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Title: Roma antica, Vol. 2/3 : L'apogeo
Author: Barbagallo, Corrado, Ferrero, Guglielmo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Roma antica, Vol. 2/3 : L'apogeo" ***


                           GUGLIELMO FERRERO
                          E CORRADO BARBAGALLO


                              ROMA ANTICA


                                  II.

                                L’APOGEO



                                FIRENZE
                           FELICE LE MONNIER
                                  1921



                     Proprietà letteraria italiana

                        Copyright by G. FERRERO
                           and C. BARBAGALLO

         _Le copie che non portano la firma di uno degli Autori
                       s’intendono contraffatte._



CAPITOLO PRIMO

L’AGONIA DEL GOVERNO ARISTOCRATICO


1. =Cesare, Crasso e l’Egitto (66-64 a. C.).= — Mentre Pompeo compieva
con tanta fortuna la sua impresa, troppa gente in Roma aveva ragione
d’invidiare quella sua facile gloria in mezzo alle aspre contese della
metropoli. Tra queste primeggiavano l’Egitto e i debiti. La gloria di
Pompeo aveva acceso l’emulazione di Crasso, il quale perciò pensava,
per non essere da meno di lui, di conquistare a sua volta l’Egitto,
il più ricco civile e fertile paese del tempo[1]. Il testamento di
Alessandro II, che aveva lasciato l’Egitto alla repubblica, poteva
fornire un pretesto alla conquista; e, conquistato l’Egitto, a Roma
non sarebbe mancato più il pane. Ma in senato l’opposizione era forte
assai: sia perchè questi comandi straordinari che esautoravano il
senato, offendevano gli scrupoli costituzionali di molti; sia perchè
il partito, che non voleva ingrandire l’impero, era forte; sia perchè
l’Egitto, il più ricco e quindi — come si pensava allora — il più
corrotto paese del bacino Mediterraneo, faceva ancora paura ai più.
Crasso pensò dunque di ottenere il suo intento per mezzo del popolo,
e a questo scopo si intese con Caio Giulio Cesare, quel nipote di
Mario, di cui abbiamo già parlato. Cesare era un giovane elegante,
colto, abile, attivo, ben visto dal popolo, di vecchia famiglia:
ma era ancora un personaggio di poco conto — nel 66 era candidato
all’edilità — perchè la sua parentela gli aveva nociuto assai; e di
più era poco ricco, cosicchè aveva bisogno di aiuti per sostenere le
spese del tirocinio politico, molto gravose in quei tempi. Crasso e
Cesare s’intesero. Crasso aiuterebbe Cesare a essere eletto edile;
Crasso e Cesare insieme cercherebbero di far eleggere consoli due
amici, favorevoli a’ loro disegni; e poi tenterebbero una grande
agitazione popolare per far deliberare la conquista dell’Egitto. Cesare
fu eletto; non furono invece eletti i due consoli amici, sebbene Cesare
e Crasso non risparmiassero fatiche, al punto che la voce pubblica
li accusò, a bassa voce, di aver persino ordito una congiura! Ma pur
avendo i consoli avversi, Cesare e Crasso non desisterono dall’idea
dell’impresa di Egitto; e, per preparare il popolo, dettero opera ad un
seguito di complicati maneggi. Crasso, che era in quell’anno censore,
propose di iscrivere nelle tribù tutti gli abitanti della Transpadana,
ossia di dare anche alla Transpadana il diritto di cittadinanza,
aumentando il numero degli elettori; Cesare, edile, offriva spettacoli
magnifici: anzi, una bella mattina, fece trovare novamente drizzati
sul Campidoglio i trofei di Mario, che Silla aveva rovesciati. Per
parecchi giorni il popolo accorse al Campidoglio ad ammirare l’imagine
venerata dall’eroe; e si videro i veterani piangere a quella vista e a
quel ricordo. Ma quando Cesare, credendo gli animi preparati, iniziò le
sue agitazioni per la conquista dell’Egitto, la consorteria sillana e
il partito della vecchia nobiltà si opposero, affermando risolutamente
che Roma non doveva desiderare tutti i paesi e attaccar briga con
l’universo; e l’opinione pubblica ratificò questo modo di vedere.
L’agitazione fallì.

L’Italia pensava in quel momento, non all’Egitto, ma ai suoi debiti:
l’eterno cruccio, che periodicamente si inaspriva. Il crescere del
lusso e gli sforzi per perfezionare l’agricoltura, piantando da ogni
parte vigne e oliveti, sembrano essere stati le principali cagioni
di questo nuovo aggravarsi dell’incurabile male. Crasso tuttavia
non si scoraggiò; e nel 64 volle riprovarsi di nuovo a far eleggere
due consoli e molti tribuni che fossero favorevoli alle sue mire.
I candidati in quell’anno erano sette: tra questi Cesare e Crasso
aiutarono Lucio Sergio Catilina, un antico ufficiale di Silla, che
già era stato candidato nel 66 ed era stato escluso dal senato per
un vizio di forma; e C. Antonio Ibrida, un altro ufficiale di Silla.
Tra gli avversari era M. Tullio Cicerone, il grande oratore, che, pur
essendo nato da una modesta famiglia di cavalieri di Arpino e non molto
ricco, aveva occupato tutte le magistrature, fuorchè il consolato, con
il consenso di tutti i partiti. Il suo ingegno, la sua cultura, la
sua modestia, la sua rettitudine lo avevano posto al di sopra delle
quotidiane contese di parte. Ma questa volta Crasso e Cesare, avendo
bisogno del suo posto, lo combattevano a fondo, e con essi quindi il
partito popolare. A sua volta il partito della nobiltà, sentendosi
incapace di vincere Crasso e Cesare con uomini di parte propria, decise
di far sua la candidatura di Cicerone; e così Cicerone entrò in campo
come candidato della nobiltà. La lotta fu viva e il risultato medio:
Cicerone fu eletto, e con lui uno dei candidati di Crasso e di Cesare,
C. Antonio; Catilina invece fu vinto. Ma se le elezioni al consolato
non erano state felicissime, parecchi tribuni, devoti a Crasso, erano
stati eletti; e tra questi, P. Servilio Rullo, appena entrato in
carica, propose una legge agraria la quale instituiva dieci commissari,
eletti dal popolo per cinque anni, irrevocabili, irresponsabili e
immuni da intercessioni tribunizie, i quali avrebbero potuto vendere,
in Italia, e fuori, tutte le proprietà che fossero diventate pubbliche
nell’anno 88 e dopo, e quelle, la cui vendita era stata deliberata dal
senato dopo l’anno 81; inquisire sulle prede fatte dai generali, tolto
Pompeo, e obbligarli a rendere quella parte che si fossero trattenuta;
comprare, con il denaro ricavato da queste restituzioni, terre in
Italia, da distribuire ai poveri. Pare che questa legge fosse un
mezzo per risollevare indirettamente la questione dell’Egitto, perchè
i commissari avrebbero potuto dichiarare che l’Egitto era diventato,
per il testamento di Alessandro, proprietà di Roma, e quindi ordinarne
la conquista. Questo almeno sospettarono gli avversari di Crasso, che
combatterono a oltranza la legge, quasi sovvertisse da capo a fondo lo
Stato.


2. =Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina (63 a. C.).= —
Fu questa la prima prova che Cicerone ebbe a sostener come console; e
la sostenne da par suo. Egli riuscì a far respingere la legge con due
discorsi, nei quali si sforzò di provare che avrebbe fatto più male
che bene al popolo. Certo la legge era troppo complicata ed oscura, e
minacciava troppi interessi: il popolo stesso ne ebbe paura. Crasso e
Cesare avevano dunque subìto una nuova sconfitta, l’odio della quale
ricascava soprattutto su Cesare. Crasso era troppo potente e ricco,
perchè il biasimo pubblico osasse morderlo apertamente; ma Cesare
poteva pagare anche per Crasso. Incominciò da allora a nascere contro
di lui, nei circoli senatorî, tra le grandi famiglie ligie al partito
e alla tradizione di Silla, quella animosità che non si spegnerà più;
che sviserà, implacabile, ogni suo atto e intenzione, che esagererà i
suoi debiti, i suoi difetti, i suoi vizi e le sue debolezze. Assalito,
Cesare si difese con tutte le sue armi e non lasciò sfuggire occasione
per rispondere. Sul principio del 63, essendo morto Metello Pio, che
era pontefice massimo, riuscì con l’aiuto di Crasso a far ripristinare
le elezioni popolari del _Pontifex maximus_ che Silla aveva abolite
e a farsi eleggere egli stesso, sebbene il partito oligarchico avesse
contrastato con tutte le forze la sua elezione: un bell’incoraggiamento
per la pretura, che Cesare ambiva per l’anno seguente, ma un piccolo
compenso all’insuccesso del gran disegno dell’Egitto. Crasso però non
desisteva; voleva, di nuovo, nelle elezioni per il 62, far riuscire
i candidati che gli sarebbero favorevoli; e per il consolato aveva
scelto Lucio Licinio Murena e Decimo Giunio Silano, abbandonando
Catilina, troppo ormai screditato da due insuccessi. Senonchè una
mossa improvvisa del candidato, che essi reputavano ormai impotente,
sconvolse tutti i loro piani. Catilina volle presentarsi candidato,
anche da solo; e siccome solo, non poteva fare assegnamento nè su
molto denaro nè su grandi appoggi, pensò di farsi forte con qualche
proposta che, per la sua chiarezza e semplicità, riuscisse accetta
ai suoi. Non c’era da esitare.... Catilina bandì agli elettori, come
promessa del suo governo, la abolizione dei debiti[2]. La promessa era
rivoluzionaria; ma non bisogna perciò credere che Catilina tramasse
fin d’allora una insurrezione armata. Egli mirava solo a guadagnare le
moltitudini con una proposta che pareva scellerata, ai creditori, ma
alla quale invece gli spiriti del maggior numero non erano impreparati,
e che doveva esser attivata per le vie legali. Le riduzioni, i condoni,
le abolizioni dei debiti erano frequenti nella storia greca, allora
tanto studiata, e nella romana, dai tempi più antichi sino all’ultima,
deliberata nell’86.

Catilina questa volta non si era ingannato. In un baleno egli fu
l’idolo in tutta Italia, di quanti gemevano sotto il peso dei debiti:
ed erano tanti! Ma a Roma, quando si vide che Catilina era in tanto
favore, le classi alte si spaventarono. Nessuno volle prestare più
denaro; i debitori fallirono a torme; da ogni parte si gridò che
l’elezione di Catilina sarebbe il segnale di una nuova guerra civile;
l’ordine dei cavalieri uscì dalla riserva, in cui si teneva dopo la
dittatura di Silla, si agitò, offrì spontaneamente di unirsi al senato
per la difesa dell’ordine. Lo spavento fu tale, che tutti gli odî e le
discordie dei grandi parvero per un istante venir meno. Anche Crasso
e Cesare sospesero gli intrighi. A sua volta Catilina, accerchiato
o minacciato dalla coalizione dei ricchi e dei potenti, fece venire
dall’Etruria, una regione dove molti possidenti indebitati e rovinati
erano antichi soldati di Silla, bande di partigiani, tutte armate,
naturalmente.

La lotta fu ardentissima, e fu, per il partito che non voleva
rivolgimenti, diretta da Cicerone; ma i cavalieri e l’ordine senatorio,
uniti, trionfarono del partito dei debiti. Cesare fu eletto pretore,
ma Catilina non fu, neppur questa volta, eletto console. Fu allora
che Catilina, esasperato, pensò di macchinare una rivoluzione: ma
con quali mezzi insufficienti e meschini! Incaricando i suoi amici in
Etruria di reclutare tra i veterani di Silla, ridotti alla miseria,
un esercito! Chi poteva sperar sul serio di conquistare Roma e di
abbattere il governo legale — di ripetere l’impresa, che Silla aveva
compiuta in tanti anni e con tante legioni — raccogliendo la canaglia
di una tra le tante regioni d’Italia? Il pazzo disegno non tardò a
trapelare; Catilina fu costretto, ai primi di novembre, a fuggire da
Roma; e i suoi amici, rimasti a Roma, precipitarono la rovina propria
e del capo con un’ultima imprudenza. Erano allora in Roma certi
ambasciatori degli Allobrogi, venuti per trattare certi interessi
del loro popolo. I partigiani di Catilina pensarono di farsene degli
alleati, e s’illusero di potere per mezzo loro sollevare, nella Gallia
Transalpina, un incendio pari a quello che Sertorio, molti anni prima,
aveva acceso nella Spagna. Ma gli Allobrogi denunziarono gl’inconsulti
mestatori, che, imprigionati per ordine di Cicerone, furono tratti
innanzi al senato, per essere giudicati, il 5 dicembre 63. Catilina
aveva avuto amici e aderenti in tutte le classi; tra gli accusati
c’erano dunque anche senatori e magistrati, uomini appartenenti alla
nobiltà e a famiglie cospicue. Ma l’opinione pubblica era stata, in
tutti i ceti, così irritata da quelle trame con i barbari, reclamava
con tanto furore un castigo esemplare, che i primi discorsi e le prime
sentenze furono tutte per la pena più severa: la morte. Crasso non
osò parlare. Cesare invece — e fu il solo — con un discorso veramente
di polso, cercò dimostrare che una condanna di morte, inflitta dal
senato, e senza appello al popolo, sarebbe un atto contrario alla
costituzione; che non conveniva sentenziare _ab irato_; che, in ogni
modo, era saggezza di buona politica una pena più mite: la detenzione a
vita e la confisca dei beni[3]. Cicerone infine parlò ambiguamente[4],
lasciando intendere che inclinava al parere di Cesare. Quantunque il
discorso di Cesare scotesse la parte più moderata del senato, prevalse
il proposito estremo, precipuamente per il discorso di un uomo, che da
qualche tempo acquistava molta autorità in senato: Marco Porcio Catone,
un discendente del Censore. Fu votata la pena di morte, e i Catilinari,
condotti al carcere Mamertino, furono strangolati. Il popolo, la
maggioranza dei senatori, i cavalieri si sparsero per Roma, prodigando
in ogni parte le manifestazioni di giubilo per il pericolo scampato, le
ovazioni al console, salvatore della patria, e le dimostrazioni ostili
agli amici dei Catilinari. Lo stesso Cesare, uscendo dalla Curia, fu
minacciato a mano armata da un gruppo di cavalieri. Pochi mesi dopo, in
Etruria, presso Fiesole, Catilina era vinto e la turba male armata dei
suoi seguaci dispersa.

Il temporale si era dileguato. L’attenzione del pubblico si rivolgeva
di nuovo ansiosa a Pompeo, assente da cinque anni, che tornava d’oltre
mare.


3. =I partiti in Roma e il ritorno di Pompeo (62-60 a. C.).= — La
congiura di Catilina aveva turbato in Roma profondamente gruppi e
partiti. La parte estrema e intransigente del partito oligarchico
prevalse, condotta da Catone, uomo integro ma di spirito ostinato ed
angusto, che da questo momento primeggia tra i personaggi eminenti
della repubblica. A sua volta, e per reazione, l’opposizione popolare
si inasprisce. Innanzi alla minaccia della rivoluzione, i cavalieri si
erano distaccati dal partito popolare. La riconciliazione dei cavalieri
e del senato era stata il capolavoro politico, di cui Cicerone non
cesserà mai di gloriarsi[5]. Il partito popolare si componeva ormai
quasi soltanto di quegli _humiles_, di quella popolazione minuta,
che era cresciuta di numero negli ultimi anni e si raccoglieva in
numerose associazioni (_collegia_ e _sodalicia_): elemento molto rozzo,
o indifferente o violento, che non sentiva altra spinta, fuorchè un
qualche interesse immediato o una veemente passione. Lo Stato insomma
rimaneva in balìa di due partiti estremi, esasperati da un odio furente
e che adoperavano armi avvelenate.

L’anno 62, aspettandosi Pompeo e mentre Cesare esercitava la pretura,
fu un continuo succedersi di ripicchi, di scaramucce, di scandali e di
dispetti tra i due partiti. Gli amici e seguaci di Catone accusavano
tutti i popolari di essere stati complici di Catilina; i popolari
incominciavano ad accusare il senato di avere, non giustiziato, ma
assassinato illegalmente i congiurati. In questo stato Pompeo trovò la
repubblica sullo scorcio del 62, sbarcando a Brindisi. Il suo arrivo
non fu scevro di ansietà; perchè molti predicevano che Pompeo non
avrebbe congedato l’esercito e avrebbe imposto con quello chi sa quali
sue volontà al senato. Ma era una favola. Pompeo aveva tranquillamente
congedato l’esercito e s’avviava a Roma per preparare il trionfo.
Quand’ecco, nei primi giorni di dicembre, mentre si aspettava Pompeo,
scoppia a Roma uno scandalo singolare. Nelle cerimonie della Dea Bona
— che si celebravano in casa del pretore e alle quali non potevano
assistere che donne — fu scoperto, travestito da schiava, Publio
Clodio, quell’amico di Pompeo, che aveva fatto ribellare le legioni di
Lucullo, e che, tra i giovani delle grandi famiglie, faceva parlare
anche troppo di sè. Si spiegò quel sacrilegio dicendo — vero o falso
che fosse — che egli era l’amante della moglie di Cesare. Ma Catone e
il suo partito presero la cosa sul tragico: gridarono che bisognava
dar un nuovo esempio, poichè quello di Catilina non era bastato,
alla gioventù che cresceva ancor più riottosa, dissoluta, cinica
della generazione matura. Senonchè l’atto commesso da Clodio era un
sacrilegio; avrebbe dunque dovuto esser giudicato dal collegio dei
pontefici. Catone e i suoi amici non se ne fidavano; e perciò chiesero
che per giudicar Clodio si costituisse un tribunale speciale. Ma
questa proposta scatenò una tempesta che per parecchi mesi agitò la
repubblica. Il partito popolare, per ripicco, prese Clodio sotto la
sua protezione; il partito oligarchico, per rappresaglia, si ostinò;
da ogni parte si intrigò; tutti i personaggi in vista dovettero
pronunciarsi per Clodio o contro Clodio; anche Cesare, che sospese la
sua partenza per la provincia di Spagna toccatagli come propretura;
anche Cicerone, che si dichiarò apertamente contro Clodio. Alla fine il
processo si fece; e Clodio fu assolto, con grande rabbia del partito
oligarchico e grande gioia del partito popolare, che vantò questa
assoluzione quasi come una rivincita della condanna dei complici di
Catilina: ma gli odî, che questo comico scandalo lasciò come strascico,
non tarderanno a mostrarsi e con quali funesti effetti!


4. =Il trionfo di Pompeo e le sue difficoltà con il senato (61-60
a. C.).= — Finito il processo di Clodio, Cesare potè partire per la
Spagna, e Pompeo celebrare, il 29 e il 30 settembre dell’anno 61,
il suo trionfo. Fu questo il più grandioso che sino ad allora si
fosse visto. Ma celebrato il trionfo e le feste, allorchè Pompeo,
ritornato a vita privata, chiese la conferma dei suoi atti in Oriente,
nonchè ricompense per i suoi veterani, ecco levarsi una opposizione
accanita, di cui neppure la sua autorità, la sua potenza, la sua gloria
riuscivano ad aver ragione. Il senato esitava a riconoscere l’immenso
rivolgimento avvenuto in Oriente, per il quale Roma era ormai arbitra
dell’Asia minore. Invano egli cercò, negli ultimi mesi del 61 e nei
primi del 60, di arrivare a un accordo; invano chiese perfino a Catone
che desse in moglie a lui e a suo figlio, chi dice due sue figlie e chi
due nipoti. Si sfogavano certo in questa opposizione antichi rancori:
Lucullo, che non aveva mai perdonato a Pompeo la sua deposizione;
Crasso, che non gli perdonava di essere stato più fortunato di lui;
il senato tutto quanto, come corpo, che non poteva aver dimenticato
la legge Manilia, con cui Pompeo l’aveva ridotto a spettatore delle
sue imprese. A rafforzare la opposizione concorrevano i cavalieri e
tutti gli interessati — erano tanti! — nella compagnia appaltatrice
delle imposte dell’Asia, la quale chiedeva che, poichè i redditi della
repubblica erano tanto cresciuti per le conquiste di Pompeo, fosse
loro ridotto il canone d’affitto; mentre Pompeo proponeva di spendere
la maggior parte di questo reddito per i soldati. Ma tutte queste
opposizioni non avrebbero potuto resistere alla potenza di Pompeo e
alla necessità di dare un assetto alle cose d’Oriente, se non fossero
state rinforzate da una considerazione di ben altro rilievo. Annettendo
il Ponto e la Siria Roma diventava una immensa Potenza asiatica,
anzi quasi solo una Potenza asiatica, poichè i dominî d’Europa
rimpicciolivano di molto al confronto: il che non poteva non inquietare
quanti per spirito di tradizione o per considerazioni desunte dallo
stato presente delle cose temevano sia gli ampliamenti soverchi
dell’impero, sia la troppo grande influenza dell’Oriente.


5. =Il consolato di Cesare (59 a. C.).= — Comunque sia, il vincitore di
Mitridate, il conquistatore della Siria era posto da questa ostinata
opposizione del senato, all’indomani del suo vertiginoso trionfo,
in un impiccio increscioso e ridicolo. Nel tempo stesso il senato si
screditava ancora più; poichè a molti non sembrava tollerabile che,
per un ripicco, esso sembrasse voler rifiutare dei territori, la cui
conquista aveva tanto accresciuto la potenza, la gloria e i redditi
della repubblica! In quella giunse a Roma, dalla Spagna, verso la metà
dell’anno 60, Cesare, per concorrere al consolato; e subito si accorse
che il partito di Catone, ormai dominante in senato, non era più
conciliante con lui che con Pompeo. Questo partito lo combattè con ogni
mezzo e, dopochè Cesare fu eletto, certo approfittando del malcontento
pubblico per la politica del senato riguardo alle nuove province,
subito decretò, come per rispondere ai comizi, che il proconsolato del
59 non avesse che un assai meschino raggio di competenza, una missione
amministrativa d’importanza affatto secondaria: la sorveglianza delle
foreste e delle pubbliche strade. L’avvertimento era chiaro. Il senato,
dominato da Catone e dai suoi amici, diceva anticipatamente che, come
cercava di annullare quel che Pompeo aveva fatto, così si preparava a
impedir quel che Cesare contava di fare; in altre parole, non volendo
essere spettatore e non potendo essere il motore della nuova politica
di ingrandimenti, cercava di impedirla.

Occorreva dunque apparecchiarsi a un conflitto aspro e ricercare
appoggi nuovi od antichi. Cesare, che era uomo di larghe vedute,
pensò addirittura di opporre al senato e alla sua tenace ostruzione,
nientemeno che la coalizione di Pompeo, di Crasso, di Cicerone e di
lui stesso, tutti riconciliati per governare la repubblica, con più
ardimento e vigore che non facesse il senato. L’idea era audace, ma il
momento era propizio: perchè il partito oligarchico, guidato da Catone,
si andava urtando con tutti; Pompeo, pur di uscir dall’impiccio in
cui il senato l’aveva messo e di ottener che la sua amministrazione
orientale fosse approvata, doveva esser pronto ad ogni concessione;
Crasso aveva da soddisfare le sue antiche ambizioni; e Cicerone, da
far dimenticare ai popolari la repressione della congiura di Catilina.
A stringere questa intesa Cesare lavorò alacremente e in segreto, nei
mesi che passò a Roma, tra l’elezione a console e l’entrata in carica.
Ma i passi presso Cicerone fallirono. Accettarono invece Crasso e
Pompeo e fecero con Cesare un accordo segreto (fine del 60 a. C.)[6].

Il rifiuto di Cicerone toglieva al governo di Cesare un savio
moderatore e un abile bilanciatore: ma Cesare, ciò non ostante,
iniziò il suo consolato con discorsi ed atti concilianti. Egli voleva
acquistare la popolarità e l’autorità necessarie a ottenere per
Pompeo l’approvazione di quello che aveva fatto in Oriente, e per sè
una buona provincia, e con il procedimento già adoperato dai Gracchi
e dai loro imitatori: favorendo gli interessi dei ceti sociali,
sottoposti all’aristocrazia, e incominciando, come al solito, con una
legge agraria. Propose infatti una legge per cui venti commissari
sarebbero stati incaricati di distribuire ai veterani e ai poveri
quanto demanio pubblico rimaneva in Italia, salva, come al tempo dei
Gracchi, la Campania, oltre a nuove terre da acquistare con le prede
di Pompeo. Cesare però sperava di poter presentare e far approvare
la legge, d’accordo con la maggioranza del senato; e perciò prima di
presentarla ai comizi, chiese al senato la necessaria autorizzazione.
Ma si ingannava. La maggioranza del senato andò sulle furie e si
rivoltò. Era uno scandalo che un console presentasse una legge agraria,
rubando il triste mestiere ai tribuni: l’unico console, che avesse
osato tanta infamia, era stato, quattro secoli prima, proprio Spurio
Cassio; la legge agraria di Cesare somigliava alla legge Servilia di
pochi anni prima! Il senato riuscì dapprima ad aggiornare la legge,
e da ultimo dichiarò di non ritenere opportuna alcuna novità. Cesare
allora replicò. A sua volta il collega di Cesare, Bibulo, uomo ligio al
partito di Catone, incominciò un’accanita ostruzione liturgica; Cesare
agitò il popolo; sinchè dopo aver cercato in tutti i modi di smuovere
Bibulo, tentò un espediente supremo: chiamò apertamente in aiuto Crasso
e Pompeo; i quali vennero nel Foro e dichiararono che l’ostruzione di
Bibulo doveva essere vinta anche colla forza, se la persuasione non
bastava.

Allora — e allora soltanto — fu manifesto a tutti, che Cesare, Crasso
e Pompeo avevano stretto quell’accordo, di cui tutti sussurravano,
che un letterato del tempo chiamerà il _mostro a tre teste_, e a cui
gli storici moderni danno il nome arbitrario di «primo triumvirato».
Lo stupore fu immenso, e insieme la paura. Se Crasso, Pompeo e Cesare
si erano messi d’accordo, chi potrebbe resistere loro? Pompeo aveva
per sè i veterani e una parte dell’aristocrazia; Crasso, una parte
dell’aristocrazia e i cavalieri; Cesare, le classi medie e la plebe di
Roma: tutto lo Stato insomma era nelle loro mani. Difficile sarebbe
ormai ottenere una magistratura, un comando, una legazione libera,
senza il consenso di questa vera triarchia che, unita, dominerebbe la
repubblica. La opposizione alla legge venne rapidamente meno; molti
senatori, se non passarono senz’altro alla fazione dei tre capi,
mutarono atteggiamento; il credito di Catone e dei suoi scemò in un
batter d’occhio; e la legge, approvata dal popolo nei comizi tributi,
fu giurata dal senato, anche da Catone e dai suoi amici.


6. =Le complicazioni galliche e la «lex Vatinia» (59 a. C.).= — Era la
prima vittoria della coalizione. Ancora una volta la fortuna aiutava
gli audaci. Ma verso la fine del febbraio del 59, mentre Roma era
piena di tante agitazioni, veniva a morte il governatore della Gallia
cisalpina, Q. Metello Celere. Quanti eventi dovevan nascere da questo
accidente! Cesare pensò fosse giunto il momento di abolire il decreto
del senato, che lo mandava a sorvegliare come proconsole le foreste
della repubblica. La Gallia transalpina era da tempo agitata da guerre,
che ogni tanto offrivano occasione ad interventi stranieri. Nel 61
quegli Allobrogi, che avevano salvato Roma dalla congiura catilinaria,
erano insorti. Più a settentrione, a occidente e a oriente della Saona
(l’antico _Arar_) Edui e Sequani si contendevano la supremazia della
Gallia centrale e i ricchi pedaggi di quel fiume. Ma i Sequani erano
stati vinti, e, poichè i loro avversari erano da un pezzo alleati dei
Romani, si erano rivolti agli Svevi, una popolazione germanica che
abitava al di là del Reno, e al loro re Ariovisto, insieme coi quali
avevano sconfitto gli Edui. Ma entrato nel nuovo territorio, Ariovisto
c’era rimasto, con una parte dei suoi Svevi; aveva assoggettato gli
Edui a un regolare tributo, e tolta buona parte del territorio agli
antichi alleati, i Sequani[7]. Liberarsene era ormai un impegno
nazionale, ma il modo era nuovo argomento di discordie. Un partito
sperava nell’aiuto di Roma: un altro invece aveva posto gli occhi
sugli antichi alleati dei Cimbri, gli Elvezi, che, dopo la catastrofe
della grande invasione germanica, erano discesi ad abitare la porzione
occidentale della Svizzera, tra i due laghi di Costanza e di Ginevra,
il Giura e le Alpi. Da qualche tempo gli Edui, presso i quali dominava
il partito amico di Roma, avevano mandato ambasciatori a Roma ad
annunciare, esagerandolo, il pericolo: gli Elvezi, cresciuti di numero
e bisognosi di terre, stavano per muoversi e invadere la Gallia; Roma
non li lasciasse insediarsi in Gallia, chè minaccerebbero di nuovo,
come ai tempi dei Cimbri e dei Teutoni, l’Italia. Metello era quindi
morto proprio sul punto in cui stava per partire e muovere guerra agli
Elvezi.

La Gallia era dunque un campo in cui si potevano mietere gloria ed
allori. Cesare la volle per sè. Ma chiedere al senato che revocasse
il suo decreto era inutile. Ormai, dopo la legge agraria, Cesare era
in rotta con la maggioranza del senato; e non poteva più sperar di
governare d’accordo con il grande consesso. Non c’era quindi altro
scampo: governare per il momento senza il senato, con i comizi; compire
quell’esautoramento dell’assemblea, che Lucullo e Pompeo avevano
iniziato. Egli non esitò. Voci inquietanti sulla minacciata invasione
dei nuovi Cimbri furono diffuse; indi il tribuno Vatinio propose una
legge, che concedeva a Cesare il governo della Gallia Cisalpina e
dell’Illirico con tre legioni per cinque anni, dal giorno in cui la
legge sarebbe promulgata, affinchè, se la guerra scoppiasse prima della
fine dell’anno, egli potesse, come aveva fatto Lucullo, accorrere a
prenderne il comando. La legge fu promulgata il 1º marzo. Indi, poichè
dei comizi era padrone, Cesare procedè rapido, con leggi, a risolvere
tutte le questioni che da tanto tempo pendevano. Una legge risolvè la
questione dell’Egitto, dichiarando Tolomeo Aulete amico e alleato del
popolo romano; e togliendo così questa vecchia causa di discordie tra
Pompeo e Crasso.

Una legge concesse la riduzione del canone d’appalto dell’imposta
d’Asia, che Crasso e i pubblicani chiedevano invano da due anni al
senato. Una legge approvò finalmente tutti gli atti compiuti da Pompeo
in Oriente. Cesare presentò infine una seconda legge agraria, con la
quale intaccava l’ultimo resto di agro pubblico superstite in Italia,
quello che anche i Gracchi e le leggi successive avevano rispettato, la
Campania, ordinando fosse ripartita tra i cittadini poveri, padri di
parecchi figliuoli. Infine, per stringere più fortemente l’unione con
Pompeo, gli dette in moglie la figlia.


7. =Cesare e Clodio.= — Il senato non era mai stato esautorato a
questo punto; il principio della collegialità del consolato non era
mai stato ridotto a una finzione, come in questo anno. Bibulo, che
dapprima aveva tentato di fare ostruzione a forza di aruspicina, aveva
alla fine dovuto astenersi dall’intervenire ai comizi. I motteggiatori
dell’epoca ripetevano che quello era il consolato, non già di Cesare e
di Bibulo, ma di Giulio e di Cesare. Cosa ancor più funesta per Catone
e per i suoi amici, Cesare intendeva prolungare questa sua potenza
oltre l’anno del consolato, negli anni in cui sarebbe proconsole in
Gallia. Cercò innanzi tutto di far nominare alle cariche per l’anno
seguente tutti amici suoi; e in gran parte ci riuscì. Se gli avversari
ebbero qualche successo nelle elezioni dei pretori, i due consoli per
il 58 erano partigiani sicuri di Cesare, di Crasso e di Pompeo; e fra i
tribuni della plebe, l’eroe famigerato dello scandalo della Dea Bona,
P. Clodio Pulcro, doveva essere, più che un artigiano, uno strumento.
Clodio era un patrizio, di quella famiglia dei Claudii, che contava
tra le più antiche e celebri di Roma. Non è quindi da stupire se, fino
allo scandalo del 62, fosse stato più incline agli oligarchi che ai
popolari, e insomma non si fosse condotto in modo molto diverso da
Pompeo, di cui era amico. Ma dopo lo scandalo, respinto dalla sua casta
e dal suo partito, non restava a Clodio altro scampo che o ritirarsi
per sempre nell’oscurità o buttarsi nelle braccia dei popolari. Cesare
capì che avrebbe potuto sfruttare il nome e il vario ingegno di questo
reietto della nobiltà; gli fece ottenere con una legge il passaggio
dal patriziato alla plebe; lo aiutò ad essere eletto tribuno della
plebe pel 58, e si intese con lui per organizzare il popolino di
Roma, in modo da poter sicuramente padroneggiare i comizi, l’organo
legislativo con cui egli aveva umiliato ed esautorato il senato; e sul
quale faceva assegnamento, come principale strumento della potenza sua,
di Pompeo e di Crasso, per domare le future resistenze del Senato.
Da gran tempo, da prima della restaurazione sillana, i _collegia_
o associazioni d’artigiani, numerosi in Roma, s’erano buttati nella
politica e nelle elezioni, e di solito avevano favorito il partito
popolare. Ma abbandonati a sè medesimi, erano stati sempre in balìa
del caso; e spesso assenti per indifferenza o volubili per ignoranza.
Cesare pensò di dare a questo popolino, che, essendo numeroso e sempre
presente a Roma, poteva essere maggioranza nei comizi quando volesse,
una solida organizzazione; e incaricò Clodio di compire quest’opera,
irreggimentando bande numerose di elettori e guadagnandone il favore
con leggi e beneficî.

Nel senato veniva meno, del resto, perfino la voglia di opporsi
a Cesare, a Crasso e a Pompeo. Catone e i suoi amici erano ormai
un piccolo gruppo solitario e impotente: tanta paura incuteva la
coalizione dei tre potenti personaggi, dopo le umiliazioni inflitte al
senato per mezzo dei comizi. Cesare solo non avrebbe spadroneggiato
a quel modo: ma chi poteva presumere di opporsi a Cesare, a Crasso e
a Pompeo uniti? Le elezioni per il 58, così favorevoli ai tre potenti
cittadini, disanimarono interamente l’opposizione; cosicchè subito dopo
le elezioni il senato, su proposta di Crasso e di Pompeo, arrotondò,
ancora più che non fosse saggio, i poteri proconsolari di Cesare, e gli
conferì anche quella parte della Transalpina che era provincia romana,
col comando di una legione. E non appena fu entrato in carica, il 10
dicembre, Clodio si accinse a compier l’opera di Cesare, lanciando
le nuove proposte con le quali Cesare, Crasso e Pompeo pensavano
di padroneggiare i comizi, e farne lo strumento sicuro del loro
governo: una _lex frumentaria_, per la quale i cittadini poveri di
Roma avrebbero diritto di avere il grano, non più a prezzi di favore,
ma gratuitamente; una _lex de jure et tempore legum rogandarum_, che
liberava i comizi tributi da ogni osservanza liturgica e che permetteva
di tener le assemblee politiche in tutti i _dies fasti_, anche nei
festivi, e quindi facilitava ai campagnoli l’intervento nei comizi: una
_lex de collegiis_, che toglieva di mezzo diverse limitazioni poste dal
senato alle associazioni degli artigiani; infine una _lex censoria_,
che scemava ai censori la facoltà di non ammettere in senato quanti
avevano rivestito le necessarie magistrature. Queste leggi furono
approvate quasi senza opposizione, pochi giorni dopo che il consolato
di Cesare era finito; e quasi come una postuma vittoria di questo.


8. =Importanza storica e carattere politico del consolato di Cesare.=
— Il quale aveva operato — o almeno tentato — nello Stato romano un
mutamento assai più profondo, che i contemporanei forse non credessero.
Se si badi solo alle leggi proposte da lui e da Clodio, Cesare è il
continuatore di Caio Gracco e dei suoi successori. Ritroviamo le stesse
leggi agrarie e frumentarie, le stesse leggi favorevoli ai cavalieri,
le stesse leggi, che cercano di restringere l’autorità del senato.
Ma tra queste leggi non ce ne è più nessuna, come la legge agraria
e la legge della cittadinanza per Caio Gracco, che sia il fine, per
raggiungere il quale le altre servono di mezzo: per Cesare queste leggi
sono mezzi e preparazioni di una rivoluzione politica, nella quale
deve ricercarsi la vera opera sua. In che consiste questa rivoluzione?
Non in viste o ambizioni monarchiche, quali troppi e troppo ingenui
storici gli hanno attribuite; ma nell’aver incominciato a sostituire
— in fatto se non in diritto — al governo aristocratico del senato un
governo sul modello della τυραννίς la tirannide greca; una triarchia
— potremmo dire — il governo personale di tre cittadini più potenti
degli altri, che, ciascuno a capo non di un partito politico ma di
una clientela di interessi, dominerebbero uniti i comizi e il senato
disporrebbero delle cariche, e potrebbero dirigere tutta la politica
dell’impero, senza però mutare la costituzione e solo facendola
agire a proprio vantaggio. Arbitri dei comizi, questi tre cittadini
potrebbero disporre delle cariche; e potendo disporre delle cariche,
dominerebbero la maggioranza del senato e tutto lo Stato. È chiaro
che per simile rivolgimento il governo di Roma, che era stato sino
allora in potere di una aristocrazia, divisa in larghe consorterie
di famiglie, veniva ad alterarsi profondamente. Senonchè non bisogna
credere che Cesare fosse spinto a cambiar così la costituzione politica
di Roma da una smodata ambizione. I tempi e la situazione potevano
più che le sue ambizioni. Egli tentava di sostituire questo governo di
clientele all’aristocratico governo del senato, perchè la riforma di
Silla era fallita; e l’aristocrazia non era più capace di far operare
la costituzione romana e di governare nel senato l’Impero. Non era
anzi neppur più una aristocrazia nel senso vero della parola; una
aristocrazia compatta, omogenea, abbastanza concorde, attiva e forte;
ma una accozzaglia di antiche famiglie e di nuove, di guerrieri, di
diplomatici, di uomini d’affari, d’avvocati, di letterati, di gaudenti,
diversi per origine, per tradizione, per gusti, per idee, gelosi e
invidiosi gli uni degli altri; che risentiva in se medesima tutte
le confusioni e oscillazioni e discordie della vita circostante. La
cresciuta potenza e ricchezza, la cultura greca, le guerre civili
e i diuturni conflitti politici avevano portato a compimento questa
dissoluzione, il cui segno più manifesto era il fiacco, incoerente,
slegato governo che aveva retto l’impero dalla morte di Silla in poi.
In quei venti anni nessuno aveva più governato Roma, nè il senato,
nè i comizi, nè la vecchia nobiltà, nè i cavalieri, nè il partito
democratico; ma l’impressione del momento, la tradizione, la violenza
fugace dei partiti. Onde le finanze erano in disordine; le elezioni
dipendevano ogni anno da un capriccio dell’opinione pubblica o da una
sorpresa preparata dagli interessi; la pirateria e il brigantaggio
infestavano i mari e le terre; perfino l’esercito era disorganizzato:
gli effettivi delle legioni, dimezzati; nessuna o quasi nessuna
istruzione militare per le nuove reclute volontarie; i generali e gli
ufficiali superiori, improvvisati tra i politicanti; solo i centurioni,
questi oscuri ufficiali di carriera, conoscevano per esperienza
il mestiere delle armi, e formavano il sostegno dell’esercito in
dissoluzione. Nè più vigorosa e illuminata era la politica estera,
nella quale, quando non capitava un Lucullo o un Pompeo a decidere
a suo rischio e pericolo, l’azione del senato si riduceva a tirare
in lungo tutte le questioni, senza risolverle. Non aveva il senato
esitato lungamente perfino ad accettare il Ponto e la Siria, che Pompeo
gli offriva, già domati e fruttuosi? Ma quando un potere indebolisce
invecchiando, sempre accade che presto o tardi un altro, più vigoroso
cerca di togliergli di mano scettro e spada. Questo appunto aveva fatto
Cesare, approfittando delle debolezze, degli errori, delle discordie,
dei conflitti di interesse da cui era diviso l’ordine sociale, a cui
secondo la costituzione spettava di governare l’impero. Il tentativo,
grazie alla sorpresa e alla sua maestria, era lì per lì riuscito: ma
il nuovo governo, fondato in un baleno, resisterebbe o no, secondo che
riuscisse a reggersi e a far cose utili e grandi, in quella vecchia
repubblica, troppo aristocratica per tradizione, perchè un tentativo di
quella natura non dovesse, passata la sorpresa, scontentare, irritare
e spaventare. Difatti da ora in poi non si può più dire che ci siano,
nel senato e in Roma, un partito oligarchico e un partito popolare;
c’è piuttosto un partito che potremmo chiamare senatorio, il quale
mira a difendere l’autorità del senato contro le usurpazioni del potere
personale e della triarchia, sfruttando l’avversione di molti per ogni
forma di potere personale, e attribuendogli tutte le sventure della
repubblica. La rivendicazione dei diritti e dell’autorità del senato
sarà sottintesa in tutte le agitazioni che turberanno la repubblica. Il
nerbo di questo «partito del senato» sarà formato dal piccolo e fiero
gruppo capeggiato da Catone.


NOTE AL CAPITOLO PRIMO.

[1] Su questa ambizione di Crasso, cfr. PLUT., _Crass._, 13, 2, 7, e G.
FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, vol. I, cap. XIII; vol. II,
Appendice C.

[2] Per il programma dei Catilinari si veda il documento, che il
maggiore, eppur tanto ostile, storico di quella congiura — C. SALLUSTIO
CRISPO — riferisce: una loro lettera al senato (SALL., _Cat._, 33).

[3] Per la discussione in senato, come per il discorso di Cesare, cfr.
SALL., _Cat._, 50-54.

[4] Fu questa la così detta _IVª Catilinaria_.

[5] CIC., _ad Att._, I, 18, 3: _Exagitatus senatus, alienati equites
romani. Sic ille annus duo firmamenta rei publicae, per me unum
constituta, evertit._

[6] Che le pratiche e gli accordi pel primo triumvirato siano stati
conclusi dopo l’elezione consolare di Cesare non è soltanto affermato
da SUET., (_Caes._, 19 contro DIO CASS., 37, 54 e PLUT., _Caes._, 13;
_Pomp._, 47; _Crass._, 14; APP. _B. Civ._, 2, 9), ma è confermato dalla
precisa testimonianza di CICERONE, _ad Att._, 2, 3, 3. Cfr. G. FERRERO,
vol. I, pag. 435.

[7] Cfr. CAES., _B. G._, I, 31, 4 sgg. Tutta la prima parte della
campagna gallica di Cesare è raccontata in modo molto diverso
dalla tradizione: le ragioni di questi mutamenti sono state esposte
lungamente nell’Appendice D, pubblicata nel vol. II della traduzione
francese di G. FERRERO, _Grandeur et Décadence de Rome_, Paris, 1915.
Questa appendice manca nell’edizione italiana, nella quale il racconto
segue ancora la tradizione.



CAPITOLO SECONDO

L’ANNESSIONE DELLA GALLIA


9. =L’esilio di Cicerone (58 a. C.).= — Nei primi mesi del 58 Clodio
adempiè al suo impegno, anche oltre il desiderio dei triumviri. Non
solo fece approvare le leggi proposte; ma riuscì a mandare via di Roma
i due maggiori uomini che potevano dar ombra a Crasso, a Pompeo e a
Cesare: Catone e Cicerone. Al primo una sua legge impose di recarsi
ad occupare Cipro, sebbene godesse di un governo indipendente. E
Catone dovette, per quanto a malincuore, obbedire al comando del
popolo. A Cicerone toccò di peggio. Clodio voleva vendicarsi della
deposizione che Cicerone aveva fatta contro di lui nel famoso processo:
propose dunque sui primi del 58 una legge, con la quale si minacciava
l’_interdictio aqua et igni_ a chiunque condannasse o avesse condannato
a morte un cittadino romano senza appello al popolo. Era precisamente
il caso dei Catilinari e di Cicerone. Il grande oratore e i suoi amici
dapprima tentarono di commuovere il popolo, e sollecitarono Cesare,
Crasso e Pompeo ad intervenire. Ma il popolo non si mosse; Clodio
era popolarissimo; i tre capi del governo avevan troppo bisogno di
lui; onde colui che i senatori e Pompeo avevano chiamato _Padre della
Patria_, non aspettò nemmeno che la legge fosse approvata e ai primi di
marzo prese la via dell’esilio, salpando alla volta della Macedonia.
Appena Cicerone fu partito, Clodio si affrettò a far approvare la sua
legge e a far confermare con un’altra legge l’esilio del suo nemico,
relegandolo a 400 miglia da Roma, confiscandone i beni, distruggendone
le case e le ville.


10. =La campagna di Cesare contro gli Elvezi (58 a. C.).= — Frattanto
Cesare indugiava a Roma, invece di recarsi nella sua provincia, dove
pure parecchi mesi prima s’era detto che una grande guerra stava per
scoppiare; e non partì che a primavera, quando, sul finire di marzo,
anche gli Elvezi finalmente si mossero alla loro migrazione[8]. Se
veramente Cesare era persuaso che quelli fossero i nuovi Cimbri e i
nuovi Teutoni, occorre dire che egli fu di una singolare imprudenza;
perchè si lasciò sorprendere dal movimento elvetico con una sola
legione nella Provincia, mentre altre tre si trovavano acquartierate
ad Aquileia. Per fortuna, giunto che fu in gran fretta a Ginevra,
non ci trovò che un’ambasceria, la quale chiedeva umilmente di poter
attraversare la Provincia, per andare a stabilirsi nella Gallia. La
orda era così remissiva, che accondiscese senza difficoltà ad aspettare
alcuni giorni la risposta, quando Cesare di ciò la richiese; e mentre
Cesare faceva venire le altre tre legioni e fortificava i punti in cui
il Rodano era facile a passare tra il lago e il Giura, non cercò, in
quel non breve intervallo, di forzare il passo, come avrebbe potuto
senza soverchia difficoltà. Cosicchè il 13 di aprile, Cesare, ormai
sicuro di poter respingere un attacco, rifiutò loro il passaggio: e
allora i nuovi Cimbri e Teutoni non insistettero; e chiesero invece ai
Sequani il permesso di transitare pel loro territorio.

Roma non voleva che gli Elvezi si stabilissero in Gallia, temendo un
nuovo pericolo cimbrico; e il senato aveva ordinato al governatore
della Narbonese di difendere gli Edui, i quali avevano implorato
l’aiuto di Roma contro la nuova invasione. Cesare poteva dunque
considerarsi in obbligo di inseguire gli Elvezi nell’interno della
Gallia. Ritornò nella Cisalpina, arrolò due nuove legioni, passò il
Monginevra, scese a Grenoble e, volgendosi a settentrione, marciò
verso le frontiere della Provincia. La lentezza del supposto nemico,
che conduceva seco donne, fanciulli, masserizie e viveri per tre mesi,
aveva concesso al generale romano il tempo di compiere operazioni
così complicate. Per un momento, anzi, Cesare, oltrepassata verso il
principio di giugno la frontiera della Provincia, con circa 25.000
uomini, sperò di raggiungere gli Elvezi, mentre stavano passando la
Saona, sul punto di entrare, attraversato il territorio sequano,
nel territorio degli Edui. Ma per quanto egli si affrettasse, non
riuscì che ad annientare una piccola retroguardia, rimasta di qua dal
fiume. Passò allora con l’esercito il fiume, e si diede ad inseguire
il nemico: quand’ecco presentarglisi un’ambasceria di Elvezi, alla
cui testa era lo stesso loro capo, Divicone, una vecchia conoscenza
dei Romani, perchè tanti anni prima, giovanissimo, aveva preso parte
all’invasione dei Cimbri e dei Teutoni. Questa ambasceria dichiarò che
gli Elvezi non avevano alcuna intenzione di far la guerra a Roma; che
volevano solo stabilirsi in Gallia e con il consenso dei Romani.... Le
richieste non avrebbero potuto essere più discrete: ma chi le faceva
era un antico capo dell’orda cimbrica e Cesare non si fidò. Respinse
le proposte e ricominciò a seguire a qualche distanza gli Elvezi, che
avevano ripresa la marcia, senza tuttavia subito attaccarli, parte
perchè aspettava una buona occasione, parte perchè i suoi movimenti
erano di continuo intralciati dalla mancanza di vettovaglie. A queste
si erano incaricati di provvedere gli Edui: ma troppo spesso al loro
impegno mancavano, allegando ora un pretesto ora un altro. Cesare volle
alla fine mettere le cose in chiaro; fece un’inchiesta; e allora,
per la prima volta, si accorse che inseguendo gli Elvezi era venuto
a cacciarsi nel tremendo ginepraio delle discordie galliche. Se il
governo eduo gli aveva chiesto aiuto contro gli Elvezi, c’era tra gli
Edui un partito — e potentissimo — che considerava gli Elvezi come
amici. Anche tra gli Edui, come presso quasi tutti i popoli gallici, la
vecchia nobiltà, che fin allora aveva tenuto il potere, impoveriva e si
indebitava; arricchiva invece e predominava una piccola plutocrazia,
che accaparrava terre e capitali, monopolizzava la riscossione delle
imposte, esercitava con grande profitto l’usura, e, appoggiandosi
sulla plebe, ch’essa si studiava di favorire e accarezzare, lottava per
spodestare la vecchia aristocrazia, instaurando dei governi personali,
non dissimili da quello, che Cesare, Crasso e Pompeo avevano costituito
in Roma. Questo partito aveva sollecitato gli Elvezi a venire in
Gallia, perchè sperava di servirsene come di una milizia, sia per
scacciare Ariovisto, sia per consolidare il suo potere; ed ora cercava
di favorirli, tagliando i viveri ai Romani.

Entrato in Gallia come un liberatore, Cesare s’accorgeva ad un tratto
che una parte di coloro che egli voleva liberare, erano amici del
nemico e se la intendevano segretamente con lui ai danni del presunto
salvatore. Egli fu così preoccupato di questa strana posizione, che
deliberò di ritornare indietro, per provvedere meglio al proprio
vettovagliamento. Ma allora gli Elvezi attaccarono d’improvviso i
Romani. Lo scontro fu lungo e difficile; e Cesare potè disimpegnare
il grosso delle sue legioni solo a costo di perdite gravi. Cosicchè,
mentre il tanto inseguito nemico poteva tranquillamente proseguire
verso il nord, egli era obbligato a restare tre giorni sul posto
per seppellire i morti e rimediare a tutto lo scompiglio arrecato da
quell’attacco improvviso. Quel che sarebbe successo se Divicone lo
avesse assalito di nuovo il giorno dopo, è difficile dire: ma gli
Elvezi non volevano la guerra a oltranza con Roma; e stanchi della
lunga marcia, impressionati dalle difficoltà dell’emigrazione e dalla
ostilità dei paesi che attraversavano, forse anche atterriti dalle loro
stesse vittorie e dalle prevedute vendette di Roma, offersero novamente
pace. E l’ottennero a condizioni che mostrano quanto poco Cesare
sentisse d’averli vinti. Quelli che vollero tornarono nel loro antico
territorio, ma ottenendo da Cesare il _titolo di alleati del popolo
romano_: quelli che vollero restare in Gallia, ebbero territori dagli
Edui (58 a. C.).


11. =La guerra contro Ariovisto (58 a. C.).= — La prima impresa di
Cesare in Gallia era finita senza una grande vittoria e per di più
aveva alienato da Roma il partito nazionale e le moltitudini. Il solo a
cui la guerra di Roma contro gli Elvezi giovava era appunto Ariovisto.
Cesare non tardò ad accorgersene nell’assemblea generale dei Galli,
che venne spontaneamente a radunarsi dopo la pace con gli Elvezi; e
nella quale le città galliche gli domandarono di liberare la Gallia
da Ariovisto. Egli era venuto come un liberatore: quello, non gli
Elvezi, era il nemico della Gallia[9]. Cesare capì che il prestigio
suo e di Roma era finito, se egli non faceva e subito la guerra contro
Ariovisto e non liberava la Gallia dal pericolo germanico. Ma il re
degli Svevi, non era solo un nemico forte; era anche stato dichiarato
dal senato, l’anno prima, «amico ed alleato del popolo romano». Mancava
dunque la ragione legale della guerra: il che accresceva per Cesare
il pericolo di farla, nel caso che fosse vinto. Tuttavia l’impegno era
tale, che Cesare non esitò; e subito prese a cercare un _casus belli_.
Intimò dunque ad Ariovisto di non condurre altri Germani in Gallia,
di restituire agli Edui gli ostaggi, di smettere da ogni molestia o
atto di guerra contro questo popolo ed i suoi alleati: cercò insomma
di trovare il pretesto di un litigio con Ariovisto nell’incarico di
difendere gli Edui, che il senato gli aveva commesso. Ma Ariovisto
rispose — e non senza acutezza — che il senato, dichiarandolo amico
e alleato, aveva riconosciuto tutte le conquiste da lui fatte in
Gallia. Cesare allora dichiarò la guerra e marciò alla volta del
Reno. La battaglia fra le legioni e le schiere di Ariovisto ebbe luogo
nell’Alsazia superiore, forse non lungi da Mülhouse. Ma questa volta,
l’esercito romano ebbe interamente ragione di un nemico, che la voce
pubblica diceva feroce e crudele. I Germani furono gettati al di là del
Reno, e lo stesso Ariovisto potè a mala pena scampare alla morte con la
fuga (settembre 58).


12. =Il richiamo di Cicerone e la prima crisi della triarchia.= — La
dominazione germanica in Gallia era caduta per secoli; la Gallia era
restituita a se stessa. Cesare aveva questa volta riportato una vera e
grande vittoria, i cui effetti durerebbero nei secoli. Ma il giudizio
dei contemporanei sugli eventi è spesso fallace; e Roma si accorse
appena di questa vittoria, che apriva alla lingua e allo spirito latino
una delle terre privilegiate dell’Europa. Roma era tutta intenta a ben
altra faccenda: l’ingiusto bando di Cicerone. Esiliando Cicerone per
la condanna dei congiurati, Clodio aveva abusato della sua potenza.
Passato il primo spavento, la pubblica opinione si era riavuta. Quanti
non erano contenti, specie in senato, del governo della triarchia,
avevano visto subito nella prepotenza di Clodio un’arma per nuocere a
Crasso, a Pompeo e a Cesare; e quindi non avevano risparmiato fatiche
per commuovere il pubblico a favore di Cicerone: il pubblico, che
amava e ammirava Cicerone, si era a poco a poco appassionato: persin
dei _collegia_ di artigiani e dei municipi d’Italia avevano chiesto
il richiamo. In breve, mentre Cesare combatteva Ariovisto, Roma
dimenticava ogni altra cosa, non pensava che a Cicerone e al modo di
rendergli giustizia. Pompeo stesso che, come Cesare del resto, aveva
subìto, più che voluto, questa vendetta del tribuno, non aveva tardato,
per non contrariare troppo il pubblico, a dichiararsi favorevole al
ritorno del grande uomo. Senonchè Clodio, che dell’esilio di Cicerone
aveva fatto un impegno personale, non aveva esitato a rivoltarsi
perfino contro Pompeo, attaccando la sua politica in Oriente, andando
alla testa di bande armate a disturbare i comizi pubblici, agitando
Roma con continue dimostrazioni e tumulti, e cercando di imporsi
alla viltà universale con il terrore. Gli avversari, esasperati, si
intestarono ancor di più a volere a Roma a tutti i costi Cicerone;
le elezioni, fatte sulla disputata questione, furono favorevoli alla
nobiltà, anche perchè Pompeo si era accostato al partito senatorio. La
causa di Cicerone procedeva dunque a gonfie vele; e già i consoli e
i tribuni si preparavano a presentare una legge per il suo richiamo.
Ma Clodio non era uomo da dichiararsi vinto così facilmente e, anche
scaduto da tribuno, tentò impedire con la forza l’approvazione della
legge. Roma era piena di tumulti e di risse.


13. =La guerra contro i Belgi (57 a. C.).= — Insomma, le cose volgevano
piuttosto male a Roma per Cesare. Roma non badava a quel che Cesare
faceva in Gallia, e il governo personale dei tre potenti vacillava,
dopo un anno, per la discordia nata dalla questione del richiamo di
Cicerone tra Pompeo e Clodio. Il congegno elettorale, con cui egli si
era immaginato di dominare la repubblica, stava per spezzarsi. Era
doppiamente necessario per Cesare di compiere, l’anno prossimo, in
Gallia, qualche impresa anche maggiore. Avendo appreso nell’inverno
dal 58 al 57 che la Gallia settentrionale, il potente paese dei Belgi
e la parte occidentale della Gallia del Nord, l’Armorica, ossia tutte
le popolazioni gallo-germaniche, stendentisi tra il Reno, la Schelda,
l’Atlantico e la Senna, si agitavano, inquiete per la presenza delle
legioni romane, svernanti in Gallia, deliberò di andare incontro nella
prossima primavera al pericolo, interpretando anche egli l’incarico
avuto dal senato così largamente, come aveva fatto Lucullo nell’ultima
guerra mitridatica.

Era una impresa difficile quella a cui Cesare si accingeva.
Cinquant’anni prima, la Belgica aveva resistito strenuamente a quei
Teutoni e Cimbri, che più volte avevano sconfitto gli eserciti romani.
Si diceva che potesse mettere in campo 350.000 guerrieri; ed era paese
ignoto. Nè c’era da far molto assegnamento sulla fresca amicizia dei
Galli del centro. Cesare arrolò due nuove legioni e molti arcieri
e frombolieri in Asia, a Creta, nelle Baleari; persuase gli Edui a
invadere il paese dei Bellovaci, il più forte dei popoli Belgi; ed
andò ad aspettare l’orda belga che si avanzava, sull’Aisne, dove si
trincerò. I Belgi arrivarono e si trincerarono alla loro volta: i due
eserciti stettero parecchi giorni a guardarsi, ciascuno aspettando
che l’altro l’attaccasse; ma nessuno dei due volle fare il giuoco
dell’avversario, e alla fine un giorno, dopo poche scaramucce,
l’esercito belga si ritirò. La meraviglia di Cesare fu così grande,
che a tutta prima dubitò di un inganno. Solo più tardi egli seppe che
i Bellovaci, preoccupati della invasione degli Edui, avevano voluto
ritirarsi a difendere il proprio paese. Quella defezione, l’imperfetto
servizio delle sussistenze, il timore della potenza romana avevano
sciolto la lega. La fortuna aveva dunque mirabilmente servito Cesare;
il quale comprese che quello era proprio il momento di dar addosso al
nemico sparpagliato e di domare una ad una quelle tribù valorose, ma
volubili. Fu questa la seconda e più fortunata fase della sua guerra
belgica. Uno dopo l’altro i _Suessioni_, i _Bellovaci_, gli _Ambiani_,
gli _Aduatici_, perfino i terribili _Nervii_, i più bellicosi fra i
Belgi, furono per amore o per forza assoggettati (57 a. C.).


14. =L’annessione della Gallia (56 a. C.).= — Senonchè mentre Cesare
combatteva con fortuna in Gallia, le cose precipitavano a Roma.
Cicerone era finalmente ritornato, accolto in tutta l’Italia da
entusiastiche dimostrazioni; ma solo dopo che Pompeo aveva trovato
un tribuno della plebe, Tito Annio Milone, il quale aveva raccolto
una banda di gladiatori e di bravi, e con quella, tra tumulti,
zuffe e sangue, fatta approvare, il 4 agosto del 57, la legge che lo
richiamava. Ma Clodio non si era dato per vinto: aveva annunziato la
sua candidatura alla edilità per l’anno prossimo; aveva tentato di
sollevare il popolo contro Pompeo, spargendo la voce che questi faceva
la carestia per essere creato re di Roma; cercava d’impedire, per mezzo
di tribuni amici, che si ripagasse a Cicerone la casa distruttagli; e
infine nelle elezioni per il 56 aveva portato l’inatteso soccorso delle
sue bande elettorali ai candidati del partito senatorio, avversi alla
triarchia, facendo loro conquistare tutti i posti di pretore e i due
consolati. Come se tanti guai non bastassero, la questione dell’Egitto
era inopinatamente risorta. Tolomeo Aulete, che Cesare aveva
ufficialmente fatto riconoscere re d’Egitto, era stato scacciato da una
rivoluzione ed era in quel tempo tornato a richiedere la protezione
della repubblica. Ma troppi erano quelli che ambivano l’incarico di
restituirlo sul trono: primo fra essi Pompeo. Invece il senato, al
solito, non ne voleva sapere, e la sua opposizione era apertamente
o nascostamente aiutata da Clodio, e, pare, anche da Crasso. Insomma
quel governo personale e di clientela, che doveva sostituire il senato
invecchiato e impotente, si sfasciava appena formato; e verso la
metà del 57, potè sembrare ormai spacciato. Clodio, per vendetta, era
passato interamente al partito senatorio e già aveva tentato di far
abrogare le leggi del 59. Fu allora che la mente vasta e ardita di
Cesare concepì un’idea grandiosa, che doveva aver nella storia effetti
immensi, oggi ancora vivi e profondi. Le vittorie sui Belgi avevano
commosso Roma profondamente. Secondo dirà poco di poi Cicerone, fino
a quel momento i generali della repubblica, Mario compreso, erano
stati paghi di respingere i Galli: Cesare invece era entrato nel loro
paese. Che cosa dunque si sarebbe pensato se Cesare ora, d’un colpo,
avesse annunziato a Roma che la Gallia Transalpina poteva considerarsi
soggetta a Roma tal quale come le Spagne, la Macedonia, la Siria?

Fu questa l’idea che egli venne maturando dopo le vittorie sui Belgi.
Per porla ad effetto, spedì il suo luogotenente P. Crasso, con una
legione, nella Gallia occidentale a ricevere _pro forma_ l’atto
di sommissione delle tribù sparse tra le foci della Loira e della
Senna; e un altro suo luogotenente, Sulpicio Galba, con una legione,
nell’alto Vallese, presso il Gran San Bernardo. Dopo di che tornò
rapidamente nella Cisalpina, annunziando al senato ch’esso poteva
deliberare l’annessione della Transalpina ed inviare, come di regola,
i dieci commissari, che avrebbero dovuto organizzare, insieme con il
proconsole, la nuova provincia. Era questa un’audacia quale nessun
altro generale romano aveva ancora osato: affermare che due guerre e
due anni erano bastati a conquistare un paese così vasto e del quale
tante parti non avevano ancora visto l’elmo d’un legionario o la
toga di un magistrato romano. La temeraria affermazione scatenerebbe
nella Gallia un uragano di guerre, assai più tremende di quelle che
Cesare aveva fin allora sostenute: ma l’impegno solenne, al quale
Cesare incatenava la Repubblica, costringerebbe questa, e il suo
audace generale, a compiere una conquista, che distraendo Roma dai
facili successi orientali, avrebbe spostato l’asse della civiltà verso
Occidente.


15. =Il convegno di Lucca e il consolato di Crasso e di Pompeo (56-55
a. C.).= — All’annunzio l’Italia tutta andò in delirio per la gioia.
Roma aveva avuto per tanti secoli tanta paura dei Galli, che nessuna
conquista poteva sembrargli più meravigliosa di questa o rallegrarla
maggiormente. Il popolo deliberò di inviare a Cesare una deputazione
di senatori per felicitarlo della vittoria; il senato, cedendo
all’opinione pubblica, decretò una supplicazione di quindici giorni,
la più lunga ordinata fino ad allora; molti avversari dell’anno innanzi
si convertivano all’ammirazione. Cesare diventò l’idolo del pubblico; e
di questo fugace favore approfittò per ricostituire il governo del 59:
urgente bisogno, perchè dopo Cicerone anche Catone ritornava da Cipro.
Convocò dunque Crasso e Pompeo a Lucca, dove i suoi amici giunsero,
seguiti da una vera corte di senatori, ed espose loro un vasto piano,
con il quale avrebbero salvato la comune potenza, ormai pericolante
sotto i colpi della ringagliardita opposizione. Crasso riconcilierebbe
Clodio con Pompeo; ed ambedue si proporrebbero candidati al consolato
per l’anno 55: durante il consolato essi farebbero prolungare a lui,
per altri cinque anni, il comando della Gallia e assegnargli i fondi
per pagare le legioni che aveva reclutate, oltre quelle assegnategli
dal senato, dopo il principio della guerra: egli conquisterebbe in
quei cinque anni la Britannia e porterebbe le legioni oltre il Reno;
Crasso, dopo il consolato, avrebbe avuto la provincia della Siria
e compiuto la conquista della Persia; quanto all’Egitto, ambedue
ne deporrebbero l’idea, ma si incaricherebbe Gabinio di ricondurre,
senza autorizzazione del senato, Tolomeo nell’Egitto, a condizione che
pagasse a ciascuno di loro una somma considerevole. Sembra che la somma
chiesta da Cesare fosse di 17 milioni e mezzo di sesterzi. In cambio,
Pompeo avrebbe, dopo il consolato, per cinque anni, le due Spagne.

Non sappiamo quali discussioni ebbero luogo tra Crasso, Pompeo e
Cesare; ma sappiamo che essi si misero d’accordo e che quella specie
di rivoluzione politica, adombrata da Cesare nell’anno del consolato,
sembrò acquistare forma e corpo di saldo governo. Tre clientele e tre
capi potentissimi governerebbero d’accordo, in luogo del senato, la
repubblica; e invece di temporeggiare con prudenza, come il senato
faceva, conquisterebbero tutto ciò che potevano: dopo la Gallia, la
Britannia e la Persia. E per un istante la repubblica sembrò davvero,
per effetto del rinnovato accordo, riordinarsi ed agire. Nessuno
pensò più ad abrogare la legge agraria di Cesare; Cicerone rispose
trionfalmente, in senato, con la sua storica orazione _de provinciis
consularibus_, a coloro che, poichè la Gallia era conquistata,
avrebbero voluto scorciare e ridurre i poteri proconsolari di Cesare;
la proposta di ordinare la Gallia Transalpina in provincia e di
inviare all’uopo i dieci legati senatorî fu approvata[10]. I popoli
della Gallia con cui Roma aveva trattato di alleanza, come gli Edui
e i Sequani, i popoli più ricchi e civili del centro, conservarono la
indipendenza con il titolo di alleati; mentre le barbare popolazioni
del settentrione e dell’occidente furono sottomesse al dominio romano.
Per impedire infine che i consoli in carica si valessero dei loro
poteri per fare ostruzione alle candidature di Pompeo e di Crasso,
si trovò modo di rimandare le elezioni sino ai primi giorni del
55, e di farle sotto la presidenza di un _interrex_ amico. Crasso e
Pompeo furono eletti; e, appena eletti, brigarono affinchè anche la
maggioranza delle restanti magistrature fosse occupata dai loro amici.
Così M. Porcio Catone non fu eletto pretore e riuscì in suo luogo P.
Vatinio, l’autore della legge che nel 59 aveva conferito a Cesare il
governo delle Gallie. A tenore delle leggi vigenti, il senato aveva già
in anticipazione decretato che ai consoli dell’anno toccassero, per il
54, rispettivamente, la Siria e la Spagna ulteriore. Ma i due consoli
provvidero subito anche a questo: un tribuno, C. Trebonio, propose
che il duplice proconsolato fosse invece quinquennale, e che non solo
la Spagna ulteriore, ma le due Spagne, ulteriore e citeriore, fossero
affidate a Pompeo. Approvata questa, i due consoli fecero approvare
un’altra legge che prorogava di cinque anni a Cesare il comando delle
Gallie e dell’Illiria. Restavano le difficoltà egizie.... Se non che
ad un tratto si apprese a Roma che Tolomeo era stato ricondotto in
Egitto; che sua figlia Berenice, la quale aveva in sua assenza usurpato
il trono, era stata uccisa; che il nodo egiziano era stato tagliato, e
tutto ciò per opera del governatore della Siria, A. Gabinio. Gabinio
aveva agito, senza aspettare gli ordini del senato, per incarico di
Pompeo.


NOTE AL CAPITOLO SECONDO.

[8] Sul numero degli Elvezi, cfr. G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di
Roma_, Milano, 1902, vol. II, p. 3.

[9] Sull’interpretazione della complicata questione gallica in questo
tempo, cfr. G. FERRERO, _Grandeur et Decadence de Rome_, vol. II, App.
D; IDEM, _Le premier livre des Commentaires et les critiques de M. T.
Rice Holmes_, in _The Classical Quarterly_, 1910, pp. 28 sgg.

[10] La Gallia Transalpina fu veramente eretta a provincia nel 56 a.
C. Cfr. CIC., _De prov. cons._, 12, 29; 13, 32-33; 14, 34; CIC., _ad
fam._, I, 7, 10; DIO CASS., 39, 25, 1; G. FERRERO, in _Revue arch._,
1910 (15), pp. 93 sgg. e, per una più ampia informazione C. BARBAGALLO,
_L’opera storica di G. Ferrero e i suoi critici_, Milano, Treves, 1911,
pp. 197-209.



CAPITOLO TERZO

LA CRISI DELLA POLITICA CESARIANA


16. =L’impresa di Britannia e la disfatta di Crasso in Oriente (55-53
a. C.).= — Ma le cose, per un istante composte, non tardarono a
guastarsi di nuovo. Mentre Pompeo e Crasso portavano ad effetto in Roma
gli accordi del congresso di Lucca, la Gallia incominciava a dimostrare
che era stata annessa a parole, non conquistata con il braccio. Già
nel 56 Cesare aveva dovuto guerreggiare parecchi mesi per reprimere
una insurrezione degli Armorici e dei Veneti. Era riuscito a domarli;
e aveva fatto gran bottino, incominciando il saccheggio delle Gallie.
Aveva anzi preparato per il 55 l’invasione della Britannia.... Ma al
momento di muoversi, era stato trattenuto da un’invasione germanica,
che irrompeva in Gallia, non più paventata e maledetta, ma sollecitata
dagli indigeni, come l’avanguardia di un esercito liberatore. Erano
queste le orde degli Usipeti e dei Tencteri. Con la rapidità consueta
Cesare mosse contro gli invasori, intimando loro di ripassare il Reno;
con uno strattagemma poco leale, fece prigionieri i loro capi venuti
a lui in ambasceria, e condusse le sue legioni contro l’esercito
germanico rimasto senza duci. La sconfitta, che egli inflisse alle
orde, fu grave; e fu seguita da una sua breve incursione al di là del
Reno: ma questa guerra gli aveva fatto perdere troppo tempo perchè
Cesare potesse ancora, in quell’anno, tentare la divisata invasione
della Britannia. Si contentò dunque di fare nell’isola un rapido sbarco
con due legioni, e rimandò l’impresa all’anno seguente.

L’anno seguente, il 54, Roma tenterebbe dunque di conquistare in Asia
niente meno che l’impero dei Parti; in Europa, la grande isola che un
breve braccio di mare separava dalle coste della Gallia. Come il Ponto
e come l’Armenia, il regno di Parzia era sorto, fin dalla metà del III
secolo a. C., dal disfacimento del grande regno Seleucida. Ma forse
per la lontananza, sino a questo momento Roma e l’impero dei Parti non
erano stati nè amici nè nemici. Indifferente spettatore della prima
guerra mitridatica, l’impero dei Parti aveva accennato, durante la
seconda, ad allearsi con il Ponto e l’Armenia contro Roma, ma aveva
poi desistito; e, quando Pompeo aveva sostituito Lucullo, si era messo
da prima dalla parte di Roma, aiutandolo a conquistare l’Armenia; poi
aveva accennato a rivoltarsi, attaccando l’Armenia cliente e vassalla
di Roma; ma di nuovo aveva desistito. A sua volta Roma aveva ondeggiato
tra opposti propositi: Lucullo aveva pensato a conquistare anche il
regno dei Parti, ma era stato fermato dai soldati in rivolta; Pompeo si
era prima inteso con i Parti, poi, ad un certo momento, aveva anch’egli
inclinato alla guerra; finalmente si era deciso per l’amicizia. Dopo
il ritorno di Pompeo in Italia l’incertezza aveva perdurato. C’era un
partito che voleva vivere in pace con i Parti; ed era forte assai in
senato[11]. C’era un partito, che voleva far loro la guerra rinnovando
le gesta di Alessandro; e contava i suoi campioni più ardenti tra gli
ufficiali, che avevano accompagnato Lucullo e Pompeo in Oriente, e tra
gli amici di Crasso, di Pompeo e di Cesare. Il convegno di Lucca aveva
deliberato di dar soddisfazione alla parte che voleva la conquista; e
Crasso s’era assunto la difficile impresa. Il suo disegno era, anzi,
forse più vasto: ricalcare le orme di Alessandro, penetrare nell’Iran
e portare le aquile romane fin sulle rive sacre dell’Indo. Partito da
Roma sul finire del 55, egli aveva imbarcate a Brindisi nove legioni di
3500 uomini l’una, più 5000 cavalieri e 4000 ausiliari; in tutto 40.000
uomini; era sbarcato a Durazzo e per la via Egnazia aveva attraversato
nell’inverno l’Epiro, la Macedonia, la Tracia; passato il Bosforo,
era entrato, nella primavera del 54, nella Siria settentrionale, aveva
rilevato Gabinio dal suo comando; poi, fatti gli ultimi preparativi,
aveva invaso, durante l’estate del 54, la Mesopotamia indifesa e
occupato parecchie città; allora si era fermato. Egli voleva — e
il piano era ingegnoso — attrarre il nemico in Mesopotamia, per non
essere attaccato troppo lontano dalle sue basi di operazione. Frattanto
Cesare aveva, nell’estate del 54, invasa la Britannia con una grossa
armata e cinque legioni; ma, pur essendo riuscito ad internarsi nel
paese al di là del Tamigi, e a vincere l’esercito nemico, presto tornò
sul continente, pago solo della vana promessa di un tributo annuo. Le
cose pericolavano troppo in Gallia, perchè egli potesse impegnarsi sul
serio a conquistare la Britannia. I Carnuti, i Senoni, gli Aduatici,
i Treviri, erano o in aperta rivolta o irrequietissimi; cosicchè gli
fu forza non solo rinunciare a passar l’inverno, dal 54 al 53, nella
Cisalpina, ma passarlo in Gallia, combattendo e battagliando, come
poteva, nella stagione cattiva: per ricominciare poi con maggior
vigore alla primavera del 53, nel tempo stesso in cui Romani e Parti
ripigliavano le armi in Oriente.

Qui la mossa di Crasso parve da prima riuscire. Nella primavera del
53 le guarnigioni romane, lasciate in Mesopotamia, erano assediate
dai Parti. I Parti venivano dunque a tiro.... Ma in verità il re dei
Parti aveva mandato quasi tutta la cavalleria, leggiera e pesante,
sotto il comando del Surena o generalissimo nella Mesopotamia, mirando
anch’esso ad attirare i Romani più lungi che potesse dalle loro basi di
operazioni. I due avversari impiegavano adunque lo stesso strattagemma:
ma i Parti in un terreno ad essi meglio noto e con un esercito più
addestrato a quel modo di combattere. Per maggior disgrazia, Crasso si
persuase troppo facilmente di avere ingannato il nemico; e subito varcò
l’Eufrate, per correre al soccorso delle città assediate. Ma il nemico,
appena i Romani ebbero varcato l’Eufrate, levò subito l’assedio, e,
come preso da panico, si ritirò precipitosamente verso l’interno.

Questa ritirata mise in sospetto molti tra gli ufficiali di Crasso, i
quali consigliarono di fermarsi e di vedere più chiaro nelle intenzioni
del nemico. Ma Crasso cadde invece nel tranello; e credendo quello il
mezzo di finire presto la guerra, si slanciò alle calcagna dei Parti.
Per giorni e giorni li inseguì nel deserto, senza raggiungerli: ogni
passo avanti acuiva la smania di agguantare a ogni costo il fuggente
avversario; ma ogni giorno pure cresceva la stanchezza e l’inquietudine
dell’esercito.... Quando, un giorno, appena passata la città di
Carre, mentre i Romani erano per toccare le rive del Belik, i Parti,
fermatisi ad un tratto e voltatisi, offrirono battaglia. L’ora tanto
aspettata era giunta, ma sorprendeva l’esercito romano stanchissimo.
Gli ufficiali volevano rimandare la battaglia e aspettare; ma Crasso,
sempre pauroso che il nemico gli sfuggisse, ordinò di attaccare. Fu
uno strano combattimento, di un genere a cui l’esercito romano non era
adusato. La cavalleria pesante dei Parti attaccava con impeto le coorti
romane, eludendo con le sue manovre qualunque contrattacco, mentre
gli arcieri e i frombolieri a cavallo riversavano incessantemente
sul nemico una grandine di proiettili. Questi ripetuti assalti non
riuscirono a romper le legioni romane, ma inflissero loro molte
perdite; cosicchè, alla sera, Crasso dovette dare l’ordine della
ritirata. Ma l’esercito era scoraggiato, pervaso di strani terrori,
e il mobile nemico non gli dava tregua. Rapidamente la disciplina si
rallentò, i corpi incominciarono a sbandarsi e la ritirata a volgersi
in fuga; finchè un giorno i soldati, sobillati da emissari del Surena,
che prometteva loro di lasciarli ritornare tranquilli in patria, se
acconsentivano a trattar la pace, costrinsero Crasso a recarsi al
colloquio. Crasso diffidava del tranello; ma preferendo perire per mano
nemica che trucidato dai propri soldati, si recò al fatale invito,
e fu ucciso il 9 giugno del 53. Il capo fu inviato alla Corte del re
dei Parti; e le ossa non ebbero sepoltura. Dei soldati una parte si
disperse, o fu fatta prigioniera.


17. =L’anarchia a Roma (54-53 a. C.).= — Era una sciagura pari alle
maggiori sofferte nei secoli dalle armi romane. E la notizia giunse a
Roma nel mese di luglio, quando solo da poco tempo, dopo sette mesi
di interregno, si era riusciti a eleggere i magistrati per l’anno
stesso, che, secondo le leggi, avrebbero dovuto essere eletti verso la
metà dell’anno precedente. Come era accaduto un così grande ritardo?
Il governo personale di Crasso, di Pompeo e di Cesare aveva di nuovo,
come nel 58, sebbene per altra via, generato l’anarchia. Soltanto il
senato, con la sua autorità, poteva ancora infrenare un poco e tenere
a segno le ambizioni che scendevano ogni anno a misurarsi nell’agone
elettorale. Che pandemonio erano diventate le elezioni, dopochè il
senato era stato esautorato! In quell’anno, poi, le candidature erano
state così numerose; tanti gli intrighi, le violenze, le corruzioni, le
mine e le contromine dei candidati e i loro accorgimenti d’ostruzione,
che non si era potuto eleggere nessun magistrato. Pompeo, che invece di
andare in Spagna era rimasto nei pressi della città, molle e irresoluto
come al solito, non aveva fatto nulla. Questi scandali avevano non poco
nociuto al governo e ai suoi capi, a Cesare soprattutto, che era il
più discusso e il più bersagliato. La rovina di Crasso non poteva non
accrescere questo malessere. Avevano dunque ragione Catone e i suoi
amici, che si erano sempre opposti alla spedizione e all’avventurosa
politica di tre troppo potenti capi della Repubblica! Peggio ancora
fu, quando le elezioni per l’anno 52 scatenarono di nuovo l’anarchia.
Erano candidati al consolato Milone, Publio Plauzio Ipseo e Quinto
Cecilio Metello Scipione, figlio adottivo di Metello Pio; alla pretura
l’immancabile Clodio; alla questura un ufficiale di Cesare venuto
apposta dalla Gallia, Marco Antonio. La gara delle ambizioni infuriò
di nuovo; Pompeo abbandonò Milone; Clodio per far dispetto a costui
sosteneva gli altri due candidati; e i candidati partigiani degli uni e
degli altri incominciarono a battagliare per le vie. Invano i consoli
tentarono a più riprese di tener i comizi; alla fine il Senato, non
Intendo altro, deliberò di proporre al popolo una legge, per la quale
un magistrato non avrebbe potuto ottenere una provincia, se non cinque
anni dopo esercitata la magistratura. Si sperava di chetare così un
poco la furibonda concorrenza alle magistrature. Ma intanto si giunse
alla fine dell’anno senza aver nominato i magistrati e non si potè
nemmeno nominare l’_interrex_, perchè un tribuno si oppose. Quando,
al principio del 52, e proprio il 18 gennaio, Clodio, tornando con il
suo seguito da Bovillae, si incontrò sulla via Appia con Milone che,
accompagnato dal suo seguito, andava a Lanuvio. Le due parti vennero
alle mani, e Clodio fu ammazzato. Questa violenza bastò per scatenare
la rivoluzione. Il popolino di Roma, eccitato dai clienti di Clodio,
dopo averne celebrato i funerali con una pompa quasi selvaggia, appiccò
le fiamme del rogo, nel quale il corpo del suo idolo era scomparso,
alla curia stessa del senato. L’incendio si propagò alla basilica
Porzia, e di qui ai maggiori e più venerati monumenti romani: Roma
fu per giorni e giorni piena di tumulti, di incendi, di risse, di
dimostrazioni, di grida....


18. =La grande rivolta della Gallia (53-52 a. C.).= — Roma non era
proprio la città in cui i governi personali potessero troppo facilmente
imporsi, dopo tanti secoli di governo aristocratico. Di nuovo il
sistema politico, immaginato da Cesare, si dissolveva. Perciò appunto,
sulla fine del 53, Cesare aveva lasciata la Gallia Transalpina e si
era avvicinato all’Italia, comprendendo che era necessario aiutar
Pompeo e la sua fazione a rimettere un po’ d’ordine nella turbata
repubblica. Ma Cesare aveva appena vôlto le spalle alla Transalpina,
ancora irrequieta, che i corrieri delle Gallie lo raggiunsero.
L’incendio riardeva: i Carnuti avevano trucidato i mercanti italiani
ed erano insorti di nuovo; gli Arverni avevano rovesciato il governo
amico di Roma, e condotti da un giovane principe, già amico di
Cesare, Vercingetorige, avevano innalzato la bandiera della rivolta;
i Senoni, i Parisii, i Pictoni, i Cadurchi, i Turoni, gli Aulerci, i
Lemovici, gli Andi e tutti i popoli abitanti sulle rive dell’Oceano
si erano sollevati, riconoscendo Vercingetorige come capo; i Sequani
tentennavano; gli Edui, rimasti fedeli, stavano per esser chiusi, e
le legioni romane con essi, come in un cerchio di ferro; un esercito
già si avviava verso la Gallia Narbonese, mentre un altro invadeva il
territorio dei Biturigi, tributari degli Edui. Cesare non esitò un
istante: abbandonò l’Italia, Roma e Pompeo al loro destino: e volò
nella Narbonese. Rinforzò alla meno peggio la difesa; poi con poche
coorti, in pieno inverno, valicando le Cevenne coperte di neve, si
gettò sull’Arvernia, volendo far credere al nemico che invadeva con
grandi forze tutto il paese. Infatti Vercingetorige, ingannato da
questo attacco, accorse con l’esercito in difesa della sua patria
assalita. Allora Cesare, ripassate le Cevenne e ritornato nella
Provincia, con un piccolo corpo di cavalleria che vi aveva lasciato,
cavalcando notte e giorno, mentre gli insorti lo credevano tra gli
Arverni, potè arrivare inaspettato nel paese dei Lingoni, mettersi
a capo delle due legioni che vi stanziavano, ordinare che le altre
legioni, sparse per la Gallia, si raccogliessero ad _Agendicum_
(_Sens_). Così, in pochi giorni, si ritrovò a capo del suo esercito:
35.000 uomini di fanteria, più gli ausiliari gallici e qualche
contingente di cavalleria. Erano queste tutte le forze, di cui poteva
disporre; e non erano molte: ma non c’era da esitare.... L’audacia sola
poteva salvarlo. Difatti, con un sì esiguo esercito, in mezzo ad un
paese in fiamme, Cesare prese una risoluta offensiva. In pochi giorni
attaccò e prese _Vellaunodunum_, incendiò _Genabum_ (Orléans), passò la
Loira, entrò nel paese dei Biturigi, assediò _Noviodunum_.

Vercingetorige, che non era riuscito a fermarlo, immaginò allora un
piano di guerra, che, applicato senza pietà, avrebbe potuto riuscire
rovinoso ai Romani; fare il vuoto intorno al nemico devastando i
paesi; molestarlo e affamarlo ogni giorno con assalti improvvisi
di cavalleria, con catture di convogli e di rifornimenti. Senonchè,
appena fu messo mano ad eseguire il piano, i Biturigi scongiurarono
l’implacabile eroe delle libertà galliche di risparmiare la loro
capitale Avarico, la futura Bourges, ch’essi s’impegnavano a difendere
fino all’estremo. Vercingetorige ebbe la debolezza di cedere; cosicchè
Cesare, invece di smarrirsi nel vuoto, correndo nel deserto dietro un
nemico inafferrabile, ebbe un punto saldo su cui dirigersi e colpire:
Avarico. Vercingetorige non osò soccorrerla; i Biturigi avevano troppo
presunto delle loro forze; Cesare con un vigoroso assedio di poche
settimane la prese, trucidò tutta la popolazione, e si impadronì di
tutte le provvigioni accumulate nella città.

Questa vittoria non permetteva soltanto a Cesare di riposare e
rifornire l’esercito nella ricca e ben provvista città; ma rialzava
il prestigio delle armi romane e scoraggiava gli insorti. Non aveva
Cesare distrutto Avarico, sotto gli occhi di Vercingetorige, senza
che costui osasse soccorrerla? Non era manifesto che Cesare era
il più forte? Cesare dovette illudersi addirittura d’aver vinto la
guerra, se si indusse a dividere le forze. Quattro delle sue dieci
legioni andrebbero, agli ordini di Labieno, contro i Sequani e i
Parisii, che da poco avevano ingrossato le file dell’insurrezione,
mentre egli stesso con sei legioni colpirebbe l’insurrezione al cuore,
attaccando il territorio degli Arverni e obbligando Vercingetorige ad
accettare la battaglia, che terminerebbe la guerra. E così fece. Invano
Vercingetorige tentò d’impedirgli di varcare l’Allier. Cesare eluse
con uno strattagemma la sua sorveglianza; e invase l’Arvernia, ponendo
l’assedio a Gergovia, per farle subire la stessa sorte di Avarico. Ma
egli non aveva più che sei legioni; e Gergovia resistette ostinata....
L’assedio andò per le lunghe; questo suo prolungarsi incominciò
a rianimare il coraggio dei Galli; Cesare volle finirla, e diede
l’assalto alla città; ma fu respinto con tali perdite, che dovette
risolversi ad abbandonare l’impresa e a riprendere la via del nord, per
ricongiungersi con Labieno.

Le conseguenze dell’errore furono assai funeste. Là sconfitta di
Gergovia, annunziata ovunque ed esagerata, scosse le popolazioni
rimaste fedeli; perfino gli Edui passarono al nemico, togliendo ai
Romani la miglior base di rifornimento e tagliando le comunicazioni
di Cesare con Labieno. Cesare capì che occorreva ricongiungersi al più
presto e a qualunque costo con Labieno: per non perdere tempo a far dei
ponti si cacciò nella Loira con l’esercito, e la passò a guado; poi,
risalendo verso il settentrione a marce forzate, raggiunse Labieno,
probabilmente ad _Agendicum_. Labieno aveva combattuto con fortuna i
Senoni e i Parisii: ma a che servivano queste vittorie? Tutta la Gallia
ormai era insorta; a Bibracte stava per radunarsi una dieta nazionale,
che chiamerebbe alle armi tutti i popoli gallici; che fare con poco
più di 30.000 uomini, in un paese tutto in rivolta? Cesare deliberò di
abbandonare per il momento la Gallia, ritirandosi nella Provincia: ma
il traversar la Gallia in fiamme con quel piccolo esercito, gli parve
impresa così pericolosa, che prima di muoversi volle accostarsi alla
frontiera occidentale della Germania allo scopo di fare, tra quelle
popolazioni germaniche, grandi leve di cavalleria. Il generale, che
sette anni prima era entrato in Gallia per distruggere il pericolo
germanico, intendeva ora servirsi dei Germani contro i Galli, e pagava
i primi con l’oro preso ai secondi.

Ma più che la cavalleria germanica, le discordie, gli errori e le
imprudenze del nemico salverebbero Cesare. Già a Bibracte i Galli
avevano acerbamente discusso sul comando e sul piano: se continuare la
guerriglia o fare la guerra grande. Un po’ per contentare il partito
che voleva la guerra grande e un po’ perchè la guerriglia richiede
poche truppe, ma buone, e Vercingetorige invece comandava un esercito
numeroso, raccogliticcio e scadente, il duce arverno fu costretto a
mutar il modo di guerreggiare, che sino ad allora gli era riuscito così
bene. Quando Cesare, probabilmente nella prima metà dell’agosto, iniziò
la sua ritirata verso la Provenza, Vercingetorige, abbandonando il suo
quartier generale, ch’egli aveva stabilito in _Alesia_ (Alise St. Reine
nel dipartimento della Côte d’Or), e la guerriglia, seguita fin allora,
venne in campo aperto a contrastargli il passo. Ma sopra un vero campo
di battaglia le legioni romane, il genio del loro duce, l’impeto dei
cavalieri germanici ebbero ragione dell’attacco e della resistenza
nemica[12]. E bastò questa battaglia per mutare le sorti della
guerra. Vercingetorige, sconfitto, riparò in Alesia; Cesare, smessa
l’idea di ritirarsi in Provenza, si volse subito ad investire Alesia;
Vercingetorige, chiuso da Cesare entro giganteschi lavori, chiamò in
suo soccorso la Gallia intera.... Si raccolse così un nuovo grande
esercito — oltre 250.000 uomini, dice Cesare[13] — i quali avrebbero
dovuto piombare sull’esercito romano dal di fuori, mentre da Alesia gli
assediati avrebbero fatto l’ultima sortita della disperazione. Se il
piano riusciva, l’esercito romano sarebbe stato distrutto da un doppio
assalto. Non sentendosi la forza di resistere a questo doppio assalto
in campo aperto, Cesare non esitò a costruire, intorno alla linea delle
prime trincee, una seconda grandiosa opera di fortificazioni, dietro
la quale il suo esercito, assediante e assediato nel tempo stesso,
avrebbe potuto resistere al nuovo nemico. L’espediente era nuovo,
ingegnoso, ma temerario; e non avrebbe sortito alcun buon effetto,
se l’esercito di soccorso avesse assediato con pazienza l’esercito
romano, anche a costo di far morire di fame insieme e nella stessa
cerchia Cesare e Vercingetorige. Ma i duci erano parecchi e discordi
fra loro; il desiderio di salvare Vercingetorige, troppo vivo; il nuovo
esercito, raccogliticcio, impaziente e mal provvisto di materiali e di
viveri. Invece di assediare pazientemente gli assedianti, l’esercito
di soccorso volle far presto, tentò di forzare il campo di Cesare;
si esaurì per sette giorni in furiosi ma vani assalti; poi si sbandò.
Allora Vercingetorige, vinto dalla fame, si consegnò prigioniero nelle
mani del vincitore (settembre 52).

La insurrezione gallica era domata; Cesare era quasi per miracolo
scampato alla sorte di Crasso; la nuova provincia gallica, dopo otto
anni di insurrezioni e di guerre continue, era salva. Il conquistare
l’Occidente era impresa più ardua e di maggior sacrificio dell’Oriente:
ma quanto più duratura e proficua nel lontano avvenire![14].


NOTE AL CAPITOLO TERZO.

[11] Questo partito aveva riportato una bella vittoria nel 55. Poichè
il governatore della Siria, A. Gabinio, meditava la guerra alla Parzia,
il Senato gli oppose un fermo divieto: cfr. STRAB., 12, 3, 34.

[12] Il luogo della battaglia è incerto: secondo alcuni, essa seguì
sulle rive della Vingeanne; secondo altri, tra Brevon e l’Ource;
secondo altri, infine, o nei pressi di Montigny, o non lungi da
Allofroy.

[13] Cfr. CAES., _B. G._, 7, 75-76. Sebbene la lunga serie di cifre,
da cui questo totale risulta possa in qualcuno dei suoi addendi esserci
pervenuta corrotta, tuttavia il risultato finale non è mai inferiore a
250.000.

[14] Su questo periodo di storia romana, cfr. la più particolareggiata
esposizione di G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, vol. II,
cap. IV-VII.



CAPITOLO QUARTO

LA SECONDA GUERRA CIVILE

(49-46 a. C.)


19. =Il consolato unico di Pompeo (52 a. C.).= — A Roma intanto, mentre
Cesare combatteva in Gallia, Pompeo e il partito del senato, spaventati
dai tumulti che continuavano, dallo sfacelo della repubblica, dalla
catastrofe di Crasso, dalla rivolta della Gallia, avevano un po’
dimenticato gli odî e i ripicchi antichi. Anche i più ostinati
avversari della triarchia erano stati ammansati dal pericolo; quanto a
Pompeo, era troppo ricco, troppo potente, troppo viziato dalla fortuna,
da non voler primeggiare piuttosto con il favore del senato, che a
suo dispetto. Così, perdurando ed imperversando i tumulti, la proposta
di nominare Pompeo non dittatore — chè il nome dopo Silla era odioso
— ma console unico, fu approvata da tutti, anche da Catone. Pompeo
a sua volta si affrettò a contentare la parte più autoritaria del
partito senatorio, attuando in poche settimane ciò che quella chiedeva
invano da anni. Con una legge _de ambitu_ e un’altra _de vi_, abbreviò
la durata dei processi, aggravò le pene ai delitti di corruzione
politica, commessi sin dal 70, rinvigorì e accelerò la procedura contro
le violenze commesse nelle elezioni, diede una spinta vigorosa ai
processi. In un batter d’occhio un gran numero di partigiani di Clodio
e di Cesare furono condannati insieme con qualcuno dei più turbolenti
tra i loro avversari. Neanche Milone, l’antico amico di Pompeo, fu
risparmiato. Appropriandosi poi una proposta fatta l’anno prima, ma
inutilmente, dal senato, Pompeo propose una _lex de provinciis_,
la quale vietava che nessun console o pretore romano diventasse
governatore di una provincia, se non cinque anni dopo la fine della sua
magistratura. Presentò inoltre una _lex de iure magistratuum_, la quale
riconfermò l’antico divieto di brigare il consolato a chi fosse assente
da Roma; ad eccezione di coloro che avessero ricevuto o ricevessero dal
popolo la dispensa. Questa eccezione toccava Cesare, che poco prima
una legge, proposta dai suoi amici, aveva autorizzato a presentarsi
candidato per il 48, senza essere presente in Roma.

L’ordine fu ristabilito in Roma; il senato respirò; Pompeo ritornò in
credito, come un secondo Silla, presso quella parte della aristocrazia,
che aveva subìto, ma non accettato, il governo della triarchia.
Senza discussione, gli fu prorogato di cinque anni il governo della
Spagna. Vacillò invece la potenza di Cesare. Il governo da lui fondato
pericolava. La morte di Crasso prima, la lenta conversione di Pompeo
poi, il disastro partico, la rivolta della Gallia, l’anarchia di Roma
avevano prima screditato e poi disciolto la triarchia. Della antica
potenza dei tre capi non restava più che un odio implacabile, tutto
addensato su lui, poichè Pompeo si era riconciliato con i nemici.
Cesare aveva ragione di temere che se, finito il proconsolato, egli
tornasse a Roma semplice cittadino, i suoi nemici gli intenterebbero
qualche processo che, rovinandolo, farebbe scontare a lui, con le sue,
le colpe di Crasso e di Pompeo[15]. Non c’era che uno scampo: essere
rieletto console, e farsi accordare un nuovo e lungo proconsolato;
poichè ogni magistrato era, sinchè copriva la carica, inviolabile. Ma
i suoi poteri proconsolari duravano sino al 1º marzo del 49 a. C., che
era il decimo anniversario del giorno in cui la _lex Vatinia_ gli aveva
assegnato la Gallia. Cesare non poteva dunque brigare il consolato che
nelle elezioni che avrebbero luogo durante l’anno 49 e farsi nominar
console per il 48; onde nei dieci mesi che correrebbero tra il 1º marzo
del 49 e il 1º gennaio del 48, rientrando nella vita privata, sarebbe
stato facile bersaglio ai processi dei nemici. Una legge gli aveva, sì,
concesso di brigare il consolato assente da Roma: ma che gli serviva,
se i suoi poteri spiravano il 1º marzo?


20. =Il conflitto tra Cesare ed il Senato (51-49 a. C.).= — Cesare
pensò di chiedere al senato, al principio dell’anno 51, che gli
prolungasse i poteri proconsolari dal 1º marzo del 49 al 1º gennaio del
48, allegando che questo prolungamento era implicito nella legge che
gli concedeva di postulare il consolato senza essere presente a Roma.
La salvezza di Cesare dipendeva da questa domanda, che a sua volta
dipendeva da Pompeo. Il senato l’approverebbe o la respingerebbe, se
Pompeo l’appoggiasse o la combattesse. Pompeo quindi fu corteggiato
con zelo eguale dagli amici e dai nemici di Cesare. Ma Pompeo, sebbene
ormai fosse avverso a Cesare e favorevole al partito senatorio[16],
allorchè, in aprile, la domanda di Cesare fu discussa in senato, non
si pronunciò, e un tribuno della plebe lo tolse dall’impaccio di dover
dichiararsi, interponendo il veto. Ma Cesare aveva nemici fanatici; e
tra questi c’era il console Marcello; il quale risollevò il 1º giugno
la questione, proponendo addirittura di richiamare Cesare dalla Gallia.
Questa volta Pompeo non potè più tacere; ma si cavò d’impaccio, dicendo
che non si poteva trattar della successione di Cesare prima del 1º
marzo dell’anno 50. Il senato gli diede ragione, e Marcello ammutolì;
ma per risollevare la questione a suo tempo e proprio il 30 settembre,
proponendo che il 1º marzo dell’anno seguente si discutesse in senato
la successione di Cesare; e che si dichiarasse nullo in precedenza ogni
veto che i tribuni interponessero. Queste proposte furono occasione
di un vivace dibattito; la prima fu approvata e la seconda sospesa
dal veto tribunizio; ma il vero guadagno della seduta per i nemici
di Cesare fu che questa volta Pompeo dovette aprirsi; e lo fece,
sentenziando che, se il 1º marzo i tribuni amici di Cesare avessero
fatto uso dell’intercessione, Cesare doveva considerarsi e «castigarsi»
come ribelle.

La fortuna di Cesare, che frattanto domava le ultime resistenze della
Gallia, pericolava. Pompeo lo abbandonava; e gli aveva ormai quasi
spezzato in mano l’arma del _veto_. Se avesse cercato di scaramucciare
con il veto dei tribuni amici suoi, dopo quella dichiarazione, si
sarebbe guastato apertamente con Pompeo. Questo Cesare non voleva; onde
immaginò un curioso espediente. Era stato eletto tribuno per l’anno
50 a. C. Scribonio Curione, un giovane pieno d’ingegno e di debiti,
grande oratore e scrittore, e acerrimo nemico di Cesare. Promettendo di
pagargli i debiti, Cesare ottenne di trarlo dalla sua parte e di fargli
accettare una missione difficilissima: quella di impedire il 1º marzo
la discussione sulla sua provincia, fingendo di adoperarsi come nemico
suo, ma non dell’equità e della costituzione. Se l’intercessione di un
tribuno a lui nemico avesse impedito la votazione, come avrebbe Pompeo
potuto risentirsene contro di lui? E Curione disimpegnò mirabilmente il
suo bizzarro incarico. Affermando, con affettata imparzialità, che era
tempo di finirla con tutti i poteri straordinari, sia di Cesare che di
Pompeo; presentando leggi opposte, talune di spirito oligarchico, altre
a seconda dell’umore popolare; atteggiandosi a difensore imparziale
della legge e della pubblica pace; attaccando Cesare, ma nello stesso
tempo Pompeo, Curione riuscì a diventar così popolare presso il
pubblico, che voleva la pace, da poter far differire, con il veto e
con altri espedienti, di mese in mese, sino alla fine del 50, ogni
dibattito sulla successione di Cesare. Pompeo, che una malattia aveva
condannato all’inerzia per parecchi mesi, ne approfittò volentieri per
fare le viste di dimenticare le minacce pronunciate nella seduta del
30 settembre; e la maggioranza del senato gli fu grata di differire la
terribile questione. Ma questi abili maneggi, nei quali non si tardò
a sospettare la mano di Cesare, esasperarono i nemici del proconsole
e lo stesso Pompeo. D’altra parte, avvicinandosi la fine dei poteri
proconsolari di Cesare, era necessario definire la questione.

Si venne così alla storica seduta del 1º dicembre 50. Il console
Marcello cominciò a proporre che Cesare cessasse dai suoi poteri
proconsolari il 1º marzo del 49. La proposta fu approvata a grande
maggioranza, e senza che Curione aprisse bocca. Marcello allora,
incalzando, chiese al senato se anche Pompeo dovesse rassegnare il
comando delle Spagne, che, come abbiamo visto, gli era stato prorogato
fino al 45. La nuova proposta fu respinta a grande maggioranza.
Solo allora Curione domandò la parola; e, introducendola con un
discorso abilissimo, fece una terza proposta, che, a stretto rigore
di logica, contradiceva alle deliberazioni già prese: Pompeo e Cesare
abbandonassero insieme il loro governo proconsolare. La proposta,
rispondeva talmente al desiderio di tutti, — senatori e popolo — che
l’assemblea, contradicendosi, l’approvò con 370 voti contro 22. La
deliberazione era savia; ma umiliava troppo i nemici di Cesare, che non
la volevano a nessun costo, e Pompeo, che non intendeva deporre prima
del tempo il potere che il senato gli aveva prolungato. In fretta e
furia Marcello e i più scaldati nemici di Cesare immaginarono un piano,
lo sottoposero a Pompeo, il quale era ancora a Napoli: Marcello avrebbe
proposto al senato di dichiarare Cesare _hostis publicus_; se il senato
non avesse approvato o se i tribuni avessero interposto il veto, egli
avrebbe di sua autorità proclamato lo stato d’assedio e affidato
a Pompeo la salvezza dello Stato: il senato allora, intimidito,
avrebbe approvato quanto essi volevano. Non appena giunse da Napoli
l’approvazione di Pompeo — probabilmente il 9 dicembre — Marcello
fece il suo colpo di Stato. Convocò il senato; propose di dichiarare
Cesare nemico pubblico, e di ordinare a Pompeo di prendere il comando
delle due legioni, che a Lucera aspettavano di partire per la Siria;
e, quando Curione ebbe posto il suo _veto_, uscì da Roma, e si recò a
Napoli da Pompeo, per invitarlo ad assumere, novello Nasica ed Opimio e
con gli stessi mezzi, la difesa della repubblica.


21. =Dal Rubicone a Brindisi (10 gennaio-17 marzo 49 a. C.).= — Le
cose precipitavano. C’era però ancora una speranza. Cesare voleva la
pace. Voleva la pace perchè sapeva che delitto e che pericolo sarebbe
scatenare una seconda guerra civile, non più nemmeno per le grandi
questioni politiche che avevano preparato la prima, ma per i miserabili
puntigli di due cricche di politicanti. Deliberò dunque di fare uno
sforzo supremo per la pace. Curione, che era uscito di carica subito
dopo la votazione del senato, si era recato da lui: Cesare lo rimandò
con una lettera al suo ex-ufficiale, ed ora tribuno, Marco Antonio,
da leggersi in senato. In questa lettera egli si dichiarava pronto ad
abbandonare il comando della Gallia e a tornare privatamente a Roma,
purchè Pompeo facesse altrettanto. In caso contrario, soggiungeva,
egli avrebbe difeso i suoi diritti violati. La lettera era scritta con
rispettosa fermezza, e Cesare si riprometteva che farebbe riflettere
senza irritare. Non aveva il senato mostrato, nella seduta del 1º
dicembre, che voleva conciliare il dissidio dei due personaggi e delle
due fazioni, con un provvedimento equo? Senonchè nel frattempo Pompeo
aveva accettato la missione di difendere la repubblica affidatagli da
Marcello, e preso il comando delle legioni di Lucera. Di più i nemici
di Cesare non erano stati inoperosi. Il resultato fu che il senato,
nella seduta del 1º gennaio 49, non si comportò più come un mese prima:
la lettera di Cesare fu accolta da interruzioni e da proteste, come
una minaccia; e Cesare fu dichiarato nemico pubblico, se non avesse
abbandonato il comando entro il luglio. Qualche giorno dopo il senato
dichiarava lo stato di assedio. Il rimedio di Cesare per salvare la
pace era fallito! Non volendo cedere, Cesare non potè che dar di piglio
a un mezzo estremo, un’arme a doppio taglio, l’unica, che ormai gli
restava: dimostrare di essere risoluto a tutto, e far rinsavire con
le minacce il senato, che aveva respinto le proposte concilianti.
Una notte, verso il 10 gennaio, uscì da Ravenna con 1500 uomini, e,
violando la frontiera, che separava l’Italia dalla sua provincia,
valicò il Rubicone, occupò di sorpresa Rimini e nei giorni seguenti
Pesaro, Fano, Ancona e le principali città della costa, spingendo
qualche coorte verso Arezzo.

La seconda guerra civile incominciava, sebbene nessuna delle due parti
l’avesse voluta sul serio; e sebbene l’Italia tutta avesse sempre e
soltanto implorato la pace[17], perchè nessuna jattura poteva esserle
in quel momento più funesta di una guerra civile. Tre anni prima, nel
52, i mercanti italiani erano riusciti per la prima volta ad esportare
nelle province l’olio fabbricato in Italia. Basta questo fatto a
mostrare che l’Italia non era tutta piena di proprietari rovinati, di
latifondisti o di inquieti e famelici politicanti; ma che c’era anche
chi lavorava — media possidenza i più — e con i capitali, il lavoro
e gli schiavi importati di Grecia e dall’Oriente, tentava di coltivar
meglio la terra sull’esempio dei popoli più esperti in agricoltura. Nel
tempo stesso si affermava l’industria; e anche questa, in parte, grazie
agli schiavi e ai liberti orientali. Nella Cisalpina, da Vercelli a
Milano, da Milano a Modena; nell’Etruria, ad Arezzo, si cominciavano
ad aprire quelle fabbriche di ceramica, di lampade, di anfore, che
diverranno in seguito famose. A Padova e a Verona degli artigiani e
dei mercanti cominciavano a tessere quei tappeti e quelle coperte, di
cui tutta l’Italia dovrà fra non guari fare così largo uso. A Parma e a
Modena si tessevano panni magnifici, con la lana delle numerose greggi
pascolanti nelle campagne circostanti. A Faenza si cominciava a filare
e a tessere il lino, coltivato nei dintorni. Genova, a pie’ delle
montagne selvagge della Liguria, era un emporio di legname, di pelli,
di miele, di bestiame, che i Liguri trasportavano e conducevano dalle
loro valli solitarie. Le miniere di ferro dell’Elba erano sfruttate con
lena vigorosa; e Pozzuoli lavorava il ferro dell’Elba fabbricando ogni
sorta di oggetti. Napoli era la città dei profumi e dei profumieri;
Ancona possedeva fiorenti tintorie di porpora. Le città si ampliavano,
si abbellivano, arricchivano, e in quelle cresceva di numero, di
agiatezza e di potenza un nuovo ceto medio. Con l’agiatezza, con il
nuovo bisogno di pace operosa, con la partecipazione delle classi
minori e degli Italici alla vita pubblica, gli odî di un tempo si erano
placati. Non più la ferocia delle antiche lotte dei plebei contro i
patrizi, dei poveri contro i ricchi, degli Italici contro i Romani.
Unica angustia, i debiti. Senonchè neppure questo universale desiderio
di pace valse contro i rancori e i puntigli dei partiti politici. A
furia di spaventarsi a vicenda con minacce, i partiti resero alla
fine la guerra inevitabile. La mossa di Cesare, che mirava ancora
a persuadere i nemici ad una transazione, fallì il suo effetto, non
perchè non spaventasse abbastanza, ma perchè spaventò troppo. Quando
si seppe a Roma che Cesare aveva occupato Rimini, Ancona, Arezzo,
tutti credettero che volesse marciare con le legioni su Roma; un gran
panico scoppiò; e se qualche spaventato propose di aprire trattative
di pace, Pompeo non ne volle sentir parlare: ordinò anzi che il senato
e i consoli lasciassero Roma e si ritirassero a Capua. Cesare, che
voleva intendersi con il senato e finir presto l’avventura con una
transazione, capì che quella fuga gli accrescerebbe la difficoltà
di far pace; e cercò, con lettere e con quanti mezzi aveva a mano,
di persuadere i senatori a restare in Roma. Ma intanto nel Piceno e
nel Sannio i generali di Pompeo reclutavano soldati: poteva Cesare
lasciarsi crescer sul fianco questa minaccia? Egli richiamò dalle
Gallie le sue legioni, e procedè innanzi: prese Osimo, Cingoli; si
impadronì del Piceno, obbligando i generali di Pompeo che reclutavano
soldati a ripiegare su Corfinio, nel paese degli antichi Peligni, dove
si raccoglieva buon nerbo di milizie, sotto il comando di uno dei più
autorevoli pompeiani, L. Domizio Enobarbo, console nel 54. Ma poteva
Cesare lasciar che Corfinio diventasse un forte punto di appoggio per
Pompeo? Con la consueta rapidità e con le legioni giuntegli dalle
Gallie, alle quali aveva fatto grandi promesse, Cesare marciò su
Corfinio, la assediò, costringendo, dopo soli sette giorni, Domizio
alla resa. Ma voleva intendersi con i nemici, e fu generoso; mandò
liberi Domizio e i nobili pompeiani, ch’erano al suo seguito.

In meno di due mesi con la sua rapida marcia e con la vittoria di
Corfinio, Cesare era riuscito a sconvolgere quella che oggi noi
chiameremmo la mobilitazione del partito avverso, ossia il reclutamento
con cui cercava di levar soldati in Italia. Pompeo in due mesi di
guerra aveva perduto una buona parte della penisola ed era in pericolo
di esser sopraffatto dalle forze soverchianti di Cesare, perchè aveva
in Italia poco più delle due legioni di Lucera e le sue comunicazioni
con la Spagna, dove stavano le sue migliori legioni, erano minacciate.
Tanto più avrebbe dovuto prestare orecchio alle offerte di pace, che
Cesare, spaventato dal precipitar degli eventi, faceva per differenti
canali. Ma ormai era impegnato; e non voleva parere di aver accettato
da Cesare una pace, perchè vinto. Poichè mezza Italia era perduta;
poichè con le forze, di cui disponeva, non poteva riconquistarla
e riaprirsi le comunicazioni con la Spagna, Pompeo deliberò di
abbandonare l’Italia con il senato, i magistrati e l’esercito, e di
salpare da Brindisi alla volta dell’Oriente; dove le province e i re
alleati non avrebbero indugiato ad aiutarlo a rifarsi un esercito.
Ma quando Cesare conobbe questo disegno si spaventò; capì che una
terribile guerra civile avrebbe devastato tutto l’impero, se egli non
riusciva a far la pace con Pompeo in Italia; e a marce forzate corse
su Brindisi, per bloccare il suo avversario e finire la guerra. Ma non
fece a tempo. Pompeo, il senato, l’esercito, riuscirono ad imbarcarsi,
abbandonando a Cesare l’Italia.


22. =La guerra di Spagna (marzo-novembre 49 a. C.).= — Ormai il destino
si era compiuto. Cesare doveva combattere una immensa guerra civile
— la seconda della storia di Roma. Ma in quale spaventoso impegno
s’era cacciato! Era abbandonato, solo, alla testa del suo esercito,
nell’Italia senza magistrati e separato dalle sue maggiori province!
Cesare non si perdè d’animo, e soprattutto non perdè tempo; subito
spedì quante forze potè ad occupare la Sardegna, la Sicilia e l’Africa;
e senza indugio si recò a Roma per riorganizzare alla meno peggio
il governo e per rifornirsi di danaro. Ci giunse verso gli ultimi
giorni di marzo; racimolò quei pochi senatori, che erano rimasti, e
li considerò come il senato legittimo; d’accordo con loro provvide
alla meglio a sostituire i magistrati che mancavano; prese diversi
provvedimenti a favore del popolo; fece abrogare la legge di Silla, che
escludeva dalle magistrature i discendenti dei proscritti; e infine si
impadronì dell’erario, minacciando di trucidare un tribuno, L. Cecilio
Metello, che voleva impedirglielo. Poi, dopo un soggiorno di pochi
giorni, ripartì per la Spagna.

Il piano di guerra di Cesare era semplice e ardito: volare in Spagna,
debellare il nucleo maggiore e migliore delle forze pompeiane,
poi recarsi in Grecia a combattere il nuovo esercito che Pompeo
raccoglierebbe. Ma per riuscire, gli occorreva far presto. Invece
subito egli trovò sulla via della Spagna un primo intoppo: Marsiglia.
Città libera, ma devota a Pompeo, Marsiglia intendeva restar neutra nel
conflitto. Cesare richiamò tre legioni dalla Gallia e pose l’assedio
a Marsiglia: ma il ritardo di cui l’assedio era cagione parendogli
pericoloso, si risolvè a ritirare tutte le truppe che ancora erano
nella Gallia, e mandar queste, con le altre, che teneva nella Narbonese
— cinque legioni in tutto — sotto il comando dei suoi generali in
Spagna, mentre egli terminerebbe l’assedio di Marsiglia. Senonchè i
suoi luogotenenti non riuscirono a nulla.

Lasciando allora Caio Trebonio e Decimo Bruto a continuare l’assedio di
Marsiglia, Cesare andò in persona a prendere il comando dell’esercito
di Spagna; pose l’accampamento a nord dell’Ebro, presso _Ilerda_
(Lerida), ma non gli riuscì di costringere il nemico a battaglia.
Avendo anzi tentato di tagliare le sue comunicazioni con la città, subì
un sanguinoso rovescio; e le ostilità delle popolazioni, cresciute dopo
il rovescio, insieme con un improvviso straripamento dei fiumi, che
portò via i ponti circostanti, per poco non lo ridussero all’estrema
rovina. Ma, verso la metà di luglio, le sorti di Marsiglia, disfatta e
bloccata per mare da Decimo Bruto, parvero precipitare: le popolazioni
spagnole temettero che le legioni assedianti la città sarebbero tra
poco venute in Spagna, e di nuovo passarono a Cesare portando al suo
esercito i viveri che prima portavano ai pompeiani. La carestia mutò
campo; onde i luogotenenti di Pompeo, L. Afranio e M. Petreio, furono
costretti a ritirarsi al di là dell’Ebro per cercare viveri. Cesare li
inseguì, e con un seguito di mirabili mosse fece coi generali pompeiani
ciò che questi, poco prima, non avevano saputo fare con lui: seguendo,
circondando, affamando il nemico, lo costrinse alla resa a discrezione
(2 agosto 49). Novamente offerse ai vinti condizioni magnanime; li
lasciò liberi di agire, comunque credessero: o recarsi da Pompeo, o
arrolarsi sotto le sue bandiere, o tornare a vita privata. Poco dopo,
anche le due legioni della Spagna ulteriore, agli ordini di uno dei più
grandi eruditi del tempo, M. Terenzio Varrone, capitolavano. Tutta la
Spagna era in potere di Cesare.

Cesare tornò in Italia, ove già, su proposta del pretore M. Emilio
Lepido, egli era stato da una legge creato dittatore. Ma il Silla
democratico non intendeva esercitare nessuna rappresaglia, e neanche,
per ora, fare serie novità nello Stato. Si limitò a presiedere i
comizi per le nuove elezioni, nelle quali fu eletto console per il 48;
a proporre al popolo una quasi universale amnistia per i condannati
politici dopo il 52; a far una legge che concedeva la cittadinanza alla
Gallia Cisalpina, e una legge sui debiti, che cercava di alleviare i
disagi e le rovine della guerra, ma con molta prudenza e saggezza. La
legge statuiva che gl’interessi già sborsati fossero diffalcati dalla
somma totale del debito; e autorizzava i debitori a pagare le somme da
essi dovute coi loro beni immobili, non però secondo il loro valore
presente troppo basso, ma secondo la stima anteriore alla guerra. Le
contestazioni sarebbero giudicate da una commissione di arbitri. Nè
basta: per promuovere il riflusso del danaro, che la guerra aveva fatto
scomparire, rimise in vigore una vecchia disposizione caduta in oblio,
la quale vietava ai cittadini di tenere presso di sè più di 60.000
sesterzi in oro o in argento. Tutte queste cose furono fatte in soli
undici giorni di dittatura; dopo di che Cesare deponeva la carica e
s’accingeva all’impresa finale contro Pompeo.


23. =Farsaglia (48-49 a. C.).= — La vittoria che Cesare aveva riportata
in Spagna era stata controbilanciata da gravi rovesci subiti in Africa
e in Illiria. Curione, che Cesare aveva spedito in Sicilia e in Africa,
aveva occupato la Sicilia, scacciandone Catone; ma passato con due sole
legioni in Africa, dopo aver felicemente disfatto il generale pompeiano
P. Attio Varo, era stato attirato in un’imboscata dal re dei Numidi,
Giuba, amico di Pompeo, circondato ed ucciso. Un altro luogotenente
di Cesare, P. Cornelio Dolabella, che aveva tentato la conquista
dell’Illiria, era stato disfatto, perdendo parte della flotta e delle
milizie, speditegli dall’Italia da M. Antonio. Queste erano cadute
prigioniere. Pompeo, invece, in Oriente aveva riunito circa 50.000
uomini e una potente armata; alle quali forze Cesare non poteva opporre
che 12 legioni stremate, con effettivi ridotti: in tutto 25.000 uomini,
e un’armata capace della metà del suo esercito o poco più.

L’impresa era dunque pericolosissima. Ma non c’era altro scampo che
tentarla. Onde il 4 gennaio del 48, dopo avere assunto i poteri di
console, con una parte del suo esercito, tutta quella che la sua flotta
poteva contenere, e cioè 15.000 uomini, salpava da Brindisi; eludeva
facilmente l’ammiraglio della flotta pompeiana, Calpurnio Bibulo, che
lo aspettava a primavera; riusciva a sbarcare a _Oricum_, in un piccolo
golfo solitario dell’Epiro; prendeva _Oricum_, poi Apollonia, tentava
impadronirsi di Durazzo. Ma non ci riuscì; chè Pompeo lo prevenne
a Durazzo con tutto il suo esercito. Cesare allora mise il campo
sull’Apsus, a sud di Durazzo, per aspettare la parte dell’esercito che
era rimasta in Italia. Ma questa non veniva, perchè Bibulo, sorpreso
nel sonno la prima volta, s’era svegliato e ora faceva buona guardia.
Non giungevano neppure viveri. Cesare si trovò ben presto isolato in
paese nemico, con soli 15.000 uomini, con scarsi viveri, e di fronte a
Pompeo, accampato sull’altra sponda, con un esercito almeno tre volte
più numeroso. Perchè Pompeo non lo attaccò allora? A spiegare questa
singolare inerzia occorre ammettere o che gli mancasse la energia
necessaria a guidare la guerra, o che, volendo risparmiare il sangue
romano, si fosse proposto di terminare la guerra senza combattere.
Perchè rischiare una sanguinosa battaglia tra Romani, quando Cesare era
venuto egli stesso nella trappola? Tagliate le sue comunicazioni con
l’Italia, quel piccolo esercito dovrebbe, presto o tardi, o arrendersi
per fame o sciogliersi per logoramento. Così i due avversari stettero
di fronte parecchi mesi, ma Cesare con maggior pericolo di Pompeo.
Senonchè il tempo, se logora gli eserciti, porta anche occasione e
fortune, di cui gli audaci approfittano. Così avvenne. Bibulo morì; e,
sotto il suo successore, rallentò la guardia, che la flotta pompeiana
faceva sui mari; cosicchè un bel giorno i generali cesariani d’Italia
riuscirono ad attraversare l’Adriatico e a congiungersi con Cesare.
Cesare allora, che aveva bisogno di finir presto la guerra, offrì
battaglia, ma invano; chè Pompeo, il quale non aveva voluto attaccarlo
prima, non mutò piano, perchè a Cesare erano cresciute le forze.
Invano Cesare provò tutte le provocazioni e tentò perfino di tagliare
le sue comunicazioni con Durazzo: Pompeo, potendo comunicare per mare
con la città, non si mosse. Esasperato, alla fine, Cesare pensò di
bloccarlo nel suo stesso accampamento, sperando forse di rinnovare il
miracolo, che aveva compiuto quattro anni prima con Vercingetorige
ad Alesia. Senonchè l’accampamento di Pompeo si appoggiava sul mare
di cui il nemico era padrone, mentre invece la carestia tormentava
ferocemente il suo campo. L’assedio fu una inutile fatica, che mise
capo a un disastro. Un giorno, una scaramuccia, impegnatasi intorno
alle trincee, divampò in una grande battaglia, che terminò in una
sconfitta dei Cesariani. Mille soldati caddero morti sul campo e
trentadue bandiere nelle mani del nemico. Allora Cesare levò il blocco
e si ritirò con l’esercito in Tessaglia, per andare a cercar dei viveri
e ricongiungersi con due luogotenenti, Domizio Calvino e Lucio Cassio,
che poco prima aveva mandati in Macedonia a combattere le forze di
Pompeo.

La vittoria si offriva a Pompeo. Egli poteva scegliere tra due partiti
egualmente buoni: o inseguir subito ed energicamente il nemico in
ritirata e distruggerlo; o tornare in Italia e di là, rifatte le sue
forze, riconquistare l’Oriente, dove Cesare sarebbe stato facilmente
isolato e accerchiato, il giorno in cui non fosse più che il capo di
poche legioni in rivolta contro il governo legale. Ma Pompeo non si
appigliò nè all’uno nè all’altro di questi due partiti; seguì da lungi
il nemico, quasi facendosi rimorchiare da lui, sperando forse che si
sbandasse per la fame, o capitolasse come i suoi luogotenenti nella
Spagna. Ma avesse almeno attuato sino alla fine questo piano che,
applicato con perseveranza, poteva dar la vittoria! Invece no: allorchè
i due eserciti furono giunti nella pianura di Farsaglia, Pompeo accettò
quella battaglia, che sino allora aveva rifiutata, quando poteva darla
in condizioni migliori. Come si spiega questa improvvisa risoluzione?
La guerra di spossamento, con cui Pompeo voleva aver ragione di Cesare,
se schivava i rischi, richiedeva una grande pazienza, non solo nel
generale e nei soldati, ma anche in tutti i senatori che, in qualità di
ufficiali o di amici, accompagnavano Pompeo. Molti di costoro invece
erano stanchi della vita che conducevano da tanti mesi. Tutti poi
si credevano sicuri della vittoria. E gli impazienti, gli ambiziosi,
gli strateghi improvvisati trascinarono il debole Pompeo a dare, il
9 agosto, nel piano di Farsaglia, la battaglia, di cui Pompeo — e non
a torto — aveva avuto sino allora tanta paura. Ma in una battaglia in
campo aperto il genio tattico di Cesare e il valore delle sue legioni
ebbero ragione di un nemico tanto più numeroso. Pompeo perdè nella
mischia la testa; e non seppe far di meglio che montare a cavallo e con
pochi soldati cercare la salvezza in una fuga vergognosa[18].


24. =Cleopatra e la guerra alessandrina (48-47 a. C.).= — Pompeo era
fuggito senza neanche fissare a se stesso una mèta chiara e precisa.
Egli si era dapprima recato ad Anfipoli; poi di lì a Mitilene; poi,
costeggiando l’Asia minore, senza mai toccar terra, a Cipro; di qui
finalmente aveva deliberato di riparare in Egitto, presso i figliuoli
di quel Tolomeo Aulete, che a lui sopra tutti aveva dovuto il trono e
la vita. Ma in quel momento l’Egitto versava in un grande disordine:
i due re, Tolomeo XIII e Cleopatra, erano in conflitto fra loro, anzi
quest’ultima, maggiore di età, bella, ambiziosa, intelligente, era
stata deposta e scacciata. Ai diplomatici egiziani apparve chiaro che
l’incerto potere di Tolomeo non si sarebbe rinvigorito con la fedeltà
verso un amico vinto. Accadde così che, poco dopo l’arrivo di Pompeo
a Pelusio, il 29 settembre, mentre il grande generale smontava dalla
barca, che il re gli aveva inviata, un colpo di pugnale troncò per
sempre la sua vita e liberò Cesare dal suo rivale (ultimi giorni del
settembre 48). Così finiva l’uomo, che aveva trionfato di Mitridate,
donato a Roma un nuovo impero in Oriente e annesso al territorio romano
quella che un giorno sarebbe stata la patria di Gesù e la culla del
Cristianesimo.

Cesare intanto, mandati i suoi luogotenenti a ricevere l’omaggio dei
vinti, correva a grandi giornate, con un pugno di uomini, sulle orme di
Pompeo. Senonchè, giunto ad Alessandria e avuta notizia dell’eccidio
del suo rivale, invece di tornare indietro a terminare la guerra e ad
impadronirsi dell’Italia, Cesare per poco non si perdè in un oscuro
pericoloso intrigo della politica egiziana. Aveva pensato dapprima
di fermarsi in Egitto per rifornirsi di denaro; poichè il debito,
contratto nel 59 dal padre del sovrano con i triumviri, a compenso del
trono ricuperato, non era stato ancora interamente soddisfatto. Ma egli
non poteva chiedere al re dell’Egitto di pagare i suoi debiti, prima
che l’Egitto avesse un re. Perciò intimò a Tolomeo e a Cleopatra di
sottoporre al suo giudizio la loro contesa. Ambedue accettarono, anzi
Cleopatra venne in persona a difendere la sua causa. Ma Tolomeo e i
suoi ministri, quando seppero che Cesare aveva conosciuto Cleopatra,
non dubitarono che le avrebbe dato ragione: spinsero dunque il popolo,
sdegnato dalle esazioni dell’intruso e dalla prepotenza dei soldati
romani, ad insorgere; e infine dichiararono la guerra a Cesare.

L’inopinata guerra alessandrina non poteva essere nè breve nè facile;
Cesare si trovava quasi senza milizie; il re d’Egitto, invece, aveva un
piccolo ma non spregevole esercito, ed era aiutato dagli Alessandrini,
che l’intervento di Cesare aveva esasperati. Cesare dovette trincerarsi
nel palazzo reale; e sostenere per cinque mesi un vero assedio,
aspettando gli aiuti invocati da tutte le parti. Finalmente, a
primavera, gli aiuti giunsero; gli Alessandrini furono sconfitti;
Tolomeo, fuggendo, annegò nel fiume (28 marzo 47); e il trono
dell’Egitto e di Cipro fu dato a Cleopatra. Ma mentre Cesare perdeva
ad Alessandria tanti mesi, in Italia accadevano gravi turbamenti e il
partito pompeiano risollevava il capo. Dopo Farsaglia Cesare era stato
nominato dal popolo di Roma dittatore per tutto l’anno 47; e prima di
esser bloccato dalla guerra e dall’inverno in Alessandria, aveva avuto
ancora il tempo di nominare Antonio _magister equitum_. Ma Antonio,
trovatosi solo ad esercitare la dittatura in Italia, non aveva saputo
impedire una specie di rivoluzione. La guerra civile aveva rovinato
l’industria e il commercio, sospeso il credito, accresciuto il gravame
dei debiti e ridotto alla miseria la plebe e la condizione media. Per
rimediare al male, il tribuno Dolabella aveva senz’altro proposto di
annullare i debiti e di sospendere gli affitti delle case. Immaginarsi
lo spavento dei ricchi! Era manifesto ormai che nel partito cesariano
gli estremi, gli avventurieri, i malcontenti, gli squilibrati, e con
essi la tradizione catilinaria pigliavano il sopravvento! Una parte
del partito cesariano, la più ricca, moderata e saggia, condotta
dai tribuni della plebe, Asinio Pollione e L. Trebellio, si era
opposta; erano scoppiate sommosse; il senato aveva proclamato lo stato
d’assedio; Antonio aveva dovuto procedere a sanguinose repressioni. Ma
mentre a Roma il partito cesariano si divideva in un partito moderato
e legalitario e in un partito rivoluzionario ed estremo, e l’uno e
l’altro venivano alle mani, i pompeiani approfittavano dell’assenza
di Cesare per riordinare le fila scompigliate. In Africa i figli di
Pompeo, Catone e Labieno, raccolti gli avanzi dell’esercito di Pompeo,
avevano stretto alleanza con Giuba re della Numidia; reclutavano
arcieri, frombolieri, cavalieri galli; preparavano un esercito e una
flotta; cercavano di sollevare la Spagna. In Oriente, Farnace, il
figliuolo di Mitridate, ricompariva con un esercito nel Ponto, nella
Piccola Armenia, in Cappadocia, in Armenia, sconfiggendo Domizio
Calvino, governatore della provincia d’Asia. Non a torto Cicerone
afferma che dei molti mali, i quali afflissero l’impero dopo Farsaglia,
la principale cagione fu la lunga assenza di Cesare. Eppure Cesare non
si affrettò a tornare, neppure dopo aver riconquistato Alessandria.
Intraprese con la regina un viaggio sull’alto Nilo; poi indugiò a
Corte un altro paio di mesi, tra feste, banchetti, giuochi e piaceri;
e solo ai primi giorni di giugno partì per la Siria, dopo aver perduto
nove mesi preziosi, ma non per tornare subito in Italia. Volle prima
riordinare le cose di Oriente. Il 2 agosto del 47, affrontò e vinse a
Zela (nel Ponto) Farnace; poi convocò a Nicea una grande dieta, nella
quale fece e disfece regni, premiò amici e perdonò a nemici, raccolse
denaro: indi, finalmente, tornò in Italia, sbarcando a Taranto il 24
settembre del 47.

Ma era troppo tardi. Subito dopo Farsaglia Cesare, per un momento,
era stato l’idolo di Roma e dell’Italia. Poichè la vittoria l’aveva
favorito, anche i suoi antichi nemici avevano voluto sperare da lui la
pace e l’ordine. Ma un anno dopo questo sentimento era dileguato senza
lasciare traccia. Il nuovo esercito pompeiano che aveva preso le armi
in Africa, la lunga dimora in Egitto, le dicerie — vere o false — sui
suoi amori con Cleopatra, le discordie del partito cesariano, le leggi
di Dolabella avevano fatto perplessi, esitanti o addirittura ostili la
nobiltà senatoria, i cavalieri, i ricchi. Non era questo un piccolo
pericolo per Cesare, che doveva partire tra poco per l’Africa ed
affrontare una guerra lunga e difficile: ma il tempo stringeva e metter
d’accordo tutti questi interessi contradittorî era difficile. Cesare
si appigliò ad un partito rischioso: poichè le classi alte e ricche
gli facevano il broncio, appoggiarsi sulle moltitudini malcontente.
Rimproverò ad Antonio le sue repressioni; non prese alcun provvedimento
contro Dolabella, anzi accolse parecchie sue proposte, decretando per
un anno il condono delle pigioni al di sotto di 2000 sesterzi in Roma
e di 500 nella restante Italia; impose prestiti obbligatori ai ricchi
privati e alle città; confiscò e mise in vendita il patrimonio di
parecchi cittadini, che erano periti nella guerra civile, tra i quali
Pompeo. Nel partito cesariano l’ala estrema prevaleva sugli elementi
moderati e ragionevoli. Presiedè, come dittatore, le elezioni; e fece
eleggere a tutte le cariche partigiani suoi. Egli stesso fu eletto
console per il 46. In dicembre partì per la Sicilia e per l’Africa.


NOTE AL CAPITOLO QUARTO.

[15] I motivi o i pretesti, a cui gli avversari di Cesare, avrebbero
potuto dar mano per intentargli un processo, erano parecchi: la sua
guerra «incostituzionale» contro Ariovisto «alleato ed amico» della
Repubblica; l’inganno della sua intempestiva annessione delle Gallie;
la sua guerra contro gli Usipeti e i Tencteri, che i suoi nemici
accusavano di slealtà, e per cui i Catoniani in senato avevano chiesto
che il proconsole venisse consegnato vivo al nemico (SUET., _Caes._,
24); il bottino enorme che era servito a corrompere in Roma senatori,
tribuni, magistrati. Per questo vigile stato di animosità contro
Cesare, in Roma, per tutto il 51 e il 50, le notizie degli insuccessi
si diffondevano più rapidamente che non quelle delle vittorie
cesariane; cfr. CIC., _ad Fam._, 8, 1, 4; PLUT., _Pomp._, 57; _Caes._,
29.

[16] Cfr. CIC., _ad Fam._, 2, 8, 2; _ad Att._, 5, 7.

[17] CIC., _ad Att._, 7, 6, 2: _de republica valde timeo, nec adhuc
fere inveni qui non concedendum putaret Caesari quod postularet potius
quam depugnandum_. Cfr. anche CIC., _ad Fam._, 15, 15, 1 sgg; PLUT.,
_Caes._, 37, 1.

[18] Sulla battaglia, cfr. J. KROMAYER, _Antike Schlachtfelder_, 2, 401
sgg.



CAPITOLO QUINTO

LA DITTATURA E LA MORTE DI CESARE


25. =Tapso e i nuovi piani di Cesare (47-46 a. C.).= — La nuova
campagna d’Africa durò circa cinque mesi, dal dicembre del 47 al giugno
del 46; ebbe varie vicende, e fu decisa il 6 aprile dalla battaglia
di Tapso, in cui l’esercito pompeiano fu disfatto. Nei mesi seguenti
Cesare attese a debellare le ultime resistenze dei vinti: tra questi
Catone, che si era chiuso in Utica. Ma questa volta non perdonò: i
capi che caddero vivi tra le sue mani, furono uccisi, e molti, sapendo
quel che loro sarebbe toccato, si uccisero. Tra costoro Catone. Non si
accusi Cesare: poichè tutte le lotte umane, continuando, inferociscono.
Tentando e ritentando la sorte delle armi, i pompeiani non minacciavano
soltanto Cesare, ma tutto l’impero e l’ordine sociale. I disordini
dell’Italia ne erano una prova. Cesare poteva in buona fede pensar
che la severità era richiesta, più ancora che dalla salvezza sua,
dall’interesse generale.

Senonchè queste vendette alienarono per sempre da Cesare le classi
alte, già malcontente sin dal tempo della sua troppo lunga dimora in
Egitto. Le stragi incominciavano, precorrendo le confische; Cesare
non era altri che un nuovo Silla! Neppur di quest’odio si può far
colpa ai nemici di Cesare. Per quanto vivi fossero i rancori di parte
in Roma, non c’era Romano e Italiano che non rammaricasse questa
decimazione dell’aristocrazia romana, come una terribile sciagura
pubblica; e non la rinfacciasse almeno nel segreto del suo pensiero
all’uomo, il quale appariva come responsabile di questo sangue. Ma
questa crescente avversione dei ceti più potenti per denaro, coltura e
rispetto, spingeva Cesare ad appoggiarsi alle plebi povere e ignoranti.
Il che era un doppio pericolo: per la ricchezza dei grandi e per la
libertà della repubblica. Il partito di Cesare si divideva in due
frazioni, come abbiamo visto: una più ligia alla tradizione e alla
legalità, la quale desiderava soltanto che Cesare fosse in Roma un
cittadino potente ed eminente; un’altra più violenta e turbolenta, la
quale voleva far Cesare onnipotente per prepotere essa al suo seguito
e con il suo favore. A mano a mano che le classi alte, fedeli alla
tradizione, si raffreddavano, quest’ala estrema prevaleva nel partito
sui moderati, spingendo Cesare alla tirannide. Il maneggio apparve
chiaro, dopo Tapso. Mentre la parte migliore dell’Italia si raccoglieva
nella silenziosa tristezza di tante morti illustri, i più scaldati
partigiani di Cesare gli fecero decretare i più stravaganti onori: la
dittatura decennale, la censura sotto il titolo di _praefectura morum_,
il diritto inaudito di proporre i candidati al tribunato e all’edilità
plebea. L’Italia trasecolò disgustata e atterrita. Anche la dittatura
di Silla impallidiva a petto di una tirannide così mostruosa come la
dittatura decennale! Non sfuggì a Cesare che il troppo zelo dei suoi
amici gli noceva, e non solo ricusò la dittatura decennale[19], ma
cercò di lavare il sangue di Tapso con la generosità e con la saggezza
di un governo riformatore. Spendendo gran parte del bottino fatto
in Africa, pagò tutte le somme promesse durante la guerra civile ai
cittadini e ai soldati: a ciascun cittadino 300 sesterzi, 24.000 a
ciascun soldato, 48.000 a ciascun centurione, 90.000 a ciascun tribuno
militare. Fece una larga distribuzione gratuita di grano e di olio
al popolo; prese delle disposizioni perchè la sua legge agraria del
59, rimasta sino ad allora, per il malvolere dei governanti, lettera
morta o quasi, fosse finalmente e davvero eseguita; si accinse a
fondare colonie in Campania; cominciò a elaborare quella _lex Julia
municipalis_, che regolerà per lungo tempo i rapporti tra Roma e le
comunità italiche, da quarant’anni accolte nella cittadinanza romana;
procedè anche ad alcune riforme, che da un pezzo il partito oligarchico
reclamava. Ridusse il numero dei cittadini poveri, che, secondo la
legge Clodia, avrebbero avuto il diritto di partecipare alle pubbliche
e gratuite distribuzioni di grano; sciolse i collegi d’artigiani, che
Clodio aveva riorganizzati e di cui Cesare stesso si era largamente
servito, prima e dopo il 59.

Erano tutte savie riforme: ma non bastavano a placare il malcontento.
Questo anzi cresceva per una nuova inquietudine d’ordine politico.
Quanto tempo Cesare intendeva conservare i suoi straordinari poteri?
Che li avesse assunti durante la guerra civile, si capiva: ma ora
la guerra civile era terminata; e, ristabilito alla meglio l’ordine,
restaurerebbe pure il governo repubblicano, come lo stesso Silla aveva
fatto? Ogni governo che sapesse di potere personale o l’adombrasse
anche da lontano, era ancora così detestato, a Roma e in Italia, che
l’impazienza cresceva ogni giorno; e molti l’esprimevano o facendo
l’apologia della libertà e dello stoicismo di Catone, o piangendo su
quella fosca ed ultima notte, che la repubblica sembrava attraversare,
foriera di più cupe calamità[20]. A confronto di quella paura tutti i
benefici largiti da Cesare non contavano nulla. Nessuno pur troppo,
vedendo così da vicino le cose, si rendeva conto che, neanche se
l’avesse voluto, Cesare avrebbe allora potuto rinunciare ai pieni
poteri, e che egli era, in un certo modo, prigioniero della sua
vittoria e scontava con questa prigionia il suo genio e la sua fortuna.
Egli aveva dispensato troppe promesse, aveva acceso troppe speranze,
aveva preso troppi impegni, si era tirato addosso troppi odî, aveva
sconvolto troppo l’Italia e l’Impero, perchè potesse abbandonare il
potere, prima di aver assestate un po’ le cose del mondo turbato:
ma anche per assestarle alla meglio occorreva una autorità forte e
rapida, di cui la invecchiata repubblica non era più capace. Anche i
suoi più ostinati avversari dovevano di lì a poco accorgersi che la
sparizione di Cesare sarebbe in tutto l’impero il principio di una
immensa catastrofe. Egli infatti, invece che a ripristinare l’antica
repubblica, pensava a ripigliare uno dei disegni elaborati tanti
anni prima nel convegno di Lucca; a vendicare Crasso e a conquistare
la Persia. La conquista della Persia gli procurerebbe la gloria,
l’autorità, e i tesori necessari per riordinare lo Stato e per salvare
dalla rovina l’Italia.


26. =La nuova insurrezione pompeiana in Spagna (46-45 a. C.).= —
Ma il vasto disegno fu intralciato da una nuova difficoltà, nata in
quelle Spagne, che erano state così facilmente ridotte all’obbedienza
nel 49. Quivi lo sgoverno dei luogotenenti di Cesare, le mene degli
agenti pompeiani, la commiserazione che destavano i figli di Pompeo,
Gneo e Sesto, imploranti ovunque vendetta per il padre loro, le
numerose amicizie, che Pompeo aveva lasciate, la latente, ma non
spenta, aspirazione all’indipendenza avevano ridestato un nuovo
incendio e un nuovo pericolo. Verso la fine del 46, i luogotenenti di
Cesare si trovarono o si credettero in tal pericolo per le forze di
cui Gneo Pompeo disponeva, che reclamarono la sua presenza. Cesare
non poteva partir per la Persia, lasciando la Spagna pericolante:
rimandò dunque la spedizione contro i Parti; ma prima di partire per
la Spagna, assunse la dittatura che aveva rifiutata al suo ritorno
e volle esser nominato console unico per il 45: ciò fatto, lasciò
l’Italia senza convocare i comizi, e durante il viaggio nominò otto
_praefecti urbi_, a cui confidò tutti gli uffici dei pretori e parte
degli uffici dei questori. Era una catena. Il pericolo spingeva Cesare
ad assumere i pieni poteri e questi accrescevano il pericolo. Grandi
furono l’irritazione e il dolore a Roma per questo aperto crescere del
potere personale di Cesare. Ma la guerra di Spagna fu molto difficile.
Alla battaglia di _Munda_, Cesare fu costretto a combattere come un
semplice soldato, e corse pericolo di esser fatto prigioniero (marzo
45). Tuttavia anche questa volta vinse, e se Sesto Pompeo riuscì a
sfuggire nella Spagna settentrionale, caddero Labieno e Gneo Pompeo.
Ma la nuova strage di illustri romani, la lunghezza della guerra,
la vittoria difficile e stentata avevano accresciuto in Roma e in
Italia il malcontento di quanti temevano che Cesare volesse opprimere
la repubblica. Invece i più zelanti tra i suoi partigiani avevano
approfittato della vittoria di Munda per far decretare nuovi onori al
loro duce: il diritto di portare, come prenome ereditario, il titolo
di _imperator_, il consolato per dieci anni, la facoltà di proporre
i candidati per l’edilità e per il tribunato! Non c’era dunque più
dubbio: Cesare voleva dominar solo sulle rovine della repubblica.
Questi onori non solo indisposero la pubblica opinione ma inasprirono
il vecchio dissidio fra i cesariani moderati e gli altri: a tal
segno che, appena tornato, Cesare cercò di placare i malcontenti, si
riconciliò con Antonio, che era sempre in disgrazia per le repressioni
del 47, abolì i _praefecti urbi_. Un barlume di speranza confortò
i più fiduciosi: Cesare restaurerebbe le istituzioni della libera
repubblica! Ma era nel vero invece Cicerone, il quale ammoniva di
non credere a coteste illusioni. Cesare non pensava a restaurare la
repubblica, ma a conquistare la Persia, ad ampliare ed abbellire Roma,
a deviare il corso del Tevere, a prosciugare le Paludi pontine, a
fondare biblioteche, a tagliare l’istmo di Corinto, ad aprire una nuova
strada attraverso l’Appennino, a costruire un gran porto ad Ostia, a
formare un corpo unico delle leggi romane, a rinnovare il catasto e il
censimento per tutto l’impero. Il malinteso tra Cesare e le classi alte
cresceva. Cesare voleva dare all’Italia un governo attivo, splendido,
benefico; le classi alte volevano innanzi tutto un governo conforme
alle tradizioni politiche della repubblica, in cui il senato e le
magistrature recuperassero l’antica autorità; in una parola, un governo
_legittimo_. Il malcontento si esasperava, anche in mezzo ai cesariani
moderati, che non volevano essere gli organi di un governo personale;
l’equilibrio delle cose e degli spiriti si faceva sempre più incerto
ed instabile; mentre Cesare preparava alacremente la spedizione contro
i Parti, i senatori, anche molti senatori cesariani, si domandavano
ansiosi quel che l’avvenire teneva in serbo per la repubblica. Ogni
atto di Cesare era spiato, discusso, tartassato spietatamente, come un
segno delle più tenebrose ambizioni. Quando, nella prima quindicina di
febbraio del 44, il senato e i comizi furono costretti ad approvare una
legge che nominava Cesare dittatore a vita!


27. =La congiura e le Idi di marzo (15 marzo 44 a. C.).= — La legge,
forse, era necessaria, poichè Cesare si accingeva a partire per la
guerra contro i Parti. Non era per Cesare prudenza abbandonare Roma
per una impresa così lunga e ardua, senza essere padrone assoluto di
tutto lo Stato. Ma la dittatura a vita era per i Romani la tirannide.
Una tradizione di secoli voleva che la dittatura non potesse durare
più di sei mesi. Silla stesso si era affrettato a deporla, l’ordine
ristabilito. E allora un senatore si persuase, che per salvare la
repubblica, la tradizione, il senato — e quindi, Roma e l’Italia —
occorreva uccidere Cesare. Questo senatore — Caio Cassio — era stato
questore di Crasso nella spedizione contro i Parti; aveva combattuto
agli ordini di Pompeo nella guerra civile; ma si era riconciliato dopo
Farsaglia con Cesare, che l’aveva annoverato tra i suoi amici e gli
aveva affidato molte cariche. Cassio si aprì con qualche amico fidato;
a tutti parve necessario accaparrare il cognato di Cassio, M. Bruto,
anche egli uno dei pompeiani passati a Cesare dopo Farsaglia, che
aveva molta autorità per la nobiltà delle progenie, per le parentele
cospicue, per la fanatica ammirazione del civismo eroico dell’antica
repubblica. Si gloriava di discendere da quel primo Bruto, che aveva
fondata la repubblica e immolato alla salvezza della repubblica la
propria prole. Cesare, che era stato molto amico di sua madre, lo amava
molto, e lo aveva largamente beneficato. Ma non fu difficile a Cassio,
esaltando il suo spirito civico, persuaderlo che egli doveva anteporre
la repubblica e il suo bene alla personale riconoscenza. Convinto
Bruto, molti pompeiani superstiti e cesariani moderati entrarono nella
cospirazione. Che la congiura avesse profonde ragioni politiche lo
dimostra il fatto che, ai primi del marzo 44, ben 60 (e forse 80)
senatori ne facevano parte: e tra questi, si può dire, la parte più
eletta dello stesso partito cesariano. Troppo il governo personale ed
una dittatura a vita ripugnavano ancora ai Romani! Ma occorreva far
presto, perchè era difficilissimo che un segreto, risaputo da tanti,
non trapelasse. Cesare inoltre era in procinto di partire per la
spedizione partica: da ogni parte affluivano i veterani richiamati;
ben sedici legioni e 10.000 cavalieri si raccoglievano in Macedonia
e in Grecia. Già il senato aveva, su proposta di Cesare, deliberato
che, prima della sua partenza, i magistrati sarebbero stati eletti
per tre anni — la supposta durata della sua assenza. Si sussurrava
inoltre che il quindicemviro L. Aurelio Cotta avrebbe proposto in
senato di proclamare, in obbedienza ad un antico oracolo Sibillino,
il condottiero della guerra partica re di tutte le province, fuori che
dell’Italia. E allora la morte di Cesare fu fissata per il 15 marzo, il
giorno della più vicina riunione del senato.

Il senato era stato convocato al Campo di Marte, nella Curia di
Pompeo, non lungi dall’odierno Campo dei Fiori. I senatori erano
numerosi, ma Cesare tardava ad apparire. Trattenuto da leggiera
indisposizione, fuori d’ogni sospetto, nella _Domus publica_, dove
egli, quale pontefice massimo, abitava, già s’era deciso a non recarsi
alla seduta. Fu allora spedito Decimo Bruto a prendere sue notizie
e a persuaderlo ad intervenire. E il valoroso luogotenente delle
Gallie, che s’era coperto di gloria combattendo contro i Veneti nel
57 e contro i Marsigliesi nel 49-48, non esitò a condurre al macello
un uomo, che lo aveva beneficato e si fidava di lui! Cesare si lasciò
convincere da Decimo; venne; e appena entrato nell’aula, e sedutosi,
gli si accostò uno dei congiurati, Tullio Cimbro, facendo le viste di
voler patrocinare la causa di suo fratello esule. Trebonio intanto si
era preso l’incarico di trattenere fuori dell’aula M. Antonio, che, per
essersi di recente riconciliato con Cesare ed essere stato fatto suo
collega nel consolato, i congiurati non avevano voluto mettere a parte
del disegno. Mentre Tullio parlava, gli altri congiurati si affollarono
intorno al dittatore: a un tratto, il supplicante dette un leggiero
strappo alla toga di Cesare, e mise allo scoperto il busto. Il segnale
era dato; i congiurati brandirono i pugnali e si gettarono su Cesare,
crivellandolo di colpi. Fu un baleno.... E Cesare rotolò in un mare di
sangue, a pie’ della statua di Pompeo (15 marzo 44).


28. =Cesare e l’opera sua.= — Il dittatore era spento. Non la sua
vita soltanto, ma anche l’opera sua era stata spezzata. Che cosa
rimaneva di questa? Che cosa può ricostruirsi e argomentarsi dai
frammenti del suo pensiero, ch’egli lasciava sparsi dovunque? Gli
storici antichi non videro in lui che il demolitore delle libertà
repubblicane, pur condannate alla morte. Gli storici moderni hanno
invece voluto ritrovare nei frammenti dell’opera sua un piano organico
per restaurare il crollante Stato romano. Che questo piano sia una
congettura dei moderni, ci pare sia dimostrato dalla narrazione delle
pagine che precedono. Ma negare la profetica antiveggenza di Cesare
non significa rimpicciolirlo. Cesare fu veramente un grande Uomo: un
dotto, un artista, e, al tempo stesso, un uomo d’arme e d’azione. La
immaginazione, la lucidezza della intelligenza, la versatilità, la
operosità infaticabile, l’agilità spirituale avrebbero fatto di lui,
in qualunque momento della storia, un grande personaggio. Ma nessun
politico può recare fin dalla culla un piano preordinato da attuare;
tutti debbono servire i loro tempi e gli eventi. Cesare capitò in
un’epoca, ingombra dagli avanzi di una storia ormai esausta, che era
necessario distruggere, per aprire le vie del futuro; onde egli fu non
un grande creatore, ma un grande distruttore, chè il tempo di rifare
il mondo non era giunto ancora. Due grandi distruzioni sono infatti
le sue massime imprese: la guerra gallica e la guerra civile. Con la
guerra gallica, egli distrusse la vecchia Gallia celtica, ed aprì alla
civiltà greco-latina le vie del continente europeo. Solo perchè la
Gallia fu romanizzata, la Gran Bretagna e la Germania furono a poco
a poco incivilite e cristianizzate; e incominciò quella grande storia
dell’Europa, di cui noi stiamo forse per vedere, o già abbiamo visto,
l’apogeo. Con la guerra civile, invece, Cesare affrettò la lenta agonia
della secolare repubblica; non la uccise e non costituì un nuovo ordine
politico. Quanto egli tentò per costituirlo fu provvisorio e caduco,
perchè la crisi non era ancora matura. Lo prova la tremenda convulsione
che seguì la sua morte.


NOTE AL CAPITOLO QUINTO.

[19] La terza dittatura Cesare dovette assumerla solo sullo scorcio del
46. Cfr. G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, vol. II, p. 460.

[20] CIC., _Brutus_, 96, 330; 97, 332 e passim: «_in hanc reipublicae
noctem.... haec importuna clades civitatis_».



CAPITOLO SESTO

LA TERZA GUERRA CIVILE

(44-42 a. C.).


29. =L’amnistia del 17 marzo e la convalidazione degli atti di Cesare.=
— Cesare era stato ucciso nella mattina del 15 marzo. La sua morte
fece in Roma come un gran vuoto. Il senato fuggì spaventato. L’altro
console, Marco Antonio, si chiuse in casa, temendo che i congiurati
tenessero in serbo un secondo pugnale per lui. I congiurati salirono
sul Campidoglio e si fortificarono. Roma rimase tutto il giorno in
balìa di se stessa.

Solo verso sera Antonio, che era stato raggiunto da Lepido, il
_magister equitum_ di Cesare, osò recarsi alla _domus publica_, a
prendere le carte e i denari del dittatore; e i congiurati tentarono
dal Campidoglio di entrare in discorso con i membri più eminenti del
senato. Il giorno seguente, il 16, l’attività dei partiti crebbe, i
soldati e i veterani di Cesare incominciarono, sobillati da Antonio,
a radunarsi e ad agitarsi; i principali personaggi del partito
del dittatore raggiunsero Antonio e quelli del partito senatorio —
Cicerone, tra gli altri — i congiurati; nei due campi si deliberò
a lungo e si iniziarono trattative da partito a partito, ma senza
risultato. Intanto molti soldati e veterani, appresa la notizia
dell’uccisione, accorrevano a Roma dai dintorni. Alla sera, non
riuscendo i cesariani e i congiurati a mettersi d’accordo, si convenne
di rimetter la questione al senato, che Antonio convocò, per il
mattino del 17, nel tempio della _Dea Tellus_. E la mattina del 17,
infatti, i senatori si recarono alla curia tra due ali di soldati,
che M. Antonio aveva fatti disporre, diceva, per mantener l’ordine;
e dietro i quali si pigiava la folla dei veterani di Cesare, i resti,
resuscitati per l’occasione, degli antichi _collegia_ di Clodio, e il
popolo minuto, che i soldati e gli amici di Cesare avevano nel giorno
precedente cercato di aizzare contro i congiurati. Ma la seduta fu
lunga e laboriosa. Il senato doveva decidere se i congiurati erano
degli assassini, e se, quindi, dovevano sottoporsi ad un regolare
processo, come volevano i più accesi partigiani di Cesare, o se Cesare
avesse a considerarsi tiranno, e quindi liberatori della patria
meritevoli di premio gli uccisori, come pretendevano i loro amici
più ardenti. Sebbene i congiurati, un po’ perchè avevano paura dei
veterani, un po’ perchè non si fidavano di Antonio, si fossero astenuti
dal partecipare alla seduta, subito apparve che la maggioranza del
senato era apertamente favorevole agli uccisori, e perciò aliena dal
primo di questi due giudizi. Troppo Cesare aveva offeso, danneggiato,
spaventato le classi alte e l’aristocrazia! Ma a render cauta la
maggioranza dall’incoronare i congiurati, giungevano di fuori il rumore
tempestoso e le grida della folla, che, man mano che il tempo passava,
imprecava a voce più alta e più arditamente contro gli uccisori di
Cesare. Si aggiunse, in mezzo alle discussioni, un abile discorso di
Antonio, il quale doveva mostrarsi così diverso in quei primi giorni,
dalla caricatura che di lui, nelle _Filippiche_, disegnerà tra breve
Cicerone. Antonio osservò che la proposta e minacciata _damnatio
memoriae_ di Cesare sarebbe seguita dalla rescissione degli atti di
lui, e quindi dall’annullamento di tutte le cariche e di tutti gli
uffici, di cui egli aveva nominato i titolari per l’anno in corso o
per gli anni seguenti; di tutte le donazioni, che egli aveva fatte;
dei benefizi che, direttamente o indirettamente, aveva largiti. Il
senato sarebbe decimato; i magistrati in carica e quelli designati
perderebbero il loro grado; le terre, da lui donate o vendute,
dovrebbero essere restituite ai loro antichi possessori; le riforme
attuate nelle province, in Italia o nelle colonie, sarebbero state
annullate, come le promesse: le promesse fatte ai veterani ad esempio.
Voleva il senato essere l’autore di un rivolgimento così universale,
sotto il quale resterebbero sepolti, insieme con gli amici di Cesare,
anche tanti suoi nemici e congiurati, che al dittatore dovevano la
loro fortuna? Intorno a queste angustiose incertezze la discussione
durò a lungo; finchè Cicerone trovò il modo di mettere tutti d’accordo,
proponendo di ricorrere a un istituto giuridico, che la città di Atene
aveva adottato in mezzo alle sue guerre civili: l’_amnistia_, ossia
l’oblio e il perdono reciproco di quanto fosse stato commesso contro
alla legge; nel tempo stesso, di considerare come validi gli atti di
Cesare, e non quelli soltanto già divenuti pubblici ed esecutorî, ma
anche gli altri, che si sarebbero trovati nelle sue carte, redatti in
forma ufficiale, in forza dei poteri conferiti a Cesare dal senato e
dai comizi. Questa proposta salvava ad un tempo i congiurati e gli
interessi di tutti gli amici e nemici di Cesare; interdiceva ogni
accusa contro gli uccisori e quindi trattava Cesare come un tiranno,
la cui morte era un bene; ma trattava la opera sua come quella di un
magistrato legittimo, volendola salva. La proposta fu approvata; e
la sera i congiurati, protetti dall’immunità, potevano scendere dal
Campidoglio, ove da tre giorni stavano rifugiati e barricati[21].


30. =I funerali di Cesare.= — La seduta senatoria del 17 marzo, se
il gruppo dei cesariani intransigenti non poteva vantarla come una
sua vittoria, aveva tuttavia provato che gli interessi costituiti
dalla guerra civile e dalla dittatura erano più forti dei congiurati.
I cesariani presero dunque coraggio, e nella successiva seduta del
senato, tenuta probabilmente il 19[22], chiesero per bocca di Pisone,
il suocero di Cesare, che gli si decretassero pubbliche esequie,
come a tutti i grandi cittadini. Di nuovo il senato si trovò in grave
impiccio. Decretare a Cesare pubbliche esequie voleva dire riconoscere
che la sua morte era un lutto comune; ora, come si poteva approvare
l’uccisione di un cittadino, la cui morte era riconosciuta come una
pubblica sventura? D’altra parte, come negare quell’onore ad un uomo,
che aveva tenuto tanti e così grandi uffici, che non era stato fatto
segno ad alcuna, sia pure postuma, accusa, i cui atti erano stati
approvati e confermati, lui morto, da tutto il senato? Prevalse alla
fine l’opinione più temperata; e fu deliberato, non ostante la viva
opposizione di Cassio e di molti senatori, che Cesare avesse pubblici
funerali, in un giorno che dovette cadere tra il 20 e il 23 marzo.

Giorno sospirato dagli uni e temuto dagli altri. Prima era stato aperto
il testamento, con il quale Cesare adottava come figlio e lasciava
erede della massima parte della propria fortuna il nipote Caio Ottavio;
designava — eventualmente — quali secondi eredi, taluni dei suoi stessi
uccisori; nominava alcuni dei congiurati tutori di suo figlio, se mai
uno ne avesse avuto; faceva obbligo al proprio erede universale di
distribuire a ciascun cittadino povero di Roma 120 o (secondo un’altra
versione) 300 sesterzi a testa, destinava ad uso pubblico i giardini
situati al di là del Tevere, insieme con le collezioni artistiche, in
quelli raccolte. Certamente Cesare aveva fatto in vita sua cose più
insigni di questo testamento: ma nessun atto suo commosse forse il
popolino di Roma, come la liberalità e le prove di affetto per tanti
suoi uccisori, di cui il suo testamento era pieno. Soldati, veterani
e plebe di Roma rammaricarono più vivamente la morte del dittatore;
imprecarono con maggior furore ai suoi uccisori; onde il giorno dei
funerali, il Foro, i templi, i monumenti adiacenti furono invasi da una
folla agitata, turbolenta, pronta alla violenza, alla vendetta, alla
distruzione. A un certo momento apparve, al di sopra della marea delle
teste ondeggianti, portato a spalla, da magistrati ed ex-magistrati,
il letto di avorio, ricoperto di porpora orlata di oro, su cui giaceva
il corpo esangue di Cesare: lo precedeva, come un trofeo, la toga
insanguinata; lo seguiva un lungo corteo di veterani, di liberti, di
operai, mentre fra le nenie funebri si udiva echeggiare ripetutamente
un verso di un tragico antico: _Quelli che io aveva salvati mi hanno
dato la morte_. Ma nel Foro romano doveva, come in tutti i funerali
dei nobili romani, tenersi il discorso funebre. Chi avrebbe parlato,
magnificando l’estinto innanzi a quella folla esaltata e mareggiante?
L’erede universale era assente; gli altri parenti erano personaggi
di poco conto; taluni dei secondi eredi avevano preso parte alla
congiura. Non restava che il collega Marco Antonio, il quale era anche
uno dei secondi eredi. Ma l’impegno era spinoso: come fare l’apologia
di Cesare tra i suoi veterani e i suoi uccisori? Antonio si cavò
d’impaccio abilmente, facendo parlare i pubblici documenti. Invitò un
araldo a leggere il decreto, con cui, ai primi dell’anno, il senato
aveva decretato a Cesare tutti gli onori umani e divini; fece leggere
la formula del solenne giuramento, con cui quei personaggi, che poco
dopo dovevano trucidarlo, si erano impegnati con lui: poi aggiunse
poche parole e scese dai rostri. Il corteo si preparava a riprendere
la sua via ed avviarsi al Campo di Marte, quando prima alcune voci
isolate, poi altre più numerose e più insistenti gridarono che il corpo
dovesse cremarsi in quel luogo, nel Tempio di Giove Capitolino o nella
stessa Curia di Pompeo, in cui la morte l’aveva sorpreso. In un baleno
i portatori del feretro furono sopraffatti; si portarono sul luogo
banchi, sgabelli, tavole, fascine, imposte scardinate dagli edifizi e
dalle case vicine, e fu loro appiccato il fuoco, e sul fuoco fu posto
il cadavere del grande Cesare, su cui, in un accesso di frenesia, le
donne cominciarono a gettare i loro monili; i veterani, le armi; i
trombettieri, gli strumenti; taluno, anche le proprie vesti.

Ma quella cremazione non poteva essere che il prologo di un incendio
più vasto. Dal rogo di Cesare, la folla infuriata passò ad appiccare
il fuoco alla casa di Bruto e di Cassio; ogni quartiere ebbe i suoi
disordini e la sua dimostrazione contro i tirannicidi e i loro fautori,
di cui taluno fu trucidato. La notte non bastò a placare il furore e
la collera popolare; chè il giorno dopo l’agitazione ricominciò. Alle
dimostrazioni del popolo minuto si unirono quelle dei numerosissimi
stranieri, che soggiornavano in Roma. Un moto improvviso e incoercibile
di plebe annullava l’amnistia del 17 marzo. Se i congiurati erano
stati amnistiati dal senato, i veterani, i soldati, il popolino non
perdonavano, chiedevano a gran voce vendetta; e, quando potevano, la
facevano. L’agitazione non si spense col passare dei giorni; proseguì
anzi implacabile, tacendo a tratti per ridestarsi più minacciosa; e
impedendo ai congiurati più in vista di uscir di casa e di comparire
in pubblico, e quindi di esercitare le magistrature, quelli che ne
avevano.


31. =Il figlio di Cesare e Marco Antonio.= — Questi tumulti popolari
fecero quel che gli amici di Cesare non avevano osato: cacciarono
dal senato e dalle magistrature prima, da Roma poi, gli uccisori
del dittatore. In pochi giorni la vita pubblica venne ad essere come
paralizzata; il senato non potè quasi più radunarsi; e verso la fine
del mese i congiurati, stanchi di vivere chiusi nelle loro case e
sotto tante minacce, incominciarono a partire da Roma. Alla partenza
dei congiurati seguì quella dei loro fautori, e dei loro amici. Anche
Cicerone, il più autorevole fra i membri del senato, partiva il 6 o il
7 aprile per Pozzuoli. Il partito senatorio dileguava, la repubblica
si disfaceva, e Antonio, per la forza di questa agitazione popolare e
per la paura dei congiurati, si risvegliava una bella mattina padrone
dello Stato. L’occasione era troppo bella, perchè egli non tentasse di
consolidare l’autorità predominante che la fortuna e gli avvenimenti
gli avevano conferita. Egli pensò di riuscirci (poichè il partito
dei congiurati si disperdeva), ingraziandosi i soldati, i veterani
di Cesare, la plebe favorevole alla memoria del dittatore. E infatti
incominciò a sfruttare abilmente le carte di Cesare rimaste in suo
potere; fece un viaggio in Campania, per distribuire ai veterani le
terre promesse e raccomandar loro di tenersi vigili in armi; tornò
circa un mese dopo, accompagnato da altre schiere di vecchi soldati
di Cesare, cui aveva promesso nuove terre in Italia. Poco più di un
mese dopo la morte di Cesare, Antonio già si preparava a prenderne
il posto nella repubblica abbandonata da tutti. Nè alcuno pareva
potersi opporre: chè i congiurati erano dispersi per l’Italia;
il senato, paralizzato; quasi tutte le magistrature disertate dai
titolari in fuga; la repubblica vuota. Non c’era che da farsi innanzi
per occuparla.... Quando, tutt’ad un tratto, si presentò un ostacolo
inopinato: l’erede universale, il nipote, il figliolo adottivo di
Cesare, Caio Ottavio, giovane appena diciannovenne, che la morte del
suo illustre parente aveva sorpreso in Apollonia, non lungi da Epidamno
e che era tornato a Roma, mentre Antonio si tratteneva in Campania.

Caio Ottavio era nato in Roma il 23 settembre del 63 a. C., l’anno
della congiura di Catilina e del consolato di Cicerone da una nipote
— figlia di una sorella — di Cesare. Aveva perduto il padre a quattro
anni, ed essendo la madre sua passata a seconde nozze, era stato
educato dalla nonna materna, Giulia. Sin dai primi suoi anni era stato
un fanciullo nervoso, delicato, malaticcio, ma assai intelligente,
savio e studioso. Preso a ben volere dal dittatore, aveva ottenuto,
sebbene giovanissimo, talune cariche onorifiche, ed era stato mandato
ad Apollonia, per prepararsi ad accompagnarlo nella campagna contro
i Parti. Non aveva quindi ancora fatto nulla, e nulla si sapeva dei
suoi sentimenti; ma protetto e figlio adottivo del dittatore, dotato
di ingegno e di ambizione, egli non poteva non disputare ad Antonio
l’eredità di Cesare, che Antonio voleva tutta far sua. La forza delle
cose ce lo obbligava. Lo screzio, infatti, fra i due avvenne subito
al ritorno di Antonio dalla Campania. Ottavio si affrettò a chiedere
ad Antonio le somme, che si dovevano trovare nella cassa di Cesare.
Ma Antonio non solo tenne per sè il denaro, ma cominciò ad intrigare
presso i comizi curiati, affinchè negassero o ritardassero la ratifica
dell’adozione di Caio Ottavio, nella famiglia dei Giulî; e quindi,
approfittando della dispersione del maggior numero dei senatori
influenti, dell’avvilimento in cui giaceva il senato, del favore del
popolino e dei veterani, nonchè della preferenza dei soldati condotti
di Campania, tentò, senza più curarsi di Ottavio, di impadronirsi
della repubblica con poche mosse risolute. Il 2 giugno faceva per
legge, dai comizi tributi, prolungare a cinque anni, sino a tutto
il 39, il governo della Macedonia, assegnatogli da Cesare, e quello
della Siria, assegnato pure da Cesare a Cornelio Dolabella[23]. Poco
dopo il fratello suo, il tribuno Lucio, promulgava una grande legge
agraria con lo scopo di preparare la distribuzione tra i veterani
dell’agro pubblico superstite in Italia e di acquistare, allo
stesso intento, altre terre dai privati; finalmente, egli stesso e
Dolabella proponevano al popolo di sorpresa una legge _de permutatione
provinciarum_[24], per cui la Gallia Cisalpina, la provincia da cui
si poteva tenere in soggezione l’Italia, doveva passare in luogo della
Macedonia, da Decimo Bruto, che la teneva fin dall’aprile, allo stesso
Antonio, il quale avrebbe avuto facoltà di trasportarvi le milizie di
Macedonia: una forza di più che 50.000 uomini.

La intenzione di succedere a Cesare nel predominio sulla repubblica,
era chiara. Dalla Gallia Cisalpina Antonio, a capo di tante legioni
e con il favore dei soldati, avrebbe dominato Roma. Nell’ordine
senatorio, nelle classi alte cresceva l’avversione contro Antonio: ma
il favore dei veterani e l’assenza da Roma dei più autorevoli tra i
congiurati facevano inespugnabile la sua potenza. Non ostante qualche
fiacco tentativo di opposizione in senato, la _lex de permutatione_ fu
approvata nel mese di agosto. Antonio e con esso il partito cesariano
erano dunque di nuovo padroni della Gallia Cisalpina, dell’esercito
più vicino a Roma, e quindi della repubblica. I congiurati e tutto
il partito, che li sosteneva, parevano spacciati, quando questo
partito trovò un inopinato aiuto proprio in Caio Ottavio, nel figlio
adottivo di Cesare, che, l’adozione approvata, aveva il diritto
ormai di chiamarsi C. Giulio Cesare Ottaviano. Lo screzio fra lui
ed Antonio s’era inasprito. Risoluto a ottemperare agli obblighi
impostigli dal testamento di Cesare e a procurarsi con tal mezzo una
grande popolarità, il giovane Ottavio, cui Antonio negava l’eredità di
Cesare, aveva venduto tutti i possedimenti personali; aveva invocato
l’aiuto dei suoi congiunti e degli amici più fidi di Cesare; ed era
riuscito a distribuire a ciascun cittadino povero di Roma il legato a
lui commesso dal testamento paterno. Poi aveva preparato, in memoria
del genitore, e a sollazzo dei veterani e del popolo, giuochi, che
aveva denominati della _Vittoria di Cesare_. Ma quando nei giuochi,
che ebbero luogo nella terza decade di luglio, il giovane aveva voluto
far portare il seggio dorato di Cesare, n’era stato impedito da alcuni
tribuni della plebe, subornati da Antonio. Ottaviano aveva ricorso al
console; ma invano: Antonio aveva dato ragione ai tribuni e minacciato
il figlio di Cesare di metterlo in prigione se continuasse a sobillare
la popolazione romana. Peggio accadeva qualche mese dopo. Verso il 4
o il 5 ottobre corse per Roma la diceria che Ottavio aveva tentato di
assassinare Antonio nella sua stessa casa, prezzolando all’uopo dei
sicari. Era vera la notizia? Era falsa?[25] Impossibile decidere. Ma
vera o falsa, quell’accusa gettava il figlio di Cesare nelle braccia
del partito dei congiurati. Quell’accusa preparava un processo: per
non restar solo, esposto ai colpi di Antonio, Ottaviano si intese con
i congiurati, si offrì per difenderli, e fu accettato, poichè ormai i
congiurati non avevano capi: onde a mezzo ottobre si recò anch’egli in
Campania, con tutte le somme che egli e i suoi amici avevano potuto
raccogliere, a reclutare tra i veterani di Cesare una sua guardia
personale, che al buon momento avrebbe potuto difendere la repubblica
contro Antonio: l’impresa più rivoluzionaria, cui dal tempo di Clodio e
di Milone Roma avesse assistito.


32. =Il «De Officiis» di M. Tullio Cicerone.= — Mentre Ottaviano in
Campania attendeva con fortuna alla sua rischiosa bisogna, Cicerone
si tratteneva a Pozzuoli, stanco e sfiduciato di ogni cosa. Egli
vagheggiava in quei mesi qualcosa di più alto, che la vittoria della
sua parte: il rinnovamento morale della sua gente, per il quale
soltanto Roma poteva esser salva. Come tutti i Romani eminenti dopo
la seconda guerra punica, egli era spaventato dalla contradizione
tragica, in cui l’Italia si disfaceva: quella contradizione, per cui
la coltura e la ricchezza la corrompevano, la guerra e la vittoria
la effeminavano, la dominazione sugli altri popoli la spogliava
delle domestiche libertà. E da anni andava cercando come si potesse
conciliare la conquista e la libertà, la ricchezza e la disciplina, la
coltura e la virtù.

Doveva essere questo l’assunto del libro che Cicerone componeva
in questi mesi, il _De officiis_, nel quale le compilazioni e le
traduzioni dal greco non sono ritagli morti cuciti insieme da un sarto
frettoloso e indifferente; ma testimonianze vive, per il soffio che
le rianima, del grande travaglio morale e politico in cui i tempi, e
l’autore con essi, si struggevano. Cicerone si proponeva, scrivendo
questo libro, di ricercare quali virtù debbano ornare la classe
dominante in una repubblica ben governata; e le trovava tutte riassunte
in questo principio: essere la ricchezza ed il potere non già i massimi
beni, che vanno desiderati per se stessi, ma pesanti fardelli che
occorre addossarsi e portare per il bene di tutti. Inteso e accettato
questo principio, i nobili e le classi dominanti saprebbero vivere
con dignità, ma senza sfarzo, esercitando gli uffici pubblici, non per
arricchire e corrompere il popolo, ma per servire la plebe povera e la
condizione media; vorrebbero piuttosto edificare lavori pubblici utili,
come mura, porti, acquedotti, strade, anzichè monumenti di lusso —
teatri, portici, templi; — soccorrerebbero il popolo nei suoi bisogni,
ma senza ruinare il tesoro pubblico; aiuterebbero i debitori innocenti,
ma senza rompere le tavole dei debiti con la violenza; darebbero
infine terre ai poveri, ma senza spogliare i proprietari legittimi.
Così il bene universale diverrebbe il sommo fine del governo; e il
rispetto scrupoloso delle leggi, la liberalità intelligente dei grandi,
l’esercizio della virtù, il mezzo per ottenere questo fine. Nè le
province erano escluse da questo rinnovamento morale della metropoli.
La repubblica avrebbe dovuto comandare ai sudditi con giustizia,
ricercando il loro bene più che il proprio. Non più aggressioni
inique, come quelle di Cesare e di Crasso; non più violenze, perfidie
e slealtà; non più guerre neppure, fuorchè per difendere l’ordine e la
pace; i grandi oratori, i filosofi, i giuristi onorati più che i grandi
guerrieri, purchè lo studio non distogliesse mai nessun cittadino dal
proprio dovere civico. Così solo si sarebbe fondato il vero governo
degli ottimi, senza demagoghi ambiziosi e senza conservatori violenti,
senza nuovi Cesare o nuovi Silla. Cicerone dettava così, senza saperlo,
il suo programma all’impero. Ma il destino gli concederebbe solo
di vedere i primi eccessi dell’uomo, che un giorno avrebbe attuato,
adattandolo al mondo, il suo sogno.


33. =La guerra di Modena (43 a. C.).= — Ottaviano con aveva perso
tempo in Campania. Dipingendo Antonio come un cesariano tepido,
accusandolo di tradire il partito e spendendo grandi somme, era
riuscito a reclutare 3000, o secondo altri, ben 10.000 uomini[26], di
cui pensava servirsi per tutt’altro fine che la vendetta di Cesare.
Nel tempo stesso, per mezzo di amici, tentava nascostamente le legioni
macedoniche, che Antonio aveva fatte sbarcare in Italia e che erano
malcontente di essere mandate in Gallia, invece che verso l’impero
dei Parti, dove avevano sperato una ricca preda. Ma Antonio, irritato
da tutti questi intrighi, avviò tre legioni lungo l’Adriatico alla
volta della Cisalpina e due ne condusse nel Lazio: poi andò a Roma,
risoluto a finirla con Ottaviano, processandolo per i suoi armamenti
illegali. Le sorti di Ottaviano pendevano da un filo. All’avvicinarsi
del pericolo i pompeiani, che lo avevano incoraggiato sino allora, lo
abbandonarono; gli stessi veterani, da lui reclutati, vacillarono;
se Antonio riusciva a metterlo in accusa per _perduellio_, non gli
resterebbe più che o inalzare lo stendardo della rivolta o uccidersi.
Ma un miracolo lo salvò. All’ultimo momento, le due legioni che Antonio
aveva condotte nel Lazio, irritate dalla sua severità, malcontente
dei doni ricevuti, lavorate abilmente da Ottaviano, si ribellarono,
dichiarandosi per il figlio di Cesare. Questa rivolta capovolgeva
le sorti a danno di Antonio, e con tanto maggior pericolo, perchè
nel frattempo Decimo Bruto, risoluto a non riconoscere la _lex de
permutatione_, armava soldati nella Cisalpina. Antonio correva il
pericolo, con le tre legioni rimastegli fedeli, di esser preso in mezzo
tra Ottaviano e Decimo Bruto. Ma non esitò: per difendere la minacciata
provincia, dopo aver fatto deliberare il senato intorno alle province
ancora vacanti, partì per la Cisalpina sui primi del dicembre 44,
conducendo seco i veterani che si trovavano in Roma e che l’avevano
aiutato subito dopo le Idi di marzo; richiamò la sesta legione rimasta
in Macedonia, radunando in gran fretta nuove milizie, e pose campo a
Rimini, donde iniziava le operazioni contro Decimo Bruto.

La partenza del console la diede vinta per il momento al partito dei
congiurati. Ottaviano si avvicinò ancora di più ai pompeiani e iniziò
accordi con Decimo Bruto. Decimo Bruto, sentendosi sostenuto da Roma,
deliberò di resistere ad Antonio, non ostante la scarsezza delle sue
forze; i fermi propositi di Decimo infusero a loro volta coraggio al
partito dei congiurati, che a Roma risollevò il capo; Cicerone si mise
risolutamente alla sua testa. Tra lui e Antonio non era corso mai buon
sangue; ma non c’era stata neppure fino ad allora aperta dichiarazione
di inimicizia. Cicerone aveva sempre esitato tra l’odio di Antonio
e i consigli della prudenza. Ogni esitanza disparve, invece, dal
giorno in cui il senato, per la prima volta, tornò a radunarsi dopo
la partenza di Antonio, che fu il 20 di dicembre. In quella seduta,
pronunciando quello che nella raccolta dei suoi discorsi porta il
titolo di _terza Filippica_, Cicerone si dichiarò per la prima volta
apertamente contro Antonio; e quando nelle sedute del senato del 1º
gennaio del 43 si discusse della situazione, con la quinta Filippica
sostenne a viso aperto che occorreva senz’altro dichiarare la guerra.
Il prudente letterato diventava il campione degli arrabbiati. Ma nel
senato c’era un manipolo di amici di Antonio; e soprattutto c’erano
molti che temevano una nuova guerra civile. Si discusse dunque a lungo;
si approvarono grandi onori e premi per Ottaviano, che fu ammesso nel
senato tra i senatori di rango consolare, e autorizzato a domandare il
consolato dieci anni prima del tempo legale; ma, quanto ad Antonio, si
prese un partito di mezzo: non si dichiarò la guerra, ma si spedì una
ambasceria di tre senatori a intimargli di abbandonare la Cisalpina.

Antonio frattanto aveva costretto Decimo a chiudersi in Modena; ce
lo assediava, ma mollemente; e raccoglieva soldati da ogni parte,
persino nell’Italia meridionale, dove aveva mandato un suo ufficiale,
Ventidio Basso, a reclutare tre legioni. I tre ambasciatori gli si
presentarono; gli parlarono con il dovuto rispetto, e tra essi e
Antonio si impegnò una discussione amichevole. Alla fine Antonio si
dichiarò pronto a lasciar la Cisalpina, se gli fosse garantita la
Transalpina con sei legioni per cinque anni e se non si ritornasse su
quello che egli aveva fatto come console. A molti amici della pace la
proposta parve ragionevole, non a Cicerone, il quale, in una seduta dei
primi del febbraio, cercò di mostrare che non avendo Antonio obbedito
alle intimazioni del senato, occorreva senz’altro dichiararlo nemico
pubblico (_hostis publicus_) e sguainare la spada. Ma la maggioranza
dei senatori, se non accolse le proposte di Antonio, volle lasciare
ancora aperta una via all’accordo; e, invece di dichiarare la guerra,
si contentò di dichiarare il _tumultus_, ossia il turbamento grave
dell’ordine pubblico. Il senato consigliava prudenza, e non solo per
amore della pace; ma per una ragionata diffidenza dei soldati. Il
console Irzio aveva preso il comando dell’esercito di Ottaviano, e
partito di Roma, si era dato a raccogliere nuove milizie; ma nè Irzio
nè Ottaviano, nè lo stesso Decimo Bruto assediato, benchè a capo di
forze preponderanti, osavano intraprendere delle ardite operazioni
contro Antonio; perchè troppi erano nei loro eserciti i veterani di
Cesare, e c’era da temere che non avrebbero combattuto contro Antonio
e contro i suoi soldati. Cicerone solo, esaltato da uno strano furore,
voleva davvero la guerra. Senonchè, verso la metà di febbraio, giunsero
a Roma delle notizie meravigliose. Marco Bruto, fuggito da Roma pochi
mesi prima come esule, con la sola scorta di poche decine di migliaia
di sesterzi presi a prestito da un amico generoso, aveva, insieme
con parecchi suoi compagni d’esilio, residenti in Atene, compiuto un
prodigio. Era riuscito ad impadronirsi dei tributi che il governatore
della provincia d’Asia spediva a Roma: 16.000 talenti; con questi,
corrompendo gli eserciti romani d’Oriente, e facendo nuove leve,
era riuscito ad allestire un esercito, a occupare la Macedonia, e
a mettere la mano sui grandi depositi militari, che Cesare aveva
apparecchiati colà per la guerra partica; ed assediava ora ad Apollonia
il governatore della Macedonia, Caio Antonio, fratello di Marco. Il
partito pompeiano aveva in Oriente un grande esercito e un tesoro
di guerra; ed era liberato dalla paura che i veterani di Cesare non
fossero disposti a combattere che per i cesariani. Primeggiò dunque di
nuovo e comandò in senato, come arbitro della repubblica. All’antica
prudenza successe una audacia nuova; quella stessa assemblea, che fino
ad allora era stata sorda al pungolo dell’eloquenza infiammata di
Cicerone, applaudì unanime la sua nuova orazione contro Antonio (la
_decima Filippica_); approvò tutti gli atti rivoluzionari compiuti
da Bruto in Oriente, investendolo del comando proconsolare sulla
Macedonia, sulla Grecia e sull’Illiria con la raccomandazione di
tenersi vicino all’Italia; annullò tutti gli atti di Antonio. La guerra
ad Antonio era dichiarata; e gli eserciti, sino allora immobili o
quasi, finalmente si mossero davvero. Antonio incominciò ad assediare
sul serio Modena; e ordinò a Ventidio di raggiungerlo al più presto
con le legioni. A sua volta il senato pensò a soccorrere efficacemente
Decimo. Il 19 marzo, l’altro console, Vibio Pansa, lasciava Roma con
quattro nuove legioni, per riunirsi con gli eserciti del suo collega
Irzio e di Ottaviano, che dovevano attaccare Antonio sotto Modena e
liberare Decimo. Il 14 o il 15 aprile Antonio, sebbene inferiore di
forze, tentò di impedire la congiunzione di Pansa con Irzio e con
Ottaviano, sorprendendolo in marcia, mentre suo fratello Lucio avrebbe
distratto l’attenzione di Irzio e di Ottaviano con un finto assalto ai
loro accampamenti. Ma Irzio, intravedendo il disegno di Antonio, aveva
mandato a tempo dodici coorti incontro a Pansa. Queste riuscirono a
congiungersi con l’esercito che sopraggiungeva, e lo accompagnarono nel
resto del cammino; ma non per questo Antonio mutò piano; e nei pressi
di Castelfranco (_Forum Gallorum_) assalì insieme le legioni di Pansa e
i nuovi rinforzi, riuscendo a sconfiggerli. Lo stesso Pansa, gravemente
ferito, dovette abbandonare la linea del combattimento. Senonchè un
messaggero del vinto era giunto, invocando aiuti, al campo di Irzio.
Questi spedì subito due legioni di veterani. Le venti coorti di Antonio
vincitrici si ritiravano stanche nei loro accampamenti, allorchè furono
assalite dalle fresche milizie del nuovo avversario, e subirono a loro
volta una sconfitta abbastanza grave.

Scontro di avanguardie e non decisivo, del resto. I due avversari non
avevano impiegato che una piccola parte delle proprie forze, e Ventidio
sopraggiungeva dalla via Emilia alle spalle di Irzio e di Ottaviano.
Questo pericolo e le strettezze in cui versava l’esercito di Decimo
Bruto in Modena, indussero Irzio, Pansa e Ottavio, una settimana dopo,
a tentare di rompere il blocco, mentre Decimo Bruto avrebbe fatto una
sortita dalla città. Così avvenne; e la battaglia — o piuttosto le
due battaglie — furono asprissime. Irzio, combattendo da valoroso,
perì nella mischia, e Ottaviano, per la prima volta in vita sua,
dovette combattere da generale e da soldato ad un tempo. Alla sera le
milizie di Decimo e le altre di Irzio e di Ottaviano erano costrette a
ritirarsi. Ma Antonio aveva perduto molti soldati; tanto che, temendo
di essere attaccato di nuovo il giorno dopo, prima che Ventidio
giungesse, e distrutto, la notte stessa, improvvisamente, deliberò di
togliere l’assedio e di ritirarsi nella Gallia Narbonese, dopo aver
inviato messaggeri a Ventidio perchè lo raggiungesse colà, per la via
della Liguria.


34. =«Triumviri reipublicae costituendae».= — Che giubilo in Roma e
nel senato, quando giunse la notizia della fuga di Antonio! Il ribelle
parve spacciato; la guerra, vinta; i cesariani, sterminati; onde in
una memorabile seduta del 26 aprile Antonio e i suoi partigiani furono
finalmente proscritti. Ma la gioia, come spesso accade, aveva avuto
troppa fretta. Antonio abbandonava Modena con un esercito che, se non
era stato vittorioso, non era stato neppure vinto; e correva incontro a
un esercito più fresco ed amico: quello a cui comandava il governatore
della Gallia Narbonese, M. Emilio Lepido, l’amico di Cesare e suo,
con il quale già durante l’assedio di Modena egli aveva trattato e
che gli aveva promesso aiuto. Invece, degli eserciti che si credevano
vincitori, quello di Decimo Bruto era stremato; l’altro non aveva più
generali, perchè anche Pansa era morto pochi giorni dopo la battaglia
per le ferite, ed Ottaviano non sapeva, o in parte non poteva,
comandare. Infatti Decimo non potè persuaderlo a tagliare la strada a
Ventidio Basso, che varcava l’Appennino per scendere in Liguria e di là
raggiungere Antonio nella Narbonese. Ottaviano si era schierato contro
Antonio, perchè questi aveva voluto toglierlo brutalmente di mezzo;
ma egli non poteva neppur volere la piena vittoria degli uccisori del
padre suo; e se anche per stoltezza e accecamento l’avesse voluta,
non l’avrebbero voluta i suoi soldati. Se la speranza delle ricompense
promesse, se la presenza di un ex-cesariano come Irzio e dello stesso
Ottaviano li aveva persuasi a combattere Antonio, era temerario sperare
che i vecchi soldati ed ufficiali di Cesare avrebbero combattuto, per
ripristinare la potenza del senato e dei congiurati. Per trascinarli
a tanto occorrevano grandi mezzi: vistosi donativi in contanti e non
promesse; una amicizia sincera e piena tra il partito pompeiano e il
figlio di Cesare. Sarebbe il senato da tanto?

Il senato invece esitò sin dal principio. Mentre Ottavio indugiava
a Bologna, inerte, deliberò, dopo lunghi tentennamenti, che sole le
due legioni ribelli ad Antonio riceverebbero la ricompensa, e non
già di 20.000 (come era stato promesso) ma solo di 10.000 sesterzi a
capo. Statuì inoltre, se non di ritogliere ad Ottavio il comando, come
qualcuno aveva suggerito, di far le viste di non riconoscergli alcuna
ufficiale autorità e di trattare direttamente con le cinque legioni che
egli comandava[27]. Cosicchè, nello stesso tempo in cui Decimo Bruto
si poneva, solo e non senza ritardo, e con le sue stanche milizie,
al difficile inseguimento di Antonio, questi con quattro legioni,
con altre milizie non ancora inquadrate, e con tutta la cavalleria
viaggiava a grandi marce verso la Narbonese, sfidando le asprezze del
faticoso cammino. Il 23 aprile era piombato come un turbine su Parma;
il 25 era giunto a Piacenza; il 28 a Dertona (Tortona), donde aveva
intrapreso l’ascensione delle montagne, che lo separavano da _Vada
Sabatia_ (Vado). Camminando a marce forzate, era arrivato a Vado il 5
maggio e il 7 era raggiunto da Ventidio con tre legioni, che Ottaviano
aveva lasciato sfuggire; e insieme si erano incamminati alla volta
della Narbonese, giungendo otto giorni dopo a _Forum Julii_, a sole
24 miglia di distanza da Lepido, le cui sette legioni accampavano a
_Forum Voconii_. Ai primi di giugno, Roma apprese che gli eserciti del
governatore della Narbonese e del fuggiasco proconsole della Cisalpina
avevano fraternizzato; che Antonio e Lepido erano in armi insieme
contro la Repubblica.

M. Emilio Lepido era stato l’ultimo _magister equitum_ e il più intimo
tra gli amici del dittatore, nei tempi che ne precedettero la morte.
Alla sera del 15 marzo 44, solo tra i cesariani, era corso ad Antonio
per deliberare insieme con lui sul pericolo del suo partito; e par
che consigliasse l’amico di dare insieme l’assalto al Campidoglio e
trucidare i congiurati. Più tardi, si era destreggiato tra le due
frazioni: finchè, sia pur facendo mostra di essere violentato dai
soldati, si era risolutamente schierato dalla parte di Antonio contro
la coalizione di Ottaviano e del partito dei congiurati. Antonio
dunque disponeva ormai di nuovo di un poderoso esercito contro questo
partito e contro il senato. Il senato chiamò in Italia dall’Oriente
non solo Marco Bruto ma anche Cassio, che, sebbene con minore celerità
e fortuna del suo amico, aveva, negli ultimi tempi, reclutato un
esercito in Siria, dove aveva tolto di mezzo Dolabella; richiamò le
legioni di stanza in Africa, agli ordini di Q. Cornificio; pose a capo
della flotta, col titolo di _praefectus classis et orae maritimae_,
e con poteri eguali a quelli del padre suo nella guerra dei pirati,
il figlio superstite di Pompeo, Sesto[28], uscito dal nascondiglio,
che, dopo Munda, l’aveva ospitato nella estrema Spagna; impose
all’Italia una contribuzione straordinaria e affidò ad Ottaviano il
comando della guerra contro Antonio. Frattanto Decimo Bruto, per la
valle d’Aosta ed il piccolo S. Bernardo — adoperiamo i nomi moderni
— scendeva nella Narbonese, congiungendosi con Planco a Grenoble.
Decimo e Planco avevano insieme quindici legioni, Lepido e Antonio,
quattordici: sarebbe stato loro difficile di resistere a un attacco
di Decimo e Planco da una parte e di Ottaviano, che ora disponeva di
otto legioni, dall’altra. Ottaviano veniva ad essere così l’arbitro,
poichè la parte, per cui egli combatterebbe, soverchierebbe l’altra
senza speranza. Lepido lo intese così bene, che aprì subito trattative
con Ottaviano per riconciliarlo con Antonio, facendo appello al gran
nome di Cesare, cui tanto dovevano tutti. Ma Ottaviano perseguiva
allora un altro disegno, audacissimo: i due posti di consoli essendo
vacanti per la morte di Irzio e di Pansa, ottener dal senato d’esser
nominato console, insieme con Cicerone. Un console non ancora ventenne
era tale uno scandalo, che mai non s’era visto l’eguale, a Roma! Ma i
tempi erano così torbidi, il pericolo così urgente, che Cicerone si
rassegnava a questo orrendo strappo alla costituzione, purchè egli
fosse il collega. Non c’era altro mezzo, del resto, per impedire a
Lepido di riconciliare Antonio e Ottaviano. Ma il senato si ribellò
tutto quanto contro questa illegalità mostruosa. E Ottaviano allora
prestò l’orecchio alle proposte di Lepido: strinse un accordo segreto,
e, appena strettolo, con un repentino voltafaccia si presentò di
nuovo ai soldati come il figlio e l’erede di Cesare; ricordò loro con
veementi discorsi i benefici e le glorie del padre; promise che, fatto
console, avrebbe dato loro tutte le ricompense promesse da Cesare, e
li persuase a mandare un’ambasceria di centurioni a Roma, a chiedere al
senato, per il loro generale, la suprema autorità. Ma avendo il senato
rifiutato, egli marciò con le sue legioni alla volta di Roma. Questa
volta il senato vacillò, e s’affrettò a concedere quanto aveva poco
prima rifiutato; e 20.000 sesterzi a testa per tutte le legioni; e la
nomina di Ottaviano nella Commissione per la ripartizione delle terre
ai suoi soldati; e il permesso di brigare il consolato anche assente da
Roma. Ma ecco sopraggiungere la notizia che le regioni della provincia
d’Africa erano arrivate! Subito il senato ritirò ogni concessione. E
allora Ottaviano entrò a mano armata in Roma, ma senza spargimento di
sangue, chè le milizie, su cui il senato aveva fatto assegnamento per
essere difeso, si dichiararono tosto per lui. Il 19 agosto egli stesso
e Q. Pedio, un altro degli eredi di Cesare, erano nominati consoli. E
allora avvenne quello per cui i pompeiani e i congiurati trepidavano
da più di un anno. Dopo aver fatto convalidare la propria adozione
dai comizi centuriati; dopo avere versato ai soldati, con fondi del
pubblico erario, una parte delle ricompense promesse, e al popolo, una
parte del legato lasciato da Cesare, i due nuovi consoli fecero quello
che Antonio non aveva mai osato: fecero approvare dai comizi una legge,
la _lex Paedia_, la quale deferiva a un tribunale speciale gli autori
della morte di Cesare e i loro complici per essere condannati alla
_interdictio aqua et igni_ e alla confisca dei beni.

L’amnistia del 17 marzo del 44, il capolavoro di Cicerone, era
annullata. Il partito cesariano era padrone di Roma, per l’incredibile
voltafaccia di Ottaviano, e possedeva un’arma micidiale contro il
partito dei congiurati. Nè fu tardo o timido a servirsene. Gli amici
di Ottaviano si divisero i congiurati, ognuno accusandone uno; e in
pochi giorni li fecero tutti condannare in contumacia. Intanto alla
notizia degli eventi di Roma l’entusiasmo cesariano, a lungo compresso,
divampava in tutti gli eserciti d’Occidente, anche in quelli che
servivano sotto generali fedeli al partito pompeiano; e li spingeva
tutti a disertare la causa del senato, e a dichiararsi in favore dei
tre nuovi capi del partito cesariano. Defezionò nella Spagna l’esercito
di Asinio Pollione; nella Transalpina, quello di L. Munazio Planco, che
già s’era congiunto con l’esercito di Decimo Bruto; questo esercito
poi, mentre il generale cercava di condurlo in Macedonia, si sbandò
a poco a poco, dapprima a piccoli gruppi poi in grandi masse, finchè
Decimo fu preso e trucidato dal capo di una tribù alpina. Con Decimo
Bruto il senato e il partito dei congiurati perdevano l’ultimo generale
in Occidente. Antonio, Lepido e Ottaviano erano ormai padroni di tutte
le province occidentali, e si accordavano per spartirsi l’impero con il
nome di _triumviri reipublicae costituendae_. Partiti i primi due dalla
provincia in cui risiedevano; l’altro, Ottaviano, da Roma, dopo aver
fatto approvare una legge che annullava la duplice condanna di Antonio
e di Lepido, si incontravano, non lungi da Bologna e dalla via Emilia,
in un’isoletta al confluente del Reno e del Lavino, e qui, in tre
giorni, si mettevano d’accordo per instaurare un nuovo governo.

Il primo impegno dei triumviri era con le legioni. I triumviri si
trovavano alla testa di 43 legioni — 250.000 uomini all’incirca —
alle quali avevano fatto infinite promesse. Per mantenerle occorrevano
circa 800 milioni di sesterzi. Ma i triumviri non avevano danaro; il
tesoro pubblico era vuoto; le province più ricche erano in balìa dei
congiurati; e l’Italia non voleva pagare neppure la contribuzione
straordinaria, decretata poco prima dal senato. Era inoltre necessità
debellare il partito dei congiurati prima che si fosse fatto troppo
forte in Oriente; altra spesa immensa, alla quale difettavano i
denari. Stretti dalla necessità, i tre capi decisero di ricorrere ad
un espediente, disusato dal tempo di Silla e di Mario: la confisca
delle famiglie ricche, che fossero state o nemiche o neutre nella lunga
guerra fra i cesariani e i pompeiani. Il potere triumvirale avrebbe
fornito i mezzi legali per questa confisca; perchè doveva comprendere
la facoltà di far leggi, la giurisdizione penale senza restrizioni,
appello e procedura, il diritto d’imporre tasse, di ordinare leve,
di comandare gli eserciti, di governare le province, di nominare i
senatori, i magistrati, i governatori, di espropriare, di condurre
colonie, di batter moneta. E difatti, giunti a Roma l’uno dopo l’altro,
ciascuno con una legione e con la rispettiva coorte pretoria il 24,
il 25 e il 26 novembre, Antonio, Lepido e Ottaviano ricevettero il 27,
mediante la legge _Titia_, e per cinque anni, cioè sino al 31 dicembre
del 38[29], questo illimitato potere triumvirale: indi incominciarono
la grande proscrizione, che soltanto in via accessoria doveva servire
di sfogo a vendette politiche e a rancori personali, ma che mirava
precipuamente a spogliare le classi ricche dell’Italia a profitto dei
veterani e dei soldati, e a sterminarle, per impedire che le vittime
delle confische non corressero a ingrossare l’esercito dei congiurati.
In pochi giorni, per editto triumvirale, senza processo o simulacro di
processo, una parte considerevole della grande proprietà e dell’alta
plutocrazia italica fu sterminata; le più belle ville del Lazio e
della Campania, un numero infinito di proprietà sparse per l’Italia, i
grandi dominî della Magna Grecia e della Sicilia, le vaste terre, che
senatori e cavalieri possedevano nella Cisalpina o fuori d’Italia, con
le greggi, le famiglie di schiavi, gli oggetti di valore, il vasellame,
le statue, i mobili, i tappeti, che ornavano le eleganti dimore di Roma
e d’Italia, e l’oro e l’argento, che si trovava in quelle, tutto fu
razziato e posto in vendita. La vittima più illustre fu Cicerone, a cui
Antonio non perdonò[30].

Ma, come sempre avviene in simili casi, se i triumviri e i loro fedeli
amici poterono arricchire con le proscrizioni e se la massa dei beni
confiscati fu enorme, la loro vendita all’incanto fruttò poco. Molti
non osavano comperare i beni dei proscritti, temendo l’avvenire;
gli amici dei triumviri, per accaparrare il meglio della preda, si
studiavano di allontanare gli acquirenti; il capitale spaventato si
nascondeva. Onde i triumviri furono costretti a sospendere quelle
vendite forzate, aspettando giorni migliori, e ad escogitare altri
espedienti: ordinare la confisca delle somme depositate dai privati nel
tempio di Vesta; invitare tutti gli stranieri e tutti i liberti, che
possedessero almeno 400.000 sesterzi a denunciare il proprio patrimonio
e a prestare allo Stato una somma eguale al 2% del suo valore e il
reddito di un’annata, calcolato, nei casi dubbi, secondo che sembra, al
decimo del capitale[31]; obbligare i cittadini, che possedevano meno di
400.000 sesterzi, a una contribuzione eguale alla metà del reddito di
un anno intero; invitare le più ricche matrone italiche (1300 circa) a
dichiarare il valore della loro dote; deliberare la confisca, non solo
dei beni dei proscritti, ma anche degli esuli volontari, gli «emigrati»
del tempo. E solo allora, quando ebbero spremuto e salassato senza
pietà l’Italia, i triumviri credettero opportuno muovere finalmente
alla guerra contro i congiurati. Nella primavera del 42, otto legioni,
avanguardia del loro esercito, traversavano l’Adriatico e movevano alla
volta della Macedonia.


35. =Filippi.= — M. Bruto aveva intanto sgombrato la Macedonia ed
era andato con tutto l’esercito in Asia Minore, forse per raccogliere
denaro e prendere i quartieri invernali in un paese più ricco e più
lontano dall’Italia che non fosse la Macedonia. A Smirne aveva avuto
un colloquio con Cassio, e insieme avevano deliberato di guerreggiare
a forze unite. Ma mentre Bruto avrebbe voluto ritornare subito nella
Macedonia, per cacciare le otto legioni di Antonio, Cassio opinava
essere necessario un disegno più vasto: assicurarsi l’Oriente tutto,
e precipuamente l’Egitto, ove la regina Cleopatra rimaneva fedele al
partito cesariano; impadronirsi del mare, tagliare le comunicazioni
tra l’Italia e la Macedonia, e solo allora attaccare in Macedonia
l’esercito dei triumviri. Senza il dominio del mare, i triumviri non
potrebbero mantenere in Macedonia un grosso esercito; e il mare era,
per il momento, tenuto da Sesto Pompeo, il quale, forte dell’incarico
ricevuto dal senato dopo la disfatta di Antonio sotto Modena, aveva
assunto il comando delle forze navali della repubblica, aveva occupato
la Sicilia, e ora andava raccogliendo ovunque navigli, reclutava
marinai, organizzava legioni, devastava le coste dell’Italia,
intercettava per mare i carichi di grano destinati a Roma. Prevalse
dunque il piano di Cassio: accettato il quale, Cassio e Bruto si
separarono: Cassio, per andare alla conquista di Rodi, per rifornirsi
in Asia di denaro e di navigli, e per cercar d’intercettare i soccorsi
che Cleopatra preparava per i triumviri; Bruto, per sottomettere la
confederazione delle repubbliche della Licia.

Queste imprese riuscirono felicemente; e sul finire dell’estate Bruto
e Cassio si disponevano a invadere la Macedonia per debellare le otto
legioni mandate da Antonio. Invece, i primi tentativi di Antonio per
spezzare il piano del nemico riuscirono vani. Ottaviano, ch’egli
aveva mandato in Sicilia contro Sesto Pompeo, falliva; i soccorsi
di Cleopatra erano dispersi da una tempesta; e l’armata di Cassio,
agli ordini di un tal Murco, liberata da quel compito, accorreva in
Italia a bloccare Antonio a Brindisi, proprio quando Bruto e Cassio si
avviavano verso la Macedonia e Antonio si preparava a condurci rinforzi
per salvare le otto legioni dall’annientamento. Antonio fu costretto
a richiamare dalla Sicilia la flotta di Ottaviano; e solo con questo
aiuto potè obbligare Murco a lasciargli libero passo e sbarcare con
altre dodici legioni a Durazzo, e con queste, raggiunte le altre otto
già mandate innanzi, muovere incontro a Cassio e a Bruto. Cassio e
Bruto con le legioni si erano accampati a Filippi, in una posizione
fortissima, trincerandosi in due campi, Bruto un po’ più a nord, Cassio
un po’ più a sud. L’uno e l’altro campo comunicavano per la grande via
Egnazia col porto di _Neapolis_, dove i navigli recavano ogni giorno
viveri e armi dall’Asia e dalla vicina isola di Taso, che i congiurati
avevano scelta quale magazzino generale. Ma se potè accamparsi anche
egli di fronte ai due congiurati, Antonio non potè dar subito la
battaglia che andava cercando. Per i congiurati era buon consiglio
tenersi sulla difensiva, aspettando il giorno, in cui la fame e la
sedizione avrebbero debellato un esercito più numeroso, ma accampato
in paese inospitale, senza la sicurezza del mare. Cassio aveva
rinforzato la flotta di Murco con una seconda armata, agli ordini di
Domizio Enobarbo. Ad Antonio e ad Ottaviano, che l’aveva accompagnato,
era necessità invece violentare il nemico più debole, provocarlo a
battaglia, e ottenere la decisione al più presto. Tutti i giorni,
dunque, Cassio e Bruto doverono opporre una pazienza instancabile alle
provocazioni con cui Antonio si studiava di forzarli alla battaglia.
Alla fine Antonio immaginò di costruire una via attraverso la palude,
che separava il campo di Cassio dal mare, e di minacciare questi
alle spalle. Il pericolo alle spalle dei congiurati era serio; onde
un giorno, nella seconda metà d’ottobre, Cassio e Bruto fecero una
sortita, a quanto pare per interrompere quel minaccioso lavoro: l’ala
destra, agli ordini di Bruto, piombò sulle legioni di Ottaviano,
quella sinistra, agli ordini di Cassio, sulle legioni di Antonio. La
mischia fu singolare: le legioni di Ottaviano, sorprese e non assistite
dalla presenza del loro generale, che fu costretto a fuggire e a
nascondersi in una vicina palude, furono interamente disfatte e i loro
accampamenti saccheggiati. Invece le legioni di Antonio si gettarono
impetuose su quelle di Cassio, e le inseguirono, entrando anch’esse
nel campo nemico. Nè l’uno nè l’altro dei due generali vittoriosi potè
distogliere i propri soldati dal saccheggio e coronare con un successo
totale quel principio di vittoria. Alla sera ciascuno dei due eserciti,
metà disfatto e metà vittorioso, si ritirò nei propri accampamenti. Ma
nella mischia Cassio era perito — non si sa bene come — e l’esercito
dei congiurati era rimasto privo dell’unico suo vero capo.

Quella scaramuccia, convertitasi in una mischia feroce, decise dunque
della guerra. Bruto non aveva nè l’animo nè l’ingegno guerresco di
Cassio; era debole ed era stanco. Se egli avesse avuto la forza di
aspettare ancora un po’, forse l’esercito nemico si sarebbe disfatto
da sè; perchè i viveri e i denari mancavano, e i rifornimenti e
i rinforzi, aspettati dall’Italia, erano affondati dalle flotte
congiunte di Murco e di Enobarbo. Ma gli ufficiali, i principi alleati
dell’Oriente, i soldati stessi, impazienti di finirla, chiedevano
a gran voce la battaglia, e, come i veterani di Cesare, ch’erano
al servizio dei congiurati, minacciavano ogni giorno la sedizione o
la diserzione. Nè Antonio, che vedeva il suo esercito agli estremi,
tralasciava sforzi per provocarlo, minacciando nuovamente di tagliare
le comunicazioni tra il campo nemico ed il mare. E un giorno Bruto
si lasciò strappare l’ordine della battaglia. Nella pianura di
Filippi l’ultima contesa tra cesariani e pompeiani, tra le due grandi
consorterie che avevano divisa la nobiltà romana, fu decisa in una
malinconica giornata del novembre del 42. Bruto fu vinto, e ritiratosi
in una valletta con pochi amici, si dette la morte con stoica serenità,
facendosi aiutare da un retore greco, ch’era stato suo maestro.


NOTE AL CAPITOLO SESTO.

[21] Sugli avvenimenti di questi tre giorni, cfr. G. FERRERO, _Grandeur
et Decadence de Rome_, Paris, 1906; vol. III, Appendice A. L’Appendice
A, che nell’edizione italiana manca, contiene una minuta analisi delle
fonti relative a queste giornate e la ricostruzione critica degli
avvenimenti.

[22] Cfr. IHNE, _Römische Geschichte_, Leipzig, 1898, VII, 265.

[23] Sulla intricata questione delle province assegnate da Cesare prima
di morire, cfr. G. FERRERO, _Grandeur et Decadence de Rome_, Paris,
1906; vol. III, Appendice B. Un’ultima prova in appoggio alla tesi
che la Macedonia e la Siria non erano state date da Cesare a Bruto e
a Cassio, può trovarsi nell’editto di Marco Antonio, citato da JOSEPH,
_Ant. Jud._, 14, 12, 4-5.

[24] Su questa legge cfr. G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_,
Milano, 1904; vol. III, p. 114 sgg.

[25] Su questo oscuro episodio cfr. G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza
di Roma_, Milano, 1904; vol. III, p. 135.

[26] Cfr. CIC., _A._, 16, 8, 2; APP. _B. C._, III, 40.

[27] Per una più minuta informazione sui rapporti tra il Senato e
Ottaviano dopo la battaglia di Modena, e sulle cautele con cui devono
essere accettati i racconti degli storici antichi, cfr. G. FERRERO,
_Grandezza e Decadenza di Roma_, vol. III, p. 202 sgg.

[28] Il titolo ci è stato conservato dalle monete: cfr. COHEN, _M. R._,
1, pp. 19 e 20.

[29] Cfr. _C. I. L._, I, p. 466.

[30] Sulle proscrizioni e sul loro carattere, cfr. G. FERRERO,
_Grandezza e Decadenza di Roma_, III, p. 247.

[31] Così pare risulti, conciliando APP. _B. C._, 4, 34, e DION. CASS.,
47, 16.



CAPITOLO SETTIMO

LE CRISI E LA CADUTA DEL TRIUMVIRATO

(42-31 a. C.)


36. =La guerra di Perugia (41-40 a. C.).= — Le proscrizioni dell’anno
43 e le due battaglie di Filippi avevano decimato la nobiltà romana.
Quella nobiltà, che aveva governato per tanti secoli Roma e che era
scampata, sia pur con molte ferite, alla prima e alla seconda guerra
civile, ricevette nella terza il colpo mortale, da cui non guarì più.
La storia del primo secolo dell’impero, quella storia che sembrerà così
oscura a tanti scrittori, racconterà soltanto l’agonia della nobiltà,
che aveva fondato l’impero, ma che ormai non avrà più nè uomini, nè
famiglie, nè ricchezze, nè ingegni sufficienti a governarlo, perchè di
tutto aveva fatto getto nelle guerre civili. Ma la grandezza di questa
rovina non si vedrà che a poco a poco. Per il momento, le proscrizioni
e Filippi parvero soltanto annientare un partito. Il piccolo numero di
superstiti, che avevano preso il mare, e Sesto Pompeo con le sue navi
non potevano più sperar di mutare la fortuna della guerra. Filippi
aveva confermato in suprema istanza Farsaglia.

Ciò non ostante, i triumviri si trovavano alle prese con tremende
difficoltà. Occorreva pagare ai soldati i 20.000 sesterzi promessi
e gli arretrati dello stipendio; ma il denaro mancava. Occorreva
congedare una parte dell’esercito, ancora in armi; occorreva
soddisfare, nei riguardi dei veterani di Cesare, le vecchie promesse,
che il dittatore aveva loro fatte, e che i triumviri avevano
riconfermate. Occorreva infine ristabilire l’autorità di Roma in
Oriente, e l’autorità del triumvirato in Italia, ove (scandalo
inaudito!) Lepido aveva abbandonato il governo a una donna, a Fulvia,
la moglie di Antonio.

Si deliberò dunque di congedare le otto legioni dei veterani di
Cesare; di ridurre l’esercito a 32 legioni, spartendole tutte tra
Antonio e Ottaviano — 17 al primo e 15 al secondo — e togliendo quindi
a Lepido le tre legioni, a cui sino ad allora aveva comandato. Si
convenne poi che Antonio, oltre all’Oriente, prenderebbe per sè la
Narbonese e Ottaviano la Spagna, che fin allora avevano appartenuto
a Lepido. Lepido, dunque, per la sua inettitudine e debolezza e (si
volle aggiungere, per giustificare la violenza usatagli) per certe sue
pretese trattative segrete con Sesto Pompeo[32], doveva essere escluso
dal governo delle province. Antonio andrebbe subito a pacificare
l’Oriente e a cercarvi denaro; Ottaviano si recherebbe in Italia per
debellare Sesto e per distribuire le terre ai veterani del padre. Ma
non era questa un’impresa facile; poichè occorreva dare a 7 od 8000
uomini duecento iugeri, 50 ettari, a testa; ossia trovare da 3 a
400.000 ettari di buona terra in un paese, come l’Italia, dove di agro
pubblico non esisteva quasi più vestigio. Come mantenere la promessa
senza nuove violenze? Fu dunque stabilito di prendere nel territorio
delle diciotto città d’Italia più belle e più ricche una parte delle
terre a ciascun proprietario, risarcendolo nella misura che gli stessi
triumviri avrebbero giudicata equa e quando avessero potuto.

Il piano era ingegnoso, ma non facile ad attuare. Senonchè nessuno
poteva prevedere che il primo e maggiore ostacolo si troverebbe nel
triumvirato medesimo. Non però Lepido, che, uomo mediocre qual’era,
non si lagnò della parte secondaria che gli avevano lasciata; ma
la moglie di Antonio, Fulvia, e il fratello suo, Lucio, che era il
console dell’annata. Lucio e Fulvia contavano ormai di governare
soli e a piacer loro Roma e l’Italia, l’uno come fratello, l’altra
come moglie del vero vincitore di Filippi. Cosicchè quando Ottaviano
tornò in Italia e volle a sua volta comandare, subito nacquero tra il
triumviro da una parte, Fulvia e Lucio Antonio dall’altra, violenti
attriti. Questi attriti sì inasprirono rapidamente; e giunsero al punto
che, quando Ottaviano incominciò a espropriare i possidenti italici
per dare le terre ai veterani, Fulvia e Lucio presero apertamente la
difesa dei proprietari, affermando che Marco Antonio non voleva quelle
espropriazioni. Di nuovo popolazioni, partiti e soldati ricominciarono
a muoversi; e anche questa agitazione terminò in una nuova guerra
civile. Fulvia e Lucio Antonio poterono, aiutati dal grande prestigio
che circondava il nome del triumviro, e promettendo largamente denaro,
reclutare un esercito tra i possidenti o già espropriati o minacciati
di espropriazione, tra i veterani di Cesare e di Antonio, tra i
superstiti del partito pompeiano e aristocratico; e un bel giorno
invitarono l’Italia a prendere le armi per rovesciare il triumvirato,
e per ristabilire la libera repubblica. Essi affermarono perfino
esser questo il pensiero di Marco Antonio, che frattanto riordinava
lo Oriente. Ma dopo varie e poco chiare vicende, Ottaviano riusciva a
chiudere Lucio Antonio, nell’autunno del 41, in Perugia, e assediava la
città. Nel marzo del 40, Lucio, ridotto agli estremi, doveva arrendersi
al generale di Ottaviano, che aveva diretto le operazioni dell’assedio,
un giovane di cui sino allora non si era parlato che come di uno
dei più accaniti persecutori dei congiurati, Marco Vipsanio Agrippa.
Ottaviano non osò maltrattare il fratello del suo potente collega,
lasciò Lucio libero, perdonò ai soldati; fece invece mettere a morte
i decurioni della città, una parte dei senatori e dei cavalieri fatti
prigionieri, e abbandonò Perugia al saccheggio delle sue legioni.
Così la prima difficoltà ai piani dei triumviri per l’Italia era stata
rimossa: ma a quale prezzo!

Ed era poi vittoria definitiva? Che cosa avrebbe fatto Marco Antonio,
che frattanto si tratteneva in Oriente, tutto in faccende, per
riassestarlo? Si sarebbero Lucio e Fulvia rassegnati? O avrebbero
tentato di aizzare Antonio contro il pericoloso collega? Questa
nuova incertezza tormentava l’Italia. Fulvia s’imbarcava a Brindisi
per raggiungere in Oriente il triumviro, insieme con molti membri
eminenti del partito di Antonio compromessi nell’ultima guerra civile:
tra gli altri Tiberio Claudio Nerone, che in quei tremendi giorni
salpava furtivamente da Napoli con la moglie Livia, la futura moglie
di Augusto, e un fanciulletto di poco più di due anni, che sarebbe un
giorno l’imperatore Tiberio. Che cosa nascerebbe da questo incontro?
Una nuova e più terribile guerra civile, temevano molti. Ma Antonio
non aveva mai approvato la guerra del fratello contro il collega,
che era stata un colpo di testa contro i suoi veterani, contro i
patti di Filippi, contro l’interesse generale dello Stato. Inoltre
in quel momento egli volgeva altri piani nella mente ed era occupato
da altre difficoltà. Dopo aver riorganizzato alla meglio l’Oriente,
egli era andato a passare l’inverno dal 41 al 40 ad Alessandria,
ospite di Cleopatra, che ripigliava con lui il piano già tentato
con Cesare: persuaderlo a diventare, sposandola, re di Egitto e a
trasportare la sede dell’impero ad Alessandria. Che egli già fosse
stato allora guadagnato ai piani di Cleopatra, non sembra: ma più
probabile è che già egli pensasse a riprendere il disegno di Cesare
contro i Parti, i quali, del resto, nella primavera del 40, incitati
da un agente di Bruto e di Cassio, il giovane Q. Labieno, figlio del
luogotenente di Cesare perito a Munda, fecero una scorreria nella
Siria. Si capisce dunque come egli, appena, reduce dall’Egitto, si
fu, in Atene, incontrato con Fulvia e con i superstiti della guerra
perugina, biasimasse vivamente la loro condotta e li disingannasse in
tutte le loro speranze. E nulla sarebbe successo se Ottaviano, inquieto
anch’egli, come tutta l’Italia, sulle vere intenzioni di Antonio,
non avesse approfittato della morte del governatore della Gallia
Narbonese, per sobillare e far passare alla sua parte le legioni che
vi stanziavano e che erano sotto gli ordini di Antonio. Questo atto
provocò la guerra. Antonio rivolle le sue legioni; accettò l’alleanza
di Sesto Pompeo e gli aiuti che gli offerse un colpito dalla _lex
Paedia_, un ex-alleato di Bruto e di Cassio, che, come Sesto Pompeo,
sfidava, a capo della sua flotta, i fulmini del triumvirato: Domizio
Enobarbo. A forze unite essi vennero ad attaccare le coste adriatiche
dell’Italia, comparendo innanzi a Brindisi.


37. =Il trattato di Brindisi e l’accordo di Miseno (40-31 a. C.).=
— Ricominciava dunque un’altra guerra civile. Ma i due belligeranti
comandavano a soldati, che fino a ieri erano stati compagni d’arme,
e che, se vedevano di mal’occhio una guerra fra Antonio e Ottaviano,
ancora più ripugnavano a versare il loro sangue per le ambizioni e gli
interessi di un Sesto Pompeo o di un Domizio Enobarbo. I soldati si
accinsero dalle due parti alla guerra con così manifesto malvolere,
che Antonio e Ottaviano dovettero venire ad un accordo. Nell’autunno
del 40, nella città di Brindisi, gli emissarî dell’uno e dell’altro
definirono una nuova convenzione, che assegnava tutto lo Oriente — la
Macedonia, la Grecia, la Bitinia, l’Asia minore, la Siria, la Cirenaica
— ad Antonio con diciannove legioni e il diritto di far leve in
Italia; l’Occidente, comprese la Gallia Transalpina e la Narbonese, ad
Ottaviano con sedici legioni; e l’Africa sola a Lepido con sei legioni.
Sesto Pompeo era abbandonato da Antonio. Ottaviano poteva dichiarargli
la guerra. E la pace fu sigillata con un matrimonio. Fulvia era morta
poco prima. Antonio avrebbe sposato Ottavia, sorella del suo collega e
vedova da poco tempo.

Sesto dunque era abbandonato alla vendetta di Ottaviano. Ma c’era
ancora, oltre i triumviri e le legioni, l’Italia, che lavorava e
soffriva; l’Italia, che era stata dissanguata e scoiata dalle imposte
e dalle confische; l’Italia, che cadeva in rovina da ogni parte e
soffriva la fame. L’Italia odiava il governo dei triumviri, che nulla
avevano fatto, se non distribuire terre a poche migliaia di veterani;
che tutto avevano sacrificato agli appetiti delle soldatesche, anche
gli interessi più legittimi di quella classe possidente, che aveva
avuto il torto di lasciarsi disarmare dalla riforma militare di Mario.
Intimorito dalla forza dei triumviri, questo malcontento s’era fino
ad allora frenato e rimpiattato; ma scoppiò quando Ottaviano cominciò,
subito dopo gli accordi di Brindisi, la guerra contro Sesto Pompeo; e
per raccogliere il danaro necessario alla guerra, impose nuove tasse,
tra le quali un’imposta sulle eredità e sugli schiavi. All’annunzio di
queste imposte l’opinione pubblica insorse a favore di Pompeo. A Roma
la popolazione, furibonda, lacerò gli editti triumvirali, proruppe in
dimostrazioni tumultuose in favore della pace; e con tanta ostinazione
e violenza, che non solo Ottaviano, ma anche Antonio si spaventò.
Ancora una volta fu necessario ricorrere a pacieri. I negoziati tra
Sesto Pompeo da una parte, Antonio e Ottaviano dall’altra, furono
lunghi; ma alla fine, nel 39 a. C., un accordo fu conchiuso nel golfo
di Miseno. Sesto Pompeo avrebbe avuto la Sicilia e la Sardegna, nonchè
il Peloponneso per cinque anni; sarebbe stato console nel 33, avrebbe
fatto parte del collegio dei pontefici; avrebbe ricevuto 70 milioni
di sesterzi, a risarcimento delle confische paterne. In compenso,
s’impegnava a non più molestare le coste d’Italia, a non offrire
asilo agli schiavi fuggiaschi, a reprimere la pirateria. Nè basta: i
proscritti superstiti, salvo i condannati per l’uccisione di Cesare, e
tutti i disertori sarebbero stati amnistiati e reintegrati nel possesso
di parte o di tutti i loro beni; tutti gli schiavi, soldati di Sesto,
avrebbero ricevuto la libertà. La pace era dunque ristabilita, e, quel
che appariva più notevole, non l’avevano imposta le spade dei veterani,
ma la forza invisibile dell’opinione pubblica. L’Italia e la libertà
repubblicana non erano dunque morte ancora? Il diritto e la giustizia
non erano imbavagliate e incatenate per sempre dalla forza? Domande a
cui, fra un decennio, risponderà Ottaviano, rimasto unico triumviro.


38. =Il trattato di Taranto (37 a. C.).= — Allorquando, nella seconda
metà del 39, Antonio tornò in Oriente e sbarcò ad Atene, vi fu
accolto da una buona notizia. I Parti che, sotto la guida di Labieno
e del primogenito del Re, Pacoro, avevano l’anno prima invaso la
Siria, erano stati sconfitti due volte da un suo generale, l’una
presso il Monte Tauro, l’altra in una valle della catena dell’Amano,
all’ingresso settentrionale della Siria. Il generale vittorioso era
un uomo rimasto fin ora nell’ombra, quel P. Ventidio Basso che aveva
tentato soccorrere Antonio nella guerra di Modena. Antonio aveva quindi
fatto suo l’antico disegno di Cesare per la conquista della Parzia;
e nei preparativi passò tutto l’inverno del 39-38. Ma a primavera
non potè iniziare la spedizione, sia perchè i preparativi non erano
ancora terminati, sia perchè i Parti lo prevennero, invadendo di nuovo
l’impero; sia perchè Sesto e Ottaviano si erano di nuovo guastati
e avevano ricominciato a guerreggiare. Egli di nuovo mandò contro i
Parti Ventidio, che, nel giorno anniversario della battaglia di Carrae,
inflisse loro una disfatta memorabile, nella quale cadde lo stesso
Pacoro: cercò poi di impedire la guerra tra Sesto e Ottaviano, ma non
ci riuscì; cosicchè nell’estate del 38 Ottaviano perdeva la maggior
parte dell’armata in una battaglia, prima, e in una tempesta, poi.
Frattanto i poteri triumvirali declinavano verso l’estinzione, poichè
scadevano alla fine del 37, e Antonio astutamente pensò far suo pro
di tutte queste contingenze, per costringere Ottaviano a cedergli una
parte dell’esercito, che egli avrebbe adoperato per la conquista della
Parzia, dandogli in cambio una parte della sua flotta, che sarebbe
stata utile al collega per la guerra contro Pompeo: pensò insomma di
abbandonar Pompeo alla vendetta di Ottaviano, purchè questi lo aiutasse
a conquistare l’impero dei Parti; e di prolungare con il pretesto
di queste due guerre il potere triumvirale. Ma Ottaviano, se voleva
vincer Sesto Pompeo, non voleva troppo indebolirsi a vantaggio del suo
collega; resistè, dunque, tirò in lungo, fece costruire da Agrippa
una nuova armata, mercanteggiò. Cosicchè l’accordo, desiderato così
vivamente da Antonio, non potè essere concluso che nella primavera del
37, a Taranto. Il triumvirato si sarebbe rinnovato per legge, per altri
cinque anni, a contare dal 1º gennaio 37; Antonio avrebbe ceduto a
Ottaviano 130 vascelli, e avrebbe ricevuto in cambio 21.000 uomini; gli
accordi di Miseno con Sesto erano rotti, e Ottaviano aveva novamente
mani libere contro quest’ultimo.


39. =Antonio e Cleopatra: le nozze di Antiochia (36 a. C.).= — Dopo
gli accordi di Taranto, Ottaviano tornò a Roma, per far approvare dai
comizi una legge, che prolungava i poteri dei triumviri sino al 1º
gennaio del 32, e per preparare la guerra contro Sesto; Antonio ritornò
in Oriente a preparare la guerra contro i Parti, una delle più grandi
spedizioni, che Roma e l’Oriente avessero viste. Ambedue i triumviri
avevan bisogno di rifare il loro credito e la loro autorità con qualche
impresa fortunata. Il piano di Antonio contro i Parti era quello che
Cesare gli aveva tramandato[33]; ma ad effettuare tanta conquista,
che avrebbe eternato la potenza e la gloria di Antonio, occorrevano
uomini, denari, armi in quantità. Per procurarseli Antonio si risolvè
ad un atto che doveva generare gravissimi effetti: ad accettare le
proposte di Cleopatra, che da tre anni non vedeva più, e a diventare
re d’Egitto, sposandola, per attingere a piene mani nel tesoro dei
Tolomei. Sul principio dell’anno 36, tra grandi feste, ad Antiochia,
furono celebrate le nozze di Antonio e di Cleopatra; Antonio divenne
re d’Egitto, e Cleopatra ebbe, quale correspettivo della sua alleanza
col triumviro, oltrechè taluni dominî dei sovrani orientali vassalli
di Roma, perfino dei territorî romani, che in altri tempi avevano
appartenuto all’impero dei Tolomei: Cipro, parte della Fenicia, i
ricchi palmizi di Gerico, parte della Cilicia e di Creta[34].


40. =La guerra contro i Parti e la guerra contro Sesto Pompeo (36 a.
C.).= — Questo matrimonio dinastico era un atto audace, poichè non
quadrava punto con le tradizioni della politica di Roma. Antonio se ne
rendeva conto, tanto è vero che non assunse il titolo di Re di Egitto,
conservò quello di _imperatore_, non comunicò ufficialmente a Roma il
suo matrimonio, e si guardò bene dal ripudiare la sua moglie legittima,
Ottavia: venne cioè a mettersi in una posizione incerta ed obliqua,
che sarà la principale ragione della sua rovina futura. Per il momento,
invece, egli poteva compiacersi di aver tutto approntato, con l’aiuto
dell’Egitto, per l’impresa contro l’impero dei Parti. Nella primavera
del 36, infatti, mentre Ottaviano si accingeva alla guerra contro Sesto
Pompeo, Antonio marciava verso le frontiere della Media, avviando il
parco di assedio, due legioni e i contingenti dell’Armenia e del Ponto,
agli ordini di Oppio Staziano, per la via più facile, ma più lunga — la
valle dell’Arasse — mentre egli stesso col grosso della fanteria romana
pigliava una via più breve, ma assai più aspra e difficile, giungendo
alla fine di luglio ai confini della Media Atropatene. Senonchè qui
giunto, Antonio, non sappiamo per quale ragione, commise il primo
errore: senza aspettare l’esercito avviato per la valle dell’Arasse
e il parco d’assedio, invase il paese, puntando sulla capitale.
Accadde allora che, mentre Antonio giungeva alla fine di agosto, senza
incontrare resistenza, sotto le mura della capitale, il re dei Parti,
Fraate, attaccava alle sue spalle, a Gazaca, l’altro esercito romano;
annientava le due legioni, il parco d’assedio, e costringeva il re
di Armenia con la sua preziosa cavalleria — quella che doveva essere
l’arma più efficace di Antonio — a ritornare nel suo paese.

Il colpo era forte. Antonio doveva o ritirarsi o continuare senza mezzi
adeguati l’assedio. Egli scelse la seconda alternativa, forse perchè
sperava di riuscire, minacciando la capitale, ad impegnare a battaglia
campale il nemico e distruggerlo. Ma i Parti non erano i Galli di
Vercingetorige, nè Antonio, Cesare. Intanto l’inverno si avvicinava;
il vettovagliamento scarseggiava ogni giorno più; gli assediati
resistevano; i soldati, subornati dal nemico, mormoravano e asserivano
che i Parti erano disposti alla pace. Antonio dovè finalmente
riprendere la via del ritorno. Ammaestrato però dall’esperienza di
Crasso, scelse una via tra le colline molto difficile, ma inaccessibile
alla cavalleria: probabilmente la via che oggi passa per Tabriz e
termina a Iulfa sull’Arasse. Senonchè, non ostante la sua prudenza,
l’esercito giunse in luogo sicuro sfinito dalla fatica, dalla fame,
dalla sete e dagli incessanti attacchi nemici, dopo 24 giorni di
marcia, e dopo aver perduto molti uomini. La grande impresa, eredità di
Cesare, era fallita.

Ad Ottaviano invece era finalmente riuscito, nel 36, di vincere
Sesto Pompeo. Per quanto egli disponesse di forze maggiori in terra
ed in mare, i principî dell’impresa erano stati poco felici: ma dopo
diversi e gravi insuccessi, Ottaviano era riuscito, alla fine del
luglio, a sbarcare nell’isola un esercito. Sesto aveva allora tentato
una disperata sortita, attaccando nelle acque di Nauloco la flotta
avversaria. La battaglia era stata tremenda: ma il figlio di Pompeo
aveva avuto la peggio: centosessanta vascelli distrutti o catturati; ed
egli stesso fuggiasco, dapprima a Messina, e di là, con la figliuola e
i suoi tesori, alla volta dell’Oriente.


41. =La dissoluzione del triumvirato (36 a. C.).= — Il buon successo
dell’impresa di Sicilia, ingrandito dalla poca fortuna di Antonio in
Oriente, giovò molto a Ottaviano nell’opinione dei più. Lepido gli
giovò anche di più, tentando di suscitare una nuova guerra civile per
rimettersi nel triumvirato alla pari con i due colleghi. I soldati di
Lepido passarono ad Ottaviano; Lepido dovè ridursi a vita privata; e
il giovane triumviro, a ventisette anni, si trovò d’un balzo a capo
di 43 legioni, di 600 navi, di un impero, che abbracciava gran parte
dell’Africa settentrionale, la Spagna, l’Illiria, la Gallia e l’Italia,
e fornito di un’autorità quasi assoluta in una repubblica, che pareva
incurabilmente disfatta.

Senonchè le apparenze mentivano. Proprio questo è il tempo, in cui il
crudele tiranno dei primi anni comincia a mutarsi nel gran savio, che
sarà l’imperatore Augusto. Non appena tornato a Roma, il 13 novembre,
egli proclamò un’amnistia fiscale, condonando ai contribuenti gli
arretrati delle imposte decretate dai triumviri; abolì alcune imposte;
nominò augure supplementare un antico proscritto, restituì a diversi
magistrati taluni poteri usurpati dai triumviri, cercò di evitare
nuove confische nelle distribuzioni di terre ai veterani, restituì
ai loro padroni tutti gli schiavi che aveva trovati nelle legioni di
Pompeo, e tutti i navigli mercantili. Diede inoltre mano a estirpare il
brigantaggio dalla penisola, e ordinò grandi lavori pubblici in Roma.
Finalmente, in un pubblico e solenne discorso, si dichiarò pronto a
deporre il potere triumvirale e a ristabilire la repubblica, giacchè le
guerre civili erano terminate, e il triumvirato non aveva più ragione.

Come si spiega questo mutamento, che corrisponde così poco alla
inclinazione della natura umana, sempre pronta ad abusare della
fortuna? Il temperamento dell’uomo e le vicende dei tempi lo spiegano.
Non ostante il sangue sparso e le violenze fatte agli uomini, alle
tradizioni e alle istituzioni, il triumvirato non aveva compiuto
nessuna grande impresa. Aveva soltanto regalato un po’ di terra e
di denaro a parecchie migliaia di soldati; e non si reggeva che per
la forza dell’esercito e del terrore: ben fragile sostegno, come la
pace di Miseno aveva dimostrato. Inoltre l’entusiasmo cesariano delle
legioni si raffreddava, anzi si mutava in un sordo malcontento, per
gli stipendi irregolarmente pagati, per le fatiche delle continue
campagne, per le promesse ancora non mantenute dopo tanti anni.
I poteri dei triumviri potevano crescere negli editti; ma la loro
potenza decresceva. Occorreva mettersi sulla via delle concessioni,
placare l’opinione pubblica malcontenta, le classi agiate, lo spirito
tradizionalista, che di nuovo ripigliavano forza. Ottaviano che, non
ostante gli eccessi dei primi anni, era un uomo avveduto, ponderato,
prudente, lo capì; e fu questa la principale ragione della meravigliosa
grandezza a cui doveva salire.


42. =Le donazioni di Alessandria e la politica orientale di Antonio (34
a. C.).= — Mentre Ottaviano, in Italia, tentava di riconciliarsi con
la tradizione latina e repubblicana, Antonio, in Oriente, s’ingolfava
nella politica dinastica ed egiziana. Egli desiderava rifarsi della
fallita spedizione partica, che gli aveva molto nociuto, in Oriente
e in Italia: e difatti passò tutto il 35 a fare piani di rivincita,
mentre Ottaviano faceva una spedizione in Dalmazia e nell’Illirico.
Ma se quell’anno Antonio dovette soprattutto pensare a reprimere una
rivolta, che Sesto Pompeo, rifugiatosi in Asia, gli suscitò contro,
e quindi nessuno dei suoi progetti fu eseguito, crebbe invece — e
il fatto non era di poco rilievo — la potenza di Cleopatra su lui.
La regina era astuta e Antonio forse più violento che forte. D’altra
parte, più egli si ostinava a voler dominare con la gloria e con le
armi l’Oriente, e più aveva bisogno dell’Egitto e dei suoi tesori. Si
aggiunga che l’Italia pareva allora rovinata per sempre. Non è dunque
meraviglia che Cleopatra incitasse Antonio ad abbandonare la veste di
proconsole e di magistrato romano, per parlare ed agire come marito
di Cleopatra e re d’Egitto; a divorziare da Ottavia e a fondare in
Alessandria una nuova dinastia che continuasse quella dei Lagidi; a
ricostituire intorno all’Egitto un vasto impero, con province romane
e territorî di sovrani vassalli e indipendenti. Ma Antonio resisteva,
scorgendo il pericolo; cosicchè tutto il 35 passò senza che egli
compiesse nessun atto d’importanza. Nel 34 si volse alla conquista
dell’Armenia, primo passo alla seconda campagna contro i Parti e
vendetta del tradimento commesso da quel re nel 36. Invase infatti
e conquistò il reame con i suoi tesori; ma, compiuta questa impresa,
acconsentì a dare una prima e grande soddisfazione alle aspirazioni
di Cleopatra. Non solo celebrò il trionfo in Alessandria; ma subito
dopo, nell’autunno del 34, in una festa solenne celebrata nel Ginnasio,
proclamò Cleopatra, regina dei re, Cesarione, figlio legittimo di
Cleopatra e di Giulio Cesare e partecipe del regno d’Egitto ingrandito
agli antichi confini con l’aggiunta di Cipro e della Celesiria,
proclamò Tolomeo, nato da lui stesso e dalla regina, di appena due
anni, re della Fenicia, della Siria, della Cilicia; donò al fratello
di lui, già di sei anni, Alessandro, l’Armenia e la Parzia ancora da
conquistare, e, alla sua gemella, la piccola Cleopatra, la Libia e la
Cirenaica, fino alla grande Sirti.

Il triumviro romano ricostituiva l’impero dei Tolomei, e a spese
della repubblica; tentava di creare di nuovo in Oriente uno di quei
grandi potentati monarchici, contro i quali Roma aveva combattuto
tanti secoli e in tante guerre. Che egli tentasse di ricostituirlo per
fondare, come i generali di Alessandro, una dinastia in Oriente e non
per i begli occhi di Cleopatra soltanto, è cosa che s’intende da sè.
Senonchè Antonio non ruppe ancora definitivamente e apertamente con
Roma e con il governo romano. Non solo egli, il consorte di Cleopatra,
non si attribuì alcun potere sui territori donati, ma subito dopo
inviò un rapporto al senato, chiedendo senza meno l’approvazione dei
propri atti. Nè è difficile indovinare il perchè: per fondare la nuova
dinastia, egli aveva bisogno di un forte esercito; e questo esercito
egli non poteva reclutarlo che in Italia, e facendolo comandare da
ufficiali italiani. Per il momento, dunque, se in Oriente egli poteva
essere considerato come il sovrano dell’Egitto, in Italia doveva
restare ancora il triumviro romano. Ma egli si andava con questa
complicata politica avvolgendo in troppe contradizioni, tutte piene
di pericoli. Intanto scontentava l’Italia e inquietava Ottaviano.
Non solo Antonio aveva per Cleopatra abbandonato Ottavia, ma aveva
dichiarato Cesarione figlio legittimo di Cesare; il che poteva anche
voler dire che Ottaviano usurpava il nome e i beni del dittatore.
Inoltre Antonio aveva elevato a 30 il numero delle sue legioni, e
aveva ordinato nuove leve in Italia. Cosicchè egli, tra non guari, si
sarebbe trovato a capo di un grande esercito, della propria flotta e
di quella egiziana, padrone dei tesori dell’Armenia e dell’Egitto,
e, se fosse riuscito nella conquista partica, signore di un impero
parecchie volte più possente delle povere provincie occidentali. Non
aveva Ottaviano che un modo per stornare il pericolo e impedire la
conquista della Parzia: intralciare sin dagli inizi la pericolosa
politica orientale di Antonio, facendo nascere un conflitto tra
Antonio e il senato, a proposito delle donazioni di Alessandria, che
l’opinione pubblica aveva vivamente biasimate. Infatti, nella seduta
del 1º gennaio 33, Ottaviano stesso, quale _princeps senatus_, riferì
sulle donazioni di Alessandria, dandone un giudizio avverso. Nel tempo
stesso gli amici e gli agenti suoi cominciarono in Roma e in Italia
una vigorosa campagna contro Antonio, esagerandone le colpe, colorendo
le sue orgie, raffigurando il triumviro romano come l’umile schiavo
di Cleopatra, svelando dei presunti disegni che egli avrebbe orditi
a danno di Roma e dell’Italia. Questo atteggiamento di Ottaviano e
queste accuse inquietarono Antonio a tal segno che, a mezzo il 33,
sospese la nuova spedizione contro la Parzia, per la quale aveva fatto
grandi preparativi, e volle risolutamente assestare le cose d’Italia,
abbattendo Ottaviano. Il suo piano era abile. Il triumvirato, ormai
ridotto a due, scadeva alla fine del 33. Egli proporrebbe al senato di
rinunciare alla carica e di restaurare la repubblica, purchè Ottaviano
facesse altrettanto: siccome sapeva che Ottaviano, non fidandosi di
lui, non accetterebbe la proposta, egli sperava di apparire all’Italia
come il difensore della libertà e della repubblica, calunniato da
Ottaviano e dai suoi, e di prepararsi il più bel pretesto per fargli
guerra. Antonio e Ottaviano insomma si disputavano il merito di voler
restaurare la repubblica!

Il 31 dicembre del 33 i poteri triumvirali dell’uno e dell’altro
terminarono. Antonio, che era fuori di Roma, conservava, secondo la
costituzione, il comando dell’esercito come promagistrato, sinchè
non fosse stato nominato il successore. Ottaviano, per conservare
anche egli legalmente il comando degli eserciti suoi, dovette uscire
di Roma. Ma appena egli fu uscito di Roma, il 1º gennaio del 32, il
console C. Sossio, che era un amico di Antonio, come il suo collega
Domizio Enobarbo, approfittò della sua assenza per attuare il piano di
Antonio. Riferì al senato la proposta di quest’ultimo, e concluse con
un’altra proposta, che gli storici antichi ci dicono mirasse diritto
a Ottaviano: forse che questi abbandonasse subito il comando degli
eserciti, invece di comandarli ancora come promagistrato. Un tribuno,
amico di Ottaviano, interpose il veto; per parecchi giorni furono
dispute, oscillazioni, incertezze; sinchè Ottaviano, vedendo che la
sua inerzia incoraggiava i nemici, ritornò a Roma, alla testa di una
schiera di soldati e di amici armati, entrò in senato, pronunziò un
discorso violento contro Antonio e contro gli intrighi dei consoli, e
concluse promettendo di provare in una prossima seduta, con documenti
alla mano, le sue accuse contro Antonio.

Questa improvvisa uscita commosse vivamente Roma. Si ricominciava con
le violenze e con i colpi di Stato, forieri di guerra civile? I consoli
e numerosi senatori pensarono fosse miglior partito fuggire presso
Antonio, che era ancora, non ostante le donazioni di Alessandria, il
più potente e il più ammirato degli antichi triumviri, quello in cui
l’Italia e il senato riponevano maggior fiducia. Antonio intanto era
giunto ad Efeso; e vi raccoglieva da ogni parte dell’Oriente navigli
carichi di grano, di stoffe, di ferro, di legname; i contingenti dei
re, dei dinasti, dei tetrarchi d’Asia, che si mescolavano con i soldati
delle 19 legioni, condotte da lui stesso; la flotta egiziana, che
Cleopatra aveva condotta insieme col tesoro e con una lunga schiera
di domestici. Per quale ragione Cleopatra fosse venuta, è facile
immaginare: essa non voleva che Antonio si impegnasse in questa nuova
guerra civile, al punto di essere costretto poi a ritornare, quando
l’avesse vinta, in Italia come capo della repubblica. Essa voleva che
egli tornasse in Egitto, per essere ad Alessandria il sovrano e il
sostegno della nuova dinastia. Ma i senatori, che giungevano d’Italia,
volevano invece che Antonio ritornasse in Italia ad assestarne le
turbate faccende, o dopo aver vinto Ottaviano o dopo essersi inteso con
lui. Incominciaron quindi subito aspri dissidi tra Cleopatra e i più
eminenti amici di Antonio. Antonio titubava. Da un verso dava retta a
Cleopatra, perchè aveva bisogno dell’Egitto; dall’altro doveva tener
conto dell’Italia e dei desideri dei senatori accorsi a lui, perchè
dell’Italia aveva bisogno come dell’Egitto. Se l’Egitto gli forniva
denari e beni di ogni sorta, l’Italia gli dava la parte migliore
dell’esercito.

Ottavia fu il primo oggetto di questa grande lotta tra i senatori
romani e Cleopatra. Cleopatra voleva a tutti i costi che Antonio
ripudiasse Ottavia; i senatori romani si opponevano. Cleopatra vinse
alla fine, nel mese di maggio del 32. Da Atene, dove era giunto
con una parte dell’esercito, Antonio spedì a Ottavia la lettera
di ripudio. L’atto spiacque; e quindi giovò ad Ottaviano, che ne
approfittò per screditare quanto più potè l’avversario. Lo dipinse
all’Italia come impazzito per l’effetto dei filtri propinatigli da
Cleopatra; non rifuggì neppure dal costringere la Vestale Massima a
consegnargli il testamento di Antonio, nel quale faceva ai figliuoli
natigli da Cleopatra nuove donazioni e chiedeva che il suo corpo fosse
consegnato alla regina d’Egitto e seppellito ad Alessandria; divulgò
questo documento nel pubblico; infine approfittò del malcontento,
suscitato da tutti questi atti di Antonio, per provocare quella che
si chiamò la _conjuratio_ dell’Italia. In che cosa propriamente abbia
consistito questa _conjuratio_ noi non sappiamo: pare che, sotto
pretesto che il senato era ormai ridotto a pochi membri, gli agenti di
Ottaviano persuadessero i magistrati delle principali città d’Italia a
sostituirsi al senato e ad incaricare Ottaviano di mettersi alla testa
dell’esercito e di far la guerra a Cleopatra, giurandogli fedeltà[35].


43. =Azio (31 a. C.).= — La giustificazione legale del suo comando era
alquanto sforzata. Ma intanto incominciava una nuova guerra civile!
Antonio e Ottaviano stavano per affrontarsi, ciascuno dicendo di voler
difendere e restaurare la repubblica. Tuttavia Antonio era tanto più
forte, per denari, armi e prestigio, che sicuramente lo avrebbe vinto,
se Cleopatra non avesse intralciato i suoi piani. Cleopatra non voleva
che Antonio combattesse ad oltranza contro Ottaviano; perchè l’impero
egiziano che essa voleva fondare con Antonio, sarebbe caduto, non solo
se Antonio fosse stato vinto, ma anche se fosse stato vincitore. In
questo caso Antonio sarebbe stato costretto a ritornare in Italia, per
riprendere il governo della repubblica. Essa quindi voleva che Antonio,
invece di debellare Ottaviano per riconquistar l’Italia, ritornasse in
Egitto, abbandonando l’Italia ad Ottaviano ed aspettando che Ottaviano
venisse ad attaccarlo in Oriente, se se ne sentiva l’animo. E i suoi
consigli non furono inutili. Antonio non si preparò affatto ad attaccar
l’Italia con il grosso delle sue forze; ma, lasciate nientemeno che
undici legioni a presidio dell’Egitto, distese, nell’autunno del
32, attraverso il Mediterraneo, una vera catena di presidi navali e
terrestri, dalla Cirenaica all’Epiro: presidiò Cirene, Creta, il capo
Tenaro e Metone; disseminò l’esercito in tutta la Grecia, fortificò
Leucade, appostò il grosso della flotta nel golfo di Ambracia e gli
avamposti a Corfù. Spiegate così le sue forze, attese nell’inverno
a intrigare in Italia con le promesse e con l’oro per far ribellare
gli eserciti di Ottaviano. È chiaro ch’egli mirava — e i consigli
di Cleopatra non dovevano essere estranei a questo piano, altrimenti
inesplicabile — a far cadere la potenza del rivale senza impegnar tutte
le sue forze, che pure erano preponderanti, in una vera guerra.

Ma questo piano era così artificioso, che suggerì a Ottaviano, il quale
pure non era un uomo arditissimo, l’idea di sorprendere nella primavera
la flotta di Antonio nel golfo d’Ambracia e distruggerla. Grazie ad
un abile stratagemma di Agrippa, Ottaviano riuscì nella primavera del
31 a sbarcare un esercito in Epiro, ma non a sorprender la flotta
nel golfo d’Ambracia, poichè Antonio fece a tempo a raccogliere il
suo esercito dalla Grecia e a metterlo a difesa della flotta in un
vasto accampamento sul promontorio di Azio. A sua volta Ottaviano fu
costretto ad accamparsi e ad ancorare la flotta a poca distanza: e da
quel momento incominciò una lunga e bizzarrissima guerra. Ottaviano non
attaccava Antonio, perchè non osava; Antonio non attaccava Ottaviano,
perchè Cleopatra non voleva: tentativi di pace furono fatti, ma non
riuscirono. Si sarebbe detto che i due avversari non volevan fare nè
pace nè guerra. Senonchè gli eserciti non potevano stare immobili a
guardarsi per l’eternità; i senatori romani, che avevano raggiunto
Antonio, insistevano, perchè o si facesse la pace o si combattesse;
Cleopatra voleva ritornare in Egitto con l’esercito intatto. Le
discordie infuriavano più violente che mai intorno ad Antonio. Alla
fine, negli ultimi giorni d’agosto, Antonio sembrò risolversi ad una
grande battaglia navale. Era forse dubbio che la guerra potesse essere
decisa sul mare: ma certo era invece che Antonio per la battaglia
aveva preso posizioni bizzarre ed equivoche. Aveva ordinato che 22.000
soldati s’imbarcassero su 70 navi da carico; che il tesoro di Cleopatra
fosse portato a bordo di 60 navi egiziane; che si caricassero le grandi
vele, pesanti e ingombranti, destinate solo a lunghi viaggi, e che i
vascelli, che non potevano uscire allo scontro, fossero bruciati, non
risparmiando nemmeno una parte della flotta dell’Egitto. Si voleva
impegnare una battaglia o fuggire? Il dubbio parve a molti così
tremendo, che parecchi senatori autorevoli, come Domizio Enobarbo,
passarono ad Ottaviano nei giorni precedenti la battaglia.

Finalmente spuntò l’alba del 2 settembre. Il segnale fu dato, e la
battaglia infuriò accanita per la prima parte della giornata. Già le
turrite e pesanti navi di Antonio sembravano prevalere sui più rapidi,
ma più deboli e più leggieri, incrociatori di Ottaviano. Quando, a
un tratto, il mistero di tanti mesi fu svelato: s’era appena levata
la brezza del nord, che in quella stagione soffia tutti i giorni
sull’Egeo, allorchè le due armate stupite videro i 60 vascelli egiziani
di Cleopatra tendere le vele, passare audacemente tra le due flotte
combattenti e filare sicuri verso il Peloponneso. Contemporaneamente
Antonio balzava sopra una quinquereme e seguiva la regina. Era chiaro
ormai che la battaglia era stata una finta; Cleopatra aveva vinto;
Antonio rinunziava a combattere per restaurare la repubblica in Italia,
e si ritirava nel suo impero egiziano con una parte dell’esercito,
la regina e il tesoro. Un ufficiale fidato, P. Canidio, era stato
incaricato di ricondurre il resto dell’esercito e della flotta in
Egitto[36].

Il piano era ingegnoso; ma una difficoltà impensata lo fece fallire in
pochi giorni. L’esercito di Antonio fu talmente offeso da questa fuga,
che Canidio non osò palesare le istruzioni ricevute per ricondurre
l’esercito in Egitto. Se Cleopatra e i suoi ministri avevano trionfato
sotto la tenda del generale, l’esercito era tutto per Roma e per il
partito romano. Canidio aspettò parecchi giorni, senza risolversi
ad agire; l’esercito rimase in balìa di se stesso; lo scoramento
s’impadronì dei soldati; cominciarono le diserzioni: prima i romani
più autorevoli del seguito di Antonio, poi i principi orientali,
i contingenti alleati, poi, dopo sette lunghi giorni di attesa, le
legioni e l’armata passarono ad Ottaviano. Il 9 settembre Antonio non
aveva più soldati nè navi in Occidente!

Ne aveva però ancora in Oriente. Sebbene 19 legioni e la maggior
parte dell’armata fossero state perdute dal triumviro e dalla regina;
sebbene molte città greche e molti stati orientali si dichiarassero
pel felice vincitore, Ottaviano non osò inseguire il nemico nel suo
lontano rifugio africano. Anzi, come la guerra fosse finita, congedò
buona parte delle sue milizie e incaricò Agrippa di portare le altre
in Italia. Non Ottaviano, ma l’Italia volle che quella costosa guerra
civile non rimanesse troncata a mezzo, per riaccendersi tra poco,
quando Antonio si fosse riavuto; non Ottaviano, ma l’Italia volle
subito riconquistare le province orientali, che erano le più ricche
dell’Impero; e approfittare dell’occasione per conquistare l’Egitto,
da tanto tempo cupidamente adocchiato. L’Italia reclamò unanime
da Ottaviano, come punizione e vendetta, la conquista del regno
dei Tolomei, e con tanta forza, che Ottaviano si lasciò alla fine
trascinare nella via additatagli dal sentimento universale. Un grosso
disordine, occorso nell’inverno del 31-30, dovette spronarlo ancora
più: i soldati, congedati senza ricompensa, tumultuavano in Italia
minacciando di saccheggiarla, se anch’essi non fossero stati trattati
come i loro compagni. Soltanto la conquista di un paese ricco come
l’Egitto poteva fornire i mezzi per rimediare a tanti guai!

Antonio aveva preparato una qualche difesa dell’Egitto. Con 11 legioni
ancora fedeli, con una flotta, un tesoro, del tempo, egli avrebbe
potuto far pagare cara ai suoi nemici la loro audacia. Ma il colpo di
Azio l’aveva esautorato e disanimato, facendo palese anche ai suoi
più fedeli la doppia ed equivoca politica che l’aveva condotto ad
Alessandria. Ottaviano potè avanzare senza difficoltà sull’Egitto dalla
Siria e dall’Africa, e marciare diritto, quasi senza colpo ferire, su
Alessandria. Il 1º agosto del 30 le milizie e la flotta, apparecchiate
alla difesa, passavano ad Ottaviano.

Il dramma era finito. Antonio si uccise; e quel giorno medesimo
Ottaviano entrava in Alessandria, ove ordinava, fra gli altri,
l’eccidio di Cesarione — il figlio naturale di Giulio Cesare — e quello
di Canidio, che solo conosceva il segreto di Azio. Cleopatra si era
rinchiusa nella sua tomba regale, deliberata a continuare a vivere da
regina o a morire. Ma quando anche questa speranza le venne meno, la
donna, al cui terrore la leggenda avrebbe attribuito la responsabilità
della disfatta di Azio, si diede stoicamente la morte e fu ritrovata
sul suo letto, adorna del suo più sontuoso costume regale, fra
un’ancella già morta e un’altra che agonizzava.

L’Egitto non fu ridotto in provincia romana. Entrato in Alessandria,
il vincitore dovè riconoscere che la politica orientale di Antonio non
era soltanto il capriccio d’un ambizioso, ma, in parte almeno, una
necessità politica. L’orgoglio nazionale e le tradizioni dinastiche
della terra dei Faraoni e dei Tolomei non avrebbero tollerato che quel
paese subisse la sorte della Gallia o del regno di Pergamo. Ottaviano
credette opportuno di fingere di essere egli stesso, come aveva fatto
Antonio, il nuovo re d’Egitto, il continuatore dell’estinta dinastia
dei Tolomei; e a governare il paese destinò non già un proconsole, ma
un _praefectus_, un suo personale rappresentante. Primo a quell’ufficio
fu il poeta latino, Caio Cornelio Gallo, grande amico di Virgilio,
che a lui aveva dedicato una delle sue egloghe più belle. Ma tutti
gli Egiziani dovettero pagare un’imposta eguale al sesto dei loro
beni; altre somme furono estorte ai più ricchi; l’immenso tesoro dei
Tolomei, collezione meravigliosa di oggetti d’oro e d’argento finemente
lavorati, fu tutto brutalmente fuso per trasformarlo in moneta sonante.
Con questo tesoro furono finalmente pagati gli ufficiali e i soldati
insoddisfatti, che avevano combattuto nelle campagne precedenti; con
questo tesoro Ottaviano rifece di nuovo la sua perduta fortuna, e i
suoi amici gli immensi patrimoni, che scandalizzeranno Roma per due o
tre generazioni.

Tutto il resto dell’anno 30 e i primi del successivo, Ottaviano passò
in Oriente. Nella primavera del 29 — finalmente! — egli tornò in Italia
e il 13, 14 e il 15 agosto furono celebrate in Roma le feste solenni
del suo ingresso trionfale.


NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

[32] Cfr. APP. _B. C._, 5, 3.

[33] Cfr. su questa guerra, lo studio pubblicato da KROMAYER, in
_Hermes_, 31, p. 70 sg. Cfr. anche BOUCHÉ-LECLERCQ, _Histoire des
Lagides_, Paris, 1904, vol. II, p 258 sg.

[34] Cfr. PORPHYRIUS TYRIUS, in MÜLLER, _F. H. Gr._, 3, p. 724; e
LETRONNE, _Recueil des inscriptions grecques et latines de l’Egypte_,
Paris, 1842-48, vol. II, p. 90 sg. Su tutta la leggenda di Antonio e
Cleopatra, cfr. G. FERRERO, _Grandeur et decadence de Rome_, Paris,
1908, vol. IV, Appendice (che manca nell’edizione italiana).

[35] SVET., _Aug._, 17; MON. ANC., 5, 3-4: _juravit in mea verba tota
Italia sponte sua et me bello quo vici ad Actium ducem depoposcit_. —
Su tutta la questione della _conjuratio_, cfr. G. FERRERO, _Grandeur et
decadence de Rome_, IV, p. 84.

[36] Sulla battaglia d’Azio e le ragioni per cui ne è stata ricostruita
a questo modo la storia, cfr. G. FERRERO, _Grandeur et decadence de
Rome_, IV, Appendice (che manca nell’edizione italiana).



CAPITOLO OTTAVO

LA REPUBBLICA DI AUGUSTO


44. =La restaurazione della repubblica (27 a. C.).= — Ultimo superstite
di tanti emuli che avevano gareggiato in tante guerre per il potere,
Ottaviano restava finalmente signore ed arbitro della Repubblica. Tutte
le legioni lo riconoscevano capo; il senato era concorde nell’ammirarlo
e nel porre in suo potere lo Stato; Roma e l’Italia lo acclamavano
salvatore dell’impero; le province gli ubbidivano. Nessun uomo aveva in
Roma goduto di un’autorità maggiore e più sicura. Quale uso ne farebbe
egli?

È dottrina comune a tutte le scuole del secolo XIX che Augusto si
valse di tanta fortuna per fondare in Roma una monarchia, usando
però l’accortezza di vestirla in vecchi panni repubblicani. Ma questa
dottrina non ha fondamento nè nelle fonti nè nella ragione storica.
Bisogna giungere a Dione Cassio, ossia ad uno scrittore orientale e al
terzo secolo dell’impero, per trovare un antico che parli di Augusto
come di un monarca. Degli scrittori più vicini a lui, nessuno sospettò
mai Augusto di aver nascosto una monarchia nelle forme della vecchia
repubblica. Nè è difficile dimostrare che Ottaviano non poteva fondare
una monarchia nè a viso aperto, nè sotto la maschera repubblicana.
Che voleva dire fondare una monarchia? Sostituire l’autorità propria
e della propria famiglia a quella del senato e di quel piccolo gruppo
di grandi famiglie che avevano creato e governato sino ad allora
l’impero; sostituire a queste famiglie e alle magistrature repubblicane
una burocrazia, scelta dal sovrano in tutti gli ordini sociali e in
tutte le parti dell’impero, la quale avrebbe riconosciuto lui solo
come fonte dell’autorità propria. Augusto avrebbe potuto fare questo
rivolgimento soltanto se l’opinione pubblica dell’Italia avesse
acconsentito; perchè il suo potere posava sulla fedeltà delle legioni,
e le legioni erano composte di Italiani. La rovina di Antonio non aveva
forse dimostrato quanto fosse pericoloso far violenza ai sentimenti
e alle idee più tenacemente radicate nel ceto medio e nella plebe
dell’Italia? Ma uno dei sentimenti più forti nell’Italia romanizzata
era appunto la venerazione per il senato, per le secolari istituzioni
della repubblica, per l’aristocrazia di Roma. Per quanto feroci
fossero state le lotte delle fazioni a Roma, esse non avevano fatto
progredire molto quelle che a noi sembrano le vere idee democratiche,
in mezzo alla moltitudine. Il partito popolare era stato capeggiato da
nobili di vecchia famiglia come il partito senatorio; il mezzo ceto
e i poveri avevano cercato con quelle lotte di ottenere pane, terre,
denaro, pensioni, leggi meno aspre e severe, non di conquistare le
alte cariche dello Stato. L’uno e l’altro non ammettevano neppure
che il comando in guerra e le magistrature della repubblica fossero
attribuite ad altri che ai membri della nobiltà senatoria; tanto
è vero che tutte le persone di origine oscura, cui era riuscito di
entrare nel senato in mezzo al disordine delle guerre civili, erano
assai mal viste, quando non avessero i meriti insigni di un Agrippa.
Proprio nell’anno 28, mentre gli storici moderni gli attribuiscono
l’intenzione di fondare una monarchia, Augusto era obbligato, per dare
soddisfazione alla opinione pubblica, a rivedere la lista del senato,
e ad invitare a dimettersi 200 tra i suoi membri più oscuri, proprio
quelli che sarebbero stati gli strumenti più docili della monarchia.
Se la condizione media e la plebe non acconsentivano neppure ad esser
governate dalla propria gente, figurarsi se avrebbero obbedito a
funzionari orientali, o di qualche altra provincia! Ci vorranno più di
tre secoli, perchè l’Italia pieghi il collo al comando dei suoi antichi
sudditi.

In quegli anni invece tutta l’Italia era agitata da una specie di
fervore tradizionalista, di cui sono rimasti i documenti più solenni
nella letteratura. Le guerre civili avevano fatto rinsavire gli uomini,
e risospinto gli animi spaventati verso il passato. È questo il tempo
in cui Tito Livio, che doveva diventare un grande amico di Ottaviano,
incomincia a scrivere la sua storia di Roma, per glorificare l’antico
governo repubblicano e gli uomini, che, come Pompeo, erano stati vinti
nella guerra civile, per rimpicciolire i capi del partito vittorioso,
Cesare non escluso[37]. È il tempo in cui, agli scrittori più illustri
dell’età precedente, si preferiscono quelli antichi: Livio Andronico,
Pacuvio, Ennio, Plauto, Terenzio. Il tempo in cui l’epicureismo, così
in favore nella generazione precedente, perde terreno, scacciato dal
pitagorismo e dallo stoicismo. Il tempo, in cui Virgilio si accinge
a vergare il maggior poema morale e religioso della romanità, e già
si è formato, e diventerà numeroso e minaccioso, un partito che vuole
bandire da Roma a furia di leggi ciò ch’esso definisce la «corruzione»,
i vizi, portati dalla conquista, dall’orientalismo, dalla ricchezza:
l’impudicizia delle donne, la compiacenza dei mariti, il lusso, l’amore
dei piaceri.

In tempi simili nemmeno un nuovo Cesare sarebbe riuscito a fondare
una monarchia. Immaginarsi se ci poteva neppure pensare un uomo come
Ottaviano, che non era nè un gran generale nè un grande ambizioso, ma
un amministratore probo ed accorto, un politico abile e prudente, e che
aveva sposato da poco Livia, la madre del futuro imperatore Tiberio e
la consorte divorziata del fuggiasco Claudio Tiberio Nerone: una donna
di alto ingegno, di grande abilità, ma che incarnava lo spirito e le
tradizioni della vecchia nobiltà romana!

Il disegno di Ottaviano era dunque più modesto e più semplice di quello
che gli storici moderni gli hanno attribuito: restaurare, quanto e
meglio che si potesse, l’antica repubblica aristocratica, rendere alle
istituzioni l’autorità di cui il triumvirato le aveva spogliate, ma
correggendo i difetti che avevano generato prima l’anarchia e poi le
guerre civili, la dittatura di Cesare, e il triumvirato[38]. Tra questi
i due difetti di maggior pericolo erano lo spezzettamento dei comandi
militari e l’annualità e la collegialità delle magistrature. Dividendo
l’esercito tra molti generali, ognuno indipendente dall’altro, e
tutti dipendenti dal senato lontano, spesso debole e discorde perchè
parteggiante per l’uno o l’altro dei generali, era accaduto che molti
generali si erano serviti degli eserciti per le loro ambizioni,
movendo persino in guerra contro il senato. Lo sdoppiare tutte le
magistrature in due colleghi di egual potere e il rinnovarli tutti gli
anni, se aveva garantito i cittadini contro gli abusi dell’autorità,
aveva anche diminuito la continuità del governo e posto uno strumento
pericolosissimo di disordine nelle mani dei partiti; perchè troppo
spesso accadeva che i due colleghi appartenessero a partito differente
e che ciascuno cercasse di intralciare ciò che faceva il collega. Se
dunque era necessario ricostituire la repubblica, riconvocare i comizi,
ridare gli antichi poteri alle magistrature, occorreva pure stabilire
un’autorità forte abbastanza da contenere le fazioni, le magistrature,
i comandi militari (le promagistrature), per modo che non abusassero
del loro potere, non si intralciassero a vicenda o non trascurassero il
proprio dovere. Cicerone aveva già dimostrato nel suo _De Republica_,
svolgendo un’idea attinta a Polibio e ad Aristotele, che negli Stati in
discordia occorre un magistrato supremo e unico, soggetto alle leggi
comuni, e di conseguenza repubblicano, ma investito di un potere più
duraturo e più ampio che i magistrati ordinari, il quale possa e sappia
costringere questi a non fare nè più nè meno del proprio ufficio.

Questa è l’idea — schiettamente latina e repubblicana — che ispirò
la riforma costituzionale, discussa tra Ottaviano e gli uomini più
eminenti del Senato durante il 28 a. C. e solennemente sancita il 13
gennaio del 27. Per la nuova riforma Ottaviano consentiva, assumendo il
proconsolato di tutte le province nelle quali erano stanziati eserciti,
a prendere il comando di tutte le legioni, in modo che i soldati e gli
ufficiali dipendessero da lui e a lui rispondessero, anzichè a quella
anonima, intermittente e fiacca autorità, che era il senato. Queste
province, di cui Ottaviano assumeva il proconsolato, erano, nel 27,
tre soltanto: la Siria, con Cipro, la Gallia Transalpina, la Spagna. Le
altre invece, come per l’innanzi, sarebbero amministrate dai proconsoli
e dai propretori. D’altra, parte, occorrendo anche in Roma un’alta
autorità per sorvegliare i magistrati urbani, stimolare e riunire il
senato, Ottaviano consentiva ad assumersi egli stesso questo incarico,
ponendo ogni anno la sua candidatura al consolato. Egli sarebbe stato
dunque al tempo stesso console e proconsole; avrebbe da Roma, per mezzo
di luogotenenti, governato le sue province; o, quando si fosse recato
colà, avrebbe continuato a governare Roma nella sua qualità di console.
L’unione delle due magistrature — la consolare e la proconsolare —
era più una rivoluzione che una riforma della antica costituzione:
ma non era del tutto nuova, chè già Pompeo nel 52 aveva cumulato le
due cariche; ma Ottaviano riceveva l’una e l’altra, dai legittimi
poteri costituenti; e solo per meglio far operare le restaurate
istituzioni della repubblica. Insomma si poneva a capo della repubblica
Ottaviano come _primo magistrato o presidente_ (_princeps_), ma con
poteri legali e determinati, e per un decennio, proprio come Cicerone
aveva consigliato nel _De officiis_. Nel tempo stesso Ottaviano
restituiva tutti i poteri, di cui la legge _Titia_ l’aveva investito
come triumviro. Cosicchè anche quel cumulo di poteri eccezionali
sulla persona del nuovo presidente appariva ai contemporanei, ignari
dell’avvenire, come un ordinamento provvisorio, che sarebbe durato
fino al giorno in cui la repubblica potesse essere ripristinata nella
genuina sua forma antica.

Il vincitore non poteva essere più modesto, e il 16 gennaio era
degnamente ricompensato. Quasi a imprimere il suggello di un carattere
sacro alla magistratura, creata pochi giorni innanzi, il popolo e il
senato gli conferivano quel titolo onorifico di _Augustus_, con cui
egli passerà nella storia.


45. =Le finanze.= — Incomincia la nuova storia di Ottaviano e della
repubblica romana: una storia, piccola nelle apparenze, grande nella
sostanza. Un fermo proposito la domina tutta: soddisfare quanto
più si possa le nuove aspirazioni tradizionaliste, che volevano
ristabilire l’ordine nello Stato, nella famiglia, nelle idee, nei
costumi, rinnovando i tempi più gloriosi della aristocrazia, il loro
zelo civico, la loro concordia, la loro devozione, la loro semplicità
di costumi, la loro disciplina; governare insomma con il nome e
all’opposto di Cesare. Già nel 28, prima che la nuova costituzione
repubblicana fosse approvata, Ottaviano aveva ridotto l’esercito a
sole 23 legioni, e dato mano a ristabilire la disciplina, escludendo
gli stranieri, i liberti e i provinciali, e ristabilendo le pene
e le ricompense d’altri tempi. Nello stesso anno si era accinto
a ricostituire per via di donativi la fortuna di molte famiglie
senatorie, cadute in povertà. Diventato Augusto, fece approvare
una legge che abbassava l’età legale per le magistrature affinchè
i giovani potessero incominciare di buon’ora la carriera politica,
come s’era fatto nell’età più gloriosa dell’aristocrazia, nel terzo e
secondo secolo a. C.; e come era necessario fare, ora che il numero
delle famiglie aristocratiche era così sminuito[39]. Fece approvare
una legge, già imaginata da Cesare, che assegnava degli stipendi ai
governatori provinciali e a tutti i magistrati di nuova creazione:
riforma necessaria, perchè una parte della aristocrazia era troppo
povera per poter far le spese delle cariche pubbliche, ma che
contradiceva un principio della vecchia repubblica: la gratuità delle
funzioni. Infine e soprattutto attese a riordinare le finanze.

Dopo tante dilapidazioni, rapine e malversazioni, la riforma
delle finanze era il primo farmaco di cui aveva bisogno l’ammalata
repubblica. Senza denaro Augusto non avrebbe potuto nè intraprendere
guerre, nè rimettere in buon assetto l’amministrazione, nè dare mano
a lavori pubblici. Per ciò egli volse le sue prime e maggiori cure
all’erario. Quali erano le entrate e le spese della repubblica? Per
saperlo, Augusto organizzò presso di sè — per suo uso privato — una
vera e propria contabilità di Stato, scegliendo all’uopo, tra i suoi
numerosi schiavi e liberti, i più colti ed intelligenti. Come capo
del senato, come console, come proconsole di tre grandi province,
egli poteva avere in mano tutti i conti dello Stato e compilare un
bilancio o almeno uno schema del bilancio[40]. Questo schema era anche
più preciso e più particolareggiato che quello dei magistrati; e senza
esautorare il senato e i _praefecti aerarii Saturni_ che dell’erario
avevano cura, Augusto si sarebbe servito di questo schema per studiare
le nuove misure fiscali, per ammonire e biasimare, o far ammonire
o biasimare dal senato, i magistrati che facessero spese inutili o
negligessero le province, per far fruttare le proprietà dello Stato.

Ma conoscere le entrate non bastava; occorreva accrescerle.
Ripigliando un disegno di Cesare, Augusto fece l’inventario del
gigantesco patrimonio che la repubblica possedeva in tutto l’impero,
e che aveva in ogni tempo sfruttato con profitto, ma anche con
grandissimo disordine e sperpero. Si applicò inoltre ad accrescere i
tributi di talune province, che negli ultimi anni erano state memo
devastate, e che, al confronto di mezzo secolo innanzi, offrivano
segni di palese prosperità, come la Gallia Transalpina, forse anche
le province illiriche e taluni paesi alpini. Si sforzò pure di
mettere in circolazione una più grande quantità di numerario. Durante
il triumvirato, grandi quantità di oro e d’argento, spaventate
dall’anarchia, erano sparite in tutto l’impero; cosicchè i triumviri
avevano dovuto coniar monete di cattiva lega. Per rimediare alla
scarsezza del medio circolante, Augusto pensò di conquistare dei
territori auriferi, e con questo pensiero preparò le prime guerre
del suo principato: la guerra contro i Cantabri e gli Asturi, nella
penisola iberica, le cui miniere d’oro, nell’anarchia dell’ultimo
secolo, erano state abbandonate, dopo una rivolta degli indigeni: e,
insieme, la conquista della valle dei Salassi (Val d’Aosta) altrettanto
preziosa, e per le stesse ragioni. Anzi la riorganizzazione delle
finanze gli stava tanto a cuore, che nel 27 stesso deliberò di fare
un lungo viaggio e di recarsi prima in Gallia a organizzare i nuovi
tributi e in Spagna a riconquistare le miniere d’oro dei Cantabri e
degli Asturi: non prima però di aver deliberato di fare a sue spese, e
con il concorso dei senatori più ricchi e volenterosi, grandi lavori
pubblici in Italia, come riparare parecchie strade, molti templi e
monumenti pubblici, e costruire altri ex novo. Compiute rapidamente
queste riforme, negli ultimi mesi del 27, egli partiva alla volta della
Gallia e della Spagna.


46. =Le prime difficoltà del nuovo regime e la crisi del 23.= —
Augusto fece la prima tappa del suo viaggio a Narbona. Quivi egli
aveva appositamente convocato i notabili della Gallia Transalpina,
probabilmente per annunziar loro le misure, che dovevano preparare
la riforma dei tributi, tra le altre, un censimento generale inteso
ad accertare le nuove fortune della Gallia. Non a caso Augusto aveva
messo gli occhi, per accrescere i tributi, sulla provincia conquistata
da Cesare. Dopo la morte di Cesare, l’autorità romana era stata
troppo debole in Gallia, da potere sfruttare tanto crudelmente il
paese. Aveva soltanto potuto imporre un certo ordine e la pace, di
cui il paese aveva largamente approfittato. Non più devastato dalle
periodiche guerre civili; pagando alla potenza dominante pochi tributi,
e forse nessuno; sbarazzato dalla nobiltà turbolenta e dalle bande
dei cavalieri e dei clienti, che erano stati la sua piaga durante
l’indipendenza, la Gallia si era arricchita, nel volgere di una
generazione. Molti Galli erano divenuti artigiani, altri agricoltori,
altri infine si erano arruolati negli eserciti dei triumviri ed avevano
preso parte al saccheggio dell’impero, riportando in patria l’oro
rapinato ovunque. In un paese come la Gallia, allora come oggi assai
fertile, ben irrigato, coperto di foreste, ricco di minerali, gli
effetti del nuovo regime apparivano ovunque dopo trenta anni. Già si
cominciavano a scavare da per tutto delle miniere, si cercava l’oro
sotterra e tra le sabbie dei fiumi: si scoprivano miniere d’argento;
si mettevano a coltura nuove terre e si cominciava a piantare il lino,
fino allora coltivato soltanto in Oriente. Incominciavano a fiorire
persino delle industrie: la tessitura, la ceramica, la vetreria. I
Galli cercavano di imitare gli oggetti fabbricati in Oriente e si
studiavano di farne delle copie più rozze, ma di minor prezzo. Roma,
dunque, poteva chiedere alla Gallia un tributo maggiore di quello
che essa aveva pagato fino ad allora. Dopo essersi trattenuto in
Gallia per predisporre il necessario a questo aumento di tributi[41],
Augusto andò in Spagna per far guerra agli Asturi e ai Cantabri,
mentre un suo legato conquistava la valle dei Salassi. Nella seconda
metà del 25 egli era nuovamente di ritorno ai Roma. Neppur due anni
erano trascorsi dalla solenne restaurazione repubblicana, e già
se ne vedevano i difetti. Nel 25 non si erano trovati candidati in
numero sufficiente per i 20 posti di questori; i servizi pubblici,
in Roma e fuori, continuavano a procedere male come prima; lo stesso
senato preferiva rimettere a Augusto tutte le decisioni, limitandosi
soltanto ad approvarle e a ratificarle. Se tutti ammiravano a
discorsi la repubblica aristocratica del buon tempo antico, pochi
erano disposti a farla rivivere con sacrificio proprio. Le famiglie
storiche dell’aristocrazia non erano più nè così numerose, nè così
ricche, nè così devote alla cosa pubblica, da sobbarcarsi a tutta
l’amministrazione di un così immenso impero. Nell’ordine dei cavalieri
e nella plebe c’erano uomini che avevano ricchezze e voglia di
servirsene per la pubblica cosa: ma a costoro mancava la preparazione e
il nome. Il popolo non li avrebbe facilmente tollerati e obbediti, nè
l’aristocrazia storica, ritornata in auge, era disposta ad accogliere
in troppo numero degli uomini nuovi nelle sue file. Cosicchè, tra
quelli che avrebbero potuto governare e non volevano, e quelli che
avrebbero voluto e non potevano, l’amministrazione della repubblica
procedeva alla meglio; e di ogni difficoltà tutti si scaricavano sopra
Augusto. Augusto doveva pensare e provvedere a tutto. Il lavoro che
ricadeva sulle sue spalle era tanto, che verso il giugno del 24 ammalò
gravemente; e, guarito, ebbe una ricaduta più grave nella primavera
del 23. Un brutto giorno Roma apprese che Augusto era morente, che
egli aveva già lasciato ad Agrippa e al console collega, C. Calpurnio
Pisone, tutte le sue disposizioni testamentarie. Tutta Roma agghiacciò
di terrore: quali non sarebbero le ripercussioni politiche di quella
morte?

Fortunatamente, Augusto guarì; ma rimessosi dichiarò di aver bisogno di
riposo e di volersi ritirare a vita privata. Lo sbigottimento di Roma
fu immenso. Tutti temettero che, partito Augusto, si ricomincerebbe da
capo con le guerre civili. Si insistè dunque e supplicò perchè restasse
al governo. Augusto si arrese alla fine — e forse a questo voleva
venire — quando il senato acconsentì ad approvare una nuova riforma
costituzionale, che, pur lasciandogli una immensa autorità, avrebbe,
nel suo pensiero, dovuto alleggerire la soma di lavoro che pesava su
lui. Il _princeps_ rinuncerebbe al consolato annuo, disinteressandosi
così delle faccende di Roma, e dell’Italia, le più gravose e difficili,
per attendere alle province. In queste egli riceverebbe un potere
supremo di vigilanza e di controllo. Senonchè, se era possibile
che le classi alte si rassegnassero a rinunziare a un console così
autorevole e così benevolo, come Augusto, era ben difficile che le
classi medie e minori di Roma e d’Italia fossero contente di vedere
Augusto disinteressarsi interamente delle cose italiane. Dovette essere
questa la grave ragione per cui Augusto, pur rinunziando al consolato,
consentì ad accettare un nuovo potere o meglio un’astrazione di
potere: la _potestà tribunicia_ a vita, cioè tutti gli antichi diritti
tribunicî — quello del veto, quello di far proposte in senato, di
proporre leggi al popolo: potestà generica, sconfinata, e indefinita al
tempo stesso, ma che gli avrebbe dato mezzo di intervenire, o piuttosto
di mostrare, all’occasione, d’intervenire negli affari d’Italia[42].

Questa riforma fu approvata verso la metà dell’anno; e incominciò a
confondere il concetto, in principio così chiaro, della restaurazione
del 27. Ma nello stesso anno, poco dopo che la riforma era stata
approvata, due avvenimenti vennero a dimostrare anche meglio che la
repubblica aristocratica, non ostante gli sforzi di Augusto e degli
altri per farla rivivere, agonizzava. Prima, un’ambasceria partica
che giunse a Roma. Da circa un decennio, i Parti e Roma non avevano
avuto più nessun rapporto tra loro. Era però accaduto che, in una
guerra dinastica di quell’impero, il figlio maggiore di Fraate fosse
stato fatto prigioniero e consegnato ai Romani, e che a Roma si
fosse rifugiato il ribelle competitore del re dei Parti, Tiridate.
L’ambasceria del Gran Re veniva ora a chiedere la consegna dell’uno e
dell’altro: grossa difficoltà, perchè quella domanda riapriva la più
pericolosa delle questioni orientali. Gli ambasciatori si rivolsero ad
Augusto; Augusto, zelante osservatore della costituzione, li rinviò al
senato, cui spettavano, secondo la costituzione, le questioni estere;
ma il senato, dopo matura riflessione, rimandò gli ambasciatori ad
Augusto, riconoscendo che Augusto potrebbe e saprebbe sciogliere
quel difficile nodo meglio del supremo consesso della repubblica.
L’altro avvenimento fu una carestia e una inondazione del Tevere.
Subito il popolo senza pane e senza tetto insorse contro l’incuria
dei magistrati, reclamò che Augusto riassumesse il consolato, o che,
fornito di poteri dittatoriali, come Pompeo nel 57, s’incaricasse
del vettovagliamento della città. Il clamore popolare fu tale, che
Augusto dovette assumere i pieni poteri dell’annona. Ma il popolo non
fu contento: la sua fiducia in Augusto era così grande, così vivo il
desiderio di un’amministrazione più forte, che subito reclamò che
Augusto assumesse subito o il consolato a vita, o la censura, o la
dittatura; insomma, sotto qual si voglia forma, un’autorità rapida,
energica ed assoluta. Augusto riluttava, sapendo per esperienza quanto
le dittature fossero pericolose: ma gli animi erano così accesi, che fu
forza venire ad un accordo. Il senato, pur non parlando di censure o di
dittature, accordò ad Augusto il potere di emanare degli editti, come
se fosse console, quando l’avesse creduto, in vista del bene pubblico.
In altre parole, Augusto riceveva, ora, e per Roma e per l’Italia, quel
potere discrezionale di sorveglianza, che poco prima aveva ricevuto
per le province. La vecchia aristocrazia non reggeva più al peso del
governo; un ordine sociale nuovo che la sostituisse non esisteva;
tutto il peso dell’impero ricascava su Augusto, che, volente o nolente,
doveva sobbarcarsi. Un solo anno — il 23 — aveva visto — e pochi mesi
dopo che Augusto aveva fatto uno sforzo serio per ritirarsi a vita
privata — il senato abdicare i proprii poteri sulla politica estera e
concedergli quella facoltà di emettere editti, che sarà il germe da cui
germoglierà il dispotismo monarchico[43].


47. =Il viaggio di Augusto in Oriente (21-19 a. C.).= — L’anno
successivo Augusto, quasi a dimostrare con un fatto che il governo
delle province, assunto nel 27, era provvisorio e che egli voleva
restituirle, man mano che fossero pacificate, restituiva al senato
Cipro e la Gallia Narbonese. Nel tempo stesso si preparava a fare un
primo viaggio nelle province asiatiche, che erano ancora considerate
come la parte più florida dell’impero.

L’Italia sperava da questo viaggio nientemeno che la conquista
dell’Armenia e della Parzia, ma Augusto, più positivo, pensava che il
suo viaggio avrebbe avuto scopi assai più modesti sebbene più utili:
risolvere definitivamente la vertenza con il re dei Parti, con il
quale aveva, fin dall’arrivo dei suoi ambasciatori a Roma, iniziato
trattative per una transazione onorevole; e affermare l’autorità
dell’impero, anche sugli Stati indipendenti della regione. Partì nella
primavera del 21, si fermò in Grecia, e cercò di portar soccorso
ai suoi mali più antichi e profondi. Separò di nuovo, per dare una
soddisfazione al sentimento nazionale, la Grecia dalla provincia
della Macedonia, decorandola del nome di Acaia, e delimitando il suo
territorio in modo da comprendere la Tessaglia, l’Epiro, le isole
Ionie, l’Eubea e alcune altre isole dell’Arcipelago con capoluogo
Corinto; riorganizzò l’antico _Consiglio Anfizionico_, che si adunava
ogni anno a Delfo; si sforzò di stabilire una dieta con assemblee
annue — imagine rinnovellata e ingrandita dalla lega achea, alla
quale tutte le città greche inviassero un rappresentante; dette la
libertà a parecchie città elleniche. Indi passò nell’Asia minore,
dove trovò la provincia d’Asia affaccendata ad innalzare in Pergamo un
gran tempio in suo onore e a fondare il culto del nuovo Dio vivente,
Augusto. Era avvenuto qualcosa di simile ad Antonio in Alessandria.
L’adorazione dei monarchi defunti in Asia e dei monarchi viventi
in Egitto, era stato uno dei tanti strumenti di dominazione, di cui
l’ellenismo si era servito per imperare sulle razze indigene dell’Asia
e dell’Africa. Ora l’Oriente incominciava timidamente ad estendere
quel culto al nuovo magistrato supremo, che sorgeva in Roma tra tante
contradizioni, volendo essere ancora, e non potendo più essere, un
magistrato repubblicano; come se l’Oriente volesse dire a Roma che era
suo destino cadere sotto quelle stesse istituzioni monarchiche, che per
tanti secoli lo avevano retto. Augusto accettò il tempio, a condizione
che Roma fosse associata nel culto alla sua persona. Quindi si volse a
risolvere la questione partica e la armena.

L’Armenia, che Antonio aveva conquistata, era tornata sotto il governo
di un re nazionale, ostile a Roma e soggetto all’influenza partica.
Ora giungeva Augusto, deliberato a riconquistare la perduta egemonia,
con grandi forze. Ma mentre, nell’inverno tra il 21 ed il 20, le
forze romane e alleate si concentravano ai confini dell’Armenia, una
rivoluzione rovesciava e trucidava il re, e gli insorti dichiaravano
di accettare la supremazia romana. Augusto tuttavia non annesse
l’Armenia, e diede il paese ad un re amico, al fratello del monarca
deposto, Tigrane, che egli aveva fatto prigioniero dopo Azio, ad
Alessandria, e poscia educato regalmente a Roma. Poco dopo il re dei
Parti, Fraate, poneva ad effetto l’accordo, laboriosamente conchiuso
dopo lunghe trattative; e mandava al campo romano le insegne e i
prigionieri catturati al tempo della spedizione di Crasso, insieme con
ambasciatori, incaricati di concludere definitivamente il trattato
di pace con Roma. Questo trattato era altra cosa della conquista
della Parzia, che molti sognavano a Roma: era un ragionevole e saggio
compromesso, per il quale i Parti si disinteressavano definitivamente
della politica mediterranea, abbandonando a Roma l’Anatolia e la Siria,
e Roma, dal canto suo, abbandonava il programma di Alessandro, di
Cesare, di Antonio, e s’impegnava a non entrare nell’Asia centrale.
Ma i vantaggi per Roma erano grandi, poichè con quel trattato, che le
assicurava un secolo di pace in Oriente, Roma ricuperava la libertà
d’azione in Europa; e sarebbe libera di intraprendere in Gallia quella
politica di romanizzazione, da cui nascerà la civiltà europea. Onde
questo trattato va annoverato tra i grandi servizi resi da Augusto a
Roma.


48. =Le grandi leggi sociali dell’anno 18.= — Augusto tornò in Roma,
nella seconda metà del 19: e trovò la grande città piena di agitazioni,
di discordie, di dispute; le vecchie famiglie più nemiche che mai
della gente nuova; i servizi pubblici trascurati come sempre; il popolo
malcontento e cresciuto moltissimo nel favore pubblico quel movimento
tradizionalista e puritano, che abbiamo visto incominciare negli
ultimi tempi del triumvirato. Fatto più ardito, questo movimento, che
era favorito insieme dai vecchi nobili e da una parte delle classi
medie, chiedeva ora l’epurazione del senato da tutti gli intrusi,
che la rivoluzione vi aveva introdotti; il ritorno a una costituzione
timocratica, escludente da qualsiasi carica coloro che non possedessero
una certa fortuna; delle leggi, che imponessero ai ricchi una vita
più modesta e virtuosa, che reprimessero gli scandali privati e
raffrenassero nella aristocrazia il lusso e quella che si diceva la
corruzione delle donne. Il movimento degli animi era così forte, che
il disinteressarsene si faceva sempre più difficile per Augusto; ma
il soddisfarlo non era neppur facile. Con l’anno 18 scadevano i poteri
decennali pel _princeps_, assunti nel 27; ed Augusto meditava una terza
riforma della costituzione allo scopo di scaricare su altri parte delle
cure e delle responsabilità. Con questa riforma egli avrebbe diviso
il suo potere con M. Vipsanio Agrippa, che frattanto aveva sposato
sua figlia Giulia. Tanto poco Augusto pensava a fondare una monarchia!
Insomma Roma e l’Italia aspettavano da Augusto un governo più vigoroso,
che facesse grandi riforme, proprio mentre Augusto pensava a dividere
il potere con Agrippa. Anche questa volta fu necessario addivenire a
un compromesso. I poteri di Augusto furono prolungati per cinque anni,
a cominciare dal 17; e Agrippa gli fu messo a fianco come collega,
con eguali poteri[44]. Indi Augusto procedè a tentare con il nuovo
collega una _lectio senatus_, ossia a dar mano a quella epurazione
del senato che il partito puritano a gran voce reclamava. Compiuta
questa epurazione, con molta prudenza e con molti riguardi, propose
quella che passerà nella storia con il nome di _lex Julia de maritandis
ordinibus_: la prima delle leggi con le quali Augusto cercherà, come
gli chiedeva il partito puritano, di restaurare l’antica morale romana.
Ma con che complicati espedienti!

La legge sanciva innanzi tutto il matrimonio come un obbligo per
tutti i cittadini romani; non considerava come matrimonio, ma come
concubinato, l’unione di un senatore o di un suo discendente con
una liberta; dichiarava che nell’ordine senatorio solo i figli
generati da una donna _ingenua et honesta_ sarebbero considerati come
legittimi ed avrebbero tutti i diritti del rango, non quelli la cui
madre fosse stata una leggiadra danzatrice siriaca o una graziosa
liberta ebrea; riconosceva come legittimi i matrimoni tra liberti e
plebei; non riconosceva come matrimonio, ma solo come concubinato
le unioni anche dei plebei con prostitute, mezzane, adultere e
attrici. Ma in che modo si potevano obbligare gli uomini e le donne a
sposarsi? Augusto immaginò un ingegnoso sistema di premî e di pene da
applicare all’egoismo dei celibatari. Ai senatori che avevano moglie e
figliuoli, la legge offerse e stabilì diversi premi: ad esempio, che
fra i magistrati fosse, nell’esercizio del suo ufficio, privilegiato
colui che avesse più figliuoli; che ogni cittadino potesse aspirare
alle magistrature, anticipando su l’età legale di tanti anni quanti
figliuoli contava; che le donne tre volte feconde avrebbero goduto
di una quasi completa eguaglianza civile con gli uomini, e così
via. In modo analogo la legge liberava da parecchi obblighi verso i
loro antichi padroni, i liberti che avessero più di due figliuoli.
Invece i celibatarî ostinati sarebbero stati esclusi da tutte le
feste e gli spettacoli pubblici; esclusi dal diritto di raccogliere
le eredità, che avessero potuto ricevere da persone a loro non
imparentate almeno in sesto grado. Legge, come è facile vedere, nel
tempo stesso restauratrice e rivoluzionaria; perchè, per restaurare
gli antichi costumi, sovvertiva alcuni principî secolari del diritto
romano; riconosceva i matrimoni tra i plebei e le liberte, limitava i
diritti dei patroni sui liberti, e la libertà di testare. Onde non è
da meravigliare che essa richiedesse altre leggi complementari. Come
infatti pretendere che un uomo serio ed onesto fosse costretto ad
ammogliarsi, se non aveva mezzi per frenare la prodigalità il lusso
o la leggerezza della moglie? Alla _lex de maritandis ordinibus_
seguirono infatti due nuove leggi: una _lex sumptuaria_ e la famosa
_lex Julia de pudicitia et de coercendis adulteriis_. La prima mirava a
limitare il lusso delle donne, dei banchetti, di tutta la vita privata
dei cittadini. La seconda autorizzava, come ai tempi antichi, il padre
a punire di morte la figliuola, che avesse commesso adulterio insieme
al suo complice; autorizzava il marito, sia pure in certe condizioni,
a uccidere l’adultero ma non la moglie; faceva poi obbligo al marito,
e se il marito non c’era o era impedito o non voleva, al padre, che
non l’avesse uccisa, di denunciare entro sessanta giorni la moglie
o la figlia rea di adulterio al pretore e alla _quaestio_: se non
ottemperassero a questo obbligo, passati i sessanta giorni, qualunque
persona poteva proporre l’accusa. I reati di adulterio erano dichiarati
_judicia publica_, come i parricidî, e le pene erano gravissime: la
relegazione a vita per i due complici; di più, per l’uomo, la confisca
di metà dei beni e, per la donna, la perdita della dote e di un terzo
delle proprie ricchezze.

Castighi così terribili dell’adulterio possono sembrare a noi poco
meno che inesplicabili: ma è più facile intenderne la ragione, ove
si pensi che quelle leggi erano promulgate _solo per i cittadini
romani_, e di fatto prendevano di mira solo i senatori e i
cavalieri, le cui ricchezze e la cui rinomanza potevano tentare gli
accusatori con la speranza del premio che spettava agli accusatori
sui beni dei condannati. Quelle leggi non miravano ad accrescere la
popolazione favorendo la generazione ma a restaurare l’aristocrazia
ricostituendo le famiglie nobili, ossia l’antico vivaio dei generali
e dei diplomatici, che avevano fondato l’impero. Augusto procedeva
dunque anche in questo proprio all’opposto di tutti i fondatori di
monarchie assolute, i quali hanno invece sempre mirato a distruggere
le aristocrazie esistenti. Ciò confermano due disposizioni: l’una,
contenuta nella stessa _lex de adulteriis_; l’altra, in una legge
dello stesso tempo. Con la prima, per far più sicure le fortune delle
famiglie ricche, Augusto interdisse al marito di vendere o di obbligare
in qualunque modo la dote della moglie. Con la seconda, vietò ai
cittadini, forniti di un reddito minore di 400.000 sesterzi di aspirare
alle pubbliche cariche. Così anche quello spiraglio aperto, nella
costituzione romana, alle classi non ricche, perchè potessero occupare
qualche magistratura, era di nuovo chiuso, e l’antica costituzione
aristocratica, solennemente ristabilita. Il figlio di Cesare
ricostituiva dalle fondamenta i privilegi di quell’aristocrazia, contro
cui suo padre aveva così lungamente lottato; si sforzava di restaurare
quell’ordine sociale, che suo padre aveva, volente e nolente, distrutto
a metà.


49. =Lo sviluppo della Gallia e la conquista della Germania (12-8
a. C.).= — L’approvazione delle grandi leggi sociali fu celebrata
nell’anno 17 con una cerimonia solenne: i _ludi saeculares_, istituiti
nel 509 a. C. al principio della Repubblica, e ripetuti in ogni secolo,
sebbene a date non esattamente periodiche. Per questa cerimonia Orazio
compose la più armoniosa delle preghiere romane. il _Carmen saeculare_,
che invocava dagli Dei la pace, la potenza, la gloria, la prosperità,
la fecondità, la virtù, e che 27 adolescenti e 27 fanciulle cantarono
nel tempio di Apollo sul Palatino. Ma, mentre si facevano a Roma queste
leggi e si celebravano queste feste, una grossa tempesta si levava
nelle province dell’Europa da poco e malamente sottomesse: nelle valli
alpine, nella Gallia, nella Pannonia. Era questa, in parte, una delle
conseguenze della pace e del buon governo, introdotti da Augusto.
La pace aveva interrotto le frequenti leve militari per le guerre
civili di Roma, vera fortuna per tutti i disperati e gli avventurosi
della generazione precedente; e la buona amministrazione augustea
aveva invece incominciato ad esigere le imposte con rigore. Così,
ai primi del 16, l’uragano brontolava alle frontiere dell’Italia: la
Transalpina era in fermento, nelle Alpi i Vennoneti (abitanti della
Valtellina e forse anche della valle dell’Adige e dell’alto Inn) e i
Camunni (abitanti della val Camonica), pigliavano le armi; i Bessi
si rivoltavano in Tracia contro il re Rimetalce imposto loro dai
Romani; la Macedonia era invasa dai Denteleti, dagli Scordisci, forse
anche dai Sarmati; la Pannonia e il Norico, fino allora docili al
protettorato romano, insorgevano e invadevano l’Istria. L’incendio si
era rapidamente propagato soprattutto nelle Alpi; i Trumplini, nella
val Trompia, e le numerose tribù dei Lepontini, abitanti nelle valli
italiane e svizzere che dànno sui laghi Maggiore e di Orta; i Reti e
i Vindelicî, che dal paese dei Grigioni e dal Tirolo si stendevano,
attraverso la Baviera, fino al Danubio; gli abitanti delle Alpi Cozie,
e perfino i Liguri delle Alpi Marittime erano insorti. Quasi tutta
la grande catena montuosa, dove s’erano rifugiati gli ultimi resti
delle stirpi, che un tempo avevano abitato la pianura, Iberi, Celti,
Etruschi, era in fiamme. Nel tempo stesso un’orda di Germani invadeva
la Gallia e sconfiggeva il legato romano, Marco Lollio.

Augusto non poteva restare a Roma occupato a preparare leggi e
a celebrare feste, quando l’impero pareva vacillare a occidente.
Era chiaro che occorrevano vaste operazioni militari e un profondo
riordinamento di quelle province. Per fortuna, l’invasione germanica
in Gallia non era seria; bastò che Augusto apparisse, perchè l’onda
si ritirasse. Dileguati i Germani, restava la rivolta delle Alpi,
che minacciava di separare l’Italia dalle province d’Occidente.
Augusto deliberò di sottomettere per sempre le popolazioni, operando
metodicamente nelle grandi vallate; e commise a tre generali le
operazioni: a P. Silio, che poco prima aveva liberato l’Istria da
Pannoni e da Norici, e ai due giovani figliuoli della sua consorte
Livia: a Tiberio, che in quell’anno era pretore, e che già lo aveva
seguito in Spagna e in Armenia, e al suo fratello minore, Druso, di
ventidue anni, che era stato appena eletto questore pel 15. I due
giovani avevano belle qualità: energia, coraggio, fierezza; Druso
aggiungeva a queste una amabilità, che faceva gradevoli le più antiche
e austere virtù romane. Era amato da tutti; ma questa non era ragione
bastevole, perchè Augusto nominasse suo legato per una grande guerra
un semplice questore. Ce ne dovettero essere di più gravi: forse la
mancanza di uomini capaci, e di cui Augusto potesse fidarsi.

Le operazioni di Silio contro i Leponzi, quelle di Druso e di Tiberio
contro i Rezi e i Vindelici, ebbero un felice successo. I due giovani
portarono i confini dell’impero fino al Danubio e conquistarono il
Norico (15 a. C.). Non molto tempo dopo era domata l’insurrezione delle
Alpi Cozie e Marittime. La popolazione maschile fu fatta schiava; i
beni delle tribù e delle famiglie ricche confiscati; i territori dei
popoli divisi tra le città della Cisalpina. Nel Norico, abolita la
dinastia nazionale, fu istituito un regime provinciale somigliante
a quello dell’Egitto, e il governo di quel paese affidato ad un
_praefectus_. Anche nelle Alpi Cozie la dinastia nazionale perdè il
titolo reale e il suo capo continuò a governare il paese con il titolo
di _praefectus_. Invece la Rezia, la Vindelicia e tutto il territorio,
che va dalla cresta delle Alpi al Danubio e dal lago Lemano (Lago di
Ginevra) alle frontiere del Norico, fu fatta provincia. Augusto pensò
infine di aprire alcune grandi vie strategiche fra le nuove province e
la valle del Po, in modo che, senza accrescerne il numero, le legioni
potessero rapidamente accorrere a difendere i punti minacciati.

Con queste spedizioni Augusto compieva nelle Alpi un’opera, le cui
conseguenze durano ancora: apriva quella famosa catena di montagne
alla civiltà. L’opera era grande: ma nel pensiero di Augusto doveva
servire di preparazione ad un’opera ancora più vasta, destinata ad
avere le conseguenze più grandi nella storia della civiltà. Gli anni
che seguono il 16 a. C., e nei quali Augusto, per le necessità della
guerra, visse in Gallia o vicino alla Gallia, sono anni decisivi nella
storia del mondo antico; perchè in questi anni Augusto e il governo
romano si accorsero definitivamente che la Gallia, la barbara, fredda
e povera Gallia della tradizione, era una provincia ricchissima,
il vero Egitto dell’Occidente, che Roma aveva interesse a difendere
quanto le più ricche provincie dell’Oriente. Le conseguenze di questa
scoperta dovevano essere immense; poichè, se fino ad allora Roma aveva
guardato quasi soltanto all’Oriente, come alla sede della ricchezza
e della cultura, ed era stata sempre in pericolo di inorientarsi,
mutandosi in un impero asiatico, da questi anni essa diventa potenza
mezzo asiatica e mezzo europea, nel cui impero la Gallia fa contrappeso
all’Egitto o alla Siria, e l’Italia si trova ben posta in mezzo, per
essere l’arbitra e la dominatrice dell’Oriente e dell’Occidente. A
partire da questo momento, in cui la civiltà greco-latina valica le
Alpi e si addentra nel continente europeo, incomincia la vera storia
dell’Europa, che sino allora, fuorchè nelle sue coste meridionali, era
stata barbara; e l’impero romano diventa un impero misto, orientale e
occidentale, sotto l’egemonia dell’Italia. Senza la Gallia, Roma non
avrebbe potuto a lungo essere la capitale di un impero, le cui province
più importanti e i maggiori interessi erano in Asia ed in Africa, e
l’Italia sarebbe stata presto o tardi assorbita dalle sue conquiste
asiatiche ed africane. Insomma l’unità dell’impero mediterraneo di
Roma e la egemonia dell’Italia in quello dipendevano dal possesso e
dallo sviluppo della Gallia. Senonchè, se queste dovevano essere le
conseguenze lontane della conquista di Cesare, l’arricchimento della
Gallia generava un altro effetto immediato; ed era quello di obbligare
Roma a difenderla contro i Germani, sempre inquieti, sempre bellicosi
e più pronti ad assaltar la Gallia ora che non la difendeva più la
sua vecchia aristocrazia militare. Perciò il pericolo germanico non
minacciava più, come ai tempi di Cesare, la Gallia sola, ma l’impero
romano tutto quanto. Ma che altro mezzo c’era di assicurare la Gallia
contro le invasioni dei Germani, se non conquistare la Germania? Anche
questa era una catena. Dal commovimento delle province d’Occidente,
dalla crescente prosperità della Gallia, Augusto fu tratto in questi
anni a sostituire alla conquista della Persia, vecchio sogno romano, la
conquista della Germania, a cui nessuno aveva ancora pensato sul serio.
Roma diventava potenza occidentale ed europea.

Prima però di accingersi a tanto passo, Augusto volle toglier via dalla
Gallia qualsiasi possibilità di agitazione antiromana. Vi sussistevano
ancora le divisioni territoriali, che Cesare avea trovate e conservate.
I popoli più potenti, come gli Edui e gli Arverni, conservavano ancora,
quali alleati di Roma, la loro clientela di piccole _civitates_ che
essi governavano direttamente. Ma ora che la Gallia era divenuta un
paese industrioso e pacifico, queste clientele, fuorchè a conservare
privilegi invecchiati e a giustificare pretese di egemonie fittizie,
non potevano servire che come strumenti di nuove coalizioni nazionali:
erano dunque o inutili o pericolose.

Augusto sottomise tutte queste _civitates_ di clienti e di popoli
alleati, direttamente, all’autorità di Roma; inoltre, fondandosi sui
resultati del censimento, distribuì tutta la Gallia in 60 _civitates_,
all’incirca eguali di grandezza e pari in diritto tra loro. Ma
crescendo così il compito e la responsabilità del governatore romano in
Gallia, tripartì il paese in Aquitania, Lugdunensis e Belgica (le _Tres
Galliae_), di cui ciascuna avrebbe avuto a capo un luogotenente del
governatore generale della provincia. Senonchè in questa ripartizione
Augusto non tenne più conto delle diversità o affinità etniche e delle
secolari unioni storiche del paese, se non per mescolare in ciascuna
delle tre gli elementi diversi — celtici, iberici, celto-germanici —
di cui la Gallia si componeva; per spegnere in quelle mescolanze il
vecchio spirito nazionale e tradizionale; per intralciare gli accordi
fra tribù affini; e per piegare il paese denazionalizzato verso gli
scopi della politica romana.

Augusto inoltre volle, prima di incominciare la sua grande impresa,
riordinare, come faceva mestieri, l’esercito, regolando con una legge
le più importanti condizioni del servizio, fin ad allora regolate da
consuetudini poco certe. La ferma durerebbe 16 anni per i legionari;
12 anni per la guardia dell’_imperator_, i pretoriani. Fu stabilito
inoltre che, finito il servizio gli uni e gli altri sarebbero
ricompensati, non con terre, ma con una somma di danaro, di cui ci è
ignoto l’ammontare. Ciò fatto, preparativi adeguati all’impresa furono
incominciati; e fu elaborato un piano di invasione molto ingegnoso,
nel quale è verosimile riconoscere la mano di Agrippa. Si tenterebbe
di invadere l’impervia Germania dal mare del Nord per le due grandi
linee fluviali dell’Ems e del Weser; due eserciti entrerebbero per
questi fiumi nel cuore della Germania, costruirebbero sull’uno e
sull’altro dei grandi campi trincerati, destinati a servire come basi
di operazione, per condurre a termine la conquista dell’interno; nel
tempo stesso un altro esercito, varcato il Reno, avanzerebbe alla
volta dell’Ems; l’esercito sbarcato sull’Ems, avanzando lentamente,
cercherebbe di dar la mano a quello che verrebbe dal Reno, come
a quello che verrebbe dal Weser: e così mediante larghe vie,
fiancheggiate da fortificazioni, si sarebbero collegati insieme il
Reno all’Ems, l’Ems al Weser e forse anche all’Elba. Ottimo piano, che
proteggeva da molti e grandi rischi gli eserciti invasori. Ma poichè in
tal guisa le flottiglie fluviali romane sarebbero esposte troppo tempo
al tempestoso mare del Nord, Augusto volle aprire un canale tra il
Reno e l’Yssel, di guisa che la flotta romana sarebbe potuta penetrare
sicuramente nello Zuidereee (_lago Flevo_) e di là nel mare del Nord.

Ma al momento di porre mano a questa spedizione, preparata con tanta
cura, un gran lutto colpì l’impero. Augusto aveva senza difficoltà
ottenuto dal senato il prolungamento per altri cinque anni dei
poteri suoi e di Agrippa, scadenti alla fin dell’anno 13; continuava
alacremente i preparativi per la guerra di Germania, quando al
principio dell’anno 12, nel mese di marzo, pochi giorni dopo che
Augusto era stato eletto anche _pontifex maximus_ in sostituzione
di Lepido morto, e proprio quando la invasione della Germania stava
per cominciare, Agrippa moriva in Campania. La perdita era funesta:
sia perchè Augusto, che aveva voluto spartire con lui il carico e la
responsabilità del potere fu costretto ad assumere di nuovo da solo
il governo della repubblica; sia perchè spariva, proprio al momento in
cui Roma stava per intraprendere una spedizione di capitale importanza,
l’uomo di guerra più sperimentato su cui fare assegnamento. La morte di
Agrippa sembrò infatti indurre Augusto a rinviare l’impresa germanica.
Lì per lì Augusto si restrinse a spedir Tiberio nella Pannonia, che si
era ribellata, e soltanto nella seconda metà dell’anno si risolvè a
riprendere il disegno della guerra in Germania, incaricandone Druso,
che era allora un giovane propretore di 26 anni. Eseguendo il piano
lungamente preparato da Agrippa, Druso, con una parte delle truppe,
discese il corso del Reno, entrò nello Zuidersee, penetrando così nel
cuore del paese dei Frisoni (la moderna Olanda): di lì uscì con la
flotta nel Mare del Nord ed imboccò l’Ems, sbarcando, a un certo punto
del corso del fiume, una parte delle sue forze. Quindi ridiscendeva il
fiume, e tentava, come sembra, di ripetere sul Weser l’operazione già
compiuta sull’Ems, ma senza riuscirvi, questa volta; anzi scampando a
stento a un naufragio. Alla fine dell’anno 12, egli era di ritorno in
Gallia.

Queste operazioni non erano che il prologo della vera campagna, che
doveva incominciare l’anno seguente e che doveva consistere, secondo
il piano di Augusto, in una lenta, metodica e graduale invasione. Nella
primavera dell’11, Druso doveva con un esercito risalire la valle della
Lippe sulla riva destra, mirando a ricongiungersi nell’alta valle
con le altre forze romane sbarcate sulle rive dell’Ems, che a loro
volta risalirebbero la valle di questo fiume. Alla confluenza della
Lippe con un fiume, che gli storici antichi chiamano Aliso, doveva
fondare una grande fortezza e collegarla al Reno con una strada e una
catena di fortezze minori. Era questo il compito tracciato a Druso
per quell’anno. Druso risalì vittoriosamente la valle della Lippe e
si ricongiunse felicemente con l’esercito che aveva risalito l’Ems:
ma appena operata la congiunzione, osò fare uno strappo al prudente
piano di Augusto e di Agrippa. Le popolazioni germaniche essendo in
guerra tra loro, egli giudicò che l’ardimento poteva fruttar questa
volta assai più che un lungo e prudente guerreggiare. Raccolse in
fretta dei viveri, attraversò il paese dei Sicambri che era deserto
perchè i maschi adulti si erano gettati sul paese dei Catti; invase
il territorio dei Tencteri che si sottomisero; indi, come attingendo
nuovo coraggio dalla propria audacia, avanzò nel paese dei Catti e
costrinse questi e i Sicambri con cui essi combattevano, a riconoscere
la signoria romana. Ma la mancanza di vettovaglie e la sterilità del
paese lo costrinsero presto a ritirarsi verso la Lippe. Senonchè nel
ritorno cadde in un’imboscata, e per poco non fu annientato insieme
col suo esercito. Sfuggito per miracolo a tanto rischio, e giunto di
nuovo alla Lippe, riprese il piano di Augusto; e ordinò la costruzione
del _castellum_, al quale si sarebbe dato il nome di Aliso; quindi,
tornato in Gallia, decise di erigere un altro _castellum_ sul Reno,
probabilmente quello che doveva un giorno essere Coblenza.

Il terzo anno della guerra — l’anno 10 a. C. — sembra essere passato
abbastanza tranquillo, senza grandi eventi. È probabile i Germani
non si mossero, e che i Romani continuarono alacremente a costruire
i due castelli, incominciati l’anno prima. Certo è che Druso potè in
quell’anno venire a Roma; e a Roma brigare e ottenere il consolato per
l’anno 9. Ma prima della fine dell’anno, e senza aver avuto il tempo di
prendere possesso dell’altissima carica, Druso fu costretto a lasciar
Roma e a tornare frettolosamente in Germania, ove Sicambri, Svevi e
Cherusci tentavano di collegarsi per fare guerra insieme alla Gallia. E
l’anno seguente, il 9, la guerra mutò carattere. Sia che Druso avesse
convinto Augusto della necessità di atterrire con un grande colpo i
Germani; sia che di questa necessità l’avessero convinto gli ambiziosi
progetti dei Sicambri, degli Svevi e dei Cherusci, in quell’anno la
Germania fu invasa davvero e a fondo. Druso si spinse, combattendo,
non sappiamo per quali vie e con quante forze, prima fino al Weser, e
poi fino all’Elba. L’ardita mossa riuscì, perchè i Germani non osarono
attaccarlo in massa. Druso potè scorrazzar da padrone nella Germania,
sino ai primi di agosto, quando, la stagione incalzando, si volse al
ritorno. Ma nel ritorno cadde da cavallo, si ruppe una gamba; e dopo
pochi giorni moriva, in seguito a questa ferita.

La morte di Druso era una disgrazia per la repubblica. Augusto perdeva,
dopo Agrippa, un altro collaboratore fidato, mentre nel senato e nella
aristocrazia cresceva la riluttanza ad assumere le grandi cariche, e
diminuiva il numero degli uomini capaci. I giovani soprattutto erano
restii ad uscir di Roma, a passare lunghi anni nelle province, ad
imparare il duro mestiere della milizia e del comando. Pare che di
nuovo Augusto pensasse di ritirarsi a vita privata sul finire dell’anno
8, quando i suoi poteri quinquennali scadrebbero. Erano 20 anni ormai,
dalla restaurazione della repubblica, che egli governava Roma come
_princeps_ e avrebbe avuto diritto di riposarsi. Ma chi poteva occupare
il suo posto? Non si sarebbe tutta l’amministrazione dell’Impero
sfasciata, se fosse sparito l’uomo, il quale pensava a tutto ciò, cui
il senato e i magistrati repubblicani non provvedevano? Il potere
personale di Augusto era la necessaria correzione della decadenza
dell’aristocrazia. Gli fu forza quindi, volente o nolente, di accettare
un nuovo prolungamento del suo potere per 10 anni, e per provvedere
alla Germania richiamò l’altro suo figliastro, Tiberio, che da tre anni
combatteva nella Pannonia e nella Dalmazia; e gli diede l’incarico
di terminare la conquista della Germania. Tiberio era diventato suo
genero; poichè nell’11 era stato costretto da Augusto a ripudiare la
moglie, che era figlia di Agrippa, e a sposare la vedova di Agrippa,
che era sua figlia Giulia. Ma Tiberio non ebbe, l’anno 8, che a passare
il Reno alla testa di un esercito; e tutta la Germania, si arrese. La
marcia di Druso dava i suoi frutti. In soli quattro anni, la Germania
era, o almeno pareva, conquistata dal Reno all’Elba, e la grande
impresa, tentata per la prima volta da Cesare, condotta a compimento
dal figlio suo.


NOTE AL CAPITOLO OTTAVO.

[37] Cfr. SEN., _Qu. nat._, 5, 18, 4.

[38] Le linee generali di questa ricostruzione dell’opera politica
di Augusto, che rovescia interamente l’incoerente dottrina della
_diarchia_ sostenuta dal Mommsen, sono state lungamente svolte da G.
FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, voll. IV e V. L’idea capitale
di questa ricostruzione era già stata accennata da E. MEYER, in un
breve studio, _Kaiser Augustus_, pubblicato in _Kleine Schriften_,
Halle, 1910, p. 441 sg.; ed è stata da lui ripresa in _Caesars
Monarchie und das Principat des Pompeius_, Stuttgart, 1918. L’aveva
anche presentata il FUSTEL DE COULANGE, _La Gaule romaine_, Paris,
1901, p. 147 sgg.

[39] Su questo punto, importante perchè da esso si deduce il carattere
repubblicano delle rapide carriere di Druso, di Tiberio e degli altri
membri della famiglia di Augusto, cfr. le spiegazioni e le prove più
minute che si trovano in G. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_,
IV, p. 55.

[40] SVET. _Aug._, 101.

[41] Su questi tributi — e i testi che ci si riferiscono — cfr. G.
FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, IV, p. 127.

[42] Sul vero carattere di questa riforma costituzionale, cfr. G.
FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, IV, p. 177 sg.

[43] Si legge nella _lex de imperio Vespasiani_ (_C. I. L._ VI, 930,
17-19): _utique quaecunque ex usu reipubblicae majestate divinarum
huma[na]rum publicarum privatarumque rerum esse censebit, ei agere
facere jus potestasque sit ita uti divo Augusto_.... Le ragioni per cui
crediamo doversi riportare a questo momento il conferimento di questa
autorità quasi illimitata, si trovano esposte in G. FERRERO, _Grandezza
e Decadenza di Roma_, IV, p. 188.

[44] DION. CASS., 54, 12. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, IV,
p. 293.



CAPITOLO NONO

LA SUCCESSIONE DI AUGUSTO


50. =Il ritiro di Tiberio a Rodi (6 a. C.).= — Ma a questo punto
incomincia nella repubblica, una terribile difficoltà, che durerà, si
può dire, sino alla morte di Nerone. Augusto governava la repubblica
come _princeps_ da venti anni. Non si può negare che il concetto così
chiaro e così preciso della restaurazione del 27 a. C. si fosse in quei
venti anni assai intorbidato. L’autorità del _princeps_ che, nella
primitiva riforma, doveva essere temporanea e soltanto sorvegliare
e correggere le istituzioni secolari della repubblica, era ormai
diventata vitalizia, e si era mutata in una alta e universale direzione
dello Stato, che sostituiva il senato invecchiante e decadente. Ma
nessuno se ne lagnava. Augusto si era condotto in quei venti anni con
tanto tatto; aveva reso tali e tanti servizi allo Stato; era ormai
diventato così necessario, aveva acquistato un tale prestigio ridando
la pace all’impero, che nessuno lamentava il suo potere. Ma Augusto
non sarebbe eterno; e già si avvicinava alla sessantina: che cosa
accadrebbe alla sua morte? La gente incominciava a pensarci. C’era chi
sognava che si sarebbe allora, finalmente e per davvero, restaurata tal
quale la antica repubblica senza _princeps_, ma questi erano pochi. La
gente sperimentata e di senno capiva che, senza un _princeps_ capace
ed energico, il senato e la repubblica non operavano più. Ma chi poteva
essere il secondo _princeps_? Se si voleva scegliere l’uomo più attivo,
più capace, più sperimentato della repubblica, non c’era, dopo la morte
di Agrippa e di Druso, da esitare: Tiberio. Ma Tiberio aveva molti
nemici. Non era solo un Claudio orgoglioso, ostinato e severo; ma era
anche un tradizionalista intransigente, un uomo del vecchio stampo,
che voleva Roma governata da una aristocrazia parsimoniosa, austera,
attiva, autoritaria e zelante come quella del terzo secolo a. C. Nella,
nuova generazione cresceva invece il lusso, la ricchezza, il gusto
dei piaceri, l’inclinazione alle raffinatezze e ai vizi dell’Oriente,
l’indifferenza per le faccende politiche e l’avversione per la milizia.
C’era dunque a Roma, nella nobiltà, un partito ostile a Tiberio;
e quanti non avrebbero voluto che la carica suprema di _princeps_
diventasse proprietà di una famiglia — anche questi non erano pochi —
rinforzavano l’opposizione.

Si aggiunga il matrimonio con Giulia, a cui Augusto aveva costretto
Tiberio dopo la morte di Agrippa. Questo matrimonio fu uno dei grandi
errori di Augusto. Giulia, e Tiberio non andavano e non potevano
andar d’accordo: Giulia, elegante, mondana, amante del fasto, dei
corteggiamenti, della vita libera, rappresentava la nuova generazione;
Tiberio, rigido, intransigente, implacabile contro tutte le debolezze
della _jeunesse dorée_, rappresentava la generazione antica. Il
dissidio tra i due sposi non tardò a scoppiare, e si intrecciò con
la lotta tra il partito della giovane nobiltà e il vecchio partito
tradizionalista, che incominciava a farsi seria. Pare che Giulia
alla fine tradisse il marito; e si mettesse alla testa di una vera
_côterie_ di giovani nobili, che complottavano per escludere Tiberio
dalla successione eventuale di Augusto con tutti i mezzi, calunniandolo
presso Augusto e fra il popolo, alienando da lui gli amici, e infine
cercando di opporgli dei rivali potenti. Da Agrippa e da Giulia erano
nati parecchi figli, di cui il maggiore aveva allora 14 anni. Essendo
stato adottato da Augusto, si chiamava Caio Cesare. Il partito nemico
di Tiberio pose gli occhi su questo giovinetto, per farne il rivale
di Tiberio; e, dopo aver cercato di aizzarlo contro costui, fece da
parecchi suoi membri proporre ai comizi una legge, per cui Caio Cesare
potesse assumere il consolato, allorchè avrebbe toccato i venti anni.
Il giovinetto, come figlio di Agrippa e figlio adottivo di Augusto,
era molto amato dalla plebe, che ormai si era avvezzata a queste rapide
carriere dei membri della famiglia del _princeps_. I nemici di Tiberio
contavano su questo sentimento, per fare riuscire la loro proposta: ma
Augusto da principio si oppose con tutta la sua autorità, comprendendo
il pericolo insito in quella mossa dei nemici di Tiberio. Purtroppo
fu facile riscaldare in favore di Caio il popolo, che amava poco i
Claudî, molto i Giulî; Giulia a sua volta non stette inoperosa; e alla
fine Augusto cedè; lasciò che Caio Cesare fosse nominato console con
cinque anni di anticipo. Si affrettò però a dare a Tiberio un compenso,
un grande compenso, facendogli attribuire per cinque anni la potestà
tribunicia, ossia lo fece suo collega, come era stato Agrippa. Ma
Tiberio era un Claudio, un aristocratico, un uomo tutto di un pezzo,
e non tollerò l’affronto per il compenso: rifiutò l’onore, chiese ad
Augusto il permesso di ritirarsi a vita privata e si recò in volontario
esilio nella minuscola isola di Rodi (6 a. C.). Invano Augusto lo
supplicò di restare.


51. =La lotta tra i Giulî e i Claudî.= — La partenza di Tiberio fu una
grande disgrazia per la repubblica. Augusto rimase solo alla testa
della repubblica, senza disporre più di un collega capace e sicuro;
e l’amministrazione ricadde rapidamente nella confusione e nella
negligenza di un tempo. Quel po’ di ordine che era stato ottenuto con
tanta fatica, in venti anni, viene meno. Le finanze si dissestano di
nuovo, sino al punto che l’erario non può più mantenere gli impegni
presi con l’esercito, alla vigilia della grande spedizione germanica.
Ma Augusto non si risolve nè a studiare, nè a far studiare una
riforma delle imposte, e preferisce, stanco e sfiduciato, vivere alla
giornata, addossando alla propria fortuna personale buona parte del
carico delle pubbliche spese, o trascurando i servizi pubblici. Le
leggi sociali sono ogni giorno meno osservate, e gli esuli, colpiti
dalla legge _de adulteriis_, abbandonano i luoghi di relegazione,
e si spargono nel festoso Oriente o nell’Occidente, vivendo ovunque
allegramente. La legge _de maritandis ordinibus_, che colpiva con tanta
durezza i celibatari impenitenti, è elusa facilmente da un grande
numero di matrimoni senza figliuoli, che la legge non contemplava.
Anche l’esercito, non più comandato da un _imperator_, che sia tale
non soltanto di nome, pericola; le reclute scarseggiano in Italia;
è necessario accrescere continuamente il numero dei corpi ausiliari,
reclutando un numero sempre maggiore di provinciali — galli, germani,
siriaci; la disciplina si allenta, l’istruzione decade.

Ma la maggior pietà dello Stato in rovina era il senato. A quanti
espedienti aveva ricorso Augusto per farlo almeno rivivere alla meglio!
Ora egli l’aveva rinsanguato con elementi nuovi, tratti dall’ordine
dei cavalieri, minacciando di escluder questi dall’ordine equestre,
se non volessero entrare in senato; ora aveva colpito di crescenti
ammende i senatori che non frequentavano le sedute; ora aveva pensato
di ridurre il numero delle sedute obbligatorie, e rimpicciolito, per
quelle che cadevano nei mesi della villeggiatura o della vendemmia, il
numero di senatori che avrebbero dovuto essere presenti. Aveva infine
creato nel senato una più ristretta Commissione di senatori, estratti
a sorte ad assistere, essi soli, nelle deliberazioni correnti, il
presidente, salva poi la ratifica del senato convocato in adunanza
plenaria. Ciò non ostante, i senatori non venivano, e di ogni affare
grave si scaricavano sulle ormai deboli spalle del principe, stanco ed
invecchiato.

Alle difficoltà interne si aggiungono le esterne. La Germania era
abbandonata a sè stessa; nessuno pensava seriamente a darle leggi e
ordinamenti durevoli. In Oriente, l’ordine ristabilito con tanta fatica
nei primi anni del principato, vacillava di nuovo: in Giudea, dopo
la morte del re Erode, avvenuta nel 4 a C., il partito nazionalista
aveva ripreso ad agitarsi, e il governatore della Siria, Quintilio
Varo, aveva dovuto accorrere con grandi forze; nell’impero dei Parti, a
Fraate, morto nel 3 a. C., era successo Fraatace, il quale, all’opposto
del padre, era ostile a Roma, aveva occupato l’Armenia e scacciato il
re riconosciuto e protetto dalla repubblica.

È probabile che Tiberio avesse fatto assegnamento su tutte queste
difficoltà, le quali costringerebbero un giorno o l’altro Augusto a
richiamarlo a Roma. Ma Augusto, che sembra aver sempre stimato più che
amato Tiberio, era stato molto irritato dal suo ritiro; e, dopo la sua
partenza, si era accostato al partito della giovine nobiltà, avverso
a Tiberio e ai tradizionalisti, cercando di governar l’impero con
questo. Aveva fatto ricoprire di onori Caio Cesare, ne aveva accelerata
la carriera, aveva fatto concedere gli stessi onori e privilegi al
fratello suo Lucio; aveva mostrato di voler considerare questi due
giovani come i due soli aiuti e collaboratori, sui quali ormai facesse
assegnamento. A sua volta il partito tradizionalista, di cui Livia, la
madre di Tiberio, sembra essere stato l’anima, cercava di combattere
la potenza crescente del partito avverso, e di far richiamare Tiberio.
Di qui intrighi, lotte, cabale, scandali. Uno di questi scandali
travolse, nel 2 a. C., Giulia. Pare che il partito tradizionalista,
avendo capito che Tiberio non ritornerebbe a Roma finchè Giulia non ne
fosse scacciata, sia riuscito a procurarsi le prove del suo adulterio
e che uno dei suoi membri l’abbia denunciato in base alla _lex de
adulteriis_, fatta approvare da Augusto nell’anno 18. Secondo questa
legge, quando il marito non voleva o non poteva, il padre doveva punire
la adultera. Il marito, Tiberio, non era a Roma. Augusto dovè, in forza
della sua stessa legge, colpire la figlia; e la esiliò a Pandataria. Ma
non per questo si riconciliò con Tiberio: e quando finalmente nell’anno
1 dell’era volgare si risolse a mandare un esercito in Oriente, per
cercar di venire ad un accordo con i Parti, ne diede il comando a Caio
Cesare, che era un giovinetto inesperto, e lo fece accompagnare, perchè
gli fossero guide e maestri, da acerbi nemici di Tiberio.

Così la fortuna di Tiberio pareva essere stata spezzata per sempre
dall’errore commesso nell’anno 6, uscendo di Roma. Il partito avverso,
avendo per sè Augusto, era così potente quanto implacabile. Solo
nell’anno 2 dell’êra volgare, per l’intercessione di Livia, egli potè
ottenere di ritornare a Roma, a condizione però di restare in disparte
e di vivere come un privato. Ma a questo punto la fortuna, che lo
aveva per otto anni perseguitato, si volse di nuovo in suo favore.
In quello stesso anno Lucio Cesare moriva di malattia; e sedici mesi
più tardi, al principio dell’anno 4, moriva in Oriente, in seguito a
una ferita, il fratello suo Caio. Queste morti precoci erano troppo
utili alla causa di Tiberio, perchè la gente non dovesse sospettare
la mano di Livia: ma senza nessuna seria ragione. Le grandi famiglie
non furono mai esenti dal pagare anch’esse con morti precoci il
tributo alla natura. Ad ogni modo, dopo l’esilio di Giulia, il partito
avverso a Tiberio perdeva i due uomini rappresentativi su cui faceva
assegnamento; Augusto restava di nuovo solo, senza collaboratori
validi; la situazione in Oriente si aggravava di nuovo, e, quel che è
peggio, delle rivolte incominciavano in Germania. Il partito di Tiberio
rialzò la testa; domandò ad alta voce che si richiamasse agli affari
quello che era il miglior generale, e, dopo Augusto, il politico più
sperimentato del suo tempo. Ma Augusto resistè ancora. Finalmente,
quando la rivolta parve divampare più minacciosa che mai in Germania,
il partito di Tiberio perdè la pazienza; e sembra avere addirittura
tramato una congiura, per vincere le ostinate riluttanze del vecchio
Augusto, i cui poteri presidenziali erano stati frattanto prolungati,
l’anno prima, per dieci anni. È la famosa congiura, che ebbe a capo
un nipote di Pompeo, Cornelio Cinna. Quale ne fosse il vero scopo, non
sappiamo; sappiamo solo che, scoperta la congiura, Augusto si affrettò
a perdonare ai congiurati e a richiamare Tiberio al governo. Il 26
giugno del 4 dell’êra volgare egli lo adottava come figlio, e gli
faceva, dai comizi, conferire la potestà tribunicia per dieci anni.
Nuovamente, dunque, la repubblica aveva due capi, come allorchè Agrippa
viveva; e di essi l’uno, il più attivo, il più giovane, era un Claudio,
il più puro rappresentante del partito tradizionalista e conservatore.


52. =Il governo di Augusto e di Tiberio (5-14 d. C.).= — Da questo
momento, e non dalla morte di Augusto, comincia il governo, destinato
a diventare tristamente famoso, di Tiberio. N’è prova chiara e precisa
il contrasto fra il periodo che si chiude e quello che ora comincia.
Il decennio seguente è una grandiosa illustrazione della dottrina, che
Tiberio professava sul governo della repubblica.

Con grande risolutezza, Tiberio dà subito mano a due imprese: la
riforma dell’esercito e la repressione della rivolta germanica. L’una
era legata all’altra. Ma la riforma militare necessitava una riforma
delle finanze, poichè sarebbe costata molto danaro. D’onde trarre
il danaro occorrente? I due presidenti pensano di dare un nuovo giro
al torchio delle leggi sociali e di ritogliere all’Italia il vecchio
privilegio dell’immunità tributaria. Con una _lex Julia caducaria_, i
coniugati senza figli — gli _orbi_ — sono ora assimilati ai celibatarî,
e incorrono nella stessa inferiorità legale. Inoltre le eredità
lasciate loro contro la legge vanno devolute, non più agli altri eredi,
ma al pubblico erario[45]. Infine con l’indizione di un censimento di
tutti i cittadini che possedessero più di 200.000 sesterzi, si comincia
a preparare l’Italia ad una nuova imposta.

Ma contemporaneamente l’esercito è rinforzato di due nuove legioni[46],
e la vecchia e decadente legge militare di Augusto, riformata. Il
servizio è di nuovo prolungato a venti anni per i legionari, e a
quattordici per i pretoriani, come in antico. Alla fine del servizio
gli uni e gli altri avrebbero ricevuto un premio in danaro ed una
pensione, per provvedere alla quale si sarebbe organizzata una cassa
particolare (5 d. C.).

Dopo di ciò Tiberio, che già aveva fatta una prima corsa in Germania,
ci tornava, per ripetere la grande spedizione di Druso, sul vecchio
piano di Agrippa. La flotta discese per il Reno e, per il canale di
Druso, nel Mar del nord, costeggiò la importuosa penisola del Jutland,
l’antico paese dei Cimbri; imboccò l’Elba, e rimontò il corso del
fiume. Nel tempo stesso l’esercito di terra marciò dal Reno all’Elba
per circa 400 miglia, ora ricevendo gli omaggi dei popoli, che
attraversava, ora combattendo e domando i più restii, come avvenne dei
Longobardi. Alla fine, flotta ed esercito si incontrarono, e i barbari,
che si affollavano minacciosi sulla riva destra del fiume, preferirono,
dinanzi a tanto spettacolo di forza, scendere a patti con gl’invasori.

Tiberio poteva tornare a Roma a cercare, con nuove imposte, il denaro,
necessario per applicare la nuova legge militare. Al suo arrivo i
due presidenti, dopo aver versato del proprio, nel nuovo tesoro, 170
milioni di sesterzi, riuscirono a far approvare una legge che imponeva
una tassa del 5% a favore della cassa per le pensioni militari sulle
eredità dei cittadini romani. La legge, che risparmiava le piccole
eredità o i legati destinati ai poveri, era savia. Ma il malcontento
che suscitò tra le classi ricche fu grande; e si sfogò contro Tiberio,
che si sapeva essere l’autore vero della legge. Tiberio, come al
solito, poco curò questi mormorii; e al principio del 6 tornava in
Germania per compiere l’ultima parte del suo piano. Parecchi anni
prima, fuggendo l’invasione di Druso, i Marcomanni avevano emigrato
nella moderna Boemia, e qui, sotto il re Marbod, avevano creato uno
Stato potente, che ancora non aveva riconosciuto il dominio romano, e
che in ogni modo poteva diventare un forte appoggio per la Germania in
rivolta. Tiberio voleva sottometterlo o ridurlo sotto il protettorato
romano, minacciando d’invadere il regno da due lati: da occidente,
attraverso il paese dei Catti, e da mezzogiorno, attraverso la
Pannonia. Ma l’impresa era appena avviata, che Pannoni e Dalmati si
sollevavano ancora una volta, e trucidavano i piccoli presidî romani,
insieme con gli stranieri, che già, per ragioni di commercio, avevano
da tempo cominciato a penetrarvi.


53. =La catastrofe di Varo in Germania (9 d. C.).= — L’insurrezione
pannonica e dalmatica era dunque cosa grave, ma a Roma essa parve
un pericolo tremendo, giacchè Pannonia e Dalmazia erano alle spalle
dell’Italia. Si temè perfino una nuova irruzione di Cimbri e Teutoni
nella penisola, mentre s’era detto che i veri Cimbri erano stati
assoggettati da Tiberio!

Ma Tiberio non era uomo dai perdere facilmente la testa, e, senza
lasciare a mezzo l’impresa incominciata, rinunziò solo all’idea di una
conquista, si contentò di conchiudere un accordo con Marbod; indi tornò
verso la Pannonia. Non però con l’intenzione di sterminare con un colpo
solo, come in Roma gli strateghi del Foro reclamavano a gran voce,
l’insurrezione; sibbene, come la natura delle milizie, di cui egli
disponeva, e quella del nemico e del paese consigliavano, per opporre
alla guerriglia degli indigeni, la guerriglia dei legionari romani,
alimentata dall’esterno.

Alla fine dell’8, la Pannonia era pacificata. Ma lo sforzo era stato
grande. Roma aveva dovuto arruolare veterani, liberti, stranieri,
perfino schiavi tolti ai privati. Con questa moltitudine raccogliticcia
Tiberio aveva dovuto soffocare nel suo stesso focolare l’insurrezione.
Non è quindi da stupire che gli sia stato necessario un certo tempo.
Ma la notizia della vittoria era appena giunta in Roma, e già si
cominciavano a decretare gli onori del trionfo al generale, quando
una notizia terribile sopravveniva dalle rive del Reno: la Germania,
sollevatasi, aveva sorpreso e trucidato le forze romane stanziate sul
suo territorio; lo stesso luogotenente di Augusto, Quintilio Varo,
s’era dato la morte piuttosto che cader vivo nelle mani del nemico.
La ferma volontà di romanizzare la Germania, che Tiberio, ritornando
al governo, aveva manifestata, insieme con le notizie, che giungevano
dalla Pannonia, avevano ridesto il paese. La Germania aveva avuto il
suo Vercingetorige — Arminio — anche egli amico di Varo e cittadino
romano, per giunta. Con abile mossa, i Germani avevano indotto il
generale ad avanzare nel cuore del paese, e qui, nella misteriosa
foresta di Teutoburgo, tra la Lippe e il Weser, ove oggi un colossale
ma bruttissimo monumento si leva in onore, più che di Arminio, del
germanesimo, Varo era stato sorpreso, e le sue legioni — il fiore
dell’esercito romano — distrutte (settembre od ottobre 9 d. C.)[47].


54. =La morte di Augusto (14 d. C.).= — La rotta di Varo non era
calamità irreparabile. Un così grande impero poteva perdere alcune
legioni senza vacillare sulle sue fondamenta. Tiberio, infatti, accorse
sul Reno, potè subito mostrare agli elementi inquieti della Gallia che,
se i Germani erano in grado di distruggere per sorpresa le guarnigioni
romane, non potevano presumere di varcare il Reno e di attaccare
le province più floride dell’Impero. Ma la rotta di Varo, se non
distrusse, infiacchì molto nel governo romano la volontà di estendere
il dominio romano oltre il Reno e il Danubio. Non solo Augusto, ma
anche Tiberio si persuase, dopo quella sventura, essere più saggio,
per Roma, non varcare i due fiumi: onde per molti anni la politica
germanica di Roma sarà consigliata da una prudenza, che traccerà
definitivamente al Reno e al Danubio i confini dell’impero in Europa.
E non avendo Roma avuto la forza di varcare il Reno e il Danubio per
sottomettere i Germani, verrà il giorno in cui i Germani varcheranno il
Reno e il Danubio per distruggere l’Impero! Ma nè Angusto nè Tiberio
potevano vedere così lontano nell’avvenire; essi dovevano giudicare
alla stregua delle necessità del tempo, e alla stregua di queste
necessità, appariva prudente non richiedere all’Italia uno sforzo
troppo grande. Comunque sia, la disfatta di Varo fu l’ultimo grande
dolore della lunga vita di Augusto, che ormai volgeva alla fine.
Nell’anno 13 i poteri quinquennali di Augusto e di Tiberio venendo a
finire, furono ancora rinnovati, ma per l’ultima volta: l’anno dopo, il
14, vecchio di 77 anni, Augusto moriva, il 19 agosto, a Nola.

Quale giudizio si deve dare dell’opera sua? Certo il suo disegno di
restaurare la repubblica aristocratica, dopo averla tanto guasta e
malconcia con il triumvirato, fallì. La repubblica, nella quale egli
voleva infondere una nuova vita, si mummificò sotto le sue mani, in un
governo equivoco, contraddittorio, debole e rigido nel tempo stesso,
in cui la sua persona e il suo prestigio furono il massimo sostegno
dell’autorità. Le istituzioni della repubblica, dal senato ai comizi,
non erano ormai più quasi, alla fine della sua vita, che una finzione.
Basti dire che, l’anno precedente alla sua morte, il senato aveva
deliberato che ogni anno si sceglierebbero venti senatori, e che tutte
le deliberazioni prese da Augusto, d’accordo con questi venti senatori,
con Tiberio, con i consoli designati, con i suoi figli adottivi e tutti
i cittadini, che Augusto giudicherebbe utile di consultare, avrebbero
valore di senatus consulto! Il senato abdicava! Si deve dunque
conchiudere, che l’opera di Augusto sia stata sterile e vana? No. Egli
ebbe due grandi meriti. Se non riuscì a rianimarli, riuscì a salvare
dalla distruzione il principio aristocratico e repubblicano secondo
il quale l’impero non era, come nelle monarchie, la proprietà di una
dinastia, ma la proprietà unica e indivisibile del popolo romano,
che una aristocrazia di grandi famiglie, educate secondo l’antica
tradizione, aveva sola il diritto di amministrare. Salvati da Augusto,
il principio, la repubblica, il senato, la aristocrazia risusciteranno
tra un secolo, in maniera inaspettata e singolare, compiendo nel vasto
impero la fusione dell’ellenismo e del romanismo. Il secondo merito
di Augusto sta nell’aver fatto fruttificare la conquista della Gallia
compiuta dai Cesare e nell’aver divinato che l’avvenire dell’impero era
più in Occidente che in Oriente. Fino a Cesare, Roma aveva guardato
dalla parte d’Oriente, sognato di rifare l’impero di Alessandro.
In questo sogno Antonio si era perduto. Augusto abbandona le grandi
ambizioni orientali, e, dopo alcune esitazioni, volge risolutamente i
suoi sforzi verso il Reno e il Danubio. Egli tenta anzi addirittura la
conquista della Germania; e in questa impresa fallisce; ma in compenso
conquista le Alpi, stabilisce solidamente il confine dell’Impero a
quei due grandi fiumi, e promuove alacremente la romanizzazione e lo
sviluppo della Gallia e della Spagna. Gli effetti di questa politica
durano oggi ancora; perchè, se ci fu una politica che avesse in sè
una grandezza mondiale, fu proprio quella. Per quella politica, anche
l’Europa entra nella storia della civiltà, che sino ad allora era quasi
tutta e soltanto stata occupata dall’Oriente o dalle piccole nazioni
fiorite sulle estreme propaggini meridionali del continente europeo.
Per quella politica, tra la civiltà decrepita dell’Oriente e la civiltà
nascente dell’Occidente, l’Italia e Roma potranno conservare ancora
per tre secoli la corona conquistata con tante guerre. Chè senza il
vigoroso sviluppo delle province occidentali, il centro dell’Impero si
sarebbe spostato verso l’Oriente. Roma e l’Italia, poste ai confini
della barbarie, non avrebbero potuto per secoli essere, l’una la
capitale, l’altra la nazione predominante di un impero, le cui più
ricche, popolose e floride province erano in Asia ed in Africa.


NOTE AL CAPITOLO NONO.

[45] Su questa legge, cfr. FERRERO, _Grandezza e Decadenza di Roma_, V,
p. 320.

[46] Cfr. PFITZNER, _Geschichte der römischen Kaiserlegionen von
Augustus bis Hadrianus_, Leipzig, 1881.

[47] Sulla catastrofe di Varo le opere più recenti sono GAILLY DE
TAURINES, _Les legions de Varus_, Paris, 1911; e W. A. OLDFATHER and H.
VERNON CANTER, _The defeat of Varus and the German frontier Policy of
Augustus_, in _University of Illinois Studies_, 1915.



CAPITOLO DECIMO

TIBERIO[48]

(14-37 d. C.)


55. =Tiberio imperatore: per quali motivi fu eletto (14 d. C.).= —
Morto Augusto, a capo dello Stato restava provvisoriamente il figlio
adottivo e collega nell’impero, Tiberio. Provvisoriamente, ossia sinchè
il senato non avesse deliberato; perchè la suprema autorità della
repubblica non era punto un bene ereditario della famiglia. Se molti
pensavano e reputavano necessario che Tiberio succedesse ad Augusto,
altri avevano in mente nomi più graditi; altri, se non sapevano chi
indicare in sua vece, avevano paura di Tiberio imperatore, ed egli
stesso conosceva troppo bene sè stesso e i tempi suoi, da desiderare
alla leggiera il carico dell’impero. Gli amici di Giulia, tutto il
partito, che gli aveva opposto Cajo Cesare, quanti erano stati lesi
dalle ultime leggi sociali e finanziarie, temevano la sua rigidezza,
non lo volevano imperatore. Il governare con questa opposizione,
nascosta ma tenace, non era cosa facile. Non è quindi difficile
spiegare come Tiberio stesso esitasse.

Senonchè le difficoltà in cui si trovava impegnato l’impero oltre
i confini dovevano sospingere il senato verso Tiberio, e Tiberio
verso quello che egli chiamava il «mostro» indomabile dell’impero. La
Germania, la Pannonia e l’Illiria minacciavano — o parevano ancora
minacciare — di ignoti pericoli l’Italia. In Oriente, da parecchi
anni la potenza romana declinava in Armenia; i re amici di Roma erano
regolarmente scacciati e trucidati da quei sudditi malcontenti ed
irrequieti; nè, a motivo delle controversie seguìte in Parzia per la
successione regale, poteva ormai dirsi se quel potentato fosse più uno
Stato amico o nemico di Roma. In Asia come in Europa la vecchiaia di
Augusto si era fatta sentire: ma l’uomo, che era il miglior conoscitore
degli affari germanici ed orientali, e che poteva parare tutti quei
pericoli, era uno solo ed insostituibile: Tiberio. Inoltre necessitava
un esercito disciplinato; e chi poteva mantenere la disciplina
nell’esercito meglio di Tiberio, che era il primo generale del tempo,
che portava il nome di Cesare, e a cui ormai, dopo il lungo governo di
Augusto, i soldati erano affezionati?

Per queste ragioni, non ostante molte repugnanze e avversioni del
senato, non ostante le riluttanze, che ci sembrano sincere, di
Tiberio[49], a Tiberio furono trasmessi i poteri di Augusto. Soltanto —
innovazione che, negli intendimenti dell’accettante, doveva avvicinare
l’ora della liberazione e sciogliere più facilmente gli altri da un
impegno che le circostanze potevano rendere al tempo stesso inutile
ed intollerabile — non fu fissato più alcun termine alla durata della
carica suprema. Il termine, come disse Tiberio, s’intendeva definito
dalla necessità delle circostanze e, più ancora, dalla sua imminente
vecchiezza. Il senato poteva revocarla quando vorrebbe, come, quando
vorrebbe, era libero di ritirarsi l’imperatore. Ma l’innovazione
doveva partorire un effetto contrario alle intenzioni; perchè il potere
diventerà invece vitalizio.


56. =I primi anni del governo di Tiberio: spirito repubblicano e
aristocratico che lo anima.= — Tiberio era un tradizionalista, un
aristocratico di vecchio stile, e quindi un repubblicano sincero, che
avrebbe voluto ringiovanire la repubblica di tre secoli e operare
in Roma una riforma simile a quella di Silla. I primi atti del suo
governo lo provano. Gli storici antichi, anche i più avversi a lui,
e quelli che più hanno accreditato la leggenda della sua tirannia,
dicono che nei primi tempi non fece nulla senza consultare il senato;
che rifiutò tutti gli onori e tutti i titoli insoliti; che rispettò
le leggi della repubblica scrupolosamente e che in ogni atto e parola
mostrò di non voler essere che il primo dei nobili romani: _primus
inter pares_. Anzi una delle prime riforme compiute sotto il suo
governo fu quella di trasferire dai comizi al senato la nomina dei
magistrati. Tiberio faceva quello che Silla stesso non aveva osato:
toglieva via di un colpo quel focolare di intrighi e di corruzione
che erano da un pezzo le assemblee elettorali; affidava l’elezione
dei magistrati a un corpo più scelto e capace: il senato. Il popolo
insomma cessava quasi di esistere come organo costituzionale; il
senato, ossia l’aristocrazia, diventava arbitro di tutte le cariche.
Senonchè — è una strana contradizione che bisogna capire, se si vuole
intendere questa singolare figura e la sua singolarissima storia —
questo nobile romano di antico stampo, che voleva ricostituire l’antica
potenza della aristocrazia, si trovava ad aver che fare, nel senato e
fuori, con un’aristocrazia molto diversa da quella di un tempo, e molto
più sollecita di conservare i suoi diritti e i suoi privilegi, che
vogliosa e zelante nel compiere i doveri, i quali dovevano bilanciare
quei diritti. Tiberio non aveva il prestigio che ad Augusto avevano
assicurato il lungo governo, la pace ridata all’impero, il pericolo
da cui aveva o sembrava aver salvato Roma. Durante il lungo governo di
Augusto molte grandi famiglie avevano ricostituito la loro ricchezza;
altre più recenti eran diventate illustri e potenti; il terrore era
dileguato; la pace, il potere e la sicurezza avevano fomentato negli
animi quei sentimenti, che sono propri di tutti i potenti e più ancora
dei potenti per diritto ereditario: l’orgoglio, lo spirito critico,
la gelosia reciproca, l’umore discorde e litigioso. Se la nobiltà
romana aveva rispettato Augusto, pur giudicando che il suo governo
era lungo assai, Tiberio non poteva sperare la stessa benevolenza:
anzi, appunto perchè egli stesso diceva di non essere e di non voler
essere considerato che come un nobile eguale a tutti gli altri, i suoi
pari si crederebbero in diritto di sorvegliarne ogni atto e parola,
di trovare a ridire su tutto quello che egli direbbe o farebbe, di
vedere a ogni momento nell’esercizio della sua autorità un abuso, un
eccesso di potere, delle ambizioni tenebrose, delle intenzioni oblique,
degli atti contrari al bene pubblico e allo spirito della costituzione
repubblicana[50]; e con maggiore acrimonia, quanto più tutti dovrebbero
riconoscere che questa autorità suprema era necessaria. Dal momento
in cui Augusto è morto, nasce nella nobiltà romana una specie di
opposizione latente e implacabile contro la suprema autorità del
_princeps_, ultima e disperata protesta dell’orgoglio aristocratico
contro la necessità storica, che veniva riducendo a Roma la somma
delle cose nelle mani di una famiglia. Ma se l’aristocrazia vedeva
di mal occhio, ora che Augusto era sparito, il _princeps_ e la sua
autorità, non per questo era disposta ad aiutarlo davvero a resuscitare
le antiche istituzioni repubblicane: il che sarebbe stato il miglior
mezzo per rendere provvisoria davvero, come tutti la volevano e la
speravano ancora, la carica suprema. La tradizione, per cui le famiglie
dell’aristocrazia romana erano state per tanti secoli scuole di
generali e di statisti, era troppo indebolita dall’azione del tempo,
dai nuovi bisogni e costumi, ed anche dalle nuove idee. Incomincia
a diffondersi nelle classi alte di Roma una scuola filosofica — lo
stoicismo — la quale insegnava che non il re di Persia era beato con
tutti i suoi tesori, ma l’uomo libero interiormente, nella propria
coscienza; una scuola che professava l’individuo non essere soggetto
a veruna potenza terrena, ma solo alla divinità; che incoraggiava
gli uomini a giudicare i potenti, come qualsiasi altro mortale, e
dichiarava un dovere il ribellarsi alle ingiunzioni ingiuste del
principe; che affermava essere gli esilî e la morte dei mali, i quali
si possono accogliere con egual sorriso degli onori e delle ricchezze,
e non esistere al di sopra della condanna della propria coscienza,
punizione che valga a scuotere o ad atterrire l’uomo savio e giusto.
Questa dottrina, ponendo la coscienza del singolo al di sopra di
qualunque altra autorità esteriore, farà, sotto il principato, degli
eroi; e coprirà di un manto superbo di bellezza morale molte cose
in sè più piccole; ma intralcerà nel tempo stesso così il nuovo
governo imperiale, come la restaurazione della vecchia repubblica
aristocratica. Dimodochè il _princeps_ che non avesse più l’autorità di
Augusto — e Tiberio doveva farne per primo l’esperienza — irriterebbe
l’aristocrazia romana, sia tentando di vincere l’egoismo della nobiltà
per restaurare l’antica costituzione, sia con gli atti non interamente
conformi allo spirito e alla lettera della costituzione, a cui sarebbe
costretto dalla decadenza delle antiche istituzioni e dalla crescente
incuria della nobiltà. Peggio ancora: questo malcontento perenne non
oserebbe mai manifestarsi con una opposizione aperta e risoluta, poichè
a rovesciare il principato nessuno pensava più sul serio; ma con una
specie di fronda continua e insidiosa, che dividerebbe il senato in
piccole fazioni atrocemente nemiche. Queste cercherebbero di sfruttare
le discordie della famiglia del _princeps_, e di opporre, nel senato,
innanzi agli eserciti ed al popolo, alla persona e alla politica del
_princeps_ la persona e la politica di qualche altro membro della
famiglia. «_Nec totam servitutem pati possunt, nec totam libertatem_»,
dirà di costoro Tacito, dipingendone con una pennellata mirabile
l’animo in perpetua guerra con se stesso[51].

Così l’atto con cui Tiberio toglieva al popolo il diritto di nominare
i magistrati della repubblica, non pare che ingraziasse al nuovo
_princeps_ il senato, dove erano tanti antichi suoi nemici degli anni
di Rodi. Del resto è probabile che Tiberio avesse proposto e fatto
approvare quella riforma, meno per compiacere al senato, che per
provvedere al bene dello Stato; tenendo presenti le condizioni dei
comizi nell’ultimo quarto di secolo, i loro disordini, i loro tumulti,
le loro brighe, la loro corruzione, a mala pena infrenata dall’autorità
di Augusto, con quel suo potere discrezionale di raccomandare taluni
candidati[52]. Tiberio, che voleva magistrati buoni ed onesti,
rimandava l’elezione ad un corpo più sicuro, ove più agevolmente
potesse esercitarsi quella _commendatio_ del principe, ch’egli per
tutta la vita avrebbe adoperata con imparzialità e abnegazione. Non
è improbabile invece che il popolino brontolasse per quella grave
menomazione di un diritto, che tanti secoli avevano fatto sacro.
Tiberio dovette annunziarla come la modesta e religiosa esecuzione
di un disegno di Augusto[53]. Comunque sia, dopo questa riforma, il
senato fu, nei due primi anni del principato di Tiberio, così potente
come forse non era mai stato dai tempi di Silla in poi; sia perchè i
suoi poteri erano stati notevolmente ampliati; sia perchè il nuovo
principe, sentendosi debole al peso di responsabilità che doveva
portare, non chiedeva di meglio che di essere aiutato dal grande
consesso, lasciandolo agire con tutta l’autorità, che la legge e la
tradizione riconoscevano. Ma a questa benevolenza del principe e a
questo favore della fortuna, il senato risponderà con una lotta stupida
e feroce, nella quale indebolirà se stesso, insieme con l’autorità
dell’imperatore.


57. =La guerra di rivincita in Germania (14-16).= — Non subito però:
chè i due primi anni — anni d’attesa — furono abbastanza buoni.
In questi anni del resto Roma guardava inquieta ai confini ed al
di là. Appena Augusto morì, le legioni di Pannonia e di Germania
si ammutinarono, chiedendo un denario al giorno di paga invece di
dieci assi, il servizio di sedici anni e il pagamento puntuale delle
pensioni. La grave rivolta fu sedata, un po’ con le buone, un po’ con
le brusche: dopo di che — dicono molti storici antichi e moderni — il
generale che comandava le legioni di Germania, Germanico, figliuolo
dell’infelice Druso e quindi nipote di Tiberio, le condusse oltre
il Reno a vendicare la strage di Varo. Secondo questa versione, un
giovane appena venticinquenne avrebbe di testa sua deciso, in seguito
ad una rivolta militare, di avventurarsi di nuovo in quella Germania
misteriosa, ch’era stata la tomba del padre suo e di Varo, per salvare
gli eserciti dalle cattive tentazioni ormai troppo forti! Ma si può
spiegare a questo modo una spedizione pericolosa, che doveva durare
circa tre anni, costare ingenti somme all’erario, e necessitare nuovi
arruolamenti nelle province? Non pare. Un’altra congettura sembra
più verosimile. L’impresa di Germania era stata, cinque anni prima,
sospesa, non abbandonata per sempre. È probabile che Augusto stesso non
avesse rinunziato a riprenderla un giorno o l’altro, quando una buona
occasione si offrisse. E la buona occasione pareva proprio offrirsi
allora. Arminio, a capo dei bellicosi Cherusci, era in lotta col suo
rivale e suocero, Segeste, che implorava l’aiuto delle legioni romane.
Ed era pure naturale che Tiberio, il quale era anzitutto un uomo di
guerra, desiderasse di coronare quella che era stata l’opera più cara
ad Augusto. A queste considerazioni poterono aggiungersi, naturalmente,
le aspirazioni e ambizioni del giovane Germanico; onde questa ripresa
della campagna di Germania, sembra piuttosto iniziata e condotta per
volontà comune del principe e del giovane generalissimo.

Germanico, infatti, che, in sulla fine del 14 aveva preso le armi,
devastando e incendiando il paese dei Marsi (tra la Rühr e la Lippe),
faceva ora, pochi mesi dopo, una nuova punta in Germania; e, passando
attraverso il paese dei Catti, entrava più a nord in quello dei
Cherusci, liberava Segeste, e catturava gran numero di prigionieri,
tra cui — pegno prezioso — la consorte stessa di Arminio, Tusnelda,
allora incinta di un fanciullo. Indi diede principio alla grande
spedizione, ripigliando il piano, concepito da Agrippa ed eseguito
da Druso: la Germania di nuovo fu invasa, parte per terra, parte per
acqua, rimontando l’Ems, di guisa che il nemico fosse attaccato di
fronte e a rovescio. Le operazioni vennero condotte felicemente; le
popolazioni germaniche, che non si sottomisero, furono vinte, come
accadde ai Bructeri; Germanico potè aprirsi la strada verso la foresta
di Teutoburgo, ove Varo era caduto con i suoi. Furono trovate colà
sconvolte le vecchie trincee dell’ultimo accampamento romano, le ossa
dei caduti, uomini ed animali, sbiancate dal tempo, le armi ammucchiate
alla rinfusa, teschi umani pendenti dai tronchi degli alberi. I pochi
legionari e ufficiali, fatti prigionieri e sfuggiti alla morte ed alle
catene, poterono illustrare ai sopraggiunti gli episodi dell’orribile
carneficina. La pietà di Germanico e dei suoi soldati volle erigere
un tumulo ai caduti, affinchè le loro ossa vendicate, al coperto dalla
pioggia e dal vento, trovassero almeno una buona volta riposo. Ma egli
fu costretto a non indugiarsi troppo a lungo. Arminio ricompariva
ai suoi fianchi, sempre presente e sempre irraggiungibile, tentando
ancora una volta di ripetere su Germanico la gesta di Teutoburgo; e già
l’inverno avvicinava. Germanico, pur senza aver riportato un successo
decisivo, decise il ritorno: egli, con quattro legioni, avrebbe
ridisceso l’Ems, parte per mare e parte per terra, per non caricar
troppo le navi; l’altra metà del suo esercito — altre quattro legioni —
agli ordini del valoroso suo legato, Aulo Cecina, avrebbe riguadagnato
il Reno per terra, lungo una via, che diciassette anni prima era stata
aperta nel vasto terreno paludoso tra l’Ems e il Reno, colmandolo per
un certo tratto di terrapieni e di tronchi d’albero: la così detta via
dei _Pontes Longi_. Ma, mentre le legioni di Germanico, che camminavano
sulla terra, all’imboccatura dell’Ems, erano sorprese da una terribile
marea, l’esercito agli ordini di Cecina giungeva ai _Castra Vetera_,
scampando a mala pena dalle imboscate di Arminio, e solo in grazia
dell’imprudenza del nemico, dell’intrepidità del suo generale e del
valore dei soldati, che il fantasma di Varo esaltava fino all’eroismo
della disperazione (autunno 15).

La campagna era dunque costata più che non avesse reso. Ma nè
Germanico, nè Tiberio credettero che bisognasse per questo scoraggiarsi
e desistere. Occorreva uno sforzo maggiore, e questo si sarebbe
compiuto l’anno successivo.

La nuova invasione germanica fu diversa dalle precedenti. I pericoli
della ritirata di Cecina erano stati troppo gravi; il generale in
capo non volle ritentare la sorte allo stesso modo. La invasione
per via d’acqua parve più facile e sicura; onde l’inverno del 15-16
fu impiegato, oltre che a rinforzare con nuove leve le milizie che
guardavano il Reno, ad accrescere la flotta. Mille vascelli e otto
legioni, oltre un grande numero di ausiliari, erano pronti nella
primavera del 16. Germanico, dopo avere assicurato la linea della
Lippe contro sorprese nemiche, condusse il grande esercito per via di
mare alle foci dell’Ems, e, sbarcato sulle rive di questo fiume, mosse
alla volta del Weser contro all’esercito nemico, che questa volta
non si componeva solo di milizie cherusche, ma di molte popolazioni
germaniche. Pose il campo sulle sponde del Weser, varcò il fiume; e
nella pianura di _Idistavisus_ (il Prato degli Elfi), probabilmente
non lungi da Minden, là dove il Weser a mezzo del suo corso forma come
un brusco gomito a sinistra, trovò il nemico e gli inflisse una grave
disfatta. Arminio era cascato anch’egli, dopo una prima vittoria,
nell’errore di Vercingetorige e di tanti altri eserciti barbarici;
aveva abbandonato la guerriglia, e affrontato il nemico in battaglia
campale. Lo stesso Arminio sfuggì al disastro, mascherando le ben note
sembianze col sangue delle sue proprie ferite. Invano egli ritentò di
lì a poco la prova delle armi, sperando di sorprendere nel ritorno i
Romani. La nuova battaglia fu per i Cherusci una seconda e maggiore
disfatta.

La Germania era — o pareva — una volta ancora domata. Si poteva
dunque tornare indietro. Ma questa volta, e a ragione, Germanico pensò
bene di non più affidarsi interamente al capriccio delle maree, più
pericolose del solito nella vicinanza dell’equinozio. Avviò dunque
per terra una buona parte dell’esercito, ed egli col resto raggiunse
l’armata, che lo aspettava alle foci dell’Ems. Ma gli accadde un caso
anche più pericoloso che l’anno prima. Non la marea, ma la tempesta
parte disperse e parte affondò le mille piccole navi di Germanico, non
preparate a un così aspro cimento. Molti uomini e molte bestie andarono
a sprofondare nei gorghi dell’_Oceano Germanico_ (Mar del Nord), altri
furono gettati sulle isole, vicine e lontane, della Frisia, o sulle
coste dello Schleswig, o presso le selvagge popolazioni dei Cimbri e
tra i feroci abitatori delle bocche dell’Ems o dell’Elba. Solo dopo
molto tempo Germanico, il quale aveva riparato presso i Cauci, potè
radunare i superstiti e pigliare la via del ritorno. Ma la nuova
sventura aveva avuto il suo controcolpo in Germania. Il paese era
nuovamente in armi.

Soltanto dopo una nuova e fulminea spedizione contro i Catti sempre
indomiti, e contro i Marsi, le stanche legioni del Reno poterono
finalmente pigliare i meritati e desiderati quartieri d’inverno.


58. =La politica germanica di Tiberio.= — Germanico aveva compiuto una
delle più belle campagne della storia militare di Roma. La spedizione
del 16, per il numero dei soldati, la grandezza dei preparativi, le
difficoltà logistiche, la vastità del paese percorso, le vittorie, è
certamente una delle maggiori imprese di guerra della storia antica.
Essa prova che l’impero era ancora forte per anni. Teutoburgo era
vendicata. Ma la Germania poteva dirsi conquistata? Per Germanico e
per tutta la corte di amici e di adulatori, che si raccoglieva intorno
al giovane generale, nel quale già tanti vedevano il collega e il
successore, se non addirittura il rivale, di Tiberio, la cosa non
pareva dubbia. Sol che si persistesse ancora un poco, Roma avrebbe
conquistato in Occidente un’altra, immensa provincia. Ma Tiberio era
di altra opinione. Queste spedizioni germaniche richiedevano eserciti
numerosi e ingenti spese. Il nemico, valoroso, ostinato, mobile, si
riaveva facilmente da ogni sconfitta; il territorio era poco popolato e
povero. In tali condizioni c’era vantaggio a persistere? Non era forse
più savio abbandonare quei territori a loro stessi, signoreggiarli
indirettamente con l’aiuto delle discordie intestine, che la diplomazia
potrebbe tenere perennemente accese? Difendere la Gallia, paese di ben
altro valore, anzichè con la conquista della Germania, con dei confini
rafforzati? Tiberio deliberò che, ristabilito ormai da Germanico il
prestigio delle armi romane, la Germania fosse sgombrata; abbandonò
quindi il proposito di aggiungere una nuova vasta provincia alle
altre dell’Occidente, e ingiunse a Germanico di tornare a Roma a
celebrare il trionfo. Quindi distaccò dalle province delle Gallie il
comando militare della linea del Reno, i cui distretti celto-germanici
distribuì in due nuovi distretti, province di nome più che di
fatto, sotto i nomi di Germania superiore e di Germania inferiore; e
incaricò il suo figliuolo, che portava anch’egli il nome di Druso, di
sorvegliare dalla Pannonia le cose di Germania.

Anche per l’Occidente, Tiberio si appigliava a quella diplomazia cauta
e paziente, che l’aristocrazia romana aveva in ogni tempo adoperata
quanto e più delle armi. Ma l’aristocrazia dei suoi tempi, che delle
tradizioni si ricordava solo quando servivano a soddisfare i suoi
rancori, non gliene serbò riconoscenza. L’abbandono della Germania
non piacque a Roma; e fu il primo pretesto per sfogare il nascosto
malanimo contro Tiberio. Si sussurrò che Tiberio aveva richiamato
Germanico per gelosia; e per far dispetto al _princeps_, tanto più si
ammirò e si celebrò il nipote. Nè il modo con cui Tiberio amministrava
l’impero era fatto per conciliargli le simpatie dei più, in alto
come nel popolo. Tiberio voleva che le leggi fossero rispettate da
tutti i cittadini romani, dal più umile plebeo come dagli amici e dai
congiunti più cari del principe. L’imparzialità doveva essere regola
dei giudizi e dell’amministrazione. I costumi andavano purificati
e fatti più austeri. Abolite dunque tutte le rumorose festività
popolari dell’ultimo periodo repubblicano, a cui lo stesso Augusto
aveva usata non poca indulgenza; non più giuochi pubblici in copia,
occasione e incitamento all’ozio; non più larghezze agli attori; non
più indecorose familiarità tra la nobiltà senatoria e queste persone,
venute di Grecia e d’Oriente; non più nemmeno neologismi greci, che
avevano in così grande copia fatto irruzione nel puro eloquio latino,
nè rumorose dimostrazioni a teatro, nè rappresentazioni immorali.
Invece le finanze dovevano essere amministrate con fermezza e senza
avarizia, massime allorchè si trattasse di bisogni veri e proprî dello
Stato. L’agricoltura, specie quella che produce le cose necessarie alla
vita, come il grano, è incoraggiata; Roma e l’Italia sono incitate
a far quanto possono per non dipendere dalle province per il pane;
il lusso delle classi alte, soprattutto l’importazione di gemme e
di stoffe preziose dai paesi dell’estremo oriente (India e Cina),
è scoraggiata come calamitosa per i costumi e per le finanze. Nel
tempo stesso la polizia di Tiberio fa quanto può per rendere sicuri i
borghi e le campagne. La sua autorità e la sua fermezza restaurano la
disciplina nell’esercito, scossa al principio del suo governo. Il suo
spirito di giustizia, la sua oculatezza nella scelta dei governatori,
la sua austerità nel giudicarli si sforzano di proteggere anche le
province. Egli ricorda senza stancarsi ai governatori che il buon
pastore «può tosare, non mai scuoiare il suo gregge». Governava insomma
come un nobile romano di antico stampo, dotato di intelligenza, di
spirito civico, di dignità e di fermezza; ma il popolo brontolava
che il principe era avaro, i nobili della nuova scuola che era aspro
e tirannico; e tutti si volgevano verso Germanico, attribuendo a lui
tutte le virtù opposte ai vizi, che a torto o a ragione rimproveravano
a Tiberio.


59. =La missione di Germanico in Oriente (17-19 d. C.).= — Germanico
intanto era tornato a Roma, dove nel maggio del 17 celebrò uno dei più
grandi trionfi, che Roma avesse mai visti. Tanto poco Tiberio ne era,
come si diceva, invidioso! Anzi di lì a poco lo mandò con una missione,
nel tempo stesso importante e onorifica, in Oriente, ove nuove
difficoltà erano nate. I Parti avevano scacciato Vonone, favorevole
ai Romani; e gli avevano sostituito un re bellicoso, di costumi come
di sentimenti più nazionali: Artabano. Il mutamento avvenuto in Parzia
s’era sentito in Armenia. Qui dapprima Vonone, scacciato dalla Parzia,
era riuscito a farsi proclamare re, ma da ultimo la minaccia d’Artabano
l’aveva fatto fuggire anche dall’Armenia; onde l’influenza dei Parti
tornava a predominare in Armenia. Inoltre la Cappadocia era stata
da poco annessa all’impero, e bisognava organizzarla. In Anatolia
la Cilicia indipendente e la Commagene, nuovo regno costituitosi fra
la Cappadocia e la Siria, l’una e l’altra giacenti sotto l’egemonia
romana, avevano perduto il re ed erano agitate da lotte intestine, alle
quali Roma non poteva assistere indifferente. Infine, la Siria e la
Giudea si lamentavano di essere troppo aggravate di imposte. Occorreva
a Tiberio un uomo capace e fido, che si recasse in Oriente a sbrogliare
l’intricata matassa. Quest’uomo Tiberio volle fosse Germanico. Un
decreto del senato lo investì del governo delle province orientali,
ma con autorità superiore (un _imperium maius_) a quella di tutti i
governatori romani della contrada, senatorii e imperiali (17 d. C.).

Ma se Tiberio faceva grande caso di molte qualità di Germanico, non
per questo credeva che talune altre non andassero frenate e temperate.
Nè in Oriente Germanico dovrebbe combattere soltanto dei barbari come
in Germania; ma anche e sopratutto maneggiare con le più fini arti
della diplomazia popoli di vecchia civiltà e Corti maestre nell’arte
dell’intrigo. Un uomo più vecchio e più esperto avrebbe potuto aiutare
molto Germanico. Perciò egli, d’accordo col senato, — o forse su
proposta di quest’ultimo — mandava in Oriente, al governo della Siria,
un uomo che egli doveva supporre aiuterebbe Germanico con zelo e
disinteresse, ma nel quale nessuno, in quel momento, poteva sospettare
un suo favorito, un suo agente segreto, un amico personale. Cn.
Calpurnio Pisone era il discendente di una delle più illustri famiglie
dell’aristocrazia; era il figlio di un uomo, che sessanta anni prima
aveva parteggiato per i pompeiani contro Cesare e plaudito all’eccidio
del 15 marzo 44; era egli stesso orgoglioso della propria discendenza,
e, qualche tempo prima, avea sollevato in senato una questione, che
sovra ogni altra avrebbe dovuto ferire un _princeps_ di inclinazioni
tiranniche: aveva voluto che il senato rivendicasse il diritto di
procedere alle sue ordinarie deliberazioni e al disbrigo degli affari
pubblici, anche in assenza del principe presidente. Scegliendo o
accettando dunque quell’uomo a consigliere e moderatore di Germanico,
Tiberio non faceva certo il proprio personale interesse, ma quello
dell’impero; ed in ogni caso voleva mostrare il suo rispetto e la
sua deferenza per la vecchia aristocrazia, ponendo Germanico — il suo
giovane nipote, il suo successore probabile, la speranza dell’impero
— sotto l’alta sorveglianza di una delle più autentiche e nobili
stirpi di Roma. Ma quali effetti dovevano nascere, per una disgraziata
concatenazione di eventi, da un atto, che pure apparisce a una ricerca
imparziale suggerito da così serie ragioni!

Germanico si recò prima in Grecia; si fermò ad Atene; indi passò
nell’Eubea; di qui a Lesbo; da Lesbo in Tracia e dalla Tracia nell’Asia
Minore, dove attese alacremente a riordinare le intricate faccende
orientali. Collocò sul trono dell’Armenia Zenone, figlio di Polemone,
re del Ponto, che prese il nome indigeno di Artaxia: un principe amico
di Roma e, per parte materna, congiunto alla casa imperiale[54], ma
che agli occhi degli Orientali era per inclinazione e per costumi un
puro orientale. Provvide pure alla Cappadocia, alla Cilicia e alla
Commagene, annettendole alla Siria. In breve, la fama del suo arrivo
si sparse così rapidamente ovunque, che perfino il nuovo re dei Parti,
Artabano, gli chiese un colloquio e promise di rinnovare l’alleanza,
purchè Roma non gli contrastasse il potere in nome dei diritti di
Vonone. Indi si recò in Egitto, ov’egli intendeva peregrinare da
privato più che da luogotenente imperiale, senza guardie e liberamente
vestito alla foggia dei Greci dell’Oriente.

Senonchè da questa sua molteplice alacrità nacque presto una fiera
discordia con Pisone. Noi non siamo in grado di definire quali, con
precisione, siano state le vere ragioni delle loro discordie e chi
avesse ragione o chi torto. Forse Pisone, che era un senatore di antico
orgoglio e che riteneva di dover appena cedere a Tiberio, credette di
non essere obbligato a riconoscere come superiore alla sua l’autorità
di quel giovane inesperto, che era soltanto un rappresentante del
principe. Forse Germanico, giovane, adulato, fiero del proprio valore
e della propria origine, commise qualche imprudenza, agì talora a
precipizio e senza tener conto delle leggi, come fece di certo, quando
andò in Egitto senza il permesso dell’imperatore, e vi distribuì
al popolo, per rimediare ad una carestia, il grano dei magazzini
imperiali, riservato all’Italia. Forse anche i due uomini non erano
d’accordo nel giudicare gli affari dell’Oriente. Pare infatti che
Pisone non volesse immolare l’antico re dei Parti, Vonone, all’amicizia
di Artabano, come Germanico aveva fatto. Comunque sia, certo è che
Germanico e Pisone vennero presto in rotta; e, fatto più grave, perchè
nuovo, almeno con quella manifesta violenza, non essi soli, ma anche le
mogli. Germanico era andato in Oriente, come in Germania, accompagnato
dalla sua amata consorte, Agrippina, figlia di Giulia e di Agrippa,
la quale non aveva mai potuto dimenticare che a Tiberio e a Livia si
doveva almeno in parte l’esilio della madre sua. La moglie di Pisone,
che anch’ella aveva accompagnato il marito in Oriente, era Plancina,
amica diletta di Livia. La presenza e l’urto delle due donne allargò
profondamente lo screzio fra Germanico e Pisone; e, allorchè Germanico
tornò dall’Egitto, non solo trovò delle lettere di Tiberio, che, a
proposito di quel suo viaggio, gli rimproveravano di aver trasgredito
le prescrizioni imperiali, alle quali egli per primo doveva obbedienza;
ma trovò pure molte sue disposizioni revocate da Pisone, le milizie
sobillate e mal disposte a suo riguardo, e l’Oriente come scisso tra
due partiti: uno favorevole a lui, l’altro a Pisone.


60. =La morte di Germanico (19 d. C.) e il processo contro Pisone.= —
Le spiegazioni, che i due uomini si scambiarono, furono assai vivaci;
così vivaci che Pisone deliberò di lasciare la provincia. Ma egli era
appena partito, che Germanico improvvisamente ammalava, e dopo una
vana alternativa di speranze e di ricadute, spirava nel fiore della
virilità, a soli 34 anni (12 ottobre 19).

Questa morte, che era un accidente della natura tutt’altro che insolito
— son così numerosi i giovani che muoiono prematuramente! — doveva
essere il germe di molte sventure. No: per gli amici, per i fautori,
per gli ammiratori di Germanico, per Agrippina, per gli avversari di
Livia e di Tiberio e della sua politica, Germanico non era morto, non
poteva essere morto di morte naturale; era stato ucciso da uno di quei
veleni, che l’Oriente sapeva con tanta arte preparare; e chi glielo
aveva propinato era l’uomo che Livia e Tiberio avevano collocato al
suo fianco. Si cominciò ad accusare apertamente, ad alta voce, Pisone;
si alluse, ma sottovoce, cautamente, a Tiberio, come avesse potuto
dare il mandato del delitto; e in breve tutta Roma e tutta l’Italia
piansero, come una sciagura pubblica, la morte immatura di Germanico
e ne reclamarono la vendetta. Anche il rimpianto di Germanico era
uno sfogo del malcontento contro Tiberio e il suo governo. Tutti i
repubblicani sinceri, i quali credevano che soltanto la volontà di
Tiberio impedisse la restaurazione intera della antica repubblica; gli
ambiziosi insoddisfatti; i nemici di Tiberio e di Augusto; gli amici
sinceri di Germanico; il popolo minuto, malcontento dell’austerità del
nuovo governo, avaro di spettacoli pubblici e di prodighi donativi, si
abbandonarono alle più violente e clamorose manifestazioni di dolore,
quando Agrippina giunse in Italia dalla Siria, portando l’urna delle
sue ceneri. Le cose giunsero a un tal punto, che Tiberio, memore
delle consuetudini della vecchia repubblica, credette opportuno di
richiamare alla misura quella disperazione con un nobile manifesto.
«Molti illustri romani sono periti per la repubblica, ma nessuno è
stato rimpianto con tanto desiderio. Questo ridonda a onore suo e
di tutti; ma è necessario che non si varchi la misura: ciò che può
convenire a una modesta famiglia o a una piccola città può riuscire
sconveniente ai grandi o ad un popolo sovrano come il popolo romano....
Occorre riprendere l’antica fortezza di spirito, come quando il divino
Cesare perdette l’unica sua figliuola, e l’imperatore Augusto, i
propri nipoti.... Quante volte il popolo romano non dovette sopportare
con fermezza, la distruzione di interi eserciti, la morte di grandi
generali, l’annientamento di nobili famiglie! I grandi sono mortali;
sola la Repubblica è eterna....»[55].

Il popolo tacque; ma Agrippina, i suoi amici, gli amici dell’estinto,
non disarmarono; sinchè un giorno parecchi di questi deposero formale
accusa di veneficio contro Pisone. Appena avuta notizia della morte di
Germanico, Pisone aveva fatto ritorno nella provincia, per ripigliarne
possesso. Ma aveva dovuto smettere il pensiero, perchè i governatori,
posti da Germanico, e gli amici, che questi lasciava in Oriente,
glielo avevano impedito con le armi. Cosicchè c’era stato in Oriente
un principio di guerra civile, che aveva ancor più inasprito gli animi
dei nemici di Pisone. Imaginarsi in quali condizioni potè dunque farsi
il processo, quando Pisone ritornò! Fra tutti i drammi giudiziari,
di cui la storia di Roma è piena, questo è certamente il più orrendo.
Il popolo era persuaso che Pisone avesse avvelenato Germanico; molti
aggiungevano sotto voce che l’aveva avvelenato per ordine di Tiberio;
che Pisone aveva le lettere che gli davano l’ordine e le leggerebbe
nel processo, come se simili ordini, caso mai, si diano per iscritto;
nel senato, davanti al quale il processo doveva discutersi, i nemici
di Tiberio e tutto il partito di Germanico volevano ad ogni costo
che Pisone fosse condannato; degli imparziali, i più avevano paura
di passare per corrotti, giudicando secondo coscienza. L’accusa era
assurda: Tacito stesso, che pure è così nemico di Tiberio, lo dice: ma
che cosa poteva far Tiberio per lui e per la giustizia? Ogni passo,
che egli avesse tentato in suo favore, sarebbe stato giudicato come
una prova di complicità. L’opinione pubblica era così avversa, e così
prevenuto il senato, che Pisone, per evitare una condanna sicura, si
uccise dopo poche sedute. Tiberio e Livia poterono così salvare almeno
la moglie, i figli e il patrimonio della famiglia.


61. =Le conseguenze politiche del processo di Pisone.= — Questo
processo non fu soltanto un orribile macello giudiziario; fu una
vera catastrofe politica, piena di effetti funesti per Tiberio e per
l’impero. Incominciò da quello, nella famiglia dell’imperatore, una
discordia insanabile: chè Agrippina, non paga della morte di Pisone,
continuò implacabile ad accusare della morte di Germanico Tiberio.
E incominciarono pure da quel processo a spesseggiare le accuse e le
condanne per offese all’imperatore in base alla _lex de majestate_:
quelle accuse e quelle condanne per cui Tiberio e, dopo lui, tutti i
principi della casa Giulia-Claudia sono andati così tristamente famosi.
Senonchè occorre ricordare che la _lex de majestate_ non fu punto
opera di Tiberio: era stata proposta, cento anni avanti l’êra volgare,
da Saturnino, da un tribuno della plebe democratico acceso, amico di
Mario, per difendere la repubblica contro le mene dei grandi. Occorre
ricordare che le accuse per le offese fatte all’imperatore, in forza
di quella legge, non furono fatte mai da Tiberio; che Tiberio — Tacito
stesso lo ricorda — fece quanto potè per limitarne l’applicazione;
che il senato, il quale ebbe a giudicare tanti di questi processi,
non era affatto un’assemblea di servitori, anzi era forse piuttosto
avverso all’imperatore, come il processo di Pisone aveva dimostrato;
che quindi, se così spesso condannò, doveva avere qualche motivo più
serio che la paura di Tiberio. È necessario infine rammentare che
l’imperatore era ormai il sostegno dell’ordine e della pace in tutto
l’impero, non fosse altro perchè la fedeltà delle legioni riposava
sulla devozione dei soldati alla sua persona e sul giuramento che
gli avevano prestato. Ora l’imperatore, il capo dell’esercito, era
ingiustamente accusato ogni giorno, dai suoi stessi parenti, nella sua
stessa casa, da tutto un partito potente in senato, di aver avvelenato
per gelosia il suo nipote, un giovane generale carissimo ai soldati:
di aver commesso un delitto che agli occhi di tutti i Romani avrebbe
giustificato la rivolta degli eserciti! Gli italiani, che erano la
parte maggiore e migliore dell’esercito non erano ancora disposti a
rispettare l’autorità di un capo, che facesse assassinare i membri
della sua famiglia per capriccio! Agrippina e gli amici di Germanico,
con le loro stolte accuse, scalzavano sotto sotto l’autorità di Tiberio
e mettevano a repentaglio l’ordine e la pace pubblica. Non è quindi
meraviglia che le persone serie e zelanti del pubblico bene pensassero
non potersi lasciar l’imperatore esposto a queste calunnie, tanto più
che Tiberio non possedeva — e si capisce — l’autorità e il prestigio
di Augusto. I processi per la legge di maestà, che ora incominciano a
spesseggiare, non sono che una reazione, forse troppo violenta ma non
infondata e senza ragione, contro l’opposizione imprudentissima di una
parte dell’aristocrazia, del senato e della famiglia di Augusto contro
il governo di Tiberio.

Questa reazione era tanto più giusta e savia, perchè, sotto il governo
di Tiberio, le condizioni dell’impero miglioravano assai. Così,
verso questo tempo, la politica germanica di Tiberio incominciava a
dare i suoi frutti. Marcomanni e Cherusci si indebolivano a vicenda
facendosi la guerra; e i Cherusci per di più, dilaniandosi con
atroci guerre civili, in una delle quali era perito anche Arminio.
La tempesta, da molti anni addensata sui confini settentrionali, si
allontanava. Con pari fortuna, i luogotenenti di Tiberio reprimevano
in Africa le pericolose scorrerie di un numida, un avventuriero,
Tacfarinate, e l’insurrezione di parecchie tribù traciche (21 d.
C.). Nè con minore fermezza erano sedate in Gallia certe più o meno
vivaci agitazioni, che si dicevano provocate dal peso dei tributi (21
d. C.) Quanto all’amministrazione interna perfino uno storico così
avverso come Tacito riconosce che sino a questo punto il governo di
Tiberio era stato un modello; che tutti i più gravi affari pubblici,
deferiti al senato, erano da questo discussi con piena libertà; gli
onori, distribuiti secondo la nascita e il merito ai migliori; le
magistrature, restituite alla prisca dignità; le leggi, applicate con
senno e con giustizia; gli affari dipendenti dal principe, affidati
a persone capaci; le province, messe a contributo con moderazione;
al di sopra di tutto, del principe stesso, i tribunali e la legge
comune[56]. Che ci fossero delle persone, le quali pensavano, poichè
la vecchia legge di Saturnino c’era e poteva servire, di difendere
con quella un tal principe contro le dissennate calunnie di una
opposizione scriteriata, è cosa che non deve sorprendere; sarebbe anzi
da meravigliarsi che non ci fosse stato nessuno.


62. =Tiberio a Capri e la lotta tra Agrippina e Seiano (26-31 d. C.).=
— Senonchè la _lex de majestate_ — quale era in sè e applicata in una
repubblica in cui l’accusa privata era il solo organo della legge —
poteva temperare, non sradicare il male di cui l’impero soffriva, tanto
più che Tiberio si mostrava molto debole. Fosse la vecchiaia, fosse
la stanchezza, fosse il disgusto crescente degli uomini, fossero le
incertezze e le difficoltà della situazione, fatto sta che quest’uomo,
il quale doveva passar nella storia come un tiranno efferato, fa prova,
per chi ne segua l’azione da vicino, di una incredibile debolezza.
Non solo egli lascia Agrippina e l’antico partito di Germanico, che
ora si raccoglie intorno a lei, continuare a calunniarlo a piacere
e a mal disporre il popolo contro di lui; ma li lascia anche mettere
innanzi il figlio maggiore di Germanico, Nerone, che nel 21 aveva 14
anni, come un suo possibile antagonista e successore. Quando poi, nel
23, il figlio suo Druso, che, dopo la morte di Germanico era diventato
il principale suo collaboratore, e a cui l’anno prima aveva fatto
dare la potestà tribunaria, muore a 38 anni, egli si riconcilia con
Agrippina; e presenta al senato Nerone e il suo fratello minore, con
un nobile discorso, come le speranze future della repubblica. Tiberio
dunque tendeva primo la mano alla riconciliazione! E la riconciliazione
sarebbe stata possibile, se Agrippina fosse stata donna più savia, e se
a invelenire la discordia non fosse intervenuto un nuovo personaggio,
Elio Seiano, il prefetto del pretorio, il comandante della guardia.

Era costui un cavaliere e quel che noi chiameremmo un ufficiale di
carriera; e aveva acquistato, specialmente dopo la morte di Germanico e
di Druso, la piena fiducia dell’imperatore. Egli era il collaboratore
quotidiano del suo difficile ministero; l’unico uomo d’esperienza,
col quale Tiberio potesse discutere i grandi e i piccoli affari
dello Stato. Seiano, che temeva di esser soppiantato nel favore di
Tiberio dai figli di Germanico, approfittò di tutte le imprudenze di
Agrippina e del suo partito, per inasprire la discordia che divideva
la casa imperiale; e in breve Roma e il senato furono turbate da una
feroce lotta tra il partito di Seiano e il partito di Agrippina e del
giovine Nerone. Intrighi, scandali, processi, calunnie furono le armi
consuete di questa lotta. E come al solito Tiberio assistè alla lotta,
spettatore quasi inerte; finchè nel 26 coronò la sua debole resistenza
con un atto di debolezza suprema. Disgustato di tutte queste discordie,
che non gli riesciva di domare, Tiberio lasciò Roma ed il Lazio; e si
ritirò per sempre, in un secondo irrevocabile esilio, nella più aspra
delle isole partenopee, nella selvaggia Capri, a conversare con la
natura, giacchè gli uomini, sembrava, non l’avevano mai compreso.

Non per questo Tiberio lasciò il governo dell’impero. Il solitario di
Capri era ancora uno scrupoloso imperatore. Ma d’ora innanzi egli non
potrà comunicare con l’impero che per mezzo del suo fido prefetto del
pretorio, la cui autorità e il cui potere rapidamente crescono in Roma.
Tiberio assente, Seiano diventò a poco a poco l’imperatore di fatto,
poichè ormai dal suo consiglio e dal suo parere dipendevano in grande
parte le decisioni che da Capri governavano l’impero. E Seiano seppe
fare quel che Tiberio non aveva voluto o saputo: sbarazzare Roma di
Agrippina e del figlio suo. La catastrofe non avvenne che nel 29 d.
C., dopochè Livia fu morta, all’età di 86 anni. Sinchè Livia visse,
Seiano non aveva osato di assalire il figlio e la vedova di Germanico:
ma, appena quest’ultima protettrice venne meno, Agrippina e Nerone
furono accusati di cospirazione contro Tiberio e condannati all’esilio.
Nerone si uccise di lì a poco. Sarebbe impossibile giudicare in qual
misura l’accusa fosse fondata e la condanna giusta. Che Agrippina
abbia tramato proprio una congiura, sotto gli occhi di Seiano, pare
difficile; più probabile è che l’accusa abbia approfittato abilmente
delle imprudenze e degli inconsiderati discorsi a cui Agrippina in
particolar modo era avvezza. Roma antica, repubblicana e imperiale,
soffrì di due mali irrimediabili: lo spionaggio e la delazione.
Non conoscendosi ancora quell’istituto, che è oggi, nella giustizia
penale, il pubblico ministero, la delazione e l’accusa privata erano
considerate come meritorie e largamente remunerate quando riescivano,
perchè ai delatori passavano in parte le ricchezze dei condannati. Non
è quindi difficile spiegare come, morta Livia, uscito di Roma Tiberio,
fatto potentissimo Seiano, che voleva scacciar di Roma Agrippina, i
delatori siano accorsi d’ogni parte a fornire le notizie e le prove,
necessarie per far cadere l’imprudente donna sotto i colpi della _lex
de majestate_.

Ad ogni modo, anche se, come è probabile, il castigo che colpiva
Agrippina era più severo che la sua vera colpa non meritasse, quella
sentenza mandava in esilio una donna bizzarra, la quale non aveva fatto
che intralciare e impacciare un governo serio e seriamente occupato
del pubblico bene. Che il governo di Tiberio continuasse a curare con
zelo il pubblico bene, ce lo dice un contemporaneo. «La buona fede è
stata richiamata nel Foro, la sedizione n’è stata bandita, così come la
briga e il favoritismo dal Campo di Marte e la discordia dalle sedute
del senato. Si sono viste rinascere in Roma la giustizia, l’equità,
l’operosità, che sembravano estinte e sepolte per sempre. I magistrati
han riacquistato il rispetto loro dovuto, il senato l’antica maestà,
i giudizî la loro solennità. Non più sedizioni a teatro, tutti i
cittadini sono stati ricondotti al desiderio o alla necessità di bene
operare. La virtù è onorata, il vizio punito, i piccoli rispettano
i grandi, ma non li temono, il superiore precede l’inferiore, ma
non lo disprezza. Il costo della vita è moderato; la pace piena
di impareggiabile letizia. Diffusa da un capo all’altro del mondo,
dall’occidente all’oriente, dal settentrione al mezzogiorno, questa
pace augusta garantisce ovunque la maggiore sicurezza.... Delle città
sono restaurate in Asia, le province sono liberate dal dispotismo dei
loro magistrati, gli onori sono assegnati al merito, le pene sono rare
ma pronte e opportune, l’equità ha scacciato il favoritismo, la virtù,
la briga, giacchè un ottimo principe insegna ai suoi concittadini a
fare il bene praticandolo, e, più ancora che per autorità, primeggia su
tutti per l’esempio»[57].


63. =Apogeo e caduta di Seiano (31).= — Ma una tempesta ancora più
terribile si preparava. Condannata Agrippina, Seiano fu il padrone di
Roma. Gli onori piovvero sul suo capo, da Tiberio e dal senato. Nel
31 Seiano sembrò toccare la più alta ricompensa che potesse sperare.
L’oscuro cavaliere era assunto insieme con Tiberio al consolato; anzi
di lì a poco si parlò perfino di un fidanzamento con la nipote di
Tiberio, la moglie divorziata di Nerone. Che cosa poteva desiderare di
più un uomo nato nell’ordine equestre?

Ma Seiano desiderava di più, voleva succedere a Tiberio nell’autorità
suprema. Tiberio, invece, che era un Claudio autentico, non poteva
ammettere che un cavaliere diventasse addirittura il capo della
nobiltà romana. Infatti, in quello stesso anno egli sembrava volgere
la sua attenzione e il suo affetto al più giovane dei figliuoli di
Germanico, Caio. Sebbene Caio non fosse ancora ventenne, lo nominava
pontefice, e, quel che più importava, nei rapporti ufficiali, che in
quel giro di tempo l’imperatore aveva occasione di inviare al senato,
manifestava per lui gli stessi sentimenti, che, nove anni prima, aveva
dimostrati per i suoi fratelli maggiori. Seiano a questo punto sembra
essersi detto che, continuando a servir Tiberio, vecchio, detestato e
impopolare, egli non otterrebbe altro, se non di essere alla morte di
costui la vittima di tutti gli odî che l’imperatore aveva accumulati
su di sè, e aver pensato di intendersi con i nemici di Tiberio, così
numerosi in senato, per rovesciarlo e usurparne il posto. Se questa
congiura fosse seria o no noi non possiamo dire con sicurezza. Certo
è che un brutto giorno, a Capri, Tiberio fu avvisato dei maneggi di
Seiano, e da una delle poche persone che gli erano rimaste fedeli anche
nei tempi infelici: dalla cognata, la dolce Antonia, la figliuola
del triumviro, la sempre onorata vedova del grande Druso, la madre
di Germanico, di colui che Tiberio avrebbe fatto avvelenare. Colpo
terribile per Tiberio! Dopo aver perduto, uno dopo l’altro, i suoi
più cari congiunti e collaboratori, dopo essere stato perseguitato e
tormentato dalla sua stessa famiglia, stava egli per essere ingannato
dall’amico suo più fido, da colui del quale mai sino ad ora aveva
dubitato un solo istante, che tutto gli doveva, e a cui aveva — suprema
prova di fiducia — commesso il comando della sua guardia personale? Era
egli adesso alla mercè dei suoi pretoriani, corrotti e incitati alla
ribellione?

Ma Tiberio, se era paziente, non era uomo da lasciarsi sgozzare senza
difendersi. Senza perder tempo e con grande maestria, cominciò a fare
il vuoto intorno a Seiano, senza però insospettirlo. Soddisfacendo
parecchie ambizioni deluse, rendendo qualche favore, accrescendo le sue
simpatie verso Caio, sconfessando in qualche singolo atto tra i meno
lodevoli il suo prefetto del pretorio, egli incominciò a screditarlo,
presso quanti lo rispettavano e temevano solo perchè era il depositario
del suo favore. Ma un giorno, quando credette arrivato il momento, il
18 ottobre 31, Tiberio depose segretamente Seiano dal comando della
guardia, e ne investì un certo Macrone; incaricò della difesa della
Curia un corpo di vigili; poi fece leggere in senato una sua lettera,
nella quale accusava di alto tradimento il suo prefetto di ieri ed
alcuni altri con lui. Lo sdegno dell’assemblea fu indicibile; e,
se la rapidità con cui il senato condannò Seiano può imputarsi alla
servilità, le dimostrazioni popolari di quei giorni dimostrarono che
una parte di Roma almeno aveva ancora fiducia nella dirittura del
principe.

Alla condanna e alla esecuzione di Seiano, seguirono moltissime
altre. Sarebbe temerario, alla stregua dei documenti che gli
antichi conobbero, affermare che il principe assente vi avesse una
parte maggiore di responsabilità di quel senato, che pure, col suo
atteggiamento, tanto aveva concorso ad incoraggiare l’ambizione
di Seiano[58]. In processi, i più sommarî e indiziarî, tra l’orgia
delle delazioni, è impossibile stabilire quante volte la giustizia
e la verità furono osservate e quante altre offese. Ma Tiberio non
dovette, ed era umano, avere pietà. Il suo cuore infatti subì in quei
giorni un colpo più terribile al paragone di ogni altro. La prima
moglie, da cui Seiano aveva fatto divorzio, per imparentarsi con la
famiglia imperiale, si uccideva, ma rivelando che la morte del figlio
dell’imperatore, Druso, si doveva a veleno che Seiano stesso e l’amante
di lui, l’infedele consorte di Druso, Livilla, figliuola di Antonia,
gli avevano propinato! È molto probabile, quasi certo anzi, che quella
era un’atroce calunnia di una donna gelosa, che voleva vendicarsi. Ma
tutti la credettero; ne nacque un nuovo scandalo e più terribile; e
seguì una nuova tragedia. Innocente o colpevole, Livilla, per sfuggire
ad un’accusa che essa non avrebbe mai potuto confutare, si lasciò
morire di fame.


64. =Gli ultimi anni di Tiberio (31-37).= — Furono quelli mesi di un
cupo terrore. L’aristocrazia romana subì un nuovo salasso, e più tardi
se ne vendicò, come se ne vendicano i deboli, avvolgendo di calunnie
atroci la solitaria esistenza di quel vecchio più che settantenne e
dolorante. A giudicare queste atroci favole, basta chiedersi se siano
verisimili in un uomo di quella età, e come abbiano potuto gli storici
saper tutti i particolari che raccontano con tanta sicurezza. Ancora
una volta Tiberio intervenne per frenare quel delirio universale di
persecuzione, di servilità, di vendette, di spionaggio, di suicidî,
talora eroico, più sovente disperato e colpevole. Ma tutto questo
non riguardava che un piccolo angolo del mondo: Roma. Il resto
dell’impero, invece, non conosceva che l’amministrazione eccellente
di Tiberio, piena di fermezza e di buon senso, eguale nella buona e
nella trista fortuna; l’Italia era regolarmente approvvigionata; le
province erano tranquille, e vedevano invecchiare sul proprio suolo i
buoni governatori, che imparavano come i proconsolati e le propreture
non fossero posti di lucro o di godimento, ma uffici, che occorreva
disimpegnare per il bene pubblico.

La pace regnava ovunque alle frontiere. Soltanto negli ultimi anni
l’Armenia sembrò muoversi di nuovo; ma l’abilità diplomatica del
principe provvide anche a questo pericolo. Senonchè Tiberio aveva
ormai 78 anni; la sua intelligenza era ancor pronta ed alacre, ma
il corpo deperiva. Qualche giorno prima del 16 marzo, essendosi, per
mutar clima, recato a Miseno, un amico medico, venuto a salutarlo, si
accorse della grande debolezza del polso dell’imperatore e ne avvisò
il comandante delle guardie del pretorio, Macrone. Tiberio intese che
l’ultima sua ora era arrivata e volle far onore all’amico sollecito,
che più non avrebbe riveduto, ordinando una festa e restando a
tavola più lungo del suo costume. Due giorni dopo, uno dei più grandi
imperatori romani era morto; quasi improvvisamente, senza che nessun
volto amico vegliasse al suo capezzale, solitario, come solitaria era
stata la sua vita (16 marzo 37)[59].


NOTE AL CAPITOLO DECIMO.

[48] Fonte principale per la storia del governo di Tiberio sono gli
_Annali_ di TACITO. Pur troppo però, per quanto bellissimi per la
forma, gli _Annali_ di TACITO, più che una storia imparziale, sono
una veemente e appassionata diatriba contro i primi Cesari. Tiberio è
stato anch’esso assai maltrattato da Tacito: ma la critica moderna ha
ormai fatto giustizia della fosca leggenda, che egli ci ha trasmesso,
come la vera storia del secondo imperatore. Uno dei primi a mettere in
luce le contradizioni e le inverosimiglianze del racconto di Tacito,
fu il grande storico francese V. DURUY, in una tesi latina del 1853
ripubblicata nella sua _Histoire des Romains_, Paris, 1882, IV, pp.
271 sg. Seguirono, con lo stesso indirizzo: MERIVALE, _History of
the Romans under the Empire_, London, 1865; G. B. SIEVERS, _Studien
zur Geschichte der römischen Kaiser_, Berlin, 1870; STAHR, _Tiberius:
Leben, Regierung, Charakter_, Berlin, 1885; I. GENTILE, _L’imperatore
Tiberio e la moderna critica storica_, Milano, 1887; IHNE, _Zur
Ehrenrettung der Kaisers Tiberius_, Strassburg, 1892. Lo storico
antico che meglio ha capito e dipinto Tiberio, è Velleio Patercolo,
il quale per questo è stato ingiustamente accusato di essere un
adulatore. Velleio era stato ufficiale agli ordini di Tiberio; lo ha
quindi conosciuto personalmente. Se la gratitudine e l’ammirazione
possono avergli impedito di osservare certi difetti del suo capo, il
suo giudizio è altrimenti schietto, ponderato e fondato, che quello di
Tacito, il quale scriveva un secolo dopo, su documenti di seconda mano
e tradizioni viziate da odî e rancori preconcetti.

[49] Cfr. VELL. PATERC., 2, 124; TAC., _Ann._, I, 11-13; DION. CASS.,
57, 2.

[50] Cfr. il passo di TACITO, _Ann._, I, 75, che è quasi una
confessione: _multaque eo coram adversus ambitum et potentium preces
constituta; sed, dum veritati consulitur, libertas corrumpebatur_....

[51] TAC., _Hist._, I, 16.

[52] Cfr. _C. I. L._, VI, 930, ll. 10 sg.

[53] VELL. PAT., 2, 124.

[54] Era nipote di Antonia, figlia di M. Antonio il triumviro. Cfr.
_Ephem. Epigr._, I, 270; e V. STRAZZULLA, _La famiglia di Pithodoris,
regina del Ponto_, in BESSARIONE, 1901, pp. 80 sg.

[55] TAC., _Ann._, 3, 6.

[56] TAC., _Ann._, 3, 60; e soprattutto _Ann._, 4, 6: questo giudizio
del governo di Tiberio, dato da Tacito, è d’importanza capitale.

[57] VELL. PAT., 2, 126.

[58] Cfr. SVET. _Cal._, 30: _Saepe in cunctos pariter senatores, ut
Sejani clientes.... [Caligula] invectus est, prolatis libellis quos
crematos simulaverat, defensaque Tiberii saevitia quasi necessaria,
quum tot criminantibus credendum esset_.

[59] Così pare si possa ricostruire la morte di Tiberio, combinando
quel che narra TACITO, _Ann._, 6, 50, con la testimonianza di Seneca,
citata da SVET. _Tib._, 73. L’odio dei nemici ricamò poi anche intorno
alla morte di Tiberio molte favole, il cui scopo era di far credere che
fosse morto di morte violenta.



CAPITOLO UNDICESIMO

CALIGOLA E CLAUDIO


65. =Caligola: perchè fu eletto (37).= — A differenza di Augusto,
Tiberio moriva senza collega. Il senato poteva continuare il
principato, come restaurare interamente la repubblica. Ma non pare
che si sia neanche indugiato su questa seconda alternativa: segno
eloquente, che la «tirannide» di Tiberio è una fantasia degli storici
antichi. L’autorità del principe rendeva ormai troppi servigi, anche se
i suoi titolari fossero invisi a molti.

Si riconobbe dunque che occorreva eleggere un nuovo principe: ma quale?
Nella famiglia di Augusto, non c’era scelta. I maschi superstiti
erano tre: Tiberio Claudio Nerone, il fratello di Germanico; Caio
Cesare, detto Caligola, il figlio di Germanico; e Tiberio, il figlio
di Druso, che Tiberio aveva adottato nel suo testamento. Di questi,
l’ultimo era un giovinetto di 17 anni; e il primo, pur essendo un
uomo di età matura, era considerato come un imbecille, mezzo pazzo,
zimbello di donne e di liberti, e perciò tenuto in disparte. Non
aveva infatti occupato nessuna magistratura. Non restava quindi che
Caio Caligola. Caio aveva 27 anni: era forse nato in Germania, nel
paese dei Treviri, durante le campagne del padre suo[60]; certo era
stato allevato colà, tra i soldati, che molto l’amavano; colà, ancor
bambino, era stato vestito da soldato e aveva calzato delle scarpette
militari, delle _caligulae_, che gli avevano procurato il nomignolo
con cui la storia lo conoscerà. Più tardi aveva accompagnato il padre
in Oriente. Morto Germanico, era vissuto con la madre, poi con l’avola
Livia, e infine con la nonna paterna, Antonia. Era stato il solo dei
maschi sopravvissuto alla rovina della casa di Germanico; anzi Tiberio
l’aveva molto amato, sebbene avesse intuito qualcuna delle sue meno
buone qualità. Caligola era infatti intelligente, eloquente, amante
dell’arte, pieno di buon gusto; ma sembrava tutt’altro che equilibrato:
irritabile, impulsivo, maniaco per ciascuna delle idee, che volta
a volta lo possedessero. Aveva insomma qualità e difetti, ed era
ancora molto giovane per la carica suprema; ma i difetti erano ignoti
ai più, l’età, se troppo giovanile, era già possibile; e infine non
c’era altri, se non si voleva andar cercando un _princeps_ fuori della
discendenza di Augusto. Il che non sarebbe stato impossibile, e sarebbe
stato legale; ma c’era una ragione capitale per preferire, potendo,
un membro della famiglia di Augusto. Da cinquant’anni i barbari e
l’esercito identificavano l’impero di Roma con la casa Giulio-Claudia.
L’esercito serbava per i componenti di quella famiglia un attaccamento,
che non aveva paragoni. Fra i soldati, specie tra quelli accampati
sul Reno e sul Danubio, il nome del figliuolo di Germanico era
popolarissimo. La nomina di Caligola presentava quindi grandi vantaggi.
Caligola fu eletto (18 marzo 37)[61].


66. =Primi atti di Caligola e prime speranze=. — Secondo gli storici
antichi il governo del giovane imperatore avrebbe avuto il più felice
inizio. Tra il giubilo universale, Caligola rinunciò a proporre, come
s’era fatto per Augusto, la consacrazione divina di Tiberio; bruciò, o
fece le viste di bruciare, tutte le carte politiche del predecessore;
vietò le accuse di lesa maestà e concesse un’amnistia generale agli
imputati, ai condannati, agli esiliati. Il popolo riebbe donativi in
profusione; i soldati ottennero gratificazioni, che raddoppiarono i
legati ad essi destinati da Tiberio; l’Italia fu esentata da taluna
delle tasse recenti; i teatri tornarono a riaprirsi, i giuochi pubblici
a solennizzarsi con frequenza da tanti anni insolita. Caligola abolì
anche l’appello in ultima istanza all’imperatore, che pure tanti abusi
e tante durezze avea temperati; restituì ai comizi i poteri elettorali;
si sforzò di distinguere i poteri del senato da quelli dell’imperatore;
ristabilì pel principe l’obbligo di presentare i conti delle spese
pubbliche, da esso ordinate; annullò i giudizi pronunciati contro la
madre e il fratello, e diede solennemente sepoltura alle loro ceneri;
fece coniar monete, la cui decorazione e la cui leggenda ricordavano
quelle di Bruto e di Cassio[62]. E, il 1º luglio, inaugurando il suo
primo consolato, pronunciò in Senato un grande discorso, nel quale
dichiarò che il suo modello non sarebbe stato Tiberio, ma Augusto.
Tutti i cuori si aprivano alle più liete speranze.


67. =Il voltafaccia di Caligola e i suoi tentativi di orientalizzare
l’impero.= — Senonchè ad un tratto, sempre stando agli storici antichi,
dopo otto mesi di governo, Caligola sarebbe improvvisamente ammalato, e
dalla crisalide del buono e mite imperatore sarebbe uscito a un tratto
il crudele e pazzo tiranno. Gli storici antichi hanno molto, troppo
amato di scomporre in due parti, la prima ottima, la seconda pessima,
la storia di molti imperatori: di Tiberio, di Nerone, di Domiziano,
di Commodo. Per quel che riguarda Caligola, almeno, la verità è che
parecchi atti dei primi tempi del suo governo avrebbero dovuto mettere
sull’avviso un popolo meno incline a illudersi volontariamente. Il
giovane principe aveva senza meno esordito, togliendo all’unico
proconsole senatorio, ancora, dopo Augusto, fornito _d’imperium
militare_ — quello d’Africa — il comando delle due legioni, di cui
disponeva. Peggio ancora, avea già conferito all’ava Antonia e alle
sorelle i privilegi delle Vestali, e disposto che il nome delle sorelle
dovesse essere pronunziato in tutti i voti, che magistrati e sacerdoti
avrebbero ogni anno inalzati pel bene dell’imperatore e del popolo. Pur
affettando di chiamarsi il «pronipote» di Augusto, aveva riabilitato
ufficialmente la memoria di Marco Antonio e soppresso l’annua festa
stabilita da Augusto, por commemorare la vittoria di Azio. Aveva
onorato di culto ufficiale la divinità egizia Iside; ed egli stesso
viveva circondato di domestici egiziani, sicchè il più fedele e il
più influente dei suoi liberti era un alessandrino, un tal Elicone.
Finalmente noi sappiamo che alla vigilia della sua malattia Caligola,
essendo rimasto vedovo, aveva avuta l’idea di sposare ed elevare
all’impero sua sorella Drusilla; alla quale per di più nel testamento,
fatto durante la malattia, aveva lasciato in eredità l’impero, come
se l’impero fosse cosa sua, di cui egli potesse disporre! La verità è
che sin dal principio del suo governo, Caligola diede segno di quella,
che gli storici chiameranno la sua «pazzia»; che tale doveva apparire
agli occhi dei romani, e che tale anche in parte deve essere giudicata
da noi. Ma solo in parte: perchè l’idea che inspirò la sua politica,
se era chimerica per i tempi in cui Caligola volle applicarla, aveva
in sè una certa coerenza, ed una certa logica, la quale permette di
legar tra loro e di spiegare molti atti di Caligola, che a prima vista
paiono gli insensati capricci di una mente delirante. Quando infatti si
fa giustizia di qualcuno dei più ridicoli particolari, che di lui ci
tramandarono gli antichi, e che fanno minor torto al giovane principe
che agli storici, i quali vi prestarono fede, o agli uomini, che li
avrebbero subìti, è possibile discernere nel governo di Caligola un
proposito sufficientemente chiaro e preciso: foggiare in Roma con la
forza un regime simile a quello sotto cui fino a sessant’anni addietro
aveva vissuto l’Egitto. Caligola è un orientalizzante, che ripudia e
vuol distruggere tutte le tradizioni romane e fondare da un giorno
all’altro in Roma una monarchia simile alla tolemaica. Da questo
pensiero procedono la sua mania di autodivinizzazione e le violenze
messe in opera per imporre ai Romani e ai provinciali, persino ai
più recalcitranti fra essi, i Giudei, il culto della sua persona e
della sua famiglia. Perciò vuol denominarsi fratello di Giove, chiama
_sudditi_ i suoi concittadini, e sè stesso, loro _Signore_; perciò
rinnuova l’etichetta e vuole imporre a tutti, e ad ogni costo, come
un sovrano della Persia o dell’Egitto, il concetto della propria
onnipotenza; perciò riabilita ufficialmente Antonio, che aveva voluto
continuare in Alessandria la dinastia dei Tolomei. E così si spiega
infine la pompa orientale delle feste, che avrebbero abbagliato il
popolo minuto; il divisato matrimonio con la sorella, che non fu se non
un tentativo di introdurre in Roma il costume dinastico dei Tolomei
e dei Faraoni di sposarsi tra fratelli e sorelle, per conservare la
purezza della famiglia reale[63]: e infine il testamento con cui aveva
lasciato l’impero, che egli considerava come suo, a Drusilla, e i
templi che le eresse, gli onori divini che le tributò, quando morì.

Lo stesso spirito anima tutto il suo governo, dentro e fuori
dell’impero. In Oriente, il giovane principe non vuole la
romanizzazione delle province, ma la loro piena ellenizzazione; non
conquiste, ma una corona di Stati amici e clienti. Fin dal primo anno
del suo impero, ricostituisce il regno della Commagene, assegnandogli
anche un tratto della costa della Cilicia, e restituendolo, insieme
con il patrimonio confiscato, al figlio di Antioco, che Tiberio aveva
deposto. Nello stesso anno distacca la Palestina settentrionale e
occidentale dalla provincia di Siria, cui era stata aggregata fin
dal 34, e l’assegna, insieme con taluni territori confinanti, quali
l’Abilene e la Celesiria, al nipote di Erode il grande, Erode Agrippa,
allora vivente in Roma. Ristabilisce sul suo trono il re dei Nabatei;
dona un monarca arabo alla Iturea, e uno tracio, alla così detta
_Armenia minor_ e a una porzione del Ponto. Nè si può dire che questa
sua politica orientale sia stata imprudente o pericolosa, se non in
Giudea, dove egli volle imporre la «innata divinità» dell’imperatore
romano, a un popolo che osava preferirgli il proprio Iddio unico ed
universale. Invano l’imperatore ordinerà che le legioni della Siria
entrino in Gerusalemme a imporre nelle sinagoghe le statue del muovo
Dio. Egli riuscirà solo ad attizzare le prime faville dell’incendio,
che divamperà trenta anni più tardi.

L’Occidente, invece, è per Caligola una specie di vasta colonia,
che egli sfrutta e spreme per riempire l’erario, vuotato dalla sua
prodigalità. Tra il 39 e il 40, tenta nelle province galliche una
razzia di oro e di ricchezze, che intende continuare in Ispagna, in
Germania, in Britannia. Ma le sue forze erano troppo piccole per così
violenti disegni; e quindi la sua politica in Occidente fu molto più
cattiva che in Oriente. La invasione in Germania resta un desiderio; la
conquista della Britannia è troncata da un’ambasceria, recante doni in
copia e verbali promesse di sottomissione[64]; la razzia della Gallia,
interrotta, o almeno gravemente turbata, da una congiura ordita da uno
dei suoi generali, Cn. Cornelio Lentulo Getulico e da taluni dei suoi
stessi congiunti (39).


68. =La fine di Caligola (24 gennaio 41)=. — Questo tentativo di
deviare le torbide acque del Nilo e dell’Eufrate sull’Occidente romano
era per i Romani una inaudita pazzia. Ma, ammesso il principio, molti
atti di Caligola che sembrano insensati, si spiegano. Più che i singoli
atti, folle era l’idea da cui quegli atti scaturivano: che si potesse,
nel giro di pochi anni, per volontà di un uomo, far della repubblica
una monarchia simile a quella dei Tolomei; e folle la violenza con cui
Caligola volle porre ad effetto la sua idea.

Caligola infatti non tardò a diventare impopolarissimo, anche in mezzo
alla plebe, cui pure le sue spese insensate fruttavano largamente.
Roma e l’Italia erano ancora troppo affezionate al loro passato; le
furie monarchiche e orientali del giovane principe suscitarono nel
tempo stesso lo scherno e l’orrore in tutti. Se Tiberio era stato tanto
odiato perchè troppo ligio alla tradizione, Caligola fu odiato non
meno fieramente, perchè alla tradizione troppo apertamente ribelle. I
tempi erano fatti così: non potevano più vivere interamente secondo la
tradizione, ma non volevano abbandonarla interamente. Per imporre la
sua allucinazione orientale, Caligola dovè far forza con le condanne
per lesa maestà, le proscrizioni, i supplizi; rovinò le finanze;
procedette a confische e ricorse a ogni sorta di nuove gravezze. Se il
popolino di Roma, abbagliato dalla sua generosità, gli era favorevole,
nella famiglia imperiale, nel senato, negli ufficiali della guardia
pretoriana e dell’esercito, nelle classi alte e medie, il disgusto
e l’avversione crescevano. Roma non era matura per un dispotismo
asiatico. Gli eccessi e le stranezze dell’improvvisato assolutismo
risvegliavano il sentimento repubblicano in tutti gli ordini sociali,
e massime nella guardia pretoriana. Il 21 gennaio 41, Caligola era
trucidato da un tribuno del pretorio, un tal Cassio Cherea, in un
corridoio del suo palazzo, in seguito ad una congiura tramata da
cospicui personaggi.


69. =L’elezione di Claudio (24-25 gennaio 41).= — Alla notizia della
morte di Caligola il senato si radunò; onorò Cherea e i suoi compagni
con il vecchio titolo di «restauratori della libertà»; e quindi passò a
discutere quel che occorresse fare. Questa volta il partito, che voleva
abolire il principato e restaurare tale quale l’antica repubblica, fu
più numeroso, che dopo la morte di Augusto e di Tiberio. Le stravaganze
e le violenze di Caligola avevano ridestato in molti cuori l’odio
sonnecchiante per il nuovo regime. Ma potrebbe il senato, indebolito,
esautorato, discorde come era, governare esso l’impero in luogo
del principe? Molti, per quanto a malincuore, dubitavano. Anche per
costoro però c’era una difficoltà: trovare il principe, che giudicavano
necessario. Nella famiglia di Augusto non c’era più che Claudio,
considerato imbecille e incapace; poichè nel frattempo anche Tiberio,
il figlio di Druso, era morto. Sembra che diversi senatori mettessero
innanzi, più o meno apertamente, la propria candidatura: ma se anche
l’autorità della famiglia di Augusto era così vacillante, come potrebbe
governare l’impero un senatore, ignoto alle legioni e alle province,
senza il prestigio che circondava quella famiglia da tanti anni
conosciuta e potente? Non è meraviglia che il senato discutesse per
due giorni senza conchiudere. La difficoltà era davvero grandissima.
Ma, mentre il senato discuteva, i soldati della guardia pretoriana,
che scorazzavano nel palazzo imperiale, scoprivano in un nascondiglio,
dove si era rimpiattato per paura, Claudio, l’«imbecille». Riconoscendo
in lui il fratello di Germanico, lo acclamarono imperatore. Era una
soluzione. Un atto di volontà, anche poco savio, vale spesso più,
nei frangenti difficili, che mille saggissime esitazioni. Il senato,
non sapendo che risolvere, accettò e ratificò la soluzione, che i
pretoriani gli offrivano sulla punta della spada. Claudio l’«imbecille»
fu imperatore.


70. =I primi tre anni del governo di Claudio; suoi meriti e sue
debolezze (41-43).= — Tiberio Claudio Germanico era nato a Lione
il 1º di agosto del 10 a. C., da Druso e da Antonia, figliuola di
M. Antonio il triumviro. Era dunque fratello minore di Germanico. E
non era affatto un imbecille, come si diceva, sebbene tale apparisse
a molti, che giudicavano un po’ alla leggiera. Era un valentissimo
grecista, un buon oratore, uno studioso ed un erudito, non privo di
originalità e di acume: aveva insomma ingegno quanto sarebbe bastato
a far anche egli la sua figura nel mondo, accanto agli altri membri
illustri della famiglia, se per un misterioso capriccio della natura
queste brillanti qualità non fossero state oscurate da lacune e
debolezze bizzarre.... Sua madre lo chiamava un «uomo riuscito a
mezzo» e forse è la definizione migliore. Se ne incontrano ogni tanto
nella vita di questi uomini! Intanto era di una timidezza e di una
«gaucherie» incredibile: non sapeva farsi rispettare; i suoi liberti e
i suoi servi lo trattavamo come se fossero essi i padroni, ed egli non
osava protestare; delle mogli che aveva avuto era stato lo schiavo;
non sapeva condursi in società; troppo spesso faceva e sempre diceva
delle cose fuori di tempo e di luogo, un po’ per timidezza, un po’
per sbadataggine, come un ragazzo. Augusto l’aveva tenuto in disparte
per questa ragione. Quindi era vissuto solitario, quasi soltanto in
compagnia di liberti e di servi, al bando della società elegante,
pulita e aristocratica, occupandosi dei suoi preferiti studi storici
e filologici. Era stato allievo di Tito Livio e si occupava di storia
e della riforma dell’ortografia, soddisfacendo le passioni fisiche,
che di solito sono più forti negli uomini rozzi e grossolani: la
donna e la tavola. Era ghiotto e sensuale, almeno se vogliamo credere
gli antichi, in modo quasi animalesco. Non è quindi da stupire che
un tal personaggio passasse in mezzo alla aristocrazia romana per
un imbecille. Se non gli mancavano l’intelligenza del letterato e
dell’erudito, gli mancava la volontà, il coraggio, il contegno, quel
certo non so che, senza cui un uomo non si fa rispettare e non può
comandare, per quanto intelligente sia.

Essendo un uomo intelligente, un Claudio, e per giunta archeologo, il
nuovo imperatore ripristinò subito nel governo la grande tradizione di
Augusto e di Tiberio. Riconvocò di nuovo e spesso il senato, anche per
deliberazioni che dipendevano direttamente dall’autorità imperiale;
onorò i magistrati, secondo l’antico costume; chiamò frequentemente
i comizi ad esercitare l’antica potestà elettorale e legislativa;
limitò le concessioni di cittadinanza, che Caligola aveva prodigate
spensieratamente; e ritolse la cittadinanza a tutti i provinciali, che
l’avevano ricevuta, ma che non avevano ancora imparato il latino. Smise
ogni fasto personale; affettò di voler essere un semplice senatore;
dichiarò che non ammetterebbe nel senato se non persone il cui bisavolo
almeno avesse goduta la cittadinanza romana; ristabilì la precisa
distinzione degli ordini sociali, che Caligola aveva ad intenzione
confusi; represse la turbolenza popolare nei pubblici spettacoli,
tollerata da Caligola; si sforzò di riassestare le finanze; cercò di
ripristinare la religione, nelle sue forme antiche.


71. =I liberti di Claudio e la grande congiura del 42.= — I principî
del nuovo governo erano dunque ottimi. Roma avrebbe dovuto respirare.
Invece ricadde subito nei torbidi e nelle discordie. Per quanto
facesse, Claudio non riusciva a vincere l’avversione di una parte
— la maggiore forse — dell’aristocrazia romana. Intanto e innanzi
tutto nuoceva al nuovo principe il modo con cui era stato eletto.
Claudio era il primo imperatore che i soldati avessero imposto al
senato, spregiando apertamente la legalità; e proprio nel momento
in cui l’aristocrazia s’era illusa di riconquistare la somma degli
antichi privilegi, e parecchi dei suoi uomini maggiori avevano
sperato di pervenire essi stessi all’impero. La debolezza del principe
alimentava questo malcontento. Per quanto Claudio governasse secondo
la tradizione, non viveva però circondato da senatori e cavalieri; ma
aveva conservato intorno a sè i ministri e i compagni della giovinezza
e della virilità, i suoi servi cioè, e più ancora i suoi liberti.
Questi venivano così ad acquistare una potenza ed una autorità, che
offendeva profondamente l’aristocrazia, tanto più che Claudio non li
dominava e li lasciava ostentare la loro potenza e il loro orgoglio al
suo fianco. Tra i suoi liberti c’erano uomini di molta intelligenza
e capacità, che gli erano di grande aiuto al governo, come Polibio,
Narciso, Arpocrate, Pallante, ed anche l’eunuco Pasides. Ma se questi
liberti aiutavano Claudio a governare secondo le tradizioni della
repubblica aristocratica, la nobiltà romana non poteva tollerare che
Polibio osasse nelle pubbliche cerimonie mescolarsi ai consoli; che
Arpocrate passeggiasse per Roma in lettiga e desse spettacoli; che
Narciso e Pallante ricevessero per volontà di Claudio, che ne aveva
fatto preposta al senato, i distintivi della questura e della pretura.
La gelosia delle vecchie classi contro gli uomini nuovi, lo spirito
esclusivo del romanesimo, si risvegliavano. Insomma Claudio poteva
governare bene, ma gli mancava il prestigio e l’autorità. Per quanto
l’opera fosse buona, l’autore era ridicolo. Questa contradizione
spiega la grande congiura del 42, che tentò di far deporre dalle
legioni della Dalmazia l’imperatore innalzato dai pretoriani di Roma.
A Roma il capo della congiura era — sembra — uno dei senatori, di
cui, alla morte di Caligola, si era fatto il nome quale possibile
imperatore: Annio Viniciano. D’accordo con lui era il governatore della
Dalmazia, Furio Camillo Scriboniano, che comandava a tre legioni. La
ragionevolezza e l’affezione dei soldati per la causa dei Giulio-Claudî
fecero fallire il movimento: le legioni, dopo essersi lasciate per un
momento traviare, si ricredettero e uccisero il generale ribelle: ma il
tentativo era stato così vasto e grave, che alle prime notizie della
rivolta Claudio era stato in forse di abdicare. Riavutosi, perdonò
ai soldati; ma di nuovo Roma fu devastata da una di quelle terribili
repressioni giudiziarie che gli odî privati e le denuncie interessate
inferocivano.


72. =La conquista della Britannia (43), la nuova politica verso
i provinciali e le nuove leggi sociali.= — Dopo questa congiura,
Claudio si circondò di guardie; nessuno potè più avvicinarlo, senza
essere prima frugato; nessuno ospitarlo, senza che la sua casa fosse
stata minuziosamente perquisita. Senonchè se era debole, il governo
di Claudio aveva entro di sé — che procedesse dall’intelligenza
dell’imperatore o dall’ambizione dei suoi liberti o dall’una e
dall’altra — una certa volontà di combattere la propria debolezza,
compiendo imprese e riforme importanti. Un principe britanno, scacciato
dal suo paese da una guerra civile, era venuto a Roma; e da qualche
tempo cercava di persuadere il governo romano a invadere la grande
isola. Riuscì questo principe a persuadere Claudio, che l’impresa
sarebbe facile? O intese Claudio, appena riavutosi dallo spavento della
congiura, che sopra tutto nuoceva a lui, figliuolo di Druso e fratello
di Germanico, il non poter vantarsi di alcuna gloria militare?

Fatto sta che nell’anno 43 — e, come ci dicono gli storici, per propria
personale volontà di Claudio — un grosso esercito di parecchie legioni
sbarca in Britannia ed incomincia felicemente l’impresa che Cesare
aveva appena tentata e di cui Augusto e Tiberio avevano deliberatamente
ripudiato l’idea[65]. Il momento era stato scelto bene. Le popolazioni
che abitavano la parte meridionale della Britannia pare che fossero in
quel momento indebolite da guerre e da rivoluzioni, cosicchè le legioni
poterono in poco tempo e senza soverchia difficoltà sottomettere,
almeno per il momento, una buona parte dell’isola. Claudio stesso
si recò in Britannia, varcò il Tamigi a capo delle legioni, e per
la prima volta assistè a un fatto d’armi, che valse al suo esercito
l’occupazione di _Camolodunum_ (Colchester). Ripassò quindi in Gallia,
proclamò la Britannia provincia romana, e tornò a Roma, dove il senato
gli decretò grandissimi onori.

La conquista della Britannia era appena cominciata: la verità era
questa. Occorreranno ancora dieci anni di combattimenti sanguinosi, per
prendere saldo possesso di una parte dell’isola. Ma l’ardita mossa di
Claudio piacque a Roma e all’Italia, che da lungo tempo occhieggiavano
la Britannia come il naturale complemento della Gallia. Nello stesso
anno, essendo scoppiati torbidi in Licia, la Licia fu unita alla
prefettura della Panfilia e annessa. E per un momento parve che il
governo di Claudio traesse da questa vigoria e da questi successi un
po’ di quel prestigio e di quella forza di cui aveva bisogno. Dal 43
al 48 corre un periodo in cui Claudio, sia pure commettendo errori,
governa con larghe vedute e compie molte opere insigni. Dobbiamo
attribuire questa insolita larghezza di vedute ai suoi liberti — uomini
intelligenti e naturalmente poco ligi alle vecchie tradizioni romane,
nelle quali non erano stati educati? È probabile. Comunque sia, il
governo di Claudio, pur conservandosi fedele nelle grandi linee alla
tradizione del romanesimo, introduce nell’amministrazione e nella
giustizia molte cose nuove richieste dai tempi. Nel 46, abbandonando
la rigidezza restrittiva ed esclusiva di Augusto e di Tiberio,
l’imperatore concede la cittadinanza romana a intere popolazioni
delle Alpi, come gli Anauni del Trentino, i Tulliassi, i Sindoni[66].
Due anni dopo (48), affronta in senato il geloso spirito nazionale
romano, facendo concedere il pieno _ius honorum_ ai ricchi Galli
Transalpini, gli Edui per primi, che già possedevano la cittadinanza:
accordando cioè loro il diritto di essere nominati senatori[67]. Per
la prima volta questo diritto era riconosciuto alle classi alte di una
provincia; e non è improbabile che a spingere Claudio al passo ardito,
oltre il bisogno di rinforzare l’aristocrazia senatoria, contribuisse
l’impresa di Britannia. Claudio voleva conquistar la Britannia; quindi
doveva sforzarsi di assicurarsi a Roma la fedeltà della Gallia, che
era la sua base di operazione per la conquista dell’isola. Ma di qual
mutamento doveva essere il primo seme, quella riforma! Notevoli sono
pure certe riforme giuridiche di Claudio, nelle quali per la prima
volta appare qualcosa di razionale e di universale, che contrastava con
lo spirito, fin allora tanto gretto e formalistico, del giure romano.


73. =Messalina: storia e leggenda.= — Nel 47 Claudio assunse la
censura, già da molti anni sospesa ed inerte; e la esercitò seguendo
le più scrupolose norme dell’antica repubblica: distribuendo numerose
_notae censoriae_, espellendo senatori indegni, obbligando i senatori
poveri ad uscire dal senato; creando, per colmare i vuoti di questo
consesso, nuove famiglie patrizie[68], e riscotendo da uno dei
due consoli, con l’assenso dell’assemblea, l’appellativo di _pater
senatus_. Roma avrebbe dovuto esser contenta, finalmente! Invece
nè il buon governo, nè il plauso del senato riuscivano a vincere
l’opposizione, che in Roma continuava a serpeggiare e a più riprese a
manifestarsi. Claudio poteva conquistare province e far buone leggi;
ma Roma non ammetteva che l’imperatore, il quale doveva comandare a
tutti, non riuscisse a farsi ubbidire in casa nè dai liberti nè dalla
moglie. Perchè l’imperatrice e la sua condotta erano un’altra causa
di malcontento e non meno grave. Claudio aveva sposato in prime nozze
una Plauzia Urgulanilla, ch’egli dovette repudiare: in seconde nozze,
un’Elia Petina, da cui egualmente divorziò; e, finalmente in terze
nozze, una giovane donna, bellissima, e di nobilissima famiglia. La
storiografia classica ha versato tutto il nero delle sue ombre sulla
memoria di Valeria Messalina, dipingendocela come dissoluta fino
all’inverosimile, crudele, cinica, ingorda. Senonchè, mentre riesce
difficile spiegare, se essa fu proprio tale, taluni dei suoi atti,
impossibile addirittura diventa intendere come ella non solo sia
stata lungamente tollerata nella casa di un Claudio; ma abbia anche
goduto non piccola considerazione presso l’aristocrazia romana, che
non era tutta un’accolta di donne perdute e di bagascioni; e non sia
stata abbandonata, nemmeno nella rovina, dall’affetto di una delle
più autorevoli Vestali romane, sulla quale nessun storico antico osa
lanciare l’ombra di un sospetto.

Giudicando equamente, sembra potersi affermare che, se Messalina
non fu nè una Livia, nè un’Antonia, sarà stata, alla peggio, una
Giulia; cioè una donna come tante altre nell’aristocrazia romana del
tempo; bella, giovane, capricciosa, leggiera, bramosa di godere e di
sfoggiare, facile a confondere le faccende della famiglia con quelle
dell’impero e imprudente nell’abusare della debolezza del marito, anche
in cose che erano di spettanza, non del marito, ma dell’imperatore.
Si mescolava dunque alle faccende pubbliche, e donnescamente: onde
troppe volte per la debolezza di Claudio i suoi amori e i suoi odî
intralciarono l’amministrazione dello Stato e la scrupolosa osservanza
della giustizia; troppe volte essa pretese violare le leggi suntuarie,
che Claudio aveva ribadite; troppo spesso anche, a quanto sembra,
abusò della sua potenza per far denaro; chè essa, almeno secondo gli
storici antichi, sarebbe stata nel tempo molto avida e molto prodiga.
In Roma vigeva ancora la tradizione latina, che non consentiva alla
donna di immischiarsi troppo apertamente negli affari pubblici, e che
accanto all’imperatore voleva una matrona fornita di tutte le virtù in
onore presso gli italici, quale era stata Livia. Se una parte almeno
dell’aristocrazia, la parte più favorevole ai nuovi costumi, poteva
essere in qualche modo indulgente, in quanto anch’essa partecipava a
quelle che si dicevano, un po’ esageratamente, le «orgie» della nuova
Baccante, il medio ceto romano rammaricava acerbamente che dall’alto
venisse un esempio così scandaloso.


74. =La congiura di Messalina e di Silio (48).= — La debolezza di
Claudio, le sue continue paure, le esitazioni e le incertezze che
ne eran l’effetto, le leggerezze e forse le ruberie di Messalina,
le ruberie e le prepotenze di qualcuno dei suoi liberti frustravano
lo zelo e l’alacrità con cui egli attendeva alle cose pubbliche e
riformava gli abusi con leggi provvide e sagaci. Senato e popolo erano
malcontenti; tutti imprecavano a Messalina e ai liberti, ridevano
di Claudio; molti senatori adocchiavano la successione del debole
principe; ogni giorno correvano dicerie di congiure e di rivolte
militari; tumulti popolari scoppiavano ogni tanto. Nel 46 c’era stata,
anzi, una congiura, che aveva avuto a capo Asinio Gallo, fratellastro
del figlio di Tiberio, Druso. Cosicchè a poco a poco il governo di
Claudio venne a trovarsi in una così strana incertezza, quale non si
era mai vista, a Roma. Si direbbe che Roma non sapesse se lo voleva
o non lo voleva. Faceva, questo governo, ottime cose, eppure era
minacciato da tutte le parti e screditatissimo; tutti ogni mattina
aspettavano che prima di sera sarebbe caduto e molti si preparavano
a raccoglierne l’eredità; eppur resisteva a tutte le congiure che si
ordivano; durava, alla meglio, ma durava. Insomma, se da Augusto a
Claudio il governo si era indebolito, anche l’opposizione non era più
così forte come ai tempi di Tiberio. Le conventicole dell’aristocrazia
che combattevano il governo di Claudio erano discordi, poco abili,
più imprudenti che energiche. Il malcontento pubblico si sfogava in
discorsi; ma i soldati restavano fedeli al figlio di Druso. Il governo
tirava innanzi, come poteva, zoppicando....

Quando nel 48 e nel 49, un nuovo pericolo lo minacciò dal di dentro.
Siamo giunti all’episodio più clamoroso della vita di Claudio. Il
racconto, che gli scrittori antichi ci hanno tramandato, è notissimo.
Messalina si sarebbe innamorata di un giovane senatore che sì chiamava
Silio; non contenta di averlo per amante, avrebbe voluto sposarlo,
pur essendo moglie di Claudio; perciò, mentre il marito era in Ostia,
avrebbe celebrato nell’anno 49, in Roma, solennemente le nozze
con Silio, compiendo tutti i riti religiosi in vista del pubblico
inorridito, sinchè Claudio avvertito le avrebbe mandato l’ordine di
morire! Ma questa romanzesca storia, attestata concordamente e da
Tacito e da Svetonio e da Dione Cassio, è incomprensibile, almeno
se non si suppone, non solo che Messalina fosse impazzita, ma che
matti fossero anche tutti gli altri, e Silio, e i magistrati che si
acconciarono a compiere i riti delle nozze, e quanti a questa sacrilega
pagliacciata assistettero.... E tanti pazzi insieme sono troppi. Chi
sa che rispetto i Romani avevano per le cerimonie religiose, dubiterà.
Se Messalina e Silio, pubblicamente e con i riti della religione
celebrarono le loro nozze, vuol dire che potevano sposarsi; vuol dire
che Messalina aveva fatto divorzio da Claudio. Questa supposizione
è confermata da Svetonio, il quale ci dice che Claudio, per questo
matrimonio, aveva assegnato una dote a Messalina[69]. Se aveva
assegnato una dote a Messalina, aveva consentito al nuovo matrimonio;
e quindi aveva fatto divorzio e ceduta la moglie a Silio: pratica, come
sappiamo, frequente a quei tempi, nell’aristocrazia.

Claudio dunque aveva ceduto Messalina a Silio; cioè aveva fatto
divorzio da lei. Ma per quale ragione? Noi non possiamo rispondere
che con congetture. Ma tra le congetture, sembra tra tutte la più
verosimile quella fatta da uno scrittore italiano, Umberto Silvagni,
specialmente se vi si aggiunga qualche ritocco necessario[70].
Il Silvagni ha osservato che Silio, il nuovo marito di Messalina,
apparteneva ad una famiglia dell’aristocrazia, famosa per la fedeltà
al partito di Germanico. Il padre di Silio non era stato soltanto uno
dei più cari amici di Germanico, ma era stato, per gli intrighi di
Seiano, accusato di alto tradimento e si era ucciso. La madre, Sosia
Galla, era una devota amica di Agrippina, la sposa di Germanico; e per
questa amicizia era stata bandita. Partendo da queste considerazioni,
il Silvagni è giunto a supporre che il matrimonio di Messalina e di
Silio coprisse anch’esso una congiura per rovesciare Claudio e per
mettere al suo posto Silio, che era un personaggio importante e console
designato per l’anno seguente. Si potrebbero allora ricostruire gli
avvenimenti, a un dipresso, così. Messalina temeva che il governo di
Claudio cadrebbe, un giorno o l’altro, per qualche congiura o rivolta.
Essendo molto più odiata di Claudio, Messalina sapeva che quella
congiura o rivolta che riuscisse, subito dopo Claudio, avrebbe tolto di
mezzo lei. Non c’era per lei che un modo di sfuggire a questo pericolo:
toglier essa di mezzo Claudio e sostituirgli un nuovo imperatore. Ma
nella famiglia di Augusto non c’era più che un maschio, il figlio suo e
di Claudio, Britannico, che era allora un bambino di 7 anni. Bisognava
dunque cercarlo altrove; e poichè i soldati erano affezionati alla
memoria di Druso e di Germanico, il miglior consiglio era sceglierlo
in una famiglia, famosa per la sua fedeltà a questo ramo dei Claudii.
Sposando Silio, e facendolo imperatore, essa potrebbe salvarsi,
abbandonando Claudio, dalla rovina, che restandogli accanto, li avrebbe
inghiottiti tutti e due.

Tale supposizione è la sola che appaghi almeno in parte lo storico,
che vuole spiegare in modo comprensibile questo stravagante episodio
della storia di Roma. E questa supposizione ammessa, non si può
dubitare che di tutte le congiure tentate contro Claudio questa fu la
più pericolosa. Essa era tramata nella casa stessa dell’imperatore,
da una donna intelligente, audace, che dominava il debole Claudio;
che era temuta anche dai più potenti liberti dell’imperatore; che
aveva amici, clienti e beneficati in tutte le cariche dello Stato.
Non è quindi meraviglia che Messalina riuscisse a intendersi con molti
alti magistrati e personaggi influenti, e a predisporre lungamente e
abilmente le cose senza che Claudio venisse in sospetto e senza che
nessuno dei suoi fidi liberti osasse metterlo sull’avviso. Tra il
debole e screditato imperatore, la intraprendente e influentissima
imperatrice, nessuno poteva predire chi sarebbe il vincitore. Senonchè
c’era un punto pericoloso e difficile in tutto questo piano così
abilmente architettato. Come persuadere Claudio al divorzio senza
insospettirlo? Anche intorno a questo punto gli scrittori antichi son
poco chiari. Svetonio sembra dire che Claudio fu indotto a firmare
la costituzione di dote a Messalina per il nuovo matrimonio con un
inganno[71] e dal racconto, molto confuso, di Tacito par che risulti
che Claudio cascò dalle nuvole, quando seppe che Messalina non era più
sua moglie. Comunque sia, Messalina riuscì a far firmare dal marito le
lettere di divorzio; e ottenuto il divorzio, corse a Roma a celebrare
le nozze con Silio, alle quali doveva subito seguire la deposizione di
Claudio[72].

Il piano era ardito; ma poteva riuscire, se i liberti di Claudio
avessero prestato mano. E questi esitarono fino all’ultimo momento.
Claudio era ad Ostia; Messalina aveva già con gran pompa celebrato
in Roma il matrimonio, quasi per presentare al pubblico il nuovo
capo dell’impero; i più fidi liberti di Claudio non sapevano ancora
decidersi. Fu solo verso sera che Narciso si risolvè per Claudio contro
Messalina e corse ad Ostia.... Noi non sappiamo e non sapremo mai quel
che disse a Claudio e che prove gli diede del complotto.... Certo è
che Claudio, pieno di spavento, ritornò precipitosamente a Roma; e che
ancora una volta si scatenò su Roma una di quelle sanguinose tempeste
giudiziarie, che ogni tanto la empivano di lutti. Le accuse di lesa
maestà grandinarono; Silio, Messalina, un grande numero di amici e di
aderenti furono accusati di lesa maestà, di cospirazione, di adulterio
e di cento altri delitti; gli uni si uccisero, gli altri perirono per
mano del carnefice.


75. =Gli ultimi anni e la morte di Claudio (48-54).= — Claudio
era vedovo. Sgomentato da quella catastrofe, tenne un discorso ai
soldati, nel quale dichiarò che non avrebbe più ripreso moglie. Ma i
propositi di Claudio, anche quelli annunciati con maggior solennità,
non incutevano soggezione a nessuno. E subito incominciarono intorno
al vecchio imperatore le cabale e gli intrighi per ammogliarlo,
tutti sapendo che chi riuscisse a dargli una moglie, acquisterebbe
per mezzo di questa un grande potere. D’altra parte un’imperatrice
era necessaria, massime per un uomo così maldestro come Claudio,
per compiere tutti i doveri sociali, che all’imperatore spettavano.
Tuttavia lo scandalo non era stato inutile. Il pubblico era nauseato
di tanti disordini e di tante incoerenze: da ogni parte si chiedeva un
governo più forte e più rispettabile; anche gli amici e i padroni di
Claudio — i liberti — capivano che bisognava dare una soddisfazione
al popolo esasperato, trovando all’imperatore una moglie che facesse
dimenticare Messalina. A capo di questo partito sembra essere stato
il liberto Pallante. Il quale pose gli occhi su Agrippina: una figlia
di Germanico e di Agrippina, che Caligola aveva esiliata e che Claudio
aveva richiamata.

Agrippina era allora sui 33 anni, ed era vedova di Cn. Dominzio
Enobarbo, da cui aveva avuto un figlio — il futuro Nerone. Era una
donna intelligente, colta, di volontà forte e di costumi illibati: una
matrona di stampo antico, semplice, attiva, parsimoniosa, una madre
_trux et minax_ — dice Tacito — che allevava il figlio con severità
e non con i modi nuovi e molli, introdotti dalla filosofia nelle case
romane. Figlia di Germanico, essa poteva essere l’imperatrice, quale i
Romani se la figuravano e la desideravano — degna continuatrice della
tradizione di Livia; e ridare all’autorità del principe il prestigio
perduto in mezzo agli scandali.

C’era però una difficoltà. Claudio era zio di Agrippina. Se non
illeciti, i matrimoni tra zio e nipote erano considerati dai romani
con un certo ribrezzo. Ma Pallante seppe persuadere Claudio e togliere
di mezzo questa difficoltà. Il senato autorizzò questo matrimonio tra
lo zio e la nipote; e Claudio sposò Agrippina con vantaggio proprio
e della pubblica cosa. Gli ultimi cinque anni del governo di Claudio
furono molto più tranquilli e felici che i primi sei; e per merito, non
si può dubitarne, di Agrippina. Questa era apparsa al buon momento. Il
pubblico era stanco di scandali, di disordini, di processi, di accuse;
le cricche e le conventicole che si erano ferocemente dilaniate, da
Augusto in poi, nel senato e nella famiglia imperiale, erano esauste;
tutti volevano almeno una tregua, se non la pace. E Agrippina, che
aveva intelligenza, volontà e virtù, seppe soddisfare, nella misura
del possibile, a queste aspirazioni, dominando il debole Claudio come
Messalina, ma per il suo bene; dandogli un po’ di quella fermezza e
coerenza, che alla sua intelligenza mancavano. Non è dubbio che in
questi ultimi anni l’erario fu meglio amministrato, le ruberie meno
audaci, i liberti più modesti e meno inframmettenti, le accuse e le
condanne più rare; e che il merito di questo felice mutamento spetta in
parte ad Agrippina. Lo dicono apertamente o lo lasciano capire quegli
storici, che pure accumularono tante calunnie sul conto di Agrippina,
come Tacito.

Agrippina infatti acquistò presto molta popolarità. Non si potrebbe
altrimenti spiegare come il senato le decretasse degli onori
straordinari, quali neppur Livia aveva ricevuto: che potesse salire
sul Campidoglio in un _carpentum_ o cocchio dorato, simile a quelli
che erano concessi solo ai sacerdoti e alle immagini degli Dei; che
ricevesse vivente il titolo di Augusta, e che il suo nome fosse dato
alla città allora allora fondata in Germania sul Reno, nel territorio
degli Ubii e che doveva poi diventare una città famosa: Colonia.
Non si accusi la servilità del senato, ostile sempre, piuttosto che
servile, agli imperatori. A Messalina, che pure era ben più ambiziosa
e intrigante di Agrippina, simili onori non furono mai decretati. Il
favore popolare, e non la servilità del senato, volle questi onori.
Ma nel senato non si arrendevano al favore popolare nè la piccola
cricca nemica della famiglia imperiale, nè gli ambiziosi che speravano
di rovesciare Claudio e rimpiazzarlo; e a questi si aggiungevano i
molti, a cui il nuovo rigore dell’amministrazione contrariava il vizio
inveterato di rubare. E tutti costoro, anche se in senato decretavano
onori, sotto voce mormoravano, calunniavano, svisavano ogni atto e
intenzione; creando quella leggenda che Tacito ha poi accettata ad
occhi chiusi. Ma quanto è facile, anche dopo tanti secoli, a uno
storico imparziale scoprire le falsità e le contradizioni di questa
leggenda! Agrippina, come abbiamo detto, aveva avuto da Domizio
Enobarbo un figlio: essa lo educava con molto rigore; gli aveva dato
insigni maestri, tra i quali Seneca. Nel 50 essa lo fece adottare da
Claudio; e fece dare al figlio il nome di Nerone, che aveva brillato di
tanta gloria sulle rive del Metauro, nella giornata in cui si decisero
le sorti del gran conflitto tra Roma ed Annibale. Come dubitare che
quest’atto avesse per ragione un alto interesse di Stato? Non avevan
dimostrato gli avvenimenti recenti quanto fosse difficile di trovare un
principe fuori della famiglia di Augusto? Per quale ragione Claudio,
che era un mezzo uomo, ed Agrippina, che era una donna, potevano
insieme far durare ed agire lo Stato romano, se non per la gloria del
nome? Nel senato c’era chi odiava questa famiglia: ma in compenso
l’amavano e veneravano i soldati, la rispettavano e la temevano i
sudditi del vasto impero. Senonchè, se il supremo potere doveva restare
nella famiglia, occorreva ci fosse in quella una certa abbondanza di
maschi, tra cui scegliere. Claudio era vecchio; e di maschi non c’era
che Britannico, il figlio di Messalina, che aveva 9 anni. Il figlio
di Agrippina ne aveva, nel 50, 13: era un fanciullo anch’egli, sebbene
più anziano: e se Claudio morisse in quel momento non ci sarebbe stato
nella famiglia un successore possibile. Ma, insomma, nella speranza
che Claudio avesse ancora molti anni di vita, era prudenza preparare
all’impero, dandogli quel nome così illustre e così venerato, anche il
figlio di Domizio Enobarbo. Non aveva Augusto preparato insieme prima
Druso e Tiberio, poi Germanico e Druso, il figlio di Tiberio? Appunto
perchè la carica non era ereditaria, occorreva lasciare al senato una
certa libertà di scelta; e fronteggiare anche i capricci del destino. E
se Britannico fosse morto giovane, come Druso o come Germanico?

Ma i nemici di Agrippina non l’intesero così. Agrippina introduceva
il figlio nella famiglia per odio e gelosia di Britannico. Agrippina
pensava così poco a perseguitare la discendenza di Messalina, che
fidanzò il suo figlio con Ottavia, la figlia di Messalina e di Claudio,
che era una fanciulla dabbene e allevata severamente secondo gli
antichi principî. Ma non importa: si disse che Agrippina sequestrava
Britannico, gli impediva di vedere il padre, intralciava la sua
educazione; pare anche si cercasse di circuire il giovinetto e di
aizzarlo contro Nerone e contro Agrippina; di ricominciare insomma,
ancora una volta, a seminare la discordia tra i membri della famiglia
imperiale. Si tentò pure di seminare zizzania tra Claudio e Agrippina.
Una imperatrice era presso che invulnerabile. Messalina aveva potuto
ordire una vasta congiura e arrivar quasi all’esecuzione, prima che
alcuno osasse accusarla presso l’imperatore. Non si poteva dunque
neppure immaginare di tentar qualche insidia contro Agrippina, che
godeva anche di molta popolarità. Tuttavia sottovoce, cautamente, si
mettevano in giro delle voci sinistre che dovevano screditarla; essa
era l’amante, chi diceva di Pallante e chi di Seneca; era insaziabile
d’oro, superba, prepotente, vendicativa; tiranneggiava Claudio, lo
aveva isolato; guai alle donne giovani e belle, che tentassero di
avvicinarsi!

Ciò non ostante il governo di Claudio, seguendo il suo curioso destino,
si reggeva e operava, debole, insidiato, diffamato; ma si reggeva e
operava. Quando, nella notte del 12 al 13 ottobre del 54, Claudio morì
all’improvviso, ucciso da un male repentino. Questa morte subitanea
di Claudio generò effetti così gravi, che occorre studiare a fondo le
dicerie, i racconti e le leggende a cui diede origine.


NOTE AL CAPITOLO UNDICESIMO.

[60] TAC., _Ann._ I, 41. Ma altri diceva a Tivoli o ad Anzio: cfr.
SVET. CAL., 8.

[61] HENSEN, _Acta fratrum Arvalium_, p. XLIII, 10; _C. I. L._, VI, 1,
2028, p. 467.

[62] Cfr. COHEN, _Monnaies_ I^2, n. 5, 13 e 24.

[63] Su questa interpretazione del governo di Caligola, cfr. G.
FERRERO, _The Women of the Caesars_, New-York, 1911, p. 212 sg.

[64] Di questa impresa gli antichi ci hanno trasmesso un racconto, che
è una caricatura troppo assurda, per poter essere presa sul serio. Cfr.
SVET., _Cal._, 46. Se quel racconto fosse esatto, ancor più pazzi del
principe avrebbero dovuto essere coloro che gli ubbidivano.

[65] Cfr. STRAB., 2, 5, 8; TAC., _Agr._, 13.

[66] Cfr. _C. I. L._, III, 2019; 2837; 6417; 8740; V, 5050, l. 31; IX,
4684; O. SEECK, in _Rh. Museum_, 1893, p. 611-12; 617.

[67] Circa il testo del discorso che il principe tenne allora in
senato, cfr. DESSAU, _I. L. S._ 212; _C. I. L._ XIII., 1668; TAC.,
_Ann._, 11, 24.

[68] Cfr. TAC., _Ann._, 11, 25; 12, 52; e _C. I. L._ III, 6074; XIV,
3607.

[69] SVET. _Claud._, 26 e 29.

[70] SILVAGNI, _L’impero e le donne dei Cesari_, Torino, 1909, p. 338
sg.

[71] SVET. _Claud._, 29; .... _inductus, quasi de industria
simularetur, ad avertendum transferendumque periculum, quod imminere
ipsi per quaedam ostenta portenderetur_.

[72] Che in fondo a questo matrimonio si nascondesse una congiura
politica, per mutare l’imperatore, si intravede anche nel racconto,
così romanzesco, di TACITO. Cfr. _Ann._, 11, 26: _se [Silium] caelibem,
orbum, nuptiis et adoptando Britannico paratum: mansuram eandem
Messalinae potentiam, addita securitate_...; 11, 30: _ni propere agis,
tenet urbem maritus..._; 11, 31: _satis constat eo pavore effusum
Claudium, ut identidem interrogaret: an ipse imperii potens? an Silius
privatus esset?_



CAPITOLO DODICESIMO

NERONE


76. =La leggenda dell’avvelenamento di Claudio e l’elezione di Nerone
(13 Ottobre 54)=. — Tacito racconta che Agrippina, inquieta perchè
Claudio mostrava da qualche tempo di prediligere Britannico, lo
avvelenò, mescolando veleno ad un piatto di funghi. Ma Claudio, pur
soffrendo, non moriva: essa allora avrebbe fatto chiamare il medico di
Claudio, Senofonte, il quale, fingendo di curarlo, avrebbe cosparso la
gola del malato di un veleno mortale[73].

Questo racconto è così strano, che Tacito stesso, quando giunge a
narrare del medico, ha cura di mettere al riparo la propria buona fede
con un _creditur_. Ma se l’episodio del medico non è sicuro, che resta
di tutto il racconto? Si aggiunga che Tacito stesso afferma come da
parecchio tempo Claudio fosse ammalato, anzi in cura a Sinuessa. Non è
allora più semplice supporne che il vecchio imperatore, già ammalato,
soccombesse improvvisamente al suo male? Tanto più che il motivo del
delitto supposto da Tacito non regge. Che Claudio preferisse il figlio
suo, Britannico, al figliastro Nerone, è naturale. Ma che pericolo era
allora per Agrippina questo amore, anche se essa desiderava che suo
figlio e non Britannico succedesse a Claudio? Avrebbe, anzi, dovuto
desiderare ardentemente, che Claudio vivesse ancora parecchi anni,
Nerone non aveva ancora 17 anni: era quindi troppo giovane, perchè si
potesse già pensare a chiedere per lui quel consentimento del senato,
che era pur necessario alla sua nomina.

Nè più verosimili sono gli intrighi che Agrippina avrebbe fatti,
secondo Tacito, nella notte in cui Claudio morì, per impedire
l’elezione di Britannico a profitto di Nerone. Basti dire — ma nessuno
storico ha pensato a questa circostanza — che Britannico aveva allora
soltanto 12 anni! Britannico era già escluso dalla età. Non si poteva
mettere a capo delle legioni e dell’impero un ragazzo dodicenne.
Invece, quando si tenga presente la età di Britannico e di Nerone,
e se si ammetta che Claudio morì di morte naturale, è possibile
argomentare ciò che avvenne. Britannico e Nerone erano i due soli
maschi della famiglia di Augusto: morendo Claudio, quando il più
adulto, Nerone, aveva soltanto 17 anni, non sarebbe necessario cercare
il successore in un’altra famiglia, come già dopo la morte di Caligola
era stato tentato? Si poteva proporre al senato e imporre alle legioni
un giovinetto, inesperto e timido come Nerone, che era ancora agli
studi? Ma che il successore fosse cercato in un’altra famiglia non
poteva piacer molto — e se ne intende facilmente la ragione — nè ad
Agrippina nè ai liberti, i quali si erano fatti così ricchi e potenti,
con il favore di Claudio. Il trapasso, inoltre, poteva presentare dei
pericoli.... Non c’era dunque che uno scampo: affrontare il senato e
chiedergli di mettere al capo dell’impero e dell’esercito, badando più
al nome che all’età, Nerone.

Par verosimile che queste perplessità angustiassero Agrippina e
i suoi amici, nelle ore che precedettero e seguirono la morte di
Claudio. Le due alternative erano egualmente pericolose. E prevalse
il partito di tentare la sorte con la candidatura di Nerone. Il passo
era audace; perchè c’era da aspettarsi un contrasto fortissimo, se il
senato deliberasse liberamente: onde fu stabilito di ricorrere, per
vincere le esitanze e come si era fatto nell’elezione di Claudio, ai
soldati. Nella notte infatti, per mezzo di Seneca e del comandante
della guardia, Afranio Burro, le coorti pretoriane furono avvertite e
preparate: il gran nome di Nerone — poichè allora era ancora il nome
più illustre e venerato della storia di Roma — i ricordi di Druso e
di Germanico fecero il solito effetto sui soldati; nella mattina del
13, le porte del palazzo imperiale si aprirono, e Nerone, accompagnato
da Afranio e da Burro, si presentò alla coorte di guardia. Questa la
acclamò, lo mise in una lettiga, lo portò al campo dei pretoriani, che
a loro volta lo acclamarono capo. Di lì a poco il senato fu convocato;
e ricevette la notizia ufficiale della morte di Claudio, quando già i
soldati avevano indicato il loro successore. Che fare? Di mala voglia
e brontolando, il senato ratificò la scelta; ma i senatori se ne
andarono a casa, scuotendo tristamente il capo. L’impero affidato a un
ragazzo! Dove si finirebbe di questo passo? A che era ridotta la grande
repubblica di Scipione, di Paolo Emilio, di Silla!


77. =Agrippina e la restaurazione della repubblica.= — Senonchè, subito
dopo i funerali di Claudio, una lieta sorpresa venne a confortare
gli afflitti spiriti dei senatori. Nerone si presentò al senato; e
pronunciò un discorso modesto e forbito, in cui, scusandosi della sua
giovinezza ed inesperienza, chiedeva al senato di volerlo assistere
con l’opera e il consiglio; e dichiarava perciò di rimettere di
nuovo al senato tutti i poteri civili, giudiziari e amministrativi
esercitati dai suoi predecessori, ritenendo egli solo il comando
delle legioni[74]. In altre parole, egli compiva quella quasi totale
restaurazione della repubblica, che i malcontenti del senato da tanti
anni reclamavano; restituiva al senato, tranne i poteri militari,
tutti i poteri, che il senato aveva avuti nei tempi più floridi della
repubblica.

Agrippina e i suoi amici cercavano sagacemente di mitigare nel senato,
con questa concessione, il rancore e malcontento per l’elezione di quel
fanciullo, e per la violenza usatagli dai pretoriani. Un fanciullo di
17 anni non poteva governare, massime nei primi anni, quando dovrebbe
fare il suo tirocinio, senza la benevolenza e l’aiuto del senato. La
mossa abile riuscì. Il senato smise il broncio; e i primi due anni
del nuovo governo furono assai felici. Nerone mantenne la sua parola;
lasciò il senato esercitare liberamente i suoi uffici, mentre egli
si occupava degli eserciti, seguendo i consigli di Seneca, di Burro e
della madre: esempio di moderazione e di modestia, che parve mirabile
in sè e più per la giovane età di chi lo dava.

Ma era una illusione. I contemporanei scambiavano per moderazione e
modestia la pigrizia e l’indifferenza. Le autocrazie sembrano a volte
prese dal bisogno di rinnegare se stesse in certi spiriti ribelli, i
quali vogliono far tutto ciò che la tradizione vieta e non far nulla
di quello che essa impone. Nerone era uno di questi rampolli ribelli di
una antica stirpe; la cui figura e la cui sorte resteranno un mistero,
sinchè non si tenga ben fermo questo punto. Egli lasciava volentieri
al senato la cura di molte pubbliche faccende, non per ossequio alla
costituzione, ma perchè la guerra, il diritto, amministrazione — tutti
gli uffici che la tradizione indicava come i più degni di un nobile
romano — lo annoiavano. Egli amava invece le arti — le arti belle, la
poesia, la musica, il canto, la danza — ben oltre la misura concessa
dalla tradizione ad un nobile romano; e a coltivare queste arti, a
studiar musica e canti, attendeva con zelo maggiore che ad apprendere
la guerra e il governo. Non è difficile argomentare per qual ragione
Nerone venne presto in discordia con la madre. Ligia alla tradizione,
Agrippina avrebbe voluto che Nerone si occupasse di armi e di leggi, e
non di canti e di suoni. Cosicchè se tutti — senato e popolo — erano
in Roma contenti di Nerone, non andò molto invece che incominciò a
non esserne più contenta proprio Agrippina. La ricchezza, il potere,
le adulazioni fomentarono rapidamente nel giovane le sue naturali
inclinazioni, restate sino ad allora nascoste: onde Agrippina vide
ben presto qual figlio, a cui essa aveva con tanta fede impartito una
rude educazione romana, trasformarsi in un effeminato damerino, vago
solo di sollazzi e incline a un capriccioso esotismo! Agrippina cercò
di correggerlo. Ma non si governa un imperatore come un figlio. Ne
nacquero dei dissapori, che circa un anno dopo la elezione, proruppero,
per un incidente, ad aperta discordia.


78. =Prime discordie di famiglia: la morte di Britannico (55).= —
Nerone aveva sposata, come dicemmo, Ottavia, che era una perfetta
matrona romana. Senonchè Nerone non tardò a mostrare le sue
inclinazioni esotiche anche nell’amore; invaghendosi di una bella
liberta orientale di nome Acte, e così perdutamente, che per un
momento pensò di ripudiare Ottavia e di mettere al suo posto Acte.
Era una pazzia: per la _lex de maritandis ordinibus_, i matrimoni tra
senatori e liberte non erano riconosciuti dalla legge. Agrippina si
oppose al ripudio di Ottavia e riuscì ad impedirlo: ma Nerone a sua
volta trascurò Ottavia e visse con Acte pubblicamente come fosse la
sua sposa, non ostante le proteste di Agrippina. Di nuovo, e per un
capriccio d’amore questa volta, la discordia era entrata nella casa
dei Cesari; e come era sempre successo da Augusto in poi, quando nella
famiglia imperiale era scoppiato un dissidio, non mancò neppur questa
volta chi cercò di approfittarne, invelenendolo. Agrippina, come
abbiamo visto, aveva molti nemici. Intorno a Nerone incominciò dunque a
raccogliersi una cricca che, lusingandone la vanità e compiacendone le
passioni, mirava a irritarlo contro la madre e a rovesciare, per mano
sua, la detestata potenza di questa.

Intanto il senato, a cui Nerone aveva restituito i suoi poteri,
aveva ricominciato a governare l’impero: ma quanto debole era la
sua mano! L’assemblea era invecchiata; mancava di capi autorevoli;
mancava di alacrità e di energia. L’autorità di un _princeps_ savio
e forte era ormai necessaria a uno Stato, che senza quella peccava
sempre o per eccesso o per difetto. Nerone invece non pensava che a
divertirsi, a imparar bene la musica e il canto. Agrippina però era
una donna energica; un partito piccolo ma potente, composto, ci dice
Tacito, delle famiglie più antiche dell’aristocrazia, era con lei:
poichè Nerone si ribellava, trascurava i suoi doveri, si distaccava
dai suoi, Agrippina si accostò a Britannico, all’altro maschio della
famiglia, verso il quale si volgevano anche le speranze della nobiltà
più antica e più conservatrice. Ma invano: perchè sul finire del 55,
all’improvviso, Britannico fu colto da malore durante un banchetto;
e poche ore dopo morì. Di veleno propinatogli da Nerone — fu ’detto
subito allora, e ripeterono poi gli storici.

Questa accusa è più credibile di tante altre consimili, che si trovano
negli storici; perchè almeno questa volta si vede chiaro il motivo che
avrebbe spinto Nerone a toglier di mezzo Britannico. Che però l’accusa
sia sicura, non oseremmo dire neppur questa volta, sia perchè delitti
di questa natura sono più facilmente sospettati che perpetrati, sia
perchè certi particolari del racconto possono far nascere dubbi. Certo
è invece che questa voce si diffuse e fu creduta anche da Agrippina;
e quindi, vera o falsa, l’inasprì ancora di più. Per quanto, morto
Britannico, essa non potesse più opporre a Nerone un emulo, Agrippina
non si die’ per vinta; si rivolse alle grandi famiglie; si sforzò di
suscitar in quelle una opposizione che infrenasse Nerone; si agitò
con la consueta energia.... Nerone si spaventò: le tolse le guardie
militari che le erano state assegnate sotto Claudio; la costrinse ad
uscir dal suo palazzo e ad abitare nella casa della nonna, Antonia, la
madre di Germanico; cercò insomma di isolarla. Agrippina a sua volta
resistè.


79. =La politica orientale di Nerone.= — Senonchè se il senato era
inattivo e se Nerone poco si curava dei pubblici affari, intorno
all’imperatore stavano uomini — primi tra costoro Seneca e Burro
— i quali sapevano imprimere alla pubblica cosa quell’impulso, che
avrebbe dovuto procedere dall’imperatore. Ne è prova un vasto piano
di politica orientale, a cui fu dato mano al principio del 55. Gli
ultimi imperatori avevano tenuto d’occhio le province occidentali,
la Gallia, la Germania, la Britannia, e trascurato l’Oriente; dove
di nuovo i Parti si erano fatti avanti, a detrimento della potenza
e del prestigio romano. All’avvento di Nerone, l’Armenia era sotto
il governo di Tiridate, fratello di Vologese, re dei Parti; del che
il pubblico mormorava. Il governo di Nerone — i consiglieri che lo
guidavano — deliberarono perciò di ripigliar subito con mano più
ferma la politica orientale troppo trascurata da Claudio. Poichè il
governatore della Siria, Ummidio Quadrato, aveva fatto cattiva prova,
fu spedito in Oriente con forze considerevoli L. Domizio Corbulone,
che, pochi anni prima s’era illustrato in Germania; e mentre i sovrani
vassalli ricevevano ordine di apprestar contingenti, si iniziavano
trattative con il re dei Parti, perchè sgombrasse l’Armenia. Sorpreso
impreparato da queste minaccie, nel 55, il re dei Parti sembrò
cedere, chiese pace, diede ostaggi ai Romani. Ma Tiridate non lasciò
l’Armenia. D’altra parte, se le truppe che Corbulone aveva trovate in
Siria, erano sufficienti per una dimostrazione militare, non bastavano
ad una guerra. Per questa occorreva restaurare la disciplina nelle
legioni ammollite dall’Oriente e dalla pace; aumentarne gli effettivi,
rifornirle di armi e trasportare in Asia qualcuna delle agguerrite
legioni dell’Occidente. Prevedendo che l’accordo del 55 sarebbe solo
una tregua e volendo definire in modo stabile le cose d’Oriente, gli
uomini che governavano in nome di Nerone, mentre costui veniva in
discordia con la madre, diedero a Corbulone i mezzi per riorganizzare
le legioni d’Oriente.


80. =Poppea Sabina e l’assassinio di Agrippina (marzo del 59).= — Così
tra il 56 e il 58, mentre in Roma, intorno a Nerone e ad Agrippina
discordi, si raggruppano i due partiti che da Augusto in poi avevano
turbato la repubblica — il partito della giovane nobiltà e il partito
tradizionalista — si preparava in Oriente un forte esercito. Pur
troppo però la lotta tra il figlio e la madre diventò mortale, a
partire dall’anno 58, ossia dopochè Nerone, dimenticata Acte, si
innamorò di Poppea Sabina. Poppea apparteneva ad una ricca e cospicua
famiglia romana: era bellissima, colta, piacevole, e come suo marito
Otone, apparteneva alla nobiltà che ammirava ed imitava i modi e
costumi dell’Oriente. Suo marito era il più famoso tra tutti i giovani
aristocratici di Roma per la eleganza e per il lusso[75]. È facile
imaginare quel che successe, quando Nerone si fu innamorato di Poppea.
Essa capì che il giovane imperatore smaniava di darsi tutto a quella
vita di lusso e di piaceri in cui essa viveva; ma che l’impacciavano
i resti della sua rude educazione romana, la soggezione che ancor
gli incuteva Agrippina, e la vecchia aristocrazia in mezzo a cui era
cresciuto e viveva. Incominciò quindi a stuzzicarlo, canzonandolo per
la ineleganza dei suoi modi, delle sue vesti, delle sue feste, delle
sue case; citandogli l’esempio di suo marito. Nerone si accese di un
amore sempre più vivo per Poppea, che lo spingeva là dove egli voleva
andare; e per esser più libero con lei, spedì Otone in Lusitania con
una missione onorifica. Rimasta sola a Roma con Nerone, e vedendo il
suo potere sull’imperatore crescer continuamente, Poppea concepì alla
fine un piano ardito: farsi sposare da lui, dopo aver divorziato da
Otone. Nerone mutò a vista d’occhio d’abitudini, modi e propositi;
non vide più Agrippina che rare volte, appena pochi istanti e alla
presenza di terzi; mostrò perfino, egli che sino ad allora era stato
così indifferente alla politica, una improvvisa smania di lasciar una
sua orma nelle pubbliche cose. Un bel giorno si presentò al senato
e propose nientedimeno che di abolire in tutto l’impero tutti i
_vectigalia_, cioè tutte le imposte indirette. I _vectigalia_ pesavano
assai sulle classi minute, e sul piccolo commercio; non si poteva
dunque imaginare proposta più popolare. Ma i senatori allibirono a
sentirla: perchè, se approvata, l’impero avrebbe fatto bancarotta!
Si ragionò molto, in senato, di questa proposta; e Nerone si persuase
alla fine a desistere; ma pur tuttavia volle fare qualche cosa a favore
del popolo, togliendo via, per mezzo di un _edictum_, molti abusi che
rendevano più gravosa al popolo l’esazione di molti _vectigalia_ ed
esentando dai _vectigalia_ i soldati[76].

Poppea non fu forse estranea a questo improvviso amore del principe
per il popolo. Nerone sempre più inclinava all’idea di sposarla: ma
per sposarla doveva ripudiare Ottavia. Ora l’opinione pubblica non
avrebbe lasciato senza scandalo e proteste ripudiare Ottavia, che era
un esempio di virtù romane, per sposare una donna frivola, leggiera,
prodiga come Poppea. Per la forza che ancora conservavano, se non
nella vita dei singoli, nell’opinione comune del pubblico i principî
del puritanismo tradizionale, un simile divorzio era un passo ardito
e pericoloso. Bisognava adunque che Nerone si preparasse a farlo,
rendendosi caro e accetto ai soldati, al popolo, alle masse. Senonchè
Nerone e Poppea non tardarono ad accorgersi che un altro ostacolo si
presentava: Agrippina. Agrippina aveva fatto il matrimonio di Nerone
e di Ottavia; Agrippina proteggeva Ottavia; Agrippina aveva dichiarato
che, lei viva, Nerone non ripudierebbe Ottavia.

E Agrippina aveva ancora volontà, potere e prestigio quanto bastava
per incutere terrore al figlio, in una questione in cui aveva dalla
sua l’opinione pubblica. Nerone poi era pauroso, debole, incerto. Non
è quindi meraviglia se egli si spaventasse di questa opposizione della
madre; ed esitasse. Che cosa successe allora? Noi siamo qui al punto
mortale della vita di Nerone: quando il giovane imperatore fa il passo
irrevocabile sulla via, che doveva condurlo alla rovina e all’infamia.
Poppea esercitò tutte le seduzioni per persuaderlo al matricidio? Fu
l’opera di Poppea aiutata dai molti nemici, che Agrippina aveva in Roma
e nella casa imperiale? Nerone stesso si persuase alla fine che solo
ove la madre mancasse, egli potrebbe godersi liberamente l’impero, nel
quale sempre più vedeva uno strumento di piacere e di lusso? Noi non
possiamo rispondere sicuramente a questi quesiti. Certo è invece che
nel 59 Nerone si indusse a far uccidere la madre, dopochè il comandante
della flotta, il liberto Aniceto, gli ebbe preparato un progetto,
che doveva assicurare il segreto. Nerone non era così stolto da non
sapere che neppure ad un imperatore era lecito, in Roma, macchiarsi
impunemente le mani con il sangue della madre. Perciò Aniceto aveva
pensato di fabbricare una nave con una botola segreta: se a Nerone
riuscisse di far salire la madre su quella nave, dei marinai fidati
potrebbero in mezzo al mare calarla a fondo e seppellire nelle acque
Agrippina e il segreto della sua morte.

Il racconto, con cui Tacito ha descritto questo famoso assassinio,
è troppo noto, perchè occorra ripeterlo a lungo. Nella primavera
del 59 Nerone, che era a Baia, finse di voler riconciliarsi con la
madre; l’invitò da Anzio, ove si trovava, alla sua villa; la accolse
con rispetto e tenerezza. Quando Agrippina, lieta e riconfortata,
si accinse a ritornare sulla nave preparata da Aniceto, Nerone
l’accompagnò a bordo, abbracciandola teneramente.... E la nave partì,
in una bella sera di primavera, con un mare placido e tranquillo che
non minacciava naufragi. Agrippina, stesa sopra un letto, si godeva la
bella sera. Ma quando i marinai aprirono la botola, fosse difetto del
congegno o imperizia e trepidazione dei sicari, la nave non affondò
così presto come si era creduto; piegò invece da un lato; e Agrippina
ebbe il tempo di gettarsi in mare mentre i sicari, nella confusione,
uccidevano una sua compagna di viaggio, credendo di uccidere lei.
Ma all’alba, poco dopo che i sicari avevano portato a Nerone la
notizia che Agrippina era sparita in fondo al mare, giunse alla villa
dell’imperatore un liberto di Agrippina, ad annunciare a Nerone che la
nave, per un accidente, aveva fatto naufragio, ma che essa aveva potuto
salvarsi a nuoto, raggiunger la costa e quindi una sua villa vicina.
Agrippina aveva certamente capito la vera ragione di quello strano
naufragio in piena calma, ma faceva le viste di non aver capito, il
che era l’ultimo ed unico scampo. Che cosa poteva essa fare, contro un
principe, che non indietreggiava neppur innanzi al matricidio?

Ma Nerone invece sbigottì; temè che Agrippina correrebbe a sollevare
le legioni, denunciando il delitto. Che cosa accadrebbe, quando queste
sapessero che egli aveva tentato di trucidare la figlia di Germanico?
Fuori di sè per lo spavento, Nerone mandò a chiamare Seneca e Burro,
che certo non avevan saputo nulla dell’infame progetto, e raccontata
tutta la verità, chiese loro consiglio ed aiuto. Pare, almeno se Tacito
non ha messo del suo troppo colore nel descrivere questo episodio, che
dapprima i due consiglieri non sapessero che consigliare: poi Seneca
avrebbe chiesto a Burro che cosa succederebbe se si ordinasse ai
pretoriani di compiere l’opera incominciata: avrebbe dato, con mezze
parole e in forma di domanda, il consiglio di far uccidere Agrippina.
Ma Burro, che non voleva prendersi una tal responsabilità avrebbe
risposto subito che i pretoriani non avrebbero mai uccisa la figlia
di Germanico. Poi aggiunse che, se si veniva a tale idea, Aniceto e
i marinai della flotta potevano forse, poichè ci avevano posto mano,
condurre a termine l’impresa.... Anche egli dava lo stesso consiglio
di Seneca, ma con mezze parole e lasciando la responsabilità a Nerone.
Nerone mandò a chiamare Aniceto, lo supplicò di salvarlo e di ridargli
una seconda volta l’impero. E Aniceto che, se Agrippina viveva, correva
il rischio di pagare il fio di tutto questo sanguinoso imbroglio,
non esitò. Con un manipolo di marinai corse alla villa di Agrippina e
l’uccise.


81. =La guerra armeno-partica (58-60).= — L’irrevocabile era compiuto.
Ma la morte di Agrippina era tale avvenimento, che non si poteva
pensare di nasconderla. Bisognava dunque raccontarla in modo da
sviare i sospetti. Nerone e i suoi consiglieri spedirono al senato
una relazione, secondo la quale Agrippina, scoperta ad ordire una
congiura contro l’imperatore, si sarebbe uccisa. Ma Agrippina aveva
amici fedeli; ma in questa versione la congiura e il suicidio eran
stati collegati troppo goffamente con quello straordinario naufragio,
a cui nel racconto era pur stato necessario di alludere, perchè ormai
tutti ne avevano avuto notizia. La versione ufficiale non fu creduta;
delle dicerie strane non tardarono a circolare; e in mezzo a molti
particolari fantastici il pubblico indovinò il vero. Un improvviso
orrore agghiacciò Roma e l’Italia. Certo il popolo di Roma e d’Italia
si era molto corrotto: ma non al punto, da non sentir ribrezzo di un
matricidio, amiche se commesso da un imperatore. Nerone si spaventò,
rimandò a miglior tempo il divorzio e il matrimonio con Poppea; e per
parecchi mesi non osò tornare a Roma.

Ma non successe nulla. L’orrore che il pubblico aveva sentito non si
manifestò con nessun atto irreparabile; le legioni non si mossero; il
senato finse di creder al racconto ufficiale della morte di Agrippina.
Se Agrippina, che negli ultimi suoi anni era stata tanto odiata,
diveniva ora l’oggetto della commiserazione universale, Roma non seppe
andare oltre il rimpianto sterile. Le notizie dell’Oriente aiutarono
Nerone a superare il primo sdegno, che era il più pericoloso. Nella
primavera del 58, come abbiamo visto, Corbulone aveva iniziato la
riconquista dell’Armenia. Suscitandogli difficoltà interne, il generale
romano era riuscito a impedire al Re dei Parti di soccorrere Tiridate.
Ma non per questo l’impresa dell’Armenia gli era riuscita facile.
Al numeroso esercito romano Tiridate aveva saputo opporre un’agile e
implacabile guerriglia, costringendo così l’avversario a suddividere
le sue forze. Alla fine del 58 Corbulone era riuscito ad occupare e ad
incendiare Artaxata, ma non a distruggere le forze di Tiridate, che
ricomparve nella primavera successiva a ostacolare la nuova avanzata
di Corbulone da Artaxata a Tigranocerta. Di nuovo la guerriglia
ricominciò. Tuttavia, e sia pure a prezzo di grandi sofferenze,
l’esercito romano riuscì, nell’autunno del 59, a occupare Tigranocerta;
e poco dopo Corbulone metteva sul trono dell’Armenia Tigrane,
discendente di Erode il grande e del re Archelao, che da lungo tempo
viveva in Roma. Parte dei territori furono dati invece a Farasmane re
degli Iberi, a Polemone re del Ponto, ad Aristobulo re dell’Armenia
minore e ad Antioco re della Commagene[77].


82. =La insurrezione della Britannia (60).= — Le notizie di questa
guerra e di queste vittorie suscitarono a Roma un gran giubilo. Da
Augusto in poi non si era compiuta in Oriente un’impresa così felice;
i tempi del grande Pompeo sembravano tornati; feste ed onori a Nerone
furono decretati senza parsimonia, come se gli affari dell’Oriente
fossero stati assestati per sempre e non soltanto per pochi mesi. Ma
insomma quella gioia, anche se passeggera, giovava a Nerone; e non
valsero a turbarla le notizie meno liete, che di lì a poco giunsero
dalla Britannia. Mentre il governatore, Svetonio Paolino, il miglior
generale dell’impero dopo Corbulone, attendeva ad allargare le
conquiste romane nella parte occidentale dell’isola, e a impadronirsi
dell’isoletta di Mona (Anglesey), venerato santuario del druidismo,
tutta la provincia romana gli insorgeva alle spalle (anno 60). Le
imposte, le leve, l’affluire dei mercanti italiani, le perturbazioni
della conquista, avevano provocato questa prima rappresaglia. Rivolta
grossa, che Svetonio Paolino potè padroneggiare nel corso dell’anno
soltanto con rapide e vigorose mosse.


83. =Nerone e l’orientalismo: crescenti eccessi (60-62).= — Intanto
a Roma Nerone, ormai non più in soggezione della madre, rassicurato
dall’oblio che scendeva sul suo misfatto, faceva un più ardito passo
nelle vie dell’orientalismo. La inclinazione personale e la ragione
politica lo spingevano insieme su questa via. Egli voleva aiutare il
pubblico a dimenticare Agrippina, dando a Roma e all’Italia il governo
facile, splendido, generoso, che corrispondeva alle aspirazioni delle
classi più numerose e meno ricche. Nel 60 istituì in Roma, a carico
dello Stato, i giuochi Neroniani, qualcosa come gli antichi _Ludi
Olimpici_, da celebrarsi, come questi, di cinque in cinque anni, nei
quali, così pare almeno, insieme alle gare di atletica e alle corse
dei carri, si tenevano per la prima volta a Roma gare di musica, di
canto, di eloquenza, di poesia. A tutte queste prove partecipava
l’imperatore, accompagnato dal corteggio di quelli, che ora si
dissero i suoi _augustani_, scelti tra i giovani della nobiltà romana
sull’esempio delle Corti ellenistiche dei successori di Alessandro
Magno; ma dovevano anche parteciparvi, e vi parteciparono di fatto,
tutti gli ordini sociali, tutta la «gioventù dorata» della capitale,
mentre l’_élite_ degli spettatori assisteva al grande agone, vestito
alla greca. I _collegia iuvenum_, che Augusto aveva istituiti in Roma e
in Italia, perchè fossero scuole di civismo e di religione nazionale,
diventano per Nerone scuole di giochi e di arte alla greca[78].
Nerone profuse il denaro, le largizioni, gli spettacoli; iniziò grandi
lavori in Roma; aprì la sua casa ai giovani più eleganti e dissipati
della nobiltà e volle essere il loro capo e maestro; ogni giorno
erano festini, ora nella casa dell’uno, ora nei giardini dell’altro;
e in quelli gli ultimi discendenti delle famiglie, che avevano
conquistato il mondo, gareggiavano a chi canterebbe o danzerebbe
o guiderebbe meglio un cocchio alla corsa. Non che si trattasse di
cose nuovissime per i Romani. Roma e l’Italia conoscevano da gran
tempo tutto quello, che Nerone voleva ora porre in sommo onore: e
gli sciami interminabili dei domestici, e le mule ferrate d’argento e
d’oro, e i mulattieri vestiti di lana canusina, e i corrieri adorni di
collane e di braccialetti, e le reti d’oro per le partite di pesca,
e i profumi orientali pei bagni, e le mille vetture pei viaggi, e
i mobili intarsiati di madreperla, e le vesti di seta e d’oro, e
le liberalità prodigate ai musici, agli attori, ai gladiatori, e i
banchetti sontuosi e le portate ricchissime, e le case splendenti d’oro
e di marmi, ricche di bronzi e di dipinti, e i laghi prosciugati, e
i mari colmati, e i moniti spianati pel diletto dei grandi. L’ultimo
secolo della repubblica e i primi settant’anni dell’impero avevano
veduto tutti questi splendori. Non mai però quelle inclinazioni e
quei costumi, così sospetti all’Occidente latino, avevano ricevuto
incoraggiamento dall’autorità. Perciò questo primo favore, in quell’età
esitante tra due avviamenti, sortì un grande effetto. Una smania folle
di rinnegare le tradizioni, gli obblighi e i pregiudizi del loro rango,
parve impadronirsi dei giovani nelle grandi famiglie; il saper danzare
fu merito maggiore che il comandare le legioni; Nerone non ebbe più
ritegno alcuno: non aspirò più che a essere ammirato come cantore,
e le glorie della terra gli parvero insipide e piccole a paragone di
quelle della scena. L’esempio di Nerone, insomma, precipitò in Roma,
nelle alte classi, quel rivolgimento dei costumi, che da due secoli
veniva lentamente maturando: la diga delle antiche tradizioni puritane
parve ad un tratto sopraffatta da una marea di lusso, di piaceri, di
dissipazioni, di cui l’imperatore dava l’esempio.


84. =Nuove difficoltà in Oriente: l’accordo definitivo con i Parti per
l’Armenia.= — Ma la tradizione era ancora troppo forte; e non bastava
la volontà di Nerone e quella dei suoi giovani amici per distruggerla
in pochi anni. In alto e in basso, in tutti gli ordini sociali, molti
disapprovavano il nuovo indirizzo e mormoravano. Sono di questi anni,
tra il 60 e il 62, i primi libelli contro l’imperatore e la sua Corte,
e i primi, sia pur blandi, processi di lesa maestà. La morte di Burro,
avvenuta nel 62, guastò maggiormente le cose. Al suo posto era assunto
un uomo, Tigellino, con il quale la storia è stata forse severa, ma
che ad ogni modo fu uomo ligio e fedelissimo a Nerone. La nuova nomina
diceva chiaro che l’imperatore voleva ora governare con uomini suoi e
a modo suo. L’autorità di Seneca infatti declina, e, nella prima metà
di quest’anno medesimo (62), Nerone divorzia, finalmente, da Ottavia,
per sposare Poppea. Siccome però il preferire un’altra donna non
era ancora, per l’opinione pubblica, un motivo adeguato di ripudio,
almeno per un imperatore, si macchinò contro l’infelice un’accusa
di adulterio. Ma ne nacquero agitazioni e tumulti, perchè il popolo
parteggiò apertamente per Ottavia, che era una discendente di Druso,
contro Poppea, che pareva un’intrusa. Nerone, aizzato da Poppea, tenne
duro; Ottavia fu condannata all’esilio e poi uccisa; Poppea ne prese il
posto: ma il popolo conservò di Ottavia un vivo e affettuoso ricordo,
che doveva servire ai nemici di Nerone, ogni giorno più numerosi.

Mentre il governo di Nerone si faceva a Roma odiare ed amare, lodare
e biasimare, grossi avvenimenti accadevano nelle province. I lauri
di Armenia appassivano di già. Nel 61 il re dei Parti tentava la
rivincita. Alleatosi con il re dell’Adiabene, spediva costui, con
una parte del suo esercito, ad invadere l’Armenia, mentre egli si
disponeva ad attaccare la Siria, ripetendo la doppia mossa, che
tante volte i re dei Parti avevano tentata nelle loro guerre contro
Roma. Ma questa volta la mossa sembrò a Corbulone così minacciosa,
che, lasciate a Tigrane solo due legioni, raccolse tutto il resto
dell’esercito in Siria; scrisse a Roma di mandare un esercito con un
nuovo generale in Armenia, poichè egli bastava appena a difendere la
Siria; e aprì negoziati con il re dei Parti per indurlo a sospender la
guerra e a trattare con Roma, lasciandogli capire che sarebbe facile
intendersi. Siccome il re dell’Adiabene aveva fallito in un suo attacco
su Tigranocerta, il re dei Parti accolse il consiglio di Corbulone e
mandò gli ambasciatori. Così la guerra era stata sospesa. Ma a Roma
la prudenza di Corbulone, la sua richiesta di un nuovo esercito per
l’Armenia, le sue trattative con il re dei Parti, erano state assai
male accolte. Come tante volte è successo ai generali prudenti e
assennati, toccò a Corbulone di esser trattato di pauroso e di incapace
da quelli che facevano sicuri e tranquilli la guerra sulle rive del
Tevere. L’ambasciata del re dei Parti fu rimandata senza risposta; e in
Armenia fu spedito un altro generale, come Corbulone aveva consigliato;
ma in persona di un certo Cesennio Peto, che si vantava a gran voce di
voler insegnare a Corbulone la risolutezza e l’audacia. La nomina di
Peto era un biasimo a Corbulone, il quale però fu lasciato in Siria.
Peto arrivò con un esercito in Armenia, a quanto pare, nella seconda
metà del 61; subito si buttò alle offese, mentre Corbulone fortificava
poderosamente l’Eufrate. Ma nella primavera dell’anno seguente, Peto
sembra essersi lasciato sorprendere da poderose forze nemiche, con una
parte delle sue forze, presso Randeia sul fiume Arsaniade, affluente
dell’Eufrate. Dopo aver costretto con una abile finta Corbulone a
raccogliere le maggiori forze sull’Eufrate, i Parti attaccavano in
Armenia. Corbulone accorse in aiuto di Peto, assediato in Randeia:
ma già Peto, prima del suo arrivo, aveva capitolato, impegnandosi
per salvare l’esercito a sgombrare l’Armenia, che tornava dunque
nelle mani dei Parti. Peto avrebbe voluto, a dispetto della promessa,
invadere l’Armenia con le forze unite, le sue e quelle di Corbulone:
ma Corbulone non volle. E siccome il re dei Parti aveva chiesto che
ritirasse i presidi posti al di là dell’Eufrate, ricominciò a trattare
e fu convenuto alla fine che le forze romane si ritirerebbero di qua
dell’Eufrate, e che il re dei Parti sgombrerebbe l’Armenia.

L’Armenia era libera così dall’autorità romana come dalla partica. Ma
invano si cercò di far passare questo accordo come una vittoria di
Roma. Era chiaro che lo sforzo fatto per prendere piede in Armenia
aveva fallito. Nerone consultò tutti i personaggi eminenti, e fu
deliberato di ritentare l’impresa. Peto fu richiamato; Corbulone solo
messo a capo di un forte esercito. Ma Corbulone non mutò stile, e si
servì nel 63 del poderoso esercito affidatogli, come di una minaccia
per venire a trattato. Roma e i Parti essendo egualmente deboli
in Armenia, l’accordo fu conchiuso. Tigrane fu messo in disparte
per sempre; Vologese ottenne quello che già aveva chiesto nel 61,
l’investitura del regno d’Armenia per il proprio fratello Tiridate;
ma il fratello del Gran Re dovette acconsentire a ricevere dalle mani
stesse di Nerone il diadema regale, recandosi a Roma. Un principe
partico sederebbe sul trono d’Armenia come vassallo di Roma: questa la
faticosa transazione.

Intanto la rivolta della Britannia non si era spenta. Lo stesso vigore,
con cui Svetonio la reprimeva, sembrava riattizzarla. Onde era stato
necessario che il principe ordinasse un’inchiesta sul luogo, e poi
finalmente affidasse la provincia ad un nuovo governatore (a. 62). Ma
mentre occorreva spedire in Britannia rinforzi dalla Germania e indire
leve per reintegrare le legioni decimate, sulla linea del Danubio,
l’impero doveva resistere a una interrotta serie di piccoli attacchi
di popolazioni stanziate al di là del fiume, e dar principio a vere e
proprie spedizioni contro Sarmati e contro Sciti[79] che, felicemente
riuscendo, avrebbero fatto pensare ad una grande spedizione caucasica.


85. =L’incendio di Roma (luglio 64).= — Frattanto a Roma Nerone pareva
compiacersi a sfidare sempre più audacemente quella parte dell’opinione
pubblica, che era più fedele alla tradizione. Fu in questo tempo,
nell’anno 64, che Nerone comparve sul teatro di Napoli, dinanzi a un
vero pubblico, e cantò: la maggiore follia, forse, commessa da lui,
dopo l’assassinio della madre. Non per caso egli aveva scelto Napoli,
che era allora una città greca. Ma è facile imaginare come trasalirono
l’Italia e Roma! La scena era per i Romani una professione infame,
per quanto necessaria al piacere degli uomini: che un Claudio, che il
discendente della più antica e illustre famiglia della nobiltà romana,
che il capo dell’impero avesse voluto comparire in un teatro, in veste
di istrione, a sollecitare l’applauso di un pubblico di Greci, era
uno scandalo, per un verso peggiore anche di un delitto! Perchè un
delitto poteva incutere orrore, e questo atto suscitava invece riso e
disprezzo. Ora per gli uomini che devono comandare ai loro simili, è
bene che non ispirino nè orrore, nè riso, nè disprezzo; ma tra i due
mali, è meglio che ispirino orrore, anzichè riso e disprezzo.

Ma di questo capriccio non si videro subito gli effetti, perchè
una grande calamità sopraggiunse di lì a poco a distrarre le menti:
l’incendio di Roma, famoso tra tutti nella storia, che nel luglio del
64 devastò per dieci giorni la città, distruggendone quasi interamente
dieci delle quattordici regioni, in cui Augusto aveva diviso la città.
Alla prima notizia, Nerone volò a Roma, ove non potè neanche impedire
la distruzione della propria casa. Ma egli fece tutto quanto era in suo
potere per lenire il danno irreparabile. Aperse agli abitanti, rimasti
senza tetto, gli edifizi pubblici e i suoi stessi giardini; fece venire
dai municipi vicini tutto il necessario perchè essi fossero alla meno
peggio riparati ed equipaggiati; adottò provvedimenti per risparmiare
agli afflitti dal fuoco il secondo flagello di una carestia.

Ma tutto lo zelo dell’imperatore non impedì che in pochi giorni
nascesse e si divulgasse in Roma una strana leggenda. Sulle cause
dell’incendio si sono scritti quanti volumi basterebbero a riempire
una piccola biblioteca, tante sono le congetture che si sono volute
provare o confutare; e con altrettanto ingegno quanto con poco
resultato, perchè non c’è modo di provare nè che Roma sia stata
bruciata da Nerone, nè che le abbiano dato fuoco i Cristiani o gli
amici di Pisone, di cui dovremo tra poco occuparci. D’altra parte
la congettura più semplice e più verosimile sarà sempre quella che
Roma sia bruciata per accidente, come tante altre città. È noto che
città intere bruciano spesso, quando sono ancora per la maggior parte
costruite di legno; e tale era il caso di Roma allora, massime nei
quartieri popolari. D’altra parte è molto più semplice e verosimile
congetturare che, nella stagione calda, un fuoco appiccatosi a
poche case per accidente siasi dilatato e abbia incenerito quartieri
interi, massime se il servizio dei pompieri era manchevole, anzichè il
supporre che un uomo o una setta abbiano imaginato lo straordinario
piano di far di una città intera un bel falò e che siano riesciti ad
eseguirlo! Ma gli uomini, quando sono oppressi da una grande sventura,
vogliono sempre attribuirla alla malizia dei loro simili: la carestia,
agli incettatori; l’epidemia, agli avvelenatori; la sconfitta, al
tradimento. Così allora il popolo si persuase che Roma era stata
malignamente incendiata: ma da chi? Non bisogna dimenticare che Nerone,
con i suoi eccessi, con le sue prodigalità, con i suoi delitti, con il
suo governo molle e generoso, attirava e spaventava nel tempo stesso
l’anima popolare. Non è meraviglia che l’incendio di Roma sembrasse
alle masse una punizione divina per i piaceri inconsueti ed illeciti,
che da due lustri il principe e il popolo insieme godevano. Da questo
scrupolo a credere al primo malintenzionato, il quale assicurasse che
Roma era perita per volontà del principe, il passo era corto. In breve
si sparse la voce che Roma era stata incendiata per ordine di Nerone;
e per quanto la voce fosse assurda — Tacito stesso lo riconosce — fu
creduta da molti.


86. =I Cristiani e la «prima persecuzione».= — Che l’incendio fosse
opera maliziosa era persuasione così generale, che l’autorità dovè
procedere ad una inchiesta, per trovare i colpevoli. E l’inchiesta
conchiuse, attribuendo la responsabilità della catastrofe a una setta
religiosa, il cui nome fu pubblicamente pronunciato per la prima volta
in questa occasione, e che doveva diventare poi ben altrimenti famoso:
i Cristiani. Questa setta era nata circa quarant’anni prima in Giudea,
nel seno del giudaismo. Da secoli gli Israeliti attendevano che Dio
inviasse loro il Messia, il quale riscattasse il popolo dalla servitù
e lo riconducesse alla pristina gloria ed indipendenza; che lo facesse
anzi, come premio della legge divina osservata, il popolo eletto
sulla terra. Ma negli ultimi lustri della seconda metà dell’ottavo
secolo, dopochè Roma era stata fondata, nei borghi e nella cittadina
della Giudea il Messia era apparso, dichiarandosi figliuolo di Dio,
ad annunciare non già la risurrezione nazionale, ma la prossima
palingenesi del mondo, il prossimo avvento del regno di Dio. Al gran
giorno, il Messia apparirebbe sulle nuvole, circondato di angeli;
i suoi discepoli sederebbero intorno a lui su dei troni; i morti
risusciterebbero al grande giudizio; i buoni, gli eletti, vestiti di
luce, si sederebbero all’eterno festino preparato da Abramo; i reprobi
andrebbero alle Gehenne. All’imminente regno di Dio gli uomini dovevano
prepararsi ascoltando il Messia; liberando la religione da tutte le
forme e i vincoli esteriori, di cui il giudaismo l’aveva impastoiata,
praticando una morale di una sublime altezza e purezza. Suprema legge
delle anime doveva essere l’amore, la fraternità, la pace tra il servo
e il padrone, tra la donna e l’uomo, tra il giudeo e il romano, tra il
cittadino e lo straniero, e l’odio contro quanto negava tutte queste
cose, l’ipocrisia del fariseo, l’avarizia del ricco, l’orgoglio dei
soprastanti. L’odio spirituale, non la violenza della ribellione: chè
il regno di Dio doveva incominciare ad esistere nell’animo degli uomini
convertiti.

L’annunciatore del regno di Dio aveva trovato in Giudea un certo numero
di discepoli devoti: ma l’opera sua era stata presto troncata dalla
persecuzione del Giudaismo decadente. Senonchè, dopo la morte di Gesù,
la nuova setta, perseguitata in Giudea, aveva varcato i confini per
opera dei primi e più fedeli discepoli; si era diffusa a poco a poco
in tutto l’impero, tra i Giudei ed i pagani, moltiplicando in molte
città, grandi e piccole, minuscole comunità di cristiani; all’annuncio
originario del Regno di Dio, della palingenesi e del giudizio degli
uomini, che doveva seguire la apparizione del Messia, aveva sostituito
— e molto ci aveva contribuito un grande uomo convertito alla setta
dopo la morte di Gesù, Paolo di Tarso — la dottrina della redenzione
dell’uomo dal peccato originale e dal male, che il figlio di Dio, Gesù
Cristo, aveva fatta con il suo sangue, immolandosi sulla croce: alla
morale di Gesù, che inculcava soprattutto l’amore e la fratellanza,
aveva aggiunto — e anche questo in parte per opera di Paolo — una
morale che per amor di Cristo domandava agli uomini di vincere le
cattive passioni, che avevano maggiormente guasta e corrotta la società
greco-romana, come la sensualità e la cupidigia. Così la nuova setta
cristiana si era staccata dal giudaismo, di cui aveva abbandonato
anche uno dei riti più antichi e venerati, la circoncisione; e da
trenta anni lentamente si diffondeva nell’impero. Era anche entrata in
Roma, e aveva fatto seguaci, specie tra il popolino: schiavi, liberti,
stranieri d’origine orientale. Forse, anzi, la nuova setta era già così
numerosa al tempo di Claudio, che i Giudei, anch’essi numerosi nella
metropoli, l’avevano molestata[80].

Come l’autorità romana fosse condotta ad accusare questa setta
dell’incendio è un mistero. Può darsi che a molti cristiani i folli
eccessi di Nerone e l’incendio di Roma sembrassero proprio le calamità
dalle quali, secondo Gesù, la palingenesi del mondo e l’avvento del
regno di Dio dovevano essere annunciati. Si aggiunga che tra i pagani
in Roma c’era molta diffidenza per le cerimonie segrete e per i costumi
così singolari dei cristiani; che, peggio ancora, ebrei e cristiani in
Roma, come dappertutto, erano tra loro nemicissimi. Non è inverosimile
che l’indifferenza o anche la gioia dei cristiani per l’incendio, per
quell’inizio, finalmente avveratosi, della palingenesi universale,
fossero senz’altro scambiate per indizio di colpevolezza; che questo
vago sospetto fosse subito raccolto dal principe, il quale aveva
bisogno di un responsabile; e che fosse confermato dalle delazioni
e calunnie degli ebrei e dalle confessioni, che le torture avranno
strappate ai più deboli tra i primi accusati[81]. Così cominciò quella
che fu detta la prima persecuzione cristiana: ma impropriamente,
perchè i cristiani, se furono le vittime della persecuzione, non furono
perseguitati perchè cristiani[82].


87. =La ricostruzione di Roma e la grande crisi finanziaria
dell’impero.= — L’incendio era stato una calamità, ma non irreparabile.
Toccava a Nerone tramutarlo in una iattura peggiore, per l’ambizione
di ricostruire sulle rovine dell’antica, una città di bellezza
insuperabile.

L’incendio di Roma sembra avere offerto alle smanie orientali
dell’imperatore un’occasione nel tempo stesso grandiosa e pericolosa.
La città incenerita era ancora la vecchia città ricostruita
tumultuariamente sulle ruine dell’incendio gallico, cresciuta di
secolo in secolo a caso, rabbellita alla meglio da Agrippa e da
Augusto: nell’insieme una città brutta, in paragone delle grandi
metropoli dell’Oriente. Nerone volle dare all’Impero una capitale,
la cui bellezza e magnificenza fosse pari alla potenza. Il disegno
non era privo di grandezza e di nobiltà: ma per attuarlo rapidamente
occorrevano somme immense; e per aver questo denaro Nerone dovè
ricorrere ai più pericolosi espedienti. La maggior parte delle
improvvisate condanne e confische nei processi di lesa maestà, le
ammende per reati nuovi e bizzarri, tutta la lunga lista delle sanzioni
pecuniarie, che i contemporanei e i posteri attribuirono alla inaudita
ferocia del principe e dei suoi ministri, ebbero la prima ragione
in questo bisogno di danaro. Ma poichè cotesti mezzi non bastavano,
l’impero fu spremuto a sangue. Dai santuari più celebri, dagli edifici
pubblici, dalle case private sono strappate le offerte preziose dei
fedeli, le immagini degli Dei, le statue più pregiate. Le cariche e
gli impieghi pubblici sono di nuovo messi all’asta, e i magistrati, di
nuovo, costretti a rifarsene sui sudditi. Si accrescono le imposte e si
inaspriscono le esazioni. Nemmeno l’Italia va immune da tanto flagello.
Subito dopo l’incendio Nerone ordina una contribuzione generale per
provvedere ai bisogni urgenti della metropoli. Per giunta, in questo
anno incomincia ad alterare le monete, coniandole di minor peso:
l’_aureus_, quasi purissimo, coniato da Augusto, discende, da una media
di gr. 7,64 ad una di gr. 7,34; e il bel denario argenteo dei primi
anni dell’impero è ridotto da gr. 3,90 a 3,40, mentre la sua lega sale
dal 5 al 10%.


88. =La congiura di Pisone (65).= — Queste disgrazie, questi errori
e questi eccessi spiegano a sufficienza come i due anni, seguiti
all’incendio di Roma, siano stati i più difficili del governo di
Nerone; e come nel 65 si tentasse nella aristocrazia una grande
congiura contro l’imperatore. Il suo capo apparteneva a una delle
più aristocratiche famiglie romane, C. Calpurnio Pisone. Con lui
partecipavano al complotto senatori, cavalieri, plebei e repubblicani
puri, ufficiali del pretorio, tra cui addirittura uno dei due prefetti,
il collega di Tigellino, Fenio Rufo; un poeta, come Lucano; perfino
Seneca, l’ex-precettore di Nerone[83]. Par che scopo della congiura
fosse uccidere Nerone ed innalzare all’Impero Pisone. La congiura fu
scoperta per mero caso; e, come è facile intendere, repressa con un
furore spietato. I processi e le condanne durarono tutto l’anno 65
e parte del successivo. Lucano, Seneca, quel C. Petronio che l’arte
contemporanea ha tanto prediletto, un gran numero di senatori e
di ufficiali, caddero vittime. E repressa la congiura, come spesso
succede, Nerone, invece di ravvedersi, fece di peggio: sia che il
potere lo ubbriacasse, sia che la paura lo avesse esasperato, si
abbandonò interamente alla sua natura sfrenata; procedè di eccesso in
eccesso.


89. =Il viaggio di Nerone in Grecia e la rivolta della Giudea.= — Sullo
scorcio del 66 l’imperatore partì alla volta della Grecia, accompagnato
da un nugolo di _Augustani_, di ammiratori, di _claqueurs_, quanti
forse — si disse esagerando — sarebbero stati bastevoli a muovere
contro al gran Re. Nerone intendeva partecipare alle gare dei giochi
periodici della Grecia, che tutte aveva voluto si celebrassero insieme
in un anno solo! I Romani non avevano visto mai un principe avvilire a
quel modo la maestà dell’impero ai piedi dei sudditi orientali. Chè un
principe cantore ed attore era per i romani l’ignominia suprema.

Ma Nerone era appena giunto in Grecia che grossi avvenimenti accaddero
in Giudea. La Giudea era travagliata da una irrequietezza insanabile,
sin dal tempo nel quale, in quest’angusta contrada, si erano incontrati
faccia a faccia l’ellenismo siriaco dei coloni greco-macedoni con le
sue tendenze cosmopolite, col suo scetticismo, col suo materialismo,
con il suo sensualismo, e il mosaismo indigeno, che era nel tempo
stesso la più viva e esclusiva delle religioni orientali: un corpo di
riti e di regole — regole di pietà, di purezza, di condotta pratica —
che avvolgevano, come nella maglia di una corazza, la vita di ciascun
israelita e della comunità tutta intera. Lo spirito esclusivo della
religione aveva rinforzato l’avversione per il governo straniero,
e reciprocamente, come l’aveva provato la monarchia dei Seleucidi,
a cui questa doppia ostilità era stata così funesta. Di questa
discordia incomponibile Roma aveva profittato, per agguantare il
paese; ma impadronitasene, si era trovata alle prese con le stesse
difficoltà, costretta a governare un popolo nel quale la religione
fomentava l’odio della signoria straniera, e quest’odio rinfocolava
il fanatismo religioso. Si aggiunga che Roma aveva dissanguato il
paese con le imposte e che la Giudea era stata invasa da italici e
da greci, i quali, aiutati dal governo, cercavano di arricchire sul
paese. Per tutte queste ragioni l’intransigenza religiosa delle masse
si era esacerbata; di nuovo gli annunzi dell’arrivo prossimo del
Messia, che questa volta avrebbe liberato la Giudea e non stabilito
il regno di Dio, avevano esaltato gli spiriti. Si era formato nel
paese un partito antiromano, così implacabile contro gli stranieri
come contro i tepidi dell’interno, i così detti _Zelanti_ o _Zeloti_,
come allora si denominavano, che avevano inaugurato in Giudea un vero
e proprio terrore, giustificando con la religione e l’amor patrio il
brigantaggio di parecchie popolazioni della Palestina. Da molti anni
la Giudea era insanguinata, nelle città e nelle campagne, da eccidi,
da combattimenti, da assassinî, in cui il fanatismo religioso e l’odio
contro lo straniero avido e prepotente si sfogavano insieme con gli
istinti anarchici, che sonnecchiano nel cuore di tanti uomini e popoli.
Le cose peggiorarono negli anni 65 e 66, quando nacque la difficoltà
dell’amministrazione di Cesarea, che gli ebrei volevano fosse giudaica,
i greci greca; e dopo molti disordini, zuffe, trattative, verso la
metà del 66 la rivolta scoppiò aperta. Alla fine del settembre del 66
la piccola guarnigione romana, rinchiusasi in tre castelli dominanti
Gerusalemme, capitolava ed era trucidata; e l’agitazione dalla Giudea
traboccava in tutta la Siria meridionale, fino all’Egitto, ove nelle
città grandi e piccole gli Ebrei tentarono movimenti rivoluzionari.
Il governatore della Siria, Cestio Gallo, aveva radunato in fretta
un esercito e invaso risolutamente la Palestina, deliberato ad
annientare di un sol colpo l’insurrezione. A prezzo di gravi perdite
era riuscito a entrare in Gerusalemme; ma non a prendere il Tempio,
entro le cui mura l’esercito ribelle si era fortificato. Non potendo
rimanere nella città ostile, egli deliberò di uscir da Gerusalemme e di
accamparsi nelle vicinanze: ma nella ritirata fu assalito dalle truppe
rivoluzionarie, subì gravissime perdite, e dovè ritirarsi sino ad
Antipatris.


90. =Tito Flavio Vespasiano.= — Quel che avvenne in Roma a queste
notizie, facilmente si immagina. A questo dunque ci si ritrovava,
dopo tanti trionfi vantati dagli amici dell’imperatore? In Oriente
si era accettato alla fine un trattato, che rinunciava per sempre
all’Armenia[84]. In Britannia la pace era stata comperata a prezzo di
concessioni[85]. Le guerre con le popolazioni transdanubiane e con le
popolazioni Caucasiche non s’interrompevano mai. Ora sopraggiungeva
la rivolta della Giudea! Ma l’imperatore — è forza riconoscerlo —
provvide al pericolo con prontezza e vigore, trovando l’uomo che ci
voleva, e non tra gli illustri discendenti delle antiche famiglie. Era
costui T. Flavio Vespasiano, un senatore la cui nobiltà aveva origine
molto recente, perchè suo nonno Tito Flavio Petronio era un reatino,
un modesto plebeo, che aveva combattuto a Farsaglia come centurione
tra i Pompeiani, e poi era stato amnistiato da Cesare. Il figlio del
centurione, Flavio Sabino, s’era arricchito, quale pubblicano, prima
in Asia e poi tra gli Elvezi; e da lui erano nati due figliuoli,
che ambedue si erano dati — e furono i primi della famiglia — alla
carriera politica, entrando a far parte del senato. Vespasiano era il
secondo; aveva percorso tutto il curricolo delle magistrature fino al
consolato, e preso parte alla conquista della Britannia sotto Claudio,
ma senza segnalarsi in modo particolare; e senza esporsi troppo in
mezzo alle lotte che infuriavano in Roma, tenendosi insomma in disparte
e al sicuro. A questo senatore oscuro Nerone affidava ora il comando
della guerra in Giudea, con ingenti forze raccolte da tutte le parti
dell’impero.


91. =La guerra di Giudea (67).= — Ma la scelta era buona. La guerra
di Giudea doveva essere asprissima. Certamente agli Ebrei mancavano
la concordia e l’organizzazione che sole possono guerreggiare contro
uno Stato potente e forte di poderosi eserciti. Le classi alte, pur
desiderando l’indipendenza, credevano i Romani invincibili, e avevano
orrore di quel fanatismo religioso e nazionale, da cui la insurrezione
era nata e nel quale ribollivano confusamente le aspirazioni a una
rivoluzione sociale. L’insurrezione non poteva dunque trovare, in
queste classi che sole avrebbero potuto somministrarli, tutti i capi
di cui aveva bisogno. Ma il fanatismo era così grande, ed era così
vigorosamente stimolato dagli Zeloti, che anche senza menti che la
dirigessero, senza alcun concerto degli sforzi, e pur frantumandosi in
un grande numero di centri, la Giudea oppose una resistenza terribile.
Quando, nel 67, Vespasiano entrò nella provincia ribelle, alla testa di
60.000 uomini, dovette riconquistare città per città, borgo per borgo,
tra stragi inaudite. Tutto l’anno fu necessario per riconquistare
la Galilea, e solo nel 68 il generale romano potè entrare nella
Giudea, ma non per marciare diritto su Gerusalemme, acropoli della
rivoluzione, bensì per debellare prima le minori resistenze, che erano
ancora numerose. Sebbene fosse scoppiata una lotta fra gli Zelanti e
i Moderati, che ormai, usciti di speranza, volevano venire a patti coi
Romani, Vespasiano ebbe a sostenere una vivissima lotta, specialmente
sotto le mura di Gerico. Ma quando, alla fine di maggio, Gerico
cadde, e Vespasiano ebbe aperta innanzi a sè la via di Gerusalemme,
grossi eventi in Occidente sopraggiunsero a mettere di nuovo tutto in
pericolo.


92. =La preparazione di una grande guerra Caucasica e la rivolta
dell’Occidente (67-68).= — Nerone aveva passato in Grecia l’anno 67,
profondendo il denaro, cercando di rinnovare i costumi e le tradizioni
del passato, occupandosi di giuochi e di feste, ma non di queste
soltanto, come si ripete troppo sovente. Nerone, cui talora non mancava
una certa grandezza di vedute nelle cose dello Stato, pensava a tagliar
l’istmo di Corinto, e preparava un’altra spedizione agli estremi
confini orientali d’Europa, che solo Pompeo, nell’inseguimento faticoso
di Mitridate, aveva visti e conosciuti: una spedizione verso quelle
che si dicevano le _Portae Caspiae_, nella regione del Caucaso. La
spedizione era certamente diretta ad arginare per sempre le insistenti
e fastidiose scorrerie delle popolazioni scitiche e sarmatiche nelle
più orientali province europee. L’imperatore la meditava da anni, e
solo ora, più volte interrotto a mezzo, contava di condurla finalmente
ad effetto. Egli aveva preso all’uopo importanti disposizioni: erano
state create due nuove legioni; numerosi corpi di milizia erano stati
distaccati da tutte le legioni dell’Occidente e dell’Oriente; gli
arrolamenti fra i cittadini delle province erano stati accresciuti;
l’Italia stessa aveva dovuto fornire un nuovo contingente suo proprio,
una _legio Italica_, che fu denominata _Phalanx Alexandri_, e sarebbe
stata posta agli Ordini del nuovo Alessandro Magno[86]. Ma in mezza a
questi progetti e sogni, in mezzo alle feste, ai viaggi e alle pazzie
a cui si abbandonava in Grecia, nell’inverno del 67-68, l’imperatore
apprendeva che in Italia le cose andavano molto male; onde al principio
del 68 ritornò in Italia proprio a tempo, per apprendere che una
insurrezione era scoppiata in Gallia.

Il governatore della Gallia Lugdunense, che aveva preso l’iniziativa
di questa rivolta, era un nobile Gallo, un Aquitano romanizzato: C.
Giulio Vindice. Che un romano di fresca data come questo Aquitano,
i cui antenati erano stati dei celti barbari, fosse il primo a
sentire il dovere di insorgere contro lo sfrenato orientalismo di
Nerone, non è un semplice caso. È prima prova di un fenomeno, cui
dovremo tra poco ritornare; ossia della forza con cui le idee e
i sentimenti del romanesimo avevano attecchito nelle classi alte
delle province occidentali. Nell’Italia settentrionale, in Spagna,
in Gallia c’erano delle ricche famiglie che, per quanto romanizzate
da poche generazioni, erano più fervide nel loro attaccamento alle
tradizioni della repubblica aristocratica, che le vecchie famiglie
della nobiltà di Roma. Tuttavia il tentativo di Vindice non parve
lì per lì pericoloso. Non avendo un esercito, egli aveva cercato di
raccoglierne uno segretamente tra i Galli, nel tempo stesso in cui si
era sforzato di muovere parecchi generali romani, che egli credeva
contrari all’imperatore. Ma uno solo aveva prestato orecchio alle
sue sollecitazioni: Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna
Tarraconese: uomo serio, energico, ricco, di nobilissimo lignaggio,
per tradizione di famiglia poco incline ai Giulio-Claudî, e come
tutta la nobiltà seria disgustato dallo sgoverno di Nerone. Alla
morte di Caligola, si era parlato anche di lui, come di un possibile
imperatore. Cosicchè, quando Vindice aveva levato lo stendardo della
rivolta, si era trovato solo; e Nerone potè, senza troppo inquietarsi,
ordinare al governatore della Germania superiore, L. Virginio Rufo, di
reprimere la tentata insurrezione. Virginio infatti vinse a _Vesontium_
(Besançon), in una corta battaglia, Vindice, che si uccise. Ma Nerone
non potè molto rallegrarsi della vittoria: chè l’esercito vincitore
avea proclamato sul campo Virginio imperatore e a questa rivolta seguì
subito quella di Galba e delle legioni di Spagna.


93. =La fine di Nerone e la caduta dei Giulio-Claudii (giugno 68).=
— Nerone tentò di resistere: fece dal senato dichiarar Galba nemico
pubblico; ordinò che le milizie, le quali si avviavano alle Porte
Caspie, tornassero indietro, e che i marinai della flotta di Miseno
fossero ordinati a legione e si tenessero pronti per uno sbarco
nelle Spagne; spedì corrieri alle legioni dell’Illiria con l’ordine
di radunarsi ad Aquileia; emise un’ordinanza per una speciale
contribuzione di guerra; armò schiavi pubblici e privati; quindi,
fatto più audace dalla gravità del caso, destituì i consoli, di cui
non si fidava, e dichiarò che egli stesso sarebbe partito alla testa
delle legioni contro i ribelli. Ma la sua sorte dipendeva dalla
fedeltà dell’esercito, specie della guardia; e con i suoi delitti,
i suoi eccessi, le sue stravaganze, Nerone si era troppo screditato
anche nell’opinione delle masse e quindi dei soldati. Fatti arditi dal
visibile crollare dell’autorità di Nerone, i senatori avversi a lui
e quelli amici di Galba si industriarono per scuotere questa fedeltà.
Sembra certo ch’essi riuscirono ad accordarsi con uno dei due prefetti
del pretorio, Ninfidio Sabino, il collega di Tigellino, e per suo
mezzo con una parte dei pretoriani — ufficiali e soldati — nonchè di
una coorte germanica, addetta alla guardia personale dell’imperatore.
Ma quando Nerone apprese che si stava tramando, e su scala più vasta,
la congiura di Pisone; allorchè udì che i suoi stessi pretoriani lo
tradivano, perdette la testa, e con pochi amici e con pochi soldati
ch’egli reputava fedeli a tutta prova, corse a rifugiarsi nei _giardini
Serviliani_ sulla via Ostiense, che appunto l’avevano ospitato altra
volta, durante la congiura di Pisone. Scomparso il principe, il
governo ritornava al senato; ma la maggioranza dei nemici di Nerone
non era concorde. Chi voleva restaurare senz’altro la repubblica,
chi affidare la difesa dello stato a Galba, chi elevare all’impero
Virginio Rufo. Invece i capi dei pretoriani ribelli, se erano disposti
a deporre Nerone, erano risoluti a non perdere nessuno dei privilegi,
che l’impero avea loro procurati, a batter moneta, anzi, con il
nuovo trapasso imperiale. Ninfidio Sabino tagliò il nodo di queste
incertezze: convocò i pretoriani e li persuase che, scomparso Nerone,
non restava loro altro a fare che unirsi alle legioni di Spagna, e
proclamare Galba imperatore.

L’energia dei soldati sopraffaceva ancora una volta le esitanze e le
discordie del senato. Il senato oramai non era più libero nella sua
scelta. Opinando in senso diverso, si sarebbe opposto alle milizie
della Spagna e di Roma, avrebbe rialzato le sorti dei pochi amici di
Nerone; facendo sua la deliberazione dei pretoriani, abdicava alla
propria volontà. Tuttavia la discussione e la lotta in senato non
furono brevi. Se la opposizione riuscì facilmente a deliberare la
decadenza del principe e a dichiararlo nemico dello Stato (_hostis
publicus_), non per questo si potè, in una prima seduta, scegliere il
nuovo imperatore. Il pubblico, anzi, credette che la repubblica era
senz’altro restaurata e si abbandonò a grandi dimostrazioni di giubilo,
quali Bruto e Cassio avevano invano sperate centododici anni prima,
nelle fatali idi di marzo. Ma la repubblica non poteva reggersi senza
la forza; il senato era disarmato, e i generali, ch’esso credeva più
fedeli alla repubblica, Virginio Rufo, ad esempio, lontani. Una seconda
seduta decise delle sorti dello Stato: anche il senato elesse S.
Sulpicio Galba[87].

L’impero era salvo, ma Nerone era perduto. Questi, uscito dal suo
rifugio, che aveva giudicato malsicuro, si era, di notte, recato
fuori porta Nomentana, in una villa di un suo fedele liberto. Per via
aveva udito le grida dei pretoriani acclamanti a Galba e imprecanti
al suo nome; colà aveva vissuto parecchi giorni, finchè la mattina
del 9 giugno 68 — la data è congetturata con verosimiglianza, ma
non sicurissima — mentre sopravvenivano i soldati per ghermirlo e
trascinarlo all’estremo supplizio, con l’aiuto di uno dei suoi fedeli
liberti, si era finalmente suicidato. Non aveva ancora 31 anni!

La famiglia dei Giulio-Claudii era estinta. L’ultimo suo membro
spariva, infamando per l’eternità quel nome di Nerone, che dalla
seconda guerra punica in poi era stato il più glorioso di Roma.


NOTE AL CAPITOLO DODICESIMO.

[73] TAC., _Ann._, 12, 66-67. Si noti che SVET. _Claud._, 44, dice
che sul modo con cui Claudio sarebbe stato avvelenato correvano
versioni diverse, di cui egli racconta parecchie, assai diverse da
quella raccontata con tanta sicurezza da Tacito. E si noti anche
che uno scrittore contemporaneo Giuseppe Flavio (_A. J._, 20, 8, 1),
esplicitamente dichiara che l’avvelenamento era una diceria, raccontata
da alcuni: due fatti che confermano essere anche questa una delle tante
storielle inventate sul conto della famiglia dei Giulio-Claudii.

[74] TAC., _Ann._, 13, 4: _teneret antiqua munia senatus: consulum
tribunalibus Italia et publicae provinciae adsisterent: illi patrum
aditum praeberent: se mandatis esercitibus consulturum_.

[75] Tacito racconta la storia di Nerone, Poppea e Otone in due
modi diversi, in _Ann._, 13, 45 e in _H._, 1, 13. — Abbiamo seguito
gli _Annali_, perchè molto più semplici, chiari e verosimili che le
_Storie_; sebbene SVETONIO (_Otho_, 3) e PLUTARCO (_Galba_, 19) si
accostino a queste.

[76] Cfr. TAC., _Ann._, 13, 50.

[77] Circa i rapporti tra Roma e l’Armenia, nel tempo di Nerone, cfr.
FURNEAUX, _The Roman Relations with Parthia and Armenia from the time
of Augustus to the death of Nero, Annals of Tacitus_, II, Oxford 1896,
pp. 96 sgg.; W. HENDERSON, _The chronology of the wars in Armenia,
A. D. 31-63_, in _The Classical Review_, XV, 1901; A. ABRUZZESE, _Le
relazioni politiche tra l’impero e l’Armenia da Claudio a Traiano_, in
BESSARIONE, 1912, pp. 22 sgg.

[78] Sui rivolgimenti portati da Nerone nell’educazione pubblica, cfr.
BARBAGALLO, _Lo stato e l’istruzione pubblica nell’impero romano_,
Catania, Battiato, 1911, pp. 61 sgg.

[79] Di queste guerre non c’è notizia negli scrittori antichi: ma esse
risultano da monumenti epigrafici: cfr. _C. I. L._, 14, 3608, ll. 11
sg.

[80] SVET. _Claud._, 25.

[81] TAC., _Ann._, 15, 44: _primo correpti qui fatebantur_.

[82] Sull’incendio di Roma, come su tutti i problemi storici
insolubili, è stata scritta una biblioteca. Uno degli studi più recenti
è quello di C. PASCAL, _L’incendio di Roma e i primi cristiani_, in
_Fatti e leggende di storia antica_, Firenze, 1903. E. CAIATI (_Una
nuova ipotesi sull’incendio neroniano_, in _Riv. d’Italia_, 31 maggio
1916) ne ha testè fatti responsabili i Pisoni.

[83] Sulla congiura dei Pisoni, vedi il bel volume di C. MARCHESI,
_Seneca_, Messina, 1920 pp. 176 sgg. e _passim_. Se si possono fare
delle riserve sugli altri personaggi, il filosofo è dipinto con mano
maestra.

[84] Di tali giudizi, più che in Tacito, si scopre la traccia
negli autori a cui attinse EUTROPIO, 7: _[Nero] imperium romanum et
deformavit et deminuit.... Armeniam Parthi sustulerunt_....

[85] Cfr. TAC., _Ann._, 14, 38 e 39.

[86] Su questo disegno cfr. PFITZNER, _Geschichte der Kaiserlegionen_,
Leipzig, 1881, pp. 39 sg.; HENDERSON, _The Life of the Emperor Nero_,
London, 1903, pp. 226-227.

[87] Le sedute furono certamente due (ZON., 11, 13): in Zonara non
sono però esatti nè il programma assegnato a ciascuna, nè l’intervallo
indicato. Su tutte queste questioni cfr. C. BARBAGALLO, _La catastrofe
di Nerone_, Catania, Battiato, 1915.



INDICE ALFABETICO-ANALITICO


_Abilene_, 249.

_Acaia_. V. _Grecia_.

_Acte_, amante di Nerone, 280, 284.

_Adiabene_, 295.

_Aduatici_, sottomessi, 31 insorgono (54 a. C.), 46.

_Afranio_ (L.), luogotenente di Pompeo, 70; si arrende a Cesare, 70.

_Afranio_ (Sesto Burro), prefetto del pretorio sotto Nerone, 279; e la
uccisione di Agrippina, 288; muore (62 d. C.), 294.

_Africa_, occupata dai Cesariani, 68; perduta, 72; assegnata a Lepido
(40 a. C.), 133; insurrezioni durante il governo di Tiberio, 231.

_Agendicum_ (Sens), 51, 53.

_Agricoltura_, a mezzo il I sec. a. C., 65; nella Transalpina, 163; e
Tiberio, 221.

_Agrippa_. V. _Vipsanio_.

_Agrippina_, figlia di Giulia e di Agrippa, 226; moglie di Germanico,
226; in Oriente, 226; ritorno, 227; accusa Tiberio e Pisone di
veneficio, 228, 229; dirige l’opposizione contro Tiberio, 232, sgg.;
figliuoli, 233, 267; contro Seiano, 234; congiura?, 235; esiliata (29
d. C.), 234-235.

_Agrippina_, figlia di Germanico e di Agrippina, 267; esiliata da
Caligola e richiamata da Claudio, 267; moglie di Cn. Domizio Enobarbo,
267; di Claudio, 268; figli, 267; carattere, 267-68; governo, 268-269;
onori, 269; educazione di Nerone, 270; calunnie contro A., 271, 275
sgg.; e la elezione di Nerone, 277; primi dissapori con Nerone, 279
sgg.; si accosta a Britannico, 281; nuovo conflitto con Nerone, 285,
sgg.; uccisa, 286 sgg.; cordoglio pubblico, 289-90.

_Agro pubblico_, in Campania, 29; in Italia, 129.

_Alessandria d’Egitto_, 76, 131, 137, 147; guerra alessandrina, 77;
Ottaviano ad A., 152, 153.

_Alessandro II_. V. _Tolomei_.

_Aliso_, 187.

_Allobrogi_, popolazione gallica; ambasciatori degli A. a Roma nel 62
a. C., 7; e i Catilinari, 8; denunziano i Catilinari, 8; insorgono (61
a. C.), 17.

_Amano_ (M.), 135.

_Ambiani_, 36.

_Ambracia_, 149.

_Amnistia_, 95-96.

_Anauni_, 258.

_Ancona_, 65; tintorie di porpora, 66.

_Andi_, 51.

_Aniceto_, comandante la flotta, al tempo di Nerone, fa uccidere
Agrippina, 286 sgg., 288.

_Anfipoli_, 75.

_Anneo_ (M. Lucano), 305.

_Anneo_ (L. Seneca), maestro di Nerone, 270, 279; consigliere di
Nerone, 279, 282; e la uccisione di Agrippina, 288; la sua autorità
declina, 294; nella congiura dei Pisoni, 305; sua morto (65 d. C.),
305.

_Annio_ (T. Milone), tribuno della plebe (57 a. C.), 36, sgg.; sua
legge pel richiamo di Cicerone, 36-37; candidato al consolato pel 52 a.
C., 49; uccide Clodio (18 gennaio 52 a. C.), 49-50; condannato (52 a.
C.), 58.

_Antioco_, re della Commagene, 249, 290.

_Antipatris_, 308.

_Antonia_, figliuola di M. Antonio e madre di Germanico, 237, 238, 282;
avvisa Tiberio della congiura di Seiano, 237; madre di _Livilla_, 239;
educa Caligola, 244; riceve i privilegi delle Vestali, 246.

_Antonio_ (C. Ibrida), un ex-sillano, 3; console (63 a. C.), 3, 4.

_Antonio_ (M.) ufficiale di Cesare, candidato alla questura pel 52 a.
C., 49; trib. della pl. (49 a. C.), 64; spedisce milizie a Dolabella,
72; in rotta con Cesare, 79; si riconcilia con lui, 86; console (44
a. C.), 70; nella giornata delle Idi di marzo, 90; dopo la uccisione
di Cesare, 93; sobilla i veterani, 93; convoca il senato pel 17
marzo 44 a. C., 94; discorso in senato, 95; discorso ai funerali di
Cesare, 98; padrone dello Stato, 100-101; e le carte di Cesare, 100;
primi screzi con Ottavio, 102, 104; si fa prolungare il governo della
Macedonia (2 giugno 44 a. C.), 102; contro Ottavio, 107; assedia D.
Bruto in Modena, 109, 111; le due battaglie di _Forum Gallorum_ (43
a. C.), 112; battaglia di Modena, 112; ripara nella Gallia Narbonese,
113, 114-115; triumviro, 119, 120; a Roma (novembre 43 a. C.), 120;
invade la Macedonia (42 a. C.), 121, 122, 123; vincitore a Filippi
(ottobre-novembre 42 a. C.), 124, 125; riceve il governo dell’Oriente,
128; ad Alessandria (41-40 a. C.), 131; suoi disegni contro i Parti,
131, 135, 136; disapprova la guerra di Perugia, 131-132; breve
conflitto con Ottaviano (40 a. C.), 132; accordo di Brindisi (40 a.
C.), 132-33; sposa Ottavia sorella di Ottaviano, 133; accordo di Miseno
con Sesto Pompeo, 134; sposa Cleopatra (primi del 36 a. C.), cede
alcuni territori orientali a Cleopatra, 137; muove contro i Parti (36
a. C.), 137, sgg.; fallisce nell’impresa, 138-39; e Cleopatra, 141-42;
conquista l’Armenia (34 a. C.), 142; figliuoli, 142-43; sua politica
in Oriente, 143; nuovi preparativi di guerra contro la Parzia, 142-43;
nuovo conflitto con Ottaviano, 144 sgg.; guerra di Azio (31 a. C.),
148 sgg.; nella battaglia di Azio, 150 sgg.; sua difesa dell’Egitto (30
a. C.), 152; si uccide, 153; la sua memoria è riabilitata da Caligola,
246.

_Antonio_ (C.), fratello di Marco, assediato ad Apollonia, 110.

_Antonio_ (L.), fratello di Marco, 102; legge agraria, 102; nella
guerra di Modena, 111; console (41 a. C.), 129; conflitto con
Ottaviano, 129; solleva la guerra di Perugia (51-40 a. C.), 129;
assediato a Perugia, 130; si arrende, 130; biasimato dal fratello,
131-32.

_Apollonia_, 72, 101, 110.

_Apsus_ (Fl.), 72.

_Aquileia_, 28, 313.

_Aquitania_. V. Gallia.

_Archelao_, re di Cappadocia, 290.

_Arezzo_, 65.

_Ariovisto_, re degli Svevi, 17; e i Galli, 32; amico e alleato di
Roma, 32; controversia con Cesare, 32-33; vinto da Cesare (58 a. C.),
33.

_Aristobulo_, re dell’_Armenia minore_, 290.

_Aristocrazia._ V. _Nobiltà_.

_Armenia_, 78; e i Parti, 44; Stato cliente di Roma, 44; _Piccola
Armenia_ (_Armenia minore_), 78, 249, 290; partecipa all’impresa
partica di Antonio, 138; il re d’A. battuto dai Parti, 138; conquistata
da Antonio (34 a. C.), 142; assegnata ad Alessandro di Cleopatra, 143;
sotto un governo nazionale, 172; insurrezione interna, 172; Augusto
l’assegna a Tigrane, 172; e i Parti, 196, 222; smembrata (59 d. C.),
290; nella guerra armeno-partico-romana (58-63 d. C.), 296, 297; v.
_Aristobulo_; _Tigrane_, _Zenone_.

_Arminio_, principe dei Cherusci, 215; capo della insurrezione
germanica del 9 d. C., 202; e Germanico, 216; vinto a _Idistavisus_ (16
d. C.), 218; muore, 231.

_Armorica_, 35; insurrezione, 43.

_Armorici._ V. _Armorica_.

_Arpocrate_, 255.

_Arsaniade_ (Fl.), 296.

_Artabano_, re dei Parti, 222; accordi con Germanico, 225.

_Artaxa._ V. _Polemone_.

_Artaxata_, 290.

_Arvernia._ V. Arverni.

_Arverni_, cap. _Gergovia_, 53; insorgono (53 a. C.), 50; invasi da
Cesare, 51; loro clientela, 182. V. _Vercingetorige_.

_Asia_ (prov.), 171.

_Asia Minore_, assegnata ad Antonio (40 a. C.), 133; Augusto in A. M.,
171.

_Asinio_ (C. Pollione), un cesariano moderato, 78; il suo esercito
defeziona dal senato, 118.

_Asinio_ (Gallo), fratellastro di Druso di Tiberio, 262; congiura
contro Claudio (46 d. C.), 262.

_Asturi_, 164; guerreggiati da Augusto, 166.

_Atene_, 134, 224.

_Attio_ (P. Varo), generale pompeiano in Africa disfatto da Curione, 72.

_Attio_ (M. Labieno), luogotenente di Cesare, 53; combatte i Senoni e
i Parisii, 53-54; si congiunge con Cesare, 53; passa ai Pompeiani in
Africa, 7-8; muore a Munda, 86.

_Attio_ (Q. Labieno), figlio del preced., 131; agente di Bruto e
Cassio, 131; incita i Parti a invadere la Siria, 131.

_Augustani_, 292, 306.

_Augusto_, nuovo nome di Ottaviano (V. _Ottaviano_); restaurazione
della repubblica, 155; esclude duecento membri dal senato, 157; riforma
costituzionale (28-27 a. C.), 160; prime riforme politiche, 162;
riforme finanziarie, 162-64; guerre in Spagna, 164; ammala gravemente
(24-23 a. C.), 167; nuovi poteri, 169; in Oriente (21-19 a. C.), 170,
sgg.; inizi della deificazione di A., 171; accordi coi Parti, 172-73;
_Leggi sociali_ (18 a. C.), 173 sgg.; guerre alpine, 179, sgg.; riforme
in Gallia, 153; riforme militari, 183-84; _pontifex maximus_, 185;
ha prolungato per dieci anni il potere di _princeps_ (8 a. C.), 188;
nuovo prolungamento dei poteri (3 d. C.), 198; congiura contro A., 198;
ultimo rinnovamento dei suoi poteri (13 d. C.), 204; morte (19 agosto
14 a. C.), 204; l’opera sua, 204-5.

_Aulerci_, 51.

_Aurelio_ (L. Cotta), quindecemviro; propone il titolo regio per
Cesare, 89.

_Aureus_, moneta coniata da Augusto, 305; deprezzamento, 305.

_Avarico_ (Bourges), capitale dei Biturigi, 52; presa da Cesare, 52.

_Azio_, battaglia (2 settembre 31 a. C.), 150, sgg.; commemorata
annualmente da Augusto, 246; Caligola abolisce questa solennità, 246.


_Basilica Porzia_, 50.

_Belgi_, contro Teutoni e Cimbri, 35; potenza militare, 35; agitazione
contro i Romani, 35; popolazioni belgiche, 36; assoggettate da Cesare
(57 a. C.), 36.

_Belgica_, 183. V. _Belgi_.

_Bellovaci_, 35.

_Berenice_, figlia di Tolomeo Aulete, uccisa, 41-42.

_Bessi_, 178.

_Bibracte_, 54.

_Bibulo._ V. _Calpurnio_.

_Bitinia_, assegnata ad Antonio (40 a. C.), 132.

_Biturigi_, 51, 52. V. _Avarico_.

_Boemia_, 201.

_Brindisi_, 123; accordo di Br. fra Antonio e Ottaviano (40 a. C.),
132-33.

_Britannia_, prima invasione di Cesare in Br. (55 a. C.), 44; seconda
invasione (estate 54 d. C.), 45-46; e Caligola, 249; conquistata da
Claudio (43 d. C.), 257; insurrezione (60 d. C.), 291, 297.

_Britannico_ (T. Claudio), figlio di Messalina e Claudio, 264, 270,
271, 276; morte improvvisa (55 d. C.), 281.

_Bructeri_, 216.

_Burro._ V. _Afranio_.


_Cadurchi_, 50.

_Caligola_. V. _Cesare_ (_C. Caligola_).

_Calpurnio_ (M. Bibulo), console (59 a. C.), 15; ostruzionismo contro
Cesare, 15, 19; ammiraglio di Pompeo, muore, 73.

_Calpurnio_ (C. Pisone), console (23 a. C.), 167.

_Calpurnio_ (C. Pisone), un pompeiano, 224; consigliere di Germanico
in Oriente, 224; conflitto con Germanico, 225, sgg.; processo, 228-29;
morte, 229.

_Calpurnio_ (C. Pisone), capo della congiura dei Pisoni, 305.

_Camolodunum_ (Colchester), 257.

_Campania_, l’agro pubblico campano ripartito, 19; ville della nobiltà
romana in C., 120.

_Camunni_, 178.

_Canidio_ (P.), ufficiale di Antonio, 151; fatto uccidere da Ottaviano,
153.

_Cantabri_, 164; guerreggiati da Augusto, 166.

_Cappadocia_, 78; provincia romana, 223, 225.

_Capri_, 234, 237.

_Capua_, 66.

_Carcere Mamertino_, 9.

_Carmen saeculare_ (17 a. C.), 178.

_Carnuti, insorgono_ (54 a. C.), 46, 50.

_Carpentum_, 269.

_Carre_, battaglia (53 a. C.), 47.

_Cassio_ (L.), luogotenente di Cesare, 74.

_Cassio_ (C.), senatore, 88; questore di Crasso (54-53 a. C.), 88;
pompeiano passato a Cesare, 88; si oppone alla proposta di pubblici
funerali a Cesare, 97; le sue case distrutte, 99; allestisce un
esercito in Siria e uccide Dolabella, 115-16; richiamato in Italia,
115; si accorda con M. Bruto (42 a. C.), 122; suoi piani di guerra,
122; conquista Rodi, 122; muore a Filippi (ottobre 42 a. C.), 124-25.

_Cassio_ (Cherea), tribuno del pretorio, capo della congiura contro
Caligola, 251.

_Castra Vetera_, 217.

_Catilinarii_, 7; arrestati e giudicati dal senato (5 dicembre 63 a.
C.), 8; strangolati nel Carcere Mamertino, 9.

_Catti_, 186, 201, 215, 219.

_Cauci_, 219.

_Cavalieri_ contro i Catilinarii, 9; minacciano Cesare, 9; si uniscono
al partito senatorio, 9; contro Pompeo (61-60 a. C.), 12; colpiti dalla
proscrizione del 43 a. C., 120; nell’opinione pubblica romana, 166.

_Cecilio_ (Q. Metello Pio), pontefice massimo, 5; muore (primi del 63
a. C.), 5.

_Cecilio_ (Q. Metello Scipione), figlio adottivo di Metello Pio, 49.

_Cecilio_ (Q. Metello Celere), governatore della Cisalpina, 16; muore
(fine febbraio 59 a. C.), 16.

_Cecilio_ (L. Metello), tribuno plebeo (49 a. C.), e Cesare, 69.

_Cecina_ (A. Severo), luogotenente di Germanico, 216, 217.

_Celesiria_, assegnata all’Egitto, 142; ad Erode Agrippa, 249.

_Censori_, e la «_lex Clodia censoria_» (58 a. C.), 22.

_Cesare_. V. Giulio.

_Cesare_ (L.), figlio di Agrippa e di Giulia, 195; onori, 196; muore (6
d. C.), 198.

_Cesare_ (C.), figliuolo di Agrippa e di Giulia, 193; console, 194,
196; contro i Parti (1 d. C.), 197; muore (4 d. C.), 198.

_Cesare_ (_C. Caligola_), figlio di Germanico, 237, 243; nascita e
carattere, 244; primi anni, 244; pontefice, 237; imperatore (18 marzo
37 d. C.), 245; sua politica, 245-46; tentativi di orientalizzare
l’Impero, 246 sgg.; politica orientale, 248-49; occidentale, 249-50;
congiure contro C., 250; e l’opinione pubblica, 250-51; trucidato (24
gennaio 41 d. C.), 251.

_Cesarea_, 308.

_Cesariani_, due tendenze fra i C., 78, 80, 82; i C. moderati contro
Cesare, 87; nella congiura del marzo 44 a. C. 88-89; i C. intransigenti
dopo la morte di Cesare, 94, 96; dopo la _lex Paedia_ (agosto 43 a.
C.), 118; mal giudicati da T. Livio, 157-58.

_Cesarione_, figlio di Cleopatra e di Cesare, 142, 144; ucciso, 153.

_Cesennio_ (L. Peto), generale romano, 295; in Armenia (61 a. C.), 296;
disfatto e assediato a Randeia, 296.

_Cestio_ (C. Gallo), governatore della Siria, invade la Palestina ed è
disfatto, 308.

_Cherusci_, 187, 215, 218, 231. V. _Arminio_.

_Cicerone._ V. _Tullio_.

_Cilicia_, 137; assegnata a Tolomeo di Cleopatra, 143, 223; annessa
alla Siria, 225; annessa in parte alla Commagene, 248.

_Cingoli_, 67.

_Cipro_, indipendente, 27; occupata da Roma (58 a. C.), 27; Pompeo
fugge a C., 75; assegnata a Cleopatra (36 a. C.), 137, 142; provincia
imperiale, 160; restituita al senato (22 a. C.), 170.

_Cirene_, 148.

_Cirenaica_, assegnata ad Antonio (40 a. C.), 133, 148.

_Claudio_ (C. Marcello), cons. (51 a. C.), 60; avversario di Cesare,
60; maneggi contro Cesare, 50; propone la cessazione del proconsolato
di Cesare (1º dicembre 50 a. C.), 62; propone che Cesare sia dichiarato
«nemico pubblico» (9 dicembre 50 a. C.), 63.

_Claudio_ (Ti. Nerone), nella guerra di Perugia, 131; si reca da
Antonio, 131; padre dell’imperatore Tiberio, 131.

_Claudio_ (Ti. Germanico), nascita, 252; fratello di Germanico, 243,
252; carattere, 243-244, 252-54; imperatore (25 gennaio 41 a. C.), 252;
coltura, 253; intendimenti repubblicani, 254; opposizione, 255, 256,
260, 262; congiura del 42 d. C., 256; conquista la Britannia (43 a.
C.), 257-58; riforme giuridiche, 258-59; concessioni di cittadinanza,
258; censura (47 a. C.), 259; mogli, 260. V. _Messalina_; _Agrippina_,
congiura del 46 d. C., 262; divorzia da Messalina, 263-64, 265-66;
figliuoli, 265, 271; ultimi anni di governo, 268-69; muore (12-13
ottobre 54 d. C.), 272; leggenda della morte, 275 sgg.

_Cleopatra_, contesa col fratello, 76-77; regina di Egitto (48-30 a.
C.), 77; fedele al partito cesariano, 122; i suoi soccorsi ad Antonio
dispersi, 123; suoi piani, 131; sposa Antonio e riceve alcuni territori
orientali (primi del 36 a. C.), 137; Cl. e Antonio, 141-42; figliuoli,
142-43; ad Efeso (32 a. C.), 146; sua politica durante la guerra fra
Antonio e Ottaviano, 146, 148, 149, 150; nella battaglia di Azio, 150;
si uccide (30 a. C.), 153.

_Clodio_ (P. Pulcro), patrizio, 10; amico di Pompeo, 10; scandalo in
Roma nel 62 a. C., 10-11; amante della moglie di Cesare?, 10; processo,
assoluzione, 11; passa alla plebe, 20; tribuno pl. (58 a. C.), 20;
strumento di Cesare, Grasso e Pompeo, 20, 21; sue leggi del 58 a.
C., 21-22; provoca l’esilio di Cicerone, 27-28; contro il richiamo
di Cicerone, 34, 37; contro Pompeo e il triumvirato, 37; tenta far
abrogare le leggi del 59 a. C., 37; candidato alla pretura pel 52 a.
C., 49; ucciso (18 gennaio 52 a. C.), 49-50.

_Collegia_, associazioni di artigiani, 9, 20; organizzati
elettoralmente da Clodio, 21; _lex Clodia de collegiis_ (58 a. C.), 22;
chiedono il richiamo di Cicerone, 34; sciolti da Cesare (46 a. C.), 83;
dopo il 15 marzo 44 a. C., 94.

_Collegia iuvenum_, 292.

_Colonia_ [_Agrippina_], 269.

_Comizi_, infrenati da Augusto, 213; privati da Tiberio del potere
di eleggere i magistrati, 209, 213; restituiti da Caligola nei poteri
elettorali, 245.

_Comizi tributi_, e la _lex Clodia de jure et tempore legum rogandarum_
(58 a. C.), 21.

_Commendatio imperiale_, 213.

_Commagene_ (Regno di), 223; annessa alla Siria, 225; restituita
indipendente, 248, 290. V. _Antioco_.

_Commercio_, crisi durante la seconda guerra civile, 77.

_Congiurati_ (I) contro Cesare, 88 sgg.; dopo la morte di Cesare, 94,
96, 99, 100; fuggono da Roma, 100; e C. Ottaviano, 104; contro Antonio,
108; e la _lex Paedia_ (agosto 43 a. C.), 118.

_Conjuratio_, 147-48.

_Consiglio Anfizionico_, 171.

_Corfinio_, 67; assediata e presa da Cesare, 67.

_Corfù_, 149.

_Corinto_, capoluogo della prov. di Acaia, 171.

_Cornelio_ (P. Dolabella), luogotenente di Cesare, 72; disfatto
in Illiria, 72; trib. pl. (47 a. C.) e sua legge sui debiti, 78;
governatore della Siria, 102; propone la legge _de permutatione
provinciarum_ (44 a. C.), 102-3.

_Cornelio_ (C. Gallo), poeta, _praefectus Aegypti_, 153.

_Cornelio_ (Cn. Cinna), nipote di Pompeo, 198; congiura contro Augusto,
198.

_Cornelio_ (Cn. Lentulo Getulico), congiura contro Caligola, 250.

_Cornelio_ (Tacito), lo storico; giudizi su Tiberio, 222, 229, 230,
241-42 n. 1; su Agrippina, 267, 269, 275, 281; sui Cristiani, 300.

_Cornificio_ (Q.), 116.

_Crasso_. V. _Licinio_.

_Creta,_ 137.

_Cristianesimo_, origini, 301 sgg; dottrina, 301; diffusione, 302; a
Roma, 302-3.

_Cristiani_ (I), e l’incendio di Roma, 299, 303; «prima persecuzione»,
303.

_Curia di Pompeo_, 89, 99.

_Curione_. V. _Scribonio_.


_Dalmazia_, 141; Tiberio in D., 188; insurrezione, 201. V. _Illiria_.

_Debiti_, la questione dei D. in Roma verso il 66-63 a. C., 3 sgg., 6;
alla metà del I sec. a. C., 66; legge di Cesare sui D. (48 a. C.), 71;
durante la seconda guerra civile, 77; legge di Dolabella, 78.

_Decurioni_, 130.

_Denteleti_, 178.

_Dertona_ (Tortona), 114.

_Divicone_, capo degli Elvezi, 30.

_Domizio_ (Cn. Calvino), luogotenente di Cesare, 74; sconfitto da
Farnace, 78.

_Domizio_ (L. Enobarbo) (cons. 54 a. C.), generale pompeiano, 67; si
arrende a Cesare, 67; generale di Cassio (42 a. C.), 124; si congiunge
con Marco, 124; affonda la flotta dei triumviri, 125; si allea con
Antonio, 132; console (32 a. C.), 145.

_Domizio_ (C. Enobarbo), primo marito di Agrippina _minor_, 267; figli,
267.

_Domizio_ (L. Corbulone), combatte in Germania, 283; in Oriente, 283;
conquista l’Armenia (58-59 a. C.), 290; conclude pace col re dei Parti,
295.

_Domus publica_, 89, 93.

_Drusilla_, sorella di Caligola, 247; divinizzata, 248.

_Druso_ (Nerone Claudio), figlio di Livia, carattere, 179; incaricato
da Augusto delle guerre alpine, 179-80; questore (15 a. C.) in Germania
(12-19 a. C.), 185-89; console (9 a. C.), 187; muore (9 a. C.), 188;
figli, 214, 243.

_Druso_, figlio di Tiberio, 233, 239; onori, 233; avvelenato da
Seiano?, 239.

_Durazzo_, quartier generale di Pompeo, 72; Cesare tenta assediarvi
Pompeo, 74; battaglia (48 a. C.), 74.


_Edui_, loro clientela, 182; in guerra coi Sequani, 17; assoggettati da
Ariovisto, 17; invocano Roma contro gli Elvezi, 17-18; partiti in seno
agli E., 30-31; dànno territori agli Elvezi, 32; invadono il Paese dei
Bellovaci (57 a. C.), 35; indipendenti nella Gallia provincia romana,
41; durante l’insurrezione del 53-52 a. C., 51, 53; ricevono l’_ius
honorum_, 259.

_Elba_, miniere di ferro, 66.

_Efeso_, 146.

_Egitto_, condizioni economiche, 1; e il testamento di Alessandro
II, 1; questione egizia, 1 sgg., 19; e la legge agraria Servilia, 4;
disordini alla morte di Tolomeo Aulete, 75-76; Cleopatra regina d’E.,
77; importanza dell’E. per Antonio, 137, 142, 147; prov. romana (30 a.
C.), 153; Germanico in E., 225.

_Elicone_, 247.

_Elvezii_ confini, 17; e Cesare, 28 sgg.; e i Sequani, 29; e gli Edui,
31; emigrano in Gallia, 29; attaccano Cesare, 31; alleati del popolo
romano, 32; parte rimangono nel paese degli Edui, 32.

_Emilio_ (M. Lepido) pretore (48 a. C.), 71; _magister equitum_ di
Cesare, 93; dopo l’uccisione di Cesare, 93, 115; governatore della
Gallia Narbonese, 113; si allea con Antonio, 115; triumviro, 119,
120; a Roma (novembre 43 a. C.), 120; al governo di Roma, durante la
guerra dei congiurati, 128; abbandona il governo a Fulvia, 128; sue
intese con Sesto Pompeo, 128; escluso dal governo delle province, 128,
129; nell’accordo di Brindisi (40 a. C.), 133; tenta insorgere contro
Ottaviano (36 a. C.), e si ritira a vita privata, 139-40; _pontifex
maximus_, 185; muore, 185.

_Epicureismo_, 158.

_Epiro_, 148, 149, 171.

_Erode_, re di Giudea, 196; muore (4 d. C.), 196.

_Erode Agrippa_, re della Giudea, 249.

_Esercito._ V. _Legioni_; riforme militari di Augusto, 183-84; riforme
di Tiberio (5 d. C.), 200, 201; e i Giulio-Claudii, 208, 244-245, 256,
288; e Nerone, 277.

_Eubea_, 171, 224.


_Faenza_, 65.

_Fano_, 65.

_Farasmane_, re degli Iberi, 290.

_Farnace_, figliuolo di Mitridate, 78; invade le province romane
orientali, 78; vinto a Zela, 79.

_Farsaglia_, battaglia (9 agosto 48 a. C.), 75.

_Fenicia_, 137, 143.

_Fenio Rufo_, prefetto del pretorio sotto Nerone, 305; nella congiura
del Pisoni, 305.

_Fiesole_, battaglia di Fiesole (62 a. C.), 9.

_Filippi_, quartier generale di Bruto e Cassio, 123; prima battaglia
(ottobre 42 a. C.), 124; seconda battaglia (novembre 42 a. C.), 125.

_Flavio_ (T. Petronio), nonno di Vespasiano, 309.

_Flavio_ (T. Sabino), padre di Vespasiano, 309.

_Flavio_ (Giuseppe), scrittore, suo giudizio su l’avvelenamento di
Claudio, 316.

_Flevo_ (Zuidersee), 184.

_Foro romano_, 97, 98.

_Forum Gallorum_ (Castelfranco), battaglia (43 a. C.), 112.

_Forum Julii_, 115.

_Forum Voconii_, 115.

_Fraatace_, re dei Parti, 196; invade l’Armenia, 196.

_Fraate_, re dei Parti, 138; ambasceria a Roma, 168; accordi con
Augusto, 172-73; muore (3 a. C.), 196.

_Frisoni_, 185.

_Fulvia_, moglie di Antonio, 129; conflitto con Ottaviano, 129; suscita
la guerra di Perugia (41-40 a. C.), 129, sgg.; raggiunge in Oriente
Antonio, 131; muore (40 a. C.), 133.

_Furio_ (Camillo Scriboniano), governatore della Dalmazia, 256;
congiura contro Claudio, 257.


_Gabinio_ (A.), governatore della Siria, 42; medita invadere la Parzia,
56, n. 1; incaricato di ricondurre Tolomeo Aulete in Egitto, 40; esegue
l’incarico, 42.

_Gallia: Cisalpina_, industrie, 65-66; riceve la cittadinanza (48 a.
C.), 71; assegnata a D. Bruto, 102; ad Antonio (44 a. C.), 102-103;
possedimenti romani nella G. C., 120; romanizzata, 312; _Narbonese_,
113, 116; assegnata a Cesare, 21, 51, 54; assegnata ad Antonio, 128;
assegnata a Ottaviano (40 a. C.), 133; restituita al senato (22 a.
C.), 170; _Transalpina_, agitazioni intorno al 59 a. C., 17; crisi
economiche e partiti nella Gallia T., 30-31; provincia romana (56 a.
C.), 39, 40, 41; insurrezione (53-52 a. C.), 50 sgg.; Antonio richiede
la G. T., 109; assegnata a Ottaviano (40 a. C.), 133; provincia
imperiale, 160; Augusto ne accresce i tributi, 163, 164; condizioni
economiche nell’età di Augusto, 165-66, 181; insurrezione (16-15 a.
C.), 178 sgg.; invasa da Germani (16 a. C.), 179; sua funzione storica,
180 sgg.; riforme di Augusto, 183; razziata da Caligola, 249; riceve
l’_ius honorum_, 259; romanizzata, 312; _Lugdunense_, 183, 312; rivolta
(68 a. C.), 312; _Belgica_, 183; _Aquitania_, 183.

_Galliae_ (_Tres_), 183.

_Gazaca_, battaglia, 138.

_Genabum_ (Orléans), 52.

_Genova_, 65-66.

_Gergovia_, capoluogo dell’Arvernia, 53; assediata da Cesare, 53.

_Gerico_, 137, 310.

_Germani_. V. _Svevi, Tencteri, Usipeti, Sicambri, Cherusci, Catti,
Langobardi, Frisoni, Marcomanni, Marsi, Bructeri, Cauci, Ubii_, ecc.;
cavalieri reclutati da Cesare, 54; invadono la Gallia (16 a. C.), 179;
insurrezione generale (9 d. C.), 202; conseguenze, 203, 204.

_Germania_, piano di Augusto per l’invasione della G., 194; dopo la
conquista, 196; insurrezione, 198; Germanico e la conquista della G.,
215 sgg.; insurrezione (14-16 d. C.), (16 d. C.), 219; _Superiore_ e
_Inferiore_, 220.

_Germanico_ (Claudio Cesare), figliuolo di Druso, 214; a capo della
impresa di Germania (14-16 d. C.), 215 sgg.; trionfo, 222; in Oriente
(17-19 d. C.), 222 sgg.; conflitto con Pisone, 225 sgg.; muore (12
ottobre 19 a. C.), 227; figliuoli, 233, 237, 267.

_Gerusalemme_, 249, 308.

_Giuba_, re della Numidia, 72; sconfigge Curione, 72; si allea coi
Pompeiani, 78.

_Giudea_, 196, 223; Caligola vuole imporvi il culto imperiale, 248,
249; annessa alla Siria (34 a. C.), 249; in parte distaccata dalla
Siria, 249; e assegnata a Erode Agrippa, 249; insurrezione (66-67 d.
C.), 306 sgg., 309 sgg.

_Giulia_, nonna materna di C. Ottavio (Ottaviano Augusto), 101.

_Giulia_, figliuola di Augusto e moglie di Agrippa, 174; carattere,
192-93; sposa Tiberio (11 a. C.), 189; discordia con Tiberio, 193;
figliuoli, 193, 196, 226; esiliata da Roma, (2 a. C.), 197.

_Giulio_ (C. Cesare), nipote di Mario, 66; candidato all’edilità (66
a. C.), 2; accordi con Crasso, 2; l’edilità di C., 2-3; e Catilina,
3; animosità contro C., 5; fa ripristinare l’elezione popolare del
_pontifex maximus_ (65 a. C.), 5; eletto _P. M._ (63 a. C.), 5;
pretore (62 a. C.), 7; difende in senato i Catilinarii, 8; minacciato
dai cavalieri, 9; propretore in Spagna (61 a. C.), 11; console (59 a.
C.), 13 sgg.; e il senato, 103; C., Crasso e Cicerone, 14; C., Crasso
e Pompeo: il primo triumvirato (fine del 60 a. C.), 14 sgg.; legge
agraria di C. (59 a. C.), 15-16; il senato e il proconsolato di C., 13,
17; riceve il proconsolato della Cisalpina e dell’Illirico (1º marzo
59 a. C.), 18; risolve la questione egizia, 18; riduce ai pubblicani il
canone d’appalto della provincia d’Asia, 19; sua seconda legge agraria
concernente la Campania, 19; sposa una figlia a Pompeo, 19; proconsole
della Narbonese, 21; C. e C. Gracco, 22; valore storico del suo
consolato, del 59 a. C., 22-25; campagna contro gli Elvezi (58 a. C.),
28 sgg.; campagna contro Ariovisto (58 a. C.), 32-33; campagna contro
i Belgi (57 a. C.), 35-36; invita il senato a dichiarar la Transalpina
provincia romana (56 a. C.), 38; prolungamento del suo proconsolato (55
a. C.), 41; doma Armorici e Veneti, 43; sconfigge Usipeti e Tencteri,
44; entra in Germania (55 a. C.), 44; primo suo ingresso in Britannia
(55 a. C.), 44; invade la Britannia (estate 54 a. C.), 45-46; in
Arvernia, 51; nel paese dei Lingoni, 52; prende Avarico, 52; assedia e
assale Gergovia, 53; sconfitto, 53; si ritira nella Narbonese (estate
53 a. C.), 54; batte Vercingetorige, 55 e 56, n. 2; assedia Alesia,
55; resiste all’esercito gallico venuto in soccorso di Vercingetorige,
55; scadenza del suo proconsolato in Gallia e sue richieste, 59 sgg.;
conflitto col senato, 59 sgg.; e Pompeo (51-49 a. C.), 60 sgg.;
dichiarato «nemico pubblico» (1º gennaio 49 a. C.), 64; valica il
Rubicone (10 gennaio 49 a. C.), occupa l’Italia Centrale, 65; offerte
di pace al senato, 67, 68; prende Corfinio, 67; tenta bloccare Pompeo a
Brindisi, 68; a Roma, 69; suo piano di guerra contro Pompeo, 69; vince
i Pompeiani in Spagna, 70; dittatore (48 a. C.), 71; console II (48 a.
C.), 71, 72; sbarca a _Oricum_, 72; a Durazzo, 72-73; sconfitto, 74;
si ritira in Tessaglia, 74; vince a Farsaglia (9 agosto 48 a. C.), 75;
ad Alessandria, 76; risolve la contesa fra Cleopatra e Tolomeo XIII,
76-77; dittatore II (47 a. C.). 77; in Egitto, 77-79; vince Farnace,
79; torna in Italia (24 settembre 47 a. C.), 79-80; console III (46
a. C.), 80; vince a Tapso (6 aprile 46 a. C.), 81; dopo Tapso: leggi
e riforme, 83; ultimi disegni, 85, 87; dittatore III, 85; console
unico (45 a. C.), 85; nuova guerra in Spagna, 86; console decennale e
_imperator_ (45 a. C.), 86; dittatore a vita (febbraio 44 a. C.), 87;
ucciso (15 marzo 44 a. C.), 89-90; l’opera di Cesare, 90-92; funerali,
97 sgg.; testamento, 97; figli. V. _Cesarione_; mal giudicato da T.
Livio, 157.

_Giunio_ (D. Silano), candidato al consolato pel 62 a. C., 6.

_Giunio_ (M. Bruto), cognato di Cassio, 88; pompeiano passato a Cesare
dopo Farsaglia, 88; le sue case distrutte, 99; fugge da Roma, 100;
s’impadronisce dei tributi della provincia d’Asia e allestisce un
grande esercito, 110; occupa la Macedonia e assedia C. Antonio, 110;
proconsole della Macedonia, Grecia, Illiria, 111; richiamato in Italia,
115; in Asia Minore, 121; sottomette la Licia, 122; vince Ottaviano
nella prima battaglia di Filippi (ottobre 42 a. C.), 124; si uccide
dopo la seconda battaglia (novembre 42 a. C.), 125.

_Giunio_ (D. Bruto), luogotenente di Cesare, 69-70, 90; assedia
Marsiglia, 70; convince Cesare a recarsi in senato (15 marzo 44 a. C.),
90; governatore della Gallia Cisalpina, 102; in guerra contro Antonio,
107 sgg.; assediato in Modena, 109, 110; alla battaglia di Modena,
112; insegue Antonio, 114; nella Narbonese, 116; sbandamento del suo
esercito, 118; ucciso, 118.

_Grecia_, 11; assegnata ad Antonio (40 a. C.), 132; gli eserciti
di Antonio in Gr., 148; Augusto in Gr. (21 a. C.), e riforme, 171;
staccata dalla Macedonia, 171; Nerone in Gr., 306.

_Guerra di Azio_ (31 a. C.), 148 sgg.

_Guerra (La) alessandrina_ (48-47 a. C.), 76-77.

_Guerra Civile (Seconda)_ (49-46 a. C.), 65 sgg.

_Guerra (La) di Modena_ (43 a. C.), 108 sgg.

_Guerra (La)_ contro i congiurati (42 a. C.), 121 sgg.

_Guerra (La) di Perugia_ (41-40 a. C.), 129 sgg.

_Guerre alpine_ (16-15 a. C.), 179 sgg.; conseguenze, 180 sgg.


_Iberi_ (Georgiani), 290.

_Idistavisus_ (battaglia) (16 d. C.), 218.

_Ilerda_, 70.

_Illiria_, 72, 111; tributo, 163.

_Illirico._ V. _Illiria_.

_Impero_, origini (27 a. C.), 160; riforma della costituzione (23 a.
C.), 167.

_Industria_, nella Cisalpina, 65; in Etruria, 65-66; in Italia durante
la seconda guerra civile, 77; nella Transalpina, 165.

_Ionie (Isole)_, 171.

_Irzio_ (A.), console (43 a. C.), 110; comanda gli eserciti contro
Antonio, 110, 111; sconfigge Antonio (43 a. C.), 112; muore nella
battaglia di Modena, 112.

_Iside_ (culto di), 246-247.

_Israeliti_ (Gli), e l’Aspettazione del Messia, 300-301.

_Istria_, invasa da barbari (16 a. C.), 178; liberata, 179.

_Italia_, condizioni economiche a mezzo il I sec. a. C., 65-66;
durante la seconda guerra civile, 77; terre ai veterani, 129; contro i
triumviri, 133; l’opinione pubblica dopo Azio, 157 sgg.; imposte 116,
133-134, 199, 304-305.

_Iturea_, 249.


_Labieno._ V. _Attio_.

_Lazio_, 120.

_Leggi_; _agraria Servilia_ (63 a. C.), 4-5; _1ª agraria Iulia_ (59 a.
C.), 15-16, 83; _2ª agraria Iulia_ (59 a. C.), 19; _2ª agraria Antonia_
(44 a. C.), 102; _Clodia censoria_ (58 a. C.), 22; _Clodia frumentaria_
(58 a. C.), 21; _Clodia de collegiis_ (58 a. C.), 22; _Clodia de jure
et tempore legum rogandarum_ (58 a. C.), 21; _Iulia municipalis_ (46
a. C.), 83; _Iulia caducaria_ (5 d. C.), 199; _Iulia de maritandis
ordinibus_ (18 a. C.) 174 sgg., 195; _Iulia de pudicitia et de
coërcendis adulteriis_ (18 a. C.), 176-177, 195; _Iulia sumptuaria_
(18 a. C.), 176; _de maiestate_, 230; _Paedia_ (43 a. C.), 118; _de
permutatione provinciarum_ (44 a. C.), 102-103; _Pompeia de ambitu_ (59
a. C.), 57; _Pompeia de vi_ (57 a. C.), 57; _Pompeia de provinciis_ (52
a. C.), 58; _Pompeia de iure magistratuum_ (52 a. C.), 58; _Titia_ (27
novembre 43 a. C.), 120; _Vatinia_ (59 a. C.), 18.

_Leggi sociali._ V. _Augusto_.

_Legioni_, preparate da Cesare per l’impresa partica, 89; ribelli ad
Antonio, 107; agli ordini di Ventidio, 115; i triumviri dispongono di
43 L., 119; otto legioni dei triumviri invadono la Macedonia, 121, 123;
distribuzione dell’esercito fra Antonio e Ottaviano dopo Filippi (41
a. C.), 128; 19 L. distribuite fra Antonio, Ottaviano e Lepido (40 a.
C.), 133; L. di Ottaviano dopo il ritiro di Lepido, 140; Antonio eleva
a 30 il numero delle sue L., 144; a difesa dell’Egitto (32 a. C.),
148; ridotte da Ottaviano a 23, 162; ammutinamenti, 214; adoperate da
Germanico per l’impresa di Germania, 217; _Legio italica_ di Nerone,
311.

_Lemovici_, 51.

_Lepontini_, 178.

_Lesa maestà_, accuse e processi di l. m., 230, 232, 235, 240, 256,
266, 294.

_Lesbo_, 224.

_Leucade_, 149.

_Liberti_, 121, 175; e Claudio, 255, 256; e il Cristianesimo, 302.

_Libia_, 143.

_Licia_, 258.

_Licinio_ (L. Lucullo), contro Pompeo, 12; e i Parti, 44.

_Licinio_ (L. Murena), candidato al consolato pel 62 a. C., 6.

_Licinio_ (M. Crasso), sue aspirazioni sull’Egitto, 1; suoi accordi
con Cesare nel 66 a. C., 2; propone la cittadinanza alla Gallia
Transpadana, 2; e Catilina, 3; e i Catilinarii, 8; contro Pompeo, 12;
console II (55 a. C.), 41; suoi disegni contro i Parti, 45; in Siria
(primavera 54 a. C.), 45; invade la Mesopotamia (estate 54 a. C.),
45; valica l’Eufrate (53 a. C.), 46; disfatto a Carre, 47; ucciso a
tradimento dai Parti (9 giugno 53 a. C.), 48.

_Licinio_ (P. Crasso), luogotenente di Cesare, 38; sottomette le tribù
galliche, tra la Loira e la Senna, 38.

_Liguri_, commercio, 66; insorgono (16 a. C.), 179.

_Livia_, moglie di Ti. Claudio Nerone, 131; madre di _Tiberio_, 131;
e _Druso_, 179; moglie di Ottaviano, 158; carattere, 158; e il partito
tradizionalista, 196-97; sospettata, 198; e Pisone, 229; muore, 234.

_Livilla_, moglie di Druso di Tiberio, e figlia di Antonia, 239; amante
di Sciano, 239; si uccide, 239.

_Livio_ (T.), storico, amico di Ottaviano, 157; maestro di Claudio, 253.

_Lollio_ (M.), sconfitto dai Germani, 179.

_Longobardi_, 200.

_Lucano._ V. _Anneo_.

_Lucca_, convegno dei triumviri a L. (56 a. C.), 39-40.

_Lucera_, 67.

_Ludi saeculares_ (17 a. C.), 177, 178.

_Lugdunensis._ V. _Gallia_.

_Lusitania_, 284.


_Macrone_, prefetto del pretorio sotto Tiberio, 238, 241.

_Magna Graecia_, 120.

_Macedonia_, 89; assegnata a M. Antonio, 102; a D. Bruto, 102-103, 108;
a C. Antonio, 110; M. Bruto occupa la M., 110; sgombra la M., 121-22;
invasa da M. Antonio (42 a. C.), 121, 122, 123; assegnata a M. Antonio
(40 a. C.), 132; invasa dai barbari (16 a. C.), 178.

_Marbod_, re dei Marcomanni, 201.

_Marcomanni_, 201, 231.

_Marsi_, 215, 219.

_Marsiglia_, città libera, 69; assediata da Cesare, 69-70.

_Media._ V. _Parzia_; _M. Atropatene_, 138.

_Messalina_ (Valeria), terza moglie di Claudio, 260; carattere, 260-61;
congiura contro Claudio?, 264 sgg.; e C. Silio, 263 sgg., 266; congiura
e divorzio da Claudio, 262-64, 265-66; figliuoli, 271; sua morte, 266.

_Messina_, 139.

_Metello._ V. _Cecilio_.

_Metone_, 148.

_Milano_, 65.

_Milone._ V. _Annio_.

_Miseno_, accordo di M. (39 a. C.), Tiberio a M., 240.

_Mitilene_, 75.

_Modena_, 65; battaglia (43 a. C.), 112.

_Munazio_ (L. Planco), 116; il suo esercito defeziona dal senato, 118.

_Munda_, battaglia (marzo 45 a. C.), 86.

_Murco._ V. _Stazio_.


_Nabatei_, 249.

_Napoli_, 68, 298.

_Narbona_, dieta di N., 164-65.

_Narciso_, 255, 266.

_Neapolis_, porto di Filippi, 123.

_Nerone_, figliuolo di Germanico, 232; designato successore al
principato (23 a. C.), 233.

_Nerone_ (Claudio Cesare), figliuolo di Agrippina e Cn. Domizio
Enobarbo, 267; prima educazione, 270; adottato da Claudio, 270-71;
imperatore, 277-278; programma imperiale, 278; tendenze artistiche,
279; primi dissapori con Agrippina, 279 sgg.; avvelena Britannico?,
281-82; politica orientale, 282 sgg.; conflitto con Agrippina, 285
sgg.; fa uccidere la madre, 286 sgg.; guerra armeno-partica (58-63 d.
C.), 290-91, 295-97; orientalismo, 291 sgg., 298; primi processi di
lesa maestà (60-62 d. C.), 294; insurrezione in Britannia, 291, 297;
canta sul teatro di Napoli, 298; e l’incendio di Roma (64 d. C.),
298 sgg.; ricostruzione di Roma, 304 sgg.; e nuovi aggravi, 304-305;
viaggio in Grecia (66-67 d. C.), 306; disegni di una guerra scitica,
311; insurrezione in Gallia, Spagna, Roma, 312 sgg.; hostis publicus,
315; si uccide (9 (?) giugno 68 d. C.), 315.

_Neroniani (Giuochi)_, 292.

_Nervii_, 36.

_Nicea_ (dieta di), 79.

_Ninfidio_ (Sabino), prefetto del pretorio, fa proclamare Galba
imperatore, 314.

_Nobiltà_ (La), nella proscrizione del 43 a. C., 120; dopo Filippi,
127. V. _Senato_; _Congiurati_; _Cavalieri_, e l’opinione pubblica
romana, 156-57; e le leggi sociali di Augusto, 176, 177; rinascita
durante il governo di Augusto, 210; sotto Tiberio, 210, 211, 240; la
giovane nobiltà, 192 sgg., 195, 284; e Nerone, 298, 312.

_Norico_, insurrezione (16 a. C.), 178, 179; provincia romana (15 a.
C.), 180.

_Noviodunum_, 52.

_Numidia._ V. _Giuba_.


_Olio_, l’Italia comincia a esportare O. (52 a. C.), 65.

_Oppio_ (Staziano), luogotenente di Antonio, 138.

_Orazio_ (Q. Flacco), e i _Ludi saeculares_, 177-78.

_Oricum_, 72.

_Osimo_, 67.

_Ostia_, 263, 266.

_Otone_ (M. Salvio), un aristocratico, primo marito di Poppea, 284;
governatore della Lusitania, 284.

_Ottavia_, sorella di Ottaviano, sposa Antonio, 133; repudiata, 142,
143, 147.

_Ottavia_, figlia di Messalina e Claudio, 271; sposa Nerone, 271;
ripudiata, 294; fatta uccidere, 294.

_Ottaviano._ V. _C. Ottavio_.

_Ottavio_ (C.) (= _Ottaviano_), sua nascita e adolescenza, 101;
si prepara ad accompagnare Cesare nella campagna partica, 101;
figlio adottivo di Cesare, 101; primi screzi con Antonio, 102, 104;
adottato nella famiglia _Iulia_ e suo nuovo nome, (_C. Giulio Cesare
Ottaviano_), 102, 103; suoi atti a favore del popolo romano, 103-104;
parteggia pel senato, 104; recluta milizie in Campania, 106-107; contro
Antonio, 107; accordi con D. Bruto e coi congiurati, 108; il senato
gli decreta grandi onori, 109; a capo degli eserciti contro Antonio,
110; alla battaglia di Modena, 112; insegue Ventidio Basso, 113-114;
a Bologna, 114; chiede il consolato pel 42 a. C., 116; si accorda con
Antonio e Lepido, 117; muove su Roma, 117; console (19 agosto 43 a.
C.), 117-118; triumviro, 119, 120; a Roma (novembre 43 a. C.), 120; in
Sicilia, contro Sesto Pompeo (42 a. C.), 123; richiamato da Antonio,
123; vinto nella prima battaglia di Filippi (ottobre 42 a. C.), 124;
Guerra di Perugia (41-40 a. C.), 129 sgg.; nuovo conflitto con Antonio
(40 a. C.), 132; accordo di Brindisi (40 a. C.), 132; accordo di Miseno
(39 a. C.) con Sesto Pompeo, 134; guerra con Sesto Pompeo (38 a. C.),
135; vince definitivamente Sesto Pompeo (36 a. C.), 139; sua potenza
dopo il ritiro di Lepido, 139-40; suo mutamento politico, 140; fa una
spedizione in Dalmazia e nell’Illirico, 141; conflitto con Antonio, 144
sgg.; provoca la _conjuratio_ dell’Italia (32 a. C.), 147-48; guerra
di Azio (31 a. C.), 148 sgg.; conquista l’Egitto (30 a. C.), 152 sgg.;
ritorno e trionfo, 154; suo disegno di restaurare la repubblica, 155
sgg.; riforme militari, 162; assume il nome di _Augusto_, 161. V.
_Augusto_.


_Pacoro_, re dei Parti, 135; muore (38 a. C.), 135.

_Padova_, 65.

_Palestina._ V. _Giudea_.

_Pallante_, 255, 267, 268.

_Panfilia_, 258.

_Pannonia_, insurrezioni, 178, 179, 185, 201, 202.

_Paolo di Tarso_, 302.

_Parisii_, 50, 53, 54.

_Parma_, 65, 114.

_Parti_, origini e impero, 44; Roma e i P. fino alla metà del I sec.
a. C., 44-45; i P., il Ponto e l’Armenia, 44; il problema partico al
convegno di Lucca, 40, 45; A. Gabinio e i P., 56, n. 2; guerra contro
Crasso (53 a. C.), 46-48; progetti di Cesare contro i P., 85, 88, 89;
invadono la Siria (40 a. C.), 131; sconfitti, 135; nuova invasione
(primavera 38 a. C.), 135; campagna di Antonio contro i P. (36 a.
C.), 137 sgg.; la Parzia assegnata ad Alessandro di Cleopatra, 143;
ambasceria a Roma (23 a. C.), 168; accordi con i Romani (20 a. C.),
172-73; nuove insurrezioni, 222; guerra armeno-partica-romana (58-63
a. C.), 290-91, 295-96. V. _Artabano_, _Fraate_, _Fraatace_, _Pacoro_,
_Vologese_, _Vonone_.

_Partito popolare_ (Il), nel 63 a. C., 9-10; accusa il senato per
l’esecuzione dei Catilinarii, 10; e il processo di Clodio, 11.

_Parzia._ V. _Parti_.

_Pasides_, 255.

_Pedio_ (Q.), (cons. 43 a. C.), un cesariano, 117; la _lex Paedia_, 119.

_Peloponneso_, assegnato a Sesto Pompeo (39 a. C.), 134; Cleopatra
fugge verso il P., 150.

_Pelusio_, 76.

_Pergamo_ 171.

_Persia._ V. _Parti_.

_Perugia._ V. _Guerra di Perugia_; decurioni di P. messi a morte da
Ottaviano, 130.

_Pesaro_, 65.

_Petina_ (Elia), seconda moglie di Claudio, 260.

_Petreio_ (M.), luogotenente di Pompeo, 70; si arrende a Cesare, 70.

_Piacenza_, 114.

_Piceno_, leve dei Pompeiani nel P., 67; occupato da Cesare, 67.

_Pictoni_, 50.

_Pisoni_ (I), e l’incendio di Roma, 299; congiura (65 a. C.), 305 sgg.
V. _Calpurnio_.

_Plancina_, moglie di C. Pisone, 226.

_Plauzio_ (P. Ipseo), 49.

_Polemone_, re del Ponto, 224-25; riceve parte dell’Armenia, 290.

_Polibio_, liberto di Claudio, 255.

_Pompeiani_ (I), in Spagna, 70-71, 85 sgg.; in Africa, 78; si alleano
col re Giuba, 78; disfatti, 81; persecuzioni contro i P., 81-82; contro
Antonio, 111.

_Pompeo, il Grande_, ritorna dall’Oriente (fine del 62 a. C.), 10;
trionfo (29-30 settembre 61 a. C.), 11; controversia col senato (61-60
a. C.), 12; le sue innovazioni in Oriente approvate, 19; sposa la
figlia di Cesare, 19; favorevole al ritorno di Cicerone, 34; console II
(55 a. C.), 41; e i Parti, 44-45; si riconcilia col senato, 57; console
unico (52 a. C.), 57 sgg.; sue leggi, 57-58; ha prorogato il governo
delle Spagne, 58; incaricato della guerra contro Cesare, 66 sgg.;
ripara in Oriente, 68; raduna un grosso esercito e una potente armata,
72; a Durazzo, 73-74; vinto a Farsaglia (9 agosto 48 a. C.), 75; fuga e
morte (settembre 48 a. C.), 75-76; glorificato da T. Livio, 158.

_Pompeo_ (Cn.), figlio di Pompeo il Grande, 85; raduna forze in Spagna,
85; muore a Munda, 86.

_Pompeo_ (Sesto), figlio di Pompeo il Grande, 85; fugge nella Spagna
settentrionale, 86; _praefectus classis et orae maritimae_, 116, 122;
occupa la Sicilia, 122; intesa con Lepido?, 128; si allea con Antonio,
132; abbandonato da Antonio, 133; accordo di Miseno (39 a. C.), 134;
guerra con Ottaviano (38 a. C.), 135; vinto da Ottaviano (36 a. C.),
139; in Oriente, 139, 141.

_Pontes Longi_ (Via dei), 217.

_Pontifex maximus_, di nuovo elettivo (63 a. C.), 5.

_Ponto_, 44, 138, 225, 249, 290.

_Poppea Sabina_, famiglia e carattere, 284; moglie di Otone, 284; sposa
Nerone, 294.

_Porcio_ (M. Catone), carattere, 9; contro i Catilinarii, 8; incaricato
di occupare Cipro (58 a. C.), 27; pompeiano, 78; si uccide a Utica (46
a. C.), 81.

_Portae Caspiae_, 311.

_Potestà tribunicia_, 168, 195.

_Pozzuoli_, 66, 100.

_Praefecti Augusti_, 180.

_Praefecti aerarii Saturni_, 163.

_Praefecti Urbi_, 85, 86.

_Praefectus morum_, 82.

_Praefectus Aegypto_, 153.

_Pretoriani_, istituiti da Augusto, 183; acclamano imperatore Claudio,
252; e Nerone, 313 sgg.; acclamano Galba imperatore, 314.

_Princeps_, 161, 188, 191, 192, 212.

_Princeps Senatus_, 144.

_Province alpine_, 180.

_Province_, imperiali e senatorie, 160; e Tiberio, 222, 240.

_Provincia._ V. _Gallia Narbonese_.

_Pubblicani_, chiedono una riduzione del canone d’appalto della
provincia d’Asia, 12; l’ottengono (59 a. C), 19. V. _Cavalieri_.


_Quintilio_ (P. Varo), governatore della Siria in Giudea, e della
Germania (4 a. C.), 196; morte (9 d. C.), 202.


_Reti_, 178.

_Retia_, provincia romana (15 a. C.), 180.

_Rimetalce_, re dei Bessi, 178.

_Rimini_, 64, 108.

_Roma_, congiura di Catilina, 5 sgg.; partiti in R. dopo il ritorno
di Pompeo dall’Oriente, 11 sgg.; il tribunale di Clodio, 20 sgg.;
anarchia (54-53 a. C.), 48 sgg.; consolato unico di Pompeo, 57-58, 68
sgg.; Cesare a Roma, 69; riforme di Cesare, 83, 86-87; uccisione di
Cesare, 89-90; agitazioni dopo le Idi del marzo 44 a. C., 92 sgg.;
funerali di Cesare, 96 sgg.; lotta tra Ottavio e Antonio, 101 sgg.;
i triumviri a R., 120; insurrezione contro i Triumviri, 133-34; R. e
il nuovo conflitto fra Antonio e Ottaviano, 146; trionfo di Ottaviano
(13-15 agosto 30 a. C.), 154; inondazione e carestia (23 a. C.), 169;
R. al ritorno di Augusto dall’Oriente (19 a. C.), 173; agitazioni dopo
la morte di Germanico, 227 sgg.; processi di lesa maestà, il popolo
di R. e Caligola, 245, 251; incendio di R. (64 d. C.), 298 sgg.;
ricostruzione, 303 sgg.; agitazioni alla caduta di Nerone, 315.

_Rubicone_ (Fl.), 64.


_Salassi_ (Val d’Aosta), 164, 166.

_Sannio_, leve dei Pompeiani nel S., 67.

_Sardegna_, 68; assegnata a Sesto Pompeo (39 a. C.), 134.

_Sarmati_, 178, 297, 311.

_Sciti_, 297, 311.

_Scordisci_, 178.

_Scribonio_ (C. Curione), tribuno della pl. (50 a. C.), 61; partigiano
di Cesare, 61; nel conflitto tra Cesare e il senato, 61; in Sicilia e
in Africa, 71-72; disfatto e ucciso, 72.

_Segeste_, suocero di Arminio, 215.

_Seiano_ (Elio), prefetto del pretorio sotto Tiberio, 233; sua
carriera, 233; contro Agrippina, 234; sua onnipotenza, 234-35, 236; fa
condannare Agrippina e Nerone, 235; console (31 d. C.), 237; congiura,
237; deposto, 238; condannato a morte (31 d. C.), 239.

_Senato_ (Il), e la questione egizia, 1; giudica i Catilinarii, 8;
contro Pompeo nel 60-61 a. C., 12-13; esautorato durante il consolato
di Cesare, 18, 19, 21; conferisce a Cesare la Narbonese, 21; decadenza
del governo senatorio nella prima metà del sec. I a. C., 23-25; approva
l’erezione a provincia della Transalpina (55 a. C.), 40; vieta a
Gabinio di guerreggiare contro i Parti, 56, n. 1; conflitto con Cesare,
59 sgg.; dichiara lo stato d’assedio, 64; si rifugia a Capua, 66;
congiura contro Cesare, 89; dopo la morte di Cesare, 93-94; seduta del
17 marzo 44 a. C., 94; seduta del 17 marzo 44 a. C., 96-97; umiliazione
del senato, 100, 101; contro Antonio, 108 sgg.; decreta il _tumultus_,
110; sedute successive, 111, 113; il S. e Ottaviano, 114; dopo il
congiungimento di Lepido con Antonio, 117-18; rifiuta il consolato a
Ottaviano, 117; senatori messi a morte dopo la guerra di Perugia (40
a. C.), 130; il S. e l’opinione pubblica romana, 156, 166; Augusto
esclude 200 senatori poveri, 157; il S. durante il primo governo di
Augusto, 166; abdica parte dei suoi poteri, 170; _lectio senatus_ (17
a. C.), 174; decadenza, 195-96; riceve da Tiberio il potere elettorale,
209-10; sua nuova autorità, 213-14; opposizione a Tiberio, 210 sgg.,
214; e il S. le condanne _de maiestate_, 230-31, 239; e Caligola, 251;
tenta ristabilire la repubblica (41 d. C.), 252; e Claudio, 252, 255;
e Agrippina, 269; e Nerone, 277, 278, 279, 313 sgg.; e Galba, 313 sgg.;
restaura la Repubblica (69 d. C.), 315; elegge Galba all’impero, 315.

_Seneca._ V. _Anneo_.

_Senoni_, insorgono (54 a. C.), 46, 50, 53.

_Sequani_, in guerra con gli Edui, 17; alleati di Ariovisto, 17;
privati di parte del territorio, 17; e gli Elvezi, 29; indipendenti
nella Gallia romana, 41; durante l’insurrezione del 53-52 a. C., 51,
53.

_Senofonte_, medico di Claudio, 275.

_Sergio_ (L. Catilina), candidato al consolato nel 64 a. C., 3;
nel 63 a. C., 6; promette l’abolizione dei debiti, 6; arma bande di
partigiani, 6-7; fallisce al consolato e macchina una insurrezione, 7;
fugge da Roma, 7; vinto e ucciso nella battaglia di Fiesole (62 a. C.),
9.

_Servilio_ (P. Rullo), tribuno nel 63 a. C., 4; sua legge agraria, 4.

_Sicambri_, 186.

_Sicilia_, occupata dai Cesariani, 68, 72; da Sesto Pompeo, 122, 123;
dominj della nobiltà in S., 120; assegnata a Sesto Pompeo (39 a. C.),
134.

_Silio_ (P.), generale di Augusto, 179; libera l’Istria da Pannoni e
Norici, 179.

_Silio_ (C.), senatore, 263; sua famiglia, 264; e Messalina, 263 sgg.;
congiura contro Claudio?, 264 sgg.; sposa Messalina, 266; morte, 266.

_Sindoni_, 258.

_Sinuessa_, 275.

_Siria_, assegnata a Crasso (55 a. C.), 41; a Dolabella, 115; a Cassio,
115; invasa dai Parti (40 a. C.), 131; assegnata ad Antonio (40 a. C.),
133; Tolomeo di Cleopatra, re di S., 143; provincia imperiale, 160;
imposte, 223; nuove annessioni, 225.

_Smirne_, 122.

_Sodalicia_, 9; sciolti da Cesare, 83.

_Sosia Galla_, madre di C. Silio, 264; amica di Agrippina, la moglie di
Germanico, 264.

_Sossio_ (C.), cons. (32 a. C.), 145.

_Spagna_, assegnata a Pompeo (55 a. C.), 41; a Lepido, 128; ad
Ottaviano, 128; provincia imperiale, 160; miniere d’oro e guerre
di Augusto (27 a. C.), 164; romanizzata, 312; _Ulteriore_, 70;
_Lusitania_, 284; _Tarraconese_, 312.

_Stazio_ (L. Murco), luogotenente di Cassio, 123; tenta bloccare
Antonio a Brindisi, 123; rinforzato dalla flotta di Domizio Enobarbo,
124; affonda la flotta dei triumviri, 125.

_Stoicismo_, 211 sgg.

_Suessioni_, 36.

_Sulpicio_ (Galba) luogotenente di Cesare, 38; sottomette il Vallese,
38.

_Surena_ (Il), 46, 48.

_Svetonio_ (C. Paolino), governatore della Britannia, 291; reprime
l’insurrezione (60 a. C.), 291, 297.

_Svevi_, popolazione germanica, 17; vincono gli Edui, 17; si installano
in Gallia, 17; scacciati dalla Gallia, 33; minacciano la Gallia, 187.
V. _Ariovisto_.


_Tacito._ V. _Cornelio_.

_Tacfarinate_, 231.

_Tapso_, battaglia (6 aprile 56 a. C.), 81.

_Taranto_, accordo di T. per la rinnovazione del Triumvirato (primavera
37 a. C.), 136.

_Tarraconese_, 312.

_Taso_, 123.

_Tauro_ (M.), 135.

_Tempio_, della _Dea Tellus_, 94; di Giove Capitolino, 99.

_Tenaro_ (C.), 148.

_Tencteri_, popolo germanico che invade la Gallia (55 a. C.), 43;
sconfitti da Cesare, 44; slealtà di tal guerra, 80, n. 1.

_Terenzio_ (M. Varrone), generale pompeiano nella Spagna Ulteriore, 70;
capitola a Cesare, 70.

_Tessaglia_, 171.

_Teutoburgo_ (Foresta di), 203, 216.

_Tiberio_ (T. Claudio Nerone), figliuolo di Ti. Claudio Nerone e di
Livia, 131; carattere, 192, 209; pretore (16 a. C.), segue Augusto
in Spagna e in Oriente, 179; guerreggia i popoli alpini, 179; in
Pannonia, 185; e Dalmazia, 188; sposa Giulia di Augusto, 189, 192; in
Germania (8 a. C.), 189; collega di Augusto, 194, 199; a Rodi (6 a.
C.), 194; torna a Roma (2 a. C.), 197; adottato da Augusto (4 d. C.),
198; riforma l’esercito (5 d. C.), 200, 201; in Germania (5-6 d. C.),
200, 201; si accorda con Marbod, 202; reprime l’insurrezione pannonica
(8-9 d. C.), 202; sul Reno, 203; esita ad accettar l’impero, 207 sgg.;
imperatore (14 d. C.), 209; trasferisce al senato il potere elettorale,
209-10; opposizioni, 207, 210 sgg., 214, 232 sgg.; politica germanica,
219, 220; gelosia verso Germanico, 220-221; suo buon governo, 221-22,
231-32, 235-36, 240; invia Germanico e Pisone in Oriente, 222 sgg.;
accusato della morte di Germanico, 227, 229; lascia Roma e si reca a
Capri (26 d. C.), 234; accusa Seiano, 238; calunnie contro Tiberio,
240; muore (16 marzo 37 d. C.), 241.

_Tiberio_, figlio di Druso, 243; adottato dall’imperatore Tiberio, 243.

_Tigellino_ (Ofonio), pref. del pretorio sotto Nerone, 294.

_Tigrane_, re d’Armenia, 172, 196.

_Tigrane_ (V), discendente di Erode Agrippa (Erode il Grande), re
d’Armenia, 290, 295; abbandonato da Roma, 297.

_Tigranocerta_, 290, 295.

_Tiridate_, rivale di Fraate, 168.

_Tiridate_, re di Armenia, 282.

_Tolomei, Alessandro II_, re di Egitto, suo testamento, 1; _Aulete_,
amico e alleato di Roma, 18; scacciato dal regno, 37; ricondotto in
Egitto da A. Gabinio, 41-42; sua morte, 75; _Tolomeo XIII_, conflitto
con _Cleopatra_, 76 (V. _Cleopatra_); fa uccidere Pompeo, 76; contro
Cesare (_Guerra alessandrina_), 77; muore (28 marzo 47 a. C.);
_Tolomeo_, figlio di Cleopatra e di Antonio, 142; re di Fenicia, Siria
ecc., 143; _Alessandro_, figlio di Cleopatra e Antonio, 143; riceve
l’Armenia e la Parzia, 143; Cleopatra, figlia di Antonio e Cleopatra,
143; riceve la Libia e la Cirenaica, 143; ricostituzione dell’Impero
dei T., 143; tesoro dei T., 154.

_Tracia_, 224; insurrezioni, 232.

_Tradizionalisti_, un partito tr. in Italia, 157 sgg.; in Roma, 173; e
Tiberio, 192, 209; e Angusto, 196; e Livia, 196, 197; e Giulia, 197; e
Agrippina 267, 284; e Nerone, 284.

_Trebellio_ (L.), un cesariano moderato, 78.

_Trebonio_ (C.), trib. pl. (55 a. C.), 41; sua legge sul proconsolato
di Crasso e Pompeo, 41; luogotenente di Cesare, 69; nella giornata
delle Idi di marzo (44 a. C.), 90.

_Treveri_, insorgono (54 a. C.), 45.

_Tribuno del pretorio_, 251.

_Triumvirato_ (Il primo), 14, 16 sgg.; convegno di Lucca (56 a. C.), 39.

_Triumvirato_ (Il secondo) (27 novembre 43 a. C.), 119, 120; programma,
119; la grande proscrizione del 43 a. C., 120; nuove imposte, 121;
guerra coi congiurati, 121 sgg.; nuove proscrizioni dopo Filippi, 127;
rinnovato fino al 1º gennaio 32 (37 a. C.), 136; dissoluzione (36 a.
C.), 189 sgg.

_Trumpilini_, 178.

_Tulliassi_, 258.

_Tullio_ (M. Cicerone), cons. (64 a. C.), 3-4; suo consolato (63 a.
C.), 5 sgg.; contro la legge agraria Servilia, 5; e i Catilinarii, 8;
sua popolarità, 9; concilia senato e cavalieri, 9; contro Clodio, (62
a. C.), 11; legge Clodia contro C., 27-28; esiliato, 28; suo richiamo,
33-34, 36-37; e l’orazione _De provinciis consularibus_, 40; suo
giudizio sulla dittatura di Cesare, 86-87; dopo la morte di Cesare, 94;
sua proposta di amnistia (17 marzo 44 a. C.), 96; lascia Roma (6 o 7
aprile 44 a. C.), 100; il _De Officiis_ e suo valore storico-politico,
103-105, 161; a capo del partito dei congiurati contro Antonio,
108 sgg.; la _Terza Filippica_ (20 dicembre 44 a. C.), 108; _Quinta
Filippica_ (1º gennaio 43 a. C.), 108-9; la _Decima Filippica_, 111;
e il consolato del 42 a. C., 116-17; uccisione (43 a. C.), 120; il
concetto fondamentale del _De Republica_, 159-60.

_Tullio_ (L. Cimbro), uno dei congiurati contro Cesare, 90.

_Tumultus_, 110.

_Turoni_, 50.

_Tusnelda_, moglie di Arminio, catturata, 215.


_Ubii_, 269.

_Ummidio_ (C. Quadrato), governatore della Siria, 283.

_Urgulanilla_ (Plauzia), prima moglie di Claudio, 260.

_Usipeti_, popolo germanico che invade la Gallia (55 a. C.), 43;
sconfitti da Cesare, 44; slealtà di tal guerra, 80, n. 1.

_Utica_, 81.


_Vada Sabatia_ (Vado), 115.

_Vatinio_ (P.), tribuno della pl., 18; sua legge del 1º marzo 59 a. C.,
18, 59; pretore (55 a. C.), 41.

_Vectigalia_, 285.

_Vellaunodunum_, 52.

_Veneti_, popolazione gallica, sua insurrezione, 43.

_Vennoneti_, 178.

_Ventidio_ (P. Basso), ufficiale di Antonio, 109, 111, 112, 113, 115;
sconfigge i Parti, 135.

_Vercelli_, 65.

_Vercingetorige_, principe degli Arverni, 50; capo dell’insurrezione
gallica, 51 sgg.; guerra contro Cesare, 51, 52, 53; vinto da Cesare,
55, 56, n. 2; assediato in Alesia, 55-56; capitola (settembre 52 a.
C.), 56.

_Verona_, 65.

_Vesontium_ (Besançon), battaglia (68 a. C.), 313.

_Vespasiano_ (T. Flavio), famiglia, 309; carriera, 309; a capo della
Guerra di Giudea, 309 sgg.

_Veterani_, alla morte di Cesare, 94-95, 100; terre ai V., 100, 128
sgg.; legge agraria pei V., 102; negli eserciti di Antonio e di D.
Bruto, 110, 125; nella guerra di Perugia, 130.

_Via, Egnazia_, 123; _Emilia_, 112; vie aperte da Augusto, 180; dei
_Pontes longi_, 217.

_Vibio_ (C. Pansa), cons. (43 a C.), 111; comanda gli eserciti della
Repubblica contro Antonio, 111; sconfitto e ferito a _Forum Gallorum_,
112; muore, 113.

_Vindelici_, 178.

_Vindice_ (C. Giulio), un aquitano, 312; governatore della Lugdunense,
312; insurrezione (68 d. C.), 312; vinto, si uccide, 313.

_Viniciano_ (Annio), senatore e capo dei congiurati contro Claudio, 256.

_Vipsanio_ (M. Agrippa), generale di Ottaviano nella guerra di Perugia
(41-40 a. C.), 130; costruisce una nuova armata per Ottaviano, 136;
generale di Ottaviano nella guerra di Azio (31 a. C.), 149 sgg., 152;
e Augusto morente (23 a. C.), 167; sposa la figlia Giulia di Augusto,
174; collega di Augusto (17 a. C.), 174, 184, 185; autore del piano
d’invasione della Germania, 184; muore (12 a. C.), 185; figliuoli, 193,
196, 226.

_Virgilio_ (P. Marone), 158.

_Virginio_ (L. Rufo), governatore della Germania superiore, reprime
l’insurrezione di Vindice (68 d. C.), 313; proclamato imperatore, 313.

_Vologese_, re dei Parti, 282-83; trattative con Nerone, 283; attacca
la Siria (61 a. C.), 295; nuove trattative, 295.

_Vonone_, re dei Parti, 222; scacciato, 222; re d’Armenia, 222, 223.


_Zela_ (nel Ponto), battaglia (2 agosto 47 a. C.), 79.

_Zelanti (Zeloti)_, 307, 310.

_Zenone_, re d’Armenia, 224.



INDICE DEI CAPITOLI


  L’agonia del governo aristocratico                  _Pag._ 1
  L’annessione della Gallia                                 27
  La crisi della politica Cesariana                         43
  La seconda guerra civile (49-46 a. C.)                    57
  La dittatura e la morte di Cesare                         81
  La terza guerra civile (44-42 a. C.)                      93
  Le crisi e la caduta del Triumvirato (42-31 a. C.)       127
  La Repubblica di Augusto                                 155
  La successione di Augusto                                191
  Tiberio (14-37 d. C.)                                    207
  Caligola e Claudio                                       243
  Nerone                                                   275

  Indice alfabetico-analitico                              319


                        ERRATA           CORRIGE

  P.   16,  r.     28.  51 a. C.         59 a. C.
  P.   63,  r.     21.  7 gennaio        10 gennaio
  P.   70,  r.  24-25.  2 agosto 48      2 agosto 49
  P.   71,  r.     29.  47-48            49-48
  P.  131,  r.     30.  Ilerda           Munda
  P.  161,  r.      2.  51               52


  FINITO DI STAMPARE A FIRENZE
  NELLA TIPOGRAFIA ENRICO ARIANI
  IL XXIX AGOSTO MCMXXI



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 343 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.
La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice.




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