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Title: Roma antica, Vol. 1/3 : La preparazione e il trionfo
Author: Barbagallo, Corrado, Ferrero, Guglielmo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Roma antica, Vol. 1/3 : La preparazione e il trionfo" ***


                           GUGLIELMO FERRERO
                          E CORRADO BARBAGALLO


                              ROMA ANTICA


                                   I.

                      LA PREPARAZIONE E IL TRIONFO



                                FIRENZE
                           FELICE LE MONNIER
                                  1921



                     Proprietà letteraria italiana

                        Copyright by G. FERRERO
                           and C. BARBAGALLO

   _Le copie che non portano la firma di uno degli Autori s’intendono
                             contraffatte._



PREFAZIONE


Questo libro è stato scritto per agevolare il compito a coloro che
devono insegnare e imparare la storia di Roma nelle scuole. Agli uni
ed agli altri ci parve potesse essere di aiuto un’opera, la quale
esponesse quella storia nella lunga concatenazione dei singoli episodî,
che non si possono intendere a pieno se non nell’unità di cui fanno
parte. Se il libro potrà essere di qualche vantaggio anche alle persone
vaghe di istruirsi per proprio desiderio, tanto meglio. Nell’età
fortunosa in cui viviamo, non perde il suo tempo chi indugia qualche
ora a sfogliare il grande volume del passato.

La visione e la esposizione della storia romana, che il lettore troverà
in queste pagine, sono quelle stesse che tanto piacquero agli uni
e tanto spiacquero agli altri in _Grandezza e Decadenza di Roma_.
Dalla morte di Silla alla morte di Augusto quest’opera riassume la
precedente. Prima e dopo continua e prolunga, impicciolendolo un
poco nelle proporzioni, il disegno di questa: quale sarebbe stato
se _Grandezza e Decadenza_ avesse preso le mosse dalla fondazione
dell’Urbe; quale sarà quando _Grandezza e Decadenza_ sarà portato a
compimento. Il mio collaboratore ed amico ha acconsentito a servirsi
di questo disegno, non tanto per una cortesia, di cui potrei essergli
gratissimo, come gli sono grato dei ritocchi e dei miglioramenti che a
quello ha apportati, quanto per un’intima comunanza di vedute.

Posso aggiungere che questo libro è stato composto e pubblicato anche
per aiutare quel riscatto spirituale della nazione, a cui sarebbe tempo
di por mano davvero con le opere e non soltanto nei discorsi? Da cinque
anni questo riscatto è l’occasione e il pretesto di tante vanissime
ciarle e di tante imposture, che chi senta di aver per quello lavorato
davvero, ha quasi scrupolo e noia di parlarne. Accennerò tuttavia anche
a questo punto, perchè crediamo, il mio collaboratore ed io, di potere
senza arroganza annoverarci tra i pochi, che non hanno improvvisato
nessuna teoria sulla scienza e sul pensiero tedesco, per i bisogni
della piazza e dell’ora, dopochè la guerra mondiale è scoppiata.
Quanto a me personalmente, in mezzo al fragoroso rovinare della civiltà
occidentale, distrutta a mezzo dalla mostruosa forza della Germania,
ho continuato a dire e a pensare del pensiero tedesco, svolgendolo
e chiarendolo alla luce degli eventi, ciò che avevo già o detto o
chiaramente accennato prima della guerra, massime nel libro, dove è la
chiave del mio pensiero: il _Tra i due mondi_. Posso dunque continuare
senza sospetto, presso gli uomini di buona fede, a svolgere questo
pensiero, per quanto concerne la storia.

La Germania ha nell’ultimo secolo sfogato anche nella storia il suo
impeto, la sua alacrità e la sua vasta ambizione. Ha scritto più che
i popoli latini, e con foga ed audacia maggiori. Ma nel molto che
ha scritto c’è del buono, del mediocre e del cattivo; tra i quali
— ed è stato il suo primo torto — il nostro insegnamento ufficiale
non ha saputo scegliere. Esso ha ammirato come un capolavoro ogni
opera stampata in caratteri gotici; ha accolto con grandi inchini e
riverenze, e raccomandato ai giovani come modelli, anche libri mediocri
e cattivi. Quanto agli autori buoni e di merito, essi sono numerosi e
ricchi di pregi, che anche a noi gioverà imitare con discrezione; ma
tenendo presente che spesso incorrono in due difetti pericolosi, da cui
abbiamo cercato che questa opera fosse esente.

Primo difetto: quel volere a tutti i costi travestire la storia da
scienza. La storia non è una scienza, almeno se chiamandola scienza si
vuole appaiarla alla chimica, alla fisica o alla fisiologia. Queste
studiano, per via di esperimento o di osservazione, dei fenomeni che
si ripetono e cadono sotto i sensi, almeno in parte. La storia non
sperimenta, non osserva, e non studia neppure dei fatti che cadono
o che potrebbero cadere sotto i sensi, ripetendosi; ma cerca di
_divinare_ e descrivere, valendosi di ricordi frammentarî, degli «stati
di animo» di uomini, o di gruppi di uomini, o di folle, che vissero
e operarono nel passato. Il documento non è, come l’esperimento o
il fatto osservato, l’oggetto della ricerca, ma il segno visibile,
spesso indiziario e quasi stenografico, di questo oggetto invisibile,
e che non può rivivere alla meglio se non nell’immaginazione e
nell’intuizione dello storico, aiutate dal ragionamento. Chi tratta
dunque la storia come una scienza, chi parla ad ogni momento, a
proposito della storia, di metodi, di conclusioni e di scoperte
«scientifiche», confonde come identiche operazioni mentali e criterî
di verità e di certezza, che nella storia e nelle scienze vere sono
diversi.

Senonchè questo difetto è il meno grave dei due, perchè, quando lo
storico è valente, alla fine trova nel suo cammino la storia, anche se
si è messo in viaggio per cercare la scienza.

Più grave invece è il secondo difetto, che sta nel trasportare entro
la storia antica quello che si potrebbe chiamare l’_illimitato_
della civiltà moderna. Dalla rivoluzione francese in poi la civiltà
occidentale sta tentando la prova forse più temeraria, in cui il
genere umano abbia cimentato sinora le sue forze; e che spaventò come
empio delirio gli antichi, ogniqualvolta l’orgoglio e l’ambizione la
fecero loro intravedere possibile: togliere a tutte le forze fattive
e creative dello spirito umano ogni freno interno, spingerle anzi a
svolgersi ed ingrandirsi fino all’estremo limite della possibilità,
che nessuno sa dove sia, e che tutti vogliono collocare più lontano,
quanto più le forze crescono ed ampliano il proprio dominio. Gli
antichi invece intendevano la vita e il consorzio civile proprio nel
modo opposto: come uno sforzo chiuso entro limiti insuperabili, perchè
dichiarati inviolabili dalla tradizione, dalla volontà degli Dei, dalla
saggezza degli uomini, dalla loro debolezza e povertà, dalle leggi.

Questo rivolgimento è il più grande che sia avvenuto nella storia del
mondo, dopo l’apparizione del cristianesimo. Esso ha mutato talmente
le idee, i sentimenti, le istituzioni, i costumi, che la civiltà
antica, la sua arte, la sua morale, la sua politica è diventata per i
moderni poco meno di un immenso geroglifico, la cui chiave è perduta e
pochi segni appena sono intelligibili ancora. Le generazioni che hanno
imparato l’arte di governare alla scuola delle rivoluzioni e delle
guerre del secolo XIX, che si sono avvezzate a viaggiare il mondo in
ferrovia ed in piroscafo, che ora imparano perfino a volare, non si
imaginano neppure quanto sia loro difficile di intendere una statua
greca, o un’ode di Pindaro, o le _Georgiche_ di Virgilio, o un dialogo
di Platone, o un capitolo del Vangelo, o la politica del Senato romano,
o i tempi e la vita di Giulio Cesare. Persuasi come siamo tutti, o
quasi tutti, che il mondo in cui viviamo è il solo vero e perfetto;
che tante generazioni ci hanno preceduti solo per preparare questa
felice potenza, di cui siamo così orgogliosi, noi rammoderniamo troppo
spesso l’antico, proprio in quelle cose e parti in cui più differiva da
noi, e opponeva al nostro ideale della vita uno specchio di perfezione
opposto, in cui riconoscere i nostri difetti.

Questo rammodernamento è, in misura diversa, vizio comune a tutti gli
storici moderni dell’antichità; ma negli storici tedeschi è maggiore
che negli altri, forse perchè la Germania è tra le nazioni moderne la
più spiritata dall’«eroica follia dell’illimitato», e l’ha pur troppo
mostrato recentemente, trascinando per i capelli il mondo là dove
ora è. Esempio: Teodoro Mommsen, il maestro di quanti hanno strappato
al suo secolo la storia romana per travestirla nel nostro. Per quale
ragione ha egli falsato così profondamente la storia di Roma? Per la
difficoltà di capire uno Stato in cui l’_élite_ governante fosse, come
a Roma, non _chiusa_, ma _limitata_. Dopo la rivoluzione francese, gli
Stati dell’Europa, pur differendo fra loro per la forma, i principî
e gli spiriti, hanno avuto in comune quella che si potrebbe chiamare
la dilatabilità: una forza interna, per cui i gruppi dirigenti —
così l’aristocrazia come l’alta e la media borghesia — facilmente
e continuamente si allargavano, crescevano di numero, e quindi
offrivano allo Stato un personale più numeroso ad ogni generazione,
nel tempo stesso in cui gli chiedevano posti, cariche, stipendî, onori
in quantità maggiore. In Roma antica, invece, l’aristocrazia a due
piani — ordine senatorio, ordine equestre — che la governava, non era
chiusa, perchè anch’essa si rinnovava; ma era limitata, perchè non solo
cresceva poco, e a distanza di secoli, ma di nulla aveva più orrore che
di crescere troppo. Molto più frequenti che gli ampliamenti dei gruppi
dirigenti e gli innesti, sono, nella storia romana, le riduzioni, i
tagli, le potature: onde, mentre negli Stati moderni accade spesso che
il gruppo dirigente cresca spesso più rapidamente che la superficie,
la ricchezza e la potenza dello Stato, nella storia di Roma accade
l’opposto. L’impero, la sua potenza e le sue ricchezze crescono più del
gruppo dirigente.

La ragione di questa differenza sta in quel grande rivolgimento della
storia umana, a cui abbiamo accennato. Stati, quali i moderni, che
ambiscono solo di accrescere la propria potenza e ricchezza, hanno
bisogno di un personale sempre più numeroso, anche se preparato in
fretta e alla meglio. Gli Stati antichi, invece, miravano a una certa
perfezione intrinseca, che li facesse durare: onde esigevano dai
governanti una preparazione più lunga e più laboriosa, e ambivano
piuttosto di averne pochi ma buoni, che molti e scadenti. Il Mommsen
non ha avuto sentore di questo divario; e allora a che gli ha servito
di aver trascritto e commentato tante iscrizioni, di aver raccolto e
studiato tanti testi? Egli ha cercato invano nello Stato romano quella
temerità imprevidente, quel disprezzo delle forme e dei principî
legali, quella cieca venerazione del successo, quell’adocchiare
desideroso e arruffare tutto il possibile, quell’avventurarsi
precipitoso nell’avvenire, quella smania di alterarsi e snaturarsi, che
sono proprî degli Stati moderni. E perciò non ha capito quella lotta
continua tra la potenza e la saggezza, tra la ricchezza e la coscienza
morale, che è la trama grandiosa di tutta la storia di Roma; e si è
smarrito in quella tragica contraddizione di una società che sa di
dover perdere la sua forza se esce dai limiti angusti della disciplina
tradizionale e perciò vuol chiudercisi; mentre da ogni parte gli eventi
la incalzano ad uscirne per conquistare il mondo e i suoi tesori.

Noi abbiamo cercato di liberarci da tutti i preconcetti modernizzanti,
che hanno impedito a tanti storici di capire questo dramma: uno dei
più immensi della storia, agli occhi di chi sappia abbracciarlo tutto.
E raccontandola succintamente con sufficienti particolari, crediamo di
avere anche somministrato un soggetto di utili meditazioni ad un’età,
la quale precipita in una orrenda anarchia, perchè tutti gli Stati,
presi dalla smania di espandersi, quasi si vuotano e non sono più
capaci di stare entro se medesimi.

Non è forse opera vana opporre a questa febbre distruggitrice l’esempio
di una nazione antica, che potè espandersi nel mondo nel tempo stesso
con tanta fortuna e travaglio, perchè riluttò sempre a uscire da se
medesima; e volle chiudersi in se medesima perchè sapeva che uno Stato
può essere grande o piccolo, ma, grande o piccolo, non può avere forza
e coesione e una certa padronanza del suo destino, se non si propone un
certo ideale di perfezione morale e civile, che valga più della potenza
e della ricchezza. Perchè queste sono spesso dono della fortuna; quello
è opera e merito dell’uomo.

  _Firenze, ottobre 1920._

                                                                G. F.



CAPITOLO PRIMO

LA MONARCHIA E IL PRIMO TENTATIVO MERCANTILE DI ROMA

(754?-510? a. C.)


1. =L’Italia nell’VIII secolo a. C.= — I tempi, a cui risalgono le
prime e incerte notizie di Roma, sono per noi il principio della
storia nostra. Ma per gli uomini che li vissero, erano la fine di
una lunga storia precedente, a noi quasi ignota. Quanti avvenimenti
aveva già veduti l’Italia, verso la metà dell’ottavo secolo a. C.!
Aveva veduto ricoverarsi nelle caverne gli uomini che lavoravano la
pietra e cacciavano con le frecce aguzze di onice le belve sui monti
boscosi; aveva veduto emergere dai laghi e dai fiumi i villaggi difesi
dalle acque; aveva veduto quella forza misteriosa che non dà tregua
alle genti umane, l’invenzione, fare la prima immensa rivoluzione
della storia, creando il bronzo, estraendo e plasmando il ferro; aveva
veduto, man mano che l’uomo aveva imparato a fabbricare strumenti più
utili e saldi, moltiplicarsi gli armenti, diffondersi la coltivazione
dei cereali, i primi tralci delle viti pendere dagli alberi, curvarsi
gli ulivi sulle pendici, i colli incoronarsi di città turrite, e le
industrie e le arti, che si dicono civili, fare le prime loro prove.
Ma aveva veduto pure infuriare la guerra; e genti diverse invaderla
da ogni parte, contendersi le regioni con le armi. Verso la metà del
secolo VIII a. C. l’Italia era già popolata da razze diverse: ma quante
fossero e quali, e in che differissero propriamente, onde venissero e
dove risiedessero è impossibile dire con sicurezza. I dotti del secolo
XIX, per i quali la storia non ha segreti, hanno preteso di saperla
lunga anche su questo punto; ma, secondo il loro costume, ognuno
cercando di dimostrare che tutti i predecessori erano stati in errore.
Sarebbe vana fatica avventurarsi in loro compagnia in questa jungla
di discussioni sottili e inconcludenti: meglio varrà riassumere le
conclusioni più probabili, dicendo che, nel secolo VIII, mentre sulle
coste meridionali incominciavano a metter piede le colonie greche e ad
apparire la Magna Grecia, di cui erano già, o sarebbero fra non guari,
ornamento _Cuma, Posidonia, Metaponto, Reggio, Locri, Crotone, Sibari,
Taranto_, la maggior parte dell’Italia meridionale e dell’Italia
centrale era occupata da una popolazione, a cui si suol dare il
nome comune di Italici. Questa popolazione, che forse era partita
insieme con gli Elleni dall’Oriente, ed era entrata nella penisola
attraversando l’Illiria e l’Adriatico, si raccoglieva in gruppi
distinti, di cui quello degli abitatori del Lazio passerà alla storia
col nome di _Latini_; gli altri, posti a settentrione, a oriente e a
mezzogiorno del Lazio, saranno chiamati _Umbri, Piceni, Sabini, Equi,
Marsi, Vestini, Marrucini, Ernici, Volsci, Peligni, Frentani, Sanniti,
Osci, Lucani_: ma tutti fratelli per lingua, per religione, per
istituzioni e costumi; tutti popoli agricoltori e guerrieri, che non
avevano ancora fondato molte città; che esercitavano solo le industrie
più semplici, trafficavano poco, e vivevano semplicemente. Altri due
popoli di cui si può congetturare che avessero comune con gli Italici
la stirpe, risiedevano nella pianura padana; i _Liguri_ a occidente,
dal mare e dalla Macra al Ticino alle Alpi ed al Varo; i _Veneti_ a
Oriente, dall’Adige all’incirca e dai monti fino allo specchio del
mare Adriatico. Infine lo spazio che intercedeva tra il territorio
indipendente dei Veneti e dei Liguri, e tra questi due popoli e gli
Italici, e cioè la parte migliore dell’Italia, era dominato dagli
_Etruschi_. Occupavano tutto il territorio, che si estendeva dalla
radice delle Alpi centrali, fino all’Italia media ed al Tevere,
toccando da un lato l’Adriatico, dalla foce dell’Adige al Rubicone;
dall’altro, il Tirreno, dalla Magra al Tevere; si erano impadroniti
dell’Elba, l’isola ricca di piombo e di ferro; avevano colonizzato le
terre occidentali della Corsica e avevano occupato anche, in pieno
territorio popolato dagli Italici, una delle regioni più felici
dell’Italia: la Campania. Non erano però potenti solo per la vastità
del territorio e per la ricchezza, ma anche per le arti e per la
cultura: poichè, insieme con i Greci, che incominciavano a colonizzare
l’Italia meridionale, essi erano, in mezzo ai Liguri, ai Veneti, agli
Italici ancora poveri e semplici, il gran popolo navigatore, mercante,
industrioso e, per i tempi, colto e civile, dell’Italia. Disputatissime
ne sono le origini e la stirpe, come quasi ignota è la lingua: ma
certo è invece che essi correvano il mare — pirati o mercanti —
con molte navi; che avevano costruito molte città sui monti o nel
piano — _Mantova, Felsina_ (Bologna), _Ravenna, Volterra, Fiesole,
Arezzo, Vetulonia, Populonia, Tarquinii, Caere, Veio, Perugia_; che,
imitando i Fenici e i Greci, si studiavano di far prosperare in quelle
le industrie e le arti; che professavano una religione propria ed
eccellevano nell’architettura e nella pittura; che avevano fortificato
e provvisto le loro città di acquedotti e di cloache; che scolpivano
il legno e la pietra, e conoscevano un ordinato regime politico. Non
formavano un vasto impero, ma una confederazione di piccoli Stati,
ognuno governato da Re (_lucumoni_); e probabilmente tenevano diete
periodiche, sentendosi, come gli Elleni, un solo popolo e una sola
gente, divisa in città e Stati diversi.

Nell’Italia, dominata dagli Etruschi, colonizzata dai Greci, popolata
in tanta parte da popolazioni cosiddette italiche, fu fondata Roma.
Quando? Come? Da chi? Per quale ragione?


2. =La fondazione di Roma (754? a. C.).= — Quella scuola storica, che
ha nell’ultimo secolo fiorito in tutta Europa, e che con parola greca
germanizzata si è detta _critica_, ha di solito il difetto di volere
troppo spesso e a tutti i costi ripescare nell’oceano del passato
anche le notizie, affondate a tanta profondità che nessun palombaro può
sperare di scendere fino laggiù. Perciò parecchi discepoli di quella
scuola troppo ardita si son proposti di dimostrare che la tradizione
sbaglia i suoi conti, quando ci racconta che Roma è stata fondata
verso la metà del secolo ottavo a. C. e, precisamente, secondo la
data, ormai universalmente accettata, negli anni 754 o 753. E Dio sa
se questi critici non hanno fatto spreco di induzioni ingegnose e di
argomenti sottili! Il male è che ad uno storico ingegnoso non faranno
mai difetto gli argomenti sottili per sostener qualunque tesi, di cui
si innamori, e che questa volta tutte le congetture e i sillogismi e
i ragionamenti si rompono contro un fatto: aver Roma sempre affermato
ufficialmente, nella sua cronologia, _ab urbe condita_, di essere
stata fondata verso la metà dell’VIII secolo a. C. I Romani antichi
erano in grado di sapere meglio di noi quando la città loro era stata
fondata: chè se poi anch’essi avevano dimenticata, per una ragione o
per un’altra, la vera data, pare poco probabile che riesca a noi, dopo
tanti secoli, di rintracciarla. Sinchè non si scopra chi, come, quando
e perchè abbia falsificato la data della fondazione, sarà necessario
prestar fede alla cronologia ufficiale, che è documento più sicuro
dei più ingegnosi ragionamenti moderni; e argomentare dall’aver essa
ufficialmente contato gli anni suoi _ab urbe condita_ che Roma non
crebbe a caso per un lento processo di sviluppo spontaneo, ma sorse già
adulta per un atto di volontà: fu fondata da un uomo o da una città o
da un popolo. Molto più difficile invece è sapere chi la fondò. Quante
leggende ci ha raccontate l’antichità! La più antica favoleggiava che
Roma sarebbe stata fondata da un eroe, figlio di Giove, un _Romo_, che
le avrebbe imposto appunto il suo nome. Ma questa ed altre leggende
consimili erano troppo semplici, per spiegare le origini di una città
così illustre e potente: onde a poco a poco si frugò, affinchè anche
Roma avesse le sue patenti storiche di nobiltà, in quella specie
di archivio, che tante altre città del mondo mediterraneo avevano
saccheggiato: nella poesia greca e nei miti e nelle leggende, che
essa ha trattati con tanto splendore. Enea era stato preso di mira
in modo particolare, perchè, avendo molto viaggiato, poteva aver
denominato o fondato quanti luoghi e città si voleva. Così Capri si
gloriava di derivare il suo nome da una cugina dell’eroe; Procida, da
una nipote; Aenaria (Ischia), da Enea stesso; Capua, dal suo avolo,
Capio; il golfo di Gaeta, dalla nutrice. D’altra parte la leggenda
omerica aveva favoleggiato che la gente di Priamo non sarebbe tutta
perita, e che, per un gettone dei suoi rami collaterali, rinascerebbe a
maggiore gloria dalle sue ceneri. Riconducendo l’origine di Roma fino
ad Enea, si faceva predire la grandezza di Roma da Omero in persona.
Il primo re di Roma — Romo o Romolo — sarebbe stato dunque figlio di
Enea! Ma questa favola, così lusinghiera per l’amor proprio romano,
non poteva durare a lungo, per una difficoltà cronologica, di cui
gli antichi, anche senza aver studiato nei seminari filologici, non
tardarono ad accorgersi. Romolo non poteva essere precisamente figlio
di Enea perchè, ragguagliate la cronologia greca e la romana, tra la
distruzione di Troia e la fondazione di Roma correvano troppi più anni
di quanti possono correre fra un padre e un figlio. La leggenda fu
allora ritoccata, probabilmente amalgamata con leggende e tradizioni
indigene; e Roma discese da Troia e da Enea, ma attraverso una lunga
genealogia di Eneadi. Un figliuolo di Enea, Ascanio, aveva fondato Alba
Longa, capitale di un mitico regno del Lazio, che era stato governato
dopo di lui da una lunga genealogia di Re: gli ultimi dei quali,
Numitore ed Amulio, erano venuti in discordia; e l’uno, il maggiore,
sarebbe stato sbalzato di trono dal fratello, che, per maggior
precauzione, avrebbe condannato ad eterna verginità, come Vestale, la
figliuola, Rea Silvia. Ma il Dio Marte avrebbe vendicato l’usurpazione,
e i due gemelli, nati dal Dio e dalla Vestale, avrebbero riposto sul
trono l’avolo Numitore. Solo più tardi la nostalgia del luogo natio
avrebbe indotto i due giovani a fondare una nuova città; ne avrebbero
ottenuto licenza da Numitore; e, postisi a capo della fazione albana,
irrequieta fautrice di Amulio e avversa al legittimo re, avrebbero sul
Palatino e sulla sinistra del Tevere, in luogo acconcio alla difesa
e al commercio, costruito una città, che sarebbe stata una colonia di
Alba e l’emporio di tutto il paese.


3. =Fu Roma fondata dagli Etruschi?= — Così Roma sarebbe pronipote
di Troia e figlia di Alba. Che fosse pronipote di Troia è certamente
una favola; ma si può ritenere invece che sia figlia di Alba? Che
Alba abbia fondata una colonia sulla riva sinistra del Tevere non è
inverosimile. Ma una difficoltà si presenta.

Roma apparisce essere stata nei suoi primi due secoli una città
mercantile e industriosa. Avremo occasione di ritornare spesso su
questo punto, che è capitale per l’antica storia di Roma. Ora è certo
che i Latini erano a quel tempo agricoltori; fabbricavano pochi e
rozzi oggetti per soddisfare i loro semplici bisogni, e compravano
dagli Etruschi i pochi oggetti di lusso di cui si contentavano. Non
si capisce come avrebbero fondato, scendendo dai monti sulle rive del
Tevere, una città, che divenne presto sede fiorente di industrie. Nè si
capisce come il Lazio potesse alimentare un ricco commercio. Il Lazio
non aveva derrate da vendere ai forestieri: produceva scarso farro, non
frumento, poco vino e mediocre; non aveva miniere: aveva invece boschi
antichi e magnifici; e quindi avrebbe potuto far grosso commercio di
legname. Ma noi sappiamo che i suoi boschi erano quasi intatti nella
seconda metà del secolo IV a. C.: segno che i secoli precedenti non
avevano dilapidato quella preziosa ricchezza[1]. Se dunque, come
vedremo e come è certissimo, Roma fu, nei primi suoi tempi, una città
industriosa, altri popoli oltre i Latini devono aver posto mano a
fondarla; e se fu nel tempo stesso un porto e un emporio, dovette
essere il porto e l’emporio, non già del Lazio, che non aveva quasi
nulla da vendere, ma di altre contrade dell’Italia media, già fiorenti
per industria e per traffici, che di quel porto abbisognavano. Questa
considerazione deve indurci a prendere in seria considerazione una
ipotesi immaginata da più di uno storico moderno: se Roma non sia stata
colonia etrusca[2].

L’ipotesi potrà sembrare sul principio strana, ma essa trova qualche
appoggio in notizie antiche. Dionisio di Alicarnasso dice che una
tradizione assai diffusa voleva Roma fondata dagli Etruschi[3].
D’accordo con questa antica tradizione, gli eruditi moderni si sono
messi alla ricerca degli argomenti atti a confermarla, e ne hanno
trovati in quantità. Ci sono ragioni che permettono, se non di provare,
di congetturare senza temerità che etrusco possa essere addirittura
il nome di Roma, derivato dalla gente dei _Ruma_; etrusco, secondo
l’etimologia e la tradizione, quello delle tre tribù che formarono il
primo popolo romano, _Ramnes, Tities, Luceres_; etruschi, i nomi di
tutti i Re, e non soltanto quello dei Tarquinî; etrusco, il modo in cui
la città fu costruita e i casolari sparsi sul Palatino ridotti ad unità
urbana; etrusca, l’arte primitiva di Roma fino al III secolo[4]. Certo
è poi che Roma, appena sorta, si mostrò nemica delle genti latine;
che distrusse Alba e i minori borghi vicini; che nei primi secoli
le grandi famiglie romane imparavano l’etrusco, come più tardi il
greco[5]; che etrusche infine erano le norme della religione e — quel
che ha maggior peso — del più antico commercio laziale[6]. Come indizi
dunque, ce ne sono molti più che non occorrano ad uno storico moderno
e modernizzante, per congetturare che in un tempo, in cui le città
etrusche tenevano tanta parte dell’Italia settentrionale e centrale,
nonchè la Campania, esse si sarebbero, fondando Roma, impadronite
delle foci del Tevere, e della grande via fluviale, per cui l’Etruria
centrale poteva sboccare nel Tirreno, avvicinando la parte meridionale
dell’Impero etrusco, la Campania, alla parte settentrionale, l’Italia
del nord. Onde se Roma, sempre secondo questa dottrina, fatta adulta
e potente, rinnegò la sua discendenza, il popolo enigmatico degli
Etruschi, che è sparito portando con sè nella tomba il proprio segreto,
vivrebbe ancora ignorato nelle due grandi metropoli della civiltà
italiana: Roma e Firenze.

Ipotesi senza dubbio attraente, sia per gli ingegnosi argomenti, con
cui l’erudizione può sostenerla; sia perchè spiega come Roma abbia
potuto sorgere in mezzo a genti rustiche e semplici, quale prospera
città di commerci e di industrie, e sede di civiltà, per i suoi tempi
cospicua. Gli Etruschi erano più atti dei Latini a fondare un florido
emporio sulle rive del Tevere, verso la metà del secolo VIII a. C.
Tuttavia è una congettura, che può apparir verisimile, ma che non
può provarsi con un argomento decisivo, e contro la quale sta pur
sempre la tradizione. Come spiegare, se Roma fu fondata e governata
per più di due secoli dagli Etruschi, che sotto la repubblica essa
abbia potuto latinizzarsi a segno, da dimenticare interamente la sua
origine? D’altra parte è proprio necessario sconvolgere a questo modo
la tradizione, per spiegare la storia della Roma dei Re? Non potè Roma,
per essendo in origine colonia latina di Alba, mutarsi in città di
commercio e di industria? Esaminiamo, per rispondere, la tradizione.


4. =La Roma dei Re.= — Come è impossibile decidere se Roma fa fondata
dai Latini o dagli Etruschi, ancor più vanamente ci punge la bramosia
di conoscere il nome del fondatore, che, secondo calcoli ingegnosi,
in un giorno della primavera del 754 a. C., vide volare sul suo capo
dodici augelli augurali, e, guidando un toro bianco e una bianca
giovenca, diresse il solco, che avrebbe segnato il _pomerio_ della
città, e vi gittò la zolla primigenia, su cui tra non guari si
sarebbero levate le mura della grande metropoli.

L’antica leggenda ci aveva narrato per secoli di Romolo e di Remo.
Ma la dotta critica ha creduto di poter dimostrare che Romolo e
Remo non sono che eroi immaginari, balzati fuori dal nome stesso di
Roma; così come, forse, gli eruditi di qui a due mila anni sapranno
insegnarci che Amerigo non fu che un immaginario eroe eponimo del
nome di America; Colombo, della Columbia britannica; Bolivar, della
Bolivia. E poichè non c’è modo di dimostrare che Romolo e Remo furono
personaggi storici, non staremo a tentar di confutare queste moderne
dottrine: ma cercheremo di riassumere in breve il poco che si può
rintracciare, se non come certo, almeno come probabile, nelle confuse
tradizioni tramandate dagli antichi. Tutti sanno che, secondo la
tradizione, i Re di Roma furono sette e si chiamarono: Romolo, Numa
Pompilio, Anco Marzio, Tullo Ostilio, Tarquinio I (_Prisco_), Servio
Tullio e Tarquinio II (il _Superbo_). Qualunque sia il credito che si
voglia o si possa dare alle molte notizie trasmesse dagli antichi su
questi sovrani, è possibile ancora riconoscere nelle loro storie, in
mezzo a molte favole, due êre: la prima, che potrebbe chiamarsi l’êra
più propriamente latina, e comprende i primi quattro Re; la seconda,
che potrebbe chiamarsi l’êra più propriamente etrusca, e abbraccia
gli ultimi tre. Nel primo periodo la cittadella fondata da Alba cresce
rapidamente, sotto il governo di una monarchia elettiva e vitalizia,
simile a quella che resse nei primi secoli Venezia; e diviene un
fiorente emporio di industrie e di commerci, nel tempo stesso in cui
amplia con le armi i suoi territori. Non ci pare che sia necessario,
per render ragione di questa prosperità, supporre che Roma fosse
addirittura fondata dagli Etruschi. La felice posizione della città
che, posta sopra un fiume, presso alla foce, ma non sul mare, era
facile a difendersi e acconcia al commercio; forse anche il naturale
desiderio di una città nuova di crescere, servito da provvide leggi,
dovettero attrarre in grande numero, alla spicciolata o a gruppi,
immigranti dai popoli vicini, che la città accoglieva, facendoli
facilmente entrare a far parte delle trenta curie, in cui il territorio
e la cittadinanza si dividevano. E nulla vieta di supporre, anzi tutto
concorre a far credere che tra questi immigrati siano stati numerosi i
Sabini, e più numerosi ancora gli Etruschi, i quali nella nuova città
latina portarono lo spirito del commercio e dell’industria. Sin dai
tempi remoti dei primi Re, dunque, se Roma è un’operosa officina, se
il viandante ode battere frequente il martello che lavora il bronzo,
il rame e il ferro, o stridere rapido il tornio del vasaio; se gli
artigiani si raccolgono nelle prime associazioni di mestiere; se navi
romane scendono intrepide al Tirreno, in Roma e nel Lazio vi sono anche
molti piccoli, medi e grandi agricoltori, che coltivano e vendono entro
assai più breve raggio i cereali, il vino, la lana, e che preferiscono
la vita quieta e riposata della campagna alla operosità del porto
di Ostia o al mercato di Roma. Sin da allora insomma incomincia il
dissidio e l’antagonismo tra l’elemento mercantile e l’elemento
agrario, che ritroveremo, ora più violento ora meno, in tutta la
storia di Roma. Senonchè, in quei primi principî della città, esso
non pare aver generato discordie troppo aspre. L’elemento etrusco e
mercantile e l’elemento latino e agrario sembrano crescere ognuno a
suo agio insieme con la città, senza troppo vivi conflitti, sotto il
governo semplice, fermo, vigoroso, ma non arbitrario, dei Re. I poteri
del Re sono ampi, ma non illimitati; e sono di tre ordini: militari,
giudiziari e sacerdotali. I poteri militari sono, come è naturale, i
più larghi. Il Re comanda l’esercito in guerra; può imporre al popolo i
tributi necessari per condurre innanzi le varie imprese; ha diritto di
vita e di morte sui soldati. Ma in pace e sui cittadini il Re ha poteri
giudiziari molto ristretti: giudica soltanto i reati contro lo Stato
e contro la religione, e le controversie in cui le parti liberamente
lo scelgono ad arbitro. La giustizia è ancora in parte azione privata,
in parte privilegio e ufficio dei capi delle famiglie, che giudicano
i membri. Infine, in virtù dei poteri sacerdotali, il Re compie, in
nome del popolo, tutte le cerimonie sacre, aiutato dai numerosi collegi
di sacerdoti e sacerdotesse; dagli _Augurî_ e dagli _Aruspici_, che
interpretano dai segni naturali il pensiero degli Dei circa gli atti
da compiersi dal potere pubblico; dalle _Vestali_, addette al culto
della dea Vesta, protettrice della casa e dello Stato; dai _Pontefici_,
incaricati di sorvegliare tutto il culto; dai _Feziali_ e dai
_Flámini_, i primi, custodi dei principi di diritto internazionale; gli
altri, incaricati del culto di talune divinità particolari.

Ma se il Re aveva ampi poteri, questi poteri non erano ereditari. Il
Re era nominato dal Senato, e la sua nomina doveva essere ratificata
dal popolo, radunato nelle trenta curie. Che cosa era il senato e che
cosa erano le curie? Il senato era un consesso, che eleggeva nel suo
seno il Re e lo assisteva del suo consiglio; nel quale sedevano, a
quanto sembra, parte per diritto ereditario, e parte per scelta del Re
i capi delle _gentes_. In Roma infatti primeggiavano un certo numero di
famiglie ricche e potenti, ognuna delle quali si raccoglieva intorno
un certo numero di famiglie povere — contadini, piccoli possidenti,
artigiani — legandole a sè con il vincolo religioso dei _sacra_
comuni, con il proprio _nomen_, che essa dava loro, insieme con la sua
protezione. Queste associazioni di famiglie si chiamavano _gentes_.
Quante fossero allora non sappiamo; ma pare che tutte le famiglie,
che davano il nome ad una _gens_ e ne erano il sostegno, entrassero,
dopochè il loro capo era stato assunto nel senato, nell’ordine dei
_patricii_; in quel piccolo numero di famiglie che si consideravano ed
erano considerate da più della restante popolazione per la condizione
sociale e per i privilegi: tra i quali il privilegio religioso degli
_auspicia_, di chieder cioè a Giove i segni della sua volontà secondo
le regole della _divinatio_; e il privilegio politico di essere scelte
dal Re ai principali uffici dello Stato. Sembra invece che i cittadini
ricchi, i quali, pur formando una _gens_, non erano riusciti ad entrare
in senato, appartenessero, insieme con i loro gentili e con i cittadini
poveri che non facevano parte di alcuna _gens_, alla plebe. Le trenta
curie invece erano una divisione territoriale e politica di tutti i
cittadini: si radunavano nei così detti comizi curiati per ratificare
l’elezione del Re, per nominare i magistrati, per approvare le leggi
e per decretare la pace e la guerra; infine, per compiere taluni atti
importanti della vita civile, come i testamenti e le adozioni.

Tali sembrano essere stati, nelle grandi linee, per quel che ancora se
ne può sapere, gli ordini politici di Roma sotto i Re. È probabile che
questi ordini non nascessero tali e quali, già adulti: ma crescessero
lentamente, sebbene non si possa argomentare come e in quanto tempo
e per quali vicende. Certo è invece che Roma non tardò ad ampliare
con le armi il suo territorio. Il suo esercito era piccolo in origine
come la città: ogni curia forniva cento fanti — una _centuria_ — e
una _decuria_ di cavalieri: in tutto 3000 fanti e 300 cavalieri: la
sola _legione_ di cui si componeva l’esercito romano dei primi tempi;
e nella quale i soldati si raccoglievano per _gentes_ e servivano
gratuitamente. Ma non è dubbio che di questo piccolo esercito Roma
seppe fare un uso vigoroso sino dal principio, come se dall’ardimento
etrusco e dalla tenacia latina prorompesse nella nuova città un ardito
spirito di espansione, che la spinse ad ampliare nel tempo stesso
i suoi traffici e i suoi territori. La tradizione crede di poter
seguire passo passo Romolo, Tullo Ostilio e Anco Marzio nelle guerre e
conquiste con cui i primi Re di Roma, ad eccezione del pacifico Numa
Pompilio, ampliarono il territorio dello Stato. Sarebbe vano voler
sceverare il vero dal falso in questa tradizione e assegnare ad ogni
monarca la parte delle conquiste che proprio gli spetta. Certo è che
Roma combattè sin dalle sue origini molto e con fortuna; e che l’evento
capitale di queste prime guerre fu la distruzione di Alba, attribuita
al terzo e più guerriero dei Re. Ma, opera di questo o di altro Re,
la distruzione di Alba, la città più potente del Lazio dei _Prisci
Latini_, il centro politico e religioso, della contrada, è certamente
un fatto storico e la prima grande vittoria di Roma. Distrutta Alba,
deportata sul Celio e incorporata la sua popolazione nella città,
assunta l’egemonia della lega religiosa e politica dei Latini, Roma
cominciò a essere veramente un piccolo potentato, e potè estendere
il territorio sino al mare. Vuole la tradizione che il re Anco Marzio
deducesse ad Ostia, alle foci del Tevere, la prima colonia di cittadini
romani, che la storia ricordi. Che sotto il quarto Re Roma già tentasse
di possedere un porto sul mare aperto, alle foci del Tevere, è chiara
prova, non solo del prosperoso commercio, ma della forza che la città
si sentiva.


5. =I Tarquinî e la prevalenza dell’elemento etrusco — Roma potenza
mercantile (2ª metà del sec. VII-sec. VI a. C.).= — Senonchè a questo
punto la storia di Roma è interrotta da un rivolgimento, che dovette
esser profondo, se ha lasciato tante e così visibili tracce nelle
favolose tradizioni degli antichi. Narrano costoro, che ad Anco Marzio
succedè nel governo di Roma un avventuriero di Tarquinî, un ricco
straniero, che avrebbe avuto nome Lucumone, e che era figliuolo di un
gran mercante di Corinto discendente — vuolsi — dalla regia stirpe dei
Bacchiadi, e di una nobile dama etrusca. Nelle sue vene dunque, secondo
la tradizione, scorrevano commisti insieme sangue greco e sangue
etrusco, sangue di mercanti e sangue di nobili. Non potendo, perchè
figlio di uno straniero e di un profugo, ottenere dignità e onori in
Etruria, egli avrebbe migrato a Roma e quivi, salutato novello Romolo
dal favorevole augurio del cielo, sarebbe stato ricevuto ospitalmente
a corte dal re Anco; e, segnalatosi così in guerra come in pace, per
valore, per saggezza e per generosità sarebbe stato eletto Re alla
morte di Anco. Senonchè, se sino a questo punto la tradizione concorda
in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, da questo punto in poi diverge.
Tito Livio sorvola sul regno di Tarquinio, accennando appena a diverse
guerre, a qualche riforma politica e a varie opere pubbliche fatte
dal Re; Dionigi di Alicarnasso invece si stende in lungo e in largo a
parlare sopratutto delle sue guerre, e tra queste racconta le guerre
che ebbe, lunghe e accanite, con gli Etruschi, narrandoci nientemeno
che alla fine le città etrusche riconobbero Tarquinio come loro Re.
In altre parole, il figlio del ricco e nobile immigrato d’Etruria,
salito alla suprema carica, in quella città nuova e perciò più aperta
delle antiche alle ambizioni degli stranieri intraprendenti, avrebbe
conquistato l’Etruria e sarebbe diventato Re di Roma e dell’Etruria.
Possiamo noi accettar per vera questa, tradizione?

A noi pare si possa. Essa non è inverosimile. L’Etruria può essere
stata sorpresa da Roma in un momento di debolezza e di disgregazione
politica. E se non è inverosimile, la tradizione ci spiega anche
quel tanto che nella storia degli ultimi Re di Roma è etrusco, senza
obbligarci a fare degli Etruschi addirittura i fondatori della città
eterna. Conquistata l’Etruria da un Re, nelle cui vene scorreva tanto
sangue etrusco e greco; portata a Roma la capitale dell’Etruria, del
suo commercio e della sua industria, l’influenza etrusca prevale sulle
tradizioni latine, così come, tanti secoli dopo, l’Oriente conquistato
doveva a sua volta conquistar Roma. Se noi non siamo in grado di
sceverare il vero dal falso nei racconti che gli storici antichi ci
hanno trasmessi sugli avvenimenti occorsi nei regni di Tarquinio
Prisco, di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo, noi possiamo
intender chiaro nelle grandi linee il corso della storia di Roma sotto
questi Re. Non ci meravigliamo più che Roma faccia numerose guerre con
i Sabini, con gli Equi, con i Volsci, e allarghi il suo territorio,
impadronendosi di tutta la costa tirrenica, dal Tevere a Terracina[7].
Noi ci spieghiamo la pompa e il cerimoniale etrusco, di cui questi
sovrani si circondano; il grande commercio che Roma mantiene con la
Sardegna, con la Corsica e con i Cartaginesi, con la Sicilia e con la
Magna Grecia, con l’Adriatico e con l’Oriente ellenico[8]; il grande
numero degli _opifices_ e delle corporazioni che lavorano il rame, il
legno, le pelli, le ceramiche, il ferro. Noi sappiamo per quale ragione
la coltura ellenica è ora in favore a Roma[9]; e la città si allarga,
cosicchè Servio Tullio potè chiudere entro poderose mura, lunghe sette
miglia e mezzo, parte del Celio, l’Esquilino, il Viminale, il Quirinale
e il Palatino, dividendo tutto il territorio in quattro regioni.
Nè ci fa meraviglia più di leggere negli antichi scrittori che i Re
dotano Roma di insigni monumenti e fanno grandi lavori: le mura già
ricordate di Servio Tullio, il Circo Massimo, il tempio di Giove sul
Campidoglio, i ponti sul Tevere, la Cloaca massima, la bonifica della
parte bassa della città, fino ad allora palude selvaggia, rotta da
sterpi e boscaglie e sparsa di gruppi di tombe abbandonate, sulla quale
sorgerà quel _Foro romano_, cui tanti illustri destini si legheranno.
Noi comprendiamo infine come fuori della cinta sacra, del _pomoerium_,
gli stranieri, provenienti dal mare, i «meteci» di Roma antica, abbiano
installato i loro Dei, e verso l’interno, presso l’isola Tiberina, o in
quello che si disse il _Vico tusco_, tra il Palatino e il Campidoglio,
abbiano posta la propria sede i nuovi immigrati etruschi, e i mercanti
che vengono ad esporre le loro derrate e le loro manifatture, innanzi
di ripigliare il viaggio alla volta della Campania. Roma è diventata la
capitale dell’Etruria!


6. =La costituzione di Servio Tullio.= — Ma c’è di più: noi possiamo
spiegare in modo soddisfacente la profonda alterazione che l’antica
costituzione romana subì per opera di Servio Tullio, il quale diede
allo Stato romano alcuni lineamenti rimasti indelebili per sette
secoli. Il popolo aveva sino ad allora votato nei così detti comizi
curiati, cioè nelle trenta curie, in cui ricchi e poveri, grandi
e plebei si mescolavano; e i poveri, essendo in numero maggiore,
prevalevano[10]. La tradizione racconta che Servio Tullio divise i
cittadini romani in cinque classi, ascrivendoli a una di queste, via
via dalla prima alla quinta, secondo che possedessero un censo, che
non fosse inferiore a 100.000, a 75.000, a 25.000, a 12.500 (o, secondo
altri, 11.000) assi. Ogni classe poi suddivise in centurie, facendo di
ognuna di queste centurie una unità politica, militare e fiscale. Per
eleggere i magistrati, per approvare le leggi e deliberare la pace o la
guerra, il popolo voterebbe per centurie, in ogni centuria deliberando
la maggioranza e ogni centuria contando per un voto. Allo stesso
modo ogni qualvolta lo Stato avesse bisogno di soldati e di denaro,
dividerebbe il contingente e l’imposta per centurie. Siccome Servio
Tullio aveva divisa in 98 centurie la prima classe, in 20 la seconda,
in 20 la terza e la quarta, in 30 la quinta; siccome aveva costituito,
oltre queste, quattro centurie di cittadini aventi in guerra uffici
particolari, che votavano con qualcuna delle classi superiori, e
raccolto in una centuria quelli che non avevano il censo della quinta
classe, quale dovette essere l’effetto della riforma serviana, è
chiaro. Le classi ricche, essendo meno numerose e distribuite in un
numero di centurie maggiori, preponderarono nella nuova assemblea
elettorale e legislativa detta dei comizi centuriati; ma in compenso
ebbero a servire più spesso nell’esercito e a pagare di più; mentre i
poveri, esclusi dalle cinque classi, furono anche esenti dalla milizia
e dal tributo.

La costituzione di Servio Tullio è dunque una costituzione censitaria;
o, come dicevano gli antichi, timocratica. Il principio su cui posa è
il privilegio del denaro. Le curie, invece, nelle quali ogni uomo ricco
o povero contava per uno, riposavano sul principio dell’eguaglianza
e della maggioranza. Ma una riforma timocratica della costituzione
non si addice che ad una città, nella quale la ricchezza possa più
che il numero o la tradizione. Perciò parecchi storici moderni,
tedeschi i più, hanno voluto trasportarla al IV sec. a. C., la Roma
dei Re essendo a loro giudizio ancora troppo povera e piccola, per una
costituzione di tale natura. Ma il ragionamento si può rovesciare; e,
tenendo ferma la tradizione, argomentare dalla riforma la prosperità
e la ricchezza di Roma in quei tempi; dire che, se Servio Tullio potè
fare quella riforma, Roma doveva esser più ricca e potente che non
si supponga. E questa conclusione quadra sia con quanto siamo venuti
esponendo sin qui, sia con quanto sappiamo dell’estensione e della
popolazione del territorio romano nei tempi posteriori[11]. Capitale
dell’Etruria e ricco emporio di commercio e d’industria, dove eran
numerosi gli arricchiti di fresco e i mercanti, Roma poteva sostituire
al principio egualitario delle curie il principio timocratico di Servio
Tullio. A che cosa mirasse Servio Tullio con questa riforma, non è
difficile congetturare: accrescere la potenza delle classi mercantili
e industriose, a scapito della aristocrazia latina e del senato, che ne
era l’organo.

Abbondano infatti nella tradizione i vestigi di una lotta tra il
vecchio patriziato latino e la nuova monarchia etruschizzante. Quello
cerca di conservare i suoi privilegi e di difendere il suo potere;
questa si studia di rafforzarsi, accarezzando la plebe, la gente nova,
i ricchi mercanti; introducendo nel senato, e quindi nell’ordine dei
patrizi, quanti uomini nuovi può. Tito Livio, il quale è così conciso
intorno a Tarquinio Prisco, ci racconta che questo Re accrebbe il
senato di cento nuovi membri, «non per fare il bene dello Stato, ma
per avere egli maggiore potenza». La storia è vecchia; e si è ripetuta
cento volte. Dopochè Roma ebbe conquistato la supremazia sull’Etruria,
l’equilibrio tra l’elemento etrusco e l’elemento latino si rompe;
l’elemento etrusco, mercantile, danaroso, avventuroso, meno ligio
alle tradizioni, domina; e mentre fa di Roma un sontuoso e ricco
emporio, tenta di spodestare una antica aristocrazia tradizionalista
con il braccio di una monarchia rivoluzionaria. Onde una lotta tra la
tradizione e il denaro, tra l’elemento latino e l’etrusco, tra i Re e
il senato, che alla fine mette capo alla catastrofe.


7. =La caduta della monarchia (510? a. C.).= — Note sono le favole
che gli antichi raccontano intorno alla caduta della monarchia,
tra le quali l’oltraggio arrecato a Lucrezia. Queste favole hanno
indotto alcuni storici moderni a mettere in dubbio tutto il racconto
antico ed a supporre che l’autorità regia non sia stata rovesciata
da una rivoluzione, ma si sia spenta a poco a poco, per esautoramento
progressivo. Ma è questa una congettura che non ha fondamento alcuno
nei racconti degli antichi, i quali, se contengono favole, dicono
chiaro e concordi che l’autorità regia cadde per una rivolta armata del
patriziato. Il che non può esser cagione di meraviglia, dopo quanto
abbiamo esposto, anche se non possiamo, pur troppo, narrare come e
perchè la rivoluzione scoppiasse e vincesse. Dobbiamo quindi star paghi
di dire — ma questo possiamo affermarlo, senza abusare del diritto di
critica — che la monarchia elettiva e vitalizia, che l’aveva governata
nei primi secoli, cadde in Roma, sulla fine del VI sec. a. C., per
una rivolta dell’elemento latino, guidata dal patriziato, contro
l’indirizzo troppo etrusco, mercantile e assoluto degli ultimi Re[12].

La monarchia era durata, secondo la tradizione e secondo
verisimiglianza, poco meno di due secoli e mezzo (dal 754 o 753 al 510
o 509), ma aveva fatto grandi cose. Non era piccola la gratitudine che
Roma le doveva al suo cadere. Sotto lo scettro dei Re, la città fondata
da Romolo si era ingrandita, arricchita, abbellita; aveva vinto gli
Etruschi e si era allargata sul mare. Ma un odio implacabile avvolgerà
tanti meriti in un’ombra sinistra, imponendosi alle generazioni come
un dovere civico; sebbene, o forse perchè, appena caduta la monarchia,
la fortuna della giovane città improvvisamente declina e par quasi sul
punto di precipitare nel nulla.


NOTE AL CAPITOLO PRIMO.

[1] Sui boschi del Lazio nella seconda metà del IV sec. a. C., cfr.
THEOPHR. _H. Plant._ 5, 8, 1 e 3.

[2] Cfr., fra gli altri, W. SCHULZE, _Zu den römischen Eigennamen_,
in _Abhandl. d. Götting. Ges. d. Wissenschaft_, N. S., 5, 2; K.
O. MÜLLER, _Die Etrusker_, Stuttgart, 1877, I, pp. 112 sgg.; V.
GARDTHAUSEN, _Mastarna oder Servius Tullius?_, Leipzig, 1882; K. J.
NEUMANN, _Die hellenistischen Staaten und die römischen Republik_,
in _Weltgeschichte_, Berlin, 1907, pp. 361 sgg.; W. SOLTAU, _Anfänge
d. römischen Geschichtsschreibung_, Häffel, 1909, p. 145; _Mythus
oder literarische Erfindung in der älteren römischen Geschichte_, in
_Preussische Jahrbücher_, marzo 1914, p. 453; A. GRENIER, _Bologne
villanovienne et etrusque_, Paris, 1912, pp. 54-56 e _passim_; V.
A. RUIZ, _Le genti e la città_, in _Annuario della R. Università di
Messina_, 1913-14.

[3] DIONYS. HAL., 1, 29, 2: τήν τε Ῥώμην αὐτὴν οἱ πολλοὶ τῶν συγγραφέων
Τυρρηνίδα πόλιν εἴναι ὑπέλαβον.

[4] Cfr., oltre alla bibliografia della precedente n. 2, R. DELBRÜCK,
_Die drei Tempel am Forum holitorium in Rom_, Roma, 1903 (ed. del
_Kaiserlich deutschen Institut_), pp. 25 sgg.; 28 sgg.; 30 sgg.

[5] LIV., 9, 36.

[6] LIV., 1, 8. — Sulle analogie tra le _nundinae_ romane ed etrusche,
cfr. MACROB., _Sat._, 1, 15, 13.

[7] La potenza continentale di Roma, alla fine della monarchia, è
testimoniata, oltre che da POLYB., 3, 22, dall’ampiezza della lega
latina, che, alla caduta della monarchia, si formerà contro Roma a
salvaguardia della ricuperata indipendenza; cfr. DIONYS. HAL., 5, 61.
CATO, fr, 58, ed. PETER.

[8] Cfr. E. GABRICI, _Il problema delle origini italiche_, in
_Rivista di storia antica_, 1907, I, p. 94 sgg., ed il primo trattato
romano-cartaginese, trascrittoci da POLIBIO (3, 22), stipulato nel
primo anno della repubblica, di cui discorriamo nel capitolo seguente.

[9] CIC., _De Rep._, 2, 19, 34.

[10] Sulle curie e sui comizi curiati si è lungamente e variamente
discusso dai moderni. A noi pare però che non si sia tenuto il debito
conto del passo di DIONYS. HAL., 4, 20, che accettiamo come del tutto
veritiero. Cfr. anche DIONYS. HAL., 4, 21; 7, 59; 9, 41; 11, 45.

[11] Dal rapporto stabilito da Servio tra ogni classe e il suo
contingente militare, si arguisce che non sono indicati tutti gli
atti alle armi di ciascuna classe. Infatti la prima classe — la meno
numerosa perchè formata dei ricchissimi — dà 98 centurie, ossia
9800 uomini atti alle armi; mentre ciascuna delle altre classi,
evidentemente più numerose, ne dà solo 2000 o 3000. Si può quindi, per
un calcolo degli atti alle armi, pigliare come base la prima classe.
Ognuna delle classi serviane può dunque dare almeno 9800 atti alle
armi; il che fa per tutte le prime cinque classi, 49000 atti alle armi,
dai 17 ai 60 anni. Quattro volte questa cifra, secondo il rapporto
statistico consueto, darebbe tutta la popolazione delle prime cinque
classi: 196.000 anime. _Ma questi sono solo gli abbienti._ Restano i
non abbienti che, secondo il rapporto consueto, stanno ai primi come
3 a 2. Sarebbero perciò 294.000, che, aggiunti ai 196.000, dànno una
popolazione complessiva di 490.000 anime, in cifra tonda un mezzo
milione. Ma questo — ripetiamo — non è ancora che un minimo, perchè noi
abbiamo calcolato tutte egualmente numerose le prime cinque classi,
il che non doveva essere. Si può andare perciò fino a 600-700.000.
Or bene, quando nel 280 a. C. il territorio di Roma si stese in tutta
l’Italia centrale compresa la parte della Campania, riconquistando così
l’antico impero dei Tarquini, il censimento di quell’anno dette una
popolazione di 287.222 cittadini (LIV., _Ep._, 13) che dà un totale
di oltre un milione di anime: cifre che si accordano perfettamente
con quella da noi adottata pel tempo di Servio, ove si tenga conto
che nel terzo secolo parte della Campania era fornita del diritto di
cittadinanza romana, e che in 3 secoli la popolazione italica doveva
essere cresciuta.

[12] Cfr. in LIV., 1, 59, 9-10 il discorso, che lo storico latino mette
in bocca ai congiurati del 510 o 509.



CAPITOLO SECONDO

I PRIMI PASSI DELLA REPUBBLICA

(Sec. VI-V a. C.)


8. =Il primo trattato di commercio con Cartagine e la perdita
dell’Etruria.= — Il primo documento sicuro della storia romana che noi
possediamo è un trattato di commercio: il trattato che, nel 510 o 509
a. C., l’anno primo della repubblica, Roma conchiudeva con Cartagine.
Polibio ce ne ha conservato il testo (3, 22). Esso suona così:

«Ai Romani e ai loro alleati è vietato navigare al di là del Bel
Promontorio (il capo Farina, cfr. Pol., 3, 23), salvo che non vi
siano costretti dalla tempesta o dai nemici.... Se alcuno sarà stato
costretto ad approdarvi, non gli sia lecito comperare o prendere
cosa alcuna, salvo il necessario a riparare le navi e a compiere i
sacrifici, e ne riparta entro cinque giorni. Coloro che si recheranno
per ragioni di commercio» [si intende, a Cartagine, nell’Africa al di
qua del Bel Promontorio, e in Sardegna] «non saranno tenuti ad alcuna
imposta, salvo a quella dovuta al banditore o allo scrivano pubblico;
e di quanto sarà venduto in loro presenza la fede pubblica resterà
garante al venditore, e ciò per quanto concerne le vendite fatte in
Africa e fatte in Sardegna. Se poi alcun romano verrà in quella parte
della Sicilia soggetta ai Cartaginesi, i suoi diritti saranno per ogni
verso eguali [a quelli dei Cartaginesi]. I Cartaginesi, d’altro canto,
s’impegnano a non danneggiare le città di Ardea, di Anzio, di Laurento,
di Circei e di Terracina, nè alcun’altra città latina soggetta a Roma.
In modo analogo, essi s’impegnano verso le città del Lazio non soggette
a Roma. Se per caso prendessero alcuna città, la renderanno, senza
danneggiarla, ai Romani; nè costruiranno alcuna fortezza in territorio
latino»[13].

Questo trattato è stato frainteso dagli storici moderni. Eppure il
suo testo parla chiaro: Roma rinuncia a navigare e a commerciare nel
Mediterraneo orientale, e i Cartaginesi promettono in cambio di non far
guerra e danno alcuno al territorio o alle città del Lazio, soggette
o non soggette a Roma. È così vero che la monarchia fu rovesciata
dall’elemento latino ed agrario, sollevatosi contro l’elemento etrusco
e mercantile, che, appena fondata, la repubblica fa un passo indietro
sulle vie del commercio arditamente tentate dagli ultimi monarchi
e compra la pace da Cartagine, restringendo nel Mediterraneo il suo
commercio. Questo è il senso, lo spirito e lo scopo del trattato. Nè
è temerario congetturare che la repubblica si affrettasse a comperare
a questo prezzo la pace da Cartagine, perchè si trovò subito in guerra
con l’Etruria. Se, quando la monarchia fu rovesciata, il dominio romano
in Etruria fosse così vasto come ai tempi di Tarquinio Prisco, noi non
sappiamo: certo è che la repubblica ebbe subito a sostenere una fiera
guerra con gli Etruschi, sia che gli Etruschi soggetti si ribellassero,
sia che gli Etruschi indipendenti approfittassero dell’occasione per
liberare le città soggette, sollecitati, come vuole la tradizione,
da Tarquinio. E neppure è dubbio che la repubblica fu vinta dagli
Etruschi, e che Roma cadde sotto il dominio etrusco per alcuni anni.
Per quanti, è difficile dire con precisione; non molti, a ogni modo,
perchè al principio del V secolo Roma era riuscita, bene o male, a
riacquistare la sua indipendenza.


9. =Le guerre con i Volsci e con gli Equi (principio del V secolo).=
— Ma solo per affrontare nuovi nemici, che da ogni parte l’assaltano.
Tutto il Lazio insorge, rivendicando la libertà e l’autonomia; altre
barbare popolazioni circonvicine — le tribù dei Sabini, ad esempio
— che la monarchia aveva tenute soggette o in rispetto, ritornano
a saccheggiare i territori romani; pericolo ancor più grave, le
popolazioni del Subappennino romano — i Volsci e gli Equi — si
spingono nella pianura del Lazio verso occidente e la costa tirrenica
da Anzio a Circei. Intorno alle guerre incessanti, che la repubblica
dovè combattere contro questi popoli, e massime contro i Volsci e gli
Equi, gli antichi contano molte belle favole e poco di sostanzioso.
Un documento sicuro — il trattato di alleanza, conchiuso nel 493 dal
console Spurio Cassio, che pose fine alla guerra con le città latine,
di cui Dionigi d’Alicarnasso ci ha conservato il testo[14] — ci
dice che, anche con i Latini, come già con Cartagine, la repubblica
pagò del suo le spese dell’accordo, poichè rinunciò alla supremazia
ed al comando, riconobbe l’autonomia delle città latine e la loro
confederazione, e con questa conchiuse un’alleanza difensiva a
condizione di parità e di reciprocanza perfette. Quanto alle guerre
contro i Volsci e gli Equi, che riempiono della loro confusa storia
tutta la prima metà del V secolo, una cosa sola possiamo affermare con
sicurezza: che per più di mezzo secolo Roma si tenne sulla difesa; che
per difendersi fece entrare nella lega latina anche gli Ernici, che
non erano certo Latini e forse erano Sabini; che in queste guerre ebbe
spesso la peggio e non riuscì a impedire che il suo territorio fosse
ogni tanto invaso e saccheggiato.


10. =Le prime disfatte della repubblica e le loro conseguenze.= —
Il piccolo impero, che la monarchia aveva creato, cade dunque nei
primi decenni della repubblica; e insieme decadono l’industria e il
commercio. Se la repubblica, appena fondata, aveva abbandonato una
parte del Mediterraneo a Cartagine, verso il 450 a. C. Roma era, si
può dire, sparita dal novero degli empori di qualche importanza nel
Mediterraneo. Il primo tentativo mercantile di Roma, il primo disegno
di fondare sulle rive del Tevere un grande emporio, simile a Cartagine,
a Corinto, a Taranto, ad Atene e a tante altre città greche, era
dunque fallito. Ma questa rovina del commercio dovette impoverire la
città, e questa povertà fu accresciuta dalle guerre disgraziate. La
preda era il pane delle guerre antiche. Il soldato romano andava alla
guerra, non solo per tenere lontano dal proprio territorio il nemico,
ma con la speranza di entrare nel suo territorio e di prendere quel
che poteva. Fu infatti principio costante della milizia romana che
il generale avesse diritto di disporre delle _manubiae_ — metalli,
bestiame, schiavi — e di spartire il bottino tra lo Stato e i soldati,
ai quali una parte doveva toccare, e di solito non la minore: il che ci
spiega come nei primi secoli Roma potesse imporre a tutti i cittadini
delle prime cinque classi il servizio militare obbligatorio e gratuito.
Ma con questo modo di intendere la guerra, se le guerre vittoriose
potevano, in una certa misura, arricchire il popolo, perchè quelli
almeno che non ci morivano, portavano a casa dei metalli preziosi,
del bestiame, degli schiavi, le guerre disgraziate lo impoverivano,
perchè in queste non solo i soldati militavano senza compenso, ma
parti più o meno vaste del territorio erano o perdute o saccheggiate.
Le lunghe e incerte guerre con i Volsci e con gli Equi impoverirono
dunque la condizione media e la plebe, nei primi cinquanta anni della
repubblica. Molti possidenti si impaniarono nei debiti, perdendo a poco
a poco i beni prima e la libertà poi, giacchè le terribili leggi del
tempo condannavano il debitore insolvente a servire il creditore come
schiavo.


11. =Patrizi e plebei — La lotta per l’eguaglianza civile e politica
(prima metà del V secolo).= — A giudicar dunque dai primi effetti, la
caduta della monarchia fu per Roma una calamità. Eppure la rivoluzione
non aveva fatto subire alle istituzioni di Roma che un leggero ritocco.
Il senato aveva conservato gli antichi poteri, come i comizi centuriati
e, nella forma a cui la costituzione Serviana li aveva ridotti, i
comizi curiati; solo l’autorità regia era stata trasferita a due
magistrati, i _consules_, denominati in origine _praetores_. Eletti
ogni anno dai comizi centuriati, i consoli ricevevano dai comizi
curiati e dal senato l’_imperium_ prima esercitato dai Re, e cioè il
potere militare e giudiziario senza le facoltà religiose, che furono
deferite a un nuovo magistrato denominato _rex sacrorum_; ed avevano,
come i Re, per aiutanti i _quaestores_. Come mai da un mutamento così
piccolo, aveva potuto procedere un effetto così grande? Perchè il
mutamento era piccolo solo in apparenza. La monarchia, combinazione
sapiente del principio elettivo e del principio vitalizio, era stata un
potere vigoroso e fattivo, che aveva retto e diretto davvero lo Stato.
Ma la repubblica, facendo questo potere annuale e dividendolo tra due
magistrati, ognuno dei quali poteva esercitarlo separatamente, l’aveva
indebolito; e quindi aveva trasferito il reggimento dello Stato non dal
Re ai consoli, ma dal Re al senato, che, essendo stabile, primeggiò
nel nuovo ordine di cose. Ma il senato romano era l’organo del
patriziato; e il patriziato era una casta privilegiata e chiusa. Invano
la monarchia aveva cercato di aprirla ad uomini e famiglie nuove;
non appena, scacciati i Re, essa fu arbitra dello Stato, la casta si
affrettò a rifar la serrata; non volle più accogliere genti nuove, si
trincerò nei suoi privilegi come in una fortezza. Questi privilegi —
il divieto di connubio con i plebei, gli _auspicia_ e il diritto di
occupare tutte le cariche — erano diversi ma tutti legati tra di loro,
perchè non c’era atto o cerimonia pubblica che un magistrato potesse
compiere senza aver prima interrogato il cielo o gli uccelli o gli
altri segni della volontà divina. Lo Stato cadde dunque in potere di
una oligarchia piccola, orgogliosa ed esclusiva; tutte le famiglie
povere e le famiglie arricchite nelle ultime generazioni, che non
avevano sangue patrizio nelle vene, furono escluse dal governo.

Ma questa piccola oligarchia chiusa non era in grado di ben governare
e di difendere la repubblica. Questo è il segreto della storia dei
primi decenni della repubblica, che invano gli antichi scrittori
hanno cercato di nascondere in mezzo alle leggende. Quale ne fosse
il difetto capitale, se un troppo cieco attaccamento alla tradizione
latina, se un soverchio spirito di casta, se lo scarso numero o
l’intelligenza manchevole, o il poco favore della fortuna, noi non
sappiamo. Certo è invece che questa oligarchia non seppe conservare
le conquiste della monarchia; dovè acconciarsi a trattare i Latini da
pari a pari; difese male e a stento Roma dagli attacchi dei Volsci e
degli Equi, e forse fu più sollecita della prosperità propria che del
benessere generale; onde fu presto bersagliata da una opposizione,
che prese di mira tutti i suoi privilegi. Questa opposizione nasce
quasi con la repubblica, e cresce rapidamente, a mano a mano che le
guerre poco fortunate screditano la piccola oligarchia dominante. I
plebei ricchi, esclusi dal potere, fanno lega con i plebei poveri e
tormentati dalla miseria; questi chiedono l’addolcimento delle leggi
sui debiti e leggi agrarie, quelli protestano contro i privilegi dei
patrizi; tutti lamentano la parzialità e l’incertezza delle leggi,
l’arbitrio con cui l’oligarchia dominante le applica, gli abusi e
le prepotenze dei magistrati patrizi non minori di quelle dei Re,
reclamando con audacia crescente l’eguaglianza civile e politica dei
ceti. Le armi di cui possono servirsi sono poche, in principio; ma il
senato stesso, senza pensarci e senza volerlo, ne mette loro in mano
qualcuna abbastanza potente. Così già nel 495 a. C. — la data è stata
contestata dalla critica moderna, ma senza seri motivi — il senato
aveva diviso tutto il territorio romano in 21 tribù e distribuito in
quelle tutti i cittadini, in quanto proprietari di qualche bene nel
distretto, incaricando ogni tribù di provvedere, in caso di guerra,
al pagamento dell’imposta fondiaria e alla leva delle milizie. La
riforma sembra aver avuto soltanto uno scopo amministrativo; ma par
possibile congetturare che ben presto i malcontenti ne fecero un’arma
di opposizione politica; che i capi delle tribù, preposti ad un ufficio
così importante, divennero in breve gli organi del malcontento della
maggioranza, ossia dei plebei. Così si può spiegare come qualche
anno dopo — la data non è sicura nè presso gli antichi, nè presso
i moderni — i patrizi dovessero consentire che nei vecchi comizi
curiati, nei quali la ragione democratica del numero prevaleva, e che
sembravano ormai sopravvivere a se medesimi, si eleggesse ogni anno
un magistrato nuovo, due _tribuni plebis_, che difendessero il loro
ceto contro ogni sopruso dei patrizi e dei loro magistrati[15]. Fu la
prima arma vigorosa di cui i plebei disposero; e non perdettero tempo
per rinforzarla. Già nel 471 a. C. il numero dei tribuni è portato
a quattro o a cinque e l’elezione passa dai comizi curiati ai comizi
tributi, ossia all’assemblea generale delle tribù: mutamento questo di
molta importanza, perchè se i nuovi comizi tributi non differiscono
molto, quanto al numero e al genere dei partecipanti, dai comizi
curiati, in compenso però, non essendo ancora un’assemblea elettorale
o legislativa, possono radunarsi senza l’autorizzazione del senato e
senza nessuna di quelle formalità liturgiche, di cui tanto i patrizi
abusavano a scopo politico[16]. Nè a questi primi passi la plebe si
ferma. Poco dopo i tribuni ricevono, come aiutanti, gli _edili della
plebe_; si arrogano prima una potestà coercitiva, _ius prensionis_,
contro chiunque — fosse anche un magistrato — avesse osato offendere
o danneggiare un plebeo; poi il _ius intercedendi_ o il privilegio,
veramente regale, di sospendere con un _veto_ qualunque atto del
governo e perfino le assemblee costituzionali, qualora il popolo fosse
chiamato a deliberare su proposte, che avessero potuto presumersi
contrarie agli interessi plebei; poi ancora il _ius agendi cum plebe_,
la potestà di convocare la plebe a comizio, e di discutere con questa
i suoi particolari interessi e quanto nella politica generale dello
Stato fosse legato a questi interessi, nonchè il diritto di presentare
leggi nei comizi tributi; infine, e più tardi, la facoltà di trattare
con il senato su quanto toccasse gli interessi dei loro rappresentanti
(_ius agendi cum patribus_). Prima ancora che tutti questi poteri
fossero loro conferiti, nel 462 il tribuno C. Terentilio Arsa propose
di affidare ad una commissione di cinque, il compito di preparare una
legge, che delimitasse i poteri dei consoli, ponendo fine a quel loro
impero non meno arbitrario e assoluto — a quanto diceva il tribuno —
del potere regio.


12. =Il decemvirato e le «Dodici tavole» (451-449 a. C.).= —
L’oligarchia patrizia, non avendo autorità bastevole per resistere
su tutti i punti alla agitazione della plebe, indebolita come era
dalle guerre disgraziate, aveva ceduto sulla questione dei poteri
dei _tribuni_ e aveva lasciato che nel cuore dello Stato sorgesse
un potere legalmente incaricato di fare l’ostruzione a vantaggio
dell’opposizione. Ma alla proposta di Terentilio Arsa si oppose
invece con vigore, perchè, invece di accrescere il potere della
plebe, limitava i poteri del patriziato. Nacque una furibonda contesa
che, interrotta ogni tanto dalle incursioni dei Volsci e degli Equi,
inasprita da violenze e da processi, durò dieci anni.

Alla fine si addivenne a una transazione. Tre ambasciatori, Spurio
Postumio Albino, A. Manlio, P. Sulpicio Camerino furono, se vogliamo
credere a Livio, mandati in Grecia a studiare le leggi di quel paese;
e quando costoro furon tornati, i tribuni proposero che per l’anno
prossimo tutte le magistrature patrizie e quelle plebee, nonchè i
rispettivi corpi politici — consoli, questori, tribuni, assemblee
curiate, centuriate e tribute — fossero sospese; e in loro vece fosse
creata una nuova magistratura, il decemvirato: dieci magistrati che al
tempo istesso governerebbero lo Stato e redigerebbero una costituzione,
nella quale fossero incluse quelle disposizioni capitali di diritto
civile e penale, che, negli Stati primitivi, sono ancora parte del
diritto pubblico. Questa nuova costituzione doveva valere per i patrizi
e per i plebei; i magistrati incaricati di compilarla potevano dunque
essere patrizi o plebei.

La legge fu, dopo qualche contrasto, approvata. Ma eletti furono
solo dieci patrizi, i quali in un solo anno (451) condussero a
compimento l’opera ponderosa. Alla fine del 451, ben dieci tavole di
leggi rendevano testimonianza del lavoro compiuto. La storiografia
tradizionale, vergata quasi esclusivamente da penne patrizie, celebrerà
più tardi con i più alti elogi la moderazione e la saggezza di quei
primi legislatori. Ma ben diverso sembra essere stato il giudizio dei
plebei e dei patrizi sulla nuova costituzione, appena fu pubblicata. E
non è impossibile, pur in mezzo alle incerte notizie della tradizione
storica, intravedere il motivo di tanto malcontento. Non è dubbio che i
decemviri avevano cercato un compromesso tra il privilegio patrizio e
l’eguaglianza che stava a cuore alla plebe. Il compilare quelle leggi
con chiarezza e il pubblicarle erano già due grandi concessioni alla
plebe, due grandi limitazioni dell’onnipotenza patrizia. Senonchè è
naturale che i patrizi, per bilanciare queste concessioni, abbiano
cercato di conservare quanti più privilegi potessero. Inoltre,
istituendosi il decemvirato, si erano aboliti anche i tribuni plebei e
i comizi tributi; e il compenso dovesse apparir magro; tanto è vero che
in quel primo anno i decemviri erano stati tutti patrizi.

I plebei dunque si dolsero di aver perduto i loro magistrati senza
avere ottenuto quanto era loro diritto; i patrizi a loro volta
accusarono la nuova costituzione di aver troppo largheggiato con i
plebei a loro danno. Anche questo compromesso scontentava tutti; e
peggio fu l’anno seguente, quando i plebei riuscirono a far eleggere
decemviri tre candidati plebei. Una parte del patriziato, la più
avveduta, non vide di mal’occhio questa vittoria della plebe; anzi
lo stesso Appio Claudio, il più autorevole dei decemviri, la favorì,
sperando placasse il risentimento per tante altre aspirazioni
insoddisfatte: ma accanto ai pochi savi c’erano, anche nel patriziato,
gli arrabbiati, e questi vollero subito un compenso. Nel secondo anno
del decemvirato due nuove tavole sancirono solennemente il divieto
dei matrimoni tra patrizi e plebei. Esasperati da questa politica
della bilancia, i due partiti furono concordi almeno nel detestare
egualmente e voler morto il decemvirato; il che ci spiega come la
tradizione, raccolta da T. Livio, abbia potuto raccontare che dal
primo anno al secondo il decemvirato si sarebbe ad un tratto mutato
in una illegale tirannide. Abolita ogni guarentigia; la capricciosa
volontà dei decemviri, sola legge; patrizi e plebei, compagni ormai
di sventura e vittime della stessa violenza; alla fine dell’anno
prolungati arbitrariamente, dagli stessi decemviri, i propri poteri.
Non il decemvirato era mutato, ma il sentimento di tutti i partiti,
che, dopo aver troppo sperato, avevano ad un tratto disperato della
nuova costituzione. Nè il decemvirato potè resistere a lungo alla
coalizione degli interessi lesi, ai sospetti dei patrizi e dei
plebei, allo spirito di tradizione così forte. Qualche errore (il noto
episodio di Virginia, non è forse tutto romanzo, come romanzo non è
l’episodio iniziale dei Vespri siciliani) e una sconfitta diedero al
suo vacillante potere le ultime spinte, quelle che lo fecero cadere.
Sui primi del 449 Sabini ed Equi invadevano ancora una volta il
territorio romano. Otto decemviri presero il comando degli eserciti
romani. Solo Appio Claudio, la colonna del minacciato governo, rimase
con un collega plebeo in Roma, dove il pericolo era maggiore. Ma quei
duci improvvisati furono sconfitti; l’esercito si ribellò; e, sotto
il comando degli ufficiali minori, marciò su Roma, dove l’antica
costituzione fu ristabilita. Così il decemvirato spariva, lasciando,
come la monarchia, una rinomanza non buona ed un’opera insigne: la
legge civile e penale, che aveva cancellato tante antiquate differenze
tra i ceti sociali e che sarebbe stata per secoli il fondamento di
tutto l’ordine giuridico e, in parte anche, dell’ordine politico.


13. =I «Tribuni militares consulari potestate».= — Il secondo
cinquantennio del V secolo è migliore del primo per le vicende
esterne. Roma respira. I Volsci e gli Equi l’assalgono più di rado
e più mollemente: segno che le forze crescono a Roma e che scemano
ai suoi nemici. Roma però si tiene ancora sulla difesa. Si riaccende
invece, cinque anni dopo che il decemvirato è caduto, la grande contesa
dell’eguaglianza politica e civile. Nel 444 il tribuno della plebe
C. Canuleio propone di abrogare la legge delle Dodici tavole, che
interdiceva il connubio di patrizi e plebei; e i suoi nove colleghi
propongono di riconoscere console chi il popolo elegga, patrizio o
plebeo. La cittadella dei privilegi patrizi era assalita nel tempo
stesso da due parti, nella famiglia e nello Stato. La resistenza fu
quindi ardente e tenace, non eguale però sui due punti, per quanto tra
i privilegi familiari e i privilegi politici del patriziato, ci fosse
un nesso: gli _auspicia_. Ma, come tutte le caste chiuse, il patriziato
romano si assottigliava e impoveriva, mentre la plebe si rafforzava
di nuove famiglie arricchite di fresco; perciò la legge Canuleia,
se feriva l’orgoglio della casta patrizia, poteva rinsanguarla di
nuove intelligenze e di nuove ricchezze. Se non fu facile, non fu
neppur troppo difficile a Canuleio di spuntarla, tanto più che i
patrizi speravano, contentando la plebe su questo punto, di indurla
a rinunciare all’altra domanda. Ma si ingannarono: incoraggiati dalla
fortuna di Canuleio, gli altri nove tribuni mantennero la proposta; a
loro volta i patrizi si opposero disperatamente. Si fece pace alla fine
con una transazione. Fu proposto e approvato che, negli anni in cui il
senato lo credesse opportuno, fossero eletti, non più due consoli, ma
tre _tribuni militares consulari potestate_, i quali sarebbero scelti
dal popolo liberamente, tra i patrizi o tra i plebei. Il senso di
questa singolare transazione non è chiarissimo. Considerando che il
_tribunus militum_ era il comandante militare subordinato al console,
si può attribuire ai patrizi l’intenzione di salvare almeno formalmente
il proprio privilegio, concedendo ai plebei una specie di consolato
mutilo e monco. Certo è invece che la transazione gettò non cenere,
ma olio sul fuoco. A tutte le altre discordie si aggiunse una nuova
ragione di continui litigi: il decidere ogni anno se si dovessero
eleggere dei consoli o dei _tribuni militari_. I plebei volevano
i tribuni; i patrizi, i consoli. La transazione insomma indebolì
ancora più la suprema autorità dello Stato, che la repubblica aveva
già tanto indebolita; cosicchè fu forza usare ed abusare di quella
che era l’_ultima ratio_ della costituzione romana: la _dittatura_.
Sospesa la costituzione, i consoli nominavano, approvante il senato, e
per non più di sei mesi, un _dittatore_: un magistrato, come sembra,
di origine forestiera, osca od etrusca, munito di pieni poteri, nel
quale era ricostituita per breve tempo l’unità e l’autorità del potere
regio. Destreggiandosi con mosse avvedute, facendo uso accortamente
delle armi che forniva la costituzione, prevalendosi della maggiore
esperienza politica, che è frutto del lungo governare, negli estremi
frangenti nominando un dittatore, i patrizi riuscirono ad impedire
per quaranta anni e più che neppur un plebeo fosse eletto tribuno
militare, e riuscirono anche a togliere una parte dei suoi poteri
al vacillante consolato, per il giorno in cui cadesse in potere dei
plebei. Poichè i consoli erano troppo occupati nelle guerre, i patrizi
proposero, e fecero approvare nel 443 a. C., che si nominasse la nuova
magistratura dei _censori_ — ai quali furono passati molti carichi e
uffici dei consoli, tra i più gravi: il censimento della cittadinanza,
la compilazione del ruolo dei senatori, l’amministrazione delle rendite
ordinarie dello Stato, i pubblici appalti, la sorveglianza dei costumi
di tutti i cittadini — patrizi e plebei. Potere formidabile, perchè
armato di inappellabili sanzioni.

La tenace resistenza patrizia spiega come, nell’ultimo quarto del
secolo, i plebei non tentino più di scalare d’assalto la rocca del
potere, il consolato; ma cerchino di prenderla con una specie di
lungo e paziente assedio, conquistando ad una ad una le magistrature
minori, come i forti esterni che la difendevano. Nel 421 la plebe
ottiene che il numero dei questori sia portato a quattro e che anche i
plebei possano essere eletti a questa magistratura; nel 409 conquista
per la prima volta la maggioranza nel collegio questorio. È vero
che i questori non sono più, come nei primi lustri della repubblica,
magistrati criminali; ma dei cassieri o pagatori, ai quali è commesso
di custodire il tesoro pubblico e di sorvegliarne le entrate e le
uscite. Tuttavia, con questa riforma della costituzione, il primo
passo, che è sempre il più difficile, era fatto; tanto è vero che poco
dopo alla plebe riuscì di raddoppiare il numero dei tribuni militari e
di ottenere che dei sei tribuni una parte _dovesse_ essere plebea.


NOTE AL CAPITOLO SECONDO.

[13] La cronologia del trattato è definita dai nomi dei consoli (L.
Giunio Bruto e M. Orazio) dell’anno, che POLIBIO lesse nel trattato
medesimo, e non v’è un solo argomento che possa far dubitare della
sua autenticità. Questo documento s’ingrana perfettamente nella storia
primitiva di Cartagine e di Roma repubblicana. Polibio inoltre lo cita
per visione diretta del testo originale che dovette faticosamente
interpretare; ed in questa esposizione dei rapporti diplomatici
romano-cartaginese, egli è troppo preciso e circostanziato, perchè
si abbia a dubitare di errore alcuno. Tuttavia i critici tedeschi
contemporanei, e al loro seguito taluno dei più recenti studiosi
italiani di storia antica hanno dubitato del documento e della sua
cronologia; altro esempio di quella mania di revocare in dubbio,
a furia di argomentazioni logiche, i fatti meglio accertati, che è
propria di tanta parte nella critica storica tedesca o tedeschizzante
dell’Europa contemporanea. Cfr. le assennate osservazioni di A. PIRRO,
_Il primo trattato fra Roma e Cartagine_ (in _Annali della R. Scuola
normale superiore di Pisa_, 1892).

[14] DIONYS. HAL., 6, 95.

[15] Che l’elezione dei tribuni della plebe spettasse in origine ai
comizi curiati è esplicitamente e indubbiamente affermato da CIC., _Pro
Corn._, fr. 24, ed.; DIONYS. HAL., 6, 89; 9, 41.

[16] Cfr. DIONYS. HAL., 9, 41.



CAPITOLO TERZO

LA DISTRUZIONE DI VEIO E L’INCENDIO DI ROMA

(fine del V sec.-367 a. C.)


14. =La guerra contro Veio.= — A questo punto, sul finire del V secolo,
e quasi all’improvviso, la repubblica, che dalla sua fondazione si è
tenuta sulla difesa, passa all’attacco. Per quali ragioni? E perchè
assale Veio?

Non è dubbio che un secolo di guerre continue contro i Volsci e gli
Equi, quasi tutte combattute per difendersi e perciò senza frutto,
avevano stancato il popolo romano. Non si potrebbe, se no, spiegare
come in questi tempi i tribuni della plebe osassero così spesso fare
opposizione al senato, incitando la plebe a rifiutare il servizio
militare; e come accusassero così spesso e volentieri i patrizi di
andar attaccando briga con tutti i vicini, per logorare con le guerre
la plebe e dominare sicuri, mentre vera guerra da combattere non era
che tra patrizi e plebei. Queste accuse e questi lamenti dicono chiaro
che questi cittadini, obbligati a servire gratuitamente, erano stanchi
di combattere sempre in guerre di difesa, nelle quali tutt’al più si
riusciva, quando le cose andavano bene, a non perdere il proprio. Il
senato doveva dunque tentare, appena potesse, una di quelle lucrose
guerre di conquista, che per gli antichi erano, ancor più che la
difesa, la giustificazione vera dei carichi militari, imposti a tutti
i cittadini. Ma se è facile rendersi conto del motivo che spinse il
senato all’impresa, è possibile spiegare per quale ragione il senato
posò gli occhi su Veio?

Roma e Veio avevano già parecchie volte incrociato le spade. Le prime
ostilità tra Veienti e Romani risalgono, secondo una tradizione non
scevra di verisimiglianza, alla monarchia. Romolo avrebbe strappato
ai Veientani le saline poste alle foci del Tevere e una parte del
territorio trasteverino, là dove pose sua stanza una delle più arcaiche
genti romane, i Romili; Anco Marzio, la Selva Arsia, ricca di buon
legname per navi. Fece in seguito Veio parte dell’impero etrusco, a cui
Roma presiedè sotto Tarquinio Prisco e i suoi successori? È probabile.
Certo è che, caduta la monarchia, Veio partecipò, e con proprio
vantaggio, alle guerre dell’Etruria contro Roma; che dal 474, per circa
quaranta anni, regnò tra le due città una pace, che sembra essere stata
imposta da Veio; e che questa pace fu rotta di nuovo tra il 437 e il
425, quando nacque guerra tra Fidene e Roma e Veio corse ad aiutare
Fidene. Fidene era, dopo Roma, la città più importante edificata sulla
riva sinistra del Tevere; aiutando Fidene, Veio volle disputare a
Roma il dominio totale del basso Tevere: ma i Romani avendo vinto e,
Fidene essendo stata distrutta, la pace fu di nuovo conchiusa nel 425
con una tregua di 20 anni, ma questa volta a danno e a spese di Veio,
che ormai, distrutta Fidene, venne a dipendere, per la navigazione
del Tevere, da Roma. Se un popolo, che va in cerca di conquiste
e di gloria, facilmente volge le sue mire verso un avversario già
vinto, le ambizioni e le cupidige di Roma furono, allo scadere della
tregua, incoraggiate ai danni di Veio dal precipitare della potenza
etrusca. Già minacciata a mezzogiorno dalle fiorenti colonie greche
della Sicilia, dell’Italia meridionale, e dalle irruzioni dei Sanniti
in Campania, la potenza etrusca era da qualche decennio minacciata
nell’Italia settentrionale da una invasione di popoli barbari, per
quanto affini, per lingua e per origine, a molte parti degli antichi
abitatori dell’Italia: i Celti o Galli che, venuti dal nord, occupavano
sullo scorcio del secolo V una vasta parte dell’Italia settentrionale,
e avevano ridotto di molto il dominio degli Etruschi, dei Veneti, degli
Umbri. In quel momento dunque Veio, se Roma l’assalisse, non avrebbe
potuto sperare aiuto dalle altre città etrusche.

È pure probabile non fosse estraneo all’impresa il proposito di
riconquistare una parte di quell’Etruria, che già aveva appartenuto
a Roma, e che l’oligarchia patrizia aveva perduta. Ma uno dei motivi
più forti, se non il più forte addirittura, fu di sicuro la ricchezza
dell’agro veientano. Le grandi famiglie dell’ordine senatorio e le
ricche famiglie plebee avevano conservato sino ad allora il privilegio
di prendere in affitto la maggior parte delle terre dello Stato: e non
tanto forse per un’altra prepotenza a danno degli umili, quanto per una
ragione di ordine economico. I demani della repubblica, fossero boschi
o terre coltivabili, si componevano di vasti possessi, posti lontano
dalla città, che non potevano essere sfruttati se non da famiglie
provviste di mezzi ed in grado di aspettare a lungo i frutti dei
capitali investiti. Del resto, solo con questi affitti, l’aristocrazia
partecipava ai guadagni delle guerre vittoriose, perchè della preda
mobile, come abbiam visto, la parte che non era distribuita ai soldati,
era versata all’erario. Il privilegio poteva sembrare, sino a un certo
punto, giustificato da ragioni di equità. Se Roma dunque riuscisse
a prendere e a distruggere Veio, a catturare e a vendere schiavi la
maggior parte dei suoi abitanti, tutto l’agro veientano passerebbe alla
repubblica e potrebbe essere affittato alle ricche famiglie patrizie
e plebee, che lo avrebbero coltivato con grande profitto per mezzo di
schiavi.

Certo è, ad ogni modo, che l’impresa fu con molta prudenza preparata
da una riforma, la quale fece obbligo allo Stato di corrispondere un
soldo ad ogni cittadino sotto le armi. La guerra contro Veio poteva
essere lunga; quante occasioni si sarebbero offerte ai tribuni per
disturbare o intralciare l’impresa! Non promettendo alla plebe soltanto
una ricca preda, ma assicurandole subito un guadagno sicuro, si poteva
sperare di spuntare in mano ai tribuni una delle armi più pericolose di
opposizione. I tribuni infatti oppugnarono accanitamente la riforma. Ma
il senato aveva questa volta capito nel tempo stesso il desiderio del
popolo e le necessità dello Stato. La legge fu approvata; e per essa
l’impresa di Veio potè essere felicemente compiuta. Sarebbe inutile
discutere, se l’assedio di Veio durò proprio un intero decennio, come
vogliono gli antichi scrittori, o se il numero degli anni che durò
fu arrotondato per dare all’assedio di Veio una certa simiglianza
con l’assedio di Troia. Ma l’assedio fu lungo, di questo non si può
dubitare; e non ostante l’istituzione del soldo, mise a durissima prova
la pazienza dei Romani, che dovettero passare nelle trincee parecchi
inverni, mentre, a Roma, i capi dell’opposizione plebea cercavano di
approfittare del malcontento popolare contro l’impresa. Fu dunque
necessaria nel senato una grande fermezza. Un dittatore, M. Furio
Camillo, riuscì finalmente a prendere la città, la distrusse, vendè la
popolazione, annettè il territorio, e divise tutta la preda mobile tra
i soldati e la plebe: la preda più ingente che Roma avesse conquistata,
dalla caduta della monarchia.


15. =L’invasione gallica e l’incendio di Roma (390?).= — La
vittoria era stata faticosa, ma grande. La repubblica incominciava a
riconquistare il perduto. Anche lo stato interno della repubblica se
ne risentì. Dopo l’assedio di Veio, si intravede una scissione nel
partito della plebe; perchè i ricchi plebei — o almeno una parte —
se ne distaccano e si accostano, dimenticati gli antichi dissensi,
ai patrizi. Effetto del nuovo prestigio, che al patriziato aveva
conferito la vittoria, o della agitazione che scoppiò tra la plebe a
proposito dell’agro veientano? Forse le due cause concorsero insieme.
La plebe questa volta non volle riconoscere quella spartizione tra
ricchi e poveri del bottino e delle terre, che era entrata nelle
tradizioni; e, dopo aver ricevuto le spoglie della guerra, incominciò
a chiedere che una parte della popolazione di Roma fosse trasportata
a Veio e ricevesse le terre e le case dei Veientani. Questa richiesta
non piacque punto ai patrizi e a molti ricchi plebei; nacque una
lotta furibonda; e il senato non riuscì a far respingere la legge che
ordinava quel trasporto, se non cedendo alla plebe una parte dell’agro
veientano e assegnando sette iugeri a testa. Insomma, subito dopo la
conquista di Veio, nasce dalla vittoria una nuova cagione di discordia;
e chi sa quante mutazioni e rivolgimenti questa nuova discordia avrebbe
generato, se, dieci anni all’incirca dopo aver distrutto Veio, Roma non
avesse subìto la stessa sorte.

I Galli avevano, senza volerlo, aiutato Roma a conquistar Veio,
indebolendo la potenza etrusca nell’Italia settentrionale e nell’Italia
centrale. Ma la necessità, che incalza di sede in sede i barbari,
spingeva di continuo numerose e bellicose colonne a cercare più lungi
terre e bottino. Nel 390, secondo gli uni, nell’inverno dal 388 al 387
secondo altri, nell’inverno del 387-386 secondo una terza opinione[17],
parecchie migliaia di Galli della tribù dei Senoni — una delle tribù
più meridionali, che aveva stanza sull’Adriatico, nella parte costiera
delle odierne Marche — oltrepassato l’Appennino, scendevano impetuose
verso il sud-ovest, saccheggiando le terre etrusche; si spingevano,
quasi senza incontrare resistenza, al di là del lago Trasimeno,
sino alla splendida e potente città etrusca di Chiusi; indugiavano
un poco attorno a Chiusi; ma, non essendo capaci di assediare
città fortificate, e dopo aver devastato il territorio circostante,
proseguivano alla volta del Lazio, mirando forse alla ricca e fertile
Campania. A ogni modo essi dovevano attraversare il territorio romano.
A giudicare da quel po’ che sappiamo intorno ai Galli e alle loro orde,
non avrebbe dovuto essere impresa troppo difficile per Roma e per i
suoi alleati, ricacciare l’invasione alla sorgente o disperderla. Che
cosa accadde invece? Il punto non è chiaro. Par che Roma, giudicando
il pericolo o meno grave o più lontano che non fosse, si lasciasse
sorprendere alla sprovvista. Fatto sta che alla battaglia dell’Allia,
piccolo affluente del Tevere, un esercito romano, che Livio chiama
_tumultuarius_, fu interamente disfatto; e che tutta la popolazione,
alla notizia della sconfitta, sgombrò Roma precipitosamente, lasciando
solo un manipolo di giovani animosi nella rocca Capitolina, sotto il
comando di un valoroso patrizio, M. Manlio. I Galli poterono entrar
nella città senza colpo ferire, saccheggiarla e incendiarla, mentre
la repubblica fuggiasca tentava di organizzare un nuovo esercito
per riconquistarla. Ma come a Chiusi, i Galli invano assediarono
e tentarono di prendere la rocca, difesa da Manlio: l’assedio si
protrasse; la carestia non tardò a tormentare l’imprevidente orda
barbara; sopraggiunse l’estate e, con i calori, la febbre. L’acropoli
resistendo e crescendo il pericolo di essere attaccati alle spalle dal
nuovo esercito, che la repubblica preparava, i Galli s’indussero alla
fine a venire a patti. Un mucchio d’oro pagò lo sgombro del territorio
e la volontaria ritirata.


16. =La ricostruzione di Roma.= — Il male era stato minore della paura;
Roma era stata non distrutta da un nemico implacabile, ma malmenata da
una scorreria di barbari predatori. Ma era pur stata presa, incendiata
e riscattata a prezzo d’oro! Lo spirito pubblico fu sbigottito a tal
segno, che quando, fra le rovine ancora fumanti, l’assemblea centuriata
si radunò per deliberare la ricostruzione della città, i tribuni della
plebe proposero di abbandonare Roma e di riedificarla sulle rovine
di Veio. Già molti Romani, fuggiti da Roma all’avanzarsi dei Galli si
erano rifugiati a Veio, nelle case ancora abitabili dopo dieci anni di
abbandono; non era consiglio migliore restarci per sempre e far sorgere
dalle ceneri della grande città in rovina, un nuovo Stato in cui vinti
e vincitori, patrizi e plebei, potessero finalmente unirsi davvero,
sotto nuove leggi e istituzioni, sfuggendo per sempre alla stretta dei
privilegi e delle tradizioni che soffocavano Roma? La proposta piacque,
massime alla plebe, profondamente percossa e turbata nell’animo
dalla grande rovina. Si oppose il patriziato, campione ostinato
della tradizione; e la lotta fu viva. La tradizione vinse; Roma fu
riedificata, prendendo il materiale che mancava a Veio, là dove,
pochi mesi prima, quando, all’avvicinarsi dei Galli, i simulacri degli
Dei erano stati portati a Veio, si diceva che la Giovinezza e il Dio
Termine avessero chiaramente manifestato la ferma volontà di restare;
là dove da tempo immemorabile aveva bruciato e brillato il fuoco di
Vesta, ed erano caduti dal cielo gli scudi sacri; là dove infine si
favoleggiava che poco prima fosse stato rinvenuto, misteriosamente
sepolto, un cranio d’uomo, segno, a detta degli indovini, che quel
luogo era destinato a diventare il cuore e il cervello del mondo.
Ma quanto diversa dalla Roma dei Re! Per far presto, si abborracciò
la nuova città senza alcun piano o disegno prestabilito; le nuove
casupole, creature della fretta, della miseria e del malvolere, sorsero
disordinate e ineguali; alle strade, larghe e diritte, tracciate dai
Re, furono sostituite viuzze anguste e tortuose, che sconceranno per
secoli la metropoli dell’impero.


17. =Conseguenze della invasione gallica.= — E in questa città
riedificata in fretta ridivamparono le lotte civili, esasperate dalla
miseria. Non ostante tutte le facilitazioni e gli aiuti del pubblico
erario e dei ricchi, la plebe impoverisce di nuovo, come nei primi
tempi della repubblica. Alla rovina della città e alla devastazione
delle campagne si aggiunsero alcune guerre; chè pronti gli Equi, i
Volsci, gli Etruschi e alcuni alleati latini, cercarono di approfittare
delle calamità da cui Roma era oppressa. Di nuovo il Lazio si coprì
d’ipoteche; di nuovo la maggior parte della popolazione cadde nei
debiti e pericolò nei beni e nella libertà; di nuovo la miseria gemè
e tumultuò entro le mura della città, ora implorando, ora esigendo con
le minacce riduzioni dei debiti e leggi agrarie. Ma la plebe non è più
assistita da quegli uomini che con tanto vigore hanno lottato negli
anni precedenti alla guerra di Veio. I tribuni sono muti o fiochi;
i patrizi riescono facilmente ad escludere i plebei dal tribunato
militare; fanno i sordi a tutte le richieste del popolo e si affrettano
solo a recuperare i frutti della vittoria su Veio, incorporando
nel territorio dello Stato i territori conquistati nell’Etruria
meridionale, in cui era tanta ricchezza di terre da affittare. Così
nel 387 furono istituite nei nuovi territori quattro nuove tribù: la
_Stellatina_, la _Tromentina_, la _Sabatina_, l’_Arniensis_.


18. =L’agitazione di M. Manlio Capitolino (385-384 a. C.).= — Non si
può spiegare questo universale abbandono della plebe, se non ammettendo
che la scissione, incominciata dopo l’assedio di Veio, sia andata
crescendo; e che i plebei ricchi, spaventati da quel che chiedevano
i plebei poveri, abbiano fatto, per interesse, causa comune con i
patrizi. Certo è che la plebe non trovò in questi anni altro protettore
che un generoso e glorioso patrizio; quel M. Manlio che aveva difeso
con tanto valore il Campidoglio ed era detto perciò Capitolino. Di
questa singolare figura solo qualche lineamento si scorge a fatica
nella tradizione, troppo ritoccata dagli odi patrizi. Ma non è dubbio
che in tempi, in cui i ricchi, patrizi e plebei, si stringevano in una
lega contro la miseria e le sue collere, questo patrizio, fosse spinto
o da ambizione, come dicono gli antichi scrittori, o da un sentimento
sincero di equità e di zelo civico, si mise a capo, nel 385, di una
agitazione popolare che chiedeva pei poveri terre e addolcimenti alla
legge dei debiti. Grande fu il favore che il popolarissimo difensore
del Campidoglio acquistò presso la moltitudine; ma non minore l’astio,
di cui lo perseguitarono i capi delle due parti, quella patrizia e
quella plebea. I tribuni della plebe non sono meno avversi dei tribuni
militari a questo patrizio, che non chiede più l’eguaglianza politica,
ma soccorsi e sollievi per i poveri, di cui tutti i ricchi — patrizi
e plebei — avrebbero dovuto fare le spese. La lotta fu dunque, per
due anni, piena di violenze e di insidie. Riuscì alla fine ai ricchi
patrizi e plebei di liberarsi di Manlio accusandolo di aspirare al
regno. Manlio fu condannato a morte, con un processo probabilmente
altrettanto iniquo quanto illegale[18]: ma non cessò l’agitazione,
perchè la miseria non cessava, anzi era accresciuta dalle guerre
frequenti. Molti tra i soci latini tentarono di riacquistare la
libertà. Si dedusse qualche colonia: a Sutrium (383), a Setia (382), e
a Nepi (381)[19]. Inutilmente: chè il rimedio era piccolo a paragone
del male. Esasperato il popolo minuto accusò apertamente i patrizi
di inventare una rivolta di alleati o una guerra, appena a Roma si
incominciava a ragionare di debiti o di leggi agrarie, per portar via
da Roma la plebe valida.

Di nuovo l’ostinazione dei patrizi metteva a repentaglio lo Stato,
già tanto indebolito dalla guerra gallica. Per fortuna, il male e
il pericolo crescendo, a poco a poco l’antico partito della plebe si
scosse dal suo torpore; e cautamente, sotto l’usbergo della sacrosanta
potestà tribunizia, ripigliò l’opera di Manlio. Nel 380 i tribuni della
plebe impediscono con il veto che si facciano le leve per una guerra
nata allora allora contro Preneste e che nessun debitore sia tratto in
schiavitù per debiti. Nel 378 di nuovo i tribuni della plebe vietano
che si facciano leve per respingere una incursione di Volsci; e questa
volta il patriziato cede. Si approvò una legge che vietava, sinchè
durasse la guerra, di esigere il tributo e di intentare azioni per
rimborso di crediti. Ma, terminata la guerra, la legge antica riprese
il suo imperio, e la plebe ricominciò a gemere e ad imprecare. Non
pareva esserci scampo da quella inestricabile difficoltà. I blandi e
saltuari espedienti a cui il partito della plebe ricorreva per guarire
il male dei debiti erano inefficaci; non si poteva proporre rimedi
radicali, perchè il partito dei patrizi spadroneggiava nel senato e nei
comizi, e spadroneggiava perchè i plebei ricchi non volevano aiutare
la plebe a scalzar con queste leggi le fondamenta giuridiche della
proprietà. Come uscire dal labirinto?


19. =Le leggi Licinie-Sestie (377-367 a. C.).= — I due tribuni della
plebe dell’anno 377, C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano, trovarono
il filo. Ambedue appartenevano a quella aristocrazia di ricchi plebei,
che, se avversava con i patrizi le leggi richieste dalla plebe,
avversava pure con la plebe i privilegi politici del patriziato.
Infatti, nel 377, essi proposero una legge sui debiti, una legge
agraria e una legge che ammettesse i plebei al consolato. La legge sui
debiti disponeva in favore dei debitori, come forse due secoli e mezzo
prima in Atene, la non meno famosa e discussa _seisachteia_ del saggio
arconte Solone, che dall’ammontare totale del debito fosse dedotta la
somma già pagata per gli interessi, e che il rimanente fosse pagato
a rate in tre anni. La legge agraria disponeva che nessun patrizio
potesse possedere più di 500 iugeri di agro pubblico e che il resto
dovesse essere equamente distribuito tra il proletariato plebeo. Infine
la legge sul consolato aboliva i tribuni militari, ristabiliva il
consolato, ma disponeva che uno dei consoli dovesse esser plebeo.

Intorno a queste leggi molto hanno scritto i critici moderni, per
dimostrare che la tradizione mentisce, e che la legge agraria sarebbe
posteriore di molti anni, forse di qualche secolo[20]. Ma senza alcun
argomento decisivo; e riuscendo solo, con queste divagazioni, ad
oscurare la tradizione che, così come è, ci rende chiara ragione degli
scopi e degli atti dei due tribuni. Non è dubbio che costoro volevano
di nuovo unire tutti i plebei, ricchi e poveri, divisi dall’incendio
di Roma in poi, contro i patrizi, portando sollievo alla miseria
del popolino con le leggi sulle terre e sui debiti e soddisfacendo
un’antica aspirazione dei ricchi plebei con la legge del consolato.
Il consolato doveva compensare a costoro il danno delle altre due
leggi. La mossa era abile, ma non riuscì facilmente; perchè anche
allora non tutti erano disposti a pagare a peso d’oro l’incremento,
non già della potenza propria, ma di quella del proprio ceto. Non è
meraviglia che la lotta abbia durato molti anni — dieci, secondo la
tradizione; — e che in questi anni da una parte e dall’altra si sia
adoperata senza scrupolo l’arma dell’ostruzione legale. I patrizi a
più riprese trovarono tribuni della plebe che opposero il veto quando
i loro colleghi si accingevano a far votare queste leggi: chiarissima
prova che l’opposizione dei ricchi plebei non era stata disarmata
interamente. A loro volta i due autori delle leggi, rieletti tribuni
ogni anno, risposero sospendendo le funzioni vitali dello Stato, sinchè
riuscirono a vincere l’impegno, e a far approvare le tre leggi. Nel
367 la plebe riceveva il sollievo delle due leggi sugli affitti e sui
debiti; e il consolato, la suprema carica della repubblica, cessava
di essere un privilegio patrizio. A compenso fu stabilito che oltre
i due consoli, sarebbe eletto, ogni anno, ma solo tra i patrizi, un
_praetor, qui ius in urbe diceret_, un magistrato cioè per amministrare
la giustizia, e che pure tra i patrizi si eleggerebbero due _aediles
curules_.


NOTE AL CAPITOLO TERZO.

[17] La cronologia del 390 è quella della tradizione romana; l’altra
del 387-86 è data da POLIBIO, I, 6 e da DIOD., 14, 110 sg. V’è tuttavia
una terza cronologia, secondo cui quell’invasione sarebbe seguìta un
anno prima, nel 388-87; cfr. DIONYS. HAL., I, 74.

[18] Su M. Manlio Capitolino, cfr. C. BARBAGALLO, _Critica e storia
tradizionale a proposito della sedizione e del processo di M. Manlio
Capitolino_, in _Rivista di filologia classica_, 1912, fasc. 2-3.

[19] Sulla cronologia di queste tre colonie, cfr. VELL. PAT., I, 14.

[20] Una legge agraria Licinio-Sestia fu negata radicalmente da B.
NIESE, _Die sogenannte licinisch-sextische Ackergesetz_, in _Hermes_
(1888), pp. 416 sgg., la cui opinione è stata seguìta dalla massima
parte degli studiosi contemporanei. Una revisione critica di quella
teoria è cominciata solo da poco; cfr. W. SINAJSKY, _Studien zur
römischen Agrar- und Rechtsgesckichte_, Dorpat, 1908, I, p. V e
§§ 29-30 (in russo con introduzione e riassunto in tedesco); C.
BARBAGALLO, op. cit., pp. 233 sgg.; G. CARDINALI, _Studi graccomi_,
Roma, Löscher, 1912, pp. 129 sgg.



CAPITOLO QUARTO

I SANNITI


20. =La prima guerra sannitica (342-341).= — Ma neppure le leggi
Licinie-Sestie posero fine alle turbolenze di Roma. Continuano nella
travagliata repubblica le contese per l’elezione dei consoli e le
agitazioni degli indebitati. Gli arrabbiati del partito patrizio
tentano di impedire che siano nominati consoli plebei, ora per mezzo
del console che presiedeva alle elezioni e che poteva escludere a suo
arbitrio quante candidature voleva; ora sostenendo invece che nessuna
legge poteva vietare ai cittadini di eleggere chi più loro piacesse.
Nel 357 due tribuni della plebe fanno passare una legge che fissa il
saggio dell’interesse all’uno per cento al mese. Nel 352 è nominata una
commissione di cinque, la quale liquidi le partite troppo intricate,
o con denaro pubblico, sostituendo con opportune cautele lo Stato
ai creditori; o soddisfacendo costoro con beni dei debitori, stimati
secondo equità. Neppure le leggi Licinie erano riuscite a guarire il
male dei debiti.

Il solo conciliatore infallibile degli interessi e dei rancori è il
Tempo. Soltanto nel secondo decennio dopo l’approvazione delle leggi
Licinie-Sestie le cose si vanno un po’ tranquillando, anche perchè
altre inquietudini sopraggiungono. I Galli non avevano cessato di dar
molestia. Due volte, nel 360 e nel 348, avevano tentato di rioccupare
il paese, che avevano così facilmente invaso la prima volta. Anche
con l’Etruria ci furono guerre e difficoltà: ma il maggior travaglio
venne dagli alleati. Il patto, sancito da Spurio Cassio, non reggeva
più; sia che il colpo dei Galli e le dissensioni interne avessero
screditato Roma, sia che, dopo più di un secolo, anche quella alleanza
fosse invecchiata. Per Roma, minacciata dai Galli e premuta dagli
Etruschi, questo dissolversi per vecchiaia della lega latina era un
grande pericolo: onde non solo noi possiamo argomentare che i partiti
e i ceti siano stati indotti da questo pericolo ad accettare alla
fine lealmente la transazione attuata dalle leggi Licinie-Sestie;
ma spiegare anche l’alleanza conchiusa nel 354 con i Sanniti e il
secondo trattato con Cartagine, giurato nel 348. I Sanniti erano una
potente confederazione di popoli guerrieri, che, annidati in tempi
più antichi nelle montagne poste tra l’Apulia e la Campania, di là
erano scesi a conquistare quasi tutta l’Italia meridionale, da un mare
all’altro, assoggettando le razze indigene, debellando gli Etruschi
e i Greci: il maggior potentato forse dell’Italia, in quel momento in
cui gli Etruschi declinavano e i Galli, inquieti, mobili, tumultuanti,
scorazzavano tanta parte della penisola, senza radicarsi ancora in
nessuna regione. È chiaro che Roma, la quale, prendendo saldo piede
nel territorio dei Volsci si era avvicinata al territorio sannitico,
doveva desiderare amica la potente confederazione, in tempi in cui le
sue antiche alleanze vacillavano. Nè di minor rilievo è il secondo
trattato con Cartagine conchiuso nel 348[21], che confermò in molti
punti quello del 510, ma lo ritoccò in altri, quasi sempre a vantaggio
di Cartagine. Incluse nella nuova alleanza gli Uticensi e i lontani
Tyrii della costa siriaca; vietò alle navi latine di viaggiare al
di là delle colonne d’Ercole, nei dominî più occidentali dell’Africa
cartaginese; vietò ai Romani non solo di fondar colonie, ma anche di
commerciare in Sardegna ed in Africa, fuorchè in Cartagine. Insomma
questo secondo trattato è anche peggiore per Roma di quello del 510,
perchè le chiude in faccia le porte dell’Africa e della Sardegna: in
compenso assicura a Roma «che, se in paese latino essi [i Cartaginesi]
prendano qualche città non sottoposta al dominio romano, tratterranno
il denaro e i prigionieri, ma consegneranno la città ai Romani». La
ragione del nuovo trattato apparisce chiara: Roma rinuncia all’Africa e
alla Sardegna, perchè Cartagine si impegna di nuovo a non passare dalla
Sardegna e dalla Sicilia sulle coste dell’Italia. In quegli anni, in
cui le antiche alleanze della repubblica si scioglievano, Roma aveva
avuto tanta paura che i Cartaginesi volessero insediarsi sulle coste,
da abbandonare la Sardegna tutta quanta a Cartagine, purchè Cartagine
di nuovo rinunciasse alla terra ferma.

Ancora una volta Roma faceva prova di quella prudenza, che quasi
sempre usò nelle faccende esterne e che fa così strano contrasto
con la spensierata imprudenza delle sue lotte intestine. Roma aveva
ragione di accarezzar Cartagine, perchè, se le sue antiche alleanze
vacillavano, le nuove erano poco sicure. Quasi d’improvviso, nel 343,
essa si trovò alle prese con quella confederazione sannitica, con cui
pochi anni prima aveva stretto alleanza. La ragione o l’occasione
di questo conflitto tra due Stati che sino allora avevano ambedue
potuto ampliare i propri territori senza toccarsi, fu la Campania.
Quell’aprica e fertile contrada, bagnata dal Tirreno e coronata dagli
altipiani e dai gruppi sparsi dell’Appennino napoletano, che antichi e
moderni hanno denominata Campania, era da tempo immemorabile abitata
da una popolazione intelligente e operosa, che i Greci e i Latini
chiamavano _Osci_ (Ὄσχοι). Essi avevano dissodato il terreno; essi ci
avevano piantato la vite e seminato i cereali; essi avevano fabbricato
le prime città dell’Italia meridionale ed erano forse cresciuti di
numero molto più che le restanti popolazioni della penisola. Più tardi
avevano conosciuto i Greci e gli Etruschi; ne avevan subito il dominio
e le colonie; ma senza essere oppressi, avviliti o distrutti, anzi
imparando: cosicchè fino alla metà del secolo V, le civiltà greca,
osca ed etrusca avevano potuto fiorire insieme ed accanto, l’una
più sulla costa, le altre due più nell’interno, quasi integrandosi
a vicenda. Il viaggiatore ammirava nel paese, accanto agli antichi e
meschini santuari oschi di legno, i grandiosi templi dorici di marmo,
di cui quello di Pesto è ancor l’ammirazione del mondo, e, negli uni o
negli altri, i bronzi oschi e greci, le terrecotte policrome, le forme
svelte e i profili inimitabili degli Dei d’Omero; ammirava gli atrii
delle case etrusche, ampliati dai peristili ellenici; ritrovava nelle
modeste e rudi casupole osche le filigrane d’oro, gli argenti, i rami,
i ninnoli di ambra, le ceramiche nere e lucenti, gli oggetti di vetro,
che i Greci e gli Etruschi fabbricavano o importavano.

Ma sin dalla seconda metà del V secolo, un quarto popolo era venuto a
turbare quella lenta fusione. I montanari dell’Abruzzo — i Sanniti —
erano discesi nella regione occupata da Greci e da Etruschi; avevano
strappato a questi ultimi le colonie più vicine e proseguito verso
Oriente, minacciando, da presso o da lungi, le città greche della
Campania[22]; quelle belle vive e ricche città, nelle quali il partito
aristocratico e il democratico combattevano tra loro con tal furore
da sollecitare gli aiuti, ogni qualvolta soggiacevano all’avversario,
dello straniero più vicino e potente. I Sanniti avevano approfittato
di queste discordie per allargarsi in Campania; ma popolo, a quanto
si sa, di rudi guerrieri, non avevano conosciuto la civiltà etrusca e
greca senza alterarsi profondamente. I Sanniti, che avevano occupato
città etrusche come Capua o città greche come Cuma, si erano presto
appropriati la lingua, i costumi e soprattutto i vizi di quei popoli
tanto più colti e civili; onde dalla contaminazione della civiltà
etrusca e greca con la rudezza sannitica era nato un popolo nuovo e
bastardo, che aveva rinnegato la stirpe materna. Capua, ad esempio, la
più ricca e la più potente tra le città della Campania, che i Sanniti
avessero presa agli Etruschi, la cui aristocrazia era composta in gran
parte di Sanniti, rinverniciati di civiltà etrusca e greca, era in
guerra continua con la confederazione sannitica. Cosicchè, verso la
metà del IV secolo a. C., questa, felice tra tutte le terre d’Italia,
era un caos. Gli Etruschi l’avevan ormai quasi interamente sgombrata;
ma l’ellenismo si lacerava in discordie furiose, ed ora lottava contro
la potenza sannitica, ora ricorreva a questa per soddisfare i suoi odi
e le sue ambizioni, soggiacendo quasi sempre nell’un caso e nell’altro;
per assimilar poi i barbari vittoriosi, si imbastardiva, pur riuscendo
a svegliare nelle loro rudi anime un orgoglio, una sete di piaceri, una
cupidigia di ricchezze, che presto o tardi rinnegavano la madre patria.
Insomma: l’ellenismo in guerra perenne con sè medesimo e con i Sanniti;
i Sanniti, sempre in lotta con la propria stirpe, imbastardita dalla
civiltà greco-etrusca.

Roma sarebbe un giorno o l’altro costretta a intervenire nei confusi e
sempre inquieti affari della Campania. Quale fu la prima occasione e la
prima spinta non è chiaro; perchè il racconto che Tito Livio ce ne ha
trasmesso è oscuro; e sembra essere stato poeticamente abbellito per
nascondere eventi e fatti, di cui l’orgoglio romano non aveva ragione
di compiacersi. A ogni modo ecco quanto sembra possa congetturarsi.
Nel 343[23] era nata di nuovo guerra tra la confederazione sannitica
e quelle che si potrebbero chiamare le sue rivoltose colonie della
pianura: i Sidicini e i Campani. La guerra era scoppiata da principio
tra i Sanniti e i Sidicini; ma i Sidicini avevano poi ottenuto l’aiuto
di Capua. Senonchè Sidicini e Campani, avendo presto disperato di tener
testa al Sannio, si rivolsero a Roma, dimostrandole che essa doveva
impedire ai Sanniti di stabilirsi nella Campania. Roma, che era alleata
dei Sanniti, esitò lungamente; sinchè — se vogliamo credere a Tito
Livio — Capua si offrì addirittura come suddita a Roma. Non resistendo
allora alla tentazione dell’agro campano, Roma mandò un’ambasceria ai
Sanniti per avvertirli di rispettar Capua, che ormai le apparteneva;
onde nacque e fu combattuta nel 342 la prima guerra sannitica, o quella
che suol chiamarsi così, nelle storie.

Intorno alla quale gli storici moderni hanno disputato lungamente,
dubitando che sia stata mai combattuta. Che Tito Livio ce ne faccia
un racconto di fantasia, non è dubbio; perchè, a volergli credere,
dopo pericoli immensi, miracolosi scampi e straordinarie vittorie
dell’esercito romano, tutt’a un tratto, l’anno seguente, nel 341,
Sanniti e Romani fanno una pace ragionevole. I Sanniti restan liberi
di far la guerra ai Sidicini; i Romani si tengono la Campania, che i
Sanniti promettono di rispettare; di nuovo Romani e Sanniti si alleano.
Senonchè, se questo racconto è oscuro e confuso, non ci par possibile
cancellare dalla storia di Roma questa guerra, sia perchè non è facile
spiegare come e perchè la tradizione l’abbia inventata, sia perchè non
si riesce più a intendere come Capua e Roma vengano la prima volta
a toccarsi. Pare dunque verisimile supporre che Capua sia riuscita,
se non proprio assoggettandosi a Roma, offrendole grandi vantaggi, a
far nascere nel 342 serie difficoltà e un principio di guerra tra il
Sannio e Roma. Ma questa guerra deve aver durato poco, perchè nè Roma
nè i Sanniti volevano impegnarsi fino all’ultimo sangue. Ad ambedue
conveniva più l’intendersi che il combattere.


21. =La rivolta degli alleati latini e il nuovo ordinamento del Lazio
(340-338).= — Senonchè — e a questo punto usciamo dalla congettura per
rientrare nella storia — questa pace era fatta a spese dei Sidicini
e dei Campani. I quali non l’intendevano allo stesso modo. A Capua
un partito — il partito democratico — non aveva accettato l’alleanza
con Roma, che per aiutare i Sidicini e combattere i Sanniti. Questo
partito giudicò dunque la pace tra Roma e il Sannio come la giudicarono
i Sidicini: un tradimento; e, insieme con i Sidicini, fece un passo
molto ardito: si rivolse alla Lega latina e le offrì alleanza contro
Roma. Questa mossa basta da sola a dimostrare quanto profondo fosse
il malcontento della Lega. Difatti la Lega latina, spezzando il patto
secolare che la legava a Roma, accettò l’alleanza; e Roma, alleata al
suo recente nemico, ebbe a sostenere l’urto dei suoi alleati — antichi
e nuovi — unitisi tutti contro di lei.

La nuova guerra durò tre anni; ed ebbe anch’essa vicende di cui
la tradizione non ha conservato un ricordo molto chiaro. Forse fu
anch’essa una di quelle sorprese, che ogni tanto si ripetono nella
storia. Poche guerre sembrano aver da principio fatto più paura a
Roma; e si capisce. Non solo la rivolta degli alleati sconvolgeva
tutto l’ordinamento militare di Roma; ma nessun nemico poteva parere
più pericoloso di questo, che parlava la stessa lingua, adoperava le
stesse armi e da un secolo guerreggiava con i Romani. La tattica e la
strategia romana non potevano aver per lui nè misteri nè sorprese.
Invece la guerra fu facile e breve. Una sola battaglia, vinta dai
Romani a Trifano, sul confine del Lazio e della Campania, bastò a
rompere il fascio delle forze latine e campane, che ai Romani era
sembrato da principio così formidabile: prova manifesta, che era
debole, sebbene non sia possibile spiegare perchè sembrasse tanto e
fosse così poco forte. Sappiamo solo che Capua aveva aderito alla Lega
latina, spinta dal partito democratico; che l’aristocrazia parteggiava
per Roma e mandò a Trifano, in aiuto delle legioni, un contingente di
quella cavalleria capuana che era così famosa, decidendo forse della
vittoria; che la battaglia di Trifano, in una città incerta e divisa,
bastò a far pendere di nuovo la bilancia dalla parte di Roma. Forse
anche in molte città latine, accanto al partito della rivoluzione,
c’era un partito fedele. Comunque sia, la battaglia di Trifano frantumò
la lega latino-campana.

Questa facile vittoria, in una guerra che era apparsa così difficile
e pericolosa, ebbe effetti profondi su Roma. Non solo cancellò dalle
menti gli ultimi ricordi dell’incendio gallico; ma infuse nella
politica della repubblica, sino ad allora così timida, una insolita
risolutezza. Vedendo la lega latino-campana sfasciarsi, Roma non
esitò ad impadronirsi del Lazio e della Campania; e con due anni di
guerra ridusse tutte le città che non si arresero spontaneamente,
dando a tutte un ordinamento nuovo. Al maggior numero delle città
latine non fece subire nè violenze nè confische: lasciò il territorio
e le leggi; tolse solo a tutte _connubia, commercia et concilia inter
se_; ossia sciolse la federazione latina, vietando a ogni città di
fare alleanza, di commerciare e di contrarre matrimoni con le altre,
obbligando ciascuna a contrarre per proprio conto un’alleanza separata
con Roma. A questo modo, invece di trattare da pari a pari con una
potente confederazione, primeggiò come città egemone tra molti piccoli
potentati isolati, di cui ognuno era molto più debole. Nel tempo stesso
Roma provvide ad allargare intorno alla città il territorio romano
dalla parte di settentrione, di levante e di mezzodì. Lanuvio, Aricia,
Nomento, Pedo, Tuscolo, perdettero l’indipendenza e furono annessi
allo Stato romano, con la concessione della _civitas cum suffragio_. Ad
Anzio fu tolta la flotta e nel suo territorio fu dedotta una colonia.
Egual sorte toccò a Velletri e a Terracina. Altre città, come Tivoli,
Preneste, pur restando città latine, quindi indipendenti di nome e
alleate, furono per castigo spogliate di parte del territorio. A Capua
ne fu tolta una striscia sola, piccola e fertile. La stessa Capua,
Fondi, Formia, Cuma e parecchie altre città minori furono sottoposte
alla signoria romana con la _civitas sine suffragio_; il che vuol dire
che ebbero della cittadinanza romana tutti i diritti e tutti i doveri,
tranne il diritto di eleggere i magistrati e di essere eletti.

Questa guerra era, dopo la conquista di Veio, la più felice impresa
compiuta dalla repubblica. Dopo averla compiuta, Roma poteva affrontare
il paragone con gli anni più felici della monarchia. Al trattato
di Spurio Cassio con la lega latina, essa ha sostituito una forte
egemonia. Il territorio romano si stende ormai, comprese le colonie
del Lazio e della Campania, dai monti Cimini fin quasi al Vesuvio,
per circa 6000 kmq.; a cui occorre aggiungere i 5000 kmq. degli
alleati e delle colonie latine; in tutto, più di 10.000 kmq., di cui
la parte propriamente romana doveva contare oltre mezzo milione di
abitanti, e poco meno il paese indirettamente soggetto. Non è quindi
arbitrario argomentare che Roma potesse mettere in campo 50.000 uomini:
gran forza, per quei tempi, se si pensa che, in questi stessi anni,
Alessandro il Grande moveva dalla Grecia a fondare il suo impero con
30.000 uomini. Infine Roma è ormai in contatto con l’ellenismo. Nella
prima metà del IV secolo, la repubblica incominciò dunque a raccogliere
i frutti del suo lungo, ostinato e un po’ confuso lavoro. Che i primi
frutti siano maturati a un tratto, come per una specie di miracolo, non
è da stupire; perchè tutti i grandi mutamenti della storia si preparano
nel silenzio. È invece singolare che i Sanniti abbiano lasciato Roma
allargarsi e rafforzarsi a questo modo. Che i due grandi Stati abbiano
vissuto in pace, sinchè Roma aveva adocchiato le coste del Lazio e
l’Etruria meridionale, si capisce. Ma è più difficile di spiegare come
il Sannio lasciasse Roma insediarsi tranquillamente nella Campania,
che esso aveva ora conquistata, ora perduta e sempre ambita. Eppure non
solo dopo la guerra coi Latini Roma si impadronisce definitivamente di
Capua, di Formia, di Fondi; ma negli anni seguenti deduce due colonie a
Cales (Calvi) e a Fregellae (Ceprano): sentinelle avanzate sui confini
del Sannio. E la confederazione non muove un dito....


22. =La guerra tra Roma e Napoli (327).= — Non c’è che un modo di
spiegar questa inerzia, se non si vuole — e non par che si possa —
apporla alla torpida lentezza della confederazione sannitica, più
valorosa che avveduta. Proprio in questi anni i Sanniti erano alle
prese con un altro nemico, apparso dal mare: Alessandro il Molosso,
zio di Alessandro il Grande, re di Epiro, che i Tarantini avevano
assoldato per combattere i Lucani ed i Bruzzi. Anche nell’estrema
Italia meridionale le città greche della costa guerreggiavano con
le popolazioni indigene dell’interno. I Sanniti, che avevano sempre
combattuto l’elemento greco e difeso l’elemento indigeno, furono
involti in questa guerra, che durò parecchi anni con diverse vicende e
che fu terminata dalla morte di Alessandro. Sembra che questa guerra
abbia costretto i Sanniti a lasciar mano libera a Roma. Ma, morto
Alessandro e ristabilita la pace nell’Italia del sud, alla prima
occasione, il torpido colosso montano dell’Italia centrale e l’agile
atleta del Lazio vennero alle mani. L’ellenismo — che sin dal principio
aveva cercato di prosperare in Italia sulle discordie degli elementi
indigeni — accese la grande guerra tra Roma e il Sannio.

Quel che sia accaduto tra Roma e Napoli non è chiaro[24]. Ma Napoli era
città greca, e perciò sempre ostile all’elemento italico che prevalesse
in Campania: a Roma dunque, l’ultima venuta, la più intraprendente
e fattiva. Che ci fosse a Napoli un partito avverso a Roma è quindi
cosa naturale. Ma come si venne ad una rottura tra Roma e Napoli non
si sa. Per un movimento spontaneo di tutta la popolazione greca contro
l’egemonia romana? Per accordi segreti coi Sanniti? Per un rivolgimento
politico interno?

Non siamo in grado di sciogliere questi quesiti. Certo è che, nel
327, la guerra tra Napoli e Roma scoppiava; e Roma incaricava il
console Q. Publilio Filone di muovere all’assedio di Napoli. Ma quando
il console giunse sotto le sue mura Napoli aveva ricevuto notevoli
rinforzi sanniti. A Napoli Roma trovava dunque il Sannio, alleato
dell’ellenismo. Per quale scopo? Per disputargli forse le conquiste
campane? Roma, fatta ardita dalla vittoria sui Latini, non esitò a
voler chiarita la faccenda, a rischio di una nuova guerra; e, mentre
incominciava l’assedio di Napoli, mandò ambasciatori a chiedere che i
presidi fossero ritirati da Napoli. La confederazione cercò di eludere
la dimanda, allegando che i Sanniti accorsi alla difesa di Napoli
erano dei privati, arruolatisi per proprio conto. Roma allora ruppe gli
indugi e dichiarò la guerra al Sannio.


23. =I principî della seconda guerra sannitica (327-326).= — Il
dado era tratto. Incominciava il duello tra Roma e il Sannio per il
dominio dell’Italia meridionale; quel duello interminabile, che è
uno dei tanti indovinelli della più antica storia di Roma. Anche per
questa guerra bisogna cercar di leggere nelle lacune e nelle oscurità
della tradizione antica. Da principio i due avversari tentarono di
spaventarsi a vicenda con mosse diplomatiche e militari, ma senza
venire a un cimento decisivo. Roma occupò tre cittadine sulla linea del
Volturno — Aflife, Callife e Rufrio — e ne fece tre avamposti romani,
destinati a proteggere la Campania in pieno territorio sannita; poi
cercò alleati nell’Italia meridionale, e riuscì a indurre i Lucani e
gli Apuli a stringere con lei un patto e a promettere armi ed uomini
per la guerra, prendendo a rovescio i Sanniti; ciò fatto, si restrinse
a continuare l’assedio di Napoli. Alla loro volta i Sanniti fanno
scorrerie nei territori romani, cercano alleati tra i Tarantini e si
sforzano di staccare gli Apuli e i Lucani dall’alleanza romana; ma
non sembrano compiere alcuna seria operazione militare e non muovono
un braccio per soccorrere Napoli. Cosicchè in quell’anno non si
combattè che intorno a Napoli. E fidando nel soccorso sannita, Napoli
resistette per tutto il 327. La bella città, gemma d’Italia e occhio
della Campania, una delle pochissime della Magna Grecia, non ancora
sommerse dal flutto tempestoso degli elementi indigeni, che conservava,
come conserverà per secoli, tutti i caratteri di metropoli ellenica;
la bella città, le cui lunghe mura ricordavano al viaggiatore quelle,
ancor più gloriose, che congiungevano Atene alla marina, per un intero
anno costrinse la sua fiorente gioventù ad abbandonare le opere della
pace per far la guardia delle mura e delle porte; per un anno prodigò
le sue ricchezze per stipendiare migliaia di mercenari sanniti, e vide
di giorno in giorno diradarsi le navi in partenza e in arrivo nel suo
bel golfo. Gli opifici cittadini ammutolirono, insieme con le liete
feste cittadine e rionali, celebrate dalle fratrie urbane. Non più
le belle donne napolitane si incoronarono di fiori al ricorrere di
ogni maggio o assistettero agli spettacoli e alle gare periodiche del
teatro, dell’Odeon, dello Stadio. Non più schiere di forestieri d’ogni
foggia e d’ogni paese convennero nella grande città, a commerciare, a
sollazzarsi, ad oziare mollemente, sotto il suo bel cielo. I ginnasi,
palestre dello spirito e del corpo, ove il pubblico in folla veniva
ad ammirare gli atleti più famosi, o ad ascoltare gli oratori più
illustri e più brillanti; ove, fino a pochi mesi prima, ferveva
l’ardore di migliaia di giovani, bramosi di tutte le cose belle, si
erano vuotati. E l’alba del primo giorno del 326 vide Napoli ancora
in armi, inviolata: cosicchè Roma, sorpresa da questa resistenza, fu
costretta ad adottare un provvedimento, che doveva essere padre di
molte conseguenze nell’avvenire: a prorogare il comando al console che
faceva l’assedio e a creare il primo _proconsolato_ romano.

Senonchè la lentezza e le incertezze della confederazione sannitica
resero vana questa tenacia. Sia che non volesse, sia che non potesse,
la confederazione sannitica non mosse al soccorso di Napoli, non assalì
le comunicazioni dell’esercito assediante, non tentò diversioni sul
territorio nemico. Napoli si stancò; il partito della guerra perdette
terreno; la popolazione, rovinata dal lungo assedio, prese in odio
i Sanniti, come alleati malfidi e impotenti. Un bel giorno, i più
cospicui cittadini e gli stessi magistrati intavolarono trattative
per la resa. Il proconsole impose loro, come prima condizione, di
licenziare le milizie mercenarie e di accogliere un presidio romano;
poi stipulò un trattato, che lasciava alla ricca città tutto il suo
territorio, e ne rispettava l’autonomia, salvo l’obbligo di un’alleanza
offensiva e difensiva[25].


24. =L’abolizione del «nexum» (326) e le «forche caudine» (321).= —
Non le armi sole, ma le armi ed il senno fondano gli imperi. Concedendo
condizioni così generose, Roma dava un bell’esempio di senno politico.
Nell’Italia meridionale le alleanze erano mobili come la terra, sempre
percossa dai terremoti. I Sanniti, infatti, eran già riusciti a staccar
dall’alleanza di Roma i Lucani; e a stringere un patto con i Vestini.
Era dunque miglior consiglio amicarsi i Napoletani, che vendicarsene.
Dopo la caduta di Napoli, la guerra languì. Da quel poco che gli
antichi ci raccontano, si ricava che i Sanniti e i Romani continuarono
negli anni seguenti a molestarsi con incursioni, scorrerie, saccheggi,
senza mai venire alla decisione. Senonchè dovunque la milizia è
un dovere civico di tutti i cittadini ricchi e poveri, i poveri
preferiscono le guerre violente ma brevi, alle caute ma lunghe. La
plebe non tardò a lagnarsi di queste lungaggini; e le classi alte se
ne impensierirono tanto, che in questi anni, nel 326, una legge abolì
finalmente il _nexum_. La legge era un compenso dei sacrifici, che la
lunga guerra contro i Sanniti imponeva al popolo. E difatti per un po’
la plebe, pur lagnandosi, ebbe pazienza; poi, come di solito avviene,
si stancò, non fu più paga dei compensi; e incominciò a chiedere guerra
più risoluta e più corta; sinchè nel 322 il partito della guerra
ad oltranza soverchiò nei comizi il partito della prudenza. Consoli
per il 321 furono due uomini nuovi, Sp. Postumio Albino e T. Veturio
Calvino, i quali avevano promesso nei comizi elettorali di passare
all’offensiva, invadendo il paese nemico. Ben tre o quattro legioni
entrarono in quell’anno nel paese nemico dal confine orientale della
Campania, per quello stesso territorio, ove più tardi doveva passare
la via Appia. Ma la via Appia non era ancora stata tracciata. La
difficoltà delle comunicazioni, la precipitazione, la ignoranza dei
luoghi, forse anche la incapacità del comando furono cagione di una
calamitosa disfatta. Nella gola di Caudio, tra le attuali borgate di
Arienzo e Montesarchio[26], in un passo, che gli annalisti avrebbero
descritto coi colori più paurosi, l’esercito romano si trovò d’ogni
parte accerchiato dai Sanniti. Invano gli impeti di un valore disperato
tentarono spezzare quel cerchio di uomini e di ferro. Dopo alcuni
giorni, stremati di forze, scoraggiati, affamati i Romani vennero a
patti col nemico. I Sanniti non vollero trucidare i Romani, provocando
quella guerra mortale, di cui avevano paura: par che qualcuno
proponesse di rimandarli liberi, senza impegni di sorta, sperando che
questo atto generoso li riconcilierebbe durevolmente con Roma. Prevalse
alla fine un partito di mezzo. Il generale supremo, Caio Ponzio
Telesino, stipulò con l’esercito vinto un trattato di pace, con cui
Roma si impegnava a lasciar tranquillo il Sannio e a sgombrare tutti
i territori sanniti occupati e in particolar modo quello di Fregelle;
fece passare sotto il giogo l’esercito e lo rimandò libero, trattenendo
soltanto poche centinaia di ostaggi.

Ma quando l’esercito vinto ritornò a Roma con questo trattato, Roma
lo rinnegò. Il senato — come era suo diritto, del resto — rifiutò di
ratificare la pace accettata dai suoi generali. Esasperati, i Sanniti
si gettano, l’anno seguente, nel 320, su Fregelle e la prendono: a
loro volta i Romani fanno una spedizione in Apulia, assediano Lucera
presidiata dai Sanniti, l’occupano e ci mettono guarnigione, tentando
prendere il Sannio alle spalle e tagliare le comunicazioni con
l’Adriatico. Per un momento pare che i due popoli vogliano cercare una
decisione.... Quand’ecco una nuova sorpresa: la tregua di due anni,
che essi conchiudono nell’anno seguente. Per quale ragione? Perchè
i due avversari desideravano prepararsi meglio? È probabile. Certo è
invece che della tregua l’uno e l’altro approfittarono per affilare
le armi. Fino a quel momento Roma aveva combattuto in aperta pianura,
nel Lazio o in Campania; e perciò aveva potuto servirsi di una unità
tattica numerosa, compatta e armata pesantemente, paragonabile in
una certa misura alla falange ellenica, quale era allora la legione.
Per combattere i Sanniti nelle montagne, occorrevano eserciti mobili
e rapidi. La legione fu dunque sciolta in 45 manipoli, ciascuno dei
quali doveva porsi nella battaglia ad una certa distanza dall’altro,
pur procurando in genere che gli intervalli della prima linea fossero
coperti dai manipoli della seconda; e quelli della seconda dai manipoli
della terza. La distanza fra un soldato e l’altro fu accresciuta;
l’antica e pesante lancia abolita o quasi, e distribuito in sua vece ai
soldati il _pilum_ o giavellotto, che era un’arma doppia, da punta e
da getto. Finalmente, in luogo del pesante e piccolo scudo di bronzo,
di cui sin allora erano state armate solo le prime 98 centurie, tutto
l’esercito imbracciò il grande scudo quadrato di cuoio della seconda
e della terza classe. Anche la cavalleria e la istruzione furono
riformate. Nel tempo stesso Roma cerca di rinnovare gli accordi con
gli Apuli; occupa Teano, Canusio e Ferento, riesce a conchiudere
alla fine un accordo con tutta l’Apulia; cerca di far violenza ai
Lucani, che respingono gli accordi, occupando Nerula. I Sanniti a loro
volta cercano di seminare la ribellione nelle città campane e nelle
vicine colonie, vacillanti dopo la rotta di Caudio; e si preparano ad
assaltare il Lazio, apprestando una specie di leva universale.


25. =Gli effetti politici della guerra e la censura di Appio
Claudio (315-308).= — Nel 315 la guerra divampò di nuovo. I Sanniti
approfittarono di un attacco fatto dai Romani alla cittadina di
Saticula (S. Agata dei Goti), per tentare la offensiva contro il Lazio
dal confine meridionale, tagliare le comunicazioni con la Campania e
impedire che l’esercito romano, operante sul confine sannitico-campano,
tornasse indietro a impedire l’invasione. Di là, sollevando le contrade
che avrebbero attraversate, i Sanniti sarebbero mossi verso il cuore
del territorio romano. I due eserciti cozzarono a Lautule, sul confine
del Lazio. Non è dubbio che l’esercito romano, se non fu annientato,
ebbe però la peggio e dovè ritirarsi. I Sanniti poterono così porre
l’assedio a Terracina (315); il Lazio meridionale e la Campania romana,
Capua non esclusa, vacillarono; Lucera scacciò la guarnigione romana.

Ma Roma non si perdè d’animo. I Sanniti, così impetuosi nel primo
slancio, non osarono arrischiarsi fra la fitta selva delle città e
delle colonie latine, nè riuscirono facilmente ad espugnare Terracina
assediata. Roma ebbe dunque il tempo di approntare nuove difese.
L’anno dopo, due eserciti romani erano già in campo ad operare contro i
Sanniti, l’uno, nel Lazio, di fronte a Terracina; l’altro, in Apulia,
contro Lucera. La battaglia di Terracina segnò la prima riscossa. La
valle del Liri, ancora in tumulto, ritornò in potere dei Romani, e
la Campania, grazie a un colpo di spalla della fedele aristocrazia
capuana, si sottomise di nuovo (314). Lucera fu ripresa; e assicurata
questa volta con una forte colonia di 2500 cittadini. I prosperi eventi
sembrano toglier animo ai Sanniti e ridarlo ai Romani. Questi nel 313
pigliano Nola e ripigliano Fregelle; deducono una colonia a Interamna
sul Liri (Teramo) ed un’altra nelle isole Pontine di faccia al golfo
di Gaeta; nel 312 fanno una spedizione contro i Marrucini. I Sanniti
invece sembrano essersi di nuovo rinchiusi nelle loro montagne e aver
prestato un debole aiuto alle città e ai popoli assaliti da Roma.

Così questa guerra di spossamento si protraeva e si ampliava, alterando
a poco a poco all’interno la composizione e lo spirito della società
romana. Durante la guerra sannitica maturò la conciliazione delle leggi
Licinie-Sestie. Lo spirito esclusivo delle antiche famiglie patrizie
cede finalmente alla forza dei tempi; un numero considerevole di ricche
famiglie plebee occupano le magistrature e il consolato, entrano a
far parte del senato, e nel senato cominciano a mischiarsi con le
antiche famiglie patrizie, formando quell’aristocrazia patrizio-plebea
che governerà la repubblica, per molti secoli. Senonchè anche altri
effetti, meno felici di questo, generava la lunga guerra. Non è
improbabile che con le guerre sannitiche — e per effetto loro —
incominci quella crisi della agricoltura italica, che travaglierà per
più di due secoli la repubblica romana; e proprio il lento logorio
della piccola possidenza e il dilatarsi della grande proprietà a
schiavi.

I soldati romani erano, in questo tempo, quasi tutti piccoli
possidenti, che alla chiamata del console lasciavano la vanga per
la spada, affidando le terre alle donne, ai vecchi, ai fanciulli. Le
guerre lunghe toglievano alla agricoltura, e proprio nelle stagioni in
cui la terra ne ha più bisogno, le braccia più vigorose: con quanto
danno della piccola possidenza è facile imaginare. Il soldo del
legionario era un bel magro compenso. A questo danno si aggiungevano
le morti; poichè ogni colpo nemico, che non andava a vuoto, orbava
una famiglia di un agricoltore nel pieno vigore delle forze, mentre
le bocche inutili non diminuivano. Non è dunque da meravigliare se in
questi anni crebbe il numero dei possidenti rovinati, che andavano a
cercare un pane a Roma, nelle colonie romane o latine; se ai ricchi
fu facile di unire in latifondi e di far coltivare da schiavi molti
campicelli, che erano stati coltivati sin allora da famiglie libere.
In quei tempi di guerre continue gli schiavi dovevano abbondare; nè
il nuovo padrone si curava che la terra, coltivata dagli schiavi,
producesse minor quantità di derrate, se egli ricavava, avendola
acquistata a vil prezzo, un buon profitto.

Ma la guerra, anche in quei tempi, se impoveriva gli uni, arricchiva
gli altri. Un soldato, che partecipasse a una spedizione fortunata in
un territorio ricco, sotto un console generoso, poteva portare a casa
un bel gruzzolo, come parte sua del bottino. Inoltre la guerra, anche
allora, faceva correre il denaro, promoveva certi commerci e certe
industrie, sia pur prendendo agli uni quello che dava agli altri. Ai
trentamila uomini, che quasi ogni anno Roma dovè mettere in campo in
questi anni, occorrevano molte cose: armi, viveri, vestiti. Tra qualche
anno, la guerra sannitica richiederà anche una armata navale. Come
squilleranno allora le incudini degli improvvisati cantieri sulla costa
del Lazio e della Campania! Quanto si affaticheranno sui colli selvosi
del Lazio, nuovo ed antico, le braccia e le accette degli improvvisati
legnaiuoli, per abbattere e spaccare le querci, gli abeti e i pini
della regione, i più belli d’Italia![27]. È questo infatti il momento,
in cui, nel territorio romano, incomincia a circolare la moneta
d’argento; perchè quella di bronzo non basta più ai cresciuti bisogni.

Roma insomma incomincia ad affrontare compiti più vasti, a misurarsi
con difficoltà più grandi, a meglio conoscere l’ellenismo. Anche le sue
idee si allargano. Ne è prova una singolare figura di questo tempo,
che apparisce proprio in mezzo alla aristocrazia romana, sino allora
così ligia alle sue tradizioni, così sollecita dei suoi immediati
interessi: Appio Claudio Cieco, che fu censore appunto tra il 312 e
il 308. In mezzo alle inquietudini, alle spese, alle turbolenze della
guerra sannitica, Appio Claudio inizia due costose opere pubbliche:
un grande acquedotto e una grande strada da Roma a Capua, il primo
tronco della futura e famosissima Via Appia. Nel senato la maggioranza
si spaventa. Roma, per lunghi anni, aveva bevuto l’acqua del Tevere,
delle cisterne o dei pozzi scavati nella città, e nessuno aveva trovato
a ridire. Le vecchie strade del Lazio avevan pur servito alle legioni,
che avevano conquistato prima, difeso poi la Campania. Era quello il
momento, quando lo Stato era stremato dalle spese della guerra con il
Sannio, di porre mano a opere così grandiose e dispendiose? Ma Appio
Claudio è, come sono e saranno tutti i Claudi, un uomo orgoglioso,
risoluto e testardo: egli sa che i tempi cambiano e che Roma non è più
la piccola città di un tempo; capisce che non si può e non si deve
lasciare inoperose tante braccia, che non dissodano più la terra;
e non ostante l’opposizione del senato e le difficoltà dell’erario,
rinnova la grande tradizione edilizia della monarchia, interrotta da
due secoli. Nè basta: vuole anche ringiovanire la costituzione. Tra le
famiglie, che le guerre arricchivano, ce ne erano talune, che avrebbero
potuto servire utilmente lo Stato, rinforzando la nuova aristocrazia
patrizio-plebea. Questi arricchiti di fresco non erano dello stesso
sangue e della stessa carne di quei plebei, che da mezzo secolo,
dopo le leggi Licinie-Sestie, toccavano così agevolmente i fastigi
del potere, e sedevano sugli stalli del senato? Appio Claudio volle
affrettare e allargare quel rinnovamento dell’aristocrazia governante,
che da una generazione o due procedeva abbastanza rapido; e nel
compilar l’albo dei senatori inscrisse nel senato molti plebei ricchi e
attivi, e non esitò ad aggiungere nella lista, perfino qualcuno di quei
liberti, che cominciavano a formare il nerbo del nuovo ceto commerciale
romano. Nè, mentre pensava ai plebei ricchi, Appio Claudio dimenticò
la turba degli artigiani. Esclusa dalle centurie, perchè non possedeva
il censo richiesto ed iscritta tutta nelle quattro tribù urbane, non
poteva prender parte ai comizi centuriati e contava poco o nulla nei
comizi tributi: non aveva dunque diritti; ma aveva dei doveri; perchè
a dispetto delle disposizioni della costituzione serviana, ancora in
vigore in teoria, si ricorreva spesso anche a questi proletari, che non
avrebbero dovuto prestare il servizio militare, quando c’era bisogno
di soldati. Appio Claudio, concedendo che ognuno potesse scegliersi
la tribù, in cui essere ascritto senza riguardo alla sua residenza, li
distribuì in tutte le tribù rustiche, così da accrescerne l’influenza
politica[28].

Ma queste ardite riforme non passeranno lisce. L’aristocrazia romana
gridò allo scandalo contro l’audace novatore, che sconvolgeva
l’ordine civile e politico della repubblica. E come i consoli
dell’anno successivo si ricusarono di convocare il nuovo senato, gli
storiografi dell’aristocrazia condanneranno Appio Claudio e l’opera
sua, e chiameranno a confermare il proprio giudizio il suffragio
della divinità, la quale non avrebbe esitato a punire il grande
censore, privandolo della vista. Ma l’apparizione di questo censore
rivoluzionario, proprio nel bel mezzo della prima grande guerra che
Roma ebbe a combattere per la conquista del suo impero, è un lampo
di luce, che ci lascia intravedere quel che accadeva, per effetto
delle guerre esterne, nella società romana. La forza delle tradizioni
veniva meno; nuove idee e nuovi bisogni nascevano; gli ordini politici
e sociali si aprivano alla gente nuova e al nuovo spirito; le classi
si ravvicinavano, pur odiandosi ed ingiuriandosi, nella fraternità
delle armi. Due leggi che furono proposte nel 311 da tre tribuni della
plebe e approvate, ce lo confermano. La prima disponeva che sedici
dei ventiquattro tribuni militari fossero ogni anno nominati non dal
console o dal dittatore, ma dal popolo. La seconda, che il popolo
eleggesse pure i _duoviri navales classis ornandae reficiendaeque_. Si
incominciava a sentire bisogno di un’armata più forte, e si disponeva
che i magistrati incaricati di approntarla, e di distribuire il lavoro
e le commissioni, fossero eletti dal popolo. Cresceva l’autorità dei
comizi, anche nelle cose militari.


26. =La fine della guerra (311-304).= — Ma in quei tempi, tutti
pieni di armi e di guerre, le riforme di Appio non potevano essere
che un episodio della storia civile. Proprio nel 311, mentre Appio
Claudio stava ringiovanendo la costituzione, un nuovo pericolo nasceva
nel settentrione. Da molto tempo la confederazione etrusca si era
rassegnata alla perdita dei territori meridionali. Neppure la guerra
sannitico-romana sembrò scuotere da principio l’accidia di quel popolo;
forse perchè, se i Romani gli avevano preso l’Etruria meridionale,
i Sanniti lo avevano spogliato della Campania: perdita anche più
dolorosa! Tuttavia, prolungandosi, la guerra tra Romani e Sanniti mosse
alla fine anche la confederazione etrusca. Alleati con i Sanniti, gli
Etruschi posero nel 311 l’assedio a Sutri, una città posta fra i laghi
Cimino (Lago di Vico) e Sabatino (Lago di Bracciano), che Roma aveva
conquistata al tempo della guerra di Veio, e che era una delle più
fedeli colonie latine.

L’Etruria era tuttavia uno dei maggiori potentati dell’Italia; e se
avesse conchiuso l’alleanza con i Sanniti più presto, allorchè la
fortuna delle armi era ancora favorevole a questi, avrebbe potuto
porre in serio pericolo la nascente potenza di Roma. Prendeva invece
le armi un po’ tardi, quando Roma incominciava a temprarsi al nuovo
cimento. Tuttavia, anche se tardivo, l’intervento dell’Etruria non
era un pericolo piccolo. I Romani furono costretti ad assottigliare
gli eserciti operanti contro il Sannio, ad armare nuove milizie e ad
accorrere alla difesa della città pericolante. Ma sloggiare i nemici
dai loro accampamenti apparve ben presto impresa difficile. Invano
ci si provarono gli eserciti romani: onde l’anno seguente il console
Q. Fabio Rulliano, rimasto in Etruria, deliberò di lasciar da parte
Sutri e gli Etruschi assedianti; e, mentre il suo collega andrebbe in
Apulia per trattenere i Sanniti, egli si getterebbe nel cuore della
stessa Etruria, cercando di costringere l’esercito etrusco di Sutri ad
accorrere in difesa della patria minacciata. Mossa arditissima, che,
riuscendo, poteva terminare in poco tempo la guerra, come, fallendo,
condurre a perdizione l’esercito. Ma la mossa riuscì: gli Etruschi,
raccozzatisi in fretta e furia d’ogni parte, furono sconfitti in un
luogo, che è diversamente indicato dagli antichi; le città dell’Etruria
centrale (Arezzo, Cortona, Perugia) si affrettarono a concludere la
pace col vincitore; e poco dopo, liberata Sutri dall’assedio, l’esempio
fu seguito da tutte le città dell’Etruria meridionale (310).

Invece le cose non andarono altrettanto bene nel Sannio, dove l’altro
console, Caio Marcio Rutilo, sembra essere stato in quell’anno
sconfitto. Certo ci fu a Roma un panico e si nominò dittatore Papirio
Cursore, il più provetto tra i generali che avevano combattuto contro
il Sannio. Nel 309 Papirio sembra aver restituito ai Sanniti il colpo
da questi inferto l’anno prima ai Romani; e Rulliano avere vinto
definitivamente, in una seconda battaglia presso Perugia, gli Etruschi,
che ancora non avevano fatto pace. Ma, pacificata l’Etruria, ecco, nel
308, parecchie popolazioni dell’Italia centrale, alleate più per forza
che per amore, gli Umbri, i Marsi, i Peligni, e una parte degli Ernici,
approfittare delle strettezze, in cui Roma si dibatteva, per ricuperare
la indipendenza. Roma dovette affrontare anche questi nuovi nemici,
fra cui primeggiava la confederazione umbra. E li affrontò non senza
fortuna, nel tempo stesso in cui Nocera, l’altra città della Campania
ancora in possesso dei Sanniti, cadeva. Ormai il Sannio era esausto e
Roma vicina ad esaurirsi. Si avvicinava il momento dello spossamento
supremo, in cui quello dei due belligeranti, che avesse conservato
l’ultima riserva per l’ultimo sforzo, potrebbe debellare il rivale. I
consoli del 306, alla testa di quattro legioni, ritentarono l’invasione
del Sannio, fallita nel 321 con la disfatta di Caudio. Il Sannio
era proprio sfinito; e fu invaso, percorso e devastato, senza seria
resistenza. Non si arrese tuttavia ancora; raccolse anch’esso le sue
forze; e l’anno seguente, nel 305, tentò una incursione in Campania.
L’esercito fu vinto; il territorio di nuovo invaso; Boviano, uno dei
principali centri del Sannio, e lo stesso generale supremo, Stazio
Gellio, caddero nelle mani dei Romani.

La guerra era finita e la pace, tanto desiderata ed attesa dalle due
parti, era conchiusa l’anno successivo. Le condizioni sono mal note;
ma da quel poco che se ne sa, non sembrano adeguate, per il vincitore,
alla lunghezza della guerra. L’antica alleanza romano-sannitica dovette
essere ristabilita con qualche clausola, forse, più favorevole a Roma,
ma senza subire alterazioni sostanziali. Neanche un palmo del Sannio
propriamente detto fu ceduto dai Sanniti. Essi perdettero solo le loro
conquiste migliori e tra queste la Campania tutta, che del resto, al
principio della guerra, già non era più nelle loro mani.

Ma non ostante le poco dure condizioni di pace, la potenza sannitica
fu distrutta da questa guerra. Non solo i Sanniti furono ridotti
entro i confini del loro antico territorio; ma, separati dal Tirreno
per la perdita della Campania, non potevano ormai più evitare di
essere esclusi tra poco anche dall’Adriatico. Da questa parte, essi
comunicavano ancora con il mare per il territorio dei Frentani, amici o
soggetti: ma la loro debolezza e le arti romane chiuderanno tra poco,
per sempre, anche quella via. Altrettanto invece era cresciuta la
potenza politica e militare dei Romani. Non così forse per le vittorie
campali, come per la prova che avevano fatta della forza loro, e per
i nuovi territori acquistati. Roma era ormai, alla fine della prima
guerra sannitica, il più temuto e il più vasto degli Stati italici,
poichè il suo territorio aveva quasi raggiunto gli 8000 kmq. e,
contando anche i territori degli alleati, 28.000 kmq.


NOTE AL CAPITOLO QUARTO.

[21] Cfr. POLYB., 3, 24; LIV., 7, 27; DIOD., 16, 69, 1. Diodoro
menziona per quest’anno (348) un trattato romano-cartaginese, che, per
errore, dice primo.

[22] Sulla Campania in questo tempo e sui rapporti tra Osci, Etruschi,
Greci e Sanniti, cfr. A. SOGLIANO, _Sanniti ed Osci_, in _Rendiconti
della R. Accademia dei Lincei_, 1912, pp. 208 sgg.

[23] Questa prima guerra sannitica, la cui realtà storica è stata
revocata in dubbio da taluni moderni, ci è attestata da DIONYS., 15, 3,
2; da APP., _Samn._, 1; da LIV., 7, 29 sgg.

[24] Secondo la tradizione, raccolta e diffusa dagli annalisti romani,
la guerra, non si sarebbe combattuta fra Napoli e Roma, ma tra Palepoli
e Roma. È forse più accettabile la versione di DIONYS., 15, 5 sgg., che
parla solo di una guerra contro Napoli.

[25] Su questo trattato, cfr. gli accenni sparsi che si ricavano da
STRAB., 5, 4, 7; POLYB., 6, 14, 8.

[26] Cfr. E. COCCHIA, _I Romani alle Forche Caudine: questione di
topografia storica_, in _Studî filologici_, Napoli, III, 378 sgg.

[27] Cfr. THEOPHR., _H. Pl._, 5, 8, 1.

[28] DIOD., 20, 36, 3; LIV., 9, 46.



CAPITOLO QUINTO

LA GUERRA CON TARANTO E LA CONQUISTA DELL’ITALIA


27. =La coalizione degli Umbri, dei Galli, degli Etruschi e dei Sanniti
(299-290).= — La pace del 304 non fu duratura. I Sanniti erano stati
vinti, non distrutti. Roma aveva vinto, ma non aveva ancora riputazione
di invincibile. I Sanniti si accinsero a preparare la riscossa; e
Roma cercò alleanze e fondò colonie. Due di queste, Alba e Carseoli,
furono dedotte nel territorio degli Equi; una, Sora, nel territorio
dei Volsci; una, Narni, nel territorio degli Umbri. Ma queste cautele,
accrescendo i sospetti e le paure, affrettarono la nuova guerra. Nel
299 i Sanniti assalirono i Lucani per costringerli all’alleanza; i
Lucani ricorsero a Roma; Roma accordò il chiesto aiuto e dichiarò di
nuovo guerra al Sannio.

Sin dal principio era corsa voce che i Sanniti intendessero fare
alleanza con gli Etruschi, da qualche tempo inquieti. Tuttavia nei
primi due anni i Romani non ebbero da combattere che i Sanniti, i quali
parvero difendere, e mollemente, il territorio.... Ma doveva essere
una finta; perchè nel 296, all’imprevista, un esercito, comandato da
Gellio Egnazio, uscì dal Sannio; si congiunse in Etruria con l’esercito
etrusco ed avviò trattative con i Galli, mentre gli Umbri aderivano,
e i Lucani, per i quali Roma aveva preso le armi, abbandonavano
l’alleanza e si univano ai Sanniti. La coalizione, preparata di
lunga mano e in segreto, si manifestava ad un tratto e formidabile: a
settentrione, con il grosso esercito di Sanniti, di Etruschi, di Galli
e di Umbri, che si addensava; a mezzogiorno, con un altro esercito
sannitico, che si gettava nella Campania e nel Lazio, devastandoli.

Roma fu sorpresa, ma non sgomenta. Già nel 296 un energico contrattacco
respingeva le forze sannitiche, che avevano invaso la Campania ed il
Lazio. È probabile non fossero ingenti. Ma grandi apparecchi furon
fatti per il 295, ed il tempo ad approntarli non mancò a Roma, perchè
anche Gellio Egnazio e la coalizione avevano bisogno di tempo per
affilare le armi. Rieletti per il 295, a dispetto della legge, i
due consoli del 297, Q. Fabio Rulliano e P. Decio Mure, non vollero
ricominciare la interminabile guerra di spossamento, ma tentar di
rompere con un colpo solo ed ardito la coalizione. Nè si scoraggiarono,
perchè una legione di avanguardia, sorpresa dai Galli e dai Sanniti
a Camerino, fu accerchiata e annientata; ma dall’Etruria tentarono
di entrare in Umbria; e presso Sentino incontrarono l’esercito della
coalizione, comandato da Gellio Egnazio. Si favoleggiò in seguito
di 350.000 tra Galli, Sanniti, Umbri ed Etruschi che avrebbero
combattuto, dei quali 100.000 sarebbero morti: certo è che la battaglia
fu sanguinosissima; che uno dei due consoli, P. Decio Mure, e Gellio
Egnazio perdettero la vita; e che i collegati furono disfatti. Pronto,
il console superstite invase il territorio gallico, staccando i Galli
dalla coalizione; e l’anno seguente anche l’Etruria deponeva le armi,
le città etrusche essendosi arrese, le più a condizioni non dure.

Roma non poteva incrudelire, perchè, se la coalizione era disfatta,
il Sannio non era vinto. Cinque anni ancora Roma dovè combattere nel
Sannio, con alterna vicenda; e non potè conchiudere la pace che nel
290; dopochè nel 291 era riuscita a fondare a _Venusia_, in Apulia, una
colonia latina, forte, pare, di ben 20.000 coloni, la più numerosa che
sino ad allora fosse stata dedotta in Italia. Quando una così forte
colonia latina fu stabilita in Apulia, le sorti dei Sanniti furono
decise. Ma la nuova pace fu mite, poichè fu paga di rinnovare l’antica
alleanza con qualche piccolo ritaglio di territorio e rispettando
l’indipendenza della confederazione sannitica. È vero però che questa
era ormai circuita da ogni parte e tagliata fuori dal mare.


28. =La «Lex Hortensia» (287).= — Insomma Roma aveva vinto una potente
coalizione e rivinto il Sannio; ma non aveva punto ingrandito, con
questa sanguinosissima guerra, il suo territorio. Questa vittoria
sterile non sembra aver rallegrato molto il popolo, se, nell’anno
medesimo, in cui la repubblica faceva la pace con i Sanniti, il console
Manio Curio Dentato, forse prendendo il pretesto che i Sabini avevano
aiutato i Sanniti, conquistava, a sud dell’Umbria, quasi tutto il
loro territorio; quindi entrava nel Piceno meridionale — il così detto
paese dei _Praetutii_ — lo conquistava e ci fondava _Hadria_ (Atri),
giungendo per tal guisa fino al Mare Adriatico. A questo modo i Sabini
e i _Praetutii_ facevano le spese della vittoria, riportata da Roma
sulla coalizione e sul Sannio. Il territorio romano fu grandemente
ampliato, da circa 8000 a circa 20.000 kmq. Ma il beneficio di questi
ampliamenti non poteva farsi sentire che con il tempo. Alla pace con
i Sanniti segue in Roma una viva agitazione della plebe per l’eterna
questione dei debiti: prova manifesta che la seconda guerra sannitica,
come la prima, aveva impoverito molte famiglie di possidenti.
Quale sollievo i debitori chiedessero non appare: sappiamo solo che
l’agitazione generò _graves et longas seditiones_; che fu necessario
nominare un dittatore nella persona di Q. Ortensio; e che a questo
dittatore è attribuita una legge, per la quale i plebisciti, ossia
le deliberazioni dei comizi tributi, avrebbero d’ora innanzi forza
di leggi generali, obbligatorie per patrizi e plebei[29]. I comizi
tributi erano insomma eguagliati ai comizi centuriati. A ben collocare
questo fatto staccato nella storia dei tempi, occorre congetturare che
i sollievi chiesti dalla plebe fossero risolutamente avversati dalla
nobiltà e dai ricchi, dominanti nei comizi centuriati; che i tribuni
della plebe, disperando di far approvare da questi le loro proposte, le
portassero innanzi ai comizi tributi, chiedendo nel tempo stesso che
i comizi tributi, la cui competenza era già stata allargata da leggi
precedenti, come la Valeria Horatia del 444 e la Publilia del 334,
potessero, come i comizi centuriati, legiferare per l’universale. Non
è meraviglia che la proposta sia stata occasione di una secessione,
addirittura: perchè i comizi tributi potevano essere convocati senza il
consenso del senato e senza alcuna formalità religiosa, e non erano,
come i comizi centuriati, dominati dal denaro, ma, come gli antichi
comizi curiati, dal numero. Approvandola, si snaturava profondamente
la costituzione timocratica di Servio Tullio. Questa volta però
la plebe vinse; e non è difficile argomentare il perchè. Si poteva
negar questa soddisfazione ai vincitori di Sentino e del Sannio, ai
conquistatori della Sabina e del Piceno, con tanti nemici intorno, non
ancora rassegnati alla vittoria di Roma? La _Lex Hortensia_, prova quel
che già la censura di Appio aveva dimostrato: che le lunghe guerre
indebolivano le tradizioni mescolando le classi, suscitavano nuove
idee, facevano più popolari le istituzioni.


29. =La riscossa Gallo-Etrusca (285-280).= — Ortensio aveva appena
sedato quella grave turbolenza, che Roma dovè misurarsi con tutta,
si può dire, l’Italia. Le difficoltà incominciarono nell’Italia
meridionale, dove i Lucani, forse imbaldanziti dalla alleanza con
Roma, si erano guastati con le città greche della costa. Una di queste
_Thurii_ (Turio), assalita dai Lucani, ricorse a Roma; e Roma, forse
per equilibrane anche nell’Italia meridionale le forze, ingiunse ai
Lucani di rispettare Turio. I Lucani fecero i sordi; e Roma stava
per snudare la spada a difesa dell’ellenismo nell’Italia meridionale,
quando un pericolo molto più grave nacque nel nord. Nel 285, una parte
delle città etrusche aiutate da un esercito di Galli Senoni, tentarono
la riscossa e posero l’assedio ad Arezzo, perchè fedele a Roma. Arezzo
chiese aiuto a Roma, la quale non poteva lasciar che la città cadesse
in potere del nemico, perchè la via del Lazio sarebbe stata aperta
al nemico, proprio mentre l’insurrezione si propagava a mezzogiorno
lungo la via Cassia sino a Volsinio. Roma, dunque, accorse. Ma presso
Arezzo ben 13.000 Romani, tra cui il console Cecilio Metello, morsero
la polvere e gran numero di legionari caddero prigionieri nelle mani
dei nemici (285). Sentino pareva vendicata; e di nuovo l’insurrezione
divampò in Etruria, nel Sannio, nell’Italia meridionale. I Lucani
colsero l’occasione per vendicarsi di Roma e di Turio e trascinarono i
Bruzzi; i Senoni osarono perfino trucidare gli ambasciatori, mandati a
chieder ragione dell’aiuto che essi, alleati di Roma, avevano prestato
agli Etruschi. Ma Roma non si perdette d’animo. Apprestò due forti
eserciti; ne mandò uno a tenere in rispetto i nemici sotto Arezzo,
l’altro nel paese dei Senoni, a vendicare la strage degli ambasciatori,
trucidando e saccheggiando. Vendetta esemplare, che però mosse i Galli
Boi ad allearsi con gli Etruschi, e a tentare, nel 283, una mossa su
Roma. Ma Roma parò anche questo nuovo colpo. L’orda fu assalita per
via, presso il _lago Vadimone_, lungo la linea del Tevere e totalmente
distrutta (283). La battaglia del lago Vadimone decise le sorti della
guerra e della coalizione, sebbene le armi non fossero ringuainate
fino al 280. I Sanniti, chiusi da ogni parte, poco poterono fare; i
Galli Boi prima, e poi ad una ad una le città etrusche, conchiusero
pace; i Lucani e i Bruzzi, ormai soli, non avrebbero potuto resistere a
lungo. Roma guadagnava una nuova striscia di paese: il territorio dei
Senoni dall’Esino sino al Rubicone, sul quale fondava la colonia di
_Sena Gallica_ (Sinigaglia). Ma i Lucani assediavano ancora Turio....
Roma volle approfittare del momento propizio; e mandò nel 282 un forte
esercito al soccorso di Turio. Ma allora una nuova guerra divampò, e
molto più grave: un vero e proprio conflitto con l’ellenismo.


30. =Origini ed occasioni della guerra con Taranto (282-281).= — Sui
primi del secolo III a. C. le città greche della Magna Grecia non
erano più, come due o tre secoli prima, le incontrastate dominatrici
della regione. Indebolite, cercavano alleanze a Roma, in Sicilia,
nella Grecia, per difendersi alla meglio contro gli elementi indigeni,
che si ribellavano con fortuna crescente. Ma gli Stati, a cui le
forze non bastavano più per difendersi da soli, non possono salvarsi
che scegliendo le alleanze con molta accortezza e praticandole con
molta fermezza. Invece quelle città erano meno costanti del mare, su
cui la maggior parte si specchiava. I partiti si avvicendavano, si
incalzavano, precipitavano, scrosciando come marosi; sfruttando ognuno
la passione popolare del momento, e scherzando temerariamente con il
pericolo, che minacciava l’ellenismo in quella penisola, in cui esso
era, non ostante le sue molte virtù, forestiero e avventizio.

Questa mobilità dei partiti e dello spirito pubblico spiega come
l’ellenismo non sapesse approfittare della forza di Roma, anzi
spensieratamente se la inimicasse. Roma doveva essere più avversa
all’ellenismo, che amica. I Romani erano degli italici come i Lucani,
come i Bruzzi. Ma le invasioni galliche, le guerre etrusche, la guerra
latina, e le guerre sannitiche non avevano fin ora consentito a Roma di
prendere partito nella lotta tra gli Italici e i Greci, di cui l’Italia
meridionale era campo. Si aggiunga il rispetto di un potentato recente,
favorito dalla fortuna, e voglioso di nobilitarsi, per i Greci, maestri
di tutte le arti e di tutte le scienze. I Greci dell’Italia meridionale
avrebbero insomma potuto ripararsi per qualche tempo dietro lo scudo
di Roma. Turio lo aveva capito; lo avevano capito Locri e Reggio, che
imitarono l’esempio di Turio. Ma l’orgoglio e l’egoismo di Taranto
impedirono all’ellenismo di approfittare di queste discordie indigene.
Taranto era la più ricca e la più potente tra le città elleniche
dell’Italia meridionale; e da un pezzo s’era arrogato di parlare da
sola in nome di tutte, aspirando, a rinforzo del suo commercio, a una
specie di egemonia politica. Per questa ragione Turio e le altre città
greche avevano preferito chiamare in aiuto contro Lucani e Bruzzi Roma,
anzichè Taranto. Ma anche per questo Taranto considerò il loro passo
come un tentativo di alterare l’equilibrio delle forze in quella remota
plaga della penisola. Taranto era governata da una democrazia che, come
tutte le democrazie, si studiava di lusingare le passioni più veementi
delle masse; e tra queste l’orgoglio, rinfocolato dal confronto delle
proprie ricchezze e della propria civiltà con la povertà, la rozzezza
e l’ignoranza delle popolazioni italiche. Anche i Romani erano, per
i Tarantini, dei barbari insolenti e prepotenti, i quali volevano
intromettersi nelle faccende dei popoli, che avrebbero dovuto venerare
come maestri. L’intervento dei Romani a Turio esasperò questa rabbia; e
bastò un incidente a far scoppiare la guerra.

L’incidente fu una operazione militare, compiuta durante la guerra di
Turio. Un vecchio trattato vietava alle navi romane di oltrepassare il
promontorio _Lacinium_[30], in cui la punta della penisola si sporge
più innanzi nell’Ionio. Anche la ragione di questa clausola, come delle
clausole consimili inserite nei trattati tra Roma e Cartagine, doveva
essere piuttosto commerciale che militare. Ma per soccorrere Turio, era
troppo comodo a Roma servirsi del mare, sia pur violando i patti di un
così antico trattato. Pare dunque che convogli di truppe e di viveri
fossero spediti da Roma a Turio per mare. I Lucani furono respinti;
Turio, liberata e presidiata con una guarnigione romana: ma la vittoria
dei Romani esasperò i Tarantini, che aspettavano l’esito della guerra,
sperando la sconfitta delle armi romane; e che per vendicarsi, fecero
appiglio al vecchio trattato. Un giorno, quando una flottiglia romana
comparve all’imboccatura dell’ampio golfo tarantino, la squadra della
grande città greca, che incrociava in quei paraggi, dopo avere tentato
invano di richiamare gli ammiragli romani all’osservanza del trattato,
attaccò le navi nemiche, e parte le colò a fondo, parte le catturò.
Subito dopo un esercito tarantino mosse su Turio, occupò la città,
costrinse alla resa il presidio romano, e rimise il governo al partito
filelleno, ossia ai democratici.

La provocazione era grave. Ma Roma non distoglieva gli occhi dal
pericolo etrusco e gallico, minacciante da settentrione. Non era
difficile prevedere che Taranto avrebbe fatta lega con i Sanniti e
con gli altri popoli italici; e Roma non voleva esser presa in mezzo
tra una coalizione gallo-etrusca a settentrione, ed una coalizione
italo-greca a mezzogiorno. Cercò quindi di intendersi e di ottenere
una amichevole soddisfazione diplomatica. Ma l’orgogliosa democrazia
tarantina non intendeva ragione. Fu mestieri allora ribadire con
la forza le inutili proposte di conciliazione. Il console Q. Emilio
Barbula, che campeggiava nel Sannio, ebbe ordine di marciare senz’altro
alla volta di Taranto e di fare sotto le mura della città una vera e
propria dimostrazione militare: non per incominciare una guerra, ma per
strappare, pur che si fosse, una soddisfazione non disonorevole. Anche
questa mossa fallì; anzi ottenne l’effetto opposto. Taranto rispose,
chiamando in suo aiuto un principe greco: Pirro, re dell’Epiro.


31. =Pirro in Italia: le battaglie di Eraclea (280) e di Ascoli (279).=
— Parte dell’Europa orientale e dell’Asia occidentale non avevano
ancora trovato posa dopo il grande trambusto, provocato dalla morte di
Alessandro Magno. Quivi i regni e gli imperi continuavano a nascere,
a precipitare, a rinascere. Uno dei tanti Regoli, apparsi, scomparsi e
riapparsi in quel disordine, era appunto Pirro. Sul trono dell’Epiro,
l’aveva preceduto il padre suo, Eacida: ma aveva dovuto una prima
volta andare in esilio, poi era tornato ad occupare il trono, poi di
nuovo aveva dovuto fuggire. Tornato alla fine, sin dal 295, in Epiro
come Re, e questa volta definitivamente, aveva ampliato il suo regno a
settentrione, a mezzogiorno e ad oriente, occupando l’odierna Albania,
Corfù, alcuni distretti della Macedonia, forse l’Atamania, e la bella
città di Ambracia. Ma non era ancora soddisfatto: aspirava a ingrandire
i suoi Stati, a illustrare il suo nome, a impinguare il suo tesoro, a
conquistare la corona di Macedonia. Accettò dunque l’invito di Taranto,
che lo invocava campione dell’ellenismo in Italia; e in sui primi del
280 sbarcò con poco più di 20.000 fanti, 3000 cavalli e un certo numero
di elefanti da guerra. Taranto prometteva di allestire un esercito
alquanto maggiore; al quale si sarebbero aggiunti i contingenti degli
alleati italici e delle città greche amiche. Taranto, città greca, si
metteva a capo di una coalizione di Italici e di Greci contro Roma,
che era apparsa nell’estrema Italia come alleata dei Greci contro
gli Italici! Ben confusa era dunque la mischia degli interessi e
delle ambizioni; e l’accresceva una specie di malinteso tra Pirro e
Taranto, che è la occulta ragione di molte strane vicende di questa
guerra singolare. Taranto chiamava Pirro come un mercenario, che fa le
guerre degli altri a pagamento; ma Pirro veniva come il Re dell’Epiro,
ambizioso di fondare anche egli, come tanti altri suoi compagni d’arme,
un impero, piccolo o grande.

A ogni modo una nuova coalizione minacciava la repubblica. Sembra
che da principio Roma si sia illusa di sbaragliare questa coalizione,
come Fabio e Decio Mure avevano, nel 295, sbaragliato la coalizione
dei Greci, dei Sanniti, degli Etruschi, degli Umbri: con poche mosse
risolute ed audaci. Mentre Pirro attendeva, nella primavera del
280, a raccogliere le varie milizie sue e degli alleati, un esercito
romano lo assalì all’improvviso tra _Eraclea_ e _Pandosia_, presso la
costa tarantina, nella valle tra gli odierni Acri e Sinni. Ma Pirro
aveva imparata la guerra alla scuola dei generali di Alessandro; era
stato, come ufficiale, alla battaglia di Ipso, nel 301; era dunque
altro avversario che i generali etruschi o galli o sanniti. E quello
che assaliva Pirro era un unico esercito consolare di due legioni,
che con le truppe ausiliarie faceva appena 20.000 uomini. I Romani
combatterono con grande valore; ma furono alla fine sconfitti; e in
pochi giorni, sotto l’impressione di questa disfatta, l’egemonia romana
parve vacillare in tutta l’Italia meridionale. Le guarnigioni romane o
dovettero sgombrare o furono fatte prigioniere e consegnate a Pirro, il
quale, rinforzato dai Sanniti e dai Lucani, mosse risolutamente verso
il Lazio. Mirava a far sollevare i territori circostanti? O a tentare
addirittura l’assalto su Roma? O a dar la mano alle città etrusche,
contro cui Roma guerreggiava ancora a settentrione? Difficile dirlo.
Forse Pirro voleva soltanto, con una risoluta offensiva, mettere alla
prova la fermezza dell’avversario; salvo a prendere poi il partito
che gli eventi suggerirebbero, nel corso dell’azione. Ma Roma aveva
pertinacia e coraggio da affrontare anche il genio di un grande
guerriero; e a questa ardita offensiva oppose un supremo sforzo: si
accordò, come potè, con gli Etruschi; reclutò anche i nullatenenti;
spedì due eserciti contro l’invasore. Pirro, che aveva provato ad
Eraclea il valore romano, non osò attaccare; e, dopo aver campeggiato a
lungo, tornò indietro, ritirandosi novamente a Taranto nell’autunno. La
campagna del 280 era finita.

La guerra ricominciò nella primavera del 279. Pirro invase l’Apulia,
conquistando parecchie città. I Romani accorsero con due eserciti
consolari; e lo assalirono ad _Ausculum_ (l’antica Ascoli di Puglia).
Due giorni durò la battaglia. Alla fine del secondo giorno i Romani
furono sconfitti, ma non sgominati; e poterono ritirarsi in buon
ordine nei propri accampamenti, lasciando 6000 dei loro sul campo,
ma dopo avere inflitto al nemico gravi perdite. Senonchè, sebbene
poco fortunate per le armi romane, le due prime battaglie decisero
egualmente le sorti della guerra a vantaggio di Roma. Pirro era
un generale troppo valente da non argomentare, da queste due così
difficili e non decisive vittorie, che Roma era un duro avversario
e che egli non aveva forze sufficienti per debellarlo. Non poteva
dunque più pensare a fondare quell’impero, la cui speranza lo aveva
tratto a varcare il mare, nell’Italia continentale. Ma proprio allora
insistenti inviti gli giungevano dalla vicina Sicilia; ove Siracusa,
la rocca forte dell’ellenismo siculo, era stretta, per terra e per
mare, da un esercito e da un’armata cartaginese. Questo invito fece
concepire a Pirro un nuovo piano: far la pace con Roma, tenere le
città greche dell’Italia meridionale, che lo avevano chiamato, e
servendosi di queste come base di operazione, conquistare la Sicilia;
riunire insomma sotto il suo scettro, in un solo impero, tutte le
città greche della Sicilia e le maggiori città greche dell’Italia
meridionale. Iniziò infatti con Roma quelle trattative di pace, intorno
a cui tante leggende famose furono raccontate, chiedendo solo che Roma
sgombrasse quei territori dell’Italia meridionale, da cui minacciava
le città greche, e ristabilisse con Taranto i patti anteriori al 282.
Il senato, stanco della lunga guerra, inquieto per la malavoglia con
cui le classi rurali rispondevano, quando erano chiamate alle armi —
nel 280 era stato necessario arruolare i nullatenenti — inclinava ad
accettare. Quand’ecco levarsi Appio Claudio, il famoso censore, ormai
vecchio e cieco. Questo uomo audace, che già aveva fatto violenza a
tanti pregiudizi di casta e a tante tradizioni di prudenza, insorse
con veemenza anche contro questa debolezza, che voleva rinunciare
all’Italia meridionale proprio quando la fermezza poteva farla romana
per sempre. Cartagine a sua volta aiutò l’eloquenza di Appio. Avendo
saputo che le città siciliane avevano fatto appello a Pirro, la astuta
repubblica si era affrettata a mutare gli antichi trattati con Roma in
una vera e propria alleanza di difesa e di offesa[31]. Abbandonando la
Sicilia ai Cartaginesi, Roma poteva dunque sperar di conquistare per
sempre l’Italia meridionale. L’occasione era troppo bella; gli accordi
fallirono, e la guerra ricominciò.


32. =Pirro in Sicilia, il suo ritorno in Italia e la sua partenza
definitiva (278-275).= — Senonchè Pirro non mutò proposito per il
rifiuto di Roma; perchè giudicò di aver forze sufficienti a conquistare
la Sicilia e a difendere le città greche e i punti dell’Italia
meridionale che più gli premevano contro i Romani. Non è dubbio che
questo mutamento di piano parve ai Tarantini un tradimento. Essi
avevano chiamato Pirro perchè debellasse Roma e non perchè conquistasse
la Sicilia. Ma Pirro era allora il più forte. Sullo scorcio dell’estate
del 278, dopo due anni e mezzo di soggiorno nella penisola, egli
partiva alla volta della Sicilia con mezze le sue forze, lasciando il
resto a presidiare le città greche che l’avevano chiamato.

Pirro non s’era ingannato, giudicando di poter conquistare la Sicilia
e tenersi sulla difesa nel continente. Nei tre anni che durò la sua
assenza, i Romani poterono di nuovo invadere con varia fortuna il
Sannio e prendere alcune città greche, quali Locri, Crotone, Eraclea;
ma non poterono far nulla contro Taranto, nè minacciare seriamente
le posizioni di Pirro sul continente. Intanto Pirro ricacciava con
rapide mosse i Cartaginesi da tutta l’isola, salvo dalla fortezza
di _Lilibeum_ (Marsala). Il disegno di raccogliere sotto un solo
dominio le città greche della Sicilia e dell’Italia meridionale pareva
riuscire; a segno che Pirro prese perfino a costruire una grande
armata, che fosse l’organo potente di questo impero posto tutto sul
mare. Ma l’opposizione dei Sicelioti mandò a vuoto l’ardito disegno. La
Sicilia non era uno Stato unitario ed omogeneo, capace di una politica
stabile e continua, di sacrifici protratti e adeguati. Pirro era un
valoroso soldato, ma non un politico abile; e anche in Sicilia il
suo governo soldatesco, spicciativo e rapace spaventò ed offese. Non
tardarono a nascere malumori; una parte dei Greci, dopo aver chiamato
Pirro contro i Cartaginesi, incominciò a cospirare con i Cartaginesi
contro Pirro; intanto Taranto e le altre città, sempre minacciate
da Roma, smaniavano e lo richiamavano perchè accorresse a terminare
la guerra. Giunse il giorno in cui egli fu forzato a scegliere: o
ritornare nell’Italia meridionale o perderla. Ritornò: ma non era
ancora così sicuramente padrone della Sicilia, da poterla abbandonare;
e infatti, appena fu partito, i Cartaginesi, che si trovavano ancora a
Lilibeo, ripresero coraggio; attaccarono la sua flotta e le inflissero
una sconfitta. Alla notizia di questa sconfitta, tutta l’isola insorse;
e la Sicilia fu perduta, senza che Pirro potesse accorrere al suo
soccorso. Di nuovo egli era impegnato nella lotta contro i Romani.
Infatti, nella primavera del 275, Pirro tentò sorprendere uno dei
due eserciti romani, operanti nel Sannio e in Lucania. Non lungi da
Benevento (l’antica _Maleventum_) sul tratto della via Appia, che da
Caudio si addentra nel cuore del Sannio, stava allora accampato il
console M. Curio Dentato, deliberato a non lasciarsi smuovere dalle
provocazioni del Re epirota, prima che il collega fosse arrivato
dalla Lucania. Occorse perciò che Pirro si risolvesse a dar l’assalto
a quella fortificazione semovente, che furono sempre i _castra_
dei Romani. Ma l’assalto riuscì vano; e poichè il Re non poteva ora
resistere ai due eserciti romani, prossimi a congiungersi, deliberò
di ritirarsi: peggio ancora, giudicando che il suo doppio disegno
sulla Sicilia e sull’Italia meridionale era ormai fallito, deliberò
di lasciare l’Italia, e di recarsi a cercar fortuna in altro campo,
in Grecia. Per mascherare la fuga, lasciò un corpo di milizie epirote;
e, al comando di queste, in sua vece, il figliuolo Eleno. Poco di poi,
avrebbe egualmente richiamato in patria e l’uno e le altre.


33. =La conquista dell’Italia meridionale (275-270).= — Con minor
fretta, con minor genio ma con tenacia e con fermezza maggiore,
mentre le triremi del Re fuggivano alla volta dell’Illiria, Roma si
apparecchiava a conquistare tutta e per sempre l’Italia meridionale.
Essendo ormai la più forte, essa rivolgeva alla conquista la guerra,
incominciata per difendersi. Occorsero però ancora cinque anni, e
spedizioni, combattimenti, assedi: operazioni parziali e staccate
contro i frammenti della coalizione, che resistevano ancora, ognuno
da sè e con le sue forze. Finalmente, verso il 270, Roma era signora
dell’Italia meridionale. Roma non aveva più nessuna ragione di usare
indulgenza: il Sannio fu quasi tutto annesso allo Stato romano, e
coperto di colonie; solo la sua parte centrale — il così detto paese
dei Pentri — rimase in una certa misura indipendente. Il gran duello
era finito per sempre. Il popolo sannita avrà ancora, qualche volta la
forza di scuotersi, non più quella di risorgere e di minacciare.

Sorte non più lieta ebbero i Bruzzi e i Lucani, costretti anch’essi
a cedere parte del loro territorio. Nella Lucania, lungo il mare, a
_Posidonia_ (Pesto), fu dedotta una colonia di cittadini romani. La
grande città, di cui tutt’oggi si ammirano le ruine meravigliose, tra
il mare e il cielo, faceva ancora un passo giù per la china dolorosa
del suo imbarbarimento. Solo le antiche metropoli elleniche, compresa
forse la stessa Taranto, cagione di tanto male, diventarono città
alleate di Roma, conservando, almeno di nome, la propria autonomia.

Poco prima di questa catastrofe, nel 273 o nel 272, Pirro, già vicino
a porsi sul capo la agognata corona macedone, periva oscuramente in un
minuscolo fatto d’armi, in una viuzza di Argo.


NOTE AL CAPITOLO QUINTO.

[29] PLIN., _N. H._, 16, 10, 37, GELL., _N. A._, 15, 27, 4; _Dig._, 1,
2, 8.

[30] APP., _Samn._, 7.

[31] Cfr. POLYB., 3, 25, 3-4.



CAPITOLO SESTO

ROMA E CARTAGINE


34. =Roma, grande potenza mediterranea.= — Dopo la guerra di Taranto,
Roma ha ormai conquistato tutta l’Italia degli antichi; ossia la
penisola, che dall’Arno e dal Rubicone si stende fino al mare Jonio.
È dunque diventata, come oggi si direbbe, una grande potenza. Quanto
cammino, sia pur faticosamente e inciampando a ogni passo e più
di una volta ferendosi in qualche pericolosa caduta, aveva fatto
la repubblica, in meno di due secoli e mezzo! Come era mutato il
Mediterraneo, dai giorni lontani, in cui la repubblica era nata, debole
e timida, da una rivoluzione! L’Etruria non è ormai quasi più che un
nome. Anche l’impero persiano è caduto da più di un secolo e mezzo; e
con esso la superstite potenza della Fenicia orientale è precipitata
nella polvere. Tutto l’Oriente è ormai greco. Il genio greco regna
sovrano nelle arti, nella politica, nella guerra, nelle lettere, nella
religione, nella cultura, nell’industria e nel commercio, in tutti
e tre i grandi Stati in cui si era frantumato l’impero d’Alessandro:
la monarchia dei Seleucidi, signora del vario paese, che dalle coste
egee dell’Asia minore, attraverso la Siria propriamente detta, la
Mesopotamia, l’Iran, si stendeva fino al bacino dell’Indo e all’Oxus;
i Tolomei, regnanti sull’Egitto, sulla Cirenaica, sulla Siria
meridionale, su Cipro, su Creta e su parecchi territori di confine
della Tracia, dell’Ellesponto, dell’Asia minore; infine, gli Antigonidi
di Macedonia, i più irrequieti, i più smaniosi di ingrandire a nord
ed a sud, in Dalmazia e in Grecia, la difficile eredità che Filippo
II il Macedone aveva loro lasciato. Oltre queste, un’altra potenza
ellenistica, Siracusa, aveva più volte tentato, con il braccio dei
suoi tiranni e dei suoi condottieri — Dionisio, Timoleone, Agatocle —
di fondare un impero; aveva signoreggiato sulle città greco-sicule,
le così dette città siceliote. Ma, pur troppo, ormai, dopo la
spedizione di Pirro, essa era incalzata da Cartagine. Cartagine era
allora la maggiore e la più antica potenza del bacino occidentale del
Mediterraneo; occupando tutta l’Africa settentrionale, dai confini
della Cirenaica alle colonne d’Ercole; le città costiere della Spagna
meridionale, la Sardegna, la Corsica, la Sicilia settentrionale, la
Sicilia ad occidente del Platani.


35. =Cartagine e il suo impero.= — In questa cerchia delle grandi
potenze mediterranee entrava ora, per misurarsi successivamente con
tutte, la più giovane, Roma. Paragoniamola alla più antica, poichè
l’una e l’altra stanno per impegnarsi in un duello mortale. Per tesori
accumulati, per ricchezza di commerci e di industrie Cartagine superava
Roma di molto. Essa passava a ragione per una delle più ricche città
del mondo. Nè era soltanto una prosperosa repubblica di mercanti;
possedeva anche un esercito, che gli storici hanno forse troppo
spregiato, perchè composto di soldati forestieri e di mercenari. Ma se
si può giudicar variamente la forza di Cartagine in terra, non è dubbio
il vantaggio che aveva sul mare. L’aristocrazia governava Cartagine
come governava Roma; e se a Cartagine la vecchia nobiltà militaresca
era avversa alla nuova nobiltà mercantile, anche Roma era agitata e
scissa dalle ambizioni e dagli interessi che si azzuffavano. Nè si
dimentichi che il governo cartaginese era stato poco prima giudicato
un modello da Aristotele. Infine pare che i due imperi avessero
all’incirca eguale vastità. Per molti rispetti quindi Cartagine sembra
avere avuto il vantaggio su Roma. Senonchè i due imperi erano ordinati
e retti secondo principî diversi. Nell’Africa settentrionale, il
territorio cartaginese era coperto da innumerevoli città e villaggi,
le une popolate da Libo-fenici, una gente nata dall’incrocio dei
colonizzatori fenici e degli indigeni, le altre da puri Libi, che
vivevano tutti coltivando la terra, esercitando qualche industria e
sfruttando le ricchezze naturali del suolo. Tra i Libo-fenici e tra
i Libi Cartagine reclutava una parte dei suoi eserciti, integrandola
con mercenari spagnuoli, liguri e galli. Senonchè — e questo è punto
capitale — Cartagine era una grande potenza mercantile, che vendeva
e comprava tutte le cose, il cui valore poteva mutare, mutando luogo.
Ma il commercio antico prosperava per monopoli; e i monopoli possono
essere imposti dalla forza soltanto. Noi sappiamo infatti che tutte
le popolazioni soggette a Cartagine non potevano nè comperare nè
vendere, se non osservando certe regole imposte dalla metropoli; e
che ogni specie di autonomia era loro negata. Le città libo-fenicie
erano governate con impero diretto e assoluto da Cartagine, mediante
funzionari da essa nominati; i Libi, divisi in tribù, erano sottoposti
al governo di Re, i quali poi dipendevano da Cartagine. Sole godevano
di una certa autonomia le popolazioni rimaste nomadi al di là della
zona coltivata: i Numidi, come i Romani li chiameranno; i quali però
dovevano anch’essi riconoscere l’autorità di Cartagine, fornire dei
contingenti di cavalleria e non molestare le ricche popolazioni
sedentarie. Allo stesso modo si può spiegare il fatto che molte
città non fossero fortificate. Cartagine non vedeva di buon occhio
fortificazioni, che avrebbero potuto servire come appoggio, por qualche
rivolta contro la metropoli e i suoi privilegi.


36. =Lo Stato romano e la sua composizione.= — Insomma Cartagine
aveva coperta una larga parte del suo ricco territorio di colonie non
militari, ma agricole e commerciali. Ben diverso era l’ordinamento
del territorio romano. In questo tempo il piccolo impero, che Roma con
tanta fatica ha raccolto intorno a sè, è un fascio di elementi vari. Si
compone di due parti ben diverse: il territorio romano e il territorio
degli alleati. Il primo, vasto circa 25.000 kmq., è amministrato
da molte città, ciascuna delle quali provvede al territorio suo, e
che sono o colonie romane, o colonie latine, o municipi. Le colonie
romane, a differenza delle colonie greche, erano fondazioni statali;
e, a differenza delle cartaginesi, avevano scopi militari e politici.
I loro abitanti, coloni romani e indigeni accomunati in una nuova
unità amministrativa, erano cittadini romani; godevano in Roma dei
diritti civili e politici, anche se la distanza impediva loro di fame
uso; e, nella colonia, di autonomia amministrativa. La colonia aveva
magistrati propri (_duoviri_ o _praetores_), un consiglio (_decurionum
ordo_), sacerdoti (_flamines_), assemblee popolari (_comitia_), finanze
autonome. Infine ogni colonia romana era una città fortificata.

Senonchè le colonie romane che si contano, fino alla metà del III
secolo, sono poche, quasi tutte sul mare e tutte piccole. Di solito
i coloni dedotti erano un trecento e non più. Nerbo della potenza
romana in Italia erano invece le colonie così dette latine. Erano
questi, rispetto alla metropoli, Stati sovrani; possedevano leggi
ed istituzioni proprie, piena autonomia amministrativa, il diritto
di batter moneta e il diritto di esilio, l’immunità dal tributo,
un territorio che non faceva parte delle tribù romane. Due sole
limitazioni Roma imponeva alla sovranità: l’obbligo di fornire
contingenti e di riconoscere Roma arbitra delle guerre e della
pace, delle alleanze e dei trattati. Roma concedeva inoltre ai
coloni latini lo _ius connubii_ e lo _ius commercii_, il diritto di
contrarre matrimoni e di possedere secondo la legge romana: non la
cittadinanza romana, naturalmente, chè sarebbe stata incompatibile con
la cittadinanza propria. L’ordinamento delle colonie latine posa dunque
su principî opposti a quelli con cui Cartagine reggeva il suo impero. E
a prima vista può sembrare strano che Roma abbia seminato in ogni parte
d’Italia questi Staterelli quasi indipendenti; che non abbia temuto
di dedurre in molte di queste città un numero di coloni ben maggiore
che nelle colonie romane, da 2000 a 20.000; che abbia concesso loro
di coprir l’Italia di fortezze, ognuna delle quali poteva rivolgersi
un giorno contro la metropoli. Ma si spiega; ed è un effetto lontano,
causa a sua volta di prossimi e grandiosi eventi, della rivoluzione,
che aveva rovesciato la monarchia e interrotto a Roma il suo primo
disegno e la sua prima ambizione mercantile. Non essendo un potentato
mercantile, Roma non aveva monopoli da imporre; non avendo monopoli
da imporre, poteva fondare le sue colonie, seguendo principalmente la
ragione militare.

I _municipia_ comprendevano tutte le città italiche cadute sotto
il dominio di Roma. Alcune, le più maltrattate, quelle che avevano
ricevuta la _civitas sine suffragio_, potevano essere paragonate alle
città suddite di Cartagine. Gli abitanti non avevano nè il diritto di
votare nè quello di essere eletti alle magistrature romane; ma dovevano
prestar servizio nell’esercito, pagare il tributo ed obbedire alle
leggi romane. Roma mandava a governarle un _praefectus juri dicundo_.
Altre, un po’ meglio trattate, conservavano l’antica autonomia
comunale; altre, infine, e il loro numero andò col tempo crescendo,
godevano della piena cittadinanza romana (_civitas optimo iure_). Gli
abitanti però di tutti e tre gli ordini di _municipia_, al pari delle
colonie latine, possedevano lo _ius commercii_ e lo _ius connubii_.

Al di là del territorio, che faceva parte dello Stato romano, si
distendeva il territorio delle città alleate, pari all’incirca a
100.000 kmq. Roma le aveva trattate, come la lega latina dopo la
grande guerra del 340-338: cercando di frantumare tutte le vecchie
confederazioni e legando a sè le singole città; umiliando le più
potenti e accarezzando le più deboli; favorendo in ogni città il
partito romano ai danni del partito nazionale. Le città alleate
rimanevano autonome, ma dipendevano da Roma per tutti i rapporti
con gli altri Stati, ed erano tenute ad arruolare, equipaggiare e
stipendiare milizie di terra e di mare, per tutte le guerre di Roma.


37. =Il pomo della discordia: Messina.= — Non è dunque meraviglia che
Roma e Cartagine fossero state per due secoli e mezzo amiche. Il mare
e la debolezza di Roma avevano mantenuto la pace. Ma nei due secoli
e mezzo, corsi dalla fondazione della repubblica, Roma era cresciuta
anch’essa; e i due imperi ormai quasi si toccavano. Così fu che la
pace fu rotta a un tratto, nel 265, in pochi mesi, in apparenza per
un incidente da nulla. Ventiquattro anni prima un corpo di mercenari,
in buona parte italici, assoldati da Agatocle di Siracusa per fare la
guerra ai Cartaginesi, erano stati congedati. Ma, invece di ritornare
in patria, avevano preso d’assalto Messina, vi si erano installati e
avevano esteso il loro impero sulle cittadine limitrofe di qua e di là
del Faro, assumendo il pomposo titolo di _Figli di Marte_ (Mamertini).
Pirro prima, e, partito Pirro, i Romani, quando si erano accinti a
sottomettere le città italiche di quell’estremo lembo della penisola,
li avevano combattuti. Ma i Mamertini avevano potuto conservare Messina
sino al 270. In questo anno invece furono prima sconfitti in campo
aperto e poi assediati nella città da Gerone di Siracusa; e sentendosi
in estremo pericolo, cercarono un aiuto, anzi degli aiuti: perchè
gli uni si rivolsero a Cartagine e consegnarono a un generale punico
l’acropoli della città; gli altri invece si rivolsero a Roma.


38. =Pace o guerra? I due partiti a Roma e le loro ragioni.= — Messina
invitava dunque la grande potenza italica, che a piccoli passi la
vittoria aveva condotto alle sponde del mare siculo, a passare lo
stretto. Piccolo braccio di mare, dalle cui rive l’occhio discerne
le città, i villaggi e sin le case dell’opposta sponda: ma che passo
smisurato sarebbe invece per Roma, il varcarlo! Il primo passo verso
la conquista di un impero mondiale. Roma lo sentì. Noi sappiamo che
la domanda dei Mamertini fece nascere in Roma una agitazione, quale
da un pezzo nessun accidente o incidente politico aveva suscitata.
I pericoli erano palesi. Intervenire in Sicilia e dichiarare guerra
a Cartagine, erano la stessa cosa. Certo la Sicilia era una delle
gemme del Mediterraneo: ma poteva Roma, anche per la Sicilia,
affrontare Cartagine, formidabile per armi e per ricchezze? Noi non ci
meravigliamo leggendo negli antichi scrittori che il senato esitava.
Ma non esitava invece la pubblica opinione. Noi conosciamo, grazie a
Polibio, gli argomenti che i fautori dell’intervento opponevano alle
sagge considerazioni dei prudenti[32]. Essi dicevano che Cartagine era
padrona ormai di quasi tutta la Spagna, della Corsica, della Sardegna
e delle altre isolette sparse in quei mari; che già possedeva buona
parte della Sicilia; se anche Messina, e cioè tutta la Sicilia, cadesse
in suo potere, l’Italia — sono le precise parole dello storico greco —
sarebbe «accerchiata e soffocata» da Cartagine. Che altro poteva essere
Messina, se non il ponte per assaltare l’Italia? Polibio aggiunge che i
partigiani della guerra magnificavano anche il beneficio che la guerra
apporterebbe ai singoli cittadini; i quali, danneggiati dalle guerre
passate, prestavano orecchio volentieri a questi discorsi, sperando di
potersi rifare.

Roma si trovava proprio alla svolta decisiva. Abbiamo veduto come
ormai da un secolo le guerre e le conquiste venivano rapidamente
alterando in Roma l’antico assetto delle fortune, dei ceti, delle
idee, delle tradizioni, sconvolgendo, distruggendo, rovesciando,
rinnovando or questa or quella parte dell’ordine antico. Ma per
parecchie ragioni la guerra contro Taranto e la conquista dell’Italia
meridionale avevano impresso una nuova spinta a questo movimento.
Innanzi tutto l’aver vinto Pirro, uno dei generali educato alla scuola
di Alessandro il Grande, aveva accresciuto l’orgoglio di Roma, la
sua fiducia nelle proprie forze, l’ambizione. L’opinione pubblica
si era fatta più ardita, più esigente. Nel tempo stesso la conquista
della zona interna dell’Appennino e la riduzione ad _ager publicus_
di tanta parte dei vasti territori conquistati acceleravano il grande
rivolgimento di fortune, incominciato, a quanto sembra, in mezzo alla
guerra sannitica; l’ingrandirsi dei dominî fondiari, sotto forma
di proprietà o di possesso; l’incremento del proletariato urbano,
dell’industria e del commercio. In questi anni, per la prima volta, la
legge agraria licinio-sestia è veramente violata; la nobiltà romana,
che, di buona e più spesso di mala voglia, aveva fatto la guerra
contro Pirro, si affretta dopo la vittoria a gettarsi sulle terre
conquistate nell’Italia meridionale, locando per pochi assi vaste
estensioni di terreno, comperando gli schiavi, gettati sul mercato in
copia dalle disfatte nemiche, e ripigliando su più larga scala, e con
maggior copia di mezzi, la tradizione sannita e lucana della grande
pastorizia. Senonchè il moltiplicarsi e l’ingrandirsi delle fortune
fondiarie richiedevano abbondanza di terre pubbliche da affittare e
abbondanza di schiavi; quindi nuove guerre e nuove conquiste. Inoltre
è certo che, dopo la vittoria su Taranto, rinascono le aspirazioni
a far di Roma una città mercantile, come aveva tentato la monarchia:
aspirazioni, che la maggior conoscenza del mondo ellenico, la cresciuta
fiducia, l’abbondanza del capitale, l’ampliato dominio non potevano
non incoraggiare. Infine, anche i costumi e le idee si rinnovano.
L’ellenismo fa rapidi progressi a Roma, dopochè la Magna Grecia è stata
incorporata nel suo impero, e con la Magna Grecia le vie più rapide per
tragittare in Grecia e nell’Oriente ellenistico. Un greco di Taranto,
Livio Andronico, porta in Roma l’epica e la dramatica greca, anzi la
mania di tutta la coltura ellenica. A sciami, assai più che ai tempi
di Tarquinio I e di Tarquinio II gli Etruschi, irrompono dall’Italia
meridionale nella antica città i Greci, portando la coltura, le
divinità, i costumi, i vizi ed il lusso dell’Asia ellenica. Già nel
275 un console era stato espulso dal senato, perchè sulla sua mensa
splendeva un troppo ricco vasellame; e due anni dopo la conquista
dell’Italia meridionale, Roma avrà bisogno di coniare monete d’argento,
di aprire all’uopo zecche nel Lazio e in Campania.


39. =La guerra a Cartagine deliberata dai Comizi. (264).= — Tutte
queste aspirazioni ed inclinazioni e ambizioni confluirono in una
corrente unica, che spinse la repubblica a varcare lo stretto,
anche a rischio di dar di cozzo contro Cartagine. Grandi possidenti
che arricchivano sulle terre conquistate nel Sannio e nell’Italia
meridionale; giovani signori, che imparavano a gustare la letteratura
e la filosofia greca; appaltatori degli eserciti o dei lavori pubblici;
operai od artigiani, che vivevano sulle guerre o sulle spese pubbliche;
senatori, cavalieri e ricchi liberati, che incominciavano a tentar
qualche commercio, imitando i Tarantini, i Siracusani o i Cartaginesi;
oscuri plebei e modesti possidenti che, dimenticando quanti eran morti
od erano stati rovinati dalle guerre precedenti, vedevano soltanto i
fortunati, ritornati con un gruzzolo, facevano violenza alla pavida
prudenza dei saggi. Cartagine, l’amica secolare, era diventata il
pericolo; Cartagine, che aveva occupato l’Africa e la Sardegna, che si
impadroniva della Spagna, avrebbe, se Roma non si affrettava, invaso un
giorno l’Italia, come già aveva invaso la Sicilia.

Questa corrente popolare era così forte che il senato non osò pigliarla
di petto. Ma non osò neppure secondarla; onde si appigliò ad un
partito, di cui raramente fece uso nella lunga storia di Roma: trasmise
la domanda dei Mamertini ai comizi centuriati. In questo momento
supremo, il popolo fu chiamato ad esser giudice ed arbitro della sorte
di Roma! E nei comizi centuriati il partito della guerra prevalse.


NOTE AL CAPITOLO SESTO.

[32] POLYB., 1, 10.



CAPITOLO SETTIMO

LA PRIMA GUERRA PUNICA E IL SECONDO TENTATIVO MERCANTILE DI ROMA


40. =La prima guerra punica (264-241).= — La prima guerra tra Roma e
Cartagine incomincia con una spedizione a Messina. Nel 264 Roma manda
il console Appio Claudio con un esercito in aiuto ai Mamertini, i
quali, non appena sicuri della protezione di Roma, avevano scacciato
il presidio cartaginese. Ma Cartagine risponde inviando un’armata e
un esercito contro Messina, e stringendo alleanza con i Siracusani; e
con tanta prontezza che, quando il console Appio Claudio, nell’estate
del 264, giunse a Reggio con le legioni, Messina già era stretta per
mare e per terra dai Cartaginesi e dai Siracusani. Che fare? Passare
lo stretto, senza aver prima vinta la flotta cartaginese? La mossa era
temeraria. Misurarsi con Cartagine sul mare? Roma non aveva un’armata
sufficiente. Il senato aveva avuto ragione di esitare, innanzi a quel
breve braccio di mare; poichè era singolare temerarietà disputare
un’isola ad una grande potenza navale con una piccola armata.

Ma la guerra ormai era dichiarata, e Appio Claudio non poteva guardare
da Reggio, con le braccia conserte, l’assedio di Messina. Affrontò
dunque — non aveva altro scampo — il doppio rischio: eludere il blocco
cartaginese di notte e gettarsi, forzando le linee degli assedianti,
nella città. Le due imprese erano arditissime; e se l’una o l’altra
falliva, l’esercito era perduto. Ma Appio Claudio riuscì nell’una e
nell’altra. Una volta in Messina, non perdette tempo; e sconfisse in
due battaglie Cartaginesi e Siracusani, liberando la città. Padrona
di Messina, Roma poteva ormai comunicare con il continente abbastanza
sicuramente, per quanto ancora sotto la minaccia di Siracusa. Ne
approfittò per mandare l’anno seguente in Sicilia un nuovo esercito,
che doveva assalire Siracusa e togliere a Cartagine tutti i punti di
appoggio sulla costa orientale. Anche questa mossa riuscì. Ora che
i Romani si erano impadroniti di Messina, Siracusa si sentì troppo
addosso la potenza romana, da poter perseverare nell’alleanza con
Cartagine. Il partito avverso ai Cartaginesi prevalse in Siracusa; e
Gerone, abbandonata l’alleanza cartaginese, si alleò con Roma. Alla
fine del 263 Roma aveva dunque posto saldamente il piede sulla Sicilia.

Ma non bastavano queste vittorie a scoraggire Cartagine. Cartagine
assoldò Liguri, Galli e Spagnuoli in quantità; mandò in Sicilia soldati
ed armi; fece di Agrigento la nuova base di operazione contro Romani e
Siracusani; spedì flotte a saccheggiare le coste dell’Italia. A loro
volta Romani e Siracusani posero, nel 262, l’assedio ad Agrigento,
iniziando il secondo periodo della guerra, che doveva durar quanto
l’assedio, otto mesi, e cioè tutto il terzo anno. Solo nel tardo
autunno e dopo essere stati più volte sul punto di levare il campo, i
Romani poterono vincere in battaglia un esercito cartaginese, spedito
al soccorso, e impadronirsi della città, non però della guarnigione
cartaginese che riuscì a fuggire attraverso le linee romane,
raggiungendo l’esercito vinto. Ma questa nuova vittoria, la resa delle
altre città, che seguì quella di Agrigento, soprattutto l’ingente e
inusitato bottino esaltarono in Roma il sentimento pubblico. Popolo e
grandi ormai furon tutti concordi in un solo pensiero: costruire una
armata e scacciare i Cartaginesi dalla Sicilia. La tradizione narrò
come Roma, ignara di navi, avesse pigliato a modello una quinquireme,
che la tempesta aveva gettata sulle coste dell’Italia meridionale.
Senonchè Roma non era così nuova al mare come la leggenda suppone,
poichè possedeva navi da guerra e da carico, e disponeva delle flotte
degli alleati, italici e siracusani. Ma la leggenda, se esagera, non è
tutta una invenzione, poichè sembra probabile che nè Roma nè l’Italia
conoscessero ancora l’uso delle navi a cinque ordini di remi, di cui
si compose quasi tutta la sua prima grande armata navale, forte di
120 vascelli. Tuttavia i Romani diffidavano della propria capacità
sul mare; e perciò provvidero la armata di un nuovo ordigno, i ponti
volanti d’abbordaggio, a cui diedero il nome di corvi. Con questi
ponti, ciascuna nave poteva avvinghiare un naviglio nemico, e dare il
passo ai legionari.

Ad approntare quest’armata navale sembra sia stato speso tutto l’anno
261, nel quale non si registrano grandi fatti di guerra. Nè il tempo
sembrerà troppo lungo, chè fu necessario anche addestrare le ciurme.
Al principio del 260 la flotta romana era in mare; e a primavera aprì
la terza fase della guerra (260-255), discendendo lucida e nuova verso
la Sicilia e cercando animosamente, sotto il comando del console C.
Duilio, la vecchia flotta cartaginese, rotta a tutti i mari, carica di
trofei, che da secoli combatteva su quelle acque. La trovò infatti,
dopo un primo insuccesso, a Milazzo (_Mylae_) presso Messina e le
diede battaglia (260). I _corvi_ furon provati con buon successo; i
Romani combatterono con grande impegno, volendo mostrare che anche sul
mare eran forti; la flotta cartaginese perdette oltre la metà dei suoi
legni, che erano 130; lo stesso ammiraglio ebbe a stento salva la vita
e Roma riportò sul mare una vittoria non indegna degli allori che aveva
raccolti sulla terra.

Al suo ritorno in Roma C. Duilio fu oggetto di straordinari onori,
e per quale ragione, non è difficile intendere. Poche vittorie
sbalordirono i contemporanei, come la vittoria di Milazzo. Roma aveva
appena varata la sua prima grande armata; e subito vinceva sul mare la
maggior potenza navale del tempo! Ma gli effetti della vittoria furono
più piccoli della impressione. Cartagine si accinse con grande lena a
rinforzare l’armata; si difese ostinatamente contro tutti gli attacchi
romani; cercò di tirare in lungo la guerra, sperando di stancare Roma,
che doveva ogni anno chiamare alle armi i suoi cittadini, mentre essa
adoperava dei mercenari. Difatti, nei tre anni che seguono (259-257)
noi vediamo i Romani combattere in Sicilia, assalire la Corsica e
la Sardegna, ritornare a combattere in Sicilia; cercar insomma di
mettere a frutto la padronanza del mare, conquistata con la vittoria
di Milazzo: ma senza costringere Cartagine alla pace. Sinchè, volendo
terminare a ogni costo questa onerosissima guerra, che durava ormai
da nove anni, Roma si risolvè, nel 256, per finirla, a ripetere il
tentativo fatto dal siracusano Agatocle nel 310, sbarcando in Africa
addirittura. L’impresa era ardua e pericolosa, poichè l’armata
cartaginese vigilava poderosa il passaggio. I preparativi furon grandi
e adeguati. Presso la foce del Salso (l’antico _Himera_) non lungi
dall’odierno monte S. Angelo (l’antico promontorio _Ecnomo_) sulla
costa meridionale della Sicilia, fu apparecchiata una grande armata di
300 legni, fra navi da guerra e da carico; e in quella furono imbarcati
circa 140.000 uomini tra soldati e ciurme, agli ordini dei consoli L.
Manlio Volsone e M. Atilio Regolo. La flotta cartaginese, non minore
di forze, tentò di sbarrarle il passo; nei pressi di Ecnomo stesso si
impegnò una aspra battaglia navale, nella quale i Romani riuscirono
a passare; e, sconfitta la flotta cartaginese, poterono approdare
all’opposto lido africano, occupando la città di Clupea, a occidente
del Capo Bon, e facendo di questa la propria base di operazione in
Africa.

Occorre a questo punto supporre che Cartagine si credesse al sicuro
da un simile attacco e fosse sorpresa dall’invasione con forze
insufficienti. Non è una supposizione invece, ma una notizia sicura
che, appena l’esercito romano fu sbarcato in Africa, una grave rivolta
scoppiò tra i Numidi, i quali irruppero nel territorio cartaginese.
Ma solo quella supposta impreparazione e questa rivolta accertata
dei Numidi possono spiegare come l’esercito romano abbia comodamente
saccheggiato in un vasto territorio città e villaggi, che, le più
non essendo fortificate, non si difendevano; abbia raccolto con poco
pericolo un ingente bottino, massime di quadrupedi e di schiavi;
l’abbia spedito tranquillamente in Italia e rimpatriato dopo poco con
uno dei consoli una parte considerevole dell’esercito di invasione.
Non rimase che Atilio Regolo con forze non grandi: imprudenza
singolarissima, che soltanto la difficoltà di tenere a lungo un
esercito numeroso in Africa e la illusione di aver già debellato
Cartagine possono spiegare. Ma Cartagine non era punto debellata.
Impreparata a respingere l’attacco improvviso, cercò di temporeggiare,
trasse in lungo, mandò un piccolo esercito a trattenere i Romani;
e quando questo esercito fu vinto, aprì trattative di pace.... Ma
intanto arruolava soldati in Numidia, in Spagna ed in Grecia; assoldava
Santippo, un generale spartano, che conosceva l’arte della guerra
meglio dei generali cartaginesi. Atilio Regolo accettò volentieri di
trattare la pace; ma credendo proprio che la resistenza di Cartagine
fosse infranta, impose condizioni durissime. Invece il nuovo esercito
cartaginese si stava approntando; alla fine Cartagine respinse le
condizioni; e Santippo entrò in campo. L’esercito romano fu dall’abile
stratega sgominato; Atilio Regolo stesso fatto prigioniero (255).

L’audace mossa dell’esercito romano, che la fortuna aveva favorito
da principio, era da ultimo rovinosamente fallita. Ma Roma non
sbigottì: subito approntò un’altra flotta e la mandò a salvare gli
avanzi dell’esercito romano, che si erano rifugiati e fortificati a
Clupea. Questa flotta riuscì, sconfiggendo una armata cartaginese, a
passare il mare e a imbarcare i superstiti di Clupea; ma a sua volta
fu nel viaggio di ritorno quasi tutta distrutta da una tempesta, non
lungi dal Capo Passaro. Di 364 navi se ne salvarono 80. Rianimati da
questa nuova sventura romana, i Cartaginesi pensarono addirittura di
passare all’attacco e di scacciare i Romani dalla Sicilia, mandando
una spedizione. Pronta Roma rispose mandando a sua volta, nel 254, una
flotta e un esercito ad assediare Palermo, che fu presa; e si accinse
ad allestire una nuova spedizione che assalirebbe l’Africa, per il
253. La guerra riardeva dunque nella terra e sul mare più violenta che
mai; ma fu questa l’ultima fiammata di audacia. La seconda spedizione
romana in Africa fallì come quella del 256, e ancora prima di giungere
in Africa, parte per gli errori dei comandanti, parte per un’altra
tempesta; e con essa cadde a Roma per sempre l’ambizioso disegno di
colpire Cartagine in Africa. Disperando di tener testa a Cartagine sul
mare, Roma si restringe a combattere con le sue legioni in Sicilia, per
la conquista della ricca isola.

Incomincia il quarto ed ultimo periodo della guerra, quello che è
ormai circoscritto alla Sicilia (253-241). Abbraccia ben 13 anni, e
la sua stessa lunghezza, l’alternativa incessante di sconfitte e di
vittorie mostrano la stanchezza dei due avversari. Nel 251 il console
L. Cecilio Metello infligge una grave sconfitta sotto Palermo ai
Cartaginesi che tentano di liberar la città; i Cartaginesi sgombrano
allora tutte le piazzeforti della Sicilia, riducendosi a difendere,
sulla costa occidentale, Lilibeo e Trapani; la Sicilia è ormai quasi
tutta in potere dei Romani. Questi, ripreso coraggio, si propongono
di finirla con un ultimo sforzo; rifanno un’armata; e con quella
pongono l’assedio a Lilibeo. Ma nel 250 il console Publio Clodio perde
una flotta, volendo attaccare nelle acque di Trapani l’ammiraglio
cartaginese Aderbale; e un’altra ne perde l’anno dopo il console Lucio
Giunio Pullo sulla costa meridionale della Sicilia. I Romani sono
costretti a togliere l’assedio di Lilibeo e a rinunciar di nuovo al
dominio sul mare; e buon per loro che Gerone restò fedele e, nel 248,
rinnovò l’alleanza con Roma: chè altrimenti avrebbero potuto trovarsi
a mal partito quando, nel 247, Cartagine mandò finalmente in Sicilia
un grande generale, Amilcare Barca, il padre di Annibale. Costui
riorganizzò l’esercito; occupò una posizione formidabile presso Palermo
(Monte Pellegrino?), conquistò Erice, e comunicando per Trapani con
Cartagine, incominciò a molestare con rapide e continue incursioni
sulla terra e sui mare tutta la Sicilia e le coste dell’Italia, con
il chiaro proposito di vincere Roma con una guerra di spossamento,
esaurendo il suo erario e stancando la pazienza delle popolazioni,
tutti gli anni chiamate alle armi. Difatti dal 247 al 242, Roma sembra
sul punto di dichiararsi vinta, tanto il popolo è scoraggito. Quando,
in uno sforzo supremo, essa capisce che non è possibile costringere
Amilcare a scendere dalla formidabile posizione, da cui minaccia
la Sicilia e l’Italia, se non riconquistando il dominio del mare, e
tagliando le comunicazioni con Cartagine. Ma come varare, dopo tante
altre che il fuoco o l’acqua hanno distrutte, una nuova flotta? I
più ricchi cittadini romani, coloro ai quali risalivano le maggiori
responsabilità dell’impresa, dovettero, per salvare lo Stato in mezzo
allo scoramento universale, armare a proprie spese una nuova flotta.
Era la primavera del 242, allorchè furono messe in mare le ultime 200
grosse navi da guerra, che lo Stato romano era in grado di approntare.
Con queste il console C. Lutazio Catulo si recò a bloccare Drepano
(_Trapani_) e Lilibeo (_Marsala_). Una flotta cartaginese tentò di
rompere il blocco e portare ad Amilcare rinforzi e rifornimenti. Ma
Lutazio l’affrontò, la vinse e in parte la distrusse in una grande
battaglia, combattuta presso l’isola di _Aegusa_, una delle Egadi.

Lo sforzo supremo aveva sortito il suo effetto. Roma era di nuovo
padrona del mare; le comunicazioni tra Cartagine e la Sicilia erano
interrotte; Amilcare non poteva più mantenersi se Cartagine non
avesse riconquistato in poco tempo il mare. Ma anche Cartagine ormai
era esausta. I suoi mercenari le costavano molto più che a Roma gli
eserciti di leva; e a lungo andare la spesa della guerra era diventata
insopportabile anche per la sua ricchezza. Essa non era più in grado
di pagare gli eserciti, che tumultuavano e insorgevano. Fu quindi forza
stipulare la pace, consigliata dallo stesso Amilcare. Roma non fu molto
esigente, perchè non ne poteva più e si accontentò di assai meno che
non avesse chiesto Regolo. Cartagine dovè cedere la parte della Sicilia
che era stata sua insieme con le isolette limitrofe, fra l’Italia e la
Sicilia, e impegnarsi a versare a Roma, entro dieci anni, la somma di
2200 talenti.


41. =La riforma dei comizi centuriati (241).= — Roma aveva vinto; ma a
quale prezzo! Il censimento, fatto proprio nell’anno della pace, contò
260.000 cittadini; e quello fatto cinque anni prima 241.712, mentre
i censimenti precedenti erano riusciti a contarne perfino 297.234.
Diminuzione pari, o forse maggiore, deve argomentarsi per i Latini e
gli alleati. Sulle finanze non abbiamo notizie; ma non è temerario
supporle nelle più gravi strettezze, dopo una guerra così lunga, e
sinchè la indennità cartaginese non fosse venuta a restaurarle, mentre
occorrevano spese maggiori per tenere saldamente la parte della Sicilia
conquistata e per far fronte agli impegni di una politica più vasta e
grandiosa.

A tutte queste difficoltà Roma cerca di provvedere, come al solito,
con concessioni politiche. La guerra democratizzava la costituzione
romana! Già nell’ultimo anno della guerra i censori si erano mostrati
larghi nel conferire la cittadinanza a buon numero di Italici, quanti
bastavano a creare due nuove tribù, la _Velina_ nel Piceno, e la
_Quirina_ nella Sabina, destinate forse a riempire i vuoti fatti dalla
guerra nella popolazione. Ma ben presto si procedette oltre, ad una
riforma dell’ordinamento dei comizi centuriati, che accrebbe di molto
il potere del ceto medio e del popolare, a danno delle classi più
ricche. Fu abbassato il censo dell’ultima classe, per accrescere il
numero dei cittadini obbligati al servizio militare. Da un pezzo si
chiamavano alle armi, quando occorreva, anche cittadini senza censo,
che la legge esonerava; cosicchè, per quel che concerne gli obblighi,
la riforma legalizzò soltanto una pratica ormai inveterata. Ma d’altra
parte la riforma dovette riconoscere i diritti corrispondenti agli
oneri, facendo entrare questi cittadini non solo tra le file dei
soldati, ma anche nelle schiere dei legislatori. Senonchè una siffatta
innovazione non avrebbe da sola alterato l’equilibrio delle forze
dei partiti e dei ceti nei comizi centuriati, se non si fosse anche
assegnato ad ogni classe il numero medesimo di centurie, ossia di unità
votanti. La complicata riforma ci è pur troppo mal nota: sembra che
le cinque classi siano state, per dir così, immerse nelle 35 tribù
esistenti; e, mentre prima le centurie erano composte di cittadini
appartenenti a tutte le tribù, d’ora innanzi i componenti di ciascuna
tribù siano stati, a seconda del patrimonio, distribuiti nelle cinque
classi, ogni classe dovendo essere rappresentata in ciascuna tribù
con due centurie. Si ebbero così, per ciascuna tribù, 10 centurie
(2 x 5); in totale 350 (10 x 35), e per ciascuna classe, 70 centurie
(35 x 2). E, giacchè al conto devono aggiungersi le 18 centurie dei
cavalieri della prima classe e le cinque vecchie centurie poste fuori
delle classi, la nuova cittadinanza romana fu divisa in 373 centurie,
egualmente distribuite in ogni classe. Ne seguì che la maggioranza
discese verso la terza e la quarta classe, e che l’assemblea centuriata
rappresentò ormai la volontà e il pensiero, non più dell’aristocrazia,
ma delle classi medie[33].


42. =La conquista della Sardegna e della Corsica (238).= — La pace
con Roma era appena conchiusa, che Cartagine era impegnata in due
nuove guerre, l’una con i sudditi africani, l’altra con i mercenari
non soddisfatti. Nè basta: questa era stata appena repressa, che si
sollevavano i mercenari di Sardegna, invocando l’aiuto di Roma. Roma da
prima esitò; ma poi cedè alla tentazione e dichiarò novamente guerra
a Cartagine con pretesti piuttosto speciosi: che gli armamenti fatti
per riconquistare l’isola minacciavano l’Italia; che taluni mercanti
romani erano stati maltrattati in Africa; che, infine, la Sardegna,
quale territorio tra la Sicilia e l’Italia, era compresa nel trattato
precedente (238). Cartagine, non sentendosi in forze per resistere,
piegò il capo per il momento; cedè la Sardegna e acconsentì anche a
pagar 1200 talenti di indennità[34]. Alla conquista della Sardegna
seguì quella della Corsica, che Cartagine forse aveva già abbandonata e
che non aveva mai sicuramente tenuta.

Roma si era impadronita in pochi anni della maggior parte della
Sicilia, della Sardegna e della Corsica. Ma queste isole erano poste
fuori dei confini dell’Italia propriamente detta, abitate da genti
d’altra lingua e costume. Non si poteva governarle come le regioni
dell’Italia; onde proprio dopo la conquista della Sicilia, della
Sardegna e della Corsica, Roma incomincia ad abbozzare un nuovo regime
politico ed amministrativo: quello che applicherà poi via via a tutte
le province del suo vasto impero. La Sicilia, la Sardegna e la Corsica
furono appunto le prime _province_ dell’impero. Questo ordinamento
provinciale posa sul principio che il suolo e l’autorità appartengono
a Roma. Il suolo è di regola proprietà (_praedium_) del popolo romano,
che può confiscarlo a proprio vantaggio, quale _ager publicus_, o
lasciarlo ai sudditi nella forma di possesso, con l’obbligo di pagare
come tributo un decimo dei prodotti (_decuma_). E tutta la provincia
è sotto la piena autorità di un governatore, da principio un pretore
(Roma infatti, nel 227, avrà ben quattro pretori), munito dei pieni
poteri, militari, civili e giudiziari, che la regge e amministra.
A quanti popoli e territori saranno un giorno applicati questi due
principî! E quanti abusi nasceranno!


43. =La conquista delle due rive adriatiche (229-215).= — Ma per
il momento, nessuno a Roma pensava che in Sicilia, in Sardegna e in
Corsica si faceva il primo esperimento di ordinamenti e istituzioni,
che dovrebbero per secoli essere le travi e i muri maestri di un
immenso impero. Roma aveva appena assestato, dopo una così lunga
guerra, le faccende del Mediterraneo, e già doveva volgere la sua
attenzione all’Adriatico; e per ragioni e in condizioni, che meritano
di essere considerate con particolare attenzione. Mentre Roma era
impegnata nel Tirreno e in Sicilia contro Cartagine, s’era formato
sulle coste della Dalmazia, così frastagliata di scogliere, di rifugi,
di porti e di isolette, un principato illirico, il quale, cattivatosi
l’amicizia del nuovo Re di Macedonia, Demetrio, minacciava l’Epiro,
e le città della costa occidentale della penisola balcanica. Il nuovo
Stato, come tutti gli Stati antichi, cercava di accaparrare per sè il
commercio di queste regioni e di escludere, un po’ con la concorrenza,
un po’ con la violenza e la pirateria, i rivali. Ora non appena la
guerra con Cartagine fu terminata e appianate le nuove difficoltà
nate da quelle, da ogni parte d’Italia si levarono verso il senato
lamenti per questa condizione di cose; e con i lamenti, le più vive
sollecitazioni perchè le armi di Roma assicurassero ai negozianti
italici il libero commercio nell’Adriatico[35]. E questi lamenti e
queste sollecitazioni furono alla fine così forti, da costringere il
senato a mandare nel 230 un’ambasceria alla regina degli Illiri, Teuta.
Basta questo fatto a provare quanto lo spirito mercantile, che abbiamo
visto svilupparsi dopo la guerra con Taranto, si fosse rafforzato
e diffuso in Italia durante la prima guerra punica; a provare che
i mercanti italiani tentavano ora di impadronirsi del commercio
dell’Adriatico; a provare che cresceva a Roma il numero dei senatori, i
quali ambivano che Roma, ora che l’aveva vinta con le armi, umiliasse
Cartagine nei traffici, fondasse un impero mercantile non meno vasto
e ricco. Dopo più di tre secoli, insomma, la repubblica ritornava ai
disegni ed alle ambizioni mercantili della monarchia. Ma in condizioni
quanto diverse!

L’ambasceria, mandata a Teuta, non ottenne soddisfazione. La guerra
fu dichiarata. Duecento navi con 22.000 uomini furono spedite in
Illiria; il nemico fu facilmente vinto; e Teuta dovette accettare
la pace impostale. I confini meridionali del principato illirico
furono stabiliti a _Lissos_ (Alessio); gli Illirî si impegnarono a
non navigare più a sud di Lissos con un numero di navi maggiore di
due e a pagare tributo; i territori, tolti ad essi, furono quasi
tutti dati a Demetrio di Faro. La potenza illirica era fiaccata; e
gli interessi mercantili degli Italici messi al sicuro. Una clausola
della pace aprì a Roma un nuovo campo di azione politica. I territori
di parecchie città greche — Corcira, Apollonia, Epidamno — in una
parola, la costa illirica, da Alessio ai confini dell’Epiro, comprese
le isolette limitrofe, furono introdotte nella confederazione italica,
e la pace annunziata a parecchie città greche, agli Etoli, agli Achei,
ai Corinzi, agli Ateniesi, che accolsero il messaggio e i messaggeri
con entusiastiche dimostrazioni di giubilo. Anche i Greci si volgevano
verso Roma, sperando protezione contro i loro nemici, massime contro
i Macedoni: grande fatto, dal quale nasceranno grandissimi eventi, e
che prova quanto il prestigio romano fosse cresciuto in tutto il mondo
mediterraneo!


44. =La nuova reazione delle campagne: il tribunato di Caio Flaminio
(233).= — Se la guerra illirica era stata un nuovo segno della
crescente potenza degli interessi mercantili, fra qualche anno se
ne aggiungerà un altro anche più chiaro: una legge Claudia, votata
nel 218 dai comizi tributi, non ostante la più accanita opposizione
del senato, la quale interdiceva ai senatori di possedere navigli
di più che 300 anfore (8000 litri circa) di volume[36] e capaci di
trasportare più che i prodotti delle loro terre. Quale prova più chiara
che l’amore della ricchezza, la passione del lucro, la smania dei
traffici erano entrate perfino nel senato, rocca venerabile dell’antica
tradizione romana? La mercatura, che secondo questa tradizione non
si addiceva a quell’altissima dignità politica, cominciava ad essere
tollerata, e in misura tale, che una legge aveva dovuto tentare di
porre un freno al male. Ma ancor più che per i senatori i quali si
davano al commercio, il ceto mercantile si rafforzava per il crescere
dei pubblici appaltatori. Roma non era più una piccola città, ma un
grande Stato, il quale non disponeva, come gli Stati moderni, di una
numerosa burocrazia, ma solo di pochi magistrati, eletti quasi tutti
ogni anno, e ordinati in principio per servire una città. Sebbene
il numero dei magistrati fosse stato accresciuto nel corso delle
generazioni, lo Stato aveva bisogno di essere di continuo aiutato
dalla intraprendenza privata a disimpegnare i servizi pubblici. La
lista delle aggiudicazioni, a cui i censori procedevano ogni anno,
si era fatta molto lunga e molto più lucrosa di un tempo: lavori
pubblici, trasporti, forniture militari, percezioni di decime, di altre
imposte e di dogane nelle province, locazioni di agro pubblico, di
miniere, di saline, di boscaglie. Era regola antica e sempre osservata
dall’amministrazione romana dividere questi appalti tra molti medi
e piccoli accollatari; cosicchè a mano a mano che l’impero di Roma
ingrandiva, crescevano in Roma quelli che noi chiameremmo agiati
borghesi, accollatari di questo o quel servizio pubblico; e costoro si
interponevano tra l’ordine senatorio ed equestre, dai quali ricevevano
gli appalti e talora i capitali da far fruttare, e il popolino degli
artigiani e dei proletari a cui davano lavoro e pane: vero puntello
e sostegno della politica di espansione. In tempi in cui la grande
industria era ignota, solo il continuo ingrandirsi di Roma poteva
moltiplicare, per questa gente avida e intraprendente, le fonti di
lucro e le occasioni di fortuna. Molteplici interessi si davano dunque
la mano, attraverso tutto lo Stato romano, dal senato sino alla plebe,
per rinfocolare in Roma l’ambizione di emulare Cartagine nei traffici,
per spingerla a più vaste conquiste, per indebolire in tutti i modi le
tradizioni e la potenza del ceto rurale[37].

E infatti, mentre il ceto mercantile ingrossava, arricchiva, si
impadroniva dello Stato, l’antico ceto rurale, che era stato nei secoli
precedenti il nerbo di Roma, si logorava, per ragioni molteplici.
Infatti il tributo del sangue era sempre più gravoso. Ormai occorrevano
ogni anno intorno alle quattro legioni, spesso di più; il servizio
militare si allungava; molti soldati avevano perduto il conto dei
loro stipendi; altri da anni non avevano più rivisto l’Italia, e
già cominciavano a invecchiare sotto le insegne. Nè tutti tornavano.
Sarebbe stato necessario dedurre nuove colonie sulle terre conquistate,
piantando dappertutto nuovi seminari di possidenti e di soldati. E
invece, ormai da un pezzo non si deducono più colonie; le terre che
Roma conquista, sono quasi tutte appaltate ai ricchi, cavalieri e
senatori i più, e non soltanto per l’egoismo e l’ingordigia dei grandi.
A questi riesciva facile di togliere al popolo le terre, perchè le
terre non erano più desiderate come un tempo dal popolo; e non erano
più desiderate come un tempo, perchè la piccola possidenza andava
rovinandosi oltre che per le guerre, per ragioni di ordine generale.
L’Italia antica era allora in gran parte coltivata a grano; ma ingombra
di troppe montagne e male irrigata da pochi e piccoli fiumi, poco
fertile, fuorchè in alcune regioni, e isterilita ancora più dalla
siccità e dal calore estivo, produceva poco. La piccola possidenza
aveva potuto vivere, sinchè le famiglie erano state paghe di lavorare
molto e di vivere semplicemente, consumando i prodotti della propria
terra, facendo con la propria lana gli abiti, fabbricando tutti gli
oggetti, di cui avevano bisogno, e comperando al mercato meno che si
potesse. Ma i contatti più frequenti con l’ellenismo, le spedizioni
militari in paesi ricchi come la Sicilia, svogliavano i possidenti
dal duro lavoro dei padri e li invogliavano a vivere meglio, mentre la
cresciuta abbondanza dei metalli preziosi rincarava gli oggetti. Anche
la piccola proprietà sentiva dunque maggior bisogno di denaro; ma del
grano, che essa coltivava, solo una piccola parte poteva esser venduto,
e a prezzi bassi, nel mercato più vicino, perchè lontano non si
poteva trasportare. Nè poteva il piccolo possidente sperare nemmeno di
approfittare delle carestie, che ricorrevano frequenti, massime a Roma.
Lo Stato, sospinto dalle recriminazioni e dai clamori della plebe,
ammucchiava nei granai di Ostia e di Roma il frumento della decima
di Sicilia e di Sardegna, ch’esso buttava sul mercato, ogni qualvolta
i prezzi rincaravano troppo. Cosicchè il piccolo possidente stentava
la vita, e quanti potevano cercavano una sorte migliore, diventando
accollatari o mercanti, i più intraprendenti e fortunati; artigiani
o proletari nelle città vicine o a Roma, i più inetti e disgraziati.
Protrarre il servizio militare diventava facile, anche perchè a molti
non spiaceva di restare lunghi anni sotto le armi, guadagnando il soldo
e il bottino. L’esercito di mestiere si formava dalla rovina della
piccola possidenza, il cui potere politico anche scemava. Ogni tanto, è
vero, qualche censore cercava di annullare la riforma di Appio Claudio,
che aveva inscritto in tutte le tribù i nullatenenti, relegandoli di
nuovo nelle quattro tribù urbane. Ma invano: chè la disposizione non
rimaneva mai in vigore per lungo tempo, e dopo qualche anno un altro
censore imitava di nuovo Appio Claudio.

Senonchè Roma era da secoli una repubblica di contadini, alla quale
l’aristocrazia aveva inculcato sul nascere una diffidenza vivissima del
commercio. L’elemento mercantile non poteva impadronirsi dello Stato
senza contrasto. Tra la prima e la seconda guerra punica, infatti,
la piccola possidenza si agita, cerca di difendere gli interessi e
i principî che erano suoi, contro il mercantilismo che si fa adulto;
nasce e cresce un partito democratico rurale, il quale trova per capo
un grande uomo, che doveva acquistare nella storia una fama immortale:
Caio Flaminio. Tribuno della plebe nel 233, nell’anno stesso in cui i
mercanti minacciati nell’Adriatico dagli Illirici assediavano il senato
con i loro reclami, Caio Flaminio proponeva una legge con la quale il
territorio, tolto ai Galli Senoni sin dal 283 e rimasto ozioso agro
pubblico, era distribuito in piccoli lotti ai plebei poveri d’Italia.
Il pensiero riformatore della legge è chiaro; ed è un pensiero che
ritornerà per due secoli, come una fissazione, nelle lotte nei partiti
romani: la piccola proprietà, semenzaio di soldati, decade; occorre
dunque impedire che i ricchi accaparrino tutte le terre e dedurre
nuove colonie, ma più grandi che un tempo, per rifare il medio ceto
rurale, che la guerra e il nuovo corso dei tempi andavano man mano
annientando. Il senato si oppose vivacemente; ma Flaminio si servì
senza scrupoli dei privilegi conferiti alla plebe dalla _lex Hortensia_
del 287, per far approvare il suo plebiscito ad ogni costo. Senonchè,
mentre i proponimenti aspettavano da quella una rinascita della piccola
possidenza, ne nacque intanto una guerra: una guerra, che doveva
contare nella storia di Roma quanto le guerre puniche.


45. =La conquista della valle del Po (225-222).= — La colonizzazione
dell’antico paese dei Senoni risvegliò l’odio dei Galli. Quel popolo
non si era mai rassegnato alla perdita dell’_ager gallicus_. Nel
237, anzi, i Galli Cisalpini, dopo avere radunato numerose milizie
mercenarie nella regione del Rodano, avevano, sia pure invano, tentato
di ricuperarlo. Ma adesso, certo temendo che quella colonizzazione
fosse il primo passo a nuove conquiste, tentarono una riscossa
disperata. Tra Galli d’Italia e di oltr’Alpe, misero in piedi un forte
esercito, e irruppero, attraverso l’Etruria, nell’Italia centrale
fino a tre giornate dalla capitale. Roma dovè approntare le maggiori
difese: chiamò alle armi tutta la lega italica, trasse dalla sua alcune
popolazioni dell’Italia transpadana, i Galli Cenomani e i Veneti;
aspettò che la gola della preda facesse dimenticare a quei barbari il
vero scopo della guerra; e riuscì ad accerchiare e sgominare, presso
il promontorio Telamone, sulle coste dell’Etruria, il grande esercito
gallico. Distrutto il maggior nerbo delle forze galliche, la Cisalpina,
per qualche anno almeno, era in balia delle armi romane. E Roma non era
più la timida potenza di un tempo, che si fermava dopo ogni vittoria.
Il partito democratico, che aveva voluto l’assegnazione dell’_ager
gallicus_, vide che, per render sicure queste terre da futuri assalti
gallici, occorreva approfittare dell’occasione, conquistare la valle
del Po e annientare per sempre il pericolo gallico: il popolo lo capì;
e sebbene nel senato fosse un forte partito avverso a questa nuova
impresa, la Gallia Cisalpina fu nel 224 invasa. Tre anni (224-222)
durò la guerra. Nel 224, dopo aver conquistato la parte orientale
della Cispadana, la terra dei Galli Boi, i consoli varcarono la linea
del Po e occuparono, nella Transpadana, il paese degli Insubri. L’anno
successivo, lo stesso C. Flaminio, il tribuno del 233, l’autore primo
della guerra gallica, fu console. Flaminio e i consoli dell’anno
successivo assoggettarono la Transpadana, espugnando la sua capitale,
l’antica Milano (_Mediolanum_). Nel paese dei Galli Boi fu fondata la
colonia romana di Modena (_Mutina_) e la linea del Po fu assicurata con
le colonie di Piacenza (_Placentia_) e di Cremona (218).

Mentre il ceto mercantile spingeva il senato a conquistare la sponda
orientale dell’Adriatico e a combattere Cartagine, il medio ceto
rurale, affamato di terre, aveva spinto Roma nella valle del Po, nella
grande pianura, coperta di foreste e di paludi silenziose, sparsa di
bei laghi, solcata da numerosi corsi d’acqua, attraversata dal maggior
fiume, che fino ad allora i Romani avessero conosciuto e che l’Italia
possegga. La plebe rovinata dalla guerra cercava di salvarsi con la
guerra, quasi rinnovando il mito della lancia d’Achille. Illusione
anche questa: poichè neppure la conquista della valle padana poteva
salvare la piccola possidenza romana. Ma inseguendo questa vana
speranza, sul punto di sparire per sempre, l’antica plebe rurale aveva
dato a Roma quella che sarebbe la più bella gemma dell’Italia. Tra
un secolo e mezzo il paese conquistato da Flaminio sarà il giardino
d’Italia e il baluardo dell’impero romano[38].


NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

[33] Le fonti non ci indicano con precisione nè il tempo nè il modo
di questa riforma; e neppure ci attestano che, com’è verosimile, essa
coincida con la riduzione del censo dell’ultima classe, che apprendiamo
solo per via indiretta, da POLYB., 6, 19, 2. Gli eruditi hanno quindi
oscillato nelle più varie opinioni, nè può aversene alcuna sicura. Noi
abbiamo preferito pensare al 241, non solo per le ragioni di politica
interna accennate nel testo, ma perchè questo fu l’anno in cui le tribù
raggiunsero il numero di 35 e in cui la conquista della prima provincia
transmarina dovette porre lo Stato romano di fronte a nuove necessità
militari.

Circa poi il contenuto specifico della riforma stessa, intorno al quale
gli accenni delle nostre fonti sono davvero insufficienti, noi abbiamo
seguìto l’ipotesi che fu per primo avanzata da un umanista italiano,
_Ottavio Pacato_ (il _Pantagato_) parecchi secoli or sono, e ch’è ancor
oggi la più sensata e la più diffusa. Cfr. G. BLOCH, _La République
romaine_, Paris, 1913, pp. 132 sgg.

[34] POLYB., 1, 88, 8, 12; 3, 10, 3.

[35] POLYB., 2, 8.

[36] LIV., 21, 63.

[37] Questo processo sarà compiuto alla metà del II secolo a. C., come
risulta da POLYB., 6, 17.

[38] Cfr. CIC. PHIL., 3, 5, 13; STRAB., 5, 1, 12.



CAPITOLO OTTAVO

LA SECONDA GUERRA PUNICA

(218-201)


46. =Cartagine in Spagna.= — Di quanto avvenne a Cartagine dopo il
241, poco sappiamo. Certo è che la repubblica fu governata da una
consorteria di ricche famiglie, di cui Amilcare, il grande guerriero e
statista illustratosi nella guerra con Roma, e la famiglia dei Barca,
a cui apparteneva, furono la colonna; che Cartagine, invece di tentare
la riconquista delle isole perdute, cercò compensi in Spagna. Poco
dopo il 238, Amilcare Barca è in Spagna con un forte esercito, intento
a conquistare la vasta penisola; e non, come si argomentò poi da quel
che successe, per fare della Spagna il ponte da cui assaltare l’Italia.
Perdute la Sicilia e la Sardegna, Cartagine doveva ridursi sulla
difesa, lo svantaggio dell’attaccare l’Italia essendo dalla sua parte.
Nè altri che un uomo di mente malata avrebbe allora potuto vagheggiare
di assalire Roma dalla Spagna, anticipando l’evento per cui tra qualche
anno l’impresa potrà apparire possibile. Cartagine va dunque in Spagna,
perchè si è rassegnata a lasciar la Sicilia e la Sardegna a Roma.

A sua volta, Roma non dovette sulle prime esser malcontenta che
Cartagine impegnasse le sue forze nella conquista della Spagna, invece
di pensare a riconquistare le isole. Non è dunque meraviglia che
Amilcare abbia potuto per nove anni allargare il dominio cartaginese
nella penisola iberica. Caduto nel nono anno Amilcare in battaglia,
Cartagine affidò l’impresa al suo genero, Asdrubale. Asdrubale la
continuò, più trattando che combattendo, ma sempre con fortuna; sinchè,
alla fine, Roma incominciò ad inquietarsi. La Spagna era ricca di
miniere e abitata da gente bellicosa: se Cartagine se ne impadronisse,
non troverebbe nel tempo stesso i soldati e i mezzi per assoldarli?
Conquistando la Spagna, Cartagine non si avvicinava troppo ai Galli,
con i quali Roma era sempre in guerra? Roma cercò allora di amicarsi le
città maggiori, ancora non soggette a Cartagine; con Sagunto conchiuse
addirittura un’alleanza; e nel 226, non sappiamo se poco prima o
poco dopo, ottenne che Asdrubale si obbligasse per trattato a non
varcare con l’esercito l’Ebro[39]. Questo limite imposto in Spagna,
doveva offendere e irritare la grande potenza africana; ma Cartagine
aveva ancora tanto da fare al di qua dell’Ebro, che Asdrubale potè
firmare il trattato senza che le relazioni tra le due grandi potenze
fossero turbate. Par che Cartagine si accontentasse di non ratificare
il trattato firmato da Asdrubale, pur senza rinnegarlo; in modo da
poter sconfessarlo quando volesse, pur rispettandolo finchè le fosse
conveniente. Quand’ecco, nel 221, Asdrubale muore; gli eserciti di
Spagna acclamano a capo il figlio di Amilcare, Annibale, che aveva
allora 26 anni; il senato cartaginese ratifica la nomina dei soldati; e
Annibale subito attacca Sagunto, la città alleata di Roma; la assedia e
la prende nel 219, non badando alle intimazioni e alle minacce di Roma.
Roma allora manda a Cartagine un’ambasceria, minacciando la guerra
se Annibale non le è consegnato; e in pochi mesi la guerra tra le due
grandi potenze mediterranee di nuovo divampa.


47. =La grande causa della guerra e il piano di Annibale.= — Per qual
ragione gli eventi precipitarono così rapidamente? Per l’ambizione
di Annibale e per il suo odio contro Roma, come fu detto e ripetuto?
Annibale era un grande uomo; e non si può credere che impegnasse
Cartagine in una guerra così tremenda, solo perchè il farla gli parve
glorioso e bello. D’altra parte Annibale iniziò e condusse la guerra
d’accordo e con l’appoggio di un grande partito e del governo legale
di Cartagine, il quale deve aver avuto le sue ragioni per affrontare
Roma una seconda volta, dopo avere per molti anni cercato di vivere in
pace. Questa ragione — o almeno la principale — sembra doversi cercare
nella conquista della Gallia Cisalpina fatta dai Romani. Se a Roma non
piaceva che Cartagine si allargasse troppo in Spagna, a Cartagine non
poteva piacere che Roma si insediasse nella valle del Po; sia perchè
si avvicinava alla Spagna; sia perchè si impadroniva di un territorio,
non solo fertile e ricco, ma popolato da quei Galli o da quei Liguri,
tra i quali Cartagine reclutava parte dei suoi eserciti. Secondo
questa congettura — la sola che sembri render ragione dell’improvvisa
inimicizia rinata tra Roma e Cartagine — la seconda guerra punica deve
considerarsi come un effetto della conquista romana della Cisalpina.
Nè basta: la conquista della Cisalpina spiegherebbe anche il piano di
Annibale, che è esso pure un indovinello, come l’improvviso scoppiare
della guerra. Non si possono spiegare le mosse singolarissime di
Annibale se non ricordando che, perdute la Sicilia e la Sardegna, il
vantaggio dell’attacco era passato da Cartagine a Roma, ed ammettendo
che Annibale voleva innanzi tutto recuperare in parte questo vantaggio
iniziale: giungere con un piccolo esercito nell’Italia meridionale,
staccarla forse per sempre dal dominio romano, eccitare alla rivolta
gli alleati e i sudditi, impadronirsi di un porto, inchiodare in Italia
una parte delle forze romane; e allora assaltare la Sicilia dalle
due parti, dall’Italia e dall’Africa; staccata l’Italia meridionale
da Roma, riconquistata la Sicilia e la Sardegna, farne il ponte per
un ultimo attacco dell’Italia, alla testa di una potente coalizione.
Per questa coalizione egli aveva già gettato gli occhi anche sulla
Macedonia e sul nuovo re Filippo, che la presenza dei Romani sulle
coste orientali dell’Adriatico incominciava ad inquietare massime
dopo la breve ma fortunata guerra combattuta da Roma contro Demetrio
di Faro, nel 220. Senonchè assalire l’Italia dalla Spagna con tal
disegno sarebbe stata una pazzia, sinchè la valle del Po fosse stata
indipendente da Roma; l’impresa invece poteva apparire possibile, se
pur rischiosa, subito dopo la conquista, quando le popolazioni galliche
anelavano alla riscossa. Vedremo che Annibale intendeva incominciare la
sua impresa alleandosi con i Galli e facendo della Gallia Cisalpina la
prima base d’operazione contro Roma e l’Italia.


48. =Il passaggio dei Pirenei e delle Alpi (estate-autunno 218).= — Il
piano di Annibale era molto ardito e complicato. Ma Annibale era uomo
da porlo ad effetto. Dopo aver provveduto a munire la Spagna e l’Africa
di sufficienti difese, sui primi dell’estate del 218, egli lasciò
con 50.000 fanti e 9000 cavalli la Spagna cartaginese. Non era certo
esercito che bastasse a conquistare un paese, capace di armare a sua
difesa circa 800.000 uomini[40]; ma noi possiamo spiegare come Annibale
lo giudicasse sufficiente, se si ammette che doveva servire non a
conquistare l’Italia, ma solo a preparare la situazione strategica e la
coalizione, che verrebbe a capo della potenza romana. Il viaggio del
piccolo esercito non fu facile. Al freddo e ai disagi della montagna,
incontrati nei Pirenei, si aggiunsero, nella valle del Rodano, le
molestie di talune popolazioni celtiche; sicchè, passato il Rodano,
l’esercito già era ridotto a 38.000 uomini e ad 8000 cavalli.

Peggio ancora fu quando l’esercito cartaginese cominciò a salire il
versante settentrionale delle Alpi; e quando, sventate le insidie
delle popolazioni alpine e raggiunta in nove giorni la vetta — se al
passo del piccolo S. Bernardo o al passo del Monginevra o al passo
del Moncenisio è gran disputa da secoli — incominciò, sul principio
dell’autunno, la discesa, che durò sei giorni. Ma se il passaggio fu
aspro, cinque mesi e mezzo dopo aver lasciato la Cartagine spagnuola —
Cartagena — Annibale potè piantare le sue tende alle radici delle Alpi,
in territorio amico, con 20.000 fanti e 6000 cavalieri[41].

Che faceva frattanto Roma? Roma era corsa alle armi con molte
illusioni, proponendosi addirittura di attaccare Cartagine nel tempo
stesso in Spagna ed in Africa. Aveva mandato il console P. Cornelio
Scipione in Spagna con sessanta vascelli e due legioni; il suo collega,
Tiberio Sempronio Longo, con altre due legioni e 160 quinqueremi
in Sicilia, affinchè arruolasse le milizie necessarie e assaltasse
l’Africa. Ma la grande mossa di Annibale recise i garetti all’uno e
all’altro disegno. Non appena si seppe nella Gallia Cisalpina che
Annibale si moveva, i Galli Boi e gli Insubri avevano assalito le
colonie romane di Piacenza e di Cremona da poco fondate, costretto
i coloni a rifugiarsi a Modena, e posto l’assedio a questa città. Il
senato, per soccorrere le tre colonie, ordinò a Scipione di mandare
una delle sue legioni nella valle del Po e di reclutare una legione
nuova: l’obbedire richiese tempo, cosicchè, quando il console sbarcò
a Marsiglia con l’esercito, apprese che Annibale già marciava a
grandi tappe verso l’Italia. Che fare? Scipione tentò di inseguirlo;
ma si stancò presto alla corsa; onde, mutato piano, mandò la maggior
parte dell’esercito in Spagna al fratello Cneo, affinchè tagliasse
le comunicazioni tra Annibale e la Spagna; ed egli ritornò a Pisa;
raccolse sotto il suo comando le legioni che operavano nella Gallia
Cisalpina; e con queste mosse incontro ad Annibale nella valle del
Po. Egli sperava di affrontarlo ai piedi delle Alpi, esausto dal
passaggio. Quel che Publio Scipione aveva fatto per proprio consiglio,
l’altro console fece per ordine. Non appena il senato vide chiaro nei
disegni di Annibale, richiamò Sempronio dalla Sicilia; e gli ordinò di
raccogliere l’esercito ad _Ariminum_ (Rimini) sul confine della Gallia
Cisalpina. Invece di attaccare Cartagine in Africa ed in Spagna, Roma
raccoglieva le sue forze nella valle del Po, prima cagione della guerra
e primo campo di battaglia.


49. =Battaglia della Trebbia (dicembre 218).= — Scipione intanto
aveva passato il Po e il Ticino, risoluto ad affrontare l’esercito
cartaginese, che si trovava nei pressi di _Victumulae_, nel Vercellese,
prima che avesse avuto tempo di riposarsi. Ma sulla destra del Ticino,
a circa due giornate di marcia dal fiume[42] l’avanguardia romana
incontrò un corpo di cavalleria nemica, e fu volta in fuga precipitosa.
Il console stesso, gravemente ferito tra i suoi rotti squadroni, potè
a mala pena salvarsi per il valore del suo figliuolo, un giovinetto
diciassettenne, che doveva poi far molto parlare di sè. Scipione
era arrivato troppo tardi: Annibale aveva avuto tempo di rimettere
l’esercito in assetto e di aprire trattative con i Galli, se non di
conchiuderle, perchè la notizia che i Romani giungevano teneva sospesi
i Galli. Uomo di guerra avveduto, il console romano, sebbene sole la
cavalleria e la fanteria leggera fossero state provate nello scontro,
rinunciò dopo quello scontro ad attaccare subito i Cartaginesi; e
rapido ripassò il Po ripiegando su Piacenza, per aspettar il collega
che raccoglieva il suo esercito a Rimini. Annibale potè molestarlo
nella ritirata, non impedirgliela; ma, come era da aspettare, non
appena gli eserciti romani ebbero passato il Po, un certo numero di
Galli si dichiarò per Annibale e un certo numero di ausiliari gallici,
che servivano sotto la bandiera romana, si ribellò.

Annibale, che ormai era padrone del corso del Po sino a Piacenza, potè
comodamente passare sulla riva destra a monte della città. Minacciato
di esser preso alle spalle in Piacenza, Scipione si portò sulla
Trebbia, per coprire, appoggiando la destra alla fortezza e la sinistra
all’Appennino, la via che conduceva all’Adriatico e a Roma e quindi
tutta l’Italia. Alla Trebbia lo raggiunse Tiberio Sempronio Longo.
I due eserciti consolari erano ora forti di quattro legioni e di un
numero pari di ausiliari italici, in tutto poco più di 35.000 uomini. A
questi Annibale opponeva 20.000 fanti, e, grazie ai nuovi contingenti
dei Galli, circa 10.000 cavalieri. Le forze si bilanciavano. Perciò
Scipione opinava di aspettare l’assalto di Annibale e Sempronio invece
voleva attaccare. Le impazienze di Sempronio si spiegano perchè i
Romani dovevano desiderare una battaglia e una vittoria, per trarre
alla propria parte i Galli, i quali stavano ad aspettar gli eventi.
Ma essendoci di mezzo un fiume, e le forze bilanciandosi, l’attaccare
era disegno di molto rischio: e in questo aveva ragione Scipione.
Del dissenso dei consoli e della impazienza di Sempronio approfittò
Annibale per farsi attaccare. Nel mese di dicembre un corpo di
cavalieri numidi passò la Trebbia e assalì il campo romano. Sempronio
(Scipione era ancora malato per la sua ferita) lanciò sul nemico
tutta la sua cavalleria e 6000 uomini di fanteria leggera; subito,
come fosse vinta, la cavalleria numida ripiegò in tumulto sulla riva
sinistra della Trebbia; Sempronio allora, credendo il nemico in fuga e
l’occasione buona, chiamò fuori in fretta tutto l’esercito, che ancora
non aveva mangiato; lo cacciò nelle acque gelide della Trebbia, e via
di corsa all’assalto. Ma, valicato il fiume, i Romani si trovarono
di fronte l’intero esercito cartaginese, fresco, rifocillato, non
intirizzito da un bagno freddo, schierato con la cavalleria ai fianchi
e gli elefanti sul fronte. Le condizioni erano troppo ineguali. Al
primo urto la cavalleria cartaginese rovesciò quella romana e scoperse
i due fianchi della fanteria. Invano le prime due linee del centro
combatterono valorosamente. I Cartaginesi piombarono sui fianchi
di queste, mentre 2000 uomini, nascosti da Annibale in una vicina
imboscata, assalivano alle spalle la terza linea di riserva, e,
sfondata questa, si buttavano sulla seconda e sulla prima. L’esercito
romano sfuggì alla distruzione grazie al valore disperato dei soldati;
ma fu costretto a ritirarsi a Piacenza.


50. =Il Trasimeno (217).= — La sconfitta era grande. Tutta la Gallia
Cisalpina, fuorchè le fortezze romane, era perduta e in rivolta; la via
dell’Italia centrale aperta all’invasore. A compensarla non bastavano
i felici successi di Cneo Scipione, che al di là dei Pirenei era
riuscito a tagliare le comunicazioni tra Annibale e la Spagna. Temendo
che l’Italia fosse assalita dal nord e dal mare, il senato incaricò
i consoli dell’anno successivo (il 217) C. Flaminio, il conquistatore
della Cisalpina, e C. Servilio Gemino, di sbarrare con forze ingenti
le due vie di accesso all’Italia centrale, l’orientale che passava
per Rimini, l’occidentale che passava per Arezzo; rinforzò tutte le
piazze forti, mandò soldati in Sicilia, in Sardegna e sulle città
costiere, chè una flotta cartaginese già era stata fugata dalle acque
del Tirreno; chiese infine aiuti agli Stati amici, e tra questi anche a
Gerone re di Siracusa. La prudenza di Scipione era stata giustificata
dall’evento. Il senato si metteva sulla difesa, cercando di obbligare
Annibale a dar di cozzo contro Rimini o contro Arezzo, come Scipione
aveva tentato di trarlo a rompersi contro la linea della Trebbia.

E il senato aveva ragione, almeno in parte. Se non pensava ancora ad
assaltare l’Italia, Annibale non poteva neppure sostare nella valle
del Po; doveva giungere al più presto con il suo piccolo esercito
nell’Italia meridionale e provocare la rivolta degli Italici. Infatti
subito dopo la battaglia aveva liberato i prigionieri italici,
rimandandoli alle loro case, perchè dicessero ai propri concittadini
che Annibale era venuto a liberare l’Italia e a restituire ad ogni
città quel che Roma le aveva tolto. Nell’inverno aveva rinforzato
l’esercito, arruolando i Galli; e alla primavera del 217 si mosse per
la via occidentale. Senza incontrare resistenza valicò l’Appennino e
giunse a Fiesole; ma qui, avendo saputo che Flaminio lo aspettava con
un forte esercito ad Arezzo, e non volendo prender di fronte questa
fortezza, come non aveva voluto assaltare la linea della Trebbia,
immaginò un nuovo strattagemma, ancora più audace dei precedenti.
Mosse da Fiesole verso Arezzo per la grande via, incendiando e
saccheggiando: poi a un tratto lasciò la strada e si gettò con tutto
l’esercito nelle vaste paludi che l’Arno allora faceva a primavera
nella parte superiore del suo corso, con l’intenzione di girare
Arezzo a settentrione. Per quattro giorni e tre notti l’esercito
camminò nell’acqua e nel fango; ma alla fine sbucava alle spalle di
Flaminio[43]. La mossa era temeraria, poichè in fin dei conti Annibale
si avventurava verso l’Italia meridionale, lasciando alle spalle due
forti eserciti intatti; e se Flaminio avesse aspettato che il suo
collega giungesse da Rimini!... Ma Flaminio era il capo del partito
rurale; e, appena sbucato alle sue spalle, Annibale aveva ripreso
a incendiare e a saccheggiare. Poteva egli, dopo essersi lasciato
sfuggire Annibale di mano a quel modo, lasciarlo devastare le campagne
e rovinare i campagnuoli? Tutti i danni che questi riceverebbero, non
li imputerebbero alla sua imperizia? Flaminio non seppe temporeggiare;
e rincorse l’invasore. Annibale accennò da prima a sfuggire
all’inseguimento; poi, a un certo punto, nelle vicinanze del lago
Trasimeno, rallentò il passo. Smanioso di venire a battaglia, Flaminio
si lasciò attirare in una angusta valle, posta tra due catene di monti
e chiusa all’un capo da una collina elevata e di difficile accesso,
dall’altro, dal lago. Ma in questa valle i Romani, sorpresi alle
spalle, ai fianchi, di fronte dai Cartaginesi appostati, parte furono
gettati nel lago, parte trovarono la morte prima ancora che avessero
potuto disporsi a battaglia. Anche Flaminio, il conquistatore della
valle del Po, uno dei creatori dell’Italia, cadde nella mischia. Pochi
giorni dopo la cavalleria dell’altro esercito, che correva in aiuto di
Flaminio, 4000 uomini in tutto, era distrutta.


51. =Canne (2 agosto 216).= — La seconda vittoria, riportata nel cuore
dell’Italia era maggiore della prima, poichè questa volta un intero
esercito era stato annientato. Lo sgomento a Roma fu indicibile;
la città stessa parve in pericolo; si ricorse ai rimedi eroici; si
ordinò la leva di quattro nuove legioni, e si nominò un dittatore
nella persona di Q. Fabio Massimo: un gran personaggio, che già
era stato console due volte, censore, dittatore; che nel 232 aveva
combattuto felicemente i Liguri, e aveva fama di soldato valoroso
e prudentissimo[44]. Ma Annibale, disdegnando per acerba l’uva che
non poteva cogliere, non assalì Roma; e seguendo il suo piano che lo
portava nell’Italia meridionale, discese a oriente, entrò in Umbria,
e dopo aver tentato invano di prendere Spoleto, passò nel Piceno, e
attraversando il territorio dei Marrucini e dei Frentani si diresse
alla volta dell’Apulia; aggirò insomma, e molto alla larga, Roma, come
poco prima aveva aggirato Arezzo, puntando forse già sino d’allora
sul gran porto di Taranto e cercando di scuotere sul suo passaggio
la fedeltà degli alleati. Ma in Apulia trovò Q. Fabio Massimo, che
si era recato a prendere il comando delle milizie di Servilio colà
ritiratosi da Rimini; e che si attaccò a lui, lo seguì passo passo,
lo molestò senza tregua, cercò di impedirgli il vettovagliamento,
ma rifiutò sempre battaglia. A sua volta Annibale ricominciò con lui
il giuoco, che era così ben riuscito con Flaminio: mise a ferro e a
fuoco le campagne; e poichè Fabio assisteva indifferente al saccheggio
dell’Apulia, torse il suo cammino a occidente; passò nel Sannio e
dal Sannio addirittura nella Campania, devastando sotto gli occhi di
Fabio la parte più ricca e più bella dell’Italia. Ma invano: il savio
dittatore lo lasciò fare e non mutò proposito.

Senonchè quel temporeggiare metteva a duro cimento la pazienza del
popolo romano, il quale non aveva armato tante legioni per lasciar
mezza Italia in balia del nemico. Nè meno vivi erano i lamenti e i
rimproveri degli alleati italici. Così Roma li difendeva e difendeva
i loro beni? Le discordie politiche invelenirono le discussioni
strategiche. L’aristocrazia non aveva risparmiato accuse allo
sventurato generale, che sul Trasimeno aveva perduto la vita insieme
con la battaglia; e affettava di lodare la prudenza di Fabio, quasi
come la necessaria correzione della imprudenza di Flaminio. Il partito
democratico se ne risentì, aizzò il malcontento popolare, accusò
addirittura il senato di protrarre ad arte la guerra: la vecchia
accusa, che ogni tanto rifaceva capolino nelle lotte civili di Roma.

Quando Fabio ebbe deposto la dittatura, nella primavera del 216,
all’aristocrazia riuscì a mala pena di far nominare console uno dei
suoi, L. Emilio Paolo: l’altro console fu C. Terenzio Varrone, ardente
fautore del partito di Flaminio. Le elezioni avevano detto chiaro che
il popolo era malcontento; e questo malcontento crebbe a segno, che
alla fine il senato si risolvè a mutare stile. Deliberò di mandare
una legione nella Cisalpina, per riconquistarla; e ben otto legioni
contro Annibale, ciascuna con un effettivo di 5000 uomini. Aggiungendo
i contingenti alleati, i consoli disponevano di circa 90.000 uomini,
i quali dovevano affrontare in Apulia un nemico che, sì e no, poteva
sommare alla metà. Roma si preparava questa volta ad assalire i
Cartaginesi con forze soverchianti.

Annibale frattanto era tornato in Apulia, forse mirando sempre a
Taranto; e in Apulia i due consoli lo raggiunsero presso l’Ofanto.
Si racconta che tra il console aristocratico e il console democratico
nascesse presto discordia, per l’eterna ragione, che quello consigliava
prudenza e questo non voleva sentirne parlare. Comunque sia, il 2
agosto, i due eserciti erano l’uno di faccia all’altro presso la
sponda meridionale dell’Ofanto, quello romano con la fronte volta a
mezzogiorno, quello cartaginese con la fronte volta a settentrione.
L’esercito romano era schierato secondo il solito modo; anzi Varrone,
ammaestrato dalla esperienza, aveva fatto i manipoli delle tre linee
più profondi del consueto. Annibale invece aveva schierato la sua
fanteria in una linea continua, forse più sottile del solito, e
certamente assai più sottile di quella romana, collocando alle ali
le milizie migliori, quelle africane, e distribuendo la cavalleria
sui fianchi ma in modo che alla sinistra i suoi squadroni fossero
in tali forze da soverchiare il nemico. Poi aveva fatto avanzare
al centro la fanteria, in modo da tracciare una curva convessa, le
cui estremità s’innestassero ai corpi laterali degli Africani di
destra e di sinistra, allineati diritti. Incominciata la battaglia,
prima ancora che le truppe leggiere, le quali solevano dar principio
al combattimento, avessero terminato la loro azione, la cavalleria
romana dell’ala destra era stata sconfitta e tagliata a pezzi dalla
soverchiante cavalleria raccolta all’ala sinistra cartaginese, e
questa senza perder tempo passava ad attaccare l’ala sinistra romana.
Era ormai sicuro: le ali della fanteria sarebbero rimaste tra non
guari scoperte. Intanto la fanteria pesante romana aveva fatto impeto
nel centro della sottile linea cartaginese, ne spianava la curva e
lo costringeva a retrocedere. Questa vittoria apparente delle due
prime linee romane trascinò la riserva (i _triarii_), i comandanti
romani non essendosi accorti che le ali della fanteria cartaginese
non erano ancora entrate in azione; cosicchè, quando la linea romana
piegata in due ad angolo ottuso, fu penetrata abbastanza nel vuoto,
ch’essa con il proprio impeto si apriva dinanzi, i due corpi laterali
degli Africani, fatta una lieve conversione, attaccarono di fianco i
Romani. Il cuneo era preso a sua volta in una tanaglia. Ma l’esercito
di Varrone era tanto più numeroso, che avrebbe potuto far fronte
all’assalto laterale e frontale, se in quel momento la cavalleria
pesante cartaginese, vincitrice dei due corpi avversari, non avesse
assalito i Romani alle spalle. Non ci fu prodezza che potesse liberare
i Romani dall’accerchiamento. Seguì un macello, nel quale caddero
circa 70.000 uomini, un console — Paolo Emilio — due proconsoli, due
questori, ventun tribuni militari, ottanta senatori. Diecimila uomini,
lasciati a guardia dell’accampamento romano, furono dopo la battaglia
assaliti e fatti prigionieri. I Cartaginesi non avevano perduto che
8000 uomini[45].


52. =La lotta per la Sicilia (216-210).= — Immenso fu lo sgomento, non
soltanto in Italia, ma in tutto il mondo mediterraneo. Questa volta
l’Italia meridionale si scosse. I Bruzzi, i Lucani, una parte degli
Apuli, tutti i Sanniti ad eccezione dei Pentri, passarono dalla parte
dell’invasore. Si ribellarono in parte la Magna Grecia e la Campania;
Capua aprì le porte ad Annibale; Filippo di Macedonia, sino ad allora
tentennante, fece finalmente causa comune con Cartagine[46]. Il colpo
era stato così forte, che Roma abbandonò ogni proposito di offensiva;
diede tregua alle sue lotte interne; raccolse quanti soldati potè; li
affidò a un valente generale, il pretore Marco Claudio Marcello, il
quale fu contento di impedire che Annibale si impadronisse di tutta la
Campania e, in questa, di un porto. Annibale invece, ormai stabilito
saldamente nell’Italia meridionale, si volge ad attuare la seconda
parte, la decisiva, del suo disegno: ricongiungersi con Cartagine
attraverso la Sicilia riconquistata. La guerra si allarga e nel tempo
stesso si spezzetta in piccole operazioni parziali.

Gli ultimi mesi del 216 furono spesi in combattimenti poco importanti
tra Annibale e Marcello in Campania. Annibale prese Nocera, Acerra
e Casilino; i Romani salvarono Cuma, Nola e Napoli. Ma la guerra
ridivampò nel 215, e non in Italia soltanto; anzi fuori d’Italia
più che entro i suoi confini. Nella Spagna, i Romani fecero notevoli
progressi a sud dell’Ebro, perchè Asdrubale, che comandava in Spagna,
fu costretto a ritornare in Africa per domare una rivolta di Siface,
re dei Numidi, sobillata dai Romani. A loro volta i Cartaginesi
prepararono grandi rinforzi da mandare in Italia e tentarono un
attacco alla Sardegna che non riuscì. In Italia Cartaginesi e Romani
continuarono a battagliare in Campania ed in Apulia, in scontri di
poco rilievo, senza che Annibale riescisse a conquistare un porto e
senza che Roma riuscisse a riprendere Capua. Cosicchè la guerra sembrò
languire in Italia; ma non rallentò l’alacrità di Annibale che, se
non diede nessuna grande battaglia, in compenso riuscì in quest’anno
a conchiudere un trattato di alleanza con Filippo di Macedonia e
incominciò a porre ad effetto il suo disegno sulla Sicilia. Per sua
istigazione, essendo morto il re Gerone, il vecchio e fido amico di
Roma, suo nipote Geronimo denunciò l’alleanza con Roma e si alleò
con Cartagine. L’attacco alla Sicilia, preparato di lunga mano,
incominciava.

A tirar le somme, gli eventi del 215 erano stati piuttosto sfavorevoli
a Roma, e massime in Sicilia. A Roma non sfuggì che lì doveva decidersi
la guerra, poichè, perduta la Sicilia, Roma sarebbe stata accerchiata
da tutte le parti. Non meno di quattro legioni furono reclutate l’anno
seguente — il 214 — per essere mandate in Sicilia; e furono poste al
comando del miglior generale che Roma avesse: Marco Claudio Marcello.
A sua volta Cartagine fece grandi preparativi per una spedizione
in Sicilia. In Italia invece continuò il minuto guerreggiare, come
continuarono in Spagna i progressi dei Romani, che ampliarono la loro
dominazione nella parte meridionale e incominciarono a riedificare
Sagunto. Una nuova guerra si aggiunse infine alle altre in questo anno,
e contro Filippo di Macedonia. Il Re di Macedonia si era impegnato
a rinforzar la flotta cartaginese di 200 navi e a tentare uno sbarco
sulle coste dell’Italia: ma, non avendo sicure comunicazioni nè con
Annibale nè con Cartagine, e non essendo uomo molto animoso, agì con
poco vigore e non die’ molto filo da torcere a M. Valerio Levino, che
Roma aveva mandato a combatterlo. Cosicchè l’annata sarebbe stata buona
per i Romani, se le cose non fossero precipitate in Siracusa. Poco
dopo essersi alleato con Cartagine, Geronimo era stato ucciso da una
congiura e la monarchia abolita; lì per lì era sembrato che il potere
passasse nelle mani del partito aristocratico, favorevole ai Romani;
ma poco di poi una rivoluzione democratica rovesciava il governo e
riconfermava l’alleanza con Cartagine. Marcello, che da principio era
ricorso alle trattative, non esitò più; marciò contro Siracusa e la
cinse d’assedio.

Nel 213 la guerra continuò a volger favorevole ai Romani in Spagna
ed in Illiria; e non troppo male in Italia, dove essi presero Arpi e
riuscirono ancora a impedire ad Annibale di conquistare un porto. Ma
i grandi eventi si svolgono quest’anno in Sicilia. Cartagine occupa
Agrigento e spedisce una flotta in aiuto di Siracusa; l’isola si
solleva in buona parte contro i Romani; Siracusa si difende con grande
energia — tra i suoi difensori c’era Archimede —; Marcello prosegue le
operazioni di assedio e si difende contro gli attacchi dei Cartaginesi
con straordinario vigore. Dal suo esercito dipende il tutto: se
Marcello prende Siracusa, Roma può sperar di salvare la Sicilia; se
Marcello è distrutto sotto Siracusa, le sorti della guerra pericolano.
Tutto l’anno si combatte accanitamente in Sicilia. Al principio del
212 Annibale riesce finalmente ad impadronirsi di Taranto; del porto
dove l’armata macedone e la cartaginese avrebbero potuto riunirsi,
per disputare a Roma il dominio del mare e terminar la conquista della
Sicilia. Colpo grave per Roma, mentre ancora pendevano incerte le sorti
della guerra intorno a Siracusa! Per rifarsene, il senato ricorse agli
accorgimenti diplomatici e alle armi: stipulò con la lega etolica
un’alleanza, impegnandola a combattere Filippo; approfittò della
lontananza di Annibale, che era andato a Taranto con il fiore delle
sue forze, per stringere d’assedio Capua. Ma ben presto Roma ricevette
un compenso molto maggiore: Siracusa. Non ostante i vigorosi sforzi
fatti da Cartagine per soccorrere Siracusa, Marcello se ne impadronì.
La immensa preda ristorò le stremate finanze della repubblica, e la
vittoria rialzò le sorti delle armi romane in Sicilia. L’isola però
non era ancora riconquistata; perchè i Cartaginesi si mantenevano in
Agrigento, risoluti alla estrema resistenza.

Nel 211, la guerra ricominciò più accanita che mai. Roma potè vantare
una grande vittoria in Italia, riprendendo Capua. Invano Annibale era
accorso da Taranto in aiuto; e aveva tentato perfino, per distogliere
una parte dell’esercito romano dall’assedio e per facilitare una
riscossa degli assediati, di simulare una marcia su Roma. Le forze di
Annibale erano troppo piccole; nè la finta su Roma ingannò i Romani.
La caduta di Capua fu un fiero colpo per il prestigio di Annibale in
tutta l’Italia meridionale, che da questo momento incominciò a dubitare
della sua fortuna. Le tre debolezze di Annibale erano ormai palesi: la
fiacchezza di Filippo di Macedonia, che Roma veniva avvolgendo in una
fitta rete di intrighi diplomatici; le comunicazioni con Cartagine,
difficili perchè Roma era ancor troppo forte in Sicilia e sul mare;
la mancanza di macchine per gli assedi. Si rimprovera di solito a
Cartagine di aver sostenuto Annibale troppo poco: ma come giudicare,
sapendo così male quel che Cartagine fece e quello che era in grado
di fare? Non essendo dubbio che Cartagine molto fece per soccorrere
la Spagna e per riconquistar la Sicilia, è lecito chiedersi se essa
non abbia fatto di più, perchè non poteva, con di mezzo il bastione
della Sicilia, il mare vigilato dalle forze romane e tutti i porti per
molti anni in potere del nemico. Comunque sia, la caduta di Capua era
una sciagura per Annibale, non un colpo mortale. Egli disponeva ancora
di forze ingenti e di numerosi appoggi in Sicilia; i Cartaginesi si
reggevano ad Agrigento, e in quello stesso anno la fortuna si volgeva
ad un tratto contro i Romani in Spagna. Asdrubale, composte le cose di
Africa, era tornato, e aveva ricacciati i Romani al di là dell’Ebro. I
due Scipioni, che comandavano l’esercito, erano stati uccisi e le loro
legioni poco meno che annientate.


53. =La battaglia del Metauro (207).= — Nel 210, mentre in Italia
continuavano i piccoli scontri tra Annibale e gli eserciti romani,
finalmente cadeva Agrigento, e i Cartaginesi sgombravano la Sicilia.
L’isola ritornava in potere di Roma. Il colpo era fiero per Annibale,
a cui falliva per sempre quel sicuro congiungimento con l’Africa
attraverso l’isola riconquistata, a cui è probabile egli mirasse sin
dalle prime mosse. Tuttavia Annibale non si scoraggiò. La vittoria era
costata a Roma carissima. Da parecchi anni si tenevano sotto le armi
più di 20 legioni, oltre i contingenti alleati e la flotta, ossia più
di 200,000 uomini; l’erario era stremato; l’Italia a metà rovinata,
per le devastazioni, le morti, le imposte, lo scempio dell’agricoltura
derelitta, in mezzo a tanto tumulto di armi. In quest’anno poi l’Italia
fu desolata da una terribile carestia, a cui soltanto l’amicizia del re
d’Egitto, che fornì grano, portò sollievo. Annibale pensò che un colpo
vigoroso rovescerebbe il crollante nemico; e poichè, fallito il disegno
della Sicilia, non poteva più aspettar rinforzi dal mare, pensò di
chiamarli per terra, per la medesima via per la quale egli era venuto.
Ora che la Spagna, dopo le vittorie del 211, era di nuovo in potere dei
Cartaginesi, il disegno poteva riuscire. D’accordo con il governo di
Cartagine, il fratello suo, Asdrubale, preparerebbe un forte esercito
in Spagna e con quello rifarebbe il cammino di Annibale, per piombare
sull’Italia, esausta da tanti anni di guerre, congiungersi a lui e
vibrare il colpo decisivo.

Roma ebbe sentore di questo nuovo disegno e mandò in Spagna un uomo
capace: Publio Cornelio Scipione, il figlio del console che aveva
comandato alla Trebbia e che era stato ucciso poco prima in Spagna.
Per la nobiltà del sangue, le prove di valore già date, l’ingegno e
la cortesia dei modi, il giovane Scipione, che nel 211 aveva 24 anni,
era popolarissimo; e a lui molti pensarono, in quel gran bisogno di
generali, con tanti eserciti da comandare, per la impresa di Spagna.
Ma a quell’età egli non poteva essere nè pretore nè console.... Una
legge tolse di mezzo la difficoltà legale, conferendogli l’autorità di
proconsole; provvida legge, chè, appena giunto, nel 209, Scipione tentò
un colpo magistrale: l’assalto di Cartagena, la capitale dell’impero
punico-spagnolo, giudicata da tutti inespugnabile. La città fu presa, o
piuttosto sorpresa con un unico assalto, insieme con le provvigioni, le
riserve metalliche — circa 600 talenti — e un ricco bottino; e subito
in tutta la penisola scoppiò una insurrezione anticartaginese, che
inchiodò i tre generali punici operanti nelle diverse regioni della
Spagna. In questo stesso anno, i Romani riuscivano a ripigliar Taranto,
che fu, come Siracusa, spietatamente saccheggiata.

Il 209 era stato dunque un anno piuttosto buono per i Romani. Ma
intanto Asdrubale allestiva il nuovo esercito; e nel 208, mentre i
Romani perdevano in Italia Marcello, il loro più grande generale,
che fu ucciso in Lucania; e in Oriente riuscivano a muovere contro
Filippo Attalo, Re di Pergamo, Scipione in Spagna non riuscì a fermare
Asdrubale. Gli diede battaglia a _Baecula_, sul _Baetis_; disse di
averlo vinto; ma Asdrubale passò, varcò i Pirenei prima, e poi le Alpi
molto più facilmente che suo fratello, perchè, in dieci anni di guerra,
le popolazioni alpine si erano avvezzate al passaggio degli eserciti.
Nei primi mesi del 207, Asdrubale compariva inaspettato nella valle
del Po, alla testa di un forte esercito; eccitava di nuovo i Galli,
gli Etruschi, gli Umbri alla rivolta. Il terrore dei Romani e degli
Italici, rimasti fedeli, fu immenso. Roma parve perduta, se Asdrubale e
Annibale riuscissero a congiungersi. In fretta e furia il console Marco
Livio Salinatore fu mandato verso il settentrione contro Asdrubale;
il suo collega, Caio Claudio Nerone, fu spedito a mezzogiorno a
fronteggiare Annibale, che era in Apulia. Il primo, giunto a Sena
Gallica, deliberò di aspettar Asdrubale, che intendeva prendere da
Fano la via Flaminia e forse congiungersi con Annibale sulla via di
Roma; Nerone battagliò con varia fortuna contro Annibale, e parve
riuscisse a trattenerlo in Apulia, sebbene probabilmente Annibale non
intendesse ancora avviarsi incontro al fratello, non avendo di lui
notizie e non supponendo che potesse giungere così presto. Quando, un
giorno, intercettata una lettera che Asdrubale spediva ad Annibale,
Nerone viene a sapere che Asdrubale marcia alla volta di Fano e
della via Flaminia. Congetturando a ragione che tra pochi giorni il
collega sarebbe alle prese con Asdrubale, e che una disfatta sarebbe
irreparabile, egli si assume una tremenda responsabilità: sceglie 7000
uomini nel suo esercito, i migliori; corre di nascosto, lasciando
il resto a fronteggiare Annibale, a marce forzate, camminando notte
e giorno, in aiuto di Livio; e giunge proprio come il salvatore, al
momento in cui Livio doveva o lasciar il passo ad Asdrubale sulla via
Flaminia o attaccarlo.... La battaglia ebbe luogo presso il Metauro,
in un luogo che giace non lungi dall’odierna Cagli (nelle Marche).
La bravura di Nerone e i suoi 7000 uomini decisero della vittoria.
Asdrubale fu vinto e ucciso; il suo esercito annientato. Anche questo
nuovo piano di Annibale falliva, per la prontezza di Nerone e per
un accidente singolare: perchè Asdrubale, avendo incontrato minore
difficoltà nelle Alpi, era arrivato in Italia innanzi il previsto.


54. =La controffensiva romana (207-202).= — La battaglia del Metauro
migliorò molto le sorti della guerra per i Romani. Annibale sgombrò
l’Apulia e la Lucania e si ridusse sulla difesa nel paese dei Bruzzi;
la guerra languì in Italia, dove i Romani ridussero l’esercito. Anche
meglio procedettero le cose per Roma, fuori d’Italia. L’anno successivo
— il 206 — i Cartaginesi furon sconfitti da Scipione di nuovo a
Baecula; e quasi tutta la Spagna cadde in potere di Roma. Cartagine
cercò rifarsi, mandando Magone con gli avanzi dell’esercito a tentare
un assalto sull’Italia. Nel 205 Magone prese Genova, arruolò Liguri
e Galli, tentò di sollevare l’Etruria: ma con le poche forze di cui
disponeva non potè far nulla che contasse davvero. In questo stesso
anno anche Filippo di Macedonia, stanco della guerra decennale coi
Greci, coi Romani e coi loro alleati, dopo avere, pochi mesi innanzi,
concluso pace coi primi, regolava definitivamente la sua lunga vertenza
coi Romani in Illiria, e si ritirava dalla guerra.

Si avvicinava il giorno in cui Roma potrebbe finalmente, dopo essersi
così a lungo difesa, attaccare Cartagine. In quell’anno stesso
P. Cornelio Scipione, reduce dalla Spagna, appena eletto console,
chiedeva ai senato di riprendere il piano fallito ad Atilio Regolo
nella prima guerra punica, e vagheggiato un istante al principio della
seconda: portare la guerra in Africa. Scipione era uomo da tanto; e
le condizioni delle armi ormai così favorevoli come non erano state
mai. Ma le difficoltà erano in patria, nella stessa Roma. Dileguato
il pericolo, di nuovo la concordia tra i partiti veniva meno: quel
giovane, che presumeva tanto di sè, e per cui era stata già violata
la legge dell’età, suscitava invidie e diffidenze; molti ricordavano
con terrore la sorte di Atilio Regolo. Insomma, il senato era avverso.
Scipione dovè minacciare di appellarsi all’assemblea delle tribù. Solo
dopo questa minaccia ottenne la provincia di Sicilia, con il permesso
di recarsi nel territorio cartaginese, se l’avesse reputato opportuno;
e potè partire per l’Africa al principio del 204, con 35.000 soldati,
40 navi da guerra e 40 da carico.

Come Annibale al suo primo arrivo in Italia, Scipione pensava staccare
da Cartagine i suoi alleati. A tale scopo egli contava molto su Siface,
il re di Numidia, con cui, fino a poco prima, i Cartaginesi erano
stati in guerra. Ma proprio allora Siface fece pace con Cartagine, cui
portò 50.000 fanti e 10.000 cavalli; onde a Scipione non restò che
intendersi con un altro capo numida, il re Massinissa, un rivale di
Siface, che aveva militato in Spagna con Asdrubale, ma che Cartagine
aveva all’ultimo abbandonato per il suo avversario; onde allora si
trovava senza regno. Scipione dovè dunque incominciare la guerra con i
suoi 35.000 uomini, e con questi pose l’assedio ad Utica. Ma dovette
levarlo, quando i Cartaginesi e Siface si avvicinarono con forze
preponderanti; e ridursi in un campo trincerato, su un promontorio tra
Utica e Cartagine, dove passò l’inverno, avviando trattative di pace,
più per ingannare la vigilanza del nemico che per il serio proposito di
riescire. A primavera infatti, sorprendendoli all’impensata, Scipione
riuscì a sconfiggere separatamente prima i Numidi e poi i Cartaginesi.
Li sconfisse poi una seconda volta in una battaglia campale, in seguito
alla quale Massinissa invase, alla testa di forze romane, il regno di
Siface, vinse e fece prigioniero il Re. Dopo questi rovesci Cartagine
aprì trattative di pace. Scipione chiese, oltre una indennità, la
Spagna. Fu trattato intanto un armistizio, a condizione che Annibale e
Magone sarebbero richiamati dall’Italia. Il triste messaggio raggiunse
il grande cartaginese in Calabria, nell’antica Cotrone, non lungi da
quel promontorio Lacinio, dove, negli ultimi anni del suo soggiorno
nella penisola, su un altare dedicato a Giunone, egli aveva vergato
nel bronzo, in greco ed in punico, quella narrazione delle sue gesta,
che doveva servire di traccia all’opera magistrale di Polibio. Egli
meditava allora, ed ordiva per la seconda volta, un nuovo piano di
alleanza con la Macedonia. Ciò non pertanto obbedì, e, non mai vinto,
sgombrò volontariamente quel suolo, che teneva da più di tre lustri.
Ma l’annunzio della partenza e del ritorno di Annibale, se fu per
l’Italia, come il rimuoversi di uno spavento orribile, riuscì fatale
a Cartagine. Il partito della guerra rialzò il capo. Un’armata romana,
incaricata del rifornimento dell’esercito di Scipione, fu catturata; le
ostilità rinnovate, e Annibale costretto a mettersi a capo di una nuova
guerra, mentre era venuto solo per suggellare una pace.


55. =Zama (202).= — La battaglia decisiva fu combattuta in territorio
numidico, presso Zama. L’ordinamento che quel giorno Annibale dette
ai suoi soldati richiama quello dei più celebri fatti d’arme della
campagna d’Italia. Collocò i mercenari, che Cartagine aveva da poco
arruolati, nella prima linea, fiancheggiati dalla sua eccellente
cavalleria e sostenuti da ottanta elefanti da guerra. Essi dovevano
affrontare i legionari romani, appena questi fossero stati scompigliati
dall’urto degli elefanti, e, se quelle bestie fossero respinte o
fermate, infliggere, sostenuti dalla seconda linea — le milizie
nazionali cartaginesi — una prima sconfitta al nemico, se potessero,
se no, logorare o stancare l’avversario, sia pur facendosi sconfiggere
e terminando col retrocedere. Interverrebbe allora a dar l’ultimo
e decisivo colpo la terza linea, composta di veterani reduci dalle
campagne d’Italia.

Scipione invece dispose, come al solito, l’esercito su tre linee, ma
non, come i generali romani solevano, a scacchiere; bensì lasciando tra
i manipoli delle tre linee intervalli che si corrispondessero, in modo
che tra i manipoli corressero dei corridoi, lunghi quanto l’esercito.
Negli intervalli dei manipoli di avanguardia dispose i veliti, che,
all’arrivo degli elefanti, dovevano, fuggendo e disperdendosi, tirare
gli animali in questi corridoi aperti tra i manipoli, dove sarebbero
stati saettati dalle due parti. Senonchè questo accorgimento riuscì in
gran parte inutile. Spaventati dal suono delle trombe e aizzati dalle
punture delle frecce dei veliti romani, la maggior parte degli elefanti
si rovesciò sulla cavalleria cartaginese dell’ala sinistra, rendendo
così facile al corpo avversario della cavalleria romana di caricarla
e di metterla in fuga. La grande macchina dei successi annibalici, la
vittoria iniziale della cavalleria, era questa volta rovesciata a pro
dei Romani; e l’insuccesso riusciva più grave, perchè l’altra ala della
cavalleria cartaginese era al tempo stesso sbaragliata.

Era dunque urgente per Annibale che la battaglia fosse decisa prima
del ritorno offensivo della cavalleria nemica vincitrice. Ma se la sua
prima linea combattè con onore, gli fu quasi impossibile far muovere
la seconda, quella composta di Cartaginesi arruolati da poco e che,
poco agguerrita, fu presa da panico. I mercenari della prima linea
si credettero traditi, e si gettarono infuriati sulla seconda linea:
sulle due parti dell’esercito cartaginese che si azzuffavano piombò
allora la massa romana, tramutando quel macello in fuga. Ma Annibale
non si die’ per vinto: raccolse alle ali quel che rimaneva della prima
e della seconda linea, mentre Scipione imbarazzato dai cadaveri, che
gli giacevano innanzi, in mezzo al campo, allungava il suo fronte
collocando ai lati la seconda e la terza linea e nel centro quel che
gli restava della prima. Così i due eserciti vennero all’urto finale,
che fu terribile. Le sorti del combattimento apparivano ancora incerte,
allorchè alle spalle delle milizie di Annibale comparve la cavalleria
dei Romani, reduce dall’inseguimento nemico. L’esercito cartaginese fu
avvolto; e la mossa e la sorpresa di Canne si rinnovarono. Dei 60.000
cartaginesi, ben 20.000 rimasero sul campo, ed altrettanti furono fatti
prigionieri; lo stesso Annibale potè salvarsi a stento con un pugno di
cavalieri ad _Hadrumetum_[47].

Da Hadrumetum il generale si recò tosto a Cartagine a consigliare, come
quarant’anni prima, suo padre, dopo le Egadi, la pace. E la pace fu
fatta. Cartagine riconosceva il nuovo regno di Numidia nella persona di
Massinissa; entro i confini che Roma le avrebbe indicati. Si impegnava
a pagare a questa, per cinquant’anni, una contribuzione annuale di 200
talenti; a consegnare, salvo _dieci_, tutte le navi e gli elefanti
da guerra; ad abbandonare, per ora e per l’avvenire, ogni conquista
esterna; a limitare i suoi armamenti, rinunziando alle leve dei
mercenari stranieri; a far guerra in Africa solo con licenza dei Romani
(201). Così, dopo poco più di sessant’anni di guerra, il più grande
Stato dell’Occidente, europeo ed africano, spariva dal numero delle
grandi potenze.

Roma aveva vinto perchè, possedendo la Sicilia, aveva per sè il
vantaggio strategico, cosicchè Cartagine dovè attaccarla con il lungo
giro fatto da Annibale; perchè, per la maggior parte della guerra, si
tenne sulla difesa e non passò all’offesa che sull’ultimo; perchè le
colonie latine rimasero fedeli, cingendola di una corazza di fortezze
invincibili; e perchè dei sudditi, Galli, Italici, Greci ed Etruschi,
solo una parte si ribellò. A queste tre ragioni conviene aggiungerne
una quarta: l’esercito di coscrizione. Gli eserciti romani, reclutati
con leve obbligatorie, erano più scadenti degli eserciti cartaginesi,
composti di soldati di mestiere; onde si spiegano le gravi disfatte dei
primi anni. Ma in compenso Roma potè disporre di forze più numerose;
onde alla fine, la guerra essendo durata così a lungo, la quantità
vinse la qualità.


NOTE AL CAPITOLO OTTAVO.

[39] POLYB., 2, 13, 7; 3, 27, 9 dà il testo della clausola capitale del
trattato: μὴ διαβαίνειν Καρχηδονίους ἐπὶ πολέμῳ τὸν Ἴβηρα ποταμόν. Si
tratta, dunque, come gli storici non hanno avvertito, di un accordo,
con il quale Cartagine accettava una limitazione delle sue armi,
impegnandosi a non mandare truppe oltre l’Ebro, per nessuna ragione; e
non già di una delimitazione delle due reciproche sfere d’influenza.
Come Polibio stesso osserva, i Romani, con questo trattato, non
riconoscevano punto la Spagna al di là dell’Ebro quale territorio
cartaginese (2, 13, 7).

[40] Cfr. POLYB., 2, 24: uno dei capitoli più importanti di tutta
l’opera del grande storico.

[41] Queste, come le cifre precedenti e seguenti, risalgono a
un’epigrafe dettata dallo stesso Annibale in memoria delle sue gesta
italiche, a Lacinium, che lo storico Polibio conobbe e seguì nella sua
grande opera (3, 56). Non abbiamo accolto i dubbi della moderna critica
tedesca sulla presunta esagerazione di queste perdite, sia perchè
Annibale ci pare fosse in grado di sapere quanti soldati aveva perduti
meglio dei professori moderni; sia perchè la storia militare ci avverte
come, in parecchie grandi campagne, antiche e moderne, le perdite
che gli eserciti hanno subite per via dell’inclemenza delle stagioni,
sono state più gravi di quelle toccate nelle vere e proprie battaglie
campali.

[42] Il nome tradizionale dello scontro, è quello di _battaglia del
Ticino_; ma il luogo preciso ove avvenne la battaglia è incerto.

[43] Molto hanno discusso gli eruditi per ritrovar dove fossero queste
famose paludi; e con tanto maggiore accanimento, perchè Polibio e
Livio non solo si contradicono tra di loro su questo punto, ma sono
ambedue oscuri e imprecisi. Senonchè per sciogliere i dubbi non c’è
che un mezzo: tener conto della ragione militare. Annibale non può
aver imposto al suo esercito la fatica di marciare per parecchi giorni
nelle paludi con l’acqua a mezza gamba, se non per evitare un ostacolo
che gli sbarrava la strada. Ora dalla battaglia delle Trebbia sino
alla battaglia del Trasimeno il solo ostacolo serio che egli doveva
incontrare, era Arezzo, dove Flaminio l’aspettava. Noi sappiamo d’altra
parte che Annibale eluse Flaminio, sbucandogli all’improvviso alle
spalle, tanto che Flaminio fu costretto a rivoltare il fronte del suo
esercito e inseguirlo nella direzione del Trasimeno. È dunque chiaro
che Annibale ha gettato il suo esercito nelle paludi, per aggirare la
posizione di Arezzo, costringere Flaminio ad uscire in campo aperto,
invece di assalirlo nella posizione fortificata.

[44] La più sicura biografia politica di Fabio Massimo è contenuta in
un’epigrafe, dettata in sua memoria e in suo onore; CIL, I, p. 288, n.
XXIX.

[45] La nostra descrizione della battaglia di Canne deriva
principalmente dal racconto di POLIBIO, 3, 110 sgg.

[46] Il testo del trattato è contenuto in POLIBIO, 7, 9.

[47] Fonte principale della descrizione della battaglia di Zama è al
solito POLIBIO, 15, 9-14.



CAPITOLO NONO

L’EGEMONIA MEDITERRANEA


56. =La guerra con la Macedonia (200-196 a. C.).= — La guerra
annibalica aveva dissanguato l’Italia. Ma Roma aveva conquistato
tutta la Sicilia, incluso il territorio siracusano, e la Spagna,
ricca di uomini e di metalli. Signora della Sicilia, della Sardegna,
della Corsica e della Spagna, essa dominava ormai il Mediterraneo
occidentale. Gli errori degli avversari, la saggezza del senato, il
valore dei soldati, la tenacia dello spirito pubblico, la fortuna, che
tanto può in queste cose, avevano concorso a far di Roma, in meno di un
secolo, una delle maggiori, forse già la maggiore potenza del bacino
mediterraneo. Si potrebbe quindi aspettare che Roma proceda d’ora
innanzi, fatta ardita dalla fortuna, ad ingrandire il suo impero. Per
quale ragione Roma non avrebbe, come Alessandro poco più di un secolo
prima e sia pure con maggiore lentezza, cercato di sfruttare subito i
favori della fortuna?

Invece, dopo la seconda guerra punica, avviene nella politica romana
un subito rivolgimento. Giova intenderlo bene, se si vuole capire
come a Roma venisse fatto di creare l’impero più duraturo del mondo
antico. La prima spinta a questo nuovo corso fu data dagli affari di
Oriente. Mentre Roma era alle prese con Cartagine, l’Egitto era andato
indebolendosi per diverse ragioni, le più di ordine interno; la Siria
invece, sotto la forte mano di Antioco il Grande, e la Macedonia,
sotto il governo intelligente, se pur oscillante, di Filippo, si erano
notevolmente rafforzate. Perciò, morto nel 204 Tolomeo IV e passata
la corona dell’Egitto a un fanciullo minorenne, Tolomeo V Epifane, i
due sovrani di Macedonia e di Siria si erano alleati per spartirsi i
possessi dei Lagidi posti fuori dell’Egitto. Nel 202 Antioco aveva
invaso la Palestina, Filippo si era gettato sulle Cicladi, sul
Chersoneso tracico e sulle coste della Bitinia, senza che l’Egitto,
governato da una reggenza incapace e rapace, movesse un dito. Ma le
città, che preferivano il protettorato nominale dei Lagidi al duro
governo macedonico, si erano difese da sole; le città libere, Rodi,
Chio, Cizico, Bisanzio, spaventate anche esse dalle ambizioni di
Filippo, avevano stretto alleanza, assoldato milizie — etoliche la più
parte —, apprestato navi; Attalo, Re di Pergamo, si era unito a questa
alleanza. Senonchè la guerra era stata ripresa nel 201 da Filippo, e
con tanto vigore, che Rodi ed Attalo erano ricorsi per aiuto a Roma.
Erano sopraggiunti di lì a poco ambasciatori degli Ateniesi, a chiedere
anche essi aiuto, essendo, in seguito ad un incidente fortuito, venuti
in guerra con Filippo, che aveva mandato un generale ad invadere
l’Attica. L’Egitto essendo impotente, Roma sola poteva salvare
l’Oriente dalla egemonia della Macedonia e della Siria.

Ma Filippo ed Antioco avevano scelto bene il momento. Se l’Egitto era
impotente, l’Italia era in mille difficoltà. Dal braciere del grande
incendio appena domato sprizzavano turbini di faville, che avrebbero
per lunghi anni sollevato incendi minori: guerre nella Spagna, vinta ma
non pacificata; guerre nella pianura padana, ove i Galli avevano sino
all’ultimo disperatamente combattuto per la causa cartaginese e non
accennavano a deporre le armi neppure dopo la pace; guerre in Liguria,
donde gl’indigeni infestavano le vie marittime tra l’Italia e la
Spagna, non che le coste galliche e iberiche. Poteva Roma, con l’Italia
esausta dalla grande guerra allora allora finita, impegnarsi a fondo
nelle faccende orientali, che in fin dei conti la toccavano molto poco,
solo per impedire che Filippo ed Antioco ingrandissero troppo i loro
Stati, a spese dei Lagidi? Noi sappiamo infatti che a Roma l’opinione
popolare reclamava la pace. Il senato invece non esitò ad accoglier
la domanda di aiuto; spedì a Filippo un’ambasceria, che gli chiedesse
di cessar dalle armi contro gli alleati; e, quando l’ambasceria
ritornò senza risposta, non esitò a far proporre ai comizi dai consoli
dell’anno seguente — il 200 a. C. — la guerra alla Macedonia.

Come si spiega questo risoluto atteggiamento del senato? Tito Livio
pone in bocca al tribuno della plebe, che più strenuamente oppugna la
guerra, un discorso in cui accusa il senato e i Grandi di far nascere
di proposito le guerre l’una dall’altra, così da non finirle più; e al
console che pèrora la guerra un altro discorso, che si può riassumere
così: occorre far la guerra a Filippo in Macedonia, perchè se no tra
poco Filippo verrà a farla a noi in Italia[48]. In questi discorsi,
anche se inventati da Tito Livio, sono esposte le viste vere dei due
partiti, quello della pace e quello della guerra. Il popolo era stanco
di combattere; ma a quanti guardavano oltre il bisogno e l’interesse
del giorno, la guerra annibalica aveva dimostrato che, mentre Roma
allargava il suo impero oltre il mare, l’Italia non era punto sicura.
Annibale era pur riuscito ad entrare in Italia, e a restarci sedici
anni; non solo, ma a trovar soldati e aiuti e appoggi di tutti i
generi. L’Italia era questa volta scampata al pericolo; ma l’avventura
era stata troppo calamitosa, perchè la gente avveduta non reputasse
necessario premunirsi per l’avvenire. L’inviolabilità dell’Italia
diventa, da questo momento, un principio capitale della politica
romana. Non per altra ragione il senato volle nel 200 la guerra contro
la Macedonia, se non per tagliar la strada, prima che potesse mettersi
in cammino, ad un nuovo Annibale. La Macedonia era forte d’armi e ricca
di denaro; era stata alleata di Annibale; aveva già mostrato di temere
i Romani e di non gradire la loro presenza sulla sponda orientale
dell’Adriatico; non era infine più distante dall’Italia di Cartagine; e
— vantaggio di cui Cartagine non aveva goduto — era uno Stato greco....
Non bisogna dimenticare che a quei tempi l’Italia meridionale era
ancora, per metà, greca; cosicchè uno Stato greco poteva considerarla
come un territorio riserbato al proprio impero. Che cosa sarebbe
successo se un giorno, mentre i Cartaginesi continuavano copertamente
ad alimentare nell’Italia settentrionale la rivolta dei Galli, la
Macedonia avesse tentato di assalire Roma dal sud, rivoltando contro di
lei i Greci del mezzogiorno e ripigliando il disegno di Pirro?

Il senato voleva dunque impedire alla Cartagine dell’Adriatico
di rafforzarsi troppo. Ma il popolo non ne voleva sapere; e nei
comizi respinse la guerra. A sua volta il senato insistè; si sforzò
di convincere il popolo, facendolo arringare da numerosi oratori;
riuscì a portar di nuovo la questione ai comizi, e, questa volta, a
vincere il punto. Il fatto è d’importanza, perchè ci dimostra quanto
la guerra annibalica avesse accresciuto l’autorità del senato e
dell’aristocrazia. Il partito democratico-rurale, che prima della
guerra annibalica veniva acquistando potere, era sparito durante
la guerra; e non è difficile intenderne la ragione. In quegli anni
terribili Roma dovette, non disputar di politica, ma difendersi: il
senato, che solo sapeva dirigere una guerra così lunga e così vasta,
predominò per necessità di governo, crebbe di prestigio e di forza,
e si ritrovò alla fine pieno degli uomini o dei figli degli uomini,
che si erano illustrati in tante battaglie, unito e concorde come non
era stato mai, perchè le rivalità di partito, le gelosie e gli odi di
famiglia si erano indeboliti, e quasi del tutto era stata cancellata
l’antica differenza tra patriziato e senatori plebei. Noi conosciamo
i nomi di 148 senatori, che dal 312 al 216 avevano coperto le così
dette magistrature _curuli_, la dittatura, la censura, il consolato,
l’edilità curule: 73 sono patrizi e 75 plebei; e mentre i 73 senatori
patrizi appartengono a 15 famiglie soltanto, i 75 senatori plebei
appartengono a 36[49].

La guerra contro la Macedonia fu dunque imposta dal senato al popolo,
come la prima guerra contro Cartagine era stata imposta dal popolo al
senato. Ma il senato non mirava punto ad una guerra di conquista in
Macedonia. Ogni anno era necessario mandare un esercito nella Gallia
Cisalpina a combattere i Galli che, guidati da irregolari cartaginesi,
incominciavano una guerra atroce di sorprese e d’imboscate, di paci
simulate e di rivolte subitanee. Roma non poteva impegnarsi in una
impresa transmarina troppo ardita. I disegni del senato erano modesti:
costringere Filippo a raccogliere in più piccolo cerchio le sue
ambizioni; e costringerlo non con le armi soltanto, ma anche e più
con l’arte diplomatica, sfruttando le infinite e inviperite discordie
del mondo greco. Roma era già alleata con il Re di Pergamo, con Atene,
con Rodi: occorreva guadagnare gli Etoli, da lungo tempo nemici della
Macedonia; gli Achei, che invece inclinavano piuttosto all’alleanza
macedonica; e quanti altri popoli o Stati si potesse: accerchiare
insomma Filippo e obbligarlo a cedere, risparmiando denari e soldati.
Il che ci spiega il singolare e incerto andamento della guerra. Nel
primo anno i due principali avversari sembrano, più che cercarsi,
schivarsi. Il console Publio Sulpicio Galba sbarca ad Apollonia in
Illiria con un esercito e lì si ferma, per far dell’Illiria una base
di operazione contro la Macedonia e per intrigare presso gli Etoli,
gli Achei e i piccoli principati illirici. Filippo invece si butta
con notevoli forze nell’Attica, dove operavano forze romane, rodie
e pergamee sbarcate a difesa di Atene. Queste riescono di sorpresa
a impadronirsi di Calcide, ma non osano affrontare Filippo; Filippo
per rappresaglia devasta l’Attica, mentre intriga per tirare dalla
sua gli Achei. L’anno 200 si chiude perciò senza eventi decisivi.
Sulpicio è riuscito a guadagnare gli Atamani e alcuni piccoli principi
illirici; ha fallito invece con gli Etoli e non è venuto in contatto
con l’esercito macedone; Filippo a sua volta ha tentato invano gli
Achei. Etoli e Achei vogliono vedere come si metteranno le cose, prima
di decidere. Sulpicio capisce che la sola presenza di un esercito
romano in Illiria non basta a scuotere i due popoli: e l’anno dopo,
nell’estate del 199, irrompe attraverso l’Illiria nella Macedonia
superiore, mentre la flotta romana, unita con quella di Attalo e di
Rodi, attacca le coste della Macedonia, l’Eubea e le isole minori.
Filippo si reca a fronteggiar l’esercito romano, ma non si impegna a
fondo; a sua volta il console romano non cerca di costringere il nemico
a una battaglia decisiva, sia che non voglia, sia che non possa; e dopo
diversi combattimenti favorevoli alle armi romane, quando gli Etoli
si son dichiarati per Roma, invece di avanzare verso il cuore della
Macedonia, si ritira di nuovo in Illiria come chi ha ottenuto il suo
intento. Nella seconda metà del 199, egli cede il comando al console
Publio Villio che, giunto d’Italia dopochè gli Etoli hanno accettato
l’alleanza romana, muta il piano di guerra; e pensa di minacciar la
Macedonia, non più dal nord, ma dall’Etolia e dalla Tessaglia. Al
principio del 198 egli mette ad effetto il piano, tentando di invadere
la Tessaglia: ma più pronto, Filippo gli sbarra la strada occupando
una fortissima posizione nelle gole dell’Aoo. Incapace di girarla e
non sentendosi di assalirla di fronte, Villio si ferma: per un certo
tempo i due eserciti campeggiano di fronte, senza muoversi; e chi sa
quanto sarebbe durata quell’inazione, se ancora nella primavera non
fosse sopraggiunto il successore di Villio, Tito Quinzio Flaminino,
un giovane di molto ingegno e di molta risolutezza. Il quale, dopo
aver consumato quaranta giorni a osservare il nemico senza muovere un
passo e dopo aver tentato invano di intendersi con Filippo, riuscì
con l’aiuto di un principe epirota a minacciare di aggiramento, per
certi sentieri poco noti della montagna, la posizione di Filippo.
Allora il Re di Macedonia si ritirò in Tessaglia, devastandola
al suo passaggio, e dalla Tessaglia passò in Macedonia; ma senza
essere inseguito da Flaminino. Il console romano si recò in Epiro, a
ricevere la sottomissione di popolazioni sino allora rimaste fedeli a
Filippo; poi, insieme con gli Etoli, entrò in Tessaglia e incominciò
ad assediare tutte le città fedeli ai Macedoni o presidiate da loro,
sinchè all’avvicinarsi dell’inverno ritornò sul golfo di Corinto, per
provvedere ai quartieri d’inverno; con uno sforzo supremo riuscì a
guadagnare alla causa romana gli Achei, promettendo loro Corinto; e con
forze achee, aiutate da una flotta romana, mosse contro questa città.

Insomma anche Flaminino non mirava a colpire al tronco la Macedonia,
ma a reciderne i rami troppo allungatisi, e la cui ombra dava noia
a Roma. Senonchè il terzo anno già volgeva al suo termine, e la
guerra non accennava a finire: a Roma molti erano malcontenti e gli
amici di Flaminino ne approfittarono per ottenergli il prolungamento
del comando. Essi convinsero senato e popolo che la guerra andava
per le lunghe, perchè ogni anno si cambiava il generale. Flaminino
tentò allora, nell’inverno dal 198 al 197, di finire la guerra con
le trattative; ma Roma voleva ottenere senza combattere il premio
della vittoria; ossia che Filippo abbandonasse tutta la Grecia,
comprese le piazzeforti di Demetriade, di Calcide e di Corinto. Non fu
possibile intendersi. Nel 197, Flaminino, raccolto un esercito, mosse
risolutamente per assalire la Macedonia. A questo attacco serio Filippo
dovè rispondere, parando sul serio. I due eserciti si incontrarono
finalmente a Cinocefale; e il macedonico fu disfatto.

Alla battaglia seguì un armistizio, poi una tregua, durante la quale
fu negoziata la pace. Gli alleati di Roma chiedevano la distruzione
della Macedonia. Ma Roma non acconsentì. La Macedonia doveva restare
forte abbastanza, da essere baluardo della Grecia contro i barbari del
nord, ma non quanto fosse pericolo a Roma. La Macedonia ebbe dunque la
pace, acconsentendo ad abbandonare tutti i possedimenti nell’Illiria,
in Grecia, in Tracia, in Asia minore, nelle isole dell’Egeo; a pagar
mille talenti, metà subito metà in dieci anni; a ridurre l’esercito a
5000 uomini e l’armata a 5 navi coperte; a non fare alleanze e guerre
fuori della Macedonia senza il consenso del senato romano. Era insomma
ridotta poco meno che alla condizione di Stato protetto: ma era tanto
vero che i Romani volevano solo togliersi dal fianco il pericolo
macedone, che dei vasti territori conquistati non si appropriarono
neppure un palmo. Gli Etoli riebbero quel che avevano perduto nella
prima guerra macedonica; gli Achei ottennero Erea e la Trifilia; il
territorio illirico fu dato a principi illirici: quanto al resto,
tutte le città greche, che erano state soggette a Filippo in Grecia
ed in Asia, furono da Flaminino dichiarate libere, con un decreto che
in mezzo a un delirante entusiasmo fu letto dal proconsole romano nei
giuochi istmici del 196. Esser dichiarate libere significava, per
queste città, ridiventare ciascuna autonoma, come nei tempi il cui
ricordo splendeva ancora così luminoso innanzi alla Grecia ormai tanto
decaduta. Ai Romani questa soluzione cadeva acconcia per sbarazzarsi
del fardello di tutte queste città, di cui non potevano caricarsi;
per non cederle a chi potesse servirsene contro la loro potenza; per
rendere omaggio a quella libertà repubblicana, che i Romani ammiravano
tanto a paragone della sudditanza monarchica.


57. =La nuova politica dell’egemonia militare e diplomatica.= — A
chi la giudichi alla stregua dell’insaziabile avidità di territori,
che da due secoli non dà pace agli Stati dell’Europa e dell’America,
questa pace può sembrar singolare. Avere in propria balìa la Macedonia
e la Grecia, e resistere alla tentazione! Ma dalla fine della guerra
annibalica in poi, man mano che gli anni passano, cresce in Roma
l’avversione agli ampliamenti territoriali. Se si vuol vigilare tutto
il Mediterraneo e spegnere sul nascere le coalizioni che l’invidia e la
paura possono ordire, non si vogliono ingrandire i confini dell’impero,
poichè le forze militari di Roma bastano appena a difendere quel che
già essa possiede. Questa moderazione era savia. L’esercito romano
si componeva di due parti: le legioni composte di cittadini romani
e i contingenti italici. Era necessario che tra queste due parti ci
fosse una certa proporzione, cosicchè i secondi non soverchiassero
troppo i cittadini. Ma i cittadini diminuivano: 262.321 nel 294-293
non erano più che 258.318 nel 189-188. Aumentare l’esercito voleva
dunque dire italicizzarlo. Inoltre il servizio militare era a Roma,
come abbiamo detto più volte, un dovere civico e non un mestiere; onde,
se Roma poteva con minore spesa di Cartagine e dei sovrani orientali,
che adoperavano milizie mercenarie, tenere sotto le armi un esercito
più numeroso, non poteva servirsene così liberamente per spedizioni
lontane, nè tenerlo sotto le armi per anni ed anni. In tutti i tempi
gli eserciti di leva hanno servito meglio a difendere il proprio
territorio, che a conquistare con guerre lunghe territori lontani. Le
legioni, mandate alla guerra di Macedonia, avevano minacciato più volte
di ammutinarsi[50]. Se non era facile aumentare i soldati, anche più
difficile sarebbe stato per Roma aumentare il numero degli ufficiali e
tutto il personale amministrativo, quanto gli ampliamenti dell’impero
avrebbero richiesto. Questo personale non poteva essere somministrato
che dall’aristocrazia senatoria, sia perchè tutto l’ordinamento
politico e militare della repubblica posava sulla nobiltà, sia perchè
la nobiltà aveva acquistato un tal prestigio, che le classi medie e
la plebe di Roma e dell’Italia ormai non ammettevano più nemmeno di
poter essere comandate in guerra da uomini di altra condizione. Ma la
nobiltà romana era una piccola oligarchia — un centinaio di famiglie,
sì e no —, e non poteva mettere al mondo, ad ogni generazione, più
che un certo numero di generali, di ambasciatori, di giureconsulti, di
amministratori.


58. =La guerra con la Siria (191-189).= — Non è dunque da stupire, se
nel proposito di non ampliare più i confini dell’impero noi troviamo
a questo punto concordi tutte le classi e tutti i partiti. Il più
illustre e risoluto campione della nuova dottrina è lo stesso vincitore
di Zama. Riordinare le finanze, riconquistare definitivamente la
valle del Po, che era stata la cagione della seconda guerra punica,
assicurarsi la Spagna ancora riottosa, per il resto del mondo
mediterraneo, tener gli occhi aperti e impedire con tutti i mezzi il
crescere di Stati troppo potenti: questi sono i propositi capitali
della nuova politica. Guerre, sì; conquiste, no: tale è la singolare
divisa di questa politica negativa, per la quale Roma, sentendo, a
torto o a ragione, di non poter più crescere, voleva impedire ad altri
Stati di oltrepassarla. Senonchè questa politica non era nè facile
nè di poco impegno. Anche per essa le guerre generavano le guerre:
concatenazione fatale. La guerra con la Macedonia non era ancora
terminata, e già nascevano pericoli e preoccupazioni dalla parte della
Siria. Nel 198 Antioco, mentre Roma e la Macedonia erano alle prese,
conquistava parecchie città poste sulla costa meridionale dell’Asia
minore; nel 197 occupava Efeso; nel 196 metteva il piede in Europa,
a Lisimachia. E le città della Troade ricorrevano a Roma, implorando
aiuto, alcune anche facendo testo del decreto con cui Flaminino
liberava le città greche dell’Europa e dell’Asia. Roma era dunque, in
certa misura, impegnata a sostenerle; e difatti nel 196 i commissari
mandati dal senato a riordinare la Macedonia videro Antioco a
Lisimachia; e in forma cortese gli chiesero la libertà di quelle città.
Ma questi abboccamenti furono interrotti dalla falsa notizia della
morte del Re di Egitto, che obbligò il Re di Siria a ritornare nei suoi
Stati; e Roma, che non voleva impegnarsi alla leggiera in una nuova
guerra, si riservò di ripigliar la questione ad altro momento. Intanto
però un nuovo pericolo nasceva dalla parte degli Etoli. Gli Etoli non
solo non avevano ottenuto le spoglie della Macedonia dilaniata; ma la
libertà, concessa alla Grecia, era stata nefasta alle loro ambizioni.
Perciò incominciavano a intrigar contro Roma, sia sobillando le città
greche, sia invitando con viva istanza Antioco a passare in Europa.
Infine — e non era cosa di poco momento — Annibale, che, per ragioni
non ben chiare, era stato costretto a lasciare Cartagine, giungeva nel
195 alla Corte di Siria!

Roma teneva d’occhio questi maneggi, ma desiderava di evitare una nuova
guerra in Oriente. La Gallia Cisalpina, ove ogni anno occorreva spedir
truppe; la Spagna, sempre inquieta e turbolenta, davano già troppi
fastidi. Perciò essa tentò a più riprese di persuadere Antioco, con le
buone, a ritornare in Asia, abbandonando Lisimachia e a liberare le
città greche; ma inutilmente. Antioco vantava i suoi diritti storici
sulle città traciche; consigliava i Romani, se proprio eran tanto
teneri della libertà delle città greche, a liberare Taranto e Siracusa;
e insomma sempre più propendeva al partito anti-romano, che gli faceva
ressa d’intorno. Sinchè, nell’autunno del 192, fidando negli Etoli, i
quali avevano promesso che, al suo apparire nella penisola, tutta la
Grecia si sarebbe sollevata, approdava in Tessaglia con 10.000 fanti,
500 cavalli e 40 navi. Roma fu costretta a raccogliere la sfida. Per
fortuna, in quell’anno la Cisalpina era quieta; onde il senato potè
spedire nel 191 un forte esercito contro Antioco.

D’altra parte gli Achei, Atene, molte delle città greche, e lo stesso
Filippo di Macedonia parteggiarono per Roma: cosicchè, non appena
l’esercito romano sbarcò in Grecia, il Re di Siria, sentendo di non
poter tenere la Tessaglia, si ritirò verso la Grecia centrale. Al
passo delle Termopili, egli sperò di ritentare con maggior fortuna le
gesta di Leonida. Ma i Romani non erano i Persiani; Antioco fu vinto
e costretto a ripassare in Asia, mentre tutta la Grecia, ad eccezione
degli Etoli, di nuovo si sottometteva ai Romani. Poco dopo, la flotta
romana, rinforzata da quelle di Rodi e di Pergamo, sostenuta con
aiuti di tutti i generi dalle grandi città delle isole dell’Egeo —
Samo, Chio, Lesbo — vinceva nelle acque di Chio la flotta di Antioco,
assicurandosi il dominio del mare. Roma ne approfittò per preparare
subito una spedizione in Asia, che colpisse al cuore la Siria: impresa
vasta ed ardita, per la quale si pensò al vincitore di Zama. Ma Publio
Scipione non poteva esser rieletto console, poichè il tempo legale
non era ancora trascorso dalla sua ultima elezione: si pensò dunque
di eleggere console suo fratello, L. Cornelio Scipione, e di porgli
accanto, con titolo e autorità di proconsole, il fratello. Al principio
del 190 Scipione passò in Grecia con il nuovo esercito; conchiuse una
tregua con gli Etoli, che ancora non volevano dichiararsi vinti; si
fece dare un contingente dagli Achei e attraversò la Macedonia e la
Tracia per passare in Asia; dove i Re di Pergamo e Rodi facevano grandi
preparativi per prestargli man forte. A sua volta Antioco raccoglieva
i rinforzi di tutti i suoi alleati dell’Asia minore: dei Galati,
dei Paflagoni, della lega Licia, del Re di Cappadocia; rinforzava la
flotta, l’anno prima vinta, dando il comando di una parte ad Annibale.
Ma Annibale fu vinto dai Rodî; Antioco non riuscì ad impedire il
passaggio dell’esercito in Asia; e tentò invano di vincere il Re di
Pergamo prima che si congiungesse con i Romani, poi di trattare. Dovè
dunque, sul finire dell’anno 190, accettare battaglia presso Magnesia
_ad Sypilum_; e in questa i Romani, grazie soprattutto all’aiuto
di Eumene, lo disfecero interamente. Caduta l’ultima sua speranza,
Annibale fuggiva in Bitinia, e il Re vinto abbandonava a Roma tutta
l’Asia al di qua del Tauro; acconsentiva a pagare in 12 anni una
indennità di 15.000 talenti, a ridurre la flotta e a non tenere più
elefanti da guerra. Il bottino della guerra era stato dunque copioso;
ma Roma non tenne per sè che l’indennità di guerra, e distribuì ai suoi
alleati tutti i territori ceduti da Antioco. Le città greche furono
liberate; i Rodî ebbero buona parte della Caria e la Licia: il Re di
Pergamo ottenne la maggior parte e la migliore di quello che un tempo
era stato il giardino del regno dei Seleucidi: il Chersoneso tracico,
la Lidia, la Frigia e una parte della Caria (189)[51]. Non ci furono,
a Roma, discussioni e dissensi su questa pace. Tutti erano d’accordo
nella formula della nuova politica: guerre sì, conquiste no. Dopo aver
vinto, nel volgere di pochi anni Cartagine, la Macedonia, la Siria —
i tre maggiori potentati del tempo —; dopo averli costretti a pagare
ingenti indennità, Roma era ormai la potenza egemone del Mediterraneo.
Questa egemonia, sostenuta con il denaro dei vinti, valeva agli occhi
dei Romani più che gli ingrandimenti territoriali.


NOTE AL CAPITOLO NONO.

[48] LIV., 31, 6 e 7.

[49] Cfr. G. BLOCH, _La République romaine; conflits politiques et
sociaux_, Paris, 1913, p. 138.

[50] LIV., 32, 3.

[51] POLYB., 21, 14, 3 sgg; 22, 7, 7 sgg.; 22, 26, 1 sgg.



CAPITOLO DECIMO

IL CREPUSCOLO DELL’ANTICA ROMA


59. =Rivolgimenti economici e sociali della prima metà del II secolo.=
— Tuttavia queste guerre di Oriente, se non ingrandirono l’impero di
Roma, generarono un effetto anche maggiore: precipitarono la rovina
della antica Roma, che aveva fondato la repubblica e latinizzato tanta
parte d’Italia; e che già da più di un secolo veniva alterandosi per
opera dell’ellenismo. Quante cose non erano cangiate negli ultimi
cinquanta anni! Intanto, per la prima volta, dopo secoli di continue
strettezze, lo Stato conosceva la felicità del facile e largo spendere.
L’erario riboccava d’oro. Le miniere d’argento della Spagna, le
indennità imposte a Cartagine, alla Macedonia e alla Siria, il bottino
delle guerre della Cisalpina, della Spagna e dell’Oriente — metalli
preziosi, redditi di miniere, terre, boschi, schiavi — lo colmavano.
Cosicchè Roma poteva spendere largamente, non solo per le guerre, ma
pure per i servizi civili. Il primo trentennio del secondo secolo è
meritamente famoso per le grandi opere pubbliche a cui si pose mano.
Nel 187 si cominciò la costruzione della via Emilia, che avrebbe
continuato la Flaminia attraverso la Cispadana, da Rimini a Piacenza;
nel 181 si terminerà la fognatura di Roma e il prosciugamento delle
paludi pontine; nel 177 si aprirà attraverso l’Etruria la nuova via
Cassia; la censura del 174 andrà famosa per il gran numero di lavori
pubblici ordinati a Roma e nelle colonie. Cosicchè mai come in questo
trentennio gli appalti pubblici erano stati così numerosi, lucrosi e
molteplici: lavori pubblici, forniture militari, imposte, dogane da
riscuotere, miniere, foreste, terreni appartenenti allo Stato. Molti
giovani della media classe rurale, che avevano portato un piccolo
capitale dalle guerre di Oriente e d’Occidente, sollecitarono e
ottennero con facilità di questi appalti, o da soli, o in società, o
facendosi prestare dei capitali da qualche persona ricca, che avrebbe
partecipato al guadagno comune. La conoscenza e la pratica di questa
specie di affari si diffusero; e in Roma e in Italia si formò in
quel trentennio una classe così numerosa di medi capitalisti, vivente
agiatamente sulle pubbliche forniture, che qualche decennio più tardi
Polibio potrà dire addirittura che «tutti i cittadini romani» facevano
di questi affari[52].

Anche l’agricoltura e la pastorizia sembrano svilupparsi. Sin dalla
fine della guerra annibalica si era speculato a Roma largamente
sulle terre dell’Italia meridionale, rinvilite per le devastazioni e
la morte dei proprietari. In seguito, man mano che i capitali e gli
schiavi divennero più numerosi, tutta l’Italia si diede a speculare
sul nuovo _ager publicus_. Molti proprietari, latini o alleati, ne
ottennero facilmente un pezzo, che aggiunsero al loro campicello e
misero a coltura, dopo aver comperato degli schiavi, con le economie
della guerra. I più ricchi pigliarono in affitto vaste terre pubbliche,
sia in Italia che fuori, per pascolare mandrie di buoi, di maiali,
di capre, di pecore. La grande pastorizia doveva rendere molto in
quegli anni; chè gli eserciti consumavano molte pelli di capre per le
macchine, molta carne salata di porco per i soldati. Crebbe dunque nel
senato e nell’aristocrazia il numero delle grandi fortune fondiarie.
L’antica politica agraria è ripresa su più vasta scala: nelle nuove
colonie della Cisalpina, dedotte fra il 189 e il 177 — Bologna, Parma,
Modena, Aquileia, Lucca, Luni — si assegnano ai nuovi occupanti campi
più vasti che nelle antiche.

Acquistò forza anche maggiore e si diffuse di più lo spirito
mercantile, quell’inclinazione al commercio, che già due volte aveva
tentato di far di Roma una seconda Cartagine. Durante la seconda guerra
macedonica si eran veduti dei soldati romani esercitar l’usura tra
gli indigeni. Negli anni seguenti molti Romani e Italiani, contadini
e piccoli possidenti, che come soldati o fornitori degli eserciti
avevano conosciuto la Grecia e l’Asia, le loro ricchezze, i loro
commerci, comprarono, venduto il campo avito o con il gruzzolo messo
in disparte nelle guerre, una nave; gli uni si stabilirono a Delo, che,
dopo il 192, diventa un ricco emporio romano, e vi apriron depositi di
mercanzie asiatiche per i mercanti che venivano dall’Italia a empire
di vari oggetti la propria nave, e ai quali era più comodo far capo a
Delo, che a Rodi o a Corinto; altri esercitarono il commercio tra Delo
e Roma o nel Mediterraneo occidentale. Sorsero sulle coste italiane
molti piccoli cantieri; i boschi della Sila, dove si raccoglieva la
pece, furono appaltati dallo Stato a gran prezzo; membri della nobiltà
senatoria, a dispetto dei divieti[53], parteciparono ai lucri di
questa mercatura transmarina, prestando a liberi o a liberti i capitali
occorrenti per cominciare.

Insieme con l’ordinamento delle fortune si alterarono gli antichi
costumi e le antiche idee. Tornando dall’Oriente, soldati e mercanti
portavano il seme di nuovi lussi e bisogni. Se Roma era ancora
considerata in Grecia — e a ragione — come una brutta città, senza
monumenti e palazzi, imparava però a godere e a sfoggiare; e l’Italia
ne seguiva l’esempio. Poco dopo la seconda guerra punica, si aprirono
in Roma i primi bagni pubblici — sino ad allora il popolo si era
bagnato nel Tevere —; gli abili cuochi incominciarono in questo
trentennio ad esser pagati carissimi; si cercarono con grande spesa
i vini della Grecia e le costose ghiottonerie dei paesi lontani; si
importò dalla Grecia l’arte squisita di ingrassare i volatili; si
videro — scandalo nuovo — cittadini comparire nelle assemblee ubriachi,
magistrati avviarsi al foro mezzo brilli, tanto che nel 181 si fece
una legge per frenare la troppo diffusa inclinazione alla crapula.
Belle schiave e bei fanciulli acquistarono pure un gran prezzo....
Tra le antiche, semplici e troppo rare feste latine furono intercalati
nuovi e costosi spettacoli, come la caccia alle belve e i giuochi dei
gladiatori in occasione dei funerali; la legge Oppia, che restringeva
il lusso, fu abolita nel 195; i profumi orientali, i tappeti
babilonici, i mobili incrostati di oro e di avorio incominciarono a
vendersi anche in Italia, massime a Roma.

Infine, nelle alte classi, la cultura greca mette radice. Tutti i
giovani delle grandi famiglie studiano ormai il greco. La filosofia
greca apre lo spirito alle idee generali. Le teorie politiche,
elaborate dai Greci, cominciano a essere conosciute e discusse dalla
nobiltà, che fin allora non aveva conosciuto altra scuola che la
pratica e la tradizione. I tentativi letterari, iniziati cinquant’anni
prima, riescono a creare le prime opere ragguardevoli. È questa l’età
di Plauto, di Ennio, di Pacuvio. Il primo scrive le più belle commedie
latine; il secondo introduce in Roma i metri greci e compone il primo
poema epico; il terzo innova in Italia il genere tragico.


60. =Marco Porzio Catone e il movimento tradizionalista.= — I primi
trenta anni del II secolo a. C. furono per l’Italia una di quelle età
felici, in cui anche chi comincia con poco può far fortuna; perchè il
tenor di vita, i desideri, l’industria, il commercio, l’audacia, la
cultura, crescono, ingrandiscono, si allargano insieme; onde il lavoro
abbonda, i guadagni sono facili, da ogni ricchezza nuova nascono molte
occasioni di lucro, le ricchezze figliano rapide. Noi diremmo oggi, con
orgoglio, che in quel trentennio Roma e l’Italia progredirono assai.
Ma i contemporanei invece si lamentavano che Roma si corrompesse.
Quel che noi chiamiamo progresso e civiltà, gli antichi giudicavano
corruzione. Già in questo trentennio, che a noi par così prospero e
fortunato, una sorda inquietudine angustia le classi alte — specie la
sua parte migliore —; e proprio in questo trentennio apparisce nella
politica romana un personaggio nuovo, il puritano arcigno, che fa il
broncio ai suoi tempi: Marco Porzio Catone. Catone era nato a Tuscolo,
nel 234. Era dunque un coetaneo di Scipione l’Africano; apparteneva
alla generazione che aveva combattuto Annibale; e, nato da una famiglia
modesta di medi possidenti, aveva trascorso la sua giovinezza,
combattendo contro i Cartaginesi e coltivando il suo podere. Non
era facile, in quella città aristocratica, ad un modesto possidente
salire alle più alte cariche dello Stato. Ma Catone era intelligente,
attivo, eloquente, energico, coraggioso, onesto; e i tempi erano così
difficili, che non consentivano di trascurare un tale uomo. Aiutato
da un patrizio, L. Valerio Flacco, dalla cui famiglia la famiglia di
Catone era protetta, egli potè essere eletto a 29 anni questore, a 35
edile, a 36 pretore, a 39 console, a 50 censore. Al punto a cui siamo
giunti della storia di Roma, dopo la guerra siriaca, Catone è uno dei
Grandi della repubblica e il più fiero, ardito, autorevole campione
del movimento tradizionalista, che sorveglia e cerca di frenare quelli
che noi chiameremmo oggi i progressi della società romana. Mentre
vuol che le medie classi rurali siano, come in antico, il sostegno
della repubblica, egli venera l’autorità del senato, combattendo solo
i senatori e i gruppi dei senatori, che, dimentichi della tradizione,
favorivano troppo il nuovo indirizzo. Causa precipua d’ogni male è
per lui l’ellenismo. «Catone, — narra un suo biografo antico[54] —
disprezzò veramente tutte le discipline proprie dei Greci. Diceva
Socrate loquace e violento, e l’accusava di aver favorito in ogni modo
la tirannide col rovesciare i costumi patrii e col trascinare i suoi
concittadini ad opinioni contrarie alle leggi....». E la profezia,
che lascerà al suo figliuolo, sarà che, «allorquando codesta mala
genia (i Greci) avrebbe diffuso in Roma la sua letteratura, tutte le
cose sarebbero precipitate». Onde egli avversa con tutte le forze il
nuovo andazzo dell’istruzione privata e pubblica, l’amore delle cose
greche, e tutto quello che all’amore delle cose greche si collega:
massimamente il nuovo lusso e la smania dei godimenti, che dilagano per
ogni dove. Li combatte con le leggi suntuarie, che limitano il numero
dei convitati, le spese per i banchetti, lo sfarzo dell’abbigliamento
muliebre; e quando questa arma gli sarà spezzata nelle mani
dall’opposizione degli appetiti e degli interessi, si vendicherà nella
sua censura, gravando tutti gli oggetti preziosi di imposte quasi
proibitive. Tien d’occhio, denuncia e, quando può, reprime senza
pietà la rapacità degli usurai, le frodi dei pubblicani, gli abusi
dei governatori; perseguita, con accanimento l’insolenza dei meteci
romani: i liberti, che, cento volte respinti, sono ritornati alla
conquista della cittadinanza romana; e combatte la grande consorteria
aristocratica degli Scipioni, che, forte della gloria dell’Africano,
cercava di accaparrare per sè la repubblica.


61. =Corruzione e progresso.= — Catone non avrebbe potuto primeggiare
nella repubblica, difendendo questi principî, se fosse stato solo o
sostenuto da scarsi e deboli consentimenti. Ma i consentimenti, che
egli trovò numerosi, possono stupire solo chi giudichi gli antichi
alla stregua di alcune idee moderne, che quelli non professarono e che
sarebbero apparse loro false e poco meno che empie. Non è possibile
capire nè i tempi moderni nè i tempi antichi, se non si intende come
su questo punto le idee degli uomini si siano capovolte. Solo dopochè
l’uomo ha inventato la macchina a vapore e scoperto il mezzo di creare
rapidamente grandi quantità di ricchezza, egli è venuto nell’idea
che sia una perfezione, e quindi un dovere, accrescere i propri
bisogni e spendere largamente. Ma non è più di un secolo e mezzo, che
l’uomo ha imparato a servirsi a questo modo e per questo scopo del
fuoco: prima l’uomo possedeva soltanto gli strumenti che la sua mano
o i muscoli degli animali movevano, e quindi, se poteva fabbricare
oggetti eccellenti o bellissimi, non poteva fabbricarne che pochi. La
semplicità e la parsimonia erano dunque allora, due virtù elettissime;
e il lusso, un pericolo, perchè facilmente dissestava le fortune delle
famiglie e dei singoli; onde in tutte le civiltà antiche moralisti e
legislatori, governi e religioni hanno raccomandato agli uomini la
moderazione dei desideri e la semplicità delle abitudini. Roma non
poteva fare eccezione alla regola; aveva anzi particolarissimo bisogno
di non arricchir troppo, se non voleva che la sua potenza militare
fosse scalzata dalle fondamenta. La contradizione era insolubile; e
bisognava capirla bene, se si vuole capire la immensa tragedia che
incomincia in questi tempi. Abbiamo già detto che i cittadini romani,
tra i quali si reclutavano le legioni sostegno della potenza romana,
erano un pugno di uomini: tra 2 e 300.000. Ma se il maggior numero di
questi cittadini, deposta la vanga e l’aratro, si dava al commercio
e agli appalti, arricchiva, si avvezzava ai comodi, ai piaceri ed ai
lussi, avrebbe ancora sopportato le fatiche e i disagi delle lunghe
guerre? Già durante le guerre di Macedonia e di Siria, gli eserciti
romani avevano incominciato a zoppicare. Delle legioni avevan reclamato
il congedo; i sotterfugi per sfuggire al reclutamento si facevano più
ingegnosi; si vedevano soldati andare alla guerra con il servo, che
portasse il fardello e preparasse il cibo; l’antica disciplina si
rilassava, perchè i soldati si vendicavano nei comizi dei generali
troppo severi. Ma questo non era il solo pericolo. La ricchezza, la
cultura greca, lo scetticismo indebolivano nella nobiltà l’abnegazione
civica, il rispetto delle leggi, lo spirito di concordia, il senso
dell’onore e della rettitudine. In questo trentennio si incominciarono
a veder fatti e cose, che non potevano non inquietare chi sapeva quanti
nemici circondavano Roma. Appariva una generazione nuova di uomini di
Stato: ambiziosi, impazienti, cupidi di cose nuove, che rispettano
poco le leggi e punto le tradizioni. Molti si presentano candidati
alle magistrature innanzi l’età; la corruzione elettorale si faceva
più ardita e sfacciata; e il sospetto che i magistrati abusassero
delle cariche per far quattrini, soprattutto appropriandosi parte
del bottino in guerra, si divulgava. A torto o a ragione? Sarebbe
difficile affermarlo, per quanto, come sempre accade, la facilità del
sospetto sembri poter considerarsi come il segno o l’esagerazione di
un male che esisteva davvero e cresceva, anche se più lento e meno
grave che non pensasse la credula opinione del pubblico. Del resto
queste esagerazioni erano a loro volta il segno di un altro male:
l’inasprirsi delle rivalità e delle discordie tra le grandi famiglie,
man mano che con la potenza, la ricchezza e la cultura di Roma,
crescevano l’orgoglio, le ambizioni, le cupidige della nobiltà che la
governava. Ne è prova uno dei più clamorosi scandali della storia di
Roma, che scoppiò poco dopo la guerra siriaca, e per causa di questa.
I due vincitori di Antioco, Lucio e Publio Scipione, furono accusati,
il primo di peculato per essersi appropriato una parte della preda
siriaca; il secondo, addirittura di perduellione, per aver ricevuto
denaro e promesse da Antioco nelle trattative di pace. Gli scrittori
antichi ci raccontano questa storia in modo molto confuso, dimodochè
non ci è possibile dire se queste accuse fossero o no del tutto
arbitrarie[55]. Certo è però che nel senato accusatori e difensori si
azzuffarono con forsennata violenza; che tra gli accusatori primeggiò
Catone; e che l’Africano, disgustato e stanco, si allontanò da Roma in
volontario esilio. Brutto segno, sia che le accuse fossero false sia
che fossero vere: nel primo caso, perchè era vergogna che il vincitore
di Zama fosse trattato a quel modo; nel secondo, perchè era vergogna
che avesse commesso addirittura il crimine appostogli[56].


62. =La guerra contro Perseo e il nuovo ordinamento dell’Oriente
(171-168).= — Tutte queste ragioni ci spiegano Catone, i suoi numerosi
seguaci, le loro veementi proteste, quello che si potrebbe chiamare
il «Catonismo». Roma, in questo supremo momento, aveva quasi paura di
diventar troppo ricca, grande e potente. L’avvenire la spaventava,
perchè le appariva troppo bello, almeno alla stregua nostra del
giudicare. Strane complicazioni degli eventi umani! Senonchè Roma
era ormai spinta alla sua ascesa da forze così numerose e potenti,
che fonderebbe un grande impero, non ostante la paura che la faceva
sgomenta. La generazione, che visse nel primo trentennio del II secolo,
aveva pensato di poter con quella sua ingegnosa politica di interventi
equilibrare le cose in modo da impedire agli Stati dell’Oriente di
ingrandirsi a spese di Roma, senza che Roma fosse nel tempo stesso
obbligata ad ingrandirsi a loro danno. Ma questi Stati orientali erano
diversi tra loro e avvezzi da secoli a combattere per ingrandirsi gli
uni a spese degli altri; molti potevano vantare una storia più grande
e antica di quella di Roma, e disponevano di grandi mezzi: cultura,
ricchezze, territori, uomini. Impossibile era pietrificare l’Oriente
in quell’equilibrio artificioso, che più conveniva ai Romani. La vita
ripigliava ad ogni momento i suoi diritti; e il faticoso equilibrio
ogni momento pericolava. Chi potrebbe enumerare tutte le brighe che
la politica romana trovò nelle cose di Oriente dopo la vittoria su
Antioco? Oggi era la lega achea, che veniva in guerra con Messene;
domani la lega etolica, che interne discordie laceravano: un giorno
Filippo di Macedonia, approfittando dei servigi resi a Roma nella
guerra contro Antioco, cercava di riallargare il suo dominio nella
Grecia e nella Tracia, e faceva nascere una grande paura nella lega
etolica e nel regno di Pergamo; un altro giorno il Re di Pergamo si
azzuffava con il Re di Bitinia, o moveva, con il Re di Cappadocia,
guerra al Re della Cappadocia pontica, in cui aiuto voleva moversi il
nuovo Re di Siria, il successore di Antioco III, Seleuco IV; il quale
poi ripigliava a intrigare e a combattere contro l’Egitto, l’eterno
antagonista! Roma era costretta quasi ogni giorno a intervenire e
a compiere un lavoro di Sisifo, che dappertutto feriva interessi,
offendeva orgogli, moltiplicava i nemici. Nel ventennio che segue la
grande vittoria siriaca, crebbe in Oriente l’avversione per Roma: e
gli animi ritornarono dovunque, per opposizione, più che per spontanea
simpatia, verso la Macedonia. Sebbene Roma avesse alla fine, dopo
averli tollerati in principio, impedito i nuovi ingrandimenti tentati
da Filippo ai danni di Eumene e della lega etolica, Filippo non si era
scoraggito: si era rivolto ad allargare il suo dominio nella Tracia;
a riordinare le finanze; ad amicarsi le valorose popolazioni barbare
dimoranti oltre il Danubio; così da poter lasciare, morendo nel 179,
uno Stato forte e fiorente al figlio Perseo. Perseo continuò le arti
del padre; cercò amicizie palesi e nascoste, in Grecia e nell’Illiria,
sposò una figlia del Re di Siria, riuscì ad annodare dei buoni rapporti
con Rodi, l’antica amica di Roma, che incominciava a stancarsi della
sua troppo potente protettrice; tentò di avvicinarsi alla lega achea e
divenne la speranza di tutti i nemici di Roma, in Grecia e in Oriente.

A poco a poco quell’artificiale politica dell’equilibrio generava
l’effetto opposto: lo squilibrio universale, un disordine maggiore,
la tempesta. Perseo diventa il campione e la speranza di tutti i
nemici di Roma, in Grecia e in Oriente, più per forza di cose che per
deliberato proposito. Non privo di intelligenza, ma timido e gretto,
temeva il cimento a cui lo spingevano gli eventi ed i tempi; ma non
aveva neppure l’intelligenza e la volontà necessarie per resistere
a queste spinte. Così a poco a poco lasciava che la nuova guerra
maturasse, senza prepararsi. Con questo procedere a mezzo egli poteva
sortire un solo effetto: che la guerra scoppiasse nel momento per Roma
più favorevole. E così accadde. Roma aveva in Oriente un amico sicuro:
il Re di Pergamo. Costui sorvegliava inquieto le mosse del partito
anti-romano, dappertutto crescente; e a poco a poco tanto disse e tanto
fece, — si recò persino a Roma in persona — che persuase il senato
romano a toglier di mezzo il pericolo, facendo guerra alla Macedonia
e distruggendola. Se no, il prestigio di Roma in Oriente cadrebbe.
Il senato allora, prese il primo pretesto che gli si offrì, per
dichiarare, pel 171, alla Macedonia la guerra. Di nuovo Roma assaliva
per la paura di essere assalita più tardi.

Senonchè i due primi anni di guerra furono pieni di sgradite sorprese
per Roma e per i suoi amici. Apparve ad un tratto quanto la forza
militare di Roma fosse indebolita. C’erano nelle legioni ormai troppi
soldati che andavano alla guerra con il servitore, che non volevano
più obbedire se non quando faceva loro comodo, e che non di vittoria
erano avidi, ma famelici di bottino. E i comizi troppo facilmente
eleggevano a consoli e a pretori degli uomini leggieri e incapaci,
destri solo nel lusingare i vizi e i difetti della moltitudine.
L’esercito di coscrizione, che era stato la forza di Roma nella seconda
guerra punica, si dissolveva, perchè i cittadini romani si erano fatti
troppo ricchi e avevano perduto l’antico spirito. Per l’indisciplina
delle legioni e per l’inettitudine dei generali, la guerra cominciò
con parecchi clamorosi rovesci e si trascinò per due anni, il 170 e il
169, incerta, lenta, dubbiosa. Il prestigio di Roma vacillò; amici e
alleati, ad eccezione di Eumene, incominciarono a tentennare; i Romani
dovettero rinunciar perfino a servirsi di contingenti greci ed etolici,
tanto poco erano sicuri; il partito macedonico prevalse in molte città
greche, tra parecchi popoli dell’Illiria e dell’Epiro; perfino Rodi,
antica e fedele amica di Roma, spedì a Roma un’ambasceria a proporre di
entrar nel conflitto non più come alleata, ma come mediatrice tra Roma
e la Macedonia; e il nuovo Re di Siria si preparò ad assalire ancora
una volta l’Egitto! Guai a Roma, se Perseo, più intelligente e più
attivo, avesse saputo sfruttare le prime vittorie! Ma Perseo era lento,
timido, gretto. A Roma invece i rovesci e il pericolo risvegliarono la
coscienza pubblica. Spaventato, il popolo andò a cercare un illustre
avanzo della generazione annibalica, un membro eminente del partito
tradizionalista, di cui Catone era il capo: il figlio del console
caduto a Canne, che da molti anni viveva in disparte, perchè poco
amico della gente nova, da cui la repubblica era stata invasa. Eletto
console, Paolo Emilio fu mandato nel 168 in Macedonia, con grandi
rinforzi.

Paolo Emilio restaurò la disciplina nell’esercito e con una breve ma
vigorosa campagna riuscì in quell’anno stesso, con una sola battaglia,
a terminare la guerra; sconfiggendo a Pidna Perseo[57]. Il Re di
Macedonia fu fatto prigioniero, e in pochi giorni la Macedonia si
arrese. Non appena Roma aveva fatto uno sforzo adeguato, il pericolo
tanto temuto era dileguato. La Macedonia era prostrata: occorreva
statuire sulla sua sorte. Ci fu chi propose di annetterla. Ma Catone,
Paolo Emilio, tutto il partito tradizionalista, in quel momento così
autorevole, si opposero. Che fare? Si applicò di nuovo l’antico metodo,
ma inasprendolo. Come ogni Stato, che vuol comprimere i movimenti
vitali di popoli o di classi, Roma era a poco a poco tratta ad usare
il terrore. L’antico regno di Alessandro Magno fu questa volta,
addirittura smembrato in quattro principati, legalmente autonomi, ma
vassalli di Roma; e, quel che è peggio, separati l’uno dall’altro. Tra
Stato e Stato il commercio e i matrimoni furono proibiti. Il paese fu
disarmato; molte famiglie aristocratiche furono deportate in Italia;
la metà delle imposte, che i sudditi versavano all’erario macedone,
devolute a Roma. Le miniere d’oro appartenenti al Re di Macedonia
furono chiuse: disposizione per noi singolare, e che deve attribuirsi
all’autorità di Paolo Emilio e del partito tradizionalista, il quale
non voleva che Roma arricchisse troppo. L’Epiro fu saccheggiato
barbaramente: 70 città, distrutte; 150.000 Epiroti, venduti schiavi.
Alla Grecia, Roma non tolse la libertà, ma inflisse più di un castigo
e si premunì con crudeli precauzioni da nuove infedeltà. I notabili
dell’Etolia, avversi ai Romani, furono trucidati, e il territorio della
confederazione, ristretto; mille cittadini achei furono deportati in
Italia, e tra questi Polibio, il grande storico; in tutte le città il
partito macedonico fu perseguitato, decimato, rovinato, e molti odi e
vendette di famiglia si compirono, prendendo a pretesto la politica.
Anche Rodi fu punita per aver tentennato un istante. Il partito
mercantile la voleva morta, per toglier di mezzo un concorrente; ma
Catone e il partito tradizionalista la salvarono dall’estrema rovina.
Pure il partito mercantile riuscì a farle togliere quasi tutti i
possedimenti continentali e a far dichiarare porto franco Delo, che
era data ad Atene. Delo, ormai piena di mercanti italiani, potè così
rapidamente fiorire, come Rodi deperì. Perfino Eumene sentì l’irosa
diffidenza di Roma; e ad Antioco di Siria, che stava guerreggiando con
l’Egitto, e già quasi aveva conquistato Cipro, fu mandata, per mezzo
di Caio Popilio, l’intimazione di ritornar nei suoi Stati e di non
molestar l’Egitto. Il Re si affrettò ad obbedire.

Le cose di Grecia e d’Oriente avevano subìto una specie di
rimaneggiamento brutale. Roma si faceva più sospettosa, violenta,
crudele, a mano a mano che raccoglieva il frutto delle difficoltà
seminate; era tratta ad imporre la sua volontà spaventando, dividendo,
distruggendo. Era una catena. Ma sino a che punto avrebbe potuto la
forza mantenere quell’equilibrio impossibile, a cui Roma mirava?


NOTE AL CAPITOLO DECIMO.

[52] Cfr. POLYB., 6, 17, 2 sgg.; è questo uno dei passi più importanti
dell’opera di Polibio.

[53] Il divieto era fatto dalla _Lex Claudia_ del 220 (LIV., 21, 63).

[54] PLUT., _Cato major_, 22, 1-2.

[55] Su questi famosi processi degli Scipioni, è stato discusso
lungamente. Riferiamo gli studi più importanti: TH. MOMMSEN, _Die
Scipionprozesse_, in _Römische Forschungen_, II, 417 sgg.; C. PASCAL,
_Il processo degli Scipioni_ e _L’esilio di Scipione Africano_, in
_Fatti e leggende di storia antica_, Firenze, 1903, pp. 53-84. Il
lavoro del Pascal è assai interessante, in quanto, con argomenti
difficilmente contestabili, taglia corto alla tendenza della moderna
critica tedesca e italiana di ritrovare, nello studio delle fonti di
quei processi, infinite falsificazioni di età posteriore. Ad identico
intendimento ci ispirano due studi posteriori: G. BLOCH, _Observations
sur le procés des Scipions_, in _Revue des études anciennes_, 1906, e
A. BARBATO, _Il processo degli Scipioni in Livio_, Aversa, 1913. Un
altro voluminoso studio sull’argomento: FRACCARO, _I processi degli
Scipioni_ in _Studii storici per l’antichità classica_, 1911, pp.
217-414 è, viceversa, tutto informato alla ipercritica e alla così
detta critica radicale, caratteristica dei seminari filologici di
Germania e d’Italia.

[56] Sull’argomento del presente paragrafo, cfr. G. FERRERO, _Grandezza
e decadenza di Roma_, Milano, 1902, vol. I, cap. II.

[57] Sulla battaglia di Pidna, cfr. I. KROMAYER, _Antike Schlachtfelder
in Griechenland_, Berlin, 1907, II, pp. 310 sgg.



CAPITOLO UNDICESIMO

LA CRISI DELL’EGEMONIA


63. =La grande rivolta della Spagna (154 a. C.).= — Alla battaglia
di Pidna seguirono alcuni anni tranquilli. Tutto il Mediterraneo,
atterrito, non si mosse. Soltanto in Siria, in Egitto, nell’Adriatico
nacque qualche difficoltà, ma di poco conto; e tutte furono facilmente
appianate. Inoltre alla guerra macedonica seguirono anni di nuova
e insperata prosperità. L’erario fu così ricolmo dal bottino della
guerra, dal tributo della Macedonia e dai redditi affluenti dalle
altre province, che nel 157 vi ristagnavano 16.810 libbre d’oro, 22.070
libbre d’argento e 61.035.400 libbre di argento monetato[58]. Roma non
era mai stata così ricca e potente.

Senonchè, passata la paura e in tanta abbondanza di denaro, anche
i buoni propositi degli ultimi anni della guerra duraron poco. La
corrente nuova, ellenizzante, plutocratica, mercantile, prevalse
di nuovo sul partito tradizionalista, e tutti si lasciarono
vincere, più o meno; tutti, anche Catone. Noi sappiamo che l’acerbo
nemico dell’ellenismo studiò sui tardi anni le lettere greche;
che l’apologista della piccola proprietà diventò con il tempo un
latifondista; che il persecutore degli usurai e dei pubblicani finì
anch’egli per praticare il commercio, interdetto ai senatori, _salvis
legibus_, per l’interposta persona di un suo liberto prestanome. Per
quanto gli antichi considerassero come corruzione e dissolvimento,
molte cose che noi consideriamo come progresso, e sebbene gli spiriti
resistessero allora un po’ più di oggi, non resistevano neppure allora
che sino ad un certo punto alla attrazione della ricchezza e del nuovo,
appena il pericolo del corrompersi, non apparisse più così grande. Roma
chiudeva di nuovo gli occhi, godeva il fortunato momento, e lasciava
spensieratamente agire le forze oscure, che venivano dissolvendo lo
Stato e l’esercito. I consoli esentavano in gran numero, nelle leve,
i cittadini agiati, per non farsi dei nemici. Gli ufficiali chiudevano
un occhio ed anche due, lasciavano servi e prostitute frequentare gli
accampamenti, permettevano ai soldati di ubriacarsi, di prendere il
bagno caldo, di commettere rapine e violenze, di schivar fatiche e
pericoli. Si studiavano tutti i ripieghi per scemare agli impoltriti
signori dell’impero i pesi della milizia: ridurre il servizio a sei
anni; congedare per sempre i soldati che avessero fatte sei campagne;
aumentare i contingenti latini ed italici. Il servizio militare
obbligatorio per tutti i cittadini, che era stato sino ad allora la
forza e la salvezza di Roma, incominciava a mutarsi in un rovinoso
fattore di decomposizione sociale.

Sotto la vistosa prosperità di questi anni maturava infatti una crisi
immensa e terribile. La prima spinta fu data dalla Spagna. Nel 154 si
sollevarono parecchie popolazioni della Celtiberia: i Belli, i Titti e
gli Arevaci. Roma era avvezza a queste rivolte; onde da prima nessuno
se ne diede pensiero. Ma uno dei consoli del 153, mandato a reprimere
la rivolta, Quinto Fulvio Nobiliore, fu una prima volta vinto non
lungi da Numanzia e vinto una seconda volta sotto le mura della città,
perdendo — se gli antichi non esagerano — sei mila uomini nella prima
battaglia e quattro mila nella seconda. Fulvio dovè ridursi sulla
difensiva; la rivolta si allargò; e il suo successore, M. Claudio
Marcello, arrivato con otto mila uomini di rinforzo, credè più prudente
trattare, e riuscì infatti a conchiudere la pace. Ma nel 152, mentre
Marcello trattava con le popolazioni della Celtiberia, insorgevano i
Lusitani; e nel 151 L. Licinio Lucullo giungeva in Spagna a sostituire
Marcello con il proposito di accrescere la modesta fortuna della
famiglia con la preda di qualche fortunata campagna. Avendo trovata la
Celtiberia pacata, assalì senza ragione i Vaccei, e fece nascere una
nuova guerra.


64. =La terza guerra punica (149-146 a. C.).= — Ben presto Roma si
accorse che la guerra di Spagna era più seria delle solite rivolte;
così seria, che si stentava a trovare soldati e ufficiali[59]. I
generali incominciarono a fare in Spagna una guerra di sterminio, di
rapina e di stratagemmi sleali, senza che nessuno a Roma protestasse,
fuori che il vecchio Catone, e anche costui platonicamente. Ma le
crudeltà e le perfidie esasperarono, invece di atterrire, le fiere
popolazioni della Spagna; e la guerra divampò così violenta, che il
rumore ne giunse — e non sgradito — ad una città, alla quale la Spagna
ricordava un impero perduto: Cartagine. Dopo Zama, Cartagine s’era
rassegnata al destino, giungendo a sacrificare, nel 196, lo stesso
Annibale. Molti Italici si erano stabiliti in territorio cartaginese;
Cartaginesi e Romani si ritrovavano in Sardegna; rapporti amichevoli
intercedevano tra Cartagine e il nuovo regno di Massinissa. E di
essersi rassegnata al giudizio delle armi, Cartagine non poteva
lagnarsi, almeno per le ricchezze. I Cartaginesi erano tanto più abili
e destri dei Romani nel commerciare, che, non ostante la sconfitta e la
perdita dell’impero, con i capitali di cui disponevano, la conoscenza
dei mercati e le antiche relazioni, avevano conservato l’egemonia
mercantile del Mediterraneo e continuavano a raccogliere nelle loro
mani tutto il commercio, che veniva verso il Mediterraneo dall’Africa
centrale. Del che i Romani provavano nel tempo stesso invidia e paura.
A quei _mercatores_ e a quei pubblicani, che ormai erano così numerosi
e potenti; ai senatori e ai plebei, che seguivano l’andazzo dei tempi
e ambivano fare di Roma un grande emporio, la concorrenza di Cartagine
era una umiliazione ed un danno. Ad altri, a quanti credevano che
Roma, rosa dalla corruzione, s’indebolisse, le ricchezze di Cartagine
facevano paura. E se un giorno uscisse di Cartagine un nuovo Annibale?
Onde cresceva in Roma, di anno in anno, una animosità nuova contro
Cartagine, che, non potendo altrimenti, si sfogava in una subdola
politica di dispetti: incoraggiando Massinissa, sotto mano, a usurpar
qua e là pezzi di territorio cartaginese, e dando poi sempre ragione
a Massinissa, quando il litigio, a tenore del trattato di pace, era
devoluto all’arbitrato romano. Trattata a questo modo, Cartagine
ripagava Roma con un odio non meno profondo e tenace.

Tra il 151 e il 150 questi odi latenti scoppiarono. Un rivolgimento
politico, avendo portato al potere in Cartagine il partito popolare,
una quarantina di cittadini eminenti furono banditi. Questi si
rifugiarono presso Massinissa, il quale chiese a Cartagine di
riammetterli. Cartagine rifiutò. Massinissa ne approfittò per invadere
di nuovo il territorio cartaginese; ma questa volta il nuovo governo
di Cartagine non ricorse più all’arbitrato di Roma: dichiarò guerra a
Massinissa, raccolse un esercito, lo affidò al comando di Asdrubale
e si difese. Disgraziatamente per Cartagine, Massinissa inflisse al
suo esercito una grave disfatta; e allora l’astio e l’invidia che
da un pezzo covavano, scoppiarono a Roma. Da ogni parte si gridò che
Cartagine aveva violato il trattato di pace, che bisognava dichiararle
la guerra e darle una solenne lezione. Gli interessi mercantili,
smaniosi di indebolire Cartagine per toglierne di mezzo la concorrenza
ed ereditarne il commercio, soffiarono nel fuoco; e, quando il senato,
spinto dalla opinione pubblica, chiamò sotto le bandiere un nuovo
esercito, i volontari affluirono da tutte le parti. Mentre nessuno
voleva andare in Spagna, dove c’erano da ricevere colpi in quantità
e scarso bottino da raccogliere, tutti facevano ressa per andare
in Africa, dove si sperava preda copiosa e facile. I Cartaginesi,
spaventati, rovesciarono il governo popolare, condannarono a morte
Asdrubale, già fuggito, e mandarono a Roma un’ambasceria per comporre
il dissidio. Era troppo tardi. Le cose erano ormai in tal movimento,
che nessuna forza umana poteva più fermarle. L’ambasceria ritornò
senza aver ottenuto che una risposta sibillina. Roma però non voleva
impegnarsi a combattere nel tempo stesso in Spagna ed in Africa. Che
fare? Il senato si radunò in sedute segrete; e dopo lunghi dibattiti
deliberò di finirla con il pericolo cartaginese, distruggendo
Cartagine, come fosse un villaggio spagnuolo. Per risparmiarsi una
nuova guerra, si cercherebbe di pigliar Cartagine di sorpresa, a
tradimento, così da poter distruggerla senza colpo ferire. Mai forse
nella storia uno Stato civile, in piena pace, a mente fredda, senza
seria provocazione, deliberò una più mostruosa violenza. Ma l’orgoglio
era inferocito dalla paura; e l’orgoglio e la paura dall’interesse.

Il piano fu eseguito con una perfidia diabolica. Inutilmente i
Cartaginesi mandarono una seconda ambasceria, con l’incarico di
intendersi a qualunque costo: quando questa giunse a Roma, sul
principio del 149, già il senato aveva dichiarato la guerra; e i
due consoli Manio Manilio e Lucio Marcio Censorino erano passati con
l’esercito e con la flotta in Sicilia. Spaventati, credendo ormai tutto
perduto, gli ambasciatori caddero nel laccio che il senato tendeva
loro: dichiararono che Cartagine rimetteva interamente la sua sorte in
balìa di Roma. Il senato finse di rabbonirsi; e, congratulandosi che
Cartagine si mettesse sulla via della ragione, rispose ambiguamente
che, se entro trenta giorni avessero consegnato 300 ostaggi delle
maggiori famiglie, e obbedito agli ordini che impartirebbero loro i
consoli, Roma non toccherebbe nè le loro leggi, nè il loro territorio.
Della città, non una parola. Questo silenzio inquietò prima gli
ambasciatori e poi i Cartaginesi, i quali non ignoravano certo che a
Roma molti e potenti interessi chiedevano la distruzione della città;
ma, se in quel silenzio era nascosto un tranello, come schivarlo?
I Cartaginesi si illusero; consegnarono e spedirono in Sicilia gli
ostaggi, e si rivolsero ai consoli che frattanto erano sbarcati ad
Utica, per eseguire gli ordini di Roma. I consoli prima ordinarono il
disarmo della popolazione. Di nuovo i Cartaginesi esitarono, temendo.
Poi anche quell’ordine fu eseguito. Allora, ma allora soltanto, fu
reso di pubblica ragione il feroce decreto del senato, che ordinava la
distruzione di Cartagine e l’internamento dei suoi abitanti a ottanta
stadi (15 km.) dal mare. Le leggi, la libertà, il territorio erano
rispettati; la città, distrutta, perchè — commentò uno dei consoli —
Roma voleva il bene della sua alleata, e perciò con quell’ingiunzione
distoglieva i cittadini dall’infido commercio, obbligandoli alle più
sane e sicure occupazioni dell’agricoltura.... Ma la grande città,
che non aveva saputo vivere, volle almeno morire degnamente. Quanto
il furore della disperazione può suggerire fu fatto, con fulminea
rapidità, ed adoperando i larghi mezzi di cui Cartagine disponeva;
cosicchè, quando l’esercito romano giunse sotto le mura, trovò una
città, di cui non avrebbe potuto aver ragione se non dopo un lungo
assedio.


65. =La insurrezione e l’annessione della Macedonia (149-148 a. C.).=
— Il bel disegno di aver Cartagine per inganno, senza trarre la spada,
era dunque fallito. Già impegnata in Spagna, Roma doveva affrontare
una nuova guerra in Africa. Ma stava per succedere di peggio: in quello
stesso anno nuove difficoltà nacquero in Macedonia. Anche in Macedonia
la politica negativa di Roma incominciava a dare i suoi frutti. Lo
spezzettamento del regno aveva leso troppi interessi, distrutto troppe
tradizioni vitali. Caduto il potere regio, le gare, le animosità,
le ambizioni, le prepotenze locali, ormai non più tenute a freno da
un’autorità predominante, avevano tolto al paese la pace. Ovunque il
partito macedone, fedele al regime caduto, aborriva come traditore
il partito romanofilo che governava, e non restava dall’aizzare il
malcontento dei più. Onde un malessere generale e crescente, che
sarebbe scoppiato alla prima occasione. Sopraggiunsero, a dar la spinta
alle cose macedoniche, che da qualche tempo appena appena si reggevano
in bilico, le notizie della Spagna e dell’Africa? È probabile. Ad ogni
modo, bastò che nel 149 un avventuriero, un tal Andrisco, si spacciasse
per figlio di Perseo; e in un baleno tutta la Macedonia si levò in suo
favore. Fu necessario approntare un nuovo esercito, che passerebbe
l’Adriatico nel 148, sotto il comando del pretore Quinto Cecilio
Metello. Giungevano frattanto a Roma, con queste della Macedonia,
cattive notizie dall’Africa. Le popolazioni soggette si mantenevano
fedeli a Cartagine; gli eserciti romani avevano la peggio nelle prime
operazioni contro la città. Bisognava combattere in Macedonia, in
Spagna, in Africa.

Che movimento d’armi vide dunque la primavera del 148! Ma le cose non
migliorarono nè peggiorarono in Spagna, dove la guerra continuò con
incerta vicenda. In Africa, invece, il console Lucio Calpurnio Pisone
non solo non riuscì a prendere Cartagine, ma neppure a guadagnare con
la forza o con i trattati le città libofenicie. Combattè, perdette
uomini, senza altro effetto che di infervorare i Cartaginesi nei loro
propositi di resistenza estrema. Asdrubale, il generale condannato a
morte l’anno innanzi, fu chiamato nella città e investito del supremo
comando. Più prosperamente volsero invece le cose in Macedonia, dove
in poco tempo riescì a Metello di domare l’insurrezione dell’impostore
e di riconquistar la Macedonia: ma non era ancora pacificata la
Macedonia, che nuove turbolenze nascevano, in Grecia, questa volta.
Anche le notizie dell’Africa, della Spagna e della Macedonia avevan
operato il solito effetto: Roma vacillava, era il tempo di insorgere!
La lega achea, stanca della tutela con cui Roma le impediva di
sciogliere le vecchie questioni con Sparta, diede il primo segno della
rivolta. Come a Cartagine, al partito oligarchico, che era romanofilo,
era succeduto al potere il partito popolare, nazionale e antiromano; e
questo ruppe gli indugi nel 148. Saltando i divieti di Roma, dichiarò
guerra a Sparta. Non è difficile capire come a questo punto l’opinione
pubblica in Roma perdesse la pazienza. Che facevano dunque tutti
questi consoli e pretori, a capo di tante legioni? Non si riusciva
più a scovare nelle grandi case di Roma un generale, che sapesse
vincere Lusitani e Cartaginesi? Catone prestò ancora una volta la sua
voce alla collera pubblica, quando definì quei generali non uomini ma
ombre[60]. E già doveva incominciarsi a sospettare una coalizione tra
Cartagine, la Spagna, la Grecia. Ma da questo malcontento proruppe
alla fine un movimento improvviso. Al tempo delle elezioni era venuto
dall’Africa, dove serviva come tribuno militare, per presentarsi
candidato all’edilità, Publio Cornelio Scipione Emiliano, un figlio
di Paolo Emilio, entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni.
Grande e illustre nobiltà, dunque, se altra ce n’era in Roma: ma di
atti e di virtù e non solo di nome; chè il giovane Emiliano aveva già
militato con lode prima in Spagna e poi in Africa. A lui e ai suoi
consigli si attribuiva quel po’ che in Africa era stato ben fatto e con
fortuna. Abbagliato dal nome e dalla buona reputazione del giovane, il
pubblico si persuase che quello era l’uomo che ci voleva per la guerra
con Cartagine, se fosse nominato non edile, ma console. Ma c’era un
impedimento: l’età del candidato e la legge che regolava la successione
delle magistrature esercitate. Il popolo scavalcò l’ostacolo,
sospendendo per Scipione Emiliano, con una legge apposita, la regola
comune. Scipione fu eletto console per l’anno 147.

Il popolo non si era ingannato. Il nuovo console era veramente, come
diceva Catone, un uomo tra le ombre. Andato in Africa, al principio
dell’anno 147, con rinforzi di uomini e navi, ristabilì la disciplina
e assediò finalmente sul serio la città, bloccandola con ingenti
e penosi lavori. Le cose dunque presero a migliorare in Africa; e
giunsero a conchiusione nella Macedonia. Nel 147 la Macedonia era
di nuovo interamente in potere di Roma; e il senato questa volta
la dichiarava provincia romana, come la Sicilia, la Sardegna e la
Spagna. Deliberazione grave, perchè proprio quando già aveva tanti
nemici e tante brighe sulle braccia, Roma ampliava l’impero di una
vasta provincia confinante con i barbari. Ma essa doveva subire la
forza soverchiante della necessità. Distrutta la dinastia nazionale,
fallito il ripiego dello spezzettamento, che altra alternativa restava
a Roma se non abbandonare alla sua sorte la Macedonia o annetterla? La
Macedonia ormai cascava addosso a Roma, come un peso o un corpo morto
da sostenere. Le cose invece, migliorate in Africa e in Macedonia,
peggiorarono in Lusitania ed in Grecia. Intorno a questo tempo, mentre
si cominciava a sperare che la guerra languisse, a capo della Lusitania
ribelle si mise un vero soldato, un tal Viriato, un semplice pastore,
di cui la guerra avrebbe fatto un eroe. Egli iniziò una guerriglia, che
doveva infliggere ai Romani le più memorande sconfitte. E il pericolo
di gravi turbolenze cresceva pure in Grecia, dove il senato romano
aveva castigato la lega achea, togliendole alcune importanti città,
acquistate dopo la seconda guerra macedonica. Onde torbidi, tumulti e
un nuovo fermento di malumori; cosicchè anche l’anno 147 corse per Roma
inquieto, tra le ansie di due guerre sanguinose e la minaccia di una
terza guerra.


66. =La distruzione di Cartagine e di Corinto (146).= — Nel 146
però Roma colse il primo frutto dell’elezione di Scipione Emiliano.
A Scipione riuscì prima di sgominare l’esercito che i Cartaginesi
avevano raccolto per venire in soccorso della città assediata; poi
di prendere la città. Fu necessario prima entrare nella città dopo
aver superato le fortificazioni esterne; poi passo passo, per le vie
strette, tortuose, asserragliate, combattendo senza tregua sei giorni
e sei notti, giungere sino alla cittadella, dove 50 mila cittadini
si erano rifugiati. Ma quando, alla fine, anche questi si arresero,
Roma fu padrona di Cartagine. Non esitò allora, perchè aveva troppa
paura. La Commissione senatoria, incaricata di assestare le faccende
cartaginesi, procedè subito alla distruzione della città: i quartieri,
gli edifici, i monumenti, che erano scampati alla guerra, furono
demoliti; la popolazione superstite, dispersa; il suolo, consacrato
agli Dei Infernali, cosicchè a nessuno doveva essere più lecito di
dimorarvi. Distrutta Cartagine, occorreva deliberare intorno alla sorte
del suo territorio. Si ripresentava la alternativa della Macedonia; o
abbandonarlo a se medesimo o annetterlo, almeno in parte. La necessità
vinse anche questa volta i dubbi della ragione: tutto il dominio
cartaginese fu ridotto a provincia romana sotto il nome di _Africa_,
salvo le parti orientali confinanti con la Cirenaica, le Emporie e le
altre città di Sabrata, Oea e Magna Leptis, che rimasero alla Numidia,
e salvo Utica, Ippona ed alcune altre, che, in ricompensa della loro
defezione, ottennero l’indipendenza e una parte dell’antico territorio
di Cartagine. La popolazione superstite dovè, per vivere, disperdersi
nelle campagne e darsi all’agricoltura. Là dove era stato il più
florido impero mercantile, sottentrerebbe uno Stato agricoltore. Del
territorio cartaginese una parte fu confiscata; e divenne il più grande
_ager publicus_ extra-italico, fin allora posseduto da Roma. Il resto
fu lasciato ai nuovi provinciali, con l’obbligo di pagare un tributo
fisso (_stipendium_)[61].

Cartagine, il terrore di tanti anni, non era più! Ma mentre Cartagine
andava in fiamme, la Grecia insorgeva. La lega achea era riuscita a
tirare alla sua parte i Beoti, i Focesi, i Locresi, gli Eubei; e nel
146 dichiarava di nuovo la guerra a Sparta. Roma intervenne, questa
volta, senza esitazioni e riguardi. Dopo aver debellato la Macedonia
e Cartagine, non aveva paura della Grecia, anche se in Lusitania a
Viriato crescevano, con i prosperi successi, l’autorità e le forze.
Metello, accorso dalla Macedonia, inflisse una prima sconfitta alla
lega; re Attalo II mandò in soccorso la flotta; il console Lucio
Mummio, arrivato di lì a poco, sgominò a Leucopetra il nemico. La lega
si sciolse; e in pochi giorni Mummio potè impadronirsi di Corinto e
domare la rivolta. Per la terza volta, in tre anni, si poneva innanzi
al senato il dubbio: quale sorte riserbare ai vinti? Alle città,
che non avevano preso parte alla guerra, il senato, sempre alieno
dalle conquiste, fu lieto di conservare l’indipendenza. Ma si poteva
restituirla alle città ribellate? E se non si poteva, che altro
partito restava, se non l’assoggettarle? I territori di queste città
furono incorporati dunque alla Macedonia e dichiarati provincia; tutte
le leghe furono sciolte; tutte le città, isolate; in ciascuna, le
democrazie abolite a favore, come in Italia, di governi oligarchici, i
quali dessero affidamento di amministrar la città come piaceva a Roma;
tutti i fautori della guerra e della politica antiromana, ricercati e
severamente puniti; il paese, saccheggiato; una parte del territorio
incamerato, e Corinto, l’antica città, famosa per la sua storia, per
i suoi monumenti, per la sua bellezza e per la sua ricchezza, fu data
alle fiamme[62].


NOTE AL CAPITOLO UNDICESIMO.

[58] PLIN., _N. H._, 33, 3, 55.

[59] POLYB., 35, 4, 4 sgg. I frammenti della nuova _Epitome_ liviana,
scoperti tra i Papiri di Oxyrynchus, hanno portata nuova luce
sull’asprezza delle contese provocate in Roma dalla insurrezione
spagnola; cfr. _Oxyr. Pap._ IV, pp. 90 sgg., ll. 177; 182-84; 207,
209 — E. KORNEMANN, _Die neue Livius Epitome aus Oxyrynchus_, Leipzig,
1904, pp. 107 sgg.

[60] LIV., _Epit._, 49.

[61] CIC., in _Verr._ III, 6, 12.

[62] Sulla condizione fatta alla Grecia nel 146, cfr. G. COLIN, _Rome
et la Grèce de 200 à 146 a. J. C._, Paris, 1903, pp. 640 sgg.



CAPITOLO DODICESIMO

I GRACCHI


67. =La crisi economica della seconda metà del II secolo a. C.= — Che
nel volgere di due anni Roma abbia osato distruggere due città, così
antiche, ricche, gloriose, come Cartagine e Corinto; questo fatto solo
basterebbe a provare che la potente città era tormentata da un qualche
terribile male interno. La storia narra poche violenze più orrende di
queste. Passi ancora per Cartagine, che aveva tentato di annichilire
Roma! Ma Corinto non aveva mai pensato di misurarsi con Roma in un
duello mortale. Corinto fu distrutta, perchè gli interessi mercantili,
imbaldanziti dalla distruzione di Cartagine, vollero toglier di mezzo
un’altra pericolosa concorrente; e perchè l’opinione pubblica, irritata
e spaventata dalla lunga lotta, lasciò fare.

Ma Roma era giunta ormai a una stretta paurosa. La savia politica
degli Scipioni aveva tentato invano di salvarla dal pericolo delle
troppo vaste ambizioni. La forza delle cose aveva anche questa volta
sbugiardato la saggezza degli uomini. Le recenti annessioni erano
nate dall’esaurimento della politica di egemonia. Roma era stata
costretta ad ampliare i suoi possedimenti in Africa ed in Europa;
e possedeva ora un impero spezzettato, le cui singole parti, se si
potevano sperar fruttuose, erano anche un peso ed un impegno. Un peso,
perchè dovevano essere amministrate, governate e difese; un impegno,
perchè, prima la necessità di difendere e poi quella di connettere
queste parti, per modo che tutte potessero sicuramente comunicare
tra loro e con la metropoli, obbligherebbero Roma a conquistare nuovi
territori. Roma era ormai spinta innanzi da quella logica delle cose,
che nella storia corrisponde così poco alla logica della ragione.
Senonchè, mentre l’impero si ampliava, Roma si indeboliva. Non che
quell’impeto di cupidige e di ambizioni, che aveva spinto l’Italia
a cercar nelle province e sui mari nuove ricchezze, si rallentasse.
Molti Italici si arricchivano a Delo, in Asia, in Egitto. Pubblicani
e usurai, venuti da Roma e d’Italia, continuavano a dissanguare la
Sicilia, la Macedonia, la Spagna. Il commercio degli schiavi continuava
a fiorire in segreto accordo con i pirati, su tutto il Mediterraneo.
L’agricoltura migliorava in tutta la penisola; la tradizione non era
più la sola maestra; i trattati scientifici, greci e cartaginesi,
erano studiati. Le vigne e gli oliveti si allargavano; l’istruzione
si diffondeva, il latino si sovrapponeva, come unica lingua nazionale,
all’osco, al sabellico, all’etrusco, soffocandoli; gramatici e retori,
greci e latini, aprivano scuole in molte città. Molti piccoli e medi
possidenti mandavano a queste scuole i figli, con la speranza che lo
studio fosse per essi la chiave della fortuna. E cresceva pure in tutte
le condizioni il lusso e la voglia di spendere. Basterebbe a provarlo
la _Lex Didia Cibaria_ approvata nel 143, e che estese a tutta Italia
le disposizioni della _Lex Fannia_ contro le prodigalità dei banchetti.

Insomma in tutte le classi operava sordo il fermento delle nuove
aspirazioni. Ma i tempi non erano più così facili come nel primo
trentennio del II secolo. La prosperità di quel primo trentennio era
zampillata da parecchie fonti; metalli preziosi portati in Italia
o come bottino di guerra o per pagamento di indennità, che avevano
permesso al senato romano di spendere largamente senza aggravare
l’Italia d’imposte; vaste confische di terre, specialmente nella valle
del Po; abbondanza di schiavi. Ma nel trentennio che seguì la guerra di
Perseo queste tre fonti seccano o quasi. Non è dubbio che le tremende
guerre combattute dopo il 154 — eccezione fatta della guerra contro
Cartagine — fruttarono molto meno. La Macedonia e la Grecia erano
state già troppo esauste dalle guerre precedenti, e non avevano avuto
il tempo di accumulare nuovi tesori, che bastassero a sfamare ancora
una volta l’insaziabile invasore. È probabile che la guerra di Spagna
già costasse all’erario più che non fruttava; e tra poco dissesterà
le finanze, trenta anni prima così floride. Infine, sebbene nel mondo
antico i popoli fossero meno legati tra di loro che nei nostri tempi,
è forza argomentare nella distruzione di Cartagine e di Corinto una
nuova cagione di impoverimento, per tutto il mondo mediterraneo.
Distrutti quei due floridi empori, molte industrie e molti commerci
dovettero intisichire o addirittura morire per mancanza di abili ed
esperti mediatori. Roma e l’Italia non riuscirono a fare le veci così
dei mercanti di Corinto come di quelli di Cartagine in tutti i loro
traffici. Alla boria e alla cupidigia, non erano pari nè i capitali nè
le conoscenze nè le attitudini. Onde una nuova cagione di povertà per
tutti, anche per l’Italia.

Insomma il maggior guadagno di queste guerre furono gli accresciuti
appalti delle imposte e delle proprietà pubbliche nelle nuove province.
Ma quegli appalti, come quel po’ di commercio che gli Italiani
poterono raccattare tra le rovine fumanti di Cartagine e di Corinto,
arricchivano solo un piccolo numero. L’agiatezza, di cui aveva goduto
tutta Italia nel primo trentennio del II secolo, era nata invece dalle
grandi entrate e dalle grandi spese dello Stato; e queste scemando,
anche quella languiva. Incominciò dunque di nuovo ad aggravarsi il male
dei debiti. Anche la nobiltà, non potendo più vivere con le antiche
fortune e non sempre sapendo accrescerle, incominciò a indebitarsi, a
corrompersi, e a cercar di sfruttare il potere.

Nel 149 appunto è istituita la _prima quaestio perpetua de pecuniis
repetundis_, il primo tribunale permanente che deve giudicare i
magistrati e i senatori accusati di estorsioni a danno degli alleati e
dei provinciali. L’ordine dei cavalieri si empiva invece di pubblicani
e di mercanti arricchiti, il cui orgoglio e la cui potenza crescevano,
man mano che l’aristocrazia storica si corrompeva e impoveriva.
Incominciava pure a indebitarsi e a pericolare la media possidenza.
Cresceva dovunque, anche nelle campagne più remote, la spesa del
vivere, sia perchè crescevano i bisogni e il lusso, sia perchè la
moneta rinviliva con l’aumento dei metalli preziosi: ma non cresceva
in ogni parte anche il prezzo di tutte le derrate, che il possidente
vendeva per pagare i nuovi lussi. Nelle regioni lontane dalle vie
maestre o senza ricche città, che non potevano esportare i loro
prodotti, questi rinvilivano, appena ce n’era un po’ di abbondanza.
Così Polibio ci dice che nella valle del Po, in questi tempi, i viveri
costavano pochissimo[63]. Bastava dunque che il possidente si lasciasse
un poco andar nello spendere, e cascava nei debiti, dai quali poi gli
era difficile liberarsi, massime in tempi in cui le guerre fruttavano
poco. La piccola possidenza dappertutto era in travaglio e rovinava;
diminuiva in tutta Italia quel medio ceto rurale tra cui si reclutavano
le legioni romane e i corpi ausiliari; il latifondo invadeva l’Italia,
e, insieme con il latifondo, la pastorizia e la popolazione servile,
importata in copia d’oltre mare. La grande proprietà prosperava
sulla decadenza militare di Roma. Tiberio Gracco potrà dire tra poco
che, se tutte le fiere hanno un covile in cui rifugiarsi, coloro che
combattevano e morivano per la difesa dell’Italia, non avevano più
altro bene che l’aria in cui respirare. Il levare soldati era proprio
un compito ogni anno più arduo. Ormai, appena si annunciava una guerra
un po’ seria, Roma doveva ricorrere ad ogni sorta di espedienti per
trovar guerrieri.

Questa strana contradizione in cui Roma era impigliata; questa
necessità di ingrandire l’impero con forze debilitate, spiegano
l’irrequietezza dell’opinione pubblica, i facili spaventi, gli accessi
di furore a cui soggiaceva. Roma aveva paura della sua potenza; e
neppur le vittorie su tanti nemici ebbero forza di tranquillarla.
Sì, questa volta ancora si era vinto, ma con quanta fatica! E poi, se
la Macedonia, Cartagine, la Grecia, bene o male, erano state vinte,
Viriato non dava tregua in Spagna e la guerra continuava implacabile.
Dal 145 si cominciò ad affidarla di nuovo ad uno dei consoli. No,
Roma perirebbe ben presto come Cartagine, se l’aristocrazia non
sapesse vivere di nuovo con l’antica semplicità; se i Romani non si
ricordassero più che il primo dovere del cittadino è il generar molta
prole; se non si impedisse la rovina della piccola e della media
proprietà rurale, donde erano usciti i soldati e gli eserciti, che
avevano conquistato l’Italia e l’impero. In queste idee, dopo la caduta
di Cartagine e di Corinto, si infervorava la parte migliore della
nobiltà romana, quella che si raccoglieva intorno a Scipione Emiliano,
divenuto ormai il primo personaggio di Roma.

Idee, che ben presto tentarono di uscire dalla chiusa cerchia delle
conversazioni private. Nel 145 il tribuno C. Licinio Crasso, propose
una legge agraria che mirava a ricostituire la piccola proprietà[64];
e poco prima o poco dopo ne imitò l’esempio il pretore Caio Lelio,
un grande amico di Scipione, di cui era stato _legatus_ nella guerra
di Cartagine. Quali fossero le disposizioni capitali della sua legge,
non sappiamo; sappiamo solo che essa fu oppugnata con tanto furore in
senato, che Lelio desistè dalla proposta; e perciò fu detto _sapiens_,
il saggio[65]. Questa lode dell’uomo è la condanna dei tempi. Si
diagnosticavano i mali, si discutevano i rimedi e sin qui eran tutti
d’accordo; ma quando si passava all’atto, gli interessi si spaventavano
e c’eran tante buone ragioni per escludere una dopo l’altra tutte le
medicine proposte, che savio pareva il medico il quale rinunciava ai
farmaci. Anzi succedeva di peggio: mentre tutti gli uomini savi erano
d’accordo che occorreva frenare il nuovo spirito che si divulgava nelle
moltitudini, non riuscivano che le imprese e i disegni, i quali avevano
per effetto di esaltarlo. Buona parte del moderno Piemonte era ancora
indipendente dal dominio romano, nè mai, del resto, quelle popolazioni
avevano dato occasione a rappresaglie. Ma i Salassi possedevano dei
territori auriferi; onde nel 143, senza provocazione alcuna, il console
Appio Claudio li attaccava, toglieva loro una parte dei territori
e ne faceva concedere le miniere a una compagnia di pubblicani.
_Victumulae_, nel Vercellese, divenne un florido centro del commercio
dell’oro[66].


68. =Gli scandali della guerra di Spagna: Numanzia.= — Fu questo un
tempo grigio e fastidioso, in cui Roma ebbe come il sentimento di
essere ròsa dentro da un male mortale, ma incurabile. Uno sconsolato
pessimismo invade le alte classi e fomenta la discordia. Gli odi, gli
asti, i ripicchi tra i grandi e le famiglie inveleniscono; e sono via
via inaspriti dalle vergogne della guerra di Spagna. Ora vinto ora
vincitore ma sempre in armi, Viriato non dava tregua ai Romani, anzi
allargava la rivolta. Tra il 143 e il 142 riusciva a sollevare di
nuovo contro Roma i tre popoli, dai quali era incominciata anni prima
la rivolta della Spagna: gli Arevaci, i Titti ed i Belli. Numanzia era
la rocca di questa nuova guerra. Si ritornava dunque da capo; tutto
il sangue e il denaro speso per domare la Spagna erano stati sprecati!
Lo sconforto a Roma fu tale che, durante l’anno 141, il proconsole Q.
Fabio Massimo Serviliano, che comandava in Spagna e che era un uomo
savio, trattò con Viriato e conchiuse con lui una pace onorevole, che
riuscì a fare approvare dai comizi. I Lusitani erano quietati, non
restava più che debellare Numanzia. Ma nel 140 il fratello di Fabio,
Q. Servilio Cepione, diventò console; e tanto disse e intrigò presso
il senato, che ottenne il permesso di ricominciare la guerra contro
Viriato; proprio mentre il proconsole Q. Pompeo si faceva sconfiggere
dai Numantini. Di nuovo la guerra stava per ridivampare in Spagna,
quando Servilio Cepione riuscì a venire a capo di Viriato, facendolo
assassinare da alcuni sicari.

Spento Viriato a tradimento, la resistenza dei Lusitani venne meno in
poco tempo. L’esercito si sciolse; e gli avanzi accettarono, di lì a
poco, delle terre intorno a Valenza. Ma la vittoria non era tale, per
i mezzi che l’avevano procurata, da incoraggiare i Romani a continuare
la guerra contro gli altri popoli: onde sul finire del 140, Q. Pompeo
aprì trattative con Numanzia. Gli Spagnuoli accettarono volentieri di
discutere; e la pace fu conclusa, a quali condizioni non sappiamo, ma
dovevano essere discrete per i Numantini, se costoro acconsentirono a
dare ostaggi e denari. La pace era dunque fatta, quando, al principio
del 139, giunse il successore di Pompeo: M. Popilio Lena. Ma allora
Pompeo, sia che avesse fatto queste trattative per non essere più
assalito sino all’arrivo del successore, sia che all’ultimo momento
temesse per le sorti del suo trattato a Roma, negò persino di aver mai
trattato con i Numantini. Immaginarsi lo scandalo! I Numantini citarono
a testimoni i senatori, i prefetti, i tribuni militari, che avevano
preso parte alle trattative. Ne nacque una violenta discussione, alla
quale Popilio Lena tagliò corto, rimandando le due parti — Numantini
e Pompeo — al giudizio del senato. La discussione ricominciò a Roma,
e si può immaginare se fu aspra! Risultò che Pompeo aveva trattato e
conchiusa la pace; ma il senato non ratificò le sue promesse, e una
legge, proposta per consegnare Pompeo ai Numantini, non fu approvata.

Non è difficile argomentare il disgusto, che un simile scandalo generò
anche a Roma. Roma era dunque scesa così basso? Ma il male era fatto.
La guerra riarse furibonda in Spagna. Popilio Lena non fece quasi
nulla, gran parte dell’anno 139 essendo passato nelle discussioni
intorno al trattato. Ma le armi furono riprese; e nel 137 Roma subiva
una nuova tremenda disfatta. Il console C. Ostilio Mancino fu disfatto
e accerchiato con 20.000 uomini; cosicchè per salvar l’esercito dalla
distruzione dovè firmare il trattato di pace che i Numantini gli
presentarono. Ammaestrati però dall’esperienza, i Numantini questa
volta non acconsentirono ad accettare il trattato, se non quando un
questore dell’esercito, Tiberio Sempronio Gracco, ebbe loro garantito
che il popolo lo approverebbe. Tiberio Sempronio Gracco era figlio del
console omonimo del 177 e del 163, che aveva amministrata la Spagna
con umanità e giustizia, lasciando nelle popolazioni spagnuole un
ricordo aureolato di venerazione: era cognato di Scipione Emiliano,
che lo aveva in un certo senso educato; e genero di Appio Claudio, il
console del 143. Rappresentava dunque quel che di meglio c’era ancora
nella nobiltà romana. I Numantini si fidavano di lui. Ma a torto:
chè quando a Roma si conobbero le condizioni della pace, l’opinione
pubblica dichiarò di non accettarla. L’autorità dei Gracchi non approdò
a nulla. Anche i suoi autorevoli parenti, come Scipione, non ritennero
che l’impegno di una famiglia potesse legar la repubblica. Il popolo
respinse il trattato.

La guerra dunque continuò, ma fiaccamente. Nel 136 e nel 135 gli
eserciti romani, se non ricevettero clamorose disfatte, non compierono
nessuna impresa di rilievo. Ma rifiutare la pace e non saper fare la
guerra, era troppo: l’opinione pubblica si impazientì; e di nuovo
volse gli occhi su Scipione Emiliano. Scipione era in Oriente, per
una missione che il senato gli aveva affidata; e la legge vietava che
fosse rieletto console. Anche questa volta l’opinione pubblica scavalcò
l’ostacolo con un’altra legge; e Scipione fu eletto console per il 134.
Egli partì per la Spagna; ma in quali condizioni trovò gli eserciti!
Gli accampamenti erano pieni di meretrici, di mercanti, e di schiavi;
i soldati si erano avvezzati perfino a prendere i bagni caldi! Gli fu
necessario, come sotto Cartagine, rifarsi dalla disciplina e dai primi
elementi del mestiere. Per fortuna, l’esercito possedeva qualche buon
ufficiale: tra gli altri un certo Caio Mario, un pubblicano datosi
alle armi dopo aver fatto fallimento e che veramente era nato più a
maneggiare il ferro che l’oro.


69. =Il tribunato e la legge agraria di Tiberio Gracco (133 a. C.).= —
Ma mentre Scipione si accingeva a terminare la guerra di Spagna, gravi
cose succedevano in Roma. L’anno 133 fu un anno memorabile della storia
di Roma. Era stato eletto tribuno per quell’anno Tiberio Sempronio
Gracco, quel giovane che, come questore, aveva garantito ai Numantini
il trattato di pace conchiuso con il console Mancino. Anche Tiberio
Gracco era spaventato dalla rovina che minacciava insieme la piccola
possidenza e l’esercito; ma all’opposto di tanti altri membri della
nobiltà, non voleva soltanto lamentare il male, voleva anche curarlo.
Sia che il male, aggravandosi, desse la spinta finale a una volontà
già ardente; sia che la giovinezza gli nascondesse la difficoltà
dell’impresa; sia che l’affronto fatto a lui e alla sua famiglia
dal senato e dal popolo, sconfessando la pace di Mancino, lo avesse
inasprito, certo è che egli riprese nel 133, come tribuno della plebe,
il disegno così facilmente abbandonato da Caio Lelio.

La sua _legge agraria_ del 133, la prima degna di questo nome, dopo
la Licinio-Sestia del 367, è dettata appunto dalle inquietudini
del partito tradizionalista. La penisola non disponeva più di terre
pubbliche assegnabili; ma le terre, che i ricchi avevano locate o
usurpate, potevano, in quanto _ager publicus_, essere legalmente
riprese dallo Stato. Se, dopo averle riprese, lo Stato le avesse
distribuite in piccoli lotti alla povera gente rovinata, il maggiore
tra i mali dell’Italia — l’unico, anzi, che Tiberio vi scorgesse — non
sarebbe stato guarito, e l’Italia non sarebbe ridiventata un paese di
piccoli agricoltori e di valorosi soldati?

Concretando, Tiberio proponeva: 1) che nessun cittadino romano potesse
possedere più di 500 iugeri (Ea. 125) di agro pubblico, o di 750 (Ea.
187,50) se padre di un solo figliuolo, o, al massimo, di 1000 (Ea. 250)
se padre di due o più figliuoli: la proprietà così limitata, poteva
essere fatta stabile ed esente da tributo; 2) che lo Stato ripigliasse
a ciascun cittadino romano la parte di agro pubblico occupato, che
superava quelle misure, pur risarcendo ai possessori le spese del
dissodamento e dei miglioramenti; 3) che fossero parimenti, ai Latini e
agli alleati italici, tolte le terre pubbliche acquistate o assegnate
illecitamente o irregolarmente, salvo il diritto di partecipare alle
nuove distribuzioni con eguali diritti dei cittadini romani; 4) che
tutte le terre pubbliche disponibili in seguito all’applicazione
della legge, fossero distribuite in piccoli lotti, probabilmente
di 30 iugeri (Ea. 7,50) l’uno, quali possessi inalienabili e con
l’obbligo del pagamento di un canone annuo allo Stato; 5) che il
compito di applicare la legge fosse affidato a una commissione di tre
membri, da eleggersi annualmente dai comizi tributi: _tresviri agris
iudicandis adsignandis_, i quali procederebbero alla misurazione e
alla distribuzione delle terre demaniali, con facoltà di istruire
essi stessi i processi delle contestazioni e di pronunciare sentenze
inappellabili[67].

La legge scatenò le più fiere opposizioni. Non si può spiegare
l’accoglienza che ebbe in senato, se non supponendo che avrebbe
spogliato il maggior numero dei senatori di molte terre dell’agro
pubblico, che allora possedevano. Il che del resto è verosimile, poichè
l’agro pubblico era la parte del bottino, con la quale l’aristocrazia
senatoria si compensava dei pericoli e delle fatiche della guerra. Ma
se i senatori e i ricchi cavalieri erano i primi bersagli, la legge non
sonava meno minacciosa a molti Latini e alleati, costretti a mostrare
i titoli delle assegnazioni di terre, tramandate per generazioni,
vendute, acquistate, impegnate per debiti, assegnate in dote, divise
suddivise, novamente conglobate con altre terre assegnate e ricevute
in altri tempi. Inoltre, spesso terre assegnate regolarmente si erano
confuse con terre occupate senza assegnazione: e nelle une e nelle
altre erano stati investiti ingenti capitali e molto lavoro. La legge
di Tiberio non poteva applicarsi senza ferire un infinito numero di
interessi legittimi, senza sconvolgere le fortune private, senza
annullar dei patti federali con gli alleati, che erano a ragione
considerati come sacri. Se dunque uno dei colleghi di Tiberio nel
tribunato, M. Ottavio Cecina, interpose il veto, noi non abbiamo il
diritto di sospettare per questo solo che avesse di mira soltanto
il salvare i propri interessi e quelli degli accaparratori di agro
pubblico. Ma Tiberio aveva attizzato con la sua proposta un grande
incendio, che ormai non era più in suo potere di spegnere. Se molti e
accaniti erano gli avversari, la legge era stata accolta con giubilo
dagli avanzi dell’antico contadiname romano; dalla plebe urbana e
da tutti i poveri che, allora come sempre, accusavano della propria
miseria l’avarizia dei grandi; e anche da un certo numero di senatori,
che o non avevano agro pubblico in soverchia quantità o ai quali
il bene dello Stato premeva più del danno proprio. Tutti costoro
formavano, più che un partito, una grande corrente di opinione, che
spingeva Tiberio.

All’ostruzione del collega Tiberio, quando vide vana ogni sua preghiera
per convertire Ottavio, rispose invitando il popolo a destituirlo. Era
questo un procedimento nuovo e rivoluzionario? Nuovo, no, chè in tempi
vicini e lontani il senato aveva proposto destituzioni di tribuni:
rivoluzionario, sì, per la giustificazione, che Tiberio gli assegnò.
Il tribuno della plebe — egli disse — ha per ufficio di difendere la
plebe; se egli manca a questo dovere, il popolo, che l’ha nominato,
può revocarlo. In altre parole, il veto del tribuno non può più, come
spesso era successo, servire all’aristocrazia ed al partito dei ricchi.
Questa tesi doveva piacere alle moltitudini agitate e commosse; e
Ottavio fu deposto dal voto unanime delle tribù. Ottavio deposto, la
legge fu approvata, e nominata per metterla in atto la migliore tra le
commissioni possibili: Tiberio, il fratello Caio, e il genero suo Appio
Claudio, uno dei pochi senatori favorevoli alle proposte del tribuno.
Per semplificare il difficilissimo compito, Tiberio aveva eliminato la
clausola relativa alle indennità, con la quale egli s’era inutilmente
studiato di placare l’opposizione degli interessati.


70. =Il testamento di Attalo e la nuova provincia di Asia (133).= — Tra
queste agitazioni e lotte giunse a Roma una notizia singolare. Attalo
III, Re di Pergamo, era morto; e non avendo figli, lasciava a Roma in
eredità il suo regno, trasmettendo alla repubblica tutti i diritti che
egli esercitava sulle città greche e sulle popolazioni indigene. Come
e per qual ragione, in seguito a quali intrighi, l’ultimo Re di questa
dinastia, che aveva prosperato come cliente di Roma, fosse venuto
in questa idea singolare, noi purtroppo non sappiamo. Ma la fortuna
pareva voler mettere a dura prova la saggezza di Roma. Proprio, mentre
a Roma si proponeva una legge terribile come quella di Tiberio Gracco
per ricostituire, nel cuore della penisola, l’antica Italia agreste e
bellicosa, la fortuna le offriva, senza colpo ferire, in dono, uno dei
territori più ricchi del mondo antico, ove fiorivano tutte quelle arti,
quei traffici e quegli studi, che sembravano corrompere la sana midolla
della vecchia Italia. Giacchè il regno di Pergamo non era vasto, ma
quanto era ricco! Passavano per esso le vie commerciali più battute fra
l’Occidente e i paesi dell’Oriente — la Caldea, la Fenicia, la Siria,
la Persia, l’India — donde venivano l’incenso, la cassia, la resina,
la mirra, l’aloe, il cinnamomo, la tartaruga, i diamanti, gli zaffiri,
gli smeraldi, le ametiste, i topazi, le perle, le tele, i filati
di cotone e di lana, le lane, le stoffe colorate, le sete, le mezze
sete, l’avorio, l’indigo, l’ebano, il nardo, la porpora, il vetro, il
cristallo; tutti i tesori dell’India, tutte le rarità della Cina, di
cui il lusso dei paesi mediterranei faceva sfoggio. Qui il suolo era
fertile, qui c’erano appalti, decime, tasse sui pascoli, pedaggi e
dogane ricche, come in nessun’altra delle province dell’impero; qui, da
un secolo e mezzo, regnava splendidamente la più ricca, la più culta,
la più generosa forse, delle Corti ellenistiche; alla cui liberalità
noi dobbiamo ancor oggi gli ultimi capolavori della scultura e della
architettura greca; un’arte di mirabile perfezione, ora violenta, piena
di foga, amante del nuovo e del grandioso, come nel famoso fregio dei
_Giganti_ del Museo di Berlino, che decorava un altare colossale,
consacrato a Zeus e ad Atena, rappresentante la lotta di Giove con
quegli immani figli della terra; ora piena di passione, accorata, come
nel _Gallo morente_ del Museo Capitolino in Roma, o nel gruppo, a torto
denominato _Arria e Peto_, del Museo di Villa Ludovisi.

Non occorreva essere profeta, per prevedere che il dono di Attalo
sarebbe un dono funesto, alla stregua almeno delle idee che movevano
Tiberio Gracco e i suoi amici. Accettando quel dono, la repubblica
poneva piede in quell’Oriente, che agli occhi dei tradizionalisti
romani della scuola di Catone e di Scipione Emiliano, era il maestro
della corruzione tanto temuta. Inoltre il commercio romano, altro
veicolo di ricchezze pericolose e di esempi funesti, si sarebbe
ancora allargato. Inorientarsi e voler restaurare l’antica Italia
semplice e agreste, era una contradizione. Tiberio Gracco e il suo
partito avrebbero quindi, a rigore di logica, dovuto proporre a Roma
di rifiutare il dono, così come dopo Cinocefale Roma aveva rifiutato
la Macedonia e la Grecia. Ma i tempi, mentre lamentavano che l’antica
Italia perisse, non resistevano più alle tentazioni della ricchezza
e della potenza. Non c’era nè uomo nè partito, che avrebbe potuto
persuadere Roma a questa rinuncia: Tiberio meno di ogni altro, perchè
minacciato dai potentissimi interessi che aveva lesi. Spinto anzi dalla
necessità di opporre interessi a interessi, egli cercò di servirsi
anche del testamento di Attalo, e propose che le riserve del tesoro,
lasciate dal Re di Pergamo ai Romani, fossero spese per provvedere
strumenti ai nuovi coloni poveri; che la nuova provincia, a cui fu dato
il nome di Asia, ricevesse i suoi ordini e le sue leggi dal popolo.
La prima proposta era opportuna: ma la seconda toccava una delle
prerogative più antiche del senato. Si riaccesero quindi le lotte e
le dispute; si rinfocolarono gli odi e si invelenirono le accuse....
Frattanto buona parte dell’anno era trascorso, e bisognava procedere
alle nuove elezioni. Secondo la legge, le magistrature non potevano
essere iterate. Ma Tiberio voleva esser rieletto, sia per poter
vigilare all’applicazione della legge; sia per salvarsi dall’accusa
di attentato alla costituzione, di _perduellio_, come si diceva, che
dopo il caso di Ottavio, i suoi avversari volevano intentargli. Tanta
audacia intimidì gli amici. Da troppo tempo il tribunato non era stato
rinnovato da un anno all’altro alla stessa persona. I nemici di Tiberio
ebbero buon gioco; molti amici o lo abbandonarono o tentennarono. Le
elezioni si facevano nel mese di luglio, il mese della mietitura. Molti
piccoli possidenti, che avrebbero votato per Tiberio, non potevano
venire a Roma. Gli avversari fecero dunque un grande sforzo....
Nel giorno della votazione i partigiani di Gracco non riuscirono
a spuntarla contro coloro che negavano potesse un tribuno essere
rieletto. La votazione fu dunque rimandata al giorno seguente. Ma la
mattina dopo la discussione ricominciò, e ne nacque alla fine un vero
tumulto. Mentre i comizi erano a romore, nel vicino Tempio della Fede,
ove il senato era radunato, un gruppo di senatori, con a capo Scipione
Nasica, invitò il console a fare il suo dovere, ossia, a reprimere
quel tentativo di rivoluzione fatto da Tiberio e dai suoi fautori. Si
chiedeva, per un piccolo tumulto elettorale, addirittura quel che lo
Stato romano non aveva ammesso se non negli estremi pericoli e anche
allora raramente, al tempo della grande lotta tra i patrizi e i plebei:
l’impero della legge marziale, il _senatus consultum ultimum_, come si
chiamerà tra poco il decreto di stato d’assedio[68]. Il console non osò
accogliere l’invito, e allora lo stesso Nasica, a capo di una schiera
di senatori e di cavalieri, coadiuvati dai loro clienti e dai loro
schiavi, uscì dal _Tempio della Fede_, si slanciò in mezzo alla folla,
divisa in due partiti e ancora tumultuante. Dopo brevissima e debole
resistenza, Tiberio e 300 dei suoi seguaci furono trucidati.


71. =La distruzione di Numanzia e la fine delle guerre di Spagna.= —
Così terminava il primo tentativo fatto sul serio per curare quella
«corruzione dei costumi», che minacciava, agli occhi dei più savi
romani, di mandare Roma in perdizione. Ai procedimenti rivoluzionari,
ancora timidi e incerti, di Tiberio, gli interessi, insediati nella
rocca del senato, avevano risposto con una risoluta e aperta violenza.
Quanto questi interessi fossero potenti e quanto li avesse Tiberio
inferociti, è provato dalla inaudita sopraffazione. Nasica era un
uomo autorevole e il senato la più alta autorità dello Stato: tutti
giudicarono, poichè aveva avuto la peggio, che Tiberio aveva proprio
tentato di sovvertire l’ordine con la forza; e quindi meritata la
sua sorte. Anche Scipione Emiliano, che stava assediando Numanzia,
fu di questo parere. Il partito di Tiberio fu disperso dal terrore.
Ma l’opera dell’infelice tribuno non perì tutta. Dopo la morte di
Tiberio, la commissione, incaricata di attuare la legge, si recò
nell’Italia settentrionale, nella centrale e nella meridionale,
dovunque cercando di ricostituire l’antico agro pubblico, senza
lasciarsi scoraggire dalle difficoltà di ogni genere con cui il tempo,
gl’interessi e la furberia degli uomini intralciavano l’opera loro. Di
questa testimoniano ancor oggi i _cippi_ o pietre terminali, segnanti
i confini precisi tra _ager publicus_ e _ager privatus_, fra podere
e podere, recanti impressi i nomi dei triumviri[69]; ma più ancora
un dato eloquentissimo, che la parzialità degli storici antichi non
è riuscito a nascondere: che, mentre sin dal 164-63 il numero dei
cittadini romani scemava, dal 131-30 al 115-14 esso crebbe in una
generazione di oltre 75.000 iscritti (394.336 contro 317.823). È
verosimile che questo aumento fosse, almeno in parte, un effetto della
legge di Tiberio[70]. La terra, come dirà un uomo, che pure fu uno dei
più implacabili avversari dei Graccani «era stata strappata al pascolo
per essere di nuovo restituita all’aratro»[71].

Nell’anno stesso in cui Tiberio cercava con le leggi di rifar l’antica
Italia agreste e guerresca, nel 133, Scipione Emiliano riusciva a
prendere e a distruggere Numanzia, terminando finalmente la terribile
guerra di Spagna. Una commissione di senatori riordinò, d’accordo
con Scipione, la penisola. La Spagna fu divisa in due province, la
_Citeriore_ e la _Ulteriore_, separate fra loro dalla Sierra Morena (il
_Saltus Castulonensis_), ciascuna sotto il governo di un pretore. Nel
tempo stesso una nuova guerra nasceva nell’antico regno di Pergamo. La
disputa tra Tiberio e il senato sull’ordinamento della nuova provincia
aveva fatto perdere del tempo; e di questo tempo approfittò un certo
Aristonico, che pare fosse un bastardo di Eumene, per rivendicare il
regno. Raccolse uomini e denaro; chiamò gli schiavi a libertà; trasse
al suo partito tutti gli amici e i fedeli della spenta dinastia; e
insomma seppe così bene fare e dire che i Re di Bitinia, di Paflagonia
e delle due Cappadocie, alleati di Roma, e da questa pregati di
purgar la provincia dall’usurpatore, non ci riuscirono. Fu necessario
spedire rinforzi dall’Italia; e questi furono sulle prime sconfitti:
un console ci lasciò la vita, e solo a Manio Aquilio, console nel 129,
riuscì di ricuperar la nuova provincia. Comunque sia, poche volte una
preda più ricca fu acquistata a minor prezzo. La repubblica romana
diventava da un giorno all’altro una potenza asiatica; prendeva posto
in Asia accanto alle due grandi monarchie superstiti dell’impero di
Alessandro: passo decisivo e tanto più grave perchè non predisposto da
alcuna preparazione. Ma lì per lì nessuno sembra averne avuto sentore
a Roma; poichè tutti badavano ai travagli interiori. Dall’applicazione
della legge agraria una nuova difficoltà nasceva o meglio si inaspriva.
Abbiamo visto come la legge di Tiberio provvedesse ai cittadini romani,
se si vuole, secondo giustizia, ma a spese dei Latini e degli Italici.
Costoro erano privati dell’agro pubblico a torto occupato, e una
parte soltanto poteva approfittare delle nuove distribuzioni; perchè
i cittadini romani erano soddisfatti prima; e ai Latini e agl’Italici
toccavano solo gli avanzi. Troppi avevano ricevuto, in luogo di un
bel podere coltivato a viti o ad ulivi, un terreno sterile, boscoso,
paludoso! Il torto offendeva tanto più, perchè da un pezzo Latini e
Italici erano malcontenti per altre ragioni. Dalla fine della prima
punica, non era stata più creata alcuna nuova tribù di cittadini
romani. Nel tempo stesso le concessioni del diritto di cittadinanza
s’erano fatte più rare. Gli stessi Latini, immigrati in Roma, che per
molti lustri ne avevano effettivamente goduto, erano stati a poco
a poco cancellati dalle liste dei cittadini. La medesima delusione
era toccata ai Latini arrolatisi nelle colonie di cittadini romani,
e che per lungo tempo si erano creduti pari a questi. Nè Roma era
diventata solo più gelosa del privilegio della cittadinanza, ma più
dura nell’esercitare la sua potenza metropolitana, poichè ingrandendo
il suo impero nel mondo, si era avvezzata a trattare l’Italia come
una provincia, proprio quando era costretta a chiederle un tributo
di sangue maggiore che nel passato. A queste ragioni di malcontento
s’aggiungeva ora la legge agraria!

La opposizione dei Latini e degli Italici fu per gli avversari della
legge agraria un insperato e prezioso aiuto, perchè procurò loro
l’appoggio del maggiore personaggio del tempo, di Scipione Emiliano.
Scipione era favorevole agli Italici, che aveva visti all’opera in
Africa e in Spagna; che sapeva essere ormai il nerbo degli eserciti
di Roma. Perciò nel 129 egli intervenne in loro favore, adoperandosi
per fare approvare una legge che toglieva alla commissione i poteri
contenziosi e li affidava invece ai consoli. Si poteva così presumere
che i consoli, quasi sempre avversari delle leggi agrarie, lascerebbero
in sospeso le infinite questioni sulla legittimità delle occupazioni,
legando le braccia alla commissione. Ma questa concessione indiretta
non soddisfece i Latini e gl’Italici, che volevano abolita la legge e
che continuarono a venire in Roma a torme, per protestare e difendere
i loro interessi. D’altra parte, il partito della legge agraria, che
la morte di Tiberio aveva disperso, ma non distrutto, riordinava le sue
file, per correre al soccorso della legge minacciata. La lotta diventò
furibonda; Scipione stesso fu minacciato; ed essendo egli tra queste
dispute morto improvvisamente, il partito di Tiberio fu accusato di
averlo assassinato per odio di parte. Il partito della legge agraria
pensò perfino, per un momento, di troncare dalle radici l’opposizione
dei Latini e degli Italici con un atto di forza. Nel 126 il tribuno
della plebe M. Giunio Penno proponeva di espellerli tutti da Roma!
Per fortuna prevalsero nello stesso partito di Tiberio propositi
opposti, non di sterminio, ma di conciliazione. Per il 125 era stato
designato console un caldo fautore della legge agraria, un senatore
amico di Tiberio, Fulvio Flacco. E Flacco propose una legge, con la
quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti quegli Italici, che
la chiedessero; e a quelli che non la volessero si concedeva invece il
privilegio della _provocatio_, fin allora riservato ai soli cittadini
romani, cioè il diritto di appello ai comizi centuriati contro ogni
pena corporale ordinata da un magistrato romano[72]. A che mirasse
questa legge, è chiaro: a compensare gli Italici dei danni che la
legge agraria infliggeva loro con una concessione politica, che era
anche utile a Roma. Italici e Romani avrebbero fatto un popolo solo, di
eguali diritti. Ma la proposta giungeva troppo presto. Noi sappiamo che
nè il senato nè i comizi la gradirono, cosicchè il console l’abbandonò.
L’oligarchia romana era troppo orgogliosa ed egoista da consentire così
facilmente ad allargare a tanti uomini il suo prezioso privilegio. Non
bastò a scuoterla l’insurrezione di Fregellae, che prese le armi per
protestare contro l’abbandono della proposta. Ma la grande proposta era
stata fatta; e fra non guari l’avrebbe ripresa il più grande fra gli
uomini politici del tempo, Caio Gracco.


72. =Caio Gracco (123-121).= — Tre anni dopo il fallimento della
proposta di Fulvio Flacco, era eletto tribuno, da un’assemblea
dei comizi tributi, alla quale gli elettori della città e della
campagna accorsero in numero non mai veduto, il fratello di Tiberio,
Caio Gracco. Caio aveva assistito all’eccidio del 133, aveva fatto
parte della commissione incaricata di attuare la legge; era stato
perseguitato dal partito avverso, che, arbitro del senato, aveva
cercato prima di inchiodarlo in un’eterna proquestura in Sardegna;
poi di accusarlo di complicità nella insurrezione di Fregellae. Ma se
il dolore e il rancore ulceravano il suo animo, Caio non era uomo da
consumare il suo tribunato in una politica di rappresaglie. Egli voleva
continuare l’opera del fratello, ma nel solo modo con cui un uomo
intelligente può continuar l’opera di un predecessore: allargandola ed
integrandola. Che cosa avevano dimostrato i torbidi di quei dieci anni?
Che la legge agraria di Tiberio era stata mutilata nell’applicazione da
una doppia opposizione: l’aristocrazia senatoria da una parte, i Latini
e gli Italici dall’altra. Era quindi chiaro non potersi applicare
davvero la legge agraria senza una riforma politica, che scemasse la
potenza dell’aristocrazia e del senato e desse soddisfazione ai giusti
lamenti degli Italici. Era una catena. Ma come si poteva indebolire
l’aristocrazia ed il senato, l’una e l’altro arbitri della repubblica
dopo la seconda guerra punica? Caio Gracco era troppo intelligente per
ritentare la prova di Caio Flaminio, e far assegnamento sul popolino,
i piccoli possidenti, le classi povere. I tempi non erano più quelli.
Il senato era ormai troppo potente, per ricchezza, per cultura, per
prestigio. Occorreva un’arma più forte. Caio Gracco pose gli occhi
su quella seconda nobiltà che comprendeva i cittadini non senatori,
forniti del censo di 400.000 sesterzi e iscritti nella lista dei
cavalieri, della quale ormai facevano parte tanti ricchi pubblicani e
tanti denarosi mercanti e possidenti. Due nobiltà non possono vivere
accanto, trattandosi da pari: ma siccome i cavalieri, fieri della loro
ricchezza, non volevano più sottostare, come un tempo, alla nobiltà
senatoria, così Caio poteva sperare di indebolire l’ordine dei senatori
ingrandendo l’ordine dei cavalieri.

Egli seppe adoperarsi con molta destrezza. Una delle prerogative
maggiori del senato era la giurisdizione criminale; perchè le varie
_quaestiones perpetuae_, i _giury_ diremmo noi, che erano ogni anno
tratte a sorte per giudicare i reati, si componevano di senatori.
Caio Gracco diresse il suo primo assalto al fortilizio dei privilegi
senatoriali, su questo punto; proponendo una _lex judiciaria_, la
quale disponeva che nelle _quaestiones_ giudicherebbero non più dei
senatori, ma soltanto dei cavalieri. La proposta nascondeva abilmente
un intento politico sotto ragioni di giustizia. La più importante delle
_quaestiones_ era quella _de pecuniis repetundis_, istituita, come
vedemmo, nel 149 per giudicare i processi di concussione; quindi anche
i governatori di provincia accusati di malversazione. Queste accuse
spesseggiavano ormai tanto, che l’opinione pubblica reclamava leggi
più severe. In quell’anno stesso un altro tribuno della plebe, Manio
Acilio Glabrione, proponeva una grande _lex Acilia de repetundis_.
Ma i governatori delle province erano tutti senatori: ora si poteva
presumere che dei senatori applicassero severamente le leggi ai loro
colleghi? Se non si voleva che la legge fosse una lustra, occorreva
far giudicare i senatori da uomini appartenenti ad un altro ordine.
Ma Caio non stette pago di questa prima proposta. Il governo romano
non aveva ancora scelto, per la nuova provincia d’Asia, tra l’imposta
fissa adottata per l’Africa, e la proporzionale, già sperimentata
in Sicilia. L’una e l’altra presentavano, per lo Stato, vantaggi e
inconvenienti; ma un secolo e più di prova aveva dimostrato in Sicilia
che l’imposta proporzionale fruttava grandissimi lucri ai pubblicani
che l’appaltavano. Con una seconda legge, Caio propose che fossero
adottati per l’Asia gli istituti fiscali della Sicilia, e che l’appalto
delle dogane, delle decime e di tutti i tributi della provincia fosse
assegnato ai cavalieri romani.

Con queste due leggi, Caio poteva lusingarsi di trarre alla sua
parte, tutto insieme, l’ordine equestre. Immaginò quindi un seguito
di provvedimenti, che dovevano giovare a questa o a quella parte
della plebe, così da stringere in un fascio le classi medie e povere.
Innanzi tutto Caio Gracco si proponeva di ridestare la _lex agraria_
del fratello dal letargo in cui era caduta, facendo ridare ai triunviri
i poteri giudiziari che Scipione aveva trasferiti ai consoli. Ma la
_lex agraria_ beneficava solo il contadiname e i piccoli possidenti
più poveri: non faceva nè bene nè male al proletariato urbano, molto
cresciuto in Roma e, perchè residente in Roma, molto potente nei
comizi. Anche a questo Caio provvide con la _lex frumentaria_. Lo Stato
metterebbe ogni mese in vendita, a Roma, del frumento a un prezzo di
favore, per i poveri ufficialmente riconosciuti come tali. Caio pensava
forse anche, facendo fare dallo Stato grandi acquisti di grano in
Italia, di giovare all’agricoltura italica; e ordinando la costruzione
in Roma di vasti granai, di dar lavoro ai piccoli appaltatori e agli
artigiani. Ai quali e alla agricoltura insieme, provvedeva anche
un’altra legge, la _lex viaria_: vasto disegno di nuove vie, da
costruirsi in diverse regioni d’Italia, sia per dar lavoro al popolo,
come per aiutare gli agricoltori a vendere con maggiore profitto quelle
derrate, che potevano esser trasportate ai più lontani mercati. A
tutte queste aggiunse una _lex militaris_, che vietava di arruolare un
cittadino romano prima che avesse toccato i 17 anni e faceva obbligo
all’erario di pagare al soldato il vestiario militare: una legge che
doveva riuscir graditissima al popolo minuto così della città come
della campagna.

Roma non aveva ancora visto un corpo di leggi tanto studiate e così
ben legate tra di loro; e tutte intese a giovare al maggior numero.
Caio diventò quindi in un baleno l’idolo della plebe, il favorito dei
cavalieri, il capo di una così potente coalizione di interessi, che
tutte le opposizioni vennero meno. Il tribuno fece approvare dai comizi
tributi tutte le sue leggi, senza neppur chiedere prima l’approvazione
del senato; e subito diede mano ad attuarle, appaltando la costruzione
di granai e di vie, costruendo queste con una magnificenza sino ad
allora ignota, attendendo tutto il dì a mille faccende, facendo della
sua casa il ritrovo dei pubblicani, dei letterati, dei sapienti di
Roma, la speranza e l’amore della moltitudine. Impotente, l’oligarchia
latifondista del senato taceva e fremeva. L’autorità di Caio era così
grande, che egli potè ritentar la prova fallita al fratello: farsi
rieleggere tribuno per il 122. Tiberio aveva fatto scuola; e non senza
una ragione più profonda che l’ambizione di Caio. L’impotenza del
partito democratico nasceva in parte dalla brevità delle magistrature.
Se si voleva rinnovare l’invecchiata repubblica, occorrevano nuovi
principî e nuovi procedimenti.

Tribuno per la seconda volta, Caio si trovò al sommo della potenza,
della popolarità, della operosità. Egli sembrava, davvero, e molti
dovevano sussurrarlo, il Pericle della repubblica romana. Ma le leggi
del primo tribunato non erano che la preparazione alle due riforme
capitali, che Caio vagheggiava per curare dalla radice i mali del
tempo. Roma cresceva troppo; troppi artigiani, mercanti, artisti,
sapienti, avventurieri, mendicanti concorrevano, da ogni parte,
nella nuova metropoli; e ne nascevano infiniti mali; massimo tra
tutti il caro prezzo del pane e degli alloggi. La _lex frumentaria_
non era rimedio senza pericolo, tanta spesa avrebbe dovuto sostenere
l’erario, già dissestato dalla guerra di Spagna. Bisognava sfollare
Roma, inducendo una parte dei mercanti romani a trasferirsi da Roma
in altre città acconce alla navigazione e al commercio; perchè molta
gente minuta li avrebbe allora seguiti nelle nuove sedi. Caio gettò
gli occhi su tre punti della costa mediterranea: a Squillace era già
una dogana per le importazioni asiatiche; Taranto era stata lungamente
famosa per commerci e per ricchezze. Quei mercanti che facevano
commercio con la Grecia, la Macedonia e l’Oriente, non avrebbero potuto
risiedere a Taranto o a Squillace, rinominate Nettunia e Minervia, più
comodamente che a Roma? Il commercio dell’Africa — quel poco almeno che
era sopravvissuto alla rovina di Cartagine — era passato ai mercanti
romani: i mercanti romani che commerciavano con l’Africa avrebbero
potuto risiedere in Africa meglio che a Roma. Molti infatti si erano
stabiliti a Cirta. Non si poteva riedificare, sulle rovine della
punica, una nuova Cartagine romana che si chiamasse Giunonia? Egli
propose di fondare a Squillace, a Taranto, a Cartagine tre colonie, non
di poveri però, come in antico, ma di persone benestanti, a cui, per
invogliarle ai lasciare Roma, sarebbero date vaste terre[73].

Anche queste proposte furono approvate, sebbene, a quanto sembra, a
fatica, perchè lo sfollamento di Roma noceva a molti. Ma Caio prese
ardire ad esprimere alla fine la idea suprema, lungamente meditata in
silenzio: concedere, come già aveva proposto il suo amico M. Fulvio
Flacco, la cittadinanza romana a tutti gli Italiani; rinforzare la
piccola oligarchia di Roma, che rassomigliava a una esile colonna
consunta dalle intemperie e dagli anni, sulla quale architetti
improvvidi ingrandivano la mole già pesante di una fabbrica immensa.
Tale era il disegno di Caio Gracco: posare l’impero non sulla cupidigia
e l’orgoglio della piccola oligarchia romana, ma sulle solide e
semplici virtù della classe rurale di tutta l’Italia; restaurare le
antiche sedi del commercio distrutte o decadute; sollevar Roma dalla
congestione di ricchezze e di uomini, che la soffocava.

Roma non aveva ancor visto, e non vedrà più un riformatore dal pensiero
così organico, profondo e creativo. Se un uomo potesse addossarsi
l’opera che sole le generazioni possono compiere, Caio Gracco avrebbe
rigenerato Roma, e sciolta la tragica contradizione in cui Roma si
dibatteva. Ma Caio era un grande uomo, non un Dio. Proponendo di
accordare la cittadinanza agli Italici, egli aveva oltrepassato il
limite, che non poteva essere superato neppure da lui, che pur era
un grande uomo. L’opposizione, che aveva disanimato Fulvio Flacco,
rinacque: senato, cavalieri, agricoltori, proletariato urbano si
trovarono questa volta uniti contro Caio Gracco. Il misoneismo,
l’orgoglio, l’egoismo prevalsero su ogni altra considerazione.
L’oligarchia romana non intendeva far getto dei suoi privilegi. Quando
il tribuno Livio Druso oppose il suo veto, quel popolo, che aveva
deposto Ottavio, scoppiò in un applauso caloroso. La popolarità di
Caio Gracco incominciò a vacillare. Per maggior disgrazia Caio aveva
accettato di far parte della commissione che dedurrebbe a Cartagine
la nuova colonia; e quindi dovè lasciar Roma, proprio allorchè la sua
presenza sarebbe stata più necessaria, e sebbene la legge vietasse
a un tribuno della plebe di uscire dalla città. Egli cercò di far
presto, non restò assente più di settanta giorni: ma di questa sua
assenza approfittò il partito a lui nemico, per screditarlo del tutto.
Strumento di questo partito fu il tribuno Livio Druso; che con perfida
abilità propose tre rogazioni assai più generose ancora di quelle di
Caio: una, che prometteva al popolo non tre colonie miste di benestanti
e di poveri, ma dodici addirittura e tutte di soli proletari; un’altra,
che liberava le nuove assegnazioni di agro pubblico dal tributo allo
Stato, voluto dalla legge Sempronia; una terza, che prometteva agli
Italici la soppressione delle pene corporali, anche sotto le armi. Il
volgo, volubile e sciocco, cadde nella pania; si persuase che il senato
e il partito oligarchico, a cui Livio apparteneva, si erano ravveduti
ed erano diventati migliori amici suoi che Caio. Quando Caio tornò
dall’Africa il favor popolare lo aveva abbandonato al punto, che i
suoi nemici già preparavano il pubblico alla abrogazione della legge
sulla colonia della nuova Cartagine, sussurrando di prodigi minacciosi,
che avevano atterrito la prima schiera di coloni: indizio sicuro
dell’empietà di coloro che avevano voluto fondare una colonia sul suolo
maledetto di Cartagine!

Non fa quindi meraviglia, che le elezioni per l’anno 121 siano state
sfavorevoli a Caio. Caio non fu rieletto: invece fu eletto console L.
Opimio, uno dei più accaniti tra i suoi nemici. Incoraggiati dalle
elezioni, i suoi nemici si decisero a vibrare il primo colpo. Il
tribuno Minucio Rufo propose l’abrogazione della legge sulla colonia
di Cartagine. Caio non poteva non raccogliere la sfida. Il giorno del
voto si presentò al popolo nei comizi, per difendere, almeno con la
parola, quella che era una delle più nobili, alte e feconde iniziative
della sua politica. Ma gli spiriti erano irritati; anche questa volta
un tumulto nacque; e anche questa volta il partito avverso ripetè nel
senato al console l’esortazione e l’invito, che dieci anni prima gli
aveva vanamente rivolti Scipione Nasica. Ma console era questa volta
L. Opimio, che non si fece pregare. Il _senatus consultum ultimum_ fu
decretato; rinnovando, dopo circa 263 anni, un provvedimento che nelle
future turbolenze della repubblica doveva prendere il posto dell’antica
dittatura. In forza del decreto un piccolo tumulto dei comizi passò per
un tentativo di rivoluzione; Caio e i suoi seguaci furono assaliti e
trucidati; egli medesimo, visto precluso ogni scampo, si fece uccidere
da uno schiavo fedele.


NOTE AL CAPITOLO DODICESIMO.

[63] POLYB., 2, 15.

[64] VARRO, _R. rust._, 1, 2, 9.

[65] Cfr. PLUT., _Tib. Gr._, 8.

[66] Sui Salassi e sulle miniere aurifere dell’antico Piemonte, cfr.
POLYB., 34, 10, 18; STRAB., 5, 1, 12; PLIN., _N. H._, 33, 4, 78.

[67] Per una illustrazione della legge agraria di Tiberio, cfr. E. DE
RUGGIERO, _Agrariae leges_, in _Enciclopedia giuridica italiana_, 1, 2,
pp. 798-808.

[68] Sul _Senatus consultum ultimum_, cfr. BARBAGALLO, in _Rivista di
filologia classica_ (1912), p. 49.

[69] _C. I. L._, I, 552-556; 583; 1504; IX, 1024-26.

[70] Cfr. LIV., _Epit._, 59 e 63.

[71] _C. I. L._, 1, 551.

[72] APP., _B. C._, 1, 34.

[73] PLUT., _C. Gracc._, 9; cfr. anche E. CALLEGARI, _La legislazione
sociale di C. Gracco_, Padova, 1896, p. 99.



CAPITOLO TREDICESIMO

VERSO LA RIVOLUZIONE


73. =Lo scandalo di Giugurta (117 a. C.): Verità e leggenda.= —
All’eccidio tennero dietro i processi, le confische, le condanne. Non
meno di tremila furono le vittime. Il partito di Caio fu, come quello
di Tiberio, disperso; la nobiltà rimase padrona dello Stato, e pronta
si assicurò quella parte della vittoria, che più le premeva: le terre
dell’Italia. Distruggere tutto quel che Caio Gracco aveva fatto, non si
poteva. La _lex judiciaria_, la legge sull’Asia, la _lex militaris_,
la _lex frumentaria_ non furono toccate. Fu invece presa di mira la
legge agraria, e in due o tre riprese distrutta. L’anno stesso in
cui Caio era morto, il senato toglieva il divieto d’alienazione, che
la legge Sempronia imponeva alle nuove piccole proprietà. Per tal
guisa i poveri ricominciarono spensieratamente ad ipotecarle e poi a
venderle; e i ricchi, ad accumular terre. Due anni dopo, nel 119, i
comizi approvarono che le leggi agrarie dei Gracchi fossero abolite, e
distribuite al popolo le somme ricavate dall’affitto delle terre. Per
la gola di questo poco denaro, il popolo aveva rinunciato al prezioso
privilegio sul suolo pubblico, che i Gracchi gli avevano accordato:
l’_ager publicus_ poteva ora esser affittato da qualunque cittadino,
senza limiti o regole particolari[74].

Senonchè il partito di Caio Gracco era stato disperso, non distrutto;
e incominciò presto a riaversi. Ma un po’ per paura, un po’ per
stanchezza non si fece vivo da prima. I tempi eran quieti; e
l’impero in pace. Molti Romani, appaltando imposte e commerciando,
incominciavano a far fortuna nella nuova provincia di Asia. La sola
impresa di guerra di una certa grandezza fu quella compiuta tra il
125 e il 121 a. C., per porre un termine alle razzie dei Galli nel
territorio di Marsiglia alleata e per rendere sicure le vie che
conducevano in Spagna. Roma fece guerra all’impero degli Arverni e
ridusse a provincia la Gallia Narbonese, le regioni cioè della Francia
meridionale poste tra le Alpi e il Rodano; poi, per impedire che gli
Arverni potessero tentare la riscossa, deportò in Italia il loro re
Bituito e il figlio suo, che erano stati fatti prigionieri. Pure nel
121 un Metello, figlio del Macedonico, conquistò le Baleari; ma dopo
non si guerreggiò più che contro le tribù barbare dei confini o dei
paesi già conquistati: guerricciole da poco, e a cui nessuno badava in
Roma. Insomma, dentro e fuori i confini dell’impero, regnava una quiete
apparente. Il fuoco però covava sotto la cenere: discordie, rancori,
astii, rivalità. Occorreva solo un accidente, perchè divampasse. E
l’accidente non tardò a sopraggiungere: dall’Africa, questa volta.

Micipsa, il Re della Numidia successo a Massinissa nel 149, era
morto a sua volta, nel 118, lasciando il regno a due figli, Jempsale
e Aderbale, ancora giovanissimi, e a al nipote Giugurta, figlio di
un figlio naturale di Massinissa. Giugurta era un uomo fatto, molto
capace e intelligente. Aveva comandato i contingenti numidici inviati
da Micipsa in aiuto dei Romani a Numanzia; si era fatto un bel nome
in tal comando, per valore e per senno; si era legato di amicizia con
molti senatori romani e anche con Scipione Emiliano, che l’aveva in
grande considerazione per i servizi prestati durante l’assedio. Che
un principe numida, intelligente, valoroso, il quale sapeva di aver
molti amici a Roma, abbia concepito il disegno di toglier di mezzo i
due figli di Micipsa e di regnar solo; che abbia tolto di mezzo, con un
tradimento, il cugino Jempsale, e poi assalito Aderbale nei suoi Stati,
non sono cose inverosimili. Ma quando Aderbale, impaurito, fuggì nella
vicina provincia d’Africa, invocando, nel nome del padre e dell’avo, il
soccorso di Roma, dobbiamo noi credere che gli ambasciatori di Giugurta
abbiano dimostrato ai senatori romani con argomenti sonanti, come
Jempsale fosse perito giustamente, e Aderbale fosse stato giustamente
aggredito? Tale è la versione che ci ha tramandata Sallustio, nella
sua famosa storia della guerra di Giugurta. Ma c’è proprio bisogno di
supporre che Giugurta avesse profuso l’oro a piene mani tra i senatori,
per spiegar come il senato mandasse nel 117 in Africa una commissione
con l’incarico di spartire la Numidia tra Giugurta e Aderbale?[75].
Il regno di Numidia doveva essere governato o da uno dei principi
o da tutti e due. Sarebbe stato ingiusto escludere Aderbale; ma non
potevano i senatori, in buona fede e credendo di far cosa nel tempo
stesso utile e savia, assegnarne una parte anche a Giugurta? Giugurta
era un uomo capace; aveva reso segnalati servigi a Roma sotto Numanzia;
aveva meritato le lodi di Scipione Emiliano; aveva molti amici nel
senato, tra i quali ce n’erano di venali, ma ce n’erano anche di
disinteressati, e questi più autorevoli di quelli. I senatori potevano
giudicare in buona fede che fosse savia politica accarezzare in Africa
un principe amico e capace come Giugurta, anche se non era modello di
ogni virtù.

Sembra dunque più verosimile, che la deliberazione di spartir tra
Giugurta e Aderbale il regno fosse presa dal senato in buona fede.
Senonchè gli ammiratori ed amici, che Giugurta aveva in senato, erano
tutti nel partito della nobiltà, nemico dei Gracchi, il che doveva
nuocergli presso il partito avverso; come le ammirazioni e le amicizie
non disinteressate, di cui godeva, eran tali da far nascere facilmente
sospetti. Ma lì per lì nessuno sospettò o almeno disse nulla, e la
commissione divise il regno tra i due principi, se con imparzialità
o no è difficile dire. Certo è però che la pace tra i due principi
fu presto rotta, e come dice Sallustio, per colpa di Giugurta. Costui
voleva tutto il regno; e aggredì, sconfisse e chiuse Aderbale in Cirta.
Ma che cosa poteva fare il senato, non volendo spedire in Africa un
esercito, se non mandare una dopo l’altra due ambascerie? La seconda
era condotta nientemeno che dal _princeps_ del senato, Marco Emilio
Scauro, e come la prima cercò di persuader Giugurta a deporre le armi
e ai confidare nel giudizio del senato. Senonchè è proprio necessario
di supporre, come vuole Sallustio, che Giugurta avesse addirittura
corrotto tutte e due queste ambascerie, nelle quali c’erano tanti
personaggi ragguardevoli, per spiegare la loro impotenza? Giugurta
voleva mettere il senato di fronte al fatto compiuto: tenne dunque a
bada con discorsi gli ambasciatori, sempre più stringendo l’assedio
di Cirta; sinchè Aderbale, nel 112, si dovè arrendere. Egli allora lo
uccise. Con che mezzi potevano i commissari del senato impedirglielo?
Far intendere la ragione a un sordo di proposito?

Giugurta sperava che, egli solo superstite, Roma lo riconoscerebbe.
La speranza poteva sembrare tanto più fondata, perchè Roma doveva
in quel tempo pensare alla frontiera settentrionale dell’Italia. Una
popolazione barbara, originaria dell’Europa settentrionale, i Cimbri,
aveva invaso l’Illiria settentrionale e mosso guerra ai Taurisci,
alleati dei Romani, che abitavano nel Norico. Nel 113 il console Gneo
Papirio Carbone, mandato a difendere i Taurisci, era stato disfatto
presso Noreia. Senonchè se Giugurta ragionava bene, secondo la consueta
ragione di Stato, non teneva conto che a Roma il senato era potente,
ma non onnipotente; e che occorreva fare i conti anche con l’opinione
pubblica. E questa, apprendendo la resa di Cirta, andò sulle furie,
un po’ per pietà di Aderbale, un po’ per dispetto contro Giugurta,
un po’ perchè nella presa della città non pochi _mercatores_ italiani
erano stati uccisi. Siccome Giugurta era stato protetto dalla nobiltà
senatoria, pronto il partito di Gracco, che da un pezzo spiava una
buona occasione, approfittò di questo moto dell’opinione pubblica,
per infliggerle una umiliazione; il tribuno C. Memmio minacciò
scandali e tumulti, se il senato non vendicava Aderbale, dichiarando
la guerra a Giugurta. Il partito della nobiltà dovè cedere; il senato
rifiutò di ricevere gli ambasciatori mandati da Giugurta; la guerra
fu dichiarata, e affidata nell’anno 111 al console L. Calpurnio
Bestia. Calpurnio — anche Sallustio lo riconosce — era un uomo serio,
capace e dabbene: e scelse per la spedizione, come legati, uomini
di grande autorità: tra gli altri M. Emilio Scauro. Ora, se vogliamo
credere a Sallustio, quest’uomo capace e serio, e tutti gli autorevoli
personaggi che lo accompagnavano, appena sbarcati in Africa, invece
di combattere Giugurta, gli avrebbero venduto a peso d’oro una pace
vergognosa per Roma. Non è dubbio che, appena in Africa, Calpurnio
trattò, richiesto da Giugurta, la pace, e che Giugurta acconsentì
ad arrendersi a discrezione: il che non sembra essere una pace tanto
vergognosa! Ma anche questa pace, che a Sallustio par tanto sospetta,
si può spiegare con ragioni più semplici. Giugurta voleva il regno
di Massinissa, non la guerra con Roma, della quale ambiva anzi essere
in Africa il fiduciario: se offriva la pace, come poteva un senatore
romano, che avesse senno e buon senso, non chiedersi se non fosse
meglio risparmiare a Roma, proprio allora che l’Italia era minacciata,
una lunga e difficile guerra, voluta da un partito per un puntiglio
politico, pur rinunciando a vendicare Aderbale? E poi, vinto e deposto
Giugurta, chi avrebbe governato la Numidia? Era prudente creare una
nuova provincia, allargando il già troppo vasto impero?

Sembra dunque più verosimile che Calpurnio e Scauro abbiano
trattato e concluso la pace con Giugurta a ragione veduta, non solo
disinteressatamente, ma per risparmiare a Roma una guerra inutile,
anzi pericolosa. Ma essi avevano dimenticato che Giugurta doveva, per
il partito democratico, far le vendette di Caio Gracco. Al pubblico,
invelenito contro Giugurta, la pace spiacque assai; e ad un tratto il
sospetto di corruzione divampò. Si gridò da ogni parte allo scandalo;
il partito democratico eccitò ancora più la pubblica esasperazione;
C. Memmio non solo fece respinger la pace dai comizi tributi, ma
fece ordinare dal popolo al pretore L. Cassio che andasse in Africa
a prender Giugurta e lo conducesse a Roma, per essere interrogato
pubblicamente, in piena assemblea popolare, sui suoi misfatti e sui
suoi complici. Il popolo citava dunque a comparirgli innanzi, per esser
da lui giudicato, si può dire il senato tutto, o almeno la sua parte
più autorevole e potente. E tale era l’umore pubblico, che il senato
non osò opporsi a questa strana proposta. L. Cassio andò in Africa;
e Giugurta, che era sempre fisso nel pensiero di riconciliarsi con
Roma, accettò di venire. Un bel giorno, dunque, si vide giungere a
Roma, vestito dimessamente, e con poco seguito, questo Re che con Roma
era in guerra; e comparire poi innanzi al popolo di Roma, radunato a
giudicarlo o, meglio, a servirsi della sua testimonianza per infamare
il senato, il consesso che raffigurava innanzi al mondo la potenza
di Roma! L’odio di parte non aveva immaginato ancora maggior follia.
Ma un tribuno, che doveva essere un uomo di buon senso, si levò;
e pose il veto ad ogni ulteriore procedimento. Non ci furon grida,
invettive, tumulti che valessero a scuoterlo. Giugurta rimase a Roma,
a disposizione del popolo, come imputato di un processo politico che
non poteva esser discusso. La situazione era bizzarra e inestricabile.
Il partito popolare, per il quale la rovina di Giugurta era ormai un
impegno d’onore, tentò allora un’altra via: scoprì in Roma un nipote di
Massinissa, Massiva, che per paura di Giugurta era fuggito d’Africa e
si era rifugiato nella metropoli; lo persuase a chiedere al senato il
regno della Numidia. La mossa era abile, poichè Giugurta sperava che
Roma si acconcerebbe alla fine a riconoscerlo Re, a dispetto di tutto
e di tutti, non potendo trovar altri. Giugurta però non fu tardo al
riparo; e non esitò a far assassinare il suo improvviso competitore.
L’indignazione popolare si esasperò; tutti capirono che Roma aveva
fatto un passo falso, facendo venir Giugurta a Roma; e il senato tagliò
con un atto di autorità il nodo: espulse Giugurta dall’Italia e ordinò
che la guerra fosse ripresa.

La guerra ricominciò nel 110. Ma il console Spurio Postumio Albino
guerreggiò fiaccamente; non seppe costringere a una battaglia campale
Giugurta, che l’evitava a tutti i costi e cercava di riallacciare
trattative; e verso la metà dell’anno lasciò il comando al fratello
Aulo, per tornare in Italia a presedere le elezioni. Aulo, rimasto
alla testa dell’esercito, comandò così male che, al principio del 109,
fu circuito da Giugurta; e, per salvare l’esercito dallo sterminio,
riconobbe a Giugurta il regno e acconsentì a sgombrare la Numidia.
Questa nuova sconfitta esasperò addirittura Roma, già irritata dalla
cattiva fortuna, che perseguitava i generali romani all’altro capo
dell’impero. Noi abbiamo veduto come tra il 125 e il 121 Roma avesse
avuto guerra con l’impero degli Arverni e conquistato e ridotto a
provincia quella parte della Gallia, che è posta tra le Alpi ed il
Rodano; e come, dopo averli vinti, avesse cercato di indebolire gli
Arverni, catturando e deportando in Italia il re Bituito e il suo
figlio. Senonchè, anche in Gallia, come in Oriente, la debolezza
imposta al nemico per precauzione non tardò a diventare un pericolo per
Roma stessa. Distrutto con la deposizione di Bituito e della dinastia
l’impero arverno, i popoli, che lo componevano, avevano ricuperata la
indipendenza, ciascuno sotto il governo della propria aristocrazia;
ed erano ricominciate le guerre tra popolo e popolo. Da principio
Roma aveva approfittato di questa rinata anarchia, per trattare con i
singoli popoli: aveva accordato agli Edni il titolo di fratelli e di
consanguinei; dichiarato amici i Sequani e molti popoli dell’Aquitania.
Ma ben presto dalla debolezza della Gallia era nato un nuovo pericolo,
maggiore dell’Arverno: il Cimbrico. I Cimbri, che nel 113 avevano vinto
nel Norico il console Carbone, non avevano osato invadere l’Italia:
carichi di preda, avevano risalito il Danubio, con l’intenzione di
passare il Reno e invadere la Gallia. Il che avevan fatto nel 109 e
con fortuna. Se l’impero arverno fosse stato ancora in piedi, avrebbe
potuto opporre alla invasione le forze unite della Gallia: ma l’impero
arverno era caduto, e i Cimbri eran passati facilmente attraverso
quel pulviscolo di Staterelli rivali. Roma aveva dovuto accorrere in
soccorso dei suoi amici della Gallia minacciata; e aveva spedito nel
109 il console Marco Giunio Silano con un esercito. Ma in un luogo, che
non è noto, Silano era stato sconfitto, come Aulo in Africa.

Essere sconfitta due volte dai barbari, in Europa e in Africa, era una
dura umiliazione per Roma. Roma non volle riconoscere che ambedue le
sconfitte erano dovute all’inettitudine dei generali e alla decadenza
degli ordini militari troppo invecchiati; e ne attribuì una almeno —
quella d’Africa — all’oro, ormai leggendario, di Giugurta. Un tribuno
propose che si nominasse una commissione d’inchiesta, sulla guerra di
Africa: e la legge fu approvata. Per fortuna però, per l’anno 109, i
comizi avevano finalmente nominato console un uomo capace e sicuro, Q.
Cecilio Metello; e la sorte, questa volta meno cieca del solito, gli
aveva assegnato come provincia la Numidia. Metello, giunto in Africa,
ristabilì la disciplina nell’esercito, e incominciò a far la guerra sul
serio, infliggendo, nel 109 e nel 108, ripetute sconfitte a Giugurta e
costringendolo a porsi sulla difesa. Ma la Numidia era un paese privo
di città, abitato da tribù barbare nomadi, semplici, espertissime
del paese, mobilissime e quindi molestissime ad un esercito regolare,
attardato dai suoi bagagli e dai suoi bisogni. In campo contro un tal
nemico, una o più disfatte non potevano troncare la guerra. Occorreva
orbare quegli uomini del loro duce. Ma Metello non ci riuscì. Giugurta
invece riuscì a conquistare l’amicizia e l’aiuto di altre tribù
limitrofe, non meno pericolose, quali i _Mauri_ e i _Getuli_.


74. =Caio Mario e l’ultima campagna contro Giugurta (107-106).= —
Le vittorie di Metello non placarono nè i rancori nè i sospetti
delle classi popolari romane, che ad ogni indugio a stravincere
non scorgevano altra causa se non l’oro di Giugurta e la corruzione
dell’aristocrazia. Nè poco noceva ai cavalieri quella interminabile
guerra, che chiudeva il paese a tutte le loro imprese. Il partito
democratico fomentava il pubblico malcontento quanto poteva; e
l’effetto si vide nelle elezioni consolari del 108. In quest’anno,
pieno di tante agitazioni ed inquietudini, un _uomo nuovo_, un
municipale di Arpino, un oscuro cavaliere fallito molti anni prima,
riusciva ad ottenere il consolato e il comando della guerra di Numidia.
Era costui quel Caio Mario, che abbiamo visto servir con onore agli
ordini di Scipione Emiliano, a Numanzia. Dopo quella guerra egli
aveva salito la scala degli onori, ma lento lento, faticosamente,
non riuscendo a svincolarsi dalla ressa dei concorrenti, perchè
troppo sollecito del bene pubblico e troppo poco dell’interesse di
parte. Eletto tribuno della plebe nel 119, s’era inimicato il partito
oligarchico, presentando una legge, che faceva segreti per davvero
gli scrutinî dei comizi. Ma di lì a poco si era guastato con il
partito popolare o di Gracco, interponendo il veto, quando un suo
collega si era fatto avanti a proporre un ampliamento della legge
frumentaria graccana. Inviso agli uni e agli altri, era fallito nelle
elezioni all’edilità; e aveva dovuto ritirarsi per tre anni a vita
privata; sinchè nel 115 era stato eletto pretore, e aveva governato
con fermezza la Spagna ulteriore. Metello l’aveva condotto in Numidia
come _legatus_, perchè Mario, a dispetto degli oscuri antenati, era un
valente uomo di guerra.

Che Mario ambisse ora la suprema carica dello Stato era cosa legittima;
in tanta scarsezza di ingegni, c’era in lui la stoffa di un grande
console, valoroso in guerra, equanime e non fazioso negli affari
civili. Ma un errore di Metello, che pure era anch’egli un uomo di
animo eletto, sviò a un tratto questa virtù. Par che Mario fosse
tra coloro che giudicavano troppo lento e prudente il guerreggiare
di Metello. O che a Metello spiacessero queste critiche, o che
l’offuscasse la sua alterigia nobilesca e la sua avversione contro
l’ordine dei cavalieri, quando Mario gli chiese il congedo per recarsi
a Roma a porre la propria candidatura al consolato per il 107, glielo
negò. Mario non desistè dal proposito; ed insistette con tanta forza
che alla fine Metello dovè annuire: ma all’ultimo momento, dodici
giorni prima dell’elezione, se Plutarco dice il vero, Mario volò
in Italia; ma, qui giunto, trovò il partito oligarchico solidale
con Metello e concorde nel non volere console l’antico cavaliere
pubblicano. Mario non era un uomo di parte; ma, oltraggiato a quel
modo dalla vecchia nobiltà, che altro poteva fare se non buttarsi nelle
braccia dei democratici?

I tempi erano maturi. Lo scandalo di Giugurta aveva addirittura
infamato tutta la nobiltà storica. C’era in tutti un disgusto, una
irritazione, un bisogno di cose, di uomini, di aria nuova. Mario
accusò apertamente nei suoi discorsi il partito oligarchico e Metello
di tirare in lungo la guerra apposta e promise, se eletto console,
di finirla in poco tempo; il partito democratico lo prese per suo
candidato; il popolino, contadini e artigiani, si dichiararono per
lui; i cavalieri gli prestarono man forte. Non era Mario un cavaliere,
e non prometteva di finir presto la guerra, come essi desideravano?
L’elezione del console diventò un conflitto tra la nobiltà senatoria e
gli altri ordini sociali. Mario fu eletto.

La elezione di Mario fu la prima riscossa del partito dei Gracchi.
Giugurta aveva fatto le vendette di Tiberio e di Caio. Per colpa
di questo oscuro regolo numida e dei suoi torbidi intrighi,
l’aristocrazia, che aveva fondato e governato per tanti secoli Roma,
era ora sospettata, infamata, umiliata, e forse, in buona parte, senza
colpa; l’oscuro cavaliere di Arpino scalava trionfante il consolato
e subito infliggeva al senato una seconda umiliazione. Già prima
delle elezioni, nella speranza di frustrare la vittoria di Mario,
il senato aveva assegnato le province, mantenendo Metello in Africa
in qualità di proconsole. Una legge cassò quella deliberazione, e
conferì a Mario il comando della guerra numidica. Mario doveva ora
fare quel che aveva promesso: finire la guerra. E si mise all’opera,
incominciando da una riforma militare, che ringiovaniva gli ordini
militari di Roma troppo invecchiati, ma che capovolgeva pure uno
dei principî su cui tutto l’assetto sociale della repubblica posava
da secoli. Convertendo in regola l’espediente dei tempi difficili,
Mario accolse nell’esercito non i soli cittadini censiti, ma quanti
si presentavano; anche i proletari[76]. Non è difficile intendere la
vitale saggezza e il pericolo mortale di questa riforma. Il vecchio
esercito romano del IV e del III secolo, di cui facevano parte solo i
cittadini possidenti, non bastava più per due ragioni: perchè il numero
dei censiti era troppo piccolo per tante guerre e tante province; e
perchè l’agiatezza era ormai cattiva stoffa da far soldati. Questi
inconvenienti erano in parte tolti di mezzo, ammettendo nell’esercito
gli uomini che non avevano altro capitale che le loro braccia. Non solo
costoro erano più numerosi dei censiti; ma siccome la milizia, più che
un peso poteva esser per essi una professione e il modo di campare la
vita, e di assicurarsi per la vecchiaia, con il bottino di guerra, una
certa agiatezza, era così più facile tenerli per lunghi anni sotto le
bandiere, insegnar loro le armi e la guerra sul serio, e farli veri
soldati. Ma se la riforma era vantaggiosa, non era neppure scevra di
pericoli. Non solo l’antico esercito nazionale si convertiva in un
esercito mercenario, simile a quelli di Alessandro e dei Diadochi; e il
principio professionale sottentrava al politico, come fondamento degli
ordini militari; ma le classi medie e agiate si disarmavamo e armavano
le classi povere, che non possedevano nulla.

Tuttavia la riforma fu lì per lì universalmente approvata. Lo Stato e i
privati ne ricevevano egualmente vantaggio: così i poveri che trovavano
un nuovo guadagno, come i ricchi e gli agiati cui più facile sarebbe
ottenere la dispensa dal servizio, ed esser rimandati a casa a curare
i propri beni o il proprio commercio. Accompagnato dunque dal favore
popolare, Mario partiva per l’Africa, incaricando il suo questore, L.
Cornelio Silla, di ultimare il reclutamento di uomini e di cavalli in
Italia. Era questi un personaggio, di cui — a voler credere le fonti
— fin allora non si sarebbero occupate che le cronache equivoche
della grande città, il rampollo di un’illustre famiglia decaduta,
vissuto fino a quel momento tra mimi, buffoni, cantori, danzatrici,
e che solo negli ultimi anni aveva potuto rifare la propria fortuna —
così almeno dicono gli scrittori antichi — con la eredità lasciatagli
da una etera greca! Quanto a Metello, non aveva aspettato il suo
successore: affidate le legioni a un suo luogotenente, era tornato
a Roma, dove a compenso il senato gli aveva concesso il trionfo e
il titolo di Numidico, Mario non perdè tempo; e con abili mosse, nel
106, riuscì a impadronirsi della Numidia, scacciandone Giugurta che
si rifugiò presso Bocco, il Re di Mauritania, di cui era alleato. Ma
mentre così finalmente la guerra di Africa si avviava verso la fine
tanto desiderata in Italia, nuove calamità succedevano in Gallia. Qui
i Cimbri, dopo avere sconfitto Silano, invece di invader la Gallia
o minacciar l’Italia, si erano improvvisamente ritirati, cosicchè
Roma aveva potuto per qualche tempo illudersi che il suo prestigio
avesse, anche dopo una sconfitta, imposto rispetto ai barbari. Ma era
una illusione: le due sconfitte che in pochi anni i Cimbri avevano
inflitto alle armi romane, forse anche le lungaggini e gli scandali
della guerra di Numidia avevano risvegliato il coraggio dei popoli
gallici sottomessi da Roma e gli appetiti dei barbari che ronzavano
intorno ai confini. I Cimbri si erano allontanati, per raggiungere
i Teutoni, mossisi anch’essi dalle loro sedi, per piombare insieme
sulla Gallia e sull’Italia; e, poco dopo la partenza dei Cimbri, nel
107, una popolazione, appartenente alla nazione elvetica, i Tigurini,
incoraggiati dalla sconfitta di Silano, avevano invasa la Gallia
Narbonese. Alla notizia dell’invasione una parte della Provincia era
insorta; e a Tolosa il presidio romano era stato fatto prigioniero
dalla popolazione indigena in rivolta. Il console Lucio Cassio Longino
aveva dovuto marciare contro i Tigurini, che erano comandati da un
giovane e abilissimo capo, di nome Divicone: ma al suo avvicinarsi,
Divicone aveva fatto finta di ritirarsi e fuggire, traendosi dietro i
Romani fin sui confini della Provincia, nel territorio dei Nitiobrogi:
là si era ad un tratto fermato e voltato all’offesa, circuendo i
Romani. Il console e la parte maggiore dell’esercito erano stati
uccisi; i superstiti avevan potuto scampare solo grazie a una pace
vergognosa. L’esercito distrutto, Tolosa perduta, mezzo il paese in
rivolta, il dominio romano nella Gallia Narbonese vacillante sul finire
del 107, fu necessario mandare, nel 106, dei rinforzi ed un console.

Questo console era il pontefice massimo Q. Servilio Cepione, uno dei
partigiani più fieri del partito oligarchico. Basti dire, che di tutto
il disordine che allora turbava lo Stato, egli voleva approfittare per
proporre una _lex judiciaria_, che riconferisse ai senatori una parte
del potere giudiziario da Caio trasferito ai cavalieri! Arrivato in
Gallia, Servilio trovò che il pericolo tanto temuto era dileguato: i
Tigurini, come i Cimbri, dopo la vittoria, se ne erano andati, come
se in tutti i Galli il timore di Roma crescesse dopo le vittorie
riportate su di lei: si volse dunque contro i Volchi per liberare
Tolosa; se ne impadronì; e per punire la città ribelle, confiscò tutti
i tesori accumulati nei templi dalla pietà dei fedeli[77]. Una preda
ingentissima, se vogliamo credere agli antichi, ma che non giunse mai
a Roma.... La scorta che l’accompagnava fu, secondo si disse, assalita
e trucidata per via; i tesori rubati. A Roma, dove Cepione era molto
odiato dai cavalieri e dai democratici, i più accusarono addirittura
il console di aver rubato il tesoro — il che sembra un po’ difficile;
si reclamarono inchieste, si intentarono processi; e insomma un nuovo
scandalo, non meno clamoroso del giugurtino, sconvolse Roma. Il solo,
che in mezzo a questo disordine grandeggiava nell’opinione del popolo
su tutte queste brutture, era Mario, che con le armi e i trattati
conduceva rapidamente a buon fine la guerra di Numidia. Dopo che
Giugurta era fuggito in Mauritania, Mario, che non voleva impegnarsi
in una guerra difficile e lunga contro Bocco, aveva ricorso alle arti
diplomatiche: aveva per mezzo del suo questore Silla aperte trattative
con Bocco, per indurlo ad abbandonare l’alleanza di Giugurta e a
consegnargli il Re. Silla fu molto abile; Bocco, pur avendo esitato
a lungo, si persuase alla fine che, se avesse continuato a tenere
le parti di Giugurta, avrebbe corso pericolo di perdere anch’egli
la corona e il regno; e alla fine, dopo lunghe e varie vicende,
acconsentì a tradir l’alleato. Nella primavera del 105, Giugurta,
fatto prigioniero durante un convegno, fissato per tutt’altro scopo, fu
condotto al generale vincitore. La guerra era finita, dopo sei lunghi
anni!


75. =I Cimbri e i Teutoni; i quattro consolati di C. Mario (105-101
a. C.).= — Ma la gioia della vittoria durò poco. Nel 105 ad un tratto
il ciclone, che da qualche tempo romoreggiava sulla Gallia, scoppiò.
I Cimbri e i Tigurini ricomparvero ai confini della Gallia uniti e
accompagnati da due altri popoli, i Teutoni e gli Ambroni. Chiaro
era dunque ormai: i Cimbri e i Tigurini si erano ritirati dopo le
vittorie solo per congiungersi e ritornare con nuove forze. Quanto
grande apparisse il pericolo, è dimostrato dalle misure che il senato
prese: più di ottantamila soldati furono mandati in Gallia sotto
il comando del console Gneo Manlio Massimo e di Servilio Cepione, a
cui fu continuato il comando con il grado di pro-console. La storia
della guerra è mal nota. Pare che i due generali fossero poco valenti
e che non andassero d’accordo, cosicchè nel discutere tra loro
spesso trascendevano alle ingiurie. Il senato mandò dei commissari
per metterli d’accordo, e di nuovo si fecero lunghi discorsi senza
approdare a nulla. L’esercito, come tutti gli altri eserciti del tempo,
che non avevano servito sotto gli ordini di Mario, era cattivo e poco
disciplinato. Da questo disordine nacque alla fine una calamità. Il 6
ottobre del 105, ad Arausium, nelle vicinanze di Orange, l’orda barbara
assalì i due eserciti romani, ciascuno dei quali sembra aver combattuto
per proprio conto; e li annientò ambedue. Non scamparono, insieme
con i due generali, che pochi avanzi. Il dominio romano nella Gallia
transalpina era caduto; un esercito di barbari accampava vittorioso
sulla grande via di comunicazione tra l’Italia e la Spagna, e aveva
aperte innanzi a sè le strade che conducevano all’una e all’altra.

Non è difficile immaginare lo spavento e il dolore di Roma. Una sola
speranza confortò in quell’ora tetra, la moltitudine sbigottita: Mario,
che era rimasto in Africa ad ordinare il paese conquistato. Di questo
un terzo, la porzione orientale della Numidia, era stata annessa alla
provincia d’Africa; la porzione occidentale, consegnata, come prezzo
del suo tradimento, al Re della Mauritania; il resto, largito a un
cugino di Giugurta, un oscuro principe di nome Gauda. Mario non avrebbe
potuto essere rieletto console, perchè il numero degli anni prescritti
dalla legge non era ancora passato; ma il popolo non sentì ragione:
come per Scipione Emiliano, approvò una legge che sospendeva per
Mario la regola comune; lo elesse console per il 104; e con un’altra
legge gli assegnò la Gallia. Cosicchè il 1º gennaio del 104 Mario potè
entrare in Roma, trionfando, e iniziare il suo secondo consolato. Stava
al suo fianco, partecipe del grande onore, il suo questore Silla: lo
seguiva, tra il clangore delle trombe, gli urrà dei soldati e il plauso
assordante della folla, lo spettro di colui che un tempo era stato
Giugurta, in catene con i suoi figli, le sue donne, i suoi congiunti, i
suoi cortigiani. Allorchè il trionfo fu celebrato, il vinto Re, nuovo
Perseo, fu gettato nel carcere tulliano, e quivi lasciato morir di
fame.

Roma si era nel pericolo avviticchiata a Mario perchè lo salvasse dal
nuovo Brenno. Se il salvar l’Italia fosse un’impresa molto difficile,
noi non sappiamo; ma certo il pencolo non era così imminente come
allora se lo immaginavano a Roma. I barbari, che percorrevano l’Europa
per razziarla, prima di scalare la barriera delle Alpi e invader
l’Italia, volevano, ora che avevan distrutto l’esercito romano della
Narbonese che li minacciava sul fianco, depredar la Spagna e la Gallia.
Difatti, quando Mario giunse, nella primavera del 104, nella Narbonese,
il nemico si era allontanato: i Cimbri erano andati in Spagna e i
Teutoni, tornando indietro, avevano invaso la Gallia. La Narbonese era
dunque tranquilla, almeno a paragone degli anni precedenti; e fuori di
pericolo, sebbene qua e là in rivolta. Ma Mario, che era un generale
abile, astuto e prudente, non si lanciò punto sulle tracce del nemico;
non solo lasciò i Teutoni invadere la Gallia, ma lasciò anche i Cimbri
invadere e saccheggiare la Spagna, una delle più ricche province
dell’impero. Anzi neppure si adoperò per ristabilire saldamente
l’autorità romana nella Gallia Narbonese. Non si curò che di esercitare
e migliorare l’esercito. Le informazioni raccolte annunciavano che i
Cimbri tornerebbero dalla Spagna, nella primavera dell’anno seguente:
bisognava dunque prepararsi a riceverli come si doveva. Mario aveva
condotto seco una parte delle agguerrite milizie d’Africa, molte nuove
reclute attirate dalla generosità con cui aveva spartito tra i suoi
soldati il bottino d’Africa, contingenti chiesti a tutte le popolazioni
soggette e alleate di Roma. Di questa varia moltitudine occorreva fare
un esercito. Non solo Mario fece istruire ed esercitare, come soleva,
con grande cura e rigore le nuove forze; ma, come sembra, introdusse
anche, nell’ordinamento e nell’armamento dell’esercito, alcune riforme
che dovevano sopravvivergli[78]. Sino allora la legione era stata
divisa in trenta manipoli, i quali si schieravano a battaglia su tre
linee, ad una certa distanza l’uno dall’altro. Ma un nemico come i
Cimbri, temibile per l’impeto di un primo attacco, poteva precipitarsi
nei vuoti e scompaginare, isolandoli, i troppo tenui manipoli. Mario
portò l’effettivo della legione a 6000 uomini e la divise in dieci
massicci corpi di 600 uomini ciascuno, che chiamò _coorte_ dal nome
delle unità delle milizie alleate. In tal guisa, non solo i cittadini
e gli alleati italici si confusero nel nuovo esercito, ma la legione
acquistò una compattezza maggiore, che doveva essere utilissima in
tempi in cui i soldati erano in generale di qualità più scadente. Nè
Mario trascurò di migliorare le armi. Abolì le lunghe lance e gli scudi
enormi; diede a tutti i soldati la sottile arma da getto, propria
allora delle prime linee, che era il _pilum_, col quale si poteva
tuttavia trafiggere lo scudo e la corazza nemica, e il _clipeus_, il
piccolo, rotondo e leggero scudo romano.

Certamente coloro i quali avevano creduto che, appena arrivato in
Gallia, Mario avrebbe polverizzato il nemico, furono un po’ delusi: ma
intanto gli animi si rinfrancavano e aspettavano con maggiore fiducia
il grande cimento per la primavera del 103. Senonchè, mentre le cose
parevano un po’ quetarsi in Gallia, scoppiava una pericolosa rivolta
di schiavi nell’Italia meridionale e in Sicilia; e nuove complicazioni
nascevano in Oriente. Nel 104 i dinasti della Paflagonia vennero a Roma
a chiedere aiuto alla repubblica, di cui erano amici e clienti, contro
il regno del Ponto. Era questo un regno formatosi sulle sponde del
mar Nero, al principio del terzo secolo avanti Cristo, tra i rottami
dell’impero di Alessandro, e tra popolazioni diverse per lingua,
costumi e razza, sotto la dinastia dei Mitridate[79], una nobile
famiglia persiana ellenizzata. In questo Stato, sino allora quasi
ignoto ai Romani, era salito al trono, nel 111, un giovane sovrano
ambizioso e intelligente, il cui nome era Mitridate VI Eupatore[80];
e che, aiutato da un abile greco di Sinope, Diofante, era riuscito in
pochi anni a salvare le colonie greche del mar Nero dalla dominazione
degli Sciti, e a conquistare la Tauride; poi aveva cercato di ridurre
in suo potere tutto il bacino orientale del mar Nero, di allargare il
regno del Ponto sino all’Eufrate, di avviare relazioni con le barbare
popolazioni dei Sarmati e dei Bastarni, vaganti tra il Danubio e il
Dnieper, con le tribù galliche restate nella valle del Danubio, con
i Traci e gli Illiri. I re Sciti, scacciati dalla Tauride, erano già
accorsi l’anno prima a Roma, a domandar aiuto; ma Roma, atterrita
dalle calamità della Narbonese, aveva fatto la sorda. Incoraggiato
dall’inerzia di Roma, Mitridate aveva invaso e diviso con il Re di
Bitinia, suo alleato, a quanto sembra, nella primavera del 104, la
Paflagonia. Per la seconda volta, l’Asia chiedeva aiuto a Roma: a Roma
che, essendo diventata una potenza asiatica, dopo l’annessione del
regno di Pergamo, non poteva tener sempre chiusi gli occhi sui questi
eventi. Per essere sicura della preziosa provincia d’Asia, Roma doveva
vegliar che nessun’altra potenza troppo forte e ambiziosa le crescesse
vicino.

Il partito democratico, infatti, allora potentissimo, si dichiarò
subito avverso a Mitridate e favorevole ai piccoli principati
da lui minacciati. Il partito oligarchico invece, per spirito di
opposizione, assunse un atteggiamento, se non favorevole a Mitridate,
più imparziale. Del resto, aspettandosi gli ambasciatori di Mitridate,
nessuna deliberazione fu presa. La Gallia stava sola in cima al
pensiero di tutti. Aspettandosi per la primavera del 103 il grande
scontro, l’opinione pubblica voleva che il comando dell’esercito
restasse a Mario: fu facile quindi al partito popolare di farlo
rieleggere console per la terza volta, senza che egli si movesse
dalla Gallia, a dispetto delle leggi e della nobiltà, per la quale i
consolati di Mario erano una specie di muta, ma costante umiliazione.
Mario, Mario solo, e non più il senato solo e le grandi famiglie, era
la speranza, la spada e lo scudo di Roma! Le elezioni tutte furono
favorevoli al partito democratico. Fra i tribuni della plebe per il
103 fu uno dei democratici più ardenti e più arditi, Lucio Apuleio
Saturnino; e durante l’annata fu approvata la _Lex Domitia_, che
faceva elettivi tutti i collegi sacerdotali — pontefici, áuguri, _XV
viri sacris faciundis, VII viri epulonum_ — i quali sino ad allora
si rinnovavano per cooptazione[81]. Un altro privilegio delle grandi
famiglie era distrutto! Nè meno vigorosa fu l’azione del partito,
quando gli ambasciatori di Mitridate giunsero a Roma. Sia che veramente
questi avessero tentato di convincere dei senatori con l’oro, sia
che il partito democratico, un po’ viziato dal successo, volesse
approfittare dei facili sospetti del pubblico per rifare lo scandalo
di Giugurta, fatto sta che ci furono violente accuse e clamorose
dimostrazioni popolari contro gli ambasciatori. Saturnino le capeggiò,
e il senato, intimidito, ricorse all’espediente di mandare una
ambasceria in Oriente a esaminar lo stato delle cose.

Frattanto la primavera del 103 era giunta; ma con essa non erano giunti
nè i Cimbri nè i Teutoni. Le legioni romane rimasero indisturbate in
Gallia. Questa quiete deluse molto i soldati e l’Italia; si cominciò
a mormorare di Mario e del suo modo di combattere; a domandarsi quanto
durerebbe la guerra, combattuta a quel modo. Ma Mario non se ne diede
per inteso e non fece un passo per andare in cerca del nemico: fece
invece, perchè i soldati non si snervassero nell’ozio, scavare la
_fossa Mariana_, di cui il villaggio di Foz conserva ancora il nome,
per fare navigabile l’ultimo tratto del Rodano, spesso ingombro
di sabbie. Egli otteneva così tre scopi: occupava i soldati; si
assicurava una buona via di vettovagliamento; faceva cosa gradita ai
suoi grandi amici di Roma, i cavalieri, ed alla sua preziosa alleata,
Marsiglia, migliorando la navigazione del Rodano e aprendo una via
sicura al commercio con la Gallia. Senonchè un generale ha l’ufficio di
combattere e non di scavare dei canali. L’inerzia di Mario sembrava a
Roma protrarsi troppo. Che cosa si farebbe per il 102? Mario desiderava
di esser rieletto console, per cogliere il frutto delle lunghe fatiche;
il partito popolare era pronto a sostenerlo; ma questa volta il
pubblico esitava. Mario dovè muoversi e venire a Roma a sollecitare i
suffragi. La sua presenza bastò. Primo caso nella storia di Roma, egli
fu eletto console per la quarta volta.

I comizi avevano del resto agito seriamente. Ritardando, la bufera
scoppierebbe più violenta. Nel 102 i Cimbri tornarono dalla Spagna,
i Teutoni dalla Gallia; e sul Rodano si congiunsero insieme Cimbri,
Tigurini, Teutoni, Ambroni, per invadere l’Italia. Avevano distrutto
nella Narbonese un esercito romano; avevano saccheggiata la Spagna e
la Gallia senza che Roma osasse correre in aiuto della sua provincia e
dei suoi alleati: come non avrebbero presunto di poter anche invadere e
saccheggiare l’Italia, per tornar poi, onusti di preda, nei loro paesi?
Deliberarono infatti di valicare le Alpi in tre colonne. I Teutoni
e gli Ambroni passerebbero per la Provincia e le Alpi occidentali;
i Cimbri, per le Alpi centrali; i Tigurini, per le Alpi orientali.
Così, nella seconda metà del 102, un’orda di Teutoni e di Ambroni
mosse attraverso la Narbonese verso l’esercito romano, che da più
di due anni li aspettava esercitandosi in silenzio. La battaglia si
combattè non lungi da _Aquae Sextiae_ (Aix); e il genio del generale
romano, la disciplina dell’esercito vinsero l’audacia e la violenza
dei barbari. In due fatti d’arme successivi, gli Ambroni e i Teutoni,
abilmente provocati ed assaliti, furono distrutti. Centomila morti — se
il numero non è esagerato — dettero a l luogo il nome ferale di _Campi
Putridi_[82].

La grande vittoria di Aix riempì di giubilo Roma; Mario fu eletto
console la quinta volta; questa volta senza opposizioni ed esitazioni,
ed incaricato di respingere dopo i Teutoni, i Cimbri, che a grandi
marce, e forse più numerosi dei Teutoni, invadevano l’Italia
settentrionale. Il nuovo pericolo infatti non era minore di quello che
il genio di Mario aveva allora allora sventato. Il console Q. Lutazio
Catulo, mandato a difendere i passi delle Alpi centrali, non aveva
resistito all’urto, e, respinto fino all’Adige, era stato costretto a
ripiegare sulla riva destra del Po, abbandonando ai Cimbri tutta la
Transpadana. L’Italia era minacciata da una invasione più terribile
di quella di Annibale: Mario, Mario solo poteva salvarla! Difatti la
fortuna tornò a sorridere, e per l’ultima volta, a colui che da sette
anni era il suo favorito. I Cimbri, anzichè proseguire nell’invasione,
indugiavano a saccheggiare la pianura padana. Mario ebbe il tempo di
richiamare le sue provette legioni dalla Provenza e di ricongiungersi
con Catulo, per esser pronto ad assalirli quando quei barbari si
disponevano a valicare il Po, non lungi dalla sua confluenza con la
Sesia. Nella pianura dei Campi Raudii, i Cimbri subirono in una grande
battaglia la sorte dei loro compagni di oltr’Alpe. Si disse che i morti
e i feriti fossero più di 120.000, 60.000 i prigionieri (30 luglio
101)[83].


NOTE AL CAPITOLO TREDICESIMO.

[74] APP., _B. C._, I, 27. La data della legge è indicata dalle
parole: πεντεχαιδέχα μάλιστα ἔτεσιν ἀπὸ τῇς Γράκχον (intendi Tiberio)
νομοθεσίας.

[75] Sulla guerra così detta giugurtina, C. Sallustio Crispo, un
democratico del tempo di Cesare (86-31 a. C.), scrisse un’apposita
monografia, _De Bello iugurtino_; che è un bel libro, ma assai
tendenzioso.

[76] SALL., _B. J._, 86, 2; PLUT., _Mar._, 2, 3, 1; GELL., _N. A._, 16,
10, 14.

[77] STRAB., 4, 1, 13; JUSTIN., 37, 3, 9.

[78] Cfr. J. MARQUARDT, _De l’organisation militaire chez les Romains_
(trad. fr.), Paris, 1891, pp. 147 sgg.

[79] Le iscrizioni dànno Μιθραδάτης.

[80] Su questa grande figura storica ha scritto un assai bel libro TH.
REINACH, _Mithridate Eupator roi du Pont_, Paris, 1890.

[81] CIC., _De leg. agr._, 2, 7, 18 sgg; VELL. PAT., 2, 12, 3.

[82] Sulla battaglia di _Aquae Sextiae_, cfr. M. CLERC, _La bataille
d’Aix; études critiques sur la campagne de Marius en Provence_, Paris,
1906.

[83] PLUT., _Mar._, 25 sgg.



CAPITOLO QUATTORDICESIMO

MITRIDATE


76. =La caduta del partito popolare (100).= — Dopo Vercelli, il senato
stesso aveva proclamato Mario «terzo fondatore di Roma», con Romolo e
con Camillo. Nessuno degli uomini, i quali assistettero al trionfo, in
cui tanti prigionieri, tanti re e principi barbari sfilarono in catene
sotto gli occhi del popolo romano, poteva vedere al di là di tanta
gloria, distante soltanto un passo, la rupe Tarpea. Eppure era così.
Dileguato il pericolo, gli scrupoli costituzionali, la forza della
tradizione, il senso della legalità ripresero il sopravvento. Ora che i
barbari erano debellati, Mario non poteva più essere rieletto console.
Ma la fortuna aveva acciecato i suoi favoriti. Inebriato dal trionfo
cimbrico, il partito popolare, insieme con la candidatura di parecchi
tra gli uomini più in vista — L. Apuleio Saturnino e C. Servilio
Glaucia tra gli altri — ripropose per la sesta volta la candidatura
del vincitore di Giugurta e dei Cimbri al consolato. L’aristocrazia
accettò questa volta la sfida; contrappose al vincitore dei Cimbri la
candidatura dell’antico generale di Mario, Q. Cecilio Metello; impegnò
la battaglia su tutta la linea, disputando non solo il consolato, ma
tutte le altre magistrature.

Il partito democratico vinse ancora: Mario, Saturnino e Glaucia furono
eletti, console il primo, tribuno della plebe il secondo, pretore il
terzo, ma a grande stento, con pochi voti di maggioranza e con grandi
violenze. L’elezione di Saturnino fu funestata da grosse turbolenze;
poichè il candidato del senato fu ucciso. Ma questa vittoria fu
l’ultima del partito democratico, che aveva primeggiato parecchi anni,
per la gloria di Mario e per il malcontento generato dagli scandali
delle guerre giugurtine e dal pericolo gallico. Le due guerre erano
finite; la nobiltà, non ostante i suoi errori, fortemente insediata
in senato, ricominciava a rialzar la testa. Per conservare il potere
il partito popolare avrebbe dovuto imitare Caio Gracco e allettare le
moltitudini con promesse vistose. Ma Mario non era l’uomo che occorreva
per questi maneggi: era, a dispetto dei sei consolati, un vecchio
romano impacciato da troppi scrupoli costituzionali e tradizionalisti:
e non sapeva dirigere quel partito, che in fondo non era mai stato
il suo. A questo ufficio era tagliato meglio Saturnino. E Saturnino
infatti si mise subito all’opera, presentando una _lex agraria_, che
assegnava le terre della Gallia Transpadana devastate dai Cimbri, i
cui proprietari erano spariti nell’invasione; e una _lex de coloniis
deducendis_, che decretava la fondazione di numerose colonie nelle
province, in Macedonia, in Acaia, in Sicilia, per distribuire terre ai
veterani di Mario[84].

Ai veterani, fossero cittadini romani o italici. Accanto alla
tradizione dei Gracchi apparisce in queste leggi qualche cosa di nuovo
e che ricorda Scipione Emiliano. Anzi un certo numero dei veterani
italici doveva essere onorato della cittadinanza romana; e Mario era
incaricato di applicare la legge.

Le due leggi erano dunque, per quanto si può giudicare dopo tanti
secoli, provvide e savie. Ma a tutte e due erano aggiunte una clausola
e una legge complementare. La clausola aggiunta disponeva che i
senatori e i magistrati fossero obbligati, entro cinque giorni, a
giurare obbedienza alla legge, sotto pena dì ammenda e della perdita
della dignità. La legge complementare era la _lex de majestate_. Questa
rinforzava ancora più, se v’era bisogno, la potenza politica del popolo
romano e dei suoi rappresentanti, dichiarando inviolabile la maestà del
popolo romano e dei tribuni plebei, e minacciando gravi pene a chiunque
avesse osato attentare a questa inviolabilità. La ragione della
clausola e della _lex de majestate_, che doveva poi col tempo diventare
così tristamente famosa, è chiara. Era ormai palese a tutti, per una
lunga esperienza di venti anni, che al partito popolare riusciva molto
più facile di far approvare delle leggi agrarie, che di farle eseguire.
L’aristocrazia, fortemente insediata nel senato, nelle magistrature,
nei collegi religiosi, aveva mille mezzi di insidiar queste leggi
nell’applicazione, quando non riusciva a respingerle nei comizi. Per
impedire questa soverchieria, Saturnino aveva rinforzato con quella
clausola e con la _lex de majestate_ le due leggi, ma infondendo
loro uno spirito tirannico di violenza, che esasperava la nobiltà e
inquietava i cavalieri. Costoro avevano favorito negli anni precedenti
il partito popolare, quando il loro eroe, Mario, ne era il capo; ma
ricchi i più, non potevano gradire leggi, che miravano a conculcare
le classi denarose a vantaggio delle povere. La votazione accrebbe il
disagio. La lotta fu viva, la nobiltà tentò da prima l’ostruzionismo
liturgico, poi l’intercessione dei tribuni; ma i veterani di Mario
erano accorsi numerosi e risposero menando le mani. Il sangue corse.

Le leggi furono approvate; ma appena si volle applicarle, apparve
subito come quelle loro violente disposizioni ferivano anche il
partito che le aveva fatte. Quando, approvate le leggi, il senato fu
invitato a giurare, Mario stesso, il capo del partito popolare, esitò,
dichiarò da prima di non poterlo fare. Troppo quella clausola gli
pareva tirannica! Sollecitato dal suo partito, egli poi si disdisse; e
adducendo come pretesto il pericolo di una sommossa popolare, giurò e
trascinò seco a giurare tutto il senato, tranne Q. Cecilio Metello, il
suo antico rivale, che preferì subire le rappresaglie della legge _de
majestate_ e andare in esilio. Ma se il partito popolare era stato lì
per lì salvato dalla resipiscenza di Mario, dopo questo incidente si
staccò da lui. Non si poteva più inoltre riproporlo una settima volta
a console. Il partito popolare si presentò dunque alle elezioni per
l’anno 99 senza aver nè Mario tra i suoi candidati, nè il suo appoggio
dichiarato e operoso. Mancando Mario, anche i cavalieri abbandonarono
il partito popolare; si intesero con la nobiltà e acconsentirono
ad appoggiare, invece del candidato popolare Glaucia, il candidato
dell’aristocrazia, che era il famoso oratore M. Antonio, purchè
l’aristocrazia appoggiasse il candidato loro C. Memmio, il famoso
tribuno degli scandali giugurtini. Anche molti dei veterani, mancando
Mario, si disinteressarono delle elezioni. Ne seguì che nei comizi
tributi, Saturnino, il quale si ripresentava candidato al tribunato,
riuscì eletto; ma nei comizi centuriati Glaucia, abbandonato dai
cavalieri, fu vinto. Riuscirono M. Antonio e C. Memmio. I popolari non
si rassegnarono alla disfatta e al tradimento dei cavalieri; dei grandi
tumulti incominciarono; C. Memmio fu assassinato dai partigiani di
Glaucia. Ma questa volta neppure il senato e i cavalieri tollerarono
in pace tanta violenza. Il senato decretò lo stato d’assedio, e
incaricò i consoli, ossia lo stesso Mario, di procedere contro i
rivoltosi e di ristabilire l’ordine. Mario avrebbe potuto, sotto la
sua personale responsabilità, sottrarsi a quel tremendo uffizio. Ma
il vincitore dei Cimbri non ebbe la forza di resistere all’opinione
pubblica. Sotto i suoi ordini si schierarono il senato, i cavalieri,
i tribuni della plebe, e una buona parte della popolazione urbana. Si
combatterono nel Foro delle vere battaglie, nelle quali i veterani di
Aquae Sextiae e di Vercelli si trucidarono; il partito di Saturnino e
di Glaucia, disfatto, si rifugiò e si asserragliò sul Campidoglio; e
Mario lo assediò. Alla fine, come ai tempi di Tiberio e di Caio Gracco,
Saturnino e Glaucia furono trucidati, e, con essi, perdette la vita
gran numero dei loro seguaci (dicembre 100). Ma il Nasica e l’Opimio
del nuovo macello era stato C. Mario: per tanti anni l’eroe e il vanto
del partito popolare!


77. =Il processo di Rutilio Rufo e la rottura tra il senato e
l’ordine equestre.= — La reazione fu violenta. Gli scandali della
guerra di Giugurta e della guerra contro i Cimbri e i Teutoni furono
dimenticati; la nobiltà storica ridivenne l’oggetto dell’ammirazione
di tutti; pronto, il senato ne approfittò per ricuperare il potere;
e come primo atto richiamò dall’esilio Metello. La maggior vittima di
questo rivolgimento fu Mario, che, venuto in odio al partito popolare,
senza aver riacquistato il favore del partito della nobiltà, non
attese neanche il ritorno del suo antico rivale in Roma. Abbandonando
volontariamente la vita politica, in cui non c’era più posto per lui,
partì per un lungo viaggio in Oriente, sotto il pretesto di compiere un
voto a un’oscura divinità di Pessinunte.

Il partito della nobiltà governava di nuovo l’impero; e, sotto il suo
governo, i tempi, se non più felici, si fecero almeno più tranquilli.
Il partito aristocratico aveva sul rivale il vantaggio di possedere
l’organo di governo più stabile della repubblica, il senato, che in
maggioranza era suo. Mentre il partito democratico non aveva potuto
impadronirsi, anche negli anni più felici, che delle magistrature
maggiori, ed era sempre stato in balìa dei comizi, mutevoli ogni
anno, il partito della nobiltà era sempre stato potentissimo per
via del senato, anche negli anni in cui gli elettori dei comizi gli
erano avversi. Questo divario spiega come il partito della nobiltà,
anche in questi anni turbolenti, potesse governare con una prudenza
e ponderazione, che fa contrasto con le agitazioni dei brevi anni di
egemonia democratica. Certamente neppure i dieci anni, intercessi
fra il 100 e il 91, furono esenti da difficoltà e da guerre. La
Spagna, sconvolta dall’invasione cimbrica, si risolleva insieme con le
popolazioni alpine di recente sottomesse; le nuove province orientali
sono (ahi, troppo spesso!) devastate dalle barbare tribù limitrofe;
l’Asia minore è turbata replicatamente dalle mene del Re di Bitinia,
Nicomede, e del Re del Ponto, Mitridate. A dispetto della commissione
inviata dal senato, questi due sovrani avevano ormai occupato la
Galazia; poi, mentre Nicomede intrigava in Paflagonia, Mitridate
aveva approfittato della guerra cimbrica, per rompere l’alleanza con
il Re di Bitinia e impadronirsi da solo della Cappadocia. Ma per
nessuna di queste difficoltà il senato sconfinò dai limiti di una
politica difensiva, d’interventi militari e diplomatici. Parevano
ritornati i tempi di Scipione l’Africano e di Catone. La Galazia fu
nel 95 ridata ai tetrarchi, che prima la governavano; la Paflagonia,
dichiarata libera; la Cappadocia, posta sotto il governo di un
nobile persiano, Ariobarzane cui fu dato il titolo di Re; lo stesso
Mitridate fu trattato con tanto riguardo che di lì a due anni, fatta
un’alleanza con Tigrane, re di Armenia, invase di nuovo la Cappadocia,
scacciando Ariobarzane. Ma neppur questa provocazione strappò al senato
una dichiarazione dì guerra contro il Re del Ponto. Il propretore
Lucio Cornelio Silla fu mandato con un piccolo esercito a rimettere
Ariobarzane sul trono; e null’altro fu fatto. Intorno allo stesso
tempo il Re di Egitto, Tolomeo Apione, morì legando al popolo romano
la Cirenaica, toccatagli sin dal 116. La Cirenaica era allora un paese
ricco d’acqua, fertile e prospero. Ma il senato, ricusato il dono, la
dichiarò indipendente.

Il partito della nobiltà cercava insomma, quanto poteva, di ristabilir
l’ordine nell’impero e di governar saviamente. La dura lezione
dell’ultimo quindicennio non era stata inutile. Ma non ostante la
buona volontà del governo, le cose stavano in bilico per miracolo.
Quel confuso processo di decomposizione e di ricomposizione, che i
Romani chiamavano la corruzione dell’antico costume, e che noi avremmo
definito il progresso dei tempi, non era punto cessato. La diffusione
della filosofia greca, i progressi dell’istruzione e della ricchezza
facevano sentire più vivamente la durezza di tanti rigori formali
dell’antico diritto e l’orrore di certe superstizioni barbare ancora
superstiti. L’abolizione dei sacrifici umani, di cui qualche avanzo
restava ancora in Italia, stava per essere decretata; il diritto
progrediva per opera dei pretori, che riconoscevano più arditamente le
ragioni della equità nei loro editti. Ma nella gara per la ricchezza,
la cultura, il piacere, il potere gli animi inferocivano, le classi
e lo Stato si dissolvevano. Più numerosi che mai erano i nobili e
i ricchi che costruivano a Roma eleganti palazzi; i signori che si
dilettavano di scriver libri, storie, trattati, poesie in greco o
in latino; gli oratori che, come Antonio e Licinio Crasso, avevano
studiato l’eloquenza nei modelli greci come un’arte. La conoscenza e
il gusto dell’arte attica e asiatica si divulgavano; scultori e pittori
greci ormai avevano in gran numero lavoro dai Grandi di Roma. Ma queste
spese, le etère dell’Oriente, i troppi schiavi, i bagordi rovinavano
molte famiglie della nobiltà, riducendole a industriarsi con ripieghi,
debiti e concussioni. Molti agricoltori studiavano gli agronomi greci,
si facevano prestare un capitaletto, piantavano uliveti e vigneti,
s’ingegnavano di coltivare meglio; ma l’inesperienza, la mancanza
di vie, le grosse usure rovinavano spesso chi faceva queste prove.
Ogni anno si aprivano a Roma, nelle città latine e alleate, nuove
scuole di rettorica, a cui traevano numerosi scolari e nelle quali si
preparavano una lingua, uno stile e una eloquenza nazionali; ma troppi
giovani avvocati non trovavano poi protettori per salire, nè clienti da
difendere; troppi si davano al commercio, e se alcuni arricchivano a
Delo, in Asia, in Egitto, molti fallivano. Gli spostati, i disperati,
i mercanti falliti, i possidenti scacciati infestavano ogni parte
d’Italia; la piccola proprietà spariva, la terra era accaparrata da
pochi, l’usura prosperava; solo pochi arricchivano, tra i quali qualche
avanzo delle antiche nobiltà locali dell’Italia, come quel Caio Cilnio
Mecenate, che, pur discendendo da una famiglia reale di Etruria, si
era acconciato a venire in Roma e a farsi pubblicano, accontentandosi
di prender rango nella seconda nobiltà, l’ordine dei cavalieri. In
questo disordine morale e sociale, uno Stato che posava sul principio
dell’elezione popolare, come la repubblica romana, non poteva
sfuggire ad una specie di dissoluzione universale. Gli avventurieri,
gli ambiziosi, i violenti, i furbi, gl’imbroglioni, e i corruttori
invadevano i pubblici uffici, scacciandone gli uomini onesti, ai quali
non rimaneva altra consolazione che gemere sconsolatamente sulle
sciagure dei tempi. Massime nelle alte classi, era opinione comune
che la diffusione della coltura nel medio ceto fosse un male. «Chi
studia il greco diventa un birbone» si diceva quasi in proverbio.
Peggio ancora, il desiderio di acquistare la cittadinanza faceva rapidi
progressi nel medio ceto impoverito dell’Italia che si illudeva di
potere, acquistando la cittadinanza romana, recar sollievo al proprio
disagio; tra i giovani, che avevano studiato eloquenza e che eran
mal contenti di dover difendere piccole cause e concorrere alle umili
magistrature municipali nella loro cittaduzza; tra tutti coloro (ed
eran molti), i quali desideravano i privilegi del cittadino romano.

In simile travaglio, il nuovo governo sarebbe stato debole, anche se
avesse potuto far assegnamento sulla concordia dei propri partigiani.
Invece il partito della nobiltà era, sì, ritornato al potere, perchè
la nobiltà e l’ordine equestre, spaventati dalla rivoluzione, si
erano riconciliati; ma questa riconciliazione era assai precaria.
Troppo forte e antico era l’odio generato tra i due ordini dalla legge
giudiziaria di Caio Gracco prima, dai consolati di Mario poi, infine
dal corso degli eventi. I cavalieri insuperbivano ogni dì più per le
ricchezze, per le clientele, per il diritto di giudicare i senatori;
si consideravano ormai pari o da più della nobiltà storica, mentre una
grande parte di questa, disgustata dalla corruzione e dal disordine
universale, furente per la sua povertà e per l’insolenza degli uomini
novi, affettava di spregiare i cavalieri; rammaricava i tempi, in cui
la nobiltà sola era potente; chiedeva leggi severe contro gli abusi
dei pubblicani. C’era dunque nella nobiltà storica un forte partito
antiplutocratico, e tra i cavalieri, un partito avverso alla nobiltà.
Bastò infatti un incidente, in verità tristo assai, per rompere la
concordia dei due ordini, sulla quale pure l’ordine sociale tutto
quanto posava, e scatenare una delle rivoluzioni più terribili.

Publio Rutilio Rufo era un senatore integro e capace; un nobile di
antico stampo, ligio alle tradizioni, per quanto assai colto, e perciò
molto avverso alle due forze nuove che da un secolo minacciavano
il potere della nobiltà e la grandezza di Roma: la plutocrazia e la
demagogia. Aveva reso segnalati servizi alla repubblica; era stato
console nel 105; e, nel 96, aveva governato la provincia d’Asia come
_legatus pro praetore_, quando Muzio Scevola era tornato a Roma per
presentare la sua candidatura al consolato. Aveva allora represso con
energia gli abusi dei pubblicani d’Italia, facendo giustizia senza
riguardi e facendosi benedire dai sudditi. Ma i cavalieri, che in Asia
avevano ormai tanti interessi, vollero dare un esempio che togliesse
ad altri la voglia d’imitare il fastidioso _legatus_; e quando Rutilio
fu tornato a Roma, nel 93, lo fecero accusare, lui, l’incorrotto e
l’incorruttibile, di concussione; e condannare dalla _quaestio_, che
Caio Gracco aveva composta di cavalieri.


78. =Il Tribunato di Druso (91 a. C.).= — Rufo partì per l’esilio; ma
per quanto Sallustio l’abbia dipinta con sì foschi colori, la nobiltà
di Roma non era ancora così corrotta e avvilita, da subire un simile
affronto. La rottura tra i due ordini fu dichiarata. Il 92 pare sia
stato un anno di fermentazione tacita. L’episodio più importante di
questo anno è l’editto dei due censori, Cneo Domizio Enobarbo e Lucio
Licinio Crasso, che chiudeva le scuole di retorica in Roma[85]. Ma la
guerra latente tra i due ordini fu dichiarata nel 91 da Marco Livio
Druso, tribuno della plebe. Era egli, molto probabilmente, figliuolo
di quel Druso, che era stato il più funesto artefice della rovina di
C. Gracco. Ma i tempi erano mutati; e il figlio del persecutore di
Caio Gracco tentava ora di stringere un’alleanza della nobiltà e del
popolo contro l’ordine equestre, al modo stesso con cui Caio Gracco
aveva cercato di far l’alleanza del popolo e dei cavalieri contro la
nobiltà, presentando un _omnibus_ di leggi, una di quelle leggi _per
saturam_, che fino allora il suo partito aveva combattuto come un
abuso dei popolari. Livio Druso infatti propose una _lex judiciaria_,
che cercava di risolvere equamente e nell’interesse della giustizia il
vecchio conflitto tra il senato e l’ordine equestre per i tribunali.
Disponeva la legge che nel senato fossero ammessi 300 nuovi membri,
tratti dall’ordine equestre; che tra i senatori, nuovi e vecchi, si
sorteggiassero i giudici delle _quaestiones_; che si costituisse una
_quaestio_ particolare per i reati di corruzione giudiziaria. Aggiunse
a questa una _lex de coloniis deducendis_, che fondava in Italia e
in Sicilia colonie da molto tempo proposte e mai dedotte; una _lex
agraria_ della quale poco sappiamo, ma che pare fosse una rinnovazione
delle leggi dei Gracchi; una _lex frumentaria_, che scemava il prezzo
a cui il grano era venduto dallo Stato al popolo in Roma. Lo scopo
di queste leggi è chiaro: comprare nei comizi con le tre ultime la
maggioranza che approverebbe la prima. Tanta era l’irritazione contro i
cavalieri e il desiderio di toglier loro il potere giudiziario, che una
parte della nobiltà aveva messa da parte perfino l’antica avversione
per le leggi frumentarie ed agrarie! Ma queste leggi eran troppo
disparate e diverse, perchè non suscitassero una vigorosa opposizione;
e non solo nell’ordine dei cavalieri, ma anche nella nobiltà. A molti
senatori non piaceva che il senato ricevesse 300 membri nuovi. La legge
delle colonie e la legge agraria spaventavano infiniti interessi. La
_lex frumentaria_ aggravava l’erario, già dissestato. Si formò dunque
un’opposizione di cavalieri e senatori; incominciò nel senato, nei
comizi, nelle strade una battaglia accanita di discorsi, di processi,
di tranelli costituzionali e liturgici, di percosse e di violenze,
che durò dei mesi; e nella quale a un certo punto irruppero anche gli
Italici. Questi, come ai tempi dei Gracchi, erano in grande ansietà
per le nuove leggi coloniali ed agrarie annunciate, che temevano si
dovessero applicare a loro spese; ed erano accorsi a Roma in grande
numero, per combattere le leggi del nuovo Gracco.

È difficile giudicare se Livio Druso fosse un grande uomo di Stato o
un visionario. Certo è che invece di stringere in alleanza il popolo e
la nobiltà contro l’ordine equestre, egli era riuscito a dividere la
nobiltà, ad invelenire di nuovo l’antico odio tra Romani ed Italici,
e a scatenar una mischia furibonda di partiti e di interessi. I
tempi erano tristissimi; nessuno si raccapezzava più; degli oligarchi
intransigenti erano pronti ad approvare perfino una legge agraria,
pur di togliere ai cavalieri il potere giudiziario; degli amici di
Rutilio Rufo combattevano la _lex judiciaria_, che doveva vendicarlo,
per paura della legge agraria. Tuttavia in mezzo a questo caos Livio
Druso non poteva non essere inquieto per la crescente agitazione degli
Italici. Come Caio Gracco, e per gli stessi motivi, egli fu condotto a
prometter loro, come compenso, la cittadinanza. Se le leggi passavano,
egli proporrebbe una legge che concederebbe a tutti la cittadinanza.
Acquistato così il favore degli Italici, egli riuscì a far passare
tutte insieme le sue leggi, dopo lotte asprissime e violenze; e
die’ mano a mantener la sua promessa agli Italici, con una legge
di cittadinanza. Ma il senato, sotto pretesto di un vizio di forma,
annullò le leggi già votate; e una triste sera di quel torbido autunno,
nell’atrio della sua stessa casa, mentre Livio Druso congedava alcuni
amici venuti a colloquio con lui, una mano ignota lo colpiva al fianco.
L’assassino non fu mai scoperto[86].


79. =La guerra sociale (90-88).= — Morto Livio, il partito avverso e i
cavalieri, che ne erano a capo, trionfarono. La proposta di concedere
la cittadinanza agli Italici era così poco popolare, anche nella
plebe, che i nemici di Livio poterono tramutare le sue intese con gli
Italici in una cospirazione contro lo Stato e chiedere dei castighi
esemplari. Il cadavere di Druso era ancora caldo, e già il tribuno Q.
Vario, sostenuto accanitamente dai cavalieri, proponeva di nominare una
commissione straordinaria, per inquisire contro gli alleati sediziosi
e per giudicare i loro partigiani in Roma. Non era mai spiaciuto ai
cittadini romani di far sentire ogni tanto ai Latini e agli Italici che
i padroni erano essi; la proposta passò; i commissari non furon paghi
di cercare in Roma i rei della pretesa cospirazione; si sparsero nelle
varie prefetture e per le città alleate dall’Italia, alla caccia dei
responsabili. Ma questa volta la misura era colma. I nemici di Livio
avevano osato troppo. Invece della cittadinanza, a compenso dei danni,
che le leggi agrarie infliggerebbero loro, Roma dava un tribunale
straordinario e una persecuzione partigiana? L’Italia prese le armi ed
insorse.

Le ragioni e lo spirito della rivolta appariscono chiari a chi
consideri le regioni dove arse più violenta. Quella che insorgeva
era l’Italia più povera, montagnosa, del centro e del mezzogiorno, i
Marsi, i Peligni, i Piceni, i Sanniti; ossia le regioni che più avevano
sofferto della crisi, la quale stava mutando la faccia della penisola;
le regioni, in cui le confische del suolo erano state più frequenti;
le regioni meno ricche di strade, più lontane dalle città e dalle
grandi vie del commercio; le regioni del latifondo e della pastorizia.
Invece le città greche dell’Italia meridionale, che avevano continuato
a prosperare e che Roma aveva liberate dal pericolo delle invasioni
bruzzie e lucane; le città latine, prossime al mare, e le loro colonie
che si erano installate in Italia, sfruttando, al pari dei Romani, le
popolazioni indigene; l’Umbria, che aveva saputo mutare le sue culture;
l’Etruria, che aveva saputo giovarsi della tradizione, industriale e
commerciale, ereditata dalla dominazione etrusca; l’Italia celtica,
dove i nuovi grandi lavori, le bonifiche, le vie militari avevano
portato la ricchezza, o non si mossero o parteggiarono per Roma. La
conquista della cittadinanza e della libertà era dunque il disperato
sforzo della vecchia Italia, che non sapeva rassegnarsi a morire.

Il pericolo per Roma fu tremendo. Mezz’Italia era insorta, nè si
sapeva quale conto fare della fedeltà della restante penisola. A ogni
modo, anche se questa rimaneva fedele, i ribelli disponevano di forze
all’incirca pari per numero e per qualità, perchè erano tutti nelle
armi discepoli di Roma; avevano stabilito un governo comune, con sede
a _Corfinium_, nel paese dei Peligni, creato una rappresentanza delle
città insorte, un senato di 500 membri[87], il quale avrebbe avuto
facoltà di creare due consoli o capi militari e dodici pretori. Soli
vantaggi di Roma erano le più abbondanti ricchezze, il dominio del mare
e il prestigio. Sarebbero stati sufficienti? La grandezza del pericolo
è provata dai preparativi di difesa. La repubblica chiese aiuto anche
agli alleati fuori d’Italia[88]; arrolò schiavi e liberti; richiamò in
Italia tutte le forze disponibili; e distribuì le sue milizie in due
grandi zone militari: l’una al nord, tra il Piceno, gli Abruzzi e la
Campania, ove mandò il console P. Rutilio Rufo; l’altra al sud, nella
Campania e nel Sannio, ove si recò il collega di lui, L. Giulio Cesare.
Agli ordini del primo militava, avendo chiesto egli stesso un comando
qualsiasi, Caio Mario. Contro l’uno e l’altro console operavano i due
maggiori generali della lega, Pompedio Silone, l’amico di Druso, e
Papio Mutilo.

Il primo anno di guerra — il 90 a. C. — non fu troppo felice per i
Romani, che qui vinsero e là furono vinti e che perdettero in battaglia
il console Rutilio. L’incerto andamento della guerra era un primo
trionfo per gli insorti. Difatti già nel corso del 90 Etruschi ed Umbri
incominciarono a tentennare; proprio mentre nuovi pericoli minacciavano
in Oriente. Mitridate, che da un pezzo preparava la guerra contro Roma
per cacciarla dall’Asia, aveva approfittato della rivolta dell’Italia
per rovesciar dal suo trono il Re di Bitinia, sostituendogli un
fratellastro di questo, minore di età e per riconquistare, d’accordo
con Ariobarzane, la Cappadocia. La prudenza consigliava dunque di
debellare la rivolta, non con le armi sole, ma con concessioni.
D’altra parte il pericolo aveva fatto rinsavire l’opinione pubblica,
la quale incominciava a imprecare contro l’ordine equestre e la sua
folle politica. Nelle elezioni per l’89, il partito del tribuno Vario,
l’autore della persecuzione contro gl’Italici, era sconfitto; e poco
dopo il console L. Giulio Cesare proponeva e faceva approvare senza
difficoltà una legge, che accordava la cittadinanza agli alleati
italici rimasti fedeli. Anche allora la paura aveva potuto più che la
giustizia e la ragione! Ma la _lex Julia_ circoscriveva il pericolo,
non lo toglieva di mezzo: l’Italia centrale e la meridionale erano
ancora in armi. Fatto senza inciampi il primo passo, Roma non tardò a
prendere risolutamente la via delle concessioni. I tribuni dell’89,
M. Plauzio Silvano e C. Papirio Carbone, proposero una nuova legge
(_lex Plautia-Papiria_), la quale accordava la cittadinanza romana, non
solo a tutte le città che avessero deposto subito le armi, ma a tutti
gl’Italici al di qua del Po, che l’avessero chiesta entro il termine
di due mesi. Anche questa legge fu approvata senza difficoltà: non
solo, ma il tribuno Vario, il persecutore degli Italici, fu cacciato
in esilio come reo di lesa maestà; e l’odio popolare ben presto si
volse addirittura contro il potentissimo ordine dei cavalieri. Plauzio
Silvano fece, dopo quella sulla cittadinanza, votare dai comizi
tributi una nuova legge giudiziaria che ritoglieva i tribunali ai
cavalieri, e faceva eleggere i nuovi giudici dalle tribù in numero
di 15 per ciascuna, senza riguardo all’ordine sociale, cui gli eletti
appartenessero[89]. Forse in questo stesso tempo il console Gneo Pompeo
Strabone fece approvare la legge, che concedeva alle città della Gallia
Cisalpina i diritti delle colonie latine, per sottoporle alla leva e
compensare le perdite nel reclutamento, di cui era cagione la rivolta
degli alleati.


80. =La rottura tra Roma e Mitridate; la perdita della provincia
d’Asia (88).= — L’insurrezione italica aveva dunque vinto, anche se
la fortuna delle armi era stata indecisa. L’effetto delle concessioni
fu pronto. Non che tutta l’Italia deponesse le armi: nel Piceno,
Ascoli resistè ostinata, e il console Gneo Pompeo Strabone dovette
assediarla e prenderla con la forza; la Campania, il Sannio, l’Apulia
combatterono ancora.... Ma molti degli Italici deposero le armi; Umbri
ed Etruschi non si unirono alla lega; e insomma tutta l’Italia centrale
e meridionale era ricondotta all’obbedienza, sul finire dell’89. Solo
l’estremo Sannio non cedeva.

Ma l’Italia incominciava appena a riaversi da questo spavento, che
un’altra calamità la sopraffece. Abbiamo visto che nel 90, essendo
morto il Re di Bitinia, Mitridate aveva spodestato il legittimo
successore, Nicomede III, e gli aveva sostituito un fratellastro di
lui. Nel tempo stesso, d’accordo con Tigrane, Re d’Armenia, aveva
riconquistato la Cappadocia, donde Roma lo aveva cacciato nel 92,
e aveva posto sul trono uno dei suoi figliuoli. Ma il senato non
si era lasciato intimidire: aveva mandato Manio Aquilio a capo di
un’ambasceria per restituire i due Re espulsi sul trono; e Mitridate
aveva ceduto, sia che non considerasse i suoi preparativi come ancora
bastevoli, sia che la risolutezza di Roma lo avesse spaventato.
Le cose d’Asia erano dunque state ricomposte con poca fatica; il
che era, in quei tempi pieni di difficoltà, gran fortuna per Roma.
Quando ad un tratto, un piccolo intrigo di pubblicani e di senatori
le precipitò di nuovo a rovina. Manio Aquilio (almeno se vogliamo
credere agli scrittori antichi) non era stato per nulla contento
della arrendevolezza di Mitridate, perchè era venuto in Asia per fare
al Ponto una guerra lucrosa. D’altra parte il Re di Bitinia, durante
l’esilio, aveva contratto grossi debiti coi pubblicani di Efeso, che
volevano essere rimborsati. Aquilio fece capire al Re di Bitinia che
gli permetterebbe di procurarsi la somma necessaria con una razzia nel
Ponto; e alla fine Nicomede, tormentato dai suoi creditori, invase,
complice silenzioso e passivo il legato romano, i dominî del suo
potente vicino, attizzando il grande incendio.

Con molta abilità Mitridate aveva da prima protestato e chiesto
riparazione. Intanto era venuta la fine dell’89; l’Italia era in
fiamme, l’Oriente disarmato; tre o quattrocento navi da guerra
attendevano armate nei porti del Mar Nero, pronte ad accorrere al primo
richiamo del Re del Ponto; dai paesi più barbari dell’Oriente, erano
venuti gran numero di mercenari, fanti e cavalieri, armeni, cappadoci,
paflagoni, sciti, sarmati, traci, bastarni, celti, e, quel ch’era
peggio, anche greci. Grandi riserve di cereali erano depositate nella
Tauride. Trattati e intese erano stati conclusi con tutti i maggiori
potentati dell’Oriente, con i barbari della Tracia e della Macedonia.
La Grecia e l’Asia ellenizzata, stanche del cupido dominio romano, non
attendevano che un liberatore. Non c’era dunque più tempo da esitare.
All’insolente e inconsiderata intimazione, con cui il legato romano
aveva replicato alle sue legittime proteste, Mitridate rispose, nella
primavera dell’88, dichiarando la guerra, riconquistando la Cappadocia,
sconfiggendo le truppe romane in Bitinia, scacciando Nicomede III,
catturando la flotta romana, e invadendo la provincia di Asia.

Colpo più mortale non poteva percuotere Roma. Mentre la guerra sociale
aveva rovinato tanta parte dell’Italia, l’invasione dell’Asia privava
ora l’erario pubblico della più fruttifera fra le province romane, e
Roma e l’Italia del frutto dei capitali collocati in Oriente. La crisi
che scoppiò a Roma fu terribile: i pubblicani, impotenti a mantenere
i loro impegni con lo Stato; l’erario vuoto; il denaro scarso, e
i prestiti difficili e quasi impossibili, chè anzi i capitalisti,
atterriti, si sforzavano di ricuperare i loro crediti; gl’interessi,
spensieratamente tollerati in tempi di rapido guadagno, risentiti
ora come usure impossibili; tutte le vecchie ed obliate leggi sui
debiti, richiamate in vigore dalle parti in contesa; il tribunale
del pretore, pieno di lagni, di proteste, di minacce. E tutto questo,
mentre la questione italica si riaccendeva nella capitale. Il senato,
sotto lo specioso pretesto di impedire che la potenza e il numero dei
nuovi cittadini ferisse troppo gravemente la sacrosanta autorità dei
cittadini originari, propendeva a stabilire che i nuovi cittadini
fossero inscritti non in tutte le 35 tribù, ma relegati solo o in
otto fra esse o in dieci nuove tribù[90], estranee alla vecchia
costituzione. Questi propositi irritavano gli Italici accorsi a Roma;
onde la città era piena di agitazioni e di violenze. In quest’atmosfera
di fuoco giunsero presto nuove e più terribili notizie dall’Oriente.
Nella provincia d’Asia, ormai quasi tutta in potere di Mitridate, circa
100.000 Italici[91], uomini, donne, fanciulli, erano stati sgozzati,
annegati, bruciati vivi in un giorno stabilito, dal popolo furibondo
delle piccole e grandi città asiatiche; i loro schiavi, liberati;
i loro beni, distribuiti tra il fisco regio e le città indebitate.
Mitridate aveva preparato questa strage. Nè basta: da Pergamo, dove
aveva posto la sua capitale, egli si volgeva ora alla Grecia, dove i
vinti di Scarfea e di Leucopetra, i superstiti di Corinto, i patriotti
esaltati, i democratici offesi dalle inframettenze del governo romano,
i mercanti indigeni, rovinati dalla concorrenza degli Italici, la plebe
disoccupata e tumultuante incominciavano a sperare in lui l’atteso
liberatore. Che più? Spingendo anche al di là della Grecia i suoi
disegni e le sue speranze, Mitridate tendeva la mano agl’Italici.
Sanniti e Lucani, ancora in armi, mandavano ambascerie a Mitridate,
proponendogli alleanza; il Re del Ponto rispondeva, promettendo la
sua discesa nella penisola, tal quale come Annibale. E molti Italici
accorrevano ad ingrossare l’esercito di Mitridate.


81. =La lotta tra Mario e Silla per il comando della guerra contro
Mitridate (88-87).= — Mai forse il senato romano aveva avuto un
compito più terribile. Tuttavia non esitò. La provincia d’Asia era
parte così preziosa dell’impero che, non ostante l’incerta condizione
dell’Italia, il senato deliberò di mandare uno dei consoli con un
forte esercito in Asia, e per far denaro ordinò che fosse venduta la
mano-morta romana, i beni che i templi possedevano in Roma. La sorte
designò fra i due consoli L. Cornelio Silla, il legato di Mario del
106, il valoroso ufficiale che aveva nel 103 militato contro i Cimbri,
e che si era molto distinto nella guerra sociale. Silla non era nuovo
alle cose d’Asia, perchè, nel 102, come pretore, aveva restituito la
Cappadocia al candidato romano, Ariobarzane, condotto per la prima
volta le legioni a dissetarsi nelle acque dell’Eufrate, e ricevuto,
assiso sopra un trono solenne, la prima ambasceria mandata dal Re dei
Parti ai Romani. La sorte era dunque stata giudiziosa; e tanto più
avrebbe dovuto Roma compiacersene, perchè le cose ormai precipitavano
rovinosamente in Oriente. Nella primavera dell’88 Mitridate aveva
spedito un esercito, al comando di un suo figlio, in Macedonia e una
flotta nell’Egeo al comando di Archelao: della Grecia una parte erasi
sollevata e in questa anche Atene, sino allora la più fedele amica
di Roma in Grecia; le altre città erano state facilmente conquistate
dall’esercito di Mitridate, senza che il governatore della Macedonia
potesse soccorrerle, perchè Traci e Galli, a quanto pare alzati dal
Re del Ponto, avevano invaso la provincia; anche Delo era stata presa
da Archelao e i mercanti italici trucidati. Insomma tutto l’impero
orientale — così la parte europea come la parte asiatica — vacillava;
l’ellenismo tentava un supremo sforzo per ricacciare Roma in Italia,
con il braccio di un sovrano semibarbaro dell’interno dell’Asia, che
brandiva una spada ben temprata.

E invece, proprio in questo momento supremo, in faccia a Mitridate
vittorioso, quando mezzo l’impero era invaso e in potere del nemico,
scoppiò in Italia una guerra civile. Ai cavalieri non piaceva che
Silla fosse stato incaricato di riconquistare l’Asia. Il fatto è
certo, sebbene le ragioni si possano solo congetturare. Era chiaro
che il console, incaricato di riconquistare la perduta provincia, ne
sarebbe stato per parecchi anni arbitro e signore assoluto, e avrebbe
in quella potuto fare e disfare a suo piacimento. Ora da parecchi anni,
dal processo di Rufo in poi, tra ordine senatorio e ordine equestre
c’era un odio, che l’agitazione di Livio Druso e la guerra sociale
avevano inferocito. Non pochi senatori detestavano i cavalieri assai
più che i demagoghi, e avrebbero fatta alleanza anche con questi
pur di rovinare e toglier di mezzo quelli.... Non era dunque affare
di poco momento, per i cavalieri, che la loro prediletta provincia
non cascasse nelle mani di un nuovo Rutilio Rufo. Silla non aveva,
sino ad allora, parteggiato a viso aperto nè per gli uni nè per gli
altri; si era tenuto in disparte dalle lotte politiche, occupandosi
di amministrazione e di guerra. Ma sia che, per le sue origini, fosse
considerato dai cavalieri come un nemico, sia che tale fosse davvero
già fin d’allora, fatto sta che i cavalieri non lo volevano al comando
della guerra d’Oriente. D’altra parte c’era allora in Roma un uomo, un
grande generale, nel quale l’ordine equestre, da cui era uscito, aveva
sempre avuto fiducia, e che si rodeva di esser condannato all’inerzia:
Mario. I tempi infine erano quanto mai turbati e torbidi: i cavalieri
smaniavano di ricuperare il potere giudiziario; tra gli Italici
fermentava un nuovo malcontento, per i maneggi del senato che cercava
di ritoglier loro con accorti espedienti una parte di quanto avevano
concesso le leggi dell’89 e dell’88; la crisi finanziaria empiva di
disperazione e di furore gli animi. Un pretore era stato ucciso, nel
tribunale, dagli usurai, perchè applicava con troppo rigore le leggi
contro l’usura.

Da questo atroce e spietato ribollir di interessi, di ambizioni,
di cupidige nacque un vasto intrigo politico, a cui tennero mano i
cavalieri, Mario, gli Italici, una parte della fazione democratica;
e il cui scopo era di ridare all’ordine equestre parte dell’antico
potere e di togliere il comando della guerra d’Asia a Silla, che
frattanto raccoglieva un esercito a Nola. L’uomo che doveva porre ad
effetto questo piano era un nobile, P. Sulpicio Rufo, che la tradizione
conservatrice dipingerà, al solito, come corrotto, indebitato,
ambizioso. Era costui, nell’88, tribuno della plebe; e come tale
presentò tre leggi, che dovevano procurare al partito appoggi e aiuti
bastevoli per ottenere che fosse poi approvata la legge, con cui il
comando della guerra d’Asia sarebbe trasferito da Silla a Mario. Una
prima legge dava ragione agli Italici e ai liberti, disponendo che gli
Italici fossero distribuiti in tutte le 35 tribù, e reintegrando nelle
medesime tutti i liberti, dove non erano più sin dal 115, ossia dal
consolato di Emilio Scauro. La seconda richiamava i cavalieri banditi
insieme con Vario nell’89. La terza proponeva una riforma del senato,
escludendo tutti i componenti indebitati per 2000 dracme. Silla, che
stava allora organizzando presso Nola il suo esercito, si affrettò a
tornare a Roma, per opporsi con il suo collega Q. Pompeo Rufo a queste
leggi, alla prima soprattutto, che a molti pareva minacciare lo Stato
di un sovvertimento totale. E una volta ancora la questione della
cittadinanza minacciò di sconvolgere ogni cosa.... Silla e Pompeo
commisero un errore: temendo di non riuscire a far rigettare dai
comizi la legge, tentarono l’ostruzionismo liturgico, indissero delle
_feriae imperativae_ in tutti i giorni, in cui si potevano tenere i
comizi, così da rendere questi impossibili. Non è dubbio che l’atto dei
consoli era considerato in sè, strettamente legale: ma l’intenzione era
manifesta; e tutti gli interessi, che a Sulpicio mettevano capo, non si
lasciarono così facilmente disarmare da questo ingegnoso espediente.
Sulpicio, in eloquenti discorsi, denunciò per illegali quelle ferie;
raccolse una guardia di 600 cavalieri; armò torme di partigiani, con
le quali un bel giorno invase il Foro, intimando ai consoli di disdire
le ferie e di convocare i comizi. I consoli tentarono di resistere, ma
quelli diedero di piglio alle armi. Spaventato, Pompeo fuggì; anche
Silla allora abbandonò il campo e si ritirò a Nola presso il suo
esercito.

La vecchia repubblica oligarchica crollava sulle sue fondamenta.
Esautorati i due consoli dalla loro opposizione sterile e cavillosa,
assente uno e sparito l’altro, Sulpicio e la sua fazione restarono
padroni dello Stato. Fecero approvare prima le leggi proposte; e poi,
cogliendo subito quel momento in cui i comizi erano pieni di Italici
e il partito oligarchico avvilito dalla disfatta, proposero e fecero
approvare dai comizi tributi la legge sul comando della guerra d’Asia.
Appena la legge fu approvata, Sulpicio mandò due tribuni a Nola ad
intimare a Silla di consegnare le legioni a Mario. Il piano della
coalizione strettasi intorno a Sulpicio poteva dirsi riuscito a pieno.

E sarebbe riuscito del tutto, forse, se l’esercito fosse stato quello
di un tempo. Ma Mario l’aveva riformato. Quelle, a cui Silla comandava,
erano milizie reclutate secondo la riforma mariana del 107, tra le
classi più povere della popolazione. La maggior parte, anzi, erano
veterani delle guerre cimbriche e sociali, soldati di mestiere quasi
tutti, che ora tornavano ad accingersi ad una nuova gesta e a correre
una nuova avventura. Silla li conosceva, uno ad uno, aveva fatto loro
promesse così grandi quanto ferrea era la disciplina, ch’egli esigeva
da loro in faccia al nemico, sul campo di battaglia. Essi sognavano
già i tesori, che avrebbero strappati al barbaro Re del Ponto e che
si sarebbero spartiti dopo la vittoria; essi amavano già quel loro
duce, valoroso, energico, eloquente, generoso e che aveva fatto le sue
prove. Che cosa voleva dire, per questi soldati, la legge approvata a
Roma, se non che le ricchezze vagheggiate sarebbero andate nelle mani
di altri uomini e di altri soldati? Inoltre, se i due tribuni venivano
a chiedere a Silla di deporre il comando in nome di una legge del
popolo, Silla era il console, e aveva ricevuto il comando dalla sorte,
secondo le leggi. Il caso legale era dubbio, come spesso succede in
tempo di rivoluzione; e tanto più dubbio doveva parere a soldati, che
avevano interesse a dubitare. Silla, che temeva per sè le rappresaglie
del partito vittorioso, osò parlare a questi soldati; chieder loro
di difendere la prima legalità contro la seconda.... I soldati
ascoltarono; i due tribuni mandati come ambasciatori furono fatti a
pezzi; e Silla con le sue legioni marciò su Roma.

Per la prima volta apparivano le conseguenze politiche della riforma
militare compiuta da Mario, per cui le classi medie e agiate avevano
acconsentito a disarmare, abbandonando la milizia alle classi povere.
L’esercito diventava un’arma mercenaria nelle mani delle fazioni.
Questa volta serviva, grazie alla risolutezza di Silla, al senato,
alla vecchia aristocrazia conservatrice, in guerra con i cavalieri,
con il partito popolare e con gli Italici; ma non sarebbe sempre così!
Entrare in Roma, con le legioni, era però una audacia quasi sacrilega,
di cui nessuno avrebbe mai creduto, sin allora, capace un console.
Il che spiega come essa riuscisse facilmente al primo che l’osò, tra
lo sbigottimento generale. Un breve ma sanguinoso combattimento per
le vie bastò a purgare la capitale del partito, che poche settimane
prima pareva arbitro dello Stato. Tutto il partito della vecchia
aristocrazia, tranne pochi, che la religione della legalità trattenne,
si raccolse intorno a Silla e al suo esercito; tentò quello che noi
chiameremmo una reazione. Il senato, radunato dai consoli, annullò
le leggi Sulpicie come illegali, perchè votate in giorni festivi;
e dichiarò nemici pubblici (_hostes publici_) dodici maggiorenti
del partito democratico, tra cui Rufo e Mario: quindi i consoli
proposero diverse leggi, come la _lex Cornelia Pompeia unciaria_ e la
_lex Cornelia Pompeia de sponsu_, che cercavano di venire in aiuto
ai debitori: il che oltre a sollevare un po’ i tempi dalla grave
crisi finanziaria che li opprimeva, era fors’anco un colpo vibrato
all’ordine dei cavalieri, nel quale figuravano i creditori. Le leggi
furono approvate; Rufo fu assassinato; Mario riuscì a scampare in
Africa: ma quando le nuove elezioni consolari si fecero, il partito di
Silla subì un grave scacco. Parecchi tribuni e pretori, e addirittura
uno dei consoli — L. Cornelio Cinna — erano ardenti democratici. Se
era riuscito di sorpresa, Silla aveva però osato un’audacia quasi
incredibile, una violenza che impauriva gli uni, sdegnava gli altri,
turbava in moltissimi quella quasi superstiziosa venerazione della
legalità, che era così forte in tutti i Romani. Le elezioni ammonivano
i vincitori a non abusar troppo di una fortunata violenza, chè già
la reazione alla reazione incominciava. A questo primo segno se ne
aggiunse un altro: il senato, per dare un esercito anche all’altro
console Q. Pompeo Rufo, gli aveva prorogato l’_imperium_ e assegnato le
legioni che il proconsole Gneo Pompeo Strabone comandava nella Gallia
Cisalpina. Ma i soldati avevano assassinato il nuovo generale: per
qual ragione, se di propria iniziativa o per istigazione altrui, non si
potè mai sapere. Silla capì che il partito vinto poteva rifarsi presto;
fece giurare ai nuovi consoli che rispetterebbero le leggi esistenti; e
ritornò al suo esercito. Appena il tempo lo consentì, nella primavera
dell’87, con sole 5 legioni, alcune coorti ausiliarie non intere e
qualche squadrone di cavalleria, in tutto appena 30.000 uomini e poca
flotta da guerra, salpò dall’Italia, andando incontro a un nemico
parecchie volte più numeroso, che già aveva invaso quasi tutta la
Grecia.


NOTE AL CAPITOLO QUATTORDICESIMO.

[84] Per questo due leggi, cfr. APP., _B. C._, I, 29.

[85] Cfr. SVET., _De clar. rhet._, I.

[86] Su Livio Druso si può consultare, C. LANZANI, _Ricerche sul
tribunato di M. Livio Druso il giovane_, in _Riv. di filologia
classica_, 1912, pp. 272-92.

[87] Cfr. _C. I. L._, I, 203.

[88] Sulla guerra sociale, cfr. APP., _B. C._, I, 39-53; DIOD., 37, 2,
4-14.

[89] ASCON., _In Corn._, p. 71, ed. ORELLI.

[90] Sulle due tradizioni, cfr. VELL. PAT., 2, 20; APP., _B. C._, I, 49.

[91] APP. (_Mithr._, 22-23) dice 80.000; PLUT. (_Sylla_, 24) 150.000.
Sull’immigrazione italica in Asia, cfr. la descrizione di CIC., _De
lege Manilia_, 7, 17 sgg.



CAPITOLO QUINDICESIMO

LA PRIMA GUERRA CIVILE


82. =La guerra mitridatica e la rivoluzione in Roma e in Italia
(87-86).= — Mentre questi gravi eventi si svolgevano in Roma,
Mitridate, forse per tenere d’occhio in tutta la Grecia il partito
avverso, aveva spezzettato l’esercito in numerose guarnigioni. Ma
quando Silla invase la Grecia, i generali Archelao ed Aristione
raccolsero tutte le sparse guarnigioni in Atene, ove si rinchiusero per
dar tempo ad un secondo esercito mitridatico d’invadere la Grecia, e di
pigliare il nemico alle spalle. In Atene, infatti, essi contavano di
mantenersi indefinitamente, come in una città aperta, non disponendo
Silla di una armata, che potesse affrontare l’asiatica. Era anzi
possibile agli assediati bloccare con le navi l’assediante, tagliandone
le comunicazioni con l’Italia.

Il piano dei generali pontici era abile; e trovò un alleato prezioso in
Roma stessa, nel partito che Silla aveva umiliato. Appena lui partito,
il console Cinna aveva riproposto le leggi Sulpicie, anche quella
che distribuiva gli Italici nelle 35 tribù. E di nuovo la terribile
questione aveva messo a ferro e fuoco la repubblica. L’altro console,
Gneo Ottavio, si era opposto; dei tribuni avevano interposto il veto;
l’una e l’altra parte avevano armato bande. Cinna aveva avuto, lì per
lì, la peggio ed era stato costretto a fuggire, inseguito da un decreto
del senato che lo deponeva, sostituiva, e dichiarava _hostis publicus_.
Ma Cinna aveva ritrovato fuori di Roma quell’esercito, che per due
volte era mancato ai democratici. Recatosi a Capua, dove era l’esercito
che sorvegliava la Campania appena domata, e nel quale militavano
molti Italici, si era presentato come il console, illegalmente deposto
dal senato e dal partito degli oligarchi; era riuscito ad ottenere il
giuramento di fedeltà e aveva incominciato a reclutare soldati tra gli
Italici. Intanto Mario ritornava in Italia; e con l’esercito di Capua
accresciuto dalle nuove reclute, Mario e Cinna avevano marciato su
Roma. Il senato aveva chiamato a difendere Roma Gneo Pompeo Strabone
e Q. Cecilio Metello Pio con i loro eserciti, il primo dalla Gallia
Subalpina, il secondo dal Sannio; e sotto le mura di Roma i due
eserciti avevano impegnato una battaglia lunga, accanita, confusa,
interrotta ogni tanto da trattative. Alla fine Mario e Cinna erano
riusciti a forzar la città; e avevano restituito al partito oligarchico
il colpo che questi aveva inferto al partito popolare nell’88. Le
leggi Sulpicie erano state approvate; moltissimi senatori erano stati
trucidati e i loro beni confiscati; Silla era stato dichiarato nemico
pubblico e destituito; il suo patrimonio, confiscato; la sua consorte,
costretta a riparare in Grecia nel campo del marito; Cinna e Mario,
proclamati consoli per l’anno 86.

Il piccolo esercito, che doveva riconquistare la provincia d’Asia, era
dunque abbandonato da Roma al suo destino sotto le mura di Atene. Se
l’esercito che Mitridate preparava in Asia giungeva prima che Atene
capitolasse, Silla e il suo esercito erano perduti. Nessun aiuto o
soccorso potevano aspettare da Roma. Ma Silla non si perdè d’animo.
Qualunque giudizio si voglia dare di questa strana figura, nessuno
storico negherà che fosse un uomo ed un capo. Non conobbe scrupolo,
riposo o paura nel pericolo. Per fabbricare macchine da guerra, fece
atterrare a colpi di scure i boschetti del _Lycaeum_ e i platani
secolari dell’Accademia, all’ombra dei quali aveva filosofato Platone.
Per pagare e mantenere i soldati, dissanguò la Grecia, saccheggiò i
templi più venerati, convertì in monete d’oro e d’argento i tripodi,
i vasi, i gioielli, le opere d’arte, offerte agli Dei da tante
generazioni. Per disputare ai nemici il mare inviò un suo giovane
ufficiale, L. Licinio Lucullo, a procurarsi una flotta tra gli Stati
amici del Mediterraneo, sfidando la crociera delle navi mitridatiche.
Per finire l’assedio, studiò tutte le malizie di guerra. Per mantenere
animosi i soldati partecipò a tutte le loro fatiche, accorse in tutte
le mischie, condusse in persona le colonne d’attacco, e profuse in
mezzo ad essi, a piene mani, l’oro preso nei santuari degli Dei.

Ma Atene resistè tutta l’estate dell’87, resistè tutto l’autunno,
aspettando i soccorsi. Per fortuna l’esercito che Mitridate mandava
in Grecia, impedito dalla difficoltà degli approvvigionamenti,
mal comandato, camminava lento. Caio Senzio Saturnino, governatore
della Macedonia, potè con poche forze trattenerlo, farlo cogliere
dall’inverno e costringerlo a svernare in Macedonia. Ma intanto,
sospeso questo, un pericolo maggiore sorse alle spalle di Silla,
dall’Italia. Mario era morto al principio dell’86. Il console Lucio
Valerio Flacco, nominato in luogo di Mario, aveva proposta una legge,
che condonava tutti i debiti per tre parti su quattro; ed era stato
incaricato di recarsi con 12000 uomini a togliere il comando a Silla.
Silla sarebbe stato, alla primavera, preso tra l’esercito romano e
quello di Mitridate, se non prendeva Atene prima che Mitridate o Flacco
giungesse. Tutto l’inverno si preparò infaticabile; e il 1º marzo,
raccolte tutte le sue forze, diede un disperato assalto; prese la città
prima e poi il Pireo, e costrinse Archelao a imbarcare l’esercito e a
salpare. Silla era così sfuggito alla sicura rovina che lo minacciava;
ma versava ancora in pericolo mortale, dovendo combattere le forze
di Archelao che, quasi intatte, avevano raggiunto per mare, alle
Termopili, il secondo esercito di Mitridate, in cammino dalla Grecia
settentrionale, e quello del console Valerio Flacco, che giungeva
dall’Italia. L’avvicinarsi dell’esercito democratico impose a Silla una
decisione disperata: attaccare ad ogni costo e subito Mitridate, con
la risolutezza consueta. Silla andò incontro all’esercito di Mitridate
e gli diede battaglia presso _Cheronea_, in Beozia, riportando su
Archelao, che ne aveva preso il comando, una grande vittoria (86)[92].

Cheronea era la prima grande vittoria delle armi romane su Mitridate; e
incominciò a sollevare le cadenti fortune di Roma in tutto l’Oriente.
Da qualche tempo le classi ricche dell’Asia, sopraffatte al tempo
della prima invasione, si riavevano, e intrigavano a favore di Roma,
approfittando della mobilità delle plebi e del malcontento, di cui
eran cagione le continue leve fatte da Mitridate. Alla fine dell’87
Efeso, l’opulento emporio, era già insorta contro Mitridate in favore
di Roma. La vittoria di Cheronea infuse nuovo coraggio in tutta l’Asia
al partito romanofilo, che a poco a poco risollevava il capo. Nel
tempo stesso — e non fu minore fortuna — rese possibile una specie
di tacita pace tra Silla e il partito democratico[93]. Così almeno
pare si possa congetturare, per spiegare in modo soddisfacente uno
dei punti più oscuri di questa tenebrosissima guerra. Par che Flacco
fosse un uomo assennato; e che, sbarcato in Epiro, capisse quel che
del resto era chiaro per se stesso: essere una pazzia lanciare due
eserciti romani l’uno contro l’altro, quando Mitridate si preparava a
mandare in Grecia un nuovo esercito per vendicare Cheronea. Silla, a
sua volta, sapeva troppo bene che Mitridate era già da solo un nemico
temibilissimo. Nè è temerario il supporre che i due eserciti romani,
anzichè avventarsi l’uno contro l’altro, preferissero essere condotti
insieme al saccheggio della Grecia e dell’Asia. Sembra dunque che,
non osando Flacco, per la proscrizione che aveva colpito Silla, unir
il suo all’altro esercito, i due generali siano venuti ad un accordo
segreto. Flacco che, essendo console, poteva chiedere ai Bizantini la
flotta, tenterebbe di invadere l’Asia; Silla aspetterebbe in Grecia
Dorilao, che si avvicinava, dopo aver imbarcato nell’Eubea lo scampo
dì Cheronea: diecimila nomini. Questo savio accordo fece dell’86 un
anno felice per le armi romane. Silla attaccò e distrusse l’esercito
di Dorilao a Orcomeno, e poi si ritirò in Tessaglia ai quartieri
d’inverno; Flacco invase la Macedonia, respinse in Asia gli ultimi
resti dell’esercito pontico, passò il Bosforo sulle navi dei Bizantini.
Alla fine dell’86 Mitridate aveva perduto la Grecia e le altre
conquiste in Europa.


83. =Il trattato di Dardano (85).= — Se il partito democratico fosse
stato disposto a seguire in Italia il saggio esempio che Flacco gli
aveva dato in Asia e a revocare la proscrizione di Silla, forse la
guerra d’Oriente sarebbe finita presto e bene per Roma. Ma il partito
della vecchia nobiltà pareva ormai distrutto: uccisi gli uni, fuggiti
gli altri, impotenti per la paura i pochi rimasti. Il partito popolare
era dunque arbitro e padrone della repubblica: delle cariche, dei
comandi, dell’erario, degli eserciti, delle province. Poteva esso darsi
pensiero di questo ultimo capo del partito vinto, che ancora si trovava
in Grecia alla testa d’un piccolo esercito? Nessuno sognava allora che
questo terribile uomo potesse trovare la via di tornare in Italia, e
con tutto il suo esercito. La politica di Flacco era così poco gradita
al suo partito, che l’accordo era stato tenuto segreto: anzi, durante
l’inverno dall’86 all’85 uno dei suoi legati, un certo Fimbria, un
violento democratico, riuscì a sobillare il soldati, a far uccidere
Flacco e a farsi riconoscere generale. L’accordo conchiuso con Flacco
era distrutto e Silla si ritrovò nel pericolo di prima, anzi peggio.
Non poteva attaccar Fimbria, avendo sopra un fianco la minaccia di
Mitridate; non poteva attaccar Mitridate avendo sull’altro fianco la
minaccia di Fimbria; non poteva attaccar Fimbria e Mitridate insieme.

Che fare? Un’altra volta ancora Silla prese un partito arditissimo,
che doveva decidere non solo del suo destino, ma essere il principio
di molti e gravissimi eventi nella storia di Roma. Non potendo
combattere insieme Fimbria e Mitridate, non potendo intendersi con
Fimbria, cercò d’intendersi con Mitridate. Par che Silla riuscisse a
corrompere Archelao, a farsi consegnare la flotta e a persuaderlo a
proporre la pace a Mitridate a queste condizioni: si ritornerebbe allo
statu quo dell’anno 89; Mitridate conserverebbe l’antico regno del
Ponto, riceverebbe il titolo di amico e di alleato del popolo romano,
pagherebbe una indennità di 2000 talenti; consegnerebbe un certo numeri
di navi da guerra. A sua volta Silla largirebbe una amnistia alle città
ribelli dell’Asia. Concedere tali condizioni a un sovrano che aveva
mosso a Roma tanta guerra e trucidato persino migliaia e migliaia di
cittadini romani, era poco meno che un alto tradimento, come si direbbe
adesso, alla stregua delle tradizioni politiche della repubblica.
Avevano fatto molto meno di ciò che Mitridate si era permesso, Antioco
III, che aveva perduto metà del regno; Perseo, che era stato condotto
a Roma in catene; e Cartagine, che era stata rasa dalle fondamenta.
Ma Silla non esitò per salvarsi a far buon mercato della _majestas_
del popolo romano, come, nell’88, del principio che Roma non potesse
esser violata da forza armata. A sua volta Mitridate aveva bisogno di
pace: la sua autorità vacillava in Oriente; l’Asia Minore gli sfuggiva;
Fimbria invadeva, nella primavera dell’85, l’Asia e s’impadroniva di
Pergamo; Lucullo, che era riuscito finalmente a raccogliere una flotta
potente, compariva sulle coste dell’Asia, incitando le città alla
rivolta. Conoscendo le difficoltà in cui Silla si dibatteva, Mitridate
cercò ancora di mercanteggiare; e minacciò perfino di allearsi con
Fimbria.... Ma alla fine accettava la pace così vantaggiosa; e questa
era sottoscritta a Dardano, nella Troade, in seguito a un colloquio tra
il proconsole romano e il monarca del Ponto (85)[94].


84. =Silla in Asia e in Grecia (85-83).= — Fimbria era finalmente
isolato. Silla subito gli si volse contro, e lo circondò col suo
esercito, presso Tiatira, in Lidia. Una buona parte dei soldati e degli
ufficiali, i più devoti a Flacco, defezionarono spontaneamente; gli
altri furono o persuasi dalla corruzione o costretti dalla violenza;
Fimbria stesso, piuttosto che sopravvivere allo sfacelo dell’esercito,
preferì uccidersi. Silla restava così padrone dell’Asia riconquistata,
a capo di un esercito e di una flotta potente, e con il tesoro ricolmo
dalla indennità di Mitridate.

Era giusto, del resto: chè Silla e non altri aveva riconquistato le
perdute province di Oriente, vincendo le battaglie di Cheronea e di
Orcomeno. Ma questa gloria era offuscata da una macchia: il trattato
di Dardano. Silla non l’ignorava; tanto è vero che, fatta la pace con
Mitridate, non ebbe più che un pensiero: riconciliarsi con il partito
che governava in Italia e ottenere l’approvazione di tutto quanto
aveva fatto in Oriente. Presso lui avevano cercato rifugio molti esuli
e proscritti, i quali pretendevano di rappresentare al suo fianco una
specie di Consiglio senatorio, e lo sollecitavano a ripigliar subito
la via dell’Italia allo scopo di perpetrarvi le bramate vendette.
Egli invece preferì rimanere in Asia ed in Grecia e passar quel che
rimaneva dell’anno 85, tutto l’84, e parte dell’83, a trattare con il
governo di Roma, al quale, da Efeso, appena morto Fimbria, ostentando
quasi di ignorare la sua qualità di _hostis reipublicae_, aveva
spedito un’elaborata relazione dell’opera compiuta in Oriente. Nè
chiedeva cose indiscrete: l’approvazione di quel che aveva fatto in
Oriente e il rimpatrio di tutti i proscritti che si erano rifugiati
presso di lui. Ma all’arrendevolezza di Silla rispose dall’Italia una
irremovibile intransigenza. Il partito popolare era ormai insediato
fortemente al governo; e non voleva, accogliendo le domande di Silla,
nè veder ritornare a Roma il partito della nobiltà, nè assumersi
la responsabilità del trattato di Dardano, che l’opinione pubblica
disapprovava pur essendo disposto a goderne i benefici. È vero che nel
senato un partito forte propendeva per il richiamo degli espulsi; è
vero che, quando alle proposte concilianti di Silla fu risposto con
preparativi di guerra, le truppe si ammutinarono; e Cinna stesso,
rieletto console, fu trucidato: serio ammonimento di non prendere
troppo alla leggera la nuova guerra civile che minacciava. Ma quando
mai un partito che si crede sicuro al potere crederà ad un pericolo,
che non minaccia proprio di ora in ora? A guastar per sempre l’accordo
si aggiunsero i cavalieri. Appena ricuperata l’Asia, Silla aveva
imposto alle città della provincia il pagamento delle cinque annualità
arretrate e per giunta una grossa indennità di guerra: ma aveva pure
abolito gli antichi appalti e dichiarato di volere riscuotere i tributi
direttamente, per mezzo di funzionari, dividendo a tale scopo la
provincia, in 44 circoscrizioni. Non voleva, che l’erario spartisse il
bottino della conquista con i pubblicani; e i cavalieri, che già gli
erano avversi, gli giurarono un odio mortale.

Silla intanto ritornava dall’Asia in Grecia, ove passava tutto l’84
e i primi mesi dell’83, sempre trattando per un accordo col partito
democratico, ma nel tempo stesso rinforzando l’esercito decimato
dalla guerra, reclutando soldati nel Peloponneso, in Macedonia, in
Tessaglia. Senonchè nella primavera dell’83 egli dovette convincersi
che era necessario ancora una volta sfoderare la spada. Il partito al
potere non voleva nè riammettere gli espulsi nè approvare il trattato
di Dardano; e aveva fatto ordinare dal senato che tutti gli eserciti
fossero congedati, ossia che egli si arrendesse a discrezione. Anche
a questa nuova guerra Silla si accinse con la consueta risolutezza.
Non era certamente neppure questa una guerra facile. Il nemico aveva
innanzi tutto l’immenso vantaggio di aver dalla sua le finzioni della
legalità. Disponeva dell’erario dello Stato, dei tributi di tutte le
province d’occidente; poteva reclutare soldati in tutta l’Italia,
specialmente dopochè, sotto le minacce della nuova guerra, aveva
finalmente risolta la questione italica, facendo distribuire i nuovi
cittadini in tutte le 35 tribù; poteva infine contare sull’appoggio di
molte famiglie della nobiltà, che riconoscevano il suo governo come il
governo legale. Tali erano, tra i capi, i due consoli dell’anno, Caio
Norbano e L. Cornelio Scipione Asiatico, bisnipote del vincitore di
Antioco; tale il figlio di Mario; tale Gneo Papirio Carbone, console
nell’85 e nell’84; e Gneo Domizio Enobarbo. A questi si aggiungevano
alcuni uomini di natali più oscuri, ma segnalatisi per forza di
ingegno e di volontà nelle guerre dei decenni precedenti: tra i quali
il più insigne era Q. Sertorio. Silla invece non poteva giustificare
l’autorità sua con alcun titolo chiaro e preciso; e alle forze degli
avversari opponeva i tesori dell’Asia, circa 40.000 soldati e quella
parte della nobiltà storica che aveva cercato scampo presso di lui.
È vero però che l’Italia desiderava la pace e un accordo ragionevole
con Silla, essendo stanca di guerre civili e non potendo disconoscere
che, se Silla aveva fatto il trattato di Dardano, aveva anche inflitto
a Mitridate due memorande disfatte. Questo desiderio dell’Italia
era per il governo democratico cagione di grande debolezza; perchè
la repubblica potrebbe armare in Italia solo delle accozzaglie poco
disciplinate, male istruite, tra le quali l’oro avrebbe operato
devastazioni non minori del ferro. Il piccolo esercito di Silla invece
era un blocco d’acciaio, devoto fino alla morte al duce, che lo aveva
arricchito, e maggiori beni prometteva dopo la sicura vittoria.


85. =La prima guerra civile (83-82)[95].= — Il primo anno di guerra
mostrò subito che le probabilità di vittoria non si potevano misurare
dal numero di soldati, di cui ciascun partito disponeva. Sbarcato nella
primavera dell’83 a Brindisi, Silla subito sconfisse presso Capua
l’esercito del console Norbano; indi procedè contro l’esercito del
console Scipione, che trovò non lungi da Teano. Sapendo che Scipione
era incline all’accordo, sapendo che i suoi soldati desideravan la
pace, Silla iniziò trattative. Scipione acconsentì a trattare; i due
generali si videro, discussero insieme lo stato della repubblica, i
rimedi che erano necessarî per ricondurre la pace; e fu conchiuso
infine un armistizio per aspettar la risposta dell’altro console.
Quando, all’ultimo momento, per ragioni che sono oscure a noi e che non
dovettero esser chiare neppure allora, Scipione ruppe le trattative,
rimandando gli ostaggi a Silla. I suoi soldati allora, accusandolo
di aver voluto respingere una pace giusta e ragionevole, gli si
ribellarono e passarono a Silla; Scipione fu fatto prigioniero e,
liberato da Silla, depose il consolato e si ritirò a Marsiglia. Silla
era già padrone dell’Italia meridionale! Questi successi condussero
a lui molti nobili sino allora esitanti: tra gli altri M. Licinio
Crasso e Gneo Pompeo Strabone, figlio di G. Pompeo Strabone, che era
stato console nell’89, giovane ricchissimo, che aveva grandi proprietà
nel Piceno, dove egli si mise a reclutar soldati di sua iniziativa e
fu da Silla riconosciuto comandante delle forze che aveva levate. Ma
gli insuccessi esasperarono invece il governo della repubblica. Il
console Norbano non rispose alle aperture di pace fattegli da Silla; i
senatori, che avevano raggiunto il nemico, furono dichiarati _hostes
publici_; il figlio di Mario, che aveva solo 27 anni, fu eletto
console per l’82 con Gneo Papirio Carbone, per attirare al governo
i veterani del padre; armi ed armati furono approntati dalle due
parti: dal governo, nell’Italia centrale e settentrionale; da Silla,
nell’Italia meridionale. La guerra ricominciò nella primavera dell’82.
Carbone, che raccoglieva in Etruria i contingenti mandati da ogni
parte dell’Italia settentrionale, spedì un suo legato, Carrinate, nel
Piceno, a distruggere le forze che nel Piceno raccoglievano per Silla
Metello Pio e Gneo Pompeo. Ma fu sconfitto da Metello; e il legato
Carbone già accorreva dall’Etruria al suo soccorso, quando fu fermato
e ricondotto indietro da una notizia fulminea: Silla in persona aveva
sconfitto tra Segni e Palestrina il giovane Mario, a cui era stato
commesso di difendere Roma; lo aveva chiuso e assediato in Preneste; si
era impadronito con un ardito colpo di mano di Roma; e già si disponeva
a marciar contro di lui. Rapido, Carbone ritornò sui suoi passi,
per accorrere al soccorso di Roma: ma in Etruria, a Chiusi, trovò
l’esercito di Silla a sbarrargli la strada. Fu appiccata battaglia e fu
aspra e lunga; ma nè a Silla riuscì di disfare l’esercito di Carbone;
nè a Carbone di disfare l’esercito di Silla. Cosicchè Roma restava in
potere di Silla e l’esercito della repubblica diviso in due, parte nel
nord, parte intorno a Preneste e nell’Italia centrale e meridionale.
Ma Silla, il suo esercito, il suo partito si trovavano a loro volta
tra due minacce: l’esercito ancora intatto di Carbone al nord e con
il quale poteva con giungersi l’esercito che Norbano reclutava nella
Cisalpina; ed una vasta insurrezione che si preparava nel Sannio e
nella Lucania. In queste regioni la guerra aveva risvegliato le ultime
faville dell’antico sentimento nazionale; e con il consenso e gli aiuti
del governo repubblicano si preparava un grosso esercito.

Il frangente era dunque critico per le due parti. Un piccolo errore
o un piccolo contrattempo potevano far precipitare le sorti da una
parte o dall’altra. Silla si contentò di far buona difesa sulla
strada di Roma, per tenerla chiusa a Carbone; e cercò di tagliare
le comunicazioni tra Carbone e Norbano. Metello sbarcò con forze
considerevoli, a quanto pare a Ravenna, per marciare di là sulla Via
Emilia e porsi tra i due generali. A sua volta Carbone, posto in quella
difficile situazione, commise un errore, che solo un grande generale
avrebbe schivato: non sentendosi la forza di annientare l’esercito
di Silla, non volendo abbandonar Preneste e Roma al loro destino e
volendo conservare libere le sue comunicazioni con Norbano, divise le
sue forze. Mandò al soccorso di Preneste 8 legioni, spedì a Norbano
altre forze per aiutarlo a fronteggiare Metello, mantenendo il grosso
delle sue milizie a Chiusi. Norbano pare a sua volta aver commesso
lo stesso errore: ricevuti i rinforzi di Carbone, sia che non avesse
pronto ancora tutto l’esercito, sia che fosse a ciò spinto da qualche
ragione a noi ignota, marciò contro Metello con questi rinforzi e con
sola una parte delle sue soldatesche. Così queste forze sparpagliate
soccombettero tutte, una dopo l’altra, mentre il grosso dell’esercito
di Carbone oziava a Chiusi. I rinforzi, mandati al soccorso di
Preneste, non giunsero; Norbano fu sconfitto da Metello a Faenza, e
la sua sconfitta fece passare a Silla parecchie importanti città, tra
le quali Rimini, chiave delle comunicazioni della valle del Po con
Roma. Norbano perse allora la testa; abbandonò il comando; e, montato
su una navicella, fuggì in Oriente: ma la sua fuga fu il segnale di
una catastrofe. Tutta la valle del Po si arrese ai generali di Silla.
Allora anche Carbone, sebbene avesse circa 30.000 uomini, considerò
l’Italia come perduta e fuggì in Africa, dove sperava di poter
continuare la lotta. Sul suo esercito, restato a Chiusi senza capo,
Silla lanciò Pompeo, che lo disfece con poca fatica. Gli avanzi si
dispersero; e un certo numero raggiunse l’esercito sannitico e lucano,
che avanzava dall’Italia del sud verso Roma.

Anche questo era un esercito considerevole per numero, animato da un
feroce spirito di distruzione e di odio. Avrebbe potuto esser funesto
a Silla, se fosse arrivato più presto. Ma arrivava quando ormai la
repubblica aveva perduto tutta l’Italia, e non conservava più, si può
dire, ultimo e inutile baluardo, che Preneste. Tuttavia Silla aveva
dovuto a sua volta, in questa singolare campagna, sparpagliar talmente
le sue non numerose milizie, che il grande esercito degli Italici,
rinforzato dalle reliquie superstiti delle legioni democratiche, riuscì
con un’abile marcia notturna a eludere la vigilanza nemica e arrivò
improvvisamente sotto le mura di Roma, difesa da milizie insufficienti.
È difficile dire quel che avrebbe potuto succedere, se l’energia di un
oscuro pretore, Appio Claudio, non avesse salvato Roma da queste orde
ardenti di un odio fanatico. Invece di cedere al numero, nuovo Leonida,
Claudio oppose un’accanita resistenza, trovando egli stesso la morte
nella battaglia; e die’ tempo a Silla, che campeggiava nelle vicinanze
di Preneste, di accorrere. Il 1º novembre dell’82[96] i due eserciti si
scontrarono alla Porta Collina, non lungi dall’odierna _Porta Pia_. La
battaglia fu accanita, e non in ogni sua fase fortunata per i Sillani.
Il merito maggiore della vittoria va dato a un legato di Silla, e
proprio a Marco Licinio Crasso, che arrivò a tempo con dei rinforzi. I
Sanniti e i Lucani furono sconfitti, e gran parte tratti prigionieri.

Poco dopo anche Preneste capitolava, il giovane Mario si uccideva,
e Silla era padrone dell’Italia e della repubblica. Ma l’impero era
ben lungi dall’essere pacificato. L’Etruria era ancora in fiamme, la
Sardegna, la Sicilia, l’Africa, la Spagna in potere dei Mariani. E
allora l’uomo, che aveva meravigliato il mondo per la sua moderazione,
si tramutò in un carnefice. Mentre nelle province i suoi legati
continuavano a sconfiggere, uno dopo l’altro, i superstiti generali
della democrazia, egli si dava ad estirpare in Roma e in Italia,
con il ferro e con il fuoco, quella ch’egli credeva la radice d’ogni
male. Tutti coloro che avevano favorito il partito democratico, furono
perseguitati con l’esilio, la confisca, la morte. La vendetta ricadde
sui loro figliuoli, sui loro consanguinei, sui più remoti congiunti;
poichè Silla fece decretare che i figli e i nipoti dei proscritti
non potrebbero mai più esercitare alcuna magistratura. Intere città
furono multate di enormi ammende, ebbero demolite le fortificazioni,
incamerata una parte del territorio pubblico e privato. I beni dei
condannati e degli esuli, le terre confiscate alle città italiane,
furono spartite tra i soldati e gli amici del vincitore. Quanti
furono i proscritti e le vittime non si potè mai accertare; i Sanniti
furono nella massima parte distrutti insieme con le loro, un tempo
fiorenti, città — Boviano, Esernia, Telesia — che furono ridotte a
squallidi abituri. Circa 150.000 soldati ottennero terre nel Sannio,
nella Campania, nell’Etruria; degli schiavi, dei liberti, dei plebei,
dei patrizi impoveriti fecero o rifecero, tra il sangue e le rapine,
delle grandi fortune; molti dei proscritti fuggirono tra i barbari, in
Spagna, in Mauritania, presso Mitridate, o si dettero alla pirateria.


86. =La restaurazione sillana (82-79 a. C.).= — Ma confiscare,
trucidare, dar di piglio nel sangue e nella roba dei vinti non bastava.
Silla era troppo grande uomo di Stato. Nell’82 si fece conferire una
magistratura che, antica di nome, era nuova per la forza e l’ufficio:
una dittatura _legibus scribundis reipublicae constituendae_; e compilò
da solo una nuova costituzione, senza l’assistenza e l’impaccio dei
comizi, centuriati e tributi.

Il suo pensiero era ancora quello di Catone: sradicare da Roma e
dall’Italia la tanto temuta e detestata «corruzione», restaurando le
istituzioni dei bei tempi in cui Roma e l’Italia erano una gerarchia
perfetta di classi; in cima una nobiltà poco istruita, ma disciplinata,
in basso una popolazione rurale sottomessa, paziente, agiata e
paga della sua sorte. Si sforzò di annullare ad una ad una tutte le
conquiste plebee e democratiche degli anni precedenti. Restituì le
_quaestiones_ ai senatori; restrinse il potere dei tribuni, togliendo
loro il diritto di intercessione contro i decreti del senato e contro
le proposte di legge, e ammettendolo solo nei casi personali; escluse
coloro, i quali fossero stati tribuni, dalle magistrature maggiori;
assoggettò di nuovo i comizi tributi alla tutela preventiva del
senato, e fors’anco li privò d’ogni potere legislativo, deferendo
questo ai comizi centuriati, che forse furono riformati secondo
l’antico ordinamento di Servio Tullio[97]; soppresse le distribuzioni
frumentarie; abolì o rese vana la censura, rifacendo per tal
guisa inamovibile e onnipotente l’ordine senatorio; abolì la legge
Domizia del 103, che aveva affidato ai comizi l’elezione dei collegi
sacerdotali; fiaccò l’ordine equestre. Dopo averlo decimato con le
persecuzioni e impoverito con le confische, gli tolse il posto d’onore
nei pubblici spettacoli, l’appalto delle imposte asiatiche, il potere
giudiziario; e quando volle riempire i vuoti fatti nel senato dalla
guerra, dalla morte e dalla persecuzione, preferì ai cavalieri gli
uomini più oscuri del terzo stato, magari dei suoi veterani[98].

A queste grandi riforme politiche si aggiunsero altre minori riforme
amministrative. Per accrescere il personale del governo senza
aumentane troppo il numero dei magistrati, Silla creò le così dette
promagistrature per cui, mentre nel primo anno di ufficio, consoli e
pretori avrebbero risieduto in Roma, in un secondo anno si sarebbero
recati, come proconsoli e propretori, a governare le province. Fissò
l’ordine e la successione delle magistrature e ristabilì l’antico
intervallo biennale tra l’una e l’altra, imponendo anzi un minimo
di dieci anni fra due richieste di consolato. Per impedire brighe e
favori, volle che le province fossero anticipatamente assegnate per
sorteggio; accrebbe a 600 il numero dei senatori; istituì parecchie
nuove _quaestiones perpetuae_, affinchè la giustizia penale fosse più
pronta ed estesa; e portò a otto il numero dei pretori, per migliorare
la giustizia civile.

L’antica costituzione era restaurata quasi alla perfezione.
Mancava solo l’abrogazione della legge _Plautia-Papiria_, che aveva
concesso agli Italici la cittadinanza. Ma Silla si fermò a questo
punto. Nessun grande generale romano, a qualunque fazione politica
appartenesse, aveva osato mai oppugnare le richieste degli Italici.
Dai soli generali, anzi, gli Italici avevano ottenuto quel po’ di
vantaggio, di cui ora godevano. Ma se Silla non abrogò la legge
_Plautia-Papiria_, tolse a molti municipi, che l’avevano combattuto, il
diritto di cittadinanza. Nel 79 egli poteva contemplare con orgoglio
l’opera di archeologo, che aveva inalzata. L’opera pareva perfetta e
indistruttibile. Una sola cosa le mancava: l’anima antica, che Silla
non poteva resuscitare; onde l’opera era contraddittoria e sarebbe
per le sue contradizioni, stata caduca. Silla aveva voluto restaurare
lo stato patrizio del V e del IV secolo; ma non aveva potuto rifare —
anima e corpo — l’aristocrazia, che era stata il sostegno di quella
costituzione. Aveva ridotto tutto lo stato, i comizi, il senato,
le magistrature, i comandi, i tribunali in potere, più che di una
vera aristocrazia, di una consorteria composta di amici, sgherri
e carnefici suoi arricchitisi con le confische; di transfughi del
partito mariano; di quasi tutta la vecchia aristocrazia, ormai devota
a lui per gratitudine, per interesse o per paura. Questa consorteria,
le cui parti eran legate insieme soltanto dal prestigio del capo e
dal comune interesse di conservare il potere, era troppo divisa da
interessi, ambizioni ed idee diverse per poter tentare di ricondurre
in Roma l’ordine che aveva regnato sotto il vero regime aristocratico
dei secoli precedenti, massime dopo il grande disordine generato dalla
rivoluzione. Anche questa, come tutte le rivoluzioni, aveva indebolito
le tradizioni. Se Silla pensava di far retrocedere l’Italia di tre
secoli nel cammino della vita e di persuaderla a fuggire l’industria
ed il commercio, le sue campagne in Oriente avevano invece portato
in Italia un gran numero di schiavi e di liberti, che diventerebbero
maestri di nuovi bisogni e di nuovi costumi. Non è quindi da
meravigliare se, prima ancora di abbandonare la dittatura e di coronare
la grande opera di restaurazione, ritirandosi, novello Cincinnato, a
vita privata, egli assistette al primo screpolarsi del suo edifizio.
Già nelle elezioni consolari dell’80, che fu l’ultimo anno della
dittatura di Silla, vinsero due uomini, di cui l’uno era un assai
tepido Sillano, l’altro, M. Emilio Lepido, un avversario dichiarato
del dittatore. Pochi mesi dopo, a soli sessant’anni, nella sua villa di
Pozzuoli, dopo aver dettato le _Memorie_ della sua grande vita, Silla
moriva, lasciando un’opera della quale, in pochi anni, non sarebbero
rimasti più che alcuni sapienti ritocchi amministrativi.


NOTE AL CAPITOLO QUINDICESIMO.

[92] Su Cheronea, cfr. J. KROMAYER, _Antike Schlachtfelder_, II, 353
sgg.

[93] Che Valerio Flacco e Silla si intendessero segretamente è
congettura molto probabile, anzi necessaria per spiegare tutta la
storia della guerra. Fu messa innanzi per primo da H. BERNHARDT,
_Chronologie der Mithridatischen Kriege_, Marburg, 1896.

[94] Sulla pace di Dardano, cfr. APP., _Mithr._ 56-58.

[95] Sulla prima guerra civile, i lavori più recenti sono: E. POZZI,
_Studi sulla guerra civile sillana_, in _Atti della R. Accademia delle
scienze di Torino_, vol. 49, disp. 9, 1913-14; C. LANZANI, _Mario e
Silla: Storia della democrazia romana negli anni 87-82 a. C._, Catania,
1915.

[96] Circa la data, cfr. VELL. PAT., 2, 27.

[97] APP., _B. Civ._, I, 59. — Sembra poco probabile che una così gran
riforma abbia potuto esser fatta da Silla, prima della guerra civile,
al tempo del suo primo ingresso in Roma. Più verosimile è collegarla
con la grande riforma compiuta dalla dittatura.

[98] DION. HAL., 5, 77. — L’opposta indicazione di APPIANO (_B. Civ._,
1, 100) che egli vi abbia introdotto 300 dei più nobili dell’ordine
equestre, la quale sta in perfetta contradizione con tutti i criterî
ispiratori della restaurazione sillana, va intesa nel senso che
Silla introdusse nel senato alcuni dei nuovi cavalieri, suoi amici,
arricchitisi durante la guerra civile.



CAPITOLO SEDICESIMO

LE GRANDI GUERRE IN ORIENTE


87. =La insurrezione di Lepido e di Sertorio (78-75 a. C.).= — Dopo
la morte di Silla, la consorteria raccogliticcia, discorde, odiosa
per i ricordi delle stragi e delle rapine, a cui egli aveva affidato
l’ufficio della antica aristocrazia, non ebbe più l’autorità necessaria
per governare lo Stato. Subito le vittime della restaurazione
incominciarono ad agitarsi; e uno dei consoli, M. Emilio Lepido,
propose addirittura l’abolizione di alcune tra le più importanti leggi
di Silla: che si ristabilissero le frumentazioni; che si richiamassero
gli esuli; che si restituisse il diritto elettorale e le terre
alle città, a cui erano state tolte. In Etruria, quando si seppe di
questo proposito, i coloni sillani furono espulsi a mano armata dagli
antichi proprietari; e di lì a poco Lepido partiva di Roma per andare
nella Narbonese, assegnatagli come provincia, si fermava in Etruria
ad arruolare i miserabili della regione, mentre un altro nobile,
compromesso nella rivoluzione, Marco Giunio Bruto, si accingeva,
d’accordo con lui, a reclutare un esercito nella valle del Po. Intanto
la rivoluzione risollevava la testa anche in Spagna. Uno dei generali,
che la repubblica aveva spedito nell’83 in Spagna, forse a reclutar
soldati, Q. Sertorio, non solo ci si era mantenuto dopo la vittoria
di Silla; ma, messosi a capo dei Lusitani, aveva, con una guerriglia
tenace ed instancabile, quasi strappato la Spagna ai governatori
romani, sconfiggendo un dopo l’altro quattro proconsoli; aveva chiamato
a sè gli esuli, i proscritti, tutti i malcontenti e le vittime della
restaurazione, e costituito un suo governo di fronte a quello romano.
Lusitani e Celtiberi lo avevano riconosciuto capo e vindice della
loro indipendenza; e, come ad Amilcare e ad Annibale, gli avevano
consegnato in ostaggio i figli delle principali famiglie indigene, che
egli faceva istruire ed educare secondo l’uso romano. Cosicchè sotto
il suo governo, illuminato e forte, la Spagna andava riconquistando la
indipendenza e poteva, ora che il partito vinto riprendeva ad agitarsi
in Italia, offrire un forte appoggio ad una nuova rivoluzione.

In tanta incertezza e mobilità di cose, era necessario domare subito la
rivolta di Lepido. Il senato lo dichiarò nemico pubblico; e incaricò
della guerra contro di lui l’altro suo collega, il proconsole A.
Lutazio Catulo, e Gneo Pompeo, che era stato nella guerra _legatus_
di Silla. Pompeo non aveva neppure trenta anni e non aveva mai
rivestito alcuna magistratura curale: non aveva quindi nessun titolo
per comandare un esercito. Ma era stato un favorito di Silla, il quale
gli aveva dimostrato una benevolenza così singolare, da incaricarlo,
sebbene non fosse nè senatore, nè magistrato, della guerra contro i
Mariani in Sicilia, in Africa; e da conferirgli, dopo la vittoria,
contro il parere del senato, il trionfo e il titolo di _Grande_
(_Magnus_). Questo favore del potentissimo capo, la reputazione di
valente generale, a torto o a ragione acquistata giovanissimo, la
grande paura per quei primi segni di nuova rivoluzione, la scarsezza
di generali valenti e sicuri, gli intrighi e le ambizioni di Pompeo
poterono più che gli scrupoli costituzionali del senato. Pompeo parve
un generale, di cui la consorteria sillana poteva fidarsi, in quel
frangente critico; ed ebbe un esercito. La rivoluzione fu del resto
facilmente domata nel Lazio, nell’Etruria, nella Cisalpina. Lepido
riuscì a fuggire in Sardegna, dove nel 77 morì, non si sa se di
malattia o di ferro.

Repressa la rivolta, il senato si volse alle cose di Spagna, e nel
77 deliberò di farla finita anche con Sertorio. Ma la guerra era
difficile, richiedeva un generale valente. Pompeo si offrì di nuovo.
Questa volta il senato non ne voleva più sapere di un ambizioso così
indiscreto. Ma Pompeo seppe, non solo con gli intrighi, ma anche con la
minaccia, campeggiando con le sue legioni in armi alle porte di Roma,
strappare al senato il comando tanto ambito. Senonchè, mentre Pompeo
partiva per la Spagna, l’Italia incominciava a darsi di nuovo pensiero
degli affari di Oriente. Sinchè Silla era vissuto, nessuno aveva osato
fiatare: ora tutti denunciavano ad alta voce i funesti effetti di quel
trattato di Dardano, che aveva tanto indebolito Roma in Oriente. La
Grecia e la Macedonia erano molestate dai barbari del settentrione; il
bacino orientale del Mediterraneo infestato dai pirati, che catturavano
navi, saccheggiavano città, e avevano fondato addirittura una specie di
Stato nella Cilicia[99]. Mitridate pareva star quieto: ma si diceva a
Roma — e forse non a torto — che egli istigasse i Traci e gli Scordisci
a invadere la Macedonia e la Grecia; che aiutava sottomano i pirati;
che trattava con Sertorio; che macchinava una nuova guerra. Intanto
egli aveva spinto il Re di Armenia, Tigrane, suo congiunto e alleato,
a conquistare la Siria sino ai confini dell’Egitto, a invadere la
Grande Cappadocia e ad assumere il titolo di Re dei Re. Stava forse
per sorgere in Oriente, sulle rovine della Siria, un nuovo impero
più minaccioso di quello del Ponto? Che miniera di recriminazioni
e di accuse contro Silla e il suo partito! Anche le cose di Spagna
aggiunsero esca al fuoco. Sertorio era altro nemico che Lepido; Pompeo
non era riuscito, nell’anno 76, meglio che i suoi predecessori; e
per spiegare il suo insuccesso aveva preso ad accusare il senato di
negargli per invidia i rinforzi e i denari necessari. Cresceva dunque
il malcontento; ricominciavano a spesseggiare le accuse contro i
personaggi potenti del partito al potere; si chiedeva che l’antica
autorità dei tribuni fosse ripristinata e ai senatori fossero ritolti
i tribunali: anzi, nel 75, il console Caio Aurelio Cotta riuscì a far
abolire la legge di Silla, per cui un tribuno della plebe non poteva
più essere eletto ad altra carica.


88. =Il testamento del Re di Bitinia e la nuova guerra con Mitridate
(75-74 a. C.).= — Insomma, sparito Silla, ogni giorno più il governo
si infiacchiva e cresceva il malumore pubblico. In mezzo a questa
torbida situazione, sul finire del 75 o sul principio del 74, mentre
in Spagna la guerra ardeva più violenta che mai, il Re di Bitinia
moriva lasciando eredi del regno i Romani. Accettare quel legato
voleva dire far la guerra a Mitridate, perchè Mitridate non avrebbe
lasciato i Romani insediarsi tranquillamente in Bitinia. Poteva Roma,
con la rivoluzione che covava in casa, con la Spagna in rivolta, con
la Macedonia minacciata, impegnarsi in una seconda guerra con il Ponto
per la Bitinia? Il senato esitava, inclinando a rifiutare la pericolosa
eredità. Ma un sussulto dell’opinione pubblica obbligò questa volta il
senato a mettere da parte i suoi scrupoli e le sue esitanze. Quanti
erano malcontenti, per una ragione o per l’altra, del governo, e lo
sapevano esitante, reclamarono a gran voce la Bitinia: si disse che
la Bitinia era un’altra Asia; a chi ricordava Mitridate, si rispose
che, tanto, una seconda guerra con il Ponto era sicura, che occorreva
cancellare l’onta del trattato di Dardano.... Il senato non ebbe
forza di resistere alla spinta della pubblica opinione; e annettè
la Bitinia.... Ma quelli che temevano Mitridate non avevano torto.
Mitridate da un pezzo si apparecchiava a un nuovo scontro con Roma;
e non solo faceva tutti quegli apparecchi, di cui lo sospettavano a
Roma; ma aveva anche conchiuso un’alleanza con Sertorio. La morte e il
testamento di Nicomede indussero perciò il sovrano a romper gli indugi.
Inopinatamente, nella primavera del 74, quando a Roma si discuteva
ancora comodamente chi comanderebbe la guerra di là da venire,
Mitridate mosse il suo esercito di 120.000 uomini e 16.000 cavalli; una
parte ne mandò, forse al comando di Tassilo ed Ermocrate, a invadere la
Bitinia; con l’altra invase l’Asia, ma non più in proprio nome e quale
conquistatore, bensì come alleato e al seguito di un rappresentante di
Sertorio. Era costui un certo Marco Mario, che entrava nelle città con
le insegne di proconsole e in nome di Sertorio le liberava, condonando
parte dei debiti. Mentre Pompeo chiedeva invano dalla Spagna denari e
rinforzi per combattere Sertorio; mentre a Roma cresceva il malcontento
e il disordine; mentre il senato esitava impotente innanzi alle più
piccole difficoltà, Roma si impegnava di nuovo in una guerra con il
Ponto! Fortuna volle che allora apparisse un grande uomo e un grande
generale: quel Lucio Licinio Lucullo, che abbiamo visto militare in
Asia, durante la prima guerra mitridatica, agli ordini di Silla.

Lucullo discendeva da una famiglia antica nobile e povera, che durante
la rivoluzione era stata perseguitata dalle accuse e dagli odî dei
democratici. Al pari di Catone, aveva vissuto semplicemente; e, benchè
ellenista appassionato, apparteneva al partito tradizionalista. Nell’87
si era recato con Silla in Asia; e aveva reso al suo generale servigi
segnalati come ambasciatore, generale, ammiraglio, senza approfittare
dell’occasione per arricchire, come avrebbe facilmente potuto: era
tornato in Italia con Silla e aveva preso parte alla guerra civile,
ma non aveva messo le mani sui beni dei vinti. Pretore in Africa,
avea trattato i provinciali con dolcezza e onestamente. Dispregiatore
degli avventurieri del suo stesso partito, era giunto alla maturità,
mantenendo fedeltà alla più pura tradizione aristocratica dei bei tempi
antichi, e perciò senza conquistare nè grandissimi onori nè ingenti
ricchezze.


89. =Le prime campagne di Lucullo in Oriente; la conquista della
Bitinia e l’invasione del Ponto (74-72 a. C.).= — Nel 74 Lucullo era
console. Nessuno era meglio preparato di lui, che già aveva tanto
guerreggiato in Oriente, a prendere il comando della guerra contro
Mitridate; ma ci furono intrighi, lotte, esitazioni in quantità,
perchè altri ambivano quel comando e perchè Lucullo aveva in Roma più
nemici che amici. Solo quando giunse la notizia che Mitridate aveva
invaso l’Asia, tutti gli indugi e le esitazioni vennero meno: Lucullo
ricevette il proconsolato di Cilicia e il comando della guerra; ma
dovette anche promettere che le spese della guerra graverebbero
sull’erario meno che si potesse e contentarsi quanto a mezzi del
minimo: 5 legioni. Il senato non voleva spedire in Asia un generale
così esigente come quello che aveva spedito in Spagna e metteva per
tempo le mani avanti. Ma Lucullo era un grande generale davvero[100];
e seppe fare prodigi con poco. Appena sbarcato in Asia non volle
rischiar subito una battaglia contro le forze preponderanti di
Mitridate: ma, raccolto quanto più grano potè, prese a seguire passo
passo il nemico, senza accettare mai battaglia; chiudendosi ogni sera
nell’accampamento e cercando con subite irruzioni di cavalleria di
rendergli difficili gli approvvigionamenti, che giungevano al nemico
dalla Tauride. All’esercito di Mitridate, che per il suo grande numero
aveva in territorio nemico grosse difficoltà di vettovaglie, queste
molestie continue e implacabili divennero alla fine insopportabili.
Per non ripiegare sui porti del Ponto, da cui si riforniva, Mitridate
tentò di conquistare un vasto porto vicino; piombò su Cizico e la
cinse d’assedio. Lucullo lo seguì; e a sua volta assediò l’assediante:
sinchè, Cizico resistendo, Mitridate dovè tentare di sciogliersi dalla
stretta romana. Divise perciò l’esercito in due; e avviò una parte,
la minore, verso la Bitinia, con la speranza dì trarre il nemico sopra
una falsa pista, mentre egli con il grosso dell’esercito si metterebbe
in salvo per un’altra.... Lucullo fece a tempo a distrugger la prima
sul Rindaco, la seconda sull’Edepo. L’Asia era libera, la Bitinia
conquistata al principio del 73.

Queste prime vittorie di Lucullo furono cagione di grandissima gioia
a Roma. Anche in Spagna le cose incominciarono a volgere meglio, meno
per la bravura di Pompeo, che per l’errore, commesso da Sertorio,
alleandosi con Mitridate. Quest’alleanza aveva spento le ancor vive, e
punto sterili, simpatie che covavano per Sertorio a Roma nel partito di
Mario; e che forse non erano estranee al ritardo dei rinforzi spediti
a Pompeo. Il partito di Mario si atteggiava a difensore dell’integrità
e grandezza dell’impero più risoluto e inflessibile del partito di
Silla: quindi non poteva approvar quella alleanza. Prova ne sia il
contegno di un giovane, il quale pure sino a quel momento non aveva
rischiato poco per il partito di Mario: colui che sarà Giulio Cesare.
Cesare era nato nel 100 da un’antica famiglia patrizia impoverita;
era nipote di Mario, che aveva sposato una sorella di suo padre, e
genero di Cinna; era dunque legato per una doppia parentela al partito
di Sertorio e gli aveva tenuto fede, anche quando Silla onnipotente
gli aveva ingiunto di ripudiare la figliuola di Cinna, perchè aveva
rifiutato di obbedire. Morto Silla, aveva incominciato il suo tirocinio
politico nel partito dello zio, accusando due potenti personaggi della
consorteria sillana, Cornelio Dolabella e C. Antonio Ibrida: indi era
tornato in Oriente a continuare i suoi studi a Rodi. Ma saputo che le
vicine città della Caria si ribellavano al governo romano, nel nome
di Mitridate e di Sertorio, il nipote di Mario aveva volto le spalle
alla politica antiromana dei Mariani di Spagna; e, raccolta un’esigua
milizia, aveva fatto di sua propria iniziativa quel che poteva per
frenare la ribellione che dilagava. Come il giovane Cesare, molti altri
membri del partito di Mario si separarono da Sertorio; nel campo stesso
di Sertorio nacquero delle discordie; incominciarono delle defezioni;
spuntò un’opposizione, che trovò per capo un certo Perpenna, un
ufficiale di Lepido, che gli aveva condotto gli avanzi dell’esercito di
costui.

Ma la gioia per le vittorie di Lucullo non fu di lunga durata.
Mitridate, sconfitto in terra, aveva ripigliato la guerra sul mare,
mettendo a profitto le amicizie e le alleanze con i pirati e con le
popolazioni e le città della Tracia. Lo spavento in Italia fu grande:
certo la flotta pontica dell’Egeo intendeva minacciare l’Italia; una
armata per difenderla mancava! Il senato deliberò che Marco Lucullo,
fratello di Lucio, console in quell’anno, facesse come proconsole una
grande spedizione in Tracia per distruggere gli alleati di Mitridate;
votò precipitosamente 3000 talenti perchè Lucullo costruisse una armata
navale; gli prolungò il comando di un anno; forse anche gli diede il
governo della Bitinia. Ma Lucullo non aveva aspettato per agire in
Asia, che il senato deliberasse a Roma: aveva in fretta raccolto una
armata tra gli alleati, e con quella già dava la caccia alla flotta
pontica nell’Egeo, assalendo e distruggendo una dopo l’altra le varie
squadre, mentre i suoi luogotenenti procedevano a ridurre le città
bitiniche ancora in armi, facendo un gran bottino di schiavi e di
oggetti. Verso la metà del 73, Lucullo aveva ridotto in suo potere,
tranne Eraclea, tutte le città bitiniche; e costretto Mitridate a
tornar nel suo regno per mare con gli avanzi dell’esercito condotto
l’anno innanzi alla conquista della Bitinia. La missione, che il senato
gli aveva affidata, era compiuta; molti generali opinavano si dovesse
dar riposo ai soldati e aspettare che Roma deliberasse quel che in
seguito occorresse fare. Ma Lucullo era di un altro parere: invadere
subito il regno di Mitridate e conquistare il Ponto, cancellando
finalmente la vergogna del trattato di Dardano. Era chiaro ormai che
Roma non poteva posseder sicuramente l’ambita provincia d’Asia e il
nuovo acquisto della Bitinia, se non distruggendo il regno del Ponto.
Già infatti Mitridate si ritirava nell’interno montuoso del Ponto, per
preparare un nuovo esercito nel triangolo formato da Cabira, Amasia,
Eupatoria; chiedeva aiuti a suo genero Tigrane, Re di Armenia, a
suo figlio Macare, vicerè della Tauride, e agli Sciti. Se dunque era
necessario incrociare ancora una volta la spada con il Re del Ponto,
meglio valeva assalirlo subito, debole ancora per i colpi ricevuti
in Asia e in Bitinia, prima che avesse avuto il tempo di ricuperare
le forze. Difatti, senza aspettar gli ordini di Roma, attraversate
la Bitinia e la Galazia, Lucullo entrò nel Ponto indifeso e condusse
rapido le legioni sin sotto Amiso e Temiscira, che con una resistenza
vigorosa, obbligarono l’esercito romano a passar l’inverno del 73-72
nelle trincee.


90. =Spartaco e la rivolta degli schiavi (73-71 a. C.)[101].= — Le
cose volgevano dunque bene in Oriente; ma non in Italia, dove nel 73
era scoppiata una rivolta di schiavi, la maggiore forse di quelle che
Roma avea fin allora dovuto combattere, e alla cui testa era un uomo
potente di ingegno, un trace, Spartaco. Fuggito nel 73 dalla scuola
dei gladiatori di Capua, egli era riuscito a comporre di schiavi e
di disperati un esercito di una certa forza, anche se non così grande
come dissero quelli che faticarono tanto a vincerlo: aveva sconfitto
un pretore, che si era illuso di catturarlo facilmente, e si era
gettato nell’Italia meridionale; dove i consoli del 72, che tentarono
affrontarlo, furono, l’uno dopo l’altro, disfatti. L’Italia correva
dunque il pericolo di cadere in potere di schiavi ribelli, mentre in
Asia stava conquistando il Ponto, per merito di un generale capace, che
si era finalmente scoperto? Il malcontento contro il senato, contro
il partito al potere, la costituzione di Silla, era esasperato da
questo scandalo. Quasi a compenso, l’anno 72, i due Luculli e Pompeo
combattevano felicemente in Asia ed in Europa. Lucullo, lasciata una
parte del suo esercito a continuar l’assedio di Amiso e Temiscira,
affrontava con l’altra il nuovo esercito di Mitridate e gli infliggeva
una disfatta decisiva. Nel tempo stesso suo fratello Marco, proconsole
in Macedonia, conquistava la Tracia, al di là dei Balcani, sino al
Danubio; e Pompeo in Spagna riusciva alla fine ad avviare la guerra al
suo termine, non tanto per merito suo, quanto per opera di Perpenna,
che aveva ucciso Sertorio, e incominciava una guerra di devastazione
e di sterminio contro le città, che avevano parteggiato per Sertorio
o che avevano accolto i senatori suoi partigiani. In Italia invece,
quando si indissero le elezioni per il 71, i candidati scarseggiarono,
tanto il terribile condottiero di schiavi faceva paura a tutti! Non si
era mai vista a Roma vergogna simile. Per finirla, il senato affidò il
comando al pretore dell’anno in corso, M. Licinio Crasso, un uomo che
s’era segnalato nella guerra civile, salvando Silla alla battaglia di
Porta Collina, e che era forse il più ricco dei senatori. La scelta non
fu cattiva. Mentre Lucullo conquistava ad una ad una le grandi città
greche del Ponto — Amasia, Amiso, Sinope — Crasso riusciva a debellare
Spartaco; e faceva crocifiggere 6000 prigionieri, lungo la via Appia,
tra Capua e Roma. Dell’esercito di Spartaco scamparono cinque mila
uomini, che tentarono la fuga attraverso le Alpi: ma nell’Italia
superiore li raggiunse Pompeo, reduce dalle Spagne, e li sterminò.
Insieme, i due generali Crasso e Pompeo, giungevano poco dopo alle
porte di Roma.


91. =La fine della costituzione Sillana: il consolato di Pompeo e di
Crasso (70 a. C.); la nuova politica orientale di Lucullo.= — L’aver
goduto di un privilegio è spesso un impegno d’onore o almeno un
puntiglio per chiederne altri. Unico tra tutti i Romani da quando Roma
esisteva, Pompeo, a 36 anni, senza aver esercitato nessuna carica,
senza essere nemmeno senatore, aveva comandato guerre con autorità di
proconsole e ricevuto il titolo di _imperator_. Non è quindi meraviglia
se, avendo vinto Sertorio e ridato a Roma la Spagna, Pompeo tornasse
deliberato a concorrere di primo acchito alla massima tra tutte le
magistrature: il consolato. Dopo aver comandato come proconsole,
Pompeo non poteva acconciarsi a ricominciare, come questore o edile,
il curricolo delle magistrature. Ma quando Crasso seppe che Pompeo
voleva esser console, volle anch’egli essere console, sebbene non
fossero passati i due anni dalla pretura, che la legge imponeva. Il
senato si trovò dunque sulle braccia due candidature illegali, messe
innanzi, in dispregio delle sue leggi, da due amici e luogotenenti di
Silla. Era troppo: i senatori mostrarono chiara e ferma l’intenzione
di opporsi. Ma allora Pompeo e Crasso si intesero tra di loro e —
quel che più monta — si intesero con il partito popolare, che da
tanti anni aspettava il momento di una riscossa. Se essi fossero stati
eletti consoli, avrebbero dato soddisfazione al malcontento pubblico,
proponendo che fossero abolite le parti della costituzione di Silla
maggiormente invise al pubblico. L’uno e l’altro mantenevano intanto
l’esercito in armi sotto le mura di Roma, il che metteva in una certa
soggezione il senato: questa soggezione, l’intesa fra i due candidati,
l’accordo con il partito popolare, il malcontento dell’opinione
pubblica, la stanchezza del partito sillano, che dieci anni di
potere avevano esausto, vinsero le opposizioni. Il senato ammise le
candidature; Pompeo e Crasso furono eletti consoli per l’anno 70.

Mentre queste cose avvenivano in Italia, Lucullo era andato a passar
l’inverno del 71-70 nella provincia di Asia, e cercava di frenare
con diversi provvedimenti la cupidigia dei pubblicani, senza badare
alla potenza dei nemici che irritava. Cose troppo maggiori volgeva
nel pensiero il conquistatore del Ponto! Mitridate era fuggito in
Armenia. Questo paese, abitato da genti affini per razza e per lingua
a quelle che popolavano la Media, la Persia, l’Asia Minore, era
stato un tempo una satrapia dell’impero persiano. Poi era passato ad
Alessandro Magno. Mai durante le guerre dei Diadochi aveva rivendicato
la sua libertà, e invano i Seleucidi di Siria avevano tentato di
riconquistarlo: chè il colpo, che Roma aveva inflitto ad Antioco III,
gli aveva indirettamente giovato. Negli ultimi quindici anni, per via
di matrimoni, di conquiste, di trattati, Tigrane ne aveva ampliato
i confini a settentrione fino al Caucaso, dove i barbari d’Albania
(Schirwan) e d’Iberia (Georgia) l’avevano riconosciuto come sovrano; e
a mezzogiorno, a levante, a ponente, conquistando quasi tutto l’impero
dei Seleucidi, la Cilicia, la Siria propriamente detta, la Fenicia;
invadendo persino alcune province del regno dei Parti. Orbene, Lucullo
pensava nientemeno che di invadere e occupare l’Armenia; e per questo,
mentre attendeva a compiere la conquista del Ponto, mandava a intimare
a Tigrane di consegnargli Mitridate. Lucullo aveva già interpretato
con molta larghezza le istruzioni del senato, allorchè, liberata la
Bitinia, aveva invaso e conquistato il Ponto. Ma il Ponto almeno era
la patria dell’implacabile nemico di Roma! Ora si trattava di ben
altro. Egli voleva affrontare un grande Stato amico, senza un motivo
o una ragione qualsiasi, per propria iniziativa. Quella che egli
faceva, se ne rendesse conto o no, era una vera rivoluzione politica,
che annullava una parte capitale della restaurazione di Silla.
Egli sostituiva sè medesimo, ossia l’iniziativa di un proconsole,
alla autorità del senato nelle cose di guerra; e alla politica del
senato, per lunga tradizione prudente, astuta, versata nell’arte
di aggirare gli ostacoli e di tirare in lungo, proclive a intrigare
e temporeggiare, prudente nella prospera fortuna e paurosa di ogni
sforzo decisivo, sovrapponeva un imperialismo, per usare la parola
moderna, aggressivo, una audacia politica di espansione che affrontasse
deliberatamente i pericoli e le difficoltà.

Era destino che l’opera di Silla fosse distrutta dai suoi amici e
discepoli prediletti. Mentre Lucullo la demoliva nel vasto campo
della guerra e dei trattati, Pompeo e Crasso ne battevano in breccia
gli ordini interni. I due consoli dell’anno 70 avevano mantenuto
le promesse, sebbene tra di loro regnasse poco buon sangue. Leggi
proposte da diversi magistrati e sostenute con vigore dai due consoli,
restituirono ai tribuni i poteri tolti da Silla, compresa la facoltà
di proporre leggi senza sottoporle prima al senato; concessero
un’amnistia a tutti i superstiti della guerra civile, non esclusi i
seguaci di Lepido e di Sertorio; riformarono i tribunali; disposero
che i giudici delle _quaestiones_ fossero estratti a sorte non più
fra i soli senatori, ma promiscuamente, fra i senatori, i cavalieri,
e i _tribuni aerarii_. Chi fossero questi ultimi, non sappiamo dire
con precisione[102]. Inoltre la censura, sospesa da 17 anni, fu
ristabilita; e i censori Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, indetto
il censo in aprile o in maggio, ripulirono con soddisfazione universale
il senato di molti amici di Silla. Molte richieste del partito popolare
erano dunque state esaudite; e molte più sarebbero state, se Crasso
e Pompeo non si fossero sulla fine del consolato guastati: per qual
ragione, è poco noto. Pare che già sin da allora Pompeo volesse essere
mandato come proconsole a sostituire Lucullo, a cui il senato veniva
ogni anno prorogando il comando; e che Crasso si opponesse[103]. Così
tutti e due ritornarono, dopo il consolato, a vita privata e nemici,
nessuno dei due avendo voluto accettare una delle solite e troppo
modeste province.


92. =La conquista dell’Armenia e gli intrighi di Pompeo contro Lucullo
(69 a. C.).= — Lucullo invece invadeva nella primavera dell’anno
69 l’Armenia con due legioni appena e poche migliaia di coorti
ausiliarie indigene: in tutto 20.000 uomini. Passato l’Eufrate, marciò
direttamente su Tigranocerta, respinse per via l’esercito del generale
Mitrobarzane, che era accorso a sbarrargli la strada, e cinse di
assedio la città, dove il Re nascondeva i tesori e l’_harem_. Poi,
quando Tigrane sopraggiunse con un esercito di soccorso, distaccò
dalle milizie assedianti 14.000 soldati; mosse decisamente contro il
nuovo nemico: e allorchè i due eserciti si trovarono di fronte sulle
rive del Tigri, una mattina, ordinato ai soldati di passare a guado
il fiume dalle correnti vorticose, lanciò il suo piccolo esercito sul
nemico cinque volte più numeroso, e lo disfece. A stento il Re riuscì
a salvarsi con una fuga precipitosa. Poco dopo anche Tigranocerta
capitolava. Padrone delle province nemiche a sud del Tigri, Lucullo
ridava ad Antioco l’Asiatico la Siria. Ma non era pago: ricondotti
i suoi uomini a svernare nella dolce Gordiana, vagheggiava disegni
anche più grandiosi: lanciarsi, nuovo Alessandro, sulla Persia e
distruggere in una volta sola l’impero di quei Parti, che Roma non
avrebbe mai distrutti. Senonchè a Roma l’astuto e potentissimo Pompeo
già intrigava per togliergli il comando e riuscire nel disegno, che
nel 70 aveva dovuto abbandonare, a quanto pare, per l’opposizione di
Crasso, Pompeo aveva trovato chi l’aiutava nei suoi intrighi non solo
nel partito democratico, ma anche tra i cavalieri, malcontenti della
giustizia e onestà con cui Lucullo amministrava la provincia d’Asia. Si
cominciò ad aizzare il popolo e il senato contro Lucullo, accusandolo
di fare una guerra illegale per lucro personale. Presto il senato si
impaurì; e per dare una soddisfazione all’opinione pubblica, tolse per
l’anno 68 a Lucullo il governo della provincia d’Asia e l’affidò a un
propretore. Ma Pompeo e i suoi amici trovarono ben presto un insperato
e anche più prezioso aiuto nell’esercito stesso di Lucullo. Se Lucullo
era un generale non meno grande di Silla e di Mario, egli trattava i
soldati come fossero ancora i legionari delle guerre puniche. Il rigore
della sua disciplina, la parsimonia delle sue ricompense, apparivano
veramente intollerabili a gente guasta dalle troppe larghezze delle
guerre precedenti. Soprattutto si rimproverava a Lucullo di dar troppa
poca parte del bottino alle legioni. Alcuni ufficiali di Lucullo, amici
di Pompeo, tra gli altri Publio Clodio, uomo nato a clamorosi destini,
incominciarono a sobillare i soldati contro il generale, assicurandoli
che avevano diritto di esser trattati meglio e più lautamente
ricompensati per le loro fatiche; che Pompeo li farebbe contenti. Nel
68, quando Lucullo raggiunse gli eserciti di Tigrane e di Mitridate sui
pianori del lago Van, per terminare la guerra, potè ancora sconfiggere
Tigrane all’Arsaniade, ma non potè prendere Artaxata, la capitale del
regno, perchè i suoi ufficiali e la maggior parte de’ suoi soldati si
ammutinarono. Poco prima, a Roma, il partito democratico era riuscito
a farlo privare del governo della Cilicia, e a inviare in Asia una
commissione con l’incarico di ordinare la nuova provincia del Ponto. La
rivolta delle legioni era una nuova spinta alla autorità già vacillante
di Lucullo, che Mitridate rovesciò a terra con un ultimo urto: chè, non
appena seppe le legioni ribellate, entrò con 8000 soldati nel Ponto,
sollevò i contadini, riuscì a chiudere il legato, lasciato da Lucullo
nel regno con poche forze, in Cabira; e, quando Lucullo si levò per
accorrere in suo aiuto, le legioni rifiutarono di muoversi, avanti
la primavera del 67. Per fortuna l’ammiraglio di Lucullo, Triario,
potè sbarcare rinforzi nel Ponto e sbloccare il legato da Cabira:
ma non scacciare Mitridate dal Ponto. Dovè quindi svernare in faccia
all’esercito nemico a Gaziura, nel cuore del Ponto, mandando invano a
domandare rinforzi a Lucullo.


93. =La destituzione di Lucullo e la «Lex Manilia» (68-66 a. C.).=
— Anche gli amici più devoti di Lucullo disperavano ormai della sua
causa. Si potevano biasimare acerbamente gli intrighi di Pompeo e
l’indisciplina dei soldati: ma chi poteva ancora sperare che Lucullo
riuscirebbe a riconquistare il Ponto? Un inaspettato accidente
piegò definitivamente le bilance del destino dalla parte di Pompeo.
Nell’inverno dal 68 al 67, Roma e l’Italia furono afflitte da una
grande carestia: per colpa dei pirati — si disse — che intercettavano
sul mare i carichi di grano. Ma dell’onnipotenza dei pirati non erano
forse colpevoli l’inerzia del senato e l’incuria di Lucullo, che
era stato sino a poco prima il proconsole della Cilicia? Pronto, un
tribuno, amico di Pompeo, Aulo Gabinio, riuscì a far votare una legge,
la _lex Gabinia_, la quale senza nominare nessuna persona incaricava di
far la guerra ai pirati un uomo di rango consolare, assegnandogli una
flotta di 200 navi, un grosso esercito, e 6000 talenti, e conferendogli
l’autorità proconsolare assoluta per tre anni su tutto il Mediterraneo
e sulle coste sino a 50 miglia dalla costa, insieme con la facoltà di
scegliersi 15 legati, di reclutare soldati e rematori e di raccoglier
denari in tutte le province. La legge istituiva insomma per tre anni
una vera dittatura dei mari, quale Roma non aveva ancora conosciuta.
Il senato oppugnò accanitamente la legge, ma il popolo, affamato e
furioso, minacciò di rivoltarsi; la legge fu approvata con poteri anche
più larghi di quelli proposti da Gabinio, e del comando fu incaricato
Pompeo(67).

Questi si mise subito all’opera, la quale era assai più facile che in
Roma non si credesse. La potenza dei corsari nasceva dall’incuria del
governo romano. Con poche operazioni e con pochi esempi severissimi,
seguiti da opportuni atti di clemenza, Pompeo scardinò in poche
settimane le fondamenta dell’impero di quel singolari dominatori del
Mediterraneo; e ripulì, almeno per qualche tempo, i mari. Ma questa
dittatura dell’acqua non doveva essere per lui che un mezzo. Nella
primavera del 67, quando i suoi soldati glielo avevano permesso,
Lucullo si era incamminato con le legioni al soccorso di Triario, ma
troppo tardi, chè Triario già aveva dato battaglia a Mitridate ed
era stato disfatto. Appena si seppe a Roma la disfatta di Triario,
i tribuni della plebe insorsero; Gabinio, d’accordo con Pompeo,
propose una nuova legge con cui si toglieva a Lucullo il comando della
guerra contro Mitridate e la provincia del Ponto; e dava questa e
la Cilicia al console Manio Acilio Glabrione. Il senato dovè questa
volta abbandonare Lucullo e lasciar approvare la legge. Lucullo tentò
ancora di imporsi ai soldati e di continuar la guerra a dispetto
della legge; ma i soldati rifiutarono di obbedire. Roma aveva ormai in
Oriente un generale senza esercito ed un esercito senza generale! La
situazione era troppo pericolosa perchè potesse durare. Difatti, sul
finir del 67, incominciarono a giungere a Roma lettere dall’Asia, che
descrivevano paurosamente le condizioni della provincia: Lucullo senza
comando; Mitridate di nuovo signore del Ponto; la Cappadocia devastata
da Tigrane; colonne volanti già apparse in Bitinia ad abbruciare i
villaggi di frontiera.... Roma di nuovo si spaventò; e dello spavento
approfittò un altro tribuno, Caio Manilio, per proporre una nuova legge
di eccezione, che concedeva al debellatore dei pirati, oltre i poteri
già concessigli con la legge Gabinia, il governo dell’Asia, della
Bitinia e della Cilicia, il comando della guerra contro Mitridate e
Tigrane, e la facoltà di dichiarare la guerra e di concludere alleanze
a nome del popolo(66). Questa legge in fin dei conti non faceva che
autorizzare quella politica personale e indipendente dalla volontà del
senato, che il partito popolare aveva rimproverata a Lucullo, e per cui
questi era richiamato. Ma Pompeo non era, come Lucullo, un superstite
solitario del detestato partito di Silla: era ormai il capo del partito
popolare, il favorito dei cavalieri, il più autorevole dei senatori.
Inoltre la nuova legge straordinaria fu raccomandata al popolo
dall’eloquenza impareggiabile dei due maggiori oratori del tempo:
C. Giulio Cesare, e un giovane avvocato già salito in molta fama: M.
Tullio Cicerone. La legge dunque fu approvata[104].

La disgrazia di Lucullo era la fortuna di Pompeo.


94. =Pompeo in Oriente: la conquista del Ponto, dell’Armenia, della
Siria e della Giudea (66-63 a. C.)=[105]. — Pompeo moveva baldanzoso
a finire un regno, che sei anni di guerra avevano già stremato. Nel 66
invase il Ponto e con una breve e fortunata campagna riuscì a scacciare
Mitridate, obbligandolo a rifugiarsi nella Colchide: quindi si volse
a conquistare l’Armenia, pensando che avrebbe preso alla primavera
Mitridate nel suo rifugio. Ma la fatica di conquistare l’Armenia gli
fu risparmiata dalla dedizione spontanea di Tigrane, che venne solo, a
piedi, in atto e vestimento umile, nel campo romano. Pompeo lo ricevè
gentilmente, lo confortò, gli restituì tutti i dominî ereditari della
famiglia, lo chiamò amico e alleato del popolo romano a condizione che
pagasse 6000 talenti, cinquanta dramme a ogni soldato, mille a ogni
centurione, diecimila a ogni tribuno militare. Poi portò le milizie
a svernare sulle rive del Cyrus (il Kur), sull’estrema frontiera
settentrionale dell’Armenia; e preparò, per l’anno dopo, l’invasione
della Colchide, avviando trattative con gli Albani e con gli Iberi.

Al principio della primavera del 65, Pompeo invase il paese degli Iberi
e li sottomise; passò nella valle del Rioni (l’antico Phasys) e scese
nella Colchide, tutta piena dei ricordi di Medea, di Giasone, degli
Argonauti, per catturar Mitridate.... Ma troppo tardi: l’indomabile
vecchio aveva fatto quel che tutti credevano impossibile: aveva
sforzato, con il suo piccolo esercito, il passaggio fino in Tauride,
lungo le pendici del Caucaso dirupanti nel mare e infestate dai
barbari, e riconquistato un altro Stato. Pompeo non volle invadere dal
mare la Tauride; ma, ordinatone il blocco, tornò nella valle del Cyrus,
e fece una spedizione nel paese degli Albani, che pare sorprendesse a
tradimento; poi si ricondusse nella piccola Armenia; e tutto quell’anno
attese a conquistare gli ultimi castelli e a confiscare gli immensi
tesori di Mitridate. L’anno seguente, nella primavera del 64, raccolse
ad Amiso una corte di Re orientali; distribuì, ingrandì, permutò regni;
diede due nuovi re alla Paflagonia e alla Colchide; accrebbe i dominî
dei tetrarchi galati; nominò Archelao, figlio del generale che aveva
combattuto contro Silla, gran sacerdote di Comana; divise il territorio
del Ponto in undici città e ricostituì in queste, sotto la sorveglianza
del governatore romano, le istituzioni repubblicane della _polis_
greca. Indi volse la mente ad una nuova grande impresa, che avrebbe
donato a Roma una ricca provincia e gloria eterna al suo autore: la
conquista della Siria. Il momento buono era quello. Il paese, che
Lucullo aveva liberato dalla dominazione armena, era di nuovo in piena
anarchia: i pretendenti e gli usurpatori pullulavano a dozzine; le
città greche invocavano ardentemente un liberatore. Pompeo si avviò
verso Antiochia; mandò in Fenicia e in Celesiria i suoi luogotenenti,
Aulo Gabinio e M. Emilio Scauro; e mentre le legioni occupavano a poco
a poco tutta la Siria, la dichiarò provincia romana. Quindi discese
verso il mezzogiorno. Nel 63 egli si trovava a Damasco, intento a
decidere una grossa controversia interna della vicina Giudea.

Da circa cento anni la Giudea era riuscita a riconquistare la sua
indipendenza dall’impero siriaco dei Seleucidi, dopochè Roma, con
la guerra contro Antioco III, aveva indebolito il regno di Siria
e incoraggiato tutti i moti, nazionali e locali, che tendevano a
disgregarne l’unità. Nel tempo a cui noi siamo pervenuti, la Giudea
era di nuovo uno Stato prospero: ma era anche lacerata da una contesa
dinastica, che era nel tempo stesso una lotta religiosa e nazionale;
da una guerra civile tra i pretendenti Ircano ed Aristobulo, l’uno
spalleggiato dalla fazione dei Farisei, l’altro, dai Sadducei. I
partiti in contrasto avevano già chiamato aiuti dal di fuori; e,
allorchè Pompeo arrivò, fu invitato dalle due parti a decidere.
Uno dei tanti casi, che fanno assai spesso traboccare la bilancia
dell’umano giudizio, lo indusse a sentenziare in favore di Ircano e dei
Farisei. Ma Aristobulo e i Sadducei, che tenevano allora il governo,
non credettero di dover piegare alla parola dell’invitto generale
romano; onde questi fu costretto ad assediare la stessa Gerusalemme.
Gerusalemme si arrese tosto. Solo il tempio, cinto da formidabili
fortificazioni, resistette lungamente, e per prenderlo fu necessario
un lungo assedio. Alla fine anche i suoi difensori capitolarono; e
l’antico regno di Saul e di Salomone fu annesso alla nuova provincia di
Siria. Ma mentre Pompeo indugiava in Siria e in Palestina, lo raggiunse
la notizia della morte di Mitridate. Nel suo nuovo e piccolo regno di
Tauride il vecchio sovrano aveva concepito un disegno audace: mettersi
a capo dei barbari della moderna Russia meridionale e della valle del
Danubio, e piombare, come Annibale o come i Cimbri, dalle Alpi centrali
od orientali sull’Italia. Ma a eseguir questo piano occorrevano ben
altre forze che quelle di un sovrano spodestato del Ponto; il blocco
rovinava il commercio del paese; i sudditi, salassati dalle imposte,
mormoravano minacciosi. Alla fine un suo figliuolo, Farnace, si mise
a capo di una rivolta; e il vecchio Re fu costretto a darsi la morte
col veleno (63). Così la fortuna toglieva di mezzo facilmente quel
nemico implacabile di Roma. Pompeo potè tranquillamente fermarsi in
Oriente quell’anno e tutto il seguente, visitandone molte parti e
riordinando in vario modo i vasti territori conquistati; fuse il Ponto
e la Bitinia in una provincia unica, che però avrebbe il nome di quello
che un tempo era stato il regno di Mitridate; al figlio di costui
diede la piccola Tauride, dove erano sepolte le ceneri invendicate
del padre; il Re di Cappadocia, Ariobarzane, ottenne qualche aumento
territoriale; la Paflagonia fu ricostituita; la Galazia, divisa in tre
principati: l’Armenia, lasciata indipendente, ma privata di buona parte
delle sue antiche conquiste. Dopo di che Pompeo ripigliava lentamente
la via dell’Italia, salutato ovunque da onori divini. Nè a torto:
chè in dieci anni erano maturate tutte le conseguenze di quel primo
passo fatto da Roma accettando l’eredità del Re di Pergamo. Diventata
potenza asiatica, per questo testamento, Roma era ormai la maggiore
delle potenze dell’Oriente, e tale era diventata per merito di due
uomini, Lucullo e Pompeo, secondati a Roma da piccoli, ma attivi gruppi
politici. Il senato invece, come corpo, era stato passivo spettatore
di questo grande rivolgimento, che aveva così rapidamente alterato
l’assetto del Mediterraneo e che tanto influsso doveva avere sulla
storia di Roma e del mondo.


NOTE AL CAPITOLO SEDICESIMO.

[99] Cfr. CIC., _Pro lege Man._, 11, 31 sgg.; PLUT., _Pomp._, 24.

[100] Le fonti principali della nuova ed ultima guerra mitridatica,
per la parte che riguarda le campagne di Lucullo, sono APP., _Mithr._,
72 sgg.; PLUT., _Lucull._, 6-35. La monografia contemporanea più
interessante è quella di TH. REINACH, _Mithridate Eupator roi du Pont_,
Paris, 1890, pp. 320-372. Su Lucullo, la sua figura, la importanza
storica e la cronologia delle sue guerre, cfr. G. FERRERO, _Grandezza e
decadenza di Roma_, vol. I, cap. VII e VIII; vol. II, Appendice B.

[101] Sulla guerra così detta di Spartaco, cfr. specialmente APP., _B.
Civ._, I, 116-20.

[102] Sui _tribuni ærarii_, cfr. DAREMBERG et SAGLIO, _Dictionnaire
d’antiquités classiques_, a _Iudiciariæ leges_, e a _Tribus_.

[103] Si tratta di un’ipotesi, ma assai verisimile: cfr. G. FERRERO,
_Grandezza e decadenza di Roma_, vol. I, p. 271 sgg.

[104] APP., _Mithr._, I, 97. — Cicerone la sostenne eloquentemente con
la storica orazione _Pro lege Manilia_.

[105] Sulle campagne di Pompeo in Oriente, cfr. specialmente APP.,
_Mithr._, 97 sgg.; PLUT., _Pomp._, 30-42; TH. REINACH, op. cit.,
381-410; FERRERO, op. cit., vol. I. capp. XI, XII, XIII.



INDICE ALFABETICO-ANALITICO


_Acerra_, presa da Annibale, 161.

_Achei_, e la prima Guerra illirica, 135; inclinano verso la Macedonia,
182; durante la seconda Guerra macedonica, 183; alleati di Roma (197 a.
C.), 184; ottengono Erea e la Trifilia, 186; alleati di Roma durante
la Guerra siriaca, 190; deportati a Roma, 208; la lega achea e sua
competizione con Sparta, 119; insorge contro Roma, 217; dichiara guerra
a Sparta, 219-220; privata da Roma di alcune città, 221-222; nuova
dichiarazione di guerra a Sparta, 223; vinta da Metello e da Mummio,
223.

_Acilio_ (M.’ Glabrione) (trib. pl. 123 a. C.), e la lex Acilia de
repetundis, 250.

_Acilio_ (M.’ Glabrione) (cons. 67 a. C.), 359; riceve le province del
Ponto e di Cilicia, 359.

_Aderbale_, ammiraglio cartaginese, 128.

_Aderbale_, figlio di Micipsa e re di Numidia, 261; scacciato da
Giugurta, 261; assalito e ucciso (112 a. C.), 263.

_Aegusa_, una delle isole Egadi, 127.

_Aenaria_ (_Ischia_), origini del nome, 6.

_Africa_, provincia romana, 223.

_Agatocle_, tiranno di Siracusa, 110, 115.

_Ager gallicus_, 141.

_Ager publicus_, 118, 133; dopo la guerra annibalica, 195; in Africa,
223, 236, 244; esentato d’imposta, 255; disposizioni del 119 a. C. su
l’_a. p._, 260.

_Agricoltura_, nel Lazio primitivo, 8, 13, 83; decadenza della piccola
proprietà in Italia durante la seconda Guerra sannitica, 82; dopo la
Guerra tarantina, 118; dopo la prima punica, 137-138; nei sec. III-II
a. C., 194-195; nella seconda metà del II sec. a. C., 226; la piccola
e la grande proprietà nella seconda metà del II sec., 229; nella prima
metà del I sec. a. C., 295.

_Agrigento_, fortezza cartaginese, 122-23; assediata e occupata dai
Romani (262 a. C.), 123; rioccupata dai Cartaginesi (213 a. C.), 163,
164; ripresa dai Romani (210 a. C.), 165.

_Alba_, nel territorio degli Equi, colonia dei Romani, 91.

_Alba Longa_ (nel Lazio), 7, 9, 10, 12; distruzione, 16.

_Albania_ (Schirwan) conquistata da Tigrane, 353; invasa da Pompeo, 361.

_Alessandro il Molosso_, re d’Epiro, combatte contro Lucani, Bruzzi e
Sanniti, 72.

_Alleati_ (Gli) italici, nell’esercito romano, 187; e la legge agraria
sempronia, 236, 237, 245. V. _Italici_.

_Allife_, 74.

_Amasia_, città del Ponto, 349.

_Ambracia_, occupata da Pirro, 101.

_Ambroni_, 284; vinti da Mario ad _Aquae sextiae_ (102 a. C.), 284.

_Amilcare Barca_, in Sicilia, 128 sgg.; sua politica dopo il 241 a. C.,
145; in Spagna (238?-231 a. C.), 145-147; sua morte (231 a. C.), 147.

_Amiso_, città del Ponto, 349; assediata da Lucullo, 349, 350; Pompeo
ad A., 361.

_Amulio_, 7.

_Anco Marzio_, 11, 16; e Veio, 46.

_Andrisco_, pseudofiglio di Perseo, 218; vinto da Metello (148 a. C.),
219.

_Annibale_, figlio di Amilcare Barca, generale degli eserciti
cartaginesi in Spagna, 147; suo piano della guerra contro Roma, 148-49;
sua marcia dalla Spagna in Italia, 149-51; suo esercito 149, 175, n.
3; presso _Victumulae_, 151; vince presso il Ticino (218 a. C.), 151,
175, n. 4; vince alla Trebbia (218 a. C.), 153-54; A. e gli Italici,
155; dalla Trebbia al Trasimeno, 155-56, 176, n. 5; vince al Trasimeno
(217 a. C.), 156; in Umbria, nel Piceno, in Apulia, 157; vince a Canne
(2 ag. 216 a. C.) 158-160; prende Nocera, Acerra, Casilino, 161; in
Campania (215 a. C.), 161; tenta invano liberar Capua, 164; Cartagine
e A. durante la seconda punica, 164-65; in Puglia (207 a. C.), 168;
si ritira nei Bruzzi, 169; sua narrazione della impresa d’Italia, 171;
medita una nuova alleanza con la Macedonia, 171; lascia l’Italia, 171;
è vinto presso Zama (202), 171; consiglia la pace con Roma, 173; alla
Corte del re di Siria (195 a. C.), 190; vinto dai Rodii (190 a. C.),
191.

_Antigonidi_, monarchia degli, 110.

_Antiochia_, città della Siria; Pompeo ad A., 362.

_Antioco III il Grande_, re di Siria, 178; sue mire sull’Egitto, 178; e
sua alleanza con Filippo V, 178; invade la Palestina (202 a. C.), 178;
occupa Efeso (197 a. C.) e Lisimachia (196 a. C), 189; si abbocca con
ambasciatori romani, 189; A. e Roma alla vigilia della Guerra siriaca,
190: in Tessaglia (192 a. C.); ripassa in Asia, 190; è vinto nelle
acque di Chio, 191; è vinto a Magnesia (190 a. C.), 191; perde tutta
l’Asia al di qua del Tauro (189 a. C.), 192.

_Antioco IV_, re di Siria, assale l’Egitto, 206-7; si ritira dietro
ingiunzione di Roma, 208-9.

_Antioco l’Asiatico_, 355; riceve da Lucullo il regno di Siria, 355.

_Antonio_ (M.), oratore, candidato al consolato pel 99 a. C., 291.

_Antonio_ (C. Ibrida), un sillano accusato da Cesare, 347.

_Anzio_, 28, 29, 70.

_Aoo_ (Fl.), 184.

_Apollonia_, nella Confederazione italica, 135.

_Appaltatori_, in Roma, 136-37. V. _Pubblicani, Cavalieri_.

_Apuleio_ (L. Saturnino) (trib. pl. I, 103 a. C.), 282; capeggia le
dimostrazioni contro gli ambasciatori di Mitridate, 283; trib. pl.
II (100 a. C.), 287; 288; sue legg., 288-89; eletto tr. pl. III, 291;
ucciso (dicembre 100 a. C.), 292.

_Apulia_, gli Apuli alleati di Roma nella seconda Guerra sannitica, 47,
79; spedizione romana in Apulia (320 a. C.), 78, 79; nuova spedizione
romana (314 a. C.), 80; l’A., invasa da Pirro, 103; devastata da
Annibale, 157; campagna del 216 a. C. in A., 158; passa ad Annibale,
160, 168; sgombrata da Annibale, 169; nella Guerra sociale, 305.

_Aquae Sextiae_, battaglia (102 a. C.), 284.

_Aquilio_ (M.’) (cons. 129 a. C.), vince Aristonico, 245.

_Aquilio_ (M.’) ambasciatore a Mitridate, 306; e Nicomede III, 306.

_Aquitania_, 268.

_Arausium_ (Oranges), battaglia (6 ottobre 105 a. C.), 277.

_Archelao_, generale di Mitridate, 309; occupa Delo, 310; in Atene,
317; lascia la Grecia (86 a. C.), 320; vinto a Cheronea, 320.

_Archelao_, figliuolo del prec., gran sacerdote di Comana, 362.

_Archimede_, 163.

_Ardea_, 28.

_Arevaci_, 213, 232.

_Arezzo_, città etrusca, 4; durante la seconda Guerra sannitica, 87;
assediata dai Galli (285 a. C.), 96; battaglia (285 a. C.), 96.

_Ariminum_ (Rimini), 151; in mano di Silla, 351.

_Ariobarzane_, re di Cappadocia, 293; rimesso sul trono da Silla, 294;
riceve da Pompeo nuovi territorî, 364.

_Aristione_, generale di Mitridate, in Atene, 317.

_Aristobulo_, pretendente al trono di Giudea, 367.

_Aristonico_, figliuolo illegittimo di Eumene e pretendente al trono
degli Attalidi, 244; insurrezione, 244.

_Armata_, creazione di un’armata romana durante la seconda Guerra
sannitica, 82, 85-86; la prima grande armata romana (261 a. C.),
123-24; Roma manca di un’armata, 319, 342, 348.

_Armenia_, 294; popolazione, 352; storia, 353; suoi confini nella prima
metà del I sec. a. C., 353; mercenari, 306; Mitridate in Armenia, 352;
e Lucullo, 353; e Pompeo, 364; Piccola Armenia, 361. V. _Tigrane_.

_Arniensis_, 54.

_Arpi_, occupata dai Romani, 163.

_Arsaniade_ (Fl.), battaglia, 357.

_Aruspici_, 13-14. V. Sacerdoti.

_Arverni_ (nella Gallia Transalpina), guerra con Roma, 260; distruzione
dello Stato degli A., 260, 267; conseguenze, 267-68.

_Ascanio_, 7.

_Asdrubale_, generale di Amilcare Barca, 146; generale cartaginese in
Spagna, 146-47; trattato con Roma (226 a. C.), 146, 175, n. 1; morte
(221 a. C.), 147.

_Asdrubale_, fratello di Annibale e generale degli eserciti cartaginesi
in Spagna, durante la seconda punica, 161; ricaccia i Romani al di là
dell’Ebro, 165; prepara una invasione in Italia, 166; vinto a _Baecula_
(208 a. C.), 167; in Italia (207 a. C.), 167; vinto e ucciso presso il
Metauro (207 a. C.), 168.

_Asdrubale_, generale cartaginese contro Massinissa, 215; disfatto,
215; condannato a morte, 216; generale cartaginese nella 3ª punica 219.

_Asia_, provincia romana, 241; l’appalto della _decima_ ai cavalieri,
250; importanza finanziaria per Roma, 307; e Mitridate, 307; invasa
da Mitridate, 307; Silla amnistia le città ribelli d’A., 323; nuova
invasione di Mitridate (74 a. C.), 344 sgg.; liberata da Lucullo, 346.

_Asia minore_; possessi dei Tolomei in, 110; dopo la Guerra siriaca,
192; Italici in A., 226.

_Atamania_, occupata da Pirro, 101; alleata di Roma nella seconda
punica, 183.

_Atene_. V. _Ateniesi_.

_Ateniesi_, e la prima Guerra illirica, 135; invocano Roma contro
Filippo V, 178; alleati con Roma, 182, 190; ricevono Delo, 208; si
sollevano contro Roma, 309; i generali mitridatici in Atene, 316; Atene
assediata da Silla (87-86 a. C.), 319-20.

_Atilio_ (M. Regolo) (cons. 256 a. C.), 125; in Africa, 125, 126;
prigioniero (255 a. C.), 127.

_Attalo I_, re di Pergamo, contro Filippo V, 167; alleato con Rodi,
Chio, ecc., 178; contro Filippo V, 178; invoca Roma (201 a. C.), 178;
alleato con Roma, 182; nella seconda Guerra macedonica, 183.

_Attalo II_, re di Pergamo, manda la flotta in aiuto di Metello, 223.

_Attalo III_, re di Pergamo; sua morte (133 a. C.); lascia il regno a
Roma, 239.

_Auguri_, 13. V. _Sacerdoti_,

_Aurelio_ (C. Cotta) (cons. 75 a. C.), e l’abolizione della legge di
Silla circa il tribunato, 342-43.

_Ausculum_ (Ascoli di Puglia), battaglia (279 a. C.), 103; (del
Piceno), nella Guerra sociale, 305.

_Auspicia_, 14, 15, 33, 40.


_Baecula_ (in Spagna), prima battaglia (208 a. C.), 167; seconda
battaglia (206 a. C.), 169.

_Baetis_ (Fl.), in Spagna, 167.

_Baleari_, conquistate da Roma, 260.

_Bastarni_, 281; mercenari, 307.

_Belli_, 213, 232.

_Benevento_, battaglia (275 a. C.), 107.

_Beoti_, 223.

_Bisanzio_, contro Filippo V, 178.

_Bitinia_, 178; il re di B. battuto da Aristonico, 245; invade con
Mitridate la Paflagonia, 281. V. _Nicomede_; la B. in eredità a Roma
(75 a. C. o 74 a. C.), 343; invasa da Mitridate (74 a. C.), 344;
riconquistata da Lucullo, 346, 348; invasa di nuovo da Mitridate (67 a.
C.), 359; provincia unica col Ponto, 364.

_Bituito_, re degli Arverni, 260; catturato e deportato in Italia, 260,
267.

_Bocco_, re di Mauretania, alleato di Giugurta, 274; consegna Giugurta
a Mario, 276; riceve la porzione occidentale della Numidia, 278.

_Boi_, 96, 97, 142; assalgono Piacenza e Cremona (218 a. C.), 150. V.
_Galli_.

_Bologna_, colonia romana, 195.

_Boviano_, capoluogo del Sannio, 88; distrutta da Silla, 333.

_Bruzii_, combattuti da Alessandro il Molosso, 72; contro Roma (285 a.
C. sgg.), 96-97; perdono parte del territorio dopo la guerra tarantina,
108; passano ad Annibale, 160.


_Cabira_, città del Ponto, 349, 357.

_Caere_, città etrusca, 4.

_Calcide_, piazzaforte macedone in Grecia, 185; occupata da forze
romane e pergamee, 183.

_Cales_ (Calvi), colonia romana, 72.

_Callife_, 74.

_Calpurnio_ (L. Bestia) (cons. 111 a. C.), generale contro Giugurta,
264; e Giugurta, 264-65.

_Calpurnio_ (L. Pisone) (cons. 148 a. C.), combatte in Africa, 219.

_Camerino_, 92.

_Camillo_, «secondo fondatore» di Roma, 287.

_Campania_, Etruschi in C., 3, 10-11; Campania preromana, 64 sgg.;
assoggettamento a Roma, 70-71; passa in parte ad Annibale, 160, 161;
guerra in C. (215 a. C.), 161; nella guerra sociale, 305; colonie
militari in C., 333.

_Campidoglio_, 17.

_Canne_, battaglia (2 agosto 216 a. C.), 158-60.

_Canuleio_ (C.), tribuno della plebe; sua legge (444 a. C.), 40.

_Canusio_, 79.

_Capio_, 6.

_Cappadocia_, alleata di Antioco, 191; il re di C. battuto da
Aristonico, 245; occupata da Mitridate VI, 293. V. _Ariobarzane_;
seconda invasione mitridatica, 294, 295; terza invasione mitridatica
(88 a. C.), 307; la Grande C., invasa da Tigrane, 342, 359.

_Capri_, origine del nome, 6.

_Capua_, origine del nome, 6; occupata dagli Etruschi, 65, 66; dai
Sanniti, 65; in rotta con la confederazione sannitica, 65-66; guerra
coi Sanniti (343 a. C.), 67; alleanza con Roma, 67; in lega coi Latini
contro Roma, 68; dopo la Guerra latina del 340-338 a. C., 70; passa ad
Annibale, 160; ripresa dai Romani, 164; scuola di gladiatori, in C.,
349.

_Caria_, possesso dei re di Pergamo e dei Rodii (189 a. C.), 192.

_Carrinate_, 329.

_Cartagena_, 150; presa da Scipione (209 a. C.), 167.

_Cartagine_, e Roma regia, 18; primo trattato con Roma (510 o 509 a.
C.), 27 segg., 43, n. 1; secondo trattato con Roma (348 a. C.), 62-63;
e Roma durante la Guerra tarantina, 105; e Pirro in Sicilia, 106; suo
territorio nel III sec. a. C., 110; alla vigilia della prima punica,
110 sgg.; governo, 111; vita economica, 110-12; regime commerciale
di monopolî, 112; ordinamento militare, 111, 112, 174; e la prima
punica (264-241 a. C.), 121 sgg.; alleata di Siracusa, 121; assedia
Messina (264 a. C.), 121; perde la Sicilia e le isole tra la Sicilia
e l’Italia, 130; rivolta di mercenari, 130; i Cartaginesi in Spagna
dopo il 241 a. C., 145 sgg.; seconda Guerra punica (218-201 a. C.),
147 sgg.; C. dispare dal novero delle grandi Potenze (147 a. C.); dopo
la seconda punica, 214; risurrezione economica, 214; e Massinissa,
214, 215; e la Sardegna, 27, 28, 110, 117; commercio cartaginese nella
Sardegna romana, 214; rivolgimenti politici (151-150 a. C.), 215;
guerra con Massinissa, 215; esordi della seconda punica, 216-217;
la terza Guerra punica (149-146 a. C.), 217 sgg.; vinta e distrutta,
222; il territorio cartaginese, provincia romana (146 a. C.), 222-23;
conseguenze della distruzione di C. nel mondo mediterraneo; colonia
_Giunonia_, 253-54; e abrogazione della legge relativa, 256.

_Casilino_, presa da Annibale, 161.

_Cassio_ (Spurio) (cons. 493 a. C.), 29; e la guerra col Lazio, 29.

_Cassio_ (L. Longino) (cons. 107 a. C.), sconfitto dai Tigurini, 274-75.

_Cassio_ (L.) pretore; spedito a Giugurta, 265.

_Catone_. V. _Porzio_.

_Caudio_, 77.

_Cavalieri_, in Roma, 137, 249; crescente importanza, 228, 229; e
la legge agraria sempronia, 237; ottengono la giurisdizione penale,
249; e l’appalto dei tributi della provincia d’Asia, 250; contro C.
Gracco, 255; in Numidia, 264, 269; parteggiano per C. Mario, 271, 311;
abbandonano il partito popolare (100 a. C.), 291; si riconciliano
con la nobiltà senatoria, 296-297; nuova rottura coi senatori, 297;
accusano P. Rutilio Rufo (93 a. C.), 298; nelle leggi di Livio Druso
(91 a. C.), 299; nuova coalizione col Senato, 299, 300; rottura col
Senato dopo il processo di Rutilio Rufo, 310; avversano Silla, 310,
311; e le leggi sulpicie, 312; e le leggi cornelie dell’88 a. C., 315;
perdono il potere giudiziario, 334; Silla contro i cavalieri, 335, 337,
n. 7; rimessi nei tribunali (70 a. C.), 353. V. _Mercatores_.

_Cecilio_ (Q. Metello) (cons. 251 a. C.), sconfitto presso Palermo, 128.

_Cecilio_ (Q. Metello) (pretore, 149 a. C.), 219; contro Andrisco, 219;
reprime l’insurrezione della Macedonia (148 a. C.), 219; vince la Lega
achea, 223.

_Cecilio_ (Q. Metello), figliuolo del prec., conquista le Baleari (121
a. C.), 260.

_Cecilio_ (Q. Metello Numidico) (cons. 109 a. C.) generale contro
Giugurta (109 e 108), 269; sconfigge Giugurta, 269; suo conflitto
con Mario, 271; sostituito nel comando della Guerra di Numidia, 272;
trionfa, 274; candidato dell’aristocrazia al consolato pel 100 a. C.,
288; in esilio, 290; richiamato, 292.

_Cecilio_ (Q. Metello Pio) nel Sannio, 318; in difesa del senato contro
Cinna, 318; nella prima Guerra civile, 329, 330; sconfigge Norbano a
Faenza, 331.

_Celesiria_, occupata dai Tolomei, 110; dai Romani, 162.

_Celio_, 16, 17.

_Celti_. V. _Galli_.

_Celtiberia_ (in Spagna), insurrezione del 154 a. C., 213; e Sertorio,
340.

_Cenomani_ (Galli), 141

_Censori_, origine della magistratura, 42; suoi uffici, 42, 137;
aboliti da Silla, 335; ristabiliti nel 70 a. C., 354.

_Censura_. V. _Censori_.

_Centuria_, nell’esercito romano primitivo, 15; nella costituzione
serviana, 20; nella riforma del 241 a. C., 132. V. _Comizi centuriati_.

_Cheronea_ (in Beozia), battaglia (86 a. C.), 320, 321.

_Chersoneso tracico_, 178; ad Eumene, re di Pergamo (189 a. C.), 192.

_Chio_, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

_Chiusi_, assediata dai Galli, 5.

_Cilicia_, conquistata da Tigrane, 353; dominio dei pirati, 342;
provincia romana, 345, 358, 359.

_Cilnio_ (C. Mecenate), d’origine etrusca; pubblicano a Roma, 296.

_Cimbri_, invadono l’Illiria e assalgono i Taurisci, 263; sconfiggono
Cn. Papirio Carbone (113 a. C.); invadono la Gallia transalpina (109
a. C.), 268; si congiungono ai Teutoni, 274; e ai Tigurini, invadendo
di nuovo la Gallia, 276-77; sconfiggono i Romani ad _Arausium_ (6
ottobre 105 a. C.), 277; invadono la Spagna (104 a. C.), 279; invadono
l’Italia, 284-85; sconfitti e distrutti ai _Campi Raudii_ (30 luglio
101 a. C.), 285.

_Cinocefale_, battaglia (197 a. C.), 185.

_Cipro_, sotto i Tolomei, 110.

_Circei_, 28, 29.

_Circo Massimo_, 17.

_Cirenaica_, 294; sotto i Tolomei, 110; in eredità a Roma, 294.

_Cirta_, cittadina numidica, 263; assediata e presa da Giugurta, 263,
264; commercianti italici a C., 264.

_Cittadinanza_ (romana); _civitas cum suffragio_, 70; _sine suffragio_,
70-71; e i municipi romani, 114-15; la c. r. agli Italici, 131, 296,
300-301; Silla toglie la c. r. a molti municipi, 336.

_Chio_, contro Filippo V, 178.

_Cicladi_, 178.

_Cinna_, V. _Cornelio_.

_Cizico_, contro Filippo V, 178; assediata da Mitridate, 346.

_Claudio_ (Appio) (cons. nel 264 a. C.), e la prima campagna della
prima punica (264 a. C.), 121 sgg.

_Claudio_ (Appio, Cieco) (censore, 312-308), sua opera, 83 sgg.;
durante la guerra tarantina, 104; tentativi contro le sue riforme, 139.

_Claudio_ (Appio) (cons. 143 a. C.), vince i Salassi, 231; suocero di
Tiberio Gracco, 237; uno dei _tresviri agris adsignandis_, 239.

_Claudio_ (Appio), decemviro, 38, 47.

_Claudio_ (C. Nerone) (cons. 207 a. C.), 167; contro Annibale, 168;
si congiunge con l’esercito di Livio Salinatore, 168; vince Asdrubale,
168.

_Claudio_ (M. Marcello) (cons. 152 a. C.), conclude la pace coi
Celtiberi, 213.

_Claudio_ (M. Marcello) (pretore, 216 a. C.), 161; guerreggia in
Campania Annibale, 161; destinato in Sicilia (214 a. C.), 162; assedia
Siracusa, 163; e la prende, 164 (212 a. C.), 164; sua morte (208 a.
C.), 167.

_Cloaca Massima_, 19.

_Clodio_ (P.) (cons. 250), battuto presso Trapani, 128.

_Clodio_ (P.), sobilla i soldati contro Lucullo, 356.

_Clupea_, 126, 127.

_Colchide_, Mitridate in, 360; invasa da Pompeo, 361; nuovi re in, 362.

_Colonie_, romane, carattere, 113; magistrati, 113; forza numerica,
113; latine, 113; ordinamento, 113; diritti civili e politici, 113-14;
forza numerica, 114; dopo la seconda punica, 195; colonie proposte da
C. Gracco e loro carattere, 253-254. V. _leges_ (_de coloniis_); e la
Guerra sociale, 302; militari, nel Sannio, in Campania, in Etruria,
333.

_Comizi centuriati_, 21; dopo la caduta della monarchia, 32; riforma
di Appio Claudio, 84-85; riforma dei C., (241 a. C.), 130-132; 143,
n. 1; riforma di Silla, 334; _curiati_, e loro ufficio, 15, 20; dopo
la caduta della monarchia, 32; _tributi_, eleggono i tribuni plebei,
35; gli artigiani e i C. t., 84, 85; e le leggi _Valeria Horatia_ (444
a. C.) e _Publilia_ (334 a. C.), 95; e le riforme di Appio Claudio
(312-308 a. C.), 85; e la legge _Hortensia_ (287 a. C.), 95-94; riforma
di Silla, 334.

_Commercio_, del Lazio primitivo, 8, 18-19, 21; decadenza del commercio
romano dopo la fine della monarchia, 28; ripresa dopo la Guerra
tarantina, 119; commercio romano nell’Adriatico, 134-35; nella seconda
metà del III sec. a. C., 136; nella prima metà del II sec. a. C.,
195-96; nell’età di Mario e Silla, 295.

_Consolato_. V. _Consoli_.

_Consoli_, 32; eletti dai comizi centuriati, 32; e la legge Canuleia,
40; lotta plebeo-patrizia pel consolato, 42; e la legge licinio-sestia
(367 a. C.), 57; i plebei al consolato, 58; intervallo fra due
consolati stabilito da Silla, 335.

_Coorte_, 280.

_Corcira_, nella confederazione italica, 135.

_Corfinium_ nel paese dei Peligni, 303; capitale degli Italici durante
la Guerra sociale, 303.

_Corfù_, occupata da Pirro, 101.

_Corinto_, e la prima Guerra illirica, 135; piazzaforte macedone in
Grecia, 185; distrutta (146 a. C.), 223-24; ragioni della distruzione,
225; conseguenze sulla economia del mondo mediterraneo, 228.

_Cornelio_ (P. Scipione) (cons. 218 a. C.), 150; nella Cisalpina, 150;
a Marsiglia, 150; a Pisa, 151; battuto presso il Ticino, 151; si ritira
a Piacenza, 152; poi alla Trebbia, 152; in Spagna; sua morte (211 a.
C.), 165.

_Cornelio_ (Cn. Scipione), fratello del precedente, 151; in Spagna,
151; taglia le comunicazioni con l’Italia e la Spagna, 154; sua morte
(211 a. C.), 165.

_Cornelio_ (P. Scipione Africano), alla battaglia del Ticino (218
a. C.), 151; carattere e popolarità, 166; proconsole (210 a. C.); in
Spagna (209 a. C.), 166; prende Cartagena, 167; vince a _Baecula_ (206
a. C.), 169; e ricomincia la riconquista della Spagna, 169; console
(205 a. C.), 169; suo disegno di invasione dell’Africa cartaginese,
169, 170; parte per l’Africa (204 a. C.), 170; assedia Utica, 170;
vince Siface e i Cartaginesi, 170, 171; trattative di pace, 170; vince
presso Zama (202 a. C.), 171 sgg.; sua politica dopo la seconda punica,
188-89; proconsole nella guerra contro Antioco (170 a. C.), 171;
accusato di perduellione, 202, 209, n. 4; in volontario esilio, 202-3.

_Cornelio_ (L. Scipione) (console 190 a. C.), fratello del precedente
e generale supremo contro Antioco, 171; accusato di appropriazione
indebita, 202, 209, n. 4.

_Cornelio_ (P. Scipione Emiliano), tribuno militare in Africa, 220;
carattere e valore, 220; console (147 a. C.), 220; generale romano
nella terza punica, 221; vince e distrugge Cartagine, 222-23; suo
partito in seno alla nobiltà, 230; in Oriente, 234; console (134 a.
C.) e generale in Spagna, 235; suo giudizio su Tiberio Gracco, 243;
distrugge Numanzia (133 a. C.), 244; riordina la Spagna, 244; e gli
italici, 245; sua morte improvvisa, 247.

_Cornelio_ (P. Scipione Nasica), contro i Graccani, 242-43.

_Cornelio_ (L. Silla), questore di Mario, 273; tratta con Bocco per la
cattura di Giugurta, 276; nella Guerra cimbrica, 309; pretore (102 a.
C.), rimette sul trono Ariobarzane, 294; console (88 a. C) e generale
contro Mitridate, 309; aborrito e avversato dai cavalieri, 310-11;
marcia da Nola su Roma, 313-14; sue leggi, 315; in Grecia (primavera
dell’87 a. C.), 316; _hostis publicus_, 318; saccheggia la Grecia 319;
vince Archelao a Cheronea (86 a. C.), 320; accordo tacito con Valerio
Flacco?, 321, 322, 337, n. 2; vince Dorilao a Orcomeno (86 a. C.), 322;
corrompe Archelao, 323; stipula la pace di Dardano con Mitridate (85 a.
C.), 323-24; in Asia e in Grecia (85-83 a. C.), 325, 326; tratta col
governo democratico di Roma, 325; cambia il sistema d’esazione delle
imposte in Asia, 326; prima Guerra civile (83-82 a. C.), 326 sgg.;
suo ritorno in Italia (83 a. C.), 328; sconfigge Norbano, 328; padrone
dell’Italia meridionale, 328-329; occupa Roma, 329; combatte Carbone,
presso Chiusi, e la Cisalpina gli si arrende, 331; grande repressione
in Italia, 333; dittatore (82-79 a. C.), 334 sgg.; si ritira a vita
privata, 337; muore a Pozzuoli (79 a. C.), 337; suo pensiero politico,
334; sue _Memorie_, 337; l’opera di Silla distrutta (70 a. C.), 354.

_Cornelio_ (L. Cinna), cons. I (87 a. C.), 315; ripropone le leggi
sulpicie, 317; sua fuga, 318; a Capua; torna in Roma, 318; cons. II (86
a. C.), 317; trucidato dai soldati, 326.

_Cornelio_ (L. Scipione Asiatico) (cons. 85 a. C.), bisnipote del
vincitore di Antioco, 327; deposto da Silla, si ritira a Marsiglia,
328.

_Cornelio_ (Dolabella), un sillano, accusato da Cesare, 347.

_Cornelio_ (Cn. Lentulo), censore (70 a. C.), 354.

_Corseoli_, colonia dei Romani, 91.

_Corsica_, e Roma regia, 18; possesso cartaginese, 110, 117; guerra in
C. (259-57 a. C.), 125; provincia romana, 133.

_Cortona_, 87.

_Cremona_, colonia romana (218 a. C.), 142.

_Creta_, sotto i Tolomei, 110.

_Crotone_, 2; occupata dai Romani, 105.

_Cuma_, 2; occupata dai Sanniti, 65; municipio _sine suffragio_, 70-71;
nella seconda punica, 161.

_Curie_, 14, 15, 21; numero, 14; comizi curiati, 15.

_Curio_ (M. Dentato) (cons. 270 a. C.), 94; invade l’Umbria e il
Piceno, 94.

_Cyrus_ (Kur) (Fl.), 361.


_Dalmazia_. V. _Illiria_.

_Damasco_, 362.

_Dardano_ (nella Troade), pace di D. (85 a. C.), 323; sue conseguenze,
341-42.

_Debiti_, questione dei d., 34, 54-55, 61; le leggi licinio-sestie e i
d., 56-57; saggio dell’interesse, 61; il _nexum_ e sua abolizione (326
a. C.), 77; dopo la terza sannitica, 94-95; nella seconda metà del II
sec. a. C., 229; richiamo in vigore delle antiche leggi sui d., 307; le
leggi Cornelie dell’88 a. C., 315; legge Valeria (86 a. C.), 320.

_Decemvirato_, 36 sgg.; ufficio, 36-37; primo decemvirato (451 a. C.),
e sua opera, 37-38; secondo decemvirato (450-449 a. C.), 38-39; fine,
39.

_Decima_ (_decuma_), 133.

_Decio_ (P. Mure) (cons. 297; 295 a. C.), 92; muore a Sentino, 93.

_Decuria_, 15.

_Decurioni_, magistrati delle colonie romane, 113.

_Delo_, emporio romano, 175-76; restituita agli Ateniesi e sua nuova
floridezza, 208; Italici a D., 226; occupata dai generali di Mitridate,
310.

_Demetriade_, piazzaforte macedone in Grecia, 185.

_Demetrio di Faro_, 135; combatte contro Filippo V (220 a. C.), 148.

_Demetrio_, re di Macedonia, 134.

_Dionisio_, tiranno di Siracusa, 110.

_Distribuzioni frumentarie_, introdotte da C. Gracco, 251; le d. fr. e
Livio Druso, 299; abolite da Silla, 335.

_Dittatore_, carattere della magistratura, 41; sua origine, 41.

_Dittatura_. V. _Dittatore_.

_Divicone_, capo dei Tigurini, vince il cons. Longino (107 a. C.),
274-75.

_Domizio_ (Cn. Enobarbo) (censore 92 a. C.), suo editto sulle scuole di
retorica, 298; un democratico, 327.

_Dorilao_, generale di Mitridate, 322.

_Drepano_. V. _Trapani_.

_Duilio_ (C.) (cons. 260 a. C.), vince i Cartaginesi a _Mylae_, 124.

_Duoviri_, magistrati delle colonie romane, 113.

_Duoviri navales_, 85.


_Eacida_, padre di Pirro, 101.

_Ebro_ (Fl.), in Spagna, 146.

_Ecnomo_ (M. S. Angelo), battaglia (256 a. C.), 125.

_Edepo_ (Fl.), battaglia (73 a. C.), 346.

_Edili_ della plebe, 35; curuli, 58.

_Edui_, in amicizia coi Romani, 268.

_Efeso_, emporio commerciale, 321; insorge a favore di Mitridate (87 a.
C.), 321.

_Egadi_, battaglia (242 a. C.), 129.

_Egitto_, sotto i Tolomei, 110; fornisce grano a Roma, 166; decadenza
durante le guerre puniche, 178; Italici in E., 226.

_Eleno_, figlio di Pirro, 107.

_Ellenismo_, in Roma, nel periodo regio, 18-19; dopo la Guerra
tarantina, 118-19; nel II sec. a. C., 197, 226-27; nel I sec. a. C.,
294-95, 296.

_Ellesponto_, possessi dei Tolomei su l’E., 110.

_Emilio_ (L. Paolo) (cons. 216 a. C.), 158; ucciso a Canne, 160.

_Emilio_ (Paolo) (cons. 168 a. C.), 207; del partito tradizionalista,
207; generale per la terza macedonica, 207; vince a Pidna (168 a. C.),
207; si oppone all’annessione della Macedonia, 207.

_Emilio_ (M. Scauro) (cons. 115 a. C.), 312; esclude i liberti
dalle tribù, 312; _princeps senatus_ e ambasciatore a Giugurta, 263;
ufficiale nella guerra contro Giugurta, 264.

_Emilio_ (Q. Barbula) (console 281 a. C.), e Taranto, 100.

_Emilio_ (M. Lepido) (cons. 70 a. C.), 339; propone l’abolizione delle
leggi sillane, 339; in Etruria ad arruolare ribelli, 337; _hostis
publicus_, 340; vinto da Pompeo, 341; fugge in Sardegna e sua morte (77
a. C.), 341; i seguaci di E. L., amnistiati.

_Emilio_ (M. Scauro), in Celesiria, 362.

_Emporie_, 223.

_Enea_, 6, 7.

_Ennio_, 197.

_Epidamno_, nella confederazione italica, 135.

_Epiro_, durante la seconda macedonica, 184; durante la terza
macedonica, 206; saccheggiato dopo la terza macedonica, 208.

_Equi_, 3; guerre con Roma, 29, 30; incursioni a mezzo il secolo V, 36;
nel 449 a. C., 39; dopo l’incendio gallico, 53.

_Eraclea_, battaglia (280 a. C.), 102; occupata dai Romani, 105.

_Erea_, 186.

_Erice_, 128.

_Ermocrate_, generale di Mitridate, 344.

_Ernici_, 3; in lega con Roma, 30; insurrezione, 88.

_Esercito_, di Roma regia, 15; legione, 15, 79; gratuità del servizio,
31; obbligatorietà, 187; soldo ai legionari, 48-49; il bottino, 31;
modificazioni durante la seconda Guerra sannitica, 79; manipoli,
79; cavalleria, 79; suoi elementi, 187; condizioni durante e dopo
la seconda macedonica, 187, 188, 201; durante la terza macedonica,
206; crisi dell’esercito romano di coscrizione, 187, 206; ulteriore
decadenza dopo la terza macedonica, 212, 229-30; corruzione degli
eserciti romani di Spagna, 235; riforma di Mario e sua portata, 272-73,
279-80; armamento secondo le riforme di Mario, 280; il nuovo esercito,
313-14; colonie militari, 333. V. _Veterani_; _Coorte_.

_Esernia_, città del Sannio, distrutta, 333.

_Esino_ (Fl.), 97.

_Esquilino_, 19.

_Etoli_, lega etolica, 164; e la prima Guerra illirica, 135; mercenari
etoli, 178; nemici della Macedonia, 182; alleati di Roma nella seconda
macedonica, 164; pace con Filippo V (205 a. C.), 169; durante la
seconda Guerra macedonica, 183; alleati di Roma, (199 a. C.) 183, 184;
dopo la seconda macedonica, 186; contro la politica romana in Grecia,
189; invocano Antioco di Siria, 189; guerra con Roma, 191; discordie
interne, 204; notabili etoli avversi a Roma, trucidati, 208.

_Etruria_, 3-4, e i Tarquinii, 18; Etruria e Roma, 18-62; l’E.
meridionale sottomessa a Roma, 49, 54, 87; decadenza nel III sec. a.
C., 109; invasa dai Galli (225 a. C.), 141; colonie militari in E.,
333; insurrezione dei coloni sillani, in E., 338; repressione della
rivolta, 341.

_Etruschi_, 3. V. _Etruria_; territorio, 3; dominio, 3; civiltà, 3-4;
città, 4; ordinamento politico, 4; in Campania e nel Lazio, 9-10; e
Roma, 9-10, 18; in Roma, 12; prime guerre con Roma, 27; minacciati da
Greci, Sanniti, Celti, 47; contro il Lazio dopo l’incendio gallico,
53; guerra etrusco-romano-sannitica (311-310 a. C.), 86, 88; nuova
sottomissione a Roma (294 a. C.), 93; nuova insurrezione (285-283 a.
C.), 96-97; e la Guerra sociale, 302, 303.

_Eubea_, attaccata dalla flotta romana (199 a. C.), 183; gli Eubei
alleati della lega achea, 223.

_Eumene_, re di Pergamo, alleato dei Romani, nella guerra siriaca,
191; alla battaglia di Magnesia, 192; ottiene il Chersoneso Tracico, la
Lidia, la Frigia e parte della Caria (189 a. C.), 192; dopo la Guerra
siriaca, 205; incita Roma alla terza macedonica, 205; alleato di Roma
nella terza macedonica, 206; sospettato a Roma, 208.

_Eupatoria_, città del Ponto, 349.


_Fabio_ (Q. Massimo), sua carriera, 156; dittatore (217-16 a. C.), 156;
in Apulia, 157; depone la dittatura (216 a. C.), 158.

_Fabio_ (Q. Massimo Serviliano) (cons. 141 a. C.), in Spagna, 232;
conclude la pace con Viriato, 232.

_Fabio_ (Q. Rulliano) (cons. 310 a. C.), invade l’Etruria, 87; (cons.
297 e 295 a. C.), 92; vince a Sentino, 92.

_Farisei_, 363.

_Farnace_, figlio di Mitridate, ribelle al padre, 363; riceve il regno
della Tauride, 364.

_Felsina_, 4.

_Fenicia_, occupata da Tigrane, 353; dai Romani, 362.

_Ferento_, 79.

_Feriae imperativae_, 312.

_Feziali_, 14.

_Fidene_; Veio, Roma e F., 46; distruzione, 46.

_Fiesole_, città etrusca, 4.

_Filippo V_, re di Macedonia, 148; guerreggia Demetrio di Faro (220 a.
C.), 148; si allea con Annibale, 160, 161; la prima Guerra macedonica
(215-205 a. C.), 162, 164, 167, 169; pace con Etoli e con Romani (205
a. C.), 169; seconda Guerra macedonica (200-196 a. C.), 177 sgg.; si
allea con Antioco il Grande, 178; sue mire sull’Egitto, 178; occupa le
Cicladi, il Chersoneso tracico e la Bitinia, 178; invade l’Attica, 178,
179, 183; alleato con Roma durante la guerra siriaca, 190 sgg.; tenta
di espandersi nuovamente in Grecia e in Tracia, 204; si amica i barbari
d’oltre Danubio, 204-05; muore (179 a. C.), 205.

_Fimbria_, luogotenente di Valerio Flacco, 322-23; generale democratico
contro Silla, 323; invade l’Asia e occupa Pergamo (85 a. C.), 324;
vinto da Silla e suicida (85 a. C), 324.

_Flamini_, sacerdoti romani, 14; delle colonie romane, 113.

_Flaminino_. V. _Quinzio_.

_Flaminio_ (C.) (tribuno della pl. 233 a. C.), 140; legge agraria, 140;
(cons. 223 a. C.), 142; (cons. 217 a. C.), 154; a Fiesole, 155; battuto
e ucciso al Trasimeno, 155-156.

_Focesi_, 223.

_Fondi_, 70.

_Forche Caudine_, 77-78.

_Formia_, 70.

_Foro romano_, 9.

_Fossa Mariana_, 283.

_Fregellae_ (Ceprano), colonia romana, 72; rioccupata dai Sanniti, 78;
ripresa dai Romani (313 a. C.), 80; insurrezione, 248.

_Frentani_, 3.

_Frigia_, possesso dei re di Pergamo (189 a. C.), 192.

_Fulvio_ (Flacco) (cons. 125 a. C.), sua legge per la cittadinanza agli
Italici, 247.

_Fulvio_ (Q. Nobiliore) (cons. 153 a. C.), disfatto in Celtiberia, 213.

_Furio_ (M. Camillo), e la distruzione di Veio, 49.


_Gabinio_ (Aulo), tribuno della pl. (67 a. C.), 358; _lex Gabinia_,
358; inviato da Pompeo in Fenicia, 362.

_Gaeta_, origine del nome, 6.

_Galati_, alleati di Antioco, 191; invadono la Grecia, 310.

_Galazia_, 293; i tetrarchi della G., 362; riordinata da Pompeo, 364.

_Galli_, nell’Italia nord, 47; i _G. Senoni_, loro territorio, 97; in
Toscana e nel Lazio, 50-51; incendiano Roma e assediano il Campidoglio,
51; sgomberano Roma, 52; cronologia dell’invasione, 58, n. 1; invasioni
del 360 e 348 a. C., 62; nella terza sannitica, 92-93; i Galli
assediano Arezzo e muovono contro il Lazio (285 a. C), 96; Roma ne
occupa il territorio, 97; i G. soldati mercenari, 122; guerra con Roma
(225-222 a. C.), 141 sgg.; durante la seconda punica, passano dalla
parte dei Cartaginesi, 152, 154; arrolati da Asdrubale, 167; da Magone,
169; continuano la guerra con Roma, 179, 182; razzie nel territorio
di Marsiglia, 260; e nuova guerra con Roma, 260; i G. nella valle
del Danubio, 281; i G. d’Asia Minore. V. _Galati_; _Arverni_; _Edui_;
_Insubri_.

_Gallia Cisalpina_, occupata da Roma (224-222 a. C.), 141-142; causa
della seconda punica, 147-48; guerra nella C., (216 sgg.), 158, 179,
187, 190; progressi economici, 302; e la Guerra sociale, 302; ammessa
alla cittadinanza latina (89 a. C.), 305; insurrezione dopo la morte
di Silla, 340; e repressione, 341. _Narbonese_, provincia romana, 260;
invasa dai Tigurini (107 a. C.), 274; insurrezione contro i Romani,
271, 275; pacificata, 275, 279. _Transalpina_, invasa dai Cimbri (109
a. C.), 268. V. _Arverni_; _Edui_.

_Gaziura_, città del Ponto, 357.

_Gellio Egnazio_, 92; muore a Sentino, 93.

_Gellio_ (L.), censore (70 a. C.), 354.

_Gempsale_. V. _Iempsale_.

_Genova_, presa da Magone (205 a. C.), 169.

_Genti_, 14; composizione, 14-15; le g. e l’esercito romano, 15.

_Gerone_, tiranno, poi re di Siracusa, 116, 122; alleato di Roma, 122,
128, 154; sua morte, 162.

_Geronimo_, nipote di Gerone, 162; si allea con Cartagine, 162; ucciso,
162-163.

_Gerusalemme_, assediata e presa da Pompeo, 363.

_Getuli_, alleati di Giugurta, 269.

_Giudea_, indipendente dai Seleucidi, 362; guerre civili, 362-363;
annessa alla provincia di Siria, 363.

_Giugurta_, figlio naturale di Massinissa, 261; in Spagna, 261,
262; amico di Scipione Emiliano, 261-62; uccide Iempsale e scaccia
Aderbale, 261; corrompe il Senato romano? 261-62, 263; nuova guerra ad
Aderbale, 263; protetto dalla nobiltà senatoria, 263-264; attaccato
dai democratici, 264; guerra giugurtina, (117-106 a. C.), 264 sgg.;
chiede pace ai Romani, 264-65; i comizi rifiutano la pace, 265;
invitato a Roma, 265-266; fa uccidere Massiva, 268; espulso da Roma,
267; sconfigge Sp. Postumio Albino, 267; è sconfitto da Metello, 269;
la guerra e i partiti in Roma, 269-72; sconfitto da Mario, si rifugia
in Mauretania, 274; consegnato a Mario (105 a. C.), 276; è fatto morire
nel carcere Tulliano, 278.

_Giulio_ (L. Cesare) (cons. 90 a. C.), contro gli Italici, 303; sua
legge per la cittadinanza agli Italici, 304.

_Giulio_ (C. Cesare) (100-44 a. C.), famiglia e carriera, 347; un
Mariano, 347; discorde dai Mariani di Spagna, 347; e la legge Manilia,
360.

_Giunio_ (M. Silano) (cons. 109 a. C.), spedito contro i Cimbri e
sconfitto, 268.

_Giunio_ (L. Pullo) (cons. 259 a. C.), 128.

_Giunio_ (M. Penno) (trib. pl. 126 a. C.), propone di espellere da Roma
i Latini, 247.

_Giunio_ (L. Bruto), console nel 510 o 509 a. C., 43.

_Giunio_ (M. Bruto), un nobile, complice di Lepido, 339, 341.

_Giunonia_, colonia romana a Cartagine, 253; abrogazione della legge
relativa a questa colonia, 256.

_Gladiatori_, scuola di gl. a Capua, 350.

_Gordiana_, 356.

_Graccani_, dispersi dalla reazione, 243; ricostituzione del partito,
247; nuova reazione dopo il 121 a. C., 257.

_Gracco_. V. _Sempronio_.

_Grecia_, e Roma, dopo la prima Guerra illirica, 135-36; indipendente
dalla Macedonia (196 a. C.), 186; città greche asiatiche liberate
dopo la Guerra siriaca (189 a. C.), 192; persecuzioni dopo la terza
macedonica, 208; incorporata alla provincia di Macedonia (146 a.
C.), 224; e Mitridate, 307, 308, 309; invasa da Traci e Galli, 310;
molestata dai barbari del nord, 342; mercenari greci, 126, 307.

_Guerre_: _Cimbrica_. V. _Cimbri_ e _Teutoni_. _Civile_ (_Prima_)
(85-83 a. C.), 326 sgg. In Italia, V. _Roma_. _Giugurtina_, V.
_Numidia_; _Giugurta_. _Macedoniche_, V. _Roma_; _Macedonia_.
_Mitridatiche_. V. _Mitridate_, _Puniche_, V. _Roma_; _Cartagine_.
_Siriaca_, V. _Roma_; _Antioco IIIº_. _Sociale_ (90-88 a. C.), 302
sgg., 305. _In Spagna_, V. _Spagna_.


_Hadria_ (Atri), colonia (290 a. C.), 94.

_Hadrumetum_, 174.

_Hostis publicus_, 315, 318, 329.


_Iberia_ (Georgia), conquistata da Tigrane, 253; invasa da Pompeo (65
a. C.), 361.

_Illiria_ (Dalmazia), principato indipendente, 134; guerra con Roma,
135; durante la seconda punica, 162, 163; i Romani occupano l’I. (200
sgg. a. C.), 183; possessi macedoni in I., 185; perduti dopo la seconda
macedonica, 185-186; durante la terza macedonica, 206; gli Illirî
alleati di Mitridate, 281.

_Illiri_, V. _Illiria_.

_Iempsale_ figlio di Micipsa e re di Numidia, 261; fatto uccidere da
Giugurta, 261.

_Imperium_, 32.

_Industria_, nel Lazio primitivo, 8, 12, 19, 21; la seconda sannitica e
l’i. romana, 82.

_Insubri_, 142; assalgono Piacenza e Cremona (218 a. C.), 150.

_Interamna sul Liri_ (Teramo), colonizzata dai Romani, 80.

_Ippona_, 223.

_Ircano_, pretendente al trono di Giudea, 363.

_Italia_, nell’VIII sec. a. C., 1 sgg.; forze militari nella seconda
metà del III sec. a. C., 149; durante la seconda punica, 165-66; Italia
e Macedonia, dopo la seconda punica, 179-81. V. _Roma_.

_Italici_, 2-3; nell’esercito romano, 187; e l’_ager publicus_, 195;
e il commercio nei primi del sec. II a. C., 195; a Delo, in Asia,
in Egitto, 226; e la legge agraria sempronia, 236-237, 245, 246-47;
proposta di cittadinanza agli I. (125 a. C.), 247; la legge sempronia
sulla cittadinanza agli I., 254-55; Livio Druso e gli I., 255; legge
livia sulla cittadinanza agli I., 300-01; inchiesta contro gli I.,
301; la Guerra sociale e suo carattere, 301-02; concessione della
cittadinanza agli I. (90 e 89 a. C.), 304-05; massacrati in Asia, 308;
distribuiti in solo 8 o 10 tribù, 308; nell’esercito di Mitridate, 309;
e la legge sulpicia (88 a. C.), 312; e Cinna, 318; distribuiti in tutte
le 35 tribù, 318, 327.

_Ius commercii_, 113.

_Ius connubii_, 113.


_Lacinio_ (C.), 99; altare a Giunone presso, 171.

_Lagidi_ (=Tolomei) re d’Egitto, 178.

_Lanuvio_, 70.

_Latini_, 2, 3; antichi L., 8; _Prisci Latini_, 16; insurrezione e
autonomia (.... 493 a. C.), 29-30; i L. e Roma dopo l’incendio gallico,
62; Lega latina e insurrezione contro Roma (340-38 a. C.), 68 sgg.;
assoggettamento a Roma, 70-71; e l’_ager publicus_, 195; e la legge
agraria sempronia, 236-237, 245, 246-47; e la cittadinanza romana,
246; minacciati di espulsione da Roma, 247; e la Guerra sociale, 302;
insurrezione alla morte di Silla. V. _Lazio_.

_Laurento_, 28.

_Lautule_, battaglia (315 a. C.), 80.

_Lavori pubblici_, in Roma nell’età regia, 19; in sulla fine del IV
sec. a. C., 83; in Italia, nella prima metà del II sec. a. C., 184; in
Roma nella prima metà del II sec. a. C., 196; e C. Gracco, 251.

_Lazio_, 3, 7; economia del L. primitivo, 8, 24, n. 1, V. _Latini_.

_Leggi_: _Acilia de repetundis_ (123 a. C.), 250. _Agrarie_:
licinio-sestia (367 a. C.), 56-58, 59, n. 4; flaminia (233 a. C.),
140; proposta di C. Licinio Crasso, 230; di C. Lelio, 231; sempronia
(133 a. C.), 236 sgg., 253-260; Apuleia (100 a. C.), 288. _Apuleiae_,
V. _Apuleio_. _Aurelia_, v. _Aurelio_ (C. Cotta). _Canuleia_ (444 a.
C.), 40. _Claudia_ (218). _Didia Cibaria_ (143 a. C.), 227. _Cornelia
Pompeia_ _unciaria_ (88 a. C.), 315. _Cornelia Pompeia de sponsu_ (88
a. C.), 315. _de coloniis_, di C. Gracco, 253-254; di Saturnino (100
a. C.), 288-89; di Livio Druso (121 a. C.), 255; di Druso il giovane
(91 a. C.), 299. _de maiestate_, 289, 290. _Domitia de sacerdotibus_
(103 a. C.), 1; abolita da Silla, 335. _Fannia_, 227. _Frumentariae,
sempronia_ (123 a. C.), 251, 253; _livia_ (91 a. C.), 299. _Gabinia_
(67 a. C.), 358. _Hortensia_ (287 a. C.), 93, 95. _Iudiciariae
Sempronia_ (123 a. C.), 250; _Livia_ (91 a. C.), 299; _Plautia_ (89
a C.), 304-05. _Iulia de civitate sociis danda_ (90 a. C.), 304.
_Licinio-Sestie_ (367), 56-58, 59, n. 4; conseguenze, 81. _Manilia_
(67 a. C.), 360. _Militaris sempronia_ (123 a. C.), 251-52. _Oppia_,
197; abolita (125 a. C.), 197. _Plautia-Papiria de civitate_ (89 a.
C.), 304; _Plautia iudiciaria_ (89 a. C.), 304-5; _Publilia_ (334 a.
C.), 95. _Servilia iudiciaria_, 275. _Sulpicie_, 311-12, 315, 317-18.
_Terentilia_ (462 a. C.), 36. _Valeria-Horatia_ (444 a. C.), 95.
_Valeria_ sui debiti (86 a. C.), 320. _Viaria, Sempronia_ (121 a. C.),
251.

_Legione_, 15; riforme di Mario, 279-80.

_Lelio_ (C.), amico e legato di Scipione Emiliano, 231; sua proposta di
legge agraria, 231; sopranominato _Sapiens_, 231.

_Leptis Magna_, 223.

_Lesbo_, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

_Leucopetra_, battaglia (146 a. C.), 223.

_Liberti_, in Senato, 84; esclusi dalle tribù (115 a. C.), 312;
arrolati per la Guerra sociale, 303; e la legge sulpicia (88 a. C.),
312; nella prima Guerra civile, 333-34.

_Libî_, 111; e Cartagine, 111, 112.

_Libo-Fenici_, 111; e Cartagine, 111, 112.

_Licia_, Lega licia, 191; alleata di Antiochio, 191; ai Rodii (189 a.
C.), 197.

_Lidia_, assediata ad Eumene, re di Pergamo (189 a. C.), 192.

_Licinio_ (C. Stolone), le leggi Licinio-Sestie, 56 sgg.

_Licinio_ (L. Lucullo) (cons. 151), assale i Vaccei, 213.

_Licinio_ (C. Crasso) (trib. pl. 145 a. C.), e sua legge agraria, 230.

_Licinio_ (L. Crasso) (censore, 91 a. C.), suo editto sulle scuole di
retorica, 298.

_Licinio_ (M. Crasso), un ricco sillano, 329, 351; vince a Porta
Collina (1 nov. 82 a. C.), 332; pretore (71 a. C.), incaricato della
guerra contro Spartaco, 350, 351; vince gli eserciti di Spartaco, 351;
si presenta al consolato del 70 a. C., 352; opposizione del Senato,
352; accordo con Pompeo e coi democratici, 352; console (70 a. C.),
352; demolisce le riforme di Silla, 354; discordia con Pompeo, 355.

_Licinio_ (L. Lucullo), famiglia e carriera, 344; ufficiale di Silla,
319, 344-45; raccoglie una potente flotta, 324; durante la prima Guerra
civile, 345; pretore in Africa, 345; cons. (74 a. C.), 345; proconsole
della Cilicia, 345; al comando della nuova guerra contro Mitridate,
345; sua strategia, 346; vince al Rindaco e sull’Edepo, 346; invade il
Ponto (73 a. C.), 349; sconfigge definitivamente Mitridate (72 a. C.),
350; e i pubblicani di Asia, 351; invade l’Armenia (primavera 69 a.
C.), 353, 355; assedia e prende Tigranocerta, 355; ridona ad Antioco
la Siria, 355; suoi disegni, 356; privato della provincia d’Asia, 356;
vince Tigrane all’Arsaniade, 357; privato della provincia di Cilicia,
357; destituito, 359.

_Licinio_ (M. Lucullo), fratello di Lucio, nella seconda Guerra
mitridatica, 348; proconsole in Macedonia, conquista la Tracia (72 a.
C.), 350.

_Liguri_, 3; soldati mercenari, 122, 169; infestano le vie marittime
tra Italia e Spagna, 179.

_Lilibeo_ (Marsala), fortezza cartaginese in Sicilia, 106, 128, 129.

_Livio Andronico_, 119.

_Livio_ (M. Salinatore) (cons. 207 a. C.), 167; contro Asdrubale, 167;
vince Asdrubale, 168.

_Livio_ (Druso) (trib. pl. 122 a. C.), 255; contro C. Gracco, 255; sue
leggi, 255.

_Livio_ (M. Druso) (trib. pl. 91 a. C.), forse figliuolo del Druso
avversario di C. Gracco, 298; suo programma, 298; sue leggi, 299-300,
300-301; giudizio su L., 300; e gli Italici, 300; sua morte (91 a. C.),
301.

_Locresi_ (gli abitanti della Locride, nella Grecia centrale), alleati
della Lega achea, 223.

_Locri_, nella Magna Grecia, 2; e Roma, 98; occupata da Roma durante la
Guerra tarantina, 105.

_Lucani_, 3; combattuti da Alessandro il Molosso, 72; nella seconda
Sannitica, 74, 76; attaccati dai Sanniti (299 a. C.), 91; alleati
dei Sanniti (296 a. C.), 92; L. e Greci, dopo la seconda sannitica,
95; contro Roma (285 a. C.), 96-97, 98, 99; alleati di Pirro, 103;
perdono parte del territorio dopo la Guerra tarantina, 108; passano
ad Annibale, 160; Annibale sgombra il paese dei L. (207 a. C.), 169;
e Mitridate, 308; insurrezione durante la prima Guerra civile, 330;
marciano su Roma (82 a. C.), 331-32; sconfitti da Appio Claudio e da
Silla a Porta Collina (1 nov. 82 a. C.), 332.

_Lucania_. V. _Lucani_.

_Lucera_, occupata dai Romani (320 a. C.), 78; scaccia la guarnigione
romana (315 a. C.), 80; colonizzata (314 a. C.), 80.

_Luceres_, 9.

_Lucrezia_, 22-23.

_Lucullo_. V. _Licinio_.

_Lucumoni_, 4.

_Lucca_, colonia latina, 195.

_Luni_, colonia romana, 195.

_Lusitani_ (in Spagna), insurrezione (152 a. C.), 213, 221; domata,
232; trapiantati a Valenza, 232; e Sertorio, 340.

_Lutazio_ (C. Catulo) (cons. 242 a. C.), vince alle Egadi, 129.

_Lutazio_ (Q. Catulo), sconfitto dai Cimbri (101 a. C.), 285.

_Lutazio_ (A. Catulo) (cons. 78 a. C.), 340; incaricato della
repressione della insurrezione di Lepido, 340.

_Lyssos_ (Alessio), 135.


_Macare_, figlio di Mitridate e vicerè della Tauride.

_Macedonia_, Pirro e la M., 101; prima Guerra macedonica (215-05 a.
C.), 162, 164, 167, 169; seconda Guerra macedonica (200-196 a. C.),
179 sgg.; la M. e l’Italia dopo la seconda punica, 179, 181; guerra
in M. (198 a. C. sgg.), 183, 184; dopo Cinocefale, 185-86; smembrata
in quattro principati con divieto di commercio e di connubio, 207-08;
imposte, 208; miniere d’oro, 208; conseguenze dello smembramento, 218;
insorge (149 a. C.), 218; è domata, 219, 221; provincia romana (147
a. C.), 221; pubblicani in M., 226; popolazioni barbariche della M.,
alleate di Mitridate, 307; molestata dai barbari del nord, 342. V.
_Filippo_. V. _Perseo_; _Andrisco_.

_Magistrature_, della Repubblica romana, 31, 32; intervallo
biennale, 335; plebei alle m., V. _Plebei_; Silla aumenta il numero
dei magistrati, 335; e fissa la successione e gl’intervalli fra le
magistrature, 335.

_Magna Grecia_, città della M. G., 2; e Roma regia, 18-19; e i Lucani,
95-96; nel III sec. a. C., 97; passa in parte ad Annibale, 160; e la
Guerra sociale, 302.

_Magnesia ad Sypilum_, battaglia (190 a. C.), 191.

_Magone_, generale punico, in Italia (206-5 a. C.), 169; prende Genova,
169.

_Maleventum_, antico nome di Benevento, 107.

_Mamertini_ e Agatocle, 115-16; occupano Messina, 116; sconfitti da
Gerone, 116; i Romani e i M., 116, 120, 121.

_Manilio_ (M.’) (cons. 149 a. C.), generale contro Cartagine, 216.

_Manilio_ (G.) (tribuno della pl. 67 a. C.), 359; legge Manilia, 360.

_Manipolo_, 79, 279-80.

_Manlio_ (A.), ambasciatore in Grecia, 36.

_Manlio_ (M. Capitolino), difensore del Campidoglio durante l’invasione
gallica, 54; agitazione, da lui promossa in Roma, 54-55; processo e
condanna, 55.

_Manlio_ (L. Volsone) (cons. 256 a. C.), 125.

_Manlio_ (Cn. Massimo) (cons. 105 a. C.), 277; sconfitto ad _Arausium_
(105 a. C.), 277.

_Mantova_, città etrusca, 4.

_Manubiae_, 31.

_Marcio_ (C. Rutilo) (cons. 310 a. C.), sconfitto nel Sannio, 87.

_Marcio_ (L. Censorino) (cons. 149 a. C.), generale contro Cartagine,
216.

_Mario_ (C.), pubblicano impoverito, 234; ufficiale in Spagna, 235; sua
carriera, 269; cons. I (108 a. C.), e generale nella Guerra giugurtina,
269-270, 272; sua riforma militare, 272-273; vince Giugurta; cons.
II (104 a. C.), 278; trionfa (1 genn. 104 a. C.), 278; destinato alla
guerra contro Cimbri e Teutoni, 278; nella Narbonese, 279; cons. III
(103 a. C.), 282; cons. IV (102 a. C.), 283-84; vince i Teutoni e gli
Ambroni, 284; cons. V (101 a. C.), vince i Cimbri, 285; proclamato
terzo fondatore di Roma; cons. VI (100 a. C.), 287, 288; e il partito
democratico, 288, 290-291; dirige la repressione contro i democratici
(dic. 100 a. C.), 291-92; in Oriente, 292; nella Guerra sociale,
303; candidato al comando della Guerra mitridatica, 311-12; _hostis
publicus_, 315; sua fuga in Africa, 315; torna a Roma, 318; cons. VII
(86 a. C.), 319: sua morte, 320.

_Mario_, il giovane, figliuolo del preced., 327; cons. (82 a. C.), 329;
sconfitto e assediato in Preneste da Silla, 329; si uccide, 332-333.

_Mario_ (M.), rappresentante di Sertorio, 344; segue gli eserciti di
Mitridate in Asia, 344.

_Marrucini_, 3; spedizione romana contro i M., 81.

_Marsi_, 3; insurrezione contro Roma (308 a. C.), 88; e la Guerra
sociale, 302.

_Marsiglia_, razzie dei Galli sul territorio di M., 260.

_Massinissa_, uno dei capi numidi, 170; in Spagna, alleato dei
Cartaginesi, 170; alleato di Scipione, 170; invade e occupa il regno di
Siface, 171; re di Numidia, 174; M. e Cartagine, 214, 215; muore (149
a. C.), 261.

_Massiva_, nipote di Massinissa, fatto uccidere da Giugurta, 266.

_Mauri_, alleati di Giugurta, 269.

_Mediolanum_ (Milano), capoluogo della Gallia Transpadana, 147.

_Memmio_ (C.) (trib. pl.), attacca il Senato sulla questione
giugurtina, 264; fa respingere dai comizi la pace con Giugurta,
265; candidato dei cavalieri al consolato pel 99 a. C., 291; ucciso
(dicembre 100 a. C.), 291.

_Mercatores_, italici, a Cirta, 264.

_Messina_, occupata dai Mamertini, 116; nella prima punica, 121-22;
occupata dai Romani, 122.

_Metaponto_, 2.

_Metauro_ (Fl.), battaglia (207 a. C.), 168; conseguenze, 169.

_Metello_ V. _Cecilio_.

_Micipsa_, figlio di Massinissa e re di Numidia, 261; muore (118 a.
C.), 261.

_Minervia_, 253.

_Minucio_ (Rufo) (trib. pl. 121 a. C.), propone l’abrogazione della
legge sulla colonizzazione di Cartagine, 256.

_Mitridate_, dinastia regnante nel Ponto, 281.

_Mitridate VI Eupatore_, re del Ponto (111-64 a. C.), 281; e le colonie
greche del M. Nero, 281; sue conquiste e alleanze, 281; conquista la
Cappadocia, 293; ne è scacciato (92 a. C.), 305; caccia dal trono
Nicomede III, 303, 305; occupa di nuovo la Cappadocia, 305-306;
prima Guerra con Roma (88-85 a. C.), 307 sgg.; e la Grecia e l’Asia
ellenizzata, 307; sua alleanza coi barbari di Tracia e Macedonia, 307;
invade la provincia d’Asia, 307; e massacra 100.000 Italici, 308; perde
la Grecia, 322; pace di Dardano (85 a. C.), 323-24; e Sertorio, 342,
344; nuovi maneggi e preparativi, 343-44; nuova Guerra mitridatica (74
sgg. a. C.), 344 sgg.; sconfitto da Lucullo (72 a. C.), 350; rientra
nel Ponto, (68 a. C.), 357; vinto da Pompeo, 360; si rifugia in
Colchide, 360; ultimi tentativi, 361, 363; sua morte (63 a. C.), 363.

_Mitrobarzane_, generale di Tigrane, 355.

_Monarchia_, V. _Re_.

_Moneta_, origini della moneta d’argento in Roma, 83, 119; rinvilio
nella seconda metà del II sec. a. C., 229.

_Mummio_ (L.) (cons. 146 a. C.), vince a Leucopetra gli Achei, 223.

_Municipi_, 114; _cum suffragio_, 115; _sine suffragio_, 114; altri
diritti, 115.

_Mutina_ (Modena), colonia romana, 147, 150, 195.

_Mylae_ (Milazzo), battaglia (260 a. C.), 124.


_Napoli_, 73, 74, 75; guerra con Roma (327-26 a. C.), 73 sgg.; _Odeon_,
75; Stadio, 75; ginnasi, 75; fratrie, 75; nella seconda punica, 161.

_Narni_, 90.

_Nepi_, colonia (381 a. C.), 55.

_Nerula_, 79.

_Nettunia_, 253.

_Nexum_, 77. V. _Debiti_.

_Nicodeme II_, re di Bitinia, 273; sua morte (90 a. C.), 305; _Nicodeme
III_, invade il Ponto, 306; cacciato dal trono da Mitridate, 303, 305.

_Nocera_, 88; presa da Annibale, 161.

_Nola_, 80; nella seconda punica, 161.

_Nomento_, 70.

_Norbano_ (C.) (cons. 85 a. C.), 377; capo del partito democratico,
377; sconfitto da Silla, 328; respinge l’offerta di pace di Silla, 329;
recluta nuove milizie in Cisalpina, 330; sconfitto da Metello a Faenza,
331; fugge in Oriente, 331.

_Norcia_, battaglia (113 a. C.), 263.

_Norico_, 263.

_Numa Pompilio_, 11, 16.

_Numanzia_, 213; i N. sconfiggono Q. Pompeo, 232; concludono la pace,
233; ripresa della guerra, 233; sconfiggono il console Mancino (137
a. C.), 234; fanno pace, 234; la pace è respinta dai comizi, 234; N.
distrutta (133 a. C.), 244.

_Numidia_, i Numidi e Cartagine, 112; insurrezione del 260 a. C., 126;
durante la seconda punica, 161; tra la seconda e la terza punica,
214, 215; acquisti dopo la terza punica, 223; spartita fra Aderbale
e Giugurta (117 a. C.), 262; Guerra di Roma contro Giugurta (110-7 a.
C.), 264, 267 sgg.; nuovo ordinamento, 278.

_Numitore_, 7.


_Oea_, 223.

_Ofanto_ (Fl.), 158.

_Opimio_ (L.) (cons. 121 a. C.), 256.

_Orazio_ (M.), console nel 510 o 509 a. C., 43.

_Orcomeno_, battaglia (86 a. C.), 322.

_Oriente_, Paesi dell’O., 240; suoi prodotti, 240.

_Ortensio_ (Q.), dittatore (287 a. C.), 94-95; sua legge, 94-95.

_Osci_, 3; in Campania, 64.

_Ostia_, colonia, dedotta da Anco Marzio, 16.

_Ostilio_ (C. Mancino) (cons. 137 a. C.), disfatto dai Numantini, 234;
fa pace coi Numantini, 234.

_Ottavio_ (M. Cecina) (trib. pl. 133 a. C.), si oppone alla legge
agraria sempronia, 238; deposto, 238-39.

_Ottavio_ (Cn.) (cons. 87 a. C.), si oppone alle leggi sulpicie.


_Pacuvio_, 197.

_Paflagonia_, alleata di Antioco, 171; il re di P. battuto da
Aristonico, 245; i P. chiedono aiuto a Roma contro il re del Ponto,
280; invasa da Mitridate, 281; dichiarata libera dai Romani, 293;
Pompeo (64 a. C.), 362, 364.

_Palatino_, nucleo della primitiva Roma, 7, 19.

_Palepoli_, 90, n. 4.

_Palermo_, 127; battaglia (251 a. C.), 128.

_Palestina_, invasa da Antioco III (202 a. C.), 178.

_Paludi Pontine_, prosciugate (181 a. C.), 194.

_Pandosia_, battaglia, 102.

_Papio Mutilo_, generale degli Italici nella Guerra sociale, 303.

_Papirio Cursore_, dittatore nel 309 a. C., 87; vittorie sui Sanniti,
87, 88.

_Papirio_ (Cn. Carbone) (cons. 113 a. C.), sconfitto dai Cimbri, 263.

_Papirio_ (C. Carbone) (trib. pl. 89 a. C.), sua legge sulla
cittadinanza agli Italici, 304.

_Papirio_ (Cn. Carbone) (cons. 85 e 84 a. C.), 377; cons. 82 a. C.,
329; sconfitto da Metello, 329; combatte con Silla a Chiusi, 330; fugge
in Africa, 331.

_Parma_, colonia romana, 195.

_Parti_, Regno dei, 353; la Parzia invasa da Tigrane, 353; disegni di
Lucullo sulla Persia, 356.

_Parzia_, V. _Parti_.

_Patrizi_, 14; lotta tra p. e plebei, 31 sgg.; divieto di matrimonii
patrizio-plebei, 38; e la legge Canuleia, 40; nelle magistrature e in
Senato, dal 312 al 216 a. C., 181-182.

_Pedo_, 70.

_Peligni_, 3; insurrezione del 308 a. C., 88; e la Guerra sociale, 302.

_Pentri_ (nel Sannio), indipendenti, 108; fedeli a Roma, nella seconda
punica, 160.

_Pergamo_ (Regno di). V. _Attalo_; in alleanza con Roma nella Guerra
siriaca, 191; in eredità a Roma, 239; sua ricchezza, 240; sua coltura,
240.

_Perpenna_, un ufficiale di Lepido; contro Sertorio, 348; uccide
Sertorio (72 a. C.), 350.

_Perseo_, re di Macedonia (179-168 a. C.), figlio di Filippo V, 205;
sposa una figlia del re di Siria, 205; sua politica in Grecia e in
Oriente, 205; vinto e fatto prigioniero a Pidna (168 a. C.), 207.

_Persia_. V. _Parti_.

_Perugia_, città etrusca, 4, 87; battaglia (309 a. C.), 88.

_Pesto_, V. _Posidonia_.

_Phasys_ (Rioni) (Fl.), 361.

_Piacenza_, v. Placentia.

_Piceno_, 3; occupato dai Romani (290 a. C.), 94; i Piceni e la Guerra
sociale, 302.

_Pidna_, battaglia (168 a C.), 207.

_Pirati_, origini della pirateria, 324; potenza, 342; uno Stato di
pirati in Cilicia, 342; i P. e la carestia del 68-67, 358; disfatti da
Pompeo, 358-59.

_Pirenei_, 149.

_Pirro_, re d’Epiro, carriera politica, 100, 102; in Italia (280 a.
C.), 101; in Sicilia (278-75 a. C.), 105 sgg.; partenza dall’Italia,
107; sua morte (273 o 272 a. C.), 108.

_Placentia_ (Piacenza), colonia romana (218 a. C.), 142.

_Plauto_, 197.

_Plauzio_ (M. Silvano) (trib. 89 a. C.), sua legge sulla cittadinanza
agli Italici, 304; sua legge giudiziaria, 304-5.

_Plebei_, lotta col patrizi, 31 sgg.; nel secondo decemvirato, 38;
nella questura, 42; divieto di matrimonii patrizio-plebei, 38; e la
legge Canuleia, 40; scissione tra pl. dopo la distruzione di Veio,
49-50; agitazione guidata da M. Manlio Capitolino, 54-55; agitazioni
dal 384 al 377 a. C., 56; conquistano il consolato, 58; Appio Claudio
e i pl., 85; nelle magistrature o in Senato, tra il 312 e il 216 a. C.,
181-82.

_Polibio_, 208.

_Pompedio Silone_, amico di Druso e generale degli Italici nella Guerra
sociale, 303.

_Pompeo_ (Cn. Strabone) (cons. 89 a. C.), sua legge per la cittadinanza
latina alla Cisalpina, 305; prende Ascoli del Piceno, 305; proconsole
nella Cisalpina, 316; in difesa del Senato contro Cinna, 318.

_Pompeo_ (Q.) (procons. 140 a. C.), sconfitto dai Numantini, 237; fa
pace coi Numantini, 233; smentisce di aver trattato, 233; processato,
233.

_Pompeo_ (Q. Rufo) (cons. 88 a. C.), 312; fugge da Roma, 313; nella
Gallia Cisalpina, 316; assassinato, 316.

_Pompeo_ (Cn. Strabone) il _Grande_, figlio del cons. dell’89 a. C.,
327; legato di Silla, 340; sconfigge a Chiusi l’esercito di Carbone,
331; riceve il titolo di _Grande_, 341; incaricato della repressione
della rivolta di Lepido, 340-41; contro Sertorio in Spagna, 341, 347,
350; vince i resti degli eserciti di Spartaco (71 a. C.), 351; si
presenta al consolato pel 70 a. C., 351; opposizione del Senato, 352;
accordi con Crasso e coi democratici, 352; (cons. 70 a. C.), 352, 354;
demolisce le riforme di Silla, 353; entra in discordia con Crasso, 355;
intriga contro Lucullo, 356; e la guerra piratica (67-66 a. C.), 358
sgg.; e la legge Manilia, 360; e la guerra di Oriente (66-63 a. C.),
360 sgg.; riordina l’Oriente, 362; conquista la Siria, 362, 364; suo
ritorno trionfale in Italia, 364.

_Pontefici_, 14; V. _Sacerdoti_.

_Pontine_ (Isole), colonizzate dai Romani, 80.

_Ponto_ (regno del P.), sue origini, 280-81. V. _Mitridate_; invaso da
Lucullo (73 a. C.), 349; provincia romana, 359; riordinamento per opera
di Pompeo, 362; fusione del P. con la Bitinia, 364.

_Ponzio_ (C. Telesino), generale sannita, 78.

_Popilio_ (M. Lena) (cons. 139 a. C.), ripiglia la guerra coi
Numantini, 233.

_Popolazione_ dello Stato romano, nell’età regia, 25-26, n. 11; dopo
l’ultima Guerra latina, 171; dopo la prima punica, 130; ai primi del
II sec. a. C., 187; dopo l’applicazione della legge agraria sempronia,
244.

_Populonia_, città etrusca, 4.

_Porta Collina_, battaglia (1 nov. 82 a. C.), 332.

_Porzio_ (M. Catone), carriera politica, 198; idee politico-sociali,
198-99; accusatore degli Scipioni, 202; si oppone all’annessione
della Macedonia, 207; salva Rodi, 208; studioso dell’ellenismo, 211;
latifondista e speculatore, 212; protesta contro le crudeltà romane in
Spagna, 213-14; contro i generali romani in Africa, 220.

_Posidonia_ (Pesto), in Lucania, 2; colonia, 108.

_Postumio_ (Sp. Albino) (cons. 110 a. C.), generale contro Giugurta,
267.

_Postumio_ (Aulo), fratello del precedente, 267; vinto da Giugurta, 267.

_Postumio_ (Sp. Albino) ambasciatore in Grecia, 36.

_Postumio_ (Sp. Albino) (console del 321 a. C.) alle Forche Caudine,
77-78.

_Praefectus juri dicundo_, 114.

_Praetuttii_, 94.

_Preneste_, 70; Mario il giovane assediato a Pr., 329; sua
capitolazione, 332.

_Pretori_, antico nome dei consoli, 32; magistrati romani con poteri
giudiziari (367 a. C.), 58; quattro pretori (227 a. C.), 133; otto
pretori, 335; magistrati delle colonie romane, 113.

_Pretura_, v. _Pretori_.

_Prezzi_, delle derrate nella Cisalpina, 229.

_Procida_, origine del suo nome, 6.

_Promagistrature_, origine, 335.

_Proconsolato_, origine, 75.

_Provincia_, 284. V. _Gallia Narbonese_.

_Province_, organizzazione, 133; dopo Silla, 335.

_Provocatio_, 247; proposta dal cons. Flacco per gli Italici, 247.

_Pubblicani_, 226; nell’ordine dei cavalieri, 228-229; in Sicilia,
Macedonia e Spagna, 226; nel Paese dei Salassi, 231; a Efeso, 306; i p.
e Nicomede III, 306; e la provincia d’Asia, 250, 307; e Lucullo, 352.
V. _Cavalieri_.

_Publilio_ (Q. Filone) (console 327 a. C.), assedia Napoli, 73.


_Quaestio de pecuniis repetundis_, 228, 259.

_Quaestiones perpetuae_ e i senatori, 249, 275, 300, 334, 342; e i
cavalieri, 250, 275, 300, 342; riforma del 70 a. C., 354; aumentate di
numero da Silla, 335.

_Questori_, aiutanti dei re e dei consoli, 32; numero, 42; i plebei
nella questura, 42; nuove competenze, 42.

_Questura_. V. _Questori_.

_Quindecemviri sacris faciundis_, 282.

_Quinzio_ (T. Flaminino) (cons. 198 a. C.), generale contro Filippo V,
184 sgg.; in Macedonia, 184; ha prolungato il comando pel 197 a. C.,
185; vince a Cinocefale (197 a. C.), 185.

_Quirina_, tribù, 131.

_Quirinale_, 17.


_Ramnes_, 9.

_Ravenna_, città etrusca, 4.

_Re_ di Roma; nomi etruschi, 9, 11; poteri, 13, 14; nomina, 14;
l’opera militare e politica, 16; durata della monarchia. 23; caduta
della monarchia, 23 sgg.; sua importanza storica, 23, 24, n. 7. V.
_Tarquinii_.

_Rea Silvia_, 7.

_Reggio_, 2; e Roma, 98.

_Remo_, 11.

_Rex sacrorum_, 32.

_Rimini_. V. _Ariminum_.

_Rindaco_ (Fl.), battaglia (73 a. C.), 346.

_Rodano_ (Fl.), 149.

_Rodi_, si difende contro Filippo V, 178; invoca Roma contro Filippo V
(202 a. C.), 178; alleata con Roma, 182; nella seconda macedonica, 183;
nella Guerra siriaca, 191; durante la terza macedonica, 206; privata
dei possedimenti continentali, 208; decadenza, 208.

_Roma_, origini, 5 sgg.; città etrusca?, 7 sgg.; etimologia del nome,
9; arte primitiva, 9; cultura primitiva, 9, 19; storia primitiva, 11
sgg., 18; vita economica di R. primitiva, 12-13, 18, 19; ordinamento
politico di R. regia, 15; ordinamento militare, 15; commercio di
R. regia, 18-19; ampliamento sotto Servio Tullio, 19; monumenti
antichissimi, 19; quartieri, 19; costituzione di Servio Tullio, 19
sgg.; popolazione dello Stato romano nell’età regia, 28-26, n. 11;
primo trattato con Cartagine, 27 sgg.; prime guerre con gli Etruschi,
29; sotto il dominio etrusco, 29; guerre coi Volsci, 27; coi Sabini,
29; riconosce l’indipendenza del Lazio (493 a. C.), 30; conseguenze
delle guerre della prima metà del sec. V a. C., lotta patrizio-plebea,
31 sgg.; prime guerre con Veio, 46 sgg.; ultima guerra contro Veio,
48; l’incendio gallico, 49 sgg.; ricostruzione, 52-53; conseguenze
economiche, 53-54; annessione dell’Etruria meridionale, 49, 54;
l’agitazione di M. Manlio Capitolino, 54 sgg.; secondo trattato con
Cartagine (348 a. C.), 62-63; prima Guerra sannitica (342 a. C.), 64
sgg.; ultima Guerra latina, 68; estensione del territorio romano dopo
la Guerra latina, 71; popolazione, 71; capacità militare, 71; guerra
contro Napoli (327-326 a. C.), 73 sgg.; seconda Guerra sannitica
(327-304 a. C.), 73 sgg.; conseguenze sociali ed economiche della
seconda sannitica, 81-83; guerra etrusco-romano-sannitica (311-10
a. C.), 86-87, 88; estensione del territorio romano dopo la seconda
sannitica, 89; terza guerra sannitica (299-90 a. C.), 91 sgg.; nuovo
ampliamento del territorio romano, 94; guerra tarantina (280-70 a.
C.), 97 sgg.; conquista dell’Italia meridionale, 107-08; confini dello
Stato romano dopo la guerra tarantina, 109; sua estensione alla metà
del III sec. a. C., 112-13; distribuzione del territorio, 112-113,
115; territorio delle città alleate: estensione e ordinamento, 115;
l’economia romana dopo la guerra tarantina, 116-17; l’ellenismo in R.,
118-19; la prima Guerra punica (264-41 a. C.), 115 sgg., 121 sgg.;
diminuzione della popolazione dopo la prima punica, 130; commercio
nell’Adriatico, 134-35; prima Guerra illirica, 133 sgg.; crisi della
piccola proprietà, 137-39; conquista della valle padana (225-22 a. C.),
141 sgg.; seconda Guerra punica (218-201 a. C.), 147 sgg.; strettezze
dello Stato romano durante la seconda punica, 165-66; prima Guerra
macedonica (215-205), 162, 164, 167, 169; potenza dopo la seconda
punica, 177; Guerra siriaca (191-89 a. C.), 188 sgg.; progressi
economici nei secc. III-II a. C., 193-94, 227; origini del capitalismo
e del mercantilismo romano, 194-195; progressi dell’agricoltura,
194-95; diffusione della pastorizia, 195-196; nuovi costumi, 196;
progressi della coltura greca in R. nel II sec. a. C., 197; principio
della corruzione, 201-202; R. e l’Oriente dopo la Guerra siriaca,
203-04, 205; terza Guerra macedonica (171-168 a. C.), 206 sgg.;
prosperità economica dopo la terza macedonica, 211; la terza Guerra
punica (149-46 a. C.), 214 sgg.; la coltura in R., nella seconda metà
del II sec. a. C., 226-27; crisi economica della società romana nella
seconda metà del II sec., 227-229; guerre in Spagna, 154, 213, 221,
230, 232 sgg.; le agitazioni dei Gracchi, 235 sgg.; guerra giugurtina,
264 sgg.; Guerra cimbrica, 263, 268, 274 sgg.; progresso e decadenza
nell’età di Mario e Silla, 294-95, 296; Guerra sociale (90-88 a. C.),
302 sgg.; prima Guerra mitridatica (88-85 a. C.), 307 sgg.; prima
Guerra civile (83-82 a. C.), 326 sgg.; nuova guerra mitridatica (74-72
a. C.), 345 sgg.

_Romo_, 6.

_Romolo_, leggenda, 6, 7, 11, 16; e Veio, 46.

_Rubicone_ (Fl.), 97.

_Rufrio_, 74.

_Ruma_, 9.

_Rutilio_ (P. Rufo) (cons. 105 a. C.), sua carriera, 297-98; reprime
gli abusi dei pubblicani, 298; accusato di concussione e condannato (93
a. C.), 298; in esilio, 298.

_Rutilio_ (P. Rufo) (cons. 90 a. C.), contro gli Italici, 303.


_Sabatina_, tribù romana, 54.

_Sabini_, 3; immigranti in Roma, 12; guerre con Roma, 18, 29; invadono
il territorio romano (449 a. C.) 39; il territorio dei S. occupato dai
Romani (290 a. C.), 94.

_Sabrata_, 223.

_Sacerdoti_, romani, 12-13; elettivi (103 a. C.), 282, 335; v. _Lex
Domitia_.

_Sadducei_, 363.

_Sagunto_, alleata di Roma, 146; presa da Annibale (219 a. C.), 147;
ricostruita dai Romani, 162.

_Salassi_, territorio aurifero dei S. 231; conquistato dai Romani (143
a. C.), 231; concesso ai pubblicani, 231.

_Samo_, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

_Sanniti_, 3; confederazione e territorio, 62; alleanza con Roma
(354 a. C.), 62; in Campania, 65; guerra coi Sidicini e con Capua,
66-67; prima Guerra sannitica (342 a. C.) 64, sgg.; contro Alessandro
il Molosso, 72; e la Guerra di Napoli (327 a. C.), 73; seconda
Guerra sannitica (327-304 a. C.), 73 sgg.; il Sannio dopo la seconda
sannitica, 89; i S. attaccano i Lucani (299 a. C.), 91; con Lucani e
Galli contro Roma (285-80 a. C.), 96; alleati di Pirro, 103; durante la
Guerra tarantina, 105; annessione allo Stato romano, 108; passano ad
Annibale, 160; e la Guerra sociale, 302, 303; e la prima mitridatica,
308; insurrezione durante la prima Guerra civile 330; marciano su Roma,
331-32, sconfitti da Appio Claudio e da Silla (1 nov. 82 a. C.), 332;
distrutti da Silla, 333; colonie militari nel Sannio, 333.

_Santippo_, 126, 127.

_Sardegna_, e Roma regia, 18; nel primo trattato romano-cartaginese,
27-28; divieto di commercio romano in S., 63; possesso cartaginese,
110, 117; Guerra romano-cartaginese in S. (259-57 a. C.), 125;
conquistata dai Romani, 132-133; durante la seconda punica, 154, 161;
commercio cartaginese in S., 214.

_Sarmati_, 281; mercenari, 307.

_Saticula_ (S. Agata dal Goti), 79.

_Schiavi_, primo affluire in Roma, 82; Epiroti venduti schiavi, 208;
commercio, 226; abbondanza nella prima metà del II sec. a. C., 194,
226; loro grande prezzo, 196; rivolta in Sicilia, 280; arrotati per
la Guerra sociale, 303; insurrezione in Italia (73-71 a. C.). V.
_Spartaco_.

_Scipione_. V. _Cornelio_.

_Sciti_, e le colonie greche del Mar Nero, 281; scacciati dalla
Tauride, 281; chiedono aiuto a Roma contro Mitridate, 281; richiesti
d’aiuto da Mitridate, 349; mercenari, 307.

_Scordisci_, e Mitridate, 347.

_Scuole_ di retorica, in Roma, 295; fatte chiudere dai censori del 92
a. C., 298.

_Seleucidi_, monarchia dei S., nel III sec. a. C., 110.

_Seleuco IV_, re di Siria, 204.

_Selva Arsia_, 46.

_Sempronio_ (T. Longo) (cons. 218 a. C.), inviato in Sicilia, 150;
richiamato, 151; a Rimini, 151; si congiunge con P. Cornelio Scipione,
152; battuto alla Trebbia, 153-54.

_Sempronio_ (T. Gracco) (cons. 172 e 163), 234; sua buona
amministrazione in Spagna, 234.

_Sempronio_ (T. Gracco), 229: questore in Spagna, 237; figlio del
console del 177; cognato di Scipione Emiliano e genero di Appio Claudio
(il cons. del 143 a. C.), 234; trib. pl. (133 a. C.), 235; sua legge
agraria, 236 sgg.; sua proposta relativa al tesoro del morto re Attalo
e alla provincia di Asia, 241; si ripresenta al tribunato del 132 a.
C., 242; sua morte (133 a. C.), 242-243.

_Sempronio_ (C. Gracco), uno dei _tresviri agris adsignandis_, 269;
questore e proquestore in Sardegna, 248; accusato per la insurrezione
di Fregellae, 248; trib. pl. (123 a. C.), 248 sgg.; suo programma, 248
sgg.; e i cavalieri, 249-250; rieletto trib. pl. (122 a. C.), 252; sua
legge per la cittadinanza agli Italici, 254-55; a Cartagine, 255; sua
morte (121 a. C.), 256-57.

_Sena Gallica_ (Sinigaglia), colonia dei Romani, 97.

_Senato_, nell’età regia, 14; riforma di Tarquinio Prisco, 22; dopo la
caduta della monarchia, 32; liberti nel Senato, 84; e comizi tributi,
95; divieto ai senatori di commerciare (218 a. C.), 136; politica
senatoria dopo la seconda punica, 179-81; accrescimento di potere,
181-82; i senatori e la legge agraria sempronia, 237; giurisdizione
penale, 249; i senatori governatori di province, 250; contro C. Gracco,
255; coalizione coi cavalieri dopo il 100 a. C., 289 sgg.; nelle leggi
di Livio Druso, 299, 300; nuovi screzii coi cavalieri, 310 sgg.; e
le leggi sulpicie (88 a. C.), 312; i senatori riacquistano il potere
giudiziario, 334; fatti inamovibili da Silla, 335; numero dei senatori
fissato da Silla, 336.

_Senatus consultum ultimum_, 242, 256-57.

_Senoni_. V. _Galli_.

_Sentino_, battaglia (295 a. C.), 92-93.

_Senzio_ (C. Saturnino), governatore della Macedonia, 320; batte un
esercito di Mitridate, 320.

_Septemviri epulonum_, 282.

_Sequani_, amici dei Romani, 268.

_Sertorio_ (Q.), un democratico, 327; solleva la Spagna contro il
governo romano, 340; e Mitridate, 342; malcontento contro S., in Roma e
in Spagna, 346-47; ucciso da Perpenna (72 a. C.), 350; i seguaci di S.
amnistiati, 354.

_Servilio_ (C. Glaucia), un democratico, 287; pretore (100 a. C.), 288;
candidato al consolato pel 99 a. C., 291; trucidato (100 a. C.), 292.

_Servilio_ (C. Gemino) (cons. 217 a. C.), 154; a Rimini, 154; in
Apulia, 157.

_Servilio_ (Q. Cepione), pontefice massimo, 275; cons. (106 a. C.),
275; sua _lex iudiciaria_, 275; attacca i Volchi; riconquista e
saccheggia Tolosa, 275; accusato di essersi appropriato il bottino,
275; sconfitto ad _Aurausium_ (105 a. C), 277.

_Servilio_ (Q. Cepione) (cons. 140 a. C.), fratello di Q. Fabio Massimo
Serviliano, 232; ricomincia la guerra contro Viriato, 232; che fa
assassinare, 232.

_Servio Tullio_, 11; l’ampliamento e la divisione di Roma 17; sua
costituzione, 19 sgg.

_Sestio_ (L. Laterano), leggi licinio-sestie, 56 sgg.

_Setia_, colonia (382 a. C.), 55.

_Sibari_, 2.

_Sicilia_, e Roma regia, 18; e il primo trattato romano-cartaginese,
28; e il secondo trattato romano-cartaginese, 63; e Pirro, 104, 105
sgg.; possedimenti cartaginesi in S., 110; provincia romana, 130, 133;
nella seconda punica, 154, 162, 163; sgombrata dai Cartaginesi (210 a.
C.), 165; pubblicani in S., 226; rivolta di schiavi, 280.

_Sidicini_, 67; guerra con i Sanniti (343 a. C.), 67; invocano l’aiuto
di Roma, 67; in lega coi Latini contro Roma, 68.

_Siface_, re dei Numidi, ribelle a Cartagine, 161; rivale di
Massinissa, 170; sconfitto e prigioniero, 170-71.

_Sila_, i boschi della S. appaltati, 196.

_Silla_. V. _Cornelio_.

_Sinope_, città del Ponto, 351.

_Siracusa_, sua importanza, 104, 110; e Pirro, 104; e Cartagine, 104,
110; alleata di Cartagine, 121; battuta da Roma (261 a. C.), 122;
alleata di Roma, 122; rivoluzione repubblicana alla morte di Geronimo,
162-63; si allea con Cartagine, 163; assediata e presa da Marcello
(214-202), 163-164; saccheggiata, 167.

_Siria_, invasa da Tigrane, 342, 353.

_Siria_, Regno di Siria, 178; si rafforza sotto Antioco il Grande, 178.
V. _Antioco III_ il _Grande_; smembrato da Tigrane, 353; ad Antioco
l’Asiatico, 353; conquistata da Pompeo, 362; provincia romana, 362. V.
_Celesiria_.

_Sora_, 91.

_Spagna_, prodotti del suolo, 146; miniere, 193; Sp. meridionale
colonizzata da Cartagine, 110, 117; nuove conquiste cartaginesi dopo
il 241 a. C., 146; nella seconda punica, 151, 154, 161; principio
della conquista romana in Sp., 161, 162, 163; i Romani ricacciati al
di là dell’Ebro (211 a. C.), 165, 166; la Sp. riconquistata dai Romani
(206 a. C.), 169, 177; guerre romane in Sp., 179, 190; insurrezione
della Celtiberia (154 a. C. segg.), 154; della Lusitania (152 a. C.
sgg.), 213, 221, 232; carattere della insurrezione e della guerra in
Spagna, 213; pubblicani in Sp., 226; prosecuzione della guerra, 230,
232 sgg.; costo della guerra, 227; ordinamento dopo il 133 a. C., 244;
_Citeriore_ e _Ulteriore_, 244; nuova insurrezione, 293.

_Spagnoli_, mercenari cartaginesi, 122. V. _Spagna_.

_Sparta_, competizioni con la Lega Achea, 219; assalita dalla Lega
achea, 219-220.

_Spartaco_, un trace, capo di una rivolta di schiavi in Italia, (73-71
a. C.), 347; sconfigge parecchi eserciti romani, 350; vinto da Crasso e
da Pompeo (71 a. C.), 351.

_Stellatina_, tribù romana, 54.

_Stipendium_, 223.

_Sulpicio_ (P. Camerino), ambasciatore in Grecia, 36.

_Sulpicio_ (P. Galba) (cons. 200 a. C.), 182; in Illiria, 182-83;
invade la Macedonia (199 a. C.), 183.

_Sulpicio_ (P. Rufo) trib. pl., (88 a. C.); sue leggi, 311-12, 313; sua
agitazione, 312-13; S. e Silla, 313; annullamento delle leggi sulpicie,
315; dichiarato _hostis publicus_, 315; trucidato, 315.

_Sutrium_ (Sutri), colonizzata dai Romani (383 a. C.), 55; assediata
dagli Etruschi (311 a. C.), 86; liberata, 87.


_Taranto_, 2, 98-99; antico trattato con Roma, 99; durante la seconda
sannitica, 74; Guerra contro Roma (280-71 a. C.), 97 sgg.; forze
militari, 101; presa da Annibale (212 a. C.); ripresa dai Romani (209
a. C.) e saccheggiata, 167.

_Tarquinii_, I T. nella storia di Roma, 17; carattere delle riforme dei
T., 22.

_Tarquinii_, città etrusca, 4.

_Tarquinio I_ (Prisco), 11; tradizione e storia, 17-18; e il Senato, 22.

_Tarquinio II_ (il Superbo), 11.

_Tassilo_, generale di Mitridate, 344.

_Tauride_ (Crimea), abitata dagli Sciti, 281; possesso di Mitridate,
349; centro dei suoi rifornimenti, 307, 346; Mitridate si rifugia in
T., 361; bloccata da Pompeo, 361; regno di Farnace, 364.

_Taurisci_, abitanti nel Norico, assaliti dai Cimbri, 263.

_Tavole_ (_Le Dodici_), 37-38.

_Teano_, 70.

_Telamone_ (C.), battaglia (255 a. C.), 141.

_Telesia_ (nel Sannio), distrutta, 333.

_Temiscira_, città del Ponto, 349; assediata da Lucullo, 349, 350.

_Tempio della Fede_, 242, 243.

_Tempio di Giove_ (sul Campidoglio), 19.

_Terentilio_ (C. Arsa), tribuno della plebe; sua legge circa il potere
dei consoli, 36; opposizione dei patrizi, 36.

_Terenzio_ (C. Varrone) (cons. 216 a. C.), 158; battuto a Canne (2
agosto 216 a. C.), 159-60.

_Termopili_ (_Le_), battaglia (191 a. C.), 190.

_Terracina_, assediata dai Sanniti (315 a. C.), 80.

_Tessaglia_, guerra in T. durante la seconda macedonica, 184; invasa da
Antioco il Grande (192 a. C.), 190.

_Teuta_, regina degli Illirii, 134.

_Teutoni_, 274; invadono la Gallia, 279, 284; sono disfatti e distrutti
ai _Campi Putridi_ presso _Aquae Sextiae_ (102 a. C.), 284.

_Thurii_, e i Lucani, 95-96; e Roma, 98, 99.

_Ticino_, battaglia (218 a. C.), 151-52.

_Tigrane_, re di Armenia, amplia i confini del suo regno, 353;
alleato di Mitridate VI, 294, 349; invade la Siria, 342; e la Grande
Cappadocia, 342; assume il titolo di Re dei Re, 342; Lucullo e Tigrane,
353; si arrende a Pompeo, 360-61.

_Tigranocerta_, capoluogo della Armenia, 355; assediata da Lucullo (69
a. C.), 355; sua capitolazione, 355.

_Tigurini_, 274; invadono la Narbonese (107 a. C.), 274; si ritirano,
275; invadono di nuovo la Gallia, 276-277; sconfiggono un generale
romano ad _Arausium_ (6 ottobre 105 a. C.), 277.

_Timoleone_, tiranno di Siracusa, 110.

_Tities_, 9.

_Titti_, 213, 232.

_Tivoli_, 70.

_Tolomei_ (dinastia regnante in Egitto), nel III sec. a. C., 110. V.
_Lagidi_.

_Tolomeo IV_, re d’Egitto (morto nel 201 a. C.), 178.

_Tolomeo V_, Epifane (204 a. C. sgg.), 178.

_Tolomeo Apione_, re d’Egitto, lascia ai Romani la Cirenaica, 294.

_Tolosa_, nella Narbonese, 274.

_Tracia_, terre della T. soggette ai Tolomei, 110; passano alla
Macedonia, che le perde dopo la terza macedonica, 185; i Traci alleati
di Mitridate, 281, 312; invadono la Grecia, 310, 342; la T. conquistata
da M. Lucullo (72 a. C.), 350.

_Trapani_ (_Drepanum_), fortezza cartaginese, 128; battaglia (250 a.
C.), 128; bloccata (242 a. C.), 129.

_Trasimeno_ (L.), battaglia (217 a. C.), 155-56.

_Trebbia_ (Fl.), battaglia (218 a. C.), 152-54.

_Tresviri agria iudicandis adsignandis_, 237, 239; loro lavoro, 243-44.

_Triario_ (C.), ammiraglio di Lucullo, 357; disfatto da Mitridate (67
a. C.), 359.

_Tribù_, numero e ufficio, 32; nuove tribù (387 a. C.), 54; riforma di
Appio Claudio, 84-85; due nuove tribù istituite nel 242 a. C., 131;
35 tribù, 131; e la riforma del 241 a. C., 131-32; e la scelta dei
giudici, 304-5; gli Italici e le tribù, 308.

_Tribunali penali_, V. _Quaestiones perpetuae_.

_Tribuni aerarii_, nei tribunali, 353.

_Tribuni della plebe_, 35; numero, 75; eletti prima dai comizi curiati,
poi dai tributi, 35, 43, n. 3; poteri, 35-36; agitazioni tribunizie
dopo il 334 a. C., 56 sgg.; destituibili, 238-39; il tribunato è
iterabile?, 241-42; e la riforma di Silla, 334; abolizione della
riforma di Silla, 342-43, 353.

_Tribuni militari_, 41; in parte elettivi, 85; _consulari potestate_,
40-41.

_Trifano_, battaglia, 69.

_Trifilia_, 186.

_Tromentina_, tribù romana, 54.

_Tullio_ (M. Cicerone), e la legge Manilia, 360.

_Tullo Ostilio_, 11, 16.

_Tuscolo_, 70, 198.

_Tyrii_, nel secondo trattato romano-cartaginese, 63.


_Umbri_, 3; e Celti, 47; insurrezione (308 a. C.), 88; nella terza
Guerra sannitica, 92; nella Guerra sociale, 302, 303.

_Utica_, nel secondo trattato romano-cartaginese, 63; indipendente dopo
la terza punica, 223.


_Vaccei_ (in Spagna), 213.

_Vadimone_ (L.), battaglia (283 a. C.), 97.

_Valenza_, 232.

_Valerio_ (M. Levino), contro Filippo V (214 a. C.), 162.

_Valerio_ (L. Flacco), protettore di Catone, 198.

_Valerio_ (L. Flacco) (cons. 86 a. C.), sua legge sui debiti, 320;
inviato contro Silla, 320, 321-22, 337, n. 2; in Macedonia e in Asia
contro Mitridate (86 a. C.), 322.

_Vario_ (Q.), (trib. pl. 98 a. C.), 301; esiliato per lesa maestà, 304.

_Veio_, città etrusca, 4; prime guerre e paci con Roma, 46 sgg.; ultima
guerra con Roma, 47 sgg.; distruzione, 49.

_Velina_, tribù romana, 131.

_Veneti_, 3; e Celti, 47; alleati di Roma nella Grande guerra gallica,
141.

_Venusia_ (Venosa), colonia di, (291 a. C.), 93.

_Vestali_, collegio sacerdotale, 14; Rea Silvia vestale, 7.

_Vestini_, 3; alleati dei Sanniti nella seconda guerra sannitica, 76.

_Vetulonia_, città etrusca, 4.

_Veterani_, I v. e la legge _de coloniis_ di Saturnino, 289; e la
cittadinanza, 289; colonie di v. nel Sannio e in Etruria, 333.

_Veturio_ (T. Calvino) (cons. 321 a. C.), alle Forche Caudine, 77-78.

_Victumulae_ (nel Vercellese), 151; centro del commercio dell’oro, 231.

_Vie_: _Appia_, 83; _Cassia_ (187 a. C.), 96, 194; _Emilia_ (187 a.
C.), 194; _Flaminia_ (187 a. C.), 194; _lex viaria sempronia_ (123 a.
C.), 251; le vie d’Italia e C. Gracco, 251, 252.

_Villio_ (P.) (cons. 198), generale romano contro Filippo V, 183-84.

_Viminale_, 17.

_Viriato_, capo dei Lusitani, 221; suoi successi, 223, 230, 232;
ucciso, 232.

_Volsci_, 3; guerre con Roma, 29, 30; incursioni a mezzo il sec. V a.
C., 36; dopo l’incendio gallico, 53.

_Volterra_, città etrusca, 4.


_Zama_ (in Numidia), battaglia (202 a C.), 171 sgg.



INDICE DEI CAPITOLI.


  PREFAZIONE                                             _Pag_. V

  La Monarchia e il primo tentativo mercantile di Roma
    (754?-510? a. C.)                                           1
  I primi passi della repubblica (sec. VI-V a. C.)             27
  La distruzione di Veio e l’incendio di Roma (fine
    del V sec.-367 a. C.)                                      45
  I Sanniti                                                    61
  La guerra con Taranto e la conquista dell’Italia             91
  Roma e Cartagine                                            109
  La prima guerra punica e il secondo tentativo
    mercantile di Roma                                        121
  La seconda guerra punica (218-201)                          145
  L’egemonia mediterranea                                     177
  Il crepuscolo dell’antica Roma                              193
  La crisi dell’egemonia                                      211
  I Gracchi                                                   225
  Verso la rivoluzione                                        259
  Mitridate                                                   287
  La prima guerra civile                                      317
  Le grandi guerre in oriente                                 339

  Indice alfabetico analitico                                 367


                      ERRATA          CORRIGE

  P.  142,  r.   4.   Insurbi         Insubri
  P.  268,  r.   3.   E qui           Edni
  P.  339,  r.  25.   legato          legato di



  FINITO DI STAMPARE A FIRENZE
  NELLA TIPOGRAFIA «ENRICO ARIANI»
  IL XXXI MARZO MCMXXI.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 401 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.




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