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Title: Il palazzo del diavolo, vol. 1/2 : Leggenda mantovana
Author: Barbieri, Ulisse
Language: Italian
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IL PALAZZO DEL DIAVOLO

LEGGENDA MANTOVANA

VOLUME PRIMO



   [Illustrazione: La fanciulla si raccolse un istante e disse
   con cupa tristezza: Essa muore!]


                                   IL
                          PALAZZO DEL DIAVOLO

                           LEGGENDA MANTOVANA


                                ROMANZO

                                   DI
                            ULISSE BARBIERI

                              VOLUME PRIMO



                                 MILANO
                       NATALE BATTEZZATI EDITORE
                                 1868.



                         Proprietà letteraria.

                           Tip. Guglielmini.



                          ALL’EGREGIA SIGNORA

                            SELENE FOCASSATI

                    NOME CARO ALLA MIA CITTÀ NATIVA
                        PER PATRI SENSI DISTINTA
                             ED ALLA QUALE
                    AFFETTI DI FAMIGLIA MI VINCOLANO
                      PER RICONOSCENZA E RISPETTO
                                 OFFRO
                           IN SEGNO DI STIMA

                                                     ULISSE BARBIERI.



IL PALAZZO DEL DIAVOLO

LEGGENDA MANTOVANA



CAPITOLO PRIMO

Che può servire d’introduzione.


Una leggenda! in pieno secolo 1868?!.... ehi! signor Romanziere, dirà
qualche gajo umore, dandomi una tiratina d’orecchi come faceva il
mio maestro buon’anima quando sbagliavo la regola del tre od il mio
professore di greco quando gli rispondevo latino.

Affè! perchè no?... una leggenda è una storia come un’altra; più o
meno vera, come tante altre storie vi sono, in cui si dà ad intendere
quel che più piaccia! _lanterna magica ad usum_, in cui si fanno vedere
lucciole per fanali.

D’altronde a che discutere sovra una o su tal’altra forma di
lavoro?.... scelsi questa leggenda perchè a me piace volar di fantasia
ed è un ghiribizzo come un altro.

    Varian di gusti i saggi!...

Non già che io pretenda con ciò d’essere un saggio!.... Dio me ne
guardi!.... Vidi dei saggi far tante e tante sciocchezze che l’aver
un ramo di matterìa nel nostro secolo di lumi (gaz) è forse la miglior
cosa a desiderarsi!...

Siamo sullo scorcio del secolo 1512. Più d’uno dei miei lettori, e più
d’una delle mie amabili lettrici disponendosi al pranzo od agevolandone
la digestione, o facendo almanacchi alla luna, per qualsiasi cagione
insomma!... avrà passeggiato il Corso di Porta Pradella se è della
città, lo avrà sentito nominare se è della provincia, e se qualcuno non
l’ha veduto, non l’ha passeggiato, e non l’ha sentito nominare, vada
a vederlo!... Occorre così poca spesa adesso che il progresso umano
ha messo a disposizione di tutti un diluvio di quei cassoni ambulanti
che si chiamano le strade ferrate, mercè i quali, con un po’ di buona
disposizione ed una buona ammaccatura, ad una buona noja, e ad una
buona raccolta di polvere e di caldo, se si è d’estate, e di freddo
se si è d’inverno, si può pacificamente viaggiare il mondo, e dico
pacificamente tolto il caso d’un urto qualunque di convogli, opera
della diligente diligenza dei nostri servizii pubblici in generale!...

Il Corso di Porta Pradella pertanto è un bel Corso, lo dirò io, a chi
non abbia la volontà di andarvi!.... è un’amena via fiancheggiata da
bei caseggiati; alla bella facciata del teatro sociale, fa prospetto
la porta sul cui arco in occasione dell’anniversario dei martiri di
Belfiore la munificenza del Municipio ha fatto inchiodare delle figure,
non so se di legno o di cartone, che sembrano di marmo guardandole
d’innanzi, ma che per di dietro lasciano vedere le aste di legno che a
sostenerle furono loro inchiodate nel capo, nelle spalle, ed in qualche
altra parte più bassa!....

Quelle figure dovrebbero rappresentare credo la Storia, l’Italia,
o non saprei che altro patrio simbolo!...... Povera Storia e povera
Italia!..... Guardate dalla parte della campagna così acconcie a chiodi
e ad aste di legno, vi danno l’idea d’una Crocefissione di nuovo
genere, che parmi duri un po’ troppo!... e sarebbe oramai tempo che
dovesse finire!...

Il Corso di Porta Pradella è la passeggiata pubblica di tutti i giorni
e massime delle feste, ove conviene il fiore delle vaghe fanciulle
della città, colle rispettive loro mamme, e col codazzo dei loro
rispettivi occhieggiatori; è un Corso ristretto e quasi di famiglia,
chè Mantova è città cortese, città che ha conservata l’impronta d’una
vita abbastanza socievole sebbene sia passata fra i più crudi rigori
del dispotismo austriaco, forse anzi da quella cumunanza di sventure,
resa più fratellevole... Pronta ad accettare il germe di quelle idee
che avanzano i popoli sul cammino dell’umanità.... che ha i suoi
_Club_, le sue riunioni artistiche, scientifiche, agricole, politiche,
sociali. La cui vita insomma più che quella di altre provincie,
s’avvicina alla vita delle capitali.

Le sue donne senza essere tipi di bellezza classica, senza avere la
plasticità d’una statua di Carrer, sono d’una fisonomia simpatica
(quando non sono brutte); nel loro sguardo v’ha una languidezza
patetica, generalmente pallida è la tinta del loro volto, folte le
chiome e per lo più castane, portate per natura non all’astrazione
delle meridionali, ma facili

    Al dolce vagheggiar, le fatue larve
    Dal pensiero evocate!...

Ma non vorrei che qualcuno m’incolpasse di tessero l’apologia delle
donzelle della mia città natale, chi sa per qual malizioso fine,
chiudendomi la bocca, col gridarmi sul naso: Bah!... tutte le donne,
sono donne!...

Sta bene! e poco più, poco meno subiranno la conseguenza del peccato
originale che dannò i nostri primi padri, e che procurò a noi mille
altri diversivi di dannazioni più o meno in relazione colla vecchia
storia del pomo!...

Al fianco sinistro del Corso, vedesi anche oggigiorno un fabbricato
di forma antica, in cui abitano sartine e lavandaje, ove fanno capo
nei giorni di mercato i carrettieri e vi installano le lor rozze e le
lor carrette, e che si chiama — Stallo del Diavolo, — come è indicato
dall’insegna che si legge sulla sua porta arcuata.

La sua forma ha ben poco d’originale, oppure se v’ha d’originale, è una
struttura disadorna, rozza, lo diresti impastato su alla meglio senza
ordine architettonico, largo e stretto, con anguste scaluccie strette
strette, con finestre che pajon porte, e con porte che pajon buchi; tre
ale di fabbricato d’un sol piano, formano il quadrato del cortile, a
destra del quale scorre quel ramo del Mincio che attraversa la città e
scarica le sue acque nel lago, che poi le riversa nel Po.

La tradizione popolare lo veste di fantastiche forme, e per molto tempo
le dicerìe di spiriti che lo faceano echeggiare di gemiti, di folletti,
che vi ballavano la ridda, ed altri simili fanfalucche impedirono che
si abitasse; parve poi che gli spiriti prendesser paura dei primi che
ne ruppero la solitudine, onde messa la coda tra le gambe, ammesso che
gli spiriti abbiano una coda, se ne stettero zitti, zitti!...

Svestito da queste idee superstiziose, che or più non attecchiscono
che nella mente di qualche ebete, o di qualche scolaro del seminario
vescovile, da cui si esce presso a poco con ugual dose di istruzione
e d’ingegno, restò generale l’idea che per opera di uomini, o del
demonio, il detto palazzo, o piuttosto questo vasto casamento, fosse
sorto come per incanto, ed in tale spazio di tempo da far credere ad
alcun che di soprannaturale concorsovi alla sua fondazione.

La leggenda che io sto per narrare incomincia nell’anno 1512.

Ove ora pompeggia leggiadramente ornato delle sue belle case, della sua
doppia fila di lanterne a gaz, la larga ed amena via, non eravi allora
che un’immensa vallata a forma di praterie, quadreggiata da scannellati
filari di salici e di pioppi, e fin d’allora di fianco a questa
vallata, distante un breve tratto dall’arco di Porta Leona che è al
fianco destro del teatro sociale, sorgeva il vecchio palazzo erettovi
dal conte Paride Ceresara, in brevissimo spazio di tempo a forza di
braccia e di denaro. Era questi professo nelle scienze oculte, molto
in voga in quel tempo... era discendente di antica stirpe spagnola
stabilitasi poi in Italia... ed era nato in Mantova nel 1466. Aveva
già 72 anni nell’epoca del nostro racconto... e durante questo lungo
periodo di vita s’era molto distinto presso la Corte dei Gonzaga. Poco
amante della carriera delle armi a cui destinavalo suo padre, e tratto
dalla sua natura a studi poetici si era occupato nella solitudine del
suo palazzo intorno a varie traduzioni latine e greche... Dicesi essere
egli che tradusse alcune opere di Plutarco, la Dulnaria di Plauto, e
che sotto il nome di Tieste de Ceresari scrivesse una celebre opera
sull’astrologia giudiziaria. Amico del conte Nicolò d’Arco ne sposò
la sorella: rimasto vedovo senza prole impalmò Barbara Capralta e da
questo connubio ebbe quattro figli.

Dedicò al duca Federico Gonzaga un libro di _Chiromanzia_, con
lettera di cui trovasi l’autografo nell’archivio del palazzo Ducale.
Istruttissimo come era nella scienza astrologica vuolsi che nel suo
libro la _Geomanzia_ predicesse al cardinal Farnese il suo Papato alla
morte di Pier Luigi... Era uomo piacevole, di ameno umore e carissimo
ai principi che lo tenevano in alta stima...

Toccai questi brevi cenni di biografia storica onde dimostrare che
il fondatore del Palazzo del Diavolo, o della casa della valle come
la chiamavano allora, era tutt’altro che un Diavolo, benchè il volgo
lo tenesse in concetto di stregone e di maliardo che con malefizi e
sortilegi viveva oltre ai mille anni.... e faceva patti col demonio per
non morir più.

Il vecchio conte intanto continuava nei suoi studi d’alchimia in cui
aveva educato un compagno, il vecchio Marco che quei di Porta Leona
chiamavano il segretario di satana perchè, dicevan essi, l’ajutava
nelle sue operazioni infernali.

I figli del conte Paride amanti pochissimo delle scienze, quanto
l’erano invece di quella vita guerriera dell’epoca, s’erano sbandati
per le vario corti d’Italia al servizio dei principi che vi tenevan
regno. Mortagli la seconda moglie, egli era rimasto solo col vecchio
Marco al quale portava tanto affetto d’amico e di maestro, che venuto a
morte lasciollo erede del palazzo in cui si dice ch’ei trovasse sepolto
un tesoro.

Che che fosse... dopo la morte del conte Paride, il vecchio Marco era
chiamato qualche volta ei stesso alla corte pei consulti astronomici
che prima vi teneva il suo maestro, e non a mani vuote ei v’andava e
ne veniva!... e la voce pubblica si dava a strepitar più forte ch’ei si
faceva ricco coi denari del diavolo!

Il paesano vedeva talvolta con terrore sulle ampie vetriate della
casa, guizzare ed agitarsi una fiamma infernale, e neri globi di fumo
uscir dai comignoli che pigliavan talora bizzarre forme di spiriti che
ballassero la tregenda sul tetto del palazzo.

Il paesano per buon conto si faceva il segno della croce, e vi
passava più lontano che avesse potuto onde evitare di sentirsi preso
pei capelli e costretto a firmare chi sa qual patto infernale in cui
avrebbe perduta la sua anima. Poi arrivava alla sua capanna ansante
e trafelato e messisi intorno i figli e la vecchia nonna, lor diceva
che se avesser veduto come aveva visto lui, fuor del balcone della
casa della valle eragli apparsa una testa nera nera, con sul capo due
corna da non potersi misurare a braccia, e dalla cui bocca grande al
pari d’un forno uscivano fiamme e serpenti, e che sul tetto v’eran
dei mostri che facevan grida da ispiritati, e i ragazzi si stringevano
intorno alle gambe della nonna, e la nonna biascicando pater nostri se
li stringeva al petto e scongiurava Tonio a non passar più neppur per
sogno dalla casa della valle, che il diavolo andandoci vicino tosto o
tardi la fa, e che col diavolo non bisogna prendersi confidenza.

E alla casa della valle regnava una calma misteriosa. Il sole era
presso al suo tramonto ed a norma che la sua luce andava scemando, lo
spazio raddensavasi fosco di tenebre. Nessun romore udivasi nella casa
della valle, la folaga strideva dalla vicina palude, una gallina restìa
di ritirarsi al suo pollaio raspava la terra chiocciando. Ai piedi
della scala che metteva nell’interno del palazzo, fuor della soglia
della bassa porta, era seduta una vecchia dalle ossa scarne, dalle dita
adunche, dalle occhiaie livide, a guisa d’una delle streghe di Machbet.
Essa appoggiava all’osseo palmo il mento ricurvo con cui terminava la
sua faccia incadaverita dall’età e guardava assorta in strani pensieri
la gallina che raspava chiocciando sempre.

La vecchia sorrideva, se poteva dirsi sorriso il raggrinzarsi della
sua pelle giallastra e ratrappita sul suo volto fatto più strano dal
scintillar della sua pupilla immota dentro le fonde occhiaje; sorrideva
come i fanciulli e come gli scemi.

— Marta!... Marta!... Vecchia strega!... borbottò una voce aspra dietro
di lei; non ti muovi quand’io ti chiamo?...

La vecchia non si mosse.

La gallina raspava sempre, e dalla terra smossa fe’ saltar fuori una
moneta.

La vecchia s’era per metà levata dalla sua seggiola.

— È mia... gridò, o per meglio dire, stridette raucamente la voce che
poco prima l’aveva apostrofata; ed un’ombra slanciandosi dal vano della
porta fermò il piede sulla moneta... La chioccia spaventata fuggì via,
la vecchia ricadde sulla sua sedia...

— Non valeva la pena che spaventaste così quella povera bestia,
borbottò essa.

— È oro... e tutto l’oro che v’ha qui è mio... ripetè la voce.

L’uomo che così improvvisamente era sbucato fuori della casa della
valle, era un vecchio dai capelli grigi, dalla lunga barba parimente
grigia ma folta, vestiva una nera vestaglia da camera che gli scendeva
sino ai piedi, avea rimboccate le larghe maniche e ne uscivano fuori
due braccia nude, lunghe, pelose; si appoggiava ad un nodoso bastone
portava sulla testa una specie di calotta a rabeschi, curvo della
persona, magro, abbattuto, l’avreste detto un’ombra viva in mezzo alle
tenebre che si addensavano ognor più colla nebbia che calava fitta
fitta... Sulla sua larga e alta fronte però, nel suo occhio piccolo ed
acceso il contemplatore avrebbe trovato qualche cosa che gli avrebbe
rivelato una mente viva di gioventù sotto a quell’osseo involucro
spolpato dal tempo, e dalle lunghe veglie perdute forse nello studio or
positivo dell’analisi, or astratto della meditazione.

Quel vecchio non era nemmeno un avaro come avrebbe potuto farlo credere
il moto che egli fe’ slanciandosi sulla moneta sterrata dalla gallina.
Era semplicemente Marco il cercatore, l’alchimista, il mago, come lo
chiamavano volgarmente coll’epiteto che avevan dato al suo maestro; uno
di quei genj del mondo antico che consumarono in pazzi sogni i tesori
della loro mente, intestati di fabbricar l’oro col prestigio della
magìa, mentre l’avevano a loro disposizione frutto della potenza del
loro ingegno.

Marco erede del palazzo e della scienza del vecchio conte, per un
delirio della vecchiezza erasi spinto più in là del suo maestro, ed
era entrato nel campo dell’impossibile; volea che l’alchimia gli
centuplicasse l’oro fuso da lui nel crogiuolo dove s’intestava di
trovarne la sorgente!...

Entusiasta del soprannaturale, come lo sono tutti coloro che nello
studio delle scienze così dette oculte, logorano la vita. Pel vecchio
alchimista che lasciava allora il suo fornello ardente, da cui uscivano
crepitando le vive fiamme che i paesani traducevano per le corna di
Belzebù, assorto nelle sue strambe contemplazioni, quella gallina che
chiocciando smuoveva dalla terra una lamina del prezioso metallo, che
egli forse aveva perduto al suo ritorno da un consulto scientifico,
assumeva una forma che si sbizzarriva colle accese immagini della sua
fantasia a quella stessa guisa che gli abitanti dei contorni di Porta
Leona tramutavano il fumo che usciva dal comignolo del suo laboratorio
chimico in bizzarri e spaventevoli spiriti che sul tetto della sua casa
ballassero la tregenda!.....

La vecchia che si era rimessa a sedere, si alzò per richiudere nel suo
pollajo la fuggiasca gallina.

L’alchimista prese da terra la moneta, la riguardò, e mormorando strane
parole ritornato lentamente al suo laboratorio, la gittò in un ampio
crogiuolo dentro cui alla cocente fiamma d’un fuoco infernale, bolliva
sprizzando strisce di liquida materia il metallo fumante, che si
contorse e si fuse.



CAPITOLO II.

Una notte infernale.


Fischiava il vento curvando i canneti della valle, dall’orizzonte
avanzavano neri nuvoloni carichi di tempesta; s’avanzavano come se
gli uni sugli altri si rotolassero per lo spazio. L’aria istessa
grave, quasi ferma, pareva stesse trepitando in attesa d’uno di
que’ sconvolgimenti che fanno desiderare al viaggiatore il focolare
domestico lasciato deserto, e pesano sull’animo involontariamente come
il preludio di quelle sventure che stanno nascoste nell’infinito, come
le folgori che si fondono in quel _caos_ tempestoso.

Il temporale saliva, saliva... dal fianco sinistro di Porta Leona; il
nibbio volteggiava in larghe ruote, l’atmosfera soffocante, satura
di elettrico lampeggiava foschi baleni... Regnò per qualche momento
quella calma queta non rotta da un soffio, che precorre sempre gli
uragani!.... Poi come onda sfrenata un sibilo passò agitando gli alti
pioppi, fuvvi un lampeggiare spesso, incessante, un fragore di tuoni.
Le folgori scrosciando pareva volessero aprire le caterate del cielo.
Sulla cima d’un albero un nero uccellaccio gracchiava movendo il lungo
becco come se intuonasse uno strano canto!.. L’albero colpito a mezzo
dal fulmine cadde, il nero uccello spiegando le larghe ali, ristette
immoto come sospeso nello spazio..... poi chiudendo l’ali, ratto qual
freccia si disperse travolto forse dalla buffera; la grandine tempestò,
l’acqua si riversò a torrenti sulla terra.

Nella casa della valle tutto era silenzio... Vedevi solo un lume passar
rapido da una all’altra delle finestre.

Nella stanza abitata dal vecchio alchimista il fornello era spento. Nel
vasto laboratorio terreno, le storte di vetro, gli imbuti, i cilindri
giacevano polverosi ed abbandonati ingombrando le larghe tavole di
legno, che ne occupavano le latitudini; la vecchia Marta dimentica
del suo pollajo e delle sue galline che solea chiamarsi attorno al
suo seggiolone di legno, se ne stava in una camera vicina a quella
dell’alchimista, immersa in un cupo meditare.

Le sue labbra si movevano come agitate impercettibilmente, mentre
nessuna parte del suo corpo dava segno di vita; la testa aveva china
sul petto, l’occhio fisso sul terreno, le mani incrociate sulle
ginocchia quasi ratrappite....

Ti pareva una di quelle bizzarre creazioni della vecchia scuola
germanica... un essere non umano raggomitolato in quell’angolo della
stanza.

— Marta!... Marta!... s’intese mormorare una voce fiocca, rauca.

La vecchia si scosse — Chiama me, borbottò fra i denti, scuotendo la
testa grigia, ed il suo occhio mandò un lampo di viva intelligenza. E
cosa sono venuti a fare i suoi nipoti se ha bisogno ancora di me?...
continuò essa, come se queste parole fossero la chiusa di chi sa quale
ragionamento che era passato nel suo pensiero durante la sua lunga
meditazione.

— Marta!... chiamò di nuovo la voce, fatta più stridula dal fremito
dell’impazienza che scuoteva le fibbre del vecchio.

Marta levatasi si mosse... si appressò alla porta, l’aperse ed entrò.
Era una stanzaccia larga e disadorna, le pareti nere ed umide erano
tappezzate di quadri, ad alcuni dei quali si attribuiva un valore
immenso; sul camino ardeva il fuoco e riverberava tutto all’intorno una
luce oscillante; sovra ad un mobile vicino al letto era situata una
lucerna di ferro sormontata da un coperchio di pergamena ingiallita
dal tempo che stringeva la luce in un circolo e lasciava in una
semi oscurità il resto della stanza; sul camino i tizzoni ardenti
crepitavano, si sentiva al di fuori infuriare la procella.

Marta entrò e mosse verso il letto che era di fianco al camino, e sovra
il quale giaceva il vecchio.

Quasi sepolto sotto alle coperte che si era ammonticchiate addosso onde
difendersi forse dal freddo della morte che già l’agguantava col suo
inesorabile artiglio, non scorgevasi di lui che la smunta faccia ed
il crine rabbuffo sovra cui in atto d’impazienza si agitava un braccio
quasi di scheletro che si movesse nella tomba.

Le pupille roteavano dentro alle livide occhiaje come fosse sotto
l’impressione d’uno spasimo convulso... — Marta... Marta... strega
del demonio.... vuoi farmi morir dannato che non ti avvicini al mio
letto?.... strideva egli con tuono gutturale. Un violento impeto di
tosse gli ruppe la foga del dire... e bianche le labbra, per lo sforzo
operato agitatosi un istante sul letto ricadde.

— I vostri nipoti non sono ancora arrivati... ma arriveranno in tempo,
state sicuro... e la vecchia lo guardò scuotendo il capo come allora
che s’era alzata dalla sua seggiola.

— Marta... vuoi farmi dannar l’anima sconoscendo il mio sangue!...
balbettò il morente... e dal suo ciglio uscì un lampo.

— Enrico e Carlo s’ubbriacano alla taverna del Gallo nero, ribattè
Marta. Nelle fibbre del vecchio corse un fremito!...

— Dannazione!... urlò sollevandosi come macchina inerte allo scatto
d’una molla... E il mio oro a chi lo lascierò io?... e ne ho molto
dell’oro!... dell’oro!... ripetè tra sè... dell’oro!...

— Verranno a tempo.... mormorò la vecchia.

Un lampo seguìto da uno scroscio di folgore passò dalla finestra, un
buffo di vento vi gettò contro la pioggia che diluviava.

Il vecchio rise... stese il braccio ed afferrò l’aggrinzata mano di
Marta.

— La dicono la casa dello stregone... gli susurrò piano all’orecchio,
e il demonio riderà. Ah si ubbriacano alla taverna mentre io muojo
qua?... solo, come un cane arrabbiato?... e tu, vecchia strega, dici
che verranno in tempo per avere il mio oro?... Ma sai tu ciò che io
lascio loro?...

— Quella cassa là... disse Marta segnando un angolo della stanza...
tanto di grazia di Dio!... che sarà gettata come un osso nella bocca
del lupo!...

— No... Marta... no... tu sei scema e non vedi un palmo al di là del
naso!...

Il vecchio s’era rizzato sul letto; Marta lo guardò e diè addietro
d’un passo; quasi ebbe paura di quella sua faccia che rideva d’un
riso da demone. — No, Marta, no!... ripetè egli... è la dannazione
che io lascio loro!... e l’ho accumulato per loro tutto quel tesoro...
guardalo, vecchia!... vi sono gemme che abbagliano, verghe d’oro che
pesano... ho sofferto ed essi non hanno mai avuto una parola per me...
li ho chiamati e mi hanno riso in volto... mi credevano povero, e mi
lasciano morire come m’hanno lasciato vivere... bisognava bene che mi
vendicassi dei loro torti!... bisognava bene che loro rendessi il male
che m’avevano fatto!...

— Ed avete lavorato e studiato, e vegliate le notti, e consumati i
giorni per far ciò?...

— Sì, ripetè il vecchio, il cui aspetto divenne cupo e severo. Sì,
Marta!... ho lavorato, ho studiato, ho vegliato le notti sui libri, ho
consumati i giorni chiuso nel mio laboratorio, mi abbisognava dell’oro
per coricarmi vendicato nel mio sepolcro... e ne ebbi... fra poche
ore... ebbri dall’orgia essi cacceranno le mani entro quelle gemme....
palleggeranno quelle verghe che io ho fuse... e sai tu che sia l’oro
per due anime dannate... in cui non ha alimento un’idea che non sia una
colpa?...

— Quell’oro dev’esser diviso, Marta!.. essi si uccideranno per non
dividerlo!...

Marta arretrò spaventata e biascicò tra le labbra non so quali parole.

— Sì, continuò il vecchio, aveva bisogno d’aver dell’oro perchè
voleva che fosse d’oro il pugnale avvelenato con cui voleva colpire...
L’oro... questa leva potente delle umane passioni è in mia mano.... ed
io me ne faccio strumento... Io punisco... Dio perdoni!...

Il vecchio erasi sollevato sul letto grande d’una maestosa imponenza...
L’avresti detto bello!... la lunga barba cadevagli sul petto e vi
tremolava sopra; il capo maestosamente teneva alto, sulla sua fronte
eransi appianate le rughe, il fuoco dell’animo ridesto come da
focolare sotto la di cui cenere si rimuova la bragia, lampeggiava
sinistramente... Egli lasciò il braccio di Marta che lo trasse
intormentito e levò gli occhi al cielo quasi chiamandolo a testimone,
giudice ei della colpa, a cui faceva tribunale la sua coscienza...
La procella infuriava sempre più, Marta attonita guardava il vecchio
alchimista la cui figura assumeva in faccia al suo spirito agitato
strane e fantastiche forme... le parve intendere all’orecchio un
ronzio di leggende, di fantasimi e di morti, e di diavoli che sulla
groppa portavano le anime che avevano comperate, e si ricantucciò
presso al fuoco ascoltando lo sbatter delle imposte scosse dal vento,
il rimbalzar della pioggia sui vetri delle finestre, e sogguardando
furtiva verso il letto, tal quale il vecchio si era disteso in un
assopimento che assomigliava l’immobilità della morte.



CAPITOLO III.

La taverna del Gallo Nero.


Dove ora si distende fiancheggiata da modesti caseggiati la contrada
anticamente _Via torre dello Zucchero_, ora _Via Tazzoli_, nome
che prese da uno dei nostri più illustri martiri che col sangue
consacrarono la grande opera del nazionale riscatto.

A destra volgendo verso la piazzetta del Bargello, esisteva un
viottolo stretto stretto; i muri laterali degli edifici che vi facevano
angolo sembravano combaciarsi all’estremità del tetto e formavano una
specie di vôlta sotto cui echeggiavano or le frequenti risa, or le
imprecazioni con buona volontà sonore degli avventori del Gallo Nero.

La taverna del Gallo Nero aveva una rinomanza _sui generis_, se ne
discorreva molto, e talvolta a voce molto bassa; attorno ai tavoli
forniti sempre di buoni boccali vedevi maschie figure dal colorito
bruno e rosso, dai capelli arricciati, colle loro maniche rimboccate
sul gomito che facevan sfoggio d’una nervatura da toro; vi si giocava
pacificamente una partita di carte, si somministrava qualche ceffone
e si tirava dritto, per una parola di traverso.... erano buona
gente affè gli avventori della taverna dello Gallo Nero! E quel
caro padron Tonio.... Aveva una moglie che la faceva in barba alle
dame di città!... e alle castellane di provincia!.... pesava più di
200 chilogrammi!... senza l’aggiunta delle sue dieci sottane che le
davano la periferìa d’un tino; era grossa come un frate, rossa come un
cocomero!.... Sapeva la storia di Guerino.... e ti parlava a mena dito
della grande spada di Bovo d’Antona primo cavaliere del mondo!.. e di
cui diceva che si sarebbe innamorata morta, fregiandolo dei suoi colori
in onore dei quali col suo spadone avrebbe ammazzato più Turchi che
ella non ammazzasse polli per gli avventori del Gallo Nero....

Guai però se l’ottima mamma Gaetana, guardando fuor della bottega
avesse susurrata una parolina all’orecchio dell’ottimo marito e se
l’ottimo marito, quel dabben uomo del padron Tonio, l’avesse fatta
correre per l’eccellente brigata... ogni mano lasciando la tazza o la
carta si cacciava a frugare il fondo d’una tasca, ed in ognuna delle
tasche di quei bravi figliuoli c’era da scommettere che non mancava
un buon coltello o qualch’altra cosarella!... chè i tempi correvano
calamitosi, dicean essi, e il pane costava caro.

— Porta da bere, vecchio orso!... gridò uno della brigata, battendo
forte col pugno sul tavolo in modo da far traballare le colme tazze dei
compagni.

— Ohè!... lì!... piano colle tue smanie, Enrico... gingillo mio! Affè,
cos’hai stassera?... hai veduto l’orco per istrada?... gli borbottò un
vicino a cui avea fatto spandere dal bicchiere un po’ del suo vino.

— Ho... ho... borbottò l’apostrofato con mal umore crescente, che
m’avete fatto liscio come un uovo!... ma... dannazione dell’anima mia!
che raddoppio la posta!...

— Raddoppia la posta... sogghignò un compagno urtando nel gomito un
omaccione corpulento il quale andava sfogliando le carte in attesa che
si sciogliesse la questione.

— Che ci hai a ridire tu... eh?... ribattè di nuovo Enrico a cui il
mal umore montava al capo coi vapori del vino... tienti in gola quei
tuoi sogghigni o che a quella tua strozza nata fatta pel boja, fo io un
occhiello da cui tu abbia a tirar fiato più presto!...

— Eh, eh! come si galoppa, saltò su l’omaccione... la fai presto cogli
occhielli tu... è vero che della forca non hai paura, che il Mago della
Valle avrà ben qualche filtro per il suo giojello di nipote, per farlo
tramutare in chi sa che arnese!... senti, Enrico! se fossi in te vorrei
prendermelo il gusto di farla al compare!... che resterìa di stucco
vedendoti sfuggirgli di mano come un’anguilla proprio allora che ti
stesse facendo il tiro.

La facezia fe’ rider la brigata e calmò l’ira che s’addensava nel
cervello del giovine.

— Va là... siedi qua e bevi... e lascia andare la fortuna per la sua
strada!... la fortuna!... e tu vuoi dar di cozzo contro le muraglie
se la non ti fa il viso dolce?... La è una maranna di strega da far
ammattire san Giobbe che l’era quel santo che tutti sanno e che nessuno
di noi lo somiglia... Corpo d’un otre!...

E porse la tazza ad Enrico che la vuotò d’un sorso.

— Hai ragione, Giacomaccio!... tanto fa!... quando si è rotto il capo
bisogna tenerlo rotto, o pagar la fattura del medico, e al gioco quando
quel birbo di satanasso dice di no... non c’è corna di santo che gliela
faccia tener dura!... Ne ho perduti tanti stanotte da far baldoria per
un secolo... Porta del vino... oste!... Compare Tonio!... orso!...

Il giovine che si scalmanava in tal modo, dando sfogo all’orgasmo che
gli arrovellava l’animo, era uno dei due nipoti dell’alchimista; era
venuto da Milano ove era stato al servizio d’uno di quei signorotti
che reggevano con ferreo giogo quell’infelice paese!... s’era venduto
per tanti scudi d’oro al mese, che aveva spesi orgiando e giuocando,
ed imprecando ad ogni giorno che ritardava la morte di suo zio da cui
sperava un’eredità che le dicerie del volgo dicevano favolosa, benchè
patteggiata col diavolo. Seguitava la sua vita di prima, correndo
dietro a tutte le donzelle che gli fosser date nell’occhio, frugando
in tutte le bettole ove avesse stanata una bisca, e gozzovigliando
colla peggior feccia della plebaglia, che non moriva sulla forca quando
i signorotti dei dintorni ne facevano carne da macello per servire
ai loro capricci in quelle eterne rappresaglie che per tanti anni
insanguinarono la nostra povera terra.

Avvenente di figura, dalle fattezze regolari, dall’abito lindo ed
azzimato, dall’occhio ardito, in cui il pensiero lampeggiava rapido,
mobile, ardente, aveva fortuna come si suol dire, col bel sesso.
Ond’egli pareva si fosse assunto la missione d’essere la pietra
di prova sulla generale specialità di queste gentili eredi della
seduzione, e che propendono tanto ad amare i cattivi soggetti, forse in
omaggio all’antica Eva che scelse un serpente fra tutti gli angeli del
Paradiso.

Dissimile da suo fratello Carlo, animo avido e cupo; chiuso in sè
e dominato da una sordida avarizia, Enrico metteva nel fare il male
quella sfrontata impudenza che talvolta lo rende scopo all’ammirazione.
Egli faceva il male per il male, per la voluttà di compierlo, per poter
dire a sè stesso, dovevo arrivare fin qui, e vi sono arrivato!... la
donna da lui oggi tradita, non era domani per lui neppure una memoria,
dacchè il suo nome non era che uno di più aggiunto agli altri che
insultava col cinismo del labbro, e seppelliva col gelo del cuore....
Avrebbe ucciso un rivale, non per soddisfare al suo amor proprio
oltraggiato, ma per far pesare un rimorso di più sull’animo di colei
che giurava d’amare, ed a cui avrebbe portato in dono il suo pugnale
tinto di sangue.

Mantova sotto la signoria del duca Ferdinando Gonzaga offriva ampio
campo allo sfogo di un’indole di tal tempra; nato in un’epoca in cui
l’audacia era l’arme più potente onde imporsi alla forza che gli stava
ringhiosa di fronte, gelosa solo, non della giustizia che avrebbe
dovuto difendere, ma di lasciarsi torre il passo!... cosa non era
lecito a chi avesse animo d’osare tutto, sconoscendo tutto quanto
non era l’impulso della propria volontà imposta a legge e conseguita
coll’arbitrio?...

La superstizione popolare che almanaccava sui sortilegi del Mago della
Valle, a lui suo nipote era più che egida, attorniandolo d’una tal qual
paurosa trepidazione che non osava scrutare apertamente ne’ suoi atti
per timore che ad un suo scongiuro il diavolo a cui la sua anima si
doveva essere al certo venduta, gli comparisse fedel servo, e giocasse
chi sa qual tiro a chi fosse stato da tanto da immischiarsi negli
affari suoi!...

Tale era in faccia al volgo il più giovane nipote all’alchimista
della valle, ed in faccia a sè stesso poi, un rompicollo che se non
entrava nella casa di suo zio mentre stava morendo, lo faceva forse per
togliersi alla tentazione di dargli un’ultima mano e con pietosa opera
finir così la sua lunga e per lui molto seccante agonia.

Compar Tonio, l’oste del Gallo Nero, al sol sentirlo gridare da
indemoniato, corse a spillar la sua botte migliore, e gli portò vino
con umile sommissione.

— Bravo, compar Tonio... gli disse il giovane poi che ebbe gustato il
vino, battendogli famigliarmente sulla spalla, acquetato forse nella
sua rabbia dall’effetto che aveva prodotto sul vecchio ostiere che
sapeva uomo di buona stoffa e degno di essere a capo della fida brigata
de’ suoi avventori.

— Hai spillata una botte nuova eh?

— Padron Enrico!... è di quello che non tutti han la fortuna
d’assaggiar troppo spesso!....

— Bene.... Tonio!.... lascia che crepi mio zio e te ne vo’ lasciar
giù in questo tuo antro, di quei buoni scudi che tu fai suonar sì bene
ammucchiati... nella tua cassa...

— Io degli scudi!... padron Enrico.... borbottò il degno compare che
aveva provato un fremito al sentir nominare la sua cassa da quello
stimato avventore che era padron Enrico, e facendosi piccin piccino
seguiva: Madonna benedetta!.... l’assicuro io che si pena e come... a
viver di pane con questi tristi guadagni!

— Non aver paura... no... che non voglio già mangiarteli i tuoi
scudi!... vecchio orso... purchè tu mi dia vino, e non abbi ad aprir
becco.... e voi qua.... bevete!... alla salute di Belzebù!... e che
sulla sua groppa si porti presto l’anima del Mago!...

Le tazze furon vuotate in un sorso. La porta della taverna si aperse
d’un tratto... e sulla soglia apparve un fantasima avvolto in una
coperta di lana bigia che si confondeva colla oscurità dell’andito che
dava ingresso alla taverna.

I bicchieri caddero di mano ai bevitori!... Enrico si volse e diè in
una risata stridula e convulsa...

— Il vecchio muore!... balbettò la vecchia Marta dalla soglia sulla
quale era apparsa in sì improvviso modo, e da cui ritta ed immobile
avea ascoltate le ultime parole d’Enrico.

— Fratello che insulti tuo fratello, figlio che insulti tuo padre!...
la vendetta del cielo sta sul tuo capo... ripetè essa con voce fessa ed
acuta.

A quelle parole che parevan uscire dalla bocca d’uno scheletro,
dalle cui occhiaje larghe, aperte e profonde scintillava un raggio di
fuoco, Enrico sentì un brivido scorrergli le fibbre, un gelo rapido,
improvviso, gli serrò il cuore; si alzò quasi involontariamente. La
vecchia era scomparsa...

Degli avventori del Gallo Nero non uno trovò un accento.... quella
strana apparizione aveva gelate tutte le labbra, gli occhi di tutti
erano ancora fissi, immobili su quella soglia, sulla quale a ciascuno
pareva ancor di scorgere quella forma di cadavere che pure avea una
parola... e che pareva fosse sorta da sotterra per rispondere ad un
insulto, sollevando la parola della minaccia fra il fragore dell’orgia.

— Al diavolo la strega e pace ai morti!... mormorò Enrico vuotando di
nuovo la tazza che aveva deposta sul tavolo.

— Il vecchio muore!... gli ripetè una voce dietro di lui!...

Un pugnale scintillò rapido nella destra del giovane che si volse
tremando per tutte le fibre.

Suo fratello Carlo gli rise in faccia in strano modo.

— Hai proprio paura dei morti?... gli disse egli mescendosi vino.

— Al diavolo anche tu!... Bel modo d’annunciarti, con quel maledetto
ritornello.

Vieni fuori che il vecchio ci aspetta.

— Non ti vidi tutta notte.

— Ho passeggiata la campagna spiando il lume che arde nella stanza di
nostro zio.

— Lascialo spegnere in buona pace...

— E s’io ti dico che è spento?...

— Sarebbe morto il vecchio?... esclamò Enrico stringendo la mano del
fratello.

— La vecchia era uscita per chiamarci... ma il lume ardeva ancora nella
stanza del vecchio, disse il fratello con lugubre accento.

La vecchia camminava per la strada avvolta nel suo sciallo grigio
e pareva si confondesse colla nebbia... Il lume ardeva ancora, essa
poteva tornare, e il tempo fugge sì presto!... aveva lasciata aperta la
porta... io sono entrato... ed ora il lume non arde più nella casa del
vecchio.

Ad Enrico si rizzavano sulla cute i capelli, l’occhio di Carlo facevasi
fosco fosco, la sua voce cupa cupa.

La mano che gli serrava il braccio gli parve fredda come l’artiglio
d’un demone, provò quel ribrezzo che si prova al sentirsi girare
intorno alle membra le spire d’un serpe, gli sembrava di vedere
il vecchio steso sul suo letto, e il lume crepitare debolmente, e
un’ombra strisciare tra le tenebre, compiersi il delitto, e sul capo
dei colpevoli gracchiare la stridula voce della vecchia... sinistra
profetessa di sventura che sul capo degli assassini salmeggiava il
versetto della Bibbia che chiama il cielo a vindice sui delitti della
terra!...



CAPITOLO IV.

La ballata dei morti.


I due fratelli uscirono dalla taverna; eran cupi e silenziosi come la
notte che s’addensava sul loro capo fosca di tenebre. Addentratisi per
le varie vie della città, giunsero a Porta Leona quasi senza scambiare
un motto; tutto taceva a loro d’intorno, dalle finestre non splendeva
un lume, sentivasi solo il suono alternato dei loro passi al cui rumore
si volgevano talvolta di soprassalto, poi riprendevano la via.

La casa dell’alchimista giganteggiava nelle tenebre, il vento della
notte vi fischiava intorno, l’acqua del canale rumoreggiando seguitava
il suo corso, essi ristettero, pareva che un arcano senso di paura li
rattenesse dall’avvicinarla.

Enrico mosse per il primo con passo fermo, squassò le sue lunghe
chiome che gli scendean sugli omeri a guisa di chi voglia scacciare un
importuno pensiero o vincere un’infantile impressione dell’animo e si
fe’ innanzi. Il portone era chiuso.

— Chi è entrato in casa? domandò al fratello.

— Sarà la vecchia Marta che venne a cercarti alla taverna.

Enrico diè di piglio al battente ed il silenzio della notte fu rotto
dai reiterati e gravi colpi percossi sul maglio e che sinistramente
echeggiarono nella valle.

Non un rumore interno vi rispose.

— Apri, strega del diavolo!... gridò Enrico con accento irritato.

Carlo stava immoto, con fissi gli sguardi al suolo, s’intese lo
stridere d’un finestra che si aperse, egli trassalì, un lume brillò
dall’aperto vano.

— Apri, Margherita, mormorò Enrico.

Il lume disparve ed indi ad alcuni istanti, dalla toppaja si vide
splendere una luce, poi s’intese una voce chioccia in tuon gutturale
cantare con monotona cadenza alcune strofe d’una vecchia ballata.

    Buh! buh! buh! — non strider tanto
    Uccellaccio della notte!...
    Senti?... è il gemito dei morti
    Che risponde a quel tuo canto,
    Uccellaccio della notte
    No, non strider — Buh, buh, buh!...
    Quando i morti sono morti,
    Va pur via, non tornar più.

— Apri strega! borbottò ma più piano la voce d’Enrico, quasi che egli
stesso ne avesse avuto paura.

La porta stridette sopra i suoi cardini arrugginiti, la vecchia sempre
avvolta nel bigio suo sciallo, reggendo una lanterna che spandeva
d’intorno una fiocca luce, diè passo ai due fratelli che entrarono e
mossero verso la scala che metteva al solo piano di cui era formata la
casa ripetendo fra sè mentre richiudeva la porta le strofe della sua
lugubre ballata...

    Buh, buh, buh!... non strider tanto
    Uccellaccio della notte.

Un guffo squittì dal comignolo come se volesse rispondere all’appello
della vecchia... Essa rise mostrando i pochi e gialli suoi denti sotto
la floscia epidermide delle sue labbra raggrinzate e smunte.

— Vuoi tacere, Margherita!... col tuo gingillo di canzone, gli gridò
irritato Enrico.

— È la notte dei morti ed io canto il canto della morte, rispose la
vecchia... Ardeva il lume nella stanza del vecchio, un soffio ha spento
il lume, e l’assassinio ha soffocato il respiro della sua bocca...

— Che parli tu d’assassini e di lume?!... si volse a dirle Carlo con
voce che appena appena poteva dirsi intelligibile.

— Il lume ardeva quand’io sono uscita dalla casa... non ardeva più
quando sono entrata, l’olio non era consunto e il vecchio non poteva
spegnerlo... La notte dei morti è fredda come questa notte, e i gufi
cantano sui tetti delle case ove abitano i cadaveri.

    Uccellaccio della notte
    No, non strider — Buh, buh, buh!...
    Quando i morti sono morti
    Va pur via, non tornar più.

— È pazza, mormorò Enrico... e trascinò pel braccio Carlo che pareva
inchiodato sulla soglia della stanza verso cui movevano ascoltando la
voce stridula della vecchia che si perdeva lenta e monotona come il
lamento che si scioglie sopra una tomba.



CAPITOLO V.

Il Testamento.


L’indomani di quella notte tra le cui tenebre il delitto aveva compiuta
l’opera sua, per tutta la città e pei dintorni si sparse la voce
della morte del vecchio alchimista. Si parlava da per tutto d’un’ombra
bianca che qualcuno mentre chiudeva le finestre per mettersi a letto,
aveva veduto gironzare per le vie, e dicevano anche che cantasse uno
strano canto, onde taluno credette fosse l’anima del mago che andasse
chiamando lo spirito a cui s’era venduta. Quel che è certo si è che
un vecchio notajo chiamato dai nipoti dell’alchimista a schiudere la
stanza del morto trovò disteso sul letto il suo cadavere; gli occhi del
vecchio erano aperti tuttora, fissi ed immoti nell’orbita spalancata
enormemente, attorno al collo aveva delle violacee lividure, un
braccio scarno e stecchito improntato ancora dalla violenta contrazione
dell’agonia stava penzoloni fuori delle coltri arruffate, ond’ei si
sorprese di quegli indizi quasi d’una lotta disperata con cui pareva
avesse scongiurata la morte, mentre vecchio e debole come era avria
dovuto addormentarsi tranquillo nell’eterno sonno. Che, che però avesse
pensato tra sè il notajo, fu cosa che restò sepolta nel suo pensiero
nè anima mortale lo seppe, chè i due nipoti dell’alchimista assistenti
al funebre ufficio avean tali ceffi in quel momento da far gelare la
parola sulle labbra di chiunque non foss’ei pur stato un dei notaj
d’allora, avvezzi a ben strane funzioni inerenti alle pratiche del
loro ministero, e benchè vecchio, il notajo ci teneva alla vita per non
creder conveniente di sprecarla per pettegolezzi da donnicciuola. Egli
trovò che il morto era morto, che il cadavere era quello di Marco il
guardiano del palazzo, professo nelle scienze occulte, possessore della
casa che aveva ereditata dal signor conte Paride Ceresara, morto perchè
tutti devono morire, ed egli che passava gli ottant’anni di vita era
giusto che morisse.

Il testamento del vecchio era chiuso in una busta di pelle di daino
unito ad altre carte di famiglia. Lo dissuggellò in presenza ai nipoti
e ne fe’ regolare lettura.

Consisteva in pochissime righe, scritte con mano sicura.

  _All’ultimo vivo de’ miei nipoti Enrico e Carlo lascio l’intera mia
  sostanza di cinquantamila scudi romani chiusi nella cassa di ferro
  che sta a capo del mio letto._

                                           _Io Marco Berlinghieri._

      _L’anno di grazia 1517._

Fuvvi un lampo di sangue nello sguardo che si lanciarono i due fratelli
alla lettura dello strano testamento, la vecchia che muta sedeva in un
angolo della stanza rise di quel suo mal riso da meggera.... Il buon
notajo sentì un fremito corrergli per l’ossa e gli sembrò mill’anni
d’esser lontano da quella casa, di respirare un po’ più liberamente
l’aria del mattino e di vedere all’aperto un raggio di sole. La sua
mente agitata gli dipinse strane immagini di sangue... e rantoli
d’agonia, e minaccie di morte... e ritto in mezzo a quella stanza
vide il fantasma del delitto battere le negre ali, e assidersi cupo
dominatore di quella casa maledetta... e gli parve che il braccio
stecchito del vecchio volesse levarsi per segnare sul fronte un
omicida... e quella bocca di morto mandar chi sa che strane accuse...
e con quel cadavere stringersi un altro corpo in un abbraccio, ond’ei
fuggì via spaventato, e non ebbe passata la soglia che un grido
tremendo d’agonia gli ghiacciò il sangue nelle vene e il fe’ restare
immoto, e ascoltò suo malgrado, e intese un dibattersi convulso come di
chi lotti, e un lamentar di chi muore... e giù dal fondo del cortile
intese di nuovo il ridere della vecchia, che andava ripetendo in tuon
funebre la triste ballata dei morti.



CAPITOLO VI.

Il fratricidio.


Suona a morte il funebre rintocco d’una squilla... Dio!... come le
tenebre son cupe!... Mai notte più grave di nebbia calò sulla terra...
senti un vociar di salmi?... e la terra che cade sovra una bara?...
Vedi i lumi del cimitero vagar tra le croci come anime di morti che
escon fuor delle loro tombe?.. L’uomo della casa maledetta riposa
sotterra... L’ultima vangata è caduta sul suo feretro, oramai non
rende più suono.... è colmo l’orlo della fossa, il becchino vi distende
sopra la smossa argilla, fra poco vi spunterà l’erba, e l’anemone vi
olezzerà vicino fecondato dal sole.... Il giardiniere del cimitero
è prodigo di fiori alle tombe. È un nobil cuore il giardiniere del
cimitero.... se lo chiedete ai parenti dei morti vi diranno per quanti
scudi egli coltivi i suoi fiori... per quanti scudi con cura più che
pietosa copre di terra i feretri... per quanti scudi... vi sterra un
teschio e lo imbianca colla calce perchè vi brilli liscio e lucido
sullo scafale d’una biblioteca, o dentro un museo d’anatomia. È un uomo
che si vende a buon mercato il giardiniere del cimitero!... ed egli non
domanda altro che di stringere colla pietà pubblica i suoi contratti
di mestiere... È il più onesto dei trafficanti, chè da alcuno dei suoi
avventori mai fu mossa lagnanza sul suo conto!... Madre pietosa che
vuoi spargere una lagrima sulla tomba della tua fanciulla... la vuoi tu
vedere ornata dei fiori che tanto le erano cari?... Paga uno scudo al
giardiniere del cimitero... per meno ei ti lasceria crescer le ortiche,
e potresti pungerti le mani se il dolore ti facesse della terra un
bisogno a sostenerti. Giovane innamorato, vuoi tu veder fiorita la
tomba della tua bella che sapeva offrirti quelli del suo giardino
con tanta grazia?... Dà uno scudo al giardiniere del camposanto... È
l’ultima speculazione della vita il traffico del cimitero!... e costa
così poco la tomba, se ne togli la tariffa del prete!...

S’udiva uno strano fracasso nella casa della valle; esso veniva da una
camera che faceva parte dell’ala sinistra del cortile. Era una stanza
senza arredi sotto cui passava l’acqua del Mincio; l’acqua si sentiva
rumoreggiar di sotto e frangersi ai piedi dell’edificio che rasentava
seguitando il suo corso. Era come un martellar di picca... lungo,
continuato, monotono...

La vecchia Marta sedeva immota d’innanzi al portone e sogguardando
dalla parte dove veniva quel rumore, mormorava a voce bassa:

— È passata l’ora in cui al cimitero si seppelliscono i morti... L’ora
è passata, ma i morti non sempre si seppelliscono al cimitero.

S’intese un fragor sordo come di terreno che rovini... poi un tonfo
nell’acqua.

— Caino!... Caino!... mormorava la vecchia la cui voce diventava
più cupa, e dentro alle sue livide occhiaje balenò un lampo: Caino,
Caino!... ripetè ancora fra sè.

Enrico pallido, affannato, usciva dalla stanza verso cui guardava la
vecchia.

    Buh, buh, buh, buh!.... non strider
      Uccellaccio della notte
      Senti?.... è il gemito del morto
      Che risponde a quel tuo canto.
      No, non strider — buh!... buh!... buh!...
      Quando i morti sono morti
      Va pur via, non tornar più.

Mandando dal petto la chioccia sua voce la vecchia Marta si era
avviluppata nel bigio sciallo s’era ranicchiata nel suo seggiolone,
lugubre profetessa di sventura, e pareva starsi là tremenda accusatrice
d’un delitto che altero sfidava la legge, perchè la morte gli era
eterno suggello.

— La pazza!... mormorò Enrico che gli passava vicino nel salir la scala
che metteva all’interno del palazzo.

E l’eco dei deserti saloni pareva che ripetesse in tuon lamentevole
come la voce della vecchia, Caino!... Caino!...



CAPITOLO VII.

In cui si parla di ciò che si dice.


Enrico era rimasto solo signore della Casa della valle; ei vi stette
assente per molto tempo e tra le mura del vasto edificio non s’udia
in allora dai passanti che la monotona cantilena d’una canzone che
di tratto in tratto vi vagava come un lamento, era la canzone della
vecchia Marta.... la pazza della Casa della valle, che sola vi abitava,
ed a cui consentiva quella dimora la voce generale che tale la chiamò
pel tempo che vi visse chiusa sempre in sè stessa, muto il labbro ad
ogni inchiesta, se pur fuvvi qualcuno che avesse osato interrogare la
vecchia custode d’una casa fatta segno dalla superstizione dell’epoca
alle più assurde e strane dicerie.

Il signore di quel luogo v’era tenuto quasi per un essere
soprannaturale che avesse stretto chi sa qual patto colle potenze
infernali che gli davan mano a compiere le sue faccende, a voce bassa
il popolo lo chiamava il diavolo nero; il vecchio portone del palazzo
schiudeva i suoi battenti per lasciarlo passare montato sopra un nero
cavallo, alto di forme, robusto, indomato, che scalpitava caracollando
e via fuggiva portandosi sulla groppa il giovane cavaliere che i
passanti stavano paurosi a riguardare da lontano, parendo loro di
vederlo ad ogni sbalzo rotolargli tra le zampe; ma nulla di questo
accadeva, ed ei noncurante, reggendolo colla destra leggiermente,
via passava come una visione che impauriva i fanciulli e le vecchie
della città. Di notte allor che cupo sibilava il vento o scrosciava
la pioggia, sentivasi dagli abitanti che queti dormivano, batter
l’ugna ferrata del suo cavallo il quale galoppava per le vie...
e allora qualche finestra aprivasi furtivamente per tener dietro
all’ombra che rapida passava di via in via finchè ogni rumore taceva, e
bisbigliavansi al domani strane voci di fantasmi, e dicevasi che da un
balcone fosse sceso uno spirito bianco che il cavaliere aveva portato
con sè fuggendo a corsa verso il suo palazzo, e che quando il portone
s’era spalancato da sè stesso per lasciarlo passare, una gran vampa
di fuoco tutto lo avesse ravvolto... ond’ei scomparve non sapevan se
sotterra, ma lo credevano i più.

Fuvvi qualcuno che disse arditamente dover la giustizia metter mano
entro i misteri della Casa della valle; ma un tal fornajo che aveva
parlato di ciò troppo forte e con troppo calore fu trovato morto sul
ponte del canale là dove ove ora si fe‘ della vecchia casa che lo
fiancheggiava il macello pubblico della città, e le voci si tacquero
impaurite e tremanti, che dove c’entran le corna del diavolo diceva il
volgo, il berretto della giustizia non può far capo.

Arrivati a questo punto del nostro romanzo a cui la leggenda presta
le sue tinte fosche ed indefinite... ne è d’uopo portare l’attenzione
dei nostri lettori sopra alcuni fatti che accadevano prima ancora
che queste varie vicende si fosser compiute nella Casa della valle...
vale a dire quando appena lasciato il soldo del Visconti fra la cui
sgherraglia militava Enrico a Milano, ei venisse a Mantova chiamatovi
dal desiderio della vistosa eredità che sapeva spettargli dopo la
morte dello zio e che da uomo della sua tempra, stimava non potergli
sfuggire, qualunque fosse per essere il mezzo col quale avesse dovuto
conseguirla.



CAPITOLO VIII.

Giulietta.


Era uno di quei bei mattini d’Italia, quali si ammirano col cuore
sussultante di voluttà sulle amene rive del Lario; ove si ascolta il
fremer dolcemente delle acque del lago contro i massi di granito di
quelle roccie, sul cui dosso l’opera della civilizzazione ha coltivato
leggiadri giardini e vaghi caseggiati, che si fiancheggiano l’un
l’altro gareggiando in pompa di bellezza. L’usignuolo nascosto tra le
verdi siepi vi trilla il suo gorgheggio, mesto talora come il sospiro
d’un cuore che su quelle belle sponde venga a cercare l’oblio, e vi
trovi rinvigorita la memoria. Ove l’amore martelli l’anima qual altra
cosa che amore si può egli sognare sotto l’azzurro di quel cielo che si
contempla in quello specchio lucente contornato da tanta magnificenza
indefinibile?...

Faceva angolo alla strada che da Chiasso conduce a Mendrisio una
modesta casetta; una delle sue finestre che dominava la campagna era
aperta e vi vedevi ad ogni tratto apparire il bel sorriso d’un labbro
roseo, da cui era animato, leggiadramente un fresco volto di fanciulla.
Essa era bella!... aveva le guance paffutelle, occhio vispo e nero,
capelli che le scendevano in ciocche d’oro sugli omeri tondeggianti;
era un bel angelo, una di quelle care creature che crescono là, al
rezzo di quelle arie imbalsamate dagli aromi della montagna, ove
passano la loro prima età, correndo come vispi capriuoli su e giù per
gli sdrucciolevoli sentieri delle amene vallate, inerpicandosi di masso
in masso tra i pruni e gli sterpi, e riducendosi alle soglie delle loro
case, con più di forza nel corpo, con più di fame allo stomaco, e con
una salute cresciuta a norma delle trascuratezze d’una vita libera di
quei tanti riguardi che intisichiscono sul fior dell’età quelle gracili
complessioni che talora si svolgono tra le sontuose mura d’un palazzo,
prive d’aria e di sole, come un fiore tra le vetraje d’una serra.

Giulietta era la figlia di onesti bottegai che facendo scrupolosamente
il lor dovere avevan lasciata la vita, la madre l’aveva perduta in una
malattia che da qualche anno infieriva nei dintorni del lago; il padre,
perchè era arrivato a quell’età nella quale s’accetta la morte come una
tassa che tutti s’ha da pagare a quel inesorabile doganiere che è il
tempo.

Giulietta rimasta erede della casetta che abitava e di un piccolo
censo, viveva tranquilla colle soavi memorie de’ suoi cari e colla
vecchia governante che fanciulletta l’aveva cullata sulle sue
ginocchia. Era la sua governante una buona pasta di donna, dalla
voce burbera piuttosto che no, e dal cuore largo, aperto, per buttar
fuori senza cerimonia quanto le passava nell’animo; tutto amore per
la sua figlioccia, e guai a chi la toccasse!..., chè le comari del
paese ne sentivan di sode allora!... Ma nessuno sparlava della bella
bionda... e la sua vita scorreva tranquilla, come il rigagnolo che
lambiva il margine del praticello che le aveva lasciato suo padre...
Diceva qualche voce, sommesso sommesso, che una buona ragazza non
deve far scapucci, e che chi si lascia andar giù per quel sentiero, è
ben difficile che si rizzi in gambe, ed il suo scapuccio la Giulietta
l’aveva fatto, e sulle ginocchia della mamma Gaetana, salterellava
fatto baloccar dalla nonna un vispo fanciullino che aveva allora appena
dai 4 ai 5 anni, e che la chiamava mamma con tanta grazia, che la
Giulietta ne divorava coi baci il bel visino che le sorrideva tutto
gioja ed amore.

Ma quei del paese che sapevan tutte queste cose, sapevan anche che
Francesco il suo fidanzato era un bravo ragazzo, che aveva un buon
cuore, buon nome di lavorante alla filanda di seterie, che il suo
principale teneva ben montata in Como, e che se lo teneva a petto come
il miglior capitale della sua fabbrica... I begl’imbusti dal canto
loro l’avevan veduto più d’una volta che s’era trovato in qualche
ingarbugliata faccenda uscirne a forza di braccia, che madre natura
gli aveva fornito con vigorosa muscolatura, e tutte queste buone
ragioni sommate insieme, facevan sì che di lui s’avesse quella stima
che meritava il fidanzato alla bella bionda del paese, che l’avrebbe
sposata appena avesse finito un suo affare.

Quella mattina pertanto la Giulietta apparentemente agitata spiava
dalla finestra l’arrivo di Francesco che tardava d’alquanto, e
ritirandosi dalla finestra guardava con sorriso più tristo del solito
il suo vispo bimbo che giocava colla corona del rosario della nonna
Gaetana.

Pareva che un qualche segreto pensiero turbasse il bel sereno della
sua fronte sempre gaja, e questo senso d’ansia inquieta si faceva
sempreppiù visibile a seconda che il pendolo d’un orologio situato
sul davanzale del caminetto della stanza batteva monotono l’inalterato
suono del tempo che scorre sempre così lento allor che deve avvicinare
il momento della gioja, sì rapido quando affretta quello del dolore.

Non erano però scorsi che pochi istanti, dal labbro della giovine madre
uscì un grido che parve il fremito d’una nota d’armonia sublime! corse
al piccolo Adolfo, e se lo strinse al petto come per far argine ai
battiti del suo cuore, e quasi volesse rispondergli il vispo angioletto
gorgogliò nella sua lingua infantile uno di quegli affastellamenti di
suoni senza forma che solo il cuore delle madri sanno intendere, e che
essa concambiò con una pioggia di baci. Francesco svolgendo l’angolo
della via l’aveva salutata dal balcone e saliva la scala.

Giulietta gli corse incontro festosa e lo accolse con uno di quei baci
ardenti a cui l’anima affida tutte le espressioni che parola umana
invano si studierebbe d’imitare...

— Quanto hai tardato, Francesco!... gli disse poscia accarezzandogli la
fronte colla sua bella mano.

— Dovetti trattenermi in fabbrica per dare alcuni ordini, mia cara...,
il mio principale andò a Milano per qualche sua faccenda di premura.

— E tu sei rimasto in suo luogo... direttore... non è vero?...

— Già... proprio, mia cara... non serve che tu me la dia lunga!...
direttore!... è la vera parola...

Giulietta rispose all’apostrofe insolente con un bel bacio, che il
giovane gli ricambiò di tutto cuore. Poi Giulietta tolse di mano alla
nonna Gaetana il piccolo Adolfo, che stendeva verso l’artigiano le
sue piccole manine, glielo passò sulle ginocchia, ei se lo mise al
collo, poi gli parlarono come si suol parlare vezzeggiando con quelle
gentili creaturine quando l’amore fa assumere alla parola le mille
forme che ne sono l’indefinita ed indefinibile espressione, ed a cui
egli rispondeva a suo modo, chiacchierando alla sua maniera e dicendo
loro chi sa quante cose, onde il tempo scorse in modo da non accorgersi
ch’ei passasse. S’eran portati al balcone, ed a pieno petto respiravano
quell’aria vivificante, con quell’ebbrezza con cui pare che si guardi
l’immensa opera della creazione quando egoisti della propria felicità
si dica, è per noi tutto questo sorriso di cielo!...

Perchè tace sì repentino l’impeto di quella gioja così pura? perchè la
fronte della giovane impallidisce, mentre per contrazione convulsa si
stringono le pugna dell’artigiano, e il bimbo quasi avesse cognizione
di quanto avvenga s’aggrappa impaurito al collo della madre?

Un uomo aveva attraversato la strada, aveva gettato uno sguardo alla
finestra ed era scomparso scantonando.

— Lui!... mormora Francesco, levando il braccio in atto di minaccia
verso la parte per dove era scomparso l’incognito, lui!... sempre
lui!...

— Che hai, Francesco!... mio Dio!... che hai?... mormorò la giovane
rattenendogli il braccio che egli lasciò ricadere come scoraggiato.

— Ho.... fremè egli con voce cupa, che non so spiegarmi perchè ogni
volta che io sono vicino a te, e dimentico l’esistenza beato del tuo
sorriso d’angelo!... quell’uomo sorge tra me e la felicità, e col suo
ceffo beffardo e provocatore mi gela nell’animo lo slancio della fede,
la speranza dell’avvenire!...

— Sei pazzo, Francesco!... si sforzò a dirgli Giulietta, la quale non
potè soffocare un sospiro che le irrompeva dal petto agitato.

— Pazzo!... mormorò il giovane, oh no, Giulietta... perchè... non è
forse vero che tu pure hai provato ciò che io provo?... perchè tu pure
hai paura di quell’uomo?...

Giulietta si strinse al seno il bambino che mandò un lamento.

Successe un momento di silenzio. — Ti ricordi, Giulietta?... riprese
Francesco a voce bassa quasi temesse di sè stesso... o del suono
istesso delle sue parole... fu a Como che l’abbiamo veduto per la
prima volta... tu pregavi, io ti guardava... eravamo nella casa del
Signore, e il prete mormorava dall’altare le sacre parole del rito...
ad un tratto un fremito corse le tue fibbre... il libro quasi ti cadde
di mano... i tuoi occhi errarono incerti, vaghi a te d’intorno, io ne
fissai la direzione e lo vidi; era là... ritto, immobile, appoggiato
ad una delle colonne della chiesa... guardava in un modo che pareva
non avesse guardo, io sentii un brivido corrermi per l’ossa... tu non
avevi più letto sul tuo libro di preghiera, io non t’ho più guardata
come prima ti guardava; uscimmo e fermo come prima, immobile a sinistra
della porta egli era là...

— Siamo fanciulli Francesco, gli disse Giulietta con un sorriso; e che
può egli su noi? che ci importa che ei sia passato?... saremmo noi meno
felici di quel che prima non lo fossimo se non l’avessimo veduto?...

Francesco scrollò il capo. — È una fatalità mormorò egli... quell’uomo
ci porta sventura!...

Si sentì battere alla porta.

La nonna Gaetana corse ad aprire, un fattorino della tessitoria portava
una lettera per Francesco... Era del suo principale che lo chiamava a
volo di corriere a Milano, i suoi affari eran minacciati di grave danno
ed aveva bisogno che Francesco fosse all’istante presso lui...

Quest’annuncio imprevisto che gli giungeva in sì tristo momento, in tal
momento in cui il suo animo era soggetto a così sinistri presentimenti,
fu scintilla che s’apprende ad esca preparata. Mille strane idee
s’affacciarono al suo spirito agitato, ei vagò di pensiero in pensiero
fino alle più assurde fantasticaggini, se non che per uno di quei
contrasti così fecondi nella psicologia delle umane passioni, a norma
che più nell’animo di Francesco sorgevano queste febbrili immagini che
sotto l’esaltazione della mente prendevano una forma ognor sì varia,
forse perchè combattuti dalla stranezza istessa di quella specie di
delirio febbrile, quei dubbi e quelle agitazioni scemavano nell’animo
di Giulietta che si fe’ a persuaderlo con ogni modo dell’esagerazione
dei suoi sentimenti, e come d’assurdo in assurdo vagasse senza tregua
e senza confine, ond’ei si fe’ se non persuaso, almeno più quieto, a
seguire il corso di quelle idee dolci e miti per mezzo delle quali essa
combattendo le sue esaltazioni lo conduceva alla realtà delle cose, gli
mostrava essere necessaria la sua partenza senza frapporvi indugio,
che nulla aveva a che fare la presenza di quell’uomo misterioso con
quanto riguardasse i suoi doveri, essere la lettera del carattere del
suo principale che ben ei conosceva; invece delle chimeriche visioni
della sua mente esaltata esser vero e reale il bisogno che egli aveva
dell’opera sua... e che infine ella ben sapria nel tempo di sua assenza
essere come lo fu altre volte, custode del suo onore contro qualsiasi
attacco da chi si voglia mosso!... Lo accompagnò fin sulla porta con un
bacio, gli fe’ prender la strada di Como, e colla mano ricambiando ai
reiterati cenni del fidanzato, lo seguì collo sguardo fin che lo vide
nello sviarsi del sentiero sparire.



CAPITOLO IX.

Il vendicatore.


Erano scorsi tre giorni, non si sapeva alcuna notizia di Francesco, il
suo principale era tuttora a Milano, e nell’animo di Giulietta andavano
formandosi le più allarmanti inquietudini.

Tramontava il giorno; le campane del villaggio suonavano l’ave maria
della sera, e quel suono mesto e monotono scendeva sul cuore della
giovane madre come l’incubo di uno di quei presentimenti contro cui
la ragione non sa trovar argine per quanto essa sofistichi sulla
incoerenza indefinita delle umane passioni. Si è tristi talvolta
per qualcuna di quello impressioni di cui a sè stessi non si sa
render ragione, ma egli è perchè talvolta si mente a noi stessi per
farci d’un’illusione un conforto della vita. In queste apprensioni
dell’animo, ove si cerchi v’ha sempre il perchè, come non v’ha moto
senza vita, o vita senza moto... Il presentimento, la divinazione, non
è una follia stigmatizzata dal materialismo che vorrebbe ridurre le
aspirazioni dell’anima, a più o minori gradi d’azoto, o d’altro!... che
costituisca l’organismo animale dell’uomo.

Come un corpo si compone di infinite particelle, corpi essi puri legati
insieme da questo grande organizzatore della materia che è il tutto
della creazione, il presentimento si forma ed ingrandisce o scema
a seconda che i mille palpiti del cuor variano nel loro svolgersi a
seconda che le impressioni dell’anima subiscono quelle modificazioni
che sono prodotte dai fatti che le promuovono. È un senso dominante
il pensiero che si forma coi varj sensi che vi danno vita, e che li
riassume quando abbiano raggiunto il loro sviluppo; è una conseguenza
psicologica delle relazioni della vita per la qualità dei fatti che
le danno movimento.... E queste indefinite sì, ma pur reali cause
ai presentimenti vaghi di Giulietta non esistevano forse negli
strani incontri dell’incognito di cui subì sempre quell’involontaria
ascendenza quasi che alla sua vita fosse legata qualche causa che lo
riguardasse?... e le previsioni di Francesco non erano unite a quella
lettera che lo separava da lei, nel momento appunto che la fatalità
pareva ruggirgli sul capo minacciosa?... In tutto ciò v’era qualche
cosa di più che non fosse il sogno d’una mente inquieta. Giulietta
contemplava assorta in così tristi pensieri il sole che tramontava
recando ad altre terre il suo saluto mattiniero e tingeva l’orizzonte
di quel colore di fuoco onde rilucevano le vette della montagna.

Il suono dell’ave maria vagava giù per la vallata tristo tristo,
s’udiva da lungi il tintinnar dei sonagli delle mandrie guidate alle
cascine dalla lenta cantilena del mandriano che le accompagnava, e
la vaga canzone delle spigolatrici che a frotte se ne ritornavano al
domestico focolare.

Il fanciullo piangeva dal suo letticciuolo e respingeva le carezze
della vecchia nonna chiamando la sua mamma con alte strida... Accorse
Giulietta ad acquetarlo, ond’egli a poco a poco s’addormentò. Giulietta
lo posò nella sua culla, lo baciò sovra i suoi labbruzzi di color
carminio e si accinse a lavorare una sua cuffiettina di pizzo.

Si bussò alla porta della stanza; un fremito corse per le membra
di Giulietta, ella si alzò di soprassalto, prima che ella avesse
toccata la soglia, la porta si aperse ed un uomo le si affacciò; ritto
sulla soglia, atteggiate le labbra ad uno di quei sogghigni che sono
l’insulto beffardo che la forza lascia cadere sulla debolezza nella
impudente violazione del diritto e della coscienza.

Era un giovine, bello ed elegante, nere ciocche di capelli gli
sfuggivano sotto alle larghe tese del suo cappello andaluso, alla moda
di quei tempi in cui tutto era infestato dalla Spagna che invadeva le
nostre più belle provincie sotto il titolo di tutelatrice delle nostre
franchigie, che manometteva a sua voglia.

Egli stette per qualche istante come assorto nella sua cinica
ammirazione a contemplare la bella giovane che nel suo smarrimento era
restata essa pure immobile nel mezzo della stanza e come annichilita da
quella apparizione che realizzava tutte le vaghe paure della sua anima.

— Ebbene? siamo soli, mia bella fanciulla!... disse l’incognito
avanzando d’un passo ardito...

Giulietta si slanciò verso il balcone.

— Non avrei che a modulare un fischio e i miei fidi mi attornierebbero,
continuò l’incognito conservando una calma che più di qualunque
trasporto spaventò la giovane.

La parola che era per uscire dalle sue labbra vi morì soffocata; un
gemito angoscioso irruppe dal suo petto. — Deh, per pietà!... sono una
povera donna e non vi ho mai fatto alcun male, mormorò essa fissandolo
col suo sguardo umido di lagrime che a stento poteva trattenere.

Il bimbo mandò un grido dalla sua culla, la povera madre se lo strinse
al cuore come volesse farsene egida, ella si sentì forte... e voltasi
all’incognito che la guardava colla sua calma insultante. — Signore,
gli disse, che volete voi qui? io sono donna, sono madre, e questa è
mia casa, posso dunque imporvi di parlare o d’uscire.

— Eh, eh, mia cara!... non tanta furia se vi piace, seguitò
l’incognito; se è una spiegazione per la mia presenza che volete, nulla
di meglio, in quanto ad uscire poi ne uscirò siate certa... affè pare
che quel marmocchio v’abbia cacciata di dosso la paura, ma siete bella
anche così, forse più bella, e si può perdonarvi una trasfigurazione
che non offende per nulla la plasticità dei vostri lineamenti da
Venere.

Giulietta si strinse con angoscia al seno del bamboletto che le
sorrideva; madre, si sentiva insultata nella sua creatura, donna nel
suo pudore, e l’uomo che l’insultava era là, freddo, impassibile, col
cinismo vigliacco sulle labbra impure, e ne godeva gli spasimi... ma
perchè? che pretendeva egli da lei?... innocente creatura che passava
sul cammino della vita ignara di tutto ciò che non fosse il suo
amore... la sua famiglia!... la casa dove era cresciuta; che nessuno
aveva mai offeso, che di nessuno avrebbe dovuto temere!... qual delitto
era il suo?... che aveva fatto?...

— Sei bella!... gli mormorò vicino la voce dell’incognito, e questa
volta quella voce aveva perduto quel suono freddo, ed accentato,
quasi straniero; v’era la febbre della voluttà in quel monosillabo
susurratole coll’alito ardente della passione. Giulietta tremò per
tutte le membra.

— Uscite signore!... ripetè ella ritrovando nella sua disperazione
la forza di reagire contro il senso del terrore che ne paralizzava la
vigoria.

— Senti, Giulietta... le mormorò l’incognito a voce bassa, soffocata,
e pure accesa d’un’espressione indefinibile; ti ricordi quel giorno che
inginocchiata ai piedi dell’altare pregavi, non so chi, ma pregavi?...
i tuoi occhi eran sì belli, la tua fronte sì pura!... Un uomo ti
divorava collo sguardo ardente, fisso, rapito in te, era io!... uscisti
dal tempio, e lo hai veduto muto ed immobile sul limitare della grande
porta del santuario, era io, e per me nella casa di Dio non esisteva
che un essere, eri tu!... l’avrei profanata, ed avrei fatto dell’altare
il letto dell’amore!...

Giulietta mandò un singhiozzo dal fondo del suo petto convulso.

— Io ti ho seguito in ogni tuo passo, continuò l’incognito, mi
posi fra te e l’uomo che era beato del tuo amore, come l’ombra che
è indivisibile dal corpo che si agita in mezzo alla luce; t’amo,
Giulietta... e vedi che qui nessuno può toglierti in questo istante al
mio bacio...

Egli aveva mosso un passo verso la giovane che stringendosi sempre più
al petto il bimbo, si rannicchiava nell’estremo angolo della stanza,
pallida di terrore, tremante, a cui la vertigine saliva alla fronte
colle sue vampe di fuoco. Col voto del cuore ella supplicava Iddio a
non assopire le sue forze, ella non volea cadere corpo inerte tra le
braccia di quell’uomo che non l’avrebbe rispettata.... essa lottava,
disperatamente lottava contro le sue forze che si esaurivano, e
nella lotta lo sfinimento vicino intorpidiva tutte le sue membra, un
sogghigno da demone contraeva i lineamenti dell’incognito che misurava
con l’occhio avido l’agonia convulsa di quell’essere frale che si
dibatteva contro il deliquio che gelava le sue fibbre spossate... già
innanzi ai suoi sguardi scendeva una fitta nebbia, in mezzo a cui si
elevava sinistra una figura di satiro che rideva un riso da demone, e
vedeva tendersi su lei un’immonda branca, e sentiva l’alito infuocato
d’una bocca soffocarle sulle labbra il respiro; mandò un gemito cupo,
angoscioso, come d’un’anima che si schianta sotto la foga d’un dolore
che mente umana non può ideare, protese una mano nel vuoto e serrandosi
coll’altra al petto la sua creatura cadde.

Nel medesimo istante uno sparo rintronò nella stanza e ne fe’ tremare
la vôlta, s’intese un grido di rabbia e di dolore, l’incognito che
s’era inclinato verso la giovane donna riverso rotolò al suolo colpito
dal piombo fulminatore.

Un uomo si slanciò verso Giulietta, era Francesco... non curandosi
che di lei che vide stesa inanime sul terreno, egli la recò tra le sue
braccia sul letto della vicina stanza; disperatamente egli la chiamava
per nome, ne spruzzava coll’acqua la fronte coperta d’un pallore
mortale; dal petto dell’infelice uscì un sospiro, il giovane alzò lo
sguardo al cielo ebbro di tutta la viva riconoscenza della sua anima...

— A me, a me!... grida contorcendosi fra gli spasimi della ferita
l’incognito; all’assassino!... all’assassino!...

La vecchia si precipitò dalla stanza ove Francesco stava prodigando
a Giulietta le cure che la ritornavano alla vita; svegliata da quel
frastuono, spaventata nel vedere un uomo giacersi in mezzo della stanza
in un lago di sangue. — Essi vengono!... essi vengono, gridò essa
presentendo vagamente l’avvenuto... fuggite, Francesco!... fuggite!..

Le grida degli assalitori si elevavano formidabili dalla strada...
Francesco strappò la spada dal fianco dell’incognito che bestemmiando
ruggiva come un tigre atterrato dal mastino, armò la pistola che gli
rimaneva carica alla cintola, e gettò una furtiva occhiata dal balcone.
— Una folla d’armigeri e di bravacci, che riconobbe per la sgherraglia
del duca installata nel suo castello di Baradello, dove facevan
gazzarra di tripudi, s’accalcava alla porta di strada; v’era ancora
una speranza, ed essa lampeggiò nel pensiero del giovane, quasi nello
stesso momento la porta cedette, e mossi da un solo impeto tutti vi
si precipitaron contro slanciandosi su per le scale da cui irruppero.
Francesco raccomandò con un cenno alla vecchia Gaetana l’infelice
che rinveniva allora dal suo torpore, e ratto si slanciò dal balcone
guadagnando in brevi istanti la montagna...

La sgherraglia penetrata nella stanza non appena egli era scomparso,
non vi trovò che il corpo quasi esanime del condottiero ed una donna
svenuta a cui la vecchia governante prodigava tutte le cure d’una
madre; si caricarono del corpo del lor capitano e bestemmiando e
ringhiando quai mastini cui sia mancata la preda lasciarono quella casa
che fu campo a sì tristo spettacolo.



CAPITOLO X.

Schiarimenti.


La sera prima che avessero luogo i narrati avvenimenti, in una
delle osterie del paese sedeva un gruppo d’uomini d’armi, dai ceffi
abbronziti, dai folti mostacci, con larghi feltri sull’orecchio, che
bevendo a piena gola battevano i loro lunghi spadoni con quell’aria da
rodomonti ond’eran distinti quei mestieranti della spada, carne venduta
a chi facea professione d’armar sgherri ed ammazzar gente per la tutela
del pubblico bene, come dicevano gli ordini del giorno di quei tempi
gridati a squarcia gola dai pubblici banditori.

Si discorreva tra un bicchiere e l’altro di molte cose, e si parlava a
dritta e a rovescio di quanto loro veniva in mente, e siccome il vino
scioglie la lingua, così d’uno in altro discorso, un motto venne fuori
dal labbro d’un di loro; era un giovanotto dalla taglia robusta ed
altera, più bravaccio degli altri, ed a cui pel primo il vino bevuto
montava al capo a dargli volta.

— Enrico non viene!.... per bacco!... è mancar di galanteria far
aspettare gli amici; maledette le bionde!... borbottò egli terminando
la sua tazza.

Uno scoppio sonoro di risa seguì l’apostrofe semiseria del compagno!...

— Ha ragione Carlo, che il diavolo se lo porti!... gridò un altro
battendo il pugno sul tavolo.

— Piano!... chè getti a terra i bicchieri...

— Pago io!... esclamò Carlo!.. alla salute della nuova bella del
capitano. Tutti i bicchieri tintinnirono... Evviva!... si gridò in coro
dalla avvinazzata congrega.

— Se egli è innamorato... buon pro!... e poi quand’egli scommette non
paga!... riprese a dire Carlo.

Si fe’ silenzio nel circolo.

— Cos’ha scommesso?... domandò il gigante che aveva quasi sfondato il
tavolo col suo pugno di ferro.

— Oh bella, non lo sapete?...

— Io, no... conta Carlone... conta

— Sarà una delle solite sue storie, mormorò uno dei compagni bevendo.

— La sa lunga lui!... sogghignò additandolo Carlo e diè in uno scroscio
di risa.

— Silenzio... parla, Carlone, tuonò il gigante.

— Parlo io... grida Carlo levandosi per metà col bicchiere teso, e
ricadde versando il vino sul tavolo!... Parlo io... ripetè egli... e vi
dico che lo so io!...

— Ma cos’è che sai in tua malora?...

— So... che il capitano ha scommesso che domani salirebbe in casa della
bionda.

— Ah, ah, dalla bionda!.. sei matto... col suo damo che le ronza
intorno da non lasciarle tregua un istante!... gli ribattè il vicino
urtandolo colla mano sul capo che gli si inchinò quasi fin sul tavolo.

— E se vi dico che il vagheggino viaggia per Milano con tutta buona
pace?

— Non è allocco affè da pigliar in rete sì facilmente, il capitano!...

— Progetto in mente non è fatto compiuto, sofisticò il gigante.

— E la coda del diavolo non batte in fallo, mormorò Carlone lasciandosi
cadere sul petto la testa grave dalle esalazioni vaporose del
tracannato liquore.

Carlone non parlò più, ei dormiva il sonno dei giusti; s’era delle
braccia fatto guanciale alla fronte madida di sudore, russava
pacificamente e serviva d’accompagnamento al cicalio fragoroso della
brigata.

Là in un angolo dell’osteria bevevano silenziosi due giovanotti del
paese; essi parevano incuranti affatto di quanto avveniva d’intorno a
loro, e solo occupati ad assaporare il fiasco che lor stava d’innanzi.
Ma chi attentamente li avesse sogguardati si saria accorto che la
loro apparente distrazione era invece una fissa concentrazione a
cui non sfuggiva una parola del dialogo or ora narrato; sulla loro
fronte corrugata ad ogni moto che usciva dal labbro degli avvinazzati
bevitori che loro stavan di contro, riflettevansi le diverse sensazioni
dell’anima loro, ed avresti detto che si ribellassero al ributtante
cinismo di quelle labbra avvezze solo alla bestemmia od all’insulto!...

— Papà Giacomo!... il conto, e alla malora questo tuo vino da
indiavolati!..., gridò uno dei due compagni alzandosi.

Papà Giacomo, un omaccione d’oste dalla faccia rubiconda, rossa, ubbidì
tosto alla chiamata.

Quei della brigata li sogguardarono di sbieco, alzaron le spalle e
seguitarono i lor discorsi ed a vuotare le nuove tazze che andavansi
colmando d’innanzi.

Pagato lo scotto, i due amici uscirono; parve loro di respirare più
liberamente appena toccaron la soglia dell’osteria... ed assorbirono
colla forza dei loro polmoni da montanari quant’aria potè abbisognare
il loro petto a riprendere i suoi palpiti energici che la bile
soffocata dentro vi aveva repressi.

— Hai inteso, esclamò il più giovane dei due.

— La buona stella di Francesco l’ha voluto, replicò l’altro.

— Cosa fare?...

— Avvisare la Giulietta.

— Saria metterla in apprensioni e non scongiurare il pericolo, sarà
anche troppo inquieta la povera ragazza.

— E come si fa allora?...

Entrambi ristettero pensosi per alcuni istanti.

— Non v’ha che un mezzo, soggiunse uno di essi, e la più spiccia.
Fo sellare il cavallo di mio zio, e sbalzo a Milano; so dove trovare
Francesco, e l’arrivo in tempo.

Una vigorosa stretta di mano rispose al nobile pensiero dell’amico,
— E vedremo poi, gli soggiunse gettando uno sguardo minaccioso verso
l’osteria, se la faremo tenere a questi cagnacci.

Eran giunti allo svolto d’una via, vi s’addentrarono mulinando
sull’effettuazione del generoso progetto che arrideva alla loro mente.

Il lettore sa quali conseguenze ne avvennero, e come Francesco
fosse giunto appena in tempo per strappare la povera madre al
lascivo libertinaggio di tale, a cui non poteva esser freno valido
all’occasione, che il buon colpo assestatogli dal giovane montanaro.
Questi prodigiosamente erasi poi sottratto allo zanne di quei bracchi
ingordi di sangue che irruppero nella casa di Giulietta ed ove trovaron
ben poca ragione d’essere soddisfatti dell’opera loro.



CAPITOLO XI.

La trama.


Da quel giorno incominciò pel giovane montanaro, quella vita agitata
del profugo a cui non dava tregua nè posa l’odio e la vendetta di
tutta quella ciurmaglia temuta e più disprezzata, che erano le mille
braccia per cui la forza brutale del potere dominava i paesi e vi facea
gazzarra di ladrerie e di violenze d’ogni modo.

Errante di montagna in montagna, alla sfuggita egli era costretto
recarsi in paese allorchè le tenebre della notte potevano favorirlo;
dopo una breve ora di gioja passata con Giulietta nella quale cercava
di quietare le pur troppo ragionevoli trepidazioni, e le paure che ne
sturbavano la dolce quiete, ritornava di bel nuovo a quel vagabondaggio
a cui maturava in pensiero come dar tregua.

Portar Giulietta lontano da quei luoghi dove ormai era loro impossibile
sperare la pace... ma poi?... la strapperebbe egli alla casa dove
era cresciuta pargoletta?... la toglierebbe dal tetto paterno?...
la farebbe sua, per farle dividere, che?... le angoscie d’una vita
di stenti?... il terrore d’un’esistenza di pericoli?... nelle lotte
ch’egli aveva a sostenere, nelle imboscate che gli si preparavano ogni
momento, non avrebbe potuto perdere la vita?... nulla di più certo!...
e che sarebbe stato allora di lei?... di quella povera creatura esposta
senza difesa alla fatalità della sua sorte?... abbandonata alle mani
dei suoi nemici?...

Tutti questi pensieri s’affollavano inquieti, tormentosi, nella mente
dell’infelice, onde ei se ne sentiva schiacciato con più s’affannava
con tutte le forze dell’anima per uscirne.

Muto, freddo, impassibile scorreva frattanto il tempo e con lui
l’incagliarsi degli avvenimenti che lo seguono, e le pene a cui non
porta sempre rimedio.

Enrico, il comandante della sgherraglia del duca era stato trasportato
al Castello Baradello, e guariva della sua ferita d’altronde non troppo
allarmante.

Se la toccatagli lezione gli diè serii pensieri sul garbuglio in cui
s’era cacciato, non gli tolse però di capo la caparbietà cocciuta
di quel suo capriccio a cui vi s’era attaccato con una picca da
indemoniato!... Ei capì soltanto dall’avvenuto che si doveva pervenirvi
per altra via che non fosse quella che già aveva tentata e che poteva
esporlo a chi sa che brutti rischi... e quando un uomo della sua tempra
s’intesta di venir a capo di quei maledetti puntigli, non è da pensare
che per poco smetta dal gioco... E qui è da notarsi come ci andasse di
mezzo una sete divorante di trar vendetta dello smacco, e di far pagare
a mille doppi al giovane ch’ei chiamava, gradasso, e peggio!... quella
stoccata che gli diè misura quale fosse la mano esperta che gliela
mandava come un saggio da farsene guardia.

Uno diverso dall’altro ei ruminò quindi nella mente un buon numero di
progetti che gli servissero all’uopo; ma niuno faceva capo ove ei volea
venire, e si diè ad almanaccar di nuovo con quanta forza di pensiero
più gli consentiva il vigore della convalescenza che l’aveva omai tolto
da ogni paura di mal giuoco.

In una delle sale del castello egli camminava a passi agitati come
chi sia in preda ad interna ed irrequieta lotta; da un ampio balcone
di forma gotica scorgevansi indorate da un sanguigno raggio di sole
che volgeva al suo tramonto, le vette delle montagne verdeggianti
di vigneti, ricche di olmi e di quegli infiniti boschetti di roveri
fronzute che vi vegetano in tanta abbondanza, ed in mezzo alle quali
volteggia gaja la cingallegra ed il capinero, e vi trillano lo loro
canzoni, vaghe armonie della montagna che vi risponde col dolce fremito
delle scosse fronde.

Enrico ristette a guardare dall’aperto balcone, ma non era il tramonto
del sole circondato dal suo manto di porpora che egli ammirava, nè
l’ammantarsi della natura nel suo drappo di tenebre... Il suo pensiero
errava fantastico e torbido... si diè col pugno sulla fronte e stette
per alcuni momenti immobile e muto.

Si batterono alcuni colpi alla porta della sala; chi è là?... gridò
la voce aspra del giovane, corrucciato che lo si distraesse dalle sue
meditazioni.

— Antonio, gli rispose la voce.

Un sorriso di gioja e di speranza brillò sulla cupa fronte del
condottiero; a passo rapido ei mosse ad aprire, e stette spiando in
volto al venuto colle nari aperte, a guisa di selvaggio puledro a
cui s’infreni la corsa. L’occhio acceso, le labbra contratte parean
favellare la domanda che si andava formando nel pensiero.

L’uomo che entrava allora coperto di polvere e spossato come da
intrapresa fatica era di pessimo aspetto... aveva lunga ed incolta
la chioma che gli scendea rabbuffata sulle spalle, coperte da una
carmagnola di fustagno su cui il tempo aveva lasciato non dubbie
impronte del suo passaggio; l’occhio aveva fosco, il labbro sporgente,
la fronte bassa... Egli era quale in quel momento potevasi aspettare
che entrasse onde far sorridere o di gioja o di speranza colui che solo
nel pensiero d’un delitto poteva acquetare il fermento della sua anima.

— Ebbene, Antonio, quali nuove?... domandò egli infine con impazienza,
come vide che l’altro appena entrato s’andava spolverando il largo
feltro mentre si tergeva colla destra il sudore che gli gocciava dalla
fronte arsa dal sole.

— Nulla!... borbottò con mal umore l’interrogato.

Enrico si morse le labbra a sangue... nel suo sguardo balenò un lampo
d’ira.

— Nulla!... ripete egli... affè che vale proprio la pena di satollarvi
d’oro!... Voi!... marrani poltroni!... a cui il diavolo al quale
vi siete votati non sa nemmeno cosa suggerire... che non sia una
bestialità!...

— Il diavolo!... il diavolo!.... mormorò Antonio colla fronte
accigliata. Affè che se qui non c’entra non saprei dove ei potesse
entrare, padron Enrico!... la ragazza la ci sguscia di mano quando meno
la s’aspetta!... e quel indiavolato del suo sbarbatello, fa gazzarra
di rodomontate da far credere che tutti i diavoli della terra gli dien
mano a farci le ficche!...

— Dite piuttosto che tu e tutta la tua congrega avete paura d’un
bambolo.

— Perdonate, padron Enrico... oh perchè se vi par cosa tanto facile
torlo di mezzo alla spiccia, vi siete lasciato conciare com’ei v’ha
conciato?...

Enrico si fe’ pallido come se un aspide l’avesse morso... Bada,
marrano!... mormorò egli fremente... e portò la destra al pugnale.

— Dissi così per dire, eccellenza... s’affrettò a rispondergli mogio
mogio lo sgherro, che s’accorse non esser momento da giuocar di
parole... Quello che vi dico si è che s’ha bel fare a tendergli le
reti, è merlo che non si prende in pania, e a torlo di fronte sa levar
il volo in modo che non resta tempo a dargli la girata.

Enrico camminava impazientito mentre l’altro gli venia dietro guardingo
ed alla rispettosa distanza di chi s’attenga, ove ragion non valga, al
diritto d’usar altri mezzi che gli consentano uscir d’impaccio.

Tutto ad un tratto ei si fermò sui due piedi come colpito da un’idea;
Enrico che lo seguiva con occhio inquieto lo interrogò rapido collo
sguardo, parve che entrambi si fosser compresi, chè le loro fisonomie
espressero simultaneamente la forma d’un pensiero.

— Ebbene, Antonio?... domandò Enrico con ansia.

— Ci sono! rispose l’altro... e affè!... che vostra eccellenza mi tolga
la sua protezione se non glielo do vivo o morto fra tre giorni.

— Come?...

— È un mio segreto; m’occorre una somma che deve servire all’uopo.

— Quanto t’occorre?... presto.

— Quaranta scudi; ad opera compiuta, vostro onore provvederà.

— Cento scudi!... se non manchi, fremè con voce alterata il giovane il
cui occhio si fe’ acceso come fuoco, numerandogli i quaranta scudi che
l’altro s’intascò freddamente e come uomo sicuro di sè.

— Bada a te marrano!... se m’inganni!

— Vi gioco la testa, padron Enrico, e messa in bilancia non la darei,
rispose Antonio che salutava dalla soglia.

— Dunque fra tre giorni

— Fra tre giorni.

— Chi va là?... gridò la sentinella del monte. Antonio usciva dal
castello.



CAPITOLO XII.

La capanna del carbonaro.


Diluvia la pioggia. Il vento fischia lugubremente nelle gole della
montagna; le acque del lago d’un colore verdaceo, cupo, si agitano, e
le creste biancastre dell’onde che si frangono contro gli scogli della
riva scintillano al guizzo dei lampi. Romba ad intervalli il tuono ed
echeggia nelle lontane vallate; la folgore serpeggia scrosciando nello
spazio e si spegne attratta dalla fosforescenza delle acque.

Per uno dei sentieri del monte, ad onta dell’imperversar del tempo,
un uomo veniva da Como verso Chiasso. A poca distanza dal paese, sul
fianco sinistro della via, in fondo ad una straduccola ripida da cui si
sale alla sommità della montagna che si svia poi in mezzo ad una folta
boscaglia di roveri vedevasi una capanna mezzo nascosta dai giunchi, e
da varj frassini alti e ramosi.

L’uomo da noi accennato camminava a passo lesto, corrugata la fronte,
e pareva tanto assorto ne’ suoi pensieri da non sentire la pioggia che
gli ventava sul viso a scrosci violenti, or di faccia or di fianco a
seconda che la spingeva qualche buffo di vento che veniva via sibilando
dalle varie gole delle circonvicine montagne.

Quando ei fu giunto presso alla capanna s’arrestò, stette qualche
momento sopra pensiero, poi vi si avvicinò, battè alcuni colpi col
palmo della mano, e mandò dalla bocca un fischio acuto che si confuse
ai mille della procella.

La porta si aperse, un uomo si presentò sulla soglia.

— Finalmente, Bortolo!... esclamò impazientito l’arrivato; affè credeva
che tu mi lasciassi annegar qui fuori con questo tempo indiavolato.

— Sei tu, Antonio!... fe’ l’altro tra sorpreso ed impensierito; qual
vento ti porta da queste parti?

— Lo senti?... un vento d’inferno... mormorò egli con voce cupa, ma
entriamo presto, e fa fuoco che mi riscaldi... affè ne ho intirizzite
le membra.

— Fuoco! fuoco! mormorò con sommesso brontolìo il carbonaro; non ho
legna da far da mangiare pei miei figli, la legna è ancora verde e da
qui al dicembre c’è tempo da morire!...

Gli occhi di Antonio lampeggiarono sinistramente; Bortolo l’aveva
fatto entrar nella capanna. Era un bugicattolo da far ribrezzo. Sopra
ad una stoviglia stesa in un angolo, dormiva una donna bella ancora
di lineamenti, ma impallidita dalle sofferenze e dalle privazioni; si
stringeano intorno al suo corpo coperto da lacere vesti, due bambine
seminude, avevano bionde le testine e somigliavano due volti d’angelo
che uscisser fuori da un ammasso di cenci, tanto eran luride e sporche
le loro vesticciuole che altro colore non avevano tranne quello che su
v’impresse l’umidità del terreno su cui dormivano, ed il fango della
strada in mezzo al quale si saranno avvoltolate.

Il carbonaro aveva acceso un lumicino ad olio dentro cui ne restava
appena appena tanto da mandar crepitando una sinistra e smorta luce su
quel miserabile quadro... Il carbonaro dormiva sovra una panca, s’era
fatto guanciale della sua giacca di fustagno tenuta su a rapezzi.

Ei tolse la giacca ed invitò il compagno a sedere; depose il lume sul
tavolo, e stette aspettando muto ed astioso che l’altro parlasse.

— Di’ su, Bortolo... fin quando la dovrai durare in tal modo? gli
domandò Antonio gettando una bieca occhiata sul canile dove dormivano i
bambini e la donna del carbonaro.

— Affè lo so... io!... gli rispose questi alzando le spalle... sino
al dicembre non si lavora, il legno deve maturare, dicono i padroni, e
mese più, mese meno, vai meglio aspettar che sia tempo!...

— E si può crepare intanto in buona pace se vai di questo passo,
concluse Antonio.

Il carbonaro lo guardò silenzioso. — Se sei venuto a mettermi delle
pulci in capo puoi tornartene per la tua strada.. Piove e t’ho aperto,
non posso darti di più di quel che ho, e se vuoi aspettar il sole,
aspettalo.

— Ero al castello quando incominciò a far tempo.

— E a che ti sei messo in viaggio allora?...

— Per venir qua.. Alle corte, Bortolo... disse egli abbassando la voce;
c’è quaranta scudi da mettere in tasca, e questo è un acconto che ti
darà da comprar tanta legna da bruciare anche la tua capanna se non
vuol perder l’umido... Ei si trasse di tasca la borsa che gli aveva
dato Enrico, l’oro scintillò tra le maglie, l’occhio del carbonaro si
accese come d’un lampo.

Uno dei vezzosi angioletti si mosse e mandò dal petto un lamento,
Bortolo fremette come se il pensiero che era balenato alla sua mente e
che fu nello stesso tempo accettato dalla sua coscienza, avesse avuto
un testimone; spegnè rapido il lume.

Per alcun tempo si intese nella capanna un susurrìo di voci, poi
più nulla, la porta si aperse, Antonio calatosi sugli occhi il largo
cappello ne uscì come uomo che sia contento de’ fatti suoi; la voce del
carbonaro commossa, quasi paurosa del suo accento istesso gli mormorò
dietro racchiudendo l’uscio della capanna — Buon viaggio, Antonio.

— A domani!... gli rispose questi allontanandosi.



CAPITOLO XIII.

L’agguato.


Inconscio di quanto tramava contro lui l’astuzia e la vendetta a cui
la frode accordava la sua patente di servizio, il giovane montanaro,
con occhio vigile cercava però di lottare alla sua volta contro
l’inesorabilità di quel destino che andava di giorno in giorno
stringendolo sempreppiù nei ferrei suoi nodi.

Sull’alba del domani... scambiatosi nella capanna del carbonaro tra
quei due sinistri patteggiatori del delitto, il giovane uscito da una
casa di campagna che gli aveva dato ricovero, mosse verso il paese; ei
s’arrestò sul declivio del sentiero dal quale vi si scendeva, poggiò i
gomiti sul suo fucile, un piede incrociò sull’altro, e stette guardando
una casa che scorgeva tra il verde dalla sottoposta collina... Come era
bello il sole che entrando dalle aperte finestre poteva liberamente
guardare il sorriso della madre che pensando a lui ornerà delle sue
gaie vesticciuole il suo bambino e gli insegnerà colla prima preghiera
il nome di suo padre!... Come vago sarìa poter fondersi in quel raggio
che ne bacia le chiome d’oro!... a cui ella sorride e benedice come ad
una speranza!... Erano questi al certo i pensieri che passavano nella
mente di Francesco; egli pure guardò il sole, e parve gli volesse
affidare il senso della sua parola, il pensiero della sua anima, poi
declinò la fronte sul petto e si fe’ tristo.

Non era quel raggio sereno, pieno di vita, che egli potrebbe guardare
beato d’un palpito d’amore, stretta la sua destra in quella di lei,
fisso nel suo l’occhio di fuoco!... insieme assorti nelle vaghe
e lontane immagini dell’avvenire, creandosi un magico sogno in
cui fisserebbero avidi il pensiero, a cui il cuore si volgerebbe
coll’aspirazione ardente di un incanto che è un’illusione!... Come il
malfattore pauroso della luce che potrìa essere testimone della sua
colpa, egli doveva aspettare che le tenebre della notte avvolgessero
col mistero i brevi e fugaci istanti di quella gioja che egli furtivo
ed ansioso era costretto rubare alla vendetta, all’odio che stava
guardiano inesorabile a quella porta... a quella sosta della vita
umana, su cui la mano di Dio scrisse per mezzo de’ suoi angeli: —
Felicità!...

Il giorno tramontava splendido e sereno come era incominciato; le
vette delle montagne erano avvolte da un manto di porpora e d’oro, gli
uccelli cantavano salutando il grande astro a cui s’elevava il loro
inno di gioja!... Il lago rifletteva tranquillo lo splendido panorama,
sul suo dorso scorrevano agili le barchette, la brezza della sera
ventilava dolcemente sulle sue acque d’argento; le rondini cinguettando
si inseguivano lambendone la superficie appena increspata leggiermente.
Eppure Giulietta che al davanzale della sua finestra contemplava
questo spettacolo non sentivasi l’anima compresa dal dolce insieme di
quel quadro sublime in cui l’indefinibile maestosità della creazione
lampeggiava a gran tratti l’immensità della sua grandezza.

V’era un non so che di tristo per lei in questo scendere della notte,
così tacita e silenziosa. Nell’inquieto suo pensiero vi si attaccavano
mille immagini di delitti, di frodi, di tradimenti; ad ogni istante le
pareva d’intendere un gemito, fiocco fiocco, come di moribondo, ed in
quel gemito ella ascoltava una voce, quella del suo Francesco... Essa
lo vedeva errare furtivo di monte in monte, aspettando un’ora che gli
tardava come la stilla d’acqua alle arse labbra del ferito, e lo vedeva
agitarsi e fremere nella indicibile tortura del suo animo ansioso d’una
parola, del suo sguardo avido d’uno sguardo, dalla sua bocca su cui
mormorava un nome avida d’un bacio!...

Come spiegare adunque la mestizia della giovane madre che vedeva in
quel tramonto avvicinarsi l’ora di quella gioja che le consentiva la
notte?... Egli è che l’animo umano è soggetto alle mille stranezze
che se ne fanno giuoco; egli è che il presentimento, questa
divinazione della sventura più che della gioja, la stringeva sotto
il suo giogo fatuo sì, ma che pur gli pesava sul cuore come l’incubo
d’uno spaventevole sogno... Ella si ricordava vagamente d’un altro
giorno; d’un giorno terribile in cui come ora, era inquieta della
stessa inquietudine, in cui come allora non sapeva rendersi ragione
dell’arcana agitazione della sua anima. Essa fissava il sole che
tingendosi d’un calore di fuoco inesorabilmente s’abbassava, come
avesse voluto colla potenza convulsa della sua volontà fermarne il
corso... ella lo guardava come un amico che si lasci tra l’angoscie
dell’agonìa, come una speranza che si è rattenuta con tutte le mille
file dell’illusione quando l’ultima di queste si sia finalmente
spezzata. Si fe’ notte!...

Fu un grido quasi di spavento che emise la giovane quando ella vide
un’ombra rizzarsi sul davanzale del balcone mentre ella si stringeva al
petto il piccolo Adolfo baciandolo col trasporto dell’immensità del suo
amore.

Il giovane d’un balzo le fu appresso, egli se la strinse al petto
anelante, egli ne bevette dagli sguardi l’estasi di cui il suo cuore
aveva fame... Dalla bocca fremente nel trasporto del bacio, egli colse
i baci di cui le sue labbra avevano sete; egli avrìa voluto assorbirla
onde poter recarla con sè... fondersi in lei per restar con essa,
far tutto quello che non fosse separarsi!... tornare lontani l’uno
dall’altro, tornare ai palpiti di prima, alle angoscie d’ogni giorno...
alle speranze deliranti, alle paure disperate che costituivano la vita
febbrile dei suoi giorni, a cui solo benediceva per i brevi istanti che
ne temperavano l’amarezza insoffribile...

Fu quella la prima sera che Giulietta trovò lunghi troppo i suoi baci,
troppo lungo il tempo che lo ratteneva al suo fianco. Lui!... Egli!...
da cui il separarsi era lo strazio più crudele della sua anima!...

Forti colpi tempestano la porta... voci di minaccia mormorano ai piedi
della finestra!... È un grido supremo di spavento, d’angoscia, che esce
dal petto di Giulietta, è un fremito che corre le fibbre del giovane e
le accende con un sussulto.

Sorpresi!...

Questo grido è uscito rapido, istantaneo dalle loro labbra; ha
eccheggiato nel loro cuore, vi ha comunicati mille palpiti, lo ha
animato della vita d’un’intera esistenza concentrata nel volgere d’un
istante; si sono dette parole che favella umana non può concepire!...

Si levò un urlo di maledizioni di sotto alla finestra, la porta
scassinata crocchiò sotto l’impeto dell’assalto. Il giovine trasse
dalla cintola una pistola a due canne e si fe’ presso al balcone; una
scarica rintronò, una palla sibilando al suo orecchio si piantò nel
soffitto della stanza, Giulietta mandò un grido di spavento, il piccolo
Adolfo quasi fosse conscio del pericolo, non piangeva, e stretto alle
vesti della madre stava fissando su lei il suo occhio spaventato ed
immobile.

Altri colpi si susseguirono... non v’era a sperare altro mezzo
di salvezza che dalla finestra la quale metteva direttamente sul
sentiero del monte... Francesco comprese tuttociò con quello slancio
d’intuizione che dà al pensiero l’estrema agitazione del pericolo.

Con quanti mobili potè avere sotto mano egli barricò l’uscio della
stanza e stette ad attendere, l’occhio pronto, la mano sul grilletto
dell’arma, stretta al cuore col sinistro braccio la giovine madre sulle
cui labbra pallide mormorava col fremito dell’angoscia un nome che era
il ricordo più soave della sua esistenza!...

Fuvvi un istante eterno di indicibile ansia, un secondo urlo più
terribile perchè esprimeva la gioja selvaggia d’un progetto compiuto
echeggiò nel cortile della casa. La porta era stata atterrata, la folla
saliva!...

Francesco corse al balcone, tre colpi lo accolsero al suo affacciarsi,
egli soffocò un grido di dolore, gettò uno sguardo d’addio alla
giovane, e si slanciò... Giulietta abbracciata al figlio era caduta
ginocchioni ed una fervida preghiera usciva dal suo petto anelante.

— Di qua!... di qua!... s’intese prorompere varie voci; di qua, di
qua.. fuvvi un tafferuglio disordinato su per le scale, un rumore di
passi precipitati risuonò dalla strada, poi tutto ritornò nel silenzio,
l’onda era passata. Erasi dispersa, oppure s’era diretta verso un punto
fisso?... aveva quella sgherraglia abbandonata la preda, oppure aveva
lasciata la casa per inseguirla?

Queste inquiete domande a cui non poteva rispondere che per vaghe
apprensioni, o per lusinghiere speranze, fervevano nella mente della
giovane madre. Ella sperò bene, che quel tumulto si fosse disperso,
vagheggiò il suo Francesco di balzo in balzo allontanatosi da quel
luogo fatale, raggiungere la sommità di qualche dirupo che gli desse
agio a sottrarsi ad ogni ricerca; alcuni spari di fucile alquanto
lontani della casa la convinsero che i bracchi non avevan lasciata la
caccia. Caccia orribile nella quale un uomo doveva fuggire inseguìto da
un’orda; fuggire, cadendo spossato dalla fatica, e rialzandosi colle
carni insanguinate per trascinarsi di masso in masso, per cadere poi
sotto il coltello d’uno sgherro colla gola squarciata, esalando sopra
una rupe l’estremo sospiro a cui risponderà la bestemmia insultante de’
suoi assassini!

Era un terribile quadro quello che passava d’innanzi alla mente di
Giulietta accesa dalla febbre. Le sue forze vitali spossate da quel
delirio convulso non ressero alla lotta, poggiò il capo sul seno del
suo bambino e svenne.

Il giovane montanaro inseguito dalla banda invelenita che per due
volte se lo vedeva sfuggir dalle mani, aveva preso il sentiero della
montagna; vi si era slanciato... Alle grida, di qua, di qua... che
mandarono i tre bravi appiattati sotto al balcone e che si diedero
primi ad inseguirlo, tutta la ciurmaglia s’accalcò sulle sue peste.

Egli aveva corso buon tratto di via, le forze però gli venivano meno
ad ogni volger d’istante; era stato ferito al fianco, e sui suoi
passi lasciava una striscia di sangue; dietro lui sentiva incessante,
continua minaccia di morte ruggirgli alle spalle il rumore della loro
corsa...

Fuvvi un momento di silenzio... Con quel tatto particolare che dà
l’esperienza a chi si cimenta in quella perigliosa vita del fuggiasco,
Francesco comprese che i suoi inseguitori pigliavano lena ma non ne
lasciavano il passo; v’era dunque un istante di risorsa, egli avrebbe
potuto guadagnare terreno; si provò a riprender la corsa, ma fu
costretto a piegarsi sulle ginocchia spossato.

Non poter fuggire, era morire... egli lo sapeva.

In un baleno mille pensieri corsero alla sua mente. La strada sfiancava
formando un angolo; egli era caduto dietro ad un grosso macigno che
lo copriva; le tenebre calavano ma non abbastanza fitto come egli le
avrebbe evocate col pensiero, la sua carabina era carica, non aveva
sparato che un colpo di pistola allora che s’era slanciato dalla
finestra, gli restavano tre colpi... e poi?... Era una certa morte che
lo aspettava; ei s’era provato, sapeva di non poter muoversi di là...
gli restava un partito, una carta da giocare, vi metteva per posta la
vita!... tanto valeva!... quando si è certi di perderla, che vale un
modo o l’altro? v’era però qualche cosa di terribile nell’accettazione
del partito che s’era affacciato alla mente del giovine.

Il suo progetto era di starsene appiattato dietro il sasso, e lasciar
passare i suoi inseguitori; era un aspettare la morte o la vita
passando per tutte le gradazioni della più terribile delle agonie...
era un sentir avvicinarsi la morte, analizzandola col pensiero convulso
in tutte le sue tremende forme... Ribellarsi contro la violenza che
vuol uccidere e restare invece uccisi, è cadere in una lotta... si
ha un’arma da usare, si risponde al fuoco col fuoco, coll’insulto
all’insulto; si può mordere la mano che ci afferra, si può morire
vedendo spirare ai vostri piedi uno dei nemici che avete colpito; il
sangue si accende, il pensiero tace occupato solo nello sforzo della
lotta... si muore e non si sa di morire se non allora che l’agonìa vi
gela sulle labbra l’ultimo anelito.

Ma essere pieno di vita ed aspettare la morte resa più orribile da
una speranza di vita.. ecco l’idea spaventevole!... Il condannato
che sta per essere dato in mano al carnefice sa che deve morire,
e se è orribile il pensiero di quell’istante in cui tutto ciò che
pensa in lui, tacerà... in cui sente svanire tutto sè stesso sotto lo
strettojo d’una idea che veste al suo pensiero il terribile atto del
suo disfacimento... L’attimo in cui tutto ciò che è in lui cesserà
di essere!... in cui tutto cesserà di esistere intorno a lui... V’è
qualche cosa di più orribile! ed è l’idea della morte quando nell’animo
invece dell’atonia che grava sulle facoltà intellettuali fino a
produrre quello prostramento che è la rassegnazione, vive in quella
vece in noi la vigoria suprema d’una speranza a cui è attaccata la
nostra vita; una speranza a cui s’avvincono tutte le facoltà della
vostra anima, su cui il pensiero si ferma anelante e sbigottito,
una speranza quasi impossibile, che combatte contro una realtà che
presentite certa ed a cui non volete abbandonarvi per paura di voi
stessi. Astenersi da una lotta a cui può essere attaccata una speranza
di salvezza per accettare una idea lontana di salvezza comperata
coll’agonia.

Ecco quale era la posizione di Francesco; posizione tremenda che gli
rizzava sulla fronte i capelli ad ogni agitarsi di fronde scosse dal
vento. A lui il sangue saliva violento al cervello, le tempia gli
battevano in modo da spezzargli il cranio, il cuore gli sussultava in
modo da frangerne le vertebre e scoppiargli nel petto.

Egli sentì prima un frastuono di voci... poi il crocchiar dei moschetti
che si armarono, poi un suono di passi che si avvicinavano... egli si
strinse al macigno come se avesse voluto scavarlo colla pressione del
suo corpo e farvisi dentro. Egli aveva paura... perchè al di là della
morte v’era un sogno!... nella morte un pensiero che non era per sè..
Gli inseguitori distavano da lui di qualche passo ad un breve tratto
al di là del posto ove ei si giaceva; s’intese un rumore di fronde
agitate, un moschetto scintillò tra lo spazio che era tra un cespuglio
di frassini ed una capanna... Partì un grido di gioja da quel gruppo
di sgherri che saliva spiando di masso in masso, e l’orda si slanciò
passando dinanzi a Francesco che ne sentì sul cuore i passi quasi che
egli stesso loro avesse servito di lastrico.

Il giovine sfinito da quella terribile agonia, alzò le mani al cielo
che scintillava gemmato di stelle... ei volle alzarsi, ricadde sovra sè
stesso e svenne.

La sgherraglia che passava dinanzi alla capanna del carbonaro, trovò
un uomo ritto sullo spianato verso cui erasi mossa; ei guardava
indifferente giù nella vallata col suo fucile al armacollo.

— È passato di qui un uomo che fuggiva?... gli chiese uno della brigata.

— Un ferito che si trascinava a stento, volete dire? rispose il
carbonaro.

Francesco al cui orecchio arrivava questo discorso, fremette in tutte
le sue fibbre...

— È passato in su.... camerati, ma può aver fatto poca strada perchè
era malconcio affè!...

— Purchè tu non gli abbi dato ricetto in quel maledetto antro,
marrano!... esclamò uno degli sgherri, e mise il capo dentro l’uscio
della capanna da dove lo ritrasse tosto.

— Non c’è nessuno, disse egli ai compagni, e la brigata continuò la
sua strada... Il carbonaro scese ratto, si avvicinò a Francesco... lo
guardò con fosco ciglio ed accertatosi che il suo cuore batteva ancora
se lo caricò sulle braccia e lo trasportò nella sua capanna...

Eravi qualche cosa di mostruoso in quell’assassino che ansioso spiava
che non gli si uccidesse la vittima già designata ai suoi colpi...
L’immondo ragno aveva afferrata la preda, il vampiro se la stringeva al
petto soffocandola nel mortale suo abbraccio!...



CAPITOLO XIV.

Dieci anni dopo.


Sotto la capanna di Bortolo il carbonaro, dove s’era patteggiato il
delitto, s’era pagato un cadavere; Francesco era morto forse in causa
della sua ferita.

Enrico s’era presentato a Giulietta ardente di voluttà e aveva
trovato una morente stesa sul suo letto di dolori, che maledicendolo
insegnava un nome da odiare al figlio che pauroso si stringeva al suo
seno, e nella cui mente si scolpiva una larva che aveva strappato
un grido d’esecrazione all’agonia di sua madre!... Nell’animo del
fanciullo echeggiava il suono fiocco di quella voce che gli mormorava
all’orecchio: È l’assassino di tuo padre!...

Fra Mantova e Cremona a destra dello stradale, per una via
fiancheggiata da una siepe di rubinie verdi e fiorite si faceva capo ad
un cancello di ferro da cui vedevasi un elegante e vasto giardino. — Ne
eran vaghe le ajuole gemmate di fiori; vi si intrecciavano ameni viali
di pini e di tigli; una fontana zampillava con dolce mormorìo nel mezzo
di un quadrato angolare cinto all’intorno da vaghe spalliere d’aranci
e di cedri; vi cinguettavano i passeri tra le fronde, il capinero e la
cingallegra volteggiavano inseguendosi di cespuglio in cespuglio, le
farfalle dalle ali bianche e dorate vi vagavano gaje, parlandosi il lor
linguaggio d’amore e baciandosi librate sugli steli ancora umidi dalla
notturna rugiada. S’avrìa detto che la felicità non potesse trovare
miglior albergo!... Un silenzio che parea il soave raccoglimento della
pace regnava in quel luogo, vago _Eden_ nel quale le Uris dell’Oriente
sarien venute a sciogliere le loro leggiadre carole ed i Fauni della
vecchia Mitologia le loro canzoni d’amore al suon delle tibbie e della
zampogna pastorale.

Dal fondo del giardino si elevava una bella casa di campagna; ne erano
le finestre socchiuse, vi si sentiva di dentro un mormorìo come di
voci, si sentiva un passo affrettato correr di stanza in stanza, poi
tutto vi ritornava silenzioso.

Era un tristo silenzio — l’arpa che altre volte rallegrava quella
solitudine sì adorna di incanti, taceva polverosa nell’angolo d’un vago
gabinetto di fanciulla; i libri erano chiusi, i fiori appassivano non
colti nelle ricche alee del giardino.

Ove era il vago angelo dal lieto sorriso che avria dovuto spandere a
sè d’intorno tanta onda di poesia?... là dove tutto pareva disposto ad
invitarne l’espansione?...

Angela, la bella regina di quel paradiso di fiori e di verzura, giace
in un letto travagliata da un lento malore per cui l’arte medica ha
esaurite le sue facoltà. Sotto gli occhi di una madre che l’ama a non
dirsi, d’un padre, d’un fratello che la vegliano con tutta l’ansia
d’un affetto profondo e tenero, essa deperisce ad ogni volger d’un
giorno che ne avvicina l’estremo; ti pare osservandola nel progresso
di quella terribile malattia per cui la scienza non ha nome, che ella
si decomponga man mano, povero fiore a cui nè l’aria, nè la luce, nè
l’amore possono alimentare la vita!...

Eppure.... quanto è bella!... Il suo occhio nero velato da folte ciglia
d’ebano, erra a sè d’intorno ed esprime ai suoi cari tutto il tesoro
della riconoscenza e dell’affetto chiuso in quel giovane cuore di
diciassette anni!... Neri capelli ne contornano la fronte d’alabastro;
intrecciati ed in vago disordine composti le scendono sul petto
candido; colle sue belle manine bianche e fusellate, essa se li liscia
sulla fronte, ne guarda con un sorriso di vergine le anella, e pare che
nel suo pensiero segua un fatuo sogno... forse un’immagine di felicità
a cui non consente la speranza il suo palpito vitale.

Povero angelo!... e sarà dunque destino che tu ti parta dalla terra
senza aver gustate le gioje che ti prepara l’amore?... senza che il
tuo cuore avido d’affetti attinga a quella fronte le serene dolcezze
che fanno beata l’esistenza?... Povero fiore languito sul tuo stelo
senza che alcuno ne abbia colto il profumo? la tua bocca esalerà
essa l’estremo sospiro senza aver sentito sulle labbra il soffio
ardente d’un bacio che risponda agli arcani battiti del tuo cuore di
fanciulla?...

Il padre ed il fratello di Angela, mentre la sua buona madre la veglia,
in un istante in cui il male le concesse la tregua d’un leggiero
assopimento, si sono recati in giardino e s’intrattengono in un
colloquio che pare sia giunto alla estrema deliberazione d’un progetto
che sia stato già altre volte scopo ad un’analisi a cui non venisse
data alcuna soluzione positiva.

— Non v’è altro mezzo onde cercare se è possibile lo scongiuro di
questo pericolo, diceva Alberto, il fratello d’Angela, come se egli si
opponesse alle dimostrazioni del padre... L’arte è impotente a trovare
un rimedio al suo male, non resta che fare l’esperimento suggeritoci
dal dottore... la stagione è opportuna onde cercare una villa sul
Ceresio, forse che l’aria della Svizzera potrà infondere un po’ di vita
nelle sue fibbre prostrate.

— Lo credi, Alberto?... domandò il vecchio con un sospiro.

— Lo spero almeno, rispose il giovane.

— Quand’è così non resta che fissare il come eseguire questo progetto.

— Partiremo insieme onde trovare un luogo adatto, padre mio... Angela
ha ancora bastevol forza per sostenere un trasporto, più tardi forse
non lo potrebbe. La mamma resta presso lei nei brevi giorni della
nostra assenza.

— Domani dunque?...

— Domani!... Essi s’erano internati nel viale del giardino, lo
rifecero comunicandosi a vicenda i loro pensieri, le loro speranze, e
ritornarono alla stanza dell’ammalata che riposava ancora sorridente
del suo sorriso d’angelo!... sorrideva forse ad una vaga visione che
scendeva leggiadra sul suo guanciale di dolori ad allietarne le quiete
ore del sonno!...



CAPITOLO XV.

Adolfo.


Il figlio di Giulietta era cresciuto cogli anni, erede d’una vendetta
raccolta dal labbro morente di sua madre, allevato dalle cure della
vecchia governante che su lui aveva concentrato tutto l’affetto a cui
era proclive il suo cuore. Educato a nobili sentimenti di riconoscenza
e di gratitudine, ardentemente sentiva l’ansia infrenabile di compiere
il sacro voto che ogni anno andava rinnovando sopra una tomba, la tomba
di sua madre, dalla cui memoria traeva fomento a compiere l’opera
sua!... Egli avea chiesto del condottiero di quella sgherraglia che
vedeva scorazzare pel paese tronfia e superba; gli fu detto ch’egli
aveva lasciato il servizio del duca... Alle sue indagini aveva risposto
il mistero, alle sue domande il silenzio; ei vi resistette per qualche
tempo cercando col pensiero un mezzo per venire a capo della sua brama
inquieta... l’avrebbe chiesto all’inferno!... l’avrebbe patteggiato col
delitto!.. Ei si rodeva in quella crudele alternativa dell’aspettare,
in quella febbre che consuma!... in quell’agonia che sfinisce...
Egli si ricordava di quella terribile notte nella quale un uomo erasi
affacciato sulla porta della stanza... là dove agonizzava sua madre...
Egli ne aveva veduto il livido pallore... Aveva sentito la voce di sua
madre efferata dallo spavento gridargli collo sforzo convulso della
sua anima.... È l’assassino di tuo padre!... Egli si ricordava tutto
ciò; dalla sua mente il tempo non aveva cancellata la memoria di questo
dramma di sangue che ora costato due vite!... che l’aveva lasciato
orfano, solo sulla terra... ed ei si diceva tutti i giorni, si ripeteva
ad ogni istante, che fra mille avria conosciuta quella livida fronte
segnata dalla mano scarna dell’agonizzante, sulla quale Iddio avrebbe
dovuto scolpire il marchio dei Caini!...

In qualcuno di quei giorni di smania impotente contro cui cercava
invano di reagire, il giovane si dava a correre come un pazzo i
sentieri della montagna come volesse coll’uso della vita attutire quel
fermento morale che gli saliva al capo colle mille sue vampe.

Egli correva, correva..., come seguisse il volo dei tumultuosi
pensieri che fervevano nella sua mente e cadeva poi anelante e
spossato su qualche pietra della montagna, rodendo il freno dell’ira
che gli martellava nel cuore e proponendosi mezzi strani, l’uno più
strano dell’altro, affine d’uscire da quella vita d’inerzia e di
disperazione!...

Un giorno che dava sfogo ad una di queste sue bizzarrie, si era
riposato al margine di un ruscello che scorreva tra i sassi saltellando
e vi serpeggiava come un serpente dalle lucide squame d’argento... Era
verso sera; le tenebre calavano sulla valle, lo spazio si oscurava,
spirava un’aria grave ed umida: egli stette alcuni istanti assorto
nei suoi pensieri, tutto ad un tratto si scosse; gli parve d’aver
inteso un bisbiglio di voci, raccolse la sua attenzione; era diffatti
un susurrìo piano piano, un ronzìo di parole sommessamente mormorate.
Macchinalmente e come attratto dalla curiosità ei si alzò e mosse verso
la direzione da cui veniva il rumore; a pochi passi da lui vide una
capanna, era la capanna del carbonaro.... era più trista di quello che
allora nol fosse, fesse ne erano le tavole di legno di cui era formata;
i frassini eransi fatti più alti e più frondosi, e la coprivano
quasi intieramente. Le voci si fecero più distinte all’orecchio del
giovane... ascoltò... un fremito gli corse le fibbre...

— Tanto fa... diceva una voce.. — dal fabbricar scrupoli al morir di
fame!... affè che la scelta è facile!...

— Tu sei un gaglioffone!... buono a nulla, diceva un altro.... e sì che
sulla coscienza c’è n’hai d’aver più d’uno dei peccatacci!...

— Eh via!... Bortolo!... brontolava il terzo!... hai le ombre nere pel
capo oggi? si tratta di mangiare e di dar da mangiare ai tuoi marmocchi
che ti strilleranno all’orecchio una poco allegra canzone.

Bortolo il carbonaro si scosse... ei guardò il canile dove soleva
dormir la sua donna ed i suoi figli; era vuoto; verranno a momenti,
mormorò egli. Vada!... Esclamò poi come imponesse a sè stesso!...
Vada!... qua la mano...

Quattro destre si strinsero a suggellare un patto di sangue.

— Quando ci vediamo?...

— Qui allo svolto.

— Alle sei parte la corriera da Como per la Svizzera.

— Dunque alle nove.

— Sullo stradale della Croce....

— E chi primo arrivi?...

— Si raccomandi al diavolo...

Sss... fè uno dei banditi guardandosi attorno sospettoso.... non ti
parve d’aver inteso alcun rumore?...

Stetter zitti per alcuni istanti; non s’intese più nulla. Adolfo era
girato dietro la siepe. Un uomo guardò fuori dalla porta della capanna.
— Fischia un maledetto vento, disse egli rientrando...

Adolfo trattenendo il respiro aveva tutto ascoltato; era certo che si
tramava un delitto, che ben scelta non era ancora la vittima; egli si
sentì preso da uno strano senso di compassione per chi avesse potuto
incappare sotto il pugnale di quei banditi... lasciare che la loro
opera si compisse quando egli n’era a parte, quando sapeva l’ora, il
luogo, come e su chi si dovesse compiere, era rendersi complice del
loro delitto, era un farlo pesare indirettamente sulla sua coscienza
d’onest’uomo....

Un pensiero corse rapido alla sua mente, ei non stette ad analizzarlo,
egli lo accettò come era venuto, vi si affidò: lasciò con precauzione
il suo nascondiglio, rifece la strada del monte, arrivò a casa, staccò
dissopra al suo letto la sua carabina a due colpi, si passò alla
cintola un sodo coltello da caccia, e si mise in via. L’orologio della
piazza batteva le nove... Cinque uomini erano al loro posto sullo
stradale della Croce... i quattro banditi accosciati dietro una siepe
al fianco sinistro della strada; Adolfo, appoggiato ad un grosso albero
che lo toglieva ad ogni guardo sopra una collinetta che s’innalzava a
destra della via.

Lo stradale della Croce, così nominato a motivo d’una croce di marmo
che la pietà pubblica vi aveva eretta in memoria d’uno del paese che
era morto sotto una ruota di carro allo svolto della strada che sfianca
un ponticello di legno e sotto cui scorre un piccolo fiumicello; non è
una di queste strade che sembran modellate appositamente dalla natura
per favorire gli assassini... come lo potrebbe dar a credere la sua
sinistra qualifica.

Lo stradale della Croce è in quella vece una strada abbastanza comoda
per essere una strada di montagna, per di là si s’interna verso
Lugano.... fiancheggiando amene vallate vestite di verde; il fiume vi
passa in mezzo serpeggiando colle sue onde d’argento e scaricandosi nel
Ceresio.

È una strada che si contorce, si innalza, scende, e che dà
maledettamente da fare ai vetturini ed alle loro rozze. Quel punto che
si chiama l’angolo della croce è la parte più pericolosa se vogliamo
per incontri di mal augurio perchè è la più lontana dalle abitazioni
della valle e si lascia dietro alla sua destra la parte più coltivata
della montagna, armandosi il fianco per buon tratto di via di irti
macigni tagliati a picco in mezzo cui non vegeta che il giunco e la
rovere.

Passarono alcuni momenti d’ansia indicibile.... I quattro banditi colla
mano sull’arma, l’occhio vigile, guardavan lungo la via ascoltando
il men che leggier rumore che lor fosse portato dal vento e pareva
coll’avidità del pensiero che volessero attrarre la preda... Adolfo
li dominava, vigile ed attento ei pure. Il gruppo di quelle cinque
persone ciascuna delle quali aspettava; aveva il suo lato estremamente
poetico. Era la miseria cenciosa, irritata, il vizio insaziato che si
collegava per compiere un delitto quale ei si fosse; lo slancio d’un
cuor nobile, confidente, che si cimentava a combatterlo!... Era un nodo
del dramma della vita che stringevasi su quella deserta via... Il caso
vi arrabescava intorno uno de’ suoi tanti geroglifici! geroglifici
bizzarri che la superstizione ha ascritto alla Provvidenza!...
come se nelle vicende di questo granello d’arena che è il mondo, in
questo giuoco di luce che è la vita, questo fantasma del pensiero
potesse mai intromettersi a far da vetturino a questa grande macchina
dell’Universo!...

S’intese da lontano un rumore ancor vago che però si tradusse per
lo scalpitar di due cavalli; i cavalieri salivano l’erta. I quattro
banditi accosciati sulla ripa sinistra della vallata non li vedevano
ancora; Adolfo dalla collina li vedeva avvicinarsi intrattenendosi
in un discorso che pareva assorbisse tutta la loro attenzione perchè
lasciate andare la briglie sul collo delle loro cavalcature venivano
innanzi lentamente....

Il primo dei cavalieri mostrava circa 50 anni... robusto ancora di
forme, ma sofferente e pallido, pareva assorto in dolorosi pensieri,
mentre il suo compagno giovane di circa 20 anni, parea si desse tutto
cuore a cacciargli dall’animo quella cupa tristezza.

Adolfo armò la carabina... I cavalieri salito il declivio si mostrarono
in tutta l’altezza della loro persona sul ponte della Croce... Mentre
Adolfo con infinito senso di compassione e di terrore fissava su
loro lo sguardo, un colpo di fuoco rintronò per l’aria e corse come
un fremito di monte in monte; il cavallo del giovane fu colpito nel
fianco, ma non cadde; da due petti eruppe un grido d’allarmi, a cui
rispose l’urlo dei banditi che si slanciarono verso gli aggressi:
Adolfo lasciò andare il suo colpo, uno dei banditi che si avventava
alla briglia d’uno dei cavalli cadde riverso... tradimento!...
gridarono i compagni volgendosi, fu un istante... in certi casi
un istante è la vita!... I due cavalieri rinvenuti dalla sorpresa
dell’attacco, animati da quella fucilata che aveva atterrato uno dei
loro assalitori, cavaron le loro pistole d’arcione e fecer fuoco;
nello stesso tempo ratto come la folgore e mentre i banditi stavan
per ritornare sulla preda, Adolfo fattosi una mazza del calcio del suo
fucile che ruotava da indemoniato, s’era slanciato in mezzo ad essi.

Al suo apparire sì improvviso un grido di terrore eruppe dal petto
d’uno dei banditi che stette immoto fissandolo cogli occhi spalancati,
coi capelli irti sul fronte!...

— Lui!... gridò egli.

Adolfo che stava per vibrare un colpo si rattenne colpito egli pure
dalla sorpresa... Il bandito come se avesse veduto sorgere a sè dinanzi
un’evocazione infernale si diè a tutta corsa a fuggire precipitoso
giù per la vallata seguito dai due suoi complici che bestemmiando
lasciavano la loro preda.

— Noi vi dobbiamo la vita... diceva il vecchio stringendo con affetto
la mano di Adolfo, il quale s’accertava intanto nulla essere loro
avvenuto di sinistro.

— Non ho fatto che il mio dovere, signori... potei scoprire per caso
che si tramava un delitto, e quale ei si fosse, e su chiunque si
potesse compire stimai mio obbligo oppormivi per quanto le mie forze
me lo avessero permesso; il caso ci ha favoriti, perchè voi l’avete
veduto, il mio colpo non andò in fallo, ed al mio solo mostrarsi quei
banditi preser la fuga come se avessero veduto non so qual fantasma di
morto....

I due cavalieri ricambiarono con infiniti segni di gratitudine
le parole del montanaro. Questi dava mano intanto al più giovane
aiutandolo a smontare dal cavallo ferito.

— Dopo un sì brutto incontro, disse poi loro, sentiranno al certo
il bisogno d’un po’ di riposo... e se la mia casa può loro offrire
un’ospitalità che offro loro di tutto buon grado, possiamo avviarci.
Riprenderemo a cena i dettagli di quest’avventura....

Fu accettata l’offerta con pari lealtà come veniva fatta, si trascinò
sul fianco della strada il cadavere del bandito, e prese a mano le
cavalcature s’avviarono verso il paese.



CAPITOLO XVI.

In cui il Romanzo s’imbroglia maledettamente.


Margherita la vecchia governante che aveva veduto il giovane Adolfo
correre a tutta furia fuori di casa colla sua carabina alle spalle,
stava attendendolo con molta impazienza e s’andava intanto scervellando
a tutta possa per capire qualche cosa; ma per quanto ci si mettesse non
veniva certo a capo di nulla, e conoscendone l’umore fantastico che di
giorno in giorno gli montava al cervello, vi attribuiva non sapea qual
sua matta bizzarria a cui si lasciava andar di sovente.

Essa mandò un grido di gioja quando lo vide venir dalla strada, e
neppur accorgendosi dei due forestieri che lo seguivano e di cui egli
conduceva un cavallo gli saltò diffilata a bracciacollo con tutta
l’espansione de’ suoi muscoli ancor ben in vigore.

Adolfo si lasciò abbracciar ben bene, le contraccambiò un bel bacio,
proprio con quella gioja d’un cuore che è contento di sè dopo d’aver
compiuta una buona azione ed a cui sembri che sia un suo diritto
bell’e buono quello d’esser vezzeggiato, quando infine se ne abbia il
merito!...

E in quel momento Adolfo pensava quello che non diceva, e lo diceva
ricevendo quegli atti d’affetto della buona vecchia con tutta la
compiacenza possibile.

I due forestieri stettero guardando quella scena coll’animo commosso
ed intenerito. Eran cuori onesti e leali; non potevano non sentirsi
compresi da un gentil senso d’ammirazione. V’aggiunga il lettore,
che essi venivan dall’aver salva la vita per opera di quel giovane
sconosciuto che loro offeriva ospitalità, e troverà che per essi non
era allatto estranea quell’espansione, e vi partecipavano con tutta la
soddisfazione dell’animo loro.

La buona donna fece tutta lieta le feste di casa ai due forestieri;
lor preparò le più belle stanze, fe’ scontar al migliore dei suoi
polli che correvano il cortile, l’impeto della sua dimostrazione; si
diè tutt’anima a metter in mostra quanto vi era di buono e di bello
con quella cura con cui un antiquario imprende le eterne riviste
dei suoi quadri, e ne spiegherebbe le origini, e i come ed i perchè,
trenta volte al giorno, se gli capitasser giornalmente trenta vittime
su cui sfogare la tortura delle sue erudizioni storico-artistiche.
— Per buona sorte erano di tutt’altro genere le dimostrazioni della
buona Margherita, e non avevano a che fare colle dissertazioni
storico-artistiche... Essa ci teneva a far un brodo che potesse esser
trovato la fenice dei brodi dai suoi ospiti!... fe’ munger la sua
manza favorita; loro ammanì un’eccellente frittura di sardine del lago;
burro fresco della casa, e tutto quanto poteva insomma far tornar loro
gradita quell’ospitalità che lor venia offerta col cuore sulle labbra,
e con un cuore senza maschera di convenienze.

Quando la cena fu messa in tavola, la si onorò d’un appetito che
compensava ad usura le premure della vecchia Margherita; Adolfo
raccontò i dettagli di quella strana bizzarria che impedì per quella
volta un assassinio; gli ospiti gli dimostrarono tutta la loro
gratitudine e stabilirono che l’indomani egli li accompagnerebbe a
Lugano dove si recavano per farvi l’acquisto a cui erano diretti.

Venne l’indomani; si sostituì una sedia da posta alle cavalcature che
restarono in una scuderia del paese, ed accommiatatisi dalla vecchia
Margherita a cui promisero un sollecito ritorno, preser le mosse verso
Capolago.

Il tragitto da Capolago a Lugano che si fa oggi col solito termine
medio dell’orario postale, si faceva allora sopra a delle barche
a remi; vi si impiegava più tempo, ma non era men divertente: le
amene sponde del Ceresio vestite della vaga verzura dei suoi colli
lussureggianti al cui fianco contrastano quelle imponenti roccie di
granito or nude e luccicanti sotto i raggi del sole, or folte d’abeti,
e di noci, in mezzo alle quali saltella il camoscio, e squittisce il
faggiano, sono nel loro insieme uno splendido panorama, dentro cui
l’immaginazione si perde, e sol ne resta quel senso d’impressione
profonda che si subisce innanzi a quel portentoso fenomeno che è la
creazione!...

Il Ceresio svolta, si contorce come una serpe e scorre tranquillo e
limpido, poi si fa scuro, cupo, verdaceo: è uno specchio che vi sorride
e nella sua vaga ondulazione riflette la vostra immagine; è talora un
abisso in fondo a cui sentite un fremito che vi spaventa.

L’orrido ed il sublime, l’orridezza del bello dirò così, e la bellezza
del sublime, vi abbaglia e vi colpisce; passando in mezzo a quelle
schieravisi innanzi una natura che vi si offre in tutte le molteplici
sue forme... Avete alla vostra destra un’amena casetta inghirlandata da
colli verdeggianti, sentite l’olezzo dei fiori, il belar del capretto;
vedete il sorriso d’un bimbo accarezzato dalla madre, il sole indora
questo vago spettacolo col suo raggio più bello, vi volgete a sinistra
e sul vostro capo giganteggia orrendamente una nuda scogliera dal color
del ferro, non vi vedete vegetare un arbusto, non vi sentite un canto
d’uccello!...

Il nibbio vi volteggia intorno in larghe ruote... quell’immenso masso
arde, quella parte di lago su cui esso projetta la sua ombra; è diversa
da quella che voi scorrete, quell’ombra vi fa paura... quell’onda vi
pare più fredda, il suo colore è cupo come il pensiero che vi corre
alla mente... Avete vagheggiata la vita, e vi trovate d’innanzi la
morte!...

Adolfo ed i suoi due ospiti lasciavano tante meraviglie di bellezza e
di orrore dietro di loro; avvicinavansi a Lugano, facendo sosta nei
varii paeselli che ne fiancheggiano la strada, ed avevan bell’agio
d’intrattenersi delle loro cose.

In un viaggio di tal genere si discorre molto ed il discorrere invita
alla confidenza.... Il vecchio seduto alla prua del battelletto che
vogava tranquillo, disse quindi ad Adolfo il perchè del suo viaggio;
Adolfo parlò della sua posizione, parlò di suo padre e di sua madre,
con quell’affetto di cui si sentiva pieno e traboccante il cuore;
parlò dell’uomo che gli era sfuggito di mano, e del proposito suo
inalterabile di vendicare i suoi genitori vittime d’un odio vile come
la persona che fu causa di tanto male.

Per mandare ad effetto questo suo voto non restavagli che un mezzo;
la ricerca di questo scapestrato avventuriere che aveva lasciato il
servizio del duca e di cui nessuno potè mai più sapere cosa fosse
avvenuto.

Ma dove anderebbe egli?... a chi volgersi?... come rinvenirlo?...

Eran queste le domande affannose che succedevansi nell’animo del
giovane, e che davan motivo a quelle sue impazienti fantasticaggini
a cui doveva l’incontro dei due signori che il lettore avrà al certo
riconosciuti per il padre e per il fratello di Angela che s’eran messi
in cerca d’una villa onde tentare se era possibile un miglioramento
alla salute della cara quanto amata giovinetta.

Il vecchio marchese Gian Paolo era uomo esperto delle cose del mondo,
e dotato d’intelligenza non scompagnata dal cuore. Compiangendo
l’infelice giovane a cui la vita appena incominciata era già causa di
tanti affanni, lo fece forte di ragioni e di consigli, e gli propose
anzi ove egli credesse d’accettare, di concambiargli la ricevuta
ospitalità onde toglierlo per ora a quei luoghi per lui di penose
seppur care memorie, per avvicinarlo forse ad una vita che potrìa più
facilmente metterlo sulle traccie dell’uomo ch’egli cercava con tanta
ansia e che non avrebbe trovato al certo in un paese, da dove le sue
colpe istesse l’avrien tenuto lontano; per sè stesso essendo il male
consigliere di prudenza, e nella tema poi di trovarvi un vendicatore,
era più che certo, che egli ben si saria astenuto dall’andarvi
incontro.

Al loro ritorno da... dove il marchese Gian Paolo aveva trovata
un’amena villa situata sovra una delle sponde del lago più che adatta
ai suoi progetti, ripresero la via per Milano; Adolfo, s’accommiatò
dalla vecchia Margherita che lasciò custode delle sue cose, non senza
ch’ella si disperasse con tutto lo strepito dei suoi polmoni pieni
di fiato, e de’ suoi occhi ricchi di lagrime, e fece parte di quella
nuova famiglia che a lui si era interessata con affetto, e nella quale
entrava attorniato da tutti quei riguardi e da quelle premure che danno
all’uomo la stima di sè stesso e lo fanno migliore!... Ma affè e più
che pazza cosa la perfettibilità di questo logogrifo ambulante che
dicesi uomo, mentre percorre le fasi di questa ridicola commedia che
dicesi vita.. passando in mezzo a questa mascherata eterna che dicesi
società!...

Al loro arrivo, la casa di campagna del marchese presentava uno degli
aspetti più squallidi... Nel giardino incolto, languivano i fiori delle
arse aiuole... serrate eran le griglie della casa, i fanciulli della
corte non correvan come altre volte pel prato vicino inseguendosi l’un
l’altro mandando dal petto il loro grido di gioja, briosi ed allegri
come le vaghe rondinelle che volteggiando per l’aria si gorgheggiano le
loro canzoni d’amore!... Tutto v’era triste; tutto inclinava gli animi
a quel senso che vi dominava in tutte le sue dimostrazioni.

Angela!... il vago angioletto cullato dal bacio dell’affetto, cresciuto
sotto la carezza, era peggiorata di mille doppi, dopo la partenza
del padre e del fratello. Erale ora mai impossibile l’intraprendere
un viaggio da cui speravano di veder rifiorire quella salute che
lentamente moriva sulle sue guancie fatte ad ogni volger di giorno
più pallide e macilenti... La vita fuggiva, e gli sguardi pieni
d’angoscia dei suoi cari ne notavano il mortale progresso. Adolfo s’era
stabilito nella casa del marchese e s’era dato tutto cuore e premura ad
alleviarne le pene col dimostrargli la possibilità d’una speranza che
non era del tutto perduta... Vegliava egli la povera giovanetta intanto
che in essi col riposo succedesse nuova vigoria da continuare in quella
pia opera... Egli fu presentato ad Angela con tutti i dettagli di
quell’avvenimento che lo pose sul sentiero di quella famiglia, e che
il buon marchese gli veniva raccontando in quelle ore in cui il male
lasciava un po’ di tregua al suo spirito abbattuto... Egli le parlò del
coraggio con cui s’era slanciato in mezzo a quell’orda di malandrini
che avevan presa la fuga al suo comparire, come con un colpo della sua
carabina ne avesse lasciato uno sul terreno: dell’ospitalità avuta,
della buona vecchia che loro fu tanto cortese... delle sventure che
gravarono sulla giovane sua vita tanto da lasciargli un retaggio di
sangue!... A questo racconto fatto dal padre con tutta la foga d’un
animo leale, e con tutto lo slancio d’una profonda riconoscenza, le
guancie pallide della giovinetta si venivano animando d’un fuggitivo
incarnato... Il suo occhio esprimeva quanto tesoro di riconoscenza e
di gratitudine si svolgesse in quel giovane cuore; quanta ammirazione
ingenua, ardente, abbracciasse il suo pensiero... E quando il
giovane Adolfo, vestito colla sua bella casacca da montanaro, coi
suoi bei capelli a nere ciocche che gli contornavan la fronte alta
ed intelligente, gli fu presentato dal marchese, con queste semplici
parole che terminavano il suo racconto... Ecco Adolfo... e mentre gli
stringeva la mano conducendolo presso il letto d’Angela, la giovinetta
levò di sotto alle coltri la bianca sua destra, lo guardò con quel
suo sguardo così splendido d’espressione... con quello sguardo in cui
pareva si fosse concentrata tutta la vigoria della sua anima per dar
vita al palpito del suo cuore!... Signor Adolfo, gli diss’ella, colla
sua voce a cui il languore dava una dolcezza indefinibile... mio padre
e mio fratello vi devono la vita, vi devo quindi anche quella poca che
mi resta perchè io sarei morta all’annuncio d’una sventura... che siate
il benvenuto in questa casa che è vostra ed in cui siete per me un
fratello... ed a mio padre un figlio!...

Come era bella la giovine fanciulla, schiudendo così dall’animo tanta
cortesia d’affetto e di parole!... quel suo viso pallido che si tingeva
d’un rosso sfumato, l’espressione angelica del suo grande occhio nero
fisso nel volto del giovane, rendevano l’immagine d’un bello a cui il
pensiero non s’avvicina che dandovi la forma ideale d’un sogno... il
padre la contemplava, e gli parea di veder affluire la vita in quelle
fibbre spossate dalla malattia... sua madre la baciò in fronte con
quello slancio d’affetto che s’attacca alla speranza per non lasciarsi
sopraffare dalla disperazione. Era un quadro di Rubens palpitante
di vita; v’era uno strano contrasto di soavità e di tristezza, nella
scena che si compiva in quella casa intorno a cui regnava il silenzio
della campagna colle sue armonie di pace, col susurro delle sue fronde,
coll’olezzo dei suoi fiori, colla splendidezza del suo cielo placido
e sereno che pareva sorridere, vago della sua bellezza, ed inneggiare
alla gioja, là dove l’arcano presentimento del cuore intravvedeva il
dolore di sotto alla fatuità d’una menzognera illusione!...

E Adolfo?... Era la prima volta che egli stringeva colle sue mani
avvezze al maneggio della carabina la piccola mano della giovinetta
morente... Ei ne sentì la voce come s’ascolta un’armonia di
cielo... fissò lo sguardo umile, bagnato di lagrime nei suoi occhi
e vi trovò l’indefinibile senso di una dolcezza che intorpidiva
le sue intellettuali facoltà... se è possibile essere sciocchi in
quell’impossibilità d’esprimere ciò che passa nella nostra anima
allorchè per la prima volta ci troviamo al contatto dell’ignoto,
dell’inqualificabile, di una cosa di cui non sappiamo renderci ragione
se non per il senso che esercita su noi... quella prima impressione che
porta con sè lo sbalordimento... l’atonia... Egli fu tanto sciocco,
quanto si possa esserlo nella sua posizione d’uomo per nulla affatto
conscio d’ogni atto di convenienza sociale; ignaro di tutte quelle
formule per cui si esprime gentilmente quello che si sente e quello
che non si sente!... Egli fu un imbecille, secondo tutte le regole
del Galateo moderno. Non trovò un complimento nella fraseologia
convenzionale dell’etichetta per rispondere ad un complimento tanto
gentile e compito... Egli non disse nulla, non rispose; si ritenne
l’elogio come pagamento d’una cambiale girata a nome della gratitudine
e della riconoscenza.

V’era però un fatto semplice che lo toglieva all’obbligo della
fraseologia indispensabile in buona società per non passare da
sciocchi; e per avere l’alto onore d’esser presi per uomini di spirito.
Ed era questo; che le parole di Angela valevano quanto il silenzio
di Adolfo... non erano un complimento, ma un’espressione pura e
spontanea del cuore, come il silenzio d’Adolfo ne era l’accettazione
riconoscente.

In un attimo, nel volgere d’un istante quei due cuori, giovani,
vergini, leali, si compresero. V’era per essi una strana affinità; in
Adolfo l’espressione d’una forza materiale esercitata alla vita, che
permetteva al pensiero di svilupparsi allora nella sua potenza; che
lo ridestava dirò così, appunto allora dal letargo dove si giaceva;
animato dall’intuizione di ciò che era: creato in quell’istante dal
soffio rigeneratore che v’era passato sopra a dirgli il _fiat_!... Egli
amava!...

A riscontro di ciò, eravi in quella vece in Angela la debolezza
materiale e fisica animata solo dalla vitalità del pensiero. L’amore si
sviluppava aureola lucida d’intelligenza intorno quel decomporsi del
corpo in cui tutta la vita altro non è che l’aspirazione morale che
abbraccia l’infinito; l’ideale allora appunto che i legami materiali
dell’esistenza si sfasciano avvicinando l’agonia della materia. V’ha
nei moribondi quello slancio d’intuizione; quella pienezza di vita,
dirò, resa spiritale, che cresce a seconda che scemasi la forza fisica,
e conduce gradatamente a quello stato di estasi che gli antichi profeti
si procuravano collo sfinimento del corpo onde lasciare più libero il
senso dell’anima; pratica che portarono ad una formula religiosa e che
loro serviva a lanciarsi per mezzo dell’astrazione nelle ideali regioni
dell’infinito.

Angela... viveva appunto questa vita dell’intelligenza così sensibile
ne’ suoi attimi febbrili, onde è che talvolta basti un’impressione
per quanto leggiera a troncarne il filo. Il suo pensiero analizzando
rapidamente tutte le varie impressioni dell’animo, coloriva con ardente
passione ogni circonstanza di quel fatale incontro che quasi era per
esserle così funesto. Quella via deserta sulla quale l’assassinio
meditava l’opera sua; quegli uomini appostati che attendevano al
varco la vittima, l’attimo che scorre avvicinando l’ora contata
coll’impazienza convulsa del delitto, il galoppo dei cavalli... e
su quei cavalli suo padre, suo fratello, che per lei movevano ad
affrontare i pericoli del viaggio; la detonazione mortale d’un’arma!..
poi il grido di rapina dei banditi!.. e poi!... d’innanzi al pensiero
v’ha l’orrore d’un fatto che sta per compiersi; una lotta disperata
in cui si combatte corpo a corpo, e due uomini che potevan cadere
insanguinati ai piedi di quattro banditi che colle mani lorde di sangue
li spogliano insultando ai loro cadaveri; tutta la possibile orridezza
di questa scena s’era affacciata al pensiero della giovinetta... E in
mezzo a questo tetro orrore, come faro di luce tra le tenebre d’un
uragano devastatore, vide un’immagine d’angelo; un genio tutelare
messo dalla Provvidenza sul sentiero del delitto per attraversarne
la via... lo vide tutto solo colla coscienza del proprio valore e del
proprio dovere lanciarsi in mezzo a quella scena di sangue, e quella
scena scomparve; sparvero gli orridi ceffi, cessarono le grida, si fe’
silenzio e vide amena e bella la via, verdi le fronde degli alberi,
e guardò il giovane che gli stava d’innanzi umile, confuso, e gli
parve più bello e più grande di quanti eroi popolaron le leggende di
Hoffman!... ed i canti di Byron!...

Erano scorsi due mesi dal ritorno del marchese Gian Paolo; nulla di
nuovo era avvenuto nella famiglia, uguale sempre lo stato di Angela...
ben vedevasi che il tempo col lento suo scorrere portava con sè istante
per istante il resto di vita che scorreva ancora in quelle gracili
fibbre animate appena da un soffio, che il primo alito d’una crisi
avria spento per sempre.

S’era avanzato l’inverno, la neve copriva la campagna col suo strato
uniforme come un lenzuolo funebre steso sulla terra a ricoprirne le
zolle verdeggianti. Ardeva il fuoco nella stanza dell’ammalata, ardeva
nel salone di famiglia. Il vecchio marchese sedeva presso al deserto
focolare assorto in pensieri, la madre vegliava al letto della figlia,
il fratello Enrico era uscito, Adolfo muto e melanconico, stavasi ad
una delle finestre guardando la campagna e ne contemplava forse la
mesta squallidezza.

Il cielo era bianco, bianco, attraversato da nuvoloni gravidi di
pioggia o di neve; non spirava alito di vento che scuotesse le cime
degli alberi coperti dalla bruma; la notte scendeva tacita sulla terra,
le ombre si raddensavano, in breve la neve cadde a larghi fiocchi e un
soffio di vento che incalzò da ponente le nubi le fe’ correr ratte per
lo spazio in cui turbinarono quei mille atomi agitati dalla buffera.

Quando la notte fu alquanto avanzata si intese un lontano scalpito di
cavalli, il marchese si scosse dal suo letargo, corse alla finestra a
cui era tuttora intento il giovane assorto nelle sue meditazioni. Due
cavalieri entravano nel viale che conduceva al cortile della casa. Uno
dei due era Enrico... l’altro era uno straniero; montava un cavallo
bajo con squisita eleganza e caracollava gajamente nel viale ad onta
che la neve infuriasse alla dirotta. Vestiva un abito di velluto alla
foggia di quel tempo; aveva gettato alla bandoliera un lungo mantello
nero che il vento gli agitava alle spalle, portava in capo un largo
feltro sormontato da una lunga penna d’aquila, segnale distintivo di
cacciatore valente.

Lo straniero ed il fratello d’Angela, lasciate le cavalcature agli
uomini di corte montaron poco dopo lo scalone. La porta della sala di
ricevimento si aperse ed ambedue entrarono.

Il marchese salutò il figlio con un bacio, e strinse cordialmente la
mano all’incognito che gli fu presentato da Enrico. L’incognito rispose
al saluto con dignitosa cortesia; egli si scusò d’aver abusato della
gentilezza del giovane marchese che incontratolo sulla via sorpreso
da sì mal tempo gli offerse generosa ospitalità nella sua casa; disse
poi non permettergli alcune circostanze momentanee di palesare il suo
nome... essere esso però di famiglia milanese, ed aver lasciato Milano
perseguitato per ragioni politiche, essendosi immischiato in alcuni
affari contro l’attuale signoria; e concluse che stava recandosi a
Mantova cercando alla corte del duca Federico protezione ed ospitalità.

Il marchese Gian Paolo gli strinse di bel nuovo la mano in segno di
stima e l’accertò che mal non s’apponeva volgendosi alla corte del
Gonzaga magnanimo sempre ne’ suoi atti e che sotto la tutela del
lor diritto feudale egli potrà riparare sicuro dalle tirannie dei
Visconti.... tanto più che tra le due corti eravi scissura di puntigli
politici e di rivalità di poteri...

La fiamma ardeva sul focolare; crepitavano gli accesi tizzoni ed
invitavano a sedervisi intorno. L’incognito si slacciò il mantello,
si tolse il feltro ed invitato dal marchese s’assise al fuoco... Egli
gettò un rapido sguardo a sè d’intorno quasi volesse persuadersi del
luogo dove si trovava, come se la sua mente avesse per un istante
vagato lontano dalla realtà della vita, rapita da un’astrazione che
accennava forse all’indagare attento della memoria. Aveva scorto Adolfo
ritto sempre ed immobile, appoggiato alla finestra da cui guardava sin
dal momento che dal viale erano apparsi i due cavalieri. S’avria detto
che sulla sua fronte alta ed aperta fosse balenato un lampo, che dentro
al suo occhio nero, acuto, penetrante fosse lampeggiato un pensiero.

Adolfo lo guardava... pareva che egli pure cercasse una lontana
memoria, quell’uomo egli l’aveva visto... dove poi?.. Era la domanda
che volgeva a sè stesso non staccando lo sguardo da quelle sembianze
dalle quali gli veniva un rimescolio convulso che era impotente a
dominare, e di cui non sapeva come rendersi ragione. Egli aveva
ascoltate le parole di quello straniero così cavallerescamente
dette, e con tanta dignitosa semplicità esposte... e gli vagavano nel
pensiero, come l’eco d’una voce che s’abbia altre volte intesa; quella
dichiarazione di patria, di intrighi, di un appoggio che egli andava
cercando presso la corte dei Gonzaga contro le tirannie d’un’altra
corte, gli pareva avesse la forma d’una menzogna che vuol vestire
l’abito della verità... Egli non sapeva cosa pensasse... sindacava
in certo qual modo le parole di quello straniero poichè vi era nella
sua anima un pensiero inquieto che lo spingeva a ciò... Era forse un
sentimento d’antipatia?... Poteva essere l’effetto d’una di quelle
impressioni momentanee che si cancellano poi dalla mente e ci impongono
quasi a castigo della nostra malignità od inconsideratezza, una
maggiore stima che redarguisca la persona da noi offesa con un pensiero
che si cancella affatto dalla memoria.

Non era questo senso vago, indefinito che giganteggiava nell’animo
del giovane; era qualche cosa di più profondo che un’antipatia; egli
sentiva in sè, che mai avrebbe potuto ricredersi dalla sua impressione;
ei sentiva che coll’indagine del pensiero quel sentimento invece di
quetarsi si ampliava: gli parve di sentire un disgusto di fronte
a quella fisonomia calma, scherzevole, animata dallo scoppiettio
cavalleresco della parola, facile, melliflua, dolce!... un disgusto che
aveva qualche cosa di affine coll’odio... Ei si disse d’avere innanzi
un nemico, e si dispose quasi ad una possibile lotta trasportato da
quella foga che è la convulsione d’un’idea quando si slancia anelante
nell’infinito campo delle ipotesi, le une talvolta più assurde delle
altre e che pure vestono dall’illusione del senso una forma di vaga
realtà.

Intanto che tali pensieri andavano con ansia affannosa succedendosi
nella mente di Adolfo; mentre che la sua fantasia vi si abbarbicava
imbavagliata, come un molosso che lotti per lacerare un brano di tela
in cui si è infitto il dente che non può trarre dalla pastoja e che
per la sua impotenza istessa alla resistenza ei non può lacerare... Il
marchese era attratto da un vivo senso di simpatia verso l’incognito.
Questa sensazione s’andava ognor più sviluppando in lui per i modi
cavallereschi che riscontrava nello straniero; entrava seco lui nei
dettagli più confidenti della sua posizione e lo metteva a parte delle
pene che affliggevano la sua famiglia tenuta in tanta angoscia dalla
malattia di Angela.

— Affè, marchese Gian Paolo... disse l’incognito gajamente, chi non
vi dice che accompagnato dalla buffera di questa notte non vi sia
capitato un angelo a portarvi la pace?... affè non ch’io mi tenga tale,
marchese!.. che so non aver sembianza da mettere abbaglio, ma se la
cosa è nel limite del possibile io mi metto a vostra disposizione!...

Il marchese ascoltava lo straniero come chi rinvenga da un sogno
delizioso, e tema che quella fatua percezione del pensiero non gli
fugga coll’atto dello svegliarsi... Egli fissava lo sguardo in quello
di lui, vivo e penetrante, come per domandargli se ei doveva credere;
se era il suono d’una parola di conforto reale quella che era suonata
ora al suo orecchio...

Lo straniero diè in uno strano riso... Il marchese trasalì, Adolfo
fremette; egli sentì corrersi un brivido per le fibbre tese nello
sforzo di quella lotta che durava da qualche momento che gli pareva un
secolo.

— Marchese.... rispose lo straniero con accento sì dolce da dare
alla sua voce la melodia d’un suono.... ve lo ripeto, io sono a
vostra disposizione, e sarei ben trista creatura se avessi voluto
coll’insinuazione d’una vana speranza farmi giuoco dell’affetto d’un
padre.

— Sareste medico, signore? domandò il marchese.

— No, non sono medico, ripigliò lo straniero con un sorriso di
confidente persuasione, ma grazie al cielo, non sono affatto estraneo
allo studio delle scienze occulte e chi sa... Volete voi mostrarmi
vostra figlia, marchese?... dopo un esame di breve momento io vi dirò
sulla mia parola d’onore se potete ancora sperare!...

— Iddio vi ricompensi, se egli vi avrà inviato in questa casa ad
operarvi un miracolo, mormorò il marchese alzandosi per condurre lo
straniero verso la camera della figlia.

Adolfo vide passarsi innanzi lo straniero seguito dal marchese: sulla
sua fronte splendeva un lampo di gioja, nel suo sguardo brillava il
raggio sereno della speranza!..

Egli si diceva perchè non poteva cadere ai piedi di quell’uomo
che parlava la parola del conforto in quella casa abitata dalla
disperazione.

Egli lo vide entrare nella stanza di Angela... da cui doveva uscire
per dire forse al marchese: Vivrà... Essa!.. Angela!.. L’essere per
cui egli avria data la vita... Il soffio rigeneratore che era passato
sulla sua anima a dirgli vivi!.. Vi è un palpito anche per te, povero
figlio della sventura!... Ed in fondo al cuore del giovane, ove sentiva
il presentimento che quell’uomo salverebbe Angiola... sentimento strano
a cui s’attaccava un non so quale idea di amara superstizione!... in
fondo al suo cuore che si sarebbe spezzato per animare coi suoi battiti
quello sì debole ed appena palpitante della giovinetta... v’era un solo
senso... egli aveva paura!...

Quando lo straniero uscì dalla stanza dell’ammalata e strinse la mano
al marchese affermandogli con voce sicura. — Vostra figlia vivrà ve ne
do la mia parola d’onore.

Adolfo fremette!... Una vampa di fuoco passò sul suo cervello... Vivere
Angela!... Era toccare il cielo col dito... (Era vedersi schiudere il
paradiso)... Angela vivere!.. Era la melodia più dolce che potesse far
battere d’un palpito sovrumano la sua anima... era toccare quel punto
a cui il suo pensiero si fermava impaurito dal fulgore d’una speranza
come rocchio che fissa il sole allora che egli arde nella pienezza
della sua luce di fuoco... Eppure il suono di quella voce che avea
pronunciate quelle parole gli gelò dentro il cuore quello slancio che
stava per irromperatomo..

Angela salva per opera di quell’uomo, era in quella vece un’idea
tormentosa che non gli dava tregua!... era un aspide cacciatosi
dentro al suo cuore, era la smania indefinita d’una lotta contro
l’impossibile, vale a dire contro il ritorno del passato che era la
continuazione dell’agonia, contro la speranza dell’avvenire che era il
ritorno alla felicità, alla salute, e tutto ciò egli avrebbe voluto
fare spendendo giorno per giorno della sua vita, stilla per stilla
del suo sangue, atomo ad atomo della sua esistenza!... La parola
dell’incognito valeva — veder Angela bella, soave, colla sua voce da
bimba, colla espressione del suo viso animato dalla vita affluente
al suo cuore, levarsi da quel letto di dolori, tornare quel che fu
altra volta... la vispa bambinella che giocava colle farfalle del
suo giardino, che avria saltellato per le alee dei verdi viali che
deserti così gli avean lasciato nell’animo tanto senso di tristezza...
Era veder farsi bello d’una bellezza di paradiso tutto ciò che essa
avrebbe avvicinato... Era tutto ciò che pensiero umano potesse ideare
di soave!... era cosa a cui parola umana non avria trovato una forma
per definire... Eppure egli ebbe paura di quella parola, e ciò che ora
per lui la più delirante delle speranze gli suonò come il presentimento
della più terribile delle sventure....

Per tutta la famiglia del marchese Paolo, quella notte passò agitata
dai mille fremiti a cui assoggetta l’animo il trasporto d’una speranza
contro alla quale lotta ancora il dubbio nel timore di un disinganno.

Lo straniero avea promesso un farmaco che ridonerebbe la vita ad Angela.

All’albeggiar del domani, egli correva a briglia sciolta sullo stradale
di Mantova. Le pieghe del suo nero mantello svolazzavangli dietro le
spalle agitate dal vento che spirava ancora frizzante e freddo... Ei
levò il feltro in aria salutando il marchese che lo ricambiava con
cordiale saluto dal cancello del suo palazzo.

Adolfo, seduto presso il letto d’Angela la contemplava con uno sguardo
in cui avrebbe voluto trasfondere tutta la vita della sua anima per
ripeterle una parola che la giovinetta aveva già sentita susurrarsi
all’orecchio ed al cuore coll’alito ardente dell’affannoso suo petto!..



CAPITOLO XVII.

Ancora il Palazzo del Diavolo.


Dopo la morte del vecchio alchimista nella casa della valle regnava una
misteriosa calma... Il nero portone che s’era chiuso sui passi d’Enrico
la notte che ei ne era uscito per non più ritornarvi, non fece mai più
sentire il cigolìo de’ suoi cardini arrugginiti.

Cos’era avvenuto d’Enrico?... L’oro del diavolo non resta in mano,
dicevano i vecchi del paese gettando una furtiva occhiata alla casa
deserta.

Era opinione dei più che il nipote del mago avesse consumato nelle
orgie la sostanza ereditata dallo zio; si vociferava che lo si avesse
visto a Milano sciallar colla sgherraglia del duca e che egli tenesse
mano a non so che indiavolati progetti. Si credea d’averlo veduto una
notte entrare nella taverna del Gallo Nero, e starvi qualche tempo, da
dove uscì poi in compagnia d’alcuni di quei bravi avventori; poi era
ripartito di nuovo e s’era dato, dicevasi, a far poco onesto mestiere
coll’antica soldatesca con cui s’era ingaggiato prima della morte del
mago, ritornato come era quasi al verde di quattrini. Si volea che gli
usurai della città lo ricordassero con tenera memoria, e chiedesser
conto de’ fatti suoi per l’amore che aveano alla sua vita... e tante
e tant’altre cose!... si discorreva di lui dopo che fu lontano dalla
città ove esercitava un tal qual superstizioso terrore, come si fa
dai bimbi dopo che si sono svegliati da un mal sonno; e credono di
non aver più paura delle corna del folletto, finchè arrivata la notte
susseguente, strillano ancora da ossessi e non andrebbero a letto senza
lume per tutto l’oro del mondo..

La vecchia Marta vivea sempre chiusa nella casa della valle; non avea
lasciato il suo seggiolone di legno, filava sempre la sua rocca sulla
soglia della porta interna, là dove oggi si entra nell’osteria del
diavolo. Nel vasto cortile scorazzavano le sue galline, si sentiva di
fuori la monotona cantilena della sua canzone, e si diceva che vivesse
senza mangiare essendo che nessuno l’avea mai veduta far compera di
cibi... Il che non prova però ch’ella non mangiasse!... che se avea
fiato da strillar le sue canzoni, diceva qualcuno, qualche cosa si sarà
pur messa sullo stomaco tanto da darle forza a tirar innanzi.

Ma quand’è mai che si possono fare in pace le cose sue?...

Dacchè San Tommaso che era un santo, mandò in voga la smania di cacciar
il naso dappertutto ed anche chi sa in quali parti!... quel sistema
rivelatoci dalla Bibbia è diventato il _sine qua non_ di tutti i tempi,
di tutti i luoghi, di tutte le persone!... e siccome anche gli uomini
d’allora erano uomini, e la lingua e le abitudini delle comari di città
non aveano subìto alcuna diversificazione, così si trovava a dire ed
a ridire sulla casa della valle, e sulla vecchia Marta, e sull’uomo
nero che l’avea lasciata per andare all’inferno a fare i suoi patti col
diavolo, da dove ritornerebbe per fare chi sa che cose!

L’incompreso, fu sempre l’offa gettata alla curiosità, appunto perchè
i più pensano con maggior voglia ai fatti degli altri che ai proprii,
e ciò in causa della vecchia favola d’Esopo. V’era abbastanza di che
solleticare questo sentimento che talvolta non è quello che meglio
onori la dignità della razza umana, nelle misteriose origini, e nel
mistero permanente, indefinibile, inqualificabile, del Palazzo del
Diavolo....

Però dopo alcun tempo, tutte le strambe dicerie che vi circolavano
intorno pareva si fossero acquietate: non si parlava che a caso del
nipote del mago, poco della vecchia strega che era rimasta custode
della casa maledetta... Tutto vi taceva dentro, pareva non fosse
abitata da anima viva, la notte la avvolgeva colle sue tenebre senza
che sul suo tetto si vedesser più danzare gli spiriti... Pareva insomma
che l’immaginazione vi avesse esaurito sopra tutte le fantasticaggini,
e si riposasse ora in attesa di riprendersi la rivincita alla prima
occasione.

Or avvenne che la notte precedente agli avvenimenti narrati a questo
punto del nostro romanzo, si vide improvvisamente oscillare una luce
fantastica dalle ampie finestre della casa deserta... si disse che
il portone del palazzo chiudendosi dietro non si sapea quale spirito
che ci fosse entrato, mandò tal fragore come se un terremoto avesse
scrollato tutto intero l’edificio che era diventato più alto che prima
non lo fosse! e che pure nessuna figura che avesse forma d’uomo s’avea
veduto nè entrare, nè uscire... S’era inteso di nuovo echeggiare più
lugubre che mai quel maledetto canto della vecchia Marta... si disse
che lo spirito dell’inferno tutto vestito di fiamme, e che appunto
perciò mandava tanta luce, avea girato tutto il palazzo, s’era fermato
in una stanza per più di due o tre ore e ciò lo si desumeva dall’avervi
osservata fissa, la luce che prima correva rapida di finestra in
finestra dovunque passasse lo spirito.. poi sul tetto si elevò una
fiamma fatta a serpe... e nel punto che suonava la mezzanotte, tutto
ritornò nel primiero silenzio.

Fu un fatto che fe’ parlare da inspiritate tutte le comari del borgo
di porta Leona, che fe’ strillare e piangere di paura i ragazzi, e
pensare le fanciulle, che al sentir parlare di diavoli e di folletti
vi prendono un gusto matto, tal che se ne può desumere il perchè corran
sempre addietro a chi lor fa più corna....

Lo straniero all’albeggiar del domani di quella strana notte fra le
cui tenebre i demonj avrien dovuto aver ballata la tregenda nella casa
della valle, era di ritorno alla villa del marchese Gian Paolo e vi
portava il prezioso amuleto che dovea restituire Angela al tenero amore
de’ suoi cari.



CAPITOLO XVIII.

Ambrogio lo stregone.


V’era un fatto semplicissimo, vestito dalle fantastiche forme
dell’immaginazione in tutto il grande avvenimento che susurravano a
bassa voce compiutosi nella casa della valle nella quale gli spiriti
eran tornati ad abitare.

Verso la mezzanotte vi entrava un uomo tutto avvolto in un mantello
andaluso, quell’uomo veniva da una casuccia che è situata tra il vicolo
bargello e la taverna del Gallo Nero.

Nessuno forse vi poneva mente, era una casa bassa, le finestre n’eran
sempre chiuse... pareva ch’essa fosse disabitata ma non l’era.

Consentimi, lettore, ch’io te la faccia conoscere, sarà un capitolo
di più che avrò aggiunto al mio romanzo, e dopo tutto, la noja di
leggerne uno invece d’un altro tu l’avresti avuta ugualmente... Aperta
la piccola porta il cui battente di bronzo rappresenta un pipistrello
colle ali tese, si salgono tre gradini di marmo, i gradini erano
rozzamente scolpiti, ed eran forse qualche pezzo di granito lavorato
tolto chi sa da qual luogo per farlo servire all’uopo, e ciò lo desumo
perchè nulla del restante della casa era in armonia con quel non
so di stranamente artistico che vi si scorgeva al primo fissarvi lo
sguardo. In una vasta sala dalle nere pareti, ardeva un fornello su
cui arroventavasi un bastone di ferro, v’era presso al fornello un
bacile contenente una sostanza liquida, e presso al bacile una storta
di vetro... sopra un tavolo situato nel mezzo della sala vedeansi due
maschere di vetro opaco, vicino alle maschere due grandi manopole di
pelle di camoscio, in un angolo varii alambicchi di rame... di fianco
al fornello un seggiolone a bracciuoli; nel mezzo, sospesa ad una corda
annerita dal tempo e dal fumo, una lanterna spargeva d’intorno una
semiluce; che dava a quel luogo un aspetto cupo e fantastico.

Ambrogio lo stregone se ne stava abbandonato dentro alla sua seggiola
assorto nella lettura d’un grosso libro che avea d’innanzi, e sovra cui
fissava il suo sguardo avido ed attento.

Quell’uomo aveva circa cinquant’anni, di fattezze regolari, ma alterate
dalle strane vicende di quella sua vita d’astrazione e d’orgia, cose
che egli alternava come un vero filosofo tedesco alla cui scienza
avea attinte le sue cognizioni in fatto di diavoleria nelle quali
lo si teneva riputatissimo dal volgo, che l’avea veduto più volte in
relazione con Paride Ceresara il mago della casa della valle.

Era esistito in fatti tra Paride Ceresara il distinto alchimista ed
Ambrogio lo stregone, quella relazione che suol correre tra persone che
professino l’arte istessa e che i rapporti della scienza non possono a
meno di avvicinare per quanto dispari possa anche essere lo stato della
loro posizione sociale.

Pel volgo e l’uno e l’altro eran gente perduta che patteggiando col
diavolo avevangli venduta l’anima per comperare i godimenti della
terra... in faccia alla scienza, l’uno era maestro all’altro, e
Ambrogio avea di lui quel rispetto che suole imporre il genio in chi
vorria col pensiero elevarsi tanto alto quanto quelli a cui l’animo
tributa il senso della propria ammirazione... In faccia a sè stessi,
Paride Ceresara era contento d’insegnare al suo discepolo, come questo
era lieto d’imparare; siccome però, dice il proverbio, nelle cose di
questo mondo il diavolo ci vuol sempre mettere la coda, così avvenne
che la sfortuna cacciate le mani ne’ suoi affari e scompigliatili per
ogni verso, lo portò dal campo dell’astrazione poetica in quello della
realtà... vale a dire che ridotto a non aver altri mezzi di sussistenza
dovette lasciar l’estasi delle contemplazioni e far della scienza un
mestiere che gli fornisse di che vivere. Il suo maestro moriva verso
quell’epoca, e se la sua morte gli portò fortuna aumentandogli il
numero degli avventori, non per questo ei men riguardava con occhio
di compianto quei beati giorni passati nei vaghi studii fatti per
dar pascolo al loro desiderio di spaziare in quel vasto campo della
scienza, non circoscritta come or la vedea a servire basse e stolte
superstizioni, senza le quali ei non avrebbe cavato una moneta.

I tempi correvan tristi affè!... e l’esser fabbro di sortilegi in modo
d’averne lucro non era la posizione più sicura del mondo, nè la meno
scevra di pericoli, nè quella in cui fosse facile tirar dritto per la
via, con una mano sulla coscienza.

Il professo d’allora nelle scienze, dovea essere un uomo in relazione
cogli spiriti e votato al diavolo fin dal suo nascere. Era medico,
era astronomo, era mago insomma, e non troppo raramente avveniva che
a qualche vecchia comare saltasse in mente ch’ei dovesse risuscitare
qualche morto e a qualche marrano che dovesse alla spiccia far morire
qualche vivo... Era un navigare tra Scilla e Cariddi, colla prospettiva
poco seducente di urtare un giorno o l’altro in uno di questi scogli,
e farla finita, o coll’onestà... o forse con qualch’altra cosa che a
seconda dei casi può valere di più o di meno.

Nel momento in cui noi poniamo piede nel vasto stanzone
dell’alchimista, egli tolse lo sguardo dal libro e si volse con atto di
mal umore.

Erano stati battuti alcuni colpi alla porta della casa.

Egli attese un istante.... il battente martellò di nuovo; si alzò ed
andò ad aprire!... Fu un’esclamazione di sorpresa e di disgusto che
suonò sul suo labbro — Voi!...

— Io!... rispose con voce franca e quasi impudente il visitatore.

— Se avete bisogno dei miei servigi nel modo in cui ve li ho
ricusati altra volta, vi prevengo essere affatto inutile che noi ci
tratteniamo...

— Non è la morte che vengo a chiedervi, maestro Ambrogio... è la vita.

— Ho io il potere di Dio?...

— Avete la facoltà della scienza.

— Cosa chiedete?..

— Un farmaco che renda la vita ad una donna.

— E perchè volete farla vivere?... gli domandò il negromante fissando
sul suo interlocutore uno sguardo a cui pareva non potesse sfuggire un
men che menomo attimo del pensiero.

— Che v’importa?... rispose questi confuso.

— Importa molto... a colui a cui si venga a dire, fate vivere
un’anima, fate palpitare un cuore!... la morte è la cessazione delle
sensazioni umane, perchè dovrei io far vivere? per permettervi forse la
tortura?...

— Maestro Ambrogio, siete molto bisbetico questa notte... affè... parmi
vi passino ben strambe idee pel capo...

— Spicciamoci dunque?.. È la vita che voi volete?..

— La vita.

— Per utilizzarla come una merce?..

— No; per rendere la pace ad una famiglia.

— È questo il vostro pensiero?..

— Questo...

Il negromante stette alcuni istanti meditabondo, si volse verso un
uscio che metteva ad una scaletta e chiamò: Bianca, Bianca...

Una vaga giovinetta pallida, pallida, dallo sguardo color cielo,
dai capelli d’ebano, dai labbri di cinabro, bella come uno di quegli
angioli che il pennello del Buonarotti dipinse, tipi eterni di bellezza
sulle immortali sue tele, si affacciò alla soglia.

— Eccomi, diss’ella.

Il visitatore la contemplò affascinato, poi volse il pensiero sul
negromante che muto non vi fe’ risposta: fissava immoto la giovinetta
e puntandogli le mani stese verso il petto la fe’ ristare come sotto
l’influenza magica di un fascino strano... Bianca.... gli domandò egli
poichè la vide calma, tranquilla ed immobile a sè d’innanzi, serena
la fronte, sorridente il viso, e seduta con dolce abbandono sovra una
sedia vicina.

La fanciulla provò un tremito.

— Bianca, ripetè Ambrogio, vedi tu?..

— Sì... vedo, rispose la fanciulla con voce dolce e soave.

— Leggi tu nel mio pensiero?..

— Vi leggo.

— Sai chi sia a me d’innanzi in questo momento?..

La fanciulla pronunciò il nome dello straniero, con un atto appena
percettibile di disgusto.

— Perchè ti agiti?... cos’è che ti fa male?...

— Nulla.

Il vecchio Ambrogio guardò inquieto lo straniero che sorrise con piglio
di disprezzo.

Il negromante non gli badava più. Tutto assorto come era nella sua
operazione, tutto il fuoco della sua anima parea fosse passato nella
sua pupilla, larga, fissa ed immota... Il lume della lampada oscillava
sprizzando all’intorno pallidi raggi di luce. Il vecchio girava intorno
alla giovinetta agitando le braccia, descrivendo colla mano scarna
magici circoli intorno alla sua bella testa che sorrideva; lo straniero
si sentiva suo malgrado dominato dallo strano svilupparsi di quella
scena, egli si trovava in faccia a quell’apparenza del soprannaturale
alla cui impressione si dovettero i fatti più strani e più terribili
che lasciarono pagine di sangue sul libro della storia di tutti i
popoli.

La scienza vestiva a quei tempi una forma atta a colpire lo spirito,
incapace come era di rivelarsi alla ragione, ond’è che quelli che
ne traevan lucro assumevan in faccia al volgo qualità strane di enti
diabolici ed altro.... Nè per volgo s’intenda quella parte di popolo
che costituiva la plebe. Nelle case di maggior locazione non si pensava
diversamente che dalle donnicciuole di piazza.... si accettava un
fatto... per non analizzarlo; si avea paura del demonio e lo si evocava
per trarne gli oroscopi a mezzo di qualche suo rappresentante.

— Presto, sbrigati!... o che il malanno ti porti!... borbottò lo
straniero, mal potendo frenare un senso d’impazienza e nello stesso
tempo impedito da una panica apprensione a dar sfogo al suo mal umore.

Il vecchio non fe’ moto... dalla pupilla della giovinetta parve uscisse
un lampo di luce, egli passò ambe le mani sulle sue ciglia, ne premette
le tempia, e raccogliendo tutta la forza della sua volontà, le domandò
con voce chiara:

— Vedi?...

— Come è bella!... mormorò la giovinetta, e sulle sue labbra corse un
sorriso quasi salutasse col cuore l’imagine che le vagava nel pensiero.
Come è bella! ripetè ancora fra sè.

— È quella che vedi la donna ch’egli vuol salvare? interrogò il
negromante.

La fanciulla si raccolse un istante. — Sì, rispose ella con voce
debole... si agitò, alzò la mano come accennasse a seguire un pensiero
fatto vivo nella sua mente, e disse con accento d’indicibile tristezza:
— Muore...

Lo straniero fremette, e interrogò Ambrogio con uno sguardo inquieto.

Questi continuava a fissare la fanciulla.

— Guarda, guarda... Bianca... gli replicò egli con forza.

— No, no... diss’ella rasserenandosi in viso, vi è ancora della vita
nel suo petto!.... Oh ella è forte!... aspetta...

I due testimoni di questa scena bizzarra ascoltavano assorti con tutte
le facoltà della loro anima in ogni parola che usciva dalle labbra
della giovinetta, in ogni atto che palesasse un pensiero.

Pel negromante era il miracolo della scienza che si svolgeva ai suoi
occhi abbagliati.

Nello straniero v’era un senso di avida curiosità che andava
svolgendosi a norma che si incalzavano quelle rivelazioni a cui parea
fosse annesso chi sa qual misterioso interesse.

Era successo un istante di pausa... si sentiva l’ansia dei loro petti
alitare con febbrile violenza. Il negromante parea che raddensasse con
forza crescente la vigoria d’un pensiero che dovesse soffiare sulla
vita artificiale che parea accendersi nella mente della fanciulla.

— Aspetta, continuò essa, io la vedo... Come è bella!... quanto
soffre!... La fanciulla mandò un debole grido, stette anelante
incerta... indi proseguì accennando tutti i sintomi di una emozione
vera: Aspetta... C’è una frase di convenzione, una specie di modo di
dire di tutti i magnetizzati. Il suo occhio è infossato... Dio!...
come soffre da tanto tempo!... Sua madre veglia al suo letto... essa
l’interroga... l’ammalata sorride.... ella non crede di guarire!...
Eppure la sua famiglia aspetta... Un uomo ha promesso di salvarla...
quell’uomo... Essa ristette un momento come oppressa dalla foga del
pensiero; aspetta... mormorò a bassa voce usando di quella formula come
di una sosta onde riprender lena. Quell’uomo....

Lo straniero sentì un brivido corrergli per l’ossa.

— Ebbene?... ebbene?... domandò con ansia il negromante.

— È qui, seguitò la giovinetta. Ti ha chiesto un farmaco... salvala!...
Essa muore... La fanciulla come sfinita dallo sforzo operato lasciò
cadere con abbandono il capo sul guanciale della poltrona.

— Sono con voi, disse Ambrogio allo straniero, facendogli segno colla
mano che andasse seco.

Lo straniero obbedì. Il negromante s’avvicinò ad una scansia chiusa a
chiave e scelse una fiala di vetro ermeticamente chiusa fra le tante
che v’erano dentro accatastate.

— Sul vostro onore, gli diss’egli, è la verità ciò che ha detto Bianca?

— Lo giuro, rispose lo straniero.

— Sta bene!.... Poche goccie è la vita, qualche goccia di più è la
morte.

— Iddio vi guardi!

Ambrogio consegnò la fiala allo straniero, questi porse al negromante
una borsa ed uscì fuori da quella casa fantasticando bizzarre immagini
di diavoli e di streghe, che gli parea avesser dovuto ronzare intorno
al suo letto a turbarne le notti insonni agitate forse da un pensiero
che dal fondo dell’animo sorgeva a giudicarlo inesorabile e severo.



CAPITOLO XIX.

Presentimenti.


Nella famiglia del marchese Gian Paolo si aspettava intanto colla più
viva impazienza il ritorno dello straniero. In quella notte che dovea
precederne la venuta, e madre e padre e fratello aveano avuto per la
povera fanciulla uno sguardo in cui eravi espressa tutta l’ansia d’una
speranza cara come un sogno di felicità.

La fanciulla sorrideva col suo mesto sorriso di rassegnata, e volgeva
il raggio de’ suoi belli occhi celesti verso un angolo della stanza
da dove Adolfo stava contemplandola triste ed abbattuto. Parea che non
una di quelle soavi illusioni facesse velo alla fatalità d’una sinistra
previsione che gli stava fissa nel cuore. Egli aveva tanto combattuto
contro sè stesso, si era detto pazzo, avea cercato di sorridere
ad Angela quando parea richiesto di un pensiero che ella avrebbe
accarezzato con fede!

Quel senso indefinito, indefinibile era là.... s’era cacciato nel
suo cuore e non valeva a strapparvelo!... Esso sfuggiva all’analisi,
era vago come un sogno... Era nulla... era un’ombra nel vuoto.... ma
era tale da gelargli il sorriso sulle labbra contratte da un amaro
dispetto.....

                             . . . . . . .

Lo straniero è ritornato, egli ha recato seco il prezioso farmaco. Il
marchese non si sazia dall’attestargli la sua riconoscenza, la madre
di Angela piange di gioia baciando le guancie della giovinetta, che
vanno riprendendo il lor colorito vitale. Angela sorride più vaga
e più bella al giovane suo amico nel cui animo tutto ciò mette un
arcano sbigottimento, e che ella si sforza a cancellare con tutte le
dimostrazioni del più tenero affetto.

La gioia, quella vaga silfide dal volo leggiero, ha ripreso il suo
posto in quel campestre romitaggio; la primavera lo adorna col suo
manto di verzura, l’aria lo circonda dell’olezzo dei fiori rapito
alle ricche alee del giardino, la rondine stridendo vi volteggia
intorno, e dal trave ospitale saluta il diletto suo nido; s’ode alla
sera l’allegra canzone dei campagnoli che ritornano ai loro casolari
dove li allieterà il sorriso delle loro donne ed il bacio dei loro
figli. Non più quel tetro squallore, non più sugli incolti viali
cadono le foglie degli alberi disseccate, nè i fiori dagli steli; non
più il paesano riguarda le chiuse imposte e si dice mestamente: là si
soffre... e pensa che colei che soffre era l’angelo che si recava al
letto delle sue figlie ammalate a portarvi il conforto di una parola;
il brodo della sua mensa, il farmaco della sua casa, il fiore del suo
giardino!...

È una bella mattina del mese di aprile... l’aria è imbalsamata di
profumi... piena di melodie... l’usignuolo ed il capinero gorgheggiano
di mezzo alle verdi siepi e si ricambiano le loro canzoni d’amore; la
cingallegra volteggia vispa e gaia di ramo in ramo.

Sotto ad un verde chiosco del giardino era raccolta la famiglia del
marchese intenta ad un gaio confabulare; Angela appoggiavasi tutt’ora
debole per la passata malattia, al braccio del padre; sua madre la
contemplava seduta vicino a lei con un lungo sguardo di amore; Adolfo
discorreva col fratello d’Angela appoggiati entrambi alla spalliera del
chiosco. Lo straniero vi entrava dopo aver colto un fiore da una vicina
alea e lo porse alla giovinetta.

Angela gettò uno sguardo sopra Adolfo, il cui occhio avea seguito lo
straniero con palese inquietudine.

— È il fiore dell’addio che vi reco, madamigella, disse lo straniero ad
Angela; ne avvisai già il marchese; alcuni affari mi chiamano a Mantova
onde reclamare dai Gonzaga un appoggio contro le angherie di cui mi fa
scopo la Corte dei duchi di Milano.

— Voglio sperare che non sarà un congedo, gli rispose il marchese con
confidente premura, non è vero, dottore?

— V’assicuro, marchese, che ho ben poche volte in vita mia fatto uso di
pozioni, e lasciai per solito la cura ad altri di guarire qualche parte
del corpo a cui l’armatura non sia stata bastevole riparo, gli ribattè
lo straniero sorridendo.

— In ogni modo è il titolo che vi fa più caro alla mia amicizia,
poichè i vostri colpi di spada non avrebbero salvata la mia Angela. Mi
permetto quindi di ripetervi di nuovo: Dottore, la mia casa è sempre
aperta per voi, alla mia tavola vi è un posto che vi aspetta.

Lo straniero s’inchinò.

— Il mio cavallo è sellato, diss’egli accommiatandosi coll’atto.

Tutti si alzarono, il marchese passò amichevolmente il suo sotto al di
lui braccio e rifecer la via intrattenendosi gajamente.

Angela si strinse al braccio della madre; il suo sguardo scontrossi in
quello di Adolfo e mandò un lampo di felicità.

— Avrò il piacere di rivedervi presto, madamigella, gli disse lo
straniero che si era rivolto verso lei in quel momento.

Vi era una strana accentazione in quelle parole. Angela se le sentì
vibrare sinistramente nell’anima come la minaccia d’una sventura,
e guardò quasi impaurita sua madre, che volgendosi allo straniero
dicevagli colla sua voce più calma:

— Ella sarà sempre il benvenuto, signore.

Adolfo raccolse tutto il fuoco della sua anima avvampante nello
sguardo, e fissò lo straniero; questi parea non si fosse neppur accorto
della presenza del giovane, che si morse le labbra di dispetto.

Si era arrivati al cortile della casa; un paesano teneva per la briglia
il cavallo dello straniero. Era un magnifico baiardo che nitriva
salutando il suo signore. Ei gli si fe’ vicino, lo accarezzò, in
un salto snello e leggiero fu in sella, strinse di nuovo la mano al
marchese, salutò colla mano Angela, Alberto e la madre, e dopo alcuni
istanti non si sentiva che il lontano scalpitare del suo cavallo sulla
strada di Mantova, verso cui correva a tutta briglia.

— È partito!... mormorò con senso di rincrescimento il marchese,
volgendo lo sguardo per dove era scomparso il cavaliere.

— Finalmente!... mormorarono con un sospiro Angela ed Adolfo.

La marchesa Isabella, la madre di Angela, non disse nulla. Essa
guardava Angela, il cui volto s’era fatto sorridente di felicità. Il
cuore della madre si arrestava d’innanzi un quesito di cui non sapeva
trovare la soluzione. Il cuore della donna rispettava uno di quei mille
sentimenti per cui l’analisi non trova che il mistero d’un’impressione
che alle volte è rivelatrice dei più terribili arcani della vita.

V’era diffatti una strana contradizione nel vincolo di quei varii
sentimenti che si erano svolti sotto a’ suoi occhi ed innanzi al suo
cuore nella durata di quella breve scena. Donna Isabella era madre,
e madre in tutta la santità di quella soave parola, che compendia
in sè quanto v’ha di grande e di nobile nell’anima umana!... Se v’ha
qualche cosa in questo vasto organismo della creazione, così strano
per le sue inconseguenze.... nei suoi rapporti... nelle sue stravaganze
inqualificabili... atto a far ricredere dall’ateismo da questo pensiero
per cui si sconoscerebbe anche sè stessi, per non maledire a tutto ciò
che è intorno a noi, saria il sublime mistero, che è il cuore d’una
madre!... Donna Isabella dunque, come dicemmo, compendiava in sè una
delle mille fasi di questo misterioso enigma.

Esser madre è avere in sè la divinazione di quei non nulla che sono
il tutto dell’esistenza!... è leggere col pensiero nel sorriso del
labbro per strappare di sotto a quella forma che è una menzogna
il gemito dell’anima... L’esser madre è il non vivere per sè, ma è
l’identificarsi nell’esistenza de’ suoi figli, è quasi un fondersi
con essi con tal legame d’affetto, che i dolori di questi gli sieno
proprj... è il rendere impossibile la menzogna del labbro, come quella
della mente, è sentire quell’uniformità di sensazioni mediante le quali
il cuore non ha bisogno della parola per rivelarsi.

E Angela... quel tenero virgulto cresciuto ai miti raggi di quel sole
fecondatore si svolse lussureggiante e bello; si svolse anima nobile
e peregrina interrogando il gorgheggio dell’usignuolo che cantava tra
le rose del suo giardino; interrogando lo schiudersi del fiore che
non volea spiccare perchè gli incresceva vederlo sì tosto appassire,
fissando gli occhi in quelli della madre per cercarvi un conforto a
quel sentimento che serpeggiava fuoco sottile, ma ardente nelle sue
vene, ed allorchè le informi larve della sua fantasia modellate a poco
a poco dalle arcane indagini del pensiero ridessero ai suoi occhi una
forma, indefinita sì, ma che vestivasi di ognor più potente attraenza,
allora ella sentì il bisogno d’una parola che diversa da quella della
madre gli mormorasse all’anima avida di emozioni la prima nota del
sublime poema della vita...

Come era bella, appoggiata talvolta al suo balcone illuminata dalla
mistica luce di qualche astro gentile, a cui la sua anima sembrava
favellare misteriose parole!

Era pur bella!... china la fronte sul suo seno d’alabastro, simile alla
Margherita di Goethe che sfoglia il fiore della rivelazione, sfogliava
essa i fiori del suo pensiero cercandovi il più bello ed il più
olezzante.

Era pur bella, assorta in melanconico atto eppur raggiante di vita e
di speranza... stretto l’esile corpiccino dalla bianca sua veste, puro
giglio fragrante che mano impudica avria dovuto arrestarsi dal toccare,
che alito umano non avria dovuto avvizzire!..

Perchè si agita così il tuo seno di neve?.. perchè balbetta
inarticolati accenti il tuo labbro?.. forse un nome... il suo!...
prima ancora che tu lo sapessi, chi sa quante volte hai sognato
una larva vanescente... ma che importa?.. la tua anima la vestiva
d’un’immagine... nel silenzio delle tue notti di vergine, tu ascoltavi
un’arcana melodia a cui univi il tuo sospiro, il tuo voto, puro come
la prima preghiera che insegnava tua madre al tuo labbro di fanciulla,
al tuo cuore di donna... santo come tutto ciò che è giovinezza,
perchè giovinezza è fede... Giovinezza è amore... ed al senso arcano
che molcea le tue fibbre di diciassette anni rispondevi con un suono
indefinito... ti sovvenivi della prima parola con cui chiamandoti ti
baciava tua madre e l’hai mormorata stemperando la tua anima in un
sospiro. — Mio Angelo...

La marchesa aveva compreso quel suo cuore di fanciulla, ne aveva
seguito fin dalla culla il rapido sviluppo. L’avea veduta crescere
sotto i suoi baci, interrogando ogni palpito del suo petto... in lei
non potea esservi atto nel quale non leggesse l’impronta del pensiero
come il senso del cuore... Eppure le pareva strana quell’impossibilità
di interrogare un sentimento che ella non arrivava a comprendere, forse
perchè era un mistero anche per l’animo istesso della giovinetta... Una
di quelle sensazioni che sono in noi, che ci dominano, che vivono d’una
vita loro propria, che interrogate svaniscono, che assopite ritornano,
che ci assediano, ci tormentano, e contro cui la ragione trova
l’inutilità de’ suoi sforzi, per l’impotenza appunto di questi!..

Perchè mai sentiva Angela un senso d’avversione dirò così, per un uomo
che l’aveva sottratta alla morte?.. per un uomo al quale il marchese
avrebbe data la vita?... che sua madre avrebbe baciato qual figlio?...
L’irriconoscenza non è per sè stessa una colpa?... e come poteva
quel bel cuore d’angelo schiuso ai più puri affetti, alle più nobili
aspirazioni, nutrire un senso che fosse una violazione di queste sante
leggi della natura?... No, si dicea essa, in queste leggi istesse che
agli animi incorrotti tracciano la via delle loro azioni, deve essere
la causa di questa sensazione, che un’altra sensazione attutisce nel
suo sviluppo... Il pensiero non le rendeva conto di ciò, ma vagamente
la madre si faceva sue le indefinite sensazioni che s’agitavano nel
cuore d’Angela...

Ella osservò che Angela avea impallidito ricevendo dallo straniero quel
fiore che ei le porgeva in segno d’addio come in lei volesse lasciare
una memoria. Avea notato lo sguardo furtivo, inquieto che la giovinetta
avea lanciato verso Adolfo, e come questi impiegasse tutta la vigoria
della sua volontà per imporre una calma artificiale alla segreta
tortura del suo animo. Angela si era appoggiata a lei come ricorrendo
ad un conforto allorchè lo straniero le avea fatto presentire la
possibilità del suo ritorno; Angela temeva quello straniero appunto
perchè sentiva che egli voleva attaccarsi alla vita che aveagli resa
in modo sì strano!... ma lo temeva essa nel dubbio che un giorno egli
potesse reclamare un diritto?.. oppure questo timore istesso accusava
in lei un affetto già formatosi nel cuore e che avea paura d’ogni ombra
che potesse frenarne lo slancio?..

Nel pensiero della madre, sorse uno di quei lampi che sono la parola
della rivelazione parlata al cuore colle mille voci dell’animo; ella
sentì che Angela avea scelto tra l’uomo che l’avea resa alle braccia
del padre, e l’uomo che l’avea resa all’amore dei suoi cari... Quel
sentimento di freddezza verso lo straniero che l’avea salvata dalla
morte, proveniva dall’aver lo slancio del suo cuore assorbite tutte
le facoltà sensuali della sua anima vergine d’affetti, che s’era
abbandonata tutta intera alla sua prima e pura rivelazione!..

Angela amava!.. amava un cuore devoto che l’avea conquistata con un
eroismo; più che con un eroismo!... con un atto di disinteresse tutto
umano!.. affrontando un pericolo per salvare una vittima che era uno
straniero per lui, e che era suo padre!.. V’era la fatalità!.. questa
figlia della poesia delle menti giovani e vergini in quell’avvenimento
che avea segnato una meta sul sentiero della sua esistenza!..

Angela amava!.. era un affetto a cui sorrideva come una benedizione
il pensiero di sua madre!.. Ella accarezzò più dolcemente la sua vaga
bambina dalle belle chiome di corvo, dal bel guardo celeste e soave;
essa strinse con più affetto la mano di Adolfo!.. Essa lo chiamò
figlio collo slancio più tenero del suo cuore!... ed Angela le si gettò
confidente tra le braccia, mormorando col cuore ebbro d’affetto!.. Oh
come l’amo, madre mia!...


  FINE DEL PRIMO VOLUME.



INDICE


  VOLUME PRIMO

  CAPITOLO
        I.  Che può servire d’introduzione             Pag. 5
       II.  Una notte infernale                         »  19
      III.  La taverna del Gallo Nero                   »  27
       IV.  La ballata dei morti                        »  39
        V.  Il Testamento                               »  43
       VI.  Il fratricidio                              »  47
      VII.  In cui si parla di ciò che si dice          »  51
     VIII.  Giulietta                                   »  55
       IX.  Il vendicatore                              »  65
        X.  Schiarimenti                                »  75
       XI.  La trama                                    »  81
      XII.  La capanna del carbonaro                    »  89
     XIII.  L’agguato                                   »  95
      XIV.  Dieci anni dopo                             » 109
       XV.  Adolfo                                      » 115
      XVI.  In cui il Romanzo s’imbroglia
              maledettamente                            » 125
     XVII.  Ancora il Palazzo del Diavolo               » 151
    XVIII.  Ambrogio lo stregone                        » 157
      XIX.  Presentimenti                               » 169



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il palazzo del diavolo, vol. 1/2 : Leggenda mantovana" ***

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