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Title: Dal primo piano alla soffitta
Author: Castelnuovo, Enrico, 1839-1915
Language: Italian
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DAL PRIMO PIANO ALLA SOFFITTA.


DEL MEDESIMO AUTORE:

  Alla finestra          L. 3 --

  Nella lotta            »  3 --

  La Contessina          »  3 --

  Sorrisi e lagrime      »  3 50



             DAL

  PRIMO PIANO ALLA SOFFITTA


           ROMANZO

             DI

     ENRICO CASTELNUOVO

   _Seconda Edizione._

           MILANO

   FRATELLI TREVES, EDITORI

            1883.


     PROPRIETÀ LETTERARIA.

     Tip. Fratelli Treves.



DAL PRIMO PIANO ALLA SOFFITTA



I.


Qualunque spettacolo ci fosse sul Canal Grande, s'era sicuri di veder
folla in palazzo Bollati. Figuriamoci poi quanta gente s'aspettasse
quella domenica 7 ottobre 1838 in cui ci doveva essere la regata in
onore di S. M. Ferdinando I, venuto insieme con l'augusta consorte a
beatificare di sua presenza la fedele città di Venezia.

Già fin dalla mattina si vedeva una gran confusione, una
grand'affaccendarsi dei servi a lavare i pavimenti, a spolverare i
mobili, a fregar le maniglie degli usci, a mettere i damaschi fuori
delle finestre. Il contino Leonardo, ragazzo di circa quindici anni, era
giù alla _riva_ in mezzo ai tappezzieri che stavano compiendo l'addobbo
della _bissona_ l'_Uscocca_, allestita per cura e a spese della famiglia
Bollati, e nella quale egli stesso, il contino, sarebbe entrato più
tardi. E alla riva c'era anche Tita, uno dei barcaiuoli di casa, col suo
gondolino, che doveva prender parte alla gara e che portava il numero 6.
Naturalmente, Tita aveva la testa piena del grande avvenimento e
discuteva col padroncino circa al merito dei varii competitori ch'erano
su per giù quelli dell'ultima regata. C'era però questa volta un giovine
muranese, un tal Nane Sandretti detto Bisatto, di cui nessuno aveva
sentito parlare fino a poche settimane addietro e del quale si
pronosticavano miracoli. Sarà benissimo.... Forza ne aveva sicuramente,
ma la forza non basta. Tita voleva mostrarsi imparziale; nondimeno egli
doveva dire la sua opinione, ed era questa: che i Muranesi avessero a
stare a Murano e a farsi le loro regate per sè. In quanto a lui, il
Bisatto non gli faceva paura e con l'aiuto della Madonna sperava di
guadagnarsi anche quest'anno la sua brava bandiera rossa. Non si lagnava
del compagno che gli avevano dato, uno fra i pochi _Castelani_ che
sapessero tenere il remo[1]. Tita aggiungeva poi alcune savie
considerazioni sul tempo che non era perfettamente sereno, ma che,
secondo lui, si sarebbe mantenuto abbastanza buono fino a notte, sul
riflusso che sarebbe cominciato fra le cinque e le cinque e mezzo, e su
altri argomenti di non minore importanza. Anche il conte Zaccaria, padre
di Leonardo, s'era alzato di buon mattino e girava su e giù per le
stanze in compagnia dell'agente generale, _sior_ Bortolo, descrivendogli
l'accoglienze ricevute il dì prima da Sua Maestà, la quale s'era
mostrata informatissima della grandezza dei Bollati e gli aveva detto
subito!--Ah, Bollati.... nome storico.... conosco.--E il conte Zaccaria
osservava che, quando si ha un nome storico, si ha l'obbligo di curarne
lo splendore senza badar troppo al dispendio, e che già ci son certe
spese le quali possono considerarsi più ch'altro una buona investita di
capitali, e ch'egli non era pentito sicuramente d'aver fatto ristaurare
il palazzo e addobbare l'_Uscocca_, perch'eran tutte cose le quali
tornavano a lustro della famiglia. Parole d'oro a cui _sior_ Bortolo,
uomo furbo e discreto, si guardava bene dal contraddire.

Se il conte Zaccaria era disposto quella mattina a veder tutto color
rosa, la nobildonna Chiaretta, sua illustre consorte, pessimista per
indole, s'era svegliata d'umor più nero del consueto. Essa diceva chiaro
alla cameriera che non vedeva l'ora che questa baldoria finisse, e
ch'era una vita da cani, e che, se durava ancora un mese così, ci
avrebbe rimesso la pelle. Meno male se l'amor proprio fosse stato
soddisfatto. Ma ci voleva quel grullo di suo marito per contentarsene.
Ormai tutti potevano avvicinare i Sovrani, tutti potevano andare a
Corte, ed ella aveva avuto l'umiliazione di trovarvi certe donnette che
non avrebbe ricevuto in casa sua, certe contesse di princisbecco che non
si sapeva di dove venissero. Al gran ballo poi sarebbe stato uno
scandalo addirittura. Eran stati messi in giro duemila inviti e s'era
dovuto discendere fino ai nobili dell'Ordine dei _segretarii_, fino ai
cavalieri della Corona di ferro di terza classe, fino ai mercanti
arricchiti e alle loro femmine. Che più? Si diceva, ma questo la
contessa Chiaretta non voleva crederlo, che ci sarebbe stata anche la
moglie d'un banchiere ebreo. In verità, eran cose che a pensarci
facevano salire i rossori al viso, e quando Sua Eccellenza Chiaretta ci
pensava, le veniva quasi quasi la voglia di affigliarsi alla setta della
_Giovine Italia_. Intanto oggi c'era la seccatura di vedersi il palazzo
pieno di gente, forestieri in gran parte, per merito soprattutto del suo
signor genero e della sua signora figliuola, che quand'erano a Venezia
le _intedescavano_ la casa.

La contessina Maddalena Bollati, figlia primogenita delle loro
Eccellenze Zaccaria e Chiaretta, s'era sposata due anni addietro, uscita
appena dalle Salesiane, col signor marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen
von Rudingen ufficiale degli ussari, possessore di molte terre e
castella in Moravia. Matrimonio levato a cielo dagli uni, aspramente
censurato dagli altri, tanta è la varietà degli umani giudizii. Per noi
due cose sole son certe: _primo_, che il nome del marchese Ernesto
Geisenburg-Rudingen von Rudingen figurava nell'almanacco di Gotha, e,
via, ci pare che bisogni discorrer con qualche riguardo d'una persona
ch'è registrata nell'almanacco di Gotha; _secondo_, che il detto signor
marchese possedeva quella prosopopea che si conviene ai grandi
personaggi. La boria dei Bollati non era nemmeno paragonabile a quella
del loro signor genero. L'aristocrazia veneziana si sa, visse sempre in
dimestichezza col popolo e il suo orgoglio di casta prese tutt'al più la
forma d'una famigliarità impertinente. Ma l'aristocrazia tedesca non
ammette scherzi e vuol far capire ai semplici mortali ch'è già una sua
gran degnazione s'ella permette agli altri di tirare il fiato alla sua
presenza. Siccome poi il marchese Ernesto aveva appiccicato le sue belle
qualità alla consorte, così la vicinanza della nobilissima coppia faceva
l'effetto d'una pietra da mulino sullo stomaco.

I coniugi Geisenburg-Rudingen von Rudingen, venuti a Venezia apposta per
ossequiare le LL. MM, erano ospiti in casa Bollati da due settimane, e
proprio nel momento in cui la contessa Chiaretta si sfogava in
querimonie con la cameriera, la marchesa Maddalena strapazzava in
tedesco la sua _Zimmermädchen_, e il marchese Ernesto con l'aiuto d'un
servo si metteva il busto e si stringeva la vita. Bisogna notare che il
marchese, afflitto da obesità prematura, doveva far sforzi erculei per
dissimulare la sua imperfezione e per esser contenuto nella sua
succinta divisa di capitano di cavalleria. E quando tra lui e il servo
avevano sudato due buone ore, il signor marchese acquistava l'apparenza
di un 8 pietrificato. Si capisce come queste condizioni fisiche non gli
permettessero di restar nell'esercito, ed egli infatti aveva chiesto e
ottenuto la sua licenza, conservando però il diritto di vestir
l'uniforme.

Non sarà inopportuno per ultimo di dare una capatina in una stanza del
secondo piano dove si trova inchiodato da due anni per una paralisi alle
gambe il padrone vecchio, l'ottuagenario conte Leonardo, comandante di
galera ai tempi della Serenissima. Lungo, stecchito, grinzoso, il conte
Leonardo era sdraiato sur una poltrona presso una finestra che guarda il
Canalazzo, mentre dietro di lui un barbiere antidiluviano gli pettinava
il parrucchino e gli ravviava i quattro peli tinti delle basette. Il
conte Leonardo, che aveva ancora sciolta la lingua e pronta la memoria,
stava passando in rassegna le innumerevoli regate a cui aveva assistito
nella sua vita. Gl'importava molto di veder quella d'oggi, egli che
aveva visto quelle per l'Imperatore Giuseppe II, per i duchi del Nord,
per il conte di Haga, per Napoleone e pel principe Eugenio!

E il barbiere, rincarando la dose, soggiungeva:--Chi ha visto ciò che si
faceva sotto San Marco non ha più nulla da vedere. Eh, _lustrissimo_, a
pensare che se invece di quel minchione del Condulmer ci fosse stato
lei a capo della flotta, avremmo ancora la nostra Repubblica!...

--Via, via--rispondeva modestamente Sua Eccellenza--la cosa non era
tanto facile.... Quei maledetti Francesi erano un osso duro da rodere.

Ma il barbiere non si dava per vinto.

--Ci son mancati gli uomini, ecco il male. Il cavalier Emo era morto, e
il solo che potesse supplirlo era tenuto in un posto subalterno. Così ci
son capitate addosso tutte le disgrazie. Prima quei matti del Governo
democratico, poi i _patatuchi_, poi i Francesi, poi i _patatuchi_ da
capo, che il diavolo se li porti....

Il conte Leonardo gli diede sulla voce:

--Non vi fate sentire dal marito di mia nipote.

L'altro si strinse nelle spalle.--Io non sono che un miserabile insetto,
ma Vostra Eccellenza sa che quel matrimonio....

--Non l'avete mai potuto digerire.

--A me non toccherebbe parlare, ma santo Iddio, c'era proprio bisogno
che una damigella Bollati andasse a cercarsi lo sposo laggiù?

--Cosa volete? Si sono innamorati del nome.

--Un nome che riempie la bocca.... Bel gusto.

--Un gusto come un altro... Per me tanto li ho lasciati fare, che non ho
mai voluto perdere il mio tempo a raddrizzar le gambe ai cani.... E....
che novità ci sono in paese?

--Ma! Tutte queste feste....

--Ne ho intronata la testa da mio figlio e da mia nuora.... Novità
d'altro genere?...

--Non saprei.... Pare che il Patriarca si sia intromesso perchè il
nobil'uomo Zulian riprenda in casa la moglie.

--La riprenderà, la riprenderà.... Anche suo padre ha fatto lo stesso.

Gli occhi del vecchio luccicarono.

--Vostra Eccellenza ne sa qualche cosa--soggiunse maliziosamente il
barbiere.

--_In temporibus illis_.... E poi?

--Dicono che la signora Giuliana Polo non voglia più fra i piedi Sua
Eccellenza Barbarigo...

--Scene di gelosia a settant'anni?

--Pare che la signora Giuliana abbia colto l'amico in flagranti.

--Eh?--esclamò il conte Leonardo sbarrando gli occhi.--In flagranti? Con
chi?

--Non saranno state che carezze innocenti..... con la cameriera.

--Briccone d'un Barbarigo!... Avanti.

--Hanno messo il sequestro sui beni dei Napodano.

--Era da aspettarselo.... È finito?

--È morto il ragazzo Partecipazio.

Il nobil'uomo Leonardo tentennò il capo.--Ecco un'altra grande famiglia
che s'estingue. Povero Libro d'oro!

--Speriamo che i Bollati durino ancora per secoli--disse il
barbiere.--_In sæcula sæculorum._

--Uhm!--borbottò tristamente il vecchio patrizio. E troncò il
colloquio.


NOTE:

     [1] È noto che i popolani di Venezia si distinguevano in
     _Castelani_ e _Nicoloti_, secondo ch'erano nati e battezzati
     nell'una o nell'altra parte della città. Per antica consuetudine,
     nella regata si mette in ciascun _gondolino_ un _Castelano_ e un
     _Nicoloto_, assicurando così un uguale successo alle due frazioni.



II.


La regata doveva cominciare alle cinque pomeridiane, ma fin dalle
quattro il piano nobile del palazzo formicolava di dame e di cavalieri,
e il conte Zaccaria col pomposo genero a fianco conduceva in giro per
l'appartamento tre o quattro austriaci d'alto affare, duri, impettiti,
coperti di decorazioni. Era un bel palazzo davvero quello ch'egli
mostrava a' suoi ospiti, uno di quegli edifizi maestosi e leggiadri ad
un tempo di cui gli architetti moderni hanno perduto il segreto. _Stile
del classicismo avviato alla decadenza_, lo dicono le Guide, e ne
attribuiscono la costruzione al Sansovino o a uno dei suoi discepoli.
Cinquant'anni fa, esso era anche uno dei pochi palazzi veneziani che
nell'interno serbassero il carattere primitivo. Dalle travi dello
spazioso androne pendevano due grandi fanali che avevano già appartenuto
a due galere della Repubblica; il soffitto della lunga sala era adorno
di elegantissimi stucchi che incorniciavano degli affreschi non privi di
merito; sopra gli usci che nella sala stessa s'aprivano a destra e a
sinistra c'erano dei ritratti di famiglia, quali col corno ducale in
testa, quali in armatura, quali con la zimarra senatoriale, quali col
vestito paonazzo a larghe maniche dei procuratori di San Marco. Altri
quadri coprivano le pareti, e fra i molti ce n'erano alcuni realmente
pregevoli, un Tintoretto, un Palma giovane, un Paris Bordone. Il salotto
di ricevimento, i cui muri erano coperti d'arazzi di Francia, aveva un
caminetto di marmo scolpito dal Vittoria, un'antica lumiera di Murano e
due bei candelabri di bronzo, che riproducevano in assai minori
proporzioni i due famosi della Cappella del Rosario a' SS. Giovanni e
Paolo. Pesanti cortine di damasco rosso, un po' sfilacciate e sgualcite,
moderavano la luce ch'entrava dall'ampie finestre, e la medesima stoffa
rivestiva i seggioloni dagli alti schienali intagliati ch'erano disposti
in giro simmetricamente e davano alla stanza un aspetto grave e solenne,
come se dovesse a ogni momento adunarvisi il Consiglio dei Dieci. Nel
salottino attiguo si ammiravano alcuni quadretti del Canaletto e del
Longhi e due pastelli di Rosalba Carriera. E qua e là, nell'altre parti
del palazzo, erano pure oggetti artistici di pregio, senza contare le
argenterie, le maioliche, le porcellane. Si diceva, per esempio, che la
collezione di vecchio Sassonia ch'era stata acquistata dal nobil'uomo
Cristoforo Bollati durante la sua ambasciata a Vienna fosse la più bella
che c'era in Venezia.

Mentre che il conte Zaccaria faceva da cicerone agl'illustri forestieri
e il marchese genero gli serviva da interprete, gli altri invitati si
pigiavano nel salotto degli arazzi intorno alla languida contessa
Chiaretta, o, prudentemente, prendevano il loro posto sul poggiuolo o
davanti a qualche finestra per goder meglio dello spettacolo.

Chi ha un po' l'abitudine della società sa benissimo che in ogni
ricevimento, in ogni festa c'è un manipolo di persone alle quali nessuno
bada e che i servi stessi dimenticano volontieri nell'andar in giro coi
rinfreschi. Sono i parenti poveri, i vecchi conoscenti di famiglia, i
maestri dei bimbi, tutta gente a cui s'è detto a bocca stretta:--Se
venite ci farete un piacere--lasciando sottintendere un'altra frase--Se
non venite, ce ne farete due.

In questa condizione umiliante si trovavano quel giorno il conte Luca e
la contessa Zanze Rialdi, cugini dei padroni, relegati insieme con la
loro figliuola Fortunata a una finestra di fianco che dava sul _rio_ e
dalla quale il Canal Grande si vedeva solo in iscorcio. Nè la finestra
era esclusivamente per i Rialdi, chè anzi essi dovevano dividerla con
Don Luigi, precettore del contino Leonardo, e con un'altra signora
soprannominata la contessa Ficcanaso per la rara abilità con cui essa
riusciva a insinuarsi dappertutto e a saper tutti i pettegolezzi della
città.

La contessa Zanze e la contessa Ficcanaso si facevano mille moine, ma
in fondo non si potevano soffrire. E quel giorno poi a trovarsi appaiato
nella stessa mortificazione provavano una stizza grandissima.--Che
vogliano levarsi dai piedi la Ficcanaso--pensava la contessa
Zanze--questo si capisce, ma un trattamento simile a me, che sono della
famiglia!--E l'altra diceva in cuor suo:--Facciano quante asinerie
vogliono a una parente povera; chè già quella è una vera mignatta, ma
usino i dovuti riguardi a una persona del mio grado.

Malgrado del disprezzo reciproco, è probabile però che le due contesse
si sarebbero sfogate a sparlar dei padroni di casa se la presenza di don
Luigi non le avesse tenute in riga. E sì che don Luigi della roba sullo
stomaco ne aveva anche lui, e aveva una voglia di dirne quattro! Per San
Filippo Neri! Un sacerdote par suo, un letterato, il precettore del
padroncino, il cappellano della famiglia, cacciarlo in un angolo come se
fosse una spazzatura, come se si vergognassero di lui! E si vantavano
d'esser gente devota alla Chiesa! Queste cose don Luigi le aveva sulla
punta della lingua, ma non le diceva per paura degli altri, e
specialmente di quelle femmine chiacchierone. Così, per darsela ad
intendere a vicenda, il prete e le due signore andavano a gara nel
levare a cielo la bellezza degli addobbi, il buon gusto dei ristauri e
lo sfarzo con cui si faceva tutto in casa Bollati, e solo di tratto in
tratto si permettevano qualche osservazione a carico dell'una o
dell'altra fra le dame raccolte nel geniale ritrovo. Erano allusioni
velate, erano suggestioni piene di carità evangelica, erano timidi dubbi
seguìti dall'onesta frase: Non bisogna credere alle cattiverie del
mondo;--erano lamentazioni generiche sul pervertimento dei costumi e
sulle gravi conseguenze della vanità.

Nè il conte Luca, nè Fortunata prendevano parte a siffatte mormorazioni.
Il conte Luca non aveva fiele, e per lui, a metterlo in disparte, gli
facevano un piacere fiorito, chè alla società egli non si era mai potuto
avvezzare, e della Regata non gliene importava un'acca, e sarebbe
rimasto ben volentieri a casa sua, davanti alla scacchiera, l'unica
passione della sua vita, a studiarvi un problema intorno al quale
ammattivano da più giorni gli avventori del caffè alla _Vittoria_. In
quanto a Fortunata, ch'era una ragazzina timida e sbiadita di dodici
anni e mezzo, non le veniva neppure in capo di lagnarsi del posto che le
avevano assegnato. Di dove era, allungando un po' il collo, ella vedeva
benissimo il Canal Grande, vedeva perfino le signore che si facevano
fresco sul poggiuolo d'un palazzo prospettante il palazzo Bollati.

Sotto la sua finestra poi, all'imboccatura del _rio_, c'era un grosso
battello che serviva a sbarrare il passaggio (come s'usa nei giorni di
regata), ed era pieno di gente allegra, uomini, donne, fanciulli che
ingannavano il tempo mangiando semi di popone e disputando romorosamente
intorno all'esito probabile della gara. C'erano due partiti. Gli uni
tenevano per Tita Oliva, gli altri, meno numerosi, per quel Nane
Sandretti detto _Bisatto_ ch'entrava in regata per la prima volta. Tita,
come sappiamo, era il gondoliere di casa Bollati, e quando lo si
nominava, tutti gli occhi si alzavano verso la finestra a cui era
affacciata la ragazza Rialdi.

Il cuore di Fortunata batteva anch'esso per Tita, ch'era sempre gentile
con lei e che la chiamava padroncina. Nel venir a palazzo essa lo aveva
incontrato per istrada già vestito da _regatante_, con la sua fascia
rossa intorno alla vita, l'aveva incontrato insieme con tre o quattro
altri compari, ed egli aveva salutato rispettosamente lei, il conte Luca
e la contessa Chiaretta, e aveva detto:--Adesso si va col gondolino ai
Giardini, e speriamo bene.

Come la Fortunata gli augurava il trionfo! Come si sentiva inclinata
verso quelli che parteggiavano per lui, come l'indispettivano i fautori
di quel Nane Bisatto che aveva la petulanza di venir a lottare coi
provetti!

Un fremito di voci umane, un rumore crescente di applausi annunziò
l'avvicinarsi delle gondole di Corte, le quali, precedute e seguìte
dalle _bissone_, facevano il giro del Canal Grande prima che i gondolini
della regata si mettessero in moto. Il corteggio passò e ripassò come un
lampo davanti al palazzo Bollati, dove le signore sventolavano i
fazzoletti e gli uomini gridavano con quanto fiato avevano in corpo:
_Viva l'Imperatore, viva l'Imperatrice!_ È utile rammentare a questo
proposito che, quantunque anche in quel tempo vi fossero in Venezia
uomini gagliardi e generosi pronti a versare il loro sangue per
l'indipendenza della patria, e non mancassero gli affigliati alla
_Giovine Italia_, la grande maggioranza della popolazione accettava
rassegnata il dominio austriaco e applaudiva i Sovrani col solito
entusiasmo della folla per tutto ciò che brilla ed abbaglia.

--Viva, viva!--strillava Fortunata con la sua vocina. E continuava,
rossa dall'emozione:--Ah, ecco l'_Uscocca_, ecco l'_Uscocca_.... Mamma,
babbo, presto, guardate Leonardo.... Come sta bene!

In ginocchio sulla prora della sua svelta ed elegante _bissona_, sotto
un baldacchino tutto veli e frangie inargentate, il contino Bollati
animava i rematori col gesto e con la voce, e pareva un antenato di sè
medesimo alla battaglia di Lepanto.

--Ah!--seguitava la fanciulla in preda a un nuovo parossismo
d'ammirazione.--E quella è la lancia del collegio di marina... ci
dev'esser Gasparo lì dentro... sì, sì... eccolo là.... Babbo, mamma...
non lo vedete?... È lui che governa il timone....

--Sì, sì, cara--rispondevano i genitori--non spingerti tanto fuori dal
davanzale.

Gasparo era il fratello maggiore di Fortunata, allievo dell'Accademia di
marina, e prossimo a uscirne cadetto.

La fulgida visione disparve, e di lì a poco s'intese il cannone che
annunziava la partenza dei _regatanti_ dalla punta dei Giardini
pubblici. Un lungo mormorio corse attraverso la folla accalcata sulle
due rive del Canalazzo; poi si fece uno di quei silenzi solenni in cui
si sente palpitare il cuore d'un popolo. Oggi scaduta dalla sua
importanza, la regata era fino a trent'anni fa lo spettacolo favorito
dei Veneziani. A ogni modo, essa era ed è sempre lo spettacolo popolare
per eccellenza. La lotta dei gladiatori in Roma antica, la corsa dei
tori in Ispagna trovano forse una maggior partecipazione in tutte le
classi sociali, ma nessuna festa scuote più vivamente le fibre della
moltitudine. Quanto tempo prima se ne discorre nei _traghetti_, per le
osterie, nelle case, nei trivii, quanto tempo dopo si continua a
parlarne! E il giorno della prova, mezza Venezia si spopola per
riversarsi sull'altra metà. La gente s'insacca nelle barche, nelle
_peate_, nei battelli d'ogni forma e misura, fa ressa sulle
_fondamenta_, paga volentieri qualche soldo per assicurarsi una seggiola
o un posto sopra qualche panca, o s'arrampica sugli sporti delle
fabbriche, sull'inferriate delle case, sui piedestalli dei candelabri, o
s'addensa dietro le spallette del ponte di Rialto, la cui mole maestosa
e severa sembra acquistare il moto e la vita a quell'ondeggiamento di
teste. E in quel giorno più che mai il popolo è superbo della sua
Venezia, e s'inebbria in quel tripudio di colori e di luce onde ogni
cosa s'anima e si trasfigura, dal freddo marmo dei palazzi gotici,
arabi, lombardeschi, barocchi, alle carni pastose e alle fulve o brune
chiome delle donne e delle fanciulle.

Ma ecco nuovamente venir di lontano un rumore che somiglia al muggito
del mare, ecco una viva ansietà dipingersi nei volti, ecco tutti gli
sguardi tendere a un punto.

--Son vicini...

--Son qui...

--Chi è il primo?

--Non si capisce.... C'è il sole che confonde la vista.

Il conte Zaccaria, gonfio e pettoruto pel bel successo della sua
_Uscocca_, aveva annunziato come cosa sicura a' suoi ospiti che il primo
sarebbe stato il gondolino rosso N. 6 a poppa del quale vogava il suo
Tita Oliva. Ma, ohimè, il gondolino N. 6 non era che il secondo, e anche
questo secondo posto gli era fieramente contrastato dal gondolino viola
N. 4; l'uno e l'altro poi erano preceduti d'un buon tratto dal gondolino
celeste N. 8, su cui si trovava il formidabile Nane Bisatto. I gondolini
5 e 7 si disputavano il quarto premio, gli altri, ormai disperati di
riuscire, venivano dietro lentamente a grande distanza.

--Non è deciso nulla--disse il conte Zaccaria facendo di tutto per
nascondere il proprio dispetto.--Riderà bene chi riderà ultimo.

Infatti i gondolini dovevano ancora giungere al punto estremo del Canal
Grande, a Santa Chiara, poi girare intorno a un palo che qui chiamano
il _paletto_, e rifare una gran parte del cammino fin presso
l'imboccatura del _rio_ Foscari, ove sorge la cosidetta _Macchina_, ch'è
una elegante baracca di legno improvvisata sull'acqua e segna la meta
ultima della corsa. In tal maniera, da tutti i palazzi che stanno tra il
_rio_ Foscari e Santa Chiara, i _regatanti_ si vedono due volte, cioè
all'andata e al ritorno. E realmente il ritorno può serbare non piccole
sorprese, e tale che chi era primo diventa secondo, e tal altro che
pareva ormai fuori d'ogni speranza accenna a conquistarsi valorosamente
la sua bandiera. Ma questa volta gl'intenditori dicevano chiaro e tondo
che a Nane Bisatto il primo premio non lo portava via _neppure il Padre
Eterno_, giacchè c'era troppa distanza tra lui e il gondolino di Tita
Oliva, ed era già molto se quest'ultimo poteva mantenersi il secondo e
non esser sorpassato dal gondolino N. 4, quello dove c'era Menico
Fichetti da Pellestrina, un giovine piccolo e sottile, ma che aveva
nervi d'acciaio.

Questi discorsi si tenevano anche nel barcone ch'era fermo
all'imboccatura del _rio_ sotto il palazzo, e Fortunata che aveva preso
tanto a cuore la causa di Tita, si metteva nei panni di lui e aveva una
gran voglia di piangere.

La contessa Zanze, la contessa Ficcanaso e don Luigi erano in
disposizione d'animo affatto diverse, e, poichè il fiasco del barcajolo
veniva a ricader sui padroni, ne provavano una segreta esultanza, che
non esprimevano apertamente, ma che lasciavano trapelare. Don Luigi
faceva delle riflessioni filosofiche sulla caducità delle cose umane,
sullo sperpero del danaro pubblico e privato in feste e in bagordi e sul
poco giudizio che c'era a distrarre i ragazzi dagli studi per farli
andare sulle _bissone_.... Con quella voglia che avevano di studiare! Le
due contesse assentivano appieno alle savie parole del sacerdote, tanto
più che il servo aveva presentato loro il vassoio dei dolci quando tutti
s'erano già preso il buono e il meglio, e ciò le aveva esacerbate fuor
di misura.

Ma il dialogo fu troncato dal riapparire dei _regatanti_. Ora, la
finestra sul _rio_ guardava precisamente verso la parte dalla quale i
gondolini tornavano, e Fortunata vide ben presto che il _viola_
continuava ad essere il primo e aveva aumentato anzichè diminuito
l'intervallo che lo separava dagli altri. Il valore di Nane Bisatto
aveva finito ormai col trascinare i più restii, e, con una volubilità
che afflisse e irritò Fortunata, parecchi tra i fautori del suo protetto
si unirono anch'essi a quelli che applaudivano l'eroe della giornata. Ma
quel che è peggio, il gondolino rosso non era più nemmeno il secondo,
non era nemmeno il terzo; era il quarto, quello a cui era destinato
l'ultimo, premio, la bandiera gialla e il relativo porcellino, quasi
un'onta per Tita, avvezzo ai primi trionfi. Povero Tita! Egli non osava
alzar la testa, vogava per l'onor delle armi, ma avrebbe preferito esser
sott'acqua lui e il suo gondolino, piuttosto che sentire tutti quegli
sguardi fissi sopra di sè, piuttosto che passar davanti al palazzo dove
c'erano i padroni e tanti ospiti d'alto affare. Tita non si ricordava in
quel momento di Fortunata, oppure ell'era la sola che, pensando alla sua
umiliazione, aveva gli occhi pieni di lagrime. I padroni invece erano
irritatissimi, dicevano che Tita non era più buono a nulla, e che aveva
compromesso il decoro della casa, e che meritava d'essere strapazzato
senza misericordia.

Questo incidente fece sì che in palazzo Bollati si gustasse meno
l'ultima parte, pur così bella, dello spettacolo, quando cioè tutte le
barche prima raccolte, ristrette ai due lati del Canal grande, pigliano
il largo e formano un suolo galleggiante che copre e nasconde la
superficie dell'acqua. È per solito l'ora del tramonto, e gli ultimi
raggi del sole scintillano sui ferri bruniti delle gondole, sfolgorano
con bagliori d'incendio sui vetri delle finestre, danno risalto alle
dorature e alle stoffe colorate delle _bissone_, alle livree dei
gondolieri, agli abbigliamenti delle signore, alle vesti chiassose delle
popolane. Ed è un suono di musiche allegre, un vociare confuso, uno
strepito di remi che si urtano, di ferri che cozzano, di carene che
scricchiolano. Indi cala lento lento il crepuscolo, la folla si
disperde, il rumore a poco a poco svanisce, e il Canalazzo ritorna
nell'usato silenzio.

Frattanto, giù nell'entratura di Cà Bollati, Tita sedeva accasciato
sopra una panca, e non sapeva risolversi a salir dalle loro Eccellenze
dopo lo smacco subìto. Parecchi amici e compari gli facevano corona e si
sforzavano di calmar la sua agitazione e di persuaderlo a presentarsi ai
padroni con la faccia franca, chè già non l'avrebbero mica mangiato vivo
seppure una volta la fortuna gli era stata contraria. In quel gruppo di
confortatori c'erano anche alcune donnette, una sua sorella tra l'altre,
bel tipo di veneziana da Cannareggio, con certi occhi neri e lucenti
come due carboni e con una parlantina inesauribile.

--_Oh, corpo de diana_--ella diceva al fratello--vorrei anche vedere che
ti trattassero con mala grazia. Io risponderei: Lustrissimi, credono che
a vogare in regata sia lo stesso che a starsene lunghi distesi con la
pancia in giù sui cuscini d'una _bissona_?... Eh, non ho peli sulla
lingua io....

Tita s'impazientiva.--I rimproveri dei padroni sono il meno... È l'amor
proprio.

--To', non la può mica andar sempre bene... Una volta corre il cane e
l'altra il lepre... È stato così dacchè mondo è mondo.

--_Siora_ Cate ha ragione--soggiungeva un vecchio _gastaldo_ d'un
traghetto vicino, persona assai autorevole--non c'è ragione di
tribolarsi... E lascialo dire a chi se ne intende... _Bisatto_ non è
degno d'allacciarti le scarpe... E se ha vinto oggi, a rivederci domani.

--È stato quel colpo di vento alla Punta della Salute--ripigliò un
altro.--C'ero io, c'ero. _Bisatto_ l'ha sentito meno perchè il suo
gondolino si trovava più a destra.

Ma Tita non voleva esser consolato e andava in escandescenze,
soprattutto quando la sua umiliazione gli era rammentata dai guaiti del
porcellino che giaceva in un angolo, più morto che vivo.

--Povera bestia!--esclamò la Cate, chinandosi sull'infelice animale in
atteggiamento di suora di carità.--Come se ne avesse colpa!... È tutto
ammaccato... Che ragione c'era di pigliarlo a calci? Che se poi crepa di
bile, non è più buono da mangiare.

--È vero--notò gravemente un nuovo personaggio comparso in quel punto.
Era il signor Oreste, il cuoco, in abito da signore, col _metternicche_
in testa, una collana d'oro al collo e uno spillone di diamanti sulla
camicia.--È vero--egli riprese dopo una pausa. E inventandosi apposta un
proverbio per l'occasione continuò:--_Bestia ben trattata buona in
pignatta_.... E questa qui non ha bisogno d'altre disgrazie.... Conviene
ingrassarla per una settimana, e poi si potrà farne uno stufatino con la
salsa piccante....

--Ma che stufatino!... Ma che salsa piccante!--interruppe la
Cate.--Meglio arrosto.

--Scusi, _siora_ Cate, è troppo piccolo.

--Alla malora il porco e i suoi protettori--urlò Tita in una
recrudescenza di furore.--Ch'io possa morire d'un accidente se di quel
porco lì ne assaggio un boccone.... L'avevo detto al mio compagno che se
lo tenesse tutto per lui.

Ma la sorella, ch'era una giovane savia e positiva, protestò contro
quest'idea bislacca.--Neanche per sogno.... Quello ch'è giustizia....
Ciascuno la sua parte.

--Belle parti che si faranno--disse il signor Oreste con piglio
sprezzante, accennando alla piccolezza dell'animale.

--O che non potrebbe attendere alle sue casseruole, _sior
piavolo_?--rimbeccò la Cate, che non poteva soffrire il cuoco, il quale
un giorno aveva voluto mettere a troppo caro prezzo un piatto di
polpette ch'egli le aveva regalate.

--Ehi, ehi, la mia _tosa_, che fumi vi montano alla testa?

--Zitto--sussurrò qualcheduno--che c'è _sior_ Bortolo.

Infatti, l'agente generale discendeva dalla scaletta del mezzà in
compagnia d'un signore dai baffi grigi che faceva il sensale di mutui e
godeva di una mediocre riputazione.

--Siamo intesi, caro Bellani... Combinando l'affare l'un per cento a
me....

In quel punto la porta della scala di servizio si aprì con violenza, e
un cameriere in livrea gridò tutto trafelato.--Che qualcheduno vada
subito in farmacia a cercare un medico.... Dal dottor Zuliari andrò
io... È venuto un deliquio a Sua Eccellenza Leonardo.



III.


Il deliquio del vecchio conte non durò che pochi minuti, ma i medici,
considerando l'età avanzata e il fisico indebolito di Sua Eccellenza, lo
giudicarono un sintomo gravissimo e non tacquero le loro inquietudini
alla famiglia. Nè s'apponevano a torto; chè di lì a qualche giorno
apparve evidente che il nobil'uomo Leonardo Bollati, patrizio veneto e
comandante di galera sotto la Serenissima, si spegneva a oncia a oncia,
come lampada a cui manchi l'olio. Egli conservò per altro sino
all'ultimo la lucidezza della mente, e quando s'accorse d'essere ormai
bell'e spacciato, chiamò al suo letto il figliuolo e gli tenne
all'incirca questo discorso:

--Lasciamo i preamboli, perchè non ho tempo da perdere. Presto sarete
voi il capo della famiglia di nome e di fatto. È dunque bene che
sappiate, se non ve ne foste ancora accorto, che, da un secolo a questa
parte, c'è in casa nostra tutta la disposizione ad andare in malora. La
mia colpa ce l'avrò anch'io, ma si è cominciato molto prima di me a
spendere più di quello che si poteva. Se cercherete su nell'archivio le
lettere del vostro prozio Almorò, ambasciatore a Parigi, vedrete ch'egli
domandava 120 mila franchi all'anno per lui solo e l'agente aveva un bel
da fare a trovarglieli. E vedrete anche la polizza delle spese occorse
per le feste date in occasione della nomina a Procuratore di San Marco
di vostro nonno e mio padre Zaccaria. Oh bazzecole! venti mila ducati!
Notate che in quei tempi c'era ogni tanto la sua brava eredità che
capitava in buon punto a colmare i vuoti. Ma adesso i pochi parenti che
ci restano son tutti spiantati, e non so quali eredità si possono
sperare.... Se non fosse da parte dei Rialti....

Questa supposizione parve sì comica al conte Leonardo ch'egli si mise a
ridere, e, poichè il riso gli fece venire la tosse, dovette interrompere
la sua arringa.

--Sì, sì--egli riprese di lì a un paio di minuti--tutti ebbero le mani
bucate nella nostra famiglia. Non è da eccettuarsi che una bisavola, la
quale aveva invece la manìa dell'avarizia, e, fra l'altre cose, lasciò
alla sua morte una cinquantina di pacchi di curadenti con scrittovi
sopra: _usati, ma servibili_. Insomma quello che volevo dirvi si è ch'è
necessario metter giudizio; se no vi assicuro io che, nonostante i due
dogi, i tre procuratori e gli altri illustrissimi personaggi che
vantiamo per antenati, di tutte le nostre ricchezze non ci resterà fra
poco il becco d'un quattrino. E queste cose ditele alla mia degnissima
nuora, che non si sa proprio come spenda il danaro, perchè le nostre
vecchie si divertivano, e quella lì consuma una sostanza in caffè,
cioccolata, _baicoli_ e paste sfogliate. Badate poi al vostro figliuolo
Leonardo, che giurerei destinato a restare un somaro e a diventare un
cattivo soggetto. Finalmente credo utile avvertirvi che tutti i nostri
dipendenti ci succhiano il sangue come tanti vampiri, cominciando
dall'agente generale _sior_ Bortolo e terminando coll'ultimo fattore di
campagna. Già saprete il proverbio: _Fame fator un ano, e se moro de
fame xe mio dano_. Non vi suggerisco di cambiarli, perchè ne prendereste
di quelli che vi ruberebbero ancora di più; solamente tenete gli occhi
aperti e procurate di far meglio di quello che ho fatto io. Io me ne
lavo le mani. È il meno che si possa fare quando si va all'altro mondo.

In complesso il sermone del conte Leonardo era pieno d'idee giudiziose,
ciò che prova come tutti gli uomini in punto di morte abbiano
l'attitudine a dar buoni consigli, perchè sanno di non doverli più
avvalorar con l'esempio, e perchè non temono più le conseguenze dei
sacrifizi che suggeriscono agli altri.

E invero quando, dopo pochi giorni, Sua Eccellenza morì con tutti i
conforti della religione, il suo testamento parve fatto apposta per
ismentire le savie massime ch'egli aveva predicato, tanti e di tante
specie erano i legati che imponeva all'erede. Ce n'era sotto forma di
elargizioni a opere pie, di somme da pagarsi in una sol volta a parenti
ed a amici, di elemosine ai poveri, di pensione alla servitù, ecc., ecc.
Nè mancavano istruzioni precise, minute, circa ai funerali che dovevano
essere tra i più splendidi che si fossero visti.

Questi funerali i vecchi parrocchiani se li ricordano ancora. Essi si
ricordano perfettamente quanti minuti impiegasse il corteo per giungere
dal palazzo alla chiesa, quanti preti, quante confraternite, quante
rappresentanze civili e militari, quanti servi di casa, quanti
gondolieri di famiglie patrizie vi prendessero parte, e che folla di
curiosi venisse in coda, donne, ragazzi, pezzenti d'ogni età e d'ogni
sesso, che, trattenuti a fatica dai fanti del Municipio, si accalcavano
gli uni sugli altri, mormorando per non aver potuto avere il torcetto.
In chiesa poi era uno spettacolo imponente. Le pareti e i pilastri erano
rivestiti di drappo nero con galloni d'argento, un gran catafalco con
iscrizioni ai quattro lati s'ergeva nel mezzo, le fiamme oscillanti dei
ceri abbarbagliavano gli occhi e gettavano in faccia dei buffi d'aria
infocata. Dopo che il feretro fu issato sul catafalco, intorno al quale
stavano ritti ed immobili quattro pompieri con le spade nude e quattro
servitori con le torce accese, principiò la cerimonia religiosa, una
cerimonia che non voleva finir mai. Le onde sonore che partivano dalla
cantoria accrescevano, s'era possibile, il caldo affannoso, la gente,
stipata come le sardelle in barile, si rasciugava i sudori con la manica
del vestito (seppur le riusciva di alzare il braccio), e di tratto in
tratto, non potendone proprio più, metteva dei muggiti simili a quelli
del mare in burrasca. Insomma, quando piacque a Dio, il parroco
pronunziò l'assoluzione e il funerale si mosse. Ci fu di nuovo un serra
serra, qualche bimbo rischiò di restar schiacciato, qualche donna cadde
in deliquio, ma non s'ebbero a deplorare disgrazie maggiori. Nel _campo_
davanti alla chiesa un picchetto di soldati di marina rese alla bara gli
onori militari; poi, non usandosi in quei tempi i discorsi, la bara fu
accompagnata sino al canale, e venne deposta in una _peota_ riccamente
addobbata, nella quale salirono i famigli del defunto, alcuni pompieri e
fanti del Municipio. La _peota_ preceduta da una barca con la musica e
seguita da uno stuolo di gondole si diresse verso il cimitero di San
Michele di Murano.

La folla si disperse da varie parti. Solo un centinaio di poveri (donne
in gran parte) s'avviarono al palazzo per buscarsi qualche soldo
d'elemosina.

_Sior_ Bortolo, il quale, soffrendo un po' d'asma non era andato in
chiesa, ebbe un bel da fare a liberarsi da quest'arpie ch'eran riuscite
a penetrar nel _mezzà_ e lo assordavano delle loro querimonie.

--A mio marito non hanno dato nemmeno una candela.

--Ho quattro creature, io....

--Son due giorni che non si accende fuoco in casa....

--Sono un povero vecchio impotente....

--Ho il figliuolo coscritto.

--Andate in pace--diceva _sior_ Bortolo--chè già nel testamento di S. E.
Leonardo c'è un legato pei poveri della parrocchia.

--Oh _paron benedeto_!--stillavano alcune di quelle megere--di quei
soldi lì noi altri non ne vediamo.... Se li mangia il pievano.

--Eh, vergogna. Che discorsi!

--Pur troppo, _sior_ Bortolo.... Pur troppo la è sempre così.

--Se anche non li mangia tutti--soggiungeva una femmina d'opinioni
moderate--li distribuisce a suo modo, a chi non li merita, a chi non ha
bisogno.... Sia buono, _sior_ Bortolo, ci dia qualche cosa.

_Sior_ Bortolo si lasciava commuovere e cacciava le mani dentro un
cassetto.--Uno alla volta.... Marco.

Marco era un fattorino addetto all'agenzia.

_Sior_ Bortolo gli diede una manata di soldi con l'incarico di
licenziare tutta quella gente, e Marco ricorrendo a _sior_ Bortolo ogni
volta che la provvista era esaurita, persuase i postulanti ad andarsene.
In questa delicata operazione egli seppe far in modo che qualche mezza
svanzica si smarrisse nelle tasche della sua giacchetta. _Sior_ Bortolo,
dal canto suo, nel registrare la sera tutte le spese innumerevoli della
giornata, stimò opportuno di arrotondare la cifra, sembrandogli forse
che il decoro della nobile famiglia Bollati esigesse di far comparire
nei libri una somma maggiore del vero.

Sua Eccellenza il conte Leonardo Bollati, che scendeva sotterra in quel
giorno d'ottobre 1838, non era un grand'uomo, come volevano far credere
i suoi panegiristi. Egli aveva avuto la fortuna di conquistare in
gioventù una certa riputazione di valore combattendo sotto gli ordini
dell'ammiraglio Emo nell'impresa di Tunisi, e aveva avuto l'abilità di
conservar quella riputazione, non mettendola mai alla prova. Così più
d'uno aveva creduto (e abbiamo visto che tale era anche l'opinione del
vecchio barbiere) che se, nel 1797, egli fosse stato alla testa della
flotta, le cose sarebbero andate diversamente.

Caduta la Repubblica, Sua Eccellenza non volle più servire nè sotto il
Governo democratico che le succedette per pochi mesi, nè sotto alcuno
dei Governi che si avvicendarono poi, e quest'atto, che forse in lui era
da attribuirsi a sola pigrizia, fu interpretato quale una protesta
dignitosa contro i nuovi ordinamenti politici della patria. È vero che
questo suo nobile disdegno non gl'impedì d'essere tra i patrizi
veneziani i quali sollecitarono dall'Austria la corona di conte.

Se Sua Eccellenza Leonardo Bollati abbandonò dopo il 1797 i pubblici
uffici, non si può dire ch'egli si consacrasse con molto zelo alle sue
faccende private, chè anzi, mortagli la moglie in età ancora fresca,
egli non si diede alcun pensiero dell'unico figliuolo rimastogli, e
continuò invece, fin che la salute glielo permise, a menar vita
dissipata e galante. A ogni modo, sia pel fascino esercitato dal suo
nome storico, sia pei ricordi che gettavano una luce favorevole sulla
sua gioventù, sia per una certa prontezza e festività di spirito, sia
per le maniere affabili sotto le quali egli dissimulava l'alterigia e
l'egoismo nativo, sia pel largo patrimonio ch'è mezzo sicuro di coltivar
le aderenze, il conte Bollati era un uomo assai popolare e molti
riverivano in lui uno degli ultimi rappresentanti di quell'aristocrazia
veneziana che diede così splendidi esempi di senno civile. E quantunque
da alcuni anni egli non si facesse veder quasi da nessuno e lasciasse
far tutto al figliuolo, la sua morte recò una scossa notevole al credito
della famiglia, cosa di cui l'agente generale fu il primo ad accorgersi
nel combinare l'operazione finanziaria indispensabile pel pagamento dei
numerosi legati.

_Sior_ Bortolo era una perla d'agente, che non seccava mai i padroni coi
molesti predicozzi dei commessi troppo scrupolosi, che non lesinava mai
il danaro, nè sollevava dubbi e difficoltà. A ogni straordinaria
richiesta di fondi, egli atteggiava le labbra a un sorrisetto serafico e
rispondeva:--Sarà fatto.--E non c'era pericolo ch'egli non mantenesse la
sua parola. Ohibò! Si era sicuri di vederlo comparire il domani più
sorridente ancora del consueto con la somma precisa di cui si aveva
bisogno. E la soddisfazione che _sior_ Bortolo provava nel compiacere la
nobile famiglia era tale ch'egli diventava ogni giorno più lucido e
grasso, tanto lucido da parer spalmato di lardo, tanto grasso da
raggiunger quasi la forma sferica.

Sappiamo già che il conte Leonardo era intimamente persuaso che l'ottimo
_sior_ Bortolo rubasse a man salva. Ma egli diceva:--Non posso mica
attender io stesso ai miei affari. E a qualunque altro li affidassi,
sarebbe peggio.--Il conte Zaccaria poi non faceva neanche questo
ragionamento; egli lasciava correre senza badare più in là.

Adesso però, sotto l'impressione delle profezie e delle ammonizioni
paterne, egli stimò necessario di veder coi suoi occhi come stavano le
cose, e ordinò a _sior_ Bortolo di preparargli un prospettino da cui
apparisse chiaro lo stato del patrimonio. E _sior_ Bortolo con mirabile
sollecitudine allestì un lavoro degno della sua perizia di contabile e
di calligrafo. Frutto di queste lucubrazioni furono due nitidi specchi a
doppia colonna, l'una per il dare, l'altra per l'avere. Nel primo
figuravano a destra le somme a cui erano stimati i beni della famiglia,
possidenze in città e in campagna, oggetti d'arte e oggetti preziosi,
ecc. ecc.; a sinistra si leggevano i nomi dei varii creditori insieme
con le cifre dei loro crediti. Qui c'era una bella differenza in più
nell'avere. Nel secondo specchio erano disposte nello stesso ordine
l'entrata e l'uscita: spese domestiche presunte, livelli, tasse,
interessi dei mutui. E c'era una bella differenza anche qui, ma in senso
contrario; il dare superava l'avere di parecchie migliaia di lire.

--Capisco, capisco--disse il conte Zaccaria dopo aver esaminato per
mezz'ora i due prospetti in lungo e in largo--noi avanziamo ogni anno
dai quattro ai cinquemila ducati.

--Scusi, Eccellenza--interpose l'agente--è proprio il rovescio. Si
spendono quattro o cinquemila ducati in più.

Il conte Zaccaria si grattò la nuca.

--E come va questa faccenda?

--Ma!--rispose _sior_ Bortolo, sprofondando la testa fra le spalle.--Mi
pareva che S. E. Leonardo (pace all'anima sua) l'avesse avvertita....

--Sì, sì, mi disse qualche cosa.... senza parlare di cifre....

--Del resto--ripigliò l'agente per dorar la pillola--del resto, se ci
fossero due buoni raccolti di seguito, un aumento nelle entrate lo si
dovrebbe vedere. Poi c'è qualche livello che sta per cessare.... In ogni
modo, non lo dissimulo, un po' d'economia sarebbe assai utile. Dal canto
mio, per quanto riguarda l'agenzia, procurerò sicuramente.... ma
bisognerebbe che anche in famiglia.... perdoni, Eccellenza, se mi prendo
questa libertà.... ma è la mia devozione per la casa Bollati.

--Bene, bene.... vedremo.... Capisco....

--Di qui ad alcuni anni poi--soggiunse _sior_ Bortolo--il contino
Leonardo, col suo nome e con le sue belle qualità, che il Signore Iddio
gli conservi, potrà trovar la dote che vuole....

--Affari lontani, caro amico, affari lontani....

--Lontani, ma sicuri.

A questo punto _sior_ Bortolo mostrò al principale un polizzino
supplementare con la nota delle tasse e dei legati che conveniva pagar
subito, e disse in qual modo, salvo sempre l'approvazione di S. E., egli
aveva creduto di provveder la somma occorrente. E S. E., che rispondeva
sempre _capisco_ e non capiva mai nulla, si spicciò con due parole:

--Fate voi.... Purchè non si tratti di vendere.... Vendere significa
diminuire il patrimonio, e io voglio tramandarlo intatto a mio figlio.

Esposta questa savia massima amministrativa, il conte Zaccaria prese la
eroica risoluzione di raccomandare alla sua illustrissima consorte una
maggiore economia nelle spese di casa, e citò a sostegno della sua tesi
gli avvertimenti del defunto genitore e quelli dell'agente generale.

La signora Chiaretta, donna ordinariamente molto fredda ed apatica, fu
punta sul vivo dalle considerazioni del marito, e gli rispose per le
rime. Ella disse prima di tutto che si maravigliava molto che si
venissero a raccontare a lei queste storie; che se da più secoli gli
uomini della famiglia non avevano avuto giudizio, ella non sapeva che
farci, e se Sua Eccellenza Almorò, quand'era ambasciatore a Parigi,
spendeva 120 mila franchi all'anno, e Sua Eccellenza Zaccaria per
festeggiare la sua nomina a Procuratore aveva gettato 20 mila ducati
bisognava prendersela con Sua Eccellenza Almorò e con Sua Eccellenza
Zaccaria, e non con lei. Del resto, quand'ella, l'ultima degli Orseolo,
era entrata in casa Bollati aveva creduto di entrare in una casa di gran
signori, e non era disposta affatto a vivere di pane e di noci. A ogni
modo ella sarebbe stata curiosa di sapere quali risparmi si potevano
fare.--Perchè--ella continuava rispondendo da sè alla propria
domanda--non pretenderete mica che si stia senza gondola.

--Sfido io.... Nemmen per sogno.

--O che si licenzi il cuoco?

--Ma chi dice questo?

--O che io mandi a spasso la cameriera?

--Ma no, ma no.

--O che rinunzi al palco alla Fenice?

--Nemmen per idea.

--O che mi vesta come una serva?

--Via, Chiaretta, nessuno pretende una roba simile.

--Che cosa si pretende adunque? Che si dia il benservito al precettore
di Leonardo, e che si mandi il ragazzo alla scuola pubblica?

--Ci mancherebbe altro! Un Bollati alla scuola pubblica?... In mezzo
alla marmaglia?

--Lo vedete voi stesso, è chiaro come la luce del sole che meno di quel
che si spende non si può spendere.... almeno per parte mia. Se voi
sprecate il danaro senza discernimento....

--Io!--interruppe scandalizzato il conte Leonardo. E allora toccò a lui
di provare come due e due fan quattro che sulle sue spese particolari
non c'era da risecare un centesimo, mentre non si poteva certo
pretendere che un Bollati non appartenesse al Casino dei nobili, e non
avesse un posto nel _palcone_ di società in tutti i teatri, e non
frequentasse il caffè, e si tirasse indietro dal giuocare una partita a
_tre sette_ per paura di perdere qualche zecchino.

La contessa Chiaretta avrebbe voluto dire che tutte le spese del marito
non finivano lì, ma tacque per ispirito di conciliazione.

Dopo questo colloquio pareva che le cose dovessero restar al punto in
cui erano prima; nondimeno i due coniugi, ritornando sull'argomento,
ebbero uno slancio sublime, e mostrarono di quanta abnegazione fosse
capace l'animo loro. Sua Eccellenza Chiaretta, che prendeva sei tazze di
cioccolata al giorno, deliberò di sacrificarne una, e il conte Zaccaria,
sempre fermo nell'idea di lasciare intatto il patrimonio al figliuolo,
immolò sull'altare della famiglia un bicchierino di curaçao, ch'egli
soleva centellare dopo colazione.



IV.


Chi, nei giorni immediatamente successivi alla morte del N. H. Leonardo,
fosse penetrato in qualche caffè di Venezia avrebbe sentito un dialogo
simile a questo:

--Dunque si sa precisamente quel che abbia lasciato Bollati?

--Ma no, nulla di preciso... L'azienda diretta da quel famosissimo
_sior_ Bortolo è in una confusione da non credersi.

--Oh c'è da scommettere che anche quelli lì finiscono coll'andare in
rovina....

--Via, prima della rovina ci vorrà qualche annetto.

--Non tanto, non tanto; quando si comincia, si va giù a precipizio.

--Che pessimisti! Il vecchio conte, se badiamo alle sue disposizioni
testamentarie, non aveva di queste paure.

--Oh se le aveva!... Le disposizioni testamentarie non significano
nulla.... È positivo che prima di morire egli fece una predica al
figliuolo e gli pronosticò una catastrofe se non restringeva le spese.

--Bellissima! E poi lasciò tutti quei legati?

--Boria postuma.

--Contraddizioni umane.

--È vero--chiedeva qualcheduno--che i Geisenburg sono partiti su tutte
le furie il giorno dopo i funerali?

--Verissimo. È innegabile che il conte Leonardo li trattò un po' male.
Non nominò nemmeno nel suo testamento il marchese Ernesto, e alla nipote
lasciò un anello di nessun valore.

--Il conte Leonardo aveva sempre veduto di mal occhio questo matrimonio.

--E aveva ragione. O che non c'erano meglio partiti a Venezia?

--Quel marchese con la sua prosopopea è insoffribile.

--È poi così ricco come si vanta di essere?

--Nemmen per sogno.... Molto fumo e poco arrosto. Già quando c'è il
vizio del gioco non c'è fortuna che basti.

--Il gioco, il vino e i cavalli--soggiungeva un altro.--Tre cose che
costano un occhio.

--E lei, la marchesa, sciupa una moneta in _toilettes_.

--Sì, con quel frutto.... Pare la bambola di Francia.

E si seguitava di questo tuono, tagliando i panni addosso al marchese
Ernesto e alla marchesa Maddalena, che, per vero dire, erano antipatici
a tutti. Noi, che non dobbiamo occuparci dei fatti loro, li lasceremo in
balìa dei loro detrattori e vedremo che cosa pensino del testamento del
conte Leonardo quei parenti dei Bollati, a cui già accennammo più volte,
i Rialdi.

Anche i Rialdi erano stati delusi nella loro aspettazione. Si
ripromettevano una bella sommetta e avevano avuto invece un legatino
piccolo piccolo. Il conte Luca soffiava in silenzio (era il suo modo
d'esprimere il malcontento), ma la contessa Zanze, quando non c'era
presente la figliuola, non resisteva alla tentazione di darsi uno sfogo.

--Avete visto?--ella diceva al pacifico marito.--Valeva la pena di aver
fatto la vita che s'è fatta in questi ultimi giorni, valeva la pena
ch'io aiutassi il flebotomo a metter, con riverenza parlando, le
sanguisughe a quell'empiastro del conte Leonardo, per esser poi trattati
come parenti lontani che vanno a palazzo a ogni morte di papa o come
estranei che non hanno altro merito che quello di recitar quattro versi
nelle feste di famiglia?... Quattromila lire venete una volta tanto....
Una miseria!... E invece le migliaia di ducati all'Ospitale, alla Casa
di Ricovero, agli Orfanotrofi, agli Asili d'infanzia, ai Catecumeni, o
che so io... tutto per aver gli articoli della _Gazzetta_ e le lapidi
nei vari istituti.... Come se il morto leggesse quegli articoli e le
iscrizioni di quelle lapidi!... Ma il dispetto maggiore me lo fanno
quelle pensioni ad agenti e a servitori... dopo che il conte Leonardo
ha detto lui stesso che tutti rubano in casa sua.... Se rubano!... Quel
_sior_ Bortolo peggio degli altri.... Sempre così mellifluo, sempre così
cerimonioso... _lustrissimo_, _lustrissima_, e inchini, e baciamano, e
proteste di devozione, e intanto s'empie le tasche di ben di Dio.... E i
fattori di campagna?... Che cere da Patriarchi!... Bianchi e rossi da
fare allegria.... Rendono i conti a loro modo, si servono dei cavalli di
lusso, dotano le figliuole, allargano i loro poderi... insomma un
carnovale.... Ma perfino il cuoco ha tutta l'aria d'un gran signore, e a
vederlo la domenica quando conduce a spasso la moglie lo si direbbe un
milord.... Gli è che oltre alla sua paga ha gli incerti e accetta
ordinazioni di pranzi da questi e da quelli, e tutto vien fuori dalla
cucina Bollati.... Camerieri e guatteri, non c'è bisogno di dirlo,
cacciano le mani anche loro nelle casseruole e non ce n'è uno che non
porti a casa il suo fagotto di roba... le donne fanno il resto e vorrei
aver io tutti i capi di biancheria e di vestiario che quella stolida
della Chiaretta si lascia portar via sotto agli occhi.... È inutile che
facciate quelle smorfie... queste son verità sacrosante, e siete voi
solo a ignorarle.... E vi dico che se foste stato un uomo di spirito,
invece di perdere le giornate in quel vostro ufficio che non vi dà
nemmeno da campare la vita, e di sciupar le sere al caffè alla Vittoria
coi vostri eterni scacchi, avreste dovuto ottenere un posto
nell'amministrazione Bollati e ingegnarvi.

--Oh, oh--interruppe il conte Luca--vorreste dire che avrei dovuto
rubare come gli altri... mi spiego?

--Mi spiego, mi spiego?... Vi spiegate malissimo.... Io non ho detto
rubare; avreste fatto del bene alla vostra famiglia e anche ai vostri
parenti Bollati, che era meglio cascassero in mano d'un cugino che di
gente mercenaria.... E oggi stesso, vedete, s'io fossi nei vostri panni,
andrei difilato da Zaccaria e gli direi: Volete una persona di cuore
alla testa dell'agenzia? Son qua io.

--Siete matta? In questi impicci mi mettereste? Vi paion proposte da
fare?

--Oh lo so che voi non siete uomo capace di uscir dal vostro guscio....
E guai alla famiglia se non ci fossi io.... Che anche quel poco che ci
rende la parentela dei Bollati lo dovete a me.

--Io non nego le vostre belle qualità;... però... sì... voglio dire...
se siamo parenti dei Bollati, il merito non è mica vostro... mi spiego?

Il conte Luca non aspettò la risposta e sguizzò dalla stanza, come
faceva sempre quando gli pareva di non aver mostrata sufficiente
sommissione alla moglie.

Era una brava donnetta, una donnetta attiva e procacciante la contessa
Zanze, ed era riuscita, poverissima, a farsi sposar dal conte Luca
Rialdi, poco meno spiantato di lei, ma cugino degli illustri e
ricchissimi Bollati, e in buoni termini con loro. Alla contessa Zanze
però era occorsa molt'arte a vincer la diffidenza dei parenti di suo
marito, i quali le rimproveravano, fra l'altre cose, la dubbia nobiltà
dei natali e il modo subdolo con cui aveva tirato nella rete quel povero
conte Luca. Comunque sia, ormai ella spigolava abbastanza largamente nel
campo dei Bollati; vestiti smessi pei figliuoli, per sè e anche pel
consorte, qualche regaluccio a tempo e luogo, e qualche prestito di
danaro che non si restituiva e che l'aiutava a spingere innanzi la barca
pericolante. Aggiungasi al resto un paio di mesi di villeggiatura, e un
paio di pranzi alla settimana, ch'erano una vera provvidenza per la
famiglia. Naturalmente di fronte a questi vantaggi la contessa Zanze
doveva inghiottire molti bocconi amari. Le toccava prestarsi ad uffici
umili, quasi di cameriera, le toccava ogni momento sentirsi ricordar la
distanza che correva tra lei e i Bollati, e far la disinvolta mentre si
andava a gara per mettere in burletta le sue acconciature, il suo
abbigliamento e perfino, sacrilegio orribile! i suoi martedì. Giacchè
bisogna notare che la contessa Zanze aveva anch'essa il suo giorno di
ricevimento nel quale ella noleggiava un servitore a spasso, gli faceva
indossare una livrea gelosamente conservata in casa, e lo piantava
nell'andito ad aspettarvi le visite. Capitavano dame e pedine, ma per
lei erano sempre contesse, o marchese, o _lustrissime_; fra lei e il
suo cameriere improvvisato nobilitavano tutti. La moglie del dottor
X.... non mancava mai ai martedì della Rialdi, tanto le piaceva il
sentirsi dar della contessa una volta per settimana.

Il martedì si desinava in casa Bollati, e guai se non fosse stato così,
perchè quel giorno non si accendeva il fuoco in cucina per non aver
l'odor di bruciaticcio nel salotto attiguo, e anche perchè la padrona di
casa non aveva agio da attendere alle faccende domestiche. Di tratto in
tratto accadeva però che i Bollati avessero appunto il martedì qualche
commensale di riguardo e allora essi mandavano a dire ai cugini: _Venite
domani_. In questi casi, il conte Luca doveva limitarsi a mangiar pane e
salame, e i bimbi sfamati alla meglio si mettevano a letto più presto
del solito in ossequio al proverbio: _Qui dort dîne_. In quanto alla
contessa Zanze, ella non prendeva che una limonata senza zucchero,
tant'era la bile che le suscitava il procedere de' suoi boriosi parenti,
i quali mostravano di tener in così poco conto lei e suo marito. Ah se
non ci fossero stati di mezzo i figliuoli! Ma i figliuoli c'erano e non
conveniva sacrificarli a un malinteso amor proprio. Perciò la contessa
Zanze reprimeva presto i suoi moti di collera e procurava d'inculcare a
Gasparo e a Fortunata la maggior riverenza verso i Bollati. Senonchè,
l'indole de' suoi ragazzi era così dissimile che i germi gettati nel
cuore dell'uno e dell'altra non potevano dare ugual frutto. Fratello e
sorella avevano comune un gran fondo di rettitudine, ma nella sorella
questa rettitudine s'univa a un'indole docile e mansueta; nel fratello
invece essa si accompagnava a uno spirito altero, insofferente di freno.
A ogni suggerimento, a ogni ordine, il primo impulso di Gasparo era
quello di ribellarsi, il primo impulso di Fortunata era quello di
ubbidire, cosicchè un psicologo chiamato a far pronostici sui due
piccoli Rialdi avrebbe detto che Gasparo era un ragazzo indisciplinato e
molesto, il quale sarebbe divenuto un uomo efficacemente e operosamente
buono; Fortunata era una bimba angelica, serbata probabilmente a esser
vittima d'ogni prepotenza e d'ogni ingiustizia, e la cui bontà passiva
avrebbe finito piuttosto col nuocere a lei che col giovare agli altri.

Premesso ciò, sarà facile intendere come non ci fosse voluto molto a
imprimer nell'animo di Fortunata l'idea della grandezza dei Bollati e a
persuaderla della necessità di mostrar loro ogni deferenza, e come
d'altro canto la fierezza naturale di Gasparo gli avesse impedito
d'acconciarsi a questa subordinazione. Non c'era mai stato caso di
persuaderlo a baciar senza tante smorfie la mano del vecchio conte
Leonardo, nè quella del conte Zaccaria o della contessa Chiaretta; non
era stato possibile di far sì ch'egli giocasse col contino senz'attaccar
lite. Anzi un giorno, punto da non so quali parole, egli picchiò di
santa ragione il cuginetto, cosa che indusse la contessa Chiaretta a
far terribili vaticini sulla sorte dell'umanità, giacchè, quando i
parenti spiantati picchiano i parenti ricchi, dev'esser vicina la fine
del mondo.

Forse questo fatto memorabile ebbe una certa influenza nella risoluzione
dei Rialdi di mettere il figliuolo nel collegio di marina a Sant'Anna di
Castello.

Così la contessa Zanze poteva catechizzar Fortunata senza
contraddizione.--Sii rispettosa, servizievole coi parenti Bollati, e
procura di farti voler bene dal cugino Leonardo.

La bimba, ufficiosa per sua natura e facilissima ad affezionarsi, non
durava fatica a secondare i desiderii materni, ed era lietissima se
poteva rendersi utile in qualche maniera alla _zia_ Chiaretta, com'ella
chiamava la illustrissima contessa. E costei, ch'era un tipo perfetto
d'egoista, vedeva di buon occhio questa fanciullina punto chiassona,
punto romorosa, dispostissima a far le parti d'una piccola cameriera. Lo
stesso conte Zaccaria si degnava talvolta di occuparsi di lei, e
allorchè voleva darle un segno della sua speciale benevolenza, se la
prendeva sulle ginocchia, le ordinava di chiuder gli occhi e le cacciava
su pel naso un pizzico di tabacco, scherzo fino e saporito che
l'illustre gentiluomo riteneva il _non plus ultra_ dello spirito.
Fortunata starnutiva replicatamente, ma non si lagnava mai; anzi,
quand'aveva finito di starnutare, sorrideva di quel suo sorriso
carezzevole ch'era la sua maggiore attrattiva fisica.

E il contino Leonardo preferiva Fortunata a tutti gli altri compagni di
gioco, forse perchè Fortunata sopportava con più longanimità i suoi
capricci. Sprezzante per indole, egli era piuttosto cortese con lei, e
le serbava delle chicche, o le regalava dei trastulli rotti: cavalli a
cui s'era spezzata una gamba, bambocci che avevano perduto la testa,
trombette che avevano dimesso l'abitudine di suonare. Fortunata andava
in estasi. Ci voleva così poco a riempirle l'animo di gratitudine!

La contessa Zanze provava un grande compiacimento a veder la buona
intelligenza tra i due cugini, e si cullava in una speranza ambiziosa
balenatale alla mente, si può dire, fin dalla nascita della figliuola.
Ah se Leonardo s'innamorasse di Fortunata!

Il marito, più positivo, si stringeva nelle spalle
borbottando:--Castelli in aria, castelli in aria.

Ma la consorte gli imponeva silenzio con una ragione perentoria:--Siete
un gran babbeo.

Quest'era innegabile. Ma Gasparo Rialdi, che non era un babbeo e che, se
non fosse stata la disciplina, avrebbe avuto il primissimo posto nella
sua classe, Gasparo, nelle poche feste ch'egli passava in famiglia,
diceva che sua sorella aveva un gran torto di perder il suo tempo a
giocare con quello stupido prepotente di Leonardo Bollati, e che in
quanto a lui era ben lieto di non aver quasi mai occasione di mettere il
piede nel palazzo di quei somari. Parole che facevano andar fuori della
grazia di Dio la contessa Zanze e mettevano la febbre addosso al conte
Luca, altrettanto meravigliato di aver un figliuolo di quello stampo
quanto sarebbe maravigliata la chioccia che s'accorgesse d'aver covato
un aquilotto.

Nè Gasparo aveva almeno la prudenza di aspettare a fare i suoi sfoghi
che non ci fosse presente la sorella. Anzi un giorno egli disse a lei
stessa:--Tu hai i gusti di Sant'Antonio.... Anch'egli prediligeva un
certo animale.

Fortunata non capì nulla, ma si mise a piangere senza sapere il perchè,
e corse dalla mamma chiedendole in mezzo ai singhiozzi:--Mamma, mamma,
che gusti aveva Sant'Antonio? Che animale era quello ch'egli
prediligeva?

Guai se Gasparo non fosse rientrato presto in collegio. Egli era proprio
insopportabile, e la _zia_ Chiaretta aveva ragione a definirlo con una
parola che per lei esprimeva la quintessenza d'ogni nequizia: _È un
carbonaro_.



V.


Vediamo ora di far più stretta conoscenza col contino Leonardo Bollati,
unico rampollo maschio della famiglia, unico erede d'un nome illustre
negli annali della Serenissima.

Per cominciare _ab ovo_ diremo che il contino Leonardo nacque nel 1823,
come può verificarsi, oltre che dai registri parrocchiali, anche da un
volumetto di poesie stampato in quel tempo, col titolo: _Versi di vari
autori in occasione del battesimo di S. E. il conte Leonardo Bollati P.
V._ (leggi Patrizio veneto).

C'è fra gli altri componimenti un sonetto che principia così:

    O tu in cui dritta la virtù discese
      Onde Venezia ebbe del mar l'impero,
      Certo tu pure, o pargoletto altero,
      Famoso andrai per memorande imprese;

    Mel dice il nobil tuo sembiante, il fiero
      Lampo degli occhi tuoi mel fa palese...
      .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

E ci pare che basti.

Nonostante le feste con cui egli fu accolto al suo nascere, il contino
Leonardo non fu guastato con troppi baci e troppe carezze. Il conte
Zaccaria, libertino incorreggibile, s'occupava più delle crestaie e
delle ballerine che de' suoi figliuoli, e la contessa Chiaretta, tra le
pratiche di devozione e il teatro, il fare e il ricever visite, il
curare i suoi mali veri e l'almanaccar dietro ai suoi mali immaginari,
il bever tazze di cioccolata e il mangiar pasticcini, esauriva tutte le
forze del corpo e dello spirito, nè le restava più tempo o voglia di
dedicarsi alle cure materne. Dimodochè S. E. Leonardo Bollati, progenie
di dogi, passò dalle braccia della balia e delle bambinaie a quelle
dell'altre persone di servizio, e ne' primi anni della sua gloriosa
esistenza non era ammesso al cospetto de' genitori che la mattina appena
alzato e la sera avanti di coricarsi. In questi momenti solenni egli
baciava la mano al nonno, al signor padre e alla signora madre, e dava
loro il buon giorno e la buona notte. Nelle grandi occasioni (a Pasqua,
a Natale, al Capo d'anno, ecc.) lo si faceva portare a tavola alle
frutta. Allora il contino dava prova di ottimo appetito e di rara
precocità nel dir parole indecenti, ch'egli apprendeva in cucina e che
esilaravano il conte padre ed erano accolte con un sorriso benevolo
anche dai commensali, soprattutto dai Rialdi, parenti poveri, mentre la
contessa Chiaretta si limitava ad esclamare:--Maria Vergine santissima!
Che discorsi!

Ma il contino Leonardo non imparava in cucina soltanto le schiette
grazie del linguaggio popolare.

Un barcaiuolo pensionato della famiglia, morto nonagenario un anno prima
del padrone vecchio, lo aveva erudito in certe cronache domestiche assai
edificanti. Nicola (il barcaiuolo si chiamava così) era nato in casa e
avea pei Bollati una devozione a tutta prova. Per isfortuna egli non era
cresciuto nei tempi in cui i Bollati maschi si coprivano di gloria, ma
in quelli in cui le Bollati femmine facevano d'ogni erba un fascio. E
raccontava le gesta di queste civette con la identica compiacenza con la
quale due secoli innanzi avrebbe raccontato quelle del nobiluomo Almorò
che aveva preso una bandiera ai Turchi, e del nobiluomo Biagio che a
venticinque anni aveva sbalordito il Maggior Consiglio con la sua
eloquenza. La madre del conte Zaccaria non aveva avuto tempo di far
discorrer di sè perch'era morta da parto dopo un anno di matrimonio, ma
Sua Eccellenza Adriana e Sua Eccellenza Marina, mogli di due fratelli
del N. H. Leonardo ne avevano fatte di grosse. Belle, piene di spirito e
di salute, avevano goduto la vita, loro due, non come Sua Eccellenza
Chiaretta, una buona donna, ma via, un po' troppo monachella, troppo
dinoccolata, troppo paurosa della sua salute. Perchè in fin dei conti,
diceva il vecchio Nicola, che cosa fanno a questo mondo le donne se non
fanno il chiasso e l'amore?

--Eh--continuava il barcaiuolo epicureo--ai tempi delle lustrissime
Adriana e Marina ci si divertiva in Palazzo. Altro che adesso! Non
s'eran mai viste due cognate che se la intendessero meglio di quelle.
Mai una gelosia, mai la cattiva azione di portarsi via i _morosi_, ma
invece un aiutarsi, un difendersi ch'era un piacere a sentirle. Io ero
il confidente di tutt'e due, e quando l'una o l'altra diceva di voler la
gondola a un remo solo e che quel remo dovevo esser io, sapevo benissimo
di che si trattava. Qualche volta i due mariti e i due rispettivi
cavalieri serventi volevano tirarmi in lingua. Mi ricordo che un giorno
il nobiluomo Barbo, che serviva la lustrissima Adriana, mi disse:--«Tu
tieni il sacco a quella fraschetta.»--«Nobiluomo--io risposi--la parli
con rispetto della padrona.» Sicuro; perchè io non ammettevo scherzi su
questo proposito.... Ma quando potevo, coi debiti riguardi, dare un buon
consiglio alle _lustrissime_, mi facevo coraggio. E raccomandavo loro di
usar prudenza e di salvare le apparenze, che son quelle a cui il mondo
bada di più. Così facevo il mio dovere, e le padrone, che non avevano
ombra di sussiego, me ne ringraziavano. Erano due angeli, quelle donne,
e non è mica a credere che fossero cattive mogli. Bisognava vederla Sua
Eccellenza Adriana durante la lunga malattia del marito. Pareva una
suora di carità. E quando S. E. Alvise morì, che macchina di monumento
ella gli fece innalzare in chiesa dei Gesuiti! E quante messe all'anno
faceva dire in suffragio del povero defunto! Se quell'anima lì non ha
scontato presto il suo purgatorio, non deve certo prendersela colla
moglie. E S. E. Marina? L'ho accompagnata io stesso due anni di fila ad
Abano con S. E. Vittore che andava a curarvi la sua sciatica. Che
pazienza da santa quella donna! Perchè S. E. Vittore (che Dio l'abbia in
gloria!) era una pasta di zucchero finchè stava bene, ma se aveva un
dolor di capo, usciva dai gangheri addirittura. Non c'eravamo che la
padrona ed io che potessimo sopportarlo.--«Eh, Nicola,»--la mi diceva
scherzando--«non si va mica in gondola adesso. »--«Ma, lustrissima;
torneranno quei tempi.»--E lei, con una scrollatina di testa:--«Intanto
s'invecchia, caro Nicola.»--Benedetta quella vecchia!--io avrei voluto
soggiungere, ma non ero che un povero gondoliere e non dovevo prendermi
certe libertà.... So ch'era da mangiarla S. E. Marina quando parlava
così. A quarant'anni ell'era ancora un boccone prelibato. Una vitina, un
busto, un giro di spalle, dei capelli neri come la pece, due occhi da
svegliare i morti.... E una manina bianca, grassottella, che aveva tutti
i sapori.... Posso dire di avergliela baciata quella mano.... Ma! Le due
_lustrissime_ son morte tutt'e due in fresca età e di donne come quelle
s'è persa la stampa....

Questi e altri discorsi consimili il vecchio Nicola li teneva
soprattutto nelle sere d'inverno, durante la siesta, quando seduto sul
focolare sopra un seggiolone impagliato egli protendeva le gambe
stecchite sulle ceneri calde, e fumava la sua pipa di gesso o centellava
un bicchiere di vino generoso. Il resto della servitù stava ad
ascoltarlo ad orecchie tese, e le cameriere, ghiotte di pettegolezzi
scandalosi, lo tempestavano di domande. Ed egli, sempre vantandosi
d'esser stato un modello di discrezione in gioventù, spifferava una
quantità di aneddoti circa alle scappate delle padrone, e al brio delle
loro conversazioni nel casino ch'esse tenevano in comune a San Giuliano,
e ai loro travestimenti in carnevale, al Ridotto, e ai loro trionfi alla
venuta dei conti del Nord e del Re di Svezia. Intanto il contino
Leonardo, ora sulle ginocchia d'una fantesca, ora sotto la tavola in
compagnia del gatto, sbadigliava aspettando che lo mettessero a letto.
E, se vogliamo esser giusti, egli si curava pochissimo di queste glorie
casalinghe, e preferiva il racconto dei fatti memorabili del brigante
Mastrilli, che il signor Oreste, il cuoco, sapeva a memoria, e di cui
mostrava al padroncino le illustrazioni a colori sopra una ventola di
cartone.

Altra occupazione gradita pel nostro contino, sin dalla più tenera
infanzia, era stata quella di dar la caccia ai granchi che salivano su
per la _riva_ del Palazzo. A questo nobile esercizio egli dedicava un
paio d'ore al giorno sotto la vigilanza dell'uno o dell'altro dei
gondolieri di casa, e, quando aveva preso una di quelle innocue
bestiuole, egli trovava un gusto infinito a legarla con uno spago per
una delle branchie e a tirarla su e giù per l'androne.

Però i gondolieri non insegnavano al contino Leonardo solamente a
pigliare i granchi; essi lo addestravano eziandio nell'arte del remo,
l'unica ginnastica a cui si dedicassero in quel tempo i nobili veneti. A
quattr'anni egli aveva già un remino microscopico che appena sfiorava
l'acqua; poi di mano in mano che il ragazzo cresceva gli si faceva fare
un remo più grande e il remo smesso si conservava come trofeo di
famiglia. Quando il contino Leonardo non possedeva ancora le lettere
dell'alfabeto, egli era ormai in grado di vogare a poppa e di diriger
bene o male la gondola nel Canalazzo e pei meandri dei _rii_. I
barcaiuoli dei traghetti lo conoscevano tutti, e se qualcheduno
vedendolo passare gridava poco rispettosamente:--_Occhio ai granchi,
Eccellenza_--i più rendevano giustizia alle sue felici disposizioni e
gli pronosticavano uno splendido avvenire.

Con la sorella, alquanto maggiore d'età, Leonardo non aveva mai avuto
buon sangue; del resto si può dire ch'egli l'avesse anche conosciuta
poco, perch'ella entrò ben presto alle Salesiane e vi stette fino al
momento del matrimonio. La piccola Rialdi, che aveva quattr'anni meno di
lui, era stata sempre, come sappiamo, la sua compagna favorita di
giuoco. E quand'egli non era in cucina con le serve, o in gondola, o
presso alla _riva_ coi barcaiuoli, era con Fortunata in uno stanzone del
secondo piano detto lo stanzone degli armadi, ove i bimbi potevano fare
il chiasso senza disturbare la _lustrissima_ Chiaretta che pativa di
emicrania e di sfinimenti.

Così trascorse l'infanzia del contino Leonardo Bollati. Alla fine il suo
signor padre si decise a dargli un precettore, e la scelta cadde sopra
un sacerdote di nome don Luigi, al quale il conte Zaccaria,
nell'affidargli l'educazione del giovinetto, tenne questo notevole
ragionamento:

--Grazie al cielo, Leonardo non ha bisogno di guadagnarsi da vivere, non
deve far l'avvocato, nè il medico, nè l'ingegnere, nè, Dio guardi, il
professore. Sotto la Serenissima era un altro paio di maniche. Il
ragazzo avrebbe dovuto entrare prima nel Maggior Consiglio e più tardi
forse nei Pregadi, e non ci sarebbe stata nessuna carica, per quanto
alta, a cui egli non avesse potuto aspirare. Adesso il più che possa
toccargli è di diventare assessore municipale, o amministratore dei
Luoghi Pii, o presidente della Fenice, come me, e per questa roba non
occorre troppa dottrina. Dunque, don Luigi, siamo intesi. Un poco di
religione, di storia sacra e di storia veneta, le quattro operazioni
dell'aritmetica, una tintura di latino, e quel tanto d'italiano che
basta a scriver discretamente una lettera, e, se occorre, un sonetto per
nozze o per monaca. Insomma non sopraccarichiamo il ragazzo di scienza.

Don Luigi s'inchinò in segno d'assenso, e promise al conte Zaccaria di
uniformarsi interamente a' suoi desiderii.

Proprio un asino don Luigi non era; aveva un certo bagaglio di cultura
classica e aveva scritto in gioventù un panegirico di San Luigi Gonzaga,
lodato dal Padre Cesari. Ma era una mente gretta, piccina, di quelle che
non possono spargere intorno a sè altro che la loro piccineria e la loro
grettezza. In fatto di letteratura, il suo più forte convincimento era
questo: doversi combattere ad oltranza il Manzoni. Per don Luigi,
innamorato degli _avvegnachè_ e dei _conciossiachè_, il Manzoni era un
barbaro, e non c'era scribacchino d'istanze ch'egli non preferisse
all'autore dei _Promessi Sposi_. Onde sopra una sola cosa egli domandò
al conte Zaccaria che gli fosse lasciata mano libera:--Bisogna ch'ella
mi permetta--egli disse--di formare a mio modo lo stile del mio allievo.
Sarei veramente umiliato s'egli dovesse scrivere come il signor Manzoni,
quel corruttore della lingua italiana.

--Oh in quanto a questo--rispose il conte Zaccaria--faccia come le pare.

Le inquietudini di don Luigi non durarono un pezzo. Non solo il contino
Leonardo non accennava a voler scrivere un giorno come il signor
Manzoni, ma dopo cinque anni d'insegnamento era ancora dubbio s'egli
sarebbe mai riuscito a scrivere in nessuna maniera. Il pronostico fatto
dal nonno poco prima di morire pareva aver molta probabilità di
avverarsi. L'ultimo rampollo dei Bollati aveva tutta la disposizione di
restare un somaro. Invece, dal lato fisico, egli era cresciuto meglio
che la gracile infanzia non promettesse, era abbastanza alto per la sua
età, snello e ben proporzionato della persona. Fatta eccezione dal naso
un po' grande, i suoi lineamenti erano regolari, e, non guardando pel
sottile all'espressione della fisonomia insignificante e sbiadita, lo si
poteva anche dire un bel ragazzo.



VI.


I Bollati avevano poderi in più parti del Veneto, ma la loro villa
signorile era posta sulla Brenta, ed essi andavano a passarvi alcune
settimane della primavera e dell'autunno. Vi andavano per tradizione,
per non rimanere a Venezia quando non c'era nessuno, ma quel soggiorno
campestre non aveva per loro la minima attrattiva, come non può averne
per quelli che portano in campagna i gusti e le abitudini della città.
Già per la contessa Chiaretta era un affar di stato il solo tragitto da
Venezia a Fusina, e prima di avventurarvisi ella consultava una dozzina
di volte l'aspetto del cielo e il parere dei gondolieri esperti nelle
cose meteorologiche. Quando non c'era neanche una nuvola, quando non
spirava un fiato di vento, quando i barcaiuoli erano d'accordo nel
pronosticar la durata del bel tempo, quando a Sua Eccellenza non doleva
un callo (ciò ch'era per lei un sintomo infallibile di cambiamenti
atmosferici), quando non era nè martedì, nè venerdì, allora
s'intraprendeva finalmente il gran viaggio. Partiva prima la gente di
servizio coi bagagli (parevano le salmerie d'un esercito), poi venivano
i padroni in due gondole, portandosi, fra l'altre cose, un gatto
favorito dentro un paniere. A Fusina si trovavano le carrozze pronte e
la comitiva si avviava verso la Mira. E anche qui S. E. Chiaretta era in
preda a notevoli trepidazioni.--_Le bestie son bestie_--ella diceva
saviamente,--ed è sempre un miracolo quando non ne fanno di
grosse.--Cosicchè ella sottoponeva il cocchiere a un interrogatorio in
piena regola.--Era proprio sicuro dei cavalli? Non aveva mica dato loro
troppa biada? E le ruote della carrozza le aveva esaminate bene? Non si
sa mai; si senton tante disgrazie.... Adagio.... Era inutile di correre
in quella maniera.

Basta; presto o tardi s'arrivava, e il fattore, il giardiniere e il
gastaldo venivano a baciar la mano ai padroni. La contessa Chiaretta,
tutta intontita dal viaggio, si ritirava prestissimo nel suo
appartamento, e per quel giorno non discendeva nemmeno a desinare, ma si
faceva servire un brodo in camera da letto. Nè è a credere che nei
giorni successivi ella uscisse frequentemente in giardino o facesse
delle gite nelle vicinanze; tutt'altro; gran parte della giornata ella
la passava in un gabinetto con le imposte accostate per non lasciar
entrare il sole, coi vetri chiusi per non lasciar entrare le mosche e la
polvere; e soltanto a ora di colazione e di pranzo si trascinava a gran
fatica fino in tinello, dicendo che non aveva fame e che non capiva come
ci fosse della gente che poteva trovarsi bene fuori di città. La sera
però, quand'erano accesi i lumi, quando capitavano l'arciprete, il
cappellano, il medico condotto e qualche villeggiante per il tresette,
la fronte di S. E. si spianava un poco, ed ella si abbandonava un poco
alla dolce illusione d'essere nel salottino del suo palazzo di Venezia.
E poichè le seccava di andare a letto presto, essa costringeva quei
poveri diavoli a farle compagnia fino a mezzanotte, e li teneva
svegliati a forza di tazze di caffè.

Il conte Zaccaria, in fondo, aveva per la campagna la stessa passione di
sua moglie, ma non voleva dirlo, e si dava l'aria d'intendersene di
agricoltura, e ne sballava di grosse col fattore e col gastaldo, i
quali, pur mostrando di ascoltarlo con deferenza, si prendevano gioco di
lui. Il peggio si era che di tratto in tratto egli non si contentava
delle chiacchiere accademiche, ma s'impuntava a ordinar sui suoi fondi
dell'esperienze in _corpore vili_ e sciupava il tempo e i quattrini.

In quanto al contino Leonardo, egli avrebbe assai volentieri fatto senza
della villeggiatura. Egli trovava che i ranocchi, le cicale, le
lucertole valevan meno dei granchi e che la carrozza valeva meno della
gondola. A far lunghe passeggiate non ci aveva gusto; l'imparar a guidar
delle bestie gli pareva ignobile, e l'equitazione gli era venuta in
uggia dopo che un cavallo lo aveva gettato a gambe levate sopra un
mucchio di ghiaia. Sicchè, tutto sommato, s'annoiava mortalmente; tanto
più che, cosa abbastanza singolare, in campagna aveva meno libertà di
quella che avesse in Venezia. A Venezia andava in gondola anche solo
affatto, e quand'egli riusciva a scender nell'entratura e recarsi presso
alla _riva_, era sicuro di non esser molestato più.--Sarà con
qualcheduno dei barcaiuoli,--dicevano in famiglia, e nessuno aveva altro
da soggiungere, e don Luigi era esonerato dall'obbligo d'invigilare sul
suo pupillo. In campagna invece don Luigi doveva seguire il contino
dappertutto, e badare ch'egli non andasse sotto una carrozza, o non
fosse morsicato dai cani idrofobi, o non isdrucciolasse giù nella
Brenta.--Con l'acqua dolce non si scherza--sentenziava S. E. Zaccaria.

Don Luigi, a tener dietro a S. E. Leonardo, non ne poteva più, e alla
fine della giornata aveva l'aria d'uno di quei cani che per ore e ore
inseguono la selvaggina, e alla sera si accovacciano sul vestibolo
ansanti e con la lingua penzoloni. Onde, se gli riusciva di sgattaiolar
via con la scusa di qualche indisposizione appena faceva notte, correva
a rifugiarsi nella sua camera, e si cacciava sotto le coperte,
maledicendo al destino che costringeva lui, un uomo di tanto merito, a
sciupar la sua vita con un ragazzo balordo e maleducato. Ma
ordinariamente non gli era concessa neppur questa consolazione, perchè
S. E. Chiaretta, che aveva sempre bisogno di seccar qualcheduno e
trovava assai comodo di seccare di preferenza il prete di casa, lo
sforzava spesso a rimanere alzato per fare il quarto a tresette in un
tavolino o per leggerle la _Gazzetta_ fino a che le venisse sonno. Già
ell'aveva dichiarato che alle sue indisposizioni non credeva punto, e
che a ogni modo non poteva permettere ai suoi dipendenti di darsi il
lusso dell'emicrania e del mal di nervi.

Per don Luigi era meglio che ci fossero ospiti in quantità. E infatti ne
capitavano ogni autunno, ed erano, qual più qual meno, tipi di parassiti
spiantati e famelici.

Uno degli assidui era il nobiluomo Pietro Canziani, dell'ordine dei
segretari, poeta sprositato, autore di madrigali galanti in lode della
contessa Chiaretta, la quale si ostinava a chiamar _sonetti_ tutti i
componimenti di vario metro che il suo devoto e maturo adoratore le
dedicava. Il signor Barnaba Sughillo, impiegato di contabilità, nel fare
il suo giro per le varie villeggiature sulla Brenta, non dimenticava i
Bollati, e intratteneva anche loro co' suoi giuochi di prestigio e con
la sua prodigiosa abilità nell'imitare il canto degli uccelli, meriti
che gli avevano procurato il benigno compatimento delle famiglie
patrizie. Nè mancava, sebbene non invitata, la contessa Ficcanaso, la
quale, dichiarando di non poter stare a lungo senza vedere i suoi
dilettissimi amici, veniva a stabilirsi in casa loro per un paio di
settimane almeno. Ella veniva con uno scarso bagaglio di biancheria, ma
con una ricca collezione di pettegolezzi, che le facevano perdonar dai
padroni l'uggia della sua visita. Nascite, morti, matrimoni, scandali
aristocratici e borghesi, arrivi e partenze di forestieri, promozioni e
traslochi d'impiegati, tutto aveva un posto nella cronaca della contessa
Ficcanaso, e Sua Eccellenza Chiaretta, tra uno sbadiglio e l'altro,
pendeva dalla sua inesauribile parlantina. Gli scandali l'attraevano in
ispecial modo, come accade a molte donne oneste, che sono piene di
curiosità patologiche. E di S. E. Chiaretta, fosse virtù vera, o
freddezza, o salute cagionevole, o mancanza di occasioni, non si poteva
davvero dir nulla.

I Rialdi poi, l'ho già detto, facevano in villa Bollati la permanenza
più lunga possibile. Certo che talvolta, pur di rimanere, dovevano ceder
la loro stanza e contentarsi dei peggiori bugigattoli della casa. Ma se
ne contentavano perchè la contessa Zanze voleva far economia, il conte
Luca aveva bisogno d'una boccata d'aria libera dopo le fatiche
dell'impiego, e Fortunata non riprendeva un po' di colore che quand'era
in campagna. Il solo Gasparo preferiva di passare in collegio anche le
vacanze.

Gli ospiti di minor riguardo erano vittime del lugubre buon umore di S.
E. il conte Zaccaria. Così il nobile Canziani, il signor Sughillo, la
contessa Ficcanaso, i Rialdi avevano di tratto in tratto la compiacenza
d'esser svegliati prima di giorno da un gallo nascosto in un canterale,
o di trovar sparsa l'assafetida sulle lenzuola, o di sentirsi nel cuor
della notte strappar via le coperte che erano state insidiosamente
legate a una cordicella di cui uno dei capi era fuori della stanza.
Quando la burla passava la misura--Ah,--borbottava la contessa Zanze al
marito,--se foste almeno nell'amministrazione!

Il conte Luca si stringeva nelle spalle. Gli scherzi del cugino Zaccaria
non gli turbavano la digestione, a lui non pareva vero di poter mangiar
bene tutti i sette giorni della settimana e di dare qualche capatina
furtiva in cucina per assaporare prima del tempo i ghiotti manicaretti
apprestati dal signor Oreste. Inoltre, poichè _non de solo pane vivit
homo_, il nostro conte Luca aveva, in quel periodo della villeggiatura,
delle insigni soddisfazioni d'amor proprio. Al caffè della Mira non
c'era nessuno che gli tenesse testa agli scacchi. Perciò, sia ch'egli
giocasse, sia ch'egli assistesse alle partite d'altri giocatori, egli
trovava, al cospetto della scacchiera, un brio e una loquacità
inesauribile, ed esilarava la compagnia con certi sali attici d'ottimo
gusto, come: _Fiat lux, faccia lui._--_Veda lei che ha quegli occhi così
bei._--_Tacete su quegli olmi, o passeri inquieti._--_Pur che il reo non
si salvi i giusto_ POMI (garbatissima variante al verso del Tasso).--_Tu
taci Solimano e a nulla pensi._--_Fermi là e nessun si muova_--e altre
spiritosaggini simili.

Di Fortunata non si discorre neanche. Ella si lasciava cucinare in tutte
le salse, e i capricci dei cugino erano altrettante leggi per lei.
Leonardo, il quale non voleva intorno a sè che persone sommesse, stava
appunto con Fortunata, con la Rosa nipote del gastaldo, chiamata per
vezzeggiativo Rosetta, e con tre o quattro ragazzi di contadini, ch'egli
pigliava a scappellotti se si mostravano recalcitranti ai suoi ordini.
Ma già la Fortunata e la Rosetta erano le sue favorite. Con loro
deludeva spesso la vigilanza del precettore, e s'inzaccherava nei fossi,
o si ravvoltolava sui mucchi di fieno, o andava a zonzo pei campi
sgranellando i grappoli d'uva lungo le viti. Ora, per un gran tempo, la
Fortunata e la Rosetta, ch'erano quasi coetanee, procedettero d'amore e
d'accordo, senza ombra di gelosia, chè la Rosetta riconosceva la sua
inferiorità di fronte all'altra, la quale, per quanto spiantata, era
sempre una damina. Ma in quell'autunno 1838 il contino Leonardo, che
sentiva ormai le prime inquietudini dell'adolescenza, si divertì a
prendere verso le due ragazze un atteggiamento di sultano fra le
odalische, e accordando ora una preferenza a questa, ora a quella, fece
sorger tra loro una specie di rivalità. Sicchè esse finirono col non
potersi soffrire, e Fortunata, che pur adorava la campagna, vide con
piacere la villeggiatura giungere al suo termine. A Venezia, ella
pensava, le cose torneranno come erano prima, e quella pettegola della
Rosetta non farà più le sue smorfie.

Quest'era vero, ma Fortunata errava grandemente nel credere che, levata
di mezzo, almeno per qualche tempo, la Rosetta, il cugino Leonardo non
avrebbe avuto altri grilli pel capo. Invece, giunto in città, Leonardo
mostrò di aver progredito in pochi mesi in malizia più di quello che in
molti anni non avesse progredito nell'ortografia, e Fortunata non gli
pareva che una bimba insipida con la quale non c'era sugo a perdere il
tempo.

Le tribolazioni di don Luigi in questa fase critica del suo allievo non
si possono descrivere. Quand'egli usciva a passeggio col contino, costui
guardava le donne in una maniera così sguaiata, così provocante, si
lasciava sfuggir di bocca delle esclamazioni così ardite che il povero
sacerdote avrebbe desiderato d'esser mille miglia sotterra, tanto se ne
vergognava. E borbottava fra i denti:--Anime sante del Purgatorio! Che
cosa mi tocca!

Finalmente don Luigi dichiarò che proprio egli non si sentiva in grado
d'andar più fuori di casa solo col contino, perchè, lasciando stare il
resto, egli non poteva nè tenerlo per le falde del vestito, nè corrergli
dietro quando il ragazzo s'impuntava a seguir le serve, o le crestaine,
o.... c'intendiamo.... chè già un paio di volte i monelli gli avevan
dato la baja, a lui sacerdote per bene, e avevan fatto sul suo conto chi
sa che razza di supposizioni offensive.

Il conte Zaccaria accolse con filosofica serenità questi avvertimenti, e
disse che riconosceva in suo figlio il sangue dei Bollati. I Bollati
erano stati sempre così, e poco più d'un secolo addietro il nobiluomo
Giuseppe Antonio era fuggito a quattordici anni con una cameriera.
Effetti del sangue.

Nondimeno per vigilar meglio sul suo chiaro rampollo, il conte Zaccaria
deliberò di affidarlo meno alle cure del precettore e di condurlo più
spesso con sè, al caffè Suttil di giorno, al teatro la Fenice la sera,
quando c'era spettacolo o c'erano prove. Poichè il conte Zaccaria ch'era
uno dei presidenti, aveva libero accesso anche al palcoscenico. In quel
recinto sacro alle Muse il contino Leonardo trovò subito oneste e liete
accoglienze, soprattutto dal corpo di ballo. Infatti le pudiche allieve
di Tersicore avevano troppa stima del conte Zaccaria da non far buon
viso al suo nobile erede, il quale mostrava le migliori disposizioni a
seguir gli esempi paterni. Il contino Leonardo, dal canto suo, si
pavoneggiava molto di queste sue nuove conoscenze, e quand'era in palco
con sua madre nominava a una a una le vaghe giovinette di rango francese
o italiano che volteggiavano sulla scena in vestito succinto.

E se la contessa Chiaretta si sgomentava delle inclinazioni libertine
del figliuolo e manifestava dei timori al marito, questi tirava in campo
la solita scusa del sangue caldo dei Bollati, e soggiungeva:--Ci
vogliono le valvole di sicurezza, ci vogliono. Se no la macchina
scoppia.



VII.


La savia massima paterna non rimase infeconda, e a sedici anni appena il
contino Leonardo cominciò ad applicar largamente il sistema delle
valvole di sicurezza. La prima di queste valvole si chiamava Candida, e
occupava un posto onorifico tra le Greche del ballo spettacoloso, _La
caduta di Missolungi_. Senonchè, finita la stagione della Fenice, la
Candida prese il volo per altri lidi e le successe una Olimpia ascritta
tra le _Scozzesi_ di una _Lucia di Lammermoor_ che si rappresentava al
teatro S. Benedetto. L'Olimpia non durò un pezzo neppur lei, e le tenne
dietro una Serafina, _virtuosa_ di canto, che, insieme con molte altre
cose, aveva perduto la voce. Nè con la Serafina, è inutile il dirlo, si
chiuse il ciclo romantico del nostro giovinetto. Giova bensì notare come
queste frequenti conquiste asciugassero le tasche del contino Leonardo,
il quale non riceveva dal signor padre che un modesto peculio mensile.
In questa critica condizione di cose il nostro Leonardo trovò
un'assistenza impreveduta nell'ottimo signor Oreste, il cuoco, uomo
danaroso e liberalissimo, sovventore magnanimo di piccoli bottegai e
merciaiuoli ambulanti con cui egli teneva conto corrente al mite saggio
dell'un per cento alla settimana. Trattandosi ora di levar d'impiccio il
padroncino, era naturale ch'egli fosse pronto a dare, nonchè i
quattrini, anche il sangue. Onde, in quel modo delicato che rende più
preziose le offerte, il signor Oreste mise la sua cassa a disposizione
del contino Leonardo, ritirandone di volta in volta delle cambialette
rinnovabili ogni anno fino al momento in cui il giovane divenisse
maggiore. S. E. Zaccaria, che ignorava ogni cosa, potè intanto cullarsi
nella dolce illusione che il figliuolo sapesse far baldoria e spenderne
pochini, ciò che non sapevano altri giovani del patriziato.

Il sagace lettore non troverà punto strano che il contino Leonardo,
entrato ormai in dimestichezza con le Candide, le Olimpie e le Serafine,
guardasse con un sorriso di compassione tutte le femmine le quali non
appartenevano a quella casta rispettabile. Fortunata divorava in
silenzio il suo dolore pel mutato atteggiamento del cugino verso di lei,
ma la contessa Zanze non sapeva dominar la sua stizza, e le accadeva
sovente di tirar giù a campane doppie contro i Bollati, ch'erano
stupidi, ignoranti, vanitosi, villani, egoisti, e lasciavano crescere
come l'erba matta il solo maschio che avessero.--Già--ella diceva--per
poco che quello sbarazzino continui la vita che fa, egli crepa
sicuramente.... E sarà quello che si merita--ella soggiungeva urlando
come un'ossessa e dimenticandosi per un momento l'idea da lei
vagheggiata di avere il contino Leonardo per genero.

Gasparo Rialdi trionfava, vedendo di non esser più il solo della
famiglia ad avere in uggia il giovane Bollati. E quando gli toccò
d'imbarcarsi, perch'egli era ormai cadetto di marina e doveva andar con
la squadra in Levante, egli prese da parte la sorella e le disse con
maggior dolcezza dell'ordinario:--Credilo, sorelluccia mia, io me ne
vado più contento sapendo che tu bazzichi meno con Leonardo....
Quell'intimità non m'era piaciuta mai, e sarai persuasa che non avevo
torto. Leonardo è stato da piccolo in su un monellaccio e nient'altro, e
adesso che da un anno in qua fa a modo suo, è uno dei più scapestrati
che vi siano in paese. Tu non sei una bimba, hai quasi quindici anni, e
a quindici anni una giovinetta deve guardar bene a chi accorda la sua
confidenza e le sue preferenze.... Capisco che noi non possiamo troncar
le nostre relazioni coi Bollati; il babbo e la mamma non lo vorrebbero,
e forse avranno ragione, forse è vero che ci conviene usar dei riguardi
a quei nostri parenti.... abbiamo, pur troppo, delle obbligazioni con
loro.... Ma un giorno, se la fortuna m'aiuta!... Intanto sta in
guardia, e soprattutto non curarti di Leonardo... Son meglio i suoi
disprezzi che le sue carezze.--Le parole di Gasparo erano per Fortunata
tante punture di spillo. Ella non osava contraddirlo, si sentiva piccina
piccina di fronte a lui; ma egli era troppo impetuoso, troppo violento,
troppo assoluto da potersele insinuare nell'animo, da poter sradicarne
le simpatie segrete coltivate con lungo amore. Poichè non è mica vero
sempre che i forti trascinino i deboli; la bufera che abbatte la quercia
passa talvolta sul gracile stelo senza far altro che piegarne la cima. A
veder suo fratello così accanito contro Leonardo, ella, pur riconoscendo
i torti di costui, aveva come la coscienza d'un'ingiustizia, di una
persecuzione della quale ell'era muta e impassibile testimonio. Le
pareva che sarebbe convenuto tener modi diversi, usar la dolcezza,
cercar con le ammonizioni e i consigli di ricondurre il traviato sul
retto sentiero, e avrebbe dato dieci anni della sua vita per saper far
lei quello che non sapevano o non volevano fare gli altri. Così Gasparo,
con tutta la sua perspicacia, s'era affrettato troppo a rallegrarsi
della scemata intrinsichezza di sua sorella con Leonardo Bollati.
Sicuro, le apparenze gli davano ragione, e Fortunata si trovava di rado
a quattr'occhi col cugino, ma chi le fosse disceso in fondo al cuore
avrebbe visto che i nodi che la stringevano a lui, anzichè rallentarsi,
accennavano a diventare più saldi e indissolubili.--Non sei una
bimba--le aveva detto Gasparo, ed era vero. E appunto per questo
riusciva meno facile a lei stessa di raccapezzarsi in quel tumulto di
sentimenti nuovi e di nuovi pensieri che l'agitavano. Ciò ch'ella
provava per Leonardo Bollati non era l'affetto uguale, ingenuo e devoto
dei primi anni; era a volte un'attrattiva invincibile, a volte una
strana ripulsione; ond'ella ora lo cercava ed ora lo sfuggiva, ma sia
che lo cercasse o lo sfuggisse, non sapeva staccare il pensiero da lui.

Dei genitori vigili, intelligenti, avrebbero avvertito il pericolo e
cercato di ripararvi in tempo, ma il conte Luca era un uomo nullo che
aveva abdicato in favore della moglie, e la contessa Zanze, sebbene non
fosse una sciocca, non era nata per capir certe cose, e aveva poi uno
spirito singolarmente sconclusionato. Dimodochè, dopo aver dipinto
Leonardo con le tinte più fosche, dopo avergli pronosticato ogni specie
di malanni, ella mutava a un tratto registro e tornava a far castelli in
aria e ad almanaccare sulla possibilità che sua figlia entrasse in casa
Bollati e ch'ella, Zanze Rialdi, divenisse un giorno la suocera
dell'erede di un gran nome e di un gran patrimonio. Inoltre, anche nei
momenti in cui ell'era meno disposta alle illusioni, ell'avrebbe riso in
faccia a chi fosse venuto a dirle che il solo mezzo efficace di salvar
Fortunata dalle amarezze e dai disinganni era quello di non frequentar
troppo i Bollati, di non mantener con essi che le relazioni strettamente
necessarie. Colmarli di contumelie quand'essi non potevano sentirla,
era, per la contessa Zanze, la cosa più naturale del mondo, ma perdere i
vantaggi d'una parentela simile le sarebbe parso un delitto verso sè
stessa e verso la propria famiglia. Ah, in verità non c'era che lei che
avesse un po' di sale in zucca! Suo marito era un bamboccio, Gasparo,
con tutto il suo ingegno, non sapeva il viver del mondo, e Fortunata era
una buona diavola, ma prendeva di tratto in tratto certi atteggiamenti
di vittima ch'erano molto noiosi. Adesso ell'aveva l'aria di fare una
grazia ad andar l'autunno in campagna, come se si potesse rinunziare a
un sistema che, senza contare il benefizio fisico, permetteva di chiuder
la casa e di raggranellar quattro soldi per l'inverno.

La ragione, per la quale Fortunata andava mal volentieri in villa
Bollati, non è difficile a immaginarsi. Il contino Leonardo, si curava
poco di lei e si curava troppo della nipote del gastaldo, la Rosetta,
che in brevissimo tempo s'era fatta una bella ragazza. Vispa,
civettuola, la Rosetta sapeva di piacere e si divertiva a lasciarsi
corteggiare, per rider dei gonzi, diceva lei, giacchè non era così
grulla da innamorarsi a spese della salute e del buon umore, e in quanto
al prender marito non c'era furia, chè un marito è un tiranno e
nient'altro. A ogni modo, di mariti c'era abbondanza; bastava volere.
Per ora preferiva spassarsela, e d'autunno quando i padroni erano in
villa accettava di buon animo gli omaggi del conte Leonardo, certa di
far arrabbiare le sue carissime amiche e di suscitar la gelosia dei
bellimbusti del paese. Perciò ella non aveva nessun riguardo a lasciarsi
vedere con Leonardo per le strade maestre e a scambiar la domenica in
chiesa occhiate e sorrisi con lui. Che se anche le _amiche_ e i galanti
si vendicavano col tener sul suo conto ogni specie di discorsi e
coll'esagerare l'importanza della tresca, ella si stringeva nelle
spalle, tant'era sicura che al finir dell'autunno i galanti sarebbero
tornati ai suoi piedi, docili come cagnolini. Delle _amiche_ poi non si
dava pensiero; chiuder loro la bocca era impresa impossibile.

La Rosetta, come si vede, sfidava la cosidetta opinione pubblica per
vanità, poichè questa sua vanità non sarebbe stata soddisfatta se la
gente non avesse saputo che il contino Bollati spasimava per lei. Ma
dove la vanità non era in giuoco ell'era invece prudentissima, e
Leonardo non riusciva a indurla nè a passeggiate in luoghi solitari, nè
a furtivi colloqui di sera. Anzi quand'egli era troppo insistente, la
ragazza fingeva di corrucciarsi e lo sfuggiva per più giorni di seguito.
Già i pretesti non le mancavano; o doveva attendere alla cascina, o
aveva da lavorar di cucito per lo zio e i cuginetti. Allora Leonardo si
sfogava con Fortunata e diceva che la Rosetta era la più civetta di
tutte le tose ch'egli aveva conosciuto, e ch'ella s'ingannava a partito
se credeva di far colpo sopra di lui con quelle sue bizze da
principessa. C'era proprio pericolo ch'egli la prendesse sul serio! Ma
queste confidenze non davano un gran conforto a Fortunata, che, di lì a
qualche giorno, vedeva Leonardo più sommesso di prima alla capricciosa
contadinotta.

Era impossibile che in casa non s'accorgessero di questa tresca, e
seppur non se ne fossero accorti, la contessa Zanze si sarebbe assunta
la briga di spargerne la notizia. Ella n'era scandalizzatissima, e non
risparmiava fatiche per risvegliare il senso morale del conte Zaccaria e
della contessa Chiaretta e per indurli a far valere la loro autorità
prima che accadesse una catastrofe. Ma quelli non se ne davano per
intesi. O che toccava a loro di vigilare sul prezioso onore d'una
villana?

E se dobbiamo esser sinceri, quegli a cui spettava anzitutto
quest'ufficio delicato era il gastaldo, zio della Rosetta, volpe
vecchia, il quale lasciava correre, sia che si fidasse della furberia
della nipote, sia che non volesse disgustare il giovane conte, e in ogni
evento, sperasse di tirar l'acqua al suo molino.

L'ultimo rifugio della contessa Zanze era don Luigi. O che aveva gli
occhi foderati di prosciutto? O che non sentiva il debito sacrosanto di
alzar la voce, e di sottrarre alla perdizione il suo allievo?

Povero don Luigi! Che ci poteva lui? Non la capivano ancora ch'egli non
era più il precettore? Era il cappellano della famiglia, era una specie
di mastro di casa; ma il precettore no. E su certi argomenti non aveva
diritto di entrare... fuori che nella confessione.... Allora le sue
ragioni sapeva dirle e non aveva bisogno delle lezioni di nessuno, come
non intendeva render conti a nessuno.... E poi perchè venivano a
discorrergli di tresche scandalose?... Credevano che un sacerdote non
avesse da far di meglio che spiare i passi di due monelli senza
giudizio?

--Bei ministri di Dio!--borbottava la contessa Zanze riferendo al marito
questi colloqui.--Bei ministri del Vangelo! Si lavano le mani come
Ponzio Pilato.

--E perchè non ve le lavate anche voi le mani?--rimbeccava il conte
Luca.--Siete un ministro di Dio, voi! Andate proprio a cercarli col
lumicino i fastidi? Che può importarvi di ciò che passa tra Leonardo e
la Rosetta? Per la Vergine santissima, lasciate che si sbrighino loro e
non ve ne impicciate. Tanto, a voi non ne va e non ne viene. Mi spiego?

E il pacifico uomo tornava al caffè a giuocare ai suoi scacchi.



VIII.


Forse il conte Luca aveva ragione a voler mantenere una politica di
assoluta neutralità, ma, d'altra parte, la contessa Zanze non aveva
torto nel presagire che quest'intrigo del contino Leonardo e della
Rosetta sarebbe andato a finir male. Era una cosa troppo lunga, e, come
dice il proverbio, le cose lunghe diventan serpi. In città, Leonardo
aveva mille distrazioni che gl'impedivano di pensare alla nipote del
gastaldo, ma quand'era in campagna gli occhi bellissimi e il sorriso
affascinante della Rosetta esercitavano sopra di lui il solito impero.
Inoltre c'era ormai di mezzo anche un po' di puntiglio. Egli giurava e
spergiurava a sè medesimo di venirne a capo, di non voler essere
raggirato più a lungo da una contadina, di non voler più contentarsi
d'una carezza e d'un bacio a ogni morte di papa. Per la Madonna! Egli
non aveva mai avuto queste abitudini, e le Candide, le Olimpie e le
Serafine non lo avevano mai fatto sospirar tanto. Però questi propositi
risoluti del contino Leonardo si spuntavano contro le arti sopraffine
della ragazza, la quale pareva aver imparato la civetteria in una
capitale. Ella accettava i regalucci del suo spasimante, gli diceva di
volergli bene, accordava quello che non era possibile di negargli, ma in
quanto al resto, nemmen per sogno. Comunque sia, questa tattica era
piena di pericoli, ed era evidente che non poteva durare a lungo,
soprattutto, se, in mezzo ai tanti farfalloni che svolazzavano intorno
alla Rosa, fosse spuntato un pretendente serio. In verità il pretendente
serio tardò abbastanza a venire, e le buone amiche della Rosa si
tenevano sicure ch'esso non sarebbe venuto più, perchè, siamo giusti,
chi doveva sposare quella sguajata? C'era bensì un tal Menico, garzone
di caffè, povero di quattrini e di spirito, il quale dichiarava di
languir d'amore per lei e d'esser pronto a darle il suo nome, ma a
nessuno passava pel capo che la Rosetta si adattasse a sposar quello
zotico di cui ella era la prima a burlarsi, quantunque Menico fosse
sotto la protezione del gastaldo, ch'era suo santolo.

Per altro, allorchè Beppe Gualdi, il figlio dell'oste, finita la ferma
militare, tornò in paese e s'attaccò subito ai panni della ragazza, si
cominciò a susurrare nei crocchi che, se la Rosetta aveva giudizio, lo
sposo era bell'e accalappiato, perchè Beppe non era uomo da perdersi in
galanterie senza costrutto e aveva già detto di voler prendere moglie.
Naturalmente uno sciame di persone officiose, per la maggior parte
madri che avevano figliuole da marito e zitelle che cercavano un
collocamento, si diedero premura di metter sull'avviso il giovinotto,
informandolo di tutte le chiacchiere che correvano sul conto della
Rosetta. Era proprio peccato che un galantuomo cascasse in così cattive
mani. Ma Beppe troncò presto i discorsi, rispondendo che aveva ormai il
dente del giudizio e ch'era in grado di regolarsi da sè. Ai suoi intimi
poi diceva che le chiacchiere dei maligni non gli facevano nè caldo, nè
freddo, e che non si stupiva punto se la Rosetta aveva tante nemiche,
perch'era più bella e più vivace delle altre. Del resto egli era
disposto ad ammettere che le fosse piaciuto di farsi corteggiare anche
dal contino Leonardo, ma al suo posto tutte avrebbero fatto lo stesso. A
lui bastava che queste galanterie non avessero seguito, ed egli non
avrebbe certo domandato formalmente la mano della Rosetta finchè non si
fosse assicurato da sè che tra lei e il contino era troncata ogni
relazione.

La Rosetta non provava nessun entusiasmo per Beppe Gualdi, che aveva una
diecina d'anni più di lei, ma non voleva disgustarlo, nè darla vinta
alle sue rivali che gli tendevano le loro reti; inoltre, per aliena
ch'ella fosse dal matrimonio, non era poi così grulla da rinunziar
troppo leggermente a un buon partito. Onde si mostrava piena di
deferenza pel suo nuovo adoratore e rideva e scherzava con esso intorno
al contino Bollati, i cui stupidi omaggi, ella diceva, non avevano
servito che a tenerla di buon umore.

Il figlio dell'oste era ripatriato alla fine dell'inverno, mentre i
Bollati non erano in villa, ciò che sulle prime diede buon gioco alla
nostra civettuola. Le difficoltà vere dovevano affacciarsi più tardi,
nell'autunno, quando la Rosetta sarebbe stata messa al punto o di
decidersi per uno dei suoi due innamorati o di sfoggiare un'arte
maggiore del solito per corbellarli entrambi. Era anche fuor di dubbio
che allora tutti quelli che le volevano male sarebbero stati con tanto
d'occhi aperti per coglierla in fallo.

Ne venne di natural conseguenza che il contino Leonardo Bollati,
quell'anno, trovò la Rosetta notevolmente mutata, cosa che non poteva
accadergli in peggior momento, giacchè egli s'era impegnato con certi
suoi compagni di libertinaggio a non tornare a Venezia senz'aver vinto
l'ultime resistenze della capricciosa fanciulla. E a raggiungere meglio
il suo fine, egli s'era munito d'un anellino di brillanti il cui
splendore, a parer suo, era atto a trionfare di ben altre virtù
femminili che di quella della nipote del suo gastaldo.

Dinanzi agli ostacoli impreveduti che intralciavano la sua via, il
contino Leonardo, quantunque fosse un balordo, si condusse, per una
volta tanto, da uomo di spirito. Non andò in escandescenze, non perdette
il suo sangue freddo, ma non depose le armi e fidò nella fragilità
femminile.

C'era un'altra bellezza campagnuola che pretendeva contrastar la palma
alla Rosetta, e ch'era stata tra le più implacabili nel giudicarla. Il
giovine conte, che non s'era occupato mai di costei, cambiò tattica a un
tratto, le si avvicinò ripetutamente, le disse di quelle paroline che
suonano così dolci alle donne, solleticò insomma in tutti i modi la sua
vanità. Queste galanterie non rimasero segrete, chè la prima a non voler
che rimanessero tali era la persona alla quale esse erano fatte.
Figuriamoci s'ella poteva resistere al gusto di umiliare la Rosetta che
l'aveva per tanto tempo guardata d'alto in basso! E la Rosetta n'ebbe
una rabbia da non dirsi. Che Leonardo, disgustato dal suo eccessivo
riserbo, si curasse appena di lei, pazienza; ma ch'egli corteggiasse la
Filomena (era il nome della rivale) questo passava davvero ogni misura.
Solo a pensarci le veniva da piangere. E se la prendeva un po' con
tutti. Con la Filomena, s'intende; con Leonardo, ch'era volubile e di
pessimo gusto, con quel noiosissimo Beppe Gualdi che faceva il geloso,
con lei stessa che gli dava retta. Ah, se un giorno essa diventava sua
moglie, come gliel'avrebbe fatta pagare!

Intanto, una mattina, mentre il contino Leonardo tornava alla villa per
una scorciatoia, egli vide la Rosetta che pareva occupata a coglier
margherite sul ciglio del sentiero. Avrebbe voluto far lo spavaldo e
passare avanti, ma ell'era troppo bella, troppo procace in
quell'atteggiamento, col seno che quasi le traboccava dalla bustina, ed
egli sentì una ondata di sangue caldo salirsi alla testa.

--Buon giorno, Rosetta--egli disse fermandosi sui due piedi.

Ella finse una grande sorpresa, arrossì e lasciò cadere i fiorellini che
teneva in mano.

--Ti faccio paura?--ripigliò il giovane. E soggiunse più basso:--Come
sei bella stamattina! Meriti proprio il tuo nome; sei un bocciuolo di
rosa.

--Oh--ella rispose--la Filomena è molto più bella di me.

Il contino Leonardo si strinse nelle spalle.

--La Filomena non è degna neanche di baciar la terra su cui tu cammini.

La fisonomia della Rosetta s'illuminò dal piacere; nondimeno ella si
tenne in un certo riserbo:--A me dice così, a lei invece....

--O che credi sul serio ch'io sia invaghito della Filomena?

--To!!... Come se non lo credessero tutti quanti?...

--Tutti quanti credono male, quest'è la verità.... A ogni modo, che te
ne importa se hai la testa piena del tuo Beppe Gualdi?

La ragazza fece un gesto d'impazienza.

--Un brav'uomo--seguitò Leonardo--un po' maturo per te... ma dal momento
che gli vuoi bene....

--Che ne sa lei se gli voglio bene, o no?

--Oh bella! risponderò anch'io: tutti lo dicono.

--La gente chiacchiera per aprir la bocca.

--E allora perchè sei stata così cattiva con me quest'autunno?--incalzò
il contino passandole un braccio attraverso la vita.

Essa resisteva.--No, no, mi lasci.... Se qualcuno ci vede.

--Non c'è anima viva--replicò Leonardo. E, pronto ormai ad ogni più
ardita impresa, le stampò un bacione sul collo, mentre cercava di
spingerla fuori del sentiero, in un campo di grano turco, le cui canne
alte e fitte potevano essere un eccellente riparo contro gli sguardi
indiscreti.

Quantunque alla giovane ripugnasse l'idea di questa capitolazione
vergognosa, non si sa quel che sarebbe accaduto, se proprio fra le canne
del grano, a poca distanza dal luogo ove si trovavano i due giovani, non
si fosse inteso un improvviso fruscìo, come di persona che si aprisse
bruscamente il passaggio, forse per entrare, forse per uscire dal campo.
Pur non si vide nessuno e poteva esser benissimo un'illusione dei sensi.
Ma il momento buono era passato, e il timore d'essere scoperta ridonò
alla Rosetta il suo sangue freddo. Anche Leonardo divenne subito più
circospetto. Egli non aveva un'anima di leone, e non avrebbe voluto
tirarsi addosso la collera di Beppe Gualdi, ch'era uomo capace di non
guardare in faccia nemmeno a un'Eccellenza. Ottener la vittoria
senz'affrontare il pericolo, ecco il magnanimo ideale del nostro
valoroso contino.

Così Leonardo e la Rosetta si separarono di lì a poco non senza
promettersi che si sarebbero riveduti.

E si rividero in fatti più volte, ma sempre con infinite cautele e
sempre per brevissimi istanti. Però questa intimità avrebbe dato i suoi
frutti alla prima occasione propizia. Del resto, Beppe Gualdi non si
lasciò scappar con la Rosetta una parola che accennasse a qualche suo
sospetto, nè la Filomena fece a Leonardo alcuna scena di gelosia. Ne
venne una sicurezza fallace che doveva portar tristi effetti. Perchè i
due giovani che credevano aver delusa la vigilanza altrui erano invece
spiati a ogni passo. Il loro incontro presso al campo di frumentone
aveva avuto per testimonio un monello di dodic'anni, fratello della
Filomena, il quale raccoglieva alcune pannocchie cadute, e dileguandosi
non visto era corso subito ad avvertir sua sorella che la Rosetta s'era
lasciata dare un bacio dal _signorino_. La Filomena scattò come una
molla, e voleva fare uno scandalo, ma, riflettendoci meglio, pensò di
consultarsi con Beppe Gualdi, il quale non era uomo da sopportare in
pace una canzonatura di questa specie. Sulle prime Beppe fece alla
Filomena l'accoglienza che gl'innamorati fanno sempre a chi accusa
dinanzi a loro la persona a cui vogliono bene; poi, calmatosi alquanto,
le ordinò severamente di tacere e di lasciare a lui la briga di chiarir
quest'imbroglio. Guai a lei se si tradiva col contino Leonardo, guai. In
tal modo ella dissimulò per paura, egli dissimulò per calcolo e
provvide in maniera da esser informato per filo e per segno di tutto ciò
che Leonardo e la Rosetta facevano e architettavano. Egli godeva d'un
certo credito fra i terrazzani, era largo nello spendere, e gli era
facile trovar gente disposta a rendergli servizio. E poi, pare
impossibile, i servizi che la gente rende più volentieri son quelli coi
quali, giovando a qualcheduno, si può nuocere a qualchedun altro.
Insomma Beppe non tardò ad acquistare la certezza che la ragazza lo
ingannava, e vi fu anche chi gli riferì queste precise parole dette
dalla Rosa al contino per schermirsi da un abboccamento più intimo del
solito ch'egli le chiedeva con insistenza:--«Come devo fare se ho sempre
quel seccatore fra i piedi?»--Il seccatore era lui, Beppe Gualdi. Ah!
bisognava finirla e costringer quei due sfacciati a levarsi la maschera;
bisognava sorprenderli insieme in un luogo, in un'ora che non desse loro
mezzo di scampo. Perciò Beppe finse di dover andare a Padova per un
affare di suo padre, e disse alla Rosetta che sarebbe tornato soltanto
di lì a tre o quattro giorni. E s'assentò realmente, ma invece di andare
a Padova, si ridusse nella campagna d'un suo compare, poche miglia
distante, ad aspettarvi le notizie che gli sarebbero state date dagli
amici zelanti. Quelle notizie non si fecero attendere un pezzo. La sera
del giorno seguente a quello in cui Beppe era partito, Leonardo e la
Rosetta dovevano trovarsi nel chiosco chinese della villa Bollati, un
chiosco che non s'apriva mai e del quale il contino si era fatto dar la
chiave dal giardiniere. Secondo tutti gl'indizi, la Rosetta s'era
lasciata tentare dalla speranza d'un bel regalo. Ell'aveva avuto
l'imprudenza di dire alla figlia del maniscalco che le mostrava un
anellino di smalto regalatole dal fidanzato:--Oh lo smalto ci vuol poco
ad averlo.... Ma son poche quelle che possono avere i brillanti.--Sta a
vedere che tu ne hai--rimbeccò l'altra ironicamente. La Rosetta non
rispose, ma guardò la sua amica con una tale aria di commiserazione da
far intendere che l'averne dipendeva da lei.

Gli amici diedero a Beppe tutti questi particolari con maligna
compiacenza, ma quand'egli, il cui amore s'era convertito in odio, li
invitò ad aiutarlo per somministrare una buona lezione a quel libertino
del conte Leonardo, sorsero mille scrupoli e mille dubbi. Non c'era
ragione di mettersi in lotta coi Bollati; i signori, si sa, hanno per
loro la polizia, e gli stracci vanno sempre all'aria. Che Beppe
piantasse la Rosetta era troppo giusto, ma in quanto al contino era
meglio non occuparsene.

Però questi consigli non ebbero presa sull'animo risoluto del giovane. E
poichè nessuno volle venire con lui, egli solo, poco prima dell'ora
fissata pel ritrovo dei due amanti, s'introdusse per una siepe nella
villa Bollati, e si appiattò in una macchia di lauri a pochi passi dal
chiosco. Il contino Leonardo non istette molto a comparire, aperse con
la chiave la porticina del chiosco, accese un lanternino che spargeva
intorno una luce fioca, e poi si fermò sulla soglia ad aspettare. Di lì
a dieci minuti s'intese un suono di passi affrettati e leggeri, una voce
sommessa (la voce di Leonardo) disse:--_Avanti_;--una figura di donna
avviluppata in uno scialle rasentò la macchia di lauri ove Beppe s'era
appiattato, ed entrò rapidamente nel chiosco. Egli la lasciò entrare,
resistendo alla tentazione di gettarsele addosso e di stritolarla, ma,
quando la porticina fu chiusa, egli, vi si precipitò contro con impeto,
ne scompaginò con un colpo vigoroso il debole assito e piombò come un
fulmine fra la Rosetta e il suo damo. Non aveva seco armi di nessuna
specie e nemmeno un bastone; ma con pugni e calci bene assestati mandò
il contino a ruzzolar nell'erba, mentre teneva stretta pei polsi la
Rosetta e la colmava d'ogni sorta di vituperi. Le grida acutissime di S.
E. Leonardo misero a soqquadro la villa. I servi uscirono coi lumi, i
cani da guardia latrarono a piena gola scuotendo furiosamente la catena,
la contessa Chiaretta che giocava a tresette dimenticò di accusare la
_napoletana_ di spade, S. E. Zaccaria si fermò nel bel mezzo d'una
spropositata dissertazione agricola col fattore, gli ospiti
tramortirono, e Fortunata, pallidissima, si trascinò fino alla portiera
a vetri che dava sul giardino; poi, mancandole le gambe, dovette
appoggiarsi a uno degli stipiti per non cadere.

Intanto Beppe Gualdi, pago di aver conciato il rivale pel dì delle
feste, era riuscito a ripassare la siepe prima che i suoi inseguitori lo
raggiungessero, mentre che il contino Leonardo, raccolto dai servi tutto
pesto e sanguinolento, era trasportato a casa e deposto sopra un canapè.
Per fortuna c'era lì presente il dottore, il quale dichiarò che non
c'erano lesioni pericolose e fece le prime medicature. Anche la Rosetta,
pazza di terrore, era stata ricoverata in cucina dalla servitù.

Leonardo, ch'era un vigliacco, piangeva e urlava come un bambino. Solo
di tratto in tratto egli interrompeva le sue lamentazioni per
gridare:--Bisogna denunziarlo alla Polizia quel cane, bisogna farlo
condannare a morte.--E nel dir così digrignava i denti e agitava le
braccia con piglio minaccioso.



IX.


Il contino Leonardo risanò presto e Beppe Gualdi non ebbe a soffrire che
pochi giorni di carcere per soprusi e violenze, condanna che scandalizzò
molto, per la sua mitezza, la signora Chiaretta.--Ecco a che punto siamo
ridotti,--ella sospirava con don Luigi.--Un bifolco può metter le mani
addosso a un patrizio veneto senz'andar incontro a nulla di peggio che a
una settimana di prigione. Ormai, credetelo pure, anche i Governi sono
d'accordo coi carbonari.

Il sacerdote tentennava la testa.--Pur troppo, Eccellenza, tutto va
male, tutto è corrotto nei tempi moderni, il cuore, il cervello ed il
gusto.... specialmente da noi. In un paese dove un Manzoni può passare
per un grande scrittore non bisogna meravigliarsi di nulla.

Stabilita così la responsabilità indiretta di Alessandro Manzoni nelle
busse toccate dal contino Leonardo Bollati, don Luigi seguitava a
deplorare le infinite cause del, pervertimento degli animi, la mancanza
di religione, l'abbandono delle pratiche del culto, l'uso invalso in
tante famiglie di mangiare di grasso il venerdì e il sabato, ecc., ecc.

--E poi--soggiungeva la contessa--volete che non abbiano una cattiva
influenza quelle invenzioni del demonio che si succedono da pochi
anni?... Vapori di acqua e di terra, illuminazioni a gas e altre
porcherie simili.... Non hanno già cominciato a gettare un gran ponte
sulla laguna per unire Venezia alla terraferma?

Mentre che la contessa Chiaretta e il cappellano si querelavano in tal
maniera delle tristi condizioni dell'umanità, il conte Zaccaria era
occupato a negoziare un decoroso componimento.

Lo scandalo avvenuto nel chiosco chinese non avea soltanto fatto
tramontare ogni possibilità di matrimonio tra la Rosa e il nipote
dell'oste, ma aveva anche recato un colpo gravissimo alla riputazione
della ragazza.

Il gastaldo aveva sentito risvegliarsi a un tratto le sue viscere di
zio, e strappandosi i capelli per la disperazione era corso da S. E. il
conte Zaccaria a dirgli ch'egli era un uomo rovinato, che non avrebbe
potuto sopravvivere al disonore della famiglia, nè reggere al pensiero
che un colpo simile gli venisse da un nobil uomo Bollati. A chi la
mariterebbe adesso la sua nipote? Come risponderebbe ai fratelli della
ragazza, giovani impetuosi e maneschi, che lavoravano in Ungheria, ma
che sarebbero certo tornati in patria appena fosse giunta loro la
notizia dell'accaduto?

S. E. aveva molto ragionevolmente fatto notare al suo interlocutore
ch'egli aveva avuto torto di non accorgersi di quello di cui
s'accorgevano tutti, vale a dire che la Rosetta era un po' civettuola e
che egli doveva custodirla meglio di quel che non avesse fatto.

Ma il volpone non s'era dato per vinto. Sicuro, egli era stato una
bestia, sicuro, la Rosa era una fraschetta, ma egli aveva avuto sempre
tanta fiducia ne' suoi padroni! Quel contino Leonardo egli l'aveva
sempre considerato, salvo la debita riverenza, quale un figliuolo. Di
tutti avrebbe dubitato ma non di lui. E adesso, se quei ragazzi
tornavano a vedersi, come impedire che si riavvicinassero, come impedire
che la tresca ricominciasse?... Ah s'egli avesse potuto spedir la
Rosetta all'altro capo del mondo?... Se avesse potuto sposarla fuori di
paese?... Ma prima dello scandalo non c'era che da scegliere fra dieci a
dodici partiti oltre a Beppe Gualdi: invece dopo quella sera fatale
nessuno voleva più saperne.... Uno solo, forse, non aveva mutato idea,
Menico il caffettiere.... Quel monello lì era innamorato cotto della
Rosa e pareva sempre disposto a prendersela.... Ma come si fa? La Rosa
non aveva un soldo di dote, Menico non aveva neanche la camicia.... Si
doveva lasciarli morir di fame? In quanto a lui, il gastaldo, si sarebbe
levato il pane di bocca per dare quattro soldi alla nipote che gli era
stata raccomandata dal fratello al letto di morte, ma, quant'è vero
Iddio, era al verde, assolutamente al verde.... Anni cattivi, anni
cattivi, e S. E. lo sapeva meglio degli altri.

In ogni circostanza critica il conte Zaccaria ricorreva al consiglio ed
all'opera del suo agente generale. Quell'impagabile _sior_ Bortolo col
suo umore uguale, calmo, sereno, era l'uomo fatto apposta per appianare
i dissidi. Non che escludesse _a priori_ le liti. Quando la dignità
dell'illustre famiglia Bollati lo esigeva, egli sapeva tirarle in lungo
anche più della guerra di Troia, ma negli altri casi egli preferiva gli
accordi amichevoli. Ora, egli aveva un modo tutto suo d'intendere questa
dignità del casato. Se le liti potevano fruttare dei quattrini a lui,
egli diceva che bisognava litigare; se non potevano fruttargli nulla e
aveva invece da sperar qualche cosa dagli accordi, egli sosteneva con
altrettanta energia che bisognava venire a patti.

Fedele a questo sistema, egli suggerì a S. E. Zaccaria di far ponti
d'oro al matrimonio della Rosetta con Menico. La dignità del nome
Bollati imponeva di riparare alle conseguenze della leggerezza del
contino Leonardo, e poichè se ne offriva la propizia occasione era
debito sacrosanto di non lasciarselo sfuggire. Si desse una piccola
sommetta a Menico per aprire, come egli desiderava, un caffè nel vicino
paesetto di Oriago, e ch'egli si sposasse in santa pace la Rosa. E
_sior_ Bortolo tanto disse e tanto fece che il conte Zaccaria si
persuase al sacrifizio pecuniario che gli era richiesto. Già a trovar
il danaro ci pensava l'agente.

La ragazza, rendiamole giustizia, si mostrava molto restìa ad accettare
una simile soluzione, ma il gastaldo, questa volta, fece da zio e da
tutore sul serio, e dichiarò che s'ella non accondiscendeva al
matrimonio, egli l'avrebbe cacciata di casa. Non voleva, no, aver altri
fastidi per cagion sua.

Ond'ella dovette piegare il capo e rassegnarsi a queste nozze ridicole.
È inutile ripetere i commenti che se ne facevano sul luogo e la sorte
che si pronosticava a quel grullo di Menico. Costui però non se ne dava
per inteso, e tutto tronfio per la bellissima fidanzata, lasciava cantar
le cicale, mentre coi capitali di S. E. Zaccaria e sotto il patrocinio
di suo santolo e di _sior_ Bortolo si disponeva ad aprire nel villaggio
di Oriago la nuova bottega di caffè e liquori col titolo pomposo:
_All'Imperatore d'Austria_.

Dopo la sua ingloriosa avventura campestre, il contino Leonardo scivolò
ancora più basso sul lubrico pendìo del libertinaggio. Egli non aveva
ormai altra cura che questa e aveva abbandonato anche l'esercizio del
remo, ch'era stato la passione della sua infanzia. S'era poi emancipato
da ogni tutela e non andava nemmeno col suo signor padre al caffè
Suttil, trovando abbastanza noioso di sentir raccontare dai vetusti
avventori di quel caffè le galanterie di trenta o quarant'anni addietro.
Passava invece la sera e buona parte della giornata con altri giovanotti
della sua età e de' suoi gusti, amanti del bigliardo, del vino e delle
femmine. Quantunque avesse ogni tanto delle vampate di boria patrizia,
non era troppo rigido nella scelta dei compagni; fra questi suoi amici
ce n'erano di nobili, di quelli che, come lui, trascinavano nel fango un
nome storico, ma ce n'erano anche della media e della piccola borghesia;
ce n'erano infine di usciti dai bassi fondi della società, gente rotta a
ogni vizio e priva d'ogni pudore. Costoro vivevano alle spalle dei
camerati facendosi perdonare la viltà del parassitismo con viltà ancora
più grandi.

Al nostro Leonardo erano insufficienti adesso, nonchè i pochi quattrini
datigli dal padre al primo del mese, anche le generose sovvenzioni del
signor Oreste, ed egli doveva ricorrere ai peggiori strozzini della
città per aver danari a babbo morto. Si può immaginarsi a che condizioni
li aveva. Il signor Oreste, che, nella sua qualità di creditore, teneva
d'occhio il padroncino ed era sempre informato dei fatti suoi,
brontolava a vederlo caricarsi di debiti verso altre persone e
minacciava di parlare, tantochè, per tenerlo quieto, conveniva pagargli
di tratto in tratto degli acconti che falcidiavano le somme ricevute a
prestito, e per conseguenza rendevano necessarii de' prestiti nuovi.

È ben raro che simili cose restino segrete, e il conte Zaccaria fu
avvertito che circolavano delle cambiali con la firma di suo figlio.
Vissuto sino allora nella dolce illusione che il contino Leonardo
avesse l'arte di divertirsi a buon mercato, Sua Eccellenza rimase di
stucco all'inatteso annunzio, e dovette mettersi a letto per un travaso
di bile. La particolarità delle cambiali era quella che l'offendeva di
più; debiti ne aveva fatti anche lui in giovinezza, e pur troppo ne
faceva ancora sotto forma di mutui, ma le cambiali le lasciava ai
mercanti. O che il nome di un Bollati doveva figurare a fianco di quello
d'un salumaio?

Il N. H. Zaccaria chiamò a consulto _sior_ Bortolo e l'avvocato di casa,
chiamò _ad audiendum verbum_ il suo nobile rampollo e con uno slancio
d'insolita energia gl'intimò di dargli la nota precisa dei suoi
creditori e della somma che doveva a ciascuno. Ma il contino Leonardo
non era in grado di fornirgli quest'utile informazione; chè non s'era
mai curato di tenere un registro. Aveva sottoscritto le cambiali; che
importava il resto?

A questo proposito l'agente generale e l'avvocato osservarono
concordemente che le obbligazioni assunte dal contino Leonardo, ancor
minorenne, non avevano effetto legale e potevano quindi non
riconoscersi; però il conte Zaccaria, frivolo, dissoluto, improvvido
com'era, conservava qualche buona qualità e ci teneva, a suo modo,
all'onor del casato, nè volle saperne della scappatoia che gli era
offerta. In conseguenza di ciò, tutti quelli che avevano delle ragioni
da far valere verso S. E. il signor contino Leonardo Bollati P. V.
furono invitati a recarsi entro un dato termine nei mezzanini del
palazzo e a presentare i loro titoli al signor Bortolo Segugi, agente
generale della nobile famiglia. Trascorso infruttuosamente il termine
stabilito si approfitterebbe dei diritti concessi dalla legge
relativamente ai debiti dei minori e non si accoglierebbe nessuna
domanda, come si dichiarava fin d'ora di respingere in avvenire
qualunque pretesa relativa a fatti posteriori alla data di quell'avviso.

L'intimazione sortì in parte soltanto il suo effetto; i creditori più
timidi risposero all'appello, e preferendo il certo all'incerto, scesero
volentieri agli accordi; gli altri invece, più avidi di guadagno, più
fiduciosi nella fortuna dei Bollati, stimarono meglio di correre il
rischio e di continuar anzi a sovvenire il giovane Leonardo per
rimborsarsi poi del capitale e degli interessi quand'egli fosse venuto
in possesso del patrimonio. Il conte Zaccaria era già innanzi negli anni
e non era un colosso; non sarebbe mica vissuto eterno. Anche il cuoco,
il signor Oreste, dopo molte esitazioni finì coll'appigliarsi a questo
partito. A voler figurare tra i creditori del padroncino egli metteva a
repentaglio il suo posto, e quel posto era troppo lucroso da giocarlo
sopra una carta.

Durante queste peripezie dei loro nobili congiunti, i Rialdi stavano
sempre nell'ombra. Nessuno si curava di loro, nessuno chiedeva il loro
parere; tutt'al più la querula contessa Chiaretta ripeteva alla cugina
Zanze e alla Fortunata gli sproloqui ch'essa soleva fare due volte al
giorno con don Luigi. Erano variazioni su un unico motivo. Il mondo
andava a rotoli per l'audacia dei carbonari e per la debolezza dei
Governi. Quest'era la ragione per la quale il contino era stato
picchiato dal figlio dell'oste, quest'era la ragione per cui egli era
caduto in mano degli usurai. Non c'era che dire, i suoi difetti egli li
aveva pur troppo, e la contessa Chiaretta, altrettanto energica nel
linguaggio quanto fiacca e nulla nell'azione, ammetteva lei per la prima
che Leonardo era uno scioperato, un vizioso, un uomo ch'ella non si
stupirebbe di veder finire sul patibolo, ma, alla stretta dei conti, di
chi era la colpa? Dei carbonari, dei frammassoni e dei loro acoliti.
Senza di questa brutta genìa, la vecchia Repubblica sarebbe ancora in
piedi, e Leonardo farebbe quello che facevano i suoi nonni, e anche lui,
dopo morto, lo metterebbero in cornice come una brava persona.

--Povero Leonardo!--pensava Fortunata.--Se gli avessero voluto bene,
sarebbe cresciuto diversamente. Altro che i carbonari!... Io però gliene
avrei voluto tanto di bene, gliene voglio anzi come una sorella,
come.... più che come una sorella.... Ma è una fatalità... Egli non mi
dà retta e corre invece dietro a certe femmine.... È vero che quelle son
bellissime... dicono... e io invece... oh perchè, perchè non son bella
anch'io?

E quest'idea di non esser bella, di non piacere a Leonardo, di non poter
salvarlo dalla rovina del corpo e dell'anima l'accorava fuor di misura
e le impediva di gustare quel po' di bene che c'era in famiglia. Perchè
in casa Rialdi pareva essersi aperto uno spiraglio alla fortuna. Dopo
dieci anni di aspettativa, il conte Luca aveva finalmente ottenuto una
promozione che aveva il duplice vantaggio di farlo guadagnare di più e
lavorare di meno, giacchè è noto che nei pubblici impieghi ognuno lavora
in ragione inversa della paga che ha. Però questo era il meno. Le
maggiori speranze dei Rialdi erano oramai concentrate in Gasparo, a cui
sembrava riservato davvero uno splendido avvenire. L'anno stesso del suo
imbarco, vale a dire il 1840, egli aveva la buona ventura di prender
parte alla fazione di San Giovanni d'Acri e di coprirvisi di gloria,
tanto da esser citato con lode speciale nell'ordine del giorno del
comandante, e di passar alfiere di vascello, primo tra i giovani usciti
con lui dall'Accademia di Sant'Anna. Più tardi la sua intrepidezza in
una burrasca, l'audacia e il sangue freddo con cui egli aveva diretto
un'imbarcazione alla riscossa di alcuni naufraghi, avevano confermato la
sua fama di marinaio valoroso ed intelligente, e gli avevano procurate
nuove dimostrazioni di stima da' suoi superiori.

La contessa Zanze, che nella sua fervida fantasia lo vedeva già
ammiraglio, gli perdonava ormai il suo carattere impetuoso e la sua
avversione ai parenti Bollati, e nelle rare e brevi gite ch'egli faceva
a Venezia lo costringeva a passeggiar con lei una o due ore al giorno
per la piazza S. Marco con la sua bella uniforme in dosso e con la sua
spada al fianco. Visite egli non voleva farne a nessun patto; bisognava
dunque ch'ella trovasse un altro mezzo perchè le sue conoscenti lo
ammirassero e nello stesso tempo ammirassero lei ch'era sua madre.

Anche Fortunata era orgogliosa di suo fratello, ma quanto più egli
cresceva in riputazione tanto più ella si sentiva intimidita e quasi
sgomenta al suo cospetto. Egli, vedendola sempre malinconica, faceva di
tutto per darle confidenza e per indurla ad aprirsi con lui, ma non
c'era caso, le parole le morivano sul labbro. Già nel fondo del suo
cuore, la giovinetta maturava un pensiero che non osava rivelare a
nessuno, il pensiero di entrare un dì o l'altro in un chiostro. Colà
almeno ell'avrebbe pregato giorno e notte per Leonardo.



X.


Si sa quel che dura l'energia degli uomini deboli. È uno scatto e nulla
più. Stupiti essi medesimi del loro insolito vigore, ripiombano tosto
nell'irresolutezza e nell'indolenza di prima. Così avvenne al conte
Zaccaria. La tarda severità mostrata verso il figliuolo poteva ancora
dar qualche frutto, ma per ottener ciò bisognava che essa non rimanesse
un fatto isolato, che iniziasse un nuovo sistema di relazioni
domestiche, un nuovo periodo di vigilanza operosa. Invece il N. H.
Zaccaria lasciò che le cose camminassero coi loro piedi, e le cose
tornarono a camminare pel sentiero sdrucciolevole su cui egli era
riuscito a fermarle appena un momento. Il contino Leonardo, alienato
ancor maggiormente dalla famiglia in seguito al chiasso poco onorevole
che s'era levato intorno al suo nome, ripigliò le sue abitudini
dissolute, s'invescò peggio che mai nella cattiva compagnia e perdette
ogni verecondia. L'illustre casato, il largo censo (almeno creduto
tale), l'aspetto piacente gli avrebbero spalancate tutte le porte, e la
cosidetta buona società, tanto benevola pel vizio elegante, avrebbe
perdonato volentieri a' suoi rotti costumi, sol ch'egli avesse saputo
rispettar le apparenze. Ma a lui era intollerabile qualunque freno ed
egli non s'acconciava a nessun ritrovo ove convenisse moderare il suo
linguaggio da trivio. In tal modo il contino Leonardo Bollati, sul
quale, da fanciullo, molte mamme avevano fabbricati i loro castelli in
aria, diventava a poco a poco un partito impossibile, e _sior_ Bortolo,
l'agente generale, vedeva allontanarsi la probabilità di ristorare con
una bella dote le pericolanti fortune della famiglia. Tutt'al più, si
sarebbe forse potuto sperare di trovar un dì o l'altro qualche
pizzicagnolo arricchito che per _nobilitar_ la figliuola non badasse al
resto; ma figuriamoci se il lustrissimo Zaccaria e la lustrissima
Chiaretta, con la loro boria, avrebbero acconsentito a un matrimonio
simile. Ora, per fare a meno del loro consenso, era necessario aspettare
che il contino Leonardo fosse uscito di minorità, ossia, come
prescriveva il Codice austriaco, ch'egli avesse compiuto i
ventiquattr'anni, e l'ottimo _sior_ Bortolo, che vedeva la proprietà
stabile dei Bollati coprirsi rapidamente d'ipoteche dubitava molto di
poter tirare innanzi a forza di palliativi sino a quel tempo. Comunque
sia, il coscienzioso agente non ommetteva di far di tratto in tratto
l'inventario delle ragazze milionarie, anche se gobbe, sbilenche o
avariate nella riputazione, che potevano in caso disperato offrirsi
come ancora di salvezza al padroncino, quando un avvenimento imprevisto
sconcertò tutti i suoi disegni.

Una sera il contino Leonardo si mise a letto con la febbre e in breve la
malattia prese un tale carattere di gravità da incuter seri timori. Da
un pezzo il giovine non ispirava personalmente la minima simpatia, ma
l'idea che con lui sarebbe perito l'unico rampollo maschio di una grande
famiglia e che il palazzo Bollati e gli oggetti di valore che vi si
trovavano sarebbero andati a finire, alla morte del conte Zaccaria, in
mano di gente straniera, destò una certa commozione in paese e fece
seguire con viva sollecitudine le varie alternative del male.

Ma questo a noi preme poco o punto. Quello che ci gioverà di sapere si è
che l'infermità del contino Leonardo fece riacquistare alla contessa
Zanze Rialdi una parte dell'influenza che da qualche anno ella andava a
grado a grado perdendo in casa Bollati. Era costume inveterato della
contessa Zanze, quando c'era qualche malato grave tra i suoi conoscenti,
di recarsi in persona presso la famiglia, e lì, senza tante cerimonie,
profferire i propri servigi, l'opera sua, i lumi della propria
esperienza. Era madre di famiglia, aveva fatto pratica co' suoi
figliuoli, i quali, pur troppo, avevano avuto il morbillo, la rosolia,
la tosse canina e tutte le piaghe d'Egitto, e nondimeno eran sani e
salvi più per virtù delle sue cure che per virtù del medico.

Se poi il suo zelo derivasse da bontà d'animo, da spirito inframmettente
o dalla speranza di guadagnarsi qualche bel regalo, questo è quello che
non si potrà mai sapere con precisione; forse esso derivava da tutte
queste cose unite insieme. O forse si nasce infermieri e flebotomi come
si nasce poeti. Certo si è che la contessa Zanze non aveva chi la
pareggiasse nel mescere un farmaco, nel fasciare un salasso,
nell'accomodare i guanciali sotto il capo di un giacente, e, sia detto
coi debiti riguardi, nell'applicar cataplasmi d'ogni maniera.

Era naturale che con queste singolari attitudini ella si mettesse subito
a disposizione dei suoi cari parenti, dicendo che ella aveva visto
nascer Leonardo e lo considerava come un'altra sua creatura, e poteva
benissimo far presso di lui le veci della madre, la quale, cagionevole
di salute e nervosa all'estremo, non era assolutamente in condizione da
assistere inalati.

La contessa Zanze Rialdi piantò quindi le sue tende in palazzo Bollati
tirandosi dietro anche il marito e la figliuola, a cui nessuno preparava
più da colazione e da pranzo, giacchè la rispettiva moglie e genitrice
non si fidava della donna di servizio, e da buona massaia stimava
opportuno di non far nemmeno accendere il fuoco in cucina. Però il conte
Luca e Fortunata andavano ogni sera a casa a dormire.

Invece la contessa Zanze stava dì e notte al letto di Leonardo che le si
era affezionato con quel trasporto col quale gli egoisti sogliono
affezionarsi a coloro di cui hanno bisogno e pel momento in cui ne
hanno bisogno. Egli non prendeva le medicine da altri che da lei, non
ubbidiva che alla sua voce, non voleva lasciarla mai uscire di camera,
e, nel suo immenso terrore della morte, aspettava da lei sola la sua
salute.

Per più settimane il nostro giovinotto fu in gran burrasca, e in tutto
questo tempo don Luigi dovette consacrarsi interamente alla
_lustrissima_ Chiaretta e assisterla nelle sue pratiche religiose o
apparecchiarla con esempi della Sacra Scrittura a sopportar con animo
forte la prova che pareva esserle serbata dal Signore. In complesso la
torpida contessa Zanze aveva l'aria di voler rassegnarsi presto, e S. E.
Zaccaria era in molto maggiori angustie di lei. Nessuno però soffriva
quanto Fortunata, che passava le notti senza chiuder occhio, piangendo a
calde lagrime e pregando i Santi e la Madonna per la salvezza di suo
cugino. Se almeno le avessero permesso di rendersi utile, se le avessero
permesso di aiutar sua madre nei suoi uffici d'infermiera! Ma non c'era
caso; non la lasciavano nemmeno entrare in camera; le dicevano ch'ella
non avrebbe fatto che confusione. Solo qualche volta, mentre aprivano
l'uscio adagio adagio, ella, che era venuta in punta di piedi
nell'andito, s'affacciava allo spiraglio, e nella penombra della stanza,
in fondo all'alcova, vedeva un viso affilato, due occhi smorti, due mani
lunghe e scarne che giacevano immobili sulla coperta del letto. Povero
Leonardo! Com'era ridotto! Non lo si riconosceva quasi più.

Alla fine i medici dichiararono che l'ammalato era fuori di pericolo, ma
che la convalescenza sarebbe stata assai lunga, perchè ogni strapazzo
avrebbe potuto produrre una ricaduta fatale. Essi soggiunsero altresì
che se il contino ci teneva a campar molti anni, egli doveva menar una
vita più regolata. Ed egli che aveva avuto quel po' di battisoffia che
sappiamo, promise tutto ciò che gli si domandava.

Appena Leonardo fu in istato di veder qualcheduno, Fortunata impetrò la
grazia di dargli un saluto; poi le visite di lei divennero più lunghe e
più frequenti, e allorchè egli principiò ad alzarsi, ella fu ammessa a
tenergli compagnia per un paio d'ore al giorno.

Quasi tutti quelli che escono da una grande malattia si sentono come
attratti verso il loro passato, verso le persone, verso gli affetti
della prima giovinezza. Così l'albero investito dal turbine sente le sue
radici. Il contino Leonardo, nel riaffacciarsi ora alla vita, rivedeva
con maggior simpatia dell'usato la compagna de' suoi giochi infantili, e
l'accoglieva con una espansione a cui ella non era più avvezza e che le
empiva l'anima di giubilo. Ella diceva a sè stessa ch'ella aveva avuto
ben ragione a difenderlo, poveretto! quando gli altri lo accusavano.
Covava il suo male, ecco la ragione de' suoi modi aspri, de' suoi
stravizzi, di tutto. E poi c'eran stati i falsi amici che lo avevano
traviato, que' falsi amici ai quali il portone del palazzo Bollati era
ormai chiuso per sempre, e che Leonardo aveva giurato di non guardare
più in faccia. Adesso che stava bene, adesso che nessuno gli dava
cattivi consigli, egli era un altr'uomo. Ah! che trionfo sarebbe stato
per Fortunata il poter dire a suo fratello Gasparo:--Vedi chi di noi due
s'ingannava!--Perchè quel suo fratello era così ostinato! Le poche volte
ch'egli le scriveva una riga trovava sempre la maniera di far qualche
allusione spiacevole al cugino Bollati. Non s'era commosso neppure alla
notizia della malattia. «Desidero che Leonardo guarisca--egli aveva
scritto sdegnosamente ai suoi genitori--perchè non si deve augurar male
a nessuno, ma in fin dei conti la sua morte non sarebbe una disgrazia nè
per la famiglia, nè per Venezia, nè per l'Italia.»

--L'Italia! Che cosa c'entra l'Italia?--brontolava il conte Luca.

Se c'entrasse l'Italia è assai dubbio, ma secondo la rispettabile
opinione del nobile Piero Canziani, c'entrava nientemeno che l'umanità.
Infatti la guarigione del contino Leonardo ispirò la Musa dell'insigne
poeta, e gli dettò un lunghissimo ditirambo, che S. E. Chiaretta,
avvertita che non era un _sonetto_, chiamò _un verso_. Ora il
componimento del nobile vate esordiva così:

    Sorgi, o contrita umanità. Dal coro
    Sgombra il vano terrore;
    Questo figlio d'eroi vive e non muore.

Concetto peregrino che don Luigi però trovava preferibile al manzoniano

    I fratelli hanno ucciso i fratelli.

--Non c'è giovane di negozio--osservava don Luigi con aria di
sprezzo--che non sappia dire una roba simile.

Anch'egli, l'ex precettore del contino Leonardo, si credette in dovere
di pubblicare qualche cosa per la ricuperata salute del suo allievo e
stampò con una prefazioncella di circostanza una sua memoria letta
all'Ateneo col titolo: _Alcuni pensieri sul migliore uso della
congiunzione separativa O_. Non era che il frammento d'un'opera
linguistica di gran mole alla quale don Luigi attendeva da un pezzo in
silenzio, e che, quando fosse venuta alla luce, avrebbe polverizzato
certe riputazioni!...

Del resto, in questa fausta occasione, la casa Bollati riebbe per un
momento tutto l'antico splendore, e il giorno in cui Leonardo sentì la
messa nella cappellina domestica il signor Oreste, aiutato da tre
sottocuochi, dovette allestire un pranzo per cinquanta persone. E tale
fu l'abbondanza dei cibi e dei vini che i rilievi della mensa bastarono
non solo a riempire l'epa dei servi e delle famiglie dei servi, ma
consentirono anche al signor Oreste di stipulare alcuni contratti
vantaggiosi con tre o quattro _restaurants_ di second'ordine.

Inoltre, sempre per festeggiare il lietissimo avvenimento, il conte
Zaccaria elargì somme cospicue ai poveri della parrocchia, alla
Commissione di pubblica beneficenza, agli Asili d'infanzia, alla Casa
degli esposti e ad altri istituti pii. E per più giorni la _Gazzetta
privilegiata di Venezia_ ebbe da registrare con parole di sentito
encomio gli atti munifici di S. E. il conte Zaccaria Bollati, degno
erede di un nome illustre. Il conte Zaccaria si fregava le mani
sentenziando:--I Bollati sono sempre i Bollati.--Alla quale affermazione
_sior_ Bortolo sorrideva, ma meno seraficamente di una volta.

Quando il contino Leonardo cominciò ad uscir di camera era circa la metà
di aprile; i medici però gli prescrissero di rimanere in casa ancora un
mesetto; a primavera avanzata sarebbe andato a ritemprarsi in campagna,
ove non c'era più da temere della Rosa, maritata e fuori di paese. Forse
tali disposizioni non erano tutte suggerite da motivi igienici; forse
differendo a rendergli la libertà si sperava distoglierlo affatto delle
vecchie abitudini e dalle vecchie conoscenze. E invero sotto
l'impressione di sgomento lasciatagli dalla sua malattia, egli non
mostrava alcun desiderio di rivedere i suoi compagni di libertinaggio.
Questi dal canto loro non gli avevan dato prove di sviscerato affetto.
Appena due o tre eran comparsi a grandi intervalli al portone del
palazzo a domandar sue notizie; poi non s'eran più fatti vivi. E siccome
d'altra parte egli non aveva stretto amicizia con nessun giovane per
bene e nessuno quindi veniva a fargli visita, la sua lunga convalescenza
gli sarebbe stata noiosissima se Fortunata non fosse rimasta quasi
sempre con lui, pronta ad ogni suo cenno, docile, amorosa come negli
anni dell'infanzia. Povera Fortunata! Ella si sentiva tanto felice nel
poter essere qualche cosa per Leonardo, nel poter scemargli l'uggia di
quell'eterne giornate. Si sentiva tanto felice che avrebbe voluto che la
vita le corresse sempre a quel modo, e poichè lo sperarlo era follia,
invocava dal cielo il favore supremo d'addormentarsi in quel sogno e di
non riaprire gli occhi mai più.

Intanto Leonardo, sia che notasse davvero nella cugina qualche pregio
fisico non avvertito per l'addietro, sia che il non trovarsi in mezzo
alle crestaie e alle ballerine, oggetto ordinario dei suoi pensieri, lo
rendesse di men difficile contentatura, sia infine che col tornar della
salute e delle forze si risvegliassero in lui i bollori del sangue,
considerava con più attenzione e sotto un aspetto diverso dal solito
questa giovinetta dal viso slavato e dal corpicino esile, la quale sino
allora, diciamolo schietto, non gli era neanche parsa una donna. Di che
natura poi fosse il nuovo sentimento sorto nell'animo suo ci vuol poco a
immaginarselo. Incapace di affetti gentili e profondi, non frenato da
scrupoli, insofferente d'altre catene che di quelle che s'annodano e
sciolgono in un giorno, egli intendeva l'amore in un'unica maniera... la
maniera del resto in cui la intendono i dissoluti di professione.
L'idea che Fortunata era una ragazza onesta non lo tratteneva, era anzi
uno stimolo di più, che gli pareva legittima curiosità il verificar co'
suoi occhi che differenza ci fosse tra una ragazza onesta e quelle che
non erano tali. Nè lo trattenevano i vincoli di parentela che lo
stringevano a lei, nè l'affezione sommessa ch'ella gli mostrava, nè la
gratitudine che, pur confusamente, egli riconosceva di doverle per
essere stata la sola a difenderlo quando tutti gli gridavano la croce
addosso. Bensì da queste varie ragioni sommate insieme gli veniva un
certo imbarazzo nel contegno, un certo fare da collegiale che, a sua
insaputa, gli giovava invece di nuocergli. Perchè s'egli fosse stato
sguaiato, brutale, ella avrebbe sentito svegliarsi in tempo la piena
coscienza del pericolo, avrebbe forse saputo difendersi. Ma egli era
così cauto, così riguardoso; il turbamento ch'ella provava vicino a lui
era misto di tanta dolcezza! Non che talvolta non l'assalisse una vana
inquietudine. Se Leonardo la guardava fisso, se la mano di lei toccava
la sua, se i loro gomiti, se le loro ginocchia s'urtavano, ell'arrossiva
fino alla punta dei capelli e con un rapido movimento volgeva altrove la
faccia o ritraeva la persona tutta tremante. Però non era salda
abbastanza ne' suoi propositi, e sembrava ricercar di lì a poco le
sensazioni ch'ella aveva prime sfuggite. Nessuno la proteggeva, nessuno
la consigliava. Sua madre era fuori di sè dalla gioia nel veder che
_quei due ragazzi_ se la intendevano, e tornando sempre con la mente al
sogno dorato del matrimonio, non si curava troppo dei rischi che
Fortunata correva. Ne aveva corsi anche lei dei rischi per diventar
contessa Rialdi, chè già, se le fanciulle senza dote non s'ingegnano,
guai. E se il conte Luca s'avventurava a dire:--Bisognerebbe badare di
più a Fortunata, mi spiego?--essa lo faceva tacere con un brusco:--State
zitto voi, e pensate al vostro ufficio e ai vostri scacchi.

In quanto al N. H. Zaccaria e alla sua illustrissima consorte, essi non
eran gente da scomodarsi per sì piccola cagione, e anzi la contessa
Chiaretta aveva detto a Leonardo e a Fortunata:--_Ohe tosi_, io non istò
mica a farvi la guardia; mettete pure a soqquadro la casa; a me basta
che non mi facciate il chiasso vicino.

I _tosi_ avevano ormai l'uno vent'anni passati, l'altra quasi diciotto,
e non era probabile che essi facessero un baccano così indiavolato. Ma
ci voleva tanto poco a eccitar i nervi della N. D. Chiaretta; e poi
ell'aveva tante gravi occupazioni. Aveva da apparecchiare la zuppa di
latte pel suo gatto Romeo, da prendere il caffè e i _baicoli_ col nobile
Canziani, da ascoltare i pettegolezzi della contessa Ficcanaso e delle
altre dame che venivano a visitarla, da giocare a _consina_ con don
Luigi, e da pisolare nella poltrona mentre lo stesso don Luigi le
recitava il breviario o le teneva ragionamenti spirituali. Tutto ciò
senza contar le visite che anche a lei toccava di fare. Come poteva
dunque restarle il tempo di custodir Leonardo o Fortunata?

Con quest'assoluta libertà lasciata a' due cugini, accadde quello ch'era
da prevedersi. Vi fu un giorno in cui Leonardo fu più audace e Fortunata
più debole.....



XI.


Come fosse andata la cosa, Fortunata stessa non sapeva dirlo. Leonardo
le aveva affascinato i sensi, paralizzato la volontà. E dopo la caduta,
oppressa dalla coscienza della sua vergogna, dilaniata dagli scrupoli e
dai rimorsi, ella si sentiva più inetta che mai a scuotere il giogo, a
sottrarsi all'abbiezione in cui era piombata. Che le valeva, ogni sera,
sola nella sua cameretta, piangere, pregare, scongiurare tutti i santi
del Paradiso che la soccorressero; i santi del Paradiso non avevano
orecchi per lei; e invece le immagini voluttuose venivano ben presto a
sconvolgerle la fantasia, veniva il ricordo di quei baci di fuoco, di
quelle parole ardenti, ed ella si voltava e rivoltava nel letto senza
trovar pace, e mordeva rabbiosamente le lenzuola e i guanciali invocando
e temendo a vicenda il sorger del sole. Chi sa che sorprese le
apparecchiava il nuovo giorno? Se la tresca si scoprisse, se la sua onta
diventasse pubblica, se ne giungesse la notizia fino a Gasparo? Come
affronterebbe ella lo sdegno del fratello, come difenderebbe dalla
collera di lui il suo amante? Eppure, per quanto spaventoso fosse questo
pensiero, ce n'era un altro che l'atterriva ancora di più. Era il
pensiero che Leonardo, nonostante i suoi giuramenti, non avesse per lei
che un passeggero capriccio e dovesse fra poco gettarla in un canto come
si fa d'un abito frusto. Dio, Dio, che sarebbe di lei allora? Dove
andrebbe a nascondersi? L'idea del chiostro, accarezzata in passato,
tornava a balenarle alla mente, e per brevi istanti l'animo inquieto vi
si riposava come in un porto sicuro dalle tempeste. Ma il cuore non
tardava a dirle che anche questa era un'illusione, e che non c'è porto
ove ripararsi dalle tempeste che ruggono dentro di noi. E come potrebbe
ella alzar gli sguardi al cielo finchè un amore profano la teneva
incatenata alla terra? E quell'amore come sperar di sradicarlo s'esso
era parte dell'esser suo, s'ella gli aveva sacrificato ogni cosa più
cara? Oh quanto bene ella voleva a Leonardo, quanto gliene aveva sempre
voluto!... C'era della gente che sparlava di lui, che lo accusava di
mille vizi, che fingeva di disprezzarlo;... ella lo trovava bello, lo
trovava buono, ella si sforzava di attribuirgli tutti i pregi possibili.
Divenir sua moglie sarebbe stato per essa il colmo della felicità. Ma la
fortuna non l'aveva guastata con troppi favori, ed ella non osava
cullarsi in questa dolce speranza. Egli, che poteva aspirare ad una
principessa, avrebbe sposato lei!... Le bastava morire prima ch'egli
sposasse un'altra, prima ch'egli amasse un'altra....

Così, senz'accorgersene, ell'accettava il suo disonore, accettava tutto
piuttosto che l'abbandono. E quando s'alzava dal letto dopo una notte
insonne e angosciosa, ella contava l'ore e i minuti che la dividevano
dal momento in cui il gondoliere di Ca' Bollati sarebbe venuto a
prenderla per ordine della _lustrissima_ e l'avrebbe accompagnata a
palazzo. E come le batteva il cuore, allorchè, nel far lo scalone,
sentiva i passi di Leonardo che, aspettandola, misurava in lungo e in
largo la sala!

--Sia ringraziato il cielo--diceva la contessa Chiaretta.--Se Leonardo
non ha compagnia non istà mai tranquillo.... Andate a giocare a dominò,
ragazzi.... O fate pure quel che volete, purchè io non senta rumore.

Da figliuolo ubbidiente, Leonardo si tirava dietro Fortunata in un altro
angolo della casa, in quello stanzone degli armadi ove i due cugini
s'erano da bimbi trastullati insieme e da cui si poteva, volendo, salire
in un'ampia terrazza. Non mancavano buoni pretesti per andar colà. Prima
di tutto il luogo era opportunissimo per isgranchir le gambe e per
prendere una boccata d'aria libera; poi ci si trovavano parecchi vasi e
cassette di fiori pei quali Leonardo s'era acceso d'una subitanea
passione e ch'egli rimondava con gran cura dell'erbaccie, e inaffiava
ogni giorno.

I desiderii della contessa madre erano esauditi appieno. Checchè
avvenisse lassù, ella non sentiva romore.

Ma la baffuta _siora_ Placida, la cameriera anziana, che teneva le
chiavi della biancheria e considerava lo stanzone come suo speciale
dominio, durava fatica a persuadersi che il padroncino e Fortunata
impiegassero tanto tempo nella fioricultura, e aveva tentato più d'una
volta di scoprire quali fossero le loro occupazioni. A dir vero, a
malgrado del suo diligente spionaggio, essa non aveva scoperto nulla di
positivo perchè lo stanzone era chiuso da un uscio assai grosso e
pesante di cui non si sarebbe potuto spingere uno dei battenti senza un
molesto cigolìo che avrebbe tradito l'esploratore indiscreto. Pure, dei
pochi indizi ch'essa aveva raccolto, la onoranda matrona aveva data la
partecipazione confidenziale al cameriere Stefano, suo favorito. Stefano
aveva ripetuto la notizia alla lavapiatti, una massiccia montanara del
Bellunese, con la quale, di nascosto della _siora_ Placida, egli era in
ottimi termini, e colei ne aveva parlato in segreto a uno dei barcaiuoli
che godeva di qualche sua preferenza furtiva. In breve la cosa passò per
tutte le bocche, e in cucina si discusse gravemente se si doveva o no
metter sull'avviso Sua Eccellenza Zaccaria e Sua Eccellenza Chiaretta.
Il signor Oreste, il cuoco, stava pel sì, e sosteneva che la era tutta
una cabala ordita dalla contessa Zanze Rialdi, la quale voleva
costringere il _lustrissimo_ Leonardo a sposare la sua figliuola, e
intanto gliela gettava in braccio per metterlo fra l'uscio e il muro.
Ora pareva a lui che fosse necessario di sventar la trama, perchè,
sebbene non ci fosse nulla da dire contro la ragazza, quello non era un
partito adattato pel padroncino, e da sì misere nozze la servitù non
poteva sperare nè mancie, nè regali convenienti. E poi non c'era una
ragione al mondo di favorir gl'intrighi della contessa Zanze, che al
capo d'anno non dava un centesimo a nessuno.

Argomenti di gran peso che rendevano testimonianza della sagacità del
signor Oreste e che avrebbero dovuto trionfare, ma il cuoco aveva la
disgrazia d'essere antipatico a' suoi compagni, e accadeva assai di rado
che i suoi consigli fossero accolti.

Prevalse dunque l'opinione contraria, difesa con molto vigore dal
cameriere Stefano, il quale diceva che i pericoli del matrimonio non
c'erano se non che nella fantasia del signor Oreste, e che in quanto al
rimanente a questo mondo bisogna vivere e lasciar vivere, nè occorre
scandalizzarsi di accidenti che nascono dappertutto. La _siora_ Placida
poteva certificare se quelli eran fatti nuovi in casa Bollati.

E la cameriera, quantunque le seccasse esser chiamata a testimonio di
cose passate, era costretta nella sua lealtà a riconoscere che, per quel
che dicevano i vecchi, nella nobile famiglia uomini e donne eran sempre
stati di manica larga e non c'era che la _lustrissima_ Chiaretta la
quale, avendo acqua nelle vene invece che sangue, non desse a discorrer
di sè.... Beninteso ch'ella, la _siora_ Placida, non avrebbe messo le
mani nel fuoco nemmeno per la padrona, e non avrebbe voluto giurare che
fra Sua Eccellenza e il nobile Piero Canziani, per esempio, non avessero
mai fatto altro che sorseggiare il caffè e sgretolare i _baicoli_.

Comunque sia, il primo risultato di queste chiacchiere si fu che, quando
Leonardo e Fortunata scendevano dallo stanzone degli armadi, eran sicuri
di trovarsi fra i piedi qualcheduno della servitù che con curiosità mal
dissimulata li squadrava dalla testa alle piante per far poi in cucina
quelle chiose che si possono immaginare.

Leonardo, il quale in certe faccende aveva buon naso, indovinò che
c'erano in aria dei sospetti, e colse il pretesto per troncare gli
abboccamenti segreti nello stanzone, tanto più che ormai si era levato
il capriccio e Fortunata cominciava a venirgli a noia. Inoltre
s'avvicinava il momento in cui egli sarebbe uscito di casa, e allora
avrebbe avuto ben altro pel capo che la cugina. Meglio dunque allentare
il nodo a poco a poco.

La povera ragazza, dopo aver con sì calde lagrime chiesto al Signore di
allontanarla dal peccato, adesso che il peccato s'allontanava da lei
ebbe un risveglio tremendo. Ella capì che stava per succedere il peggio,
capì che Leonardo l'abbandonava. E resa ardita dalla disperazione,
volle a ogni costo ch'egli le accordasse un colloquio da solo a sola, e
nel suo amore e nel suo dolore trovò accenti così caldi ed appassionati,
quali non si sarebbero attesi dal suo labbro ordinariamente timido e
peritoso. Egli, più infastidito che commosso, cercò in principio di
calmarla con buone parole; poi, com'ella non se ne mostrava paga,
perdette la pazienza, e si lasciò andare al suo linguaggio cinico e
sboccato. In fin dei conti, che pretendeva ella da lui? Che la sposasse?
Ma già egli non si sognava nemmeno di prender moglie. O credeva forse
che la loro relazione potesse durare eterna? Non doveva anzi essergli
grata della prudenza con cui egli s'era condotto? Se la cosa tirava in
lungo altri due o tre giorni, c'era da scommettere che sarebbe nato uno
scandalo; invece, per merito suo, nessuno direbbe nulla, perchè nessuno
sapeva nulla di positivo, ed ella non iscapiterebbe affatto nella
riputazione. E ancora si lagnava?

Ella rimase fulminata. Era dunque finito tutto? Noi lo sappiamo, il
presentimento che tutto potesse finire in questo modo le aveva già
angustiato lo spirito, ma non era mai riuscito ad annidarvisi per un
pezzo; chè ogni lieve segno d'affetto da parte di Leonardo era bastato a
rianimare le sue illusioni. Adesso però, dopo le parole dure, recise,
sprezzanti che le echeggiavano sinistramente all'orecchio, non c'era più
illusione possibile, non c'era più spiraglio di luce che rompesse le
tenebre ond'ella era cinta. E si sentiva sola, derelitta nel mondo. I
suoi genitori? Ma suo padre pur troppo era un fantoccio, e sua madre
perchè non l'aveva vigilata, perchè non l'aveva avvertita? Un lampo
tremendo le attraversò la mente. Se sua madre, che fin dall'infanzia le
aveva inculcato la riverenza ai parenti Bollati, la devozione al cugino,
se sua madre avesse voluto lei stessa apparecchiar la catastrofe nella
speranza di forzare Leonardo al matrimonio? Ed ella si sarebbe fatta
complice di questa ignominia? Che orrore, che orrore! Ah! Gasparo era
stato buon profeta! Un momento le venne il pensiero di scrivergli. Ma
che cosa gli avrebbe scritto? Ch'ella s'era prostituita, ch'ella s'era
disonorata? E che cosa gli avrebbe chiesto? Di vendicarla? No, no, mille
volte no, ella non voleva che si torcesse un capello a Leonardo. Forse
egli era meno colpevole di quel che essa credeva, forse con le donne
(povere donne!) si fa sempre così; tocca a loro a difendersi. Ah senza
dubbio la vera colpevole era lei che s'era lasciata acciecare,
inebbriare dalla febbre dei sensi, che aveva dimenticato la sua fede.
Come le rimordeva la sua coscienza di cattolica! Con che paura
superstiziosa pensava ai suoi doveri religiosi trascurati, alle sue
distrazioni in chiesa, ai desiderii immodesti, alle immagini profane che
avevano turbato il suo raccoglimento e le sue preghiere! Ella si
domandava tremante se ci sarebbe stata penitenza adeguata al suo fallo.
E di nuovo una voce intima le additava come suprema áncora di salvezza
il convento, seppur c'era un convento che volesse accoglierla.

Sotto l'impero di questa idea, il giorno stesso del fatale colloquio,
ella corse in traccia d'un sacerdote suo conoscente, e inginocchiata nel
confessionale gli rivelò la sua passione infelice e il fermo proposito
di espiare i suoi errori con una vita d'orazioni, d'astinenze, di
sacrifici. Che le dicesse il prete noi non sappiamo; certo si è ch'ella
uscì dal tempio più invasata che mai dall'ascetismo e più che mai decisa
a prendere il velo. La contessa Zanze, che aveva già notato quella
mattina il pallore e l'abbattimento di Fortunata, notò ora lo stato
d'esaltazione in cui ella si trovava e l'assoggettò a un interrogatorio
in piena regola. La ragazza avrebbe voluto ritardare questa nuova
confessione, ma non potè schermirsi dall'insistenza materna. Stremata di
forze, ella fu côlta da un pianto isterico, irrefrenabile, e in mezzo ai
singhiozzi ripetè ancora una volta la dolente istoria del suo amore e
della sua vergogna. Quella storia sorgeva accusatrice terribile contro
la madre, e la contessa Zanze, quantunque certe cose le capisse poco,
non si sentiva la coscienza affatto tranquilla. Nondimeno, perchè
ell'era seguace della dottrina che il fine giustifica i mezzi, se la
caduta di Fortunata doveva darle un'arma per venire a capo de' suoi
disegni, ell'era prontissima ad assolversi d'ogni colpa. Sì, sì, ella
non aveva difficoltà a riconoscerlo, la faccenda poteva esser condotta
meglio e sopratutto sarebbe stato necessario di badare che Fortunata
conservasse il suo sangue freddo e che la bussola la perdesse Leonardo.
Invece era successo precisamente l'opposto. Fatalità! A tale proposito
la signora Zanze ricordava con segreto orgoglio l'arte finissima da lei
adoperata a' suoi tempi col conte Luca Rialdi in condizioni analoghe a
quelle della figliuola. Prima aveva invischiato ben bene il merlo; poi
non aveva avuto più tanti scrupoli, chè già non è un delitto il mangiar
il proprio grano in erba. Del resto, ora l'essenziale era di non
smarrirsi d'animo e guai se Fortunata abbandonava la partita. Perciò,
quando la ragazza tirò in campo l'argomento del chiostro, la contessa,
che fino a quel punto l'aveva ascoltata con simpatia fingendo di non
accorgersi dei rimproveri indiretti che c'erano nelle parole di lei,
mutò tenore ad un tratto, e non frenandosi più dichiarò che questi eran
discorsi da bambina e che il chiostro non accomodava nulla, e che una
sola cosa poteva salvar l'onore della famiglia, il matrimonio. Ma
Fortunata, la timida Fortunata, insistette dicendo che già il matrimonio
era impossibile, e che a ogni modo ell'era ormai risoluta a fuggire dal
mondo e a non consacrarsi ad altri che a Dio.... Era risoluta, avevano
capito? La lasciassero stare, se non desideravano la sua morte.

Ne seguì una scena violenta, nel mezzo della quale la giovane cadde in
deliquio.

Assistita subito dalla madre, ella non istette molto a rinvenire; ma si
lagnava d'una grande spossatezza, d'un malessere generale ch'ella non
sapeva spiegarsi.

Un dubbio improvviso sorse nell'animo della contessa Zanze; tuttavia
ella tenne per sè le sue impressioni, e ripigliando verso la figliuola
un tuono affettuoso e sollecito, raccomandò a Fortunata di esser calma,
di non pensare a malinconie, di persuadersi che nessuno in famiglia
voleva tiranneggiarla.

Rinfrancata alquanto da queste parole, la ragazza baciò e ribaciò la
genitrice, e chiestole perdono del suo linguaggio eccessivo di poco fa,
consentì a mettersi a letto.

Il conte Luca, tornando quel giorno dall'ufficio con la testa piena d'un
finale di scacchi ch'egli aveva studiato sulla carta, trovò la moglie in
cima alla scala e fu condotto da lei con gran mistero in un salottino
appartato.

--Che cosa c'è? Che cos'è successo?--chiese il pover'uomo che non
capiva.

--Zitto!--disse la contessa.--Non facciamoci sentire dalla gente di
servizio.

La gente di servizio, fra parentesi, si riduceva a una fantesca un po'
sorda. Ma la contessa Zanze amava le amplificazioni.

--Insomma?--ripigliò il conte abbassando la voce.

E allora la consorte gli spifferò tutto quello che ella sapeva e tutto
quello che l'indisposizione di Fortunata le faceva supporre.

Il nobile Rialdi era d'indole mansueta, ma in certi casi non c'è
mansuetudine che tenga; bisogna parlare o scoppiare.

--Questa tegola mi casca sul capo!--esclamò il conte Luca, girando come
un forsennato su e giù per la stanza.--Mi spiego?... Non l'avevo detto
io che l'andava a finir male?... Ma volete sempre fare a vostro modo,
voi....

--Eh non mi seccate--interruppe la contessa Zanze.--Piuttosto andate a
chiamare il medico, giacchè mi occorre saper precisamente in che acque
si navighi.

Il conte Luca ubbidì, e il dottore, interrogata con molta discrezione la
ragazza, uscì dalla camera coi genitori e disse loro che le supposizioni
della signora contessa avevano proprio côlto nel segno.

--Povero me, povero me!--gemette il conte Luca, cacciandosi le mani nei
pochi capelli che gli rimanevano.--Poteva toccarmi di peggio?

La contessa moglie gli diede sulla voce.--Ci vuol altro che queste
smorfie! Adesso si vedrà se siete un uomo o un _pampano_.

La qual cosa si doveva vedere, ma non si vide, perchè la contessa Zanze,
secondo il suo solito, prese la direzione della faccenda e al marito
lasciò l'ufficio, meno arduo e delicato, di tener compagnia alla
figliuola.



XII.


L'annunzio del grave avvenimento fu come lo scoppio d'una bomba in casa
Bollati. Di così grosse Leonardo non ne aveva fatte mai, nè aveva mai
recato un impiccio simile alla famiglia, neppure quella volta dello
scandalo in giardino. Come immaginarsi che quel ragazzo si
incapricciasse della Fortunata, una giovinetta senza forme e senza
colore, che aveva diciott'anni e ne mostrava sedici, e con la quale egli
aveva giocato alla bambola? E per peggio, il diavolo ci doveva metter la
coda; anche un bimbo in prospettiva ci doveva essere!--Già--notava in
cuor suo il lustrissimo Zaccaria--un gran sangue quello dei Bollati.

Sicuro, un gran sangue. Ma intanto (poichè non s'era nemmeno potuto
effettuare l'andata in campagna a cagione di un'epidemia di tifo che
infestava in quei mesi i pressi della villa) non c'era modo di levarsi
d'attorno la contessa Zanze, la quale voleva che si rendesse l'onore
alla sua creatura, e s'era ostinata a non veder altro risarcimento
possibile che il matrimonio. E non si lasciava mica scoraggiare dalle
ripulse, ma tornava alla carica col _lustrissimo_ Zaccaria, o con la
_lustrissima_ Chiaretta, o con Leonardo, o con don Luigi, che nella sua
qualità di ecclesiastico avrebbe pur dovuto capire quale fosse l'obbligo
sacrosanto dei suoi padroni.

Don Luigi, uomo alieno dai fastidi, aveva in principio adottato la
tattica di non credere all'importanza della cosa.

--Esagerazioni, esagerazioni--egli diceva.--Le ragazze senza esperienza
prendono spesso lucciole per lanterne.

La contessa Zanze si sentiva il prurito di graffiargli gli occhi.--Ma
che lucciole, ma che lanterne? Metterebbe forse in dubbio quello che
Leonardo confessa?

--I giovinotti, si sa, hanno l'abitudine di vantarsi.

--Auff! Ma se il medico ha dichiarato che mia figlia... via, non lo sa
quello che ha dichiarato il medico?

--Bisogna star a vedere, bisogna aspettare... I medici, cara contessa,
pigliano tanti granchi a secco.

Finalmente don Luigi si arrese all'evidenza. Gli dispiaceva, proprio da
galantuomo gli dispiaceva assai. Ma che poteva farci? Le Loro Eccellenze
non ricorrevano a lui per consiglio... eh, pur troppo, i preti non eran
più tenuti nel conto d'una volta.... E poi era un affare
difficilissimo;... tutte le soluzioni avevano i loro inconvenienti...
senza dubbio il matrimonio riparava al mal fatto... ma c'erano le sue
obbiezioni, oh se c'erano....

La contessa Rialdi non voleva ammettere che ce ne fossero affatto, si
riscaldava, usciva dai gangheri, e pretendeva tener responsabile il
sacerdote della cattiva condotta del suo allievo. Allora anche a don
Luigi saltava la mosca al naso, e, accendendosi in viso, egli dichiarava
che aveva instillato al contino principii di moralità e di religione, e
che non era colpa sua se l'altro non aveva saputo trarne profitto.
Insomma perchè lo tiravano in ballo lui? Perchè non lo lasciavano
attendere in pace a' suoi studi?

Coi cugini Bollati la contessa Zanze era a vicenda umile e petulante,
supplichevole e minacciosa. Vantava i servigi da lei resi a Leonardo
durante la sua malattia e così indegnamente ricambiati, dipingeva coi
più tetri colori lo stato della propria famiglia dopo la catastrofe;
Fortunata che si stemperava in lagrime; il conte Luca che ci rimetteva
la pelle dall'avvilimento; oh se ce la rimetteva; lei ch'era invecchiata
di più anni in pochi giorni e ch'era sostenuta soltanto dall'idea di
giovare agli altri;... senza contare poi Gasparo che navigava nelle
acque del Levante e che ancora non sapeva nulla, ma che quando avesse
saputo.... Misericordia! Era meglio non pensarci neanche.

Quest'era il nembo lontano che ruggiva nei discorsi della contessa, ma
di lì a poco tornava il sereno, tornava l'idillio pastorale. Che moglie
più amorosa di Fortunata poteva mai trovare Leonardo; che nuora più
devota, più ubbidiente potevano trovare il conte Zaccaria e la contessa
Chiaretta? Non era una Venere, ma non era nemmen brutta e spiacente, e
poi aveva tutto le qualità morali che è lecito desiderare in una
ragazza... buona, docile, pia.... Era povera sì, pur troppo, non aveva
dote; ma che bisogno avevano di dote i Bollati?... Che cos'è il danaro?
Che cos'è la ricchezza?... In quanto alla nobiltà dei Rialdi, nessuno
pretendeva che essa fosse paragonabile a quella dei Bollati, ma era
sempre una nobiltà genuina, co' suoi documenti in regola, non una delle
tante che circolano per la piazza.

Ma la parte più commovente delle arringhe della contessa Zanze era
quella che si riferiva al nascituro. Ella s'inteneriva al solo pensarci.
Lo amava già con tutta l'anima quel suo nipotino. Ed era anche nipotino
loro, dei Bollati; era, voglia o non voglia, un Bollati... Possibile che
si rifiutassero di riconoscerlo?... Bisognava altresì considerare che
vantaggio inestimabile sarebbe stato per Leonardo il prender moglie....
Era forse l'unico modo di sottrarlo davvero alle tentazioni, alle
cattive amicizie e ai cattivi esempi.

Insomma la loquace femmina tratteggiava ai Bollati un quadro compiuto di
felicità domestica. Che se le riusciva di abbrancar Leonardo (e non era
cosa facile) rincarava la dose. Aveva a un passo il Paradiso ed esitava
ad entrarci, quel disutilaccio.

Malgrado della sua furberia, la contessa Zanze non s'appigliava al mezzo
migliore per far entrare in grazia il matrimonio a Leonardo. La
prospettiva delle gioie casalinghe non lo seduceva punto, e chi avesse
voluto persuaderlo a sposarsi avrebbe agito più saviamente dicendogli
che il matrimonio era una semplice formalità, e che dopo le nozze egli
avrebbe potuto menar la solita vita, senza paura che la moglie lo
tormentasse con tenerezze o con gelosie, o che i figliuoli gli
ruzzolassero fra le gambe o lo assordassero coi loro strilli.

Tutto considerato, i maggiori ostacoli all'adempimento del gran disegno
della contessa Zanze non venivano nè dal _lustrissimo_ Zaccaria, nè
dalla _lustrissima_ Chiaretta. Certo ch'essi non favorivano l'unione da
lei vagheggiata, certo che avrebbero voluto anzi impedirla, ma non
avevano per essa una di quelle ripugnanze invincibili che fanno cascar
le braccia e troncano le parole in bocca a chi difende una causa.

Il conte un fondo di gentiluomo l'aveva; egli capiva che il danno recato
da suo figlio ai Rialdi non è di quelli che si risarciscano con l'oro, e
che non era una bella cosa pei Bollati il restar con quella macchia sul
loro nome, e che la contessa Zanze non aveva torto a veder una sola
riparazione possibile....; quantunque fosse lecito sospettare ch'ella
avesse una gran parte di colpa in ciò che era accaduto.

La _lustrissima_ non era mossa dalle ragioni di suo marito. Ella non
poteva soffrire quella inframmettente e pettegola cugina Rialdi e non
avrebbe voluto fargliela spuntare a nessun prezzo; giacchè per lei non
c'era dubbio ch'era tutto un intrigo ordito dalla Zanze, la quale adesso
spargeva lagrime di coccodrillo; ma d'altro lato ella s'era tanto
avvezza ad aver intorno a sè Fortunata, a farsene servire come da una
cameriera o da una dama di compagnia, che non sapeva rassegnarsi
all'idea di dover perderla. E allora era costretta ad ammettere che,
realmente, come diceva la contessa Zanze, una nuora simile essa non
l'avrebbe trovata mai, e che una gran signora avrebbe portato chi sa che
fumi in casa.

L'avversario più accanito, più formidabile dell'unione fra Leonardo e
Fortunata era l'agente generale, _sior_ Bortolo, il quale, tanto per
procurarsi nuovo danaro quanto per tener a bada i vecchi creditori,
aveva necessità assoluta di ripetere su tutti i tuoni che presto o tardi
gli affari della nobile famiglia s'accomoderebbero con un cospicuo
matrimonio del signor contino. Al principale poi fra questi creditori,
certo signor Vinati, usuraio desideroso di nobilitarsi, _sior_ Bortolo
non voleva togliere ogni speranza di vedere un giorno contessa la sua
unica figliuola che stava per uscir di collegio e aveva gli occhi
scerpellini, i denti guasti e cinquecento mila lire austriache di dote,
astrazion fatta da ciò che le spettava alla morte del padre.

Cosicchè, sempre col debito rispetto alle Loro Eccellenze, il brav'uomo
disse aperto l'animo suo. Non conveniva esagerare in nulla, nemmeno
negli scrupoli. Un ragazzo di vent'anni che seduce una ragazza di
diciotto non è più responsabile di lei che s'è lasciata sedurre....
ammesso anche che le parti non siano state invertite e che la ragazza,
ubbidiente ai consigli di una madre artificiosa, non sia stata lei la
vera seduttrice. A ogni modo, ci vorrebbe altro che in tutti i casi di
questo genere si finisse col matrimonio! L'esservi un bimbo per istrada
era senza dubbio un impiccio di più, era una disgrazia, ma si poteva
vedere, studiare una soluzione decorosa, soddisfacente.... Il matrimonio
egli, in coscienza, per la sua gran devozione ai padroni, doveva
sconsigliarlo con tutte le sue forze. Quando si ha nome Bollati, si
hanno degli obblighi verso il paese, verso la società, ed era evidente
che queste nozze non corrispondenti alla grandezza del casato nè sotto
l'aspetto morale nè sotto l'aspetto economico avrebbero prodotto una
pessima impressione. E poi, era inutile dissimularlo, gli anni
continuavano a esser cattivi, c'eran sempre batoste nuove, pur troppo,
alcune innovazioni agricole introdotte dal signor conte, sebbene
eccellenti in sè, non eran riuscite, le tasse crescevano, crescevano gli
interessi dei mutui; alle corte, se il contino Leonardo si risolveva ad
ammogliarsi era indispensabile ch'egli facesse entrar di molti quattrini
in famiglia. E _sior_ Bortolo concludeva, come per tastare il
terreno:--Insomma, sul blasone si può transigere; perchè quello dei
Bollati basta per tutti, ma non si può transigere sui danari.

Alleati di _sior_ Bortolo, se non molto efficaci certo molto romorosi,
erano i Geisenburg-Rudingen von Rudingen, i quali erano venuti a saper
la cosa e tempestavano i genitori e suoceri di lettere scritte in lingua
austro-italica. Per carità non si lasciassero tirar nelle reti dalla
Zanze Rialdi. Non dessero alla scappatella giovanile di Leonardo più
peso di quello ch'essa meritava. Il matrimonio dell'ultimo rampollo
maschio dei Bollati con una ragazza nè bella, nè ricca, nè
sufficientemente nobile avrebbe alienato i parenti e gli amici. Se
Leonardo doveva ammogliarsi, si cercasse un partito degno di lui. Anzi,
a questo proposito, si riserbavano di discorrerne personalmente in
Venezia, dove non eran più tornati dopo il 1838 e dove si disponevano a
venir prestissimo per abbracciare il conte Zaccaria, la contessa
Chiaretta e il caro Leonardo, fattosi ormai un bel giovinotto.

Non c'è bisogno di soggiungere che in queste difficili contingenze anche
gli amici di casa volevano dir la loro opinione. E naturalmente non
andavano d'accordo. La contessa Ficcanaso, per esempio, era furibonda
alla sola idea che i Rialdi potessero vincere il loro punto, e urlava
che sarebbe un pessimo esempio, e che tutte le ragazze sarebbero
incoraggiate a far le civette e peggio, e che nessuna madre di famiglia
avrebbe voluto più condur le figliuole in palazzo Bollati se fosse
successo quello scandaloso matrimonio. Certo, s'ella fosse stata madre
di famiglia, non ci avrebbe più posto il piede. Invece il nobil'uomo
Canziani sosteneva, secondo le sue deboli forze, la causa di Fortunata,
e un buon canonico di San Marco, monsignor Evaristo Lipari, commensale
dei Bollati nelle grandi occasioni, aveva assicurato la contessa Zanze
che farebbe il possibile per ottenere la benevola interposizione di S.
E. il Patriarca.

Nondimeno la contessa Zanze, vedendo che passavano i giorni senza
frutto, ricorse ad un alleato più energico e scrisse a Gasparo
informandolo dell'ultime vicende domestiche, e sollecitandolo a
procurarsi una licenza di alcune settimane e ad accorrere in aiuto di
sua sorella.



XIII.


E Fortunata?

Che trasformazione succedesse in lei allorchè il vero le fu interamente
palese, ce lo dirà una sua lettera, ch'ella, di nascosto dei suoi
genitori, fece pervenire in quei giorni al cugino.

    «_Caro Leonardo,_

    «Le conseguenze del nostro fallo non saranno più un segreto nemmeno
    per te. Dapprima, te lo giuro, credetti di morirne per la vergogna.
    Ma a poco a poco s'impadronì di me un nuovo sentimento, che
    dev'essere assai forte in noi donne se riesce a soverchiare tutti
    gli altri, il sentimento della maternità. Più disonorata che mai al
    cospetto del mondo, mi pare d'esser meno infelice. Quando tu mi
    dichiarasti che bisognava troncare le nostre relazioni, io ero
    fermamente decisa a seppellirmi in un chiostro, e son sicura che
    nulla avrebbe potuto rimuovermi dal mio proposito. Tu non mi amavi;
    che mi rimaneva da fare? Ma oggi ho mutato idea. Certo non potrei
    entrare adesso in convento; e come vi entrerei più tardi quando avrò
    _qualcheduno_ da difendere, da proteggere? E poi, perchè negarlo? Io
    penso che questa creaturina che mi palpita in seno è un vincolo
    sacro fra noi due, un vincolo che tu puoi sprezzare, ma non puoi
    distruggere. E malgrado delle tue parole crudeli, io son sempre tua,
    Leonardo, ed è un conforto per me che qualche cosa del nostro amore
    sopravviva. Chi sa, un giorno forse, se non della madre, tu potrai
    rammentarti del figlio.

    «E ancora questo voglio dirti. Se mi abbandonai fra le tue braccia
    non fu per un calcolo vile. Checchè ti susurrino nell'orecchio, non
    credermi capace di tanta bassezza. Te lo giuro in nome della mia, in
    nome della _nostra_ creatura, io ti amai come s'ama a diciott'anni,
    senza guardare più in là, senza pensare che tu sei ricco e io son
    povera.

    «Addio, Leonardo, nessuno ti vorrà bene quanto te ne volle, e, pur
    troppo, te ne vuole ancora

          «_la tua_ FORTUNATA.»

Questa lettera non ebbe risposta; già, fra le altre ragioni per non
rispondere, Leonardo ne aveva una di eccellente; egli sarebbe stato
molto impicciato a metter quattro righe in carta. Come si vede, le
lezioni di don Luigi avevano dato ottimi frutti.

Tuttavia Fortunata sperava. Ella sperava nel ravvedimento spontaneo di
Leonardo, indipendentemente dal grande anfanare della contessa Zanze, la
quale non istava mai cheta, andava, veniva, prorompeva in brevi
esclamazioni, sempre ravvolgendo però in un profondo mistero le sue
mosse strategiche.

Chi teneva molte ore di compagnia alla figliuola era il conte Luca, al
quale l'occasione di mostrare, secondo il detto memorabile della
contessa Zanze, s'egli fosse un uomo o un _pampano_ era mancata
assolutamente per colpa della moglie medesima che l'aveva lasciato in
disparte. Nondimeno Fortunata gli era gratissima dell'averle sacrificato
la sua partita a scacchi al caffè della _Vittoria_, e per ricompensamelo
faceva le viste di gustar molto i suoi pettegolezzi d'ufficio e
consentiva a studiare sotto di lui il nobile giuoco, inestimabile
conforto, diceva il conte, in tutte le tribolazioni della vita.

Senonchè, in mezzo a tante cure che l'angustiavano, Fortunata andava
soggetta a frequenti distrazioni. Talora, mentre il padre s'affannava a
spiegarle un gambitto di re o di regina, ella con gli occhi fissi verso
l'uscio guardava se per avventura comparisse Leonardo, ovvero, raccolta
in sè stessa, seguiva altre fantasie.--Sarà un maschio? Sarà una
femmina? A chi somiglierà?

Vagando in questi pensieri, ella ebbe un giorno un gran rimescolamento
del sangue, ebbe un impeto di tenerezza che la fece sciogliere in
lagrime.

--Misericordia! Che altri malanni ci sono?--esclamò il conte Luca, il
quale non osava attribuire questa subitanea commozione al racconto di
alcune facezie burocratiche con cui egli la intratteneva.

Ella gli gettò le braccia al collo: e seguitava singhiozzando:--Povero
piccino! povero piccino!

Il conte Luca non osava fiatare, e diceva tutt'al più:--No, Fortunata,
no, non conviene agitarsi. Il medico te l'ha proibito. Mi spiego?

Ma Fortunata non gli dava retta e si lasciava portar via dai suoi
pensieri.

--Gli vorrà bene, babbo?.... Chi sa quanto bisogno avrà che gli vogliano
bene!

--Sicuro che gliene vorrò.... che domanda!.... Non è mio nipote?--E il
conte soggiungeva aspirando una grossa presa di tabacco e rasciugandosi
una lagrimetta col dorso della mano:--Ma! Speriamo che tutto finisca
secondo giustizia, mi spiego?

Un po' per le piccole sofferenze inerenti alla sua condizione, un po'
per lo stato del suo animo, Fortunata non sapeva risolversi a uscire e
non vedeva nessuno fuori che il canonico, il quale, buona pasta d'uomo,
veniva ogni tanto a far l'ufficio di confortatore e a dire che non aveva
ancora potuto indurre Sua Eminenza Reverendissima a parlare al conte
Zaccaria, ma che non dubitava punto di indurvelo quanto prima. E una
parola di S. E. sarebbe bastata senz'altro, perchè i Bollati eran gente
religiosa, e lo stesso Leonardo, così scappato e vanesio, adempiva
sempre alle pratiche del culto.

--E quando c'è la religione,--concludeva monsignore,--c'è l'essenziale.

Però la contessa Zanze non era soddisfatta. _Sior_ Bortolo era duro come
un macigno, e adesso erano venuti giù dalla Moravia anche i Geisenburg e
s'erano accampati nel palazzo riempiendolo di boria e di fumo. Vederlo
quel marchese Ernesto! Un po' meno pingue, ma più pettoruto di quello
che fosse sei anni addietro, trasudava la superbia da tutti i pori. Ella
invece, la marchesa, era diventata magra come una sardella, ma in quanto
a superbia non aveva nulla da invidiare a suo marito. S'era appena
degnata di salutare la contessa Zanze (che pur se l'era tenuta sulle
ginocchia) e poi aveva detto (questo lo riferivano le persone di
servizio) che non capiva come i suoi genitori ricevessero ancora _certa
gente_.

Di Fortunata i Geisenburg sparlavano senza misura. E ridevano fra di
loro della sua pretensione stravagante di farsi sposare perchè Leonardo
s'era levato un capriccio con lei. Faccenda da accomodarsi con qualche
centinaio di zecchini, fissando poi una piccola pensione pel bimbo se si
volevano spinger gli scrupoli all'estremo. Di spose convenienti per
Leonardo ne avevano loro, i Geisenburg, da proporne una mezza dozzina,
tutte ricche, tutte della prima nobiltà austriaca, tutte registrate
nell'almanacco di Gotha. E anzi un cameriera di casa Bollati, che aveva
il vizio di stare in ascolto dietro gli usci e che pretendeva di capire
il tedesco, assicurava che tra marito e moglie avevano già fissato la
ragazza da preferirsi.

Probabilmente non c'era in tutto ciò nulla di serio, tanto più che per
la scelta della sposa, se una sposa ci doveva esser davvero, _sior_
Bortolo avrebbe voluto indubbiamente aver voce in capitolo. A ogni modo,
mentre le cose stavano in questi termini arrivò a Venezia Gasparo
Rialdi.

L'appello materno gli era pervenuto in un momento critico della sua
vita. Già da qualche mese tre ufficiali della marina austriaca,
amicissimi suoi, Attilio ed Emilio Bandiera e Domenico Moro, nomi che
l'eroismo e la sventura resero sacri, erano fuggiti a Corfù col
proposito di gettarsi sul primo lembo di terra italiana ove fosse
possibile di alzare il grido della riscossa contro i tiranni stranieri e
domestici. Partecipe dei loro disegni e non meno deliberato a dar per la
patria il suo braccio e il suo sangue, Gasparo Rialdi però non aveva
creduto l'ora propizia pel magnanimo tentativo e aveva scongiurato quei
valorosi a serbarsi per tempi migliori. E forse essi avrebbero accolto
il suo consiglio, se il timore di esser già spiati dalla polizia
imperiale non li avesse indotti a precipitare la diserzione. Con che
cuore Gasparo li avesse visti partire è facile immaginarlo. Ed è facile
immaginare con che ansietà egli avesse seguito le loro vicende.
L'incrollabile fermezza di Emilio di fronte alle preghiere e alle
lacrime della misera madre volata a Corfù nella primavera di quell'anno
1844 per iscongiurare l'imminente sciagura, la fiera dichiarazione
pubblicata dai due fratelli in un giornale di Malta in risposta a un
editto dell'Ammiragliato austriaco, la lettera scritta da Domenico Moro
al comandante della sua nave per ispiegargli la propria condotta,
commossero in quei tempi, prima ancora della tragedia di Cosenza, quanti
erano spiriti gentili nella penisola. E Gasparo, ch'era stato il
confidente di quei giovani audaci e che, pronosticando col lucido
ingegno l'inanità dell'impresa s'era invano sforzato di trattenerli,
aveva poi sentito un acre rammarico a non esser con loro, ad aver
piuttosto ubbidito alla voce della ragione che agl'impeti
dell'entusiasmo. La notizia sparsasi nella seconda metà di giugno che i
Bandiera coi loro seguaci fossero sbarcati in Calabria diede nuova esca
al fuoco, e il nostro giovane ufficiale al quale pareva di meritarsi la
taccia di codardo, studiava già i modi di raggiungere gli amici, quando
la lettera di sua madre gli additò un dovere sacro, preciso, immediato a
cui non gli era lecito di sottrarsi.

Livido di sdegno e di rabbia, Gasparo Rialdi, appena ricevuto quel
foglio, si presentò al suo comandante pregandolo d'accordargli un
congedo d'un mese per motivi gravissimi di famiglia.

Il comandante, austriaco fino al midollo dell'ossa, ma buono di cuore e
amoroso dei suoi dipendenti, fu fieramente turbato da quella richiesta,
e cercando di leggere nella fisonomia stravolta dell'ufficiale:

--Che avete, Rialdi?--gli disse.--Non vi si riconosce più.

L'altro si schermì dal rispondere e insistette sulla necessità che aveva
di partir subito per Venezia.

--Mi date proprio la vostra parola d'onore che partite per Venezia?
Solamente per Venezia?

Gasparo Rialdi comprese il significato della domanda e proseguì con voce
ferma:--Sì, le do la mia parola d'onore.

--Ebbene, ebbene,--brontolò il comandante ordinando allo scrivano di
redigere il permesso. E proseguì a voce più bassa:--Vedete, Rialdi, sono
momenti difficili. Quei disgraziati giovani hanno fatto del male a
tutti.

Gasparo sentì salirsi una fiamma al viso, ma non disse nulla.

--Del male a tutti,--ripetè il suo interlocutore.--Si vive in
un'atmosfera di sospetti.... Sfido io.... Dopo un fatto simile.... Tre
giovani che avevano uno splendido avvenire davanti a sè.... I Bandiera
specialmente.... figli d'un contrammiraglio.... Non par vero.... E che
cosa credono di fare? Di vincer delle battaglie contro le truppe di S.
M. Borbonica?.... Di conquistare il Lombardo-Veneto?.... Ci rimetteranno
la testa.... pazzi, pazzi da legare.... Date qui.

Quest'ultime parole erano rivolte allo scrivano che aveva finito il suo
lavoro.

--Ecco il permesso firmato, Rialdi.... In fede mia, a un altro avrei
risposto di no.... Dunque siamo intesi.... A Venezia direttamente....
Venezia per la via di Trieste.... La vostra parola d'onore.

--Gliel'ho data,--tornò a dire Gasparo ringraziando e inchinandosi.

E quella notte medesima egli viaggiava col vapore del Lloyd per Trieste.
C'era a bordo una quarantina di passeggieri, quasi tutti sopra coperta,
tanto il tempo era bello e il mare tranquillo. Si ciarlava, si giocava,
si faceva all'amore. Tre o quattro suonatori ambulanti, imbarcatisi a
Smirne in terza classe, strimpellavano delle polke e dei valzer, e chi
ne aveva voglia ballava al chiaro di luna, mentre i delfini saltellavano
sulle acque fosforescenti.

Gasparo Rialdi pensava ai suoi amici inseguiti, a sua sorella
vituperata. Egli era solo, taciturno, chiuso in sè stesso. Nè le sue
angoscie patriottiche, nè i suoi dolori domestici erano di quelli che
possono cercare un sollievo nelle simpatie altrui.



XIV.


Pallida, confusa, tremante, con le gote molli di lagrime, Fortunata
osava appena alzare gli occhi verso il fratello. La confessione del suo
fallo non l'era mai stata così grave. Non dinanzi al sacerdote, avvezzo
a quetar gli scrupoli della sua coscienza, non dinanzi alla madre, la
cui leggerezza colpevole aveva avuto tanta parte nella sua caduta. Ma
Gasparo, del quale ella ricordava le previsioni, gli ammonimenti, i
consigli, ahimè non seguiti, Gasparo poteva rinfacciarle la sua vergogna
cercata, voluta, poteva chiederle conto dell'onore della famiglia da lei
macchiato per sempre. Ella ne aveva avuto sin da bambina una gran
soggezione; figuriamoci adesso ch'egli era un giovinotto alto, severo,
abbronzito dal sole, con uno sguardo acuto, penetrante, che ricercava
l'intime latebre dell'anima.

Eppure, di mano in mano ch'ella parlava le rigide fattezze
dell'ufficiale s'atteggiavano a un'espressione più dolce; pareva che il
giudice si fosse impietosito del reo. E invero un gran peso gli si era
tolto di dosso. Il linguaggio schietto, ingenuo di Fortunata lo aveva
reso sicuro che, quale pur fosse stata la condotta di sua madre, sua
sorella era una vittima e non era una complice.

Quand'ella si tacque, egli stette un momento in silenzio col viso
nascosto tra le palme; poi disse queste sole parole:--E lo ami sempre?

--Sempre--ella rispose chinando la fronte, ma con voce ferma.

--Sì, capisco--ripigliò Gasparo--l'amarlo fu la tua unica colpa e fu
anche la tua unica scusa.... Ma adesso.... dopo il suo vile abbandono,
dopo il suo turpe oblio d'ogni dovere più sacro.... Ah se tu non lo
amassi più!...

Fortunata lo guardò atterrita.--Lo amo! Lo amo! In nome del cielo, che
faresti se non lo amassi più?

Gli occhi del giovane sfolgorarono.--Quel che farei?... Gli farei pagare
a caro prezzo l'oltraggio, e poi direi a te: Dimentica perfino il suo
nome: dimentica ch'egli ti ha reso madre... l'essere che darai alla luce
non ha nulla da guadagnarci a conoscerlo.... ci penseremo noi, noi
soli.... se sarà un maschio, avrò cura io della sua educazione, ne farò
un uomo, un cittadino.

--Grazie, Gasparo, grazie--esclamò Fortunata.--Oh tu sei buono e io non
perdonerò mai a me stessa di non averti ubbidito; ma se mi vuoi bene,
se hai misericordia di me non devi far del male a _lui_.... a
Leonardo.... non devi togliermi la speranza ch'egli mi ridoni un giorno
il suo affetto, che, disingannato, stanco dei baci delle altre donne,
egli torni da quella il cui cuore non muta... dalla madre della sua
creatura....

--Ma non sai dunque--interruppe il fratello--che faranno di tutto per
indurlo a prender moglie... una moglie che porti il suo bel gruzzolo di
zecchini.... poichè si va buccinando che i nostri illustri parenti siano
dissestati e che occorra una grossa dote per tappare i buchi?

--No--disse la ragazza sforzandosi di persuader sè medesima che i dubbi
di Gasparo erano infondati.--No, non vi riusciranno.... Quello che
Leonardo vuole è la sua libertà.... È la risposta ch'egli diede a mia
madre, a Monsignore... Se si risolvesse a sposarsi....

--Credi che sposerebbe te?

--Lo credo.

--Senti--disse Gasparo dopo una pausa--vedrò gli zii Bollati, vedrò
Leonardo... oh non temere, so esser calmo, so reprimere le mie
antipatie.... e quello che potrò fare pel tuo bene te lo giuro, sorella
mia, lo farò.

Quantunque a malincuore, la contessa Zanze s'era rassegnata ad
abbandonar nelle mani di suo figlio il grave affare domestico, pel quale
da un paio di mesi ella metteva in combustione il mondo. Quel benedetto
Gasparo aveva un certo carattere, certe idee tutte sue.... Insomma ella
lo aveva chiamato e non poteva disgustarlo. Ma il conte Luca
brontolava:--Fanno come s'io non esistessi.... Vanno, vengono senza
degnarsi d'avvisarmi.... Quest'è bella.... Sono o non sono il marito di
mia moglie e il padre dei miei figli?... Mi spiego?... Non era naturale
che conducessi io la faccenda?... Ma, nossignori... Prima _madama_ ha
voluto far da sè.... E adesso tocca a Gasparo, che con quel suo
temperamento sulfureo finirà di rovinarci.... Cose che andrebbero
trattate con calma, con prudenza, con spirito conciliativo.... E intanto
chi soffre di più siamo noi due, Fortunata e io.... io che non ho un
momento di bene....

Il conte Luca non osava dirlo, ma pensava alla sua scacchiera.

In famiglia Bollati l'arrivo di Gasparo Rialdi a Venezia recò una
molestia infinita. Gasparo non era più un ragazzo da prendersi a
scappellotti; era un uomo, era un ufficiale tenuto in gran conto dai
suoi superiori, e non si poteva sbrigarsene con delle ciancie vuote. Sua
Eccellenza Zaccaria se n'era persuaso subito dopo un primo colloquio, in
cui, ricevuta l'imbeccata da _sior_ Bortolo e dai Geisenburg, egli aveva
tentato di menare il can per l'aia. Bisognava vedere, bisognava studiare
(proprio le parole precise di _sior_ Bortolo), bisognava cercare con
tranquillità una soluzione conveniente. Al bambino si sarebbe
provveduto....

--Conte Zaccaria--aveva detto l'ufficiale in tuono reciso--o il bambino
entra in palazzo Bollati in compagnia di sua madre, o nessuno ha il
diritto d'ingerirsene.... La soluzione a cui ella accenna sarebbe un
secondo insulto per mia sorella... E io non sono disposto a passar sopra
nemmeno al primo.... Ci rifletta meglio, conte, ascolti i suggerimenti
del suo cuore e del suo onore.

Già; quest'era esprimersi chiaro. L'antifona della contessa Zanze. Non
c'è altra riparazione che il matrimonio. Senonchè Gasparo non affogava
il suo concetto in un mare di chiacchiere. Andava per le spiccie, aveva
un piglio soldatesco che produceva un certo effetto.

Il marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen, secondato dalla
consorte, urlava che la tracotanza di quell'ufficialetto di marina era
intollerabile, e che bisognava dargli una buona lezione, e che
gliel'avrebbe data lui stesso se non avesse temuto d'insudiciarsi le
mani.

In quanto al contino Leonardo, è vano il dissimularlo, egli aveva paura,
e se da un paio di generazioni i Bollati non fossero stati avvezzi a
rimanersene attaccati come ostriche agli scogli della laguna, c'è da
scommettere ch'egli avrebbe colto quell'occasione per intraprendere un
viaggietto all'estero, tanto gli pesava il trovarsi faccia a faccia col
fratello di Fortunata, del quale egli conosceva per esperienza l'indole
focosa ed altera.

La paura è un difetto, ma anche i difetti possono servire a qualche
cosa. Nel caso presente essa serviva a far capire a Leonardo il brutto
impiccio in cui egli s'era messo e a predisporlo alla moderazione e
all'umiltà nel suo inevitabile abboccamento con Gasparo.

Gasparo dal canto suo s'era impegnato con la sorella e con sè medesimo a
frenar gl'impeti del suo carattere, cosicchè i due giovani,
nell'incontrarsi, seppero nascondere il mal animo reciproco. Anzi, sulle
prime, Gasparo fu lì lì per dubitare di essere stato ingiusto in passato
negando al cugino ogni qualità di cuore e di intelletto. Ma, ohimè, il
dubbio non tardò a dissiparsi, e Gasparo s'accorse ben presto che nel
fare appello ai sentimenti generosi che scuotono le fibre degli altri
uomini egli usava un linguaggio non inteso o inteso a rovescio dal
contino Bollati.

Quelle parole che destano la coscienza sopita, che fanno salire al viso
i rossori della vergogna, che fanno spuntare sul ciglio le lagrime del
pentimento, erano pel giovane patrizio un vano frastuono, e invece di
persuaderlo al bene rinfocolavano in lui gl'istinti bassi e perversi.
Preparato ai motti pungenti, alle intimazioni recise del fiero Rialdi,
l'eloquenza appassionata, commossa, affettuosa di lui gli sembrava un
sintomo di debolezza.

--Quand'è così--pensava il vigliacco--ho torto io a farmi coniglio.--E
si imbaldanziva a poco a poco, e dal labbro che un momento prima
stillava latte e miele, gli uscivano allusioni maligne e velenose.
Gasparo pazientò alquanto, ma colta a volo una frase che pareva
accusarlo di fini subdoli e venali; egli afferrò pel braccio Leonardo, e
fulminandolo con lo sguardo:--Bada--gli gridò con un ruggito--bada a
quello che dici, o guai a te.

E mentre l'altro, allibito, biascicava delle scuse, egli proseguì:--Bada
di non confondere la calma di chi è sicuro del proprio diritto con la
pusillaminità de' tuoi pari.... Perchè t'ho parlato come a un fratello,
tu hai creduto ch'io fossi qui a mendicar le tue grazie.... Povero
scemo! Io non so se potrò costringerti a fare il tuo dovere; per
me....--e Gasparo voleva dire: per me ci rinunzierei ad averti per
cognato; ma si trattenne e soggiunse invece:--Però una cosa è sicura; me
vivo, mia sorella non sarà impunemente disonorata, nè il nome della mia
famiglia impunemente trascinato nel fango.

Misericordia! Sta a vedere che Rialdi si sognava di provocare un duello?
Era matto? Eh Leonardo Bollati non si batteva! S'eran battuti abbastanza
i suoi vecchi! La spada egli sapeva appena come s'impugnasse, e infatti
non si ricordava d'aver mai toccata quella del nonno, comandante di
galera, che il conte Zaccaria aveva regalato al Museo Correr insieme con
altre anticaglie.

Questa certezza che, nella peggiore ipotesi, nessuno sarebbe riuscito a
condurlo sul terreno, rimetteva un po' di fiato in corpo al nostro
contino, ma non più di quello che era necessario per permettergli di
manifestare con parole sconnesse la propria codardia. Il cugino era
troppo focoso, lo aveva frainteso... Egli non aveva mai avuto l'idea di
offenderlo... Ne aveva anzi una grandissima stima... ben meritata...
come per tutta la famiglia Rialdi... Del resto, riconosceva i suoi
torti... Avrebbe voluto morire piuttosto che nuocere a Fortunata... Ma
adesso che poteva fare?... Già non poteva mica disporre di sè... Era
minorenne, dipendeva da' suoi genitori... Se si persuadevano loro....

Gasparo lo interruppe con un gesto d'impazienza:--Quando facciamo
sparger delle lagrime per i nostri piaceri, abbiamo perduto il diritto
di addurre a scusa la nostra età giovanile e di ripararci all'ombra
degli altri... Siamo abbastanza _uomini_ da dover risponder noi soli
delle nostre azioni.

Parole altrettanto savie quanto inutili. Il contino Bollati non si
dominava con gli argomenti, ma con la paura; lo si teneva in pugno
perch'era un vile.

E questa fu l'impressione che anche Gasparo ritrasse dal suo colloquio
con Leonardo. Si sarebbe vinto, ma la prospettiva d'una tale vittoria
umiliava il nostro ufficiale assai più d'una sconfitta. E non volle o
non seppe tacerlo a sua sorella allorchè ella gli corse incontro
trepida, ansiosa, e vedendolo con la cera stravolta balbettò
sbigottita:--Dio mio, tu m'annunzi qualche disgrazia.

--Non quella che temi--egli rispose con un sorriso pieno d'amarezza.

--Che cosa dunque?

--Ascoltami, Fortunata, ascoltami fin che c'è tempo. Se il consenso di
Leonardo fosse una disgrazia peggiore del suo rifiuto?

--Egli acconsente? Leonardo acconsente a farmi sua moglie?--gridò
Fortunata pazza di gioia. E i suoi occhi s'illuminarono come se le
brillasse dinanzi una visione celeste. Ma poi scorgendo la meraviglia,
il disgusto dipinti sulla fisonomia di suo fratello, chinò la fronte e
arrossì.

--Non lo ha detto ancora--rispose Gasparo.--Ma io credo ch'egli
acconsentirà a tutto quel che si vuole... sai perchè? Perchè lo spaventa
l'idea ch'io possa fargli pagar caro il male che ti ha fatto, perch'egli
trema per sè, perchè egli non ha nemmeno il coraggio d'essere un
tristo... E da un tal uomo tu speri la felicità?... Ah se io fossi in
te, piuttosto di aver costui per marito, accetterei anche il disonore.

--Per me forse--esclamò Fortunata--ma non per _lui_, non per mio
figlio... Io non voglio che mio figlio sia chiamato con un nome
ingiurioso.

Ma a questo grido di madre non tardò a tener dietro un grido d'amante.

--Vedi, Gasparo, tu non puoi capire... malgrado del tuo ingegno, e ne
hai tanto, non puoi capire quello che si passa in cuore di donna... Tu
mi domandi s'io spero da Leonardo la felicità... Ma la felicità, per
noi, consiste nell'appartenere all'uomo che amiamo, nel viver con lui,
per lui... anche s'egli non è degno del nostro amore... anche se
ricambia con gli oltraggi e gli scherni le nostre carezze... Non
corrugar la fronte, Gasparo, non esser troppo severo con me... sono una
povera femmina, io... Non ragiono, sento... In quell'amore che mi ha
fatta colpevole, in quell'amore che mi fa madre è chiuso il mio piccolo
mondo... Non ho altro, non avrò altro mai... Il Signore non ha voluto
ch'io espiassi il peccato con le preghiere, con le penitenze, coi
digiuni... ha ribadito lui stesso le catene che mi tengono attaccata
alla terra... No, no, te lo ripeto--ella continuava infiammandosi sempre
più--tu non puoi capire... Bisognerebbe esser davvero al mio posto... Io
non ho nè la bellezza, nè la grazia, nè lo spirito, ed _egli_ mi ha
amata, sia pure per una settimana, sia pure per un giorno... è quanto
basta perchè io l'ami per tutta la vita.

Gasparo era ammutolito. Che rispondere alle manifestazioni esaltate
d'una passione che non tentava nemmeno giustificarsi, ma si affermava
come un fatto inesorabile, voluto dal destino? Ed egli, il forte e prode
uomo, si domandava tristamente come un libertino volgare, senza ingegno,
nè dignità, nè coscienza, potesse esercitare un tal fascino sopra una
fanciulla buona e gentile. Di quanto fango è dunque composta quella cosa
divina che si chiama l'amore?

Checchè ne sia di ciò, l'abboccamento di Leonardo Bollati e di Gasparo
Rialdi aveva avuto per effetto di lasciar uno dei due interlocutori
sbigottito, l'altro nauseato. Ma se lo sbigottimento rendeva Leonardo
più malleabile, la nausea rendeva Gasparo meno acconcio che mai al suo
ufficio di negoziatore. Egli si trovava, del resto, in una singolare
condizione di spirito. Egli capiva che, in certi casi, dal matrimonio in
fuori, non c'è riparazione che valga, ma, d'altra parte, sentiva
crescere la sua ripugnanza ad adoperarsi per combinare un matrimonio che
avrebbe unito Fortunata con un uomo tanto spregevole. Era scontento
della sua famiglia, scontento di sè. Lo irritava la nullaggine del suo
babbo, l'indole poco scrupolosa di sua madre, l'accecamento di sua
sorella; si sentiva umiliato di queste misere lotte in un tempo nel
quale i suoi amici scontavano col loro sangue un'eroica follìa.



XV.


Poichè in Calabria era avvenuto quello che tutti prevedevano.

Sopraffatti dalle forze borboniche presso San Giovanni in Fiore il 19
giugno di quell'anno 1844, tratti a Cosenza dinanzi a una Corte
marziale, Attilio ed Emilio Bandiera, Domenico Moro e i principali fra i
loro seguaci, venivano condannati a morte il 24 di luglio e fucilati il
dì appresso. La _Gazzetta privilegiata_ di Venezia di martedì 6 agosto
riproduceva dal _Giornale di Napoli_ l'estratto della sentenza
pronunciata ed eseguita. Non una riga di commento, non una parola di
compianto pei tre veneziani che pur lasciavano qui tanta eredità di
memorie e d'affetti. Era già molto se l'insulto villano non li
accompagnava nella tomba. Ma nel segreto delle pareti domestiche,
nell'intimità dei crocchi giovanili, i nomi dei tre martiri erano
susurrati con affettuosa riverenza, e il sacrifizio magnanimo richiamava
a più alti pensieri i popoli della Penisola immersi in frivole cure.

Ciò che Gasparo Rialdi provasse alla notizia della strage di Cosenza, è
inutile il dirlo. Egli giurò allora, e mantenne il giuramento, di
consacrare la sua vita all'idea per la quale i suoi compagni d'armi
erano caduti. Certo non era piccolo sforzo per lui il far violenza alla
sua natura schietta e leale, il continuar a indossare una divisa
abborrita, a servire sotto una bandiera ch'egli tradiva; però i tempi
tristissimi non lasciavano libertà di scelta ai generosi che i voleri
delle famiglie o la dura necessità costringevano a militare sotto lo
straniero; o venir meno agli obblighi di cittadini, o venir meno agli
obblighi di soldati.

Comunque sia, sotto la prima impressione della tragedia di Calabria, il
nostro ufficiale non seppe padroneggiarsi appieno, e il luogo e il modo
in cui egli uscì dal suo riserbo diedero origine a un fatto che poteva
avere per lui conseguenze gravissime.

Egli aveva pregato un suo conoscente d'introdurlo una sera nel Casino
dei nobili affine di leggervi nei fogli napoletani i particolari del
processo contro i Bandiera e i loro complici.

Ora nel momento in cui Gasparo entrò con l'amico, quei fogli erano tutti
accaparrati da un gruppo di persone, tra cui primeggiava il marchese
Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen, quello stesso che avrebbe
voluto dare una buona lezione al Rialdi se non fosse stata la paura
d'insudiciarsi le mani. Il signor marchese leggeva ad alta voce con la
sua pronunzia ostrogota, fermandosi a ogni due parole per pigliar fiato
e per interpolare qualche sua riflessione in italiano o in tedesco, un
articolo del _Giornale di Napoli_, contenente un giudizio sommario
sull'impresa di Calabria. Impresa _incredibile al racconto, di
superlativa stoltezza, di crassa ignoranza_, la chiamava il dotto
articolista, e l'illustre signor marchese stava appunto deliziandosi in
queste frasi concise, vibrate, degne di Tacito. Egli vide con la coda
dell'occhio Gasparo Rialdi, ma finse di non accorgersene e tirò innanzi
nelle sue osservazioni, mettendoci forse una maggiore acrimonia.
Anch'egli opinava, come la suocera, che Gasparo fosse un po' carbonaro,
e non gli dispiaceva di slanciargli indirettamente qualche frecciata,
tanto più che l'ufficialetto gli era antipatico per cento altre ragioni.
La condotta del signor marchese non era punto generosa, giacchè egli
doveva sapere che nel campo politico il Rialdi non aveva libertà di
parola. Noi non abbiamo però detto mai che il marchese fosse un uomo
generoso. Anzi egli non era punto tale, sebbene non fosse certo un
vigliacco come il cognato Leonardo.

--Penissimo--esclamò il marchese Ernesto, sempre col giornale in
mano--_Superlativa stoltezza... crassa ignoranza. So ist es..._ Così è.

L'uditorio approvava. Era proprio da matti furiosi il pensarsi una cosa
simile... In trenta o quaranta voler abbattere un regno... E poi, se
fossero padroni loro?

--_Gott bewahre!_ Dio guardi! meglio la fine del mondo... Sarebbe come
Rifoluzione francese... Ladrerie, stragi, sacrilegi.

--Quel Mazzini!--disse un signore grave e maturo tentennando la testa.

--Sicuro--assentì il marchese.--Quel Mazzini, gran canaglia... Se si
prende, non fucilarlo... troppo onore... _Erhängen muss man ihn_... come
si dice in italiano? ah sì... impiccare, impiccare...

--Quello non si piglia--osservò un altro--e intanto dei poveri giovani
vanno a farsi ammazzare per lui.

--Che poferi giovani? che poferi giovani?--esclamò infastidito il nobile
moravo.--Esempi ci vogliono, e queste condanne faranno puonissimo
effetto... Che poferi giovani?.... Tanto peggio per loro... Non poferi,
impecilli forse... ma impecillità non scusa.

Gasparo s'era frenato fino allora. Seduto dinanzi a un tavolino
all'angolo opposto della stanza, egli avea fatto il possibile per non
sentire, per immergersi nella lettura di uno stupido giornale di _Mode e
Varietà_. Ma il sangue gli saliva alla testa; e all'ultime parole del
marchese egli non ne potè più, e senza ben sapere quel che volesse fare
o dire, si alzò di scatto dalla seggiola, e respingendo l'amico che
s'era provato a trattenerlo, si diresse verso il crocchio ove l'altro
dottoreggiava. Era infiammato in viso, i suoi occhi lampeggiavano.

Quei patrizi rimminchioniti non eran leoni e subodorando una scena si
tirarono in disparte. Il marchese Ernesto però, antico capitano degli
usseri, non poteva battere in ritirata, e levatosi da sedere quanto più
presto glielo permise la sua corpulenza, s'appoggiò coi pugni alla
tavola, e disse:--_Was wünscht der Herr Offizier? Ja..._ Che desidera?

--Io?... nulla--rispose Gasparo sforzandosi d'esser calmo.--Anzi mi
dispiace di aver disturbato la bella conversazione.... Volevo dire
solamente....

--Ah, foleva dire qualcosa? _Bitte_... Prego... Parli....

--Volevo dire che bisogna mancar d'ogni gentilezza d'animo per
scagliarsi contro della gente che può esser stata illusa, che può aver
sbagliato, ma che in ogni modo sacrificò la vita per un'idea....

--_Bitte... Prego... Der Herr..._ Il signore difende i Pandiera?... _Ach
sehr gut..._ Penissimo.... Un imperiale e reale ufficiale....

--Io non entro nella questione, io non giudico il tentativo dei fratelli
Bandiera e dei loro seguaci, ma ripeto, e l'esser ufficiale della marina
austriaca non me ne toglie il diritto, che l'insultare alle tombe è
viltà.

Il marchese era divenuto anche lui rosso come una ciliegia, e ansava più
del solito.

--Viltà?... _Ach ja, Feigheit.... Und mir sagen Sie das?..._ Dice a me
questo?

--A lei, a lei.... O a chi dunque?

--Ah capisco.... Il signore vuole... come si dice?... _mich
herausfordern... ach ja..._ provocare... provocar me, marchese
Geisenburg-Rudingen von Rudingen? Capisco assai pene.... I Pandiera sono
un pretesto. Il signore vuol provocare perchè sono contrario a
speculazioni matrimoniali di sua famiglia....

--Lei mente, lei è un codardo--urlò Gasparo Rialdi fattosi livido
all'atroce ingiuria.

E la sua mano alzatasi con piglio minaccioso sarebbe certo caduta sulla
nobile guancia del marchese Ernesto di Geisenburg-Rudingen von Rudingen
se i presenti non si fossero interposti a tempo.

Però quello scandalo pubblico tra due militari non poteva finire così, e
il giorno appresso il marchese Geisenburg-Rudingen von Rudingen e il
conte Gasparo Rialdi si trovarono l'uno di fronte all'altro su una
striscia di terra non coltivata a poca distanza da Fusina. Il marchese
era stato in gioventù uno spadaccino di prima forza, e conosceva ancora
alla perfezione le finezze dell'arte, ma il Rialdi era più svelto, più
risoluto, più audace e con un colpo bene assestato ferì l'avversario
alla spalla destra e gli fece cader l'arma di mano.

Il curioso si è che questo duello, il quale ragionevolmente avrebbe
dovuto spazzar via l'ultime speranze di Fortunata, produsse un effetto
tutto contrario alle previsioni.

E in primo luogo diciamo che la disgrazia del marchese non afflisse
nessuno in famiglia Bollati. La prosopopea di quel feudatario era stata
sempre intollerabile, ma adesso era più uggiosa che mai, dacchè s'era
scoperto che, dietro a tanto fumo c'era pochissimo arrosto, e che i
famosi castelli moravi erano stati ipotecati per pagare i debiti di
giuoco del signor marchese, il quale poi gli altri debiti non li pagava
affatto. Siccome però i creditori non avevano l'opinione del signor
marchese che un gentiluomo non dovesse curarsi che degl'impegni
contratti dinanzi a un tavolino di _roulette_ o di faraone, così le
citazioni fioccavano, e raggiungevano l'illustre viaggiatore anche di
qua dalle Alpi. I suoi due camerieri, quando avevano ben mangiato e
bevuto in cucina, deponevano per poco l'usata albagìa, e ne raccontavano
di belline. Essi medesimi, a sentirli, non ricevevano il salario da più
mesi, e si adattavano a restare ancora per qualche tempo presso le loro
Eccellenze unicamente nella speranza che il conte Zaccaria venisse in
aiuto del genero e della figliuola. Già, essi soggiungevano mezzo in
tedesco e mezzo in italiano, il vero scopo della gita in Italia della
nobile _Herrschaft_ era stato quello di procurarsi danaro. La servitù
dei Bollati, che cominciava ad accorgersi degli impicci finanziari
della famiglia, non rispondeva nulla, ma dubitava grandemente che la
nobile _Herrschaft_ fosse costretta a tornarsene indietro con le mani
vuote, nel qual caso addio mancie! Infatti il _lustrissimo_ Zaccaria,
per levarsi la seccatura, mandò il marchese dall'agente generale,
_sior_ Bortolo, e questi protestò di non poter dare un centesimo. Ormai
l'ingegnoso amministratore era a corto d'espedienti, e non ci teneva
punto a ingraziarsi i Geisenburg, che, invece di secondarlo, avevano
attraversato alcuni suoi disegni. Il marchese Ernesto e la marchesa
Maddalena intronarono allora di querimonie gli orecchi dei congiunti
dicendo ch'era una vergogna il lasciarsi dettar la legge da un
bifolco, e che quel _sior_ Bortolo era un ladro, e ch'era tempo di
vederci chiaro, e altre cose simili, tutte fatte apposta per seccare i
Bollati, i quali a vederci chiaro non ci pensavano nemmeno e parevano
disposti ad andar placidamente in rovina piuttosto che aver sopraccapi.
Onde la contessa Chiaretta, discorrendo de' suoi parenti, ebbe a
confessare che preferiva mille volte la Fortunata Rialdi alla marchesa
figlia, e che perfino Gasparo, quantunque carbonaro, le era meno uggioso
del proprio genero. Il _lustrissimo_ Zaccaria aveva su per giù la
medesima opinione, e quando vennero a dirgli che il marchese era stato
ferito--Auff--borbottò fra i denti--se la ferita lo guarisse dalla
petulanza!

E neppure il contino Leonardo avrebbe creduto opportuno, in massima,
d'intenerirsi pel cognato; chè anzi quel manichino impastato di
arroganza gli era insoffribile, ed egli non sapeva perdonargli
l'etichetta fastidiosa che la presenza di lui introduceva in palazzo,
onde conveniva mutar vestito a ora di pranzo, e star composti a tavola,
e non dir parolaccie. Se la stoccata fosse venuta al marchese da
un'altra parte qualsiasi, il nostro giovinotto sarebbe stato
capacissimo di mettere un gran respiro di soddisfazione. Ma il duello
del Geisenburg col Rialdi lo turbò tutto per ragioni sue personali.
Senza dubbio quel terribile Gasparo meditava un grande eccidio, e dopo
aver provato la punta della sua spada sulla pelle del marchese Ernesto,
si disponeva a cacciarla a mezza lama nella pancia di qualchedun altro.
Anime sante del Purgatorio! come diceva don Luigi.

Al contino veniva la pelle d'oca al pensarci, e la notte successiva al
duello fu per lui una notte d'inferno. Si voltava e rivoltava fra le
lenzuola ansando, smaniando, balzando a sedere a ogni più lieve romore.
Peggio poi se pigliava sonno un momento. L'assalivano subito tetre
visioni, gli pareva d'essere infilzato come un capo di selvaggina, e si
svegliava in sussulto sbarrando gli occhi e palpandosi di qua e di là
per esser ben sicuro che il ferro traditore non gli fosse penetrato
nelle viscere. Allora, un po' più calmo, cercava di persuadersi che
Gasparo Rialdi non l'avrebbe mica aggredito per la strada come un
volgare assassino, e che in quanto al battersi bisognava essere in due
per volerlo, ed egli, Leonardo Bollati, non sarebbe stato mai uno di
quei due. Egregiamente; ma queste ottime ragioni non avevano efficacia
durevole. Alle corte, il bravo giovinotto prese una risoluzione eroica e
la comunicò ai genitori.

--Ci ho pensato su, e mi son convinto che non posso far di meno di
sposar Fortunata. Ho degli obblighi.

Il lustrissimo Zaccaria e la lustrissima Chiaretta rimasero di sasso,
perchè fino allora il contino non s'era mostrato così soggetto agli
scrupoli.

--Ta, ta, ta, ta--disse Sua Eccellenza il conte Zaccaria--meno furia, ci
siamo anche noi.... E com'è che fino a pochi giorni fa il signorino
protestava di non volersi ammogliare nè adesso, nè mai, nè con la
cugina, nè con la figlia dell'imperatore del Mogol, se, puta caso, ella
fosse venuta da queste parti?

--Io volevo liberarmi dalle seccature di _sior_ Bortolo che s'impuntava
a darmi la sua Vinati.

--Di quella non si parla--interruppe la contessa Chiaretta--non è
neanche nobile.

Il conte sospirò pensando che la Vinati avrebbe portato in casa
cinquecentomila lire sonanti. Pazienza. C'era di mezzo il decoro della
famiglia, e conveniva rinunziarci.

--Ma io non voglio saperne nemmeno delle tedesche di mio
cognato--seguitò Leonardo.

--Oh quelle lì--disse il conte--sono _in mente Dei_. Il marchese mio
genero non fa che citarle a memoria dall'almanacco di Gotha.... Del
resto--soggiunse il nobiluomo con maggiore solennità--è fuor di dubbio
che l'unico rampollo maschio d'una famiglia come la nostra deve pigliar
moglie per assicurare la discendenza.

--Ebbene, io sposo mia cugina, e la discendenza è già assicurata.

--Adagio, Biagio--ripigliò il conte Zaccaria.--Il matrimonio d'un
Bollati non è faccenda da risolversi su due piedi, e cinquant'anni
addietro avrebbe voluto entrarci il Serenissimo....

--E le prime famiglie del patriziato sarebbero venute a offrirci le
figliuole--esclamò la signora Chiaretta.

--Sfido io.... Con tanti dogi e procuratori e ammiragli che abbiamo fra
i nostri vecchi... le prime famiglie e le più ricche...--soggiunse il
conte moderando un poco l'intonazione pomposa del discorso.

--Sarebbero venute anche adesso--disse la moglie--senza questi
scandali, senza questa condotta indecente.--Indi rivolgendosi a
Leonardo--Vergogna! Sei la rovina dei Bollati.

Naturalmente da questo colloquio non si concluse nulla. _Sior_ Bortolo,
chiamato di nuovo a consulto dai nobili padroni, tenne un linguaggio
insolito. Egli non voleva più impicciarsene, perchè s'era accorto che le
sue intenzioni erano fraintese e il suo zelo mal ricompensato. A
proporre, giorni addietro, un partito di cinquecentomila lire pel
contino Leonardo, s'era tirato addosso una tempesta, e il marchese e la
marchesa Geisenburg gli avevan dette di quelle ingiurie che feriscono al
vivo un galantuomo. Facessero dunque il piacer loro. Già, esclusa la
Vinati, egli non vedeva nessun altro buon matrimonio possibile. Egli se
ne lavava le mani.... Ricordava soltanto alle Loro Eccellenze che il
signor Vinati era deciso a non rinnovare il mutuo.

--Mi pare,--disse il conte Zaccaria, quando l'agente generale
s'accommiatò,--mi pare che _sior_ Bortolo _alzi la cresta_.

--Pare anche a me,--rispose la contessa Chiaretta.

Il fatto si è che _sior_ Bortolo aveva ormai messo da parte un bel
gruzzolo di quattrini e si curava assai meno del favore delle Loro
Eccellenze.

Ammutolitosi l'agente, screditati i Geisenburg per la loro tracotanza e
i loro dissesti ormai palesi a mezzo mondo, il conte e la contessa
Bollati rimanevano esposti agli assalti della cugina Zanze, del
nobiluomo Canziani, di monsignor Lipari e di tutti i favoreggiatori
dell'unione di Leonardo e di Fortunata. Dal canto suo Leonardo, ogni
volta che vedeva da lontano Gasparo Rialdi con la sua aria marziale e la
sua spada al fianco, sentiva la tremarella alle gambe, e tornava a
palazzo strepitando che bisognava riparare ai proprii torti senza
perder altro tempo. Batti oggi e batti domani, le ultime resistenze del
conte e della contessa furono vinte, e con immenso sdegno dei
Geisenburg-Rudingen von Rudingen, i quali partirono da Venezia
lasciandovi un lungo strascico di debiti e dichiarando di non volervi
più rimetter piede, le prossime nozze del contino Leonardo Bollati P. V.
con la contessina Fortunata Rialdi furono annunziate ai parenti e agli
amici.

Però il matrimonio si celebrò quasi clandestinamente, tra gli epigrammi
dei maligni e le mormorazioni di quelli che erano avvezzi alle pompe di
casa Bollati. Nè regali, nè fiori, nè componimenti in verso o in prosa.
Il nobile Canziani dovette ringhiottire un epitalamio, e don Luigi fu
costretto a rinunziare alla stampa d'un altro capitolo della sua opera
colossale destinata a polverizzare la gloria di Alessandro Manzoni.

L'unica persona a cui nel giorno solenne brillasse in viso una schietta
felicità era Fortunata. Il voto del suo cuore era pago, il suo onore era
salvo, la creaturina che stava per nascere da lei non sarebbe entrata
nella vita senza padre e senza nome; che poteva ella desiderare di più?
Contro le nuove prove che l'aspettavano le pareva di esser forte
abbastanza, forte di rassegnazione, di tenerezza, di fede in Dio, in
quel Dio ch'ella oggi ringraziava dal fondo dell'anima pel bene che le
aveva concesso.

Fatto si è che tutti gli altri, qual più, qual meno, avevano la faccia
scura.

Leonardo, quantunque deciso a continuar la vita da scapolo anche
dopo ammogliato, s'arrabbiava già con se medesimo d'aver così
docilmente piegato il collo al giogo coniugale; il conte Zaccaria e la
contessa Chiaretta vedevano in quel matrimonio un sintomo
dell'umiliazione del loro casato, e la contessa Zanze Rialdi aveva
amareggiata la gioia del trionfo dalla meschinità della festa e più
ancora dai molti indizi della decadenza economica dei Bollati. Aver
aspirato con tanto ardore a far entrare la figliuola in quell'illustre
famiglia e riuscirvi solamente quando l'illustre famiglia minacciava
d'andar in rovina, era proprio un'ironia della sorte! La contessa Zanze
si sfogava col marito e gli diceva all'orecchio durante la
cerimonia:--Se foste un altro uomo, non avreste permesso che la cosa si
facesse in questa maniera.... Pare che ci facciano una grazia.... E poi
Dio voglia che non siamo alla vigilia del _patatrac_.... Se almeno foste
nell'amministrazione!--Tacete,--rimbeccava il consorte.--Voi parlereste
anche sott'acqua. Non siete mai contenta, voi.

Gasparo Rialdi non assisteva a quelle nozze ch'egli, sebben riluttante,
poteva dire d'aver imposto con la punta della sua spada. Sventata, mercè
la benevola interposizione di qualche ufficiale superiore suo amico, la
tempesta che si addensava sul suo capo dopo la scena nel Casino e il
duello col Geisenburg, egli era partito da più giorni per la nuova
destinazione di Pola, datagli dal Comando della marina. In apparenza lo
si mandava a dirigere alcuni lavori a quell'arsenale, in fatto si voleva
tenerlo lontano dalla squadra del Levante ove serpeggiavano umori
rivoluzionari.



XVI.


Come _sior_ Bortolo aveva predetto, il matrimonio del contino Leonardo
rese intrattabile il signor Vinati, il quale vedeva frustrate le sue
speranze di dare un titolo alla figliuola. La moglie di lui, che aveva
tutte le bizze e tutti i rancori d'una femminetta arricchita, soffiava
nel fuoco e minacciava il marito della sua collera s'egli non esigeva da
quelle _Zelenze_ (e qui la signora Vinati aggiungeva un epiteto
energico) il puntuale rimborso del mutuo che scadeva appunto alla fine
dell'anno.--Non un giorno, non un'ora, non un minuto--strillava la
megera, implacabile come il destino. E anche altri creditori che fino
allora non avevano badato a qualche ritardo nel pagamento
degl'interessi, e non avevano mai detto di no alle domande di
rinnovazione, si facevano meticolosi ad un tratto e dichiaravano senza
cerimonie di non voler servire più da zimbello a nessuno. _Sior_ Bortolo
non sapeva a che santi votarsi. Invero, egli s'era già preparato la sua
brava ritirata; aveva un bel poderetto in Friuli e una casa piena di
grazia di Dio in Venezia, ma finchè c'era qualche osso da rosicchiare
nell'azienda, non gli bastava l'animo di abbandonare le Loro Eccellenze.
Povera gente! Sarebbero stati impicciati come pulcini nella stoppa.

Ormai la fama con le sue cento bocche spargeva dappertutto la notizia
della prossima rovina dei Bollati, e sul palazzo pesava la tristezza che
pesa sulle cose decrepite. Come suole accadere, i cosidetti amici di
famiglia s'erano dispersi; non c'era ragione, dicevano, di andar a
disturbar della gente che aveva tanti sopraccapi. Tutt'al più veniva
ogni giovedì e ogni sabato il nobile Canziani, visitatore poco
desiderabile, sia perchè pativa frequenti accessi di tosse, sia perchè i
suoi reumatismi gli rendevano difficile di mettersi a sedere quand'era
in piedi e di alzarsi quand'era seduto. I Rialdi, nella loro qualità di
genitori della sposa, bazzicavano in casa ancora più spesso del solito,
e pranzavano alla tavola dei parenti tre volte per settimana, ma stavan
sempre con tanto di muso, non potendo perdonare ai Bollati i loro
dissesti economici. Ed era di umor tetro anche don Luigi, il quale si
vedeva mancar lo stipendio da parecchi mesi, e presentiva di dover
presto abbandonare la sua sinecura, senza che gli fosse riuscito almeno
di stampare il libro da cui egli si riprometteva l'immortalità.

Ah come sarebbero rimaste male le _lustrissime_ Adriana e Marina,
padrone e protettrici del defunto Nicola se, uscendo dal sepolcro per un
momento, fossero penetrate nel salottino ch'esse avevano empito del loro
sorriso, del loro cinguettìo festevole, della loro grazia elegante! Come
avrebbero stentato a credere che fossero due Bollati quelle due donne
dalla faccia scialba e dall'aria abbattuta che sedevano una di fronte
all'altra davanti a un tavolino rischiarato da una lucerna a olio di cui
un cappello verde raccoglieva entro un breve cerchio i tremuli raggi,
mentre il resto della stanza era immerso nelle tenebre e la vecchia
lumiera di Murano, riscintillante un tempo per cinquanta fiammelle,
pendeva dal soffitto polverosa e dimenticata! Suocera e nuora talvolta
giocavano a _conzina_, talvolta stavano a guardarsi senz'aprir bocca.
Un'ombra scura si moveva nel fondo; era don Luigi che, sprofondato in
una poltrona, ora stirava le braccia, ora accavallava le gambe; poco più
in là Romeo, il soriano amatissimo dalla contessa, sonnecchiava e faceva
le fusa, rivolto a spira sopra uno sgabello imbottito. Ogni tanto S. E.
Chiaretta tralasciava a mezzo la partita o rompeva il silenzio per
infilar le sue solite querimonie, fedele al suo antico sistema di
presagire i maggiori guai senza esser capace di muovere un dito per
istornarli da sè. Don Luigi rincarava la dose delle lamentazioni,
Fortunata ascoltava pazientemente e taceva. Di tratto in tratto ella
guardava verso l'uscio come chi attende qualcuno. Ma la persona da lei
attesa non capitava. Capitava invece, prima di recarsi al Casino dei
nobili, o al teatro, o al caffè Suttil, il _lustrissimo_ Zaccaria, il
quale, dacchè le sue faccende volgevano alla peggio, era diventato più
loquace che mai, e discorreva de' suoi colossali progetti agricoli,
delle sue sognate rivendicazioni di feudi, d'una miniera aurifera
ch'egli credeva d'aver scoperto in uno dei suoi poderi del Friuli e
d'altre signorie fantastiche e cervellotiche.

Era forse in vista di queste ricchezze future che il conte Zaccaria,
nonostante i suoi rigidi principii sull'integrità del patrimonio, aveva
permesso che si cominciassero a vendere stabili e campagne. Rimedio che
veniva troppo tardi per acconciare le cose. I prodotti dei fondi
andavano nelle fauci dei creditori ipotecari, e quando si voleva
procurarsi quattrini per disporne a proprio talento era necessario
ricorrere allo spaccio furtivo (furtivo così per dire) di qualche
oggetto d'arte o d'antichità; oggi un quadro, domani una statuina di
bronzo, o un cammeo, o una collezione di porcellane, o un fornimento di
pizzi. La servitù, che stentava a riscuotere il salario, approfittava
della confusione e sottraeva ingegnosamente qualche coserella anche lei.
Già le loro Eccellenze, sollecite del proprio decoro, non avevano
stimato opportuno di licenziare i gondolieri, nè le cameriere, nè il
cuoco, e queste ottime persone avevano dichiarato di restarsene al loro
posto per solo amor dei padroni, aspettando tempi migliori. Anzi il
cuoco spingeva l'abnegazione fino a prestar l'opera sua al contino
Leonardo per agevolargli le sue particolari combinazioni finanziarie.
Non gli dava più danaro direttamente, ma lo aiutava a trovarne
ingarbugliando degli usurai acciecati dall'avidità del guadagno.
Conchiuso l'affare, il signor Oreste si prelevava la sua provvigione a
fronte, diceva lui, degl'interessi che gli spettavano per le sue
sovvenzioni passate. Altro che interessi! Se si fosse fatto il conto, si
sarebbe visto che il signor Oreste s'era da un pezzo rimborsato anche
del capitale, ma in famiglia Bollati non si facevano conti.

Subito dopo il matrimonio, il nostro contino aveva ripreso la sua vita
d'un tempo, e della moglie non si curava neppure. Che s'ella si
permetteva qualche timida rimostranza, egli prorompeva in bestemmie e in
contumelie e urlava che non lo seccassero, per Dio! Egli s'era sposato
per compassione, per misericordia, ma non intendeva di essersi messo un
laccio al collo, o voleva divertirsi, e star con gli amici e spassarsela
con femmine belle ed allegre; che già di lei, di Fortunata cioè, se ne
persuadesse pure, egli era stucco e ristucco.

Che pena devess'essere per Fortunata il subire un trattamento simile,
s'intende facilmente. Buon per lei che s'ella non aveva nessuna delle
qualità vigorose che servono a domare le avversità, possedeva però tutte
le virtù passive che aiutano a tollerarle. Alla brutalità del marito,
all'alterigia dei suoceri, i quali, pur non vedendola di mal occhio, la
consideravano poco più d'una cameriera, ella contrapponeva una calma,
una mansuetudine infinita. Le acerbe parole, gli sfregi celati o palesi
non potevano scancellare dal suo cuore la riconoscenza per Leonardo che
l'aveva sposata, per il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta che
l'avevano accolta nella loro casa. Ed ella sperava di conquistarsi
meglio il suo posto quando le fosse nato il suo bambino, quel bambino
nel cui pensiero ella riposava la mente nell'ore più sconfortate e più
tristi. In quanto alla catastrofe finanziaria verso la quale si correva
a passo accelerato, ella non se ne angustiava troppo. Cresciuta nella
persuasione dell'immensa ricchezza dei Bollati, ella non concepiva
neanche la possibilità ch'essi avessero a cadere in miseria; sarebbero
diventati meno ricchi; la gran disgrazia davvero! Che bisogno aveva ella
di vestiti sfoggiati, di teatri, di gondole, di cavalli, di cocchi? D'un
po' d'amore ella aveva bisogno, ecco tutto, e quest'amore la sua
creatura almeno non glielo avrebbe negato.

Nei vecchi tempi, la nascita d'un erede in famiglia Bollati era un fatto
di grande importanza. I primi ostetrici della dominante prestavano le
loro cure alla puerpera, e i parenti e gli amici accorrevano in palazzo
ad attendere con trepida ansietà lo scioglimento favorevole della crisi.
Ma la povera Fortunata non ebbe il piacere di mettere in iscompiglio la
cittadinanza. La notte in cui ella fu colta dalle doglie il conte
Leonardo gozzovigliava in un'osteria con altri scapestrati suoi pari.
Avvertito delle condizioni in cui si trovava la contessa moglie--Io non
posso far nulla--egli disse giudiziosamente.--Bisogna chiamare la
levatrice.

E poichè lo assicurarono che quest'utile provvedimento era già stato
preso, egli soggiunse:--Quand'è così, lasciatemi in pace.

E seguitò a mangiare e a bevere fino alla mattina. Allora, tornando a
casa mezzo brillo, egli ricevette la lieta notizia che sua moglie, dopo
sofferenze non lunghe ma acute, aveva dato alla luce una bimba.

--Neanche buona di darmi un maschio--egli brontolò con mala grazia.

Alla piccina furono imposti i nomi di Chiaretta, Luigia, Adriana,
Teresa, Veronica, Margherita. Questo lusso di nomi era tradizionale
nelle femmine di casa Bollati, e non si volle che in ciò la nuova
contessina fosse da meno delle sue antenate. Delicato riguardo del quale
non sembra però che la neonata fosse molto riconoscente, perchè subito
dopo il battesimo ella principiò a strillare come un'ossessa e strillò
per tre giorni e tre notti consecutive. Trascorso questo termine, ella
perdette la voce e il fiato e si credette che sarebbe morta prestissimo.
Ma la madre con le sue carezze, co' suoi baci, con le dolci parole
susurratele nell'orecchio la persuase a vivere. Povere mamme egoiste! Vi
par proprio che la vita si apra così bella ai vostri figliuoli?

La piccola Margherita (era questo tra i sei nomi della fanciulla quello
con cui la si chiamava) prese un po' di carne e di colore appena fu
condotta in campagna. E Fortunata si sentiva così felice, così felice!
Quand'ella poteva star vicino alla bimba e chinarsi sulla sua cuna, e
covarla cogli occhi, e mirarne i moti inconscienti, e interpretarne il
linguaggio, ella non aveva tempo d'accorgersi di quant'altro succedeva
intorno a lei. Tutt'al più, qualche volta, le spuntava una lagrima sul
ciglio al pensar che Leonardo non si curava di quest'angioletta e non le
aveva dato ancora neppure un bacio. Del resto, il brontolio della
suocera, le visite frequenti di _sior_ Bortolo che lasciava sempre
dietro di sè uno strascico di nuvoloni, la turbavano mediocremente.
Certo la villeggiatura non era più quella d'un tempo; non c'erano
banchetti, non c'erano ospiti, ma che ne importava a lei che aveva la
sua Margherita?

Sua madre, la contessa Zanze, non riuscì a svegliarla che a mezzo dal
suo beato sopore. La contessa Zanze, com'era suo dovere, venne a far
visita ai parenti, e, quando fu sola con Fortunata, le riferì tutte le
chiacchiere della piazza sul conto dei Bollati, e le disse che s'era
giunti al punto di dover affittare il piano nobile del palazzo a un lord
inglese. Non avevan detto nulla a lei?.... No? Ah quest'era il conto in
cui si teneva la sua figliuola? Oh se si sarebbe fatta sentire! Ma
intanto si ricordassero tutti, anche Fortunata, che i nodi venivano al
pettine, e che per scampare dalla miseria bisognava almeno mettere in
salvo qualche cosa, prima che i creditori se ne impadronissero....
perle, diamanti, trine, oggetti insomma di poco volume e di molto
pregio. Aveva capito? Sì o no? Gran fatalità la sua di aver sempre da
fare con gente di poco cervello!

Fortunata non potè a meno di ripetere a suo marito i discorsi che le
aveva fatti sua madre, di chiedergli se ci fosse nulla di vero in tutto
ciò.

--Che ne so io?--egli rispose stringendosi nelle spalle.--Fanno,
disfanno, comprano, vendono, senza chiedere il mio parere.... Tutti
imbroglioni, tutti furfanti.... I nostri nonni, che Iddio li abbia in
gloria, hanno cominciato loro a sciupare il patrimonio e noi facciamo il
resto.... Io non voglio fastidi.... Finchè ce n'è, pretendo d'aver la
mia parte; quando non ce ne sarà più....

--Oh, Leonardo,--proruppe Fortunata,--non puoi parlare così.... Non sei
solo adesso.... Ci siamo.... c'è questa creaturina qui.... Per me, vedi,
mi rassegnerei a dormir sulla paglia, a viver di pane e acqua.... ti
giuro anzi che accetterei il sacrifizio con entusiasmo.... perchè
nessuno direbbe allora che t'ho amato per speculazione.... ma, lei, la
nostra Margherita, non ha da esser nata per patire.... non è vero,
Leonardo, che non lo permetterai?.... Guardala com'è bella, com'è bianca
e rosea.... Via, Leonardo--ella soggiunse, e i singhiozzi le rompevano
la voce--se anche ti son diventata incresciosa io.... se non puoi
proprio amarmi più, un po' di bene lo devi volere alla tua figliuola.

E così dicendo cercava di tirarlo vicino alla cuna. Ma egli, stizzito,
protestò che non poteva soffrire nè le donne che piagnucolano, nè i
bambini che allattano, e infilò l'uscio della stanza. Allora Fortunata
si gettò con la faccia in giù sui guanciali del letto e diede libero
corso alle sue lagrime.

Il vagito della bimba la scosse. Ella si rasciugò gli occhi e
ricomponendo il viso a un'espressione serena prese in collo la piccola
tiranna che urlava furiosamente. Accarezzata dallo sguardo e dalla voce
materna, Margherita si chetò a poco a poco e abbozzò il suo primo
sorriso.

--Oh, tesoro mio, anima mia!--esclamò Fortunata in estasi, e la sua
faccia s'illuminò tutta.--Come ride già! S'_egli_ fosse qui adesso!
S'_egli_ la vedesse!

E inebbriata da quel sorriso, dal primo sorriso della sua bimba, la
povera donna dimenticò i suoi dolori.



XVII.


Le notizie della contessa Zanze non tardarono ad aver piena conferma, e
l'affare del palazzo, già bene avviato quand'ella ne discorse alla
figliuola, fu concluso poco dopo. L'appartamento nobile, ammobigliato
come stava, era preso per due anni da un baronetto inglese ricchissimo,
il quale, pur di spuntarla, aveva dichiarato d'esser pronto a pagare
anticipatamente l'intera pigione in tante belle ghinee. Anzi può dirsi
che questa magnanima offerta aveva dato il tracollo alla bilancia e
vinte le obbiezioni del conte Zaccaria. Lo scrigno era vuoto, i bisogni
stringevano, e le ghinee del signore inglese capitavano molto a
proposito.

La famiglia Bollati decise di rimanere in campagna finchè fosse
allestito alla meglio il secondo piano del palazzo. Con altre parole, si
rinunziava a tornare a Venezia prima del San Martino di quell'anno 1845.
Quei sette mesi di villeggiatura forzata invecchiarono la contessa
Chiaretta di sette anni. Sempre chiusa fra quattro muri, sempre al buio,
ella non faceva che lamentarsi da mattina a sera. Rimpiangeva il suo
salottino di città che era caduto in mano di stranieri (luterani per
giunta), rimpiangeva il suo poggiuolo sul Canal Grande, rimpiangeva le
visite, il teatro, la gondola e tant'altre cose di cui ella a Venezia
godeva pochissimo ma che adesso le sembravano indispensabili perchè non
poteva averle.

Il resto della famiglia se la passava discretamente. Il conte Zaccaria
viveva nel suo mondo fantastico, e nel pensiero dei milioni che dovevano
venirgli, non si sa da che parte, si consolava dei milioni che gli erano
sfumati in mano. Di tratto in tratto egli faceva attaccare i cavalli e
con due giorni di viaggio andava nella sua tenuta del Friuli, tenuta
ch'era anch'essa, non occorre dirlo, sopraccarica d'ipoteche. Ivi
giunto, con molta gravità esaminava i terreni, e raccoglieva vari pezzi
di roccia, che poi spediva a qualche geologo di Venezia o d'altri paesi
con l'incarico di farne l'analisi. Oppure, chiudendosi in camera, egli
scartabellava alcuni documenti polverosi che aveva portato con sè in
campagna, e prendeva delle note circa a un credito di duemila zecchini
che nel 1685 i Bollati professavano contro un nobil uomo Steno. Quei
duemila zecchini con gl'interessi dal 1685 in poi che bella sommetta
avrebbero formato!

Quando il conte Zaccaria si era ben pasciuto delle sue illusioni, egli
era buono e degnevole anche con Fortunata. Le prometteva di farle fare
uno smaniglio col primo oro estratto dalla sua miniera, e di assegnare
una dote alla piccola Margherita prelevandola dalla prima rata del
credito che avrebbe incassato dagli eredi Steno. Fortunata non badava
alle promesse, ma i modi affabili del suocero le recavano un gran
conforto; sentiva d'esser riconosciuta, non più tollerata soltanto,
nella famiglia, quando egli le parlava così. Talvolta egli usciva con
lei in giardino e, appoggiato al suo braccio, percorreva i sentieri su
cui cresceva l'erba, i viali ove i rami degli alberi non rimondati da
mano esperta s'intrecciavano disordinatamente fra loro, e diceva che
nella villa c'erano infiniti bisogni, e ch'egli ci avrebbe pensato
appena avesse avuto quattrini. Voleva scrivere a suo genero, che di
queste faccende se ne intendeva, perchè gli mandasse un giardiniere
tedesco, voleva ricostruire di pianta alcune case coloniche e migliorare
le stalle e rinnovar le stufe dei fiori, e a tante altre belle cose
voleva provvedere a tempo e luogo. Discorsi da far pietà a chi sapeva le
condizioni vere del patrimonio. Fortunata, poverina, non si
raccapezzava. Ora temeva che il conte Zaccaria non avesse più il
cervello a posto, ora invece sperava che il diavolo non fosse così
brutto come lo si dipingeva, e che ci dovesse esser pure una via
d'uscita dagl'impicci presenti. Quantunque i segni dello sfacelo fossero
anche troppo visibili, Fortunata si trovava tuttora in mezzo ad agi
ch'ella non aveva mai goduti in sua casa. Una grande fortuna somiglia
un poco al sole d'estate che lascia dietro di sè un lungo crepuscolo; il
passivo, come dicono gli uomini d'affari, può superar di molto l'attivo,
e nondimeno le apparenze della ricchezza continuano per un pezzo ad
abbagliare gli estranei, a illuder quelli medesimi che sono immersi nei
debiti fino alla gola. Sicuro; il palazzo di campagna dei Bollati era in
condizioni deplorevoli, ma era sempre uno tra' più bei palazzi che
fossero sulla Brenta; il giardino era negletto, ma era sempre un
giardino ampio e signorile, e il podere contava più campi che non ne
contassero sommati insieme gli altri dei possidenti vicini. Per miglia e
miglia i contadini riconoscevano per padroni le loro Eccellenze Bollati,
e Fortunata riceveva anch'essa inchini e scappellate a profusione e il
titolo di _lustrissima_ a ogni momento. Che più? La stessa Margherita
era considerata una principessina, e allorchè tirata dalla bambinaia nel
suo paniere a ruote ella si recava a visitar la famiglia del bovaro, i
bimbi le facevano una festa da non dirsi e mettevano tutto l'impegno per
farla sorridere. In principio riuscivano spesso all'effetto opposto,
specialmente quando se ne immischiava Leone, il grosso cagnaccio nero
dal pelo irto e dalla voce di basso profondo. Ma alla lunga Margherita
s'era avvezzata al chiasso dei fanciulli e alle dimostrazioni romorose
del cane, e dalla sua cuna orlata di trine pareva prender parte a
quell'allegria, e agitava le sue manine color di rosa, e girava intorno
gli occhietti azzurri, e metteva certi piccoli strilli che volevano
esprimere l'eccesso della gioia. Povera Margherita! Che ne capiva lei
del temporale che rumoreggiava sempre più minaccioso?

Adesso però ci conviene appagare una legittima curiosità del lettore.
Come si adattava a quella vita campestre il contino Leonardo, uso in
Venezia a far di notte giorno nelle osterie e nei bordelli? Certo doveva
esservi una ragione perchè egli, incapace di far nulla pegli altri,
s'acconciasse a sacrificare ciò a cui teneva di più, vale a dire le sue
abitudini viziose.

La ragione era questa. Leonardo aveva riappiccato con molto maggior
fortuna di un tempo le sue relazioni con la Rosetta, quella Rosetta
nipote del gastaldo ch'era andata sposa a Menico caffettiere. Ell'era
maritata ormai da più anni, durante i quali il conte Leonardo non
l'aveva vista, si può dire, che alla sfuggita, giacchè serbava ancora
memoria delle busse avute per causa di lei e non voleva rischiar di
pigliarne dell'altre. Ma quel soggiorno forzato di parecchi mesi in
campagna gli aveva messo addosso di nuovo il solletico, ed egli aveva
spinto ripetutamente le sue peregrinazioni fino ad Oriago a prendervi un
bicchierino di rosolio dalla bella caffettiera. Infatti Rosetta era più
bella che mai, d'una bellezza sensuale, lasciva, con un paio d'occhioni
neri che mandavano fiamme e certe rotondità baldanzose innanzi alle
quali gli eleganti d'Orlago esaurivano l'intero dizionario dei vocaboli
ammirativi. Di riputazione la Rosetta stava maluccio e l'accusavano
d'aver tresche con questo e con quello; ella poteva rispondere a ogni
modo che viveva in ottimo accordo con suo marito, e contento lui,
nessuno aveva diritto d'impicciarsene.--Non voglio gelosie, non voglio
scene--eran state le sue prime parole dopo le nozze, e il buon Menico le
aveva giurato di non darle noia, nè con scene, nè con gelosie. Lo stesso
spirito di tolleranza ella imponeva agli amanti che le male lingue le
attribuivano; s'ella usava dei favori a qualcheduno, non intendeva per
questo di lasciarsi mettere i piedi sul collo da chicchessia. I
violenti, gli appassionati non avevano fortuna con lei; la sua
benevolenza era riserbata ai mansueti ch'ell'era sicura di menar per il
naso, o agli scapati di umore gioviale che nemmeno sapevano dove stesse
di casa la fedeltà.

Rosetta capì subito che il conte Leonardo al primo rivederla aveva
pigliato fuoco come una volta, e le parve che quello fosse un uomo da
farne ciò che si voleva. Inoltre, rovinato o no, egli aveva sempre un
gran nome e aveva ancora qualche zecchino in tasca, onde Menico il
caffettiere fu pronto a riconoscere che bisognava trattar con tutti i
riguardi un avventore il quale non poteva che dar credito alla bottega.

A poco a poco il contino Bollati spesseggiò le sue gite a Oriago sino
a venirci ogni giorno; ci veniva solo nella più modesta carrettina
della rimessa, tirata dai più modesto cavallo della scuderia, un
cavallo che sarebbe andato da sè e che lo stesso Leonardo si fidava di
guidare. La vispa Rosetta, appena il suo nobile avventore entrava nel
caffè, gli moveva incontro ufficiosa, gli dava del _lustrissimo_,
dell'_Eccellenza_, gli domandava notizie della sua preziosa salute e gli
portava con le sue mani il solito bicchierino. Allora, se non c'era
nessuno, egli se la faceva sedere accanto e mesceva il rosolio anche a
lei e la supplicava di non farlo sospirar altro, chè aveva già sospirato
abbastanza. Ella, disposta a cedere, voleva però mettere a prezzo le sue
compiacenze, voleva che questo babbeo le servisse a qualcosa. In tal
guisa, quando finalmente gli capitò la ricompensa meritata, egli aveva
speso un bel gruzzolo di denari ch'erano stati impiegati in parte a
ristaurar la bottega. Figuriamoci gli epigrammi che si fecero in
quell'occasione! I muri, quantunque meno eloquenti di quello che non
siano al nostro tempo, furono coperti di scritte ove al nome del
caffettiere e a quello della moglie s'aggiungevano degli epiteti tolti
al regno animale. Nè il cospicuo lignaggio fu sufficiente difesa al
conte Leonardo. Anch'egli lesse il suo nome, l'illustre nome dei
Bollati, seguito da un appellativo ingiurioso, e pensò che sua madre
aveva ragione di dire che la petulanza dei carbonari non aveva più
limite. Infatti bisognava esser carbonari per mancar di rispetto in
quella maniera a un nobile veneto. Comunque sia, l'esempio di Menico e
della Rosetta, i quali pigliavano la cosa con la massima indifferenza,
persuase il conte Leonardo a calmarsi.

Forse Menico e la Rosetta non avevano torto. Quelle iscrizioni concise
ed espressive restarono per un pezzo a far bella mostra di sè sulle
muraglie, ma la filosofia di coloro che v'eran presi di mira spuntò gli
strali della satira, e gli abitanti del villaggio, ch'eran gente di
buona pasta, non istettero molto ad amnistiare le relazioni amichevoli
della Rosetta e del conte Leonardo Bollati. Anzi il conte finì
coll'esser considerato un personaggio attinente alla bottega, una specie
di patrono, di capitalista a cui gli avventori facevano giunger
rispettosamente la manifestazione dei loro desideri e delle loro
lagnanze. Se lo zucchero non era abbastanza dolce, se il caffè sapeva di
paglia, se le carte da giuoco eran troppo unte, si diceva una parolina
al signor conte ed egli provvedeva a far cambiare lo zucchero, il caffè
e le carte da gioco; se un vetro era rotto, si diceva al signor conte
ch'era una bruttura il turare il buco con un foglio di carta oliata, ed
egli mandava subito pel finestraio. Con questo savio sistema Sua
Eccellenza Leonardo si conciliava le grazie della Rosetta, la tolleranza
di Menico e la benevolenza universale. Però c'era una difficoltà.
Bisognava aver sempre la borsa fornita, e la borsa del contino Bollati
si smungeva rapidamente. Finchè egli aveva avuto anelli, spille o altra
roba di valore, il servizievole signor Oreste lo aveva aiutato con
grandissimo zelo. Il valentuomo, che una volta alla settimana si recava
a Padova pei doveri d'ufficio, sia che impegnasse o vendesse davvero gli
oggetti affidatigli, sia che fingesse d'impegnarli o di venderli e li
tenesse invece per sè, tornava sempre con un po' di danaro. Ma quando
non ci fu più nulla, il signor Oreste mutò contegno e linguaggio, e
disse che non solo egli non voleva più favorire i vizi di Sua
Eccellenza, ma era deciso a pensare ai casi propri e a far qualche passo
per mettere al sicuro il suo vecchio credito. Allora il nostro
giovinotto cominciò a presentarsi alla Rosetta con le mani vuote, e
trovò accoglienze assai diverse da quelle d'un tempo. La furba
caffettiera gli teneva il broncio; Menico, forse catechizzato dalla
moglie, lo guardava con piglio sospettoso, come se fosse stato colto da
un tardo accesso di gelosia; gli avventori della bottega avevano l'aria
di canzonarlo, e prima che fosse terminata la villeggiatura il povero
contino Leonardo fu pulitamente messo alla porta dalla sua bella.

In quel torno di tempo accadde un fatto d'incontestabile gravità. Il
signor Oreste non aveva voluto che le sue minaccie rimanessero prive
d'effetto, ed era ricorso a un legale per vedere in qual modo egli
potesse far valere le sue ragioni contro il contino Leonardo. Noi
sappiamo che il contino Leonardo gli aveva sottoscritto parecchie
cambialette, le quali erano sempre nelle mani del sovventore e
figuravano come non pagate. Il legale, pur dicendo ch'era un affar
serio perchè si trattava di prestiti a un minorenne, promise di tentar
qualche cosa, e tentò realmente un accomodamento amichevole con _sior_
Bortolo, l'agente generale. Ma, in primo luogo, non c'eran quattrini nè
pochi nè molti, e poi _sior_ Bortolo montò su tutte le furie sentendo
che il cuoco gli faceva la concorrenza nell'imbrogliare i padroni, e
scrisse di buon inchiostro alle Loro Eccellenze. Il conte Zaccaria e la
contessa Chiaretta questa volta pigliarono fuoco anche loro, e la
contessa soprattutto fece al signor Oreste una scena non più vista, nè
udita. Era tanto e così strano il furore della gentildonna che don Luigi
uscendo sbigottito dalla sua camera fu in dubbio se dovesse
esorcizzarla.

La conclusione si fu che il signor Oreste ebbe quarantott'ore per far
fagotto. Ed egli partì infatti, ma, partendo, commise un delitto sì
atroce che il labbro rifugge dal raccontarlo. Come s'egli volesse
lasciar buona memoria di sè, nel giorno precedente a quello in cui egli
doveva andarsene, egli allestì un pranzo squisito, degno di qualunque
celebrità culinaria. C'era specialmente un manicaretto di lepre che la
_lustrissima_ Chiaretta dichiarò la miglior cosa ch'ella avesse mangiata
in sua vita, e che le fece dimenticare per qualche minuto una cura
fierissima che la turbava. Il gatto Romeo, il bel soriano che la
contessa portava seco in villeggiatura, era sparito fin dalla sera
innanzi, e nessuno ne sapeva nuova. Si sperava che egli fosse in giro
per fini galanti e tornasse la mattina dopo, ch'era quella appunto in
cui il signor Oreste doveva lasciar la villa. Quella mattina, invece a
ora di colazione e quando il cuoco era già lontano, capitò un biglietto
misterioso indirizzato:

    _A la lustrissima D. N.
    Contessa Chiareta Bolatti
    in_

              _Sue Grassiose Mani._

Non c'erano che poche righe:

    _Lustrisima sigora Contessa._

    _Mi preggio avisarlla che il ragù di lepre da Ella mangato geri era
    il gato Romeo. Ciò per sua cuiette. Le baco le mani e sonno il suo
    cuocho per servilla_

          ORESTE MEOLO.

La contessa Chiaretta ebbe un assalto di convulsioni e cadde nelle
braccia della nuora.



XVIII.


La salute non mai vigorosa di Sua Eccellenza Chiaretta ricevette una
scossa gravissima da questo tragico avvenimento. Solo il piacere della
vendetta, che dicono essere il piacere degli Dei, avrebbe potuto far
nascere in lei una benefica reazione, ma il vile uccisore di Romeo era
fuggito e le imperfette leggi della società moderna non tengono conto
del gatticidio. Onde alla _lustrissima_ Bollati non restò altro conforto
che quello di querelarsi e d'imputare al carbonarismo questa nuova
nefandità. Nè, ritornata di lì a poco a Venezia, e ridotta a vivere nel
secondo piano del suo palazzo, ella vi si trovò in tali condizioni da
poter rinfrancarsi di corpo e di spirito.

Adesso sì i Bollati cominciavano ad avvertir davvero i segni precursori
della miseria. Quegli stanzoni del secondo piano, non più abitati, non
più aperti quasi, dopo la morte del vecchio conte Leonardo, avrebbero
voluto lusso di addobbi a rivestirne le larghe pareti, e allegria di
fuochi crepitanti nel caminetto a mitigar il rigore delle lunghe sere
invernali. Invece la mobilia povera e scarsa mal nascondeva i guasti dei
muri screpolati e ammuffiti, e dall'ampie bocche dei caminetti senza
bragie e senza legna, anzichè il calore e la luce, veniva a buffate
l'aria umida e fredda. La sala che, simile a quella del primo
appartamento, divideva longitudinalmente il quartiere in due parti
uguali, era priva di tende e d'ogni specie di suppellettili e metteva i
brividi al solo affacciarvisi, nè la si poteva attraversare che
impellicciati e a capo coperto, provocando una fuga generale dei topi
che non avevano l'abitudine di esser disturbati nelle loro scorrerie.
C'era però una stanza ove i topi non si rintanavano, non fuggivano, ma
guardavano petulantemente l'uomo come un intruso, ed era la cosidetta
biblioteca o piuttosto archivio di famiglia, chè in fatto di libri non
ce n'eran stati troppi in palazzo neppure ai tempi della Serenissima, e
i Bollati, uomini d'azione più che di studio, avevano sempre avuto una
scarsa passione per la lettura. Ma quegli scaffali erano stati pieni di
filze, di buste, di pergamene, di registri che rendevano conto di tutte
le mutazioni avvenute nel patrimonio dallo scorcio del secolo
decimosesto fino alla caduta della Repubblica e ch'erano stati
spesso consultati dagli antichi e coscienziosi amministratori.
Subentrato poi il disordine col predecessore di _sior_ Bortolo e
inaugurato da _sior_ Bortolo stesso il regime dell'anarchia,
l'archivio cadde in assoluta dimenticanza o per meglio dire fu visitato
soltanto da qualche servo infedele che trafugava filze e registri per
venderle ai pizzicagnoli. Ora i rosicchianti compivano l'opera.
Moltiplicatisi prodigiosamente per virtù della vita comoda e delle
facili nozze, essi digerivano con la medesima disinvoltura la carta e il
cartone, lo spago e la pergamena, le prime note e i libri mastri, le
lettere dei gastaldi e quelle delle Eccellenze, i contratti e le
_mariegole_, le _commissioni_ degli ambasciatori e le _promissioni_
ducali. Per distruggerli ci sarebbe voluta una legione di gatti, ma si
preferiva di lasciarli in pace sperando che così rinuncierebbero ad
invadere il resto dell'appartamento. Solite e vane speranze dei deboli
nella moderazione dei forti.

La tristezza dei luoghi era accresciuta dalla solitudine e dal silenzio
che vi regnavano. Non c'era stato neanche bisogno di ridurre il numero
dei servitori; a eccezione di due rimasti o per fedeltà, o per
abitudine, o per la speranza di razzolare ancora qualche cosa, gli
altri, visto che il bottino era fatto, s'eran licenziati da sè. E anche
don Luigi aveva privato la famiglia delle sue prestazioni domestiche e
de' suoi conforti spirituali. Pover'uomo! Non aveva poi tutti i torti.
Sul resto poteva transigere, ma aveva almeno il diritto di mangiar bene,
e dopo la partenza del cuoco non c'era più caso di veder portare in
tavola un piatto decente. Il dotto istitutore del conte Leonardo se ne
andò carico di tutti i suoi manoscritti inediti, imprecando alla sorte
che lo aveva fatto nascere un secolo troppo tardi. Cent'anni prima egli
sarebbe invecchiato pacificamente presso i suoi Mecenati a' quali
avrebbe potuto dedicar le sue opere stampate a loro spese in edizione di
lusso.

In quanto agli antichi conoscenti alcuni non si facevano più vivi, altri
venivano per curiosare; primissima fra questi la contessa Ficcanaso a
cui non pareva vero di andar in giro per la città esclamando con aria
contrita:--Madonna Santa! Quei Bollati a che punto sono ridotti! È una
cosa che stringe il cuore.... Una famiglia come quella!... Io vado a
salutarli per amicizia, perchè non si vedano abbandonati da tutti, ma ci
patisco, in fede mia ci patisco.... Ma! Che lezione pei Rialdi i quali
han messo sossopra cielo e terra per accalappiare il conte Leonardo! Eh!
Se non fosse che per quella pettegola della contessa Zanze si dovrebbe
dire che c'è una giustizia a questo mondo.

Così a poco a poco la loquace femmina lasciava trasparire l'intima
soddisfazione recatale dalle disgrazie de' suoi amici.

E ormai cadevano come foglie secche le ultime illusioni di Fortunata. La
campagna aveva esercitato un'azione pacificatrice sul suo spirito, aveva
avuto la virtù di attutire in lei le impressioni spiacevoli, di render
più intense le impressioni gioconde. E poi la piccola Margherita era
tanto sorridente, pareva tanto felice di trovarsi all'aria aperta, in
mezzo all'erba, agli alberi, ai fiori, che la tenera madre non aveva
tempo da pensare ad altro, nemmeno all'abbandono del marito, nemmeno
alla povertà minacciosa. Oggi la scena era cambiata. La bimba non
sorrideva più, e perdeva il suo bel colore di rosa, e piagnucolava pei
geloni, e mostrava di non comprendere, senza poterlo dire ancora, perchè
l'avessero condotta in quelle stanze fredde e melanconiche invece di
lasciarla dov'era. La bimba non sorrideva più, e Fortunata, priva di
quel sorriso attraverso il quale le cose le erano apparse tinte d'una
luce gaia, si trovava a faccia a faccia con la nuda realtà, e guardava
paurosamente all'avvenire. Che sarebbe di lei, che sarebbe della sua
creatura?

Tentar di scuoter Leonardo, richiamarlo alla coscienza dei suoi doveri,
era impresa disperata. Testimonio, consapevole o no, d'una rovina che
del resto nessuna forza umana poteva evitare, il giovane conte Bollati
s'abbrutiva ogni giorno peggio nei vizii, e per resistere alle preghiere
e ai buoni consigli trovava un'energia che non aveva mai trovato per
fare il bene. Guai se sua moglie gli rivolgeva un'esortazione, un
rimprovero, guai s'ella rimaneva alzata ad aspettarlo quand'egli tornava
a casa nel cuor della notte! Egli la colmava di improperi e si scagliava
contro quelle santocchie che con le loro finzioni di tenerezza e i
sospiri e gli sdilinquimenti e le arie da vittime cercano di dettar la
legge agli uomini e di condurseli dietro come cagnolini. Non l'avevano
ancora capita ch'egli voleva esser libero? Non avevano capito che s'era
tenuto una stanza separata da quella di sua moglie e della bambina
appunto perchè intendeva andare e venire quando e come gli piacesse
senza render conti a nessuno?

Dopo un paio di queste scene, Fortunata non osava più farsi vedere, ma
d'altra parte ella non poteva pigliar sonno finchè non fosse sicura che
suo marito era in casa. E le accadeva sovente, dopo spento il lume, di
mettersi a sedere sul letto, col busto avviluppato in uno sciallo, con
le orecchie tese, con gli occhi fissi nel buio. Nei silenzi notturni le
giungeva distinto dal campanile della parrocchia il suono delle ore, le
due, le tre, le quattro talvolta; finalmente ella sentiva aprir la porta
dello scalone e Leonardo col suo passo strascicato attraversar la sala
ed entrar nella sua camera di cui richiudeva rumorosamente l'uscio
dietro di sè. Non c'era dubbio pur troppo ch'egli venisse a fare
un'improvvisata alla sua sposa, a dare un bacio alla sua figliuola.
Fortunata, singhiozzando, cacciava la testa sotto le coperte.

Intanto, come se le disgrazie fossero poche, la contessa Chiaretta
deperiva a vista d'occhio, e quella primavera bisognò per cagion sua
rinunziare alla campagna. Ella non aveva una malattia ben determinata;
aveva degli accessi di estrema debolezza da cui si rimetteva
temporaneamente per ricader poi nella prostrazione di prima. Il medico
di famiglia che la curava per amicizia tentennava il capo dicendo:--Non
ci vedo chiaro. Tanto può durare degli anni, tanto può morire da un
momento all'altro. Non lasciatela mai sola.

Sua Eccellenza, assistita a vicenda dalla nuora, dalla contessa Zanze e
da una vecchia fantesca, tirò innanzi sin verso la fine dell'estate
continuando ad attribuire ai carbonari tutti i guai pubblici e privati,
e lagnandosi col suo padre spirituale monsignor Lipari (il buon canonico
di San Marco che aveva favorito il matrimonio di Fortunata e Leonardo)
della eccessiva tolleranza dei Governi verso i nemici del trono e
dell'altare. Ma quando nel giugno 1846 Pio Nono salì al Pontificato e un
mese dopo la sua elezione promulgò l'amnistia pei delitti politici, la
contessa Chiaretta non potè resistere a questo nuovo colpo, e prese
commiato da un mondo ove l'ordine naturale delle cose era sconvolto e i
patrizi veneti andavano in rovina e i Papi facevano all'amore coi
rivoluzionari.

Lo scarso numero di gondole che seguirono al cimitero il feretro della
defunta dimostrò a luce di meriggio quanto in basso fossero caduti i
Bollati. E pensare che ott'anni prima mezza Venezia era accorsa ai
funerali del conte Leonardo!

--Buffoni!--brontolava Sua Eccellenza Zaccaria prendendo nota dei pochi
ch'eran venuti e dei molti ch'eran mancati.--Credono che non siamo più
quelli d'una volta. Come resteranno intontiti quando principierò a
mettere in circolazione l'oro della mia miniera!

Con questa fissazione in testa, il conte Zaccaria non ebbe campo di
sentir troppo profondamente la perdita ch'egli aveva fatta. Solo
esternava il rammarico che sua moglie non fosse vissuta abbastanza da
veder rifiorire le condizioni economiche della famiglia. Invece
Leonardo, che si rideva della miniera paterna, provò lo sbigottimento
che i pusillanimi provano sempre allo spettacolo della morte. Dalla
finestra egli accompagnò con lo sguardo il funebre corteggio che usciva
dal portone del palazzo per avviarsi alla chiesa; poi si rannicchiò
pallido e smarrito presso la moglie che, interpretando quell'atto come
un segno di resipiscenza e rasciugandosi le lagrime che le sgorgavano
sincere e abbondanti dal ciglio,--Oh Leonardo--gli disse--per la memoria
della tua povera mamma che adesso è lassù a pregare per noi, per amor di
questa bambina innocente che è pur figlia tua, fa senno, Leonardo. Se è
proprio destinato che la miseria debba picchiare alla nostra porta,
pazienza.... Vogliamoci bene almeno noi che siamo rimasti al mondo,
viviamo l'uno per l'altro, e tutte le privazioni ci parranno lievi....
Credilo pure, la vita che fai non può darti alcuno soddisfazione, non
può che rovinare la tua salute.

Quest'era l'argomento che poteva colpire di più un uomo come Leonardo. E
infatti per alcuni giorni, fosse effetto delle parole di Fortunata,
fosse l'impressione del lutto recente, egli sfuggì i soliti amici e
passò la maggior parte della giornata in casa, contentandosi, miracolo
davvero nuovo per lui, di uscir tre sere di seguito in compagnia della
moglie. Senonchè le abitudini dissolute hanno fra gli altri guai anche
questo, che chi vuol levarsele d'addosso deve non solo combattere le sue
inclinazioni, ma deve pur rassegnarsi a soffrire per qualche tempo cento
piccoli acciacchi sinchè il corpo si avvezzi al cambiamento di stato.
Leonardo, uso a cercare un vigore fittizio nelle bibite spiritose, uso a
respirar l'aria viziata ma calda delle osterie e delle alcove, provava
un malessere indefinibile, un senso di spossatezza, di freddo, di cui
non riusciva a liberarsi. Se si guardava nello specchio, si sgomentava
della sua tinta terrea, dei suoi occhi infossati, delle sue guancie
cascanti; gli pareva di sentirsi vecchio e attribuiva alla breve
astinenza quello ch'era effetto del lungo libertinaggio.

Uno de' suoi compagni di stravizzi, vistolo una mattina per la strada,
gli corse dietro, e battendogli sulla spalla--ehi Bollati--gli
disse--come va?... Hai fatto divorzio dal mondo... Capisco... la perdita
della madre... È una gran disgrazia... ma che farci? siamo tutti
mortali, e i vecchi bisogna che se ne vadano prima dei giovani.... Tu
però... non ci avevo badato... hai l'aria molto patita, sai?...

--Ti pare?--balbettò Leonardo sbigottito di sentir dal labbro di
un'altra persona la conferma di ciò che s'era detto lui stesso.

--Sì, parola d'onore.... Del resto, se stai bene....

--Oh sì, sto bene... sono un po' fiacco....

--Si vede.... Andiamo a prendere un bicchierino di _cognac_?

--No, no....

--Andiamo; pago io.... Voglio procurarmi il piacere di servir Sua
Eccellenza il nobiluomo Leonardo Bollati.... Sua Eccellenza non si
degna?

Leonardo cedette, e dopo bevuto quel bicchierino ripetè l'ordinazione, e
questa volta pagò lui, per sè e per l'amico. Il magico liquore entrava
nel suo stomaco come un padrone che rientra in casa dopo qualche tempo
d'assenza; casa e padrone si riconoscono e sono contenti di ritrovarsi.

--Auff!--esclamò il Bollati tirando un gran respiro.--Adesso sono un
altro uomo.

--Lo credo io--soggiunse il compagno.--Hai subito rifatto una cera da
cristiano.

--Davvero?

--Sicuramente.... Non c'è nulla che ristori come un sorso di
_cognac_.... Si prende un terzo bicchierino?

--Un terzo poi... è troppo.

--Ma che ubbie.... Questo lo giocheremo a pari e dispari.

Così fu fatto e Leonardo perdette.

--A dar retta alle donne si dovrebbe adottare il regime dell'acqua e
latte--egli disse leccandosi le labbra.

--Non tutte le donne però--rimbeccò l'altro.--Ti rammenti della
Mariannina?

--Quale? La figurante della _Fenice_?--domandò il conte Leonardo con gli
occhietti lustri.

--Quella appunto.... Che bevitrice!... È a Venezia di nuovo....

--Diavolo! Da quando?

--Da poco.... Stasera è a cena con noi altri al _Cappello_.... Dovresti
venire anche tu....

--Io?... No.... Sono in lutto....

--Capisco.... Se si trattasse d'una gran cena, se ci dovesse essere
molta gente.... Ma è una cenetta senza pretesa.... non siamo che in
cinque, io, per non dimenticarmi, Arduzzi, Caldieri, Dal Maido e la
Mariannina.... Vieni, vieni....

--No... oltre al lutto... se tu sapessi... ho tanti fastidi....

--Ragione di più per distrarsi.

--Quel maledetto _sior_ Bortolo mi lesina il centesimo....

--Eh... non siamo _in floribus_ nessuno. Appunto per questo s'è limitata
la spesa... Quattro svanziche a testa compreso il vino.... Poi si
pagherà una bottiglia alla Mariannina, tanto per vederla un po'
brilla.... Sai che originale è quando ha bevuto più del bisogno.... Tre
anni fa, al Ridotto, non ti ricordi?

Leonardo si mise a ridere. Se si ricordava! Una notte allegra come
quella non l'aveva passata mai.

L'idea di veder la Mariannina un po' brilla esercitava un fascino
singolare sull'animo del giovane conte. E dopo altri tentennamenti, egli
si risolse ad andare al ritrovo.

E vi andò infatti, ed ebbe il piacere di veder la Mariannina un po'
brilla, ma sembra che non uscisse neppur lui dalla cena in condizioni
normali, se gli amici stimarono opportuno di accompagnarlo a casa e di
aiutarlo a metter la chiave nel buco della serratura.

Spuntava il giorno e Fortunata non aveva ancora chiuso occhio. Le sue
speranze di ricondurre il marito sulla retta via erano durate una
settimana.



XIX.


A grado a grado, da quella facilità di illudersi che possono avere anche
i savi, il conte Zaccaria era arrivato a quell'allucinazione permanente
che non hanno se non i pazzi. La sua era una pazzia ilare, innocua,
tranquilla, ma era pur sempre una pazzia, e quand'egli discorreva in
tuono di profonda convinzione dell'immense ricchezze che dovevano
venirgli da cento parti, era impossibile prendere abbaglio sul vero
stato del suo cervello. Tuttavia, in complesso, egli era più da
invidiare che da compiangere. In mezzo al crollo della sua fortuna, egli
stava sereno ed impavido come l'uomo giusto d'Orazio. Non si poteva
andar più a villeggiar sulla Brenta perchè la tenuta era stata mandata
all'asta dai creditori? Egli si stringeva nelle spalle, e diceva che non
gliene importava nulla perchè la Brenta gli era venuta in uggia e voleva
fra poco comperarsi una villa di suo gusto, in collina. Gli stessi
creditori, insaziabili arpie, s'impadronivano del podere situato in
Friuli, proprio quello in cui avrebbe dovuto esserci la famosa miniera?
Il nostro gentiluomo sorrideva con aria di superiorità:--Bah! Il podere
se lo piglino pure.... Quattro campi sterili.... Ma il diritto sulla
miniera l'ho sempre io.... Carta canta.--E tirava fuori una carta, ove
coloro che avevano fatto il sequestro dichiaravano realmente di
rinunziare ai prodotti della _eventuale miniera aurifera che si trovasse
sul fondo_. Questa dichiarazione da burla s'era ottenuta senza fatica,
giacchè, dal conte Zaccaria in fuori, non c'era nessuno che prendesse
sul serio l'esistenza della miniera.

A metter di buon umore Sua Eccellenza Bollati contribuiva altresì il
fermento politico che andava propagandosi per l'Italia. Dopo la morte
della contessa Chiaretta, ch'era una reazionaria di tre cotte, il conte
Zaccaria aveva spiegato una certa propensione alle idee liberali. Diceva
ch'era tempo di finirla, che i popoli erano stanchi d'esser trattati
come pecore, e che il Governo austriaco non meritava più la fiducia dei
Veneziani. Chi sa? Forse egli non era alieno dal credere alla
risurrezione della Serenissima, nel qual caso, se non facevano doge lui,
chi dovevano fare? Ma sopratutto era entusiasta di Pio IX, vero
italiano, vero capo della Chiesa, vero padre dei fedeli. Quello era un
uomo che doveva stabilir il regno della giustizia nel mondo, e per
cominciar bene il _lustrissimo_ Zaccaria sperava che Sua Santità avrebbe
fatto giustizia a lui nella rivendicazione dagli eredi Steno. Poichè la
sostanza Steno era andata a finire da un pezzo nelle mani della Pia
fondazione dei Catecumeni, fondazione, come ognun vede, d'indole
religiosa, e quindi tale da permettere al Papa di guardarci dentro e di
farle restituire il male acquistato. I legali avevano un bel dire che,
quand'anche il credito dei Bollati verso gli Steno fosse stato
sacrosanto, esso era ormai caduto in prescrizione da più d'un secolo; il
conte Zaccaria li lasciava discorrere e sorrideva sotto i baffi. Se il
Papa prendeva le sue parti, importava molto la prescrizione! E a Sua
Santità egli aveva spedito un _memorandum_ di venti pagine tutte scritte
di suo pugno, e non dubitava nemmeno di riceverne presto o tardi una
risposta favorevole. Certo che non bisognava aver fretta; il Sommo
Pontefice era tanto occupato!

Una sola cosa turbava l'ottimismo di Sua Eccellenza Bollati, ed era
l'impossibilità di ottenere l'aiuto del figlio nell'esecuzione dei suoi
disegni. Quel Leonardo era sempre un ragazzaccio, e il conte Zaccaria
non lo nominava senza una certa inflessione di voce e una certa
scrollatina del capo più eloquenti d'ogni parola.--Quel Leonardo--egli
diceva nei momenti di maggiore espansione--non è cresciuto come speravo.
E sì che non si è risparmiato nulla per la sua educazione, e non gli son
mancati i buoni consigli.... Ma! Fatalità!... Capisco; le donne, il
giuoco, il vino sono una gran tentazione per un giovinotto
dell'aristocrazia che non può vivere come un anacoreta, specialmente
quando gli corre nelle vene il sangue dei Bollati;... ma, santo Iddio,
c'è modo e modo... _est modus in rebus...._ Io, per esempio... sì... mi
sono divertito... sempre nei limiti però... sempre tenendo alto il
decoro della famiglia... sempre trovando il tempo d'occuparmi degli
affari, quantunque la gente non lo credesse.... Adesso mi renderanno
giustizia.... Eh, se non ci fossi stato io che scovavo fuori quei due
filoni della miniera e dell'affare Steno, l'aveva da esser bella con
questi anni di cattivi raccolti, con questa petulanza di creditori che
fanno atti, sequestri e ogni specie di porcherie senza un riguardo al
mondo, e come s'io fossi un bifolco simile a loro.... Del resto io me ne
rido... so che a loro marcio dispetto lascierò ai miei eredi il
patrimonio quadruplicato. In fede mia, Leonardo non lo meriterebbe, no
davvero, non lo meriterebbe.

Quanto più il conte Zaccaria si persuadeva dei demeriti del figliuolo,
tanto più egli si mostrava gentile con la nuora. Lodava la sua pazienza
col marito, la sua bontà con la piccina, la sua attitudine a capir le
cose (poveretta! ella ascoltava a bocca aperta i suoi spropositi senza
osare di contraddirgli) e largheggiava sempre maggiormente nelle
promesse. Basta; se ne sarebbe accorta un giorno, dopo la sua morte.

In mezzo a queste volate d'una fantasia inferma c'era però un
sentimento vero. Il conte Zaccaria aveva preso sul serio a voler bene a
Fortunata. Era una di quelle tenerezze della vecchiaia che somigliano
tanto alle tenerezze dell'infanzia, una di quelle tenerezze alimentate
piuttosto dai sacrifizii che esigono che da quelli che fanno. Nondimeno
Fortunata se ne contentava, e nel suo cruccio di vedersi mancar l'amore
del marito, le dimostrazioni affettuose del suocero erano di gran
conforto per essa. Tanto più che la benevolenza del conte si estendeva
alla nipotina, alla quale egli mostrava una tenerezza che non aveva mai
mostrato ai suoi due figliuoli. La bimba, dal canto suo, aveva pel nonno
una simpatia appena agguagliata dalla ripugnanza invincibile ch'ella
provava pel babbo. Già il babbo non le aveva mai fatto una carezza; era
sempre cupo, stralunato, negletto nel vestire, con la barba ispida e i
capelli arruffati; il nonno invece la pigliava volentieri in collo, le
regalava delle chicche e l'affidava col suo viso ordinariamente sereno,
con la persona linda e pulita, con l'intonazione amichevole dei lunghi
discorsi ch'egli teneva alla mamma, passeggiando su e giù per la stanza,
gestendo anche con vivacità, ma senza perdere una tal quale compostezza
di gentiluomo.

Suocero e nuora uscivano sovente a braccetto, e andavano ora a fare una
giratina sulla Riva degli Schiavoni, ora a prendere il caffè da Suttil
in piazza San Marco, ove qualcuno dei conoscenti si accostava al loro
tavolino per barattar quattro chiacchiere. Gli altri avventori si
guardavano strizzando l'occhio e tentennando la testa; poi, quando i
Bollati non c'erano più in bottega, principiavano i commenti.

--È matto....

--Un matto allegro.... Non parla che delle sue ricchezze....

--Invece siamo agli sgoccioli, non è vero?

--Altro che agli sgoccioli!... Tutte le campagne all'asta... citazioni,
oppignorazioni da tutte le parti....

--Uno di questi giorni andrà all'incanto anche il palazzo.

--Lo comprerà il _Milord_.

--Probabile.

--C'è sempre quella gioia del _sior_ Bortolo?

--Sì, c'è ancora... finchè può raspare.

--È stato la rovina della famiglia.

--Ci ha cooperato sicuro.... Ma se avessero avuto un po' di cervello i
padroni....

--E il figliuolo? Vi par poco?

--Non discorriamone neanche.... Quello ha tutti i vizi.... Ed è
crivellato di debiti per suo conto particolare.

--Sì, come se non bastassero quelli della casa.

--Non si capisce nemmeno come tirino innanzi.

--Ma! Vendendo o impegnando il poco che resta.... Le fortune colossali
lascian sempre qualche piccolo avanzo....

--Pensare che si trattava di milioni!

--E il genero e la figlia dove sono?

--In Boemia, in Moravia, che so io?... Indebitati fino agli occhi anche
loro....

--Che _patatrac_!

--La bella speculazione che ha fatto la ragazza Rialdi sposando Leonardo
Bollati!

--Bella tanto! È stata la madre.... Lei, poveretta, s'era innamorata
proprio del cugino....

--E gliene aveva date le prove....

--Casi che nascono!

--Del resto, sarà una buona diavola, ma fisicamente non vai nulla....

--Nulla affatto.... Mostra dieci anni di più di quelli che ha.
Dev'essere giovanissima.

--Oh sì.... Ventuno, ventidue anni al massimo....

--Ebbene se gliene darebbero trenta....

--Il curioso si è che oggi i Rialdi sono in migliori condizioni dei
Bollati.

--Non c'è dubbio.... Tanto più se, come dicono, il conte Luca sta per
diventar consigliere d'appello.

--Consigliere d'appello! Con quei meriti! Non ha fatto mai altro che
giocare agli scacchi.

--Eh, è un posto che gli viene per anzianità.

--Il figlio, ch'è in marina, si farà strada....

--L'ufficiale? Sì, è un giovane d'ingegno, ma una testa calda, una testa
calda.... Uhm!... Vi ricordate la faccenda del duello? E la scena al
Casino?

--Quella volta se non c'era qualche santo che lo proteggeva l'andava a
finir male per lui. Prender la difesa dei Bandiera? Nella sua posizione?

Mentre si tenevano tali discorsi sul conto dei Bollati e dei Rialdi, il
nobiluomo Zaccaria, tornando a casa con la nuora, giudicava severamente
le _cariatidi_ del Caffè Suttil.

--Quella è gente buona da mettere in museo--egli diceva--gente che non
capisce i tempi, come la povera Chiaretta.... E poi tutti rovinati, sai,
tutti, senza eccezione....

I tempi che il conte Zaccaria credeva di capire si facevano sempre più
grossi, e dall'Alpi al Mar Jonio era un fremito di vita nuova che si
manifestava negli scritti, nelle adunanze, nelle dimostrazioni di
piazza. Il nome d'Italia, lasciato un giorno ai poeti ed ai rétori, era
oggi sulle labbra del popolo e non significava più una memoria, ma una
speranza, ma un affetto sentito e gagliardo, preparatore d'opere virili.
E l'amore di patria portava seco come natural conseguenza l'odio contro
il dominio straniero. Palesemente ove non c'eran gli Austriaci,
velatamente nelle terre lombardo venete, si parlava d'una prossima
alzata di scudi; con quali armi non si sapeva ancora, ma gl'Italiani si
contavano, e già pareva loro d'esser tutti soldati per la guerra santa.
I muri si coprivano d'iscrizioni di _Morte ai Tedeschi_.--_W.
l'Italia_--_W. Pio Nono_; strana eppur quasi universale illusione che
associava l'idea del riscatto al nome d'un Papa. E anche Venezia,
accusata fino a quei giorni di spiriti fiacchi, usciva dal lungo
torpore. Il sonnolento Ateneo non isdegnava di entrar esso pure nella
corrente rivoluzionaria e iniziava la discussione d'argomenti sociali ed
economici; le onoranze a Riccardo Cobden nel luglio 1847 furono un
pretesto per inneggiare alla libertà, e il Congresso dei dotti
raccoltosi nel settembre in Palazzo ducale servì a stringer saldi legami
di pensiero e d'affetto tra i migliori uomini della Penisola.

Questa sinfonia allegra del dramma sanguinoso che doveva rappresentarsi
nel 1848 era fatta apposta per isconvolgere interamente la testa debole
del conte Zaccaria. Egli confondeva le faccende pubbliche con le sue
faccende private, vedeva un'intima relazione tra le riforme politiche,
la riscossione dei suoi crediti immaginari, e l'esercizio della non meno
immaginaria miniera; ma quest'era ancora il meno peggio perchè
gl'impediva di accasciarsi sotto il peso delle sue sventure reali. Il
guaio serio era l'inquietudine che gli si era cacciata addosso e che gli
cresceva ogni giorno; gli sembrava, chiamandosi Bollati, di non poter
rimanere estraneo agli avvenimenti, avrebbe voluto discorrere, scrivere,
stampare anche lui qualche cosa (avrebbe stentato a dir che cosa) e
s'irritava delle difficoltà che gli attraversavano la via, del modo
sprezzante con cui certa gente da nulla accoglieva le sue parole. Sotto
l'impressione di queste ripulse egli s'esaltava fuor di misura, e
Fortunata, che sola riusciva a calmarlo, cominciava a temere che la
pazzia innocente del suocero potesse presto o tardi convertirsi in una
pazzia pericolosa. Di qui uno spasimo nuovo per lei, che tremava per la
sua Margherita, eppur non sapeva come impedire al conte Zaccaria di
vederla.

Però queste sue paure non dovevano durare a lungo. Era una giornataccia
di novembre umida e fredda e il conte Zaccaria aveva rinunziato a uscir
di casa. Per tutta la mattina egli non aveva fatto altro che discorrere
strampalatamente, ma tranquillamente, con Fortunata de' due affari che
gli stavan più a cuore, la miniera e la causa di rivendicazione,
dicendo, a proposito di quest'ultima, che voleva sollecitare il Papa a
rispondergli. E invero dall'agosto 1840 al novembre 1847 c'era stato
tempo d'avanzo a maturar la risposta.

Dopo colazione il conte si sdraiò sur una poltrona in fondo del salotto,
mentre Margherita, ch'era oramai una trottolina di due anni e mezzo, gli
s'arrampicava sulle ginocchia e gli chiedeva due cose, _un confetto_ e
_una storia_. Fortunata, seduta accanto alla finestra, rammendava della
biancheria; Leonardo, al solito, era fuori.

Il vecchio gentiluomo diede alla nipote uno zuccherino; poi,
impasticciando insieme le reminiscenze delle fiabe udite dalla balia con
le fantasie del suo cervello malato, raccontò d'un re e d'una regina che
avevano una bimba bella come il sole, e d'un mago che aveva trovato dei
filoni d'oro e con quell'oro aveva fabbricato una casa per mettervi
dentro la bimba, e la casa era grande, grande, grande....

--Grande così--disse la bimba allargando il più possibile le sue piccole
braccia.

--Grande così--ripetè il conte chinando la testa in segno d'assenso.

E non soggiunse altro.

--Nonno dorme--bisbigliò Margherita dopo una breve pausa.

Fortunata si scosse.

--Se dorme, lascialo stare. Vieni qui. Ma la fanciulla non si moveva.

--Nonno dorme--ella tornò a dire.

E intrecciava le sue dita rosee nei capelli bianchi del conte Zaccaria e
chiamava:

--Nonno; nonno!

--Bimba disubbidiente!--esclamò la madre alzandosi
infastidita.--Lascialo quieto il nonno.

Oh il nonno era tanto tanto quieto. Egli non sentì nè l'appello della
nipote, nè il grido della nuora, nè l'irrompere tumultuoso della gente
accorsa in aiuto, nè le preghiere del sacerdote venuto a rendergli gli
ultimi uffici. Il nonno era morto, morto meglio di quel che non fosse
vissuto, morto al suono d'una voce carezzevole che gli blandiva
l'orecchio, morto col sorriso sul labbro, sognando le ricchezze, la
fortuna, gli onori.

Il testamento trovato in un cassetto della scrivania provò le felici
disposizioni d'animo del defunto. Egli legava somme considerevoli a
un'infinità d'Istituti di beneficenza, e nuove Opere pie voleva fossero
fondate col suo nome. Ma largheggiava specialmente in favore di
Fortunata e di Margherita. Alla prima egli assegnava ottomila zecchini
da prelevarsi sul prodotto della miniera aurifera del Friuli; alla
seconda destinava duecentomila lire venete sul credito Steno; a tutt'e
due poi distribuiva perle, diamanti e altri oggetti preziosi che non
esistevano più. Alla figlia maritata Geisenburg lasciava il compimento
della legittima e un fornimento di pizzi venduti da due anni; del conte
Leonardo diceva che la sua condotta dissipata avrebbe autorizzato il
padre a diseredarlo; nondimeno, nella speranza ch'egli si ravvedesse, lo
nominava erede universale, con l'ordine espresso di spingere alacremente
i lavori della miniera e gli atti della causa. Dopo parecchi legati di
minor conto, c'erano istruzioni precise sui funerali che dovevano essere
splendidissimi, e sui due monumenti che Sua Eccellenza Zaccaria voleva
eretti a sè e alla N. D. Chiaretta sua moglie.



XX.


Un cambiamento notevole era successo nella situazione rispettiva dei
coniugi Rialdi: la moglie non era più così autoritaria, il marito non
era più così docile come una volta. Col suo arrabattarsi continuo, co'
suoi intrighi orditi di lunga mano, con la sua pretensione di ristorar
le fortune della famiglia, la contessa Zanze non era riuscita che al
colossale sproposito di maritar la figliuola a un uomo vizioso e
rovinato; senza impicciarsi in nulla, senza far altro che passar
quattr'ore al giorno all'Uffizio e il resto della giornata a giocare a
scacchi al Caffè della Vittoria, il conte Luca, gradino per gradino, era
giunto a ottenere il posto di consigliere di appello, ch'è quanto dire a
essere una persona d'importanza, che nelle feste solenni indossava la
sua brava uniforme, s'allacciava a fianco uno spadino incapace di far
male a nessuno, si metteva in testa un cappello a due punte, e
percorrendo le strade _pedibus calcantibus_ attirava sul suo passaggio
le esclamazioni ammirative dei monelli. Aggiungansi a queste compiacenze
morali quella d'avere uno stipendio che, in quei tempi di prezzi bassi,
permetteva di mantenersi assai decorosamente. Onde non c'era più bisogno
di pranzar fuori di casa due volte alla settimana, e s'era potuto
sostituire con un servo effettivo e reale il cameriere che la contessa
Zanze soleva prendere a nolo pe' suoi martedì. A fronte di questi
benefizi il conte Luca pretendeva dalla consorte un rispetto maggiore e
aveva anzi dichiarato in modo assoluto di non voler più lasciarsi
chiamare coi titoli di _pampano_, _babbeo_ e altri simili. La consorte
ubbidiva fremendo. A lei pareva d'aver attività, energia, intelligenza
da vendere al conte marito, ma l'era forza riconoscere che la sorte non
l'era stata propizia e aveva invece favorito lui, quell'imbecille, che
non s'era neanche mosso per meritarsene i favori. Delle giustificazioni
a sè stessa ella ne trovava in quantità; è naturale, se ne trovano
sempre. Ella diceva che quel precipizio dei Bollati era giunto
inaspettato a tutti, e che non si poteva prevedere che Leonardo non
avesse nè un briciolo di cervello, nè un briciolo di cuore. Del resto,
almeno per la parte economica, se l'avessero aiutata, le cose sarebbero
andate diversamente. E di tanto in tanto, nell'intimità coniugale, la
contessa Zanze si lasciava scappar la vecchia frase:--Se foste entrato
nell'amministrazione! Quel _sior_ Bortolo nuota nell'abbondanza.

Il conte Luca montava su tutte le furie e non aveva torto.--Cosa mi
venite a parlare di _sior_ Bortolo? Volevate ch'io facessi la parte di
quel furfante?

Ma la contessa protestava contro questo modo d'interpretar le sue parole
e ripeteva quello che aveva già detto centinaia di volte negli anni
passati.--Se foste entrato nell'amministrazione sareste diventato un
signore voi e avreste salvato dalla rovina i vostri parenti.

--Corpo di bacco! E vi par nulla che io sia invece consigliere
d'appello?

Comunque sia, questi erano discorsi inutili, e c'era ben altro da fare
che andar ruminando il passato. Ormai appariva chiaro come la luce del
sole che fra poco i Bollati sarebbero rimasti in camicia e che Fortunata
sarebbe tornata a carico dei genitori o del fratello.

Che se c'era ancora qualche illusione possibile finchè viveva il conte
Zaccaria, alla morte repentina di lui anche questa illusione doveva
dissiparsi. Il conte Zaccaria non era popolare com'era stato ai suoi
tempi il vecchio conte Leonardo; ma non era neppure un uomo mal veduto
in paese, aveva forme cortesi, alla buona, e le ingenue allucinazioni a
cui egli era in preda negli ultimi anni avevano piuttosto cresciuto che
scemato le simpatie intorno a lui.

Ora gli strozzini non hanno l'animo troppo aperto alla simpatia, ma se
possono far di meno d'inasprir l'opinione pubblica lo fanno, e non
isdegnano di usar qualche temperamento verso i debitori più forniti di
aderenze e di relazioni. Mettere sulla strada un patrizio di quell'età,
con quel nome! Era da far gridar mezza Venezia. Col figliuolo era un
altro par di maniche. Prima di tutto si trattava d'un giovane; e poi
quello lì aveva l'opinione pubblica contro di sè. Anzi può dirsi che
l'accanimento con cui l'attaccavano era persino eccessivo; pareva che
non ci fossero altri farabutti al mondo. Come talora, per quel bisogno
che ha la gente di crearsi dei simboli, un uomo diventa la
personificazione d'ogni virtù, così un altro diventa la personificazione
d'ogni vizio. Il senso morale, che va soggetto a tante distrazioni, si
sveglia a un tratto per protestare contro questo mostro di turpitudine;
gli onesti e gli ipocriti si scagliano addosso a lui;... ciò che
permette loro di esser più indulgenti con quelli che gli somigliano e
anche con sè stessi.

Avete visto mai, verso la chiusa d'un ballo o d'una pantomima
spettacolosa, la reggia del tiranno, il castello dell'oppressore, la
prigione della vittima cader giù a pezzi, finchè, a un dato segnale,
succede l'ultimo scroscio e la luce elettrica accesa in buon punto
scende dall'alto a rischiarar le rovine? Questo è quello che accadde,
lasciando stare la luce elettrica, del maestoso edifizio Bollati. Il
segno dello scroscio finale fu dato dalla morte del conte Zaccaria.
Allora non ci furono più riguardi, e gli avvocati ricevettero dai loro
clienti l'ordine di proceder negli atti a passo di carica senza
lasciarsi smuovere da sollecitazioni o da preghiere di nessuna specie.
Terribile fra tutti i creditori era il marchese Ernesto
Geisenburg-Rudingen von Rudingen piombato dalla Moravia a far valere le
ragioni della consorte, che per la malferma salute non aveva potuto
accingersi al viaggio. Il marchese Ernesto, al quale una cura dietetica
aveva fatto perdere alquanto della sua corpulenza, s'era risolto a
riprendere il servizio militare e veniva di guarnigione in Venezia per
invigilar coi propri occhi la liquidazione dell'eredità del suocero. Nè
voleva sentir a dire che l'eredità era bell'e liquidata non essendovi un
centesimo per nessuno; egli protestava pestando la sciabola che a lui
_Potz tausend!_ non la davano ad intendere, e che avrebbe saputo,
occorrendo, tagliare il naso al cognato, a _Herr_ Bortolo e a tutti gli
Italiani, _verfluchte Italiener!_ E al cognato e a _Herr_ Bortolo non
risparmiava gli improperi e le minaccie dirette, tantochè l'uno e
l'altro mettevano il loro studio a non farsi mai trovare in casa e più
di una volta era toccato a Fortunata l'onore di ricevere le sue visite
amabili.

In queste difficili contingenze l'ottimo _sior_ Bortolo pensò ch'era
venuto il momento di levarsi d'impiccio. E perchè la sua ritirata non
somigliasse a una fuga, egli ricorse al comodo espediente di cader
malato. L'asma di cui egli soffriva da parecchi anni si aggravò
d'improvviso, un medico premuroso dichiarò che gli era indispensabile
un soggiorno di alcuni mesi in campagna, e il signor Bortolo Segugi, col
cuore straziato, dovette prendere congedo dai suoi nobili padroni.
Nell'epistola, modello di stile affettuoso e patetico, da lui diretta in
quest'occasione al conte Leonardo, egli si permetteva anche di dar quei
consigli che gli erano inspirati dalla molta esperienza e dal grande
amore per la illustre famiglia. Condurre una vita regolata, ridur le
spese ai minimi termini, vendere quello che era ancora vendibile,
eccetera, eccetera. Se il Signore Iddio voleva ch'egli, _sior_ Bortolo,
si ristabilisse in salute, e se non gli veniva meno la fiducia
dell'illustrissimo conte Leonardo, sperava di ripigliare ancora in mano
le redini dell'amministrazione; se poi doveva soccombere, egli si
sarebbe presentato al suo Giudice con la coscienza netta e col
convincimento di aver sempre servito fedelmente i suoi benefattori. In
un poscritto alla bellissima lettera _sior_ Bortolo suggeriva di valersi
dell'opera dell'avvocato Timoteo Sgriccioli, a cui egli aveva chiesto da
ultimo qualche consulto legale e ch'era l'uomo fatto apposta per trovare
il bandolo di una matassa arruffata.

--Buffone! Ladro! Brigante! Gesuita!--urlò il conte Leonardo quand'ebbe
letta e decifrata la lettera.--S'è ingrassato col nostro sangue e adesso
va a far la digestione in campagna.... Andasse almeno alla malora quel
brutto figuro asmatico.... Se mi torna tra i piedi sta fresco.... Non
son chi sono se non lo piglio a calci nel sedere.... E anche dei
consigli mi dà quel furfante ch'è stato la prima causa di tutti i nostri
guai.... Dei consigli, lui, al conte Leonardo Bollati!

Nonostante questa filippica, prima che passassero ventiquattr'ore, il
conte Leonardo aveva già adottato uno dei suggerimenti del suo
degnissimo agente e si era messo nelle mani dell'avvocato Sgriccioli,
patrocinatore ordinario dei debitori morosi o falliti, a benefizio dei
quali egli aveva anche conformato il suo studio pieno di bugigattoli, di
nascondigli e di usci segreti. L'avvocato Sgriccioli mostrò di prender
molto a cuore la faccenda, ma non potè tacere che s'era indugiato troppo
a ricorrere a lui e che la condizione delle cose era grave, assai grave,
gravissima. Infatti i suoi sforzi non valsero a ritardar la catastrofe;
il tribunale (ed era ancora il meno peggio che potesse succedere) aprì
il concorso sui beni mobili ed immobili del signor conte Leonardo
Bollati P. V., e sino a liquidazione giudiziale finita assegnò
all'ultimo rampollo di tanti uomini illustri poche lire al giorno pel
suo mantenimento. Il palazzo, mandato all'asta per conto della massa
creditrice, fu aggiudicato al maggior offerente, lord Herbert Seaweed,
che era l'inquilino del primo piano. E il nobile lord concedette ai
Bollati quindici giorni per lo sgombero dell'appartamento da essi
occupato, lasciando però generosamente a loro disposizione tre camere a
tetto, che se non eran proprio soffitte, di poco ne differivano.

La vanità del baronetto era lusingata dall'idea di dar ricovero a un
patrizio che aveva avuto due dogi fra i suoi antenati. Leonardo dal
canto suo accettò con lieto animo l'offerta, e perchè gli ripugnava di
andar in cerca di un altro alloggio, e fors'anche perchè seguitando ad
abitare nel suo palazzo, gli pareva d'esserne sempre lui il padrone.
Aggiungasi che in tal maniera egli sperava di sbarazzarsi della moglie e
della figliuola. Possibile che Fortunata non si risolvesse a tornare in
famiglia e a portarsi seco quell'impiccio della bimba! Già il conte Luca
e la contessa Zanze avevano dichiarato di esser pronti a ricever lei e
la nipote.

Messa alle strette, Fortunata, cui non bastava l'animo di veder patire
la sua piccina, mandò Margherita dai nonni (andando poi a mangiarsela di
baci due o tre volte al giorno), e in quanto a sè, dichiarò che non
voleva dividersi da suo marito e che avrebbe affrontato volentieri il
freddo e la fame piuttosto che abbandonarlo alle prese con la miseria.
Ma se c'era uomo inetto a capir questi sentimenti era Leonardo Bollati,
il quale non vide in tutto ciò che uno sciocco puntiglio e pensò di far
pagar cara alla moglie la matta ostinazione di stargli appiccicata ai
fianchi. E se prima rimaneva fuori di casa mezza giornata, adesso ci
rimaneva la giornata intiera, e faceva tutti i suoi pasti all'osteria,
non rientrando che nel cuor della notte con gli occhi lustri, con la
lingua grossa e con le gambe barcollanti. Allora si cacciava in letto e
dormiva fino al tocco per ripigliar poi la solita vita. A Fortunata non
dava un centesimo; quello che gli passava il tribunale non era neppur
sufficiente per lui; andasse da suo padre, il consigliere d'appello, che
s'era abbastanza riempiuto l'epa alla tavola dei parenti quand'eran
ricchi da poter oggi restituire un desinare a una Bollati, che, per
giunta, era sua figlia. Che s'ella non voleva andarci, s'ingegnasse come
poteva.

Fortunata s'ingegnava vendendo o impegnando qualcheduno degli oggetti
ch'erano avanzati dal gran naufragio e ch'erano stati buttati alla
rinfusa in una delle tre stanze lasciate per carità dai nuovi agli
antichi padroni. Del resto, per lo più, desinava effettivamente presso i
genitori.

Ormai tutti le ripetevano che, poichè Leonardo non aveva cuore nè per
lei, nè per la bambina, e ricevendo, checchè ne dicesse, un sussidio
bastante per far vivere la famiglia, non voleva pensar che a' suoi vizi,
ella poteva piantarlo senza rimorsi.

Ella però era irremovibile. Pur troppo con la sua presenza ella non
impediva nulla, non riusciva a fargli lasciar nè un cattivo amico, nè
una cattiva abitudine; ma chissà? mancando lei, sarebbe stato ancora
peggio. Egli non avrebbe passato in casa nemmeno le poche ore che ci
passava; non avrebbe preso, prima d'uscire, nemmeno una tazza di caffè.
E chi avrebbe vigilato perchè la sua camera fosse in ordine, perchè i
suoi vestiti fossero spolverati, e chi l'avrebbe assistito se una notte
non si sentiva bene!

Inoltre, Fortunata sperava in un miracolo, sperava in un ritorno
d'affetto conquistato a forza d'umiltà, di pazienza e di devozione.
Perchè, pare impossibile, ell'amava sempre Leonardo. Qualche volta,
verso l'alba, mentr'egli dormiva della grossa, ell'entrava pian pianino
nella stanza di suo marito, e si accostava al letto e si chinava a
deporre un bacio su quella fronte non solcata mai da un pensiero
generoso, su quelle labbra umide e sozze da turpi contatti. Una mattina
quel tiepido soffio lo scosse a mezzo; abbastanza desto da sentir che
una donna gli era vicino, non abbastanza da distinguer qual fosse, egli
la tirò a sè, le gettò le braccia al collo. Poi spalancando gli occhi,
vide la moglie, palpitante, svergognata come un'adultera côlta in fallo.

--Tu!--egli disse con un'inflessione di voce ch'esprimeva lo stupore e
il disgusto.--Io credevo.... Peccato!... Va via.

--Oh Leonardo!--ella cominciò supplichevole e con le lagrime che le
gocciolavano giù per le gote.

Ma un resto di dignità le tolse di proseguire. Divenne scarlatta, e
coprendosi il viso con le mani fuggì dalla stanza. Indi, abbigliatasi in
furia e fatto uno fardello di alcuni oggetti che più le premevano,
scese a precipizio la scala e volò a casa sua.

--Oh!--esclamò la contessa Zanze--Cosa c'è di nuovo? Cosa t'ha fatto
quel brigante?

--Capisco che avevate ragione.... Se mi volete, vengo a star con voi...
per ora almeno...

--Sicuro che ti vogliamo.... Sei la nostra creatura.... Ma si può
sapere?...

--Non c'è nulla... nulla.... E Margherita? E il babbo?

--Stanno benissimo.... Dormono ancora.... Però vorrei sapere....

--Oh è inutile, mamma....

S'intese la voce della bimba che chiamava:--Nonna, nonna!

--Ecco, s'è svegliata--disse la contessa Zanze. E rivolgendosi alla
figliuola le chiese: Vuoi andarci tu?

--Sì--rispose Fortunata. Ma pentitasi subito soggiunse:--È meglio che
prima tu l'avverta che ci sono.... Andrò di qui a un momento.

Si fece portare una catinella d'acqua e vi immerse la faccia tre o
quattro volte. Poi entrò nella camera di Margherita.

--Oh mamma, mamma--gridò la piccina battendo le mani.

--Tesoretto mio!--proruppe Fortunata piegandosi sopra di lei.--Starò
sempre sempre con te.

Margherita le cinse il collo con le sue braccia nude e la coperse di
baci che non volevano più finire.

--Ancora, ancora!--diceva la povera donna. Le pareva che quei baci
scancellassero l'onta degli altri che, poco prima, ell'aveva ricevuti...
per isbaglio.



XXI.


Il 1847 s'era chiuso come una splendida notte di luglio, in cui il cielo
ancora sereno è solcato da spessissimi lampi; il 1848 s'apriva come una
giornata nella quale i rossori inauspicati dell'alba fanno prevedere il
temporale vicino. Le città italiane conservavano il loro aspetto
festante, le popolazioni empivano le strade, i teatri, le chiese (chè il
Papa liberale aveva messo di moda la religione) ed era dappertutto uno
sfoggio di colori vivaci, di abbigliamenti bizzarri, un echeggiar di
canzoni, una loquacità espansiva come di gente a cui prema rifarsi del
lungo silenzio e richiamar insieme le memorie del passato e divisar
l'avvenire. Ma sotto quella gaiezza tumultuosa covavano i fieri
propositi, ma in quei colori, in quei vestiti, in quei canti, in quel
fraternizzar delle classi era una sfida gettata in viso a un nemico
comune. E il nemico comune, vissuto a lungo in una sicurtà sprezzante,
pareva domandare a sè stesso se fosse possibile che i conigli si fossero
mutati in leoni, e intanto affilava le armi e si preparava alla lotta.
Già i moti fortunati di Palermo e di Napoli e le riforme civili di Roma
imbaldanzivano gli animi e rafforzavano la speranza della guerra
nazionale contro l'oppressore tedesco; già nelle terre lombardo-venete
erano cominciate le prime avvisaglie, già il sangue era corso per le vie
di Milano. Dalla laguna al Ticino un potere occulto che attingeva la sua
autorità dal consentimento dei più, deludeva i cent'occhi della Polizia
austriaca, e, senza codici e senza soldati, con una parola d'ordine
gettata nella folla, con un foglietto misterioso fatto pervenire a
domicilio, regolava le mosse dei cittadini. Quelli che non ubbidivano
per entusiasmo patriottico ubbidivano per ispirito d'imitazione, per
vaghezza di novità, per tema di essere mostrati a dito, per la curiosità
di vedere come andasse a finire una condizione di cose sì strana ed
insolita. Pochi osavano protestare ad alta voce; in maggior numero eran
coloro che, divisi tra due paure, la paura del Governo legittimo e
quella del Governo clandestino, procuravano di uscir di rado, di parlar
poco, di trovarsi con meno gente che fosse possibile. A questo regime
s'era condannato da sè il conte Luca Rialdi, suddito fedelissimo di S.
M. Ferdinando I, ma innanzi tutto uomo sollecito della propria pelle. In
ufficio era riuscito a schermirsi da ogni processo che avesse attinenza
con la politica; al Caffè della Vittoria non si faceva più vedere;
figuriamoci! tutti avevan sciolto lo scilinguagnolo, tutti volevan dire
la loro opinione sugli affari del giorno, non c'era un cane che
giuocasse a scacchi, e s'anche una partita si principiava era ben
difficile tirare innanzi in mezzo a quel frastuono di voci; in piazza
San Marco poi il conte Luca aveva giurato di non metter piede dopo un
certo tiro del marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen.

Un giorno, che è che non è, mentre il nostro consigliere d'appello
percorreva a passo spedito le Procuratie vecchie, il signor marchese, in
piena tenuta di capitano degli ussari (che ci ha da fare un capitano di
cavalleria a Venezia?) il signor marchese, insomma, staccandosi da un
gruppo d'ufficiali, gli si avvicinò con la mano tesa e gli disse col suo
italiano che s'imbarbariva sempre peggio:

--O signor conte, pen contento di vederla, o _ja.... Ich gratulire
mich_, mi congratulo sua nomina a _Regierungsrath?.... Geheimerath?....
ach nein.... Appellationsrath. Ja, ja_, consigliere d'appello.

Quindi gli si mise a fianco e cominciò a discorrergli degli affari
Bollati.... _eine traurige Geschichte...._ sì, una triste storia....
quel Leonardo meritar pastonate, prigione.... anche conte Zaccaria puon
anima, consumare un patrimonio di quella sorte! Adesso I. R. Tripunale
afer in mano la faccenda.... _man wird sehen; ja...._ si vedrà.... pur
troppo, poco, anzi _nichts_, niente da sperare.... _Und wie gehet's....
ja_, come sta la contessa Zanze? E la contessa Fortunata?...
_Unglückliche junge Dame!..._ Ah prutto mondo!... Anche sua _Frau_,
marchesa Maddalena, afer immensamente sofferto.... tante disgrazie di
seguito!... _Arme Frau!_

Il conte Luca non sapeva in che mondo si fosse. Quel marchese così
borioso, il quale, specialmente dopo il duello con Gasparo, l'aveva a
morte coi Rialdi, quel marchese aveva adesso la bell'idea di girar con
lui per la piazza San Marco, il ritrovo dei curiosi e dei fannulloni? E
non si poteva mica piantarlo in asso da un momento all'altro!

Dagli argomenti privati l'ufficiale passò a parlare degli argomenti
pubblici, di quella maledetta politica che si cacciava dappertutto. Gli
Italiani erano matti, il Papa era _ein Dummkopf_, uno sciocco che
agitava la miccia accesa vicino a una polveriera; quel _grosser Kerl_
del Borbone aveva avuto torto di cedere alle grida di quattro fanatici,
ma si poteva esser sicuri che alla prima opportunità egli avrebbe saputo
accomodar le cose per benino; Carlo Alberto, quello lì era _ein
Schwärmer_, un sognatore, un entusiasta, ora carbonaro, ora
sanfedista.... non si sapeva mai. A ogni modo, Metternich aveva giudizio
per tutti.... E in quanto ai facinorosi Lombardo-Veneti bisognava dar
degli esempi, e si sarebbero dati; stesse tranquillo il signor conte che
si sarebbero dati: già egli poteva dire con fondamento che il decreto
per introdurre il giudizio statario era sul punto di esser sottoposto
alla firma di S. M. Allora, in una quindicina di giorni, tutto questo
baccano sarebbe finito.... _Ja, gnädiger Herr Graf, so ist es...._ così
è....

A questo punto il marchese offerse un sigaro al suo interlocutore.
Bravo! Al povero conte Luca non mancava altro che di farsi vedere a
fumare dopo la proibizione assoluta di quei signori del Governo
clandestino! Per buona ventura il conte non fumava mai, ed ebbe
un'ottima ragione per rifiutar l'offerta.

Il marchese sorrise.--_Sie haben nie geraucht?_ mai fumato? _Wirklich
so?..._ Proprio?

--Proprio, proprio... mai fumato--rispose il conte Luca.

E parendogli di poter finalmente accommiatarsi senza increanza, disse al
signor capitano ch'era atteso in un luogo e doveva lasciarlo.

--_Auf Wiedersehen, Herr Graf..._ a rivederci... _Meine Complimenten den
gnädigen Frauen, bitte...._ prego miei complimenti alle signore,--gridò
l'espansivo marchese stringendo forte la mano del conte Luca.

E raggiunse il crocchio degli amici a cui raccontò ridendo che _der Herr
Appellationsrath_, con quella pillola del giudizio statario in corpo,
non doveva dormir certamente per tutta la notte. Del resto, egli aveva
fermato il conte Rialdi all'unico scopo di recargli un po' di molestia e
di sforzarlo a passeggiar di pieno giorno in piazza San Marco con un _K.
K. Offizier_. Che se _Herr Graf_ doveva per questa ragione soffrir
qualche sfregio dagli _italianissimi_, egli ne avrebbe avuto molto
piacere.

Il conte Rialdi uscì dalla piazza senza nemmeno alzar gli occhi. Non
vedendo nessuno gli pareva che nessuno dovesse veder lui.

Invece prima di sera gli capitò a casa un bigliettino concepito a un
dipresso in questi termini:

     «Signor consigliere.--Se non foste padre di un eccellente
     patriotta, vi si darebbe oggi una buona lezione. Il Comitato si
     limita per questa volta a un amichevole avvertimento. Non è più
     lecito a un italiano di mostrarsi coi militari austriaci, fatta
     eccezione pegli ufficiali di marina che sono dei nostri. Austriaci
     e italiani non si devono ormai incontrare che sulle barricate o sul
     campo di battaglia. Abbiate dunque prudenza e moderate il vostro
     zelo di servitore fedelissimo di S. M.

          «_Il Comitato._»

Se il povero consigliere viveva sempre in angustie e aveva perduto il
sonno e la fame non si poteva dargli poi tutti i torti. Compromesso coi
liberali pe' suoi sentimenti di fedeltà, compromesso col Governo per
cagion del figlio che un dì o l'altro doveva passar un cattivo quarto
d'ora, egli aveva per soprammercato da invigilar sulla pazzia della
moglie alla quale era venuto il ticchio di far la patriotta ardente
anche lei, e di trinciar di politica con le femminette che venivano a
visitarla ne' suoi martedì.

--Donna senza giudizio!--le diceva il marito.--Non la volete finire? Non
lo sapete che c'è qualche signora che non vien più da voi per non sentir
certi discorsi?... E cosa son questi colori sul vestito?... Via subito
quel nastro.

--Oh,--rispondeva la contessa Zanze.--Voi sareste capace di aver paura
anche se vi portassero in tavola un piatto d'indivia mista col radicchio
rosso!

--E voi non avete sale in zucca.... Vi pare che siano momenti da
scherzare, questi? Ci tenete proprio ad andar in prigione per il bel
gusto di dir tutto quello che vi passa per la testa e d'abbigliarvi come
un arlecchino? Vergogna! Alla vostra età!

--Oh! L'età....

--Sì; e con l'allegrie che ci sono in casa.... Con la figlia e la nipote
da mantenere!... Che se, Dio scampi e liberi, io perdessi l'impiego,
sarebbero quei signori del Comitato che vi darebbero da pranzo! Pregate
piuttosto a mani giunte il Signore che non ci faccia capitar qualche
brutta notizia da Gasparo che sarà un brav'uomo, non dico, ma è un
cervello esaltato.... e se riescono a coglierlo in fallo....

--Voi non sapete preveder che disgrazie.

--E voi avete una benda agli occhi.... Se il Comitato dice che mio
figlio è un eccellente patriotta, è segno che ne hanno le prove. Mi
spiego?

--Sicuro che le avranno. O che lo credete un austriacante del vostro
stampo?

--Zitto, disgraziata... Dovreste gridarlo dalla finestra queste cose!
Non vi ricordate dei Bandiera?

--Altri tempi, altri tempi. Adesso quelli che sono al Governo si sentono
mancar la terra sotto i piedi e devono far i conti col popolo.

--Ma che popolo? Vorrei vederli, alla prima cannonata, questi strilloni,
questi ragazzacci che, in omaggio alla libertà, fischiano un galantuomo
che si permetta d'aver un sigaro in bocca. Bella libertà! Non parlo per
me che non fumo.... Ma io vi dico che mi par d'essere in un manicomio e
che questo baccano va a finire in tragedia.... oh se va a finire!... Mi
spiego?

E invero le Autorità, vinte le prime titubanze, accennavano a voler far
sul serio anche a Venezia. Sin dal 18 gennaio la Polizia aveva tratti in
arresto il Manin e il Tommaseo come quelli che capitanavano la cosidetta
_agitazione legale_; il 22 febbraio fu promulgato il giudizio statario,
del quale il marchese Geisenburg aveva dato al conte Rialdi l'annunzio
alquanto precoce. Tuttavia gli animi non si quetavano e gli avvenimenti
parevano fatti apposta per rincorare i timidi, per imbaldanzire gli
audaci. La proclamazione della Repubblica in Francia, come tutto ciò che
succede in quel paese singolare, aveva un immenso rimbombo in Europa; di
lì a poco Carlo Alberto accordava lo Statuto promesso, e infine la
notizia della rivoluzione di Vienna era l'ultima scintilla che faceva
divampare l'incendio. Il 17 marzo i prigionieri politici, liberati dal
carcere, eran portati in trionfo sulle braccia del popolo, i colori
nazionali apparivano agli occhielli degli abiti nella piccola ma
provocante coccarda, una bandiera bianca, rossa e verde era issata sopra
una delle antenne della piazza S. Marco. Nel 18, maggiore la folla, più
insistenti le grida, più risoluti, più feroci gli animi. La truppa,
accolta a fischi e a sassate, perde la pazienza e fa fuoco; ci sono
morti e feriti; sembra imminente una lotta sanguinosa per le strade
della città. Ma il governatore civile e il comandante la guarnigione
eran timidi, fiacchi, benevoli forse a Venezia ove avevan lungamente
vissuto; pieni di energia, d'entusiasmo, di fede erano invece gli uomini
postisi in quei giorni memorabili a capo del popolo. Si chiede e si
ottiene, col pretesto di mantenere la sicurezza pubblica, l'istituzione
della guardia civica; dai fondaci dei rigattieri escono vecchie spade
irrugginite, e fucili a pietra, e alabarde spuntate; escono dalle cucine
i coltellacci e gli spiedi, e i nuovi militi bizzarramente vestiti e
tutti con una sciarpa bianca a tracolla corrono come a festa le vie, e
distribuiti in pattuglie fanno la notte il servizio di ronda. È il primo
atto d'un'epopea? È l'ultima scena d'una farsa? Chi lo sa? Quali sono in
quella folla gli eroi veri e quali gli eroi da teatro? Chi lo sa? Sono
confusi insieme e non si potranno distinguere che al momento della
prova.

Certo non si rischia molto assicurando fin d'ora che non è un eroe un
nostro vecchio conoscente, il signor Oreste, comandante di una di quelle
strane pattuglie nella notte tra il 21 ed il 22 marzo. Il signor Oreste,
ch'è padrone d'una delle principali osterie in Cannaregio e che ha la
sua buona dose di vanità, non ha potuto esimersi dal prestar l'opera sua
alla patria in momenti tanto solenni, ma egli vuol conciliare i doveri
di cittadino coi dettami della prudenza, e guidando il suo manipolo di
prodi attraverso il dedalo inestricabile delle _callette_ veneziane,
pone ogni studio nell'evitar _cattivi incontri_.

--Non si passa per i Gesuiti?--domanda un gregario, non so bene se
coraggioso o malizioso.

--Ohibò--risponde il signor Oreste.--Perchè si dovrebbe passarci?

--Così, per veder quello che fanno quei _patatuchi_ del reggimento
Kinsky che son lì consegnati in caserma.

--Bel gusto.... Se venissero fuori?...

--Si spara il nostro colpo di fucile e si dà l'allarme.

--Provocazioni inutili.... Noi siamo in giro per la sicurezza della
città e nient'altro....

--Uhm... Senza un po' di sangue non la si finisce--ripigliò il milite
battagliero.

--Insomma--grida il signor Oreste con piglio autoritario--qui il capo
son io. Pei Gesuiti non ci si passa. Si va fino a S. Giovanni
Grisostomo, poi si torna indietro e ci si ferma a bere un mezzo boccale
da me.

Questa proposta raccoglie tutti i suffragi, e la pattuglia riprende in
silenzio le sue perlustrazioni.

--Là c'è una figura sospetta--esclama a un tratto il comandante segnando
all'imboccatura d'una calle un individuo che veniva avanti con passo
incerto.--Chi va là?

L'individuo borbotta qualche parola incomprensibile che sembra aver una
parentela lontana con una bestemmia.

--Bisogna vedere--soggiunge il signor Oreste rivolgendosi ai militi.

E seguìto da loro s'avvicina al misterioso personaggio, nel quale, con
sua grande maraviglia, riconosce nientemeno che il conte Leonardo
Bollati.

--Oh! Eccellenza--balbetta l'ex cuoco con un resto d'ossequio.

--To', to'--dice il conte strascicando le parole.--Siete voi... bel
mobile?... Anche voi in ma...a...schera?... Mi gira la testa.... Già...
già che siete qui... accompagnatemi fino al... palazzo.... È vi...
vicino....

Il signor Oreste non può negare un sì piccolo servigio al suo antico
padrone.

--Ce n'avete... fatte di grosse... voi...--continua Sua Eccellenza
appoggiandosi al braccio di quel furfante arricchitosi a spese della sua
famiglia.

Il signor Oreste avrebbe voluto dire che anch'egli era stato sacrificato
non riscotendo un centesimo dei suoi crediti, ma s'era ormai giunti al
portone del palazzo.

--Lo sapete che... che il palazzo appartiene a...adesso a un Lo...ord
inglese?

--Pur troppo, Eccellenza.... Ma!

--Nie...ente paura!... Ho tre camere... in... a...alto e... e m'han
lasciato... a...anche la chia...a...ve.

Il signor Oreste aiutò il conte a introdurre questa famosa chiave nella
toppa; poi disse:

--Lustrissimo, buona notte....

--Buo...o...na notte.... O che co...o...sa gridano?

Pel vicino Canalazzo passava una gondola e il barcaiuolo con voce sonora
gridava:--Viva San Marco!

--Gridano:--Viva San Marco!

--Vi...va San Ma...a...rco?--ripetè a mezza voce Leonardo fermo sulla
soglia.--To...o...rna la Serenissima?

--Chi può dir nulla?... Se ne vedono tante.... Buona notte, signor
conte.

E la pattuglia si ritirò.

Noi non vorremmo affermare che quel grido di _Viva San Marco_ non
facesse nessun effetto a Leonardo Bollati, che nessuna fibra si scotesse
in lui all'idea di veder risorger l'antica Repubblica, a pro della quale
i suoi padri, per tante generazioni, avevano versato il sangue e speso
l'ingegno. Ma l'impressione, come accade a chi s'è disavvezzato dal
pensare e dal sentir fortemente, non fu che passeggera; egli aveva ben
altro pel capo che la risurrezione della Repubblica; aveva bevuto
troppo, era stanco, aveva un sonno, un sonno! Si strascinò su dei suoi
centoquindici scalini, chè non ce ne volevano meno per arrivare dov'egli
abitava, e si mise a letto.

Il giorno dopo Leonardo non s'alzò che tardissimo. Affacciandosi a un
finestrino che dava sul Canal grande vide un movimento, un'animazione
maggior dell'usato, sentì più insistente il grido che l'aveva colpito la
notte prima: _Viva San Marco!_ E altri gridi insieme con questo: _Viva
Pio IX! Viva Manin! Viva la libertà!_ Inoltre dalle frasi scambiate tra
la gente che curiosava sulle _rive_ o ai _traghetti_ capì che gravi
fatti erano successi e fatti non meno gravi si preparavano.

--Gli arsenalotti gli hanno fatto la festa?

--Al colonnello Marinovich? Sicuro.... Gli sta bene a quel cane. Li
trattava da bestie.

--E com'è andata?

--Ma! Chi la racconta in un modo e chi in un altro. La mia però è storia
genuina perchè la so da mia cognata che è sorella di un arsenalotto.
Fatto si è che appena Marinovich s'è presentato all'arsenale questa
mattina, gli operai, che non se l'aspettavano dopo le minaccie di ieri,
gli si strinsero attorno con urli, fischi, imprecazioni. Lui tira fuori
la spada e si fa largo un momento.... Ma quelli s'inviperiscono di più e
gli danno addosso di nuovo. Vista la male parata, il colonnello cerca di
fuggire, trova aperta la porta di una delle torri vicine all'ingresso,
sale per la scala, ma i suoi inseguitori gli sono alle calcagna, un
calafato gli pianta nella schiena la sua trivella, e felice notte.

Di lì a poco si sente un'altra gran novità.

--L'arsenale è nostro.

--Come? Come?

--Se n'è impadronito Manin.

--Senza combattimento?

--Avevan mandato un battaglione di fanteria marina per riprenderlo, ma
le guardie civiche che c'eran dentro dissero: _marameo!_--_Fuoco!_
ordina il comandante del battaglione, un tedesco. I soldati che son dei
nostri, non gli badano neanche e un ufficiale, nostro veneto anche lui,
esce dai ranghi e grida: _Giù le armi_. Il tedesco va in furia e si
slancia sull'ufficiale....

--Oh diavolo.... E come va a finire?

--Si battono da disperati. Ma un sergente di marina la termina lui e
getta a terra il tedesco.

--Morto?

--No, no; pare che l'abbian risparmiato.... Se lo ammazzavano era
meglio.

--Perchè! Hanno ammazzato il Marinovich stamattina. Basta uno.

--Ce ne vuol altro che uno.... Insomma i soldati si confondono con le
guardie civiche, si mettono la loro brava coccarda sul petto e gridan
tutti insieme: Viva l'Italia!

--Viva la nostra marina!

E ormai le notizie si succedono con una rapidità straordinaria.

--Anche i granatieri han fatto lega col popolo.

--I cannoni della Gran guardia che eran carichi a mitraglia sono in
potere della guardia civica.

--Venti, trenta, quarantamila fucili son distribuiti fra i cittadini.

--Il palazzo del governo è nelle nostre mani.

--Il podestà Correr è andato da Palffy a intimargli la resa.

--Solo?

--No, con altri tre o quattro.

Passa un'ora, si sparge la voce che ci siano delle difficoltà, che il
governatore non voglia cedere, che il comandante di piazza voglia far
bombardare la città.

--Alle barricate--grida qualcheduno.

--Alle campane. Morte all'Austria!

Da qualche finestra si ritira la bandiera tricolore; sul tetto del
palazzo Bollati viene issato per prudenza il vessillo britannico.

Ma prima di sera ogni dubbio era tolto; la capitolazione era firmata;
era proclamata la Repubblica.

Ormai il tricolore sventolava da tutte le case; l'entusiasmo brillava su
tutti i volti; da tutti i petti irrompevano le grida _Viva San Marco!
Viva Pio IX! Viva l'Italia! Viva Manin!_

Leonardo Bollati era rimasto quasi sempre immobile alla finestra.
Sporgendo la testa fuori del davanzale, egli vedeva sotto di sè nel
terrazzo del primo piano la famiglia del _lord_ che, insieme con altri
connazionali, godeva, come di uno spettacolo, di quella rivoluzione
pacifica. E la famiglia del lord, di tratto in tratto, levava gli occhi
e vedeva lui, _the scion of the Doges_, il discendente dei dogi, e lo
mostrava agli ospiti, appollaiato lì in alto, sotto la grondaia, come
una civetta. Quando le grida di _Viva San Marco_ si fecero più romorose
e più generali, gli Inglesi si misero a guardare in su con una curiosità
più indiscreta. Pareva volessero indovinar i pensieri di lui, _the scion
of the Doges_, in quel momento solenne. E se il popolo fosse venuto a
prenderlo nella sua soffitta, e a ricondurlo nel primo appartamento,
cacciandone gli estranei che l'occupavano? Una figliuola del lord, molto
romantica, molto _byroniana_, diceva che sarebbe stata una scena
drammaticissima e ch'ella si sarebbe stimata felice d'assistervi anche
dovendo esserne la vittima. Ma l'austero genitore, il quale non voleva
che si scherzasse sopra tali argomenti, le diede sulla voce:--_Keep your
tongue, you silly thing_. Tacete, scioccherella. Ormai il palazzo è da
considerarsi come parte del territorio _of our most gracious Queen_,
della nostra graziosissima Regina, e guai a chi lo tocca.

Il nobile lord poteva mettere il suo cuore in pace. In quel giorno 22
marzo 1848 i Veneziani non si rammentavano nemmeno dell'esistenza del
conte Leonardo Bollati. E se, per una combinazione fortuita, l'uomo
acclamato dal popolo portava il nome medesimo dell'ultimo Doge della
Repubblica, non toccava ai nipoti degli antichi patrizii di regger le
sorti di Venezia durante i diciasette mesi di lotta sfortunata, ma
gloriosa, contro lo straniero.



XXII.


Di lì a tre o quattro giorni arrivava a Venezia Gasparo Rialdi. Arrivava
da Pola insieme con qualche altro ufficiale di marina, sopra un piccolo
legno, e dopo esser sfuggito non senza fatica agl'incrociatori
austriaci. La gioia di trovar la patria libera, di poter combattere per
una causa santa era amareggiata a quei generosi dal non esser riusciti a
farsi seguire da tutta la flotta. Alle prime voci di rivoluzione, essi
dicevano, s'era manifestato un vivo fermento negli equipaggi e in gran
parte degli ufficiali ch'erano italiani di sangue e di pensieri. I più
arditi, tra cui il Rialdi, sostenevano doversi salpar subito per
Venezia, per partecipare alla lotta, se l'esito era ancora incerto, per
recare al nuovo ordine di cose il sussidio d'una forza disciplinata, se
la battaglia era vinta. Ma la maggioranza fu d'altro parere. Non
bisognava precipitare, bisognava aver ragguagli più esatti; forse erano
rumori sparsi ad arte; era impossibile che i compagni i quali si
trovavano a Venezia non mandassero qualche avviso, che un Governo
nazionale il quale per avventura si fosse stabilito colà non desse
notizia di sè. Il consiglio di chi voleva gl'indugi prevalse. E intanto
a Venezia si commetteva un primo, fatalissimo errore. Le lettere di
richiamo per la flotta erano affidate al capitano del vapore del Lloyd
che riconduceva il governatore Palffy, e quel capitano, o spontaneo, o
costretto, dirigendosi a Trieste anzichè a Pola, consegnava il dispaccio
alle Autorità austriache, le quali furono in tempo di prender le
disposizioni necessarie a scongiurare un avvenimento forse più grave per
la monarchia che la perdita d'una provincia. Rimaneva un partito. Alzare
audacemente il vessillo della rivolta, passar sotto i cannoni del porto,
aprirsi a ogni costo il varco per Venezia. Questo avevano suggerito, a
questo s'erano dichiarati pronti Gasparo Rialdi e pochi animosi suoi
pari. Ma molti indietreggiarono all'idea dell'aperta ribellione; si
sentivano legati dal giuramento, dall'onor militare; non osavano
intraprendere, contro la volontà espressa dei capi, ciò che avrebbero
osato quando i capi, colti dal panico, avevano smesso di comandare. A
forza di titubanze si lasciò passare il momento propizio e parve follia
il tentare quello che prima sarebbe stato agevole il compiere. Il Rialdi
e quattro o cinque amici partirono soli; gli altri, fremendo, morsero il
freno. Venezia non ebbe nel 1848 una flotta, e chi può dire che il non
averla avuta non abbia ritardato di dieci anni la redenzione d'Italia?

Comunque sia, quando il giovane ufficiale giunse in patria, ben pochi
s'erano accorti di aver perduta, senza combattere, una prima battaglia.
Il paese era nella luna di miele della libertà; i fatti interni e le
notizie dal di fuori mantenevano gli animi in uno stato d'ebbrezza
gioconda; le voci più strane, pur che conformi al desiderio, erano
accolte come verità incontestabili. I Milanesi, vincitori nelle loro
cinque eroiche giornate, avevano chiuso Radetzky in una gabbia di ferro;
Carlo Alberto era già col suo esercito sotto Verona, ove si trattava
della formalità della capitolazione; cinquantamila papalini, benedetti
da Pio IX, avevano passato il Po; dietro a loro venivano cinquantamila
napoletani, ch'eran soldati di quelli coi fiocchi, diceva la gente, come
se li avesse visti alla prova. S'affermava inoltre che non c'erano più
neanche due reggimenti austriaci in tutto il Lombardo-Veneto, locchè
rendeva alquanto difficile di capire con chi se la sarebbero presa i
formidabili eserciti che pullulavano da ogni parte, ma gli spacconi non
si confondevano per così poco. Quando una nuova, data per certa la
mattina, era smentita la sera--Bah!--si diceva stringendosi nelle
spalle.--Quello che non è vero oggi, sarà vero domani.--Che se alcuno si
permetteva esprimere un dubbio, gli si dava addosso come a uccello di
malaugurio.

Non che si trascurasse d'armarsi, che si esitasse a sottomettersi a
qualunque sacrifizio, oh no. Anzi la contraddizione era questa, che si
chiedevano e si accettavano lietamente i sacrifizi per una causa la
quale, a sentir le chiacchiere della piazza, pareva non doverne aver più
bisogno. Senonchè, alla gioia più legittima, agli entusiasmi più santi,
all'abnegazione più pura nuoceva un non so che di sguaiato e
melodrammatico nelle foggie, nel linguaggio, nelle consuetudini romorose
della vita cittadina. Gran bandiere, gran musiche, gran sciupìo di
versi, gran mostra di _crociati_ che parevan coristi, di _lions_ che
manifestavano i loro sentimenti vestendosi da tenori, gran sfoggio di
pennacchi nei cappelli, di colori sugli abiti.

A Gasparo Rialdi questo carnovale dispiacque; tuttavia egli tenne per sè
le proprie impressioni e non pensò che a mettersi agli ordini del
Governo. Offertogli di attendere all'armamento della flotta minuscola
rimasta dentro l'Arsenale, egli accettò subito l'incarico, deliberato
però ad arruolarsi più tardi nell'esercito di terra, se, com'egli
temeva, non c'era da far nulla sul mare. Naturalmente, durante il suo
soggiorno a Venezia, egli abitava presso la famiglia, da lui non più
riveduta dopo il disgraziato matrimonio della sorella.

Il 22 marzo aveva mutato di nuovo le relazioni reciproche dei coniugi
Rialdi che sembravano destinati a essere, l'uno verso l'altro, nella
condizione di due che si trovano sull'altalena.

Adesso la contessa Zanze era tornata in alto; il conte Luca era ricaduto
al basso. Egli conservava il suo posto di consigliere d'appello, ma la
moglie gli diceva sempre che se non lo avevano destituito era per un
riguardo a lei e a Gasparo. E si rifaceva delle umiliazioni sofferte
negli ultimi tempi:

--Non mi darete più della visionaria, spero? Chi aveva ragione di noi
due, eh?... Dove sono i vostri tedeschi?... Quanto pagherei a sapere
dove ha portato la sua pancia quel prepotente del Geisenburg! Ah se
avesse fermato me invece che voi, quel giorno in piazza San Marco,
avrebbe trovato pane per i suoi denti.... Ma voi, Dio ve lo perdoni,
siete un coniglio....

Il conte Luca, che ormai viveva in uno stato d'orgasmo continuo,
sbuffava ma non reagiva contro le tirate della moglie. Tutt'al più, in
un tuono che voleva esser di comando ed era invece di preghiera,
insisteva perchè tacesse:

--Che donna, santo Iddio! Non sapete star zitta un minuto. Se ne sono
andati i Tedeschi? E voi lasciateli in pace.

Era difficile confessarlo, ma il conte Luca aveva paura dei vecchi
padroni. I nuovi potevano fargli del male subito, i vecchi potevano
fargliene più tardi.... se tornavano. E il conte Luca, senza dirlo a
nessuno, senza dirlo ad alta voce nemmeno a sè stesso, non sapeva
persuadersi che non dovessero tornare. Intanto s'acconciava
all'inevitabile. Teneva anche lui la sua coccarda tricolore
all'occhiello, faceva di gran salamelecchi ai personaggi in carica, ed
era pieno d'indulgenza pegli impiegati subalterni che non andavano
all'ufficio con la scusa di dover montare la guardia.

Slanciata nella fiumana del patriottismo chiassoso, la contessa Zanze
era sempre in faccende e lasciava la cura delle cose domestiche a
Fortunata, la quale, poverina, non aspirava minimamente a mettersi in
mostra. S'occupava della casa, della bimba, faceva una scappata quasi
ogni giorno fino al palazzo Bollati per aver notizie di Leonardo, per
vederlo se era possibile, e la sera preparava filaccia per i feriti.

Gasparo che, venendo a Venezia, sapeva già di trovarla in famiglia, non
s'era presa l'ingenerosa soddisfazione di rammentarle le sue parole di
quattr'anni addietro, ma abbracciatala con benevolenza, le aveva chiesto
subito della piccina.

--Dorme.... vuoi vederla lo stesso?

--Perchè no?

Margherita riposava tranquillamente nella sua cuna, con uno dei suoi
braccetti nudi piegato sotto la testa, con una puppattola al fianco.

--Quella puppattola è il suo grande amore,--disse sorridendo
Fortunata;--la chiama Lilì e non se ne vuol staccar mai.

Margherita aveva allora tre anni ed era una bella bimba, quantunque
fosse lecito dubitare se sarebbe stata anche una bella donna, tanto più
che la contessa Zanze ripeteva sempre:--Fortunata era tal quale.

Fatto si è che ell'era bianca e rosea, aveva lineamenti regolari,
capelli biondi e finissimi, e nel viso un'espressione dolce, affettuosa
che rammentava l'espressione materna. Era forse l'unica somiglianza che
ci fosse tra madre e figliuola.

--È carina assai,--disse Gasparo.

--Non è vero?--soggiunse Fortunata tra orgogliosa e commossa.--È buona
come un angelo, docile, intelligente....--Poi sospirò a voce
bassa:--Povera creatura!

Gasparo, che non aveva staccato gli occhi dalla dormente, a
quell'esclamazione della sorella:--Povera creatura!--sentì qualche cosa
che rispondeva nel suo cuore. Povera creatura davvero! Con quel nome che
anni addietro sarebbe stato una forza e oggi era una debolezza, quasi
una colpa! Con quel padre di cui ella non avrebbe potuto ignorar sempre
le turpitudini! Povera creatura! Chi sa che sorte l'era destinata? Chi
avrebbe guidato i suoi passi sul sentiero della vita? Chi l'avrebbe
protetta contro la miseria, contro le tentazioni? Certo la madre sarebbe
stata pronta a darle il suo sangue, ma che valida difesa poteva esser la
misera Fortunata ch'era inetta a difender sè stessa, che forse era
ancora sotto il fascino dell'ignobile marito?

Di mano in mano che tali pensieri sorgevano nell'animo di Gasparo, egli
sentiva anche nascere dentro di sè una tenerezza singolare per questa
bambina, sentiva nascere un desiderio intenso di vigilare su lei, di
tutelarla contro l'insidie d'un mondo nel quale ella entrava sotto
auspicî sì tristi. Pur non disse nulla, e rivolgendosi a Fortunata che
piangeva in silenzio, si limitò a susurrarle:--Coraggio!

Il primo giorno Margherita stentò alquanto ad addomesticarsi con lo zio,
ma il dì appresso Gasparo, tornando dall'arsenale, si presentò alla
nipote con un involto misterioso sfidandola a indovinare ciò che vi
fosse contenuto. Margherita si fece rossa rossa in viso e, naturalmente,
non indovinò nulla.

Allora l'involto fu aperto e comparve una splendida bambola tutta nastri
tricolori, la cui vista strappò alla fanciulla un grido d'ammirazione.

--Oh!--disse Fortunata--lo zio t'ha portato una nuova _Lilì_!

Il nome rimase e la bambola battezzata per _la nuova Lilì_ strinse
Margherita d'un nodo indissolubile allo zio Gasparo. Ogni volta ch'egli
veniva a casa Margherita gli correva incontro festosa a mostrargli la
nuova _Lilì_, il cui abbigliamento andava illeggiadrendosi e
complicandosi sempre più per le ingegnose aggiunte che vi faceva
Fortunata. Gasparo, prima ancora di spogliarsi della sua divisa e di
depor la sua sciabola, prendeva in collo la nipote e la copriva di
carezze e di baci, ma la nipote non era contenta s'egli non dava qualche
bacio e qualche carezza anche alla bambola, sua indivisibile compagna.
Intanto la vecchia _Lilì_, dimenticata in un angolo, con la veste
sdruscita, una gamba rotta, i fianchi squarciati e la stoppa che le
usciva dalla pancia, esperimentava duramente l'ingratitudine umana.

Eran circa due settimane dacchè Gasparo si trovava a Venezia quando
Fortunata si fece animo a iniziar con lui un discorso scabroso che le
stava da un pezzo sulla punta della lingua e ch'ella non sapeva mai
risolversi a cominciare.

--Gasparo--ella balbettò una sera dopo aver messo a letto la bimba--non
t'ho ancora parlato di....

--Di che cosa?--interruppe il giovane aggrottando le ciglia.

--Non turbarti, non guardarmi in quel modo--esclamò Fortunata.--Mezz'ora
fa eri così gaio, così sorridente con Margherita.... Io sentivo svanir
la gran soggezione che ho di te....

--Soggezione! Soggezione!--brontolò Gasparo.--Perchè devi averne?

--Ho torto, lo so.... Sei tanto buono.... Fosti sempre tanto buono....
Ma che vuoi? Sono una femminetta senza spirito.... Basta un nulla a
confondermi.

--Via--soggiunse Gasparo raddolcendo la voce.--Di che cosa vuoi
parlarmi?

--Di... di Leonardo--disse Fortunata tutta tremante.

--Me l'aspettavo.... Ebbene?... Non hai dovuto riconoscer tu stessa che
t'era impossibile viver con lui?.... E quand'egli ha stancato una
pazienza come la tua!...

--No, Gasparo... forse non ne ebbi abbastanza... o almeno... non ebbi
tatto... non so far niente io... che disgrazia! che disgrazia!

--Povera vittima!--esclamò l'ufficiale un po' irritato, un po'
commosso.--Dovresti anche prendertela con te stessa! Quel miserabile che
t'ha sedotta non per amore, ma per capriccio, che t'ha sposata non sotto
l'impulso del dovere, ma sotto quello della paura, quel miserabile che
non ha cuore nè per sua moglie, nè per sua figlia, che s'è mangiato
tutto il suo, che è precipitato ruzzoloni di vizio in vizio, d'ignominia
in ignominia, quel miserabile merita proprio che tu t'accusi per lui!

--È vero... egli ha le sue colpe... ha molte colpe... non lo difendo,
no... ma è anche molto da compiangere... e se io potessi....

--Sicuro, se tu potessi dargli dell'altro danaro da scialar come prima
fra le ballerine e le femmine da partito, tu saresti contenta come una
Pasqua?

--Gasparo, non è questo.... Io vorrei aiutarlo a togliersi da quell'ozio
che è la sua rovina... vorrei aiutarlo a trovarsi una occupazione....

--Un'occupazione? Lui? Lo credi uomo da occuparsi d'altro che... di
quello di cui s'è occupato finora?

--Forse sì.... Mi pare che ne senta anch'egli la necessità....

--Che ne sai tu?

--Lo vedo talvolta... oh, avrei forse dovuto piantarlo affatto, solo,
infelice com'è?... Lo vedo, l'ho visto ieri... era tranquillo,
ragionevole.... «Che vuoi ch'io faccia?» mi disse. E soggiunse... ma non
arrabbiarti... stammi a sentire con calma.

--Continua, in nome di Dio.... Son calmo, mi pare.

--Soggiunse: «Adesso c'è qui tuo fratello che ha un posto importante,
che è pieno di aderenze....»

Gasparo non la lasciò finire.

--E avrei da servirmene per dare un impiego a lui, a lui che non è atto
a far nulla, che non merita nulla?... Tronchiamo questo discorso.... O
piuttosto--egli ripigliò--ma come non ci ha pensato lui subito?...
piuttosto digli che c'è un modo per levarsi dall'abbiezione, un modo
facile, sicuro, che può restituirgli la stima dei galantuomini....

--Quale? Quale?

--Tu pure me lo domandi?... Si ricordi dei suoi avi che affrontarono
cento volte la morte per la patria; brandisca un fucile, vada, corra
dove si combatte contro gli Austriaci;... un giorno solo, un'ora, un
minuto di eroismo può sanar molte colpe.... Non rispondi?

--Andar soldato!--mormorava Fortunata, tenendo gli occhi bassi,--Ma egli
non è robusto, non è avvezzo alle fatiche... e pur troppo in questi
ultimi tempi....

--I vizi l'hanno indebolito di più.... Me lo immagino.... Non
importa.... Ne son partiti degli altri, viziosi, scioperati al pari di
lui; hanno capito, hanno sentito che quest'era l'unica via di
salute....

--Ma egli, ne son sicura, non resisterebbe alla prova.

--E se fosse?--proruppe Gasparo con impeto.--Non c'è dubbio; andando
alla guerra egli può soccombere alle fatiche, può morire, beato lui! con
una palla in fronte; ma qui, non muore a oncia a oncia? E tu
preferiresti di vederlo finire sulle panche d'un'osteria, forse nel
canto d'una strada?

--Gasparo, Gasparo, che pronostici fai!--esclamò Fortunata atterrita
coprendosi il viso con le mani.

--Io non pronostico nulla d'inverosimile--egli le rispose. E vedendo che
le sue parole l'avevano scossa se non persuasa, continuò:--Invece chi
sa? Nei sani travagli del campo egli può trovare una vigorìa ignota, e
sfuggendo ai pericoli può tornar rifatto di corpo e di spirito.... E
allora, siane certa, egli benedirebbe chi gli avesse dato il consiglio
di prender l'armi.

Che Gasparo credesse proprio al miracolo, questo non oseremmo
affermarlo; tuttavia egli parlava con l'accento d'uomo convinto; e forse
era convinto realmente che se v'era per Leonardo un mezzo di redenzione
possibile, era quello da lui indicato.

Fortunata era in una strana perplessità. Col suo carattere timido, col
suo sgomento della guerra, ella non sapeva neanche figurarsi di dover
dare lei stessa al marito un suggerimento di quella specie; anzi non
sapeva figurarsi che quel suggerimento non le destasse addirittura una
ripugnanza invincibile. Eppure una voce interna le ripeteva che Gasparo
aveva ragione e la sua mente si fermava volentieri su quella frase:
_egli può tornar rifatto di corpo e di spirito_.... Se fosse vero?

--Gasparo--ella cominciò peritosa--se gli parlassi tu?

--Io?... No... non voglio vederlo... adesso.... Quando si sarà deciso a
compiere il suo dovere di cittadino, allora, allora soltanto venga da
me.... Io l'accoglierò dimenticando il passato, io farò tutto quello che
sarà in mio potere per ispianargli la via.... Ma eh' egli non mi capiti
dinanzi se non è ben risoluto.... Hai inteso?

Visto che suo fratello era irremovibile, Fortunata mise un sospiro e
disse:

--Gli parlerò io, proverò.

E il colloquio fu terminato così.



XXIII.


È un fatto che Leonardo Bollati, un giorno in cui egli era d'umor più
trattabile, aveva detto alla moglie che, in fin dei conti, se gli
offrissero un buon impiego, egli avrebbe forse la degnazione di
accettarlo. Una simile idea può parere strana in un uomo di quella
tempra e di quella vita, ma la si spiega benissimo ove si consideri che
il 22 marzo aveva portato uno sconvolgimento profondo nelle abitudini
dei Veneziani. In condizioni ordinarie non c'è popolazione più metodica
di questa; la gente si reca ogni giorno alla stessa ora agli stessi
ritrovi; alla distanza di dieci anni voi vedete dietro le vetriate dei
soliti caffè i soliti visi con qualche ruga e qualche capello bianco di
più; quelli che mancano, mettete il vostro cuore in pace, molto
probabilmente son morti. Entrate, e sentirete, non dico gl'identici
discorsi, ma l'identico modo di discorrere, di sparlare del prossimo,
di spropositar di politica, di gridar la croce addosso agli
amministratori del Comune. Ciò che vale pei caffè, vale pei teatri, per
le conversazioni, per le osterie, per le passeggiate: ciò che vale per
un ceto di persone vale per tutti. Gli amici si vedono, si lasciano, si
rivedono tre o quattro volte nel corso di ventiquattr'ore. Che amici! si
dirà. Adagio un poco. Certo di amici veri ce ne sono anche qui, ma chi
si lasciasse illudere dalle apparenze dell'intrinsichezza andrebbe
incontro a terribili disinganni. L'amicizia, a Venezia, è più che altro
una malattia cutanea; prende le forme d'un'eruzione di cordialità; i
visceri ne sono illesi. Tizio, Caio, Marco, Sempronio passano insieme
mezza giornata, supponiamo, al Florian, si danno del _tu_, scherzano
insieme, fanno il tresette, sembrano quattro corpi e un'anima. Una
mattina Sempronio non si lascia vedere. Tizio, Caio, Marco sono
inquieti, ma si consolano dicendo:

--Verrà alle cinque.

Alle cinque Sempronio non compare.

--Oh bella!--esclamano gl'indivisibili.--Dove s'è cacciato oggi colui?

--Non importa. Stasera per la partita non manca sicuramente.

Viene la sera e di Sempronio nessuna nuova.

--Diavolo! Questa poi è grossa.... Bisogna dire che sia malato. Chi fa
il quarto invece di lui?

Il quarto si trova facilmente, e si comincia a giocare.

Sul più bello capita qualcheduno con aria contrita.

--Lo sapete? Sempronio è morto!

--Diavolo, diavolo!--dice Tizio.--Come mai? Se ieri era sano come un
pesce?

--Ma! L'apoplessia lo ha colto questa mattina e alle tre era spirato.

--Corpo di bacco!... Mi dispiace assai,--soggiunge Caio.

Anche Marco manda un sospiro al perduto amico:

--Povero Sempronio! È proprio una disgrazia.... Accuso tre assi senza
denari.... E dove stava di casa?

Ebbene, si capisce senza difficoltà come ogni fatto pubblico il quale
alteri l'andamento normale della vita cittadina debba sciogliere queste
relazioni così superficiali quantunque così espansive. Figuriamoci poi
un fatto dell'importanza della rivoluzione del 1848. Chi fu sbalestrato
di qua, chi di là: fu come se un cataclisma gettasse tutti gli astri
fuori della loro orbita. Non c'è dubbio che dal nuovo caos uscirebbe una
nuova armonia e i corpi celesti prenderebbero un altro cammino regolare;
è probabile però che qualche astricino più tardo a disciplinarsi
andrebbe alquanto vagando alla ventura per cascar poi a guisa di bolide
Dio sa in che luogo. Nel 1848 gli uomini ch'entrarono nel movimento
politico, che si posero sul serio al servizio del paese trovarono presto
un nuovo equilibrio: quelli, che, senza curarsi dei tempi mutati,
vollero continuar le abitudini frivole di prima, si aggirarono come
fantasimi smarriti in un mondo che non li intendeva e ch'essi non
intendevano più.

Eccoci dunque, per una strada un poco lunga, tornati al nostro Leonardo.
La sua compagnia di farabutti e viziosi s'era, dopo il 22 marzo,
dispersa; alcuni, cosa strana a dirsi, erano partiti pel campo, altri
s'erano rintanati brontolando. Nella bettola ov'egli consumava metà
della notte e ove l'ostiere fino al 22 marzo serbava a lui e alla sua
brigata una tavola a parte, ora gli toccava sedere in mezzo a
sconosciuti che parlavano della guerra, di Manin, di Carlo Alberto, di
Pio IX, urlando come ossessi e minacciando talvolta, nel calore della
discussione, di rompersi i bicchieri in faccia. È vero che per lo più le
dispute ci calmavano, le voci irose si raddolcivano e si fondevano in un
inno patriottico. Ma Leonardo Bollati non ci si divertiva punto; lì
solo, dimenticato in un angolo, egli non ci trovava più gusto nemmeno a
ubbriacarsi. E anche le donne gli parevano cambiate, perfino quelle che,
ordinariamente, non hanno opinioni e non si curano delle opinioni
altrui. Nossignori, adesso anche loro avevano l'aria di guardarlo d'alto
in basso, di rimproverargli la sua inerzia; lasciando stare poi le
preferenze ch'esse accordavano ai militari, agli elmi, ai grandi
mantelli bianchi, ai pennacchi e ai lustrini....

Sotto l'influenza di quest'uggia che gli si era cacciata nell'ossa,
Leonardo Bollati tenne alla moglie il discorso ch'ella aveva timidamente
riferito al fratello. Leonardo vedeva della gentuccia salita ai primi
onori; possibile che non ci avesse a essere un buon posto per lui che
aveva un nome inscritto nel Libro d'oro della Repubblica di San Marco?
Anche dei giovani patrizi, di nobiltà meno antica della sua, erano
entrati negli uffici pubblici, dispensavano grazie e protezioni; ed egli
riteneva d'aver il diritto d'esser messo al livello di costoro. In
quanto al genere dell'impiego, Leonardo non aveva precisato nulla; gli
bastava un impiego decoroso. E non aveva escluso a priori neppur gli
impieghi militari; poichè egli non amava la guerra, ma ci avrebbe
pensato su prima di rifiutare una carica di generale o di colonnello con
residenza a Venezia.

Il lettore si sarà accorto che fra le idee di Sua Eccellenza Leonardo
Bollati e quelle del cognato Gasparo Rialdi c'era un dissidio bastevole
a mettere a repentaglio il buon successo delle negoziazioni aperte da
Fortunata. E infatti quelle negoziazioni fallirono. La proposta di andar
a rischiar la pelle come soldato semplice parve a Leonardo un'ingiuria
atroce e si sfogò con la moglie a dir corna di Gasparo e di tutti i
Rialdi, ch'eran vissuti di carità alla sua tavola e che adesso eran
montati in superbia perchè avevano il vento in poppa. Sciocco lui a
fidar sul loro aiuto; doveva pur ricordarsene che i Rialdi erano stati
una delle piaghe della sua famiglia! Non voleva veder più nessuno di
quella brutta gente, neppur lei che già valeva quanto gli altri e non
sapeva far di meglio che venirgli a piagnucolare davanti. Ell'aveva
fatto benone a tornar presso i suoi genitori; ci stesse e non lo
importunasse con le sue visite.

Leonardo non pensò più ad avere un impiego; bensì, riordinandosi allora
la guardia civica, egli prese l'eroica risoluzione d'iscrivervisi, e,
perchè il nome della sua casa non aveva ancora perduto ogni autorità nel
circondario, riuscì a farsi elegger tenente della sua compagnia.
Veramente egli aspirava al grado di capitano, ma questo fu conferito ad
un pizzicagnolo ch'era stato militare sotto l'Austria. Per un altro uomo
che fosse stato soltanto disoccupato ed inerte, quella nomina avrebbe
potuto considerarsi una fortuna, chè, o poco o molto, c'era anche nella
guardia civica qualche cosa da fare e qualche pericolo da correre. Per
Leonardo Bollati fu una nuova disgrazia. Voleva svergognar i superiori,
confonder gli uguali, accattivarsi l'animo dei militi, e per ottener
quest'intento gli occorreva scialar da gran signore e pagar da bere alla
compagnia, nè potendogli bastare all'uopo il suo magro assegno
aggiungeva debiti a debiti. Come poi un oberato trovasse dei gonzi che
gli prestavan danaro, quest'è uno dei tanti misteri dinanzi a cui
gl'ingenui devono chinar la fronte in silenzio. Un povero galantuomo che
una volta in vent'anni chieda al sarto un mese di respiro per saldargli
il conto, sentirà rispondersi con mali modi; un fallito che abbia
mangiato un milione del proprio e due milioni di quello degli altri
potrà ancora imbattersi in uno strozzino di buona volontà che gli dia
qualche migliaio di lire.

Insomma Leonardo, alquanto rimpannucciato in quella sua divisa di
tenente, tornò ad aver quattro soldi in tasca, ciò che gli permetteva,
quand'era di servizio, di far portare in corpo di guardia dei boccali di
vino e dei polli arrosto che rinfocolavano il patriottismo dei
sott'ufficiali e dei gregari.

Di giorno il quartier generale del nostro tenente era l'osteria _Alla
Venezia risorta, condotta da Oreste Meolo_, gran ritrovo dei politicanti
di Cannaregio. Là si sapevano tutte le novità, si dibattevano tutte le
opinioni, si giudicavano tutti gli uomini, e le dispute si facevano
tanto più calde e romorose quanto più gli affari accennavano a
intorbidarsi; nè ci voleva meno che la calma olimpica e l'imperturbabile
ottimismo del signor Oreste per quetar gli spiriti degli avventori.

In mezzo alle loro grida, alle accuse di tradimento ch'essi scagliavano
oggi al Papa, domani a Carlo Alberto, o al Borbone, o al Durando che non
correva in aiuto dei volontari, il signor Oreste con la sua faccia
serena, con la sua voce melliflua sorgeva a dire:

--Mi lasciano esporre il mio debole parere?

E il suo debole parere era questo. Le cose non si dovevano guardar nei
loro particolari, ma nell'insieme. E dall'insieme risultava chiaro come
il sole che si camminava a gran passi verso una compiuta vittoria. Se lo
lasciavano dire, ne darebbe la prova.

--Sì, sì,--interrompeva qualcheduno,--bel principio. Intanto gli
Austriaci vengono avanti.

--Meglio,--diceva il signor Oreste,--così si piglieranno tutti in una
volta.

--Uhm! E Durando che non si muove mai?

--E il Papa che volta casacca?

--E Carlo Alberto che sta a guardare i Tedeschi sul Mincio?

--E Ferdinando che richiama i suoi soldati?

--Fidarsi dei Re!... Tutti traditori, tutti bricconi.

--La ghigliottina ci vuole, ecco il rimedio.

--Sangue, sangue....

Pare impossibile la quantità di sangue che domandano agli altri quelli
che non sono disposti a spargerne una goccia del proprio!

Il signor Oreste non aveva ancora potuto svolgere il suo concetto, ma,
presto o tardi, trovava il modo di farsi sentire.

--M'ingannerò, ma per me queste ritirate, questi voltafaccia non sono
che finte, tranelli per adescare il nemico. Perchè, signori, se l'Italia
non dovesse pensare che a sè direi anch'io: S'è sbagliata strada.
Bisognava gettarsi subito sui pochi Austriaci ch'erano rimasti nel
Lombardo-Veneto e impedire che ne venissero giù dei nuovi dall'Alpi e
dall'Isonzo. Ma l'Italia, signori, ha degli obblighi, dei grandi
obblighi. Si tratta di distruggere l'Austria, si tratta. Ora mettiamo
che i Piemontesi, i Papalini, i Napoletani, fossero tutti marciati
subito verso la frontiera, è evidente che quelli di Vienna non avrebbero
avuto coraggio di spedir altre truppe in Italia. Noi avremmo fatto
prigioniero Radetzky e i suoi reggimenti, ma il grosso dell'esercito
sarebbe rimasto sano e salvo a casa propria. Invece, lasciando sguarniti
i confini, vengono ad uno ad uno a cader nell'agguato, Nugent, Welden,
d'Aspre e tanti nomacci simili che il diavolo se li porti. E un bel
giorno, quando tutte le forze austriache si son calate quaggiù, i
Piemontesi da una parte, i Romagnoli e i volontari dall'altra, te li
prendono in mezzo e fanno una frittata. Non ce ne deve tornare di là dai
monti uno solo. Questo è il mio debole parere. Che ne dice il nostro
tenente?

Il _nostro_ tenente, ch'era il N. H. Leonardo Bollati, arricciava il
naso a sentirsi trattar con questa confidenza dal suo antico cuoco, ma
eran tempi democratici e conveniva adattarvisi. Del resto il _nostro_
tenente non aveva opinioni ben determinate circa all'andamento probabile
della guerra, ed era disposto ad accettar le opinioni del signor Oreste.

Qualcheduno domanderà se la clientela della _Venezia risorta_ fosse
composta d'idioti o di sonnambuli a cui si potesse spacciar queste
fanfaluche; il fatto si è che _il debole parere_ del signor Oreste era
nel 1848 anche quello di persone intelligenti, le quali, nel loro santo
entusiasmo per la causa dell'indipendenza, avevano finito collo smarrire
ogni lume di critica. Ciò non vuol dire che tutti gli avventori
s'acquetassero allo sentenze spropositate dell'oste, ma i più gli
porgevano ascolto benevolo, ed egli, con la sua tattica, mostrava
d'intuire due grandi verità: che gli uomini credono sempre volentieri a
quello che desiderano, e che a conciliarsene l'animo non c'è mezzo più
efficace che accarezzar le loro illusioni.

In quanto a lui, dell'indipendenza non gliene importava nè punto nè
poco; solo vedeva con piacere per le vicende della guerra la guarnigione
crescer ogni giorno, e molti dal di fuori rifugiarsi a Venezia. E per
mettersi, come si dice, a livello delle circostanze, il signor Oreste
ingrandiva la sua trattoria, si provvedeva di vini napoletani che
richiamassero alla _Venezia risorta_ i prodi seguaci di Guglielmo Pepe,
migliorava il servizio, e dava impiego a due nostre vecchie conoscenze,
esuli dalla provincia, la bella caffettiera d'Oriago e il relativo
marito. Sì, la Rosetta e Menico, all'avvicinarsi degli Austriaci avevano
stimato opportuno di chiudere il caffè e di fuggir gli invasori.
Veramente Menico, sulle prime, non capiva perchè i Tedeschi, tornando,
dovessero prendersela direttamente con lui; ma sua moglie, la quale
correva dietro a un sott'ufficiale della legione romana, tanto disse e
fece per provare al consorte ch'egli s'era compromesso in un modo tale
da rischiar la vita ove fosse rimasto, che egli finì col persuadersi di
essere un gran patriotta minacciato del patibolo e accondiscese a
emigrare, come facevano altri che, a sentir la Rosetta, erano assai meno
compromessi di lui. Giunto fra le lagune con pochi quattrini, egli si
sarebbe mangiati ben presto anche quelli aprendo un'osteria, se l'ottimo
signor Oreste non ne lo avesse sconsigliato e non avesse offerto a lui e
alla consorte un posto sicuro e onorevole presso la sua _Venezia
risorta_. Dopo qualche titubanza i coniugi si acconciarono alla
necessità, e le grazie della Rosetta contribuirono ad aumentar
notevolmente la clientela del signor Oreste.

Il sott'ufficiale della legione romana trovava che gli ammiratori della
vispa cantiniera eran troppi e non seppe tacergliene il suo rammarico.
Essa però gli fece intender ragione, dicendogli che non voleva e non
aveva mai voluto gelosie, che d'altra parte ell'era di carattere allegro
e le piaceva far buona cera a tutti, tanto più che ciò le era imposto
dai doveri della sua carica. Il sott'ufficiale si rassegnò a chiudere un
occhio; Menico poi da un pezzo li aveva chiusi tutti e due.

La Rosetta non mancò di fare i suoi convenevoli a Sua Eccellenza il N.
H. Leonardo Bollati; e Leonardo avrebbe voluto riappiccar con lei la
vecchia amicizia. Ma il conte non aveva più nessuna attrattiva fisica,
e, diciamo la brutta parola, nessuna attrattiva economica. Da quando la
Rosetta non lo vedeva, ed erano quasi tre anni, egli era scaduto
immensamente d'aspetto e ci voleva poco ad accorgersi ch'egli stava
malissimo di finanze. Infatti gli riusciva ogni giorno più difficile di
scovar nuovi sovventori, e i vecchi insistevano per esser pagati e
minacciavano di sequestrargli l'assegno accordatogli dal Tribunale. In
questa condizione di cose, il meglio per lui era di mostrarsi meno che
fosse possibile, tanto più che, indebitato com'era, non avrebbe potuto
conservare a lungo il suo grado nella guardia civica. Con la scusa della
salute egli diede le sue dimissioni e scomparve anche dalla _Venezia
risorta_.



XXIV.


Noi non facciamo la storia dell'assedio, e non siamo quindi tenuti a
seguir passo a passo gli avvenimenti, nè a discorrer dei casi della
guerra, nè della fusione col Piemonte votata nel luglio 1848
dall'Assemblea, nè del moto popolare succeduto l'11 agosto alla nuova
dell'armistizio Salasco; diremo soltanto che coll'incalzar del pericolo
crebbe l'animo e la saviezza dei Veneziani. Alla richiesta di maggiori
sacrifizi rispose più spontanea l'abnegazione di tutti, alla necessità
di prepararsi a resistere rispose un'energia maggiore nell'organizzar la
difesa. Si provvide all'armamento dei forti, si mobilizzò una parte
della guardia civica, si formarono nuove legioni di combattenti, quella
tra l'altre che in omaggio ai martiri di Cosenza s'intitolò di Bandiera
e Moro.

Fosse il fascino d'un nome che gli ricordava gli amici della sua prima
giovinezza, fosse la persuasione di non poter far nulla d'efficace
nella marina, Gasparo Rialdi chiese ed ottenne di entrar col grado di
capitano in questo corpo che raccoglieva il fiore della cittadinanza
veneziana. Fu codesta un'amara delusione per la contessa Zanze, la quale
s'era fitta in capo che suo figlio avesse a diventare ammiraglio e non
sapeva rassegnarsi a vederlo senza il suo cappello a due punte e le sue
belle spalline d'oro. Ai suoi occhi il cambiamento era poco meno di una
degradazione, ed essa se la pigliava a vicenda col Governo che non aveva
apprezzato abbastanza un ufficiale di quel merito, e con Gasparo stesso
ch'era un grand'uomo, ma non sapeva farsi valere. Però queste cose ella
non le poteva dire che nel segreto dell'amicizia, alla contessa
Ficcanaso, per esempio, quella sua tenera amica che conosciamo, giacchè
Gasparo aveva certe massime tutto sue, e guai s'egli avesse sentito che
sua madre si lagnava del modo in cui egli era trattato.

In quanto a lui, non desiderava che di poter finalmente combattere, e
l'ebbrezza delle prossime lotte lo rendeva dimentico d'ogni altra cosa,
perfino del significato doloroso che aveva per la causa italiana
quell'avvicinarsi degli Austriaci a Venezia. È vero pur troppo che anche
l'eroismo, anche la voluttà del martirio rende talvolta egoisti.

Il lettore conosce abbastanza il carattere del conte Luca da poter
credere senza fatica che egli s'apparecchiava agli avvenimenti con
disposizioni d'animo affatto opposte a quelle del figlio. Pover'uomo!
Dalla metà d'aprile a tutto maggio s'era sforzato di persuadersi della
fine del dominio austriaco in Italia, e aveva fatto (almeno così pareva
a lui) delle dimostrazioni pubbliche atte a ingraziarlo coi liberali, ma
dopo i disastri del luglio e dell'agosto la sua vecchia idea che i
tedeschi sarebbero tornati aveva ripreso l'antico predominio e non gli
lasciava pace. Il peggio si era che gli toccava divorar in silenzio le
sue inquietudini. A lunghi intervalli, quando non ne poteva più e il
soffiare gli era uno sfogo insufficiente, vuotava il sacco con
Fortunata.

--Matti, matti, matti da legare!--egli diceva (però tanto piano che
Fortunata doveva aguzzar l'orecchio per sentirlo).--A un bel punto ci
hanno ridotti!... Ecco ciò che ha saputo fare il loro Carlo Alberto, ciò
che han fatto i volontari, e i papalini, e i napoletani.... E adesso
tutta la tempesta viene addosso a noi; stiamo freschi.... Mi ricordo del
blocco del 1813, che delizia!... Questi furibondi che ci governano non
se ne rammentano mica, son giovani, loro, se no, non farebbero tanto i
gradassi.... Eh, perchè l'esperienza servisse a qualcosa, bisognerebbe
che al mondo non ci fossero altro che i vecchi.... E il blocco di questa
volta sarà anche più rigoroso, si può scommettere.... Avremo la
carestia, la miseria, e chi sa che altri malanni.... Con che sugo
poi?... Per calar le brache, con rispetto parlando, per istar peggio di
prima.... Figuriamoci quanti impiegati destituiti!... Si terrà conto
delle apparenze, delle parentele.... so quel che mi dico. E voglia il
cielo che i nostri padroni d'adesso, a forza di arroganza, non spingano
i Tedeschi agli estremi... Che se c'è l'assalto, siam fritti. Tutti gli
abitanti saranno passati a fil di spada e di Venezia non rimarrà pietra
su pietra... Mi spiego?... Chi è?

Con questo grido angoscioso--_chi è?_--il conte Luca soleva troncare o
interrompere le sue querimonie, chè bastava il sospetto della presenza
di qualcheduno per suggellargli la bocca. E non solo non avrebbe parlato
dinanzi a sua moglie che era una pettegola o a suo figlio con cui non
aveva mai avuto confidenza, ma gli dava ombra perfino la piccola
Margherita. I bambini, si sa, nella loro pericolosa innocenza, son
capacissimi di riferir tutti i discorsi che sentono. E il conte Luca
faceva giurare a Fortunata che non si sarebbe lasciata sfuggire con
nessuno una parola di ciò ch'egli le diceva. Ella ubbidiva, e la sua
mente inclinata a tristi pensieri prestava facil credenza alle terribili
profezie paterne e già precorreva le stragi, gl'incendi, la rovina
ultima di Venezia.

Intanto l'anno 1848 finiva, per la causa liberale, in Italia e fuori
d'Italia, in modo ben diverso da quello in cui era cominciato. La
discordia aveva pazzamente agitato la sua face nel campo di coloro che
parevano scesi a combattere sotto la stessa bandiera. Da una parte
gl'indugi fatali, i tentennamenti colpevoli, le aperte fellonie;
dall'altra gli eccessi del linguaggio e le violenze degli atti.

Nondimeno nei primi mesi del 1849 una lieta notizia riconfortò i
patriotti della nostra penisola; il Piemonte riprendeva le armi. Ma la
gioia durò poco, e la tragica giornata di Novara ripiombò l'Italia nel
lutto. Gli Austriaci, sicuri alle spalle, potevano ormai converger le
loro forze contro i ribelli. Il 26 marzo, tre giorni dopo la disfatta
dell'esercito di Carlo Alberto, il feroce Haynau, nome esecrato dalle
madri lombarde e magiare, dal suo quartier generale di Padova, intimava
la resa a Venezia. E il 2 aprile, Venezia, col voto unanime dei suoi
rappresentanti raccolti nello storico palazzo dei Dogi, decretava la
resistenza a ogni costo. Santo e nobile voto che riscattava lunghi anni
d'ignavia, ed evocava in quelle aule famose lo spirito della grande
Repubblica.

Colpita al cuore dalla tremenda delusione ch'era successa a tanto
rifiorir di speranze, la popolazione si riebbe all'annunzio del fiero
decreto. Era un'ebbrezza simile a quella del marzo 1848, ma meno
teatrale, ma più virile, più degna d'uomini preparati a morire. Simbolo
della lotta ad oltranza, non emblema di funeste divisioni sociali, il
nastro rosso comparve alla bottoniera degli abiti, la bandiera rossa
sventolò sui tetti dei palazzi, sulle cupole delle chiese, sulle punte
dei campanili.

E il rimbombo del cannone, dal maggio in poi, divenne la musica
pressocchè quotidiana dei Veneziani. Chi, in un giorno di battaglia, udì
di lontano quel suono cupo e profondo sa che angoscia esso metta negli
animi, che pallore sparga sui volti, e come sospenda, per così dire, in
quella crudele trepidazione di tutti, il corso della vita ordinaria. Ma
chi, per settimane, per mesi, l'udì da una città assediata sa pure che
l'orecchio vi si abitua quasi come a un suono domestico, e che il primo
sbigottimento si cambia a poco a poco in un'apatia rassegnata e persino
in una spensieratezza gioviale.

Così a Venezia. Il cannone tuonava intorno a Malghera, e tuttavia il
popolo conservava il suo umore gaio e il suo spirito caustico; si
sarebbe detto talvolta che c'era nella città un'attrattiva di più; onde
gli uni si recavano in brigatelle alla punta estrema di Cannaregio a
veder i globi di fumo che s'alzavano dalle lunette dei forti, gli altri,
dalle specule e dagli abbaini, spingevano col canocchiale lo sguardo
fino alle batterie austriache di Campalto e di Mestre.

E quando Malghera, ridotta un mucchio di rovine, fu abbandonata in
silenzio nella notte dal 26 al 27 maggio, e la eroica guarnigione,
decimata ma non vinta, non doma, fatti saltar i primi archi del ponte,
si trincierò fieramente sul piazzale opponendo al nemico una seconda
linea di difesa non meno formidabile dell'altra, lo strepito più vicino
dell'artiglieria, la coscienza del crescente pericolo non valse ancora
ad accasciar l'animo dei Veneziani.

Si sperava a dispetto di tutto: si sperava nella propria costanza, nei
soccorsi del di fuori, negli aiuti del cielo; nessuno parlava, nessuno
voleva sentir parlare d'arrendersi. Di tratto in tratto la gente
s'accalcava in piazza domandando ad alte grida Manin. E Manin, dal
balcone delle Procuratie, rivolgeva agli adunati brevi parole, non
mendaci, non lusinghiere, ma ferme e virili quali i forti rivolgono ai
forti. La folla si disperdeva applaudendo e più che mai risoluta a
resistere.

Resistere fino all'ultima cartuccia e fino all'ultimo uomo, dicevano
anch'essi i difensori del ponte, imperterriti sotto una pioggia di
fuoco. Che importava morire? Quei prodi sentivano che sui pochi metri
quadrati dell'angusto piazzale si gettava il seme del futuro. E quel
seme era sangue, il più nobile sangue d'Italia confuso insieme in
quattro zolle di terra. Con un grido sul labbro, con un affetto nel
cuore eran venuti dalle sponde del Jonio e dalle falde dell'Alpi, dalle
pianure lombarde e dai clivi toscani, dal golfo incantato di Napoli e
dai feraci campi delle Puglie, dalla Romagna indomita e dalla Liguria
operosa; eran venuti a dividere i travagli e la gloria dei figli delle
lagune; ignoti fino a ieri gli uni agli altri, oggi più che fratelli. E
cadevano come spighe mietute stringendosi in un ultimo amplesso,
mormorando coi vari accenti d'una stessa favella il dolce nome della
patria comune. Onore a voi, valorosi, sia che vi ricordi la storia, sia
che, martiri oscuri, vi copra l'oblio! E onore anche a voi, pochi ma
eletti, svizzeri, slavi, magiari, che, non nati sotto il cielo d'Italia,
pur ci veniste a morire, suggellando col sacrifizio delle vostre giovani
vite l'alleanza fra quanti credono nella giustizia e nella libertà!

Ma non lasciamo sbizzarrir troppo la penna. Tra i più intrepidi
combattenti di Malghera e del Ponte c'era Gasparo Rialdi. Primo al
pericolo, ultimo a chiedere o ad accettare il riposo, a vicenda capitano
e soldato, egli comandava ed eseguiva, ora intento a puntare i cannoni,
ora a rinforzare i terrapieni, ora ad assistere i feriti. I suoi
compagni d'armi lo dicevano invulnerabile. Infatti le palle gli
grandinavano intorno senza toccarlo. Una volta un piccolo deposito di
polvere scoppiò a pochi passi da lui con un orrendo fragore; dieci
uomini stramazzarono al suolo per non più rialzarsi, altri due,
rovesciati dall'urto, sorsero subito in piedi tra il fumo e la polvere,
pesti, contusi, ma atti a riprendere il loro posto. Uno dei due era
Gasparo.

Ogni settimana egli consacrava alla famiglia una mezza giornata o una
notte, ed è facile immaginarsi con che lagrime egli fosse accolto dal
conte Luca e dalla contessa Zanze. Chè se il conte era pusillanime come
un coniglio e la contessa leggera come una farfalla, questo non voleva
dire che non amassero il loro figliuolo. Negli affetti veri, nei veri
dolori tutti gli uomini si rassomigliano.

Fortunata, il cui spirito debole era stato soprappreso da un nuovo
accesso di fervore religioso, vedeva nella salvezza del fratello un
effetto delle sue preghiere alla Madonna, e glielo diceva, e lo
scongiurava di non sorridere, di non provocar l'ira del cielo con la sua
incredulità.

La sola Margherita, in un'età che non capisce i pericoli, riceveva lo
zio Gasparo col sorriso ilare e confidente d'un tempo. Tanto più che
egli non si presentava mai alla nipotina senza un regaluccio, ed era
curioso vedere quell'uomo grande e grosso, un momento prima in mezzo
alle granate e alle bombe, era curioso, dico, vederlo entrar in un
negozio di balocchi a prendervi dei soldatini di piombo, o delle
minuscole posate di stagno o altre bagatelle simili.

La bimba, quando lo sentiva venire, gli correva incontro con le braccia
aperte chiamandolo a nome, ed egli la sollevava per di sotto le ascelle,
su, su, fino ad avvicinar la faccia bianca di lei al suo viso
abbronzito; poi se la metteva sulla spalla e la conduceva in giro per la
stanza.

Dai forti il cannone tuonava e faceva tremar i vetri.

--Vergine santissima!--esclamavano Fortunata e la madre. Il conte Luca
si turava gli orecchi con le dita; Gasparo corrugava la fronte come se
lo prendesse un rimorso di non esser sul luogo della pugna; Margherita
imitava ridendo il suono delle cannonate: _bum, bum_. Poi si metteva a
canticchiare una delle canzonette patriottiche di quei tempi:

    Fuoco sopra fuoco
      S'ha da vincere o morir,
      ecc. ecc.

Oppure

    E col verde, bianco e rosso
      La bandiera s'innalzò,
      ecc. ecc.

O quella scioccheria in dialetto

    Tre colori, tre colori,
      I Tedeschi gà i dolori,
      ecc. ecc.

Di lì a poco però, sporgendo avanti la testa come chi da una finestra
del secondo piano vuole attaccar conversazione con gl'inquilini del
primo, ella arrischiava una domanda:

--Zio Gasparo, cosa m'hai portato?

--Niente--rispondeva serio serio l'ufficiale.

Ed ella, con un suo vezzo inimitabile:

--Sì che m'hai portato qualcosa.

Allora egli la faceva discendere dal punto elevato in cui l'aveva posta,
si metteva a sedere con lei e le diceva:

--Cerca.

Margherita cercava di qua, cercava di là e finiva col tirar fuori da una
tasca della tunica o dei calzoni gli oggetti che lo zio le aveva
destinati e che le strappavano un grido d'ammirazione.

--Guarda, mamma, guarda.... Oh bello, bello!

Fortunata ringraziava il fratello con gli occhi che le si velavano di
lagrime. Ah se Leonardo avesse voluto alla sua figliuola la metà del
bene che Gasparo voleva alla nipote!

In verità Gasparo Rialdi era meravigliato lui stesso della parte che
questa bimba prendeva nei suoi pensieri. Severo, ruvido qualche volta,
alieno sempre dalle soverchie espansioni, egli era pienamente convinto
d'essere un orso, come gli aveva detto una donna gentile che non era
riuscita ad ammansarlo. Ma ciò che non avevan potuto le donne lo poteva
ora una fanciulletta di men che quattro anni; l'orso era ammansato.

Un giorno, verso la fine di luglio, quando le previsioni dell'avvenire
eran più fosche che mai, e il nemico stringeva intorno alla città
assediata il suo cerchio di ferro e di fuoco, e scarseggiavano i viveri,
e il lugubre spettro del colèra appariva sull'orizzonte, Gasparo, venuto
a casa per poche ore, fece alla sorella una inattesa proposta.

--Fortunata.--egli le disse, e il suo aspetto era più grave e la sua
voce più commossa dell'usato--nessuno osa confessarlo, ma tutti lo
sentono. Venezia non potrà resistere a lungo.... Fra due mesi, fra un
mese forse, ci mancheranno i soldati, le munizioni, il pane... bisognerà
cedere come ha ceduto Roma.... Se in questo mese, se in questi due mesi
la mia buona stella non mi manda una palla di cannone, e sa Iddio se la
cerco....

--Oh Gasparo, Gasparo, che parole son queste?

--Beati quelli che son morti--egli riprese in tuono solenne;--beati
quelli che morranno prima che il giallo e nero abborrito torni a
sventolar sugli stendardi del nostro San Marco!... Ma io non sarò fra
questi felici... pare un destino.... Ebbene, se io sopravvivo, credi tu
che io possa rimaner qui? Io, antico ufficiale austriaco, io, disertore?

--No, no... è necessario che tu fugga... subito....

--Non oggi, o Fortunata, non prima che Venezia sia caduta.... Allora
prenderò la via dell'esilio.

--Dove andrai?

--Non lo so;... forse a Londra, ove un signore che ho conosciuto a
Smirne mi offre un impiego... a ogni modo, ho ventisette anni, ho una
salute robusta, conosco le lingue, la matematica; potrò dar delle
lezioni.

A questo punto egli afferrò tutt'e due le mani della sorella e
guardandola fissa negli occhi, le disse:

--Vuoi seguirmi, Fortunata... insieme con la tua Margherita, s'intende?

Fortunata impallidì.

--Partire?

--Sì, partire.... Ho qualche risparmio che basterà per il viaggio di
tutti noi tre.... Poi lavorerò.... Sarete la mia famiglia.

Ma Fortunata, non rimessa ancora del suo smarrimento, ripeteva
balbettando:

--Partire?.... Abbandonare....

--I nostri genitori?--interruppe bruscamente Gasparo compiendo a suo
modo la frase.--Poveri vecchi! Lo so, restan soli, ma che puoi tu fare
per loro?... Afflitta da tante sventure, nella casa già triste, tu non
puoi portare che una tristezza di più.... Certo la mancanza dei figli è
un gran dolore, ma nostro padre ha il suo impiego che probabilmente gli
sarà conservato, la mamma è d'un carattere ottimista, vede molta
gente;... insomma, finiranno col passarsela alla meno peggio, tanto più,
se, non avendo da pensare che a sè, godranno d'una discreta
agiatezza.... Credilo, Fortunata, ciò ch'io ti propongo non nuoce a
nessuno e può giovare a molti:... a me, a Margherita, a te stessa, che
qui sei troppo vicina alla prima cagione di tutti i tuoi mali.

Così Gasparo, per necessità di cose, arrivava al punto che avrebbe
voluto schivare.

E Fortunata, che sino a quel momento era riuscita a padroneggiarsi,
scoppiò in un pianto dirotto o disse con voce soffocata dai singhiozzi:

--Sì, sì... è vero... la prima cagione dei miei mali è qui.... E te lo
giuro... non lo vedo più da un pezzo... non lo vedrò finchè egli non
abbia bisogno di me.... Ma se ne avesse, se desiderasse riavvicinarsi a
sua moglie, alla sua bimba, e noi fossimo lontane... lontane?...

--Ancora infatuata di quei miserabile!...--esclamò Gasparo.--Apri una
volta gli occhi, per Dio.... Che obblighi hai verso di lui?...
Quell'uomo è di fango.... Egli aveva una via di salvezza, gliel'abbiamo
offerta, non l'ha voluta.... Gli esseri più spregevoli hanno pur qualche
cosa da contrapporre ai loro vizi, ai loro delitti....

--Oh delitti egli non ne ha commessi....

--Lo credi?... E sia pure.... Ci sono degli sciagurati a cui si
perdonano i delitti in nome di un loro impeto di generosità, d'un loro
atto di coraggio; quello che non si perdona è l'abbiezione continua, la
vigliaccheria contenta di sè....

--Oh Gasparo.... Sono sua moglie....

--Ma sei anche madre.... E più che a un marito indegno, devi pensare a
una figlia ingenua, innocente.... Che sarà di lei?... Chi si curerà
della sua educazione?... Sei moglie, sei moglie!... Ebbene, se tanto ti
preme quell'uomo, se per amor suo vuoi rimanere a Venezia, lasciami
Margherita.....

--Lasciarti Margherita?... Staccarmene forse per sempre?... No, no....
Gasparo, per carità, non me la rubare.

Quindi, alzando le palme al cielo in un parossismo di
disperazione:--Vergine santa--esclamò la povera donna--intercedetemi la
grazia di morire... Che ci faccio io a questo mondo? Sono un impiccio
per me e per gli altri.... Vergine santa, ottenetemi questa grazia....
Ho patito tanto.... E nessuno ha bisogno di me.... Mia figlia starà
molto meglio con mio fratello... Vergine santa, datemi retta, salvate
lui e fatemi morire, fatemi morire.

Fortunata avrebbe impietosito i sassi. L'ufficiale chinandosi sopra di
lei le diede un bacio in fronte e le disse:

--Calmati... una madre non è mai un impiccio per sua figlia.... Io non
te la ruberò la tua Margherita... con che diritto potrei rubartela?...
Se tu non vorrai separartene, se non vorrai venire con lei e con me...
mi avrai dato un gran dolore, m'avrai privato di ciò che poteva rendermi
meno amaro l'esilio, ma non importa, io non te la ruberò.... Per altro
fino all'ultimo giorno, fino all'ultima ora conserverò la speranza di
persuaderti.... Oggi non parliamone più, è tardi e debbo essere al mio
posto prima di sera....

Il cannone tuonava. Gasparo sorrise.

--E noi facciamo i conti sull'avvenire--egli mormorò tristamente.

Di lì a poco, abbracciati i genitori e la nipotina, egli s'avviava alla
batteria.

Fortunata, corse a chiudersi nella sua camera e ponendosi in ginocchio
davanti a un'immagine della Madonna rinnovò la preghiera di poco
prima:--Vergine santa, salvate mio fratello e fatemi morire, fatemi
morire!



XXV.


Il palazzo Bollati era vuoto da più mesi. Ad onta del suo grande amore
per Venezia, lord Herbert Seaweed era partito con la famiglia fin
dall'estate 1848, e la figliuola romantica e _byroniana_ s'era mostrata
la più sollecita a fare i bauli. Ell'aveva però voluto portar seco una
scheggia di marmo del caminetto del salotto; la città poteva saltar in
aria tutta quanta ed era opportuno d'averne un ricordo. Nell'imbarcarsi
sopra un vapore inglese, il nobile _lord_ aveva sentenziato che le razze
latine son destinate a servire in perpetuo e che soltanto la vecchia
Inghilterra, _old England_, ha il diritto di godere della libertà.

Le chiavi degli appartamenti rimasero in mano del console di S. M.
Britannica, e un custode il quale abitava nel pian terreno aveva ben
poco da custodire. Nondimeno il signor Ambrogio (chè tale era il suo
nome) si dava una gran d'aria di importanza come se fosse lui stesso il
rappresentante della Regina Vittoria. E reputandosi cittadino inglese,
giudicava gli avvenimenti con la calma superiorità d'uno straniero,
diceva che gl'Italiani, pur troppo, sono una piccola nazione priva
d'ogni esperienza politica, e che avevano commesso e commettevano ogni
giorno errori nuovi, i quali avrebbero condotto il paese a inevitabile
rovina.

--Per noi però--egli conchiudeva rivolgendosi a sua moglie, a una
figliastra e a due gatti che dividevano con lui l'onore di guardare il
palazzo--per noi non ci sono pericoli. Al primo serra serra si inalbera
sul tetto la bandiera di S. M. e vorrei vedere chi ardisse metter piede
qua dentro.... Per gl'Inglesi è una cosa da nulla il mandare una
fregata, e vi dico io che i loro cannoni fanno far giudizio a tutti i
Governi provvisori e a tutte le Monarchie del mondo.

Il signor Ambrogio estendeva il suo patrocinio anche all'unico inquilino
della casa, al conte Leonardo Bollati.

--Quello lì--egli diceva--in mezzo alle sue disgrazie può considerarsi
un uomo fortunato. E non dovrebbe aver parole bastanti per ringraziar la
munificenza del Milord, che lo ha lasciato stare in una botte di
ferro... una botte di ferro.

--Pover'uomo!--esclamavano in coro la matrigna e la figliastra.--Pensare
che una volta era lui il padrone!

--È la ruota della fortuna--ripigliava il grave signor Ambrogio.--Un
tempo c'era l'aristocrazia veneziana, adesso c'è l'aristocrazia inglese.

E nel dir così si stropicciava le mani come se a quest'aristocrazia
inglese appartenesse anche lui.

Il custode e la sua famiglia, ch'eran buona pasta di gente, usavano
molti riguardi al conte Leonardo, e le donne gli tenevano pulite le
camere senza curarsi di domandargli il compenso di poche lire al mese
ch'egli aveva loro promesso e che non pagava mai. Per quello che si
riferisce alle sue condizioni domestiche, alla sua separazione dalla
moglie e dalla figliuola, non sapevano che giudizio fare. A sentirlo,
poichè di tratto in tratto egli si fermava a chiacchierare col signor
Ambrogio, tutti i torti eran della moglie e specialmente dei parenti
della moglie, i quali gli avevano teso un tranello per costringerlo al
matrimonio, quando i Bollati erano ancora tra i primi signori di
Venezia. Poi, sopraggiunti i rovesci, quei birbanti s'eran dimenticati
dei pranzi, delle cene, dei regali avuti, e non avevan voluto aiutarlo
in nessuna maniera. Basta dire che il suo degnissimo signor cognato,
ch'era adesso tra quelli che tenevano il mestolo, invece di procurargli
un impiego onorifico, gli aveva suggerito di arruolarsi come soldato
semplice! Soldato semplice, lui, un Bollati! Dopo che i suoi vecchi eran
stati generali, ammiragli, dogi!

Il signor Ambrogio non pareva alieno dal credere alla perversità e
all'ingratitudine dei Rialdi; ma le donne rimanevano perplesse.
Nonostante la compassione che destava in loro questa _Eccellenza_ così
pitocca, esse non potevano dissimularsi che il conte Bollati era un
vizioso, un buono a nulla, uno di quegli uomini che sembran fatti
apposta per finir sulla paglia, e che hanno un gran torto di attribuire
agli altri le proprie sventure. Inoltre era impossibile che la moglie
del conte Leonardo fosse cattiva; bastava vederla per persuadersi del
contrario. E al palazzo la si vedeva spessissimo. Ella veniva a chieder
notizie di suo marito, a raccomandarlo, a lasciar qualche cosa per lui,
un po' di biancheria, una flanella, dei limoni, degli aranci, tanto più
preziosi quanto più era difficile l'averne durante l'assedio. Se le
dicevano ch'egli era in casa, ella guardava istintivamente verso la
scala come se fosse tentata di salire; ma resisteva alla tentazione e
calando il velo sugli occhi e rattenendo le lagrime si allontanava a
passi rapidi. Dopo la scena violenta che egli le aveva fatta in
occasione di quel famoso impiego chiesto e non ottenuto, ella non aveva
più coraggio di presentarglisi dinanzi. Del resto, per lo più, nell'ore
in cui Fortunata poteva recarsi al palazzo, Leonardo non c'era.

Le cose tirarono avanti in questo modo per mesi e mesi; solo quando
Gasparo fece alla sorella la proposta che sappiamo, ella deliberò di
avere un ultimo colloquio col marito; s'egli trovava una parola
d'affetto, se dava un segno di rammarico all'idea di separarsi per
sempre dalla sua famiglia, no, no, checchè dicesse Gasparo, ella non
sarebbe partita.

Ma le vicende dell'assedio impedirono il colloquio desiderato.

La sera di domenica 29 luglio le batterie austriache avevano sospeso il
fuoco; gli artiglieri del Piazzale e di San Secondo, a cui non pareva
vero di risparmiar le munizioni, ne avevano imitato l'esempio. A un
tratto, poco prima di mezzanotte, spettacolo bello e terribile, il cielo
è solcato da infinite striscie luminose, un fragore spaventoso risveglia
la città addormentata. Che è, che non è? I projettili nemici che fino
allora erano stati rivolti contro i forti o avevano colpito tutt'al più
l'estremo lembo di Cannaregio, ora giungevano d'improvviso nel cuore di
Venezia. Si sentiva il fischio delle bombe, lo strepito delle granate
che scoppiavano, lo schianto dei fumaiuoli, delle cornici, dei tetti,
che cadevano a pezzi. A poco a poco, dalle case rovinate o minaccianti
rovina, uscivano intere famiglie, vecchi languenti, donne discinte,
bambini aggrappati ai collo delle madri, uomini ancor vigorosi e pronti
a combattere, ma smarriti al cospetto d'un pericolo che veniva a
insidiarli persino nelle pareti domestiche. Uscivano portando seco le
masserizie più necessarie, avviandosi ai quartieri più lontani dai
bombardatori, a San Marco, a Castello. In breve la piazza fu gremita di
gente. Chi stendendo il materasso sul nudo terreno vi si adagiava coi
suoi cari a dormire, chi sedeva muto sopra uno sporto di colonna della
Basilica o su uno dei gradini delle Procuratie nuove, chi cercava asilo
nei Caffè, chi girava inquieto su e giù in traccia di parenti e d'amici.
Dalla folla saliva un mormorìo confuso di gemiti, di preghiere,
d'imprecazioni; in alto, sopra le mille e mille teste, i colombi di San
Marco, turbati nei loro riposi dall'insolito frastuono e cacciati fuori
dai nidi da un folle spavento, volavano a stormi di qua, di là, senza
mai chetarsi e sbattendo l'ali con un fragore sinistro.

Una calca poco minore c'era sul Molo, ove accorrevano anche i semplici
curiosi per veder meglio la parabola delle bombe.

--_I ne fa i foghi d'artifizio, sti fioi de cani_--diceva un barcaiuolo
apparecchiando tranquillamente la sua gondola e offrendosi di condur in
laguna quelli che volessero goder più davvicino del meraviglioso
spettacolo.

Un altro, a ogni colpo, mandava agli assediati un augurio breve ed
espressivo: _Andè in malora!_

--_Ve le faremo inghiotir tute le vostre bombe_--esclamava un popolano
stringendo i pugni in aria di sfida.

Nessuno apriva la bocca per parlare di capitolazione.

Il bombardamento continuò con pari vigore nel giorno dopo, ma intanto la
carità pubblica e privata aveva provveduto all'alloggio di quelli
ch'eran rimasti senza tetto. Però, chi pensi che due terzi della città
erano quasi inabitabili, si farà presto un'idea del modo in cui questi
profughi infelici potevano essere accomodati nell'altro terzo. Le stanze
non bastavano più; bisognava pigiar la gente nelle soffitte arse dal
sole, nei pianterreni corrosi dalla salsedine, nei sottoscala infetti,
nelle stive puzzolente dei barconi ancorati in laguna. Qual meraviglia
se in mezzo a quella moltitudine ammucchiata in sì breve spazio,
affranta già dagli stenti passati e ora sfinita più che mai dalla
nutrizione insufficiente e mal sana, prima serpeggiava insidioso, poi
scoppiava tremendo il colèra?

Il palazzo Bollati, e la casa Rialdi sorgevano in due punti abbastanza
distanti fra loro: tuttavia erano entrambi in quella parte di Venezia
ove arrivavano le bombe; Anzi, nel palazzo, un proiettile era caduto fin
dalla mattina del 30, mezz'ora dopo che il signor Ambrogio aveva issato
sul tetto il vessillo britannico dicendo solennemente alla moglie:

--Noi siamo in una botte di ferro... una botte di ferro. La bandiera
devono vederla sicuro, e allora da questa parte non tirano più....
Vorrei poi sapere perchè quell'imbecille del conte Bollati non sia
ancora tornato a casa.

Il conte Bollati non era tornato a casa e non aveva nessuna intenzione
di ritornarci. Quando principiò il bombardamento egli era in una
bettola a pochi passi dalla quale scoppiò una granata. Uscitone in
fretta, trovò la strada piena di gente che fuggiva dal _sestiere_ di
Cannaregio, quello appunto dov'era il palazzo già appartenente alla sua
famiglia. Con l'esagerazione propria degli spaventati, quei fuggiaschi
dicevano che a Cannaregio le bombe venivan giù come una gragnuola, che
due persone eran morte, che la chiesa di S. Geremia era in fiamme, che
una gondola era stata squarciata e sommersa. Leonardo non se lo fece
ripetere due volte e prese la rincorsa fino a Castello, ove andò a
rifugiarsi in una osteriaccia da lui frequentata in altri tempi.

Anche i Rialdi avevano dovuto lasciare la loro abitazione ed erano stati
accolti presso un amico di Gasparo, in parrocchia di San Marco. Il primo
pensiero di Fortunata, appena vide in salvo i suoi genitori e la sua
Margherita (di sè non si curava affatto, la poverina), fu quello di
Leonardo. Ma dove trovarlo? Come arrischiarsi ad andar fino al palazzo
Bollati, ove forse, se c'erano ancora i custodi, se ne avrebbe saputo
qualcosa? A badare alla gente quella era la parte della città più
bersagliata; non ci mettevano piede che le pattuglie della guardia
civica; i pochi abitanti rimasti stavano tappati nei magazzini ove si
credevano più sicuri e da cui non uscivano che per le indispensabili
provvigioni.

--Eh, _viscere mie_, c'è altro da fare che andar in cerca di tuo
marito--borbottava la contessa Zanze alla figliuola, la quale chiedeva
a lei consiglio ed aiuto.--Per poco che la duri così, siamo tutti
spacciati e non ci resta che da raccomandare l'anima al Signore.

La contessa Zanze non aveva torto. Le condizioni di Venezia
s'aggravavano terribilmente ogni giorno. Non ostante gli sforzi eroici
del nostro piccolo naviglio, la flotta austriaca era riuscita a impedir
tutti gli accessi del porto; dal lato di terra, non c'è bisogno di
dirlo, non poteva entrare nè un sacco di grano, nè un capo di bestiame.
S'era ridotti a cibarsi di pan nero, di frutte e d'erbaggi forniti dalle
nostre isole, del pesce che si pescava nei nostri canali e nella nostra
laguna. Chi riusciva a imbandire un pezzo di carne d'un quadrupede
purchessia, doveva ringraziare la Provvidenza come d'un segnalato
favore. La fame, gli stenti, l'agglomeramento della popolazione
preparavano una messe abbondante al colèra. E il colèra falciava le
vittime a centinaia, senza distinzione di classe, di sesso, d'età;
ricchi e poveri, giovani e vecchi, donne e bambini. Non bastavano al
bisogno gli ospedali, benchè se ne aprissero sempre di nuovi, non
bastavano i medici, benchè pieni d'abnegazione; mancava il ghiaccio,
mancava il chinino pei malati, mancavano i preti pei moribondi, i
seppellitori pei morti.

Eppure, in generale, le privazioni erano sopportate virilmente, e si
trovava perfino il tempo di ridere e di scherzare. Nella famiglia ove
erano ospitati i Rialdi c'era una vecchia nonna piena d'energia che dava
coraggio ai giovani e non voleva sentir piagnistei. Linda, pulita, con
una cuffietta bianca da' cui orli spuntavano due ciocche di capelli
d'argento, asciutta dalla persona e non curva ancora dagli anni, con un
par d'occhi scuri, vivi, lucenti, la signora Teresa era sempre
circondata da uno stuolo di bimbi come una chioccia dai suoi pulcini. La
chiamavano nonna tutti quanti, i suoi nipoti come gli estranei, ed ella
raccontava loro tante belle storielle, insegnava loro tanti bei giuochi.
Qualche volta una nube velava la sua fronte serena; allora, rivolgendosi
ai maschi, ella diceva con voce sommessa:

--Quando sarete grandi toccherà a voi a prendere il fucile contro i
Tedeschi.

--Sì, sì--gridavan quelli con entusiasmo.

--Lo farete il vostro dovere?

--Sì, sì, nonna.

--Bravi!--E la nonna soggiungeva con un filo d'ironia:--Fin che venga
quel tempo torniamo a giocar a mosca cieca.

La signora Teresa aveva una gran simpatia per Gasparo Rialdi e per
Margherita; per Fortunata provava una sincera commiserazione, ma non
poteva intendersi nè con lei, nè col conte Luca o con la contessa Zanze;
erano caratteri troppo dissimili dal suo. La impazientiva specialmente
il conte Luca, il quale passava delle ore tenendosi una boccettina
d'aceto e un pezzo di canfora al naso, e lamentandosi:

--L'hanno voluta fare la rivoluzione! Ecco che cosa ci hanno guadagnato.
L'avevo sempre previsto io.... Mettersi a cozzare con l'Austria!... era
uno scacco matto sicuro.... Mi spiego?

--Eh, caro signore--rimbeccava la vecchierella--se tutti fossero come
lei, il regno dei prepotenti durerebbe sino alla consumazione dei
secoli.

Malgrado del suo spirito alquanto mordace, la signora Teresa esercitava
una singolare attrazione non soltanto sui fanciulli, ma anche sugli
adulti. E Fortunata si fece animo a confidarle, non le sue vicende
coniugali, che già erano note, ma le sue angustie per la proposizione
che l'era stata fatta dal fratello.--Dio mio, come devo regolarmi? Come
devo regolarmi?--esclamava la povera giovine.

La signora Teresa non amava le persone le quali non sanno regolarsi da
sè; tuttavia ella non potè schermirsi dal rispondere. E riconobbe che la
cosa era grave; ma pesato il pro e il contro, disse:

--Per me, accetterei.

E ripetè gli argomenti addotti già da Gasparo. Rimanendo a Venezia
Fortunata non poteva recar nessun giovamento ai suoi genitori, e in
quanto al signor conte Bollati, egli, con la sua condotta aveva perduto
il titolo di marito e di padre. Fortunata doveva pensare alla sua
figliuola, e per la bimba sarebbe senza dubbio un gran bene lo star con
lo zio.

--Quello è un uomo--concludeva la signora Teresa--e in qualunque luogo
si trovi, saprà farsi la sua strada e mantenere le sue promesse.

Fortunata si torceva le mani e gemeva:

--Dio, Dio!--E neanche vederlo? Neanche saper s'è vivo o morto?

--Qui ha ragione lei. Ma non c'è proprio caso d'averne notizie?

--Senta, signora Teresa, poichè è tanto buona, trovi un'anima pietosa
che m'accompagni fino al palazzo Bollati. Dicono ch'è un vero rischio
l'andar fin là, ma non importa....

--Crede che non si sia mosso di casa?

--Non lo so.... Probabilmente si sarà mosso come gli altri, ma possibile
che non ci sia più nessuno a guardia del palazzo? E se c'è qualcheduno,
possibile che non mi diano un' informazione, una traccia?

--Insomma vorrebbe aver compagnia per questa sua gita?

--Sì... un servitore... un facchino a cui darei una mancia.

--Ma che servitore? Che mancia? Aspetti domattina e vengo io.

--Lei!... No... no, nemmen per idea....

--O che ha bisogno d'una pattuglia per esser sicura? O crede ch'io non
mi regga sulle gambe?

--Ma no... non è questo.... Non voglio che si esponga a un rischio per
causa mia.... In mezzo alle bombe....

--Che paroloni! Dia retta a me, il rischio è molto minore di quello che
si dice.... Se non ci fosse altro che il bombardamento, gli Austriaci
avrebbero da sudare ancora per un pezzo.... In verità, quanti crede sian
stati colpiti dalle bombe in tutta la città? Dieci o dodici forse....
Meno di quelli che il colèra porta via in una casa sola in poche ore....
Alle corte, se si decide, domattina alle nove, con la scusa di fare
qualche spesa, si va insieme.... Andare e tornare è l'affare di
un'ora.... Se poi non le accomoda, si spicci da sè, chè io non ho tempo
da perdere.

Come avviene sempre a quelli che contrastano con chi abbia più energia
di loro, Fortunata cedette. E la mattina seguente, alle nove precise, le
due donne s'avviarono insieme a braccetto.

I quartieri bombardati avevano realmente un aspetto che stringeva il
cuore. Le strade deserte, le botteghe chiuse, e chiuse pure, per la
massima parte, le imposte delle case, soprattutto nei piani superiori.
Qua e là, dietro alle inferriate di un magazzino, dietro ai battenti
socchiusi d'una porta, spuntava una faccia livida, affilata, sparuta.
Non mancavano segni più visibili del bombardamento; qualche mucchio di
rovinacci, qualche pezzo di tegola e di grondaia, qualche muro diroccato
o annerito da un principio d'incendio. Tuttavia il pericolo delle
persone non era gran cosa. Nè i cannoni austriaci potevano tirar più di
tanti colpi al minuto, nè tutti i colpi arrivavano sino all'abitato. Di
quelli che ci arrivavano, molti finivano nei canali interni; a ogni
modo, ben di rado i proiettili avevano la forza di trapassar le
impalcature di tutti i piani e di giungere ai luoghi terreni ove s'erano
ridotte quelle famiglie che non avevan voluto lasciar le loro case. Per
le strade poi era quasi impossibile d'esser colti alla sprovveduta; le
bombe si sentivan venire e cento volte contro una c'era tempo di
mettersi in salvo.

Checchè ne sia, Fortunata e la signora Teresa toccarono senza disgrazia
la meta del loro pellegrinaggio. Il portone del palazzo era chiuso; il
campanello risuonò cupamente nei cortile silenzioso.

Alla terza suonata si sentì qualcheduno a muoversi, e una voce femminile
gridò dal di dentro:

--Chi è? Chi è?

Era la moglie del custode.

--Sono io, sono la contessa Bollati--rispose Fortunata,--apra un
momento.

--Madonna santa!... Cosa viene a fare?--replicò la donna affacciandosi
sulla soglia ma senza invitar le due visitatrici ad entrare.--Il signor
conte non c'è mica.... Non è più venuto dopo il 29 del mese passato....
dopo il principio del bombardamento.

--Almeno mi faccia la carità di dirmi dove sia....

--Se lo sapessi....

--Non lo sa? Non lo sa?... O poveretta me!... Non sa neanche s'è vivo?

--Per questo si cheti--rispose la custode con voce raddolcita.--È
vivo....

--Ah sì.... N'è ben sicura?

--Ieri era vivo.... Mio marito l'ha visto in piazza.

--Ha parlato con lui? E dov'è suo marito?

--Ambrogio è dal console... per quella bomba ch'è venuta in palazzo. Ah
Gesù mio!

Quest'esclamazione fu provocata dal romore d'un proiettile che doveva
esser caduto poco lontano. Dopo aver ripreso fiato, la custode accennò a
voler troncare il discorso.

--Vada, vada, signora, e che Iddio l'accompagni.... Non son luoghi da
fermarcisi, questi....

--Un momento ancora, per carità.... Non mi ha detto se suo marito abbia
parlato col conte Leonardo.

--Non gli ha parlato.... Si son scambiati un saluto di lontano e il
signor conte ha gridato: «A rivederci dopo il bombardamento....» Sarà
contenta adesso.... Vada via, vada via....

--Vado, sì... e grazie.... Ma se potesse saper qualche cosa di più....

--O Signore Iddio benedetto! Cosa vuol che si sappia in questi tempi?...
Bisogna contentarsi di vivere.

E con queste parole la donna chiuse bruscamente il portone.

La signora Teresa, che aveva taciuto fino allora, toccò leggermente la
spalla della sua compagna.

--Andiamo... Quello che si poteva sapere lo ha saputo.

--Oh sì--disse Fortunata--e mi par d'esser sollevata d'un gran peso....
È vivo!... Ma dov'è? Dov'è?... È necessario ch'io lo veda.

--A questo si penserà poi.... Andiamo.

Lungo il cammino, Fortunata cercava ogni tanto la mano della signora
Teresa e la stringeva con un moto convulso come a ringraziarla d'esser
venuta con lei. Avrebbe voluto attaccar discorso, rimetter sul tappeto
la gran questione della sua partenza con Gasparo, questione ch'era
sempre insoluta nella sua mente, ma la signora Teresa pareva assorta in
gravi pensieri.

Il cannone tuonava.

--Non finirà più!--mormorò a mezza voce Fortunata come parlando tra sè.

--Oh finirà... pur troppo che finirà--disse la signora Teresa
tentennando tristamente il capo.

Giunsero in piazza San Marco. C'era una calca di gente; la guardia
civica era schierata sotto il palazzo del Governo, e Daniele Manin,
affacciato al poggiuolo, le indirizzava per l'ultima volta la parola.

La voce onesta e leale, che per diciassette mesi aveva mantenuto acceso
nei Veneziani il sacro fuoco del patriottismo, che aveva guidato,
frenato, corretto i mobili istinti del popolo, ora scendeva commossa in
una folla commossa; era un patetico addio, era un gagliardo eccitamento
a sperare nell'avvenire, era un caloroso appello a quelle virtù con cui
le nazioni riescono a domar la fortuna.

Dal punto della piazza ove si trovavano le due donne, non era possibile
seguire il filo del discorso, ma se ne coglievano le frasi pronunciate
con accento più vibrato.

«.... Un popolo che ha fatto e patito quanto ha fatto e patito e patisce
il nostro popolo non può perire. Dee venir giorno in cui gli splendidi
destini siano corrispondenti al merito vostro.... Quando verrà questo
giorno?... Noi abbiamo seminato.... Sventure grandi sono forse
imminenti.... È pur sempre in poter nostro mantenere intemerato l'onore
di questa città.... Checchè avvenisse, dite: _Quest'uomo s'è ingannato_;
ma non dite mai: _Quest'uomo ci ha ingannati...._»

--Mai, mai--gridavano i militi agitando i berretti sulle
baionette.--Mai, mai--ripeteva il popolo unanime.

E tutti piangevano, tutti sentivano che l'ultima ora della libertà era
vicina.

Daniele Manin pronunziò ancora qualche parola; poi, sorpreso da un
malessere subitaneo, dovette ritirarsi. La folla si disperse.

La signora Teresa era rimasta immobile con gli occhi fissi al suolo; due
grosse lagrime, le prime che Fortunata le vedesse spargere, le rigavano
le gote. Alla fine si scosse, sospirò due volte:--Povera Venezia!
Povera Venezia!--disse alla sua compagna:--Spicciamoci, a casa ci
aspetteranno;--e s'avviò.

Fortunata la seguì senza aprir bocca. Forse anche a lei parevano
piccoli, dinanzi a questo gran dolore della patria, tutti i dolori
privati.



XXVI.


    . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    Il morbo infuria,
    Il pan ci manca,
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!

Questo grido pietoso d'un gentile poeta e soldato, che sul cader del 20
agosto 1849 contemplava mestamente da uno dei forti della laguna la
città avvolta nei rosei vapori del tramonto, dipinge, meglio che non
potrebbero le lunghe descrizioni, lo stato di Venezia in quei giorni. Il
cannone non tuonava più, si negoziava la resa. E la resa fu sottoscritta
il 22; il 27 doveva succeder l'occupazione austriaca.

Cessato il bombardamento, tutti quelli che il fuoco, la fame, il
contagio avevano risparmiati, s'affrettarono a tornare alle loro
abitazioni, stupiti e forse non lieti di sopravvivere alla patria. Però,
se la guerra era finita, se la carestia era scemata, c'era sempre tempo
di morir di colèra, chè la malattia non accennava punto a diminuire
d'intensità, e anzi il numero delle vittime fu, in quello scorcio
d'agosto, maggiore che mai. L'accesa fantasia popolare parlava di
migliaia di morti al giorno; non erano tanti, ma passavano i trecento,
cifra enorme in una città di poco più che centomila anime.

Naturalmente anche i Rialdi furono tra quelli che rincasarono. Se la
paura, come ritengono alcuni, dispone i corpi al contagio, il conte Luca
avrebbe dovuto avere il colèra una ventina di volte; invece n'era
rimasto illeso e attribuiva la sua salvezza alle infinite precauzioni di
cui s'era circondato, e soprattutto a un grande odor di canfora che lo
isolava in mezzo alla gente. È vero ch'egli non poteva ancor cantar
vittoria. Aveva però ben altre angustie addosso oltre a quella del
colèra. Che cosa farebbe di lui il Governo austriaco? Lo lascerebbe al
suo posto, lo metterebbe in pensione, lo destituirebbe addirittura? Il
Signore Iddio gli era testimonio ch'egli non aveva contribuito per nulla
alla Rivoluzione, che non aveva appartenuto all'Assemblea, nè era sceso
in piazza San Marco a gridar _viva_ e _morte_; sicuro che s'era messo
anche lui la coccarda tricolore all'occhiello, e s'era presentato al
Manin coi suoi colleghi del Tribunale; sfido io; come si poteva
esimersi? Ma il grosso guaio era l'esser padre d'un ufficiale che aveva
preso le armi contro il suo legittimo Sovrano e che doveva quindi
emigrare, l'esser marito d'una donna senza giudizio, che s'era voluta
cacciare in una dozzina di comitati, e per diciassette mesi non aveva
fatto altro che salir le scale delle case per accattar firme a indirizzi
e denari per collette, o bazzicar per le ambulanze a civettare coi
feriti (alla sua età! vergogna!) o intervenire a cerimonie chiassose,
tutta gale e pennacchi come un cavallo bardato. La contessa Zanze non
poteva lodarsi del Governo provvisorio, il quale non aveva apprezzato
sufficientemente il suo patriottismo, nè dato a Gasparo il comando di
tutte le forze di terra e di mare; anzi ella diceva che un'altra volta
si guarderebbe bene dal rifare i sacrifizi che aveva fatto; ma ella non
era punto disposta a sopportare in pace i rimproveri di suo marito, e,
stuzzicata da lui, rispondeva per le rime. Egli però non era in grado di
sostenere una discussione, e alzando le mani al cielo esclamava:

--Per carità, non mi stordite con le vostre chiacchiere, non mi fate
inquietare, che c'è ancora il colèra.

--Sì, sì,--rispondeva la moglie.--Se non avessi la spina dei figliuoli
che sono in procinto di partire, non mi fareste mica tacer così presto.

Era deciso; Gasparo conduceva con sè la sorella e la nipotina.
Fortunata, debole sempre, aveva ceduto alle istanze reiterate di suo
fratello; o forse non voleva star più a carico dei suoi genitori, i
quali, nell'incertezze dell'avvenire, potevano essere impicciati a
provvedere a sè medesimi. La piccina, dal canto suo, avrebbe preferito
di rimaner eternamente nella casa ove c'era la _nonna Teresa_ con tanti
bimbi, e ove ella, a marcio dispetto del bombardamento e del colèra,
aveva passato i giorni più allegri della sua vita. Ma dacchè s'era
tornati nella casa vecchia, nella casa squallida e trista, ella ripeteva
da mattina a sera che voleva andarsene con lo zio Gasparo, con la mamma
e con _la nuova Lilì_. Notiamo fra parentesi che _la nuova Lilì_
ispirava a Margherita un rispetto superstizioso. Infatti, mentre tutti i
suoi giocattoli s'erano rotti, _la nuova Lilì_, di legno dalla testa
alle piante, aveva resistito agli urti, alle percosse, ai cambiamenti di
domicilio, aveva persino ruzzolato un giorno la scala senz'altra
conseguenza che una lieve avaria nei capelli e nel vestito.

Nel piegarsi, dopo molte lagrime e molti contrasti, alle sollecitazioni
di Gasparo, Fortunata aveva messo la condizione d'andar un'ultima volta
in cerca di Leonardo che non era stato ancora possibile di rintracciare,
e di condurgli Margherita, s'egli mostrava il desiderio di vederla.

--E se,--aveva soggiunto la povera Fortunata,--s'_egli_ fosse diventato
un altr'uomo, se avesse messo giudizio, se volesse esser davvero un
buon marito e un buon padre.... intendi bene che non potrei lasciarlo.

--Se uno solo de' tuoi _se_ si verificasse,--rispose Gasparo sapendo di
rischiar poco,--sarei il primo a dirti: Rimani a Venezia.

La vigilia del giorno stabilito per la partenza, Fortunata s'avviò di
buon mattino al palazzo Bollati. L'accompagnava una donna di servizio
che sarebbe tornata a prender Margherita nel caso che il conte Leonardo
fosse nelle sue stanze e volesse dar un bacio alla figliuola.

Una vecchia aperse il portone.

--Chi è? Che vuole?

--Non c'è il signor Ambrogio, il custode?

--Oh poveretto, sia pace all'anima sua, è morto già da due giorni.

--Morto?

--Sì, di colèra.... E adesso c'è la moglie in burrasca.... Vada via,
signora, ch'è meglio.

--Padroncina, padroncina, andiamo,--disse la fantesca che a sentir
nominare il colèra era diventata bianca come un cencio lavato.

--Un momento.... Buona donna, e del conte Bollati ne sapete
nulla?--soggiunse Fortunata con voce tremante.

--Il conte Bollati? Chi è?

--Non lo conoscete? Quel signore alto, coi baffi biondi, che abita qui
all'ultimo piano.

--Non lo conosco.... Ma badi.... ho sentito dire dal medico che anche su
in alto c'è qualcheduno col colèra.

--Vergine santa!--gridò la giovine mettendosi la mano al cuore.

--Padroncina, per amor di Dio, andiamo a casa,--ripetè angosciosamente
la serva.

Ma Fortunata si svincolò a forza dalla paurosa compagna che la teneva
per un lembo del vestito e le disse:

--Va a casa tu sola, va subito anzi.... io devo salire.

E senza soggiunger altro attraversò rapidamente il cortile e
l'entratura, e infilò lo scalone.

Il conte Leonardo era tornato alla sua soffitta fin dal giorno innanzi,
e i primi sintomi del morbo l'avevan colpito nel cuor della notte.
Disceso giù nell'androne all'alba per chieder soccorso, aveva per caso
trovato il dottore che veniva a curar la moglie del custode. E il
dottore, dopo avergli inutilmente suggerito di farsi trasportar
all'ospedale piuttosto di rimaner così solo nel suo covile, gli aveva
consegnato una boccettina con una mistura di canfora e laudano da
prendersi in più volte, promettendogli di tornar fra un'ora e di condur
seco un infermiere. Trascinatosi di nuovo su de' suoi cento e quindici
scalini, il conte s'era coricato aspettando. Ma non s'eran più visti nè
infermiere, nè medico. Chi poteva risponder di sè e degli altri in quei
giorni? Intanto il male cresceva di violenza e il pover'uomo che aveva
trangugiato in un colpo tutta la mistura e aveva bevuto una mezza
bottiglia di rhum, si contorceva urlando sul letto. E lo lasciavano
morir come un cane! Pensò a Fortunata; s'era viva, se lo sapeva in
quello stato, sarebbe venuta ad assisterlo.... Ma per mezzo di chi
mandarla a cercare!... Egli non poteva più scendere, non si reggeva più
sulle gambe. Era in queste smanie quando Fortunata entrò nella camera.
La prima impressione di Leonardo fu un'impressione di spavento. Era
proprio sua moglie in carne ed ossa, o era uno spettro? Egli non la
vedeva da alcuni mesi e gli parve invecchiata di diec'anni, gracile e
sottile come un giunco, bianca e diafana come l'alabastro. Alla fine si
persuase ch'era lei e si calmò alquanto. Sì, aveva fatto bene a venire,
ma adesso premeva avere il medico; corresse subito subito a chiamarne
uno, e poi, subito subito, tornasse. E Fortunata rifece le scale e volò
in due o tre farmacie lasciando dappertutto l'ordine di mandar in
palazzo Bollati il primo medico che capitasse. Quand'ella tornò presso
l'infermo, alcuni fenomeni della fatale malattia si erano alleviati;
minori i granchi allo stomaco, minore il vomito; ma erano sopraggiunti
altri sintomi gravissimi: la pelle sparsa d'un sudor freddo e viscido,
la tinta terrea, gli occhi infossati nell'orbita, il respiro affannoso,
la voce rauca e sepolcrale. Mentre il conte Leonardo si trovava in una
specie di sopore letargico, Fortunata sentì un suono di passi nella
stanza attigua, e credendo che fosse il medico uscì a incontrarlo.

Ma non era il medico, era Gasparo, il quale, saputo confusamente a casa
sua che la sorella era rimasta in palazzo Bollati, veniva in traccia di
lei.

--Tu, Gasparo?

--Io, sì.... Ebbene?... Tuo marito?...

--È di là.... col colèra.... È tanto aggravato... E non si trova un
medico... O Gasparo, fa un'opera di carità.... falla per me.... va tu a
cercarlo il dottore.... Io non posso abbandonare Leonardo che muore.

Gasparo si lasciò scappare una frase crudele.

--Ne son morti tanti migliori di lui in questi diciassette mesi!

Ella gli mise una mano sulla bocca.

--Non parlare così.... Se Leonardo ha le sue colpe, vedi come le espia!
vedi a che punto è ridotto!

_Sunt lacrimae rerum._ Gasparo girò gli occhi intorno, e nel mirar
quella squallida soffitta, e nel richiamar alla mente il lusso, gli agi
che avevan cinta l'infanzia di Leonardo Bollati provò uno stringimento
di cuore. E disse alla sorella:

--Farò come desideri.... Andrò pel dottore.... Ma lo sai che domattina
all'alba?...

--Taci, taci,--interruppe Fortunata.

E vedendolo turbarsi, soggiunse:

--Taci in questo momento.... Posson succedere tante cose prima di
domattina!

Gasparo la guardò inquieto. C'era un'intonazione così triste nella sua
voce, c'era una tale aria di stanchezza nella sua persona!

--Fortunata, cos'hai?

--Io?... Nulla.... Per amor del cielo non perder tempo.... Va, va....
Oh smemorata ch'io sono, prima d'uscir dal palazzo, batti all'uscio
dell'abitazione del custode, al pian terreno.... c'è un caso di colèra
anche lì.... forse ci sarà un medico.... va, Gasparo....

Egli discese in fretta. Dal custode gli dissero con un gesto espressivo
che il medico non aveva più ragione di venire. Invece, giunto in
istrada, la sua buona stella gli mise subito tra i piedi un dottore di
sua conoscenza; se ne impadronì (è il vocabolo giusto) e se lo tirò
dietro in palazzo.

Leonardo peggiorava rapidamente; spenta la voce, impercettibili i polsi,
esauste le forze; pur non aveva ancora perduto conoscenza, e vedendo
insieme col medico entrare il cognato guardò Fortunata con
un'espressione indefinibile di sgomento. Ella lo rassicurò con
un'occhiata, e Gasparo, impietosito al miserando spettacolo, gli fece un
saluto amichevole e gli rivolse le parole incoraggianti che sogliono
rivolgersi ai malati.

Al dottore, ch'era un brav'uomo e aveva curato i colerosi a centinaia,
non occorse più di un minuto per giudicare che Leonardo era bell'e
spacciato; nondimeno volle provare i mezzi che gli suggeriva la sua
esperienza. Visto che non ne cavava alcun frutto, chiamò da parte
Gasparo e gli susurrò all'orecchio:

--Non c'è alcuna speranza.... Procuri di condur via sua sorella.... Mi
par molto debole, e il colèra si attacca facilmente, soprattutto alle
persone deboli.

Ma Fortunata, come se avesse indovinato il pensiero del medico, fece un
energico segno negativo col capo e passando un braccio sotto il collo
del moribondo parve voler dire: «Non mi strapperete di qui che a forza.»

Gasparo le si avvicinò con dolcezza.

--Fortunata, per amore della tua Margherita....

--No, no... Margherita non ha bisogno di me.... _Lui_ sì che ne ha
bisogno.... Leonardo, Leonardo, non è vero che hai bisogno della tua
Fortunata?... Oh meschina me, che ho potuto lasciarti per tanto
tempo.... Perdonami, Leonardo mio.... Oh se tu m'avessi mandata a
chiamare!... Perchè, non m'hai mandata a chiamare?... T'ho sempre voluto
bene.... O Leonardo, se guarisci, starò sempre con te, te lo giuro.

E, trattenuta invano, si gettava bocconi sul letto e tentava scaldar con
le sue carezze quel povero corpo assiderato.

A un certo momento il medico, che non aveva levato mai gli occhi
dall'infermo, disse:

--Signora, si faccia una ragione.... Ormai... è inutile.

Ella alzò la testa, guardò il medico, guardò Gasparo, guardò Leonardo,
comprese che tutto era finito e cadde ginocchioni, tendendo le palme al
cielo e gridando:--Madre di Dio, abbiate misericordia!

Stette così qualche minuto singhiozzando, pregando, coprendo di baci la
mano del morto che spenzolava dalla sponda del letto; poi, appoggiandosi
a Gasparo, cercò di rizzarsi in piedi, ma le vennero meno le forze e
s'abbandonò come una massa inerte tra le braccia del fratello.

Il dottore ch'era ancora nella stanza, accorse subito, e vedendo la
faccia stravolta, gli occhi smarriti, il pallore cadaverico della
giovane, capì subito di che cosa si trattava. Era di nuovo il colèra, un
colèra de' più gravi, di quelli che lasciano meno tempo alle difese. Il
male che aveva testè ucciso il marito ora investiva con raddoppiata
violenza la moglie.

--E poi negheranno il contagio!--disse tra sè il valentuomo, il quale,
per far prevalere la teoria del contagio, aveva sostenuto fiere
battaglie con alcuni colleghi. E non vorremmo giurare che l'idea di
poter gettare in viso agli oppositori un nuovo esempio a sostegno della
sua tesi, non gli desse qualche soddisfazione. Tanto più che il triste
caso di Fortunata pareva dargli ragione su un altro punto. Questo aveva
tutta l'aria di esser colèra fulminante, e anche il colèra fulminante
negavano que' caparbi, e pretendevano che in Europa non se ne fosse mai
visto.

Si trasportò Fortunata nella camera vicina a quella dov'era morto
Leonardo. S'era pensato sulle prime di trasportarla a casa, ma ella,
pienamente in sè e pienamente consapevole del suo stato, supplicò che
la lasciassero morir lì. Non voleva comunicare a' suoi genitori e a sua
figlia il germe della malattia... o forse, giacchè il cielo le aveva
accordato la grazia di ricongiungersi a suo marito, non voleva
staccarsene più.

Forte in mezzo agli strazi, come non era stata mai nelle condizioni
ordinarie della vita, ella scongiurava il medico di non tormentarla coi
rimedi; già ella capiva ch'era suonata la sua ora e che Iddio la
chiamava a sè.... avesse almeno potuto avere un prete!...

Gasparo si mosse per andare a cercarne uno, ma ella col po' di voce che
le rimaneva:

--Per carità non allontanarti--gli disse.

In pari tempo rivolse al medico uno sguardo supplichevole. Il buon
dottore comprese il significato di quella muta preghiera, fece a Gasparo
cenno di rimanere e s'avviò:

--In un quarto d'ora vado e torno.

--Gasparo--mormorò Fortunata, quando fu sola con suo fratello--il
Signore sa quel che si fa.... Se fossi venuta teco a Londra ti sarei
stata d'impaccio... sempre malinconica, sempre piagnucolosa.... Se
invece all'ultimo momento mi fossi rifiutata di venire, tu non avresti
voluto privarmi della mia bambina....

--No, Fortunata....

--E allora il tuo esilio sarebbe stato più tristo.... È meglio così....
Te la raccomando, la mia Margherita.... Parlale qualche volta di me....
E se le nomini suo padre, non insegnarle a disprezzare la sua
memoria.... Promettimi che compiacerai alla tua povera sorella.

--Te lo prometto, sì, te lo prometto con tutta l'anima.

--Grazie.... E il babbo e la mamma... poveri vecchi, che restan soli nel
mondo... li vedrai, non è vero, prima di partire? Salutali, di' loro che
mi perdonino se non fui sempre una figliuola ubbidiente... e tu pure...

Uno spasimo acuto le troncò la frase, e la voce le si estinse in un
gemito.

Quando tornò il dottore, e poco dopo di lui venne il prete ch'egli era
andato a chiamare, gli occhi dell'ammalata nuotavano già nella morte. Ma
ell'era sempre presente a sè stessa e potè accompagnare col movimento
delle labbra le preghiere del sacerdote e volger di tanto in tanto lo
sguardo all'uscio della camera vicina, come se intendesse che quelle
preghiere dovessero valere anche pel disgraziato che non era più in caso
di sentirle.

Era l'ora del tramonto; il sole prima di nascondersi dietro un palazzone
che sorgeva dall'altra parte del canale mandò un fascio di raggi nella
stanza e tinse d'una luce purpurea il letto improvvisato e la faccia
livida della morente. Ella s'agitò in un'ultima convulsione, poi le sue
membra s'irrigidirono per sempre.

Gasparo ebbe un ruggito da leone.--Morta, morta! Infelicissima sorella
mia, che non hai fatto altro che patire!... Morta per cagione di quel
miserabile! E non dovrò maledirlo?

Ma quell'impeto durò poco. Il tempo stringeva e Gasparo aveva ancora un
terribile ufficio da compiere: annunziare ai suoi genitori la nuova,
inattesa sciagura che piombava loro sul capo.

Egli strappò un foglietto da un taccuino e scrisse col lapis poche righe
a un amico sulla cui devozione poteva fare assegnamento. «Sai che devo
partire domattina sotto pena di essere preso e fucilato dagli Austriaci.
Mia sorella»--a questo punto egli ebbe un'esitazione, ma la vinse e
proseguì:--«e mio cognato son morti or ora di colèra in due stanze a
tetto del palazzo Bollati. Intenditi col dottore X... per la
tumulazione. Fa quello che faresti se la sventura (che il cielo tenga
sempre lontano da te) avesse battuto alla tua porta. In un momento come
questo non posso dare un tale incarico a mio padre. Addio: quando mi
sarò posato in qualche luogo (spero di fermarmi a Londra) ti riscriverò
e ti indicherò il mio recapito. Addio, e grazie dal fondo del cuore. A
rivederci in tempi migliori.»

Com'ebbe finito di scrivere, piegò il foglietto in due, vi fece
l'indirizzo e lo consegnò al dottore.

--È stato tanto buono; m'usi un'ultima cortesia. Mandi questo biglietto
al mio amico--e glielo nominò--che lei conosce benissimo e si metta
d'accordo con lui per tutto quello che resta da fare.

Il medico chinò la testa in sogno d'assenso e promise a Gasparo che
avrebbe anche pensato a trovar chi vegliasse nella notte quei poveri
morti.

--Non sono ricco, sto per prendere la via dell'esilio--disse Gasparo con
voce commossa--non posso compensarla come vorrei, ma una memoria....

E si toglieva un anello dal dito, ma il dottore l'interruppe vivamente:

--No, Rialdi, io non accetto nulla... assolutamente nulla... Ogni più
piccolo oggetto può esser necessario ad un esule....

--Ma...

--Non ne parliamo.... Mi dia piuttosto un bacio, e buon viaggio....

Gasparo abbracciò intenerito il dottore, sfiorò ancora una volta con le
labbra la fronte gelida di Fortunata e corse a precipizio giù per le
scale. Uscito dal palazzo, egli fece in un lampo la strada che lo
divideva da casa sua.

Il conte Luca e la contessa Zanze lo aspettavano con ansietà.

--E Fortunata?--essi chiesero a una voce vedendolo arrivar
solo.--Dov'è?... È rimasta lì?... Quando verrà?

--Fortunata...--principiò Gasparo. Ma invece di continuare,
balbettò:--Coraggio, padre mio, coraggio, mamma... Armatevi di tutta la
vostra forza, chè ne avete bisogno.

Quelle parole, quelle lagrime, che invano rattenute velavano due occhi
non avvezzi a spargerne, lasciavano indovinare il peggio.

--Gasparo--gridò la contessa--tu non diresti di più se tua sorella fosse
morta!

Il giovino chinò la fronte in silenzio. Rinunziamo a descrivere la scena
che ne seguì per non render ancora più triste questo capitolo già pieno
di tante pubbliche e private tristezze, e perchè ci sembra che l'ora
incalzi anche noi e ci costringa innanzi tutto a mettere in salvo il
nostro ufficiale. Questa partenza inevitabile, imminente, era quella
sera, in casa Rialdi, un dolore di più, e nello stesso tempo una
distrazione al dolore. Non c'era caso, bisognava occuparsene, far gli
ultimi preparativi, dar l'ultime disposizioni, e per conseguenza, di
tratto in tratto, pensare ad altro, parlar d'altro che della tragica
fine di Fortunata.

Intanto Margherita dormiva. Poichè ella doveva alzarsi per tempissimo,
l'avevano messa a letto subito dopo desinare, poco prima che Gasparo
giungesse, ed ella, appena posata la testa sul capezzale, aveva trovato
il sonno dolce e profondo dell'infanzia.

Degli altri di casa, come si può ben credere, non chiuse occhio in
quella notte nessuno. Ma, verso il mattino, Gasparo sforzò i suoi
genitori a ritirarsi nella loro stanza per un paio d'ore; avrebbe
vestito lui la bambina.

--Sei proprio irremovibile?--disse la contessa.--Vuoi portarcela via?
Vedi come restiamo soli.

Oh Gasparo lo sapeva, e ne sentiva in cuore una profonda pietà. Ma anche
egli era solo, e da mesi e mesi il pensiero di condur seco questa
fanciulla, di tenersela come propria figlia, era per la sua anima un
raggio di luce che rischiarava le tenebre dell'avvenire. E poi,
nonostante tutte le amarezze, tutte le incertezze dell'esilio, gli
pareva di provveder meglio alla sorte di Margherita conducendola con sè
che lasciandola presso i nonni.

--Sì, mamma--egli rispose con affetto.--Credi pure ch'è meglio così...
Un giorno, se la fortuna m'arride, verrete voi altri a raggiungerci.

La contessa Zanze non insistette.

Alle quattro del mattino Gasparo entrò nella camera della nipote.
Margherita dormiva tranquilla, con la sua puppattola al fianco, con un
braccio nudo piegato sotto la testa, in una positura simile a quella in
cui egli l'aveva vista la prima volta. Accanto alla cuna della bimba
c'era il letto della sua povera mamma, intatto, con le lenzuola
rimboccate.

--Margherita--chiamò Gaspare--o Margherita.

E la scosse dolcemente.

Ella si risentì, aperse gli occhi, si guardò intorno e disse:--La
mamma... voglio la mamma.

--Sono io, Margherita, sono lo zio Gasparo.... Lo sai che si deve
partire insieme.

--Ma anche la mamma...

--La mamma--egli soggiunse con pietosa bugia--è andata avanti... La
troveremo... Su, su....

Margherita si lasciò persuadere, e, aiutata dallo zio e da una donna di
servizio, fu pronta in pochi minuti. Anche il suo piccolo bagaglio era
pronto.

Ma convenne assolutamente prender seco un altro piccolo personaggio, un
personaggio di legno, _la nuova Lilì_, da cui Margherita non voleva
staccarsi a nessun patto.--Gliel'ho promesso--ella diceva con la maggior
gravità--e anche la mamma glielo ha promesso.

Storditi sotto il cumulo di tanti dolori, il conte Luca e la contessa
Zanze benedissero il figlio e la nipote quasi senza parole, quasi senza
lagrime. Solo quando l'uscio si richiuse dietro i due profughi, si sentì
dalla stanza uno scoppio rumoroso di pianto.

Gasparo e Margherita entrarono in una gondola. I canali interni della
città erano ancora avvolti nell'ombra, ma, guardando in su, si vedevano
i comignoli delle case illuminati dal sole. E appena la gondola sboccò
in laguna, il Molo, la Riva degli Schiavoni, la Salute, i Giardini, San
Giorgio apparvero nuotanti in un mare di luce. Gasparo mise la testa
fuori del finestrino del _felze_, ma la ritirò bruscamente... Sul forte
di San Giorgio sventolava la bandiera gialla e nera.

Il giovane ufficiale si coprì il viso con le mani e stette un pezzo
immobile e taciturno.

--Ma dov'è la mamma?--ridomandò Margherita.

Gasparo si scosse, passò un braccio intorno al collo della piccina e
ripetè:

--La mamma... è andata avanti.

Giunsero al Lido e s'imbarcarono sopra un vapore ch'era pieno di gente.
Non tutti emigranti però; alcuni erano venuti lì soltanto per
accompagnarvi i congiunti e gli amici.

Margherita girò gli occhi inquieta e chiese di nuovo:--C'è qui la mamma?

--No, bimba mia, non è qui... è andata avanti.

La macchina diede tre fischi. Si scambiarono ancora una volta i baci, i
saluti, gli auguri, le parole di conforto e di speranza; poi quelli che
non dovevano partire discesero in fretta.

Il vapore si mosse. Raccolti sulla coperta, con lo sguardo fisso verso
una parte, gli esuli mandarono un ultimo addio alla città che pareva
fuggir dinanzi a loro. E chi singhiozzava, e chi piangeva in silenzio, e
chi imprecava al destino e chi invocava il giorno della riscossa.

Margherita era seduta sulle ginocchia dello zio.

--Dove si va adesso?

--Adesso--egli rispose--andiamo intanto in un paese che si chiama Corfù.

--La troveremo lì, la mamma?

C'era un'ansietà così dolorosa nell'accento della fanciulla che Gasparo
non ebbe il coraggio di dirle il vero e baciandola teneramente le
susurrò con un filo di voce:

--Se la troveremo?... Chi sa?... Forse sì.

Margherita si calò giù pian pianino, prese _la nuova Lilì_ che giaceva
ai suoi piedi, le riannodò intorno alla vita un nastro bianco rosso e
verde che s'era sciolto e si mise a canticchiare

    Tre colori, tre colori,
      ecc., ecc.

Quel giorno stesso, nel pomeriggio, le truppe austriache, inghirlandate
di mirto, entravano in Venezia come in una tomba, senza destare sul loro
passaggio neppur uno di quei gridi che salutano i vincitori. Passando in
gondola davanti al palazzo Bollati un maggiore spiegava all'ufficiale
ch'era con lui come quel palazzo avesse appartenuto ai suoi suoceri e
fosse poi andato all'asta e diventato proprietà d'un inglese. L'ultimo
dei Bollati s'era ridotto a vivere in tre stanze a tetto. A questo punto
eran decaduti molti nobili veneti! Il maggiore soggiungeva che come
unico erede della marchesa sua moglie, morta alcuni mesi addietro in
Moravia, egli aveva il diritto di veder davvicino come stessero le cose
e che a un tale diritto non intendeva punto di rinunziare. Oh, S. E. il
Governatore militare Gorzkowsky avrebbe fatto far giudizio ai Tribunali
italiani.

Chi parlava così era il signor marchese Ernesto Geisenburg-Rudingen von
Rudingen, rimasto vedovo, e promosso da capitano a maggiore durante la
guerra. E mentr'egli parlava, nella soffitta del palazzo Bollati, i
becchini chiudevano nella cassa il conte Leonardo, ultimo rampollo d'una
famiglia di dogi.


    FINE.



MILANO.--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO.


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     anno due magnifici volumi di 816 pagine di testo, illustrate da
     oltre 500 incisioni; ogni volume ha la coperta, il frontispizio e
     l'indice, e forma il più ricco degli Album e delle Strenne.

  ANNO, L. =25=--SEMESTRE, L. =13=--TRIMESTRE, L. =7=.

  Per l'Estero, lire 32 l'anno.

       *       *       *       *       *

  RICORDO-ALBUM
  =DELL'ESPOSIZIONE DI BELLE ARTI=
  =A ROMA (1883)=

     Questo elegantissimo volume in foglio, formato-Album, comprende
     =ottanta= tavole tirate a parte con gran cura, che riproducono i
     più lodati quadri e statue dell'Esposizione....... =Lire 12 --=

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



MILANO.--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO.


  =I TESORI D'ARTE DELL'ITALIA=

  di

  CARLO DE LUTZOW

  =Opera splendidamente illustrata da 50 ACQUEFORTI=
  =e da 250 incisioni in legno=

Quest'opera di gran lusso esce contemporaneamente a Stuttgard, a Parigi
e a Milano. L'autore è uno dei più illustri storici e critici d'arte, e
gode una reputazione europea. Nella sua nuova opera, egli non segue
l'andamento delle epoche storiche, ma si conforma alla geniale varietà
dei viaggi artistici. Si va da Venezia a Treviso, a Padova, a Verona, a
Milano, a Torino, si passa per l'Emilia a Bologna, a Ravenna. Si gira
tutta la Toscana e tutta l'Umbria, si fa una lunga fermata a Roma, e
percorso tutto il Napoletano, da Napoli per Trani e Bari si termina in
Sicilia davanti all'antica Selinunte. Le illustrazioni sono di tre
specie: le acqueforti,--belle, morbide, veramente artistiche,--saranno
non meno di cinquanta;--le incisioni in legno, di quadri, statue e
monumenti, oltre a duecento;--e gli ornamenti tipografici, che sono
circa altre cinquanta incisioni di quadri, ornati, sculture, disegni,
ecc. Pregio singolare di quest'opera artistica per eccellenza, è questo:
che oltre alle riproduzioni dei più celebri capolavori, vi sono
riprodotti moltissimi altri capolavori che finora non erano conosciuti
dall'universale, ma restavano serbati all'ammirazione dei più intendenti
dell'arte. Citiamo ad esempio, le ammirabili pitture di Tiziano nella
scuola del Santo a Padova, la pala del Giorgione esistente in
Castelfranco, i freschi di Onigo nel Trevigiano, l'incoronazione della
Vergine del Romanino di Brescia, ecc. L'autore passando dalle capitali
delle scuole italiane ai dintorni, visitando Castelfranco e Treviso,
come Castiglione Olona e Pienza e Montepulciano e Monte Fiorentino, ha
potuto arricchire la sua opera di tavole che invano si cercano nelle
altre opere illustrative dell'arte italiana.

       *       *       *       *       *

_Quest'opera di un lusso eccezionale uscirà in 25 o 30 dispense. Ogni
dispensa, oltre ai disegni nel testo, ha =due incisioni all'acqua forte=
di eminenti artisti._

  =_Lire TRE la dispensa._=
  ASSOCIAZIONE ALL'OPERA COMPLETA: =L. 75.=
  =Per l'Estero, Franchi 90.=

Dirigere commissioni o vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



MILANO.--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO.


  TORINO
  E
  =L'ESPOSIZIONE NAZIONALE DEL 1884=

Le case Fratelli Treves di Milano e Roux e Favale di Torino hanno
ottenuto la concessione del _giornale ufficiale illustrato
dell'Esposizione_. Esso uscirà col titolo sopradetto, ed avrà la
collaborazione dei più celebri scrittori come De Amicis, Giacosa,
Guerrini, Yorik, Lessona, ecc., e artisti della penisola, come Dalbono,
Paolocci, Matania, Ximenes, ecc. I primi numeri usciranno fin dalla metà
del 1883. Si ricevono associazioni a 40 numeri per =Lire 10=.

Richiamiamo l'attenzione degli industriali sull'importanza che avrà la
pubblicità di questo giornale che sarà tirato a 25,000 esemplari nella
galleria stessa dell'esposizione:

  PREZZO DELLE INSERZIONI
  =Centesimi 50 la linea.=
  ==> =Affrettare le domande di inserzioni per i primi numeri.=

Dirigere commissioni o vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



       *       *       *       *       *


NOTA DEL TRASCRITTORE

L'ortografia originale è stata mantenuta. Minimi errori
tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza
annotazioni.

Sono state fatte le seguenti correzioni (il testo originale
è sulla riga superiore):

  Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudingen ufficiale
  Ernesto Geisenburg-Rudingen von Rudigen ufficiale

  così digrignava i denti e agitava le le braccia
  così digrignava i denti e agitava le braccia

  il povero contino Leonardo fu pulitamento
  il povero contino Leonardo fu pulitamente

  sensa osare di contraddirgli) e largheggiava
  senza osare di contraddirgli) e largheggiava

  Affacciandosi a un finestino che dava
  Affacciandosi a un finestrino che dava

  l'aria di guardarlo d'alto in basso, di rimprorargli
  l'aria di guardarlo d'alto in basso, di rimproverargli

Le seguenti grafie alternative sono state mantenute:

  follia/follìa
  mormorio/mormorìo
  seguiti/seguìti





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