvocato piagnucolone che aveva sostenuto in
modo così miserevole la causa.

E quella tacita organizzazione era singolarmente estesa, e non mirava
solo contro Jackson: era diretta contro tutti gli operai mutilati nella
filanda. E, se così era, perchè non contro tutti gli operai di tutte le
officine e delle industrie in genere?

Se le cose stavano così, la società era bugiarda. Mi ritraevo
inorridita davanti alle mie stesse conclusioni. Era troppo abominevole,
troppo terribile, per essere vero. Eppure erano veri Jackson e il suo
braccio, e quel sangue che colava dal mio tetto e macchiava il mio
abito. E c’erano molti Jackson, ce n’erano centinaia nella filanda,
com’egli stesso aveva detto. Il braccio fantasma non mi lasciava più in
pace.

Andai a trovare il signor Wickson e il signor Pertonwaithe, i due
maggiori azionisti, ma, come gli operai, al loro servizio, non riuscii
a commuoverli. Mi accorsi che professavano un’etica superiore agli
altri, che si potrebbe chiamare la morale aristocratica, la morale dei
padroni[32]. Parlavano in termini larghi della loro politica, della
loro capacità, che identificavano con la probità. Si rivolgevano a
me con un tono paterno, con delle arie protettrici rivolte alla mia
giovinezza inesperta.

Di tutti coloro che avevo avvicinato nel corso della mia inchiesta,
questi erano i più immorali e i più incurabili. E rimanevano
convintissimi della giustizia della loro condotta; non c’era nè
dubbio nè discussione possibile su questo soggetto. Si credevano i
salvatori della società, convinti di formare la felicità della massa;
rappresentavano un quadro patetico delle sofferenze che la classe
operaia avrebbe subito senza gli impieghi che essi stessi, essi soli,
potevano loro procurare.

Uscita dalla casa dei due padroni, incontrai Ernesto e gli raccontai
quanto avevo esperimentato. Mi guardò con un’aria soddisfatta.

— Benissimo, — disse. — Cominciate a scoprire la verità da voi stessa.
Le vostre conclusioni, dedotte dal generalizzare le vostre esperienze,
sono esatte. Nel meccanismo industriale nessuno è libero delle
proprie azioni, eccettuato il grosso capitalista, e ancora non lo è
completamente se si può adoperare questo giro di frase irlandese[33]. I
padroni, lo vedete, sono perfettamente sicuri di avere ragione agendo
come fanno. Questa è l’assurdità che corona tutto l’edificio. Sono
così legati dalla loro natura umana, che non possono fare una cosa
senza crederla buona. Abbisognano di una sanzione per le loro azioni.
Quando vogliono intraprendere qualsiasi cosa, di affari, s’intende,
devono aspettare che nasca nel loro cervello una specie di concezione
religiosa, filosofica o morale della bontà di questa cosa. Allora
la realizzano senza accorgersi che il desiderio è padre del pensiero
avuto. E così finiscono per sanzionare qualsiasi progetto. Sono casisti
superficiali, gesuiti sono. Si sentono perfino giustificati di fare il
male purchè ne risulti un bene. Uno dei più ridicoli dei loro assiomi,
è che si proclamano superiori al resto dell’umanità, per saggezza ed
efficacia. Partendo da questo punto di vista, si arrogano il diritto
di ripartire pane e companatico a tutto il genere umano. Hanno perfino
risuscitata la teoria del diritto divino dei re, dei re del commercio
in modo speciale[34].

«Il punto debole della loro posizione consiste nel fatto che sono
semplicemente uomini d’affari. Essi non sono filosofi, non sono
dei biologi nè sociologi: se lo fossero, tutto procederebbe meglio,
naturalmente. Un uomo d’affari che fosse, nello stesso tempo, versato
in queste due scienze, sarebbe approssimativamente ciò che occorre
all’umanità. Ma anche tolte dal loro dominio commerciale, queste genti
sono stupide. Conoscono solo gli affari. Non comprendono nè il genere
umano, nè il mondo, e non pertanto si erigono arbitri della sorte di
milioni di affamati e di tutta la massa umana. La storia, un giorno,
farà a loro spese una risata omerica.

Preparata com’ero ad affrontare la signora Wickson e la signora
Pertonwaithe, la conversazione che ebbi con esse non mi riserbò alcuna
sorpresa. Erano signore della migliore società[35].

Abitavano in sontuosi palazzi e avevano parecchie altre residenze, un
po’ dappertutto: in campagna, in montagna, sulle rive dei laghi e del
mare. Una vera folla di servitori si affaccendava attorno a loro, e la
loro attività sociale era straordinaria. Patrocinavano le università
e le Chiese, e i pastori, particolarmente, erano pronti a piegare le
ginocchia davanti ad esse.[36] Quelle due donne erano due vere potenze,
con tutto quel danaro a loro disposizione. Esse possedevano a un grado
considerevole il potere di sovvenzionare il pensiero, come dovetti
capire ben presto, grazie agli insegnamenti di Ernesto.

Imitavano i loro mariti, e parlavano con gli stessi termini generali
della politica da seguire, dei doveri e delle responsabilità che
incombono ai ricchi. Si lasciavano governare dalla stessa etica
dei loro mariti, dalla morale di classe, e ripetevano certe frasi
sensazionali che non capivano neppure.

Inoltre, si irritarono quando dipinsi loro la deplorevole condizione
della famiglia di Jackson; e siccome mi stupii perchè non avevano
fissato un fondo di riserva in suo favore, esse dichiararono che non
avevano bisogno che si insegnasse loro i doveri sociali; quando chiesi,
poi, apertamente di soccorrerlo, rifiutarono non meno apertamente.
Il più strano si è che espressero il loro rifiuto con parole quasi
uguali, benchè fossi andata da loro separatamente, e l’una ignorasse
che ero andata dall’altra. La loro comune risposta fu, che esse erano
felici di avere l’occasione di dimostrare, una volta per sempre,
che non avrebbero mai concesso delle sovvenzioni alla negligenza e
che non volevano, pagando le disgrazie, spingere i poveri a ferirsi
volontariamente[37].

Ed erano sincere quelle signore. Il doppio convincimento della loro
superiorità di classe e della loro autorità personale, le inebriava.
Trovavano nella loro morale di casta una sanzione per tutte le azioni
che compivano.

Ritornata in carrozza alla porta dello splendido palazzo della signora
Pertonwaithe, mi voltai per contemplarlo, e ricordai la frase di
Ernesto: che anche quelle donne erano avvinte alla macchina, ma in modo
tale che sedevano proprio in cima.



CAPITOLO V.

GLI AMICI DELLO STUDIO.


Ernesto veniva spesso a casa mia, attiratovi non solo dal babbo, e
dai pranzi con dispute. Sin d’allora, mi lusingavo di entrarci un poco
anch’io in quella attrattiva, e non tardai molto ad esserne sicura.

Perchè non ci fu mai al mondo un innamorato come Ernesto Everhard. Di
giorno in giorno, il suo sguardo e la sua stretta di mano si fecero più
sicuri, se è possibile, e la interrogazione che avevo visto spuntare
nei suoi occhi diventò sempre più imperativa.

La mia prima impressione era stata sfavorevole, ma poi mi ero sentita
attirata. Era seguìto poi un moto di repulsione il giorno in cui aveva
insultato la mia classe e me stessa, con sì poco riguardo, ma ben
presto mi ero resa conto che egli non aveva per niente calunniato il
mondo in cui vivevo, che tutto quanto aveva detto di duro e di amaro
era vero; e più che mai mi avvicinai a lui. Diventava il mio oracolo.
Secondo me, egli strappava la maschera alla società, e mi lasciava
intravedere certe verità tanto incontestabili quanto spiacevoli.

No, non ci fu mai innamorato simile. Una signorina non può vivere sino
a ventiquattro anni in una Città Universitaria, senza che le si faccia
la corte. Ero stata corteggiata da imberbi studenti del secondo anno, e
da professori canuti, senza contare gli atleti della _boxe_ e i giganti
del _foot-ball_. Ma nessuno aveva condotto l’assalto come Ernesto. Mi
aveva stretta fra le sue braccia prima che me ne accorgessi, e le sue
labbra si erano posate sulle mie prima che avessi avuto il tempo di
protestare o di resistergli. Davanti alla sincerità del suo ardore, la
dignità convenzionale, e la riservatezza verginale parevano ridicole.
Perdevo terreno davanti al suo attacco superbo e irresistibile. Non mi
fece nessuna dichiarazione nè impegno formale: mi prese fra le braccia,
e considerò come certo il fatto che sarei stata sua moglie. Non ci
fu nessuna contestazione in proposito: una sola discussione sorse più
tardi, circa la data del matrimonio.

Era inaudito, inverosimile, pertanto; le cose procedevano come
il suo spirito di verità; ed io gli confidai la mia vita, e non
ebbi a pentirmene. Però, durante i primi giorni del nostro amore,
m’impensieriva un po’ l’impetuosità della sua galanteria. Ma erano
timori infondati; nessuna donna ebbe la fortuna di avere un uomo più
dolce e più tenero. Dolcezza e violenza si confondevano stranamente
nella sua passione, con sicurezza e goffaggine nel suo modo di fare.
Da quella leggera goffaggine nell’atteggiamento non si liberò mai, ed
era grazioso! Egli si comportava nel nostro salotto come un toro che
facesse una passeggiata prudente in una bottega di porcellane[38].

Se avevo, talvolta, un ultimo dubbio sulla profondità reale dei miei
sentimenti a suo riguardo, era per una titubanza sub-cosciente, che
svanì precisamente in quel tempo.

Al Circolo degli «Amici dello Studio», in una notte di battaglia
magnifica in cui Ernesto affrontò i padroni del giorno, nel loro
rifugio, ebbi la rivelazione del mio amore in tutta la sua pienezza.
Il Circolo degli «Amici dello Studio» era il migliore che esistesse
sulla costa del Pacifico. Era una fondazione di Miss Brentwood,
vecchia zitella, favolosamente ricca, per la quale il circolo faceva
le veci del marito, della famiglia e dei divertimenti. I suoi soci
erano i più ricchi della società, e le menti più capaci fra i ricchi,
compreso, naturalmente, un numero esiguo di uomini di scienza, per dare
all’insieme un’apparenza intellettuale.

Il Circolo degli «Amici dello Studio» non possedeva un locale apposito:
era un circolo speciale, i cui membri si riunivano una volta al mese,
in casa di uno di loro, per sentire una conferenza. Gli oratori erano
di solito pagati, ma non sempre. Quando un chimico di New-York aveva
fatto una scoperta sul radium, per esempio, gli rimborsavano tutte le
spese di un viaggio attraverso il continente americano, e gli davano
inoltre una forte somma per indennizzarlo del tempo perduto, e così
facevano coll’esploratore che ritornava dalle regioni artiche, e con i
nuovi astri della letteratura e dell’arte.

Nessun estraneo era ammesso a quelle riunioni, e «Gli Amici dello
Studio» si erano proposti di non lasciar trasparire nulla delle loro
discussioni, nella stampa, in modo che perfino gli uomini di Stato, se
fossero intervenuti, e ce n’erano stati, e dei più grandi, avrebbero
potuto esporre liberamente il loro pensiero.

Ho aperta, qui davanti, la lettera un po’ sciupata che Ernesto mi
scrisse vent’anni or sono, dalla quale trascrivo il brano seguente:

«Siccome vostro padre è membro del Circolo «Gli Amici dello Studio»,
e voi pure potete entrarvi, venite all’adunanza di martedì sera. Vi
assicuro che passerete uno dei momenti migliori della vostra vita. Nei
vostri recenti incontri coi padroni del giorno, non siete riuscita
a smuoverli; io li scuoterò per voi. Li farò ringhiare come lupi.
Voi vi siete accontentata di toccare la loro moralità, ma finchè la
loro onestà è contestata, essi rimangono alteri e superbi, e assumono
delle arie di superiorità e di soddisfazione. Io li minaccerò nella
borsa, e ne rimarranno scossi sin nelle radici più profonde della loro
natura primitiva. Se verrete, vedrete l’uomo delle caverne, in abito
di società, difendere coi denti, con tutte le forze, il suo osso. Vi
assicuro un vero pandemonio, e la vista edificante della natura della
bestia.

«Mi hanno invitato per demolirmi. L’idea è stata della signorina
Brentwood, ma ha commesso la dabbenaggine di lasciarmelo capire,
invitandomi. La loro gioia massima è di domare qualche riformatore
dall’animo dolce e fidente. La vecchia zitella crede che io assocî
all’innocenza d’un gattino, la bontà e la stupidità di un animale
colle corna. E devo confessare che ho fatto del mio meglio per
convincerla sempre più. Dopo avere prudentemente tastato terreno, ha
finito per indovinare il mio carattere docile. Avrò un buon compenso:
duecentocinquanta dollari, quanto cioè avrebbero dato a un radicale
che avesse posto la sua candidatura al seggio di Governatore. Inoltre,
l’abito di società è di rigore: in vita mia non mi sono mai camuffato
così, e bisognerà che ne prenda uno a nolo. Ma farò ancora di più per
essere sicuro di entrare fra «Gli Amici dello Studio»».

Fu scelta, fra i luoghi possibili per quella riunione, la casa della
famiglia Personwaithe. Avevano portato un supplemento di seggiole
nella grande sala, e c’erano, di sicuro, duecento «Amici» per sentire
Ernesto. Erano i veri principi della buona società. Mi divertii a
calcolare mentalmente il totale delle ricchezze che rappresentavano:
un centinaio di milioni. E i proprietari non erano di quei ricchi che
vivono nell’ozio, ma uomini d’affari che avevano parte importantissima
ed attiva nella vita industriale e politica.

Stavamo tutti seduti, quando la signorina Brentwood introdusse Ernesto.
Essi andarono subito all’estremità della sala dove egli doveva parlare.
Era in abito da sera, ed aveva un portamento meraviglioso, con le sue
larghe spalle e la testa regale, e, sempre, quell’inimitabile sfumatura
di goffaggine nei suoi movimenti.

Credo che l’avrei amato anche solo per quello. Al solo guardarlo,
provavo una grande gioia. Mi sembrava di sentire il battito del suo
polso nello stringermi la mano, il contatto delle sue labbra sulle
mie. Ed ero così orgogliosa di lui, che ebbi il desiderio di alzarmi e
gridare a tutta l’assemblea: «È mio, mi ha stretta fra le sue braccia,
e occupo quella mente agitata da sì alti pensieri.»

La signorina Brentwood, giunta in fondo alla sala, lo presentò
al colonnello Van Gilbert, al quale, sapevo ch’era assegnata la
presidenza della riunione. Il colonnello era un grande avvocato di
società anonime; inoltre, era immensamente ricco. Il più piccolo
onorario che si degnasse di accettare, era di centomila dollari. Era
un Maestro in materia giuridica. La legge era come un burattino di
cui egli teneva tutti i fili; e la plasmava come argilla; la torceva e
la deformava con un giuoco di pazienza cinese, a seconda dei proprii
disegni. I suoi modi e il suo eloquio erano un po’ di vecchio stile,
ma la immaginazione, le cognizioni, le risorse, erano a livello degli
statuti più recenti. La sua celebrità datava dal giorno in cui aveva
fatto annullare il testamento di Skardwell[39]. Solo per questo aveva
avuto cinquecentomila dollari, e da quel tempo la sua ascesa era stata
rapida come quella di un razzo. Lo si considerava spesso come il primo
avvocato del paese, avvocato di società anonime, ben inteso: e tale che
non c’era chi non lo considerasse come uno dei tre più grandi avvocati
degli Stati Uniti.

Egli si alzò e cominciò col presentare Ernesto, con frasi scelte, che
lasciavano intravedere una leggera ironia sottintesa. Certamente vi
era una sottile facezia nella presentazione che il colonnello Gilbert
faceva di quel riformatore sociale, membro della classe operaia.
Scorsi parecchi sorrisetti nell’uditorio, e ne fui urtata. Guardai
Ernesto e sentii crescere la mia irritazione. Sembrava che non sentisse
risentimento alcuno per quelle punture, anzi, peggio, pareva non
accorgersene neppure. Stava seduto, tranquillo, calmo, mezzo assonnato.
Aveva veramente un’aria stupida. Un’idea rapida mi attraversò la mente:
si lasciava forse intimidire da quello sfoggio imponente di prestigio
monetario e cerebrale? Poi sorrisi. Non mi avrebbe ingannata, no:
ingannava gli altri, come aveva ingannato la signorina Brentwood.

Costei era seduta in una poltrona, in prima fila, e più volte aveva
voltato la testa verso l’una o l’altra delle sue conoscenze per
confermare, con un sorriso, le allusioni dell’oratore.

Quando il colonnello ebbe finito, Ernesto si alzò e cominciò a parlare.
Cominciò a voce bassa, con frasi semplici e staccate, intramezzate da
lunghe pause, con evidente imbarazzo. Narrò della sua nascita nella
classe operaia, della sua infanzia trascorsa in un ambiente misero,
dove lo spirito e la carne erano ugualmente affamati e tormentati.
Descrisse le ambizioni e l’ideale della sua giovinezza, e la sua
concezione del paradiso, dove vivevano solo gli uomini delle classi
superiori.

— Sapevo, — disse, — che al disopra di me regnava uno spirito di
altruismo, un pensiero puro e nobile, una vita altamente intellettuale.
Sapevo tutto ciò perchè avevo letto i romanzi della Biblioteca dei
bagni di mare[40], in cui tutti gli uomini e tutte le donne, eccettuati
il traditore e la avventuriera, pensano cose nobili e parlano un bel
linguaggio, e compiono atti gloriosi. Colla stessa fede che mi faceva
credere al sorgere del sole, ero certo che sopra di me stava quanto di
bello, di nobile e di generoso è al mondo. Ciò che conferiva onore e
decenza alla vita, ciò che la rendeva degna di essere vissuta, ciò che
compensava gli uomini di tanto lavoro e di tanta miseria.

Parlava in seguito, della sua vita alla filanda, del suo noviziato come
maniscalco e del suo incontro, infine, coi socialisti. Aveva scoperto,
nelle loro file, delle vere intelligenze e menti superiori, e numerosi
ministri del Vangelo, destituiti perchè il loro cristianesimo era
troppo generoso in una società di adoratori del vitello d’oro; vi aveva
trovato professori fiaccati dalla crudele servitù universitaria alle
classi dominanti. Definì i socialisti come rivoluzionari che lottano
per rovesciare la società nazionale odierna, per costruire sulle sue
rovine la società nazionale dell’avvenire. E disse tante e tante cose
che sarebbe troppo lungo trascrivere; ma non dimenticherò mai il modo
col quale descrisse la sua vita fra i rivoluzionari. Dal suo eloquio
era sparita ogni titubanza: la voce s’elevava forte e fiduciosa, si
affermava, splendeva come lui stesso, come i pensieri che versava a
fiotti.

— In quei rivoltosi trovai pure una fede ardente nell’umanità, un
caldo idealismo, la voluttà dell’altruismo, rinuncia e martirio;
tutte le splendide realtà dello spirito, insomma. E la loro vita
era pura, nobile, e sentita. Ero in contatto con anime grandi che
esaltavano la carne e lo spirito al di sopra dei dollari e dei _cents_,
e per le quali il fioco lamento del bimbo sofferente nei tugurii ha
maggiore importanza di tutto il pomposo armamentario dell’espansione
commerciale, e dell’impero del mondo. Vedevo ovunque, intorno a me, la
nobiltà dello scopo, e l’eroismo della lotta, e le mie giornate erano
piene di sole, e le notti stellate. Vivevo nel fuoco e nella rugiada, e
davanti ai miei occhi fiammeggiava incessantemente il Santo Graal, il
sangue palpitante e umano di Cristo, pegno di soccorso e di salvezza,
dopo lunga sofferenza e maltrattamenti.

L’aveva già visto trasfigurato, e questa volta mi parve tale. La sua
fronte splendeva della sua divinità interiore, e gli occhi lucevano
ancor più in mezzo all’aureola radiosa da cui sembrava avvolto. Ma gli
altri non vedevano questa luce, cosicchè attribuii la mia visione alle
lacrime di gioia e d’amore che mi riempivano gli occhi.

In ogni modo, il signor Wiekson, che era dietro a me, non appariva,
certo, commosso, perchè gli sentii lanciare, con tono ironico,
l’epiteto di: «Utopista»[41].

Tuttavia, Ernesto raccontava come si era inalzato nella società,
al punto di mettersi in contatto con le classi superiori e di
avvicinare uomini aventi alte cariche. Allora era sopravvenuta in
lui la delusione, ch’egli espresse con termini poco lusinghieri per
l’uditorio. La vita fra loro non gli pareva più nobile e generosa; era
spaventato dall’egoismo che incontrava ovunque. Ciò che lo stupiva
ancora di più, era l’assenza di vitalità intellettuale. Egli, che
aveva abbandonato i suoi amici rivoluzionarii, si sentiva colpito dalla
stupidità della classe dominante. Inoltre aveva scoperto che malgrado
le loro chiese magnifiche, e i loro predicatori munificamente pagati,
quei padroni, uomini e donne, erano esseri volgarmente materialisti.
Parlavano bene del loro piccolo ideale, della loro cara piccola morale,
ma tolta questa vuota verbosità, il male fondamentale delle loro idee
era materialista. Erano privi della moralità vera, della moralità che
Cristo aveva predicato e che non si insegna più al giorno di oggi.

— Ho incontrato uomini che nelle loro diatribe contro la guerra
invocavano il nome del Dio della pace, mentre distribuivano fucili
nelle mani dei Pinkertons[42] per abbattere gli scioperanti nelle
officine stesse. Ho conosciuto persone che inveivano contro la
brutalità degli assalti di boxe, ma che erano complici di frodi
alimentari per le quali muoiono, ogni anno, più innocenti di quanti
massacrò Erode dalle mani arrossate di sangue. Ho visto gente
autorevole, colonne della Chiesa, che sottoscrivevano somme ingenti a
favore delle Missioni straniere, ma che facevano lavorare dieci ore al
giorno, nelle loro officine, le giovanette, compensandole con salarii
irrisori, incoraggiando, in tal modo, la prostituzione.

«Il tale rispettabile signore, dai lineamenti aristocratici, non era
che un fantoccio che dava il suo nome a società il cui scopo segreto
era di spogliare la vedova e l’orfanello; il tale altro, che parlava
seriamente e posatamente della bellezza dell’idealismo e della bontà
di Dio, aveva trascinato e tradito i suoi soci in un grosso affare.
Un altro che dotava di nuove cattedre le Università e contribuiva
alla costruzione di magnifiche cappelle votive, non esitava a giurare
il falso davanti ai tribunali, per questioni di danaro. Tale magnate
delle ferrovie rinnegava senza vergogna la parola data come cittadino,
come uomo d’onore e come cristiano, concedendo storni segreti... e
ne concedeva spesso! Il direttore di quel giornale che pubblicava
l’annuncio di rimedii brevettati, mi trattò di demagogo perchè lo
sfidai a pubblicare un articolo che dicesse la verità circa quel
ritrovato[43]. E quel collezionista di belle edizioni che prendeva
a cuore le sorti della letteratura pagava intere botti di vino al
reggitore brutale e illetterato d’un’amministrazione municipale. Il
tale senatore[44] era lo strumento, lo schiavo, il burattino di un capo
politicante dalle folte sopracciglia e dalla bocca enorme; lo stesso
accadeva del governatore Caio, e del giudice Tizio alla Corte Suprema.
Tutti e tre godevano di viaggi gratuiti in ferrovia; inoltre, quel
tale capitalista dalla pelle lucida, untuosa, era il vero padrone della
macchina politica, perchè padrone del padrone della macchina politica e
delle ferrovie, che concedevano i lascia-passare.

«In questo modo, invece di un paradiso, scoprii l’arido deserto del
commercialismo. Non vi trovai che stupidaggine, tranne in ciò che
riguarda gli affari. Non incontrai una persona onesta, nobile, attiva,
se non della vitalità di cui brulica il marciume. Non trovai altro che
un egoismo smisurato di gente senza cuore, e un materialismo gretto e
ingordo praticato e pratico.»

Ernesto disse loro molte altre verità riguardanti sia essi che le sue
delusioni. Essi l’avevano intellettualmente annoiato; moralmente e
spiritualmente disgustato a tal punto, che ritornò con gioia ai suoi
rivoluzionarii, che almeno erano retti, nobili, sensibili, che erano
tutto ciò che i capitalisti non sono.

Ma devo pur dire che questo terribile atto di accusa li aveva lasciati
freddi. Esaminai i loro volti e vidi che conservavano un’aria di
superiorità soddisfatta. Ricordai che Ernesto mi aveva avvertita:
«Qualunque accusa contro la loro moralità non li potrà scuotere».

Ma osservai però che l’ardire del suo linguaggio aveva colpito la
signorina Brentwood, che mostrava un’aria seccata ed inquieta.

— Ed ora vi parlerò di questa rivoluzione.

E cominciò col descrivere l’esercito proletario, e quando espose la
cifra delle forze che lo componevano, secondo i risultati ufficiali
dello scrutinio nei diversi paesi, l’assemblea cominciò ad agitarsi.
Un’espressione di viva attenzione fissò i loro sguardi, e le loro
labbra si strinsero. Il guanto di sfida era stato gettato.

Egli descrisse l’organizzazione internazionale che univa un milione e
mezzo di socialisti degli Stati Uniti ai ventitrè milioni e mezzo di
socialisti sparsi nel resto del mondo.

— Tale esercito della rivoluzione, forte di ventitrè milioni di uomini,
può svegliare e tener desta l’attenzione delle classi dominanti. Il
grido di questo esercito è: nessuna tregua. Dobbiamo avere ciò che
voi possedete. Non ci accontenteremo di meno, assolutamente. Vogliamo
prendere le redini del potere, e avere in mano noi il destino del
genere umano. Ecco le nostre mani, le nostre forti mani. Vi toglieranno
il governo, i palazzi e tutti i vostri comodi dorati, e verrà giorno in
cui dovrete lavorare con le vostre mani per guadagnarvi il pane, come
fa il contadino nei campi, o il commesso nelle vostre metropoli. Ecco
le nostre mani; guardatele: hanno i pugni solidi.

E mentre diceva queste parole, mostrava le sue spalle robuste e
allungava le sue grandi braccia, e i suoi pugni di fabbro fendevano
l’aria come artigli d’aquila. Sembrava il simbolo del lavoro
trionfante, con le mani tese per schiacciare e distruggere i suoi
sfruttatori. Scorsi nell’uditorio un movimento d’indietreggiamento,
quasi impercettibile, davanti a quella pittura della rivoluzione,
così evidente, possente e minacciosa. Certo le donne sussultarono,
e la paura apparve sui loro volti. Per gli uomini non fu la stessa
cosa: uscì dalle loro gole un grugnito profondo, che vibrò nell’aria
un istante, poi tacque. Era il prodromo del ringhio che avrei
sentito più volte in quella sera, la manifestazione del bruto che
si svegliava nell’uomo e dell’uomo stesso nella sincerità delle sue
passioni primitive. E non avevano coscienza di questo loro mormorio,
tra il rombo dell’ora, l’espressione e la dimostrazione riflessa di
quell’istinto. In quel momento, vedendo i loro volti irrigidirsi, e il
lampo della lotta brillare nei loro occhi, capii che non si sarebbero
lasciati strappare facilmente il dominio del mondo.

Ernesto continuò il suo attacco; giustificò l’esistenza d’un milione e
mezzo di rivoluzionari negli Stati Uniti, accusando di mal governo la
classe capitalista. Dopo aver accennato allo stato economico dell’uomo
primitivo e dei popoli selvaggi dei nostri giorni, che non avevano nè
utensili nè macchine, e possedevano solo mezzi naturali di produzione,
espose in sintesi lo sviluppo dell’industria e dell’organizzazione
fino allo stato attuale, in cui, il potere produttivo dell’individuo
incivilito è mille volte maggiore di quello del selvaggio.

— Bastano cinque uomini, oggi, per produrre il pane per un migliaio
di persone. Un uomo solo può produrre tessuti di cotone per
duecentocinquanta persone, maglierie per trecento, calzature per mille.
Si sarebbe tentati di conchiudere che, con una buona amministrazione
della società, l’uomo incivilito moderno, dovrebbe essere in
condizioni molto migliori dell’uomo preistorico. Così è infatti?
Esaminiamo la questione: Ci sono oggi negli Stati Uniti, quindici
milioni di uomini[45] che vivono in povertà, e per povertà intendo
quella condizione in cui, per mancanza di nutrimento e di ricovero
conveniente, non può essere mantenuta la capacità di lavoro. Oggi,
negli Stati Uniti, nonostante le pretese della vostra legislazione
del lavoro, sono tre milioni i fanciulli che lavorano come operai[46].
Il loro numero è raddoppiato in dodici anni. Incidentalmente, domando
perchè voi, gestori della società, non avete pubblicato le cifre del
censimento del 1910? E rispondo per voi: perchè quelle cifre vi hanno
spaventati. La statistica della miseria avrebbe potuto affrettare la
rivoluzione che si prepara.

«Ma ritorno alla mia accusa: se il potere di produzione dell’uomo
moderno è mille volte superiore a quello dell’uomo primitivo, perchè
mai ci sono attualmente negli Stati Uniti quindici milioni di persone
che non sono nutrite e alloggiate convenientemente, e tre milioni di
fanciulli che lavorano? È un’accusa seria. La classe capitalistica si
è resa colpevole di una cattiva amministrazione. Di fronte al fatto
che l’uomo moderno vive più miseramente del suo antenato selvaggio,
mentre il suo potere produttivo è mille volte maggiore, non è possibile
altra conclusione diversa da questa: che la classe capitalista ha mal
governato; che voi siete cattivi amministratori, cattivi padroni, e che
la vostra cattiva gestione è imputabile al vostro egoismo. E su questo
punto, questa sera, a faccia a faccia, non potete rispondere a me,
come la vostra antica classe non può rispondere al milione e mezzo di
rivoluzionarii degli Stati Uniti. Non potete confutarmi, lo scommetto.
Ed oso dire, fin d’ora, che non risponderete neppure quando avrò finito
di parlare. Su questo argomento la vostra lingua è legata, per quanto
agile possa essere, quando tratta di soggetti diversi da questo.

«Voi avete dato prove d’essere incapaci di amministrare; avete
fatto della civiltà una bottega da macellaio; avete avuto, e avete
tuttora l’audacia di alzarvi, nelle vostre camere legislative, per
dichiarare che sarebbe impossibile fare guadagnare senza il lavoro dei
fanciulli, dei bimbi. Oh! non crediate perchè ve lo dico io: tutto
questo è scritto, registrato contro di voi. Avete addormentato la
vostra coscienza con delle chiacchiere sull’ideale, secondo la vostra
cara morale. Ed eccovi gonfi di potenza e di ricchezza, inebriati del
successo! Ebbene, contro di noi non avete speranza di vittoria maggiore
di quanta ne abbiano i calabroni riuniti intorno all’alveare, quando le
api operaie si lanciano loro addosso per porre fine a una sazia vita.
Avete errato nel guidare la società, e la direzione vi sarà tolta. Un
milione e mezzo di uomini della classe operaia sono sicuri di attirare
alla loro causa il resto delle masse lavoratrici, e di strapparvi il
dominio del mondo. Ecco la rivoluzione, signori: arrestatela se lo
potete!

Per un po’, l’eco della sua voce risuonò nella gran sala; poi il
profondo mormorio, già sentito prima, si gonfiò, e parecchi uomini
si alzarono, urlando e gesticolando per attrarre l’attenzione del
Presidente.

Osservai che le spalle della signorina Brentwood si agitavano
convulsivamente, e provai un attimo di irritazione, credendo che
ridesse di Ernesto. Poi capii che non si trattava di un accesso di
riso, ma di nervi. Era terrorizzata di quanto aveva fatto gettando
quella torcia ardente in mezzo al suo caro circolo de «Gli Amici dello
Studio».

Il colonnello Van Gilbert non si curava degli uomini, che, stravolti
dalla collera, volevano che egli concedesse loro la parola; egli stesso
si struggeva dalla rabbia. Si alzò di scatto agitando un braccio,
e per un momento non potè proferire che suoni inarticolati; poi una
grande verbosità scaturì dalla sua bocca. Ma non era il linguaggio
dell’avvocato dì centomila dollari, dalla rettorica un po’ antiquata.

— Errore su errore, — esclamò. — In vita mia non ho mai sentito
tanti errori in così poco tempo. Inoltre, giovanotto, non avete detto
niente di nuovo. Ho imparato tutto ciò in collegio, prima della vostra
nascita. E sono già quasi due secoli, dacchè Gian Giacomo Rousseau ha
enunciato la vostra teoria socialista. Il ritorno alla terra? Peuh! Una
revisione? La nostra biologia ne dimostra l’assurdità. Si ha proprio
ragione di dire che una mezza cultura è nociva, e voi ne avete dato
una prova questa sera con le vostre teorie sventate! Errore su errore!
Non sono mai stato in vita mia così disgustato d’un simile rigurgito
di errori! Ecco, guardate come io consideri le vostre affrettate
generalizzazioni e i vostri discorsi infantili. — E fece schioccare i
pollici con aria di sprezzo, e accennò a sedersi.

L’approvazione delle donne si manifestò con esclamazioni acute, e
quella degli uomini con suoni rauchi. Quasi tutti, candidati della
difesa, si misero a parlare insieme. Era una confusione indescrivibile,
una torre di Babele.

Il vasto appartamento della signora Pertonwaithe non aveva mai veduto
simile scena. Come? le fredde menti del mondo industriale, il fior
fiore della bella società, erano costituite da quella banda di selvaggi
rumorosi e tumultuosi? Per certo, Ernesto li aveva scossi, stendendo
le mani verso i loro portafogli, quelle mani, che, agli occhi loro,
rappresentavano gli artigli di un milione e mezzo di rivoluzionarii.

Ma egli non perdeva la testa mai, in nessun caso. Prima che il
colonnello riuscisse a sedersi, Ernesto fu in piedi e fece un passo
avanti.

— Uno per volta! — gridò con tutte le sue forze.

Il grido dei suoi ampi polmoni dominò la tempesta umana, e la semplice
forza della personalità di lui impose il silenzio.

— Uno solo per volta, — ripetè con tono più calmo. — Lasciatemi
rispondere al colonnello Van Gilbert. Dopo, altri potranno attaccarmi,
ma uno per volta, ricordate. Non siamo qui come su un campo di
_foot-ball_.

— Quanto a voi, — continuò rivolgendosi al colonnello, — non avete
confutato nulla di ciò che ho detto. Avete semplicemente espresso
alcuni apprezzamenti eccitati e dogmatici sul mio equilibrio mentale.
È un modo che potrà esservi utile negli affari, ma con me non vale quel
tono. Non sono un operaio venuto a chiedervi, col cappello in mano, di
aumentare il mio salario o di proteggermi contro la macchina alla quale
lavoro. Finchè avrete a che fare con me, non potrete prendere le vostre
arie dogmatiche contro la verità. Serbatele nei rapporti coi vostri
schiavi salariati che non osano rispondervi perchè avete in vostra mano
il loro pane, la loro vita.

«Quanto al ritorno alla Natura di cui pretendete aver avuto sentore in
collegio, prima della mia nascita, permettetemi di farvi osservare che
sembra non abbiate imparato altro, dopo. Il Socialismo non ha nulla in
comune con lo stato di natura, così come il calcolo differenziale non
ha rapporti col catechismo! Avevo denunciato la mancanza d’intelligenza
della vostra classe, tranne nella trattazione degli affari; voi mi
avete fornito, signore, un edificante esempio a sostegno della mia
tesi.

Questa terribile lezione fatta al caro avvocato da centomila dollari,
superò ogni prova di sopportazione della signorina Brentwood. Il suo
accesso isterico raddoppiò di violenza, così che dovettero trascinarla
fuori della sala, mentre piangeva e rideva contemporaneamente. Ed era
ancora poco, perchè il peggio doveva accadere poi.

— Non credete alla mia parola, — riprese Ernesto dopo questa
interruzione. — Le vostre stesse autorità, a voce unanime,
riconosceranno la vostra assoluta mancanza d’intelligenza. Gli
stessi vostri fornitori di scienza vi diranno che siete nell’errore.
Consultate il più umile dei vostri sociologi e chiedetegli la
differenza che passa fra la teoria di Rousseau e quella del socialismo.
Interrogate i vostri migliori economisti e borghesi, cercate in
qualsiasi manuale dormente negli scaffali delle vostre biblioteche
sovvenzionate, e da ogni parte vi verrà risposto che non c’è nessun
nesso fra il ritorno alla natura e il socialismo, ma che, al contrario,
le due teorie sono diametralmente opposte. Vi ripeto, non credete alla
mia parola! La prova della vostra mancanza d’intelligenza è là, nei
libri, in quei libri che voi non leggete mai. E per quanto si riferisce
a questa mancanza di intelligenza, voi siete, avvocato, un campione
della vostra classe.

«Siete molto valente in diritto e negli affari, signor colonnello
Van Gilbert. Meglio di ogni altro sapete accogliere una sfida e
aumentare i dividendi, interpretando a modo vostro la legge. Benissimo;
accontentatevi di questa funzione importante. Siete un eccellente
avvocato, ma un pessimo storico. Non conoscete l’alfabeto della
sociologia, e, in fatto di biologia, sembrate contemporaneo di Plinio
il Vecchio.»

Il colonnello si dimenava sulla poltrona; nella sala regnava un
silenzio assoluto: tutti gli uditori erano affascinati, erano come di
sasso. Quel trattamento fatto al famoso colonnello Van Gilbert era cosa
inaudita, inimmaginabile; trattandosi di persona davanti alla quale i
giudici tremavano quando si alzava per parlare in tribunale. Ma Ernesto
non dava tregua al nemico.

— Questo, naturalmente, non è un biasimo per voi, — aggiunse. — A
ciascuno il suo mestiere. Voi fate il vostro, ed io farò il mio.
Voi siete specializzato. Quando ai tratta di conoscere le leggi, di
trovare il mezzo migliore per sfuggire loro, o di farne delle nuove,
in vantaggio delle classi spoliatrici, sono ai vostri piedi, nella
polvere. Ma quando si tratta di sociologia, che è materia del mio
mestiere, tocca a voi, a vostra volta, giacere ai miei piedi, nella
polvere. Ricordatevelo. E ricordate pure che la vostra legge è materia
effimera, e che voi non siete esperto nelle materie che durano più d’un
giorno. Per conseguenza, le vostre affermazioni dogmatiche e le vostre
imprudenti generalizzazioni, sopra soggetti storici e sociologici, non
valgono il fiato che sprecate per enunciarle.

Ernesto fece una pausa, e osservò con aria pensosa quel viso oscurato e
stravolto dalla collera, quel petto ansante, quel corpo che si agitava,
quelle mani che si aprivano e chiudevano convulsamente.

Poi continuò:

— Ma giacchè sembra che abbiate fiato da sprecare, vi offro l’occasione
di sprecarlo. Ho incolpato la vostra classe: dimostratemi che la mia
accusa è falsa. Vi ho fatto osservare la condizione disperata dell’uomo
moderno (tre milioni di fanciulli schiavi negli Stati Uniti, senza il
lavoro dei quali ogni guadagno sarebbe impossibile; e quindici milioni
di persone mal nutrite, mal vestite e peggio alloggiate); vi ho fatto
osservare come, mediante l’organizzazione moderna e l’organizzazione
sociale e l’impiego delle macchine, il potere produttivo dell’uomo
civile d’oggi sia mille volte superiore a quello del selvaggio
abitatore di caverne; ed ho affermato che da questo doppio fatto non
si poteva trarre altra conclusione se non questa: il malgoverno della
classe capitalista. Di questo vi ho imputato, e chiaramente e a più
riprese, vi ho sfidato a rispondermi. Ho detto, anzi, di più. Vi ho
predetto che non avreste risposto. Avreste potuto adoperare il vostro
fiato per smentire la mia profezia. Avete detto che il mio discorso era
una somma di errori. Dimostratemene la falsità, colonnello Van Gilbert;
rispondete all’accusa che io ed un milione e mezzo di miei compagni
abbiamo lanciato contro la vostra classe e contro voi.

Il colonnello dimenticò completamente che la carica di presidente
gl’imponeva di lasciare gentilmente la parola a coloro che la
chiedevano: si alzò di scatto, e agitando in tutte le direzioni le
braccia, smarrendosi in isfoghi di rettorica e perdendo completamente
il sangue freddo, malmenò Ernesto per la sua giovinezza e per la sua
demagogia, attaccando selvaggiamente la classe operaia, che cercò di
dipingere come priva di capacità e d’ogni valore.

Finita che fu la chiacchierata del colonnello, Ernesto replicò in
questi termini:

— Come uomo di legge, siete certo il più riottoso a mantenere il punto
di partenza, fra quanti io abbia mai conosciuto. La mia giovinezza
non ha niente a che fare con quanto ho detto, nè la mancanza di valore
della classe operaia. Ho accusato la classe capitalistica di aver retto
male la società. Voi non avete ancora risposto. Non avete neppure
tentato di rispondere. Non avete dunque una risposta da dare? Siete
il campione di questo uditorio. Tutti qui, me eccettuato, pendono dal
vostro labbro. Aspettano da voi la risposta che non possono dare essi
stessi.

«Quanto a me, ve l’ho già detto, so che non soltanto non potrete
rispondere, ma che non tenterete neppure di farlo.»

— Questo è intollerabile! — esclamò il colonnello. — È un insulto!

— È intollerabile il fatto che voi non rispondiate, — replicò
gravemente Ernesto. — Nessun uomo può essere insultato
intellettualmente. L’insulto per se stesso è una cosa emotiva.
Riacquistate il vostro spirito, date una risposta intellettuale alla
mia accusa intellettuale, che cioè la classe capitalistica ha mal
governato la società.

Il colonnello rimase muto, e si rinchiuse in una espressione di
superiorità accigliata, come chi non voglia compromettersi discutendo
con un briccone.

— Non siate avvilito, — gli scagliò addosso Ernesto. — Consolatevi
pensando che nessuno mai della vostra classe ha potuto rispondere a
questa imputazione.

Poi si volse verso gli altri, impazienti di prendere la parola.

— Ed ecco, ora, l’occasione per voi. Avanti, e non dimenticate che vi
ho sfidati tutti, qui presenti, a darmi la risposta che il colonnello
Van Gilbert non ha potuto dare.

Mi sarebbe impossibile ripetere tutto ciò che fu detto durante quella
discussione. Non avrei immaginato la quantità di parole che si possono
dire nel breve spazio di tre ore. In ogni modo, fu uno spettacolo
meraviglioso.

Più i suoi avversarii si infiammavano, e più Ernesto gettava olio sul
fuoco. Conosceva a fondo, enciclopedicamente, l’argomento, e li pungeva
con una parola o con una frase come con un ago adoperato con arte.

Egli sottolineava e correggeva i loro errori di ragionamento. Tale
sillogismo era falso, tale conclusione non aveva alcun rapporto con le
premesse; tale premessa era un’impostura, perchè era stata avviluppata
con arte nella conclusione in vista. Questa era un’inesattezza, quella
una presunzione, e quest’altra cosa ancora un’asserzione contraria alla
verità sperimentale stampata su tutti i libri.

A volte lasciava la spada per la mazza, e picchiava i loro pensieri a
destra e a manca. Pretendeva sempre dei fatti e rifiutava di discutere
le teorie. E i fatti, che citava egli stesso, erano disastrosi per
loro. Appena attaccavano la classe operaia, replicava:

— È il lesso che rimprovera alla pentola il suo nerume, ma ciò non vi
lava la sudiceria dal viso.

E ad ognuno e a tutti diceva:

— Perchè non avete confutato la mia accusa di cattiva amministrazione
lanciata contro la vostra classe? Avete parlato d’altro, e d’altro
ancora a proposito di ciò, ma non mi avete risposto. Non potete dunque
trovare una replica?

Solo alla fine della discussione, il signor Wickson prese la parola.
Era il solo che fosse rimasto calmo, e Ernesto lo trattò con una
considerazione che non aveva concesso agli altri.

— Non è necessaria risposta alcuna. — disse il signor Wickson, con
voluta lentezza. — Ho seguito tutta la discussione con stupore e
ripugnanza. Sì, signori, voi membri della mia stessa classe, mi
avete disgustato. Vi siete comportati come sciocchi scolari. L’idea
di introdurre in una simile discussione i vostri precetti di morale
è il fulmine passato di moda del politicante volgare. Non vi siete
comportati nè come persone mondane, nè come esseri umani. Vi siete
lasciati trascinare fuori della vostra classe, anzi, fuori della vostra
specie. Siete stati rumorosi e prolissi, ma avete soltanto ronzato come
le zanzare attorno a un orso. Signori, l’orso e là (e additava Ernesto)
ritto innanzi a voi, e il vostro ronzìo gli ha solo solleticato le
orecchie.

«Credetemi, la situazione è seria. L’orso ha mostrato le zanne,
questa sera, per schiacciarvi. Ha detto che vi sono negli Stati
Uniti, un milione e mezzo di rivoluzionarii, ed è vero. Ha detto
che hanno intenzione di toglierci il potere, i palazzi: e tutto il
benessere dorato, ed è vero. È pure vero che un cambiamento, un grande
cambiamento si prepara nella società, ma, fortunatamente, potrebbe
anche non essere il cambiamento previsto dall’orso. L’orso ha detto che
ci schiaccerebbe. Ebbene, signori, e se noi schiacciassimo l’orso?

Il brontolìo gutturale tornava a ingrandirsi nella vasta sala. Da uomo
a uomo furono scambiati cenni di approvazione, di ardimento. I visi
avevano un’espressione ferma, decisa, di combattenti.

Con freddezza, senza passione, il signor Wickson continuò:

— Ma non con un brontolìo schiaccieremo l’orso: all’orso bisogna dare
la caccia. All’orso non si risponde con parole. Gli risponderemo col
piombo. Siamo al potere, nessuno può negarlo. In virtù di questo potere
stesso, noi rimarremo al nostro posto.

E si voltò verso Ernesto. Il momento era drammatico.

— Ecco dunque la nostra risposta. Non abbiamo parole da perdere
con voi. Quando allungherete le mani, di cui vantate la forza, per
afferrare i nostri palazzi, il nostro benessere dorato, vi faremo
vedere che cos’è la forza. La nostra risposta sarà costituita dai
fischi degli obici, dagli scoppî degli _shrapnels_, dai crepitii delle
mitragliatrici[47]. Noi schiaccieremo i vostri rivoluzionarli sotto i
nostri piedi, e cammineremo sul loro viso. Il mondo è nostro, ne siamo
padroni, e resterà nostro. Quanto all’esercito del lavoro, è stato nel
fango dal principio della storia; e, io, che interpreto la storia come
si deve, dico che rimarrà nel fango, finchè io ed i miei, e coloro che
verranno dopo di noi, resteranno al potere. Ecco la grande parola, la
regina delle parole: _Potere!_ Nè Dio, nè Mammone, ma il _Potere!_
Questa parola rigiratela nelle vostre bocche, finchè sia cotta: _Il
Potere!_

— Voi mi avete risposto, — disse tranquillamente Ernesto, — e
quest’era la sola risposta che potesse essere data. Il Potere! È quanto
predichiamo noi alla classe operaia! Sappiamo, e lo sappiamo a prezzo
di un’amara esperienza, che nessun appello al diritto, alla giustizia,
all’umanità, potrà commuovervi. I vostri cuori sono duri come i talloni
coi quali camminate sul viso dei poveri. Perciò abbiamo intrapreso la
conquista del potere. E col potere dei nostri voti, il giorno delle
elezioni, vi toglieremo il governo....

— E quand’anche otteneste la maggioranza, una maggioranza schiacciante
nelle elezioni, — interruppe il signor Wickson, — supponete che noi
rifiutassimo il potere carpito con le urne?

— Abbiamo preveduto anche questo, — replicò Ernesto. — Vi risponderemmo
col piombo. Il Potere! Siete voi che avete proclamata questa la
regina delle parole! Benissimo. Sarà questione di forza. E il giorno
in cui riporteremo la vittoria nello scrutinio, se vi rifiuterete di
rimettere nelle nostre mani il governo di cui ci saremo impadroniti
costituzionalmente e tranquillamente, ebbene, vi risponderemo del pari,
e la nostra risposta sarà costituita dai fischi degli obici, dagli
scoppi degli _shrapnels_ e dai crepitii delle mitragliatrici.

— In un modo o nell’altro non potrete scapparci. È vero che avete
interpretato bene la storia. È vero che dal principio della storia il
lavoro è abbassato nel fango; è ugualmente vero che resterà sempre nel
fango, finchè voi e i vostri avrete il potere, voi, i vostri e coloro
che verranno dopo di voi. Siamo d’accordo. Il potere sarà l’arbitro. È
sempre stato l’arbitro: la lotta delle classi è una questione di forza.
Ora, come la vostra classe ha abbattuto la vecchia nobiltà feudale,
così sarà abbattuta dalla mia classe, dalla classe dei lavoratori.
E se leggerete la biologia e la sociologia con la stessa correttezza
con la quale avete letto la storia, vi convincerete che questa fine è
inevitabile. Non importa che sia fra un anno, fra dieci o fra mille: la
vostra classe sarà abbattuta. E sarà rovesciata dal potere, e le sarà
tolta la forza. Noi, dell’esercito del lavoro, abbiamo ruminato questa
parola, al punto che ne siamo inebriati. Il Potere! È veramente la
regina delle parole, l’ultima parola!

Così ebbe termine la serata de «Gli Amici dello Studio».



CAPITOLO VI.

ADOMBRAMENTI.


Intorno a questo tempo, cominciarono a verificarsi attorno a noi, fitti
e rapidi, i prodromi degli avvenimenti futuri.

Ernesto aveva già espressi alcuni dubbi, sul grado di prudenza di cui
mio padre dava prova, ricevendo in casa sua socialisti e lavoratori
noti, assistendo apertamente alle loro riunioni; ma il babbo aveva riso
di quelle preoccupazioni. Quanto a me, imparavo molte cose conversando
con i capi e i pensatori della classe operaia. Vedevo il rovescio della
medaglia. Ero sedotta dall’altruismo e dal nobile idealismo che vedevo
in loro, e nello stesso tempo, spaventata dall’immensità del nuovo
orizzonte letterario, filosofico, scientifico e sociale che si apriva
davanti a me. Mi istruivo rapidamente ma non abbastanza in fretta per
capire sin d’allora il pericolo della nostra posizione.

Gli avvertimenti non mi mancarono, ma non davo importanza ad essi.
Così seppi che la signora Pertonwaithe e la signora Wickson, la cui
influenza era formidabile nella nostra città universitaria, avevano
espressa l’opinione che, giovane com’ero, mi mostravo troppo premurosa
e decisa, con una pericolosa tendenza a volermi intromettere negli
affari degli altri. Le loro osservazioni mi parvero naturali, data la
parte avuta, rispetto a loro, nell’inchiesta per l’affare Jackson, ma
non immaginavo punto l’importanza vera d’un giudizio di quel genere,
emesso da arbitri di così grande potenza sociale.

Osservai, infatti, un certo riserbo nel solito cerchio delle mie
conoscenze, ma l’attribuii alla disapprovazione che sollevava il mio
disegno di matrimonio con Ernesto. Solo molto tempo dopo, Ernesto mi
dimostrò che quell’atteggiamento della gente fra la quale vivevo era
tutt’altro che spontaneo, ma concertato e diretto da forze occulte.

— Avete ospitato in casa un nemico della vostra classe, — mi disse. —
Non soltanto gli avete dato asilo, ma gli avete dato il vostro amore e
affidato la vostra persona. È un tradimento verso la tribù alla quale
appartenete, e non sperate di schivarne il castigo.

Ma prima di questo, un pomeriggio che Ernesto era da me, mio padre
ritornò tardi a casa e ci accorgemmo che era adirato o, perlomeno, in
un accesso di irritazione filosofica. Raramente dava in escandescenze,
ma si permetteva, ogni tanto, un certo sdegno misurato, ch’egli
chiamava: il suo tonico. Lo vedemmo, dunque, appena entrato, con la sua
dose di collera tonificante.

— Che cosa ne pensate? Ho preso il tè con Wilcox!

Wilcox era il Rettore in riposo dell’Università, e aveva una mente
disseccata ch’era un emporio di chiacchiere già in voga verso il 1870 e
che egli non si era mai sognato di aggiornare.

— Mi ha invitato, mi ha mandato a chiamare.

Papà fece una pausa. Noi aspettavamo ansiosi.

— Oh! è stato molto gentile, lo riconosco, ma sono stato rimproverato
io, da quel vecchio fossile!

— Scommetto che so il perchè vi ha rimproverato, — disse Ernesto.

— Ve lo lascio indovinare in tre riprese, — disse ridendo mio padre.

— Ve lo dirò in una volta, — replicò Ernesto. — E non si tratta di una
congettura, ma di una deduzione. Ha biasimato la vostra vita privata.

— È vero, — esclamò mio padre. — Come mai l’avete indovinato?

— Sapevo che sarebbe accaduto, ve ne avevo avvertito.

— È vero, — disse il papà, riflettendo. — Ma non potevo crederlo. In
ogni modo, sarà una prova di più, e più convincente, da inserire nel
mio libro.

— Non è nulla in confronto di ciò che vi toccherà, se persistete a
ricevere tutti quei socialisti e radicali, compreso me.

— È precisamente ciò che mi ha rimproverato il vecchio Wilcox, con un
mucchio di illogici commenti. Mi ha detto che davo prova di un gusto
dubbio, che andavo contro le tradizioni e i modi dell’Università,
e che, comunque, spendevo male il mio tempo. Ha poi soggiunto altre
cose non meno vaghe. Non ho mai potuto spingerlo a dirmi qualcosa di
più definito, ma l’ho messo in una condizione molto imbarazzante: si
ripeteva continuamente e mi diceva quanta fosse la sua considerazione
per me, e come tutti mi rispettassero come scienziato. Il compito era
facile per lui; vidi benissimo che non gli piaceva affatto.

— Non è libero delle sue azioni. Non si può sempre trascinare con
piacere la propria catena[48].

— Gliel’ho fatto confessare. Mi ha dichiarato che quest’anno
l’Università ha bisogno di molto maggiore denaro di quanto lo Stato
voglia darle. Il _deficit_ può essere colmato solo col concorso dei
ricchi, che si adombrerebbero vedendo l’Università allontanarsi dal
suo ideale elevato, e deviare dalla ricerca impassibile della pura
verità intellettuale. Quando cercavo di metterlo con le spalle al muro,
chiedendogli come la mia vita domestica potesse nuocere all’ideale
dell’Università, egli mi offrì un congedo di due anni, durante i quali
avrei avuto lo stipendio intero, per un viaggio di piacere e di studio
in Europa. Naturalmente non potevo accettare simile proposta.

— Era quanto di meglio potesse fare, — disse con gravità Ernesto.

— Ma era un allettamento, un tentativo di corruzione, — protestò il
babbo: ed Ernesto approvò, con un cenno del capo.

— Quel vecchio fossile mi ha pure detto che si chiacchierava nei
salotti da tè, che si criticava mia figlia perchè unita ad una persona
nota come voi, e che la sua condotta non era in armonia col decoro e
con la dignità dell’Università. Egli, personalmente, non vedeva nulla
di male nella cosa, ma se ne parlava, ed io dovevo rendermi conto di
questo!

Questa rivelazione fece riflettere Ernesto. Il suo viso si oscurò. Era
grave e corrucciato. Dopo un po’ dichiarò:

— C’è dell’altro, lì sotto, oltre l’ideale universitario. Qualcuno ha
fatto pressione sul Rettore Wilcox.

— Lo credete? — disse il babbo, con un’espressione che rivelava più una
grande curiosità, che paura.

— Vorrei comunicarvi un’impressione che si forma lentamente nella mia
mente, — disse Ernesto. — Mai, nella storia del mondo, la società è
stata trascinata da una corrente terribile come accade oggi, e rapide
modificazioni del nostro sistema industriale ne trascinano altre, non
meno pronte, in tutta la struttura religiosa, politica e sociale. Una
rivoluzione invisibile e formidabile si sta preparando nelle intime
fibre della nostra società. Si sentono solo vagamente queste cose, ma
sono nell’aria, in questo stesso istante. Si indovina l’apparizione
di qualcosa di vasto, di vago, di pauroso. La mia mente si rifiuta di
prevedere la forma nella quale questa minaccia diverrà realtà. Avete
sentito Wickson l’altra sera; ciò che diceva nascondeva le stesse
entità senza nome e senza forma; e la concezione subcosciente di esse,
ispirava loro quelle parole.

— Volete che insomma... — cominciò, mio padre, ma s’interruppe esitante.

— Voglio dire che un’ombra colossale e minacciosa comincia sin d’ora
a proiettarsi sul Paese. Chiamatela anche ombra dell’oligarchia, se
volete, che sarebbe la definizione più approssimativa che oso dare, ma
non posso dire veramente quale ne sia la natura[49]. Ma ecco che cosa
vi voglio dire sopratutto: siete in una situazione pericolosa, in un
pericolo che il mio timore forse esagera, perchè non posso misurarlo.
Seguite il mio consiglio, ed accettate le vacanze che vi offrono.

— Ma sarebbe una vigliaccheria, — disse il babbo.

— Niente affatto! Siete un uomo di una certa età; avete sostenuto
il vostro compito, ed un bel compito nel mondo; lasciate la presente
lotta a coloro che sono giovani e forti. È compito nostro, della nuova
generazione. La nostra cara Avis sarà accanto a me, qualunque cosa
accada, e vi rappresenterà sul campo di battaglia.

— Ma non possono nuocermi, — obiettò mio padre. — Grazie a Dio, sono
indipendente. Oh! vi prego credete che mi rendo conto delle terribili
persecuzioni che potrebbero infliggere ad un professore la cui vita
dipendesse esclusivamente dall’Università. Ma la mia non ne dipende.
Non sono entrato nell’insegnamento per l’onorario. Posso vivere bene
con le mie rendite: essi possono togliermi solo lo stipendio.

— Non vedete le cose abbastanza a fondo, — rispose Ernesto. — Se accade
ciò che temo, possono togliervi le vostre rendite private e perfino il
vostro capitale, come lo stipendio.

Il babbo rimase in silenzio per qualche momento. Rifletteva
profondamente, e una profonda ruga, segno di decisione, gli si scavava
sulla fronte. Infine riprese con tono fermo:

— Non accetterò questo congedo, — e s’interruppe di nuovo. — Continuerò
a scrivere il mio libro[50]. Potrebbe darsi che vi sbagliaste. Ma
abbiate torto o ragione, resterò al mio posto.

— Benissimo, seguite il cammino del Vescovo Morehouse: andrete incontro
a una catastrofe simile. Sarete tutti e due ridotti allo stato di
proletarii prima di ottener lo scopo.

La conversazione sviò sul conto del prelato; e noi chiedemmo ad Ernesto
di raccontarci ciò che sapeva di lui.

— È colpito fin nel profondo dell’animo dal viaggio in cui l’ho
trascinato attraverso le regioni infernali. Gli ho fatto visitare le
catapecchie di alcuni dei nostri operai delle officine; gli ho fatto
vedere i rifiuti umani rigettati dalla macchina industriale, che gli
hanno raccontato la loro vita. L’ho condotto nei bassifondi di San
Francisco, ed ha potuto vedere che l’ubriachezza, la prostituzione,
la criminalità hanno una causa più profonda che non sia la corruzione
naturale. Ne è rimasto seriamente colpito nella salute, e ciò che è
peggio, si è appassionato a questa causa. Il colpo è stato troppo rude
per quel fanatico della morale, che, come accade, non ha il minimo
senso pratico. Egli si agita nel vuoto, fra ogni sorta di illusioni
umanitarie e di disegni di missioni presso le classi colte. Sento
che è un dovere ineluttabile per lui far rivivere l’antico spirito
della Chiesa e render noto il suo messaggio ai padroni dell’oggi. Si è
riscaldato; presto o tardi scoppierà, ma non posso predire quale forma
assumerà la catastrofe. È un animo puro ed entusiasta, ma così poco
pratico! Mi oltrepassa, non posso tenerlo sulla terra; vola verso il
suo orto degli ulivi, e poi verso il suo calvario. Perchè le anime così
nobili sono nate per essere crocifisse.

— E voi? — chiesi con un sorriso che nascondeva l’ansia tormentosa del
mio amore.

— Io no, — rispose pure ridendo. — Potrò essere giustiziato o
assassinato, ma non sarò mai crocifisso. Sono piantato troppo
solidamente e ostinatamente sulla terra.

— Ma perchè preparare la crocifissione del Vescovo? giacchè non
negherete d’esserne la causa.

— Perchè dovrei lasciare una persona vivere tranquillamente nel lusso,
mentre milioni di lavoratori vivono nella miseria?

— Allora perchè consigliate al babbo di accettare il suo congedo?

— Perchè non sono un animo puro ed entusiasta; perchè sono solido,
ostinato ed egoista; perchè vi amo e dico come Ruth disse un tempo:
«_Il tuo popolo è il mio popolo_». Il vescovo, poi, non ha figlia.
Inoltre, per quanto minimo sia il risultato, per quanto debole e
insufficiente si manifesti il tentativo, produrrà qualche beneficio per
la rivoluzione; e tutti i pezzetti, anche piccoli, contano.

Non potevo essere di questo parere. Conoscevo bene la nobile natura del
vescovo Morehouse, e non potevo immaginare che la sua voce, sorgendo
in favore della giustizia, non foss’altro che un vagito debole e
impotente. Non conoscevo ancora, effettivamente, come Ernesto, la dura
vita. Egli vedeva con chiarezza la futilità di quella grande anima,
che gli avvenimenti prossimi mi avrebbero rivelata con non minore
chiarezza.

Dopo alcuni giorni, Ernesto mi raccontò, come cosa molto strana,
l’offerta che aveva ricevuto dal Governo. Gli proponevano il posto di
segretario di Stato al Ministero dei Lavori. Ne fui felice. Gli onorarî
erano relativamente alti, avrebbero costituito una solida base per il
nostro matrimonio. Quel genere di occupazione doveva certo piacere ad
Ernesto, e il geloso orgoglio che mi ispirava mi faceva considerare
questa proposta come un giusto riconoscimento della capacità di lui.
Improvvisamente, osservai nei suoi occhi il lampo di gaiezza che gli
era speciale: si prendeva gioco di me.

— Non... rifiuterete, vero? — dissi con voce tremante.

— È semplicemente un tentativo di corruzione, — disse. — C’è in
questo affare, l’abile mano di Wickson, e, dietro la sua, quella di
gente ancora più altolocata. È un trucco vecchio, come la lotta di
classe, che consiste nello scegliere i proprii capitani togliendogli
all’esercito del lavoro. Povero lavoro eternamente tradito! Se sapeste
quanti dei suoi capi, in passato, sono stati comperati così! Costa
meno, molto meno assoldare un generale, che non affrontarlo con il suo
esercito e combatterlo. C’è stato... ma non voglio nominare nessuno!
Sono già abbastanza indignato. Cara e tenera amica mia, sono un
capitano del lavoro, non posso vendermi. Se non avessi altri motivi, la
sola memoria del mio povero e vecchio padre estenuato sino alla morte
basterebbe ad impedirmelo.

Aveva le lagrime agli occhi, quell’eroe, il mio grande eroe. Non
avrebbe mai perdonato il modo con cui era stata deformata la coscienza
di suo padre, le sordide bugie e i furti meschini ai quali era stato
spinto per dare il pane ai suoi bambini.

— Mio padre era un brav’uomo, — mi diceva un giorno Ernesto. — Era
un’anima eccellente mutilata, scorticata dalla miseria della vita.
I suoi padroni, bruti, due volte bruti, ne fecero una bestia vinta.
Dovrebbe ancora esser vivo, oggi, come vostro padre. Era forte, ma
fu preso nella macchina, e logorato a morte per accrescere il lucro
altrui. Riflettete a questo: per produrre dei dividendi, il sangue
delle sue vene fu mutato in un pranzo inaffiato da vini prelibati,
in una ridda di ori, o in qualche orgia sensuale di ricchi oziosi e
parassiti; i quali erano i suoi padroni, due volte bruti!



CAPITOLO VII.

LA VISIONE DEL VESCOVO.


«Il Vescovo ha rotto i freni. — mi scriveva Ernesto, — cavalca nel
vuoto assoluto. Oggi vuol cominciare a rimettere in piedi il nostro
miserabile mondo, annunciandogli il suo messaggio. Me ne ha avvertito,
e non sono riuscito a dissuaderlo. Questa sera presiede lui il
I.P.H.[51] ed esporrà il messaggio nell’allocuzione di apertura.

«Posso passare a prendervi per andarlo a sentire? Naturalmente il suo
sforzo è condannato, anticipatamente, a fallire. Il vostro e pure il
suo, ma sarà per voi un’eccellente lezione di cose. Sapete, cara e
tenera amica, quanto sia fiero del vostro amore e come vorrei meritare
la vostra più alta stima, per compensare ai vostri occhi, in certa
maniera, la mia indegnità a questo onore. Il mio orgoglio desidera
persuadervi che il mio pensiero è corretto e giusto. Le mie idee, al
riguardo, sono aspre; la futilità di quell’animo, che, pure è nobile,
vi dimostrerà che la mia asprezza è necessaria. Venite alla riunione di
questa sera. Per quanto tristi possano essere gli incidenti, sento che
vi terranno più stretta a me».

L’I.P.H. aveva convocato per quella sera, a San Francisco, un’assemblea
per esaminare lo sviluppo dell’immoralità pubblica, e per studiare i
rimedî. Il vescovo Morehouse occupava la poltrona presidenziale, e,
come osservai subito, era in uno stato di eccitamento nervoso. Ai suoi
lati sedevano il vescovo Dickinson, il dottor Jones, capo della facoltà
di etica all’Università di California, la signora W. W. Hurd, grande
organizzatrice di opere di carità, il signor Filippo Ward, altro grande
filantropo, ed altri astri di minore grandezza nel cielo della morale e
della carità.

Il vescovo Morehouse si alzò e cominciò con questo esordio improvvisato:

«Passavo in carrozza per le vie: era notte. Ogni tanto guardavo
attraverso le porte. Ad un tratto i miei occhi parvero aprirsi e
vidi le cose come sono. Il mio primo gesto fu di alzare una mano alla
fronte, per nascondermi l’orribile realtà, e nell’oscurità mi rivolsi
questa domanda: Che cosa si può fare? Un momento dopo, la stessa
domanda assunse quest’altra forma: Che cosa avrebbe fatto il mio divin
Maestro? Allora una luce improvvisa sembrò riempire lo spazio, e mi
apparve il mio dovere, come la chiarezza del sole, come Saul aveva
visto il suo, sul cammino di Damasco. Feci fermare, scesi, e dopo
qualche istante di conversazione con due donne pubbliche, le indussi a
salire nella mia vettura, con me. Se Gesù ha detto il vero, quelle due
infelici erano due mie sorelle, e la sola possibilità di purificazione
stava nel mio affetto e nella mia tenerezza per loro. Vivo in uno dei
quartieri più piccoli di San Francisco. La casa che abito è costata
mille dollari, l’arredamento e i libri, e le opere d’arte valgono una
somma uguale alla precedente. La mia casa è un castello dove si agitano
numerosi servi. Ignoravo sinora a che cosa possano servire i manieri,
credevo che fossero fatti per viverci. Ora lo so. Ho condotto le due
ragazze della strada nel mio palazzo, ed esse rimarranno con me. E di
sorelle mie, di questa specie, spero di empire le vaste camere della
mia dimora».

L’uditorio diventava sempre più agitato e i visi delle persone sedute
sul palco manifestavano uno spavento e una costernazione crescente.

Improvvisamente, il vescovo Dickinson si alzò, e con un’espressione di
disgusto, abbandonò il palco e la sala. Ma il vescovo Morehouse, che
non badava a nulla, continuò:

«O mie sorelle e miei fratelli, in questo modo di agire, trovo la
soluzione di tutte le difficoltà. Non mi rendevo conto della necessità
delle carrozze. Ora lo so. Sono fatte per trasportare i deboli, gli
ammalati e i vecchi, non per rendere onore a coloro che hanno perduto
persino il senso dello vergogna.

«Non sapevo perchè i palazzi fossero costruiti, ma oggi ne ho scoperto
l’uso: le residenze ecclesiastiche dovrebbero essere convertite in
ospedali e asili per coloro che sono caduti lungo la via, e che stanno
per morirvi».

Fece una lunga pausa, dominato evidentemente dall’intensità del suo
pensiero, e incerto sul modo migliore di esprimerlo.

«Sono indegno, cari fratelli, di dirvi qualunque cosa in fatto di
moralità. Ho vissuto troppo a lungo in un’ipocrisia vergognosa, per
essere in grado d’aiutare gli altri, ma il mio atto verso quelle donne,
verso quelle sorelle, mi mostra che la migliore via è facile a trovare.
Per coloro che credono in Gesù e nel suo vangelo, non può esservi fra
uomini altri rapporti che un legame dì affetto. L’amore solo è più
forte del peccato, più forte della morte.

«Dichiaro dunque ai ricchi, fra voi, che il loro dovere è di fare ciò
che ho fatto, ciò che faccio. Tutti coloro che sono nell’opulenza,
prendano in casa un ladro, e lo trattino come fratello; prendano una
infelice e la trattino come sorella, e San Francisco non avrà più
bisogno di polizia e di magistrati. Le prigioni saranno sostituite da
ospedali, e il delinquente sparirà, col delitto.

«Non dobbiamo dare solo il nostro danaro: dobbiamo dare noi stessi,
come faceva Cristo. Tale oggi è il messaggio della Chiesa. Ci siamo
smarriti ben lungi dall’insegnamento del Maestro. Ci siamo consumati
nella nostra stessa golosità. Abbiamo inalzato il vitello d’oro
sull’altare. Ho qui una poesia che riassume tutta questa storia in
pochi versi. Ve la leggerò. Fu scritta da un’anima smarrita, che però
vedeva le cose chiaramente[52]. Non bisogna prenderla come un attacco
contro la Chiesa, ma contro lo splendore e la pompa del clero, che si è
allontanato dal sentiero tracciato dal Maestro e ha abbandonato le sue
pecorelle. Eccola:

    Trombe d’argento nella Cattedrale
    squillarono sul popolo inchinato,
    e sulle spalle io vidi sollevato,
    re di Roma, il Divino Mortale.

    Prete nella sua veste liliale,
    re, di regale porpora ammantato,
    tre volte cinto di serto regale,
    il Papa andò, e si spente il creato.

    Pel deserto de’ secoli il mio cuore
    pervenne sino a un solitario mare
    e a un viandante in cerca di sua pace.

    «Uccello in nido e volpe in tana giace;
    io solo cerco invano di posare,
    ferisco i piedi e bevo il mio dolore».

L’uditorio era agitato, ma non commosso. Il vescovo Morehouse non se ne
accorgeva. Seguiva la sua via con cuore fermo.

«Ecco perchè dico ai ricchi, fra voi, e a tutti i ricchi: «Voi avete
crudelmente oppresso le pecore del Maestro, voi avete indurito i vostri
cuori, avete indurito i vostri orecchi, alle voci che gridano sulla
via, voci di sofferenza e di dolore che non volete sentire, che però
saranno esaudite un giorno! Ecco perchè lo predico...».

Ma in questo momento, i signori Jones e Ward che da un po’ si erano
alzati dai loro scanni, presero il vescovo per un braccio e lo
trascinarono giù dal palco, mentre l’uditorio rimaneva oppresso dallo
scandalo.

Appena in istrada, Ernesto scoppiò in una risata che mi urtò i nervi.
Il mio cuore stava per iscoppiare sotto il peso delle lagrime.

— Ha comunicato loro il suo messaggio! — esclamò il mio compagno. — La
forza di carattere e la tenerezza profondamente insita nella natura
del vescovo, si sono rivelate agli occhi dei suoi uditori cristiani
che l’amavano, e questi ne hanno concluso che egli non aveva la
testa a posto. Avete veduto con quanta sollecitudine gli hanno fatto
abbandonare il palco? In verità, l’inferno deve aver riso di questo
spettacolo.

— Pure, ciò che il vescovo ha detto questa sera, provocherà una forte
impressione, — osservai.

— Lo credete? — chiese Ernesto ironicamente.

— Farà molta sensazione, — affermai. — Ho veduto i cronisti scrivere
come matti, mentre egli parlava.

— Neppure una parola di quanto ha detto, apparirà domani sui giornali.

— Non posso crederlo, — esclamai.

— Aspettate e vedrete. — neppure una parola, neppure un pensiero suo.
La stampa quotidiana? Un trucco continuo.

— Ma i cronisti? Li ho visti con i miei occhi.

— Neppure una parola di quanto ha detto sarà stampata. Voi dimenticate
i direttori dei giornali. Il loro stipendio dipende dalla loro linea
di condotta, e la loro linea di condotta segue questo criterio: non
pubblicare nulla che costituisca una seria minaccia per l’ordine
costituito. La dichiarazione del vescovo rappresenta un assalto
violento alla morale corrente. È considerato un’eresia. Gli hanno
fatto abbandonare la tribuna per impedirgli di dire di più. I giornali
puniranno il suo scisma, col silenzio e l’oblìo.

«La stampa degli Stati Uniti? È un’escrescenza parassitarla che spunta
e ingrassa sulla classe capitalista. La sua funzione è di servire
lo stato attuale delle cose, modellando l’opinione pubblica; e se ne
serve a meraviglia. Lasciatemi predirvi ciò che avverrà. I giornali
domani racconteranno semplicemente che la salute del vescovo era
manchevole, che si era stancato, e che questa sera è stato colto da
debolezza. Fra qualche giorno, un altro annunzietto: che è in uno stato
di prostrazione nervosa, e che le sue pecorelle riconoscenti hanno
fatto una sottoscrizione affinchè gli sia concesso un congedo. Dopo di
ciò, potrà accadere una di queste due cose: o il vescovo riconoscerà
l’errore commesso prendendo la cattiva strada, e ritornerà dalle
vacanze perfettamente guarito, senza più visioni, o persisterà nel
suo delirio e in questo caso vedrete i giornali informarci con frasi
patetiche, di profonda simpatia, che egli è diventato matto. In fine,
gli lasceranno raccontare le sue visioni davanti a mura ben guardate.

— Oh! andate troppo lontano! — esclamai.

— Agli occhi della società, sarà veramente impazzito, — rispose
Ernesto. — Quale onest’uomo, sano di mente, prenderebbe in casa dei
ladri e delle prostitute per vivere con loro come fratelli e sorelle?
È vero che Cristo è morto fra due ladroni, ma è un’altra storia.
Pazzia? Ma un ragionamento di un uomo col quale non si è d’accordo
sembra sempre falso, e naturalmente la mente del vescovo è sconvolta.
Dov’è la linea di separazione fra una mente falsa e una mente pazza? È
inconcepibile che un individuo di buon senso possa essere in disaccordo
radicale con le vostre più sane conclusioni.

«Ne troverete un bell’esempio nei giornali di questa sera. Maria M’
Kenna abita nella parte meridionale di Market Street. Benchè povera,
è perfettamente onesta. È perfino buona patriota. Soltanto, si è
formata delle idee false circa la bandiera americana e la protezione
di cui dovrebbe essere il simbolo. Ed ecco che cosa le è capitato: suo
marito, vittima di un infortunio, è rimasto per tre mesi all’ospedale.
Essa ha cercato di guadagnare facendo la lavandaia, ma nonostante
il suo lavoro, è rimasta arretrata nel pagamento del fitto di casa.
Ieri l’hanno messa sul lastrico. Prima, aveva sventolato la bandiera
nazionale davanti alla sua porta, e, ricoverandosi sotto le pieghe di
essa aveva proclamato il principio che in virtù di quella protezione
non avevano il diritto di buttarla sulla strada. Che cosa hanno fatto?
L’hanno arrestata e dichiarata pazza! Oggi è stata sottoposta all’esame
medico dei periti ufficiali, che l’hanno riconosciuta pazza e l’hanno
rinchiusa nella casa di salute di Napa.

— Il vostro esempio non calza. Supponete che io sia in disaccordo con
tutti, circa lo stile d’un’opera letteraria. Non mi manderebbero per
questo al manicomio.

— Sfido io! — replicò Ernesto. — La vostra diversità di opinione non
costituirebbe una minaccia per la società. In questo è la differenza.
Le opinioni anormali di Maria M’ Kenna e del vescovo sono un pericolo
per l’ordine costituito. Che succederebbe se tutti i poveri si
rifiutassero di pagare l’affitto rifugiandosi sotto la protezione della
bandiera americana? La proprietà sarebbe distrutta. Le convinzioni
del vescovo non sono meno pericolose per l’attuale società. Dunque, lo
aspetta il manicomio.

— Ma io non posso credervi.

— Aspettate e vedrete, — disse Ernesto. — Ed io aspettai.

La mattina dopo, mandai a comperare tutti i giornali: non riferivano
neppure una parola di quanto il vescovo Morehouse aveva detto. Uno o
due riferivano che egli si era lasciato vincere dalla commozione. Però
le stupidaggini degli oratori che avevano parlato dopo di lui erano
riprodotte per intero.

Parecchi giorni dopo, un breve annuncio comunicava che il prelato era
partito in vacanza per ragioni di salute, in seguito a un eccesso di
lavoro. Fin qui Ernesto aveva ragione. Ma non si parlava ancora di
stanchezza cerebrale, neppure di prostrazione nervosa. Non immaginavo
affatto la via dolorosa che il dignitario della Chiesa era destinato
a percorrere, quella via dal giardino degli ulivi al Calvario, che
Ernesto aveva intravista per lui.



CAPITOLO VIII.

I DISTRUTTORI DI MACCHINE.


Poco tempo prima che Ernesto si presentasse come candidato al
Congresso, nella lista socialista, il babbo solennizzò ciò che
egli stesso chiamava, a porte chiuse: «_la serata dei profitti e
delle perdite_», e il mio fidanzato: «_la serata dei distruttori di
macchine_».

In realtà, era un pranzo di uomini di affari, di piccola gente
d’affari, naturalmente. Non credo che alcuno, fra loro, fosse
interessato in un’impresa il cui capitale superasse i duecentomila
dollari.

Rappresentavano perciò perfettamente la classe media del traffico.
C’era il signor Owen, della Casa Silverberg, Owen e C. una
importante ditta di drogheria, con numerose succursali, di cui noi
eravamo clienti. C’erano i soci del grande deposito di prodotti
farmaceutici Kowalt e Washburn; c’era il signor Asmunsen, proprietario
d’un’importante cava di granito nella Contea di Contra Costa, e
parecchi altri della stessa specie, proprietari e comproprietari di
piccole industrie, di piccoli commerci e di piccole imprese: in una
parola, piccoli capitalisti.

Erano persone abbastanza interessanti, con i loro visi furbi, e il
loro linguaggio semplice e chiaro. Si lamentavano, all’unanimità,
dei consorzi e la loro parola d’ordine era: «_Uccidiamo i trusts!_».
Questi, secondo loro, erano la fonte di tutte le oppressioni; e tutti,
senza eccezione, ripetevano lo stesso lamento. Avrebbero voluto che
il Governo si impossessasse delle grandi imprese, come le Ferrovie
e le Poste e i Telegrafi, ed essi predicevano lo stanziamento di
tasse enormi, e ferocemente progressive sulle entrate, allo scopo di
distruggere i grandi accumulamenti di capitali. Essi lodavano anche,
come un possibile rimedio alle miserie locali, la proprietà municipale
delle imprese di pubblica utilità, come l’acqua, il gas, i telefoni, e
i tranvai.

Il signor Asmunsen narrò, in modo particolarmente interessante, le sue
vicissitudini di proprietario di cava. Confessò che questa sua cava
non gli aveva dato mai nessun utile, nonostante l’enorme quantità di
ordinazioni che gli aveva procurato la distruzione di San Francisco.
La ricostruzione di questa città, era durata sei anni, durante i quali,
il numero dei suoi affari era stato quadruplicato, ma egli non era, per
questo, più ricco di prima.

— La Compagnia delle Ferrovie è al corrente de’ miei affari meglio di
me, — spiegò. — Conosce fino al centesimo, le spese di sfruttamento,
e sa, a memoria, i termini de’ miei contratti. Come mai è così bene
informata? Non so immaginarlo. Deve certo avere delle spie pagate
fra i miei stessi impiegati e avere accesso presso i miei soci.
Perchè, ascoltate bene questo: appena ho firmato un grosso contratto,
favorevole a me, e che mi assicura un buon guadagno, i prezzi di
trasporto aumentano come per incanto. Non mi si dànno spiegazioni,
ma la ferrovia si prende il mio guadagno. In simili casi, non ho mai
potuto decidere la Compagnia a rivedere le sue tariffe, mentre, in
seguito ad incidenti o ad aumenti di spesa di sfruttamento, o dopo
la firma di contratti meno vantaggiosi per me, sono sempre riuscito
ad ottenere un ribasso. Insomma, la Ferrovia si prende tutti i miei
guadagni, siano essi grandi o piccoli.

Ernesto lo interruppe per chiedergli:

— Ciò che vi rimane, in fin dei conti, equivale presso a poco, senza
dubbio, allo stipendio che la Compagnia vi darebbe come direttore, se
fosse essa la proprietaria della cava?

— È proprio così, — rispose il signor Asmunsen. — Or non è molto, ho
fatto fare uno specchietto dei miei conti in questi ultimi due anni, ed
ho constatato che i miei guadagni erano precisamente come lo stipendio
di un direttore. Non ci sarebbe stato assolutamente nulla di diverso
se la Compagnia avesse posseduto la mia Cava e mi avesse pagato per
sfruttarla.

— Però, con questa differenza, — disse Ernesto ridendo, — che la
Compagnia avrebbe dovuto caricarsi dei rischi che avete avuto la bontà
di assumere per lei.

— È vero, — ammise il signor Asmunsen, con tristezza.

Dopo aver lasciato esprimere ad ognuno ciò che aveva da dire, Ernesto
rivolse delle domande agli uni e agli altri. Cominciò prima dal signor
Owen.

— Sono circa sei mesi che avete aperta una succursale, qui, a Berkeley?

— Sì, — rispose il signor Owen.

— E da allora, ho osservato che tre piccoli droghieri del rione hanno
chiuso bottega. La vostra succursale ne è, senza dubbio, la causa?

— Non avevano nessuna probabilità di riuscita lottando contro di noi, —
affermò il signor Owen, con soddisfazione.

— Perchè no?

— Avevamo un capitale più forte. Nel grosso commercio, la perdita è
sempre minima, e il guadagno più grande.

— Dimodochè il vostro negozio assorbiva i guadagni delle tre piccole
botteghe. Capisco. Ma ditemi: che è avvenuto dei proprietarii delle
bottegucce?

— Uno conduce i nostri camions di scarico. Non so che cosa facciano gli
altri.

Ernesto si voltò repentinamente verso il signor Kowalt.

— Voi vendete spesso al prezzo di costo, spesso perfino in perdita[53].
Che ne è dei proprietarî delle piccole farmacie che avete messo con le
spalle al muro?

— Uno di essi, il signor Haasfurther, è attualmente a capo del nostro
servizio di ordinazioni.

— E voi avete assorbito i guadagni che stavano per realizzare?

— Certamente: per questo siamo negli affari.

— E voi, — disse bruscamente Ernesto al signor Asmunsen. — Voi siete
offeso, non è vero, perchè le Ferrovie vi sottraggono i guadagni?

Il signor Asmunsen accennò di sì col capo.

— Vorreste invece intascar voi i vostri guadagni?

Nuovo segno di assentimento.

— A spese degli altri?

Nessuna risposta. Ernesto insistette:

— A spese degli altri?

— In questo modo si guadagna, — replicò seccamente il signor Asmunsen.

— Dunque, il gioco degli affari consiste nel guadagnare a detrimento
degli altri, e ad impedire agli altri di guadagnare a spese vostre. È
così, non è vero?

Ernesto dovette ripetere la sua domanda e il signor Asmunsen alla fine
rispose:

— Sì, è così; senonchè, noi non opponiamo difficoltà perchè gli altri
facciano pure i loro guadagni, purchè non siano esorbitanti.

— Per esorbitanti intendete, senza dubbio, grossi guadagni. Però
non vedete nessun inconveniente nel fare grossi guadagni per vostro
conto... non è vero?

Il signor Asmunsen confessò facilmente la sua debolezza su questo
punto. Allora Ernesto si rivolse a un altro, un certo signor Calvin, un
tempo grosso proprietario di latterie.

— Qualche tempo fa, combattevate il _trust_ del latte. — gli disse
Ernesto, — ed ora partecipate alla politica agricola[54], al Partito
delle Fattorie. Come mai questo cambiamento?

— Oh! non ho abbandonato la lotta, — rispose il personaggio, che
infatti aveva un’aria aggressiva. — Io combatto il trust sull’unico
terreno ove sia possibile combatterlo, sul terreno politico. Vi spiego:
qualche anno fa, noi lattai, facevamo ciò che volevamo.

— Ma voi facevate concorrenza gli uni agli altri, — interruppe Ernesto.

— Sì, e perciò i guadagni erano a un livello basso. Allora tentammo di
organizzarci, ma c’erano sempre dei lattai indipendenti che guastavano
i nostri disegni. Poi venne il _trust_ del latte.

— Sovvenzionato dal capitale esuberante, della _Standard Oil_,[55] —
disse Ernesto.

— È vero, — ammise il signor Calvin. — Ma non lo sapevamo, a quel
tempo. I suoi agenti ci affrontarono con la mazza in mano, e ci posero
questo dilemma: o entrare nella lega, e ingrassarci, o star fuori, e
perire. La maggior parte di noi entrò nel _trust_; gli altri creparono
di fame. Oh! in principio, quanto danaro!... Il latte fu aumentato, di
un _cent_ al litro, e un quarto di quel _cent_ era nostro. Gli altri
tre quarti andavano al _trust_. Poi il latte fu aumentato di un altro
_cent_, ma di questo non toccò nulla a noi. Le nostre lagnanze furono
inutili. Il _trust_ era divenuto il padrone. Ci accorgemmo che eravamo
delle semplici pedine sulla scacchiera. Infine anche il quarto di
_cent_ addizionale ci fu tolto. Poi il _trust_ cominciò a stringere le
viti. Che cosa potevamo fare? Fummo spremuti. Non c’erano più lattai,
non rimaneva che un _trust_ del latte.

— Ma col latte aumentato di due _cents_, mi pare che avreste potuto
sostenere la concorrenza, — suggerì Ernesto con malizia.

— Lo credevamo anche noi. Abbiamo tentato. — Il signor Calvin fece una
pausa. — E fu la nostra rovina. Il _trust_ poteva mettere il latte sul
mercato a un prezzo inferiore al nostro. Poteva ancora avere un piccolo
guadagno quando noi eravamo in pura perdita. Ho speso cinquantamila
dollari in quell’affare. La maggior parte di noi ha dichiarato
fallimento[56]. Le latterie sono state distrutte.

— Dimodochè, avendo il _trust_ preso i vostri guadagni, — disse
Ernesto, — voi vi siete dato alla politica, affinchè una nuova
legislazione distrugga a sua volta il _trust_ e vi permetta di
riprendere le latterie?

Il viso del signor Calvin si rischiarò.

— È proprio quanto ho detto nelle mie conferenze ai fittavoli. Voi
concentrate tutto il nostro programma in un guscio di noce.

— Però il _trust_ dà il latte a miglior condizioni dei lattai
indipendenti?

— Perbacco, può ben farlo, con l’organizzazione e il macchinario ultimo
modello che può avere con i suoi capitali.

— Questo è fuori di discussione. Può certamente farlo, e, ciò che più
conta, lo fa, — concluse Ernesto.

Il signor Calvin si lanciò allora in un’arringa politica per esporre il
suo modo di vedere. Parecchi altri lo seguirono con calore, e il loro
grido unanime era che bisognava distruggere i _trusts_.

— Poveri di spirito! — mi bisbigliò Ernesto. — Ciò che vedono, lo
vedono bene; solamente, non vedono più in là del loro naso.

Dopo un poco riprese la direzione della discussione, e, secondo la sua
abituale caratteristica, la tenne per tutta la sera.

— Vi ho ascoltati con attenzione, — cominciò, — e vedo perfettamente
che seguite il gioco degli affari in maniera ortodossa. Per voi, la
vita si riassume nel guadagno. Voi avete la convinzione ferma e tenace
di essere stati creati e messi al mondo con l’unico scopo di guadagnare
molto danaro. Soltanto, c’è un ostacolo: sul più bello della vostra
attività proficua, ecco il _trust_ che vi taglia i vostri guadagni.
Eccovi in un dilemma apparentemente contrario al fine della creazione;
e voi non vedete altro mezzo di salvezza oltre l’annientamento di
questo disastroso intervento.

«Ho seguito con cura le vostre parole, e vi voglio dire l’unico epiteto
che possa definirvi: Siete dei distruttori di macchine. Sapete che vuol
dir ciò? Permettetemi di spiegarvelo. In Inghilterra, nel secolo XVIII,
uomini e donne tessevano il panno su telai a mano, nelle loro casette.
Era un procedimento lento, maldestro e costoso, quel sistema di
manifattura a domicilio. Poi venne la macchina a vapore, col suo corteo
di ordigni per economizzare il tempo. Un migliaio di telai riuniti in
una grande officina e messi in moto da una macchina centrale, tessevano
il panno a molto minor prezzo dei tessitori che possedevano telai a
mano. Nell’officina si affermava la combinazione davanti alla quale si
cancella la concorrenza. Gli uomini e le donne che avevano lavorato
da soli, con telai a mano, andavano nelle fabbriche, e lavoravano
ai telai a vapore, non più per loro stessi, ma per i proprietarii
capitalisti. Ben presto anche i fanciulli si affaticarono attorno ai
loro telai meccanici, in cambio di salari ridotti, e sostituirono gli
uomini. I tempi divennero duri per questi. Il loro livello di benestare
si abbassò rapidamente. Morivano di fame e dicevano che tutto il male
proveniva dalle macchine. Allora, vollero rompere le macchine. Non vi
riuscirono; erano dei poveri illusi.

«Voi non avete ancora capito questa lezione; ed ecco, dopo un secolo e
mezzo, volete anche voi distruggere le macchine. Avete confessato voi
stessi che le macchine del _trust_ fanno un lavoro più efficace e a
minor prezzo del vostro; per questo non potete lottare contro di esse;
e nondimeno vorreste distruggerle. Siete ancora più illusi dei semplici
lavoratori d’Inghilterra. E mentre voi ripetete che bisogna ristabilire
la concorrenza, i _trusts_ continuano a distruggervi.

«Dal primo all’ultimo raccontate la stessa storia, la scomparsa della
rivalità e l’avvento della unione. Voi stesso, signor Owen, avete
distrutto la concorrenza, qui, a Berkeley, quando la vostra succursale
ha fatto chiudere bottega a tre piccoli droghieri, perchè il vostro
mercato era più vantaggioso. Ma, appena sentite sulle vostre spalle il
peso di altre industrie più forti, quelle dei _trusts_, voi vi mettete
a urlare.

«Questo, perchè non siete una società forte, ecco tutto. Se formaste un
_trust_ di prodotti alimentari per tutti gli Stati Uniti, cantereste
un’altra canzone, e la vostra antifona sarebbe: «Siano benedetti i
_trusts_!» Eppure, non soltanto la vostra piccola industria non è
un consorzio, ma avete voi stesso la coscienza della sua poca forza.
Cominciate a presentire la vostra fine. Vi accorgete che, nonostante
tutte le vostre succursali, non rappresentate che un gettone sul tavolo
del gioco. Vedete gli interessi madornali inalzarsi e crescere di
giorno in giorno; sentite le mani guantate di ferro dei profittatori
impadronirsi dei vostri guadagni, e prendervi un pizzico di qui, un
pizzico di là: così il _trust_ delle ferrovie, il _trust_ del petrolio,
il _trust_ dell’acciaio, il _trust_ del carbone; e voi sapete che
alla fine vi distruggeranno, vi prenderanno fin l’ultimo centesimo dei
vostri mediocri guadagni.

«Ciò prova, signore, che siete un cattivo giocatore. Quando avete
strozzato i tre piccoli droghieri di qui, vi siete gonfiato, avete
vantato la efficacia e lo spirito dell’impresa, avete mandato vostra
moglie in Europa, con i guadagni che avete fatto divorando quei poveri
negozietti. È la legge del cane contro cane, e voi avete mangiato in un
sol boccone i vostri rivali.

«Ma ecco che alla vostra volta siete morsicato da molossi, e urlate
come una puzzola. E quanto dico di voi, è vero per tutti coloro che
sono seduti qui attorno. Urlate tutti. State giocando una partita, e la
perdete. Questo vi fa gridare.

«Soltanto, lamentandovi, non siete sinceri; non confessate che vi piace
sfruttare gli altri, smungendoli, e che fate tutto questo chiasso
perchè altri tentano di fare lo stesso con voi. No, siete troppo
scaltri per questo, e dite tutt’altra cosa. Fate i discorsi politici
dei piccoli borghesi, come il signor Calvin, poco fa. Che cosa diceva?
Ecco alcune delle sue frasi che ricordo: «I nostri principî originarî
sono solidi». «Questo paese deve ritornare ai metodi americani
fondamentali, e ognuno sia libero di approfittare delle occasioni
aventi uguali probabilità...«. «Lo spirito di libertà secondo il quale
è sorta questa nazione... Ritorniamo ai principii dei nostri avi!...».

«Quando parlava dell’uguaglianza delle probabilità per tutti, alludeva
alla facoltà di spremere dei guadagni, licenza che gli è ora tolta
dai grandi _trusts_. E l’illogicità è in questo: che, a furia di
ripetere queste frasi, voi avete finito col credere in esse. Desiderate
l’occasione per svaligiare i vostri simili uno alla volta e vi
ipnotizzate al punto di credere che volete la libertà. Siete ingordi
e insaziabili; ma persuasi dalla magìa delle vostre frasi, di fare,
invece, opera di patriottismo. Mutate il desiderio di guadagno, che è
puro e semplice egoismo, in sollecitudine altruistica per l’umanità
sofferente. Vediamo un po’ qui fra noi, siate sinceri una volta,
guardate la cosa in faccia e ditela con termini giusti.

Intorno alla tavola si vedevano visi congestionati che esprimevano
una grande irritazione, mista a una certa inquietudine. Erano tutti
un poco spaventati da quel giovanotto dal viso glabro, e dal suo modo
di parlare e dirigere le parole, nonchè dalla sua terribile maniera
di chiamare le cose col loro nome. Il signor Calvin si affrettò a
rispondere:

— E perchè no? — chiese. — Perchè non potremmo ritornare ai costumi
dei nostri padri che hanno fondato questa repubblica? Avete detto
molte cose vere, signor Everhard, per quanto duro ci possa esser stato
l’inghiottirle. Ma qui, fra noi, possiamo parlarci chiaro. Togliamo
le maschere, ed accettiamo la verità come il signor Everhard l’ha
chiaramente detta.

«È vero che noi piccoli capitalisti diamo la caccia al guadagno, e che
il _trust_ ce lo toglie. È vero che vogliamo distruggere i _trusts_ per
poter conservare i nostri profitti. E perchè non lo faremmo? Perchè no,
ditemi, perchè non lo faremmo?

— Ah! eccoci all’ultima parola della quistione, — disse Ernesto, con
aria soddisfatta. — Perchè no? Cercherò di dirvelo, quantunque non
sia facile. Voialtri, vedete, avete studiato gli affari nella vostra
cerchia ristretta, ma non avete affatto approfondita la questione
dell’evoluzione sociale. Siete in pieno periodo di transizione
nell’evoluzione economica, ma voi non ci capite nulla, e da questo
deriva tutto il caos. Mi chiedete perchè non potete ritornare indietro?
Semplicemente perchè non è possibile.

«Non potete far risalire un fiume verso la sorgente. Giosuè fermò il
sole sopra Gedeone, ma voi vorreste sorpassare Giosuè; voi sognate di
far ritornare indietro il sole. Aspirate a far camminare il tempo a
ritroso, dal mezzodì all’aurora.

«Davanti a delle macchine che risparmiano il lavoro, alla produzione
organizzata, all’efficacia crescente delle società, voi vorreste
ritardare il sole economico di una o più generazioni, e farlo ritornare
ad un’epoca in cui non c’erano nè grandi ricchezze, nè grandi macchine,
nè strade ferrate: in cui le legioni di piccoli capitalisti lottavano
l’una contro l’altra, nell’anarchia industriale; in cui la produzione
era primitiva, dispendiosa e non organizzata. Credetemi: il compito di
Giosuè era più facile, ed egli aveva inoltre Jehova per aiuto! Ma voi,
piccoli borghesi, siete abbandonati da Dio. Il vostro sole declina, e
non risorgerà mai più, e non è neppure in vostro potere fermarlo ora
nel suo corso. Siete perduti, condannati a sparire completamente dalla
faccia della terra.

«È il _fiat_ dell’evoluzione, il comando divino. L’associazione è più
forte della rivalità. Gli uomini primitivi erano poveri esseri schiavi
che si nascondevano nelle fessure delle rocce, ma un giorno si unirono
per lottare contro i loro nemici carnivori. Le fiere avevano il solo
istinto della rivalità, mentre l’uomo era dotato di un istinto di
cooperazione; per questo egli stabilì la sua supremazia su tutti gli
altri animali. E da allora non ha fatto che creare associazioni sempre
più vaste. La lotta dell’organizzazione contro la concorrenza data da
un migliaio di secoli, e sempre ha trionfato l’organizzazione. Coloro
che si arruolano nel campo della concorrenza sono destinati a perire.

— Però i _trusts_ stessi sono nati dalla concorrenza. — interruppe il
signor Calvin.

— Giustissimo! — rispose Ernesto. — E i _trusts_, infatti, l’hanno
distrutta. Per questo appunto, a quanto avete voi stessi confessato,
non siete più nella bambagia.

Alcune risate corsero per la tavola, e furono le prime in tutta la
sera, ed il signor Calvin non fu l’ultimo a partecipare dell’ilarità
che aveva egli stesso provocato.

— Ed ora, poichè siamo al capitolo dei _trusts_, cerchiamo di chiarire
un dato numero di punti, — riprese Ernesto. — Vi voglio esporre alcuni
assiomi; e se non vi vanno, non avrete che a dirlo. Il vostro silenzio
implicherà il vostro consenso.

«È vero che un telaio meccanico tesse il panno in maggiore quantità e a
minor prezzo di un telaio a mano?

Successe una pausa, ma nessuno prese la parola.

— Per conseguenza, non è profondamente stolto distruggere i telai
meccanici per ritornare al processo grossolano e costoso della
tessitura a mano?

Le teste si agitarono in segno di assentimento.

— È vero che l’associazione d’interessi conosciuta sotto il nome di
_trust_ produce, più praticamente e più economicamente, quanto non
produce un migliaio di piccole imprese rivali?

Nessuna obiezione s’udì.

— Dunque, non è irragionevole distruggere questa associazione
d’interessi economici e pratici?

Nuovo silenzio, che durò un momento, poi il signor Kowalt domandò:

— Che fare allora? Distruggere i _trusts_ è la nostra sola via di
salvezza, per sfuggire al loro dominio.

Subito Ernesto parve animato da una fiamma ardente.

— Ve ne indico un’altra, — esclamò. — Invece di distruggere quelle
macchine meravigliose, prendiamone la direzione. Approfittiamo del loro
buon andamento e del loro buon mercato. Soppiantiamo i proprietarî
attuali, e facciamole agire noi stessi. Questo, signori, è il
socialismo; una combinazione più vasta di _trusts_, un’organizzazione
sociale più economica di quante sieno esistite finora sul nostro
pianeta. Essa continua l’evoluzione in linea retta. Affrontiamo le
associazioni con un’associazione superiore. Abbiamo buone carte in
mano. Venite con noi e siate i nostri compagni di vittoria.

Immediatamente si manifestarono segni e mormorii di protesta.

— Preferite essere degli anacronismi, — disse Ernesto ridendo, — ecco
il vostro affare. Preferite fare i padri nobili. Siete condannati a
sparire come tutte le reliquie della tradizione. Vi siete mai chiesti
che cosa vi capiterà, quando nasceranno delle associazioni d’interessi
più formidabili delle attuali società? Non vi siete mai preoccupati di
ciò che diventerete quando i consorzi si fonderanno con il _trust_ dei
_trusts_, in una organizzazione sociale, economica e politica insieme?

E voltosi improvvisamente verso il signor Calvin:

— Dite se non ho ragione. Sarete obbligati a formare un nuovo partito
politico, perchè i vecchi partiti sono nelle mani dei trustisti. Questi
costituiscono il principale ostacolo alla vostra propaganda agricola,
al vostro partito delle fattorie. Ogni noia che incontrate, ogni colpo
che vi tocca, ogni sconfitta che subite, tutto deriva dai _trusts_. Non
è forse vero?

Il signor Calvin taceva imbarazzato.

— Se non è vero, ditemelo. — insistette Ernesto con voce incoraggiante.

— È vero, — confessò il signor Calvin. — Ci eravamo impadroniti del
potere legislativo dello Stato dell’Oregon ed avevamo fatto approvare
ottime leggi protezioniste, ma il governatore, che è una creatura
dei _trusts_, ha opposto il veto. Invece, al Colorado, avevamo eletto
un governatore che non potè entrare in funzione, per opposizione del
potere legislativo.

«Due volte abbiamo fatto passare un’imposta nazionale sul reddito,
e due volte la Corte Suprema l’ha rigettata come contraria alla
Costituzione. Le Corti sono nelle mani delle associazioni; noi, il
popolo, noi non paghiamo i nostri giudici abbastanza bene. Ma verrà un
giorno...

— In cui l’associazione dei _cartels_ dirigerà tutta la legislazione,
— interruppe Ernesto, — in cui l’associazione dei _trusts_ formerà il
Governo.

— Mai! mai! — esclamarono i presenti, eccitati e combattivi.

— Mi volete dire che cosa farete, quando sarà venuto quel giorno? —
chiese Ernesto.

— Ci solleveremo con tutta la nostra forza, — esclamò il signor
Asmunsen, la cui risolutezza fu salutata da nutrite approvazioni.

— Sarà la guerra civile, — osservò Ernesto.

— E sia la guerra civile! — rispose Asmunsen, approvato da nuove
acclamazioni. — Noi non abbiamo dimenticato le gesta dei nostri
antenati. Per la nostra libertà siamo pronti a combattere e a morire.

Ernesto, sorridendo, disse:

— Non dimenticate, signori, che poco fa eravamo tacitamente d’accordo
che la parola libertà, nel caso vostro, significa licenza di spremere
gli altri per ricavarne un utile.

Tutti i convitati erano infuriati, animati da uno spirito bellicoso. Ma
la voce di Ernesto dominò il tumulto:

— Ancora una domanda: dite che vi solleverete con tutta la vostra forza
quando il Governo fosse strumento dei _trusts_; per conseguenza, il
Governo adopererebbe contro la vostra forza l’esercito regolare, la
marina, la milizia, la polizia, in una parola tutta la grande macchina
della guerra organizzata dagli Stati Uniti. Dove sarebbe allora la
vostra forza?

Sui volti apparve una profonda costernazione.

Senza lasciar loro il tempo di riflettere, Ernesto lanciò un nuovo
assalto:

— Or non è molto, ricordatevene, il nostro esercito regolare era di
soli cinquantamila uomini. Ma i suoi effettivi sono stati aumentati da
un anno: ed ora conta trecentomila uomini.

E rinnovò il suo attacco:

— Non basta: mentre vi lanciavate all’inseguimento del vostro fantasma
favorito, il guadagno, e improvvisavate delle omelie sulla vostra cara
_mascotte_, la concorrenza, delle verità ancor più potenti e crudeli
sono state inalzate dalla associazione: c’è la milizia.

— È la nostra forza. — esclamò il signor Kowalt. — Con lei respingeremo
l’attacco dell’Esercito regolare.

— Cioè, farete parte voi stessi della milizia, — replicò Ernesto. — e
sarete mandati nel Maine o nella Florida, nelle Filippine, o in altro
luogo, per domare i vostri compagni rivoltosi, in nome della libertà.
Nello stesso tempo i vostri compagni del Kansas, del Wisconsin, o di
un altro Stato, faranno parte anch’essi della milizia e verranno in
California, per soffocare nel sangue la vostra stessa guerra civile.

Questa volta i presenti rimasero addirittura scandalizzati e muti.
Finalmente, il signor Owen mormorò:

— Non ci arruoleremo nella milizia. È semplicissimo: non saremo così
ingenui.

Ernesto scoppiò in una schietta risata.

— Voi non capite affatto il gioco stabilito. Non potrete difendervi:
sarete incorporati a forza nella milizia.

— Esiste una cosa che si chiama diritto civile, — insistette il signor
Owen.

— Ma non quando il Governo proclama lo stato d’assedio. Il giorno
in cui parlaste di sollevarvi in massa, la vostra stessa massa si
leverebbe contro di voi. Sareste compresi nella milizia, volenti
e nolenti. Sento qualcuno pronunziare le parole: _habeas corpus_.
Come _habeas corpus_, avreste, _post mortem_, in fatto di garanzia,
l’autopsia. Se rifiutaste di entrare nella milizia o di obbedire, una
volta incorporati, sareste tradotti davanti a un Consiglio di guerra
improvvisato e sareste fucilati come cani. È la legge.

— Non è la legge, — affermò con autorità il signor Calvin. — Non esiste
una legge simile. Quanto avete detto, l’avete sognato, giovanotto. Ma
come? Parlate di spedire la milizia alle Filippine? Sarebbe contro la
Costituzione. La Costituzione specifica espressamente che la milizia
non potrà mai essere mandata all’estero.

— Come c’entra la Costituzione? — chiese Ernesto. — La Costituzione è
interpretata dalle Corti, e queste, come ha detto il signor Asmunsen,
sono strumento dei _trusts_. Inoltre, come ho affermato, la legge vuole
così. È legge, da anni, da nove anni, signori.

— È legge, — chiese il signor Calvin, con aria incredula, — che si
possa essere trascinati a forza nella milizia... e fucilati da un
Consiglio di guerra improvvisato, se ci rifiutiamo di marciare?

— Precisamente, — rispose Ernesto.

— Come mai allora non abbiamo mai sentito parlare di questa legge? —
chiese mio padre; e capii benissimo che anche a lui la cosa riusciva
nuova.

— Per due motivi, — disse Ernesto. — Primo, perchè non si è mai
presentata l’occasione di applicarla: se fosse stato necessario, ne
avreste già sentito parlare. Secondo, perchè questa legge è stata
approvata frettolosamente dal Congresso e in segreto dal Senato: per
modo di dire, cioè, senza discussione. Naturalmente i giornali non
ne hanno fatto mai cenno. Noi socialisti lo sapevamo e l’abbiamo
pubblicato nei nostri giornali. Ma voi non leggete mai i nostri
giornali.

— Ed io sostengo che sognate, — disse il signor Calvin, con
ostinazione. — Il Paese non avrebbe mai permesso una cosa simile.

— Eppure, il Paese l’ha permessa di fatto, — replicò Ernesto. — E
quanto al sognare, ditemi se di questa stoffa sono fatti i sogni.

E, tratto di tasca un opuscolo, l’aprì e si mise a leggere:

«Sezione I., ecc., ecc.: È decretato, ecc., ecc., che la milizia si
compone di tutti i cittadini validi, di età superiore ai diciotto anni
e inferiore ai quarantacinque, abitanti i diversi Stati o territorî,
come il distretto di Columbia...

«Sezione VII. Che ogni ufficiale o uomo arruolato nella milizia —
ricordate, signori, che secondo la Sezione I, siete tutti arruolati
— che rifiuterà o non si presenterà all’Ufficiale di reclutamento,
dopo essere stato chiamato com’è prescritto qui contro, sarà tradotto
davanti a un Consiglio di guerra e passibile di pene pronunciate dal
detto Consiglio...

«Sezione IX. ... che la milizia, quando sarà convocata in servizio
attivo, per gli Stati Uniti, sarà soggetta agli stessi regolamenti e
articoli di guerra delle truppe regolari degli Stati Uniti».

— Ecco a che punto siamo, signori, cari concittadini americani e
compagni di milizia. Nove anni or sono, noi socialisti pensavamo che
questa legge fosse rivolta contro i lavoratori, ma sembra che sia
rivolta anche contro voialtri.

«Il congressista Wiley, nella breve discussione, quale fu permessa,
dichiarò che il disegno di legge «procurava una forza di riserva per
prendere la plebe alla gola». La plebe siete voi, signori, «e per
proteggere ad ogni costo la vita, la proprietà, la libertà». E in
avvenire, quando vi solleverete con tutta la vostra forza, ricordate
che vi rivolterete contro la proprietà dei _trust_ e contro la
libertà legalmente accordata ai _trusts_, _di sfruttarvi_. Signori,
vi hanno strappato i denti, vi hanno tagliato le unghie. Il giorno
in cui insorgerete, armati solo della forza della vostra virilità, ma
sprovvisti di unghie e denti, sarete inoffensivi come una legione di
molluschi.

— Non credo una sola parola di questo. — esclamò il signor Kowalt.
— Una simile legge non esiste. È una storia inventata da voialtri
socialisti.

— Il disegno di legge è stato presentato alla Camera il 30 luglio
del 1902 dal rappresentante dell’Ohio. È stato discusso rapidamente
e approvato dal Senato il 14 gennaio del 1903. E proprio sette giorni
dopo, la legge è stata approvata dal Presidente degli Stati Uniti[57].



CAPITOLO IX.

LA MATEMATICA DI UN SOGNO.


Fra la costernazione provocata dalla sua rivelazione, Ernesto riprese
la parola:

— Una dozzina di voi, questa sera, ha proclamato impossibile il
socialismo. Poichè avete dichiarato ciò che è inattuabile, permettetemi
ora di dimostrarvi ciò che è inevitabile: ossia, la scomparsa non
solo di voi piccoli capitalisti, ma anche di grossi capitalisti e
perfino dei _trusts_, a un certo momento. Ricordate che il progresso
dell’evoluzione non permette ritorni al passato. Senza riflusso, essa
procede dalla rivalità all’associazione, dalla piccola cooperazione
alla grande, dalle vaste combinazioni alle organizzazioni colossali,
sino al socialismo che è la più gigantesca di tutte le organizzazioni.

«Voi mi dite che sogno. Benissimo! Vi esporrò i dati matematici del
mio sogno. Anzi, vi sfido in anticipo a dimostrare la falsità dei miei
calcoli. Voglio esporre davanti a voi il carattere fatale del crollo
del sistema capitalistico, e dedurre, matematicamente, la causa della
sua fatale decadenza. Coraggio, e abbiate pazienza se il punto di
partenza è un po’ lontano dall’argomento.

«Esaminiamo, dapprima, i procedimenti di un’industria privata, e non
esitate ad interrompermi se dico cosa che voi non potete ammettere.
Prendiamo, ad esempio, una fabbrica di scarpe. Questa fabbrica compera
il cuoio e lo trasforma in scarpe. Ecco del cuoio per cento dollari,
che passa in fabbrica e ne esce in forma di scarpe, per un valore
di cento dollari, supponiamo. Che cos’è avvenuto? È stato aggiunto
al valore del cuoio un altro valore di cento dollari. Come mai? Il
capitale e il lavoro hanno aumentato il valore iniziale.

«Il capitale ha procurato la fabbrica, la macchina e ha pagato le
spese. La mano d’opera ha dato il lavoro, lo sforzo combinato del
capitale e del lavoro ha incorporato un valore di cento dollari al
valore della merce. Siamo d’accordo?

Le teste si curvarono, affermativamente.

— Il lavoro e il capitale, avendo prodotto cento dollari, si danno da
fare per la ripartizione della somma. Le statistiche che trattano delle
divisioni di questo genere, segnano sempre numerose frazioni: ma ora
noi, per maggiore comodità, ci accontenteremo di un’approssimazione
poco rigorosa, ammettendo che il capitale prenda per sè cinquanta
dollari e che il lavoro riceva, come salario, una somma uguale. Non
litigheremo per questa divisione[58], qualunque siano i contratti, si
finisce sempre col mettersi d’accordo, a un tasso o a un altro. E non
dimenticate che ciò che io dico per un’industria, si applica a tutte.
Mi seguite?

I convitati approvarono.

— Ora supponiamo che il lavoro, avendo ricevuto la sua quota di
cinquanta dollari, voglia ricomperare delle scarpe. Potrà comperarne
solo per cinquanta dollari, non è vero?

«Passiamo ora da questa operazione particolare a tutte le operazioni
che si compiono negli Stati Uniti, non soltanto col cuoio, ma con tutte
le materie grezze, coi trasporti, e col commercio in generale. Diciamo,
in cifra tonda, che la produzione annuale della ricchezza, negli Stati
Uniti, è di quattro miliardi di dollari. Il lavoro riceve dunque,
come salario, una somma di due miliardi l’anno. Dei quattro miliardi
prodotti, il lavoro può riscattarne due. Non c’è nessuna discussione
in proposito, ne sono sicuro: la mia valutazione è molto larga. A causa
di ingerenze capitalistiche d’ogni sorta, il lavoro non ottiene la metà
del prodotto totale.

«Ma sorvoliamo su ciò, ed ammettiamo che il lavoro ottenga i due
miliardi. È evidente, allora, che il lavoro può consumare solo due
miliardi, mentre bisogna render conto degli altri due miliardi che il
lavoro non può nè riscattare nè consumare.

— Il lavoro non consuma neppure i suoi due miliardi, — dichiarò il
signor Kowalt. — Se li spendesse, non avrebbe depositi nelle Casse di
risparmio.

— I depositi nelle Casse di risparmio, sono una specie di fondo di
riserva, che può essere speso in fretta, come in fretta è stato
accumulato. Sono le economie messe da parte per la vecchiaia, le
malattie, gli accidenti e le spese dei funerali. Sono il boccon di
pane conservato nella madia, per il domani. No, il lavoro assorbe la
totalità del prodotto che può riscattare con i suoi guadagni.

«Due miliardi sono lasciati al capitale. Dopo aver pagato le spese,
consuma il resto? Il capitale divora i suoi due miliardi?

Ernesto si interruppe e rivolse apertamente la domanda a parecchi, che
alzarono la testa.

— Non ne so niente, — disse francamente uno di essi.

— Ma sì, voi lo sapete, — rispose Ernesto. — Riflettete un istante.
Se il capitale consumasse la sua parte, la somma totale del capitale
non potrebbe aumentare: resterebbe costante. Esaminate invece la
storia economica degli Stati Uniti, e vedrete che il capitale aumenta
continuamente. Dunque, il capitale non divora la sua parte.

«Ricordatevi dell’epoca in cui l’Inghilterra possedeva molte delle
nostre azioni delle ferrovie. Con l’andar degli anni le abbiamo
riscattate. Che cosa si deve concludere, se non che la parte del
capitale impiegato ha permesso questo? Oggi i capitalisti degli Stati
Uniti possiedono centinaia e centinaia di milioni di dollari di azioni
messicane, russe, italiane e greche: che cosa sono esse se non un
po’ di quella parte che i capitalisti non hanno consumato? Fin dalle
origini del sistema capitalistico, il capitale non ha mai consumato
tutta la sua parte.

«E ora siamo al punto: quattro miliardi di ricchezza vengono prodotti
annualmente negli Stati Uniti. Il lavoro ne riscatta e ne consuma due
miliardi; resta perciò una forte eccedenza che non viene distrutta. Che
cosa si può fare? Il lavoro non può sottrarne perchè ha già consumato i
suoi guadagni. Il capitale non se ne serve, perchè già, secondo la sua
natura, ha assorbito tutto quanto poteva. E l’eccedenza resta. Che cosa
se ne può fare? Che cosa se ne fa?

— Si vende all’estero, — dichiarò spontaneamente il signor Kowalt.

— Precisamente, — assentì Ernesto. — Da questo soprappiù nasce il
nostro bisogno d’uno sbocco esteriore. Si vende all’estero; si è
obbligati a venderlo all’estero; non c’è altro mezzo per impiegarlo. E
quest’eccedenza venduta all’estero costituisce ciò che noi chiamiamo:
la bilancia commerciale in nostro favore. Siamo intesi su ciò?

— Certamente, perdiamo il tempo trattando di questo A. B. C. del
commercio, — disse il signor Calvin, con dispetto. — Lo sappiamo tutti
a memoria.

— Se ho posto tanta cura nell’esporvi queste norme elementari, è perchè
mi servono per confondervi. — replicò Ernesto. — È questa la parte
piccante della cosa. E vi confonderò completamente.

«Gli Stati Uniti sono un paese capitalistico che ha sviluppato le sue
risorse. In virtù del suo sistema industriale, possiede un ramo di
produzione superflua di cui deve sbarazzarsi all’estero[59].

«Ciò che è vero per gli Stati Uniti, lo è pure per tutti i paesi
capitalistici le cui risorse sono sviluppate. Ognuno di questi paesi
dispone di un superfluo ancora intatto. Non dimenticate che hanno
già trafficato gli uni con gli altri e che, ciò nonostante, c’è un
superfluo disponibile. In tutti questi paesi il lavoro ha speso i
suoi guadagni e non può più comperare nulla; in tutti, il capitale ha
consumato solo ciò che gli permette la sua natura. E il rimanente è
un peso morto, perchè non possono scambiarselo fra loro. Come se ne
libereranno?

— Vendendolo ai paesi le cui risorse non sono sviluppate, — suggerì il
signor Kowalt.

— Perfettamente. Vedete dunque che il mio ragionamento è così chiaro e
così semplice, che si svolge naturalmente nelle vostre menti. Facciamo
ora un passo avanti. Supponiamo che gli Stati Uniti impieghino la loro
produzione superflua in un paese le cui risorse non siano sviluppate;
nel Brasile, per esempio. Ricordate che questo bilancio è fuori e sopra
il commercio, essendo gli articoli commerciali già consumati. Che cosa
potrà dunque dare il Brasile, in cambio, agli Stati Uniti?

— Dell’oro. — disse il signor Kowalt.

— Ma nel mondo c’è una quantità limitata di oro, — obiettò Ernesto.

— Dell’oro in forma di pegni, obbligazioni e simili, — rettificò il
signor Kowalt.

— Questa volta dite bene. Gli Stati Uniti riceveranno dal Brasile, in
cambio del loro capitale di risparmio, obbligazioni ed altre garanzie.
Che cosa vuol dire ciò, se non che gli Stati Uniti entreranno in
possesso di ferrovie, di officine, di miniere e di terreni del Brasile?
E che cosa ne risulterà?

Il signor Kowalt riflettè e scosse il capo.

— Ve lo dico subito. — continuò Ernesto. — Risulterà questo: che
le risorse del Brasile saranno sviluppate. Bene; facciamo ancora
un passo. Quando il Brasile, per impulso del sistema capitalistico,
avrà sviluppato le sue risorse, possiederà esso pure un risparmio di
ricchezza non consumata. Potrà sbarazzarsene negli Stati Uniti? No,
perchè questi hanno già della ricchezza esuberante. Gli Stati Uniti
alla loro volta potranno fare come prima, e dare i loro risparmi al
Brasile? No, perchè questo paese ha i suoi.

«Che cosa succederà? Ormai, Stati Uniti e Brasile devono cercare
tutti e due i loro sbocchi in paesi le cui risorse non siano ancora
sfruttate. Ma impiegando i loro risparmî in nuove regioni, queste
accresceranno le loro risorse, perciò non tarderanno a possedere alla
loro volta dei risparmi, e cercheranno altri paesi per impiegarli.
Ora, state bene attenti, signori, il nostro pianeta non è così grande,
e c’è un numero limitato di paesi sulla terra. Quando tutti i paesi
del mondo, fino all’ultimo, avranno della ricchezza risparmiata da
impiegare e troveranno gli altri paesi nelle stesse condizioni, che
cosa accadrà?

Fece una pausa e osservò i suoi uditori. La loro aria imbarazzata era
divertente. Ma c’era anche una profonda inquietudine sui loro volti.
Fra tante astrazioni, Ernesto aveva evocato una visione chiara. Infatti
tutti, in quel momento, la vedevano distintamente e ne avevano paura.

— Abbiamo cominciato coll’A.B.C., signor Calvin, — disse maliziosamente
Ernesto, — ma ora vi ho detto il resto dell’alfabeto. È semplicissimo:
perciò è bello. Certamente, voi avete pronta una risposta. Ebbene, che
cosa accadrà quando tutti i paesi del mondo avranno della ricchezza
superflua non consumata? Dove andrà a finire allora il vostro sistema
capitalistico?

Il signor Calvin scuoteva il capo, preoccupato. Evidentemente, cercava
un errore di ragionamento in ciò che Ernesto aveva detto prima.

— Rifacciamo insieme il cammino già fatto. — riassunse Ernesto. —
Abbiamo cominciato supponendo un’operazione industriale qualunque,
quella di una fabbrica di calzature; ed abbiamo stabilito che la
divisione del prodotto ottenuto dalla collaborazione fra capitale e
lavoro in detta fabbrica, è simile alla divisione che avviene in tutte
le operazioni industriali. Abbiamo visto che il lavoro può riscattare,
col suo salario, solo una parte del prodotto, e che il capitale non
consuma il resto. Abbiamo visto come dopo avere il lavoro consumato
tutto ciò che gli permettono i suoi guadagni, e il capitale ciò di cui
ha bisogno, rimane ancora un avanzo disponibile. Abbiamo riconosciuto
che si può disporre di questo avanzo solo impiegandolo all’estero.
Abbiamo convenuto che il trapasso di questa ricchezza in un paese nuovo
ha l’effetto di sviluppare le risorse di questo, dimodochè, in poco
tempo, quel paese finirebbe con l’avere, a sua volta, della ricchezza
esuberante. Abbiamo esteso questo procedimento a tutte le regioni
del nostro pianeta, fino a giungere alla conclusione che ogni paese,
di anno in anno, di giorno in giorno, si ingombra di una ricchezza
esuberante di cui non può sbarazzarsi. Ed ora torno a domandarvi: che
cosa ne faremo di questa ricchezza esuberante?

E anche questa volta nessuno rispose.

— Sentiamo, signor Calvin, — incitò Ernesto.

— Ciò oltrepassa i miei calcoli, — confessò l’interpellato.

— Non ho mai immaginato una cosa simile, — dichiarò il signor Asmunsen.
— Eppure è chiaro come un libro stampato.

Per la prima volta sentivo esporre la teoria di Carlo Marx sulla
valuta[60]: ed Ernesto l’aveva fatto così semplicemente, che io pure
rimanevo stupita, incapace di rispondere.

— Vi proporrò un mezzo per sbarazzarvi del capitale esuberante, —
disse Ernesto. — Gettatelo in mare. Gettatevi ogni anno le centinaia
di milioni di dollari che valgono le calzature, gli abiti, il grano, e
tutte le ricchezze commerciali. La faccenda sarebbe risolta?

— Lo sarebbe certamente, — rispose il signor Calvin, — ma è assurdo
parlare così.

Ernesto rispose con rapidità fulminea:

— Siete forse meno assurdo, voi, signor distruttore di macchine, quando
consigliate il ritorno ai procedimenti antidiluviani dei vostri nonni?
Che cosa ci proponete per liberarci del danaro che avanza? schivare il
problema, cessare di produrre, ritornare cioè a un metodo di produzione
così primitivo e impreciso, così disordinato e irragionevole, che
diventerebbe impossibile ottenere la minima eccedenza.

Il signor Calvin inghiottì la saliva: il colpo era riuscito. Egli
deglutì, poi tossì per rischiararsi la voce.

— Avete ragione, — disse. — Sono convinto. È assurdo. Ma bisogna bene
che facciamo qualche cosa; è questione di vita o di morte, per noi
della classe media. Noi non vogliamo perire. Preferiamo essere illogici
e ritornare ai metodi dei nostri padri, sieno pure dispendiosi e
grossolani. Ricondurremo l’industria allo stato anteriore ai _trusts_.
Romperemo le macchine. Che cosa potrete fare voi allora?

— Ma voi non potete distruggere le macchine. — replicò Ernesto. —
Non potete far regredire ciò che è evoluzione. Due grandi forze si
oppongono a voi, e una di queste è più potente della classe media. I
grandi capitalisti, coloro che fanno parte dei _trusts_, in una parola,
non vi lasceranno battere in ritirata. Essi non vogliono la distruzione
delle macchine. E più potente del _trust_, è la forza del lavoro. Esso
non vi permetterà mai di distruggere le macchine. La proprietà del
mondo, comprese le macchine, giace su un campo di battaglia, fra due
linee nemiche, quella dei _trusts_ e quella del lavoro. Nessuno dei due
avversarî vuole la distruzione delle macchine, ma ciascuno ne vuole
il possesso. In questa lotta non c’è posto per la classe media, vero
pigmeo fra due titani.

«Non sentite, povera classe media, che siete presa fra due macine
che hanno già cominciato a girare? Vi ho dimostrato matematicamente
l’inevitabile rottura del sistema capitalistico. Quando ogni paese
si troverà in possesso di ricchezza esuberante inconsumabile e
invendibile, l’impalcatura plutocratica cederà sotto l’enorme peso
dei beneficî che s’è creata. Ma quel giorno non ci saranno macchine
distrutte: il loro possesso sarà la posta del combattimento. Se il
lavoro sarà vincitore, il cammino vi sarà facile.

«Gli Stati Uniti e tutto il mondo entreranno in un’êra nuova e
prodigiosa. Le macchine, anzichè opprimere la vita, la renderanno
più bella, più felice e più nobile. Essendo membri della classe
media abolita, d’accordo con la classe dei lavoratori, (la sola che
sussisterà) voi parteciperete dell’equa ripartizione dei prodotti di
quelle macchine meravigliose. E noi, noi tutti, ne costruiremo di più
meravigliose ancora. E non ci sarà più ricchezza non consumata, perchè
non esisteranno più profitti.

— Ma se la battaglia per il possesso delle macchine fosse vinta dai
_trusts_? — domandò il signor Kowalt.

— In questo caso. — rispose Ernesto, — voi e il lavoro, e noi tutti,
saremmo schiacciati sotto il tallone di ferro di un dispotismo
implacabile e terribile come ogni dispotismo di cui è macchiata la
storia umana. Il Tallone di Ferro![61] ecco la denominazione propria di
questa tirannìa.

— Ma il vostro socialismo è un sogno, — disse, infine, il signor
Calvin, e ripetè: — un sogno!

— Allora vi dimostrerò qualche cosa che non è un sogno. — rispose
Ernesto. — Qualche cosa che io chiamerò oligarchìa e voi chiamate
plutocrazia, ma che tutti intendiamo ch’essa comprende i grandi
capitalisti ed i _trusts_. Esaminiamo chi detiene il potere oggi.

«Ci sono tre classi sociali: la prima di tutte è la plutocratica,
composta dai ricchi banchieri, dai magnati delle ferrovie, dai
direttori delle grandi società e dai re dei _trusts_; la seconda,
la classe media, la vostra, signori, che comprende i grandi
professionisti. Infine, la terza ed ultima, la mia classe, il
proletariato, formata dai lavoratori salariati[62].

«Non potete negare che il possesso della ricchezza forma attualmente
l’essenza del potere negli Stati Uniti. In quale proporzione, però,
questa ricchezza è posseduta dalle tre classi? Ecco le cifre: la
plutocrazia è proprietaria di sessantasette miliardi. Sul numero totale
delle persone che esercitano una professione negli Stati Uniti, solo il
0.9% appartiene alla plutocrazia; eppure la plutocrazia possiede il 70%
della ricchezza totale. La classe media ha ventiquattro miliardi; il
29% di persone che esercitano una professione appartengono alla classe
media, e godono il 25% della ricchezza totale. Resta il proletariato.
Esso dispone di quattro miliardi. Di tutte le persone che esercitano
una professione, il 70% appartiene al proletariato, ed il proletariato
possiede il 4% della ricchezza totale. Da qual parte è il potere,
signori?

— Stando alle vostre cifre, noi, della classe media, siamo più potenti
dei lavoratori, — osservò il signor Asmunsen.

— Ma ricordandoci la nostra debolezza voi non migliorate punto la
vostra condizione rispetto alla forza della plutocrazia, — rispose
Ernesto. — D’altronde, non ho finito. C’è una forza superiore alla
ricchezza, superiore nel senso che non può esserci strappata. La
nostra forza, la forza del proletariato, sta nei nostri muscoli che
lavorano, nelle nostre mani che votano, nelle nostre dita che possono
fare scattare un grilletto. È la forza primitiva alleata della vita,
superiore alla ricchezza, e che la ricchezza non può dominare.

«Ma la vostra forza invece è caduca: vi può essere tolta. In questo
stesso momento, la plutocrazia sta per togliervela, e finirà per
strapparvela tutta. E allora cesserete d’essere la classe media,
verrete a noi, diventerete proletarii. E, ciò che più importa,
aggiungerete forza alla nostra forza. Vi accoglieremo come fratelli e
combatteremo a gomito a gomito, per la causa dell’umanità.

«Il lavoro non ha niente di concreto da prendere: la sua parte di
ricchezza nazionale consiste in abiti, mobili, e, in casi rarissimi e
sporadici, in una casa libera da ipoteche. Ma voi avete della ricchezza
concreta, ne avete per ventiquattro miliardi, e la plutocrazia ve li
prenderà. Naturalmente, è più verosimile che sia il proletariato che
ve li prenda prima. Non vedete la vostra posizione, signori? La vostra
classe media è la pecorella tremante, fra il leone e la tigre. Se non
sarete dell’uno, sarete dell’altro. E se la plutocrazia vi avrà prima,
il proletariato avrà in seguito la plutocrazia: è soltanto questione di
tempo.

«Ed anche la vostra ricchezza attuale non dà la misura della vostra
potenza. Ora come ora, la forza della vostra ricchezza è una conchiglia
vuota. Perciò emettete il vostro lamentoso grido di guerra: «Ritorniamo
ai metodi dei nostri padri». Sentite la vostra impotenza, ed il vuoto
della vostra conchiglia. Vi farò vedere tale vacuità:

«Qual’è il potere dei fittavoli? Più del 50 per cento sono in servaggio
perchè semplici livellarii o perchè oppressi da ipoteche; e tutti
sono sotto tutela per il fatto che i _trusts_ possiedono o governano
(che è poi la stessa cosa) tutti i mezzi per immettere i prodotti
nel mercato, come apparecchi frigoriferi, ascensori, ferrovie e linee
di navigazione. Inoltre, i _trusts_ governano i mercati. Del potere
politico e governativo dei fittavoli, mi occuperò parlando di quello
della classe media. Di giorno in giorno, i _trusts_ schiacciano i
fittavoli come hanno strozzato il signor Calvin e tutti i lattai; e
di giorno in giorno i venditori sono schiacciati nello stesso modo.
Ricordate come, in sei mesi, i _trusts_ del tabacco sieno riusciti
a distruggere più di quattrocento spacci di sigari, nella sola Nuova
York? Dove sono gli antichi padroni delle miniere del carbon fossile?
Sapete certo, senza che io debba ripeterlo, che oggi il _trust_ delle
ferrovie possiede e dispone di tutti i terreni minerarii di antracite e
di bitume.

«Lo «Standard Oil Trust» non possiede forse una ventina di linee
marittime? Non dispone pure del rame? senza parlare del _trust_ degli
alti forni che ha organizzato, come un’impresa secondaria?

«Vi sono diecimila città negli Stati Uniti, illuminate, questa sera,
dalle società dipendenti dalla _Standard Oil_, e altrettante dove i
trasporti elettrici, urbani e suburbani, o interurbani, sono nelle sue
mani. I piccoli capitalisti, una volta cointeressati in queste migliaia
di imprese, sono spariti. Lo sapete. Voi vi avviate per la stessa
strada.

«Lo stesso avviene ai fabbricanti; tutto considerato, gli uni e gli
altri, sono oggi ridotti a un vassallaggio feudale. E si può dire lo
stesso dei professionisti e degli artisti che oggi, salvo il nome, sono
dei plebei, mentre i politicanti sono dei servi.

«Perchè mai, signor Calvin, passate i giorni e le notti a organizzare
i fittavoli, come il resto della classe media, in un nuovo partito
politico? Perchè i politicanti dei vecchi partiti non vogliono, perchè
sono, come ho detto, i servitori, i _lacchés_ della plutocrazia.

«Ho pure detto come professionisti e artisti sieno plebe, nel
regime attuale. E che altro sono? Dal primo all’ultimo, professori,
predicatori, editori, disimpegnano le loro mansioni servendo la
plutocrazia, il loro ufficio consiste nel propagare solo idee
inoffensive o laudative per i ricchi. Tutte le volte che tentano di
propagare idee minacciose per questi, perdono il posto; in questo caso,
se non hanno messo da parte nulla per i tempi grami, discendono verso
il proletariato, e vegetano nella miseria o diventano i mestatori del
popolo. E non dimenticate che la stampa, il pulpito e l’università,
modellano l’opinione pubblica, dànno il tono alla marcia mentale della
nazione. Quanto agli artisti, fanno semplicemente da mezzani ai gusti
più o meno ignobili della plutocrazia.

«Ma, in sostanza, la ricchezza non costituisce un vero potere da sola;
è un mezzo per ottenere il potere, che è governativo per essenza.
Chi detiene oggi il governo? forse il proletariato con i suoi venti
milioni di persone impiegate in occupazioni varie? Voi stessi ridete,
a quest’idea. Forse la classe media, con i suoi otto milioni di membri
che esercitano professioni varie? Neppure. Chi dunque detiene il potere
del governo? La plutocrazia, con appena un quarto di milione di persone
occupate. Eppure non è questo quarto di milioni di uomini che lo
detiene realmente, quantunque faccia da guardia volontaria. Il cervello
della plutocrazia che guida il governo si compone di sette piccoli e
possenti gruppi. E non dimenticate che, oggi, questi gruppi agiscono
quasi all’unisono[63].

Permettetemi di abbozzarvi la potenza di un solo di questi gruppi,
quello delle Ferrovie. Ha quarantamila avvocati, per rigettare le
istanze del pubblico, davanti ai tribunali: distribuisce innumerevoli
fogli di viaggi circolari gratuiti ai giudici, ai banchieri, ai
direttori di giornali, ai pastori, ai membri delle Università, delle
legislature di Stato e del Congresso. Mantiene ricchissimi e lussuosi
focolai di intrigo, le _lobbies_[64] nel capoluogo di ogni Stato e
nella capitale, e in tutte le grandi e piccole città del paese: adopera
un immenso esercito di azzeccagarbugli e di politicanti, che hanno
il compito di partecipare ai comitati elettorali e alle assemblee di
partito, di circuire i giurati, di subornare i giudici, e di adoperarsi
con tutte le loro forze a favore degl’interessi del gruppo[65].

«Signori, ho solo accennato alla potenza di uno dei sette gruppi che
costituiscono il cervello della plutocrazia[66]. I vostri ventiquattro
miliardi di ricchezza non vi dànno il 25% di potere governativo. Sono
una conchiglia vuota, e presto anche questa conchiglia vi sarà tolta.
Oggi la plutocrazia ha tutto il potere nelle sue mani. È lei che crea
le leggi perchè dispone del Senato, del Congresso, dei corsi, e del
potere legislativo in ogni Stato.

«E non basta. Occorre, oltre la legge, una forza che la renda
esecutiva. E oggi la plutocrazia, fatte le leggi, ha a sua disposizione
la polizia, l’esercito, la marina, e infine la milizia, ossia voi, io e
noi tutti.

La discussione non continuò, dopo di ciò: i convitati si alzarono
subito da tavola. Calmati e domati, abbassavano la voce congedandosi.
Si sarebbero detti ancora spaventati dalla visione dell’avvenire, che
avevano contemplato.

— La situazione è seria, — disse il signor Calvin ad Ernesto. —
Non trovo nulla da ridire sul modo come l’avete esposta. Dissento
solo da voi su quanto riguarda la condanna della classe media. Noi
sopravvivremo, e distruggeremo i _trusts_.

— E ritornerete ai metodi dei vostri padri, — concluse Ernesto.

— Giustissimo! So bene che, in certo modo, siamo dei distruttori di
macchine, e che questo è un assurdo. Ma tutta la vita è illogica, al
giorno d’oggi, a causa degli intrighi della plutocrazia. Comunque, il
nostro modo di distruggere le macchine, è almeno pratico e possibile,
mentre il vostro sogno non lo è. Il vostro sogno socialista non è che
un sogno. Noi non possiamo ammetterlo.

— Vorrei poter dare, a voi ed ai vostri, alcune nozioni circa la
teoria dell’evoluzione sociale, — rispose Ernesto, con aria pensosa,
stringendogli la mano.

— Sarebbero evitate molte difficoltà.



CAPITOLO X.

IL VORTICE.


Dopo quel pranzo di uomini di affari, avvenimenti terribilmente
importanti si successero come lampi; e la mia piccola vita, trascorsa
sempre nella calma della nostra Città Universitaria, fu trascinata,
come tutte le mie avventure personali, nel vasto vortice delle
avventure mondiali. Fu il mio amore per Ernesto a far di me una
rivoluzionaria, o il chiaro punto di vista sotto il quale egli mi aveva
fatto considerare la società nella quale vivevo? Non so bene; so che
divenni rivoluzionaria e mi trovai coinvolta in un caos di incidenti
che mi sarebbero sembrati impossibili tre mesi prima.

I turbamenti del mio destino coincisero con grandi crisi sociali. Prima
di tutto, mio padre fu congedato dall’Università. Oh! non fu congedato,
nel senso vero della parola: gli chiesero di dare le sue dimissioni,
ecco tutto. La cosa in se stessa non aveva grande importanza. Per
vero dire, mio padre ne fu entusiasta. Il suo congedo, affrettato
dalla pubblicazione del suo libro: «Economia ed Educazione», non
faceva che rafforzare la sua tesi. Si poteva forse fornire una miglior
prova di fatto, che l’istruzione pubblica era dominata dalla classe
capitalistica?

Ma questa conferma non vide mai la luce: nessuno seppe che era
stato obbligato a ritirarsi dall’Università. Egli era uno scienziato
così eminente, che una simile notizia, pubblicata col motivo delle
dimissioni forzate, avrebbe fatto rumore nel mondo intero. I giornali
gli furono prodighi di onori, congratulandosi con lui pel fatto che
aveva rinunciato alla fatica delle lezioni per consacrare il tempo alle
ricerche scientifiche.

Il babbo dapprima rise, poi si indignò secondo la sua _dose tonica_ di
arrabbiatura! Poi venne la soppressione del suo libro; soppressione
in forma così clandestina, che sulle prime non ci capimmo niente. La
pubblicazione dell’opera aveva subito causato un po’ di emozione nel
Paese; papà era stato gentilmente malmenato dalla stampa capitalistica;
in generale si esprimeva il dispiacere che un così grande scienziato
avesse abbandonato il terreno delle sue ricerche per avventurarsi in
quello della sociologìa, che gli era affatto sconosciuto, e dove non
aveva tardato a smarrirsi.

Questo durò una settimana, durante la quale il papà scherzava
dicendo che aveva toccato un punto delicato del capitalismo. Poi,
improvvisamente, i giornali e le riviste di critica non parlarono
più del volume; e in modo non meno improvviso, il libro sparì dalla
circolazione. Impossibile trovarne il minimo esemplare presso tutti i
librai. Il babbo scrisse agli editori e gli fu risposto che le lastre
erano state incidentalmente rovinate. Ne seguì una corrispondenza
confusa. Messi con le spalle al muro, gli editori finirono col
dichiarare che non vedevano la possibilità di ristampare l’opera, ma
che erano dispostissimi a cedere ogni diritto su di essa.

— In nessun paese troverete un’altra casa editrice che acconsenta a
pubblicare il vostro libro, — disse Ernesto. — Se fossi in voi, mi
metterei subito al sicuro. Perchè questo è solo un saggio di quanto vi
riserba il Tallone di Ferro.

Ma mio padre era prima di tutto uno scienziato, e non si credeva
autorizzato ad arrivare subito alla conclusione. Per lui un’esperienza
di laboratorio non meritava quel nome finchè non era stata seguita fin
nei minimi particolari. Così intraprese pazientemente un giro presso
tutti gli editori. Essi gli esposero una quantità di pretesti, ma
nessuno volle incaricarsi del libro.

Quando fu ben convinto che la sua opera era stata soppressa, tentò
d’informarne il pubblico, ma i suoi comunicati alla stampa non
ricevettero risposta alcuna. A una riunione politica socialista alla
quale assistevano numerosi corrispondenti, credette di aver trovato il
momento buono per rompere il silenzio. Si alzò e raccontò la storia di
questo sopruso. Leggendo i giornali del giorno dopo, prima ne rise, ma
poi si infuriò terribilmente, oltre ogni dose tonica. Nessuno parlava
del suo libro, ma travisavano la sua condotta in modo piacevole.
Avevano trasformato le sue parole e le sue frasi, trasformato le sue
sobrie e misurate osservazioni in un discorso di anarchico sbraitante.
Tutto ciò era fatto con molta abilità. Ricordo specialmente un esempio:
Il babbo aveva adoperato il termine «rivoluzione sociale», e il
corrispondente aveva semplicemente omesso l’aggettivo qualificativo.
La campagna contraria fu condotta in tutto il paese, per mezzo di
informazioni dell’Associazione della Stampa, e da ogni parte si
elevarono alte grida di protesta. Mio padre fu considerato come un
anarchico, un nichilista. Fu largamente distribuita una caricatura
che lo rappresentò con in pugno una bandiera rossa, alla testa di una
torma irsuta e selvaggia, armata di torce, di coltelli e di bombe di
dinamite.

La sua supposta anarchia fu assalita dalla Stampa con una terribile
campagna, fatta mediante lunghi articoli di fondo, seminati di insulti
ed allusioni alla sua decadenza mentale.

Ernesto ci disse che questa tattica della Stampa capitalistica non era
cosa nuova, poichè era abitudine di essa mandare i suoi corrispondenti
a tutte le riunioni socialiste, con l’ordine di alterare e svisare ciò
che veniva detto, per spaventare la classe media e distoglierla da ogni
idea di una possibile unione col proletariato. Ernesto insistette molto
perchè il babbo abbandonasse la lotta e si mettesse al riparo.

La stampa socialista, pertanto, raccolse il guanto, e tutto il
partito della gente operaia che legge i giornali seppe che il libro
era stato soppresso; ma quest’informazione non oltrepassò la cerchia
dei lavoratori. In seguito, una grande casa editrice socialista, «Il
Richiamo alla Ragione», si accordò con mio padre, per pubblicare il suo
libro. Il babbo ne fu entusiasta, ma Ernesto, invece, si turbò.

— Vi dico che siamo alle porte dell’ignoto. Avvengono attorno a noi
cose enormi e segrete. Noi le sentiamo, infatti; non ne conosciamo la
loro natura, ma in loro presenza è certa. Tutta la compagine sociale
ne freme. Non chiedetemi di che cosa si tratti veramente perchè non
ne so niente. Ma in questo movimento, c’è una realtà concreta che sta
prendendo forma, sta cristallizzandosi. La soppressione del vostro
libro ne è una prova. Quanti altri sono stati soppressi? Lo ignoriamo
e non potremo mai saperlo; siamo nel buio. Voi potete aspettarvi la
soppressione della stampa e delle case editrici socialiste. Temo anzi
che sia imminente. Stiamo per essere soffocati.

Ernesto, meglio degli altri, sentiva il corso degli avvenimenti,
perchè, meno di due giorni dopo, fu scatenato il primo assalto. «Il
Richiamo alla Ragione» era un settimanale diffuso fra il proletariato,
e aveva una tiratura di settecento cinquantamila copie; inoltre,
pubblicava spesso delle edizioni speciali, da due a cinque milioni
di esemplari, pagati e distribuiti dal piccolo esercito volontario
dei lavoratori raggruppati attorno al «Richiamo». Il primo colpo fu
diretto contro queste edizioni straordinarie, e fu un colpo di mazza.
L’Amministrazione delle Poste decise, con un regolamento arbitrario,
che quelle edizioni non facevano parte della solita circolazione del
giornale, e con questo pretesto rifiutò di riceverle nei suoi treni
postali.

Una settimana dopo, il Ministero delle Poste decretò che il giornale
stesso era sedizioso e lo escluse definitivamente dai suoi trasporti.
Era un terribile attacco alla propaganda socialista. «Il Richiamo» era
in una condizione disperata, e immaginò un disegno per pervenire ai
suoi abbonati, per mezzo delle società dei treni espressi, ma queste
rifiutarono il loro aiuto. Era il colpo di grazia, non il definitivo,
però.

«Il Richiamo» voleva continuare le sue imprese editoriali. Ventimila
esemplari del libro di papà erano in rilegatura, e altrettanti in
istampa. Una sera, senza che nulla lo facesse prevedere, una banda di
malfattori uscita non si sa da dove, agitando una bandiera americana e
cantando canzoni patriottiche, incendiò i vasti locali della tipografia
del «Richiamo», che furono totalmente distrutti.

È da osservare che la piccola città di Girard, nel Kansas, era una
località assolutamente tranquilla dove non erano mai accaduti disordini
di operai. Il «Richiamo» pagava i suoi impiegati secondo le tariffe
dei sindacati e, di fatto, costituiva l’ossatura della città, perchè
occupava centinaia di uomini e donne. La folla che aveva distrutto
la tipografia non era formata da abitanti di Girard. Gli autori della
sommossa sembravano usciti di sotterra, ed esservi rientrati dopo aver
compiuto le loro gesta.

— Ernesto vedeva la cosa sotto una cattivissima luce.

— Le Centurie Nere[67] si stanno organizzando negli Stati Uniti, —
diceva. — Questo è solo il principio. Vedremo di ben altro. Il Tallone
di Ferro prende ardimento.

Così fu distrutto il libro di papà. In seguito dovevamo sentir parlare
molto delle Centurie Nere. Di settimana in settimana, altri fogli
socialisti venivano privati dei mezzi di trasporto, e, in parecchi casi
accadde che le Centurie Nere distruggessero i macchinarî.

Naturalmente, i giornali del paese sostenevano la politica delle classi
dominanti, e la stampa assassinata fu calunniata e vilipesa, mentre
i componenti le Centurie Nere furono dipinti come i veri patrioti, i
salvatori della società. Quei falsi rapporti erano così convincenti,
che alcuni ministri del Culto fecero, dal pulpito, l’elogio delle
Centurie Nere, pur deplorando la necessità della violenza.

La Storia si scriveva rapidamente. Le elezioni di autunno si
avvicinavano, ed Ernesto fu designato dal partito socialista come
candidato al Congresso. Le sue probabilità di riuscita erano delle
migliori. Lo sciopero dei tranvai di San Francisco era fallito,
com’era fallito uno sciopero, dichiarato in conseguenza al primo,
dei carrettieri. Queste due sconfitte erano state disastrose per
l’organizzazione dei lavoratori.

La Federazione della Gente di Mare con i suoi alleati, gli operai dei
cantieri, aveva sostenuto i carrettieri, e tutto l’edifizio a fatica
eretto era crollato senza vantaggio e senza gloria. Lo sciopero fu
cruento. La polizia ferì a colpi di mazza moltissimi lavoratori, e la
lista dei morti s’accrebbe in seguito all’azione di una mitragliatrice.

Per conseguenza, gli uomini erano cupi, ebbri di sangue e di vendetta.
Battuti sul terreno scelto da essi stessi, erano pronti a dare una
risposta sul terreno politico. Mantenevano la loro organizzazione
sindacale; ciò che dava loro forza e coraggio per la lotta
ricominciata.

Le probabilità di Ernesto si facevano sempre più serie. Di giorno in
giorno, nuove Unioni decidevano di sostenere i socialisti, ed egli
stesso non potè fare a meno di ridere quando seppe la entrata in linea
degli Ausiliarî delle Pompe Funebri e degli Spennatori di Volatili.

I lavoratori diventavano cocciuti. Mentre si affollavano con vero
entusiasmo nelle riunioni socialiste, restavano insensibili alle
trovate dei politicanti del vecchio partito. Gli oratori del vecchio
partito si dimenavano di solito davanti alle sale vuote, ma ogni tanto
dovevano affrontare sale rigurgitanti di gente dove venivano a tal
punto malmenati che più di una volta era stato necessario l’intervento
delle forze della Polizia.

La Storia precipitava il corso degli eventi: l’aria vibrava di
avvenimenti attuali o imminenti. Il Paese entrava in un periodo di
crisi[68], dovuta a una serie di anni prosperosi, durante i quali era
diventato sempre più difficile collocare all’estero l’eccesso della
produzione. Le industrie lavoravano a orario ridotto; molte grandi
fabbriche non lavoravano neppure, aspettando lo smercio delle riserve,
e da ogni parte avvenivano riduzioni di salario.

Un altro grande sciopero falliva. Duecentomila meccanici, coi loro
cinquecentomila alleati metallurgici, erano stati vinti nella lotta più
sanguinosa che abbia sconvolto gli Stati Uniti.

In seguito a vere battaglie contro i nuclei di crumiri[69] armati
dall’associazione dei padroni, le Centurie Nere erano comparse
nelle località più distanti le une dalle altre, distruggendo grandi
proprietà; per conseguenza, erano stati mandati centomila uomini
dell’esercito regolare degli Stati Uniti per decidere la cosa con la
forza.

Un gran numero di capi operai furono giustiziati, molti altri
imprigionati, e migliaia di scioperanti rinchiusi nei parchi
bestiame[70] e trattati in modo esecrabile dalla soldatesca.

Si pagavano cari gli anni della passata prosperità. Tutti i mercati,
carichi di roba, cadevano nel crollo generale dei prezzi; quello del
lavoro cadeva prima degli altri.

Il paese era soggetto a una crisi industriale. Da una parte e
dall’altra gli operai scioperavano, e se non si mettevano in isciopero,
erano scacciati dagli stessi padroni. I giornali riferivano numerosi
fatti di violenza e di sangue. E in tutto questo c’entravano le
Centurie Nere. Sommosse, incendî, distruzioni a destra e a manca,
queste erano le loro funzioni che esse adempivano con serenità di
cuore. Tutto l’esercito era in moto, chiamato dalle violenze delle
Centurie Nere[71].

Tutte le città e i paesi, sembravano accampamenti militari; gli operai
erano fucilati come cani. I crumiri erano reclutati fra la massa dei
disoccupati, e quando avevano la peggio coi membri dei sindacati,
comparivano le truppe regolari sempre a tempo per difenderli e
schiacciare questi. Inoltre, c’era la milizia. Sin allora non era stato
necessario ricorrere alla legge segreta sulla milizia; solo la sua
parte regolarmente organizzata entrava in azione e operava ovunque. In
ultimo, in questo tempo di terrore, l’esercito regolare fu aumentato di
centomila uomini dal Governo.

Mai il mondo del lavoro aveva ricevuto una lezione così severa. Questa
volta i grandi capi industriali, gli oligarchi, avevano gettate tutte
le loro forze nella breccia aperta dalle associazioni dei padroni
battaglieri. Costoro appartenevano, in realtà, alla classe media.
Stimolati dalla durezza dei tempi, dal crollo dei mercati, e sostenuti
dai Capi dell’Alta Finanza, inflissero all’organizzazione del lavoro
una terribile e decisiva sconfitta. La lega era potentissima, ma era
una specie di alleanza del leone con l’agnello; e la classe media non
doveva tardare molto ad accorgersene.

La classe lavoratrice manifestava idee sanguinose di vendetta, ma era
annientata. Pure, la sua sconfitta non pose fine alla crisi. Le banche,
che erano da sole importanti forze dell’oligarchia, continuavano ad
accettare i risparmi dei lavoratori. Il gruppo di Wall Street[72]
trasformò la Borsa in un turbine dove tutti i valori del Paese scesero
quasi a zero.

E sui disastri e sulle rovine, s’inalzò la forza della nascente
oligarchia: imperturbabile, indifferente e sicura di sè. Questa
serenità e sicurezza erano terrificanti. Per ottener lo scopo, essa
non adoperava soltanto la sua potenza, ma quella del Tesoro degli Stati
Uniti.

I capi dell’industria si erano poi volti contro la classe intermedia.
Le associazioni dei padroni, che li avevano aiutati a lacerare
l’organizzazione del lavoro, erano alla loro volta lacerate dai
loro antichi alleati. In mezzo al crollo dei piccoli finanzieri ed
industriali, i _trusts_ resistevano magnificamente. Non solo erano
solidi, ma attivi. Seminavano vento, senza paura nè sosta, perchè
essi soli sapevano il modo di raccogliere tempesta e trarne profitto,
e quale profitto! quali immensi beneficî! Abbastanza forti per tener
testa all’uragano che avevano contribuito largamente a scatenare,
si scatenavano essi pure e saccheggiavano ciò che turbinava attorno
a loro. I valori erano pietosamente e incredibilmente abbassati e
i _trusts_ allargavano i loro possedimenti in proporzioni non meno
incredibili: le loro imprese comprendevano numerosi campi nuovi, e
sempre a spese della classe media.

Così, l’estate del 1912 vide l’assassinio virtuale della classe
intermedia.

Ernesto stesso fu stupito della rapidità con la quale fu dato ad essa
il colpo di grazia. Alzò la testa con aria di cattivo augurio e vide,
senza illusioni, le elezioni dell’autunno.

— È inutile, — diceva, — siamo sconfitti anticipatamente. Il Tallone
di Ferro è là. Avevo poste tutte le mie speranze in una vittoria
tranquilla, ottenuta mediante le urne. Ho avuto torto. Wickson aveva
ragione. Saremo spogliati delle poche libertà che ci rimangono. Il
Tallone di Ferro camminerà sui nostri volti; non c’è più nulla da
aspettarsi fuorchè da una rivoluzione sanguinosa della classe operaia.
Naturalmente avremo la vittoria, ma fremo al pensiero di quello che ci
costerà.

Da allora, Ernesto sperò nel vessillo della Rivoluzione. Su questo
punto, anzi, era più evoluto del suo partito. I suoi compagni
socialisti non riuscivano a seguirlo, e persistevano a credere che la
lotta avrebbe potuto essere vinta con le elezioni. Non che fossero
storditi dal colpo ricevuto; non mancavano nè di sangue freddo nè
di coraggio: erano increduli, ecco tutto. Ernesto non riusciva a
ispirare loro un vero timore dell’oligarchia; riusciva a commuoverli,
ma essi erano sempre troppo sicuri della loro forza. Non c’era posto
per l’oligarchia, nella loro teoria dell’evoluzione sociale; per
conseguenza, l’oligarchia non poteva esistere.

— Vi manderemo al Congresso, e tutto si appianerà, — gli dissero in una
delle nostre riunioni segrete.

— E quando mi avranno strappato dal Congresso, messo con le spalle
al muro e fatto saltar le cervella, — chiese freddamente, — che cosa
farete?

— Allora ci solleveremo con tutta la nostra forza, — risposero una
dozzina di voci, immediatamente.

— Allora guazzerete nel vostro stesso sangue, — fu la replica. —
Conosco quest’antifona; l’ho sentita cantare dalla classe media. E
dov’è ora la classe media, con tutta la sua forza?



CAPITOLO XI.

LA GRANDE AVVENTURA.


Il signor Wickson non aveva fatto nulla per vedere mio padre. Si
incontrarono per caso sul piroscafo che porta a San Francisco: così
che l’avvertimento che gli diede non fu premeditato. Se il caso non li
avesse fatti incontrare, non ci sarebbe stato avvertimento alcuno; ma
del resto, il risultato sarebbe stato uguale. Il babbo discendeva dal
vecchio e solido ceppo del Mayflower[73]; e buon sangue non mente.

— Ernesto aveva ragione — mi disse rincasando. — Ernesto è un giovane
straordinario, al punto che preferirei vederti sua moglie anzichè sposa
del Re d’Inghilterra, o dello stesso Rockefeller.

— Che è successo? — chiesi con ansia.

— L’Oligarchia ci schiaccia. Wickson me lo ha fatto chiaramente
capire. È stato molto gentile, quale oligarca. Mi ha offerto di
rientrare all’Università. Che ne dici, tu? Lui, Wickson, quel sordido
spilorcio, ha il potere di decidere se insegnerò o no nell’Università
di Stato? Ma mi ha offerto di meglio ancora: mi ha proposto di farmi
nominare Rettore d’un grande Istituto di scienze fisiche, che si sta
progettando. Bisogna pure che l’oligarchia si liberi dei suoi valori
esuberanti, in un modo o nell’altro, non è vero?

Ed ha soggiunto:

— Ricordate ciò che dissi a quel socialista innamorato di vostra
figlia? Gli ho detto che avremmo calpestato la classe operaia. Orbene,
lo faremo. Quanto a voi, sapete che vi ho, come scienziato, in gran
rispetto, ma se voi unite le vostre sorti con quelle del proletariato,
ebbene, state attento. Non posso dirvi altro. Poi, mi ha voltato le
spalle, e se n’è andato.

— Segno che dovremo sposarci prima del tempo fissato — tale fu il
commento di Ernesto, quando gli narrammo la cosa.

Non potei afferrare subito la logica di quel ragionamento, ma non
tardai a capirla. In quel tempo fu pagato il dividendo trimestrale
delle Filande della Sierra..., o cioè avrebbe dovuto essere pagato,
perchè mio padre non ricevette il suo.

Dopo parecchi giorni di attesa, egli scrisse al Segretariato, e ottenne
una risposta immediata nella quale gli si comunicava come nessuna
entrata nei libri della Società indicasse che papà possedeva dei fondi,
e si chiedeva, gentilmente, maggiori notizie.

— Darò delle spiegazioni esplicite, a quel villano là — dichiarò
il babbo avviandosi alla Banca per ritirare i suoi titoli dalla
cassaforte.

— Ernesto è un uomo eccezionale — disse al ritorno, mentre l’aiutavo a
togliersi il soprabito. — Lo ripeto, figlia mia; il tuo fidanzato è un
giovane eccezionale.

Sapevo, sentendolo parlare così, che dovevo prepararmi a qualche nuova
sventura.

— Mi hanno già calpestato. Non ci sono più i titoli, la mia cassaforte
è vuota. Dovete sposarvi al più presto.

Il babbo, sempre fedele al suo metodo scientifico, si querelò, e riuscì
a far comparire la Società davanti ai tribunali, ma non riuscì a farvi
comparire i libri dei suoi conti. _La Sierra_, non lui, dominava i
tribunali: questo spiegava tutto. Non solo fu rigettata la sua istanza,
ma la legge sanzionò quella spudorata spoliazione.

Poichè si tratta d’un avvenimento lontano, mi viene da ridere al
ricordo del modo con cui papà fu battuto. Avendo incontrato per
caso Wickson in una via di San Francisco, egli trattò costui da vile
birbante.

Per questo fatto fu arrestato per provocazione, condannato dal
tribunale di semplice polizia ad un’ammenda, e dovette promettere,
previa cauzione, di starsene quieto. Era una cosa così ridicola che
egli stesso non potè fare a meno di riderne. Ma che scandalo nella
stampa regionale! Vi si parlava con gravità del bacillo della violenza
che infestava tutti coloro che abbracciavano il socialismo, e papà,
nonostante la sua lunga vita pacifica, era citato come un esempio dello
sviluppo di quel microbo della violenza. Più di un giornale insinuava
che la mente di lui era indebolita per i troppi studî scientifici,
e lasciava capire che si sarebbe dovuto chiuderlo in una casa di
salute. E non erano parole vane: annunciavano un pericolo imminente.
Fortunatamente, il babbo fu abbastanza intelligente per accorgersene.
L’esperienza del vescovo Morehouse era stata una buona lezione, ed egli
l’aveva ben capita. Non si mosse sotto quel diluvio di ingiustizie: e
credo che la sua pazienza sorprendesse gli stessi nemici.

In seguito, fu la volta della nostra casa, la nostra vecchia
abitazione. Fecero apparire una grossa ipoteca, e dovemmo abbandonare
la nostra dimora. Naturalmente non c’era la minima ipoteca, e non
c’era mai stata: tutto il terreno di costruzione era stato comperato
e la casa pagata appena costruita, e casa e terreno erano sempre
stati liberi da ogni vincolo. Ciononostante, fu creata un’ipoteca
falsa, redatta e firmata regolarmente e legalmente, con le ricevute
degli interessi versati durante un certo numero di anni. Il babbo non
protestò. Come gli avevano rubato il danaro, gli rubavano ora la casa:
così che non era possibile far ricorso. Il meccanismo della Società
era nelle mani di coloro che avevano giurato di rovinare mio padre. Ma
siccome, in fondo, era un filosofo, il babbo, ormai, non s’indignava
più.

— Sono condannato ad essere schiacciato — mi diceva. — Ma non è questa
una buona ragione perchè io non cerchi di essere fracassato il meno
possibile. Le mie vecchie ossa sono fragili, e la lezione è stata per
me un buon insegnamento. Lo sa Iddio se tengo a passare gli ultimi
giorni in un manicomio.

Questo mi fa ricordare che non ho ancora raccontato la storia del
vescovo. Ma prima devo dire del mio matrimonio. Siccome la sua
importanza è pari a quella di tanti altri avvenimenti simili, così ne
dirò solo due parole.

— Ora diventeremo veri proletarî — disse il babbo, quando fummo
scacciati dalla vecchia casa. — Ho spesso invidiato al tuo futuro
marito la perfetta conoscenza del proletariato; ma ora potrò osservare
e rendermene conto direttamente.

Il babbo doveva avere nel sangue il desiderio dell’avventura, perchè
considerava sotto questo aspetto la nostra catastrofe. Nè collera,
nè amarezza potevano su di lui: era troppo filosofo e troppo semplice
per essere vendicativo; e viveva troppo nel mondo dello spirito, per
rimpiangere gli agi materiali che avevamo dovuto abbandonare. Quando
andammo a stabilirci a San Francisco, in quattro miserabili camere del
quartiere basso, al sud di Market Street, egli seguì la nuova via con
la gioia e l’entusiasmo di un bimbo, però secondo la visione chiara e
la vasta comprensione d’una mente di prim’ordine. Sfuggiva così a ogni
cristallizzazione mentale e a ogni falso apprezzamento dei valori,
giacchè quelli dichiarati tali dall’usanza o dalla convenzione, non
avevano senso alcuno per lui; i soli che riconoscesse erano i fatti
matematici e scientifici. Mio padre ero un essere eccezionale; aveva
una mente ed un’anima come solo hanno i grandi uomini. In certi punti
era perfino superiore a Ernesto, che era pertanto il più grande che io
avessi mai conosciuto.

Io pure provai qualche conforto in quel cambiamento di vita, e
cioè la gioia di sfuggire all’ostracismo metodico e progressivo
al quale eravamo sottoposti nella nostra città universitaria,
coll’inimicizia della nascente oligarchia. A me pure quella vita
nuova sembrò un’avventura, e la più grande di tutte, perchè era
un’avventura d’amore. La nostra crisi finanziaria aveva affrettato
il nostro matrimonio; cosicchè andai ad abitare come sposa il piccolo
appartamento di _Pell Street_, nel quartiere basso di San Francisco.

Ma di tutto ciò ecco quanto rimane: ho fatto felice Ernesto. Sono
entrata nella sua vita agitata, non come un elemento di disordine, ma
come un coefficiente di pace e di riposo. Gli ho portato la calma: fu
il mio dono d’amore per lui, e per me il sogno infallibile divenuto
realtà. E per dimenticare miserie, o suscitar la luce della gioia
in quei poveri occhi stanchi: ecco la mia gioia. E poteva essermi
riservata una maggiore?

Quei cari occhi stanchi! Egli li prodigò sempre come pochi uomini hanno
fatto, e spese tutta la sua vita per gli altri. Tale fu la misura della
sua virilità. Era un umanitario, una creatura di amore. Con la sua
mente battagliera, il suo corpo di gladiatore, e il suo genio d’aquila,
era dolce e tenero con me, come un poeta, ma un poeta che viveva i suoi
canti nell’azione. Fino alla morte cantò la canzone umana, la cantò
per puro amore di questa umanità per la quale diede la sua vita e fu
crocifisso.

E tutto questo, senza la minima speranza d’un premio futuro. Nella sua
concezione del mondo, non c’era possibilità di vita futura. Egli, che
fiammeggiava d’immortalità, la negava a se stesso; e quest’era il più
gran paradosso della natura. Quello spirito ardente era dominato dalla
filosofia nera e fredda del monismo materialista. Quando tentavo di
confutare le sue idee, dicendogli che vedevo la sua immortalità nel
volo della sua anima, e che mi occorrevano secoli, per conoscerla a
fondo, egli rideva, e le sue braccia si stendevano a me, e mi chiamava
la sua dolce metafisica, e ogni stanchezza spariva dai suoi occhi; io
intravedevo in essi quella fiamma d’amore che, da sola, era una nuova e
sufficiente affermazione della sua immortalità.

Altre volte mi chiamava la sua cara dualista e mi spiegava il modo
come Kant, per mezzo della ragione pura, aveva abolito la ragione per
adorare Dio. Stabiliva un parallelo, e mi accusava di seguire lo stesso
procedimento. E quando, colpevole, difendevo quella maniera di pensare
perchè profondamente razionale, egli mi stringeva solo più forte e
rideva come solamente potrebbe farlo un amante eletto da Dio.

Rifiutavo di ammettere che la sua originalità e il suo genio fossero
spiegabili secondo l’eredità e l’ambiente, o che gli aridi tentativi
della scienza riuscissero ad afferrare, analizzare e classificare la
fuggevole essenza che si nasconde nella formazione stessa della vita.
Sostenevo che lo spazio è un’apparenza obbiettiva di Dio, e l’anima una
proiezione della sua natura soggettiva.

E quando Ernesto mi chiamava la sua dolce metafisica, io lo chiamavo il
mio immortale materialista; e ci amavamo ed eravamo pienamente felici.
Io gli perdonavo il suo materialismo in grazia dell’opera immensa
compiuta nel mondo senza darsi pensiero del progresso personale; in
grazia anche di quell’eccessiva modestia spirituale che gli impediva
di insuperbire e perfino di avere coscienza del suo animo veramente
eccezionale.

Pertanto aveva una sua particolare fierezza. Come potrebbe non averla
un’aquila? «Sentirsi divino», diceva, «sarebbe bello in un dio, senza
dubbio; ma non è ancora meglio nell’uomo, molecola infima e destinata
a perire?». In questo modo esaltava se stesso e proclamava la sua
mortalità. Si compiaceva di declamare alcuni brani di un poema che
non aveva letto per intero, e del quale non aveva mai potuto sapere
l’autore.

Trascrivo questo brano, non solo perchè egli lo prediligeva, ma perchè
è una prova del temperamento paradossale di lui. L’uomo che recitava,
fremendo d’entusiasmo, i versi seguenti, poteva essere solo un po’ di
fango inconsistente, un’energia fuggitiva e una forma effimera?

    Gioie e gioie di meglio in meglio[74]
    Mi sono destinate dalla nascita
    E voglio gridare con tutte le forze
    Dei miei giorni luminosi l’elogio
    Fino all’estremo limite del tempo;
    Dovessi soffrire ogni morte umana.
    Almeno avrò bevuto, fino a perderne il respiro
    E avrò vuotato il mio calice ricolmo
    Del vino delle mie gioie, in ogni tempo e in ogni luogo
    Avrò assaporato tutto: la femminilità dolce
    E il sale del potere, e l’orgoglio e la sua spuma.
    Berrò pure la feccia in ginocchio, perchè l’emozione
    Della bevanda è buona e mi dà il desiderio
    Di bere alla morte, di bere alla vita;
    Quando un giorno la mia vita sarà tolta
    Passerò il mio calice nelle mani di un altro io.
    L’essere che tu scacciavi dal giardino di delizia
    Ero io, Signore! Ero là bandito,
    E quando crolleranno i vasti edifici
    Della terra e del cielo, sarò là, benedetto,
    In un mondo mio, di profonda bellezza,
    In un mondo ove sono i nostri cari dolori,
    Dal primo grido del bimbo che nasce
    Alle nostre sere di amore, alle nostre notti di desiderio.

    Il mio sangue generoso e tiepido è un’onda
    Dove batte il polso d’un popolo increato ma reale:
    Sempre agitato dal desiderio di un mondo
    Spegnerebbe il fuoco del tuo inferno crudele.
    Sono l’uomo! umano per la mia carne tutta
    E per lo splendore dell’anima nuda e fiera
    Dalla mia tiepida notte nel grembo materno
    Fino al ritorno fecondo del mio corpo in polvere.
    Questo mondo, ossa delle nostre ossa, e carne della nostra carne
    Sobbalza al ritmo, sul quale suoniamo la nostra canzone,
    E dall’Eden maledetto la sete insaziata
    Fino alle sue profondità sconvolge la vita.
    Quando avrò vuotato la mia coppa di miele
    Di tutti i raggi luminosi del suo arcobaleno,
    L’eterno riposo d’una notte senza fine
    Non basterà a soffocare il mio sogno.

Ernesto si occupò troppo, tutta la sua vita. Era sostenuto solo dalla
robusta costituzione che, però, non cancellava la stanchezza dello
sguardo. I suoi cari occhi stanchi! Non dormiva più di quattro ore
e mezza per notte, e nonostante questo, non trovava mai il tempo di
fare tutto quello che avrebbe dovuto. Neppure un istante interruppe
la sua opera di propaganda: ed era sempre impegnato in anticipo,
per le conferenze da tenere alle organizzazioni operaie. Poi venne
la campagna elettorale alla quale si dedicò quanto è umanamente
possibile. La soppressione delle case editrici socialiste lo privò del
frutto dei suoi diritti di autore, e lo affaticò molto per trovare da
vivere: perchè, oltre tutti gli altri lavori, doveva darsi da fare per
guadagnarsi la vita. Traduceva molto per delle riviste scientifiche
e filosofiche; rincasava tardi la notte, già stanco per la lotta
elettorale, e si dedicava a quella occupazione fino alle prime ore del
mattino. E sopratutto coltivava i suoi studi! Li continuò fino alla
morte; e studiava pazzamente.

Nonostante questo, trovava il tempo di amarmi e farmi felice. Io
fondevo tutta la mia vita con la sua. Imparai la stenografia e la
dattilografia e diventai la sua segretaria. Mi diceva spesso che ero
riuscita ad alleggerirlo di metà del lavoro; e io mi misi di nuovo
ad imparare per capire bene le sue opere. Ci interessavamo l’uno
all’altro, lavoravamo insieme e giocavamo insieme.

E poi avevamo i minuti di tenerezza rubati al lavoro; una semplice
parola, una rapida carezza, uno sguardo d’amore; e questi minuti erano
tanto più dolci, quanto più furtivi. Vivevamo sulle cime, dove l’aria è
viva e frizzante, dove l’opera si compie per umanità, dove non potrebbe
respirare il sordido egoismo. Amavamo l’amore, che per noi si coloriva
delle tinte più belle. È certo, insomma che non ho fallito il mio
scopo. Ho dato un po’ di riposo a quella creatura che si affaticava
tanto per gli altri, ho dato la gioia al mio caro mortale dagli occhi
stanchi!



CAPITOLO XII.

IL VESCOVO.


Poco tempo dopo il mio matrimonio, ebbi la sorpresa d’incontrare il
vescovo Morehouse. Ma devo raccontare i fatti con ordine.

Dopo il suo sfogo nell’adunanza del I.P.H., il venerando e dolce
prelato, cedendo alle insistenze dei suoi amici, era partito in
vacanza, ma era ritornato più deciso che mai a predicare il messaggio
della Chiesa. Con grande costernazione de’ suoi fedeli, la sua
prima predica fu in tutto e per tutto simile al discorso che aveva
pronunziato davanti all’Assemblea. Ripetè, con numerosi esempi e
pericolosi particolari, che la Chiesa si era smarrita allontanandosi
dagli insegnamenti del Maestro, e che il vitello d’oro era stato
inalzato al posto di Cristo.

Finì che, per amore o per forza, fu condotto in una casa di salute
privata, mentre i giornali pubblicavano articoli patetici sulla
sua crisi mentale, lodando la santità del suo carattere. Entrato
nel sanatorio, vi fu tenuto prigioniero. Mi presentai più volte, ma
mi si rifiutò sempre di lasciarmelo avvicinare. Fui impressionata
tragicamente per la sorte di quel sant’uomo, assolutamente sano di
corpo e di mente, schiacciato dalla volontà brutale della Società.
Giacchè il vescovo era un essere normale, quanto puro e nobile.
Come diceva Ernesto, la sua sola debolezza dipendeva da un’erronea
conoscenza della biologia e della sociologia, così che non aveva saputo
scegliere bene il modo per presentare le cose secondo il giusto valore.

Ciò che mi esasperava, era l’impotenza a difendersi di quel dignitario
della Chiesa. Se continuava a proclamare la verità così come la vedeva,
era condannato all’internamento perpetuo; e ciò senza poter protestare.
Nè il suo patrimonio, nè la sua posizione, nè la coltura potevano
salvarlo. Le sue idee costituivano un pericolo per la Società, la quale
non poteva concepire che delle conclusioni così pericolose potessero
emanare da uno spirito sano: a giudicare dall’attitudine generale.

Ma il vescovo, che, sebbene mite e d’animo puro non mancava di acume,
capì chiaramente i pericoli della sua situazione, si vide preso in
una rete, e cercò di scappare. Non potendo contare sull’aiuto dei suoi
amici, come quello che papà, Ernesto ed io gli avremmo volentieri dato,
era ridotto a lottare con le sue sole risorse. Nella solitudine forzata
del sanatorio, riprese coscienza di sè; ricuperò la salute. I suoi
occhi cessarono di contemplare le visioni; la sua mente si purgò della
fantastica idea che il dovere della società fosse quello di nutrire le
pecorelle del Signore.

Come già detto, diventò sano, pienamente sano, e i giornali e la gente
di chiesa salutarono il suo ritorno, con gioia. Assistetti ad una
celebrazione. La predica fu dello stesso tenore di quelle tenute un
tempo, prima del suo accesso di visionario. Ne fui delusa e scossa. La
lezione inflittagli l’aveva forse ridotto all’obbedienza? era dunque
un vile? aveva abiurato per paura? Oppure la pressione era stata troppo
forte, ed egli si era lasciato schiacciare dal carro di Juggernaut[75],
dell’ordine stabilito?

Andai a visitarlo nella sua meravigliosa abitazione: lo trovai
tristemente mutato, dimagrito, col volto solcato da rughe, come non
lo avevo veduto mai. Fu chiaramente sconcertato dalla mia visita.
Parlando, si tirava nervosamente le maniche della veste; i suoi occhi
inquieti giravano da tutte le parti per evitare i miei; la sua mente
sembrava preoccupata; la conversazione, interrotta da pause strane, da
bruschi cambiamenti di soggetto, era così incoerente, da imbarazzare.
Era proprio l’uomo calmo e sicuro di sè che avevo un tempo paragonato a
Cristo, con i puri occhi limpidi, lo sguardo diritto, senza debolezza,
come la sua anima?

Era stato maneggiato dagli uomini, e da essi domato; il suo spirito
era troppo mite; non era abbastanza forte per far fronte alla società
organizzata.

Mi sentivo invasa da una tristezza indicibile. Le sue spiegazioni erano
equivoche, egli paventava tanto visibilmente ciò che io avrei potuto
dire, che non ebbi cuore di rivolgergli la minima domanda. Mi parlò
della sua malattia con abbandono; parlammo apertamente della Chiesa,
delle riparazioni dell’organo, e delle scarse opere di carità. Alla
fine, mi vide partire, con tale piacere, che ne avrei riso se il mio
cuore non fosse stato gonfio di lacrime.

Povero debole eroe. Se avessi saputo, però! Egli combatteva come un
gigante, e non ne dubitavano nemmeno. Solo, interamente solo in mezzo
a milioni di suoi simili, combatteva a modo suo. Sospeso fra l’orrore
del manicomio e la sua fedeltà verso la verità e la giustizia, si
aggrappava disperatamente a quest’ultima ma era così solo che non aveva
neppure osato fidarsi di me. Aveva imparato troppo bene la lezione!

Non passò molto, che rimasi invece edificata. Un bel giorno il vescovo
sparì, senza aver avvertito nessuno della sua partenza. Le settimane
passavano senza che tornasse: corsero sul suo conto molte dicerìe; si
disse persino che si era ucciso in un accesso di pazzia. Ma queste voci
tacquero quando si seppe che aveva venduto tutto quello che possedeva,
la sua casa in città, quella di campagna, a Menlo Park, i suoi quadri
e le collezioni artistiche e perfino la sua cara biblioteca. Aveva,
evidentemente, liquidato tutti i suoi beni segretamente, prima di
partire.

Tutto questo accadde mentre eravamo noi pure in preda alle disgrazie.
Solo quando fummo stabiliti nella nuova casa, avemmo il tempo di
chiedere di lui. Improvvisamente tutto si chiarì.

Una sera, sull’imbrunire, mentre c’era ancora un po’ di chiaro,
attraversai la strada per comperare delle costolette per la cena di
Ernesto. Perchè, nel nostro nuovo ambiente, chiamavamo cena l’ultimo
pasto del giorno.

Proprio mentre uscivo dal macellaio, un uomo varcava la soglia
della drogheria vicina, che faceva angolo con la strada. Uno strano
sentimento di familiarità mi spinse a guardarlo meglio. Ma l’uomo aveva
già voltato l’angolo, e camminava frettolosamente. C’era, nell’insieme
delle spalle e nella corona dei capelli argentei che si intravedevano
fra il colletto e il cappello dall’ala rialzata, un non so che, che
risvegliava in me vaghi ricordi. Anzichè riattraversare la via, seguii
quell’uomo. Affrettai il passo, cercando di contenere le idee che si
formavano, involontariamente, nella mia mente. No, era impossibile, non
poteva essere lui, vestito a quel modo, con un vestito di tela usata,
coi calzoni troppo lunghi, sfilacciati in fondo.

Mi fermai, ridendo di me stessa, e sul punto di abbandonare quel folle
inseguimento. Ma quella schiena e quei capelli d’argento mi erano
troppo noti. Lo raggiunsi, e, sorpassandolo, gettai uno sguardo di
sbieco, sul suo viso, poi mi voltai bruscamente e mi trovai a faccia a
faccia con «il vescovo».

Anch’egli si fermò pure bruscamente, attonito. Un grande sacco
di tela che aveva in mano cadde sul marciapiede rompendosi, e una
grande quantità di patate si sparse ovunque. Mi guardò con sorpresa
e spavento, poi, sembrò vinto: le sue spalle si abbassarono ed egli
trasse un profondo sospiro.

Gli stesi la mano, egli la prese; la sua era madida. Tossiva con aria
imbarazzata, e la sua fronte s’imperlava di grosse gocce di sudore.
Evidentemente, era molto turbato.

— Le patate — mormorò con voce spenta — sono preziose! — Le raccattammo
e le rimettemmo nel sacco rotto, che egli teneva, ora, con cura, nel
cavo del gomito.

Cercai di fargli capire quanto fossi felice di rivederlo, e l’invitai a
venire subito a casa con me.

— Papà sarà contento di vedervi — gli dissi. — Abitiamo a due passi da
qui.

— Impossibile — rispose. — Devo andarmene, arrivederci. — Si guardò
attorno con aria inquieta, come se temesse di essere riconosciuto e
fece l’atto d’incamminarsi. Poi, vedendomi decisa a seguirlo, per non
perderlo di vista, aggiunse:

— Datemi il vostro indirizzo, e verrò a trovarvi più tardi.

— No — risposi con fermezza. — Bisogna venire subito.

Egli guardò il sacchetto delle patate che gli dondolava dal braccio e i
pacchetti che aveva nell’altra mano.

— Sinceramente, non posso — disse. — Scusate la mia scortesia. Se
sapeste!

Credetti che cedesse alla mia emozione, ma un istante dopo era
ritornato padrone di sè.

— E poi ci sono queste vettovaglie — continuò. — Si tratta di un caso
pietoso, terribile. Si tratta di una vecchia donna, alla quale devo
portare subito questo. Ha fame, bisogna che corra da lei. Capite? Verrò
dopo. Ve lo prometto.

— Lasciatemi venire con voi — dissi. — È lontano?

Sospirò e cedette alla mia domanda.

— Ancora due file di case, più in là — disse. — Affrettiamoci.

Accompagnata dal vescovo, feci la conoscenza del quartiere in cui
abitavo. Non avrei mai supposto che contenesse delle miserie così
grandi! Naturalmente, la mia ignoranza proveniva dal fatto che non mi
occupavo di carità. Ero convinta che Ernesto avesse ragione quando
paragonava la beneficenza a un cauterio su una gamba di legno, e
la miseria ad un’ulcera che bisognava levare, invece di mettervi
su un impiastro. Il suo rimedio era semplice. Dare all’operaio il
prodotto del suo lavoro, ed una pensione a coloro che sono invecchiati
lavorando; e non ci sarà più bisogno di elemosine. Persuasa della bontà
di questo ragionamento, io cospiravo con lui per la rivoluzione, e non
spendevo la mia energia per sollevare le miserie sociali che nascono,
costantemente, dall’ingiustizia del sistema sociale.

Seguii il vescovo in una piccola camera, lunga dodici piedi e larga
dieci. Vi trovammo una povera vecchietta tedesca, di sessantaquattro
anni, a quanto mi disse. Essa fu sorpresa di vedermi, ma mi fece un
cenno cordiale senza smettere di cucire un paio di calzoni da uomo,
che teneva sulle ginocchia. In terra, vicino a lei, ce n’erano una
quantità di simili. Il vescovo, accortosi che non c’erano più nè legna
nè carbone, uscì per comperarne.

— Sei _cents_, signora — disse, scotendo leggermente la testa,
seguitando a cucire. Cuciva lentamente, ma senza smettere un istante.
La sua consegna sembrava questa: cucire, cucire ancora, sempre cucire.

— Per tutto questo lavoro, pagano sei _cents_? — chiesi stupita. —
Quanto tempo vi impiegate?

— Sì, tanto mi danno, — rispose. — Sei _cents_ per la finitura, e
ciascuno richiede due ore di lavoro. Ma il padrone non sa questo —
soggiunse vivamente, lasciando trasparire il timore di avere delle
noie. — Non sono svelta: ho i reumi alle mani. Le giovani sono molto
più abili di me: impiegano metà del tempo, per finire ogni pezzo.

«L’imprenditore è un brav’uomo: mi lascia portare il lavoro a casa, ora
che sono vecchia e il rumore delle macchine mi stordisce. Se non fosse
così gentile, morrei di fame...

«Sì, quelle che lavorano all’officina hanno otto _cents_. Ma che
volete? Non c’è abbastanza lavoro per le giovani, e non si ha bisogno
delle vecchie!... Spesso ho solo un paio di calzoni da finire; a volte,
come oggi, ne ho otto da finire prima di notte.

Le chiesi quante ore lavorasse, e mi disse che dipendeva dalla stagione.

— In estate, quando le ordinazioni affluiscono, lavoro dalle cinque
del mattino fino alle nove di sera. Ma d’inverno fa troppo freddo, non
riesco a sgranchirmi le mani. Allora bisogna lavorare di più, qualche
volta fin dopo la mezzanotte.

«Sì, la stagione estiva è stata cattiva. I tempi sono duri. Il buon
Dio deve essere in collera. È il primo lavoro che il padrone mi abbia
dato in tutta la settimana. E non si può mangiare molto quando non
c’è lavoro! Ma sono abituata. Ho cucito tutta la vita; nel mio vecchio
paese, un tempo, poi qui, a San Francisco, da trent’anni...

«Quando si può guadagnare il denaro per l’alloggio, tutto va bene. Il
proprietario è molto buono, ma pretende l’affitto alla scadenza. Vuole
solo tre dollari per questa camera. Non è caro. Eppure, ci si affatica
a mettere insieme tre dollari tutti i mesi!

S’interruppe, senza smettere di cucire, tentennando il capo.

— Dovete limitare molto le vostre spese, dato il guadagno.

Essa fece un cenno di approvazione.

— Quando ho pagato l’affitto, non c’è male. Naturalmente non posso
comperare la carne, nè il latte per il caffè. Ma faccio sempre un pasto
al giorno, e qualche volta due.

Aveva pronunziato le ultime parole con una punta di orgoglio, con un
vago senso di vittoria. Ma mentre continuava a cucire in silenzio,
vidi addensarsi ne’ suoi occhi buoni, una grande tristezza, e gli
angoli della bocca abbassarsi. Il suo sguardo vagava lontano. Poi pulì
vivamente i vetri appannati che non le permettevano di vedere bene.

— No, non è la fame che mi spezza il cuore, — spiegò. — Ci si abitua.
Piango per mia figlia, uccisa dall’officina. È vero che lavorava molto,
ma non posso capire come abbia potuto morire, perchè era robusta.
Era giovane, aveva solo quarant’anni, e lavorava da trent’anni. Aveva
cominciato presto, è vero, ma mio marito era morto, per lo scoppio di
una caldaia. Che potevamo fare? Aveva solo dieci anni, ma era molto
sviluppata, per la sua età. E la macchina da cucire l’ha uccisa; lei
che lavorava più presto di tutte le altre. Ho pensato tanto a questo,
e so tutto, perciò non posso più andare all’officina: la macchina da
cucire mi fa male, mi pare che mi dica: l’ho uccisa io, l’ho uccisa io!
Canta questo ritornello tutto il giorno. Allora penso a mia figlia e
non posso assolutamente lavorare.

I suoi occhi stanchi si erano velati di nuovo, e dovette asciugarli
prima di riprendere il lavoro.

Intesi il vescovo inciampare lungo la scala, ed aprii la porta. In
quale stato era! Portava sulle spalle un mezzo sacco di carbone, e,
sopra, della legna. Il suo viso era coperto di fuliggine, e il sudore,
dovuto allo sforzo che egli faceva, gli sgocciolava dalla fronte.
Lasciò cadere il carico in un angolo vicino alla stufa, e si asciugò la
faccia con un fazzoletto di tela grossolana. Stentavo a credere ai miei
occhi. Il Vescovo, nero come un carbonaio, aveva una camicia di cotone,
a buon mercato, alla quale mancava perfino un bottone, e un abito
simile a quello dei facchini. Era quanto di più incongruo vi potesse
essere, nel suo insieme, quel vestito sdrucito in fondo, e trattenuto
alla vita da una cintura di cuoio.

Se però il vescovo aveva caldo, le mani gonfie della povera vecchia,
erano intirizzite dal freddo. Prima di lasciarla, il vescovo accese il
fuoco, mentre io sbucciavo le patate e le mettevo a bollire. Dovevo
imparare poi, col tempo, che c’erano molti casi simili al suo, e
molti anche peggiori nascosti nelle orribili profondità delle case
del quartiere. Rientrando, trovammo Ernesto in pensiero per la mia
assenza. Passata la prima sorpresa dell’incontro, il vescovo si sdraiò
in una poltrona, allungò le gambe coperte di tela azzurra, e mandò,
certamente, un sospiro di sollievo. Eravamo, disse, i primi tra i suoi
vecchi amici che rivedesse dopo la sua partenza: durante le ultime
settimane, la solitudine gli era pesata enormemente. Ci raccontò molte
cose, ma soprattutto espresse la gioia che provava nel compiere i
precetti del suo Divino Maestro.

— Perchè ora veramente, — disse. — nutro le Sue pecorelle. Ed ho
imparato una gran cosa: non si può curare l’anima finchè lo stomaco
non è soddisfatto. Le pecorelle devono essere nutrite con pane e
burro, patate e carne; solo in questo modo le loro menti sono pronte a
ricevere un nutrimento elevato.

Mangiò volentieri il pranzo che avevo fatto cuocere. Non aveva mai
avuto tanto appetito, alla nostra mensa. Parlammo dei giorni passati,
ed egli ci dichiarò che in vita sua non era mai stato tanto bene come
nella sua nuova condizione.

— Vado sempre a piedi, ora. — disse, e arrossì al ricordo del tempo in
cui scorrazzava in vettura, come se fosse stato un peccato difficile a
farsi perdonare.

— La mia salute è buonissima, — aggiunse vivamente, — e sono
felicissimo, veramente felicissimo. Ora, finalmente, ho coscienza di
essere un eletto del Signore.

Eppure, il suo viso serbava un’impronta continua di tristezza, perchè
ora si era caricato dei dolori del mondo. Vedeva la vita sotto una
luce cruda ben diversa da come l’aveva intravista nei libri della sua
biblioteca.

— E siete voi il responsabile di tutto questo, giovanotto, — disse
rivolto ad Ernesto.

Questi sembrò imbarazzato e seccato.

— Vi avevo... vi avevo avvertito — balbettò.

— Non avete capito, — rispose il vescovo. — Non è un rimprovero, ma
un ringraziamento che vi faccio. Vi sono grato d’avermi mostrato la
mia vita. Dalle teorie sulla vita, mi avete condotto alla vita stessa.
Avete squarciato i veli, e strappato le maschere. Avete portato la
luce nella mia notte, ed ora io pure vedo la luce del giorno. E sono
felice, a parte... — esitò dolorosamente, e come un velo di sofferenza
gli oscurò lo sguardo, — tranne questa persecuzione. Non faccio male
a nessuno. Perchè non mi lasciano in pace? Ma non si tratta neppure di
questo, ma soprattutto del genere di persecuzione. Accetterei persino
di essere scorticato sotto la sferza, bruciato su una graticola, o
crocifisso con la testa in giù: ma il manicomio: mi spaventa! Pensate:
in una casa di pazzi! È ripugnante! Ho veduto qualche caso, al
sanatorio; erano pazzi furiosi. Mi si gela il sangue al solo pensarci.
Essere rinchiusi per tutta la vita, fra urli e scene violenti! No, no,
questo sarebbe troppo!...

Era commovente: le mani gli tremavano: tutto il corpo rabbrividiva e si
contraeva, al pensiero della scena evocata. Ma ben presto riacquistò la
calma.

— Scusatemi, — disse semplicemente, — sono i miei nervi. E se a tanto
dovesse condurmi il servizio di Dio, sia fatta la Sua volontà. Chi sono
mai, per avere il diritto di lagnarmi?

Guardandolo, quasi esclamavo: «Oh! grande e buon pastore, eroe! eroe di
Dio!»

Durante la sera, ci diede nuovi schiarimenti sui suoi fatti e sulle sue
gesta.

— Ho venduto la mia casa, o meglio le mie case, e tutti i miei
possedimenti. Sapevo di doverlo fare di nascosto, altrimenti
mi avrebbero preso tutto. Sarebbe stato terribile. Sono spesso
meravigliato, per la gran quantità di patate, pane, carne, carbone e
legna che si può comperare con una somma che va dai due ai trecentomila
dollari.

E si rivolse a Ernesto:

— Avete ragione, giovanotto: il lavoro è pagato con un prezzo molto
inferiore al suo valore. Non ho mai fatto il più piccolo lavoro in vita
mia, tranne quello di esortare i farisei. Credevo di predicar loro il
messaggio divino... e valevo mezzo milione di dollari. Non sapevo ciò
che significasse quella somma prima d’aver visto quante vettovaglie si
potessero con essa comperare. Allora ho capito qualche cosa di più: ho
capito che tutti quei prodotti mi appartenevano, e che non avevo fatto
mai niente per produrli. Mi sembrò chiaro, allora, che altri avevano
lavorato per produrli e ne erano stati spogliati poi. E quando scesi
in mezzo ai poveri, trovai coloro che erano stati derubati, coloro che
erano affamati e miserabili in seguito a tale furto.

Lo riconducemmo alla sua storia.

— Il denaro? L’ho depositato in molte banche diverse e con nomi
diversi. Non potranno mai togliermelo, perchè non lo scopriranno mai.
Ed è tanto utile il danaro! Serve per comperare tanti cibi! Ignoravo
completamente, un tempo, a che cosa potesse servire il denaro!

— Vorrei averne un poco per la propaganda, — disse Ernesto, pensoso; —
potrebbe fare molto bene.

— Lo credete? — disse il vescovo. — Non ho molta fiducia nella
politica: temo di non capire nulla in materia.

Ernesto era molto delicato in simili casi. Non insistette, quantunque
vedesse chiaramente le difficili condizioni nelle quali si dibatteva il
partito socialista, per mancanza di fondi.

— Vivo in una camera a buon mercato, — continuò il vescovo, — ma
ho sempre paura, e non sto a lungo nello stesso posto. Ho pure in
affitto due camere in case operaie, in quartieri diversi della città.
È un’originalità, lo so, ma è necessario fare così. Rimedio in parte
cucinando da me; ma a volte trovo da mangiare per poco, nei caffè
popolari. Ed ho fatto una scoperta, ossia, che i «Tamales»[76] sono
eccellenti quando fa fresco, la sera. Soltanto, sono cari; ho scoperto
una casa dove se ne possono avere tre per dieci soldi; non sono buoni
come negli altri caffè ma riscaldano ugualmente. Ed ecco finalmente
trovata la mia missione nel mondo, e lo debbo a voi, giovanotto. Questa
missione è quella del mio Divino Maestro.

Mi guardò, con occhi lucenti:

— Voi mi avete sorpreso mentre stavo nutrendo una pecorella, lo sapete:
naturalmente, manterrete il segreto, tutti e due.

Diceva questo con tono disinvolto che rivelava però, in fondo, un vero
timore. Promise di ritornare da noi.

Ahimè! la settimana dopo, i giornali c’informavano del triste caso
del vescovo Morehouse che era stato rinchiuso in un manicomio di Napa;
pareva, però, che il suo stato lasciasse qualche speranza.

Inutilmente cercammo di vederlo, inutilmente facemmo pratiche perchè
fosse sottoposto a un nuovo esame, o perchè il suo caso fosse oggetto
di un’inchiesta. Non potemmo aver altre notizie di lui, se non
replicate dichiarazioni che non bisognava assolutamente contare sulla
sua guarigione.

— Cristo aveva ordinato al giovanetto ricco di vendere tutto ciò che
possedeva, — disse Ernesto con amarezza. — Il Vescovo ha ubbidito al
comando, ed è stato rinchiuso in un manicomio. I tempi sono cambiati
dall’epoca di Cristo! Oggi il ricco che dà tutto al povero è un
insensato. Non c’è da discutere su questo. È il verdetto della Società.



CAPITOLO XIII.

LO SCIOPERO GENERALE.


Ernesto venne eletto alla fine del 1912. Era naturale, in seguito alla
enorme attrattiva verso il socialismo, determinata, in gran parte
dalla soppressione di Hearst.[77] L’eliminazione di questo colosso
dai piedi di argilla, era stata un gioco da bimbi, per la plutocrazia.
Hearst spendeva diciotto milioni di dollari l’anno per sostenere i suoi
innumerevoli giornali; ma questa somma gli era rimborsata, e più che
rimborsata, in forma di piccola pubblicità, dalla classe media. Tutta
la sua forza finanziaria era alimentata da quest’unica sorgente, perchè
i _trusts_ non avevano niente a che fare con la _réclame_.[78]

Per abbattere Hearst, bastava, dunque, togliergli la pubblicità.

La classe media non era ancora totalmente sterminata: conservava
un’ossatura massiccia, ma inerte. I piccoli industriali e gli uomini
di affari che si ostinavano a sopravvivere, privi di potere, di anima
economica o politica, erano in balìa della plutocrazia. Appena l’alta
finanza fece loro cenno, essi tolsero la pubblicità alla stampa di
Hearst. Costui si dibattè valorosamente: fece stampare i suoi giornali
in pura perdita, rimettendoci di tasca sua un milione e mezzo di
dollari al mese; e continuò a pubblicare annunzî che non gli erano
pagati. Allora, per nuovo ordine della plutocrazia, la sua meschina
clientela lo soffocò di avvertimenti ingiungendogli di smettere la
pubblicità gratuita. Hearst si ostinò. Gli fecero delle intimazioni,
e siccome persisteva nel suo rifiuto di obbedienza, fu castigato con
sei mesi di prigione, per offesa verso la Corte, mentre veniva spinto
al fallimento da un diluvio di azioni per danni e interessi. Non aveva
nessuna speranza di salvezza. L’alta Banca lo aveva condannato; ed essa
aveva in mano sua i tribunali che dovevano confermare la sentenza. Con
lui, crollò il partito democratico che egli aveva da poco irretito.

Questa doppia disfatta pose davanti ai suoi aderenti solo due vie:
l’una che metteva capo al Partito Socialista, l’altra al Partito
Repubblicano. Perciò noi raccogliemmo i frutti della propaganda, così
detta socialista, di Hearst; giacchè la grande maggioranza dei suoi
fedeli venne ad ingrossare le nostre file.

L’espropriazione dei fittavoli, che ebbe luogo in quel tempo, ci
avrebbe procurato un altro serio rinforzo, senza la breve e futile vita
del Partito delle Fattorie. Ernesto e i capi socialisti fecero sforzi
disperati per conciliare i fittavoli; ma la distruzione dei giornali e
delle case editrici socialiste costituiva un ostacolo formidabile, e la
propaganda orale non era ancora sufficientemente organizzata. Avvenne
dunque che politicanti del genere del signor Calvin, che non erano
altro che fittavoli, da lungo tempo espropriati, sì impadronissero dei
contadini, sciupandone la forza politica, in una campagna assolutamente
vana.

— Poveri fittavoli! — esclamava Ernesto, con un riso sardonico. — I
_trusts_ li comandano, all’entrata e all’uscita.

Queste parole dipingevano bene quello stato di cose. I sette consorzî,
agendo insieme, avevano fusi i loro enormi avanzi, e costituito un
partito delle Fattorie. Le ferrovie, padrone delle tariffe e dei
trasporti, i banchieri e gli speculatori di Borsa, padroni dei prezzi,
avevano da tempo dissanguato i fittavoli costringendoli a indebitarsi
fino al collo. Dall’altra parte, i banchieri, e gli stessi _trusts_,
avevano prestato grosse somme ai campagnoli; perciò questi erano nella
rete. Non rimaneva altro che gettarli a mare; e la Lega delle Fattorie
vi si preparò.

La crisi del 1912 aveva già prodotto un terribile crollo di
prezzi nel mercato dei prodotti agricoli, prezzi che furono ancora
deliberatamente ridotti a prezzi di fallimento, mentre le ferrovie,
con tariffe proibitive, spezzavano la spina dorsale al cammello del
contadino. In questo modo, i fittavoli erano obbligati a contrarre
prestiti e impossibilitati a pagare vecchi debiti. Allora fu decretata
l’esclusione generale delle ipoteche e il ricupero obbligatorio degli
effetti sottoscritti; in modo che i fittavoli furono costretti dalla
necessità di cedere le loro terre al _trust_. Quindi furono ridotti
a lavorare per conto del _trust_, come gerenti, sopraintendenti,
capomastri e semplici operai, e tutti salariati. In una parola,
diventarono schiavi, servi della gleba, avendo in cambio un salario
bastante solo pel nutrimento.

Non potevano abbandonare i loro padroni che appartenevano tutti
alla plutocrazia, nè andare a stabilirsi in città, dove essa regnava
ugualmente. Se abbandonavano la terra, non avevano altra via se non
quella dei girovaghi, ossia la libertà di morire di fame. E questo
espediente fu loro impedito da leggi draconiane, votate contro il
vagabondaggio e applicate rigorosamente.

Naturalmente, qua e là, ci furono fittavoli e interi paesi che
sfuggirono all’espropriazione, per favore di circostanze eccezionali;
ma furono casi sporadici che non avevano alcun valore, e che l’anno
dopo, in un modo o nell’altro, subirono la sorte comune[79].

Si spiega così lo stato d’animo dei socialisti, nell’autunno del 1912.
Tutti, tranne Ernesto, erano convinti che il sistema capitalistico
fosse alla fine. L’intensità della crisi, e la moltitudine di gente
senza impiego, la soppressione dei fittavoli e della classe media,
la sconfitta decisiva inflitta su tutta la linea ai Sindacati,
giustificavano le più ampie ipotesi circa la rovina imminente della
plutocrazia e il loro atteggiamento rispetto ad essa. Ahimè! come ci
ingannavamo sulla forza dei nostri nemici! Ovunque, i socialisti,
dopo un’esposizione esatta dello stato delle cose, proclamavano la
loro prossima vittoria alle urne. La plutocrazia accettò la sfida
e, pesate e valutate le cose, ci inflisse la sconfitta, dividendo le
nostre forze. Essa, mediante i suoi agenti segreti, fece dire ovunque
che il socialismo era una dottrina sacrilega e atea: e, attirando
nelle sue file le varie Chiese, specialmente la Chiesa Cattolica, ci
privò di un buon numero di voti di lavoratori. Essa, sempre per mezzo
dei suoi agenti segreti, incoraggiò il Partito delle Fattorie, e gli
fece propaganda fin nelle città e negli ambienti della classe media
soccombente.

Il movimento d’attrazione del socialismo si produsse però ugualmente,
ma invece del trionfo che ci avrebbe assicurato buoni posti ufficiali,
e la maggioranza in tutti i corpi legislativi, ottenemmo solo la
minoranza. Cinquanta dei nostri candidati furono eletti al Congresso,
ma quando presero possesso del loro seggio, nella primavera del 1913,
si trovarono completamente esautorati. Erano un poco più fortunati
dei contadini, i quali, pur avendo conquistato una dozzina di seggi,
non poterono neppure esercitare le loro funzioni, perchè i titolari in
carica rifiutarono loro di cedere il posto, e le Corti erano nelle mani
dell’Oligarchia. Ma non bisogna anticipare gli avvenimenti, per non
tralasciare i disordini dell’inverno del 1912.

La crisi nazionale aveva provocato un’enorme riduzione di consumi,
giacchè i lavoratori, senza impiego, senza denaro, non facevano
acquisti. Per conseguenza, la Plutocrazia era più che mai ingombra di
un avanzo di mercanzia, era obbligata a smerciarlo all’estero, ed aveva
bisogno di fondi per attuare i suoi disegni giganteschi. I suoi sforzi
animosi per buttare questo avanzo sul mercato mondiale, la misero
in competizione di interessi con la Germania. I conflitti economici
degenerarono quasi sempre in conflitti armati: e anche questa volta
s’avverò la regola. Il grande guerriero tedesco si tenne pronto, e gli
Stati Uniti si prepararono dal canto loro.

Questa minaccia di guerra era sospesa come una nube temporalesca, e
tutto era predisposto per una catastrofe mondiale; perchè tutto il
mondo era teatro di crisi, di torbidi dei lavoratori, di rivalità
d’interessi ovunque periva la classe media, ovunque sfilavano eserciti
di scioperanti, ovunque rumoreggiava la rivoluzione sociale[80].

L’Oligarchia voleva la guerra con la Germania, per molte ragioni;
perchè aveva molto da guadagnare negli avvenimenti varî che avrebbe
suscitato una simile mischia, in quello scambio di carte internazionali
e nella firma di nuovi trattati di alleanza. Inoltre, il periodo delle
ostilità doveva apportare un consumo notevole del soprappiù nazionale,
ridurre le fila degli scioperanti che minacciavano tutti i paesi, e
dare all’Oligarchia il tempo di maturare i suoi disegni e attuarli. Un
conflitto di quel genere l’avrebbe messa virtualmente in possesso di
un mercato mondiale. Le avrebbe dato un esercito permanente che non
avrebbe ormai più dovuto congedare. Infine, nella mente del popolo,
il motto: «America contro Germania» avrebbe dovuto sostituire l’altro:
«Socialismo contro Oligarchia».

E veramente, la guerra avrebbe dato tutti questi frutti, se non ci
fossero stati i socialisti. Una adunanza segreta dei capi dell’Ovest
fu convocata nelle nostre quattro camerette di Pell Street. In essa fu
esaminato prima l’atteggiamento che il Partito doveva assumere. Non
era la prima volta che veniva discussa la possibilità d’un conflitto
armato[81]. Ma era la prima volta che si faceva agli Stati Uniti. Dopo
la nostra riunione segreta, entrammo in contatto con l’organizzazione
nazionale, e ben presto furono scambiati marconigrammi attraverso
l’Atlantico, fra noi e l’Ufficio Internazionale.

I socialisti tedeschi erano disposti ad agire con noi. Erano
più di cinque milioni, di cui molti appartenenti all’esercito
regolare, e in buoni rapporti con i Sindacati. Nei due paesi, i
socialisti lanciarono una fiera protesta contro la guerra e una
minaccia di sciopero generale, e nello stesso tempo si prepararono a
quest’ultima eventualità. Inoltre, i partiti rivoluzionarii di tutti
i Paesi, proclamarono altamente il principio socialista che la pace
internazionale doveva essere mantenuta a tutti i costi, anche contro le
rivoluzioni locali e nazionali.

Lo sciopero generale fu l’unica grande vittoria di noi americani.
Il 4 Dicembre, il nostro ambasciatore fu richiamato da Berlino.
Quella stessa notte, la flotta tedesca attaccò Honolulu, affondò
tre incrociatori americani e una cacciatorpediniera, e bombardò la
capitale: il giorno dopo era dichiarata la guerra fra Germania e Stati
Uniti, e in meno di un’ora i socialisti avevano proclamato lo sciopero
generale nei due Paesi.

Per la prima volta, il dio tedesco della guerra, affrontò gli uomini
della sua nazione, coloro che ne sostenevano l’impero e senza i quali
egli stesso non avrebbe potuto sostenerlo. La novità di quello stato di
cose stava nella passività della loro rivolta. Essi non combattevano;
non facevano nulla, e la loro inerzia legava le mani al loro Kaiser.
Cercava solo un pretesto per sguinzagliare i suoi cani di guerra e dare
addosso al suo proletariato ribelle, ma il pretesto non venne mai. Non
potè nè mobilitare l’esercito per la guerra contro lo straniero, nè
scatenare la guerra civile per punire i suoi sudditi recalcitranti.
Nessun ordigno funzionava nel suo impero: nessun treno viaggiava,
nessun telegramma attraversava lo spazio, perchè i telegrafisti e i
macchinisti avevano smesso il lavoro, come il resto della popolazione.

Lo stesso avvenne negli Stati Uniti: i lavoratori organizzati avevano
finalmente imparato la lezione: sbaragliati sul terreno da essi scelto,
i lavoratori lo abbandonarono e passarono sul terreno politico dei
socialisti, perchè lo sciopero generale era uno sciopero politico.
Ma gli operai erano stati tanto crudelmente maltrattati, che ormai
non facevano più cerimonie, e si unirono, nello sciopero, per pura
disperazione. Gettarono i loro utensili e abbandonarono il lavoro a
migliaia. I meccanici specialmente si distinsero: le loro teste erano
ancora insanguinate, la loro organizzazione apparentemente distrutta,
eppure marciarono compatti con i loro alleati, i metallurgici.

Perfino i semplici manovali e tutti i lavoratori liberi interruppero le
loro opere. Nello sciopero generale tutto era organizzato in modo che
nessuno potesse lavorare. E le donne furono le più attive propagandiste
del movimento. Esse fecero fronte alla guerra. Esse, non volevano
lasciar andare al macello i loro uomini. Ben presto l’idea dello
sciopero generale s’impadronì dell’anima popolare e vi risvegliò la
vena umoristica: da quel momento sì propagò con rapidità contagiosa.
I fanciulli di tutte le scuole scioperarono, e i professori andati
a scuola per fare lezione trovarono le aule deserte. Lo sciopero
nazionale prese l’aspetto d’un gran trattenimento nazionale. L’idea
della solidarietà nel lavoro, messa in rilievo sotto quella forma,
colpì l’immaginazione di tutti. Infine, non si correva nessun pericolo
in quella colossale monelleria. Chi si poteva punire quando tutti erano
colpevoli? Gli Stati Uniti erano paralizzati.

Nessuno sapeva ciò che accadeva all’estero: non viaggiavano più nè
giornali, nè lettere, nè telegrammi. Ogni comunità era isolata dalle
altre come se delle miglia deserte l’avessero separata dal resto del
mondo. Praticamente, il mondo aveva cessato di esistere, e rimase in
quello strano modo per tutta una settimana. A San Francisco ignoravano
perfino ciò che accadeva dall’altro lato della baia, a Oakland o a
Berkeley.

L’impressione prodotta sulle nature sensibili era fantastica,
opprimente: sembrava che fosse morto qualcosa di grande, che una forza
cosmica fosse scomparsa. Il polso del paese non batteva più, la Nazione
giaceva inanimata. Non si sentiva più correre i tramvai, nè i camions
per le vie: non si udiva nè il fischio delle sirene, nè il ronzio
dell’elettricità nell’aria, nè il grido dei giornalai: niente, tranne
il passo furtivo di persone isolate che di tanto in tanto scivolavano
come fantasmi con un incedere come indeciso e irreale in quel grande
silenzio.

Durante quella lunga settimana silenziosa, l’Oligarchia imparò la
lezione e l’imparò molto bene. Lo sciopero era un avvertimento. E
non avrebbe dovuto più ricominciare; l’Oligarchia lo avrebbe aiutato
per questo. Alla fine degli otto giorni, com’era stabilito prima, i
telegrafisti di Germania e degli Stati Uniti ripresero il loro posto.
Per mezzo loro, i capi socialisti dei due Paesi presentarono il loro
_ultimatum_ ai dirigenti. La guerra doveva essere dichiarata nulla
e come non avvenuta; altrimenti, lo sciopero sarebbe continuato. E
ben presto si trovò un accomodamento. La dichiarazione di guerra fu
revocata, e i popoli dei due paesi si rimisero al lavoro.

Questo ritorno allo stato di pace, determinò un patto di alleanza
fra la Germania e gli Stati Uniti. In realtà, quest’ultimo trattato
fu conchiuso fra l’Imperatore e l’Oligarchia, per poter far
fronte al comune nemico: il proletariato rivoluzionario dei due
Paesi. Quest’alleanza fu poi rotta proditoriamente, in seguito,
dall’Oligarchia, quando i socialisti tedeschi si sollevarono e
scacciarono il loro imperatore dal trono. Ora, precisamente, lo
scopo che si era proposto l’Oligarchìa in tutto questo affare, era
di distruggere la sua grande rivale sul mercato mondiale. Messo da
parte l’Imperatore, la Germania non avrebbe più avuto merce esuberante
da vendere all’estero, perchè, per la natura stessa d’uno Stato
socialista, la popolazione tedesca avrebbe consumato tutto ciò che
avrebbe prodotto. Naturalmente, avrebbe seguitato a scambiare con
l’estero alcuni prodotti che questo paese non lavora o non produce, ma
questo non avrebbe avuto alcun rapporto col soprappiù non consumato.

— Scommetto che l’Oligarchìa troverà una giustificazione, — disse
Ernesto quando seppe del suo tradimento verso la Germania. — Come
sempre, sarà persuasa di aver agito lealmente e bene.

Infatti, l’Oligarchia disse che aveva agito nell’interesse del popolo
americano, scacciando dal mercato mondiale l’aborrita rivale, e
permettendo così di disporre del nostro soprappiù nazionale.

— Il colmo dell’assurdità, — diceva Ernesto, a questo proposito, —
è che siamo ridotti a tale impotenza, che quegl’idioti dispongono
liberamente dei nostri interessi. Ci hanno messo nella condizione di
vendere di più all’estero: il che significa che saremo obbligati a
consumare meno, qui, in patria.



CAPITOLO XIV.

IL PRINCIPIO DELLA FINE.


Fin dal mese di gennaio del 1913, Ernesto si rendeva perfettamente
conto della piega che prendevano le cose; ma non gli fu possibile
persuadere gli altri capi socialisti ch’era imminente l’avvento del
Tallone di Ferro. Erano troppo fiduciosi, e gli eventi precipitavano
troppo rapidamente in modo parossistico. Scoppiava, ormai, una crisi
universale. Virtualmente padrona del mercato mondiale, l’Oligarchia
americana escludeva da esso una ventina di nazioni sovraccariche di
merci esuberanti, che non potevano nè consumare nè vendere; cosicchè
a queste non rimaneva altra via di scampo se non una riorganizzazione
radicale. Il metodo del monopolio della produzione diventava per loro
impossibile, perchè veniva a distruggere irrimediabilmente il sistema
capitalistico.

La riorganizzazione di questi paesi prese l’aspetto della rivoluzione.
Fu un’epoca di confusione e di violenza. Istituzioni e governi
pericolavano da ogni parte. Ovunque, tranne in due o tre paesi, gli
ex padroni, i capitalisti, lottavano con accanimento per conservare
i loro beni. Ma il potere fu loro tolto dal proletariato militante.
Finalmente, s’avverava la profezia classica di Carlo Marx: «Suonerà
l’ora della fine della proprietà privata capitalistica, e gli
spogliatori saranno a loro volta spogliati». Infatti, appena i Governi
capitalistici crollavano sorgevano al loro posto Governi di repubbliche
cooperative.

«Perchè mai gli Stati Uniti rimangono indietro?». «Rivoluzionari
americani, svegliatevi». «Che succede, dunque, in America?». Tali erano
i messaggi che ci mandavano i compagni vittoriosi degli altri Paesi.
Ma noi non potevamo seguire il movimento. L’Oligarchia ci sbarrava il
cammino, con la sua potente mole.

«Aspettate, entreremo nella lotta in primavera,» rispondevamo: «allora,
vedrete!».

La nostra risposta nascondeva un segreto pensiero. Eravamo riusciti ad
attirare a noi i fittavoli, e in primavera una dozzina di Stati sarebbe
passata in loro potere, secondo i risultati delle elezioni dell’autunno
precedente. Subito dopo, questi Stati avrebbero dovuto costituirsi in
repubbliche cooperative; il resto sarebbe venuto da sè.

— Ma supponete che i fittavoli non possano esercitare le loro funzioni,
che ne siano impediti? — chiese Ernesto.

E i suoi compagni lo chiamavano profeta di sciagure. In realtà,
quell’impossibilità di esercitare le proprie funzioni non era il
più gran male che preoccupasse la mente di Ernesto; egli prevedeva e
temeva sopratutto la diserzione di alcuni grandi Sindacati operai e la
formazione di nuove caste.

— Ghent ha indicato agli oligarchi il modo di agire. — diceva. —
Scommetterei che hanno per breviario il suo: «Feudalismo benevolo».[82]

Non dimenticherò mai la serata in cui, dopo una vivace discussione con
una mezza dozzina di capi di lavoratori, Ernesto si rivolse a me e mi
disse tranquillamente:

— Tutto è finito. Il Tallone di Ferro ha vinto. La fine è venuta.

Quella piccola riunione in casa nostra non aveva carattere ufficiale,
ma Ernesto, d’accordo con gli altri compagni, cercava di ottenere dai
capi dei lavoratori la promessa che avrebbero fatto partecipare i loro
uomini al prossimo sciopero generale. Dei sei capi presenti, O’ Connor,
presidente dell’Associazione dei meccanici, era stato il più ostinato
nel rifiutare questa promessa.

— Eppure, voi sapete quale terribile bastonata vi abbia assestato
il vostro metodo antico di sciopero e di boicottaggio. — aveva detto
Ernesto.

O’ Connor e gli altri alzarono la testa.

— Ed avete imparato ciò che si può ottenere con uno sciopero
generale, — aveva continuato Ernesto, — Abbiamo impedito la guerra
con la Germania. Non si era mai veduta una così bella manifestazione
dell’unione solidale del lavoro. Il lavoro può e deve reggere il
mondo. Se voi continuate a stare con noi, noi segneremo la fine del
capitalismo. È la nostra sola speranza, e, ciò che più importa, la
sola vostra via di scampo. Qualunque cosa facciate secondo la vostra
vecchia tattica, siete già condannati alla sconfitta, non foss’altro,
per il semplice motivo che i vostri tribunali sono retti dai vostri
padroni[83].

— Vi riscaldate troppo presto, — rispose O’ Connor. — Voi non conoscete
tutte le vie di scampo. Ce n’è un’altra. Sappiamo ciò che facciamo. Ne
abbiamo abbastanza di scioperi. Così ci hanno schiacciati ma credo che
non avremo mai più bisogno di far scioperare i nostri uomini.

— E come farete, dunque? — chiese bruscamente Ernesto.

O’ Connor si mise a ridere, scotendo la testa.

— Vi posso dire questo: non abbiamo mai dormito, e non sognamo neppure
ora.

— Spero che non vi sarà nulla da temere, o nessun motivo per arrossire,
— chiese Ernesto, con diffidenza.

— Credo che conosciamo le cose nostre meglio di qualunque altro, — fu
la risposta.

— Debbono essere cose che temono la luce, a giudicare dalle vostre arie
di mistero, — disse Ernesto, con calore.

— Abbiamo pagato la nostra esperienza con sudore e con sangue, ed
abbiamo guadagnato ciò che avremo, — rispose l’altro. — La vera carità
comincia da se stessi.

— Avete paura di dirmi come vi salverete. Ebbene, ve lo dico io, — e
la collera di Ernesto divampava. — Voi vi siete accordati col nemico;
ecco che cosa avete fatto; e avrete la vostra parte di bottino. Avete
venduta la causa del lavoro, di tutto il lavoro. Voi disertate il campo
di battaglia come i vili.

— Non dico nulla, — rispose O’ Connor, con aria crucciata. — Soltanto,
mi pare che noi sappiamo un po’ meglio di voi ciò che dobbiamo fare.

— E non vi curate affatto dei bisogni del resto dei lavoratori. Con un
calcio, mandate la solidarietà in un fosso.

— Non ho niente da dire, — replicò O’ Connor; — senonchè sono
presidente dell’Associazione dei Meccanici ed è mio compito difendere
gli interessi degli uomini che rappresento: ecco tutto.

Dopo la partenza dei capi, con una calma che pareva quella che segue
la tempesta, Ernesto mi fece intravedere la serie di avvenimenti che si
sarebbero svolti fra breve.

— I socialisti predicevano con gioia l’avvento del giorno in cui il
lavoro organizzato, sconfitto sul terreno industriale, si sarebbe
unito sul terreno politico. Ora il Tallone di Ferro ha schiacciato i
Sindacati sul loro campo e li ha spinti verso il nostro, ma per noi,
ciò, anzichè ragione di gioia, sarà fonte di guai. Il Tallone di Ferro
ha imparato la lezione. Gli abbiamo mostrato la nostra potenza, con lo
sciopero generale, e s’è preparato a impedirne un secondo.

— Ma come potrà impedirlo? — chiesi.

— Semplicemente, sovvenzionando i grandi Sindacati. Questi non si
unirebbero a noi in un futuro sciopero generale, e per conseguenza lo
sciopero non potrebbe riuscire.

— Ma il Tallone di Ferro non potrà sostenere all’infinito una politica
così dispendiosa.

— Oh! non ha assoldato tutti i Sindacati: non è necessario. Ecco
che cosa accadrà: i salarî saranno aumentati, e le ore di lavoro
diminuite nei sindacati delle ferrovia, degli operai metallurgici, dei
macchinisti e costruttori meccanici. Questi Sindacati continueranno a
prosperare nelle migliori condizioni: così che sarà assai ricercato il
beneficio di potersi affiliare loro, come se si trattasse di avere un
posto in paradiso.

— Ma non capisco ancora bene. Che cosa ne sarà degli altri Sindacati?
Ce ne sono molti di più fuori di questa nuova lega.

— Tutti gli altri Sindacati saranno sfruttati e spariranno a poco
a poco, perchè, osservalo bene, i macchinisti, i meccanici, i
metallurgici fanno tutto quanto è assolutamente indispensabile, nella
nostra civiltà meccanica. Sicuro della loro fedeltà, il Tallone di
Ferro può ridersi di tutti gli altri lavoratori. Il ferro, l’acciaio,
il carbone, le macchine, i trasporti, costituiscono l’ossatura
dell’organismo industriale.

— Ma, e il carbone? — chiesi. — Ci sono circa un milione di minatori.

— Sono lavoratori senza una speciale abilità professionale: non
conteranno. I loro salarî saranno ridotti, e le loro ore di lavoro
aumentate. Saranno schiavi, come tutto il resto dell’umanità, e
diventeranno i più abbrutiti. Saranno obbligati a lavorare come i
contadini per i padroni che hanno loro rubato la terra. E sarà lo
stesso per gli altri Sindacati estranei alla lega. Bisogna aspettarsi
di vederli vacillare e morire. I loro membri saranno condannati ai
lavori forzati dal loro stomaco vuoto e dalla legge nazionale.

«Sai che cosa ne sarà di Farley e degli altri che, come lui,
impediscono gli scioperi? Te lo dico subito: il loro mestiere, come
tale, sparirà, perchè non vi saranno più scioperi[84]. Vi saranno
solo rivolte di schiavi. Farley e la sua banda saranno promossi
guarda-ciurma. Oh! non si dirà così; si dirà che saranno incaricati
di fare osservare la legge che prescrive il lavoro obbligatorio. Il
tradimento dei grandi Sindacati prolungherà la lotta, ma Dio sa dove e
quando trionferà la rivoluzione.

— Con una organizzazione potente come quella dell’Oligarchia e dei
grandi Sindacati, come sperare che la rivoluzione possa trionfare?
Quell’organizzazione può durare eternamente.

Ernesto scosse il capo negativamente.

— È una delle nostre conclusioni generali, che ogni sistema che
poggi sulle classi e sulle caste contiene in sè il germe della sua
dissoluzione. Quando una società è fondata sulle classi, come si
potrebbe impedire lo sviluppo delle caste? Il Tallone di Ferro non si
potrà opporre, e sarà, alla fine, esso stesso distrutto. Gli oligarchi
hanno già formato una casta fra loro; ma aspetta che i Sindacati
favoriti sviluppino la loro! Ciò non può tardare. Il Tallone di Ferro
farà il possibile per impedirlo, ma non riuscirà.

«I Sindacati privilegiati contengono il fior fiore dei lavoratori
americani: uomini forti e capaci, entrati nei Sindacati per emulazione,
per ottenere buoni posti. Tutti i buoni operai degli Stati Uniti
aspireranno a diventare soci delle Unioni privilegiate. L’oligarchia
incoraggerà queste ambizioni e le rivalità che ne deriveranno. Così,
quegli uomini forti, che avrebbero potuto diventare dei rivoluzionarii,
saranno avvinti dall’oligarchia e adopereranno la loro forza per
sostenerla.

«D’altra parte, i membri di queste caste operaie, di questi Sindacati
privilegiati, si sforzeranno di trasformare le loro organizzazioni in
corporazioni vere e proprie, e vi riusciranno. La qualità di membro
vi diverrà ereditaria. I figli succederanno ai padri, ed il sangue
nuovo cesserà di affluire da quel serbatoio di forza che è il popolo.
Ne risulterà una degradazione delle caste operaie, che diventeranno
sempre più deboli. Nello stesso tempo, formando un’istituzione,
acquisteranno una certa potenza temporanea pari a quella delle guardie
palatine in Roma antica; vi saranno rivoluzioni di palazzo, dimodochè
la dominazione passerà, di volta in volta, nelle mani degli uni e degli
altri. Questi conflitti affretteranno l’inevitabile indebolimento delle
caste, finchè, un giorno, risorgerà il potere del popolo.

Non bisogna dimenticare che questo schizzo di lenta evoluzione
sociale era tracciato da Ernesto nel primo momento provocato dalla
defezione dei grandi Sindacati. Io non ho mai accettato questo suo
modo di vedere, e dissento ancor più mentre scrivo queste righe,
perchè ora, quantunque Ernesto non sia più, siamo alla vigilia di una
rivoluzione che spazzerà tutte le oligarchie. Ho riferito la profezia
di Ernesto, perchè fatta da lui. Pure credendovi, egli non cessò mai
di lottare come un gigante per impedirne l’attuazione, e più di ogni
altro al mondo, egli ha reso possibile la rivolta di cui aspettava il
segnale[85].

— Ma se l’oligarchia sussiste, — gli chiesi, — che cosa farà della
ricchezza enorme che accumulerà di anno in anno?

— Dovrà spenderla in un modo o nell’altro, e sii sicura che ne troverà
il modo. Saranno costruite strade magnifiche; la scienza e soprattutto
l’Arte avranno uno sviluppo straordinario. Quando gli oligarchi avranno
domato completamente il popolo, avranno tempo da perdere per altre
cose. Diventeranno adoratori del bello, amanti delle arti: incoraggiati
da essi e generosamente pagati, gli artisti si metteranno all’opera.
Ne risulterà un’apoteosi del Genio: gli uomini di talento non saranno
più obbligati, come finora, a seguire il cattivo gusto borghese delle
classi medie. Sarà un’età d’oro per l’arte, lo predìco: sorgeranno
città di sogno, in confronto alle quali le vecchie città sembreranno
meschine e volgari. E in quelle meravigliose città, gli oligarchi
risiederanno e adoreranno la Bellezza.[86]

«Così l’eccesso delle vendite sarà speso a mano a mano che il lavoro
adempirà al suo compito.

La costruzione di quelle opere d’arte e di quelle grandi città
provocherà un po’ di carestia per i milioni di lavoratori ordinarii,
perchè l’immensità della spesa richiederà immensità di ricchezza.
Gli oligarchi costruiranno per mille, per diecimila anni forse.
Costruiranno come non sognarono mai gli egiziani, i babilonesi; e
quando essi non saranno più, le loro città meravigliose rimarranno, e
i Fratelli dei Lavoratori calpesteranno le vie e abiteranno i monumenti
innalzati da quelli.[87]

«Queste opere gli oligarchi le faranno perchè non potranno fare
altrimenti. In forma di grandi lavori, dovranno spendere la loro
eccessiva ricchezza, come le classi dominanti dell’Egitto antico
erigevano i templi, le piramidi con la ricchezza rubata al popolo.
Sotto il regno degli oligarchi, fiorirà, non una casta sacerdotale,
ma una casta di artisti, mentre le caste operaie prenderanno il posto
della nostra borghesia mercantile. E, sotto, vi sarà l’abisso, dove,
fra carestia e peste, marcirà e si riprodurrà costantemente il popolo
ordinario, la maggioranza della popolazione. E un giorno, ma nessuno sa
quando, il popolo finirà con l’uscire dall’abisso; le caste operaie e
l’oligarchia andranno in rovina, e allora, finalmente, dopo un lavoro
di secoli, verrà il tempo dell’uomo vero. Avevo sperato di vederlo,
quel giorno, ma so, ora, che non lo vedrò.

Fece una pausa e mi guardò lungamente, poi soggiunse:

— L’evoluzione sociale è troppo lenta, non è vero, mia cara?

Lo circondai con le mie braccia; e la sua testa si posò sul mio cuore.

— Canta per addormentarmi, — mormorò come un bambino viziato: — vorrei
dimenticare questa mia visione dell’avvenire.



CAPITOLO XV.

ULTIMI GIORNI.


Verso la fine del gennaio del 1913, si manifestò pubblicamente
il cambiamento di attitudine dell’oligarchia verso i Sindacati
privilegiati. I giornali annunciarono un aumento di salario senza
precedenti, e, nello stesso tempo, una riduzione delle ore di
lavoro per gli impiegati delle ferrovie, i lavoratori del ferro
e dell’acciaio, i meccanici e i macchinisti. Ma gli oligarchi non
permisero che tutta la verità fosse subito divulgata. In realtà, i
salarî, erano stati aumentati più che non apparisse, e i privilegi
concessi erano maggiori di quanto non si sapesse. I segreti però
finiscono sempre per trapelare. Gli operai privilegiati fecero delle
confidenze alle mogli, le quali chiacchierarono, e in breve tutti
i lavoratori seppero ciò che era accaduto. Era lo sviluppo logico
e semplice di quello che al diciannovesimo secolo si chiamava «le
parti dell’avanzo». Nella mischia industriale di quel tempo si era
tentato pure la ripartizione degli utili fra gli operai; ossia,
alcuni capitalisti avevano tentato di calmare i lavoratori facendoli
partecipare ai lucri del loro lavoro. Ma la partecipazione ai lucri
era, come sistema, cosa assurda e impossibile. Poteva riuscire solo in
alcuni casi isolati, in seno al conflitto generale; perchè se tutto
il lavoro e tutto il capitale si fossero divisi i guadagni, le cose
sarebbero ritornate allo stesso punto di prima.

In questo modo, dall’idea inattuabile di una partecipazione ai
guadagni, nacque l’idea pratica di partecipazione alle ruberie.
«Pagateci di più, e rifatevi sul pubblico», divenne il grido di guerra
dei Sindacati prosperosi. E questa politica egoistica riuscì qua e là.
Facendo pagare i clienti, si faceva pagare la gran massa del lavoro non
organizzato, o debolmente organizzato. Erano in realtà i lavoratori che
procuravano un maggiore aumento di salario ai loro compagni, membri
dei monopolî di lavoro. Questa idea, come ho detto, fu semplicemente
spinta alla sua conclusione logica su vasta scala, dalla unione degli
oligarchi con le associazioni privilegiate[88].

Appena la defezione dei Sindacati privilegiati fu nota, sorsero, nel
mondo dei lavoratori, mormorii e proteste. Poi le associazioni si
ritirarono dalle organizzazioni internazionali, e si sciolsero da ogni
impegno di organizzazione e di solidarietà. Allora nacquero torbidi e
violenze. I loro membri furono messi all’indice come traditori: nei
_bars_ e nei caffè, nelle strade e nelle officine, ovunque, furono
assaliti dai compagni che essi avevano con tanta perfidia abbandonato.

Vi furono numerosi feriti, e molti morti. Nessun privilegiato era
sicuro, ormai; così che gli operai dovevano, per recarsi al lavoro o a
casa, unirsi in ischiere. Erano esposti al pericolo di avere la testa
rotta per le strade, dalle tegole e dai sassi gettati dalle finestre
o dai tetti. Venne dato loro il permesso di armarsi, e le autorità
li aiutavano in tutti i modi. I loro persecutori furono condannati a
lunghi anni di carcere, o furono trattati crudelmente; nessuna persona
estranea ai Sindacati privilegiati aveva diritto di portare le armi, ed
ogni infrazione all’osservanza di questa legge era considerata come un
grave delitto e come tale punita.

Tutti i lavoratori così oltraggiati continuarono a vendicarsi dei
rinnegati. Subito, s’intravidero all’orizzonte nuove caste. I figli dei
traditori erano perseguitati dai figli dei lavoratori traditi, al punto
che non potevano più giocare nelle strade e andare a scuola. Le mogli e
le famiglie dei rinnegati erano condannate all’ostracismo; così che il
droghiere del rione era boicottato se vendeva loro qualcosa.

Avvenne che, respinti da tutte le parti, i traditori e le loro famiglie
formarono delle tribù. Essendo loro impossibile vivere sicuri in mezzo
al proletariato ostile, si trasportarono in nuove località, abitate
esclusivamente dai loro simili.

Questo movimento fu favorito dagli oligarchi: furono costruite per loro
case igieniche e moderne, circondate da giardini e cortili: i figli di
quella gente frequentavano scuole create per loro, con corsi speciali
di insegnamento manuale e scienze applicate. Così, fin dal principio,
e fatalmente quasi, da quell’isolamento, nacque una casta. I membri
dei Sindacati privilegiati diventarono gli aristocratici del lavoro e
furono separati dagli altri operai. Meglio alloggiati, meglio vestiti,
meglio nutriti, meglio trattati, essi presero parte alla divisione del
bottino, con frenesia.

In questo tempo, il resto della classe operaia era trattato più
duramente che mai. Alla maggioranza furono tolti molti dei piccoli
privilegi che godeva; i salarî ed il livello economico si abbassarono
rapidamente; le scuole pubbliche frequentate dal popolo, ben presto
decaddero, e a poco a poco, l’educazione cessò di essere obbligatoria.
Il numero degli analfabeti della nuova generazione crebbe in modo
impressionante.

La conquista da parte degli Stati Uniti del mercato mondiale, aveva
scosso l’insieme del mondo. Le istituzioni e i Governi cadevano e si
trasformavano ovunque. La Germania, l’Italia, la Francia, l’Australia
e la Nuova Zelanda, stavano organizzandosi in repubbliche cooperative.
L’Impero Britannico se ne andava in pezzi. L’Inghilterra era stremata.
L’India era in piena rivolta. Il grido di tutto l’Oriente era:
«L’Asia agli asiatici». E dall’estremo Oriente, il Giappone spingeva
e sollevava le razze gialle e brune contro la razza bianca, e mentre
sognava un impero continentale e si sforzava di avverare il sogno,
distruggeva la sua stessa rivoluzione proletaria. Fu una semplice
guerra di caste, di _Coolies_ contro _Samurai_, e i lavoratori
socialisti furono giustiziati in massa. Quarantamila furono uccisi
nella battaglia per le strade di Tokio, e nell’inutile assalto al
palazzo del Mikado. A Kobe, vi fu un macello; il massacro dei filatori
di cotone, al fuoco delle mitragliatrici, è diventato classico, come il
più terribile esempio di sterminio compiuto dalle macchine moderne di
guerra.

E l’oligarchia giapponese, nata dal sangue, fu la più feroce di tutte.
Il Giappone dominò l’Oriente, e prese per sè tutta la parte asiatica
del mercato mondiale, tranne l’India.

L’Inghilterra riuscì a domare la rivoluzione de’ suoi proletari e a
conservare l’India a costo d’uno sforzo che per poco non la distrusse.
Dovette abbandonare le grandi colonie; perciò i socialisti poterono far
dell’Australia e della Nuova Zelanda delle repubbliche cooperative,
e il Canadà fu perduto per la madre patria. Ma il Canadà soffocò la
rivoluzione socialista con l’intervento del Tallone di Ferro; il quale
aiutava, nello stesso tempo, il Messico e Cuba a reprimere le loro
rivolte.

Il Tallone di Ferro dopo aver saldato in un sol blocco politico tutta
l’America del Nord, dal Canale di Panama all’Oceano Pacifico, si trovò
solidamente piantato nel nuovo mondo.

L’Inghilterra, sacrificando le sue grandi colonie, era riuscita a
salvare l’India, ma anche questa era una vittoria momentanea; aveva
semplicemente ritardato la sua guerra per l’India, col Giappone e il
resto dell’Asia. Era destinata, fra poco, a perdere quella penisola,
e quell’avvenimento a sua volta, sarebbe stato causa di una lotta fra
l’Asia unificata e il resto del mondo.

Mentre la terra intera era dilaniata dai conflitti, negli Stati
Uniti l’avvento della pace era sempre lontano. La defezione dei
grandi Sindacati aveva impedito la rivolta dei nostri proletarî, ma
la violenza regnava ovunque. Oltre i torbidi dei lavoratori, oltre
il malcontento dei fittavoli e dei pochi superstiti della classe
media, sorgeva e si diffondeva una rinascita religiosa. Un ramo della
setta degli Avventisti del Settimo Giorno era sorto, e s’era subito
sviluppato considerevolmente. I suoi fedeli proclamavano la fine del
mondo.

— Non mancava altro, nella confusione universale, — esclamò Ernesto.
— Come sperare che vi sia solidarietà, fra tante tendenze contrarie e
divergenti?

E, realmente, il movimento religioso assumeva uno sviluppo allarmante.
Il popolo, a causa della miseria e della profonda delusione per tutte
le cose terrene, era preparato, pronto e infiammato per un cielo dove
i suoi tiranni industriali sarebbero entrati più difficilmente che un
cammello attraverso la cruna di un ago. Predicatori dagli occhi torvi
vagabondavano di paese in paese, e, nonostante le proibizioni delle
autorità civili e le persecuzioni contro i delinquenti, la fiamma di
questo fanatismo religioso era mantenuta viva da innumerevoli riunioni
segrete.

— Gli ultimi giorni sono venuti! — esclamavano; era cominciata la fine
del mondo! I quattro venti erano scatenati: Iddio agitava i popoli per
la guerra. Era un’opera di visioni e di miracoli, in cui i veggenti e i
profeti erano legioni.

Le persone, a centinaia di migliaia, abbandonavano il lavoro e
fuggivano verso le montagne ad aspettare l’imminente discesa di
Dio e l’ascensione dei centoquarantaquattromila eletti. Ma Iddio
non appariva, ed essi morivano, in gran parte di fame. Nella loro
disperazione, invadevano le fattorie per trovarvi il cibo; il tumulto e
l’anarchia, invadendo anche le campagne, non facevano che esasperare la
disgrazia del povero fittavolo spodestato.

Ma poichè le fattorie e i granai erano proprietà del Tallone di
Ferro, numerose truppe furono mandate nei campi, e i fanatici furono,
con la punta delle baionette, ricondotti al lavoro, nelle città.
Ma continuavano a sollevarsi. I loro capi furono giustiziati per
sedizione, o rinchiusi in manicomî. I condannati andarono al supplizio
con la gioia dei martiri. Il paese attraversava un periodo di contagio
mentale. Perfino nei deserti, nelle foreste, nelle paludi, dalla
Florida all’Alaska, piccoli groppi di indiani sopravvissuti erravano
come fantasmi in attesa dell’avvento dell’atteso Messia.

In questo caos, continuava a inalzarsi, con serenità e sicurezza
quasi prodigiose, la forma del mostro di tutte le età: l’Oligarchia,
che pesando con la sua mano e col suo Tallone di Ferro su tutto
quel groviglio di milioni di esseri, faceva uscire l’ordine dalla
confusione, e poneva le sue fondamenta sullo stesso marciume.

— Aspettate che siamo a posto, — ripetevano i fittavoli. — Ce lo diceva
il signor Calvin, nel nostro appartamento in Pell Street. — Osservate
gli Stati che abbiamo a nostra disposizione: con l’appoggio di voi
socialisti, faremo cantare loro un’altra canzone, appena cominceremo a
esercitare le nostre funzioni.

— Abbiamo dalla nostra, — dicevano i socialisti, — milioni di
malcontenti e di poveri. Alle nostre file si sono aggiunti i fittavoli,
i fattori, la classe media e i giornalieri. Il sistema capitalistico
cadrà in pezzi. Fra un mese manderemo cinquanta rappresentanti al
Congresso. Fra due anni, tutti i posti ufficiali saranno nostri,
da quello della Presidenza Nazionale all’impiego municipale di
accalappiacani.

Al che Ernesto replicava, scotendo il capo:

— Quanti fucili avete? Sapete dove trovare il piombo in quantità?
Quanto alla polvere, credetemi, le combinazioni chimiche sono migliori
dei miscugli meccanici.



CAPITOLO XVI.

LA FINE.


Quando giunse il momento, per Ernesto e per me, di recarci a
Washington, il papà non volle accompagnarci: si era appassionato alla
vita proletaria. Egli considerava il nostro misero rione come un vasto
laboratorio sociologico, e sembrava travolto in una interminabile orgia
di ricerche. Fraternizzava con gli operai, ed era ammesso con intimità
in numerose famiglie; inoltre faceva dei lavori in pelle, essendo
il lavoro manuale, per lui, una distrazione e, nello stesso tempo,
oggetto di osservazioni scientifiche. Vi prendeva gusto e rincasava con
le tasche piene di appunti, sempre pronto a raccontare qualche nuova
avventura. Era il tipo perfetto dello scienziato.

Non era obbligato a lavorare, perchè Ernesto guadagnava, con le sue
traduzioni, tanto da mantenere tutti e tre; ma papà si ostinava a
voler conquistare il suo tipo d’ideale preferito che, a giudicare dalla
varietà delle metamorfosi professionali, doveva essere Proteo.

Non dimenticherò mai la sera in cui ci portò il suo inventario di
merciaio ambulante, venditore di lacci e bretelle, nè il giorno in cui
entrai per comperare della roba nella drogheria d’angolo e fui servita
da lui. Dopo ciò, seppi, senza troppa sorpresa, che era stato per tutta
una settimana, garzone nel bar di fronte a noi. Fu, successivamente,
guardia notturna, rivenditore ambulante di patate, incollatore di
cartellini in un negozio d’imballaggio, facchino in una fabbrica di
scatole di cartone, portatore d’acqua in una squadra impiegata nella
costruzione di una linea tranviaria; e seppi pure che si era fatto
accogliere nel Sindacato dei lavoratori di vasellame, poco tempo prima
che questo fosse sciolto.

Credo che fosse affascinato dall’esempio del vescovo, o, perlomeno,
dall’abito di lavoro di quello, perchè usava anch’egli un camiciotto di
cotone di poco prezzo, e un vestito di tela con una stretta cintura sui
fianchi. Della sua vita antica, conservò solo l’abitudine di cambiarsi
l’abito pel pranzo, o, meglio, per la cena.

Io ero felice, in qualunque luogo, con Ernesto; e la felicità di mio
padre, in quelle condizioni, aumentava la mia.

— Da piccolo, — diceva, — ero molto curioso. Volevo sapere tutti i
perchè e i come. In questo modo, del resto, divenni uno scienziato.
Oggi, la vita mi sembra degna di osservazione, come nella mia infanzia;
e in fondo, è la nostra curiosità che la rende degna d’essere vissuta.

Talvolta, si spingeva a nord di Market Street, nel quartiere dei negozi
e dei teatri, e là vendeva giornali, faceva commissioni, il portiere.
Un giorno, chiudendo lo sportello di una vettura, si trovò a faccia
a faccia con il signor Wickson. E con gran giubilo ci raccontò di
quell’incidente, la sera stessa.

— Wickson mi ha guardato attentamente, mentre chiudevo lo sportello,
e ha mormorato: — Oh! che il diavolo mi porti! — Proprio così si è
espresso: — Oh! il diavolo mi porti! Era arrossito, così confuso, che
ha dimenticato di darmi la mancia. Ma riacquistò il suo spirito ben
presto, giacchè, dopo pochi giri di ruota, la vettura ritornò al punto
di partenza, e Wickson si sporse dal finestrino e si rivolse a me:

— Voi, professore, come mai? Oh! è troppo! Che cosa posso fare per voi?

— Ho chiuso il vostro sportello, — risposi. — Secondo l’uso, potreste
darmi una piccola mancia.

— Non si tratta di questo, — borbottò. — Voglio dire fare qualche cosa
che vi possa giovare.

— Parlava seriamente; provava senza dubbio, un dolore lancinante,
nella sua coscienza indurita. Indugiai un po’ prima di rispondere:
quando apersi la bocca, egli mi ascoltò attentamente: ma avreste dovuto
vederlo quando ebbi finito.

— Ebbene, — dissi, — potreste forse rendermi la casa e le mie azioni
delle Filande della Sierra.

Papà s’interruppe.

— Che cosa rispose? — chiesi con impazienza.

— Nulla: che cosa poteva rispondere? Ma io ripresi la parola: —
Spero che siate felice. — Egli mi guardava con curiosità e sorpresa.
Insistetti: — Ditemi, siete felice? — Immediatamente, diede ordine
al cocchiere di partire, e lo udii che bestemmiava furiosamente. Quel
malnato non mi aveva dato la mancia e tanto meno restituito la mia casa
e i miei poderi. Vedi, dunque, cara, che la carriera di tuo padre, come
_factotum_ di strada, è cosparsa di delusioni.

Per questo amore all’osservazione, papà rimase nel nostro appartamento
di Pell Street, mentre Ernesto ed io andavamo a Washington. L’antico
ordine delle cose era virtualmente morto, e il colpo di grazia stava
per giungere prima di quanto immaginassi. Contrariamente alla nostra
aspettativa, non fu fatto nessun ostruzionismo per impedire ai
socialisti eletti di prendere possesso dei loro seggi al Congresso.
Sembrava che tutto camminasse su delle ruote, e io ridevo di Ernesto
che vedeva perfino in questa facilità come un sinistro presagio.
Trovammo i nostri compagni socialisti pieni di fiducia nelle loro
forze, e pieni di disegni ottimisti.

Alcuni fittavoli eletti al Congresso avevano accresciuto la nostra
potenza; così che elaborammo con loro un programma particolareggiato di
ciò che v’era da fare. Ernesto partecipava lealmente ed energicamente
a questi lavori, quantunque non potesse fare a meno di ripetere, ogni
tanto, e apparentemente fuori di proposito: «Quanto alla polvere,
le combinazioni chimiche valgono meglio dei miscugli meccanici,
credetemi!».

Le cose cominciarono a guastarsi, per i fittavoli, negli Stati di cui
si erano impadroniti con le elezioni: non fu permesso ai nuovi eletti
di prendere possesso della loro carica. I predecessori si rifiutavano
di cedere loro il posto, e, col semplice pretesto di irregolarità
elettorali imbrogliarono le cose in un dedalo di procedura burocratica.

I fittavoli furono ridotti all’impotenza: i tribunali, loro ultima
speme, erano nelle mani dei nemici. Il momento era difficilissimo:
tutto sarebbe stato perduto se i contadini, così ingannati, avessero
fatto appello alla violenza. Noi socialisti impiegavamo tutte le nostre
forze per trattenerli.

Ernesto passò giorni e notti senza chiudere occhio. I grandi capi dei
fittavoli vedevano il pericolo e operavano in perfetto accordo con noi.
Ma tutto questo non servì a nulla: l’oligarchia voleva la violenza, e
mise in azione i suoi agenti provocatori, i quali, indiscutibilmente,
provocarono la rivolta dei contadini.

Questa scoppiò nei dodici Stati. I fittavoli espropriati si
impadronirono, a forza, dei loro Governi. Essendo questo modo di
procedere incostituzionale, gli Stati Uniti misero in moto l’esercito;
gli agenti del Tallone di Ferro eccitavano ovunque la popolazione,
travestiti da artigiani, fittavoli o contadini. A Sacramento, capitale
della California, i padroni erano riusciti a mantenere l’ordine, quando
un nuvolo di poliziotti segreti si rovesciò sulla città condannata. Dei
gruppi composti esclusivamente di spie incendiarono e saccheggiarono
diversi fabbricati e officine, e infiammarono le menti del popolo a
tal punto, che esso si unì con loro nel saccheggio. Per alimentare
questo incendio, fu distribuito l’alcool a flutti nei quartieri poveri.
Poi, quando tutto fu pronto, entrarono in iscena le truppe degli Stati
Uniti, che erano in realtà i soldati del Tallone di Ferro. Undicimila
uomini, donne e bambini, furono fucilati per le strade di Sacramento, o
assassinati nelle case. Il Governo nazionale prese il posto del Governo
di Stato, e tutto fu perduto per la California.

Anche altrove le cose andarono in modo analogo. Tutti gli Stati
dell’Unione delle Fattorie, furono domati con la violenza e affogati
nel sangue. Come sempre, dapprima il disordine era scatenato dagli
agenti segreti e dalle Centurie Nere, poi, immediatamente le truppe
regolari erano chiamate in soccorso. La sommossa e il terrore regnavano
in tutti i distretti.

Giorno e notte fumigavano gl’incendî delle fattorie e dei negozi,
delle città e dei villaggi. Si ricorse all’uso della dinamite: si
fecero saltare ponti, gallerie, deragliare i treni. I poveri fittavoli
furono fucilati e impiccati in massa. Le rappresaglie furono terribili:
numerosi plutocrati e ufficiali furono massacrati. I cuori erano
assetati di sangue e di vendetta. L’esercito regolare combatteva i
possidenti con l’accanimento che avrebbero usato contro i pellirosse,
nè mancavano le scuse per questo. Duemilaottocento soldati etano
stati annientati nell’Oregon da una spaventosa serie di esplosioni di
dinamite, e numerosi treni militari erano stati distrutti nello stesso
modo, così che i soldati difendevano la loro pelle, proprio come i
fittavoli.

Circa la milizia, la legge del 1903 venne applicata, e i lavoratori
di ogni Stato furono obbligati, pena la morte, a fucilare i loro
compagni degli altri Stati. Naturalmente le cose non andarono lisce in
principio: molti ufficiali furono uccisi, e molti cittadini condannati
dal Consiglio di guerra. La profezia di Ernesto si avverò con
spaventosa precisione, circa il signor M. Kowalt e il signor Asmunsen.
Tutti e due, dichiarati idonei per la milizia, furono arruolati in
California per la spedizione di repressione contro i fittavoli del
Missuri. Tutti e due rifiutarono di prestar servizio; ma non fu loro
concesso neppure il tempo di confessarsi: sottoposti a un Consiglio di
guerra improvvisato, furono subito bell’e spacciati. Morirono tutti e
due con la schiena rivolta al plotone di esecuzione.

Molti giovanotti, per non servire nella milizia, si rifugiarono sulle
montagne e diventarono disertori, ma vennero in seguito puniti, in
tempi migliori. Non avevano guadagnato nulla aspettando, perchè il
Governo fece un proclama invitante i cittadini abili ad abbandonare
le montagne entro il termine massimo di tre mesi. Alla scadenza
del termine, mezzo milione di soldati furono mandati ovunque nelle
regioni montuose; e non ci fu nè processo, nè giudizio: ogni uomo che
incontravano era ucciso sul posto. La truppa agiva secondo il criterio
che solo i proscritti erano restati in montagna. Qualche gruppo,
trincerato in forti posizioni, resistette valorosamente, ma alla fine
tutti i disertori dalla milizia furono sterminati.

Nello stesso tempo, nella mente del popolo era impressa una lezione
più immediata, col castigo inflitto alla milizia ribelle del Kansas.
Questa rivolta importantissima avvenne proprio al principio delle
operazioni militari contro i fittavoli. Seimila uomini della milizia si
sollevarono: da parecchie settimane erano turbolenti e malcontenti, ed
erano tenuti prigionieri per questo motivo. È fuori dubbio, però, che
la prima rivolta fu precipitata da agenti provocatori.

Nella notte del 22 aprile, gli uomini di truppa si ammutinarono
ed uccisero gli ufficiali, di cui solo pochi poterono sfuggire al
massacro. Questo oltrepassava il programma del Tallone di Ferro,
i cui agenti avevano lavorato sin troppo bene. Ma tutto era grano
buono da macinare per la plutocrazia, ormai preparata all’esplosione:
l’uccisione di tanti ufficiali avrebbe fornito una giustificazione per
quanto sarebbe accaduto dopo.

Come in sogno, quarantamila uomini dell’esercito regolare circondarono
l’accampamento, o, meglio, la trappola. Gl’infelici militi si accorsero
che le cartucce prese al deposito non erano del calibro dei loro
fucili, ed innalzarono la bandiera bianca per arrendersi, ma fu vano:
nessuno di essi sopravvisse. I seimila furono sterminati.

Dapprima bombardati da lungi con scariche di obici e di shrapnels,
furono poi falciati, a colpi di mitragliatrice, mentre si lanciavano
disperatamente contro le linee che li attorniavano. Ho parlato con
un testimonio oculare: egli mi ha detto che neppure un milite potè
avvicinarsi a meno di cinquanta metri da quella macchina micidiale. Il
suolo era cosparso di cadaveri. In una carica finale di cavalleria,
i feriti furono massacrati a colpi di sciabola e di rivoltella e
schiacciati sotto gli zoccoli dei cavalli.

Mentre avveniva la distruzione dei contadini, accadeva la rivolta dei
minatori, ultimo rantolo d’agonia del lavoro organizzato. Dichiararono
sciopero in centocinquantamila. Ma erano troppo sparsi in tanti paesi,
per poter avere vantaggio della loro forza numerica. Furono isolati
nei loro rispettivi distretti, battuti e obbligati a sottomettersi.
Fu la prima operazione di reclutamento di schiavi, in massa. Pocock vi
guadagnò i galloni di capociurma supremo, e nello stesso tempo un odio
inestinguibile da parte del proletariato[89]. La sua vita fu soggetta
a numerosi attentati; ma sembrava che possedesse un talismano contro
la morte. I minatori devono a lui l’introduzione di un sistema di
passaporto alla russa, che tolse loro la libertà di andare da una parte
all’altra del Paese.

Pure, i socialisti resistevano. Mentre i contadini spiravano fra
le fiamme e il sangue, mentre il sindacalismo era smantellato, noi
rimanevamo compatti e perfezionavamo le nostre organizzazioni segrete.
Inutilmente i fittavoli ci facevano rimostranze: noi rispondevamo, e
con ragione, che qualunque rivolta da parte nostra sarebbe stata la
fine di ogni rivoluzione, per sempre. Il Tallone di Ferro, dapprima
titubante circa il modo di agire con l’insieme del proletariato,
avrebbe trovato le cose più semplici e lisce che non si aspettasse,
e non avrebbe desiderato altro, per finirla una buona volta, che una
sollevazione da parte nostra. Ma noi sventammo questo, a dispetto degli
agenti provocatori che brulicavano nelle nostre file, e usavano sistemi
molto grossolani, in quei tempi, e avevano molto da imparare. Costoro
furono dai nostri gruppi di combattimento soppiantati a poco a poco.

Fu un compito arduo e sanguinoso, ma lottavamo per la nostra vita e
per la Rivoluzione, ed eravamo obbligati a combattere il nemico colle
sue stesse armi. Però noi combattevamo con lealtà. Nessun agente del
Tallone di Ferro fu giustiziato senza processo. Può darsi che si siano
commessi errori, ma se vi furono, furono molto rari. I nostri Gruppi
di Combattimento erano formati dai migliori nostri compagni, dai più
arditi, dai più disposti al sacrificio di se stessi.

Un giorno, dopo dieci anni, Ernesto fece un calcolo: servendosi dei
dati forniti dai capi di questi Gruppi, calcolò che la durata media
della vita degli iscritti, uomini e donne, non oltrepassasse i cinque
anni. Tutti i Compagni dei Gruppi di Combattimento erano degli eroi; e
il più strano è che a tutti essi ripugnava attentare alla vita umana.
Quegli amanti della libertà, facevano violenza alla loro natura,
pensando che nessun sacrificio era troppo grande per una causa così
nobile.[90]

Lo scopo che ci eravamo imposti era triplo. Volevamo, per primo,
purgare le nostre file dagli agenti provocatori; in seguito,
organizzare i Gruppi di Combattimento all’infuori dell’organizzazione
segreta e generale della Rivoluzione; in ultimo, introdurre i nostri
agenti scelti, in tutti i rami dell’Oligarchia, nelle caste operaie,
specialmente fra i telegrafisti, segretari e commessi, nell’Esercito,
fra le spie e i guardiaciurme. Era un’opera lenta e pericolosa, e
spesso i nostri sforzi fallivamo.

Il Tallone di Ferro aveva trionfato nella guerra aperta: ma noi stavamo
all’erta, nell’altra guerra, sotterranea, sconcertante e terribile
che avevamo intrapresa. In questa lotta tutto era invisibile, quasi
tutto imprevisto: come una lotta fra ciechi, ma fatta con molto ordine,
secondo uno scopo e una direttiva. I nostri agenti s’insinuavano fra
gli ingranaggi di tutta l’organizzazione del Tallone di Ferro mentre
la nostra era permeata dagli agenti avversarî; secondo una tattica
tortuosa ed oscura, piena di intrighi e cospirazioni, di mine e
contromine. E dietro tutto questo, sempre minacciosa, stava la morte,
la morte violenta e terribile. Uomini e donne sparivano, i nostri
migliori, i nostri più cari compagni. Si vedevano oggi, domani erano
svaniti, e non si rivedevano mai più, e sapevamo che erano morti.

Non c’erano più, in nessun luogo, nè sicurezza nè fiducia. L’uomo che
complottava con noi poteva essere un agente del Tallone di Ferro. Ma
era lo stesso dalle due parti; eppure eravamo costretti a lavorare
con fiducia e certezza. Fummo spesso traditi; la natura umana è
debole. Il Tallone di Ferro poteva dare denaro e divertimenti nelle
sue meravigliose città di piacere e di riposo; noi non avevamo altre
attrattive che la soddisfazione di essere fedeli a un nobile ideale; e
questa lealtà non aspettava altra ricompensa che il continuo pericolo,
la tortura e la morte.

La morte costituiva l’unico mezzo di cui disponevamo per punire quella
debolezza umana; ed era una necessità per noi castigare i traditori.
Quando accadeva che uno dei nostri ci tradisse, uno o più vendicatori
fedeli erano lanciati alle sue calcagna. Poteva accadere di fallire
nell’esecuzione dei nostri decreti contro i nostri nemici, come nel
caso di Pocock, ma la punizione era infallibile quando si trattava di
castigare i falsi fratelli. Alcuni compagni si lasciarono corrompere
col nostro permesso, per avere accesso nelle città meravigliose, ed
eseguirvi le nostre sentenze contro i veri venduti. Ma, in fondo,
esercitavamo un tale timore, che era più pericoloso tradirci, che
restarci fedeli.

La Rivoluzione assumeva un carattere profondamente religioso. Noi
adoravamo il suo altare che era quello della Libertà. Il suo spirito
divino ci rischiarava. Uomini e donne si consacravano alla Causa e ad
essa votavano i loro nati, come un tempo al servizio di Dio. Eravamo
gli adoratori dell’Umanità.



CAPITOLO XVII.

LA LIVREA ROSSA.


Durante la devastazione degli Stati appartenenti ai Fittavoli, i
rappresentanti di questo partito sparirono dal Congresso. Furono
istruiti processi per alto tradimento e il posto di essi fu occupato
da creature del Tallone di Ferro. I socialisti formavano la minoranza e
sentivano avvicinarsi la fine.

Il Congresso e il Senato erano ormai soltanto vani fantocci. Le
questioni pubbliche vi erano gravemente dibattute e votate secondo le
forme tradizionali, ma servivano solo a convalidare con una procedura
costituzionale, gli atti della Oligarchia.

Ernesto era nel fitto della mischia quando sopraggiunse la fine;
avvenne durante la discussione di un disegno di legge per l’assistenza
agli scioperanti. La crisi dell’anno precedente aveva abbassato
numerose masse del proletariato a un livello inferiore a quello della
carestia, e il propagarsi e il prolungarsi dei disordini ve le tenevano
sempre più. Milioni di persone morivano di fame, mentre gli oligarchi
e loro sostenitori si rimpinzavano a dismisura[91]. Chiamavamo
quegli infelici, il popolo dell’abisso[92]: e per alleviare le loro
sofferenze, i socialisti avevano presentato quel disegno di legge, che
al Tallone di Ferro non piacque. Esso aveva il suo modo di vedere, per
la sistemazione del lavoro di milioni di esseri, e siccome questo modo
di vedere non era il nostro, così aveva dato ordini affinchè il nostro
disegno fosse respinto.

Ernesto ed i suoi compagni sapevano che il loro sforzo sarebbe stato
vano, ma, stanchi di essere tenuti nell’incertezza, desideravano una
decisione qualunque. Non potendo ottener nulla, speravano almeno di
porre termine a quella farsa legislativa in cui erano costretti a
rappresentare una parte passiva. Ignoravamo quale aspetto avrebbe
assunto la scena finale; ma non l’avremmo mai immaginata più drammatica
di quale avvenne in realtà.

Quel giorno, mi trovavo nella tribuna riservata al pubblico. Sapevamo
tutti che sarebbe accaduto qualche cosa di terribile. Un pericolo
incombeva, e la sua presenza era là, visibile nell’atteggiamento delle
truppe allineate nei corridoi e degli ufficiali raggruppati alle porte
della sala. L’oligarchia stava evidentemente per isferrare un gran
colpo.

Ernesto aveva preso la parola, e descriveva le sofferenze dei
disoccupati, come se accarezzasse la folle speranza di intenerire
quei cuori e quelle coscienze; ma i membri repubblicani e democratici
sogghignavano e si burlavano di lui, interrompendolo con esclamazioni e
rumori.

Ernesto mutò tattica improvvisamente.

— So benissimo che nulla di quanto dico potrà influire su voi, —
esclamò —: non avete anima. Siete degl’invertebrati, dei rammolliti.
Vi chiamate pomposamente repubblicani e democratici, ma non esiste un
partito di questo nome: in questa Camera non ci sono nè repubblicani,
nè democratici. Non siete altro che adulatori e mezzani delle creature
della plutocrazia. Parlate all’antica del vostro amore per la libertà,
voi che portate sulle spalle il marchio rosso del Tallone di Ferro.

La sua voce fu coperta dalle grida: «Abbasso! abbasso!», ed egli
aspettò, sdegnosamente, che il chiasso si fosse calmato. Allora,
aprendo le braccia, come per abbracciarli tutti, volgendosi verso i
suoi compagni, gridò:

— Ascoltate il muggito delle bestie ben pasciute!

Il rumore riprese più forte: il presidente batteva sul tavolo per
ottenere il silenzio, e guardava di sottecchi verso gli ufficiali
ammucchiati alle porte. Ci furono delle grida di: «Sedizione!», e un
membro di New York, noto per la sua rotondità, lanciò l’epiteto di:
«Anarchico!».

L’aspetto di Ernesto non era dei più rassicuranti: tutto il suo
spirito combattivo vibrava; la sua espressione era quella di un animale
aggressivo. Pure, rimaneva calmo e padrone di sè.

— Ricordate, — gridò con una voce che dominò il tumulto, — voi che non
mostrate alcuna pietà per il Proletariato, ricordate che verrà giorno
in cui il Proletariato non avrà pietà di voi.

Le grida di: «Sedizioso! Anarchico!» raddoppiarono.

— So che non voterete questo disegno di legge, — continuò Ernesto.
— Avete avuto dai vostri padroni l’ordine di votare contro. E osate
trattarmi da anarchico, voi che avete distrutto il governo del popolo,
voi che apparite in pubblico con la vostra vergognosa livrea rossa! Non
credo nel fuoco dell’inferno, ma a volte mi spiace, e sono tentato di
crederci, in questo momento, perchè lo zolfo e la pece non sarebbero
di troppo per punire i vostri delitti, come meriterebbero. Finchè
esisteranno i vostri simili, l’inferno sarà una necessità cosmica.

Ci fu un movimento alle porte. Ernesto, il presidente e tutti i
deputati guardarono in quella direzione.

— Perchè non ordinate ai vostri soldati di entrare, di adempiere
al loro compito, signor presidente? — chiese Ernesto. — Essi vi
servirebbero e accontenterebbero subito.

— Ci sono altri piani in vista, — fu la risposta —: per questo sono qui
i soldati.

— Piani contro di noi, suppongo, — schernì Ernesto. — Assassinio o roba
del genere.

Alla parola «assassinio» il tumulto ricominciò. Ernesto non poteva più
farsi sentire, ma rimaneva in piedi, aspettando la calma. In questo
momento avvenne ciò che avvenne. Dal mio posto, sulla tribuna, non vidi
altro che il lampo di un’esplosione, e il suo rumore mi stordì: vidi
Ernesto vacillare e cadere fra una nuvola di fumo, mentre i soldati
si precipitavano in tutti gli spazi liberi. I suoi compagni in piedi,
inferociti, erano pronti a qualsiasi violenza, ma Ernesto li calmò in
un attimo, ed agitò le braccia per imporre loro silenzio.

— È un complotto, state attenti! — gridò loro con ansia. — Non vi
movete, o sarete tutti uccisi.

Detto questo, si abbandonò lentamente, proprio quando i soldati
giungevano sino a lui. Un istante dopo, fecero sgombrare le tribune
e non vidi più nulla. Non mi permisero di avvicinarlo, sebbene fosse
mio marito; anzi, appena ebbi detto il mio nome, fui arrestata.
Contemporaneamente furono arrestati tutti i membri socialisti del
Congresso, presenti a Washington, compreso l’infelice Simpton,
obbligato a letto da una febbre tifoidea.

Il processo fu rapido: tutti erano già condannati. Quanto a Ernesto,
come per miracolo, non fu giustiziato. Fu uno sbaglio dell’oligarchia,
che le costò caro. In quel tempo, essa era troppo sicura di sè:
inebriata del successo, non credeva che un manipolo di eroi potesse
avere la forza di minare la sua solida base. Domani, quando scoppierà
la grande rivolta, e tutto il mondo acclamerà al passo delle folle in
marcia, l’oligarchia capirà, ma troppo tardi, fino a qual punto si sia
ingigantita l’eroica banda.[93]

Essendo io stessa rivoluzionaria e fiduciaria delle speranze, dei
timori e dei disegni segreti, posso meglio d’ogni altro rispondere
all’accusa lanciata contro di loro, di aver fatto esplodere quella
bomba al Congresso. E posso affermare sicuramente, senza riserva nè
dubbio, che i socialisti, sia quelli del Congresso, sia quelli di
fuori, erano estranei all’esplosione. Non sappiamo chi abbia lanciato
l’ordigno, ma siamo sicuri che non fu lanciato da nessuno dei nostri.

D’altra parte, diversi indizî tendono a dimostrare che il Tallone di
Ferro sia il responsabile di quell’atto. Naturalmente, non possiamo
provarlo, e la nostra conclusione è solo fondata su presupposti.

Ecco i fatti, quali li conosciamo. Era stato indirizzato al Presidente
della camera, dagli agenti segreti del Governo, un messaggio per
prevenirlo che i membri socialisti del Congresso avrebbero usato
una tattica terroristica, e che avevano già fissato il giorno per
eseguirlo. Quel giorno, era precisamente quello dell’esplosione. Per
precauzione, il Campidoglio era stato circondato dalla truppa. Ma
siccome noi non sapevamo nulla della faccenda della bomba, e che una
bomba era scoppiata realmente, e che le autorità avevano provveduto
alla difesa in previsione dell’esplosione, è naturale concludere che
il Tallone di Ferro ne sapesse qualche cosa. Affermiamo inoltre che il
Tallone di Ferro fu colpevole di quell’attentato, che preparò ed eseguì
con lo scopo di accollarcene la responsabilità, e di causare con ciò la
nostra rovina.

Dal Presidente, l’avvertimento passò a tutti i membri della Camera
che indossavano la livrea rossa. Durante il discorso di Ernesto, essi
sapevano che un atto di violenza sarebbe stato commesso; e bisogna
render loro questa giustizia: essi credevano sinceramente che sarebbe
stato commesso dai socialisti. Al processo, sempre in buona fede, molti
testimoniarono che avevano veduto Ernesto prepararsi per lanciare la
bomba, scoppiata prima del tempo. Naturalmente non avevano veduto nulla
di ciò, ma, nella loro fantasia eccitata dalla paura, credevano di aver
veduto.

In tribunale. Ernesto fece la seguente dichiarazione:

«È ragionevole ammettere che se avessi avuto l’intenzione di lanciare
una bomba avrei scelto una così piccola bomba, inoffensiva? Non c’era
neppure dentro polvere bastante. Ha fatto molto fumo, ma non ha ferito
alcuno tranne me. È scoppiata proprio ai miei piedi e non mi ha ucciso.
Credetemi, quando mi immischierò in simili faccende e vorrò adoperare
macchine infernali, farò danni maggiori. Non ci sarà solo fumo ne’ miei
petardi».

Il pubblico ministero replicò che la debolezza dell’ordigno era
dovuta a errore dei socialisti, e così l’esplosione intempestiva,
avendo Ernesto lasciato cadere l’ordigno, per nervosismo. E
quest’argomentazione era rafforzata dalla testimonianza di coloro che
pretendevano di aver visto Ernesto maneggiare la bomba e lasciarla
cadere.

Dal canto nostro, nessuno sapeva come fosse stata lanciata. Ernesto
mi disse che un attimo prima dell’esplosione aveva sentito e veduto
battere il pavimento vicino a lui. Lo affermò pure al processo,
ma nessuno credette. D’altronde, la cosa era «cucinata», secondo
l’espressione popolare. Il Tallone di Ferro aveva deciso di
distruggerci e non c’era da lottare contro di lui.

Secondo un proverbio, la verità finisce sempre col trionfare:[94]
comincio a dubitarne. Diciannove anni sono trascorsi, e con tutti
i nostri sforzi incessanti, non siamo riusciti a scoprire l’autore
del lancio della bomba. Evidentemente dev’essere stato un agente del
Tallone di Ferro, ma non siamo mai riusciti a raccogliere il benchè
minimo indizio sulla sua identità, ed oggi non rimane che classificare
la cosa fra gli enigmi storici.



CAPITOLO XVIII.

ALL’OMBRA DEL MONTE SONOMA.


Non ho molto da dire di ciò che mi accadde personalmente in questo
periodo di tempo, se non che fui tenuta sei mesi in carcere, senza
alcuna imputazione di reato. Ero semplicemente classificata fra i
sospetti, parola terribile che doveva essere ben presto conosciuta da
tutti i rivoluzionarî. Pertanto, il nostro servizio segreto, ancora in
formazione, cominciava a funzionare. Verso la fine del secondo mese di
prigionia, uno dei miei carcerieri mi si rivelò come un rivoluzionario,
in rapporto con la nostra organizzazione. Alcune settimane dopo,
Giuseppe Parkhurst, che era appena stato nominato medico delle
carceri, si fece conoscere come membro di uno dei nostri Gruppi di
Combattimento.

Così, attraverso tutta la trama dell’oligarchia, la nostra
organizzazione tesseva insidiosamente la sua tela. Ero informata di
quanto avveniva all’estero, e ognuno dei nostri capi reclusi era in
relazione con i nostri bravi compagni, che si celavano sotto la livrea
del Tallone di Ferro. Quantunque Ernesto fosse rinchiuso a tre miglia
di là, sulla costa del Pacifico, io ero continuamente in comunicazione
con lui, così che potemmo corrispondere per mezzo di lettere, con
perfetta regolarità. I nostri capi, prigionieri o liberi, potevano
dunque discutere e dirigere il movimento. Sarebbe stato facile, dopo
alcuni mesi, fare evadere parecchi di essi, ma poichè il carcere non
limitava la nostra attività, risolvemmo di evitare ogni tentativo
prematuro. C’erano in carcere cinquantadue rappresentanti e più di
trecento altri capi rivoluzionarii, che decidemmo di liberare tutti
insieme. L’evasione di pochi avrebbe allarmato gli oligarchi, e,
forse, impedita la liberazione degli altri. D’altra parte, pensavamo
che quella fuga collettiva, organizzata in tutto il paese, avrebbe
avuto sul proletariato un’enorme ripercussione psichica, e che quella
dimostrazione della nostra forza avrebbe ispirato fiducia a tutti.

Fu convenuto, dunque, quando fui rilasciata dopo sei mesi, che avrei
dovuto sparire e preparare un rifugio sicuro per Ernesto. Ma non era
facile; appena in libertà, le spie del Tallone di Ferro mi si misero
alle calcagna. Bisognava far loro perdere le tracce e andare in
California. Riuscimmo nell’intento in un modo abbastanza comico. Aveva
già preso grande sviluppo il sistema dei passaporti alla russa. Se
volevo rivedere Ernesto dovevo far perdere completamente le mie tracce,
perchè, se fossi stata seguita, lo avrebbero ripreso. Non potevo
neppure, però, viaggiare travestita da proletaria: non mi rimaneva
altro espediente se non quello di fingermi un membro dell’oligarchia.
Gli Oligarchi supremi erano pochi, ma migliaia di persone di minor
valore, come i signori Wickson, per esempio, che possedevano milioni,
erano i satelliti degli astri maggiori. Poichè le mogli e le figlie
di questi oligarchi minori erano numerosissime, fu deciso che sarei
passata come una di loro. Anni dopo, la cosa sarebbe stata impossibile,
perchè il sistema dei passaporti fu così perfezionato, che tutti,
uomini, donne e bambini, vennero descritti, e seguiti a passo a passo.

Al momento opportuno le mie spie furono avviate su una falsa traccia.
Un’ora dopo, Avis Everhard non esisteva più, mentre una certa signora
Felida Van Verdighan, accompagnata da due cameriere e da un cane dal
lungo pelo ricciuto, che aveva pure la sua cameriera,[95] entrava nel
salone di un vagone Pullman,[96] che, qualche istante dopo, filava
verso occidente.

Le tre cameriere che mi accompagnavano erano tre rivoluzionarie,
di cui due facevano parte dei Gruppi di Combattimento, e la terza,
Grazia Holbrook, ammessa l’anno seguente a far parte di un gruppo,
fu giustiziata, sei mesi dopo, dal Tallone di Ferro. Questa serviva
il cane! Delle due altre, una, Berta Stok, sparì dodici anni dopo;
l’altra, Anna Roylston, vive ancora e ha parte sempre più importante
nella Rivoluzione[97].

Giungemmo, attraverso gli Stati Uniti, senza il più piccolo incidente,
fino alla California. Quando il treno si fermò a Oakland, alla Stazione
della XVIª Via, scendemmo, e Felicia Van Verdighan scomparve per
sempre, con le due cameriere, il cane e la cameriera del cane. Le tre
giovani andarono con dei compagni fidati, altri si incaricarono di
me. Mezz’ora dopo aver lasciato il treno, ero a bordo di un piccolo
battello da pesca nelle acque della baia di San Francisco. Sbalzati
da terribile raffiche di vento, andammo alla deriva per quasi tutta
la notte. Ma vedevo le luci di Alcatraz dove Ernesto era rinchiuso,
e quella vicinanza mi riconfortava. All’alba, a forza di remi,
raggiungemmo le isole Marin. Là, rimanemmo nascosti tutto il giorno; la
notte seguente, portati dalla marea e spinti dal vento, attraversammo
in due ore la baia di San Pablo e risalimmo il Petaluma Creek.

Un altro compagno mi aspettava con i cavalli, e senza ritardo ci
mettemmo in cammino, al lume delle stelle. A settentrione potevo vedere
la massa indistinta del monte Sonoma, verso il quale eravamo diretti.
Lasciammo alla nostra destra la vecchia città di Sonoma e risalimmo
un canalone che sprofondava nei primi contrafforti della montagna. La
strada, da carreggiabile, divenne sentiero, e poi un semplice passaggio
per le bestie, che finì col perdersi nei pascoli dell’alta montagna.
Raggiungemmo a cavallo la cima del monte Sonoma. Era questo il cammino
più sicuro, perchè nessuno, là, poteva osservare il nostro passaggio.

L’aurora ci sorprese sulla cresta del versante settentrionale, e
l’aria grigia ci vide andare a precipizio, attraverso boschi di
querce intristite nelle gole profonde ancora tiepide in quella fine
d’estate; dove s’inalzavano i maestosi sequoia. Poichè quello era per
me un luogo familiare e caro, io, ora, facevo da guida. Era il mio
nascondiglio, l’avevo scelto io. Entrammo in una prateria abbassando le
sbarre ad un passaggio e l’attraversammo; poi, oltrepassato un piccolo
rialzo ricoperto di querce, discendemmo in una prateria più piccola,
e risalimmo un’altra cresta, questa volta all’ombra dei «mandroños»
e dei «manzanìtas» dorati. I primi raggi del sole ci colpirono la
schiena, mentre salivamo. Un volo di quaglie si levò con rumore dal
bosco; un grosso coniglio attraversò la nostra strada, a salti rapidi e
silenziosi; un daino, al quale il sole indorava il collo e le spalle,
valicò la cresta davanti a noi, e scomparve. Seguimmo per un tratto
la pista dell’animale, discendemmo poi, a picco, seguendo un sentiero
a zig-zag che l’animale aveva disegnato, nel folto di un magnifico
gruppo di sequoia che contornava uno stagno dalle acque fatte oscure
dai minerali disciolti che contenevano. Conoscevo quel cammino sin
nei minimi particolari, perchè un tempo, uno scrittore, mio amico,
aveva posseduto la fattoria. Anch’egli era diventato rivoluzionario,
ma con minor fortuna di me, perchè era già sparito, e nessuno aveva
saputo mai dove nè come fosse morto. Lui solo conosceva il segreto del
nascondiglio verso il quale mi dirigevo. Aveva comperato la fattoria
per la bellezza pittoresca di questa, e l’aveva pagata cara, con
grande scandalo dei fattori del luogo. Si divertiva a raccontarmi come
quand’egli ne diceva il prezzo, costoro alzassero la testa con aria
costernata, e dopo una seria operazione di calcolo mentale, finissero
coll’esclamare: «Non potrete ricavarne il sei per cento».

Ma era morto, e i suoi figli non avevano ereditato la fattoria. Caso
strano, essa apparteneva al signor Wickson, che possedeva attualmente
tutto il pendio orientale e settentrionale del monte Sonoma, dalla
proprietà degli Spreckels fino alla linea di cinta della vallata
Bennett. Ne aveva fatto un magnifico parco di daini, che si stendeva
per migliaia di acri di prateria in pendio dolce, di boschi e di
canaloni, dove gli animali si movevano in libertà, come se fossero
nello stato selvaggio. Gli antichi proprietarî del terreno erano stati
scacciati, e un asilo per deficienti era stato demolito per far posto
ai daini.

Come se non bastasse tutto ciò, il padiglione della bandita del signor
Wickson era situato a un quarto di miglio dal mio rifugio. Ma questo,
anzichè un pericolo, costituiva una garanzia di sicurezza. Saremmo
stati sotto l’egida d’uno degli oligarchi secondarî. Ogni sospetto
sarebbe stato stornato da questo fatto. L’ultimo angolo del mondo, dove
le spie del Tallone di Ferro potessero pensare di cercare Ernesto e me,
sarebbe stato certo il parco dei daini del signor Wickson.

Legammo i nostri cavalli sotto i sequoia, vicino allo stagno. Da
un nascondiglio fatto in un tronco marcio, il mio compagno levò un
rifornimento di oggetti varî: un sacco di farina di cinquanta libbre,
scatole di conserva di ogni specie, utensili da cucina, coperte di
lana, tele cerate, libri e l’occorrente per scrivere, un grosso pacco
di lettere, un bidone di cinque galloni di petrolio, e un gran rotolo
di grossa corda. Quell’approvvigionamento era tanto considerevole, che
ci sarebbero voluti numerosi viaggi per trasportarlo al nostro asilo.
Per fortuna, il rifugio non era lontano. Mi caricai del pacco di corda
e, per prima, mi inoltrai in un fitto di arbusti e di viti vergini
intrecciate, che formavano, fra due monticelli boscosi, come un viale
verde, che finiva bruscamente sul letto scosceso d’un corso d’acqua.
Era questo un piccolo ruscelletto alimentato anche da sorgenti, che
i più forti calori dell’estate non inaridivano mai. Da ogni parte
sorgevano monticelli boscosi: ce n’erano molti, e sembravano gettati
là, dal gesto negligente di un Titano. S’inalzavano a qualche centinaio
di piedi sulla base, ma erano senza nucleo roccioso, composto solo di
terra vulcanica rossa, la famosa terra color vino della Sonoma. Fra
quei rialzi, il piccolo ruscello si era scavato un letto molto scosceso
e profondamente incassato.

Bisognò lavorar di piedi e di mani, per scendere fino al letto del
ruscello, e, una volta là, per seguirne il corso lungo un centinaio di
piedi. Allora arrivammo al grande abisso. Nulla rivelava l’esistenza
di quel baratro, che non era un buco nel vero senso della parola. Ci
si trascinava carponi fra un inestricabile confusione dì arbusti e di
tronchi, e ci si trovava sul margine dell’abisso, e, attraverso una
cortina verde, si poteva approssimativamente giudicare che il baratro
avesse duecento piedi di lunghezza, altrettanti di larghezza, e circa
la metà di profondità. Forse per qualche causa geologica remota,
all’epoca della formazione dei monticelli, e certo per effetto di
un’erosione capricciosa, l’escavazione era avvenuta nel corso dei
secoli, per lo scolo delle acque. La terra nuda non appariva in nessun
punto. Non si vedeva che un tappeto verde, dai sottili capillari,
chiamati capelli di vergine, e felci dorate, agli imponenti sequoia
e pini di Douglas. Questi grandi alberi s’inalzavano perfino sulle
pareti dell’abisso. Alcuni erano inclinati a quarantacinque gradi;
ma la maggior parte sorgevano direttamente dal suolo molle e quasi
perpendicolare.

Era un nascondiglio ideale. Nessuno veniva là, mai, neppure i monelli
del villaggio di Glen-Ellen. Se il buco fosse stato nel letto di
un canalone avente uno o più miglia di lunghezza, sarebbe stato
conosciuto, ma non era così. Da un capo all’altro il corso d’acqua
non aveva più di cinquecento metri di lunghezza. Nasceva a trecento
metri a monte dell’abisso, da una sorgente in fondo a una prateria; a
cento metri a valle, sboccava in aperta campagna, ed arrivava al fiume
attraverso un terreno erboso e ondulato.

Il mio compagno girò la corda attorno a un albero e dopo avermi ben
legata, mi fece scendere. In un istante fui in fondo. In breve, egli
mi mandò, con lo stesso modo, tutte le provviste del nascondiglio. Poi
ritirò la corda, la nascose, e prima di partire mi mandò un cordiale
arrivederci.

Prima di continuare devo dire qualche parola di questo compagno,
John Carlson, umile seguace della Rivoluzione, uno degli innumerevoli
fedeli che costituivano le file dell’esercito. Lavorava presso Wickson,
nelle stalle del padiglione della bandita. Infatti avevamo valicato la
Sonoma, sui cavalli di Wickson. Per circa vent’anni, sino al momento
in cui scrivo, John Carlson è stato la guardia del rifugio, e durante
tutto questo tempo sono sicura che non un solo pensiero sleale ha
sfiorato la sua mente neppure in sogno. Era di un carattere calmo, e
pesante, a tal punto che non si poteva a meno di chiedersi che cosa
fosse per lui la Rivoluzione. Eppure l’amore della libertà proiettava
una luce tranquilla in quell’anima oscura. Sotto certi aspetti era
meglio che non fosse dotato di immaginazione. Non perdeva mai la testa.
Sapeva ubbidire agli ordini, e non era nè curioso, nè chiacchierone.
Gli chiesi un giorno come mai fosse rivoluzionario.

— Sono stato soldato da giovane, — rispose. — Ero in Germania. Là tutti
i giovani devono far parte dell’esercito, e nel reggimento al quale
appartenevo, avevo un compagno della mia età. Suo padre era quello che
voi chiamate un agitatore, ed era stato messo in prigione per delitto
di lesa maestà, ossia per aver detto la verità circa l’Imperatore.
Suo figlio mi parlava spesso del popolo, del lavoro e del modo con
cui viene derubato dai capitalisti. Mi fece vedere le cose sotto un
nuovo aspetto e divenni socialista. Quanto diceva era giusto e bene,
e non l’ho mai dimenticato. Venuto negli Stati Uniti, mi sono messo
in rapporto coi socialisti e mi son fatto accogliere come membro di
una sezione. Era il tempo del S. L. P.[98]. In seguito, quando avvenne
la scissione, sono entrato a far parte del S. P. locale. Lavoravo
allora presso un noleggiatore di cavalli, a San Francisco; prima del
terremoto. Ho pagato le mie quote per ventidue anni. Sono sempre membro
e pago sempre la mia parte, quantunque ora si debba fare ciò in gran
segretezza. Continuerò ad adempiere a questo dovere, e quando avverrà
la Repubblica Cooperativa sarò contento.

Abbandonata a me stessa, feci cuocere la colazione sul fornello a
petrolio e misi in ordine la mia nuova dimora. Spesso, di buon mattino
o verso sera, Carlston veniva fino al mio rifugio e vi lavorava
per una o due ore. Mi riparai dapprima sotto la tela cerata, poi
rizzammo una piccola tenda; dopo, quando fummo certi della sicurezza
del nostro eremo, costruimmo là una piccola casa. Era completamente
nascosta allo sguardo di chi si affacciasse sull’abisso; la vegetazione
lussureggiante di quell’angolo riparato formava una difesa naturale.
D’altronde, la casa fu appoggiata alla parete verticale e in quello
stesso muro, scavammo due piccole camere, puntellate da forti tavole
di quercia, bene aereate e asciutte. Prego credere che avevamo tutti i
nostri comodi. Quando, in seguito, il terrorista tedesco Biendenbach
venne a nascondersi con noi, vi introdusse pure un apparecchio
che distruggeva il fumo: così che potevamo sedere, durante le sere
d’inverno, attorno al fuoco crepitante.

E qui, sento anche il dovere di dir bene di questo terrorista
dall’animo dolce, che fu certamente il più frainteso dei nostri
compagni rivoluzionarî. Biendenbach non ha mai tradito la causa, e
non è stato giustiziato dai suoi compagni, come si suppone. È questa
una frottola inventata dalle creature dell’Oligarchia. Il compagno
Biendenbach era molto distratto e di poca memoria. Fu ucciso da una
delle nostre sentinelle nel rifugio sotterraneo di Carmel perchè
aveva dimenticato i segnali segreti. Fu un errore deplorevole, certo;
ma è assolutamente falso affermare che avesse tradito il suo Gruppo
di Combattimento. Mai uomo più sincero e leale ha lavorato per la
Causa[99].

Sono ormai circa diciannove anni che il rifugio scelto da me è quasi
costantemente abitato, e in tutto questo tempo, tranne un caso, non è
stato mai scoperto da estranei. Eppure era solo a un quarto di miglio
dal padiglione della bandita di Wickson, e a un miglio appena dal
villaggio di Glen Ellen. Tutte le mattine e tutte le sere, sentivo il
treno arrivare e partire, e regolavo il mio orologio secondo il fischio
della fabbrica di mattoni[100].



CAPITOLO XIX.

TRASFORMAZIONE.


— Bisogna che tu ti trasformi interamente, — mi scriveva Ernesto.
— Bisogna cessare di esistere e diventare un’altra donna, non solo
cambiando il modo di vestire, ma perfino pelle sotto l’abito nuovo.
Bisogna che tu ti rifaccia completamente in modo tale, che persino
io non possa riconoscerti, mutando la voce, i gesti, il modo di fare,
l’andatura, tutta, insomma, la persona.

Obbedii a quest’ordine, esercitandomi parecchie ore al giorno a
seppellire definitivamente l’Avis Everhard di un tempo, sotto la
pelle d’una donna nuova che potrei chiamare il mio altro io. Un tale
risultato si può ottenere solo con tenacia di lavoro; infatti, mi
applicavo quasi senza interruzione, perfino intorno ai particolari
minimi della intonazione della mia voce, sinchè la voce del mio nuovo
essere non fu stabile e meccanica. Possedere quest’automatismo era
la condizione prima essenziale per riuscire nello scopo. Bisognava
giungere al punto d’ingannare me stessa. Si prova qualcosa di simile
quando s’impara una nuova lingua, il francese, per esempio. In
principio, si parla in modo cosciente, con uno sforzo di volontà; si
pensa in inglese e si traduce in francese, oppure si legge in francese,
ma si traduce in inglese prima di capire. Poi lo sforzo diventa
automatico; lo studente si trova su un terreno solido; legge, scrive e
pensa in francese senza più ricorrere all’inglese.

Così, per i nostri travestimenti, era necessario che ci esercitassimo
fino a che la nostra parte artificiale fosse diventata reale al punto
che, per ridiventare noi stessi, occorresse uno sforzo di attenzione e
di volontà. In principio, naturalmente, brancicavamo un poco alla cieca
e ci smarrivamo spesso. Stavamo creando un’arte nuova, e c’era molto
da scoprire. Ma il lavoro progrediva ovunque; nuovi maestri sorgevano
in quest’arte, e si veniva formando, a poco a poco, tutta una serie di
trucchi e di espedienti. Questa esperienza divenne come una materia di
manuale che passasse di mano in mano, e faceva parte, per così dire,
del programma di studio della scuola della Rivoluzione[101].

In questo tempo, mio padre scomparve. Le sue lettere, che mi erano
sempre giunte regolarmente, cessarono. Egli non fu più visto nel nostro
appartamento di Pell Street. I nostri compagni lo cercarono ovunque:
tutte le prigioni del paese furono esplorate dai nostri informatori
segreti; ma egli rimase irreperibile, come se la terra lo avesse
inghiottito; e fino ad oggi non è stato possibile avere il minimo
indizio del modo come morì.[102]

Passai mesi di solitudine, nel rifugio, ma non furono vani. La
nostra organizzazione progrediva celermente e montagne di lavoro si
ammucchiavano ogni giorno, attorno a noi. Dalla prigione, Ernesto
e gli altri capi decidevano ciò che si doveva fare, e spettava a
noi, ch’eravamo fuori, eseguire. Il nostro programma comprendeva,
per esempio, la propaganda orale, l’organizzazione del metodo di
spionaggio, con tutte le sue ramificazioni; la fondazione di tipografie
clandestine; il nostro treno sotterraneo, come lo chiamavamo, ossia
la possibilità di comunicazione fra i nostri nuovi rifugi, che erano
migliaia, quando era interrotta la catena creata attraverso tutti i
paesi.

Per questo, come dissi, il lavoro non era mai finito. Dopo sei mesi, il
mio isolamento fu rotto dalla venuta di due compagne: due giovanette,
brave e buone creature appassionate per la libertà: Lora Peterson, che
sparì nel 1922, e Kate Bierce che sposò, poi, Du Bois[103], e che vive
ancora con noi, in attesa della novella aurora.

Giunsero in uno stato febbrile, quale si può immaginare in due
giovinette sfuggite a un pericolo improvviso di morte. Tra l’equipaggio
del battello da pesca che le trasportava, attraverso la baia di San
Pablo, c’era una spia, una creatura del Tallone di Ferro; un tale che
era riuscito a farsi credere rivoluzionario e a penetrare profondamente
nei segreti della nostra organizzazione. Senza dubbio, era sulle mie
tracce, perchè sapevamo da tempo che la mia scomparsa aveva preoccupato
seriamente il servizio segreto dell’oligarchia. Fortunatamente, come si
potè vedere in seguito, non aveva rivelato a nessuno la sua scoperta.
Evidentemente aveva rimandato il suo rapporto a più tardi, sperando di
condurre a buon fine l’impresa di trovare il mio asilo e impadronirsi
della mia persona. Le sue informazioni perirono con lui. Con un
pretesto qualsiasi, quando le giovanette sbarcarono a Petaluna Creek, e
salirono a cavallo, egli pure abbandonò il battello.

Cammin facendo, sul pendìo del monte Sonoma, John Carlston lasciò che
le figliole andassero avanti sul suo cavallo, e ritornò indietro a
piedi. Insospettito, egli s’impadronì della spia, e dal racconto che ci
fece, potemmo formarci un concetto di ciò che era avvenuto, nonostante
la mancanza di immaginazione del narratore.

— Gli ho dato la lezione che meritava, — disse semplicemente. — Gli
ho dato la lezione che meritava, — ripetè; e una luce sinistra gli
splendeva negli occhi; e le mani, deformate dal lavoro, gli si aprivano
e chiudevano eloquentemente. — Non ha fatto chiasso. Ora l’ho nascosto,
e questa notte lo sotterrerò profondamente.

Durante questo periodo di tempo, mi stupivo spesso della mia
metamorfosi che, a volte, mi sembrava persino inverosimile, sia forse
perchè ero vissuta nella tranquillità di una città universitaria,
sia perchè ero diventata una rivoluzionaria agguerrita alle scene di
violenza e di morte. L’una o l’altra di queste due cose mi sembrava
impossibile: se l’una era vera, l’altra doveva essere un sogno;
ma quale delle due era vera? La mia vita attuale di rivoluzionaria
nascosta in un buco era forse un sogno? Oppure potevo credermi una
ribelle sognante un’esistenza anteriore in cui non avevo conosciuto
nulla di più eccitante del thè o del ballo, le riunioni, le discussioni
in contraddittorio, e le conferenze? Ma, dopo tutto, credo che fosse
un’esperienza comune a tutti i compagni schierati sotto la bandiera
rossa della società umana.

Ricordavo spesso persone di quell’altra esistenza, e in modo strano
esse apparivano e sparivano di tanto in tanto nella mia nuova vita.
Tale, il caso del Vescovo Morehouse. Invano l’avevamo cercato, dopo lo
sviluppo della nostra organizzazione; era stato trasferito di manicomio
in manicomio. Avevamo seguito le sue tracce dal manicomio di Napa a
quello di Stockton e di là al manicomio della valle di Santa Clara,
chiamato Agnews, ma a questo punto si perdevano le tracce. Il suo atto
di morte non esisteva. Certo era scappato, in un modo o in un altro.
Non immaginavo punto le terribili circostanze in cui lo avrei rivisto,
meglio intravedendo nel turbine micidiale della Comune di Chicago.

Non rividi più Jackson, l’uomo che aveva perduto un braccio nelle
filande della Sierra e che era stato la causa occasionale della mia
conversione alla Rivoluzione, ma sapevamo tutti ciò che aveva fatto
prima di morire. Non si era mai unito ai rivoluzionarî. Inasprito
dal destino avverso, covando nel cuore il ricordo del male che gli
avevano fatto, diventò anarchico, non nel senso filosofico, ma come
un qualunque animale spinto dall’odio e dal desiderio di vendetta.
E si vendicò e bene. Una notte, mentre tutti dormivano nel Palazzo
Personwaithe, eludendo la vigilanza delle sentinelle, fece saltare in
aria la casa. Neppur uno sfuggì al massacro, neppure le sentinelle.
E nella prigione dove aspettava la sentenza, l’autore del disastro si
soffocò sotto le coperte.

Molto diversi da questo furono i destini del dottore Hammerfield e del
dottor Ballingford: rimasti fedeli al loro padrone, furono ricompensati
con palazzi vescovili, ove vivono in pace col mondo. Tutt’e due sono
apologisti dell’Oligarchia, e tutti e due sono diventati grassi.

— Il dottor Hammerfield. — spiegò un giorno Ernesto, — è riuscito a
modificare la sua metafisica in modo da poter assicurare al Tallone di
Ferro la sanzione divina, poi a farvi entrare largamente l’adorazione
della bellezza, e in ultimo a ridurre allo stato di spettro invisibile
il vertebrato gasoso di cui parla Hackel. La differenza fra il dottor
Hammerfield e il dottor Ballingford consiste in ciò, che quest’ultimo
concepisce il Dio degli Oligarchi come un po’ più gasoso e un po’ meno
vertebrato.

Pietro Donnelly, capo operaio giallo delle filande della Sierra,
che avevo incontrato durante la mia inchiesta per il caso Jackson,
preparava a tutti una sorpresa. Nel 1918 assistevo ad una riunione dei
Rossi di San Francisco. Di tutti i nostri Gruppi di Combattimento era
questo il più formidabile, il più feroce e senza pietà. Non faceva
proprio parte della nostra organizzazione; i suoi membri erano dei
pazzi, dei fanatici; al punto che noi non osavamo incoraggiare il
loro stato d’animo. Però eravamo in rapporti amichevoli con loro,
sebbene non fossero dei nostri. Ero là, quella sera, per una faccenda
di capitale importanza; in mezzo a una ventina di uomini, ero la sola
non mascherata. Sbrigata la faccenda, fui accompagnata da uno di loro.
Passando in un corridoio buio, la mia guida accese un fiammifero,
l’avvicinò al viso e si tolse la maschera. Intravidi i lineamenti
appassionati di Pietro Donnelly, poi il fiammifero si spense.

— Volevo solo farvi vedere che ero io, — disse nell’oscurità. —
Ricordate Dallas, il sopraintendente?

Ricordai la faccia di volpe di quell’uomo.

— Ebbene, l’ho aggiustato come si meritava, per primo, — disse
Donnelly, con orgoglio. — Poi mi son fatto accogliere tra i Rossi.

— Ma come mai siete qui? — chiesi. — E vostra moglie? E i vostri
bambini?

— Morti, — rispose. — Per questo, sono qui... No, — proseguì vivamente
— non per vendicarli; sono morti tranquillamente, nel loro letto, per
malattia.... Capirete, un giorno o l’altro doveva accadere! Finchè li
avevo, le mani erano legate; ora che non ci sono più, vendico la mia
virilità sciupata. Un tempo ero Pietro Donnelly, capo operaio giallo,
ma oggi sono il Numero 27 dei Rossi di San Francisco. Venite, vi farò
uscire.

Udii parlare ancora di lui parecchio tempo dopo. Aveva detto la verità
a modo suo, dicendomi che tutti i suoi erano morti: gli mancava
un figlio, Timoteo, che egli considerava come morto, perchè si era
arruolato con i Mercenarî dell’Oligarchìa.[104] Ogni membro dei Rossi
di San Francisco s’impegnava, con giuramento, di compiere dodici
esecuzioni all’anno, e di uccidersi se non fosse riuscito nell’intento.
Le esecuzioni non erano però arbitrarie. Quel gruppo di esaltati si
riuniva spesso e pronunciava sentenze a serie contro membri e servitori
dell’Oligarchìa che si erano esposti alla sua vendetta. Il compito
delle esecuzioni veniva poi assegnato a sorte.

La faccenda che mi aveva condotto là, quella sera, era precisamente
un verdetto del genere. Uno dei nostri compagni, che da molti anni era
riuscito a mantenere il suo posto come commesso nell’ufficio locale del
servizio segreto del Tallone di Ferro, aveva svegliato i sospetti dei
Rossi di San Francisco, che l’avevano condannato. La sentenza sarebbe
stata letta quel giorno stesso. Naturalmente egli non era presente; i
suoi giudici ignoravano che fosse uno dei nostri. La mia missione era
di testimoniare della sua identità e lealtà. Si chiederà come fossi
informata di questa faccenda. La spiegazione è molto semplice: uno dei
nostri agenti segreti faceva parte dei Rossi di San Francisco. Era
necessario seguir le mosse sia degli amici, che dei nemici; e quel
gruppo di fanatici era troppo importante, per sfuggire alla nostra
sorveglianza.

Ma ritorniamo a Pietro Donnelly e a suo figlio. Tutto andò bene per
il padre fino al giorno in cui, nel gruppo estratto a sorte fra i
condannati da giustiziare, la cui esecuzione spettava a lui, trovò il
nome di suo figlio. Allora si risvegliò in lui l’istinto paterno che un
tempo era così forte in lui. Per salvare suo figlio tradì i compagni.
Il suo disegno fu in parte sventato; ciononostante, una dozzina di
Rossi di San Francisco furono giustiziati e il Gruppo venne quasi
distrutto. Per rappresaglia, i sopravvissuti fecero fare a Donnelly la
fine che meritava pel suo tradimento. Suo figlio non gli sopravvisse a
lungo; i Rossi di San Francisco s’impegnarono con giuramento solenne
di sopprimerlo. L’Oligarchìa fece tutti gli sforzi per salvarlo: lo
trasferì da una parte all’altra del paese; tre Rossi perdettero la vita
per catturarlo. Il gruppo si componeva solo di uomini, ma alla fine
ricorsero a una donna, a una delle nostre compagne, ad Anna Roylston.
Il nostro gruppo intimo le proibì di accettare quella missione ma
da essa che aveva sempre avuto una volontà propria e sdegnava ogni
disciplina, e inoltre era intelligente ed attirava la simpatia, non si
poteva ottenere nulla. Formava un tipo a sè, diverso da qualsiasi altro
tipo di rivoluzionaria. Nonostante il nostro divieto, essa si ostinò e
volle compiere quell’atto.

Anna Roylston era una creatura veramente seducente, cui bastava
un cenno per sedurre un uomo. Aveva già infiammato i cuori di
numerosi nostri giovani compagni e ne aveva attratti altri alla
nostra organizzazione. Pertanto, rifiutava sempre di sposarsi. Amava
teneramente i bimbi, ma pensava che un bambino suo l’avrebbe distratta
dalla Causa, alla quale aveva dedicato la vita.

Fu un gioco semplicissimo per Anna Roylston la conquista del cuore di
Timoteo Donnelly. Essa non provò nessun rimorso di coscienza, perchè
proprio in quel tempo avvenne il massacro di Nashville, nel quale i
Mercenarî, agli ordini di Donnelly, assassinarono ottocento tessitori
di quella città. Ma essa non uccise Donnelly con le sue mani; lo
consegnò prigioniero nelle mani dei Rossi di San Francisco. Questo
avvenne l’anno scorso. Ora essa è stata ribattezzata: i Rivoluzionari
la chiamano la «Vergine Rossa»[105].

Il Colonnello Ingram e il Colonnello Van Gilbert sono due personaggi
fra i più noti, che finii col conoscere in seguito. Il Colonnello
Ingram s’innalzò molto nell’Oligarchia, e diventò ambasciatore di
Germania, e fu cordialmente detestato dal proletariato dei due paesi.
Lo conobbi a Berlino, quando, spia internazionale, accreditata presso
il Tallone di Ferro mi ricevette in casa sua e mi diede un prezioso
aiuto. Posso dichiarare ora, che il mio doppio incarico mi permise di
compiere alcune cose di grande importanza per la Rivoluzione.

Il colonnello Van Gilbert divenne celebre col nome di Van Gilbert il
rabbioso. Sua opera principale fu la collaborazione al nuovo codice,
dopo la Comune di Chicago. Ma già prima, come giudice criminale, si era
attirato una condanna di morte, per la sua demoniaca cattiveria. Io fui
una delle persone che lo giudicarono e condannarono: e Anna Roylston
eseguì la sentenza.

Ancora uno spettro della mia vita anteriore: l’avvocato di Jackson,
Giuseppe Hurd, era davvero l’ultimo uomo che mi aspettassi di rivedere,
e fu uno strano incontro, il nostro. Due anni dopo la Comune di
Chicago, una sera, a tarda ora, Ernesto ed io arrivammo insieme al
rifugio di Benton Harbour nel Michigan, sulla riva del lago opposta a
quella di Chicago, proprio quando stava terminando il processo di una
spia. La sentenza di morte era stata pronunciata e si stava trascinando
il condannato. Appena c’intravide, sfuggì dalle mani dei guardiani e si
precipitò ai miei piedi, abbracciandomi le ginocchia come in una morsa,
implorando pietà, come in delirio. Quando alzò verso di me il suo viso
spaventato riconobbi Giuseppe Hurd. Ora, di tutte le scene terribili
che ho visto, nessuna mi ha commosso tanto quanto lo spettacolo
di quella creatura disperata, che implorava grazia. Attaccato
disperatamente alla vita, si avvinghiava a me nonostante gli sforzi di
molti compagni per distaccarlo. E quando alla fine lo trascinarono via,
io caddi a terra svenuta. È meno terribile veder morire uomini forti,
che sentire un vile implorare la vita.[106]



CAPITOLO XX.

UN OLIGARCA PERDUTO.


I ricordi della mia vita passata mi hanno spinta troppo oltre nella
storia della mia vita nuova. La liberazione in massa dei nostri
amici prigionieri avvenne alquanto tardi, nel corso del 1915. Sebbene
complicata, simile impresa avvenne senza incidenti, con un successo che
fu per noi un onore e un incoraggiamento. Da una quantità di prigioni,
di prigioni militari, di fortezze disseminate da Cuba alla California,
liberammo, in una sola notte, cinquantuno dei nostri Congressisti
su cinquantadue, e più di trecento agitatori. Non ci fu il benchè
minimo incidente: non solo scapparono tutti, ma tutti raggiunsero i
ricoveri loro preparati. Il solo dei nostri rappresentanti che non
facemmo evadere fu Arthur Simpson, già morto a Cabanyas, dopo crudeli
sofferenze.

I diciotto mesi che seguirono, segnano forse il tempo più felice della
mia vita con Ernesto: durante quest’epoca, non ci siamo lasciati un
istante, mentre, più tardi, rientrati nel mondo, abbiamo dovuto vivere
spesso separati. L’impazienza con cui aspettavo quella sera l’arrivo
di Ernesto era grande come quella che provo oggi davanti alla rivolta
imminente. Ero stata così a lungo, senza vederlo, che impazzivo quasi
all’idea che il minimo contrattempo nei nostri disegni potesse tenerlo
ancora prigioniero nella sua isola. Le ore mi sembravano secoli. Ero
sola. Biedenbach e tre giovanotti nascosti nel nostro ricovero si erano
appostati dall’altro lato della montagna, armati e pronti a tutto.
Credo infatti che quella notte, in tutto il paese, tutti i compagni
fossero fuori dei loro rifugi.

Quando il cielo impallidì per l’avvicinarsi dell’aurora, intesi
dall’alto il segnale convenuto e mi affrettai a rispondere.
Nell’oscurità, per poco non abbracciai Biedenbach che scendeva per il
primo, ma un istante dopo ero nelle braccia di Ernesto. Mi accorsi in
quel momento, tanto la trasformazione era profonda, che dovevo fare uno
sforzo di volontà per ridiventare l’Avis Everhard di un tempo, coi suoi
modi, il suo sorriso, le sue frasi e le sue intonazioni di voce. Solo
a forza di attenzione, riuscivo a conservare la mia antica identità.
Non potevo permettermi di dimenticarmi un attimo, tanto imperativo era
diventato l’automatismo della mia personalità acquisita.

Quando fummo rientrati nella nostra piccola capanna, la luce mi permise
di esaminare il volto di Ernesto. Tranne il pallore, acquistato durante
il soggiorno in carcere, non c’era — o mi pareva di non vedere — alcun
cambiamento in lui. Era sempre lo stesso: il mio amante, il mio marito,
il mio eroe. Solo una specie di ascetismo gli affinava un poco le linee
del volto, conferendogli un’espressione di nobiltà che ingentiliva
l’eccesso di vitalità tumultuosa che gl’improntava prima il viso.
Forse era diventato un po’ più grave, ma una luce allegra gli luceva
sempre negli occhi. Sebbene fosse dimagrito di una ventina di libbre,
conservava forme perfette, avendo sempre esercitato i muscoli durante
la prigionia, ed erano di ferro. In realtà era in condizioni migliori
che alla sua entrata in carcere. Parecchie ore passarono prima che la
sua testa si posasse sul guanciale e che si addormentasse sotto le mie
carezze. Io non potei chiudere occhio. Ero troppo felice e non avevo
diviso con lui le fatiche dell’evasione e della corsa a cavallo.

Mentre Ernesto dormiva, cambiai gli abiti, aggiustai in altro modo
i miei capelli, ripresi la mia nuova personalità; quella automatica.
Quando Biedenbach e gli altri compagni si svegliarono, mi aiutarono
a ordire una piccola burla. Tutto era pronto ed eravamo nella piccola
camera sotterranea che serviva da cucina e da sala da pranzo, quando
Ernesto aprì l’uscio ed entrò. In quel momento, Biedenbach mi chiamò
col nome di Maria, ed io mi rivolsi a lui per rispondergli. Guardai
Ernesto con l’interesse curioso che una giovane compagna manifesterebbe
vedendo per la prima volta un eroe tanto noto della Rivoluzione. Ma lo
sguardo di Ernesto si fermò appena su me, e, fece il giro della camera,
cercando impazientemente qualche altro. Gli fui allora presentata col
nome di Maria Holmes.

Per completare la scena avevamo preparato un posto a tavola in più, e,
sedendoci, lasciammo una sedia vuota. Avevo una gran voglia di gridare
vedendo crescer l’ansia di Ernesto. E non potei trattenermi a lungo.

— Dov’è mia moglie? — chiese egli bruscamente.

— Dorme ancora, — risposi.

Era il momento critico, ma la mia voce gli era nuova, ed egli non
riconobbe nulla di famigliare in essa. Il pasto continuò. Parlai
molto, con esaltazione, come avrebbe potuto fare l’ammiratrice di un
eroe, mostrando chiaro come il mio eroe fosse lui. La mia ammirazione
entusiastica giunge presto al parossismo, e, prima che egli possa
indovinare la mia intenzione ecco che gli getto le braccia al collo
e lo bacio sulla bocca. Mi allontana, e lancia intorno uno sguardo
incerto e seccato... I quattro uomini si misero a ridere; seguirono
le spiegazioni. Ernesto rimase dapprima incredulo: mi esaminava
attentamente, e sembrava quasi convinto, poi alzava la testa e non
voleva più credere. Solo quando, ridiventata l’Avis Everhard di un
tempo, gli mormorai all’orecchio i segreti noti esclusivamente a lei e
a lui, finì coll’accettarmi come sua vera moglie.

Dopo, durante il giorno mi prese fra le braccia, manifestando un grande
imbarazzo e attribuendosi sensazioni da poligamo.

— Sei la mia cara Avis, — disse —, ma sei pure un’altra. Essendo due
donne in una, tu costituisci il mio _Harem_. Comunque, per il momento,
siamo al sicuro. Ma se gli Stati Uniti diventassero, per noi, troppo
caldi, avrei tutte le qualità per diventare cittadino turco.[107]

Conobbi allora la perfetta felicità, nel nostro rifugio. Dedicavamo
lunghe ore a lavori serii, ma lavoravamo insieme. Eravamo l’uno
dell’altra per un lungo periodo di tempo, e il tempo ci sembrava
prezioso. Non ci sentivamo isolati, perchè i nostri compagni andavano
e venivano, portando la eco sotterranea di un mondo di intrighi
rivoluzionarii, o il racconto di lotte ingaggiate su tutto il fronte
di battaglia. L’allegria non mancava, fra quelle oscure cospirazioni.
Sopportavamo molto lavoro e molte sofferenze, ma i vuoti delle nostre
file erano presto colmati, e procedevamo sempre, e fra i colpi, i
contraccolpi della vita e della morte, trovavamo il tempo di ridere e
di amare. C’erano, fra noi, artisti, scienziati, studenti, musicisti
e poeti; in quel covile fioriva una coltura più nobile e più raffinata
che nei palazzi e nelle città meravigliose degli oligarchi. D’altronde,
molti dei nostri compagni s’erano professionalmente dedicati ad
abbellire quei palazzi e quelle città di sogno.[108]

D’altra parte, non eravamo confinati nel nostro rifugio. Spesso, la
notte, per esercitarci nel moto, percorrevamo a cavallo la montagna,
adoperando cavalcature di Wickson. Se sapesse quanti rivoluzionarii
hanno portato le sue bestie! Organizzavamo persino delle merende
nei posti più solitarî che conoscevamo, dove rimanevamo dall’alba al
tramonto, tutto il giorno. Ci servivamo pure della panna e del burro
di Wickson; e Ernesto non si faceva alcuno scrupolo di ammazzarne
le quaglie e i conigli, e, persino, se gli capitava, qualche giovane
daino.[109]

Realmente, quello era un rifugio delizioso. Credo però di aver detto
che fu scoperto una volta, e ciò m’induce a parlare della scomparsa
del giovane Wickson. Ora che è morto posso dire liberamente la verità.
C’era in fondo al nostro gran buco, un angolo invisibile dall’alto,
dove il sole batteva durante parecchie ore. Avevamo trasportato colà un
po’ di sabbia del fiume, in modo che c’era un caldo secco che rendeva
piacevole, a chi volesse, l’arrostirsi al sole. In quel punto, un
giorno, dopo pranzo, mi ero mezzo assopita, tenendo in mano un volume
di Mendenhall.[110] Ero così comoda e sicura che neppure il lirismo
infiammato del poeta riusciva a commuovermi. Fui richiamata alla realtà
da una zolla di terra che cadde ai miei piedi: poi, sentii in alto il
rumore di una sdrucciolata e, un istante dopo, vidi un giovanotto che,
fatto un ultimo sdrucciolone lungo la parete brulla, atterrava davanti
a me.

Era Filippo Wickson, che non conoscevo allora. Egli mi guardò
tranquillamente, e fischiò dolcemente, per la sorpresa.

— Oh, bella! — esclamò, e, togliendosi il cappello quasi subito, disse;
— Vi porgo le mie scuse; non credevo di trovare gente qui.

Ebbi meno sangue freddo di lui. Ero ancora inesperta circa la condotta
da tenere nelle circostanze gravi. Dopo, quando diventai una spia
internazionale, mi sarei mostrata meno confusa, ne sono certa. Allora
mi alzai di botto e lanciai il grido di allarme.

— Che succede? — chiese egli, guardandomi con aria interrogativa. —
Perchè gridate?

Era evidente che non aveva neppure sospettato la nostra presenza,
scendendo colà. Me ne accorsi con vero sollievo.

— Perchè credete che abbia gridato? — replicai. Ero proprio inetta, in
quel tempo.

— Non so nulla — rispose scuotendo il capo. — Se non che probabilmente
avrete degli amici, là. In ogni modo bisogna spiegarmi questa faccenda.
C’è qualcosa di losco. Siete su una proprietà privata; questo terreno è
di mio padre e...

Ma in questo momento, Biedenbach, sempre corretto e dolce, gl’ingiunse
alle spalle, a bassa voce:

— In alto le mani, giovanotto!

Il giovane Wickson alzò prima le mani, poi si voltò per vedere in
faccia Biedenbach che puntava su di lui una pistola automatica 30-30.
Wickson rimase tranquillissimo.

— Oh! Oh! — osservò: — un nido di rivoluzionarii, addirittura un
vespaio, a quanto sembra. Ebbene, non rimarrete a lungo qui, posso
assicurarvelo.

— Forse vi rimarrete voi stesso abbastanza per mutar parere, — rispose
tranquillamente Biedenbach. — Intanto debbo pregarvi di venire dentro,
con me.

— Dentro? — il giovanotto era stordito. — Avete dunque una catacomba,
qui? Ho sentito parlare di cose di questo genere.

— Entrate e vedrete, — rispose Biedenbach, col suo accento più corretto.

— Ma è illegale. — protestò l’altro.

— Sì, secondo la vostra legge, — rispose il terrorista in modo
significativo. — Ma seguendo la nostra legge, credetemi, è permesso.
Bisogna bene che vi mettiate in mente che siete entrato in un
mondo affatto diverso da quello dove siete vissuto finora, dominato
dall’oppressione e dalla brutalità.

— Vedremo, — mormorò Wickson.

— Ebbene, rimanete con noi per discutere la questione.

Il giovanotto si mise a ridere, e seguì il rapitore nell’interno della
casa. Fu condotto nella camera più fonda, sotto terra, e guardato da
uno dei compagni, mentre noi discutevamo sul da fare, in cucina.

Biedenbach, sebbene avesse le lacrime agli occhi, era del parere che
si dovesse ucciderlo, e sembrò molto sollevato quando la maggioranza
respinse la sua orribile proposta. D’altronde non c’era neanche da
pensare a lasciar libero il giovane oligarca.

— Vi dirò io che cosa dobbiamo fare: teniamolo con noi, ed educhiamolo,
— disse Ernesto.

— Se è così, chiedo il privilegio di illuminarlo in materia di
giurisprudenza. — esclamò Biedenbach.

Tutti risero a questa proposta. Avremmo dunque tenuto prigioniero
Filippo Wickson e gli avremmo insegnato la nostra morale e la nostra
sociologia. Nel frattempo c’era altro da fare: bisognava fare sparire
ogni traccia del giovane oligarca, incominciando da quelle che egli
aveva lasciato sul pendìo friabile del buco. Il compito toccò a
Biedenbach, il quale, sospeso a una corda, lavorò destramente tutto il
resto della giornata, e fece sparire ogni segno. Cancellò pure tutte
le impronte, incominciando dall’orlo del buco fino al canalone. Poi,
al crepuscolo, giunse John Carlston, che chiese le scarpe del giovane
Wickson.

Costui non voleva darle, e si mostrava disposto a lottare per
difenderle. Ma Ernesto gli fece sentire il peso della sua mano di
fabbro ferraio. In seguito, Carlston si lagnò delle numerose bolle e
scorticature, dovute alla strettezza delle scarpe, ma con esse egli
aveva fatto un lavoro ardito e importantissimo. Partendo dal punto in
cui avevamo smesso di cancellare le tracce del giovanotto, Carlston,
dopo aver calzato le scarpe in questione, si era diretto a sinistra, e
aveva camminato per miglia e miglia, contornando monticelli, valicando
cime, arrampicandosi lungo i canaloni, sino a far perdere le tracce
nell’acqua corrente di un ruscello. Toltesi le scarpe, egli percorse
il letto del ruscello lungo un certo tratto, poi rimise la calzatura
propria. Una settimana dopo, il giovane Wickson ritornò in possesso
delle sue scarpe.

Quella notte, la muta di caccia fu sguinzagliata e non si dormì affatto
nel rifugio. Il giorno dopo, per molte volte i cani discesero lungo il
canalone, abbaiando, ma si slanciavano a sinistra, seguendo la falsa
traccia lasciata da Carlston, e i loro abbaiamenti si persero lontano,
nelle gole della montagna. Intanto, i nostri uomini aspettavano nel
rifugio, con le armi in pugno; avevano rivoltelle automatiche e fucili,
nonchè una mezza dozzina di ordigni infernali fabbricati da Biedenbach.
Quale sorpresa per i cercatori se si fossero avventurati nel nostro
nascondiglio!

Ho rivelato ora la verità sulla scomparsa di Filippo Wickson, un tempo
oligarca e poi fedele servitore della rivoluzione. Perchè finimmo col
convertirlo. Egli aveva una mente fresca e plasmabile, e una natura
dotata di sana moralità. Parecchi mesi dopo gli facemmo valicare il
monte Sonoma su uno dei cavalli di suo padre, fino a Petaluma Creek,
dove s’imbarcò su una piccola scialuppa da pesca. Lungo un viaggio
felice, a tappe, mediante la nostra ferrovia occulta, lo mandammo sino
al rifugio di Carmel.

Là dimorò per due mesi, scorsi i quali egli non voleva più
abbandonarci, per due motivi: primo, che era innamorato di Anna
Roylston; secondo, perchè era diventato dei nostri. Solo dopo essersi
convinto dell’inutilità del suo amore, cedette ai nostri desiderî e
acconsentì a ritornare a casa di suo padre. Quantunque abbia finto,
fino alla morte, di essere oligarca, fu in realtà uno dei nostri agenti
più preziosi. Molte e molte volte il Tallone di Ferro fu sorpreso per
l’insuccesso dei suoi disegni e delle sue operazioni contro di noi.

Se avesse saputo il numero dei suoi stessi membri che lavoravano per
noi, avrebbe spiegato anche i suoi insuccessi. Il giovane Wickson fu
sempre fedele alla Causa.[111] La sua stessa morte è dovuta a questa
fedeltà, al dovere. Durante la grande tempesta del 1927, contrasse la
polmonite di cui morì, per assistere a una riunione dei nostri capi.



CAPITOLO XXI.

LA BESTIA RUGGENTE DELL’ABISSO.


Durante la nostra prolungata permanenza nel rifugio, fummo pienamente
informati di tutto quanto avveniva nel mondo esteriore, così che
potemmo valutare con esattezza la forza dell’Oligarchìa contro la
quale lottavamo. Dagli ondeggiamenti di quell’epoca transitoria,
nascevano, in forma più chiara, le nuove istituzioni, con caratteri e
attributi di stabilità. Gli oligarchi erano riusciti ad inventare una
macchina governativa tanto estesa quanto complicata, ma che seguitava a
funzionare, nonostante i nostri sforzi per intralciarla e distruggerla.

Questo fatto fu una sorpresa per molti rivoluzionarî che non avevano
concepito una simile possibilità. Ciò nonostante, l’attività del
paese continuava. Molti lavoravano nei campi e nelle miniere, ma
erano, naturalmente, gli schiavi. Quanto alle industrie essenziali,
prosperavano su tutta la linea. I membri delle grandi caste operaie
erano soddisfatti e lavoravano volentieri. Per la prima volta in
vita loro conoscevano la pace industriale. Non si preoccupavano più
di riduzioni di orarî, di scioperi, di chiusura di officine, nè di
timbri di sindacati; vivevano in case più comode, in graziose villette
proprie, veramente deliziose in confronto alle soffitte abitate un
tempo. Avevano un nutrimento migliore, meno ore di lavoro, maggiori
vacanze, una scelta più varia di piaceri e svaghi intellettuali. Nè si
preoccupavano dei loro fratelli e delle sorelle meno fortunate, dei
lavoratori maltrattati dalla sorte, del popolo caduto nell’abisso.
Si annunciava, per l’umanità, un’êra di egoismo. Ma dir questo non è
completamente esatto, però; perchè le caste operaie formicolavano di
agenti nostri, di uomini che vedevano, oltre i bisogni del ventre, le
radiose visioni di Libertà e Fratellanza.

Un’altra grande istituzione che aveva preso forma e funzionava
perfettamente era quella dei Mercenarî. Questo corpo di truppa
che aveva origine dall’antico esercito regolare, contava effettivi
aumentati a un milione di uomini, senza le forze coloniali. Abitavano
in città loro destinate, amministrate da un governo virtualmente
autonomo, e godevano numerosi privilegi. Questi Mercenarî consumavano
gran parte della ricchezza risparmiata. Persero però ogni simpatia
presso il resto della popolazione e svilupparono una loro coscienza
e moralità particolari. Eppure, noi avevamo migliaia di agenti fra
loro.[112]

L’Oligarchìa stessa si sviluppò in modo notevole, e, bisogna
confessarlo, inaspettato. Come classe, si disciplinò; ognuno dei suoi
membri ebbe un incarico stabilito, con l’obbligo di compierlo. Non
ci furono più giovani ricchi e oziosi; la forza dei giovani serviva
a consolidare quella dell’Oligarchìa. Servivano, sia come ufficiali
superiori nell’esercito, sia come capitani o direttori nell’industria.
Facevano carriera nelle scienze applicate, e molti di loro diventarono
ingegneri rinomati. Entravano in numerose amministrazioni governative,
assumevano impieghi nelle colonie, ed erano ricevuti a migliaia, nei
diversi servizî segreti. Facevano un periodo di prova, se si può dir
così, nell’insegnamento, nelle arti, nella Chiesa, nella scienza e
nella letteratura; e in questi differenti rami avevano una funzione
importante, modellando la mentalità nazionale in maniera d’assicurare
la continuità dell’Oligarchìa.

Si insegnava loro, e più tardi essi insegnavano, a loro volta,
che il loro modo di agire era il solo buono. Assimilavano le idee
aristocratiche fin dal principio, quando, bambini, cominciavano a
ricevere le impressioni del mondo esterno; e di queste idee erano
intessute le loro fibre, sin nel profondo delle loro ossa e delle loro
carni. Si consideravano come domatori di bestie feroci. Sotto di loro,
però, ruggiva sempre il brontolìo sotterraneo della rivolta. E tra
loro, furtivamente, si aggirava senza tregua la morte violenta: bombe,
palle, coltelli, erano le zanne di quella bestia ruggente dall’abisso,
che essi dovevano domare perchè sussistesse l’Umanità. Si credevano i
salvatori del genere umano e si consideravano come lavoratori eroici
che si sacrificavano per il suo bene.

Erano convinti che la loro classe fosse l’unico sostegno della
civiltà, e persuasi che se avessero ceduto un solo istante, il mostro
li avrebbe inghiottiti nel suo ventre cavernoso e viscido, con tutto
ciò che vi è di bello, di buono, di piacevole e meraviglioso al
mondo. Senza di loro, l’anarchia avrebbe regnato sovrana e l’umanità
sarebbe ricaduta nella notte primordiale dond’era emersa con tanta
fatica. L’orribile aspetto dell’anarchia era costantemente messo sotto
gli occhi dei loro figli, fino a che, ossessionati da quel timore,
fossero pronti a ossessionarne i loro discendenti. Tale era la bestia
che bisognava calpestare, e la sua distruzione costituiva il dovere
supremo dell’aristocratico. Insomma essi, con i loro sforzi e sacrifici
incessanti, costituivano l’unico ostacolo fra la debole umanità e il
mostro vorace; e questo credevano fermamente, con assoluta sicurezza.

Non insisterò mai troppo su questa convinzione di rettitudine morale,
comune a tutta la classe degli Oligarchi. È stata la forza del Tallone
di Ferro; e molti compagni hanno impiegato troppo tempo a capirlo.
La maggior parte hanno attribuito la forza del Tallone di Ferro al
suo sistema di castighi e di premî. È un errore. Il cielo e l’inferno
possono entrare come fattori primi nello zelo religioso di un fanatico,
ma per la maggioranza, sono accessori in rapporto all’idea di bene
e di male. L’amore del bene, il desiderio del bene, il malcontento
contro tutto ciò che non è interamente bene; in una parola, la
buona condotta, ecco il fattore primo della religione. E si può dire
altrettanto dell’Oligarchìa. Il carcere, l’esilio, la degradazione, da
un lato, dall’altro gli onori, i palazzi, le città meravigliose, non
sono che contingenze. La grande forza motrice della Oligarchìa è la
convinzione di far bene. Non fermiamoci sulle eccezioni; non teniamo
conto dell’oppressione e dell’ingiustizia tra le quali il Tallone
di Ferro nacque. Tutto ciò è noto, ammesso, sottinteso. Il punto in
questione è che la forza dell’Oligarchìa consiste, attualmente, nella
sua concezione e soddisfazione della propria rettitudine.[113]

Ma, d’altra parte, anche la forza della rivoluzione durante questi
ultimi e terribili anni, è consistita sopratutto nella coscienza
di essere nel giusto. Non si possono spiegare altrimenti i nostri
sacrifici, nè l’eroismo dei nostri martiri. Per questo solo motivo,
l’animo di Mendenhall si è infiammato per la Causa, per questo solo
ha scritto il suo meraviglioso «Canto del Cigno», nella notte che
precedette il supplizio. Per questo solo, Hurbert è morto fra gli
spasimi, rifiutando, fino all’ultimo, di tradire i compagni. Per
lo stesso motivo, Anna Roylston ha rinunziato alla felicità della
maternità, e John Carlston è rimasto, senza retribuzione, il guardiano
fedele del rifugio di Glen-Ellen. Si interroghino tutti i compagni
rivoluzionarî, uomini o donne, giovani o vecchi, eminenti o umili,
intelligenti o semplici, e si troverà sempre che la forza che li muove
di continuo e li spinge potentemente è la loro sete di rettitudine.

Ma ritorniamo alla nostra storia. Ernesto ed io, prima di abbandonare
il nostro rifugio, avevamo perfettamente compreso l’enorme sviluppo
della potenza del Tallone di Ferro. Le caste operaie, i Mercenarî
innumerevoli, agenti e poliziotti di ogni genere, erano interamente
asserviti all’Oligarchia; perchè, in fin dei conti, tranne
l’inconveniente della perdita della libertà, vivevano meglio di
prima. D’altra parte, la grande massa disperata del popolo, del popolo
dell’Abisso, si abbandonava a un abbrutimento apatico e soddisfatto di
tanta miseria. Dei proletarî di forza eccezionale, che si distinguevano
dal gregge, gli Oligarchi si impadronivano, migliorando le loro
condizioni e ammettendoli nelle caste operaie o fra i Mercenarî. Così
spariva ogni malcontento, e il proletariato si trovava privato dei suoi
capi naturali.

La condizione dei proletari sprofondati nell’Abisso era pietosa. La
scuola comunale non esisteva più per loro; essi vivevano come bestie,
in tuguri brulicanti e sordidi; marcivano nella miseria e nella
degradazione. Erano state tolte loro tutte le antiche libertà. Era
negata a questi schiavi del lavoro persino la scelta del lavoro. Si
rifiutava loro persino il diritto di mutar residenza, o di possedere
armi. Erano servi, non della terra, come i fittavoli, ma della macchina
del lavoro. Quando si faceva sentire il bisogno del loro aiuto, per
un’impresa straordinaria, come la costruzione di grandi strade, linee
aeree, canali, gallerie, passaggi sotterranei e fortificazioni,
venivano fatte leve in massa nei tugurî dei lavoratori, che, a
diecine di migliaia, volenti o nolenti, erano trasportati sul lavoro.
Un vero esercito di schiavi lavora attualmente per la costruzione
di Ardis, e sono alloggiati in miserabili capanne, dove la vita di
famiglia non è possibile, donde la decenza è bandita, a causa di una
bestiale promiscuità. È proprio là, nel ghetto, la bestia ruggente
dell’Abisso, tanto temuta dagli Oligarchi, che, pure, l’hanno cercata
e l’alimentano, impedendo la scomparsa della scimmia e della tigre
nell’uomo.

Ed anche ora corre voce di una nuova leva progettata per la costruzione
di Asgard, la città meravigliosa, che dovrà superare tutti gli
splendori di Ardis, quando sarà finita.[114] Noialtri rivoluzionarî
cureremo la continuazione di quest’opera colossale, che però non sarà
compiuta da miserabili schiavi. Le mura, le torri e le guglie di questa
città di sogno, s’inalzeranno al ritmo delle canzoni, e la sua bellezza
incomparabile sarà cementata, anzichè da gemiti e sospiri, dall’armonia
e dalla gioia.

Ernesto era molto impaziente di ritrovarsi nel mondo e di riprendere
la sua attività, perchè i tempi sembravano maturi per la nostra prima
rivolta, quella che fallì tanto tristemente, nella Comune di Chicago.
Ma io m’adoperavo a disciplinare il suo animo alla pazienza, e per
tutto il tempo che durò il suo tormento, mentre Hadly, fatto venire
appositamente dall’Illinois, lo trasformavano in un altro uomo,[115]
egli concepiva i grandi progetti di organizzazione del proletariato
istruito, e preparava i piani per mantenere almeno un principio di
educazione nel popolo dell’Abisso, se, s’intende, si fosse avverata
l’ipotesi di uno scacco della prima rivolta.

Solo nel gennaio del 1917 abbandonammo il nostro rifugio. Tutto
era stato previsto. Immediatamente, assumemmo posizione come agenti
provocatori nel gioco del Tallone di Ferro. Io ero creduta sorella
di Ernesto. Quel posto ci era stato dato dagli Oligarchi o dai nostri
compagni autorevoli nella loro cerchia intima. Noi eravamo in possesso
di tutti i documenti necessarî; persino il nostro passato era in
regola. Con l’aiuto della cerchia intima, ciò non era difficile come
si potrebbe credere, perchè nel regno d’ombra in cui era tenuto sempre
il servizio segreto, l’identità rimaneva più o meno nebulosa. Simili
a fantasmi, gli agenti andavano e venivano, obbedivano a ordini,
adempivano al loro dovere, seguivano tracce, facevano rapporti a
ufficiali spesso sconosciuti, o cospiravano con altri agenti che non
avevano mai visti e non avrebbero mai rivisti.



CAPITOLO XXII.

LA COMUNE DI CHICAGO.


La nostra qualità di agenti provocatori non solo ci permetteva di
viaggiare liberamente, ma ci metteva in contatto col proletariato,
e con i nostri compagni rivoluzionarî. Tenevamo il piede
contemporaneamente nei due campi, servendo con ostentazione il Tallone
di Ferro, ma lavorando segretamente e con tutto l’ardore per la Causa.
I nostri erano numerosi nei varî servizî segreti dell’Oligarchia, e,
nonostante le selezioni e i rimaneggiamenti incessanti, non hanno mai
potuto essere eliminati interamente.

Ernesto aveva contribuito in massima parte al piano della prima
rivolta, fissata per i primi della primavera del 1918. Nell’autunno
del 1917, eravamo tutt’altro che preparati, e la rivolta, scoppiando
prematuramente, era destinata a fallire. Naturalmente, in un complotto
così complicato, ogni fretta può essere fatale. Il Tallone di Ferro
l’aveva previsto, e si era all’uopo preparato.

Avevamo stabilito di lanciare il primo attacco contro il sistema
nervoso dell’Oligarchìa. Questa non aveva dimenticato la lezione
ricevuta al tempo dello sciopero generale e si era premunita contro
la defezione dei telegrafisti, impiantando un servizio postale
radiotelegrafico protetto dai Mercenarî. Dal canto nostro avevamo
preso tutti i provvedimenti per parare il contraccolpo. Al segnale
convenuto, da tutti i rifugi dalle città, dagli agglomeramenti, e dai
baraccamenti, sarebbero usciti i compagni devoti, che avrebbero fatto
saltare le stazioni del telegrafo senza fili. In questo modo, fin dal
primo urto, il Tallone di Ferro sarebbe messo a terra e virtualmente
privato delle sue membra.

Nello stesso tempo, altri compagni avrebbero dovuto far saltare con
la dinamite i ponti e le gallerie e rovinare le reti delle strade
ferrate. Gruppi speciali erano designati per impadronirsi dello Stato
Maggiore dei Mercenarî, e della polizia, come pure di alcuni oligarchi
particolarmente abili o che esercitavano importanti funzioni esecutive.
Così i capi del nemico sarebbero stati allontanati dal campo di
battaglia. E questa non avrebbe tardato ad accendersi ovunque.

Molte cose si sarebbero dovute compiere simultaneamente appena
la parola d’ordine fosse stata data. I patrioti del Canadà e del
Messico, di cui il Tallone di Ferro non immaginava neppure la forza
vera, si erano impegnati di assecondare la nostra tattica. Poi
c’erano i compagni (le donne, perchè gli uomini sarebbero stati
impiegati diversamente) incaricati di affiggere i proclami stampati
nelle nostre tipografie clandestine. Coloro, fra noi, che avevano
importanti impieghi nel Tallone di Ferro, avrebbero dovuto cercare con
ogni mezzo di far cadere nel disordine e nell’anarchia tutti i loro
ufficî. Avevamo migliaia di compagni fra i Mercenarî. Il loro compito
consisteva nel far saltare i negozi e rovinare i meccanismi delicati
di tutte le macchine da guerra. Operazioni analoghe avrebbero dovuto
essere compiute nelle città dei Mercenarî e nelle case operaie.

In una parola, volevamo assestare un colpo improvviso, magistrale
e stupendo. L’Oligarchìa sarebbe stata distrutta prima di potersi
riavere dallo stupore. L’operazione avrebbe comportato ore terribili
e il sacrificio di numerose vite, ma nessun rivoluzionario si lascia
arrestare da simile considerazione. Ed anche molte cose, nel nostro
piano, dipendevano dal popolo non organizzato, dall’Abisso che doveva
essere sguinzagliato verso i palazzi e le città dei suoi padroni. Che
cosa importavano mai la perdita delle vite e la distruzione delle
proprietà? La bestia dell’Abisso avrebbe muggito, la polizia e i
Mercenarî avrebbero ucciso. Ma la bestia dell’Abisso avrebbe ruggito
per qualunque causa e gli sterminatori patentati avrebbero ucciso con
ogni mezzo. Così, i varî pericoli che ci minacciavano si sarebbero
neutralizzati reciprocamente. Durante quel tempo, avremmo compiuto il
nostro dovere con una sicurezza relativa, ed avremmo preso la direzione
di tutto il meccanismo sociale.

Tale era il nostro piano; ogni particolare, prima elaborato in
segreto, era poi, a mano a mano che si avvicinava il tempo dell
esecuzione, comunicato ad un numero sempre crescente di compagni.
Questo allargamento progressivo del complotto era causa di pericolo:
ma questo pericolo non fu nemmeno raggiunto. Mediante il suo sistema di
spionaggio, il Tallone di Ferro ebbe sentore della rivolta stabilita, e
si preparò ad infliggerci una nuova e sanguinosa lezione. Chicago fu il
posto scelto per la dimostrazione, che fu esemplare.

Di tutte le città, Chicago era la più matura per la rivoluzione.[116]
Chicago chiamata un tempo la città del sangue, avrebbe meritato di
nuovo quel soprannome. Troppi scioperi vi erano stati soffocati al
tempo del capitalismo, e troppe teste schiacciate nell’ultimo, perchè
i laburisti fossero disposti a dimenticare o a perdonare. La rivolta
covava perfino tra le classi operaie della città. Sebbene queste
avessero mutato condizione e avessero ottenuto molti favori, esse
conservavano un odio inestinguibile per la classe dominatrice. Questo
stato d’animo aveva contaminato anche i Mercenarî, tre reggimenti dei
quali erano pronti a unirsi con noi, in massa.

Chicago era sempre stata un centro di conflitti fra lavoro e capitale,
una città dove si combatteva nelle vie, dove le morti violente erano
frequentissime, dove la coscienza di classe e l’organizzazione erano
sviluppate tanto nei lavoratori, quanto nei capitalisti; dove, un
tempo, perfino i maestri di scuola formavano dei sindacati affiliati
alla Confederazione Americana del lavoro, con quelli dei manovali e
muratori. Chicago doveva, dunque, diventare il centro di quell’uragano
prematuro, che fu la prima rivolta.

Lo scatenarsi del ciclone fu affrettato dal Tallone di Ferro; con
molta abilità. Tutta la popolazione, comprese le cataste dei lavoratori
privilegiati, fu sottoposta a una serie di trattamenti oltraggianti.
Impegni e accordi furono violati; furono inflitti castighi severi per
errori insignificanti. Il popolo dell’Abisso fu svegliato a colpi di
frusta, dalla sua apatìa. Il Tallone di Ferro si impegnò di far ruggire
la bestia. Contemporaneamente, mostrava un’incredibile noncuranza
per quanto concerneva le misure di precauzione più elementari. La
disciplina s’era allentata fra i Mercenarî rimasti sotto le armi,
mentre parecchi reggimenti, tolti dalla città, erano sparpagliati qua e
là pel Paese.

Non ci volle molto per far trionfare questo programma: fu faccenda di
poche settimane. Noialtri rivoluzionari avemmo sentore di qualche cosa
del genere, ma era una troppo vaga conoscenza, che non ci rivelava
tutta la verità. Pensavamo che quelle disposizioni per la rivolta
fossero spontanee e che ci avrebbero dato del filo da torcere, ma
non pensavamo neppure che il movimento potesse essere preparato
deliberatamente, e così segretamente nell’ambito del Tallone di
Ferro, da non lasciar trapelare nulla a noi. L’organizzazione di quel
movimento controrivoluzionario fu una meraviglia, come anche la sua
esecuzione.

Ero a Nuova York, quando ricevetti l’ordine di recarmi immediatamente
a Chicago. L uomo che mi rimise quest’ordine era uno degli Oligarchi;
ne fui certa sentendolo parlare. Sebbene non conoscessi il suo
nome, e non vedessi che il suo viso, m’accorsi da quelle istruzioni
chiarissime, leggendo subito fra le righe, che la nostra cospirazione
era stata scoperta, e la contromina non attendeva che una scintilla per
iscoppiare.

Gl’innumerevoli agenti del Tallone di Ferro, me compresa, avrebbero
fatto scaturire la scintilla da lontano, o andando sul posto. Mi vanto
di aver conservato il mio sangue freddo, sotto lo sguardo scrutatore
dell’Oligarca; ma il mio cuore batteva pazzamente. Prima che egli
avesse finito di dare i suoi ordini implacabili, io mi sentivo già
pronta a urlare ed a stringergli la gola fra le mie mani contratte.

Appena lontana da lui feci il calcolo del tempo di cui disponevo. Se la
fortuna mi assisteva, potevo disporre di qualche minuto per mettermi
in comunicazione con qualche capo locale, prima di saltare nel treno.
Usando tutte le precauzioni per non essere seguita, corsi come una
pazza all’Ospedale di Pronto Soccorso, ed ebbi la ventura di essere
ammessa immediatamente presso un medico in capo, il compagno Galvin.
Cominciavo, senza respiro, a comunicargli la notizia, quand’egli mi
interruppe:

— So tutto, — disse, con una calma che contrastava col lampo dei suoi
occhi d’irlandese. — Indovino lo scopo della vostra visita. Ho ricevuto
la notizia un quarto d’ora fa, e l’ho già trasmessa. Si farà tutto il
possibile, qui, affinchè i compagni stiano tranquilli. Chicago, solo
Chicago dev’essere sacrificata.

— Avete tentato di mettervi in comunicazione con Chicago? — chiesi.

Scosse la testa: — Nessuna comunicazione telegrafica è possibile.
Chicago è isolata dal mondo, e vi si scatenerà l’inferno.

Tacque un istante, e lo vidi stringere i pugni. Poi esclamò:

— Per Dio! vorrei andarci, però!

— C’è ancora speranza d’impedire molte cose, — dissi. — se il mio treno
non ha incidenti e se posso arrivare in tempo; oppure se altri compagni
del servizio segreto, sapendo la verità, possono recarsi subito colà.

— Voialtri del circolo interno, vi siete lasciati scoprire questa
volta. — disse.

— Il segreto era molto ben custodito, — risposi. — Solo i capi lo
sapevano, prima di oggi. Non avendo potuto giungere sino a loro eravamo
nell’ignoranza. Se almeno Ernesto fosse qui! Forse egli è a Chicago,
ora, e allora tutto andrà bene.

Il dottor Galvin fece un cenno negativo.

— Secondo le ultime notizie, dev’essere stato mandato a Boston o
a Nuova Haven. Il servizio segreto per il nemico lo deve urtare
enormemente, ma è preferibile questo anzichè restar rinchiusi in un
rifugio.

Mi alzai per partire, e Galvin mi strinse forte la mano.

— Non perdete coraggio. — mi raccomandò, a mo’ di saluto. — Se la
prima rivolta è perduta, ne faremo una seconda, e saremo più savî.
Arrivederci e buona fortuna. Non so se vi vedrò ancora. Dev’essere
terribile, laggiù, ma darei volentieri dieci anni di vita per trovarmi
là.

Il _Secolo Ventesimo_[117] lasciava Nuova York alle sei di sera, per
arrivare a Chicago alle sette del mattino. Ma perdette molto tempo,
quella notte, perchè seguivamo un altro convoglio. Fra i viaggiatori
che occupavano il mio vagone Pullmann, c’era il compagno Hartmann,
che apparteneva, come me, al servizio segreto del Tallone di Ferro.
Egli mi parlò del treno che precedeva immediatamente il nostro. Era
una riproduzione perfetta del nostro ma non conteneva viaggiatori. Era
destinato, se ci fosse stata l’intenzione di far saltare in aria il
_Secolo Ventesimo_, a saltare in vece di questo. Anche nel nostro treno
non c’era molta gente: contai appena dodici o tredici viaggiatori nella
nostra vettura.

— Ci devono essere personaggi importanti in questo treno, — disse
Hartman, a mo’ di conclusione. — Ho osservato un carrozzone riservato,
dietro.

Era notte piena, quando avvenne il primo cambiamento di macchina, ed
io scesi sul marciapiedi per respirare un po’ d’aria pura e tentare
di cogliere, se potevo, qualche osservazione. Dai finestrini del
vagone riservato, intravidi tre uomini che conoscevo. Hartman aveva
ragione. Uno di essi era il generale Altendorff, gli altri due,
Masson e Vanderbold, che costituivano come il cervello del servizio
dell’Oligarchia.

Era una bella notte di luna piena, ma mi sentivo agitata e non potevo
dormire. Alle cinque del mattino mi alzai e mi vestii.

Chiesi ad una cameriera del gabinetto di toeletta quanto ritardo ci
fosse, ed essa mi rispose: — Due ore. — Era una mulatta. Osservai che
aveva i lineamenti stirati, gli occhi molto cerchiati, che sembravano
dilatati da un’ansia continua.

— Che avete? — le chiesi.

— Nulla, signorina, non ho dormito bene. — rispose.

La guardai più attentamente, ed arrischiai uno dei nostri segni
convenzionali. Essa rispose, e mi assicurai che era dei nostri.

— Deve succedere a Chicago qualche cosa di terribile, — disse. — C’è
quel falso treno davanti a noi. Esso e i convogli di truppa ritardano
il nostro arrivo.

— Treni militari? — chiesi.

Essa fece un cenno affermativo.

— La linea ne è piena. Li abbiamo incontrati tutta notte. E tutti
diretti a Chicago. Sono segnalati mediante le comunicazioni aeree.
Questo vuol dir molto... Ho un buon amico a Chicago, — soggiunse come
per scusarsi. — È uno dei nostri. È fra i Mercenarî, e temo per lui.

Povera ragazza! Il suo innamorato apparteneva ad uno dei tre reggimenti
infedeli.

Hartman ed io mangiammo insieme nel vagone _restaurant_, ed io mi
sforzai di mangiare. Il cielo si era coperto, e il treno filava come un
tuono monotono a traverso il grigio manto di quella giornata. Persino
i negri che ci servivano sapevano che si stava preparando qualche cosa
di tragico. Avevano perduto la loro solita leggerezza, e sembravano
oppressi. Erano lenti nel servire, avevano la mente rivolta altrove e
scambiavano qualche parola triste dall’uno all’altro lato del vagone,
vicino alla cucina. Hartman vedeva la cosa sotto una luce fosca.

— Che possiamo fare? — chiese per la ventesima volta, alzando le
spalle. Poi indicando la finestra: — Ecco, tutto è pronto. Potete esser
certa che ve n’è una fila così lunga tutta la strada ferrata.

Alludeva ai treni militari schierati sui binarî morti. I soldati
preparavano il rancio su fuochi accesi vicino ai binarî e guardavano,
incuriositi, il nostro treno che proseguiva senza rallentare la sua
fulminea corsa.

Quando entrammo in Chicago, tutto era tranquillo. Evidentemente, nulla
di anormale era ancora accaduto. Nei sobborghi furono distribuiti i
giornali del mattino. Non dicevano nulla di nuovo, eppure la gente
abituata poteva leggervi fra le righe molte cose che sfuggivano al
lettore comune. Si sentiva la mano fine del Tallone di Ferro in ogni
colonna. Si lasciavano intravedere alcuni punti deboli nell’armatura
dell’Oligarchìa, ma, s’intende, non vi era nulla di definitivo; si
voleva che il lettore trovasse la spiegazione da sè, attraverso le
allusioni. Tutto ciò era fatto con molta destrezza. Come romanzi
d’avventure, i giornali del mattino del 27 ottobre sarebbero stati dei
capolavori.

Mancavano i dispacci locali, e questa mancanza era segno di un colpo
maestro. Avviluppava Chicago di mistero, e suggeriva al lettore
ordinario della città, l’idea che l’Oligarchia non osasse dare le
notizie locali. Una rubrica parlava di sommosse, false naturalmente,
di atti di insubordinazione, commessi un po’ dappertutto; bugie
grossolanamente mascherate da allusioni ai provvedimenti repressivi
da adoperare. Un’altra annunciava una serie di attentati dinamitardi
contro stazioni della telegrafia senza fili, e le grosse ricompense
promesse a coloro che avrebbero denunciati gli autori. Si annunciavano
molti delitti del genere, non meno immaginarî, però, ma perfettamente
rispondenti ai disegni dei rivoluzionarî. Tutto questo era fatto con
lo scopo di creare nella mente dei compagni di Chicago l’impressione
di una rivolta generale che stesse per cominciare, e nello stesso
tempo per creare una gran confusione mediante particolari di scacchi
parziali. Chi non era ben informato non poteva sfuggire alla sensazione
vaga ma certa, che tutto il paese era pronto per una sommossa già
cominciata.

Un telegramma diceva che la defezione dei Mercenarî in California
era diventata così seria, che una mezza dozzina di reggimenti erano
stati sbandati e dispersi, e che i soldati con le loro famiglie erano
stati espulsi dalle loro città speciali e rigettati nei ghetti dei
lavoratori. Ora i Mercenarî di California erano, in realtà, più fedeli
di tutti ai loro padroni. Ma come si poteva saperlo a Chicago, isolata
dal resto del mondo? Un dispaccio, mutilato durante la trasmissione,
descriveva la sollevazione della plebaglia di Nuova York, che s’era
unita alle caste operaie, e finiva affermando (la cosa sarebbe stata
considerata come un _bluff_) che le truppe avevano il sopravvento.

E non solamente con la stampa, gli oligarchi avevano tentato di
divulgare informazioni false. Sapemmo dopo che, a più riprese, sul far
della notte, erano giunti messaggi telegrafici destinati unicamente ad
essere intercettati dai rivoluzionarî.

— Credo che il Tallone di Ferro non avrà bisogno dei nostri uffici,
— osservò Hartman, posando il giornale che stava leggendo, quando
il treno entrò nel deposito centrale. — Era inutile mandarci qui. I
loro disegni sono riusciti meglio di quanto sperassero. L’inferno si
scatenerà da un momento all’altro.

Si voltò per guardare il treno che avevamo abbandonato.

— L’ho pensato, — disse — Hanno sganciato il carrozzone riservato
quando i giornali sono stati portati sul treno.

Hartman era accasciato. Tentai di incoraggiarlo, ma sembrava non
accorgersi dei miei sforzi. Ad un tratto si mise a parlare presto
presto, a bassa voce, mentre attraversavamo la stazione. Dapprima non
capii.

— Non ne ero sicuro, e non ne ho parlato a nessuno, — disse. — Sono
settimane e settimane che tento l’impossibile, ma non ho potuto averne
la certezza. State attenta a Knowlton. Dubito di lui. Egli conosce il
segreto di molti nostri rifugi. Ha in mano sua la vita di centinaia di
nostri, e credo che sia un traditore. La mia è solo un’impressione,
sinora. Ma ho osservato un cambiamento in lui, da un po’ di tempo. È
possibile che ci abbia venduti o, se non l’ha fatto, ha l’intenzione
di farlo. Ne sono quasi sicuro. Non potevo svelare i miei sospetti ad
alcuno, ma, non so perchè, sento che non lascerò vivo Chicago. Tenete
d’occhio Knowlton. Tentate di attirarlo in trappola. Smascheratelo. Non
so nulla di più. Finora è solo un’intuizione che non riesco a spiegare
logicamente.

In questo momento uscivamo sul marciapiede esterno.

— Ricordatevi, — concluse Hartman, con aria frettolosa. — Tenete
d’occhio Knowlton.

Ed aveva ragione: non trascorse un mese, e Knowlton scontò con la
vita il suo tradimento. Fu formalmente giustiziato dai compagni del
Milwaukee.

Le vie erano tranquille. Chicago sembrava morta. Non si sentiva il
movimento degli affari, non c’erano nemmeno le vetture. I tranvai
erano fermi e gli aerei non funzionavano. Di rado, sui marciapiedi,
si incontrava qualche solitario passante che non indugiava affatto, ma
procedeva, alla svelta, verso una meta ben definita. Però s’indovinava
nella sua andatura un’indecisione strana, come s’egli temesse che le
case potessero crollare o che il marciapiede gli sprofondasse sotto i
piedi. Alcuni monelli oziavano, e nei loro occhi si leggeva un’attesa
contenuta, come se aspettassero avvenimenti meravigliosi e commoventi.

Da qualche parte, a grande distanza, verso il sud, giunse il rumore
sordo di un’esplosione. Poi, più nulla. La calma ritornò; ma i monelli,
allarmati, tendevano l’orecchio, come giovani daini, nella direzione
del suono. Le porte di tutte le case erano chiuse, le saracinesche
dei negozi abbassate. Ma apparivano, in evidenza, molti poliziotti e
guardie e, a intervalli, passava rapidamente una pattuglia di Mercenarî
in automobile.

Hartman ed io, di comune accordo, considerammo inutile presentarci
ai capi locali del servizio segreto. Quell’omissione sarebbe stata
scusata, lo sapevamo, in favore degli avvenimenti seguenti. Ci
dirigemmo dunque verso il grande ghetto dei lavoratori del quartiere
meridionale, con la speranza di avvicinare qualcuno dei nostri
compagni. Era troppo tardi. Ma non potevamo rimanere inerti in
quelle vie orribilmente silenziose. Dov’era Ernesto? Me lo chiedevo
continuamente. Che cosa succedeva nella città delle caste operaie e in
quelle dei Mercenarî? E nella fortezza?

Come in risposta a questa domanda, sorse nell’aria un ruggito
prolungato, un brontolio un po’ attutito dalla distanza, ma punteggiato
da una serie di detonazioni precipitate.

— È la fortezza. — esclamò Hartman. — Il cielo abbia pietà di quei tre
reggimenti!

Ad un crocicchio, osservammo, nella direzione dei negozi alimentari,
una gigantesca colonna di fumo. Al crocicchio seguente ne vedemmo
parecchie altre che s’innalzavano al cielo, nel quartiere dell’ovest.
Al disopra della città dei Mercenarî si librava un rosso pallone
frenato, che scoppiò proprio mentre lo guardavamo, lasciando cadere
da ogni parte i suoi brani infiammati. Questa tragedia aerea non ci
rivelava nulla, perchè non sapevamo se nel pallone ci fossero amici o
nemici. Un rumore vago ci ronzava negli orecchi, simile al ribollimento
lontano di una pentola gigantesca; e Hartman mi disse che era il
crepitio delle mitragliatrici e dei fucili automatici.

Ciononostante, camminavamo sempre in un luogo tranquillo dove non
accadeva nulla di straordinario. Passarono dapprima agenti di polizia e
pattuglie in automobile, poi una mezza dozzina di pompe che ritornavano
evidentemente dal luogo di un incendio.

Un ufficiale, che era su un’automobile, interrogò i pompieri, di
cui uno rispose: — Non c’è acqua. Hanno fatto saltare le condutture
principali.

— Abbiamo distrutta la provvista dell’acqua. — osservò Hartman,
entusiasmato. — Se possiamo fare una cosa simile in un tentativo di
rivolta prematura, isolato e abortito in sul nascere, immaginiamo che
cosa si può fare con uno sforzo maturo e concorde in tutto il paese!

L’automobile dell’ufficiale che aveva parlato ai pompieri si allontanò
rapidamente. Improvvisamente scoppiò un fragore assordante: la
vettura, col suo carico umano, fu sollevata in un turbine di fumo, poi
precipitò, ricadde come un mucchio di rottami e di cadaveri.

Hartman esultava. — Bravo, bravo, — ripeteva a bassa voce. — Oggi il
proletariato riceve una lezione, ma ne dà anche una.

La polizia accorreva verso il luogo del disastro. Un’altra automobile
di pattuglia si era fermata. Quanto a me, ero come intontita
dall’avvenimento improvviso. Non capivo che fosse accaduto sotto i
miei occhi, e mi ero appena accorta che eravamo stati accerchiati dalla
polizia. Ad un tratto, vidi un agente che stava per abbattere Hartman:
ma costui, sempre con sangue freddo, gli diede la parola d’ordine:
vidi la rivoltella vacillare, poi abbassarsi, e sentii il poliziotto
brontolare deluso. Era in collera e malediceva tutto il servizio
segreto. Dichiarava che quella gente era sempre fra i piedi. Hartman
gli rispondeva con la superiorità caratteristica degli agenti del
servizio di informazioni e gli riferiva, con tutti i particolari, gli
errori della polizia.

Come ridesta da un sogno, mi resi conto di quanto era accaduto.
Numerosi curiosi si erano fermati, e due uomini stavano per sollevare
l’ufficiale ferito per portarlo nell’altra automobile, ma furono presi
da panico improvviso, e tutti, spaventati, si sparpagliarono in varie
direzioni. I due uomini avevano lasciato cadere rudemente il ferito e
correvano come gli altri. Anche l’agente brontolone si mise a correre,
ed Hartman ed io facemmo lo stesso, senza sapere il perchè, spinti da
un cieco terrore ad allontanarci al più presto da quel luogo fatale.

Non era successo nulla di particolare in quel momento; eppure mi
spiegavo tutto. I fuggitivi ritornavano timidamente, ma, ogni momento,
alzavano gli occhi con apprensione alle finestre alte delle grandi
case che dominavano da ogni parte la strada, come le pareti d’una gola
dirupata. La bomba era stata lanciata da una di quelle innumerevoli
finestre, ma da quale? Non c’era stata una seconda bomba, ma si aveva
il timore di riceverla.

Oramai guardavamo le finestre con aria circospetta. La morte poteva
essere in agguato dietro una qualunque. Ogni casa poteva tendere
un’imboscata. Era la guerra, in quella _jungla_ moderna che è una
grande città. Ogni strada poteva essere un canalone, ogni costruzione
una montagna. Nulla era cambiato dai tempi dell’uomo primitivo,
nonostante le automobili blindate che filavano attorno a noi.

Allo svolto di una via trovammo una donna stesa a terra in un lago
di sangue. Hartman si chinò su di lei. Io mi sentivo svenire. Dovevo
vedere molti morti, quel giorno, ma l’eccidio in massa non mi colpì
come quel primo cadavere abbandonato là, ai miei piedi, sul lastricato.

— Ha ricevuto un colpo di rivoltella al petto — dichiarò Hartman.

Essa stringeva, come un bimbo, sotto il braccio, un pacco di manifesti.
Anche morendo non aveva voluto staccarsi da ciò che era stato la causa
della sua morte. Infatti, quando Hartman riuscì a toglierle il pacco,
vedemmo che era formato da grandi fogli stampati: erano i proclami dei
rivoluzionarî.

— Una compagna! — esclamai.

Hartman si limitò a maledire il Tallone di Ferro, e continuammo per la
nostra strada. Fummo fermati molte volte da agenti e da pattuglie, ma
le parole d’ordine ci permisero di proseguire. Non cadevano più bombe
dalle finestre: sembrava che gli ultimi passanti fossero svaniti, e
i luoghi fossero ridivenuti più tranquilli che mai. Ma la gigantesca
pentola continuava a ribollire in lontananza, il rumore sordo delle
esplosioni giungeva da ogni parte, e colonne di fumo sempre più
numerose inalzavano sempre più in alto i loro sinistri pennacchî.



CAPITOLO XXIII.

LA FOLLA DELL’ABISSO.


Improvvisamente, le cose cambiarono aspetto; un fremito di animazione
sembrò vibrare nell’aria. Passarono, con volo rapido, due, tre, una
dozzina di automobili con persone che ci gridavano avvertimenti. Al
prossimo incrocio di vie, una delle vetture fece una terribile svolta
senza rallentare e un istante dopo, al posto che appena aveva lasciato
e dal quale era già lontana, l’esplosione di una bomba scavava una gran
buca. Vedemmo la polizia sparire correndo per le vie laterali; sapevamo
che qualche cosa di spaventoso si avvicinava, di cui sentivamo il
brontolìo crescente.

Potevamo già vedere la testa della colonna che sbarrava la via da un
muro all’altro, al momento in cui fuggiva l’ultima automobile blindata.
Questa, giunta alla nostra altezza, si fermò un attimo. Un soldato ne
scese in fretta, portando qualcosa che depose con molta precauzione nel
ruscello, poi riprese d’un salto il suo posto. L’automobile si slanciò,
virò all’angolo e disparve. Hartman corse al limite del marciapiede e
si chinò sull’oggetto.

— Non vi avvicinate, — mi gridò.

Lo vidi lavorare febbrilmente con le mani. Quando mi raggiunse, la sua
fronte era imperlata di sudore.

— Ho tolto l’esca, — disse, — e al momento buono. Quel soldato è
inetto: l’aveva destinata ai nostri compagni, ma non aveva calcolato il
tempo giusto. Sarebbe scoppiata prima. Ora non scoppierà più.

Gli avvenimenti precipitavano. Dall’altro lato della via, un po’ più
lontano, alle finestre di un caseggiato, distinguevo delle persone
che guardavano. Avevo appena finito di farle osservare ad Hartman,
allorchè fiamme e fumo si svilupparono su quella parte della facciata,
e l’aria fu scossa da un’esplosione. Il muro di pietra, in parte
demolito, lasciava vedere l’armatura di ferro dell’interno. Poco
dopo la facciata della casa dirimpetto era dilaniata da esplosioni
simili. Nell’intervallo si sentivano crepitare le rivoltelle ed i
fucili automatici. Quel duello aereo durò parecchi minuti, poi finì
coll’acquetarsi. Evidentemente i nostri compagni occupavano uno
dei caseggiati, e i Mercenarî quello di faccia, e gli avversarî si
combattevano attraverso la via: ma non potevamo sapere da qual parte
fossero i nostri.

In quel momento, una colonna che procedeva nella strada era giunta
quasi alla nostra altezza. Appena le prime file passarono sotto le
finestre delle case rivali, il bombardamento riprese con forza. Da un
lato si gettavano bombe sulla via, dall’altro se ne lanciavano contro
la casa di faccia, che rispondeva. Ora sapevamo quale fosse la casa
occupata dai nostri, che facevano opera buona difendendo la gente della
strada dalle bombe del nemico.

Hartman mi prese per un braccio e mi trascinò in un vicolo che serviva
di entrata in qualche luogo.

— Non sono i nostri compagni, — mi disse all’orecchio.

Le porte di quel vicolo cieco erano chiuse e sprangate. Non avevamo
via di scampo perchè in quel momento la testa della colonna ci
oltrepassava. Non era una colonna, ma una confusa massa di gente,
un torrente inondatore che empiva la via; era il popolo dell’Abisso
esaltato dal bene e dalle sofferenze, che ruggiva e sparava calci per
poter bere, infine, il sangue dei suoi padroni. L’avevo già veduto,
quel popolo dell’Abisso; avevo attraversato i suoi ghetti, e credevo
di conoscerlo, ma mi pareva di vederlo per la prima volta. La sua
muta apatia era svanita; in quell’ora, come dominato da una forza
affascinante, temibile, pareva un mare che muggisse di collera visibile
nelle onde grondanti e rombanti, un gregge di carnivori umani, ubriachi
per l’alcool rubato nei negozi, ebbri d’oro, di sete di sangue.
Erano uomini stracciati, donne cenciose, bimbi a brandelli, esseri di
un’intelligenza oscura e feroce, sui volti dei quali erasi cancellato
quanto c’è di divino, e impresso invece quanto c’è di demoniaco
nell’uomo. Scimmie e tigri: tubercolotici emaciati ed enormi bestie
pelose, visi anemici il cui sangue era stato succhiato da una società
vampiro, e visi gonfi di bestialità e di vizio; megere appassite e
patriarchi barbuti dalla testa di morto; una gioventù corrotta e una
vecchiaia cancrenosa; facce di demonî, asimmetriche e torve, corpi
deformati dalla malattia e dal morso d’una eterna carestia; feccia
e schiuma della vita, orde vociferanti, epilettiche, arrabbiate,
diaboliche!

Poteva forse essere altrimenti? Il popolo dell’Abisso non aveva nulla
da perdere, tranne la sua miseria e la pena di vivere. E che cosa aveva
da guadagnare? Null’altro che un’orgia finale e terribile di vendetta.
Mi venne il pensiero che in quel torrente di lava umana ci fossero
degli uomini, dei compagni, degli eroi, la cui missione era stata
quella di sollevare la bestia dell’Abisso affinchè il nemico potesse
domarla.

Allora mi accadde una cosa sorprendente; avvenne in me una
trasformazione. La paura della morte per me o per gli altri mi aveva
abbandonata. Per una strana esaltazione, mi sentivo come una creatura
nuova in una nuova vita. Nulla aveva importanza. La Causa era perduta,
questa volta, ma avrebbe potuto trionfare domani, giovane e ardente
com’era. Così che potei osservare con calmo interesse gli orrori
scatenati durante le ore seguenti. La morte non significava nulla,
ma la vita non significava di più. Ora osservavo gli avvenimenti come
osservatrice attenta; ora, trascinata dalla corrente, partecipavo ad
essi con la stessa curiosità. La mia mente era salita sino alla fredda
altezza delle stelle ed aveva afferrato, impassibile, una nuova scala
di valutazione dei valori. Se non mi fossi aggrappata a quella tavola
di salvezza credo che sarei morta.

La folla s’era sparsa lungo circa mezzo miglio, quando fummo scoperti.
Una donna, vestita di cenci inverosimili, con le guance infossate e gli
occhi neri, profondi, scoperse Hartman e me. Subito mandò un mugolio
acuto e si precipitò verso di noi, trascinando parte della folla. Mi
sembra ancora di rivederla camminare saltando davanti agli altri, con
i capelli grigi svolazzanti in treccioline imbrogliate; col sangue
che le colava sulla fronte, dalle ferite del cuoio capelluto. Brandiva
un’ascia con una mano, mentre l’altra, secca e rugosa, pareva stringere
convulsamente il vuoto, come artigli di uccello da preda. Hartman si
lanciò davanti a me. Il momento non era propizio alle spiegazioni.
Eravamo vestiti decentemente, e ciò bastava.

Il suo pugno colpì la donna fra gli occhi, che, per la forza del colpo,
fu rigettata indietro; ma essa, incontrato il muro che si avanzava
rimbalzò avanti stordita e confusa, mentre l’ascia si abbatteva senza
forza sulla spalla di Hartman.

Un attimo dopo perdetti coscienza di quanto accadeva: ero sommersa
dalla folla. Lo stretto spazio in cui eravamo, era pieno di grida,
di urli e di bestemmie. I colpi piovevano su me. Strappavano e
asportavano i miei abiti, la mia carne. Ebbi la sensazione di essere
fatta a pezzi. Sul punto d’essere rovesciata, soffocata, ecco una mano
vigorosa afferrarmi per una spalla e trarmi violentemente. Sopraffatta
dalla sofferenza, svenni. Hartman non doveva uscire vivo da quella
stradicciola; per difendermi aveva affrontato lui il primo urto. E ciò
mi aveva salvato, perchè, subito dopo la calca era divenuta così fitta,
che non era possibile compiere altro contro di me, se non strette
cieche e tiramenti.

Ripresi i sensi tra una sfrenata agitazione; attorno a me tutto era
trascinato dallo stesso movimento. Ero trascinata da una mostruosa
inondazione che mi portava, non sapevo dove. L’aria fresca mi
accarezzava la fronte e mi rinforzava un poco i polmoni. Stordita
e languente, sentivo vagamente che un braccio solido mi circondava
la vita, sollevandomi a mezzo e portandomi avanti. Vedevo agitarsi
davanti a me la parte posteriore di un soprabito d’uomo che, aperto
dall’alto al basso, lungo la cucitura di mezzo, palpitava come un polso
regolare, la spaccatura aprendosi e chiudendosi al ritmo dell’uomo che
camminava. Quel fenomeno mi affascinò un poco, finchè non ebbi ripreso
completamente i sensi. Poi sentii mille punture di spilli nelle guance
e nel naso, e mi accorsi che il sangue mi inondava il viso. Il mio
cappello era sparito, e la mia capigliatura, disfatta, ondeggiava al
vento. Un forte dolore alla testa mi fece ricordare una mano che mi
aveva strappato i capelli, nella mischia. Il petto e le braccia erano
coperti di lividure, e indolenziti.

La mia mente si rischiarava. Senza arrestarmi nella corsa, mi volsi per
guardare l’uomo che mi sosteneva e che mi aveva strappata alla folla e
salvata. Egli osservò il mio movimento.

— Tutto va bene, — esclamò con voce rauca. — Vi ho subito riconosciuta.

Io non lo riconoscevo ancora; ma prima di dire una parola, m’accorsi
di camminare su qualcosa di vivo, che si contrasse sotto il mio piede.
Spinta da quelli che mi seguivano, non potei chinarmi per vedere, ma
seppi che era una donna caduta che migliaia di piedi calpestavano senza
tregua sul pavimento.

— Tutto va bene. — ripetè l’uomo. — Sono Garthwaite.

Era barbuto, magro e sudicio, ma potei riconoscere in lui il robusto
giovane che tre anni prima aveva passato qualche mese nel nostro
rifugio di Glen-Ellen. Mi diede la parola d’ordine del servizio segreto
del Tallone di Ferro per farmi capire che anch’egli ne faceva parte.

— Vi libererò io qui, appena ne avrò l’occasione, — mi disse. — Ma
camminate con precauzione, e state attenta a non fare un passo falso, e
a non cadere: ne va di mezzo la vita!

Tutto avveniva bruscamente, quel giorno; con rudezza improvvisa, la
folla si fermò. Urtai violentemente una donna che mi precedeva (l’uomo
dal cappotto scucito era scomparso) e coloro che mi seguirono furono
proiettati addosso a me. L’inferno erasi scatenato, con una cacofonia
di urli, di maledizioni, di gridi di agonia che dominavano il rumore
delle mitragliatrici e il crepitio delle fucilate. La donna che mi
precedeva si piegò su se stessa, stringendosi il ventre con una stretta
disperata. Contro le mie gambe un uomo si dibatteva negli spasimi della
morte.

Mi accorsi che eravamo alla testa della colonna. Non ho mai saputo come
mai fosse scomparso quel mezzo miglio di umanità che ci precedeva, e
mi domando ancora se sia stato distrutto da qualche spaventosa macchina
da guerra, e ridotto in pezzi, o se abbia potuto fuggire disperdendosi.
Il fatto è che eravamo là, in testa alla colonna, e non più in mezzo, e
che in quel momento eravamo falciati da una stridula pioggia di piombo.

Appena la morte ebbe fatto un po’ di vuoto, Garthwaite, che non aveva
abbandonato il mio braccio, si precipitò alla testa di una colonna
di sopravvissuti, verso il largo porticato di una casa di affari.
Fummo schiacciati contro le porte da una massa di creature ansanti,
trafelate, e rimanemmo per un po’ di tempo in quell’orribile posizione.

— Che cosa ho mai fatto! — si lamentava Garthwaite. — Vi ho trascinata
in una bella trappola. Nella strada potevamo avere qualche speranza,
qui non ne abbiamo alcuna. Non ci rimane altro che gridare: «Vive la
Revolution!»

Allora cominciò quello che c’era da aspettarsi. I Mercenarî uccidevano
senza tregua. La spaventosa pressione esercitata dapprima su noi,
diminuiva in proporzione delle uccisioni. I morti e i moribondi,
cadendo, facevano largo. Garthwaite mise la bocca sul mio orecchio e mi
gridò delle parole che non potei afferrare in mezzo a quel terribile
chiasso. Senza aspettare oltre, mi prese, mi gettò a terra e mi
coprì col corpo di una donna agonizzante. Poi, a forza di spingere e
stringere, scivolò vicino a me, nascondendomi in parte, col suo corpo.

Morti e moribondi si ammucchiarono sopra di noi e su quel mucchio,
i feriti si trascinavano lamentosi. Ma quei movimenti cessarono ben
presto e regnò un mezzo silenzio, interrotto da gemiti, sospiri e
rantoli.

Sarei stata schiacciata senza l’aiuto di Garthwaite; pure, nonostante
i suoi sforzi, mi sembra incredibile aver potuto sopravvivere a una
simile compressione. Tuttavia, a parte la sofferenza, ero vinta da
un senso di curiosità. Come sarebbe andata a finire? Che cosa avrei
sentito morendo? In questo modo ricevetti il battesimo di sangue,
il battesimo rosso, nella strage di Chicago. Sino allora, avevo
considerato la morte in teoria; ma da allora essa fu per me un fatto
senza importanza, tanto è facile.

Ma i Mercenarî non erano ancora soddisfatti. Invasero il portico per
finire i feriti e cercare gli scampati che, come noi, facevano i finti
morti. Sentii un uomo, strappato di sotto un mucchio, implorare in
modo vile, sinchè un colpo di rivoltella non gli spezzò la parola a
mezzo. Una donna si slanciò da un altro mucchio, grondando sangue,
e, spianando la rivoltella sparò. Prima di soccombere scaricò sei
volte l’arma, con quale risultato, non seppi, perchè seguivamo quelle
tragedie solo con l’udito. Ad ogni istante ci giungevano a folate i
rumori di scene simili di cui ognuna finiva con un colpo di arma da
fuoco. Negli intervalli sentivamo i soldati parlare e bestemmiare fra i
cadaveri, incitati dai loro ufficiali.

Finalmente, si rivolsero al nostro mucchio e sentimmo la pressione
diminuire a man mano che toglievano i morti e i feriti. Garthwaite
pronunciò la parola d’ordine. Dapprima non lo udirono. Egli alzò un po’
più la voce.

— Ascoltate, — disse un soldato. E subito si intese l’ordine breve di
un ufficiale.

— Attenzione là: fate piano.

Oh, quella prima boccata d’aria mentre ci liberavano! Garthwaite disse
subito quant’era necessario, ma dovetti sottostare anch’io a un breve
interrogatorio per provare che ero proprio al servizio del Tallone di
Ferro.

— Sono proprio agenti provocatori, — conchiuse l’ufficiale.

Era un giovanotto imberbe, un cadetto di qualche grande famiglia di
Oligarchi.

— Brutto mestiere. — brontolò Garthwaite. — Darò le mie dimissioni e
cercherò di entrare nell’esercito. Siete fortunati, voialtri!

— Lo meritereste. — rispose l’ufficialetto. — Posso darvi una mano e
cercare di aggiustare la cosa. Basterà che io dica come vi ho trovato.

E, segnato il nome e il numero di Garthwaite, si volse dalla mia parte:

— E voi?

— Oh! io mi sposo, — risposi con disinvoltura; — e mando tutto a quel
paese.

Così ci mettemmo a chiacchierare tranquillamente, mentre i feriti
attorno a noi venivano finiti. Tutto questo mi sembra oggi un sogno, ma
in quel momento mi sembrava la cosa più naturale del mondo. Garthwaite
e l’ufficialetto si ingolfarono in una vivace discussione sulla
diversità fra i metodi di guerra moderni e quella battaglia di strade
e grattacieli, impegnata in tutta la città. Io li ascoltavo mentre
mi pettinavo ed aggiustavo alla meglio, con degli spilli, gli strappi
della gonna. E, intanto, il massacro dei feriti continuava. A volte, i
colpi di rivoltella coprivano la voce di Garthwaite e dell’ufficiale e
li obbligavano a ripetersi.

Ho passato tre giorni della mia vita in quel carnaio della Comune di
Chicago, e posso dare un concetto della sua immensità dicendo che
durante quel tempo non ho veduto altro che il massacro del popolo
dell’Abisso e le battaglie per aria da un grattacielo all’altro. In
realtà, non ho veduto nulla dell’opera eroica compiuta dai nostri. Ho
sentito l’esplosione delle loro mine e delle loro bombe, ho veduto il
fumo degl’incendî appiccati da essi, ma null’altro. Però ho seguito gli
episodi aerei d’una grande azione, l’attacco alle fortezze in pallone,
operati dai nostri compagni. Questo avvenne il secondo giorno. I tre
reggimenti ribelli furono distrutti fino all’ultimo uomo. Le fortezze
erano zeppe di Mercenarî; il vento soffiava in direzione favorevole e
i nostri aereostati partivano da un caseggiato della City. Il nostro
amico Biedenbach, dopo la sua partenza da Glen-Ellen, aveva inventato
un esplosivo potentissimo battezzato da lui col nome di «spedito».
Quei palloni erano certo muniti delle sue macchine infernali. Erano
semplici mongolfiere, gonfiate con aria calda, grossolanamente
costruite in fretta, ma che bastarono alla loro missione. Vidi tutta
la scena da un tetto vicino. Il primo pallone sbagliò completamente
la mira e scomparve nella campagna. Però, dovevamo, in seguito, sentir
parlare di esso. Era pilotato da Burton e O’ Sullivan; i quali scesero,
lasciandosi andare alla deriva, sopra una ferrovia, proprio mentre
passava un treno militare lanciato a tutta velocità, verso Chicago. I
due lasciarono cadere tutto il carico di «spedito» sulla locomotiva, i
cui rottami ostruirono la strada per parecchi giorni. Il bello si è che
il pallone, alleggerito dal carico di esplosivo fece un salto in aria
e ricadde solo una dozzina di miglia lontano, di modo che i nostri due
eroi poterono fuggire sani e salvi.

La seconda navicella finì tragicamente. Volava male e troppo basso,
perciò fu colpita dalle fucilate e crivellata come una schiumarola,
prima di giungere alla fortezza. Era montata da Hertford e Guinnes, che
furono fatti a pezzi, come il campo su cui si abbatterono. Biedenbach
n’era disperato (tutto questo ci fu detto dopo), tanto che si imbarcò
da solo, sul terzo pallone. Anch’egli volava troppo basso ma la sorte
gli fu favorevole, perchè i soldati non riuscirono a bucare seriamente
il pallone. Mi sembra di rivedere tutta la scena come la seguii allora
dal tetto del grattacielo. Il sacco gonfiato in alto e l’uomo sospeso
di sotto come un punto nero. Non potevo scorgere la fortezza, ma le
persone che erano con me sul tetto dicevano che era proprio sotto. Non
vidi cadere il carico di «spedito», ma vidi il pallone fare un balzo
nel cielo.

Un momento dopo una colonna di fumo s’inalzò nell’aria, e solo
dopo intesi il tuono dell’esplosione. Il tenero Biedenbach aveva
distrutto una fortezza. Dopo ciò, due altri palloni si inalzarono
contemporaneamente. Uno fu fatto a pezzi dall’esplosione intempestiva
dello «spedito», l’altro, spaccato dal contraccolpo, cadde proprio
sulla fortezza che ancora rimaneva intatta e la fece saltare in aria.
La cosa non avrebbe potuto riuscire meglio se fosse stata preparata;
sebbene due compagni vi abbiano rimesso la vita.

Ritorno alla gente dell’Abisso, perchè, in realtà, ebbi contatto solo
con essa. Quella gente massacrò con rabbia, distrusse tutto nella
città, ma non riuscì un solo istante a colpire all’ovest la città
degli Oligarchi. Costoro s’erano ben premuniti: per quanto terribile
potesse essere la devastazione al centro, essi, con le loro mogli
e i loro bambini, dovevano uscirne incolumi. Si dice che durante
quelle giornate, i loro figli si divertissero nei parchi, e che il
tema favorito dei loro giuochi fosse l’imitazione dei grandi che
schiacciavano sotto i piedi il proletariato.

Ma i Mercenarî non trovarono facile compito nella lotta, non solo
contro il popolo dell’Abisso, ma anche contro i nostri. Chicago restò
fedele alle sue tradizioni, e se tutta una generazione di rivoluzionarî
fu distrutta, essa trascinò con sè, nella sua caduta, quasi una
generazione di nemici. Naturalmente, il Tallone di Ferro tenne
segreta la cifra delle sue perdite, ma anche a voler essere discreti,
si può calcolare a centotrentamila il numero dei Mercenarî uccisi.
Sfortunatamente, i nostri compagni non avevano speranza di successo.
Anzichè sostenuti da una rivolta di tutto il paese, essi erano soli,
e l’Oligarchia poteva disporre, contro di loro, della totalità delle
sue forze. In quell’occasione, ora per ora, giorno per giorno, treno su
treno, a centinaia di migliaia furono versate truppe a Chicago. Ma il
popolo dell’Abisso era innumerevole.

Stanchi di uccidere, i soldati intrapresero un vasto movimento
avvolgente che doveva finire col cacciare la marmaglia, come bestiame,
nel lago Michigan. Appunto al principio di questo movimento, Garthwaite
ed io avevamo incontrato l’ufficialetto. Questo disegno fallì, per lo
sforzo meraviglioso dei compagni. I Mercenarî, che speravano di riunire
tutta la massa in un solo gregge, riuscirono a precipitare nel lago non
più di quarantamila infelici. Accadeva spesso che mentre qualche gruppo
era trascinato verso il molo, i nostri amici creavano una diversione e
la folla scappava da qualche rottura praticata nella rete.

Ne vedemmo un esempio, poco dopo il nostro incontro con l’ufficiale.
L’assembramento di cui avevamo fatto parte e che era stato respinto,
trovò la ritirata chiusa verso il sud e verso l’est da forti
contingenti. Le truppe che avevamo incontrato verso il sud, stringevano
dal lato ovest. Il settentrione solo gli rimaneva aperto, e appunto
verso il nord s’incamminò, ossia verso il lago, tormentato, sugli altri
tre lati, dal tiro delle mitragliatrici e dei fucili automatici. Ignoro
se quel gruppo presentì la sua sorte o se il fatto avvenne per un
sussulto istintivo del mostro; comunque sia, la folla improvvisamente
si incolonnò per una traversale, verso ovest, poi, al primo crocicchio,
ritornò indietro, e si diresse al sud, verso il grande ghetto.

In quel preciso momento, Garthwaite ed io tentavamo di raggiungere
l’ovest per uscire dalla regione dei combattimenti nelle strade, e
ricademmo in pieno nella mischia. Svoltando un angolo, vedemmo la
moltitudine urlante che si precipitava su di noi. Garthwaite mi prese
per un braccio. Stavamo per prendere la corsa, quando egli mi trattenne
proprio a tempo per impedirmi di essere travolta dalle ruote di una
mezza dozzina di automobili blindate, munite di mitragliatrici, che
accorrevano a tutta velocità seguite da soldati armati di fucili
automatici.

Mentre prendevano posizione, ecco la folla precipitarsi su quelli, come
per sommergerli prima che potessero incominciare l’azione.

Da una parte e dall’altra, i soldati scaricavano i loro fucili, ma
quegli spari individuali non facevano nessun effetto sulla turba che
continuava ad avanzare, muggendo di rabbia. Evidentemente era difficile
manovrare le mitragliatrici. Le automobili sulle quali erano montate
sbarravano la via, in modo che i tiratori dovevano prender posto sopra
o in mezzo ad esse, o sul marciapiede. I soldati aumentavano sempre
e noi non potevamo più uscire dall’ingombro. Garthwaite mi teneva
sempre per un braccio, e tutt’e due eravamo come schiacciati contro la
facciata di una casa.

La folla non era a dieci metri, quando le mitragliatrici incominciarono
l’azione. Nulla poteva sopravvivere a quella mortale cortina di fuoco.
La calca aumentava sempre, ma la folla non avanzava più. Si ammucchiava
in un enorme cumulo, in un’onda sempre crescente di morti e morenti.
Coloro che erano dietro spingevano gli altri avanti, e la colonna, fra
un ruscello e l’altro pareva rientrare in se stessa come i tubi di un
telescopio. I feriti, uomini e donne, rigettati sopra la cresta di
quell’orribile riflusso, arrivavano dibattendosi fin sotto le ruote
delle automobili, fra i piedi dei soldati che li trafiggevano con le
loro baionette. Vidi però uno di quegl’infelici rimettersi in piedi
e saltare addosso a un soldato, e morderlo alla gola. Tutt’e due, il
soldato e lo schiavo, rotolarono, strettamente allacciati, nel fango.

Il fuoco cessò. Il compito era eseguito. La plebaglia era arrestata
nel suo folle tentativo di scampo. Fu dato l’ordine di sgombrare le
vie dalle autoblindate. Ma non potevano avanzare su quel mucchio di
cadaveri, per rivolgersi verso una via traversale. I soldati stavano
per levare i corpi di mezzo alle ruote, quando successe la cosa.
Sapemmo, dopo, il modo com’era avvenuta. In cima all’isolato c’era una
casa occupata da un centinaio di nostri compagni, i quali, apertisi
un passaggio attraverso i tetti e i muri, da una casa all’altra, erano
arrivati proprio sopra i Mercenarî ammassati nella via. Allora avvenne
il contro massacro.

Senza il minimo indizio preammonitore, una pioggia di bombe cadde
dall’alto del caseggiato. Le automobili furono ridotte in briciole, e
con esse molti soldati. Noi ci precipitammo, cogli scampati, in una
corsa pazza. All’estremità opposta dell’isolato fu aperto un altro
fuoco su noi, da un’altra casa. I soldati avevano coperto di cadaveri
la strada: toccava loro, ora, di servir da tappeto. Garthwaite ed
io sembravamo protetti da un sortilegio. Come prima, ci rifugiammo
sotto un portico, ma questa volta il mio compagno non era del parere
di lasciarci prendere. Quando lo scoppio delle bombe cessò, gettò uno
sguardo a destra e a sinistra.

— La plebaglia ritorna, — mi gridò. — Bisogna uscire di qui.

Corremmo, tenendoci per mano, sul suolo insanguinato, sdrucciolando,
affrettandoci verso l’angolo tranquillo più vicino. Nella via
traversale scorgemmo alcuni soldati che scappavano ancora. Non c’era
nessun pericolo: la via era libera. Ci fermammo un poco per guardare
indietro. La folla andava lentamente ad armarsi dei fucili dei morti
e a finire i feriti. Vedemmo la fine dell’ufficialetto che ci aveva
avvisati. Si sollevò a fatica su un gomito e si mise a scaricare la sua
rivoltella automatica.

— Ecco la mia probabilità di promozione finita nel lago! — disse
Garthwaite, ridendo, mentre una donna si lanciava sul ferito,
brandendo una mannaia da macellaio. — Andiamocene. Siamo in una cattiva
direzione, ma ne usciremo, in un modo o nell’altro.

Fuggivamo verso l’est, attraverso strade tranquille, e ad ogni svolta
ci tenevamo pronti ad ogni eventualità. Verso il sud, un immenso
incendio empiva il cielo; era il grande ghetto che bruciava. Alla fine
mi abbattei sull’orlo del marciapiede, sfinita, incapace di fare un
passo di più. Ero ferita, spezzata, e tutte le mie membra doloravano.
Pure, sentii la forza di ridere quando Garthwaite mi disse, arrotolando
una sigaretta:

— So che mi sono messo in un grande imbroglio cercando di salvarvi,
perchè non vedo una soluzione qualsiasi. È una confusione indiavolata.
Ogni qual volta cerchiamo di uscirne, capita qualche cosa che ci
rigetta dentro. Siamo soltanto alla distanza appena di uno o due
isolati dal luogo in cui vi ho salvata. Amici e nemici, sono tutti
mescolati. È un caos. Non si può dire da chi siano occupate queste
maledette case. Quando si tenta di saperlo, vi cade una bomba sulla
testa. Se si cammina tranquillamente, ci si imbatte nella plebaglia
e si è falciati dalle mitragliatrici, oppure si batte il naso sui
Mercenarî e si è fatti a pezzi dai propri compagni appostati su un
tetto. E, per soprammercato, la plebaglia arriva e vi uccide, da parte
sua.

Scosse malinconicamente la testa, accese una sigaretta e si sedette
accanto a me.

— E come se non bastasse, ho una fame... — soggiunse. — Mangerei i
sassi!

Un momento dopo, era in piedi per cercare effettivamente un sasso in
mezzo alla strada: lo prese e se ne servì per rompere la finestra di un
negozio.

— È un pianterreno e non vale niente, — spiegò mentre mi aiutava a
passare per l’apertura praticata. — Ma non possiamo cercare di meglio.
Vi farete un sonnellino ed io andrò in ricognizione. Finirò bene per
togliervi dall’impaccio, ma ci vorrà tempo, un tempo infinito... e
qualche cosa da mangiare.

Eravamo in una bottega di finimenti. Egli mi improvvisò un letto con
delle coperte da cavallo, in uno studio privato in fondo alla casa.
Io sentivo sopraggiungere una terribile emicrania, e fui felice di
chiudere gli occhi per tentare di dormire.

— Ritorno subito. — diss’egli, lasciandomi. — Non assicuro che troverò
un’automobile, ma certo porterò qualche cosa da mangiare.

E dovevo rivederlo tre anni dopo! Non ritornò: fu mandato in un
ospedale, con una palla in un polmone e un’altra nella parte carnosa
del collo.



CAPITOLO XXIV.

INCUBO.


La mia stanchezza era aggravata dal fatto che la notte precedente,
in treno, non aveva chiuso occhio. Mi addormentai profondamente.
Mi svegliai, la prima volta, che era già notte. Garthwaite non era
ritornato. Avevo perduto l’orologio ed ignoravo assolutamente l’ora.
Rimasi un po’ sdraiata, con gli occhi chiusi, e sentii ancora il
rumore sordo degli esplodenti lontani; l’inferno era sempre scatenato.
Sdrucciolai verso la facciata del negozio. Incendî colossali si
riflettevano nel cielo; nella via si vedeva chiaro come in pieno
giorno, al punto che si sarebbe potuto leggere facilmente il carattere
più minuto. Da qualche isolato di case più lontane veniva il crepitìo
delle granate e delle mitragliatrici, e da una grande distanza mi
giungeva l’eco di una serie di grandi esplosioni. Ritornai al mio letto
di coperte e mi riaddormentai.

Svegliatami di nuovo, una luce gialla, malaticcia, filtrava fino a
me. Era l’aurora del secondo giorno. Ritornai verso la facciata del
negozio. Il cielo era coperto da una nuvola di fumo striata da lampi
lividi. Dall’altro lato della strada, titubava un povero schiavo.
Con una mano si comprimeva un fianco, e lasciava dietro di sè una
traccia di sangue. I suoi occhi, pieni di spavento, giravano in tutte
le direzioni e si fissarono un istante su me. Il suo volto aveva
l’espressione patetica e muta di un animale ferito e perseguitato.
Egli mi vedeva, ma non c’era nessuna intesa fra noi, nè, da parte sua
almeno, la minima simpatia. Si ripiegò su se stesso, sensibilmente, e
si trascinò più lontano. Non poteva aspettarsi aiuto alcuno da questo
mondo. Era una delle prede perseguitate in quella gran caccia agli
isolati indetta dai padroni. Tutto ciò che poteva sperare, tutto ciò
che cercava era un buco dove arrampicarsi e nascondersi come una bestia
selvatica. Il tintinnio di un’ambulanza che passava all’angolo lo
fece sussultare. Le ambulanze non erano fatte per i suoi simili. Con
un brontolio lamentoso, si gettò sotto un portico. Un momento dopo,
riprendeva il suo andare disperato.

Ritornai alle mie coperte ed aspettai ancora per un’ora il ritorno di
Garthwaite. Il mio mal di testa non si era dissipato; al contrario,
aumentava. Mi bisognava uno sforzo di volontà per aprire gli occhi,
e, quando li volevo fissare su un oggetto, provavo una vera tortura.
Sentivo il cervello intronato da fitte. Debole e vacillante,
uscii, passando dalla vetrina rotta, e scesi nella via, cercando
istintivamente e a caso di sfuggire a quell’orribile massacro. Da
quel momento io vissi in un incubo. Il ricordo che mi rimane delle ore
seguenti è simile a quello di un cattivo sogno. Alcuni avvenimenti sono
nettamente segnati nel mio cervello, con immagini indelebili separate
da intervalli di incoscienza, durante i quali avvennero cose che ignoro
e che non saprò mai.

Ricordo di aver urtato, all’angolo, contro le gambe di un uomo: era il
povero diavolo di poco prima, che si era trascinato fin là, e si era
steso a terra. Rivedo distintamente le sue povere mani nodose; simili
più a zampe cornee e ad artigli, che a mani, tutte storte e deformate
dal lavoro quotidiano, con le palme coperte da enormi calli. Ripreso
il mio equilibrio, guardai la faccia del misero e constatai che egli
viveva ancora; i suoi occhi erano vagamente fissi su me e mi vedevano.

Dopo ciò, nella mia mente non vedo altro che benefiche lacune. Non
sapevo più nulla, non vedevo più nulla: mi trascinavo semplicemente
in cerca di un asilo. Poi, il mio incubo continuò, alla vista di una
via coperta di cadaveri. Mi trovai là, bruscamente, come un vagabondo
che incontri inaspettatamente un corso d’acqua. Ma quel fiume là non
scorreva: indurito dalla morte, uguale, unito, si stendeva da un capo
all’altro e copriva perfino i marciapiedi. A intervalli, come ghiacci
stratificati, dei cumuli di corpi ne rompevano la superficie. Quelle
povere genti dell’Abisso, quei poveri servi inseguiti giacevano là
come conigli di California dopo una battuta.[118] Osservai quella
via funebre nelle due direzioni; non un movimento, non un rumore. I
caseggiati muti guardavano la scena con le loro numerose finestre.
Una volta, però, una volta sola, vidi un braccio muoversi in quel
fiume letargico. Giurerei che quel braccio si contorcesse in un gesto
di agonia, accompagnato da una testa insanguinata, orribile spettro,
indicibile, che mi borbottò parole inarticolate, e ricadde e non si
mosse più.

Vedo ancora un’altra via fiancheggiata da case tranquille, e ricordo il
panico che mi richiamò violentemente alla ragione quando mi ritrovai
davanti al popolo dell’Abisso: questa volta era una corrente che si
riversava lungo la mia direzione. Poi mi accorsi che non avevo nulla
da temere. La corrente se ne andava lentamente e dalla sua profondità
sorgevano gemiti, lamenti, maledizioni, discorsi insensati per
senilità o per isterismo. Essa trascinava con sè giovanissimi e vecchi,
deboli, ammalati, impotenti e disperati, tutti gli avanzi dell’Abisso.
L’incendio, nel grande ghetto del quartiere sud, li aveva vomitati
nell’inferno della lotta della strada; e non ho mai saputo dove
andassero nè ciò che sia accaduto di loro.[119]

Ho il vago ricordo di aver rotto una vetrina e di essermi nascosta in
una bottega, per sfuggire a un assembramento inseguito dai soldati. In
un altro momento, una bomba mi scoppiò vicino, in una via tranquilla
dove, sebbene guardassi in tutti i sensi, non potei vedere anima viva.
Ma la semicoscienza più prossima, distinta, incomincia con un colpo
di fucile; mi accorgo improvvisamente che servo da bersaglio a un
soldato ch’è su un’automobile. Mi fallisce e allora, istantaneamente,
mi metto a fare i segnali ed a gridare la parola d’ordine. Il mio
trasporto in quell’automobile rimane avvolto da una nube interrotta da
un nuovo lampo. Un colpo di fucile tirato dal soldato seduto vicino a
me mi ha fatto aprire gli occhi; ho veduto George Milford, che avevo
conosciuto un tempo a Pell Street, abbattersi sul marciapiedi. Nello
stesso istante, il soldato sparava di nuovo, e Milford si piegava in
due, poi cadeva in avanti, con le braccia e le gambe aperte. I soldati
sghignazzavano e l’automobile andava di carriera.

Di tutto ciò che avvenne in seguito, ricordo questo: immersa in un
profondo sonno, fui svegliata da un uomo che camminava in lungo e in
largo intorno a me. I suoi lineamenti erano tirati, e la sua fronte era
imperlata di sudore, che gli gocciolava sul naso. Appoggiava con moto
convulso le mani sul petto, e il sangue colava a terra, ad ogni passo.
Indossava l’uniforme dei Mercenarî. Attraverso un muro ci giungeva il
rumore attutito degli scoppî delle bombe. La casa dove mi trovavo era
evidentemente in preda ad un duello con un’altra casa.

Quando un dottore venne a medicare il soldato ferito, seppi che erano
le due del pomeriggio. Poichè il mio mal di testa durava, il medico
sospese il lavoro per darmi un rimedio energico che doveva calmare il
cuore e sollevarmi. Mi addormentai nuovamente, e quando mi svegliai
ero sul tetto del caseggiato. La battaglia era finita intorno. Guardai
l’assetto dei palloni alla fortezza. Qualcuno aveva passato un braccio
attorno alla mia vita, e io mi ero rannicchiata contro di lui. Mi
sembrava naturale che fosse Ernesto, e mi chiedevo perchè avesse le
sopracciglia e i capelli arrossati.

Per mero caso ci eravamo ritrovati in quell’orribile città. Egli
non dubitava nemmeno che io avessi lasciato Nuova York e, passando
nella camera dove dormivo, non aveva potuto credere ai suoi occhi. Da
quell’ora non vidi più gran che della Comune di Chicago. Dopo avere
osservato l’attacco dei palloni, Ernesto mi ricondusse nell’interno
della casa, dove dormii tutto il pomeriggio e tutta la notte seguente.
Passammo colà anche il terzo giorno, e il quarto abbandonammo Chicago,
avendo Ernesto ottenuto il permesso dalle autorità, e un’automobile.

La mia emicrania era passata, ma ero stanca di corpo e d’anima, molto
stanca. Nell’automobile, addossata ad Ernesto, osservavo con occhio
indolente i soldati che tentavano di far uscire la vettura dalla
città. La battaglia continuava solo nelle località isolate. Qua e là,
interi distretti ancora in possesso dei nostri, erano circondati e
guardati da forti contingenti di truppe. Così i compagni si trovavano
stretti, accerchiati, mentre si cercava di ridurli alla resa, ossia
di ucciderli, perchè non si dava quartiere. Essi combatterono,
eroicamente, fino all’ultimo uomo.[120]

Ogni qual volta ci avvicinavamo ad una località di questo genere, le
guardie ci fermavano e ci obbligavano a fare un largo giro. Capitò
una volta che non ci rimanesse altro mezzo per oltrepassare due forti
posizioni di compagni nostri, se non passando attraverso una zona
battuta che era fra le due. Da ogni lato sentivamo il brusìo e il
ruggito della battaglia, mentre l’automobile s’apriva un varco fra
rovine fumanti e mura cadenti. Spesso le strade erano bloccate da
vere montagne di rottami, che dovevamo aggirare. Ci smarrivamo in un
labirinto di macerie, e la nostra marcia era lenta.

Dei cantieri, (ghetto, officine e tutto il resto) non rimanevano che
rovine dove il fuoco covava ancora. Lontano, sulla destra, un denso
velo di fumo oscurava il cielo. Lo _chauffeur_ ci disse che era la
città di Pullman o, per lo meno, ciò che rimaneva di essa, dopo la
sua distruzione da cima a fondo. Vi era andato con la sua macchina
a portare dei dispacci nel pomeriggio del terzo giorno. Era, diceva
lui, uno dei luoghi dove la battaglia si era scatenata con più furore;
strade intere erano diventate impraticabili, per l’ammucchiarsi dei
cadaveri.

All’angolo di una casa smantellata, nel quartiere dei cantieri,
l’automobile si dovette fermare, per una barriera di corpi; si sarebbe
detta una grossa onda pronta ad infrangersi. Indovinammo facilmente ciò
che era accaduto. Nel momento in cui la folla, lanciata all’attacco,
svoltava l’angolo, era stata decimata ad angolo retto e a breve
distanza da una mitragliatrice che sbarrava la strada laterale. Ma
i soldati non isfuggirono al disastro. Una bomba, senza dubbio, era
scoppiata in mezzo a loro, perchè la folla, trattenuta un istante dal
cumulo dei morti e dei feriti, aveva sormontato la cresta e s’era
precipitata come un’onda vivente e fremente. Mercenarî e schiavi
giacevano mescolati, mutilati e pesti, sdraiati sui rottami delle
automobili e delle mitragliatrici.

Ernesto scese dalla vettura. Il suo sguardo era stato attratto da una
frangia di capelli bianchi, che scendevano su delle spalle ricoperte
solo da una camicia di cotone. Non lo guardavo in quel momento; solo
quando mi fu di nuovo vicino e l’automobile si mosse, mi disse:

— Era il vescovo Morehouse.

Fummo presto in aperta campagna, ed io gettai un ultimo sguardo
verso il cielo coperto di fumo. Il rumore appena percettibile di
un’esplosione ci giunse da molto lontano. Allora nascosi il volto sul
cuore di Ernesto e piansi dolcemente la Causa perduta. Il suo braccio
mi stringeva con amore, più eloquente di ogni parola.

— Perduta per questa volta, cara, — mormorò; — ma non per sempre.
Abbiamo imparato molte cose. Domani la Causa si rialzerà più forte, per
saggezza e disciplina.

L’automobile si fermò alla stazione dove dovevamo prendere il treno
per Nuova York. Mentre aspettavamo lungo la banchina, tre direttissimi
lanciati verso Chicago passarono con un rumore di tuono. Erano carichi
di lavoratori stracciati, gente dell’Abisso.

— Leve di schiavi per la ricostruzione della città. — disse Ernesto. —
Tutti quelli di Chicago sono stati uccisi.



CAPITOLO XXV.

I TERRORISTI.


Soltanto alcune settimane dopo il nostro ritorno a Nuova York, Ernesto
ed io potemmo valutare tutta l’importanza del disastro per la Causa.
Era uno stato di cose amaro e sanguinoso.

In diversi luoghi, qua e là, in tutti i paesi, erano scoppiate
rivolte e avvenuti massacri di schiavi. La lista dei martiri cresceva
rapidamente. Innumerevoli esecuzioni avevano avuto luogo un po’
dappertutto. La montagna e le contrade deserte rigurgitavano di
proscritti e di rifugiati inseguiti senza pietà. I nostri stessi
rifugi erano zeppi di compagni sulla cui testa pendeva una taglia. Per
informazioni fornite dalle spie, molti dei nostri asili furono invasi
dai soldati del Tallone di Ferro.

Un gran numero di nostri amici, scoraggiati e disperati per il crollo
delle loro speranze, propendevano per una tattica terroristica.
Sorgevano pure nuove organizzazioni di combattimento che non erano
affiliate alle nostre e che ci fecero molto male.[121] Questi traviati,
pur prodigando follemente la loro vita, facevano spesso fallire i
nostri disegni e ritardare la nostra ricostruzione.

E in questo tumulto, il Tallone di Ferro, proseguiva impassibile verso
lo scopo, scotendo il tessuto sociale, mandando i Mercenarî, le caste
operaie, e gli agenti dei servizî segreti a scacciare i compagni
nostri, punendo senza odio e senza pietà, accettando, in silenzio,
tutte le rappresaglie e riempiendo i vuoti appena questi si facevano
nelle linee di combattimento. Parallelamente, Ernesto e gli altri capi
lavoravano di cuore a organizzare le forze della Rivoluzione.

Si comprenderà la portata di questo compito, tenendo conto di...[122].


  FINE



INDICE


  _Capitolo_

      I — La mia aquila                    pag. 17
     II — Sfide                              »  36
    III — Il braccio di Jackson              »  55
     IV — Gli schiavi della macchina         »  70
      V — Gli amici dello studio             »  81
     VI — Adombramenti                       » 108
    VII — La visione del vescovo             » 118
   VIII — I distruttori di macchine          » 127
     IX — La matematica di un sogno          » 147
      X — Il vortice                         » 168
     XI — La grande avventura                » 181
    XII — Il lavoro                          » 191
   XIII — Lo sciopero generale               » 205
    XIV — Il principio della fine            » 217
     XV — Ultimi giorni                      » 228
    XVI — La fine                            » 236
   XVII — La livrea rossa                    » 249
  XVIII — All’ombra del monte Sonoma         » 260
    XIX — Trasformazione                     » 272
     XX — Un oligarca perduto                » 284
    XXI — La bestia ruggente dell’abisso     » 294
   XXII — La comune di Chicago               » 303
  XXIII — La folla dell’abisso               » 319
   XXIV — Incubo                             » 336
    XXV — I terroristi                       » 344



OPERE COMPLETE DI JACK LONDON

a cura di GIAN DÀULI


1. — IL RICHIAMO DELLA FORESTA (The Call of the Wild) — _Romanzo_.

  _C’è nei libri di Jack London un largo senso di simpatia per tutti,
  uomini e animali, e un senso di fraternità direi quasi francescana
  che gli fa capire tutti gli esseri del creato non rispetto gli
  uomini, ma rispetto alla natura. E con questo, una rara potenza
  di narrazione, una fervida fantasia messa al servizio di un’idea
  alta e buona, la quale rimane nell’animo dei lettori come una gioia
  conquistata e una tappa raggiunta._

                           «Il Marzocco» — Firenze, 20 luglio 1924.

2. — ZANNA BIANCA (White Fang) — _Romanzo_.

3. — IL TALLONE DI FERRO (The Iron Heel) — _Romanzo di previsione
sociale_.

  _... Hélas! Jack London avait le genie qui voit ce qui est caché
  à la foule des hommes et possedait une science qui lui permettait
  d’anticiper sur les temps...._

                                                    Anatole France.

4. — MARTIN EDEN — _Romanzo_.

5. — RADIOSA AURORA (Burning Daylight) — _Romanzo_.

6. — IL FIGLIO DEL SOLE (A Son of the Sun) — _Romanzo_.

7. — LA FIGLIA DELLE NEVI (A Daughter of the Snows). _Romanzo_.

  «MODERNISSIMA»
  VIA VIVAIO N. 10
  MILANO (13)



NOTE:


[1] Il _Tallone di ferro_ è un diario che l’autore immagina scritto da
Avis, la mirabile compagna del rivoluzionario Ernesto Everhard, dopo
la morte di costui, che sarebbe avvenuta nel 1932. Varie date, come
questa, con anticipo di secoli, ricorrono nel libro, perchè l’autore
immagina che questo diario sia pubblicato sette secoli dopo il nostro.
Le note, quindi, bisogna considerarle come scritte dai felici e lontani
posteri che, a giudizio del London, guarderanno alla nostra epoca come
a una delle più crudeli e barbare della Storia.

[2] Varie opere documentano inconfutabilmente il tradimento dei
socialisti tedeschi: tra le altre: «_L’Internationale Socialiste a
vecu_» di Omer Boulanger, Librairie Ollendorf, Paris; _Le Socialistes
du Kaiser, La fin d’une mensonge_ di E. Laskine, Paris 1915,
_Democratie allemande et austro-hongroise et les socialistes belges_
di Emilio Boyer, deputato di Tournai, Ed. du Coin de France — Gree
Street. Leicester Square, Londra 1915. Il Jouhaux, segretario della C.
G. T. francese, raccontò nella _Bataille Syndacaliste_ la drammatica
scena avvenuta il 25 Luglio 1914 a Bruxelles, in un convegno segreto
che egli ebbe col deputato tedesco e noto organizzatore operaio Legien,
che rappresentava le organizzazioni operaie della Germania, e col
Segretario della Commissione Sindacale belga, Martens. Il Jouhaux
rivolse le seguenti domande: «1º Che intendete fare per evitare la
guerra?. 2º Siete decisi a una risoluta azione rivoluzionaria? Poi
soggiunse. Noi francesi e belgi siamo pronti a rispondere al vostro
appello ed agire con voi se la decisione sarà affermativa.» A quelle
domande, ripetute parecchie volte, il _tedesco_ Legien non rispose.
Il Jouhaux e il Martens troncarono la conversazione convinti d’essere
stati _premeditatamente_ traditi dal proletariato tedesco.

[3] La Seconda Rivolta fu, in massima parte, opera di Ernesto Everhard,
quantunque egli abbia collaborato, naturalmente, con i dirigenti il
movimento socialista europeo. L’arresto e la segreta esecuzione di
Everhard costituirono l’avvenimento saliente della primavera del 1932.
Ma egli aveva preparato così minuziosamente quella sommossa, che i
suoi compagni cospiratori poterono agire secondo i suoi disegni, senza
confusione o indugio. Fu dopo l’esecuzione di Everhard, che la vedova
si ritirò a Wake Robin Lodge, piccola casa sulle colline della Sonoma,
in California.

[4] Allusione evidente alla prima rivolta, quella della Comune di
Chicago.

[5] Senza smentire Avis Everhard, si può osservare che Everhard fu
semplicemente uno dei capi numerosi ed abili che concepirono la Seconda
Rivolta. Oggi, a distanza di secoli, possiamo affermare che quel
movimento, anche se si fosse sviluppato, sarebbe ugualmente fallito.

[6] La Seconda Rivolta fu veramente internazionale. Era un disegno
troppo vasto per essere elaborato da un solo uomo. In tutte le
oligarchie del mondo, i lavoratori erano pronti a sollevarsi al segnale
convenuto. La Germania, l’Italia, la Francia e tutta l’Australia
erano paesi di lavoratori, Stati socialisti, pronti ad aiutare la
rivoluzione degli altri paesi. E lo fecero. Per questo, soffocata
la Seconda Rivolta, furono anch’essi soffocati dalla lega mondiale
delle oligarchie, e i loro governi socialisti sostituiti da governi
oligarchici.

[7] John Cunningham, padre di Avis Everhard, era professore
dell’Università di Stato di Berkeley, in California. S’era
specializzato nello studio delle scienze fisiche, ma faceva molte altre
ricerche originali, ed era ritenuto uno scienziato di molto valore.
I suoi contributi alla scienza furono: gli «Studî sull’Elettrone»
e, soprattutto, la sua opera gigantesca intitolata: «Identità della
Materia e dell’Energia», in cui ha stabilito, senza contestazione
possibile, che l’unità ultima dalla materia e l’unità ultima della
forza sono la stessa cosa.

Prima di lui quest’idea era stata intravista, ma non dimostrata da Sir
Oliver Lodge e da altri studiosi nel nuovo campo della radioattività.

[8] In quel tempo, gli uomini usavano sfidarsi a colpi di pugni per
avere un premio. Quando uno di essi cadeva privo di sensi, o era
ucciso, l’altro guadagnava il premio.

[9] Musicista negro, cieco, che ebbe un istante di notorietà negli
Stati Uniti, nell’ultima metà del diciannovesimo secolo dell’Era
Cristiana.

[10] Federico Nietzsche, il filosofo pazzo del secolo XIX dell’Era
Cristiana, ebbe fantomatiche visioni della verità, ma la sua ragione,
a forza di girare nel gran circolo del pensiero umano, sfuggì dalla
tangente.

[11] Un noto educatore della fine del diciannovesimo secolo e del
principio del ventesimo dell’Era Cristiana. Era rettore dell’Università
di Stanford, università fondata per lascito privato.

[12] Monista, idealista che imbarazzò, per molto tempo, i filosofi suoi
contemporanei, negando l’esistenza della materia, ma i cui ragionamenti
sottili finirono per crollare quando le nuove scoperte empiriche della
scienza furono filosoficamente generalizzate.

[13] Il grande terremoto che distrusse S. Francisco, nel 1906 A. D.

[14] Durante questo tempo parecchi ministri furono messi fuori della
Chiesa per aver predicato delle dottrine inaccettabili, soprattutto se
intinte di socialismo.

[15] Guardie di palazzo, mercenarie straniere, di Luigi XVI, re di
Francia, decapitato dal popolo.

[16] A quell’epoca, la distinzione fra le famiglie nate nel paese e
quelle venute di fuori, era nettamente e gelosamente segnata.

[17] Questo libro ha avuto nuove edizioni segrete, durante i tre
secoli del Tallone di Ferro. Esistono parecchie copie delle due diverse
edizioni alla Biblioteca Nazionale d’Ardia.

[18] A quel tempo, delle società formate da uomini di rapina
possedevano tutti i mezzi di trasporto, e il pubblico doveva pagare
forti tasse per servirsi di questi mezzi.

[19] Queste contestazioni erano molto comuni in quei tempi caotici
ed anarchici. Talvolta gli operai rifiutavano di lavorare; talvolta i
capitalisti rifiutavano di lasciare lavorare gli operai. Nella violenza
e nel disordine di questi dissidi, molta proprietà veniva distrutta e
molte vite umane perivano.

[20] _Proletariato_ — da _proletario_, latino _proletarius_, nome dato
nel censimento di Servio Tullio a quelli che avevano valore per lo
Stato soltanto perchè facevano figlioli (_proles_); in altre parole,
non avevano alcuna importanza nè per ricchezza, nè per condizione
sociale, nè per eccezionale abilità.

[21] Autore di numerosi scritti economici e filosofici. Inglese di
nascita e candidato al governatorato della California, nelle elezioni
del 1906, compreso nella lista del partito Socialista, di cui era uno
del capi.

[22] Non c’è nella storia, pagina più orribile del trattamento dei
fanciulli e delle donne, in ischiavitù nelle officine inglesi, nella
seconda metà del secolo XVIII dell’èra cristiana. E in quell’Inferno
industriale nacquero parecchie dalle più insolenti fortune dell’epoca.

[23] Everhard avrebbe potuto meglio illustrare la difesa della
schiavitù fatta dalla Chiesa Meridionale prima della «Guerra della
Ribellione». Diamo qui alcune notizia tolte da documenti del tempo.

Nell’A. D. 1835, l’Assemblea Generale della Chiesa Presbiteriana decise
così: «la schiavitù è riconosciuta tanto nel Vecchio come nel Nuovo
testamento e non è condannata dall’autorità di Dio». La «Charleston
Baptist Association» affermò in una conferenza, nel 1835. A. D.:
«Il diritto dei padroni di disporre del tempo dei loro schiavi fu
chiaramente riconosciuto dal Creatore di tutte le cose, il quale è
certamente libero di investire del diritto di proprietà su qualunque
oggetto chiunque a Lui piaccia». Il reverendo E. D. Simon, Dottore
in teologia e professore nel Collegio Metodistico di Randolph-Macon,
in Virginia, scrisse: «Estratti dalle Sacre Scritture asseriscono
inequivocabilmente il diritto di proprietà degli schiavi, con tutte
le conseguenze derivanti da tale diritto. È chiaramente stabilito
il diritto di acquistarne e di venderne. Nell’assieme, dunque,
sia che si consulti la politica ebrea Istituita da Iddio stesso, o
l’uniforme opinione e la pratica del genere umano in tutte le età,
o i comandamenti del Nuovo Testamento e la legge morale, noi siamo
costretti a concludere che la schiavitù non è immorale. Stabilito
il fatto che i primi schiavi africani furono lealmente condotti in
ischiavitù, il diritto di mantenere i loro figli in servitù segue
come indispensabile conseguenza. Cosicchè noi vediamo che la schiavitù
esistente in America è fondata sul diritto».

Non è punto da meravigliarsi che un simile linguaggio sia stato tenuto
dalla Chiesa, una o due generazioni dopo, in rapporto alla difesa della
proprietà capitalistica. Nel grande museo di Asgard, esiste un libro
intitolato: «Saggi in Applicazione» scritti da Enrico Van Dyke. Il
libro fu pubblicato nel 1905 dell’Era Cristiana, ed è un buon esempio
di ciò che Everhard avrebbe chiamato mentalità borghese. Si noti la
somiglianza tra l’elocuzione della «Charleston Baptist Association»
citata sopra, e la seguente elocuzione di Van Dyke settant’anni dopo:
«La Bibbia insegna che Dio possiede il mondo. Distribuisce a tutti gli
uomini secondo gli piace, conformemente alle leggi generali».

[24] Esistevano, a quel tempo, migliaia di poveri merciaiuoli
ambulanti, che offrivano di porta in porta la loro mercanzia. Era un
vero spreco di energia. I sistemi di distribuzione erano confusi e
irrazionali, come tutto l’insieme del sistema sociale.

[25] A quei tempi le ruberie erano incredibilmente comuni. Tutti
rubavano la proprietà degli altri. I dirigenti della Società rubavano
legalmente o facevano legalizzare le loro ruberie, mentre le classi più
povere rubavano illegalmente.

Nulla, che non fosse custodito, era sicuro. Un numero enorme di uomini
era impiegato come guardiani per proteggere la proprietà. Le case dei
benestanti erano depositi di sicurezza, sotterranei e fortezze insieme.
L’appropriarsi di cose personali altrui, che osserviamo oggi nei nostri
figli, è considerato come un retaggio istintivo del caratteristico
furto comunissimo in quei tempi.

[26] I lavoratori erano chiamati al lavoro e lasciati in libertà
mediante il fischio di sirene a vapore, che urlavano così furiosamente
da guastare i nervi.

[27] Il compito degli avvocati delle società anonime era di servire,
con metodi di corruzione, le tendenze di queste ad afferrar danaro ad
ogni costo. È storico che Teodoro Roosevelt, a quel tempo Presidente
degli Stati Uniti, disse, nell’A. D 1905, in un discorso di apertura
dell’Anno accademico, all’Università di Harvard: «Tutti noi sappiamo
che, come stanno attualmente le cose, molti del più influenti e meglio
retribuiti membri del Foro, in ogni centro di ricchezza, si dedicano
particolarmente al compito speciale di trovare il modo più ardito e più
ingegnoso che permetta ai loro ricchi clienti, individui o società, di
eludere le leggi fatte per regolare, nell’interesse del pubblico, l’uso
delle grandi ricchezze.

[28] Esempio tipico della lotta micidiale che minava l’intera società.
Gli uomini si predavano l’uno l’alto, come voraci lupi. I grossi lupi
divoravano i piccoli, e nel branco sociale Jackson era uno dei più
trascurabili e piccoli lupi.

[29] Diciamo, per spiegare, non la bestemmia di Smith, ma il verbo
energico adoperato da Avis, che quella brutalità di linguaggio, comune
in quell’epoca, esprimeva perfettamente la bestialità della vita che si
conduceva allora, vita di felini anzichè di esseri umani.

[30] Allusione al totale di voti ottenuti dalla lista socialista nelle
elezioni del 1910. L’aumento progressivo di questo totale indica la
rapida crescita del partito della rivoluzione negli Stati Uniti. Era
di 2068 voti, nel 1888; di 127.713 nel 1902; di 435.040 nel 1904: di
1.108.427 nel 1908 a nel 1910 di 1.688.211.

[31] In quella perpetua lotta, nessuno, per quanto ricco fosse, poteva
essere sicuro dell’avvenire. Appunto per il pensiero del benessere
della famiglia, gli uomini inventarono le assicurazioni. Questo
sistema, che al nostro tempo illuminato sembra assurdo e comico, era
allora una cosa seria. Il più buffo si è che i fondi delle Compagnie di
assicurazioni erano di frequente svaligiati e dissipati dalle persone
stesse incaricate di amministrarli.

[32] Prima della nascita di Avis Everhard, John Stuart Mill, scriveva
nel suo saggio, «Sulla Libertà»: «Ovunque esiste una classe dominante,
dagli interessi di questa classe e dai suoi sentimenti di superiorità
di classe nasce gran parte della morale pubblica».

[33] Le contraddizioni verbali, chiamate _Irish Balls_, sono state per
lungo tempo un piacevole vizio degli antichi irlandesi.

[34] I giornali del 1902 attribuiscono al Sig. George F. Baer,
presidente dell’_Anthracite Coal Trust_, l’enunciazione di questo
principio: «I diritti e gli interessi delle classi lavoratrici, saranno
protetti dai cristiani ai quali Dio, nella Sua infinita sapienza, ha
confidato gli interessi della proprietà in questo paese».

[35] La parola _società_ è adoperata qui in senso ristretto, secondo
l’abitudine del tempo, per indicare i fannulloni dorati, che senza
lavorare si concedevano tutti i godimenti. Gli uomini di affari e i
lavoratori manuali non avevano nè il tempo, nè l’occasione di giocare a
un simile gioco di _società_.

[36] «Portate il vostro infetto danaro», era il sentimento della
Chiesa, espresso in parole, durante questo periodo.

[37] Nelle colonne dell’_Outlook_, rivista critica settimanale di
quegli anni (18 Agosto 1906), è riferita la storia di un operalo che
perdette un braccio nelle stesse condizioni di fatto di Jackson.

[38] Non si era ancora scoperta la vita semplice, e c’era l’usanza di
riempire gli appartamenti di ninnoli. Le camere erano dei musei la cui
pulizia richiedeva un lavoro continuo. Il diavolo dalla polvere era il
padrone di casa: c’erano mille modi di attirare la polvere, e pochi per
sbarazzarsene!

[39] L’annullamento del testamenti era una delle caratteristiche del
tempo. Coloro che avevano accumulato grossi patrimonî, non sapevano in
che modo disporne per dopo la loro morte. La redazione e l’annullamento
dei testamenti, erano specializzazioni complementari come quelle delle
corazze e degli obici. E così si ricorreva a uomini di legge finissimi
per redigere i testamenti in modo che fosse impossibile annullarli.
Ma erano poi annullati ugualmente dagli avvocati stessi che li avevano
redatti.

Ciò nonostante, i ricchi persistevano nell’idea che fosse possibile
fare un testamento inattaccabile, e quest’illusione fu mantenuta per
generazioni intere dagli uomini di legge, nei loro clienti. Fu una
ricerca analoga a quella del dissolvente universale, che fecero gli
alchimisti del Medio Evo.

[40] Curiosa serie di romanzi _sui generis_, destinati a propagare, fra
i lavoratori, idee false sulla vera natura della classe oziosa.

[41] Gli uomini di quel tempo erano schiavi di alcune formule, e
l’abbiezione di questo servilismo è strana. C’era, nelle parole, una
magìa più forte di quella dei giocatori di bussolotti. Le menti erano
così confuse, che una semplice parola aveva il potere di annientare
le conclusioni di tutta una vita di pensiero e di ricerche. La parola
«Utopista» era di queste: e bastava pronunciarla per condannare i
disegni meglio concepiti di miglioramento o di rigenerazione economica.
Popoli interi erano presi da una specie di follìa, alla semplice
enunciazione di certe espressioni come: «un dollaro onesto» o «un sacco
pieno di mangiure» la cui invenzione era considerata una trovata di
genio.

[42] In origine, erano dei _detectives_ privati; ma divennero ben
presto sostenitori salariati dei capitalisti e poi finirono per essere
i mercenari dell’Oligarchia.

[43] I rimedî brevettati erano veri inganni patentati, ma il popolo
ci credeva come alle grazie e alle Indulgenze del Medio Evo. La sola
differenza era che i rimedî brevettati costavano dippiù, ed erano
nocivi.

[44] Fin verso il 1912 la maggior parte del popolo conservò l’illusione
di avere essa il paese, per mezzo delle elezioni. In realtà, il paese
era governato dal cosidetto meccanismo politico (_political machine_).
In principio, i capi o imprenditori (_bosses_) di questi meccanismi,
estorcevano ai capitalisti grosse somme per influire sulla legislatura;
ma i grossi capitalisti non tardarono a capire che sarebbe stato più
economico per loro avere direttamente nelle loro mani quel meccanismo,
e pagare essi stessi i capi.

[45] Roberto Hunter, in un libro intitolato «Poverty», pubblicato nel
1906, diceva che in quel tempo c’erano negli Stati Uniti dieci milioni
di individui viventi in povertà.

[46] Secondo il censimento del 1900, negli Stati Uniti (l’ultimo le cui
cifre siano state pubblicate) il numero dei fanciulli che lavoravano
era di 1.752.187.

[47] La tendenza di questo pensiero è dimostrata dalla seguente
definizione tolta da un’opera intitolate «The Cynic’s Word Book»,
pubblicata nell’A. D. 1906 e scritta da un certo Ambrose Bierce, noto
misantropo: «Grape-shot (_shrapnel_). Argomento che l’avvenire prepara
in risposta alle domande del socialismo americano».

[48] Gli schiavi africani e i criminali avevano attaccata alla gamba
una catena di ferro, che trascinavano. Solo dopo l’avvento della
Fratellanza dell’Uomo, simili usi barbari furono abbandonati.

[49] C’erano stati, prima di Everhard, uomini che avevano presentito
quell’ombra, quantunque, come lui, fossero incapaci di precisarne la
natura. John C. Calhoun diceva: «Un potere superiore a quello dello
stesso popolo è sorto nel Governo. È un fascio d’interessi numerosi,
diversi e potenti, combinati in una massa unica e mantenuti dalla
forza di coesione dell’enorme riserva che esiste nelle banche». E
il grande umanista Abraham Lincoln dichiarava qualche giorno prima
del suo assassinio: «Prevedo nel prossimo avvenire una crisi che mi
fa tremare per la sicurezza del mio Paese... Le Società anonime sono
state inalzate al trono: ne seguirà un’êra di corruzione nelle classi
elevate, e il potere capitalista del Paese si sforzerà di prolungare il
suo regno appoggiandosi sui pregiudizi del popolo, sinchè la ricchezza
non sia agglomerata in poche mani e la Repubblica distrutta». (Nota
dell’Autore).

[50] Questo libro: «Economia e Educazione» fu pubblicato durante
l’anno. Ne esistono tre esemplari: due ad Ardia ed uno ad Asgard.
In esso egli trattava particolareggiatamente d’uno dei fattori di
conservazione dell’ordine, cioè del presupposto capitalista nella
cultura delle Università e delle scuole secondarie. Era un atto
di accusa logica e schiacciante, lanciato contro tutto un sistema
di educazione che sviluppava nella mente degli studenti solo idee
favorevoli al regime, escludendo ogni idea avversa o sovversiva. Il
libro fece colpo e fu soppresso dall’oligarchia.

[51] Non esiste nessun indizio che possa farci conoscere il nome
dell’organizzazione rappresentata da queste iniziali.

[52] È un sonetto di Oscar Wilde, uno dei Maestri della letteratura del
Secolo XIX dell’êra cristiana.

[53] _At cut rate_ significava abbassare i prezzi di vendita sino alla
pari del costo della merce, e, talvolta, anche al disotto. Una grossa
Società poteva vendere in perdita più a lungo di una piccola; ed era un
mezzo adoperato spesso per vincere la concorrenza.

[54] Furono tentati numerosi sforzi, in quel tempo, per organizzare la
classe decadente del fittavoli, in un partito politico, allo scopo di
distruggere i trusts con severe misure legislative, ma tutti gli sforzi
fallirono.

[55] Il primo gran _trust_ che riuscì, circa una generazione prima
degli altri.

[56] Dichiarare fallimento o bancarotta: istituzione speciale che
permetteva all’industriale che non era riuscito, di non pagare i suoi
debiti, e che aveva per effetto di addolcire le condizioni feroci di
quella lotta a colpi di unghie e di zanne.

[57] Everhard aveva detto il vero. Solo sbagliando la data della
presentazione del disegno di legge, che ebbe luogo il 30 giugno
e non il 30 luglio. Esistono, a Ardis, gli Annali del Congresso,
«Congressional Record», dove si parla dì questa legge, con questi
termini: 30 Giugno; 9, 15, 16 e 17 Dicembre 1902; 7 e 14 Gennaio 1903.

L’ignoranza manifestata a quel pranzo da uomini di affari, non era
affatto eccezionale. Pochissimi conoscevano l’esistenza di detta legge.
Nel luglio 1903, un rivoluzionario, E. Untermann, aveva pubblicato a
Girard, nel Kansas, un opuscolo che trattava della legge sulla milizia.
L’opuscolo fu venduto fra i lavoratori, ma, data la separazione delle
classi, non fu diffuso nella classe media, che ignorò l’esistenza
dell’opuscolo, e rimase nell’ignoranza della legge.

[58] Everhard sviluppa qui chiaramente la causa di tutti i movimenti
operai di quel tempo. Nella divisione del frutto della cooperazione
fra capitale e lavoro, il capitale voleva quanto più poteva avere e
il lavoro pure. Il dissidio su questa divisone era inconciliabile. In
regime di produzione capitalistica, il lavoro e il capitale avrebbero
continuato a litigare nella divisione del prodotto. È per noi uno
spettacolo vergognoso, ma non dobbiamo dimenticare che sono trascorsi
sette secoli da quel tempo.

[59] Teodoro Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti, qualche
anno prima del tempo di cui si tratta, fece in pubblico questa
dichiarazione:

«Ci vuole una reciprocità più estesa, più liberale nella compera
e vendita delle merci, in modo che si possa disporre in maniera
soddisfacente, nei paesi stranieri, della produzione superflua degli
Stati Uniti».

Naturalmente la produzione eccessiva, cui accennava, era costituita dal
guadagno dei capitalisti eccedente la loro capacità di consumo. Nello
stesso tempo. Il senatore Mark Hanna diceva:

«La produzione della ricchezza negli Stati Uniti è annualmente
superiore di un terzo al consumo».

Un altro senatore, Chauncey Depew, dichiarava:

«Il popolo americano produce annualmente due miliardi di ricchezza di
più di quanto consumi».

[60] Carlo Marx, il grande eroe intellettuale del socialismo, era
un ebreo tedesco del secolo XIX, contemporaneo di John Stuart Mill.
Stentiamo a credere oggi, dopo l’enunciazione delle scoperte economiche
di Marx, che, durante molte generazioni egli possa essere stato deriso
dai pensatori e scienziati più considerevoli e stimati. Egli, in
seguito alle sue scoperte, fu bandito dal suo paese natale e morì in
esilio, in Inghilterra.

[61] È la prima volta, secondo noi, che simile nome fu adoperato per
designare l’oligarchìa.

[62] Questa divisione di Everhard è conforme a quella di Luciano
Sanial, una delle autorità del tempo, in fatto di statistica. Ecco,
secondo il censimento del 1900, negli Stati Uniti, il numero di persone
ripartite nelle tre classi, secondo la loro professione:

  Classe della plutocrazia: 250.261.
  Classe media: 8.429.845
  Classe proletaria: 20.393.137.

[63] Fino al 1907, si considerava il paese come dominato da undici
gruppi; ma il loro numero fu ridotto, per la fusione dei cinque gruppi
delle ferrovie in un unico gruppo.

I cinque gruppi amalgamati, e gli altri loro alleati finanziarii e
politici erano:

_a_) James J. Hill, colla direzione del Nord-Ovest.

_b_) Il gruppo delle ferrovie di Pennsilvania, con a capo Schilf,
Direttore finanziario, e di alcune grosse banche di Filadelfia e di
New-York.

_c_) Harriman, con Frick, avvocato consulente, e Odell, luogotenente
politico, dirigente le linee di trasporto del centro continentale del
Sud-Ovest e del Sud-Pacifico.

_d_) Gl’interessi ferroviarii della famiglia Gould.

_e_) Moore, Rejd e Leeds, conosciuti col nome di Rock-Island-Crowd.
Queste potenti oligarchie, nate dal conflitto della concorrenza,
dovevano seguire inevitabilmente il cammino che conduce
all’associazione.

[64] _Lobby_, istituzione speciale avente lo scopo di intimidire e
corrompere i legislatori incaricati di rappresentare gli interessi del
popolo.

[65] Una diecina di anni prima di questo discorso di Everhard, la
Camera di Commercio di New-York aveva pubblicato un rapporto dal quale
riportiamo queste righe: «Le ferrovie dispongono assolutamente del
potere legislativo della maggioranza degli Stati dell’Unione: fanno e
disfanno a loro piacere i senatori, i deputati, i governatori, e sono i
veri detentori della politica governativa».

[66] Rockefeller sorse dal proletariato, e a forza di risparmio e di
scaltrezza, riuscì ad organizzare il primo _trust_ perfetto, quello
che è conosciuto col nome di _Standard Oil_. Non possiamo esimerci dal
citare una pagina notevole della storia di quel tempo per dimostrare
come la _Standard Oil_, per la necessità di impiegare la sua ricchezza
esuberante, abbia schiacciato i piccoli capitalisti, affrettando
il crollo del sistema capitalistico. David Graham Phillips era uno
scrittore radicale d’allora, e questa citazione è tolta da un suo
articolo nel _Saturday Evening Post_ del 4 ottobre 1902. Abbiamo questo
solo esemplare del giornale, dalla forma e dalla tiratura del quale
dobbiamo però concludere che era uno dei periodici popolari più in
voga.

  «Dieci anni or sono, il reddito di Rockefeller era valutato a
  trenta milioni di dollari, da un’autorità competente, impiegati
  nei petrolii. Ormai, somme enormi, più di due milioni di dollari
  al mese, incassa il solo John Davidson Rockefeller. Il problema
  dell’impiego di questo danaro diventava un cruccio. Il reddito del
  petrolio ingrossava, si gonfiava sempre, ed il numero dei possibili
  impieghi sicuri era limitato, più di ora.

  «Ma non fu l’avidità di nuovi guadagni a spingere i Rockefeller
  verso altri rami di affari, oltre il petrolio: essi furono
  trascinati per forza dal flusso di ricchezza, che attirava
  la calamita del loro monopolio irresistibilmente. Dovettero
  organizzare un personale apposito per fare delle ricerche e delle
  inchieste circa nuovi impieghi di denaro. Si dice che il capo di
  questo personale riceva uno stipendio annuo di 125.000 dollari.

  «La prima escursione, o incursione notevole di Rockefeller, avvenne
  nel dominio della ferrovia. Nel 1895, essi disponevano di un quinto
  di tutta la rete ferroviaria del Paese. Che cosa possiedono oggi, e
  che cosa dirigono come principali proprietari?

  «Hanno ingerenza nella maggior parte delle grandi linee di viaggi
  che si dipartono da Chicago; dominano parecchie reti che si
  estendono fino al Pacifico. I loro voti formano la potenza del
  signor Morgan, ora, ma bisogna aggiungere, però, che essi hanno
  bisogno del suo cervello più ch’egli non abbia bisogno dei loro
  voti: così che questa combinazione risulta, in larga misura, da
  comunità d’interessi».

Ma le sole ferrovie non bastavano ad assorbire rapidamente quelle
enormi ricchezze. I 2.500.000 dollari di J. D. Rockefeller non
tardarono a diventare cinque, sei milioni il mese, fino a 75.000.000
di dollari l’anno. I petrolî si mutavano in continuo guadagno, e i
guadagni, a loro volta impiegati in altre imprese, davano nuovi milioni
ogni anno.

I Rockefeller entrarono, allora, a fare parte dell’industria del gas
e dell’elettricità, appena queste industrie, abbastanza sviluppate,
costituirono un sicuro impiego. Ed ora gran parte del popolo americano,
qualunque sia il genere di illuminazione che adopera, è costretto ad
arricchire i Rockefeller, quando il sole tramonta. Poi si lanciarono
nell’impresa delle ipoteche sulle fattorie. Si racconta che qualche
anno fa, quando la prosperità aveva permesso ai fittavoli di liberarsi
dalle ipoteche, J. D. Rockefeller ne fosse addolorato fino alle
lacrime; otto milioni di dollari che egli credeva bene impiegati, a un
buon interesse, per degli anni, gli venivano rigettati sulle braccia, e
domandavano un nuovo impiego. Questo aggravio inatteso del suo perpetuo
cruccio di trovare un impiego a favore dei bimbi, dei nipoti, e dei
pronipoti del suo petrolio, era più di quanto potesse sopportare un
uomo afflitto da cattive digestioni...

I Rockefeller misero capitali nello sfruttamento delle miniere di
ferro, carbone, rame e piombo, poi in altre società industriali, nei
tranvai, nell’acquisto di titoli nazionali di Stato e municipali, per
lo sfruttamento delle grandi linee marittime, dei battelli a vapore,
dei telegrafi, dei bassifondi, per la costruzione dei grattacieli,
delle case, degli alberghi e delle grandi costruzioni per uffici, nelle
assicurazioni sulla vita e nelle banche. Non ci fu, ben presto, un solo
campo dell’industria dove i loro milioni non fossero in opera...

La Banca Rockefeller — la _National City Bank_ — è la più importante
degli Stati Uniti. Ed è superata solo dalla Banca d’Inghilterra e dalla
Banca di Francia. I depositi oltrepassano, in media, cento milioni di
dollari al giorno; essa domina il mercato dei valori di Wall Street,
come la borsa dei fondi pubblici. Ma non è sola: costituisce il primo
anello di una catena di Banche Rockefeller che comprende quattordici
banche e consorzi nella Città di New-York, oltre le banche fortissime e
influentissime in tutti i grandi centri monetarî del paese.

J. D. Rockefeller possiede fondi della _Standard Oil_, per un valore di
quattro o cinque milioni di dollari. Ha cento milioni di dollari nel
_trust_ dell’acciaio, quasi altrettanto in un altro, e così via, al
punto che la mente si stanca nell’elencarne le ricchezze.

Le sue entrate furono, l’anno scorso, di cento milioni di dollari
circa; e sembra che tutte le entrate di Rockefeller insieme,
raggiungano una somma maggiore, che aumenta a sbalzi continui.

[67] Le Centurie Nere, «the Black Hundreds», (le Camice Nere di quel
tempo) erano delle bande reazionarie organizzate dalla plutocrazia
decadente, durante la Rivoluzione Russa. Questi gruppi reazionari
attaccavano i gruppi rivoluzionari. Inoltre, al momento opportuno
sollevavano il popolo e distruggevano le proprietà per fornire
all’autocrazìa un pretesto per chiamare i Cosacchi.

[68] Sotto il regime capitalista i periodi di crisi erano tanto
inevitabili, quanto assurdi. La proprietà era sempre causa di calamità.
Il fatto era dovuto, naturalmente, all’eccesso di guadagno non
consumato.

[69] In teoria e in pratica, in tutto, fuorchè nel nome, i crumiri
erano i soldati segreti dei capitalisti. Perfettamente organizzati
e armati, erano sempre pronti ad essere lanciati con treni speciali,
sui paesi dove i lavoratori si mettevano in isciopero o erano messi
in riposo dai loro padroni. Solo un’epoca così straordinaria poteva
dare lo spettacolo di un certo Farley, noto capo dei crumiri, che
nel 1906 attraversò gli Stati Uniti con treni speciali, da Nuova York
a San Francisco, alla testa di un esercito di 2500 uomini armati ed
equipaggiati per ostacolare lo sciopero dei carrettieri di quest’ultima
città. Quest’atto era un’infrazione pura e semplice alle leggi del
paese. Ma il fatto che la cosa rimase impunita, come migliaia di atti
consimili, mostra fino a qual punto l’autorità giudiziaria fosse sotto
il dominio della plutocrazia.

[70] Durante uno sciopero di minatori dell’Idaho, nella seconda metà
del diciannovesimo secolo, molti scioperanti furono richiusi dalla
truppa, in un parco bestiame. La cosa ed il nome si perpetuarono nel
ventesimo secolo.

[71] Il solo nome, non il concetto, è d’importazione russa. Le
Centurie Nere avevano origine dagli agenti segreti del capitalismo e
comparvero la prima volta nelle lotte dei lavoratori del secolo XIXº.
Questo è certo, ed è stato confessato da un’autorità non inferiore
al Commissario del Lavoro degli Stati Uniti, a quel tempo, il signor
Carrol D. Wright. Nel suo libro intitolato: «Le lotte del lavoro», è
questa dichiarazione: «In alcuni grandi scioperi storici, gl’impiegati
stessi hanno incitato alla violenza»; ed è detto che gli industriali
hanno volontariamente provocato gli scioperi per sbarazzarsi del
soprappiù della loro merce, e che dei treni sono stati bruciati
dagli agenti dei padroni durante gli scioperi delle ferrovie, per
accrescere il disordine. Da simili agenti nacquero le Centurie Nere,
che diventarono poi l’arma terribile dell’oligarchia, gli agenti
provocatori.

[72] Nome di una via della vecchia Nuova York, dove era la Borsa e
dove l’ingiusto ordinamento della Società permetteva la manipolazione
clandestina di tutte le industrie del Paese.

[73] Uno del primi bastimenti che trasportarono i primi coloni
in America, dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Per lungo tempo, i
discendenti di questi furono straordinariamente orgogliosi della
loro origine; poi, quel sangue prezioso si diffuse a tal punto che
attualmente circola, senza dubbio, nelle vene di tutti gli americani.

[74] L’autore di questo poema dovrà rimanere per sempre sconosciuto.
Questo brano è il solo che sia pervenuto sino a noi.

[75] Idolo del dio indiano Vishnu, sotto il cui carro i devoti
s’immolavano.

[76] Cibi messicani dei quali si parla spesso nella letteratura del
tempo. Si suppone che fossero conditi con molte droghe. La ricetta non
è giunta sino a noi.

[77] «William Randolph Hearst», giovane milionario di California,
divenne il più potente proprietario di giornali della regione. I suoi
giornali, pubblicati in tutte le città importanti, si rivolgevano
alla classe media decadente, e al proletariato. La sua clientela era
così vasta, che egli riuscì a impadronirsi della conchiglia vuota
del vecchio partito democratico. Egli occupava una posizione anormale
e predicava una specie di socialismo all’acqua di rose, mitigato da
non so quale forma di capitalismo borghese: una specie di petrolio
mescolato con acqua. Non aveva alcuna probabilità di riuscire a cose
concrete, ma durante un breve periodo suscitò serie preoccupazioni
nella plutocrazia.

[78] La pubblicità era molto onerosa, a quei tempi. La concorrenza
esisteva solo fra piccoli capitalisti, che ricorrevano, perciò, alla
pubblicità, della quale i _trusts_ non sentivano il bisogno.

[79] La distruzione delle classi paesane romane fu molto meno rapida
di quella del fittavoli e piccoli capitalisti americani, perchè il
movimento del secolo XXº procedeva con forza acquisita, come non
esisteva nell’antica Roma. Moltissimi fittavoli, spinti dalla passione
per la terra, e desiderosi di mostrare fin dove potevano giungere nel
ritorno alla vita selvaggia, cercarono di sfuggire all’espropriazione
desistendo da qualsiasi accordo commerciale. Non vendevano nè
comperavano più nulla. Fra loro cominciò a rinascere un sistema
primitivo di scambio in natura. Le loro privazioni e le loro sofferenze
erano orribili, ma resistevano, ed il movimento acquistò una certa
importanza. La tattica del loro avversarî fu originale, quanto logica
e semplice: la plutocrazia, forte del possesso del Governo, aumentò le
imposte. E erano i tributi il punto debole dell’edificio del fittavoli.
Avendo cessato di comperare e di vendere, non avevano danaro: cosicchè,
alla fine, dovettero vendete le loro terre per pagare i tributi.

[80] Da lungo tempo si sentivano quei rumori. Fin dal 1906 Lord Arebury
aveva detto alla Camera dei Lords: «L’inquietudine dell’Europa, il
propagarsi del socialismo e la sinistra apparizione dell’anarchia,
sono avvertimenti fatti ai Governi e alla classi dirigenti e segno
che la condizione delle classi operaie diventa intollerabile e
che se si vuole evitare una rivoluzione, bisogna fare in modo di
aumentare i salarî, ridurre le ore di lavoro, e abbassare il prezzo
delle cose necessarie alla vita». Il _Wall Street Journal_, organo
degli speculatori, commentava in questi termini il discorso di Lord
Arebury: «Quelle parole sono state pronunciate da un aristocratico,
da un membro dell’organo più conservatore dell’Europa. Perciò hanno
più valore. La politica economica che egli raccomanda ha molto maggior
valore di quella insegnata nella maggior parte dei libri: è questo
un segnale d’allarme. Fatene tesoro, signori del Ministero della
Guerra e della Marina!». Nello stesso tempo, Sydney Brooks scriveva
in America, nel _Harper’s Weekly_: «Non volete sentir parlare di
socialisti a Washington. Perchè? I politicanti sono sempre gli ultimi
del Paese a vedere ciò che accade sotto il loro naso. Rideranno della
mia predizione, ma lo dico con certezza che alle prossime elezioni
presidenziali, i socialisti avranno più di un milione di voti.»

[81] Fu al principio del secolo XXº che l’organizzazione socialista
internazionale formulò definitivamente la condotta da seguire in caso
di guerra e che si può riassumere così: «Perchè i lavoratoti di un
paese combatterebbero contro i lavoratori di un altro paese? per il
bene dei loro padroni capitalisti?». Il 21 Maggio 1905, quando si
parlava d’una guerra tra Austria e Italia, i socialisti d’Italia, di
Austria e d’Ungheria tennero un Congresso a Trieste e lanciarono la
minaccia d’uno sciopero generale dei lavoratori dei tre paesi, se la
guerra fosse stata dichiarata. Quell’avvertimento fu rinnovato l’anno
dopo, quando l’affare del Marocco sembrò trascinare in guerra la
Francia, la Germania e l’Inghilterra.

[82] L’«Our Benevolent Feudalism» apparve nel 1902. Si è sempre detto e
sostenuto che fu Ghent a far nascere l’idea dell’oligarchia nelle menti
capitaliste. Questa credenza persiste nella letteratura di tre secoli
del Tallone di Ferro, e perfino nel primo secolo della Fratellanza
dell’Uomo. Sappiamo oggi che cosa pensare di quel principio; ma rimane
il fatto che Ghent fu uno degli innocenti più calunniati di tutta la
Storia.

[83] Ecco, per esempio, alcune sentenze di tribunali che rivelano la
ostilità dei giudici contro la classe operata. L’impiego dei fanciulli
era un fatto normale nelle regioni minerarie. In Pensylvania, nel
1905, i lavoratori poterono fare approvare una legge per la quale la
dichiarazione giurata dei parenti circa l’età e il grado d’istruzione
dei fanciulli doveva, da allora, essere confermata dai documenti.
Questa legge fu immediatamente denunciata come incostituzionale dalla
Corte cantonale di Lucerna, col pretesto che violava il Quattordicesimo
emendamento, stabilendo una distinzione fra persone della stessa
classe, ossia fra i fanciulli di circa quattordici anni; e la Corte di
Stato confermò tale decisione. La Corte di Nuova York, nella sessione
speciale dell’A. D. 1905, denunciò come incostituzionale la legge che
proibiva alle donne e ai minorenni di lavorare nelle officine dopo
le nove di sera, col pretesto che era quella «una legislazione di
classe». Anche in quel tempo, poichè i panettieri erano oppressi da
un lavoro eccessivo, la Camera legislativa di Nuova York emanò una
legge che limitava il lavoro di questi operai a dieci ore al giorno,
ma nel 1906, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò questa
legge incostituzionale, adducendo, fra gli altri motivi, questo, che:
«Non v’è ragione valida per limitare la libertà delle persone o dei
contratti, determinando le ore di lavoro nel mestiere del fornaio.»

[84] James Farley, celebre a quell’epoca, era un uomo dotato di grande
capacità, ma più di coraggio che di moralità. Si inalzò molto, sotto il
dominio del Tallone di Ferro, e finì per farsi ammettere nella casta
degli oligarchi. Fu assassinato nel 1832, da Sarah Jenkins, il cui
marito era stato ucciso trent’anni prima dai compagni di Farley, che
impedivano gli scioperi.

[85] Le predizioni sociali di Everhard erano degne di nota. Con la
stessa chiarezza, come leggeva gli avvenimenti, prevedeva le defezioni
dei Sindacati privilegiati, la nascita e la lenta decadenza delle caste
operaie, come la lotta fra queste e l’oligarchia, per la direzione
della macchina del Governo.

[86] Dobbiamo ammirare l’intuito di Everhard. Molto prima che la
semplice idea di città meravigliose, come Ardis e Asgard, nascesse
nella mente degli oligarchi, egli intravedeva queste città splendide e
la necessità della loro creazione.

[87] Da quel giorno, sono passati tre secoli di dominio dell’Uomo, e
oggi calpestiamo le vie e abitiamo le città edificate dagli oligarchi.
È vero che abbiamo continuato a costruire, ma le città degli oligarchi
sussistono; io scrivo queste righe, in Ardis, una dalla più belle fra
tutte.

[88] Tutti i Sindacati delle ferrovie entrano in questa associazione.
È interessante osservare che la prima vera applicazione della
politica delle «parti dell’avanzo» era stata fatta nel Secolo XIX da
un Sindacato di ferrovieri, «l’Unione Fraterna del Meccanici delle
locomotive», della quale un certo P. M. Arthur era da vent’anni il
capo. Dopo lo sciopero della _Pennsylvania Railroad_ nel 1877, egli
sottopose ai meccanici delle locomotive un disegno secondo il quale
avrebbero dovuto intendersi colla Direzione, staccandosi dagli altri
Sindacati. Questo disegno egoistico riuscì perfettamente; donde la
parola «Arthurisation», per significare la partecipazione dei Sindacati
alla spoliazione. L’origine di questa parola è stata per molto tempo
dubbia per gli etimologi; ma mi pare che tale origine sia ormai ben
chiara.

[89] Alberto Pocock, altro Farley, godeva, in quei lontani tempi, della
stessa notorietà; e fino alla morte riuscì a tenere soggetti tutti i
minatori dal Paese. Suo figlio, Levis Pocock, gli successe, e durante
cinque generazioni, il rinomato lignaggio del guardiaciurma ebbe la
supremazia sulle miniere di carbone. Pocock, il vecchio, conosciuto col
nome di Pocock Iº, è stato dipinto così: «Una testa lunga e sottile,
mezzo circondata da una frangia di capelli scuri e grigi, con zigomi
salienti e un grosso mento... Colorito pallido, occhi grigi senza
splendore, voce metallica, e un atteggiamento languido.» Era nato da
genitori poveri e aveva cominciato la sua carriera come garzone di bar.
Divenne in seguito poliziotto privato al servizio di una corporazione
di tranvieri e al trasformò a poco a poco in crumiro di professione.

Pocock Vº, l’ultimo della casata, morì in una camera, per lo scoppio
di una bomba durante una rivolta di minatori sul territorio indiano.
Questo avvenimento ebbe luogo nel 2073 dopo Gesù Cristo.

[90] Quei gruppi di azione furono modellati in genere sul tipo delle
organizzazioni consimili della Rivoluzione Russa, e, nonostante gli
sforzi incessanti del Tallone di Ferro, durarono tre secoli, per tutto
il periodo di dominio del Tallone stesso. Composti di uomini e di donne
ispirati da propositi sublimi, e impavidi davanti alla morte, i Gruppi
di Combattimento esercitarono una prodigiosa influenza e moderarono
la brutalità dei governanti. La loro opera non si limitò a una guerra
invisibile contro gli agenti dell’oligarchìa. Gli oligarchi stessi e
spesso, persino i sottocapi degli oligarchi, ufficiali dell’esercito e
capi delle caste operaie, furono obbligati a prendere in considerazione
i decreti dei Gruppi.

Le sentenze di questi rivendicatori organizzati erano conformi alla più
rigorosa giustizia; e soprattutto notevole era la loro procedura senza
passione e perfettamente giuridica. Non c’erano giudizi improvvisati.
Quando un uomo era preso, lo si giudicava lealmente e gli si lasciava
la possibilità di difendersi. Necessariamente, molti furono processati
e condannati per procura, come nel caso del generale Lampton, nel 2138
dopo G. C. Questi era forse il più sanguinario e il più crudele dei
mercenarii dell’oligarchia. Fu informato dai Gruppi di Combattimento
che era stato giudicato, riconosciuto colpevole e condannato a morte; e
questo avvertimento gli venne dato dopo di averlo tre volte esortato a
cessare dal trattare ferocemente il proletariato. Dopo questa condanna,
Lampton si circondò d’ogni mezzo di protezione, e, per anni ed anni
i Gruppi di Combattimento si sforzarono invano di eseguire la loro
sentenza. Molti compagni, uomini e donne, fallirono successivamente nei
loro tentativi e furono crudelmente condannati dall’oligarchia. Perciò
fu rimessa in vigore la crocifissione come mezzo di esecuzione legale.
Ma alla fine il condannato trovò il suo boia nella persona di una
giovinetta di diciassette anni, Maddalena Provence, che per ottenere
il suo scopo, serviva da due anni nel palazzo, come guardarobiera.
Essa morì dopo torture orribili e prolungate, in una cella. Ma oggi
la sua statua di bronzo sorge sul Pantheon della Fratellanza, nella
meravigliosa Città di Serles.

Noi che, per esperienza personale, non sappiamo che cosa sia un
omicidio, non dobbiamo giudicare troppo severamente gli eroi dei Gruppi
di Combattimento. Essi hanno dato la loro vita per l’umanità; per
la quale nessun sacrificio sembrava troppo grande. E, d’altra parte,
una necessità inesorabile li obbligava a dare al loro sentimento una
forma sanguinosa, in un’epoca sanguinaria. I Gruppi di Combattimento
furono l’unica freccia nel fianco che il Tallone di Ferro non potè mai
estirparsi. A Everhard spetta la paternità di questo strano esercito.
I suoi successi e la sua resistenza, durante trecento anni, mostrano la
saggezza con la quale egli organizzò, e la solidarietà della fondazione
legata da lui ai costruttori avvenire. Da certi punti di vista, questa
organizzazione può essere considerata come la sua opera principale,
a parte il grande valore dei suoi lavori economici e sociali e le sue
gesta di capo supremo della Rivoluzione.

[91] Condizioni simili si osservano in India, nel secolo XIX, sotto il
dominio britannico. Gli indigeni morivano di fame a milioni, mentre
i loro padroni li privavano del frutto del lavoro e lo spendevano
in cerimonie e cortei feticisti. Non possiamo non vergognarci, in
questo secolo di lumi, della condotta dei nostri antenati, e dobbiamo
limitarci a pensare filosoficamente che nell’evoluzione sociale lo
stadio capitalistico sia, pressa poco, come l’età scimmiesca all’epoca
dell’evoluzione animale. L’Umanità doveva superare quei periodi per
uscire dal fango degli organismi inferiori; e le era naturalmente
difficile liberarsi interamente di quella viscida feccia.

[92] Questa espressione è una trovata dovuta al genio di H. G. Wells,
che viveva alla fine del Secolo XIX. Era un veggente, in fatto di
sociologia, uno spirito sano e normale, e nello stesso tempo un cuore
veramente umano. Numerosi frammenti delle sue opere sono giunti fino
a noi, e due delle sue opere migliori: «Anticipations» e «Mankind in
the Making», ci sono state conservate intatte. Prima degli oligarchi,
e prima di Everhard, Wells aveva preveduto la costruzione di città
meravigliose di cui parla nel suoi libri chiamandole «pleasure cities»,
città del piacere.

[93] Persuasa che le sue memorie sarebbero state lette, nel suo tempo,
Avis Everhard ha tralasciato il risultato del processo per alto
tradimento. Ci sono nel manoscritto molte altre lacune del genere.
Cinquantadue membri socialisti del Congresso, furono giudicati e
ritenuti colpevoli. Cosa strana, però: nessuno fu condannato a morte.
Everhard e undici altri, fra cui Teodoro Donnelson e Matthew Kent,
furono condannati al carcere a vita.

Gli altri quaranta furono condannati, chi a trenta, chi a
quarantacinque anni; e Arturo Simpton, che il manoscritto dice ammalato
di tifoidea al momento dell’esplosione, non ebbe che quindici anni
di carcere. Secondo la tradizione, fu lasciato morire di fame nella
sua cella per punirlo della sua intransigenza ostinata, e del suo
odio ardente ed assoluto contro tutti i servi del dispotismo. Morì a
Cabanas, nell’Isola di Cuba, dove tre altri de’ suoi compagni erano
detenuti. I cinquantadue socialisti del Congresso furono rinchiusi
nelle fortezze militari sparse sul territorio degli Stati Uniti: così,
Dubois e Woods furono rinchiusi a Porto Rico; Everhard e Merryweather
nell’isola di Alcatraz, nella baia di San Francisco, che da molto tempo
serviva da prigione militare.

[94] Avis Everhard avrebbe dovuto aspettare molte generazioni prima di
ottenere la rivelazione del mistero. Quasi cento anni fa, e quindi più
di seicento anni dopo la sua morte, fu scoperta negli archivi segreti
del Vaticano, la confessione di Pervaise. Non è forse inopportuno
fare un cenno di quest’oscuro documento sebbene esso non abbia per gli
storici più alcun valore, ormai.

Pervaise, un americano di origine francese, nel 1913 era prigioniero
a Nuova York, in attesa di essere processato per omicidio. Sappiamo,
dalla sua confessione, che senza essere un criminale indurito, aveva
un carattere impulsivo, impressionabile ed appassionato. In un impeto
di gelosia folle aveva ucciso la moglie, cosa abbastanza comune, a
quel tempo. Il terrore della morte si impadronì di lui, come raccontò
egli stesso; e per sfuggirle si sentì disposto a fare qualunque cosa.
Gli agenti segreti, per ridurlo alle loro mire, gli confermarono che
si era reso colpevole di omicidio di primo grado, delitto che era
punito colla pena capitale, giacchè il condannato veniva legato a una
poltrona apposita, e per cura di medici specialisti era ucciso dalla
corrente elettrica. Questo modo di esecuzione chiamato elettrocuzione,
era molto in voga, a quel tempo: solo tempo dopo, fu sostituito
dall’anestesia. Quest’uomo, che non aveva cuore cattivo, ma una natura
superficiale improntata a un’animalità violenta, a che aspettava in una
cella l’inevitabile morte, si lasciò facilmente convincere a gettare
una bomba alla Camera. Dichiara, anzi, nella sua confessione, che gli
agenti del Tallone dì Ferro gli affermarono che l’ordigno sarebbe stato
inoffensivo, e che non avrebbe ucciso nessuno. Egli fu introdotto
di nascosto in un palco ostentatamente chiuso col pretesto ch’era
in riparazione, e, incaricato di scegliere il momento opportuno per
gettare la bomba, conferma ingenuamente che tanto era l’interessamento
pel discorso di Ernesto e pel tumulto suscitato da questo, che per poco
non dimenticò il compito affidatogli.

Non soltanto Pervaise fu liberato, ma gli fu concessa una pensione
per tutta la vita. Ma non potè fruirne a lungo: nel settembre del
1914 fu colpito da reumatismo al cuore e morì dopo tre giorni. Allora
mandò a chiamare un prete cattolico, al quale fece la confessione.
Il Padre Durban, considerandola molto grave, la scrisse e la firmò,
come testimonio. Noi possiamo soltanto fare delle congetture su quanto
avvenne dopo. Il documento era certo abbastanza importante per trovare
la via di Roma. Potenti influenze furono messe in movimento per
evitare la divulgazione. Soltanto nel secolo scorso, Lorbia, il celebre
scienziato italiano, durante le sue ricerche, lo scoprì. Oggi, dunque,
non rimane alcun dubbio che il Tallone di Ferro sia il responsabile
dell’esplosione del 1913. Ed anche se la confessione di Pervaise
non avesse mai veduto la luce non vi sarebbe potuto essere dubbio
ragionevole: quell’atto che mandò in prigione cinquantadue deputati,
è della stessa natura degli altri innumerevoli delitti commessi dagli
oligarchi, e, prima di essi, dai capitalisti.

Come esempio classico di massacri di innocenti, commessi con ferocia
e indifferenza, bisogna citare quello dei cosiddetti anarchici di
Haymarket, a Chicago, nella penultima decade del secolo XIX. Bisogna
considerare a parte l’incendio doloso e la distrazione dei possedimenti
capitalistici compiuti dai capitalisti medesimi. Per delitti di
questo genere furono puniti numerosi innocenti, messi in ferrovia,
(railroaded) secondo un’espressione usata allora, nel senso che i
giudici si erano intesi prima, per liquidare i conti.

Durante le rivolte del lavoro che scoppiarono nella prima decade del
secolo XX fra i capitalisti e la Federazione Occidentale dei Minatori,
fu adoperata una tattica simile, ma più sanguinosa. Gli agenti dei
capitalisti fecero saltare in aria la stazione della ferrovia a
Indipendenza: tredici uomini furono uccisi, e molti altri feriti.
I capitalisti che guidavano il meccanismo legislativo e giudiziario
dello Stato del Colorado, accusarono di questo delitto i minatori e
per poco non li fecero condannare. Romaines, uno degli strumenti di
questo «affare», era in prigione in un altro Stato, nel Kansas, quando
gli agenti del capitalisti gli proposero il colpo. Ma le confessioni
di Romaines furono pubblicate durante la sua vita, al contrario di
quelle di Pervaise. Nello stesso tempo, vi fu ancora il caso di Moyer
e Haywood, due capi di lavoratori, forti e risoluti: l’uno presidente
e l’altro segretario della Federazione Occidentale dei Minatori.
L’ex Governatore dell’Idaho era stato assassinato misteriosamente; i
socialisti e i minatori avevano apertamente incolpato di questo delitto
i proprietarî delle miniere. Pure, violando le norme costituzionali
statali, in seguito a una intesa fra i governatori dell’Idaho e del
Colorado, Moyer e Haywood furono presi, gettati in carcere e accusati
dell’omicidio.

Questo fatto provocò la seguente protesta di Eugenio V. Deba, capo
del Socialismo americano: «I capi del lavoratori, che non si possono
corrompere, si arrestano o si assassinano. Moyer e Haywood, sono
colpevoli soltanto del reato di fedeltà tenace e inconcussa alla classe
operaia. I capitalisti hanno spogliato il nostro paese, corrotto la
nostra politica, disonorato la nostra giustizia; ci hanno calpestato
coi loro scarponi ferrati, ed ora si propongono di ammazzare coloro
che non sono così abbietti da sottomettersi al loro brutale dominio.
I governatori del Colorado e dell’Idaho non fanno che eseguire gli
ordini dei loro padroni: i plutocrati. La lotta è incominciata fra i
lavoratori e la plutocrazia. Questa può, sì, assestare il primo colpo
violento, ma noi daremo l’ultimo».

[95] Questa scena ridicola costituisce un documento tipico dell’epoca,
e dipinge bene la condotta di quel padroni senza cuore. Mentre il
popolo moriva di fame, i cagnolini di lusso avevano delle speciali
cameriere. Il travestimento dì Avis Everliard era una cosa ben
pericolosa, ma era un caso di vita o di morte ed era in gioco la causa,
ed è perciò da considerarsi veritiero.

[96] _Pullman_, si chiamavano così le vetture più lussuose dei treni di
quel tempo, dal nome del loro inventore.

[97] Nonostante i continui pericoli, quasi inimmaginabili, Anna
Roylston raggiunse la bella età di anni novantuno. Come i Pococks
sfuggirono agli esecutori del Gruppi di Combattimento, essa sfidò
quelli del Tallone di Ferro. Prospera in mezzo ai pericoli, la suo
vita sembrava protetta da un sortilegio. Essa stessa si era fatta
giustiziera per conto di Gruppi di Combattimento: la chiamavano la
Vergine Rossa e diventò una delle eroine della Rivoluzione. All’età
di sessantanove anni, uccise Halcliffe «il sanguinario», circondato da
una scorta, e scappò, senza neppure una scalfittura. Morì di vecchiaia
nel suo letto, in un rifugio segreto e sicuro di rivoluzionarî, sulle
montagne di Ozark.

[98] Socialista Labor Party.

[99] Nonostante tutte le ricerche fra i documenti dell’epoca, non
abbiamo potuto trovare nessuna allusione al personaggio in questione.
Non ne parla che il manoscritto di Everhard.

[100] Il viaggiatore curioso che si dirigesse verso il Sud, partendo da
Glen-Ellen, si troverebbe su un viale che segue precisamente l’antica
strada di sette secoli or sono. Un quarto di miglio da Glen-Ellen,
dopo aver passato il secondo ponte, vedrebbe a destra un botro che si
estende come una cicatrice, attraverso un gruppo di monticelli boscosi.
Questo botro rappresenta il posto dove si esercitava l’antico diritto
di passaggio che esisteva in quel tempo di proprietà individuale
attraverso i terreni di un certo signor Chauvet, pioniere francese
venuto in California all’epoca del cercatori d’oro. I monticelli
boscosi, sono quelli di cui parla Avis Everhard. Il grande terremoto
del 2368, staccò il fianco di uno di quei rialzi che riempì il baratro
ove gli Everhard avevano il loro rifugio. Ma dopo la scoperta del
manoscritto sono stati fatti degli scavi, ed è stata trovata la
casa con le due camere interne contenenti gli utensili accumulati
durante una lunga residenza. Fra le altre reliquie degne di nota, è
stato trovato l’apparecchio distruttore del fumo, di cui si parla in
questo racconto. Gli studiosi che si interessassero dell’argomento in
questione, potrebbero leggere il volume di Arnold Bentham, che uscirà
in questi giorni.

A un miglio a nord ovest dei monticelli, si trova l’area della
Wake Robin Lodge, alla confluenza della Wild Water e della Sonoma.
Osserviamo di sfuggita che la Wild Water si chiamava un tempo Graham
Greek, come si legge in alcune vecchie carte. Ma il nuovo nome perdura.
A Wake Robin Lodge, Avis Everhard dimorò, poi, a parecchie riprese,
quando, mutatasi in agente provocatore del Tallone di Ferro, potè
rappresentare impunemente la sua parte, in mezzo agli uomini e agli
avvenimenti. Il permesso ufficiale le fu concesso da un signorotto non
meno autorevole del signor Wickson, l’oligarca secondario di cui tratta
il manoscritto.

[101] In quest’epoca il travestimento diventò una vera arte. I
rivoluzionarî avevano delle scuole di attori in tutti i loro rifugi.
Sdegnavano gli accessorî degli artisti ordinari come false barbe
e parrucche, ch’erano una trappola. Il travestimento doveva essere
fondamentale, intrinseco, doveva costituire nell’individuo come una
seconda natura. Si racconta che la Vergine Rossa fosse diventata
seguace di quest’arte, alla quale si deve il successo della lunga
carriera di lei.

[102] Queste sparizioni erano uno degli orrori dell’epoca. Di esse si
parla continuamente, nelle canzoni e nelle storie. Erano un risultato
inevitabile della guerra insidiosa che infuriò durante quei tre secoli.
La cosa era però frequente anche presso gli oligarchi e le classi
operaie. Senza preavviso, senza chiasso, uomini, donne e bambini
sparivano; non si rivedevano più, e la loro fine rimaneva avvolta nel
mistero.

[103] Du Bois, attuale bibliotecario di Ardis, discende in linea
diretta da quei rivoluzionarî.

[104] Oltre le caste operaie, vi era la casta militare formata da un
esercito regolare di soldati di professione, i cui ufficiali erano
membri dall’Oligarchia, conosciuti tutti col nome di Mercenarî. Questa
istituzione sostituiva la milizia, divenuta impossibile sotto il nuovo
regime. Era stato istituito un servizio segreto di Mercenarî, oltre
quello del Tallone di Ferro, ch’era un che di mezzo fra l’esercito e la
polizia.

[105] Solo dopo la sconfitta della seconda rivolta, il gruppo dei
Rossi di San Francisco ricominciò a prosperare; e per due generazioni
fu fiorente. Allora un agente del Tallone di Ferro riuscì a farsi
ammettere in esso e a penetrarne tutti i segreti, conducendolo così
alla fatale distruzione. Ciò accadde nel 2002. I membri del Gruppo
furono giustiziati, ad uno ad uno, a tre settimane d’intervallo, e i
loro cadaveri furono esposti nel Ghetto del Lavoro di San Francisco.

[106] Il rifugio di Benton Harbour era una catacomba la cui entrata era
abilmente dissimulata da un pozzo. È stata conservata in buono stato;
così che i visitatori possono attualmente percorrere il labirinto dei
corridoi fino alla sala delle riunioni, dove certamente avvenne la
scena descritta da Avis Everhard. Più oltre, sono le celle dove erano
tenuti i prigionieri, e la camera mortuaria dove avevano lungo le
esecuzioni; più lontano ancora, il cimitero: un insieme di lunghe e
tortuose gallerie scavate nella roccia, aventi, a ogni lato, nicchie
dove riposano i Rivoluzionari ivi deposti dai loro compagni, da tanti
anni ormai.

[107] A quest’epoca vi era ancora la poligamia in Turchia.

[108] Il fior fiore del mondo artistico e intellettuale era composto di
rivoluzionarî. Ad eccezione di pochi musicisti e cantanti e di qualche
oligarca, tutti i grandi creatori dell’epoca, tutti coloro i cui nomi
sono giunti sino a noi, appartenevano alla rivoluzione.

[109] Anche in quest’epoca la panna e il burro si estraevano ancora dal
latte di vacca, con procedimenti grossolani. Non era incominciata la
preparazione chimica del cibi.

[110] Nei documenti letterarî dell’epoca si parla costantemente
dei poemi di Rudolph Mendenhall, che i suoi compagni chiamavano
«La Fiamma». Era di grande ingegno, però, tranne qualche frammento
fantastico, citato da altri autori, di lui non ci è giunto altro. Fu
giustiziato dal Tallone di Ferro, nel 1928.

[111] Il caso di questo giovanotto non è straordinario. Molti figli
d’oligarchi, moralmente o romanticamente, votarono la loro vita
all’ideale rivoluzionario, spinti da un sentimento di onestà o dal
fatto che la loro fantasia era stata sedotta dall’aspetto glorioso
della rivoluzione. Già prima molti figli di nobili russi avevano fatto
lo stesso, durante la lunga rivoluzione del loro paese.

[112] I Mercenarî ebbero una parte importante, negli ultimi tempi
del Tallone di Ferro. Essi mantenevano l’equilibrio del potere nei
conflitti fra Oligarchi e caste operaie, gettando il peso della loro
forza sull’uno o sull’altro piattello, secondo il gioco degli intrighi
e delle cospirazioni.

[113] Dall’inconsistenza e incoerenza del capitalismo, trassero
tuttavia gli Oligarchi una nuova etica coerente e definita, decisa e
rigida come l’acciaio, la più assurda e la meno scientifica e nello
stesso tempo la più possente che abbia mai servito una classe di
tiranni. Gli oligarchi credevano nella loro morale, sebbene essa fosse
smentita dalla biologia e dall’evoluzione, e per tre secoli poterono
arrestare il movimento potente del progresso umano: esempio profondo,
terribile, sconcertante per il moralista metafisico, e che deve
ispirare al materialista molti dubbi e ritorni su se stesso.

[114] Ardis fu terminata nel 1924, e Asgard nel 1984. La costruzione
di quest’ultima durò cinquantadue anni, e occorse un lavoro continuo
di mezzo milione di servi. In certi periodi, il loro numero superò il
milione, senza tener conto delle centinaia di migliaia di lavoratori
privilegiati e di artisti.

[115] Fra i Rivoluzionarî, c’erano numerosi chirurghi che avevano
acquistato una grande abilità nella vivisezione. Secondo le parole
stesse di Avis Everhard, potevano letteralmente trasformare un uomo
in un altro. Per essi l’eliminazione di cicatrici e deformità era
un gioco. Mutavano le linee del volto con tale cura minuziosa, che
non rimaneva traccia dell’operazione. Il naso era uno degli organi
preferiti per tali operazioni. Innestare la pelle e trasportare i
capelli era una cosa ordinaria per essi, che ottenevano cambiamenti
d’espressione, con un’abilità strana, e modificavano radicalmente gli
occhi, le sopracciglia, le labbra, la bocca, le orecchie. Mediante
speciali procedimenti, alla lingua, alla gola, alla laringe, alle
fosse nasali, poteva essere modificato persino il modo di parlare. A
quell’epoca di disperazione occorrevano rimedî disperati, e i medici
rivoluzionarî assurgevano all’altezza del tempi. Tra gli altri prodigi,
era la possibilità d’ingrandire un adulto di tre o quattro pollici
o rimpicciolirlo di uno o due. La loro arte oggi è perduta. Non ne
abbiamo più bisogno.

[116] Chicago era il pandemonio industriale del XIX secolo.

Viene riferito in proposito un curioso aneddoto di _John Burns_,
grande capo socialista inglese, che fu per qualche tempo membro
del Gabinetto. Egli visitava gli Stati Uniti quando, a Chicago, un
giornalista gli domandò cosa pensasse di questa città: «Chicago! —
rispose, — è un’edizione tascabile dell’inferno». Poco tempo dopo,
mentre s’imbarcava per ritornare in Inghilterra, un altro reporter lo
avvicinò per chiedergli se avevo modificato la sua opinione su Chicago:
«Sì, certamente! — rispose John Burns — La mia opinione attuale è che
l’inferno è un’edizione tascabile di Chicago».

[117] Nome del treno reputato, a quell’epoca, il più rapido del mondo.

[118] A quell’epoca la popolazione era così rada che pullulavano
le bestie selvatiche ed erano un vero flagello. In California si
introdusse l’uso delle cacce battute contro i conigli. A un dato
giorno, tutti i fittavoli d’una località si riunivano e percorrevano
la contrada in linee convergenti, spingendo i conigli a ventine di
migliaia verso un recinto preparato prima, dove uomini e ragazzi li
uccidevano a colpi di randello.

[119] Si è a lungo chiesto se il ghetto del sud fosse stato incendiato
incidentalmente o volontariamente dai Mercenarî. Ora è assodato che
furono questi ad appiccar l’incendio

[120] Molte case resistettero più di una settimana: una di esse
resistette undici giorni. Ogni casa fu presa d’assalto come un forte, e
i Mercenarî furono obbligati ad attaccare piano per piano. Fu una lotta
micidiale. Non si chiedeva nè si concedeva tregua. In quel genere di
combattimento, i rivoluzionarii avevano il vantaggio di essere in alto.
Furono alla fine distrutti, ma a prezzo di forti perdite. Il fiero
proletariato di Chicago si mostrò degno della sua antica reputazione.
Tanti morti ebbe, altrettanti nemici uccise.

[121] Gli annali di questo intermezzo di sconforto furono scritti
col sangue. La vendetta era il motivo dominante; i membri delle
organizzazioni terroriste non si preoccupavano punto della loro
vita e non sapevano nulla dell’avvenire. I _Danites_, ch’ebbero nome
dagli angeli vendicatori della Mitologia dei Mormoni, e origini nelle
montagne del Great West, si sparsero lungo tutta la costa del Pacifico,
dal Panama all’Alaska. Le Valchirie erano una organizzazione di donne,
e la più terribile di tutte. Non era ammessa nell’organizzazione se non
colei che avesse avuto parenti prossimi assassinati dall’Oligarchia.
Avevano la crudeltà di torturare i loro prigionieri fino alla morte.
Un’altra famosa organizzazione femminile era quella delle Vedove
di Guerra. I Berserkers (guerrieri invulnerabili della mitologia
scandinava) formavano un gruppo affine a quello delle Valchirie,
composto di uomini che non davano importanza alla vita. Furono essi a
distruggere completamente la città dei Mercenarî chiamata Bellona, con
una popolazione di più di centomila anime. I Bedlamiti e i Helldamiti
erano associazioni gemelle di schiavi. Una nuova setta religiosa, che
non prosperò a lungo, si chiamava «Lo sdegno di Dio». Questi gruppi
di gente terribilmente seria, avevano i nomi più fantastici; fra
gli altri: «I cuori sanguinanti»; «I figli dell’alba»; «Le stelle
mattutine»; «I fenicotteri»; «I tre triangoli»; «Le tre Barre»; «I
Rubonici»; «I Vendicatori»; «Gli Apaches» e gli «Erebusiti».

[122] Qui è interrotto il manoscritto di Everhard. Fu interrotto
bruscamente, a mezzo d’una frase. Avis dovette essere avvisata
dell’arrivo dei Mercenarî, perchè ebbe tempo di mettere in salvo il
manoscritto prima di scappare o di essere fatta prigioniera. È doloroso
che non sia vissuta per finirlo, poichè avrebbe certamente fatta la
luce sul mistero che, da settecento anni, avvolge la condanna e la
morte di Ernesto Everhard.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il tallone di ferro" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home