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Title: Profili e paesaggi della Sardegna
Author: Mantegazza, Paolo
Language: Italian
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                           PROFILI E PAESAGGI
                                 DELLA
                                SARDEGNA


                                   DI
                            PAOLO MANTEGAZZA



                                 MILANO
                       PER L’EDITORE G. BRIGOLA.
                                  1869



                         Proprietà Letteraria.

                        Milano. — Ditta Wilmant.



                               Man möchte glauben, dass diese Insel gar
                                 nicht in Europa läge, so wenig kümmert
                                 man sich um sie.

                               _Si potrebbe credere che quest’isola non
                                 fosse in Europa, tanto poco ce ne
                                 occupiamo._

                                                 BARONE DI MALTZAN.



UNA PAROLA AL LETTORE


_Questo scritterello tirato giù alla buona, più col cuore che colla
squadra, era destinato ad uscire modestamente in qualche rivista: ma in
questi nostri tempi anche le riviste hanno i loro regolamenti, le loro
frontiere, le loro dogane; e il mio lavoro, già piccino per sè, fece il
caparbio e il superbuzzo, nè volle rassegnarsi a comparir pei giornali
tagliato a fette, nè ci son riuscito a condurlo a più modesti consigli.
Ecco perchè un libro, che non è un libro, vi compare impaginato, col
suo frontispizio e il suo indice, col nome dell’editore nella prima
pagina e colla triste parola di_ fine _nell’ultima. Non badate però
alla veste superba, perchè sotto la scorza c’è un galantuomo, che
chiacchiera con voi senza pretensione di scrittore che voglia dir cose
nuove o ripeter cose vecchie meglio degli altri._

_Amando il vero più che il brevetto d’invenzione, io godrò assai
di ripetere sulla Sardegna cose già dette da altri; ma ad un patto
solo, ch’io sia riuscito cioè a farvi amare un’isola bellissima e
infelicissima, che noi altri italiani abbiamo il torto di dimenticar
troppo e di amar troppo poco._

_Io poi vorrei dirvi un’altra parola che mi riguarda, e per farmela
perdonare voglio rubarla al nostro Giusti. Voi sapete che l’Io è
come le mosche, più le scacci e più ti ronzan d’intorno; sicchè devo
confessare che ho scritto questo libro non libro per amor mio, per
pagare almeno in parte un debito di riconoscenza verso i Sardi così
cortesi, così ospitali, così delicatamente generosi. Mi parve che a
saldare il conto non dovesse bastare quel po’ di lavoro utile che potrò
fare in Palazzo Vecchio come membro della Commissione d’inchiesta e
come deputato. Mi parve che fosse mio dovere scrivere una parola calda
d’affetto per la Sardegna, farla conoscere anche a quei molti italiani
che non possono leggere e studiare le grandi opere che son privilegio
delle biblioteche e dei pochi signori che comprano i libri grossi e
costosi._

_Può darsi che la mia parola riesca qua e là severa od acerba; ma
son sicuro che i miei amici di Sardegna non vi troveranno ombra di
fiele. Chi molto ama, molto castiga; ed io amo fortemente quell’isola,
così povera di presente, così ricca d’avvenire; e in nome di questo
affetto fraterno, confido che l’asprezza sarà interpretata come burbera
tenerezza d’un galantuomo, come rabbuffo amoroso d’amico ad amico._

  Rimini, 2 agosto 1869.



CAPITOLO I.

  La Sardegna vuol essere amata. — Le città della Sardegna. —
  Cagliari. — I giardinetti e un pazzo di San Bartolomeo. — Sassari
  e una lezione di storia. — Le grandi e le piccole borgate della
  Sardegna. — I villaggi e gli stazzi.


Ho messo il piede in Sardegna con viva curiosità e dopo un lungo giro
ho lasciato quell’isola con caldo amore: prima di conoscerla, era per
me cosa curiosa; dopo averla conosciuta era per me cosa cara. Gli
Italiani della penisola hanno un grave torto di dimenticare questa
gemma del Mediterraneo; essi devono studiarla ed amarla; gli Italiani
di Sardegna hanno il grave torto di spegnere la loro energia in
queruli lamenti, cercando fuor di sè stessi l’origine e il rimedio dei
loro mali. Or conviene che isola e penisola si perdonino a vicenda
i loro peccati, e stringendosi in un potente amplesso, si preparino
a tempi nuovi, e si mettano con forze comuni a fecondare una terra
quasi deserta e che ha dinanzi a sè un avvenire senza confini, più
splendido del suo passato ai tempi di Roma. Io sento nel cuore molti
debiti verso la Sardegna e i suoi cortesi abitanti: come membro della
Commissione d’inchiesta farò coi colleghi quanto sta in me, perchè il
nostro lavoro non riesca infecondo; come operaio della penna vorrei
con queste poche pagine far amare la Sardegna da tutti gli Italiani,
invitarli a studiarla, ad accarezzarla. Io ho viaggiato gran parte
del nostro pianeta e ho portato il piede in regioni quasi ignote a
calcagno europeo: eppure ho trovato in questa italianissima nostra
isola molte cose nuove, e belle e originali; e più d’una volta coi miei
cari compagni di viaggio ho dovuto esclamare in coro: Oh perchè mai gli
Italiani ignorano queste bellezze della loro patria? Oh perchè mai non
vi portano i loro occhi per ammirare, le loro braccia per lavorare, il
loro oro per raddoppiarlo?

La Sardegna è pur terra feconda e originale! Quasi ignota alle
invasioni germaniche, è tesoro per l’etnografo e l’archeologo; e
altrove non si saprebbero trovare alcuni tipi che in quell’isola
rimasero purissimi, segregati dall’incrociamento moltiforme del medio
evo. Un filologo e un antropologo troverebbero nello studio comparato
dei dialetti e dei cranii sardi tali tesori da farne una scienza nuova
e da ricostruire con facile e feconda fatica la fisiologia delle più
antiche stirpi italiane. L’amante del bello trova in Sardegna paesaggi
svariatissimi: coste dentellate come le foglie delle mimose; vergini
foreste; pianure e stagni; colli e vere Alpi, dove il granito mostra
i più bei fianchi ch’io m’abbia veduti al mondo. Costumi pittoreschi
intatti da più secoli: tipi umani profondamente scolpiti; poesia
popolare, passioni calde; rozze e ardenti nature poco o nulla mutate
dagli attriti sociali, nè lisciate dalla pialla della moda francese;
scene della natura geologica e umana, quali è difficile trovare altrove
e ai tempi nostri; tutta una tavolozza di colori vivi e svariati
che può dare materia d’opere immortali al poeta, allo scrittore,
all’artista.

E poi in questo secolo affamato d’oro, tu trovi in Sardegna monti
solcati da cento e mille filoni di piombo e sul piombo strati di zinco;
e presso il piombo e lo zinco altri metalli che non aspettano che la
mano del minatore per versare una larga vena di ricchezza nel sangue
italiano. E su quei monti una terra che scalda e profuma i pampini
delle vigne di Spagna e di Portogallo e promette in epoca non lontana
una mina a fior di terra più ricca di quella metallica che s’addensa
nelle viscere dei monti. E nel piano una terra che per ritornare ad
essere granaio d’Italia, non aspetta che la magia d’una parola, _il
drenaggio_.

Su questa terra benedetta dal sole, ricca di metalli, e di vino;
di biade e di poesia, batte l’ali fuligginose un triste vampiro,
la _malaria_; ma questa può e deve esser vinta dall’uomo, purchè
il voglia. Nelle vene dei Sardi, intelligenti e morali, serpeggia
un veleno più infesto della malaria alla salute di un popolo, ed è
l’_inerzia_: malaria ed inerzia, le due grandi malattie della Sardegna;
ma malattie curabili, perchè l’organismo è robusto e malgrado la ricca
storia, ancor giovine; perchè quest’isola dà già segni di reazione
della natura medicatrice; perchè quest’isola incomincia a voler essere
medico di sè stessa. Anche Londra aveva la _malaria_ e per opera
dell’uomo è fra le città più salubri del mondo: anche i Tedeschi furono
per anni e secoli inerti; ma l’inerzia fu vinta; e la Germania, dopo
essersi messa a capo della scienza, ha fatto Sadowa.

                                 * * *

Cagliari e Sassari son le due gemme della Sardegna, e son gemme
rivali, e di un’antica rivalità, come già lo scrisse Cattaneo col suo
scalpello da scultore. «Il solo vincolo che unisce le città sarde,
era quello della rivalità anzi dell’odio. La stessa mano che fomentava
altrove i rancori tra Palermo e Messina, tra Milano e Pavia, opponeva
studiosamente Cagliari e Sassari, Sassari e Alghero. In Alghero si
fece statuto, che i Sassaresi non vi si potessero mostrare colla spada
al fianco; e in Sassari vi si rispose argutamente, ordinando che li
Algheresi non potessero venire a Sassari se non cinti di due spade. La
vita delle nazioni era concentrata nei pochi municipi. Cagliari fondava
un’Università, e Sassari non rimaneva indietro, e ne fondava un’altra.»
— Ed io aggiungerò, che al dì d’oggi la rivalità fra le due prime città
dell’isola non è astiosa, e va assottigliandosi di giorno in giorno coi
contatti cresciuti; finchè le ferrovie la facciano sparire del tutto.

Del resto Cagliari non può essere confrontata a Sassari, così come una
bella bruna non può compararsi con una bella bionda. Cagliari ha più
pittoresca posizione e s’adagia in un panorama più grandioso; Sassari
è più lieta e si circonda di più amena cornice di colli e di oliveti.
La prima città è più severa, più accigliata e più sporca; Sassari
è più vivace, più rumorosa, più pulita. Cagliari è città ufficiale,
burocratica, con tinta soffusa di orientale e di spagnolesco; Sassari è
città più italiana, d’aspetto più moderno, di tinta siciliana; e mi si
perdoni il pericoloso confronto in nome dell’amor grandissimo che porto
alla Sardegna. L’Italia è così ricca di belle e svariate città, che si
dovrebbe poter ragionar senza fiele di ogni gemma che adorna il nostro
ricco diadema.

Quando si contempla il golfo di Cagliari dall’alto del bellissimo
giardino pubblico, o del castello, o meglio ancora dalla torre di San
Pancrazio, si gode d’uno dei bellissimi fra i belli spettacoli che
offrono al viaggiatore le cento città d’Italia. Un golfo ampio, dinanzi
a cui l’uomo deve arrossire col microscopico porto che offre alle navi;
e il faro lontano, e le saline, colle loro piramidi bianchissime, quasi
tende di un guerresco accampamento; e gli stagni vicini, veri laghi,
popolati da grosse borgate; e il promontorio di Sant’Elia col Bagno di
San Bartolomeo; e la città che dal Castello scende a Stampace e alla
Marina, quasi volesse imbarcarsi sul mare, e la vasta fascia di agavi
americane che cingono il Castello d’una fortezza primitiva; e i lontani
gruppi di palme e i tamarischi e le altre piante tropicali danno
all’occhio infinita ricchezza di sensazioni; e l’occhio beato si riposa
lungamente e amorosamente su quelle mille incantevoli bellezze.

Il Castello è il quartiere più alto e più salubre della città, e
s’arrampica sopra un alto colle: ha vie dirette da nord a sud, poco
larghe, ripide, con case alte. E strette sono anche le vie di Cagliari
alla Marina: vecchia abitudine dei nostri padri, che, vivendo giorni e
mesi all’aria libera, volevano nelle loro case ombra e frescura più che
aria e luce. Nel quartiere del Castello avete la Cattedrale dedicata a
Santa Cecilia e sette altre chiese.

Discendendo dal Castello per la piccola porta del Balice, vi trovate
nel quartiere di Stampace, che è il centro del commercio e degli
affari. Se per la via di Yenne vi dirigete verso il mare, guardando
a destra e a manca le migliori botteghe della città, giungerete alla
piazza di San Carlo, che si continua in quella del mercato; e là vi
convien sorridere, ma di un sorriso senza amarezza, guardando sopra
un gran piedestallo di granito, un re Carlo Felice, fatto di bronzo,
con elmo, corazza e paludamento; graniti e bronzi e vesti romane che,
davvero, poco convengono ad un re pacifico; due volte pacifico.

Quando siete in Stampace non avete a dimenticare il mercato, che è
sempre uno dei quadri più importanti di una città. Vi troverete molto
pesce; montagne di arancie dorate e profumate raccolte sotto capanne
pittoresche, quasi indiane; vedrete il ricco e svariato selvaggiume
della Sardegna. Vi offriranno una pernice per una lira, una beccaccia
per dieci soldi; filze di otto tordi polputi e grassi, lessati nelle
montagne e ravvolti nel mirto: filze degne di Nembrodde e di Lucullo e
che i Sardi chiamano _taccole_. Fra le capanne dei venditori d’arancie,
e le botteghe a ciel sereno dei pesciajuoli, dei salumieri e dei beccai
vedrete aggirarsi la gente minuta coi suoi costumi variopinti, quasi
sempre pieni di gusto.

Le case di Cagliari son popolate da cento balconi e in molte di esse
ogni finestra è un balcone, ciò che non è bello a vedersi, ma è comodo
assai per le fanciulle e le signore, che escono assai poco di casa e
da quei loro osservatorii studiano il mondo esterno e fanno all’amore.
L’amore onesto si fa anzi da una signora che guarda dal balcone e da un
giovinotto che impavido e instancabile passa le ore inchiodato nella
via come una statua, contemplando la fiamma del suo cuore. E come sia
cosa seria il far l’innamorato in Sardegna, lo vedremo più innanzi.

Se dalle vie principali della città vi addentrate nei viottoli e
più ancora se cercate i più poveri quartieri, il naso si arriccia
e l’igiene pubblica fa sentire i suoi lamenti. Nel quartiere di
Villanuova ho veduto le vie convertite in fogne, e anche in alcune case
di Stampace ho veduto atrii che devono essere molto pericolosi agli
uomini di corta vista. In Villanuova la vita del povero è pubblica nel
senso più preciso della parola. Le case per lo più non hanno finestre;
e l’aria, la luce e gli sguardi dei curiosi entrano liberissimamente
a spiare i costumi degli abitanti. Quando il tempo è buono, non fa
bisogno neppure di spinger lo sguardo oltre la soglia delle case,
perchè tutta la famiglia si rovescia nella via, dove si lavora, si
chiacchiera e si mangia. In Villanuova io mi credevo davvero in Africa,
e le donne che mi parevan tutte sorelle, avean gli occhi orizzontali e
piccoli, il colorito terreo e quella fisonomia di obelisco che ci hanno
tramandati i monumenti egiziani.

E quella gente dal volto egiziano è cortese e sorride al forestiero.
Colle migliori grazie del mondo mi lasciarono entrare in casa e mi
accorsi che molte di quelle abitazioni sembravan fatte per una cosa
sola, adatte ad una sola industria, quella del mugnaio. Le sedie son
poche e spesso brillano per la loro assenza, e così dei tavoli e degli
altri mobili; ma la nostra attenzione è tutta attratta da un asinello
grullo grullo, arruffato, poco più grosso d’un mastino e che così
poco rassomiglia a cosa viva da sembrar di legno, quando si arresta
nel suo monotono, sempiterno giro intorno alla macina che muove.
Quell’animaluccio, il dio penate, la prima ricchezza della casa, costa
da cinque a dieci lire, è più parco di un arabo; e divide il tetto col
padrone e i suoi figliuoli. Fabbrica il pane alla famiglia e produce
spesso il piccolo frutto di macinar il grano ai vicini, industria
rovinosa che speriamo veder scomparire dalle classi povere della
Sardegna. Le donne della casa son occupate per tre e fin quattro giorni
della settimana a fabbricare la farina che stacciano e raffinano con
infinite cure per mezzo di crivelli e stacci puliti, fini ed eleganti,
intrecciati a varii colori con cannucce di paglia e fibre di palma
e che vedete appiccati al muro della casa, di cui insieme a qualche
immagine di Santo formano l’unico ornamento.

Il mulino casalingo della Sardegna è la _mola asinaria_ o _machinaria_
degli antichi: poco diversa dalla χειρομύλη dei Greci. Potete vedere in
Vaticano sopra un bassorilievo una _mola machinaria_ romana, dove anche
il cavallo che la muove ha gli occhi coperti come i rachitici asinelli
macinatori della Sardegna. Se son rachitici e nani, son però valenti
e pazienti, perchè lavoran fin quindici e diciassette ore al giorno, e
Matzan aggiunge, ridendo a proposito, che quei somarelli devono esser
anche grandi filosofi, dacchè Pittaco di Mitilene passava molte ore,
macinando colla χειρομύλη, movimento che aveva trovato favorevole alla
meditazione.

Quando si pensa però che tutte le donne e spesso anche i fanciulli
d’una famiglia sono occupati in null’altro che a far pane, è a
desiderarsi che la legge del macinato abbia almeno in Sardegna
questo vantaggio di far sparir la falsa e fatale industria dei mulini
casalinghi.

Cagliari può vantarsi di possedere nel suo Museo un vero tesoro
archeologico, a nessuno secondo e che è opera quasi intiera di un
solo uomo, il Canonico Giovanni Spano, una delle prime glorie della
Sardegna; più che instancabile, miracoloso nella sua attività e
ardentissimo e innamoratissimo illustratore del suo paese.

L’Università di Cagliari e la sua minore sorella di Sassari sono una
vera vergogna per l’Italia. Non è lecito ad un governo, per quanto
povero, lasciare queste larve di insegnamento superiore, dove la
povertà dei mezzi concessi alla scienza fiacca e avvilisce i migliori
ingegni e la volontà dei buoni è spesso impotente e rabbiosa contro
le lesinerie burocratiche dell’alta sfera governativa. Speriamo che
per onor nostro questo obbrobrio sarà cancellato. Ho conosciuto a
Cagliari e a Sassari ottimi uomini che pur vorrebbero studiare; giovani
intelligenti e operosi che pur potrebbero far avanzare la scienza, ma
li ho veduti aggirarsi come larve irrequiete per quei muti corridoj e
quelle aule deserte che con superba parola si chiamano Università: veri
_idalghi_ spagnuoli che domandano l’elemosina con piglio altero e i
vestiti laceri.

La penna irata mi richiama alla mente un tristo ricordo di Cagliari,
ed è la mia visita all’Ergastolo di San Bartolomeo; primo passo in una
_via crucis_ che dovetti percorrere in Sardegna, visitando tutte le
carceri e tutte le galere.

A San Bartolomeo si sta assai bene, molti assassini vi ingrassano a
meraviglia, nel lavoro salubre delle saline, negli ampii dormitorii e
con sani alimenti. In altre carceri però e specialmente a San Pancrazio
in Cagliari e a Sassari e altrove sentii il tanfo di una lenta asfissia
e mi si inchiodò nel capo un pensiero che non mi abbandona mai, ed è
questo che la società si vendica col suo codice delle pene assai più
spesso di quel che si difende; incrudelisce assai più di quello che
educa.

Nell’Ergastolo di San Bartolomeo si fondò una colonia agricola
penitenziaria che promette assai per l’avvenire. Dinanzi al palazzo
della vendetta vedete giardini fioriti che appartengono agli impiegati
della galera: ho veduto bambine rosee nel volto, coi nastri rosei
pendenti da un lindo cappellino di paglia di Firenze correre per
quelle aiuole fiorite dietro le farfalle; mentre uomini dalla faccia
patibolare passavano dinanzi a quei giardinetti e coi loro sguardi
contaminavano quelle bambine.

E quei galeotti avevano diversi berretti, dacchè anche fra essi
v’ha una gerarchia. L’uomo è un animale da gerarchia e pur che ne
abbiate tre riuniti avete subito: plebe, aristocrazia e mezzo ceto; è
privilegio di tutte le bestie sociali e socievoli e possiamo menarne
vanto. Il berretto rosso vuol dire _condanna a tempo_, berretto verde
_condanna a vita_, fiocco nero _omicidio_ e così via. Le bambine dai
nastri rosei conoscono tutte queste differenze e ve le spiegano; e
il Procuratore del re, passeggiando col sorriso sul volto mi diceva:
_stanno benissimo: la è gente fortunata, che mangia e lavora e gode di
ottima salute. Nell’ultima epidemia di febbri miasmatiche in Cagliari
ebbero tutti la febbre e questi galeotti si serbarono sanissimi_; ed
egli rideva.

Io però, passeggiando nelle sale destinate ai malati, mi fermai dinanzi
ad un volto che parea impietrito nel dolore; un Laocoonte del cuore;
sempre vivo e sempre tormentato. Era melanconico e tormentato tratto
tratto da accessi di delirio di persecuzione credeva che tutti lo
volessero ammazzare. Era divorato dai rimorsi. Era un povero muratore,
che, trovandosi senza pane, andò dal suo antico padrone, chiedendogli
lavoro. Gli fu negato; ritornò più volte e sempre invano. Un giorno la
fame era maggiore del solito: era rabbiosa; egli insiste nell’implorare
il lavoro: _Ho sei figliuoli; signor padrone. — Oh va all’inferno, tu
e i tuoi figliuoli._ — Una mazza era sul suolo fra vari attrezzi di
muratore e un momento dopo il padrone era steso al suolo cadavere: e
il povero muratore condannato nella galera di San Bartolomeo è pazzo di
dolore e di rimorsi[1]. —

A San Bartolomeo però si sta bene e si ingrassa; e i giardinetti degli
impiegati sono fioriti. Io vi ho vedute le più belle viole del mondo
e vi ho colta una rosa più profumata di quelle d’Arabia; i bambini vi
acchiappano le più brillanti farfalle; ma a due passi v’è un uomo pazzo
di dolore, perchè la società si vendica più di quel che si difende.
I nostri figliuoli, però, ne son sicuro, prepareranno ai posteri una
giustizia più umana.

                                 * * *

Quando voi avete percorso le noiose, lunghe e tristi lande sterili
che separano Bosa da Macomer e avete attraversati i paesaggi poco
interessanti di Torrealba e i rari boschi di quercie che trovate nella
monotona pianura; voi vi accorgete di esser vicini a Sassari, quando
la natura diviene ridente; quando i monti, rizzandosi più alti intorno
a voi, frastagliano il cielo e la terra in modo da formare quadri
svariati e pittoreschi. Ascendete un monte tutto pieno di magnifici
olivi, coltivati colla stessa sollecitudine e tenerezza con cui si
coltiva un orto cittadino. Io percorsi quei boschi d’argento nel
tempo della raccolta e vidi liete schiere di fanciulle e di ragazzi
che raccoglievano il frutto in lindi canestri, e a quando a quando
interrompevano il lavoro per cantare e ballare. Parevano stormi di
passerotti vivaci e protervi; e raccoglievano le olive colla stessa
cura e lo stesso amore con cui si farebbe bottino di cosa carissima e
preziosissima. E davvero che l’olivo è per Sassari una mina d’argento:
mi si diceva che in quest’anno, fortunato fra gli altri, si farebbero
200,000 barili d’olio, che è quanto dire una bella cifra rotonda di
sette ad otto milioni di lire. Di questa ricchezza mi accorsi anche
entrando in Sassari, dove molte case nuove si stavano rizzando ed erano
le olive trasformate in muri e marmi. L’olio di Sassari potrebbe esser
fatto meglio: se ne manda a Nizza, dove raffinato cresce di valore e
piglia un nome che per la sua squisitezza nativa ben si ha meritato.
L’olivo dovrebbe anche esser difeso nei dintorni di Sassari dai
cacciatori che spietatamente lo tormentano colle loro fucilate, quando
vanno a far bottino di tordi: ma è difficile persuadere quei cacciatori
che hanno torto di flagellare la prima ricchezza del paese, quando
portano a casa fin sessanta e settanta tordi in una mattinata.

Sassari è città lieta e serena per la bellezza del suo cielo, per la
pulita bianchezza di molte sue case, per la rumorosa vivacità dei suoi
abitanti. In ogni guida voi troverete la descrizione delle chiese,
delle piazze, del castello; ed io non mi son dato a voi per cicerone
della Sardegna, e con voi soltanto voglio scorrere le pagine del mio
portafoglio di viaggiatore, e voglio far nascere molti desiderii di
curiosità e appagarne pochissimi, sicchè nasca in voi il desiderio di
veder coi vostri occhi la Sardegna, di toccarla colle vostre mani. Per
me la cosa più interessante di Sassari è il monumento di Azuni, nella
piazza che ne porta il nome. Quando una città ha la fortuna di aver
dato la luce ad un grand’uomo e di ornare una delle piazze colla sua
statua, rammenta al viaggiatore una pagina gloriosa della sua storia
e può andarne onestamente superba. È la civiltà moderna che demolisce
il castello del feudatario e colle vecchie pietre rizza una nuova
scuola; è la nuova generazione che ai santi del calendario sostituisce
le statue dei santi del progresso. Nella biblioteca dell’Università
ho guardato con commozione un manoscritto inedito di Azuni che portava
un bel titolo: _Dei caratteri della natura umana_. Nell’Università ho
veduto un altra cosa per me carissima: il rozzo tavolo anatomico su cui
Rolando scrutò i misteriosi labirinti del cervello umano.

Ho visitato anche la fontana di Rosello, celebre per la sua
architettura; e pei suoi asinelli che portan l’acqua in città e
che Valery, il dotto bibliotecario di Versailles, tentò di rendere
immortali, descrivendoli con molto amore e cantandone le virtù
infinite. Io confesso di non aver sentito l’eguale ammirazione nè
l’egual compassione per quelle rachitiche creature, tutte pelo e
ossa; e ho trovato che i Sassaresi, che chiamano ironicamente quelle
bestioline col nome di _filumene_ (capinere), hanno più spirito del
Valery.

I dintorni di Sassari sono belli assai; ed io li vidi bellissimi;
perchè su quelle molli colline inargentate dagli ulivi ho potuto
ammirare i cupi boschetti di aranci carichi di frutti; e perchè insieme
all’oro delle arancie in quella stagione sorridevano i peschi fioriti
e un profumo di calda primavera m’inebbriava i sensi e mi faceva
innamorare di quella terra e di quel cielo.

Presso a questo quadro ridente a pochi passi da Sassari avete una
scena malinconica e una severa lezione di storia. Se dopo aver
ammirato i lieti giardini dei Sassaresi e le bianche e liete ville,
voi vi dirigete a Porto-Torres; avete una landa sterile, che sente
lo squallore e la malaria, e in mezzo a quella solitudine fra le
erbe folte vedete rizzarsi gli archi spezzati d’un antico acquedotto
romano. Il terreno è tristo, o bruciato dal sole o reso pantanoso dalle
pioggie; pecore brulle e nere rodono gli arbusti spinosi e le erbe
gialliccie; vi regna un’aria di povertà e di febbre; ma quella triste
terra si apre e dal crepaccio alza il capo l’antica civiltà romana
coi suoi archi e i suoi acquedotti. È un gigante mal sepolto; la terra
divenuta piccina a stento può coprirne le ossa, e dalla tomba ne vedete
escir fuori gli stinchi mal coperti. È l’Italia di Roma che sogghigna
beffarda all’Italia dell’oggi. La lezione è dura e poco lieta; ma non è
finita. Tirate avanti che la lezione continua.

A Porto-Torres poche case, fanciulli cenciosi, un porto che sembra
stagno di rospi: eppure voi siete sul suolo dell’antica Torres, una
delle maggiori fra le antiche città dell’isola; eppure voi vedete fra
i giunchi della palude alzarsi le gigantesche rovine del tempio della
Fortuna che con barbara parola chiamano _Palazzo del re barbaro_.
A quelle rovine gloriose strapparono alcune colonne magnifiche che
insieme ad altre d’origine romana fanno coro nella Basilica di san
Gavino. Son ventotto colonne d’ogni stile e d’ogni pietra, di granito,
di marmo bianco, di marmo grigio, di marmo cipollino. Il tetto di
quella Basilica, che è tutta una poesia, è degno di quelle colonne,
perchè è fatto di travi immensi di ginepro, come non ne sapreste
trovare al dì d’oggi un sol tronco in tutta l’isola. Sopra i giganti
dell’arte romana, i giganti della natura; membra spolpate del mondo
antico, stinchi di marmo che sostengono cadaveri di tronchi dieci volte
secolari, e duri e aromatici ancora; cresciuti nel pacifico silenzio
dei deserti sardi, quando l’uomo fenicio, corridore dei mari, non vi
aveva ancora messo il piede. Sotto quei cadaveri di ginepro; sotto
quei cadaveri di marmo avete poi nel santuario sotterraneo tre altri
cadaveri di santi martiri, san Gavino, san Proto e san Gianuario: tre
cimiteri sovrapposti l’uno all’altro e che si tollerano l’un l’altro
con eterna pazienza; il mondo della natura vergine, il mondo romano,
il mondo cristiano: ginepri, grandi come le quercie e dopo tanti secoli
non tarlati ancora; colonne di marmo; tombe onorate da cento fiammelle
di cera. Quanta poesia e quanta storia in sì angusto terreno!

Udite a completare il quadro una pagina di storia:

«Gavinus o Gabinus discendeva dalla famiglia romana Papilia e da un
Cajus Papilius Sabellus, e si chiamava Gabinus Sabellus. Esso era
stato nominato dall’Imperatore Diocleziano comandante d’una corte
di cavalleria, ed in questa qualità si trovava in Torres, dove
ebbe occasione di ascoltare le predicazioni di San Proto e di San
Gianuario ch’eran stati ordinati preti dal Papa Cajo. Questi, essendo
stati accusati di sommuover il popolo, furono assoggettati a crudeli
tormenti: come Gavino, per dovere della sua carica fu obbligato di
assistere agli atti di barbarie, così fu sorpreso dalla loro costanza
e promise di seguitare il loro esempio, e siccome queste due vittime
destinate alla morte furono affidate a lui, così egli profittò di
iniziarsi nella nuova fede e di battezzarsi; indi mise in libertà i due
prigionieri e si presentò al preside Barbaro, dicendogli che anch’esso
era cristiano. Fu tosto arrestato, e condotto all’orlo del mare, in un
sito detto _Balai_, ivi venne decapitato; il di lui corpo colla testa
fu gettato nelle onde, ma pietose persone raccolsero le spoglie e le
depositarono in una tomba vicina scavata nelle roccie. Là pure furono
collocati i corpi di San Proto e Gianuario, martirizzati nello stesso
sito dopo poco tempo. Il martirio di San Gavino accadde nel 25 ottobre
dell’anno 300.

«La principal festa di San Gavino occorre il secondo giorno di
Pentecoste, e vi accorre molto popolo. È curioso il vedere le pratiche
religiose alle quali si danno i divoti: alcuni fanno in ginocchio il
giro delle colonne della Chiesa, e le bacian, come pure bacian il piede
del cavallo di San Gavino di legno dipinto, come è la sua cavalcatura.
Si crede nel paese che una di queste colonne fosse portata in questo
luogo dal Santo, che la prese dal fondo del mare e la portò dritta
nell’arcione della sella del suo cavallo. La festa è molto frequentata
ed animata; vi si vedono i costumi di tutti i villaggi della parte
settentrionale dell’isola. Allorchè la festa è finita, e che i
visitatori parton nel martedì per restituirsi nei loro focolari, si
vedono di quelli che colle loro donne alla groppa fanno entrare i loro
cavalli nel mare sino al petto: ciò fanno coll’idea che i loro cavalli
restano benedetti nell’uscir dell’acqua dove una volta furon gettati i
corpi Santi, e dove San Gavino prese in seguito la colonna di cui sopra
si è parlato. Nel 4 maggio vi si celebra un altra festa coll’intervento
del corpo municipale di Sassari, come patrono della Chiesa: essa è meno
frequentata che la precedente....»[2]

                                 * * *

Le città minori della Sardegna hanno tutte una fisonomia propria, e il
lungo isolamento l’ha resa più saliente e durevole.

Quando voi avete attraversato a cavallo i monti e i boschi pittoreschi
che separano Perfugas da Tempio, voi vi trovate dinanzi uno dei più bei
panorama della Sardegna e dall’altipiano ricco di vigne e di seminati,
in cui si adagia quella montana città, voi vi vedete dinanzi lo
splendido monte di Limbara, uno dei più maestosi colossi di granito che
abbia il nostro paese. Dopo aver passate lunghe ore a cavallo in mezzo
a boschi deserti, a valli deserte, per burroni deserti, voi salutate
i primi frutteti di Tempio con vera gioia, e affrettate il passo per
salutare la città, di cui sentite già vicino il tiepido fiato. L’uomo
non ama la solitudine che per vendetta o per malattia, non ama i
deserti che per un ora, o quando il deserto è per lui un quadro agli
occhi e non una casa o un soggiorno.

La città di Tempio colle sue case di pietre granitiche grigie senza
intonaco bianco, e unite da argilla bigia; colle sue vie magnificamente
lastricate di granito, ha un aspetto severo e malinconico e sopratutto
un colore montano. Non vi vedete intorno che colori oscuri: case
grigie, pavimenti grigi, chiese grigie; uomini dal cappuccio e dai
calzoni neri; ma su quella città ride un cielo eternamente limpido e
azzurro e per le vie e alle finestre vedete volti intelligenti, uomini
gagliardi e donne dagli occhi neri e ardenti.

                                 * * *

Da Tempio, salto con voi ad Alghero, perchè, non scrivendo io una
guida, nè un’itinerario, seguo il filo conduttore della statistica e
rendo omaggio anch’io alla legge, che misura la potenza degli Stati,
la felicità dei popoli, il prosperare delle città dal numero dei loro
abitanti. Se Tempio coi suoi 10,447 abitanti sta dopo Sassari, Alghero
vien subito dopo Tempio, perchè ne conta 8,573. Alghero chiusa fra il
mare e una angusta cerchia di bastioni respira male, sente il miasma
dei luoghi chiusi e aspira ardentemente a rompere la vecchia corazza
che la cinge e la stringe, per respirare nelle campagne vicine un’aria
più pura.

Ad Alghero il mare è bello e consola gli abitanti, tristi della
strettura in cui li tengono i bastioni. Un golfo grande col Capo
della Caccia e la sua famosa grotta di Alghero, una delle più belle e
sgraziatamente più difficili grotte che si possano visitare; e dietro
quel Capo, il Porto Conte, preparato stupendamente per un popolo di
naviganti che non giunge ancora. Vedo nel porto schierate con ordine
militare molte barche peschereccie e dinanzi ad esse quei trabocchetti
di rete che chiaman _nasse_. Nel lontano orizzonte vedo una vela: è
una barca corallina che coi suoi uomini di ferro fra stenti inauditi,
strappa ai profondi scogli del mare, quel polipo porporino che andrà
poi a posarsi invidiato sul collo delle belle signore d’Italia e sulle
spalle delle odalische d’Oriente.

I pescatori di corallo che vengono ad Alghero con più di 200 barche
ogni anno; son quasi tutti napoletani e toscani; fanno ottimi guadagni,
ma menano una vita d’inferno. Dormono quattro ore al giorno, lottano
col sole ardente, cogli aquiloni, colla fame, colle pioggie: le loro
mani son rese così callose dal remo e dal maneggio dell’argano che
alza e affonda l’ordigno pescatore che, se tu getti loro una moneta sul
suolo, non possono spesso piegar le dita a raccoglierla; ma battendola
con una mano la fanno balzare nell’altra. La pesca dura dal febbraio
alla prima settimana di ottobre, e Alghero, letto di corallo, non dà
alla pesca che 24 barche coralline. Eppure una _paranza_ corallina dà
in un triennio un guadagno netto di 25 a 26 mila lire.

Nel porto di Alghero vedo molleggiarsi soavemente sull’onda un bel
bastimento mercantile, domando a chi appartiene. È di un genovese che
porta il soprannome di _Miseria_, soprannome onorevolissimo per lui.
Era il più povero degli uomini; fu accolto in Alghero malato, per
elemosina assistito e medicato; ora è milionario, è alla testa del
commercio, possiede due case, molte navi. — Oh perchè l’Italia non è
tutta Liguria?

Le case d’Alghero son bianche e qua e là alza sopra di esse il suo
ciuffo maestoso una palma. Sopra la palma torreggia un campanile di
bella architettura e la cattedrale è ricca di marmi d’ogni colore.
Sopra la città s’innalza con triste cipiglio un altro grande edifizio:
l’_Ergastolo_. La città ha però molte viuzze strette e sucide. Il
teatro è bello e mi dissero che fu fatto specialmente per opera e
col denaro dei canonici; dei quali formicola Alghero. È certo che i
canonici vanno assiduamente al teatro, con minor ipocrisia che fra noi,
e furon veduti con santa compunzione assistere alla _Traviata_, col
libretto dell’opera fra le mani.

Gli abitanti di Alghero si dividono in tre grandi classi; pescatori
e marinai; pastori e agricoltori; agiati che vivono sonnecchiando
sulle loro rendite. Parlan tutti l’_algherese_, che è poi il dialetto
catalano quasi puro. Questa lingua in tutta la Sardegna non si parla
che ad Alghero e fin dal 1354, anno in cui la città venne assediata
per terra e per mare dal Re D. Pietro _Il Ceremonioso_: l’assedio durò
lungamente e fu poi convenuto che gli antichi abitanti sarebbero tutti
usciti e fu occupata da una colonia di catalani. La fisonomia degli
algheresi mi parve catalana e ligure, ma la razza è incrociata di
elementi sardi, fors’anche napoletani e d’altre provincie italiane. La
lingua non è sempre battesimo di sangue.

Se andate ad Alghero, dovete visitare il palazzo del Municipio, dopo
aver letto una pagina di storia, che vi consolerà di esser nati tre
secoli più tardi di Carlo V e vi farà tollerare con calma e pace serena
le miserie dei nostri tempi.

»Questa è l’antica casa d’Albis, appartenente ora agli eredi del Conte
Maramaldo della Minerva, vi si conserva la memoria del soggiorno di
Carlo V, quando nel 1541 visitò la sua cara città di Alghero. I fatti
che in allora vi succedettero nelle due giornate di _mezza festa e di
mezzo saccheggio_, come dice il Valery, hanno un impronto dell’epoca
tutta particolare.

»Il primo pensiero che si presero i cittadini d’Alghero all’annunzio
dell’arrivo del loro sovrano, fu di radunare la più gran quantità
di viveri che fosse possibile per farne regalo alla flotta che
accompagnava l’Imperatore, questi prima di sbarcare accettò una partita
di caccia nel vicino Monte Doglia, dove immantinenti un cinghiale ebbe
l’onore di morire dalle mani auguste. Dopo questa illustre impresa si
diresse verso la città, ma prima di entrare volle fare col suo battello
il giro delle fortificazioni che riguardavano il mare. Davanti al
molo si era preparato un ponte posticcio, perchè Sua Maestà Imperiale
discendesse comodamente in terra e l’avevano ornato di ricche stoffe.
Le persone che aspettavano l’Imperatore in questo sito, vedendo il
battello diretto altrove, credettero che sbarcasse in altro punto della
spiaggia, ed abbandonarono in un istante il posto, in allora i soldati
di Cesare si lanciarono sopra il ponte, lo misero a ruba, e tolsero
tutte le tappezzerie di cui era coperto. Questa scena fu lontana
di disgustare Sua Maestà, la divertì molto. Egli montò subito sopra
un magnifico cavallo che gli avevano offerto col quale fece il giro
interno delle fortificazioni, poi entrò nella casa in discorso, che in
allora apparteneva ad un certo D. Pietro di Ferrera. Là si affacciò
alla finestra che dava alla strada, e fu testimonio allegro d’una
scena, degno compimento di quella del saccheggio del ponte, che l’aveva
divertito tanto. I soldati spagnuoli, discesi a terra coll’imperatore,
principiarono a perseguitar e ad infilzare colle loro spade, sotto
i suoi propri occhi, le bestie che si trovavano radunate in questa
piazza e nelle strade vicine: queste bestie erano quelle destinate per
regalo alla flotta, e furono scialacquate da una soldatesca sfrenata
ed avida di saccheggio, sotto gli occhi del loro sovrano. Si racconta
pure che uno degli uffiziali dell’Imperatore dimandò se era permesso
di distaccare dalle muraglie le ricche tappezzerie in seta che ornavano
l’interno della casa dove questo principe ricevette l’ospitalità, e si
dice che Carlo V, rivolto al magistrato che l’accompagnava, gli dicesse
ridendo: _Jurado, mirad que no hagan danos estos locos_ (Jurado, badate
che questi pazzi non facciano danno).»

In quei tempi esser saccheggiato da una selvaggia soldatesca, servir di
spasso ad un Imperatore eran delizie per un popolo. Vedete:

»Appena che Sua Maestà se ne partì, questa finestra fu diligentemente
murata, come la è sino al presente, affinchè non fosse profanata da
un altro mortale. La casa dove soggiornò il Principe per 48 ore, ha
goduto da quell’epoca sino ai tempi a noi vicini, del diritto di asilo,
una catena di ferro con due pilastrini collocati davanti alla porta
d’ingresso serviva di rifugio alle persone inseguite dalla giustizia
o minacciati d’essere arrestati. Il tempo finalmente ha fatto sparire
questa scioccheria»[3].

                                 * * *

Ozieri è città pittoresca, che sembra accampata fra i monti che
danno la mano da una parte ai colossi granitici di Alà e di Buddusò e
dall’altra si legano colla catena di Monterasu. È città ad anfiteatro,
colle case disposte a piani diversi. Di sera un cinguettìo e un coro
di risa rumorose guidano i vostri passi ad una gran fontana messa nel
centro della città e dove cento lavandaje d’ogni età a lume di candela
lavano e battono spietatamente i panni e schiamazzano fino a tre ore
dopo la mezzanotte.

Serberò finchè vivo lieta memoria di Ozieri, perchè vi ebbi la più
lieta accoglienza del mondo e mi parve nell’industriosa attività di
quelli abitanti di leggere uno splendido avvenire. Quando Terranova
rannoderà la Sardegna al continente italiano, Ozieri diverrà una delle
città più importanti dell’isola e i nuovi tesori del commercio faranno
lieta compagnia alle ricchezze avite dell’agricoltura.

                                 * * *

Oristano è città antica, resa triste dalle sue lagune che la ravvolgon
tutta quanta quasi in un funebre lenzuolo di miasmi e di febbri. Se
venite da Uras, entrate nella città attraverso una porta antichissima
con un castello pittoresco, antica residenza dei giudici di Arborea;
se escite per la via che conduce a Sassari passate ancora attraverso
un altra porta antica e un altro castello. Fra quell’entrata e
quell’uscita da medio evo avete molte case vecchie anch’esse e con
balconi pittoreschi e arabescati. Per le vie molti preti, molti
accattoni; ad onta del freddo vedi molta gente minuta colle gambe e i
piedi nudi e spesso montano a cavallo, legandosi lo sperone al piede
nudo. Vedi passar uomini a cavallo con una cappa nera da beduino e un
nero cappuccio sopra un volto nero e accigliato; veri arabi d’Italia.

Un sobborgo d’Oristano è tutto abitato dai _Congiolarius_, che di
padre in figlio si trasmettono l’arte di far terraglie, e le impastano
e le foggiano all’aria libera. La cosa più interessante d’Oristano
è però il Museo privato di antichità sarde del giudice Spano, il più
bizzarro, il più originale, il più galantuomo degli archeologi ch’io
m’abbia conosciuto. Abita un vecchio castello, che fu forse casa
della Giudichessa Eleonora; vive fra i suoi camei preziosissimi, fra
i suoi vetri di Tharros dai mille colori, fra le sue urne cinerarie:
una polvere secolare posa su quelle ricchezze e il Dio di quel tempio
appena serba a sè stesso un posticino, il più modesto della casa, che
non è casa; perchè è fortezza, è castello, è museo; qua e là nido di
gufi. Il giudice Spano fra quelle rovine e fra quei tesori, in quel
mondo di cose antichissime e in mezzo a quella polvere antichissima
serba l’entusiasmo più giovanile e quando accende le sue candele per
farvi ammirare i riflessi iridiscenti dei suoi vetri di Tharros, i
suoi occhi fiammeggiano fra quelle urne e quelle ragnatele, come lampi
di un uomo felice, di un uomo _terque quaterque_ felice; dacchè una
nobile passione lo riscalda; ed egli toglie a sè gli agi della vita
per lasciare una delle più splendide raccolte archeologiche che abbia
l’Italia.

Oristano serba una gloriosa tradizione, quella della Giudichessa
Eleonora, di cui potete vedere il ritratto in Cagliari, regalato
dal Canonico Spano alla Biblioteca dell’Università. Quella donna fu
soldato, fu generale, fu re, fu legislatore.

Non scrivo storie, ma vi invito a studiare la vita di quella sapiente e
generosa principessa. Eccovi un solo tratto della finezza legislativa
di Eleonora. Anche ai suoi tempi vi eran donne infedeli e uomini
maldicenti: la Giudichessa sapiente per conservare la pace delle
famiglie decretò che dovesse pagare lire 15 di multa chiunque avesse
chiamato becco un cittadino dei suoi Stati e lire 30 se avesse provato
che quel titolo gli era dovuto; e chi non volesse crederlo, legga la
_Carta de logu della Giudichessa di Arborea Eleonora_.

                                 * * *

Bosa è fra le piccole città della Sardegna una delle più simpatiche:
posta sulla sponda destra del Temo, il Temus di Tolomeo, ha vini; oggi
nettare di pochi, ma destinati a glorie mondiali; vicina al mare e
sopra un fiume che serpeggia fra colli e campagne fertilissime. Una
gita in barca sul Temo è una delle passeggiate più deliziose che si
possano fare: in alto sui monti, colonne di basalto che sembran rovine
di città e di templi sepolti; in basso cotogni, e olivi e melagrani
e aranci e palme che scendono fino a bagnarsi i piedi nell’onda
del fiume. Bosa è al piede di una collina su cui si arrampica, ed è
dominata dal Castello dei Malaspina, scena pittoresca, che completa
la bellezza del quadro. Le lingue malediche vi dicono che a Bosa si
beve molto; ma e chi non beverebbe di quei vini, degni fratelli del
Xeres e del Tintilla di Rota? Le stesse lingue aggiungono che i preti
sono in Bosa padroni di molte coscienze e di altre cose ancora; ma
vi ho trovato già sul tramonto la loro influenza, un tempo davvero
onnipotente; e vi dicono ancora che i Bosani sono egoisti; ma io non lo
credo, tanto mi parvero splendidamente ospitali.

                                 * * *

Badate che nel presentarvi le città sarde seguo sempre i gradini
della gerarchia numerica, e dopo Bosa vi presento Iglesias che ha una
popolazione di più che 6000 abitanti e sempre crescente per la potente
attrazione che esercitano la mine vicine di piombo e di zinco e delle
quali il Sella ci darà una storia compiuta; fatta con lungo studio e
molto amore.

Iglesias potrebbe lavarsi meglio la faccia e i piedi, ricca com’è di
fontane e avendo quella di _Corradino_ e _Cixeddu_ e _Maimone_: ha vie
molto strette, mal lastricate, sporche, dominate dalla cattedrale e
da un palazzo arcivescovile nero nero. L’unico albergo della Vittoria
è appena abitabile. Per le vie ad ogni passo tegami di terra pieni di
carbone acceso: in molte case non v’è camino e si fa focolaio della
via, sicchè quando soffia il vento vi schizzano fra le gambe faville
d’ogni grandezza che appiccan frequenti incendii. Anche al primo piano
del Palazzo Vescovile vidi una sera un di quei tegami infuocati, su cui
il vento soffiava con tal forza da farlo sembrare un piccolo vulcano, e
scintille e faville volavano per ogni parte.

Nelle vie più povere le case non sembran fatte per uomini; entrai in
uno di quei covili ed era poco più alto d’un uomo. Nessuna sedia e
nemmeno finestre; per la porta entravano la luce e l’aria e per un
foro fatto nella parete di fango seccato (_ladderi_) esciva il fumo.
In un angolo del fuoco e intorno intorno ammonticchiati dieci o dodici
persone, accosciate per non rimaner spente dal fumo; eran bambini e
fanciulli e donne e vecchi. In fondo a quella sala due buchi quadrati,
uno più basso e più grande senza uscio, conduceva in una tana dove era
un letto pei genitori: gli altri dormivano per terra in un mucchio.
Sopra quel buco quadrato un altro più piccolo che s’apriva in un
panteon domestico; dispensa, magazzino per tutto e per tutti. Coperto
da una cassa di legno grugniva accanto al gruppo umano del focolare, un
porchetto; il beniamino, il Dio penate della famiglia; me lo mostrarono
con amore, lo abbracciarono con tenerezza: trovai anch’io che era
grazioso e quasi parente prossimo di quei poverelli che pagavano per
l’affitto di quella tana cento lire all’anno(!).

Sulla città di Iglesias pendono accigliate alcune rovine pisane che
vi ricordano il conte Ugolino, una volta padrone e donno di tutta la
città e del suo territorio. Deve essere cosa grande il leggere in quel
castello il canto XXXIII dell’Inferno.

                                 * * *

Sopra un altipiano di granito alto 581 metri sul mare, trovate Nuoro,
circondata da bellissimi monti e da valli fiorite; ha una bella e
antica cattedrale, ma è più famosa per i suoi abitanti che per le sue
industrie o i suoi monumenti; e ne parleremo più innanzi, quando dopo
aver veduto le città e i villaggi entreremo nelle case a conoscere gli
uomini.

Osilo è una delle più grosse borgate della Sardegna, e gli Osilesi
hanno da secoli fama di fieri e di indomiti. Di essi si potrebbe dire
anche oggi quel che Tacito scriveva dei Brettoni e Lamarmora ripeteva
degli antichi Sardi: _jam domiti ut pareant, nondum ut serviant_. Il
canonico Spano ci racconta che nei primi anni di questo secolo vi era
ancora accesa una guerra tra due potenti famiglie di Osilo, i Serra
e i Fadda. Anche le donne presero parte ai fatti che accaddero in
quell’epoca e le rovine stesse del Castello servirono di rifugio e di
fortezza ad uno dei partiti.

                                 * * *

E la mia corsa nelle città e nelle borgate della Sardegna è ornai
finita. Se avessi spazio dovrei ancora parlarvi di Cagliari fatta
ad anfiteatro sopra la lava di spenti vulcani; di Sanluri, che ha
storia gloriosa e campi fertili di biade; di Terranuova adagiata
sull’antica Olbia, colla fisonomia prosaica di borgo mercantile e
consolare; di Lanusey ricca d’acqua ottima e di vini deliziosi, famosa
per salubrità; di Macomer fabbricata sul basalto, patria del celebre
poeta e improvvisatore Melchiorre Murena, cieco dall’infanzia e che
pagò con morte violenta le sue belle poesie satiriche; dovrei parlarvi
di Oschiri, di Orosei, di cento altre borgate e villaggi che vanno
scendendo la gran scalea della gerarchia che rannoda Cagliari e Sassari
all’ultimo _stazzo_ della Gallura.

In Sardegna anche i contadini vivono agglomerati nei piccoli e nei
grossi villaggi, ed è questa una fra le massime sventure pei campi che
rimangono abbandonati alle rapine dei pastori nomadi, che rimangono
vedovi dell’occhio paterno del padrone. È questa un’antica consuetudine
venuta fino a noi e sorta in quei tempi, nei quali le continue e facili
incursioni dei pirati rendevano pericoloso il vivere isolati in mezzo a
campi deserti e smisurati.

V’è un gruppo di villaggi fra Cagliari e Iglesias che hanno una
fisonomia così argentina da far credere al viaggiatore che egli
si trovi nell’America Meridionale. Una lunga fila di case fatte di
fango impastato colla paglia e battuto e che porta il nome latino di
_ladderi_ (tapias degli Argentini). E quelle case bigie hanno tutte il
solo piano terreno, e sulle mura che cingono il cortile e l’orto vedete
piantati i cacti, d’un verde bigio anch’essi, e fra l’una e l’altra
schiera di case di fango, vie larghe e piene di fango anch’esse; ora
polverose e fetide; ora palustri e fetidissime. Altrove i villaggi sono
meno tristi, ma sempre sucidi assai, con un immondo comunismo di bipedi
e quadrupedi, di stalla e di cucina; spettacolo umiliante e triste.
Convien però ricordare che quella gente vive più che può a ciel sereno,
che fa de’ campi, dei monti, dei boschi la propria casa; e nella
capanna s’accovaccia per dormire e macinarvi il grano. Anche l’uccello
più pulito e più poetico s’accontenta di un nido piccino e fatto spesso
di fango, perchè è padrone dell’aria infinita e chiama suoi i campi
del Signore. Nell’uomo del nord il culto della casa non è soltanto
prova di vita più civile, ma è anche il frutto del cielo inclemente e
burrascoso.

All’infuori dei villaggi di _ladderi_ del Campidano che hanno fisonomia
propria e caratteristica, gli altri pigliano contorni diversi secondo
l’argilla o la pietra che l’uomo ha trovato vicino a sè per farsi la
propria casa.

Gli _stazzi_ della Gallura son le case dei pastori che si raggruppano
tra loro con forma di federazione naturale che chiamano _cussorgie_.
Più d’una volta trovate nella stazzo mobilia pulita e qualche agio
della vita, qualche crepuscolo d’arte; trovate sempre splendida
ospitalità.

Da qualche tempo intorno allo _stazzo_ vi sorride un campo coltivato a
biade o a patate, con qualche frutteto. È il pastore selvaggio che si
fa agricoltore; primo passo verso una civiltà più matura, più feconda;
terreno di transizione che riunisce due epoche geologiche nella storia
dell’uomo.



CAPITOLO II.

  La natura in Sardegna. — I boschi d’aranci di Millis. — Lande e
  foreste. — Fauna. — Gli uomini della Sardegna. — Etnografia sarda
  e tipi più salienti. — Le donne sarde. — Mancanza del proletario. —
  Carattere e costume dei Sardi. — Aneddoti di vendette e d’amori. —
  Foggie di vestire. — Ospitalità splendidissima dei Sardi. — Pranzi
  e gastronomia.


La Sardegna ha molte pianure vaste, deserte, malinconiche; ha lande che
la ferrovia non ha ancora accorciate, che l’aratro non ha ancor rotte,
e dove gli occhi stanchi e annoiati cercano invano un albero. Cisti
dalle foglie rugose; lentischi troppo superbi per esser erbe, troppo
nani per esser piante; asfodeli senza fine; qualche arbusto rachitico o
spinoso, qualche oleastro bitorzoluto e coi rami contorti dalla lunga
tortura della bufera marina. Mi ricordo che, andando da Nuramini per
Villasor ed Uras verso Oristano, salutai il primo pioppo come un amico
e mi fermai ad ascoltare il lieto mormorìo della brezza che cinguettava
fra i suoi rami, fra le sue mille e mille foglie. Dopo gli _stecchi
con tosco_ delle lande deserte avevo finalmente dinanzi a me un albero
grande, sano, che mi pareva un essere felice. In molte lande presso
Porto Scuso e fra Seui e Cagliari vidi molti cespugli di ramerino
selvatico che rallegravano gli occhi coi loro mille fiori violetti
e ridestavano le narici a ricordi gastronomici. Io lo cimentai alla
prova della casseruola e lo trovai assai più aromatico di quello che
coltiviamo nei nostri orti.

Dove la pianura fu solcata dall’aratro, la landa è divenuta campo;
ma le infinite siepi di opunzie del Campidano e la povertà degli
alberi non fanno troppo lieti quei paesaggi della Sardegna. Anche i
rari boschi di mandorli son piante troppo cinericcie e che sembrano
accordarsi col glauco monotono e triste del cacto. A molte campagne
sarde manca la prima allegrezza della casa colonica, dei cento
campanili che alzano il capo petulante in mezzo ad una tavolozza tutta
verde e tutta allegrezza. Di vivo per molte e molte miglia non vedete
spesso che un branco di pecore, nere anch’esse per la maggior parte e
che rodono silenziose le erbe fra le pietre sparse anch’esse qua e là
come pugno di cenere sul capo di un penitente.

Il più bel paesaggio che la Sardegna deve all’industria umana è la
foresta di aranci di Millis. Se visitate Oristano non dimenticate quel
paradiso terrestre e scriverete nel vostro libro d’oro una giornata
delle più care della vita: intendo sempre, se avete cuore d’artista,
se sentite il santo amore della natura. Il villaggio è come molti
altri della Sardegna; ma dovete visitarvi il palazzo del Marchese Boys
di Putifigari coi suoi cento antenati; dovete gettare uno sguardo
amoroso ad una chiesuola circondata da alberi altissimi; chiesuola
dalle tinte grigie e dal simpatico rossiccio della terra cotta; tutta
quanta coperta di edere, che come fiamme di razzi convergenti la
abbracciano con strettissimo amplesso. E poi e poi convien gettarsi a
corpo perduto, a cavallo o a piedi in quella foresta d’aranci, dove
vi inebbriate d’un profumo orientale e vi trovate sul capo, fra i
piedi, dapertutto, una pleiade di milioni d’arancie squisite, che si
vendono fin 25 e 15 centesimi al centinajo, degne rivali per profumo e
dolcezza delle sorelle di Palermo. Nel bosco d’aranci che apparteneva
al capitolo della cattedrale d’Oristano e ch’io trovai in vendita vi
sono alberi che danno più di 5000 frutti. È però nel bosco del Marchese
Boys che trovate l’arancio più colossale, chiamato il re degli aranci;
un uomo non lo può abbracciare, ha maestà e dignità dei maggiori fra i
nestori del regno vegetale. Sotto quelle ombre deliziose crescono più
modesti, ma più profumati gli alberetti delle mandarine, ch’io trovai
ottime fra quante ho mangiate in Sicilia, in Africa e in America.
Eppure quei preziosi alberetti si posson contar sulle dita; eppure
a Millis imputridiscono ogni anno milioni d’aranci per mancanza di
uomini, di strade, di un industria attiva e perspicace. La natura è
feconda e impunemente prodiga; e l’uomo povero in mezzo alle ricchezze.

La vita agricola della Sardegna vi presenta un altro quadro
interessante ed è quello degli oliveti, e abbiam già avuto occasione di
ammirare quei di Bosa e quei di Sassari.

La Sardegna potrebbe far concorrenza coi suoi olii ai migliori del
continente e già furon premiati quelli della deserta e sconosciuta
regione dell’Ogliastra. Eppure abbiamo foreste di olivastri colossali
che nessuno innesta e cadon le ulive sul suolo deserto, preda ai
cinghiali e alle capre. Eppure in antichi tempi si comandò per legge
che nella terra ferace d’oleastri se ne innestassero almen dieci per
anno e si offerse perfino la nobiltà a chiunque allevasse certo numero
d’olivi.

Ed ora che vi ho mostrato il brutto convien volgere lo sguardo
alle bellezze della Sardegna, che son molte. Avete colli mollemente
ondulati e coltivati dal capo ai piedi; avete ruscelletti e fiumi che
serpeggiano limpidi e rumorosi fra cespugli di leandri silvestri, veri
mazzi di rose nei mesi dell’estate; avete poche, ma belle foreste,
ultimi avanzi di un manto imperiale che un tempo copriva splendidamente
gran parte dell’isola e che fu strappato lembo a lembo con feroce
vandalismo dagli avidi speculatori, ch’io vorrei chiamare i guastatori
della Sardegna. Le cifre raccolte dalla Commissione d’inchiesta
mostreranno agli Italiani l’estensione di quelle stragi barbariche;
a me conviene mettere il dito sul peccato e sul peccatore; alzare
il grido d’allarme dell’uccello che vede il falco, lo denunzia ai
compagni e tira via nel suo aereo cammino. Milioni e milioni di lecci,
di quercie, di sugheri furon convertiti in carbone; una mina d’oro fu
distrutta dalla scure spietata e i nipoti, vagando per quelle terre
deserte, fra i tronchi monconi degli alberi distrutti malediranno i
loro padri, imprevidenti scialacquatori di tanta ricchezza.

A Taquisara fra Lanusey e Seui ho veduto vergini foreste di elci,
sicuramente fra le più belle che abbia incontrato nei miei viaggi.
Alberi alti così che l’occhio deve cercar posizioni nuove e faticose
per trovarne la cima; così folti da doversi intrecciare gli uni cogli
altri; e qua e là il cadavere maestoso di un colosso fulminato dal
cielo e fraternamente accolto fra le braccia degli alberi vicini che
vivono da secoli in confidente famigliarità, in regime di repubblica,
primitivo, senza noja di regolamenti, nè balzelli di tasse, nè tirannia
di leggi. E fra i lecci giganti un mezzo ceto di corbezzoli dalle
foglie lucenti, di tassi dal fiero cipiglio; e più giù un popolo
minuto di eriche, di clematidi, di arbusti, di arboscelli, di erbe. E
cascatelle di acqua chiacchierina che si lascia cadere e fa capriole
fra graniti coperti di muschio, dove le goccie d’acqua fermate dal loro
velluto son perle e dove il sole filtrato attraverso quella volta di
verdura spande una penombra mite e silenziosa.

La Gallura è la Svizzera della Sardegna, e i graniti son così dislocati
in cento modi, e giù per quella china di monti si son fermati mille e
mille ciottoloni arrotondati in tante guise che tu crederesti vedere il
campo abbandonato dai Giganti che vollero scalare il cielo. La natura
coi graniti della Gallura ha saputo fare uno dei quadri più fantastici
e bizzarri, dove il tragico e il grottesco si accordano stupendamente,
e le forme pigmee e gigantesche dell’estetica minerale si trovan vicine
e coi loro contrasti ci danno sensazioni nuove e non aspettate. Duolmi
che le nevi e l’insolita inclemenza della primavera di quest’anno mi
abbiano impedito di visitare il Gennargentu, il gigante dei monti sardi
e che deve muovere colle sue foreste e i suoi macigni fortunata guerra
alle bellezze per me carissime della Gallura.

Il cacciatore trova nella Sardegna il suo Eldorado, ed io coi miei
occhi ho veduto tante allodole nei campi da poterne far bottino di un
centinaio in una mattinata; e dalla mia carrozza ho seguito le pernici
che correvan dinanzi ai miei cavalli; e a tiro di pistola ho veduto
beccaccie e anitre e selvaggiume d’ogni maniera. Nei boschi poi e fra
i cespugli hai tanti cignali, da poterne ammazzare quanti tu vuoi; e
sugli alti monti puoi ancora, senz’esser principe, deliziarti della
caccia principesca di cervi, di caprioli e di mufloni.

Quest’animale è interessante assai e in Italia non si trova che in
Sardegna e in Corsica; ha figura di pecora ma col pelo del cervo, e
ha corna che si attortigliano in modo molto pittoresco e che giungono
a smisurata lunghezza. Io ne posseggo un pajo che mi fu regalato dai
cortesissimi miei colleghi di Nuoro, dottori Alberto e Luigi Calamina,
e che per il loro peso impedivano ogni rapido movimento all’animale che
le portava; caso strano di corno suicida! Il muflone vive a stormi,
salta come il camoscio, e ha carne saporitissima; ed io la trovai
ottima anche senza il soccorso di magisteri culinari, cotta coll’acqua
e il sale. Il muflone s’addomestica facilmente e si accoppia colla
pecora; e i meticci meritano di essere studiati in quest’epoca di idee
darviniane. Ho veduto anche molti meticci di cignale e di porco, ma il
porco della Sardegna è così poco diverso dal suo fratello selvaggio da
potersi confondere facilmente con esso.

Gli animali domestici della Sardegna son celebri per la loro
piccolezza, e quell’isola ha cavalli, asini e porci nani. Le razze
cavalline sono con torto di tutti (governo e sardi) troppo trascurate.
La resistenza alla fatica e la sicurezza del piede del cavallo sardo
son davvero sorprendenti, quasi miracolose. Io ho viaggiato per ore
ed ore per erti dirupi con un cavallo magro e stecchito, a digiuno
da un giorno; e quel cavallo, in ciò superiore alla moglie di Claudio
imperatore, giungeva alla meta del viaggio, nè stanco nè sazio. Benchè
abbia vissuto per quasi quattro anni sul dorso dei cavalli argentini
quasi selvaggi, ho dovuto inorridire alla vista dei miei compagni di
viaggio che dinanzi a me scendevano al trotto dalla ripida erta d’un
monte d’argilla sdrucciolevole e sfatto dalla pioggia. Mi pareva veder
quella gente e me stesso al suolo ad ogni momento; ma i cavalli sardi
tiravan dritto e per misteri di un ignota meccanica spostavano ad ogni
momento e ad ogni momento ritrovavano il loro centro di gravità. Il
cavallo sardo ha tre grandi virtù cardinali: brio, sicurezza di piede,
temperanza arabica; e conviene che l’arte, conservando queste virtù, le
incarni in un tipo di forme eleganti e allora le razze cavalline sarde
saranno fra le prime d’Europa.

I Sardi possono far molto per migliorare la loro razza di capre,
animale che in pochi paesi d’Italia trova terreno più propizio che
nella Sardegna. Essi devono incrociare le loro capre con quelle delle
Isole Canarie; ed io coll’insistenza di un vecchio brontolone voglio
ancora una volta ripetere che la capra delle Canarie è una vera specie
darviniana, che per la straordinaria copia di latte squisitissimo
che somministra deve essere introdotta fra noi. A Teneriffa molti
stranieri trovano così squisito il latte e senz’ombra di sapore ircino
o salato per cui portano al cielo le vacche di quel paese, ignorando
che è invece latte caprino. Io ho veduto alcune capre con poppe così
esuberanti da toccar quasi la terra e da rendere impossibile la corsa
all’animale che le portava. Ai nostri moderni acclimatori e ai nostri
ricchi oziosi possa questa pagina (che ristamperò colla insistenza
di un apostolo ostinato e incorreggibile) fermare l’attenzione e far
nascere l’idea di una gita amena e il proposito di un’opera buona. E
chi può indovinare la squisitezza dei formaggi di latte di capre delle
Canarie pascolanti sui monti della Sardegna?[4].

La Sardegna è ricca di pesci squisiti, ha tonni in tanta quantità da
arricchire molti possessori di tonnare, ha sardelle, muggini, rombi,
triglie e tutta una coorte di saporitissimi abitanti marini: mentre i
torrenti di Patadas vi danno trote eccellenti. A Cabras fui testimonio
di una pesca miracolosa, grazie alla squisita cortesia dei signori
Carta, i quali mi condussero alla loro peschiera che vale più d’un
milione.

Con sapiente malizia i Sardi hanno aperto ai pesci del mare ampli
bacini d’acqua calda e tranquilla, dov’essi entrano confidenti e sicuri
di trovare un nido ai loro fecondissimi amori. E là invece sono in un
vasto carcere, dove possono dedicarsi alle delizie della famiglia,
mangiare e ingrassarre; dove possono far tutto fuorchè fuggire. E
là si aggirano per una lunga distesa di acque, passando d’uno in
altro labirinto, finchè i più grossi e paffuti son spinti nella
peschiera della morte. Io era sopra un piccolo argine che separava
una peschiera dall’altra e guardavo sotto di me l’acqua torbida che
appena mi lasciava vedere un profondo e oscuro brulichìo come di cosa
viva che si movesse. Tre uomini giovani, belli e robusti ad un cenno
del signor Carta si cambiarono in tanti Adami: si legarono intorno
al corpo una lunga cordicella e fra essa e la pelle si piantarono
una spada di legno, che sembrava piuttosto la spatola tradizionale
d’Arlecchino. Gettatisi a capofitto nella laguna con quel legno e
quel filo si diedero alla loro pesca che aveva del prodigioso, del
magico. Ognuno d’essi si tuffava sotto le acque, e dopo pochi secondi
esciva con un grosso muggine nelle mani, che apriva convulsivamente
le branchie scarlatte, tentando di sfuggire da quella robusta presa;
ma in quell’istante la spada d’Arlecchino dava due o tre colpi sul
suo capo, e il pesce era infilato nella cordicella attaccata al corpo
del pescatore. Un nuovo tonfo, un nuovo pesce, una nuova martellata
sul capo e via così di seguito senza posa. Così mentre andavano
rosseggiando quelle torbide acque, quei tre carnefici allungavano le
loro filze, e quando si rizzavan dall’acqua guizzava intorno ad essi,
quasi un serpente d’argento, il trofeo dei grossi e molti pesci presi,
uccisi ed infilati. Non vidi mai una volta sola tuffarsi il pescatore
e venir fuori senza il pesce nella mano; talvolta ne aveva due. Dopo
otto minuti escirono dall’acqua, gettando ai nostri piedi il frutto
della pesca; ed eran più di cinquanta chilogrammi di muggini. Qualche
volta il pesce s’addensa in tali masse per quelle peschiere che convien
far la _pesca alla pala_. S’entra allora nell’acqua, e con un gran
cucchiajo di rete si getta sulla sponda una massa guizzante, fremente e
scintillante di grossi pesci.

Gli operai della gran peschiera di Cabras lavorano assai, ma mangian
moltissimo e tre volte al giorno. Son robusti e in mezzo alla malaria
famosa di Oristano di raro soffron di febbri; ammogliati han molti
figliuoli.

                                 * * *

Quali uomini sono gli Italiani della Sardegna? son dessi bambini o
decrepiti, sani o malati; s’hanno a scrivere nel bilancio attivo o
nel bilancio passivo della nazione? A queste domande credo di poter
rispondere subito; che i Sardi hanno dato fin qui poche pagine alla
storia gloriosa della civiltà italiana per colpa dell’isolamento in cui
son rimasti per secoli; per peccato del luogo più che per colpa degli
uomini; essi sono un popolo giovinetto e non decrepito, hanno un povero
passato ma un ricco avvenire; al lavoro sociale, alla patria comune
essi porteranno due tesori, uno più prezioso dell’altro; un’ottima
costituzione non domata neppure dalla malaria e un fondo di morale
rimasto intatto anche con tanti secoli di impunità.

Non si può intendere il popolo sardo senza ricordare il lungo,
l’incredibile isolamento in cui visse per tanti e tanti anni. Chiudete
ad una nazione le vene che le apportano da ogni parte il sangue di
altri popoli e di altre civiltà e vedrete di qual vita atrofica e
rachitica dovrà vivere; fosse pure la nazione di temperamento più
gagliardo, di mente più operosa. Le isole molto lontane dai continenti
son fuori della grande corrente della civiltà e ridotte a vivere
soltanto dei proprii frutti, delle proprie idee, a cuocere nel proprio
succo, hanno isterilita la sorgente più feconda del progresso civile.
E parlo di isole molto lontane, dacchè quelle che come la Sicilia e
l’Inghilterra son vicinissime a grandi continenti, godono in una volta
sola dei vantaggi della terra ferma e dell’isola; e vivendo insieme
agli altri popoli della vita comune, difendono più facilmente degli
altri, come in una fortezza naturale, i frutti della rapina o della
conquista. Un popolo isolano gettato sopra una terra troppo lontana dai
grandi centri civili non può salvarsi che a patto di farsi marinajo,
e quando invece abborre dal mare e si accontenta di coltivare le zolle
della propria isola, allora non può che intisichire e rimanere addietro
nella gran corsa dei popoli verso l’_excelsior_. È davvero un problema
che ha del logogrifo il non trovar in Sardegna marinaj, cantieri, navi;
il non trovare metà di quel popolo divenuto anfibio; ma non è un fatto
nuovo il vedere genti isolane nemiche del mare e ho discorso lungamente
nei miei viaggi a Teneriffa di un popolo antico che non osava neppure
attraversare un canale più stretto di uno dei nostri laghi.

L’isolamento e la ripugnanza all’onda salsa dei Sardi spiegan tutti
i loro peccati e li assolvono. Leggete una pagina tacitiana di storia
scritta dal Cattaneo:

«In quel secolo XI tutta l’Europa si sottraeva all’incubo
dell’influenze barbariche. Le spedizioni trasmarine dei Toscani,
dei Liguri, dei Veneti aprivano agli altri popoli il campo delle
crociate. L’amore di un venturoso lucro, il genio militare e l’ardor
religioso che si erano congiunti nell’impresa di Sardegna, si svolsero
più vastamente nelle famose conquiste d’Inghilterra, di Sicilia e di
Palestina. Le armi facevano strada al commercio, e questo rinnovava
l’antica ricongiunzione dei popoli, operato primamente dalla sapienza
romana. Il pontefice Ildebrando, lagnandosi che _li uomini della
Sardegna fossero omai divenuti più stranieri a Roma che non li
abitanti delli estremi confini della terra_, scriveva un imperiosa
esortazione ai quattro giudici sardi, Onroco di Cagliari, Orsocorre
d’Arborea, Mariano di Logudoro e Costantino di Gallura; e commendando
il proposito di Onroco di recarsi a Roma, lo ammoniva a sottomettersi
alla prescritta riforma, _essendochè molte richieste si facevano da
varie genti alla sede romana per la concessione della provincia di
Cagliari_.»

Saltiamo quattro secoli e vediamo ancora l’isolamento della Sardegna.

«Nei primi anni delli Aragonesi l’isola aveva commercio coi Pisani,
Genovesi, Veneti, Anconitani, Napoletani, Marsigliesi, Greci e
Israeliti di Barberia. Tutta quella gente sparì al cospetto del
feudalismo aragonese. Nel 1479 si cacciarono dall’isola tutti i
trafficanti corsi, nel 1492 si introdusse l’inquisizione; e furono
espulse tutte le famiglie israelitiche, che omai da quindici secoli
esercitavano l’oscura loro industria e noleggiavano il servizio
dei loro risparmi ad un agricoltore a cui le usure stesse erano
inestimabile beneficio. In breve nell’antico granaio del popolo romano
mancò perfino la semente da spargere sugli ubertosi campi. Sassari,
la seconda città del regno, si ridusse a meno di tremila abitanti;
rimasero deserte molte ville che fiorivano nelli agitati tempi di
Branca Doria e d’Ugolino; e furono abolite per mancanza di popolo dieci
sedi vescovili. Fu troncato ogni vincolo colla madre Italia, quando
appunto Colombo, Machiavello, Ariosto, Michelangelo vi rinnovellavano
tutti i prodigi del pensiero. Il distacco dall’Italia fu tale, che
li antichi statuti di Sassari, d’Iglesia, di Bosa venivano a preteso
servizio della comune intelligenza, tradotti dalla lingua _straniera_,
cioè dall’italica nella catalana....»

Facciamo un altro salto di due secoli.

«In mezzo a tanta esuberanza di derrate, in un’isola più ampia della
Lombardia, tutte le merci esportate dal porto di Cagliari appena
sommavano al valore di centomila scudi, e ad altrettanto quelle del
porto d’Alghero. Nell’interno mancavano le poste, mancavano i corrieri
delle lettere, non v’erano strade, e l’isolamento verso l’estero era
tale che le carte del governo dirette alla Spagna si ricapitavano
prima a Napoli, perchè viaggiassero a bell’agio con quelle delle altre
provincie italiane.»

Per quanto la Sardegna sia stata occupata da Fenici, da Greci, da
Romani, da Vandali, da Ostrogoti, da Mori e da Spagnuoli, benchè
nelle vene dei Sardi scorra forse ancora qualche goccia del sangue
dei fuggitivi di Troia o dei quattromila israeliti ed egizii che
Tiberio aveva relegati in quell’isola in pena dell’avere essi tentato
propagare in Roma l’osservanza dei loro culti, pure io credo fuor di
dubbio che l’orditura del popolo sardo sia antichissima, anteriore
ad ogni tradizione storica ben accertata, che l’elemento più potente
ancor oggi dopo tante invasioni e tanti incrociamenti sia _autoctono_.
Grazia alla cortesia squisitissima de’ miei colleghi di Sardegna ho
fatto una preziosa raccolta di tipi dei cranii di quell’isola, e forse
vi è in essi un germe di etnografia sarda; ma fin d’ora credo di poter
affermare la potenza dell’elemento autoctono in quell’isola.

Esiste un sangue sardo anche dopo i Fenici e i Romani, anche dopo gli
Spagnuoli e i Mori, anche coi due dialetti cagliaritano e logudorese;
anche dopo le rivalità di Cagliari e di Sassari. Ve lo dice ad alta
voce quella pagina di storia che un popolo antico lasciò scritto su
tutta la faccia della Sardegna in quei monumenti ciclopici di pietre,
che si chiamano _nuraghi_. Ve lo dice quell’amore tenace, irresistibile
del popolo sardo alla sua terra; vera passione del suolo e dell’aratro
che resiste alle invasioni di tanti popoli marini, di tante genti
che vivevano in mare e del mare. Ve lo dice la lingua sarda che ha
parole comuni in tutta l’isola; ve lo dicono alcuni costumi singolari,
primitivi che non trovate altrove e che ricordano usi di stirpi
antichissime; ve lo dice la fiera resistenza che gli isolani opposero
sempre ad ogni invasione; per cui essi combattevano e vincevano quasi
sempre, o vinti si ritiravano nei loro monti, portando seco il palladio
della loro lingua e dei loro costumi. E lo stesso Lamarmora vi dice che
secondo ogni apparenza, i montanari dell’isola che conservarono più a
lungo l’antico linguaggio furono anche gli ultimi a perder la lingua
romana che avevano adottata, almeno in gran parte; ed è precisamente
nel paese più abitato da questi popoli che la lingua latina è parlata,
ancora ai nostri giorni, nella quasi sua purezza.

Sul mondo sardo antico preistorico e che attende ancora il suo Colombo,
si impiantò una propaggine romana e il popolo sardo di quest’oggi è
un innesto latino sull’antica pianta autoctona dell’isola. Elemento
latino quasi puro nel nord; con colorito corso nella Gallura; con tinta
catalana ad Alghero; con tinta risentita di moresco e di spagnuolo a
Cagliari e nel Campidano.

Non saprei dire se più il sangue o più la tradizione lasciasse di
elemento spagnuolo a Cagliari; ma questo so di certo che chi ha
vissuto, come io, alcuni anni in paesi spagnuoli, trova nella maggiore
delle città sarde, ad ogni momento riscontri ed analogie. Il carattere
serio, il culto della pompa esteriore e delle riverenze; certa
maestà di portamento e simpatia per le rabescature, certa tranquilla
inerzia che trovate a Cagliari son tutte cose spagnuole; e anche
passeggiando per le vie mi son trovato sorpreso di veder fisonomie che
mi richiamavano volti spagnuoli. A Sassari invece il brio chiassoso e
il dolce far niente senza rimorsi, vi richiamano la Sicilia e li ultimi
figli di Roma stanca.

Non è però nelle grandi città e nei porti di mare che convien cercare i
tipi etnografici della Sardegna. Uno di questi fra i meglio definiti,
ma anche dei meno studiati è quello dei Maurelli di Iglesias e dei
paesi vicini. Studiando bene quegli abitanti t’accorgi subito che
dovettero rimanere isolati a lungo, senza miscela d’altro sangue. Non
parlo del ceto alto, dove incontri fisonomie italiane e spagnuole, ma
parlo del popolo minuto e mezzano che è tutto di uomini e donne più
alti che bassi, asciutti, dai capelli neri e folti, e da un cranio così
lungo e stretto che è difficile supporlo più dolicocefalo. Anche i meno
osservatori rimangono stupiti dinanzi a quei cranii che non è qui il
luogo di studiare, ma che devono scoprire un giorno la vera origine di
quella gente. Le donne son sottili assai e di corpo elegante, e colla
somma sottigliezza del corpo fa splendido contrasto l’ubertosità dei
campi consacrati all’amore: hanno viso ovale e pallido, sopracciglia
molto folte, occhi orizzontali, spesso grandi, naso diritto affilato,
spesso lungo. Vedete lo stesso sangue in Gonesa, in Porto Scuso, ed è
sicuramente fra i tipi sardi più singolari e più puri, e certamente
nè latino, nè spagnuolo. Il costume del vestire e il culto al caffè
vi rammentano insieme al cranio origini africane. Il dialetto è
cagliaritano, meno piccole differenze, ed io vi ho potuto notare la
_r_ pisana sostituita alla _l_, ultima e forse unica memoria della
dominazione pisana e che vi richiama lo scherzo con cui i Toscani
rimproverano ai Pisani la durezza delle loro _r_ messe proprio a
sproposito in luogo di una dolcissima consonante: _er giuoco der ponte
e re cieche_.

Lamarmora vi dice: «che gli abitanti del Sulcis e della provincia
d’Iglesias sono appellati comunemente _Maureddus_ (mauritani o mauri)
che alcuni vogliono derivare dai Mori dell’Africa, che secondo Procopio
sarebbero stati trasportati nell’isola, al tempo di Belisario. Io
penso senza ingannarmi che quelli che hanno questo nome sono veramente
discendenti di colonie africane stabilite nell’isola. Il dialetto
infatti attuale dei _Maureddus_ pare aver conservato qualche traccia
dell’idioma africano. Dentro la stessa città d’Iglesias vi è una
fontana chiamata di Coradino che se non è una prova, è un argomento
di più in favore dell’opinione che ricongiunge i _Maureddus_ ai
Saraceni[5].»

Anche il barone di Maltzan non osa pronunziare un giudizio sicuro
sull’origine dei Maureddi di Iglesias e confessa di non aver saputo
trovare in essi che traccie fuggitive che potessero far sospettare
una stirpe arabica. La parola _Boddeus_ esprime nel dialetto di quel
paese un piccolo gruppo isolato di case, e ricorda il _bit_ (casa)
degli arabi. Così _furriadroxus_ (case di campagna degli abitanti delle
città) deriverebbe dalla parola sarda _fura_ (fuori) e dall’arabo
_charadscha_ (escire). Poveri argomenti davvero per assegnare la
genealogia ad un popolo[6].

Ho voluto consultare l’eruditissimo professor Ascoli sull’etnografia
dei _Maureddus_ ed ecco le preziose notizie ch’egli mi ha gentilmente
trasmesse:

«Si sono in vario modo confusi, da più scrittori, i _Barbaricini_ ed i
_Maurelli_ (Maureddi). I primi occupano le _Barbagie_ (Sas Barbagias)
nel Logudoro; e par sempre probabile, malgrado i dubbi del Cattaneo
(Alcuni scritti, II, 190) ch’essi risalgono ai _Mauri Barbari_ di
Procopio, gettati nell’isola tra il quinto e il sesto secolo dell’êra
volgare, comechè l’ubicazione delle _Barbagie_ non bene risponda alle
parole di questo autore[7]. È manifesto, del rimanente, che i _Mauri
Barbari_ di Procopio non potevano essere _arabi_, come stortamente
fu asserito, ma ben piuttosto avranno a reputarsi _berbéri_, che è
quanto dire di quella razza aborigena dell’Africa, a cui più tardi gli
Arabi, riproducendo il _barbarus_ romano, diedero il nome di _Berber_.
— I _Maurelli_ si trovano all’incontro nel Sulcis, a poca distanza
da Iglesias, e manca ancora (1861) intorno ad essi ogni attendibile
ragguaglio. Un indigeno, estraneo a simili studj, descrive il loro
parlare a questo modo: _idioma misto di genovese, campidanese e
africano_. _Dall’Africa_, secondo lo stesso isolano, _ivi approderebbe
e si stabilirebbe di continuo nuova gente._ Nelle _Barbagie_,
all’incontro si parlerebbe il logudorese con insignificanti varietà.»

Anche in Oristano trovai fisonomie orientali. Martini dimostrò con
tutta evidenza l’emigrazione in Oristano di cristiani d’Oriente e
Maltzan volle anzi con questa spiegare il colore greco-orientale della
gente di Cabras. Fu infatti nel 1295 edificata una chiesa in Oristano
da Papa Bonifazio VIII onde potessero farvi le loro preghiere i
cristiani di Tiro scacciati dall’Oriente dai Musulmani di Egitto.

Un altro tipo sardo è quello che si trova nell’Anglona, dove in
alcuni villaggi gli abitanti schierati dinanzi a noi per accoglierci
festosamente erano tutti di eguale altezza, e così rassomiglianti da
sembrar tutti membri d’una stessa famiglia. Pur troppo a Laerru, ad
Oschiri e in altre borgate della Sardegna i matrimoni fra parenti
son frequentissimi e l’egregio dottor Paolo Manchia di Oschiri mi
ha comunicata una preziosa statistica dei matrimoni avvenuti in quel
paese dal 1858 al 1868, dove si leggono scritti a caratteri di fuoco
i pessimi risultati delle unioni tra consanguinei. Nell’Anglona
gli uomini hanno capelli e barba foltissimi, statura mezzana, corpo
asciutto, naso aquilino, occhi grigi o neri ma sempre acuti.

La Gallura è paese corso e certe valli intorno a Tempio hanno tipi
così latini che sembrano medaglie antiche. Gli ultimi figli dei Romani
etnograficamente son forse a cercarsi in Sardegna.

Nel sud della Sardegna, meno i figli di stranieri o di italiani
d’altre provincie, tu non trovi mai occhi azzurri e capelli biondi,
e ti accorgi di essere nel nord, quando ti incontri in pupille
azzurrine, che non di raro però si accordano con capelli neri; anche
questo ricordo romano. Quasi dovunque vedi barbe foltissime e capelli
che durano anche sui capi più venerandi[8]. Perciò mi fece sorpresa
il vedere in Siniscola quattro consiglieri comunali, due dei quali
portavan parrucca ed un terzo era calvo.

In Sardegna è rarissimo trovar uomini contraffatti: non pellagra, non
rachitide: nell’interno è quasi sconosciuta la sifilide.

La donna ora è più bella, ed ora men bella dell’uomo, secondo che la
razza adatta meglio la fisonomia al tipo virile o al femminile. Così
a Nuoro quei montanari hanno sopracciglia nere e foltissime, occhi
corvini, naso diritto e non aquilino, labbra dal piglio altero, e
questa fisonomia riesce troppo dura per la donna; è invece nell’uomo
simpatica fierezza. Le donne si distinguono in moltissimi paesi della
Sardegna, ma specialmente a Cabras, a Patadas e nella Barbagia per
ricchissimo seno, a cui com’è naturale si associano sempre anche le
linee posteriori di Venere Callipigia. Gli eleganti e pittoreschi
costumi rialzano poi la bellezza non sempre perfetta delle linee del
volto o nascondono quella troppo massiccia e selvaggia del corpo.

La Sardegna non ha proletarii, ha il vanto di non contare fra i suoi
abitanti quel gregge umano che noi con beffarda statistica numeriamo
fra i cittadini; che brulica stupido e inerte sulle glebe delle
campagne o s’addensa sucido e sudato nelle officine della città. In
Sardegna avete molti poveri, ma son quasi tutti proprietarii di campi
o di greggi, di una capanna o di un albero; ma questa proprietà, che
non li salva dalla fame, basta però per alzarli di cento gradini sul
nostro colono che prima di nascere ha già dei debiti verso il padrone,
e che fra la pallida minestra condita dal lardo e il pane duro e
ammuffito in cui coll’alimento trova la pellagra, non ha altra poesia
nella vita che quella che gli vende la superstizione. Il pastore sardo
rimane più volte due o tre giorni senza cibo, ma è un uomo libero. Il
contadino sardo vede spesso sotto i suoi occhi il suo pane divorato
dalle cavallette; ma egli ha una zolla di terreno che può chiamar suo:
In Sardegna, voi non trovate quei volti ebeti e poco umani dei nostri
contadini, sui quali le rughe precoci non furono segnate che dalla fame
o dalla stanchezza. Il sardo più povero ha un volto su cui le passioni
hanno scritta la loro storia: ignorante, rozzo, spesso brutale, ha però
una fibra ancor sana, ha una molla non ancor rotta che gli fa tener
alto il capo: egli sente la dignità del possesso.

L’amor della terra è così appassionato nei Sardi da divenire una vera
manìa; esso ha rovinato in più luoghi l’agricoltura, sminuzzando,
polverizzando quasi la proprietà fondiaria. Nel Campidano i figli si
dividono il campo, la selva, la casa del padre in tanti frammenti, ed
ognuno di essi vuol avere la sua parte di campo, di selva, di casa;
talchè s’arriva a coprire le terre di siepi e a sminuzzare la proprietà
in parti così lillipuziane da potersi mettere in tasca. Si vedono
campi, dove la terra è di un proprietario e le piante son di un suo
fratello, e si vide in Oristano una camera con tre padroni; esempio
raro ma non unico[9].

Il pastore della Sardegna non è quello degli idilli di Teocrito e
di Gessner, è un uomo risoluto, fiero, che ha sempre sulle spalle
un fucile e che lo adopera troppo volentieri. Abbronzito dal sole,
indurito alla fame, alla sete, è un vero arabo che spesso fa da
beduino; non ha della proprietà altrui idee molto precise, spesso apre
le siepi col coltello per farvi entrare le sue pecore; e difende il
sopruso a fucilate. Talvolta non si accontenta di ingrassare il suo
gregge coll’erba, coll’orzo, col frumento dei campi altrui, ma miete
anche le spighe non seminate da lui, raccoglie il frutto innestato da
altri. Il pastore errante, bellissimo tipo per l’antropologo e per il
romanziere, è la rovina della Sardegna; spesso è sinonimo di ladro.
Si son visti alcuni, che dopo aver messo insieme colla elemosina di
incauti generosi un gregge di 10 o 12 pecore, battevano la campagna,
vivendo di furti e di rapine. Fonni, piccola borgata delle montagne
del nord, manda ogni anno fin 500 pastori nel Campidano, che coprono
dall’inverno fino al maggio intiere pianure coi loro armenti; con
quanto frutto dell’agricoltura è facile immaginare. E sì che a Fonni si
spergiura senza molto scrupolo nel nome di Dio, ma non mai in quello di
sant’Antonio! È vero che a sant’Antonio si affidano i ladri dei greggi
e a lui consacrano con voto una parte del bottino, quando le rapine
riescon fortunate.

Quando la cresciuta civiltà avrà cancellato dalla Sardegna il pastore
errante, quell’isola sarà uno dei paesi più morali del mondo; perchè
se la facile impunità rende così comune il furto campestre, nelle
città e nei villaggi i ladri son pochi. Nello scorso anno Sassari
e Cagliari erano invase da migliaja di cenciosi venuti dai campi a
chiedere il pane che le cavallette avevano loro divorato; le case erano
tutte aperte e non si avevano furti. Il senso del giusto è incarnato
nel sangue dei Sardi; i testimoni affermano il vero anche quando
riesce loro pericoloso il farlo, e minuto popolo e alto si associa con
vero entusiasmo nelle vie per arrestare un ladro e consegnarlo alla
questura. Le stesse impressioni crudeli che provaron tutti in Sardegna
quando si seppe che una diligenza era stata aggredita, mostra quanto
quel fatto fosse raro e inaspettato. Trent’anni or sono un corriere
a cavallo portava lettere e denari da Sassari a Cagliari e impiegava
otto giorni in quella corsa, guadando fiumi senza ponti, attraversando
boschi deserti senz’altr’armi che un pistolone rugginoso e una lastra
d’ottone colle armi del re di Sardegna. Giammai fu torto un pelo a quel
corriere e da tutti si sapeva che nella sua bisaccia fulva di pelle
che portava ad armacollo stavano molte carte relative ai processi dei
banditi erranti per la campagna.

Un’altra virtù dei Sardi è il rispetto all’autorità. Nel 1848 si
volevano in Cagliari ammazzare i Gesuiti; e già si sentiva nel popolo
accalcato per le vie quel muggito indistinto che precede una procella.
I padri pallidi e quasi svenuti dalla paura attraversavano quelle
masse; già già si stava per metter loro le mani addosso, quando
un impiegato inerme si presenta e con voce alta grida: _Figliuoli,
rispettateli_; e la procella si calmò.

I carabinieri si presentano più d’una volta in capanne deserte sui
monti più alti, nel folto dei boschi e la donna di casa corre incontro
a baciar loro la falda dell’abito, dicendo: _Vene lu re!..._ dacchè
i Sardi del campo personificano ancora nel re ogni idea di autorità
e di governo. In pochi paesi d’Italia le tasse son pagate con maggior
scrupolo e con più serena rassegnazione. In Sardegna non si aveva la
leva militare e il nuovo tributo di sangue non accrebbe di molto i
banditi.

Il sardo si fa difficilmente operaio; è temperante, intelligente, ma
come lo dicono i grossi intraprenditori di strade o di mine, lavora
il trenta per cento meno dell’operaio del continente; mangia poco e
sopratutto beve assai meno di questo. I fanciulli operai lascian spesso
il pane per correr nei prati a cercarvi con istinto selvaggio erbe e
radici e rosicchiarle con più selvaggia voluttà.

Nella classe media esser impiegato; aver il pane a giorno fisso e
sicuro e lontana prospettiva di pensione e aver fissata l’ora e il
lavoro da altro impiegato è l’ideale della vita; grossa e lurida
magagna che i sardi hanno comune con molti italiani del continente;
malattia cronica, scrofola vecchia che convien sanare col ferro e col
fuoco. E nel mezzo ceto, la donna esercita troppo piccola influenza,
anzi quasi nessuna; relegata com’è alle voluttà del talamo e alle noie
delle cure domestiche; per cui essa cerca la poesia per cui è nata,
nelle volte delle chiese e porge ai figliuoli un’educazione quasi
sempre bigotta, piena sempre di ubbie e di pregiudizi. La donna sarda,
sensibile, sensuale, intelligente, fantastica, ma incolta e messa
dall’uomo in troppo umile posizione, passa lunghe ore al confessionale,
affida al prete gran parte della sua anima; divide coll’uomo una
profonda apatia della vita politica.

A Cagliari ho veduto processioni fatte con molto entusiasmo, con vero
culto dell’arte; con grande accompagnamento di confraternite gialle,
rosse, verdi, con cappelli di raso; e signore prostrate dinanzi a
quegli arlecchini policromi, e udii gravi discussioni sulla bellezza
maggiore o minore dei verdi, in confronto dei gialli e degli azzurri.
Anche a Sassari avete ancora gli avanzi di antiche corporazioni,
conosciute sotto il nome di _gremii_: avete quello degli _ortolani_,
che coltivano il tabacco, e che nelle processioni vestono alla Don
Basilio; avete quella dei _viandanti_ che una volta trasportavano
lettere e merci e conservano un uniforme spagnuolo; avete il gremio
dei _muratori_ che hanno il loro costume: avanzi del medio evo, con
professioni che si trasmettono da padre in figlio senza diserzioni nè
mutamenti.

I Sardi hanno un fondo di indomita e appassionata fierezza e in
molti paesi ci troviamo ancora in pieno medio evo; dacchè ancora si
preferisce rendersi giustizia sommaria da sè stessi e le rapine fatte
alla luce del giorno e con molti combattenti hanno l’aria di conquiste
più che di grassazioni.

Nuoro è paese terribile, dove il sangue corre ad ogni momento. Nel
giugno dello scorso anno uomini a mano armata cambiarono il Municipio;
e le truppe e i carabinieri non osarono combattere quei sollevati
con forze troppo disuguali. Il rubare un paio di bovi, e l’esserne
poi derubato di due paia e saldare i conti colle fucilate è cosa
assai comune. Il sindaco di Posada fu ucciso a tradimento nell’ultimo
gennaio, perchè aveva deposta la verità dinanzi al Tribunale. Il
villaggio di Nule fu saccheggiato da venti o trenta armati; e il
bottino fu diviso patriarcalmente dalle donne di quei disperati.
Questi delitti sono i frutti di pianta antica; dacchè prima del 1830 si
comperava l’impunità a pronti contanti.

A Nuoro si videro crescere le grassazioni dopo che fu introdotta
la leva: ma i nuovi assassini non erano disertori, ma contadini che
andavano a pigliare nelle saccoccie altrui il denaro per pagarsi il
cambio. Avuta l’esenzione del tributo di sangue, il ladro ritornava
all’aratro, alla vigna, all’amplesso della sua donna e de’ suoi
bambini.

Dorgali, Orosei, Galteli, Irgoli, Loculi, Lula, Mamoiada, Saruli,
Orali, Oroteli, Nules son tutti comuni, dove vi si racconta una storia
di sangue, fresca di ieri: posdomani ve ne sarà una nuova. Anche qui
l’assaltare, il rubare non costituiscono un mestiere, ma son cose
d’occasione; e l’assassino, deposto il fucile omicida, ritorna pastore
o contadino.

Ad Aggius avete ancora al dì d’oggi tre o quattro banditi: in tutta
la Gallura gli odii di famiglia e le vendette corse durano ancora,
benchè gran passo si sia fatto verso una vita più civile e più mite.
Non son però rari gli incendi di foreste di sugheri fatti per vendetta
(Tempio). A Lanusey anche al giorno d’oggi si hanno parecchi banditi,
ma dopo esser stati condannati in contumacia, si tengono in buoni
rapporti cogli abitanti del paese, onde non esser denunziati. Il
bandito Manca Macco fu arrestato da poco tempo: era tra i più fieri ed
è quello stesso che nel 1867 organizzò una banda armata che devastò il
Campidano.

Anche Bono è paese di tremende memorie. Negli ultimi anni dello
scorso secolo Bono si difese contro le truppe e a prenderlo convenne
bombardarlo. Ora è poco, i bonesi attaccarono il villaggio di Nughedu
per saccheggiarlo; ma respinti lasciarono sul terreno morti e feriti:
scene di sangue comunissime in tutta Italia, or son pochi secoli,
sopravissute ora e morenti in Sardegna.

                                 * * *

Quando in Sardegna odio e amore si chiudono in petto dello stesso uomo;
la vendetta è sicura, è pronta, è spesso feroce. Eccovi alcuni bozzetti
dell’amore crudele: e anche dove v’è più tradizione che storia,
leggerete spiccato il carattere di quelli abitanti.

                                 * * *

Un giovane soldato fa la corte ad una bella sarda, le promette mano di
sposa e ottiene sicure e precoci garanzie d’amore. Fatti i preliminari,
l’ufficiale dimentica le promesse e di giorno in giorno differisce la
ratifica del trattato. Riceve lettere anonime che dapprima cortesi
e amichevoli lo consigliano a far il suo dovere; poi sempre più
minacciose, promettono punizione alla colpa. Quel signorino non vuol
diventar marito e dicendo d’imbarcarsi in un porto, attraversa tutta
la Sardegna e si imbarca in un altro. È già nella barchetta con molti
altri passaggeri che si dirigono al piroscafo postale; già sta per
inviare l’ultimo saluto all’isola troppo esigente, quando s’ode un tiro
di fucile e l’ufficiale cade morto nella barchetta.

                                 * * *

Un giovane carrettiere si innamora di una giovane; la visita, le parla;
vuol sedurla; ma essa resiste ad ogni seduzione: un giorno l’innamorato
è più ardente, è più esigente, ma la virtù della bella sarda è sempre
salda come rocca. Quegli le dà una pistola carica, dicendole: _Se ti
tradisco, se non ti faccio mia sposa, e tu con questa mi uccidi._
La cittadella è caduta, ma la pistola è accettata. — Alcuni mesi
dopo di pieno giorno quel galante era in una bottega. La tradita vi
entra anch’essa, lo saluta, gli ricorda la promessa e l’uccide. Fu a
costituirsi essa stessa al giudice e fu assolta dai giurati.

                                 * * *

Non son molti anni che un ingegnere che aveva troppo promesso e poco
mantenuto ad una graziosa vedovella; mentre galoppava verso Sassari,
cadde morto per una fucilata; ed io coi miei occhi ho veduto i cespugli
fra i quali giacque per alcuni giorni cadavere insepolto.

                                 * * *

In una chiesa solitaria della Gallura sopra i monti entrava un giorno
un giovane cacciatore, per riposarsi dalla lunga corsa e respirarvi
un’aria fresca. Un lamento quasi soffocato ma straziante sembra
uscire dall’altare; un altro lamento più crudele gli tien dietro; e la
chiesa è solitaria e deserta. Il cacciatore rimane stupito, ricorda
i pregiudizi dell’infanzia; è sgomento; ma la voce della compassione
grida in lui più forte di tutto e per la cappella segue le grida
del lamento e trova una giovane donna che partorisce sul nudo marmo,
senza una mano che la soccorra. Il cacciatore divien levatrice, salva
a quell’infelice, e colpevole madre la vita, il bambino, l’onore;
con nuovo e paziente eroismo nasconde il frutto d’un amore tradito,
nasconde la traccia insanguinata del sacrilegio; diventa prima il
medico, poi amico, amante, marito di quella donna. Due anni dopo nella
sua capanna si udivano nuovi lamenti; era un figliuolo del cacciatore
che stava per nascere; ma il parto era più doloroso che mai e la donna
gridava in modo da straziare le orecchie degli astanti. Il cacciatore
era in quel giorno poco cortese e dinanzi a molti esclamò: Tu non
gridavi tanto or son due anni, in quella chiesa, quando partorivi il
figlio di un altr’uomo. Quella povera donna guarda il marito con uno
sguardo senza nome, gli dirige una mano supplichevole e rimane morta di
dolore.

                                 * * *

Un artista trova in Sardegna ricca messe di osservazioni nei costumi
degli uomini e delle donne che si conservano inalterati da tanti secoli
con isolana tenacità. La migliore descrizione dei vestimenti svariati
dei Sardi non varrebbe quanto uno sguardo gettato sopra una raccolta di
fotografie o sopra un atlante.

Il vestito degli uomini in Sardegna varia assai meno di quello della
donna e il suo carattere generale è severo e selvaggio. Nel _collettu_
alcuni eruditi trovano ancora la _mastruca_ degli scrittori romani,
ma è più probabile l’opinione che esso sia il _colobium_, il _thorax_
degli antichi. La gran pelliccia nera di pecora che portano i Sardi
sulle spalle, fatta di quattro pelli di montone o di capra è uno degli
abiti più antichi dell’uomo, e per cui ognuno può farsi sarto di sè
stesso.

Col pelo all’infuori o all’indentro seconda le esigenze delle stagioni
quest’abito è citato da Eliano: «_La Sardegna per quel che ne dice
Ninfodoro, è ricchissima di pecore e di capre, e le loro pelli servono
al vestito degli indigeni; di maniera che l’uomo che le indossa può,
mettendone il pelo all’indentro riscaldarsi in inverno e col pelo
all’infuori difendersi dall’eccessivo calore dell’estate._»

Nel vestito dei Sardi predomina la lana, e a noi fa paura il vederli
sudare sotto pelliccie e grossi tessuti anche nelle più calde stagioni,
ma quell’uso è pienamente giustificato dalla malaria e dai rapidi
cambiamenti di temperatura. Quando a San Luri vedete i contadini
recarsi al lavoro col loro grosso grembiale di cuoio, che copre loro
quasi tutto il corpo e che sembra meglio una corazza che un vestito,
colla pelliccia, col cappuccio in capo, colle loro lunghe zappette
appoggiate alle spalle, quasi fucili o lance, voi vi trovate sotto gli
occhi una scena originale, che sa dell’Oriente e del medio evo in una
volta sola.

Il sardo si copre sempre il capo; se lo copre con amore, quasi con
caldo furore; or con berrettoni di lana, or col cappuccio del mantello;
ora con berrettone e cappuccio in una volta sola. Eppure hanno folte e
lunghe capigliature e gli uomini calvi vi sono rarissimi.

Il sardo brilla in tutta l’estetica della natura e dell’arte, quando
è a cavallo. È allora che la sua asciutta e bruna figura s’accorda col
suo vestito severo e pittoresco; è allora che brillano la sua agilità,
la sua forza, il suo coraggio, la sua natura indipendente, selvaggia,
avida d’aria e di libertà. Le sue virtù si maritano con quelle del suo
destriero: son due creature fatte l’una per l’altra che sommano insieme
in un sol quadro pieno di vita le loro bellezze, le loro forze, vorrei
quasi dire i loro pensieri.

Nell’Anglona ogni villaggio ci mandava ad incontrarci una squadra
di cittadini a cavallo, tutti muniti del loro fucile a due colpi,
tutti pronti a caracollare intorno a noi, e a mostrarci la stupenda
pieghevolezza della loro cavalcatura. Noi ce li vedevamo venire
incontro di lontano; e il grido degli evviva che ci salutava s’andava
facendo sempre più vicino; finchè il sindaco del villaggio coi più
saputi consiglieri ci veniva incontro a stringerci la mano e a darci
il benvenuto. E così scortati come principi s’andava innanzi, finchè
un’altra squadra ci veniva incontro e si univa alla prima: e così noi
ci siam veduti intorno centocinquanta cavalieri, che ci facevano ala e
scorta, facendoci credere per un momento sultani dell’estremo Oriente
o condottieri del medio evo. La nostra vanità non era però puerilmente
solleticata da quel corteggio; ma in noi batteva il cuore per un
sentimento più nobile e più caldo. Io guardava quegli uomini, che eran
tutti individui, tutti padroni del loro bellissimo cavallo, tutti
armati, tutti intelligenti, vivacissimi e diceva: _sono italiani_;
e poi aggiungeva un’altra cosa: _ecco un’armata, ecco l’armata
dell’avvenire!_

Quasi ogni villaggio della Sardegna veste le sue donne in diverso
modo e la tavolozza più tizianesca del mondo basterebbe appena a tanti
quadri ricchi di colorito e di fantastiche combinazioni. Ad Osilo ho
veduto le donne vestite a festa con insolita pompa, con fascette rosse
tutte adorne di merletti, con gonne scarlatte, e sul capo una pezzuola
scarlatta di panno, orlata di seta di vivaci colori. A Dorgali vedete
il rosso, il bianco, l’oro intrecciarsi intorno alle forme di Eva che
sembra ornare le bellezze della natura d’un culto sacro, ieratico;
sicuramente orientale. Ad Aritzo gonnelle orlate, pezzuole rosse sul
capo, fascetta variopinta con nastri di colori diversi dalla gonna e
dalla fascetta, e maniche candidissime che escono da stoffe di vivi
colori e orlate anch’esse. A Lanusey un grazioso panno rosso orlato
d’azzurro che nasconde il capo in un nido d’amore; e una catenella
d’argento che fa prigioniero il mento e il collo. In alcuni villaggi
la donna veste come l’uomo colori bruni e tristi, e sembrerebbe una
monaca, se la nessuna ipocrisia del sesso e il lampeggiar degli occhi
non portassero l’osservatore a tutt’altro ordine di idee.

Per quanto svariati siano gli acconciamenti femminili della Sardegna,
hanno però quasi tutti questi due caratteri essenziali: molta copertura
del capo e una grazia infinita per lasciar indovinare il più che si
può le bellissime bellezze del seno. Più d’una volta vedete intorno
a quel nido d’amori un duplice, un triplice, un quadruplice sistema
di baluardi, cortine, fossi, contrafforti e contraffossi: tutta una
strategia di fascie, fascette, e camicie e merletti; un arsenale
strategico che dovrebbe esser fatto alla difesa, ed è invece un’offesa
continua, formidabile; tutto un labirinto di parapetti attraverso a cui
gli occhi profani non dovrebbero neppure gettare uno sguardo; e dove
invece e occhi e sguardi si ostinano ad entrare; tutto un’artificio
di grazia che vuol molto nascondere e riesce invece a mostrare assai;
tutto un sistema di graziosissima, castissima e provocantissima
ipocrisia.

In molti paesi della Sardegna le donne si coprono oltre il capo anche
la metà inferiore della faccia; od anche tutta la faccia meno gli
occhi. Una volta fuggivano, quando giungeva un forestiere, lanciando
dalle finestrelle dei loro occhi le freccie del Parto. Ora esse son
divenute più umane o forse gli uomini si son fatti meno gelosi; sicchè
a Nulvi, a Martes, a Laerru, quando s’entrava nei villaggi, le donne
ci si facevan vicine, ci salutavano e in coro gridavano festose: _Bene
sean bennidos!_ (Benvenuti).

La donna però in Sardegna, che va scoprendosi la faccia, man mano la
civiltà toglie a lei un’ipocrisia e al marito una tirannide, rimane
però ancora troppo segregata dal suo compagno. A Calangianus, dopo
aver attraversato bellissimi boschi di sugheri e di lecci, le nostre
carrozze furono circondate da cento cavalieri armati che ci venivano
incontro. Entrati con essi nel villaggio, la guardia nazionale era
sotto le armi, sventolavano per ogni parte bandiere tricolori, suonava
il tamburo: e l’aria era rotta da proterve e capricciose fucilate. La
festa era dedicata specialmente al Deputato Ferracciù, nato in quel
paese. Un prete, maestro di scuola, con vero furore di entusiasmo,
faceva sfilare a passo di carica innanzi e indietro di noi i suoi
scolari, che al suono d’un tamburo tempestoso seguivano una bandiera
tricolore che era presa anch’essa da tumultuoso entusiasmo: e quei
ragazzi ad un cenno del prete gridavano a squarciagola. _Evviva
la Commissione, evviva Ferracciù, evviva l’Istruzione!_ E noi si
prendeva caffè, vini, chicche; tutto ciò che quella buona gente ci
aveva apprestato, e anche noi si gridava in coro, perchè l’atmosfera
dell’entusiasmo ci avvolgeva tutti quanti. Ebbene fra tante grida,
in tanta febbre di feste, le donne del paese stavano a parte tutte
sopra un promontorio, e là col capo coperto e facendo della pezzuola
che le copriva una visiera al volto non ci mandavan che i baleni dei
loro occhi; e là dove i nostri si fermavano più a lungo, chiedendo
una risposta, quelle pudiche pezzuole ci rispondevano, aprendosi
rapidamente, quasi a mostrarci che alla bellezza degli occhi il resto
rispondeva. Quel gruppo di donne su quella rupe di Calangianus, di
quelle donne mute e isolate in mezzo alla festa mi pareva un quadro
vivente della donna euperea, fatto senza studio d’artista, e senz’arte
di filosofo moralista; ma che nel suo silenzio era pur eloquente!

Quante bellezze non ha isterilito la moda francese, obbligando le
donne d’ogni nazione che voglia chiamarsi civile a vestire nella stessa
maniera, della stessa stoffa, degli stessi colori; curvando sotto lo
stupido giogo d’un sarto parigino bionde e nere, alte e basse; tutto il
variopinto e infinito stuolo delle donne d’ogni città, d’ogni borgata,
d’ogni campagna. A questo io pensava più che mai, trovandomi la
domenica delle Palme nella Cattedrale di Nuoro; dove stava ammirando un
gruppo di ben cento donne colla gonna bruna e l’orlo rosso nel fondo;
con una giacchetta scarlatta che copriva una fascietta azzurra quasi
aperta e colle punte rivolte all’infuori, una camicia a merletti e una
pezzuola o bianca o gialla sul capo. Com’eran più belle quelle donne
che le poche signore vestite alla parigina! Com’eran graziosamente
montanare! Com’era artistica quell’interpretazione dei monti! Il bruno
maritato allo scarlatto; un bosco di pini con una chiesuola ornata di
terra cotta: un castagno indorato dal rosso d’un tramonto alpino!

E questo basti per farvi venir la voglia di studiare cogli occhi vostri
in Sardegna la bellezza degli acconciamenti femminili; a studiarla
come pittore o come poeta; come etnografo o come un semplice _curiosus
naturæ_.

Molti fra i viaggiatori della Sardegna, più maligni indagatori del male
che sapienti osservatori, si guardano bene dall’ammirare la larga, la
generosa ospitalità dei Sardi; e se voi insistete per avere da essi
una pallida lode, vi rispondono sogghignando: _Questa non è virtù ma
è dovere dei più elementari; è questa una virtù selvaggia e che non
prova altro se non lo stato bambino della civiltà di quell’isola._ —
Io invece che ingenuamente ammiro il bene dovunque lo trovo, io che
ho trovato inospiti molti paesi selvaggi, non finisco nè rifinirò mai
di ammirare la calda, la franca cortesia di quelli isolani; e se non
cito nomi e se non ricordo squisitissime prove dell’ospitalità dei
Sardi, è perchè avrei paura, tacendo qualche nome o qualche villaggio,
di voler pagare colla penna un debito di riconoscenza che sarebbe poi
coll’involontario silenzio un offesa per molti. Il sardo che in molte
delle sue borgate non può offrire al viaggiatore nè una locanda, nè un
bugigattolo, non subisce il dovere dell’ospitalità, ma l’accetta con
gioia; e quando stringe la mano al suo ospite, è orgoglioso di dividere
con lui il meglio della sua casa, il meglio della sua mensa. Le sue
insistenze son forse troppo ingenue, ma son sempre cordiali; i suoi
pranzi troppo splendidi sono le feste della sua ospitalità; egli ha
l’entusiasmo, la passione, quasi vorrei dire il furore dell’ospitalità.

Perfin nei paesi dove vive ancora il medio evo, dove le donne eccitano
i mariti al saccheggio d’un villaggio vicino, là dove la giustizia
si rende colle fucilate, ed è quasi sinonimo di vendetta; anche là il
forestiere è rispettato, e si considera quasi come cosa sacra. Nessun
dolore è per il sardo più grande di quello che gli arreca il suo ospite
quando troppo breve è il soggiorno ch’egli fa nella sua casa; quando
non accetta cordialmente ciò che cordialmente gli è offerto. E noi, che
per la gravità della nostra missione politica, avevamo a render conto
severo del nostro tempo e perfino delle nostre ore, dei nostri minuti,
abbiamo dovuto esser cento volte scortesi; e attraversare fuggendo
villaggi che ci avevano apprestato una festa; e combatter palmo a palmo
contro l’ospitalità sarda che ci tendeva ad ogni passo lacciuoli per
arrestarci, ad ogni casa apparecchiando un caffè che era un pranzo;
una colazione che era convitto splendidissimo e pranzi che eran cene
luculliane.

Possano quei cortesi e cari nostri isolani, leggendo queste pagine,
perdonare il nostro peccato; possano essi intendere il grosso
sagrifizio che ci costava. E noi, ricordando quelle lotte singolari
di viaggiatori fuggenti, stringiamo la mano caldamente e fortemente a
quelli ospiti generosi.

                                 * * *

In alcuni villaggi della Sardegna l’abitudine di dare ad ogni uomo un
soprannome si coltiva con innocente passione e piglia carattere di uso
nazionale. Così a P... un onorevolissimo cittadino, un vero padre del
popolo, si chiamava _calzone_, perchè per il primo nella riforma della
moda, osò affrontare il ridicolo universale, portando calzoni lunghi
e neri; e quel brav’uomo aveva un figliuolo che si chiamava _buon
appetito_; ed altri si chiamavano _tabarro_, _bancarota_, _pugnale_,
_magangia_ (destrezza, astuzia), _perra_ (gemello), _mazzone_ (volpe).

I Sardi son quasi astemii, tanto son temperanti nel bere; ma sono
invece ghiottoni. La loro cucina è ricca di succulenti vivande e i
pranzi che offrono ai loro ospiti sono cene romane, dove molte volte
il solo antipasto coi suoi pizzicanti e svariatissimi manicaretti può
durare anche un’ora. L’intero pranzo poi dura tre o quattro ore e i
piatti possono essere numerati più facilmente col metodo decimale che
colle dita o coll’aiuto d’un abile memoria. È questo costume antico,
dacchè fin dal tempo del dominio feudale spagnolesco, il barone
Manno ci narra che in un convitto rusticale convennero 2500 persone,
alle quali si imbandirono con rozza pompa 740 montoni, 22 vacche, 26
vitelli, 300 tra capretti, porcellini e agnelli, 600 galline, 3000
pesci, e si prodigarono nelli intingoli 50 libbre di pepe (Cattaneo).

Il _porceddu furria furria_ (porcellino di latte cotto sulla brace)
è un cibo luculliano e a questa vivanda nazionale della Sardegna fan
lieta ghirlanda i cignali, i cervi, i tordi lessati col mirto, e le
confettare squisite e gli _amaretti_ e cent’altri cibi uno più saporito
dell’altro. Talvolta il pranzo sardo è tutto una poesia; dacchè, per
esempio, in una delle più alte città montanare, a Tempio, in paese
alpino fra i graniti della Gallura, senza sospettare che mare esista
in quei paesi, voi vedete imbandire alla mensa accanto al lepre e alle
beccaccie, triglie di scoglio, grosse come il pugno e che pur poche ore
prima guizzavano nel mare; e ostriche di Terranova così grosse che voi
potete fare succulenta colazione con due di esse.

I pastori sardi sogliono fare un arrosto singolare che potrebbesi
chiamare _sotterraneo_. Scavano nel terreno una fossa, vi adagiano un
pezzo di carne od anche un animale intiero; lo ricoprono di terra e
di questa fanno focolare; dopo alcune ore si scava e vi si trova un
arrosto eccellente. Più d’una volta nell’inverno il proprietario di una
pecorella smarrita, andando in volta per cercarla, si riscaldò ad un
allegro focherello della campagna, dove a sua insaputa stava cocendo
nelle viscere della terra quel ch’egli andava cercando.

Tra i cibi nazionali ricordo il _mediolatu_, che è latte coagulato e
principal cibo dei pastori della Gallura, il _coco_ che è pasta non
fermentata cotta sulla cenere; e il pane d’orzo di Patadas, sottile
come un cartoncino, largo come un lenzuolo; vero cibo di biblica
origine e di biblica semplicità.

In Ozieri mangiai capellini fatti a mano; e ad uno ad uno; al certo
una delle più straordinarie e stravaganti prostituzioni del tempo e del
lavoro.

Le due cose più curiose della gastronomia sarda sono però il _miele
amaro e il pane di ghiande_.

Il miele amaro si trova specialmente a Monti, ma è proprio anche di
altri paesi della Sardegna. È fatto dall’ape comune, ma dall’ape che
si ciba d’assenzio e d’altri fiori amari. A chi ripugna dal dolce
soverchio, il miele amaro riesce cibo saporito, ed io posso farne fede
per mia esperienza. In Sardegna è stimato come cibo tonico e buon amico
dei ventricoli stracchi e bislacchi. Questo miele era conosciuto fin
dai tempi di Dioscoride, perch’egli parla del miele comune, del miele
sardo, del miele pontico e del _Mel saccharum_ e ci dice che il miele
sardo è amaro, perchè le api in quel paese succhiano l’assenzio. E
davvero che anche al dì d’oggi, specialmente nel nord dell’isola, è
questa erba comunissima. Anche Plinio ci racconta che in Corsica si
aveva un miele amaro.

Il pane di ghiande è uno dei cibi più curiosi e che deve rannodarsi ad
usi di popoli antichissimi; forse ai primi abitatori della Sardegna.
Questo pane si prepara nell’Ogliastra, ma specialmente a Baunei, ad
Urzulei e a Talana. Si fanno cuocere le ghiande della quercia comune o
della quercia sughero per circa otto ore, aggiungendovi acqua in cui
si è stemperata un’argilla rossa finissima. Così cotte si mangiano
le ghiande sotto il nome di _a perra_ (metà del frutto) ed hanno un
colore bruno nero; oppure si impastano con acqua di ceneri di vite e
si fanno asciugare i pezzetti sopra lastre di sughero, ravvolgendoli
poi in foglie d’arancio o d’altra pianta aromatica; e son queste le
_ghiande a fette_. Tanto le ghiande cotte come il pane di ghiande hanno
un sapore di _pattona_ o polenta di castagne della Toscana; certo che
mangiandone io trovavo assai più ripugnante l’aspetto che il sapore
di questa vivanda singolarissima. Pare che sia però cibo nutriente e
salubre, dacchè specialmente a Baunei lo mangiano anche nelle annate
d’abbondanza; nel resto dell’Ogliastra invece è cibo di riserva
in tempo di carestia, e che ha salvato la vita in epoche diverse
a migliaia di abitanti. Io m’ebbi di questo pane per la squisita
cortesia del farmacista di Lanusey, signor Agostino Gaviano, abilissimo
fabbricatore di vini; e ne ebbi anche dal cortese signor Giuseppe
Zoccheddu, segretario comunale di Baunei, e qui li ringrazio del dono
gentile e delle molte notizie che mi hanno dato sulla preparazione di
questo pane.



CAPITOLO III.

  I proverbi sardi. — Classificazione e statistica dei proverbi.
  — Le superstizioni studiate nel proverbio. — Virtù, vizi ed usi
  ricercati per questa via. — L’agricoltura, la medicina popolare e
  la meteorologia dei proverbi. — Corsa attraverso i proverbi morali,
  filosofici e satirici.


Nei proverbi e nella poesia popolare di un popolo sta gran parte del
suo carattere, e chi volesse tentare una psicologia comparata delle
razze umane troverebbe in essi preziosi elementi per tracciare le prime
linee del suo ardito lavoro. Noi studieremo i proverbi e la poesia
popolare in Sardegna e verremo così a conoscere più da vicino la natura
di quelli italiani che nascono e vivono nell’antica Icnusa.

Nei proverbi d’un popolo voi avete sempre la sua sapienza e i suoi
pregiudizi; la sua morale e la sua ironia; che è quanto dire che in
questo evangelo inedito e anonimo d’una nazione voi potete trovare
il pensiero colle sue malattie; il carattere coi suoi sali. Sia
che il pensiero scatti come scintilla improvvisa dal cervello d’un
uomo d’ingegno; sia che maturi lentamente come grano nella spiga
del granaio; sia che guizzi come lampo nelle lotte amichevoli della
conversazione o fra il tintinnio dei bicchieri; o sorga come grido
di tutto un popolo dinanzi ad un grande avvenimento; il pensiero
non diventa proverbio, se non quando passa di bocca in bocca e perde
le asprezze o si aguzza, secondo che è aforismo di morale o arguzia
di satira; non diventa proverbio, se non quando, perduto lo stampo
dell’individuo, diviene patrimonio di un popolo intiero.

Un uomo di ingegno, innanzi morire, dice e scrive mille pensieri
diversi, ma pochi fra questi diventano popolari, pochissimi passano
alla gloria immortale del proverbio. Un pensiero di poeta o di filosofo
non diventa proverbio, se non incarna in sè stesso una parte dello
spirito nazionale, se non s’informa alle tendenze, alle glorie, alla
storia intellettuale e morale d’una nazione. Allora dinanzi a questo
sublime battesimo del consenso di tutti, il pensiero perde la sua
firma e l’autore ne perde per sempre la proprietà; ma divien goccia di
sangue che circola nell’organismo di un popolo; moneta che sdruscita
dagli anni non porta più immagine di re o di console, ma ha un valore
riconosciuto da tutti. I proverbi sono quindi fra i libri sacri d’una
nazione, e tu trovi in essi l’aforismo del vecchio che in sè concentra
l’esperienza di una lunga vita, l’ingenua parola dell’uomo bambino e la
perla escita dalle rosee labbra d’una fanciulla in un bel mattino della
sua primavera; tu trovi il morso della satira e l’amara ironia del
giovane isterico o dell’uomo stanco d’aver troppo vissuto.

Il canonico Spano ci ha dato una buona raccolta di proverbj sardi,
dove ci duole per la storia completa del pensiero di non trovare che
pochissimi degli immorali, degli indecenti e dei superstiziosi. Io ne
ho fatto una statistica e li ho potuti distribuire in questi gruppi
naturali.

  Proverbi filosofici           928
      »    satirici             905
      »    morali               383
      »    medici               102
      »    agricoli              38
      »    meteorologici         27
                              —————
                               2383

Accanto a questi metterei sette od otto proverbj di pregiudizj che
l’illustre Spano ci regalò nella sua preziosa raccolta, e che gli
sfuggiron di mano, mentr’egli tentava invano di escluderli dai suoi
studj.

E noi, quasi a punirlo della sua avarizia, incominciamo da questi.

_Bier de s’abba de sa billellera_: vuol dire un pazzo; e l’origine
del proverbio è da Sorso, dove si crede esistesse quest’acqua,
_billellera_, che alla sua volta potrebbe esser corrotto da elleboro.

_Sa luna est affacca ad s’isteddu_, _homine que bocchint_, _o cosa que
succedit_. La luna è vicino alla stella, uomo ammazzano o disgrazia
succede.

Ingenua espressione del sacro terrore che diffonde la luce misteriosa
della luna.

_Qui naschet sa nocte de Nadale bardiat septe domus de su bighinadu._
Chi nasce la notte del Natale guarda dalle disgrazie sette case del
vicinato.

Proverbio religioso che misura il rispetto per uno dei più santi giorni
dell’anno.

_Deus nos bardet de oju de literadu._ Dio vi guardi d’occhio di
letterato.

Dice lo Spano che questa è una superstizione che hanno i rozzi e le
femminuccie che gli ammaliamenti dei letterati sono più potenti degli
altri; ed io aggiungo che è questo un grido selvaggio che in ogni paese
si eleva dai bassi fondi della società.

_Sonar campaneddas in s’orija_, suonar campanelle nell’orecchio.

Proverbio antico fondato nella credenza del volgo che dice, quando
uno ha i zuffoli all’orecchio destro, ne dicono bene; al contrario se
nell’orecchio sinistro. L’istesso credeva il popolo romano ai tempi di
Plinio (Spano).

_Su solitariu cantat in cobertura, cosa mala que succedit._ Il passero
solitario canta nel tetto; qualche disgrazia ci accade.

Proverbio superstizioso di origine romana. _Importunæque volucres signa
dabunt_... (Virgilio, Georg. I. 470). Fra i segni superstiziosi della
morte di Cesare fu riferito questo: _Aves solitariae in forum delatae._
(Spano).

_Sos canes urulant, malu signale._ I cani urlano, cattivo segno.

Proverbio romano come il precedente di cui è quasi gemello.
_Obscoenique canes signa dabant._ (Virg. Georg. I, 470). Appiano
riferisce tra i segni che precedettero la morte di Cesare: _canes
ululabant ex composito instar luporum._ (Spano).

E lo studio dei proverbi superstiziosi della Sardegna è finito;
perchè lo Spano, troppo caldo amatore della sua patria, ha voluto che
conoscessimo meglio che i pregiudizi, la sapienza e il nobile carattere
dei suoi paesani.

Bellissimi infatti sono i cinque proverbj sardi che io ho potuto
spigolare fra i 2000 dello Spano, che riguardano l’ospitalità. Son
degni d’esser tradotti e segnati nel libro d’oro di un popolo.

_Sa domo est minore, su coro est mannu._ La casa è piccola, il cuore è
grande.

_Ad s’istranzu non l’abbaides sa bertula._ All’ospite non guardar mai
la bisaccia.

_Mossu partidu bene odidu._ Boccone diviso fa buon pro.

_Mossu partidu appizzigat de plus._ Boccone spartito fa più buon pro.

_De su pagu, paghittu._ Del poco pochetto. Dicesi per indicare il buon
cuore, quando si fa un regalo insignificante.

_Non semus de cuddas partes._ Non siamo di quelle parti.

Proverbio curioso dei Sardi per esprimere un piacere quando fanno un
favore pregiandosi dell’ospitalità. _Cuddas partes_ chiamano ogni terra
al di là del mare (Spano).

La gelosia, passione di tutti i popoli orientaleschi, è condannata
crudelmente dai Sardi nel loro proverbio, _belosu ses, corrudu moris_;
geloso siete, morirete cornuto.

Sull’amore hanno i Sardi bellissimi e caldissimi proverbj,
incominciando da questo: _Ogni dolore est dolore; ogni sentimentu est
dannu; pero non est tantu mannu, que i su perder s’amore_; ogni dolore
è dolore, ogni angoscia è sventura; ma nessuna è tanto grande quanto
perder l’amore. — Son pur belli anche questi altri:

_Amore et signoria non querent cumpagnia_, amore e comando non vogliono
compagnia.

_Amare et non esser amadu est tempus ingannadu_, amare e non essere
amato è tempo perduto.

_Qui de amore se leat, de arrabbia si laxat._ Chi si tol d’amore di
rabbia muore.

_Amore et tussin non si podent cuare_; l’amore e la tosse non si ponno
nascondere.

_S’amore noa que cazzat sa bessa._ L’amor nuovo caccia il vecchio.

_Ama si queres esser amadu_, amate se volete esser riamato.

Fratelli dei proverbj d’amore son quelli sulle donne.

_Femina tabbaccosa, femina vitiosa_, donna che prende tabacco, donna
viziosa.

_Inue non penetrat sa femina, mancu su diaulu_, dove non arriva la
donna, nè manco il diavolo.

_Niente plus pestiferu de sa femina_; che non ha bisogno di traduzione.

_Femina lanza, corriatta_; donna magra, forte.

_Sa femina est que i sa mela, fora bella et intra puneta_: la donna è
come la mela, fuori bella e dentro tarlata.

_Sa femina est su retàulu. De sa morte et de s’inferru. Pro qui tenet
in s’internu. Sas transas de su diaulu._ La donna è il fondamento della
morte e dell’inferno, perchè cova le massime del diavolo.

_So battu et sa femina jughent septe fiados._ Il gatto e la donna hanno
sette fiati.

_Tres cosas sunt reversas in su mundu, s’arveghe, s’ainu et i sa
femina._ Tre cose sono testarde nel mondo, la pecora, l’asino, e la
donna.

Non son certo proverbi galanti, nè son questi i peggiori che i sardi
scaglino contro la donna.

Nei suoi proverbi il sardo confessa le sue predilezioni e i suoi vizi.
Ottimo cavaliere egli vi dice: _S’homine de paga impita, abbaidadilu
a caddu_, l’uomo di poco valore, guardatelo a cavallo. — Facile alla
vendetta e assetato di giustizia vi dice spesso: _Justitia pronta,
vindicta fatta_; e _Megus terra senza pane, que terra senza justitia_;
meglio terra senza pane, che terra senza giustizia. _Su perdonare
est de Deus, su ismentigare est de macus_; il perdonare è di Dio, il
dimenticare dei pazzi. — Il sardo adula sè stesso con molta grazia, là
dove fa l’elogio degli uomini piccoli: _linu muzzu, tela longa_; lino
corto, tela lunga.

Il rispetto all’autorità, che è uno dei caratteri più salienti del
sardo, figura nei suoi proverbi: _Contra ad su Re non andat niune._
Contro il re non va nessuno — _Cum Deus et cum su Re, pagas paraulas._
Con Dio e col re poche parole — _Sa casaca de su Re iscuru ad quie
non la rispectat._ Guai a colui che non rispetta la divisa del re; —
_Sas minetas de su Re si devent timire._ Le minaccie del re si devono
temere.

Il canonico Spano non ha potuto raccogliere che tre proverbi sardi
che parlan del mare; e anche in questa lacuna vediamo fedelmente
rappresentata la ripugnanza di quel popolo per l’onda salsa che pure
offriva loro tante liete promesse di commerci e di ricchezze. Anzi di
questa ripugnanza non solo abbiamo nei proverbi le prove negative, ma
troviamo anche quello che dice: _andare ad s’imbarcare_, e che indica
una cosa grave, difficile, complicatissima.

È singolare la ricchezza di proverbi che parlano della pazienza. È
forse perchè questa è virtù difficile ai Sardi, o meglio forse perchè
essi ebbero per molti secoli occasioni frequenti per esercitarla?
L’arduo problema ai posteri.

Mettete assieme i pochi proverbi da me citati e vi troverete dinanzi
già a quest’ora un quadro del carattere dei Sardi, più fedele di quello
che traccia l’artista che alla natura aggiunge troppo del suo; un vero
quadro come lo vorrebbe Tacito, fatto _sine ira et studio_. Ma non
è qui tutto il tesoro psicologico che possiamo scavare dal vangelo
popolare, chè dopo aver veduto il cuore e palpate le carni, i proverbi
ci riveleranno anche le foggie del vestito e la varietà delle forme.
Vediamo le rivelazioni spontanee che ci offrono sui costumi e la storia
della Sardegna.

_Qui non hat amigos non andet a festa._ Chi non ha amici non vada alla
festa. — Non trovandosi locande in molti paesi della Sardegna questo
proverbio dice che chi non ha amici sta male.

_Faghere sa figura de s’assu de cupas_, far la figura dell’asso di
cuori. — Vale fare una tristissima figura, e la similitudine è presa da
un giuoco sardo in cui l’asso è di nessun valore.

_Sos qui ti toccant sa barba ti querent narrer corrudu._ Toccarti la
barba è lo stesso che dirti cornuto. — Qui troviamo che in Sardegna
così come in molti altri paesi maltrattare la barba è un segno
d’ignominia.

_Sos benes de Don Nofre Foi._ I beni di Don Onofrio Fois. — Questo
proverbio ha avuto origine da uno straricco del Maghine, il Creso sardo
e ironicamente dicesi ad un povero (Spano).

_Ingher su brassu de Jorgie Laiosa._ Avere il braccio di Giorgia
Laiosa. Proverbio preso dalla tradizione popolare di una gigantessa di
questo nome.

_Non hazu pagadu ancora sa Citade._ Non ho anco pagato la città, che è
quanto dire non son facchino; perchè questo proverbio ha origine dalla
città di Sassari in cui i facchini pagavano un diritto alla Città.

_Esser comente Sanctu Johanne ad sa festa_, esser come San Giovanni
alla festa. — Vale uno ha fatto l’opera e l’altro ha gli onori.
L’origine è dalla festa di San Giovanni Battista che fanno i servi
di Maria in Sassari nel dì del Santo, giorno della fondazione della
Confraternita dei dolori, portano in processione la Vergine, mentre il
Santo sta nell’altare (Spano).

Alcuni proverbi ricordano persone e fatti che la tradizione ha
smarrito, per cui riesce impossibile interpretare la loro ragione.
_Così gli scrupoli di frate Giovan Gallo, così la giustizia di Rivalò,
così la fortuna di Pietro Feghe_; così i bosani citati parecchie volte
in proverbi satirici, come in quel che dice _fagher comente faghent in
Bosa, quando pioet laxant pioer_. Far come fanno in Bosa, quando piove
lasciano piovere.

Uno di questi però ha infamato per sempre un tale che per giuoco si
divertiva a pungere col coltello la moglie _Sos jogos de Donnu Jagure_
che dicesi a chi scherzando punge troppo.

Della passione dei Sardi per le fave trovate le traccie in parecchi
proverbi, e tra gli altri in questo: _S’anna qui det pioer faa cum
lardu_, l’anno che pioverà fave con lardo.

_Maccu que loa_, pazzo da catena. Questo proverbio pare abbia avuto
origine da qualche pazzo così appellato, oppure dalla _lua_ (titimalo)
che rende stupidi i pesci nell’acqua. Simile a questo avevano i
Siciliani il proverbio antico, _stultior morycho_. Morico è un epiteto
di Bacco, al quale facevan i mustacchi col sugo di questo frutto, il
moro (Spano).

_Sardu villanu_, è proverbio della Gallura, di Sassari e di altri paesi
settentrionali dell’isola; e lo Spano ne cava un segno che queste son
colonie sopraggiunte nell’isola.

_Tristu que i s’annada mala_, tristo come l’anno 1812, anno fatale per
la Sardegna, in cui si provaron tutti i mali della carestia (Spano).

Infine questi due proverbi sullo staccio, vi dicono quanto importante
sia l’industria della farina nella casa del sardo — _Sedattu meu
sedattu, su qui mi faghes ti facto_, setaccio mio, quello che mi fate
vi faccio — _Su zoccu de su sedattu est s’allegria de domo._ Il rumore
del setaccio è l’allegria di casa.

L’asino, uno dei penati della casa sarda, ha l’onore di dare trentasei
proverbi alla raccolta dello Spano; e la filosofia e la morale e la
satira attingono bellissime ispirazioni da quel povero animaluccio
ridotto in Sardegna a mostrare l’ultimo, l’infimo anello della scala
dell’asinità. Il gatto, che è pur il gatto, non ha che dieci proverbi,
il cavallo ne ha trentaquattro, la volpe diciannove; per cui nella
fauna dei proverbi rimane pur sempre la palma all’asino.

L’agricoltura è bambina ancora in Sardegna; ed io non ho potuto
raccogliere che 30 proverbi che la riguardano. Eccovi alcuni dei più
espressivi.

_Abba et sole, trigu a muntone, subta sa cappa de nostra Segnora._
— Acqua e sole, grano in quantità sotto la protezione di Dio nostro
Signore.

_Quando s’aradu non fundat, su trigu non affundat._ Quando l’aratro
non affonda, il grano non mette le radici. — Proverbio che vi sembrerà
tanto più saggio, quando sappiate che si usa soltanto nel Logudorese
dove le terre sono argillose.

_Sa fa bettala in infusta et su trigu in asciutu._ Le fave seminatele
in tempo piovoso e il grano in terreno asciutto.

_S’annu qui hat a pioer faa cum lardu_, l’anno che pioverà fave e lardo.

_Attunzu ispilidu, baccarzu famidu_, autunno spelato, vaccaro affamato.

_Iscassia et fogu, saccajos cum piogu_, scarsezza di pascoli e calori
dell’estate, agnelli coi pidocchi.

_Silva manna, fructu minore_, selva grande, poco frutto; proverbio
sapientissimo.

_Dai sa die de Sanctu Larentu mandiga mendulas chentu, dai sa die
de Sancta Rughe mundiga chentu nughe._ Dal giorno di San Lorenzo (7
agosto) mangiate cento mandorle. Dal dì di Santa Croce (14 settembre)
mangiate cento noci. Proverbio economico per significare che a quel
tempo son maturi quei due frutti e che non conviene far prima la
raccolta.

_Sarmentu curtu binnenna longa_; ramo corto vendemmia lunga; proverbio
che sicuramente vorranno sottoscrivere i migliori viticultori, e che è
quasi sinonimo di quest’altro:

_Binza manna et paga ua_, vigna grande e poca uva.

E l’uva ha questi altri:

_Ua agra binu aghedu._ Uva acerba, vino acido.

_Non seghes mai ua pioende_, non mozzar mai l’uva allorchè piove.

Nei proverbj di tutti i popoli la medicina occupa sempre un posto
distinto, ed ora accigliata e con piglio ippocratico ti schicchera
un aforismo diagnostico o prognostico; or penetrando nei più segreti
misteri della generazione, predice le virtù o i vizj del neonato, or
fa da fisiognomista, or insegna l’igiene ed ora il pregiudizio. Fra
i proverbi sardi ne ho trovati 102 di medici. Eccovene alcuni dei più
interessanti.

_Abba currente non fràzigat bentre_, acqua che scorre non fa marcire il
ventre.

_S’appititu et su mezus condimentu de su cibu_, l’appetito è il miglior
condimento delle vivande.

_S’aranzu su manzanu est’oro, su mesu die meighine, su nocte est
velenu._ — L’arancia la mattina è oro, a pranzo medicina, la notte è
veleno. — Proverbio che ha il suo corrispondente nello spagnuolo.

_Su bezzu o morit de guta o morit de ruta._ Il vecchio o muore di gotta
o di caduta.

_Si ti queres sanu abba su vinu_, se volete esser sani, inacquate
il vino. Proverbio molto igienico nella Sardegna che ha vini
spiritosissimi.

_Su casu fittu, su pane ispugnatu_; il cacio fitto, il pane spugnoso.

_Ad su cattarru su carru._ Al catarro il carro, cioè lo stomaco pieno.
In questo proverbio la rima potè più della sana igiene.

_Su dolore pius duru est su morrer de famine._ Il dolore più forte è
morir di fame.

_A sa femina partorza istat sa sepoltura baranta dies abberta._ Alla
puerpera sta la sepoltura aperta quaranta giorni.

_Sa bezza quando benit ad su fogu si offerit._ Quando la donna diventa
vecchia ha bisogno di fuoco.

_Sa frebbe continua finit sos meuddos_, la febbre continua consuma le
midolle.

_Sa frebbe terzana non est toccu de campana._ La febbre terzana non fa
mai suonar campana.

_Sa frebbe quartana sos bezzos bocchit et sos jovanos sanat._ La febbre
quartana i vecchi uccide e i giovani risana.

_Sa frebbe attunzale o est longa o est mortale._ La febbre autunnale o
è lunga o è mortale.

_Sa frebbe atterat finza su leone._ La febbre atterra anche il leone.

_Sa frebbe senza sidis, malu signale._ La febbre senza sete, cattivo
segno.

_Furfurinu, paga vida_ — Passerotto (libertino) vita corta.

_Homine in pasu ischini forte_, uomo che riposa ha la schiena forte.

_S’imbreagadura noe dies durat_, una buona imbriacatura nove giorni
dura.

_Sos cegos hant pius penetra_, i ciechi hanno maggior talento.

_Conca manna, conca de judiciu_, testa grande, testa di giudizio.

_Corpus qui non dormit, malaidu sinde pesat_, corpo che non dorme,
ammalato se alza.

_Su corpus istat ad su qui li ponent._ Il corpo sta a quello che lo
avvezzano.

_Dentes biancas, gente sana_, denti bianchi, gente sana.

_Benzat sa salude siat dai su diaulu_, venga la salute, anche sia dal
diavolo.

_Dormire pagu vida meda_, dormir poco vita lunga.

_Ad sos males sa dieta_, nelle malattie dieta.

_Qui meda mandigat, pagu mandigat; et qui pagu mandigat, meda
mandigat._ Chi molto mangia, poco mangia; e chi poco mangia molto
mangia.

_Su mandigare ad contra animu est peccadu mortale_, il mangiar contro
voglia è peccato mortale.

_Su tantu mandigare segat su cabidale._ Il tanto mangiare rompe il
cuscino (lo stomaco).

_Martu marzosu, marzo marcioso_; perchè in questo mese la mortalità è
grande.

_In sole de martu ponet su marcu._ Il sole di marzo mette il marchio.

_In su mese abrilu non tocches unu pilu — In su mese maju, non lexes su
saju._ — Nel mese d’aprile non toccare un pelo; nel mese di maggio non
toccare il sacco.

_Orizi longu, vidale, orizi curtu, vida curta_, orecchio lungo, vita
lunga, orecchio piccolo, vita corta. — Proverbio che i Sardi hanno
comune con molte nazioni.

_Dai sa bucca buddit sa padedda_, dalla bocca bolle la pignatta; cioè
uno che mangia assai sta bene.

_Pane bene coctu, faghet bonu ructu_, pane ben cotto è ben digerito.

_Pane, suighelu bene et coghelu male, dalu ad su cane; suighelu male et
coghelu bene, dalu ad quie quieres._ Il pane, se lo impastate bene e lo
cuocete male, datelo al cane; se lo impastate male e lo cuocete bene,
datelo a chi volete.

_Pane de cabidauni et de Santuaini, abba calda et bene pesadu._ Pane di
settembre e di ottobre, acqua calda e ben fermentato.

_Su parturire est imbellire, s’allactare est imbezzare._ Il partorire è
imbellire, l’allattare è invecchiare.

_Piccinnu anticipadu, roba de su Chelu_, piccino d’ingegno precoce,
muore presto. Orazio diceva: _Odi puerulos praecoci ingenio_ e Plinio:
_Maturae mortis signum juventa senilis_ (Spano).

_Homine pili murtinu o totu bonu o totu malu._ Uomo da capelli rossi o
tutto buono o tutto cattivo.

_Homine pili murtinu, coi altu_, uomo dai capelli rossi, uomo doppio.

_Homine pilosu, homine coraggiosu_, uomo peloso, uom coraggioso.

_Sa salude et libertade non bi hat oro qui la paghet_, la salute e la
libertà non vi è oro che le paghi.

_Si queres viver sanu, pesadi chito su manzanu._ Se vuoi viver sano,
alzati per tempo.

_Su sole de abrile ponet brunchile._ Il sole di aprile mette segno.

_Su sole de martu lealu de passu_, il sole di marzo prendilo di passo,
cioè passeggiando o lavorando.

_Su sole de martu ponet su nappu et i su de abrile ponet su nappile._
Il sole di marzo mette il marchio e quello d’aprile il mascherone.

_Titta de costa lacte de substancia_, mammelle piccole, latte di
sostanza.

_Mezus suerare qui non tussire_, meglio sudare che non tossire.

I popoli agricoltori senza avere osservatorii meteorologici son
però tutti indagatori diligenti delle vicende atmosferiche e nei
loro proverbi incarnano i frutti dell’esperienza. Io non ho potuto
raccogliere che ventisette proverbi meteorologici, nè tutti hanno un
vivo interesse. Eccovi quelli che hanno fisonomia più inarcata.

_Arcu de marnano, abba de sera; arca de sero, abba de manzanu._ Arco di
mattino, pioggia avvicina; arco di sera buon tempo spera. (Per arco di
mattino vuol dire arco a levante; e per arco di sera, arco a ponente).

_Aeras rujas bentu annuntiant._ Arie rosse annunziano vento.

    Sa dir de sanctu Callistu
    Quand’est asciutta et bentosa,
    Annada sicca et belosa.
    Quand’est infusta et serena
    Annada bona et piena.

  _Quando nel dì di San Callisto fa vento l’annata è parziale. Se fa
  pioggia serena la raccolta sarà buona._

_Octo dies innantis, odo dies pustis de Sancte Maria ispezzat attunzu._
Otto giorni prima, otto poi della Natività della Madonna, principia
l’autunno.

_Bentu bosanu battit abba_, il vento bosano porta l’acqua; cioè il
ponente libeccio, così detto perchè Bosa sta a quel punto col Logudoro
(Spano).

_Candela qui instinchiddat et faghet cugumeddu, tempus de abba._
Candela che scintilla e fa funghi, segno di acqua. Rammenta il verso
delle Georgiche: _Scintillare oleum et putres concrescere fungos._
(Georg, v. 350) Spano.

_Frearzu facies facies_: il febbraio ha due faccie, cioè è mese
incostante, traditore.

Di egual valore meteorologico è quest’altro:

_A frearzu lealu quando benit._ A febbraio prendetelo quando viene.
Questo proverbio poi si applica alle persone moleste o ai mali
personali.

_Lughia netta, Pascha brutta: Lughia brutta, Pascha netta._ Se il dì
di Santa Lucia è bello, il Natale sarà nevoso: e se al contrario sarà
in neve il giorno di Santa Lucia il Natale sarà bello. Proverbio dei
pastori del Logudoro.

_Sa luna naschet clara, nocte bella faghet._ Quando la luna nasce
chiara, fa bella notte. S’intende parlare della luna nuova. Anche
Virgilio aveva scritto nelle Georgiche: _Pallida luna pluit, rubicunda
fiat, alba serenat._ (Georg, v. 427).

_Monte Sanctu est cuguddadu, in Minerva hat neulore, temporada manna
est custa._ Monte Santo è coperto di nebbia, come pure il monte
Minerva, segno di gran temporale.

_Nocte isteddada, die imbruttada_, tempo che si cambia di notte non
dura.

_Nocte isteddada, nie a carrada_, notte stellata neve a carri.

                                 * * *

Pochi forse fra quelli che metteranno gli occhi su questo mio scritto,
avranno la pazienza di leggere queste pagine dedicate allo studio dei
proverbi sardi; ma io ogni giorno mi vado persuadendo che la vita
circola più attiva e sottile nei meandri capillari, e i più grandi
fenomeni della nutrizione si compiono negli ultimi labirinti dei
nostri tessuti. E così è appunto dello spirito delle nazioni, che vuol
essere studiato più nei sentieri che nelle vie maestre, più nelle
piccole venuzze delle membra che nelle grandi arterie del tronco.
Che se questo mio ragionamento non valesse ad infondere in voi la mia
stessa persuasione e a fortificare la vostra pazienza, saltate inanzi;
perch’io non ho ancora finito la mia escursione fisiologica attraverso
i proverbi della Sardegna.

I proverbi morali son quasi sempre gli stessi in tutte le nazioni
civili; e se quei di Sardegna hanno una tinta loro propria, la
attingono dal sentimento religioso. Farei eccezione per il bellissimo
motto: _abba abba, vino vino_ (acqua acqua, vino vino) che è quasi una
copia dello spagnuolo _pan pan, vino vino_ e che appunto è ripetuto
spesso da due popoli d’indole diversa ma che si distinguono per un
grande amore alla verità, per un abituale franchezza. Eccovi un piccolo
saggio di proverbi morali della Sardegna:

_Qui hat unu amigu, hat unu tesoro_; che non abbisogna di traduzione.

_Faghidebos amigos_, fatevi amici; è quasi un testamento che lasciano i
Sardi ai loro figli.

_Sos amigos qui siant nè meda, nè nudda._ Gli amici nè molti, nè
nessuno.

_Un anzone guastat totu su masone._ Una pecora marcia ne guasta un
branco.

_De s’arrabbia de su sero, arribbadinde ad su manzanu._ Della rabbia di
sera conservatene alla mattina.

_Iscura cudda banca qui non bi hat barba bianca_; misera quella tavola
(casa), dove non vi è barba bianca.

_Su bocchire toccat ad Deus_, l’ammazzare tocca a Dio.

_Su bonu fagher non morit mai._ Il ben fare non muore mai.

_Non serres sa bucca de quie ti queret bene._ Non chiuder la bocca di
chi ti vuol bene.

_Est mezus dolu in buscia qui non dolu in coro._ È meglio aver dolore
nella borsa che nel cuore.

_Non dispreties a niunu, nen cosa in terra amena._ Non disprezzare
nessuno nè cosa alcuna in terra altrui.

_Quiem su fizu non corregit, su fizu odiat._ Chi non corregge il
figlio, odia il figlio.

_Miseru babbu et mama qui fidat fizu a teracca_, infelici quei figli
che affidano alle serve i figli.

_Su geniu faghet totu_, il genio fa ogni cosa; proverbio che aveva
sempre in bocca Biante. (_Meleti to pan, assiduitas omne_) Spano.

_Gente devota non la cretas tota_, gente devota non la crediate tutta.
— E una fortuna che in questo caso la rima, che storpia in molti
proverbi la verità in servizio del suono, sia riuscita invece a trovare
un arguta verità.

_De s’homine est su errare, de su diaulu su perseverare._ Dell’uomo è
prender sbaglio, del diavolo è perseverar nell’errore.

_Su mezus remediu ad sas injurias est s’ismentigu._ Il miglior rimedio
alle ingiurie è l’obblio. — Proverbio generoso, fratello dell’altro
spagnuolo: _el olvido es el remedio de las injurias_ la dimenticanza è
il rimedio delle ingiurie.

_Qui trabagliat pregat_, chi lavora prega.

_Qui non ischit pregare, si qu’ andet a mare._ Chi non sa pregare, vada
in mare.

_Sa buglia est bella quando totus rient._ La burla è bella quando tutti
ridono.

_Mezus bruiare una citade qui non ponner una mala costumen._ È manco
male abbruciare una città che mettere una cattiva usanza.

_Qui dat prestu dat ad duas boitas_, chi dà presto, dà due volte.

_Sa die de hoe est su mastru de cras._ Il giorno d’oggi è il maestro di
domani.

È vero che io ho scelti i migliori fra i proverbi sardi; ma è
anche verissimo che questi pochi sono informati da un alto concetto
dell’umana responsabilità; sono nobili, elevati, virili. E i Sardi li
insegnino ai loro figliuoli, con essi li commentino; che questo è un
vangelo e dei migliori.

                                 * * *

Tipo dei proverbi filosofici, così com’io li intendo, sarebbe questo:
_Leada sa causa, mancat s’effectu_, tolta la causa, manca l’effetto;
ma più volte il proverbio, invece di affermare un domma logico come
questo, s’addentra nei segreti delle leggi sociali o insegna l’arte
della vita; e diviene precetto di politica o di prudenza; altre
volte degna di sorridere di una leggera ironia e s’avvicina allora ai
proverbi satirici. Quand’anche non adottiate la mia classificazione
naturale dei proverbi, date uno sguardo a questi che scelgo fra i
migliori dei 928 da me raccolti nella ricca collezione dello Spano.

_S’abba bessit dai su mare et ad su mare torrat._ L’acqua esce dal mare
e al mar ritorna.

_S’abbilastru non si trattenet a cazziar e musca._ L’aquila non si
trattiene a cacciar mosche.

_S’ainu s’abbigat de su beranu de qui qu’ est passadu._ L’asino
s’avvede della primavera dopo passata.

_In s’arovore ruta ognuno bi faghet linna._ Nell’albero caduto ognuno
fa legna.

_Iscura s’arzola qui timet sa formigula._ Meschina l’aja che teme la
formica.

_Barberi jovanu et mèigu bezzu_, barbiere giovane e medico vecchio.

_Qui dormit a pizzinnu pianghet a bezzu._ Chi dorme in gioventù piange
vecchio.

_Niune si nerzat biadu finas qui siat interradu_, nessuno si dica beato
finchè non sia seppellito.

_Sa coghine minore faghet sa domo manna._ La cucina piccola fa la casa
grande.

_Pro male cojiuadu, mezus una persona sepultada_; per essere una
persona mal maritata è meglio morta.

_Mezu conca in domo sua qui non coa in domo anzena._ Meglio testa in
casa propria che coda in casa altrui.

_In conca macca pagu durat berritta_; in testa pazza poco dura il
berretto.

_Chentu concas, chentus berritas_; cento teste, cento berrette.

_Sa consientia est qu’ et i su cori cori, quie lu timet et quie non._
La coscienza è come il solletico, chi lo teme e chi no.

_Su dinari de sos locos si qu’ andat in fustes et roccos._ I denari de’
pazzi se ne vanno in bastoni e truccioli.

_Qui hat dinari, pastinat binza in sa codina._ Chi ha quattrini pianta
la vigna nella roccia.

_Mezus dare lira a mastru qui non soddu a dischente._ Meglio dare lira
a maestro che un soldo a garzone.

_Faedda pagu pro non ti fuddire meda._ Parla poco ed ascolta assai, che
non fallirai.

_Iscuru a quie confidat in homines._ Misero colui che confida negli
uomini.

_Pra connoscher s’homine est precisu mandigare unu saccu di sale
cumpare._ Per conoscere l’uomo bisogna mangiare con esso un sacco di
sale.

_Cum sos mannos ista coment et in su fogu, ne tantu accurzu, nen tantu
allontanu._ Coi grandi state come al fuoco, nè tanto lontano, nè tanto
vicino.

_Queres benner Paba, ponedilu in conca_, vuoi diventar papa, mettitelo
in testa.

_Inuè est su Paba in cuddae est Roma._ Dove è il papa, ivi è Roma.

_Poverittu, allegrittu_, poveretto, allegretto.

_Sa povertade est plus dolorosa ad sa bezzesa._ La povertà è più
dolorosa nella vecchiezza.

_Tempus temperat_, il tempo tempera.

_Sa vida est que unu fiore, benit et passat._ La vita è come un fiore,
viene e passa.

                                 * * *

E se ora volete accompagnarmi nel campo più ameno dei proverbi satirici
o ironici, che vogliate chiamarli, vi prometto di non abusare della
vostra pazienza, benchè io ne abbia raccolti 905.

_Abba passada non tirat molinu_, acqua passata non tira il molino.

_S’ainu non connoschet sa coa finzas qui non la perdet_, l’asino non
apprezza la coda se non quando la perde.

_S’avaru non faghet bene si non quando morit_, l’avaro non fa bene se
non quando muore.

_Andadu ses azu, torradus ses chibudda_, sei andato aglio e sei
ritornato cipolla.

_Basa mattones et caga diaulus_, bacia i mattoni e caca diavoli. Dicesi
dei bacchettoni.

_Bestidu su bastone paret unu barone_, vestito il bastone sembra un
barone.

_A tempus ismentigadu si cojuant sas battias._ A tempo dimenticato si
maritan le vedove.

_Su bentre non lo bidet niunu._ Il ventre non lo vede alcuno. Si dice
di chi risparmia nella tavola per non far trista figura.

_Bentre pieno cantat et non camija bianca._ Pancia piena canta e non la
camicia bianca.

_Mezus birbante qui non macu_, meglio birbo che pazzo.

_Su bizonsu faghet sa bezza a currer._ Il bisogno fa correr la vecchia.

_Bucca besada non perdet fortuna_; per cui non occorre traduzione.

_Caddu et muzere in podere de quie dat_; il cavallo e la moglie secondo
che cadono.

_Ad su caddu s’isprone, ad sa femina su bastone_, che è meglio non
tradurre.

_Non tinde sonant de campanedda in culu_, non ti suonano campanello in
culo. Dicesi di uno che non inclina al sacerdozio.

_Qui cum su cane si corcai, puligosu sinde pesat._ Chi si corica coi
cani, si leva colle pulci.

_Cavagliere poveru quircat pabiros bezzos_, cavalier povero cerca carte
vecchie.

_Sa chezura de binza faghet sa ruffiana._ La siepe della vigna fa la
ruffiana.

_Azzurradore de sa chijina et isbaidore de sa farina_; economizza la
cenere e getta la farina.

_Don senza din balet quatrin; din senza don balet denaron._ Proverbio
bellissimo e che tradotto perde ogni brio.

_Qui andat a furare, su qui li dant leat_, chi va a rubare prende quel
che gli danno.

_Bènnida s’hora càzzadi fora_, venuta l’ora, andatevene fuori.

_Qui semenat ispinas non andet iscalzu._ Chi semina spine non vada
scalzo.

_Ispina subta ludu_; spina sotto il fango; frase pindarica con cui si
stigmatizza un maligno.

_Qui dormit in lectu anzenu, non dormit quantu queret._ Chi dorme in
letto altrui, non dorme quanto vuole.

_Leges meda, pobulu miseru_, molte leggi, povero popolo. Quanta
sapienza in questo proverbio!...

_Su machina hat trinta sex genias, et ognunu tenet su pagu sou._ La
pazzia è di trentasei specie ed ognuno ne ha il suo poco.

_Si andas a mare non incontras abba_, se vai al mare non trovi acqua.
L’ironia e la satira non possono davvero andare più in là di questo
proverbio.

_Monza de Ecclesia, demoniu de foghile_, monaca di Chiesa, demonio di
casa.

_Sos padres intrant senza si connoschere, vivent senza si amare, morint
senza si piangher._ I frati entrano senza conoscersi, vivono senza
amarsi, muoiono senza piangersi.

_Su paladu est minoreddu, et que falat palattu et casteddu._ La bocca è
piccola, ma basta ad ingoiare palazzo e castello.

_Vida de padre, vida de mandrone_, vita da frate, vita di poltrone.

_In sos padres non bi hat ite fidare._ Nei frati non vi è da fidarsi.

_Sa pedde tua non la die comporare in debadas_, non comprerai la tua
pelle gratuitamente.

_Qui pretat, unu restat in camija et i s’ateru nudu._ Di due che
litigano uno resta in camicia e l’altro nudo.

_Su ruffianu hat semper mala paga._ La spia ha sempre cattiva paga.

_Devotione de sagristanu, consientia de moralista, deunzu de
coghineri._ Divozione di sagrestano, coscienza di moralista e digiuno
di cuoco.



CAPITOLO IV.

  La poesia popolare in Sardegna. — La giunta municipale di
  Bortigiadas. — Gli improvvisatori e le loro lotte poetiche. —
  Poesie amorose. — Poeti sacri, antichi e moderni. — I misteri.
  — Poeti epici ed elegie. — Satire festevoli ed amare. — Poesie
  bernesche. — Poesie sardolatine dell’abate Madao.


La Sardegna ha una ricca vena di poesia popolare; e nella svariata
forma delle vesti e nei costumi e nel linguaggio pittoresco e
nell’accento concitato e prorompente, e nella danza e nelle canzoni
tu ti accorgi subito che è quello un popolo che sente le delizie
dell’ideale e sa vestire di splendide forme le passioni del cuore e le
nebulose aspirazioni della speranza. La poesia popolare di Sardegna ha
tutti i difetti e tutte le virtù dei frutti agresti, cresciuti senza
le carezze dell’arte; ma venuti fra le rugiade e gli aquiloni, fra
i diluvii del temporale e l’arsura dei lunghi soli; è poesia che ha
profumo e asprezza, licenza di forme senza confini; e balzi improvvisi,
più arditi di quelli del capriolo e del muflone; or monotona e triste,
ora ardente e lasciva. Essa è ispirata quasi sempre dall’amore e dalla
religione; la prima gioia e l’ultima speranza della vita; e trovate
più d’un poeta, erotico nella giovinezza, divenuto poi salmista;
Tibullo trasformato in Manzoni coi primi capelli bianchi. Le bellezze
della natura e la storia del passato ispirano di raro il poeta sardo;
egli canta le grazie della sua donna o la vita dei santi; qualche
volta scherza e morde, nè la vena satirica è in lui sterile di amari
inchiostri.

È difficile trovare una poesia nazionale che abbia più ricca natura
e arte più povera della sarda; molti dei poeti suoi sono contadini, o
pastori; spesso analfabeti. Cantano come l’usignuolo e la capinera, e
se alcuno non è presente che raccolga quelle ispirazioni, esse vanno
perdute come le note di quegli uccelli silvestri, e la brezza dei monti
le trasporta lontano e le disperde nel grande oceano della natura; da
cui ci viene e a cui ritorna ogni bellezza.

Altre volte il poeta muore povero e sconosciuto come era nato, ma i
suoi versi si tramandano senza nome d’una in altra generazione; sicchè
anche al giorno d’oggi li senti ripetere dai montanari e dai pastori.
Sia lode allo Spano, al Pischedda e agli altri che hanno raccolto quei
tesori di poesia che finora furono affidati ai venti o che rimasero
nascosti nell’oscurità di una valle, nel nido d’una capanna solitaria.
Anche il Maltzan nella sua ultima opera sulla Sardegna ha studiato
con molto amore e con finissimo gusto artistico la poesia popolare dei
Sardi.

Anch’io ho udito molte canzoni popolari, anch’io ho trovato nel mio
viaggio molti e molti che il volgo non chiamava poeti, solo perchè
al loro linguaggio pittoresco e fantastico mancava la rima; ma che lo
erano nel senso più sublime della parola. A Tempio si presentò dinanzi
alla Commissione d’inchiesta la Giunta municipale d’uno dei villaggi
più oscuri e più dirupati della Gallura. Erano tre montanari dai volti
abbronziti, con capelli e barba vergini come le loro foreste, col volto
scarno, solcato come i graniti delle loro montagne, coll’occhio acuto
come le loro aquile; gente fiera e semplice, calma e forte. Uno di
essi prese la parola e con un linguaggio di biblica bellezza lamentò la
miseria del suo villaggio, implorò il soccorso del Parlamento; dipinse
con lirico ardimento l’abisso che separava la loro povertà dalla nostra
potenza. Così potessi io aver stenografato quel suo discorso poetico,
eloquente, tenerissimo.

Eccovene in ogni modo la pallida ombra: «_Giunse sulle cime dei nostri
monti la lieta notizia che uomini mandati dal Re e dal Parlamento,
erano venuti fin qui a riconoscere i bisogni delle popolazioni; e noi
siamo venuti da Bortigiadas per stringervi la mano e ringraziarvi a
nome dell’ultimo, del più povero dei villaggi della Sardegna, per i
patimenti che avete sofferto nel vostro viaggio, per tutto ciò che
farete per noi. Bortigiadas è il più infelice paese del mondo; non ha
strade, non ha scuole; è isolato dal consorzio degli uomini; la neve
nell’inverno ci fa prigionieri; nell’estate i torrenti ed il sole ci
rubano spesso le poche spighe che abbiamo seminato. Infelice chi nasce
in Bortigiadas! Malo Spirito Santo vi ha illuminati e voi siete venuti
qui a vederci, e a riparare ai nostri mali. Accettate questo scritto
in cui vi parliamo dei nostri bisogni; studiateli, e vi assicuro che
noi insegneremo alle donne di Bortigiadas i vostri nomi, e le madri
insegneranno ai loro figliuoli a benedirli. Non vi preghiamo per noi:
siamo già vecchi, abbiamo già sofferto e vissuto abbastanza; noi presto
riposeremo nella pace del nostro piccolo cimitero; noi vi preghiamo,
noi vi scongiuriamo pei nostri figliuoli che hanno ancora dinanzi
un lungo avvenire. Che se voi non ascoltaste le nostre preghiere, oh
infelici tre volte quelli che nasceranno in Bortigiadas!_»

E quando quel buon vecchio, che era commosso fino alle lagrime, si
accomiatò da noi e coi suoi compagni ci ebbe baciate le mani, noi
lo accompagnammo fino alla porta; ed egli, alzando il braccio con
veneranda e olimpica maestà, ci disse: _Che Dio vi benedica, che lo
Spirito Santo vi illumini!_ Anch’io era commosso e pensavo alla ricca
vena di poesia che è nascosta nel popolo sardo.

La Sardegna ha molti improvvisatori, e il più spesso son contadini
che danno sfogo al loro estro poetico nelle feste sacre o nelle
fiere, senza per questo far pompa ciarlatanesca o commercio dei loro
versi. Più che il guadagno li stimola l’amore dell’arte, li sprona
l’alloro della vittoria. Come nei tempi dell’Antica Grecia convengono
alle feste dei loro monti e delle loro valli per contendersi il
primato della poesia; e fra essi siede a giudice un sacerdote o un
altro improvvisatore emerito. Il parroco d’un villaggio, Melchior
Dore, quello stesso che pubblicò nel 1842 un epopea _Sa Jerusalem
victoriosa_, ebbe spesso la palma dell’improvvisazione, come pure se
la guadagnò più volte un poeta di Osilo che aveva lo stesso cognome
dell’epico curato, Pietro Dore.

Più d’una volta la sentenza del giudice è proclamata in versi
improvvisi.

    Dogunno si la boghet dai testa[10]
    Chi Pedru inoghe su panno hat leadu,
    Cando ch’a Tomas Satta ch’hat bogadu
    Alteros che nde bogat in sa festa.

  _Ognuno se lo levi dalla testa che Pietro qui ha preso il
  panno[11], quando ha messo fuori Tommaso Satta altri ne mette fuori
  nella festa._

Questo Tommaso Satta, che qui compare in questo certame poetico non è
che un contadino di Ploaghe, morto nel 1823, ed uno dei primi poeti e
improvvisatori della Sardegna; ma le sue poesie più che amorose sono
lascive.

Melchior Murenu è un altro improvvisatore sardo fra i più celebrati ed
era cieco; egli aveva un rivale potente in Pietro Cherchi di Tissi,
cieco e poeta anch’egli. Questi, secondo quel che ce ne racconta il
Maltzan, era così infocato e rapido nel suo estro, che spesso era quasi
involontariamente trascinato a dettar versi. Una volta, trovandosi
presente a una lotta fra due improvvisatori, ad un tratto si slanciò
fra essi, gridando:

    A su zegu dade logu
    E cantemos totos tres
    Ca mi bessin dai pes
    Fiammaridas de fogu.

  _Fate posto al cieco e cantiamo tutti tre, che mi escon dai piedi
  scintille di fuoco._

E quel cieco ardente tirava innanzi su questo stile, improvvisando
strofe a josa. Per la psicologia è curioso il sapere che questo povero
cieco aveva perduta la vista a due anni, ciò che non gli impediva di
cantare nei suoi versi le svariate bellezze delle fanciulle del suo
villaggio.

Un altro illustre improvvisatore nel genere erotico e lirico ebbe la
Sardegna in Francesco Cesaracciu di Ploaghe, analfabeto, morto nel
1803; e a questo poeta è a mettersi vicino il gesuita Matteo Madau,
profondo filologo, morto nel 1800, il quale cominciava in questo modo
una delle sue più celebrate poesie amorose:

    Lassami, amore in sussegu
      Ca ses pizzinu traitore
      Non bi jogo pius, amore.
      Ca mi das colpos de zegu.

    Sunt bellas sas artes tuas
      Faghes de su bell’in cara,
      E mi trappassas insara
      Su coro e pustis tis cuas
      Mil’has fatt’un’otta e duas
      Bene conosco s’errore.

  _Lasciami, amore, in pace, che tu sei un fanciullo traditore, non
  giuoco più, o amore, che mi dai colpi di cieco. Son belle le tue
  arti, mi fai il bello in faccia, ma mi trafiggi in cuore e poi ti
  nascondi, me l’hai fatta una e due volte, ben conosco l’errore._

Anche Bosa ebbe un grande improvvisatore in Giovanni Maria Pintus,
quasi contadino, che moriva nel 1857 e che amava cantare l’amor felice,
a differenza degli altri colleghi suoi che effondevano più spesso le
loro liriche aspirazioni in lamenti erotici, e a differenza sopratutto
del suo paesano Gavino Passino (morto nel 1804) che alla sua lira
amorosa non aveva che la corda di Geremia. E col Passino sono da
mettersi insieme Paolo Massa di Bonorva, vivo anche oggi, e il medico
Antonio Manchia di Oschiri (morto nel 1854) e il vecchio Pietro Pisurgi
(morto nel 1799).

Dalle poesie improvvisate dei Sardi mi è facile passare alla loro
poesia erotica, che è fra le più ricche di quel paese; e le eruzioni
del verso improvviso sono più facili là dove il suolo è sparso di
vulcani e dove ribolle profonda e tenace la lava d’amore.

Eccovi un saggio d’una delle più antiche poesie amorose, di cui è
ignoto l’autore. Il tema è questo:

    Non ti mi poto olvidare
      Sende de me veru accisu,
      Sempre et cando est prezzisu
      Columba! de t’istimare

  _Io non ti posso dimenticare, essendo tu, parte intima del mio
  cuore, e sempre io son costretto, o colomba, ad amarti._

E la prima strofa suona così:

    Sempre ti tenzu in su coro
      Sempre di jutto in sa mente,
      Continu t’hapo presente,
      Non mi olvides, melà e oro,
      Tue ses veru tesoro!
      Su veru incantu et majïa!
      Chi non vid’hapo, bella mia,
      Alter’in ojos che tue,
      Pro custa candida nue
      Non ti mi poto olvidare.

  _Ti tengo sempre nel cuore, sempre ti porto nella mente, di
  continuo t’ho presente, non mi dimenticare, mela d’oro, tu sei
  vero tesoro, un vero incanto e magia, che io non ho, bella mia,
  altri negli occhi che te, per questa candida nube io non ti posso
  dimenticare._

Antichissimo è pure questo lirico battibecco fra due amanti:

    Convertidas sunt in iras
      Sas amorosas fiamas,
      Isconzas si sunt sas paghes
      Non ti miro, nè mi miras,
      Non ti bramo, nè mi bramas,
      Su chi ti fatto mi faghes
      Non t’aggrado, nè mi piaghes,
      Ti nd’infadas, mind’infado,
      No m’aggradas, ni t’aggrado
      Ambos hamos cumbinadu.

  Sono convertite in ira le amorose fiamme, rotte son le paci, io non
  ti guardo, nè tu mi guardi, non ti bramo, nè mi brami, ciò che ti
  faccio e tu mi fai; non ti piaccio, nè mi piaci; tu ti secchi di
  me, io mi secco di te; non mi piaci, nè ti piaccio, ambedue andiam
  d’accordo.

Possiam darvi invece il nome del poeta (Francesco Serraluzzu di
Cuglieri) di questa serenata che l’amante canta alla porta della sua
bella dormente.

    Isculta, bella su cantu
      O virgine, tota fiore,
      Ch’est bennid’a ti cantare
      Attrividu benz’a tantu
      In cumpagnia e amore
      Ista notte a t’ischidare
      Ai custu cantu t’ischida,
      Virgine bella e dechida,
      Virgine bella e dechida!

  _Ascolta, o bella, il canto, o vergine, tutta un fiore, che venuto
  a cantarti, vengo ardito a tanto in compagnia d’amore questa notte
  a svegliarti, a questo canto ti sveglia, vergine bella e graziosa,
  vergine bella e graziosa._

Il Padre Lucas di Pattada (morto nel 1829) è uno di quelli che cantò
santi e amore sulla stessa lira e vedete quanto grazioso sia questo suo
saluto alla bella:

        Donosa Elisa mia!
    Innantis de mi ponner in su mare
        Mandare ti cheria
    Un imbasciada pro di salutare.
        Sas dies passo tristas
    Ca non isco, donosa, coment’istas
        Non mi poto allegrare
    In su ritiru, ca non bido a tie,
        Mi pongo a ti chircare
    Faltu de sas montagnas nott’e die
        Chirco litos e mattas
    Clamand a tie, Elisa, e non t’agattas.

  _Graziosa Elisa mia; prima di mettermi in mare ti vorrei mandare
  un messaggio per salutarti. Passo tristi i giorni, perchè non so,
  cara, come stii, non mi posso rallegrare nel ritiro, perchè non ti
  posso vedere. Mi metto a cercarti per le montagne notte e giorno,
  cerco lande e macchie, chiamando te, Elisa, e non ti trovo._

E perchè possiate fare un prezioso raffronto, eccovi un altro saluto
all’amata del poeta vivente Ignazio Sanna di Cuglieri:

        Oh triste despedida
    So chi fatto dai te, columb’amada!
        Est zerta sa partida,
    Ma pius che inzerta sa torrada
        So zertu de andare,
    Pero non isco cand’hap’a torrare.

  _O triste commiato quel che faccio da te, colomba amata, è certa la
  partenza, ma più che incerto è il ritorno. Son certo d’andare, ma
  non so quando avrò a tornare._

Pietro Cherchi[12], quel povero cieco che abbiamo già conosciuto, ci ha
lasciato una delle più belle poesie amorose: è il lamento d’un amante
tradito:

        Ojos, coment’istades
    Pasados, e de coro non pianghides?
        Cum piantu restades,
    Ca sa chi tant’amades non bibides
        Cum piantu restades,
    Ca non bidides sa chi tant’amades
        Restades cum piantu
    Ca non bidides sa ch’amades tantu
        Sa chi tant’imprimida
    Tenizis in sa nina cumpassiva,
        Ite piaga cumplida!
    Incrudelida piaga ezzessiva
        Ite piaga cumplida!
    Ezzessiva piaga incrudelida
        Cumplida ite piaga!
    Incrudelida ezzessiva piaga
        Custa paga hapo tentu
    In ricompensa de tantu servire!
        Su crudele turmentu!
    Pro mi occhire fele violentu
        Su turmentu crudele!
    Pro mi occhire violentu fele.

  _Occhi come state pacati e di cuore non piangete? Rimanete in
  pianto che non vedete quella che tanto amate. Con pianto restate
  chè non vedete quella che tanto amate. Restate nel pianto che non
  vedete colei che tanto amate._

  _Quella che tanto impressa tenevate in cuore appassionato. Qual
  piaga compiuta! Una piaga eccessiva e incrudelita. Qual piaga
  compiuta! Eccessiva piaga incrudelita. Qual piaga compiuta! Una
  eccessiva piaga incrudelita!_

  _Questa mercede m’ebbi per tanto servire, un crudele tormento,
  per uccidermi un fiele violento, un crudele tormento; un tormento
  crudele, un fiele violento per uccidermi._

Fra i poeti amorosi il Maltzan chiama Giorgio Filippi di Bitti (morto
nel 1838) il poeta delle signore, distinto per la tenerezza dei suoi
pensieri e i lusinghieri accenti rivolti alle figlie d’Eva. Altro poeta
amoroso è un cappuccino, Antonio Giuseppe Pirisina di Ploaghe (morto
nel 1834) imitatore fortunato di Tibullo. Vicino ad un capuccino ci
duole dover mettere il nome di una gentile poetessa di Sassari, che
scrive sotto il nome semi-incognito di Donna Maria Grazia M. e che
canta soavemente amori felici e dolci tenerezze del cuore.

Lirica e poesia amorosa sono in Sardegna quasi una cosa sola; e fra
i più antichi dei lirici può collocarsi Antonio Delogu, contadino di
Tissi, che scrisse in versi appajati e rimati due a due; forma che i
Sardi chiamano _sinfonia_.

Sul principio di questo secolo brillava fra i poeti sardi un nobile
campagnuolo, pressochè analfabeto, ma ricco di cuore, di poesia, e
di quattrini, tre cose che vanno ben di raro insieme. Nella stessa
epoca era ritenuto principe dell’improvvisazione lirica l’analfabeto
Francesco Alvaru di Berchidda, ma di lui sgraziatamente poco ci è
rimasto. Molti altri lirici e poeti erotici potrei nominare, ma lo
spazio non mel consente e rimanderò alle raccolte dello Spano, del
Pischedda e di altri, e all’opera di Maltzan.

La poesia sarda, dopo l’amore, canta i beati del Paradiso, le feste
della Chiesa cattolica e i santi fervori del sentimento religioso.
Più d’una volta lo stesso poeta è negli stessi versi innamorato delle
donne e del cielo e le due corde dell’amore e della religione vibrano
unissone. Miglior esempio di questo dualismo estetico non saprei
trovare che nella _Sa femina onesta_ del Padre Cubeddu delle Scuole
Pie, nato a Patada nel 1748 e morto nel 1829. Eccovene alcune strofe,
alle quali metterò di contro una bella traduzione italiana fatta da un
altro padre e letterato sardo, l’abate Tommaso Pischedda.

    . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . .

    Iscultami benigna, Clori hermosa
      Hymnos de alabanzia hap’ad cantare;
      Pro qui de te Sardigna andet fastosa,
      Una corona t’hapo ad praeparare
      Facta non de giacintu, non de rosa,
      Qu’in pagu tempus si solet siccare:
      Ma t’hapo ad praeparare una corona
      Coglida frisca frisca in Helicona.

    Ater cantet de te, nympha dechida,
      Qu’andant cum tegus gratias et bellesa;
      Ater s’indole bella favorida
      De talentu, de briu et gentilesa,
      Ater qu’in logu nobile nasquida,
      In mesu ad sas delitias, et grandesa,
      Qui ses distincta, et pagas nd’has eguales
      In benes de fortuna et naturales.

    . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . .

    _M’odi benigna, deh! Clori vezzosa_
      _Inni di gloria sol ti canterò;_
      _Perchè Icnusa di te vada fastosa,_
      _Un serto al crine t’apparecchierò_
      _Non di giacinto o di purpurea rosa,_
      _Che l’uno e l’altra inaridir si può,_
      _Intesserò al tuo crine una corona_
      _Colta subito fresca in Elicona._

    _Altri canti di te, ninfa graziosa_
      _Che teco van le grazie e la bellezza;_
      _Altri la bella tempra avventurosa_
      _D’ingegno, di valor, di gentilezza,_
      _Altri la stirpe nobile e fastosa,_
      _Le tue delizie e insiem le tue grandezze_
      _Che ben sì chiare, e poche pari avesti_
      _Di sorte e di beltà quando nascesti._

    Neren’ipsos qui ses in tantu honore
      Quant’un alta Dïosa nde mèritat,
      Neren’qu’ in oyos tuos rïet Amore;
      Neren’qu’ in larar sa rosa t’habitat,
      Su qui ti dat resaltu, et pius valore
      Est sa virtude qui ti nobilitat,
      Virtute bella in anima costante
      Ti faghet praetiosa que diamante.

    Su qu’est in te de plus surprendente
      Est qui de sas grandezas posta in mesu,
      Ti conservas que turtura innozente,
      Qui de ogni bruttura bolat attesu,
      Ses bella, ses modesta, ses comente,
      Giardinu amenu de muros defesu,
      Dezente allegra, forte et invincibile
      Que roca in altu mare inaccessibile.

    Ses que lughe qui exit de Oriente,
      Passat in s’horizonte bella et pura;
      Toccat su mare, et non s’infundet niente,
      Toccat su monte, et non si parat dura,
      Passat in fogu, et nie, indifferente
      Non s’infrittat, non brujat, nè hat paura
      Qui l’appizzighet macula nisciuna
      De quantas be i nd’hat subta sa luna

      . . . . . . . . . . . . . . . .

    _Dican pur che salisti a tant’onore_
      _Quanto mai s’abbia vergine vezzosa,_
      _Dican che gli occhi tuoi ridon d’amore_
      _Ch’hai sulle labbra la vermiglia rosa,_
      _Ciò che crescon i tuoi pregi e il tuo valore_
      _È sol virtù ch’è ben divina cosa_
      _Alma virtù che in anima costante_
      _Ti fa preziosa al par dell’adamante._

    _Ciò che s’ammira in te di più parvente_
      _Si è, che mentre grandeggi in tanta altura,_
      _Ti serbi ognor qual tortora innocente,_
      _Lunge volando d’ogni rea bruttura;_
      _Sei pur bella, modesta, sei ridente,_
      _Qual ameno giardin cinto di mura,_
      _Tu sì lieta, gentil, torre saldissima_
      _Sì, come rupe in alto mare altissima._

    _Luce tu sembri ch’esce dall’Oriente,_
      _Che passa in l’orizzonte bella e pura,_
      _Entra nell’onda e bagnar non si sente,_
      _Tocca marmi e macigni e non s’indura,_
      _Sul gel passeggia, e sulle bragie ardente,_
      _E non arde, non gela, nè ha paura_
      _Che si veggia bruttar da labe alcuna_
      _Fra quante macchie v’ha sotto la luna._

    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L’abate Tommaso Pischedda, che ha messo questa poesia fra i _Canti
popolari dei classici poeti sardi_, dice che «siccome la maggior parte
delle poesie del Padre Cubeddu si aggirano su temi profani, e poco
interessanti al nostro fine, noi ce ne passeremo, e daremo tra tutte
la preferenza a quella che tratta felicemente un tema cotanto nobile,
qual si è l’onestà d’una sarda donzella che serba intemerato il giglio
castissimo della sua verginità.» Noi però, chiedendone licenza al colto
abate, confessiamo di sentire nei versi castissimi del Padre Cubeddu
distintissimi i due profumi dell’ambra e dell’incenso, dell’harem e
della chiesa; cose e luoghi che nel mondo dell’arte non son poi tanto
lontani come da molti si crede.

I canti sacri e popolari della Sardegna son molto antichi, innumerevoli
come le arene del mare, e per la più parte di autore ignoto. La pietà
dei fedeli li ha raccolti; e ogni villaggio ha i suoi prediletti, così
come ha i suoi santi particolari. Eccovi un saggio di queste poesie, in
onore di Sant’Antioco, il martire di Sulcis.

    De sa Cresia Santo honore
      Terrore de su Paganu
      Sant’Antiogu Sulcitanu
      Siades nostru intercessore.

    Cumparzistis in s’Oriente
      De mama jamada Rosa.
      Ch’in sa fide fervorosa
      Bos educat santamente
      Comente e sole lughente
      Diffundistis s’isplendore.

  _Onore della Santa Chiesa, terrore del Pagano, Sant’Antioco
  sulcitano, siate nostro intercessore._

  _Nasceste nell’Oriente da una madre chiamata Rosa, che nella fede
  fervorosa vi educò santamente, come un sol lucente diffondeste lo
  splendore._

Antichissima deve essere l’invocazione dell’angelo custode alla culla
del bambino e che il canonico Spano, già settuagenario, udì dalle
labbra di sua nonna:

    Su lettu meu est de battor cantones
      Et battor anghelos si bei ponen,
      Duos in pes et duos in cabitta
      Nostra Segnora a costazu m’ista
      E a mie narat, dormi e reposa
      No hapas paura de mala cosa,
      No hapas paura de malu fine.

        S’Anghelu Serafine
        S’Anghelu Biancu
        S’Ispiridu Santu
        Sa Virgine Maria
        Tote siant in cumpagnia mea.

        Anghelu de Deu
        Custodiu Meu
        Custa nott’illuminame!
        Guarda e difende a mie
        Ca eo mi incommando a tie.

  _Il letto mio è di quattro angoli, e quattro angeli vi si mettono,
  due ai piedi e due alla testa. La Nostra Vergine mi sta vicino e
  mi dice: Dormi e riposa, non aver paura di cattive cose, non aver
  paura di cattivo fine._

  _L’Angelo Serafino, l’Angelo bianco, lo Spirito Santo, la Vergine
  Maria, sian tutti in mia compagnia. Angelo di Dio, mio custode,
  illuminami questa notte, guardami e difendimi, ch’io mi raccomando
  a te._

Un genere singolarissimo di poesia sacra popolare è quello che ci è
dato in Sardegna dai così detti _misteri_ o _commedie sacre_ in versi.
Quell’instancabile Canonico Spano, che, parlando di Sardegna, conviene
citare ad ogni pagina, ha redento dall’oscurità, ora è poco, uno di
questi misteri che correva solo nella bocca del popolo a Ploaghe;
giovandosi dell’opera del curato di quel villaggio, Salvatore Cossu; e
che fu assai bene illustrato anche da Maltzan.

È un vero tipo della specie. _S’Historia de Juseppe Hebreu, Dramma
Sard_, in due atti; ognuno dei quali ha dodici scene. Noi non daremo
che la scena fra Giuseppe e la moglie di Putifarre. Udite la poco casta
signora:

    Juseppe bello, non fuas
    Mirami una pagu in cara;
    Et dae me, Juseppe, impara
      Ad m’istimare.

    Pro te mi querzo olvidare
    S’isfera et s’istadu meu;
    Non fuas no, o bellu Ebreu,
      Dae quie t’amat.

    Istuda custa fiama
    Qui giuto in pectus accesa!
    Non t’accendet sa belleza?
      Juseppe mira....

  _O bel Giuseppe, non fuggire, guardami un poco in faccia, da
  me, Giuseppe, impara ad amarmi; per te mi voglio dimenticare il
  rango e il mio stato, non fuggire, no, bell’Ebreo, da chi ti ama.
  Spegni questa fiamma che tengo in petto accesa! Non ti accende la
  bellezza? mira o Giuseppe_...

E il troppo casto Giuseppe risponde:

    Femina, guardemi Deu
    Dae simile peccadu!
    Non t’amo, et nemmancu amadu
    Querzu, qui sia.

  _O femmina, guardami Dio da simile peccato! Io non ti amo e nemmen
  voglio essere amato._

Fra i canti popolari sacri dei poeti classici stanno quelli di
Pintor Sirigu nato in Cagliari nello scorso secolo, e a lui dobbiamo:
_S’Existentia de Deus, Sa Natividade de N. S. G. Cristu; Sa Natividade
de sa V. Maria_, ecc. Citeremo anche i nomi, se non i versi del
distinto filologo e parroco di Sassari, Maurizio Serra, di Osilo
(morto nel 1834); il capuccino e celebre predicatore Gavino Achena di
Ozieri (morto nel 1829); l’ex-gesuita Bonaventura Licheri di Neoneli,
il poeta della Beata Vergine. Forse il più popolare fra tutti fu
Giovanni Battista Madeddu, parroco di Tadasune che parafrasò i salmi
e innalzò inni alla Vergine, a Sant’Antioco, il martire di Sulcis e a
San Giorgio, vescovo di Barbagia, i due santi nazionali della Sardegna.
È anche suo l’inno che cantano i contadini quando fanno le loro
processioni per implorare la pioggia dal cielo:

    Sos chelus hazis serradu
      Pro non nos dare alimentu;
      Sas abbas hazis detentu
      Sos trigos hazis siccadu
      Cum costu hazis accabadu
      Sa nostra fragilidade.

    Abba Deus imploramus,
      E abba Deus pedimus,
      Pro s’abba Deus pianghimus,
      Et pro s’abba suspiramus,
      Cum sas abbas ch’ispettamus
      Sas terras fertilidade.

  _Avete chiusi i cieli per non darci alimento; avete trattenuto le
  acque, avete seccato i grani, con questo avete finito la nostra
  fragilità._

  _Acque, o Dio imploriamo, e acqua Dio domandiamo, per l’acqua o
  Dio piangiamo, e per l’acqua sospiriamo, e con le acque aspettiamo
  fertilità alla terra._

La poesia sarda è povera di poemi e potremmo appena citare _Sa
Jerusalem victoriosa_ di Melchior Dore e alcuni poemetti di Raimondo
Congiu (morto nel 1813) del Padre Lucas e di Antonio Demontis Licheri
che celebrano fatti eroici della storia moderna di Sardegna. Francesco
Carboni che l’abate Pischedda chiama _genio prepotente d’eloquenza
latina_, nato a Bunnannaro nel 1746 scrisse due poesie latine: _De
Sardua Intemperie et de Coralliis_. Lo stesso Pischedda, parlando della
prima di queste epopee dice che «trovò tanta accettazione ne’ dotti che
disaminato a fondo e con giusta bilancia, ravvisarono in essa la grazia
di Catullo, la purità di Lucrezio in fatto di stile; la robustezza, la
maestà e la vivissima espressione di Virgilio nelle sue descrizioni,
e la profondità d’Orazio in molti de’ suoi concetti. Le poesie più
scielte del Carboni furono raccolte in un volume e pubblicate per cura
del Reverendo Monsignore Don Emmanuele Marongio. Uno dei suoi più cari
ed intimi amici, il famoso Dettori di Tempio lo salutava col nome
di _Latinissimo_, il Roberti gli dava il glorioso titolo di Doctae
_Sardiniae decus novellum_; e l’Accademia italiana l’onorava col nome
di _Primo latinista del secolo_[13].

Anche di elegie propriamente dette non è ricco il parnaso sardo. Ecco
un lamento di Marcello in cui piange le sterili sue ricerche di una
sposa:

    Tota sa vida caminende so
    In chirca de mi poter cojuare.
    Sa chi cherz’eo na mi cherent dare
    Sa chi mi dana, non la cherzo no.
    Andadu so a parte e Campidanu
    A su Marghine, fin’a a Bortigale,
    Giovana mai bidu ne uguale.
    Ma si non l’hat in pe l’hat in sa manu,
    E usant un istile suberanu
    Pro lograre su istadu maritale,
    Bendent s’honore pro uno reale.
    Et timidu hapo pro coronare.

  _Per tutta la vita io vo cercando di prender moglie. Quella che
  voglio io, non me la vogliono dare; quella che mi danno non la
  voglio io._

  _Sono andato al Campidano, al Marghine fino a Bortigali, non ho mai
  veduto una giovane eguale, ma se non ha un difetto, ne ha un altro,
  e usano uno stile sovrano per conseguire lo stato maritale, poi
  vendono l’onore per un reale e io ho paura di essere coronato._

Eccovi un altro lamento poetico del cieco Cherchi sulla sua vita
infelice:

    Cando penso in sa trista vida mia,
    Abbunda su piantu pius sobradu
    Faltada est dai me cudda allegria,
    Sa chi tantu m’haiat corteggiadu
    Como fatto a sas penas cumpagnia
    A chis m’hat sa sorte incumandadu
    Et rodeadu dai sas matessi
    Suspirare e piangher mi meressi.

  _Quando penso alla mia triste vita, abbonda il pianto più
  eccessivo. È mancata da me quella allegria, quella che tanto
  m’aveva corteggiato, adesso faccio compagnia alle pene alle quali
  m’ha la sorte raccomandato, e circondato dalle stesse mi tocca
  sospirare e piangere._

Se mancano i veri poeti elegiaci, io trovo però nella poesia sarda una
tinta melanconica che mi pare uno dei caratteri più salienti. Io sento
in molti poeti una malinconica effusione di sentimenti non soddisfatti
e perfino l’amore che fa vibrare tutte le corde del cuore e della
fantasia usa più spesso in bocca loro la voce del lamento e rare volte
effonde il giubilo della vittoria o il grido di guerra. L’abate Gavino
Pes, che è giudicato da molti il più celebre poeta che abbia fiorito
nella Gallura nel secolo XVIII, e che si meritò il nome di _Metastasio
Sardo_ ha scritto cose tristissime, rimpiangendo nella fredda età
delle rughe le amorose follie della sua calda giovinezza. Eccovi
alcune strofe del _Lu Pentimentu_ colla bella traduzione in versi del
Pischedda.

    La vicchiaia è vinuta
      Candu mi figurava più piccinnu:
    Drummitu era, e mi sciuta,
      Gridendi: già se’ vecchiu, e senza sinnu,
    Mallugratu haï l’anni
      In middi pregiudizi, in midd’inganni

    Simile a l’umbra vana
      Sparisi amori, e briu, cant’aia:
    L’alligria mundana
      Fuggi la me’ canuta cumpagnia:
    E l’amori mi scaccia,
      Palch’anda nudu, e timi la mè jaccia.

    _Vecchiezza è giunta e mi ha sorpreso questa_
    _Quando più giovin mi saria creduto._
    _Io dormiva, e dal sonno ella mi desta_
    _Gridando: ah! vecchio, ’l senno hai tu perduto._
    _Che di tua vita hai mal lograti gli anni_
    _In mille pregiudizi, in mille inganni._

    _Sparì, come sparisce un’ombra vana,_
    _Tutto quel foco, e spirto, e vigoria;_
    _Da me fuggendo ogni allegria mondana_
    _Schiva la mia canuta compagnia,_
    _Ed amor che va nudo ei pur mi scaccia_
    _Temendo il freddo gel delle mie braccia._

Vedete, quanta vera poesia vi sia in questi altri suoi versi _Lu Tempu_:

    Palchi no torri, di, tempu passata?
    Palchi no torri, di, tempu paldutu?

    Torra alta volta, torra a fatti meu;
    Tempu impultantu, tempu prizïosu,
    Tempu chi vali tantu quant’è Deu
    Par un cor ben fattu e viltuösu.
    Troppo a distempu, o tempu caru, arreu
    A cunniscitti (oh pesu agunïosu!)
    Quantu utilosu mi saresti statu,
    Tempu, aënditi a tempu cunnisciutu!

    Palchi no torri, di, tempu passatu?
    Palchi no torri, di, tempu paldutu?

    L’alburi tristu senza fiori e frondi,
    Vinutu maggiu, acquista frondi e fiori;
    A campu siccu tandu currispondi
    Un beddu traciu d’allegri culori.
    Supelbu salta d’inverru li spondi
    Rïu d’istïu poaru d’umori;
    E l’anticu vigore rinuatu
    Non sarà maï in un omu canutu?

    _Perchè non torni, di’, tempo passato?_
    _Perchè non torni, di’, tempo perduto?_

    _Deh ritorna, ritorna a farti mio_
    _Tempo perduto, tempo prezioso_
    _Tempo che vali tanto quanto Dio_
    _Per un core ben fatto e virtuoso!_
    _Deh ritorna a far pago il mio desio!_
    _Ed oh! quanto mi è grave e doloroso_
    _Il non averti più! Quanto giovato_
    _M’avria l’averti in tempo conosciuto._

    _Perchè, non torni, di’, tempo passato!_
    _Perchè non torni, di’, tempo perduto!_

    _L’arbor ch’è tristo senza fiori e fronde_
    _Giunto maggio, riacquista e fronde e fiori;_
    _Al biondo prato allora corrisponde_
    _Un bel prospetto d’allegri colori_
    _Nell’inverna stagion varca le sponde_
    _Superbo un fiumicel d’estivi umori,_
    _E l’antico vigore rinnovato_
    _Non vedrassi in un uom veglio canuto?_

Tristi armonie trovate anche nell’_Instabilitad di la fultuna_ di D.
Salvadori Sanna di Tempio; nella _Miseria umana_ e in altre poesie del
dottor Girolamo Araolla di Sassari e le potrete gustare nella raccolta
del Pischedda.

Nella satira festevole e nell’amore si sono esercitati con molta
fortuna alcuni poeti sardi. Pasquale Capeu di Perfugas e nostro
contemporaneo aguzza la sua lingua contro le donne semidotte:

    Perfugas nach est tontu e no est beru
    Favola veramente calunniosa
    Eo bos fatto idere una cosa,

    Chi cum fazzilidade si cumprende,
    Hamus tantas signoras imparende,
    Chi faghene sa ficca a Cicerone;
    In tres vocales de su cartellone
    Sunt tres meses e mesu tipi tapa,
    Hoc ischin s’aligarza, cras sa nappa,
    Barigadu cugumere sinzeru.

  _Dicono che Perfugas è ignorante e non è vero, favola veramente
  calunniosa, io voglio farvi vedere una cosa._

  _Che con facilità si comprende, abbiamo delle signore studiose
  che fanno la fica a Cicerone in tre vocali del cartellone, già da
  tre mesi e mezzo fanno chiasso, oggi sanno il ravanello, domani la
  rapa, posdomani il vero citriuolo!_

Principe dei satirici sardi è giudicato Diego Mele di Bitti, il quale
ha dedicato una delle sue più belle poesie a canzonare i cittadini di
Ula che nel 1855 mostrarono troppo paura del colera. Egli ci racconta
il caso di un asino che giunto ad Ula da un paese infetto, viene
sottoposto a suffumigi e disinfezioni.

Gavino Cocco ha dedicato un sonetto satirico a un poeta, Matteo Madau,
che soleva andare in giro per il suo paese, vendendo le sue opere.

    A me inghirias, Matteu, gas’arriadu
      De pabiru, et chentu libereddos?
      Che lattaju, ch’jughet moitteddos,
      Chi chircat ispazare su cazadu
      Ea quantos, cilene cherros, has leadu
      Trinta soddos pro cussos tomigheddos?
      Sos chi no balent trinta dinareddos;
      Quantu, segundu cussu, has haer furadu?

    Tue ses obbligadu a la torrare
      Intera, cusa summa male binta,
      Et no abbastat ancora a ti salvare
      T’imparat sa morale mancu istrinta,
      Cheres, Matteo, su dannu reparare?
      Bendedi tua matessi a soddos trinta.

  _Dove vai Matteo, così carico di carte e di cento libriciattoli?
  Come lattajo che porta secchielli, che cerca di smerciare le
  giuncate? Eh, quanto, senza volere, hai preso trenta soldi per
  questi tomicini? Quei che non valgono trenta centesimi, quanto,
  secondo questo, avresti rubato? Tu sei obbligato a restituire
  intiera questa somma male avuta, e non basta ancora per salvarti.
  La morale meno stretta ti insegna questo: Vuoi, Matteo, riparare al
  danno, vendi te stesso per trenta soldi._

La poesia bernesca ha un buon rappresentante in Sardegna nel contadino
Pietro Canu di Chiaramonti, assassinato nel 1845 e di cui Maltzan ci ha
dato uno scherzo poetico, in cui l’infelice autore mette in ischerzo la
sua povertà, discorrendo della dote che vuol dare alla sua figliuola.

Come cosa più curiosa che bella, accennerò per ultimo alle poesie
sardo-latine dell’abate Madao, le quali dimostrano la grande ricchezza
di parole latine che posseggono i dialetti sardi. Vedete:

    Salve, salve, o purissima
      Sola columba candida,
      Semper intacta et libera
      De originale macula;

    Non umbra est in te Virgine
      Inter feminas unica,
      De laesione adamitica,
      Et de culpa primaria.
    . . . . . . . . . . . . . . .
                  _Hymnu de Maria Virgine._

    O fragiles creaturas, et errantes!
      O tempus breve! o humanas mutationes!
      Bene et male operamus inconstantes,
      Ruimus, et vitamus occasiones,
      Teneros nos sentimus, et amantes
      Duros etiam, ingratos. O passiones!
      Libera nos, o Deus, cum clementia,
      Et clamores intende cum patientia.

    In te Maria Virgine speramus,
      Inter sanctos, et justos sancta, et pura
      Gementes cum fervore, et supplicamus
      Qui intercedas pro tanta creatura
      Fragile et delinquente. Si imploramus
      Auxiliù et patrociniù da et procura
      Defendere tuos servos, qui anhelantes
      Suspiramus in terra militantes.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
                             _Divina Providentia._

Possa questa rapida corsa fatta nel campo della poesia sarda averne
segnato il profilo saliente; possa destare in alcuno la voglia di
tradurne alcuna fra le più belle; onde gli Italiani possano tutti
gustare le bellezze poetiche di una italianissima fra le nostre
provincie.



CAPITOLO V.

  Le malattie della Sardegna. — La malaria e l’inerzia. — Drenaggio
  ed educazione. — L’Arcadia esiste anche in Sardegna e più che mai.
  — Agricoltura e vini. — Monti granatici e barraccelli. — Scarsa
  popolazione dell’isola. — Chi debba salvare la Sardegna.


La Commissione d’inchiesta sulla Sardegna e il Parlamento hanno fatto
alla nostra isola una larga promessa che son tenuti a mantenere e che,
io ne son sicuro, manterranno. La vita d’un popolo però non comincia
e finisce nella sala dei cinquecento o nelle aule dei ministeri; e
povero quel paese, che dopo aver conquistata la propria libertà, affida
tutte le proprie speranze al governo, quand’anche questo fosse il più
liberale e il più sapiente del mondo. Una provincia che per sventura o
per peccato si trova addietro delle altre nella via del progresso deve
innanzi tutto voler guarire di per sè stessa del proprio male; e quando
chiama un medico dal difuori a sanarla, deve pur sempre trattarlo come
consulente, da cui si prende consiglio, ma che pur si congeda con mille
e cortesissimi ringraziamenti. Questo pei Sardi: gli italiani della
penisola fuori delle sfere ufficiali e legislative devono aiutare
i loro fratelli, coll’apportarvi i loro capitali e il loro lavoro;
studiar la Sardegna, amarla e farla amare; e anch’io con questo mio
modestissimo scritto vorrei concorrere a quest’opera di fratellanza,
alzando il grido: _Ricordatevi che esiste un’isola che si chiama
Sardegna!_

Sarebbe crudele calunnia il dire ai Sardi: siete i soli autori dei
vostri mali; così come sarebbe una sterile adulazione il lamentare
che la Sardegna è povera, è infelice soltanto per colpa di governo e
di leggi. Calunnie e adulazioni che con triste ed eterna vicenda si
gettano in faccia governo e popolo nel nostro paese; come se le membra
dolenti e il cuor fiacco avessero a lamentarsi l’uno coll’altro dei
loro acciacchi, rinfacciandosene a vicenda la colpa. I governi passati
ebbero molti torti verso quell’isola: anche i governi dei nostri
tempi ebbero le loro colpe, ma è ormai sterile fatica l’assegnare ad
ognuno il peccato e la misura della colpa; dacchè la Sardegna è paese
italiano, e tutti quanti abbiam debito di venirle in aiuto e riparare
anche ai peccati che non son nostri. Lasciamo le accuse e le sentenze
ai giudici, e noi lavoriamo insieme a guarire il malato, che è nostro
fratello; fratello fra i più cari perchè tra i più infelici.

La Sardegna è malata di due gravi malattie, la _malaria_ e l’_inerzia_:
deve guarirne però e ne guarirà, perchè non sono malattie mortali, nè
ancora hanno roso le viscere e la sorgente della vita circola celata ma
vigorosa nelle profonde latebre di un corpo ancor vigoroso.

La Sardegna è cinta quasi per ogni parte da una gran fascia miasmatica
che la stringe di un amplesso omicida e lungo i suoi fiumi non domati
dalla mano dell’arte serpeggia il veleno della palude e su larghe
zone nell’interno s’addensa in terreni acquitrinosi e sul letto di
laghi antichi non bene asciutti ancora. I venti gagliardi che fanno
continuo tumulto sull’isola portano poi i miasmi fin sulle vette dei
monti e nelle alte valli; talchè anche fra l’aroma dei pini e i graniti
muschiosi delle Alpi galluresi tu vedi l’uomo che trema dei lividi
pallori d’una febbre che gli inviano paesi lontani dell’isola, forse a
lui sconosciuti fin di nome.

Ad onta dei lavori di Cheirasco, di Efisio Massa e Giovanni Masnata e
di altri[14] sul miasma della Sardegna, rimane a farsi una monografia
di questo male e le fatiche e il denaro spesi ad avere una carta
topografica del miasma, colla statistica delle affezioni palustri
saranno fra le migliori provvidenze che governo e cittadini possano
dare alla Sardegna. Prima di curare un male conviene conoscerlo e
la malaria di quell’isola è poco e mal studiata. Senza bisogno di
nuove commissioni nell’isola si potrebbe affidare al conservatore del
vaccino, il professore Falconi di Cagliari, già così benemerito della
pubblica igiene, la compilazione della Carta geografica del miasma
sardo. Il Falconi, l’ebbi già a dire altrove, è uno dei pochi uomini,
nei quali è difficile il dire se sia maggiore il culto dell’arte sua
o più ardente lo zelo con cui attende agli uffizi del suo ministero.
Le epidemie di colèra e di vaiuolo lo hanno trovato sempre il primo
fra i combattenti e in Sicilia e in Sardegna; nè egli è il solo medico
filantropo nell’isola e aiutato dai suoi colleghi potrà farci la
diagnosi della gran febbre sarda.

Il Maltzan dà dell’insalubrità dell’isola un quadro troppo fosco e
di tinte esagerate; e a sentirlo la Sardegna sarebbe pestifera come
Cajenna o come le coste dell’Africa. La Sardegna ha paesi sani, ne
ha anche di sanissimi; e meno Oristano, Tortoli ed altri pochi luoghi
anche le febbri intermittenti decorrono benigne, e le perniciose non
sono frequenti. Nello scorso anno per le pioggie straordinarie l’isola
tutta quanta fu ravvolta in un nembo di epidemia miasmatica; s’ebbe
grande mortalità nei bambini e nei fanciulletti e la febbre s’arrischiò
ad altezze non mai arrivate. Anche il castello di Cagliari ebbe il suo
miasma; ma fu questa una sventura eccezionale e il giudicare dalle
statistiche mortuarie del 68 la salubrità della Sardegna sarebbe lo
stesso che misurare quella d’un paese in piena epidemia di vaiuolo o di
colèra.

Maltzan ha esagerato, ha esagerato grandemente l’insalubrità della
Sardegna; ma al disotto dell’esagerazione vi ha una verità che non
ha bisogno di essere ingrandita dalla penna dello scrittore per
essere una triste, una dolorosa verità. Vi son paesi dove ogni anno
il libro del parroco vi susurra all’orecchio questa tremenda notizia
che il becchino è chiamato più spesso della levatrice; che le fosse
si fanno più spesso che non le culle. In molti paesi anche i sani che
passeggiano per le vie hanno dipinta sul volto la febbre sofferta e
attraverso alla pelle terrosa vi par di palpare la milza grossa e i
ventri idropici. Più d’una volta operai venuti dal continente, nello
scavare un terreno per fare una strada, si fecero invece la loro fossa
e le zappe sprigionarono dal sottosuolo miasmi rinchiusi chi sa fin da
quando. Non cito paesi, non cito cifre, perchè aspetto che si faccia la
carta miasmatica della Sardegna, ma mi pare che il poco detto basti a
spiegare il terrore del Maltzan, e ad incuorare i Sardi a farla finita
con questo veleno che lento e inesorabile serpeggia loro nelle vene.

La Sardegna non guarirà dalla sua febbre finchè l’agricoltura non
abbia trasformato in succo per le radici il miasma della palude;
finchè non abbia con una chimica sapiente e quasi miracolosa cambiato
il veleno in pane. Il piccolo drenaggio della zappa e dell’aratro, il
gran drenaggio di larghe e profonde fosse devono asciugare i terreni,
dove da lunghi secoli fermentano addensati i cadaveri delle piante.
L’ossigeno deve essere portato dall’uomo nelle viscere del sottosuolo a
bruciare i lenti miasmi; e una rigogliosa vegetazione deve sorgere sul
suolo rinsanito. Le terre ubertose e i lieti giardini di Orri erano al
principio di questo secolo una palude; e il Marchese di Villaermosa può
vantare di aver creato in una volta sola la salute e la ricchezza. Coi
miei occhi ho veduto a Sanluri lo Stabilimento Vittorio Emmanuele, dove
una palude, quasi lago, con una larga e profonda fossa fu trasformata
in una terra feconda. Nè questi sono gli unici esempj di rinsanicamenti
parziali della Sardegna, ma sono però ancora troppo rari esempj; e
Cicerone redivivo potrebbe anche al dì d’oggi scrivere a suo fratello,
legato di Pompeo in Olbia: _Cura mi frater, ut valeas et quamquam est
hiems, tamen Sardiniam istam esse cogites_.

Il drenaggio deve essere la chinina della Sardegna, ma anche le sue
lagune dolci e salate vogliono essere studiate, e corrette, sicchè non
avvenga la miscela delle acque dolci e delle salate e dove è possibile,
si elevi l’orlo troppo sottile delle loro acque, che sulle sponde
imputridite s’alzano e s’abbassano con flusso e riflusso di cadaveri e
di miasmi.

Anche aspettando i capitali, e il drenaggio e un po’ d’idraulica
nei fiumi scapigliati, i Sardi possono fare assai per migliorare le
condizioni igieniche dell’isola, togliendo alle case il letame, alle
persone il sudiciume; togliendo ai vivi il troppo intimo contatto
coi morti. Nel cimitero di Cabras un senatore mio amico vedeva, or
non è molto, la zappa del becchino che s’affondava nelle carni ancora
molli d’un cadavere troppo fresco, onde lasciare il posto ad un’altro
fratello più fresco di lui. In molti villaggi ho veduto io stesso nei
cortili cumuli di letame alti quasi come le case. Non parlo delle vie
trasformate in latrine, perchè è questa vergogna di quasi tutta Italia
e d’altri paesi latini d’Europa.

Contro questi miasmi umani, omicidi come i palustri, vuolsi
adoperare un altra maniera di drenaggio, quello che porti l’ossigeno
dell’istruzione e dell’educazione nelle vene più sottili della classe
povera e mezzana. Medici, parroci, maestri, insieme alla medicina, al
vangelo, all’alfabeto devono insegnare l’igiene; perchè un popolo che
si lava, che distingue casa da stalla, che gode della santa voluttà,
della pulitezza è un popolo sano e che meglio resiste degli altri anche
al miasma delle paludi.

L’inerzia è antica consuetudine dei Sardi e finch’essa duri, inutile
è sperare che venga sanata del miasma della palude e le due malattie
messe insieme t’andranno corrodendo fino alla midolla. Senza vincer
l’inerzia inutili saranno le leggi, inutili le ferrovie, inutile
scoprire ogni giorno nuove e ricche vene di piombo e di zinco. Finchè
vedo le mine in mano di stranieri o di forestieri; finchè vedo l’unico
ospedale di Iglesias fatto e mantenuto da inglesi; finchè vedo i Sardi
fuggire anche dalle piccole industrie; non dispero, ma crollo il capo e
aspetto la reazione che guarisca il malato.

Il pastore errante è l’ozioso povero della Sardegna, il piccolo
possidente ne è l’ozioso educato; entrambi rappresentanti delle due
forme più salienti dell’inerzia isolana. V’è poi l’ozioso impiegato,
l’ozioso nobile, l’ozioso parassita, l’ozioso prete ed altre ed altre
specie e varietà senza numero. Il pastore vuol essere trasformato
in contadino e all’ozio contemplativo o grifagno di cui si compiace
convien sostituire il lavoro salubre e moralizzatore della terra.
Tutti gli altri oziosi di rango superiore devono essere convertiti
in industriali, in commercianti, in uomini di mare e d’officina; in
ingegneri e in maestri: pochissimi si serbino ai cavilli del foro e ai
triboli della medicina.

L’inerzia dei Sardi che in molti è vera apatia e scoraggiamento
deve esser vinta con questi due mezzi: avvicinarli al continente ed
educarli; che è quanto dire ferrovie e scuole, le due leve giganti
della civiltà moderna.

Una ferrovia che unisca Cagliari a Terranuova e un vapore che avvicini
Terranuova ad Orbetello ridurranno di due terzi la distanza che separa
da noi la prima capitale dell’isola. I Sardi verranno più facilmente
e più spesso fra noi, e noi andremo più spesso in Sardegna; sicchè
l’isola divenga una seconda penisola italiana e i contatti crescan
gli affetti e dall’attrito d’uomini e di idee nasca la scintilla
che accende l’amor proprio e la nobile ambizione del progresso. Le
strade son sempre figlie della civiltà, ma ne sono anche le madri; e
in Sardegna anche con pochi abitanti e poche merci e guadagni incerti
convien coprire il paese di ferrovie e sopratutto e per la prima
stendere quella da Terranuova a Cagliari. Finchè questa non si faccia,
i Sardi stenderanno invano le loro braccia verso la penisola sorella, e
attraverso i vuoti deserti del mare noi non sentiremo le loro voci, nè
potremo rispondere a quell’amplesso che ci domanda aiuto ed amore.

Molto s’è fatto in questi ultimi anni per l’educazione della Sardegna,
ma non s’è fatto abbastanza e alcune e provvide fila ordite da un
ministro vennero dimenticate o rotte dal suo successore. Sanguinetti
faceva un viaggio in Sardegna per incarico d’un ministro, visitava
tutte le scuole; proponeva molti provvedimenti; ed ora sul lavoro
abbandonato del nostro collega tessono sicuri le loro fila i ragni. A
Nuoro, paese di pastori, spesso briganti, avete un ginnasio e non una
scuola tecnica; e quando io vidi quei fieri montanari tormentare la
loro mente sulle pagine di Cornelio Nipote, sospirai profondamente,
esclamando entro di me: _Arcadia, Arcadia quando sarai tu morta?_ E
quando in una delle città minori della Sardegna udii da gente colta
lamentarsi l’abbandono degli studj classici e quando ancora seppi che
per desiderio degli abitanti in altre città un istituto tecnico era
stato convertito in ginnasio, sospirai profondissimamente; esclamando
una seconda e una terza volta: _Arcadia, Arcadia quando sarai tu
morta?_

I Maurelli di Iglesias mandano poco volentieri i loro bambini alle
scuole; ma fuori di là le scuole sono implorate dai padri, son
frequentate dai figliuoli. Ad Oschiri vidi nelle scuole elementari 60
o 70 fanciulle e solo una trentina di maschi; e questi invece son nel
campo dietro le pecore o il bue, educandosi all’ozio che forse più
tardi li porterà dinanzi al Tribunale. In alcuni paesi di Sardegna è
così difficile andare a scuola che a conquistar l’alfabeto si esige
fede d’apostolo e quasi entusiasmo di martire.

Nelle montagne della Gallura vi sono alcuni parroci più poveri dei
loro contadini, più santi dei santi; ed io vorrei esser papa un
giorno solo della mia vita per poterli beatificare. I curati di San
Pasquale, San Francesco e Luogo Santo fanno scuola dalla mattina alla
sera e la fanno gratuitamente. I loro discepoli arrivano da immense
distanze e a cavallo; e più d’una volta un contadinello sulla strada
raccoglie in groppa due o tre compagni; e questi gruppi infantili e
pittoreschi giungono a tutte le ore del giorno alla scuola del parroco,
rinnovandogli la fatica e la noia. Eppure sopra 125 abitanti raccolti
a Luogo Santo fra quei monti deserti trovate 17 scolari. Eppure quei
poveri parroci comperano coi loro quattrini carta, penne, inchiostro;
tutti gli istrumenti primi della civiltà.

Molte delle scuole della Sardegna avrebbero bisogno di un po’ di culto,
onde i discepoli, se non in un tempio, almeno credessero di entrare
in luogo pulito e decente. Nella scuola d’un comune del Circondario
di Oristano, non più in là del 1853, i discepoli sedevano sopra grosse
pietre ammucchiate nella scuola; e il maestro, _horribile dictu_, aveva
fatto cattedra d’un gran vaso da notte rovesciato.

In paese così lontano dal centro politico gran parte di inconscia
educazione si riceve per via degli impiegati e delle autorità. Il
pastore, il contadino, il piccolo possidente sentono battere i polsi
della vita pubblica, si sentono membra d’una società umana, soltanto
per via del carabiniere, dell’esattore, del sindaco e più su per via
del pretore e del prefetto. Ministri, deputati, parlamento son per essi
un mito. Or bene questa educazione potente che dovrebbe esser fatta per
mezzo delle autorità è più spesso invece corruzione e oscuramento.

Nel Circondario di Iglesias su ventiquattro sindaci otto sono
analfabeti e d’inchiostro e di letteratura non conoscono altro che la
croce con cui firmano. Ignoranza vuol dire immoralità, chè sinonimi più
sinonimi di questi io non conosco al mondo; e voi vedete molti sindaci
di comuni rurali divedersi coi parenti i frutti della loro professione.
Molti hanno uno stipendio di 200, 500 e fin 1000 lire all’anno,
stipendio votato in famiglia. Se voi domandate la ragione di questo
sussidio di rappresentanza vi si risponde, che il sindaco è in campagna
un vero oste, dovendo albergare il viandante senza alloggio. I maligni
poi vi raccontano come un certo sindaco nel conto redatto ad un ricco
viaggiatore facesse figurare il _cespite_ di lire sette in prezzemolo.

Ma i sindaci, mi direte voi giustamente, son frutti del paese; ma in
Sardegna avete alti e mezzani impiegati venuti d’oltremare e che vi
fanno arrossire per la loro ignoranza, per la loro rozzezza. Io so che
quando un uomo è gravemente malato si cerca del miglior medico, e la
Sardegna come provincia malata dovrebbe avere i migliori impiegati.

Il servire in Sardegna dovrebbe essere una gloria e non un castigo;
dovrebbe essere un campo nobile e fecondo all’intelligenza operosa e
generosa dei giovani impiegati e non un ospizio di mendicità per gli
inetti o i colpevoli. In questo, paese e parlamento devono alzar forte
la voce; e cessi una volta quell’isola sventurata di essere in una
volta sola l’Irlanda e la Siberia dell’Italia.

L’ignoranza si fa sentire più crudele che altrove sulle campagne della
Sardegna, dove s’accumula insieme alle altre piaghe dell’agricoltura;
la polverizzazione delle proprietà, l’immensa massa di terre demaniali
e comunali, i furti campestri e via via altri cancri e gangrene senza
numero.

L’agricoltura è in gran parte della Sardegna men che bambina, neonata;
e i sapienti avvicendamenti e la provvida associazione del campo alla
stalla e le irrigazioni e tutte le moderne conquiste dell’agraria vi
son lettera morta. L’ulivo vi è educato assai bene in alcune terre; e
lo vidi bellissimo a Bosa e a Sassari: anche la vite vi è accarezzata
con qualche amore; ma dei vini squisiti che distilla tutto il merito
è dovuto all’antico ceppo spagnuolo e al sole fecondo di quell’isola.
Eppure nei vini di Sardegna vi è una mina d’oro pressochè vergine
ancora; eppure in essi si ha tal varietà e ricchezza di tipi da poter
fare concorrenza in una volta sola alla Francia, alla Spagna e al
Portogallo. Non è vero quel che ripetono molti, che la Sardegna non
abbia che vini spiritosi che accendono il palato e devono essere
sorbillati meglio che bevuti. L’Ogliastra ha vini rossi da pasto da
star vicinissimi ai migliori della Borgogna e del Bordelese ed io ho
bevuto a Lanusey del vino rosso che meriterebbe una corona civica.
In quel paese un operoso farmacista, Agostino Gaviano, fabbrica vini
così squisiti, che già furon cercati per l’esportazione transatlantica
e degno suo rivale è il parroco di quella città, nella cui cantina
abbiano trovati vini che non sdegnerebbe la tavola d’un Lord.

La varnaccia d’Oristano, il moscato di Bosa; i vini d’Alghero,
d’Olliena, il Canonado, il Girò ed altri son tutti vini di lusso che
ridotti a tipi costanti troveranno un sicurissimo spaccio sui mercati
di Parigi, di Londra e dell’America. Presso Tempio avete un moscato che
è fratello legittimo del Frontignano. S’accordino i Sardi a migliorare
la loro industria vinicola e potranno in pochi anni diventare i primi
produttori d’Italia; potranno arricchirsi, onorando la patria comune.
Il Governo favorisca l’insegnamento industriale, fondi una scuola
d’agraria; chè nel sardo l’amore all’agricoltura è virtù antica,
direi nazionale; ma fin qui è ancor sterile, perchè non fecondata
dalla scienza. Colle mie orecchie ho udito queste parole che con vera
commozione diceva un vecchio sardo: _Il terreno è nostro padre, è
nostra madre, è nostro figlio, nostro fratello; ci dà il denaro senza
usura, è il primo e l’ultimo dei nostri benefattori_.

La suddivisione delle proprietà è così gran male in Sardegna, che
il Comitato Popolare di Cagliari nelle sue proposte presentate alla
Commissione Parlamentare d’inchiesta, osava proporre l’espropriazione
forzata. Udite le parole del Presidente Senatore Di Laconi e
meditatele; perchè dette da un sardo e a nome della Sardegna hanno una
eloquenza singolare:

«Chi si proponesse di ottenere l’unione delle terre in Sardegna coi
soli mezzi indiretti, come sarebbe, a non dir altro, l’esenzione
dei diritti e tasse per tutti quelli atti che abbiano questo scopo,
suggerirebbe rimedio inconcludente se non ridicolo.

                             . . . . . . .

»Allorchè un male arriva a tal punto non valgono a porvi riparo i
mezzi indiretti, ma occorrono rimedi radicali che operino una vera
rivoluzione nel sistema passato. Il Comitato intanto è venuto nella
determinazione di far voti acciò venga da voi pure indicato al
Parlamento questo farmaco ormai indispensabile, inquantochè se vi si
riscontra una qualche violazione di libertà non è affatto in urto col
nostro diritto pubblico interno. La proprietà violasi di soventi per
opere di utilità pubblica, e questa pretesa violazione è ordinata e
regolata dalle nostre leggi. Quale maggior opera di pubblica utilità
di questa che tende a migliorare utilmente e realmente l’agricoltura
di un intiera provincia, a stabilire di fatto la proprietà perfetta del
suolo, a porre un freno efficace alla pastorizia nomade, che devasta i
nostri campi ed è origine di tanta immoralità e di tanti delitti?

«D’altronde, se vuolsi realmente migliorare la sarda agricoltura fa
d’uopo, come già avemmo l’onore di dirvi, richiamare la popolazione
alle campagne, far sorgere le case coloniche ed i poderi in quelle
stesse terre, che oggidì sono frazionate in estensioni infinitesimali.
Come raggiungere questo scopo con mezzi indiretti? Se quello
dell’espropriazione forzata non si adotta, nasceranno e spariranno
forse parecchie generazioni prima che sia una realtà quell’equa
divisione del suolo che permetta gli utili miglioramenti di coltura.
Però, il Comitato, avendo coordinate tutte le sue deliberazioni ad un
solo scopo, non vorrebbe venisse accordata questa eccezionale facoltà
di espropriare che a condizioni tali da far sicuri dell’utilità di sì
estrema misura.»

Quando un ammalato invoca ad alta voce che gli si amputi un membro,
deve essere gravemente infermo; e quando un paese domanda coll’autorità
d’uno dei suoi primi patriotti l’espropriazione forzata, deve essere
gravemente, profondamente malato.

Io credo che lo sviluppo concorde dell’istruzione, dell’industria
e del commercio sanerà l’agricoltura senza bisogno di ricorrere
all’espropriazione forzata, rimedio che forse non oserebbero applicare
quelli stessi che lo consigliano.

Quand’io vedo per esempio un proprietario a Lanusey così povero che a
seminare uno _starello_ di frumento ha bisogno di chiederne in prestito
due, e mentre affida l’uno alla terra, cambia l’altro in pane per
tenersi vivo fino alla messe; mi domando a che possa servire questa
omeopatica proprietà che non basta a salvare la dignità dacchè non vale
a difenderlo dalla fame: ma quando poi io penso al nobile e santo amore
del sardo per la sua terra, mi domando ancora, se la scienza non possa
trasformare questa forza vergine e potentissima in ricchezza nazionale.

I sardi liberi del regno italiano, allorchè sono tentati di spegnere la
loro energia in queruli lamenti contro il Governo, rammentino la Spagna
e il suo feudalismo, prima origine del fatale frazionamento delle
terre.

A Villa Sor, fra campi fecondi di biade e boschi di mandorli e vigneti
e siepi di cacti che sembrano foreste, trovate un villaggio modesto, ma
lieto di una serena agiatezza. L’unico convento è divenuto una scuola,
e l’ultimo francescano rimane in una cella deserta, quasi fuggendo dal
contatto della scuola che lo ha ucciso. Fra le vigne e il villaggio
però erge il capo con tristo cipiglio un vecchio palazzo baronale,
turrito, pesante, grigio, irto di inferriate, cupo; un mucchio di
fango divenuto prigione, un sogno spaventoso di ventricolo obeso. In
quel castello trovate ancora molte e grosse catene di ferro destinate
ai sardi d’un tempo, e nel muro anelli di ferro che si aprivano per
stringere il collo ai più ribelli fra i sardi d’un tempo. Ecco la
Sardegna spagnuola. Il convento divenuto scuola: ecco la Sardegna
italiana. Il campo e la chiesa divenuti scuole anch’essi; ecco la
Sardegna dell’avvenire.

Lo Stabilimento agricolo del Deputato Costa presso Alghero; lo
Stabilimento Vittorio Emmanuele son crepuscoli di un’agricoltura nuova;
ma la luce del sole non si è veduta ancora.

La Sardegna ha nei suoi _monti granatici_ una particolare istituzione
di credito agricolo. «Questi monti sono sorti in ciascun Comune per le
iniziative dei vescovi e riordinati da un ministro intelligente, col
ricavo del lavoro per parte di tutti gli agricoltori di un Comune su di
un terreno pure comunale (_roadie_), il di cui prodotto venne applicato
a costituire il capitale di queste banche locali, capitale che ora si
crede ascenda ad oltre i due milioni nella sola Provincia di Cagliari.
Queste piccole banche prestan agli agricoltori il grano occorrente per
la semente e tenue somme di denaro ad un medio tasso d’interesse non
inferiore al 3 per % e non superiore al 6[15].

Questa istituzione antichissima e di forme quasi patriarcali è
minacciata seriamente in questo nostro secolo così maniaco di forzati
accentramenti e di prepotenti unificazioni; mentre invece a salvarla
basterebbe darle vesti più moderne e indirizzo più sicuro; rinvigorirla
colle idee moderne dell’economia politica.

È certo che in Sardegna s’aggrava sulla terra con inumano peso l’usura.
Il proprietario, pur di non vendere la terra avita, prende denaro
al 20, al 30, al cento per cento e ravvolto nelle spire fatali del
debito rimane soffocato dalla valanga degli interessi accumulati.
Le terre demaniali e le comunali e le altre che appartengono ad enti
morali sono fra le maggiori piaghe dell’agricoltura sarda. Son essi
che danno il pascolo al pastore rapace ed assassino, che corrompono
l’amministrazione del Comune, che devastano le selve; son masnadieri
che all’oscuro e coll’impunità dell’anonimo assassinano il paese.
Siamo sicuri che una provvida legge restituirà all’agricoltore e agli
individui quello che ora è deserto o preda di anonimi ladri.

A difendere i campi dai ladri fin da remoti tempi si istituirono in
Sardegna le compagnie _barraccellari_.

»Le compagnie barraccellari, società di vigilanza e di assicurazione ad
un tempo sorsero e si mantennero per necessità di tempi ed insipienza
di governo noncurante od impotente a rendere in compenso delle imposte
il principale servigio per cui si pagano; quello di preservare dagli
altrui attentati il tranquillo godimento degli averi e l’integrità
delle persone.

Le antiche leggi avevano ordinato questa instituzione a guisa che il
servizio ne fosse obbligatorio per tutti i cittadini; innovazioni però
effettuate sotto il regime liberale tolsero questo vincolo.

Da ciò nacquero gli inconvenienti che oggi si lamentano, per cui
non sempre nè dovunque i migliori cittadini entrarono a formare le
_Compagnie_; da ciò l’instanza di quasi tutti i Comuni per ricondurle
all’antico, solo introducendovi alcune riforme[16].»

I barraccelli di Nuoro esigono dai proprietarii una tassa del cinque
per cento sui prodotti agricoli e a questo patto li assicurano; ma essi
stessi son ladri. In alcuni altri paesi essi pagano un’indennità di
cinquanta lire per ogni vacca rubata; e siccome queste valgono molto di
più, convien spesso ai barraccelli il diventar ladri.

Una volta tutti i barraccelli stavan raccolti nella piazza d’un
paesetto della Sardegna; quando si venne a riferire ad essi che un
campo era stato depredato. Uno di essi allora sorse a dire: _Ma chi può
mai aver rubato, se siamo qui tutti?_

Quest’aneddoto può esser storia e può esser favola; ma nella storia
o nella favola il buon senso popolare ha formulato il suo giudizio;
e i barraccelli voglion esser disfatti per esser trasformati in altri
uomini, in altra cosa con altro nome. È istituzione da medio evo, che
ebbe le sue glorie e la sua missione in altri tempi; ed ora rimane
fuori di luogo come grottesca rovina del passato.

                                 * * *

Parecchi fra quelli che studiarono le condizioni attuali della Sardegna
credettero di pronunciare una sentenza piena di politica sapienza,
affermando che tutti i mali dell’isola derivano dalla sua scarsa
popolazione. Questi signori però scambiano il capo colla coda; e tanto
varrebbe dire che il deserto di Sahara è terra sterile e infelice,
perchè non ha alberi. In Sardegna, vi dicono, non si possono fondare
nuove industrie, non si può coltivare bene la terra, non si può
raggiungere le altre provincie italiane nella via della civiltà, perchè
mancano le braccia; e se questo ragionamento fosse logico, nascerebbe
spontaneo il consiglio che a redimerla dall’inerzia, ad arricchirla
basterebbe mandarvi greggi umani che la popolassero. Son queste parodie
economiche, lamenti di malato irrequieto che sa di non sentirsi
bene, ma che ignora l’organo che patisce; son volgari chiacchiere
che sembrano sentenze, perchè hanno una simmetria; frasi che sembran
pensieri, perchè hanno un verbo e un soggetto. Sarebbe tempo di finirla
con questi sofismi che adoperati come raziocini, conducono ad imprese
pericolose, a rimedj peggiori che il male.

La Sardegna è spopolata, perchè è inferma; perchè è un organismo
sterile e malato che non produce pane bastante per i suoi poveri,
perchè non dà esca d’entusiasmo alle menti elette, non fascino di
attiva ricchezza alle menti volgari. Per produrre più uomini che
non abbia, la Sardegna deve inanzi tutto sanare il grembo in cui gli
uomini nascono, deve guarire dalla malaria; deve col lavoro assiduo e
gagliardo strappare le erbe parassite che l’ingombrano e prima d’ogni
altro il pastore nomade e il nobile ozioso. I pochi abitanti della
Sardegna che amano la loro terra nativa devono lavorare pei molti
abitanti che mancano; e dei pochi i pochissimi che studiano e amano in
una volta sola, devono lavorare, lavorare, lavorare; sicchè il lavoro
generi la ricchezza e la ricchezza generi gli uomini. Non si lamenti la
Sardegna di aver pochi uomini: tutte le terre furon spopolate un tempo
e i pochi generarono sempre i molti, i pochissimi salvarono sempre
i moltissimi. Che i pochi sieno gli eletti e le braccia sorgeranno a
cento, a mille a domandar loro dove si debba solcar la terra, dove si
debbano rizzare edifizi, come si debbano alleare le forze della natura
con quelle dell’uomo. Gli eletti, che son sempre pochi dovunque, hanno
in Sardegna più che altrove un compito difficile, una missione santa,
eroica, quella di salvare il loro paese. Non s’accontentino di unire
il loro lamento al coro del volgo che aspetta sempre il bene e il male
dal suo pastore, ma si mettano inanzi a tutti e suscitino con robusta
parola la santa crociata del lavoro. La Sardegna ha in sè il germe di
una ricchezza senza confine, ha vene straricche di metalli, ha un suolo
ferace di biade e coste portuose e acque ricche di pesci; ha i tesori
della terra e del mare; ma dov’è il minatore che scavi questi tesori,
dov’è il gioielliere che lavori queste gemme? Io spero che minatore
e gioielliere si trovino celati nel popolo sardo, e sorgeranno dalla
nuova generazione cresciuta alla brezza vivificante della libertà,
educata alla religione del lavoro e della nobile ambizione dell’andare
avanti. Io non credo all’onnipotenza delle colonie portate in
Sardegna d’oltremare; non credo ai miracoli che può fare gente povera
raccogliticcia, messa insieme, spesso da speculatori ignoranti e avidi.
La Sardegna può bastare a sè stessa, purchè il voglia; deve salvare sè
stessa purchè a sè stessa il comandi.

Questa è la missione dei Sardi che amano la loro terra: agli italiani
delle altre provincie tocca poi il circondare quell’isola bella e
infelice del loro caldo affetto; al Parlamento, al Governo tocca
aprire più larga vena che faccia la sorella lontana membro vivo e caldo
dell’organismo italiano. Si mandi in Sardegna una buona semente, che
il caldo cielo e la terra feconda ci restituiranno con usura una lieta
messe di spighe.



NOTA

SUL PORCHETTO DEI SARDI


I sardi leggeranno con qualche interesse questa nota sulla _porchetta_
delle Romagne, sorella al loro _porcheddu_, e che è tolta da un libro
piuttosto raro che devo alla squisita cortesia del mio egregio amico
Dott. Domenico Bilancioni di Rimini, e che porta il titolo:

_Porcus Trojanus_ o sia la _Porchetta_. _Cicalata ne le nozze di
Messer Carlo Ridolfi Veronese con Madonna Rosa Spina, Riminese. Altra
Edizione._

È niente meno che un volume di 134 pagine, con 224 note; pieno di
pellegrina erudizione e di saporitissimo spirito.

La _Porchetta_, nota agli antichi Romani sotto il nome di _Porcus
Trojanus_, altro non è che un porco intiero sbudellato, o come vogliam
dire sventrato, riempito di pepe, aromati, aglio, sale, finocchio
fresco e poscia cotto intiero nel forno. Non v’è giorno di festa
o di mercato, che non si venda a libbre così saporosa vivanda, la
quale usasi la state, non già perchè nell’inverno non sia ugualmente
buona, e forse migliore, ma perchè dovendosi vendere al minuto, si
raffredderebbe troppo. Per grandi conviti può farsi in qualunque
stagione.

    Nell’Umbria, e nella Marca ogni mattino,
    Che sia festivo in mezzo della piazza
    Havvi di cotti arrosti un magazzino,

    Per cui la povertà non poco sguazza
    Senza far di pignatta in la giornata
    E in tre o quattr’ore il magazzin si spazza[17].

Cotto in _porchetta_ s’intende nella Romagna il porco intiero cotto
nel forno. Così chiamano cotto in porchetta i polli, ed altri animali
intieri cotti nel forno.

Porchetta, o come dicono i Toscani, porcella viene dal latino
_porcella_, significante _picciola porca_ o da _porcetra_ parimente
latino significante _porca unipara_ e questa era riputata la migliore,
presso gli antichi Romani per cuocersi in porchetta, che in tal caso
chiamavasi _porcus trojanus_, come ne fanno ampia fede Macrobio, Pompeo
Festo e come può vedersi in altri autori.

I Romani erano innamorati del porco e Giovenale osò chiamarlo divino:

    _....... voveasque sacellis_
    _Exta: et candidula divini thomacula porci._

Tra le prose fiorentine vedi nella Cicalata IV, dove la porchetta ò
chiamata _porco deliziosissimo_. Difatti chi non esclamerà al solo
vedere la porchetta col Dott. Chimentelli. _Che Nepentisi! che panacea!
che pancresti! che giulebbi o manuscritti perlati!_

Le _porcilie piaculari_, tanto usate nei sacrifizi, non erano che
una porchetta un poco più tenera, la quale sventrata ed offerte le
viscere agli Dei, _extis porrectis_, cuocevasi per colezione o merenda
di quei non storditi sacerdoti.... I fratelli Arvali, che pure erano
persone nobili e delicate, ed erano dodici soltanto, e non sempre
tutti intervenivano al sacro epulo, in una giornata di maggio ogni anno
immolavano in un loro Luco, fuori di Roma, due porcelle piaculatorie,
e purgavano in tal guisa il sacro bosco. Verso il mezzogiorno, deposta
la protesta, così per colezioncina, per un semplice asciolvere, per
un jentacolo, che più tardi facevasi l’epulo grande, mangiavansi le
due grassoccie porcellette in porchetta, ed il sangue delle medesime
fritto. E l’autore anonimo di quest’opera arguta, che era canonico
e dotto bibliotecario di Rimini, aggiunge, «_Il sangue delle altre
vittime lo spargevan bene colla Patena sull’Ara, ma questo della
porcella se lo friggevano gloriosamente._»

Arnobio ci assicura di questi sacrifizi con quelle parole. — _Quæ est
enim causa, requiram, ut eadem rursus, ut ille Tauris Deus, hædis alius
honoretur, aut ovibus? Hic lactantibus porculis, alter intonsis agnis,
hic virginibus buculis, capris ille cornutis, hic sterilibus vaccis, at
ille incientibus scrofulis? Hic albentibus, ille tetris, alter feminei
generis, alter vero animantibus masculinis? etc._

È certo che oltre i sagrifizi porcini da noi altrove mentovati,
usavansi anche dopo parto felice. Plaut. Rud. A. 4. Sc. 6.; e per
ottenere buon raccolto. _Verris obliquum meditantis ictum Sanguine
donem._ Hor. L. 3. Od. 23.; ma più comunemente nelle alleanze, come
si disse, e come può vedersi in Varr. R. R. 2. 4., Liv. I. 9., e IX,
5., Virg. Æn. 12. v. 170, Homer. Illiad. 19. ecc. Anche a’ dì nostri,
ci assicura la _Bibliotheque Universelle_ di Ginevra (Juillet 1817.
p. 261.) i naturali dell’Isola di Vahoo sagrificano il porco al loro
Dio, e lo mangiano. Lo stesso si fa nell’Isola Tonga del Mar Pacifico
da que’ selvaggi per usi sacri, e nelle nozze, facendosi la porchetta,
che poi si distribuisce al popolo (Bibl. Un. Dec. 1817. p. 361.) A
proposito però del mangiare, di cui parla Marziale nella seguente nota,
è da osservarsi, che il porcello di un mese è buono a mangiarsi, e che
con uno di questi quel buon arnese di Nerone, per mezzo di una certa
femmina chiamata Locusta, avvelenò il di lui fratello Britannico, come
narra Svetonio.

Ateneo ci racconta che in alcuni luoghi sacrificavasi con porcelli
di latte; ma più bella la schicchera Porfirio il quale racconta
che Pittagora, e Pittagora era uomo di senno, non sacrificava mai
altri animali che porchette tenerissime. Oh andatevi a fidare di chi
dice che Pittagora non mangiava il porco! se le sacrificava le avrà
anche mangiate, perchè i sacrifizi, come sapete, vogliono essere
mangiati. Non mangiava bensì altre carni, ma quella del porcello
(cioè la porchetta) gustavala. Aul. Gell. Noct. Att. 4. 11. Che diremo
dunque di que’ Pittagorici che odiano il Porco? Ser Magiro mio, non
vi fidate di lasciare la vostra porchetta in luogo solitario, ove
potesse penetrare qualche Pittagorico. Lasciereste le pere in guardia
all’orso: e la porchetta andar potrebbe in visibilio. Del resto le
_Porcilie piaculari_, _o espiatorie_ si immolavano ad Aram, laddove
la _Vacca onoraria_ immolavasi ad Foculum. Alcuni credono che per Ara
s’intendesse l’altare del tempio, e per _Foculum_ l’altare domestico.
Altri credono che le Are fossero le are avanti ai lari nelle case,
ed il _Foculo_ fosse il fuoco istesso che ardeva nelle dimestiche
abitazioni in onore dei medesimi e che di qui ne sia nato il proverbio
_Dimicare pro aris et focis_.

Gli antichi stimavano impura ai sacrifizi la porcella che non avesse
compiti i cinque giorni, e Coruncano non voleva che fosse pura finchè
non era divenuta bidente, come ci assicura Plinio (L. 7. c. 51.).
Varrone (de R. R. l. 2. c. 4.) dice che vi vogliono dieci giorni perchè
sia pura. Per me credo che _pura_ e _buona_ presso questi signori fosse
sinonimo. Comunque sia, a noi poco importa di tutto ciò. Dunque, punto.

Catone poi insegna la formula colla quale invocavansi gli Dei, o le Dee
in simili congiunture dicendo: _O Dio, o Dea, cui è sacro questo bosco,
ti prego con questo espiatorio Porco, ecc._: E nel Carme lustrico
dice, _Priusquam Porcum foeminam immolabis, Jano struem commoveto sic;
Jane Pater te hac strue bonas preces precor, uti sis volens propitius
mihi, liberisque meis, domo, familiaeque meae_. Poi si offriva il
vino. Qui poi la parola strues è sinonima di Libum. Vedasi Festo, e la
Cornucopia del Perotti. Vedansi parimenti i medesimi sulla _Porca_,
secondo i tempi in cui sacrificavasi, ora detta _Porca praecidaria o
praecidanea_, ora _succedanea_. Eravi poi l’uso d’immolare piuttosto
vittime maschie agli Dei maschi, e vittime femmine alle Dee femmine, e
lo stesso usavasi col Porco, ma non sempre questo rito era osservato
con rigore. I Porci destinati al sacrifizio appellavansi _Porci
Sacres_, o _Sacrivi_. Vedi Varrone de R. R., e Plauto Menaechm. A. 2
Sc. II.

I Porci del Medio Evo erano anche regaglie, o _exenia_, che dai Coloni
dovevansi ai Padroni. Vedete la lettera 64 del lib. X. di S. Greg.
M., ed i Papiri di Monsig. Marini, note al Papiro 34 pag. 234, e note
al Papiro 133. Etelstano Re d’Inghilterra dava buoni prosciutti agli
affamati (ex Tom. I. Concil. Britan. Concil. Grateleanum), e ne fece
una legge nell’anno 928. Queste erano regaglie, o canoni più belli ed
utili assai che non furono nel Medio Evo, e nei bassi tempi i Canoni
_trium quartorum Polastris, fogatias duas, duo brachia candelarum,
unam bonam quartam vacce, unam spallam carnium, unum turdum, medietatem
quarte partis unius turdi, unam bonam tortocraeam, quatrinos tres, tria
petia ficorum, duos tertios medii Caponis pinguis, fumum Caponis cocti,
medie once cere nove, unam unctiam piperis, unam bonam casciatam,
ficas restas tres, turta munda, unum par caponorum grassorum_, ed
altri simili, o del canone di quattro reste di fichi, o dodici porri,
che vedonsi nel Codice Bavaro edizione di Monaco del 1810 pag. 72, o
dell’ala di Cappone che una famiglia pagava in Piemonte a non so qual
luogo, come seco lui confabulando, mi assicurò il celebre Ab. Denina;
o di un piatto di neve pagato altrove, come può vedersi nel libro
_Les ruines de Port-Royal des Champes_. Vedasi anche il Muratori,
_Dissertazione_ XXXVI _sopra le Antichità Italiane_.

Anche ai tempi dei Romani si esigevano Porci dai possessori da
distribuirsi ai Soldati, come può vedersi in Cassiodoro lib. XII.
ep. 14., e dalla L. 2. del Codice Teodosiano _de erogat. milit. an._
Davasi anche ai Tribuni ed altri militari strutto, lardo, ecc. Ad
Aureliano, prima che fosse Imperatore, mentre era Tribuno, Valeriano
assegnò _porcellum dimidium_. Mengotti Commerc. de’ Romani. Anche le
contribuzioni pagavansi dal Popolo in generi e porcina.

L’uso delle porcellette di latte o bimestri come piacevano ad Orazio,
si è conservato ancora oggidì nel Lazio e nella Sabina. Ai tempi di
Roma per banchetti e nozze adoperavansi le porche le più tenere e
saporose per farle in porchetta all’uso nostro e riuscire così, al dire
del buon Varrone, il boccone più buono che gli Iddii abbiano concesso
per banchettare. Quanto all’età doveva passare i sei mesi e quasi
toccare l’anno. Osservavasi quando la porca cominciava dal dorso al
capo avere le setole divise, nel qual caso chiamavansi _porci biseti_,
o _delici_ e talora anche _verri_, ed in questo caso erano stimati
eccellenti alla grand’opera. Per avere poi la carne di dette porche
saporosa, le ingrassavano, e chiamavanle poscia così ingrassate _eximii
porci_.

Vi ricorderete quando Automedonte nel libro IX dell’_Iliade_ d’Omero,
allorchè Achille ricevè gli ambasciatori del Campo Acheo, si mise a
fare un abbondante cucina, e tra le altre cose, come traduce il Monti:

    .... il pingue saporoso tergo
    Di saginato porco

e poco dopo:

    A rosolar sul fuoco i _saginati_
    Lombi suini....

Marco Apicio aveva inventato un modo particolare di ingrassamento.
Costui prendeva la porca femmina e dopo due giorni d’inedia castravala,
poscia cominciava l’ingrassamento che durava quaranta giorni e questo
lo faceva con fichi secchi. Finalmente quando era ben grassa, dava
alla vittima una gran bevanda di acqua melata, e così la faceva morire
subitamente di ripienezza.

Il canonico Luigi Nardi dà per l’etimologia del _Porcus Troianus_:
Avevano ben ragione di chiamarlo con tale nome; poichè siccome il
Cavallo Trojano, che pure fu inventato da un cuoco greco di nome Epeo,
era gravido d’armi e d’armati, così le loro _porchette_ avevan l’anima
di eccellentissimi ingredienti composti, che formavano un assai buono e
badiale ripieno. Ecco perchè le chiamavano _Porcus Troianus_.

Nel _Porcus Troianus_ vi mettevano per entro, i Romani, oltre il pepe,
gli aromati, sali e le altre cose di rubrica, dei tordi, beccafichi
arrostiti, rossi d’uova, salsiccia, vulve abbocconate o trinciate, e
qualche volta dei crostacei, o a dir meglio dei frutti marini come
ostriche, pettini e simili. Udito Macrobio: _turdi assi, ficedule,
vitelli ovorum, et ostrea, et petinis, lucanica, vulvae concisae_,
ecc. Le _vulvae concisae_ però, cavate dalle porcelle stesse erano il
miglior boccone e di cui facevasi dai Romani la più squisita e ghiotta
pietanza, che avessero, ed il descrivere la quale troppo lungo sarebbe,
rimettendo gli amatori dell’antichità a Plinio, a Marziale, a Macrobio
ed altri, contentandomi di accennare la stima che ne facevano i due
celebri poeti Orazio e Giovenale. Il primo così si esprime:

    _Nil milius turdo, nil vulva dulcius ampla._

Ed il secondo:

    _Qui meminit calidae sapiat quid vulva culinae._

Non solo i Romani, ma anche gli Etruschi, gli antichissimi Greci ebbero
l’uso di immolar le porchette nelle nozze, assicurandoci Varrone che
la porca uccidevasi non solo nella alleanza de’ Regi, ma eziandio dai
Magnati di Etruria in principio dello loro nozze, nelle quali moglie
e marito immolavano la porca; dagli antichissimi popoli del Lazio
prima dei Romani; e Varrone ne rende le doppie ragioni. La prima
perchè dovevasi la Porca immolare nelle alleanze, _e lo sposalizio
è l’alleanza legittima e perpetua di un maschio con una femmina_,
definizione che Baldo istesso non saprebbe migliorare; la seconda per
la ragione mistica di sua fecondità. Auguravasi così alla sposa che
fosse feconda; ed immolavasi come animale alla Cipria Dea assai devoto:
_Mactatabur Porca non modo quia omnium animalium maxime in Venerem
prona est, sed etiam ut nupta in suscipiendis liberis foecunda esset ut
scropha, quæ olim inventa est sub ilicibus_, la quale fece tanti figli
in una volta, come dice Virgilio:

    _........... Ingens inventa sub ilicibus Sus_
    _Triginta capitum foetus enixa._

I Romani pertanto come gli Argivi ed i Re, e potenti dell’Etruria,
nelle nozze a Venere dea della voluttà la porca sacrificavano,
come altri la sacrificavano alla sorocchia di Giove, cioè a Giunone
Iugale, nel cingere la Zona alle nuove spose, per significare l’amore
coniugale ove fu anche appellata la porchetta _Sacrificium Nuptiale_
ed io scommetterei (dice sempre il dotto canonico) un _pescennio
nigro_ che l’uso di chiamare oggidì _le Nozze_ il giorno, in cui si
mangian le primizie del porco frescamente ucciso, deriva da questi
sacrifizi nuziali antichi, indispensabili a tutti gli sposalizii. Se
poi questa porchetta fosse la famosa nuziale pietanza detta _Nuptialis_
o _Nuptialicus_, su cui si son rotte lo teste tanti antiquari, a me non
appartiene il definirlo, benchè inclini a crederlo.

«Fastosi andar dobbiamo noi, che nei nostri paesi (dice il canonico
riminese) conservata abbiamo un eroica vivanda, che altrove comunemente
non usasi e che nulla ha di comune coll’antica napoletana porchetta o
con quella della soppressa famosissima bolognese _birrichinaglia_[18],
ma che è totalmente antica, totalmente nobile, totalmente nostra
propria....»

Fu Enea il primo che ai Lari sagrificò la scrofa coi figli, al dire
di Dionigi di Alicarnasso presso il Grenovio T. vii. col. 165. Furono
anche detti perciò Lares Grundiles. Orazio (III. 23):

    _Si thure placaris, et horna_
    _Fruge Lares, avidaque Porca_

E altrove

    _Immolet æquis_
    _Hic Porca Laribus._

E Tibullo (Lib. 1. Eleg. 4.):

    _At nobis aerata, Lares, depellite tela,_
    _Hostia erit e plena mystica Porcus ara._

Così nelle Feste Compitali, che ai Lari erano sacre gli antichissimi
Romani descritti da Properzio (lib. 4. eleg. 1) sagrificavano il porco

    _Parva saginati lustrabant Compita Porci._

Immolavasi anche nei notissimi sagrifizi _Suovetaurilia_ così detti,
come indica il nome stesso, perchè sagrificavasi prima il porco, poi la
pecora, infine il toro. Le famose Tavole Eugubine anch’esse ricordano
sagrifizi porcini.

                                 * * *

Tra i canoni pagati all’Episcopio di Rimini, incontrasi nel XIV secolo
quello singolare ed unico del _Compito_ di un porchetto. Vedasi il
Fantuzzi, _Monum. Ravenn._ Tom. VI. anno 1376 ed il codice di Leale
Malatesta. Anche Rimini città vicina al _Compito_ nel XV secolo cooperò
molto per la restaurazione delle Porchette. Negli antichi Statuti
Riminesi del 1464. Rubrica CXLV del Libro 2 (Vedi il Fantuzzi loc. cit.
ed il ch. Battaglini. _Memorie storiche di Rimini_, parte 2. pag. 140)
leggesi «_In Festo_» .... _annuatim curratur bravium octo brachiorum
scharlecti qui detur primo venienti, et una_ PORCHETTA _quæ detur
secundo venienti et unus Gallus cum uno marsupio novo ad collum dicti
Galli cum una libra piperis qui detur ultimo venienti. Quod bravium
dictis_ PORCHETTA _et Gallo debeant stare in capite fori, etc._

È singolare anche il _porco_ che pagavasi nel secolo X da un fondo
confinante col Rubicone come vedesi in una carta dell’anno 952 nel
Fantuzzi. _Mon. Rav._ T. 1. pag. 132.


  FINE.



INDICE


  Una parola al lettore                                        Pag. 7

  CAPITOLO I.

  La Sardegna vuol essere amata. — Le città della Sardegna. —
  Cagliari. — I giardinetti e un pazzo di San Bartolomeo. —
  Sassari e una lezione di storia. — Le grandi e le piccole
  borgate della Sardegna. — I villaggi e gli stazzi             »  13

  CAPITOLO II.

  La natura In Sardegna. — I boschi d’aranci di Millis. —
  Lande e foreste. — Fauna. — Gli uomini della Sardegna. —
  Etnografia sarda e tipi più salienti. — Le donne sarde. —
  Mancanza del proletario. — Carattere e costume dei Sardi. —
  Aneddoti di vendette e d’amori. — Foggie di vestire. —
  Ospitalità splendidissima dei Sardi. — Pranzi e gastronomia   »  59

  CAPITOLO III.

  I proverbi sardi. — Classificazione e statistica dei
  proverbi. — Le superstizioni studiate nel proverbio. — Virtù,
  vizi ed usi ricercati per questa via. — L’agricoltura, la
  medicina popolare e la meteorologia dei proverbi. — Corsa
  attraverso i proverbi morali, filosofici e satirici           » 118

  CAPITOLO IV.

  La poesia popolare In Sardegna. — La giunta municipale di
  Bortigadas. — Gli Improvvisatori e le loro lotte poetiche. —
  Poesie amorose. — Poeti sacri, antichi e moderni. — I
  misteri. — Poeti epici ed elegie. — Satire festevoli ed
  amare. — Poesie bernesche. — Poesie sardolatine dell’abate
  Madao                                                         » 154

  CAPITOLO V.

  Le malattie della Sardegna. — La malaria e l’inerzia. —
  Drenaggio ed educazione. — L’Arcadia esiste anche in
  Sardegna e più che mai. — Agricoltura e vini. — Monti
  granatici e barraccelli. — Scarsa popolazione dell’Isola. —
  Chi debba salvare la Sardegna                                 » 190

  Nota sul porchetto dei Sardi                                  » 221



NOTE:


[1] Ho mutato alcune circostanze del fatto, volendo rimaner scrittore e
non diventare accusatore; e amando meglio ritrarre un tipo del vero che
una fotografia.

[2] Itinerario dell’Isola di Sardegna del Conte Alberto Della-Marmora,
tradotto e compendiato con note dal Canonico GIOVANNI SPANO. Cagliari
1868.

[3] Itinerario dell’Isola di Sardegna del conte Alberto Della-Marmora,
tradotto e compendiato con note dal Canon. GIOVANNI SPANO. Cagliari
1868, pag. 401.

[4] MANTEGAZZA. _Rio dela Plata e Tenerife_. Milano 1867 pagina 676.

[5] LAMARMORA E SPANO, _Itinerario dell’Isola di Sardegna_. Cagliari
1868, pag. 111.

[6] HEINRICH FREIHERR VON MALTZAN. _Reise auf der Insel Sardinien._
Leipsig, 1869. pag. 164.

[7] _His quondam_ (τὸ παλαιον) _irati Barbaris Vandali, exiguam
eorum manum cum uxoribus ablegaverunt in Sardiniam, ibique clausos
continebant. Progrediente tempore_ (χρόνου προϊοντου) _elapsi illi,
vicinos Carali monte occuparunt: unde viciniam occultis latrociniis
infestarunt initio. Denique cum ad 3000 excrevissent, renuntiarunt
latebris, ita ut aperte circumiectis in locis omnibus grassarentur,
dicti ab indigenis_ Barbaricini. _Hos contra_ Mauros _Salomon hac hieme
classem paravit._

                                              DE BELLO VAND., II, 13.

[8] Il culto dei Sardi per la barba è espresso nel proverbio: _homine
de paga barba, homine de paga proe_; uomo di poca barba uomo di poco
valore.

[9] È fatto costante questo che là dove il terreno è più fertile, dove
un immegliamento nella coltura sarebbe più possibile e proficuo, ivi il
terreno è frazionato in parti infinitesimali. Migliaia di appezzamenti
non rappresentano che la estensione di poche are. La smania del
frazionamento è giunta a tal punto che in alcuni comuni poche are
di terreno, ove sorgono due piante appartengono a tre distinti
proprietari: uno, cioè, possiede il suolo, ed altri due una pianta
ciascuno; altrove in una estensione ristrettissima di terreno vignato
sonovi quattro o cinque proprietari, ciascuno dei quali non possiede
che pochi ceppi di vite. _Sulle condizioni della Sardegna. Osservazioni
e Proposte del Comitato Popolare di Cagliari alla Commissione
Parlamentare d’inchiesta_ pag. 6.

[10] Noi non abbiamo voluto rubare il mestiere ai filologi, ma cogliere
soltanto nelle poesie popolari sarde una parte dello spirito dei
nostri isolani, e perciò non siamo entrati in questioni di lingua.
Convien però ricordare che la Sardegna ha tre dialetti principali;
il _meridionale_ parlato in Cagliari, Iglesias, Tortoli, Oristano, da
quanti insomma vivono da Spartivento al Belvi; il _centrale_ parlato
in Logudoro (e detto quindi loguderese) da Gennargentu fino al Limbara;
e il _settentrionale_ che è parlato dai Sardi di Sassari e di Gallura.
Vedi GIOVANNI SPANO, _Vocabolario Sardo-Italiano_, Cagliari 1851.

[11] Avere il panno vale avere il premio, vincere; ed è preso dai
Berberi che danno ai cavalli vincitori nella corsa un pezzo di broccato
o di panno.

[12] Pietro Cherchi, il Demodoco sardo, come mi scrive quell’adorabile
uomo che è il Canonico Spano, era un prodigio di memoria. Sagrestano,
serviva la messa, suonava le campane; conosceva tutti per nome;
distingueva al tatto le monete ed anche i colori. Poeta, componeva e
improvvisava nella sua città versi che spezzavano il cuore.

[13] TOMMASO PISCHEDDA. _Canti popolari dei classici poeti sardi
tradotti ed illustrati_. Sassari, 1854, pag. 183.

[14] CHEIRASCO. _Sulle condizioni igieniche della Sardegna_. Cagliari
1865. — EFISIO MASSA e GIOVANNI MASNATA. _Memoria sull’intemperia
di Sardegna_, presentata al signor Governatore della Provincia di
Cagliari, ecc.

[15] _Sulle condizioni della Sardegna. Osservazioni e proposte
del Comitato popolare di Cagliari alla Commissione Parlamentare
d’inchiesta_, pag. 9

[16] Op. citata pag. 16.

[17] Tigrinto Bistonio. Elogi del porco, Canto 11.

[18] È nota la _porchetta_ che al 24 agosto dai magistrati bolognesi
distribuivasi alla ciurmaglia bolognese, appellata _birichinaglia_, e
gli individui della medesima _birichini_. La porchetta bolognese ebbe
origine da un fatto accaduto in Faenza nel 1281. Tigrinto Bistonio,
parlando della porchetta bolognese e della birichinaglia, dice
italianamente:

                  _Ciurmaglia_ BERETTINA in quantità.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




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