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Title: Olocausto
Author: Oriani, Alfredo, 1852-1909
Language: Italian
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  OPERE DI ALFREDO ORIANI

  V

  OLOCAUSTO



  ALFREDO ORIANI



  OLOCAUSTO



  ROMANZO



  BARI

  GIUS. LATERZA & FIGLI

  TIPOGRAFI--EDITORI--LIBRAI

  1918



  PROPRIETÀ LETTERARIA



  _Riservati tutti i diritti_



  NOVEMBRE MCMXVIII--50279



LA PRIMA GIORNATA


Egli uscì a testa alta, col volto lucido di quel sorriso, che sembra
illuminarsi dall'interna contentezza di un buon pranzo.

Aveva mangiato copiosamente, solo ad un tavolino dell'ampia sala
bislunga, nella quale gli avventori rumoreggiavano, e i camerieri in
giacchetta nera e cravatta bianca mutavano correndo i piatti sporchi coi
piatti pieni, fra l'incrociarsi degli ordini e il vocìo saliente delle
conversazioni. Parecchie donne della piccola borghesia pranzavano in
cappellino, colle mantiglie ripiegate sul dossale delle sedie, perchè
gli attaccapanni delle pareti erano già carichi di pastrani e di
cappelli maschili; ma nessuna era bella, e tutte avevano
nell'atteggiamento quel ritegno nervoso, che tradisce nel suo stesso
disagio la brama di attirare l'attenzione. Da alcuni tavoli affollati di
studenti il chiasso si allargava come un'onda, facendo spesso rivolgere
le teste con atto fra furioso e scontento di tale trivialità non
abbastanza giustificata dal buon mercato del luogo e dalla eccellente
riputazione del suo vino.

Infatti il Chianti, che vi si beveva, senza essere degno del proprio
nome, era assai migliore di quello che ormai ha degradato nel giudizio
dei più il famoso vino di Broglio, ultimo orgoglio del grande barone,
egli stesso ultima originale figura della aristocrazia toscana.

La sala era illuminata a luce elettrica da vecchi bracci dorati, nei
quali le vaschette del gas avevano ceduto il posto alle diafane pere dal
rameo stelo attorcigliato e rosso dentro un candore abbacinante:
nell'aria satura di odori grassi un calore cresceva a colorare le facce,
accendendo tratto tratto nel fondo degli occhi qualche fiammella.

Egli aveva pranzato fra due tavole occupate da due gruppi abbastanza
diversi: a sinistra sei o sette studenti ineleganti ed affamati, villani
ed allegri; si vedeva che quel loro magro pranzo di pensione non bastava
a tutte le cupidigie dello stomaco giovanile, indarno distratto dal
baccano dei discorsi. Certe parole, alcune arie improvvise tradivano un
dispetto nell'urto di una qualche difficoltà prevista forse, ma non per
questo meno pungente; i coltelli tagliavano le pietanze a pezzetti
troppo piccoli, e le pagnottelle sparivano dalla tovaglia con una
celerità quasi prestigiosa. Li serviva un vecchio cameriere, lento,
bonario, che si piegava sempre con lo stesso sorriso ad ascoltare tutte
le domande pei baratti o le porzioni divise fra due o tre studenti, nei
quali l'appetito più facilmente ammorzava le pretese della vanità; poi
se ne andava traballando con una pila di piatti sulle mani.

All'altro lato si allargava una intera famiglia di provinciali dalle
vesti e le mosse sgraziate, ma con quel contegno sicuro della gente
ricca, che sa di poter essere a posto dovunque. Lo si capiva
specialmente dal viso della madre, una donna secca e giallognola dentro
un abito scuro, la quale discorreva col cameriere, un giovanotto biondo,
come se avesse già sovra di lui una certa autorità, mentre il marito,
più vecchio, grasso e rosso, si preoccupava dei due figli più piccoli
per farli mangiare decentemente. Tre ragazze vestite allo stesso modo,
di una stoffa sanguigna, tenevano tutto un lato della tavola, guardando
nella sala con una curiosità beata e maliziosa; ed erano tutte tre
brune, così simiglianti nelle facce rotonde che parevano tre ritratti
della stessa persona a non molta distanza di tempo.

Gli studenti, appena notato quel gruppo, avevano subito colla
provocatrice iattanza della giovinezza alzato il tono della
conversazione, già abbastanza scabra secondo il solito, e le ragazze,
incapaci di resistere alla tentazione di voltarsi, ascoltavano coll'aria
di parlare fra loro, nascondendo a stento fra le pieghe della bocca un
sorriso involontario a certe più vive scappate.

Anch'egli se n'era accorto.

Era un sensale di molte cose, da grano e da vino, da seta e da legna,
che gli affari traevano spesso a Firenze per mezza giornata: aveva una
statura troppo alta, un corpo allampanato, e nel viso storto due piccoli
occhi castani, dentro i quali si accendeva di quando in quando un
barlume d'intelligenza. Al vestito, ai modi, gli s'indovinava
un'intenzione di eleganza ancora mal sicura ma non senza qualche
amabilità; e siccome guadagnava abbastanza e sapeva spendere con una
certa giustezza, il suo aspetto poteva in alcuni luoghi, fra gente non
troppo fina, ottenergli quel primo involontario rispetto per le persone,
che sanno far sentire con garbo la propria superiorità. Così durante il
pranzo, pur divertendosi alle intemperanze degli studenti eccitati dal
contegno delle tre ragazze e da alcuni trasalimenti nervosi della mamma,
aveva abbastanza bene simulato l'indulgente disattenzione di un uomo
meglio abituato, non senza provarne in fondo al cuore una vera
contentezza di orgoglio. Quegli studenti, nati forse da famiglie più
alte della sua e passati oramai per tutta la filiera delle scuole, non
apparivano nè più intelligenti, nè gran cosa più signorili di lui;
fors'anco i loro studi non li condurrebbero mai all'agiatezza raggiunta
da lui in pochi anni.

Infatti la sua giovinezza non superava la loro. Egli toccava forse i
ventiquattro anni, ma aveva già corsa tutta l'Italia, passata la
frontiera austriaca, parlava non troppo male il francese, era in
relazione con molti milionari, poteva citare grossi nomi e grosse cifre
con quella trascuranza che stupisce sempre la gente estranea al
commercio, e per la quale il danaro non sa scompagnarsi mai da un senso
di pena per la difficoltà di guadagnarlo. Quindi aveva largheggiato con
se stesso nel pranzo, chiudendolo col caffè, il cognac e un pacco di
sigarette: poi, ripreso dalla tovaglia il giornale, lo scorreva
distrattamente colla schiena appoggiata al dossale della sedia e la
testa arrovesciata sotto il fumo lieve della sigaretta.

Qualcuno lo guardava, le tre ragazze avevano barattato su lui qualche
parola.

Poco dopo trasse dal taschino un grosso orologio d'oro e parve
consultarlo lungamente; erano le sette e mezzo, il treno per Bologna non
partiva che a mezzanotte. Avrebbe potuto, volendo, passare quella notte
a Firenze invece di ritornare a Forlì, ma non ne aveva alcun motivo; nel
mattino gli era riuscito di vendere cinquecento quintali di grano,
comprati da lui stesso a Faenza, e sui quali guadagnava novanta
centesimi al quintale. La sua giornata era stata perciò delle migliori;
poi nel pomeriggio un grosso mugnaio di Marradi gli aveva parlato di una
transazione per una vecchia lite ferroviaria, chiedendo quasi consiglio.
Egli s'era offerto senza sapere ancora come la cosa fosse davvero, per
il piacere della vanità solleticata dall'importanza di una simile
trattativa.

--Che dote avranno queste ragazze?--pensava esaminandole:--Talvolta le
provinciali così mal vestite sono più ricche di molte donnine eleganti,
che s'incontrano per via Calzaioli, e soprattutto hanno minori esigenze.
La loro dote tocca davvero al marito, che non essendo uno sciocco può
trarne una fortuna.

Il suo pensiero ondeggiò su questo problema, mentre gli occhi gli
correvano per tutta la sala luminosa e rumoreggiante. Notò che nessuna
persona veramente distinta vi si trovava: forse egli era il più
elegante, capitato per un buon caso a quel tavolo vuoto, ove era stato
servito meglio degli altri.

Perchè vi restava ancora?

Il pranzo eccellente non gli era costato che tre lire, tutto compreso:
bisognava uscire, trovare un modo, un piacere, per ingannare il tempo
sino all'ora del treno.

Quando si alzò, la sua alta statura e il lungo pastrano, che il
cameriere troppo piccolo stentava a porgli sulle spalle, attirarono
l'attenzione della sala; passò dritto, a testa alta fra le occhiate,
sentendovisi quasi crescere, ma già preso da un vago bisogno di essere
con qualcuno.

Fuori l'aria si era fatta rigida, benchè l'inverno fosse oramai
trascorso. Via Calzaioli si affollava di gente sotto la viva luce dei
fanali, fra quel chiacchierio delle ore serali, che pare fatto di prime
confidenze nella tregua del lavoro quotidiano. Gli uomini camminavano
adagio, le donne avevano un indefinibile languore nel passo, dalle
vetrine uscivano barbagli, molte finestre erano illuminate, qualche
_fiacre_ correva al piccolo trotto, mentre alcune cacciatrici notturne,
già scese nelle strade, passavano negli abiti vistosi, col volto vivido
di vernice e gli occhi troppo aperti, che guardavano in faccia agli
uomini con una insistenza interrogatrice.

Ma nessuna lo tentò.

In quella strada, fra quella gente, a quell'ora, esse non erano che una
miseria, alla quale poteva solamente arrestarsi qualcuno di coloro, che
essendo troppo soli hanno troppa fretta; egli invece avrebbe potuto
facilmente imbattersi in qualche amico di affari, e stava benissimo.

Preferiva di andare al caffè. Ma l'onda lenta della folla lo prese senza
che quasi se ne accorgesse, trascinandolo per quella vecchia strada
illustre, della quale sapeva a memoria tutte le ditte. Nel cielo scuro
le stelle brillavano lontanamente, l'aria frizzante tratto tratto gli
pizzicava il viso con una carezza, che gli scendeva fin dentro a destare
qualche brivido nel caldo del pesante pastrano e fra i tenui odori
femminili vaganti. Alcune teste di donne sorgevano come apparizioni tra
la folla: capelli bruni dorati, guance bianche, illuminate da un
sorriso; e bagliori uscivano dagli occhi, dietro le labbra dai denti
candidi, mentre le teste si piegavano mollemente e un fremito pareva
correre lungo le mantiglie, giù per le gonne, sino al selciato. La notte
non era ancora di primavera, ma qualcuna delle sue inquietudini passava
nell'aria come un soffio. Egli notò che nella luce di quell'ora i vecchi
parevano più vecchi e i fanciulli camminavano dando la mano ai parenti
con insolita gravità. Evidentemente quasi tutta la folla si trovava
nella sua condizione, in quel tiepido benessere del dopo pranzo quando
si obliano le cure e si sta per chiedere un qualche piacere alla notte.
La gente girellava senza un motivo preciso: fra poco la maggior parte si
sarebbe decisa per i _clubs_ o per i caffè, per i teatri o altri
ritrovi, a riprendere la solita vita notturna più breve, più vacua, ma
più acuta forse che quella stessa del giorno. Soltanto le piccole
famiglie, troppo povere per concedersi altri svaghi dopo quello della
strada, rientrerebbero presto nelle case per andare a letto, portandovi
inconsciamente l'acredine tentatrice di qualche visione balenata fra la
moltitudine e dileguata quasi al disopra di essa, dentro l'ombra di una
grande carrozza.

Egli girava a caso. Involontariamente la sua giovinezza lo faceva
seguire per qualche tratto una figurina di donna, svelta ed elegante,
che fendeva la folla senza vederla, al braccio di un signore; ed era
come una pagina di romanzo, che gli si aprisse improvvisamente dinanzi
agli occhi coll'irresistibile prestigio dell'amore. Altre donne non
guardava. Come quasi tutti i giovani, che nati poveri dovettero subito
lottare per il pane della vita, egli sentiva adesso con una acutezza più
dolorosa l'invidia contro le classi superiori, alle quali il lavoro e la
fortuna avevano potuto avvicinarlo senza ottenergli mai la più piccola
dimestichezza con una signora, perchè davanti a qualunque di esse
perdeva anche la poca disinvoltura imparata negli affari. E se ne rodeva
intimamente.

Una malinconia lo vinceva a poco a poco.

Da via Calzaioli errò per altre strade, trovandosi finalmente in
Lungarno. Il fiume non aveva un murmure, nella notte non passava un
alito. Egli non era abbastanza colto per sognare dinanzi ai vecchi
ponti, che cavalcavano il fiume, mentre dal fondo della tenebra i colli
lontani si alzavano in un'ombra più densa, giacchè sapendo antica la
vera bellezza della città non aveva mai avuta la tentazione di comprare
una guida e preferiva le vie moderne, larghe e bianche nella lindura
della nuova ricchezza.

Lungarno era deserto.

Addossato al parapetto per accendere meglio un sigaro, vide le stelle
tremolare dentro l'acqua del fiume a una grande profondità: poi
l'orologio di una chiesa battè le otto e mezzo.

--Che cosa faccio qui?--si chiese improvvisamente.

Rifece i conti della giornata e di tutto quel mese: gli affari erano
andati bene, non si rimproverava che di aver perduto centocinquanta lire
al macao nel _club_ di Forlì, secondo lui nel modo più sciocco, quando
la partita stava per finire. Ciò gli accadeva qualche volta, perchè
sentiva di avere il vizio del gioco, pur lottando abbastanza sicuramente
contro di esso: ma quando si lasciava prendere, era sempre quella stessa
vanità a spingerlo.

--Vale meglio buttarli con una donna! Se ne buttano meno e se ne sa
meglio il perchè.

Un gruppo di signori forestieri usciva a piedi da un grande albergo
nella sera fresca. Egli s'incamminò dietro loro per rientrare nelle
strade più affollate ad affogarvi in qualche modo quelle tre ore, che
gli restavano. Adesso il sangue gli ferveva. Una di quelle signore al
braccio di un vecchio alto, dai favoriti bianchi, era di un biondo
lucente anche nella notte, ma invece di un mantello indossava una giacca
chiara, sotto la quale si sentiva tutta la molle eleganza della sua
figura slanciata e sottile. Non sapendo una parola d'inglese egli poteva
più facilmente fantasticare sulle loro orme: quindi seguì il gruppo a
breve distanza, ma un signore si voltò, ed egli credette allora di aver
commesso una imprudenza nell'avvicinarsi; poi vide la dama bionda
rivolgersi sotto un fanale: era bella, benchè la distanza non gli
permettesse di cogliere davvero i suoi lineamenti.

--Chissà quanti milioni ha quella gente, che per stravaganza si diverte
questa sera ad uscire come me a piedi per le strade! Eppure vi sono
signori italiani, che diventano gli amanti di quelle signore inglesi,
delle quali il lusso supera perfino quello delle parigine; ma ciò non
accade mai a Forlì o in altra delle nostre città di Romagna. Bisogna
nascere a Firenze, a Roma, essere educato davvero come lo sono essi, per
giungere a tali fortune. Invece io sono uguale a tutti i signori del mio
paese, io figlio di un oste. Nessuno di loro sa condursi meglio di me o
gettare più indifferentemente cento lire.

--Signore,--lo riscosse una voce.

Era di donna, col volto mezzo nascosto da un fazzolettone nero, che le
sporgeva dalla fronte: non si vedeva dentro che una pallidezza bianca, e
la figura stava curva.

Egli si arrestò.

--Signore, vuole venire con me?

L'accento e la voce erano umili: subito egli credette di aver compreso.

--Sentiamo: dove?

--Non molto lontano.

--Ma chi avete?

--Una ragazza.

Le sillabe le tremavano leggermente senza che egli se n'accorgesse. La
volgarità dell'avventura aveva ridestato in lui tutti gl'istinti e le
abitudini diffidenti del mestiere, mentre un orgasmo gli cresceva
dentro, e per la strada deserta, punteggiata sino lontano dai fanali,
l'ombra silenziosa metteva come un mistero.

--Ma voi chi siete?

--Sono della casa. Venga.

La donna fece un passo avanti. Adesso osservò che la sua figura era
alta, benchè le spalle le si curvassero troppo facendole tenere la testa
bassa: non aveva potuto vederla in viso, ma gli era sembrato di notare
un gran naso sottile in quella pallidezza, che il fazzoletto chiudeva
come in una cupa cornice. E la sua voce aveva strane intonazioni: egli
ne rimaneva perplesso.

La raggiunse.

--Dove andate?

--A casa.

Una domanda bizzarra gli salì alle labbra, perchè sentiva confusamente
che in quell'incontro era qualche cosa d'insolito, che lo rendeva
diverso dagli altri di tutte le sere lungo certe strade, quando la gente
comincia a diradarsi.

--Perchè avete fermato me? State lontano?

--Non molto: venga.

--La ragazza è bella?

--Sì.

Egli tornava a dubitare: questa volta si pose davanti alla donna:

--Mi condurrete invece da qualche brutta sgualdrina: per solito accade
così. Se la ragazza fosse bella, come dite, non cerchereste per lei
qualcuno nella strada, a quest'ora.

--È la prima volta.

--Via!

L'altra parve non badasse all'accento di quell'esclamazione.

--Lei è forestiero, ecco perchè.

--Come lo sapete?

--Me ne sono subito accorta al modo come ella andava guardando per la
strada: poi alla pronunzia. Lei deve essere bolognese.

--Quasi,--ribattè sorridendo:

--Ebbene, andiamo.

Passarono il ponte Santa Trinità, ma appena nell'altro Lungarno egli si
riaccostò vivamente alla donna. Non poteva capire perchè volesse
precederlo invece di accompagnarsi con lui per vantare al solito le
bellezze della ragazza. L'aria misteriosa della donna, le sue parole, il
suo accento soprattutto, lo facevano dubitare di qualche cosa, che non
sapeva indovinare.

--Perchè andate così in fretta? Io ho tempo, non parto che a mezzanotte.
Parliamo.

--Che cosa vuole?--chiese umilmente.

--È proprio la prima volta?--egli ridimandò colla stessa intonazione
sardonica.

--Ella non lo crede: ho capito. Andavo innanzi io perchè potremmo
incontrare qualcuno che mi conosca. Veda: nella nostra casa sono tutte
persone per bene; bisognerebbe che nessuno si accorgesse della sua
visita, anche per la povera Tina.

--Si chiama Tina?

--Sì: mi permetta di andare innanzi, mi fermerò in faccia all'uscio, lo
lascerò aperto ed ella salirà. Solamente la prego di non fare rumore,
siamo povera gente.

La strada era anche più deserta, non incontrarono che un gruppo di
operai uscenti da una bettola: qualcuno di essi parve sospettare di quei
due, che si pedinavano alla distanza appena di dieci passi, e allora
egli si rattenne per riaccendere il sigaro. Le ultime spiegazioni della
donna, quantunque così oscure, lo avevano mutato. La sua giovinezza non
ancora abbastanza corrotta si ricordò confusamente di drammi visti o
letti, nei quali una vera miseria travolgeva alla catastrofe altre donne
ed altri uomini senza che ne avessero colpa; ed era un mistero antico,
un modo continuo della vita, al quale si assiste sempre nella stessa
impossibilità di esercitarvi una qualunque influenza. Ma se ne resta
scontenti, anche quando si evitano i contraccolpi del danno; talora
invece se ne profitta, e dapprima se ne ride, poi non molto tardi si
finisce col provarne un vago rimorso.

Però questo non era in lui che un ondeggiamento oscuro, mentre sotto il
pastrano il caldo gli cresceva con quel passo più sollecito e nel sangue
giovane gli correvano nuovi fremiti. Fumava gittando in alto le boccate
del fumo.

Svoltarono per un vicolo stretto e tortuoso: poco dopo ella si fermò ad
una casetta.

--Vada piano, mi raccomando, non accenda fiammiferi,--gli disse dietro
l'uscio appena fu entrato.

Le scale erano anguste e brevi: egli ne contò sei rami, poi all'ultimo
pianerottolo la donna sospinse una porta, rinchiuse, ed accese un
zolfanello. La stanzetta apparve nuda. Era la cucina, a giudicare dal
camino largo e basso, ma non vi rimaneva che un tavolo nel mezzo, un
canapè sgangherato in una parete, e un altro mobile indefinibile, una
specie di canterano, dentro al quale stavano forse le ultime stoviglie.

Egli osservò subito che tutte le sedie erano spagliate.

--Si accomodi,--disse la donna a bassa voce, quasi tremando.

Ma egli restava nel mezzo, impacciato.

Quella miseria lo agghiacciava. La stanza non era sucida, anzi ai muri
vi si vedeva ancora una carta chiara, a fiorellini oscuri, che le
avrebbe data un'aria di lindura; ma le tende mancavano, e così vuota
pareva anche più grande. Evidentemente si trattava di una di quelle
miserie cittadine, pulite e guardinghe, che si nascondono lungamente,
arrivando nel silenzio di tutti gli abbandoni alle più inverosimili
estremità. Sulla tavola, dentro un candeliere di ottone dal piede
slabbrato, bruciava una mezza candela sottile di stearica accanto ad un
bicchiere d'acqua; il secchio in ferro bianco era rimasto sul focolare.

La donna si trasse di testa il fazzoletto.

Adesso appariva rossa, ma di un rossore fugace e violento. Aveva infatti
quel gran naso, che a lui era parso di notare nella strada: era secca e
scarna, colle guance infossate perchè le mancavano molti denti, gli
occhi chiari e luminosi. Il suo aspetto non era senza una certa
signorilità; aveva gettato con gesto nervoso il fazzoletto sulla
spalliera del canapè, poi era tornata addietro per assicurarsi di avere
ben chiusa la porta del pianerottolo.

Disse:

--Scusi, mi pare di averle già confessato che siamo povera gente: si
accomodi,... ecco la sedia migliore,--aggiunse con un sorriso
stentato:--se non fosse così, non si farebbero certe cose.

--Ebbene, dov'è la ragazza?--l'altro chiese impaziente per sottrarsi al
senso penoso, che gli veniva da tutti quei particolari.

--Vado.

Ma non andava.

Egli si era sbottonato il pastrano sedendosi al tavolo, e guardava il
bicchiere d'acqua; la donna se ne accorse e lo portò sul camino.

--Lei non parte che a mezzanotte per Bologna?--domandò ancora; ma pareva
parlare solamente per guadagnare tempo.

--Sì: ma che fate qui? Perchè non avvisate la ragazza?

--Vado.

Una nube le oscurò la fronte, ed ella vi passò una mano tremante:
l'altro invece aveva abbassato la testa per guardare l'orologio.

Poco dopo intese un lungo guaito infantile dal pianerottolo, sul quale
dava senza dubbio un altro appartamento. Era un pianto di creaturina
spaventata e disperata, che scoppiava in impeti violenti come se
qualcuno tentasse di soffocarle tratto tratto i singhiozzi. Egli si
alzò, malcontento di essere capitato in una simile casa, mentre aveva
pranzato così bene e gli sarebbe stato facile procurarsi altrove qualche
distrazione veramente piacevole.

Ma la porta si aperse.

--Che cosa è?--egli proruppe di malumore, vedendo ricomparire quella
donna sola:--Vi sono anche dei bambini, che piangono, in questa casa?
Non udite?

--Pur troppo, signore; è la bambinella della signora Veronica. Poverina!
è ammalata di scrofola, e adesso il male le è entrato nell'orecchio; a
certi momenti urla dallo spasimo.

--Non la curano dunque?

L'altra ripetè lo stesso sorriso.

--Anche quella madre è senza mezzi: dovrà forse vedersela morire innanzi
così.

Ma la bambina si quietò.

Egli si era rimesso il cappello, quindi la donna temette che volesse
andarsene.

--Vuole che l'aiuti a cavarsi il pastrano? A momenti Tina verrà: abbia
un po' di pazienza.

Egli invece se lo trasse da solo con atto impaziente, e l'altra rientrò
ancora da quella stessa porta in una camera buia. Probabilmente la
ragazza era là.

Passarono altri cinque minuti. Egli non sapeva più che pensare nella
stranezza di un tale caso, che gli aveva già turbato quel benessere dopo
il pranzo, traendolo con una imprevedibile novità di sensazioni ad una
confusa tristezza. Nato e vissuto troppo lungamente vicino alla miseria
per non riconoscerla ovunque, al primo sguardo, non aveva più per essa
che la ripugnanza di coloro riusciti finalmente a farsi strada più in
alto. Anzi la recente agiatezza gli metteva nel legittimo orgoglio della
vittoria un profondo disprezzo pei poveri incapaci di reagire contro la
propria condizione sino a trionfarne in un modo o nell'altro. Perchè
restare povero? Gli pareva che, volendo, si potesse sempre arrivare ad
uno stato tollerabile.

--Adesso,--pensava,--preparano la scena. Eppure vi è qualche cosa di ben
triste nel volto di quella donna non ancora vecchia! Chi è? chi sarà la
ragazza? Quella donna non nacque così come si trova ora, ma nelle grandi
città i casi e gl'inganni sono talmente complicati che bisogna
aspettarsi a tutto. Se tenteranno una commedia me ne accorgerò.

La porta si riaperse: riapparve quella donna traendone per mano
un'altra, che tenea la testa anche più bassa. Egli scattò dalla sedia.

La ragazza indossava una vecchia giacchetta a maniche larghe e rigonfie
verso le spalle, con grandi risvolti, che avrebbero dovuto scoprirle il
collo e la sommità del seno se non avesse tenuto il volto così basso;
una gonna corta e miserabile le cadeva su due scarpe vecchie, ma i
capelli castani, folti, scarduffati, le si alzavano come in nuvola sulla
fronte bianca di un candore impressionante. S'indovinava la sua emozione
dal tremito del braccio, che stringeva febbrilmente la mano dell'altra
donna.

Questa si fermò, le diede una scossa liberandosi, e tornò indietro in
quella camera buia senza parlare.

La porta si chiuse quasi violentemente.

La ragazza alzò la faccia.

Alla fiammella tremula della candela egli vide sotto quella fronte
troppo bianca due occhi di un cilestro pallido, e una bocca piccola come
stirata da uno spasimo nervoso; però il volto bello, di una delicatezza
malaticcia, era fresco malgrado i cerchi bluastri, che rendevano più
vivo lo splendore dello sguardo.

La giacchetta mal chiusa scopriva sotto il collo una bianchezza.

Egli non sapeva come incominciare.

--Accomodatevi qui, vicino a me.

L'altra ubbidì piegando nuovamente la testa.

Non poteva trattarsi di commedia: il volto della ragazza era così bello
e così triste che altri meno giovani di lui se ne sarebbero egualmente
commossi; e nulla in lei, dall'aspetto o dall'atteggiamento, tradiva una
intenzione seduttrice, quel sottile, continuo inganno femminile, che non
cessa mai, nemmeno nelle crisi più profonde della passione. Ma una
dolcezza emanava dalla sua figura così ripiegata sulla seggiola, mentre
dietro la nuca le si arruffava una quantità di ricciolini, che il soffio
più insensibile avrebbe scomposto. Teneva le spalle un po' arcate e
sotto le pieghe di quella giacchetta male abbottonata, dalle costure
logore, il suo corpicino primaverile appariva in una forma indecisa.

Egli le guardò le mani sottili, distese sulle ginocchia con quella
compostezza delle fanciulle quando seggono in chiesa.

--Ti chiami Tina?--incominciò prendendole una mano.

--Sì.

--Me lo ha detto quella donna: chi è?

--Mia madre.

E alzò la faccia: allora egli credette di capire che quegli occhi
avevano pianto.

--Tua madre,--ripetè:--ma scusa, quanti anni hai?

Interrogava così a caso, tanto per parlare.

--Non ancora diciassette anni.

--Ti chiami Tina: hai fratelli?

--No.

--Il babbo?

--No.

--Solo la mamma?

--La mamma.

--E ti...

Ma non finì: adesso era lui, che sentiva un impeto quasi di collera
salire dal sangue, però si trattenne guardandola fisamente. La faccia
della fanciulla si era irrigidita in un pallore di marmo, e dietro i
denti l'ombra della sua bocca socchiusa pareva palpitare.

Poi appoggiò un gomito sopra la tavola e la fronte sulla mano.

--Sei bella davvero!--esclamò improvvisamente.

Ma siccome l'altra taceva, proseguì:

--Hai detto la verità. Si vede subito che hai sedici anni, non puoi
averne altri. Ti chiami Tina? È un bel nome, nel mio paese non conosco
nessuna ragazza che si chiami così. È un nome fiorentino?

--Sì.

--Ma tu farai pure qualche cosa? Come vivete in questa casa?

--La mamma è stata ammalata tutto l'inverno, io andavo da una bustaia,
ma ho dovuto smettere per curare la mamma.

--Il babbo?

--Non l'ho mai conosciuto.

--Ma la mamma che cosa faceva prima di ammalarsi?

--Andava in due o tre case a prestare mezzo servizio per non lasciare
me.

--E prima?

--È stata quasi ricca, poi vennero le disgrazie: adesso non può fare più
nulla, è troppo debole.

--Dovresti fare tu quei mezzi servizi, insomma la mezza serva invece di
lei.

--Me non prenderebbero, sono troppo giovane.

--Come serva forse, ma per bambini.

Parlava duro, da uomo d'affari, colla precisione e la rapidità del colpo
d'occhio nel mestiere.

--Dovrei abbandonare la mamma.

--E allora?...

Le teneva sempre quella mano fra le proprie, senza trarne una
vibrazione. La fanciulla aveva risposto esattamente a quella specie
d'interrogatorio, ma il suo viso rimaneva sempre immobile, nella stessa
rigidezza lapidea, dentro la quale gli occhi brillavano come in una
lontananza di notte azzurra.

--Non mi hai ancora guardato,--egli ricominciò dopo una pausa,
accarezzandole la mano:--capisco che io non ti posso interessare, perchè
non mi conosci. Hai l'amante?

La fanciulla titubò.

--No.

--Davvero, Tina? Mi pare difficile: che cosa fai dunque tutto il giorno?

--In due mesi sarò uscita di casa due volte, per un momento.

--Ma bisogna pur vivere.

--Abbiamo venduto a poco a poco tutto quello che avevamo.

--Nessuno vi ha aiutate?

--In principio sì, adesso più.

--Pare impossibile che si possa arrivare a questo: però qualche idea
l'avrai.

Questa volta ella si strinse nelle spalle, e un sorriso dolente le
ricomparve sulla bocca arida, parve cercare qualche cosa sulla tavola.
L'altro indovinò.

--Vuoi il bicchiere dell'acqua? La mamma l'ha messo sul camino quando
sono entrato io.

Si alzò per porgerglielo, la fanciulla lo respinse.

--Mi farebbe male.

--L'acqua! Perchè?

--Anche oggi ho voluto berne e dopo l'ho rigettata.

--Che cosa ti senti?

--Nulla.

--Avrai mangiato qualche cosa d'indigesto: che cosa hai mangiato?

--Nulla.

--Nulla, che cosa? Si mangia pure: da quando hai mangiato?

--Ieri mattina.

--E dopo?

Non rispose. L'altro si alzò nervosamente dinanzi a questa fanciulla,
che lo dominava colla propria indifferenza, parlando a monosillabi come
dentro a un sogno. Non pareva accorgersi di essere sola con lui in
quella camera, sebbene fossero bastati pochi minuti per farle confessare
tutta la vita.

--Chiama tua madre perchè vada fuori a comprare quello che vuoi, pago
io. Che cosa ti piace? A quest'ora le botteghe sono ancora aperte.

--Adesso no, non potrei mangiare.

--Ma nemmeno lei, tua madre, ha mangiato?

--Più tardi, più tardi,--ella concluse stringendo le palpebre per
frenare le lagrime, che le ricominciavano, e rialzò la testa con atto
quasi violento. Erano gli ultimi guizzi, forse le ultime resistenze
della sua volontà, mentre un'improvvisa paura le gelava il sangue,
spegnendole quella luce lontana negli occhi.

Avevano già parlato troppo: a che scopo? Se ne accorgevano entrambi.
Sullo stoppino della candela una larga bracia lasciava salire un tremulo
filo di fumo turchiniccio: nella stanza l'aria pareva diventata fredda.

Il loro silenzio si allungava sotto la pressione di uno sforzo sempre
più greve. Egli la guardò fisso facendola trasalire come ad una puntura:
il seno le ansava, e sul pallore marmoreo della faccia parve ondeggiarle
un brivido luminoso. Si sentiva sempre la mano stretta fra le sue con
una violenza quasi dolorosa, mentre egli si agitava sulla scranna col
volto mutato da una nuova fisonomia. Improvvisamente, colla testa
pesante per quel digiuno di quasi due giorni, la fanciulla non seppe più
pensare, come sotto una di quelle sensazioni di sonno così soverchianti
nei bambini; un freddo le stringeva lo stomaco e un torpore le saliva
simile ad un'ombra sino agli occhi. Poi le sembrò di vedere la luce
della candela avvampare in un incendio, che subito si spegnesse.

Egli le aveva messo una mano sul collo scendendo ad accarezzarlo sotto
il bavero della giacca, e col volto quasi sul volto glielo bruciava
coll'alito.

--Dammi un bacio.

Ella glielo diede.

--Vieni,--proruppe con voce sorda, traendosela sulle ginocchia e
perdendosele nel viso, nel collo.--La mamma te lo avrà detto; sei
contenta, non è vero? Lo sai che sei bella? Dammi un altro bacio: sì,
sei bella, il tuo aspetto è un incanto!--esclamò finendo colla mano
convulsa di sbottonarle la giacca: ma si arrestò.

--Ah! non hai nemmeno la camicia, hai solo un corsetto.

Ella si rannicchiò dolorosamente ascoltando come una chiamata i guaiti
della bambina, che ricominciava a piangere. Forse la creaturina si
torceva fra le braccia della madre secondo il solito, finchè vinta
questa pure da tale inutile tortura l'abbandonava o veniva dalle vicine
a cercare aiuto. Adesso il pianto continuo, lento, pareva non dovesse
cessare più.

La fanciulla ne tremava.

Poi un dolore acuto alla mammella sinistra, troppo stretta da una mano
troppo pesante, le fece gettare un urlo, mentre l'altro abbracciandola
subitamente alle reni la sollevava dalla sedia e col leggiero, grazioso
corpo sul petto cadeva attraverso il canapè.

Ella si divincolò cogli occhi sbarrati, i denti stretti, così
violentemente che dalle sue ginocchia scivolò quasi per terra: la pelle
le bruciava.

--Eh! via,--gridò l'altro riafferrandola ai fianchi.

Ma essa lo guardava col petto nudo, il volto teso verso il suo nello
sforzo di una parola suprema, che ne uscì come una fiamma.

--Sono vergine!

Poi le caddero le braccia, e rimase davanti a lui colla testa bassa,
come un gran fiore falciato a mezzo. Egli stava sul canapè senza capire,
colle ginocchia aperte e il volto smorto di un pallore, che gli si
faceva più bianco intorno agli occhi.

E quel pianto della bambina seguitava sempre.

Con gesto freddoloso la fanciulla si restrinse i risvolti della giacca
sul petto nudo senza osare di scostarsi. Perchè aveva fatto così? La
mamma aveva udito? Ma una crispazione dello stomaco la fece ancora
traballare piegandole il busto; l'altro la sostenne con una mano.

Quindi le prese fra le palme il volto per guardarlo un'ultima volta:

--Ti credo, ma tua madre è infame. Prendi.

Trasse dal portafogli quattro scudi.

--Fammi lume, che me ne vada subito: potrei pentirmi.

Ella prese la candela dal tavolo, l'altro era già all'uscio.

--Salvati se puoi,--le disse voltandosi nell'uscire.

Quando Tina tornò nella cucina fu sorpresa di non trovarvi la mamma; i
quattro scudi erano ancora sulla tavola, ma la porta della camera si
riaperse tosto.

Nessuna dello due trovò una parola: la mamma si accostò alla tavola,
prese le quattro carte, esaminandole, senza che dal volto le trasparisse
alcuna emozione.

--Oh! mamma, non potevo!--esclamò finalmente la fanciulla, gettandole le
braccia al collo in uno scoppio di pianto senza lagrime.

L'altra l'accarezzava sulla testa.

--Calmati, Tina, hai fame? Adesso possiamo mangiare.

--No, no.

Ma quelle carezze la calmavano. Finì di abbottonarsi la giacca, si
strinse la gonna sui fianchi perchè sentiva freddo e un gran bruciore di
sete.

--Che cosa vuoi? dimmelo e vado fuori a prenderlo.

--Non ho fame, piglia tu quello che vuoi.

E le porse il fazzoletto nero.

--Non sei in collera?

--No, figlia mia. Lo so, è triste, per adesso non ci pensiamo. Dimmi
piuttosto: vuoi che ti porti una costoletta cogli spinacci? Al _Pavone_
è ancora aperto certamente: dammi la boccia del vino; ti occorre qualche
cosa di caldo?

--Ma tu dunque?

--Di me non ti preoccupare.

La mamma aprì quel mobile strano, ne cavò un tovagliolo, una boccia di
vetro bianco dal ventre grosso.

--Ti porterò degli aranci: quelli ti piacciono.

--Sì, piacciono anche a Bettina: comprale due o tre soldi di
cioccolatini, andrò io a portarglieli. Non odi come dura a piangere? La
signora Veronica sarà ancora alzata.

--Avrà udito quel signore andarsene.

--Era ben brutto, sai,--le sfuggì con un gesto di ripugnanza.

--No, t'inganni; era una persona per bene. Non è facile trattare come
lui.

La fanciulla ridivenne pensierosa: aveva temuto un rabbuffo e quella
condiscendenza le dava adesso una nuova emozione.

--Vado, sì.

--Porta teco il lume, lo lascerai in fondo alle scale.

--No, quel signore non ha chiusa la porta perchè non ne ho udito il
tonfo. Giù al primo piano gli Arrighi, che sono sempre desti, se ne
saranno accorti.

Questa preoccupazione cresceva in loro di minuto in minuto: per vincerla
Tina spinse l'altra verso l'uscio, ma qualcuno batteva leggermente la
porta del pianerottolo. Era la signora Veronica.

--Siete alzate ancora? Non mi sano ingannata,--disse colla sua voce
chioccia ed insinuante:--Uscite, signora Adelaide? Terrò io compagnia
alla Tina finchè torniate, o verrà lei da me. La bambina non vuol
quietarsi.

--Ho detto alla mamma di comprarle dei cioccolatini; vedrete che si
calmerà.

--Allora andate, aspetteremo,--l'altra si affrettò a rispondere,
tirandosi da parte per lasciarla passare; e l'ascoltarono discendere le
scale con un passo così lieve che appena lo si udiva.

                                 *
                                * *

Appena furono nella cucina, la fanciulla andò al camino e bevve d'un
fiato tutto quel bicchier d'acqua.

L'altra guardava sempre coi grandi occhi grigi di gatto nel viso tondo e
grasso dalle labbra sporgenti. Era vestita di un vecchio abito di
flanella a righe scure, dentro il quale il suo corpo pareva insaccato; e
infatti la carne le si ammassava ai fianchi sopra la guaina lenta della
sottana, mentre le mammelle non sorrette dal busto cadevano mollemente
sul ventre, confondendovisi.

Con un gesto abituale si grattò sopra la fronte fra la discriminatura
dei capelli.

Ma Tina aveva paura di parlare dinanzi a lei che forse aveva già
giudicato. Nella sua testa pesante pel digiuno quella disgrazia
interrotta da un mirabile caso diventava quasi più dolorosa nella
immutata certezza dell'indomani, e la fanciulla tornava a tremarne, come
se ancora sentisse sul collo il soffio caldo di quell'uomo, che le
frugava violentemente nel seno. Poi si ricordò la sua esclamazione: oh
non hai nemmeno la camicia! provandone nuovamente la stessa vergogna,
più acuta forse che di essere stata così fra le sue braccia, quantunque
egli dovesse avere già prima indovinato tutta la loro miseria.

Ma anche la miseria ha limiti, oltre i quali il suo dolore raddoppia.

Le sfuggì un sospiro.

La signora Veronica disse:

--Dove è andata la signora Adelaide? Al _Pavone_?

--Sì.

--Ditemi che cosa le avete ordinato.

--Io! nulla.

--Avete torto di trattarvi così; al mondo bisogna stare meno peggio che
si può, adesso mangerete, appena torni la signora Adelaide. Vedrete che
sa scegliere.

Dall'altro appartamento si udiva sempre il pianto sommesso della
bambina. La piccola voce non cresceva, non diminuiva, simile a quella di
un rivolo, che s'ingorghi in una chiavica; ma forse per questo la
fanciulla ne provava una impressione sempre più penosa.

--Che cosa ha stasera Bettina?

--Il solito.

--Povera piccina!

--Che cosa volete farci? Io non ci posso nulla, ma finirà
coll'addormentarsi per qualche ora lasciandomi dormire. Oggi le avevo
fatto una zuppa col latte, che le piace; non l'ha voluta.

--Non si può mangiare certe volte.

--Eppure non serve a nulla star digiuni, perchè dopo vi sentite peggio.
Vedete, io soffro di vedere così la mia bambina, ma mi faccio forza a
mangiare quando ne ho, altrimenti se non mangiassi che cosa accadrebbe?
Mi ammalerei anch'io e non potrei più aiutarla. Bisogna essere
ragionevoli.

Parlava adagio scandendo le sillabe, e la sua fisonomia pareva buona
malgrado l'egoismo delle parole.

Tina la conosceva sin dal primo giorno, nel quale era diventata la loro
vicina, e non l'aveva mai veduta esaltarsi davanti al lungo atroce
martirio di quella creaturina, che espiava così i vizi del padre. Anzi
la signora Veronica lo aveva subito spiegato col suo accento tranquillo:
ella era senza colpa di quel male di quella miseria, nella quale avevano
dovuto cascare; perchè dunque se ne sarebbe arrovellata soffrendone
maggiormente? Poi la bambina non poteva vivere, i medici stessi lo
avevano assicurato. I rimedi, se avesse potuto comprarli, non le
sarebbero stati di alcun giovamento; valeva dunque meglio spendere
altrimenti quei danari, qualora capitassero.

Tina si alzò.

--Dove andate?

--A vederla.

L'altra tacque.

Allora, davanti a quella indifferenza, l'orgasmo le cadde: tornò a
sedersi. Ma Tina si avvide che l'altra la scrutava con quegli occhi
grigi, pieni di una luce fredda. Infatti il viso della fanciulla era
così alterato che sarebbe stato impossibile non accorgersene: tratto
tratto dal fondo delle sue pupille azzurre una fiamma dardeggiava come
sotto un soffio; aveva le labbra livide e il seno le ansava. Adesso
l'ombra di quei due cerchi sotto gli occhi le si allargava per le
guance, confondendosi colla oscurità della bocca.

Nessuna delle due parlava più.

La ragazza sentiva che l'altra non avrebbe potuto accettare il racconto
di quella inverosimile fortuna: d'altronde la cosa avverrebbe
egualmente; domani, posdomani? Come spiegare la cena, che la mamma
avrebbe portato fra poco? Anzi tale elemosina troppo grossa diventava un
nuovo motivo d'incredulità, mentre domani un altro, il secondo, non
farebbe certamente così: e allora? La sua testa si confondeva, il sangue
tornava a batterle sul cuore con lunghe onde spaventate.

Tina distinse lo scalpiccìo della mamma.

Appena nella cucina la signora Adelaide respirò rumorosamente, ma
ansimava: dal tovagliolo chiuso nel suo pugno colle quattro cocche
riunite un odore vaporava sottilmente.

--Buono!--esclamò la signora Veronica, levando il naso all'aria.

--Vedrai, Tina,--rispose la mamma con una certa volubilità nella
voce,--vedrai che bella costoletta sono riuscita a portarti. Era
l'ultima, a quest'ora, che restasse nella cucina, poi vi ho fatto io
stessa un contorno di patate arrostite nella leccarda col ramerino.
Guarda: ho anche una doppia porzione di maccheroni e del lesso di manzo.

--Non vi sarete già dimenticata i cioccolatini?

--Ti pare?

E trasse da una tasca profonda della sottana una bottiglietta bianca,
piena di un liquido rosso.

--È alchermes, ne berrai un sorso dopo cena, perchè il vino non è gran
cosa: però ho dovuto pagarlo in ragione di quarantadue soldi al fiasco.
I ladri! scommetto che non ne costa loro più di venti.

Ma Tina si era già alzata, prendendo dal tavolo il piccolo cartoccio dei
cioccolatini.

--Dove andate?--la fermò la signora Veronica:--Bettina si è quetata.

Infatti era vero. Allora le due donne apparecchiarono la cena, distesero
una mezza tovaglia abbastanza bianca, trovarono dei piatti, dei
bicchieri, delle posate; nel mezzo della tavola il tovagliolo copriva
ancora colle punte riunite tutta la cena, solo il pane ne rimaneva
fuori, una grossa pagnotta dorata, che la signora Adelaide aveva portato
sotto il braccio.

--Andiamo, signora Veronica,--disse la mamma,--favorite con noi: c'è
poco da assaggiare, ma qualche cosa c'è.

La signora Veronica fece un gesto dignitoso di riserbo, ma l'altra, che
la conosceva, le spinse innanzi un piatto colla posata migliore, poi
accarezzò la testa di Tina. Evidentemente la testa scottava, perchè alzò
subito la mano e una incertezza le passò sulla faccia pallida: la sua
fronte si curvò un'altra volta umilmente.

Tina, col capo appoggiato sulla palma sinistra, guardava nel vuoto.

--Adesso bisogna cercare dentro il tovagliolo,--proruppe allegramente la
signora Veronica;--non basta aver capito dall'odore. Volete che faccia
io? Una volta ci avevo un certo garbo.

E senza attendere il permesso sciolse le punte del tovagliolo.

--Tò! anche degli aranci, me n'ero accorta al profumo. Vedete, Tina: il
lesso grasso e magro, questo è davvero una cosa eccellente, perchè è
proprio un pezzo di lombata: così freddo è anche migliore. Invece i
maccheroni bisogna mangiarli subito, altrimenti nell'agghiacciarsi
perdono il sapore, e poi si aggrumano. Ne convenite, signora Adelaide?
Avete però scelto bene. Oh! Oh!--seguitò levandosi in piedi dalla
meraviglia nello scoprire il piatto della costoletta:--le belle patate
spruzzate di ramerino, belle, color d'oro!

Anche Tina guardava.

--Osservate,--proseguiva l'altra con più seduttrice intenzione, volendo
farla ridere ad ogni costo,--non vi sono molte donne a Firenze di un
biondo dorato come questa costoletta e queste patate, ma nelle donne a
me il biondo non piace. Meglio i vostri capelli castani così
graziosamente arruffati,--e glieli accarezzò colla mano corta e pesante.

--Via, bisogna spicciarsi coi maccheroni!

--Tina, Tina, mangiate, e anche voi, signora Adelaide; io proprio non ho
fame, piuttosto, se permettete, assaggerò il vino.

Ma a Tina i bocconi non andavano giù: quindi finì per immergere qualche
crosta di pane nel vino, mentre le altre due divoravano. Anche la mamma
pareva affamata, e la sua faccia melanconica si veniva rischiarando,
sebbene dalla tristezza della figlia salisse sempre verso di lei una
certa inquietudine.

--Che volete?--diceva la signora Veronica, la quale aveva già finito la
propria parte di maccheroni e guardava con lunghe occhiate la
costoletta:--io, da giovane, ho avuto sempre un debole per le cene a
notte tarda, magari fuori di casa. Mi pare che così si chiuda meglio la
giornata: poi si cena sempre con qualche giovanotto allegro, si ride, si
dimentica. Se al mondo non ci scordassimo le disgrazie, si dovrebbe
morire presto. Quando si cena in compagnia,--e spiava di sottecchi
Tina,--è un caso che qualcuno non ci piaccia più degli altri, ma
bisogna essere giovane come voi, ragazza mia, per potersi divertire.
Ecco, taglierò la costoletta in tre parti, ne mangerete una anche voi,
Tina.

Questa fece un gesto di rifiuto, e l'altra chinandosele con una finta
carezza all'orecchio sussurrò:

--Avete male?

La fanciulla trasalì e rispose quasi violentemente:

--No.

Successe un silenzio.

La mamma, non osando parlare, accettò dalla signora Veronica la propria
parte di costoletta; nel piatto ne rimaneva ancora un pezzo con alcune
patate per Tina, ma questa ascoltava nuovamente il pianto della bimba,
che il dolore all'orecchio aveva destato. Pareva un cagnino che
uggiolasse, e il suo lamento era così monotono che non vi si intendeva
alcun appello. Soffriva indarno, abbandonata. Tina ci pensava con un
senso quasi di rancore crudele, mentre poco prima il suo cuore se n'era
commosso sino a piangere dentro di tenerezza. A che pro? Nella vita v'è
sempre qualcuno che nasce non si sa perchè, solamente per soffrire i
capricci degli altri, che lo allevano anch'essi senza motivo, perchè
questo è l'istinto. Bettina aveva pianto sino dal primo giorno; quindi
la madre vi si era abituata e, senza essere peggiore delle altre, non
aveva per lei che i riguardi, coi quali si trattano i cani ammalati: una
certa condiscendenza soccorrevole, che fa piacere a chi l'esercita come
una prova della propria bontà. Null'altro: se il cane guarisce, il
trattamento ridiviene quello di prima. Tina non si ricordava di essere
mai stata ammalata, sebbene non avesse mai avuto troppa vivacità, e
adesso le pareva di non sentire da moltissimo tempo il bisogno di
mangiare. A che cosa serviva dunque comprare una simile cena, quando non
si riusciva a mandarla giù? Invece le altre due avevano fame: ella le
guardava senza dispetto e senza invidia, quasi con una pietà, che non
avrebbe saputo spiegarsi, nel vederle così incapaci di comprendere la
sua angoscia di quel momento. Anch'ella era sola come Bettina,
quantunque non guaisse, non piangesse; ma invece aveva un gran freddo
sotto la sottana, mentre quel piccolo dolore alla mammella si faceva
sempre più sottile come se un ago ne forasse tratto tratto il tenero
bocciolo.

--Mangia dunque quest'ultimo pezzo di costoletta, altrimenti ti
riprenderà il male di stomaco,--disse la mamma.

--La mamma ha ragione, cara mia: bisogna mangiare, altrimenti le cose si
veggono anche più in nero. Vedete, quando io ho mangiato, e adesso non
avevo fame, considero le mie circostanze sotto un altro punto di vista:
mi pare che qualche cosa verrà ad aiutarmi.

--Che cosa vi aspettate?--chiese la ragazza.

--Non lo so, non sono come voi, che potete ancora sperare tutto. Voi
siete bella.

--Ah! questo poi sì,--esclamò la mamma.

--Alla vostra età non si ha che a volere. Io e la signora Adelaide non
siamo più donne... mi scusate eh! signora Adelaide, mi è sfuggita.
Quando si è giovane invece, e per giunta si è bella, gli uomini
diventano matti per noi, si può fare qualunque fortuna. Un po' di testa,
ecco il necessario, e si arriva dove si vuole. Allegri, Tina!

Questa non potè difendersi da un sorriso.

--Così voglio vedervi.

La madre ne profittò per spingerle davanti il piatto, ma la ragazza lo
passò alla signora Veronica e prese un arancio.

--Badate,--osservò questa,--forse non sapete il proverbio siciliano: gli
aranci al mattino sono di oro, a mezzogiorno di argento, la notte di
piombo. Siccome avete lo stomaco quasi vuoto, potrebbe riuscirvi
indigesto.

--Lo sbuccio soltanto.

--Siete anche voi di quelle che si divertono a masticare la buccia?

Fuori un orologio suonò le undici.

--È tardi, ma ci siamo fatte buona compagnia.

--Restate, restate,--ribattè Tina:--non ho sonno. Tu, mamma, se vuoi, va
a dormire.

--Figurati: aspetterò quanto vorrai.

--Che cosa ci diremo dunque?--interrogò con un risolino la signora
Veronica, finendo di vuotare il bicchiere.

Anche la boccia era oramai vuota.

Questa domanda parve cadere pesantemente sulla tavola: allora Tina si
alzò dirigendosi al buio verso la camera della piccina, nella quale
sapeva che un lucignolo bruciava sempre.

Le due donne rimaste sole si guardarono: la signora Veronica aspettava
una confidenza, e siccome l'altra taceva, disse:

--Tina non soffre affatto, l'ho notato subito, ma bisogna farla
mangiare.

L'altra esitava:

--Domani mangerà, quando le sarà passata la prima impressione, perchè
non le è accaduto nulla. Quel signore non le ha dato che un bacio e se
n'è andato subito.

--Oh! davvero? Era giovane?

--Sì, forse nemmeno venticinque anni.

--Ecco perchè è impossibile: i vecchi invece...

Si vedeva che avrebbe voluto chiedere altri particolari, ma sapendo che
o prima o poi non le sarebbero mancati, aspettava.

--Bene, bene, adesso se avessimo del fuoco, io ho in casa un poco di
zucchero, bisognerebbe farle un _punch_ caldo con l'arancio per
rimetterla in sesto: il _punch_ dolce di alchermes è eccellente.

--Non c'è fuoco.

--Un vero peccato.

Non si udiva più la piccina piangere.

--Ella l'ha calmata, sono due bimbe che s'intendono,--disse con un
sorriso la signora Veronica:--non avete più sete, signora Adelaide?
bevete: a che pro lasciare l'ultimo gocciolo nella bottiglia? Tanto
domani ne comprerete ancora, non è vero?

--Domani certamente, ma e dopo?--aggiunse smozzando la voce.

--La fortuna va presa donde viene e come viene: ecco Tina che ritorna.

La signora Veronica guardandola camminare credette di riconoscere la
verità di quanto la signora Adelaide le aveva detto, e se ne sentì
dentro tutta commossa. Possibile che esistessero, ancora uomini simili!
Sono fortune incredibili, proprio da festeggiare con una cena: dopo
bisogna rassegnarsi a passare sulla strada comune, dove passano tutte,
lasciandovi quello che si ha di meglio, la bellezza, e finalmente la
pelle.

--Assaggiate l'alchermes, Tina, vi spremeremo dentro un po' di arancio e
vi farà bene.

--Come volete.

--Bettina?

--Si è subito calmata: le ho messo un cioccolatino in bocca per
ricompensa. Vedrete che si addormenta.

--Così dormirò anch'io.

                                 *
                                * *

Sul pagliericcio accanto alla mamma Tina invece non dormiva.

Siccome la griglia era rimasta aperta, la luce della notte diventava più
serena, entrava pei vetri a rischiarare la camera. Sul letto non avevano
che una vecchia coperta imbottita, dalla quale nel giorno si vedevano
uscire per gli strappi i ciuffi biancastri della lana, ma in quella
stagione, già mite, era più che sufficiente. Anzi Tina, cacciandovisi
sotto, ne aveva provato sulle prime una inconsueta oppressione.

Poi la madre aveva insistito per sapere che cosa desiderasse l'indomani,
perchè di quei quattro scudi le rimanevano ancora diciassette lire, una
somma relativamente enorme nella loro abituale miseria; ma la ragazza
non aveva più voglie.

Il suo spirito era rimasto come sconnesso dalla violenza di quella scena
senza che dal cuore le si alzasse alcuna voce di rimprovero contro la
mamma, giacchè tutte e due si amavano ancora con la tenacità così
frequente nelle vite povere, che condensano in uno solo tutti gli
affetti. La fanciulla infatti non si ricordava quasi più i giorni
lontani, dai quali lo stormo delle speranze aveva potuto involarsi
gaiamente pel cielo, ma dopo era sempre stato presso a poco così, una
caccia ostinata ed infelice ai pochi soldi della loro esistenza
quotidiana, discendendo nella miseria come dentro ad un pozzo oscuro,
nel fondo del quale un'acqua morta rifletteva le loro due figure.

Improvvisamente la mamma si volse: con ambo le mani le prese il collo e
la baciò silenziosamente.

--La tua mamma! Le vuoi bene, Tina, non è vero?

L'altra rispose con un bacio.

--Non era per me, non era per me: seguitava con voce piagnucolosa, ma
non posso più vederti così. Poi vedi che ho ragione; ci sono degli
uomini generosi, che s'innamorano davvero e diventano capaci di
qualunque sacrificio per una donna. L'essenziale è di uscire da questa
miseria, che toglie ad una donna qualunque valore, perchè, te l'ho detto
cento volte, gli uomini vogliono potersi vantare della loro amante. Sono
tutti vanitosi, anche quando amano: sciaguratamente quel signore non è
ricco.

--Come lo sai?

--Me ne sono accorta subito alle maniere, a quel certo non so che dei
veri signori. Ma egli è giovane, dev'essere buono, tornerà.

--Tornerà!

--Ti piace? È brutto, me lo hai già detto.

--Sì, sì, brutto.

L'altra tacque, poi stringendosele ancora più addosso ripigliò:

--Hai ragione. Però, Tina mia, un uomo non è mai come ci pare la prima
volta: bisogna conoscerlo, e poi mutiamo anche noi a suo riguardo. Egli
è brutto, ne convengo. Lo hai guardato nella faccia quando ti ha dato i
quattro scudi e ti ha detto: vado via, fammi lume subito perchè potrei
pentirmi?

--No.

--Io ho sentito che la sua voce tremava: ero coll'orecchio incollato
all'uscio.

Tina fu scossa da un brivido.

--Ho paura, ho paura.

--Sì, figliuola mia, come sarebbe diversamente? Ma tornerà, a quest'ora
è già innamorato di te, altrimenti non avrebbe potuto agire così. Pochi,
sai, Tina mia, ben pochi avrebbero saputo resistere alla tentazione con
te: ci vuole un po' di cuore per questo.

--Ma se mi vedeva la prima volta!

--Non importa, è così. Peccato che egli non sia ricco.

Dopo una pausa la ragazza disse improvvisamente:

--La signora Veronica ti ha mangiato tutto.

--Sì, è il suo solito: lo sai che è golosa.

--Ma essa mangia tutti i giorni: ne sa cavare dei danari, non è come
noi.

--Hai ragione,--l'altra rispose tristamente:--e tu hai fame? Come ti
senti?

--Sto meglio.

--Cerca di dormire.

--Sì, anche tu.

Si baciarono: poi la mamma le chiese ancora, prima di voltarsi
sull'altro fianco:

--Mi vuoi bene?

--Oh mamma!

                                 *
                                * *

Ma un'ora dopo Tina piangeva silenziosamente col volto dietro la schiena
della mamma addormentata.

Senza intendere bene il perchè, la fanciulla si sentiva vinta da una
profonda pietà di se stessa. Le sembrava quasi che la vita si
distaccasse dalla sua anima come qualche cosa, che non le apparteneva
più e che un altro poteva prendere fra le mani con la indifferente
crudeltà dei fanciulli, quando nella effervescenza di un capriccio
smembrano un piccolo animale.

E anch'essa era così, perduta in un pericolo mortale, con un freddo di
febbre nelle carni, che la faceva tremare di paura, pur sapendo di
essere amata dalla mamma con una tenerezza, della quale non aveva mai
dubitato. Ma le condizioni della vita non avevano mai permesso loro di
potere come tante altre donne abbandonarsi alla negligente sicurezza che
l'indomani sarebbe come l'oggi; invece ogni mattina ricominciava il
medesimo problema con la necessità di mangiare, di vestirsi, di avere le
scarpe, e il terrore di ammalarsi sprovviste di tutto come in
quell'ultimo inverno, quando la mamma era rimasta a letto quasi due
mesi. Era stata un'agonia lenta, muta: le notti diventavano più lunghe,
i giorni non finivano più. Avevano dovuto a poco a poco vendere quasi
tutto, rimanendo senza materassi, senza lenzuoli, quasi senza camicia:
ella non ne aveva che due così rappezzate che si vergognava
d'indossarle: ecco perchè quella sera non aveva indosso che un corsetto
della mamma; ma le scarpe non le permettevano quasi più di uscire.

Mentre piangeva così raggomitolata sotto le coperte, non si ricordava
più distintamente di nulla: era soltanto una tristezza simile a quella
che debbono provare i prigionieri a certe ore, quando ripensano che non
usciranno mai di carcere o che uscendone non troverebbero più alcuno ad
aspettarli. La scena stessa, violenta e fortunata, nella quale la sua
giovinezza era quasi perita, le si confondeva nella memoria sotto uno
sgomento di sogno. Poi rivedeva ancora quell'uomo giovane, che l'aveva
accarezzata sino all'ultimo momento, gittandosi su lei con le mani
febbrili; ma anche allora i suoi occhi accesi sorridevano e le sue mani
nel farle male non erano come quelle della mamma, le poche volte che da
piccina l'aveva percossa. Improvvisamente, come se una fiamma
l'investisse, si era sentita ardere sino dentro la carne, colla testa
assordata da un tumulto, mentre dal fondo dell'anima una ripulsa acuta,
spasmodica, le saliva impetuosamente alle labbra facendola urlare, E
aveva gridato nella difesa della propria vita, disperatamente.

Eppure sapeva già tutto.

Anzi si era preparata al sacrifizio ascoltando molti giorni prima le
esortazioni della mamma e i consigli indiretti della signora Veronica.
Ma la sua giovinezza, troppo diversa da quella delle fanciulle cresciute
nelle famiglie oneste o nei conventi, se conosceva già le miserie e le
vergogne della vita, non ne aveva ancora perduta l'ingenua delicatezza,
poichè la primavera sonnecchiava nel suo bel corpo pallido come in uno
di quei fiori cresciuti nascostamente senza sole.

Così una ripugnanza di spavento e di orrore le faceva quasi credere di
dover subire una mutilazione, qualche cosa di avvilente e di straziante
come sotto il ferro di un chirurgo, che vi taglia la carne, e dopo si
resta per tutta la vita deformi davanti al sorriso della gente. Perchè
dunque le si voleva imporre questo? La mamma aveva parlato tristamente,
mentre la signora Veronica ne sorrideva come di una cosa inevitabile,
alla quale si volesse dare troppa importanza: secondo lei si trattava
soltanto di cavarne tutto il vantaggio possibile.

Ma a poco a poco la fanciulla si distrasse.

Non aveva quasi mangiato e la testa le ronzava ancora.

Alla luce della finestra la stanza appariva vuota: non vi era che un
comò, tutto il resto era stato venduto, e sul comò uno specchietto
incastrato in una scatola aveva un luccicore di acqua nella notte.

Per quel vicolo deserto non passava alcuno.

Per un momento ella pensò agli inquilini della casa; gli Arrighi al
primo piano, una famiglia di un conciapelli, che guadagnava sei lire al
giorno: la signora Giovanna, alta, bruna, con un'aria da uomo e tre
figlie che cucivano di bianco; la mamma aveva per amante un garzone da
caffè, e la maggiore delle figlie era innamorata del calzolaio, che
lavorava sempre alla finestra dirimpetto alla loro. Nella famiglia
scoppiavano continue liti, quantunque il padre, sulla cinquantina,
pacifico e bonario, sopportasse. Al secondo piano abitava un muratore
con una donna, che non era sua moglie, e nell'altra camera un vecchio
pensionato, solo; non lo si vedeva quasi mai. Ella conosceva tutti, e
tutti le volevano bene, quantunque non avesse reso loro nessun vero
servizio; la signora Veronica, invece, era mal vista.

Ma la fanciulla non si domandò nemmeno se avessero potuto accorgersi di
quel signore, altrimenti questo dubbio sarebbe bastato a gettarle
nell'animo un nuovo terrore.

Quella sigaraia, che stava col muratore, era bionda, quasi bella, di un
cuore così allegro che canticchiava spesso per le scale tornando dal
lavoro: una volta, nell'inverno, era venuta ad invitarla a pranzo, e
l'aveva trattata benissimo perchè si stimava nata in una condizione più
bassa.

Tina si ricordò di un gran pezzo di migliaccio mangiato dopo le frutta.

E dormivano felici, soli, sotto quella camera.

                                 *
                                * *

Adesso le pareva di essere seduta sulla soglia di una chiesa.

Da tutte le strade la gente arrivava vestita a festa: i bambini
suonavano le trombette, le mamme guardavano sorridendo. Ella aveva
oltrepassato la folla, assorta nello spasimo della propria miseria, che
le toglieva di sentire ogni altra cosa; ma si ricordava di essere
scappata di casa appena la mamma si era assopita, quantunque in quella
dormiveglia il suo viso giallo esprimesse la medesima tristezza
insopportabile. Così come si trovava, senza fazzoletto in testa, coi
piedi dentro due vecchie calze rattoppate e quel corsetto da notte mal
chiuso, era fuggita. Dalla porta della chiesa si vedeva nello sfondo
scuro una infinità di ceri accesi, che sembravano nelle fiamme tanti
chiodi roventi; e un odore d'incenso usciva a sbuffi, dandole al capo
una sensazione dolorosa.

Accoccolata sopra uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e la mano
sinistra tesa, aspettava sempre che qualcuno nell'entrare le facesse
l'elemosina, ma non osava domandarla, guardando con gli occhi così fissi
che ella stessa ne sentiva tutto il peso. Poi si era accorta di mostrare
le calze bucherate sino a mezzo lo stinco, perchè la sottana troppo
corta si raccorciava ancora in tale atteggiamento, mentre quel corsetto
della mamma le copriva le piccole mammelle illividite dal freddo.

E a poco a poco la gente cominciava ad entrare. Erano gruppi di donne
vecchie, col fazzoletto sui capelli bianchi: alcune avevano un rosario
nelle mani, altre scuotevano il capo paraliticamente affrettandosi verso
la soglia, dalla quale sfuggivano fra i vapori dell'incenso le prime
voci sonore delle preghiere.

Tutti i volti si componevano a una gravità solenne nel passare la porta,
le fronti s'inchinavano e ogni parola cessava; i bambini invece si
traevano sorridendo i berretti, e gli uomini si guardavano ai panni, ma
nessuno le aveva ancora badato. Ella, senza parlare, fissava tutte
quelle facce con la disperata intenzione di attirare qualche sguardo,
perchè l'anima intera le ardeva negli occhi con una fiamma ancora più
rossa dei ceri accesi sui candelabri dell'altare. E le pareva quasi di
vederne il getto tremare nell'aria dinanzi alle pupille, mentre il
freddo dello scalino attraverso quella sottile sottana le saliva per le
reni insino ai riccioli della nuca.

Perchè dunque era venuta a sedersi su quella porta?

I poveri, che vi stazionavano spesso, sapevano chiedere con la voce e
col gesto, e la loro voce piangeva e il gesto fermava la gente come un
ostacolo pietoso: ella invece non sapeva che guardare, bruciando nella
fiamma degli occhi tutte le preghiere, come nel momento dell'elevazione
i chierici gittano nuovi grani d'incenso nei turiboli per sollevarne una
nuvola bianca ondeggiante sull'altare. La sua piccola mano, aperta in
quella muta invocazione, tremava già indolenzita, senza che nessuno se
ne fosse ancora accorto. Immobile, in uno stupore sempre più angoscioso,
ella si chiedeva come mai il suo caso non attirasse l'attenzione,
quantunque la miseria sia uno spettacolo fin troppo ordinario all'angolo
di ogni via e sulle soglie delle chiese per vincere facilmente
l'indifferenza della gente; ma gli uomini, anche giovani, le passavano
accanto sfiorandole la mano, e i vecchi entravano raccolti in se stessi,
col capo curvo verso la terra, che li chiamava sommessamente.

--La mia mamma muore! la mia mamma muore!--voleva gridare levandosi
collo stesso impeto disperato, come era fuggita di casa senza nemmeno
chiudere l'uscio.

E si ricordava di non aver incontrato per le scale che un inquilino
vecchio, il quale viveva solo, celando la propria miseria in una
cameretta sotto la loro: nessuno lo conosceva, egli non parlava con
alcuno. Si erano guardati nel viso, poi il vecchio lo aveva abbassato
tristamente per nascondere forse di aver capito. Bisognava dunque morire
così. Non bastava che fosse venuta sulla porta di quella chiesa a
domandare l'elemosina? Forse a quest'ora la mamma si era desta e la
cercava ansiosamente con gli occhi; nessun altro era in quella camera,
perchè da due mesi nessuno v'entrava più.

Allora volle alzarsi, ma un peso enorme la premè su quello scalino senza
permetterle nemmeno di spostare il gomito. Si sentiva piegare le reni e
il respiro le usciva a stento dalla bocca, mentre un'altra gravezza,
come di una invisibile calotta, le spingeva la punta del mento sempre
più innanzi nella palma della mano. Ripetutamente si sforzò di voltare
la faccia verso la chiesa. La messa doveva essere a mezzo, perchè il
campanello del chierico tintinniva: ella ne ricevette le percosse
vibranti sul cuore, poi lontano le campane di un'altra chiesa
squillarono. Il piazzale era deserto.

Improvvisamente vide avanzarsi quel signore giovane vestito di nero: lo
riconobbe all'alta statura e al viso storto, dentro al quale gli occhi
lucevano dello stesso splendore, ma anch'egli doveva averla ravvisata,
giacchè veniva dritto verso di lei con una rosa rossa in mano. Quando
mise il piede sullo scalino, ella spaventata non pensò nemmeno a
tendergli la mano: l'altro invece le si chinò sul volto bruciandoglielo
con quella fiamma, che la fanciulla aveva già sentito, e le piantò il
gambo della rosa dentro al capezzolo della mammella sinistra. Il dolore
fu così acuto, che le parve di svenire, poi non vide più nulla. Il gambo
le penetrava sempre più addentro, rigido, sottile, mentre la rosa troppo
pesante le tirava giù la piccola mammella verso il grembo. Giammai aveva
provato fitte più lunghe ed atroci. Il sangue, uscendo a gocce, bagnava
tutta la rosa e cadeva dentro la tazza dal manico rotto, nella quale la
mamma prendeva qualche volta il caffè. Come mai aveva quella tazza fra
le ginocchia? Che cosa era stato?

Perchè aveva egli fatto così?

Adesso gli occhi le si cominciavano ad intorbidare; ad una ad una udiva
il tonfo delle gocce con uno sbigottimento mortale, come se la vita le
mancasse in un freddo, che le faceva diventare di marmo tutte le carni,
quando si accorse d'un tratto di avere sul fianco sinistro la piccola
Betta con quel vestone rosso regalatole da una vecchia marchesa per la
festa della Befana. Ma la bambina non pareva più ammalata, e rideva
vedendo sgocciolare il sangue nella tazza. Certo passò del tempo. Le
gocce cadendo nella tazza ormai piena davano un altro suono, mentre la
mammella vuota si allungava sempre più dolorosamente sulla rosa greve di
sangue. Confusamente capì di morire; poi una suprema reazione le fece
aprire gli occhi per strapparsi il fiore dalla ferita, ma le mani erano
diventate troppo pesanti e gli occhi le si abbacinarono nello splendore
di tutto quel rosso ardente come una fiamma.

Era una morte quasi dolce, la ferita non le doleva più: distese le
gambe, e la sua mano incontrò la testa ricciuta della bambina, che le si
chinava sul grembo per prendere la tazza.

--Bevi, se non vuoi morire,--diceva Bettina, tendendole la tazza alle
labbra:--ma dammi prima un cioccolatino.

E il suo riso goloso diventava crudele nell'attesa.

--Non ne ho più;--mormorò la morente.

--Dammelo o butto via la tazza.

--Anche tu sei cattiva.

Credette di aver detto così l'ultima parola: non sentiva più male, era
solamente in un buio profondo, silenzioso.

Ma la voce disperata della piccina la scosse, aperse gli occhi e la vide
fra le braccia di quel signore giovane, che la portava via frugandole
con la mano nel petto come aveva già fatto con lei.

--Tina, Tina!--gridava Betta.

Quando si destò, la mamma dormiva sempre e la piccina piangeva davvero
nell'altra stanza lontana.



LA SECONDA GIORNATA


Doveva essere per l'indomani.

Quando Tina si risvegliò, la mamma già alzata da un pezzo lavorava nella
cucina; la fanciulla si sentiva affranta, con la bocca pastosa e la
testa greve. Come al solito il risveglio nella luce di quella camera,
sempre con le griglie aperte, le diede la sensazione confusa di un male,
che tornava a ripetersi con la immutabile monotonia di una giornata
vuota. Infatti ella non aveva niente da fare. La loro casa in quel
vicolo molto illuminato era delle più quiete: gli uomini ne partivano
presto e le donne, chiuse nelle proprie stanze, non ne uscivano spesso,
perchè mancava il cortile e le scale rimanevano sempre buie. Ella
s'alzava dopo la mamma, che le aveva già preparata l'acqua nel catino,
ma dopo restava lì incantata senza sapere come ammazzare il tempo.

Da piccina se ne ricordava però uno meno triste.

Allora la mamma teneva in casa una vecchia serva dai capelli bianchi,
con gli occhi che parevano vuoti come quelli delle statue. La sua
taciturnità era così ostinata che non si riusciva a farla chiacchierare
nemmeno nei momenti di festa, quando la mamma, tornando a casa contenta,
si metteva a giocare con la bambina. La vecchia invece teneva le camere
con una pulizia ammirabile. Tina non sapeva niente di lei, sebbene con
la grazia dell'innocenza fosse riuscita a farsi amare: solamente la
vecchia confessava di non avere più nessuno al mondo dopo che sua figlia
era morta improvvisamente nella vigilia delle nozze. La figlia si
chiamava Marietta, ma la vecchia evitava di parlarne, come se a quel
ricordo una cicatrice le si riaprisse dentro rendendole più penoso il
silenzio lungo di tutti i giorni. Con la mamma andavano abbastanza
d'accordo. Infatti questa comandava così poco nella casa che ne lasciava
all'altra tutta la cura: altre volte stava fuori l'intera giornata non
avendovi fatto che colazione, perchè era pigra e si alzava sempre dopo
le dieci. Però in casa non mancava nulla. La vecchia preparava sempre il
solito pranzetto; la mamma mangiava indifferentemente di tutto, ella
invece così piccina era già piena di voglie e di bizze, che spesso la
facevano piangere. In fondo amava però quella vecchia almeno quanto la
mamma, sebbene non potesse con quella soddisfare tutte le tirannie della
sua piccola volontà.

La faccia della vecchia non era bella. Le mancavano quasi tutti i denti
davanti e i capelli si erano tanto diradati sulla fronte, che vi portava
sempre un fazzoletto a quadroni turchini, anche d'estate. Ma quel velo
di silenzio dava alla sua faccia giallognola una gravità ben diversa
dall'altra della mamma, allorchè questa voleva con accento di padrona
rivolgerle qualche rimprovero, o si metteva a fare delle considerazioni
dolenti sulle difficoltà di andare innanzi senza avere una posizione
assicurata. La fanciulla ascoltava il dialogo delle due donne, vedendo
sempre la mamma cedere con un gesto scoraggiato alle parole della serva,
che dovevano essere ben tristi, quantunque ella non potesse comprenderne
il senso. Ma la vecchia non si scomponeva mai, parlava adagio, con
accenti secchi, mentre la mamma invece scattava, si agitava, e talvolta
piangeva.

Spesso venivano in casa uomini ignoti, ben vestiti, ma la vecchia allora
non lasciava più la cucina e chiudeva l'uscio a chiave, dicendo a Tina
di non fare rumore, o mettendola sopra una sedia le dava qualche cosa da
mangiare, un frutto, una chicca, con certe carezze insolite, che
irritavano la fanciulletta.

Però queste visite non erano lunghe.

Una volta la mamma rientrò in cucina pallida, cogli occhi gonfi. Si
vedeva che soffriva. Aveva quella vestaglia bianca, inamidata, che non
portava quasi mai, colle frappe dritte intorno al collo, ma la metà dei
capelli le cadeva in disordine sopra una spalla e dai bottoni mal chiusi
le si vedeva sotto la camicia, anch'essa aperta.

Il signore se n'era andato.

La madre cadde sopra una sedia vacillando.

Un dolore le contrasse la bocca facendole mordere il fazzoletto, che
teneva fra le mani: disse qualche parola sottovoce alla vecchia, che
mise subito al fuoco un pentolino d'acqua e andò a cercarle nella
credenza la bottiglia del marsala. Tina guardava spaurita, poi la mamma
la vide e la chiamò con un gesto smanioso per darle un bacio. Allora si
misero tutte due a singhiozzare.

La vecchia tornò silenziosamente verso di loro.

--Non ci posso durare,--esclamò la mamma, alzandole gli occhi in faccia
quasi ad invocarla come testimonio:--è già una settimana, oggi poi...

--Che cosa hai, mammina?--domandò Tina con un altro scoppio di pianto.

--Mi sento male, cuore mio.

--Dove, mamma, dove?

--Tu non puoi capire. Oh!--si rivolse all'altra:--c'è stato un momento
che credevo di morire.

Gli occhi opachi della serva si appannarono di una nuova ombra; si
lasciò prendere la mano dalla padrona e con l'altra accarezzò la testa
della piccina.

--Bisognerà che per qualche tempo vi abbiate riguardo,--disse
lentamente.

--Come vuoi fare?

--Che cosa hai, mamma?

--Cuore mio, è per te, per te, sai, che soffro; per me sola non lo
farei.

Ma la serva scosse la testa.

Tina, non potendo capire, aveva smesso di piangere e guardava or l'una
or l'altra, presa nella curiosità di quel segreto doloroso, dentro il
quale le parole suonavano come i ciottolini, che qualche volta si era
divertita a gettare nella profondità del pozzo.

Ma la mamma, appena stava bene, non si ricordava di quei dolori
improvvisi.

                                 *
                                * *

Tina aveva conosciuto anche un vecchio signore.

Era piccolo, dal viso rubizzo, e sempre allegro. Quando veniva in casa a
pranzo, ed accadeva spesso, aveva sempre nelle tasche qualche cartoccio,
un giocattolo o una ghiottoneria, che si divertiva a mostrarle,
affermando sempre che era per un'altra bambina. Allora cominciava la
solita lotta di carezze e di repulse: Tina gli saliva sulle ginocchia,
gli cacciava la mano nelle tasche, l'inondava di baci strillando,
ridendo, coll'irresistibile grazia dell'infanzia, finchè la mamma non le
veniva in aiuto, ed egli cedeva vinto dalla tenerezza. In casa lo
chiamavano il signor Gennaro. Ma la bambina si era accorta che tutto
aveva cangiato dal giorno che egli era venuto. La mamma vestiva da
signora, a pranzo non si levava più come prima qualche cosa per la cena:
poi avevano cangiato appartamento, e vicino alla camera della mamma
piena di mobili nuovi, c'era un salottino con un sofà rosso e dei quadri
alle pareti.

Tina se ne ricordava ancora uno: dentro un grande paesaggio giallo un
grande uomo nero, vestito d'un corsetto bianco, con dei calzoni larghi
come una sottana, fuggiva sopra un cavallo nero, e il cavallo invece
delle briglie aveva due larghe strisce ricamate di fiori. Ella tornava
spesso a contemplarlo dentro quella cornice dorata nella penombra del
salotto pieno di poltroncine coperte di piccoli tovaglioli merlettati.
Ma invece di mangiare nella cucina, quando c'era lui, desinavano in
un'altra saletta a una tavola rotonda, con due credenziere al muro colme
di piatti e di vasi. Allora Tina era andata anche a scuola. La mattina
sulle otto la vestivano bene, le mettevano qualche cosa nel panierino
per la colazione e la conducevano da due signore, che tenevano presso di
sè altre fanciulle. Era stata quella l'epoca migliore della sua vita.
Tina non aveva voglia di studiare, ma quelle due maestre non insistevano
troppo per costringerla: invece le avevano insegnato la dottrina
cristiana e l'avevano condotta alla cresima con un bel nastro annodato
dietro la fronte.

La domenica, uscendo a spasso con la mamma, le pareva che la gente si
voltasse a guardarle, ma anche la mamma era bella, e la piccina ne
insuperbiva come se tutte quelle occhiate fossero di ammirazione. Però
non capiva come quel signore non solo ricusasse sempre di accompagnarle,
ma ad ogni incontro fingesse di non riconoscerle: anzi sfuggendo alla
mano della mamma, ella una volta gli era corsa incontro per dargli un
bacio.

Tutto il gruppo dei signori vicino a lui aveva riso, mentre egli invece
si faceva scuro, e la mamma pallida, imbarazzata, non sapeva come
richiamarla. Tornarono subito a casa: la mamma pianse nello sgridarla,
pareva avvilita, spaventata.

--Perchè mai facesti così?--seguitava ad esclamare guardando la vecchia
serva, che questa volta divideva le apprensioni della padrona.

Tina non lo sapeva, ma finalmente potè comprendere che le altre due
temevano di restare sole, senza le solite visite di quel signore. Invece
non ne fu nulla: quel signore tornò la sera dopo e non si lagnò
dell'incontro: la piccina si sentiva trionfante, benchè non osasse
dimostrarlo vedendo sotto l'allegria della mamma lo stesso sgomento di
prima.

Poi la mamma era troppo buona con lei.

In quel tempo ella non si lagnava più di quei dolori: era rifiorita,
aveva un sorriso dolce, che rallegrava la bambina. Senza pensare a
nulla, con un cassetto pieno di giocattoli, Tina cresceva dentro la
gioia di un capriccio: non le insegnavano nulla, la mamma la conduceva
raramente in chiesa, non le parlava mai del babbo o dell'avvenire. Le
tristezze di altre volte erano dissipate: certi giorni la mamma
insisteva perchè si facesse venire qualche voglia, soltanto per il
piacere di soddisfarla. Adesso la casa era piena di roba: vi erano molti
armadi, dei comò, in cucina tutto era aumentato: si beveva sempre del
vino buono, e a pranzo raramente mancava il dolce.

Un'estate la mamma andò con lei e la vecchia serva ai bagni di San
Casciano.

Ma questa felicità non aveva durato.

Tina aveva veduto entrare in casa un bel soldato con una sciabola lunga
e gli speroni, che gli tinnivano ai tacchi: e veniva sempre di sera, e
la mamma e la serva si raccomandavano che ella non dicesse niente con
alcuno, specialmente col vecchio signore. Ma la serva riceveva male il
soldato, se capitava quando la mamma era fuori: Tina stessa, così
piccola, sentiva per lui una ripugnanza invincibile. La vita in casa era
mutata: fra la mamma e la serva si tenevano sempre il broncio, ma era la
mamma che non osava rivoltarsi alle parole e ai gesti quasi sprezzanti
dell'altra: entrambe vivevano in una continua agitazione. Tina se ne
accorgeva a certi segni, alle dispute della mamma per la mancanza di
danaro, o alla sua aspettazione febbrile per le visite di quell'altro
signore vecchio, al quale adesso correva incontro senza alcun riguardo
di essere veduta, quando egli la baciava.

Una volta la mamma invitò a cena il soldato, malgrado l'ostinata
opposizione della serva. Tina aveva udita tutta la loro lunga lite nel
giorno, e aveva capito che la mamma voleva più bene al soldato che al
vecchio signore: la serva aveva persino minacciato di andarsene, perchè
non si poteva, secondo lei, tirare innanzi così: era una pazzia, una
stupidaggine.

--Vi farete mangiare viva da quel cialtrone di sergente.

--Non dire così.

--Pensate piuttosto alla vostra bambina.

La mamma era scoppiata a piangere e Tina aveva fatto altrettanto,
correndo ad abbracciarla.

Le due deboli creature strettamente allacciate confondevano le lagrime
sotto lo sguardo vuoto della serva, che finì anch'essa col commuoversi.
Pareva un giudice: anche la piccina lo sentiva, e con l'istinto
seduttore della natura femminile lasciò la mamma per farle una carezza.

--Tu sei cattiva,--disse col suo fare importante, mentre invece le
pigliava una mano per condurla alla mamma.

--Cuore mio, cuore mio!

La pace fu conclusa. Tina aveva trionfato ottenendo persino, contro ogni
opposizione della serva, che voleva metterla a letto più presto, di
cenare fra la mamma e il bel soldato con la promessa di non parlarne ad
alcuno.

Ma invece di divertirsi si era annoiata, perchè nè l'uno nè l'altra le
badavano: parevano assorti in un segreto, che si comunicavano a parole
sommesse; qualche volta Tina vedeva la mamma stringere sotto la tovaglia
la mano al soldato, il quale sorrideva arricciandosi i baffi neri.

Ella preferiva il vecchio, che la prendeva sulle ginocchia e dandole un
bacio diceva con un sorriso buono:

--Portalo alla mamma.

                                 *
                                * *

Ma quella volta che tornando a casa trovò la mamma con un occhio pesto,
sul letto, in preda a violente convulsioni, era stato il primo grande
dolore della sua vita.

Allora non potè sapere che cosa fosse accaduto, perchè la vecchia serva
accigliata non disse nulla e la mamma dopo non si lagnò della propria
disgrazia che con frasi tronche, piangendo come una bambina sotto i
rimproveri freddi dell'altra. Dai loro alterchi ella comprese soltanto
che la mamma era stata bastonata dal soldato e che quel vecchio signore
non tornerebbe più: ma siccome il soldato tornò, la serva volle
andarsene.

Anche Tina le si raccomandava.

La vecchia rimase dura.

--Che cosa posso più fare qui?--ripeteva.--Voi non avete giudizio, vi
siete rovinata per quel cialtrone di sergente, che un giorno o l'altro
bastonerà anche me e la piccina.

--No,--singhiozzava la mamma,--non è cattivo come credi.

--Allora tenetevelo, ma farete finire male anche quella lì.

Questa volta Tina vide il terrore dipinto sul viso della mamma.

La sua piccola anima si sentiva crollare qualche cosa d'intorno, la
mamma disfatta nel proprio dolore si dimenticava già di lei, la vecchia
se ne andava, quel signore non verrebbe più.

E solamente il soldato era la causa di tutto: adesso si ricordava che
quella sera a cena egli da solo si era mangiato quasi tutto, ordinando
dell'altro vino, anche la mamma aveva paura di lui, che non fosse
contento: lo spiava negli occhi con un sorriso incerto.

La vecchia consentì ancora a rimanere nella casa per otto giorni.

Quella fu una triste settimana: il soldato fu buono, perchè
nell'accompagnarlo alla porta la mamma sembrava felice, ma la serva non
volle vederlo, nè udirne parlare; insisteva sempre sulla stessa cosa,
che bisognava vendere i mobili, mentre la mamma diceva di no.

Tina smise di andare a scuola: la mamma stava chiusa nella propria
camera, la serva in cucina, quando si riunivano per mangiare la mamma si
metteva a piangere.

L'ultimo giorno la vecchia disse:

--Se volesse smettere, resto con voi.

--Sì mamma!--esclamò Tina.

Ma l'altra ostinata rispondeva:

--Perchè mi vuoi affliggere così? Senza di te non potrò andare avanti.

--Non ci andreste ugualmente, egli vi mangerà tutto. Le cose bisogna
capirle: con quell'altro avreste fatto sempre la signora.

Poi le si mise a sedere in faccia; e accennando a Tina seguitò:

--Che cosa farete di lei?

--Vedrai che riuscirò a tirarla su.

--Niente: la bambina sarebbe invece fortunata se morisse. Voi siete di
quelle che finiscono nemmeno si sa come.

--Credi tu che non le voglia bene?

Tina vide la faccia della vecchia incresparsi.

--Io non avrei fatto così con mia figlia.

Quindi andò per l'ultima volta in cucina a lavare i piatti.

                                 *
                                * *

Anche adesso Tina vedeva limpidamente nella memoria la figura secca e
taciturna della vecchia, che aveva protetto per qualche tempo la sua
infanzia. Era ancora viva? Era morta? Nel disordine e nella miseria
sempre più triste della loro vita nè ella nè la mamma avevano più
cercato d'incontrarla: erano passate per altre case, vissute fra altre
donne in una intimità stretta o lacerata da nuovi bisogni, abituandosi a
tutto con quella indifferenza, che cresce dall'abbandono delle speranze
e dalla rinunzia ad ogni proposito fisso.

Eppure non erano state molto infelici.

La mamma, così facilmente eccitabile al riso e alle lagrime, dimenticava
presto per sognare ancora dietro qualche nuova combinazione: la sua
gioia era effimera come la sua disperazione, mentre discendendo nel
tramonto degli anni e della bellezza vi si rassegnava con una crescente
passione pel benessere fisico, il mangiare, il bere, lo stare caldi,
senza preoccupazione di vanità o di avvenire. Ma poi quel suo male si
era aggravato. Da principio non erano che spasimi acuti e intermittenti,
poi vennero le convulsioni, l'insonnia, i disturbi di stomaco, il male
di testa continuo, accanito, e un indebolimento di tutta la persona, che
le impediva quasi del pari il camminare e lo stare seduta. I medici
parlarono di un guasto all'utero e di una operazione chirurgica,
gravissima ed indispensabile; ella spaventata ricusò, e nella lusinga
di guarire altrimenti cessò a poco a poco di essere donna. Quindi ebbe
ancora qualche rifioritura, mesi, nei quali pareva risorgere più bella:
la sua fisonomia si era spiritualizzata e il suo carattere fatto più
buono. Quel sergente, tramutato di guarnigione, era disparso per sempre
senza che ella se ne accorgesse, ma quel vecchio signore non volle più
ritornare.

D'allora il problema della vita non aveva più mutato, ripetendosi ogni
mattina con le crudeli difficoltà di una miseria senza parenti e senza
mestiere: ella non sapeva lavorare, e pur non odiando il lavoro stentava
a concepirne uno, che potesse dar loro da mangiare. A chi rivolgersi?
Che fare? Non sapeva che resistere nella miseria senza nè rassegnazioni,
nè ribellioni; la sua vanità di bella donna, mantenuta nell'agiatezza da
una qualche passione di uomo, al quale mostrava sinceramente una tenera
gratitudine, era già perita in quella pronta rovina, non lasciandole che
una felicità timida e servizievole verso chiunque le soprastasse. Ma
prediligeva istintivamente le donne giovani, che si avviavano al lusso,
quasi dalla loro vita le ritornassero quei giorni felici quando si
abbandonava anch'essa all'incanto di un sogno, come i fanciulli fanno
nei primi bagni sulle correntie dei ruscelli.

                                 *
                                * *

Tina aveva frequentato anche i teatri.

La mamma v'era entrata dietro una sarta a prestare sul palco scenico una
infinità di servizi senza titolo alle attrici, che prediligevano la
garbatezza de' suoi modi: poi una di loro, salita improvvisamente
all'onore della carrozza per la passione di un marchese, aveva voluto
prendere Tina a compagna, vestendola come una pupattola. Ma l'attrice,
un bel giorno, era tornata sul palco scenico. Un'altra aveva offerto
alla signora Adelaide di portarla seco come cameriera, purchè mettesse
la fanciulla in qualche orfanotrofio, ove l'avrebbero educata meglio che
in quel vagabondaggio di teatro in teatro, attraverso i casi di tutte le
miserie e di tutti i vizi. Era un'attrice ancora giovane, che faceva da
madre nobile, donna di buon cuore, al sicuro in una certa agiatezza.
Sciaguratamente un'avventura venne a troncare anche questa speranza. Una
sera mancò di sopra ad una cassa una spilla d'oro depostavi da un attore
nel momento di entrare in scena: più d'uno aveva veduto, v'erano donne,
uomini, inservienti e visitatori, che andavano e venivano; la spilla non
fu più trovata, i sospetti fioccarono, il pettegolezzo dilagò, e la
signora Adelaide ingiustamente fu creduta colpevole, quindi, licenziata
dal servizio. Questa prima caduta ne determinò altre: un avvilimento non
mai prima sentito peggiorò la nuova miseria, quei dolori d'utero si
fecero più frequenti ed atroci, compiendo di fiaccarle la volontà di
vivere, che nei poveri è la sola forza. Anche Tina, già grandicella,
somigliava in questo difetto alla mamma: era buona, faceva tutto quanto
le si domandava, ma da sola non sarebbe arrivata a nulla: fors'anche per
questa debolezza si amavano maggiormente, sorreggendosi l'una l'altra
senza lasciarsi mai.

Ed erano uno strano spettacolo queste due donne, che uscivano,
rientravano, facevano tutto insieme: quando la mamma era ammalata,
siccome non avevano quattrini per chiamare i medici, che d'altronde
sarebbero stati inutili, Tina si metteva al suo capezzale finchè non si
fosse nuovamente alzata: mangiavano se lo potevano, ma essendo
simpatiche, capitava loro sempre un qualche aiuto inatteso.

In quella apparente indifferenza di tutto sognavano però con una
ingenuità di bambine, illuminata dai ricordi della loro bella vita
tramontata.

Ed era sempre lo stesso sogno, che discendeva sulle loro anime
dall'alto, come nella luce di un nuovo mattino. La mamma, oramai senza
speranze per se stessa, riportava nella vita appena sbocciata della
figlia tutti i fantasmi di fortuna, che avevano attraversato la propria.
Nella oscurità morale della sua coscienza ella non credeva di aver
vissuto troppo male, nè di essere una cattiva madre, giacchè la regola
della vita era per lei nella vita stessa, la quale trionfa di tutte le
resistenze nel mistero del caso favorevole agli uni e avverso agli
altri. Ovunque e sempre aveva visto le medesime cose e le stesse donne:
quelle che riuscivano a conquistare una posizione nel mondo non erano le
migliori, ma le più astute, e le grandi signore commettevano gli stessi
falli abbandonandosi alle medesime tentazioni delle più povere operaie.
Tutta la differenza fra loro derivava dal grado sociale. Vi era
fors'anco una virtù vera, di alcune persone, che non sentivano e non
avrebbero potuto sentire ciò che faceva per gli altri la bellezza e la
felicità della vita.

Ella non credeva e non sapeva più in là di questo, giudicandosi buona
per non avere mai voluto gratuitamente il male di nessuno, ed accusando
il destino di tutto quanto aveva dovuto fare nel disordine della propria
esistenza.

Quindi sognava una vincita al lotto o un altro vecchio buono come quel
signore, che le accogliesse nella propria casa; ella, la mamma, sarebbe
diventata la sua governante, e Tina avrebbe potuto educarsi meglio.
Quasi sempre il sogno si fermava lì, perchè Tina toccava appena i dodici
anni. Infatti alla fanciulla mancava ogni istruzione, benchè avesse
imparato quasi misteriosamente a leggere e a scrivere fra quella gente
così varia, povera e cupida, che rinnovava ogni giorno gli stessi
espedienti per la conquista della fortuna o della sua illusione. Una
esperienza breve ma singolarmente ricca la rendeva già una fanciulletta
simpatica e servizievole, capace d'intendere a volo le difficoltà di un
caso, nel quale bisognava tacere o ritirarsi, pronta a cogliere
qualunque simpatia, come soltanto i ragazzi poveri sanno. Ma anche
questa non era in lei che una abilità istintiva, affinata dal bisogno,
senza che il suo cuore se ne rendesse ben conto.

La fanciulla cresciuta in quei bassi fondi, così pericolosi alla
innocenza, serbava ancora il proprio incanto mattinale, benchè sapesse
tutto quanto si cerca indarno di nascondere alle prime curiosità
dell'anima come una malattia vergognosa. E invece accade spesso che i
fanciulli passano da contrabbandieri i confini abbandonandosi a
scorrerie, dalle quali tornano con la febbre nel sangue: hanno imparato
senza provare, sognato invece di vedere; quindi la loro coscienza si
appanna e il pensiero si perverte; diventano cinici essendo ancora
vergini, finchè, sfioriti per sempre, non si ubbriachino all'olezzo del
primo fiore raccolto sulla via, già sgualcito chissà da quante mani.

                                 *
                                * *

Tina aveva appreso le miserie e le colpe della vita dallo spettacolo
continuo al quale doveva assistere per trarre i mezzi di vivere.

Fra quella gente gittata nell'equivoco di tutte le avventure o
appiattata pazientemente nell'agguato di una continua frode, le parole
erano spesso più sincere dei fatti, e i bambini partecipavano ad ogni
scena, come piccoli attori già soggetti alle necessità del teatro,
ricevendo più busse che baci, soffrendo talvolta la fame anche nelle
gozzoviglie, ove gli altri si ubbriacavano.

Tina stessa aveva dovuto provarlo, prima di essere accolta come
apprendista da quella bustaia.

Poichè alla mamma era capitato per un'estate di villeggiare presso una
famiglia di signori, Tina entrò come servetta presso due vecchie
zitellone, che vivevano di una piccola rendita fabbricando fiori di tela
per le chiese. Il servizio non sarebbe stato troppo greve, ma l'umore
delle padrone era così tristo che la fanciulletta ne sofferse fino ad
ammalarsi. Le pareva di essere prigioniera in quella casa silenziosa,
ove nessuno entrava mai a portare dal di fuori una parola, e le due
vecchie, invece d'insegnarle, si guardavano l'una l'altra quasi con muto
stupore, rifacendo tutto quanto ella aveva fatto.

Quindi si nascondeva disperatamente negli angoli a piangere col cuore
gonfio. Mattina e sera, le due vecchie prima di uscire per andare in
chiesa chiudevano tutte le imposte, tutti gli usci e, girando a doppia
mandata la chiave nella toppa, le ordinavano severamente di non aprire
le finestre, di non fare rumore. Allora la fanciulletta, invasa da una
strana paura, avrebbe voluto gridare al soccorso, gittandosi nelle
braccia di qualcuno che venisse a liberarla. Ma la casa era tutta
chiusa. Ella restava quindi nella saletta d'ingresso sopra una panca a
pensare nel proprio abbandono, finchè si metteva a piangere nuovamente,
con l'orecchio teso ai rumori della scala, come se dei fantasmi
salissero spaventosamente insino alla sua porta. La sua immaginazione
esasperata dal lungo patimento tremava dinanzi a misteriose figure,
sotto certi soffi freddi, che le gelavano tutto il sangue, mentre quella
saletta a poco a poco si mutava in un sotterraneo di prigione, dalla
quale non sarebbe più uscita.

La mamma non le aveva ancora scritto. Dov'era? Che cosa le era accaduto?

Un mattino volle andarsene senza sapere dove si sarebbe rifugiata, ma
esse non lo permisero, avendo promesso di custodirla sino al ritorno
della mamma nel mese di ottobre; e siccome Tina insisteva, la più
vecchia la colpì sulla testa col regolo di ferro, che serviva a tagliare
la carta dei fiori.

La fanciulla soffocata dallo spavento tacque.

Fortunatamente la mamma tornò prima, ma più ammalata; quando venne a
riprenderla, Tina non era più che un'ombra.

--Che cosa hai?--chiese commossa:--Sei stata male?

Le due vecchie guardavano aspettando la risposta.

--Non ti hanno nemmeno dato da mangiare? dimmelo.

La fanciulla tacque ancora.

                                 *
                                * *

Seduta sul letto, coi capelli mezzo disciolti, Tina pensava.

La mamma rientrò nella camera; aveva già preparato il caffè col latte.

--La signora Veronica mi ha chiesto due lire in prestito: ho fatto male
a dargliele? I danari sono tuoi.

--No, mamma.

Tina era ancora più pallida: quel riposo tormentato della notte, anzichè
rifarle le forze, aveva finito col mettere nella sua debolezza un'ultima
prostrazione: vedendola un'altra volta allungarsi sul letto la mamma
disse:

--Non ti alzi?

--Mi alzerò.

--Io avevo pensato che avresti bisogno di un paio di camice, di un
abito, delle scarpe, ma non ci restano più che dodici lire. Ne ho dato
due per acconto anche al fornaio: che cosa ne pensi?

--Come vuoi comprare tanta roba con così poco?

--Capisco anch'io.

E la ragazza sentì che l'attacco ricominciava. Quel piccolo dramma della
notte non le si era ancora appannato nella coscienza, che già la vita
glielo ripresentava con la solita inesorabile insistenza. Si guardarono.
La ragazza conosceva troppo bene la mamma per credere a tutto quello che
diceva: probabilmente non le rimanevano nemmeno quelle dodici lire,
perchè doveva averle spese in altro che nel pranzo della giornata. Poi
era golosa: non lo negava nemmeno, ma cercava una scusa a questa ultima
debolezza nell'esaurimento cagionatole da quel lungo male.

La signora Veronica sopraggiunse per dire di aver parlato nelle scale
con le Arrighi, e che nessuno si era accorto di nulla la sera innanzi.

--Si vede che è un signore intelligente: un altro forse nell'andarsene
non avrebbe badato più che tanto, perchè gli uomini dopo sono tutti
così. Ho alzato Bettina, sapete...

--Portatemela!--esclamò Tina.

--Alzatevi voi piuttosto e venite da me. Abbiamo combinato con la mamma
di cucinare insieme: ho trovato degli asparagi nella bottega della
Carlotta, li faremo col burro, una delizia che ci costerà poco: e per
voi, Tina, c'è una sorpresa. Alzatevi dunque: debbono essere le nove,
abbiamo una magnifica giornata di sole.

--Ma come si fa ad uscire di giorno così vestite?...

--Aspettate, aspettate, tutto verrà poi: che diavolo! Credete che la
possa durare così, quando si è giovani?

Appena Tina fu alzata, ridivenne più melanconica. Nella casa c'era un
po' di tramestìo; le due vecchie si davano da fare per il pranzo, perchè
volevano averlo pronto a mezzogiorno. Le porte dei due appartamenti
rimanevano aperte. Tina prese il caffè col latte bagnandovi dentro una
pagnottella, poi tornò nella camera per ravviarsi i capelli con un
mozzicone di pettine. Siccome la mammella le doleva ancora lievemente,
si ricordò il sogno della rosa, che quell'uomo giovane le aveva piantato
con tutto il gambo dentro il capezzolo facendone uscire goccia a goccia
il sangue e la vita. Era ancora così pallida, cogli occhi stanchi,
cerchiati dalla stessa ombra turchiniccia. E il sogno la riprendeva.
Lentamente si sbottonò il corsetto come per cercare la ferita, mentre
le pareva di essere un'altra volta seduta sulla porta di quella chiesa,
nella quale la gente entrava a fiotti. Infatti quel giorno era domenica.
Così seduta, con la mano sulla mammella, quasi nell'atto di arrestarne
il sangue, guardava la propria immagine con un sorriso simile ad un
brivido. Qualunque cosa potesse ancora accaderle, ella era già ferita:
ma perchè quell'uomo le aveva piantato una rosa rossa nella mammella?

Invano Tina cercava di comprendere il significato di questo sogno non
ancora dissipato nel mattino: tuttavia non pensò di parlarne colla mamma
per una ripugnanza, che le era subito venuta appena uscito quel signore.

Una paura aveva sconvolto la sua piccola anima, passandole come un vento
freddo le carni.

Ma Tina riconobbe il passo della signora Veronica nella cucina:

--Ho di già bollito gli asparagi,--questa disse dall'uscio:--Ebbene,
Tina, è meglio parlarne subito, perchè la cosa riesca. Io e la mamma
avevamo pensato a fare un piatto dolce: volete scegliere quello che so
fare benissimo, un timballo con le bucce dei piselli cotte e passate
allo staccio? I piselli li abbiamo già per la minestra: la mamma invece
sarebbe per un latte alla portoghese. Ditemi voi, Tina, che cosa gradite
meglio?

La sua voce era carezzevole, ma i suoi occhi la scrutavano. La fanciulla
ebbe daccapo un imbarazzo sotto quello sguardo.

--Come volete, come volete,--disse in fretta:--ma perchè tanta roba?

--Eh! mia cara, se non si mangia nei giorni buoni, non si mangia mai
più. Che cosa fate qui sola? Venite di qua.

                                 *
                                * *

Quel pranzo non era poi gran cosa; una minestra asciutta coi piselli,
gli asparagi al burro e quattro costolette di agnello con un uguale
contorno di piselli, finalmente il timballo colle bucce, un trionfo
della signora Veronica, la quale non contribuiva al pranzo se non con
l'opera. Ma prestava ancora tutto il servizio da cucina e da tavola.

Le due vecchie avevano discusso lungamente sul vino. La signora Veronica
pretendeva di conoscere una cantina, nella quale si comprava un
trebbiano dolce, color d'oro, una vera grazia di Dio, per otto soldi al
litro; l'altra stava per il Ruffina rosso, frizzante.

Quando Tina e la signora Veronica entrarono, la mamma finiva di
appannare nel pane grattugiato le costolette di agnello, attardandosi
con atti pigri e delicati.

Tina andò dritta nell'altra camera della piccola Betta, che avendola
riconosciuta si era messa a gridare.

--Eccomi, eccomi, Bettina.

Ma questa invece di essere alzata, come aveva detto la mamma, era
solamente seduta sul letticciuolo, affagottata in quel vestone rosso,
che faceva sembrare anche più pallida la sua faccia gonfia e sformata
dalla scrofola. Soltanto gli occhi erano belli, grandi e neri, con le
sopracciglia lunghe. In quel momento giocava con un vecchio fazzoletto
scuro rivoltandolo ed annodandolo per farne un topo.

--Chi è venuto da te ieri sera?

--Nessuno,--rispose Tina sorridendo.

Bettina aveva quasi nove anni, ma non ne mostrava che sei: la sua fronte
sporgente sotto i ciuffi dei capelli, era stranamente pensierosa su quel
viso di bimba.

Diede a Tina il topo da tenere, e dopo una pausa, senza guardarla in
viso, ricominciò:

--Perchè non sei venuta dopo che quell'uomo se n'è andato?

--Anch'io stavo male: venni pure a portarti il cioccolatino prima di
andare a letto.

E per mutare discorso le propose di alzarsi.

--Levati, altrimenti per stare troppo a letto perderai le gambe: non
vedi,--seguitava tirandole su il vestone,--come sei diventata? Dà retta:
alzati e vieni di là, nella mia camera, intanto che preparano il pranzo.

--Chi ti ha dato i quattrini? L'uomo di questa notte?

--Quale uomo vai sognando?--E la voce le tremava nella menzogna, come se
quella bambina potesse avere tutto capito nel dramma appena incominciato
la sera innanzi:--Le tue scarpette debbono essere dentro al comodino
della mamma; ecco le calze, mettile da te.

--Che cosa mi fai fare nella tua camera?

--Quello che vuoi.

--Ma se non abbiamo niente.

--Ci metteremo al sole.

--Mi fa male: lasciami qui, non ho più voglia di alzarmi.

--Hai ancora mangiato?

--Si.

--Che cosa?

--Chi era?--l'altra rispose bruscamente.

--Un conoscente della mamma,

--Allora me lo avresti detto subito; non è vero...--E gli occhi le si
empirono di lagrime; poi un brivido la scosse e con un gesto convulso
portò la mano sinistra all'orecchio ammalato.

Tina la guardava senza sapere che fare, ma la bimba, sforzandosi a non
piangere, seguitò con accento corrucciato:

--Anche tu mi dici la bugia come la mamma, quando va fuori e mi lascia
sola per delle mezze giornate. Ho udito bene la tua mamma ritornare su
per le scale con quell'altro, un uomo, che camminava anche lui in punta
di piedi. Io riconosco il passo della gente per le scale; la mia mamma
si era messa all'uscio. Chi era? dimmelo.

--Che cosa può importartene?

--Anche tu andrai via.

--Sei gelosa di me?--disse Tina sorridendo,

--No, no,--stridè stizzosamente:--non lo sono più, perchè non mi vuoi
più bene.

--Come non me lo hai detto subito, ieri sera, quando sono venuta a
portarti il cioccolatino?

Questa domanda imbarazzò la bambina.

Una ruga le si disegnò nel mezzo della fronte, riprese il topo dalle
mani di Tina e tacque, stringendo la bocca come per non parlare più.
Tina rimaneva perplessa davanti a questa curiosità ostinata.

--Fra poco ti alzerai; almeno per mangiare con noi.

L'altra non rispose.

--Non vuoi nemmeno mangiare con me? Che cosa ti ho fatto? Sono venuta
anche ieri sera subito,--le sfuggì imprudentemente:--io non mi
dimentico mai di te, che invece fai sempre la capricciosa. Stamane non
mi hai ancora dato un bacio: se è così, vuol dire che me ne vado.

Infatti si era alzata, ma due grosse lagrime si staccavano
silenziosamente dalle lunghe palpebre di Bettina.

L'altra le si gettò sopra, prendendole con circospezione la testa e
coprendole di baci la fronte:

--Cattiva, cattiva!--seguitava,--che mi vuole mandare via e mi nega un
bacio, mentre io penso sempre a lei. Quest'oggi comando io, voglio che
ti alzi per pranzare con noi.

--A un patto.

--Quale?

--Chi era?

--L'orco,--ribattè Tina, ferita al cuore da questa insistenza assurda; e
rientrò nella cucina.

                                 *
                                * *

Avevano quasi finito di pranzare.

Per la finestra aperta della cucina entrava un bel raggio di sole
primaverile, mentre nell'altra camera quasi buia la piccola Betta
biascicava ancora la poca porzione di timballo, che la mamma le aveva
recato dentro al piatto stesso degli asparagi per fare un solo viaggio.
Ella diceva così, e grassa, pesante com'era, quella minima distanza le
sembrava un vero viaggio.

Ma Betta aveva ricevuto queste insolite leccornie senza fiatare,
dispettosa in cuor suo di capire che fossero dovute a qualche fortuna di
Tina, la quale anch'essa l'aveva abbandonata con quell'ultima cattiva
risposta.

Invece nella cucina la conversazione finiva facendosi più lenta in
quella prima beata soddisfazione di un pranzo cucinato senza i soliti
risparmi. La sorpresa preparata dalla signora Veronica per Tina non
aveva però avuto il trionfo, che si poteva sperarne, giacchè la ragazza,
davanti alla novità di una frittata alla confettura, se n'era sentita
anticipatamente disgustata.

--Capisco,--diceva la signora Veronica col suo fare importante,--la
vostra impressione: vi pare che con l'olio lo zucchero e i pochi canditi
non leghino. Anzitutto i canditi vanno sempre bene, come i baci.

--I baci,--ripetè Tina sorridendo.

--Già. Alla vostra età, fresca come siete, volendo, attirereste i baci
come l'aleatico attira le vespe: basta lasciarseli dare da coloro, che
avendone maggiore voglia, sono nel caso di cavarsela anche se un po'
caruccia, perchè da povera ragazza stracciata si diventi presto una
signora di quelle alle quali gli uomini corrono dietro, quando si sono
ben seccati con le altre. Come mai i signori si divertirebbero con le
loro dame, che hanno da pensare ognuna alla propria famiglia o farsi
riguardo di cento cose prima di concedere un appuntamento?

Tina e la mamma ascoltavano sorprese da quel tono professorale, che
sembrava compiere il trionfo della signora Veronica sulla fine di quel
pranzo, realmente da lei sola voluto e preparato. Con un gomito sulla
tavola, gli occhi accesi, il mento sul dosso della mano sinistra, ella
parlava assaporando quasi le parole. La superiorità era così palese, che
le altre due non tentarono nemmeno di resistere.

--Non volete prendere il caffè? Andrei io giù a farmene riempire una
mezza cocoma al _Leoncino d'oro_,--disse la mamma.

--No, bisogna saper resistere: oggi abbiamo fatto abbastanza baldoria da
pari nostre: aspettiamo qualche altra occasione vicina. Perchè non
vicina? Io lo credo. E poi, vedete, quando si è veramente mangiato, come
oggi, mentre gli altri giorni facciamo le finte di mangiare tanto per
mantenerci vive, il caffè solo non basta. Ci vorrebbe anche il
bicchierino di cognac. Se sommate tutto questo, ne vien fuori un orrore.
Ma era proprio così brutto, Tina, quel signore?--le si rivolse
improvvisamente.

La fanciulla trasalì.

--No,--intervenne la mamma:--non era una bellezza, ma nemmeno un brutto
uomo.

--Voi non siete competente in questo caso, perchè la prima volta l'uomo
fa una impressione assolutamente diversa da ogni altra. Lo domandavo
appunto a Tina. Ma quando l'uomo non piace, ecco. Non vi piaceva, Tina?

--No.

--Vedete!--esclamò trionfalmente.

Ma la mamma, che temeva questa piega del discorso, si affrettò a
rispondere, con quel suo accento strascicato:

--Non si può sempre avere quello che piace...--ma si corresse
subito:--specialmente quando si comincia. Negli uomini io ho sempre
preferito le maniere alla faccia: non è forse vero? Alla faccia, se non
è di mostro, ci si abitua, ma ai cattivi modi no. Ci vuole della
educazione e del buon cuore; quindi i giovani non sono sempre i migliori
per una ragazza che abbia bisogno.

--I giovani ci sciupano e generalmente hanno poco cuore.

--Ve n'è anche fra essi qualcuno: quello di ieri sera non lo avevo
scelto male. E badate che Tina non si era decisa che all'ultimo momento,
perchè aveva fame anche lei come me. Non mi pesa più il confessarlo.
Quel signore mi parve d'indovinarlo al modo di camminare, poi avevo
visto i suoi occhi alla luce di un lampione.

--Infine ha agito bene: se tornerà...

--Certamente.

--Avete ragione. Gli uomini vogliono sempre rivedere la ragazza dopo una
simile scena, e spesso finiscono con l'innamorarsi. Ma bisogna stare
attente a non perdersi: i protettori sono più difficili a scegliersi dei
mariti. E quando si hanno,--disse alla signora Adelaide con accento
lieve di rimprovero,--tutto sta a tenerli.

La mamma sobbalzò sotto la puntura, ma la signora Veronica, come se già
avesse studiata la propria parte, si piegò verso Tina e, fissandola con
una certa singolarità, riprese:

--Ragazza mia...

A questo attacco Tina volse la testa alla porta dell'altra camera, nella
quale Betta curiosissima, come tutti i solitari abbandonati, doveva
ascoltare; ma non ebbe il coraggio di alzarsi per chiuderla; poi si
sentiva riprendere dalla stessa lassitudine della sera innanzi, quando
aveva finalmente ceduto alle istanze della mamma.

--Se vi andate a guardare nello specchio, vedrete come state bene
adesso. Siete rifiorita; quel signore di ieri sera non vi riconoscerebbe
più. Ecco come dovreste essere sempre per avere tutta la vostra forza,
perchè, credetemelo bene, è inutile essere bella e giovane se tutto
questo non deve servire a cavarci la fame. Date retta: si campa una
volta sola, e la gioventù passa presto; dopo, vedete come si resta
quando non si è saputo profittare del tempo buono. Guardate noi due. Io
fui veramente disgraziata sposando quell'uomo, ma adesso non giova
lagnarsene. Vi pare che discorro nel vostro interesse? perchè io, per
me, non ci ho troppo sugo in tutto questo.

--Quello che ti ho sempre detto io, figlia mia!

--Ma è il modo di dirlo,--interruppe l'altra:--Io non pretendo di
convincere nessuno, espongo solamente quello che ho visto e che so.
Ecco, del resto, ognuno fa come vuole. Tina è libera anche lei, ma
siccome le vogliamo bene, bisogna mostrarle i pericoli. Io ve lo dico
subito, ragazza mia, che una donna giovine, anche se non molto bella,
riesce a tutto: l'abilità consiste nello scegliere la strada, anzi nel
sapervi camminare, giacchè tutte conducono egualmente a Roma. Vi
sposate, pigliate marito, magari un buon diavolo quando vi volete bene
reciprocamente: che cos'è? Date retta, vi hanno insegnato da ragazza che
la sola via vera è il matrimonio, la famiglia, i figli... Domine Iddio!
non è vero niente: invece avete dato una zuccata nel muro, tutto vi va a
rovescio, arrivano la miseria, la malattia, egli muore e se non avete
presa la sua malattia, è un bell'affare, ma vi restano i figli ammalati.
Il mio caso. Avete visto eh? Vostra madre era più bella di me, non
importa, è finita egualmente. Ci vuole testa al mondo, ragazza mia, il
resto sono chiacchiere.

--Ma se tutto riesce sempre male a ogni modo...--obbiettò Tina,
trascinata a poco a poco nella confidenza di quella conversazione.

--Quando manca la testa: la differenza è lì. Noi abbiamo un tesoro,
almeno gli uomini, non so perchè, gli danno tale importanza; io per
conto mio,--aggiunse con un sorriso,--non ho mai trovato in loro nessun
altro tesoro. Quindi bisogna giovarsene, ragazza mia. C'è stata chi
diventò perfino imperatrice; invece lo si butta facilmente come se non
valesse nulla.

--Allora,--scattò Tina con un impeto subitaneo d'irritazione,--perchè
andar cercando nella strada a chi darlo?

--Se il bisogno ci lasciasse scegliere...--mormorò umilmente la mamma,
che la fatica della digestione cominciava a rendere melanconica.

--Non è questo, lasciate dire a me. La fortuna non si decide mai la
prima volta, ecco perchè se avete dovuto cedere, avete ceduto male.

--Cedere no!--proruppe la fanciulla.

La signora Veronica finse di non badare a queste parole.

--Anche questo non significherebbe nulla. La mamma ha ragione, non si
può sempre scegliere, specialmente quando si è arrivati a un certo
punto. L'importante viene dopo, nella scelta dell'uomo, che può fare la
nostra fortuna. C'è sempre, credetemelo, costui: siamo noi donne, che
abbiamo torto; il minchione, al quale far credere tutto, càpita a ogni
donna. Sappiatelo prendere secondo giudizio, e la fortuna è fatta.

--Come?

--Come vorrete: potete diventare moglie o magari non volerlo diventare,
secondo i casi.

--Non vedi, figlia mia,--disse la mamma con umiltà anche più bassa,--che
se io avessi saputo fare, adesso non ci troveremmo così?

Ma Tina si sentiva salire dentro la rivolta. Senza intendere bene le
varie tonalità di quella suggestione, una ripugnanza istintiva gliene
svelava il tristo segreto. Si voleva daccapo trascinarla, travolgerla
con tutta la sua giovinezza in un sacrificio, del quale non provava che
l'oscuro orrore. Ella non aveva una nozione esatta del proprio valore
come fanciulla ancora intatta, nè alcuna altra delle idealità così
frequenti nelle vergini cresciute fra le pareti domestiche, e tuttavia
qualche cosa si ribellava in lei a certe parole, come se un contatto
doloroso le facesse sobbalzare tutti i nervi. Attese, le due donne si
consultarono con una occhiata.

La signora Veronica si versò dalla boccia un mezzo bicchiere di vino.

--Lasciate stare: perchè Tina non avrebbe ragione? Essa aspetta nella
confidenza della propria età, non è vero, ragazza? Voi attendete uno che
vi ami per voi stessa e vi sposi, giacchè non vi siete ancora voi stessa
innamorata: solamente la cosa è un po' difficile.

--Difficile!--esclamò la mamma dolorosamente:--dite impossibile. Chi
volete che venga a cercarvi in questa miseria?

--Infatti bisogna essere in vista: capisco, siete ad un punto tremendo,
dal quale non si può andare avanti. Gli uomini rifuggono dalla miseria,
questo è certo. Se voi, Tina, foste ben vestita e poteste fare un giro
in via Calzaioli, molti signori vi verrebbero dietro, invece se ci
passate così, nessuno vi guarderà. Quante ragazze povere finiscono male
solamente per questo!

--Io lo dico a voi, signora Veronica,--seguitò l'altra,--perchè oramai
siete vecchia come me e potete capire: che cosa volete che ci capiti più
se duriamo così? Io sono sempre ammalata: dovrò andare all'ospedale per
morirci, se si degneranno di accogliermi; lei resterà sola. Non ho
potuto insegnarle niente, un mestiere, metterla per una strada
qualunque: adesso come fare? Supponete tutto; che la bustaia la ripigli;
non abbiamo un vestito da metterle indosso, è senza scarpe, in due
possediamo tre camice rotte sbrandellate. Anche oggi Tina non ha che il
corsetto.

La ragazza arrossì.

--E ieri sera?--chiese ironicamente la signora Veronica.

--Lo vedi, figlia mia, che te ne vergogni, mentre non ne hai colpa. Ti
accadrebbe altrettanto se ti trovassero una casa, ove fare la serva; non
avresti gli abiti per presentarti e non sai fare nulla. Non stiri, tieni
a mala pena l'ago fra le dita, non sai cucinare, e come avresti potuto
impararlo a casa mia? Che cosa speri dunque, bellina come sei? Che
qualcuno s'innamori e ti sposi? Certamente può accadere, ma chi? Un
signore, che ti dia da mangiare, no certo: come potresti conoscerlo, tu
che non esci di casa? Sarà invece un altro povero diavolo come te, uno
di coloro che pigliano moglie non avendo nemmeno il letto. Ce ne sono
tanti, e dopo non si sa come mangiare; poi vengono i figli, e allora
bisogna fare per loro quello che non si è voluto fare per se stessi.

--Questo mi pare giusto, ma allora è troppo tardi. Una donna, che ha
marito, trova più difficilmente di una ragazza il protettore: che
volete? I mariti sono spesso bestiali, e gli altri non vogliono averci
briga.

--Ammettete pure tutto, ma adesso come se ne esce? ne avete visto poche
delle donne a far fortuna. Avete il marito, i figli, vi siete già messa
a posto da voi stessa, ed è quasi impossibile mutare: invece da ragazze
tutto vi deve ancora accadere.

--Se fossimo ragazze adesso io e voi,--concluse la signora Veronica
sorridendo,--eh! vi dico io che faremmo presto fortuna colla nostra
esperienza.

Tina si alzò perchè il dialogo pareva finito. Il suo volto era tornato
pallido. Betta dall'altra camera non aveva ancora fatto il più piccolo
rumore. La piccina aveva ascoltato e capito tutto? Tina se lo chiese con
un inquieto sentimento di vergogna come dianzi, quando voleva chiudere
la porta. La brutalità di quelle spiegazioni l'aveva quasi soffocata, ma
nella miseria avviene sempre così: non si può essere delicati.

Era andata alla finestra.

Qualcuno passava già vestito a festa, il cielo era vibrante di serenità,
un sole di primavera accendeva sorrisi dappertutto, sui tetti, sulle
gronde, sui muri, sulle selci. Altre donne stavano alla finestra;
incontrò i loro sguardi e le parve che la scrutassero.

--Vedete che bella giornata oggi, bisognerebbe poter uscire,--le disse
la signora Veronica dietro la schiena.

--Perchè pensarci? non si può.

--Io ho un abito ancora in buono stato, ma a voi non istà bene, non
potrei prestarvi che la camicia, il meno necessario, perchè non si vede.
Invece sono le scarpe, i vestiti, che più occorrono. Bisognerà pure
decidersi a qualche cosa.

--Che volete?

--Io... niente. È per la vostra mamma che ve lo dico: ma io avrei una
idea per aiutarvi.

--Non potevate dirmelo prima?

--A che prò se dipende da voi?

--L'idea della signora Veronica è buona,--disse la mamma,--ma sta a te
accettarla. Se dovessi farlo io, non ci penserei, tu però sei libera:
per me invece sono vecchia e morirò presto. Non ho più bisogno di gran
cosa.

--Ecco!--esclamò la signora Veronica, mostrando loro collo sguardo una
donna, che appariva alla finestra d'un secondo piano nella casa quasi di
fronte:--quella è felice col suo piccolo impiegato delle ferrovie. Prima
in casa il marito e i figli crepavano di fame.

Tina si volse a guardarla. Nel vano della finestra si vedeva la sua
testa china sotto un grande mazzo di capelli neri, che le lasciavano
scoperta una riga bianca sul collo; e il marito, un omaccione rosso, le
stava dietro; tutte le donne affacciate sul vicolo la fissavano con
occhiate malevole ma invidiose.

--Prima io andavo qualche volta da lei e lei veniva da me; ma da quando
le è capitata la fortuna non mi saluta più,--disse la signora Veronica
con accento dispettoso:--Voi non fareste così, Tina; ne sono sicura.

--Ma che volete da me?

--Niente.

E le volse le spalle tornando alla tavola per sparecchiare.

Mamma e figlia rimasero alla finestra; non parlavano, ma la gente
cominciando ad uscire da ogni porta del vicolo in abito da festa, dopo
il pranzo, le rendeva sempre più malinconiche.

Tutti parevano contenti, qualcuno si voltava dalla strada a parlare
colle finestre: si udivano saluti, qualche frase di convegni pel
pomeriggio.

La mamma aveva cinto d'un braccio la vita di Tina, premendola con lenta
carezza.

--Ti ricordi quella volta che uscimmo a far merenda fuori di porta San
Gallo colle Tugnoli? Fu l'anno passato, di primavera come adesso: tu
avevi ancora l'abito giallo, io stavo quasi bene. Che bella giornata!

--Quanto danaro avete ancora?--chiese bruscamente la ragazza.

--Uno scudo; dopo, io non so più nulla.

--Volete che io dica di sì?

--Tina mia!

--Ebbene... ma adesso non parlatemene più.

                                 *
                                * *

Verso sera la signora Veronica uscì sul pianerottolo ad incontrare una
signora, che saliva abbastanza lesta per le scale: si salutarono
entrando senz'altro dalla porta di Tina. Anche la mamma, in agguato da
parecchie ore, accorse; Tina invece era tornata presso Betta.

--È la signora Cesarina,--disse la signora Veronica cominciando la
presentazione:--e questa è la mamma.

La signora era magra, con tutti i capelli neri e due occhietti rotondi,
vividi: vestiva modestamente e mostrava una franchezza, che rendeva
anche più dura l'espressione della sua fisonomia. Quindi, senza
attendere l'invito, si gettò sul pagliericcio del canapè ed allentò i
nastri scuri del cappellino, che la stringevano sotto il mento.

Con una occhiata rapida e sicura aveva già valutato quanto era nella
cucina: le altre due rimanevano imbarazzate.

--Le scale sono un po' erte,--disse quasi scusandosi la Veronica.

--Il peggio è che sono lisce, e non conoscendole c'è da sentirsi mancare
sotto un piede.

--Noi ci siamo avvezze.

--Lo credo.

Successe una pausa.

La signora Cesarina sembrava cercare con lo sguardo.

--La ragazza è di là, nella mia camera, da Bettina,--disse la signora
Veronica: vado a chiamarla.

--Aspettate: ma perchè non vi accomodate anche voi altre?

Quando furono sedute, la signora Veronica sbirciando la mamma di Tina
come per incoraggiarla mormorò:

--Sì, è meglio parlare prima.

Una certa difficoltà rimaneva tuttavia fra di loro: la signora Cesarina
più pratica si rivolse alla mamma con un sorriso:

--Avevo detto che sarei venuta prima, ma ho trovato qualcuno per strada,
che mi ha fatto deviare; non è però molto tardi, ci si vede ancora
benissimo, abbiamo tutto il tempo per discorrere. E così, che cosa
volevate dirmi?

A questa domanda quasi brusca l'altra ebbe come uno smarrimento, ma la
signora Veronica la sovvenne:

--Lo sapete bene, signora Cesarina.

--Sì, sì, mi ricordo tutte le vostre parole, ma io non posso quasi
nulla, ciò dipenderà dalla ragazza quando l'avrò vista. Non siamo in
tempi fortunati per nessuno, veggo che anche voi altre avete avuto delle
disgrazie; mi avete detto che la ragazza si chiama Tina.

--Sì.

--Ed è ben disposta, non è vero?

La signora Veronica guardò l'amica.

--Sì,--balbettò questa.

--Badate, noi dobbiamo spiegarci chiaro,--si rivolse alla signora
Veronica, ma evidentemente parlando coll'altra:--mi avete detto che la
ragazza è minorenne e che venivate da parte sua, ma ho potuto capire
dalle vostre parole che eravate mandata piuttosto dalla mamma. Io sono
franca, e specialmente in certi casi bisogna spiegarsi bene per non
avere a pentirsi poi. Sapete benissimo che vi è la legge, dentro la
quale è facile cascare: si busca un anno per lo meno e si è rovinati per
sempre: dunque la ragazza ne è contenta?

--Con me ha detto così,--rispose la signora Veronica:--potrete
interrogarla voi stessa.

--C'è tempo. Ho voluto avvisarvi dei pericoli, perchè non sarei sola a
correrli. Càpitano spesso di questi casi per corruzione di minorenni, e
quasi sempre per la colpa della ragazza, ma allora va di mezzo anche la
mamma. Lo sapete eh?

--Lo so, lo so; ma non è il caso; io e Tina ci vogliamo bene. Se non
fosse...

--Lasciate, è sempre così e non c'è nulla da fare. Volevo solamente
farvi capire che, se consento ad aiutarvi, non vorrei ricevere per
contraccambio un cattivo servigio. Ditemi, la ragazza ha davvero
solamente sedici anni?

--Sedici compiti il ventidue dello scorso febbraio.

--È bella?

--Sì, sì, bellina, la vedrete,--intervenne la signora Veronica:--un po'
magrolina, ma questo in lei può piacere di più.

La signora Cesarina fece una smorfia.

--Credetemi, adesso vado di là a chiamarla.

--Aspettate: e per il resto, è davvero,--si volse alla mamma,--come la
signora Veronica mi disse?

--Sì, ve lo posso giurare.

--La vedrò io stessa, mi fido del mio occhio,--aggiunse
alteramente.--Poi è impossibile ingannare noi donne su questo, mentre
gli uomini ci cascano invece facilmente.

La signora Veronica sorrise.

--Non crediate però che accada sempre così. Nel matrimonio è
facilissimo, la passione stessa impedisce di accorgersene, ma quando gli
uomini sono a sangue freddo e intendono comprarsi questa originalità,
diventano schizzinosi. È un puntiglio, sapete: vogliono dopo poter dire
a se medesimi di esservi riusciti, e più sono vecchi più sono esigenti.

Uno strano sorriso le passò sulle labbra, poi disse:

--Volete chiamare la ragazza?

--Per carità non la spaventate!--esclamò la mamma; e il suo grido fu
così sincero che l'altra si volse a guardarla.

--Ma sì.

--Volevo dirvi,--quella seguitò umilmente:--siamo in miseria: la povera
ragazza è appena vestita.

--A questo ci penso io: bisogna presentarsi benino.

--No: intendevo dire che foste indulgente: la ragazza soffre e diviene
facilmente ombrosa.

--Devo andarla a chiamare?--chiese la signora Veronica.

La mamma rimaneva perplessa: si vedeva che una domanda difficile le si
presentava allo spirito senza che ella trovasse la forza o il modo di
esprimerla. Nel volto scarno, pallido, gli occhi chiari tremavano
d'inquietudine.

--Che cosa volete dire?--intervenne per aiutarla la signora Veronica.

--Dite francamente, oramai io so tutto... perchè ella mi ha raccontato i
vostri casi.

--Ecco...

E si fermò: un pudore orgoglioso le impediva di andare avanti. Non
l'azione, ma il suo motivo la facevano vergognare, impedendole di
sostenere lo sguardo fisso e duro dell'altra, che naturalmente aveva già
capito. Ma appunto per questo le lasciò crescere l'imbarazzo.

--Spiegatevi dunque.

--Veda, se non fossimo così povere, capisce anche lei che non si
farebbero certe cose. Io ho acconsentito per l'interesse di mia figlia,
perchè così come viviamo non si può andare avanti. Ma non vorrei, ella
mi capisce, che Tina si rovinasse per niente.

Non aveva ancora finito di parlare che la stonatura di quelle parole la
fece daccapo soffrire; provava anche un certo freddo come di qualche
cosa, che le si distaccasse dentro.

--Non temete...--l'altra ribattè con un sorriso di autorità:--bisogna
però che io la vegga prima, e dopo discuteremo insieme. Intanto vi
avviso che non dovrete sognare troppo: il vostro caso non è raro adesso
che ci arrivano tante ragazze dalla campagna. Andate pure a chiamarla.

--Siate buona!--non seppe tenersi dall'esclamare la mamma, mentre la
signora Veronica usciva.

La signora Cesarina si era ricomposta sul canapè, e in quella luce che
cominciava ad oscurarsi, la sua figura e la sua faccia raddoppiavano
sull'altra la vaga impressione di terrore provata sino dal principio
della scena. Confusamente, in uno spasimo segreto, ella rivedeva i
momenti migliori della propria vita, come certi infermi alla vigilia di
subire una operazione chirurgica tremano di un freddo spirituale e
fuggono nel passato, dove già la loro anima si esaltò nel fervore della
speranza. Adesso quella donna magra, dalla faccia arida e dura, quasi di
uomo, forse molto ricca sotto quegli abiti modesti, le incuteva ancora
più rispetto che paura; e doveva essere senza dubbio il rovescio di lei
stessa così molle in ogni volontà e cedevole a tutte le influenze. Come
mai aveva potuto decidersi a un simile mestiere, giacchè anche quello
era un mestiere? Chissà quante povere madri, quante povere ragazze aveva
veduto piangere senza commuoversi! Ella invece non lo avrebbe potuto, il
dolore degli altri le faceva male quanto il proprio.

Almeno lo credeva.

La signora Veronica comparve con Tina: la madre guardò subito a questa,
meravigliandosi di vederla entrare a testa alta.

Ma si udiva piangere Betta nella stanza lontana.

--Mi hanno detto che volete vedermi,--disse Tina con un certo tremito
nella voce.

--Sì, ragazza mia, lo desideravo anch'io, perchè la signora Veronica è
venuta a parlarmi da parte vostra.

Tina si lasciò sfuggire un atto di diniego.

--Sono venuta ad intendermi con voi e la vostra mamma, per fare le cose
benino e... state ben dritta che vi vegga, ecco... Eh! non c'è male,
potete diventare una bella ragazza, se vi nutrirete meglio e sopratutto
se avrete giudizio. Ma adesso non voglio dirvi tutto; io non sono come
le altre,--e abbassò involontariamente la voce:--vorrei essere utile
alle ragazze che ricorrono a me, ma esse non hanno mai quasi giudizio,
mentre io procuro loro relazioni eccellenti. Voi mi sembrate franca.

Tina sorrise a questo complimento inaspettato, ma alzando gli occhi non
potè sostenere lo sguardo dell'altra, che già la dominava. Erano bastate
poche parole a stabilire il patto segreto ed infrangibile: oramai non si
apparteneva più. Allora, in un impeto improvviso quasi di rivolta, volle
interrogarla brutalmente, chiederle tutto, discutere a testa alta,
mentre la mamma e la signora Veronica invece parevano soggiogate dal
rispetto dei poveri in faccia ai padroni; ma si accorse che le parole
non le sarebbero mai uscite dalla bocca.

Una nube le passò sugli occhi e qualche cosa le pesò dietro la nuca come
una mano, che la tirasse pei capelli verso terra: ed era quasi la stessa
sensazione della sera innanzi, quando quel signore l'aveva bruscamente
afferrata alzandola sul proprio petto per gittarsi sul canapè. Le parve
di diventare fredda, scura; forse i morti sono così nel sepolcro.
Quelle tre donne le erano già egualmente estranee, ma aspettavano la sua
parola come ella aveva veduto molte volte i gatti attendere
silenziosamente sulla tavola una buccia di formaggio.

--Ho pure detto di sì!--avrebbe voluto gridare per sottrarsi a quella
oppressione, che le chiudeva la gola.

Si alzò.

--Dove andate?

--Bettina piange.

Infatti le strida della piccina si erano fatte più rare e sottili: si
sarebbe detto che anche a lei, in quella camera lontana, una nuova lenta
paura soffocasse il dolore di un ultimo abbandono.

--Non volete dunque ascoltarmi? Abbiamo appena cominciato a
parlarci,--disse la signora Cesarina con accento severo.

--Ma Tina!

Questa si rivolse alla mamma, che aveva quasi gridato, e vide nei suoi
occhi lo stesso suo smarrimento.

--Sì, sì,--rispose con una ultima stretta, rivolgendosi dall'uscio.

Quando fu uscita, la signora Veronica si affrettò a dire:

--È lei che mi quieta sempre la piccina.

                                 *
                                * *

La mamma le aveva detto:

--Ci daranno cento franchi, sei contenta?

Questa cifra, che a Tina parve grossa, non le aveva però prodotta alcuna
eccitazione; invece la sua fantasia era rimasta sbigottita da un'altra
domanda:

--Chi sarà dunque?

Chi era l'uomo, che senza averla mai vista, potrebbe entrare per il
primo nella sua vita come in uno dei tanti luoghi pubblici? Era giovane?
vecchio?

Adesso nessuno le era più abbastanza straniero per poterlo respingere,
ma quella sensazione di avvilimento, quando la prima volta si era
trovata sola nella casa delle due zitellone, le ritornava più profonda e
più fredda. Anche allora si era accorta di essere trattata come
qualcuno, al quale non si deve nulla. Si ricordava che una mattina,
uscendo dalla chiesa, aveva veduto un grosso cane avventarsi contro un
bambino solo nel mezzo della strada; ella si era gittata coraggiosamente
innanzi a salvare il piccino, ma nessuno aveva poi pensato a
ringraziarla. Invece le due zitellone si erano intenerite pel bambino
troppo piccolo per aver capito o sentito nulla.

E il suo pensiero, simile ai ciechi, che camminando sembrano prima
tentare la via coll'istinto, deviava davanti alla nuova difficoltà: non
voleva vedere ancora, tremava d'immaginarsi la faccia di quello
sconosciuto. Invece dal cuore le saliva quasi una compiacenza amara e
sottile di questa immolazione ad un uomo, che non si sarebbe nemmeno
ricordato di lei: quindi si sottometteva senza lagnarsi con quella
ironia muta dei poveri contro il destino. A che prò questo trionfo sulla
loro miseria? Questa ingiustizia di offrire tutta una vita alla golosità
di un vizio forse vecchio?

Pensava.

--Mi domanderà chi sono, e quando gli avrò detto che mi capita di fare
così per la mamma, tutto finirà come se non avessi parlato. Egli non
farà come l'altro.

E quella pallida, alta figura le riappariva nell'ombra della camera,
davanti al letto immerso nelle tenebre. Tina s'incantò a guardarla: le
parve di vedere ancora la stessa tenerezza ne' suoi occhi così accesi, e
quello stesso fremito nella sua bocca di giovane, sotto i baffi appena
nati, mentre la signora Cesarina aveva invece parlato di un signore
molto rispettabile, capace di farle del bene. Erano le sue parole colla
mamma, e Tina rimeditandole ne sentiva ancora una volta il peso sotto
l'accento duro, autorevole. Nessuno doveva sapere dell'avventura; era un
capriccio, come possono averne i signori, del quale bisognava profittare
come di una buona fortuna.

                                 *
                                * *

Poi si ricordò che un giorno in campagna aveva veduto morire una
gallinella.

Erano passati degli anni, ma improvvisamente rivide come dentro un
quadro pieno di sole quella scena, che al suo cuore di fanciulla aveva
fatto una così dolorosa impressione. Ella era uscita colla massaia sul
prato del podere a mezza costa di Monte Ricco fra una verzura di oliveti
e di gelsi: i grani biondeggiavano piegandosi indolentemente sotto
l'alito di uno scirocco caldo, e anche adesso le pareva di riconoscere
la scena sotto il cielo lucente, colle ville bianche, che in lontananza
coronavano i poggi tra file immobili di cipressi.

Avevano finito di pranzare; la mamma era rimasta sonnecchiando coi
gomiti sulla tavola; Matteo, il contadino, andava e veniva dalla stalla
alla cucina, e i due bambini erano scomparsi.

Tina seduta sull'erba del prato accanto alla massaia guardava giù verso
il rio nascosto, che serpeggiava nella valle.

Improvvisamente un pigolìo rotto da strida tormentose la distrasse. Era
una torma di pollastrelli, che inseguivano una piccola gallina zoppa,
dalla cresta appena simile ad una riga di sangue sulla testina tutta
bianca, ma un'ala rotta e mezzo aperta le strisciava sul terreno,
diventando più grande che tutto il resto del suo corpo. La chioccia,
grossa e rossastra, colla cresta ricurva, che le batteva sopra un
occhio, era rimasta un po' indietro dalla torma così stridula ed
accanita contro quella piccola sorella ferita chi sa da chi. Si
distinguevano i galletti dalle gallinelle agli occhietti di fiamma e
alla cattiveria, che la paura e lo spasimo della perseguitata rendevano
impaziente. Che cosa era accaduto? Ella pensò che si disputassero
qualche cosa, ma non vide nulla. La gallinella tentava di fuggire col
becco aperto, strascinandosi dietro l'ala e la zampa rotta per riparare
dentro gli spini della siepe, che circondava il campo sulla strada; però
doveva attraversare una larga terra piantata di formentone e di
fagiuoli. Tina tremò che non vi arrivasse; poi non si sarebbero cacciati
anche gli altri fra la siepe? Come la sua zampa e la sua ala ammalata vi
avrebbero potuto penetrare?

La chioccia si era fermata beccando le larghe foglie di un'erba, che
aveva un fiorellino giallo sopra il gambo sottile, senza accorgersi di
quella scena.

Tina vide la gallinella cadere due o tre volte incespicando nei gambi
dei fagiuoli, e quindi sparire sotto tutte quelle zampe e quei becchi
furiosi.

--Perchè fanno così?--chiese con le lagrime agli occhi, tirando la
massaia pel grembiale.

--È la sciancatella: giovedì nella strada le passò sopra una ruota di
baroccino; non è più buona a nulla.

--L'ammazzeranno.

--I pollastrelli sono vivaci, bambina mia,--rispose la massaia
sorridendo.

Ella invece si era alzata ai lamenti, che salivano da quel tumulto fra
il verde dei fagiuoli e del formentone. Non si vedeva più nulla:
galletti e gallinelle si pestavano l'un l'altro cacciando innanzi il
becco, si saltavano sul dosso e ne scivolavano fra nuovi scoppi di
collera: due galletti si battevano già coi petti tentando di ferirsi
sulla testa.

Subitamente la sciancatella sbucò di sotto a quella rissa riprendendo la
corsa verso la siepe come se una forza nuova la spingesse; ad ogni moto
si vedeva la zampa rotta torcersi nello sforzo di stringere qualche cosa
fra le dita per spiccare lo slancio, e invece restava più indietro
dell'ala mezzo aperta come un ventaglio dalle stecche fracassate. Ma gli
altri la inseguivano senza requie: un galletto bianco, colla cresta
rossa, dentata, che spiccava vivamente su tutto il suo candore, le
correva a fianco per fermarle colle zampe l'ala ferita, mentre col becco
s'ingegnava di colpirla nel collo.

Ma l'altra non si fermava; oramai era a pochi passi dalla siepe. Con uno
sforzo disperato vi cacciò la testa, e allora tutti le furono nuovamente
addosso; l'ala rotta non poteva entrare nel vano, nè coprire il piede
ferito, che vi rimaneva dietro, disteso come morto. Tina stentò a
frenare un grido. L'aveva creduta quasi salva e invece si era perduta
irresistibilmente. Poi quella furia si stancò, alcune gallinelle si
sbandarono, la chioccia alzando la testa gittò due o tre appelli
gutturali: soltanto un gruppo più accanito percoteva ancora coi becchi,
specialmente quel galletto bianco, che voleva a ogni costo montarle sul
dosso e sembrava impazzire nella collera di non riuscirvi. Gli altri si
ritraevano già lentamente, minacciandosi fra loro. Si udiva la
sciancatella stridere, perchè adesso le beccavano il piede senza che
potesse nemmeno nasconderlo sotto l'ala, che il galletto bianco le
schiacciava con tutto il proprio peso. Uno spasimo le contorceva il
collo, mentre colla testa dentro il viluppo degli spini tentava di
spingersi più avanti, ma le forze le mancarono e col becco aperto non
mise più che un rantolo lungo di agonia.

Tina era sempre in piedi.

Il suo piccolo cuore si sentiva gelare nello spettacolo di quel lento
assassinio; avrebbe voluto tirare daccapo la massaia pel grembiale; ma
il suo viso calmo, immobile in un altro pensiero, le metteva quasi
paura.

Allora fece qualche passo per discendere nel campo, poi si arrestò ad un
moto dell'altra: come rispondere se questa le avesse domandato che cosa
voleva? Tina stessa non lo sapeva.

Uno strido più acuto la ferì e vide il galletto bianco indietreggiare,
mentre l'ala si celava tra gli spini. La fanciulla si portò ambo le mani
alla bocca dalla contentezza. Ma anche il galletto si era cacciato nello
stesso vano.

Nuovamente la testa della sciancatella sbucò dalla siepe: voleva fuggire
pel campo cercando qualche ricovero più sicuro, gli spini tremavano e
oramai tutto il collo ne era fuori, quando un altro galletto rosso vi
saltò sopra. Tina scorse quella testa fra due zampe con un'altra testa,
che le batteva sopra oscillando. Chiuse gli occhi.

Dopo su quella testa vide il galletto bianco beccare dentro il buco
vuoto dell'occhio; la testa si muoveva ancora, ma non strideva più.

                                 *
                                * *

La mattina sulle dieci, quando Tina ebbe finito di vestirsi, sentì una
improvvisa debolezza; la mamma e la signora Veronica se ne accorsero.

--Che cosa hai?--quella chiese.

Ma la ragazza non avrebbe saputo dirlo.

La signora Veronica le aveva prestato una delle sue camice, una gonna e
un paio di calze bianche, la signora Cesarina aveva mandato un paio di
stivalini suoi, quasi nuovi, con un abito della serva, di lanetta blu; e
però Tina non pareva più la stessa.

Silenziosamente si era lasciata pettinare e vestire. Il suo pensiero
vagava, sebbene nulla le sfuggisse di quei particolari, nei quali le due
donne mettevano un'attenzione passionata, mentre alla signora Veronica
gli occhi si accendevano di strane fosforescenze e il suo accento pareva
indugiare su certe parole.

Ma nel vederla impallidire disse:

--Ho capito; manca un'ora, è meglio che la passiate aspettando dalla
signora Cesarina.

--Perchè non ci accompagnate anche voi?

--Non conviene; anzi Tina dovrebbe andare sola.

La ragazza tremò.

--Ma siccome è troppo agitata, l'accompagnerete voi. Io vi aspetto qui
preparando la colazione.

Tuttavia qualche cosa le aveva già divise, adesso che tutti i
preparativi erano finiti. Invece di sorridere sembravano prese da una
specie d'imbarazzo; la signora Adelaide si era voltata alla finestra,
Tina soccombendo ad una debolezza di ammalata guardava con occhi atoni.
La sua anima, prostrata sotto il peso dell'irrevocabile, ne perdeva a
poco a poco anche la paura, ultima ribellione dell'istinto.

Infatti non pensava quasi più nulla di quanto si era figurato nella
notte.

Quel primo, profondo mutamento della donna, dopo il quale nessuna
riconosce più se stessa, si era in lei compiuto indossando quegli abiti
di un'altra donna, che avevano forse servito più volte al medesimo
scopo.

Dov'era? Dove andava?

Anche la mamma non era più la stessa.

La fanciulla n'ebbe una sensazione così acuta che si voltò; ma la
signora Adelaide, già vestita con una gonna e uno scialle della signora
Veronica, andò allo specchio per accomodarsi il fazzoletto sulla testa:
Tina pure vi tornò per l'ultima volta. Era pallidissima, con una
fisonomia quasi impietrita: nullameno si accorse d'essere bella.

Partirono. Nella stanza deserta non rimaneva più nulla di loro, che
andavano avanti.

                                 *
                                * *

Per la strada nessuno le guardava.

Tina ne provò una oppressione anche maggiore. La sua piccola testa era
sconvolta; a certi momenti le pareva persino impossibile di essere
uscita per andare in casa di quella donna, che conosceva appena, e che
aveva promesso cento lire. Come mai gli uomini avevano simili capricci
per una ragazza sconosciuta, sapendo che dinanzi a loro non può che
tremare di paura e di ripugnanza? Per cento lire ella non sarebbe più
stata come prima, senza che questo fosse nemmeno un sacrifizio, poichè
non se ne sentiva dentro l'orgoglio doloroso. Anzi una inesprimibile
vergogna le faceva anticipatamente abbassare la testa pensando a quel
signore, che nel guardarla doveva subito giudicare se con lei cento
franchi fossero spesi abbastanza bene. Quindi temeva di scoppiare in
pianto come la sera precedente, nell'istante supremo, sotto l'impeto di
uno spasimo irresistibile.

Nella strada illuminata da un bel sole la folla passava senza badare a
quelle due donne, che camminavano frettolose. Tina invece guardava nel
viso alle ragazze, quasi desiderando che qualcuna potesse leggerle negli
occhi e rispondere con uno di quei sorrisi, che non mancano nemmeno ai
poveri nelle loro lunghe ed inutili questue. Ma l'indifferenza della
gente le faceva male. E pensava: se mi gettassi ginocchioni nel mezzo
della strada per dire tutto singhiozzando, la gente si metterebbe a
ridere: infatti che cosa avrebbero potuto farci? Stava a lei di
resistere con tutte le forze dell'anima: la mamma, che adesso camminava
a testa bassa, non aveva insistito, nessuno le aveva usato violenza. Non
erano stati nemmeno consigli, ma semplici osservazioni, parole dolenti
di esperienza, alle quali rispondevano parole anche più tristi nel suo
cuore: non l'avevano ingannata, non si era ingannata; dopo quella
mattina comincerebbe per lei un'altra vita, e la signora Cesarina le
comanderebbe sopra ben più che la mamma.

Poi la cosa si saprebbe e bisognerebbe forse mutare di casa in casa per
andare chi sa dove; chi era l'uomo, che finirebbe col prenderla con sè?
Questo sogno della mamma poteva bene avverarsi, ma era ancora così
oscuro che le dava una nuova paura.

Tuttavia non le veniva nessuna voglia di resistere, anzi una reazione
del sangue giovane le fece rialzare la testa; guardò la madre, guardò in
aria. La gioia della primavera rideva dappertutto; sull'acqua del fiume
la luce sfolgorava come da un cristallo; sulle lance dorate di un lungo
cancello nero dinanzi ad un palazzo nuovo si accendevano baleni.
Passavano molte carrozze, signore e signori felici, eleganti; vagavano
sentori di profumeria, voci di ragazzi schiamazzavano.

--Quanto staremo là?--chiese improvvisamente alla mamma, come se
andassero ad una visita ordinaria.

--Non so,--questa rispose stupita della domanda.

Ma Tina sentiva un nuovo bisogno di parlare.

Una signora bellissima, tutta vestita di nero con una piuma rossa sul
cappello, alta, pallida, passò loro vicina senza guardare: molta gente
si rivolgeva dietro di lei; poi Tina vide un vecchio mendicante tenderle
la mano da lungi. Quella signora doveva essere ricchissima: vi era una
sicurezza così orgogliosa nella sua figura che la fanciulla ne provò un
avvilimento: infatti ella non avrebbe mai saputo, comunque la fortuna
potesse aiutarla, passare a quel modo fra la gente. Aveva veduto il suo
volto bianco, impassibile, come se la strada dinanzi fosse vuota.

Erano giunte sul ponte alla Carraia: il sole scottava, la mamma allentò
il passo per asciugarsi il sudore sotto quel fazzolettone, ma era
pallidissima.

Allora Tina pensò che avrebbe fatto meglio ad andare sola, mentre così
era una disgrazia, che le colpiva tutte due insieme come avevano sempre
vissuto. Però quella necessità di vivere in un modo in un altro non si
poteva più discutere. Colpa di chi, se non ve n'era uno migliore? Era
forse colpa di Bettina se era stata sempre ammalata? La gente ha un bel
dire quando pretende che non si facciano certe cose, quasi che si
potesse davvero non farle.

--Andiamo, andiamo,--disse la mamma--come indovinando in lei questi
pensieri.

--Sei tu adesso che stai male.

--No.

--Se ti vedessi nella faccia! sei verde.

--Toh!--proruppe toccandole il gomito per mostrarle un'altra signora,
che veniva loro incontro.--Questa la conosco,--seguitò abbassando la
voce;--una volta faceva la cameriera con l'Adelaide Tessero, la famosa
prima attrice, e adesso è la mantenuta dell'avvocato Crespi. Guarda come
è ben messa.

Ma per paura di essere riconosciuta sotto quei poveri panni volse la
testa verso Tina: la ragazza invece guardava. La signora non era bella e
nemmeno più giovane, con una di quelle arie superbe che sembrano voler
significare, magari inutilmente, il disprezzo verso la povera gente.

La mamma si era voltata ad esaminarla per di dietro.

--E dire che fui io a farla entrare come cameriera in casa dell'Adelaide
Tessero: senza di me forse non avrebbe fatto fortuna. Ci vuole testa,
Tina, specialmente in principio.

--Perchè dunque mi conduci là?--fu quasi per prorompere la ragazza.

Svoltavano già all'angolo dell'ultima strada.

Tacquero.

                                 *
                                * *

La signora Cesarina le accolse col solito sorriso importante.

Esaminò subito Tina e si compiacque che l'abito le andasse abbastanza
bene: anche la serva, che pareva una ragazza nella fisonomia, ne
convenne, ma la sua voce era fessa e negli occhi verdastri le brillava
una luce fredda.

Poi rientrò nella cucina.

Le tre donne rimasero nel salotto. Tina si aspettava un nuovo discorso;
invece la signora Cesarina si mise a parlare con la mamma delle spese
sempre più grosse pel mantenimento della casa.

--Vedete la mia; ora ve la mostrerò, non è gran cosa,--ma si sentiva
nell'accento delle parole una compiacenza orgogliosa,--e mi costa un
occhio. Non tengo che quella serva, la quale fa anche la cucina per
bene, se qualche volta capita ad un signore di volere cenare qui. Se vi
dicessi la cifra della pigione, rabbrividereste, perchè questa strada
non è poi delle prime.

--Però è una bella strada,--si credette in dovere di contraddire la
mamma.

--Sì, sì; questo appartamento in via Calzaioli o in via Cerretani
costerebbe chi sa quanto. Ma è un fatto che bisogna avere una casa
passabile, e così accade anche per i vestiti. Io ho una sarta, brava
donna, che lavora per poco:--e i suoi occhi si volsero a Tina:--ve la
insegnerò.

La mamma ebbe un sospiro pensando ai propri tempi belli, mentre Tina
invece avrebbe voluto domandare il nome del signore, che attendevano; ma
non l'osava. La signora Cesarina in quell'ampia veste da camera, color
di edera morta e orlata di blonde rossigne, le imponeva un rispetto
quasi pauroso: il suo riserbo e la calcolata inutilità di quel discorso
aumentavano per lei l'incertezza della attesa.

--Venite, vi mostro l'appartamento.

Da quel salottino bislungo, nel quale non erano che un sofà, un tavolo e
altri due tavolini a muro con le specchiere, passarono subito in una
camera più bella. Un grande letto vi si allargava sotto un baldacchino,
nel cui mezzo uno specchio rettangolare s'inchinava fasciato da una
larga striscia di fiori, e altri fiori erano dipinti in alto sulla
lastra. Tutti i mobili erano biancastri. Tina camminava adagio sul
tappeto grigio, lanoso; ma stupì maggiormente nello scorgere un altro
specchio nascosto sotto il cielo del baldacchino.

--Questa coperta bisogna levarla, perchè si sciuperebbe,--disse la
signora Cesarina--sollevandone con ambo le mani un lembo per mostrare
loro la ricchezza della frangia.--Guardate come la coperta è ampia,
tocca quasi il tappeto.

Tutte e tre indugiavano dinanzi a quell'immenso letto bianco: anche la
camera era quasi troppo grande, piena di un silenzio e di una penombra
che turbavano.

--Ho messo le tende anche alle porte perchè non si odano rumori: quelle
delle finestre sono doppie. Invece entrate in questa camera più modesta,
è la mia.

--Ma è bella altrettanto!--esclamò la signora Adelaide.

--Che cosa dite? I mobili sono di noce e il letto per una persona sola.
Io vivo a me, non ho nessuno. Ecco, quell'uscio mette nel corridoio
d'ingresso: se qualcuno non vuol essere veduto, invece di entrare nel
salotto, passa per la mia camera. Quella porta in fondo è della cucina.

Compirono il giro tornando nel salotto.

Appena dentro, la signora Cesarina si fermò dinanzi alla ragazza per
accomodarle sul petto una piega.

--Potreste comprare questo abito, che vi sta alla perfezione, e anche le
scarpe, sapete? Il vostro piede è quasi piccolo quanto il mio,--seguitò
sporgendolo dalla veste:--vediamo, confrontiamo. Queste scarpe le ho
messe soltanto due volte, ve le posso cedere per dodici lire, un vero
regalo. L'abito ne costa cinquanta, ma per voi, piccina, giacchè ho
preso a proteggervi, dirò a Tuda di fare un sacrificio. Ve lo cederà, è
capricciosa; adesso l'abito non le piace più.

La mamma capiva benissimo che simili prezzi erano esagerati, ma non
voleva contraddire e sbirciò Tina; questa anche più imbarazzata aveva
abbassato gli occhi.

--Non sarete sempre così, figlia mia?--disse la signora Cesarina
facendole una carezza sotto il mento:--non sareste divertente. Bisogna
essere allegre almeno nella gioventù, se no gli uomini si disgustano:
dite dunque qualche cosa; non avete ancora aperto bocca.

--Che cosa debbo dire?--domandò Tina con voce grossa di una emozione
dolorosa, che l'altra finse di non avvertire.

Il momento si avvicinava.

Nel gabinetto il silenzio diventava greve. Malgrado la lunga pratica,
anche la signora Cesarina cominciava ad essere imbarazzata dal contegno
umile e dolente delle due donne: per solito non accadeva così. I suoi
occhietti neri andavano dal viso dell'una a quello dell'altra senza che
sulla sua faccia magra ed impenetrabile apparisse nulla, ma il suo
giudizio su loro era già formato. Quindi, per evitare che questa
goffaggine calasse ancora di tono preparando qualche spiacevole
incidente, tentò di far parlare la ragazza chiedendole delle sue amiche.

--Ma non ne ho.

--Nessuna?

--Nessuna.

--Da molti anni,--intervenne la mamma col suo accento
strascicato,--viviamo così ritirate che io stessa ho perduto di vista
tutti i miei conoscenti.

--Ebbene, avete fatto male. Io vi procurerò delle relazioni, se mi
darete retta: non sarete le prime donne alle quali ho aperto la strada
della fortuna. Ma bisogna lasciarsi guidare e non commettere
balordaggini, specialmente in principio.

--Quello che dico sempre io.

Tina alzò la testa.

--Ma avrete fiducia in me?--seguitò la signora Cesarina.

--Sì.

--State dunque allegra; diavolo! si direbbe che vi faccia male un dente
e che aspettiate qui il dentista.

Il motto era così bizzarro e lo scatto delle parole così vivo, che le
due donne dovettero sorridere.

Ma un rumore sommesso arrivò nel salotto. Tacquero; la signora Cesarina
si alzò e poco dopo la faccia scialba della serva apparve alla porta
senza dir nulla.

La signora Cesarina uscì.

Appena sole, le due donne si guardarono tremando. Tina era diventata
orribilmente pallida, si sentiva attanagliare lo stomaco, ma fece uno
sforzo supremo per resistere, perchè questa volta era decisa; la madre
glielo lesse negli occhi senza osare di dirle nulla. Adesso era lei che
dubitava: dopo quella grande giornata del pranzo, in quel salotto quasi
ricco, davanti a Tina ben vestita, non provava più quella oppressione
continua e soffocante della miseria. Come se fosse tornata ai tempi
buoni, il suo orgoglio e il suo affetto si ribellavano improvvisamente
alla violazione segreta della figlia, al sacrificio di tutto il suo
avvenire, senza sapere nemmeno il nome dell'uomo cui doveva abbandonarla
nella disperazione della morte. Ella le vedeva infatti sul volto tutti
gli sforzi, coi quali tentava di resistere, e che le rompevano senza
dubbio qualche cosa dentro.

La ragazza si portò una mano al cuore, ma la sua testa era ancora alta,
fremente.

La signora Cesarina rientrò.

Capì, ed affrettandosi per timore di uno scoppio, le prese
carezzevolmente la mano:

--È venuto,--sussurrò.

--Chi è?--chiese la mamma.

--Non bisogna farlo aspettare: con le persone come lui non sarebbe bene,
quantunque sia molto buono. L'accompagnerò io di là; voi non potreste
mostrarvi così vestita. Venite eh!

Tina si scosse, ma i suoi occhi non sapevano staccarsi dalla madre: una
fiamma vi bruciava e pareva salirle su per la fronte come da un altare
di marmo; non disse parola: era così bella in quel momento che anche la
signora Cesarina ne rimase colpita.

La mamma abbassò la testa.

--Andiamo.

La ragazza ubbidì, ma la signora Cesarina le si mise dietro quasi per
impedirle di arrestarsi; poi aperse l'uscio e rinchiuse.

La mamma con la faccia sconvolta corse a cercare il buco della serratura
senza ricordarsi che dall'altro lato la porta aveva una pesante tenda di
iuta.

                                 *
                                * *

Passò del tempo.

Ella non osava sedersi: involontariamente il suo orecchio si tendeva a
cogliere un qualche rumore da quella camera, mentre il silenzio intorno
diveniva più opprimente e nel fondo dell'anima una nuova paura, come di
una disgrazia nuova, la faceva tremare con dei brividi simili a quelli
della febbre. Non era stato così la sera innanzi quando quel signore
stava con Tina nella cucina. Adesso la sua ripugnanza di donna debole si
rivoltava finalmente contro quel mistero, del quale la signora Cesarina
sembrava quasi compiacersi: ella non si aspettava a questo. Aveva
creduto di poter parlare, difendendo la propria figlia perchè almeno
fosse trattata bene, e invece non aveva visto nulla, non sapeva nulla:
chi era dunque quel signore? Perchè non voleva farsi vedere? Era un
mostro?

Certo doveva essere un signore se poteva gettare così cento lire, ma
anche di queste ella ignorava la propria parte. Istintivamente capiva
che la signora Cesarina si farebbe pagare ben caro il nolo delle
scarpine e dell'abito; poi vorrebbe qualche altra cosa per sè. Quanto?

Vi pensava ancora, quando la signora Cesarina entrò dall'altra porta del
salotto silenziosamente, chiamandola con un gesto.

--Sedete, dobbiamo parlare,--disse a bassa voce.

Il suo volto era diventato più freddo.

--D'ora innanzi, lo capite voi, la ragazza non può andare così mal
vestita: non parlo di me, ma nessuna altra casa inferiore alla mia
l'accoglierebbe. Vi ho già detto che fareste bene a comprarle l'abito
della mia serva e quelle scarpine, ma siccome è la prima volta che
trattiamo insieme, non voglio che mi prendiate per quella che non sono.
Così ho chiesto alla serva che cosa esige per il prestito dell'abito e
l'ho trovata di buona vena; si contenta di dieci lire. Quanto alle
scarpe, capirete che io non posso rimetterle più, e dovete comprarle: ve
le do per dieci lire; vi pare troppo?--s'interruppe imbarazzata dal
silenzio e dalla immobilità dell'altra:--Ma perchè non sedete? C'è
tempo.

La signora Adelaide sedette, ma i suoi orecchi erano sempre tesi verso
l'altra camera.

--Chi è quel signore?

--Oh! un vero signore. Andate: ho procurato a vostra figlia un'ottima
relazione, se saprà coltivarla mostrandosi docile. Di questo anzi dovete
persuaderla voi, perchè le ragazze non capiscono quasi mai l'importanza
di certe cose, e allora tutti i sacrifici tornano inutili.

--Purchè la tratti bene: Tina è una eccellente ragazza.

--È troppo fredda; la gente invece vuole divertirsi.

La verità di questa osservazione le fece passare un fremito nel sangue;
tuttavia tentò di resistere.

--Anzi il suo carattere sarebbe allegro, ma in certe condizioni si
finisce facilmente coll'avvilirsi. La vedrete se potrà rifiorire. Io non
vorrei però che si abbandonasse troppo: ecco perchè vi domando se quel
signore...

--Che cosa volete dire?

--Se si innamorasse,--seguitò l'altra con visibile sforzo,--potrebbe
mantenerla?

--Oh! come correte,--ribattè la signora Cesarina con un riso secco.

Allora l'altra capì lo sproposito di quelle parole: come mai le erano
sfuggite, sapendo che l'interesse della signora Cesarina sarebbe stato
appunto nell'impedire a Tina una simile fortuna? Aveva avuto torto
un'altra volta, non sapeva parlare. Il contegno di quella donna
l'umiliava togliendole persino quanto le era rimasto della sua
educazione di altri tempi; nondimeno volle reagire.

--Bene, vedremo.

Le pareva che fosse già trascorso molto tempo. La signora Cesarina si
alzò.

--Aspetto altre persone: se verranno, vi farò passare nella cucina.

Ma udirono uno strido lungo, acuto.

La mamma impallidì, istintivamente fece un passo verso la porta di
quella camera mentre gli occhi le si empivano di una nebbia umida.

--Venite in cucina,--l'altra disse.

--Perchè?--rispose quasi fieramente.

--Restate qui se volete, finchè non arrivino le persone che aspetto.

--Non verranno già per Tina?

La signora Cesarina ebbe un sorriso.

--Troppo, troppo! Potrebbero forse vederla, però se non volete...

--Aspetto di potermela ricondurre a casa.

L'altra uscì.

--Mio Dio!--mormorò la signora Adelaide quasi singhiozzando; ma anche
questa invocazione la turbò come se non avesse più diritto a così grande
parola:--Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto!

Qualche cosa aveva ferito anche lei senza che sentisse bene dove, ma le
venivano meno le forze, mentre una luce gelata, quasi d'inverno, le
cresceva dentro; e si ricordò di avere un'altra volta atteso così
all'uscio della mamma ammalata che il medico ne uscisse per pronunciare
la sentenza di morte. Anche allora aveva tremato, poi rivedendo la mamma
non le era sembrata più la stessa.

Si lasciò cadere sopra una sedia.

Il silenzio era diventato più profondo nel salotto: il pavimento di
mattoni rossi aveva dei luccicori sanguigni, quantunque le tende
impedissero al sole d'entrare dalla strada.

Chi aspettava dunque ancora la signora Cesarina?

                                 *
                                * *

Quando Tina lo vide alzare la tenda della porta, che dava nel salotto,
tornò indietro per fuggire: le sue scarpine non scricchiolarono sul
tappeto, girò la maniglia dell'usciolo, e dal corridoio si precipitò
alla porta.

--Dove andate?--le gridò la signora Cesarina uscendo dalla cucina.

Ma l'altra scendeva già a furia le scale, e non si fermò che in mezzo
alla via come dinanzi alla sensazione improvvisa della propria
stravaganza.

Era mezzogiorno, per la strada passava poca gente.

Riprese la corsa. Il cuore le batteva contro il petto come un batacchio
di campana, del quale ogni colpo la scrollasse, ma nè le vesti, nè il
volto tradivano il profondo sconvolgimento del suo spirito. Infatti
aveva potuto rivestirsi in fretta, con una precisione quasi
inconsapevole, prima ancora che l'altro finisse di ricomporsi allo
specchio. Per due volte si era accorta di rispondergli senza intendere
il significato delle sue parole, perchè dentro le cresceva simile ad una
vampa quella voglia di fuggire per essere finalmente sola in qualche
luogo. Le mani le tremavano. Sentiva di essere spettinata, ma non se ne
preoccupò: temeva solamente di dover tornare con lui nel salotto a
parlare con la mamma e con la signora Cesarina.

Quindi era fuggita senza che gli altri potessero indovinarne la
ragione.

In quel giorno e in quell'ora le strade erano piene di gente uscita a
rallegrarsi nella gioia del sole, ma nessuno fra tanti le verrebbe
incontro per chiederle che cosa avesse o per offrirle la propria casa
come un rifugio.

Nondimeno aveva bisogno di fuggire.

Curva, col ventre quasi rattrappito da uno spasimo, che tratto tratto la
faceva incespicare nelle sottane, la fanciulla si affrettava. La sua
faccia smorta di un pallore di cenere, che qualcuno le avesse soffiato
sino dentro agli occhi, si era irrigidita, mentre dalla bocca semiaperta
pareva uscirle un'ombra come in certi ritratti. Senza saperne il motivo
aveva già svoltato a sinistra per una strada anche meno affollata; il
sole vi batteva nel mezzo, l'aria era fervida. Ella invece si vedeva
passare la gente accanto quasi in un sogno di ombre che la spingessero
silenziosamente dileguando per un crepuscolo; poi un soffio caldo le
battè improvvisamente sulla faccia e qualche cosa le fece chiudere gli
occhi, giacchè uno spavento le era rimasto nelle carni. Una carrozza,
che veniva al trotto di due grandi cavalli bai, le fu quasi sopra allo
sbocco di una piazzetta, mentre ferma nel mezzo si tastava con ambo le
mani sui fianchi: che cosa aveva perduto? Il cocchiere gettò un urlo, un
signore si sporse dallo sportello, ma Tina si era appena voltata senza
muoversi, con quella tragica indifferenza alla quale è impossibile
ingannarsi.

Infatti una vecchia le si accostò.

--Che cosa avete?--le chiese.

La fanciulla tremò, cercandosi intorno cogli occhi; la piazzetta era
vuota e silenziosa. Un suono di martelli veniva da una bottega, in alto
da una finestra sventolava un largo drappo bianco: ella non sentì
altro, ma la vecchia la scrutava nel volto e negli abiti con la acuta
prontezza delle donne quando sospettano un dramma.

Quindi soggiunse:

--Vi deve essere accaduto qualche cosa.

Allora Tina la vide finalmente dentro uno di quei bagliori, che
penetrano sino al fondo dello spirito: la vecchia era sdentata, coi
pomelli scarlatti. Un ciuffo di capelli bianchi le usciva di sotto il
fazzoletto, e dagli occhi rotondi, acuti, un raggio sprizzava come da
due punti neri.

Tina aveva capito benissimo, ma non avrebbe potuto rispondere che col
nome del vicolo ove abitava: perchè? Non lo sapeva, eppure ripetè quel
nome mentalmente due o tre volte.

Poi vedendo venire un prete alto, magro, cogli occhiali a stanghetta
troppo bassi sul naso, ebbe daccapo paura e si mosse a destra verso una
strada, che aveva riconosciuta. La vecchia invece rimase qualche secondo
a guardarle dietro, quindi scosse il capo sbozzando uno di quei sorrisi
incerti, coi quali spesso una curiosità si stacca da un enigma
incontrato a caso per la via.

Ma la fanciulla era sfinita. Adesso quello spasimo sotto il ventre le si
acuiva diffondendosi come da una scottatura, sulla quale piovessero
dritti e sottili una infinità di spilli, e le gambe le vacillavano in un
improvviso esaurimento.

Infatti non aveva voluto mangiare nulla a casa, malgrado le istanze
della signora Veronica, che per fargli inghiottire un caffè col latte
citava persino le larghe colazioni e i pranzi di nozze, prima che gli
sposi rimangano soli. Poi le troppe emozioni di quella crisi avevano
finito col renderla davvero ammalata.

Nuovamente quel freddo le soffiava lunghi brividi nel sangue sotto il
sole, che non potevano più riscaldarla, mentre gli occhi torbidi
cercavano istintivamente un luogo ove fermarsi nascosta a tutti per
potere almeno appoggiare la testa. Se fosse stata in campagna, si
sarebbe gittata sull'erba; ma si accorgeva invece di essere stretta fra
due file di case, dalle finestre delle quali tratto tratto le apparivano
volti di donne e di fanciulli.

Molte porte erano aperte e le botteghe si perdevano oscure dietro i
vetri luminosi. Più innanzi, mentre passava un'altra carrozza, vide sul
marciapiede un tavolino da caffè con due sedie vuote, si arrestò, ma non
avrebbe potuto sedersi perchè non aveva un soldo in tasca; poi la sua
figura di fanciulla in quella condizione vi sarebbe stata subito notata.
Bastavano già la sua faccia e quel modo di camminare per attrarre
l'attenzione. Qualcuno si rivolgeva a guardarle dietro; altre occhiate
la seguivano dalla porta delle botteghe, sebbene si sforzasse di andare
come il solito rasente il muro per essere meno osservata, ma la
sfinitezza e quello spasimo, quello spasimo soprattutto, l'impedivano.

--Dove vado?--si chiese improvvisamente.

La mamma doveva essere uscita per correrle dietro, perchè alla fanciulla
pareva di avere molto corso dapprincipio; quindi l'aria e il sole
l'avevano a poco a poco calmata.

L'opacità de' suoi occhi si schiariva e la mente le si riordinava sotto
le sensazioni di quella strana fuga nella strada senza che alcuno la
inseguisse e senza sapere dove andasse, con quel vestito non suo. Ella
non era mai stata così. Si accorgeva di apparire un'altra con quella
gonna, che le pesava sui fianchi, e il respiro soffocato dal corsetto.

Una signora le passò rapidamente davanti, lasciando nell'aria una
striscia di profumo: si vedeva al passo che aveva fretta.

Allora Tina pensò che per tornare a casa le abbisognerebbe più di
un'ora. Come accade spesso, la crisi stava per risolversi in un ultimo
esaurimento, dal quale come in una visione di sogno le risaliva dinanzi
l'orribile scena di quella camera muta e sontuosa. Ella ne aveva subito
sentito il silenzio equivoco fra tutto quel candore perlaceo dei mobili
e quello specchio sotto il baldacchino del letto, simile ad una
finestra, che si aprisse nella sua ombra discreta sopra un chiarore di
lago lontano.

Per fortuna scorse una chiesetta fra due vecchie case: entrò.

La chiesa era vuota, silenziosa. Alcune file di panche arrivavano sino
quasi all'altar maggiore, ma la fanciulla non vi si mise frammezzo,
perchè la chiesa le pareva ancora grande. Nella sua luce troppo bianca
il silenzio era così profondo che ne aveva ricevuto subito come una
sensazione di rifugio. Poi v'intese muovere qualche cosa. Infatti scoprì
due vecchie dietro un pilastro a chiacchierare.

Un sagrestano in sottana azzurra a bottoni rossi sbucò di fianco
all'altar maggiore con un oggetto in mano, che ella non distinse, e si
fermò a guardarla.

Allora ebbe daccapo paura. Istintivamente si diresse a sinistra sotto
una navata piccola e bassa, piena di ombra nel fondo, e cadde sopra una
larga sedia di paglia, che aveva dinanzi l'inginocchiatoio.

Trepidando aveva udito echeggiare i propri passi, ma chiuse tosto gli
occhi davanti alla cappella sprofondata nel muro come una grotta, nella
quale ardevano due o tre lampade.

Era rimasta così con la testa appoggiata al muro, le mani strette sul
grembo in atto dolente.

Un torpore di sonno la tenne lungamente immobile. E adagio la sua testa
pallida si piegò sulla spalla destra, cogli occhi chiusi, la bocca
troppo aperta nello sforzo di respirare, mentre un sudore le bagnava
tutto il volto bianco in un freddo di agonia. Le mani le tremavano. Poco
dopo le due vecchie si alzarono per uscire, seguitando a chiacchierare
sotto voce, ma ella non intese il murmure delle loro parole, che nel
silenzio della chiesa sembrava quello di un'ala ostinata ai vetri di una
finestra: la porta cigolò e ricadde sopra un tonfo cupo.

Passò così del tempo senza che potesse addormentarsi davvero. La sua
ultima sensazione era stata quel lumicino verdastro davanti all'immagine
della Madonna Addolorata, biancheggiante sull'altare, con un mazzo di
spade lucenti nel cuore.

Poi in quell'angolo così lungi da tutto il mondo la sua anima risalì
un'altra volta dalle profondità senza fine dell'ombra, come certi fiori
a notte si rialzano dall'acqua alla pallida luce delle stelle. Una
rilassatezza molle le toglieva di sentire ancora quella prima angoscia,
quando era fuggita improvvisamente alle spalle di quell'uomo che non si
ricordava più di lei. Allora le era parso di correre quasi nel delirio
della morte verso un'altra ignota catastrofe: non si ricordava più della
mamma nè di Betta, che l'aspettava nel lettino forse piangendo. La sua
carne tremava tutta nello spasimo di una rivolta sotto la prepotenza
così misurata ed irresistibile di quell'uomo, giacchè aveva subito
rabbrividito davanti a lui, al suo viso rosso sopra un collo anche più
rosso e villoso, vedendolo andare silenziosamente verso l'attaccapanni
per levarsi la giacca.

Ritta nel mezzo ella guardava.

Era impossibile che dovesse accadere così. Il suo pensiero aveva avuto
dei trasalimenti di bambino nelle tenebre, e il sangue le si era gelato
istantaneamente al contatto delle mani pesanti, che la stringevano senza
lasciarle nemmeno la grazia di un ultimo ritardo.

E però non aveva parlato. Ma un odio subitaneo l'aveva invasa contro
quell'uomo calvo, col ventre che gli usciva dalle tracolle rosse. Perchè
non le aveva egli nemmeno chiesto come si chiamava? I suoi occhi lucidi
come quelli dei gatti la fissavano con tale acutezza che la fanciulla si
coperse la faccia con ambo le mani.

Così, rimanere almeno così!

Adesso tornava a tremare ricordando.

I suoi occhi, le sue mani, tutto aveva dovuto diversamente soffrire
prima di quello spasimo supremo, nel quale le era parso di morire,
mentre in alto la sua immagine nuda affogava dentro il lucido gorgo
dello specchio in una convulsione di agonia. Ma solamente allora le era
fuggito il grido acuto, disperato, come se un ferro rovente le
penetrasse nelle carni sino alle ultime vene, dove la vita si nasconde:
poi un velo torbido le era caduto sugli occhi, e l'anima stessa non
aveva visto più.

Lentamente, con un sospiro si allungò sulla grande sedia di paglia.

Stava sempre con la testa appoggiata al muro, gli occhi fisi alla
immagine dell'Addolorata in atteggiamento di preghiera, ma non aveva più
impeti di ripugnanza o di rivolta rivedendo ancora quell'uomo, già
lontano dalla sua vita simile ad un campo devastato dall'uragano.
Qualche cosa però le mancava dentro, che la rendeva dissimile, quasi
irriconoscibile a se medesima. Quel lumicino verdastro come certi
luccicori gemmei fra l'erba, quando la notte è più cupa, le incantava lo
sguardo; non vedeva ancora, non comprendeva bene dove fosse.

Forse qualche naufrago, gettato morente sul lido, nel riaprire gli occhi
alla vita la sentì così fra l'ultima furia della tempesta, mentre il
mare è confuso col cielo e nell'ombra il rombo dura monotono.

Alcuni passi echeggiarono nella chiesa, voci e parole si
avvicinavano: istintivamente, per non essere riconosciuta si piegò
sull'inginocchiatoio, nascondendo il volto fra le mani.

Erano tre donne e due uomini, che venivano appunto sotto quella navata
verso di lei.

La sua sensibilità si acuì istantaneamente come se un soffio violento le
dissipasse dall'anima ogni ombra, ma non potè resistere in tale
atteggiamento ai dolori che la riprendevano dentro i ginocchi e sotto le
reni.

Quello stesso sagrestano, in sottana azzurra a bottoni rossi,
accompagnava i visitatori. Allora Tina sbirciando fra le dita provò
un'altra volta l'impressione del suo sguardo e capì che le bisognava
uscire: fortunatamente essi si erano fermati dinanzi alla seconda
cappella.

La fanciulla si rialzò, guardò l'Addolorata senza che dal cuore nessuna
parola le salisse verso quella immagine di tutti i dolori femminili,
poi girò dietro il pilastro. Attraversando la chiesa ebbe ancora la
sensazione vaga di essere in un luogo straniero, che non poteva
appartenere ad alcuno: il suo silenzio, la sua luce erano come quella di
una strada vuota in una notte lunare: si è soli, ma se vi fermate,
sentite che è impossibile di restarvi.

                                 *
                                * *

Due ore dopo la mamma e la signora Veronica stavano silenziose intorno
al suo letto: la fanciulla teneva gli occhi chiusi nella faccia di un
pallore marmoreo.

Aveva le vesti in disordine; dal corsetto sbottonato le traspariva il
seno, e di sotto alle gonne le usciva una gamba con la calza bianca
increspata, perchè il legaccio era caduto.

La signora Veronica si chinò ad accarezzarle i capelli.

--Tina, sono le cinque: bisogna mettere qualche cosa nello stomaco,
bambina mia: alzatevi, non vi farà bene stare così, il letto
indebolisce.

La fanciulla si mosse appena.

--Ho fatto il brodo, ne volete una tazza?

--Come ti senti?--arrischiò timidamente la mamma, che avrebbe voluto
prenderle una mano.

Tina indovinò l'intenzione, ma il suo volto rimase muto, mentre i suoi
occhi diventati più grandi la guardavano pieni di una luce triste,
simile a quella di certi tramonti, quando un giorno senza sole sta per
cadere in una notte senza stelle.

--Levatevi, levatevi,--insistè l'altra.

Allora la mamma si accostò, e siccome la fanciulla fece uno sforzo per
sollevarsi dal cuscino ella le tese ambo le mani.

--Tina mia!

--Ecco una cosa che non va bene!--seguitò la signora Veronica, scontenta
della piega che stava per prendere la scena:--Come fate dunque voi altre
a piangere sempre, anche quando ve n'è meno bisogno?

Ma si erano già abbracciate: la mamma si stringeva sul petto la figlia
ritta presso la sponda del letto, coi piedi solamente nelle calze e la
testa abbandonata singhiozzando.

--Come stai? Come stai?--le ripeteva sommessamente la mamma, mentre la
signora Veronica cercava cogli occhi per la stanza le ciabatte della
fanciulla.

Finalmente esclamò:

--Vedete: dovevate spogliarvi, l'abito adesso si è tutto spiegazzato;
bisognerà stirarlo se avrete da uscire domani.

--Mamma!

--Lo so, lo so.

--Sto male.

--È cosa che passa.

--No, no.

L'altra non ardì insistere.

Poi la signora Veronica mise ella stessa le ciabatte nei piedi della
fanciulla, e la condussero nell'altra stanza ognuna per un braccio come
una ammalata. Volevano confortarla senza chiedere della scena avvenuta
in quella camera e come ne fosse fuggita perdendo quasi quattro ore, ma
la curiosità le sospingeva attraverso un imbarazzo non mai provato.

La fanciulla invece guardava con un senso di nuovo amaro stupore la
miseria della stanza, come se la visione di quell'altra con le grandi
tende doppie abbassate e i bianchi mobili, sorridenti in un silenzio di
sogno, che gli specchi sembravano prolungare in altre camere, le fosse
rimasta negli occhi.

E si accorgeva come per la prima volta di quello squallore.

Il suo cuore si strinse.

Ma nuovamente un impeto doloroso la sollevò, una negazione disperata di
quanto le era accaduto sotto le mani pesanti di quell'uomo, che se n'era
andato sorridente. Ella vedeva ancora il suo sorriso muto, più crudele
di qualunque parola, più lungo di uno sguardo.

--Ah!--esclamò, coprendosi gli occhi con le mani e scuotendovi dentro il
capo con ira tremante.

--Che cosa hai?

--Lasciatemi, siete voi che l'avete voluto.

--Di chi parli?

--Di quell'uomo; mai più, mai più!

--Vi ha forse trattato male?--chiese con accento di viva curiosità la
signora Veronica.

La fanciulla si volse come punta da uno spillo, ma la faccia grassa e
sorridente dell'altra le arrestò il grido della risposta.

Nondimeno la signora Veronica capì di dover uscire.

                                 *
                                * *

Entrambe avevano bisogno di parlare.

Benchè si sentissero divise per sempre, non avrebbero saputo resistere a
quel silenzio della loro nuova solitudine; Tina sospirò abbandonandosi
sulla sedia con una stanchezza di ammalata.

--Che cosa hai? Dimmelo.

Fra mamma e figlia l'intimità era sempre stata come fra due donne
diverse di età più che di grado, le quali si potevano dir tutto.

La signora Adelaide aspettò qualche momento.

--Dimmelo, Tina mia, che cosa hai? È una cosa che passa.

--No, no.

--Credimi, accade così a tutte.

--No,--ripetè ostinatamente la fanciulla.

L'altra si fece umile come dinanzi ad un rimprovero, sottomettendovisi
anticipatamente; attese che la fanciulla si sfogasse, ma invece le vide
gli occhi gonfiarsi nuovamente.

--Ho male, ho male,--disse finalmente Tina con accento smanioso:--Non ne
posso più. Dovevate dirmelo; perchè siete stata anche voi così ammalata,
lo siete anche adesso.

--Ma...

--Lo sapevate: ora non valgo più nulla, me ne sono accorta al modo che
mi ha trattata. Bisogna essere ben cattivi, anche tu sei stata cattiva
come lui. Lascia pure che tu mi abbia venduta,--seguitò con accento
stridulo e una fiamma negli occhi, che a volte a volte pareva quella di
un lucignolo presso a spegnersi, mentre una smorfia dolorosa le storceva
la bocca:--lascia che io non fossi niente nè per la signora Cesarina, nè
per lui; questo lo so anch'io, in simili casi è come quando si domanda
l'elemosina, peggio anzi, perchè allora vi è sempre qualcuno che ve la
fa senza offendervi. No, ma così era troppo. Egli rideva: io ho dovuto
fare... vedi, in quel momento mi parve di non capire più, ma adesso, se
fosse qui, gli sputerei in faccia.

La mamma abbassò la testa.

--Ti hanno pagata, non è vero? Adesso puoi essere contenta; vedi, se mi
avesse parlato prima, se mi avesse detto qualche cosa come quell'altro,
non so come avrei risposto, ma non doveva fare così, non fanno così
nemmeno i chirurghi all'ospedale con la povera gente, che ha paura.
Anch'io avevo paura. Non avrei potuto muovermi. Appena, sai, mi sono
sentita guardare così, ho capito che non potevo far niente; mi sembrava
in quella camera così grande di essere lontana cento miglia anche da te,
che eri nell'altra. Che cosa pensavi allora?

A questa inattesa domanda l'altra trasalì; ma Tina si alzò per fare due
o tre passi nella cucina. Un orgasmo le si riaccendeva dentro, un
bisogno di rimproverare, di minacciare colei che l'aveva condotta in
quella casa, a quell'uomo, davanti al quale non aveva potuto trovare nè
una parola, nè un atto di resistenza.

Invece le si voltò bruscamente:

--Perchè piangi?

--Che cosa vuoi che ti faccia? Stai male, dimmi che cosa vuoi.

--Non lo so.

--Torna a letto.

--No, no, non posso.

--Vedi, io certe volte...

Tina non la lasciò finire:

--Dammi un bicchier d'acqua, brucio; ma la signora Cesarina, bada, non
voglio vederla più. La sua faccia mi fa male come quell'uomo: scommetto
che ti ha di già fatto pagare l'abito e le scarpe; non ti sarà rimasto
quasi nulla, ecco come va a finire.

--La prima volta, ma dopo...

--Ah! tu credi che ci tornerò!--stridè quasi minacciosamente la
fanciulla.

--Farai come ti piace, Tina mia; io non ti dico più nulla. Avevo creduto
così per il tuo bene, per farti diventare una signora: tu lo sai, io ti
voglio bene, se avessi potuto mantenerti, io l'avrei fatto con tutto il
cuore, ma vedi come sono ridotta:--aggiunse con un sorriso d'ironia
dolorosa:--quando non si può, non si può.

Si era seduta accanto a lei.

--Quanto ti ha dato la signora Cesarina?

--Ho rimasto quindici lire.

--Quindici lire!

--Perchè ho dovuto darne quattro alla signora Veronica: pranzeremo da
lei.

--Vedi: questi cenci e queste scarpe, ecco tutto il guadagno! Che cosa
sono io adesso? Tu ti sei ridotta così dopo aver fatto tutto, e mi hai
voluto cacciare per la medesima strada; ma ti sei ingannata, io non sono
come te, non posso sopportare: io non ci vado più in quella casa, o mi
butto piuttosto a fiume.

--No, Tina, no, Tina!--proruppe levandosi in piedi per
abbracciarla:--come vorrai. Io cercherò un mezzo servizio, tu sarai
presto rimessa, e capiterà anche a te qualche cosa, un modo di vivere.
Nessuno ha saputo niente.

--Lo credi? E la signora Veronica?

--Dubiteresti?

--Tu, povera mamma, sei più bambina di me: colei ci mangia addosso, ecco
tutto. È stata lei a spingermi, assai più di te.

--È vero, sono mesi che me lo diceva. Che cosa vuoi? Quando si è tanto
poveri, non si sa più a chi rivolgersi. Adesso rimettiti un po',
bisogna mangiare, ne devi a quest'ora sentire necessità. Stamane sei
quasi rimasta digiuna: sei stanca?

L'altra non rispose.

--Hai girato molto?

--Non lo so, mi sono trovata in una chiesa.

--Vedi, se me lo ero immaginato! La signora Veronica non voleva
crederlo: io capisco.

--Non so quanto vi sia rimasta: ero così sfinita, mezza morta, che non
capivo più nulla. Ne sono uscita quando ho visto entrar gente: allora ho
pensato che dovevi aver paura per me, che non mi fossi buttata in Arno.
Me n'era venuta l'idea sul ponte, ma era giorno.

--Che cosa dici?

--Niente: ci vuole la notte per buttarsi giù, che non ci veggano almeno.

--Non devi fare certi discorsi.

--E tu che pensavi aspettandomi?

--Piangevo.

--Povera mamma!

--La tua mamma! non hai altri, ma che ti vuole tanto bene; pel resto
speriamo, non è vero? Quello solamente che tu vorrai, ma io ti voglio
bene come nessuno potrà mai volertene tanto, bambina mia. Vieni di qua
con me, io ti calmerò il male, poi ti metteremo a letto.

--No, andiamo dalla signora Veronica, voglio vedere Betta.

L'uscio era aperto sul pianerottolo.

--Tina!--gridò la fanciulla e corse a buttarsele con la testa contro il
ventre.

Tina represse a stento un urlo di dolore chinandosi a baciarla sui
capelli.

--Hai tardato, hai tardato,--diceva la piccina tirandola per la
gonnella:--La mamma mi ha fatto il riso col latte, vieni a vedere. Tu
che cosa mi hai portato?

--Niente.

--Cattiva!



LA TERZA GIORNATA


Il sole entrava per la finestra spalancata.

Tina, desta sino dall'alba, ne sentiva ancora il fresco sotto la pelle,
e si era raggomitolata nella coperta agitando il capo sul cuscino. Un
sudore le imperlava la fronte livida sotto l'ombra dei capelli
arruffati.

Con ambo le mani si tastò il ventre gonfio.

Dovevano essere le dieci: qualche rumore saliva dal vicolo, qualche
rondine nera passava davanti alla finestra stridendo come i pensieri che
le attraversavano la mente. La camera aveva sempre lo stesso squallore,
ma un profumo di muschio la riempiva: infatti tre o quattro boccette
dalle forme bizzarre lucevano dinanzi allo specchietto nel mezzo del
comò. Una candela di stearica rosa, bruciata a metà, era ancora sulla
sedia accanto al letto e, nell'angolo, da un chiodo pendeva un abito
cilestrino, con una fascia pieghettata all'orlo della sottana. Era il
primo, che la sarta della signora Cesarina le avesse fatto, ma non se lo
era ancora messo.

Tina si volse a guardarlo, poi udendo un piccolo passo all'uscio si levò
sentoni.

--Sei tu, Betta?

Invece di rispondere, la fanciulla sporse dalla porta il capo ravvolto
nel solito fazzolettone.

--Vieni, vieni.

Ma Tina si strinse con atto freddoloso la camicia sul petto dimagrato,
cercando di sorridere alla piccola visitatrice incerta sulla porta.

Betta aveva sempre quel vestoncino rosso, largo, al disopra del quale il
suo viso gonfio sembrava anche più ammalato: appena fu al letto, vi si
arrampicò.

--Non mi toccare!--gridò Tina.

--Ti fa sempre male la pancia?

--Si.

--E io qui,--rispose premendo il fazzoletto sotto l'orecchio destro.

Erano sole. Le due mamme, uscite dalla mattina, non dovevano ritornare
che a mezzogiorno se pure ritornerebbero, perchè quell'affare dei
materassi non era ancora ben preciso. La signora Veronica ne aveva
parlato parecchi giorni come di una piccola fortuna, nella quale avrebbe
potuto mostrare la propria abilità e sperare forse qualche cosa altro.
Ella affermava di sapere imbottire un materasso meglio di qualunque
tappezziere; poi nessun lavoro era più divertente: si chiacchierava, si
girava intorno. Invece non avrebbe accettato per tutto l'oro del mondo
la fatica di battere la lana, che attossica colla polvere.

La signora Adelaide doveva aiutarla; la casa ove andavano era di gente
ricca, una famiglia di beccai.

--Ti sei alzata ora?--chiese Tina.

--Sì, ma non ho voglia di star su.

--Sdraiati accanto a me.

Betta le passò una mano sul viso:

--Sudi.

--Ho la febbre.

La fanciulla non parve sorpresa; anch'ella di notte si sentiva spesso
ardere e sudare, ma allora si assopiva invece di piangere.

Aveva però qualche cosa da dire.

--Ieri la mamma mi ha dato uno scappellotto.

--Ti ha fatto male?

Alla fanciulla si gonfiarono gli occhi.

--Voglio andar via, conducimi con te.

--Ma dove vuoi che andiamo?

--Non lo so: tu hai dei danari adesso, ti fai dei vestiti.

--Quello lì,--rispose Tina con lieve sorriso,--è il primo, l'altro non
era mio.

--Cosa importa? prendimi con te.

--Tu sogni. Betta; io non ho che un luogo dove andare.

--Prendimi.

--Non sta a me.

--Neanche tu mi vuoi bene.

E Betta, che a forza di raggomitolarsi era salita tutta sul cuscino,
sedette drizzandosi colla testa sulla testa dell'altra, e la guardava
nei grandi occhi melanconici; Tina era veramente ammalata, aveva le
labbra scure, riarse, e una lucentezza vitrea nell'ombra delle occhiaie.

--Non mi toccare la testa; piuttosto se hai fame va nella cucina e tira
il cassetto della tavola; vi sono rimaste tre o quattro frittelle dolci.
Ti piace pure il fritto di crema!

Invece nessuna delle due parlò più.

Quantunque il freddo della febbre le scemasse, Tina tremava dentro la
camicia molle dal lungo sudore. E quel pensiero fisso, ostinato, che
sino dall'alba le si era piantato nel mezzo della fronte, senza che
potesse distogliersene, le mostrava sempre la stessa immagine: si vedeva
morta sul letto, nella camera abbandonata: era sola, fredda per sempre.
Poi guardò Betta, e pensò che la fanciulla, malgrado il viso gonfio,
guastato dalla scrofola, vivrebbe chissà quanto. Perchè dunque aveva
insistito così: «Prendimi con te?».

Improvvisamente Tina le rispose:

--Debbo uscire.

--Non resterai fuori molto?

--Non lo so.

Bettina era già scesa dal letto.

--Aiutami, non ho forza,--mormorò Tina barcollando.

Ma invece di spiccare dal muro l'abito cilestrino, prese dalla sedia
quello solito: si vestiva adagio, con una stanchezza in ogni atto, che
impressionò la piccina abbastanza svelta non ostante tutti i suoi mali;
Tina aveva un imbambolamento quasi pauroso sulla faccia. Per pettinarsi
mise lo specchietto sul davanzale della finestra sedendovi innanzi sopra
una scranna spagliata, nel mezzo del sole. Allora, così in camicia,
senza busto, col petto seminudo parve anche più ammalata; ella stessa
n'ebbe un brivido. Betta appoggiata al telaio della finestra
giocarellava con una bottiglietta di acqua profumata.

Poi disse:

--Dammela.

--Sì, non avrei tempo di adoperarla.

Ma un impeto le salì al cuore, quasi uno sgomento davanti a quella
minaccia di diventare brutta.

--Come ti sembro?

--Non sei più tu.

--Adesso mi lavo, vedrai che muto colore.

Invece rimase così. Betta l'osservava colla fiala in mano pensando già
come nasconderla alla mamma, che vorrebbe portargliela via.

Tina era vestita: rimise lo specchio al solito posto, si abbassò ancora
sulle ginocchia per rimirarvisi, versò da un'altra bottiglia qualche
goccia di odore nel fazzoletto; ma Bettina gridò tendendo le palme:

--Anche a me, anche a me.

Tina si sentì mancare sotto le gambe. Nuovamente il sudore l'inondava,
ricadde sulla sedia col fazzoletto fra i denti, orribilmente pallida.
Per un istante credette di doversi rimettere a letto.

--Se non tornassi più...--disse dopo alcuni minuti con voce tremante.

--Dove vai?

--Tanto deve accadere presto!

--Vuoi piangere?--l'interruppe Bettina.

--No, no, mangia le frittelle: sono nel cassetto.

--Torna presto.

--Forse.

--Va pure.

A Tina la parola parve avere un altro significato: uscì barcollando. Ma
nel vicolo inondato dal sole meridiano fu peggio: un velo le si abbassò
sugli occhi fasciandole tutta la testa, sulla quale le radici dei
capelli tiravano dolorosamente, mentre nel ventre così teso quella cosa
sembrava crescere mostruosamente. Il vicolo era quasi deserto.

Siccome non aveva l'ombrellino, sul quale appoggiarsi, si accostò
istintivamente al muro: capiva che la febbre le era cresciuta, ma che
avrebbe potuto egualmente arrivare alla casa della signora Cesarina.
Dopo? Non lo sapeva.

I piedi invece le faceano male sull'asperità delle lastre.

Sempre tremando dal freddo si accorse di essere diventata diversa da
tutti quelli che incontrava, mentre una inesprimibile stanchezza le
faceva provare un senso anche più misterioso di lontananza, come se la
sua casa in quel vicolo fosse già infinitamente distante. Era uscita per
chiedere alla signora Cesarina quel supremo favore, poi sarebbe tornata
subito a letto; ma tale pensiero era così fisso e profondo che nulla gli
contrastava dentro: Perchè? Che cosa era stato? Tossiva, aveva il ventre
gonfio, dolente di uno spasimo sottile, che si acuiva sotto l'anca
sinistra, dacchè la febbre le era cominciata una sera sul letto
assopendola. La mattina dopo seguitava ancora: e non l'aveva più
lasciata.

Siccome eran sopravvenuti altri dolori di ventre, la mamma, incolpandone
prima il vino poi la frutta, le aveva fatto inghiottire un'oncia di olio
di ricino, ma era stato peggio: quei sintomi avevano aumentato fra i
sorrisi della signora Veronica e gli scherzi di Betta.

Adesso per la strada era ripresa dalla stessa paura: dove? In qual casa
volterebbe?

Una vergogna, un avvilimento anticipato, le curvava già la testa. Eppure
quel sole le faceva bene riscaldandole un po' il sangue; era proprio un
sole di maggio splendente nel cielo di un azzurro vivido, che sembrava
palpitare; l'oro di tutta quella luce inondava l'aria, aveva dei soffi
simili a quelli del vento passandole sui capelli come una carezza,
mentre ella camminava sempre così piano, collo stento dei malati che
debbono andarsene davvero. Tuttavia sentiva intorno il fremito
dell'immensa gioia primaverile piena di scoppi, di colori, di profumi:
le case parevano nuove, la gente parlava a voce più alta, con una fiamma
di promesse negli occhi. Ella beveva avidamente il calore del meriggio,
che le scendeva nelle vene fredde avviluppandola tutta come in un velo
luminoso e leggiero. Era l'ultima volta che starebbe così nel sole, in
mezzo alla folla rumoreggiante coll'impeto di una fiumana; il suo
strepito l'assordava senza affaticarla, aveva delle onde e delle
raffiche; improvvisamente diventava come un tuono lontano, e allora
qualche strido, uno schiocco di frusta vi squillavano, le carrozze
rotolavano, un fischio fuggiva rapido e un sorriso sprizzava come un
lampo dagli occhi di una donna.

Ma ella non invidiava più.

La sua debolezza era così profonda che non avrebbe potuto fare un moto
per mescersi a quel tumulto.

Simile alle foglie invernali, che cadendo a primavera da un tetto
vagolano adagio nell'aria e sembrano anche più morte, ella andava colla
veste leggiera, la testa barcollante ad ogni passo. Soltanto gli occhi
cilestri le brillavano ancora di una luce acquea, come di gorgo, nel
quale il cielo si rispecchiasse attenuando l'ardore del proprio azzurro.
Da lungi vide il fiume biancheggiare, e più lungi ancora i colli le si
confusero in un'ampia visione verde, raggiante di oro in alto. Poi una
stanchezza la vinceva nuovamente, e allora guardando gli scalini delle
soglie avrebbe voluto sedervisi colla testa al muro, per rimanere lì
senza parlare, sul margine di quella fiumana, sotto il sole.

Quando giunse nella strada della signora Cesarina allentò ancora il
passo come destandosi alla improvvisa difficoltà di quello che stava
per fare. Forse ella non le avrebbe risposto che ridendo senza credere
alle sue parole, ma oramai era impossibile tornare addietro. Però
tremava di non trovarla sola. Vide le griglie dell'appartamento
socchiuse secondo il solito: salì a stento le scale, fermandosi più
volte. La porta era semiaperta.

--Ah! voi, come mai?--disse la signora Cesarina apparendo sull'uscio
della cucina:--Aspettate, c'è gente. Entrate qui.

La medesima serva stava al focolare cucinando: appena furono sole,
vedendola così smorta nel viso, si accostò:

--Che cosa avete, Tina?

--Sto male.

--Veggo.

La sua faccia scialba non tradiva alcuna commozione. Un grembiule bianco
colle fasce sul petto e sulla schiena le copriva a mezzo quel solito
abito scuro: tornò al focolare, poi disse:

--Volete una tazza di brodo? La padrona non se ne accorgerà.

--No, grazie.

--Che cosa siete dunque venuta a fare?

Ma ella credeva di averlo indovinato sapendo la miseria della fanciulla;
Tina non volle dirlo. L'altra seguitò colla stessa voce:

--C'è di là un'altra ragazza, non come voi: sarebbe bella, ma è troppo
grossa. È nata apposta lei per questa vita.

Tina sentì il complimento, che la serva voleva farle, ma vedendole
quella faccia di un bianco freddo come il grembiule, daccapo non potè
rispondere. Nella cucina pulitissima, colle finestre socchiuse, un
odore di rosolii vagava. La fanciulla aveva sete.

--Dovete curarvi,--disse l'altra.

--È impossibile.

Tina aveva abbandonato la testa sopra una mano, la serva si chinò sul
fornello senza insistere davanti alla segreta tragedia della fanciulla.
Nella casa silenziosa l'agiatezza regnava dappertutto: la cucina bianca
aveva i mobili rossastri; a una parete brillavano di un azzurro marino
le casseruole e i tegami di ferro smaltato, il focolare in mattoni rossi
aveva parecchi fornelli cogli usciuoli di ferro a catenacci borchiati di
ottone. Tina non fece alcun confronto colla propria condizione e quella
della signora Cesarina arrivata, speculando sulla gioventù e sulla
miseria di tante fanciulle, alla ricchezza, senza che mai nelle parole o
negli atti le apparisse un rimorso.

Alcune voci si udirono, una di uomo, all'usciuolo, che da quella camera
dava sul corridoio dirimpetto alla porta del pianerottolo; distinse un
bacio fra uno scoppio di risa, poi la porta si rinchiuse e subito dopo
una figura grossa e bianca, tutta bianca, in una leggera vestaglia, si
precipitò saltellando nella cucina. Aveva dei magnifici capelli neri,
graziosamente spettinati: un viso rosso tondo, e nel salto che fece
incontro alla serva, la massa del seno le ondeggiò sotto le crespe
sbuffanti della veste.

Ma vedendo Tina si arrestò.

--Hai fatto la crema?

--No.

--Via, spicciati.

La signora Cesarina entrò.

--Siete ancora qui!--disse a Tina, come se l'avesse già dimenticata; e
il suo occhio esaminava le due ragazze così dissimili.

Tina si alzò: allora l'altra, vedendola in piedi, n'ebbe una trista
impressione e cessò di ridere.

--Avrei da dirle una parola,--si volse Tina timidamente.

--Venite pure.

Ma Tina si fermò nel corridoio.

Adesso non sapeva più come dire: un turbamento, quasi un impeto di
pianto, le salì agli occhi; il corridoio era buio, la signora Cesarina
vestita di nero, dinanzi a lei, pareva un'ombra.

--Vorrei...--cominciò, e s'interruppe, come se avesse paura di essere
intesa dalla cucina.

--Che cosa?

--Una corona di fiori bianchi...

L'altra la guardò stupefatta.

--Fra due o tre giorni...--si affrettò Tina:--me lo prometta.

--Ma che cosa avete?

--Sarò morta.

Poi la fanciulla disse ancora:

--La mamma non avrebbe i quattrini.

La voce dell'ammalata aveva un suono così insolito che l'altra esitò a
rispondere.

--Vi sentite dunque male?

--Me lo promette?--insistè Tina pregandola cogli occhi.

L'altra ragazza bianca venne all'uscio della cucina: Tina sentì un
brivido.

--Signora...--mormorò.

--Sì, sì,--rispose la signora Cesarina senza capire bene perchè
acconsentisse, ma vinta da una emozione inesprimibile.

--Grazie.

--Ve ne andate così?

--Torno a letto.

Fuori, nella strada, si sentì più sollevata e si mosse lungo il muro a
testa bassa, ma il dolore del ventre le diventava più acuto. Per un
momento si ricordò la prima volta che delirante, ferita, era discesa a
precipizio le scale della signora Cesarina vagando per le vie insino a
quella chiesa silenziosa. La sua vita si era spezzata quel giorno senza
che ella avesse potuto piangere; ma adesso il suo ultimo desiderio era
di allungarsi nel letto per chiudere gli occhi.

--Starò meglio,--si ripeteva tratto tratto, quasi per rianimare il
proprio coraggio nella lunga traversata che le rimaneva da compiere.

La folla era cresciuta: carrozze, figure, voci, tutto passava
sfiorandola, senza che nel sangue le si destasse una sola vibrazione. Se
avesse potuto vedersi, ne avrebbe provato una strana meraviglia, tanto
era pallida e debole; le sue sottane diventavano sempre più pesanti, e
il piede urtandovi le dava la sensazione di un ostacolo.

Tuttavia non aveva paura di morire.

Lo sapeva, ma non le era mai sembrato diverso dall'addormentarsi nella
febbre, con una nebbia sugli occhi e una stanchezza più greve al capo.
Invece, quando si destava, era sempre sorpresa dalla sensazione di un
inutile ripetersi delle stesse cose. Ma non desiderava più nulla, non
trovava a che pensare, a che attendere. La mamma ricominciava a lagnarsi
perchè niente era ancora mutato davvero nella loro condizione;
mangiavano tutti i giorni, avevano comprato qualche poco di biancheria,
dei tegami, dei piatti; la mamma si era ordinato un vestito, ma la loro
vita, la casa, quella camera, erano le stesse. La miseria seguitava come
pel passato, senza che nessuno avesse ancora concepito sulle due donne
cattivi sospetti.

Poi era venuto quel male segreto ed improvviso, che sembrava averla
vuotata dentro; da parecchi giorni tossiva, e la voce le si era
abbreviata.

Così camminando piano piano, con quel passo di ombra, era giunta sul
ponte Santa Trinità. Laggiù una barchetta carica di donne discendeva
mollemente: ella sentì un desiderio di partire per un qualche luogo
ignoto, senza ritorno, portata sul silenzio argenteo del fiume, che si
ripiegava senza un murmure alle sponde, mentre il sole distendeva larghe
fiamme diafane sulle acque. Il suo pensiero seguì la barchetta sulla
corrente muta e luminosa, che di notte fra i campi assopiti doveva
parere una strada anche più misteriosa verso il mare. Tina non aveva mai
visto il mare, ma le era stato detto: acqua, acqua, ancora acqua sotto
il cielo, e tutto vi sparisce.

La fanciulla aveva appoggiato il gomito al parapetto del ponte, colla
testa sulla mano, obliandosi, come le accadeva spesso in casa per lunghe
ore sulla tavola della cucina cogli occhi fissi nel muro della casa
opposta. L'acqua passava come un velo, del quale le crespe si
distendessero tacitamente: ma era opaca. Che cosa vi si nascondeva
sotto? Tina non aveva mai fatto un bagno, non sapeva la voluttà di
sentirsi sorretta dall'acqua, quell'inesprimibile senso di qualche cosa
che vi avvolge e passa mormorando lieve come il vento.

Eppure il fiume fra quei due muri di macigno non era bello.

--Andiamo,--disse senza staccarsi dal parapetto, sebbene la gente
cominciasse ad osservarla.

Qualcuno, rasentandola, si era già voltato, tocco da un sospetto per
quella posa di abbandono desolato. Ella invece non pensava a nulla,
solamente quell'allontanarsi tacito dell'acqua sotto il ponte portava
via il suo pensiero simile ad una barca vuota. Infatti non le restava
quasi più niente del passato così triste e così breve. Era stata una
fanciulletta malinconica, che aveva sempre ceduto come la mamma, ma in
quell'ultimo olocausto, come attraverso una sanguigna lacerazione, la
vita le era apparsa improvvisamente. Che cosa era? Perchè? Perchè uno
sconosciuto poteva così diventare il suo padrone, tuffandole le mani
nelle carni tremanti per cercarvi un piacere? Ella non faceva che
soffrire, e dopo piangeva silenziosamente.

Ma un istinto l'avvertiva di tale suprema ingiustizia, sebbene il
rimorso della propria debolezza le salisse dall'anima come un pianto di
bambino abbandonato nella notte. La sua più insopportabile paura era
appunto di sentirsi così in balìa di chiunque lo volesse, senza un
rifugio, dopo che tutti se n'erano andati sorridendo. E a certi momenti,
sotto il vellico di una carezza, anche le sue mani si erano tese e le
sue labbra avevano tremato di un bacio, che non poteva dare, mentre il
cuore, simile ad un lago percosso dal vento, le si gonfiava di una
collera piena di murmuri. Quindi la sua volontà di bambina faceva ogni
sforzo per mostrarsi fredda, quasi sperando così di evitare qualche cosa
nella violenza, che la prostrava, e finendo invece ad accettarla
coll'umile scoramento dei poveri incapaci di pensare più se stessi
diversamente. Soltanto certe parole e certi atti le facevano ancora
troppo male, come una ingiuria che la ferisse fin dove l'anima si
nasconde; e allora aveva delle rivolte di novizia, che vorrebbe
sottrarsi, mentre gli altri non capivano, o capendo troppo si
precipitavano sulla sua ripugnanza come sopra un nuovo piacere coll'acre
orgoglio di chi si crede sicuro per averlo pagato. Ella guardava,
tremava, con un ribrezzo freddo sotto la pelle, come se quelle dita
scorrendovi sopra avessero l'orribile agilità delle bisce nel sogno,
quando ci pare sentirle strisciare sotto gli abiti e non possiamo
gridare. E neppure la sua bocca gridava, ma tutti i suoi nervi si
tendevano in uno sforzo sovrumano per resistere allo spasimo delle fitte
sottili, che dal ventre le salivano sino agli occhi col guizzo di un
ago, lasciandovi dentro un tremolo bagliore.

Più spesso ancora vedeva una fiammella di bragia accendersi nel fondo
degli occhi e le mani tremare più convulse nell'allentarsi della
stretta, come in una dolcezza di contemplazione improvvisa; qualche
parola, qualche bacio le cadevano sulla bocca lenti come un fiore, una
carezza s'indugiava quasi immobile e non era invece che l'agguato muto,
breve, dell'ultimo impeto, senza amore, senza pietà, quasi in una
frenesia omicida sul suo rantolo di agonizzante.

Ah! la morte non le pareva allora molto lontana.

Era dunque questo per lei l'unico modo di guadagnarsi la vita?

La fanciulla sospirò. Si ricordava di essersi subito ammalata diventando
quasi brutta, colla paura di essere scacciata; già questa minaccia
gliel'avevano fatta. Anche la signora Cesarina non voleva capire,
quantunque un giorno Tina le avesse a mezze parole, piangendo,
confessato di non poter resistere a simile tortura; ma la sua faccia
fredda e dura aveva avuto uno strano sorriso, che tolse alla fanciulla
il coraggio di seguitare. Non le credevano: ella sentiva questa
spaventevole mostruosità senza intenderne il perchè. Persino la mamma
adesso pareva evitarne il discorso.

Ma Tina aveva finalmente compreso tutto il suo carattere.

Ella l'aveva venduta per debolezza di donna povera, vissuta sempre senza
lavorare e atterrita dall'idea di non sapere più come andare innanzi. In
fondo, non era mai stata nè donna, nè madre. Le donne vere non erano
certamente così, stavano più in alto: quelle come lei e la mamma
dovevano invece essere ciò che gli altri vorrebbero. Eppure qualche cosa
l'avvertiva che non era vero; una donna poteva sempre salvarsi anche
nella più estrema miseria, quando il freddo vi piglia allo stomaco; però
adesso era troppo tardi. Tutto finiva sempre nella stessa delusione per
lei; nuove umiliazioni le cadevano sopra, qualche parola la feriva,
mentre a testa bassa ella non pensava che al momento di tornare a casa
per gittarsi sul letto fingendo di dormire.

Poi non sapeva chiedere: se le offrivano qualche cosa, accettava senza
diventarne lieta, perchè non aveva nemmeno quei facili desiderii di
tutte le fanciulle povere appena arrivano a possedere del danaro.

Tuttavia la dicevano buona per la sua immutabile indifferenza anche coi
vecchi. Era sempre la stessa fanciulla, pallida, ubbidiente, che sarebbe
stata incantevole se una qualunque gioia della vita avesse rianimata
quella sua grazia primaticcia. Ma ella non s'interessava di nulla e di
nessuno, non avendo mai ricevuto una buona parola da quella sera che
egli, il primo, era fuggito gridando: Sàlvati. Come si chiamava? Che
cosa poteva essere l'amore, del quale tutte le donne parlavano? Perchè
non le era mai apparso? Qualche volta, come in un sogno di favola, ella
pure aveva pensato che un bel giovinetto venisse a portarla via, per una
qualche verde campagna, senza chiederle quello che tutta la gente
esigeva così dolorosamente; silenziosa, tremante, la fanciulla se ne
sarebbe accontentata, riamandolo con una devozione di bambina. Altre
volte invece la coglieva repentino e convulso il pensiero di avere già
nel ventre gonfio e doloroso una piccola creatura destinata a soffrire
come lei insino a che non fosse morta. Ma di questo dubbio troppo atroce
ella trionfava subito sapendo di morire.

N'era certa; da tre o quattro giorni non mangiava più.

Un monello la tirò per la gonna, fuggendo con un largo sorriso sulla
faccia sporca di fuliggine.

Tina si raddrizzò sul parapetto collo sguardo incantato nella lontananza
del fiume: era dunque passato molto tempo dacchè contemplava
distrattamente l'acqua fuggire sotto l'arco del ponte?

Con un gesto vago si mise una mano sugli occhi, e il cuore le si strinse
in una emozione di addio. Al di là di tutti i ponti, oltre i muraglioni
del Lungarno, i colli erano diventati cilestri nelle cime sotto il sole
alto in uno splendore di fornace, che le abbagliava le pupille.

Ma ella si sentiva già fuori del paesaggio; quel parapetto le diede una
sensazione di confine.

Salutò.

La sua casa non era molto lontana. Col cuore che le batteva
spaventosamente per la fatica di fare le scale, si trovò fra le due
porte aperte sul pianerottolo: Betta era di là, nella propria camera.
Come un'ombra passò dalla cucina nell'altra stanza, si spogliò e si mise
a letto; porte e finestre rimanevano aperte. Alcune mosche ronzavano nel
sole, qualche rondine passava come un baleno nero davanti alla finestra.

Distesa sotto la coperta, col volto mezzo nascosto, Tina aveva chiuso
gli occhi. La febbre, cresciuta nello sforzo del viaggio, le faceva
battere le tempia e girare il letto colla sensazione che tratto tratto
si capovolgesse, e allora per tentare di dormire sprofondò tutta la
faccia nel cuscino, cercando di rimanere immobile.

L'ore passavano. Betta tornò col medesimo passo silenziosa a sporgere la
testa dalla porta, attese qualche minuto, poi la sua faccia si fece
grave.

Poco dopo il sole si ritirò dalla camera: i suoi ultimi raggi sul
pavimento parvero come una larga pezza di damasco giallo, che una mano
invisibile ritraesse lentamente su pel davanzale della finestra, mentre
in alto il sereno, attenuando il proprio splendore, diventava più puro.
Un'ombra lieve usciva dagli angoli della camera e d'intorno ai vecchi
mobili, il colore del soffitto si oscurava. L'aria si fece fredda.

Le mosche non ronzavano più, e fuori le rondini nella malinconia del
tramonto imminente gittavano stridi più acuti.

Molte finestre sbatterono, il murmure dei passi cresceva nel vicolo.

--Perchè ti sei coricata?--chiese la mamma.

Tina aprì gli occhi.

--Bettina mi ha detto che sei andata dalla signora Cesarina; le hai
chiesto gli ultimi otto franchi, che ancora ci deve?

Tina ebbe un atto come di chi improvvisamente ricordi.

--Ah! dovevo immaginarmelo,--l'altra esclamò con un tremito di collera
nella voce:--sempre così colle tue delicatezze! Eppure ti avevo detto
più volte che in casa non ci restava più danaro.

Allora la fanciulla mormorò:

--Mi sento male.

--Che cosa hai?

E levandosi dalla sedia piegò la faccia a contemplare la figlia.
Evidentemente Tina era ammalata: una febbre fredda le gelava la pelle
bagnata di un sudore simile alla umidità di certi tronchi alla fine
d'autunno.

--Ma tu hai la febbre; mio Dio! come si fa adesso?

--Non importa.

--No, aspetta: non è la prima volta che te la senti.

--Non mi lascerà più.

E l'accento aveva una così funebre certezza, che un medesimo freddo
soffiò per le vene delle due donne: infatti il volto di Tina aveva già
sotto quel sudore l'indefinibile aridezza delle piante che si essiccano.

Subitamente la mamma gridò:

--Bisogna chiamare il medico!

Tina ebbe un brusco sobbalzo.

--Senti, adesso vado io dalla signora Cesarina a farmi dare quegli otto
franchi che ci deve: me li darà: sono così esse, ma bisogna farsi
pagare. Tu cerca di stare tranquilla, non sarà nulla, un po' di
strapazzo, che ti sei buscato negli ultimi giorni, ma che ti passerà
presto. Chiameremo anche la signora Veronica, c'ingegneremo; se non
abbiamo quattrini si farà alla meglio, non aver paura. Forse la signora
Cesarina ci aiuterà.

--Sono tutta ammalata.

--Dimmi, dimmi.

--Il ventre mi tira come se nel mezzo vi fosse una corda tesa; ma non è
solo questo. Ho freddo dentro.

--Sfido io, non mangi. Chiameremo il medico.

--No!--proruppe Tina violentemente.

--Mio Dio! Ecco come tu fai sempre. Dimmi il perchè.

Sembrò che Tina esitasse, poi un impeto febbrile le fece sollevare la
testa: gli occhi cilestri si erano accesi.

--Siete voi che mi avete ridotta così: non voglio che nessuno mi vegga.

--Che cosa dici?

--Non mi capite dunque?--gridò scoppiando finalmente in singhiozzi; poi
si tirò il lenzuolo sul capo.

La mamma rimaneva lì a guardarla sotto quel cencio poco bianco come se
fosse morta; poi mormorò dogliosamente:

--Tina!

L'altra scosse la testa sotto il lenzuolo.



LA QUARTA GIORNATA


La mamma ascoltava distratta.

--Vedete,--diceva la signora Veronica,--Tina non era fatta per una
simile vita: io l'ho sempre pensato.

L'altra, ricordando come i suoi suggerimenti fossero stati più efficaci
dei propri, si volse nervosamente; ma la signora Veronica non sentì la
meraviglia di quell'occhiata. Il suo volto grasso, che pareva sempre un
po' sudicio, aveva la solita calma.

--Non si può nulla quando la vita è così; voi avevate delle buone
intenzioni per vostra figlia, che non sapeva far nulla per guadagnarsi
il pane: poi come guadagnarlo? Si ha un bel dire che una donna volendo
può sostenersi; io lo so per pratica, ne ho viste tante. Fate la serva o
andate a bottega ammazzandovi a lavorare, e non guadagnate abbastanza se
la famiglia non vi aiuta: che cosa può guadagnare una ragazza per
settimana? Bisogna che si vesta, che abbia delle scarpe, un po' di
biancheria per potersi mostrare... E poi si è giovani, il sangue si
riscalda, arriva qualcuno, che vi guarda; tant'è dunque farlo prima,
cercando di cavarne una posizione.

--Ne siete persuasa anche voi.

--Sciaguratamente.

--Tina era bella, poteva fare fortuna.

--Non lo credo.

La mamma sospirò.

--Volete che ve lo dica? Ecco, Ella non era nata per questo: scommetto
che non ha mai sentito come me e come voi. La piccina soffriva del
vostro stesso male.

--Questa è stata la causa di tutte le mie disgrazie.

Una profonda compassione di se stessa la faceva tremare.

--Non ci pensate. Già non ho mai notato in lei quello che si vede in
tutte le ragazze: non guardava mai in faccia un uomo, era un povero
sorbetto la vostra Tina. Adesso non vuole il medico per paura che
nell'esaminarla possa indovinare il resto. È una fantasia di educanda;
conobbi una monaca, che volle morire così.

--Che cosa dovevo dunque fare nel mio caso?

La signora Veronica si strinse nelle spalle.

--Voi per Betta non vi troverete a questo.

--Non può vivere; non vedete com'è? Ma la signora Cesarina è una
indegna: doveva almeno darvi tutti quegli otto franchi.

--Non ho osato insistere.

--Vi conosco. Qualche cosa caveremo dal curato; è un buon uomo, bisogna,
chiamarlo.

--Ma è dunque la morte?

--Aspettate: io credo che sia tisica, ma egli potrebbe anche persuadere
Tina, confessandola, perchè bisogna che si confessi. Voi non le avete
insegnato nulla, ma sono sicura che Tina avrà piacere di morire nella
religione.

Betta entrò.

--Ha sete,--disse,--vuole un bicchiere d'acqua.

--Andiamo di là.

Tina colla testa appoggiata al muro guardava nel vuoto.

La signora Veronica aveva ragione. Tina era tisica; forse la malattia
covava da molto tempo, ma quell'olocausto era bastato a determinare
l'esplosione con una peritonite rapida e violenta, che bruciava tutto
quel corpo in una fiamma invisibile. Adesso il suo volto scarno pareva
che se ne illuminasse internamente, perchè aveva acquistato un insolito
splendore. Da tre giorni non mangiava più, bevendo appena qualche
bicchiere d'acqua imbiancata col latte, e le sue parole si erano fatte
più rare.

La morte compiva già l'ultimo desiderio della fanciulla, ricomponendole
nel proprio incanto quella verginea bellezza quasi di fiore non colto.

--Ma perchè non vuoi il medico?!--esclamò la mamma.

--È un amico del curato, io lo conosco; cominciamo dal chiamare questo.
Date retta a me,--soggiunse la signora Veronica:--è un bel vecchio,
parla bene.

--Lo sanno i casigliani che sono ammalata?

--Sì. Anche stamane le Arrighi mi hanno fermata per chiedermi vostre
notizie: siete simpatica a tutti. Siate sicura, nessuno ha ancora saputo
nulla.

Un sorriso pallido passò sulle labbra dell'inferma, poi fece un gesto
alla mamma:

--Dammi il vestito nuovo.

--Che cosa vuoi farne? Non ti alzerai già?

--Datemelo, datemelo.

Anche la signora Veronica si mosse. Quando l'ebbero disteso sul letto,
aspettarono, il corsetto colle maniche gonfie stringeva al disopra della
coperta il ventre di Tina, e la sottana aveva anch'essa uno strano,
vivente abbandono sul suo corpo. Poi la fanciulla disse lentamente:

--Bisogna farne un bel vestone a Betta.

Questa battè le mani gioiosamente.

--Sarebbe meglio venderlo,--osservò la signora Veronica.

--No, no,--proruppe Betta.

Rimasero tutte un po' incerte guardandosi; finalmente la mamma disse con
voce strozzata:

--Che cosa ti metterai, quando ti alzi?

Ma il volto di Tina si era oscurato; respinse l'abito con un gesto.

--Portatelo via, non voglio più vederlo.

Con una occhiata la mamma e la signora Veronica s'intesero: quella
avrebbe ceduto secondo il solito, ma questa voleva aspettare per trarne
un più ragionevole profitto. Quindi volgendosi a Tina, carezzevolmente
disse:

--Ne riparleremo domani, perchè ci vorrà forse qualcuno che ci aiuti.
Intanto io vi ringrazio, mia buona Tina; ma non volete proprio darmi
retta? Domani faccio venire anche don Pietro, eh?

--Perchè non stasera, se deve venire?

--Allora vado subito.

Tina non rispose.

Betta era andata a sedersi presso la finestra; il suo viso gonfio e
giallo esprimeva una collera intelligente, che non avrebbe così presto
perdonato. Si sentiva derubata e se la pigliava anche con Tina perchè
non sapeva assicurarle il dono dopo averglielo fatto: poi si voltò al
muro per non mostrare di piangere. Ma qualche singhiozzo le stringeva le
spalle.

Il silenzio durò lungamente; s'intese la signora Veronica chiudere a
chiave la porta e discendere frettolosamente per le scale, qualche grido
veniva dal vicolo, nel quale una biroccia si era fermata.

Le sonagliere tintinnavano.

Tina disse piano alla mamma:

--Nemmeno tu lo conosci?

--E un buonissimo uomo.

--Dovrò dirgli tutto?

--Si,--mormorò l'altra, mettendosi la mano sulla bocca per frenare il
singulto.

Tina rimaneva perplessa dinanzi alla necessità di questa confessione,
della quale non intendeva ancora il divino motivo, ma il suo cuore si
commosse al dolore della mamma; poi si accorse che anche Betta piangeva,
e allora chiuse gli occhi, pensando che in quel grande letto, così
povero e sudicio, avrebbe fatto al vecchio prete una ben cattiva
impressione.

                                 *
                                * *

Don Pietro non arrivò che al principio della notte. La porta era aperta,
la signora Veronica, la mamma, Betta stavano nella cucina.

Il vecchio prete aveva bussato leggermente.

--Entri, entri,--rispose la signora Veronica, alzandosi precipitosamente
per andargli incontro coi segni del più profondo rispetto; ma il prete
pareva imbarazzato, la sua testa biancheggiava nell'ombra.

--Ecco la mamma,--disse subito la signora Veronica.

Questa lo guardava cogli occhi sgomenti; don Pietro chiese:

--Sta male?

--Al solito,--rispose la signora Veronica:--vuole entrare subito?

E prese dal tavolo la candela.

--Dorme,--disse la mamma.

--Pare, ma non lo credo,--ribattè la signora Veronica.

Nella camera passò anche Betta, Tina non dormiva.

Il vecchio si accostò al letto: adesso si vedeva la sua faccia scarna,
illuminata da due occhi chiari, che parevano tristi; i suoi abiti erano
trasandati, e due lunghe ciocche di capelli bianchi gli si arricciavano
alle orecchie.

--Quanto tempo è che siete ammalata, ragazza mia?--cominciò con voce
insinuante, mentre la signora Veronica gli metteva dietro la sedia,
sulla quale per solito stava la candela; poi andò a porre questa sul
comò.

Tina non provò alcun sbigottimento, ma i suoi occhi non lasciavano il
viso del vecchio.

--Siete ben giovane!--questi disse.

--Ho diciassette anni.

--Bisogna sperare; il signore ci prova spesso prima di chiamarci; si
deve però essere pronti ad accettare tutto ciò che egli vuole.

La signora Veronica e la mamma si consultarono con uno sguardo: questa
stava per piangere, l'altra le fece cenno di ritirarsi.

--Vieni via, Betta,--si volse alla fanciulla, che appoggiata ai piedi
del letto tirava per la coperta.

Tina avrebbe voluto dir loro di rimanere, ma una sensazione improvvisa
glielo impedì: si strinse nella coperta riabbassando la testa sul
cuscino senza nessuna vergogna che fosse così sudicio. Le griglie erano
aperte e pei vetri si vedeva al di fuori il chiarore della notte. Poi
intesero la voce della signora Veronica, che avrebbe voluto condurre la
mamma nelle proprie stanze, ma questa rispondeva:

--No, no.

Non si udì più nulla; l'uscio della camera era chiuso.

Egli si era seduto a capo del letto, quasi aspettando a testa bassa; la
barba non rasa da qualche giorno gli rendeva la faccia più vecchia, ma
la sua figura e il suo atteggiamento esprimevano quella pazienza, che sa
attendere per poter consolare.

--Che cosa mi dirà?--pensava Tina senza riuscire ad immaginarsi come gli
avrebbe risposto.

--Ebbene, ragazza mia, non sono venuto subito perchè dovevo passare da
un altro ammalato; eccomi qui da voi. Vi sentite molto male?

--No.

--Speriamo dunque, siete tanto giovane! So che avete sofferto.

--La signora Veronica le ha detto tutto?--esclamò precipitosamente Tina.

--Mi ha parlato della vostra disgrazia; non ve ne lagnate, ella non
aveva che delle buone intenzioni.

--Lei! Me lo dica: che cosa le ha raccontato?

Il vecchio parve impacciato, la fanciulla seguitò smaniosa:

--La conosco: non avrà accusato che la mamma, mentre invece fu lei a
spingermi, lei che fece venire a casa quella donna; poi mi
accompagnarono là. Adesso per la paura che si sappia vuol dare la colpa
a noi.

Un nodo di tosse le soffocò la parola, ma i suoi occhi brillavano di
collera; poi un'ombra le cadde improvvisamente sul volto.

--Mi dica, mi dica; lei sa tutto.

--Perchè vi affliggete così?

--Morirò.

--Bisogna sperare; nè io nè voi conosciamo la volontà del Signore. Ho
saputo la vostra disgrazia, e me ne sono addolorato: vi chiamate Tina,
non è vero? Quello che vi è accaduto fu veramente doloroso, perchè non
avreste voluto commetterlo, lo sento.

Tina ebbe un singulto.

--La mamma era ammalata: avevamo fame.

--Perchè non vi rivolgeste a me, povera fanciulla?

--A lei?

--Coll'aiuto di Dio, si può sempre sostenere quelli che pericolano. Io
non lo sapevo, sono stato ammalato un pezzo. Dite, Tina, vi hanno
cresimata?

--Sì, da bambina.

--E dopo?

--Nulla.

--Non andavate a messa colla mamma?

--Quasi mai.

--Però, potendo, vi sareste andata?

--Non lo so,--rispose Tina ingenuamente.

--Bisogna desiderarlo: senza la grazia di Dio e senza il sostegno delle
pratiche religiose un'anima non può salvarsi: ma adesso voi volete, non
è vero? compiere gli atti necessarî della nostra santa religione? Dopo
vi sentirete meglio anche nel corpo; io sono qui per voi, vi saranno
rimessi tutti i peccati, perchè avete molto sofferto, e forse non
sapevate bene la loro importanza, Dio è buono.

Parlavano nella penombra agitata dalla fiamma della candela sul comò: a
poco a poco le loro teste si erano avvicinate, il vecchio prete sempre
colle grosse mani sui ginocchi si curvò sino quasi a toccare col mento
la coperta.

--Dite con me: Dio è buono.

E attese.

--È buono, è buono. Egli ha sofferto per i nostri peccati, che avrebbe
avuto il diritto di punire senza misericordia, e invece consentì a farsi
uomo e a morire innocente sulla croce per insegnarci a sopportare anche
quello che nella nostra misera vanità non ci parrebbe dovuto. Egli non
fa differenza fra il ricco e il povero, è morto per tutti, ci ama tutti
di eguale amore. Noi dobbiamo imitarlo da lontano nella misura delle
nostre forze, senza ribellarci mai ai decreti misteriosi della sua
volontà. Dite con me: Mio Dio, abbiate pietà di me, voi che siete buono.

--Buono?

--Sì.

--Ma che cosa avevo fatto io per essere trattata così?

Il vecchio rialzò la testa; sulla faccia gli apparve una improvvisa
severità.

--Siete voi davvero innocente?

--No, io non volevo: è stato per non far patire la fame a mia madre.

--C'erano altri mezzi.

--Me lo dicono adesso.

Succedette una pausa: la fanciulla vide che alzava una mano per
stringersi la fronte, la mano tremava. Ella sentiva soffrire quel
vecchio, quantunque la sua ammonizione le fosse strisciata sull'anima
senza entrarvi: era la prima volta che qualcuno le parlava così.

Che cosa doveva fare? Che si voleva ancora da lei?

--Ditemi,--riprese il vecchio,--non mi avete fatto chiamare per
confessarvi?

--È stata la signora Veronica.

--Lei, ma e voi? Siete disposta a perdonare?

--A chi?

--A tutti, cominciando da vostra madre?

--Ma io le voglio bene.

--E anche a quell'altra donna?

--La signora Cesarina? No, no.

--Voi non siete innocente, perchè avevate capito quello che vi
consigliavano di fare, e vi ci siete piegata,--egli disse
severamente:--Alla vostra età è pur troppo quasi sempre troppo tardi per
l'innocenza. Se aveste avuto meno di dieci anni...

--Ah!--proruppe Tina:--ho saputo dalla signora Cesarina che anche delle
bambine erano state trattate così. Perchè Dio dunque lo permette?

--La sua giustizia è un mistero.

--Povere bambine! Che cosa avevano fatto?

--Voi vi ribellate, vorreste sapere quello che la nostra mente deve
ignorare; Dio permette il male...

--Contro gli innocenti, i bambini? No, se io avessi un bambino non lo
permetterei: bisogna essere cattivi per trattare così delle creature che
non hanno fatto nulla.

--Non piangete, via, io sono venuto qui per consolarvi. Non sono che un
vecchio, datemi retta, lasciate che vi riconduca al Signore: sentirete
subito la pace nel cuore. Se siete innocente, vi sarà più facile
perdonare ed essere perdonata; ecco, cercate di riordinare la vostra
coscienza: la confessione bisogna farla in regola.

--Lei lo ha saputo dalla signora Veronica.

--Ma voi, voi dovete dire tutto sino da quando vi potete ricordare.

E successe un'altra pausa più lunga.

Tina non pensava che al racconto della signora Veronica per penetrarne
il motivo. Evidentemente costei aveva avuto una paura che, imparando
tutto da altri, don Pietro la credesse complice; ma perchè insistere
tanto per chiamarlo, mentre nè la mamma nè lei ci pensavano? La sua
testa dolente soccombeva un'altra volta sotto il peso di queste domande,
poi la febbre la scrollava: un sudore caldo le invischiava la camicia
sulla pelle, mettendole come una gomma sulle labbra.

Era sfinita.

Il vecchio se ne accorse.

--Datemi una mano che vi senta il polso: so che non avete voluto
chiamare il medico.

--Non lo voglio.

Ma tese la mano sinistra fuori del lenzuolo.

--Avete una febbre alta; se io conoscessi un medico vecchio come me,
veramente buono, lo accettereste?

--No.

--Vedete, Tina, io vi capisco bene; viene da un sentimento cristiano
questa ripugnanza a lasciarvi vedere, non bisogna però esagerare nemmeno
in questo.

Ma s'interruppe.

Lo sguardo ardente della fanciulla aveva una luce di astro lontano. Egli
mormorò ancora alcune parole, poi inginocchiandosi appoggiò i gomiti
sul letto e congiunse le mani: fuori dalle maniche le mani parevano più
grandi, la sua faccia non si vedeva.

--Dite con me: Madonna santissima, aiutatemi perchè voglio tornare a voi
come le vergini, che proteggete.

Tina ripetè anch'essa:

--Madonna santissima...

--Sì, Madonna santissima, io avrei voluto vivere pura come voi, ma se
non ho saputo resistere alla tentazione del peccato, soffiate voi col
vostro alito sulla mia anima, affinchè si rischiari e vegga le vie del
Signore. Si, ripetete ancora con me: _Ave Maria, Virgo virginum_. Ella è
la santa dei bambini e delle vergini, che sa tutti i segreti del dolore,
lei sola può dire alla morte di cancellare dalla vostra carne la macchia
del peccato. Ave, Maria degli innocenti e degli abbandonati; voi siete
la grande stella dei naufraghi, che non veggono più la sponda, voi siete
la stella dei moribondi, che chiudono gli occhi nel vostro sorriso per
riaprirli alla verità eterna di Dio. Ave Maria!

Poi si rialzò faticosamente, le fece un segno di croce sulla testa e
disse:

--Tornerò domani sera: pregate la Madonna, domani sera sono sicuro che
vi confesserete.

Ma Tina vedendo che stava per partire, frenò a stento uno scoppio di
lagrime: perchè se ne andava? Dopo sarebbe più sola. Egli aveva parlato
con una tenerezza, che nemmeno la mamma le aveva mai mostrato nei più
tristi abbandoni. Come s'interessava tanto di lei, che non aveva mai
veduta? Improvvisamente le parve di tornare bambina e provò una
soggezione piena di fiducia e di rammarico: qualunque cosa le avesse
chiesto in quel momento l'avrebbe fatta.

--Riposate, figlia mia, il sonno vi farà bene; domani sera non mancherò.

--Venga, venga,--proruppe quasi la fanciulla.

Il vecchio le pose ancora una mano sulla fronte, e andò a prendere la
candela per uscire.

--Buona notte, Tina.

--Buona notte,--rispose la fanciulla, lasciandosi finalmente cadere le
lagrime dagli occhi dentro l'ombra della camera.

Don Pietro posò il candeliere sulla tavola della cucina e si rimise
automaticamente il cappello; la cucina pareva vuota, ma la figura della
mamma gli si parò innanzi dal sofà: egli vide la sua faccia emaciata,
col gran naso di una fisonomia, che altra volta aveva dovuto essere
bella ed altera, ma adesso l'umiltà ne aveva cancellata pressocchè ogni
traccia.

Stava confusa.

Il prete mise la mano nella tasca della veste per trarne due lire di
argento, che sapeva di avere, e gliele porse.

--Come ha trovato Tina? Morirà?--chiese l'altra tremando.

--Sta male certamente: tornerò domani sera, non credo ad un pericolo
imminente, ma pregate anche voi perchè vostra figlia si confessi. La sua
anima è rimasta buona senza gli insegnamenti della religione. Tornerò
domani sera, andate di là.

E senza attendere risposta si avviò per l'altra stanzetta; la signora
Adelaide non sapeva che fare, se ubbidire subito o accompagnarlo per le
scale colla candela, ma intese il passo della signora Veronica sul
pianerottolo.

Il vecchio era già all'uscio.

--Buona sera, signor don Pietro, aspetti,--disse la signora
Veronica:--ora scendo con lei per le scale col lume.

--No,--rispose bruscamente.

Appena la signora Adelaide entrò colla candela nella camera di Tina,
questa esclamò:

--Non voglio vederla, sai!

--Chi?

--La signora Veronica. Va subito a chiudere la porta e vieni a letto.

Due ore dopo dormivano.

                                 *
                                * *

E le pareva che la signora Veronica l'accompagnasse per Lungarno verso
la chiesa di don Pietro.

Il meriggio scottava, ma camminando a testa bassa Tina non si guardava
che il ventre enorme sui fianchi dolenti: e la sua gravidanza era così
inoltrata che ne sentiva a ogni momento le doglie in una agonia
delirante di paura, mentre un freddo le gelava la schiena anche sotto
quei raggi del sole. Ansante, cogli occhi gonfi, cercava di evitare le
occhiate della gente, che si voltava a guardare dietro con quel sorriso
così crudele per le fanciulle, quando non possono più nascondere la
propria disgrazia. Ma la signora Veronica, affrettandosi
silenziosamente, la tirava per mano come una bambina sorpresa in fallo e
condotta al castigo. Giravano da un pezzo. Nella folla oscura la ressa
aumentava, e ogni tanto ondeggiavano larghi barbagli di fiamme e voci
lontane gridavano. Poi a una svolta vide improvvisamente il vecchio
prete sulla soglia della chiesa, senza cappello in testa.

I suoi occhi dardeggiavano.

--Ah!--gridò con un gesto d'impazienza.

Allora Tina si era voltata per fuggire.

--Dove vorreste andare?--chiese don Pietro avanzandosi:--è un'ora che
aspetto.

E Tina lo seguì senza capire come la signora Veronica fosse sparita.
Poco dopo si accorse di essere in un corridoio basso, fra due muri
umidi: l'aria si faceva sempre più fredda e l'oscurità aumentava. Benchè
camminasse adagio, il vecchio batteva così duramente coi tacchi sulle
lastre del pavimento che l'eco ne ripeteva ogni percossa, mentre un
altro passo misterioso incalzava dietro le loro spalle. Chi era? Tina
tentò di rivolgere il capo, ma non vi riuscì: una forza irresistibile la
costringeva a seguire don Pietro sotto quel corridoio, che si perdeva in
un'ombra senza fine. Un freddo le veniva dall'umidità dei muri rigati da
lunghi goccioloni. Poi don Pietro si cacciò a sinistra sotto una
porticina, ed entrarono nella chiesa. Era enorme; una lampada sospesa
per una fune ardeva davanti all'altare maggiore, al di sopra della
balaustra. Tina non conosceva quella chiesa; le parve vuota, solamente
notò che nel primo pilastro a destra della grande navata era scavato un
buco simile ad una nicchia; e intorno vi rimanevano ancora alcuni mucchi
di mattoni e un cassetto da muratore pieno di calce molle.

--Inginocchiatevi lì dentro,--disse don Pietro.

Tina dovette scavalcare quei mattoni per entrare nella nicchia, ma si
avvide subito che non era abbastanza profonda per tenervi dentro le
gambe: però ubbidì. Volse la schiena al muro e piano piano piegò le
ginocchia reggendosi con ambo le mani il ventre per diminuire il dolore
del suo peso.

Vicino a lei don Pietro, colla fronte sul marmo della balaustra,
mormorava a mezza voce una preghiera.

Passarono alcuni minuti.

Ella si ricordò dell'altra piccola chiesa, nella quale si era rifugiata
fuggendo dalla casa della signora Cesarina col ventre ferito; ma un
dolore anche più acuto, uno smarrimento più profondo, la facevano adesso
guardare più disperatamente in quell'agonia di diventare madre da un
momento all'altro. E il suo cuore si gonfiò. Lunghe fitte ghiacciate le
salivano dalle ginocchia su per le reni, una fiamma sembrava bruciarle
il ventre diventato così greve che le mani le tremavano indarno nello
sforzo di sostenerlo. Estenuata, febbricitante, tentò di slacciarsi la
sottana, come se il suo cordone troppo stretto dovesse far male anche al
bambino, ma le dita non vi riuscirono e il bambino si agitò. Le parve di
sentir battere le sue piccole mani smaniose. Mio Dio! come fare? Che
cosa aspettava in quella nicchia vicino a don Pietro sempre così curvo
sulla balaustra quasi nello sforzo di una preghiera?

Infatti egli percoteva tratto tratto la fronte sul marmo del davanzale.

--Signore, sia fatta la vostra volontà,--proruppe finalmente
raddrizzandosi.

La sua faccia era ridivenuta mite e stanca come la sera innanzi, quando
le stava al capezzale del letto.

--Volete confessarvi, ragazza mia?--disse lentamente.

Ma, come allora, Tina non seppe rispondere.

--Fra poco arriverà.

--Chi?

--Il muratore.

--Il muratore!--ripetè senza capire.

E udì nuovamente quei passi avvicinarsi dal fondo della chiesa. Le
pareva che tutta l'ombra ne tremasse agitando il lucignolo della lampada
dentro quella coppa rossa, come se un sangue la riempisse. Anche il
vecchio prete si era rivoltato e i suoi occhi stavano fissi.

--Badate: i minuti vi sono contati,--disse ancora.

Ella invece ascoltava con crescente terrore le battute misteriose di
quei passi avvicinarsi nell'ombra: la chiesa ne tremava. Colle mani
strette convulsamente sul ventre, la fanciulla agitò la testa guardando
il vecchio prete immobile come una statua; il suo volto era così triste
che le fece male, poi lo intese ancora ripetere:

--Signore, sia fatta la vostra volontà.

Don Pietro si avanzò sino tra i mattoni e le stese ambo le mani sul
capo.

Adesso anche ella aspettava coll'anima tesa delirantemente: un sudore
gelato le colava dalla fronte, le tempie le battevano da spezzarsi. Con
uno sforzo supremo, quasi attratta da quelle due mani aperte sulla sua
testa, si alzò; ma per una sensazione improvvisa, inesplicabile, si
accorse di essere mal vestita come stava per solito in casa. I piedi le
tremavano dentro le vecchie scarpe, e la sottana, diventata più corta su
quella rotondità del ventre, le lasciava scoperti gli stinchi.

Non aveva nemmeno le calze.

Vacillò, e dentro quella nicchia troppo stretta, nella quale le sue
spalle stentavano ad entrare, appoggiò la testa al muro chiudendo gli
occhi. Istantaneamente tutto disparve: il suo corpo lieve come la sua
anima calava nell'ombra di un abisso con un ondulamento di nuvola nella
notte; non si ricordava più di nulla, sentendo soltanto di essere ancora
ritta, col capo inclinato sulla spalla, nell'ultimo atteggiamento.
L'abisso era profondo. Lungamente ella vi discese senza che una
curiosità si movesse nel suo pensiero o una immagine nella sua memoria;
l'ombra le si stringeva intorno come un velo in pieghe tacite e molli, e
un alito fresco vi passava attraverso sfiorandole il viso.

Quanto durò così?

Non avrebbe potuto dirlo, ma un urto violento l'arrestò, e si vide sulla
soglia di una porta, nel mezzo della quale era inchiodata una croce
bianca. Uno spasimo le contorse il ventre, rinnovandole tutti i terrori
nella necessità di fuggire davanti al nuovo ostacolo, giacchè quei passi
si avvicinavano nuovamente con una cadenza più lenta, spaventevole. Tese
l'orecchio, poi con ambo le mani tentò di scrollare la porta gridando:

--Mamma! mamma!

Invece la voce le si spense in un soffio sulle labbra, e le mani le
caddero intirizzite dal freddo, che fischiava fra i battenti della
porta: tutto il suo volto n'era gelato.

E rivolgendosi scorse un uomo in ginocchio, che si allungava per
prendere qualche cosa nell'ombra: erano quegli stessi mattoni e lo
stesso cassetto pieno di calce, che aveva già veduto nella chiesa
davanti alla nicchia. Le venne meno il respiro. Colla schiena appoggiata
alla porta guardava immobile quel fantasma alzare silenziosamente uno ad
uno i mattoni per allinearli ai suoi piedi chiudendo il vano della
soglia. I mattoni erano rossi, enormi. Poi il fantasma piantò la
cazzuola dentro la calce, e allora Tina sentì che la prima fila le
toccava la punta dei piedi appoggiati col garretto alla porta.

Finalmente credette di comprendere.

Un altro grido lungo, disperato, le salì indarno dall'anima. Il
muratore, annunziato da don Pietro, l'aveva raggiunta a quella porta
chiusa da una croce bianca: ella aveva udito tremando i suoi passi dal
fondo del corridoio, nell'ombra della chiesa, sempre più vicini, con una
cadenza lenta ed immutabile. Invano, senza ricordarne il modo, era
fuggita da quella nicchia giù per una tenebra molle come un fumo: era
inutile, era tardi. Una seconda fila di mattoni le arrivava già al
disopra degli stinchi; tratto tratto sentiva un colpo secco della
cazzuola, che li allineava, mentre quella testa bassa si moveva
silenziosamente nel lavoro. Chi dunque l'aveva condannata ad essere
murata viva col bambino nel ventre? Malgrado il terrore, che la
paralizzava, tentò di piegarsi innanzi per spiccare un salto, ma non le
riuscì nemmeno di staccare la testa dalla croce.

Un altro freddo le saliva per gli stinchi già coperti dal muro.

E il muro cresceva.

Con una leggerezza meravigliosa il muratore stendeva colla cazzuola la
calce sulle costole dei mattoni prima di alzarli sulla cortina, senza
levare mai il capo quasi interamente calvo e che in quella oscurità
aveva come un luccicore di teschio. Nullameno a Tina parve di
riconoscerlo, ma incollata sulla porta guardava senza gridare e senza
piangere. Il suo pensiero irrigidito dal freddo della morte era
diventato lucido come un ghiaccio nell'ombra, i suoi occhi non
tremavano più.

Poco dopo un contatto la fece trasalire; era il primo mattone, poi un
altro, un altro ancora, rapidamente, e il loro spigolo s'imprimeva
appena sulla convessità del ventre tirando su la sottana dagli stinchi.
Mio Dio! Mio Dio! La fila non avrebbe potuto più alzarsi senza
schiacciarlo nella poca profondità di quel vano. No, no, era
impossibile, non potevano schiacciarle il ventre prima di seppellirla
viva, perchè avrebbero schiacciato anche il suo bambino. Egli era più
innocente di lei; perchè si voleva fare così? E Tina lo sentiva
contorcersi disperatamente allungando le manine per arrivarle al cuore,
mentre un pianto gli usciva dagli occhi chiusi e la bocca gli si
raggrinziva nell'orrore della paura.

Ma dentro questa visione, che le sorgeva dalle viscere, Tina vedeva
sempre quel fantasma curvo sul proprio lavoro affrettarsi
silenziosamente.

A un suo moto rabbrividì.

Poi quella testa si alzò sfiorandole quasi il ventre per cominciare la
nuova fila, e allora Tina riconobbe la faccia di colui, che pel primo
l'aveva fatta gridare nella camera della signora Cesarina: erano gli
stessi occhi freddi, quei baffi rossi, sotto i quali il sorriso aveva
una piega così cattiva.

Tutto il sangue le rifluì al cuore in una convulsione suprema, che
strappò un urlo anche al bambino.

Ella se lo intese nel cervello.

Lui, lui, era lui, il padre!

Ma nell'orrore ella non poteva nè gridare, nè muoversi. Una forza
d'incubo la teneva immobile contro quella porta, della quale la croce
bianca le entrava dolorosamente fra i capelli irti nel raccapriccio;
quel freddo, fischiando sempre dalla fessura dei battenti, le aveva
fatto diventare la pelle dura come un vetro. Con uno sforzo
inesprimibile tentò di staccare una mano per respingere il mattone, che
già stava per schiacciarle il ventre, ma una doglia più tremenda sembrò
che glielo aprisse, poi un peso immane, qualche cosa le squarciò la
carne e, penetrandole nelle viscere, spezzò anche il bambino.

--Mamma, mamma!--ella potè gridare veramente.

Questa si destò spaventata dall'accento delirante e dal soprassalto
nervoso della fanciulla: con ambo le mani le toccò la testa. Scottava.

--Che hai, che hai, cuore mio?

Tina ansava ancora nella convulsione del lungo sogno, e allora la mamma
cercò la candela per accenderla.

Finalmente vi riuscì.

La faccia di Tina era scomposta: un pallore cadaverico le si era diffuso
per tutto il volto, aveva i capelli bagnati, le labbra scure, gli occhi
vitrei, che pareva non dovessero chiudersi più.

--Che cosa hai? dimmelo: vuoi bere?

Ma la testa febbrile si riabbassò pesantemente sul cuscino.



LA QUINTA GIORNATA


Betta era corsa piangendo nella camera di Tina.

--La mamma non mi fa più il vestito.

--Vorrà tenerlo per sè,--disse la signora Adelaide, e il suo viso parve
duro alla fanciulla, nel lungo sforzo che la povera donna faceva per
rattenere i singhiozzi.

--Dille che venga qui,--mormorò Tina.

E mentre Betta se ne andava consolata, Tina richiuse gli occhi.

La mamma, seduta presso il capezzale, stette a guardarla in preda ad un
profondo sbigottimento davanti a quella nuova trasformazione. La
fanciulla diventava un'altra; il naso le si era affilato e un'ombra le
aveva scavato le gote, mutando tutta la sua fisonomia; soltanto la
fronte sotto quell'arruffio dei capelli rimaneva ancora pura.

Poi aprì gli occhi e disse quasi in sogno:

--Come sei lontana!

--Aspetta, aspetta,--rispose l'altra senza capire.

Tina tese la mano lucida, scheletrita.

--Che cosa vuoi?

--Andrai dalla signora Cesarina.

--A fare che?

Un bagliore brillò nelle pupille dell'ammalata.

--Mi ha promesso un regalo.

--Che cosa?

Tina rispose dopo una pausa:

--Ho freddo.

Allora la mamma, girando intorno al letto, le addoppiò addosso la
coperta scoprendo mezzo il lenzuolo.

--Stai bene? Vuoi del latte?

--Chiama la signora Veronica.

Tina rimase sola.

In quel momento il sole dal comò veniva radiosamente verso il letto
saltando sulla tavola, che la mamma e la signora Veronica avevano
trasportata dalla cucina per poter mangiare non lontano dalla ammalata.

Ella pensava:

--Che cosa è la morte?

E non sapeva immaginarsela che quale un sonno più lungo, forse più
freddo ma insensibile, come assopendosi per qualche ora ella non lo
sentiva più salire così, adagio, dai piedi. Aveva pensato pure a che
cosa le metterebbero indosso prima di adagiarla nella cassa, poichè
aveva regalato a Betta l'unico abito veramente suo ma le restavano
ancora due camice nuove e una sottana nel comò. Poi chi la vedrebbe? Chi
lo saprebbe?

Pareva che una nebbia le fosse entrata nel cervello, stentava a
ricordarsi: nessun rimpianto, nessuna immagine le saliva più dalla
coscienza. Forse così muoiono i fiori sotto l'umidore delle rugiade,
dopo che il sole li essiccò nella lunga giornata, Persino quella ultima,
acuta voglia di una bianca corona virginale sulla bara non rimaneva più
che come la estrema luce del suo olocausto.

L'aria della camera si era riscaldata, il sole copriva adesso la piccola
tavola di una fiamma, salendo per il letto verso i piedi di Tina; ella
lo guardava di sbieco senza muovere il capo. Era bello: ma le piante
morte o morenti nei campi se ne accorgono forse?

Gli uccelli feriti invece si nascondono nell'intimità più scura della
fratta per morire.

Betta entrò per la prima correndo al letto:

--Diglielo, diglielo,--sussurrò rapidamente.

Ma la signora Veronica, che teneva ripiegata la sottana sul braccio
sinistro, con una grande forbice nella mano destra, non pareva alla
faccia niente affatto contrariata. Prima di avvicinarsi al letto si
fermò alla tavola per esaminare se vi fosse qualche macchia fresca.

Bettina chiamò:

--Vieni qui, mamma.

--Contentatela,--mormorò fiocamente l'ammalata.

Allora l'altra la scrutò acutamente senza che sul volto le apparisse
alcuna emozione.

--Come volete: debbo tagliare qui sulla tavola davanti a voi?

La piccina battè le mani.

--Sarò bella anch'io una volta!

Tina ebbe ancora un sorriso negli occhi, ma la signora Veronica si volse
alla signora Adelaide:

--Avete un cencio per sfregare la tavola? Meglio forse stendervi sopra
qualche cosa di bianco; aspettate, vado io di là a prendere una
tovaglia.

Andò e tornò subito.

--Sedete qui con me, signora Adelaide,--disse quasi imperiosamente,
perchè non tornasse al letto.

Parlava con voce calma come al solito. Il sole le batteva sulla faccia
grassa e lucida, accendendovi qua e là come dei riverberi; allora guardò
alla finestra coll'idea subitanea di socchiuderla, ma capì che
l'ammalata non ne avrebbe forse avuto piacere, e rigirandosi venne a
voltargli contro la schiena.

Sulla tavola aveva disteso un mezzo telo di lenzuolo.

La signora Adelaide aveva dovuto sedersi a un angolo fuori del sole
vicino a lei. Betta sempre con quel fazzolettone, che le fasciava la
faccia gonfia e giallastra, stava in piedi all'altro capo, dentro
l'ombra grande della mamma; le sue mani tremavano d'emozione, mentre
cogli occhi spalancati seguiva lo spiegarsi della sottana così larga al
disotto che cadeva dalla tavola e nella purezza del suo colore
cilestrino pareva una qualche cosa straordinaria in quella camera.

La signora Veronica spianò colle mani l'ultime pieghe.

--A fare una cosetta per bene,--disse lentamente,--ci vorrebbe un
modello. Il vestone, che Betta ha indosso, lo tagliai ad occhio e croce,
ma questo, che dovrebbe servire per andare fuori qualche volta la
domenica, bisognerebbe disegnarlo meglio, non vi pare, signora Adelaide?
E poi, ecco perchè non avrei voluto sciupare così la sottana: al vestone
occorre mettere qualche cosa di bianco al di sopra e al di sotto, una
bavarina, una blonda increspata o a cannoncini, mi capite, non è vero?
Ogni stoffa ha le proprie esigenze: lo sapete meglio di me.

--È vero,--mormorò l'altra--quasi quelle parole evocassero in lei
ricordi lontani.

--Come vogliamo dunque fare?

--Prima scucire la cintura e i teli.

--Questo si sa.

La signora Veronica aspettava sempre colla forbice nella mano e una
certa pensierosità sulla fronte.

--Levati il vestone, Betta; lo proveremo così sopra la sottana prima di
sciupare qualche cosa.

La fanciulla con ambo le mani dietro la schiena si mise subito a
sbottonarlo senza trarsi il fazzoletto; sulla bocca le tremava un riso
silenzioso, che non si vedeva, perchè in quell'atteggiamento doveva
tenere la testa bassa, ma non fu l'opera che di pochi secondi:
improvvisamente la testa vi sparve dentro, tutto il suo corpo si agitò,
e il vestone cadde sulla tavola.

--Bada,--gridò la mamma,--che non sia sudicio sotto il collo!--Ma lo
scuoteva già colla mano in alto, fuori della tavola.

Betta era rimasta con quel fazzoletto nero e una camicetta scura, tutta
rattoppata, attraverso la quale traspariva pietosamente la sua figura di
scheletro. Quasi per una subita sensazione di freddo si scostò per
entrare nel sole.

--Dammi una sedia, ma rimettiti al tuo posto; non ti voglio vicina, nè
quando taglio nè quando cucio.

Pareva tranquillissima. Così seduta non poteva vedere Tina raggomitolata
sotto la coperta, giacchè Betta silenziosa all'altro capo della tavola
le toglieva mezza la vista del letto.

Ma col lembo inferiore della sottana fra le mani la signora Veronica non
si decideva ancora.

--Guardate,--disse alla signora Adelaide:--è un vero peccato che le
sottane usino adesso così sghembate: disfacendole, non se ne cava
nulla...--E s'interruppe davanti al viso immobile dell'altra. Qualche
cosa le passò in fondo agli occhi, come un tremito di pietà; quindi per
toglierla da quella dolorosa atonia raddoppiò la chiacchiera.

--Quando siete venuta a chiamarmi ero risalita allora allora: giù la
signora Giovanna aveva bisogno di vedermi. In fondo sono buona gente in
quella casa; mi hanno parlato anche di voi, ma essi pure si trovano in
grossi guai.

Così dicendo si decise finalmente a piantare la punta delle forbici
nell'orlo della sottana per staccarne la sottile fodera inamidata.

--Figuratevi che il marito passa un cattivo quarto d'ora; pare che alla
conceria si tratti quasi di mandarlo via; è una famiglia che potrebbe
benissimo resistere anche a questa disgrazia, ma capirete che si va
sossopra per molto meno. Invece la Gemma è sempre alla finestra per
vedere il figlio della Nena; mi sono affacciata anch'io un momento, e ho
visto che aveva messo sul davanzale un magnifico stivalino di pelle
nera. Si facevano dei segni; allora Gemma si è ritirata, ma la mamma,
credendo di aver indovinato tutto, le ha dato uno schiaffo. E tu, Betta,
vuoi stare ferma invece di tirare per la sottana a rischio di farmi
forare le dita? Male, signora Adelaide, battere così le figlie, quando
sono grandi, davanti a terze persone: naturalmente soffrono troppo e
fanno peggio.

L'altra sospirò.

Ma la signora Veronica, che voleva ad ogni costo attirarla nel dialogo,
proseguì:

--Io lo so, vedete; quando la signora Giovanna esce di casa per restare
fuori qualche tempo, Gemma fa un segno dalla finestra e lui sta
attento, attraversa la strada in modo da farsi notare il meno possibile
e viene su per le scale. Le altre due sorelle aiutano. Vedrete che cosa
accadrà più avanti. La Nena ha detto già colla mercantessa da carbone
nella bottega del Tombolino che suo figlio sposerà la Gemma perchè la
cosa oramai è fatta.

--Fatta,--ripetè la signora Adelaide, presa poco a poco nell'onda lene
di quelle parole.

--Mio Dio! ecco, non si vede molto ancora, ho guardato bene la Gemma, ma
quanto al resto deve essere vero. Temo invece che la cosa non debba
riuscire dal canto del padre. Quello è un osso duro; capacissimo di
cacciarla via di casa senza un centesimo, e allora l'altro, lo conosco,
non la sposa di sicuro. È svelto e niente affatto innamorato: lei,
invece, la Gemma, ha la tarantola. A proposito: la signora Giovanna mi
ha parlato anche di don Pietro.

--Sopra di che?

--Niente, che ha aiutato anche quella povera Maddalena, la lavandaia
vedova con quel branco di figli, che si è rotta la gamba destra per le
scale di casa. Egli verrà dentro oggi.

--Sì,--ripetè la signora Adelaide, e volse il capo; ma siccome Betta si
era ancora spostata potè vedere Tina.

--Non vi muovete: adesso tenetemi questa falda: così non vien fatto
nulla.

L'altra ubbidì, mentre la signora Veronica cogli occhi fissi sulla
cucitura seguitava:

--Sapete dove bisognerebbe andare? Dalla signora Cesarina,--seguitò
abbassando la voce.

--Tina mi ha detto che aspetta un regalo.

--Quale?

--Non si è spiegata.

--Quando si sveglierà, glielo dimanderemo. Non darà molto, perchè quella
donna la conosco, ma nel vostro caso qualche cosa si può cavarne. Certa
gente è soprattutto così: se vi debbono qualche cosa non vi danno nulla,
invece se non si credono obbligati a niente, sono capaci di
largheggiare. Sempre l'amor proprio! Che cosa avete mangiato stamattina?

--Ho bagnato mezza pagnottella nel caffè col latte.

--Io ho delle budelline di agnello e delle verze per fare un po' di
riso: ne prenderete una tazza con me.

--Ma lei, che da tre giorni non vuole prendere nulla!

--Bisogna aspettare.

--Credete che si rimetterà?

--Colla gioventù non si sa mai: non è finita che quando è finita
davvero. Se don Pietro non è ancora tornato, egli che ha un occhio da
medico, vuol dire che nemmeno lui teme una disgrazia improvvisa.

Questa assicurazione parve quietarle tutte e due. Adesso parlavano a
voce bassa come se si facessero delle confidenze; il discorso era
tornato sulla Gemma, che si stringeva troppo alla vita per far sporgere
il seno: anche la signora Adelaide sapeva della tresca, anzi risalendo
le scale una volta li aveva sorpresi a baciarsi.

Se ne ricordò.

Betta, indifferente al discorso delle due donne, si era rivolta al
letto: il sole arrivava sui capelli di Tina arruffati nel mezzo del
cuscino, ma il viso dell'ammalata, più basso, rimaneva nell'ombra.

La fanciulla si accostò in punta di piedi.

Tina aveva la bocca aperta e gli occhi sbarrati, opachi come un vetro.
Betta fece quel solito gesto, quando la chiamava per dirle qualche cosa,
ma Tina non si mosse: la sua fronte era quasi verdognola, e il sole fra
i capelli pareva accenderle delle fiammoline.

Un freddo sorprese Betta, che non osò chiamare: Tina! Istintivamente
volse il capo alle due donne, ma vedendole chine sulla falda della
sottana, tornò ancora a guardare Tina. Dormiva? Che cosa era? Betta
ripetè il medesimo gesto, allungandole la mano verso gli occhi, e in
tale atteggiamento scherzoso, con quel fazzolettone scuro che le
fasciava il visetto giallastro, e la camiciuola dalla quale la deformità
del suo corpicino appariva stranamente, si sentì anch'essa così ridicola
che ne sorrise per la prima.

Ma evidentemente Tina non se ne accorgeva.

Allora Betta si accostò, evitando di guardarla negli occhi, che
cominciavano a farle paura, poi colla mano destra le toccò la mano
sporgente dal letto. Era fredda.

Un inesprimibile terrore la fece tremare tutta; quindi abbassando la
testa, in punta di piedi, senza che le due donne se ne fossero accorte,
tornò al tavolo. Anche lei era diventata pallidissima: girò intorno allo
spigolo per avvicinarsi alla mamma, ma, involontariamente lo sguardo le
tornava sempre a Tina.

Le due donne avevano smesso di parlare, curve sulla gonna cilestrina,
già aperta sopra un fianco.

--Voltate il telo: così, bene!

Anche Betta guardava: adagio, silenziosamente, tirò la mamma per la
sottana; questa si volse, e vedendo la fanciulla così sconvolta frenò
il gesto d'impazienza, che già le sfuggiva.

--Che cosa è?--chiese cogli occhi.

Betta guardò il letto.

--Mio Dio!--gridò la signora Adelaide, che sorprese quell'occhiata; e
levandosi nervosamente, si precipitò verso la morta.

--Tina, mio Dio, Tina!

Betta scoppiò in pianto.

Colla faccia su quella mano gelata la mamma non piangeva, non
singhiozzava; si udiva solamente l'anelito faticoso del suo respiro
simile a quello di un ferito. Le campane di una chiesa vicina suonarono
mezzogiorno nell'aria vibrante del sole; Betta, appoggiata dietro la
sedia della mamma, aveva nascosta la testa. Allora la signora Veronica
si alzò per esaminare la morta: nessun dubbio, Tina era già spirata
silenziosamente, e colla bocca ancora aperta nello sforzo di un grido,
che non aveva potuto uscirne, guardava. A certuni pare che i morti
abbiano ancora uno sguardo; la signora Veronica ebbe questa impressione,
vedendo dietro l'azzurro delle pupille la stessa ombra mesta, come
quando la fanciulla colla fronte sopra una mano s'incantava per ore
intere.

La signora Veronica si commosse, guardò la mamma inginocchiata.

--Eh!--mormorò con un sospiro; poi risolutamente girò intorno al letto
dall'altro lato, e vi salì per chiudere quegli occhi.

La signora Adelaide alzò la testa al fruscio del pagliericcio senza
parlare.

--Aspettate,--disse l'altra prendendo fra le mani ambo i ginocchi della
morta; li rivoltò, quindi con uno sforzo improvviso, violento, li
distese. S'udì uno scricchiolio.

--È fatta: dopo, sarebbe stato impossibile allungare le gambe stecchite
dal freddo; lo sapete pure.

Ma sembrava che avesse faticato, ansava; quando fu discesa dal letto,
rimase alquanto immobile a guardarsi. Betta piangeva sempre.

--Va di là, tu,--le disse quasi severamente; poi accostandosi alla
signora Adelaide le prese una mano.

--Venite con me: faremo tutto dopo.

L'altra si lasciò attirare.

--Venite, venite.

La trascinò così sino alla porta, le si mise dietro per impedirle di
vedere un'altra volta la morta voltandosi.

Tina rimase sotto quella coperta cogli occhi chiusi nel sole, che adesso
le avvolgeva in una fiamma d'oro la faccia bianca; ma quell'ombra dentro
la bocca aperta era diventata quasi nera.



DOPO


--Buona notte, fatevi coraggio,--ripetè ancora la signora Giovanna,
mentre le tre figlie dietro di lei guardavano.

--Grazie.

--Volete che vi facciamo lume per le scale?

--No, no.

Poco dopo la porta si richiuse e la signora Adelaide rimase al buio.

Si sentiva la testa pesante forse per quello stufato di agnello, che le
avevano fatto mangiare quasi a forza, perchè aveva dovuto mettersi a
tavola colla famiglia della signora Giovanna, la quale, tutta compresa
della propria buona azione, voleva assolutamente essere obbedita. Quel
pomeriggio era stato lungo. La signora Giovanna, salita solamente colla
Gemma a vedere la morta prima che la mettessero nella cassa, aveva poi
forzato la mamma a discendere con lei per sottrarla almeno allo strazio
dell'ultimo distacco.

Adesso tutto era finito.

Il trasporto di Tina aveva avuto luogo verso le sei abbastanza
decentemente; i casigliani si erano prestati ad una colletta, don Pietro
aveva aggiunto il resto, ma nel viso melanconico pareva anche più
severo. La signora Adelaide, annientata da tutta quella novità, non
sentiva più che un gran freddo nell'ossa e qualche cosa come un velo
intorno alla faccia, che le annebbiava la vista. Solamente le era
rimasto un tremito nelle mani dopo quello sforzo di aiutare la signora
Veronica a mettere Tina nella cassa, mentre il sole riempiva tutta la
stanza della propria fiamma.

Adesso invece le scale erano buie.

Ella saliva adagio, aiutandosi colla mano nel muro quando un piede mal
fermo le si spostava sui mattoni slabbrati degli scalini e la faceva
traballare nella paura improvvisa di cadere.

--Non ci deve essere in casa nemmeno un mozzicone di candela,--mormorò.

Era la prima idea; pel resto sapeva che avrebbe trovato la casa in
ordine; che cosa poteva infatti esservi sossopra? Ma la signora Veronica
aveva spazzato persino il pavimento e spolverati i mobili per quella sua
smania della pulizia e per rispetto della morta.

--Vedete, io tengo tutto pulito in casa mia,--aveva ripetuto parecchie
volte:--questa volta però è un'altra cosa. I morti non ci appartengono
più; la gente, che viene a vederli, è come se entrasse in chiesa, ci
vuole molto rispetto, molto rispetto.

L'altra non aveva capito bene.

Invece la morte le accresceva senza misura quello sbigottimento di
abbandono da tant'anni così profondo nella sua vita. Colle mani
ciondoloni, le gambe che le mancavano sotto, stava a guardare ritta, o
si muoveva sempre troppo tardi per aiutare in qualche cosa. E il suo
gesto era così stanco che la signora Veronica le ripeteva:

--Lasciate, lasciate.

Era vero, se ne accorgeva anch'essa. Aveva pure sentito con nuova
amarezza di non soffrire come se lo era immaginato; i suoi occhi non si
gonfiavano di quelle lagrime che sembrano forarli, il suo cuore non
aveva urlato nello spasimo della disperazione, che non vuole essere
consolata e si consuma nella propria impotenza.

Quindi cedendo alla violenza della signora Giovanna, che nel trarla di
lì tornava a spiegarne il motivo con tutti, era sembrata quasi una delle
tante madri incapaci persino di fingere il dolore della propria
maternità perita forse nella miseria da troppo tempo. La signora
Giovanna stessa ne aveva ricevuta una cattiva impressione, mentre le
figlie sorridevano talvolta con quel sorriso involontario della gioventù
dinanzi a coloro, che non sono più niente nella vita; ed è quasi la
stessa ironia, come all'apparire di un cane randagio, spaurito, in una
qualche strada popolosa: la gente gli urla subito dietro, i monelli
l'inseguono, finchè un cane più forte gli si avventa, e allora tutti
ridono. Perchè? È cattiveria? È così. Ma davanti a certe tragedie,
coloro che non sono affatto disposti ad entrarvi, vogliono vederne il
dolore, altrimenti si fanno più duri.

Ella taceva. Seduta colla signora Giovanna sul canapè della stanza
coniugale, aveva udito benissimo il tramestio dei becchini nelle scale
troppo strette per la cassa, e tutte le porte si aprivano sui
pianerottoli, la gente discendeva; poi il tonfo cupo dello sportello,
quando la cassa sospinta da cinque o sei mani scivolò dentro il
cassettone della carrozza nera, aveva per un istante coperto il vocìo
della strada, e poco dopo il cavallo si era allontanato battendo
sonoramente i ferri sulle lastre.

Pallida, si era alzata per andare alla finestra: ma la signora Giovanna
lo aveva impedito.

--No, no, non istà bene: i vicini ne riderebbero.

Nelle scale il silenzio era profondo. Sempre colla mano al muro giunse
sull'ultimo pianerottolo, e si fermò tastando guardingamente l'uscio
della signora Veronica; ma era chiuso.

Intese parlare al di dietro, poi le voci tacquero. Improvvisamente si
ricordò quanto quella donna egoista, così abile a vivere della propria
miseria, aveva fatto per lei in quel giorno occupandosi di tutto, della
colletta, della cassa, uscendo per andare da don Pietro e dalla signora
Cesarina, che aveva mandato dieci lire e una corona bianca di narcisi.
Era questo il regalo chiesto da Tina per la propria bara. Ma capì che
adesso era finita ogni intimità, d'ora innanzi la signora Veronica non
avrebbe più alcun motivo d'interessarsi a lei come pel passato quando
Tina poteva da un giorno all'altro fare fortuna ripagandole il
beneficio. Era così, non doveva essere altrimenti: finchè si ha qualche
cosa nella vita, gli altri aiutano, poi si allontanano avendo bisogno,
specialmente i poveri, di pensare prima a se stessi.

Lentamente sospinse il proprio uscio.

Per la finestra aperta una luce pallida rischiarava la stanza. La tavola
stava nella cucina davanti al focolare, presso quel sofà sgangherato: al
di fuori si vedeva un lembo di cielo pieno di stelle in un sereno scuro,
e qualche riverbero dei fanali a gas saliva pei muri languidamente. Nel
silenzio un passo d'uomo echeggiò dal vicolo allontanandosi: doveva
essere poco più che un'ora di notte. Girò per la stanza tastando qualche
cosa, quasi a riconoscere gli oggetti, ma una paura e un'ombra le
crescevano dentro. Che cosa fare? Sapeva di non avere candela e che non
le sarebbe possibile discendere per battere all'uscio di qualcuno:
oramai tutti avevano fatto per lei più di quanto dovevano, e domani,
sempre, a ogni ritorno, sarebbe così, la stessa sensazione di freddo e
di abbandono. Una voce, quasi un grido le salì alla gola, ma lo soffocò
con ambo le mani, come tremando che potesse prolungarsi indefinitamente
in quel silenzio.

Dov'era Tina?

Nel cimitero lassù, non sapeva altro. Certamente avevano calata la cassa
in una fossa comune, fra cadaveri ignoti l'uno all'altro, e se n'erano
andati senza nemmeno voltarsi per stendere sulla terra smossa quella
corona di narcisi bianchi. Eppure Tina non avrebbe chiesto di più: tutta
la sua primavera non aveva avuto altri fiori.

Infatti la fanciulla non amava il lusso e non sentiva quei desiderii
voraci, pei quali ella si ricordava di aver sofferto sino in ultimo.
Tina ignorava tutto: in altra condizione sarebbe forse vissuta a lungo
felice, senza accorgersi che gli uomini esistessero, e invece era morta
a sedici anni per colpa loro. Improvvisamente un rancore simile ad una
fiamma le montò dall'anima contro quella illusione di fare fortuna
essendo più buone o avendo sofferto più delle altre; il sangue le si
accese, poi un pensiero anche più triste lo spense tosto: perchè
lagnarsi? Non era inutile?

Se in quel momento avesse potuto gridare all'uomo, che pel primo gliela
aveva presa: «Mia figlia è morta, sei tu, sei tu che l'hai uccisa!» non
le avrebbe egli, già immemore di quel mattino lontano, risposto con un
sorriso? Non erano così tutti gli uomini? Non pensano tutti che le
donne, rassegnandosi a certe cose, esercitano un mestiere, il quale ha
naturalmente i rischi di ogni altro?

Talvolta anche se ne muore, ma la colpa non è di nessuno.

--Ecco tutto!--disse con un amaro sorriso.

La gola le bruciava: quindi si alzò dal canapè per cercare nella madia
quel resto di latte, che Tina non aveva voluto bere: non lo trovò.

Anche il secchio era vuoto.

Una sete l'ardeva; pur sapendo che non vi potevano essere, cercò
dappertutto dei fiammiferi e un mozzicone di candela per sottrarsi al
buio, nel quale si sentiva troppo sola. Uno per uno i ricordi della vita
si erano allontanati nell'ombra della notte, poi la debolezza tornava a
fiaccarle le gambe, mettendole nelle reni uno spasimo di arrembatura.
Tina era lassù.

Anche nei giorni buoni, quando capiterebbe ancora di cuocere qualche
cosa, ella non potrebbe più voltarsi per chiamare sorridendo la
fanciulla a mangiare nel medesimo piatto, adesso che erano tutte due
egualmente sole. Eppure sotto l'onda di quella tristezza non piangeva.
La sua testa smarrita nella nuova solitudine tremava timidamente senza
collera, senza nemmeno quel tragico abbacinamento dei grandi dolori, che
a poco a poco si obliano nella propria contemplazione, quasi il mondo
cessi loro d'intorno. Ella invece ne soffriva ritraendosi dinanzi alle
immutabili necessità, che si sarebbero rinnovate domani. L'egoismo
della sua natura sofferente da tanti anni si rannicchiava, come
d'inverno certi vecchi poveri sotto il vento di tramontana si stringono
nei cenci alle porte delle chiese, sentendo l'ultimo calore del sangue
risalire verso il cuore; e allora non hanno più la forza di chiedere,
mentre qualche cosa si mette a singhiozzare nel fondo delle loro anime.
Anche Tina era stata così: la sua giovinezza muta, la sua obbedienza
passiva nascondevano una di quelle tragedie incomunicabili, davanti alle
quali i cuori più sensibili rimangono sordi.

La fanciulla infatti non aveva mai voluto raccontare che cosa avesse
sofferto la prima volta in quella camera della signora Cesarina.

Ma questo pensiero la ricondusse alla necessità di entrare nell'altra
stanza.

Che cosa faceva nella cucina? Per guadagnare tempo cercò di passare in
rivista le persone, alle quali avrebbe potuto presentarsi l'indomani per
chiedere aiuto; e la prima fu la signora Cesarina.

--No, no,--proruppe a bassa voce:--mi farebbe dire senza dubbio di non
essere in casa.

Quella donna non aveva cuore, le si vedeva in faccia.

Ma era già all'uscio, rabbrividendo per tutti i nervi come dinanzi a
qualche terribile cosa, che dovesse accaderle. Si ricordò che Tina era
rimasta per sempre colla bocca spalancata nello sforzo dell'ultimo
grido, perchè la signora Veronica chiudendole gli occhi si era
dimenticata di stringerle sotto il mento il solito fazzoletto. E al suo
cuore di madre questa sensazione si era rinnovata poi dolorosamente,
quando dovette accorgersi che le mascelle irrigidite dal freddo della
morte non si sarebbero più chiuse.

Una paura inesprimibile le aveva agghiacciato l'anima. La fanciulla,
così sottomessa a tutte le violazioni della propria vita, aveva forse
tentato di gridare nell'ultimo momento, cogli occhi già pieni di
un'ombra immobile.

Ella stessa si sentiva riprendere dallo spavento della tenebra.
Quell'altra finestra sarebbe aperta? Non sapeva spiegarsene il perchè,
ma credeva di sì per un senso di misterioso rispetto alla morta. Aspettò
coll'orecchio teso nel silenzio ascoltando i battiti del proprio cuore.

Un sudore freddo le bagnava la fronte.

Entrò.

La finestra era aperta, nella camera illuminata dal chiarore della notte
niente era mutato: rapidamente si diresse al letto dal suo solito canto
e cominciò a spogliarsi colle mani tremanti.

Raggomitolata sotto le coperte, come se avesse freddo davvero, si teneva
con ambo le mani un lembo del lenzuolo sulla faccia, ma il cuore invece
di calmarsi le batteva sempre più precipitosamente. Allora le lagrime
cominciarono a caderle per le guance, e un singhiozzo lungo la scosse
per tutti i nervi. Qualche cosa le si scioglieva dentro, liberando
finalmente la sua anima dal peso ineffabile del silenzio. Ah! come era
sola adesso che Tina non le stava più accanto riscaldandola col suo
corpo giovane, che d'inverno le si stringeva sempre più presso, talvolta
abbracciandola anche nel sogno! Il letto era sempre così. La signora
Veronica invece di rifarlo si era contentata di spianarvi sopra quei
lenzuoli saturi ancora di tutto il sudore triste dell'ammalata. Ella ne
raccapricciò, malgrado l'abitudine oramai vecchia ai sudiciumi della
miseria, e seguitò a piangere in un dolore quasi dolce. Tutta la sua
tenerezza si effondeva in quel pianto silenzioso, mormorando appena il
nome della figlia: Tina, Tina! Non avrebbe voluto altro. Non pensava più
all'indomani, non si ricordava più nulla. Invece sentiva sul fianco la
sua buca scavata nel pagliericcio, più grande forse di quella lassù nel
cimitero. Ella non voleva che Tina, la sola creatura, dalla quale fosse
stata amata per sedici anni, anche nei giorni peggiori, quando ella
stessa si accorgeva di diventare bisbetica e di trattarla male. Era lei,
la mamma, che faceva così, Tina no: la guardava negli occhi abbassando
la testa, e poco dopo veniva a tirarla per la sottana con un sorriso.
Eppure la povera fanciulla avrebbe avuto il diritto di essere cattiva in
quella vita di miseria, senza mai una consolazione. Per quanto adesso
ella si credesse infelice, qualche bel giorno lo aveva avuto; ma Tina
mai, nè da bimba nè da fanciulla, nemmeno quelle gioie della infanzia
che trova dappertutto un sorriso, nemmeno quelle speranze della
giovinezza, nelle quali ogni donna sale come dentro un incanto. Ed era
morta per darle da mangiare, non c'era più.

--Tina, Tina!--ripeteva colle mani tese nell'ombra della notte
primaverile.

Poi si volse disperatamente ed afferrò il cuscino, sul quale era
spirata; lo strinse, lo baciò in una smania, che la fece cadere dentro
la buca stessa della morta. Diè un balzo d'orrore, e si trovò dall'altro
lato, inginocchiata per terra, col cuscino fra le braccia.

--Sono stata io! Tina, Tina, perdonami di averti messa al mondo,
perdonami, perdonami!

E questo grido le saliva finalmente dalle labbra con tutta la sua anima
di madre, che nello spasimo dell'amore si pentiva di avere dato una
creatura al tragico mistero della vita.


FINE.





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