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Title: Pompei e le sue rovine, Vol. 3 (of 3)
Author: Curti, Pier Ambrogio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Pompei e le sue rovine, Vol. 3 (of 3)" ***


                                 POMPEI
                                  E LE
                               SUE ROVINE


                             PER L’AVVOCATO
                          PIER AMBROGIO CURTI

                  GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO NAZIONALE
            DIRETTORE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI ARCHEOLOGIA
                      E DI BELLE LETTERE IN MILANO

                              VOLUME TERZO



                                  1874
                                 MILANO
                          F. SANVITO, EDITORE
                                 NAPOLI
                           DETKEN E ROCHOLL.



                         Proprietà letteraria.

                Legge 25 Giugno 1865. Tip. Guglielmini.



CAPITOLO XIX.

Il quartiere de’ soldati e il _Pagus Augustus Felix_.

  Quartiere de’ soldati, o Ludo gladiatorio? — _Pagus Augustus
  Felix_ — Ordinamenti militari di Roma — Inclinazioni agricole —
  Qualità militari — Valore personale — Formazione della milizia
  — La leva — Refrattari — Cause d’esenzione — Leva tumultuaria —
  Cavalleria — Giuramento — Gli evocati e i conquisitori — Fanteria:
  Veliti, Astati, Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti,
  legioni — Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria:
  torme, decurie — Duci: propri e comuni — Centurioni — _Uragi,
  Succenturiones, Accenti, Tergoductores, Decani_ — Signiferi —
  Primopilo — Tribuni — Decurioni nella cavalleria — Prefetti dei
  Confederati — Legati — Imperatore — Armi — Raccolta d’armi antiche
  nel Museo Nazionale di Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli — Cenno
  storico — Armi trovate negli scavi d’Ercolano e Pompei — Armi dei
  Veliti, degli Astati, dei Principi, dei Triarii, della cavalleria —
  Maestri delle armi — Esercizj: passo, palaria, lotta, nuoto, salto,
  marce — Fardelli e loro peso — _Bucellatum_ — Cavalleria numidica
  — Accampamenti — _Castra stativa_ — Forma del campo — _Principia_
  — Banderuole — Insegne — _Aquilifer_ — Insegna del Manipolo —
  Bandiera delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie del
  campo — _Excubiæ_ e _Vigiliæ_ — Tessera di consegna — Sentinelle
  — _Procubitores_ — Istrumenti militari: _buccina, tuba, lituus,
  cornu, timpanum_ — _Tibicen, liticen, timpanotriba_ — Stipendj
  militari — I Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i _pullarii_ —
  Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia — Sistema di
  fortificazioni — Macchine guerresche: _Poliorcetiæ_: terrapieno,
  torre mobile, testuggine, ariete, balista, tollenone, altalena,
  elepoli, terebra, galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, inni
  e sacrificj — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene —
  Corone: civica, murale, castrense o vallare, navale o rostrale,
  ossidionale, trionfale, ovale — Altre distinzioni — Spoglia opima
  — Preda bellica — Il trionfo — Veste palmata — Trionfo della veste
  palmata — In Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale
  — Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari: decimazione,
  vigesimazione e centesimazione, _fustinarium_, taglio della mano,
  crocifissione, fustigazione leggiera, multa, _censio hastaria_ —
  Pene minori — Congedo.


Nel capitolo di quest’opera _I Fori_, dicendo del Foro nundinario o
venale, toccai dell’opinione manifestata da molti che anzi essere un
simile foro, quel luogo fosse invece un quartiere di soldati, e venni
osservando come da essi si avesse per avventura a scambiare la parte
per il tutto, riconoscendo io con altri come in tal foro si ritrovasse
un quartiere sia di soldati, sia di gladiatori, come forse meglio
sembrasse al Padre Garrucci.

Bréton, malgrado le dimostrazioni fatte da quest’ultimo scrittore,
e malgrado che sia tratto a riconoscere ch’egli abbia nella maniera
la più positiva stabilito in una dissertazione inserta nel numero
tredicesimo del _Bollettino Archeologico napolitano_ del gennajo 1855,
che si trattasse in questo luogo di un di que’ _Ludi gladiatorii_, di
cui parla Giusto Lipsio[1], non sa risolversi ancora a non ritenerlo
per un quartiere di soldati.

«Io non so in verità, scrive egli, perchè siasi cercato di sostituire
questa denominazione di foro nundinario a quella di _Quartiere de’
Soldati_, che venne a siffatto luogo fin dall’origine assegnato.
È evidente che una città dell’importanza di Pompei, una città
fortificata, dovesse avere una guarnigione e, per alloggiarla, una
caserma. Perchè dunque cercare questa caserma altrove e non nel
monumento il più piano e così conforme alla sua destinazione? Le
porte strette e poco numerose sarebbero state incommodissime e perfino
dannose per un mercato dove una folla numerosa si sarebbe pigiata in
disordine, mentre che esse potevano perfettamente bastare a soldati che
marciavano per due e regolarmente. Una bardatura di cavallo da sella,
armi, cimieri, _memidi_ o calzari di bronzo vennero qui trovati, che
a dir vero sono più proprii di gladiatori, che non di soldati; ma che
conchiuderne per ciò? Che gladiatori di passaggio a Pompei presero
alloggio nella caserma, ciò che è più naturale che prender alloggio nel
mercato. Nelle camere non si rinvennero letti: ma si sa che i soldati
giacevano per lo più sulla paglia. Il solo grande appartamento che
esiste dovette essere destinato al capo della guarnigione. Una sola
cucina sarebbe stata insufficiente se il nutrimento di tutti non fosse
stato ammanito in comune, e noi vediamo che quella del quartiere de’
soldati era evidentemente destinata alla preparazione degli alimenti
d’una gran quantità di persone. Finalmente, quale sarebbe stata in un
mercato la destinazione di una prigione così severa come quella che
qui vi fu riconosciuta? S’arroge che in nessun luogo della città si
rinvenne una così grande quantità di scheletri, non essendosene contati
meno di sessantatrè, ripartiti principalmente nelle camere del primo
piano. Non è egli quindi supponibile che taluni motivi di disciplina
abbiano ritenuto i soldati al loro posto troppo lungo tempo per
permettere a tutti di sottrarsi alla morte?»[2]

Questi sono gli speciosi argomenti di Bréton, che potrebbero ben anco
essere conformi a verità, se quelli addotti dal Garrucci non fossero
stati buoni del pari e convincenti, per conchiudere che dovesse
essere invece un ludo gladiatorio. Io non presumo di mettere innanzi
un perentorio giudizio; solo permettendomi di ricordare che ho già
esternato l’avviso mio che inclina all’ipotesi del Garrucci. Se non
che al mio presente argomento ciò che preme di stabilire si è che alla
vita romana in Pompei non potesse mancare quanto aveva tratto alla
vita militare, e quindi dovevan esistere e una caserma, se forse non
ve n’erano anche di più, e posti e stazioni; che infatti alla Porta di
Ercolano si trovò morta, l’alabarda in pugno, la sentinella, che fida
alla sua consegna, anzichè mancarvi, e cercare come tutti gli altri
cittadini lo scampo nella fuga, erasi lasciata soffocare dall’aere
graveolenta e seppellire sotto le ceneri e i lapilli.

Ma se qui non erano alloggiati i soldati, se questa non era la caserma,
ma un ludo gladiatorio, o locali attinenti solo al foro venale, e dove
trovar dovevansi soldati, posto che Pompei, come non è contraddetto,
fosse città importante, e di una importanza ben anco militare, avesse
mura, saracinesche, opere di fortificazione, e se anzi ben due volte vi
furono dedotte colonie militari, l’una volta al tempo e per gli ordini
di Silla e l’altra per quelli di Augusto?

Potrebbesi rispondere a siffatta domanda con quei dati storici che
Bréton medesimo prepose all’opera sua: «Silla ordonna que Pompei fût
reduite en colonie militaire sous le double nom de _Colonia Veneria,
Cornelia_, emprunté aux noms du dictateur et de la divinité protectrice
de la ville. Il y envoya des troupes sous le commandement de son neveu
Publius Sylla: mais les Pompéiens, regardant ces colons comme des
étrangers, leur refusèrent les droits de cité...»

E più sotto:

«Quoiqu’il en soit, les colons furent forcés d’habiter hors de la
ville dans un faubourg, qui, lorsque plus tard, Auguste eut envoyé une
nouvelle colonie de vétérans, prit le nom de Pagus Augusto-Felix[3].»

Da queste nozioni di storia pompeiana, che sono conformi a quelle che
ho pur io date nei capitoli del primo volume di quest’opera, inferisco:
a che dunque cercar in città caserme e stazioni militari, se i soldati
dovevano rimanere fuori della città? Vero è che quanto è scoperto del
Pagus Augustus-Felix non ha rivelato quartiere di sorta, ma solo quella
parte che l’attraversa ed è la Via delle Tombe e che percorreremo
nell’ultimo capitolo di quest’opera; ma rammentiamoci altresì che ancor
molto rimane a trarre in luce e che gli scavi ulteriori ponno co’ loro
risultamenti diradare ogni dubbio e risolvere la quistione.

Dopo ciò, dinnanzi al fatto delle sentinelle summentovate e dopo le
diverse guerre e fazioni guerresche narrate in quest’opera nei capitoli
della storia, a soddisfare agli intenti dell’opera ed a chiudere di
essa quanto ha riferimento alla vita publica romana, riprodotta in
Pompei, entrerò a dire degli ordinamenti militari e di quanto ha tratto
all’armamento; ben francando la spesa il conoscere siccome fossero,
perocchè non di poco avessero a contribuire a quei trionfali successi
ch’ebbero sempre le armi romane. Gli scavi di Ercolano e di Pompei
portarono discreto contributo all’archeologia per farci conoscere
armi ed attrezzi militari e guerreschi, ed io di questi più innanzi ne
tratterò il meglio che mi sarà dato.

Ho già provato, trattando del commercio de’ Romani, che lungi costoro
dall’essere, come si crede erroneamente dall’universale, un popolo
soldato per istinto, lo fosse invece costretto dalla necessità, e
conquistando l’universo non lo facesse che per proteggere la sua
indipendenza o per difendersi, che non pugnò insomma che vagheggiando
le dolcezze della pace, alla quale, appena il poteva, si abbandonava.
Orazio compendia le aspirazioni de’ Romani quando esclama:

    _O rus quando ego te aspiciam_[4]?

I Romani in fatti ebbero a preservarsi dai Sabini, dagli Etruschi, dai
Latini, dai Sanniti, in tutti i quali erano elementi di grandissima
resistenza; onde Properzio, che tutto abbracciava il sentimento
dell’antichità, era nel vero giudicando l’Italia in quel verso che già
m’avvenne di dover riferire:

    _Armis apta magis tellus quam commoda noxæ_[5],

più propria, cioè, alle armi, che non alla aggressione e distruzione.
Se dunque al soldato romano si può rimproverare un sol vizio,
l’avarizia, perchè l’orgoglio è più spesso nel soldato una virtù;
di ricambio ebbe l’onor militare come noi l’intendiamo pure oggidì,
il rispetto al giuramento, la devozione al suo capo, il gusto della
disciplina. I Romani vinsero il mondo con la tattica, la disciplina, la
forza d’insieme, la costanza e il sentimento d’essere Romani. Gli altri
popoli usavano di armi straordinarie e di macchine, il popolo romano
della spada. Anche contro i Germani, individualmente sì bravi e sì
forti, era colla pugna corpo a corpo e colla spada che i Romani avevano
la vittoria; onde Germanico così poteva dire alle sue truppe: _Non
enim immensa barbarorum scuta, enormes hastas inter truncos arborum et
enata humo virgulta, perinde haberi quam pila et gladios, et hærentia
corporis tegmina. Densarent ictus, ora mucronibus quærerent_[6].
Potrebbesi e vizio e virtù che ho mentovati, comprovare coi fatti
alla mano; ma la storia di Roma è troppo notoria per avere d’uopo di
ricorrere a ciò.

Piuttosto m’occuperò qui ad informare il lettore della formazione di
questa famosa milizia conquistatrice dell’universo.

E prima devesi portar l’attenzione sulla scelta, _dilectus_, che era il
raccogliere e l’iscrivere i soldati in codici o matricole. Tale scelta
veniva fatta tra cittadini e socj o confederati; — rado avvenne che
si ricorresse ai poveri ed agli schiavi, — e venivano poi ascritti o
a’ fanti o a’ cavalieri. Nella milizia navale si accoglievano anche le
persone più abbiette e i libertini.

Il principio della milizia era al diciassettesimo anno, la fine al
cinquantesimo. Chi per altro serviva di continuo, terminava i suoi
obblighi a’ trentasette anni; gli altri, dove non avessero compiuto
il lor servizio al quarantesimo sesto anno, non n’erano liberati e
si potevano costringere finchè non avessero compiuti i cinquant’anni.
Altro requisito della milizia era il censo, solo volendovisi i ricchi,
gli onesti e coloro i quali, avendo beni tutti proprii, in certo modo
presentassero solidarietà d’interessi colla cosa publica.

La leva, o coscrizione, delle truppe, testimonio Dionigio
d’Alicarnasso[7], si faceva ogni anno, designandosi all’uopo due
consoli, che alla loro volta, congiuntamente al popolo, creavano
ventiquattro tribuni per capi di quattro legioni.

La cernita si faceva, previa publicazione dell’editto a mezzo del
banditore, dai tribuni in Campidoglio, estraendo a sorte dalle tribù
e classi, alla presenza dei consoli assisi nelle sedie curuli. I
refrattarj che si sottraevano alla milizia, i consoli comandavano
venissero ricercati e tradotti in carcere, talvolta puniti di verghe,
venduti i loro beni e qualche volta benanco multati dell’estremo
supplizio o della morte civile, venduti cioè pubblicamente schiavi o
notati d’infamia.

Tre giuste cause sottrar potevano al servizio: la prima era la
dispensa, _vacatio_, per l’età, se già raggiunto il cinquantesimo
anno; per onore, se fosse taluno nella magistratura o nel sacerdozio;
per beneficio se il Senato e il Popolo consentivano: la seconda causa
dicevasi _emeritum_, ed era per chi aveva compiuti venti stipendj: la
terza era vizio o malattia, come i mancini, i gracili, chi mancasse di
pollici o altre dita, gli inetti a reggere scudo o gladio.

Nella leva così detta _tumultuaria_, od anche _subitaria_[8], che
seguiva nell’imminenza di qualche pericolo, non si osservavano grandi
formalità, esentandosi soltanto quelli ch’erano gravemente infermi od
inabili affatto.

Per ciò che riguardava la cavalleria, spettava ai censori il
determinare chi vi dovesse appartenere. Duplice poi era il corpo da’
cavalieri, l’uno costituivasi di quelli che ottenevano dal publico il
cavallo e il suo mantenimento, ed erano i soli che una volta dicevansi
cavalieri, _equites_; l’altro di coloro che non l’ottenevano. Costoro
potevano allora servire tra i pedoni, _pedites_. Riguardavasi molto a’
costumi per concedersi il cavallo, e però spettavane la decisione al
censore. Dopo, tal facoltà si arrogarono i principi.

Finita la coscrizione, i tribuni congregavano i militi delle rispettive
legioni e lor facevano prestare giuramento. Ignorasi però se giurassero
uno per uno, o se insieme. Consisteva la formula nel giurare: sarebbero
per seguire i consoli a qualunque guerra fossero essi per chiamarli,
non mai tentar cosa contraria al popolo, non disertar mai le bandiere,
raccogliersi al cenno de’ consoli, nè partir mai senza l’ordine loro.

Eranvi poi gli _evocati_, che formavano spesso la forza degli eserciti,
quasi assunti dietro preghiera o domanda, ed erano per lo più veterani,
esperti e prudenti della milizia, che comunque avessero assolti i loro
servizj, li riassumevano tuttavia in grazia de’ consoli o de’ capitani.
Gli evocati venivano dispensati da certe opere faticose, come del vallo
e degli accampamenti e tenuti in maggior onore, spesso considerati
quasi centurioni.

I _conquisitori_ erano coloro che si mandavano nelle campagne ad
ingaggiare la gioventù per la milizia od a scoprire i refrattarj che vi
si tenevan nascosti ed a persuaderli di costituirsi.

Toccato fin qui della cernita, veggiamo dell’ordine della milizia.

Vario era esso sia ne’ militi che ne’ duci: Giusto Lipsio lo considera
e distingue, rispetto ai primi, in generi e in parti.

Generi dei pedoni erano i Veliti, gli Astati, i Principi e i Triarj.
Veliti coloro che per poca età e ricchezza venivano assegnati a questo
infimo genere, e quasi inermi venivano esposti di fronte al nemico;
astati perchè dapprima combattevano colle aste, dopo poi, serbando
sempre lo stesso nome, combattevano coi pili, specie di giavellotti, e
coi gladii; principi, perchè nello schierarsi dell’esercito venivano
nel terzo ordine. Parrebbe tuttavia dal loro nome dovessero trovarsi
invece nella prima.

Parti della fanteria erano poi queste, nelle quali i generi si
dividevano dai tribuni e dai centurioni i militi pedoni, eccettuati
i veliti: la _Centuria_, che si componeva di sessanta militi ed
era assegnata ad un centurione; il _Manipolo_, che si costituiva
di due centurie; la _Coorte_, composta di tre manipoli ed aveva
astati, principi o triarii, ed anche per consueto i veliti. Scipione
Africano istituì anche la Coorte Pretoria, nella quale s’ascrivevano
i volontarii e gli amici e che mai si dipartiva dal Pretore, ad
imitazione della Coorte Regia presso i Macedoni; finalmente la
_Legione_, perchè comprendeva tutti gli altri ordini. Romolo l’istituì
di tremila uomini; cacciati i Re, crebbe a quattromila; a cinquemila
montò nella guerra contro Annibale ed a seimila la portò Scipione
quando passò in Africa.

Essendo molte le legioni, — perchè se prima sotto i consoli furono
quattro, nella seconda guerra Punica ascesero a venticinque,
nella guerra civile fra Cesare e Pompeo se ne contarono quaranta e
nell’assedio di Modena cinquanta — ebbero diversa denominazione: il
più spesso si distinsero col numero progressivo come _prima, secunda,
tertia_; talvolta col nome del fondatore, come _Augusta, Claudiana_;
alcune dal nome degli Dei, di Marte, di Minerva, di Apollo; altre
dalle provincie trionfate, come _Italica, Gallica, Cirenaica_; ed
altre finalmente da qualche onorifica qualità, come la Vittrice, la
Fulminante, la Valente, la Ferrea, la Pudica, la Fedele[9].

Gli ordini della cavalleria, erano le torme e le decurie. Dividevansi
in dieci corpi. Ogni legione aveva dieci torme tricenarie, ossia
tremila cavalieri. Le ale, erano così chiamate a motivo della
loro posizione nella battaglia; onde dicevasi ala destra ed ala
sinistra, componevansi di soci e di confederati; le torme o compagnie
suddividevansi in tre decurie o brigate di dieci uomini.

Tito Livio ne fa sapere, come nel principio della seconda guerra
Punica, i Romani, veduta l’inferiorità della loro cavalleria rimpetto a
quella de’ Cartaginesi, usassero dei veliti come arcieri e frombolieri
per appiccar zuffa avanti le linee e spazzar la via all’esercito[10].

Questa era, per usare del linguaggio militare, la bassa forza: essa per
altro si completava coi suonatori di militari strumenti, con operai
armajuoli e costruttori di macchine guerresche, _tormenta bellica et
impedimenta_, e conduttori di bagagli, pel trasporto de’ quali non
si faceva uso, come di presente, di carriaggi, ma di bestie da soma,
perchè di minor impaccio e di servizio più pronto.

Ora dei duci.

Questi pure erano di due generi: proprii, quelli che erano preposti
ad una o a qualche parte dell’esercito, come i centurioni, e i
tribuni; comuni, coloro che erano preposti a tutti, come i legati e il
comandante in capo, _imperator_.

I centurioni venivan, d’ordine o consenso dei consoli, eletti dai
tribuni fra quelli della loro classe: sovente però si toglievano anche
da classi superiori, ma per segnalati meriti, massime per militari,
distinti. L’elezione dei centurioni era duplice. Nella prima se ne
eleggevano trenta, ed altrettanti nella seconda. Il primo eletto
denominavasi Primopilo ed era nel suo diritto di intervenire nei
consigli militari, in un coi tribuni e coi legati. Talvolta accadde,
più per qualche occasione e volontà del duce, che per diritto o
costume, che tutti i centurioni venissero ammessi nel consiglio.
Insegna poi dei centurioni era un baston di vite, di cui si valevano a
punizione de’ soldati.

I centurioni già eletti si eleggono pure alla loro volta gli uffiziali,
_uragi_, o più veramente chiamati _optiones_. Quando venivano
creati dai tribuni, dicevansi _accensi_; ma quando la loro nomina
fu devoluta ai centurioni, ebbero quel nome di _optiones_ ed anche
di sottocenturioni, _succenturiones_. _Tergoductores_ erano que’
sott’uffiziali che compivano le funzioni che or sarebbero de’ sargenti;
_decani_ quelli che or si direbbero caporali.

In mezzo a’ centurioni si trasceglievano due, prestanti per vigoria
d’animo e di corpo, per essere signiferi, o portatori del vessillo;
perocchè quantunque un solo fosse il vessillo, due tuttavia erano i
vessillarii o signiferi, acciò l’uno succedesse all’altro in caso di
fatica, essendo i vessilli pesanti, od anche all’evenienza di malattia.

Il Primopilo, _primopilus_ ed anche _primipilus_, era il capo di
tutti i centurioni, come il prefetto e principe delle legioni. Egli
aveva autorità anche sul collega suo Primopilo sinistro e la tutela
dell’aquila, che era lo stendardo principale della legione[11], tanto
così che si dicesse aquila come sinonimo di primopilato.

Come i centurioni eran preposti ai manipoli, così i tribuni della
milizia erano a tutta la legione che ne aveva sei. Li istituì Romolo,
li mantennero i Re ed i Consoli; ma il popolo se ne avocò il diritto
e il suffragio, poi esclusa ancora la facoltà nel popolo, e questi
volendola rivendicare, restò convenuto che parte ne avesse il popolo
e un numero eguale i consoli; i primi detti anche _comitiati_, avuti
in maggior onore; gli altri detti _Rutili_ o _Rufuli_. I tribuni
erano eziandio di due sorta, cavalieri e plebei. Spettava ai tribuni
render giustizia e conoscere delle cause capitali, dare il segnale
alle guardie e sentinelle, curare le veglie, vigilare le munizioni,
provvedere agli esercizi tutti. Portavano l’anello d’oro, gli altri
militi non potendolo portar che di ferro.

La cavalleria dividendosi in dieci turme, si pigliavano tre cavalieri
per ciascuna turma, e così si avevano trenta duci. Erano insomma tante
turme nella cavalleria quante erano nella fanteria le coorti; tante
le decurie quanti i manipoli: e per conseguenza altrettanti i duci;
con questo solo divario che nella turma ve ne era un solo, mentre nel
manipolo ve n’erano due. Nella turma erano tre le decurie e l’uffiziale
che comandava la decuria appellavasi decurione. Ciascuna turma aveva un
solo vessillo. Spettava ai duci delle turme la nomina degli _uragi_ od
_optiones_; come nella fanteria.

I soci o confederati, in luogo dei tribuni, che solo spettavano
ai militi cittadini, avevano i prefetti e venivano costituiti dai
consoli, pari nel resto nei diritti e nella podestà ai tribuni. I
Legati erano applicati agli imperatori o comandanti in capo, non tanto
per comandare, quanto per giovar di consiglio, ed era il Senato che
li destinava come pratici della milizia presso del capo. Era grande
dignità codesta, perocchè col potere dell’imperatore avesse altresì
diritto alla venerazione dovuta ai sacerdoti. Cicerone li chiamava
numi di pace e di guerra, curatori, interpreti, autori di bellici
consigli, ministri del provinciale interesse. Il loro potere per altro
era subordinato a quello del comandante. Incerto era il numero loro,
talvolta destinato uno per legione, sempre come sembrava conveniente
al Senato. Quelli ch’eran preposti a tutto l’esercito, dicevansi
consolari: pretorii quelli assegnati alle legioni.

Il supremo comandante era poi, come dissi, l’Imperatore, _imperator_,
a cui obbedivano cittadini e confederati, cavalieri e fanti. Insegna
della carica erano i littori coi fasci: aveva il paludamento, la
clamide, e i suoi cavalli portavano fregi militari, bardature ricche
d’oro e stragulo scarlatto.

Veniamo ora a trattare delle armi, le quali si dicevano _tela_ se erano
per offesa, _arma_ se per difesa.

È a questo punto che mi richiama la speciale attenzione il Museo
Nazionale di Napoli, dove colle armi e cogli attrezzi militari e
guerreschi di varii altri musei privati, o rinvenuti altrove, si
accolsero quelli che si trovarono negli scavi d’Ercolano e di Pompei.
Nel dire di questa parte interessantissima del napoletano Museo,
mi varrò dell’accurato Catalogo, che come degli altri oggetti tutti
riguardanti altre classi, così di questa diligentissimamente delle
armi, compilò l’illustre Commendatore Fiorelli, del quale non è parola
che basti a dir quanto delle preziosità pompejane ed ercolanesi sia
benemerito, e che fu da lui pubblicato in Napoli nell’anno 1869 nella
Tipografia Italiana del Liceo Vittorio Emanuele.

Giovi premettere un cenno storico intorno all’ordinamento di tale
Raccolta, quale il Fiorelli fe’ precedere al suo Catalogo.

Innanzi che si ponesse mano ad un più ragionevole ordinamento
del Museo, le armi antiche che si possedevano erano confuse agli
utensili domestici di bronzo: il _galerus_, l’_ocrea_, la _fibula_, i
_pugiones_, e le _parmæ_, oggetti d’abbigliamento o stromenti militari,
trovavansi in buona compagnia coi _cacabi_, e i _lebetes_, gli _ahena_,
i _clibani_ e gli _infundibula_. Argomenti il lettore qual relazione
vi avessero, oltre l’avere comune il metallo ond’erano formati, cioè il
bronzo.

Ora le Armi Antiche hanno una distinta collocazione, divisa la raccolta
in tre classi.

La prima è delle armi greche, le quali provenute da sepolcri di remota
antichità, e per lo più ricchi di vasi dipinti, appartengono ai Greci
dell’Italia Meridionale anteriori al dominio di Roma, trovate nei
luoghi di Ruvo, di Pesto, di Locri, di Egnazia e Canosa; ma siccome
esse punto non riguardano Pompei ed Ercolano e neppure quell’epoca che
l’opera mia prese a dichiarare, affin di non uscire dal campo nostro,
non ne terrò parola.

La seconda classe è delle armi romane ed italiche, rinvenute nelle
tombe della Campania e nei campi del Sannio e segnatamente alle pendici
del monte Saraceno presso l’antica _Bovianum vetus_, oggi denominata
_Pietrabbondante_; e fra queste pur talune vennero offerte dagli scavi
di Ercolano e Pompei.

Queste _galeæ_, od elmi, che per essere tutti di bronzo, a stretto
rigore dovrebbero dirsi _casses_, perocchè dapprima la voce
_galea_ venisse adoperata a designare un elmo di pelle o cuojo, pel
contrapposto di _cassis_ che indicava un elmo di metallo, appartengono
a Pompei. L’una (n. 57 del Catalogo speciale e 3474 del generale) ha
breve _projectura_ o visiera nella parte posteriore, ove è un foro per
attaccarvi la crista, con altro sulla sommità per contenere il piede
del cimiero (_apex_), che addita avere già per avventura spettato a
centurione, cui, per autorità di Polibio e di Vegezio, fregiava l’elmo
un cimiero, che mancava in quello di semplice soldato. Nei lati di
questa _galea_ due cerniere sostenevano le paragnatidi (_bucculæ_)
ora mancanti. La seconda (n. 59 — 3000) appare alterata ed ha avanzi
di cerchio di ferro, adattatovi all’intorno, perchè evidentemente
adoperata come utensile di cucina. Egualmente si conosce essere stata
mutata in _trulla_ la terza _galea_ (n. 62 — 3473), per l’aggiunta di
un manico di ferro.

Due _galeæ_ di bronzo (nn. 60, 61 — 2842, 2880) con frontale e
_bucculæ_, aventi sul vertice una piccola falera bucata per immettervi
l’_apex_ e dietro un uncino per fermare la _crista_ con le falde
posteriori aggiunte e tenute da chiodi, vennero invece raccolte negli
scavi d’Ercolano.

Una cuspide di bronzo (n. 80 — 3459); due gladii di ferro (81, 82
— 3459, 9618) due lame di gladio in bronzo (n. 83, 84 — 3461, 3462)
furono pur di Pompei; così due teste d’aquila in bronzo, impugnature
di gladio (85, 86 — 3458, 12883); un frammento di _lorica squamea_ (93
— 3456) consistente in novantuno pezzetti di osso in forma di squamme,
ciascuno con due buchi, ne’ quali passava un filo che li univa tra loro
sopra un torace di lino.

La terza classe è delle armi gladiatorie di Pompei e d’Ercolano,
credute da molti armi di guerra e per la singolarità delle loro forme
cagione di gravissimi errori sulla natura dell’armamento dei legionarii
romani, ai quali però queste armi erano affatto estranee, perchè solo
destinate ai ludi ed alle pompe dell’Anfiteatro.

Io per altro ho creduto di riserbarne il cenno in questo capitolo, per
non iscindere in diverse parti l’argomento delle armi.

Dodici sono le _galeæ_, di cui una sola di ferro, le altre tutte di
bronzo che si trassero dagli scavi di Pompei (nn. 268, 269, 271, 274,
275, 276, 277, 278, 279, 280, 282, 284). Sono degne di considerazione
speciale: quella al n. 275 adorna di figure in rilievo rappresentanti
cinque muse sulla parte anteriore, il dio Pane nel dinanzi della
_crista_, con trofeo di cimbali, tirsi, tibie, e di una lira graffiti,
e due amorini nella visiera, quelle ai nn. 276 e 278 a varii bassi
rilievi e quella al n. 282 che ha sulla fronte in rilievo la figura
di Roma galeata, che calcando una prora di nave regge nella sinistra
il gladio chiuso nella vagina, con due figure virili avanti di sè
prosternate e altri gruppi ai lati.

Cinque sono le _galeæ_ di Ercolano, delle quali una di ferro, le
altre in bronzo (270, 272, 273, 281, 283). La prima è adorna di bassi
rilievi che ritraggono sulla fronte un simulacro di Priapo avvolto in
ampia clamide, avente ai lati due guerrieri, con altri fregi minori
nelle restanti parti. Quella al n. 283 è veramente insigne, essendo
interamente ornata di figure a rilievo esprimenti gli ultimi fatti
della guerra di Troja.

Una _parma_ o scudo circolare di bronzo (n. 288) trovata in Pompei ha
nel mezzo di argento ed in rilievo il Gorgonio circondato da ghirlanda
di olivo, e così un mezzo scudo (n. 287) o _galerus_, con figure
marine.

È di Ercolano un mezzo scudo eguale (n. 286), ma di bronzo e atto alla
difesa della testa, venendo per lo più applicato all’omero nelle lotte
dei gladiatori Reziarii.

Tredici _ocreæ_ di bronzo (290, 291, 293, 294, 295, 296, 297, 298,
299, 300, 301, 302, 303, 304) son di Pompei, la più parte figurate e le
ultime due, simili affatto tra loro, servir dovevano certo ad un solo
combattente.

Priva di ornamenti è la sola ocrea di bronzo rinvenuta in Ercolano.

Sei cuspidi di bronzo per lancia offriron pure gli scavi pompejani
(305, 307, 308, 309, 310, 311) e una tricuspide (n. 306) che armava
forse l’estremità dell’asta di un Bestiario.

I medesimi scavi diedero tre pugnali di ferro, _pugiones_ (312 — 4)
con manici d’osso; due frammenti di cingolo di bronzo (315) in cui
alternatamente stavano in rilievo borchie con protomi bacchiche e di
altre divinità, con calici di fiori aperti, frammezzati di rami d’edera
scolpiti a puntini; con balteo di cuojo (316) a borchie di bronzo, e
sei dischi dello stesso metallo con protomi in rilievo; e finalmente
due corni (521 — 2) o trombe di bronzo che si suonavano dal _cornicen_,
di che verrò più sotto, quando sarà il discorso degli istrumenti
musicali della milizia, a parlare.

Tre fibule d’argento (317 — 9) servienti a baltei di cuoio provengono
da Ercolano.

È indubitabile che gli scavi che si verranno ad operare nel _Pagus
Augustus Felix_ trarranno in luce molte e molte altre armi; perocchè
quello fosse il luogo ove dimorava la colonia militare statavi per ben
due volte dedotta da Roma.

Enumerate le armi di Pompei ed Ercolano, che si hanno nel Museo
napoletano, vengo adesso ad assegnare quello che si aveva ciascun
milite facente parte dell’esercito romano.

Ho già detto che i veliti erano quasi inermi; la loro armatura infatti
era assai leggiera: un cimiero, _galea_ o _galeus_, di pelle o lana per
coprire il capo; una spada, _gladius_; un’asta, _hasta_; una specie
di scudo, _parma_, di legno ricoperto di cuoio e la frombola e con
essa avanti l’armata facevano in guerra le prime provocazioni contro
l’inimico.

Gli astati avevano un cimiero, _galea ærea_, di ferro senza visiera,
onde Cesare nella pugna farsalica avendo di contro i bellimbusti
di Roma che parteggiavano per Pompeo, potè consigliare i suoi colle
parole: _Faciem ferite_, mirate alla faccia, sicuro che per non essere
sfregiati al volto avrebbero volte le spalle. Sull’elmo portavano
creste e penne; avevano un gladio, uno scudo, _scutum_, il più spesso
ovale, qualche volta curvo come un canale od embrice; onde dicevasi
_imbricatum_, largo due piedi e mezzo della superficie, e quattro
di larghezza, costruito di più legni leggieri, come il fico e il
salice, ricoperti di pelli coi margini di ferro: vestivano la corazza,
_lorica_, di cuojo o di ferro e armavansi di una specie di giavellotto,
_pilum_, di ferro e pesante, il quale, diretto con arte, trapassava il
nemico scudo ed anche i suoi loricati cavalieri; e finalmente avevano
la gambiera, _ocrea_, di ferro, che, secondo Vegezio nel suo trattato
_De Re Militari_, i veliti frombolatori, _funditores_, portavano alla
gamba sinistra, e i _legionarii_ alla destra, dandone la ragione in ciò
che nella pugna i primi dovessero atteggiarsi ponendo il sinistro piede
avanti, mentre i militi avanzassero invece il destro.

I veliti frombolatori armavano le loro frombe di ghiande missili
(_glandes_), o grosse palle di piombo, in luogo di pietre, delle quali
più spesso servivansi. Esse portavano incise lettere allusive, come
FIR, per FIRMITER, quasi a dire _scaglia forte_, o FERI ROMA, cioè
colpisci o Roma, e il _Catalogo delle Armi Antiche_ succitato, ricorda
le ghiande missili dell’assedio di Ascoli (a. u. c. 664, 665) e quelle
della Guerra Civile (a. u. c. 705) colle diverse leggende, tra cui
nell’ultime FERI POMP. e FERI MAG. cioè, _colpisci Pompeo, colpisci il
Magno_, cioè il medesimo Pompeo, perocchè appunto dovesse questo gran
capitano nel 705 occupare il Piceno per opporsi alle armi di Cesare. Il
Museo Nazionale possiede 39 di queste ghiande dell’Assedio d’Ascoli, e
9 della Guerra Civile.

Le armi dei Principi e dei Triarii erano simili a quelle degli Astati;
solo i Triarii, a vece dei pili, o giavellotti, portavano le aste, di
che valevansi principalmente formandone selve dirette contro le cariche
della cavalleria nemica, come si farebbero oggidì al medesimo intento i
quadrati alla bajonetta.

Di talune di tali armi fornirono esempi gli scavi pompejani, come più
sopra si è detto.

I soldati di cavalleria dapprima non portavano lorica, affin d’essere
più spediti, ma una semplice vesta, ed anzi per questa speditezza
maggiore, s’accostumavano i cavalli stessi a piegar le gambe e
prostrarsi. Pare che non avessero sella, ma qualcosa che le somigliasse
onde seder più sofice. Avevan asta più gracile, scudo o parma di cuoio;
e quando poi imitarono l’armatura greca, ebbero gladio ed asta più
grande e cuspidata, ossia appuntata, scudo, e nella faretra tre o più
giavellotti, con cuspide larga, cimiero e lorica.

Ogni legione aveva i suoi maestri delle armi per ammaestrare i soldati.
Primo esercizio era il camminare celere, eguale e giusto; quindi
era la _Palaria_, per la quale combattendo contro un palo confitto
in terra con armi pesanti, si addestravano a maneggiar le vere con
agilità; altri eran: la lotta, il nuoto, il salto, il cavalcare,
la marcia che spingevano fino a ventiquattro miglia in sei ore, e
il porto dei fardelli. Avevan questi fin sessanta libbre di peso,
senza tener conto delle armi, considerate queste come membra del
soldato, secondo s’esprime Cicerone: _Nostri exercitus primum, unde
nomen habeant, vides; deinde qui labor, et quantus agminis ferre plus
dimidiati mensis cibaria: ferre si quis ad usum velint: ferre vallum,
nam scutum, gladium, galeam nostri milites in onere non plus numerant,
quam humerus, lacertus, manus. Arma enim membra esse militis dicunt,
quæ quidem ita geruntur apte, ut si usus foret, abiectis oneribus,
expeditis armis, ut membris pugnare possint_[12]. In tasche di cuojo,
portavano frumento bastevole per venti giorni e Tito Livio dice fino
per trenta[13], a cui dopo sostituirono il biscotto, che dicevan
_bucellatum_[14].

I Romani non ebbero cavalleria leggiera, ma dopo aver patito a causa
della cavalleria leggiera numidica, di essa se ne valsero di poi.
Questi feroci soldati pugnavano nudi ed inermi, all’infuori d’una
mazza, che maneggiavano con grandissima arte. Erano poi questi barbari
di una maravigliosa destrezza nel saltare da un cavallo all’altro.
Sul qual proposito rammenterà il lettore come Omero nell’_Iliade_
accennasse alla somma destrezza de’ suoi eroi perfin su quattro
cavalli. Teutobocco re dei Teutoni era solito saltar alternativamente
su quattro ed anco su di sei cavalli.

Dovendo or dire degli accampamenti, o campi fortificati, _castra_,
comincerò per segnalarne la disposizione, notevole per l’ordine e per
l’arte. Essi, se permanenti, chiamavansi _castra stativa_ e il campo
si faceva in forma quadrata circondato da fossato, _fossa_, e da un
parapetto, _agger_, costituente insieme ciò che veniva detto _vallum_,
con palizzate chiamate _sudes_, come al verso di Virgilio:

    _Quadrifidasque sudes, et acuto robore vallos_[15].

Si formavano all’accampamento quattro porte: _prætoria_, era la porta
che fronteggiava il nemico; _decumana_, quella della parte opposta
e per la quale si conducevan i soldati colti in delitto per essere
puniti: le altre, dei lati, dicevansi _principales_ coll’aggiuntivo
di _destra_, o _sinistra_. Il campo si divideva poi in due parti: la
superiore conteneva il quartiere del generale, _prætorium_, presso
alla porta per ciò appellata _prætoria_, alla cui destra il luogo del
questore, _quæstorium_, e alla sinistra i luogotenenti generali. Nella
parte inferiore erano, nel mezzo la cavalleria, e dai lati di essa i
Triarii, i Principi, gli Alabardieri e gli alleati.

L’interno era diviso in sette viali, il più largo dei quali correndo
in dritta linea tra le due porte laterali e subito di fronte alla tenda
del generale, era largo metri 3,04 e chiamavasi _via principalis_. Più
innanzi, ma parallela, vi era un’altra strada detta _via quintana_,
larga metri 3,52 e divideva l’intera parte superiore del campo in due
eguali scompartimenti, e questi erano pure suddivisi in cinque altre
strade della stessa larghezza.

Fra i Tribuni e Prefetti e dirimpetto alle due porte laterali eravi la
parte più sacra degli accampamenti e dicevasi _Principia_, de’ quali
già toccai in addietro. Ivi erano le statue e le principali insegne,
vi si ergevano gli altari e si celebravano i sacrificj, a un di presso
come nel Medio Evo si immaginò nelle città italiane il Carroccio. Nei
Principii si tenevano i consigli dei duci, si amministrava dai tribuni
militari la giustizia: _tribunos jura reddere in principiis sinebant_,
come lasciò scritto Tito Livio[16].

Nota Giusto Lipsio che nel campo si inalberavano le banderuole, dalle
quali ognuno conosceva il proprio posto.

La milizia aveva poi speciali insegne nel campo, come avverte Lucano in
quel verso della Farsaglia:

    . . . . . _infestisque obvia signis_
    _Signa pares aquilas et pila minantia pilis_[17].

Più sopra ho ricordato che la legione aveva l’aquila per insegna, ed
era essa d’oro o d’argento, inalberata su di un’asta e si figgeva, in
terra, e quei che la portava dicevasi _aquilifer_. Il manipolo aveva
la sua insegna: fu dapprima in un piccol fascio di fieno, posto sulla
sommità d’una pertica, donde venne il nome di manipolo, come nota
Ovidio nel Lib. III. de’ _Fasti_:

    _Illaque de foeno: sed erat reverentia foeno_
      _Quantum nunc aquilas cernis habere tuas._
    _Pertica suspensos portabat longa maniplos_
      _Unde Maniplaris nomina miles habet_[18].

Più avanti fu sostituito il fascio di fieno da un’asta, con un traverso
di legno alla sommità e su di esso una mano. Vi si misero anche imagini
di numi, poi di imperatori, e l’adulazione vi fe’ collocare anche
l’imagine di Sejano al tempo di Tiberio. I portatori di queste insegne
furono chiamati _imagiferi_.

Ogni Centuria aveva la sua bandiera distinta, su cui ponevansi
iscrizioni, o ricamavansi le figure dell’Aquila, del Minotauro, del
cavallo o del cignale[19].

La cavalleria, alla sua volta, aveva in ogni turma un vessillo
consistente in una picca con un traverso nella sommità, al quale
s’accomandava un drappo su cui era tessuto a lettere d’oro il nome del
generale[20].

Ogni parte del campo aveva a difesa una turma con tre manipoli, o
una coorte con veliti, come si evince da Giulio Cesare, _De Bello
Civili_[21]. Al quartiere de’ cavalieri v’erano i triarii, e Sallustio
ci fa sapere che alla guardia del Console fosse un manipolo[22] ed
una turma d’alleati straordinarii; a quella de’ legati fossero quattro
astati ed altrettanti principi; a quella del questore tre.

Le guardie diurne di sentinella dicevansi _excubiæ_, quelle di
notte _vigiliæ_. _Tessera_ appellavasi la parola d’ordine, perchè
consegnavasi alla sentinella una tavoletta di contrassegno in cui era
scritto il manipolo al quale ciascuna guardia apparteneva e la veglia
che gli toccava, come leggesi in Stazio:

      _Dat tessera signum_
    _Excubiis positæ vices_[23].

Venivano le sentinelle estratte a sorte dai tergoduttori e si
conducevano avanti il tribuno di guardia: distribuite poi a’ rispettivi
posti di guardia, vi venivano rilevate a suon di corno[24]. Un soldato,
chiamato tesserario, riceveva dai tribuni la tessera al tramontar del
giorno, e nella quale era scritto il motto, ed egli alla sua volta la
consegnava, in presenza di testimoni, al suo manipolo od alla turma.

Marco Porcio Catone, sulla fede di Festo, insegna che _Procubitores_
si chiamassero poi que’ soldati armati alla leggiera, che facevano di
notte la scolta dinanzi agli alloggiamenti, quando questi erano vicini
a quelli dei nemici.

Anche allora v’erano istromenti militari, de’ quali valevasi in diverse
occasioni la milizia: la _buccina_, corno di caccia proprio dapprima
de’ pastori, era stata poscia adottata negli eserciti; onde Properzio
così notò tal passaggio:

    _Nunc intra muros pastoris buccina lenti_
    _Cantat_[25]
e Virgilio, nell’_Eneide_, ne disse l’uso guerresco:

    _Bello dat signum rauca cruentum_
    _Buccina_[26].

Il suon della buccina muoveva le insegne; la _tuba_, più piccola
e simile alla nostra trombetta dava il segno dell’attacco e della
ritirata: quella era a più giri, questa invece retta, giusta quanto
avverte Ovidio:

    _Non tuba directi, non æris cornua flexi_[27].

Il _lituus_ era una trombetta più piccola, più dolce e curva, il
_cornu_ era di bufalo, legato in oro, con suono acuto e distinto: così
accenna Seneca nell’_Edipo_ ad entrambi questi istrumenti:

    _Sonuit reflexo classicum cornu,_
    _Lituusque aduncos, stridulo cantus_
    _Elisit ære_[28].

Poco in uso era il tamburo, _timpanum_, di cui si servivano i Parti nel
dar il segno della battaglia e se ne valevano i Romani a imitazione
di essi, talvolta per distinguere in guerra i segni delle nuove
evoluzioni, come più sensibili, giusta il verso di Stazio;

                       _Tum plurima buxus,_
    _Æraque taurinos sonitu vincentia pulsus_[29].

Questo tamburo pare fosse formato da una caldaja di rame, _lebes_,
sulla cui periferia era tesa una pelle come sono i timballi delle
nostre odierne orchestre: nondimeno i Parti ebbero anche il lungo
tamburo, come si rileva da Plutarco (_In Crasso_ 23); ma allora sembra
si chiamasse con greco nome _symphonia_.

_Tubicen_ veniva detto il suonator della tromba; _liticen_ quello
del lituo; _cornicen_ quello del corno, e _tympanotriba_ quello del
tamburo.

Detto della formazione della milizia e dei loro capi, tocchiamo
brevemente degli stipendj. — Da prima è certo che nessuno stipendio
si accordasse ai soldati, come che fosse tenuto obbligo naturale di
libero cittadino di portar l’arme a difesa della patria; poi lo si
ammise e fu di triplice natura; in denaro, in frumento e in vestiario.
In denaro si diedero prima due oboli al giorno; ma Cesare, per
tenersi il soldato affezionato, ne duplicò il soldo; altri imperatori,
pe’medesimi interessi, l’accrebbero. Ho già detto come poi al frumento
si sostituisse il biscotto.

Dopo ciò seguiamo la milizia all’azione.

Siccome tanto in Grecia che in Roma non vi aveva per avventura atto
della vita pubblica nel quale non si invocasse auspice la divinità,
tanto che in Roma non seguisse adunanza pubblica se prima gli auguri
non avessero assicurato propizii i numi, e l’assemblea non avesse
ripetuta la preghiera pronunziata dall’augure, ed anzi il luogo di
riunione pel Senato fosse un tempio e fossero multate di nullità le
decisioni deliberate in luogo non sacro. Così non sarebbesi potuto
muovere la milizia alla guerra senza l’intervento della religione.

A tale effetto trovasi ricordato in Dionigi d’Alicarnasso[30] e nello
Scoliaste di Virgilio[31] come nelle città italiche fossero istituiti
collegi di Feciali, i quali presiedevano a tutte le cerimonie sacre cui
davano luogo le relazioni internazionali. Gli speciali uffici di questi
sacerdoti ho già raccontato ne’ capitoli della storia[32] e detto come
ad essi incombesse pronunciar la formula sacramentale della guerra. Un
tal rito egli compiva colla testa velata, e una corona sulla testa.
Quindi il Console in abito sacerdotale apriva solennemente il tempio
di Giano e faceva il sacrificio a propiziare il Dio. Le viscere della
vittima immolata venivano dall’aruspice esaminate, e se favorevoli
riuscivano i segni, il console riconoscendo che gli Dei permettevan la
pugna, dava gli ordini della stessa.

E ciò che il Console faceva allo intimarsi della guerra, ripeteva il
sommo duce, sagrificando cioè e pronunciando solenni preghiere, e così
ad ogni campale battaglia facevasi precedere la consultazione delle
viscere degli animali sagrificati.

Era insomma nè più nè meno di quello che si faceva nella più remota
antichità anche in Grecia, ciò che prova la comune origine delle due
nazioni. Restò famoso quanto intervenne alla battaglia di Platea. Gli
Spartani erano già ordinati in battaglia; ognuno trovavasi al suo posto
e la corona in testa udivano i suoni dei tibicini che accompagnavano
gli inni religiosi. Dietro le file il re attendeva al sacrificio,
ma le viscere delle vittime non presentavano i favorevoli auspici;
epperò rinnovavasi il sacrificio. Più vittime vennero immolate; ma
intanto la cavalleria persiana avanza, scaglia i suoi dardi e fa cadere
gran numero di Lacedemoni. Ma questi rimangono immobili, lo scudo al
piede, sotto la grandine nemica in aspettazione del segnale degli Dei.
Questo finalmente è manifestato e allora i militi spartani imbracciano
gli scudi, danno mano alla spada, gittansi animosi sull’inimico, lo
combattono fieramente, lo sbaragliano e riportano la più gloriosa
vittoria.

Eschilo, nei _Sette a Tebe_, così fa pregare, prima della battaglia gli
Dei:

    O voi possenti, o prodi
      Voi divi e dee beate,
      Di questo suol custodi,
      Della città non date
      Preda a nimico di sermon diverso
      Esaudite di vergini
      Il prego a voi con tesa man converso.

    Deh la città secura,
      Amici Dei, ne renda
      Il favor vostro, e cura
      Pur del sacro vi prenda
      Popolar culto; e rimembrate, o numi,
      L’are, che a voi di vittime
      Arder Tebe fe’ sempre, e di profumi[33].

Anche in Euripide, nei _Fenicii_, è detta consimile preghiera.

Da qui il costume che cogli àuguri seguissero l’esercito romano anche
i _pullarii_, che dal pasto dei polli traevano gli auspici[34], e dei
quali doveva essere frequente e rispettato l’ufficio, se ogni legione
l’avesse[36], se Planco scrivendo a Cicerone seriamente dicessegli:
_Pullariorum admonitu, non satis diligenter eum auspiciis operam
dedisse_[37].

L’armata si schierava in battaglia in due o tre battaglioni; le legioni
romane erano sempre nel mezzo; ai fianchi, a formar le ale, le legioni
alleate. La cavalleria, per consueto, alle spalle della fanteria, e
Tito Livio nota che venisse anche collocata in coda, ad impedire che
l’oste nemica non circondasse l’armata. Ho già detto come i Veliti
fossero i primi ad aprir la pugna, seguissero poscia gli Astati e
appresso i Principi; la vanguardia si componeva di quaranta compagnie.
Il generale stava fra i Triari e i Principi, e a lato aveva la guardia
pretoria, gli evocati ed un tribuno di ogni legione. Il prefetto della
cavalleria comandava alle dieci turme, come il decurione più vecchio
sovrastava a ciascuna turma.

I Romani poi sapevano mirabilmente fortificarsi, munendo le loro
città di torri, di muraglie merlate e di larghi e profondi fossati.
L’ingresso in città era per porte praticate nel piede delle torri con
ponti levatoj e saracinesche, come già ci accadde di vedere a Pompei.
Tutto un sistema di torri le cingeva, ed a cagion d’esempio, nelle
carte topografiche antiche di Milano pur colonia romana, detta anzi
_altera Roma_, si vedeva che fra una torre e l’altra non correvano più
di cento piedi. Le piazze-forti approvvigionavano, in previsione di
assedio, di viveri e di armi e d’ogni cosa atta ad offendere, siccome
bitume, solfo e pece. In caso invece di investimento di una città, vi
si praticavano intorno linee di circonvallazione e trincee; e se fosse
sembrata impresa non grave, usavasi riempirla di una linea di soldati
che chiamavano corona, giusta quanto vedesi ricordato nel seguente
verso di Silio Italico:

    _Mœnia flexa sinu, spissa vallata corona_
    _Alligat_[38],

od anche nello storico Giuseppe Ebreo, _De Bello Iudaico_ si legge:
_Duplici peditum corona urbem cingunt et tertiam seriem equitum
exterius ponunt_[39].

All’espugnazione poi servivasi di una infinità di macchine dette
_Poliorcetiæ_, dal loro inventore Demetrio Poliorcete. Comprendevasi
nel numero di esse il terrapieno fatto di terra, pali e fascine onde
porvi le torri e battere in breccia. La torre mobile a diversi piani,
perfino di quaranta piedi d’altezza e montata su ruote; la testuggine,
specie di tettoja di legno coperta di pelle bovina onde metterla al
coperto dagli assalitori, facevasi cogli scudi sulla testa quando
correvano insieme all’assalto onde difendersi da’ proiettili nemici;
l’ariete, trave lunga e grossa guernita all’estremità di una testa
di ferro che, sostenuta da’ soldati stessi coperti dalla testuggine,
veniva violentemente spinta contro le muraglie; la catapulta, macchina,
secondo Vitruvio[40], di due braccia atta a scagliar dardi di molta
grandezza, materie infiammate e sassi; la balista, mossa da nervi
allo stesso scopo di scagliar pietre; il tollenone, o trave in terra
confitta con altra alla cima, così collocata traversalmente che
abbassandosi l’un de’ capi, l’altro s’inalzava, ed a questi capi erano
adattati certi graticci entro cui s’ascondevano i soldati e dai quali
offendevano l’inimico; e l’altalena, macchina movibile da cui s’alzava
il ponte fino all’altezza delle mura assediate e da cui gittavasi la
scala munita di uncini onde aggrapparla al parapetto e compire la
scalata. L’elepoli, la terebra, la galleria, la vigna, con o senza
ruote, erano altrettante testudini di diversa fattura; chi poi volesse
avere di questi bellici strumenti l’idea più esatta, ricorra al libro
X di Vitruvio che ne discorre ampiamente. Tutte queste macchine poi
trattavano i Romani con somma destrezza e agilità.

Quando si accingevano ad impresa di molto momento e alla battaglia, o
quando trattavasi di comporre una spedizione militare, il comandante
arringava i soldati, e Tito Livio nelle sue storie ci fornì magnifici
esempi di militare eloquenza, e se l’entusiasmo de’ soldati rispondeva
alle parole di lui, Ammiano disse che lo si esprimeva col percuotere
gli scudi e colle acclamazioni: _Hac fiducia miles, hastis feriendo
clypeo, sonitu adsurgens ingenti, uno propemodum ore dictis favebat
et cœptis_[41]; ma se l’arringa non trovava approvazione, facevasi
intendere una confusa mormorazione od opponevasi il più assoluto
silenzio; onde più tardi potea dirsi con istorica allusione che il
silenzio fosse la lezione dei re.

Il comandante, dopo la battaglia e la vittoria, assolte le pubbliche
e solenni cerimonie del sacrificio, pel quale processionalmente
portavasi al tempio principale della città, fra i canti guerreschi
de’ soldati incoronati che lo seguivano, e le grida _Io triumphe_[42],
dinanzi alla fronte del suo esercito, lo ringraziava, particolarmente
facendo onorevole menzione di coloro che meglio si fossero distinti
e distribuiva i premj secondo le diverse qualità di essi. Chi avesse
combattuto corpo a corpo col nemico, o presolo, od ammazzato, otteneva
l’_asta pura_, o mezza picca tutta di legno, così rammentata da
Virgilio:

    _Ille vides pura juvenis, qui nititur hasta_[43].

Ottenevano monili d’oro o d’argento, braccialetti o catene coloro che
avessero reso segnalato servizio.

Più ambite per altro erano le corone. Davasi la _civica_, ed era
guarnita di quercia, a chi avesse salvo un cittadino; onde Claudiano,
nelle lodi di Stilicone, cantò:

    _Mos erat in veterum castris, ut tempora quercu_
    _Velaret, validis fuso qui viribus hoste_
    _Casurum potuit, morti subducerem civem_[44].

Concedevasi la _murale_ d’oro, perchè foggiata a muro e baluardi, a chi
primo avesse scalato le mura:

    . . . . . _Cape victor honorem_
    _Tempora murali cinctus turrita corona_[45].

La _castrense_ o _vallare_, ed era d’oro formata come di palizzate
di vallo, per colui che primo avesse occupato il campo nemico; la
_navale_ o _rostrale_ a chi primo fosse saltato sulla nave nemica;
l’_ossidionale_ o graminea, intesta d’erba colta nel luogo assediato,
al capitano che avesse costretto il nemico a levar l’assedio: la
_trionfale_, che fu prima di alloro, poi d’oro, al capo supremo
dopo una segnalata vittoria, e finalmente la _ovale_ di mirto a chi
riportasse ovazione, o trionfo minore.

Erano altre distinzioni militari: l’intervento ai publici ludi fregiato
dei riportati premj, l’esposizione delle spoglie nemiche alle pareti
esterne delle case con divieto di levarnele anche per vendita delle
medesime, e Tibullo vi accenna in quel distico:

    _Te bellare decet terra, Messala, marique,_
      _Ut domus hostiles præferat exuvios_[46].

Il supremo comandante, che ucciso il comandante nemico, ne lo avesse
spogliato, la spoglia, detta opima, sospendevasi nel tempo di Giove
Feretrio. Tre soli conseguirono questo onore: Romolo uccidendo Acrone
re de’ Cicimei, Cornelio Cosso ammazzando Tolunnio re de’ Tusci, e
Marcello spegnendo Viridomaro re de’ Galli[47].

Ai primi tempi di Roma la preda bellica ripartivasi fra coloro che
avevano preso parte alla guerra; dopo venne qualche volta promessa
ai soldati per incuorarli alla pugna; il più spesso spettava alla
Repubblica e l’impadronirsi di essa costituiva perfino reato di
peculato.

Ma l’onore maggiore e che importava il più superbo e solenne
spettacolo, era il trionfo, che veniva accordato a quel supremo
capitano che avesse riportata alcuna insigne vittoria; ma solo vi
poteano aspirare i dittatori, i consoli e i pretori; sì che citisi come
singolar privilegio l’averlo ottenuto Cn. Pompeo di soli 24 anni, ed
essendo appena cavaliere. Per aver diritto e chiederlo, era mestieri
avere in una sola battaglia sbaragliato almeno cinquemila nemici,
deporsi dal comando dell’armata e, restando fuori di Roma, domandarlo
per lettera involta in foglie d’alloro, indirizzata al Senato, che
venuto nel tempio di Bellona, leggevala e trovato giusto quell’onore,
lo concedeva, riconfermandolo imperatore.

Per essere stato rifiutato l’onor del trionfo ai Consoli Valerio ed
Orazio, il tribuno Icilio ne appellò al popolo, che loro lo accordò,
onde quindinnanzi ne nacque spesso conflitto di autorità. Fu per tale
conflitto che Claudia vestale, saputo che disturbar volevasi il trionfo
del proprio padre Claudio, e farlo scendere in mezzo ad esso dal carro,
a ciò impedire, montò ella stessa il carro con lui; perocchè nessuno
sarebbesi attentato portar la mano su d’una vestale.

Il supremo duce, cui era decretato il trionfo della veste _palmata_,
ossia tessuta a frondi d’alloro, che si mutò nel seguito in porpora
tessuta d’oro, cingeva le tempia d’una corona d’alloro, che poi
fu d’oro, e nell’una mano stringendo uno scettro eburneo sulla cui
cima era un’aquila d’oro, nell’altra invece un ramoscello d’alloro,
attendeva il Senato, che gli moveva incontro seguito da’ littori
co’ fasci ornati di frondi pure di lauro e incominciava la pompa
del trionfo. Precedevano i tibicini e trombettieri suonando concenti
di battaglia. Venivano poscia i bianchi tori coperti da gualdrappe
di porpora ricamata d’oro, e dorate le corna, destinati ad essere
sagrificati, e condotti dai vittimarj stringenti ciascuno una lancia,
susseguiti da’ sacerdoti. Tenevano dietro i molti carri colle imagini
delle nazioni e castella debellate; onde il popolo, giusta quanto cantò
Ovidio:

    _Ergo omnis populus poterit spectare triumphos_
      _Cumque ducum titulis oppida capta leget_[48].

Quindi i carri recanti le spoglie dei nemici, le armi, l’argento, il
danaro, i vasi, le insegne e le macchine guerresche conquistate.

Dietro di essi camminavano i re, i capitani e i prigionieri colla testa
rasa in segno di loro schiavitù, e carichi di catene:

    _Vinclaquæ captiva reges cervice gerentes_
      _Ante coronatos ire videbit equos_[49]

e finalmente arrivava maestoso su di un carro, ricco d’avorio ed
incrostato d’oro e tratto da quattro bianchi corsieri, attelati tutti
di fronte, il trionfatore:

    _Portabit niveis currus eburnus equis_[50].

Nei tempi ultimi della republica, Pompeo ai cavalli sostituì gli
elefanti, Marcantonio i leoni, Nerone giumenti ermafroditi, Eliogabalo
le tigri, e Aureliano le renne.

I figli dei trionfatori o stavano sui cavalli del carro trionfale,
come praticò Paolo Emilio, o sovra il carro stesso, o immediatamente
venivano dietro di esso.

Tertulliano poi nota, che uno schiavo sostenesse la corona del
trionfatore e a tratti gli gridasse: _Respice post te, hominem esse
memento_.

Entrando il trionfatore per la porta Capena, per la quale si andava al
Campidoglio, meta del trionfo, il popolo lo acclamava colle grida _Io
triumphe_, e la formula del popolare entusiasmo, quasi sacramentale,
è suggellata nelle odi di Orazio, in quella a Giulio Antonio, ne’
seguenti versi:

    _Teque dum procedis, Io Triumphe_
      _Non semel dicemus, Io Triumphe_
      _Civitas omnis: dabimusque Divis_
                      _Thura benignis_[51].

Arrivato tra plausi al Campidoglio, dimessa la toga trionfale,
volgevasi agli Dei con questa preghiera: _Gratias tibi, Iupiter
Optime Maxime, tibique Junoni Reginæ et cæteris huius custodibus,
Habitatoribusque arcis Diis, lubens lætusque ago, Re Romana in hanc
diem et horam per manus quod voluistis meas, servata, bene gestaque,
eamdem et servate, ut facitis, fovete, protegite propitiati, supplex
oro_[52].

Si immolavano allora le vittime e compivansi i sacrifici: il
trionfatore deponeva l’alloro nelle mani della statua di Giove; quindi
i prigionieri venivano tradotti al carcere Tulliano dove si facevano
miseramente morire[53].

Si chiudeva l’augusta cerimonia con un lauto banchetto a spesa
publica, e vi intervenivano i maggiorenti della città, all’infuor de’
consoli, acciò, osserva Valerio Massimo, il trionfatore vi serbasse
la preminenza[54]. Alla plebe poi si distribuiva in segno d’allegrezza
denaro. V’ebbero trionfi che durarono tre giorni, come quello di Paolo
Emilio, nel quale porse commovente spettacolo il re Perseo in catene
co’ suoi figliuoli, inscii, per la tenera età, della loro immensa
sventura. Quello di Giulio Cesare, descrittoci da Dione Cassio, durò
quattro giorni.

Il trionfo navale era suppergiù il medesimo. Solo facevasene precedere
la domanda colla spedizione di una nave ricca di spoglie ed adorna
d’alloro.

Il minor trionfo che dicevasi ovazione, perchè esigeva il sagrificio
d’una pecora, ovis, compivasi andando il supremo duce, al quale era
aggiudicato, o a piedi od a cavallo al Campidoglio, con corona di mirto
in capo, con toga bianca orlata di porpora e con ramo d’ulivo in mano.
Accordavasi a chi avesse riportata una vittoria su nemico disuguale,
come pirati, schiavi, transfughi. Eran nella procession trionfale
i tibicini, portavansi le insegne militari, le spoglie, le armi, il
denaro.

I trionfatori ottenevano talvolta l’onore delle statue o dell’erezione
di colonne o di un arco, l’uso della corona e della veste trionfale, il
diritto alla sedia curule e cento altre prerogative.

Ma pari alla grandiosità de’ premj, era la gravità delle pene che
s’infligevano a’ delinquenti militari. Severissima era la militar
disciplina, e si comprende allora come la sentinella pompejana,
neppur davanti ai pericoli ed all’orrore del terribile cataclisma
avesse violata la consegna, ma, rimasta al suo posto, vi perisse; e
la disciplina non v’ha chi ignori essere la virtù e la forza precipua
degli eserciti.

Già ne’ capitoli della storia ho ricordato il formidabile esempio del
giovane Manlio Torquato dannato a morte dal padre, per essersi, contro
divieto, battuto con Geminio Mezio, che lo aveva sfidato; nè altrimenti
aveva operato Giunio Bruto co’ proprj figliuoli, fatti trucidare da
lui pel sospetto di essersi ammutinati nel campo affin di rimettere in
trono i Tarquinj.

La sedizion militare e la fuga di un corpo di milizia punivasi colla
decimazione, cioè collo estrarre a sorte dieci soldati in cento e
mandarli a morte; e la ragione di tal pena è fornita da Cicerone:
_Stuatuerunt itaque majores nostri, ut si a multis esset flagitium rei
militaris admissum, sortione in quosdam anima deterreretur: ut metus
videlicet ad omnes, pœna ad paucos pervenerit_[55]. Eravi anche la
vigesimazione e la centesimazione. Se il soldato abbandonava il suo
posto di guardia, se disertava per tre volte, se rendevasi colpevole
di nefando delitto, di spergiuro o di falsa testimonianza, veniva
dal Tribuno e da un consiglio di guerra, sempre adunato in causa
capitale, condannato a morte colle verghe, e questo genere di morte
chiamavasi _fustinarium_. _Fustem capiens Tribunus_, scrive Polibio,
_condemnatum leviter tangit et delibat. Quo facto, omnes qui in castris
sunt, ferientes alius fustibus, alius lapidibus, plerosque in ipsis
occidunt_[56].

Il latrocinio, al dir di Frontino, si puniva col taglio della mano del
colpevole, e quindi gli si eseguiva la pena del _fustinarium_.

Si usò ne’ delitti gravi il taglio della testa colla scure; i disertori
anche coll’affissione in croce.

Pene minori erano la fustigazione leggiera con dieci, venti o cento
battiture, e si applicavano per codardia o per mancanze; la multa
e, dove non pagata, il pegno, privandosi il soldato di parte delle
armi, che doveva provvedersi con denaro proprio e si chiamava _censio
hastaria_.

Erano del pari punizioni militari: l’orzo dato a vece del frumento,
quasi ritenuti indegni dell’alimento umano, perchè l’orzo davano a’
giumenti; la sospensione del soldo, e il soldato dicevasi allora _ære
dirutus_; l’attendarsi fuor del vallo o del campo, e lasciato quindi
più esposto al nemico; l’abito vile, o disciolto; il mutar di milizia
e talvolta il rilegamento fra i bellici impedimenti ed alla custodia
dei prigionieri; lo star in piedi alla cena, solendo in tempo di essa i
soldati romani star seduti, e va dicendo.

Compiuta la sua ferma, o come dicevasi dai Romani, _confecta
stipendia_, il soldato veniva congedato, e il congedo, _missio_, era
poi di duplice natura. Dicevasi onesto, _honesta missio_, a chi aveva
ultimato il servizio militare; causario, _causaria missio_, se motivato
da vizio, difetto o morbo.

Era poi detto grazioso, se accordato al milite da’ comandanti per
favore, ma poteva revocarsi da’ censori; ignominioso, se fosse stato
determinato da crimine o delitto.

Sotto di Augusto poi vi ebbe quella specie di congedo che appellavasi
_exauctoratio_, ed era il congedo a servizio militare compiuto, che
non obbligava ad altro onere di milizia, se non alla pugna contro il
nemico, e in tal caso dicevansi veterani sifatti soldati.

Questi che ho riassunti in breve erano gli ordinamenti della romana
milizia, che a compimento del quadro della vita publica de’ romani e
delle città, come Pompei, che s’erano alle leggi ed alle costumanze de’
romani conformate, dovevo far conoscere al lettore.



CAPITOLO XX.

Le Case.

  Differenza tra le case pompejane e romane — Regioni ed Isole —
  Cosa fosse il _vestibulum_ e perchè mancasse alle case pompejane
  — Piani — _Solarium_ — Finestre — Distribuzione delle parti della
  casa — Casa di Pansa — Facciata — La bottega del _dispensator_ —
  _Postes, aulæ, antepagmenta_ — _Janua_ — Il portinajo — _Prothyrum_
  — _Cavædium_ — _Compluvium_ ed _impluvium_ — _Puteal_ — Ara dei
  Lari — I Penati — _Cellæ_, o _contubernia_ — _Tablinum, cubicula,
  fauces, perystilium, procœton, exedra, œcus, triclinium_ — _Officia
  antelucana_ — _Trichila_ — Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili
  di cucina — Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora?
  — Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo _sphæristerium_,
  la _pinacoteca_ — Il _balineum_ — L’_Alæatorium_ — La _cella
  vinaria_ — Piani superiori e recentissima scoperta — _Cœnacula_ —
  _La Casa a tre piani_ — I balconi e la _Casa del Balcone pensile_
  — Case principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio
  Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La nascita
  del figlio — Cerimonie — La nascita della figlia — _Potestas,
  manus, mancipium_ — _Minima, media, maxima diminutio capitis_ —
  Matrimonii: per confarreazione, uso, coempzione — _Trinoctium
  usurpatio_ — Diritti della _potestas_, della _manus_, del
  _mancipium_ — _Agnati, consanguinei_ — _Cognatio_ — _Matrimonium,
  connubium_ — _Sponsali_ — Età del matrimonio — Il matrimonio
  e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti — Concubinato —
  Divorzio — Separazione — _Diffarreatio_ — _Repudium_ — La dote —
  _Donatio propter nuptias_ — Nozioni sulla patria podestà — _Jus
  trium liberorum_ — Adozione — Tutela — Curatela — Gli schiavi —
  Cerimonia religiosa nel loro ingresso in famiglia — _Contubernium_
  — Miglioramento della condizione servile — Come si divenisse
  schiavo — Mercato di schiavi — Diverse classi di schiavi —
  Trattamento di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi
  — I clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al focolare —
  Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo e le sue cene — Cene degli
  imperatori — _Jentaculum, prandium, merenda, cœna, commissatio_ —
  Conviti publici — Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene
  de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti di cerimonia
  — _Triumviri æpulones_ — _Dapes_ — Triclinio — Le mense —
  Suppellettili — _Fercula_ — Pioggie odorose — Abito e toletta da
  tavola — Tovaglie e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca
  — _Coena recta_ — Primo servito — _Secunda mensa_ — Pasticcerie e
  confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio — Manicaretto di
  perle — Vini — Novellio Torquato milanese — Servi della tavola:
  _Coquus, lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor,
  scissor, carptor, pincerna, pocillator_ — Musica alle mense —
  Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le lanterne di
  Cartagine — La partenza de’ convitati — La toletta d’una pompejana
  — Le _cubiculares_, le _cosmetæ_, le _calamistræ, ciniflones,
  cinerarii_, la _psecas_ — I denti — La capigliatura — Lo specchio —
  Punizioni della toaletta — Le ugne — I profumi — _Mundus muliebris_
  — I _salutigeruli_ — Le _Venereæ_ — _Sandaligerulæ, vestisplicæ,
  ornatrices_ — Abiti e abbigliamenti — Vestiario degli uomini —
  Abito de’ fanciulli — La _bulla_ — Vestito degli schiavi — I lavori
  del gineceo.


Conosciuta che abbiamo la vita publica de’ Romani, se non desunta
interamente da quanto offrirono gli scavi di Pompei, certo tuttavia
avvalorata e grandemente da essi, facciamoci ora a chiedere ai medesimi
tutto quanto ha tratto alla vita privata. Entriamo nelle case di
Pansa e di Sirico, di Cornelio Rufo e di Caprasio Primo, di Olconio
e di Giulia Felice, non che de’ molti altri facoltosi pompejani:
affacciamoci anche alle più modeste ed a quelle dell’uomo del popolo e
interroghiamo. Quelle mute rovine ne avranno di eloquenti rivelazioni
a fare. Collo ajuto degli scrittori di quel tempo indovineremo l’uso
d’ogni singola stanza, come con essi ci siam resa ragione d’ogni altra
cosa, che siam venuti fin qui discorrendo, e risaliam dopo alle più
elevate considerazioni toccanti la famiglia e il costume, gli usi e le
consuetudini. Ampio è codesto argomento che piglio a svolgere; ma vedrò
modo di rapidamente farlo.

Avanti tutto, esaminiamo, o lettore, la casa, nel suo materiale.

La prima osservazione che si presenta è quella, che abbiamo insieme già
fatta, parlando nel capitolo dell’Arti dell’Architettura: la piccolezza
cioè, di esse, della quale a stento possiamo capacitarci, accostumati
come siamo ad ammirare la vastità de’ palazzi de’ nostri grandi, e
l’ampiezza pur delle nostre case. Ricorderà il lettore che non solo
credetti attribuire questa piccolezza delle case pompejane alla vita
che que’ cittadini facevano frequentemente in istrada e in piazza, ma
piuttosto alle abitudini, alle tradizioni ed al gusto de’ Greci che
vi si conservavano. Ecco perchè mai si terrebbe ad esempio una casa
pompejana, per formarsi un’esatta idea di una casa romana. I Greci
studiarono più presto le bellezze delle forme architettoniche, che lo
splendore della grandezza seguìta da’ Romani. Questi d’altronde non
avrebbero potuto colle anguste abitazioni greche mantenere il costume
superbo d’essere sempre seguiti e corteggiati da una folla di clienti,
d’essere sempre assistiti e serviti da una quantità di servi. Alla
finezza del gusto finalmente sopperirono i Romani colla magnificenza.

Colle case pompejane pertanto argomentiamo in quelle vece solamente
come potessero essere le case di Pericle e di Aristide, di Socrate e di
Platone, di Atene, di Sparta e di Corinto.

Contuttociò, la distribuzione delle parti puossi dire comune tanto
alle case greche che alle romane; suppergiù una casa pompejana è
distribuita come era una casa romana, eccettuata l’ampiezza maggiore
di quest’ultima; come pure si possa dire che visitata una casa,
siensi visitate tutte, perocchè a un di presso siano tutte egualmente
conformate: nelle sole decorazioni consistendo per avventura la
differenza.

Un’altra diversità si riscontra per avventura nel mancare le case
pompejane di _vestibulum_. Tal nome non davasi già a quella parte della
casa che così designiamo oggidì, ma bensì come raccogliesi da Vitruvio
e da Aulo Gellio[57], a quella corte o piazza che stava avanti alla
casa, od a qualunque altro grandioso edificio, subito sulla fronte
dell’entrata principale, lo che ottenevasi col prolungare le mura
laterali al di là della facciata dell’edifizio, come del resto suole,
di frequentemente vedersi massime ne’ palazzi di campagna, chiuse
per lo più cotali corti o piazzali da muri o cancellate, od anche
determinate da albereti. In Pompei, città di terz’ordine, adagiata su
d’un pendio, che non poteva disporre di larghi spazi, che le case erano
piccolette, non vi potevano essere vestiboli nel senso che assegnavasi
allora ad essi, convenienti questi ad edifici piuttosto grandiosi.
Pare per altro dal luogo stesso di Vitruvio che in greco dicendosi
_prothyra_ i vestiboli che sono avanti alle porte, e _prothyra_ da’
Romani quelli che in greco si dice _diathyra_, cioè cancello o riparo,
vestibolo potesse essere detta pur quella parte subito successiva dove
stava l’ara o focolare, di cui dirò fra breve, se si deve aggiunger
fede ad Ovidio:

    _Huic quoque vestibulum dici reor: inde precando_
      _Adfamur Vestam; quæ loca prima tenes_[58].

Or venendo a dire dell’altezza delle case di Pompei, se in Roma si
spinse talmente la fabbrica delle case fino ad esservi undici piani,
tal che Augusto fosse costretto a rendere un editto che conteneva
l’ardimento degli architetti acciò non varcassero l’altezza di settanta
piedi, e Trajano a ridurla a sessanta, per la maggiore sicurezza e
salubrità: in Pompei, sa già il lettore, come quasi tutte le case
sembri non abbiano avuto che il pianterreno e un primo piano, che
appellavano _solarium_, onde il nostro solajo. Taluna appena, come
vedrà più avanti, si riconobbe aver avuto due piani e il solajo.

Qui altra osservazione è dato di fare avanti queste casette pompejane,
prima di mettervi il piede: la mancanza, cioè, assoluta di finestre
sulla via. Poteva ciò essere l’effetto delle imposizioni che
gravitavano su di esse; ma più perchè la casa tenevasi per santuario
chiuso all’occhio profano; perocchè le imposte gravi, non avrebbero
trattenuto gli Olconj e i Pansa, e i tanti altri maggiorenti dallo
averle. Del resto anche nell’interno le camerette il più sovente
ricevevano luce dall’uscio e da lucernari dall’alto. La luce piovente
dall’alto era anche in Roma in quasi tutte le case: avvertimento
codesto non inutile pel giusto collocamento de’ capolavori dell’arte
antica, e pel modo più sicuro di apprezzamento.

Sa già del pari il lettore come Pompei si dividesse in regioni,
_regiones_, e queste in isole, _insulæ_, le quali assumevano il nome
del proprietario principale delle case o dell’unica casa onde si
costituiva, come questa di Pansa, che invito il lettore a visitare come
esempio di tutte nella via delle Terme.

Scoperta dal 1811 al 1814, si ritenne appartenente a Pansa, edile,
poichè un’iscrizione dipinta su di una spalla o pilastro della porta
così dicesse:

                    PANSAM ÆDILEM PARATVS ROGAT[59].

Questa famiglia dei Pansa abbiam già veduto ricordata nell’Anfiteatro:
essa doveva essere tra le più influenti e autorevoli nella città;
Fiorelli, nella _Storia delle Antichità Pompejane_, riferisce
quest’altra iscrizione che rammenta Cuspio Pansa:

                             CVSPIUM PANSAM
                     AED . FABIVS EVPOR . PRINCEPS
                           LIBERTINORVM[60].

La facciata principale ha sei botteghe, nel cui mezzo vi è la porta:
le botteghe per altro, come in quasi tutte le altre case, non hanno
comunicazione coll’interno della casa, all’infuori di una che riusciva
all’atrio, occupata forse dallo schiavo, _dispensator_, che là
vendeva vino, olio e le derrate raccolte nel fondo del padrone, come,
massime in Firenze, veggiam praticarsi tuttodì. Delle botteghe non ci
intratterremo, perchè l’abbiam già fatto nell’apposito capitolo.

Della porta d’ingresso della casa esistono ancora i due pilastri, o
stipiti, _postes_, non le _antæ_ o _fores_, o battenti, diremmo noi,
perchè consumate dal fuoco del Vesuvio, ma che secondo lo stile de’
Romani, dovevano essere di cedro o d’altro legno prezioso, di nobile
architettura, o a specchi ornati di intagli, o a grosse borchie a
capocchie dorate, e si dicevano _antepagmenta_; e si aprivano al
di dentro della casa, onde non essere d’impaccio sulla via, in ciò
diversificando dal costume greco. Chiudevansi poi internamente con
ispranghe di ferro che dall’alto scendevano a configgersi in terra come
pur oggidì si usa.

_Janua_ dicendosi la porta, _janitor_ era detto il portinajo, od anche
_ostiarius_, al qual ufficio destinavasi uno schiavo incatenato che
stava a sedere nella cella ostiaria, ed aveva la cura dell’ingresso,
tenendo una verga nella mano. Nella casa di Pansa, come nella più parte
delle case pompejane, l’_ostiarius_ doveva stare nel _prothyrum_, o
stretto corridojo corrispondente alla porta e che metteva all’_atrium_.
A fianco dell’_ostiarius_ stava spesso un grosso cane, ma già
espressi come si fosse sostituito al cane vivo, uno di musaico, che lo
rappresentasse, od anche la semplice leggenda _cave canem_. Ricordai
pure come sul limitare dell’_atrium_ vi fossero anche altre leggende,
come _salve, salve lucru_, ecc. In questa casa di Pansa leggevasi la
sola parola SALVE in musaico, la quale fu trasportata nel Museo di
Napoli.

L’_atrium_, detto eziandio _cavædium_, quasi la parte cava e vuota
della casa, _cava ædium_, è nella casa di Pansa un cortiletto della
specie _tuscanica_, recinto di portici e semplice, sostenuto da quattro
mensole affrancate nel muro, e sul quale venivano a poggiare le quattro
parti del tetto che versavano la pioggia nel _compluvium_, o bacino,
nel mezzo del cortile. Talvolta dagli scrittori si confondono il
_compluvium_ coll’_impluvium_ e si scambiano promiscuamente. Plauto
medesimo ha nel _Soldato Millantatore, Miles gloriosus_, questi versi:

    _Mihi quidem jam arbitri vicini sunt, meæ quid fiat domi,_
      _Ita per impluvium intro spectant_[61].

A togliere siffatto inconveniente del guardar de’ vicini per l’impluvio
nella casa, Plinio ne fe’ sapere come si usassero _cortine_ che
coprissero tutto il compluvio. A fianco dell’_impluvium_ era il più
spesso un _puteal_ o bocca del serbatojo d’acqua: qui era pure un
altare per gli Dei domestici, _lares_, su cui ardevansi profumi.

Come in Grecia, anche in Roma la casa soleva avere un altare, e su
di esso della cenere e dei carboni accesi. I Greci questo altare
appellavano ἑστὶα, parola colla quale si designò di poi la dea Vesta,
la quale, per testimonianza d’Ovidio, non era che fiamma viva.

    _Nec tu aliud Vestam, quam vivam intellige flammam_[62],

e più sotto:

    _Effigiem nullam Vesta nec ignis habent_[63].

I latini lo chiamavano _ara_ ed anche _focus_. Impedivasi che questo
fuoco si estinguesse, curando che anche la notte, coperto dalle ceneri,
non si consumasse interamente. Al mattino era prima sollecitudine di
ravvivarlo, perchè la sua estinzione equivaleva a funesto presagio;
tanto così che focolare estinto fosse sinonimo di famiglia estinta. Nè
doveva essere codesta alimentazione del fuoco sull’ara una costumanza
indifferente, se v’erano regole e riti all’uopo. Non era buona ogni
sorta di legna, mentre anzi il servirsi di taluna sarebbe stata
empietà, meno poi gittarvi su materie immonde. Tuttavia Macrobio, ne’
suoi _Saturnaliorum_, ricordò come presso i Romani alle calende di
Marzo ciascuna famiglia dovesse estinguere il suo fuoco sacro, per
riaccenderne un altro; e la ragion dà Ovidio nel lib. III, _Fastorum_:

    . . . . _vires flamma refecta capit_[64],

ma per ciò fare non potevasi adoperare la selce e il ferro, ma si
dovesse concentrare in un punto solo i raggi solari, o forse far uscire
la scintilla dal rapido sfregamento di due legni.

A questo fuoco prestavasi adorazione e culto, con offerte di fiori,
d’incenso, di vino e di vittime, veggendosi in esso un dio provvido,
benevolo e protettore della casa: onde nessuna meraviglia il leggere in
Virgilio di Ecuba, che quando il palazzo di Priamo fu invaso da’ Greci,
visto Priamo stesso venirle innanzi giovenilmente armato, ella gli
avesse a dire:

      . . . . _quæ mens tam dira, miserrime conjux,_
    _Impulit his cingi telis, ant quo ruis? inquit._
    _Non tali auxilio, nec defensoribus istis_
    _Tempus eget: non si ipse meus afforet Hector_
    _Huc tandem concede: hæc ara tuebitur omnes,_
    _Aut moriere simul_[65].

Focolare, lare domestico e Penati erano poi tutti una medesima cosa nel
linguaggio ordinario. Infatti scrive Servio, lo scoliaste di Virgilio:
«Per focolari gli antichi intendevano gli Dei Lari, e così Virgilio ha
potuto indifferentemente ora dire focolare, per Penati, ora Penati per
focolare[66].»

I numi poi che gli antichi chiamavano Lari od Eroi, non erano che
le anime de’ morti, alle quali assegnavano sovrumana potenza, la cui
memoria era sempre annessa al focolare.

Di queste divinità costituivasi la religione domestica, di cui il
solo padre famiglia era il pontefice, non essendovi per essa regole
uniformi, giusta l’espressione di Varrone: _Suo quisque ritu sagrificia
faciat:_[67] epperò le pratiche di questa religione, su cui il
Pontefice aveva solo diritto a vigilare perchè si compissero, seguivano
nell’interno della casa ed erano circondate dal segreto.

I Cavedj delle altre case pompejane erano più ricchi di quello della
casa dell’edile Pansa, perchè recinti di colonne, e vi si annetteva
infatti una certa importanza, perchè nel cavedio ricevevansi spesso i
clienti e i forestieri. Dalla istituzione, che già ricordai trovata da
Romolo, de’ patroni e de’ clienti originò l’affollarsi di questi ultimi
alle case de’ primi. Quanto più ricchi ed influenti fossero i patroni,
tanto era maggiore ed assidua la presenza de’ clienti. Fin dall’alba ne
assediavan le porte, cercavano affezionarsene i servi, onde penetrare
dal patrono per dargli il buon giorno, e queste sollecitudini dicevansi
_officia antelucana_, e Giovenale, a far la loro caricatura, dipinse
Trebio, che per accorrere ai mattutini saluti, non ha pur tempo di
attaccarsi alle scarpe i legacci:

    . . . _habet Trebius propter quod rumpere somnum_
      _Debeat et ligulas dimittere, sollicitus ne_
      _Tota salutatrix jam turba peregerit orbem_
      _Sideribus dubiis, aut illo tempore quo se_
      _Frigida circumagunt pigri serraca bootæ_[68].

Tutt’all’intorno del cavedio sonvi camerette, _cellæ_ o _contubernia_,
non illuminate che dall’aprirsi delle loro porticine, per uso degli
schiavi.

Dopo il cavedio, seguiva il _tablinum_, detto pur _tabulinum_, stanza
destinata dapprima a contenere gli archivii delle famiglie e le imagini
degli avi, _imagines majorum_, delle quali già dissi in addietro;
adoperata poi anche come sala da pranzo.

A destra ed a sinistra del _tablinum_ sono due sale: quella a sinistra
con pavimento a musaico doveva essere una biblioteca, a giudicar dai
papiri carbonizzati e distrutti che vi si rinvennero: quella a destra
doveva servire da camera da letto, _cubiculum_, da _cuba_, nicchia,
nella quale entrava il capo del letto. Al Museo di Napoli veggonsi
letti di bronzo trovati a Pompei: dovevan essere de’ ricchi, i quali li
avevano anche di più preziosa materia. Nelle case più modeste eran di
legno ed anche di materiale di fabbrica, su cui stendevano materassi o
pelli.

Il passaggio fra il _cubiculum_ e il _tablinum_ chiamavasi _fauces_ e
per esso passavasi all’appartamento interno. Pel servizio della casa
spesso le _fauces_ giravano tutto all’intorno di essa.

Oltre il _tablinum_, era il _perystilium_, corrispondente alla
_Gyneconitis_ d’una abitazione greca. Nella casa di Pansa era un
cortile circondato da sedici colonne d’ordine jonico con capitelli
ornati. Spesso in questo spazio trovavasi un giardino, _xystum_, che
in questa casa esiste separatamente, come vedremo più avanti; ma più
ordinariamente, come qui, una _piscina_ od un _impluvium_ col suo
_puteal_ per attingervi l’acqua.

Il _Perystilium_ è poi fiancheggiato da due camere, entrambe da
letto, appena capaci a contenerlo, quella a sinistra preceduta da
un’anticamera detta allora _procœton_.

Non è inopportuno osservare in un angolo del peristilio di questa casa
di Pansa un corridojo, per il quale da una porticina detta _posticum_,
si usciva sulla via della Fullonica, opportunissima al patrono per
sottrarsi all’importunità de’ clienti, come nota Orazio nella epistola
5 del Lib. 1.

                               _et rebus ommissis_
    _Atria servantem postico folle clientem._

Dalla parte opposta al _posticum_ evvi un’ala e nel fondo del
peristilio alto di due gradini, la sala principale detta _exedra_, o
meglio _exedrium_, come Cicerone chiama nelle sue epistole famigliari
un diminutivo di exedra[69], od anche _œcus_, che serviva a convegno,
alla conversazione e talvolta anche da pranzo, ed ha una gran finestra
che dava sul giardino. Ma qui per sala da pranzo o _triclinium_, come
appellavasi, era la sala sull’angolo destro del peristilio, avente
a fianco il tinello per il vasellame e per tutto ciò che serviva
al banchetto. _Triclinium_ dicevasi dalla riunione di tre letti da
mensa insieme disposti in guisa da formare tre lati di un quadrato,
lasciando uno spazio vuoto nel mezzo per le tavole, ed il quarto lato
aperto, perchè potessero i servi passare e porre su quella i vassoi.
Diverse stanze di questo genere si scoprirono nelle case di Pompei, ma
curioso è il vedere come fossero tutte piccole e invece di letti mobili
avessero stabili basamenti su cui si adagiavano i convitati. V’erano
anche i _biclinia_, tavole da pranzo di due soli letti.

Presso i prischi romani si mangiava nel vestibolo esposto agli occhi
di tutti e a porte aperte, e le leggi Emilia, Antia, Julia, Didia,
Orchia l’uso tradussero in obbligo e Isidoro ne dà la ragione: _ne
singularitas licentiam generet_[70]. Nella calda stagione si cenava
anche sotto qualche albero fronzuto, operando in modo, a mezzo di
cortinaggi (_aulea_), che la mensa e i convitati fossero riparati dal
sole, dalla polvere o da altro pericolo di immondizia, come leggiam
descritto da Orazio nel convito dato da Nasidieno a Mecenate, e la cui
caduta produsse così deplorevole scompiglio:

    _Interea suspensa graves aulea ruinas_
    _In patinam fecere, trahentia pulveris atri_
    _Quantum non aquilo campanis excitat agris._

Nella casa d’Atteone in Pompei esiste uno di questi luoghi da pranzo
di pergolati, detti _Trichila_, in cui si mangiava all’aperto sotto
padiglioni di verdura; vi sono solidi muramenti a ricevere i materassi
di tre letti triclinarii e con fontana davanti che zampillando dovea
produr vaghezza e frescura.

Ma il lusso e lo sfarzo creò i ricchissimi triclinii: alle tavole
primitive di abete o di faggio successero quelle di avorio, di scaglia,
di testuggine, di bosso, d’acero, di cedro, e poscia vi incastonarono
pietre preziose e vi applicarono piastre d’oro e d’argento come
ai letti triclinari che erano di comunissimo legno; ma caduta la
repubblica, anche ad essi si estese la ricercatezza, talchè i tappeti
babilonici di Nerone valutaronsi quattro milioni di sesterzi, cioè
840,000 lire nostrali. Si mangiava appoggiati sui gomiti, talchè _posar
il gomito in casa d’alcuno, ponere cubitum apud aliquem_, equivaleva
pranzar da alcuno, come leggesi in Petronio: _hic est, inquit Menelaus,
apud quem cubitum ponetis_[71], e come direbbesi da noi _mettere i
piedi sotto la tavola_. Così _sternere lectulos_, voleva dire preparare
la tavola: onde si legge in Terenzio:

    _Et lectulos jube sterni nobis et parari cætera_[72].

Tornerò al triclinio più avanti, quando farò assistere il lettore ad
una mensa pompeiana, o romana, che val lo stesso.

Divisa dal _triclinium_ per un corridoio, _fauces_, ed a mano sinistra,
è la cucina nella casa di Pansa. Questa distanza rese dubbio in taluni
la designazione del triclinio; ma dove si consideri che ciò provvedeva
ad impedire che il fumo e gli odori della cucina giugnessero,
l’esitazione sparirà. La cucina, _culina_, ha presso una piccola
cameretta pel migliore servizio, ed un’altra per il pranzo, forse de’
servi, che aveva un’uscita sulla via di Fortunata. Nella retrocucina
stanno de’ podii o muricciuoli per appoggiarvi le giarre d’olio e gli
utensili, e una tavola per la confezione del pane o di cose dolciate.

Nella cucina veggonsi dipinte due persone che sacrificano, e al disotto
due serpenti che proteggono l’ara sacra alla dea _Fornax_, protettrice
dei fornelli. Ai lati vi sono dipinti in rosso presciutti, pesci, pezzi
di cinghiale, lepri ecc. In essa poi si rinvennero stoviglie e molti
utensili di bronzo e nei fornelli la cenere.

Qui credo dare il nome d’alcun utensile di cucina usato in Pompei ed
in Roma. _Ahenum_ era un calderone, che sospendevasi al disopra del
fuoco per iscaldarvi l’acqua; _cortina_ era un profondo calderone
circolare per farvi bollir carne; _cacabus_ una specie di casseruola
che ponevasi su d’un treppiede, _tripus_, al fuoco per cuocervi carni,
legumi, ecc. _Tripus_ dicevasi anche un calderotto su tre piedi per far
bollire commestibili, come si vede in una pittura che rappresenta una
scena del mercato di Ercolano; _hirnea echytra_, vasi di terra cotta,
per bollire e cucinare; _mateola_, la pala; _forcipes_, le mollette da
camino; _foculus_, l’aiuola del camino, ed anche lo scaldavivande e il
veggino per iscaldarsi le mani; _testum_, detto anche da noi testo;
_craticula_, la graticola; _batillus_, la nostra paletta; _sarago_,
specie di padella; _rudis_, la tazza per ischiumare; _scutriscum_, la
padella; _situlus aquarius_, il secchio; _trulla_, vaso che versava
l’acqua nel lavatojo a mezzo d’un manubrio; _trullens_, catino; _trua_,
cucchiaione per ischiumare la superficie dei liquidi; _mutellio_, vaso
d’acqua con manico; _cucuma_, fosse la nostra cocoma per far bollire
l’acqua; _haenum coculum_, la marmitta da minestra; _fistula_, pila
per tritare il farro; _cribra incernicola_, il crivello; _colum_, il
colatojo; _culter coquinarius_, coltello da cucina; _formella_, la
forma per accomodarvi più vagamente il pesce; _ovulare_, strumento
per cuocere le uova. _Anthepsa_ era un apparecchio contenente il suo
proprio fuoco e gli scaldatoi dell’acqua in modo da essere acconci
a cucinare in qualunque parte di una casa, e di tali arnesi se ne
trovarono diversi negli scavi di Pompei. _Carnarium_ dicevasi l’arnese
sospeso al soffitto e fornito di chiodi ed uncini onde appendervi
salumi, erba, frutta ecc., e designavasi con tal nome anche moscajuola
o dispensa per conservare i commestibili; _clibanus_, vaso coperto
traforato in giro a piccoli buchi per cuocervi il pane, al qual effetto
si circondava di ceneri calde, e Trimalcione, in Petronio, per ridicola
ostentazione si valeva del clibano d’argento; _mortarium_, il mortaio,
_pilum, pistillum_, pila e pestello; _vera_, lo spiedo, _vara_, l’alare
per sostenerlo; _infundibulum_, l’imbuto; _olla_, vaso d’argilla cotta
adoperato per cucinare come la nostra pignatta: più piccola e fatta di
metallo, dicevasi _lebes_.

Gli inservienti della cucina erano _coqui_, i cuochi; _focariæ_ le
cuciniere, piuttosto guattere; _focarii_ i mozzi da cucina.

Prima di lasciar la cucina, farò cenno se la voce _caminus_ possa
intendersi pel nostro camino, ossia per quella gola che mena via
il fumo attraverso i varj piani della casa e lo scarica al disopra
del tetto. «I passi, scrive Rich, che si potrebbero citare non sono
punto concludenti, e la mancanza di qualsiasi cosa che somigli a un
fumajuolo, in cima d’una fabbrica, nei numerosi paesaggi dipinti dagli
artisti di Pompei e di qualunque effettiva traccia d’un simile congegno
negli edifizj publici e privati scoperti in quelle città, porse prova
sufficiente che s’egli era noto agli antichi, devono però averne fatto
uso molto di rado; quindi nella più parte delle case il fumo deve
avere avuto l’uscita o da un semplice buco nel tetto o dalla finestra
o dalla porta. Se non che dei congegni per fare fuoco nel centro d’una
stanza, accompagnanti almeno a una certa gola, sono stati scoperti
in parecchie parti d’Italia, uno a Baja, uno presso Perugia, ed un
terzo a Civitavecchia, e di questo si vede la pianta nell’incisione
che sta nel manoscritto di Francesco di Giorgio, che si conserva nella
libreria publica in Siena. La forma è un parallelogramma chiuso per
intiero da un muro alto dieci piedi (m. 3,047) da tre de’ suoi lati,
ma con un’apertura o porta. Dentro questo guscio sono allogate quattro
colonne con un’architrave sopra di esse, che reggevano una cupoletta
piramidale, sotto la quale si accendeva il fuoco sul focolare: la
cupoletta serviva a raccogliere il fumo a misura che saliva su, e lo
lasciava passare a traverso un foro in cima. Se gli edifici, nei quali
quelle stufe erano costrutte avevano un piano solo, non si usava,
forse, gole di sorta: ma se, com’è probabilissimo, ci erano degli
appartamenti di sopra, par quasi certo, che una piccola gola o canale
dovesse essere collocata sopra lo spiraglio della cupola nella stessa
maniera che egli è in un forno di panettiere in Pompei, quantunque
l’altezza originaria non può essere determinata, stantechè non rimanga
che una porzione del pian terreno.»

La _latrina_, parrà strano, era quasi sempre, come nella casa del
Questore, vicina alla cucina! Non consisteva per lo più che in una
cameretta con una seggia, perchè non vi avevano pozzi neri. Del resto
nulla ci deve maravigliare se nella bassa Italia queste segge si videro
nella cucina stessa anche in case agiate.

Dal lato opposto alla cucina, a fianco alla _exedra_, vi sono le altre
_fauces_, o corridoio, che da questo lato fu diviso in due parti:
la prima convertita ad uso di _tabularium_ per la conservazione dei
papiri importanti e delle cose preziose; la seconda è una camera forse
destinata allo studio e riesce allo _xisto_ o giardinetto, dove fiori
ed arboscelli crescevan vaghezza alla casa e ne profumavan l’ambiente.
Una fontana alimentata da un serbatoio in fondo dello _xisto_ irrigava
le ajuole: si rinvennero tubi di piombo e due grandi caldaje di bronzo
che or si conservano nel Museo. Tra lo _xisto_ e il peristilio era una
specie di galleria coperta, che chiamavasi da’ Romani _cryptoporticus_
e permetteva, anche nell’ore più soleggiate, rimaner nel giardino
all’ombra. Fu qui che venne trovato il più bel candelabro di bronzo che
si ammiri nel suddetto Museo. Orazio così accenna simili giardini di
una casa di campagna:

    _Nempe inter varias nutritur silva columnas_
    _Laudaturque domus longos quæ prospicit agros_[73].

E Plinio, descrivendo a Gallo il suo Laurentino, o villa che teneva
nella campagna romana, presso al luogo ove è l’odierna Torre di
Paterno, e lungo il mare, così parla dell’ufficio dello _xisto_ e della
galleria attigua: _Ante cryptoporticum xystus violis odoratus. Teporem
solis infusi repercusso cryptoporticus auget quæ ut tenet solem, sic
Aquilonem inhibet submovetque: quantumque caloris ante, tantum retro
frigoris. Similiter Africum sistit, atque ita diversissimos ventos,
alium alio latere, frangit et finit. Hæc jucunditas ejus hieme, major
æstate: nam ante meridiem xystum, post meridiem gestationem hortique
proximam partem umbrania temperat, quæ ut dies crevit decrevitque, modo
brevior, modo longior hac vel illac cadit. Ipse vero cryptoporticus
tum maxime caret sole, quum ardentissimus culmini ejus insistit. Ab hoc
petentibus fenestris Favonios accipit transmittitque: nec unquam aere
pigro et manente ingravescit_[74].

Tale era dunque il pian terreno d’una casa signorile pompejana: od
almeno questa era la distribuzione più generale e più regolare; poche
sarebbero le modificazioni che si rinverrebbero nelle altre case.
Tuttavia sarebbero in talune rimarchevoli lo _sphæristerium_ pel giuoco
alla palla, la _pinacoteca_ o sala delle pitture; il _balineum_ o il
bagno; l’_alæatorium_ o sala del giuoco, e la _cella vinaria_ per la
conservazione del vino e dell’olio, che non esistevano in tutte.

Rimarrebbe a dire del piano o piani superiori: ma non ne rimane esempio
in Pompei, perchè rovinati interamente nel seppellimento della città,
o caduti nello sterramento: sembra tuttavia che fossero destinati più
specialmente all’abitazione delle donne ed alla servitù della casa,
e le camere di essi piani dicevansi _cœnacula_. Tracce di esistenze
di tali piani si riscontrano in Pompei in certe scalette che veggonsi
praticate nelle _fauces_ di più case, e se in questa città dovevano
essere tutte le costumanze di Roma introdotte, dovevano esistere anche
scale esterne che mettevano a questi piani superiori[75].

Quasi in prova di case a più piani, una viene additata appunto col
nome di _casa a tre piani_, presso alla casa della _Danzatrice_; ma di
questi tre piani non rimane adesso vestigio, solo vedendosi che sotto
al livello della via publica era il pian terreno, ed un resto di scala
che metteva al primo piano.

A proposito di piani superiori, non lascierò qui di riferire quanto si
legge nel _Giornale di Napoli_ dell’otto novembre (1872):

«A Pompei in ottobre gli scavi furono continuati negli stessi luoghi
del mese innanzi, cioè sulla sinistra della porta antica più vicina
alla ferrovia, ed in un’isola che ha la fronte sulla strada Stabiana.
Questa via, dove s’avvicina alla porta dello stesso nome, s’insinua nel
fondo di una piccola valletta, e sulle coste laterali si dispiegano
con varia pendenza edifici privati e pubblici. Il lato occidentale è
opportunamente coperto dai due teatri, nei quali il declivio del suolo
serve a sostenere le gradazioni ove sedevano gli spettatori. Sul lato
opposto od orientale è situata l’isola, che ora si restituisce a luce,
e che precisamente sta in parte di fronte ai teatri, e in parte si
prolunga più al nord. In ottobre vi fu interamente messa allo scoperto
una bella e grandiosa abitazione, che, per la indicata accidentalità
del suolo, ha nel piano della via l’atrio con le stanze attinenti, ed
il resto ad un livello tanto più elevato, che forma un vero secondo
piano, quantunque non sovrapposto a quello inferiore. È la prima volta
che s’incontra nelle case di Pompei una disposizione siffatta.»

Avevano poi questi piani superiori, finestre e balconi? Non lo si
può dire; ma è permesso congetturarlo e credere di sì, se sussista
tuttavia in Pompei la casa detta del _Balcone pensile_, sterrata nel
1862. A vero dire più che un vero balcone, esso è ciò che dicevasi
_mœnianum_, ossia terrazzino coperto sporgente sulla strada da uno dei
piani superiori e sostenuto da mensole infisse nei muri; quantunque da
quell’esempio unico che si ebbe in Ercolano d’un edificio in piedi, e
che si dovette demolire, perchè tutto il legname e gli architravi che
lo sorreggevano si trovarono pressochè carbonizzati, siasi raccolto che
dodici camerette, _cœnacula_, fabbricate sui corridoi superiori alla
corte, ricevessero luce da finestre che guardavano nell’interno. Di
congeneri balconi pensili offrivano gli scavi pompejani diversi esempi,
ma trascurati o non compresi, caddero in rovina: questo solo che diè
nome alla casa fu con tutta diligenza restaurato, onde riesca una delle
più importanti case che si additino in Pompei.

Recentemente, ossia nel 28 luglio 1872, secondo leggesi nel _Giornale
degli Scavi_[76], Appendice III, nella _Relazione officiale dei lavori
eseguiti in Luglio ed Agosto 1872_, nel disterro dell’isola settima
nella Regione settima, _a nord-ovest del Tempio di Venere si è scoperto
un altro balcone pensile, che affaccia sopra un vicoletto, che ha una
direzione perpendicolare al lato occidentale del Tempio_.

Dopo quanto ho detto circa la somiglianza che si hanno quasi tutte le
case pompejane, non parmi consentaneo a’ miei intenti venir descrivendo
parte a parte ognuna che fu scoperta e che pur richiamerebbe
l’attenzione per la particolarità degli oggetti ritrovati: pur
nonpertanto ne segnalerò almeno il nome ottenuto nella designazione
degli scavi.

   [Illustrazione: La Casa del Poeta Tragico in Pompei _Vol. III,
   Cap. XX._]

Presso la porta della Marina è la _casa_ detta _di Championnet_, così
chiamata perchè vi si praticarono scavi alla presenza del francese
generale di questo nome; la _casa del Cinghiale_ fu così nomata da un
cinghiale contro il quale si slanciano due cani, rappresentato nel
mosaico del vestibolo; _Nuova Casa della Caccia_, perchè la parete
sinistra del peristilio offre una bellissima pittura esprimente una
caccia d’animali, e si vede un orso che si scaglia contro un cinghiale,
e in distanza un leone che sta per superare un dirupo e trarre in
soccorso dell’orso: è detta nuova, perchè altra ne portava già identica
denominazione; la _casa di Sirico_ nella via del Lupanare, fu detta
da un sigillo che si rinvenne, su cui si lesse tal nome. Presso alla
soglia dell’atrio leggesi in musaico il saluto SALVE LVCRV, che già
m’avvenne di ricordare nel chiudere il discorso delle _tabernæ_.
Nella via d’Augusto evvi la casa _della nuova fontana_ o _dell’Orso_,
essendovi nel _prothyrum_ un musaico che lo raffigura accosciato e
ferito da una lancia; la _casa di Marte e Venere_ per la bellissima
pittura che li rappresenta in un bellissimo specchio circolare su
d’un pilastro fra la prima e la seconda camera da letto, _cubicula_,
dell’atrio. La _casa di Cornelio Rufo_ ha il busto in marmo del
proprietario con sotto scolpite le parole CORNELIO RVFO; la casa detta
_del numero 4_ è interessante per le sue molte pitture: quella del
_Citarista_ deve il suo nome alla superba statuetta in bronzo d’Apollo
Citarista che vi si rinvenne e che fu trasferita al Museo. La _casa
di Olconio_, tra i maggiorenti più rispettabili di Pompei, dà il nome
alla strada e offrì, nel 1853, quando vi si praticarono gli scavi,
interessanti oggetti d’arte e dati importanti della vita pompejana.
Tutta l’insula di M. Epidio Sabino, che sta rimpetto alla casa del
Citarista, contiene due abitazioni di cui una certamente era dello
stesso M. Epidio Sabino, proclamato duumviro di giustizia per avviso
di Tito Svedio Clemente, come si lesse nella facciata esterna della
casa. Importantissima per le sue decorazioni e per le sculture è la
_casa di Marco Lucrezio_, questo nome essendosi desunto da una pittura
d’una camera del peristilio, che raffigurava una tavoletta pugillare
con uno stilo, un calamaio, un sigillo e le parole _M. Lucretio Flam.
Martis Decurioni Pompeis_[77]. Il lettore conosce già la _casa del
Fauno_ per la stupenda statuetta in bronzo trovata nell’atrio, per
il musaico della Battaglia d’Isso e per altre molte preziosità; così
quella di _Castore e Polluce_, detta anche _del Questore_, e che è
pure considerata come una delle più belle di Pompei, e dove già notai
tante degnissime cose d’arte. La casa dell’_Ancora_, dal musaico della
soglia, presenta una particolarità, un sotterraneo, cioè, nel fondo
di essa, da cui si passava in una gran sala circondata da nicchie
al livello stesso del sotterraneo. La _casa del Poeta_ già visitò
il lettore, quando vi trovò il musaico all’ingresso, rappresentante
il cane alla catena, col motto CAVE CANEM, e vi ammirò molte altre
artistiche cose. Casa del _Maestro di Musica_ fu nominata quella
non discosta dalla casa di Pansa, sulle cui pareti interne si videro
dipinti varii istrumenti musicali; e di _Sallustio_ quella sul cui muro
esterno si lesse l’iscrizione, pressochè interamente cancellata adesso:

                          C. SALLVSTIVM. M. F.

Nell’_impluvium_ di questa bella casa, sovra base di marmo, si
rinvenne un gruppo in bronzo del più puro stile greco e di rimarchevole
bellezza, raffigurante Ercole che ha raggiunto alla corsa la cervetta,
dalla bocca della quale usciva un getto di acqua, e che per la poca
cura che s’ebbe dapprincipio degli scavi si lasciò che se ne privasse
il Museo di Napoli, che solo ne serba una copia in gesso, l’originale
trovandosi nel Museo di Palermo. In questa casa, come in diverse altre,
nel fondo della abitazione si osserva un _lararium_, nicchia o piccolo
tabernacolo, con frontispizio, a custodia dei domestici numi o lari,
spiriti guardiani della famiglia. Vi si trovò diffatti un idoletto di
metallo, un vasetto e una moneta d’oro, e dodici altre di bronzo di
Vespasiano.

Per ciò solo che comprenda tre abitazioni e senza alcun altro apparente
motivo, dove non fosse un altare pel fuoco sacro nella terza corte che
somiglia a un tempio, non lungi dalla casa del Chirurgo, della quale a
suo luogo ho già intrattenuto il lettore, fu detta casa delle Vestali,
quella che è in Via delle Terme, e la quale ha sulla soglia il saluto:
SALVE. Ha essa tre cortiletti con portico all’ingiro a colonne. Al
lettore tenni già parola della _casa di Cicerone_, che è nel _Pagus
Augustus Felix_, nè vi aggiungerò altro.

Di moltissime altre già scoperte dovrei fare menzione, come di quella
dell’_Argenteria_, per molti vasi di questo metallo rinvenuti; di
Cajo Memmio, di Cajo Vibio, di Caprasio Primo, di Fusco, di Polibio,
di Pomponio, di Popidio Prisco, di Popidio Secondo, di Gavio Rufo,
dei Diadumeni, di Spurio _Meseor_ (mietitore), di Giulia Felice, per
non dire di quelle altre moltissime che ricevettero nome da pitture
o sculture, o da qualche particolare circostanza come le case di
Zeffiro e Flora, di Venere, e Marte, delle Nereidi, di Nettuno, delle
Amazoni, di Atteone, delle Danzatrici; dell’Arciduca di Toscana,
dell’Imperator di Russia, di Giuseppe II, del Re di Prussia, della
Regina d’Inghilterra; dei vasi di vetro, dei tre piani, del torchio
di terra cotta, della muraglia nera, dei bronzi, dei fiori e vie via
di tante altre; ma come dissi, suppergiù l’una all’altra somiglia: le
sole decorazioni più o meno ricche distinguendole; rese poi più o meno
interessanti dalla preziosità dagli oggetti che vi si ritrovarono.

D’una sola tuttavia m’incombe il debito di particolarmente descrivere,
per ciò appunto che nella sua distribuzione e nelle diverse sue
attinenze diversifichi dalle altre: essa è posta nel sobborgo, nella
via delle Tombe, e si designa piuttosto come una casa suburbana o di
campagna.

Posta rimpetto al sepolcreto di Marco Arrio Diomede, liberto di Arrio,
maestro del _Pagus Augustus Felix_, come leggeremo sull’iscrizione di
esso nell’ultimo capitolo di quest’opera, si credette che la casa fosse
a lui spettata; onde proseguiamo noi pure a ritenerla per sua. Essa è
l’ultima abitazione a sinistra della via delle Tombe, e presentando due
piani, riesce indubbiamente di particolare interesse. La descrizione
di essa e la descrizione delle sue ville che fa Plinio il Giovane nelle
sue Epistole ci forniscono l’idea completa d’una romana villeggiatura.

Si entra nella casa di M. Arrio Diomede, discendendo alcuni gradini di
marmo aventi a ciascun dei lati una colonnetta di materia laterizia.
Subito si presenta, come osserva Vitruvio parlando delle case di
campagna, una corte aperta, _atrium_, recinta da quattordici colonne
di ordine dorico pur di mattoni rivestiti di stucco che dovevano
formar portico. Questo medesimo piano, avendo verso il giardino una
loggia scoperta, lo dominava. Nella detta corte c’era un _impluvium_
e da ciascun lato stavano due puteali per attingervi l’acqua. A destra
dell’atrio, le camere per gli schiavi e una scaletta per ascendere al
piano superiore destinato forse alle donne; a sinistra, l’appartamento
per il _balineum_, o bagno privato, che già il lettore trovò parte
a parte descritto nel capitolo delle Terme. Dall’un dei portici
dell’_atrium_ si va alla dispensa, dove intorno ad una tavola di
marmo si trovarono stoviglie da cucina. Quindi seguono i _cubicula_,
o camere da letto, già ricche di pitture e musaici. Il _triclinium_
era nel mezzo di forma semicircolare e le pareti dipinte a pesci
natanti nell’acqua. Tre larghe finestre riguardavano alla campagna e
lo rendevano più allegro. Ancora dalla corte scoperta si accedeva ad
altro appartamento, costituito da un’_exedra_, o sala da conversazione,
e da altri salotti, da cui si entrava in una galleria, su di una sala
maggiore, _oecus_, e da ultimo sulla loggia scoperta, sul giardino
e per isfondo il mare. A livello del giardino, v’è un appartamento
terreno, le cui camere erano a volte decorate di pitture e i pavimenti
a musaici che or sono al Museo. Sotto il portico era una fontana, e dal
giardino si discendeva alla lunga _cella vinaria_, che corre tutta la
lunghezza di tre portici, dove ho già detto altrove quanti scheletri
e preziosi oggetti siano stati rinvenuti e che era rischiarata da
spiragli. Da un lato del giardino vedesi un recinto che già notai
essere stato un _sphæristerium_, e all’angolo sinistro s’aprivano due
piccole camere, dove pure fu trovato uno scheletro con un braccialetto
di bronzo ed un anello d’argento.

Veduta così come fosse la casa pompejana, ed osservato ad un tempo in
che differisca la casa romana, naturale è il passaggio a ragionare
della famiglia, e lo farò con quella maggiore brevità che ponno
comportare l’economia dell’opera e l’importanza del subbietto.

Anzi tratto, parmi doveroso accennare quale fosse il vero principio che
tenesse unita e compatta la famiglia romana, perocchè tutto quanto la
riguarda sembrerà allora subordinato ad esso.

Chi per avventura lo ebbe ad indagare più profondamente e giustamente,
è per mio sentimento il signor Fustel de Coulanges nell’opera già
superiormente citata _La Cité Antique_, che meritamente venne coronata
dall’Accademia Francese e dovrebbe ancor meglio essere apprezzata.
Io indicherò un tale principio colle parole e dimostrazioni di
quell’illustre e dotto scrittore.

Il principio della famiglia antica — scrive egli — non è unicamente la
generazione. Ciò che lo prova è che la sorella non è nella famiglia
quello che vi è il fratello; è che il figlio emancipato o la figlia
maritata cessano completamente di farne parte, e per ultimo lo provano
parecchie altre disposizioni delle leggi greche e romane.

Il principio della famiglia non è tampoco, come potrebbe agevolmente
reputarsi dal lettore, l’affezione naturale. Imperocchè il diritto
greco e il diritto romano non tengono conto alcuno di un tal
sentimento. Esso può esistere in fondo dei cuori, ma non si trova
nel diritto. Il padre può esser tenero della sua figliuola, ma non
può legarle l’aver suo. Le leggi di successione, vale a dire, tra le
leggi quelle che più fedelmente attestano delle idee che gli uomini si
facevano allora della famiglia, sono in flagrante contraddizione, sia
coll’ordine della nascita, sia coll’affezione naturale[78].

Gli storici del diritto romano, avendo assai giustamente osservato
che nè la nascita, nè l’affetto fossero il fondamento della famiglia
romana, hanno creduto che questo fondamento si dovesse trovare nella
potenza paterna o maritale. Ma di tale potenza essi fecero una specie
di istituzione primordiale; non ispiegando per altro com’essa siasi
formata, a meno che non sia che per la superiorità del marito sulla
moglie, del padre sui figli.

Ora è un grave errore il collocare così la forza all’origine del
diritto. L’autorità paterna o maritale, ben lungi dall’essere stata una
causa prima, fu essa stessa un effetto: essa è derivata dalla religione
e fu stabilita da questa. Essa adunque non è il principio che ha
costituito la famiglia.

Ciò che nei membri della famiglia antica, fu qualche cosa di più
possente della nascita, del sentimento, della forza fisica: fu la
religione del focolare e degli antenati. Essa operò che la famiglia
formasse un corpo in questa e nell’altra vita. La famiglia antica è
una associazione religiosa più ancora che una associazione di natura.
La donna infatti non vi era veramente contata se non in quanto la
sacra cerimonia del matrimonio l’avesse iniziata al culto: il figlio
non vi contava pure, se rinunziava al culto, o se era emancipato,
e l’adottato invece vi era un vero figlio, perchè se non aveva il
vincolo del sangue, aveva qualche cosa di più, la comunanza del culto;
e il legatario che rifiutava d’adottare il culto di questa famiglia,
non conseguiva la successione e finalmente la parentela e il diritto
all’eredità erano regolati, non dietro la nascita, ma dietro i diritti
della partecipazione al culto, come gli ha stabiliti la religione.
Certo che non è la religione che ha creato la famiglia, ma è dessa
sicuramente che le ha dato le sue regole, e di là conseguitò che la
famiglia antica ebbe una costituzione così diversa da quella ch’essa
avrebbe avuto se i sentimenti naturali fossero stati soli a fondarla.

L’antica lingua greca aveva una parola ben significativa per designare
una famiglia; dicevasi επίστιον, parola che significa letteralmente
_ciò che è appresso ad un focolare_. Una famiglia era un gruppo
di persone alle quali la religione permetteva d’invocare lo stesso
focolare e d’offrire il banchetto funebre ai medesimi avi[79]. Si
comprende così l’importanza delle espressioni: _pro aris et focis_.

Premesso così quanto concerneva il principio fondamentale della
famiglia, pel migliore intendimento, debbo far precedere la
spiegazione, secondo il concetto romano, delle tre parole _potestas,
manus, mancipium_, nelle quali si compendiano i diritti esistenti nella
famiglia, ed allora meglio ancora verrà compresa la costituzione della
stessa.

Per la parola _potestas_, intendevano i Romani la _potestà_ del padrone
sullo schiavo e quella del padre sui figli: per la parola _manus_,
la podestà alla quale le donne erano in certi casi sottomesse: e per
la parola _mancipium_, un diritto d’una certa natura, che se non è sì
agevole il definire, verrà nondimeno chiarito dalle dimostrazioni che
ne farò.

Qual fosse il potere del padrone sugli schiavi, dirò più avanti
parlando di costoro; quasi egualmente esteso era quello del padre sui
figli. L’ingresso del figlio nella famiglia, dice il sullodato signor
Fustel de Coulanges, era segnalato da un atto religioso. Era mestieri
dapprima che fosse accettato dal padre. Questi, a titolo di padrone e
di custode vitalizio del focolare, di rappresentante degli antenati,
doveva pronunciare se il nuovo arrivato fosse, o non fosse della
famiglia. La nascita non formava che il legame fisico: la dichiarazione
del padre costituiva il legame morale e religioso. Questa formalità era
egualmente obbligatoria a Roma come in Grecia.

Occorreva di più pel figlio una specie d’iniziazione. Essa aveva luogo
poco tempo dopo la nascita, il nono giorno a Roma, il decimo in Grecia.
Quel giorno il padre riuniva la famiglia, chiamava de’ testimonj e
faceva un sagrificio al suo focolare. Il figlio veniva presentato al
dio domestico; una donna lo portava nelle sue braccia e correndo gli
faceva fare più volte il giro del fuoco sacro. Questa cerimonia aveva
un duplice scopo, di purificare il bambino, cioè di togliergli la
macchia che gli antichi supponevano avesse contratto pel solo fatto
della gestazione e di iniziarlo al culto domestico. Da tal momento
il figlio era ammesso in questa specie di santa società e di piccola
chiesa che si chiamava la famiglia. Ne aveva la religione, ne praticava
i riti, era atto a dir le preghiere e più tardi dovrà essere egli
stesso un onorato antenato.

Tali solennità non si richiedevano per la figlia, appunto perchè
ella non potesse esser chiamata a continuare il culto della famiglia,
potendo il matrimonio applicarla ad un altro culto, come si dirà tra
poco.

Al punto di vista del diritto pubblico, era il figlio libero e
indipendente e poteva però esser magistrato, tutore e votare nella
tribù e nella classe del padre suo; ma al punto di vista del diritto
privato, in qualunque età rimaneva sotto la podestà del padre.

La donna _in manu_ era considerata come la figlia del proprio marito,
e se questo medesimo era figlio di famiglia, veniva essa considerata,
come la figlia del figlio: nelle relazioni del padre di famiglia,
diventava _mater familias_ e abbandonava la famiglia d’origine. La
_conventio in manum_, importava per sè una _minima capitis diminutio_,
cioè il cambiamento di famiglia; da non confondersi colla _capitis
diminutio media_, che significava una certa diminuzione di libertà,
cioè la perdita della cittadinanza, come la _capitis diminutio maxima_
era la perdita completa della libertà, lo che traeva seco la piena
incapacità civile. — Cessavano così nella donna i diritti d’agnazione o
di parentela civile fra lei e la sua antica famiglia.

Tuttavia la _manus_ non era una conseguenza necessaria del matrimonio;
ma s’acquistava colla confarreazione, coll’uso e colla coemzione. La
prima consisteva in un solenne sacrificio, al quale assistevano il
gran pontefice, il flamine diale e dieci testimoni cittadini romani,
ma era riservato a’ patrizii, e i matrimoni così celebrati si avevano
per sacri. Dirò per altro più sotto degli altri riti che precedevano od
accompagnavano questa prima sorta di matrimonio. L’uso, era quando la
donna aveva abitato col marito durante un anno senza interruzione e la
donna che evitar voleva la _conventio in manum_, bastava che ogni anno
ella passasse tre notti fuori del domicilio coniugale, lo che dicevasi
_trinoctium usurpatio_. In questo modo ella poteva farsi rivendicare
dal padre suo, o dal tutore e così riacquistare la libertà. La
coemzione era una specie di vendita, nella quale la donna, autorizzata
dal padre o dal tutore, si vendeva al suo marito. Questa era la forma
primitiva del matrimonio ed era certo anche la più semplice: epperò
durò più lungo tempo.

Il padre investito della _potestas_ e il marito della _manus_, potevano
vendere il loro figlio o la loro moglie ad un terzo e questa vendita
che aveva luogo colla mancipazione, dava al compratore un diritto che
si chiamava _mancipium_, equivalente alla proprietà; sì che mentre la
_patria potestas_ e la _manus_ cessavano alla morte del padre o del
marito, il _mancipium_ passava agli eredi del compratore. Ciò malgrado,
la persona _in mancipio_, se non poteva esercitare i diritti politici,
non perdeva la sua prima condizione _d’ingenuità_, o civile. Questo
diritto si venne poco a poco restringendo, ridotto quasi esclusivamente
al caso che il figlio avesse cagionato un danno, nel quale il padre lo
cedeva alla persona lesa _in mancipium_, a titolo di indennità.

Il debitore insolubile e chi si vendeva gladiatore, _auctoratus_,
e il romano prigioniero di guerra riscattato da un altro romano, si
trovavano nella medesima condizione di chi era _in mancipio_.

Ciò premesso, la famiglia romana si componeva di tutti gli individui
discesi da maschi da un autore comune, od entrati nella famiglia
per mezzo dell’adozione o della _manus_, che creavano dei veri
vincoli di figliazione. I diversi membri della famiglia si chiamavano
_agnati_, e di questi coloro che succedevano in linea retta, i figli
ed altri discendenti, dicevansi _sui hæredes_, i fratelli e sorelle
_consanguinei_. L’agnazione era la parentela del diritto civile, e
però non poteva appartenere nè ai latini, nè ai _peregrini_, cioè ai
forastieri.

I Romani, inoltre, conoscevano la parentela naturale che dicevano
cognazione, _cognatio_, e si estendeva fino al settimo grado, ed
una terza parentela, l’affinità, ossia le relazioni esistenti fra un
coniuge e i parenti dell’altro coniuge.

Se il matrimonio presso i Romani era un’istituzione del diritto delle
genti, non era meno un’istituzione di diritto civile, regolandone
il diritto romano le condizioni e gli effetti, assolti i quali, si
chiamava _legitimum matrimonium_, ed anche _justæ nuptiæ_. La capacità
di contrattar un simile matrimonio, appellavasi _connubium_, e per
regola generale non era questo concesso che fra cittadini romani: per
esser concesso a’ _peregrini_, abbisognava dell’autorizzazione del
potere legislativo.

Modestino definiva il matrimonio: _consortium totius vitæ, divini atque
humani juris comunicatio_ e Giustiniano vi aggiungeva: _individuam
vitæ consuetudinem continens_, ossia la completa e indivisibile unione
dell’uomo e della donna: ma ciò malgrado, il divorzio era ammesso
e ne veniva anche spesso abusato. Va per altro detto come pel corso
di cinque secoli non uno se ne avesse a contare: e rimase ricordato
dalle storie il nome di Carvilio Ruga che fu il primo che ricorse a
codesta misura. Non si creda però che ad essa fosse fomite pensiero
di lussuria od altra condannevole causa: egli teneramente amava la
moglie e di nulla aveva a lagnarsene, se non che di sua sterilità; ma
siccome nella formula del maritaggio aveva giurato menarla sposa per
aver de’ figli, ella non avendogliene dati, sacrificò l’amore alla
religione del giuramento[80]. La religione diceva che la famiglia non
doveva estinguersi e che ogni affezione e diritto naturale dovessero
cedere davanti a questa regola assoluta. Nè era altrimenti in Grecia,
dove Senofonte[81] e Plutarco[82] narrano che quando il matrimonio
fosse stato sterile per fatto del marito, dovesse il fratello od un
parente del marito sostituirsi a lui e la donna accondiscendervi, e
il figliuolo che ne fosse nato si avesse a considerare come figlio del
vero marito.

Ma del divorzio, col progredire del tempo, venne come dissi, abusato,
nè fu la voce della sola religione che il reclamò; ma bastarono i
litigi colla nuora, od anche l’impudicizia; e Paolo Emilio ne allegò
unicamente a causa l’essere stato dalla moglie offeso; Sulpizio Gallo,
perchè uscita a capo scoperto; Antistio Vetere, perchè parlottò in
segreto con una liberta volgare; Publio Sempronio, perchè ita a’
giuochi senza sua saputa. Cicerone ripudiò Terenzia dopo trent’anni
di convivenza, perchè gli abbisognava una nuova dote onde spegnere
i debiti; e Publio perchè parve rallegrarsi della morte di Tulliola.
Essa Terenzia fu di Sallustio, poi di Messala Corvino, poi di Vibio
Rufo; Tulliola passò per tre mariti, e l’ultimo, Dolabella, la ripudiò
incinta. Bruto, il virtuoso Bruto, rinviò Claudia per isposare Porcia.
Un famoso ghiotto fu sul punto di cacciar la sua, perchè in momenti
critici visitò la cella dei vini, ch’e’ temeva se ne inacidissero.
Cajo Titinnio minturnese menò a bella posta la scapestrata Fannia,
per espellerla poi come impudica e tenersene la dote. Cesare ebbe tre
mogli, Pompeo quattro, quattro Augusto, cinque o sei ciascun membro
della famiglia di esso, e v’erano donne che, al dir di Seneca (_De
Benef._ III, 26) contavano gli anni dai mariti, non dai consoli[83].

Il matrimonio era di consueto preceduto dagli sponsali, o promessa,
consistente in una stipulazione tra il futuro marito e il padre della
futura sposa: chi vi avesse dipoi mancato, era passibile dapprincipio
dell’azione di indennizzo: più innanzi si limitò a colpire d’infamia
colui che avesse mancato alla data fede e contratto altri sponsali.

L’età pel matrimonio era di dodici anni nella donna, di quattordici
nell’uomo, e quando gli sposi fossero _alieni juris_, occorreva
il consenso delle persone nella cui podestà si trovavano; per le
fanciulle, comunque _sui juris_, era indispensabile il consenso de’
loro parenti e tutori.

L’importanza del matrimonio presso i Romani, come presso i Greci, non
si è presto compresa se non si designano i caratteri essenziali di
esso. Già superiormente ho toccato della religione domestica o del
focolare, e del come da casa a casa potesse differenziare, poichè ogni
padre-famiglia, essendo pontefice di tal religione nella propria casa,
serbasse o adottasse que’ riti che meglio a lui fossero piaciuti. Ora
è evidente che la fanciulla che andava a nozze dovesse rinunciare alla
religione del proprio focolare, per abbracciar quella del focolare del
marito. Così doveva dimenticare quelle cerimonie, quelle preghiere,
quelle pratiche nelle quali era fin allora cresciuta, per apprenderne
altre, e per dirla con Stefano di Bisanzio: «a datar dal matrimonio,
la donna ha nulla più di comune colla religione domestica de’ suoi
padri; ella sacrifica al focolare del marito.» E Fustel de Coulanges
che cita codesto scrittore nell’opera sua _La Cité Antique_[84],
soggiunse: «Così quando si penetra nel pensiero di questi uomini
antichi, si capisce di qual importanza dovesse essere per essi l’unione
conjugale e quanto l’intervento della religione vi fosse necessario.
Non era forse mestieri che la fanciulla avesse ad essere da qualche
sacra cerimonia iniziata al culto che doveva quind’innanzi seguire?
Per divenire sacerdotessa di questo focolare, al quale la nascita non
l’aveva legata, non le occorreva forse una specie di ordinazione o di
adozione?»

Il matrimonio era dunque la cerimonia santa che doveva produrre questi
grandi effetti. Gli scrittori infatti, latini e greci, indicano il
matrimonio con parole esprimenti un atto religioso. Polluce, che viveva
al tempo degli Antonini, istruttissimo ne’ vecchi usi e nella antica
lingua, dice che ne’ primi tempi, in luogo di designare il matrimonio
col suo nome particolare (γάμος), lo si designava semplicemente colla
parola τέλος, che significa cerimonia sacra[85], quasi il matrimonio
fosse stato la cerimonia sacra per eccellenza.

E tal cerimonia non si compiva ne’ templi degli Dei, ma nella casa, ed
era il Dio domestico che vi presiedeva. Certo che in seguito, quando
la religione degli dei del cielo, divenne preponderante, si adottò
di adire preventivamente i templi e di offrire a questi Dei sacrifici
che si chiamavano preludii del matrimonio; ma la parte principale ed
essenziale della cerimonia dovevasi sempre compiere davanti il focolare
domestico.

Il matrimonio romano, quello almeno che si considerò per più legale
e fu il più usitato, perchè procedente dal mutuo consenso, _mutuus
consensus_, somigliava d’assai al matrimonio greco, e comprendeva
com’esso tre atti: _traditio, deductio in domum, confarreatio_.

La prima si compiva dal padre, che distaccando la figliuola dal
domestico focolare e dalla propria autorità, la consegnava al marito
che l’assumeva nella propria.

Quindi la sposa veniva condotta a casa dello sposo, velata, recinta il
capo d’una corona, mentre una face nuziale precedeva il corteggio, e
si cantava un inno col ritornello _Io! Hymen, Hymenee_, e coll’altro
_Talassia_, parola quest’ultima della quale i Romani del tempo di
Orazio non comprendevano tampoco il senso. Il corteggio giungeva
avanti la casa del marito, dove veniva alla sposa presentato il fuoco
e l’acqua; il primo, il lettore già lo sa, emblema della divinità
domestica: la seconda è l’acqua lustrale che serve alla famiglia
per tutti gli atti religiosi. Allora lo sposo, a simulare il ratto,
sollevava la sposa nelle sue braccia e la portava in casa, senza che i
piedi di lei toccassero la soglia.

Finalmente ella è condotta davanti il focolare, dove sono i Penati,
gli dei domestici e le immagini dei maggiori: gli sposi fanno un
sacrificio, versano la libazione, profferiscono preghiere e mangiano
insieme il _panis farreus_, o focaccia di fior di farina; onde il nome
al matrimonio di _confarreatio_.

Codesta grave e solenne cerimonia produceva così importanti effetti
giuridici e sociali, da non potersi ammettere la poligamia.

La bigamia pertanto era severamente proibita: principale impedimento
al matrimonio era la parentela e l’affinità: il divieto fra cognati
e cognate non fu introdotto che sotto Teodosio. Si proibiva pure il
matrimonio fra liberi e schiavi, e nell’antico diritto anche fra liberi
e liberti; ma la proibizione di sposare liberti fu ristretta dalla
legge Giulia ai senatori ed ai loro discendenti, nè fu soppressa che
sotto Giustiniano.

Altre proibizioni esistevano, come fra una patrona e il suo liberto,
una donna libera e il colono d’un terzo — e colono era un uomo libero
sì, ma vincolato al suolo, tal che il proprietario del fondo avesse
una sorta di potestà su di lui, un diritto di correzione, non potesse
da lui esser tratto in giudizio e lo potesse, fuggitivo, trattar come
schiavo fuggiasco. — Era pur conteso il matrimonio tra il tutore e la
sua pupilla, l’adultera ed il suo complice, il rapitore e la rapita,
Romani e barbari, il governatore e una donna della sua provincia;
a meno che non ne avesse ottenuto dispensa dal Senato, e più tardi
dall’imperatore.

Più sopra ho detto del divorzio, ora veggiamo come seguisse la
separazione de’ coniugi.

Quando il matrimonio era seguito per confarreazione, la separazione si
compiva con una cerimonia detta _diffarreatio_. Siccome la religione
aveva operata la _confarreatio_; così anche la _diffarreatio_ doveva
essere compiuta dalla religione, perchè essa sola poteva slegare ciò
che aveva congiunto. I due sposi che volevano dividersi comparivano
per l’ultima volta davanti il focolare: presenti un sacerdote e i
testimonj. Si presentava ai conjugi, come al dì del loro matrimonio,
una focaccia di fior di farina ed essi in luogo di spezzarla e
mangiarla, la respingevano, quindi in luogo di preghiere pronunciavano
formule d’un carattere strano, severo, odioso e spaventevole, come
assicura Plutarco[86], una specie insomma di maledizione per la quale
la moglie rinunciava al culto ed agli dei del marito. Da quel punto
il legame religioso era rotto e cessando la comunanza del culto,
cessava pure di pieno diritto ogni altra comunanza e il matrimonio
era disciolto. Ma il divorzio vi succedette di poi, talmente che
bastò la volontà d’un solo conjuge a far cessare il matrimonio
dietro la semplice formula, _Res tuas tibi habeto_, cioè _pigliati
le tue robe_. Anche la donna sottomessa alla _manus_ era libera di
divorziare, mandando al marito il libello del _repudium_ e forzandolo
ad affrancarla dalla _manus_: se la donna divorziava senza motivo,
il marito riteneva il sesto della dote per ciascun figlio sino alla
concorrenza di tre sesti, il marito adultero perdeva il beneficio del
termine alla restituzione della dote.

Il marito investito della _manus_ aveva sulla moglie il diritto
più esteso di correzione, poteva ucciderla persino quando colta in
flagrante adulterio: ne’ casi gravi dovea pigliar avviso da’ parenti.
Il marito che non aveva la _manus_, dovevasi limitare al _repudium_,
perchè il diritto di correzione spettasse soltanto al padre di lei od
a’ parenti.

La moglie, andando a marito, poteva portare la dote, a minorazione
delle spese del matrimonio, anzi le leggi Giulia, Papia e Poppea
ne imposero l’obbligo al padre. Essa poteva eziandio costituirsi
da un terzo o dalla sposa medesima, quando fosse stata _sui
juris_. Costituivasi la dote in tre modi, colla _dizione_, colla
_stipulazione_, o colla _dazione_, ossia collo sborso reale della
stessa. Doveva farsene il pagamento, pei mobili entro dieci mesi, per
denaro in uno, due, o tre anni; e circa i lucri e la restituzione,
potevasi convenire, come si fa pur oggidì. Libera la donazione per
causa di matrimonio, _donatio propter nuptias_: era nulla e revocabile
fino alla morte del donatore, se fatta fra sposi.

La vedova, pena l’infamia, non poteva rimaritarsi che dopo dieci mesi
dalla morte del marito; gli imperatori portarono questo tempo ad un
anno.

Esisteva poi un altro modo di convivenza della donna coll’uomo
autorizzata dalla legge e in ispecie dalle suddette leggi Giulia, Papia
e Poppea, e dicevasi concubinato, ed aveva d’ordinario luogo fra quelle
persone che non potevano sposarsi fra loro. La concubina era stata
per consueto la donna di cattiva fama, la liberta o la schiava. Il
concubinato tra il patrono e la liberta era il più frequente e il più
protetto dalle leggi.

Or tocchiamo qualche cenno sulla patria podestà.

Il Padre era quello, dissero i romani giureconsulti, che è dimostrato
tale da giuste nozze: _pater est quem justæ nuptiæ demonstrant_: il
figlio legittimo era dunque colui che derivava da queste giuste nozze.
Fuori di queste, il figlio non poteva invocare che la figliazione
materna. Se vi era stato _connubium_, il figlio seguiva la condizione
del padre; se no, quella della madre: nel primo caso era sottomesso
alla potestà del padre; ma conveniva per ciò che padre e figlio fossero
e restassero cittadini romani, e allora essa podestà durava tutta la
vita dell’investito, ed estendevasi a tutti i discendenti in linea
diretta, senza distinzione di grado.

Aveva il padre diritto di vita e di morte sul figlio, poteva giudicarlo
in caso di crimine e condannarlo, escludendo i tribunali publici; e la
severità dei costumi stava mallevadrice che il colpevole non sarebbe
impunito. Più tardi fu imposto a’ padri il concorso de’ magistrati nei
casi gravi; ma così restò sempre il potere de’ padri, che giammai si
accordasse l’azione d’ingiuria ne’ figli contro di essi.

Potevan essi vendere i figli; ma cessava il potere paterno dopo la
terza vendita, per le figlie dopo la prima: i figli non perdevano però
la loro qualità di _ingenui_.

Tutto quanto i figli acquistassero era pel padre, ma esercitandone un
mestiere diverso, per consueto il padre loro abbandonava quel peculio,
che per altro non potevano senza il di lui consenso alienarlo a titolo
gratuito o per testamento. Augusto tuttavia concesse a’ figli disporre
liberamente per testamento ed anche tra’ vivi del _peculium castrense_,
ossia del peculio guadagnato all’armata.

Uno speciale diritto trovasi ricordato dagli storici concesso alle
famiglie che fossero numerose di figliuolanza, e veniva perciò
denominato _jus trium, quatuor, vel quinque liberorum, o natorum_,
diritto, cioè, dei tre, dei quattro o dei cinque figli.

Importa se ne dica qui alcuna cosa.

A Roma, fin dal tempo della repubblica, come altrove in questa mia
opera ho già scritto, le continue guerre avevano d’assai diminuito
la popolazione, e tale diminuzione di cittadini era venuta crescendo
in ragione diretta del lusso e della corruzione. Metello Numidico
censore tenne, appunto in vista di una tale straordinaria diminuzione
di popolazione, a’ suoi concittadini una allocuzione tendente ad
esortarli a pigliarsi moglie, e se le parole da lui dette e riferite da
Aulo Gellio furono veramente le sue, ebbe questo scrittore ragione di
soggiungere che fossero poco proprie a conseguirne l’intento, perocchè
enumerando esse le cure e gli inconvenienti del matrimonio, non fosse
il modo più conveniente per persuaderlo. Tito Castrico invece, opinando
che il linguaggio d’un censore dovesse essere ben diverso da quello
di un retore, trovò che Metello avesse la sua concione debitamente
conformata al soggetto. Giudichi ora il lettore a qual dei due la
ragione.

«Romani — avrebbe così parlato il Censore — se noi potessimo vivere
senza moglie, tutti noi eviteremmo tal noja; ma poichè la natura abbia
voluto che non ci fosse dato nè vivere tranquillamente con una moglie,
nè viverne senza, occupiamci allora della perpetuità della nostra
nazione anzi che della felicità d’una vita che è sì corta. La potenza
degli Dei è grande, ma la loro benevolenza a riguardo nostro non deve
andar più in là di quella de’ nostri parenti. Questi, se noi perfidiamo
nella via dell’errore, ci diseredano: che dovremmo attenderci dagli Dei
immortali, se noi non imponiamo un fine a’ nostri traviamenti? L’uomo,
per meritare i favori loro, non deve essere il suo proprio nemico. Gli
Dei debbono ricompensare la virtù ma non darla»[87].

Ciò che le guerre esterne ed il lusso avevano incominciato, le guerre
civili compirono; de’ pochi cittadini rimasti, la più parte non erano
ammogliati; onde Cesare, pervenuto alla dittatura, sua prima cura era
stata di studiare il modo di por freno al male. Parvegli dapprima
potessero giovare le ricompense, epperò, come riferisce Svetonio,
distribuì le terre della Campania fra venti mila cittadini padri di
tre o più figli e vietò alle donne al disotto de’ quarantacinque anni e
che non avessero nè marito nè figli di portar giojelli e di valersi di
lettiga.

Dopo di lui, Augusto nel 736 u. c. pubblicò la legge _De Maritandis
Ordinibus_, che ventisette anni poi si rifuse nella legge Papia
Poppea, così denominata dai suoi due proponenti Marco Papio Mutilo
e Quinto Poppeo Secondo, e nuovi oneri vennero imposti a quelli che
non fossero ammogliati e nuovi privilegi aggiunti per contrario a’
matrimoni fecondi. De’ due consoli, a cagion d’esempio, colui che
avesse avuto numero maggiore di figli prendeva pel primo i fasci; tra
più candidati veniva accordata la preferenza al padre di più numerosa
figliuolanza. Ma tra i più importanti capitoli di questa legge e di cui
l’applicazione era la più frequente, era quello che esentava da ogni
carico il padre che in Roma avesse avuto tre figli; in Italia, il padre
di quattro; nelle provincie, il padre di cinque.

Altri molti privilegi erano consentiti a questo _jus trium, quatuor,
quinque natorum_, ed appetiti assai eran quelli che apportavano a chi
ne fosse investito la triplice porzione di frumento nelle distribuzioni
che si facevano dagli imperatori e la facoltà di sedere in un posto
distinto negli spettacoli.

Pel contrario, eranvi pene per coloro che si fossero serbati celibi.
Così costoro non potevano raccogliere eredità, nullo era il legato
a lor favore disposto, che però devolvevasi al fisco; ed è a coteste
disposizioni della legge Pappia Poppea che l’acre Giovenale allude in
que’ versi:

    _Nullum ergo meritum est, ingrate ac perfide, nullum_
      _Quod tibi filiolus vel filia nascitur ex me?_
      _Tollis enim et libris actorum spargere gaudes_
      _Argumenta viri. — Foribus suspende coronas,_
      _Iam pater es: dedimus quod famæ opponere possis:_
      _Iura parentis habes; propter me scriberis hæres,_
      _Legatum omne capis, nec non et dulce caducum_
      _Commoda præterea jungentur multa caducis;_
      _Si numerum, si tres implevero_[88].

Ma siccome non v’abbia cosa, per savia che possa essere, della quale
non venga abusato; così ben presto le eccezioni a questa provvida legge
divennero numerose più che non fossero le applicazioni e il _jus trium
natorum_ con tutti gli inerenti privilegi vennero concessi anche a
persone che non contassero tre figli e vivamente sollecitati.

Sappiam dagli epigrammi di Marziale come egli avesse ottenuto questo
diritto dei tre figli da Tito e da Domiziano, esso annunziandolo alla
moglie siccome ottenuto in mercede de’ suoi poetici studi[89]; e dalle
_Epistole_ di Cajo Plinio Cecilio Secondo, denominato il Giovane,
com’egli lo avesse sollecitato da Trajano ed anche conseguito a favore
di Svetonio Tranquillo, lo storico dei Dodici Cesari.

Quanta importanza si aggiungesse a cotale diritto è agevole
comprendere, oltre che dal valore dei surriferiti privilegi che vi
erano annessi, dalla risposta altresì che l’Imperatore faceva a quella
domanda del suo diletto Plinio e che mette conto di riferire nella
fedele e buona versione del Paravia.

  «Trajano a Plinio.

«Quanto sia parco nel conceder sì fatte grazie, tu lo sai certo, o
mio carissimo Secondo, protestando io di continuo anche in Senato di
non averne mai trapassato quel numero, che io dissi bastarmi dinanzi a
quell’illustre consesso; ciò nondimeno io satisfeci al tuo desiderio,
ordinato avendo che si noti ne’ miei registri, aver io conceduto a
Svetonio Tranquillo il privilegio de’ tre figliuoli con le solite
condizioni»[90].

Forse di questi scrupoli di Trajano, non ebbero gli altri imperatori.

La patria podestà poteva risultare anche dall’adozione, e dalla
legittimazione. Quest’ultima aveva luogo quando il padre pigliava
la concubina per legittima sposa, quando faceva inscrivere il figlio
sulla lista de’ curiali, e quando, come poi fu disposto da Giustiniano,
l’imperatore l’accordava con suo rescritto.

Quanto all’adozione, essa era altro necessario effetto di quel
principio che ho già ricordato, o piuttosto dovere che vi era di
perpetuare il culto domestico. Adottare, disse Cicerone nell’orazione
_Pro Domo sua_, è chiedere alla religione ed alla legge ciò che
non si è potuto ottenere dalla natura; e tanto era ciò vero, che si
compiva mediante una sacra cerimonia, che sembra essere stata eguale
a quella che facevasi al nascere di un figlio. Così, divenendo al
figlio adottato comuni col padre adottivo numi, oggetti sacri, riti
e preghiere, dicevasi di lui _in sacra transiit_, come l’Oratore potè
dire nella succitata arringa _amissis sacris paternis_, per rinunziare
coll’adozione al domestico culto paterno. L’adottato addiveniva poi
così affatto straniero alla sua antica famiglia, che morendo, il padre
naturale di lui non aveva il diritto d’incaricarsi de’ suoi funerali o
di condurre il mortoro, precisamente perchè _adoptio naturam imitatur_,
come si esprimono i romani giureconsulti, e dei diritti, come degli
obblighi paterni, diveniva l’adottante assuntore.

L’emancipazione era poi l’atto che sottraeva il figlio alla patria
podestà, affinchè potesse accettar l’adozione. Precipuo effetto di essa
era la rinunzia al culto della famiglia, nella quale s’era sortito i
natali, e l’abdicazione a tutti gli inerenti doveri. _Consuetudo_,
scrisse Servio, _apud antiquos fuit ut qui in familia transiret
et prius se abdicaret ab ea in qua natus fuerat_[91]. Si chiamava
però l’emancipazione da’ Romani, secondo Cicerone e come abbiam
veduto, _amissio sacrorum_[92], e secondo Aulo Gellio, _sacrorum
detestatio_[93].

Le persone _sui juris_, che per l’età si fossero trovate incapaci
d’esercitare i loro diritti, ricevevano un tutore. D’ordinario
veniva designato dal padre; la madre lo poteva del pari eleggere nel
testamento, ma conveniva intervenisse l’approvazione del magistrato.
In difetto di tutore testamentario, la tutela passava agli agnati.
La tutela de’ liberti spettava al patrono ed a’ suoi discendenti.
In difetto anche di essi, devolvevasi ai _gentiles_, cioè, come dice
Cicerone citando l’autorità di Scevola, a quelli che hanno lo stesso
nome e discesero da’ maggiori che mai non furono schiavi[94], e questi
puro mancando, su domanda delle parti interessate, si conferiva da’
magistrati competenti. Le donne, eccettuata la madre, i pupilli, e dopo
Giustiniano, i minori de’ venticinque anni, erano incapaci ad assumere
la tutela. Se lo schiavo venisse per testamento nominato tutore, per
ciò solo significava ch’esso veniva fatto libero, non potendo come
schiavo esercitar l’ufficio di tutore.

Il tutore amministrava i beni del pupillo e completava col proprio
intervento ciò che a quest’ultimo mancasse per compiere validamente i
diversi atti della vita civile. Circa l’educazione del pupillo, questa
non era cosa che spettasse al tutore. La tutela finiva per gli uomini a
quattordici anni; la legge Pletoria accordò nondimeno l’azione penale e
infamante contro chi avesse abusato della inesperienza de’ minori di 25
anni.

La tutela delle femmine era d’una durata indeterminata: le Vestali però
e la madre prolifica erano prosciolte dalla medesima.

Eravi anche la curatela. Il pazzo e il prodigo tenevansi incapaci
di far alcun atto della vita civile; epperò o tra gli agnati o tra
i gentili eleggevasi il curatore e in loro mancanza eleggevalo il
pretore.

Ma nella casa romana, o pompeiana che si voglia dire, non erano
soltanto codesti gli individui che vi abitavano; anzi, fin dal primo
ingresso, non era nei padroni, nelle persone, cioè, che finora abbiam
considerato, che si scontrava; ma nell’_ostiarius_, nello _janitor_,
nel _nomenclator_, nell’_atriensis_, ecc., in esseri infelici insomma,
che la civiltà, ajutata dal Vangelo, tolse di mezzo, negli schiavi
intendo dire, _servi_, i quali reclamano adesso da me particolari
cenni.

Tutti i popoli dell’antichità avendo avuto schiavi, i giureconsulti
collocarono la schiavitù fra le istituzioni del diritto delle
genti. Diventando lo schiavo un membro della famiglia, e dovendo
però parteciparne al culto, la sua prima introduzione in casa era
accompagnata da cerimonia religiosa. Comuni ai due popoli greci e
latini molti riti e consuetudini, lo schiavo entrava in famiglia
mettendolo in presenza della divinità domestica: quindi gli si versava
sulla testa dell’acqua lustrale e divideva colla famiglia la focaccia
e le frutta. Prendeva poscia parte alle preghiere ed alle feste della
casa, come Cicerone ricordò in quelle espressioni _Ferias in famulis
habento_[95], e così il focolare proteggeva pur esso, e la religione
dei Lari apparteneva tanto a lui che al padrone: _quum dominis, tum
famulis religio Larum_[96], di qui il diritto dello schiavo ad essere
sepolto nel sepolcreto della famiglia.

Lo schiavo apparteneva come cosa al padrone, il quale però poteva
venderlo, punirlo e uccidere perfino. Ecco il conto che ne faceva
Giovenale e che riassume la generale estimazione che si aveva di essi:

    _Pone crucem servo. Meruit quo crimine servus_
    _Supplicium? quis testis adest? quis detulit? audi:_
    _Nulla satis de vita hominis cunctatio longa est._
    _O demens! ita servus homo est? Nihil fecerit: esto_
    _Sic volo, sic jubeo; stet pro ratione voluntas_[97].

Non poteva lo schiavo scendere in giudizio, non contrar matrimonio;
e l’unione sua era come semplice relazione di atto e dicevasi
_contubernium_, nome che, secondo Columella, significava anche il
domicilio di una coppia di schiavi, maschio e femmina[98].

Tuttavia ho già in addietro reso conto della legge Petronia, forse
del tempo d’Augusto, perocchè non mi consti che gli scrittori ne
accertassero l’epoca di sua promulgazione, e la quale comminava severe
pene a chi vendesse schiavi per farli combattere contro le belve
nel circo e vietava punirli di morte, senza permesso di magistrati,
classificandolo anzi come _crimen publicum_: qui era l’opportunità di
ricordarla di nuovo.

E fu il principio d’un miglior trattamento, finchè Ulpiano ebbe a
consegnare nelle sue opere questa ancor più umana sentenza: _ipsi servo
facta injuria inulta a prætore reliqui non debuit_[99].

Nondimeno, malgrado però che la giurisprudenza riconoscesse in
progresso di tempo che lo schiavo fosse un uomo, in pratica non poteva
togliersi di dosso mai la qualità di schiavo, nè considerarsi eguale
all’uomo libero.

Eranvi molti modi di diventare schiavo. Lo si era per nascita,
quando la madre al momento del parto fosse schiava; lo divenivano i
prigionieri di guerra, come già dissi altrove; i cittadini che non
si prestavano al censimento od alla leva; la persona libera che si
lasciava vendere per frode onde rivendicare in seguito la libertà e
finalmente, pel senato-consulto Claudiano, la donna libera che viveva
in concubinato collo schiavo d’un terzo e rifiutava separarsene
malgrado gli avvertimenti del padrone. I condannati a morte, alle
miniere, alle bestie, al circo, diventavano schiavi della pena, _servi
pœnæ_.

Tutto ciò che acquistava lo schiavo, l’acquistava per il padrone; ma
come già narrai nel capitolo delle _Tabernæ_, essendo la gran parte
della popolazione industriale schiava, i padroni trovavano di loro
convenienza di interessare i loro schiavi nei profitti delle loro
industrie e di lasciar loro la libera disposizione d’un peculio,
il qual valeva ad alimentare il lavoro loro. Se lo schiavo agiva in
suo proprio nome, in caso di frode veniva perseguitato coll’_actio
tributoria_; ma se agiva come mandatario del suo padrone, era obbligato
come qualunque altro mandatario.

Gli schiavi si compravano sul mercato, ivi portati dagli speculatori
e dai pirati e, se provenienti da nazione indipendente, godevano di
miglior favore. Gli schiavi spagnuoli e côrsi costavano poco, perchè
facili al suicidio per sottrarsi alla schiavitù; ma i Frigi lascivi e
le gentili Milesie erano in comparazione carissimi. Fu stabilita in
seguito una tariffa secondo l’età e la professione; sessanta soldi
d’oro per un medico, cinquanta per un notaio, trenta per un eunuco
minore de’ dieci anni, cinquanta se maggiore.

Ho detto più sopra che anche speculatori recavano gli schiavi al
mercato; ne recherò due esempj di reputati uomini: Catone li comperava
gracili ed ignoranti e fatti gagliardi ed abili, li rivendeva; Pomponio
Attico, l’amico di Cicerone, faceva altrettanto, per rivenderli
letterati.

Nella casa gli schiavi compivano tutti gli uffizii dai più elevati
agli umili; _sed tamen servi_, come diceva ne’ paradossi Cicerone,
parlando di quelli che erano applicati a’ più nobili servigi; epperò
ve n’erano varie classi. _Vernæ_ chiamavansi gli schiavi nati nella
casa del padrone; _ascrittitii_ quelli che per lo spazio di 30 anni
stavano in un campo e non potevano vendersi che col fondo; _consuales_
quelli che servivano al Senato; _ordinarii_ quei dell’alta servitù,
e avevan sotto di essi altri schiavi; _vicarii, mediastini_, quelli
che esercitavano opere vili nella casa. Ciascun uffizio dava il nome
allo schiavo: _nomenclator_ era quello che ricordava ed annunziava i
nomi di coloro che giungevano, ed alla cena il nome e i pregi delle
vivande; _ostiarius_ e _janitor_ il portinajo, _atriensis_ quello che
stava a cura dell’atrio ed aveva la sorveglianza degli altri schiavi;
_tricliniarchas_ il servo principale a cui spettava la cura di ordinare
le mense e la stanza da pranzo, _archimagirus_ il maestro de’ cuochi
o sovrintendente alla cucina, _dispensator_ il credenziere, _pronus_
il cantiniere, _viridarius_ e _topiarius_ lo schiavo il cui officio
particolare consisteva nell’occuparsi dell’_opus topiarium_, che
comprendeva la coltura e conservazione delle piante e degli arboscelli,
la decorazione dei pergolati e de’ boschetti, _anagnostæ_ erano i
lettori, _notarii_ o _librarii_ gli schiavi segretari del padrone,
_silentiarius_ quel che manteneva il silenzio e impediva i rumori:
per servigio poi delle dame, la _jatromæa_ era la schiava levatrice;
le _cosmetæ_ e le _psecæ_ le schiave il cui ufficio era attendere
alla toaletta delle signore ed ajutarle a vestirsi ed ornarsi, come
sarebbero le nostre cameriere; _sandaligerulæ_ quelle che portavano
le pantofole delle loro padrone, seguendole quando uscivan di casa;
_vestispicæ_ quelle che curavano e rimendavano gli abiti della
padrona; _vestisplicæ_ quelle che le custodivano, o come diremmo noi,
guardarobiere; _ornatrices_ le schiave che attendevano all’acconciatura
del capo della padrona, _focaria_ la guattera, ecc.

V’erano poi i _pædagogiari_, giovani schiavi scelti per la bellezza
della persona ed allevati nella casa dei grandi signori a’ tempi
dell’impero per servir da compagni e pedissequi dei figliuoli de’ loro
padroni, come anteriormente v’erano i _pædagogi_, che vegliavan alla
cura ed agli studj de’ medesimi, i _flabelliferi_, giovinetti d’ambo i
sessi, che portavano il ventaglio della padrona, i _salutigeruli_ che
recavano i saluti e i complimenti agli amici e famigliari del padrone;
i _nani_ e _nanæ_, pigmei cui si insegnavano musica ed altre arti per
diletto de’ padroni; _fatui, fatuæ_ e _moriones_ erano quelli idioti
deformi che si tenevano per ispasso, i quali

                _acuto capite et auribus longis_
    _Quæ sic moventur, ut solent asellorum_

come li descrisse Marziale[100]; il _coprea_, o giullare per movere a
riso; perfino gli _ermafroditi_, che talora erano artificiali.

Nè son qui tutti, perchè il Gori nella sua _Descriptio columbarii_, il
Pignario _De Servis_ e il Popma, _De servorum operibus_, enunciassero
con particolari nomi almeno ventitre specie di ancelle e più di
trecento di schiavi.

Quale poi gli schiavi ricevessero trattamento, può essere immaginato,
ricordando solo che Antonio e Cleopatra sperimentassero sui loro
schiavi i veleni, che Pollione ne facesse gittare uno alle murene
per avergli rotto un vaso murrino, e che Augusto, che di ciò lo ebbe
a rimproverare, non ristasse tuttavia di farne appiccare uno che gli
aveva mangiata una quaglia. Negli _ergastuli_ poi si accatastavan la
notte schiavi e schiave a rifascio, i più cattivi destinati alla fatica
de’ campi e incatenati, epperò detti _compediti_; e Seneca rammenta i
molti ragazzi schiavi, che dovevano aspettare da’ loro padroni, usciti
alterati dalle orgie, infami oltraggi. Vecchi poi, od impotenti, si
abbandonavano barbaramente a morire d’inedia.

Ho già detto altrove in questa opera il numero strabocchevole di essi;
ma a persuaderci della quantità, giovi il citare quel detto di Seneca
che avrebbesi dovuto paventar gran pericolo se gli schiavi avessero
preso a contare i liberi: _quantum periculi immineret si servi nostri
nos numerare cœpissent_[101]; ed era per avventura ad ovviare un
tale pericolo, che non venne adottato che gli schiavi avessero abito
particolare e distinto dai liberi. Infatti sa già il lettore, per
quanto n’ebbi già a dire, delle diverse insurrezioni di schiavi e delle
guerre servili che diedero grande travaglio ed a moltissimo temere di
propria sicurezza e libertà a Roma.

Ma la condizione miserrima di schiavo poteva in più modi cessare.
La legge rendeva libero lo schiavo che indicava l’assassino del suo
padrone, un rapitore, un monetario falso, od un disertore. Claudio
imperatore dichiarò libero lo schiavo che era stato vecchio ed infermo
abbandonato dal proprio padrone. Così diveniva libera la donna che il
padrone avrebbe voluto prostituire. Anche la prescrizione era un modo
di vindicarsi in libertà. Ma il modo più comune era l’affrancamento,
ed anche questo operavasi in tre guise: _vindicta, censu, testamento_.
La prima era una rivendicazione simulata dello schiavo che il pretore
abbandonava all’_assertor in libertatem_, rinunziando il padrone a
sostenere il suo diritto; le altre due consistevano a dichiarare come
affrancato lo schiavo, quando si compiva l’operazion del censimento, od
a legargli la libertà per testamento. Quattro anni dopo l’era volgare,
la legge _Ælia Sentia_ e quindici anni dopo di questa, la legge _Junia
Norbana_ crearono una mezza libertà per gli schiavi fatti liberti senza
aver esaurite le pratiche legali.

In quanto alla formula dell’affrancamento per _vindicta_, consisteva
nel condurre il padrone avanti il pretore od altro magistrato
competente lo schiavo che voleva affrancare e ponendogli la mano sulla
testa che aveva fatto prima radere, o sovr’altra parte del corpo e
pronunciare le parole sacramentali: «Io voglio che quest’uomo sia
libero e goda dei diritti di cittadinanza romana» e così dicendo lo
faceva girar su di sè stesso come per scioglierlo colle sue mani, e
il magistrato, o per lui il pretore, lo toccava tre o quattro volte
colla bacchetta, _vindicta_, segno del potere, alla testa e con ciò
restava ratificato l’atto del padrone e lo schiavo era libero. Questa
che dicevasi _manumissio_ gli conferiva i diritti di cittadino in modo
irrevocabile, ma aveva vincoli indistruttibili verso il suo antico
padrone. Se questi doveva difenderlo in giustizia e proteggerlo contro
ogni abuso del potere; il liberto doveva personalmente a lui deferenza
ed assistenza, non intentargli azione diffamatoria; venirgli in ajuto
di denaro, e se lo avesse ingiuriato, veniva multato d’esiglio, e di
condanna alle miniere, se avesse contro lui commesso atto di violenza,
e di ricaduta in ischiavitù, se colpevole di atti più gravi.

Finalmente partecipavano alla famiglia i Clienti. Ho già altrove in
quest’opera detto qualcosa di loro istituzione facendola rimontare ai
tempi di Romolo: ma forse a chi considera che la clientela sussisteva
dapprima in Grecia e nel restante d’Italia, parrà che essa fosse una
istituzione ancora più antica. Uopo è peraltro non si confondano i
clienti del primo tempo con quelli dell’epoca di Orazio. Quelli erano
piuttosto una specie di servi attaccati al padrone e quindi associati
alla religione ed al culto della famiglia. Avevano però le stesse
cose sacre del patrono, del quale anzi dividevano il nome, quello
aggiungendo della famiglia di lui. Nascevano per tal modo cotali
relazioni di reciprocanza e doveri, che il patrono non poteva persino
testimoniar in giudizio contro il cliente, mentre non lo fosse conteso
contro il cognato, perchè costui essendo legato da vincoli solo di
donna, non ha parte alla religione della famiglia, giusta il concetto
di Platone che la vera parentela consiste nello adorare gli stessi dei
domestici. Il patrono aveva pertanto l’obbligo di proteggere in tutti i
modi il cliente, colla sua preghiera come sacerdote, colla sua lancia
come guerriero, colla sua legge come giudice, e l’antico comandamento
diceva: se il patrono ha fatto torto al suo cliente, _sacer esto_,
ch’ei muoja.

I clienti del tempo d’Orazio erano invece gente che si legava alla
fortuna del patrono, non propriamente servi, ma persone che speravano
protezione da lui, che gli porgevano offerte e sportule e che ne
assediavano la casa dai primi albori del giorno e gli facevano codazzo
d’onore quando appariva in publico: ma a vero dire, per quel che ne ho
detto più sopra, non c’entravano punto colla vera famiglia.

Abbiamo così passato in rassegna gli individui tutti, ed abbiamo
menzionate le discipline che regolavano la famiglia; abbiamo sentito un
riflesso di quanto era quel calore di vita morale che animava la casa;
or vediamone gli usi e le consuetudini della vita materiale.

Già il lettore conosce come si impiegasse la giornata e la sua
ripartizione generalmente accettata: conosce come il facoltoso e il
patrono avessero i proprj clienti e ricevesseli fin dalle prime ore del
mattino, questo comprendendo gli offici antelucani: sa del tempo degli
affari, di quello del pranzo, della pratica al foro e alla basilica,
del bagno, degli esercizi corporali, della cena e del passeggio, per
quanto ne ho già detto in addietro; resta a completarsi il quadro
domestico, col far assistere il lettore al triclinio, additandogli,
come si costituisse, che cosa vi si mangiasse, cosa il rallegrasse;
col dirgli degli abiti degli uomini e poscia co’ sollevare la cortina
del gineceo, per farlo spettatore della toletta d’una dama pompejana, e
quando dico pompejana, dico anche romana, perocchè si sappia — e l’ho
già più volte ripetuto — che uomini e donne delle provincia e delle
colonie si fossero perfettamente conformati ai costumi ed abitudini
dell’urbe, della città, cioè, per eccellenza, Roma.

Vi sarebbe tutto un trattato a comporre per dire convenientemente dei
pasti e banchetti de’ Romani, sì publici che privati, e infatti la
nostra letteratura vanta fra i testi di lingua le lezioni di Giuseppe
Averani _Del vitto e delle cene degli antichi_[102], delle quali mi
varrò alquanto pur io in queste pagine, e malgrado la molta erudizione
di lui e il sapere, non fu tutto da lui scritto nell’argomento. Io
vedrò modo di riassumere in breve quello che meglio importi di sapere.

Anzi tutto non posso passarla dallo accennare come il pasto si
ritenesse l’atto religioso per eccellenza. Opinione eguale o di
poco difforme è quella di parecchi padri della Chiesa Cristiana,
che dissero che mangiare è pregare e che pur il soddisfare a queste
necessarie pratiche abbiasi a fare alla maggior gloria di Dio. Era
inteso che a’ domestici prandj intervenisse sempre il genio tutelare
della casa, i lari o penati che si voglian dire. Era il focolare che
aveva cotto il pane e preparati gli alimenti; così a lui si doveva una
preghiera tanto al principio che alla fine del pasto. Prima di esso si
deponevano sull’altare le primizie del cibo, prima di bere si spargeva
la libazione del vino. Era la parte dovuta al dio. Erano antichissimi
riti: Orazio, Ovidio, Petronio cenavano ancora davanti al loro focolare
e facevano la libazione e la preghiera[103].

Come in tutti i popoli primitivi, anche i primi Romani eran sobrii
e frugali, paghi della sola polenta, ciò che in seguito si tenne per
indizio di barbarie:

    _Non enim hæc pultiphagus opifex opera fecit barbarus_[104]

e dopo, la questione del mangiare venne poco a poco così crescendo, da
costituire una preoccupazione continua della loro esistenza, ed anzi
da considerare i varii pasti come altrettanti atti di pietà. È inutile
osservare come in questo punto di religione fossero esatti e scrupolosi
osservatori. Ebbero quindi il pasto del benvenuto pel viaggiatore che
arrivava; quello d’addio pel viaggiatore che partiva; banchetto di
condoglianza nove giorni dopo i funerali, banchetto dopo i sacrificj,
banchetto anniversario della nascita, banchetto d’amici, di famiglia,
di cortigiani, insomma banchetti per tutte le occasioni. Persino la
gioventù, la procace gioventù romana, tanto dedita alle lascivie, al
dir di Orazio, era tuttavia ancor più ghiottona:

                        _Donandi parca juventus_
    _Nec tantum Veneris, quantum studiosa culinæ_[105].

Tanto, in una parola, si trasmodò, che si dovette dal governo imporre
de’ freni alla gola. Già ho detto più sopra che fosse obbligatorio il
cenare a porte aperte sotto gli occhi di tutti; poi le leggi Orchia,
Fannia e Didia e Licinia, Anzia e Giulia prescrissero il numero di
convitati e la spesa dei banchetti privati, e il genere delle vivande,
esclusa l’uccellagione. Tiberio allargò meglio la mano e lasciò che
le spese fossero alquanto maggiori; ma con tutti questi freni, ognun
sa quanto lusso e quanta spesa si facesse da’ facoltosi romani. Basti
per tutti rammentare L. Lucullo. Egli aveva diversi cenacoli, e ognuno
di essi importava una determinata spesa quando vi si doveva cenare.
Quando ciò seguiva e. g. nella sala d’Apollo, era prefisso che la cena
costar dovesse trentaduemila lire della moneta di oggi. Che si dirà poi
de’ pazzi imperatori che, morta la republica, ressero le sorti romane?
Caligola in una cena gittò un milione e cinquecentosessantaduemila
lire delle nostre, il tributo cioè di tre provincie; Nerone e Vitellio
intimavano cene a’ loro cortigiani che costavano circa settecentomila
lire, e quel più pazzo imperatore che fu Eliogabalo non ispendeva meno
di lire sedici mila nella cena di ciascun giorno.

L’asciolvere chiamavanlo essi _jentaculum_ e facevanlo al mattino;
il pranzo, _prandium_, che sarebbe piuttosto la nostra seconda
colazione, seguiva all’ora sesta del giorno, cioè sul meriggio; per
taluni ghiottoni e per gli operai eravi più tardi la _merenda_, specie
di colazione che di poco precedeva la _cœna_, che era il pasto più
abbondante della giornata, il nostro pranzo odierno, verso l’ora nona
o la decima, cioè tra le tre e le quattro pomeridiane; ciò che non
toglieva che molti vi facessero succedere anche la _commissatio_,
colazione notturna, quella che noi chiamiamo la cena.

Poichè siam sull’argomento del mangiare, credo dir qualcosa dapprima
de’ conviti publici de’ Romani, quantunque, a vero dire, non si
contenga ciò nell’argomento delle case, di cui principalmente
trattiamo.

Si facevano essi da’ sacerdoti, da’ magistrati e poi si fecero talvolta
dagli imperatori.

I primi si chiamavano _adiciali_, perchè s’aggiungevano a’ banchetti
consueti molte vivande e avvenivano allora che i sacerdoti imprendevano
l’ufficio. Le più sontuose eran quelle de’ Pontefici, come è detto in
Orazio:

    _Absumet heres cœcuba dignior_
    _Servata centum clavibus, et mero_
    _Tinget pavimentum superbo_
    _Pontificum potiore cœnis_[106].

Nè minori eran quelle de’ Salii, testimonio lo stesso Orazio:

           . . . _nunc Saliaribus_
    _Ornare pulvinar Deorum_
    _Tempus erat dapibus, sodales_[107].

Imbandivano le cene i magistrati al popolo quando conseguivan la
carica, come ho già fatto conoscere ne’ capitoli del teatro, e
come nota Cicerone nella quarta Tusculana in quelle parole: _Deorum
pulvinaribus, et epulis magistratuum fides præcinunt_[108]. Averani
ricorda che Marco Crasso sublimato al consolato, sacrificando ad
Ercole, apparecchiasse diecimila tavole, onde i convitati non dovessero
essere meno di cencinquantamila.

Più superbi e costosi erano i banchetti offerti al popolo da’
trionfanti. Prima però si convitavano i soli amici, come nel libro
_Delle Guerre Cartaginesi_ scrisse Appiano, parlando di Scipione,
che arrivato in Campidoglio, terminò la pompa del trionfo, ed egli,
secondo il costume, banchettò quivi gli amici nel tempio. Lucio Lucullo
distribuì al popolo oltre a diecimila barili di vino greco, allora
in gran pregio, che si beveva parcamente, e ne’ più lauti conviti una
volta sola. Giulio Cesare, che menò cinque magnificentissimi trionfi,
banchettò sempre il popolo, e in quelli che furono dopo il ritorno
d’Oriente e di Spagna imbandì ventidue mila tavole o triclini, come
riferisce Plutarco, con isquisite vivande e preziosi vini, sedendovi,
cioè, non meno di trecentotrentamila persone. Plinio, in aggiunta di
questo trionfo e di quello di Spagna e nel terzo consolato afferma che
_Cæsar dictator triumphi sui cœna, vini Falerni amphoras, Chii cados
in convivia distribuit. Idem Hispaniensi triumpho Chium, et Falernum
dedit. Epulo vero in tertio consulatu suo Falernum, Chium, Lesbium,
Mamertinum_[109].

Svetonio poi ricorda di lui che banchettasse il popolo anche in
onoranza della morte della propria figliuola.

In quanto agli imperatori, si sa di Tiberio che mandando a Roma
gli ornamenti trionfali, banchettò il popolo, e Livia e Giulia
banchettarono le donne: si sa degli altri che convitavano i senatori,
cavalieri e magistrati nella loro esaltazione, come Caligola e
Domiziano, secondo cantò Stazio:

    _Hic cum Romuleos proceres, trabeataque Cæsar_
    _Agmina mille simul jussit discumbere mensis_[110].

V’erano anche, oltre i surriferiti, de’ banchetti di cerimonia, detti
_epulæ_, ma erano, a vero dire, banchetti sacri, dati in onore di numi
in certe feste religiose. Dicevansi _triumviri æpulones_ i sacerdoti
incaricati di tali banchetti. Silla e Cesare istituirono poi, il
primo de’ settemviri, il secondo dei decemviri, onde ammanire siffatti
banchetti sul Campidoglio in onore di Giove. _Dapes_ appellavansi più
propriamente gli alimenti che durante la festa s’offrivano agli dei.

Veniamo ora alle cene private.

_Triclinium_ chiamavasi, come già sa il lettore, la sala da pranzo,
e le mense costituivansi di tre letti, _lecti tricliniares_, riuniti
insieme in guisa da formare tre lati di un quadrato, lasciando uno
spazio vuoto nel mezzo per la tavola e il quarto lato aperto, perchè
potessero passare i servi a porre su quella i vassoi. V’erano anche
i biclinii o lettucci da adagiarvisi due persone a’ lor desinari, e
Plauto menziona il _biclinium_ nella commedia _Bacchides_, atto IV, sc.
3, vv. 84-117.

Diverse stanze tricliniari si scoprirono, come vedemmo, in Pompei,
quasi tutte piccole ed offriron la particolarità che, invece di letti
mobili, avessero stabili basamenti per adagiarvisi i convitati.

Questi triclinii ammettevano raramente molte persone: sette il più
spesso, nove talvolta; onde il vecchio proverbio _Septem convivæ,
convivium; novem, convicium_; ossia: sette, banchetto; nove, baccano.

Ecco, ad esempio, la forma del _triclinium_, o tavola, e la
distribuzione del banchetto di Nasidieno, secondo la descrizione che ne
è fatta nella satira VIII del libro II d’Orazio:

  --------------                                   -------------
  |     2      |                                   |     3     |
  | V. Turinio |                                   |  Porcio   |
  |------------|                                   |-----------|
  |     1      |                                   |     2     |
  |  Fundanio  |                                   | Nasidieno |
  |------------|                                   |-----------|
  |     3      |                                   |     1     |
  |   Vario    |                                   | Nomentano |
  --------------------------------------------------------------
     _Lec.     |       3      |    1     |    2    |  _Lectus
     summus_   | S. Batatrone | Mecenate | Vibidio |    imus_
               -------------------------------------
                         _Medius Lectus._

Da ciò si vede, come non sedessero, ma giacessero a tavola, e per
istare alquanto sollevati si appoggiavano col gomito sinistro al
guanciale. Solo le donne stavano prima assise, ma poi imitarono presto
gli uomini: i figli e le figlie pigliavano posto a piè del letto; ma
sino all’epoca in cui ricevevano la toga virile restavano assisi.

Queste mense erano spesso di preziosa materia e di ingente lavoro. Così
le descrive Filone nel _Trattato della vita contemplativa_, citato
dall’Averani: «Hanno i letti di tartaruga o di avorio, o d’altra più
preziosa materia, ingemmati per lo più, coperti con ricchi cuscini
broccati d’oro e mescolati di porpora o tramezzati con altri vaghi e
diversi colori per allettamento dell’occhio.» — Che ve ne fossero anche
d’oro lo attesta Marziale nel libro III de’ suoi _Epigrammi_, epigr.
31:

    _Sustentatque tuas aurea mensa dapes_[111].

Eguale era la ricchezza nelle altre suppellettili e nei vasi: usavano
bicchieri e coppe di cristallo egizii e di murra, — che molti dotti
e gravi scrittori reputano possa essere stata la porcellana, ciò
potendosi confermare coi versi di Properzio:

    _Seu quæ palmiferæ mittunt venalia Thebæ_
    _Murrheaque in Parthis pocula cocta focis_[112], —

tazze d’argento e d’oro, cesellate o sculte mirabilmente e tempestate
di gioje e il vasellame tutto di non dissimil lavoro.

Nè bastavano queste preziosità, perocchè si giungesse anche a disporre
le soffitte de’ triclini in modo che si rivolgessero e rinnovassero,
come si adoprerebbe da noi degli scenari in teatro, e l’una appresso
all’altra si succedesse ad ogni mutar di vivanda. Ce lo dice
Seneca: _Versatilia cœnationum laquearia ita coagmentat, ut subinde
alia facies, atque alia succedat et toties tecta quoties fercula
mutentur_[113]. Come reggessero a tutte queste infinite portate,
ciascuna ricca di molte vivande, lo spiega l’invereconda costumanza,
pur menzionata da Cicerone ad Attico, di provocarsi con una piuma il
vomito.

Poichè sono a dire de’ _Fercula_, o portate, uopo è sapere fossero
essi come barelle piene di piatti di diverse vivande. Petronio, nel
_Satyricon_, alla cena di Trimalcione, ne descrive una che conteneva
dodici statue, da’ nostri scalchi addimandate trionfi, ciascuna delle
quali portava varii piatti. Ma Eliogabalo, scrive Averani, siccome uomo
per golosità e prodigalità sovr’ogn’altro mostruoso, in un convito mutò
ventidue volte la mensa di vivande: e vuolsi osservare che ciascheduna
muta di vivande era per poco una splendida cena; e però ogni volta
si lavavano, come se fosse terminata la cena. Questi ventidue serviti
rispondevano alle lettere dell’alfabeto, venendo in tavola prima tutte
le vivande, delle quali i nomi cominciano per _A_, e poscia quelle i
cui nomi principiano per _B_ e simigliantemente le susseguenti fino
a ventidue. Si legge una simile bizzarria nelle cene di Geta; e pare
che Giovenale per avventura accennasse che l’usassero i golosi del suo
tempo, scrivendo nella satira undecima:

    _Interea gustus elementa per omnia quærunt_
    _Numquam Animo pretiis obstantibus_[114].

Tornando alle soffitte, Nerone immaginò di far iscendere dalle medesime
una pioggia d’unguento e di fiori, per diletto de’ convitati. Svetonio
lo ricorda nella vita di questo Cesare, e il costume fu adottato, e
come nei teatri, pioggia di croco e d’altre profumate essenze tolsero
alle nari de’ voluttuosi conviva i graveolenti odori dei diversi cibi.

Per mettersi a tavola non si tenevano tampoco gli abiti ordinarj:
ognuno vestiva una toga leggiera, detta _synthesis_, o _cœnatoria_,
che veniva fornita o dal padrone di casa, o che il convitato si
faceva recare dal proprio schiavo. I bassorilievi e i dipinti di
banchetti, che si trovarono o giunsero sino a noi, spiegano com’essa
lasciasse o la parte superiore del corpo nuda, o più abitualmente non
avesse cintura, talvolta avesse e talvolta non avesse maniche. Ne’
pasti dimettevansi persino gli abiti di lutto, acciò la mestizia non
producesse indigestione. Si levavano i calzari, _calcei_, per mettere
dei sandali, _soleæ_, che poi si abbandonavano, a miglior pulitezza
de’ preziosi tappeti, atteso che nel cavare i calzari, che Petronio
dice alessandrini, giovani schiavi versassero sì alle mani che ai
piedi acqua fresca ed anche gelata, sovente profumata. E profumi,
come essenze di nardo e di croco, spargevansi su’ capegli, che poi
incoronavan di rose, fiori ed erbe odorose che serbavano durante tutta
la cena. Anche il pavimento era tutto sparso di fiori e credevasi
che questi fossero altrettanti preservativi contro l’ebrietà. Dopo
spiegavansi le tovaglie, _mantilia_, portavasi i tovagliolini, _mappæ_,
che troviam ricordati da Marziale nel seguente epigramma:

    _Attulerat mappam nemo, dum furta timentur:_
    _Mantile e mensa surripit Hermogenes_[115].

Le tovaglie erano talvolta bianche come le nostre, molti nondimeno le
avevano di porpora o di broccato d’oro.

Fatti questi preparativi, ne’ banchetti più solenni, costumavasi
eleggere il re del festino: si portavano i dadi od astragali, _tali_,
e si gettavano le sorti per la scelta. Non avevano i dadi che quattro
faccie piane; 1 e 6 su due faccie opposte; 3 e 4 sulle due altre; 2 e
3 non erano segnati; ma quattro tali si gettavano insieme. Il miglior
tiro, chiamato _venus_, avveniva quando ciascuna faccia presentava un
numero differente, come, 1, 3, 4, 6 e chi l’otteneva veniva dichiarato
re. Era il tiro peggiore detto _canis_, quando tutti e quattro i numeri
riuscivano gli stessi. _Fritillus_ dicevasi il bossolo, entro cui
agitavansi gli astragali e da cui si gittavano sulla tavola.

Eletto il re, tutti gli altri convitati dovevano, sotto pena d’ammenda,
eseguire gli ordini suoi. Egli fisserà il numero delle coppe che si
dovranno bevere, comanderà ad uno di cantare, all’altro, se poeta,
di improvvisar versi, designerà la persona, in onor della quale si
dovrà brindare. Se taluno infrangeva gli ordini, veniva dal re multato
nel bere un nappo di più e dicevasi _cuppa potare magistra_. Non si
confonda il re del convito col _Tricliniarcha_, che era quegli che
aveva su tutti gli altri servi addetti al banchetto la maggioranza e
l’amministrazione della mensa.

La cena regolare, _cœna recta_, componevasi, oltre del pane che
portavansi ne’ canestri, come c’insegna Virgilio

                   . . . . _Cereremque, canistris_
    _Expediunt, tonsisque ferunt mantilia villis_[116],
il più spesso di tre serviti, talvolta fin di sei. Valeva il primo a
solleticar l’appetito e cominciavasi per consueto colle ova, onde venne
l’espressione d’Orazio _cantare ab ovo usque ad mala_, cantar dalle ova
alle frutta, e la attuale nostra _cominciare ab ovo_, per significare
che si pigliavan le mosse del dire dal principio più lontano; ma poi si
capovolse e le ova si recarono in fine. Poi seguivan lattuche, fichi,
olive, radici, ortaggi e salse acri e stimolanti la fame, secondo
avverte Orazio:

                                 _Acria circum_
    _Rapula, lactucæ, radices, qualia lassum_
    _Pervellunt stomachum, siser, alec, fæcula coa_[117].

Cicerone conta in questo primo servito, ch’ei chiama _promulsidem_, dal
vin melato, _mulsum_, che si beveva, Petronio _gustationem_, Apuleio
_antecœnia_, Varrone _principia convivii_ e Marziale _gustum_, come
noi appelleremmo antipasto e i francesi _hors-d’œuvre_; conta, dicevo,
anche la salsiccia, nell’_epistola_ 16 del libro IX: I[118].

Il secondo servito, o anche _secunda mensa_, costituiva il pasto
sodo, e componevasi d’arrosti di vitella, di lepre, di oche, tordi,
pesci, gigotti e cosiffatte leccornie, delle quali parla distesamente
Ateneo nel libro XIV delle _Cene dei Savi_. E contavansi in esse le
pasticcerie, i latticinj, e mille cose dolci, che comprendevano sotto
il nome di _bellaria_. Non essendo ancor conosciuta la manipolazione
dello zuccaro, sebbene se ne avesse notizia come esistente presso gli
Indiani, servivansi in quella vece del miele, che sapevano impiegare
maravigliosamente[119]. — Noto qui che se aveansi coltelli e cucchiai,
non consta che conoscessero la forchetta; onde avendo a prender tutto
colle mani, Ovidio raccomanda agli amanti, che il faccian con grazia
affine di non lordarsi il viso.

Qui potrebbesi tutto distendere un trattato di gastronomia romana e
pompejana, ricordando i piatti più succulenti e peregrini di carni,
di selvaggina e di pesci, rammentando gli eroi della cucina, gli
Apicii[120], (i Carême e i Vatel di allora), onde anzi fu detta l’arte
culinaria arte d’Apicio, da quello principalmente vissuto sotto Augusto
e Tiberio, che consumò per la gola un ingente patrimonio, e giunto alle
ultime duecentocinquantamila lire, preferì uccidersi di veleno, anzi
che non potervi più soddisfare e lasciando dietro di sè un partito
fra i cuochi; ma cadrei troppo in lunghezze. Oltre di che già sa il
lettore dei cinghiali che Antonio faceva ad ogni ora cucinare per
averne uno pronto ad ogni istante; sa del garo pompejano, di cui già
gli tenni parola; delle murene che si ingrassavano ne’ vivai ed alle
quali Pollione gittò uno schiavo; e persino della grossa perla che il
figliuol del comico Esopo, strappata dall’orecchio della sua amica
Metella e stemprata nell’aceto, e che Orazio tramandò ricordata a’
posteri ne’ versi che piacemi rammentare:

    _Filius Æsopi detractam ex aure Metelli_
    _(Scilicet ut decies solidum exsorberet), aceto_
    _Diluit insignem baccam_[121].
Gusto del resto pur diviso da Cleopatra e da Caligola, di cui narra
Svetonio: _Pretiosissimas margaritas aceto liquefactas serbabat_[122].

Egualmente dovrei dire de’ vini; ma già il lettore non ha dimenticato
che ne’ capitoli della Storia io l’avessi ad erudire dei tanti
e celebrati vini che produceva la Magna Grecia, del Falerno, del
Sorrentino, del Massico, del Celene, del Cecubo, del Pompejano, che
bevean in coppe coronate di fiori, sicchè allora aveva ragione di
chiamarsi questa nostra Italia _Ænotria_, quasi regione dei vini;
ma non pareva bastassero alla gola di que’ ghiottoni che furono i
Romani, se ne tirassero da Grecia, se dalla Rezia che comprendeva i
vini del Benaco e bresciani, i quali oggidì, se meglio conosciuti,
rivaleggerebbero co’ meglio rinomati di Germania e di Francia, dalla
Spagna, dalle Baleari, dalla Linguadoca e dalle Gallie, e tutti
ambissero di vecchia data, sì che si contassero per consolati e ne
tracannassero all’ubbriachezza uomini e donne, come lasciò Seneca
scritto: _Non minus potant et oleo et mero vires provocant, atque
invitis ingesta visceribus per os reddunt et vinum omne vomita
remediuntur_[123]. Nè priverò di commemorazione a questo punto quel
mio concittadino Novellio Torquato milanese[124], ricordato da Plinio,
ammesso a que’ tempi in Roma a’ primi onori della città, il quale
fu cognominato Tricongio[125], dal bere che faceva tre cogni di vino
tutto d’un fiato, senza nè riposarsi, nè respirare, nè lasciarne pur
una gocciola nel boccale da gittare in terra per far quel rumore che
addimandavano _cottabo_.

E a tutte queste sontuose mense private servivano molti schiavi, al
cenno del tricliniarca.

Prima era il _coquus_, che nella cucina confezionava le vivande e il
cui valore, al dir di Plinio, fu tempo che s’agguagliò alla spesa d’un
trionfo; poi il _lectisterniator_, che sprimacciava i letti su cui
giacevano i commensali; il _nomenclator_ che annunziava le vivande
e i loro pregi, il _prægustator_, cui era commesso di gustare i
piatti a tavola, onde conoscere se fatti a dovere ed a tutela che non
ascondessero veleno, lo _structor_ che disponeva le vivande su’ vassoi
nei diversi serviti e collocavali sul portavivande, che Petronio chiama
_repositorium_, e fungeva altresì da scalco, lo _scissor_ che trinciava
le vivande, il _carptor_ che le tagliava in parti; il _pincerna_ o
coppiere che mesceva a’ convitati il vino ed erano per lo più eletti
a tale ufficio i meglio avvenenti e lindi giovinetti schiavi, e il
_vocillator_ che compiva suppergiù la stessa cosa.

I banchetti poi rallegravansi con musicali istrumenti, come alla cena,
già ricordata, di Trimalcione descritta nel _Satyricon_; con danze
di leggiadre e lascive fanciulle, _saltatrices_, celebri in questo le
ballerine _gaditane_, ossia venute da Cadice, come le più avvenenti e
procaci. Donne simili veggonsi rappresentate nelle pitture pompejane, e
per lo più apparivano vestite d’un ampio e trasparente pezzo di drappo,
che sapevano avvolgere talora attorno alla persona in pieghe graziose,
talora lasciavano spandersi a modo d’un velo su parte del corpo, e tal
altra affatto rimovendo dalle membra e facendo svolazzare per aria così
da mostrarle tutte all’occhio degli spettatori. Costume codesto pur in
Grecia vigente allora ed esercitato dalle auletridi, o suonatrici di
flauto, che pria durante il banchetto facevano intendere i suoni delle
loro tibie e quindi, allorchè le vivande e i vini avevano mandati i
fumi alla testa e convertito in orgia il banchetto, si mescolavano a’
lubrici conviva.

Quando poi, per dirla col Parini,

    Vigor dalla libidine
    La crudeltà raccolse,

si spinse il pervertimento fino a darsi a mensa spettacolo di lotte
gladiatorie, non ischifando avanti il pericolo che il sangue avesse
zampillato fin sulla sintesi e sul _mantile_ o sovra il piatto
medesimo.

A tutte queste distrazioni che allietavano le mense, Plinio il Vecchio,
secondo ne scrisse il nipote nelle sue Epistole, sappiamo com’egli
preferisse udir buone letture d’alcun autore greco o latino. Ma
pochi erano allora del gusto e dell’onestà dell’insubre magistrato e
letterato.

Finita la cena, se ne dividevano gli avanzi dell’ultimo servito fra i
convitati; ciascuno era libero d’inviar quanto gli fosse piaciuto a’
parenti od agli amici. Qualche parasita, che fornì materia alle arguzie
di Marziale, li serbava per goderseli l’indomani.

V’erano poi di quelli che non avevan portato seco il tovagliolo alla
cena, e che poi si intascavano quello che aveva loro fornito il padrone
di casa: e il medesimo Marziale li ha personificati in Ermogene,
quello stesso che già ricordai, il quale non avendo potuto involare i
tovaglioli, perchè nel timore di vederseli rubati, nessuno gli aveva
portati, pur d’esercitare l’industria sua, aveva pensato di rubar la
tovaglia:

    _Ad cœnam Hermogenes mappam non attulit umquam_
    _A cœna semper retulit Hermogenes_[126].

Ciò fatto, si recavano dagli schiavi i calzari, si accendevano
le torcie per rischiarare i convitati che toglievan congedo
dall’anfitrione e, quand’erano in senno, salutavansi fra loro
augurandosi la salute del corpo e dello spirito.

Sovente erano alla porta attesi da’ loro schiavi con le lanterne di
Cartagine, non tanto per illuminare le tenebre, giacchè allora per le
vie non fosse illuminazione, o per proteggerli dai ladri, quanto per
respingere gli attacchi de’ giovinastri, perocchè a que’ tempi anche
figli di buone famiglie si recassero a piacere di assalire i viandanti
in ritardo, di applicar loro una buona bastonatura, o far loro qualche
cattivo scherzo, come nel primo quarto del nostro secolo vedemmo
praticarsi egualmente in Milano dalla _Compagnia della Teppa_. Si sa
che Nerone imperatore aveva pure di simili gusti, e si camuffava perfin
da schiavo, affine d’abbandonarvisi le notti, e di brutti pericoli egli
corse per ciò, e la sua vita stessa fu posta a repentaglio più d’una
volta.

Rivelati i misteri della mensa antica, cerchiamo adesso di indagare
quelli della toaletta, nè forse riusciranno meno interessanti. Dovendo
ricordare anche le vesti femminili, farò pur un cenno di poi delle
maschili e di quelle particolari agli schiavi e così imporrò fine a
questo capitolo, nel quale la sovrabbondante materia mi affaticò a
contenermi nei limiti proporzionati dell’opera.

Ho già superiormente accennate le diverse schiave od ancelle addette al
servizio delle matrone: ora veggiamole in movimento intorno a queste.
— Sono tutte silenziose e nude fino alla cintura ad attendere il
cenno della padrona che si risvegli sul suo letto d’avorio incrostato
d’oro e di gemme nel _cubiculo_ vicino. Si risveglia finalmente, e,
vinta l’inerzia lasciatale dal sonno, facendo crepitare le dita, le
chiama, e senza far rumore entrano le più favorite _cubiculari_ e
l’aiutano a scendere dalle sofici piume. La sua faccia è ancora tutta
impiastricciata della mollica di pane inzuppata nel latte di giumenta,
che nel coricarsi si è applicata onde serbar morbida e liscia la pelle,
suppergiù come le moderne signore, pel medesimo scopo, si ungono
della inglese pomata, il _cold cream_. Gli adoratori del giorno non
la ravviserebbero in quel punto. Oltre quella maschera screpolata di
disseccata mollica, invano le cerchereste il volume di sua superba
capellatura, nè le ben arcuate sopracciglia, nè le perle della bocca.
A ricostruire la sua bellezza, ella entra nel gabinetto attiguo.
Una schiava ne custodisce l’ingresso, perocchè occhio profano non
debba sorprendere i misteri della sua artifiziata toaletta, giusta il
precetto d’Ovidio, erudito maestro nell’arte d’amare:

    _Hinc quoque præsidium læsæ petitote figuræ:_
      _Non est pro vestris ars mea rebus iners._
    _Non tamen expositas mensa deprendat amator_
      _Pyxidas: ars faciem dissimulata juvet._
    _Quem non offendat toto fex illita vultu_
      _Cum fluit in tepidos pondere lapsa sinus?_[127]
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    _Multa viros nescire decet; pars maxima rerum_
      _Offendat, si non interiora tegas_[128].

Anzi, aggiunge il Poeta:

    _Tu quoque dum coleris, nos te dormire putemus_[129].

E le cosmete si pongono all’opera. Con tepido latte di giumenta appena
emunto l’una rammollisce le arse molliche della faccia e la lava;
l’altra mastica le pastiglie greche che debbonsi applicare, dopo
avere sullo specchio di metallo fiatato e provato aver ella sano e
profumato l’alito; una terza l’imbelletta col rossetto, _fucus_; una
quarta, sciolto in una conchiglia il nero, le tinge le sopracciglia;
poi v’ha chi pulisce col _dentifricium_ i denti e colloca i posticci
nelle gengive, assicurandoli con un filo d’oro. Il medesimo Ovidio
dell’artificio del liscio ne dettò un poema: _De Medicamine faciei_,
che non ci giunse per altro completo.

Succedono alle cosmete le parrucchiere, _Calamistræ_, ajutate dai
_ciniflones_, dai _cinerarii_ e dalle _psecas_[130]. L’opera loro è
tutto un faticoso lavorio. Scelgono esse il colore ai capelli che
richiede la moda, e però usavan del _sapo_, pallottole di sego e
semi di faggio, per colorirli di un color bruno chiaro; o si facevano
giungere capellature sicambre, quando il color favorito era il rosso e
vi spendevano di grosse somme; oppur si tingevano a celare la canizie.
È sempre lo stesso Ovidio che di tutto ciò ne ammonisce:

    _Femina canitiem Germanis inficit herbis;_
      _Et melior vero queritur arte color._
    _Femina proceda densissima crinibus emptis;_
      _Proque suis alios efficit ære suos_[131].

Talvolta disponevano i capelli a ricevere la tintura, lavandoli con
acqua di calce, estirpando prima i canuti colla _volsella_, che noi
diremmo pinzetta. Pettinati, poscia calamistrati, unti e profumati, il
pettine o quello più precisamente detto il _discerniculum_[132] e la
mano industre acconciano in mille fantasie le chiome ed i ricci, spesso
raccolti in reticelle o nastri di seta o di porpora. Vi raffigurano
elmi, _galeri_, grappoli od eriche, _corymbia_, mitre orientali; vi
infiggono spilloni aurei ed effigiati, _acus domatorio_, e topazj
e rubini e ametiste e perle e, dopo tutto, la dama si specchia nel
lucidissimo disco d’argento. Pompei offrì esempi di siffatti specchi
d’argento; uno si rinvenne di forma circolare il più usuale, con
un manico per reggerlo quando si adoperava; altro di forma oblunga
rettangolare, che doveva esser tenuto davanti alla padrona da uno
schiavo, mentre altri aggiustavano la toaletta. Mantenevasi lucente la
superficie dello specchio con una spugna, per consueto attaccata al
telajo dello specchio stesso con una corta cordicella e con polvere
di pomice. Guai alla schiava se le treccie non saranno state ben
rannodate! guai se non ben foggiato il _galerus_, se alcun capello
sfuggirà indisciplinato, se verrà usata lentezza! perocchè la crudele
elegante le punzecchierebbe il seno o le braccia a colpi di spillone,
o la schiaffeggerebbe, quando pure non la rimetterebbe al lorario, che
sospesa la sventurata penzolone pe’ capelli, la flagellerebbe finchè
non piacesse alla padrona di cessare.

Quindi è alle ugne che dona le sue cure e insomma ogni istrumento è
adoprato a diversi altri ufficj, non escluse le essenze, gli olj, i
diapasmi o polveri fine di fiori odorosissimi istropicciati sul corpo,
respingendo l’_epilimna_, perchè unguento della qualità più comune.

Visitando la casa delle Vestali in Pompei, in una camera della terza
corte, si trovò una quantità di questi oggetti di toaletta femminile,
che i Romani compendiavano col nome di _mundus muliebris_: uno dei
suddetti specchi di metallo, decorato nel rovescio d’arabeschi, dei
fermagli d’oro di forma rotonda, degli spilloni d’avorio per i capelli,
un pettine, una cassettina di manteche, vasetti di vetro che contenevan
belletto, boccette d’acqua d’odore, braccialetti d’avorio, orecchini,
_dentiscalpia_ o stuzzicadenti, monili, forbici, ecc., ecc.

Da ultimo entrano i paggi numidi che recano l’uno un vassoio d’argento
con latte per lavarsi le dita che la dama asciuga ne’ capelli ricciuti
di lui, gli altri i cibi dello _jentaculum_, o colazione, e il vin
di Cipro, o retico; e, mentre ella asciolve, si intrattiene o col
filosofo di casa, o col mercante, o coll’unguentario che ha trovato
nuove pomate, o colla sua segreta _veneria_, la schiava che presiede
ai piaceri de’ suoi amori, ed alla quale dischiude le confidenze de’
suoi adoratori, chiedendo se costoro abbian mandato nella mattina i
_salutigeruli_, o tal altro messaggio per lei.

Una breve parola adesso di queste _veneriæ_, perocchè in Pompei più
d’una iscrizione vi faccia cenno. E basti per tutte citare quella
di una Tiche, che fu venerea di Giulia, figlia di Augusto, e allora
nel vederne consacrata la memoria fra tombe cospicue, si è indotti a
conchiudere che la qualità di tali femmine o schiave non dovesse essere
ignobile e turpe, come dovrebbe parere a prima giunta. I costumi del
tempo portavano che le schiave favorite, o liberte, fossero destinate
a tale officio di osceno lenocinio. I lessici non recano, e neppur
quello del Forcellini, spiegazione di sorta di tal nome applicato
a schiava avente incarichi quali ho mentovati; ma, come dissi, ciò
avrebbero rivelato gli scavi pompejani. Notarono per altro i lessici
il _venereum_ come luogo addetto a’ bagni e destinato per avventura
alle amorose voluttà, e si riferirono all’iscrizione da me riportata
nel dire dell’annunzio d’appigionarsi nei predii di Giulia Felice,
dove, fra gli altri molti locali, presso al _balneum_, si ricorda
il _venereum_. E le _venereæ_ erano esse particolarmente addette al
servizio di codesti _venerei_? Nulla di più probabile. Veggasi più
avanti il Capitolo delle Tombe, dove è ricordata quella di Tiche
venerea di Giulia, la figlia di Augusto.

La volta è venuta delle _sandaligerulæ_, delle _vestisplicæ_, e delle
_ornatrices_, le funzioni delle quali ho già al lettore spiegato.
Vediamo adesso i diversi abiti ed abbigliamenti ond’erano chiamate a
vestire ed adornare la loro padrona.

La _tunica_ era per le donne il primo e più indispensabile de’
vestimenti di sotto, e la portavano sempre ed anche in casa. Fu
dapprima di lana, ma dopo le frequenti relazioni coll’Egitto, si mutò
in lino. Gli abiti di seta e i fini e trasparenti tessuti di Cos,
che Petronio chiamò nel suo _Satyricon_ vento tessile, divennero un
oggetto di lusso e di civetteria. Tunica _interior_, chiamata eziandio
_intima_, era quella che vestivasi sotto un’altra tunica, portandosene
fin quattro dalle persone dilicate. Dicevasi anche _intusiasta_ una
specie di camicia o veste che portavano in casa.

La _stola_, ho detto altrove come fosse una lunga veste bianca, che si
portava sopra la _tunica_, e si attaccava sulla spalla a mezzo di un
fermaglio: discendeva fino a terra coprendo ben anche i piedi, ed aveva
fimbrie d’oro e di porpora. Ho già riferito i versi di Ovidio, che così
la ricordano:

    _Scripsimus hæc istis, quarum nec vitta pudicos_
    _Contingit crines, nec stola longa pedes_[133].

Nell’altro poema _De Arte amandi_, vi accenna in questo distico del
pari:

    _Este procul villa tenues, insigne pudoris;_
    _Quæque tegit medios, instita longa pedes_[134].

La _calthula_ era un piccolo mantello d’una stofa color della _caltha_,
la _calendula officinalis_ di Linneo, fiore di color giallo.

Il _cerinum_ era un abito di stofa pur gialla.

La _crocota_ era la veste di gala del colore del zafferano, imitata
dalle greche, che la portavano alle feste Dionisiache. Dicevasi anche
in diminutivo _crocotula_.

La _cymatilis_, abito del color dell’acqua marina e di stofa marezzata,
come potrebbe essere il moderno moerro.

La _impluviata_ era veste di color bruno, riquadrata a’ quattro
lati, come appunto l’_impluvium_ d’una casa. Sebbene Varrone parli
dell’_impluvia_ come di un mantello contro la pioggia, pure vi doveva
essere anche l’_impluviata_ o l’_impluvium_ come veste, se così lo noma
Plauto nella scena seconda del secondo atto dell’_Epidicus_.

Ecco in qual modo fa narrare l’incontro di una cortigiana col suo ganzo:

            EPIDICUS

    _Sed vestita, aurata, crocote ut lepide! ut concinne! ut nove!_

            PERIPHANES

    _Quid erat induta an regillam induculam, an mendiculam,_
    _Impluviatam? ut istæ faciunt vestimentis nomina._

            EPIDICUS

    _Utin’impluvium induta eat?_

            PERIPHANES

                                  _Quid istuc est mirabile?_
    _Quasi non fundis exornatæ multæ incedant per vias?_[135]

Vi è dunque ricordato l’_impluvium_, ma con esso anche la _regilla_.
Plauto nella stessa scena ricorda altresì le seguenti vestimenta:

          . . . _vesti quotannis nomina inveniunt nova:_
    _Tunicam vallam, tunicam spissam, linteolum cæsicium,_
    _Indusiatam, patagiatam, callulam, aut crocotulam!_
    _Supparum, aut subminiam, ricam, basilicum aut exoticum,_
    _Cumatile, aut plumatile, cerinum aut melinum gerræ maximæ_
    _Cani quoque etiam ademptum ’st nomen._

            EPIDICUS

                                                 _Qui?_

            PERIPHANES

                                         _Vocant laconicum_[136].

La _patagiata_ era veste ricca del _patagium_, ossia della larga
striscia di porpora e d’oro sul davanti, simile al _clavus_ che avevano
gli uomini.

La _plumatilis_ era un abito, la cui stofa in certi punti di luce
offriva come piume d’uccelli, nel modo stesso che la _Cymatilis_
illudeva vedersi, come già dissi, onde marine.

_Ralla_ dicevasi il mantello di una stofa chiara e leggiera, o di velo.

_Rica_ era un pezzo rettangolare di panno lano orlato di frangia,
_vestimentum quadratum, fimbriatum_, como lo ha descritto Festo,
portato a modo di velo sulla testa: il suo diminutivo _ricinium,
recinium, ricinus_, o _recinus_, era pure a modo di velo portato
sulla testa, più specialmente assunto come segno di lutto. Trovansi
pure mentovati nei surriferiti versi il _basilicus_, l’_exoticus_, il
_laconicum_, il _linteolum cæsicium_, il _melinum_, la _mendicula_, la
_spissa_, il _supparum_ come altri effetti di vestiario, ma forse non
saprebbesi precisarne il rispettivo uso.

_Flammeum_ nomavasi il velo di color giallo carico e brillante che
copriva tutta la persona, e portavasi dalle giovani spose nel giorno
delle nozze.

_Palla_, come spiegai altrove in quest’opera, era l’ampio mantello
in cui s’avvolgeva la dama romana, che vietava vedersi il disegno
della persona, e s’aggiustava mediante un fermaglio sopra le spalle.
La statua della sacerdotessa Livia ritrovata in Pompei, e di cui
già feci menzione, offerse esempio della _stola_, della _palla_ e
dell’_amiculum_, o velo della testa.

Ho già detto nel capitolo delle _Tabernæ_ della calzatura delle donne,
non che in molte parti dell’opera de’ giojelli e preziosità onde le
donne si fregiavano, e tanto poi e in una parola dirò essere stato il
lusso e la ricercatezza nel vestiario e nell’abbigliamento muliebre,
che non alle sole cortigiane, come fece Plauto nel surriferito brano
della commedia l’_Epidico_, ma a tutte applicar si potesse quel verso,
che testè ho riportato, che, cioè, camminassero per le vie adorne di
case e di terre.

Più spiccio sarò nel dire del vestiario degli uomini.

La _toga_ era il vestito distintivo del cittadino romano, che sempre
si portava da tutti in tempo di pace: coprendo tutto il corpo, nè
lasciando libero che un braccio, non potevasi tenerla durante il
lavoro, nè in casa. Era di lana e bianca, e per lavarla davasi a’
_fulloni_, de’ quali gli intrattenni il lettore; onde argomentare è
dato quanta fosse la importanza di costoro. Quelli che brigavano una
carica publica, presentavansi al popolo colla toga resa d’un candore
più brillante, usando di una preparazione cretacea, onde mettersi
in rilievo maggiore, e ne venne perciò agli aspiranti il nome di
_candidati_ pervenuto infino a noi. Della toga bruna, _pulla_, usavano
solo i poveri, detti perciò anche _pullati_, come ci avvenne di
ricordare nel trattar de’ teatri, o quelli eziandio che si trovavano
nel corrotto. Sotto gli imperatori, cresciuto il lusso, si adoperò la
seta per la toga.

La _toga prætexta_, lunga veste bianca e tutta unita, bordeggiata di
porpora, d’origine etrusca, portavano i fanciulli ingenui d’ambo i
sessi, l’abbigliamento de’ quali compivasi colla _bulla_ o piccolo
globo o cuore d’oro pei ricchi, di cuojo pei poveri, sospesa al collo.
Fu istituita la bulla da Tarquinio Prisco, che donolla al figliuol
suo, il quale, pretestato ancora, ebbe in guerra ad uccidere un nemico:
nell’uscir di puerizia, cioè nell’entrare dell’anno decimosettimo, la
dimettevano colla pretesta per assumere la toga, offerendola ai Lari,
secondo Persio ricorda:

    _Cum primum pavido custos mihi purpura cessit,_
    _Bullaque succinctis Laribus donata pependit_[138].

Indossavano la pretesta anche i principali magistrati, dittatori,
consoli, pretori, edili, re, e certi sacerdoti.

_Trabea_ era la toga di porpora vestita dagli imperatori. Vedemmo già,
parlando dell’ordinamento guerresco, cosa fosse la toga _palmata_,
detta anche _picta_, portata dai trionfatori.

Meno lunga che la _toga_, era la _tunica_, che pur gli uomini
indossavano immediatamente sul corpo. Fu prima senza maniche, poi le
ebbe, ma non giunsero fino al gomito: più lunghe, la toga dicevasi
_manicata_, ed era propria de’ disonesti. La mollezza fece adottare più
d’una tonaca. Il portarla dimessa fino ai talloni, ciò che dicevasi
_tunica dimissitia_, come il tener rilasciata la toga, era indizio
d’animo effeminato e libidinoso. Leggesi infatti in Plauto:

    _Sane genus hoc muliebrosum est timide dimissitiis._
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    _Heus tu, tibi dico mulier_[139].

La tonaca ordinaria non aveva distintivo; ma i senatori portavano il
_laticlavium_, che era una tonaca bordeggiata dal petto fino al basso
d’una larga striscia di porpora. _Angusticlavium_ fu detta la tonaca
de’ cavalieri; la striscia di porpora che la frangiava era più stretta.

_Penula_, era il mantello con cappuccio, che in luogo della toga
portavasi in viaggio, o in tempo di pioggia; _lacerna_ era un altro
mantello aperto sul davanti come il _pallium_ de’ Greci, ed aveva
pure cappuccio: già riportai l’epigramma di Marziale che la lasciò
ricordata. La _læna_ era un largo mantello d’inverno e di colore
scarlatto, _coccinea_, pei ricchi e dignitari; _purpurea_ pei
sacerdoti. _Abolla_, un ferrajuolo di panno a due doppi attaccato
con fibbia di sotto al collo o in cima alla spalla: era lo stesso che
il _sagum_, tranne che questo era di più ampia dimensione e di stofa
più grossolana. _Endromis_ appellavasi un mantello, o piuttosto una
coperta di panno lano, in cui s’avviluppava dopo i giuochi ginnastici
a prevenire il pericolo d’una infreddatura. Della _synthesis_, detta
anche _cœnatoria_, ho già detto che fosse l’abito per il pasto: Nerone
che si mostrava con essa in pubblico, veniva biasimato come di grave
sconvenienza.

De’ calzari de’ Romani ho già informato il lettore nel capitolo delle
_Tabernæ_, nè occorre però aggiungere verbo. In testa nulla portavano
d’ordinario, solo coprivanla nelle solennità religiose. Ne’ saturnali
portavano il _pileus_, più berretto che cappello; il _petasus_, che
usavasi in viaggio e che Caligola permise portarsi in teatro per
difendersi dal sole, aveva le tese larghe: _galerus_ era una specie di
elmo di pelle; _apex_, fu quello de’ sacerdoti. A difesa della testa
solevasi altresì recare un lembo della toga su di essa, ma si toglieva
tosto in segno di rispetto, abbordando alcuna persona distinta.

In quanto al vestito degli schiavi, all’infuor della toga, propria
dell’uom libero, della stola e della palla delle matrone, era eguale
a quello delle donne e degli uomini che ho finito di descrivere: la
tonaca avevano peraltro più stretta e bruna, e coprivan la testa col
cappuccio della lacerna o della penula. Vuolsi notare tuttavia che gli
schiavi degli imperatori, massime nei servizio della tavola, vestivano
bianco.

Varrone ricordò tuttavia come i citaredi si servissero della stola:
_apud Q. Hortensium, cum in agro Laurenti essem, Orphea vocari
jussit: qui cum eo venisset cum stola et cithara, et cantare esset
jussus, buccinam inflavit, ubi tanta circumfluxit cervorum, aprorum et
cæterarum quadrupedum multitudo, ut non minus formosum mihi visum sit
spectaculum, quam in circo maximo aedilium, sine africanis bestiis,
cum fiunt venationes_, etc.[140] Le meretrici poi portavano la toga,
interdetta loro la stola.

Detto così del vestire, i lavori femminili, che si compivano nel
_gynæceum_, o appartamento delle matrone, chiuderanno il capitolo.

Abbiam veduto gli uomini nei fori, nella basilica, nella guerra, e
gli schiavi nelle _tabernæ_ e nelle industrie: veggiam le donne adesso
nell’interno della casa.

Si imbiancava da esse, si nettava, e cardava la lana, che traevan di
poi dalla conocchia in filo. Quindi tessevano su proprii telaj e ne
facevano stole e vestimenta per sè, e tonache e toghe per gli uomini, e
già notai che l’occuparsi in siffatti lavori muliebri, ai primi tempi
della republica, e l’incumbere alle cure domestiche, costituisse la
miglior lode della donna: _domum mansit, lanam fecit_. L’imperatore
Augusto non volle mai vestirsi d’altro che di quel che lavoravano le
donne di sua famiglia. Poi si esercitavano le matrone anche al ricamo,
che dicevano _acupingere_, pitturar coll’ago; e da ultimo, al dir di
Tertulliano, nel suo trattato sulla _Esortazione alla Castità_, si
aggiunsero altre occupazioni: l’amministrazione, cioè, della famiglia,
la direzione della casa, la custodia delle chiavi, la cura e la
distribuzione del lavoro tra gli schiavi, la compera delle provvigioni;
cure tutte che le sterminate ricchezze e la effeminatezza del popolo
fecero poscia consegnare agli schiavi. Laonde la matrona non pensò
più quind’innanzi che alla toletta e agli adulteri amori e, scassinata
così la famiglia da’ suoi cardini, si preparò la corruzione sociale,
la decadenza e la irreparabile rovina di quel gran popolo e di quel
maraviglioso impero.



CAPITOLO XXI.

I Lupanari.

  Gli ozj di Capua — La prostituzione — Riassunto storico della
  prostituzione antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale
  — La Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini —
  Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge di Mosè —
  Zambri, Asa, Sansone, Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita
  di Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la Sunamite
  — Salomone e le sue concubine — Prostituzione in Israele — Osca
  profeta — I Babilonesi e la dea Militta — Venere e Adone — Astarte
  — Le orgie di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete
  e Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina, Stratonice,
  Irene, Agatoclea — Prostituzione greca — _Dicterion_ — Ditteriadi,
  auletridi, eterìe — Eterìe celebri — Aspasia — Saffo e l’amor
  lesbio — La prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le
  feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana Flora e i
  giuochi florali — Culto di Venere in Roma — Feste a Venere Mirica
  — Il _Pervigilium Veneris_ — Traduzione — Altre cerimonie nelle
  feste di Venere — I misteri di Iside — Feste Priapee — Canzoni
  priapee — Emblemi Itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei —
  Raccolta Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende — Oggetti
  pornografici d’Ercolano e Pompei — I misteri della Dea Bona —
  Degenerazione de’ misteri della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino,
  Pertunda, Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolana e Ticone —
  Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane patrizie
  — _Licentia stupri_ — Prostitute imperiali — Adulterii — Bastardi
  — Infanticidi — Supposizioni ed esposizioni d’infanti — Legge
  Giulia: _de adulteriis_ — Le _Famosæ_ — La Lesbia di Catullo — La
  Cinzia di Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio
  — Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori di Cornelio Gallo
  — Incostanza delle _famosæ_ — Le sciupate di Orazio — La Marcella
  di Marziale e la moglie — Petronio Arbitro e il _Satyricon_ —
  Turno — _La Prostituzione delle Muse_ — Giovenale — Il linguaggio
  per gesti — _Comessationes_ — _Meretrices_ e _prostibulæ_ —
  _Prosedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ, diobolæ,
  quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ_ — Le _delicatæ_ — Singrafo
  di fedeltà — Le _pretiosæ_ — Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e
  _Tyria Percisa_ in Pompei — _Pueri meritorii, spadones, pædicones_
  — Cinedi — Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare romano
  — _Meretricium nomen_ — Filtri amatorii — _Stabula, casaurium,
  lustrum, ganeum_ — Lupanari pompejani — Il Lupanare Nuovo — I
  Cuculi — Postriboli minori.


Sa il lettore, per quel che gliene ho detto nel capitolo de’ Templi,
come in Roma, massime a’ tempi dell’impero e quindi a’ giorni in cui
specialmente lo richiama quest’opera, meglio che a Venere celeste, si
sagrificasse alla Venere _Pandemos_, la Iddia dal facile ed osceno
costume, e già sa del pari della lussuria campana, onde Plauto,
facendosi eco della brutta riputazione che s’avean fatta, designava
gli abitatori di quella zona _molles et libidinosi_[141]. Egli sa
pure di quegli ozj passati in proverbio, duraturo anche adesso, e che
riuscirono tanto fatali al massimo capitano cartaginese, Annibale,
che prima d’abbandonarsi ad essi era stato invincibile. Tutta questa
plaga ridentissima del Tirreno, e massime le città in riva alla
marina, avevano inoltre accolto, come delle buone istituzioni, così il
contributo eziandio delle cattive, che portava seco quella immigrazione
la quale avean causato le romane guerre in Grecia, in Africa e nelle
Gallie, o l’andirivieni de’ mercatanti che accorrevano a recar merci
all’Italia; onde agli ingeniti costumi e vizi del paese si fossero
venuti annestando i vizii pur dello straniero. Il culto di Iside,
venendo dall’Egitto, vi aveva dedotto la prostituzione sacra: i misteri
di Eleusi importati da Grecia lo avevano più intristito, e la Grecia
già alla sua volta li aveva avvalorati de’ riti osceni dei popoli
asiatici. Di tutto ciò io dissi già a suo luogo.

È agevol cosa accorgersi, comparando la prostituzione greca colla
romana, che entrambe si avessero per avventura una comune origine,
nell’Asia; vale a dire che Grecia avesse direttamente derivato di là
le pratiche della sua dissolutezza e che Roma e l’Italia le avessero
adottate coi molti altri costumi dalla vinta Grecia; con questo solo di
divario peraltro, che l’asiatico costume così assunse un tal carattere
in Grecia da, per così dire, divinizzarsi e farsi perfino simpatica
talvolta e recinta di poesia, mentre in Roma restò brutale e schifosa.
Indarno quindi si cercherebbe a Roma la storia della sua prostituzione
tale da poter esser letta, senza arrossir sin nel bianco dell’occhio.
Invano le domandereste le Targelie, le Aspasie, le Frini, le Diotime,
le Glicere, le Bacchidi e le cento altre cortigiane, che la Grecia
salutò ispiratrici o di savia politica, o di dottrina o di poesia, e
che anzi segnano, puossi dire, il progresso della greca civiltà: la
cortigiana di Roma, ignorante e vendereccia, volubile e lussuriosa,
segna invece il precipizio della gloria e della dignità della nazione.

Quanta differenza fra la _Via Sacra_, i boschetti di Pompeo, il portico
di Livia di Roma e il Ceramico, od anche il Pireo d’Atene, fra il
dicterion greco e il lupanare romano!

Gli scavi pompeiani dovevano portare una luce e costituir quasi un
commento sul lupanare romano descritto da Giovenale, dove la imperial
consorte dello stupido Claudio faceva copia di sè, come la più abbietta
meretrice, alla feccia della plebe che vi traeva, e d’onde non partiva
la svergognata che sfiaccata, ma non satolla:

    _Et lassata viris nec dum satiata recessit_[142].

La mia mano deve adesso sollevare un lembo della cortina del lupanare
pompejano, per iscriverne i possibili particolari, e dico possibili,
perocchè tutto non sia lecito ripetere, da che l’età nostra siasi
fatta estremamente pudibonda, se non dei fatti, certo delle parole:
il contrario di quel diceva Catullo dovesse essere il poeta, al quale
correva obbligo d’essere casto, mentre poi non fosse necessario che
casti fossero i suoi versi:

    _Non castum esse decet pium poetam_
    _Ipsum: versiculos nihil necesse est_[143].

Ardua impresa io mi assumo: lo farò con quel riserbo che il lettore
domanda, al quale per altro non ispiacerà che a larghi tratti io
gli narri la storia dapprima e la condizione di questo abbrutimento
dell’uomo, contro il quale finora invano lottarono la sapienza de’
legislatori e la civiltà dei tempi per diradicarlo, paghi soltanto
d’averlo infrenato; ond’esso si accampi nella società sotto l’egida
delle leggi, quasi una professione ed un diritto, e si convenne nomarsi
prostituzione legale. Per ciò appunto che già notai che lo svolgimento
più ampio e sfrenato di questa lebbra in Roma dati dall’epoca delle
sue conquiste e dall’affluirvi delle diverse nazionalità, uno sguardo
retrospettivo sulla storia, in cotale materia, degli altri popoli,
varrà a notarne i punti di contatto ed a illustrare, quella che più
presso riguarda il mio soggetto.

Ogni traffico osceno del proprio corpo è quanto corrisponde alla parola
_prostare_, d’onde è derivata quella di prostituzione. Questo traffico,
questo infame commercio ha pur troppo la sua storia, antica quanto il
mondo, nè interrotta mai nelle sue più orribili tradizioni; nè, per
quanto si ingentiliscano i costumi, per quanto splenda lume di civiltà,
non può nutrirsi speranza che siffatta mala pianta si divella di
mezzo agli uomini; solo essendo dato di credere che possa venir meglio
infrenata e disciplinata. Importa altresì seguirne le fasi storiche,
potendo giovare il conoscerne i particolari, i suoi periodi più
accentuati e quelli di decrescimento, onde dallo studio delle medesime
dedurne gli accorgimenti utili al miglioramento del costume.

Gli scrittori — e fra questi anche il Dufour nella sua _Storia
della Prostituzione_, alla quale mi è impossibile non ricorrere,
massime in queste prime pagine nelle quali ne indago le origini, — si
accordano nel considerare tre distinte forme sotto cui si manifestò
la prostituzione e la distinsero in prostituzione ospitale, in
prostituzione sacra o religiosa e in prostituzione legale o politica.
Originò la prima dalla prevalenza della forza dell’uomo sulla
donna, per la quale questa fu presto ridotta sotto la sua schiavitù;
ond’essa, perduta ogni dignità e divenuta all’uomo, cui era compagna,
indifferente col tempo, nel primitivo stadio sociale in cui la face
non brillava della civiltà, passò fra le concessioni dell’ospitalità.
Perocchè vediamo presso tutti i popoli primitivi l’ospitalità spesso
elevarsi a dogma e legge inviolabile, e la prostituzione divenire
parte integrante della medesima. I doni che in ricambio la donna
riceveva dall’ospite straniero e che soddisfacevano la cupidigia del
marito, valsero a generalizzare la prostituzione ospitale. E l’ospite
straniero, a rendere più ardenti, anzichè obbligatorie o di cerimonia,
le carezze, lasciava talvolta credere la propria origine celeste e
così poco a poco si venne a dare a codesta prostituzione il carattere
di sacra. La mitologia infatti reca più esempi di numi presentatisi
alle dimore ospitali di semplici mortali ed ivi avere beate di loro
amplessi divini le mogli degli ospiti loro. Gli eroi più celebrati
del poema omerico, quelli della storia greca ed anche della romana,
fino a Cesare, che voleva da Venere esser disceso, tutti vantano
origine divina. Non re, non capo di tribù potè far senza di questi
fasti di famiglia; finchè tra le offerte che si facevano ne’ templi,
la religione pagana accolse anche la prostituzione, il cui prodotto
manteneva l’avarizia e la libidine sacerdotale. Facile allora era
il passaggio della prostituzione dalla religione nei costumi e nelle
leggi. Certo è tuttavia che tra l’esistenza della prostituzione antica
e anteriore al Cristianesimo e quella posteriore corra una differenza
enorme. Se ora la religione la vietò, se la morale la condannò; la
legge, autorizzandola, la ridusse nondimeno entro determinati confini:
mentre prima, se la sola filosofia la proscriveva, i costumi la
consacravano ai dogmi religiosi.

Tutte queste transizioni appariranno dalle seguenti storiche narrazioni
che rapidamente accennerò.

È nella Caldea, nella patria di Abramo, che si riscontrano le prime
traccie della prostituzione ospitale e sacra e ce le additano da una
parte la Bibbia ed Erodoto dall’altra.

Per la prima, sappiamo come gli angeli discesi sulla terra per
conoscere le figlie degli uomini, ne avessero avuto figliuoli, ch’erano
i giganti. A questa credenza avevan dato luogo i seguenti versetti del
capo IV della genesi:

«Or avvenne, che gli uomini cominciarono a moltiplicare sopra la terra,
e che furono loro nate delle figliuole:

«I figliuoli di Dio veggendo che le figliuole degli uomini erano belle,
si presero per mogli quelle che si scelsero d’infra tutte»[144]. Poi
ci fa sapere del corrotto costume e della malvagità così cresciuta,
che pentissi il Signore d’aver creata la terra onde ebbe a mandar il
diluvio a sterminare la razza umana; salva solo la famiglia di Noè.
Vediam poi, sempre nella Genesi, che è il primo libro della sacra
Bibbia, neppur rispettata più l’ospitalità; perocchè vi leggiamo che
in Sodoma gli angeli che si fermarono nella casa di Loth per passarvi
la notte, vi fossero fatti segno agli assalti de’ Sodomiti, che
circondando la casa ne li reclamavano sì che Loth offrisse loro, a
rispetto dei suoi ospiti, le due figlie, che non avevano conosciuto
ancora gli uomini. Le quali figlie, ci dice poi lo stesso libro santo,
come abusassero un giorno, a cagion di libidine, dell’ebbrietà del loro
padre. L’incendio di Sodoma e Gomorra provano il traffico, più osceno
ancora, contro natura; l’episodio di Thamar che si prostituisce a
Giuda suo suocero per averne un figlio e il modo cui è narrato pongono
in sodo che la prostituzione legale esisteva, sedendosi le meretrici
perfino a capo delle vie ad attendere i loro avventori. Mosè poi, il
grande legista, dovè ricorrere a penalità terribili pei crimini di
bestialità e di sodomia; prova indubbia che gli Ebrei si abbandonassero
troppo a questi brutti peccati.

I lupanari tuttavia degli Ebrei non erano che di meretrici straniere,
avendole Mosè escluse dalla prostituzione legale. La lebbra onde
s’affliggeva quel popolo altro non era che un male, conseguenza dello
abuso e delle diverse forme d’impurità, e le frequenti abluzioni
ordinate dalla legge erano prescrizioni igieniche per chi pativa di
taluno de’ malefici effetti, come argomentasi da quanto è detto nel
Cap. XV del Levitico. Così la pena di morte comminata contro gli Ebrei,
che in onore di Moloch commettevano impurità, prova come si fosse
generalizzato l’onanismo. La dissolutezza degli Ebrei aveva generato
terribile malattia: Mosè e i giudici ne erano gravemente preoccupati
e Finea nipote d’Aronne, saputo che Zambri giaceva con una meretrice
madianita, li coglie e li uccide. Lo stesso Mosè fa sgozzare 24,000 de’
suoi seguaci, perchè uno di loro aveva bazzicato con una Madianita;
ciò che per altro non aveva impedito che quel grande legista si
fosse tolta per moglie una figliuola di quel popolo. Asa, re, caccia
perfino la madre sua che sacrificava a Priapo e ne distrugge l’oscena
statua. Nè pure i capitani più eletti d’Israello andavano immuni da
tal peccato. Sansone nelle braccia di Dalila perdeva la forza che gli
aveva data il Signore. Abramo aveva la sua concubina e prostituiva
due volte per denaro a re stranieri la moglie, facendo loro credere
fosse sua sorella. Giacobbe ebbe la sua; Gedeone del pari. La Raab
che tradì Gerico, la propria città, a codesto condottiero del popolo
Ebreo, vuolsi fosse una cortigiana. Pietosa è la storia del Levita di
Efraim, che nella città di Guibha, ospitando presso un buon vecchio, i
cittadini ne assalirono la casa per abusare di lui. Egli e l’ospite suo
cercarono stornarli; poi a nulla valendo le preci, concesse il levita a
que’ miserabili la propria concubina, che alla dimane, rotta da quelle
bestiali lussurie, non appena potè ridursi presso l’amante levita, che
miseramente spirava e fu causa codesta che Israello, a vendicar tanta
infamia, si armasse a fiera guerra contro i Beniamiti. David, il santo
re Profeta, a saziar la sua lussuria, invaghitosi di Bath-Scebah o
Betsabea, come è chiamata per lo più, da lui veduta ignuda nel bagno,
la fa rapire e la rende madre; poi fa che Uria marito di lei venga
esposto nella furia maggiore della battaglia sì che vi perisca e così
si appropria la moglie. Non altrimenti aveva fatto il santo patriarca
con Nabal, cui saccheggiava la casa, e toglieva la moglie per farla
sua. Lascierò poi agli spiriti più ingenui l’apprezzare il rimedio
suggerito da’ servitori suoi allo stesso re David, quando vecchio non
poteva per copertura di vestimenta riscaldarsi, collo avergli cercato
una giovinetta vergine, la bellissima Abisag, perchè si tenesse davanti
a lui e gli dormisse in seno. Buon per la vezzosa Sunamite ch’ei non
abbia potuto _conoscerla_. Che diremo di Salomone, del sapientissimo
re? Egli ebbe settecento donne e trecento concubine e il suo cuore, già
sì saggio, si pervertì, tanto da assassinare il fratello Adonias, che
gliene aveva domandata una, della qual s’era invaghito.

Finalmente la prostituzione, dietro l’esempio dei grandi, si
popolarizzò e si portò perfin nel tempio, come si legge nel libro de’
Maccabei. Ciò che poi apparirà incredibile si è il leggere in Osea
queste strane parole poste in bocca dell’Eterno stesso: _dixit Dominus
ad Oseam: Vade, sume tibi uxorem fornicationum, et fac tibi filios
fornicationum_[145] ed egli infatti, sposò la meretrice Gomer figliuola
di Debelaim e n’ebbe un figlio, cui impose il nome di Gesraele. Ma non
basta: lo stesso Dio dice al medesimo Profeta di poi: _Et dixit Dominus
ad me: Adhuc vade, et dilige mulierem, dilectam amico et adulteram...
et fodi eam mihi quindecim argenteis et coro hordei_[146], e, già
s’intende; il Profeta obbedisce all’Eterno.

Lascio che se la sbrighino i commentatori della Bibbia, che essi
sapranno giustificare questi bei Comandamenti che un delirante ebbe
ardimento di dire gli venissero dal Signore.

E per lasciare i libri santi, della prostituzione caldaica ho detto
come informi Erodoto. Hanno i Babilonesi, egli scrive, una legge
infame. Ogni donna nata nel paese è obbligata una volta almeno nella
sua vita di andare al tempio di Venere ed ivi abbandonarsi ad uno
straniero. Gli stranieri vi passeggiano e scelgono le donne che più
gli piacciono ed esse non ponno tornare a casa, se prima qualche
forestiero non le abbia avute, invocando la dea Militta, piacendo agli
Assiri di dare a Venere questo nome. Nè gli stranieri ponno ricevere
rifiuto, perocchè ciò vieti la legge e sacro essendo il denaro che ne
è frutto. Quelle che hanno in dote bellezza, non fanno lunga dimora
nel tempio; le brutte vi restano fin tre o quattro anni, finchè non
abbiano soddisfatta la legge. È agevole capire allora come facilmente
avesse ragione Quinto Curzio, quando nella vita d’Alessandro Magno
ebbe a dire che nessuna nazione fosse più corrotta della Babilonese;
la prostituzione sacra ingenerando l’altra dei costumi. E il
fatale esempio si diffuse colle guerre e la prostituzione attecchì
presto nella Grecia. Nacque allora il culto di Venere e di Adone, a
personificare la passione, perchè gli uomini tendano a divinizzare i
loro affetti, e questi poi degenerando nelle diverse manifestazioni,
originarono l’Astarte, il dio ermafrodito, che rappresentava i due
sessi ad un tempo stesso.

E si fecero misteri e feste a Venere, ad Adone, ad Iside ed alle altre
divinità, che con diverso nome rappresentavano la medesima cosa. Pafo,
Amatunta, Cipro, Eleusi furono teatro a queste sacre lascivie, che poi
ebbero tempio in ogni città greca e quindi in ogni città romana. Nè
meno sfrenate furono le sacre orgie dei Persiani in onore di Mitra,
i quali del resto, afferma Plutarco, le avessero dedotte dai Parti,
passate di poi nella Cilicia, e più tardi, al tempo di Trajano, in
Roma, secondo l’opinione di Fréret.

Ho detto che Iside ebbe i suoi misteri; essa era quanto la Venere degli
Egizi[147], che sotto quel nome e quello d’Osiride avevano divinizzato
la natura fecondante e generatrice.

Il _phallus_, distintivo della virilità, veniva dalla sacerdotessa
d’Iside nelle sacre cerimonie portato chiuso in una teca d’oro. La
prostituzione sacra era dunque nel massimo vigore sulle sponde del
Nilo; ma ciò che non parrà vero e che proverà ognor più com’essa
passasse agevolmente ne’ costumi, si è che Ramsete, re dell’Egitto,
2244 anni prima di Cristo, prostituì nel lupanare la propria figlia,
come mezzo politico per discoprire il ladro del suo tesoro, e Ceope
fece altrettanto dodici secoli avanti l’era volgare, per provvedere
alla spesa d’una piramide, e narra Erodoto che quella brava figliuola
volendo inoltre erigerne un’altra per proprio conto, pregasse quelli
che la visitavano fornissero ciascuno una pietra per compirne l’opera,
e la nuova piramide sorse infatti accanto a quella del padre. — A’
matematici il computare quanti potessero essere gli erotici visitatori
di quella virtuosa figlia di re.

Io non posso ricordare il nome delle cortigiane tutte de’ tempi i più
remoti, che si resero celebri; pur di taluna farò il nome. L’Iliade
cantò le conseguenze del rapimento di Elena, l’infedele consorte di
Menelao, nella cui casa Paride violò l’ospitalità, onde ne derivò la
Guerra di Troja. Negli episodi di quel divino poema, massime in quelli
di Briseide, di Tecmessa e di Cassandra, appartenenti ad Achille, ad
Ajace e ad Agamennone, vediamo la prostituzione cui eran sottoposte le
schiave, ancor che figlie di re, ma venute per le vittorie in servitù.
Poi la storia dei tempi eroici ricordò ancora in Grecia gli adulterj
di Clitennestra e d’altre eroine, e i bestiali accoppiamenti di Pasife
ed altre molte lussurie infami ed incesti, che parvero perfino parti
dell’immaginazione e si confusero colle leggende incredibili della
mitologia.

Solo volendo pertanto ricordare quelle che di sè trafficarono a cagion
di lucro, terrò conto di Rodope, cortigiana di Tracia, che 600 anni
prima di Cristo, fu celebre in Egitto e cui si deve un’altra delle
piramidi. La sua bellezza e riputazione è rivelata al re Amasi da
un’aquila, che avendole rapita una pianella, ebbe a lasciarla cadere a’
piedi di lui, il quale, fatte le indagini a chi appartenesse, scopriva
essere di Rodope e se la volle per amante.

Ma la grande epoca delle cortigiane d’Egitto fu quella de’ Tolomei,
tre secoli cioè avanti l’era volgare, e si rammentano i nomi di Cleina
cui furon rizzate statue, di Stratonice greca, cui ne onorò Tolomeo
Filadelfo la memoria, rizzandole, morta, un mausoleo: Irene, che
volle morire col suo reale amante Tolomeo Evergete; e Agatoclea, che
appartenne a Tolomeo Filopatore e resse per lui l’Egitto.

Dalla egizia passando alla prostituzione greca, vi troviamo del pari
quella sacra; ma cessando questa ben presto, lasciò nei riti le sue
traccie. Varie furono le Veneri che si crearono a rappresentare le
diverse forme della bellezza e dell’amore; ma Socrate le riassunse
in due; nella Venere celeste o dell’amor casto e nella Venere
Pandemos o popolare, che ricordai al principiar del capitolo, ossia
dell’amore impudico e criminoso. Solone, il severo legislatore, fondò
il _dicterion_ o lupanare e coi prodotti di esso eresse un tempio
alla Venere Pandemos. E templi sorsero in tante altre città di Grecia
a questa Dea, perfino sotto il nome di Eteria o cortigiana e di
Peribasia, qualificativo che descriveva l’azione del più svergognato
amor fisico. E a questa Dea si consacravano speciali eterie e il
culto veniva da esse esercitato. La prostituzione in Grecia si poteva
dividere in tre classi: alla prima appartenevano le ditteriadi o le
meretrici del popolo; alla seconda le auletridi, o suonatici di flauto,
che dopo avere colle tibie rallegrati i banchetti, si mescevano alle
orgie che vi ponevano fine; alla terza le eterie. Queste ultime erano
bensì cortigiane, ma elette, di peregrina bellezza o d’ingegno, le
quali si abbandonavano non a tutti, ma a chi credevano, a seconda
del capriccio o della simpatia e il più spesso per ammirazione del
talento. Queste tre classi non avevano alcuna relaziona fra loro e le
eterie serbavano la loro fierezza, come a un di presso farebbero le
_lorettes_ parigine oggidì. Esse infatti frequentavano il Ceramico,
dov’erano boschi e portici, giardini e sepolcri dei cittadini morti in
guerra e dove traeva la parte ricca e intelligente d’Atene; mentre alle
ditteriadi ed alle auletridi riserbavasi il Pireo. Quelle, quantunque
non venissero considerate come cittadine, vivevano nondimeno tra uomini
eminenti e letterati; queste invece considerate come schiave, liberte o
straniere.

Celebri fra le eterie furono Glicera, amante del primo dei poeti
comici, Menandro; Lamia amante di Demetrio Poliorcete re dei Macedoni;
Taide amata da Alessandro il Grande e che lo seguiva nelle sue
spedizioni militari; Cleonice amata da Pausania, che fu anche filosofa,
come lo fu Targelia amante ed emissaria di Serse e sposa di poi del
re di Tessaglia; Leonzia amata forsennatamente da Epicuro; Archippe e
Terride amanti di Sofocle; Archeanassa di Platone, Laide di Diogene,
Frine di Iperide, Bacchide di Procle, Teodota di Socrate e più che
tutte, che sarebbe troppo lungo enumerare, Diotima la cui saviezza fu
encomiata da questo grande filosofo, Erpilli che passò la sua vita con
Aristotile ed alla quale ei legò la casa de’ suoi padri, e Aspasia,
che bella e filosofa, maestra prima di retorica a Socrate, amica di
Alcibiade e Fidia, fu poi amatissima da Pericle, in guisa che l’avesse
a sposare, e cui la Grecia andò debitrice di progresso e incivilimento.

Tanto era costei considerata in Atene, che la sua casa divenisse il
convegno de’ più dotti e celebrati uomini d’allora, come i filosofi
Anassagora e Socrate, Sofocle ed Euripide i due sommi tragici, Iclino
l’architetto del Partenone e Fidia lo scultore degli Dei, e gli si
assegnasse tanta dottrina, che per molti si tenne che i discorsi che
Pericle pronunciava nello Pnice, e alla cui eloquenza nulla resisteva,
fossero composti da Aspasia, come il discorso in commemorazione
dei morti ne’ primi anni della guerra del Peloponneso e riferito da
Tucidide. L’aristocrazia, nemica di Pericle, così ne temeva l’influenza
e il consiglio, che a perderla facesse accusare Aspasia di empietà
da Ermippo, poeta comico, e tratta avanti agli Eliasti, avrebbe corso
gravissimo pericolo d’esserne condannata a morte, se per lei non avesse
perorato Pericle stesso, il qual fu visto piangere per la prima volta.

È strano il vedere codeste eterie amare e darsi ad uomini unicamente
per le virtù di essi, come la Teodota di Socrate e la Laide dello
schifoso Diogene: la loro storia sarà però sempre più poetica e
simpatica che non quella delle cortigiane di altri paesi. E più strano
parrà che Aspasia venga raffigurata nei dialoghi di Platone come
propugnatrice della più pura morale e, in capo d’ogni altra cosa, della
morale della famiglia.

E così savii infatti ne erano gli ammonimenti, che le più rispettabili
matrone vedevansi condurre a lei le proprie figliuole; onde non
saprebbesi poi comprendere come colla retorica si facesse altresì
maestra d’amore a Socrate, come taluni scrissero di lei, che si
scostasse della virtù, e meno ancora che servisse mezzana agli impudici
ardori di lui per il bello Alcibiade. Molto di lei si favoleggiò, si
scrisse contrariamente a verità e si calunniò, massime da Aristofane
nelle sue commedie-libelli e credo rimanga ancor molto a studiarsi per
rivendicarla interamente dalle brutte accuse, motivate unicamente forse
da ire di parte.

Nè le altre classi della greca prostituzione mancarono di nomi celebri
e basti il ricordare Boa auletride, che fu madre di Filetario re di
Pergamo e Abrotone ditteriade tassata un obolo, che in onta a ciò, fu
madre di Temistocle.

Prima di congedarmi dalla prostituzione greca, dovrò far cenno della
poetessa Saffo, che nacque da distinta famiglia di Lesbo e ricca e
la quale, se non prostituivasi a denaro, teneva tuttavia scuola di
prostituzione la più dannosa, predicando l’amor delle donne, detto
perciò l’amor lesbio. Platone la disse bella; Massimo di Tiro, seguito
pure da Ovidio, nera e piccola: vi fu chi avrebbe voluto riabilitarne
la dottrina e i costumi; ma Dionisio Longino, avendoci conservata l’ode
di lei, capolavoro di passione isterica, tolse ogni attendibilità alla
difesa[148].

L’Egitto, la Fenicia, la Grecia, colonizzando l’Italia, vi importarono
coi costumi anche la religione e il culto di Venere vi attecchì
primo fra tutti. La prostituzione ospitale regnava tra’ monti e
nelle foreste, la sacra nelle città. I dipinti e vasi etruschi che
si rinvennero, sono altrettanti monumenti che attestano in Etruria
la prostituzione. Altrettanto nei primordi di Roma. Romolo e Remo
allattati da una lupa, Aurelio Vittore e Aulio Gellio spiegano che la
lupa non fosse che una meretrice, Acca Laurenta denominata, amante
del pastore Faustolo. In memoria di questa lupa o meretrice, si
istituirono le feste Lupercali, che per rispetto si attribuirono al
Dio Pane. Giustino e Servio con più ragione pretendono che Romolo
altro non abbia fatto se non che dar forma più decente e regolare alle
grossolane istituzioni di Evandro. Tuttavia non modificaronsi di molto
le indecenti azioni de’ Luperci, ovveramente arguir si deve che ben
fossero scandalose ed oscene, se rimasero, sebben modificate, rozze
e invereconde cose e che Cicerone medesimo trattasse il corpo de’
Luperci come agresta società anteriore a qualunque civiltà. In queste
feste lupercali alcuni giovani e i sacerdoti preposti al culto di Pane,
correvano per le vie affatto ignudi tenendo da una mano i coltelli di
cui si eran serviti per immolare le capre e dall’altra delle sferze,
colle quali percuotevano tutti coloro che incontravano. L’opinione
che si aveva che quelle percosse contribuissero a render feconde le
donne o rendessero felice il parto, faceva sì che lungi dall’evitarne
l’incontro, esse si avvicinassero loro per ricevere de’ colpi, a’ quali
attribuivano una sì grande virtù.

Feste e riti congeneri reclamava in Roma anche il culto del Dio Bacco,
epperò designaronsi col nome di _Baccanalia_, come in Grecia, da cui
vennero, chiamavansi _Dionysia_. Si appellarono eziandio _Orgiæ_ ad
indicare lo strepito o _baccano_ che si soleva fare ne’ tre giorni di
loro durata. Non altrimenti che in Grecia, anche in Italia venivano
accompagnate dalle più sfrenate dissolutezze. Dapprincipio si
celebravano tre volte all’anno; quindi quasi mancassero le occasioni
alle baldorie ed alle lascivie, si ripetevano più spesso. Seguendo le
tradizioni greche, ed anche egizie, Erodoto e Diodoro Siculo vogliono
che le feste dionisiache procedessero dalle sacre terre fecondate dal
Nilo, non erano che le donne chiamate in Roma a celebrarne i misteri:
poscia, bandito ogni ritegno, si mescolarono i due sessi, e orribili
disordini ne conseguitarono, tal che il Senato nell’anno 568 di Roma,
emise decreto che tali orgie proscrisse in tutta Italia. L’abolizione
dei Baccanali formò soggetto ad una tragedia di Giovanni Pindemonti, al
suo prodursi applaudita.

Come pratichiamo noi pure di presente nelle feste cristiane di Madonne
e Santi, nelle quali si portano i sacri simulacri processionalmente,
nelle feste di Bacco recavasi la statua del nume in processione seguita
da canefore o portatrici di panieri, coperte di pampini e da saltanti
Tiadi o sacerdotesse con cimbali e trombe, e da Baccanti con tirsi,
dette pur Menadi o furibonde, come si argomenta dal seguente brano onde
si chiude il Carme XVIII del Lib. 1. delle _Odi_ di Orazio:

    .... _Non ego te, candide Bassareu,_
    _Invitum qualiam: nec variis obsita frondibus._
    _Sub divum rapiam: sæva tene cum Berecynthio_
    _Cornu tympana, quæ subsequitur cœcus amor sui,_
    _Et tollens vacuum plus nimio gloria vorticem,_
    _Arcanique Fides prodiga, perlucidior vitro_[149].

Sopra molte pitture in Pompei ed Ercolano si riconobbero rappresentati
Baccanali e Baccanti, soggetto del resto usitatissimo in bassorilievi
antichi e su vasi greci.

Il nome di Baccanti, per le oscene loro opere, diventò presto sinonimo
di femmine rotte ad ogni dissolutezza.

Nè questi erano i soli nomi, che valevano di pretesto alla sacra
prostituzione.

La cortigiana Flora, sotto Anco Marzio, morta ricchissima, avendo
lasciato erede di sua fortuna il Popolo Romano, questi in riconoscenza
ne celebrò la memoria coi giuochi Florali, confondendoli con quelli
istituiti in onore della Dea dei fiori. Quanto fossero lascivi ed
infami, sì che gli attori dei medesimi ne vergognassero alla presenza
dell’austero Catone, ho già in questa mia opera narrato, nè ho quindi
bisogno ritornarvi sopra.

Venere ebbe in Roma molti templi sotto tutti i nomi, di libertina,
di salace, di volupia, di verticordia, ecc., secondo le diverse forme
di lascivia che la fantasia intendeva di divinizzare, e tutti cotali
templi erano ridotti di dissolutezza. Venere Mirtea, così nomata dai
boschetti di mirto che ne circondavano il delubro, era un convegno
alle maggiori lubricità e le veglie che vi si facevano nell’aprile, a’
banchetti, balli e canti si mescevano le oscenità della più sfrenata
prostituzione.

Già nel Capitolo ottavo di quest’opera, il quale tratta dei Templi,
io dissi di queste vigilie che si facevano in onore di Venere,
celebrandosene le feste al primo d’aprile, che per ciò appellavasi il
mese di Venere; narrai come le donzelle vegliassero pel corso di tre
notti consecutive, si dividessero in parecchie schiere e in ognuna
di queste si formassero parecchi cori, aggiungendo come tutto un
tal tempo si impiegasse nel danzare ed inneggiare alla Dea e citai
un brano di un ritmo antico che ne aveva lasciato memoria. Esso non
era che il _Pervigilium Veneris_, intorno al quale si stancarono gli
eruditi per ricercarne l’Autore. Aldo Manuzio ed Erasmo il dissero di
Catullo, l’amante di Lesbia, ma è troppo casto per esser suo; Giusto
Lipsio l’attribuiva a penna del secolo d’Augusto; Scaligero lo vorrebbe
assegnare ad altro Catullo dei dintorni di Roma, e del quale parlano
Giovenale e Marziale; Boullier, riconoscendovi i segni della decadenza
del gusto, non senza ragione, il credette di Anneo Floro, del tempo di
Adriano, e con lui lo opinò Wernsdorf, ritrovandovi il metro eguale ad
altro poema attribuito allo stesso Autore e intitolato _De Qualitate
Vitæ_. Vossio finalmente vorrebbe che questo Floro fosse il medesimo
Lucio Anneo Floro, che dettò il _Compendio della Storia Romana_, e che
io ho pur qualche volta citato in quest’opera.

In ogni modo, se questo _Pervigilium Veneris_ accusa la decadenza, se
non ne è sempre squisita la latinità, reputo opportuno farne luogo
alla traduzione che ne ho condotta, perchè porge i dati acconci a
darne l’idea delle feste di Venere, che si celebravano in Roma e nelle
Colonie, e prima che altrove in Pompei, dove la città stessa chiamavasi
Colonia Veneria e vi aveva culto ed altare. Non è poi fuor di luogo
osservare come, malgrado il libertinaggio più sfrontato che presiedeva
a cotali feste, pure il _Pervigilium Veneris_ si riduca ad essere
un Canto sulla Primavera, senza che vi sia concetto od immagine, che
offender possano il pudore.

PERVIGILIUM VENERIS[150].

    _Cras amet, qui nunquam amavit,_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Ver novum, ver jam canendum:_
        _Vere natus est orbis._

      _Vere concordant Amores,_
        _Vere nubunt alites,_

      _Et nemus comam resolvit_
        _Ex maritis imbribus._

      _Cras Amorum copulatrix,_
        _Inter umbras arborum,_

      _Implicat casus virentes,_
        _Et flagella myrtea;_

      _Cras Dione jura dicit,_
        _Fulta sublimi toro._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, eras amet._

      _Tum cruore de superno, ac_
        _Spumeo pontus globo,_

      _Cærulas inter catervas,_
        _Inter et bipedes equos,_

      _Fudit undantem Dionen_
        _In paternis fluctibus._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Ipsa gemmeis purpurantem_
        _Pingit annum floribus;_

      _Ipsa turgentes mamillas_
        _E Favoni spiritu_

      _Mulget in toros tepentes;_
        _Ipsa roris lucidi,_

      _Noctis aura quem relinquit,_
        _Spargit humentes aquas._

      _Lacrymæ micant trementes_
        _A caduco pondere:_

      _Gutta præceps orbe parvo_
        _Sustinet casus suos._

      _Hinc pudorem florulentæ._
        _Prodiderunt purpuræ._

      _Humor ille, quem serenis_
        _Astra rorant noctibus,_

      _Mane virgines papillas_
        _Solvit hærenti peplo:_

      _Ipsa jussit, mane ut udæ_
        _Virgines nubant rosæ_

      _Facta Cypridis cruore,_
        _Atque Amoris osculo,_

      _Facta gemmis, atque flammis,_
        _Atque cotte purpura,_

      _Cras ruborem, qui latebat_
        _Veste tectus, igneum_

      _Invido, marita, nodo_
        _Non pudebit solvere_

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Ipsa nymphas Diva luco_
        _Jussit ire myrteo._

      _It puer comes puellis;_
        _Nec tamen credi potest_

      _Esse Amorem feriatum,_
        _Si sagittas gesserit:_

      _Ite, Nymphæ; ponit arma,_
        _Feriatus est Amor._

      _Jussus est inermis ire,_
        _Nudus ire jussus est,_

      _Ne quid arcu, neu sagitta,_
        _Ne quid igne læderet._

      _Sed tamen, Nimphæ, cavete,_
        _Quod Cupido pulcher est:_

      _Totus est, inermis, idem,_
        _Quando nudus est Amor._

    _Cras amet, qui nunquam amavit._
    _Quique amavit, cras amet._

      _Compari Venus pudore_
        _Mittit ad te virgines;_

      _Una res est, quam rogamus;_
        _Cede, virgo Delia,_

      _Ut nemus sit incruentum_
        _A ferinis stragibus_

      _Ipsa vellet te rogare,_
        _Si pudicam flecteret;_

      _Ipsa vellet ut venires,_
        _Si deceret virginem._

      _Jam tribus choros videres_
        _Feriatos noctibus_

      _Congreges inter catervas_
        _Ire per saltus tuos,_

      _Floreas inter coronas,_
        _Myrteas inter casas._

      _Nec Ceres, nec Bacchus absunt_
        _Nec poetarum Deus._

      _Te sinente, tota nox est_
        _Pervigilanda canticis._

      _Regnet in sylvis Dione:_
        _Cede, virgo Delia._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Jussit Hyblæis tribunal_
        _Stare Diva floribus._

      _Præses ipsa jura dicet:_
        _Adsidebunt Gratiæ._

      _Hybla, cunctos mitte flores,_
        _Quidquid annus attulit;_

      _Hybla, florum rumpe vestem,_
        _Quantus Ennæ campus est._

      _Ruris hic erunt puellæ,_
        _Et puellæ montium,_

      _Quæque sylvas, quæque lucos,_
        _Quæque fontes incolunt._

      _Jussit omnes adsidere_
        _Mater alitis Dei,_

      _Jussit et nudo puellas_
        _Nil Amori credere._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Cras recentibus Venustas_
        _Ridet ipsa floribus;_

      _Cras et is, qui primus Æther_
        _Copulavit nuptias,_

      _Ut paternis recrearet_
        _Vernus annum nubibus,_

      _In sinum, maritus imber;_
        _Fusus almæ conjugis,_

      _Inde vitam mixtus ardet_
        _Ferre magno corpore._

      _Ipsa, venas atque mentem_
        _Permeante spiritu,_

      _Intus occultis gubernat_
        _Procreatrix viribus;_

      _Perque cœlum, perque terras_
        _Perque pontum subditum,_

      _Pervium sibi tenorem_
        _Seminali tramite_

      _Imbuit, jussitque mundum_
        _Nosse nascendi vias._

    _Cras amet, qui nunquam amavit_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Ipsa Trojanos penates_
        _In Latinos transtulit;_

      _Ipsa Laurentem puellam_
        _Conjugem nato dedit,_

      _Moxque Marti dat pudicam_
        _E sacello virginem._

      _Romuleas ipsa fecit_
        _Cum Sabinis nuptias;_

      _Unde Rhamnes, et Quirites,_
        _Proque gente postera_

      _Romuli, Patres crearet,_
        _Ac nepotem Cesarem._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Rura fæcundat voluptas;_
        _Rura Venerem sentiunt:_

      _Ipse Amor, puer Diones,_
        _Rure natus dicitur._

      _Hunc ager, quum parturiret_
        _Illa, suscepit sinu,_

      _Atque florum delicatis_
        _Educavit osculis._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

      _Quisque cœtus continetur_
        _Conjugali fœdere:_

      _Ecce jam super genistas_
        _Explicant tauri latus:_

      _Propter undas cum maritis_
        _Ecce balantum gregem_

      _Et canoras non tacere_
        _Diva jussit alites:_

      _Jam loquaces ore rauco_
        _Stagna cycni perstrepunt._

      _Adsonat Terei puella_
        _Subter umbram populi;_

      _Ut putes motus amoris_
        _Voce dici musica,_

      _Et neges queri sororem_
        _De marito barbaro._

      _Illa cantat; nec tacerem,_
        _Quando ver venit meum,_

      _Quando feci et ut Chelidon,_
        _Meque Phœbus respicit._

      _Perderem Musam tacendo;_
        _Ni tacere desinam:_

      _Sic Amyclas, dum silebant,_
        _Perdidit silentium._

    _Cras amet, qui nunquam amavit;_
    _Quique amavit, cras amet._

Ovidio, nel quarto libro dei _Fasti_, forse prima dell’autor del
_Pervigilium_, aveva splendidamente descritte le feste e le veglie
di Venere, e data la ragione dell’essersi scelta la primavera a
celebrarle. E narra in tal libro come, fra l’altre cerimonie, madri e
spose latine traessero al mirteto di Venere, dove sorgeva il simulacro
della Dea e quivi sciogliessero dal di lei candido collo il monile
d’oro e le gemme e la lavassero interamente, e prosciugata poi di loro
mano la riornassero di quelle preziosità e fregiassero di corone; poi
dovessero esse medesime lavarsi pure, in memoria di quando la bella
Iddia uscita dal mare e ignuda, tergendo gli umidi crini, sorpresa
da impura frotta di satiri, ebbe a riparare appunto sotto un bosco
di mortella. E il lavacro che tutte le vedeva denudate era presso il
tempio della Fortuna Virile, quasi a dire ch’esse le dovesse proteggere
dagli sguardi degli uomini e intanto, pur in memoria di quel che
Venere bevve, quando fu condotta al marito, bevessero esse bianco latte
con pesto papavero e miele; e tutte queste supplicazioni e cerimonie
compissero, a renderla propizia, perchè reputassero procedere dalla
Dea, bellezza, costume e buon nome:

    _Supplicibus verbis illa placate; sub illa_
    _Et forma et mores, et bona fama manent_[157].

Nè erano le peggiori inverecondie quelle che si commettevano in onore
di Venere: i misteri d’Iside ho già detto altrove quanto fossero
peggiori ed orribili, e come avessero, per le loro infami oscenità, a
provocare ben dieci volte il bando da Roma il culto dell’egizia Dea; nè
qui pertanto mi farò a ripetere le stesse cose, rinviando il lettore a
quelle pagine[158].

Oltre le feste di Flora e di Pane, di Bacco, di Iside e di Venere,
tutte invereconde, celebravansi eziandio le Priapee in onore di
Priapo. Sa già il lettore come in Egitto si portasse in processione
il _phallus_, suo primo attributo e distintivo, e i mitologi anzi
affermano che Oro colà fosse quanto in Grecia e in Italia Priapo.
Se tale l’origine, il suo culto passò quindi in Grecia, dove
naturalizzando il dio, lo fecero nativo di Lampsaco, frutto degli
adulteri amori di Venere e di Bacco. Grecia ne fe’ dono all’Italia ed
ebbe tempio in Roma sul colle Esquilino. Come in Grecia, anche in Roma,
gli impotenti mariti faceangli offerte e sagrifici e le donne dissolute
tributavangli un particolare culto, nel quale la licenza era spinta
all’ultimo eccesso.

Poscia crebbe in venerazione, perchè a questo nume si assegnò la
speciale protezione e custodia degli orti e inalberavasi a spauracchio
degli uccelli voraci, onde Virgilio il chiamasse _custos furum
ed avium_[159] e fu ben anco tenuto come scongiuro contro le male
influenze e detto perciò _Fascinus_, come già m’avvenne di dire, e così
gli emblemi itifallici portati perfin da fanciulli e da donzelle al
collo, come farebbesi ora del più innocente gingillo, e publicamente
esposti su’ fondaci e botteghe. Si sa inoltre che le nuove spose
fossero dal rito obbligate disporsi a cavalcione d’un priapo, di che
è memoria in una piccola statua che si conserva in Roma, e forse vi
accenna quel grande fallo di bronzo rivestito di lamina d’argento,
rinvenuto in Pompei e che si conserva nel gabinetto degli oggetti
riservati al Museo Nazionale di Napoli, e il quale è in forma di
quadrupede itifallico, avente le sole gambe posteriori, e la coda
di cui termina pure in fallo. Esso è cavalcato da una donna. Pendono
dalle zampe, affidati a piccole catene, due tintinnabuli quadrati, ed è
sospeso ad una catena con anello[160].

Le feste Priapee celebravansi dalle donne soltanto. Un basso rilievo
fatto incidere da Boissart, che riproduce la cerimonia, rappresenta
la sacerdotessa che asperge la statua del Dio, mentre le altre donne
gli presentano canestri di frutta ed anfore di vino. Altre ancora
sono in atto di danzare suonando uno strumento molto somigliante ad un
cerchio: due suonano la tibia, una tiene il sistro, in che manifesta
l’origine egizia; un’altra vestita da Baccante porta sulle sue spalle
un fanciullo; altre quattro sono occupate al sagrificio dell’asino
che veniagli offerto, questo essendo l’animale appunto odioso al Dio,
per avergli co’ suoi ragli più volte turbati i suoi impudici tentativi
sulla ninfa Lotide dormiente e sulla Dea Vesta egualmente addormentata.
E priapee dicevansi pure certe oscene composizioni fatte in onore del
Dio di Lampsaco, che s’appendevano alle statue di lui, per lo più in
esse rappresentato sotto la forma di Erme con corna di becco, orecchie
di capra e con corona di foglie di vite o d’albero, e collocate ne’
giardini ne’ boschetti e presso le fontane.

Ma se in Roma aveva l’impuro nume culto ed altare, maggiore venerazione
otteneva nella Campania. Ercolano e Pompei ne fornirono irrecusabili
prove. Io pure ho qualche segno itifallico di quei luoghi: l’opera mia
ha già di tali prove più d’una volta tenuto conto al lettore.

Odasi Winkelmann che ne dica:

«Gli amatori e gli intelligenti dell’arte distinguono a Portici (nel
Museo), nel numero delle figure, un Priapo che è veramente degno
di tutta l’attenzione. Non è egli più lungo di un dito, ma è desso
eseguito con tant’arte che si potrebbe riguardarlo come uno studio di
notomia, tanto preciso che Michelangelo, per quanto fosse egli gran
notomista, nulla di meglio avrebbe potuto eseguire. Sembra che questo
Priapo faccia una specie di gesto comune agli italiani, ma affatto
ignoto agli stranieri, quindi difficilmente potrò far loro intendere
la descrizione che m’accingo a farne. Questa figura tira al basso
l’inferiore palpebra coll’indice della destra mano appoggiato all’osso
della gota, mentre la testa verso la stessa è inclinata. Convien
credere che un tal gesto fosse usato dagli antichi pantomimi e che
avesse diversi espressivi significati. Quello che lo faceva stava in
silenzio e parea che mediante quel muto linguaggio volesse dire: non
fidarti di lui; egli è scaltro e ne sa più di te; oppure: ei crede
di prendermi per giuoco: io l’ho colto: o finalmente: tu t’incammini
bene! Tu hai trovato pane pei tuoi denti. Colla mano sinistra, la
figura medesima fa quello cui gli italiani appellano _far castagne_,
gesto il quale consiste nel collocare il pollice fra l’indice e il dito
di mezzo, per far allusione alla fessura che si fa alla scorza delle
castagne, prima di arrostirle.

«Nello stesso gabinetto, si vede un Priapo di bronzo, attaccato
con una piccola mano facendo il medesimo gesto. Tal sorta di mani
frequentemente s’incontrano ne’ gabinetti, e tutti sanno che presso
gli antichi tenean luogo di amuleti, oppure, lo che è lo stesso, si
portavano siccome preservativi contro gli incantesimi e le cattive
occhiate. Per quanto ridicola fosse quella superstiziosa pratica,
nulladimeno si è essa conservata sino a’ nostri giorni nel basso popolo
del regno di Napoli. Io ho vedute parecchie di queste mani, che alcuni
hanno la semplicità di portare appesa al braccio o al petto. Il più di
sovente si attaccan eglino al braccio una mezzaluna d’argento chiamata
nel loro vernacolo la _luna pezziara_, vale a dire la luna puntata,
e che essi riguardano come un preservativo contro l’epilessia; ma è
d’uopo che quella luna sia stata fabbricata coll’elemosina raccolta da
quella persona stessa che dee farne uso; e che poscia venga portata
a un sacerdote affin ch’egli la benedica. Potrebbe darsi che il gran
numero di mezze lune, le quali trovansi nel gabinetto di Portici
servissero allo stesso oggetto di superstizione. Gli Ateniesi le
portavano al cuojo del tallone della loro calzatura sotto la cavicchia
del piede.

«Nel gran numero dei Priapi, alcuni se ne veggono con ali e con
campanelli appesi a catene intrecciate, e spesse volte la parte
superiore in una groppa di un lione, il quale si gratta colla sinistra
zampa, come fanno i piccioni sotto le loro ali, quando sono in amore,
e per eccitarsi, da quanto dicasi, al piacere. I campanelli sono di
metallo, legati in argento; il loro suono doveva produrre probabilmente
un effetto a un di presso somigliante a quello de’ campanelli che
veniano posti sugli scudi degli antichi; questi erano per ispirare
terrore; quelli avevano per iscopo di allontanare i cattivi geni.
I campanelli facean parte eziandio del vestimento di coloro che ai
misteri di Bacco erano iniziati.»

Ora, visitando il Museo Nazionale in Napoli, dove tutti gli oggetti
più importanti degli scavi, sì d’Ercolano che di Pompei, sono stati
diligentemente radunati e si vanno illustrando sotto la direzione
dell’illustre Fiorelli, si può visitare il gabinetto dove furono
rinchiusi tutti gli oggetti d’arte pornografici, come pitture erotiche,
statuette lubriche, emblemi itifallici ed altre congeneri curiosità,
ed anzi dagli studiosi, che pur da tutto argomentano per la storia del
costume antico, può essere acquistata separatamente presso l’Economo
della Amministrazione la _Raccolta Pornografica_, che forma una sezione
del Catalogo del Museo Nazionale.

Mette conto di qui far cenno delle sorti subite dalla Raccolta
Pornografica, epperò lascerò che parli il Fiorelli nello speciale
proemio mandato innanzi da lui al Catalogo summentovato di essa.

— La _Raccolta Pornografica_, scrive egli, fondandosi anche su quanto
ne scrisse il suo predecessore Marchese Arditi, venne costituita
nell’anno 1819, a richiesta di Francesco I, Duca di Calabria, il quale
nel visitare il Museo osservò che sarebbe stata _cosa ben fatta di
chiudere tutti gli oggetti osceni, di qualunque materia essi fossero,
in una stanza, alla quale avessero unicamente ingresso le persone
di matura età e di conosciuta morale_[161]. Essa fu composta di 102
oggetti, ed ebbe nome di _Gabinetto degli oggetti osceni_, che il 28
agosto 1823 mutò in quello degli oggetti riservati, con l’assoluta
inibizione di mostrarsi a chichessia, senza averne prima ottenuto il
permesso dal Re. Durò in tal guisa più o meno visibile sino al 1849,
quando la ipocrita religiosità degli agenti del Governo provocò ordini
severi, onde fossero chiuse e ribadite le porte di quella Raccolta, e
tolte dalla vista dei curiosi tutte le Veneri ed altre figure ignude
dipinte o scolpite, qualunque ne fosse l’autore.

E questo sacro fervore andò tant’oltre, che nel 1852 il Direttore del
Museo, dopo aver trasportati in un antro tutti i monumenti che già
avevano formata quella collezione e murata la porta di esso, chiedeva
che _si distruggesse qualunque esterno indizio della funesta esistenza
di quel Gabinetto e se ne disperdesse, per quanto era possibile, la
memoria_. Nè contento di ciò, nel marzo 1856 espulse dalla Pinacoteca
e rinchiuse con triplice e diversa chiave in luogo umido ed oscuro la
_Danae_ del Tiziano, la _Venere che piange Adone_ di Paolo Veronese,
il cartone di Michelangelo con Venere ed Adone, le _Virtù_ di Annibale
Caracci ed altri 29 dipinti, insieme a 22 statue di marmo, giudicate
corrompitrici della morale, tra cui la _Nereide sul pistrice_, che
sarebbe stata distrutta, se lo scultore Antonio Calì non si fosse
ricusato più volte ad occultare con restauri di marmo le nudità della
figura.

Finalmente, il giorno 11 settembre 1860, per ordine del Dittatore,
gli oggetti riservati rividero la luce, e si procedette al riscontro
dell’antico inventario nel 19 dicembre dello stesso anno. Fu allora
che molti se ne rinvennero non descritti, perchè trovati in Pompei
posteriormente alla chiusura di quelle sale, e furono aggiunti
all’antica collezione, che venne più opportunamente denominata
_Raccolta Pornografica_.

Un accurato esame di tali oggetti avendo dimostrato che non tutti
erano veramente osceni, e che molti di essi avrebbero potuto ritornare
alle rispettive collezioni senza offendere per nulla il pudore de’
riguardanti, alcuni di questi furono restituiti alle varie classi, onde
per tal ragione non fanno più parte del Catalogo pornografico.

Il quale enumera 206 oggetti, divisi in due classi principali: la prima
de’ _Monumenti greci ed etruschi_; la seconda de’ _Monumenti romani_;
suddivisa quest’ultima in varie sezioni: _a_, dipinture e musaici;
_b_, sculture; _c_, amuleti; _d_, utensili: e di tutti questi oggetti
descritti dal Fiorelli, ben centocinque furono raccolti dagli scavi
di Ercolano e di Pompei. Io mi dispenso dallo scenderne a maggiori
particolari e il discreto lettore ne comprenderà di leggieri la
ragione.

Faccio ora ritorno al più concreto argomento della prostituzione
sacra, per compiere il quale, finalmente debbo dire della festa che
si celebrava in onore della Buona Dea, i cui misteri già narrai come
fossero stati violati da Publio Clodio introducendovisi sotto spoglie
femminili, quando essi celebravansi nell’anno di Roma 678, nella casa
sul Palatino di Giulio Cesare pretore. Forse codesta dea rappresentava
la terra, la dea Tellure, e quantunque il suo tempio veramente
sorgesse tra Aricia e Bovilla, secondo si raccoglie dall’orazione di
Cicerone _pro Tito Annio Milone_, la sua festa avveniva in Roma prima
nel dicembre, e dopo la riforma del calendario fatta dallo stesso
Giulio Cesare, nel primo di maggio. Si celebrava essa al chiaror delle
torce, nella casa de’ primi magistrati, come consoli, pretori, o del
primo Pontefice. Non si ammettevano che donne, intervenivano anche
le Vestali. Perfino si escludevano gli animali maschi e la cautela
d’escluderne il sesso giugneva a tale da velare statue o quadri che
avessero alcun maschio rappresentato.

La superstizione insinuava che un uomo che avesse assistito a questi
misteri, anche senza intenzione di sorta, sarebbe rimasto cieco;
quegli che vi fosse studiosamente penetrato, se patrizio, voleva la
legge fosse multato di un quinquennio di carcere mamertino e quindi
di perpetuo esiglio; se plebeo, di morte. Clodio provò il contrario
rispetto alla cecità, e alla pena seppe sottrarsene per corruttela di
giudici.

La narrazione di questo curioso episodio è splendidamente
pennelleggiata da quel robusto ed originale ingegno ed amicissimo mio
che è Giuseppe Rovani, nella sua dotta, amena e squisitissima opera
_La Giovinezza di Giulio Cesare_, testè uscita per le stampe alla luce
a soddisfare la universale legittima aspettazione, e vi rimando il
lettore che amasse gustarvi la leggiadria di tutto quanto il racconto:
io credo far cosa grata al lettore collo spiccarvi qui almeno quelle
eleganti pagine le quali forniscono la descrizione della festa:

«Varcato il pronao e un ampio spazio che divideva l’antico palagio
dal nuovo, un lucente vestibolo biancheggiava delle conteste ossa
di elefanti indiani; cinque porte rivestite di ebano davano accesso
all’aula magna, e su quelle erano intarsiati i dorsi di testuggini
eoe, dagli occhi delle quali usciva la verde luce degli smeraldi. Il
procinto vi si aggirava dentro un cerchio; a quello facevan corona
binate colonne a capitelli d’oro, sulle quali rispianava un dorato
architrave che sosteneva tre colonne riproducenti in aria il giro delle
sottoposte. Le pareti interne erano di serpentino con intrecci d’armi.
Gli onici e le sarde lastricavano il pavimento, nel mezzo del quale
sfolgorava un mosaico d’Eraclito, che Cesare aveva fatto trasportar là
dai giardini di Servilio. Non v’eran lacunari, ma l’azzurro del cielo e
le stelle e la luna mandavano i loro raggi là dentro a mettere gara tra
il cielo e la terra.

«Le vestali, siccome voleva il rito, agli ornati architettonici avevano
aggiunti a profusione quelli della più fragrante flora romana, con
frutti e fiori d’ogni albero, escluso il mirto, siccome quello che
pareva interdire i pensieri della castità, chè le donne si preparavano
alla festa colle più rigorose astinenze; così almeno era creduto.
Le mogli per una settimana s’involavano agli amplessi maritali. Le
fidanzate e le fanciulle dovevano affannarsi a liberare la testa e il
cuore dai desiderj tentatori.

«Il simulacro della dea sorgeva nel mezzo del recinto. Una ghirlanda di
pampini ne cingeva la testa; un serpente era attortigliato intorno a’
suoi piedi. Innanzi alla base del simulacro stava un gran vaso colmo
di vino. Quel vino significava la religiosa tradizione, che ricordava
essersi la dea ubbriacata, mentre dimorava ancora in terra; onde Fauno
l’uccise con un bastone di mirto, facendola degna in così strano modo
dei doni immortali della divinità.

«Pure quel vino, che poscia veniva bevuto senza ritegno, chiamavasi
latte, a conciliare l’idea dell’astinenza coi protervi effetti che
produceva, e _Mellario_ il vaso che lo conteneva, onde è a sospettare
che quelle donne stessero innanzi alla dea, _velate di devota
incontinenza_, preparando così la frase al poeta futuro.

«Quando la vestale _damiatrice_ s’inginocchiò davanti al
simulacro, tutte le vestali, candide come cigni depurati dal rio,
s’inginocchiarono, e con esse quante matrone e spose e fidanzate e
fanciulle eran là convenute. Più presso al semigiro delle vergini
sacre stava l’insigne Aurelia, la madre di Cesare, venerata in Roma per
l’alto senno e le virtù volute e le consuetudini sante. Aveva raggiunto
il nono lustro: pure il freddo raggio lunare, turbato dalla calda luce
delle resinose faci, così beneficamente la vestiva, che due lustri
parevano scomparsi dal suo nobile volto. Accanto a lei stava genuflessa
Pompea, la moglie di Cesare, non amante della suocera, che non amava
lei. La beltà tramontante di Aurelia, dall’occhio espanso, lento e
solenne, e dai contorni che Tullio chiamò scientifici, e li dicea
segnati dal geometra Euclide, faceva contrasto colla diversa severità
della olimpica Pompea, severità ostentata per dissimulare le intime
accensioni.

«Non lungi da Pompea, vestita come una regina asiatica, coi piropi al
collo, alle braccia, ai brevi orecchi, si vedeva Servilia, la moglie
del penultimo Bruto, la madre dell’estremo. Peccatrice nata, pure il
peccato ella rendea perdonabile coll’intensità dell’affetto concesso
ad un uomo solo. Accanto a lei, volgevasi alla dea una giovinetta
adolescente della casa _Imperiosa_. Colla chioma biondissima e l’alba
pelle e l’occhio tinto di cielo e lucentissimo per la gagliarda
fosforescenza del cervello, sembrava accennasse alle Gallie, alla
Bretagna, alla Germania, e invitasse a non ancor noti connubii la
_cæruleam pubem_.

«Ma la _damiatrice_ pronunciò la preghiera, maritandola ad una
antichissima cantilena del Lazio:

«Castissima dea, che le assidue ripulse al Fauno procace, a te, ancora
terrestre, costaron sangue innocente; onde l’Olimpo ti accolse pietoso
nella propria luce, inspira e consiglia e sgomenta il senso delle
mortali che qui ti adorano. Rinnovella le virtù prische della neonata
Roma, e dalla muliebre purezza sia redento e salvo e fatto glorioso e
invitto il popolo romano.»

«Queste ultime parole, affidate alla stessa cantilena, vennero ripetute
in coro da quante donne erano là inginocchiate, alcune delle quali si
ribellavano all’alto concetto della preghiera.

«Quando tacquero i canti, la _damiatrice_ s’accinse a compiere il
sagrificio che chiamavasi _Damium_, da _Damia_, altro nome che teneva
la dea, donde venne l’appellativo alla sagrificatrice. Questa immolò
alcune galline di varii colori, tranne il nero; dopo di che, dodici
tra le più giovani vestali, immersero nel _Mellario_ altrettante
coppe d’oro, e così colme le recarono in giro. Tutte le donne ne
bevettero, e le vergini ivano e redivano colle coppe ognora vuotate
e ognora ricolme, continuando in tale servizio, finchè il _Mellario_
rimase esausto. Allora la sagrificatrice esclamò ad alta voce e in
lingua greca. _Evviva il frutto di Bacco_ — e tosto cominciarono le
danze bacchiche, e alquante donne, tra le più giovani e formose, e
indarno devote alla moglie del Fauno, travestitesi in Menadi e Tiadi
e Bassaree, le seguaci assidue di Bacco, si sciolsero le chiome,
svestirono le stole e i pepli prolissi e apparvero in pelli succinte,
scuotendo cimbali e tirsi e spade serpentine. Forse è perciò che agli
uomini era interdetta quella solennità sacra, perchè i fumi vinosi
esaltando nella danza vorticosa talune di quelle che eran sazie
della settimana oziata, le eccitavano ad imitare le ignude baccanti,
fors’anche per rivelare alle invide amiche le nascose bellezze»[162].

Ignorasi ciò che veramente accadesse in questi misteri della Bona Dea.
Clodio v’andò in tutti i modi sospinto da soli intenti di lussuria, e
come che scoperto, si vociasse per Roma, che a tanto avesse trascorso
per amor di Pompea, figliuola del magno Pompeo e moglie di Cesare,
questi, sebbene nell’orgoglio suo diniegasse la cosa, pur l’addusse a
causa di divorzio, con quelle parole, delle quali pur a’ dì nostri si
usò tanto ed abusò, _che la moglie di Cesare non debba tampoco venir
sospettata_, adoperandosi per altro alla assoluzione del dissoluto
profanatore dei sacri misteri.

Nell’epoca imperiale, il velame di questi si squarciò, e quali
cerimonie si compissero non fu più uomo che ignorasse. Giovenale,
l’implacabile poeta satirico, così li rese noti alla posterità:

    _Nota Bonæ secreta Deæ quam tibia lumbos_
    _Incitat et cornu pariter vinoque feruntur_
    _Attonitæ crinemque rotant ululantque Priapi_
    _Mænades. O quantus tunc illis mentibus ardor_
    _Concubitus! quæ vox saltante libidine! quantus_
    _Ille meri veteris per crura madentia torrens!_[163]

Lo stesso caustico poeta più giù nella stessa satira constata che
l’esempio di Clodio trovò imitatori di poi, nè i misteri della Bona
Dea soltanto venissero profanati, ma quelli pure d’altri numi ed ogni
altare:

              _Sed nunc ad quas non Clodius aras?_
    _Audio quid veteres olim moneatis amici:_
    _Pone seram, cohibe. Sed quis custodiet ipsos_
    _Custodes?_[164]

La memoria della festa della Buona Dea dovevasi per tali ragioni e
invereconde costumanze nel presente capitolo dell’opera mia menzionare
e molto più ancora perchè si sappia che certamente degenerasse
sempre più col tempo in licenza ed in abbominazioni; tanto così che
il medesimo Giovenale, parlando dei sacerdoti di essa, li avesse
a paragonare a quelli di Cotitto, che si celebravano egualmente di
nottetempo in Grecia fra le più sconce dissolutezze, onde i Bapti, che
così nomavansi i suoi ministri, fossero venuti nel generale disprezzo
de’ concittadini, ed Alcibiade che s’era fatto iniziare a’ loro
misteri, avesse ad uccidere il poeta comico Eupoli, che di ciò l’aveva
canzonato in una sua commedia.

In quel luogo Giovenale accenna che i misteri della Buona Dea si
fossero anzi fin da’ suoi giorni così sconvolti, che non più alle
donne, ma agli uomini si aprissero solamente.

                               _Accipient te_
    _Paulatim, qui longa domi redimicula sumunt_
    _Frontibus, et toto posuere monilia collo,_
    _Atque Bonam teneris placant abdomine porcæ,_
    _Et magno cratere Deam. Sed more sinistro_
    _Exagitata procul non intrat fœmina limen._
    _Solis ara Dea maribus patet. Ite, profanæ!_
    _Clamatur: nullo gemit hic tibicine cornu._
    _Talia secreta coluerunt orgia tæda_
    _Cecropiam soliti Baptæ lassare Cotytto_[165].

Dissi finalmente, nel cominciar a parlare della festa della Buona
Dea, non già perchè fosse ultimata la storia della prostituzione
sacra in Roma, ma perchè si assomigliassero poi tutti gli altri
molti abbominevoli culti che le più abbiette passioni avevano potuto
immaginare, ed ai quali piegavano anche quelle matrone romane che pur
affettavano schifiltose di non volersi mescere alle orgie di Venere.
Cupido, a cagion d’esempio, aveva i suoi riti; li aveva Mutino e
Pertunda, Persica e Prema, Volupia e Lubenzia, Tulana e Ticone, ed
altri infiniti quanti erano i modi di estrinsecar la lascivia, tutti
oscenissimi iddii che si facevano presiedere ad uffici che il pudore
vieta di qui spiegare.

Alla prostituzione religiosa, tenne dietro ben presto la legale,
per l’affluenza a Roma delle donne forestiere in cerca di fortuna e
massime delle auletridi greche condotte schiave; ma le donne che vi
si dedicavano erano notate d’infamia. Imperocchè le leggi cercassero
sempre di proteggere il costume, tal che le adultere venissero ne’
primi tempi ad essere condotte all’asino, e dopo essere state vittima
di questo animale, andassero abbandonate al popolaccio. Ho nel capitolo
della _Basilica_, parlando delle pene dell’adulterio, fatto cenno di
quelle specialmente in vigore in Pompei, d’una specie di gogna, cioè,
che all’adultera si infliggeva costringendola a percorrere le vie della
città a cavalcion d’un asino col dorso volto alla testa e rimanendo
così perpetuamente notate di indelebile vitupero. Ma il marchio
d’infamia non impedì che ne’ tempi del basso impero femmine libere
e di nobile schiatta, si dedicassero alla prostituzione, conseguendo
dagli edili il brevetto relativo, che si chiamava _licentia stupri_,
il qual consisteva nel farsi iscrivere nei ruoli meretricii col nome
di nascita e con quello che adottavano nell’infame commercio, e che
dicevasi _nomen lupanarium_ e tale iscrizione che le assoggettava alla
vigilanza dell’edile, implicava tal nota indelebile di infamia, che
anco il ritorno alla vita onesta, il matrimonio, o qualunque potere non
avevan forza di riabilitarle interamente o di farne cancellare il nome
dal libro infame.

Il dichiararsi cortigiana e farsi iscrivere tale nei registri
dell’edilità sottraeva l’adultera alle severe pene dell’adulterio, e
sotto l’impero — incredibile a dirsi — furon viste figlie e mogli di
senatori inscrivervisi sfrontatamente. Le matrone poi per abbandonarsi
alla vita dissoluta e sottrarsi al rigore delle leggi, vestivansi
da schiave e prostitute, esponendosi a que’ publici oltraggi cui
le schiave e le prostitute non avevano dritto a reclamo. Si sa di
Messalina moglie di Claudio imperatore, per l’episodio che di sfuggita
accennai più sopra, narrato da Giovenale, ch’essa, togliendosi al
talamo imperiale, sotto le vesti ed il nome di Licisca, si offerisse
nel più lurido lupanare di Roma agli abbracciamenti di schiavi e
mulattieri, e così spinse la impudenza nella libidine, che durante
un viaggio dell’imbecille marito, immaginò di contrarre publicamente
un secondo imeneo con Silio, lo che peraltro costò a quest’ultimo
la testa. Nè più savia fu l’altra moglie di Claudio, Urgalanilla;
nè migliori erano state quelle altre impudiche imperiali, che furono
Giulia, Scribonia e Livia; nè la Ippia, moglie del senatore Vejentone,
che abbandonando marito e figli seguì delirante Sergio, il guercio
gladiatore, comunque coperto di schifose deformità; nè Domizia,
adultera con Paride istrione.

Giovenale, nella succitata _Satira_ sesta, denunzia che non poche
mogli di cavalieri, di senatori e di più illustri personaggi si
abbandonassero a’ gladiatori ed istrioni, che avevano saputo piacer
loro, e nella terza satira accenna alla deplorevole introduzione nelle
primarie famiglie de’ frutti di questa infame prostituzione, quando
toccando della legge d’Ottone che nell’anfiteatro aveva assegnato i
posti alle varie classi di spettatori, grida:

                            _Exeat inquit,_
    _Si pudor est, et de pulvino surgat equestri,_
    _cujus res legi non sufficit; et sedeant hic_
    _Lenonum pueri quocumque in fornice nati._
    _Hic plaudat nitidi præconis filius, inter_
    _Pinrirapi cultos juvenes, juvenesque lanistæ_[166].

L’adulterio pertanto era divenuto comune, la vera piaga sociale: è
ancor Giovenale che la proclama un’antica cancrena:

    _Antiquum et vetus est alienum, Postume, lectum_
    _Concutere, atque sacri genium contemnere fulcri_[167].

Se spurii rampolli si mischiavano così alle famiglie, d’altro maggior
disordine erano gli adulterj cagione, negli infanticidi e nelle
esposizioni. Tenevan mano agli uni e alle altre le _sagæ_, venditrici
di filtri tessalici e di unguenti afrodisiaci troppo spesso perniciosi.
I luoghi che più d’ogni altro vedevano codeste esposizioni erano alla
_Columna lactaria_ nel Foro Alitorio, e più ancora sulle rive del
Velabro, da dove poi la Fortuna, più mite e compassionevole delle loro
madri, vegliando su gli infelici bambini, raccogliendoli, prestavali
alle sterili matrone che simular volevano un parto, od a coloro che si
volevan di essi giovare ad altri fini inonesti. Non puossi a meno che
ricorrere a Giovenale ancora, che ha lasciato della incontinenza di
allora la più fedele pittura:

    _Transeo suppositos, et gaudia vota que sæpe_
    _Ad spurcos decepta lacus, atque inde petitos_
    _Pontifices Salios, Scaurorum nomina falso_
    _Corpore laturos. Stat fortuna improba noctu,_
    _Arridens nudis infantibus; hos fovet ulnis_
    _Involvitque sinu: domibus tunc porrigit altis,_
    _Secretumque sibi mimum parat: hos amat, his se_
    _Ingerit, ut que suos ridens producit alumnos_[168].

Davanti a sì enormi fatti che minacciavan turbare l’ordine sociale,
dovevansi le leggi risentire e se più non si tornò alle esorbitanti
penalità di un tempo, e che più sopra ho ricordato, della legge Giulia,
la Papia Poppea vi provvide nell’anno u. c. 762, emanata nell’occasione
che si dovette pensare al modo di accrescere una popolazione che le
guerre civili e le sedizioni avevano decimata.

Questa legge prescrisse pene severe contro coloro che si rendevano
colpevoli di incesto e di adulterio.

Come facilmente può essersene accorto il lettore, la prostituzione
romana non porse spettacolo di quello spiritualismo, per così dire, che
presentò la prostituzione greca. Invano, ho già detto, si cercherebbe
nè un’Aspasia, nè una Leena, nè una Cleonice filosofe, nè una Saffo
poetessa, nè una Nicarete matematica; invano una bellissima Laide, che
per reverenza alla scienza ama e si prostituisce al cinico e sordido
Diogene, nè una politica Targelia, nè una buona e virtuosa Bacchide e
va dicendo: è appena appena se troverete le _famosæ_, che per solo il
desiderio di pubblicità e fama affettano d’essere amiche di Tibullo,
di Orazio, di Catullo, di Properzio e di Ovidio, ai quali saranno, dopo
d’averli ben innamorati o spiumati, infedelissime.

Nè per altro tutte costoro appartenevano alla classe volgare delle
sciupate, date per lucro alla prostituzione, ma ben anco uscivano da
patrizie e rispettate famiglie; epperò i loro appassionati poeti, per
una certa reverenza al casato, ne’ loro canti sostituivano ai veri,
simulati nomi. Così la Lesbia di Catullo, forse così nomata dal suo
Poeta per la particolarità de’ suoi gusti erotici, vuolsi altra non
fosse che la Clodia, discendente da una delle più cospicue famiglie
di Roma, la Claudia, alla quale appartennero e il tribuno Claudio
e Appio il Cieco, che ambo Cicerone circonda di tutta venerazione
nella sua arringa _Pro Marco Cœlio_, per quel giovine Celio, cioè,
ch’egli difese calorosamente appunto dalle accuse dategli da Clodia
d’averle preso dell’oro e di avere tentato d’avvelenarla, accuse
che si conobbero effetto di vendetta per essersi veduta da lui
abbandonata. Era ella inoltre sorella di quel Publio Clodio, che più
sopra ho ricordato come l’eroe della profanazione de’ misteri della
Bona Dea e che fu l’acerrimo nemico del Romano Oratore, e moglie di
Quinto Metello, cui Cicerone stesso tributò gli encomj maggiori come
chiarissimo, valorosissimo uomo ed amantissimo della patria. Comunque
lo sventurato Poeta avesse ogni dì prova delle lascivie di lei, sì che
scendesse a commetterle _in quadriviis et angiportis_[169], com’ei ne
scrive al suddetto Celio, e venisse designata coll’infame nomignolo di
_Quadrantaria_, a significare il vil mercato che faceva di sè medesima,
non seppe tuttavia levarsene l’amore dal cuore, tanto da morire
amandola ancora del più costante amore:

    _Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris._
    _Nescio; sed fieri sentio et excrucior_[170].

Anche la Cinzia di Properzio pretendesi fosse una Ostilia, che si
vorrebbe da’ commentatori far discendere da Tullo Ostilio terzo re di
Roma, certo da un Ostilio, che dicono erudito scrittore, autore d’una
storia della guerra dell’Istria. Ella stessa di maestosa ed elegante
statura, di bionda capellatura e di man delicata e aristocratica, come
Properzio medesimo la dipinge, era appassionata assai dell’arti belle e
più che tutto della poesia, onde a lei pure rendessero omaggio quelli
altri esimii che furono Cornelio Gallo, Orazio e Virgilio, i quali a
lei leggevano gli immortali loro carmi e ne chiedevano il suffragio.
Tuttociò non impedì che la leggiadra e capricciosa Cinzia, per recarsi
a’ notturni convegni col suo Poeta, si calasse giù poco maestosamente
da’ balconi della propria abitazione[171]; non impedì che gli facesse
infedeltà frequenti e che traesse _in casto Isidis_, agli esercizi non
sempre spirituali, soventissime volte pretesto ad orgie oscenissime;
onde Properzio a quest’anniversario Isiaco avesse ben ragione
d’imprecare e maledire, come già ne appresi al lettore nel metterlo a
parte de’ misteri di quella Dea nel capitolo de’ Templi.

L’episodio tuttavia della gelosia di Cinzia verso Properzio, quale è da
quest’ultimo descritto nell’elegia ottava del Lib. IV, allorchè ella il
sorprende alle Esquilie colle cortigiane Fillide e Teja in mezzo alle
coppe del vin di Lesbo, è tal gustosissimo quadretto di genere, che
mette conto di riferirlo, riducendolo dallo splendido verso originale
all’umile mia prosa.

Cinzia, nell’occasione che a Lanuvio, antico municipio del Lazio tra
Riccia e Velletri, ove esisteva un santuario singolare pel culto di un
drago, che poteva essere per avventura il Genio del luogo, si celebrava
la festa del drago stesso e ad un tempo quella di Giunone Sospita,
ossia della salute, tratta in un carpento d’un suo vagheggino da due
gallici corridori bai, volle pure recarvisi. Ella medesima guidava
i cavalli e via trapassando per chiassi impuri, la gentaglia che si
trovava in una bettola sul suo passaggio, ne fece argomento di discorso
e tale come ben si meritava. Quindi i parlari e gli alterchi sulla
bellezza, sull’età, sui costumi di lei, sull’oggetto della sua gita, e
tuttociò alle spalle del suo povero amatore. Properzio, a vendicarsi di
cotale perfidia, volle renderle pan per focaccia e invitate seco certa
Fillide, che abitava presso il tempio di Diana Aventina e cui i fumi
del vino crescevano vaghezza,

    _Sobria grata parum; quum bibit omne decet_[172],

e certa Teja, che dimorava nel boschetto Tarpeo e che ne’ bagordi
avrebbe sfidato il più fiero bevitore,

    _Candida; sed potæ non satis unus erat_[173],

si pose con esse sul letto tricliniare a mensa, serviti dallo schiavo
Ligdamo di vino di Metimno, e facendo accompagnar l’orgia dai suoni
della tibia e dal tamburello, suonata la prima da garzone egizio,
il secondo da donzella di File, isola tra l’Egitto e l’Etiopia. Non
mancava nell’intermezzo il nano buffone co’ suoi lazzi, colle sue
capriole e colle castagnette che scuoteva.

Ma la lampada non dava la fiamma vivace, la tavola cadde, e quando si
pose a giuocar coi dadi, sempre gli usciva il cane, cioè il punto più
disgraziato: indizii tutti codesti di non lieto augurio.

Intanto le baldracche, eccitate dal vino, cantavano alla distesa e si
scoprivano il petto lascivamente a provocare il Poeta; ma Properzio,
sempre il pensiero alla sua Cinzia, non curante di esse, viaggiava col
cuore a Lanuvio.

Quand’ecco, stridono i cardini della porta, s’ode un parapiglia, è
Cinzia, ella stessa che rovescia l’uscio, furibonda si scaglia in mezzo
all’orgia, e primieramente caccia le unghie in faccia a Fille. Teja
non attende che la tempesta si scaraventi pur su di lei, si precipita a
fuga gridando acqua, quasi si trattasse d’incendio, ed a Properzio, che
attonito aveva lasciato cader tosto la tazza colma, Cinzia fa sfregio
al volto colle mani, addenta e sanguina il collo e più specialmente,
come quelli che sieno i più rei, cerca offendergli gli occhi. Quindi fa
sbucar dal letto, dove disotto s’era accovacciato, Ligdamo lo schiavo,
gli strappa di dosso gli abiti e chi sa cosa gli stava per toccare, se
il Poeta supplichevole non ne avesse frenata la furia. Cinzia allora
porge a Properzio, in segno di perdono, a toccare il piede; ma detta al
tempo stesso le seguenti condizioni di pace:

    _Tu neque Pompeja spatiabere cultus in umbra,_
      _Nec quum lascivum sternet arena forum._

    _Colla cave infectus ad summum obliqua theatrum,_
      _Aut lectica tuæ sidat operta moræ._

    _Ligdamus in primis omnis mihi causa querelæ_
      _Veneat et pedibus vincula bina trahat_[174].

Properzio sottoscrive alle condizioni, Cinzia sorride della vittoria,
quindi fa dappertutto fumigazioni, quasi a cacciare ogni miasma
lasciato dalle partite meretrici, solfora i panni del Poeta, poi tre
volte descrive un cerchio intorno al capo di lui coll’acceso zolfo, e
quando la purificazione è compiuta, suggella seco lui la pace.

Dopo tutto, ella lo amava profondamente: fu vista dopo una lunga
malattia di lui, prosternata al piè degli altari, propiziar Iside e
ringraziarla della riavuta salute del suo fedele.

Ma Cinzia, la gentile amante ed ispiratrice di Properzio, nel fior
dell’età moriva, avvelenata da Nomade, laida cortigiana, per non so
quale affronto ricevuto, e lui non presente: egli ne fu inconsolabile,
ne onorò con dolenti elegie la memoria, sparse di fiori la sua tomba,
anche quando altri per tema di possenti vendette non l’osava, e di poco
le sopravvisse.

Anche la Delia di Tibullo, vuole Apulejo che velasse il proprio nome di
Plania, la quale varii commentatori additano come un’illustre patrizia
romana, mentre altri la vorrebbero semplicemente liberta. Vogliono pure
che una sola fosse quella che il Poeta nominò nelle sue elegie come
Delia, come Nemesi, come Neera, come Sulpicia e come Glicera. Che se
fossero invece tante distinte amanti, avremmo allora la prova della sua
incostanza.

Preferisco credere al sentimentalismo delle sue elegie e ritenere che
la sua Delia gli abbia veramente tutto rapito ed occupato il cuore,
come la Lesbia tenne quello di Catullo e Cinzia quello di Properzio.

Se non che, se la Sulpicia fu amante di Tibullo, se non forma che
una sola persona colla Delia, non sarebbe più la patrizia Plania,
come vorrebbe Apulejo, ma la figliuola di Servio Sulpicio, uno de’
più grandi personaggi della sua epoca, e la quale peraltro si sa non
arrossisse di dire _essere stanca di comporre il suo volto per la cura
del suo buon nome_.

I rigori poi di Glicera, di cui si lagna il Poeta, potevano essere
causati da quel suo decadimento di forze fisiche, le quali prima,
per testimonianza di Orazio, interamente possedeva, congiunte alla
bellezza, alla grazia, alla nobiltà dell’animo ed all’abbondanza dei
beni di fortuna; e forse trovavano altresì la loro ragione d’essere
nella dissipazione di questi ultimi, che l’avevan ridotto, se non
all’indigenza, certo alla povertà; e queste _famosæ_ avevan davvero
animo di dar fondo a ben più che un ricco patrimonio.

Vengo ora al poeta maestro in amore, al cantor delle _Eroidi_ e delle
_Metamorfosi_, del _Rimedio d’Amore_ e del _Liscio_.

Non è dato scoprire chi si celasse sotto il nome della Corinna di
Ovidio. Aveva ella marito, ma ciò, stando al Poeta, nulla ostava a’
suoi amori con lei, s’egli lo chiama _lenone marito_. Ovidio la canta e
fervidamente mostra di amarla; ma ella non è più pudica delle altre sue
pari, nè più fedele; ond’egli, soventi volte posposto ad altri, passava
le notti davanti la porta di lei, quando pure non lasciavasi consolare
dalla bella Cipassi. Ma finalmente gli amici suoi, ponendogli sotto gli
occhi la impudente prostituzione di Corinna, ch’egli aveva continuato
a immortalar ne’ suoi versi, non impedito dall’affetto casalingo per
la moglie, casto e freddo così da non esserne seguitato nell’esiglio
del Ponto, — ne lo distolsero, ma fu grande cordoglio pel suo cuore,
perchè egli avevala fortemente amata; onde il Petrarca nel _Trionfo
dell’Amore_, potesse Ovidio mettere così giustamente insieme agli altri
tre poeti, degli amori dei quali ho testè narrato:

    L’uno era Ovidio, e l’altro era Catullo,
      L’altro Properzio, che d’amor cantaro
      Fervidamente, e l’altro era Tibullo.

E buttossi allora ad altri e più volgari amori, senza che per altro
ne impegnasse seriamente il cuore. Scrisse sulle ginocchia di queste
figlie del piacere quel codice di voluttà, che intitolò _Artis
Amatoria_, ma eran lascivie estranee al sentimento; perocchè ai teneri
amori avesse, come dissi, veramente detto addio per sempre e chiusa la
carriera di essi, dicendo:

    _Quære novum vatem, tenerorum mater amorum_[176].

D’un suo episodio giudiziario d’amore avanti ai Treviri, e del quale fu
egli per avventura il protagonista, ho già informato chi legge, recando
nel capitolo della Basilica i suoi versi medesimi che lo descrivono e
sono altresì prezioso documento di storica giurisprudenza.

Taluni attribuirono ad Ovidio un altro amore, e più illustre, cagione
del suo esiglio a Tomi nel Ponto Eusino, da dove invano ebbe a
supplicare tanto da Augusto che da Tiberio, d’essere richiamato, e
lo dedussero da’ seguenti versi della Elegia I. del libro II. _dei
Tristi_:

    _Cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci?_
      _Cur imprudenti cognita culpa mihi?_
    _Impius Actaeon vidit sine veste Dianam,_
      _Præda fuit canibus non minus ille suis_[177].

Voltaire istesso si lasciò andare per ciò a questa sua conghiettura:
«Il poeta acceso di segreta fiamma per la moglie di Augusto, ebbe la
sventura di vederla nel bagno e ciò indusse il geloso marito a relegare
a Tomi l’indiscreto osservatore de’ fatti altrui.» Ma Voltaire, osserva
a tale proposito Ermolao Federico[178], dimentica al certo che la
bella Livia quando lasciavasi così incautamente sorprendere dal novello
Atteone, era madre di un figliuolino di anni cinquanta.

Meglio è avessero essi avuto di mira gli altri versi di Ovidio nella
Elegia V, lib. III dei medesimi _Tristi_:

    _Inscia quod crimen viderunt lumina plector_
      _Peccatumque oculos est habuisse meum_[179]

e l’altro:

    _Perdiderint cum me duo crimina: carmina et error_[180],

ed altri ancora, e l’Ermolao che vagliò a fondo la questione, così
stabilisce nel modo che segue i fatti, che io pure riferendo, credo
illustrare ognor più le nozioni storiche della prostituzione.

Il giovane Postumo Agrippa, nipote di Augusto, era stato in pena delle
sue stramberie relegato verso la fine dell’anno di Roma 761 dall’avo
in Sorrento. Giulia, sorella di lui, giovane donna al pari della madre
di coltissimo ingegno e di questa al pari sfrenatissima ne’ costumi,
veniva pure pei molteplici adulterii esiliata da Augusto nell’isola di
Tremiti dapprima e poscia sul continente. Arbitra dunque la moglie di
Paolo Emilio delle proprie azioni, non ci meraviglia che le prendesse
desiderio di visitare in Sorrento il giovane fratello, che forse da due
anni ella non aveva veduto.

E non ripugna alla ragione, scrive l’Ermolao Federico, che a quella
visita il vecchio Augusto consigliasse la nipote, acciocch’ella
potesse conoscere l’indole feroce del giovinetto; o per lo meno vi
acconsentisse. Comunque ciò fosse, non poteva al certo quel divisamento
rimanere ascoso alla Livia, alla quale stava troppo a cuore tuttociò
che riguardava il giovane Agrippa, che quantunque allora in disgrazia
dell’avo, pure era il solo che avesse potuto contrastare al suo diletto
Tiberio la successione al trono imperiale. Nè credette forse opportuno
di porre impedimento a quella visita, sperando anzi che dalla unione
di quei due capi sventati fosse per uscirne un qualche grave disordine
favorevole a’ suoi disegni: riserbandosi però l’usato diritto di
spiarne tutte le mosse attentamente.

Essendo Ovidio familiarissimo della giovane Giulia, come può credersi
di uomo famoso per le opere del poetico ingegno e per la gentilezza
de’ costumi, e che trovavasi allora in età abbastanza avanzata per
poter esser considerato quasi a lei padre, non è maraviglia ch’ella
il prendesse a compagno in quel viaggio, proponendosi forse nel suo
bizzarro pensiero che l’animo rozzo e brutale del giovane relegato
potesse inclinare a gentilezza, udendo forse per la prima volta
la dolcezza dei versi di quel provetto maestro dei teneri amori.
Il giovane prigioniero, annoiato dalla lunga solitudine, accoglie
lietamente gli ospiti amabili. Siedono a lauta mensa in numero non
maggiore delle Grazie ed allontanata l’incomoda turba di servi, il
precettore degli amori viene eccitato dalla Giulia a recitare innanzi
al rustico giovinetto quei versi che gli procacciarono tanta fama
presso al gentil mondo romano. In mezzo agli spumanti bicchieri, il
poeta s’abbandona liberamente a tutte le ispirazioni della Sotadica
musa[181]. Gode la Giulia di osservare il rustico fratello commoversi
ad amabili sensazioni, e non che reprimerle, le fomenta. Troppo tardi
il poeta s’accorge del periglioso effetto de’ suoi versi, imperciocchè
gli sfrenati giovani tra le fiamme di Venere e di Bacco, spinti
inoltre dalla pravità dell’indole loro, non rispettano la presenza del
vecchio cantore per differire ad altro momento lo sfogo de’ loro infami
desiderj.

Questo fu il delitto al qual Ovidio trovossi mal suo grado testimonio,
e del quale a lui ripugnò farsi per avventura ad Augusto delatore.

Le tante ragioni che rendono probabile questa essere stata la causa
della sua disgrazia chi vuol conoscere parte a parte, vegga i suddetti
discorsi di Ermolao Federico, che l’Antonelli di Venezia mandò inanzi
alla sua edizione dei volgarizzamenti dei poemi d’Ovidio col testo a
fronte.

Progredendo a dire delle _famosæ_ de’ poeti, non lascerò senza menzione
la Citeride di Cornelio Gallo, figliuola forse di quella Citeride che
amò Giulio Cesare, e alle libere comessazioni della quale non isdegnò
il grave Marco Tullio Cicerone di intervenire conviva, e che Gallo
cantò sotto il nome di Licori, perocchè omai uopo sia riconoscere
che fosse un vezzo di sostituire ai veri, nomi supposti ne’ carmi
che dovevano correre per le mani del pubblico. Ma eguale sventura che
agli altri poeti, toccò in amore anche a Gallo. Reduce dalla guerra
coi Parti e ferito, non trovò più fedele la sua Licori, ch’egli aveva
sì amorosamente cantato: onde cercò allora altri affetti nelle due
sorelle Genzia e Cloe, poi nella giovinetta Lidia leggiadra e ingenua;
ma per quanto si studiasse di esaltarne i pregi, mai i nuovi amori
non raggiunsero la forza del primo, fenomeno consueto in codesta
passione, che ricusa ogni logica di ragionamento. È un vero peccato
che il poema in quattro canti sugli amori per Licori non sia giunto
infino a noi, se veramente ha meritato che Quintiliano ne paragonasse
l’autore a Tibullo, a Properzio ed Ovidio e del suo vivente godesse
dell’universale rinomanza come degno di star fra costoro. Anche
le poche poesie che a lui sono attribuite, son soggetto di molte
controversie tra i filologi, e la parte che gli è attribuita con meno
di inverosimiglianza consiste in una elegia, della quale parecchi versi
sono per soprammercato taluni incompiuti e taluni distrutti ed in tre
soli epigrammi.

Le Delie, le Lesbie, le Neere, le Corinne, le Cinzie e le Lidie se
ispirarono canti leggiadri a’ loro poeti amanti, strapparono altresì
da essi imprecazioni e maledizioni, che ci sono pervenute del pari ne’
loro mirabili versi.

Accennai delle infedeltà di Lesbia a Catullo: l’infelice poeta invocava
dagli Dei d’essere liberato da questo amore che chiamava la sua peste,
perocchè tanto più sentiva d’amarla, quanto meno sentiva di stimarla:

    _Nulla potest mulier tantum se dicere amatam_
      _Vere, quantum a me, Lesbia, amata mea es._

    _Nulla fides ullo fuit umquam fœdere tanta,_
      _Quanta in amore tuo ex parte reperta mea est._

    _Nunc est mens adducta tua, mea Lesbia, culpa,_
      _Atque ita se officio perdidit ipsa pio;_

    _Ut jam nec bene velle queam tibi, si optima fias,_
      _Nec desistere amare, omnia si facias_[182].

La Cinzia, tuttochè la provai gelosa e colta e stimata da Properzio
non solo, ma pur dagli altri illustri di allora; non ne procacciò meno
colle sue incostanze gli sdegni, e senza dir delle altre elegie, nelle
quali sfoga i suoi risentimenti contro di lei, leggasi l’elegia XXV del
Lib. III, che altro non è che un addio di maledizione ch’egli le manda
per averlo reso la favola di tutti.

Bastino al mio proposito questi versi:

    _Risus eram positis inter convivia mensis_
      _Et de me poterat quilibet esse loquax_[183].

Delle querimonie per i rigori di Delia e di Glicera e di Nemesi son
piene le elegie di Tibullo; e quelle di Cornelio Gallo per l’infedeltà
della Licori, e in difetto del suo poema, che perì come dissi, dobbiamo
starcene alle allegazioni di Donato biografo di Virgilio, di Servio
scoliaste di Virgilio stesso e di Quintiliano.

Ma chi più di tutti lasciò imperituri monumenti d’ira e di maledizione
per le amanti sue, è Orazio Flacco, il più epicureo de’ poeti latini,
ma in ricambio principe della lirica della sua lingua.

Se non che Orazio, che aveva detto amare la facile Venere e le
cortigiane più alla mano e sguaiate:

    . . . . _namque parabilem amo Venerem facilemque_
    _Illam, post paulo, sed pluris, si exierit vir_[184],

parmi avrebbe perciò appunto dovuto essere più ragionevole e attendersi
queste infedeltà ed epicureo com’era, volando da questa a quella
simpatia, appare assurdo che pretender volesse da quelle donne costanza
negli amori.

Seguendo i suoi carmi, si può ritessere la storia della sua vita
voluttuosa ed erotica. La prima che si affacci è Neera, che tenne per
oltre un anno, ed era valente cantatrice. Povero scriba e non anco
famoso per le sue poesie e non ancora protetto da Mecenate discendente
da atavi regi, nè però avendo di che pagarla, tornava assai difficile
legarla a sè con vincolo di costanza e da lei abbandonato per correre
agli amplessi di più facoltoso, si fa di necessità virtù e se ne
ricatta predicando egual sorte al proprio successore.

Cominciando poi a farsi conoscere letterariamente, gli avvenne di
stringere conoscenza con una illustre patrizia, della quale non si sa
il nome, ma pare che putisse alquanto di poesia come di dissolutezza.
Costei seppe accalappiarlo e l’ebbe alcun tempo nella sua soggezione,
finchè egli seppe scuoterne il giogo e quand’ella a ricuperarlo si
faceva a ingiuriare la nuova amante di lui, questi allora ne rintuzzò
gli strali co’ più sanguinosi epigrammi.

Poi è alla buona Cinara che volge il suo cuore e di lei si rammenta
anche quando le brine dell’età presero a imbiancarle il capo. Ma egli
l’abbandonava per cedere agli artifici di Gratidia, bella, ma vile
profumatrice e saga, che spacciava filtri afrodisiaci ed esercitava
magia, ma che però non seppe valersene tanto da rattenerlo a lungo.
Egli anzi, per sottrarsi a tutti i suoi maleficj, la designò a comune
disprezzo, rivelandone co’ suoi terribili versi le esecrabili pratiche
libidinose all’Esquilino, e le turpitudini tutte sotto il nome di
Canidia, che quind’innanzi per lui passò nel volgare linguaggio come
sinonimo di avvelenatrice, accusandola perfino che a’ suoi nemici ella
cercasse propinare veleno, del quale egli, che le si era nimicissimo
dichiarato, non ne morì per altro:

    _Canidia, Albuti, quibus est inimica, venenum_[185].

La dipintura ch’egli ne fa nella _Satira_ VIII, lib. I è orribile:
sarebbe troppo lungo il riferirla.

Ebbe di poi Inachia, quindi Lice tirrena, che molto amò e alla porta
della quale, facile per tutti, rigorosa a lui, sollecitò lungo tempo
i favori e sembra inutilmente; ma dopo alcun tempo, venuta meno la
di lei bellezza, prese a vituperarla. Sfiorò appena l’amore di Pirra,
senza neppure commoversi nel sorprenderla in braccio ad altro giovane
amatore. Delirò poi per la giovinetta Lalage, liberta e amante del suo
amico Aristio Fusco; poscia per Giulia Varina, liberta della famiglia
Giulia e che cantò sotto il nome di Barina.

Dichiarò a Tindaride cantatrice vaghissima la sua passione e le
profferse il suo cuore; ma la madre di lei, amica di Gratidia, volle
sconsigliarla dall’accoglierlo, come quegli che sì indegnamente avesse
trattato coll’amica sua, esponendola alla universale abominazione: onde
il poeta pensò ammansar la ritrosa, esaltandone la bellissima madre e
riuscì.

Dalla vezzosa Tindaride passò a Lidia che gli fu resa più appetibile
dalla concorrenza di Telefo, a cacciarle il quale dal cuore, non
valsero consigli e carmi; che anzi conseguì contrario effetto, perchè
fu messo alla porta. Non si diè ciò malgrado per vinto ancora e curato
che Telefo fosse alla sua volta scalzato da Calaide, ritornò a lei e
seguì infatti la riconciliazione. L’interregno non lo aveva tuttavia
tenuto inoperoso; esercitò gli affetti con Mirtale liberta, indi con
Cloe, la bella schiava di Tracia.

Ma Lidia tornò a Calaide e Orazio a Cloe, che presto abbandonò per
Fillide liberta di Santia, e questa pure per la Glicera, ch’era stata,
come vedemmo, di Tibullo. Ed ammalò anzi per lei per irritabilità di
nervi e a lei sagrificò parecchie delle passate amanti, vituperandole
ne’ suoi versi, giusta il suo mal vezzo, spesso diviso dal _genus
irritabile vatum_[186], lo che non impedì che venisse dall’attempata
cortigiana un bel dì congedato.

Volle ritornare a Cloe, ma ne fu dispettato, perocchè ella si fosse
invaghita di Gige, che alla sua volta correva presso di Asteria, e
Orazio, a vendicarsi del rifiuto, incoraggiava co’ suoi carmi gli amori
di Gige ed Asteria.

Si volse allora a Lida, auletride, ma l’amore che li stringe qualche
tempo risente dell’età, la qual più si piace dell’orgia che non del
tenero sentimento, e con questa passione tutt’altro che gentile chiuse
l’immortale poeta degli Epodi e delle Satire la poco dicevole carriera
de’ suoi amori libertini.

Più inanzi dirò di altri più depravati gusti di Orazio, ch’ei
divideva d’altronde coll’età ed anche cogli altri poeti più teneri
e sentimentali, come quelli che prima di lui ho ricordato; con ciò
vedendosi come al libertinaggio del tempo, in essi si congiungesse
quello di una più ardente fantasia.

Dovendomi ora arrestare in questo storico compendio della romana
prostituzione a dire degli uomini e delle cose infino all’epoca della
catastrofe pompejana, con che per altro ritraesi più che abbastanza per
fornirne quasi completo il quadro, tutto il restante non essendo che
varianti di epoca e di nomi, non mi posso dispensare dall’accennare
a Petronio Arbitro, ed a Marziale, del _Satyricon_ del primo e degli
_Epigrammi_ del secondo già m’occorse di allegare in quest’opera
l’autorità, da che que’ due volumi costituiscano, colle storie di
Tacito e di Svetonio, i documenti più autentici e irrecusabili della
romana dissolutezza al tempo dell’impero.

Sa già il lettore essere il _Satyricon_ di Tito Petronio Arbitro un
romanzo, o dipintura dei tempi e de’ costumi della Roma dell’impero,
e l’universale consenso de’ commentatori ed interpreti ha determinato,
sulla fede di Tacito, che Nerone ne sia il protagonista sotto il nome
di Trimalcione, uomo estremamente appassionato d’ogni sorta di voluttà
e fornito di vivacità e di cognizioni confusamente ammassate. Avendo
Petronio avuto il sopranome di Arbitro, perchè fosse a comune notizia
esser egli il direttore de’ piaceri del Principe, può farsi agevolmente
ragione ognuno se viva e verace dovesse riuscire la descrizione ch’egli
ha fatto di essi.

Marco Valerio Marziale venuto verso l’anno 40 dell’era volgare dalla
nativa sua Bilbili — piccola città della Spagna nel regno d’Aragona e
poco lungi dalla moderna Calatayud — a Roma, ebbe eziandio forse nella
sua concittadina Marcella, della quale celebra l’ingegno, le grazie
e la gentilezza nell’_Epigramma_ 21 del lib. XII, la sua _famosa_,
se pure ella non fosse, come opinò lo Scaligero, la moglie sua. Ma
di questa Marcella non sappiamo di più dalle indiscrezioni del poeta,
all’infuori che nella villa di lei egli andasse a passare gli ultimi
suoi anni. Della moglie poi che realmente egli ebbe, se in più d’un
epigramma ne parlò, e se Domiziano gli ebbe a concedere in mercede
de’ suoi poetici studi il così detto diritto dei tre figli, il che
implicava la concessione di diversi privilegi, come già ebbi ad esporre
nel capitolo antecedente delle Case, trattando della famiglia, ed egli,
il poeta, togliesse da ciò pretesto per congedarla:

    _Natorum mihi jus trium roganti_
      _Musarum pretium dedit mearum,_
      _Solus qui poterat: valebis uxor:_
      _Non debet domini perire munus_[187].

Il volume degli _Epigrammi_ di Marziale ribocca di oscenità, quantunque
non lo disdegnassero perfino le matrone padovane, che andavano
celebrate per castigatezza di morale, e così aperte e senza velo esse
sono, che il Pontano ebbe ragione di dire che taluni epigrammi sono
tanto impudenti e inverecondi, che neppure sveglino concupiscenza.
Avviene infatti lo stesso delle pitture e delle statue, che meno
impudiche appajono quando rappresentino senza adombramento di sorta
il nudo, mentre, pel contrario eccitino vieppiù a lascivia, se qualche
parte appena della figura sia dall’artefice lasciata ignuda.

Nondimeno, ripeto, in questi brevi componimenti sono ricordate tutte
le forme di libidini famigliari a quel tempo depravato, e l’italiano
traduttore infatti, — il cavaliere P. Magenta — pel maggior pudore
della lingua nostra, com’egli avvisa, dovette omettere espressioni
od usare circolocuzioni, o sostituirvi anche sentimenti proprii, a
palliare l’osceno.

Aveva allora veramente ragione Turno, il poeta satirico del tempo di
Marziale, quando lamentava nel suo poema _In Musas infames_ (del quale
non abbiamo sventuratamente che un frammento), che la poesia e i poeti
contribuissero a tutta questa depravazione, rilegando le vergini muse
al Lupanare. Sola reliquia e di breve proporzione di quel disdegnoso
poeta, stimo riesca gradito al lettore il presentargliene il testo e in
nota l’intero volgarizzamento, da me stesso espressamente condotto. È
d’altronde così strettamente connesso al tema che svolgo nel presente
capitolo, che parmi vi abbia tutta l’opportunità.

            _IN MUSAS INFAMES_[188].

      _Ergo famem miseram, aut epulis infusa venena_
    _Et populum exsanguem, pinguesque in funus amicos,_
    _Et molle imperii senium sub nomine pacis,_
    _Et quodcunque illis nunc aurea dicitur ætas,_
    _Marmoreæque canent lacrymosa incendia Romæ,_
    _Ut formosum aliquid, nigræ et solatia noctis._
    _Ergo re bene gesta, et leto matris ovantem,_
    _Maternisque canent cupidum concurrere Diris,_
    _Et Diras alias opponere, et anguibus angues,_
    _Atque novos gladios, pejusque ostendere letum!_
    _Sæva canent, obscena canent, fœdosque hymenæos_
    _Uxoris pueri, Veneris monumenta nefandæ!_
    _Nec Musas cecinisse pudet, nec nominis olim_
    _Virginei, famæquæ juvat meminisse prioris._
    _Ah! pudor exstinctus, doctæque infamia turbæ._
    _Sub titulo prostant: et quis genus ab Jove summo._
    _Res hominum supra evectæ, et nullius egentes,_
    _Asse merent vili, ac sancto se corpore fœdant._
    _Scilicet aut Menæ faciles parere superbo,_
    _Aut nutu Polycleti, et parca laude beatæ;_
    _Usque adeo maculas ardent in fronte recentes,_
    _Hesternique Getæ vincla et vestigia flagri._
    _Quin etiam patrem oblitæ et cognata deorum_
    _Numina, ed antiquum castæ pietatis honorem._
    _Proh! Furias et monstra colunt, impuraque turpis_
    _Facta vocant Titii mandata, et quidquid Olympi est_
    _Transcripsere Erebo. Jamque impia ponere templa,_
    _Sacrilegasque audent aras, cœloque repulsos_
    _Quondam Terrigenas superis imponere regnis,_
    _Qualicet, et stolido verbis illuditur orbi._

Nè solo Turno alzava la poderosa voce a stimmatizzare quel tempo:
perocchè non meno terribile scagliasse il giambo d’Archiloco il severo
Giovenale, del quale ben disse il Nisard che basterebbe con Tacito
alla completa storia del costume d’allora. Tutte le satire da lui
lasciate e massime la prima, la sesta e la nona rimarranno monumenti
più durevoli del bronzo della infame prostituzione dell’epoca. Le altre
pingono e stigmatizzano altre piaghe non meno deplorevoli, altri uomini
non meno ributtanti; e sa il lettore quante volte dovessi ricorrere
alle citazioni di questo poeta per aggiungere autorità e fede a cose
che altrimenti sarebbero sembrate incredibili. Svetonio, nella vita
dei Cesari, la _Storia Augusta_ e la _Vita d’Eliogabalo_ lasciata da
Lampridio, forniscono solo diversi osceni particolari, il parossismo
della depravazione spinta alla demenza: il fondo rimanendo pur sempre
lo stesso.

L’austerità nondimeno di Giovenale mal saprebbesi conciliare
coll’impudicizia di Marziale, entrambi essendo da franca amicizia
legati. Il poeta epigrammatico con alcuni versi gli accompagna il
dono delle noci ch’ei chiama saturnalizie[195]; con altri diretti ad
un _Maledico_ si scaglia contro costui, perchè avesse tentato mettere
discordia fra lui e l’amico suo Giovenale[196]; e con altri finalmente
gli descrive la vita che conduce a Bilbili[197]; lo che dimostra
come col satirico poeta avesse fino agli ultimi giorni conservata
l’amicizia. — Or come va che lo sboccato poeta degli epigrammi, che non
conosce pudore di concetti e di parole, s’accordasse col poeta delle
satire, che denunziava terribilmente alla posterità le infamie e le
lussurie de’ suoi tempi? Nisard vorrebbe tutto ciò spiegare dicendo:
non essere vero che la satira sia sempre la espressione fedele del
carattere dell’autore, nè che a prima giunta scuoprasi l’uomo sotto il
poeta; che in Giovenale la indignazione venga piuttosto dall’intelletto
che dal cuore, e il fondamento della sua filosofia sia la noncuranza
professata da Orazio, con un’anima più superba e forse con più pratica
onestà[198]. Nell’ultimo epigramma succitato di Marziale diretto a
Giovenale, come ne’ due precedenti, vi sono infatti imagini oscene,
ciò che prova sempre più che i due poeti furono buonissimi amici, e
che Giovenale non era così rigido nel conversare come si mostra ne’
suoi libri. Egli non si faceva scrupolo poi di frequentare il rumoroso
rione della Suburra, dove dimoravano le cortigiane, nè di stancarsi sul
grande e piccolo Celio a far la corte ai grandi, nè farsi vento alla
faccia col panno della sua toga sulla soglia dei loro palazzi, come
dice ancora il suo amico Marziale. Ed io v’aggiungo: che per quanto
potesse essere stato castigato il costume di Giovenale, pur tuttavia,
essendo di depravazione così costituita e satura quell’epoca e per
così dire l’aria perfino, che dovesse riuscire affatto impossibile ad
individuo qualunque il non parteciparvi in qualche porzione. Catone,
il severo e rigido Catone, sebben di qualche generazione antecedente, e
quindi di secolo non così corrotto come quello di Domiziano e de’ suoi
successori, quante colpe e peccati non avrebbe a confessare! Ma eran
colpe e peccati più del tempo che non dell’uomo.

Non entrerò poi qui in maggiori particolari della satira di Giovenale,
perocchè dai frequenti brani che ne son venuto citando in questo
capitolo ed anche altrove, il lettore ne sa già le cose più saglienti
che han tratto al tema della prostituzione e de’ lupanari, e mi prema
d’altronde di procedere più spedito in questa rapida rassegna delle
antiche vergogne.

Sembrerà incredibile questo quadro che io sono venuto abbozzando
della dissolutezza di quell’epoca; ma pur troppo io vi tolsi anzi
che aggiungervi; perocchè se la riverenza verso il lettore non mi
frenasse, assai e assai più dovrei dire. Era infatti così generale la
scostumatezza, che la prostituzione si esercitasse sfrontatamente sulle
pubbliche vie, e tanto anzi fosse entrata negli usi comuni e tutto
respirasse, come dissi, prostituzione, che allora più non se ne facesse
gran caso.

L’invito alla lussuria era pubblicamente fatto più con gesti che
con parole. Ovidio, nel poema _De Arte Amandi_, che pare scritto
sotto dettatura della più raffinata cortigiana, chiama questo infame
linguaggio _furtivæ notæ_, e Tibullo dell’abilità in esso concede il
vanto alla sua Delia:

    _Blandaque compositis abdere verba notis_[199].

Ed anzi vuolsi citare al proposito di questo muto e inverecondo
linguaggio, che anche i più licenziosi usassero del gesto assai più
che della parola ad esprimere un lussurioso pensiero. Svetonio ci
rammentò di Caligola che nell’atto di presentare la sua mano a baciare
le desse una forma oscena: _formatam commotamque in obscenum modum_;
e Lampridio, di quel mostro che fu Eliogabalo, che mai non si fosse
permessa una parola oscena, anche allora che la esprimevano le sue
dita: _nec umquam verbis pepercit infamiam, quum digitis infamiam
ostenderet_. Non si comprende come si fosse adottata la frase _parcite
auribus_, risparmiate le orecchie, ed egual reverenza non si fosse poi
concessa agli occhi.

Se tale era la scostumatezza in publico, le scene più libidinose
e tutte le evoluzioni della prostituzione compivansi nelle orgie e
festini notturni, detti _comessationes_, o da _comes_, compagno, o da
_comedere_, mangiare, e nelle quali perfino le coppe erano foggiate a
_phalli_, e le ciambelle a figure oscene, e che però Cicerone mette a
fascio cogli adulteri amori: _libidines, amores, adulteria, convivia,
commessationes_[200]; ciò che per altro non tolse che egli pur non
isdegnasse seder commensale, presso la greca cortigiana Citeride.

Come codeste orgie nuocessero a’ corpi non se lo dissimulavano; pur
nondimeno non avrebbero saputo scompagnarne l’esistenza, chè loro non
avrebbe sembrato di vivere senza di esse. Petronio, che fu, come già
ne informai più sopra il lettore, il direttore della voluttà di Nerone,
suggellò questo concetto nel seguente distico:

    _Balnea, vina, Venus corrumpunt corpora sana,_
      _Et vitam faciunt balnea, vina, Venus_[201].

In Roma le donne che trafficavano del loro corpo distinguevansi in
_meretrices_ e _prostibulæ_, e il grammatico Nonnio Marcello ne dà
la differenza dicendo che la meretrice esercita con più decenza il
mestiere non disponendo di sè che la notte; mentre la prostituta trae
il suo nome dallo stare davanti al suo _stabulum_, o abitazione per
mercanteggiarvi e di notte e di giorno. V’erano poi altre particolari
distinzioni, come le _prosedæ_ e le _alicariæ_ che ponevansi, come
Plauto ricordò, alle botteghe de’ panattieri:

      . . . . . _an te ibi vis inter istas vorsarier?_
    _Prosedas, pistorum amicas, reliquias alicarias_
    _Miseras scæno delibutas, servolicolas sordidas_[202].

le _blitidæ_ ch’erano della razza più vile, abbrutite dal vino e dalla
dissolutezza, giusta il medesimo Plauto;

    _Blitea et lutea est meretrix, nisi quæ sapit in vino ad rem
          suam_[203].

le _bustuariæ_ che attendevano alla prostituzione nei cimiteri;
le _casoritæ_, prostitute dei tugurii; le _copæ_ o taverniere; le
_diobolæ_ che non domandavano più di due oboli o di un dupondio,
le _quadrantariæ_ perchè si contentavano d’un quadrante, ossia di
qualunque vile moneta[204], e Quadrantaria appunto veniva, per cagion
di dispregio e di sue lascivie, generalmente chiamata la sorella di
Publio Clodio, che è la Lesbia che già conosciamo essere stata di
Catullo; le _foraneæ_, campagnuole che venivano per vendersi alla
città; _vagæ_, le erranti, _summentanæ_, quelle de’ sobborghi, ecc.

Per la prostituzione elegante, oltre le _famosæ_ che già ricordai e
potevan essere patrizie, madri di famiglia e matrone, come pur troppo
ha già veduto il lettore, ve n’avevan di quelle fra costoro che si
prostituivan ne’ lupanari sia per libidine, sia per denaro; v’eran
ben anco le _delicatæ_ che non si concedevan che ai cavalieri e ricchi
d’ogni condizione.

Anzi sovente si stipulavano da codeste mantenute co’ loro amatori
contratti di fedeltà a tempo, e la scritta che si redigeva a firmare
da esse chiamavasi _syngrapha_ ed anche _syngraphus_, perocchè in ambe
le maniere io trovi questo libello così denominato dal medesimo Plauto
nella sua commedia dell’_Asinaria_. Questo poeta e fedele dipintore
de’ costumi di quelle basse classi, ne dà contezza del _singrafo_ nella
scena terza dell’atto primo di tale commedia:

            ARGIRIPPUS

    _Non omnino jam perii: est reliquum quo peream magis,_
    _Habeo, unde istuc tibi quod poscis dem: sed in legis meas_
    _Dabo, ut scire possis, perpetuum annum hunc mihi uti serviat,_
    _Nec umquam interea alium admittat prorsus quam me, ad se virum._

            CLEÆRETA

    _Quin si tu voles, domi servi qui sunt castrabo viros._
    _Postremo ut voles nos esse syngrapham facito afferas._
    _Ut voles, ut tibi lubebit, nobis legem imponito:_
    _Modo tecum una argentum afferto, facile patiar cœtera._
    _Portitorum simillime, januæ lenoniæ:_
    _Si affers tum patent: ei non est quod des, ædes non patent[205]._

            DIABOLUS

    _Agedum, istum ostende quem conscripsit syngraphum_
    _Inter me et amicam et lenam: leges perlege_
    _Nam tu poeta es prortus ad eam rem unicus[206]._

E pare che di cosiffatti mercimoni o singrafi non si smettesse così
presto il vezzo, ma se ne serbasse l’usanza sin presso a’ dì nostri, se
quel dotto critico che è Eugenio Camerini, della cui amicizia altamente
mi onoro, nell’interessantissimo suo libro _Precursori del Goldoni_,
me ne avverte l’esistenza riferendo in una nota del suo studio intorno
a Giovan Battista Porta il Contratto fra Gostanzo amoroso e Andriana
lena, che sta nella commedia _Gli Inganni_ del Secchi, atto terzo,
scena IX[207].

V’erano anche le _pretiosæ_ che imponevano alle loro grazie un alto
prezzo. Tutte queste meretrici affluivano a’ bagni massime di Baja, di
Clusio e di Capua, dove era più facile, pel concorso dei fannulloni e
de’ più sfondolati ricchi, l’andare a caccia di generosi amatori.

La prostituzione poi si esercitava da ballerine, massime le Gaditane,
ossia giovani donne di Cadice, della più provocante lascivia; le Sirie,
le lesbie e le jonie, chiamate, come narrai nel capitolo precedente,
a rallegrar i banchetti, al pari delle greche auletridi, di suoni
e di balli, e ad incitar la lussuria de’ banchettanti, alla quale
prestavansi istromento, imitate più tardi dalle corrottissime matrone,
giusta quanto ne disse l’inesorabile poeta che le satireggiò nei versi
della _Satira_ VI (314-319) che ho superiormente riferiti, parlando
dei misteri della Dea Bona. Le Commessazioni poi erano l’arringo più
frequente alle lubricità di queste svergognate.

Quella che per altro fu la più vergognosa prostituzione, era quella de’
cinedi: uomini, schiavi, fanciulli prestavansi alla dissolutezza de’
romani, e fu un tempo, quello dell’Impero, che s’era così generalizzata
da impensierire a tanta concorrenza la prostituzione femminile.
Chiamavansi _pueri meritorii_ quelli che volenti o no prestavansi alla
vergognosa passione del loro padrone: v’erano poi gli _spadones_, per
lo più eunuchi che erano pazienti ed agenti, e _pædicones_, coloro
che avevano subìto l’evirazione completa. Catullo ne’ suoi carmi, che
certamente non van lodati per riservatezza di linguaggio, bollò a fuoco
i nomi di Tallo, Vibennio e di quei due sciagurati libertini, Furio
ed Aurelio, notissimi in Roma per tale vizio; ciò che non gli impedì
ch’egli medesimo, il poeta, fosse intinto dell’egual pece, che più
d’uno sono i carmi da lui lasciati in cui sono espressi i suoi delirii
pel vago giovinetto Giovenzio. Così del resto era nel mondo romano una
cotal bruttura invalsa da non mandarne immune perfino quel grandissimo
uomo che fu Giulio Cesare, alla fama del quale nuoceranno mai sempre le
indecenti libertà avute con Nicomede re di Bitinia, a lui rimproverate
da Cicerone in Senato. Così bruttò Orazio la sua virilità cogli spasimi
per Licisco e Ligurino, a cui la sua musa non isdegnò bruciare incensi;
così quella di Cornelio Gallo, testimonio Properzio, spasimò per Ila;
come quella più casta di Virgilio non aveva rifuggito in un’egloga di
poetizzare i trasporti del pastor Coridone per il vago Alessi:

    _Formosum pastor Corydon ardebat Alexin_
    _Delicias domini[208]._

È poi opinione di alcuni che Virgilio sotto il nome del pastore
Coridone ascondesse le proprie fiamme per Alessandro, fanciullo di
Asinio Pollione.

Tutto il _Satyricon_ di Petronio ha per eroi cinedi e per soggetto i
loro laidi amori, e Marziale osa perfino giustificarsi colla moglie,
perchè divida egli pure col cinedo i proprii abbracciamenti.

E come no, se a fianco di Giove, la loro religione aveva posto il
leggiadro Ganimede?

Sclamiam noi pure coll’Oratore Romano: _O tempora! o mores!_

In Pompei, recenti scavi, mettendo in luce, nella Regione IX, Isola II,
la casa che si designò col n. 18 all’entrata sul vicolo che forma il
prolungamento di quello d’Augusto, offrì, dopo l’androne d’ingresso, la
seguente iscrizione graffita sulla parete:

                                CRESCENS
                               _PVBLICUS_
                                CINÆDVS

oltraggiosa iscrizione, che attesta nondimeno dell’esistenza
della oscena piaga in codesta città, come attesta infame lussuria
l’iscrizione graffita nella casa di Gavio Rufo scoperta nel 1868 e che
così è ripetuta

                            _TYRIA PERKISA_
                             TYRIA PERCISA

lo che vale _pedicata_, per non dir l’altre molte congeneri
sconcezze[209].

Tanto personale della prostituzione completavasi coi lenoni, uomini
e donne ch’erano mediatori di lascivie. Esercitavasi il lenocinio
eziandio dalle schiave, dalle veneree, ch’erano assai spesso liberte,
dalle fantesche e dalle prostitute vecchie, che avevan perduta la
clientela per conto proprio.

Publio Vittore conta quarantasei lupanari in Roma, senza tener conto
che il meretricio si esercitasse nei bagni, nelle terme, nei pistrini
o botteghe da fornaj, nelle tonstrine o botteghe da barbieri, negli
enopolj o botteghe da vinaj, nelle _ganeæ_ o taverne sotterranee, e
nelle _cellæ_ e _fornices_, intorno ai circhi e durante i ludi.

Ma a che numerare i lupanari, quando Giovenale ci dice nella sua
implacabile _Satira_ che fosse per così dire Roma intera un solo
lupanare; che nobili o plebee fossero tutte depravate del pari, che
colei che calcava la polvere non valesse più della matrona portata
sulle teste de’ suoi grandi soriani; questa poi peggiore della vile e
scalza baldracca?

    _Nec melior silicem pedibus qua conterit atrum,_
    _Quam quæ longorum vehitur cervice Syrorum_[210].

La disposizione dell’interno d’un lupanare era stato dapprima un
soggetto di controversia e cercavasi coll’aiuto degli scrittori antichi
e massime di Giovenale, che ne disse alcuni particolari nell’episodio
della imperiale prostituta che sotto il mentito nome di Licisca lo
bazzicava, di ricostruirli fantasticamente, ma oramai gli scavi di
Pompei hanno risoluta la questione. — Costituivasi di molte cellette
o cubiculi angustissimi che aprivansi in un cortile od atrio, aventi
appena lo spazio d’un letto formato di materia laterizia su cui si
saran posti materazzi o stuoje. A sera una lampada itifallica accesa
sull’esterno della porta, annunziava il luogo impuro, il cui ingresso
era difeso da una coltrina. Sugli usci dei _cubiculi_ stava sospeso il
cartello recante il nome della prostituta che vi operava dentro, il
quale spesso era nome di battaglia, _meretricium nomen_, come quello
di Licisca era di Messalina, e quando il cubiculo veniva occupato si
voltava il cartello. Allora la camera, al dir di Marziale, si chiamava
_nuda_. Camere e cortile avevano poi sporche le pareti di figure e
di iscrizioni oscene. In uno de’ lupanari pompejani, in quello detto
nuovo, lessi fra le altre inverecondie la seguente graffita: _Phosforus
hic f...._

Vedremo più avanti come, oltre le camere terrene ad uso delle più
abbiette, vi potessero essere anche quelle di un piano superiore pei
lussuriosi disposti a maggiore spesa.

Le meretrici avevano poi un proprio abbigliamento, distinte
principalmente dalla parrucca bionda, avendo presso che tutte le romane
nera la capellatura, vietato poi loro di portare la benda alla fronte e
la stola o tunica che scendeva al tallone, come portavano le matrone.
Petronio nel suo _Satyricon_, che è il quadro, come sappiamo già, de’
cattivi costumi di Roma imperiale, ce le presenta nel lupanare nude
affatto e perfino in questa guisa sulla porta di esso. Avrebbesi tutto
un trattato a scrivere per dire di tutti gli artifici per destare la
lussuria, e procacciarsi amori: de’ filtri afrodisiaci, degli unguenti,
de’ fascini, che Ovidio nel _Remedium Amoris_ affermò nuocere alle
fanciulle grandemente, contenendo i germi della pazzia furiosa, non che
degli ausiliari della prostituzione nelle _medicæ juratæ_ o levatrici,
nelle _sagæ_, nelle profumatrici e nelle cosmete. Ci son rimasti i
nomi di alcuni fra i più usitati filtri afrodisiaci: Orazio menzionò
il _poculum desiderii_ che preparava Canidia, Marziale le _aquæ
amatrices_, Giovenale l’_hippomane_ in quel verso:

    _Hippomanes carmenque loquar colcumque venenum_[211].

Voglion taluni fosse l’ippomane un liquore virulento, che eccitava gli
ardori amorosi; altri invece che fosse un’escrescenza di carne nera
che talvolta si forma sulla fronte d’un puledro appena nato e che gli
antichi credevano materia a filtro potente. Teofrasto dice essere una
composizione immaginata dagli Arabi; Esiodo e Teocrito che fosse invece
una pianta che produce il furore ne’ cavalli, ed altri pel contrario
vi almanaccarono su altre supposizioni. Buffon ne parla nel vol. IV
dell’edizione in quarto dell’opera sua e riferisce tutte queste diverse
opinioni.

La plebaglia poi rinveniva eziandio lo sfogo a’ propri sensuali
appetiti in altri peggiori e più schifosi luoghi, come nelle _tabulæ_
sullo strame, nel _casaurium_ o baracca per lo più fuori di città,
nel _lustrum_ o ritrovo isolato, e vie via altri nomi immaginati dalla
depravazione.

Diversi furono i lupanari che gli scavi pompejani misero alla luce, e
siccome la parte scoperta di questa città, come già dissi più volte,
doveva essere la più nobile perchè prossima alla marina e perchè ricca
di pubblici edifizi e templi e delle case dei maggiorenti, così è dato
arguire che altri e più se ne scopriranno negli scavi venturi, come
che siffatti infami ritrovi fossero più frequentati dalle classi infime
della società, ciò rivelando eziandio la nessuna eleganza od agiatezza
loro. Non è augurio, nè importa, da che quanto fu a quest’ora trovato
può sopperire alle indagini nell’argomento.

Una casetta che fu detta dei _Cinque scheletri_, per gli avanzi
di cinque infelici colti dalla catastrofe nel punto che cercavano
involarsene col loro piccolo tesoro che si rinvenne ad essi vicino,
consistente in armille, anelli d’oro e monete, scoperti nel 1872, in
novembre, permise che nel successivo mese si trovasse la comunicazione
con una taverna e unito lupanare, forse quella località che i latini
denominavano _ganeum_, e già al lettore ho detto come _ganeum_ o
_ganæa_ fosse appunto una taverna sotterranea, ove commettevansi
oscenità, ed anche bottega che si prestava alla prostituzione. Il
proprietario allora della casetta de’ Cinque scheletri non sarebbe
stato anche il proprietario o conduttore di quell’infame ritrovo? È
permesso trarne l’induzione. La taverna si apre nella via di Mercurio,
ha un davanzale rivestito di marmi con una lastra di porfido verde,
sventuratamente spezzata in due. Sono incastrate in esso tre urne di
terra cotta, ed uno scalino di marmo che doveva servire alla mostra
de’ comestibili e de’ vasi. A destra della stanza è un fornello per
cuocervi le vivande e nel profondo s’aprono due porte, conducenti
l’una in una specie d’anticamera, che doveva essere stata dipinta
grossolanamente, ma che di presente nulla lascia intravedere che mai
vi potesse essere un dì rappresentato, dove eran due usci, che davan
accesso questo alla casetta de’ cinque scheletri suddetta, e quello
ad un salotto pei bevitori; l’altra porta ad una camera che dava
sul vicolo di Mercurio e che serba tutte le apparenze di uno sconcio
postribolo. Pitture da imbianchino e sporche eran distribuite sulle sue
pareti: sopra di una raffigurante un garzoncello d’osteria che versa a
bere ad un soldato, si lessero queste parole scritte con qualche arnese
a punta:

                        DA FRIDAM PUSILLVM[212]

Nel Vicolo degli Scienziati, che è in continuazione con quello che
si noma Vico Storto, nel tempo che i Dotti erano riuniti pel settimo
congresso in Napoli, e sotto i loro occhi, veniva sterrata quella
casa, dai particolari della quale fu concesso imporle il tristo nome di
Grande Lupanare. Le più oscene iscrizioni confermano la giustezza della
denominazione: il possibile riserbo che mi sono proposto mi toglie
di riferirle. Taluna tuttavia ho già desunto infra quelle che son
leggibili anche da occhi pudici e riferite altrove di quest’opera, come
la seguente che suona:

    _Candida me docuit nigras odisse puellas_[213].

coll’arguta risposta che altro bizzarro spirito vi scrisse di sotto.

Altre si lessero non indecenti del pari, come questa gentile:

                           NOLANIS FELICITER
                        STABIANAS PUELLAS[214].

L’atrio di questa casa è d’ordine toscano, ed ha un _compluvium_ di
marmo bianco, sovra il quale vedesi ancora il tubo di bronzo da cui
versavasi l’acqua piovana.

Il peristilio è per metà recinto da portici sostenuti da quattro
colonne joniche ed ha nel fondo una fontana di musaico ben conservato e
conchiglie, avente in mezzo un piedistallo, che un giorno avrà servito
a reggere qualche figura, forse di bronzo. Sotto il portico è un
larario o sacello per gli dei della casa e vi sta dipinto un serpente
che divora una sacra offerta. Da questa casa così poco poetica vennero
nondimeno tolte alcune non ispregevoli pitture come _Dedalo e Pasife_ e
_Arianna abbandonata_, che furono trasportate al Museo di Napoli.

Dalla Via degli Augustali s’entra per quella tortuosa, però più
acconcia ai libertini, denominata del _Lupanare_, a cagione di
altro lupanare che si scavò nel 1862 e che prese il nome di nuovo,
a differenziarlo dall’altro, del quale ho appena parlato. È quello
medesimo di cui mi son valso non ha guari per descrivere l’interno d’un
postribolo romano, perocchè sia forse l’unica località che si presenti
con carattere spiccato e tale da non ammettere una diversa supposizione
di destinazione.

Non a tutti i quali visitano la esumata città è dato di liberamente
penetrar nel Lupanare Nuovo: il guardiano l’apre agli uomini soltanto.
S’entra in una specie di vestibolo o corridojo che non raggiunge due
metri di larghezza, e sei e mezzo di lunghezza, e doveva essere tanto
di giorno che di notte rischiarato da lampade, perchè altra luce non
vi potesse giungere che dalla porta d’ingresso, coperta anch’essa
dalla coltrina che già accennai. Le parti di questo corridojo che
da un leggiero fregio rosso son divise a comparti, in mezzo a’ quali
stanno ippocampi e cigni, mette a cinque cellette, _cellæ_, come le
chiama Giovenale, tre a destra e due a sinistra, sull’uscio delle quali
doveva affiggersi il cartello col nome della sciupata che vi stava.
Siffatte cellette maraviglia come fossero tanto anguste, misurando
cioè due metri quadrati di superficie, e tanto più ciò sorprende in
quanto vi sussista ancora il letto, rialzato dal lato della testa per
l’origliere, di materiale laterizio, sul quale si sarà disteso alcun
materasso, che vi occupa quello spazio per settanta centimetri.

Superiormente agli usci delle cellette, nel vestibolo o corridojo,
stavano, come in ispecchi, delle pitture oscene e rispondenti per lo
appunto al luogo, oltre le varie iscrizioni graffite del genere stesso,
fra cui quella surriferita di Fosforo che ricorda le proprie erotiche
prodezze.

Le cellette del lato sinistro più irregolari sono poveramente
arieggiate da alte finestrelle munite di inferriate e respicienti
sul Vico del Balcone, nel quale si usciva a comodo degli avventori,
che amavano per avventura essere meno veduti a procedere di là e che
a cagione d’ingiuria, si dicevano cuculi, parola codesta eziandio,
secondo spiega Erasmo commentando quel verso:

    _At etiam cubat cucullus: surge, amator; i domum_[215],

che si applicava una volta pur a coloro i quali venissero sorpresi in
casa che fosse poco onesta.

Così un tal Vico si denomina del Balcone, da una specie di _mœnianum_,
che sporgendosi all’infuori del piano superiore e chiuso, valeva
a rendere più grande lo spazio del piano stesso. Là vi dovevano
esercitare il loro traffico infame cortigiane di maggior considerazione
di quelle rilegate al pian terreno: infatti e le camerette vi si
veggono più del doppio spaziose, nè deturpate, come vedemmo in basso,
da oscene pitture ed iscrizioni.

Argomentasi che questo lupanare sia stato frugato dopo la catastrofe,
perchè non vi si scoprissero che pochi oggetti, fra’ quali, per altro,
un bellissimo candelabro di bronzo, un gran _cacabus_, contenente
cipolle e fagiuoli, che dovevan costituire la povera cena di quelle
sciagurate, qui devolute alla venale prostituzione.

Sulla parete di una casa vicina a questo lupanare si lesse una
iscrizione che avvertiva della presenza del luogo infame:

            HIC NON EST OTIOSIS LOCVS, DISCEDE VIATOR[216].

Negli scavi di questi ultimi due anni, praticati sempre verso la marina
e nella parte occidentale della città, un altro luogo venne ritenuto
siccome abitazione meretricia alle sue proprie particolarità. Ma una
speciale vi fu riconosciuta in una specie di podio laterizio a lato
dell’ingresso, al quale evidentemente assisteva il lenone o la lenona
che teneva il postribolo, per esigere il prezzo della prostituzione
dagli avventori che vi capitavano.

È codesta una particolarità illustrativa del lupanare romano e che
però mostra come piuttosto all’ingresso, anzi che all’uscita da esso si
dovesse il detto prezzo pagare.

Altri postriboli si trovarono negli scavi pompejani, ma ancora più
angusti ed ancor meno decenti: anzi si può credere che quel vico nel
quale si è trovato il lupanare, del quale ho finito di parlare, non
fosse che una serie continuata di essi, od almeno di ganei, come del
resto fino ai nostri giorni, parve essere la via Capuana a Napoli. Pur
un postribolo era, a mo’ d’esempio, quel bugigattolo che era dirimpetto
alla panetteria che è sull’angolo del Vico Storto, e dalla quale
originò il nome della via su cui si apre e però detta _del Panatico_:
una oscena pittura che vi si distinse non lascia dubbio sulla sua
destinazione.

Tale deve dirsi pure, perchè serba tutti i caratteri di una _cella
meretricia_, la camera che si apre sola e senza comunicazione con
altre sul Vico del Balcone; e tali devonsi pur dire quelle tre celle,
isolate egualmente, che si trovano nella _Via degli Scheletri_ prima
di giungere al vicolo d’Eumachia. In vicinanza ad esse sull’angolo
del _Vicolo della Maschera_, quasi a loro indicazione, sta una grossa
pietra angolare avente in rilievo una imagine fallica e scrittovi
presso il nome di Dafne.

Che fosse stata così spinta la spudoratezza del meretricio in Pompei,
da mettersene i richiami perfino agli angoli delle vie, come farebbesi
d’una vantaggiosa ed importante officina l’esistenza della quale
importasse grandemente che si conoscesse da tutti?

I costumi dell’epoca imperiale, omai noti al lettore che mi ha seguito
fin qui, ne danno autorità a credere per possibile anche questo.

Ma la poco simpatica peregrinazione per questi volgarissimi luoghi di
peccato parmi m’abbia serrato le fauci, quasi vi si respiri ancora il
pestifero aere pregno del graveolente puzzo del fumo della lucerna che
li schiarava miseramente, onde quella sozza baldracca che fu Messalina
risentiva, allorquando, lasciando la cella, l’abito e il nome di
Licisca, reddiva al talamo imperiale:

    _Obscurisque genis turpis fumoque lucernæ_
      _Fœda, lupanaris tulit ad pulvinar odorem_[217].

Epperò usciamo all’aperto. Meglio è che affrettiamo al fine del nostro
lungo cammino.

Solo chiuderò il delicato argomento, esternando un pensiero, quasi
cenno a chi possa meditarvi sopra più di proposito e farne subbietto di
studi. Nello esame delle religioni pagane, vedesi troppo frequentemente
credenze, riti e sacerdozio degenerare nelle lubricità della
prostituzione, o questa anzi ammantarsi, a proprio sfogo maggiore, di
religione. Il _phallus_ è emblema sacro che entra ne’ misteri di esse,
e i segni itifallici accompagnano le cerimonie più serie e solenni. A’
sepolcri perfino, intorno al rogo sorgono i cipressi e gli scrittori
indicandoli come alberi di dolore e di morte e sacri a Dite, li
designano ben anco come alberi itifallici: or, perchè ciò?

Gli è forse perchè accanto alla morte sta il mistero della riproduzione?

La mitologia è presso che tutta costituita di episodii, di
deificazioni di persone e cose, che noi registriamo nella storia della
prostituzione. Il Tonante medesimo non isdegna convertirsi in pioggia,
in cigno, in toro per isfogare i suoi erotici appetiti: gli altri numi
si modellano su di lui e gli uomini danno loro adorazione ed incenso:
i savii pur dei nostri tempi pretesero e pretendono ascondere tutto
ciò reconditi veri; ed io medesimo in quest’opera ho toccato di che
cosmico significato sieno state intese le fatiche di Ercole, di quale
non meno profondo i misteri elusini e di Iside, e così d’altri grandi
avvenimenti della pagana mitologia.

Che più? Pur nel presente capitolo ho menzionato personaggi e passi
biblici, le azioni de’ quali e il cui senso non appajon migliori degli
uomini e delle cose del paganesimo: e nondimeno trovarono reverenza
o interpretazione diverse da quelli apprezzamenti che a prima giunta
sembrano provocare. Tutto poi è superato da quel canto epitalamico che
è il _Cantico de’ Cantici_, e che malgrado l’aperto senso letterale e
le più carnali immagini che esse esprimono, pur tuttavia permise che
i più timorati padri del cristianesimo vi trovassero santissime cose
adombrate e condannassero alla riprovazione maggiore i profani che
osarono, attenendosi al solo valore delle parole, maravigliarsi ch’esso
fosse accolto tra libri santi.

Monsignor Martini, al suo volgarizzamento di questo libro, premise
una prefazione tendente a rilevare la sublimità di esso, e dopo
avere invocata l’autorità di gravissimi scrittori e santi, così si
esprime: «Per le quali cose non sia meraviglia se lo Spirito Santo
volendo alcuni secoli avanti non di passaggio, ma specificatamente,
e pienamente annunziare e predire, e quasi direi dipingere questa
divinissima unione del Verbo colla umana natura, e colla Chiesa, e
gli effetti di essa; se essendo annunziare a tutti i venturi tempi
l’altissima carità dello stesso Verbo, verso quel mistico corpo, il
quale dovea da lui aver l’essere e il nome, ordinò e dispose che
in questo Cantico con bella continuata allegoria, e con immagini
prese dalle nozze terrene dipinto fosse questo mistero, perocchè
avvenimento sì nuovo, e sopra ogni umana espettazione conveniva (come
osservò S. Agostino) che in molte guise fosse annunziato, affinchè
ora repentinamente si effettuasse, non cagionasse negli uomini
stordimento e terrore, ma si aspettasse con fede, e con fede e amore si
abbracciasse quando fosse eseguito. In Psal. CIX.»

Se così è, l’argomento che ho svolto in questo capitolo doveva
richiamare, a petto degli altri, maggiore estensione di trattazione
da parte mia, nè credo aver detto tutto; come penso abbia ad essere
veramente materia di più profondo studio, come ebbi a dire più sopra,
per la ricerca di que’ veri che si nascondono

                  Sotto il velame delli versi strani.



CAPITOLO XXII.

La Via delle Tombe.

  Estremi officii ai morenti — La Morte — _Conclamatio_ — Credenze
  intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e il Tartaro — Culto
  dei morti e sua antichità — Gli Dei Mani — Denunzia di decesso —
  Tempio della Dea Libitina — Il libitinario — _Pollinctores_ — La
  toaletta del morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale
  e suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione
  del cadavere — Il certificato di buona condotta — Convocazione
  al funerale — _Exequiæ, Funus, publicum, indictivum, tacitum,
  gentilitium_ — Il mortoro: i siticini, i tubicini, le prefiche, la
  nenia; _Piatrices, Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices_, i Popi e i
  Vittimari, le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi
  e l’archimimo, _sicinnia_, amici e parenti, la lettiga funebre
  — I clienti, gli schiavi e i familiari — La _rheda_ — L’orazione
  funebre — Origine di essa — Il rogo — Il _Bustum_ — L’ultimo bacio
  e l’ultimo vale — Il fuoco alla pira — _Munera_ — L’invocazione ai
  venti — Legati di banchetti annuali e di beneficenza — _Decursio_
  — Le libazioni — I _bustuari_ — Ludi gladiatorii — La _ustrina_
  — Il sepolcro comune — L’_epicedion_ — _Ossilegium_ — L’urna —
  _Suffitio_ — Il congedo — _Monimentum_ — Vasi lacrimatorj — Fori
  nelle tombe — Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine —
  _Subgrundarium_ — _Silicernium_ — _Visceratio_ — _Novemdialia_ —
  _Denicales feriæ_ — Funerali de’ poveri — _Sandapila_ — _Puticuli_
  — Purificazione della casa — Lutto, publico e privato — Giuramento
  — Commemorazioni funebri, Feste Parentali, _Feralia, Lemuralia,
  Inferiæ_ — I sepolcri — Località — Eccezioni e privilegi —
  Sepolcri nelle ville — _Sepulcrum familiare_ — _Sepulcrum comune_
  — Sepolcro ereditario — Cenotafii — _Columetiæ_ o _cippi, mensæ,
  labra, arcæ_ — Campo Sesterzio in Roma — La formula _Tacito
  nomine_ — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are pei sagrifizj — Leggi
  mortuarie e intorno alle tombe — Punizioni de’ profanatori di esse
  — Via delle tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo
  — Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio Epafrodito,
  Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e Istacidio Menoico —
  Giardino delle colonne in musaico — Tombe delle Ghirlande — Albergo
  e scuderia — Sepolcro dalle porte di marmo — Sepolcreto della
  famiglia Istacidia — Misura del piede romano — La tomba di Nevoleja
  Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio Atimeto — Mausoleo
  dei due Libella — Il decurionato in Pompei — Cenotafio di Cejo e
  Labeone — Cinque scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A Salvio
  fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale di Cn. Vibrio
  Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria — Sepolture fuori la
  porta Nolana — Deduzioni.


Abbiamo, o paziente lettore, assistito insieme alla vita, anzi alla
vita più rigogliosa del mondo romano, interrogando più spesso gli
scavi e i monumenti pompejani: ora, percorso quanto fu disumato
della infelice città, visitiamo l’ultima parte che ci siam di essa
riserbata, la Via delle Tombe che faceva parte del _Pagus Augustus
Felix_, e quindi tocchiamo di tutto quanto riguarda la morte, le pompe
funebri, cioè, i sepolcri ed i riti. Non sarà certo privo d’interesse
l’argomento, se l’esempio antico rammemorato a’ presenti da Foscolo
nel suo carme immortale de’ _Sepolcri_, potè condurre la generazione
attuale egoista a più onesta e dicevole religione e venerazione delle
tombe.

Prima però che mettiamo il piede nel pompejano sobborgo, demandiamo
a’ libri antichi le costumanze che precedevano la tumulazione: la
visita a’ sepolcri non sarà che il complemento del nostro tema. E
avanti tutto, ricostruendo colla nostra fantasia sui ruderi d’una di
queste case l’intero edificio e animandolo de’ suoi antichi abitatori,
conduciamoci al _cubiculum_, dove sul ricchissimo letto giace il _pater
familias_ in preda a morbo letale.

Sul _monopodium_ marmoreo, o tavola di un sol piede, di cui gli scavi
offersero un esemplare, stanno i vasi e le ampolle del _seplasarius_,
o farmacista e che il medico ha prescritte; ma l’aspetto dei congiunti
accusa che poco oramai si attenda da que’ farmachi studiati.

Quando il medico o la natura avvertivano finalmente che all’infermo più
non restava speranza di vita, e che era prossimo al suo estremo fato,
la famiglia e i parenti di lui gli si raccoglievano intorno al letto,
come se si trattasse di dar l’ultimo saluto a chi fosse per partire per
un lungo viaggio. Era infatti per il viaggio che non aveva ritorno.
Essi iscongiuravano altresì la morte ed impetravano da Mercurio la
grazia che volesse servire di guida all’anima che stava per entrare
nella regione de’ morti. E quando l’agonia pareva incominciata, si
aveva cura di chiudergli gli occhi, acciò non fosse egli contristato
dallo spettacolo che precede la morte, o perchè meno formidabile
gliene apparissero le dimostrazioni. Il figlio, o il più prossimo
parente, dandogli l’ultimo bacio, ne raccoglieva l’estremo sospiro,
e tale era un conforto che auguravansi le madri di ciò fare coi loro
figli, giusto quanto Cicerone afferma: _Matresque miseræ nihil orabant
nisi ut filiorum extremum spiritum excipere sibi liceret_[218]. Nè
altrimenti era in Grecia fin da più remoti tempi e ce ne persuade Omero
nell’_Odissea_, dove Agamennone si lagna di Clitennestra:

             . . . . al marito,
    Che fra l’ombre scendea, non chiuse il ciglio
    E non compose colle dita il labbro[219]:

e Virgilio attesta dell’uso recato in Italia, quando mette sulla bocca
della madre d’Eurialo il lamento:

      . . . . _nec te, tua funera, mater,_
    _Produxi, pressive oculos_...[220]

uso continuatosi sempre dipoi; onde Lucano nella Pharsalia disse pure:

      . . . . _tacito tantum petit oscula vultu,_
    _Invitatque patris claudenda ad lumina dextram_[221].

Reso il quale, per tre volte, a distinti intervalli, si chiamava ad
alta voce il morto, ciò che dicevasi _conclamatio_; e _conclamatum
est_, significava adunque che una cosa più non esisteva.

Ma per apprezzare convenientemente questa cerimonia e le numerose altre
che praticavansi in occasione di morte presso i Romani, gioverà vedere
dapprima quali fossero presso di essi le credenze sull’anima e sulla
morte.

E mi affretto a mettere in sodo come il _non omnis moriar_ non fosse
già un principio suggerito al poeta dalla coscienza della immortalità
delle sue concezioni intellettuali, sibbene la radicata credenza
che si aveva in una seconda vita, dopo questa terrena. Non fu quindi
il portato d’una dottrina speculativa o filosofica qualunque, ma fu
veramente una credenza questa di lunga mano anteriore all’almanaccar
de’ filosofi, anzi precorritrice d’assai alla loro esistenza; di modo
che la morte venisse considerata come una semplice mutazione della
vita.

Dove poi versasse questa seconda esistenza al di là della tomba, variò
la credenza.

Secondo le più antiche opinioni de’ Greci e degli Italioti, che per
lo più divisero costumi e credenze insieme, come veramente usciti
d’un solo ceppo, per testimonianza di Cicerone: _sub terra censebant
reliquam vitam agi mortuorum_[222], ed anzi pensavano restasse
l’anima tuttavia consociata al corpo; onde così spiegar ci possiamo
l’espression di Virgilio ne’ funerali di Polidoro:

                   _animamque sepulcro_
    _Condimus, et magno supremum voce ciemus_[223].

E l’iscrizione che apponevasi al sepolcro diceva infatti: _hic jacet_,
qui giace, qui posa il tale, non già solo la spoglia del tale, dicitura
che, malgrado le ben diverse credenze, pur a’ dì nostri è pervenuta e
l’usiamo pure nei nostri ipogei. Era pertanto ragione che si curasse
allora di chiudere nel sepolcro dallato al cadavere gli oggetti di
cui reputavasi potesse sentire necessità e si spargesse al di sopra
vino, latte e miele e si immolassero vittime, come vedremo più avanti,
allo scopo di soddisfargliene la fame e la sete, ed anche a quello che
avesse il defunto a valersi nella tomba di quel che sulla terra godeva.

Dopo ciò, non è più lecito credere che negli spiriti delle popolazioni
greco-italiche avesse potuto attecchire l’idea della metempsicosi ossia
della trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro. Nè di meglio
credevasi che l’anima, lasciando il corpo, volasse al cielo; perocchè
cotale credenza non trovò seguaci che assai più tardi, tutt’al più
reputandosi che il soggiorno celeste convenisse, come straordinaria
ricompensa a certi eroi, o benefattori della umanità.

Le più antiche generazioni credevano adunque unicamente che l’anima non
si separasse dal corpo, che rimanesse fissa a quella parte di suolo,
dove erano sepolte le sue ossa; che non dovesse rendere conto alcuno
di sua vita anteriore, che non avesse ad attendere nè ricompensa, nè
punizione.

Comunque più innanzi s’allargasse la fede e si credesse nel Tartaro,
e ne’ Campi Elisi, come luoghi di punizione il primo e di premio
i secondi per i fatti della vita terrena, i riti funerarii che mi
faccio ora ad esporre risentirono sempre delle primitive credenze, le
quali sebbene ci possano sembrare viete e perfino ridicole, secondo
giustamente osserva Fustel de Coulanges, hanno tuttavia esercitato
l’impero sull’uomo durante gran numero di generazioni: esse hanno
governato le anime, rette le società, e la più parte perfino delle
istituzioni domestiche e sociali degli antichi sono prevenute da questa
sorgente[224].

Ma ho ricordato ora gli Elisii e il Tartaro: debbo darne alcuna
nozione, perchè, come dissi, la credenza in essi divenne poi generale e
costituì il mistero pagano d’oltretomba.

Secondo i Greci, i Campi Elisi o l’Elisio era la quarta divisione
dell’inferno; secondo i Romani invece era la settima.

Vi regnava, per quanto ne testimoniò Pindaro ne’ suoi inni immortali,
eterna la primavera, vi alitavano zefiri profumati, vi sfolgoravano
sole e astri perpetuamente, vi crescevano fiori e frutta, v’era
bandita la vecchiaja, ignoti i mali, senza fine la vita e l’onda di
Lete, che tutt’all’intorno circondava quel beato soggiorno, procurava
l’obblio delle dolorose memorie del passato. Lo stesso Pindaro ne fa
re dell’Eliso Saturno: altri lo volle retto dalle leggi di Radamanto.
Diverse pure le opinioni sulla località di esso: Omero ed Esiodo lo
collocarono nel centro della terra e sulle rive dell’Oceano.

L’inferno, o Tartaro, era pei Greci un luogo sotterraneo, ove
scendevano le anime dopo la morte per esservi giudicate da Minosse,
Eaco e Radamanto, e Plutone vi regnava sovrano. Aveva vari spartimenti:
l’Erebo ove stava il palazzo della Notte, quello del Sonno e dei
Sogni, il soggiorno di Cerbero, cane ringhioso dalle tre gole, delle
Furie e della Morte; l’inferno delle anime prave punite nel fuoco o
nel ghiaccio; il Tartaro propriamente detto, dove i nuovi Numi avevano
precipitato gli antichi, i Ciclopi, i giganti e i titani.

I Romani lo dividevano in sette scomparti: nel primo soggiornano i
bambini; nel secondo gli innocenti stati condannati a morte; nel terzo
i suicidi; nel quarto gli amanti spergiuri o sfortunati; nel quinto gli
eroi che si macchiarono di crudeltà; nel sesto, detto più propriamente
il Tartaro, stavano i martiri; nel settimo i Campi Elisii che già
vedemmo essere luogo di riposo e di beatitudine pei giusti.

Facile è qui constatare come la dottrina pur del Cristianesimo
ammettesse suppergiù, con quasi identità di nome e di destinazione, la
credenza dell’Eliso e dell’Inferno, e il Cattolicesimo vi aggiungesse
un terzo luogo di depurazione, cioè il Purgatorio, ammettendo in
certo qual modo una tal qual legge di progresso, secondo anche la
dottrina spiritica moderna, che cioè permettesse alle anime non al
tutto superiori ed elette di espiare le colpe non gravi, prima d’essere
ammesse nella sede dei santi.

È poi curioso osservare da ultimo, intorno a tale argomento, come i
tre più grandi poeti dell’Umanità, Omero, Virgilio e Dante, l’abbiano
consacrato nelle loro immortali epopee: perocchè il primo, nel canto
undecimo dell’_Odissea_, guidasse Ulisse ne’ luoghi inferni a trovarvi
i campioni della guerra trojana: il secondo vi conducesse, nel canto
sesto dell’_Eneide_, il suo eroe, dove appunto divise tutti quegli
scompartimenti che ho più sopra accennati, così lasciandovi memoria di
tutte le antiche dottrine circa il soggetto; e l’Alighieri poi, della
credenza dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, costituisse
anzi tutta la macchina della sua _Divina Commedia_, nella quale agli
scomparti pagani sostituisce di suo capo le bolge ed i gironi, dove
pure colloca, secondo il maggiore o minor merito, la maggiore o minore
pravità, gli spiriti de’ suoi personaggi, tra’ quali con nova fantasia
vede taluni degli uomini del suo tempo ancor viventi.

I morti poi ebbero sempre tra’ Romani una religione: il culto che
loro si prestava divenne anzi così obbligatorio, che nelle XII Tavole
i relativi diritti degli Dei Mani, — che con questo nome chiamavano
generalmente i morti, — vennero positivamente sanciti, secondo il testo
conservato di questa particolare legge da Cicerone: _Deorum Manium jura
sancta sunto; hos leto datos divos habento: sumptum in illos, luctumque
minunto_[225]. Il medesimo Cicerone, nel Libro _De Legibus_, rammentò
come fosse stato volere de’ maggiori che gli uomini che avevano
lasciato questa vita, fossero annoverati tra gli Dei[226].

L’uomo ch’era stato del suo vivente tristo, morto era egualmente un
dio: solo serbava nella seconda vita le malvagie tendenze della prima.

Se non che Apulejo lasciò detto che quando i Mani fossero malevoli,
si dovessero chiamare _larvæ_, e quando benevoli, _lares_; perocchè
infatti _Manes, Genii_ e _Lares_ si dicessero promiscuamente. Udiam lui
stesso: _Manes animæ dicuntur melioris meriti, quæ in corpore nostro
Genii dicuntur; corpori renuntiantes, Lemures; cum domos incursionibus
infestarent, Larvæ; contra ei faventes essent, Lares familiares_[227].

Questa religione de’ morti, scrive il dotto Fustel, che ho già citato,
sembra essere stata la più antica in questa razza d’uomini. Prima di
concepire e d’adorare Indra o Zeus, l’uomo adorò i morti: ebbe paura
di essi e indirizzò loro preghiere. Sembra così che il sentimento
religioso abbia di là avuto la sua origine. È forse alla vista della
morte che l’uomo ebbe per la prima volta l’idea del soprannaturale
e che volle sperare al di là di quel che vedeva. La morte fu il
primo mistero: ella mise l’uomo sulla via degli altri misteri: essa
sollevò il suo pensiero dal visibile all’invisibile, dal passeggiero
all’eterno, dall’umano al divino.

Pur Ugo Foscolo ne’ suoi _Sepolcri_ fe’ rimontare il culto de’ morti
allo istituirsi del contratto sociale:

    Dal dì che nozze, tribunali ed are
    Diero alle umane belve esser pietose
    Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
    All’etere maligno ed alle fere
    I miserandi avanzi che Natura
    Con vece eterna a sensi altri destina[228].

Era forse anche per questo culto che gli Dei Mani si chiamassero _Dii
patrii_ ed anche _Dii sacri_, come si veggono così, indicati sovra
alcuni monumenti. — Più avanti toccherò di feste ed onoranze istituite
per gli Dei Mani.

Come facciamo oggidì che denunziamo al Municipio l’avvenimento d’una
morte, e trattiamo della spesa de’ funerali, allora veniva denunciato
il decesso al tempio della dea Libitina, istituito da Numa, nel quale
si custodivano tutti gli apparati ed addobbi richiesti per mettere in
ordine un funerale e quivi col libitinario, o intraprenditore delle
pompe funebri, convengasi sull’indole di quella che ricercavasi e sulla
spesa.

Il libitinario spacciava alla casa del morto i suoi schiavi, detti
_pollinctores_, dal polline, dice Servio, o fior di farina onde
lievemente spargevasi la faccia del defunto, dopo che il corpo fosse
stato dalle donne con acqua calda lavato. — Tale costume di preparare,
imbiancandolo, il viso agli estinti si conserva tuttavia in Rumenia,
dove lo portarono i Romani antichi, che vi lasciarono indelebili
tracce di loro soggiorno e colonizzazione in altre molte consuetudini,
nel linguaggio e perfino nella denominazione del paese, che fino
a’ dì nostri vanta con noi comune le origini. — Quindi i medesimi
_pollinctores_ l’ungevano e imbalsamavano con appositi aromi:

    . . . _corpusque lavant frigentis et ungunt_[229].

Ciò eseguito, lo si rivestiva dell’abito ch’era solito portar vivo,
colle insegne che s’era meritato. Così il semplice cittadino d’una
toga bianca, il magistrato della pretesta, i censori della porpora;
d’una semplice tonaca invece gli abitanti della campagna e i plebei.
Gli si poneva in bocca un triente, cioè la terza parte di un’asse, la
moneta di rame corrispondente a due centesimi di lira italiana con cui
intendevasi pagare Caronte,

    Il nocchier della livida palude,

pel tragitto di essa, pur descritto nella Cantica dell’_Inferno_ da
Dante, e come il rammenta Giovenale:

                                . . . . _at ille_
    _Jam sedet in ripa, tetrumque novicius horret_
    _Porthmea, nec sperat cænosi gurgitis alnum_
    _Infelix, nec habet quem porrigat ore trientem_[230].

Le leggi delle XII Tavole vietando di seppellire l’oro nelle tombe,
— osserva giustamente quel dotto scrittore e orientalista che è il
prof. Angelo De-Gubernatis, confermano soltanto la esistenza dell’uso
nell’antica Roma[231].

Coronandogli di fiori la testa, lo si deponeva su d’un alto letto,
d’avorio, se ricco, e coperto di preziose stofe, nel vestibolo, co’
piedi rivolti verso l’uscita di casa, quasi ad indicarne la partenza.
Persio così ricorda sommariamente, nella satira III queste funerali
cerimonie:

    _Hinc tuba, candelæ; tandemque beatulus alto_
    _Compositus alto lecto, crassisque lutatus amomis,_
    _In portam rigidos calces extendit_[232].

Quest’uso di collocare i cadaveri che si dovevano trasportare, co’
piedi vôlti all’uscita della casa, nota a questo passo Vincenzo Monti,
era antichissimo. Omero ne fa menzione nel XIX canto dell’_Iliade_, ove
Achille addolorato per l’estinto amico (Patroclo), così parla:

    D’acuto acciar trafitto egli mi giace
    Nella tenda co’ piè vôlti all’uscita.

Davanti la porta si piantava il funerale cipresso, l’albero consacrato
a Plutone, perocchè esso una volta tagliato più non ripulluli, secondo
lasciò ricordato Plinio il vecchio. La presenza del cipresso era
indizio di lutto patrizio, come avvertì Lucano nel seguente verso:

    _Et non plebejos luctus testata cupressus_[233].

Di tal guisa restava avvertito il pontefice di tenersi lontano da
quella casa, da cui sarebbe stato polluto; così evitavanla coloro
che disponevansi a compiere alcun sagrificio, perocchè quell’impuro
contatto non avrebbe più loro concesso d’accostarsi agli altari.
Così all’eguale intento, e per tutto il tempo che duravano le funebri
cerimonie, si solevano velare le immagini degli Dei.

Per sette giorni lasciavasi esposto il cadavere, acciò si avesse tutto
l’agio di riprendere i sensi dove un letargo avesse simulato la morte,
e vegliava a studio di esso uno schiavo della casa e durante un tal
tempo facevansi da que’ della famiglia le maggiori dimostrazioni di
dolore:

            . . . _it clamor ad alta_
    _Atria; concussam bacchatur fama per urbem;_
    _Lamentis, gemituque et fœmineo ululatu_
    _Tecta fremunt; resonat magnis plangoribus aether_[234].

L’ottavo giorno un pubblico banditore, percorrendo le vie principali
adiacenti alla casa mortuaria, convocava il popolo per celebrare i
funerali. Terenzio ci lasciò nelle sue commedie rammentata la formula
di tale convocazione:

    _Quirites exsequias... quibus est commodum ire jam tempus
          est_[235].

Siccome poi, giusta quanto superiormente dissi, le anime delle persone
buone si consideravano ricevute nel novero degli Dei benefici, comunque
d’ordine inferiore; così ci restò qualche documento che prova come
si ponesse nel feretro, presso il cadavere, un attestato di buona
condotta, rilasciato dal Pontefice, perchè fosse agevolato il compito
de’ giudici eterni. Bannier ne riferisce un esempio in quello che
fu posto accanto ad un cadavere dal Pontefice Sesto Anicio, ch’io
pur trascrivo, acciò si conosca anche di questo curioso documento
la formula. Eccolo: _Ego Sextus Anicius Pontifex testor hunc honeste
vixisse: Manet ejus inveniant requiem_[236].

_Funus_ dicevasi il funerale, a cagione che negli antichi tempi i
romani seppellissero di notte al lume di candele, o torcie, che si
formavano di funi ritorte, _funalia_, intrise di pece, portate dai
piagnoni. Non fu che più tardi che l’uso di seppellire di notte si
restrinse alle classi più povere, le quali non potevano sostener la
spesa di splendide esequie.

Ed oltre di tal distinzione, diverse altre erano le specie di funerali.
_Publicum_ era quel funerale che si faceva a spesa dello Stato,
come in quest’anno in cui scrivo (1873, 29 maggio), Milano praticò
a riguardo di Alessandro Manzoni, morto il 22 dello stesso mese e
riuscì così imponente e pomposo da potersi dire per lo appunto quel
che Plinio scrisse a Romano del funerale pubblico di Virginio Rufo,
il quale, se non come Manzoni ebbe a vivere ottantotto anni, ne visse
nondimeno ottantatre, _compiuti_ in una beatissima quiete e in non
minore venerazione, che stato console per tre volte, arrivò all’apice
degli onori privati e sopravvivendo trent’anni alla sua gloria, lesse
versi, lesse storie, scritti in suo onore e conversò in certa guisa
co’ posteri: _Post aliquot annos insigne, atque etiam memorabile
populi romani oculis spectaculum exhibuit publicum funus Virginii Rufi
maximi et clarissimi civis, perinde felicis_[237]. Il Paravia in nota
a questa lettera di Plinio, affermò chiamarsi anche _censoria_ questi
publici funerali, rimettendo circa alle cerimonie, al lusso ed anche
alla stravaganza di queste funebri solennità alle _antichità_ Romane
di Adam (vol. III e IV) che ne fece la descrizione. Ma il funerale
publico, fatto a spesa dello Stato, che in quest’anno medesimo rimase
più memorabile ancora, fu quello che si celebrò in Roma nel 7 giugno
1873, per Urbano Rattazzi, il più eminente uomo di Stato che aveva
l’Italia, stato sei volte ministro di re Vittorio Emanuele, morto il 5
dello stesso mese in Frosinone, e il cui nome, come quello di carissimo
e venerato amico, io rammenterò nelle lagrime finchè vita mi rimarrà.
Non fu pompa solo ufficiale, ma, come fu egregiamente detto, fu vero
plebiscito: poichè tutte le città vi partecipassero nel lutto, e con
essa i principi reali, i più alti dignitari, senatori e deputati,
illustri stranieri e d’ogni ordine cittadini. Splendidissimi del pari
poi, ed a spesa del Municipio, Alessandria sua patria gli rinnovò
l’undici giugno successivo, quando essa ebbe il cadavere che reclamò e
che venendo da Roma ebbe lungo il viaggio le ovazioni delle popolazioni
in mezzo alle quali passava.

_Funus indictivum_ appellavasi quel grande funerale in cui veniva
invitato il popolo a’ ludi gladiatorii ed alle militari rassegne,
che si offerivano ad onoranza di illustre defunto; mentre _tacitum_ o
_translatitium_ dicevasi il funerale comune ed ordinario senza veruna
ostentazione di potenza. _Funus gentilitium_ era poi quello nel quale
si recavano in processione le imagini de’ maggiori della medesima
prosapia, _gens_.

Fatta dal banditore l’ultima conclamazione, il _designator_, o maestro
della funebre cerimonia, assistito da’ suoi littori, o da un suo
accolito, _accensus_, ordinava che la processione si incamminasse per
trasferire il cadavere all’ultima dimora, tutti recando, comunque
fosse di giorno, torcie accese nelle mani, in memoria dell’antico
costume. Apriva la marcia una banda di musicanti, _siticines_, che
suonavano la _tibia longa_, o flauto funebre, accompagnando con essa un
canto lugubre in lode del trapassato, come ci spiegò Novio Marcello:
_Siticines dicti sunt qui funeratos et sepultos canere soliti erant
causa honoris cantus lamentabiles_[238].

Il mortoro de’ grandi e delle persone attempate, quando il publico era
stato convocato, veniva accompagnato da trombettieri, _tubicines_, i
quali annunciavano che il defunto non era stato tolto di vita dal ferro
o dal veleno.

Dietro i musici venivano le prefiche, _præficæ_, schiave del
libitinario incaricate di fare il piagnisteo; ed esse, mediante
pagamento, percuotevansi il petto, mandavano grida strazianti e
strappavansi i capelli, ostentando un dolore fierissimo che erano
ben lungi dal sentire. Così Lucilio nelle satire ci descrive la loro
simulata desolazione:

                               _Mercede quæ_
    _Conductæ fient alieno in funere præficæ_
    _Multo, et capillos scindunt et clamant magis[239]._

L’uso delle prefiche, comune a quasi tutte le nazioni, si protrasse
tardissimo anche fra noi. Nella diocesi di Milano vennero proibite
dall’Arcivescovo S. Carlo Borromeo. — E celebravano esse talvolta le
lodi del defunto col canto, _nænia_, e tal altra recitando passi de’
poeti più rinomati che avessero qualche analogia colla circostanza.
Erano così insinceri siffatti canti laudativi, che passò di poi _nænia_
per sinonimo di _nugæ_, ossia bagatelle od inezie. Il nostro Porta,
l’insuperabile poeta del nostro vernacolo, disse alla sua volta _bosard
come on cartell de mort_, bugiardo come un cartellone da morto, o,
come potrebbesi anche dire, al pari di un epitaffio. Guasco ricorda
che dietro le prefiche venissero altre donne: _Piatrices, Sagæ,
Expiatrices, Simpulatrices_, ed erano sacerdotesse che presiedevano a’
sacrificj impetratorj per ottenere l’ingresso del defunto negli abissi,
ed espiatorj per purgarsi dai peccati[240].

Seguivano i _Popi_ e i _Victimarii_: ufficio dei primi era di abbattere
gli animali più diletti al defunto padrone, come cavalli, cani, ed
uccidere uccelli alla pira funebre: dei secondi di predisporre gli
arredi necessarii all’uopo. Essi apparivano nudi fino alla cintura.

Poi quelli che portavano le insegne onorifiche del morto, come le
spoglie prese al nemico, i distintivi ed i premii conseguiti dal suo
coraggio, ogni cosa però capovolta a dimostrazione di lutto. Portavansi
pure le imagini degli avi illustri disposte per ordine cronologico su’
carri, _pilenta_, le insegne delle magistrature e delle dignità coperte
da essi, e siffatto privilegio spettava pure alle donne ne’ loro
funerali, dove avessero avuto negli antenati loro taluno che avesse
sostenuto una magistratura curule.

Teneva dietro tutto ciò una schiera di mimi e l’_archimimus_ o capo di
essi. I primi ballavano danze grottesche al suon de’ crotali, le quali
danze chiamavansi _sicinnia_, i cui salti regolavansi in misura co’
piedi dattili dell’_anapesto_, metro simile a un dipresso al quinario
nostro e del quale eccone esempio tolto a Seneca il tragico:

    _Fundite fletus,_
      _Edite planctus,_
      _Fingite luctus,_
      _Resonet tristi_
      _Clamore forum_, ecc.[241]

Il secondo, imitava coll’incesso e co’ gesti il costume, i modi più
spiccati e la persona del defunto, come viene attestato dallo storico
de’ Cesari, Svetonio[242].

Venivano ultimi i parenti e gli amici, spogliate le dita d’anelli e
colla barba intonsa, vestiti tutti della penula oscula, abito di rigore
nelle funerali pompe, nelle quali non era permesso portare la toga e
comprendevasi essa fra i _vestimenta clausa_. I figliuoli incedevano
colla testa coperta, le figlie invece a capo scoperto: queste poi, la
madre e la moglie senza ornamento, colle chiome disciolte ed in nere
gramaglie. Le donne solevano mostrare un vivo dolore, straziandosi
il seno nudo ed il volto, tanto da spicciarne il sangue, e invocando
l’amato defunto ad alta voce, come Properzio desiderava avesse a fare
per lui la bella Cinzia:

    _Tu vero nudum pectus lacerata sequeris._
      _Nec fueris nomen lassa vocare meum_[243]

e ciò non a vana dimostrazione di duolo, ma perchè, secondo spiegano i
commentatori, i mani amano il latte ed il sangue.

Dopo di costoro, procedeva la bara, _capulum, feretrum, lectica
funebris_, come poteva venire con tutti questi nomi designata, ed era
un letto od anche una lettiga coperta da più o men ricco drappo, a
seconda della varia dignità dell’estinto e portata da’ più prossimi
parenti o dagli amici, in numero di sei o di otto, e per ciò detta
anche _exaphorum_, od _octophorum_. Talvolta sorreggevasi essa dagli
schiavi dichiarati liberi nel testamento, e tenevano allora in segno
di loro recente libertà coperto il capo. I personaggi alto locati
erano portati da dignitarj o funzionarj dello stato; la bara di Lucio
Cornelio Silla dalle Vestali, quella di Giulio Cesare dai magistrati,
quella di Augusto da’ senatori, quella di Tiberio da’ soldati, e
Tacito ricorda che il feretro di Germanico venisse portato sulle
spalle de’ tribuni e de’ centurioni[244]; ma poi e più innanzi l’urna
dell’imperatore Severo fu portata per mano dei consoli medesimi.

Dietro la bara succedeva la caterva de’ clienti, degli schiavi e
de’ familiari, conducendo a mano gli animali che dovevano essere
sagrificati al bruciamento del cadavere, e finalmente chiudevasi la
processione colla carrozza vuota, _rheda_ o _carpentum_, del defunto
e colla turba de’ curiosi e sfaccendati che mai non mancano agli
spettacoli che si offrono gratuitamente.

Il funerale corteggio, quando trattavasi di persona illustre o ricca,
soffermavasi un tratto nel foro, dove, posto il funebre letto sulla
tribuna, un prossimo congiunto, o l’erede beneficato, pronunciava
l’orazione funebre in mezzo ai suoni lugubri di una musica mesta, ciò
che diede origine alla frase latina _laudare pro rostris_. Ricorda il
lettore come Svetonio, nella vita di Cesare, lasciasse memoria aver
questi alla sua volta arringato dai rostri l’orazion funebre per la sua
zia (_amita_) Giulia e per la moglie Cornelia, cogliendo il destro così
di vantarsi disceso per una parte da regale prosapia e per l’altra da
Venere, affine poi d’inferirne: _est ergo in genere et sanctitus regum,
qui plurimum inter homines pollent, et cærimonia deorum, quorum ipsi in
potestate sunt reges_[245].

Il De-Gubernatis nella sua opera sullodata degli _Usi Funebri Indo
Europei_[246], ricorda come Plutarco nella vita di Valerio Publicola
riferisca a questo console l’origine della istituzione delle orazioni
funebri romane. «Ebber cari i Romani — queste son le parole dello
scrittore delle _Vite degli uomini Illustri_ — quegli onori che
fece Valerio al suo collega (Bruto) coi quali illustrar ne volle il
mortorio, e specialmente l’orazion funebre che recitò in di lui lode
egli stesso, la quale riuscì di tanta soddisfazione e fu sì grata ai
Romani medesimi, che introdotto indi venne il costume di encomiarsi
dopo morte, in tal guisa, tutti i grandi, e valentuomini dai personaggi
più insigni. Questa orazion funebre, secondo si dice, fu più antica
anche di quella de’ Greci, se pure anche ciò non fu una istituzione
di Solone, come lasciò scritto il retorico Anassimene.» Dionigi
d’Alicarnasso, nel libro quinto delle sue _Antichità Romane_, scrive
non poter affermare se Valerio sia stato il primo a pronunciare in
Roma un discorso funebre, o s’egli abbia invece seguito un costume
già invalso tra i re; ma in ogni modo ritiene il costume come romano
e rimprovera i tragici ateniesi per averne voluto fare un merito alla
loro città, che non conobbe, a suo avviso, le orazioni funebri, se non
dopo la battaglia di Maratona, che fu posteriore di sedici anni alla
morte di Bruto.

Ripigliava quindi la processione il suo corso e uscendo dalla
città[247] pel Circo Massimo e la porta Capena per mettersi nella
via Appia, ch’era quella delle tombe, si avviava al rogo, _rogus_, ed
anche grecamente pira, πυρά, che era una specie di altare, o catasta,
piuttosto costruita nel recinto sepolcrale detto _bustum_, o contiguo
alla tomba, di ciocchi d’alberi resinosi, non digrossati ne’ squadrati,
in masse ad angoli retti, adorna di ghirlande e ramoscelli di cipresso,
sulla cima della quale collocavasi dallo schiavo, detto _Ustor_, il
cadavere, asperso di preziosi liquori e avvolto in un lenzuolo di
amianto. Dapprima il più prossimo congiunto o l’erede ne aveva riaperto
gli occhi, come voleva il rito, reputandosi sacrilegio il privare il
cielo degli sguardi di un morto, e curavasi che portasse al dito il
suo anello e prima di avvilupparlo nel sudario la moglie e i figli
deponevano sulle gelide labbra di esso l’estremo bacio, tributo ultimo
che pur a sè stesso augurava ricevere dalla sua Cinzia Properzio:

    _Osculaque in gelidis pones suprema labellis_
      _Quum dabitur Syrio munere plenus onyx_[248].

E si staccavano dalla cara spoglia colle parole consacrate dal rito:
_Vale. Nos te ordine quo natura voluerit cuncti sequemur_[249].

Ciò fatto, il più prossimo congiunto, stornando la testa, appiccava
colla rovescia torcia il fuoco alla pira e mentre questa ardeva,
gittavansi su d’essa incensi, profumi, vino, capelli e fiori, e lo
stesso Poeta or ricordato, pone in bocca alla sua Cinzia, che morte gli
toglieva anzi tempo e l’ombra della quale gli era ne’ sogni apparsa, il
lamento perchè nè di profumi, nè di vino e neppure di giacinti avesse
egli onorato il suo rogo:

    _Cur ventos non ipse rogis, ingrate, petisti?_
      _Cur nardo flammæ non oluere meæ?_
    _Hoc etiam grave erat nulla mercede hyacinthos_
      _Inficere, et fracto busta piare cado_[250].

Altri buttavan su quella fiamma le armi, le _phaleræ_[251] e le
vestimenta preziose del defunto, i cavalli a lui prediletti, i molossi,
i papagalli e quanto in vita aveva di meglio amato, e accadde ancora
che in mezzo ad essi si slanciassero gli schiavi stessi, come per
essere compagni al trapassato nel viaggio d’oltre tomba. Così Virgilio
menzionò nell’_Eneide_ il devoto costume:

    _Hic alii spolia occisis direpta Latinis_
    _Conjiciunt igni, galeas, ensesque decoros_
    _Frænaque, ferventesques rotas: pars munera nota,_
      _Ipsorum clypeos, et non felicia tela_[253].

perocchè _munera_ appunto si chiamassero le preziose cose avute in
pregio del suo vivente dal defunto.

Nè il popolo restava inoperoso in mezzo alla cerimonia; ma pregava
i venti spirassero secondi, giusta il costume de’ Greci rammentato
nell’_Iliade_ nei funerali di Patroclo:

    Ma del morto Patròclo il rogo ancora
    Non avvampa, allor prende altro consiglio
    Il divo Achille. Trattosi in disparte,
    Ai due venti Ponente e Tramontana
    Supplicando, solenni ostie promette,
    E in aurea coppa ad amendue libando,
    Di venirne li prega, e intorno al morto
    Sì le fiamme animar, che in un momento
    Lo si struggano tutto esso e la pira[254].

Se il funerale era di condottiero di esercito, cavalieri e fanti
riccamente ornati tre volte giravano intorno al rogo, ciò che
chiamavasi _decursio_, mandando dolorosi lai:

    _Ter circum accensos, cincti fulgentibus armis,_
    _Decurrere rogos: ter moestum funeris ignem_
    _Lustravere in equis, ululatusque ore dedere_
    _Spargitur et tellus lacrymis, sparguntur et arma[255]._

Così leggesi anche in Svetonio nella vita di Claudio, come intorno
al tumulo di Druso Germanico corresse ogni anno un soldato; e Tacito
scrive: _Chatti tumulum super varianis legionibus structuri, ad aram
Druso sitam disiecerant. Restituit Cæsar arum honorique patris princeps
ipse cum legionibus decucurrit_[256].

Ed intanto che il fuoco divampava, si facevano le libazioni di vino,
di latte e di sangue, alla quale ultima fornivanlo le vittime immolate,
i prigionieri, gli schiavi od anche i gladiatori detti _bustuari_, per
ciò che innanzi al rogo combattessero combattimento mortale, avendosi
fede, come già notai, che i mani si placassero col sangue.

I più ricchi e prestanti cittadini, siccome m’accadde di mentovare nel
capitolo dell’Anfiteatro nel dire de’ ludi gladiatorii, crescevano
onoranza con gli spettacoli di gladiatori, che si offerivano
gratuitamente al pubblico, e il dittatore Lucio Cornelio Silla li
dispose grandiosissimi pe’ suoi funerali nel proprio testamento,
secondo si raccoglie nell’orazione di Cicerone, pur da me già citata
nei capitoli della Storia Pompejana, recitata _pro Publio Sylla_.

Ma ad onorare la memoria dei defunti altri modi vi erano. La lettera
XVIII del Lib. VII. delle _Epistole_ di Plinio il Giovane ci apprende
come Caninio Rufo, per eternare la memoria della propria moglie,
disponesse un annuale convito a’ suoi concittadini Comaschi e in un
rottame di lapide conservatoci dal Giovio si legge che altri due
Caninii della stessa città lasciassero similmente una somma per
celebrare un annuale banchetto: eccone il frammento:

                      ORNAMENTVM ET ROSA PONERETVR
                  RELIQ. INTER SE SPORTVLAS DIVIDERENT
                IN CVIVS TVTEL. DEDERVNT CANINIVS VIATOR
                        ET CANINIVS EVPREPES HS.

Più munificente e assennato appare dalla medesima lettera XVIII Plinio
stesso, quando ci dice aver assegnato 500 mila sesterzi alla sua patria
Como per educare i giovani.

Le persone povere, o quelle non così facoltose e in grado di comperarsi
il _bustum_, portavansi all’_ustrina_, terreno publico destinato a
bruciare i cadaveri, le ceneri de’ quali venivano quindi trasportate
ne’ sepolcreti di famiglia se l’avevano, o se non l’avevano, al
sepolcro comune, al quale accenna Orazio nel verso:

    _Hoc miseræ plebi stabat comune sepulcrum_[257];

perocchè la legge proibisse di appiccare il fuoco ad un rogo sul
terreno d’altrui proprietà.

Consumatasi la salma, estinguevansi le fiamme col vino: il più prossimo
parente, cantandosi da’ musici l’_epicedum_ o poemetto funebre in
onore del morto, (da ἐπὶ sopra, e κὴδος, funerale), raccoglieva le ossa
ancora ardenti, le lavava in vecchio vino e nel latte e le asciugava
con un lino, ciò che chiamavasi _ossilegium_.

Siffatta costumanza di lavare nel vino, nel latte e talvolta anche
nell’olio le ossa, era stata vietata come inutile scialaquo dalle leggi
delle XII Tavole; ma non per questo era stata meno e sempre in vigore
e in Roma e presso tutte le nazioni a’ Romani soggette. Giova anzi a
tal proposito ricordare il grazioso epitaffio che uno schiavo aveva
scolpito sulla tomba da lui fatta erigere al giovinetto padrone suo,
che così si chiudeva:

    _Ossibus infundam quot numquam vina bibisti_[258].

alludendo al divieto de’ Romani che i fanciulli avessero a bever vino.

Riponevansi da ultimo le ossa in un’urna talvolta di bronzo, il più
spesso di terra cotta, di marmo, di alabastro o di vetro, del quale
ultimo materiale è l’_urna cineraria_, scoperta in Pompei, riempita
per metà di un liquido e nel quale si discernono ancora i resti di
ossa e di ceneri. Oltre di tale liquido si sa vi ponessero rose e
piante aromatiche. Un sacerdote per ultimo aspergeva d’acqua lustrale
i parenti onde purificarli, ciò che dicevasi _suffitio_, e dopo, il
capo della cerimonia, _designator_, od anche la prefica, diceva loro:
_I licet_, cioè potete ardarvene e la comitiva si discioglieva. Allora
chiudevasi l’urna nella tomba, sulla quale ponevasi la pietra detta
_monimentum_, onde fu poi generalizzato il nome di monumento agli
edifizi funebri e sovr’esso l’inscrizione predisposta. Più avanti ne
recherò parecchi saggi di quelle trovate e lette negli scavi della Via
delle Tombe in Pompei.

E i vasi lacrimatorj, mi si chiederà, a che non li avete voi accennati,
prima di chiudere col _monimentum_ il sepolcro?

È di fatto che ne’ sepolcri antichi, e pur in quelli di Pompei si
rinvenissero vasi e cucchiai detti lagrimatorii; ma servivano essi
davvero a raccogliere, come fu preteso, le lagrime de’ veraci dolenti e
delle prezzolate prefiche?

Il Baruffaldi lo credette nella sua Dissertazione _De Præficis_ e
lo credettero il Fabbretti nel suo libro delle _Iscrizioni_ ed altri
ancora; e il Fabbretti volle anzi da certi fori praticati sovente sul
coperchio delle antiche tombe, argomentare l’usanza d’introdurvi per
essi le lagrime de’ congiunti ne’ giorni anniversarii o nelle feste
commemorative de’ loro cari defunti, molto più che in taluni vasi si
sieno vedute delineate le orbite degli occhi, e sui _monimenta_ si
riscontrino scolpite tazze ed espresse le lagrime negli epitaffi; ma
colla dovuta reverenza a questi dotti, io non mi sono mai capacitato
che tal costume avesse potuto un giorno sussistere. Piagnone
prezzolate, artifici di dolore per quanto sottili, lagrime di dolenti,
versate dopo parecchi giorni dal decesso del caro parente, come
avrebbero potuto fornir tanta materia a’ cucchiai e vasi lacrimatorii?
Questi arnesi, queste fiale di vetro o di terra cotta, di alabastro o
d’altro, non sarebbero stati piuttosto adoperati a raccogliere balsami
ed aromi che gittavansi sul rogo, o libazioni di latte e di vino, che
si facevano sulle tombe?

Il Grutero, nella eruditissima sua opera, recò più d’una iscrizione,
fra le cui parole vedevansi scolpite cucchiaj o patere, come più
propriamente dicevansi, le quali erano appunto vasi circolari con
manichi, atti a contenere liquidi, _ma più specialmente usati_, dice
Rich, a contenere il vino con cui era fatta una libazione[259].

I fori adunque praticati ne’ coperchi delle tombe debbono indubbiamente
aver servito a far penetrare le libazioni di vino e di latte, di che
Foscolo pur tenea conto in que’ versi de’ suoi _Sepolcri_:

    Le fontane versando acque lustrali,
    Amaranti educavano e viole
    Su la funebre zolla; e chi sedea
    A libar latte e a raccontar sue pene
    Ai cari estinti, una fragranza intorno
    Sentia qual d’aure de’ beati Elisi[260].

Questi fori si praticavano ad esempio nei _loculi_, o bare, quando
i cadaveri non si abbruciavano ancora ma si collocavano in essa
interi. Entro codesta bara spesso di terra cotta, eravi ad una
estremità una soglia elevata per adagiarvi il capo e dallato un foro
tondo pei balsami aromatici, che si versavano dentro per mezzo d’un
corrispondente orificio nella parete esterna della cassa.

Il costume della cremazione de’ cadaveri, del cui procedimento presso
i Romani ho intrattenuto il lettore, non era antico a’ tempi di
Plinio, voglio dire al tempo della catastrofe di Pompei, siccome egli
l’attesta. Era la cremazione usata solo in Grecia fin dai tempi di
Cecrope, dicendo Luciano che il Greco abbrucia i cadaveri, il Persiano
li sotterra, l’indiano li avvolge di grasso porcino, lo Scita li
divora, l’Egizio li imbalsama. L’essersi adottata da Romani originò
dall’oltraggio che veniva fatto alle tombe, quando i romani morivano
in lontane contrade, e che però vi si voleva ovviare. Lucio Cornelio
Silla, che a cagione delle tante proscrizioni aveva ragione a temere
l’insulto al proprio cadavere, com’egli stesso aveva fatto a quello di
Mario, dissotterrandolo e facendolo gittare nel Teverone, fu il primo
che ordinasse di ardere, dopo morte, il proprio corpo, e così invalse
il costume passato in legge, e Ovidio lo rammenta nel verso:

    _Corpora debentur mæstis exanguia bustis_[261].

Siccome poi essi pensassero che l’anima fosse della natura del fuoco,
e che il rogo le facilitasse l’uscita dal corpo e però l’onore del
rogo non s’avesse a concedere che alle persone dotate di ragione e
sentimento; così, per testimonianza dello stesso Plinio il Vecchio, non
s’accordava a’ bambini, a’ quali non fossero ancora spuntati i denti,
perocchè sarebbe stata considerata siccome empietà che contaminerebbe
la casa e vi allude pur Giovenale nella _Satira_ XV ne’ seguenti versi:

    _Naturæ imperio gemimus, quum funus adultæ_
      _Virginis occurrit, vel terra clauditur infans,_
      _Et minor igne rogi_[262].

Seppellivansi quindi la notte allo splendore delle faci. Le loro ossa
poi deponevansi in luogo detto _subgrundarium_, sotto di un tetto,
cioè, o gronda sporgente, a modo di nido di rondine[263].

Nè abbruciavansi tampoco i corpi di coloro che erano colpiti dalla
folgore: _Hominem ita exanimatum, cremari fas non est; condi terra
religio tradit_, disse il medesimo Plinio[264].

Ora il costume della cremazione divien soggetto alle più serie
investigazioni e discussioni in Italia, che lo si vorrebbe sostituire
a quello della sepoltura de’ cadaveri. Ragioni specialmente di igiene
lo pongono innanzi e lo propugnano calorosamente, e se adottato, come
pare dall’Italia, verrà seguito pure dalle altre nazioni incivilite,
avrà avuto una volta di più suggello l’osservazione del francese Ipp.
Lucas dell’Istituto di Francia che «all’Italia è affidata per diritto
l’iniziativa del progresso umanitario[265].» È principalmente nella
mia Milano che l’importante questione si agita, sicchè egregiamente
quell’ottimo uomo che è Giuseppe Sacchi, osservava che la cremazione
è per Milano il ritorno ad un’antica usanza, additando una località
nei pubblici giardini che era ad essa destinata, e rivendicando per
tal modo alla nostra città il doppio merito di aver sempre spento
con la violenza della sua riprovazione i roghi della Inquisizione,
e di avere all’opposto innalzato pei cadaveri il rogo purificatore.
Fra noi, a tale scopo, si istituì un comitato promotore sotto la
presidenza dell’illustre medico e chimico prof. Giovanni Polli e
del qual fan parte quei chiari suoi colleghi che sono il Pini, lo
Strambio, il Dell’Acqua, il Griffini e il Tarchini-Bonfanti. E solenne
conferenza indissero costoro nel giorno 6 aprile 1874, per trattarvi
dell’argomento e del modo migliore di cremazione, dove appunto si
udirono le suddette parole del Sacchi, dove Amato Amati espresse il
concetto che la nuova usanza, restaurando coll’urna cineraria domestica
il culto della famiglia, vi alzerà il carattere morale della nazione,
e il dotto prete prof. Bucellati in una bella sua lettera diretta per
quell’occasione al Comitato, scaltrì di pregiudizio la credenza che
essa possa ledere i diritti della cristiana religione[266]. Concesse
queste brevi parole ad un argomento di tutta attualità, faccio ritorno
al mio tema.

La dimane del rogo i parenti e gli amici venivano invitati ad un
banchetto funebre. Prima di mettersi a tavola si purificavano col
lavarsi. Se ricco il defunto, davasi tale banchetto anche al pubblico
ed appellavasi _silicernium_. A differenza di Grecia, dove il
_Silicernium_ compivasi nella casa del parente più prossimo del defunto
e subito dopo l’esequie, come si trova ricordato in Demostene (_De
Coron._); in Roma e nella romana colonia questo convivio aveva luogo
presso il sepolcro stesso; e le camere squisitamente decorate, che così
comunemente s’incontrano nelle loro tombe, come accessorie di queste,
ma non mai adoperate a ricevere urne, erano senza dubbio intese a
questo fine. In Pompei, nella Via delle Tombe, troveremo un _Triclinium
funebre_ stabile presso le tombe, costituito da un recinto, con entro
tre letti triclinarii di materia di fabbrica, su cui, a renderli più
comodi, si saranno all’occasione distesi materassi, _pulvinares_.

Il più spesso il _silicernium_ misuravasi dalla entità dell’asse redato
o dalla gratitudine dell’erede; Persio lo attesta:

                    _Sed cœnam funeris hæres_
    _Negliget iratus si rem curtaveris, urnæ_
    _Ossa inodora dabit: ceu spirent cinnama surdum,_
    _Seu ceraso peccent casiæ, nescire paratus[267]._

Se poi l’erede limitavasi a sola distribuzione al pubblico di carni
crude, dicevasi essa _visceratio_. Esempio celebre del primo fu il
silicernio imbandito da Cesare per la morte di Giulia a ventiduemila
persone; altri dicono sessantaseimila.

Un altro banchetto funebre famigliare facevasi nove giorni dopo e
designavasi col nome di _novemdialia_ e nel dì susseguente, _denicales
feriæ_[268], purificavasi la casa mortuaria contaminata dalla presenza
del morto e quindi per consueto distribuivansi ancora largizioni alla
plebe.

Non era per altro così de’ funerali de’ poveri. Non sorgeva cipresso
avanti la porta, non difilava processione, non intendevansi suoni, non
celebravansi le altre cerimonie e solennità.

Tre giorni dopo la morte, giungevano quattro necrofori, _vespillones_,
sul cader della notte, a levarli di casa in una cassa da nolo, detta
_sandapila_, ed a portarli nella fossa pubblica oltre le mura, in
luoghi detti _puticuli_ ed anche _putiluci_, a causa, disse il dotto
Turnebo, della profondità delle fosse, nelle quali, non altrimenti che
in pozzi, non poteva scendere luce, e tutto era presto finito.

Reduce la famiglia dal funerale, si purificava la casa contaminata
dalla presenza del cadavere spazzandola con iscopa di tamerigia o
di palma ed invocando Deverra (da _verrere_, spazzare), divinità che
presiedeva appunto alla pulitezza delle case.

A tutte le predette cerimonie teneva dietro il lutto: per gli uomini
ristretto a dieci giorni di isolamento o ritiro nella propria casa; per
le donne ad un anno o a dieci mesi almeno.

Eravi poi il lutto publico, quando si volevano onorare grandi virtù di
illustri trapassati o piangere la perdita di qualche grande battaglia,
come fu quella toccata a Canne, in cui perirono quarantacinque mila
romani, il Console Paolo Emilio e ottanta senatori. Esso indicevasi dal
Senato ad ogni ordine di cittadini.

In tal tempo sospendevasi dal rendere giustizia, i consoli non sedevan
sulle loro sedie curuli, i littori portavano capovolti i fasci, i
senatori deponevano il laticlavio, gli anelli d’oro, nè radevan la
barba, o tagliavano i capelli, proibiti i conviti festosi, l’accender
fuoco nelle case e il fabbricare.

Nel lutto privato poi esponevansi le imagini del defunto ad incitamento
di virtù, come s’esprime al proposito Sallustio: _Sæpe audiri præclaros
civitatis nostræ viros solitos dicere, cum majorum imagines intuerentur
vehementissime sibi animum ad virtutem accendi: scilicet non ceram
illam, neque figuram, tantam vim in se habere: sed memoriam rerum
gestarum eam flammis egregiis viris in pectore crescere, neque prius
sedari quam virtus eorum famam atque gloriam adæquaverit_[269]. Doveva
Foscolo di certo aver rammentato questo passo, del quale serbò perfino
qualche parola, quando cantava ne’ _Sepolcri_:

    A egregie cose il forte animo accendono
    L’urne de’ forti[270].

E il medesimo nostro grande Poeta aveva poco prima cantato come tanto
venerata e sacra fosse la memoria de’ cari defunti, che venisse perfino
giurato su di essa:

                      . . . . e fu temuto
    Su la polve degli avi il giuramento[271].

Properzio presta uno di tali giuramenti, per le ossa del padre e per
quelle di sua madre:

    _Ossa tibi juro per matris, et ossa parentis._

E Quintiliano, più tardi, così esprime il dolore provato per la moglie
e pel figlio statigli da morte immatura rapiti: io giuro pei loro mani,
divinità del mio dolore,

    _Per illos manes, numina doloris mei._

Nè con queste dimostrazioni aveva fine il lutto.

V’erano commemorazioni funebri altresì durante l’anno, come nelle
feste Parentali che seguivano in febbrajo e in giorni fasti detti
anche _Feralia_, e come nelle feste _Lemuralia_, e, com’altri dice,
_Remuralia_, perchè istituite da Romolo in onore del fratello Remo da
lui ucciso, che avvenivano in maggio, nelle quali la famiglia recavasi
ad onorare il sepolcro del diletto defunto e là nel vicino triclinio,
fra le dapi del banchetto, non dovevan mancare l’appio, il sale, il
miele, le lenti, il farro, le uova e le fave.

La cerimonia incominciava a mezza notte: il padre di famiglia alzavasi
dal letto, e tacito e invaso da sacro terrore, a piedi scalzi, solo
facendo scricchiolare le dita per allontanare le ombre dal luogo pel
quale passava, incamminavasi a una fontana. Quivi lavate per tre volte
le mani, rifaceva il cammino gittando al di sopra del suo capo delle
fave nere che aveva in bocca e mormorando questo scongiuro: _con
queste fave io mi riscatto insieme con quelli della mia famiglia_.
Tali parole doveva ripetere per ben nove volte senza guardare dietro
di sè, supponendosi che l’ombra dalla quale era seguitato raccogliesse
non vista le fave. La festa lemurale chiudevasi dal medesimo padre di
famiglia, prendendo dell’acqua un’altra volta, battendo su di un vaso
di bronzo e pregando l’ombra di uscire dalla sua casa, ripetendo ancor
nove volte le parole: _uscite, o mani paterni_.

Le offerte poi che si facevano sulle tombe in codeste funebri
commemorazioni, che _feralia_ appunto si chiamavano da questo pio
costume di donativi ai morti, come lasciò scritto ne’ _Fasti_ il già
citato Poeta latino:

    _Hanc, quia justa ferunt, dixere Feralia lucem_[272];

si vennero poco a poco aumentando. Pur nondimeno tenevasi che non
eccessive fossero le esigenze degli Dei Mani. Udiamo Ovidio:

    _Est honor et tumulis. Animas placate paternas,_
      _Parvaque in extinctas munera ferte pyras._
    _Parva petunt Manes: pietas pro divite grata est_
      _Munere; non avidos Stix habet ima Deos._
    _Tegula projectis satis est velata coronis,_
      _Et sparsæ fruges, parcaque mica salis._
    _Inque mero mollita Ceres violaque solutæ;_
      _Hæc habeat media testa relicta via._
    _Nec majora veto: sed et his placabilis umbra est._
      _Adde preces positis et sua verba focis[273]._

Non lascerà il lettore in codesta citazione di rilevare la costumanza
d’offrire ai morti i doni su d’una tegola o coccio. Venivano sporti
anche su d’una pietra.

Anche Giovenale accennò alla tenuità delle offerte che si facevano a’
defunti, nella Satira V, dicendola _Exigua feralis cœna patella_[274].

Chiudevansi in questi giorni i templi degli Dei celesti, erano
interdette le nozze e vietato l’uso del fuoco, perocchè si reputassero
giorni immondi: di che pure ne avvisa il succitato Ovidio, nel medesimo
libro secondo _Fastorum_, dove pure ricordò che in quelle feste,
_feralia_, facevasi altresì sagrificio alla dea _Tacita_ o _Muta_,
della quale canta la sventura e i casi avventurosi, per avere garrula
rivelato ella alla ninfa Giuturna gli amorosi intendimenti del Tonante
verso di lei e accesa pur colla sua indiscrezione le furie gelose
di Giunone, onde Giove resola muta e affidata a Mercurio perchè la
scorgesse a’ regni inferni, venisse da questo Dio fatta madre dei
gemini Lari, divenuti poi questi custodi della romana città.

V’erano poi anche le _Inferiæ_, e sacrifizi in onore degli Dei
d’Averno, che celebravansi a notte dal sagrificatore seguito dagli
Editui, o guardiani, che avevano la cura de’ templi, dai Camilli e
Camille, giovanetti che assistevano ai sagrifzi, dai popi o ministri
che menavan le vittime, le quali erano in tale occasione un bue ed
una pecora, e dai vittimarj, e talvolta anche dai littori preceduti
dal suono dei siticini e dai _præclamitatores_, che ingiungevan la
sospensione del lavoro. Accoltisi questi intorno all’ara uno de’
_præclamitatores_ bandiva alla accorsa plebe silenzio, acciò non
isfuggisse pur una voce di sinistro augurio:

            . . . . _Vos pueri et puellæ_
    _Iam virum expertæ, male ominatis_
                  _Parcite verbis_[275].

E il sacerdote compiva allora il sagrificio, invocando i nomi terribili
di Ecate e di Proserpina, ed aspergeva di vino il sepolcro.

Da’ riti funerarii è naturale il passaggio a ragionar de’ sepolcri,
che i romani ergevano a memoria ed onoranza de’ loro cari ed illustri
defunti. Dirò di essi prima di particolareggiar di quelli che troveremo
schierati lungo la Via delle Tombe di Pompei, per la quale mi sono
proposto di condurre il mio benevolo lettore.

Come semplici erano stati i primi costumi di Roma; semplici e modeste
erano pure state le loro tombe; ma poichè ebbero i nipoti di Romolo
a fare prima cogli Etruschi e poi colla Grecia, impararono così
dall’un popolo e dall’altro solennità e pompe che vennero ogni dì più,
anche per loro aggiunzioni, crescendo. Già dissi de’ ludi gladiatorj
introdottisi ne’ funerali allorchè volevansi splendidi e solenni:
ora delle sepolture, le quali furono grandiose spesso, maravigliose
talvolta, a seconda delle fortune del trapassato.

La legge delle XII Tavole vietò il seppellire in città: epperò convien
rintracciare le tombe e i mausolei fuori di essa, lungo le vie più
frequentate e vaste. Così sorsero sulla via Appia principalmente, sulla
Aurelia, Lavicana, Ostiense, Flaminia, Prenestina, Salaria e Tiburtina,
e a’ nostri giorni ancora trovansi molti cippi e colonne sepolcrali
che attestano dell’estensione del terreno, in antico consacrato
all’inumazione, ed anche Giovenale chiude la _Satira_ I coi versi
che ricordano la via Flaminia e la Latina come frequentatissime di
sepolture:

            _Experiar quid concedatur in illos,_
    _Quorum Flaminia tegitur cinis atque Latina_[276],

alludendo appunto a siffatto costume.

Se, al dir di Varrone, i monumenti si collocavano lunghesso le vie per
tenere continuamente viva nel pensiero del viandante l’idea della loro
fralezza: _sic monimenta quæ in sepulcris; et ideo secundam viam quo
prætereuntes admoneant et se fuisse et illos esse mortales_[277]; non
mancavano tuttavia di coloro che aborrissero avere loro tomba in luoghi
così publici e rumorosi; e tra questi il già più volte citato Properzio
fa voti perchè la sua Cinzia, lui morto, non gli abbia ad alzare in
essi la tomba.

    _Dî faciant, mea ne terra locat ossa frequenti,_
      _Qua facit assiduo tramite vulgus iter._
    _Post mortem tumuli sic infamantur amantem;_
      _Me teget arborea devia terra coma._
    _Aut humet ignotæ cumulus vallatus arenæ:_
      _Non juvat in media nomen habere via_[278].

Non altrimenti, se mi è lecito esprimere qui il mio proprio sentimento,
io direi per me de’ moderni cimiteri monumentali, dove la curiosità e
l’arte sostituiscono sempre il dolore e il religioso raccoglimento.

Fuor di Pompei, la Via delle Tombe s’aprì nel sobborgo Augusto Felice,
cioè immediatamente fuori della città, nè più nè meno dunque che in
Roma e in tutte le città, si può dire, del mondo romano.

V’erano per altro eccezioni: le Vestali avevano il privilegio del
sepolcro entro le mura e l’ebbero, per singolar privilegio, Valerio
Publicola, Tuberto, Fabrizio, Cesare; e Trajano fu il solo degli
imperatori cui venisse concessa la sepoltura in città. La famiglia
Claudia aveva pure tal privilegio della sepoltura sotto il Campidoglio.
I discendenti di Publicola, che con lui avevano ottenuto il diritto
della sepoltura in città, in fatto non se ne valsero, poichè, al dir
di Plutarco, contentavansi di mettere un ardente torchio sulla tomba
di famiglia al verificarsi d’ogni morte, facendo del resto i loro
congiunti seppellire nella contrada di Velia.

Di grandi e spesso enormi spese, come dissi, profondevano ne’ sepolcri
e ne’ monumenti i Romani e ne stanno a testimonianza ancora la piramide
di Cajo Cestio, la tomba di Cecilia Metella e la Mole Adriana e non
era sempre un pensiero di sfarzo e d’orgoglio che presiedeva a queste
opere, ma più sovente il sentimento di pietà e d’amore che li animava e
ciò leggiadramente espresse il francese Roucher ne’ seguenti versi che
reco nel loro idioma:

    _Ce respect pour les morte, fruit d’une erreur grossière,_
      _Touchait peu, je le sais, une froide poussière,_
      _Qui, tôt ou tard s’envole éparse au gré des vents,_
      _Et qui n’a plus enfin de nom chez les vivants;_
      _Mais ces tristes honneurs, ces funèbres hommages_
      _Ramenaient les regards sur des chères images;_
      _Le cœur près des tombeaux traissaillait ranimé_
      _Et l’on aimait encore ce qu’on avait aimé._

Epperò i ricchi fabbricavano nelle proprie ville i sepolcri in forma di
edicole di buona e severa architettura e le quali decoravano di statue,
di pitture e musaici, di vasi e di urne di eletti marmi. E siccome sa
il lettore che degli estinti non serbavansi che le ceneri leggiere,
come Paolo Emilio in Properzio dice alla consorte:

    _En sum quod digitis quinque levatur onus_[279];

così non ad un solo defunto destinavasi ciascun sepolcreto, ma a tutti
i defunti d’una famiglia, compresi pure i liberti, collocandosi le
ceneri in altrettante nicchie; onde appellavasi _sepulcrum familiare_,
perchè _sibi quis familiæque suæ constituebat_[280], di che se ne
trovò esempio in Pompei; _Sepulcrum comune_ dicevasi quella stanza che
riceveva le ceneri di più persone appartenenti a più famiglie, disposte
a due _ollæ cinerariæ_ per colombajo.

Sepolcri ereditarj eran poi quelli _quæ sibi hæredibusque suis, o quæ
paterfamilias jure hæreditario aquisivit_[281]; ma se dovevan servire
per determinate persone, solevano apporvi le lettere _H. M. H. N.
S._ cioè _Hoc monumentum hæredes non sequitur_, o alle tre ultime
lettere sostituivansi queste _A. H. N. T._, vale a dire _Ad Hæredes non
transit_[282], come se ne ha memoria in quel passo di Orazio:

    _Mille pedes in fronte, trecentos cippus in agrum_
    _Hic dabat, heredes monumentum ne sequeretur_[283].

Co’ sepolcri propriamente detti non voglionsi confondere i cenotafi,
monumenti onorarii, che venivano dal popolo eretti alla memoria di
quegli illustri uomini ch’erano morti per la patria; onde egregiamente
e con tutta ragione poteva Ugo Foscolo nel succitato suo Carme de’
_Sepolcri_ dire:

    Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

e le annuali feste e le cerimonie religiose che inoltre vi si
praticavano valevano veramente a tramandare a’ posteri la memoria de’
nomi e delle gesta gloriose:

    Religïon che con diversi riti
    Le virtù patrie e la pietà congiunta
    Tradussero per lungo ordine di anni[284].

Nondimeno questi monumenti che si elevavano a spesa pubblica e per
cagione d’onore, rispondendo al significato delle due parole greche
onde il nome si componeva, non contenevano le ceneri o gli avanzi
del corpo della persona che si voleva onorare: erano costruzioni
semplicemente commemorative, come sono oggidì talune di quelle che
sorgono nel tempio di Santa Croce in Firenze, che si vorrebbe fare
il Panteon degli illustri italiani; onde Virgilio nel lib. III
dell’_Eneide_ appellò eziandio tal sorta di tumuli _tumulus inanis_,
o vuoto, là appunto dove ricorda il cenotafio rizzato da Andromaca ad
Ettore suo marito.

I luoghi per altro, sui quali si innalzavano i cenotafi non erano
sacri, come quelli de’ sepolcri.

Ma se a sepolcri e monumenti di ricchi e maggiorenti erigevansi
cenotafii, mausolei, vôlte sepolcrali, piramidi ed altrettali
opere architettoniche e scultorie; per cittadini minori, o poveri,
adottavansi corrispondenti segni meno dispendiosi. Tali erano le
_columellæ_, dette anche dai Latini _cippi_; le _mensæ_, le tavole
quadrangolari più lunghe che larghe; i _labellæ_ o _labra_, che erano
pietre a forma di bacino; le _arcæ_ somiglianti a forzieri, sorrette
per lo più su’ piedi di lione o d’altro animale.

Ageno Orbico ricordò varii luoghi ne’ sobborghi di Roma, dove stavano
moltissimi sepolcri di persone del volgo e di schiavi. _Sestertium_
denominavasi il campo, pure fuori delle mura, dove seppellivansi
le persone ch’erano state per ordine degli imperatori mandate a
morte; nè a me è dato ricordarle, senza ad un tempo rammemorare
la interessantissima scena che vi fa svolgere nel suo bello e
dotto romanzo _Tito Vezio_ il patriotta Luigi Castellazzo, cui una
straordinaria modestia ha consigliato ascondersi sotto il pseudonimo di
Anselmo Rivalta.

Allorchè sulle iscrizioni de’ sepolcri leggevansi le parole _tacito
nomine_, sottacendosi ad un tempo il nome delle persone alle quali
appartenevano, significavano esse che racchiudessero persone dichiarate
infami.

A’ sepolcri de’ semplici cittadini era espressamente vietato di
aggiungere fregi, ove non fossero o una colonna di non oltre i tre
cubiti di altezza, statue ed emblemi della professione che il defunto
aveva esercitata.

Le iscrizioni incominciavano colle due lettere greche Θ Κ, che
corrispondevano a _Diis Manibus_, come assai sovente usiam pur noi
sostituendo, secondo la nostra credenza, le lettere D. O. M. cioè, _Deo
Optimo Maximo_, o |pΧ| il monogramma di Cristo.

Era poi concesso piantare presso le tombe olmi e cipressi, perchè
alberi non producenti frutti; ed educarvi olezzanti fiori, come
testimonia Ugo Foscolo nel lodatissimo suo Carme già citato:

                    Ma cipressi e cedri
    Di puri effluvii i zefiri impregnando,
    Perenne verde protendean sull’urne
    Per memoria perenne....
    Le fontane versando acque lustrali
    Amaranti educavano e vïole
    Su la funebre zolla[285].

Frequenti poi erano le piccole are accanto alle tombe pei sacrifici,
che nelle feste summentovate facevansi da congiunti ed eredi, a placar
l’ombre dei diletti loro morti.

Era tutta adunque una religione, venerata e profonda questa verso i
defunti, e dinnanzi alla quale s’arrestavano le disquisizioni ed i
dubbi anche de’ filosofi più miscredenti.

Nulla quindi di più consentaneo a tale comune reverenza pei defunti
e per le loro dimore, che l’esistenza di apposite leggi, le quali
guarentissero l’inviolabilità e il rispetto delle tombe. Troviamo
infatti nel _Corpus Juris_, prima nel Lib. XLVII il Tit. XII; poi
tutto il Titolo XIX che trattan _De sepulcro violato_. Nel primo è
comminata l’infamia come conseguenza dell’azione di violato sepolcro,
oltre diverse altre pene inflitte a chi manomettesse cadaveri, ossuarj
e tombe: nel secondo è irrogata la condanna alle miniere allo schiavo
colto a demolire sepolcri, ed alla relegazione se il faceva d’ordine
od autorità del padrone. Chiunque poi avesse violato i sepolcri _domos
defunctorum_, sottraendovi sassi, marmi, colonne, od altro qualunque
materiale, per servirsene ad uso di fabbrica, o turbando corpi sepolti
o reliquie, multato di ingente pena pecunaria; punito il giudice
perfino in venticinque libre d’oro quando avesse negletto di castigare
i violatori di sepolcri. E come per legge antica codesti profanatori
di tombe punivansi della pena del sacrilegio; così anche ai tempo del
basso impero si fu costretti a richiamare la medesima severa sanzione
penale; argomento codesto a ritenere che si fosse infiltrato poco a
poco ne’ degeneri nipoti la mancanza di rispetto a’ sepolcri. Così
era assolutamente vietato l’impedire, sotto pretesto di debito, la
sepoltura del defunto, colla comminatoria di cinquanta libre di multa,
e in difetto pagasse di sua persona avanti il giudice competente;
non potendosi tampoco nè molestare il moribondo, nè turbare il
funerale, pena l’infamia, e posta al bando la terza parte de’ beni del
disturbatore.

Nel libro XLVIII _Digestorum_, Tit. XXIV _De cadaveribus Punitorum_,
apprendiamo come non si potessero negare a’ congiunti i corpi di coloro
che fossero stati condannati nel capo, citandosi l’autorità del divo
Augusto, che nel libro X _De Vita sua_, ebbe a scrivere aver egli ciò
voluto che si osservasse. Il giureconsulto Paolo poi lasciò ricordato
che i cadaveri de’ condannati, dietro domanda di chicchessia, si
lasciasse che venissero dati alla sepoltura; solo i deportati nelle
isole ed i relegati, restando anche dopo la morte la pena, non fosse
lecito che venissero trasferiti e sepolti senza licenza del Principe;
ciò che del resto il Principe soventissime volte accordava.

Finalmente, nel Lib. I. _Receptarum sententiarum_ di Giulio Paolo, Tit.
XXI, che versa _De sepulcris et Lugendis_, è sancito come allora che
per invasione di fiume, o timore alcuno abbiasi a togliere un cadavere
già consegnato a perpetua sepoltura, compiuti prima solenni sagrifici,
abbiasi a compiere la traslazione di notte tempo; che a non funestare
i luoghi sacri della città, non sia lecito portar cadaveri dentro di
essa sotto minaccia di punizione; che colui che trovasi in tempo di
corrotto astener si debba dai convivii, dagli ornamenti e dalle vesti
bianche; che la spesa funeraria debbasi imputare avanti tutti i debiti
ereditarj, e per ultimo quegli che abbia spese per seppellire un morto
od a cagione de’ funerali di lui, possa rivalersi appo l’erede, il
padre od il padrone.

Il giureconsulto Paolo, alla legge ff. _de injuriis_, contemplò il
fatto di chi avesse lapidato la statua di un defunto, e non ammettendo
nè distinzioni, nè limitazioni, perchè l’animo maligno fosse evidente;
rispose doversi quel fatto punire siccome ingiuria: nè a lui fece
velo il vantaggio qualunque che da simile fatto ritenesse la storia,
registrando che le male opere di quel cittadino avessero condotto a
tanto sdegno il paese da meritare che dalla furia del popolo la sua
statua _saxis cæsa fuisset_ venisse da’ sassi abbattuta.

Intorno a che l’illustre scrittore di penale diritto prof. Francesco
Carrara, nella sua dotta memoria _Sulle ingiurie ai defunti_, letta
nello Ateneo di Brescia, nella tornata del 15 giugno 1873 e pubblicata
nella _Temi Zanclea_, a modo di epifonema commenta: «Così ragionavano
gli antichi e così si durò a ragionare per secoli in Italia ed in
Germania, dove lo spirito non usurpa le veci della sapienza, e dove una
questione giuridica non si scioglie con un motto brillante.» E venne
con copia d’argomenti a conchiudere, pur tenendo conto dell’interesse
della storia, che sì sovente si invoca a diffamazione de’ defunti,
che ultima conseguenza alla quale meni diritto un tale interesse sia
che le calunnie lanciate contro i defunti nei fatti relativi alla vita
pubblica dovrebbero dichiararsi perseguitabili ad _azione popolare_,
cioè ad azione _pubblica_ esercitata dal Pubblico Ministero nella sua
rappresentanza dei contemporanei e dei posteri, cioè della società
tradita ed ingannata da maligno calunniatore; osservando che Platone
come moralista ci avrebbe guidato a questa conclusione con la sua nota
formula dei _doveri che legano i vivi verso gli estinti_[286].

   [Illustrazione: Via delle Tombe in Pompei. _Vol. III, Cap.
   XXII._]

Poichè li lettore sa tutto ciò, che sull’argomento de’ trapassati e
de’ sepolcri praticavasi in Roma e fuori di essa ne’ luoghi ad essa
soggetti, restringendomi ora più presso al mio tema di Pompei, usciamo
insieme dalla Porta Ercolanese ed inoltriamo nella Via delle Tombe di
questa città, della quale era parte, anzi attraversava, com’egli già
conosce, il Borgo Augusto Felice, dissotterrato dalle ceneri dal 1763
al 1770 e dal 1811 al 1814. La vista è imponente, presentandosi tutta
fiancheggiata da sontuosi monumenti. E monumenti eziandio debbono
essere stati sparsi per tutto il pendio della collina, tanto essendoci
dato d’argomentare dalle varie elevazioni verdeggianti di essa.

È da questo punto, in cui s’è posto il piede nel sobborgo, il qual
potrebbesi dire dei morti, che è dato comprendere in un sol colpo
d’occhio tutto il corso della via antica infino ad oggi scoperta e di
ammirare nel suo complesso l’elegante magnificenza di tanti ipogei, de’
quali fu detto a ragione presentare forme sconosciute all’architettura
attuale ed all’arti moderne.

È all’uscire del pari di questa porta, che m’avvenne di ricordare
altrove esservisi scoperto lo scheletro della sentinella, qui morta
fedele alla sua consegna. Era eziandio prossima a tal luogo la tomba di
M. Cerrinio Restituto, come ce lo appresero le due seguenti iscrizioni,
di cui l’una è la fedele ripetizione dell’altra:

                              M. CERRINIVS
                               RESTITVTVS
                        AVGVSTAL. LOC. D. D. D.

Nel mezzo della cappella, _sacellum_, era una piccola ara, avente
l’iscrizione medesima, ripetuta come dissi, ma disposta in questo modo:

                              M. CERRINIVS
                               RESTITVTVS
                               AVGVSTALIS
                               LOCO DATO
                              D. D.[287].

Un semicerchio a manca, che dicevasi _schola_, perchè ad uso di sedile,
di tufo e pietre pomici, recava la seguente iscrizione, che chiarisce
aver appartenuto al sepolcro di Anio di Marco Vejo:

                      A. VEIO M. F. II VIR. I. D.
           ITER QVINQ. TRIB. MILIT. AB. POPVL. EX D. D.[288].

Più grande è l’emiciclo detto di Mammia, scoperto nell’anno 1763,
che racchiudeva il sepolcro di questa donna, che fu sacerdotessa
pubblica, e al quale s’ascendeva per un passaggio aperto alle spalle
dell’emiciclo. Era il sepolcro meglio costruito che siasi scoperto in
Pompei. Aveva già un ordine di colonne joniche al di sopra di altro
ordine dorico, su cui posavano alcune statue. L’interno era decorato
da nicchie e pitture: in una delle prime stavano le ceneri di Mammia
in un’urna di terra cotta chiusa in altra di piombo. L’iscrizione, in
caratteri forti, così fu letta:

                 MAMMIAE P. F. SACERDOTI PVBLICAE LOCVS
               SEPVLTVRAE DATVS DECVRIONVM DECRETO[289].

Su d’un piccolo pilastro a fior di terra e non discosto dal sepolcro
di Mammia, leggevasi l’iscrizione, che rammenta i versi che ho appena
riferiti del Venosino Poeta:

                                M. PORCI
                             M. F. EX DEC.
                               DECRET. IN
                                FRONTEM
                                PED. XXV
                                IN AGRVM
                             PED. XXV[290].

Avanti a questa tomba venne trovata una statua in abito consolare,
forse quella di Porcio stesso, il quale era per avventura il padre
della sacerdotessa Mammia.

Fra la tomba e l’emiciclo si rinvennero sedici cippi funerarii,
parecchi di essi di marmo, su taluno dei quali si decifrarono le
seguenti iscrizioni:

                              C. VENERIVS
                              EPAPHRODITVS
                                   —
                            ISTACIDIA. N. F.
                        RVFILLA SACERD. PVBLICA
                                   —
                              N. ISTACIDIO
                                CAMPANO
                                   —
                             CN. MELISSAEVS
                                  APER
                                   —
                               ISTAC....
                                MENOIICI

Nello stesso luogo si trovarono frammenti di statue ed una lucerna
in terra cotta con una figuretta avente nelle mani un fiore in basso
rilievo, e colla iscrizione:

                 ANNVM NOVVM FAVSTVM FELICEM MIHI[291].

È da questa parte sinistra della via che si incontra quella casa che
comunemente vien detta essere il _Pompejanum_, o villeggiatura di
Cicerone, ch’egli col _Tusculum_ prediligeva sovra tutte l’altre sue
ville, se per ornarla con magnificenza ebbe a incontrar debiti, come
lasciò scritto in una sua lettera ad Attico[292]. Ne ho già parlato
altrove, nè però mi ripeterò: solo piacendomi far notare al lettore
come a ogni modo, sia questa od altra la casa del grande Oratore
Romano, sarebbe sempre stata una ricca abitazione, che non tolse al
suo proprietario di abitarla e decorarla riccamente. L’essere nella
non lieta via delle tombe, dimostrerà ognor più come la religione de’
sepolcri non fosse accompagnata allora quanto adesso, per forza di
superstizione, da alcun pensiero di orrore. Ove poi si rifletta aver
Cicerone difeso Publio Silla, che fu il primo patrono della Colonia
Veneria Cornelia, nulla di più probabile apparirà che ne abbia ricevuto
in guiderdone il terreno di quella casa e poi anche la casa stessa, che
per essere nel _Pagus Felix_, spettava alla Colonia militare, la quale,
giusta quanto m’accadde di più volte notare, Lucio Cornelio Silla vi
aveva dedotta, e che però avesse appartenuto a lui.

Lungo questo lato è pur il sepolcro di Scauro, della tribù Menenia,
che vuolsi dal punto di vista archeologico considerare siccome il più
interessante, di quanti sepolcri si sono scoperti a Pompei. La base
è quadrata ed è di tufo vulcanico: essa poggia con tre gradini sovra
altra base più grande della stessa forma e materia, e nella quale
è praticata la camera sepolcrale, o _columbarium_, con quattordici
nicchie, come quadrato ne è il cippo. Il lato che è ora rivestito
d’un ampio tavolo di marmo, il cui angolo superiore sinistro, essendo
spezzato e perduto, lasciò imperfetta la iscrizione, che completata non
a guari dallo studio, suona così:

                          A VMBRICIO A. F. MEN
                                 SCAVRO
                             II VIR. I. D.
                     HVIC DECVRIONXES LOCVM MONVM.
                ET HS ∞ ∞ IN FVNERE ET STATVAM AEQUESTR
                        FORO PONENDAM CENSVERVNT
                       SCAVRVS PATER FILIO[293].

Il gran basamento inferiore offriva già rappresentazioni a basso
rilievo di stucco, oggi pel gelo compiutamente scomparse. In uno
de’ quadri vedevansi due bestiarii con lance: l’un d’essi combatteva
contro di un lupo, l’altro contro di un toro. Alcuni cani inseguivano
de’ cinghiali furiosi, cervi e lepri correvano a precipitosa fuga.
In un quadro superiore scorgevansi gladiatori armati di tutto punto
che battevansi a oltranza, altri a cavallo che scagliavano lance a
costoro; era curioso che dovessero menar botte all’orba, perchè le
visiere de’ loro elmetti mancassero delle fessure per gli occhi.
Interessa il vederne ricordati in grossolani caratteri neri i nomi
con una cifra accanto; indicante il numero delle vittorie riportate.
L’uno è nominato _Bebrix_, cioè della Bebricia in Asia e riportò
quindici vittorie, il suo avversario è _Nubilior_ e ne conta undici;
di altri due non è leggibile il nome. Degli altri quattro gladiatori,
due _secutores_ e due _retiarii_, alle prese fra loro, leggesi il
nome di Nitimus, reziario vittorioso cinque volte, e di _Hippolitus,
secutor_, degli altri due no. Quello che pugna con _Nitimus_ vedesi
ferito, cadere implorando la pietà degli spettatori, offerendo ad un
tempo la gola al ferro del vincitore, come era la pratica già da me
esposta nel capitolo dell’Anfiteatro. Superiormente a questi bassi
rilievi stava una iscrizione, nella quale si lesse il nome di _Quintus
Ampliatus_, il capo forse di questa famiglia gladiatoria, ed al quale
per avventura spettava la tomba, perocchè si creda da molti che la
tavola di marmo colla iscrizione di Scauro surriferita, trovatasi bensì
di poco discosta, non le appartenesse, ma là venisse collocata, perchè
scomparsa, per la rovina del tempo, ogni decorazione.

Eravi un terzo quadro sulla porticina con cinque figure di gladiatori
armati, di cui l’uno egualmente ferito a morte.

_Sepolcro circolare_ è quello che segue subito, con base quadrata e
torre rotonda su di essa. Sulle piccole piramidi del recinto sono i
bassirilievi di stucco rappresentanti una donna che fa l’offerta su di
una acerra, e un’altra che depone un lino sul suo bambino caduto sulle
rovine, forse quelle del tremuoto del 63.

Appresso a questi sepolcri elevasi a poca altezza un cippo, sulla
cui sommità figura una testa, sotto la quale si allargano le spalle,
rendendo da lunge la figura d’uomo, quasi significasse l’ombra d’un
defunto. Sul ventre, o specchio che vogliasi altrimenti dire, di essa,
è questa iscrizione:

                                 IVNONI
                             TYCHES IVLIAE
                          AVGVSTAE VENER[295].

Questa Tiche è la stessa Tiche Nevoleja che ha altro maggiore monumento
in questa medesima funerale campagna? Taluni il pensarono: altri la
vogliono una sorella di essa: ambe poi furono certamente addette al
servizio di Giulia figliuola d’Augusto.

Non credasi qui che la parola _Junoni_ accenni alla Dea di questo
nome, come erroneamente interpretò l’abate Romanelli, ma sì al genio
tutelare di Tiche; perocchè _Junones_ si dicessero appunto le fate e
gli angeli custodi di sesso femminino, dei quali si credeva che uno
nascesse insieme a ciascuna donna, destinato a vegliarla tutta la vita
ed a morire con lei. Sono figurate, dice Rych nel suo _Dizionario delle
Antichità_, come giovani donzelle, colle ali di pipistrello o di falena
e vestite da capo a piedi come è in una dipintura di Pompei; mentre
l’angelo maschile (_Genius, Silvanus_) fosse abitualmente rappresentato
nudo, o pressochè nudo e colle ali d’un uccello.

Tibullo consacra alla Giunone, o angelo custode di Delia e in nome di
costei, l’elegia sesta del Lib. IV, che comincia appunto:

    _Natalis Juno sanctos cape thuris honores_
      _Quos tibi dat tenera docta puella manu_[296].

In quanto all’ultima parola della iscrizione, _Vener_, io seguii la
comune interpretazione, leggendo _Venerea_; altri però lessero _Augustæ
Veneri_, cioè a Venere Augusta: meglio sarebbe stato allora il dire
_Augustæ Veneris_, perchè sapendosi che la famiglia Giulia si faceva
scendere da Venere, si avrebbe una spiegazione allora più razionale.

Che per altro _Venerea_ fosse una condizione di schiava o di liberta,
ho già toccato nel Capitolo precedente e potevasi legare al _Venerium_
o luogo aggiunto al bagno destinato non tanto a nettezza ed igiene del
corpo, quanto a studio di piacere; onde abbiam già veduto considerato
il _Venerium_ nell’annunzio già riportato da una parete pompejana: _In
prædiis Juliæ Sp. F. locantur balneum, Venerium et nongentum tabernæ,
pergulæ, cœnacula_. Rosini nella già citata _Dissertatio Isagogica_,
trattando di altre due iscrizioni, nelle quali si nominano i _Venerii_,
li crede schiavi che servissero a coloro che usavano del gabinetto
venerio[297].

Si fecero maraviglie perchè questa Tiche fin nella propria tomba
si vantasse d’essere stata mezzana di voluttà alla figliuola di
Augusto; ma v’è da sorprendersi di ciò in tempo in cui Gajo Petronio,
viceconsolo in pria in Bitinia e poi consolo, al dir di Tacito, _fu
fatto maestro delle delizie: niuna ne gustava a Nerone in tanta dovizia
che Petronio non fusse arbitro?_[298]

Un sepolcro incompiuto cui s’è dato il nome di Servilia e che succede
a quello di Tiche, reca infatti questo frammento d’epigrafe, che per
sè solo esprime gentilissimo affetto: SERVILIA AMICO ANIM...[299];
ma appunto per ciò non poteva essere la tomba di Servilia. Nel
_columbarium_ si trovò un cippo colla iscrizione LVCCEIA IANVARIA. La
struttura del mausoleo è simile quasi a quello di Calvenzio Quieto,
che è pur da questa parte, costruito da marmi bianchi e di bello
stile. Appartiene al genere de’ cenotafi, non avendo nè porta, nè
_columbarium_, vuoto e fatto, cioè, a solo titolo di onoranza. Nella
parte anteriore del quadrato è la seguente epigrafe:

                          C. CALVENTIO QVIETO
                               AVGVSTALI
                     HUIC OB MVNIFICENT. DECVRIONVM
                DECRETO ET POPVLI CONSENSV BISELLII[300]
                            HONOR DATVS EST.

Sotto di essa vedesi sculto il bisellio, più compiuto ed elegante di
quel di Munazio Fausto, del quale già parlai nella Storia e dirò ancora
fra breve. Alle corone di quercia che i due lati del cippo recano, si
argomentò che Calvenzio avesse anche conseguito l’onore della corona
civica, ciò potendo essere autorizzati a ritenere dalle tre lettere O.
C. S. (_ob civem servatum_) che si leggono sullo scanno. Le muraglie
del recinto hanno basso rilievi in istucco, i quali or più non si
distinguono: quelli dell’ara in marmo, leggiadramente decorata, vennero
spiegati rappresentare Edipo in meditazione per indovinare l’enigma
della Sfinge, Teseo in riposo, e una fanciulla che incendia il rogo.

Del _triclinium funebre_, che è pur a sinistra formato da tre panchi di
fabbrica e servienti al _silicernium_ o banchetto funerale, dissi più
sopra.

Dal destro lato della via vuolsi riguardare alla abitazione che si
designò col nome di _Giardino delle colonne in musaico_ od anco di
_Sepolcro del Vaso blu_, da quattro colonne in musaico, che sono uniche
finora nel genere e però del più grande interesse, e da una magnifica
anforella di vetro azzurro sulla quale è, in basso rilievo di bianco
smalto, espressa una scena bacchica, per la quale vien considerata come
il capo più importante della collezione de’ vetri antichi del Museo
Nazionale. Questa tomba fu scoperta il 29 dicembre 1837. Di faccia
all’ingresso è una fontana entro una nicchia di musaico a conchiglie e
in mezzo alle stesse sorgeva un amorino in marmo che stringeva un’oca,
dal cui becco bellamente zampillava l’acqua.

Segue la tomba detta _delle Ghirlande_ da alcuni festoni sorretti da
tre pilastri corintii. Essa è costruita di grossi massi di piperno
rivestiti di stucco e due muri di fabbrica reticolata hanno a’ capi due
are, denominate _acerræ_ secondo Pompeo Festo, o _aræ turicremæ_, come
vengono dette da Lucrezio (11, 353) e da Virgilio (_Æneid._ IV, 453),
perchè vi si bruciava, ad onoranza de’ morti l’incenso; onde Ovidio
(_Heroid._ 2. 18) chiamò _turicremi foci_ le vampe che levavansi da
esse e Lucano (_Phars._ lib. 9. 989) _turicremi ignes_.

L’albergo e scuderia che si rinviene da questa parte e di cui tenni
già conto a suo luogo, è novello argomento del come indifferentemente
gli antichi abitassero, senza il sacro orrore che pur inspirano oggidì
le tombe, in mezzo alle stesse. L’assenza de’ cadaveri, la presenza
delle sole ceneri vi doveva contribuire d’assai ad eliminarlo,
l’impossibilità della corruzione non turbava la salubrità dell’aere.

Il sepolcro _dalle porte di marmo_ è in _opus reticulatum_, cioè in
materia di fabbrica ad aspetto di maglie di rete, ricoperta di stucco.
La piccola porta nel basamento scorge ad una camera quasi sotterranea
che riceve luce da piccolo spiraglio, sotto cui è una nicchia in cui
si rinvenne un gran vaso d’alabastro orientale con ceneri ed ossa, un
grande anello d’oro con zaffiro, sul quale era inciso un cervo, ambi
ora al Museo Nazionale.

In un recinto che segue, due ceppi si trovarono che lo fecero chiamare
il sepolcreto della famiglia Istacidia o Nistacidia, come altri
scrivono, unendo la N. che i primi leggono separata sulle tre seguenti
iscrizioni:

                             N. ISTACIDIVS
                              HELENVS PAG.
                                   —
                             N. ISTACIDIAE
                             SCAPIDI[302].

Sul muro di faccia alla via era scritta quest’altra iscrizione:

                          N. ISTACIDIO HELENO
                             MAG. PAG. AVG.
                         N. ISTACIDIO IANVARIO
                       MESONIAE SATVLLAE IN AGRO
                   PEDES XV IN FRONTE PEDES XV[303].

Bréton trae occasione da questa iscrizione per determinare la lunghezza
del piede in uso a Pompei, fissandola a 0 m, 287, stabilendo così la
prova che i Campani avevano adottato il piede romano, del quale è tale
appunto la lunghezza indicata da molti monumenti antichi.

Secondo poi le nuove ricerche del comm. L. Canina, di cui la scienza
lamenta ancora la recente morte, la lunghezza reale del piede romano
sarebbe stata di 0 m, 296.35. Il miglio romano componendosi di 5000
piedi, sarebbe stato per conseguenza di 1,481 m 75.

Tien dietro la Tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto, de’ quali
ho già riferita, nel Capitolo IV che tratta della Storia, la iscrizione
ed al quale però rimando, a scanso di ripetizione[304]. È fra i più
interessanti mausolei. Si compone di un gran basamento quadrilungo di
marmo che posa per due gradini su altra gran base di pietre vulcaniche:
ha un’elegante cornice, pregevoli ornati e termina ai lati estremi con
un ravvolgimento di fogliami. Nella base superiore evvi scolpito il
busto di Nevoleja: al disotto, dopo l’iscrizione, v’è in bassorilievo
un sacrificio con diciotto figure in due gruppi; è la consacrazione
del monumento. L’un gruppo è costituito dai magistrati municipali,
colleghi di Munazio; l’altro da Nevoleja stessa e dalla sua famiglia.
Dal lato verso la città è effigiato il bisellio, o seggio d’onore del
quale trattai pur lungamente nel detto capitolo; dall’altro lato verso
Ercolano una nave con due alberi, l’un diritto, traversale l’altro
alla sommità del primo; da cui si sostiene una vela quadrata. Sta il
pilota al timone: due giovanetti sono in atto d’ammainare la vela,
mentre altri due si arrancano sulle corde, che un uomo va riunendo.
Era codesta un’allegoria della vita umana, arrivata dopo la tempesta
in porto, o piuttosto un simbolo della mercatura nella quale Munazio
si sarebbe arricchito? Significhi ciò che voglia: i particolari del
naviglio non riescono meno interessanti allo studio della navigazione
antica. La prora di questa nave è decorata da una testa di Minerva, la
poppa termina in collo di cigno.

A mezzo d’una porta a sinistra del monumento e dietro di essa s’entra
nella camera sepolcrale, di due metri in lunghezza e larghezza, con
due fila di nicchie per le urne cinerarie che si trovarono al loro
posto, ed erano in terra cotta, all’infuori d’una più grande olla
d’argilla contenente le ceneri di Nevoleja stessa o di Munazio Fausto,
o fors’anco d’entrambi. Tre belle urne di vetro chiuse ermeticamente
contenevano al tempo di loro scoperta (1813), ceneri ed ossa
galleggianti in un liquido che fu dall’analisi giudicato una mistura
d’acqua, olio e vino, avanzo certo delle libazioni fatte nelle esequie.

Nelle urne di terra cotta si rinvennero altresì picciole monete, pel
passaggio sulla palude stigia a Caronte e qualche lucerna di terra
comune.

Chi fosse questa Nevoleja, può essere fantasticato, ma nulla si
sa di positivo, all’infuori di quel che ne dice l’iscrizione; una
liberta, cioè, di Giulia, figliuola dell’imperatore Augusto, forse
_concubina_ dipoi di Munazio Fausto, col quale certo per la primitiva
sua condizione non avrà potuto vincolarsi in giuste nozze con Munazio,
augustale e maestro del sobborgo Augusto Felice, lo che equivarrebbe a
sindaco o confaloniere de’ nostri giorni.

Dentro il recinto di questo sepolcreto si trovò un’urna coll’epigrafe:

                          C. MVNATIVS ATIMETVS
                         VIX. ANNIS LVII[305].

Un bel mausoleo scoperto nell’anno 1812 in forma di ara, con zoccolo
e cornice eleganti, sormontata quest’ultima da un plinto e da un bel
fogliame d’alloro, sorge, perfettamente conservato, in travertino
e la iscrizione che si ripete eguale nei due lati meridionale ed
occidentale, lo dice spettante a Marco Allejo Lucio Libella padre e
Marco Allejo Libella figlio. Eccola:

                 M. ALLEIO LVCIO LIBELLAE PATRI AEDILI
           II. VIR PRAEFECTO QUINQ. ET M. ALLEIO LIBELLAE F.
               DECVRIONI VIXIT ANNIS XVII LOCVS MONVMENTI
           PVBLICE DATVS EST ALLEIA M. F. DECIMILLA SACERDOS
         PVBLICA CERERIS FACIVNDVM CVRAVIT VIRO ET FILIO[306].

Questa iscrizione dà motivo a sorprendersi come mai a soli diciasette
anni il figlio Marco Allejo Libella potesse essere già decurione in
Pompei. Perocchè ognun rammenti che lesse le Epistole di Cicerone,
come questi constatasse essere i pompeiani assai gelosi dell’onore del
decurionato. Avendo uno de’ suoi amici sollecitato presso di lui perchè
gli ottenesse una tal carica, egli rispose: _Romæ si vis, habebis.
Pompeis difficile est_[307], significando essere più difficile cosa
diventar decurione in Pompei, che non divenire Senatore in Roma.

Presso i Romani, non si poteva essere decurione in età al disotto
de’ venticinque anni, come si può raccogliere nel libro secondo del
Digesto: _De Decurionibus_: tuttavia potevasi derogare a questa legge
in virtù di privilegio accordato a determinata famiglia che se ne fosse
resa meritevole. Di questo novero doveva certamente essere stata la
famiglia dei Libella in Pompei.

Da questo monumento dei due Libella, eretto dalla pietà di sposa e
di madre, si passa al cenotafio di _Cejo_ e _Labeone_, epperò senza
colombaio. Guasto assai di presente, un dì, attese le sue proporzioni
grandiose quantunque irregolari, deve essere stato di non dubbia
importanza. Vi dovevano essere bassorilievi di stucco e statue: forse
quelle medesime che vennero rinvenute presso ed erano un personaggio
in toga e parecchie matrone egregiamente palliate. Eranvi nel zoccolo
del gran piedistallo delle iscrizioni in grossi caratteri rossi, ma
così sbiaditi che non si poterono leggere. Si lesse invece quella nello
stesso monumento, che fu poi trasferita al Museo. Eccola:

                      L. CEIO L. F. MEN. L. LABEON
                        ITER D. V. I. D. QVINQ.
                          MENOMACHVS L.[308].

Come superiormente ho fatto, nel leggere l’iscrizione sul monumento
di Scauro, interpretando la parola MEN, abbreviatura della prima
linea, per _della Tribù Menenia_; io pure, in questa di Lucio Cejo,
interpretai con Mazois ed altri l’egual abbreviatura nella stessa
maniera: Bréton nondimeno la dichiarò per _Menomachus_, adducendone
una ragione abbastanza plausibile. _Un usage_, scrive egli, _presque
constant, était que les affranchis empruntassent le nom ou le surnom
de leurs patrons, et que c’est sans doute ce qu’avait fait Menomachus
fondateur du monument_[309].

Nella camera mortuaria del monumento si raccolsero due balsamari di
terra cotta e un’urna bellissima di vetro con ossa.

Il Bonucci afferma che qui presso, a piccola distanza l’uno dall’altro,
si rinvenissero cinque scheletri, tra’ quali quello d’una donna
di ricchissima taglia. Recavano sopra di sè monete di argento e di
bronzo e un materozzolo di chiavi con de’ grimaldelli; lo che lascia
supporre che fra di essi vi fosse qualche ladro rimasto nella città per
esercitare il suo infame mestiere e che il Vesuvio lo abbia giustamente
sorpreso e punito[310].

Dietro di tal monumento scopronsi le rovine di due grandi sepolcreti,
ed evvi un recinto sepolcrale, ove erano diversi cippi che dicevansi
_columellæ_, perchè appunto erano colonnette, _columella_ essendo
diminutivo di _columna_. Su d’una di essa era scritto:

                               ICEIVS COM
                                 MVNIS

Una columella che sta avanti una nicchia con un frontispizio segna
il sepolcro di Salvio, fanciullo di anni 6, come lo fa sapere
l’iscrizione:

                              SALVIVS PVER
                             VIX. ANNIS VI.

Presso è altra nicchia in fondo della quale era dipinto un giovane,
su cui pendevano ghirlande di fiori: era il sepolcro del fanciullo
dodicenne, Numerio Velasio Grato, giusta l’epigrafe:

                            N. VELASIO GRATO
                             VIX. ANN. XII.

Poichè sono a dire delle _columelle_, ne trovo ricordata una nel
_Viaggio a Pompei_ dell’Abate Domenico Romanelli, la quale terminava
in un busto marmoreo con testa di bronzo e della quale parlarono gli
Accademici Ercolanensi nella _Dissertazione Isagogica_. Si esprimeva
nell’epigrafe essere il simulacro _di Cajo Norbano Sorice attore
delle seconde parti nelle tragedie, maestro del pago suburbano Augusto
Felice, cui fu assegnato il luogo per decreto de’ decurioni._

Così almeno traduce il Romanelli il seguente testo dell’epigrafe

                           C. NORBANI SORICIS
                               SECVNDARVM
                         MAG. PAGI AVG. FELICIS
                               SVBVRBANI
                            EX D. D. LOC. D.

Ed una tale traduzione egli eseguì dopo certo aver veduto le
illustrazioni fattene dal signor Millin che appella _erudito_ e dal
signor De Clarac in due dissertazioni stampate in Napoli. Ma a me è pur
lecito di domandarmi come mai ad un attore delle seconde parti nelle
tragedie si potesse concedere l’onore dapprima di essere _maestro del
pago_, e poscia l’onor del posto speciale, per decreto de’ decurioni,
se noi sappiamo che se a’ più grandi attori non isdegnavano i più
eminenti uomini intimità ed affetto come a Roscio ed Esopo, agli altri,
massime se minori, riserbavasi l’ignominioso titolo di istrione, la
fustigazione del larario e il trattamento servile?

L’iscrizione d’altronde tace della qualità di Cajo Norbano Sorice, nè
la parola _secundarum_ parmi, congiuntamente al resto dell’epigrafe,
non autorizzi a sottintendere le parole che le si affibbiano _actoris
secundarum partium in tragœdiis_.

Scoperta nel 1775, succede la camera sepolcrale di Gneo Vibrio
Saturnino figlio di Quinto, della tribù Falerina, come si leggeva al di
fuori del triclinio funebre unito, ci avverte la seguente iscrizione:

                         CN. VIBRIO Q. F. FAL.
                               SATVRNINO
                             CALLISTVS LIB.

Dissi che si leggeva, perchè ora l’iscrizione fu trasferita al Museo
di Napoli. Piace anzitutto constatare nell’atto pietoso del liberto
Callisto che a propria spesa rizza un monumento all’antico padrone come
la riconoscenza fosse, più che del nostro, virtù de’ secoli andati;
siffatti omaggi di liberti non erano infrequenti. Io ne ho già recati
più d’uno.

Dopo di questo, ci troviam dinnanzi alle sepolture della famiglia Arria
o di Diomede, state scoperte nell’anno 1774, le quali, per trovarvisi
di fronte, diedero il nome alla casa di campagna, che già ho descritta,
e fu ritenuta essere proprietà di Marco Arrio Diomede liberto.

La tomba di Diomede, il padre, è la prima e la più importante
che esamineremo. La fronte del monumento la indica nella seguente
iscrizione:

                        M. ARRIVS I. L. DIOMEDES
                           SIBI SVIS MEMORIAE
                 MIGISTER PAG. AVG. FELIC. SVBVRB[311].

La sigla che segue al nome di _Arrius_, che io d’un tratto supplii
con un I, ma che nel marmo ben non si comprende, fu interpretata
diversamente. La più parte ritennero significare _Arrii_, seguendo
l’ermeneutica adottata da Bréton nel leggere l’iscrizione di Cejo;
ma Bréton è poi curioso che, abbandonandola in questa iscrizione,
abbia voluto leggere nella sigla una J, che interpretò per _Juliæ_.
La ragione sola che costei potesse essere la _Julia Felix_, una de’
più ricchi proprietarj di Pompei, non pare nè seria, nè da accettarsi.
Piuttosto dovrebbesi essere meglio inclinati a ritenerlo liberto
di Giulia la figliuola di Augusto, che avanti la morte del padre
chiamavasi Livia, e così sarebbe stato conservo di questa imperiale
matrona colle due Tichi, di cui menzionammo più sopra le tombe.
Greche di nome codeste due liberte, parimenti greco sarebbe il nome di
Diomede: forse quindi tutti compatrioti.

Il monumento pompeggia sull’altezza d’un muro con un terrapieno che
serve di base a questa tomba di famiglia; esso si costituisce di
un frontispizio con pilastrini d’ordine corintio ai lati ed è in
cattivo stato ed ha nulla di rimarchevole fuor che alcuni fasci nella
facciata, e due teste di marmo l’una di uomo, l’altra di donna, appena
abozzate, che gli antichi avevano costume di collocar nei sepolcri per
distinguerli.

Dietro la testa d’uomo, era questa iscrizione:

                                M. ARRIO
                               PRIMOGENI

e ricordava il primogenito della famiglia di Diomede. Dietro la testa
della donna eravi quest’altra:

                              ARRIAE M. L.
                                 VIIII

e ricordava la nona figlia di Marco Arrio Diomede liberto.

Sul detto muro inferiore poi che serve di monumento sepolcrale ad
un’altra figlia del medesimo, sta questa iscrizione:

                              ARRIAE M. F.
                         DIOMEDES L. SIBI SVIS

Tutta insomma una famiglia.

Presso questo sepolcreto di famiglia è un vasto recinto che si prolonga
verso la strada ed è tutto circondato da un solido muro che sosteneva
un terrapieno, nel quale si videro de’ tubi per lo scolo delle acque:
forse era tal luogo il _sepulcrum comune_ o cimitero delle classi
inferiori, ed anche l’_ustrinum_. Vi si riconobbero infatti ossa umane
in copia e reliquie di funebri banchetti.

E qui ha fine tutto quanto la Via delle Tombe in Pompei può presentar
di rimarchevole e giova ad illustrare quanto m’accadde di dire intorno
alla religione de’ morti nell’antichità romana.

Solo mi corre obbligo adesso, a pieno compimento e prima di congedarmi
da questo capitolo onde si chiude il mio qualunque lavoro, di segnalare
al buon lettore che mi ha seguito fin qui, una particolarità, che vale
egualmente a confermare l’uso romano che tutti i sobborghi d’una città
servissero a sepolture. Gli scavi eseguiti ne’ mesi di maggio e giugno
1854 fuori dell’altra porta pompejana detta di Nola hanno condotto
a scoprire molte urne in terra cotta contenenti ceneri di bruciati
cadaveri, e chi sa che altrettanto non venga forse di constatare
negli scavi ulteriori fuori delle altre porte? Questo verificandosi,
sarebbesi tratti allora a mettere in sodo che non solo a Roma, ma fuori
quasi tutte le porte di tutte le città conformate agli usi di Roma,
e più specialmente nelle colonie, si praticasse seppellire i defunti;
cioè riporre le loro ceneri — perocchè non si costumasse inumarli — e
rizzare monumenti funebri ed ipogei.

La quale consuetudine rispondeva al bisogno che provavasi e che
son venuto dimostrando di onorare la memoria dei cari trapassati,
avendone le dilette reliquie in vicinanza delle abitazioni, nè punto
comprometteva la pubblica igiene. Non era come de’ nostri cimiteri
suburbani, che raccogliendo non le ceneri, ma i cadaveri, saturano
delle loro decomposizioni la terra, corrompono di loro esalazioni
l’aere e infettano le acque che vi filtrano e via trascorrono seco
traendo i tristi elementi della putrefazione, germi ignorati di
epidemie e d’altri mali: il fuoco invece lasciava ceneri purificate ed
innocue, e spogliava le tombe di quell’orrore — sia pur sacro — che
adesso ispirano, malgrado vadano i sacri recinti eretti con superbe
architetture e decorati di splendidi e marmorei monumenti.

Ond’è che naturalmente son condotto a chiudere l’argomento
coll’associarmi al voto di chi in oggi si fè apostolo del ritorno al
sistema della cremazione, come quello che sia per essere il solo che ci
permetterà d’aver per sempre e senza nocumento a noi vicini i preziosi
avanzi dei nostri cari.



CONCLUSIONE


Mi fu detto, all’apparire del primo volume di questa mia opera, come
il tuono spigliato e leggero col quale l’avevo incominciata nullamente
annunziasse che poi sarebbesi mutato sì presto per diventare accigliato
talvolta e grave sempre; che d’un libro, il qual sarebbesi creduto
di solo amena lettura, quale avrebbe potuto essere se unicamente di
impressioni e ricordi di un viaggio, ne sarebbe poi uscito fuori un
gazofilacio di classica erudizione. L’osservazione, od appunto che
si voglia appellare, era giustissimo, e a dir vero non era stato pure
ne’ miei primi intendimenti di riuscire al lavoro che solo adesso ho
ultimato; ma, come con ragione sentenziarono i nostri vicini di Francia
_c’est en mangeant que l’appetit vient_, toccando cose ed argomenti che
furono sempre l’amore e lo studio miei fin da’ più giovani anni di mia
vita, m’era stato impossibile farlo senza lasciarmi andare a percorrere
tutto intero l’arringo.

M’addiedi allora di poter mirare anche a proficuo fine. Addentrarmi
nelle questioni di pura archeologia e impancarmi co’ suoi campioni,
nè avrei avuto la forza, nè parevami perdonabile tampoco l’ardimento,
da che allora avrei dovuto, come gli altri fecero, eleggermi per lungo
tempo a soggiorno i luoghi medesimi delle mie indagini ed intraprendere
studj che le peculiari mie condizioni mi contendevano, per non giungere
forse, in ultimo risultamento, a recar qualsiasi buon contributo
alla scienza, alla quale sopra luogo attendono diggià nobilissimi
intelletti pur del nostro paese. Mi sembrò quindi più profittevole
scopo convergere quanto già l’archeologia aveva degli scavi pompejani
illustrato, a chiarire più direttamente la vita pubblica e privata
degli antichi Romani, da che Pompei ne fosse stata una colonia e
così quanto era stato esumato della gentile città porre in armonia
con quanto scrittori, storici e poeti di quell’età avevano lasciato
a’ posteri ricordato a giovarsi così reciprocamente di commentario e
illustrazione.

I giovani uscenti dalle scuole carico il capo di quella indigesta
erudizione che loro infarciscono antologie e crestomazie, presto la
dimenticano, perchè appunto confusamente e forse a mala voglia appresa
ne’ brani scelti degli autori latini o greci che loro pongonsi avanti.
Carità mi pareva venire loro in soccorso con opera che ordinata e
distribuita seriamente, servisse a collocare tutta quella farragine di
nozioni a proprio posto e rendere queste per tal guisa indimenticabili
e di utilità efficace; onde per dirla con un concetto dantesco,
_moleste nel primo gusto, lasciassero, digeste, vital nutrimento_[312].
Quello che in qualche modo avevano il barone di Theis ottenuto col suo
_Policleto a Roma_, e Barthelemy coll’_Anacarsi in Grecia_, ed altri
coi _Viaggi di Antenore e di Trasibulo nella Grecia e nell’Asia_,
io vagheggiai poter fare con _Pompei e le sue Rovine_ in Italia,
discorrendo alla mia volta delle romane istituzioni[313].

Vi sarò io riuscito?....

Non chieggo la risposta nè a Fiorelli, nè a Minervini, nè agli altri
severi cultori delle archeologiche discipline. Il mio libro non è fatto
per essi: v’ha un altro pubblico e più numeroso, quello che sulle opere
loro irte di greco e di osco si addormenterebbe, il quale ha pur d’uopo
d’essere confortato di buoni studj, ma che s’acciglierebbe e darebbe
addietro davanti a forma troppo severa, a discettazioni troppo erudite,
e il cui fine e la cui utilità non si vedon poi sempre coronate da
esito felice.

La forma quindi leggiera stessa e per avventura amena colla quale
aveva il mio lavoro esordito, così stando le cose, disponeva, a mio
avviso, acconciamente l’animo de’ miei giovani lettori ad accostarsi
più volonteroso al medesimo, s’egli è vero quel che cantò l’immortale
Torquato:

    Sai che là corre il mondo, ove più versi
      Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso
      E che il vero condito in molli versi
      I più schivi allettando ha persuaso:
      Così all’egro fanciul porgiamo aspersi
      Di soave licor gli orli del vaso:
      Succhi amari ingannato intanto ei beve,
      E dall’inganno suo vita riceve[314].

Avranno essi forse notato soverchie le citazioni degli autori; ma con
quanto or dissi ne troveranno la giustificazione: non era il ripeto,
un libro di solo amena lettura che intendevo di fare, ma opera quasi
di complemento di classica educazione. E perchè più generale ne fosse
il vantaggio, curai apporre in calce la traduzione delle testuali
citazioni, approfittando all’uopo delle migliori e più conosciute
versioni. Vero è che più d’una volta mi occorse di sostituire a
quelle i miei volgarizzamenti; ma il feci allora o che si trattasse
di traduzioni non ancor suggellate dalla fama, o di quelle che fatte
alla libera, riproducendole, non avrebbero giustificata la ragion
della citazione. Il più spesso ne avvisai con particolare mia nota il
lettore.

Havvi poi un interesse ancor più generale in questi studj che mi sono
proposto ed è che una più profonda conoscenza della antica società
romana avesse a valere ad aprire gli occhi de’ presenti sovra erronee
credenze ed estimazioni che si son venute facendo di essa infino ad ora
e che tuttavia non sono senza discapito nostro.

Precettori e scrittori non hanno ancor cessato di mezzo a noi di
mettere i tempi e le istituzioni dell’antica Roma a raffaccio coi
nostri tempi e colle istituzioni nostre, di giudicare l’antica storia
coi criterii dell’attuale, e di spiegare persino le storie dei nostri
politici rivolgimenti colla storia di quel gran popolo, dicendosi
continua la riproduzione degli eventi, identiche le passioni, virtù
e vizi eguali in tutti i tempi. Epperò argomentarono essi possibile
ed utile il risuscitare i provvedimenti di allora, mentre la nostra
intelligenza, che s’è venuta di età in età modificando, e in continuo
movimento di progresso, esiga che leggi della umana associazione non
abbiano ad essere più le medesime.

Come vorreste voi conciliare infatti le antiche istituzioni, che sì
strettamente si collegano colle credenze religiose, colle moderne che
tendono a emanciparsi da ogni vincolo religioso? Come spiegarci tante
leggi adesso, che allora avevano la ragion d’essere nelle istituzioni
di patrizii e di plebei, di patroni e di clienti, di signori e di
schiavi? Come invocare al nostro tempo, giusta quanto adoperiam
sì sovente noi avvocati, seguiti anche troppo spesso da’ giudici,
l’autorità de’ romani giureconsulti, quando la patria podestà antica
non era che una mostruosa tirannide del diritto di vita e di morte,
e di vendita per tre volte perfino del figlio; quando sproporzionata
la successione tra il fratello e la sorella; quando, per non dir
d’ogn’altra anomalia, il patriotismo stesso toglieva di mezzo ogni
sentimento naturale e la libertà veniva così compresa da escludere
qualsiasi guarentigia per quella individuale?

Richiamare pertanto adesso, in cui non è cessato ancora in Italia
il periodo della incubazione legislativa, l’attenzione allo studio
dell’epoca romana, mi sembrò di non lieve importanza ed anche di assai
pratica utilità.

Dopo enunciati cotali intenti, avanti di congedarmi dal lettore, mi
sia concesso rivolgere un ultimo sguardo agli scavi di Pompei. Essi
procedono sotto la intelligente e dotta direzione di quell’illustre
che è il summentovato comm. G. Fiorelli e sta bene, e sono con amore
e studio seguiti da egregi cultori delle dottrine archeologiche, che
li vengono illustrando principalmente nel _Giornale degli Scavi_ che
si publica in Napoli, ma che sventuratamente è in mano di pochi, ed
al quale ho io sì di sovente ricorso in questa mia opera, e sta bene
ancora; ma intanto che si affatica da una parte ad esumare quanto è
ancora sepolto, che fa dall’altra il Tempo? Prende la sua terribil
rivincita di quanto non ha potuto distruggere sinchè la terra che
vi stava sopra gli vietò l’opera demolitrice. Smantellati i tetti
delle case, distrutti i piani superiori, arsi e caduti gli impalcati,
spezzate e giacenti le colonne, disperse le pietre sepolcrali, la
pioggia, il sole, il vento hanno presa sui ruderi antichissimi e
già in più luoghi essi non serban pur l’ombra di quel che furono in
addietro. Invano si ricorre a riparazioni, proteggendo alcune muraglie
con tegole, ricoprendo di tetti recenti taluni edifici; invano si
procura lasciare quanto si può in luogo, acciò ne sia conservato il
carattere[315]; invano si creano regolamenti e discipline; il tempo,
più potente di tutto, permette intravvedere, in epoca non lontana, che
pria che tutta la restante città venga dissepolta, quella che già lo è
abbia a ridursi a un monte di indistinte macerie e si avveri quel che
Foscolo constatò degli antichi monumenti, che

    Il Tempo colle fredde ali vi spazza
    Fin le rovine[316].

Già più pareti di camere delle loro dipinture non hanno che qualche
traccia appena: altre l’hanno perduta affatto; già segni ed emblemi
caratteristici scomparvero, caddero graffiti, scomparvero iscrizioni,
rovinarono muri, da che la distruzione dei tetti fosse già opera del
cataclisma vesuviano, e chi visita con interesse Pompei se ne preoccupa
e tanto più in quanto la parte primamente scoperta si giudichi, come
provai, la più interessante.

Che avrebbesi dunque a fare?

V’ha chi crede che por mano a riparazioni e ristauri sia opera
profana poco meno di empia e si ha forse ragione: epperò per que’
tratti almeno, ne’ quali la rovina si determina così da togliere
ogni ulteriore interesse per l’archeologo e pel curioso osservatore,
non potrebbe mo’ cavarsene partito, purchè ceduti, dietro apposite
discipline e dicevoli corrispettivi, a ricchi privati, si imponesse
ai cessionari di ricostruire sulla originaria architettura pompejana?
Delle migliaja di ricchi sfondolati che visitano ogni anno gli scavi,
chi può dire non si trovi alcuno che ami avere in questo ridentissimo
ed ubertoso pendio che il Vesuvio sogguarda, al par di Cicerone, il suo
vaghissimo _Pompejanum_?

Come Cuvier ha dalle ossa fossili rinvenute ricostruito perfino animali
preistorici e da più secoli scomparsi dalla terra, più facilmente
potrebbesi dalla pianta degli edifici rifare gli alzati e l’architetto
governativo e la commissione che si dovrebbe creare fornirebbero le
architetture e così mano mano sull’antico verrebbesi riedificando il
novello Pompei, perenne e non indegno scopo di curiosità e di studio a
nazionali e forestieri.

È un’idea codesta siccome un’altra.

Una ne emise assai prima l’illustre autore dei _Martyrs_ e del _Génie
du Christianisme_ nel suo _Voyage en Italie_ nel brevissimo cenno che
vi dettò su d’Ercolano, di Portici e di Pompei, e parmi che giovi di
riferire, perocchè al medesimo fine essa miri della mia proposta. «En
parcourant cette cité des morts — scrive il visconte di Chateaubriand,
une idée me poursuivoit. A mesure que l’on déchausse quelque édifice
à Pompeïa, on enlève ce que donne la fouille, ustensiles de ménage,
instruments de divers métiers, meubles, statues, manuscrits, etc., et
l’on entasse le tout au _Musée Portici_. Il y auroit selon moi quelque
chose de mieux à faire: ce seroit de laisser les choses dans l’endroit
où on les trouve et comme on les trouve, de remettre des toits, des
plafonds, des planchers et des fenêtres, pour empêcher la dégradation
des peintures et des murs; de relever l’ancienne enceinte de la
ville; d’en clore les portes, afin d’y établir une garde de soldats
avec quelques savants versés dans les arts. Ne seroit-ce pas là le
plus merveilleux Musée de la terre, une ville romaine conservée toute
entière, comme si ses habitants venoient d’en sortir un quart d’heure
auparavant?

«On apprendroit mieux l’histoire domestique du peuple romain, l’état de
la civilisation romaine dans quelques promenades à Pompeïa restaurée,
que par la lecture de tous les ouvrages de l’antiquité. L’Europe
entière accourroit: les frais qu’exigeroit la mise en œuvre de ce plan
seroient amplement compensés par l’affluence des étrangers à Naples.
D’ailleurs rien n’obligeroit d’exécuter ce travail à la fois, on
continueroit lentement, mais régulièrement les fouilles; il ne foudroit
qu’un peu de brique, d’ardoise, de charpente et de menuiserie pour les
employer en proportion da déblai. Un architecte habile suivroit, quant
aux restaurations, le style local dont il trouveroit des modèles dans
les paysages peints sur les murs mêmes des maisons de Pompeïa.»

Come si può accorgere il lettore, di poco la mia idea si discosta
da codesta di Chateaubriand, la quale per altro, limitandosi ad una
semplice opera di restauro, oltre che è combattuta fieramente dagli
archeologi, è forse di poco pratica attivazione, avuto riguardo
alla condizione delle muraglie in generale che mal sopporterebbero
la sovrapposizione di quell’altra parte di muro che valesse a
completarla, senza dire che in più luoghi il salnitro e altre ragioni
di degradazione vieterebbero il ritorno delle dipinture.

Qualunque sia il pensiero tendente alla conservazione di Pompei, di
questa così interessante città che si va ogni dì più evocando dal suo
sepolcro in cui giacque presso a due mila anni, mette conto esser
preso in considerazione ed esame, principalmente da chi è preposto
alla pubblica cosa. Se lo stato trova di sua convenienza e decoro di
consacrare alla conservazione de’ monumenti e de’ cimelii antichi
disseminati per tutta Italia, istituti e somme ragguardevoli, per
ragione maggiore volger deve le sue cure alla conservazion di questa
antica città, perocchè ben dicesse l’inglese Taylor, scrivendo a Carlo
Nodier intorno appunto ad essa e ad Ercolano:

«Roma non è che un vasto museo; Pompei è un’antichità vivente.»

Bacone, parlando di antichità, di storie sfigurate e di storici
frammenti sfuggiti per avventura alla distruzione del tempo, li
paragona alle tavole che galleggiano dopo il naufragio; ebbene le
Rovine di Pompei sono preziose reliquie di un naufragio che meritano
essere ad ogni costo salvate, che vogliono ad ogni modo essere
strappate al continuo e latente processo di loro completa distruzione e
allora soltanto potremo sclamare con Schiller:

                            L’are
    Sorgono ancor. Venite e il sacro foco
    Raccendete agli dei, chè troppo lunghi
    Secoli di votiva ostia l’han privi[317].


  FINE.



APPENDICE PRIMA

I busti di Bruto e di Pompeo[318].


La lentezza colla quale ha proceduto, senza alcuna mia colpa e contro
anzi ogni mia volontà, la stampa di quest’opera ha prodotto, fra gli
altri, anche questo inconveniente, che si avesse a smarrire quella
parte di manoscritto che recava la dichiarazione dei due busti di
Pompeo e di Bruto, che doveva avere il suo luogo nel capitolo XVIII,
che tratta dell’Arti Belle, e là proprio dove io venni intrattenendo
il lettore della statuaria e ne notai lo scadimento allo invalere più
frequente di questo genere di scultura che sono i busti, e avrei voluto
recar esempi pompejani di questo genere. I disegni di tali busti furono
tuttavia collocati a quel posto e li avrà veduti il lettore nel secondo
volume: ora occorre che al difetto involontario sopperisca la presente
appendice.

Nelle ultime stanze della casa di Lucio Popidio Secondo in Pompei nella
Regione seconda ed alla altezza di pochi metri dal suolo vennero in
questi ultimi anni (19 e 24 novembre 1868) ritrovati i due busti de’
quali è argomento[319]. Gli archeologi non esitarono a sentenziare
raffigurare l’uno Cneo Pompeo, il gran capitano che rivaleggiò con
Giulio Cesare, epperò denominato Magno, e il qual fu vinto da quello
nella battaglia di Farsalia e quindi ucciso; e l’altro le sembianze di
Marco Bruto, ultimo repubblicano di Roma e uccisore di chi aveva alla
sua volta uccisa la romana libertà.

Comunque io abbia dovuto notare che la furia de’ busti in Italia
segnasse l’era della decadenza dell’arti; pur tuttavia questi che
si esumarono in Pompei sono ben lungi dallo accusare degenerazione
di gusto. I migliori giudici e buongustai affermarono arditamente
che considerevole sia il valore artistico di queste opere, e che
appartengono a greco scalpello. Sono esse del più puro e fino marmo
pario; ma ciò non tolse che la moda di allora non li avesse a colorire,
come è dato di convincersene per alcune traccie che vi si riconoscono
tuttavia di colore: lo che è importante per la storia dell’arte di
tener conto.

E venendo prima a dire del busto del magno Pompeo, dinanzi ad esso è
mestieri ammettere che dove la storia non ci avesse nel narrare le
gesta di questo illustre appreso il carattere di lui, questa opera
elettissima del greco artista sarebbe venuta opportuna a riempiere
la lacuna, perocchè l’espressione che vi assegnò attesterebbe di
quella nobiltà naturale, di quella piena coscienza di sua nobiltà onde
andava altamente distinta questa grandiosa figura storica sin dalla
sua giovinezza. «Molte erano le cagioni, scrisse Plutarco di lui, che
amar lo facevano: la temperanza nella maniera del vitto, l’esercitarsi
che faceva nell’armi, l’attività di persuadere che aveva nel suo
ragionare, la fermezza de’ suoi costumi e la gentilezza e l’affabilità
nell’accogliere e nel trattar le persone; non essendovi alcun altro
che men di lui molesto fosse in pregare, nè che s’impiegasse con più
di piacere in servizio di chi nel pregava; mostrando egli alacrità nel
far benefizii, e ritegno e gravità mostrando in riceverli. Da principio
aveva egli ben anche l’aspetto che non mediocremente cooperava a
cattivargli la propensione degli animi e che parlava in di lui favore
prima ch’ei movesse parola. Imperciocchè l’aria amabile, che in esso
appariva, maestosa era ad un tempo stesso e soave; e dalla sua giovine
e florida età a tralucer cominciaron ben tosto i suoi onorevoli ed
augusti costumi»[320]. Anche Vellejo Patercolo e Plinio il Vecchio,
attestarono di questa sua decorosa bellezza dicevole alla grandezza del
suo stato ed alla sua fortuna[321].

Qual maraviglia allora, che Lucano, nella sua _Farsaglia_, lui
apostrofando nei giorni che la Fortuna aveva preso in fastidio i suoi
trionfi, così gli dicesse:

                     _Cum conjuge pulsus,_
    _Et natis, totosque trahens in bella penates,_
    _Vadis adhuc ingens, populis comitantibus exul?_[322].

Questo busto pompejano che lo rappresenta vuolsi d’assai superiore,
così per sentimento, che per esecuzione, alla statua di Pompeo che
si trova nel palazzo Spada a Roma, e che si pretende essere quella a’
cui piedi, come ci raccontò e riferisce il succitato Plutarco, Giulio
Cesare venne in senato assassinato da Marco Bruto.

Il secondo busto, quello cioè che raffigura la testa di quest’ultimo,
fa al primo degnissimo riscontro per merito d’arte: epperò ha
naturalmente una espressione ben diversa dall’altro. Il suo carattere è
per lo appunto quello che Cicerone ed altri autori attribuirono a Marco
Bruto; e poichè parlando di Pompeo m’avvenne di invocar l’autorità
dello Scrittore delle _Vite degli uomini illustri_, farò la stessa cosa
trattando di quest’altro personaggio.

«Bruto, scrive egli, modificando i costumi suoi cogli studi delle belle
discipline e colla ragione per mezzo della filosofia, ed eccitando ad
intraprendere grandi azioni il proprio suo naturale, che grave era e
mansueto, sembra che avesse un’ottima e affatto acconcia temperatura
al bello e all’onesto: cosicchè anche quelli che in odio lo hanno per
la congiura contro Cesare, se in quella operazione v’ha pur nulla
di generoso, lo attribuiscono a Bruto; e rivolgono quanto v’ha di
dispiacevole addosso a Cassio, che famigliare era ed amico di Bruto, ma
non già simile ad esso nella semplicità e gravità de’ costumi[323].»

Fra codesto busto di Bruto esumato a Pompei e quello che si conserva
al Museo Capitolino di Roma non si riscontra soverchia differenza;
perocchè perfettamente eguali nella loro espressione di risoluzione
profonda e concentrata. Della quale così testimonia il medesimo
Plutarco: «Si racconta che Cesare la prima volta che il sentì
disputare, disse verso gli amici: _Io non so quello che questo giovane
si voglia; ma tutto ciò che ei si vuole, il vuol con gran forza_.
Imperciocchè per la ferma costanza sua e pel suo non accondiscendere
di leggieri ad ognuno che lo pregasse, ma voler operare, mosso da buon
ragionamento e da determinazion di consiglio, tutto ciò che onesto
fosse, avveniva che dov’ei rivolgevasi, uso faceva della più forte ed
efficace energia per effettuar ciò che voleva».[324] Cicerone del pari
così rammenta il summentovato detto di Cesare a riguardo di Bruto:
_quidquid vult valde vult_[325].

In quanto alla parte che riguarda in questo busto l’esecuzione, questa
non è solo valentissima, ma si attrae tutta la maggiore considerazione,
e direbbesi fors’anco, nel sentimento de’ più competenti uomini,
superiore a quella del busto di Pompeo.

E poichè nel dir più sopra di quest’ultimo, ho richiamato il confronto
d’altro ritratto di lui contemporaneo, piacemi far altrettanto
a riguardo del busto di Bruto, giovandomi all’uopo d’una nota di
quell’eccellente studio sulla Società Romana, che è _Cicéron et ses
Amis_ di Gastone Boissier[326].

Nell’antico museo Campana in Roma era una statua assai curiosa di
Bruto. L’artista che la scolpì non vi aveva cercato di idealizzare il
suo modello e sembra non avesse aspirato che ad una volgare realtà;
pur tuttavia vi si riconosceva Bruto. A quella fronte bassa, a quelle
ossa facciali pronunciate con tanta pesantezza, vi si indovinava
uno spirito ristretto e un’anima ostinata. Il volto ha un’aria
febbrile e malaticcia, è giovane e vecchio ad un tempo, come avvien
di coloro che non hanno avuto giovinezza. Vi si sente principalmente
una strana tristezza, quella d’uomo accasciato sotto il peso d’un
destino grande e fatale. Nel bel busto invece di Bruto conservato nel
museo del Campidoglio, il volto è più pieno e più bello. Vi stanno la
dolcezza e la tristezza, l’aria malaticcia è sparita. I lineamenti vi
rassomigliano affatto a quelli che si veggono sulla famosa medaglia che
fu coniata negli ultimi anni di Bruto e che porta al suo rovescio un
berretto frigio fra due pugnali colla leggenda: _Idus Martiæ_.

Michelangelo aveva pure cominciato un busto di Bruto, del quale si può
vedere il magnifico abozzo agli Offici di Firenze. Non era certo uno
studio di fantasia, ma si scorge ch’ei s’era valso di ritratti antichi,
idealizzandoli.

Queste due preziosissime reliquie della statuaria antica, che sono i
busti di Pompeo e di Bruto, che son venuto illustrando andarono, come
la più parte delle opere trovate ad Ercolano e Pompei, ad impreziosire
il nazionale Museo di Napoli, dove io pure le ho ammirate.

L’egregio artista scultore cav. De Crescenzo di Napoli, potè eseguire
il restauro nelle parti rotte e scheggiate, e il dotto archeologo G.
De Petra, che nel _Giornale degli Scavi_[327] ne fece una ragionata
dichiarazione, lodandonelo, avverte che «ci è piuttosto motivo di
congratularsi, anzi che di dolersi intorno allo stato di conservazione,
in cui ci sono pervenuti questi due monumenti. Il carattere di realtà e
di verità, sì profondamente scolpiti in tutti i loro lineamenti, li fa
senza alcun dubbio definire per ritratti.»



APPENDICE SECONDA

L’eruzione del Vesuvio del 1872 detta del 26 aprile[328].


Nel Capitolo primo di questa mia opera, ebbi a notare come ne’ giorni
del mio soggiorno in Napoli, verso, cioè, la metà del dicembre 1869,
il ch. cav. Luigi Palmieri, direttore dell’Osservatorio Vesuviano,
avesse segnalato agitazioni nel sismografo, le quali dovessero essere
precorritrici di sotterranee commozioni. Notai del paro come infatti si
avessero a tradurre in iscosse di tremuoto in qualche città italiana
e nella catastrofe poscia toccata all’isola di Santa Maura, l’antica
Leucadia, la cui capitale Amaxichi, stando a’ dispacci telegrafici ed
ai giornali dell’ultima settimana del dicembre di quell’anno, avesse ad
essere interamente rovinata[329].

Queste agitazioni, queste scosse e codesti considerevoli guasti erano
i prodromi d’un periodo di commovimento vesuviano, che offrì nel 1871
spettacolo di accensione e di infocate lave, non che nel successivo
anno 1872, dove aveva la sua massima attività e intensità, periodo
che pur ai giorni che scrivo non è per avventura ancor chiuso, come
n’abbiamo prova in alcune importanti manifestazioni avvenute nel mese
di marzo ed anche successivamente nel corrente anno 1873.

Io reputo conveniente, avanti impor termine a questo lavoro, di
raccogliere in poche pagine la terribile e lagrimosa storia della
eruzione vesuviana suddetta seguita nello andato anno 1872; perocchè,
al giudizio dei dotti, essa annoverare si debba tra le più celebri e
disastrose, e sarà compimento della rapida monografia, che del Vesuvio
ho nel detto primo Capitolo dettata.

Nè far di meglio io credo quanto spiccare dalle varie pubblicazioni
avvenute in Napoli a que’ giorni, nelle quali sentesi ancora tutta
l’impressione di chi fu spettatore di quei formidabili furori
vesuviani, tenendo conto per altro di que’ giorni soltanto, in cui la
furia del monte fu maggiore e l’eruzione al colmo.

Questa eruzione vien designata del 26 aprile 1872, perchè fu in
tal giorno che si manifestò nella sua maggiore violenza. Ma se
questa maniera di distinguere le conflagrazioni del monte, disse
il Palmieri nella Conferenza tenuta in Napoli pubblicamente il 9
maggio di quell’anno, è commoda per la storia, è invece falsa innanzi
alla scienza; poichè questi grandi incendii non sono che fasi e
manifestazioni di più o meno lunghe durate de’ grandi periodi eruttivi.
L’eruzione quindi di che ora tratto, secondo l’illustre professore,
rimonterebbe al 1 gennajo 1871.

«Io al primo gennajo 1871, soggiunse egli, annunziava sulla stampa che
un periodo eruttivo era definitivamente stabilito, che sarebbe di lunga
durata, e le cui fasi non poteva prevedere; al 13 gennajo comparve il
piccolo cono come un piccolo fanale che sembrò poi fare sosta: era il
finale del primo atto. Nel gennajo 1872 ricomparve il piccolo cono
ed accanto ad esso delle bocche tonanti, con tutta la serie degli
avvenimenti vesuviani che occorsero in quest’anno... Deve però dirsi
che quello che abbiamo noi veduto è veramente la fase ultima della
lunga eruzione che ha avuto incominciamento il gennajo del 1871»[330].

La notte del 21 aprile incominciava splendidissimo lo spettacolo delle
lave incandescenti che scendevano dal cono del Vesuvio. Tale spettacolo
si poteva ammirare anche in Napoli e a Santa Lucia, infinita era la
gente che stava a contemplarlo; ma moltissimi ben anco coloro che dalla
città facevansi colle carrozzelle trasportare alle falde del monte. Ma
prima che il giorno spuntasse le lave avevano arrestato il loro corso,
una sola avvanzavasi nell’_Atrio del cavallo_ maestosa.

Un telegramma del Palmieri del mattino (ore 6 ant.) del 25 aprile
così l’annunziava: «Grande incremento nella eruzione del Vesuvio,
coincidente col tempo dal plenilunio, siccome avvenne nello scorso
mese. Il fuoco si mostra per quattro bocche, ma la lava esce più
copiosa per quella che si aprì alla fine di ottobre dello scorso anno.
Essa scende pel lato meridionale del cono occupando la sabbia che
serviva alla discesa.

«La maggiore attività dei crateri si notava da jeri l’altro con
agitazione dei soliti strumenti.»

La notte che seguì un tal giorno è così descritta da Martino Cafiero
in una lettera al signor Zerbi, redattore del giornale _Il Piccolo_ di
Napoli:

«Giunti, dopo un cammino di due ore almeno, a pie’ dell’Eremitaggio e
dell’Osservatorio, smontammo di carrozza, e cavalcando, il mio amico
ed io, due cavalli che avevamo fatti venir da Resina, ci dirigemmo,
accompagnati da due guide con fiaccole, alla volta del monte.
Dall’Osservatorio un sentieruzzo erto, arenoso, sfranato di qua e
di là, conduce a piè d’un gran piano di vecchia lava — lava del 1871
— sul quale piano la nuova eruzione si riversa. Lasciammo i cavalli
là; e c’inerpicammo su per quei massi ineguali, ancora caldi dopo un
anno che furono spenti. Sai la superficie d’un mare in tempesta, che
s’eleva, s’abbassa, s’increspa in flutti e gobbe ed avvallamenti tutti
intorno per l’ampio spazio? Ebbene fa di pietra quella superficie di
mare sconvolto; falla nera, rotta e ferrigna, ed aspra, e sonante sotto
i passi, d’un suono schiacciato ed acre: e ti sarai fatta l’imagine
del luogo pel quale condotti passavamo. A stento, saltando di picco
in picco, incespando nei crepacci e nelle screpolature, sorretti dalle
guide, poggiandoci sopra lunghi bastoni a punta, giungemmo in un luogo
ch’era discosto dalla punta d’una lava quanto è il largo della Carità
dallo Spirito Santo. Le guide volevan condurci sino al foco: io però mi
sentiva rotto tutto, e volli sostare; ci ponemmo a sedere su d’uno di
quei massi pungenti e rivolgemmo lo sguardo al monte.

«Vedevamo, alla nostra destra, in alto alla montagna un centro di
foco vivissimo, dal quale uscivano, a sbuffi violenti, ora fiamma, ora
fumo, ora massi, lanciati, come enormi carboni accesi, ad una altezza
portentosa. Da quel centro, in una lunghissima linea _zig-zag_ sulla
schiena del monte, vedevasi scendere la lava: questa però luminosa in
alcuni punti e già oscura in altri, pareva proceder lentamente e quasi
star immobile, ad onta della gran vivacità ed attività dei cratere
originario. Il cielo non era limpido, ma sparso di nubi leggere e
bianche; nessun’aura di vento, un gran silenzio ed una quiete pressochè
sinistra tutto intorno: da quell’alto monte tutto valli nere sino a
quel mare in cui si rifletteva, come in un cristallo opaco, una velata
luna. Lo stesso vulcano non dava nè boati nè tuoni, e solo l’alta bocca
che t’ho detto facea sentir come l’ebollizione d’una mostruosa caldaia.
La scena non era imponente tanto, quanto sinistra; quel mare di pietre
e di ferrigne schiume su cui stavamo seduti, pallidamente rischiarate
da una triste luna annebbiata, metteva, nella sua immane vastità,
raccapriccio e spavento; nè si poteva guardare senza brivido quel tetro
monte con quella fiammaccia in cima, sovra cui, a guisa di schiuma
sanguigna che circondasse le infocate fauci d’una belva sovrannaturale,
un fumo bianco, qua e là macchiato di chiazze rossicce.

«Ed ecco che come noi, taciti e tutti compresi da quel tremendo
spettacolo, guardavamo lungamente il cielo e il monte e quella valle
fosca, tutto ad un tratto una vista improvvisa e rapida ci colpì. Al
disotto non molto del cratere di cui t’ho parlato, inopinatamente una
gran macchia di foco comparve; la quale, senza strepito, senza rumore,
silenziosamente, come una immensa cortina di foco s’allargò sulle
spalle del monte, con un movimento laterale e perpendicolare insieme.
Vedemmo allora come una gran muraglia di fiamma viva; e il calore e il
riverbero ci percosse tutt’ad un tratto il viso, e vedemmo l’immenso
foco ripercosso dal fumo, dal cielo, dalle nubi circostanti, e laggiù
laggiù era il mare immobile, di cui un pezzo divenne come di sangue. La
luna era uscita fuori dalle nubi, e splendeva limpidissima; e quella
luce candida e quella luce infocata, quell’astro, quel vulcano, quel
cielo, quel mare, che riflettevano a gara l’uno e l’altro; tutti quegli
splendori, tutti quei riflessi; que’ terreni, quelle mitezze, quella
vastità di spazii e quella selvaggia, indomita, superba potenza di
fenomeni, fecer subitamente magnifico l’indescrivibile spettacolo e
spiegarono sotto i nostri occhi stupefatti un quadro che avrebbe fatto
poeti sin certi scrittori di versi del tempo presente.

«Delle nostre due guide una, la migliore, era andata presso l’estremità
della prima lava per recare, come usa, pezzi di quella con monete
conficcatevi dentro.

«L’altra guida stava presso di noi e ci spiegava, col buon senso d’una
guida, come tutto quel nuovo foco, il quale in un attimo aveva allagata
la montagna, non potesse in meno di tre ore giungere sino a noi.

«La spiegazione non ci parve evidente e volemmo tornare. Prendemmo
infatti la via, insieme a tre nostri amici, nei quali ci abbattemmo,
e che ci debbono la vita poichè li dissuademmo dall’andare innanzi;
e saltando e dirupandoci balzelloni su per quelle pungenti e scoscese
rocce, in mezz’ora fummo là dove avevamo lasciato i cavalli.

«Come tornavamo, lungo quegli aspri greppi, in molti ci scontrammo,
che andavan su come noi eravamo andati, e che forse non tornarono come
noi tornammo. Molte forestiere favelle colpirono i nostri orecchi, e
mi si stringe il core pensando ora a chi venne forse di lontane terre,
e cercando i diletti della vita e gli spettacoli della diversa natura,
incontrò lontana dai cari suoi, la morte.

«In un punto, su d’un alto masso, seduti l’uno accanto all’altro,
vedemmo una donna ed un uomo.

«Si tenean per mano e non si parlavano; ma su’ loro visi giovani era
dipinta l’estasi della contemplazione e dell’amore. Gli occhi dell’uno
scintillavano come quelle fiamme vulcaniche, quelli dell’altra eran
dolci, immobili e puri, come quell’astro d’argento che tutta la
circondava de’ suoi bianchi splendori.

«La vista dei due amanti m’è rimasta immobile nella mente. Vorrei saper
di loro, e pure, se lo potessi, come chiederne notizie? non oserei
farlo! Tornarono? o......? Ed erro e mi tormento in questo dubbio,
e non so se essi vivono, o se, morendo, furon degni d’alta pietà o
d’infinita invidia.

«..... Ad un tratto un suono basso e cupo ci fece girar l’occhio
indietro. E vedemmo come se tutta la montagna s’incendiasse. Le nere
macchie che prima vedevansi tra le due grandi lave, scomparvero in
un baleno; e non si vide che tutta una fiamma che s’avanzava e si
dilargava sul piano di vecchia lava, su cui poco innanzi eravamo.

«Non era ancor nato nell’animo nostro lo spavento di quella terribile
vista, quando già essa ci fu tolta. E vedemmo irromperci innanzi alla
faccia quasi una nuova montagna più fosca della prima, ed incalzarci
ed esserci sopra con movimento precipitoso. Era orribile sbuffo di
fumo così fitto che fece la tenebra dove poco innanzi era tanta la luce
d’incendio; e da quello si svolgeva tale puzzo di zolfo e di bitume che
subito rivolgemmo altrove il viso e quasi il respiro ci venne meno.

«Cercammo scampo nella fuga e dietro di noi s’udiva il grido disperato,
pompeiano, d’altri fuggenti...

«Era già l’alba ed il cielo era diventato limpido e sereno. Splendeva
ancora la luna e spirava un venticello di primavera pei vigneti
vesuviani. Tanto sorriso da una parte; dall’altra tanto disastro: e
mentre l’immensa colonna di fumo, elevandosi in un estremo dal vertice
del monte e piegandosi con l’altro estremo nella vallata sottostante,
formava un arco come di roccia nera, solcato in lungo da strisce
sanguigne, nel mezzo di quell’arco vedevasi un lembo di cielo azzurro
che lentamente s’illuminava nei chiarori d’un’alba incantevole[331].»

Il Palmieri dall’_Osservatorio_ mandava queste due parole:

_Ore 6 a. m. Nuove bocche verso Nord; molti feriti. A domani il resto._
— Questi feriti erano vittima della curiosità che li avea spinti sulle
falde del monte, che ognora più si andava rendendo pericoloso.

Spaventevole era la vista della sterminata fornace anche per chi
la guardava da Napoli. La nuvola che si levava e copriva parte
dell’orizzonte era quale Cajo Plinio la descrisse dopo l’eruzione che
seppellì Pompei; «bianca e talvolta sordida e macchiata, a seconda
che sorreggesse terra o cenere»; e fin nelle ultime spire dei densi
vortici. Si avvertiva ogni respiro del monte, poichè questi si muovono
come il fumo ch’esce dalla bocca d’un cannone. Più volte s’udì
il tremare dei vetri in molte case di Napoli; in parecchi edifici
si fecero screpolature; e quasi tutto il giorno dalle terrazze e
dall’interno delle case si udivano boati spaventevoli pari al rumore
che fa la locomotiva quando vi passi dappresso.

Dinanzi all’Ospedale dei Pellegrini grandissima folla accorreva per
vedere i feriti ed i morti che arrivavano. Ogni tanto ne arrivava uno.
Questi nudo, arso dal capo alle piante, messo in un lenzuolo mandava
grida strazianti. Quegli colle vesti intatte era presso alla morte,
avea le carni rosse quasi fosse stato tirato fuori da una caldaia
d’acqua bollente.

Otto giovani studenti di medicina sparvero sotto le lave: erano giovani
di liete speranze e tutti pugliesi. Ecco i loro nomi, che il Palmieri
scrisse aversi a ricordare in nera lapide marmorea da collocarsi presso
l’Osservatorio: Girolamo Sargini, Antonio e Maurizio Fraggiacomo,
Vitangelo Poli e Francesco Binetti di Molfetta, Giuseppe Carbone di
Bari, Francesco Spezzaferri da Trani e Giuseppe Busco da Casamassima.

Indescrivibile il terrore a Resina, San Giovanni, Torre del Greco e
in tutti i paesi alle falde del Vesuvio. I ruggiti spaventevoli del
monte, l’avvicinarsi della lava, l’allargarsi della densa caligine,
il tremare della terra, tutto incute timore grandissimo. Piangendo,
urlando, cercando i loro cari con le voci, fuggono ricchi e poveri
abbandonando le case, chi raccomandandosi a Dio, chi bestemmiandolo.
Vedonsi povere vecchie trascinarsi a stento ed affrettare il passo
più che la grave età nol consenta, appoggiata al bastone una mano, con
l’altra portando un fardello; vedonsi madri con un bambino in braccio e
con un altro per mano accanto al marito carico di fardelli e masserizie
correre disperate verso Napoli. Da Portici, da Somma, da Resina, da San
Giovanni, da Torre tutti cercano scampo a Napoli, dove li precede la
densissima nuvola, che s’avanza vorticosa sull’orizzonte.

Poco dopo il meriggio si ripetevano molte dolorose notizie. Chi parlava
di dugento morti, chi di trecento. Dicevasi che molti forestieri
mancassero agli alberghi. Assicuravasi che una ventina di persone
fossero circondate dalle lave e gridassero invano chiedendo soccorso.

Alle ore 2 pom. il prefetto di Napoli marchese D’Afflitto mandava il
seguente telegramma:

«Vesuvio screpolato vomita fuoco da molte bocche. Per ora non si può
determinare direzione che lave prenderanno. Punto più minacciato San
Sebastiano. Feriti già trasportati ospedale Pellegrini sono dodici: tre
morti. Molti sono rimasti morti sotto lave. Qui non fa bisogno d’altri
soccorsi da Napoli.»

Il chiarissimo professore Palmieri assicura che a tutti i curiosi
che la sera del giovedì, 25, erano accorsi per visitare la lava,
egli avesse sconsigliato di inoltrarsi dopo l’Osservatorio dov’egli
si trovava, non essendo prudente lo avventurarsi di notte per luoghi
impraticabili e lontani; una nube stessa bastando per non farli
tornare: se fosse stato ascoltato l’avviso, non sarebbonsi lamentate
vittime.

Ma lasciando gli episodj dolorosi ed occupandoci soltanto del fatto
dell’eruzione, la fenditura aperta nell’Atrio del Cavallo, che accennai
più sopra, era in continuazione della fenditura del cono, e in essa si
vide alzata una collina, o piccola catena di montagne, formata dalle
lave precedenti, e dalla base di questa collina uscivano le lave in
modo tranquillo, perchè tutti gli oneri della conflagrazione se li
aveva serbati il cratere centrale. Queste lave si condussero nel _fosso
della Vetrana_, e come questo si fosse quasi riempito, presentava
allora una larghezza di circa un chilometro.

«Su questa valle, notò il Palmieri, nelle sue _conferenze_, ebbi a
contemplare de’ fenomeni, i quali attiravano l’attenzione dei geologi.
Nel seno stesso della lava si stabilivano delle bocche d’eruzione,
dei piccoli crateri, sicchè era la lava che faceva l’eruzione; queste
bocche emanavano globi di fumo cinereo, gittavan proiettili, insomma
erano come crateri in mezzo alla lava. Dunque la lava esplode per conto
suo, dunque abbiamo svelato i misteri dell’interno del cono, dunque
i fenomeni eruttivi dipendono dalla lava. Noi adunque possiamo dire
di non sapere come questa materia fusa possa prodursi in eruzione,
ma non possiamo dire che sia un mistero la eruzione nell’interno de’
coni[332]».

Questa dimostrazione che l’illustre Palmieri fa ed è certo una scoperta
importantissima, era implicitamente preceduta dalle esperienze fatte e
ripetute col suo _plutonio_ dal nostro Paolo Gorini. Pure il di costui
plutonio, raffreddandosi, si determina in monticuli, in avvallamenti,
e dalle punte assodate del suo liquido eruttasi la lava che,
sovrapponendosi strato a strato, forma le montagnole stesse.

Questa lava scesa nel _fosso di Faraone_, divergendo per altro in parte
sulle _Novelle_, altra fra Massa e S. Sebastiano, altra abbatte e copre
case e ville, fra le quali quella che apparteneva al celebre pittore
Luca Giordano, altra si dirige verso la Favorita, ed altra scendendo
dall’alto del cono volge verso i Camaldoli di Torre.

Fu un momento nel quale si sospettò che il cono sarebbe crollato;
perocchè tante piccole fumarole si fossero venute aprendo tutto
all’intorno di esso, le quali di notte, diventando tanti fori, di
giorno sembravano avessero reso insostenibile il cono.

Ma la forza di projezione da cima del cono diminuiva; le lave la
mattina del 27 o cessarono o scemarono di loro attività e apparvero le
ceneri, indizio che il periodo igneo fosse finito. E infatti cessava
prima di sera, quantunque continuasse il fragore de’ crateri con
forza maggiore, il fumo erompesse misto a proiettili, e in mezzo ad
esso guizzassero belle e frequenti le folgori, che ne’ dì susseguenti
le ceneri seguirono così da annuvolare il giorno e in Napoli e circa
otto miglia all’intorno, cadde spessa, fitta e nera così da coprire le
campagne e le strade dell’altezza di parecchi centimetri.

Il 28, la cenere e i lapilli, sempre in mezzo al fragore, cadevano in
copia e ne furono sgominati i circostanti paesi; il 29, col lapillo
caddero scorie grosse che ruppero i vetri delle finestre non difese
da persiane: verso la mezzanotte cessò il mugolar dei crateri, solo a
quando a quando facendosi udire isolate detonazioni. Al tempo stesso,
come fu notato in tutte le più terribili eruzioni, orribili temporali
si scatenarono sulla Campania con poca pioggia; ma non per questo la
desolazione fu minore in tutti i colti, che sembrò ricondotto il verno.
Il 30 fumavano i crateri tuttavia, ma scemati i fragori, e il 1 maggio
l’incendio era finito e diradato il giorno, onde fu dato riconoscere
mutata la configurazione del cono e sparito quello in cui nel 1821 il
francese Luigi Contral vide finire i suoi giorni. Dalla dottissima
Relazione pubblicata nel corrente anno dall’illustre professore
Palmieri _Sulla Conflagrazione Vesuviana del 26 aprile 1872_[333],
e della quale il ringrazio pubblicamente pel dono onde mi volle
gentilmente onorare di un esemplare, piacemi togliere le seguenti cose
importanti a sapersi per completamento di questa mia narrazione intorno
all’eruzione dello scorso anno.

«Non solo il cono vesuviano, ma tutta la campagna sotto l’azione del
sole si facea bianca quasi fosse coperta di neve: era il sal marino
contenuto nella cenere, che veniva a fiorire alla superficie di essa.

«Gran copia di coleotteri si raccolsero sul tetto dell’Osservatorio,
che a milioni si toglievano insieme con la cenere e col lapillo
che quivi si elevava per 15 centimetri. Lo stesso trovai sul cono,
ove mancavano molte specie altre volte notate, come la _Cuccinella
7-punctata_, la _Crysomelia populi_, ec. essendovene invece delle
altre. Questo fenomeno di straordinario concorso di alcuni animali
sulla cima del Vesuvio, per andare a morire nelle fumarole più di tutto
prima o dopo le grandi eruzioni, è per me un fatto, di cui non mi so
dare ragione.

«Si trovavano per la campagna animali morti o feriti: uccelli, volpi,
ec.

«Tutte le lave uscite in questo incendio occupano una superficie di
circa 5 chilometri quadrati, cui dando una grossezza media di 4 metri
si ha una mole di 20 milioni di metri cubici. Quasi i 3/5 di queste
lave non hanno recato danni, perchè sonosi soprapposte ad altre lave.
Pure quelle che nelle _Novelle_ sono andate a soprapporsi alle lave
del 1868 hanno coperto gli scavi di ottima pietra che da quelle si era
cominciata a tagliare, hanno coperti molti sentieri aperti sopra di
esse, ed hanno sepolta la nuova chiesa di S. Michele con alcune case
che la circondavano, la quale era stata edificata sopra quella sepolta
nel 1868.

«Il danno pe’ terreni occupati, pe’ fabbricati distrutti e pel raccolto
perduto oltrepassa tre milioni di lire.

«Le mofete solite ad apparire alla fine delle grandi conflagrazioni
verso i luoghi più bassi, salvo rare eccezioni, questa volta
sono cominciate a manifestarsi alcuni giorni dopo la fine totale
dell’incendio, quando i crateri non davano più fumo.

«Coteste mofete sonosi mostrate tra la Favorita e il Palazzo reale di
Portici. Le più elevate le ho trovate alle cave di _Sabato Aniello_ ed
a’ _Tironi_. Si contano tre o quattro casi di morte di persone per aver
respirato l’acido carbonico delle mofete.

«Le acque de’ pozzi questa volta non mancarono, ma sonosi in alcuni
siti alquanto alterate con l’apparizione delle mofete.

«La luttuosa conflagrazione del 26 aprile è stata da me considerata
come l’ultima fase di un lungo periodo eruttivo, cominciato nel mese di
gennaio del 1871.»

Ma il dottissimo professore, dalla eruzione del 26 aprile dedusse
osservazioni, studi ed esperienze importantissimi, ed io rimando
il lettore che li vuol conoscere e approfondire a leggere la di lui
Relazione, che reputo aver recato nuovo e preziosissimo contributo alla
scienza.

Il prof. Palmieri diede, in questi ultimi mesi, cioè della prima metà
del 1874, del Vesuvio le seguenti notizie:

«Dopo il memorabile e luttuoso incendio del 26 aprile del 1872, sulla
cima del Vesuvio restò un ampio e profondo cratere, diviso in due
compartimenti da una specie di muro ciclopico di grossi pezzi di lava
compatta, alternati con sottili letti di scorie. Il diametro medio
di questo gemino cratere era di circa 300 metri e la profondità di
250, e però aveva una capacità di circa 17 milioni di metri cubici.
La parte superiore delle pareti era composta di materia frammentaria,
rigettata dall’attività eruttiva, e le parti inferiori erano compatte.
Dall’orlo perciò del cratere spesso si staccavano scorie e lapilli,
i quali finora non avevano sensibilmente scemata la profondità di
quelle ampie voragini. Ora in pochi giorni il muro ciclopico è sparito,
ed il cratere, senza fenomeni eruttivi, è quasi ripieno. È stato
scoscendimento delle pareti franate entro il cratere o sollevamento del
fondo di questo? Il fumo e la stagione non hanno permesso di vedere
bene tutto ciò che conveniva esaminare per risolvere la questione.
Se si dovesse accettare una elevazione del cratere, si troverebbe
un indizio di conato eruttivo, in quello che una semplice frana non
avrebbe un significato.

«I forestieri che volessero entrare nel cratere potranno farsi condurre
non pel solito sentiere, ma per la linea di N. O. ove la fenditura del
1872 presenterà loro un ampio varco per siffatta esplorazione.»

Con questi cenni, la monografia del Vesuvio giunge infino alle sue
ultime e interessanti manifestazioni e colle quali impongo fine a
questa appendice.



IL GUARDIANO POMPEJANO

o

L’ITINERARIO PER LA VISITA DELLA CITTÀ


Il lettore che ha avuto la longanimità di percorrere dal principio
al fine questa mia opera, rammenterà avergli io detto, come sceso
dal vagone della ferrovia che mi condusse da Napoli a Pompei, dopo
pochi passi, giunto alla Porta della Marina o, come fu recentemente
denominata, della Strada Ferrata, pagate le due lire all’ingresso della
città, mi si accompagnasse un guardiano, per essermi guida nella visita
delle interessanti ruine. Ma di lui non mi sono più occupato, rapito
dagli studj onde quella vista mi fu occasione e una volta cintami la
giornea a dir di tante cose, non era sì facile lo smetterla presto.

Giunto al fine del mio lavoro adesso, m’accorgo che a rendere più
utile e accetta l’opera, mi sia proprio d’uopo riedere al mio bravo
guardiano, bastevolmente istrutto e cortese per farmi pago delle prime
e più necessarie inchieste.

Supponendo ora che taluno almeno di coloro ai quali quest’opera mia
verrà alla mano, valer si voglia per prepararsi a vedere, o fors’anco
per averla a compagna nella peregrinazione di sua curiosità per Pompei,
riprodurrò suppergiù per lui quanto a me avesse ad indicare il buon
guardiano che mi seguiva a fianco, rimettendo, per ciò che spetta alle
più ampie dichiarazioni, a’ capitoli e pagine de’ miei volumi.

_Porta della Marina._

La porta per la quale entriamo dicesi della Marina: essa venne scoperta
nel 1863 dal comm. Fiorelli. Reputavasi dapprima che per declinare
appunto la città al mare, dalla Porta d’Ercolano a quella di Stabia
non corresse cinta di mura, ma essa doveva indubbiamente esistere; la
porta ne fa fede: la guerra l’avrà smantellata e distrutta, l’eruzione
confuse le ruine.

Come ebbi a dirlo più volte nel corso dell’opera, è da questa parte che
sorgono i più interessanti edifici pubblici e privati.

E prima di tutto, eccoci entrati nel Foro, intorno a cui si
accoglievano i principali.

La _Basilica_, o luogo nel quale si rendeva la giustizia. Vedine la
descrizione. Vol. I. cap. X pag. 525.

A sinistra la _Casa di Championnet_, perchè scoperta del generale di
questo nome, in onore del quale fu detta. Vol. III. cap. XX pag. 83.

Il _tempio di Venere_ è nel mezzo. Vol. I. cap. VIII pag. 228.

Dietro di questo tempio, volgendo a destra, si vede il _Modello di
capacità per gli aridi_, o _Mensa Ponderaria_, in una pietra di tufo
vulcanico rettangolare con tre cavità coniche. Vol. I, cap. IV pag.
103.

_Il tempio di Giove._ Vi si conservavano gli archivii e il tesoro della
colonia. Contigua al lato sinistro è la _Casa di Cissonio_ descritta
nel n. 10 del 1871, del _Giornale degli Scavi_ nuova serie, ma della
quale non m’intrattenni specialmente nel Capitolo delle Case, come di
altre, perocchè a dir di tutte sarei ito in soverchie lunghezze, senza
beneficio del mio compito, e avrei dovuto ripetere spesso le medesime
cose. Del tempio vedi invece Vol. I, cap. VIII pag. 240.

_Foro Civile_, in cui i Pompejani vi trattavano gli affari pubblici.
All’epoca della catastrofe era in ricostruzione pei gravi guasti del
tremuoto del 65. Vol. I, cap. IX pag. 313.

_Il tempio d’Augusto._ Vol. I, cap. VIII pag. 283.

Subito presso è la _Sala del Senato_ in un edificio semicircolare. Vol.
I, cap. XI pag. 366.

A fianco è il _Tempio di Mercurio_. Vol. I, cap. XI pag. 274.

_Edificio di Eumachia_ o _Calcidico_. Vol. I, cap. XI pag. 373.

_Scuola di Verna._ Vol. II, cap. XVI pag. 232.

_Le tre curie_, o sale di Consiglio, dipendenza della Basilica. Vol. I,
cap. XI pag. 366.

_Le vie_, qual più qual meno lunghe e larghe, bordeggiate di
marciapiedi rialzati, con fontane, frequenti. Veggansi in parecchi
luoghi sulle pareti esterne delle case affissi pubblici di spettacoli,
d’appigionasi e richiami elettorali in rosso ed in nero. Vol. I, cap.
VII pag. 189.

_Via dell’abbondanza_ prima _dei mercanti_. Vol. I, cap. VII pag. 196.

_Casa del cinghiale_ così denominata dal musaico del vestibolo che
raffigura un cinghiale inseguito da due cani. Vol. III, cap. XX. pag.
83.

_Viottola dei dodici dei_, ricordati nel verso di Ennio, Vol. I, cap.
VII, pag. 197.

_Viottola del Calcidico_, Id. Ibid.

_Nuova casa della caccia._ Vol. III, cap. XX pag. 83.

_Vicolo del balcone pensile_, da un balcone appunto di una casetta che
vi esiste. Vol. I, cap. II pag. 197.

_Via del lupanare._ Vol. I, cap. VII pag. 196.

_Casa di Sirico._ Vol. III, cap. XX pag. 84.

_Lupanare._ Vol. III, cap. XXI pag. 277.

_Fabbrica di sapone, lutus fullonicus._ Vol. II, cap. XVII pag. 357.

_Via d’Augusto._ Vol. I, cap. VII pag. 197.

_Casa della nuova fontana_, detta anche dell’orso. Vol. III, cap. XX
pag. 84.

_Casa di Marte e Venere._ Vol. III, cap. XX pag. 84.

_Forno publico._ Vol. II, cap. XVII pag. 307.

_Terme Stabiane._ Vol. II, cap. XV pag. 214.

_Casa di Cornelio Rufo._ Vol. III, cap. XX pag. 84.

Piedistallo della statua di Marco Olconio Rufo. Vol. III, cap. XX pag.
84.

_Casa N. 4._ Vol. III, cap. XX pag. 84.

_Foro triangolare o nundinario._ Vol. I, cap. IX pag. 319.

_Ludo gladiatorio_ o _quartiere de’ soldati_. Vol. III, cap. XIX pag. 4.

_Teatro comico._ Vol. II, cap. XII pag. 4.

_Teatro tragico._ Vol. II, cap. XIII pag. 53.

_Tempio d’Iside._ Vol. I, cap. VIII pag. 244.

Dietro di esso è la _Curia Isiaca_, detta anche _Trebus_ secondo
l’indica l’iscrizione osca che vi si trovò. Vol. I, cap. VIII pag. 268.
A sinistra montando è

_Il Tempio d’Esculapio_ o di Giove e di Giunone. Vol. I, cap. VIII pag.
269.

_Casa del Citarista._ Fu così denominata dalla statua in bronzo
d’Apollo colla cetra rinvenutavi. Vol. III, cap. XX pag. 84.

Di fronte è forse più propriamente a dirsi la Casa di Lucio Popidio
Secondo. Vedi n. di dicembre 1868 del _Giornale degli Scavi_, e che
però fa ritenere che l’isola I della Regione I in cui si trovava si
appellasse _Popidiana Augustiana_. La Regione VII isola II di Marco
Epidio Sabino che è sulla via dell’Anfiteatro, così fu detta per una
casa principale appartenente a proprietario di tal nome.

_Casa di Marco Lucrezio._ Vol. III, cap. XX pag. 85.

_Forno e casa di Paquio Proculo._ Vol. II, cap. XVII pag. 308.

_Tintoria._ Vol. II, cap. XVII pag. 332.

_Vicolo fra la via Stabiana e vicolo Storto._

_Via della Fortuna._

_Casa degli Scienziati_, perchè scoperta nel 1845 alla presenza dei
dotti riuniti al settimo congresso in Napoli.

_Casa della caccia_, a sinistra. Senza ripetere il rimando alla pagina
per ogni casa, veggasi il cap. XX nel vol. III dalla pag. 83 alla 89.

_Casa dei capitelli colorati_, id.

_Casa del gran duca_, id.

_Casa della parete nera_, id.

_Casa del Fauno_, a destra. Vol. II, cap. XVIII pag. 399 e vol. III,
cap. XX pag. 83. Vi si trovò il famoso Fauno di bronzo.

_Tempio della Fortuna._ Vol. I, cap. VIII pag. 278.

_Via di Mercurio._

_Edificio del Fullone._ Vol. II, cap. XVII pag. 333.

_Casa della gran fontana in musaico._

_Casa della piccola fontana._

_Quadrivio e fontane_ a sinistra. Vol. II, cap. XV pag. 226.

_Casa d’Adone._

_Casa d’Apollo._

_Casa di Meleagro._

_Casa del Centauro._

_Casa di Castore e Polluce_, detta anche del Questore merita essere
particolarmente osservata, come una delle più belle, come fu anche fra
le più ricche di cose artistiche.

_Osteria._ Vol. II, cap. XVII pag. 298.

_Casa dell’Ancora._

La _Casa di Cajo Vibio_, scoperta in questi ultimi anni, è nella
Regione VII isola II N. 18: si distingue dalle altre per la solidità
e la buona conservazione delle mura. Vedine l’illustrazione nel numero
d’Agosto 1868 del _Giornale degli Scavi_, nuova serie. Quella di Gavio
Rufo è vicina: porta il n. 16 ed è illustrata nello stesso giornale,
numero di settembre. Quella di Caprasio Primo è al N. 48. Di fronte è
la taberna di M. Nonio Campano. Vol. II, cap. XVII pag. 327.

_Via delle Terme._

_Terme pubbliche._ Vol. II cap. XV pag. 207.

_Casa del poeta._ Vol. III cap. XX pag. 83.

Son presso de’ termopolii o venditorii di bevande calde. Vol. II, cap.
XVII.

_Casa di Pansa_ edile, e secondo alcuni, di _Paratus_. Vol. III cap. XX
pag. 62.

_Casa del maestro di musica_, in cui v’è il musaico all’ingresso,
raffigurante il cane col motto _Cave Canem_. Id. pag. 85.

_Fontana._ Vol. II, cap. XV 226.

_Forno e Mulini._ Vol. II, cap. XVII.

_Casa di Cajo Sallustio._ Vol. III cap. XX.

_Forno pubblico._ Vol. II, cap. XVII pag. 307, _passim_.

_Cisterna pubblica._ Vol. II, cap. XV.

A destra è un vicolo che mette capo alla Via di Mercurio, e di fronte
a tal vicolo presentasi un atrio con all’intorno alcune camere, nelle
quali è installata la _Scuola archeologica_ di Pompei.

Scheletri di una madre e di una figlia, di una matrona e d’un uomo.
Vol. I, cap. V.

_Telonium o Dogana._ Vol. I, cap. IV pag. 103.

_Casa detta del Chirurgo._

_Casa delle Vestali._

_Termopolio._ Vol. II.

_Albergo._ Idem.

Fortificazioni e porta d’Ercolano a tre archi colle traccie della
saracinesca nell’arcata di mezzo. Vol. I, cap. VII pag. 187.

_Via delle Tombe._ Vol. III, cap. XXII pag. 345.

A sinistra:

_Tomba di M. Cerrinio._ Id. Ibid. pag. 346. A schivare ripetizioni, da
questa pagina in avanti stanno, fino a pag. 368, le dichiarazioni delle
pur seguenti tombe.

_Tomba di Vejo_ e suo emiciclo.

Monumento ed emiciclo di Mammia.

A destra:

_Tomba delle ghirlande._

Gran nicchia per riposo dei visitatori.

Giardino delle colonne in musaico.

_Albergo e scuderia._

A sinistra:

Il _Pompejanum_, o casa di Cicerone. Non soltanto in questo capitolo
XXII, ma anzi più largamente è trattato di essa anche nel Vol. I, cap.
III pag. 83.

_Tomba di Scauro._

_Tomba circolare._

A destra:

_Tomba della porta di marmo._

A sinistra:

_Mausoleo di Cajo Calvenzio Quieto._ Anche nel Vol. I, cap. IV pag. 101.

_Cippi della famiglia Istacidia._

_Tomba di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto._ Vedi anche nel Vol. I,
cap. VI pag. 101.

_Triclinio funebre._

_Tomba di Marco Allejo Lucio Libella_ padre e _Marco Libella_ figlio.

_Tomba di Cajo Labeone._

_Tomba del fanciullo Velasio Grato._

_Tomba del fanciullo Salvio._

Chiudesi la Via delle Tombe e la serie quindi di esse coi sepolcri
della famiglia Arria di Marco Arrio Diomede, di Marco Arrio
primogenito, di Arria l’ottava figlia di Marco, di un’altra Arria e di
quelli tutti della famiglia di Diomede.

Casa di campagna di Marco Arrio Diomede. Vedi anche Vol. I, cap. V pag.
143, Vol. II, cap. XV e Vol. III, cap. XX pag. 87.

Visitata così tutta la parte della città che è esumata, alla estremità
di essa, al fianco opposto a quello delle Tombe che abbiamo appena
lasciato, al basso della Via di Stabia, dopo alcuni passi oltre gli
scavi, e a traverso de’ campi coltivati, che celano ancora parte
della città, si giunge all’_Anfiteatro_, del quale si son date in
questa edizione incise la fronte esterna nel titolo del secondo volume
dell’opera e nel corpo, la veduta interna. Vol. II cap. XIV.

Questa rapida corsa potrà durare quattro ore e, se appena il lettore
ha sentimento artistico, ne ritrarrà di certo da una prima visita il
desiderio di altre, le quali certo gli verranno rivelando nuove cose
degnissime di osservazione e di nota, e sarà allora, io spero, che
gli torneranno più accetti questi miei studi, nel compire i quali, non
fatica e stanchezza, ma diletto e conforto ho ricavato sempre contro la
cospirazione del silenzio e la viltà di politici avversari, le codarde
compiacenze di insipienti Eliasti e la stupidità degli Iloti onde
abbonda la nostra terra, _Saturnia tellus_, che mantien vivo l’appetito
del vecchio Nume divoratore de’ suoi figliuoli e che così ne compensa
le veglie sudate e le opere generose.

Non mi mancarono tuttavia i plausi de’ buoni e gli onesti ed onorevoli
incoraggimenti e poichè nel pigliar le mosse di questi miei studj,
io ne proclamavo auspice quel fior di senno e d’onestà che è il mio
carissimo Pietro Cominazzi; così piacemi chiuderli ancora nel suo nome
e il lettore non ascriva a mia vanità, ma al volere di quell’egregio,
se finisco qui riferendo i versi de’ quali egli per quest’opera mi
voleva onorato


A P. A. CURTI

Sonetto

    Lascia ch’io teco ammiri a parte a parte
      Le combuste rovine, e di =Pompei=,
      Col sagace poter delle tue carte,
      L’immagine si desti agli occhi miei!

    Qui s’ergeano i delubri, e qui dell’Arte
      Del bello eternatrice e degli Dei
      Immortale custode, ecco le sparte
      Reliquie, onde il disìo pungi e ricrei.

    Del suo classico peplo rivestita,
      — Tanta innanzi mi scorre onda di vero, —
      Pompei ne’ marmi e nello spirto ha vita.

    Tu la vorace ira del tempo hai doma...
      Nel passato io risorgo, e col pensiero
      Teco son fatto cittadin di Roma.


  FINE DEL VOLUME III E DELL’OPERA.



INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI


Volume primo.

  I.      _Il Vesuvio_, nel frontispizio.
  II.     _La tomba di Virgilio_, pag. 1.
  III.    _Strada all’Eremitaggio del Vesuvio_, pag. 61.
  IV.     _Mensa Ponderaria_, pag. 91.
  V.      _Bilance Pompejane_, pag. 104.
  VI.     _La Catastrofe di Pompei_, pag. 140.
  VII.    _Scenografia degli Scavi nel 1868_, pag. 161.
  VIII.   _Porta d’Ercolano a Pompei_, pag. 181.
  IX.     _Via Consolare_, pag. 195.
  X.      _Arco trionfale alla Via di Mercurio_, pag. 210.
  XI.     _Il tempio di Venere_, pag. 228.
  XII.    _Il tempio di Iside_, pag. 244.
  XIII.   _Veduta generale del Foro Civile_, pag. 313.
  XIV.    _Foro Nundinario_, pag. 319.

  Volume secondo.

  XV.     _Veduta esterna dell’Anfiteatro_, nel frontispizio.
  XVI.    _Odeum, o Teatro comico_, pag. 20.
  XVII.   _Anfiteatro interno_, pag. 101.
  XVIII.  _Tepidarium delle antiche terme_, pag. 222.
  XIX.    _Fontane, Crocicchi di Fortunata_, pag. 226.
  XX.     _Busto di Pompeo_, pag. 400.
  XXI.    _Busto di Bruto_, Id.
  XXII.   _La Battaglia d’Isso, musaico_, pag. 410.

  Volume terzo.

  XXIII.  _Il quartiere de’ soldati_, nel frontispizio.
  XXIV.   _La Casa del Poeta tragico_, p. 85.
  XXV.    _Il Lupanare_, pag. 227.
  XXVI.   _Via delle Tombe_, pag. 345.
  XXVII.  _Pianta del Vesuvio_, pag. 391.



INDICE


  CAPITOLO XIX. — =Quartiere de’ soldati, e Ludo
  gladiatorio?= — _Pagus Augustus Felix_ — Ordinamenti
  militari di Roma — Inclinazioni agricole — Qualità
  militari — Valore personale — Formazione della
  milizia — La leva — Refrattarj — Cause d’esenzione — Leva
  tumultuaria — Cavalleria — Giuramento — Gli
  evocati e i conquisitori — Fanteria: Veliti, Astati,
  Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti, legioni —
  Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria:
  torme, decurie. — Duci: propri e comuni — Centurioni —
  _Uragi, Succenturiones, Accensi, Tergoductores, Decani_ —
  Signiferi — Primopilo — Tribuni — Decurioni nella
  cavalleria — Prefetti dei Confederati — Legati — Imperatore
  — Armi — Raccolta d’armi antiche nel Museo Nazionale di
  Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli — Cenno storico — Armi
  trovate negli scavi d’Ercolano e Pompei — Armi dei Veliti,
  degli Astati, dei Principi, dei Triarii, della cavalleria —
  Maestri delle armi — Esercizj: passo, _palaria_, lotta,
  nuoto, salto, marce — Fardelli e loro peso — _Bucellatum_ —
  Cavalleria numidica — Accampamenti — _Castra stativa_ —
  Forma del campo — _Principia_ — Banderuole — Insegne —
  _Aquilifer_ — Insegna del Manipolo — Bandiera
  delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie
  del campo — _Excubiæ_ e _Vigiliæ_ — Tessera
  di consegna — Sentinelle — _Procubitores_ — Istrumenti
  militari: _buccina, tuba, lituus, cornu, timpanum_ —
  _Tibicen, liticen, timpanotriba_ — Stipendj militari — I
  Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i _pullarii_ —
  Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia —
  Sistema di fortificazioni — Macchine guerresche:
  _Poliorcetiæ_: terrapieno, torre mobile, testuggine,
  ariete, balista, tollenone, altalena, elepoli, terebra,
  galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, Inni e sacrificj
  — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene — Corone:
  civica, morale, castrense o vallare, navale o
  rostrale, ossidionale, trionfale, ovale — Altre
  distinzioni — Spoglia opima — Preda bellica — Il trionfo —
  Veste palmata — Trionfo della veste palmata — In
  Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale —
  Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari:
  decimazione, vigesimazione, e centesimazione,
  _fustinarium_, taglio della mano, crocifissione,
  fustigazione leggiera, multa, _censio hastaria_ — Pene
  minori — Congedo                                             Pag. 5

  CAPITOLO XX. — =Le Case.= Differenza tra le case pompejane
  e romane — Regioni ed Isole — Cosa fosse il
  _vestibulum_ e perchè mancasse alle case pompejane — Piani
  — _Solarium_ — Finestre — Distribuzione delle
  parti della casa — Casa di Pansa — Facciata — La
  bottega del _dispensator_ — _Postes, aulæ, antepagamenta_ —
  _Janua_ — Il portinajo — _Prothyrum_ — _Cavædium_ —
  _Compluvium_ ed _impluvium_ — _Puteal_ — Ara
  dei Lari — I Penati — _Cellæ_, o _contubernia_ — _Tablinum,
  cubicula, fauces, perystilium, procœton, exedra,
  œcus, triclinium_ — _Officia antelucana_ — _Trichila_ —
  Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili di cucina —
  Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora? —
  Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo
  _sphæristerium_, la _pinacoteca_ — Il _balineum_ —
  L’_Alæatorium_ — La _cella vinaria_ — Piani superiori e
  recentissima scoperta — _Cœnacula_ — La _Casa a tre piani_
  — I balconi e la _Casa del Balcone pensile_ — Case
  principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio
  Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La
  nascita del figlio — Cerimonie — La nascita
  della figlia — _Potestas, manus, mancipium_ — _Minima,
  media, maxima diminutio capitis_ — Matrimonii: per
  confarreazione, uso, coempzione — _Trinoctium usurpatio_ —
  Diritti della _potestas_, della _manus_, del _mancipium_ —
  _Agnati, consanguinei_ — _Cognatio_ — _Matrimonium,
  connubium_ — _Sponsali_ — Età del matrimonio — Il
  matrimonio e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti —
  Concubinato — Divorzio — Separazione — _Diffarreatio_ —
  _Repudium_ — La dote — _Donatio propter
  nuptias_ — Nozioni sulla patria podestà — _Jus trium_
  _liberorum_ — Adozione — Tutela — Curatela — Gli
  schiavi — Cerimonia religiosa nel loro ingresso in
  famiglia — _Contubernium_ — Miglioramento della condizione
  servile — Come si divenisse schiavo — Mercato
  di schiavi — Diverse classi di schiavi — Trattamento
  di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi — I
  clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al
  focolare — Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo
  e le sue cene — Cene degli imperatori — _Jentaculum,
  prandium, merenda, cœna, commissatio_ — Conviti publici —
  Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene
  de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti
  di cerimonia — _Triumviri æpulones_ — _Dapes_ — Triclinio —
  Le mense — Suppellettili — _Fercula_ — Pioggie
  odorose — Abito e toletta da tavola — Tovaglie
  e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca — _Coena
  recta_ — Primo servito — _Secunda mensa_ — Pasticcerie
  e confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio —
  Manicaretto di perle — Vini — Novellio
  Torquato milanese — Servi della tavola: _Coquus,
  lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor,
  scissor, carptor, pincerna, pocillator_ — Musica alle mense
  — Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le
  lanterne di Cartagine — La partenza de’ convitati — La
  toletta d’una pompejana — Le _cubiculares_, le _cosmetæ_,
  le _calamistræ, ciniflones, cinerarii_, la _psecae_ — I
  denti — La capigliatura — Lo specchio — Punizioni
  della toaletta — Le ugne — I profumi — _Mundus
  muliebris_ — I _salutigeruli_ — Le _Veneræ_ —
  _Sandaligerulæ, vestisplicæ, ornatrices_ — Abiti e
  abbigliamenti — Vestiario degli uomini — Abito de’
  fanciulli — La _bulla_ — Vestito degli schiavi — I lavori
  del gineceo                                                  »   57

  CAPITOLO XXI. — =I Lupanari.= — Gli ozj di Capua — La
  prostituzione — Riassunto storico della prostituzione
  antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale — La
  Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini —
  Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge
  di Mosè — Zambri, Asa, Sansone,
  Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita di
  Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la
  Sunamite — Salomone e le sue concubine — Prostituzione
  in Israele — Osea profeta — I Babilonesi e la
  dea Militta — Venere e Adone — Astarte — Le orgie
  di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete e
  Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina,
  Stratonice, Irene, Agatoclea — Prostituzione greca —
  _Dicterion_ — Ditteriadi, auletridi, eterìe — Eterìe
  celebri — Aspasia — Saffo e l’amor lesbio — La
  prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le
  feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana
  Flora e i giuochi florali — Culto di Venere in Roma —
  Feste a Venere Mirtea — Il _Pervigilium Veneris_ —
  Traduzione — Altre cerimonie nelle feste di Venere — I
  misteri di Iside — Feste Priapee — Canzoni priapee —
  Emblemi itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei —
  Raccolta Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende —
  Oggetti pornografici d’Ercolano e Pompei — I
  misteri della Dea Bona — Degenerazione de’ misteri
  della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino, Pertunda,
  Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolano e Ticone —
  Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane
  patrizie — _Licentia stupri_ — Prostitute imperiali —
  Adulterii — Bastardi — Infanticidi — Supposizioni ed
  esposizioni d’infanti — Legge Giulia: _de adulteriis_ — Le
  _Famosæ_ — La Lesbia di Catullo — La Cinzia di
  Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio —
  Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori
  di Cornelio Gallo — Incostanza delle _famosæ_ — Le sciupate
  di Orazio — La Marcella di Marziale e la moglie — Petronio
  Arbitro e il _Satyricon_ — Turno — _La Prostituzione
  delle Muse_ — Giovenale — Il linguaggio per
  gesti — _Comessationes_ — _Meretrices_ e _prostibulæ_ —
  _Prosedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ,
  diobolæ, quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ_ — Le
  _delicatæ_ — Singrafo di fedeltà — Le _pretiosæ_ —
  Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e _Tyria Percisa_ in
  Pompei — _Pueri meritorii, spadones, pædicones_ — Cinedi —
  Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare
  romano — _Meretricium nomen_ — Filtri amatorii — _Stabula,
  casaurium, lustrum, ganeum_ — Lupanari
  pompejani — Il Lupanare Nuovo — I Cuculi — Postriboli
  minori                                                       »  165

  CAPITOLO XXII. =La Via delle tombe.= — Estremi
  officii ai morenti — La Morte — _Conclamatio_ — Credenze
  intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e
  il Tartaro — Culto dei morti e sua antichità — Gli Dei
  Mani — Denunzia di decesso — Tempio della Dea Libitina — Il
  libitinario — _Pollinctores_ — La toaletta del
  morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale e
  suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione
  del cadavere — Il certificato di buona condotta —
  Convocazione al funerale — _Exequiæ, Funus, publicum,
  indictivum, tacitum, gentilitium_ — Il mortoro:
  i siticini, i tubicini, le prefiche, la nenia; _Piatrices,
  Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices_, i Popi e i Vittimari,
  le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi e
  l’archimimo, _sicinnia_, amici e parenti, la lettiga
  funebre — I clienti, gli schiavi e i familiari — La _rheda_
  — L’orazione funebre — Origine di essa — Il rogo — Il
  _Bustum_ — L’ultimo bacio e l’ultimo vale — Il fuoco
  alla pira — _Munera_ — L’invocazione ai venti — Legati
  di banchetti annuali e di beneficenza — _Decursio_ — Le
  libazioni — I _bustuari_ — Ludi gladiatorii — La
  _ustrina_ — Il sepolcro comune — L’_epicedion_ —
  _Ossilegium_ — L’urna — _Suffitio_ — Il congedo —
  _Monimentum_ — Vasi lacrimatorj — Fori nelle tombe —
  Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine —
  _Subgrundarium_ — _Silicernium_ — _Visceratio_ —
  _Novemdialia_ — _Denicales feriæ_ — Funerali de’ poveri —
  _Sandapila_ — _Puticuli_ — Purificazione della casa —
  Lutto, publico e privato — Giuramento — Commemorazioni
  funebri, Feste Parentali, _Feralia, Lemuralia, Inferiæ_ —
  I sepolcri — _Sepulcrum familiare_ — _Sepulcrum comune_ —
  Sepolcro ereditario — Cenotafii — _Columellæ_ o _cippi,
  mensæ, labra, arcæ_ — Campo Sesterzio in Roma — La
  formula _Tacito nomine_ — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are
  pei sagrifizj — Leggi mortuarie e intorno alle
  tombe — Punizioni de’ profanatori di esse — Via delle
  tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo —
  Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio
  Epafrodito, Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e
  Istacidio Menoico — Giardino delle colonne in musaico —
  Tombe delle Ghirlande — Albergo e scuderia — Sepolcro
  dalle porte di marmo — Sepolcreto della famiglia
  Istacidia — Misura del piede romano — La tomba
  di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio
  Atimeto — Mausoleo dei due Libella — Il decurionato
  in Pompei — Cenotafio di Cejo e Labeone — Cinque
  scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A
  Salvio fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale
  di Cn. Vibrio Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria —
  Sepolture fuori la porta Nolana — Deduzioni                  »  285

  CONCLUSIONE                                                  »  371
  _Appendice Prima._ I busti di Bruto e di Pompeo              »  383
  _Appendice Seconda._ L’Eruzione del Vesuvio del 1872         »  391
  _Sonetto_ a P. A. Curti di P. Cominazzi                      »  419
  _Indice delle Incisioni_ sparse nell’opera                   »  421
  _Indice Generale_                                            »  422



INDICE GENERALE DELL’OPERA


  VOLUME PRIMO

  DEDICA                                                      Pag.  V
  INTENDIMENTI DELL’OPERA                                      »  VII
  INTRODUZIONE                                                 »    1

  CAPITOLO I. — =Il Vesuvio.= — La carrozzella napoletana —
  La scommessa d’un inglese — Il valore d’uno
  schiaffo — Pompei! — Prime impressioni — Il Vesuvio —
  Temerità giustificata — Topografia del Vesuvio — La
  storia delle sue principali eruzioni — Ercole
  nella Campania — Vi fonda Ercolano — Se questa
  città venisse distrutta contemporaneamente a Pompei — I
  popoli dell’Italia Centrale al Vesuvio — Combattimento
  di Spartaco — L’eruzione del 79 — Le posteriori —
  L’eruzione del 1631 e quella del 1632 — L’eruzione
  del 1861, e un’iscrizione di V. Fornari — L’eruzione
  del 1868 — Il Vesuvio ministro di morte e
  rovina, di vita e ricchezza — Mineralogia — Minuterie —
  Ascensioni sul Vesuvio — Temerità punita — Pompejorama       »   13

  CAPITOLO II. — =Storia. Primo periodo.= — Divisione
  della storia — Origini di Pompei — Ercole e i buoi
  di Gerione — Oschi e Pelasgi — I Sanniti — Occupano
  la Campania — Dedizione di questa a Roma — I
  Feciali Romani indicon guerra a’ Sanniti — Vittoria
  dell’armi romane — Lega de’ Campani coi Latini contro
  i Romani — L. Annio Setino e T. Manlio Torquato —
  Disciplina militare — Battaglia al Vesuvio — Le
  Forche Caudine — Rivincita de’ Romani — Cospirazioni
  campane contro Roma — I Pompejani battono i
  soldati della flotta romana — Ultima guerra de’ Sanniti
  contro i Romani                                              »   41

  CAPITOLO III. — =Storia. Periodo secondo.= — La
  legione Campana a Reggio — È vinta e giustiziata a
  Roma — Guerra sociale — Beneficj di essa — Lucio
  Silla assedia Stabia e la smantella — Battaglia di Silla
  e Cluenzio sotto Pompei — Minazio Magio — Cluenzio
  è sconfitto a Nola — Silla e Mario — Vendette
  Sillane — Pompei eretto in municipio — Silla manda
  una colonia a Pompei — Che e quante fossero le colonie
  romane — Pompei si noma Colonia _Veneria Cornelia_ —
  Resistenza di Pompei ai Coloni — Seconda
  guerra servile — Morte di Spartaco — Congiura di
  Catilina — P. Silla patrono di Pompei accusato a Roma —
  Difeso da Cicerone e assolto — Ninnio Mulo — I patroni
  di Pompei — Augusto vi aggiunge il _Pagus Augustus
  Felix_ — Druso muore in Pompei — Contesa di
  Pompejani e Nocerini — Nerone e Agrippina — Tremuoto
  del 63 che distrugge parte di Pompei                         »   61

  CAPITOLO IV. — =Storia. Periodo Secondo.= — _Leggi,
  Monete, Offici e Costume_ — Il Municipio — Ordini
  cittadini — Decurioni, Duumviri, Quinquennale, Edili,
  Questore — Il flamine Valente — Sollecitazioni elettorali
  — I cavalieri — Gli Augustali — Condizioni fatte
  alle Colonie — Il _Bisellium_ — Dogane in Pompei — Pesi
  e Misure — Monete — _La Hausse e la Baisse_ — Posta —
  Invenzione della Posta — I portalettere romani — Lingua
  parlata in Pompei — Lingua scritta — Papiri — Modo
  di scrivere — _Codicilli e Pugillares_ — Lusso
  in Pompei — Il leone di Marco Aurelio — Schiavi — Schiavi
  agricoltori — Vini pompejani — Camangiari
  rinvenuti negli scavi — Il garo o caviale
  liquido pompejano — Malati mandati a Pompei                  »   91

  CAPITOLO V. — =Storia. Periodo secondo.= — Il
  _Cataclisma_ — T. Svedio Clemente compone le differenze
  tra Pompejani e Coloni — Pompei si rinnova — Affissi
  pubblici — La flotta romana e Plinio il Vecchio
  ammiraglio — Sua vita — La Storia Naturale e altre
  sue opere — Il novissimo giorno — Morte di Plinio il
  Vecchio — Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito —
  Diversa pretesa morte di Plinio il Vecchio — Seconda
  lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Provvedimenti
  inutili di Tito Vespasiano                                   »  127

  CAPITOLO VI. — =Gli Scavi e la Topografia.= — I
  Guardiani — Un inconveniente a riparare — Ladri
  antichi — Vi fu una seconda Pompei? — Scoperta
  della città — Rinvenimento d’Ercolano — Preziosità
  ercolanesi — Possibilità d’un’intera rivendicazione
  alla luce di Ercolano — Scavi regolari in Pompei —
  Disordini e provvedimenti — Scuola d’antichità in
  Pompei — C. A. Vecchi — Topografia di Pompei — Le
  Saline e le Cave di pomici — Il Sarno                        »  161

  CAPITOLO VII. — =Le Mura — Le Porte — Le Vie.= — Le
  Mura, loro misura e costruzione — Fortificazioni — Torri —
  Terrapieno e Casematte — Le porte — Le
  Regioni e le Isole — Le Vie — I Marciapiedi — Il
  lastrico e la manutenzione delle vie — La via
  Consolare e le vie principali — Vie minori — Fontane
  pubbliche — Tabernacoli sulle vie — Amuleti contro
  la _jettatura_ — Iscrizioni scritte o graffite sulle
  muraglie — Provvedimenti edili contro le immondezze —
  Botteghe — Archi — Carrozze — Cura delle vie                 »  181

  CAPITOLO VIII. — =I Templi.= — Fede e superstizione —
  Architettura generale de’ templi — Collocazione
  degli altari — Are ed altari — Della scelta dei luoghi —
  Tempio di Venere — Le due Veneri — Culto a
  Venere Fisica — Processione — Descrizione del tempio
  di Venere in Pompei — Oggetti d’arte e iscrizioni in
  esso — _Jus luminum obstruendorum_ — Tempio di
  Giove — I sacri principj — Tempio d’Iside — Culto
  d’Iside — Bandito da Roma, rimesso dopo in maggior
  onore — Tibullo e Properzio — Notti isiache — Origini —
  Leggenda egizia — Chiave della leggenda — Gerarchia
  Sacerdotale — Riti — Descrizione del tempio
  d’Iside in Pompei — Oggetti rinvenuti — Curia
  Isiaca — Voltaire e gli Zingari — Tempio d’Esculapio —
  Controversie — Cenni mitologici — Il Calendario
  Ovidiano concilia le differenze — Descrizione — Tempio
  di Mercurio — Controversie — Opinioni sulla sua
  destinazione — Ragioni perchè abbiasi a ritenere di
  Mercurio — Descrizione del tempio — Tempio della
  Fortuna — Venerata questa dea in Roma e in Grecia —
  Descrizione del suo tempio — _Antistites, Sacerdotes,
  Ministri_ — Tempio d’Augusto — _Sodales Augustales_ —
  Descrizione e Pittura, Monete — Tempio di
  Ercole o di Nettuno — Detto anche tempio greco —
  Descrizione — _Bidental e Puteal_ — Tempio di Cerere —
  Presunzioni di sua esistenza — Favole — I Misteri
  della Dea Bona e P. Clodio — Il Calcidico era il tempio
  di Cerere? — Priapo — Lari e Penati — Cristianesimo —
  Ebrei e Cristiani                                            »  219

  CAPITOLO IX. — =I Fori.= — Cosa fossero i Fori — Agora
  Greco — Fori di Roma — Civili e venali — Foro
  Romano — Comizj — Centuriati e tributi — Procedimento
  in essi per le elezioni de’ magistrati, per le leggi,
  per i giudizii — Foro Civile Pompejano — Foro Nundinario
  o Triangolare — Le _Nundine_ — _Hecatonstylon_ — Orologio
  solare                                                       »  305

  CAPITOLO X. — =La Basilica.= — Origine della denominazione
  di Basilica — Sua destinazione in Roma — Poeti
  e cantanti — Distribuzione della giornata — Interno
  ed esterno delle Basiliche — Perchè conservatone
  il nome alle chiese cristiane — Basiliche principali
  cristiane — Basilica di Pompei — Amministrazione
  della giustizia, procedura civile e penale — Magistrati
  speciali per le persone di vil condizione — Episodio
  giudiziario di Ovidio — Giurisprudenza criminale — Pene —
  Del supplizio della croce — La pena
  dell’adulterio — Avvocati Causidici                          »  323

  CAPITOLO XI. — =Le Curie, il Calcidico, le Prigioni.= —
  Origine ed uso delle Curie — Curie di
  Pompei — Curia o Sala del Senato — Il Calcidico —
  Congetture di sua destinazione — Forse tempio — Passaggio
  per gli avvocati — Di un passo dell’_Odissea_
  d’Omero — Eumachia sacerdotessa fabbrica il Calcidico in
  Pompei — Descrizione — Cripta e statua della fondatrice —
  Le prigioni di Pompei — Sistema carcerario romano — Le
  Carceri Mamertine — _Ergastuli_ per gli schiavi —
  _Carnifex_ e _Carneficina_ — Ipotiposi                       »  365

  VOLUME SECONDO

  CAPITOLO XII. — =I Teatri — Teatro Comico.= — Passione
  degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro
  Comico od _Odeum_ di Pompei — Descrizione — _Cavea_,
  _præcinctiones_, _scalae_, _vomitoria_ — Posti
  assegnati alle varie classi — Orchestra — Podii o tribune —
  Scena, proscenio, _pulpitum_ — Il sipario — Chi tirasse
  il sipario — _Postscenium_ — Capacità dell’Odeum
  pompeiano — _Echea_ o vasi sonori — Tessere d’ingresso
  al teatro — Origine del nome _piccionaja_ al
  luogo destinato alla plebe — Se gli spettacoli fossero
  sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri di legno,
  teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini —
  Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Rintone,
  Andronico ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio
  contemporaneo dei poeti comici — Diversi generi
  di commedia: _togatae_, _palliatae_, _trabeatae_,
  _tunicatae_, _tabernariae_ — Le commedie di Plauto e di
  Terenzio materiali di storia — Se in Pompei si recitassero
  commedie greche — Mimi e Mimiambi — Le maschere,
  origine e scopo — Introduzione in Roma — Pregiudizi
  contro le persone da teatro — Leggi teatrali repressive —
  Dimostrazioni politiche in teatro — Talia
  musa della Commedia                                          »    5

  CAPITOLO XIII. — =I Teatri — Teatro tragico.= — Origini
  del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico —
  Etimologia di tragedia e ragioni del nome — Caratteri —
  Epigene, Eschilo e Cherillo — Della maschera
  tragica — L’attor tragico Polo — Venticinque
  specie di maschere — Maschere trovate in Pompei — _Palla
  o Syrma_ — Coturno — Istrioni — Accompagnamento
  musicale — Le tibie e i tibicini — Melpomene,
  musa della Tragedia — Il teatro tragico in
  Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione
  del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii
  di Cesare e di Nerone — _Sparsiones_ o pioggie
  artificiali in teatro — Adacquamento delle vie — Le
  _lacernæ_, o mantelli da teatro — Descrizione del Teatro
  Tragico — Gli Oleonj — _Thimele_ — _Aulaeum_ — La
  Porta _regia_ e le porte _hospitalia_ della scena — Tragici
  latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio Severo,
  Varo, Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio
  tragico — Verio, Lucio Anneo Seneca, Mecenate — Perchè
  Roma non abbia avuto tragedie — Tragedie
  greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici —
  Batillo, Pilade, Esopo e Roseio — Dionisia — Stipendj
  esorbitanti — Un manicaretto di perle — Applausi
  e fischi — La _claque_, la _clique_ e la Consorteria — Il
  suggeritore — Se l’Odeo di Pompei fosse
  attinenza del Gran Teatro                                    »   53

  CAPITOLO XIV. — =I Teatri — L’Anfiteatro.= — Introduzione
  in Italia dei giuochi circensi — Giuochi
  trojani — _Panem et circenses_ — Un circo romano — Origine
  romana degli Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica
  il primo in legno — Altro di Giulio Cesare — Statilio
  Tauro erige il primo di pietra — Il Colosseo — Data
  dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I
  Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni
  del Podio — Prima Cavea — I _locarii_ — Seconda
  Cavea — Somma Cavea — Cattedre femminili — I Velarii —
  Porta Libitinense — Lo Spoliario — I cataboli — Il
  triclinio e il banchetto _libero_ — Corse di cocchi
  e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando
  introdotti in Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi
  gladiatorj — Ludo Gladiatorio in Pompei — Ludi
  gladiatorj in Roma — Origine dei Gladiatori — Impiegati
  nei funerali — Estesi a divertimento — I
  Gladiatori al Lago Fucino — Gladiatori forzati — Gladiatori
  volontarj — Giuramento de’ gladiatori
  _auctorati_ — _Lorarii_ — Classi gladiatorie: _secutores_,
  _retiarii_, _myrmillones_, _thraces_, _samnites_,
  _hoplomachi_, _essedarii_, _andabati_, _dimachæri_,
  _laquearii_, _supposititii_, _pegmares_, _meridiani_ —
  Gladiatori Cavalieri e Senatori, nani e pigmei, donne e
  matrone — Il _Gladiatore di Ravenna_ di Halm — Il colpo e
  il diritto di grazia — _Deludia_ — Il Gladiatore morente di
  Ctesilao e Byron — Lo Spoliario e la Porta Libitinense —
  Premj ai Gladiatori — Le ambubaje — Le Ludie — I giuochi
  Floreali e Catone — Naumachie — Le _Venationes_ o caccie —
  Di quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie
  di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti
  contro la mancata fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un
  elefante funambolo — L’Aquila e il fanciullo — I
  _Bestiarii_ e le donne _bestiariæ_ — La legge Petronia — Il
  supplizio di Laureolo — Prostituzione negli anfiteatri —
  Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il
  Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco
  monaco — _Missilia e Sparsiones_                             »  103

  CAPITOLO XV. — =Le Terme.= — Etimologia — _Thermae_,
  _Balineae_, _Balineum_, _Lavatrina_ — Uso antico de’ Bagni
  — Ragioni — Abuso — Bagni pensili — _Balineae_ più
  famose — Ricchezze profuse ne’ bagni publici — Estensione
  delle terme — Edificj contenuti in esse — Terme
  estive e jemali — Aperte anche di notte — Terme
  principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme
  di Caracalla — Ninfei — Serbatoi e Acquedotti — Agrippa
  edile — Inservienti alle acque — Publici
  e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso
  Frugio — Terme publiche e private — Bagni rustici — Terme
  Stabiane — Palestra e Ginnasio — Ginnasio
  in Pompei — Bagno degli uomini — _Destrictarium_ —
  L’imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle
  donne — _Balineum_ di M. Arrio Diomede — Fontane
  publiche e private — Provenienza delle acque — Il
  Sarno e altre acque — Distribuzione per la città —
  Acquedotti                                                   »  183

  CAPITOLO XVI. — =Le Scuole.= — Etimologia — Scuola di
  Verna in Pompei — Scuola di Valentino — Orbilio e la
  ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia —
  Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio
  e Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e
  Bruto — Secolo d’oro — Letteratura — Giurisprudenza —
  Matematiche — Storia naturale — Economia rurale — Geografia
  — Filosofia romana — Non è vero che fosse ucciditrice di
  libertà — Biblioteche — Cesare incarica Varrone di una
  biblioteca publica — Modo di scrivere, volumi, profumazione
  delle carte — Medicina empirica — Medici e chirurghi — La
  _Casa del Chirurgo_ in Pompei — Stromenti di chirurgia
  rinvenuti in essa — Prodotti chimici — _Pharmacopolae_,
  _Seplasarii_, _Sagae_ — Fabbrica di prodotti chimici in
  Pompei — Bottega di _Seplasarius_ — Scuole private           »  231

  CAPITOLO XVII. — =Le Tabernæ.= — Istinti dei Romani —
  Soldati per forza — Agricoltori — Poca importanza
  del commercio coll’estero — Commercio marittimo di
  Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza
  della nautica — Commercio d’importazione — Modo
  di bilancio — Ragioni di decadimento della grandezza
  romana — Industria — Da chi esercitata — _Mensarii_
  ed _Argentarii_ — Usura — Artigiani distinti
  in categorie — Commercio al minuto — Commercio delle
  botteghe — Commercio della strada — Fori _nundinari_
  o venali — Il _Portorium_ o tassa delle derrate portate
  al mercato — Le _tabernae_ e loro costruzione —
  _Institores_ — Mostre o insegne — _Popinae_, _thermopolia_,
  _cauponae_, _anopolia_ — Mercanti ambulanti — Cerretani —
  Grande e piccolo Commercio in Pompei — Foro
  nundinario di Pompei — _Tabernae_ — Le insegne delle
  botteghe — Alberghi di Albino, di Giulio Polibio e
  Agato Vajo, dell’_Elefante_ o di Sittio e della Via delle
  Tombe — _Thermopolia_ — _Pistrini_, _Pistores_,
  _Siliginari_ — Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re,
  mugnai — Le mole di Pompei — Pistrini diversi — Paquio
  Proculo, fornajo, duumviro di giustizia — Ritratto di lui
  e di sua moglie — Venditorio d’olio — _Ganeum_ —
  Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai — _Myropolium_,
  profumi e profumieri — _Tonstrina_, o barbieria — Sarti —
  Magazzeno di tele e di stofe — Lavanderie — La Ninfa
  Eco — Il Conciapelli — Calzoleria e Selleria — Tintori —
  Arte Fullonica — Fulloniche di Pompei — Fabbriche
  di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami — _Praefectus
  fabrorum_ — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj — =Salve
  Lucru=                                                       »  271

  CAPITOLO XVIII. — =Belle Arti.= — Opere sulle Arti in
  Pompei — Contraffazioni — Aneddoto — Primordj
  delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti
  romani — Scrittori — Templi — Architettura
  pompeiana — Angustia delle case — Monumenti grandiosi
  in Roma — Archi — Magnificenza nelle architetture
  private — Prezzo delle case di Cicerone e di
  Clodio — Discipline edilizie — Pittura — Pittura
  architettonica — Taberna o venditorio di colori in Pompei
  — Discredito delle arti in Roma — Pittura parietaria — A
  fresco — All’acquarello — All’encausto — Encaustica —
  Dipinti su tavole, su tela e sul marmo — Pittori
  romani — Arellio — Accio Prisco — Figure
  isolate — Ritratti — Pittura di genere: Origine — Dipinti
  bottegai — Pittura di fiori — Scultura — Prima
  e seconda maniera di statuaria in Etruria — Maniera
  greca — Prima scultura romana — Esposizione
  d’oggetti d’arte — Colonne — Statue, _tripedaneae_,
  _sigillae_ — Immagine de’ maggiori — Artisti greci in
  Roma — Cajo Verre — Sue rapine — La Glìttica — La
  scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e
  Pompei — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del
  Musaico — Sua origine e progresso — _Pavimentum
  barbaricum_, _tesselatum_, _vermiculatum_ — _Opus
  signinum_ — _Musivum opus_ — _Asarola_ — Introduzione
  del mosaico in Roma — Principali musaici
  pompejani — I Musaici della Casa del Fauno — Il
  Leone — La Battaglia di Isso — Ragioni perchè si
  dichiari così il soggetto — A chi appartenga la
  composizione — Studj di scultura in Pompei                   »  345

  VOLUME TERZO

  CAPITOLO XIX. — =Quartiere de’ soldati, e Ludo
  gladiatorio?= — _Pagus Augustus Felix_ — Ordinamenti
  militari di Roma — Inclinazioni agricole — Qualità
  militari — Valore personale — Formazione della
  milizia — La leva — Refrattarj — Cause d’esenzione — Leva
  tumultuaria — Cavalleria — Giuramento — Gli
  evocati e i conquisitori — Fanteria: Veliti, Astati,
  Principi, Triarii — Centurie, manipoli, coorti, legioni —
  Denominazione delle legioni — Ordini della cavalleria:
  torme, decurie. — Duci: propri e comuni — Centurioni —
  _Uragi, Succenturiones, Accensi, Tergoductores, Decani_ —
  Signiferi — Primopilo — Tribuni — Decurioni nella
  cavalleria — Prefetti dei Confederati — Legati —
  Imperatore — Armi — Raccolta d’armi antiche nel
  Museo Nazionale di Napoli — Catalogo del comm. Fiorelli —
  Cenno storico — Armi trovate negli scavi d’Ercolano
  e Pompei — Armi dei Veliti, degli Astati, dei
  Principi, dei Triarii, della cavalleria — Maestri delle
  armi — Esercizj: passo, _palaria_, lotta, nuoto, salto,
  marce — Fardelli e loro peso — _Bucellatum_ — Cavalleria
  numidica — Accampamenti — _Castra stativa_ — Forma
  del campo — _Principia_ — Banderuole — Insegne —
  _Aquilifer_ — Insegna del Manipolo — Bandiera
  delle Centurie — Vessillo della Cavalleria — Guardie
  del campo — _Excubiæ_ e _Vigiliæ_ — Tessera
  di consegna — Sentinelle — _Procubitores_ — Istrumenti
  militari: _buccina, tuba, lituus, cornu, timpanum_ —
  _Tibicen, liticen, timpanotriba_ — Stipendj militari — I
  Feciali, gli Auguri, gli Aruspici e i _pullarii_ —
  Sacrifici e preghiere — Dello schierarsi in battaglia —
  Sistema di fortificazioni — Macchine guerresche:
  _Poliorcetiæ_: terrapieno, torre mobile, testuggine,
  ariete, balista, tollenone, altalena, elepoli, terebra,
  galleria, vigna — Arringhe — La vittoria, Inni e sacrificj
  — Premj: asta pura, monili, braccialetti, catene — Corone:
  civica, morale, castrense o vallare, navale o
  rostrale, ossidionale, trionfale, ovale — Altre distinzioni
  — Spoglia opima — Preda bellica — Il trionfo — Veste
  palmata — Trionfo della veste palmata — In
  Campidoglio — Banchetto pubblico — Trionfo navale —
  Ovazione — Onori del trionfatore — Pene militari:
  decimazione, vigesimazione, e centesimazione,
  _fustinarium_, taglio della mano, crocifissione,
  fustigazione leggiera, multa, _censio hastaria_ — Pene
  minori — Congedo                                             »    5

  CAPITOLO XX. — =Le Case.= Differenza tra le case pompejane
  e romane — Regioni ed Isole — Cosa fosse il
  _vestibulum_ e perchè mancasse alle case pompejane — Piani
  — _Solarium_ — Finestre — Distribuzione delle
  parti della casa — Casa di Pansa — Facciata — La
  bottega del _dispensator_ — _Postes, aulæ, antepagamenta_ —
  _Janua_ — Il portinajo — _Prothyrum_ — _Cavædium_ —
  _Compluvium_ ed _impluvium_ — _Puteal_ — Ara
  dei Lari — I Penati — _Cellæ_, o _contubernia_ — _Tablinum,
  cubicula, fauces, perystilium, procœton, exedra,
  œcus, triclinium_ — _Officia antelucana_ — _Trichila_ —
  Lusso de’ triclinii — Cucina — Utensili di cucina —
  Inservienti di cucina — Camino: v’erano camini allora? —
  Latrina — Lo xisto — Il crittoportico — Lo
  _sphæristerium_, la _pinacoteca_ — Il _balineum_ —
  L’_Alæatorium_ — La _cella vinaria_ — Piani superiori e
  recentissima scoperta — _Cœnacula_ — La _Casa a tre piani_
  — I balconi e la _Casa del Balcone pensile_ — Case
  principali in Pompei — Casa di villeggiatura di M. Arrio
  Diomede — La famiglia — Principio costitutivo di essa — La
  nascita del figlio — Cerimonie — La nascita
  della figlia — _Potestas, manus, mancipium_ — _Minima,
  media, maxima diminutio capitis_ — Matrimonii: per
  confarreazione, uso, coempzione — _Trinoctium usurpatio_ —
  Diritti della _potestas_, della _manus_, del _mancipium_ —
  _Agnati, consanguinei_ — _Cognatio_ — _Matrimonium,
  connubium_ — _Sponsali_ — Età del matrimonio — Il
  matrimonio e la sua importanza — Bigamia — Impedimenti —
  Concubinato — Divorzio — Separazione — _Diffarreatio_ —
  _Repudium_ — La dote — _Donatio propter
  nuptias_ — Nozioni sulla patria podestà — _Jus trium
  liberorum_ — Adozione — Tutela — Curatela — Gli
  schiavi — Cerimonia religiosa nel loro ingresso in
  famiglia — _Contubernium_ — Miglioramento della condizione
  servile — Come si divenisse schiavo — Mercato
  di schiavi — Diverse classi di schiavi — Trattamento
  di essi — Numero — Come si cessasse di essere schiavi — I
  clienti — Pasti e banchetti romani — Invocazioni al
  focolare — Ghiottornie — Leggi alla gola — Lucullo
  e le sue cene — Cene degli imperatori — _Jentaculum,
  prandium, merenda, cœna, commissatio_ — Conviti publici —
  Cene sacerdotali — Cene de’ magistrati — Cene
  de’ trionfanti — Cene degli imperatori — Banchetti
  di cerimonia — _Triumviri æpulones_ — _Dapes_ — Triclinio —
  Le mense — Suppellettili — _Fercula_ — Pioggie
  odorose — Abito e toletta da tavola — Tovaglie
  e tovaglioli — Il re del banchetto — Tricliniarca — _Coena
  recta_ — Primo servito — _Secunda mensa_ — Pasticcerie
  e confetture — Le posate — Arte culinaria — Apicio —
  Manicaretto di perle — Vini — Novellio
  Torquato milanese — Servi della tavola: _Coquus,
  lectisterniator, nomenclator, prægustator, structor,
  scissor, carptor, pincerna, pocillator_ — Musica alle mense
  — Ballerine — Gladiatori — Gli avanzi della cena — Le
  lanterne di Cartagine — La partenza de’ convitati — La
  toletta d’una pompejana — Le _cubiculares_, le _cosmetæ_,
  le _calamistræ, ciniflones, cinerarii_, la _psecae_ — I
  denti — La capigliatura — Lo specchio — Punizioni
  della toaletta — Le ugne — I profumi — _Mundus
  muliebris_ — I _salutigeruli_ — Le _Veneræ_ —
  _Sandaligerulæ, vestisplicæ, ornatrices_ — Abiti e
  abbigliamenti — Vestiario degli uomini — Abito de’
  fanciulli — La _bulla_ — Vestito degli schiavi — I lavori
  del gineceo                                                  »   57

  CAPITOLO XXI. — =I Lupanari.= — Gli ozj di Capua — La
  prostituzione — Riassunto storico della prostituzione
  antica — Prostituzione ospitale, sacra e legale — La
  Bibbia ed Erodoto — Gli Angeli e le figlie degli uomini —
  Le figlie di Loth — Sodoma e Gomorra — Thamar — Legge
  di Mosè — Zambri, Asa, Sansone,
  Abramo, Giacobbe, Gedeone — Raab — Il Levita di
  Efraim — David, Betsabea, la moglie di Nabal e la
  Sunamite — Salomone e le sue concubine — Prostituzione
  in Israele — Osea profeta — I Babilonesi e la
  dea Militta — Venere e Adone — Astarte — Le orgie
  di Mitra — Prostituzione sacra in Egitto — Ramsete e
  Ceope — Cortigiane più antiche — Rodope, Cleina,
  Stratonice, Irene, Agatoclea — Prostituzione greca —
  _Dicterion_ — Ditteriadi, auletridi, eterìe — Eterìe
  celebri — Aspasia — Saffo e l’amor lesbio — La
  prostituzione in Italia — La lupa di Romolo e Remo — Le
  feste lupercali — Baccanali e Baccanti — La cortigiana
  Flora e i giuochi florali — Culto di Venere in Roma — Feste
  a Venere Mirtea — Il _Pervigilium Veneris_ — Traduzione —
  Altre cerimonie nelle feste di Venere — I misteri
  di Iside — Feste Priapee — Canzoni priapee — Emblemi
  itifallici — Abbondanti in Ercolano e Pompei — Raccolta
  Pornografica nel Museo di Napoli — Sue vicende — Oggetti
  pornografici d’Ercolano e Pompei — I
  misteri della Dea Bona — Degenerazione de’ misteri
  della Dea Bona — Culto di Cupido, Mutino, Pertunda,
  Perfica, Prema, Volupia, Lubenzia, Tolano e Ticone —
  Prostituzione legale — Meretrici forestiere — Cortigiane
  patrizie — _Licentia stupri_ — Prostitute imperiali —
  Adulterii — Bastardi — Infanticidi — Supposizioni ed
  esposizioni d’infanti — Legge Giulia: _de adulteriis_ — Le
  _Famosæ_ — La Lesbia di Catullo — La Cinzia di
  Properzio — La Delia di Tibullo — La Corinna di Ovidio —
  Ovidio, Giulia e Postumo Agrippa — La Licori
  di Cornelio Gallo — Incostanza delle _famosæ_ — Le sciupate
  di Orazio — La Marcella di Marziale e la moglie — Petronio
  Arbitro e il _Satyricon_ — Turno — _La Prostituzione
  delle Muse_ — Giovenale — Il linguaggio per
  gesti — _Comessationes_ — _Meretrices_ e _prostibulæ_ —
  _Prosedæ, alicariæ, blitidæ, bustuariæ, casoritæ, copæ,
  diobolæ, quadrantariæ, foraneæ, vagæ, summenianæ_ — Le
  _delicatæ_ — Singrafo di fedeltà — Le _pretiosæ_ —
  Ballerine e Ludie — Crescente cinedo e _Tyria Percisa_ in
  Pompei — _Pueri meritorii, spadones, pædicones_ — Cinedi —
  Lenoni — Numero de’ lupanari in Roma — Lupanare
  romano — _Meretricium nomen_ — Filtri amatorii — _Stabula,
  casaurium, lustrum, ganeum_ — Lupanari
  pompejani — Il Lupanare Nuovo — I Cuculi — Postriboli
  minori                                                       »  165

  CAPITOLO XXII. =La Via delle tombe.= — Estremi
  officii ai morenti — La Morte — _Conclamatio_ — Credenze
  intorno all’anima ed alla morte — Gli Elisii e
  il Tartaro — Culto dei morti e sua antichità — Gli Dei
  Mani — Denunzia di decesso — Tempio della Dea Libitina — Il
  libitinario — _Pollinctores_ — La toaletta del
  morto — Il triente in bocca — Il cipresso funerale e
  suo significato — Le imagini degli Dei velate — Esposizione
  del cadavere — Il certificato di buona condotta —
  Convocazione al funerale — _Exequiæ, Funus, publicum,
  indictivum, tacitum, gentilitium_ — Il mortoro:
  i siticini, i tubicini, le prefiche, la nenia; _Piatrices,
  Sagæ, Expiatrices, Simpulatrices_, i Popi e i Vittimari,
  le insegne onorifiche, le imagini de’ maggiori, i mimi e
  l’archimimo, _sicinnia_, amici e parenti, la lettiga
  funebre — I clienti, gli schiavi e i familiari — La _rheda_
  — L’orazione funebre — Origine di essa — Il rogo — Il
  _Bustum_ — L’ultimo bacio e l’ultimo vale — Il fuoco
  alla pira — _Munera_ — L’invocazione ai venti — Legati
  di banchetti annuali e di beneficenza — _Decursio_ — Le
  libazioni — I _bustuari_ — Ludi gladiatorii — La
  _ustrina_ — Il sepolcro comune — L’_epicedion_ —
  _Ossilegium_ — L’urna — _Suffitio_ — Il congedo —
  _Monimentum_ — Vasi lacrimatorj — Fori nelle tombe —
  Cremazione — I bambini e i colpiti dal fulmine —
  _Subgrundarium_ — _Silicernium_ — _Visceratio_ —
  _Novemdialia_ — _Denicales feriæ_ — Funerali de’ poveri —
  _Sandapila_ — _Puticuli_ — Purificazione della casa —
  Lutto, publico e privato — Giuramento — Commemorazioni
  funebri, Feste Parentali, _Feralia, Lemuralia, Inferiæ_ — I
  sepolcri — _Sepulcrum familiare_ — _Sepulcrum comune_ —
  Sepolcro ereditario — Cenotafii — _Columellæ_ o _cippi,
  mensæ, labra, arcæ_ — Campo Sesterzio in Roma — La
  formula _Tacito nomine_ — Prescrizioni pe’ sepolcri — Are
  pei sagrifizj — Leggi mortuarie e intorno alle
  tombe — Punizioni de’ profanatori di esse — Via delle
  tombe in Pompei — Tombe di M. Cerrinio e di A. Vejo —
  Emiciclo di Mammia — Cippi di M. Porcio, Venerio
  Epafrodito, Istacidia, Istacidio Campano, Melisseo Apro e
  Istacidio Menoico — Giardino delle colonne in musaico —
  Tombe delle Ghirlande — Albergo e scuderia — Sepolcro
  dalle porte di marmo — Sepolcreto della famiglia
  Istacidia — Misura del piede romano — La tomba
  di Nevoleja Tiche e di Munazio Fausto — Urna di Munazio
  Atimeto — Mausoleo dei due Libella — Il decurionato
  in Pompei — Cenotafio di Cejo e Labeone — Cinque
  scheletri — Columelle — A Iceio Comune — A
  Salvio fanciullo — A Velasio Grato — Camera sepolcrale
  di Cn. Vibrio Saturnino — Sepolcreto della famiglia Arria —
  Sepolture fuori la porta Nolana — Deduzioni                  »  285

  CONCLUSIONE                                                  »  371

  _Appendice Prima._ I busti di Bruto e di Pompeo              »  383
  _Appendice Seconda._ L’Eruzione del Vesuvio del 1872         »  391
  _Sonetto_ a P. A. Curti di P. Cominazzi                      »  419
  _Indice delle Incisioni_ sparse nell’opera                   »  421
  _Indice Generale_                                            »  423

  FINE DELL’INDICE.



NOTE:


[1] _Saturn._ I, 1.

[2] _Pompeja._ Pag. 136.

[3] Pag. 9.

[4] _Sat._ 6:

    O villa, e quando io rivedrotti?
                        Trad. Gargallo.

[5] Lib. 3. 22:

    Terra nata dell’armi all’alta gloria
    Non al crudo terror.
                         Trad. Vismara.

[6] _Ann._ 2-14. «Quelle targhe e pertiche sconce de’ barbari fra
le macchie e gli alberi non valere, come i lanciotti e le spade e
l’assettata armatura. Tirassero di punta spesso al viso.» Tr. di
Bernardo Davanzati.

[7] Lib. IX, 5.

[8] Tit. Liv., lib. XXXV, 2 e 23.

[9] Rosini, _Antiquit. Roman._ Lib. X, cap. 4.

[10] Lib. VII, cap. 4.

[11] Plin. _Nat. Hist._, lib. X, 5.

[12] Sc. II. 16. — «Osserva dapprima qual regime abbiano gli eserciti
nostri, quindi qual fatica e quanta cibaria portino in campo per
mezzo mese ed attrezzi d’uso; perocchè il portar il palo, lo scudo,
il gladio, e l’elmo i nostri soldati non contino nel peso, più che
gli omeri, le mani e le altre membra, afferman essi le armi essere
le membra del soldato, le quali così agevolmente portano, che dove ne
fosse il bisogno, gittato il restante peso, potrebbero coll’armi, come
colle membra proprie combattere.»

[13] _Ep._ 57.

[14] Nelle nostre provincie, massime nella Bresciana, esiste un pane
dolciato che si chiama _bussolà_, dal _bucellatum_ romano, ma il
_bucellatum_, come esprime il nome, era nel mezzo bucato, onde portarlo
all’uopo sospeso o infilzato, viaggiando, sull’asta.

[15]

    Ed aste scisse in quattro parti, e pali
    Acuminati.
                         _Georgica_ II, v. 25.

[16] _Hist. Rom._ Lib. XXVII.

[17]

    Movendo aquile, insegne, aste latine
      Contro latine insegne, aquile ed aste.
              Lib. I. v. 7. Trad. del conte Franc. Cassi.

[18]

    Eran di fieno: ma quel fieno istesso
      Da ciascun riscotea tanto rispetto,
      Quanto l’aquila tua ne esige adesso.
    Si stava in cima a lungo palo eretto
      Un manipol di fieno, onde di fanti
      Certo drappel manipolar fu detto.
                     Trad. di G. B. Bianchi.

[19] Tacito, _Ann._ XV. 29.

[20] Svetonio, _In Vespasianum_, 6.

[21] Lib. I. 43.

[22] _De Bello Jugurt._ LXV.

[23]

    «La tessera dà il segno
    Ove di guardia scritte son le veci.»
                             Lib. X.

[24] _Just. Lips. De Milit. Rom._ v. 9.

[25] Lib. IV. II. 79:

    Or del tardo pastore entro le mura
    La buccina risuona.

[26] Lib. XI. 475:

                     E già la roca
    Tromba ne va per la città squillando
    De la battaglia il sanguinoso accento.
                          Tr. Annibal Caro.

[27]

    Non la tuba diretta e non il corno
    Di ricurvo metal.

[28] v. 734:

                    Con il corno ricurvo
    Il richiamo squillò e il lituo adunco
    Colla stridula voce i suoni emise.

[29] _Thebaid._ 2. 78;

    S’udian per tutto rimbombare i vuoti
    Bossi e di bronzo i timpani sonanti.
                  Trad. di Selvaggio Porpora,
                  pseud. del Cardinal Guido Bentivoglio.

[30] Dion. d’Alicarn. II, 73.

[31] Servio, X, 14.

[32] Vol. I, cap. III.

[33] Trad. di Felice Bellotti.

[34] Così Cicerone nel Lib 2, _Divin,_ 34: _Attulit in cavæ pullos, is
qui ex eo nominatur pullarius._[35]

[35] «Portò nel sotterraneo i polli, quegli che per tale officio dicesi
appunto pullario.»

[36] Varie iscrizioni lo attestano. Grutero riferisce sotto il n. 557,
6, la seguente. _M. Pompejo, M. F. Ani. Aspro, 7 Leg. XV Apollinaris
Alimetus Lib. pullarius fecit_. E Muratori sotto il n. 788, 4, la
seguente: _L. Avillius L. F. Asperinus pullarius Leg. VI Claudiæ_.

[37] «Non aver egli abbastanza atteso, per avviso de’ pullarii, agli
auspicii.»

[38]

    Lega le curve mura una corona
    Fortificata.

[39] Lib. III, 7. «Con duplice corona di fanti circondano la città e
pongono una terza fila di cavalleria esternamente.»

[40] _De Architect._ lib. X, c. 15.

[41] Lib. 20. «In questa persuasione il soldato percuoteva con l’asta
lo scudo, facendo grande strepito, quasi un sol uomo approvava i detti
ed i fatti.»

[42] In Grecia questo inno sacro del trionfo appellavasi θρίαμβος.
Diodoro Sic. IV, 5.

[43] Virgil. _Æneid._ 6. 670.

[44] _De laudib. Stilic._ III. Così traduco:

    Degli antichi nel campo era costume
      Cinger di quercia glorïosa il fronte
      Del valoroso che fugato avesse
      Il suo nemico e un cittadin caduto
      Sottratto avesse a inevitabil morte.

[45] Silius Italicus, Lib. XIII:

    Abbi l’onore, o vincitor, cingendo
      Le tempia tue della mural turrita
      Corona.

[46] _Elegia_, Lib. I, 153:

    A te, Messala, e sovra il mare e in terra
      Pugnar s’addice, onde le spoglie mostri
      La casa tua dei debellati in guerra.

[47] Plutarco in _Marcello_.

[48] _Trist._ IV. 11, 20:

    Leggerà dunque ne’ trionfi il popolo
      I vinti capitan, le città prese.
                      Tr. di P. Mistrorigo.

[49] _Idem, ibid._:

    Vedrà carchi di ferri i re precedere
      A’ destrier coronati e baldanzosi.

[50] Tibullo, Lib. 1. _Eleg._ 8:

    . . . . lo porterà l’eburneo cocchio
    E gli aggiogati candidi cavalli.

[51]

    E mentre tu, vivi! Trionfa! esclami;
      Tutti ripeterem: Trionfa! Vivi!
      E arderemo odorosi timiami
                   A fausti Divi.
                Lib. IV. 2, Trad. Gargallo.

[52] «A te, o Giove Ottimo Massimo, e a te Giunone regina, e a voi dii
tutti custodi e abitatori di questa rocca, volonteroso e lieto io rendo
grazie, e supplichevole, prego perchè, salva meco in questo giorno per
le mie mani la Romana Repubblica e ben sostenuta, abbiate a conservarla
eguale, siccome fate, a favorirla e proteggerla benigni.» Rosini.
_Antiqu. Rom._ Lib. X. Cap. XXIX.

[53] Cicero. _In Verrem._

[54] Lib. 2. c. 8.

[55] «Sancirono i nostri maggiori pertanto che dove un reato militare
si fosse da molti commesso, si dovesse castigare a sorte in alcuni,
acciò il timore a tutti, la pena a pochi toccasse.» _Orat. pro
Cluentio_.

[56] «Il tribuno prendendo la bacchetta, lievemente toccava il
condannato. Allora quanti trovavansi nel campo, chi con bastoni, chi
con sassi lo uccidevano.»

[57] Vitruv. VI, 7, 5. A. Gell. XVI, 5.

[58]

    Il vestibolo ancora è per mia idea
      Detto da Vesta: invochiam lei venuti
      Quivi, che i primi tien luoghi tal Dea.
              _Fastorum_, Lib. VI. Trad. G. B. Bianchi.

[59] «Parato prega sia fatto Pansa edile.» Altri invece tradussero:
Parato invoca Pansa edile. Colla prima versione ch’io pongo potrebbe
rovesciarsi la supposizione generalmente fatta colla seconda, che,
cioè, la casa appartenesse a Pansa, e farla ritenere invece, come
vorrebbe Marc Monnier, di Parato, perchè non sarebbe credibile allora
che Parato siasi recato a esprimere il proprio voto precisamente
sull’uscio di Pansa: questi almeno per pudore non lo avrebbe permesso.
Ma l’opinione di Monnier sarebbe tolta, se fosse vero ciò che qualche
archeologo sostenne che _Paratus_ fosse sinonimo di _institor_ o
_dispensator_, dello schiavo, cioè, incaricato della vendita delle
derrate del padrone. Non saprei in tal caso con quale autorità di
scrittura antica avvalorare quest’ultima pretesa.

[60] «Fabio Euporio capo de’ liberti, invoca l’edile Cuspio Pansa.»
_Pomp. Antiq. Hist._ 1. 109.

[61]

      Già mi fan da padroni i miei vicini,
    E quanto in casa mia si fa, per entro
    Dell’impluvio mi guardano.
                        Att. II. ist. 2.

[62]

    E questa Dea, che chiamiam Vesta, credi
      Esser null’altro che la fiamma viva.
             _Fast._ Lib. VI, 291. Tr. G. B. Bianchi.

[63]

    Non han Vesta, nè il foco effigie alcuna.
                     _Id. Ibid._ v. 298.

[64]

    «Ha più vigore il rinnovato foco.»
                              v. 143.

[65]

      O, disse, infelicissimo consorte,
    Qual dira mente, o qual follia ti spinge
    A vestir di quest’armi? Ove t’avventi
    Misero? Tal soccorso e tal difesa
    Non è d’uopo a tal tempo: non s’appresso
    Ti fosse anche Ettor mio. Con noi piuttosto
    Rimanti qui. Che questo santo altare
    Salverà tutti: o morrem tutti insieme.
                    Lib. II, 523-528. Tr. Caro.

[66] In _Æneid._ Lib. III, 134. Vedi _Æneid._ IX, 259 e V. 744.

[67] «Ciascuno faccia i sagrificj secondo il proprio rito.» — _De
Lingua Latina_, VII, 88.

[68]

    ... Non più ci vuol di tanto
    A far che Trebio e rompa il sonno, e corra
    Con le corregge penzolon, temendo
    Che al baglior delle stelle, o sin da l’ora
    Che dal pigro Boote il freddo plaustro
    Ricircolando volgasi, l’intera
    Salutatrice turba abbia già tutto
    Del salve mattutin l’orbe compiuto.
                  _Sat._ V. 19-23. Tr. Gargallo.

[69] Lib. VII, 23.

[70] «Acciò un luogo più recondito non desse adito alla licenza».

[71] _Satyricon_ XXVIII: «Questi, disse, è Menelao, presso il quale
appoggiate il gomito.»

[72] _Adelph._ Att. II. sc. 5:

    Stender per noi comanda i letticciuoli
    Ed apprestar ogn’altra cosa.

[73] _Epist._ Lib. I. X. 22:

    Pur tra recinto di colonne fassi
      Fronteggiar bosco, e lodasi magione,
      Che a l’occhio apre di campi ampio prospetto.
                           Trad. Gargallo.

[74] «Dinnanzi al crittoportico c’è un sisto olezzante di viole.
Il calore del sol che vi batte è accresciuto dal riflesso del
crittoportico, il quale come mantiene il sole, così vi scaccia e
mantiene i venti boreali; e quanto è il caldo che si ha sul davanti,
tanto è il fresco che si gode di dietro. Esso arresta del pari i
venti australi, e così rompe e doma i venti più opposti, gli uni da
un lato, gli altri dall’altro. Ameno nel verno, lo è ancor più nella
state. Poichè prima del mezzogiorno, il sisto, dopo di esso lo stradon
gestatorio e la vicina parte dell’orto sono confortati dalla sua ombra,
la quale, secondo che cala o cresce il giorno, qua e là cade or più
corta, or più lunga. Lo stesso crittoportico non è mai tanto privo del
sole, quanto allora, che il più cocente raggio di esso cade a piombo
sovra il suo colmo. Oltre a ciò per le aperte finestre vi entrano
e giuocano i zefiri; nè il luogo è mai molesto per un’aria chiusa e
stagnante.» _Epist._ Lib. II. 17. Trad. Paravia.

[75] Liv. XXXIX. 14.

[76] Vol. secondo. Puntata 18.ª, pag. 347.

[77] «A Marco Lucrezio Flamine di Marte, Decurione in Pompei.»

[78] È ben inteso che qui si parla del diritto più antico: in seguito
queste leggi si vennero modificando ed erano già da tempo mutate quando
a Pompei toccò l’estrema rovina.

[79] Fustel de Coulanges: _La Cité Antique_, Liv. II, ch. 1.

[80] Vedi Aulo Gellio IV, 3, Valerio Massimo II, 1, 4, e Dionigi
d’Alicarnasso II, 25.

[81] _Governo degli Spartani._

[82] In Solone, 20.

[83] Cantù. _Stor. degli Italiani._ Vol. I. Cap. XXIII.

[84] Liv. II, _La Famille_, Chap. II, _Le Mariage_, Pag. 43. Paris.
Librairie Hachette e C. 1872, 4.me edit.

[85] Lib. III, 3, 38.

[86] _Questioni Romane_, 50.

[87] _Notti Attiche._

[88]

    Niun merito è dunque, o misleale,
      Nïuno, o ingrato, che da me ti nasca
      O bimba, o figliuolin? La gioja intanto
      De l’educar, e imprimer su’ registri
      Le prove d’uom prolificante, è tua.
      L’uscio inghirlanda, sei papà; ti ho dato
      Incontro a’ detrattor scudo e cimiero.
      Di padre i dritti hai già; se’ scritto erede
      Per me: d’ogni legato or se’ capace,
      E di fiscal caducità ti ridi.
      Beni ancor giungerai molt’altri a questo,
      Di tre se arrivo il novero a fornirti.
                  _Sat._ IX, v. 82-90. — Tr. Gargallo.

[89] Lib. II, epig. 92.

[90] _Epistolar. C. Plinii Cæcilii Secundi._ Lib. X. ep. XCVI. Ediz.
Venezia, Tip. Antonelli.

[91] «Fu consuetudine presso gli antichi che colui il quale passasse
in altra famiglia, avesse prima ad abdicare a quella nella quale era
nato.» _Ad Æneid._ 11. 156.

[92] Perdita delle cose sacre.

[93] Detestazione delle cose sacre. XV. 27.

[94] _Top._ 6.

[95] _De Legibus_, 11, 8.

[96] _Id., ibid._ 11.

[97] _Sat._ V, 289 e segg.

    — Olà! quel servo in croce. — E per qual fallo?
    Chi accusa? chi testifica? Rifletti;
    Non tardasi mai troppo, ove si tratti
    Della morte d’un uomo. — È uomo un servo?
    Sciocco! È innocente? E sia; io così voglio,
    Così comando; il mio volere è legge.
                            Trad. Gargallo.

[98] _De Re Rustica_. XII. 1. 2.

[99] «L’ingiuria fatta anche allo schiavo non si deve dal Pretore
lasciare inulta.»

[100] Lib. VI, 39:

         .... che la testa ha aguzza e in moto
    Tien sempre i lunghi orecchi al par d’un asino.
                                  Trad. Magenta.

[101] _De Clementia_ I, 24.

[102] Milano. E. Daelli e C. 1863 nella _Biblioteca Rara_.

[103] Oraz. _Sat._ 11. 6. 66; Ovid. _Fast._ 11. 631; Petronio,
_Satyricon_, 60.

[104]

    «Quest’opera non fe’ barbaro artiere
      Mangiator di polenta.»
          Plaut. _Mostellaria_. Act. 3, sc. 2 v. 14º.

[105] _Sat._ II, 5, 79. Non raccapezzandomi sulla versione del
Gargallo, mi provo io:

    Parca nel regalar, della cucina,
    Assai più che di Venere, curante
    La gioventù si mostra.

[106] _Od._ XIV. Lib. II. _Ad Posthumum_.

    «L’erede tuo que’ cecubi
      Dissiperà più saggio,
      Che cento chiavi or serbano
      Del sole ignoti al raggio.
    Tal vin facendo scorrere
      Pe’ pavimenti alteri,
      Cui non spumeggi il simile
      Ne’ salici bicchieri.»
                  Trad. Gargallo.

Orazio dice nelle _cene dei Pontefici_; Gargallo vi sostituisce i
_salici bicchieri_. Il lettore s’avvede tosto che il traduttore ha
mutato il pensiero del poeta, e la citazione, nella traduzione, non
farebbe al mio caso. I Salii erano i dodici sacerdoti di Marte che
custodivan gli ancili o scudi sacri, mentre i Pontefici eran bensì
sacerdoti, ma sopraintendevan alla religione dello stato e alle
cerimonie di essa.

[107] _Od._ XXXVIII. Lib. I. _Ad Sodales_.

          «.... compagni a Divi
    Con saliari — cibi festivi
    I pulvinari — tempo è d’ornar.»

[108] «Son citaredi a’ pulvinari degli Dei ed a’ banchetti de’
magistrati.»

[109] «Cesare dittatore nella cena del suo trionfo, distribuì anfore
di vin Falerno nel banchetto e cadi di Chio. Lo stesso nel trionfo
ispanico largheggiò Chio e Falerno. Al convito poi del suo terzo
consolato diè vin Falerno, Chio, Lesbio e Mamertino.»

[110]

    Qui i Romulei magnati e i trabeati
      Cesare volle colle mille schiere
      Che sedessero insieme a laute mense.

[111]

             . . . . i cibi apprestansi
    Alla tua mensa in aurei piatti accolti.
                             Trad. Magenta.

[112]

    «Se i ricchi nappi onde l’Egitto abbella
    I conviti di Roma, o quei che tinge
    Partico fuoco d’iride sì bella.»
               Lib. IV. _Eleg._ V. Trad. Vismara.

[113] «Così crebbe il numero de’ versatili soffitti delle cene, che
d’un tratto l’uno appresso all’altro succeda e si mutino tanti quante
sieno le portate.»

[114]

    Frugan costor per gli elementi tutti
      Come appagar la gola; nè al capriccio
      Mai d’ostacolo è il prezzo.
                          Tr. Gargallo.

[115]

    A un pranzo u’ niun (temendone
      L’ugne) il mantil recò;
      Via la tovaglia Ermogene portò.
             _Ep._ Lib. XII, 29. Trad. Magenta.

[116] _Æneid._, lib. I, 703. — Il Caro poco fedelmente traduce:

      . . . . Con Cerere a le mense
    Gli aurati vasi e i nitidi canestri,
    E i bianchissimi lini eran comparsi.

Avremmo avuto meglio serbato il costume d’allora se avesse tradotto:

    Distribuiscon da’ canestri il pane
    E recan le tovaglie, a cui fur rasi
    I velli,

e avremmo appreso che le tovaglie potevan essere di pelli levigate;
ma i traduttori soglion mirare più all’eleganza che alla precisione.
Eppure, volgarizzando dall’antico, non si dovrebbe mai perdere di vista
il concetto storico, pel quale anche i poemi diventano documenti di
storia importanti. Giova il ripeterlo.

[117]

    Piccanti rape e rafani e lattuche
      Gli fean corona: intingoli che stuzzicano
      Lo stomaco impigrito. Eranvi acciughe,
      Carote ed acquerello di vin coo.
                  _Serm._ VIII. Lib. 2. Trad. Gargallo.

[118] «Nè riporre speranza nell’antipasto, perocchè tutto ora ho
soppresso: mentre per lo addietro soleva deliziarmi d’olive e delle tue
salsiccie.»

[119] Lucano vi allude nel verso:

    _Quippe bibunt tenera dulces ab arundine succos._

      Però che bevan gli Indi
      Della tenera canna i dolci succhi;

e Domiziano di queste canne di zuccaro ne fe’ gitto alla moltitudine
fra tante altre squisite cose.

[120] Tre furono gli Apicii e tutti celebri per la loro ghiottornia.
Il primo visse al tempo di Silla; il secondo sotto l’impero di Augusto
e Tiberio e fu il più famoso e venne celebrato da Giovenale, da Seneca
e da Plinio; il terzo sotto Trajano e rinomato inventore del marinar
le ostriche, delle quali mandava all’imperatore desideratissime giare,
quando quest’ultimo trovavasi a guerreggiare tra i Parti. Tanto impose
l’abilità degli Apicj, che i cuochi si divisero persino in Apicj ed
Antiapicj, come trovasi menzionato in Plinio il Giovane.

[121]

    D’Esopo il figlio insigne margherita,
      Già di Metella da l’orecchio svelta,
      In aceto stemprò, mille migliaja
      Per bere di sesterzj in pochi sorsi.
             _Satira_ III. Lib. II. Trad. Gargallo.

[122] «Sorbiva preziosissime perle liquefatte coll’aceto.»

[123] «Nè bevon meno e coll’olio e col vino sfidano le forze, e
giù cacciatili nelle svogliate viscere, lo rimettono per la bocca e
rigettan col vomito tutto il vino.»

[124] Negli archi, volgarmente detti Portoni di Porta Nuova di Milano,
recentemente raffazzonati, veggonsi tuttavia incastrate due teste
antiche con iscrizioni che leggonsi: _Quintus Novellius Lucii filius
Vatia sevir quæstor, Cajo Novellio Lucio filii Rufo fratri_, che
ricordano adunque la famiglia Novellio, cui appartenne quel gran beone.

[125] Vedi nel I. vol. alle misure dei liquidi: il congio conteneva
_sei sextarii_.

[126]

    Mai col mantile Ermogene
      A cena non andò;
      Da cena col mantil sempre tornò.
             _Ep._ Lib. XII. 29. Trad. Magenta.

[127] _De Arte Amandi._ Lib. III, v. 207-212.

    Quindi riparo alla figura offesa
      Cercate, che non è per gli usi vostri
      Inefficace l’arte mia. L’amante
      Non miri apertamente i vasi esposti
      Che l’arte ascosa giova alla beltade.
      A chi non piaceria mirar sul volto
      Stendere quella feccia, e lentamente
      Cader pel peso suo nel caldo seno?
                    Trad. di Cristoforo Bocella.

[128] _Idem, Ibidem_, v. 229.

    Molte cose ignorar gli uomini denno,
      Di cui gli offendon molte, se non copri
      Ciò che fa d’uopo di tener celato.
                          _Idem, Ibidem._

[129]

    Fa che pensar possiam che dormi allora
      Che tu ti adorni.
                          _Idem, Ibidem_, v. 225.

[130] _Ciniflones_ eran gli schiavi incaricati di tingere i capelli
soffiandovi sopra determinate polveri, _cinerarii_ quelli che
riscaldavan nelle ceneri i _calamistri_ o ferri da arricciare:
_calamistri_ appellavansi anche gli schiavi che usavano di quel ferro
per arricciare; _psecas_ finalmente le schiave che profumavano i
capelli e li ungevano d’olj odorosi.

[131] _Idem, Ibidem_, 163-166.

    Con le Germanich’erbe asconder puote
      La donna la canizie, e può con l’arte
      Miglior del vero altro cercar colore.
      Vanne la donna con la chioma folta
      Per i compri capelli, e col denaro,
      In mancanza de’ suoi, compra gli altrui.
                         _Idem, Ibidem._

[132] _Discerniculum_ era il pettine che si usava per far la divisa dei
capelli sin giù alla fronte.

[133] _Ex Ponto_, III: 3, 51:

    Io la scrissi per quelle, a cui l’onesta
      Chioma non è dentro la benda inserta,
      Nè lunga giunge infino al piè la vesta.
                       Trad. di G. B. Bianchi.

[134] Lib. I, v. 31:

    Gite lungi, o Vestali, e voi matrone,
    Che i piè celate sotto lunga veste.
                       Trad. Cristoforo Bocella.

[135]

    _Epid._ Come leggiadramente era vestita
                  E dorata e fregiata! e che eleganza!
                  Qual novità!
    _Perif._ Di che mai si vestiva?
                  Forse della regilla o di mendicula
                  Impluvïata, come queste danno
                  Nome alle loro vestimenta?
    _Epid._ Come,
                  Va d’impluvio vestita?
    _Perif._ E maraviglia
                  Questo ti fa? E non van molte intorno
                  Di terre adorne?

[136] _Epidicus_, act. 2, sc. 2, v. 45-50.

                  Nuovi nomi al vestir trovano ogn’anno:
                  E la tonaca valla e quella spessa,
                  E il linteolo cesicio e l’indusiata,
                  La patagiata, callula, crocotula,
                  Il suppar, la summinia, oppur la rica,
                  L’esotico, il basilico, il cumatile,
                  Il melino, il piumatile o il cerino
                  E dal cane perfin tolgono il nome
                  A prestanza.
    _Epid._ E qual mai?
    _Perif._ Quel di laconico.[137]

[137] Infatti v’eran certi cani detti Lacones o Laconici, come ce lo
apprende Orazio nell’Ode 6 degli _Epodi_:

    _Nam qualis aut Molossum aut fulvus Lacon._

Era la laconica un genere di veste assai succinta. Lo stesso Orazio
rammenta la _Laconicas purpuras_, 2, Od. 18.

[138] _Sat._ V, v. 30:

    Ratto che paventoso abbandonai
      La custode pretesta, ed ai succinti
      Lari la borchia puëril sacrai.
                          Tr. Vinc. Monti.

[139]

    Certamente è codesta effeminata
      Moda il portar la tonaca dimessa.
      . . . . . . . . . . . . . .
      Vergogna a te, e femmina ti dico.
                     _Pœnulus_, Act V. Sc. V.

[140] _De Re Rustica_ 3, 13: «Quando mi trovava presso Ortensio nel
territorio di Laurento, comandò venisse Orfeo, il quale essendosi
presentato in lunga ruba (stola) e colla cetera, ed avendo ricevuto
l’ordine di cantare, sonò la tromba, al cui suono fummo tosto
circondati da sì grande quantità di cervi, di cinghiali e di altri
quadrupedi, che tale spettacolo non mi parve men bello di quello che
danno gli Edili nel grande circo, quando si fanno le cacce, ma senza
pantere.»

[141] «I Campani gente molle e libidinosa.» _Trinummus_, Act. II, sc.
4, v. 144.

[142] _Satira_ VI, v. 130.

[143] _Carmen_ XVI. _Ad Aurelium et Furium_. Traduco:

    Che il costume del poeta
      Sia pudico, a voi sol basti;
      Ma i suoi versi nessun vieta
      Ch’esser possano men casti.

[144] V. 1 e 2. Thomas Moore, lavorò su di tale credenza, un
leggiadrissimo poemetto _Gli Amori degli Angeli_, che il cavaliere
Andrea Maffei recò in versi italiani.

[145] Profezia di Osea. Capo 1 e 2: «Va prendi per moglie una
peccatrice, e fatti dei figliuoli della peccatrice.» Traduzione di
Monsignor Antonio Martini, del quale non è inopportuno riferire il
commento: «Con questo straordinario comando fatto al santo Profeta
di sposare una sordida donna, la quale era stata di scandalo nella
precedente sua vita, il Signore prova ed esercita la pazienza e la
ubbidienza di Osea e provvede alla salute spirituale di questa donna,
e principalmente indirizza questo fatto profetico a rinfacciare a tutta
Samaria il suo obbrobrio, ecc.» Non c’è più nulla a dire!

[146] _Osea._ Cap. III. V. 1, 2: «Or il Signore mi disse.: Va ancora
ed ama una donna amata dall’amico e adultera.... ed io me la cavai
per quindici monete d’argento e un coro di orzo e mezzo coro di
grano.» Trad. Martini, il quale, non si sgomenta punto del _fodi eam_
e commenta che: per ritrarla dalla sua cattiva vita le dà il profeta
quindici sicli d’argento ed il resto. E soggiunge: «Questa non è
la dote con cui egli si comperi costei per sua moglie perocchè egli
non la sposò, ma tutto questo si crede dato a colei pel vitto di un
anno, e tutto questo messo insieme è sì poca cosa, che dimostra la
vile condizione di essa e l’orzo serviva pel pane delle persone più
meschine.»

[147] Così Apulejo fa parlare la Dea stessa: «Io sono la natura, madre
di tutte le cose, padrona degli elementi, principio dei secoli, sovrana
degli Dei Mani, la prima delle nature celesti, la faccia uniforme
degli Dei e delle Dee. Io son quella che governa la luminosa sublimità
dei cieli, i salutari venti dei mari, e il cupo e lugubre silenzio
dell’inferno. La mia divinità unica, ma multiforme, viene onorata
con varie cerimonie e sotto differenti nomi. I Fenici mi chiamano
la Pessinunzia, madre degli Dei; quelli di Creta, Diana Dittina;
i Siciliani, Proserpina Igia; gli Eleusini, l’antica Cerere; altri
Giunone, altri Bellona, ed alcuni Ecate. Evvi ancora chi mi chiama
Ranunsia; ma gli Egizii mi onorano con cerimonie che mi sono proprie, e
mi chiamano col mio vero nome, la regina Iside.»

[148] Trattato _del Sublime_. Sezione X. pag. 25. Edizione Mil. 1822.
Soc. Tip. de’ Classici Italiani.

[149]

    Te mal tuo grado scuotere,
      Buon Bassareo, non vo’,
      Nè ciò che i sacri pampini
      Celano, al dì trarrò.
    Il frigio corno, e i timpani
      Deh! frena, il cui fier eco
      In noi di noi medesimi
      Desta amor folle e cieco;
    E con tropp’arduo vertice
      Ne segue Orgoglio il metro
      E sè di arcani prodiga,
      Lucida più del vetro.
                  Trad. Gargallo.

[150]

    LA VEGLIA DI VENERE

    Inno

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.
      Giunta è la primavera:
      Cantiam, che s’apre intera.
    In primavera a esistere
      Incominciato ha il mondo:
      Gli Amori ora s’accordano
      In nodo più giocondo;
      Melodïosi e belli
      S’accoppiano gli augelli.
    Dalle carezze, l’albero,
      Delle pioggie feconde
      Tutto dispiega il nobile
      Onor delle sue fronde,
      E degli Amor la Madre,
      In fra l’ombre leggiadre
    De’ bei boschetti splendere
      Doman vedrem più bella
      Intrecciar i tugurii
      Di rami di mortella
      E dal suo letto altero
      Dione avrà l’impero[151].

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Le spume dell’oceano
      Fecero in tal stagione
      Nascer, commiste al sangue
      Di un’immortal, Dïone,
      Del mar tra i numi fieri
      E i bipedi corsieri.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    L’anno ella tinge in porpora,
      Veste di fior smaglianti,
      Delle sue poppe, turgide
      Pei soffii fecondanti
      Di Favonio, ogni dove
      Soave il latte piove.
    Versa le stille roride
      Della notturna brezza,
      Tremule a lei le lagrime
      Brillano per grossezza,
      E sembra ognor che cada
      La goccia di rugiada.
    Ella i color purpurei
      Dona al pudico fiore,
      Spremuto in ciel da’ limpidi
      Astri il notturno umore,
      Le verginali spoglie
      Alla diman gli scioglie.
    S’accoppieran le vergini
      Rose al suo forte grido,
      Dal sangue già di Venere,
      Dal bacio di Cupido
      Nata e di sol vestita,
      Di fiamma e margarita.
    Il suo rossor che ascondere
      Vuol nella veste, ontosa,
      L’invido nodo a sciogliere
      Più non sarà ritrosa:
      Sposa ella pur fra poco
      Il mostrerà di fuoco.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Per lei le ninfe volgono
      Al bosco di mortella;
      Un bel fanciul le seguita:
      Se avesse le quadrella,
      Voi non lo credereste
      Partecipe alle feste.
    Ite, o Ninfe, nell’ozio
      Amor l’armi depose:
      Inerme e ignudo mostrasi.
      Siccome a lui s’impose,
      Perchè l’arco non tenda,
      Nè colta face offenda.
    Pur rimanete in guardia,
      O Ninfe, al vostro core;
      Senz’armi ancor, bellissimo
      Come le avesse, è Amore
      E allor non vale scudo
      Se si presenta ignudo.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core.
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Simili a te, noi vergini
      Venere a te c’invia,
      Noi ti preghiamo, o Delia
      Vergine, acciò non sia
      Brutta la sacra selva
      Da sangue mai di belva.
    Solo di questo supplici
      Noi ti moviam preghiera;
      Ella medesma a chiederlo
      Verrebbe lusinghiera;
      Se a vergin fia decente,
      Qui ti vorria presente.
    Per tre notti continue
      Gli spensierati cori,
      Scelti fra tanto numero,
      Coronati di fiori,
      Correr vedresti lieti
      Pe’ tuoi boschi e mirteti.
    Qui saran Bacco e Cerere
      E de’ poeti il Dio:
      Noi veglierem tra i cantici,
      Se tale è il tuo desio:
      Dïone alle foreste
      Regni, o Delia celeste[152].
    Ella si elesse il seggio
      Sovra de’ fiori iblei,
      Recinta dalle Grazie,
      Darà i responsi bei;
      Ibla, dà tutti i tuoi
      Fior che produci a noi[153].
    Ibla la veste spoglia
      De’ fior che son tua cura
      Per quanto lunga estendesi
      Dell’Enna la pianura:[154]
      Qui saran forosette
      E montanine schiette.
    Quante ninfe soggiornano
      Bosco, foresta o fonte,
      La Madre dell’Aligero
      Nume le vuol qui pronte.
      Vuol che, se nudo incede,
      Si neghi a Amor la fede.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Fia che dimani irradii
      Del suo sorriso amico
      I nuovi fiori e l’Etere
      Sposo alla terra antico,
      Che colle nubi ognora
      Paterne le ristora.
    Si scioglierà benefica
      In sen dell’alma sposa,
      Onde nell’ampie viscere
      La vita rigogliosa
      S’agita, si commove
      A creazioni nove.
    Dell’universo Venere
      Col soffio suo possente
      Entro le vene penetra
      E n’occupa la mente;
      Procreatrice eterna,
      Il mondo ella governa.
    Ella pei campi eterei,
      In terra, al mare in fondo
      Il creator suo spirito
      Infonde ovunque, al mondo
      Obbedïenti addita
      Le sorgenti di vita.

                      CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Ella portò nel Lazio
      I Trojani Penati,
      Di Laurento la vergine
      Del figlio univa ai fati.
      Lei dal suo tempio tolse
      Che sposa Marte accolse.
    Diè alle Sabine vergini
      I Romulei mariti,
      Onde i Ramnesi uscirono,
      Uscirono i Quiriti,
      Di Romolo la gente
      E Cesare possente.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Sentono i campi Venere,
      Voluttà li feconda:
      Ebbe tra i campi il figlio
      Di Dion culla gioconda
      E crebbe ai delicati
      Baci de’ fior’ più grati.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

    Tutti si legan gli esseri
      Col vincolo d’imene:
      Sulla giovenca spingesi
      Il toro, ed ecco viene
      Mosso da questa legge
      Lungo i ruscelli il gregge.
    Vuole la Dea dispieghino
      Gli augelli i loro canti,
      Per le paludi stridono
      I cigni e i proprii vanti
      Moduli invidïata
      Di Terëo la cognata[155].
    La voce sua melodica,
      Sarà d’amore invito,
      Nè la sorella piangere
      S’udrà pel reo marito:
      Taccio al canto gentile,
      Finchè verrà il mio aprile.
    Come la rondin garrula,
      Allor canterò anch’io,
      Onde la Musa arridami
      E l’Eliconio Dio;
      Però che già Amiclea[156]
      Sè col tacer perdea.

    CORO

    Chi non provò mai palpito
      Finor d’affetto in core,
      Doman lo dee dischiudere
      Al più fervente amore.

[151] Tradussi Dione, come nel testo: forse più giustamente dovea dire
_Dionea_, da Dione che Omero dà per madre a Venere. Esiodo la dice
figlia dell’Oceano e di Teti, e fa nascere Venere dalle spume del mare.

[152] Delia, soprannome di Diana, dall’isola di Delo, ove era nata.
Vedi Virgilio, _Eglog._ 3, v. 67.

[153] Ibla, monte della Sicilia, celebre per lo squisito miele che vi
si raccoglieva. Due città sicule portavano questo nome, _Hybla major_ e
_Hybla parva_, sulla costa orientale, le cui rovine veggonsi tuttavia
in riva al mare. I colli che la circondano, lungo il fiume _Alabus_,
sono in tutte le stagioni coperti di fiori, di piante odorifere, di
timo e di sermolino, d’onde le api traggono anche presentemente il più
squisito miele. Già induce a credere che il miele d’Ibla, tanto vantato
dagli antichi, fosse raccolto presso d’Ibla la piccola.

[154] Enna, città in luogo eminente in mezzo della Sicilia. Le praterie
dei dintorni, inframmezzate da limpidi ruscelli, indorse di sempre
verdeggianti boschi e di fiori odorosi, erano considerate come il
soggiorno prediletto di Cerere. Fu in quella bellissima campagna
che venne rapita la di lei figlia Libera, più nota sotto il nome di
Proserpina.

[155] Tereo, dice la Mitologia, fu re di Tracia, figliuolo di Marte
e della ninfa Bistonide. Ebbe per moglie Progne, figlia di Pandione
re di Atene, la quale dopo alcun tempo, mostrò desiderio di rivedere
la propria sorella Filomela. Tereo per compiacerla si recò in Atene,
ed ottenne da Pandione che lasciasse partire secolui Filomela; ma
invaghitosene cammin facendo, la violò in una casa pastoreccia, ed
affinchè non palesasse il suo delitto, le tagliò la lingua facendo
credere alla moglie che la sorella era morta in mare. Filomela giunse
però a poter disegnare sopra una tela la sua disgrazia, e la fe’ poscia
per mezzo d’una fantesca a Progne pervenire. Questa trasse astutamente
la sorella dal luogo ov’era rinchiusa e seco la condusse nella reggia;
indi per vendicarsi, prese il bambino Iti, partorito da Filomela, e
dopo di averlo ridotto in pezzi, li diè a mangiare al padre. Tereo
di ciò avvedutosi, prese ad inseguire con isguainato brando le due
sorelle, le quali furono dagli Dei per compassione trasformate Progne
in rondine, Filomela in usignuolo, Iti in fagiano e Tereo in upupa. —
Vedi Ovid. _Met._, lib. 6. _Mitologia di tutti i Popoli_. vol 6.

[156] Amiclea od Amicla, città antica italiana, che dissero fabbricata
dai compagni di Castore e Polluce, i cui abitanti astenevansi da ogni
nutrimento animale. Furono distrutti dai serpenti, de’ quali abbondava
il suo paese. Erano grandi osservatori del silenzio, onde taciti li
chiamò Virgilio: _Tacitis regnavit Amiclis_ (_Æneid._ lib. 10, v. 565)
e qui pure nel _Pervigilium_ vien designata Amicla d’essersi perduta
col silenzio: forse non avendo invocato soccorso a tempo quando era
devastata dai serpenti.

[157]

    A placarla con suppliche voi chiama
    Tutte il dover: dipendon dal suo nome
    E onestade e bellezza e buona fama.
                         Tr. G. B. Bianchi.

[158] Vedi nel Vol. I. il Cap. VIII. — _I Templi_, dove si parla di
quello di Iside.

[159] «De’ ladri e degli augei vigil custode.»

[160] N. 176 del _Catalogo del Museo Nazionale di Napoli, Raccolta
Pornografica_. — Napoli, 1866. Stabilim. Tip. in S. Teresa.

[161] Arditi, _Il Fascino_, pag. 45, nt. 2.

[162] Vol. II. Cap. XII, p. 106-113. Milano, 1873. Presso Felice
Legros, editore.

[163]

      Omai palesi della Buona Dea
    Fansi gli arcani, allor che il flauto i lombi
    Comincia a stuzzicar: del corno al suono,
    Del vino all’estro, di Priapo attonite
    Le Menadi, rotondo il crin, volteggiano.
    Oh quanta allora in que’ cervelli accendasi
    Libidinosa rabbia! Oh con qual impeto
    Guizzano, scoppian, s’agitan, vociferano!
    Del vecchio vin che bevvero, qual circola
    Acre vapor nel trasudante femore.
                       _Sat._ VI, v. 314-319.

[164] V. 346-49:

    Ed or qual ara del suo Clodio è priva?
      Vecchi amici, a l’orecchio il nostro avviso,
      Già datomi una volta, ancor mi sona:
      Chiudila, custodiscila. — Benissimo,
      Ma de’ custodi chi sarà il custode?

[165]

                . . . . a poco a poco
    Te aggregheranno del bel numer uno
    Quei che accerchian la fronte in lunghe bende,
    E tutto avvolgon di monili ’l collo.
    Ne’ penetrali lor, con ampie tazze
    E ventraia di tenera porcella
    Placan la Bona Dea. Ma quelle soglie,
    Con rito inverso, or non avvien che tocchi
    Piè femminile: a’ soli maschi l’ara
    Apresi de la Dea. Lungi, o profane!
    Alto s’intona; no, che qui non geme
    Tibia ispirata da femmineo labbro.
    Tal’orgie i Batti usar fra tede arcane
    Solean, stancando l’Attica Cotitto.
                _Id., Ibid._ Trad. di Gargallo.

[166]

            . . . Via, fuori
    . . . . qual vergogna! S’alzi
    Da l’equestre cuscin, chi non possiede
    L’equestre censo; e de’ mezzan d’amore
    Vi sottentrino i figli, in qual sia chiasso
    Nati pur sien. Costinci applauda il figlio
    Del grasso banditor tra la ben nata
    Da’ rezïari giovinaglia, e quella
    Degli accoltellatori.
                 V. 153-158. — Tr. Gargallo.

[167]

    È vecchia usanza, o Postumo, ed antica
      Far cigolar gli altrui letti, e il santo
      Genio schermir che a talami presiede.
                                    V. 21-22.

[168]

    Lascio i parti supposti, i gaudi, i voti
      Spesso appagati dal Velabro. Oh quante
      Volte raccolti son dalle sue fogne
      Gli ignoti bimbi, sul cui falso corpo
      Nome di Scauri apponsi, e poi ne ottiene
      Suoi pontefici Giove, i salî Marte.
      Capricciosa fortuna ivi la notte
      A que’ nudi bambin volteggia intorno,
      E con l’alito suo tutti gli scalda,
      E in grembo se li avvolge. Allor tra gli alti
      Palagi li dispensa, e ne prepara
      Segreta farsa a sè: l’amor son questi,
      Questi son la sua cura; e che sien detti
      Figli delle Fortuna ella gioisce.
                       _Sat._ VI, vv. 602-609.

[169] «Nei quadrivii e ne’ chiassi.» _Carmen_ LVIII, _Ad Cœlium_.

[170]

    Amo ed odio insiem, se chieda
      A me alcun come succeda?
      Io l’ignoro, eppure il sento
      E ne provo un gran tormento.
                _Carmen_ LXXXV. — Mia trad.

[171]

    _Iam ne exciderunt vigilatis furta Suburræ_
      _Et mea nocturnis trita fenestra dolis?_
    _Per quam demisso quoties tibi fune pependi,_
      _Alterna veniens in tua colla manu._

    E già i bei furti di Suburra e il caro
      Trescar notturno, e il mio
      Balcon per te socchiuso, agli altri avaro,
      Ti caddero in obblio?
    Il mio balcon, d’onde alla fune appesa
      Spesso vêr te calai,
      E con alterna delle mani offesa
      Al collo tuo sbalzai?
                            Trad. Vismara.

[172]

    Pria della mensa è poca cosa assai,
      Ma il vin le dona mille grazie e mille.

[173]

    Bianca e fredda a veder, ma tra i bicchieri
      Un di goderne, un di sfidarne ha petto.
                        Trad. Vismara.

[174]

    Non più vezzoso ad occhieggiar qual fai,
      O fra i spettacol’ del lascivo Foro,
      O sul passaggio di Pompeo n’andrai.
    E d’ora innanzi non ti dar la pena
      Di torcer suso il collo agli alti scanni[175]
      Ne l’affollata teatrale arena.
    Nè per la via farai fermar lettica
      O aprir portiera onde ficcarvi il capo
      E parlottar colla passante amica.
    Ma pria di tutto fuor di casa, fuori
      Ligdamo, fonte d’ogni mal; si venda,
      E con i ferri ai pie’ serva e lavori.

[175] Dissi già nel capitolo de’ Teatri come le cortigiane fossero nel
quattordicesimo gradino del teatro, citando all’uopo il _Satyricon_ di
Apulejo.

[176] _Amorum_, Lib. III. Eleg. XV:

    Madre di amori teneri,
      Cerca novel poeta.
            Trad. di Francesco Cavriani.

[177]

    Che vidi incauto? perchè i fati vollero
      Che arcana colpa il guardo mio scorgesse?
    Vide a caso Atteone ignuda Cinzia;
      Pur de’ suoi cani pasto egli è rimaso.
                        Trad. di Paolo Mistrorigo.


[178] _Sopra la Vita di Publio Ovidio Nasone, Discorsi._ Discorso I.

[179]

    Punito io son, chè un turpe fatto videro
      Gli incauti occhi; son reo che gli occhi ebb’io.
                      Trad. di Paolo Mistrorigo.

[180]

    Versi ed error, due colpe mi perdettero.
                      _Id., Ibid._

[181] Fu Sotade poeta di Tracia, che scrisse in verso ogni sorta
di libidini, e sembra che scrivesse in quel genere che i Francesi
chiamano poesie fuggitive e che in latino diconsi _commatæ_, cioè
incise, spartite. Così le chiama Quintiliano; e pare che a’ tempi di
lui fossero conosciute, perciocchè egli proibisse agli istitutori di
parlarne a’ giovinetti. Intitolavansi quelle poesie del poeta Sotade
_Cinaedos_, per cui Marziale lo chiama Cinedo, ed altri chiama Jonico
quel poema, giacchè l’epiteto di jonico davasi a tutto ciò ch’era molle
e lascivo. Visse questo poeta a’ tempi di Tolomeo, che il fece gittare
in mare entro una cassa di piombo.

[182] Molti de’ carmi di Catullo tengo da me volgarizzati inediti;
epperò mi valgo sempre per questo poeta della mia traduzione non edita
per anco.

    Donna non fu che tanto
      Amata fosse, come or tu da me;
      Nè mai servata, quanto
      Da me lo fosse, la giurata fè.
    Lesbia, or tu m’hai condotto,
      Fossi pur buona, a più non ti stimar:
      Nè, s’anco più corrotto
      Tu avessi il cor, ti lascerò d’amar.

[183]

    Abbastanza io fui la favola
      De le mense scioperate,
      E di me ciascun fe’ ridere
      A sua posta le brigate.
                      Tr. Vismara.

[184] _Sat._ 2, lib. I:

    Facil Venere e pronta amo e colei
      Che ti dice: fra breve; e fia maggiore
      La voluttà, se partirà il marito.

Mi son sostituito nella traduzione al Gargallo, che questa volta non ho
proprio capito che dir si volesse.

[185] _Sat._ I. Lib. 11.

            . . . . . Canidia, figlia
    D’Albuzio, a’ suoi nemici erbe e veleno.
                            Tr. Gargallo.

[186] «Irritabil genia quella dei vati.» Oraz.

[187]

    Il diritto dei tre figli mi diede,
      De’ miei studi poetici in mercede,
    Chi potea darlo: addio consorte: vano
      Il don sortir non dee del mio sovrano.
                              Trad. Magenta.


[188]

    LA PROSTITUZIONE DELLE MUSE[189

    Or la misera fame, ed i sottili
      Distillati veleni entro le dapi,
      Tutto un popolo esangue e amici pingui
      Per ricchi funerali, ed un impero,
      Che sotto il nome della pace infinto,
      Mollemente si solve e si consuma,
      Quanto fa dir la nostra età la bella
      Età dell’oro, canteran le Muse.
      E canteranno i lagrimosi incendi
      Della marmorea Roma[190], agli occhi loro
      Vaghi sollazzi della negra notte,
      Egregie gesta di colui che baldo
      Dell’assassinio della madre esulta,
      Che alle Furie materne altre ne oppone,
      Alle serpi altre serpi, ognor la mano
      Pronta a nuovi pugnali e di peggiori
      Stragi a far tutto esterrefatto il mondo.
      Canteranno esse scellerati carmi,
      Oscene voluttà, sozzi imenei
      D’un favorito della sposa infami[191],
      Di Venere nefandi monumenti;
      Nè l’onta proveran de’ loro canti
      Le svergognate Muse, e di lor nome
      Verginal, di lor fama immacolata
      Fatte immemori adesso. Ah! via gittato
      Ogni pudor, sotto color bugiardo
      Di lor saver, prostitüir sè stesse,
      E le figliuole dell’olimpio Giove
      Sovra gli umani eccelse, ancor che nulla
      Sentan necessità, fanno a vil prezzo
      Di lor sacra persona empio mercato.
      Esse al capriccio dei superbo Mena[192]
      Piegan codarde, ovver di Policleto
      Obbedïenti al cenno, anco beate
      D’esigua lode, appassionate, ardenti
      Delle recenti impronte, onde una fronte
      Va maculata, o delle ree vestigia
      Che lasciò la catena od il flagello
      A un Geta[193], che da jer fatto è liberto.
      Immemori, che più? del divo padre
      E de’ numi cognati e dell’antico
      Onor di casta e verginal pietate.
      Oh dolor! Alle Furie e a mostri orrendi
      Hanno eretto l’altare e i cenni impuri
      Dell’ignobile Tizio[194] osano voci
      Del Destino appellar: quanto ha l’Olimpo
      Consacrarono all’Erebo; già templi
      Osaron scellerati ergere ed are
      Sacrileghe, e per quanto è di lor possa,
      I cacciati dal cielo empi Titani
      Tentan ripor nelle superne sedi
      E stolto crede a’ loro accenti il mondo.
]

[189] Con una sacra indegnazione e con maggior calore per avventura di
Persio, Turno, vissuto sotto il regno di Nerone e vecchio sotto quello
degli imperatori di casa Flavia, compose satire che quello imperante
stigmatizzarono a fuoco. Vuolsi che le sue composizioni non publicasse
finchè visse quel tiranno; ma se ciò fosse, sarebbe stato minore il
suo coraggio, nè di lui avrebbe Marziale potuto dettare il seguente
epigramma:

    _Contulit ad satyras ingentia pectora Turnus:
    Cur non ad Memoris carmina? Frater erat._

    Turno piegò l’ingegno suo sovrano
      Al satirico stil: perchè di Memore
      Non i versi emular?... Gli era germano.
             _Epigr._ lib. XI, 11. — Tr. Magenta.

Da tal epigramma apprendiamo adunque che Turno fosse fratello di un
Memore, poeta tragico, come nel precedente epigramma lo stesso Marziale
lasciò ricordato:

    _Clarus fronde Jovis, Romani fama cothurni._

    Del romano coturno illustro e cinto
      Della fronda di Giove.
                        _Id. ib._ 10.

L’unico frammento rimasto delle Satire di Turno è, come dissi, codesto
che traduco: taluni vollero perfino attribuirlo a Lucano, ma i più lo
assegnano a Turno.

[190] È chiara in questo verso l’allusione all’incendio di Roma
avvenuto sotto il regno di Nerone, il quale ne fu ritenuto autore.

[191] Son note le pazze e infami nozze di Nerone con Sporo, celebrate
publicamente in Roma. Questo verso ricorda quello della _Sat._ II di
Giovenale:

    _Dives erit, magno quæ dormit tertia lecto._

    . . . . Sposa che in ampio letto
    Terza a dormire adattisi, fia ricca.
                  V. 60. Trad. Gargallo.

[192] Mena fu liberto e favorito del giovane Pompeo; fu vanitoso sino
al ridicolo, e di sua perfidia andò famigerato nella guerra di Augusto
e di Sesto Pompeo. Orazio lo berteggia in una satira. Morì nella guerra
che Ottavio sostenne contro gli Illirii.

[193] Geta è altro favorito, che eccitò sotto Nerone una sedizione a
Roma. Di lui parla Tacito nel lib. II, cap. 72 delle _Storie_.

[194] Tizio, cavalier romano, preposto a guardia di Messalina. Di lui
pure fanno menzione gli _Annali_ di Tacito lib. II, cap. 35.

[195] Lib. VII, ep. 21.

[196] Lib. VII, ep. 24.

[197] Lib. XII, 18.

[198] _Études de moeurs et de critique sur les Poètes latins de la
décadence_. M. D. Nisard. Bruxelles 1834.

[199]

      ..... Ascondere
    Con segni intelligenti
    I lusinghieri accenti.

[200] Cic. _Pro Cælio_. «Libidini, amori, adulterii, banchetti e
commessazioni.»

[201]

    I Bagni, i vini e Venere
      Riducon l’uomo in cenere,
      A’ mortali gradita
      Fan nondimen la vita.

[202]

    Vuoi tu forse ch’io segga in fra codeste
    Prosede e avanzi d’Alicarie, amiche
    A’ panattier’, sciupate e infette serve?
                 _Pœnulus._ Act. I, sc. 2, v. 53-55.

Noti il lettore come Plauto usi della parola _scœno_, invece di _cœno_,
come dai Sabini si usava allora sostituire nella pronunzia la _s_ al
_c_. Così _scœlum_ per _cœlum_, _scœna_ per _cœna_. La medesima cosa si
fa oggidì, in alcune parti d’Italia e massime in Toscana.

[203]

    La Blitea è una sporca meretrice
      La qual non pute che di vino.

[204] Il comico latino che di queste femmine se ne intendeva, nella già
citata commedia del _Pœnulus_ non dimenticò la _scorta diobolaria_, che
retribuivasi di due oboli, che è la stessa moneta del _dupondium_, e a
siffatte sciagurate accenna pur Seneca nel Lib. VI _Controversiarum_,
in quel passo: _Itane decem juvenes perierunt propter dupondios duos?_

[205]

            ARGIRIPPO
    Non sono morto affatto, ancor mi resta
    Qualche poco di vita, e quel che chiedi
    Ancor darti poss’io; ma darò solo
    Che tu rimanga in mio possesso e sappia
    Che un anno intero tu mi serva e intanto
    Presso di te nessun altro tu ammetta.

            CLEERETA
    E se tu il vuoi, quanti ho in mia casa schiavi
    Evirerò; ma se d’avermi brami,
    Il singrafo mi reca, e come chiedi
    E come piace a te, dettane i patti:
    Ma insiem portami il prezzo, agevolmente
    Il resto accetterò. Son dei lenoni
    Pari alle porte de’ gabellieri,
    S’apron se paghi, se no, restan chiuse.

[206]

            DIABOLO
    Fra me, l’amica mia e la mezzana
      Leggine i patti, perocchè poeta
      In codesti negozi unico sei.
      Suvvia, mostrami il singrafo che hai scritto.

[207] Pag. 70. Milano, Edoardo Sonzogno editore, 1872.

Non so trattenermi dal riferire un tale contratto, simile in tutto a’
singrafi di fedeltà di cui sopra è parola.

      GOSTANZO, _il_ PROCURATORE, _il secondo_ NOTAIO.

  _Pro._ Presto, Alessandro, quei patti obbligatorî: state ad
  ascoltare.

  _Gos._ Ascolto.

  _Ales. In Christi nomine amen. Millesimo quingentesimo
  quinquagesimo primo._

  _Pro._ Etc. vieni al merito: lascia stare le clausole generali.

  _Ales._ M. Gostanzo figliuolo di M. Massimo Caraccioli, parte
  una, e Madonna Andriana da Spoleti parte altera _omnibus modis
  etc. etiam_ con consentimento di Madonna Dorotea sua figliuola,
  tutti presenti, e che accettano volontieri etc. son divenuti
  agl’infrascritti patti, _videlicet_ che la detta donna Andriana
  lascerà Madonna Dorotea sua figliuola al detto M. Gostanzo un anno
  intero da star seco dì e notte.

  _Gos._ A lui solo e non ad altri.

  _Pro._ Gliel’aggiungo io. Presto, Alessandro.

  _Gos._ Sì in ogni modo: vedete di grazia d’imbrigliami sì bene
  quest’asina, non le voglia il trarmi de’ calci.

  _Pro._ Udite pur, seguita.

  _Ales._ E che nel detto tempo non metta in casa nessun amico,
  parente, o innamorato suo antico, moderno, imaginario, _quovis
  modo_.

  _Gos._ Se non me solo.

  _Pro._ Intendo; che non dicesse poi che sete escluso ancor voi;
  passa oltre.

  _Ales._ Non ricevi nè mandi lettera, non abbi in casa carta e
  inchiostro per scrivere; non tenghi ritratto degli innamorati
  vecchi, e passato il terzo giorno gli sia lecito _impune et de
  facto_ abbruciarli; non vada a festa, a banchetti, nè a chiesa; non
  inviti nessuno a mangiare, non stia in porta, non facci trebbe, non
  guardi giù dalle finestre, non oda cantilene o sospir di gente che
  passi per la strada, e sia lecito al detto M. Gostanzo di chiuder
  le porte e tenerle chiuse quanto gli piace senza alcuna replica.

  _Gos._ Oh mi piace; oh come va bene!

  _Pro._ Aspettate pur, seguita.

  _Ales._ Levi tutte l’occasioni di farlo sospettare; non calchi il
  piede a nissuno, non tocchi la mano, non pizzichi, non si levi, non
  si muova.

  _Gos._ Piano, anzi voglio ch’ella si muova e scherzi meco in
  camera.

  _Pro._ Con altri, con altri, s’intende.

  _Gos._ Passate oltre.

  _Ales._ Non alzi un occhio, non starnuti, non fiati senza suo
  consentimento, non rida dietro alla finestra a nessuno, non si
  lasci baciar la mano, o veder gli anelli, non facci cenno, non
  motteggi, non guardi, non mostri di tossir e quando è sforzata,
  non faccia vezzi nè favore a nessuno; di più non si finga ammalata
  per farsi ungere, stropicciare e sia lecito al detto M. Gostanzo
  durante il detto termine per qualsivoglia minima occasione di
  gelosia ch’ella gli dia, chiuder la detta Dorotea in camera, in
  cucina, in sala, di sotto, di sopra e in qual parte più gli piacerà
  della casa, _quomodocunque et qualitercunque_ et ella accetti ogni
  cosa per bene.

  _Gos._ Benissimo; ma voi mi lasciate il meglio e più importante.

  _Pro._ Che cosa?

  _Gos._ Preti, Frati, Scapuccini, Guastallini, Pinzocheri, Chietini,
  Giovanelli, Riformati, Gabbadei, Zoccolanti, Collitorti nè per
  confessione, nè per visita, nè per altro non mettano il piede in
  casa sotto alcun pretesto.

  _Pro._ Buon ricordo per mia fè. Presto, Alessandro.

  _Gos._ Aggiungeteglielo in ogni modo, perchè non sono al mondo
  lenoni più veementi di queste canaglie.

  _Pro._ Mi meraviglio che la somma Orlandina non ne faccia menzione,
  donde ho cavato questo estratto. Hai spedito, Alessandro? seguita.

  _Ales._ E che nel sopradetto termine la detta Andriana non abbi
  alcuna autorità in casa, ma si stia cheta e goda e taccia et
  attenda solamente a covar il fuoco, cuocer castagne, ber vin
  dolce, sputar nella cenere, e se pur vuol gridar gridi alla gatta,
  solleciti il desinare e si faccia legger dal ragazzo qualche
  leggenda; del resto lasci il dominio della casa in podestà del
  detto M. Gostanzo, sotto la pena di non ber vino, e di esser
  staffilata all’arbitrio del detto M. Gostanzo.

  _Gos._ O buono! seguita.

  _Ales._ Dall’altra banda sia obligato il detto M. Gostanzo
  numerargli subito, senza alcuna dilazione, sessanta scudi d’oro,
  de’ quali possono disporre a lor modo, senz’alcun obbligo di
  restituirli.

  _Gos._ Andiam dentro.

[208]

    Il pastor Coridon d’Alessi ardea,
    D’Alessi bel fanciul, delizia prima
    Del suo signor.
           _Egloga_ II. Tr. di Prospero Manara.

[209] Vedi _Giornale degli Scavi_, Nuova Serie n. 13, 1870.

[210]

    Nè già di lei, che nuda il piè, calpesta
    L’aspra selci, è miglior l’altra che ’l collo
    Preme d’assiri lettighier giganti.
                _Satir._ VI, 350. Tr. Gargallo.

[211]

    L’ippomane, gli incanti, i beveraggi,
    Colchici dovrò dir?
              _Sat._ VI. 133. — Tr. Gargallo.

[212] «Porgi l’acqua fredda, o ragazzo.» Notisi il _fridam_ per
_frigidam_ quanto s’accosti alla nostra parola _fredda_.

[213] «Una bianca m’apprese a odiar le brune.» Vedi Vol. I. Cap. _Le
Vie_, ecc.

[214] «Agli uomini di Nola augurano felicità le fanciulle di Stabia.»

[215] Vedi Plauto: _Asinaria_ Att. V, Scena 2, v. 76 e 84.

    Ma dorme ancora il cuculo, o amatore,
    Su ti leva e va a casa.

Il _cocolo mio_, vezzeggiativo delle amanti veneziane, ne sarebbe forse
la traduzione e l’applicazione, senza l’idea del disprezzo?

[216] «Non è questo il luogo agli oziosi: passa oltre, o passeggiero.»

[217]

    Così del fuoco di sozza lucerna,
      Brutta e incrostata il viso, il tetro odore
      Del bordello al guancial recò d’Augusto.
               Giovenale, _Sat._ VI. 130-131. Trad. Gargallo.

[218] «E le misere madri di null’altro più pregavano se non che fosse
loro concesso di raccogliere l’estremo sospiro de’ figli.»

[219] Trad. di Paolo Maspero.

[220] _Æneid._ Lib. IX. 486. 487:

                       Ed io tua madre,
    Io cui l’esequie eran dovute, e ’l duolo
    D’un cotal figlio, non t’ho chiusi gli occhi.

[221] Lib. III, v. 539-540.

    Sol col tacito volto invoca i baci
    E del padre la man che i rai gli chiuda.

[222] «Affermavano passarsi sotto terra l’altra vita dei morti.»
_Tuscul._ 1, 16.

[223]

      . . . . e con supremi
    Richiami amaramente al suo sepolcro
    Rivocammo di lui l’anima errante.
          _Æneid._ Lib. III, 67, 68. Tr. Ann. Caro.

L’espression di Virgilio _animam sepulcro condimus_, resa
letteralmente, appoggia meglio la credenza da noi riferita, ed io però
tradurrei:

    L’anima sua chiudemmo entro il sepolcro.

[224] _La Cité Antique_, Cap. 1.

[225] «I diritti degli Dei Mani sono santi: questi datici da morte
abbiansi come numi e si onorino di spesa e di lutto.»

[226] Lib. II, 22.

[227] «Le anime di virtù maggiore si chiamano Mani, quelle che son nel
nostro corpo diconsi Genii; fuori di esso, Lemuri; se infestano colle
loro scorrerie le case, Larve; ma se pel contrario ci son favorevoli,
si chiamano Lari famigliari.» _De Deo Socratis._

[228] V. 91-96.

[229] Virgilio, lib. VI, v. 219:

    . . . . intorno al freddo corpo intenti
    Chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l’unse.
                             Trad. Ann. Caro.

[230] _Satira_ III. v. 261-267:

           . . . . la buon’anima,
    Che già siede novizia in riva a Lete,
    Trema del tetro barcajuol, nè spera
    Varcar su la sua barca il morto stagno;
    Miser! nè il può senza il triente in bocca.
                              Tr. Gargallo.

[231] _Storia Popolare degli Usi Funebri Indo-Europei._ Milano,
Fratelli Treves, 1873, pag. 19. — Perchè alla vera dottrina è sempre
gentilezza d’animo congiunta, l’illustre scrittore mi volle onorato del
dono di questa sua opera, che mi tengo cara e della quale pubblicamente
il ringrazio. E come no, se a’ dì nostri solo compenso a chi si pasce
di studio sono o la noncuranza o la calunnia? Oggi è vezzo di portar
la politica anche ne’ giudizi letterarii, e chi non s’imbranca coi
gerofanti della politica è punito colla cospirazione del silenzio.

[232] _Satira_ III, v. 103-105:

    Quindi le tube e le funeree cere.
      Steso e beato alfin nel cataletto,
      E d’aromi inzuppato, irrigiditi
      Slunga vêr l’uscio i piè...
                     Tr. Vinc. Monti.

[233]

    Di lutti non plebei teste il cipresso.
                         _Pharsal._ III, 442.

Spiacquemi non usar qui della versione notissima del conte F. Cassi,
perchè in questo passo si cavò d’impiccio, col dire semplicemente _i
funebri cipressi_.

[234] Virgilio, _Æneid._ Lib IV, v. 665-668:

         . . . . In pianti, in ululati
    Di donne in un momento si converse
    La reggia tutta, e insino al ciel n’andaro
    Voci alte e fioche, e suon di man con elle.
                                 Tr. A. Caro.

[235]

      . . . . Quiriti, a cui fa commodo
    D’assistere alle esequie, è questa l’ora.
                         _Phorm._ 5. 8. 37.

Ecco per altro la formula più completa della convocazione al funerale:
_exequias_... (E . G . LUCII. LUCII. FILII) _quibus est comodum ire,
tempus est: ollus (ille) ex ædibus effertur_.

[236] «Io Sesto Anicio Pontefice attesto avere costui onestamente
vissuto.» Bannier, _Spiegazione delle favole_.

[237] «Da qualche anno in qua non si offerse altro sguardo del popolo
romano una pompa così solenne e memorabile, come i publici funerali di
Virginio Rufo, non meno egregio ed illustre, che fortunato cittadino.»
Lib. II. epist. 1, Tr. Paravia.

[238] «Detti furono siticini coloro che solevano cantare canti
lamentevoli a titolo d’onore, quando a taluno si facevano i funerali e
recavansi a seppellire.»

[239]

    Le prefiche che seguano pagate
    Nell’altrui funeral e piangon molto
    E si strappano i crini e ancor più forti
    Alzan clamori.

[240] _Riti funebri di Roma_. Lucca, 1758.

[241]

    Spargete lagrime,
      Querele alzate,
      Lutto e gramaglie
      Or simulate,
      Del triste coro
      Echeggi il Foro.

[242] _In Vespasianum_, 19.

[243] Lib. II, Eleg. XIII:

    Tu verrai dietro lacera
      E petto ignudo e chiome,
      Nè cesserai ripetere
      Del tuo Properzio il nome.
                     Tr. Vismara.

[244] _Annali_, III, 2.

[245] «La nostra prosapia di tal guisa congiunge alla santità dei re,
che assai possono in mezzo agli uomini, la maestà degli dei che sono
i padroni dei re.» Svetonio, _In Cæs._ VI. Giulio Cesare da parte di
madre si diceva discendere da Anco Marzio, re.

[246] Pag. 83.

[247] La legge vietava la cremazione del cadaveri in città a prevenire
gli incendj. La basilica Porcia di Roma infatti erasi incendiata per le
fiamme dal rogo di P. Clodio.

[248]

    Sul freddo labbro gli ultimi
      Baci tu allor porrai
      Quando versar dall’onice
      Assiri odor vedrai.
                 _Id. Ibid._

[249] «Addio: noi ti seguiremo tutti nell’ordine nel quale la natura
avrà voluto.»

[250] Lib. IV. _Eleg._ VII:

    Perchè il favor su la mia pira, o ingrato,
      Non invocar del vento?
      Perchè non arder su l’estremo fato
      Stilla di caro unguento?
    E t’era grave ancor non compri fiori
      Gittar sul mio feretro,
      E al cenere libar del vin gli onori
      Da lo spezzato vetro?
                     Trad. Vismara.

[251] _Phaleræ._ Erano piastre d’oro, d’argento o altro metallo
lavorate che si portavano sul petto, come attesta Silvio Italico
nell’emistichio:

    . . . . _phaleris hic pectora fulget_,[252]

da persone di grado, che venivano accordate per fatti di valore,
come si farebbe oggidì colle decorazioni cavalleresche. Erano anche
bardamenti di cavalli.

[252] «Di falere ha costui splendido li petto.»

[253]

          . . . . . Altri gridando
    Le pire intorno, elmi, corazze e dardi
    E ben guarnite spade e freni e ruote
    Avventaron nel fuoco e de’ nemici
    Armi d’ogni maniera, arnesi e spoglie;
    Altri i lor proprii doni, e degli uccisi
    Medesmi vi gittar l’armi infelici
    E gli infelici scudi, ond’essi invano
    S’eran difesi.
               Lib. XI, 193-196. Tr. Caro.

[254] Libro XXIII, 257-265. Trad. V. Monti.

[255]

            . . . . . in ordinanza
    Tre volte armati a pie’ la circondaro
    E tre volte a cavallo, in mesta guisa
    Ululando, piangendo, e l’armi e ’l suolo
    Di lagrime spargendo.
                           Lib. XI, 188-190.

[256] _Annal._ Lib. II. VII. Il Davanzati così traduce: «Nè Cesare
combattè gli assedianti (i Catti), perchè al grido del suo venire
sbandarono, spiantato nondimeno il nuovo sepolcro delle legioni di
Varo, per onoranza del padre si torneò.» In nota a questo passo, Enrico
Bindi, nell’edizione del Le Monnier 1852 vol. I. p. 65, pose: «Di
questo costume antichissimo detto _decursio_, vedi Senofonte nel sesto
di Ciro, Dione, 55; Svetonio in Nerone. Il Lipsio cita Omero, Virgilio,
Livio, Lucano e Stazio.»

[257] _Sat_. Lib. I Sat. 8:

        . . . . il camposanto
    De la plebaglia...

Così traduce il Gargallo: ma non aveva proprio altro vocabolo da
sostituire a quello che la religion nostra ha consacrato?

Non potevasi, a mo’ d’esempio, esser più fedeli all’originale
traducendo:

    Alla misera plebe era codesto
    Il comune sepolcro?

[258] Gruter, _Iscriz._:

    Sull’ossa tue io verserò quel vino,
      Che non bevesti mai, giovanettino.

[259] _Dizionario delle Antichità_, alla voce _Patera_.

[260] V. 124-129.

[261] _Epist. Ex Ponto_, 1, Lib. III:

    Uopo è che i corpi esangui ai mesti roghi,
    Vengano dati.

[262]

            . . . . E di natura impero
    Ma il pianto impon, se di fanciulla adulta
    C’incontriam ne l’esequie, e se bambino,
    Negato al rogo da l’età, si infossa.
                             Tr. Gargallo.

[263] _Pha. Hist. Nat._ VII, 15.

[264] _Hist. Nat._ Lib. II, 55. «Non è lecito ardere un uomo privato in
questo modo di vita; la religione ci tramanda doversi seppellire sotto
terra.»

[265] _La peine de mort_, 1871.

[266] Il mio dotto amico dott. Gaetano Pini, fra i più strenui
propugnatori della cremazione, perchè la conferenza del 6 aprile
riuscisse di pratico vantaggio, propose il seguente ordine del
giorno, che ne concreta lo scopo e che venne unanimemente accolto.
«L’Assemblea fa voti che nella prossima discussione, la quale avrà
luogo in Parlamento, intorno al progetto del nuovo Codice sanitario,
già approvato dal Senato del Regno, venga ammesso all’art. 185, come
_facoltativa_, la cremazione dei cadaveri, lasciandone ai sindaci dei
Comuni la sorveglianza.» L’altro amico mio, Mauro Macchi, deputato,
promise appoggiare tale mozione in Parlamento.

[267] _Sat._ VI, 33 e segg.

                               La cena
    Funebre irato obblia l’erede, e fetide
    Dà l’ossa all’urna, il cinnamo svanito
    Non curando, e le casie ammarascate.
                            Trad. V. Monti.

[268] Vedi Cicerone, _De Legibus_. Lib. 2, c. 55.

[269] «Essersi sovente ascoltati uomini preclari della nostra città
avvezzi a dire: allorquando vedevano le immagini de’ maggiori, queste
gagliardissimamente accendere l’animo loro a virtù: vale a dire non
tanta efficacia aver quella cera o figura, quanto crescere in petto
agli egregi uomini la memoria delle loro gesta con ardente incitamento,
nè questo mai sedarsi, finchè la loro virtù non ne abbia raggiunta la
fama e la gloria.»

[270] Vv. 151-152.

[271] Vv. 99-100.

[272]

    Dal portar dono ai morti il nome prese
      Di Feralia quel dì.
           _Fastorum_. Lib. II. Tr. Bianchi.

[273] _Fasti_. Lib. II:

    Hanno il suo onore anche i sepolcri: imponi,
      L’ombre avite a placar, qual che tu sii,
      Sul rogo alzato non pregiati doni.
    Poco chieggono i Mani: ufficii pii
      Presso loro a un gran dono han peso eguale.
      Non ha la bassa Stige ingordi iddii.
    Ad appagar lor brame un coccio vale
      Di serti a biotto ivi gettati ornato,
      E sparse biade intorno e poco sale:
    E sciolte vïolette e pan bagnato
      Nel vin pretto: abbia pur cose sì fatte
      Il coccio in mezzo della via lasciato.
    Nè vieto il più; ma queste ancor sono atte
      L’ombre a placare: al posto altar vicino
      Aggiunger dei preci e parole adatte.
                               Tr. G. B. Bianchi.


[274] «Cena ferale in picciola scodella.» V. 85.

[275] Orazio, Lib. III, Od. XIV.

           . . . . Di fresche spose o nuova
    Schiera, o fanciulli, il vostro infausti detti
                    Labbro non muova.
                                Trad. Gargallo.

[276]

    Vedrò almen ciò che dir mi fia permesso
      Di color le cui gelide faville
      La via Flaminia e la Latina asconde.
                            Trad. Gargallo.

[277] «Così i monumenti sepolcrali, acciò ammoniscano coloro che
passano lungo la via sè essere stati, ed essi essere parimenti
mortali.» _De Lingua Latina_, Lib. VI, 1, 5.

[278]

    Tolgalo il ciel dal collocar mia fossa
      Lungo il rumor di popoloso calle
      Che turbi il sonno a le mie placid’ossa.
    Così degli amator l’alme più fide
      E le tombe si fan favola al vulgo
      Che gusta i nomi più famosi e ride.
    Copra me pure in solitario canto
      Terren, defunto, e sovra lui distenda
      Arbor frondosa di bell’ombra il manto:
    Me ancor di sabbia inosservato acervo
      Chiuso a le belve: sol che il nome mio
      Non sia bersaglio al passeggier protervo.
                  Lib. III, _Eleg._ 16, vv. 25-30.
                  Trad. Vismara.

[279]

              . . . . ecco, una mano
    De’ miei resti sostiene il pondo intero.
              Lib. IV, _Eleg._ XI. — Trad. id.

[280] «Taluno costituiva a sè ed alla propria famiglia.»

[281] «Quelli che il padre di famiglia acquistò per sè e suoi eredi, o
per diritto ereditario.»

[282] «Questo monumento non segue gli eredi; o non passa agli eredi.»

[283] Lib. I. _Sat._ 8:

    Mille il ceppo da fronte e lungo l’agro
      Piedi trecento ivi assegnava: esclusi
      Dal monumento rimanean gli eredi.
                           Trad. Gargallo.

[284] _I Sepolcri_, v. 101-103.

[285] Vv. 114-117; 124-125.

[286] Fu riprodotta la bella memoria del Carrara dal _Giornale del
Tribunali di Milano_, Anno II, N. 225 e 226, ossia 20 e 21 settembre
1873.

[287] «Marco Cerrinio Restituto, Augustale, in terreno concesso da
decreto de’ Decurioni.»

[288] «Ad Anio Vejo di Marco, Duumviro per la giustizia, quinqueviro
per la seconda volta, tribuno de’ soldati eletto dal popolo; per
decreto de’ Decurioni.»

[289] «A Mammia figlia di Publio (oppure di Porcio se il monumento
vicino è di suo padre o d’alcuno della sua famiglia) sacerdotessa
pubblica, luogo di sepoltura dato per decreto de’ Decurioni.»

[290] «Questo spazio di venticinque piedi quadrati fu accordato a Marco
Porcio figlio di Marco per decreto de’ Decurioni.»

[291] «Mi sia il nuovo anno fausto e felice.»

[292] _Ep._ 1, lib. 2. Vedi anche la lettera sua a Marco Mario,
_Epist._ 3, lib. 7.

[293] «Ad Aulo Umbricio Scauro Menenio figlio di Aulo, duumviro di
giustizia, i Decurioni decretarono il collocamento d’un monumento,
duemila sesterzi[294] pe’ suoi funerali e una statua equestre nel
foro. Scauro padre al proprio figlio.» Taluni, in luogo di Umbricio,
la incompleta parola ...RICIO, lessero per _Fabricio_; altri per
_Castricio_: io ho seguito chi lesse _Umbricio_.

[294] Appena questa somma, che corrisponderebbe a 400 lire, poteva
bastare alla spesa del rogo e della cerimonia funebre. Certo le altre
spese, come i ludi gladiatorj, sarannosi sopportati dalla famiglia.

[295] «Al genio protettore di Tiche venerea di Giulia figliuola
d’Augusto.»

[296]

    Oggi, o Giunone, nel tuo dì natale
      Accogli i santi dell’incenso onori
      D’un’esperta fanciulla e genïale.
                                Mia trad.

[297] Tab. 10, n. 1, e 2.

[298] Lib. XVI degli _Annali_. Trad. Davanzati.

[299] «Servilia all’amico dell’anima.»

[300] «A Cajo Calvenzio Quieto Augustale, venne per la sua munificenza
concesso da decreto dei Decurioni e per Consenso del popolo l’onor del
bisellio.[301]»

[301] Questa munificenza non lascerebbe supporre che avesse comperato
l’onor del bisellio? Stando a un’iscrizione edita da Grutero, un C.
Titus Chresimus a Suessa l’avrebbe pur comperato col dono di mille
sesterzi, pari a L. 200.

[302] «A N. Istacidio Eleno maestro del Borgo Augusto.» «A N. Istacidia
figlia di Scapido.»

[303] «A N. Istacidio Eleno maestro del Borgo Augusto.» «A Istacidio
Gennaro.» «A Mesonia Satulla. In profondità 15 piedi; di fronte 15
piedi.»

[304] Vol. I. Capit. IV, pag. 101.

[305] «Cajo Munazio Alimeto visse anni 57.»

[306] «A Marco Allejo Lucio Libella padre, edile, duumviro, prefetto
quinquennale ed a Marco Allejo suo figlio, decurione che visse
diciassett’anni. Il suolo pel monumento è stato loro publicamente
concesso. Alleja Decimilla figlia di Marco, sacerdotessa publica di
Cerere, lo fece erigere allo sposo ed al figlio.»

[307] «Se vuoi esserlo in Roma, otterrai: in Pompei è malagevole cosa.»

[308] «A Lucio Cejo figlio di Lucio, Menenio: a Lucio Labeone per la
secondo volta duumviro di giustizia e quinquennale, Menonaco liberto.»

[309] _Pompeja_. Pag. 92.

[310] _Pompei descritta_ da Carlo Bonucci.

[311] «M. Arrio Diomede liberto di ... Maestro del sobborgo Augusto
Felice, alla sua memoria ed a quella de’ suoi.»

[312] _Paradiso_ XVII: 130.

[313] Ho già ricordato e circondato di somma lode in questa mia
opera il romanzo storico di Luigi Castellazzo, che si ascose sotto
il pseudonimo di Anselmo Rivalta, dal titolo _Tito Vezio_: ebbene qui
m’occorre di rammentarlo ancora come quello che con tale suo magnifico
lavoro pose in bella e appassionata azione la vita pubblica e privata
de’ Romani. Coloro che si faranno a leggerlo — ed io auguro che meglio
sia conosciuto dagli italiani senza abbadare alla irruente consorteria
che tenta mettere lo spegnitoio sugli ingegni e sulle opere di chi non
è di sua parte, poichè il Castellazzi è strenuo campione della italiana
democrazia — oltre l’ognor crescente diletto, vi raccoglieranno messe
di ottimo insegnamento.

[314] _Gerusalemme Liberata._ C. I, st. 3.

[315] Chateaubriand aveva già raccolto la censura da molti fatta
al sistema di tutto quanto asportare e chiudere nei musei che si
rinvenga d’interessante negli scavi. «Ce que l’on fait aujourd’hui
me semble funeste, ravies à leurs places naturelles, les curiosités
les plus rares s’ensevelissent dans des cabinets, ou elles se sont
plus en rapport avec les objets environnants» (_Voyage en Italie_
vol. XIII pag. 88). Ma poi il medesimo autore, immemore di questa sua
censura, sulla fine dello stesso volume, così mostra l’inconveniente
dell’opposto sistema che sembrava aver egli suggerito nelle sue prime
parole. «Quelques personnes n’avoient pensé qu’au lieu d’enlever de
Pompei les diverses objets que l’on y a trouvés, et d’en former un
museum a Portici, l’on auroit mieux fait des les laisser à leur place:
ce qui auroit représenté une ville ancienne avec tout ce qu’elle
contenoit. Cette idée est spécieuse et ceux qui la propoient n’ont
pas réfléchi que beaucoup de choses se seroient gatées par le contact
du l’air, et qu’indépendamment de cet inconvénient on aurait couru le
risque de voir plusieurs objets dérobés par des voyageurs peu délicats:
c’est qui n’arrive que trop souvent.» A tuttociò si cercò d’ovviare
col mettere in Pompei talune opere in copia, trasportando nel Museo gli
originali.

[316] _I Sepolcri_, v. 231.

[317] _Ercolano e Pompei._

[318] Appendice al Capitolo XVIII.

[319] Così ne resero conto i Soprastanti agli Scavi nella loro
Relazione ufficiale dei lavori eseguiti dal 1 novembre al 31 dicembre
1868.

«19 (novembre). Proseguendosi tuttora lo scoprimento della su cennata
località, nella penultima di esse, accosto al muro esterno, ed
all’altezza di circa quattro metri dal pavimento, si è rinvenuta una
testa virile in marmo di grandezza naturale, scheggiata al naso ed alle
orecchie...

«24. Nella stessa località indicata il giorno 19, all’altezza di circa
tre metri dal suolo, si è rinvenuta un’altra testa virile in marmo,
anche di grandezza naturale, un poco scheggiata al naso, e mancante
della parte anteriore del collo, ov’era stata restaurata dagli antichi,
osservandosi un pernetto di bronzo che sosteneva il pezzo che manca.»
_Giornale degli Scavi._ Nuova serie, n. 5, p. 119.

[320] Plutarco. _Vita degli uomini illustri_, vol. 4. _Vita di Pompeo_.
Versione italiana di Gerolamo Pompei.

[321] Vell. Paterc. Lib. II; Plin. _Hist. Nat._ lib. VII, cap. 10.

[322] Il Conte Cassi, parafrasando al solito, così rende questi versi
del libro II. 728-730.

    Ma suo (della Fortuna) malgrado ancor se’ Magno. E mentre
      Te e la tua donna, e i figli tuoi percuote
      Un bando indegno, in ogni cor dimori
      Con pietosa memoria: e in quel che cerchi
      Un rifugio fra l’armi a’ tuoi penati.
      In sulla poppa stessa ove t’assidi,
      Esule glorioso, a te fan cerchio
      I Consoli, il Senato, Italia e Roma,
      E ovunque movi è a te seguace il mondo.

[323] Id. _Vita di Marco Bruto_; vol. 5.

[324] Id. ibid.

[325] _Ad Atticum_; lib. XIV, ep. I.

[326] Paris, Librairie Hachette, terza ediz. 1874.

[327] Nuova Serie n. 6, pag. 133.

[328] Appendice al Capitolo primo.

[329] Volume I, pag. 38.

[330] _L’incendio vesuviano del 25 aprile 1872_. Conferenza, ecc. —
Napoli Stabilim. Tip. Partenopeo 1872.

[331] _Il Piccolo_ di Napoli del 26 Aprile 1872.

[332] _Incend. Vesuv._ pag. 11.

[333] Napoli. Stamperia del Fibreno, 1873.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




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