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Title: Fior di passione
Author: Serao, Matilde, 1856-1927
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


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Europe at http://dp.rastko.net



                            MATILDE SERAO

                          FIOR DI PASSIONE

                              NOVELLE.



                               MILANO
                       GIUSEPPE GALLI, EDITORE
                 _Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80_

                                1888.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

             _Tip. Filippo Poncelletti--Via Broletto 13_



                          NOVELLA D'AMORE.


Fulvio s'inchinò, prese dalla mano di Paola il gelato che ella,
sorridendo dolcissimamente, gli porgeva, e le disse, guardandola negli
occhi:

--Vi amo.

--Non dovete amarmi--mormorò lei, senza scomporsi, seguitando a
sorridere.

--E perchè?

--Perchè ho marito--ribattè ella, ma placidamente.

--Non importa!

E gli occhi di Fulvio, di un tetro azzurro, lampeggiarono di passione.
Ella restava innanzi a lui, senza mostrare alcun turbamento, sorridendo
ancora, tutta rossa, con le belle braccia bianche e prosciolte sotto il
merletto nero delle maniche. Sul merletto nero e sulle bianche braccia
scintillavano i braccialetti gemmati: erano ricaduti sui polsi, ella si
occupò a risollevarsi verso il gomito, con molta cura, giocherellando
con le catenine d'oro, coi cerchiolini sottilissimi. Irritato, Fulvio
batteva col cucchiaino sul piattello del gelato:

--Andatevene--mormorò a un tratto, soffocando di collera--siete una
donna odiosa, io vi detesto.

Paola crollò lievemente il capo, come si fa per un malato incurabile, e
si allontanò da Fulvio. La brigata si aggruppava attorno al pianoforte,
dove un maestro giovane, pallido, con un grosso ciuffo di capelli neri
sulla fronte, accompagnava il canto di una fanciulla gracile,
biancovestita, con un filo di voce simpatica, che cantava una romanza di
Bizet. La romanza era di carattere orientale, una nenia bizzarra, a
volte piena di trilli allegri, a volte piena di lunghi singulti: e due o
tre signore s'illanguidivano, lasciavano liquefare il gelato nel
piattello, prese dal delicato lamento della fanciulla orientale: il
marito di Paola si dondolava in una poltrona, fumando, tranquillo,
guardando con occhio distratto la svelta figura di sua moglie, tutta
vestita di nero, tutta scintillante di perline nere. La freschissima
brezza marina entrava dalle quattro finestre di quel lungo salone:
appoggiato alla finestra, Fulvio guardava il mare, come assorbito. Ora
Paola offriva le sigarette ai giovanotti e alle signore che osavano
fumare. E la mano che porgeva il porta sigarette era così bianca, così
pura di linee, che Fulvio sentì struggersi di tenerezza.

--Perdonatemi--fece lui, levandole in faccia gli occhi supplichevoli.

--Amico, non ho nulla da perdonarvi--disse Paola, soavemente.

--Sono un brutale: voi siete buona.

--No, no--e fece per ritirarsi.

--Non restate mai un momento accanto a me--mormorò lui con voce di
pianto.

--Non posso, amico: questi signori hanno bisogno di fumare. Ecco il mio
marito senza sigarette....

S'involò, leggiadra, offrì le sigarette a suo marito, sorridendogli. Il
marito la guardava quietamente, con un'aria soddisfatta di uomo dalla
felicità imperturbabile e sceglieva la sigaretta, a lungo scherzando con
le dita della moglie. Pareva che si dicessero tante cose, marito e
moglie, tante cose d'amore: ed erano così giovani, così belli, così bene
accoppiati, che i loro amici li consideravano con compiacenza, come si
guardano due fidanzati. Tutto solo appoggiato alla finestra, Fulvio
fissava la scena e impallidiva: fece due o tre passi avanti. Ma, ecco,
ella veniva di nuovo a lui, snella, leggiera:

--La sigaretta è spenta: volete del fuoco?

--Non temete voi--fece lui, a denti stretti, ma col più amabile fra i
sorrisi--non temete voi che io uccida vostro marito?

--La spagnoletta è spenta....

--Vedrete che lo uccido, signora.

Senza più dirgli nulla, fattasi un po' seria nella faccia, Paola si
allontanò da lui, a rilento, come se l'avesse colpita una parola
dolorosa. Ora tutti complimentavano la signorina Sofia che aveva cantato
così bene _les adieux de l'hôtesse arabe_: e la gracile fanciulla, tutta
malinconia, sorrideva modestamente.

--Vi piace Bizet? chiese Sofia a Fulvio, che si era accostato al resto
della brigata.

--Bizet?--fece lui come trasognato.

--Sì: vi domandavo se vi piace.

--Assai--mormorò lui, distratto.

La fanciulla gracile e mesta lo guardò e ripetette, come fra sè, le
prime parole della romanza francese:

--_Puisque rien ne t'arrête_....

Ma egli non udì, concentrato nei suoi pensieri.

--.... _adieu bel étranger_--finì Sofia pianissimamente.

Attorno al pianoforte, ora, si rideva. Il maestro giovanetto, pallido,
col grosso ciuffo di capelli neri sulla fronte, arrivato da poco da
Londra, raccontava a quei suoi amici napoletani l'ostinazione delle
_misses_ e delle _mistresses_ inglesi a volere imparare le patetiche
romanze italiane: ne rifaceva le smorfie e le contorsioni, vivacemente
col brio del napoletano che si vendica della lunga stagione di nebbia
sopportata a malincuore. Tatti ridevano, specialmente il marito di
Paola: Paola, ritta in piedi, si sventolava col grande ventaglio di raso
nero, dove un pittore fantastico aveva dipinto un paesaggio lunare. E
Fulvio, non potendo parlare, guardava Paola: la guardava con tanta
intensità, con una fissità così ardente, che a lei le palpebre
batterono, due o tre volte, quasi per fastidio. Ma lui non si scosse,
avvinto, ipnotizzato, bevendo dagli occhi di lei, che non lo guardavano,
il fascino invincibile: ed ella, naturalmente, come se la luce soverchia
la infastidisse, levò l'ampio ventaglio di raso nero e si nascose il
volto. Ora Fulvio non vedeva che il busto scintillante di perline nere e
la mano sottile levata, premente le stecche nere del ventaglio: una vela
di raso nero gli celava la faccia di Paola: tutti ridevano per le
caricature del maestro di musica: Fulvio aveva gli occhi pieni di
lacrime. Sofia lo guardava, con un lievissimo, malinconico sorriso.

Ma un delicato suono di mandolino entrò dalle finestre che davano sul
mare: le risa tacquero, tutti tesero gli orecchi. Il suono si
avvicinava: e la brigata, come attratta, si affollò alla porta che dava
sul terrazzo. Nero era il mare, nella notte nera: altissime, tremolavano
le stelle, sul cielo nero. Attraverso l'oscurità del mare una barchetta
passava, portando a prora una fiaccola sanguigna che si rifletteva
nell'acqua e vi metteva una vampa: sulla barchetta qualcuno suonava il
mandolino, ma non si distingueva chi fosse; qualche cosa biancheggiava,
come il vestito d'una donna, E la facella sanguigna rifletteva la sua
luce nel mare, e il mandolino invisibile si lamentava e l'ombra bianca
era immobile, e la barchetta filava; un silenzio aveva colto la lieta
brigata.

--È una romanza in azione--disse il maestro di musica rompendo il
silenzio.

--Duetto d'amore--strillò un giovanotto.

--Non li disturbiamo--disse soavemente Paola.

--Ehi, dalla barca!--urlò il marito di Paola, come per contraddire sua
moglie--buonasera, buonasera, divertitevi!

Tutta la brigata ripetette:

--Buonasera, buonasera, divertitevi!

Subito, immergendosi nell'acqua marina, la fiaccola sanguigna si spense,
il mandolino tacque, la barchetta vogò nella tenebra e nel silenzio.

--Troppa superbia, o innamorati!--strillò il marito di Paola.

--Beati, loro--disse Fulvio,

--Perchè li invidii?--chiese il maestro di musica.--Napoli ha le sue
spiagge piene di barchette e le sue case piene di vestiti bianchi.

--Nè vi è scarsezza di mandolini--aggiunse il marito di Paola.

--Che m'importa della barchetta e della musica e del vestito bianco!
Quelli si amano: io li invidio.

--Oh il sentimentale, il sentimentale!--esclamarono duo o tre.

--L'amore è una bellissima cosa--disse Fulvio, con una convinzione
profonda.

--Che scoperta, perdio!--gridò il marito di Paola.

--Bisogna ammogliarsi--disse il maestro di musica.--Fulvio, guarda la
signora Paola e suo marito: bisogna ammogliarsi.

--Bisogna ammogliarsi--ripetette soavemente Paola.

--Bisogna morire--mormorò Fulvio.

Ma gli amici e le amiche rientravano nel salone: si combinava, per la
sera seguente, una gita per mare, con due barchette, con musica. Non era
meglio aspettare che venisse la luna? Ma no, le gite con la luna sono
volgari, non si ha paura di nulla, ci si vede troppo chiaro: è meglio
andare nella notte, come la barchetta degli amanti. Questo dicevano le
signore: i signori proponevano di portare la cena. Sulla soglia della
porta, verso il terrazzo, Paola disse a Fulvio, da lontano:

--Siete anche voi della gita?

--No, no, sentite...--disse lui, con voce soffocata.

Ma ella non uscì sul terrazzo. Qualche signora parlava di andar via: ma
per trattenere gli invitati ancora un poco, Sofia si mise a cantare il
_waltzer_ dell'_Ombra_, nella _Dinorah_. La gente, in piedi, ascoltava:
ma la breve voce simpatica della fanciulla non arrivava a eseguire quei
trilli complicati, quelle risposte dell'eco. Sibbene ella cantava quel
_waltzer_ come se piangesse: e invero quella musica, che è il pianto di
una illusione, pareva un singulto di dolcissima follìa.

--Datemi il mio ventaglio--disse Paola, dolcemente, a Fulvio, che se ne
stava solo solo sul terrazzo.

--No, se non mi sentite--disse lui, tenendosi il ventaglio stretto alle
labbra.

--Datemi il mio ventaglio--ripetette ella, con fermezza e con dolcezza.

--Sentitemi, sentitemi, ve ne scongiuro, è una cosa gravissima....

Paola non gli dette più retta, rientrò nel salone: ora il cameriere
portava attorno dei bicchieri pieni di malaga dove un pezzo di ghiaccio
galleggiava, ed ella girava premurosa, sorridente, serena. Quando ebbe
compiuto il suo giro, naturalmente si rammentò dell'altro suo ospite che
stava solo, nell'ombra, sul terrazzo, fra la nerezza del cielo e quella
del mare.

--Datemi il ventaglio, amico.

--Sentitemi....--disse lui, ancora.

E la voce era così piena di dolore, che ella si arrestò. Nella sala,
adesso, con la nova allegria del vino, cantavano un coro napoletano.
Ella ascoltava le parole di Fulvio.

--Sentite. Io debbo parlarvi. Debbo dirvi delle cose gravissime. Non
m'interrompete, Paola, ve ne prego, Ascoltate: ho da dirvi, da dirvi,
tante cose. Ma le dico presto, non dubitate. Ora non posso dirle. Vi è
gente di là, gente felice: io sono infelicissimo, Paola, se voi non
ascoltate quello che ho a dirvi. Siate paziente, ve ne prego. Io soffro
assai. Voi non soffrite, lo so: ma siete assai compassionevole. Ho da
parlarvi, dunque. Dobbiamo esser soli. Sentite. Io non lascio questo
terrazzo. Chiudete la porta, crederanno che io sia andato via. Ve ne
prego, chiudetela. Vostro marito andrà a letto.... e io voglio parlarvi.
Aspetterò qui fuori, quanto vorrete. Quando egli dorme, venite.

--Non verrò--disse lei, soavemente.

--Sentite, Paola, io sono come in punto di morte. Di là cantano e
ridono: qui vi è un agonizzante.

--Io non verrò,--ripetette lei, senza turbarsi.

--Sentite ancora. Ve ne scongiuro, in nome della vostra coscienza di
donna onesta, per la vostra virtù di fanciulla e di sposa, per la vostra
dolcezza e per la vostra pietà, non mi negate quest'ultimo favore....

--Non verrò.

--Se non venite, io mi ammazzo, Paola.

Ella lo guardò un minuto secondo.

--Io mi ammazzo, Paola, se non venite. Siete una cristiana. Non
lascerete morire un uomo così.

--Verrò--disse lei.


                                  II.

E venne. La notte era alta, oramai, sul golfo napoletano, e
lontanissime, scintillavano le tremolanti stelle: sulla deserta strada
di Posillipo, che sovrastava alla terrazza della villa, una fila di lumi
correva sino a Napoli: alta la solitudine, alto il silenzio. Le imposte
del balcone che davano sul terrazzo si schiusero pianissimamente e
un'ombra bianca, lieve lieve, scivolò sino a Fulvio che aspettava da tre
ore.

--Grazie--disse lui, cercando vedere il volto di Paola, all'oscuro.

--Noi siamo in fiero pericolo di morte--rispose lei, con molta dolcezza.

--Lo so--e chinò il capo.

Egli non parlava. Invece, nel momento che aveva strappato a Paola la
fatale promessa, la sua passione era in uno stato di esaltamento. Nella
prima ora di aspettativa, egli non aveva fatto altro che ripetere a sè
stesso, affannosamente, turbinosamente, quello che voleva dire a Paola:
e certe parole, certe frasi, mormorate sottovoce a sè stesso, lo avevano
affogato di emozione. Ella non veniva ancora. Sentiva che andavano e
venivano, per casa, i servi, riordinando le stanze, chiudendo le
finestre: sentiva le voci tranquille di Paola e di suo marito, che
discorrevano; ma non poteva udire le parole. Poi tutto fu chiuso, si
spensero i lumi, un grande silenzio regnò. Egli cominciò a tremare
d'impazienza, non osando muoversi, raggricchiato al suo posto, coi nervi
che vibravano, ripetendo confusamente, a brani, quello che voleva dire a
Paola, come un bimbo disperato cerca invano di raccapezzarsi nella
lezione imparata a mente. Paola non veniva. Egli aveva contato cento
volte i lampioni a gas, sulla via di Posillipo: erano trentatrè, gli
altri si perdevano in una fila di luce. Per ingannare il tempo, pensò di
contare le stelle; ma ci si perdette. Quante ore erano passate? Quella
notte era dunque eterna? E una disperazione rassegnata lo colse, lo
abbattè: forse Paola non sarebbe mai venuta. A lui non restava che
buttarsi di sotto, nel mare: giammai si sarebbe fatto cogliere dal
giorno, dal sole, su quella terrazza. E tale idea, tale soluzione lo
quietò. Un accasciamento profondo lo vinse e non seppe più nulla del
tempo e del luogo. Tanto che lo schiudersi del balcone e l'ombra di
Paola lo fecero appena trasalire. Ora, non trovava più nulla da dirle.
Tutto era finito, egli poteva buttarsi di sotto, nel mare nero.

--Che avete a dirmi, amico?

--Che vi amo.

--Me lo avete già detto. Null'altro?--e fece per andarsene.

--Vi amo, vi amo, vi amo!

--Amico, mio marito è di là che dorme. Se una zanzara gli fa udire la
sua canzoncina, se un mobile scricchiola, se la vostra voce o la mia si
levano un poco, egli si sveglia. Egli verrà qui: e noi moriremo.

--Questo cerco--mormorò con voce cupa.

--Morirei per voi, se vi amassi. Ma non vi amo.

--E perchè vi esponete alla morte?

--Per pietà.

--Non sentite altro, per me?

--Amicizia e pietà.

--Voi altre donne siete infami.

--Povero Fulvio!--fece ella, con molta dolcezza.

--Vi proibisco di compatirmi. Dovete amarmi, capite? Questo sono venuto
a dirvi.

--Non posso amarvi.

--Dovete. Ho il diritto di esser amato. Ah voi credete che sia nulla la
esistenza di un uomo? Credete che sia nulla passare accanto a un uomo e
togliergli tutto? Credete che sia, nulla farlo agghiacciare di freddo e
farlo avvampare, dandogli una febbre che mai non si placa? Credete che
una donna possa impunemente guardare con dolcezza, sorridere con
dolcezza, parlare con dolcezza, come voi guardate, sorridete, parlate? O
maledetta dolcezza, maledetta dolcezza!

Malgrado che le fosse molto vicino e quasi intuisse l'espressione del
volto di Paola, egli non vide le lagrime che le salivano agli occhi.

--Perchè, infine, io era una creatura felice. Io godeva la giovinezza e
il sole e la lietezza del mio paese e la giocondità dei miei amici! Io
aveva la serena indifferenza, la più grande felicità umana. Io era
egoista, ma tranquillo: io mi lasciavo amare, o non cercavo che mi
amassero. Sereno, sereno come Giove!

--Dio vi possa ridare la serenità--susurrò lei, con dolcezza.

--Dio.... io non lo prego!

--Lo prego io, sempre, perchè vi dia la pace.

--O femmina ipocrita! Non vi burlate anche del Signore, come vi burlate
di me. Sentite. Voi dovete amarmi, per forza. Vi amo troppo, per non
essere amato. Sarebbe una enorme ingiustizia. Non vi sono queste
ingiustizie, nel mondo. Il mondo è equilibrato, tutto si pareggia. La
mia fiamma è troppo viva, perchè non v'infiammi. Dovete amarmi.
Lascerete vostro marito, vostra madre, la vostra casa, i vostri servi,
tutto quello che avete amato, tutto quello che avete adorato: e verrete
con me. Andremo lontano. Saremo assai felici, assai felici, vedrete.
Saremo anche infelici, lo so; ma non importa, così è la vita. La
passione è più forte di noi. Io vi adoro, Paola, andiamo via.

--Voi siete pazzo, amico--disse lei, appoggiando il gomito sul parapetto
e guardando il mare, sotto.

--No, o se vi piace, sono pazzo. Questo non importa. Sta che non posso
vivere senza voi. Sta che ho bisogno di voi. Sta che vi voglio. Nessuno
vi vuole come me: ora nulla resiste al magnetismo della volontà, essa
liquefarebbe il diamante e spezzerebbe il ferro. Siete una donna, avete
viscere umane, sentite, amate, odiate, sentirete il magnetismo
dell'anima mia che vi vuole. Vostro marito vi ha, ma non vi vuole: è una
bestia. Io l'odio ferocemente. Volevo ucciderlo stasera: lo ucciderò
domani, se non venite via con me. Ma voi verrete. Siete venuta sul
terrazzo, verrete via con me. Andiamo.

E le prese la mano, risolutamente, per portarla via.

--No--disse lei.

--Venite via.

--No.

--Perchè?

--Perchè non vi amo.

--O Paola, o Paola, non parlate così--proruppe Fulvio, con voce di
pianto.

--Come volete che io parli?

--Tacete piuttosto. Il suono della vostra voce, così dolce e così
fredda, mi fa disperare. Tacete, ve ne prego.

Ella tacque. Fulvio si era buttato con le braccia e col capo sul
parapetto, soffocando i singhiozzi. Ella aveva chinato la testa sul
petto, come se pensasse profondamente. Una carrozza passò sulla via di
Posillipo, al trotto, un suono di risa squillanti arrivò. Paola levò il
capo.

--Non piangete, Fulvio.

--Non piango--disse lui, disperatamente,

--Siate forte.

--Sono assai forte.

--Sentite, sentite quello che vi dice l'amica. Voi guarirete facilmente.

--No, mai.

--Guarirete. Siete onesto, voi?

--Sono onesto.

--Ebbene, guarirete. La passione è una cosa disonesta. Io ho marito,
vedete. Questa sembra una risposta volgare: è onesta, invece. Quando
siamo giovanette, la madre ci dice: l'uomo che sposate dovete amarlo. Se
non potete amarlo, dovete almeno rispettarlo, dovete essergli fedeli e
obbedienti, conservargli il vostro corpo e la vostra anima, anche a
costo di morire di dolore. E queste parole non solo le dice la madre, ma
ce ne dà l'esempio quotidiano. Questo dovere di onestà, questa
tradizione di fedeltà, questa eredità di virtù, ci si trasmette nel
sangue, di madre in figlia. Non vi è nulla di sublime, vedete: è un
dovere, si compie.

--E si muore, Paola.

--Non si muore. La passione, cieca, insulta il marito, il buon marito
che dorme di là, calmo, fidente, senza un sospetto. Questa è la grande
ingiustizia. Perchè, infine, l'uomo che si sposa, anche quando fa un
matrimonio d'interesse o di ambizione, fa un sacrificio grave. Egli ci
affida il suo nome e il suo cuore: egli ci dà la sua fede e la sua
libertà: egli si lega a un vincolo indissolubile: egli si mette a
lavorare per noi e per i nostri figli, umilmente e gloriosamente. Noi
siamo la sua consolazione e la sua gloria: noi rappresentiamo per lui le
più dolci e più sicure soddisfazioni: la sua giornata passa nel
desiderio di ritrovarci, di vederci: le sue ore più care sono nella
casa, nelle nostre braccia. O che tesoro di piccoli e grandi sacrifici è
l'amore di un marito! Voi li ignorate. La passione ignora tutto: non
conosce neppure sè stessa.

--I mariti tradiscono le mogli--mormorò lui, come trasognato.

--Le tradiscono, ma le amano. Nulla vale a vincere quel legame profondo,
intimo, fatto di parole e fatto di lacrime, fatto di baci e fatto di
sospiri: nulla, vale a spezzare questo vincolo penetrato nel cuore e nei
sensi. Ma, ecco la passione: vuol vincere il sacro legame, vuol spezzare
il sacro vincolo. Chi siete voi? Un giovanotto, un uomo, un essere
qualunque, della infinita umanità: lontano da me, estraneo a me. Passate
per la mia strada: io, forse, passo per la vostra. E subito mi amate.
Che avete fatto per me? Nulla. Che potete fare? Nulla. Cioè, molto. Ho
un nome, volete togliermelo: ho un onore, voi volete che lo butti via,
come un cencio: ho la stima degli amici, debbo disdegnarla: ho la fede
del mio sposo, debbo tradirla: ho la pace della mia coscienza, debbo
perderla per sempre. Perchè? Perchè voi mi amate? Anche colui che dorme
di là, così tranquillo, mi ama.

--Non è vero.

--Che ne sapete, voi? Noi sole donne conosciamo chi ci ama. Parlate di
diritti, voi? O povero uomo che dormi, va, adora una donna, sino a
sposarla: dà a costei la miglior parte della tua vita: riponi in costei
tutta la sua speranza: siile fratello, padre, marito, amante, amico,
consigliere, infermiere: soffri per lei, nel corpo e nell'anima! Ecco
che un estraneo, un bell'egoista avvampante di capriccio, un uomo che
non ha fatto nulla, che offre alla tua donna una vita di disonore, ecco
che costui, per forza di violenza vuol toglierti tutto! Parlate
d'ingiustizia voi? Che fate qua? Perchè mi degno di ascoltarvi, di
difendermi, di darvi delle spiegazioni? Non so chi siate: non vi
conosco. Levatevi dalla mia strada. Andatevene.

--Voi non mi amate, Paola, ecco tutto.

--Questa è la verità, non vi amo.

Ma una fuggevolissima luce venuta dalla stanza del marito li colpì
entrambi. Un lampo brevissimo: poi l'ombra, di nuovo. Fulvio e Paola, si
guardarono, s'intesero. E quietamente, dolcemente, come se fosse sul
punto di morire, ella disse:

--Madonna benedetta, vi raccomando l'anima mia.

Sottovoce, orò. Fulvio taceva, aspettando. Ma nessun rumore si fece
udire, nessuna luce comparve, nessuno venne. Era stato un inganno.
Restarono così, per del tempo. Egli non osava interrompere quel
silenzio, non osava dire l'ultima parola. Tutto gli sembrava crollato,
intorno, nella notte nera: e non poteva camminare fra le rovine. Pure,
levando gli occhi, sentì che gli occhi di lei lo interrogavano
desiderosi della fine.

--Che debbo fare?--egli domandò glacialmente.

--Andarvene--fece lei, con dolcezza imperturbabile.

--Andar dove?

--Dove volete: non qui, insomma.

--Assai lontano?

--Assai lontano.

--Posso ritornare?

--No.

--Fra qualche anno?

--No, mai.

--Che farete, voi, qui?

--Passeranno gli anni: poi, morirò.

--Non vi vedrò mai più, Paola?

--Mai più.

--È la morte, questa, per me.

Ella aprì le braccia, come se nulla avesse ad aggiungere.

--Addio, dunque.

--Addio.

Non si diedero la mano. Egli voltò le spalle, rientrò nel salone oscuro,
camminando come un sonnambulo. Ella tendeva l'orecchio, come a sentirne
il passo attraverso la casa: e restava immobile, bianca. Poi lo vide,
dalla terrazza, camminare solo, sulla via di Posillipo, perdersi solo,
nella notte, nell'ombra, come un morto. Allora solo Paola si volse. Una
voce alle sue spalle le aveva detto:

--Paola, tu ami Fulvio.

Ella rispose al marito:

--Sì.

E le due disperazioni si guardarono in faccia.



                              PAOLO SPADA.


L'uomo di cui leggete il nome--nome poetico e predestinato--qui sopra,
era uno scrittore di novelle e di romanzi. Aveva trent'anni, era basso,
robusto, tarchiato, la fronte breve, gli occhi neri e lividi, le guancie
rosse, le labbra grosse e sensuali. Se pel romanziere vi è un tipo
stabilito che le fanciulle isteriche e le donne nervose hanno
immaginato--capelli neri e ondulati, fronte nobile, pallore arabo, occhi
pensosi, mustacchio soave, corpo snello--Paolo Spada non realizzava
questo ideale fantasioso. Egli dormiva profondamente per sette ore ogni
notte, faceva colazione con uova, bistecche, formaggio e vino,
passeggiava su e giù per le vie al sole, pranzava benissimo, ballava,
suonava il pianoforte, andava alla sala d'armi, pattinava, corteggiava
le signore--come ogni eccellente, forte e compito giovanotto può fare.
In quanto al suo umore, era quasi sempre allegro, con brevi accessi di
malinconia. Amava la buona compagnia, la conversazione arguta, la musica
di camera, le belle donne dalla testa greca; non aveva nè fedi, nè
dubbi: era indifferente. Ogni tanto cambiava d'innamorata.

Questo bravo galantuomo così somigliante ad un altro qualunque
galantuomo, era anche un novelliere, un romanziere. Aveva ingegno; non
quello che comunemente si chiama così in Italia e che tutti hanno a
ventidue anni, e per cui si scrivono odi libere d'ogni legge
grammaticale, novelle senza soggetto e tentativi di commedie senza
intreccio. Un ingegno vero, pulito, lucido, preciso, qualche cosa che
rassomigliasse naturalmente all'acciaio. Nessuna morbosità nella sua
intelligenza, nessuna nervosità malaticcia nella fantasia: una sanità
austera e franca, una robustezza quasi muscolare nella sostanza e nella
forma. Egli ammirava tutti gli scrittori il cui ingegno, per cause
misteriose, quasi sempre fisiologiche, diventa una malattia; egli era
pieno d'entusiasmo per le visioni paurose, lugubri, sanguinanti,
desolanti, che escono dai cervelli alcoolizzati per l'amore, per
l'acquavite o per l'arte. Ma era l'ammirazione di contrasto, di
opposizione, quella che l'avversario dà all'avversario, il saluto di
scherma, l'omaggio di giustizia reso al nemico. Poichè egli era sano di
mente e sano di corpo.

Così la sua qualità più alta era l'osservazione. Questo giovanotto
allegro e spensierato, che respirava l'aria ed i profumi dalle nari
frementi, che aveva la distrazione della gaiezza che passava da un
piacere ad un altro, da una impressione ad un'altra con una rapidità
giovanile, aveva il senso o l'intuito dell'osservazione. Quando
scriveva, pareva che ricordasse scene vissute o paesaggi visti. Nulla di
fantastico, nulla di creato, nulla che rassomigliasse ad uno sforzo
d'immaginazione. L'arte sua era potente, nella verità e nella
espressione. Ma non vi era poesia in quello che scriveva.

                                  *
                                 * *

Eppure questo Paolo Spada era il più grande sognatore che io abbia mai
conosciuto. Egli sapeva le segrete voluttà di quelle ore solitarie,
passate sopra una poltrona, lungo disteso, contemplando il soffitto
bianco su cui è dipinta una corona di rose. Sapeva le ondulazioni molli
di quelle lente passeggiate per la casa, innanzi ad un quadro, ad un
ritratto, presso il caminetto, dietro i vetri del balcone. Sapeva il
segreto di quelle passeggiate concitate, su e giù per le stanze, la
testa china, i pugni stretti nelle tasche, senza veder nulla, urtando
nei mobili, dicendo qualche parola ad alta voce. In quelle ore la sua
porta era chiusa: nè amico, nè donna, potevano entrare. Egli sognava! ed
era un sogno così poco vago, così poco fluttuante, così vivo, così vero,
così afferrabile che quasi stendeva le mani per pigliarlo. Tutti i
contorni di un sogno erano definiti, precisi, con una nettezza di linee
quasi troppo forte, con un risalto energico sul fondo. Il paesaggio gli
si rivelava nelle parti più intime, nei recessi più oscuri, nelle
vastità più sconfinate; egli lo vedeva come in un quadro, meglio che in
un quadro, come è la natura. La scena della novella egli la vedeva
svolgersi innanzi ai suoi occhi, coi personaggi che discorrevano,
agivano, si muovevano, si abbracciavano, si uccidevano, meglio che sul
palco scenico, come nella vita. Egli palpitava, fremeva, non osava
muoversi, non osava respirare; era commosso, febbricitante innanzi al
suo sogno che era vita.

Ma dove il suo sogno arrivava al suo più alto punto di sogno e di
realtà, era nella creazione dei personaggi. Egli li _vedeva_; gli
apparivano, non come fantasmi, ma come persone vive, lo guardavano, gli
parlavano, vivevano con lui, col viso che lui aveva dato loro, con quel
corpo, con quei vestiti, con quello sguardo, con quella voce. Le donne
specialmente. Venivano a trovarlo, nelle sue ore di sogno, fanciulle
castane, dagli occhi pieni di luce e di bontà, dai sorrisi semplici,
donnine bionde e delicate, dalle movenze aggraziate, dalle labbra di
carminio, donne brune e splendide, dagli occhioni di baiadera, dalle
bocche provocanti e voluttuose, verginelle pallide e mistiche, dai volti
esangui e dai corpi magri, peccatrici dagli occhi tinti e dalle guance
biaccose. Venivano nei loro abiti di raso, di lana, di broccato, di
cenci, di teletta, di trine, tutte sfolgoranti di bellezza, sorridenti
di bontà, traspiranti malinconia, emanando il profumo del cielo o il
profumo della colpa. Esse venivano a lui, sedevano, gli narravano la
propria vita, piangevano, ridevano appoggiavano il capo sulle sue
ginocchia, canticchiavano una canzoncina, mormoravano dei versi pieni di
dolore, suonavano sopra l'arpa una tarantella, sfogliavano dei fiori,
poi, come Ophelia, partivano per ritornare. Lui le conosceva, le
chiamava per nome, sapeva la loro vita, Qualcuna, la più stranamente
bella, la più misteriosamente incantatrice, la più gaia o la più triste,
lo abbracciava e lo baciava, lievemente, sulla fronte, poichè egli
l'amava.

                                   *
                                  * *

Il suo primo libro di novelle, tutte inedite, che egli non aveva voluto
pubblicare prima pei giornali come è l'uso, fecero grande rumore e
sollevarono molte discussioni. Nessuno però poteva negare la potenza
dello scrittore, la forte virilità dell'arte sua, la purezza e la
semplicità dei mezzi artistici. Come in tutti i primi libri, vi era un
rigoglio d'idee, un bosco folto ed intralciato, tutto cespugli, tutto
farre, una condensazione di pensiero nutrita, polposa. Come in tutti i
primi libri, tutti i difetti di forma erano salvati dall'impeto che
trascina via tutto, dal calore che si comunica al lettore. Questo libro
robusto e virginale ebbe per sè il pubblico. Pure verso la fine di ogni
novella si notava nello scrittore, e si comunicava al lettore, un senso
di malessere, come un imbarazzo penoso, come un pensiero latente che
arriva a distrarre dai pensieri attivi. Poi le novelle finivano, come
troncate, senza conclusione, quasi gettate via con disdegno. Una
specialmente, sovra una monachella innamorata, terminava così
bruscamente, così male, che la critica nemica la notò come un difetto
serio. La critica amica rispose che quella era sprezzatura artistica--e
parve a molti così e tutti si tranquillarono, aspettando il primo
romanzo di Paolo Spada.

Fu invece un racconto di cent'ottanta pagine, interessante, acuto,
scritto con una profonda coscienza di novelliere. Mai s'era vista unita
tanta intensità e tanta leggiadria. Era un'opera pensata, ma fresca.
Verso il penultimo capitolo tutte queste qualità si perdevano
miseramente, svanivano. Regnava l'impaccio di un principiante che non sa
come liberarsi; nell'ultimo capitolo la protagonista doveva
_assolutamente_ morire: invece, non si sa come, non si sa perchè, non
moriva, stava bene e si sposava un personaggio qualunque. Era una
volgarità indegna di un artista. Dopo molte lodi al principio del
racconto, tutti biasimarono vivamente la fine.

Ma dopo fu sempre così nei romanzi di Paolo Spada: le sue protagoniste
belle, buone, cattive, umane, simpatiche durante tutto il romanzo, alla
fine diventavano triviali e ridicole. Colei che si suicidava, non sapeva
suicidarsi abbastanza bene per morirne; quella che era distrutta da una
tisi al terzo grado, trovava una medicina miracolosa che la salvava, e
sposava il medico; quella che era presa dalla meningite, faceva una cura
violenta di chinino e si guariva; quella che per un amor tradito era
ridotta all'ultima disperazione ed al desiderio della morte, si
consolava senza una ragiono al mondo, borghesemente. Qualcuna poi, come
nelle prime novelle, scompariva improvvisamente e non se ne aveva più
notizia. Così un intiero e spasimante dramma psicologico si risolveva in
un matrimonio ed in una scampagnata. Così tutta l'opera d'arte era
guastata, rovinata da quella fine illogica, assurda, borghese. Così quel
tratto finale in cui tutta la valentìa dell'artista era perduta, perdeva
il libro. Fu detto di lui che era debole, che il suo ingegno aveva dei
lucidi intervalli, con alternative di tenebra. Fu detto di lui che
sapeva cominciare i suoi libri, ma non finirli. La leggenda rimase. E la
reputazione di romanziere di Paolo Spada si smarrì fra le infinite
mediocrità che affliggono l'arte.

                                   *
                                  * *

Io seppi il suo segreto. Una sera, in un'ora di espansione amichevole,
mentre io lo interrogava con gli occhi senza parlare, egli mi narrò,
lungamente e con frasi entusiaste, tutto un suo nuovo romanzo. Lo
lasciai dire, ammirando quella robusta fisonomia di uomo gagliardo che
si rischiarava.

--E la protagonista, come finisce?--domandai.

Ma mi pentii subito, poichè lo vidi impallidire.

--Non so,--rispose vagamente,--non so.

--Ascolta,--riprese dopo un silenzio penoso,--ascoltami, poichè ti dirò
quello che non dissi a nessuno. Ti spiegherò quale è il cruccio della
mia esistenza; quale è la rovina del mio ideale d'artista. Senti. Per me
il sogno di quello che scrivo, è così vero che è come la vita. Attorno a
me i miei eroi esistono. In me, con me, per me, esistono le mie donne.
Io le evoco, esse vengono. Le ho create io, sono vita mia, forma mia, mi
appartengono, mi vogliono bene, lo le amo senza confine, senza misura,
con la più cieca passione, io le amo. La mia innamorata non è Rosina che
tu conosci, è Fulvia di cui io sono il creatore ed io l'amante. Fulvia
figura ideale, più donna per me di Rosina. Io scrivo la loro storia,
preso da una emozione che mi affoga, come se narrassi la vita
dell'essere che adoro. Scrivo, scrivo, felice, entusiasmato di far
sapere al pubblico la loro bellezza ed il loro amore, esaltato all'idea
che queste divine creature faranno palpitare altri cuori. Altri come me
le ameranno, queste fanciulle celestiali ed amorose, queste donne
passionate. Io provo il piacere più profondo che sia dato provare allo
spirito umano. Ma quando la loro vita declina, un'angoscia sottile mi
vince; io le amo, non posso vederle declinare; quando sono prese dalla
malattia per cui debbono morire, io le amo e mi lascio invadere dalla
malinconia; quando esse precipitano alla catastrofe in cui debbono
perire, io sono assalito dalla disperazione, perchè le amo. Poi,
dovrebbero morire, mentre io le amo. Io, che le amo, dovrei ucciderle.
Brevemente o lungamente dovrei descrivere la loro agonia e poi
ammazzarle. Non posso. Il cuore mi si strazia e non posso. Mi par di
uccidere, a tradimento, una persona viva e sana; mi pare di affogare, in
un cantuccio oscuro, una donna senza difesa: mi pare di scannare, di
notte, un bambino. Non posso ucciderle. Perchè dovrei uccidere l'amante
che è bella, che è buona, che non m'ha tradito? Io non posso. Ho orrore
di me e non posso. Aspetto, penso, rifletto, mi torturo. L'arte mi dice:
Fulvia deve morire. Ed io le grido, piangendo: Non voglio che essa
muoia! L'arte mi dice: Uccidila. Ed io mi consumo di dolore, gridando:
Non posso, perchè l'amo. Io aspetto: aspettazione tormentosa. Nulla
appare. Allora io salvo la mia creatura agonizzante nel modo meno
artistico, più volgare che sia. Ella vive, io moro. Non è ridicolo ciò?
Ma è straziante. Queste adorate figure che io non so uccidere, uccidono
in me tutto: la felicità e la gloria. Io muoio della loro vita.



                             SULLA TOMBA.


Quel pittore singolare faceva dei singolari quadri. Il suo grande pregio
era l'energia del concetto vivamente spiegato nella forza del colore.
Non piacevano a tutti i suoi quadri; specialmente a coloro che si
compiacciono dei lavori leccati, verniciati e dipinti sino all'ultima
linea; specialmente non piacevano ai cultori delle figure eleganti e
pallide da acquarello, a quelli che vanno in estasi dinanzi ai toni
delicati di una oleografia. Coloro che avevano questi gusti graziosi,
gentili e meschini, trovavano i suoi quadri duri, troppo forti, troppo
pieni di cose: vi si respirava un'aria troppo carica di ossigeno pei
loro deboli polmoni. I paesaggi del pittore erano sempre contorti e
violenti, dalle linee spezzate; i suoi _Tramonti_ erano tragici, quasi
un carattere di passione si mettesse nel sangue aggrumato del sole senza
raggi. I suoi _Interni_ erano cupi, un fondo unito, senza concessioni di
forma, senza lenocinii d'artista poco coscenzioso che mette più in luce
un seggiolone intagliato, un grande caminetto che le figure del suo
quadro. Gli si addebitava anche una certa sprezzatura del disegno, un
bizzarro modo di contorcere lo scorcio dei suoi personaggi, una ricerca
dei soggetti gravi, e che fanno pensare. I suoi quadri avevano
carattere.

Il pittore era ancora giovane e robusto, malgrado otto o dieci anni di
travaglio continuo per farsi accettare in questa società in cui pare che
non tutti godano il diritto di vivere. Egli non aveva fatto che
lavorare, lavorare sempre, ed il successo era venuto lentamente, ma era
venuto. Aveva trentasei anni, ed era alto, fortissimo, con una testa
poderosa e leonina, un po' rigida di contorni, con certe spalle erculee
che reggevano ad ogni fatica. Quando la foga del dipingere se lo
prendeva, allora rimaneva dodici ore in piedi, innanzi al cavalletto,
senza provare un minuto di stanchezza, senza impallidire. Per ritrovare
un paesaggio camminava per ore ed ore, inerpicandosi sulle roccie,
scendendo nei burroni, salendo sugli alberi, scavalcando muri, nell'idea
ostinata di vedere quello che doveva dipingere. Era costante, tenace,
ferreo nella sua volontà.

A trent'anni aveva sposato una creatura piccola, bianca, snella e
bionda, quasi una bambina, tanto era gentilina, tutta graziette, tutta
soavità. In realtà, lui non avrebbe osato chiedere quella poesia bionda
e delicata, lui rude e colossale pittore. Gli pareva quasi di dovere
spezzare quel fiorellino gracile. Ma lei lo avvinse così bene con le sue
arie infantili e i trilli da uccellino della sua voce che lui ardì
chiederla. Gliela dettero. Era già un pittore eccellente, la critica si
occupava seriamente di lui, i suoi quadri si vendevano subito, non ad un
altissimo prezzo, ma tanto da procurargli una bella agiatezza. Lui si
sposò il suo bottoncino d'oro.

Egli era felicissimo in casa, poichè Bianca, la moglie, gliela faceva
trovare elegante, profumata dai fiori, ben calda l'inverno, ben fresca
l'estate: poichè egli nulla sapeva dell'amministrazione, delle seccature
mortali che affliggono la mente di un artista. Ma l'amore, il profondo
ed unico amore della sua vita era quella giovanetta svelta che girava
per la casa con la sua testa luminosa, coi grandi occhi sereni ed
innocenti. Lui l'amava come un amante, come un marito, come un fratello,
con un amore fatto di protezione e di adorazione.

Non si sa se lei avesse o no amato mai il pittore. Lo aveva sposato.
Tutte le lodi date al suo grand'artista l'avevano esaltata forse sino
all'amore; ma, dopo il matrimonio, ci si era abituata e le venivano
indifferenti. Naturalmente, come moltissime donne, non comprendeva punto
l'arte. Le sembrava una cosa di lusso ed inutile. Quando vedeva il
marito pensieroso, agitato, lei si stringeva nelle spalle con un piccolo
atto di disdegno. Lei comprendeva che i quadri davano denaro, ma le
parevano un po' folli coloro che li compravano. Quando il marito le
narrava un progetto di un quadro, lei ascoltava, nascondendo uno
sbadiglio dietro la manina. In ultimo, in mezzo all'entusiasmo
dell'artista creatore ella gettava queste domande inquiete:

--Credi che piacerà? E si venderà poi?

Lui si sgomentava. Sua moglie non capiva, ma egli l'adorava. Quando
comprese che la seccava, narrandole le sue idee, non gliene parlò più.
Si tenne per sè i suoi sogni. Lei sola, a casa cominciava ad annoiarsi.
Voleva uscire; lui non poteva accompagnarla. Orribilmente e
taciturnamente geloso, la lasciò uscire sola. Fremeva dinanzi al quadro
che dipingeva, pensando a coloro che nella via guardavano sua moglie, le
dicevano qualche parolina di complimento, la seguivano forse. Sulla
tela, la sprazzata del colore diventava efficace e passionata; ma in
casa egli non domandava nulla, non faceva rimostranze. Le permise di
avere il suo giorno di ricevimento, come una gran dama; cioè il permesso
se lo prese lei, senza chiederlo. Lui vi faceva delle rapide comparse,
un po' distratto, impacciato. Lei, in collera per vedergli la cravatta
di traverso o le mani tinte di colore, mormorava, scuotendo la sua soave
testolina bionda:

--Questi artisti!

Poi la condusse anche al ballo. Lui ci si trovava disorientato, con le
sue spalle quadrate che sformavano la marsina, con la sua seria figura
su cui erano così scarsi i sorrisi. Lei restava sino all'alba, ballando
come solo le donnine gracili e delicate possono ballare. Lui la vedeva
passare dalle braccia di un elegante sciocco a quelle di un brutto e
cattivo soggetto, piena di buonumore, prodigando il suo spirito ed i
suoi vezzi ad una folla di indifferenti; ma non le diceva nulla, molto
felice quando poteva ravvolgerla nel bianco mantello ornato di piume e
portarsela. In carrozza lei sbadigliava, sonnecchiando. Se il marito le
dava un bacio timido e leggiero, lei rimaneva immobile, fingendo non
averlo inteso, per non renderlo. Sulle prime lei era andata ogni tanto a
fargli una gaia sorpresa allo studio, e lui era beato di queste visite
che gli irradiavano d'amore quello stanzone un po' cupo: ma la scala era
alta, lei si stancava, non andò più. Erano tanto lente le lunghe ore del
lavoro; lei non veniva mai a farle parere più brevi. Quell'uomo
fortissimo, quel grande artista, curvava il capo e pensava.

Un giorno o l'altro, non si sa bene quale, la moglie del pittore prese
un amante. Era quasi sempre sola, disoccupata, trascurata per quei
quattro palmi di tela dipinta--diceva lei. Poi questi grandi artisti non
sono nati per essere buoni mariti--soggiungeva lei. E lo tradiva
tranquillamente. L'amante veniva in casa, come tanti altri, sedeva al
desco di famiglia, s'interessava alle cose di casa. Il marito non aveva
sospetti. Stringeva la mano amichevolmente di colui che gli rubava la
moglie. Tutti lo sapevano, fuorchè lui. È la regola; è nell'ordine delle
cose. Lui, veramente solitario, veramente abbandonato, d'istinto
dipingeva quadri stupendi. Uno anzi, bellissimo, lo comprò l'amante per
dodicimila franchi. Questa vergogna si seppe; solo il marito non la
seppe. Quando il marito parlava della bontà del suo quadro, la moglie
sorrideva stranamente, quasi volesse dire:

--Se Carlo non mi amasse, non avrebbe comperata mai la sua tela dipinta.

Poi, il marito cominciò ad accorgersi di qualche cosa. La moglie usciva
ad ore indebite. Era stata vista entrare in una casa dove Carlo,
l'amante, aveva una zia. Il marito, malgrado la sua cieca fiducia, fu
scosso. Ne parlò a sua moglie. Lei gli rispose alteramente. Gli disse
che non tollerava osservazioni. Egli tacque. Un'altra volta, come
crescevano i sospetti, ella gli rispose piangendo. Egli tacque.
Finalmente quando il sospetto tremolava sulla soglia della certezza,
ella non gli rispose che questo: Se continui ad ingiuriarmi, ti lascio
per sempre, non mi vedrai più. Egli tacque. Mai più, mai più su questo
soggetto fu detta una parola fra loro. Egli temeva troppo vederla andar
via.

Fu allora che egli fece il suo maggior quadro di _Paolo_ e _Francesca_.
La scena è bruna, è una stanza tappezzata di cordovano oscuro, senza
ornamenti, senza galanterie di tavole scolpite o di finestre binate. Un
lettuccio di velluto nero è in mezzo al quadro. Sul lettuccio distesa,
morta, con la faccia bianca e sorridente, che fa macchia sul velluto
nero, con le mani raggrinchiate, giace Francesca. Stramazzato a terra,
bianco, morto, con le spalle appoggiate al lettuccio, con la testa
vicina a quella di Francesca, è Paolo. Vi è sangue sulla veste di
Francesca, sangue sul giustacuore di Paolo, una pozza di sangue per
terra. Le due teste, ravvicinate, pare che si bacino ancora. Lanciotto
non vi è, ma è dappertutto. Quell'assenza è di un effetto artistico
eccezionale. Tutto è sobrio, tutto è severo, tutto è tragico, anche il
bacio, specialmente il bacio. Nessuna mimica, nessuna coreografia.
Aleggia nel quadro una fatalità greca, eschiliana.

Era la migliore sua opera. Il pubblico andò in estasi per l'artista; la
moglie sorrise, guardò bene, le piacque l'abito di Francesca e non
altro. Il pittore manifestò l'intenzione di non vendere il quadro. Ma la
volontà della moglie era che si vendesse. E fu venduto.

Nello stesso anno il pittore morì di una malattia di languore, come ne
muoiono gli uomini troppo robusti.

                                  *
                                 * *

Ieri l'altro sono passato presso la sua tomba. Un monumento candido,
nuovo, carico di corone. Sulla pietra, in versetti addolorati, due nomi,
due persone si dolgono ancora dell'immatura morte. E sono la moglie e
l'amante--e il tradimento è ancora là, scritto nel marmo, sotto la luce
del sole, sotto i cieli azzurri, tra i fiori; il tradimento pomposo e
sfacciato è sulle ossa dell'artista.



                      LA SETTIMANA DELLE NOVELLE.
                            (ANNIVERSARIO)


Francesco II, _Francischiello_, aveva data l'amnistia: gli emigrati
napoletani, a cui l'esilio era duplice dolore, ritornavano in patria,
incerti, dubbiosi della parola malfida di questo Borbone, ma vinti da
una irresistibile nostalgia. Il quindici di agosto, giorno
dell'Assunzione, era tornato in Napoli un emigrato di Terra di Lavoro,
partito studente, nel quarantotto; e da paesi assai lontani portava seco
la moglie giovane, straniera e una figliuolina di quattro anni. Ora, a
Napoli, egli prevedeva rivolgimenti, tumulti e sangue; e pensò a mettere
in sicuro la moglie e la bambina. Così le condusse in Terra di Lavoro, a
Ventaroli, nella casa paterna, le raccomandò ai suoi parenti e ripartì
per Napoli.

Nè voi troverete Ventaroli sulla carta geografica: Ventaroli è anche
meno di un villaggio, è un piccoletto borgo sulla collina, più vicino a
Sparanise che a Gaeta. Vi sono duecentocinquantasei anime, tre case di
signori, una chiesa tutta bianca e un cimitero tutto verde: vi è un
gobbo idiota, una vecchia pazza e un eremita in una cappelluccia, nella
campagna: il nome del paese è inciso grossolanamente sopra una pietra: i
protettori sono i SS. Filippo e Giacomo, la cui festa ricorre ai due di
maggio: la protettrice è la Madonna della Libera, che sta nella
cappelluccia dell'eremita. A Ventaroli ci si alza alle sei del mattino,
si mangia a mezzogiorno, si dorme, si passeggia, si cena alle sette e si
ridorme alle otto. Alla mattina vi è la messa; alla sera il vespro e il
rosario. Verso l'imbrunire è un gran grugnito di maialetti che ritornano
dal pascolo; e un mormorio di voci umane, strilli di donna e pianti di
fanciullietti. Il parroco, don Ottaviano, uomo bruno e segaligno, era
propriamente cugino dell'esiliato, e capo della prima famiglia del
paese.

                                  *
                                 * *

Ora, dopo tre giorni, la fortezza di Capua si chiuse e le comunicazioni
fra Napoli e la Terra di Lavoro furono interrotte. L'emigrato non seppe
più nulla della sua famiglia; e la moglie con la figliuolina restarono
nel villaggio, straniere, parlanti male l'italiano, fra parenti non
malevoli ma rustici. A Ventaroli arrivavano notizie vaghe, paurose: si
avanzavano i Garibaldini, si avanzavano i Piemontesi, ma le truppe
borboniche tenevano tutta la campagna. Il parroco, che era anche
consigliere comunale, cominciò a intimidirsi; la moglie dell'emigrato,
sua cognata, la dama straniera, Cariclea, dovette dargli coraggio, ogni
sera, nelle conversazioni dopo cena; ma ogni mattina ricominciavano i
terrori di don Ottaviano. Né aveva torto: verso i venti di settembre
s'intese nella valle un gran rumore di trombe, di cavalli, di soldati, e
un distaccamento di Svizzeri venne ad accamparsi in Ventaroli. Nel
cortile dell'unico palazzo, quello di don Ottaviano, accamparono
duecento fra soldati e ufficiali.

Furono ospiti terribili. Gli ufficiali svizzeri erano buoni e cortesi,
assuefatti oramai alla dolcezza della vita napoletana, avendo lasciato a
Napoli casa, famiglia, figliuoli, amici; addolorati di quella guerra che
sentivano inutile, addolorati per quella causa che sentivano perduta: ma
i soldati non tolleravano più freno di disciplina, erano diventati
ribelli a ogni ordine, si abbandonavano alla ubbriachezza, al gioco.
Dopo tre giorni avevan consumato tutto il vino, tutto l'olio, tutta la
farina di don Ottaviano: e chiedevano ancora, insolentemente, bastonando
i contadini, sgozzando le galline. Le vecchie zie, le donne antiche di
casa stavano chiuse nello stanzone di famiglia; tacevano, non osando
neppure di filare, pregando mentalmente. Le serve erano in cucina,
intorno a certi caldaioni dove cuocevano i maccheroni, che non bastavano
mai. Tutta la notte era un cantare, un urlare, un litigare: don
Ottaviano, chiuso nella sua stanzetta, leggeva ad alta voce i salmi
penitenziali, per quietarsi o per stordirsi, ma non poteva dormire, il
poveretto. Ma la più forte, sebbene la più minacciata, era la signora
Cariclea, la moglie dell'emigrato. Lo sapevano bene, i soldati, che era
la moglie di un cospiratore, di un nemico, di uno che aveva tolto Napoli
a _Francischiello_, e ogni volta che ella compariva sulla terrazza o
attraversava il cortile, vi era un mormorìo crescente di ostilità. Ella
passava, quieta, serena, come se niente fosse, e parea non udisse che la
chiamavano _moglie di brigante, moglie di assassino_. Se ne lagnava,
ella, con qualche ufficiale, specialmente con un maggiore, alto, biondo,
robusto, un colosso:

--Signora mia.--le diceva costui, in francese--io non so che farvi.
Badate alla vostra vita, io non posso garantirvela. Non garantisco
neppure la mia.

Ella non temeva per sè, temeva per la sua creaturina. La bimba aveva un
cappellino rotondo, chiamato allora alla _Garibaldi_, con un _pompon_
tricolore: e la bimba voleva portarlo sempre, questo pericoloso
cappellino. Quando i soldati la vedevano passare, tutta fiera di quel
pomo di seta tricolore, era come una rivolta:

--Tagliamogli la testa, a questa razza di briganti, tagliamo la testa di
questa creatura, così imparerà a portare il pomo tricolore!

La madre tirava un poco a sè la bambina e fingeva di sorridere, e quando
era sola, in camera sua, soltanto allora, abbracciava la bimba, con una
stretta frenetica. Don Ottaviano urlava:

--Ci farete ammazzar tutti, con quel vostro pomo tricolore!

Ma la bimba non voleva lasciarlo, gridava, gridava, glielo aveva dato il
suo papà, quel cappellino col pomo tricolore. Infine, i viveri
cominciando a mancare, i soldati diventarono più rabbiosi e chiesero
quattrini: il maggiore portò la imbasciata a don Ottaviano. Costui un
giorno dette ai soldati trenta ducati messi da parte per le feste di
Natale: ma di notte, aiutato dalla cognata donna Cariclea, dalla zia
Rachele e dalla serva Ottavia, seppellì, in un angolo dell'orto, il
_tesoro della Madonna_, collane di oro, anelli, orecchini, _ex-voto_ di
argento, pissidi, calici, candelabri, altri arredi sacri. L'altare
familiare, che era nel grande salone di famiglia, dedicato alla Vergine,
restò spoglio di ogni ornamento. Il seppellimento fu fatto
misteriosamente:

--Benedetto, benedetto--diceva don Ottaviano, baciando piamente ogni
arnese sacro, prima di sotterrarlo. E singhiozzava, il povero prete.

Poi dette ai soldati altri venti ducati, che erano una dote da estrarsi,
il primo di novembre, per far maritare una zitella del paese: ma non
bastarono. Donna Cariclea dette loro venti marenghi d'oro che il marito
le aveva lasciati: ma non bastarono. Zia Rachele dette a questi svizzeri
furiosi quindici ducati di economie fatte, in molti anni, _a grano a
grano_: ma non bastarono. Ottavia, la serva, aveva diciotto _carlini_:
li dette. In breve, nel palazzo non ci fu più un soldo, nè un pizzico di
farina, nè una goccia di vino. Gli ufficiali svizzeri si vergognavano:
specialmente il maggiore, che era una persona assai gentile, chinava il
capo, offeso nel suo orgoglio di militare. Ora i soldati volevano il
_tesoro della Madonna_: lo volevano giuocare a carte.

--La Madonna non ha tesoro--diceva don Ottaviano.--Ditelo voi, donna
Cariclea.

--La Madonna non ha tesoro--ripeteva la coraggiosa signora.

Il maggiore andava e veniva, parlamentando fra i soldati e la famiglia.

--Se non ci dànno il tesoro, ammazziamo la bimba--mandavano a dire i
soldati.

--Raccomandiamoci alla Vergine, cognata mia--mormorava il prete.

Così, prevedendo imminente la morte, tutta la famiglia si raccolse nello
stanzone, innanzi all'altare denudato, e si mise a pregare. Don
Ottaviano aveva vestito i paramenti sacri, e stava inginocchiato sui
gradini dell'altare. Era una settimana, dieci giorni di accampamento:
nessuna notizia, nessun soccorso. Ora, l'umore degli Svizzeri era
cambiato. Chiedevano un banchetto; volevano che nel cortile s'imbandisse
una grande mensa, volevano li gnocchi, se no, mettevano fuoco alla casa.
Il parroco giurava di non aver nulla, nulla da dare, neppure un tozzo di
pane: il maggiore con le lagrime agli occhi lo scongiurava, che
cercasse, che mandasse, per pietà della vita di tutte quelle donne,
vecchie e giovani. Furono spediti corrieri a Carinola, a Casale, a
Cascano, per trovar farina. Ma intanto i soldati andarono nella legnaia,
ne cavarono fuori tutte le fascine e le disposero attorno alle mura del
palazzo. I corrieri che erano andati per farina tardavano assai: forse
erano stati arrestati, forse erano morti. Un mormorìo crescente saliva
dal grande cortile. Nel salone le donne dicevano le litanie,
salmodiando. L'ora passava, lenta.

--Se fra dieci minuti non arriva il corriere con la farina, i soldati
dànno fuoco--venne a dire il maggiore.

--Non potete fare più nulla per noi?--chiese donna Cariclea.

--Più nulla, signora.

--Portar via questa piccolina? Io non mi dolgo di morire: vorrei salvare
la bimba.

--Mi ucciderebbero con lei, signora,

--Che Dio ci assista dunque--mormorò donna Clariclea.

E Dio li assistette. Un corriere da Cascano ritornò. Portava farina:
poca, insufficiente, ma ne portava. Così le serve lasciaron di pregare e
scesero in cucina, a fare gli gnocchi per i soldati. Ma i soldati non
vollero togliere le fascine: e la morte parve solo ritardata di qualche
ora: si capiva che dopo il banchetto i soldati sarebbero diventati più
feroci: non avrebbero conosciuto più ragione. Essi, nel cortile,
tumultuavano: le povere serve, in cucina, manipolavano la pasta,
instupidite: su, nello stanzone, il parroco aveva confessato e dato
l'assoluzione a tutti i suoi parenti. La piccolina di donna Cariclea
spalancava gli occhi, spaventata: ma non piangeva.

A un tratto, il pesante martello del portone risuonò, tre volte,
sonoramente. Un silenzio profondo. Ma nessuno aprì. Tre altri colpi: e
il battito del piede ferrato di un cavallo risuonò, innanzi al portone.

--Chi va là?--chiese la sentinella, senz'aprire.

--Viva Francesco II!--gridò una voce affannosa.

--Viva, viva!--urlarono i soldati.

Era una staffetta: un soldato pallido e grondante sudore. Chiese del
colonnello, del maggiore, di un capo: non aveva che due parole da
dirgli. Il maggiore alto e biondo, il colosseo affettuoso e fiero,
accorse: la staffetta si rizzò, gli parlò all'orecchio. Il maggiore
restò imperterrito, assentì col capo: la staffetta ripartì,
precipitosamente. Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul
cortile, fece suonare la tromba, due volte:

--Soldati--disse, con voce tonante--abbiamo innanzi a noi Garibaldi,
alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva
Francesco II!

--Viva--disse qualche voce.

E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti,
molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili: e il maggior loro
dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non
poter mangiare gli gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli
ufficiali andavano, venivano, gridavano: ma inutilmente.

--Consolatevi, signora--disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel
salone--ora vengono i Garibaldini.

Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava.
Il parroco non levava la testa.

--Addio, signora, non ci vedremo più--disse il maggiore.--Noi andiamo
alla morte.

E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati,
marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia:
dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti,
taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto,
devastato: per un'ora tutti tacquero, innanzi all'altare, subendo ancora
l'incubo di quell'assedio.

--Ora vengono i Garibaldini--disse, a un tratto, la bambina.

E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con
le scarpe rotte, stanchi, sfiniti: volevano bere, volevano mangiare, non
ne potevano più.

--Che daremo loro?--diceva don Ottaviano, disperandosi.

I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una
quarantina, estenuati: avevano trovato la devastazione dappertutto.
Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era
più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo,
parlamentava con donna Cariclea e col parroco: e era inutile, non vi era
nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile: i Garibaldini avevano
scoperto la cucina e il caldaione degli gnocchi.

--Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate!
Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo!

Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse:

--Viva Garibaldi!

La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col
pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su, in trionfo,
ella strillava sempre. La madre piangeva.

                                  *
                                 * *

Il cannoneggiamento cominciò alle tre del pomeriggio. Ventaroli è sulla
collina, l'eco dei cannoni vi si ripercuoteva fortemente. Donna Cariclea
era salita sopra una torricella, donde si vedeva tutta la valle: ma
nulla si scorgeva. Dove si battevano? Con che esito? Era impossibile
saper nulla, I quaranta Garibaldini erano andati via, allegramente, dopo
aver pranzato, coi loro scarponi rotti, coi loro vecchi fucili: e tutte
le case di Ventaroli si erano chiuse, i portoni erano sbarrati. Quando
cominciò il cannone, Pasqualina Cresce, che aveva paura dei tuoni, si
era ficcata col capo sotto i cuscini; il vecchio Nicola Bonelli, che era
stato al fuoco, tendeva l'orecchio per sentire onde venisse: e la
sorella dell'emigrato, Rosina, una fiera donna, era venuta nello
stanzone e aveva accese due altre candele alla Vergine, per conto suo,
perchè vincessero i Garibaldini. Donna Cariclea fremeva: invano aguzzava
gli occhi, sulla torricella, ma non un'anima passava nella valle, non un
carro, non un contadino, un deserto, un paese morto. Il cannone si
arrestava, talvolta, per cinque minuti, ma dopo riprendeva con più
vigore. Stette tre ore, lassù, sino all'imbrunire. E sempre il cannone:
talvolta allegro, talvolta lungo e lugubre. Poi tacque. Era notte.
Nessuna notizia. Era perduta o salvata la patria?

Ma don Ottaviano, le vecchie zie, le giovani spose, le serve erano
stanche di quella tremenda giornata; e malgrado il terrore
dell'indomani, malgrado la suprema incertezza, che era anche un supremo
pericolo, andarono a dormire. Donna Cariclea si ritirò nella sua
stanzuccia, che era proprio sopra l'arco del portone. Aveva appena
appena congiunte le mani della piccolina per la preghiera della sera,
quando, nel silenzio profondo del villaggio, si udì un galoppo di
cavallo: veniva verso la casa. E subito dopo un fievole colpo di
martello risuonò. Donna Cariclea trasalì. Che doveva fare? Si affacciò
senza far rumore alla finestra: nell'ombra si vedeva un cavallo e un
cavaliere, ma non si distingueva altro. Erano immobili, aspettavano. Ma
passò qualche minuto: il cavaliere non suonò di nuovo, aspettando,
pazientemente.

--Chi sarà mai?--pensava donna Cariclea, tutta trepidante.

E richiuse la finestra, senza far rumore. Ma quel cavaliere, là, innanzi
al portone, nella notte, le dava tormento. Riaprì, domandò, sottovoce:

--Chi è?

--Sono io--disse una nota voce.

--Voi, maggiore?

--Aprite, signora, per carità!

Ella prese un lume, attraversò due o tre stanze, scese por le scale,
andò a tirare i grossi catenacci. Silenziosamente, il maggiore era
disceso da cavallo e se lo trasse dietro, nel cortile: lo legò a un
anello di ferro. La signora andava innanzi e il maggiore dietro: quando
furono nella stanzetta, il maggiore le fece cenno di chiudere la porta,
a chiave. La bimba, già a letto, guardava tutto questo con un par
d'occhioni spaventati.

--Signora--disse il maggiore--io sono nelle vostre mani.

Ella lo guardò, sgomenta. L'ufficiale svizzero era in uniforme, tutto
gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul
petto.

--Che avete fatto?--chiese ella, duramente.

--Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore: due ore siamo stati nascosti
in una macchia, il mio cavallo e io.

--Non avete preso parte alla battaglia?

--No, signora, vi dico che sono scappato.

--E perchè?--chiese ella a quel colosso.

--Perchè avevo paura--disse lui, semplicemente.

--Oh!--fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo.

--Avete ragione--disse lui, umilmente.--Ma la paura non si vince: sono
fuggito.

--Non vi vergognate, non vi vergognate?--chiese ella, tremando di
emozione.

Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia,
grande corpo accasciato dalla viltà.

--E i vostri soldati?

--Chissà!--disse il maggiore, levando le spalle.

--Chi ha vinto, dunque?

--Non lo so. Avranno vinto gli Italiani, forse.

--E siete fuggito?

--Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m'importa della battaglia? Voi dovete
salvarmi, signora.

--Io?

--Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho
famiglia, io: ho figli io, che me ne importa di Francesco II? Salvatemi,
signora, ve ne scongiuro.

--E perchè dovrei farlo?

--Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una
figlia.... e capite...

--Siete un nemico, voi.

--V'ingannate, sono un disertore.

--Ebbene?

--Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se
mi trovano i vostri, sono un nemico, e mi fucilano: se mi trovano i
Borbonici, sono un disertore, e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di
salvarmi.

--Se rientrate a Napoli, vi fucileranno.

--Garibaldi è buono--disse umilmente il maggiore svizzero.

--È una vergogna--ripetette lei, duramente.

--Lo so: ma che posso farci? Salvatemi voi.

--Stamane avreste lasciato morire la mia bambina.

--Che potevo fare?

--Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete, dunque?

--O signora mia, per carità, non ne parliamo: se avete viscere di madre,
trovatemi un mezzo per fuggire.

--Io non ne ho.

--Lasciatemi stare qua, in questa stanza.

--Se vi ci trovano, siamo perduti tutti.

--È vero--disse lui, dolorosamente.

La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre,
ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano. Egli era immerso nel più
profondo avvilimento: ella era combattuta da tanti sentimenti diversi.

--Ho anch'io un bimbo di questa età--mormorò il maggiore.--Non lo vedrò
più, forse.

--Aspettatemi qui--disse donna Cariclea, decidendosi.

E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata
la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come
un'ombra, ritornò. Portava un involto di panni:

--Smorzerò il lume--disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di
donna--toglietevi l'uniforme e mettete questi abiti.

Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume: il maggiore era
vestito da contadino e l'uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava
tutto umile, tutto contrito.

--Bisogna nascondere quest'uniforme e questa spada--disse
lui:--trovandosi, sareste perduta.

--È vero--disse lei.--Spezzate dunque la spada.

Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la
buona lama resisteva. Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli
robusti, la spezzò.

--Scucite i galloni dall'uniforme--ordinò donna Cariclea.

Pazientemente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella
raccolse tutto.

--Andiamo a buttarli via.

Egli la seguì per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero
nel cortile: macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel
profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di
sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell'olio: ella vi buttò
l'uniforme disadorno di galloni. Alla fine passando presso un mucchio di
letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli
andare sotto.

--Dio mio, ti ringrazio!--esclamò il maggiore.--E il cavallo, che
facciamo del cavallo? Se lo trovano, siamo perduti.

--È vero--mormorò lui.--Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo.

--Con che?

--Non ho armi, è vero.

Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì: il maggiore fremette
di paura. Poi, sciolse le redini dall'anello, trasse il cavallo fuori
del portone e richiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e
donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col
capo contro il legno della porta: ma poi ne sentirono il galoppo furioso
e pazzo per la campagna.

--Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti--mormorò il
disertore.

--Andiamo su--fece lei.

Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò
sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore
aspettava.

--Sentite--disse donna Cariclea.--Io ho svegliato Peppino, il boaro. È
una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho
detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto.
Voi scenderete per quella scala: siete forte, mi pare?

--Fortissimo.

--Bene. Andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere
il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i
contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare;
ecco le forbici, tagliateveli.

Egli eseguì senz'esitare.

--Bene. Anderete a passar il Garigliano verso Sora; è lontano, ci
arriverete in due giorni: a Sora ci è la scafa, passerete il fiume. Di
là siete al confine pontificio. Peppino vi lascerà, tornerà indietro,
non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non
c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare,
badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi
salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del
disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore.

--Addio, signora.

E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva
baciarla.

--No--fece la madre opponendosi.

Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che
l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone: udì lo
scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante: udì i due passi quasi
allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò
su lei.

--Pensa che questo sia un sogno, Caterina: dimentica, dimentica tutto,
piccolina mia. ............................................

Ma Caterina non ha potuto dimenticare.



                              DELFINA.


Sotto la luce concentrata della lampada, la zia Angiolina leggeva: ogni
tanto s'interrompeva, scambiava qualche parola con Cecilia e ripigliava
la lettura. La stanza rimaneva quasi tutta nell'ombra; non un soffio
d'aria entrava dalla finestra aperta, il luglio portava queste serate
soffocanti. Sull'ampia tavola, coperta da un tappeto verde, stavano
mucchi di biancheria, pile cascanti da tutte le parti, per soverchia
altezza. Un grande armadio, in fondo alla parete, era spalancato--nella
penombra, appena appena si distinguevano gli scaffali quasi vuoti.
Presso la tavola, un cassone largo ed alto, di legno chiaro, col
coperchio sollevato, foderato di tela gialla, inghiottiva la biancheria
che Cecilia vi riponeva, togliendola dall'armadio, dalla tavola, dalle
sedie dove era sparsa. Cecilia andava e veniva, prestamente, svelta sui
tacchettini minuti, uscendo, ritornando, senza fermarsi mai.

--Ti stanchi?--chiese zia Angiolina, presa da un rimorso, lasciando il
suo romanzo.

--No, no.

--Neppure io mi stancava.... allora....--mormorò la zia, con la sua posa
malinconica e la voce strascicata che usava quando parlava di altri
tempi.

--O allora, allora, zia, come dovevate essere allegra!

--Allegra... molto. Facevo un matrimonio d'amore.

--Ed io?--esclamò, ridendo, Cecilia--faccio io un matrimonio diplomatico
forse? Sono forse la principessa di Schwarzenbourg-Augustenbourg che
sposa, senza conoscerlo, il principe di Assia-Darmstadt?

Rideva. La boccuccia rotonda, che difficilmente poteva star chiusa, col
labbruccio superiore che si sollevava, era molto bellina nel riso. Ma
ella guardò di sbieco verso un balcone che rimaneva nell'ombra, appena
un'occhiatina e tacque, come se fosse colta da un pensiero. Ora piazzava
le sottane nel cassone, inginocchiata dinanzi ad esso, piegando le
sottane in due, disponendone accuratamente le pieghe perchè le balze
riccie, i ricami, le trine onde erano guarniti non si sciupassero. Si
fermò d'un tratto, sempre inginocchiata, coi due gomiti appoggiati
sull'orlo del cassone, la testa fra le pugna chiuse.

--Zia, non abbiamo pensato ad una cosa molto seria. Io ho moltissime
sottane corte, non ne ho che sei lunghe; di lunghissime nessuna; e sotto
l'abito di broccato rosso che metterò? Se debbo andare ad un ballo, che
metterò?

--Infatti... Dio mio, non si penserebbe mai a tutto in questi corredi!
Come si fa ora?

Zia e nipote si guardavano, preoccupate, inquiete.

--Se rimettessimo a quest'altra settimana il matrimonio?

--No!--gridò Cecilia, balzando in piedi.--Penso che quest'anno non
ballerò, poichè passeremo l'inverno in campagna. Cesare è stanco dei
balli; io quindi ne sono stanca...

--Pare un romanzo, Cecilia.

--Siete sempre coi vostri libri, zia. Vi guastate la vita. Vedete, io
non ne leggo mai e trovo molto naturale che Cesare mi sposi...

Chinò il capo di nuovo e si mise a disporre le calze nel cassone, uno
strato fitto e multicolore su cui il bianco dominava.

--Ci metto dello spigonardo, zia?--domandò Cecilia che non poteva
tacere.--Lo spigonardo, dicono, conserva la seta dai tarli.

--Sì, ma è un profumo volgare, Cecilia. Metti dell'ireos. Tu dovresti
avere dell'ireos.

--Vado a vedere.

E scappò fuori. Zia Angiolina guardò anch'essa alla sfuggita, verso il
balcone. Nel vano oscuro un'ala nera si agitava nervosamente; era un
grande ventaglio. Zia Angiolina sospirò, osservò accuratamente le sue
mani che aveva conservate morbide e bianche, le trovò di sua
soddisfazione, stette lì lì per dire qualche cosa al ventaglio nervoso,
ma se ne pentì e non disse nulla.

Cecilia ritornò; era tutta rossa. Portava un grande cespo di rose gialle
e certi lunghi rami di gelsomini bianchi rampicanti. Ogni tanto
succhiava vivamente l'indice della sinistra che si era dovuta pungere ad
una spina.

--Non ho trovato l'ireos,--dichiarò,--sono uscita nel balcone
dell'anticamera ed ho spogliato la rosa-tea che era tutta fiorita. Anche
i gelsomini erano fioriti, ho strappato un po' i rami, ma che importa?
Rinasceranno.

--Che ne farai, di questi fiori?

--Li sfoglierò nel cassone. È buono l'odore dei fiori secchi. Peccato,
dovrei avere le gaggie. Hanno un profumo squisito nella biancheria.

Si pose a sfogliare le rose, lasciandone cadere i petali nella cassa,
come una pioggia delicata; buttò via gli steli nudi e verdi. Poi sfogliò
i gelsomini che le cadevano fra le dita, lievi ed olezzanti. Rimase a
guardare l'opera sua, tutta sorridente. Zia Angiolina crollava il capo
con la sua grand'aria sentimentale. Che faceva il ventaglio nero,
laggiù, nell'oscurità? Si era chiuso, con una discesa secca come una
risata sardonica. Cecilia, quasi fosse stata sorpresa in una
contemplazione poetica e puerile, arrossì. Stette immobile, lo sguardo
vagante, distratta, cercando qualche cosa da fare o da dire. Poi si
dette di nuovo all'opera sua.

--Cesare, Cecilia, non vanno bene insieme?--mormorava.

--Vi è una fatalità nei nomi--rispose gravemente la zia.

--Ancor questa fatalità. La mettete dappertutto, zia. Mi rattrista, ve
lo assicuro. Ascoltate, zia: ho da domandarvi due cose gravissime, di
una importanza eccezionale. Credete voi, zia, che quando non avremo
nessuno a pranzo, io posso scendere in veste da camera ed in pianelle?
Credete voi che Cesare sia innamorato di me?

--Debbo rispondere alla prima o alla seconda domanda?

--Sono egualmente interessanti, ma via, rispondete alla seconda.

--È cosa triviale citare un proverbio, ma questo qui l'ho fatto io. Chi
ama bene, sposa presto. Da quanto tempo conosci Cesare?

--Da un anno; da sei mesi mi fa la corte, da tre mesi è mio fidanzato.

--Secondo i calcoli matematici, Cesare è innamorato di te.

--N'ero convinta avanti di chiedervelo, zia. Era così innamorato di voi,
lo zio Astolfo?

--O cara! Lo zio Astolfo era molto diversamente innamorato. Allora si
amava in un altro modo. Ci amammo per quattro anni contro la volontà dei
nostri parenti, tre volte progettammo di morire, e tutto era pronto per
un rapimento, quando saputosi tutto, finirono per dirci di sì. L'amore
era un romanzo, allora.

--E adesso?

--Prosa, mia cara.

--E come scenderò vestita, zia, quando non avremo gente a pranzo?

Le due donne, con la massima serietà discussero l'abito, le pianelle, il
goletto, la sciarpa, come avevano discusso l'amore. Nella strada vicina
un organetto suonava una romanza di Tosti, allargandone molto il tempo,
in modo da renderla più malinconica di quello che era. Poco a poco esse
tacquero. Ascoltavano. Abitando al primo piano, con le finestre aperte,
tutti i rumori di una sera d'estate salivano netti e chiari. Un
fanciullino piangeva, con quel lamentìo insonnolito dei bimbi che si
addormentano, un ciabattino batteva forte sopra un tacco di suola, a
colpi rapidi, con un rullìo. Una voce femminile, accompagnando sottovoce
l'organino, canticchiava:

Vorrei morir quando tramonta il sole.

Involontariamente, Cecilia si pose a canticchiare anche lei:

Quando nel prato spuntan le vïole,

mentre la musica soave, l'afa della serata di luglio e la stanchezza le
mettevano addosso una tenerezza grave, una voglia di piangere. Era
caduta sopra una sedia, guardando il soffitto, le braccia prosciolte e
abbandonate, pensando ad una quantità di cose malinconiche. Dalla via,
la vocina femminile continuava a cantare:

Vorrei morir... vorrei morir...

Cecilia lasciò che due lagrimoni le cadessero giù per le guance. Si
sentiva impietosita e commossa per quella donnina che cantava così
mestamente, pel suonatore dell'organetto, per sè stessa che si maritava,
per la zia che era vedova e leggeva _Diane de Lys_, e forse più di tutto
per quel ventaglio nero che si rimaneva tranquillo e silenzioso nel vano
del balcone. Tutto ciò durò poco. L'organetto suonò il
_Funiculì-funiculà_.

Tutta la mestizia di Cecilia si dileguò. La vita era bella, nevvero? e
Cesare sarebbe arrivato l'indomani presto. Bisognava sbrigarsi.

--Siete rimasti d'accordo per le partecipazioni, Cecilia?

--Sicuramente. Vi lasceremo la nota degli indirizzi e voi le manderete.

--Sei fortunata, eviterai le visite di nozze.

--E laggiù, in campagna, credete che i signori dei paesi vicini, i
sindaci, vorranno evitarci questo noie? Quante sindachesse, quante mogli
di giudici, quante provinciali sfileranno in casa mia! Come mi
divertirò, come farò bene la castellana, come sarò amabile e quante
riverenze farò!

--Sei una bambina, Cecilia. Il matrimonio è una cosa grave e pericolosa.

--Pericolosa?

--Pericolosa.

--Perchè, zia?

--... nelle conseguenze.

--Non capisco.

--... tu non sai nulla...

--... forse... forse... perchè vengono i bimbi?

E una fiamma viva le corse al volto.

--Anche... ma vi è dell'altro...

--Forse perchè vi sono queste orribili marchese Susanne, queste
principesse Albertine, queste contesse Elene?

--Tu non sai nulla. La vita è un romanzo.

--Il mio è bello, zia.

--Sono i primi capitoli. Occhio all'amore, fanciulla.

--Io amo Cesare, egli ama me--rispose lei con grande semplicità. E
guardò intorno intorno, nello stanzone, quasi prendesse l'ombra a
testimonio di quella verità. Niente aveva voce, nessuno le rispose; ma
ella rimase quietata e soddisfatta, avendo riassunto presente ed
avvenire.

L'armadio era vuoto. Cecilia riponeva lentamente nel cassone gli oggetti
minuti di biancheria, i goletti, i polsini, le cuffiette, le scatole dei
fazzoletti. Prima di mettere al suo posto l'oggettino, lo guardava, lo
ammirava, gli parlava sottovoce, quasi lo carezzava. Era molto felice,
felice di avere tutti quegli ornamenti candidi, leggieri, morbidi di
stoffa, fioccosi per trine, gentili di forme. Vi giuocava, quasi, come
una bimba con gli abitucci della bambola.

--Vi sarà molta gente al Municipio, zia?

--Molta gente.

--E il vice-sindaco mi dirà qualche cosa di molto pauroso? avrà un
aspetto spaventoso con la sua sciarpa?

--Il vice-sindaco è per lo più un avvocato annoiato e frettoloso. Ma gli
articoli della legge fanno pensare, Cecilia.

--Naturalmente, le signore saranno in cappello bianco, zia?

--Bianco, specialmente per le fanciulle.

--Abito corto, nevvero?

--Corto; è volgare il più piccolo segno di coda.

--Si piange al Municipio, zia?

--È a piacere, mia buona. Per lo più si preferisce piangere in chiesa.

--... già, in chiesa. In chiesa è una cosa seria; vi saranno fiori,
incensi? E i belli chierichetti biondi e rossi come cherubini, con la
cotta bianca a piegoline? Come sarà grazioso tutto questo!

--E se vi fosse un amante disperato dietro una colonna, Cecilia? Se
questo amante si avanzasse, ti maledicesse, si ficcasse un pugnale nel
petto!

--Questo qui si vede nel libretto della _Lucia_. Non è più di moda, zia.

Risero cordialmente ambedue.

--Credi tu, zia, che mio marito sarà buono con me? Come farò io per
farmi amare? Debbo io essere buona o cattiva con lui?

--Dumas dice in un modo e Giorgio Sand in un altro.

--Ed io, zia?

--Metti il romanzo nella tua vita, bambina. Nulla si fa senza la poesia.

--Dove la trovo questa poesia? Io non ne so nulla. Sono una sciocca;
sono disperata, zia. Tu mi farai morire, zia.

Una desolazione quasi infantile le si dipingeva nel volto giovanetto.
Zia Angiolina se ne stava tutta preoccupata, come se si desolasse anche
lei pel romanzo della sua immaginazione.

--Zia, zia, dove metterò i gioielli?

--Nella cassetta di cuoio nero.

--Potrò ora portare quanti anelli mi piacciono? Ne avrò all'anulare, al
medio, al mignolo; potrò finalmente avere gli orecchini di brillanti.

E Cecilia rimase rapita, con una luce negli occhi. La cassa era piena,
sgombra la tavola, sgombre le sedie, tutto a posto. Pure ella non chiuse
subito la cassa, restò a fissare il coperchio, quasi smemorata, quasi
cercasse ricordarsi qualche cosa. Girò così, due o tre volte, per la
grande sala, frugando con lo sguardo negli angoli oscuri: ritornò e d'un
colpo solo abbassò il coperchio, chiuse le serrature con le chiavicine.
Le tremarono le mani. Venne verso sua zia, pallida, e con la voce
incerta, le disse:

--O zia, o zia, io me ne vado domani!

Nelle braccia l'una dell'altra piansero. Si sciolsero dinanzi alla
svelta e leggiadra figura di giovanetta, vestita di lana bianca, che era
apparsa alle loro spalle, lasciando il vano del balcone. Restarono un
po' confuse, un po' mortificate.

--Delfina, tu devi trovare tutto questo supremamente ridicolo--mormorò
Cecilia.

No, ella non rispose. Ma alla stanchezza dell'occhio bruno, alla piega
ironica della bocca purissima, a tutta l'espressione di noia che
deturpava quel viso giovanile, si vedeva che ella trovava tutto ciò
supremamente ridicolo.



                         CUORE DI PORCELLANA.


Me ne duole per voi, ottimi e capricciosi lettori, ma questa storiella
che debbo raccontarvi è vera, perfettamente vera, vera da cima a fondo.
Le storielle vere hanno il potere d'irritare sommamente i lettori che
non possono fare le loro osservazioni, dare dello stupido allo
scrittore, poichè si trovano in faccia alla verità. Ho sempre un po' di
paura quando incomincio a narrarle, e vorrei andarmene per le lunghe. So
che oggi vi annoierò o vi farò irritare; nè posso evitarlo. Quando una
di queste storielle chiede la sua vesticciuola per uscire a fare un
giretto nel mondo, bisogna dargliela e lasciarla partire. Invano si
vorrebbe metter fuor di casa la sorella maggiore, o la minore, o il
fratellino: è lei che deve andar via. È ostinata, cocciuta, invincibile:
e non resta che benedirne melanconicamente il volo, seguirla con
l'occhio sinchè scompare, per rimanere impensierito della vita breve ed
infelice che avrà.

Ecco, io non faccio mai preamboli, e questo qui mi pare abbastanza lungo
e noioso. Risolvermi a parlarvi d'Alfonsina sarebbe bene, raccorciando
la storiella, copiando dalla verità. Quest'Alfonsina era una ragazza
provinciale, di Salerno. Suo padre era impiegato all'Intendenza di
Finanza--ella aveva due sorelle e due fratellini, ancora piccini. Di
estate ella andava a passare quindici giorni, dal venti agosto al cinque
settembre, in un villaggio presso Salerno, in una casa baronale che
faceva inviti molto larghi. Ci andavano gente da Cava, da Potenza, da
Napoli, da Castellammare; ci andavo anche io. La scusa era la festa e
fiera di Sant'Anna che si celebrava coi soliti fuochi d'artificio,
mortaretti, bande musicali, pranzi spaventosi e balli popolari. In fondo
ci divertivamo come tanti giovanotti allegri, che eravamo, in compagnia
di molte ragazze che ridevano dalla mattina alla sera. Quest'Alfonsina
ci veniva, ma non le piaceva fare il chiasso: noi la chiamavamo la
_sentimentale_, come usa nella borghesia meridionale, specialmente in
provincia, per indicare una fanciulla malinconica. Ella non si
dispiaceva del nomignolo. Questa creatura aveva venti anni, era di
statura media, magra, le spalle un po' aguzze, il giro della vita
assurdamente piccolo. La testa era anche troppo piccola, come quella di
un uccello, ed afflitta da una massa inconcepibile di capelli castani,
d'un colore morto e che si abbandonavano volentieri sul collo; una bocca
minuta, che si storceva un poco nel sorriso; un nasino senza carattere,
gli occhi tranquilli e castagni, ma un po' cisposi. La mattina li lavava
col vino e non ci sembrava più. Pallida molto, le gengive smorte,
anemica come una candela di cera. Belle le mani, sottili e fredde.
Portava spesso un vestito blu cupo, con una grande cravatta di merletto
bianco che serviva ad ingrandirle un po' il busto, che era meschino.
Aveva anche un abito di lana bianca per i ballonzoli della sera ed uno
di seta nera per la Messa della mattina. Anzi, era troppo lusso per la
figlia di un impiegato, ragazza povera e senza dote. Era buona come
tutte le fanciulle quando non hanno ragione di essere cattive; parlava
con molta soavità e alzava gli occhi al cielo con una certa grazia. In
fondo, era alquanto stupida. Si occupava vivamente, con un'assiduità
disperante, di un suo eterno lavoro, a stelline di _frivolità_, lavoro
leggiero, bellino ed inutile. Portava in tasca, in una scatoletta, il
gomitolo del refe e la spoletta di avorio:, appena arrivata in un sito,
la cavava di tasca e ricominciava i suoi giri rapidi, i suoi nodellini
brevi, tutt'assorta in quella _frivolità_. Ne voleva fare tutto un
corredo, tutta una casa, all'ardore con cui lavorava.

Questa ragazza, come tutte quelle di provincia, era innamorata. E
seguendo una regola generale, era innamorata d'un giovanotto che non le
volevano dare. Il giovanotto si chiamava Giovanni, era basso, tarchiato,
robusto, rosso, con una criniera nera, le mani un po' pelose, il collo
bruno--era maleducato, ricco e cretino. Sorvegliava i suoi coloni,
andava a caccia, guidava il suo calesse, mangiava forte e beveva molto.
Anche lui era innamorato di Alfonsina; con un grosso amore di asino per
una cosina gentile e delicata. Le scriveva delle lettere piene di punti
esclamativi, di frasi scelte nei romanzi di Mastriani, che aveva tutti
letti. Lei, dicono, di notte ci piangeva su, il che poi le rendeva gli
occhi cisposi al mattino. A Salerno parlavano tutta la sera, lei da un
terrazzino, lui da una scaletta di servizio; quando pioveva lei
s'imbaccucava in uno scialle, ma ci prendeva certe costipazioni che le
rendevano il nasino rosso come il fuoco, gli occhi lagrimosi e le labbra
scottate. Lui no, perchè era avvezzo all'umido dei pantani dove andava a
caccia. I genitori di lui proibivano il matrimonio; solito dramma in
moltissimi atti, di dolore. Alfonsina raccontava i suoi dispiaceri alla
_frivolità_, poichè quando ci lavorava, muoveva lievemente le labbra.
Giovannino bestemmiava coi villani. Malgrado le proibizioni, si vedevano
in chiesa, alla passeggiata, al teatrino, in certe riunioni di famiglia,
in cui pietosi amici offrono un terreno neutro agli innamorati infelici.
Anzi, nell'estate, si vedevano per quindici giorni di seguito, nel
castello baronale; era la loro luce, la loro felicità quella quindicina.
Giovanni sfoggiava cravatte incomprensibili, polsini abbaglianti, un
costume da caccia nuovo; Alfonsina lasciava cadere sulle spalle le sue
grosse treccie castane, che erano la sua sola seduzione e si faceva
piccina, debole, più smorta ancora, piena di brividi, perchè quel
giovanottone fosse lusingato nella sua parte d'innamorato protettore.
Noi reggevamo il moccolo gaiamente, ma anch'essi lo reggevano a noi.
Erano servizii scambievoli che ci rendevamo. La sera, erano coppie
innamorate, sotto il portico, nel giardino, sul terrazzo.

Le penombre erano piene di pericoli e di amore; le mamme chiudevano gli
occhi. A cena, alla grande cena, volti pallidi, e volti rossi, mani
tremanti che non reggevano il bicchiere o disappetenza delle ragazze,
appetito dei giovanotti. Tutto candidamente, onestamente, con fine di
matrimonio, come sempre in provincia. Alfonsina non mangiava, il che
faceva ringalluzzire Giovanni; ella si faceva trasparente; se le
accendevano una candela alle spalle, sarebbe sembrata di porcellana. Una
sera egli l'aveva incontrata fra due porte e l'aveva abbracciata
baciandola ruvidamente sul collo; gli era quasi svenuta nelle braccia.
Lui guardava orgogliosamente i propri polsi poderosi e schiattava dal
ridere, dicendo: Se la stringo troppo, vedete che la spezzo. Questi
brutali complimenti li rendeva sempre più innamorati.

Ma il papà e la mamma tenevano fermo a non volergli far sposare quella
ragazza pezzente. S'era sperato lungamente che dopo il matrimonio della
sorella di Giovanni, le cose si sarebbero potute accomodare: Alfonsina
aspettò pazientemente altri due anni. Ma dopo, fu peggio. Ogni mese la
madre di Giovanni gli trovava una sposa nuova: lui rifiutava, gridava,
rompeva le sedie. O Alfonsina o la morte--e bestemmiava, dando calci
nelle casse. Alfonsina, facendo la _frivolità_, doveva ripetere: o
Giovannino o la morte. Continuavano a parlare dal terrazzino. Poi ci fu
un caso grave: vale a dire una proposta di matrimonio per Alfonsina da
parte di un impiegato del Dazio di consumo. Fu tranquillamente respinto
dalla ragazza e fu bastonato dal giovanotto: uno scandalo enorme in cui
spiccava grosso e grasso l'amore di lui, alto e sottile come una
fiammolina inconsumabile l'amore di lei. Ma se Alfonsina rimaneva
quieta, aspettando tacitamente e fedelmente un giorno, _quel giorno_,
Giovannino diventava aspro, col sangue alla testa per la minima cosa,
gridando, urlando, stringendo le pugna. Si faceva un villano. Qualche
volta la sua collera si riversava sull'innamorata. La tormentava con una
gelosia feroce, le rinfacciava la guerra civile della propria casa, gli
anni perduti dietro lei. Alfonsina lasciava andare la _frivolità_ e
piangeva silenziosamente. Una sera, in un ballonzolo, arrivò a darle un
pizzicotto così tremendo che lei strillò come in agonia e tutti se ne
accorsero. Lui, furibondo, la piantò. Per tre mesi bevve molto, andò a
caccia e si spassò con le contadine, diventando bestiale. Lei non
dormiva più la notte, e quando le portavano le notizie, tremava e
sospirava. Poi Giovannino, ripreso dalla tenerezza, si rappaciò, promise
di sposarla presto. Ma la tresca con Fortunatella, la moglie del colono,
non fu spezzata: si parlava di un bambino. Per dissuadere Alfonsina
dall'aspettare più Giovanni che diventava un mascalzone, ci si misero in
mezzo amici, amiche, confessori. Lei diceva di sì col capo, ma
significava no. Era un'ostrica calma, col suo volto dilavato e le vene
senza sangue. Aveva la fermezza della passività. Curvava il capo e non
si muoveva più. Lui a riprese, quando era infastidito di Fortunatella,
cercava di far la pace con Alfonsina e ci riusciva, ma le cose non
duravano molto così bene. Lui la maltrattava nelle lettere, come quando
schiaffeggiava Fortunatella. Era una guerra d'ogni giorno--e guai se
qualcuno osava gironzare intorno all'Alfonsina. Erano minacce
spaventose. Questa vita durò dodici anni. La fanciulla oramai viveva di
anima, tanto era stecchita e meschina.

Poi un giorno, i briganti si presero Giovanni; dicono che fosse un
agguato tesogli da un colono furioso d'essere stato maltrattato; alcuni
dicono preparato da un altro amante di Fortunatella. I briganti chiesero
trentamila ducati di riscatto e tagliarono le orecchie del prigioniero.
Poi gli tagliarono il naso ed il dito mignolo, e chiesero settantamila
ducati, poi, come invece del danaro, vennero i bersaglieri, lo
ammazzarono con una pugnalata nello stomaco.

Fu allora solo, che la pallida Alfonsina dagli occhi cisposi, si decise
a sputare quel po' di sangue roseo che le rimaneva nelle vene e partì un
anno dopo di lui.



          LA DONNA DALL'ABITO NERO E DAL RAMO DI CORALLO ROSSO.

                                                  _A M... M..._


Sentite ora il mio segreto, uno spaventoso segreto che mi rode l'anima.
L'ho taciuto sinora per l'orrore della mia mostruosità. Ma dentro, lo
spasimo mio assume mille forme, io sento due martellini battermi sul
cuore mortificandolo di colpi; io ho una vite d'acciaio che mi rotea nel
petto come un cavaturacciolo; io ho un migliaio di spilli ficcati sotto
il cranio; io ho un chiodo confitto nella tempia dritta. Eppure, in
questa lunga agonia, io non posso morire; dalla febbre il mio sangue si
rinnovella, dalla tortura le mie fibre si disseccano, ma si
rinvigoriscono dall'incitamento; la forza dei miei nervi si raddoppia.
Morire no, non mi è concesso. Altri dovrebbero morire, meco. Scrivo il
mio segreto non per sollievo perchè non ne spero, ma perchè si sappia la
verità del caso mio.

Sentite. Non è vero che io sia pazza; io vivo, sento, ricordo e ragiono.
Quelli che mi tengono imprigionata, nel manicomio, s'ingannano.

Mai ho posseduto tanta lucidità di mente, tanta solidità di cervello;
mai ho contemplato con tanta serenità di dolore la mia sventura. Non
sono pazza. È inutile la doccia sulla testa, il camerotto foderato di
materassi, il bagno caldo, la sorveglianza continua. Questo non può
guarirmi, perchè non sono pazza. Per me non ci vuole il medico, ma il
prete. Deve venire il prete con il libro santo dei Vangeli, con la stola
ricamata d'oro, con l'acqua benedetta. Deve leggere le preghiere per
scongiurare gli spiriti maligni, mettermi sul capo la stola e aspergermi
di acqua santa; deve battersi il petto, inginocchiarsi, pregare l'aiuto
del Signore su me. Poichè io non sono pazza, ma qualcuno si è
impossessato di me; io non sono pazza, ma qualcuno è entrato in me, vive
con me. Dentro l'anima mia vi è un'altr'anima. Dentro la mia volontà vi
è un'altra volontà. Dentro la mia ragione vi è un'altra ragione. Bisogna
esorcizzarmi, bisogna cacciar via la mia nemica, togliermi quest'altra
anima che mi riempie di terrore. Noi siamo due...

                                   *
                                  * *

Quanto tempo è che ho veduto lei, l'altra, per la prima volta? Non so,
la data non potrei dirla, perchè mi sfugge. Certo era un tramonto più
rosso d'autunno; io correva nelle vie infangate, affrettandomi a una
casa dove qualcuno che mi amava moriva. Correvo col capo chino sotto la
pioggia mormorando le parole di consolazione e di perdono prima di
giungere. D'un tratto, alzando gli occhi sotto la luce rossastra di un
fanale a gas, vidi camminarmi accanto una figura femminile. Era una
donna di mezza statura, col volto pallido e allungato, sciupato
dall'età, dalle sofferenze; ma in quel volto consumato ardevano gli
occhi neri, bruciavano di sangue le labbra. Era vestita tutta di nero,
il nero dei suoi occhi; portava al collo, come spillo, un ramoscello di
corallo rosso come le labbra. Camminava accanto a me, guardando la
terra; un sol momento mi alzò gli occhi in viso, ma li riabbassò subito.
Io fui colpita da questa apparizione e distesi la mano quasi per
toccarla, ma ella si allontanò rapidamente. La seguii quasi per istinto
senza saper perchè, presa da necessità di andare dove andava lei, di
fare quello che lei faceva. La seguii con gli occhi fissi nella sua
figura bruna, raggiungendola ogni tanto per vedere quello sguardo nero e
ardente, quelle labbra febbricitanti, quell'abito nero come l'occhio,
quel ramo di corallo rosso come le labbra. Ella se ne andò per le strade
con il suo passo ritmico, fermandosi innanzi alle mostre delle botteghe,
salutando qualche creatura ignota, fermandosi a discorrere con qualche
essere volgare. Io feci, dietro a lei, tutto quello che essa fece. Ella
prese la via del teatro, salì le scale, entrò in un palco e si pose
immediatamente a dardeggiare la folla col suo sguardo nero. Si pose
subito a ridere con le sue labbra di sangue; io in un palco dirimpetto a
lei, imitandola, guardai sfacciatamente la folla, e risi, risi sempre.
D'un tratto ella scomparve, io m'abbandonai in un'atonia come se mi
mancassero gli spiriti, poi mi risvegliai nell'amarezza saliente dei
rimorsi. L'amico che m'aspettava, a cui dovevo portare le parole di
consolazione e di perdono, era morto, solo, mentre io rideva al teatro.

                                   *
                                  * *

Io non amava quell'uomo. Anzi non amavo nessuno in quel tempo. La mia
indifferenza in fatto di sentimento era serena: non amavo, non avevo il
rimpianto dell'amore, non avevo il desiderio dell'amore. Poi quell'uomo
era un essere volgare e miserabile di cui io vedeva tutta la miseria,
tutta la volgarità. Il suo amore fatto di vanità, di capriccio, di
puntiglio, non aveva il potere di irritarmi, ma aveva il potere di
nausearmi. Le sue parole mi lasciavano inerte, le sue lettere non mi
scuotevano, le sue mani che stringevano le mie non mi facevano
impallidire. Odiarlo non potevo, e amarlo neppure: tutta la meschinità,
tutta la bassezza del suo spirito, la misuravo. Egli, divorato dal
desiderio, ch'era vanità, fremeva di rabbia, fremeva di falso amore, e
pregava e scongiurava, versava lagrime di dispetto. Io mi rifiutava;
tranquilla, immobile, sorridente, quasi insolente, m'immergevo sempre
più in quella indifferenza che è il dono dei forti. Finchè lui un
giorno, in una scena di collera, mi disse:

--O domani o mai più.

--Mai più--dissi io freddamente.

Il domani, nel pieno meriggio d'inverno, io passeggiava nella campagna
trasalendo d'emozione per la maestà del fiume che se ne andava lento al
mare, per gli anemoni crescenti nell'erba umida, per i piccoli salici
neri che si piegavano brulli, quasi spinosi; per gli uccelli che
stridevano sul mio capo nella profondità dei cieli. Queste sensazioni
giungevano squisite, soavi ai miei nervi equilibrati. Ero quieta.
Quand'ecco nelle lontananze della sponda, nella gialla lucentezza
meridiana, ella m'apparve col suo viso smorto, disfatto, dove vivevano
soltanto i carbonchi dei suoi occhi e la bocca rossa come un granato;
vestita di nero, portando al collo un ramo di corallo rosso. Questa
volta non mi guardò. Tutto il mio essere sobbalzò a lei. Mentre si
dirigeva lentamente alla città, io la seguii passo per passo come una
bestia ubbidiente. Vedevo con paura che ella andava al luogo del
convegno con quell'uomo, ma istintivamente non potevo manifestare questa
paura. Vidi con spavento che quell'uomo era là, che mi aspettava, che
sorrideva di orgoglio. Egli non vedeva il fantasma che gli si accostava,
vedeva me che m'accostavo a lui per seguire il fantasma.

--Grazie--disse l'uomo trionfante.

Il fantasma sorrise dolcemente, ed io, che volevo urlare di dolore,
sorrisi di dolcezza.

--Tu mi ami?--chiese l'uomo.

--Ti amo--mormorò il fantasma.

Io, che sulle labbra mi si affollavano gli insulti, dissi a voce alta:

--Ti amo.

--Mi amerai sempre?

--Sempre--rispose il fantasma.

Io, che agonizzavo, risposi:

--Sempre.

--Lo giuri sulla Madonna?

--Lo giuro sulla Madonna--susurrò l'ombra.

Io, che avevo il terrore del sacrilegio, bestemmiai:

--Lo giuro sulla Madonna.

Ora mi dicono pazza. Pensate che ho trascinato due anni la catena di un
amore falso e volgare, che ho mentito due anni, che ho tollerato due
anni la menzogna, perchè non mi amava, come io non l'amavo. Pensate al
disgusto, al ribrezzo, alla stanchezza di due anni, ai giuramenti
bugiardi fatti e ricevuti, ai trasporti fittizii, ai baci inutili e
fiacchi, agli entusiasmi posticci, a questa commedia piena di fango. Era
per lei tutto. Per fare quello che ella faceva, per dire quello ch'ella
diceva, per seguirla, per imitarla. Era l'incantesimo di questa fata, di
questa strega, di questa maliarda. Era il fascino, il filtro;
avvinghiata ad essa che rappresentava la bugia e il tradimento, io sono
stata la bugia e il tradimento.

                                  *
                                 * *

Nel tempo, accade altro. Un altro uomo mi amava veramente, con la lealtà
spirituale delle anime elette; io lo amava con l'umiltà profonda del
cuore che cerca riabilitarsi. Le nostre anime vibravano all'unisono
nell'armonia potente dell'amore; si fondevano meravigliosamente
nell'armonia dell'amore; era un affetto solo, completo, tutto divino e
tutto umano. Ma la celestiale fusione durò poco. In un'ora suprema,
mentre egli mi parlava soavemente, vidi comparire fra noi la donna
dall'abito nero, che portava al collo un ramoscello di corallo rosso.
Questa volta i soavi occhi lampeggiavano malignamente, le sue labbra di
garofano sogghignavano. Egli mi parlava d'amore ed ella ghignava,
ghignava.

--Non ti credo--rispose a quell'uomo che diceva la verità.

Così l'amore nostro divenne uno spasimo. Dietro il volto di lui, onesto
e buono, io vedeva l'ovale sciupato della donna che ghignava; egli
diceva un _sì_ franco, sincero, e l'eco del fantasma era un _no_ duro;
egli mi accarezzava col suo sguardo innamorato, ed ella lampeggiava
ferocemente gli occhi.

--Non ti credo, non ti credo--ripetevo a quell'uomo, io diventata
malvagia e scettica.

Poi egli non credette più a me, mi vedeva sempre distratta, assorbita,
scossa da subitanee paure, o perduta in esaurimenti mortali.

--Tu non mi ami, tu sei lontana di qui; la tua anima è assente; oh
ritorna, ritorna!--egli mi supplicava.

Eppure ci amavamo; la maga pallida, dalle labbra di carmino, che ci
scherniva, si metteva fra noi e ne faceva gelare il sangue, e rendeva
deboli i nostri baci e fioche le voci. Io soffriva infinitamente più di
lui, io che vedevo la maga sedersi accanto a noi, io che sentivo lo
spavento di questo spettro salirmi al cervello e farmi delirare. Io che
giunsi fino ad essere gelosa di quel fantasma a cui mi sembrava che egli
dirigesse le sue parole di amore; io, che in uno scoppio di gelosia
furiosa, gridai:

--Tu m'inganni, tu ne ami un'altra, tu ami una donna pallida, sfinita,
cogli occhi neri, le labbra sanguigne, la veste nera, il ramo di corallo
rosso. Tu m'inganni, tu mi tradisci, tu ami l'altra!

Egli mi guardò trasognato.

--Tu sei quella--disse semplicemente.

Mi condusse allo specchio; vidi nel cristallo una faccia smorta,
consunta dall'età, dalla sofferenza, due occhi neri, ardenti, due labbra
brucianti, una veste nera, un ramo di corallo rosso. Vidi la sua figura,
che era la mia figura; urlai come una bestia:

--Non sono pazza, non è la mia testa che devono curare, ma è la più
fiera nemica che è entrata in me; il fantasma si è messo nell'anima mia.
L'altra non vuole andarsene, vuol vivere in me, così siamo due; bisogna
esorcizzarmi; chiamate un prete, e dica sul mio capo le parole sacre
della preghiera che libera le anime!



                                SCENA.


Tutta chiusa ancora nella pelliccia di lontra, con la veletta nera del
cappellino ancora abbassata sugli occhi, con le mani ficcate e strette
nel manicotto, donna Livia, ritta innanzi al caminetto, si riscaldava i
piedini intirizziti alla vampa. A un tratto, nell'ombra della sera
nascente, ella vide biancheggiare qualche cosa accanto a sè.

--Chi è?--disse buttandosi indietro, improvvisamente sgomentata.

--Sono io, Livia, non aver paura--rispose il marito, con tranquillità.

--Ah! sei tu, Riccardo? Non ti ho inteso venire--e la voce si era subito
raddolcita, era diventata tenera.

--Non capisco come non abbiano portato i lumi.

--Sono rientrata ora da Villa Borghese--mormorò lei, fiaccamente. Poi,
tastando un poco, trovò il campanello elettrico sul muro e vi appoggiò
il dito. Un servitore entrò con due lampade coperte da paralumi di seta
azzurra che mitigavano la luce. Il salottino apparve nelle sue tinte un
po' triste di velluto oliva con broccato oro vecchio, molto smorto; una
quantità di rose thea sorgeva dai vasi di porcellana, dalle coppe di
cristallo. Don Riccardo era in marsina, cravatta nera, gardenia
all'occhiello.

--Già pronto?--chiese donna Livia.

--Ho sbagliato l'ora, non sono che le sei: aspetterò.

E si distese nella poltrona, accanto al fuoco, incavalcò una gamba sopra
un'altra.

--Qui si fuma, eh Livia?

--Certo. Cerca un po' le sigarette; sono su quel tavolinetto.

--Ne ho anch'io,

--Le mie saranno migliori, Riccardo.

--Chi te le ha date?

--Le ha portate Guido Caracciolo da Costantinopoli.

Ella stessa gli portò i fiammiferi aspettando che lui accendesse.

Egli si distese di nuovo, fumando.

--Dunque, questo vostro pranzo di fondazione al Circolo è per le sette?

--Sì, cara Livia, alle sette. Un pranzo tutto di uomini: sarà molto
noioso.

--Oh! noiosissimo.

Donna Livia si sbottonava lentamente i guanti di capretto nero.

--Almeno avessi dei vicini di pranzo divertenti: ti seccheresti meno,
Riccardo mio.

--I vicini sono Mario Torresparda e Filippo Ventimilla.

--Quella Villa Borghese è una ghiacciaia--mormorò lei rabbrividendo dal
freddo, presentando le manine inguantate alle fiamme.

--Fai male ad andarci, allora--rispose il marito colla sua bella calma
che niente arrivava a turbare.

--Sai... l'abitudine. Oh, vi era una quantità di gente, giorno di festa,
molte facce sconosciute oltre alle solite. La regina aveva una piuma
rosa pallido sul cappello di velluto nero. Credi tu che mi stia bene il
rosa pallido, Riccardo?

--Tutto ti sta bene, cara!

--Bella risposta! Infine ho incontrato Maria, Clara, Margherita, Teresa,
Vittoria; Giorgio era solo, nel _phaeton_; Paola mi ha fatto segno se ci
vedevamo stasera, le ho risposto di sì. Ci vieni tu?

--Sì, dopo il pranzo.

--Bravo! Ci sono restata troppo, a Villa Borghese, non mi accorgevo che
era notte, poi sapevo che avrei pranzato sola. Brutto cattivo che sei!
Sono stata anche da Sofia, prima di Villa Borghese; oh, se sapessi
quante cose ho fatte oggi, dalle tre! Povera Sofia, il bimbo è sempre
con le febbri e si è fatto magro, giallo; domani lo avvolgeranno negli
scialli, lo metteranno in carrozza chiusa e lo porteranno a Tivoli; chi
sa che il cambiamento d'aria gli faccia bene...

--Federico parte con Sofia?

--No, andrà ogni giorno a Tivoli. Che uomo freddo e antipaticissimo! Non
ha vegliato una sola notte accanto al suo bambino, e Sofia da dodici
notti non dorme...

--Dicono che non sia suo, quel bambino,--osservò don Riccardo, scotendo
le ceneri della sigaretta nel portacenere.

--Lo dicono, è vero. Sofia si è troppo compromessa con Guido. L'ho
incontrato, Guido, in piazza di Spagna, mentre andavo dalla sarta. Sono
stata anche da questa sarta, per il vestito grigio, che, è inutile, per
quanti sforzi ella faccia, e per quanto tempo mi faccia perdere, non
arriva ad essermi conveniente. Un vestito è come un quadro: quando è
sbagliato non si corregge più, bisogna buttarlo via e farne un altro.

--Mi sembri poco soddisfatta della tua sarta da qualche tempo. Perchè
non cambi? Perchè non fai venire tutto da Parigi? Io non me lo spiego.

--Hai ragione, ma come fare? Questa qui mi si raccomanda, e poi spesso
da Parigi mandano degli intrugli di colore di cui è impossibile
servirsi. Crederesti che a Giulia hanno mandato un vestito verde!
Piangeva, oggi. Sono stata anche da lei, un minuto, per vedere questo
vestito che lei aspettava con una certa ansietà. Fiasco, Riccardo mio,
fiasco! Un vestito verde chiaro!

Il suo riso strillò per la stanza, poi, essendosi tolto il cappellino e
sbottonata la pelliccia, si distese anche lei sulla poltroncina
dall'altra parte del fuoco.

Ora la volubilità nervosa con cui aveva parlato si chetava. Ella si
passava lentamente le dita nei capelli biondi ondulati come per
lisciarli. Don Riccardo accese un'altra sigaretta, e guardando il fuoco
parlò così:

--Livia, oggi tu sei uscita alle tre con la _vittoria_. Sei subito
andata da Sofia e vi sei rimasta fino alle tre e venti; di lì sei andata
da Giulia, dove sei rimasta dieci minuti; alle quattro eri innanzi al
portone della tua sarta in piazza di Spagna; sei entrata di là e ne sei
immediatamente uscita dalla porticina che dà in piazza Mignanelli. Hai
preso una vettura chiusa da nolo che portava il N. 522. Sei andata in
via Cesarini al N. 170, al primo piano, dove Mario Torresparda ha un
appartamentino per ricevere le signore del bel mondo che si compiacciono
d'andarlo a trovare. La sua abitazione legale, dove riceve gli amici e
le _cocottes_, è altrove. Sei restata là dalle quattro e dieci minuti
fino alle cinque e cinquanta minuti; sei discesa, la vettura da nolo
t'ha ricondotta in piazza Mignanelli; non avevi moneta spicciola, poichè
non si pensa mai a tutto, hai date dieci lire al cocchiere, sei subito
uscita dalla grande porta di piazza di Spagna, sei montata nella
_vittoria_, che ti ha condotta per venti minuti alla Villa Borghese,
d'onde sei ritornata subito qui.

Ella era scivolata sul tappeto e gli stendeva le braccia mormorando:

--Perdonami, perdonami, era la prima volta!

--La prima volta, lo so. Mario Torresparda ti fa la corte da luglio,
quando eri a Livorno; cominciò una sera di plenilunio; fu niente, prima,
uno scherzo, poi dalla Svizzera dove era lui, in Sabbina dove eri tu, ti
ha scritto prima spesso, poi ogni giorno. Hai sempre risposto; saranno
state da cinquantadue a cinquantacinque fra lettere e biglietti. Qui vi
siete visti due volte, al Pincio, di mattina, venerdì diciotto novembre
e domenica ventotto. D'allora gli prometteste d'andare da lui, ma hai
già mancato di parola due volte, lunedì e giovedì della settimana
scorsa. Oggi finalmente ci sei andata per la prima, volta.

--Oh Riccardo, oh Riccardo!--singhiozzava donna Livia come un
bambino--Perchè non mi uccidi, invece di dirmi queste cose?

--No, mia cara, io non ho l'abitudine di ammazzare nessuno e non voglio
cominciare adesso, io. I mariti che uccidono le mogli si vedono nei
romanzi di Ohnet e nei drammi del medesimo autore. Io non sono di questo
parere: ho certe mie idee sull'onore che trovo inutile di sottometterti,
perchè tu non le intenderesti. Sangue, no; non vale la pena, cara. Ci
siamo voluti bene, prima e dopo il matrimonio, per un bel pezzo; poi tu
non me ne hai voluto più, come è perfettamente naturale, e naturalmente
ne hai voluto ad un altro. Non mi parlare di lotta, di battaglia, di
acciecamento, di passione contrastata; non servirebbe a nulla, io non ci
credo. Gli amori finiscono, ed è logico che sia così. Il tuo, per me, è
durato abbastanza, mi pare.--Non mi lagno, come vedi; tu non hai fatto
nulla di irregolare; anzi con quella lunga abitudine femminile, per
quella tradizione a cui non mancate mai voialtre, per quel raffinato
gusto per cui siete tanto seducenti, tu hai scelto il mio buon amico
Mario Torresparda. Io gli volevo bene a Mario Torresparda, e glie ne
voglio ancora. Non mi batterò mica con lui, per dar gusto a te ed al
pubblico. Vuoi forse dirmi che egli ti ha sedotta? No, cara, non è vero:
forse tu stessa credi che sia così, sei in buona fede; ma disilluditi,
sono le donne che cominciano sempre a sedurre, e l'uomo si lascia
prendere. Che colpa ha Mario Torresparda? Nessuna. Ha trovato una donna
che faceva la civetta con lui, si è lasciato invescare, poveretto, si è
innamorato. Lo compatisco, esser l'amante di una donna maritata non è
molto piacevole, è una posizione piena di fastidi.

--Oh come hai ragione di disprezzarmi!--singhiozzò lei.

--No, cara. Io non ho nessun sentimento a tuo riguardo. Mi sono
informato del tuo amore, per sapere la verità, per semplice bisogno di
posizioni nette. Ora, per l'avvenire, fa quel che ti piace, io non mi
prenderò neppur la pena di appurarlo. Ti avverto però che Mario
Torresparda è innamorato sul serio di te, e fargli subito un tiro non
sarebbe umano. Addio, son le sette, vado a pranzo; buon appetito.

--Non mi perdonerai mai?--gridò essa, afferrandolo per un braccio.

--Ma che perdono? Non ve n'è bisogno punto. Trovo, così, in massima
generale, che noialtri uomini abbiamo torto a pigliarvi sul serio e a
sposarvi in conseguenza. Se questa è una scortesia, scusami tanto. Vado,
perchè son le sette. Verrò da Paola, dopo, a prenderti. Buona
sera.................................

--Il pranzo è pronto--disse il servitore entrando.

Donna Livia, seduta sul tappeto, guardando il fuoco che moriva, pensava
quanto suo marito, don Riccardo, fosse più _chic_ di Mario Torresparda.



                                IDEALE.


Laura, ritta presso il tavolino, col capo chino, s'occupava seriamente
dei molti bottoni del suo guanto; sulla spalliera d'una seggiola era
gittata una mantiglia ricamata in oro; un gran ventaglio di raso rosso
da una parte, giallo e nero dall'altra, giaceva semiaperto sul tavolino.
Laura era vestita di broccato nero, con uno strascico inverosimile;
sulla scollatura triangolare del petto era appuntato un grande gruppo di
fiori rossi e gialli; un ramo fitto di fiori rossi o gialli ornava i
capelli bruni, compariva sotto l'orecchio e le lambiva il collo. Cesare
entrò, senza far rumore, la guardò un momento, pensò a quello che doveva
dire, e finì per dire:

--Buona sera, signora.

Ella non si scosse. Si volse, sorrise, stirò il suo guanto e domandò:

--Siete voi, Sanseverino?

--La domanda è singolare.

--Contentatevene. Ve ne ho risparmiata un'altra che poteva essere
impertinente.

--Contessa, stasera siete un...

--Fenomeno, non è vero?

--Di bontà. Una cosa nuova. Mi risparmiate una impertinenza, mi siete
indulgente! Qualche orribile sventura mi minaccia, dunque?

--Chi sa?

--Preferisco l'impertinenza, contessa. Già me lo immagino. Volevate
dirmi: Che venite a fare qui?

--Voi indovinate troppo, Sanseverino; è una scienza pericolosa.

--Per me solo. Vengo qui...

--Per vedermi, perchè siete innamorato di me. Conosco il ritornello.

Sanseverino impallidì, nonostante la sua disinvoltura. Carezzò
nervosamente il suo mustacchio sottile:

--...già--disse poi.--Ma non l'avrei detto. Non si crederebbe, contessa,
ma riesco ad essere un uomo di spirito anche dinanzi a voi.

--Tutto merito mio, Sanseverino.

A lui si annebbiarono gli occhi, ma l'orgoglio gli ridette un sorriso
ironico.

--Quanto vi è di buono in me e di felice nella mia vita, lo ripeto da
voi, contessa--rispose, con un inchino troppo profondo.

--Benissimo, ecco un grazioso complimento che è il principio di quelli
che udrò fra poco al teatro.

--È vero, voi andate al teatro--disse lui come riavendosi da una
distrazione.--Perchè ci andate?

--Per annoiarmi in mezzo a molta gente.

--Annoiatevi con me, allora. La proposta è egoistica, non lo nego. Ma io
mi moltiplicherò per farvi annoiare come al teatro. Se volete, aprirò il
pianoforte, e vi suonerò le più gravi, le più soavi melodie del
_Lohengrin_ che dovreste ascoltare al San Carlo. Parlerò con voi di
trine, di amoretti, di gite, di nastri come potrebbe farlo la vostra
amica Evelina. Vi farò la corte scioccamente, come ve la potrebbero fare
Giorgio, Arturo, Adolfo o Gino. Poi, in un intervallo finto, fingerò di
venire io stesso a farvi una visita, e vi dirò quello che vi direi...

--Mi piacerebbe più quello che non mi direste.

--Tristi cose in verità--rispose lui con un accento profondo.

Vi fu un minuto di silenzio. Caso meraviglioso, la contessa Laura
pensava. Ma si scosse:

--E la platea? Ci mancherà la platea. Chi farà da platea?--domandò.

--Che dice la platea di noi?

--Oh! una cosa molto volgare, Sanseverino. Che mi amate e che non v'amo.

--E soggiunge le ragioni, bella contessa?

--Non le soggiunge, perchè non ve ne sono. Si ama senza ragione e non si
ama anche senza ragione. L'amore e l'indifferenza si rassomigliano.

--Voi proferite una frase mostruosa--disse lui placidamente.

--Arriverò tardi al teatro--mormorò lei impazientandosi.

--Sono appena le nove. È ignobilmente presto. Chi è due volte contessa e
tre volte marchesa come voi, non può andare al teatro a quest'ora. Io
non oserei accompagnarvi.

--Vi farebbe piacere l'accompagnarmi?--chiese lei, lampeggiando vanità
dagli occhi.

--... immenso piacere--mormorò lui, comprendendo la malvagia
idea--malgrado il susurrìo di compassione che susciterei nella vostra
famosa platea, contessa. Sono sicuro, vedete--e la sua voce tremolò di
collera--che mi si compiange.

Ella non rispose nulla. Dopo una pausa, gli domandò:

--Foste al ballo in casa Della Mana?

--... ci fui.

--Mi attendeste inutilmente?--riprese, scherzando graziosamente col
ventaglio.

--Inutilmente.

--Mandai a dire che ero ammalata. Vi impensieriste? Non era vero. Il mio
abito, giunto da Parigi, era un capolavoro di bruttezza.

--Questo di stasera è odioso.

--Vi pare? Eppure voi dovreste preferire questi fiori dai colori
passionati. Non andate predicando da per tutto: Amore, amore, passione,
passione?

--Ma non artificiale come i vostri fiori, contessa, come il falso colore
dei vostri nastri, come la falsa Turchia del vostro ventaglio, come voi
stessa...

--Eh!--fece lei, rivoltandosi vivamente.

--Perdono. Ho sbagliato... ho la testa un po' confusa. Qui vi è un
profumo penetrante che mi dà ai nervi.

--Ora va bene--approvò lei col capo, agitando lievemente il ventaglio.

--Ho sbagliato, vi ho offesa. Voi non siete falsa; voi siete molto
leale. Nulla mi avete promesso e nulla mi avete mantenuto. Dal primo
istante che vi vidi, vi giudicai: siete rimasta immutabile. Mi
congratulo con voi, contessa Laura: voi avete carattere. Carattere
d'indifferenza, di apatia, se vogliamo, unito ad una giusta misura di
vanità. Bel carattere: io vi ammiro.

--Credete voi che Teresa Realps sposerà vostro cugino Mario?--disse lei,
reprimendo un piccolo sbadiglio.

--Questo matrimonio pare che vi diverta come le mie incoerenze. Sarebbe
meglio per voi andare al teatro.

--Grazie; per me è lo stesso. Se volete, rimango qui sino a mezzanotte.
Mi diverto anche qui.

--Che cosa potrebbe farvi piangere, Laura?

--Mi chiamate per nome, mi sembra--disse lei lentamente e freddamente,
guardandolo fisso col suo sguardo grigio.

--Vi chiedeva che cosa potrebbe farvi piangere, contessa Mormile.

--... non so... non so... ma qualche cosa ci deve essere. La troverò.

--E me la direte?

--Forse. Vi piacerebbe veder le mie lagrime?

--Io non le vedrei--disse Sanseverino, abbassando il capo.

--Bah!--fece lei, stringendosi nelle spalle. E si alzò per prendere la
sua mantiglia.

Scesero lo scalone, l'uno a braccio dell'altra, muti, senza guardarsi.
Allo sportello della carrozza egli salutò con una grande scappellata.
Laura sorrise.

--Verrete più tardi al teatro, Sanseverino?

--A far che?

--Quello che tutti fanno.

--No. Me ne vado a giuocare al Circolo.

--Questo vi distrae?

--Punto. Tutto è inutile, tutto. Buona sera, contessa Mormile.

--Buona sera, duca Sanseverino.

                                   *
                                  * *

Nel meriggio di settembre tutto taceva. Nella campagna attorno era un
grande silenzio. Ogni tanto, di lontano, s'udiva il rumore di una
carrozza che passava sulla strada maestra. Nel pianterreno della villa
un paio di servitori dormivano sulle panche dell'anticamera, una
cameriera agucchiava presso una finestra, un guattero strofinava
silenziosamente l'argenteria in cucina. La contessa Laura non amava il
fracasso in campagna. Ella stessa stava nel suo salone favorito, che era
un po' salone, un po' _veranda_ e un po' serra, dove le tendine
moderavano la luce, il ponente soffiava amabilmente, uno zampillo
d'acqua rinfrescava l'aria, e i fiori d'autunno appagavano l'occhio. La
contessa vestita di casimira bianca, coperta di merletti bianchi, adorna
di rose bianche sul seno e nei capelli, si dondolava in una poltroncina
americana.

--... Voleva dirvi, Sanseverino--continuò con la sua voce seducente e
molle--che rimarrò a Capodimonte sino alla fine di ottobre.

--Così tardi? Eppure voi non amate la campagna, non l'avete mai amata.

--Vi sembra? Non so veramente se io l'ami ora. Ma la sua pace mi attrae,
mi soggioga. La città deve essere orribile, arsa dal sole, corrosa dalla
polvere, piena di gente borghese e piena di chiasso. Che caldo deve fare
laggiù! La sera, quando sto sul terrazzo, mi par di vedere Napoli fumare
come una grande macchina a vapore. Ed il vostro Sorrento come lo avete
lasciato?

--Bellissimo ed elegante; vi è tutto il vostro Circolo. Ognuno si
domanda perchè voi manchiate.

--Anche voi lo domandate?

--Io non oso domandare più nulla, lo sapete. Sono i vostri amici. Fanno
commenti, supposizioni...

--Che dicono?

--Io non lo ripeterò mai.

--Anzi, me lo ripeterete.

--Per comando?

--Per comando.

--Dicono che avete un innamorato.

--Credete voi che io abbia un innamorato?--domandò lei fissandolo
stranamente.

Egli sentì come un brivido passargli per le ossa, e rispose:

--Non lo credo.

--E perchè?

Sanseverino tacque. Ella raccolse una rosa da un cestino che aveva
accanto e glie la gettò. Egli la prese a volo e la odorò lungamente,
mentre ella osservava con attenzione. Aveva baciato il fiore o aspirato
solamente il profumo?

--... ditemi, Sanseverino, a Sorrento, avete spesso pensato a Napoli?

--Vale a dire, contessa?

--... a Capodimonte?

--A Capodimonte?

--... voleva dire a me--concluse lei con voce dolente e arrossendo un
poco.

Egli la guardò, sorpreso. Ma ella non gli dette tempo di rispondere:

--Ho letto, ieri l'altro, una parola misteriosa in un libro misterioso.
È la parola: _ideale_. Non sorridete, la conoscevo: ma non comprendevo
bene che fosse. È la nuvola che passa, non è vero, l'ideale? È la musica
che abbiamo nella mente? È il quadro dipinto nella fantasia? È un
fantasma adorato? È tutto questo, non è vero?

--Tutto questo ed altro ancora, signora.

--O amico, voi dovete averlo ed amarlo un ideale. Ditemi qual è.

--Io non posso dirvelo.

--E che? non mi amate voi forse?--sclamò lei, con gli occhi lucenti.

--Sì, ma non vi dirò il mio ideale.

--Ebbene, non me lo dite: io lo so. L'ho indovinato: il mio cuore è
diventato profeta. Il vostro ideale è una donna, _quella donna_ che
v'ami. Consolatevi e ringraziate il Signore. L'ideale è vivo: io v'amo,
Cesare.

--Non scherzate, Laura.

--Non scherzo, vi voglio bene,

--V'ingannate, forse.

--Non m'inganno: vi voglio bene.

Egli impallidiva sempre più. Un tremolio gli agitava gli angoli delle
labbra.

--Ve ne scongiuro, Laura, non mentite! Rimanete bella, malvagia,
seducente, ma indifferente, ma lontana, ma inafferrabile! Se volete che
v'adori, ditemi che non mi amate.

--Io non vi capisco, voi siete pazzo, Cesare: io so che v'amo.

--Addio, Laura.

--Non ve ne andrete, spero.

--Me ne vado; addio.

--Cesare, Cesare!

Ella spalancò un balcone; la viva luce del sole la ferì. Si spenzolò
sulla ringhiera e gli gridò:

--Da tanto tempo, Cesare! Dal primo, dal primo momento...

--Tanto peggio--disse lui, chinando il capo.

E si perdè nella lontananza della via.



                          GIUOCO DI PAZIENZA.


La giovane donna si chiamava Tecla, nome duro e schioccante. Era bassa,
senza nessuna nobiltà di statura, malgrado portasse la testa ritta e le
spalle cadessero benissimo. Era pienotta senza esagerazione di
rotondità, e pareva molto svelta nel suo busto strettissimo. Forse con
l'abitudine aveva presa quell'aria di sveltezza che sembrava naturale.
Si moveva con facilità, con certe mossettine carezzose che stavano bene
al suo corpo di bambina felice. Aveva naturalmente un bel braccio, un
po' corto, ma graziosamente rotondo, con un'attaccatura molto fine che
indicava quanto fossero delicate le ossa sotto quella carne soda e
fragrante di salute. La mano sembrava un cuscinetto di raso, una mano
troppo morbida che non si osava stringere per timore di guastarcela. Il
piede era delizioso, piccolo, sottile, inarcato, con una caviglia
elegantissima: per contemplarlo, qualche volta, si dimenticava la testa.
La quale aveva un singolare carattere di forza e di energia sopra quel
corpo piacevolmente grassotto; era un'anomalia, una sovrapposizione
bizzarra. Una testa forte su cui si ammassava una ricchezza cupa e
pesante di capelli neri, intrecciati, stretti, raccolti, ma che finivano
per piegare le forcinelle e per accumularsi sul collo, sfatti, a sprie
semi-ritorte. Sulla fronte nè piccola frangia tagliata, nè ricciolini,
nè nulla; si vedeva la nascita dei capelli gettati indietro, folta,
possente, tracciando una riga nera sul bianco della pelle. Gli occhi
erano nerissimi, brillanti come il _jais_, ma senza languori di
sentimento, e senza profondità di pensiero. Il difetto grave era nelle
sopracciglia, troppo nere, troppo folte, quasi riunite in mezzo, che
davano una cattiva espressione al volto. Il naso aquilino piombava un
poco sulle labbra sottili, un po' tirate in dentro, molto rosse. Tutto
il volto era pallido, di un pallore opaco ma non malaticcio, leggermente
rosso, un'ombra appena alle guancie. Segno particolare, delicatissimo,
colorito teneramente, come quello di un bambino, l'orecchio. Altro segno
particolare: un neo castano, vezzoso, sulla metà del mento. Vestiva una
veste da camera di raso tessuto, a piccole righe, una riga rossa, una
riga gialla, una riga nera: ampia, lunghissima, tenuta ferma intorno
alla vita da un cordoncino d'oro. Al collo un riccio di trina antica,
molto gialla.

                                  *
                                 * *

La scimmia si dondolava sopra un cerchio di legno, dandosi il piacere
dell'altalena. Era una scimmietta ancora adolescente, tutta magra, con
le membra esili; forse non sarebbe cresciuta più. Sarebbe rimasta
piccola, elegante e vivacissima, come si leggeva nel furbo e mobile
occhio nero. Non faceva orrore, nè schifo: faceva meraviglia, tanto le
sue pose aristocratiche rassomigliavano a quelle di una damina. Anzi,
per capriccio, le avevano fatti due buchi alle orecchie e portava due
stelline di perle come orecchini; il che la rendeva contenta, crollando
la testa come una donnina soddisfatta. Aveva anche un abituccio di
velluto rosso, come quello di una bambola, fatto per lei; ma quella
mattina non aveva voluto metterlo. Se ne stava tranquilla ed
illanguidita nell'angolo del salotto che le era consacrato durante la
giornata: alla notte Eva andava a dormire nella serra coperta di
cristalli, poichè i lumi del salotto le avrebbero dato fastidio ed
impedito il sonno. Lei faceva l'altalena lentamente portando ogni tanto
la zampina al collo, dove portava un filo d'oro, impercettibile, ma che
era il segno della schiavitù: la catenina d'oro, di maglia veneziana,
che vi era attaccata, era sottilissima, ma forte. Precauzione inutile,
poichè la signorina Eva era perfettamente ben educata, e non tentava
scapparsene--essendo provvista di molta filosofia. Quando venivano
visite, fingeva sonnecchiare, dormendo con un occhio solo. Quando le
portavano le noci, le nocciuole, le mandorle brusche, allora il suo
istinto bestiale si rivelava, frettoloso, vorace, gittando attorno
occhiate diffidenti, come se qualcuno volesse rapirle la preda. Finite
le nocciuole, faceva un grande atto di disprezzo e si richiudeva
nell'apatia di una donna malcontenta di tutto. Il più strano, però, era
osservarla quando, tutta sola, faceva la donnina: prima civettuola,
tutta vezzi, tutta occhiate, tutta galanterie, provocante e
seducente--poi di un tratto malinconica, triste, desolata, parlando,
piangendo verso un essere immaginario--e dopo immediatamente sola,
tranquilla, fingendo di dar il rosso alle guance impallidite dalle
lagrime.

                                  *
                                 * *

Il manicotto della signora giaceva sopra una poltroncina, gittato là per
noncuranza. Era un manicotto di volpe russa, foderato di raso nero,
tutto profumato come un sacchettino di odori. Pareva piccolo piccolo,
capace di nascondere solo quelle manine morbide: ma egli stesso era
morbido e cedeva e v'entrava dentro un piccolo mondo di cose disparate.
Vi stava prima un fazzolettino bianco, di battista, tenue come una
nuvoletta, come un fiocchetto di neve: il fazzolettino portava, in un
angolo, una microscopica, quasi impercettibile lettera _A_: e la signora
si chiamava Tecla ed il suo cognome cominciava con la lettera _M_. Ma
era impossibile che il pubblico ignaro potesse scoprire quella cifra.
Questo fazzolettino era a sua volta profumato di _chypre_, un profumo
lento e voluttuoso che finisce per addormentare i nervi: un angoluccio
era piegato e annodato come i fazzoletti delle serve che vi mettono i
denari. Vi era una carta infatti: una immagine della Madonna dei Sette
Dolori. Oltre il fazzolettino vi era una piccola boccettina di cristallo
smerigliato e chiusa ermeticamente col tappo d'oro; dentro vi era una
sostanza bianca che poteva essere sale inglese, bicarbonato o arsenico.
Non si distingueva bene. Accanto alla boccettina un minuscolo libriccino
di note, legato in pelle grigia, con una violetta del pensiero, secca,
attaccata sulla pelle. Dentro, nelle paginette bianche dal taglio d'oro,
vi erano semplicemente certe date, ed accanto un _no_, un _sì_.
Nell'ultima pagina scritta vi erano tre date e tre _no_.

                                  *
                                 * *

La lettera era sulla scrivania, sotto gli occhi della signora. La busta
aperta metodicamente, vale a dire col taglio della stecca che aveva
tagliato nettamente una delle piegature, come colui che non ha fretta di
aprire. La busta era forte, poichè la lettera dentro era molto pesante.
Il francobollo straniero: veniva da Montecarlo. L'indirizzo: _alla
signora Giovanna Jannaccone, ferma in posta, Napoli_, un nome
volgarissimo, era scritto con un carattere calligrafico, rotondo, tutto
a ghirigori ed a fioriture di penna: il carattere di uno scrivano, di un
segretario, di un indifferente. Dentro, la lettera era composta di varii
foglietti: il primo era di elegante carta inglese, dal cui angolo a
sinistra era stato strappato un pezzetto su cui vi era forse una cifra,
forse uno stemma. Il secondo era un foglio di carta di albergo, con
l'intestazione lacerata a metà, così: _Hôtel de_.... Il terzo era un
_menu_ di pranzo, dietro cui era stato scritto fittamente ed in
traverso. Poi veniva di nuovo un mezzo foglietto di carta inglese, poi
un pezzo di carta qualunque, comune. Tutto questo era coperto di una
scrittura minuta, affrettata, maschile, ma variabilissima, ora tremante
e tutta sprizzature di penna, ora ferma e netta--sempre rapida. Qui le
linee pendevano verso il fondo, come prese da una mollezza; più innanzi
si rialzavano, diritte, uguali, quasi piene di rettitudine. Certe parole
scomparivano sotto la cancellatura, alcune supplite da altre, alcune che
non avevano trovato l'equivalente. Abbondavano i punti sospensivi, come
se lo scrittore si fosse fermato spesso a pensare. Qui e là l'inchiostro
cambiava di colore o impallidiva. In due punti era stemperato, divenuto
acquoso. Ogni foglietto era firmato con la lettera _A_. Il penultimo era
scritto disordinatamente, le parole una a ridosso dell'altra, quasi
impazzite. Sull'ultimo solo una parola.

Con questi pezzi il paziente lettore ricostruisca il dramma funesto che
essi formano.



                             ASPETTANDO.


Nella notte purissima e chiara il plenilunio scintillava. Dalla terrazza
del mio albergo io vedeva a destra, a sinistra i campi arati che
dormivano sotto la tranquilla luce lunare; in capo alla viottola
fiancheggiata di querciuoli, dopo una discesa di cinquanta passi
dall'albergo, dormiva, tutta bianca, con due finestre nere, la piccola
stazione; lontano, dopo una spiaggia deserta, dormiva la grande linea
dell'Adriatico. Dietro le mie spalle, inerpicato sulla collina, il
paesello dormiva. La profonda pace della notte era intorno a me. Io solo
vegliavo, inquieto, febbricitante, esaltato, passeggiando su e giù,
mentre la mia ombra si allungava, si accorciava, scompariva, mentre
nulla poteva calmarmi. Io aspettava lei. Da tre giorni io l'aspettava
nell'unico albergo, in quella piccola stazione intermedia che niuno
conosce. Lei doveva venire, passare con me una giornata e partirsene. Io
l'aspettava.

Per questa giornata io fremeva ed impallidiva da due mesi lavorando,
ridendo, vivendo sotto l'imperio dell'idea fissa. Da due mesi ella
palpitava come un uccello morente nel disordine delle sue lettere; da
due mesi noi mentivamo atrocemente alle persone che ci erano state più
care. Ogni azione, ogni pensiero, ogni speranza era concentrata in
quella giornata luminosa e ardente. Per andare io ingannava un'altra
donna, mia madre, mia sorella, i miei amici; io faceva venti ore di
viaggio, io rimaneva sei giorni nell'albergo del paesello: per venire
ella ingannava un uomo, ingannava suo padre, i suoi fratelli, i suoi
cognati, sua suocera, i suoi servi, i suoi amici, si esponeva a viaggiar
sola, bella e graziosa, per trenta ore di viaggio, in mezzo ai pericoli,
venendo ad un pericolo di morte. Che importava tutto questo? Io l'amava
e l'aspettava, ella veniva a me perchè m'amava. L'ultima settimana prima
del giorno era stato un turbine quello che ci aveva travolti; eppure, in
tanto disordine di ogni cosa brillava netta, lucida, matematica tutta la
combinazione del viaggio. Io conosceva a mente il mio itinerario ed il
suo, e lo ripeteva sottovoce, come se avessi potuto dimenticarlo. Quei
nomi di paesi, quelle ore ritornavano macchinalmente sulle mie labbra.
Eppure una orribile paura mi accompagnava di sbagliare un treno, di non
trovarmi, di perdere la testa e due ore innanzi era alla stazione,
fingendo leggere, disinvolto, bevendo dei grandi bicchieri d'acqua per
calmare la mia febbre. Chi ha viaggiato con me? Non so, guardavo in
volto le persone senza vedere nulla. Sentivo nelle orecchie un rumorio
di voci, uno stridìo di ferro, squille di campanelle, fischi, ma non
comprendeva nulla. Non ho dormito mai, mai. Mi assopivo talvolta
nell'abbandono, nella stanchezza dei nervi troppo tesi, ma l'anima
vegliava, un sussulto mi scuoteva. Quanti giornali ho trascorso, quanti
libri ho sfogliato? Non mi ricordo. So che arrivato al paesello dove
ella doveva venire, mi son sentito stringere il cuore. Forse non sarebbe
venuta.

Che ne sapevo io? Era così strano il modo come ci eravamo amati, così
singolare il modo come ci amavamo! Non mi conosceva; non la conoscevo.
Da un momento ad un altro, lei che non era nulla, era diventata tutto
per me. Che donna era? Forse non sarebbe venuta. Forse l'avrebbero
trattenuta. Invano cercavo dominare questo senso invincibile di
sgomento. Pure l'albergatore, un cortese e famigliare uomo che non
vedeva mai nessun forastiero, non si accorse di nulla; è vero, io era
pallido, gli occhi miei vagavano, distratti, le mie mani avevano la
febbre, ma sorridevo, scherzavo anche. Nei tre giorni avevo visitato il
paesello, la sua chiesa gotica, la sua manifattura di lana sopra un
fiumicello là presso: ma i paesani che si volgevano a guardare questo
viaggiatore tranquillo ed attento, non sapevano niente della lotta
spaventosa che mi rodeva. Con un vetturino facevo lunghe passeggiate in
carrozza e mi lasciavo narrare i suoi guai, tutte le vicende della sua
vita. Anche la cameriera dell'albergo ed il servitore mi avevano fatto
tutte le loro confidenze; essi avevano trovato un placido ascoltatore
che approvava col capo, senza capire, rosicchiato, minato, tormentato da
un sol pensiero. Diventavo stupido. La notte smorzavo il lume nella mia
stanza, passeggiavo sul terrazzo, guardando la via ferrata.--Verrà di
là--pensavo fra me. E come un'allucinazione mi prendeva, mi pareva che
sbuffante e rumoreggiante il treno arrivasse col suo occhio verde e col
suo occhio rosso che mi guardavano, che una potenza malefica
m'inchiodasse sul terrazzo, ch'io vedessi di lontano la diletta
dell'anima affacciarsi allo sportello, cercarmi, non trovarmi, ricadere
indietro, disperata, ripartirsene senza che io, nella più orribile
contrazione del dolore, potessi fare un passo o dare un grido. L'incubo
si sedeva sul mio petto, me desto.

Erano state lunghe, eterne quelle ore dei tre giorni, io le aveva vedute
avanzare pigre e stanche, ma le ore dell'ultima notte, chiamate invano,
supplicate invano, non venivano. Lei doveva arrivare alle sei del
mattino. Dalle otto della sera prima io agonizzava nell'impazienza. Non
una lettera, non un telegramma. Non poteva farmene, non doveva farmene,
avevamo stabilito così. Viaggiava lei verso me? Dove era lei in quel
momento? Calcolando potevo saperlo. E se non venisse? Tutte le più alte,
le più inflessibili deduzioni matematiche sono capovolte da un
picciolissimo fatto. Passeggiavo, fumavo, morsicchiando la mia
sigaretta, lasciando che si spegnesse, gittandola nella via,
accendendone un'altra. Nella sera ad uno ad uno si spegnevano i lumi del
paesello. Passò un treno alle nove; era un diretto, non fermò. Alle
dieci un altro; fermò per due minuti; era l'ultimo. La stazione era il
mio faro, la mia compagnia. Illuminata, mi riscaldava il cuore come un
raggio di sole. Certo i due impiegati, i facchini, il capostazione
dovevano essere molto stanchi, poichè smorzarono subito e se ne andarono
a letto. Mi parve di rimanere solo, abbandonato, in un deserto, senza
luce, senz'acqua. Rientrai in camera, tutto angustiato. Dinanzi ad una
fioca stearica d'albergo, in piedi, fremendo, rilessi le sue lettere
inquiete, agitate, febbricitanti, che mi davano la follia. Sarebbe
venuta. Sarebbe venuta la regina di Saba nei dômi azzurri della mia
fantasia. Io le tendeva le braccia, ella veniva. Poi mi mettevo a
pensare se quel salottino e quella camera d'albergo erano degne di
ricevere la sua persona. Piccole stanze, messe con un lusso un po'
rustico, un po' cittadino. Ma come Cristo, vi erano tutte le stazioni
della Passione. Gliele avrei fatte vedere: Vedi, qui ho pianto, pensando
che tu non saresti venuta. Qui ho sperato che questo calice mi sarebbe
risparmiato. Qui ho agonizzato nel dubbio della mia fatale Getsemani.
Qui ho singhiozzato credendomi tradito da te. Qui ho disperato, credendo
che non saresti più venuta. Questo è stata la mia tomba per tre giorni.
E qui, qui, amore mio immenso, sono risorto.--E pieno di una
esaltazione, uscivo sul terrazzo a gesticolare, come un lungo burrattino
preso da pazzia. Forse non sarebbe venuta. Mi sedetti in un angolo,
appoggiando le braccia sul muretto, e il capo sulle braccia. Ma non
dormivo, no. La boccettina del cloralio era quasi vuota sulla mia
tavola. La vuotai. Mi distesi sul letto per dormire. Non dormivo. Presi
un libro: le _massime_ di Larochefoucauld. Tristi massime, ironiche
massime, piene di realtà. Ma la passione è fuori della vita reale. Mi
conturbarono. Fumai di nuovo. Avevo la gola secca, le fauci riarse, le
guancie mi bruciavano. Prendevo lo sue lettere, profumate, fresche, e me
le metteva sul volto, sperando averne qualche refrigerio.

Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra
della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una
le case dei contadini. Nell'albergo dormivano ancora. Pure, sapendo che
col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi
nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra
vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta
un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel
crepuscolo mattinale la serva scopava, in basso, la stanza da pranzo. Le
dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero
inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non
sarebbe venuta. Non viene, non viene--mormoravo. Me ne andai sulla via
maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come
un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva, un gomito; tornai
indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un wermouth nel
piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole
non sarebbe uscito, forse ella non sarebbe venuta. Anzi era certo che
non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei
potuto andarmene perchè non veniva. D'un tratto un debole fischio, un
suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno
nero, bagnato d'umidità. Il sangue mi va al cuore, ma oso domandare:

--È il diretto?

--No, è un _merci_. Ci vogliono tre quarti d'ora pel diretto.

--È segnalato alcun ritardo?

--No, per ora.

Lei non verrà. Me ne vado nel giardinetto della stazione dove crescono
le rose delle quattro stagioni ed i gelsomini cremisi in ritardo. Una
lucertola mi guarda con i suoi occhietti sospettosi, una buona,
simpatica e nervosa lucertola. Vorrei narrarle la mia disperazione,
perchè lei non verrà. Un carabiniere è ritto sotto la porta; non mi
guarda. Vorrei dirgli quanto son disperato, poichè lei non verrà. Gli
ultimi minuti; prima che il treno arrivi, io li vivo triplicatamente,
giunto al culmine d'ogni sensazione. Viene il treno, la campanella è
stridula, le orecchie mi tintinnano. Il sole appare vittorioso
all'orizzonte e il fumo bianco della macchina s'indora. Lei non vi è.
Non mi avanzo, rimango immobile morendo in piedi. Scendono contadini
dalla terza classe; dei signori una vecchia, un bambino dalla seconda.
Lei non vi è. D'un tratto, lontano, nella penultima carrozza di prima
classe, allo sportello non fa che apparire e scomparire un volto smorto.

Mi trovo la forza di aprire la portiera. In una mano ghiacciata è
appoggiata una manina tremante. Non ci parliamo, ma ci guardiamo,
camminiamo accanto. Quei due esseri pallidi, senza voce, tremanti come
bimbi sono un uomo a trent'anni forte e coraggioso, una donna di spirito
e di coraggio. Alla porta le faccio una domanda insulsa, inutile.

--Hai il biglietto?

Lo ha, me lo mostra. Passiamo. Ce ne andiamo nel polverio della via,
senza osare di darci il braccio. L'albergatore dalla soglia ci sorride.
Lei sorride con gli occhi pieni di lagrime, io non sento che il profumo
acuto dei suoi guanti, il suo profumo...

                                  *
                                 * *

Tu hai potuto dimenticare, io ho potuto dimenticare. Poichè questo caso
mostruoso, inaudito, è stato possibile, sogghigniamo e diciamo pure che
la vita, nella sua più alta espressione che è l'amore, non è che un vano
e miserabile sogno.



                           DUETTO DI SALONE.


Le due amiche si erano, all'uso napoletano, cordialmente baciate sulle
guancie. Giovannina, la maritata, taceva, affannando un poco, come se le
scale l'avessero incomodata; Maria, la fanciulla, le teneva una mano fra
le proprie, sorridendo e mormorando:

--Come hai fatto bene a venire, come hai fatto bene...

--Sì, carina, carina--disse Giovanna, sollevando con un dito il mento di
Maria, per guardarla bene negli occhi--sono venuta appena di ritorno
dalla villeggiatura. Sono rimasta laggiù, nel mio quasi castello, troppo
tempo... troppo tempo... mi son lasciata prendere dalla malinconia...

--.... Malinconia? Non mi pare, Giovannina. Tu hai il viso della
serenità: il sangue colorisce il tuo volto, lo sguardo brilla; non hai
neppure quella brutta traccia di voglia, che è quell'ombra nera sotto
gli occhi.

--Infatti, io sono serena--rispose Giovanna con un lieve stiracchiamento
del labbro che poteva parere sorriso--ma non è di me che si tratta, è di
te, mia ridente e placida. Sono venuta qui per sapere tutto quello che
hai fatto da luglio che noi non ci vediamo, come ti sei divertita, come
ti sei annoiata, quello che hai detto, quello che hai pensato,--una
storia lunga, lunga, lunga, come quelle che chieggono i bambini.
Ascolto, mia bella Schehezerade.

--Cara, da luglio ad agosto sono stata a Castellammare, da agosto a
settembre a Sorrento.

--E dal primo ottobre sinora?

--A Napoli.

--A Napoli?

--Napoli.

Le tre parole squillarono nette e decise, tanto nell'interrogazione,
quanto nelle due affermazioni. Un minuto di silenzio.

--E poi?--chiese ancora Giovannina, distendendosi con un moto voluttuoso
nelle sue pelliccie.

--E poi, che cosa?

--Che hai fatto, cuor mio, in tutti questi siti?

--Ah!.. ecco. A Castellammare ho preso il bagno, ho nuotato, ho ballato
moltissimo; a Sorrento ho passeggiato, a piedi, a cavallo, in carrozza;
ho letto molto, ho fatto molta musica, ho contemplato molti tramonti e
molte notti stellate; ho ballato ancora...

--E qui?

--Qui? Le solite cose.

--Nulla di nuovo, carissima creatura?

--Nulla di nuovo, Giovannina mia.

Giovannina compresse un vivo moto di dispetto: la fanciulla non voleva
confessare il suo segreto.

--Dimmi tu che cosa hai fatto, Giovannina--domandò la fanciulla con
molta bonomia.

--Sai, nulla di eccezionale, neppure quest'anno. Pei bagni, a Livorno.

--È bello Livorno?

--Stupendo, Maria.

--... e allora?

--Allora, allora ti dirò che è troppo stupendo, e che ti fa trovare
insopportabili tutti gli altri siti. Là il mare poeticamente burrascoso,
tanto più bello nelle ore di tranquillità: quante volte sono stata a
contemplarlo!...

--Con tuo marito?

--Luigi? neppure per sogno; egli odia il mare. Poi, i mariti hanno
sempre il grave difetto di odiare quello che le mogli amano. Ahimè,
Maria, quante volte abbiamo litigato con Luigi, per la musica di
Beethoven, per il colore del nostro salotto, per quella cara marchesa
Fulvia che egli non può soffrire! Liti lunghe, aspre; egli è flemmatico,
io sono nervosa...

--Tu non sei felice?

--Felice, felice!... non dimandare certe cose. Ci maritano molto bene
noialtre ragazze...

--Tu amavi Luigi?

--Lo amavo, lo amavo... mi piaceva, invece. Egli portava la marsina in
un modo irreprensibile, ballava il valzer, come nessuno lo balla,
dirigeva il _cotillon_ come pochi lo dirigono. Ed il modo come mi faceva
la corte! Follie addirittura: viaggi a rotta di collo, scene di gelosia
feroci, pianti, singhiozzi, un delirio. Sai, questo fa impressione alle
ragazze...

--E dopo?

--Dopo ci siamo sposati: ecco tutto.

--Vale a dire?

--Vale a dire che non m'importa più come porta la marsina, poichè lo
vedo spesso in giacchetta; con me non ci balla più. Mi ha sposato, non
piange più, non freme più, non impazzisce più, crede alla mia virtù,
crede al mio amore, crede alla propria onnipotenza...

--Ebbene, questo non basta? Non è questo l'amore?

--.... no, viene un giorno che questo non basta. Di fronte alla placida
indifferenza dello sposo, dinanzi alla sua regale aria di conquista, la
donna prova un senso di irritazione...

--Il matrimonio è la pace, Giovannina.

--No. L'irritazione cresce quando quest'uomo trascura poco a poco tutti
i mezzi per sedurre sua moglie, tutti i mezzi per piacerle, tutti i
mezzi per essere verso lei il più bello, il più nobile, il più
intelligente, il più innamorato fra gli uomini...

--La moglie non è l'amante, Giovannina.

--Che ne sai tu, fanciulla tranquilla ed inconscia? Io so che Luigi mi
amava prima del matrimonio e spasimava per ottenere l'amor mio; ora non
m'ama più, poichè è sicuro di essere amato.

--Tu non sei indulgente con lui, Giovannina. L'amore è fatto di
indulgenza.

--No, è fatto di giustizia. Sono io meno bella, forse? Sono io meno
elegante, meno graziosa, meno amabile? No: è lui che è mutato. Dal
maggio io ho notato una decrescenza nel suo affetto. Ora è indifferente.

--Tu puoi ingannarti, Giovannina. Sei tu sicura della serenità del tuo
giudizio?

--Sicura? Vedi, io adoro il mare. Non potendo stare a Napoli,
nell'estate, decido di andare a Livorno--lui ci viene a malincuore,
seccato, trovando l'acqua salsa inutile e Pancaldi noioso. L'Ardenza non
lo commuove punto... si può immaginare di peggio?

--Ma perchè non venivate via?

--Per dargliela vinta?

--Il sacrifìcio è lieve quando si ama.

--Dunque tutti i sacrificii debbo farli io? Noi donne non saremo sempre
che l'esempio dell'abnegazione? Noi ad amare, noi a sopportare i
fastidii, noi a scusare le ridicolaggini del marito, noi a lusingarci
che ci ami ancora, noi ad offrirgli dei prestiti per la sua
indifferenza! È troppo, è troppo, la misura soverchia!

Giovannina si era riscaldata poco a poco, come se nessuno l'ascoltasse,
come se facesse un discorso con sè stessa. Invece la fanciulla
l'ascoltava attentamente, guardandola coi suoi grandi occhi luminosi di
bontà.

--È grave, è gravissimo--riprese Giovannina--questo maritarsi con una
persona con cui non si è avuta nessuna intimità. Dumas lo deve aver
detto molte volte; egli lo pensava, io lo sento. Dio mio! Pranzare,
passeggiare, cenare, abitare, vivere tutta la vita, con un uomo con cui
si è solamente _walzato_! È comico ed è funebre. E un brutto giorno,
sapete di che ci accorgiamo noi? Sapete la paurosa scoperta che
facciamo? Noi scopriamo di non amare più!

--Oh! fece solamente la fanciulla, e si nascose il volto fra le mani.

--Non amiamo più. Nulla vi ha più in noi, nulla risuona più nel nostro
cuore. In noi si è fatto il silenzio e la solitudine: invano cerchiamo
scuotere questa inerzia, invano ci ribelliamo contro questa
indifferenza. L'amore è morto: e se quella sua forma fu una falsità,
quella falsità è scomparsa. Allora tutti i difetti di quell'uomo, del
nostro marito, ci appaiono nudi, brutti, odiosi; tutto in lui ci
respinge, tutto in noi lo respinge. Allora malinconiche, desolate,
giovani, con una piena di sentimento che si perde miseramente cerchiamo
l'amore altrove...

--Altrove??

--.... In un altro cuore che c'intenda. L'altro è sempre pronto, bello,
poetico, cavalleresco, fatale, al cui paragone nessun marito regge.
L'altro ha l'aureola della poesia intatta, sa amare, sa perdere la
testa, non sa, non capisce che la passione. La donna ama quest'altro per
logica necessità, perchè non ama più, perchè deve amare di nuovo, perchè
l'altro è l'eletto del suo cuore! Ma immagina tu, fanciulla, con che
disperata passione la donna si attacchi a quest'altro, immagina con che
forza di animo si avvinghi a quest'altro che per lei rappresenta l'amore
e la colpa, il dolore e la felicità! Immagina se questa donna che ha
gittato in un giorno tutta la sua vita, voglia lasciar mai quest'uomo ad
un'altra...

E la parola si affogò nella strozza, per collera, per amore, per
gelosia. Poi ella si rizzò in tutta la sua altezza:

--Sposi tu Roberto Montefiore, Maria?--chiese brevemente.

--Lo sposo, Giovanna--disse quella in piedi, seria, tranquilla.

--E perchè?

--Perchè l'amo.

I due sguardi, egualmente innamorati, egualmente disperati,
s'incontrarono come due lame nemiche.



                             AL VEGLIONE.


La stanzina era immersa nell'oscurità. Ogni tanto, un bagliore rossigno
si rifletteva sul muro: veniva dalla finestra. Nella via passavano
gruppi di gente mascherata e con torcie che girava per le strade,
cantando, ballando e schiamazzando. Verso le undici della sera una
chiave girò nella toppa. Magda entrò, nell'ombra; senza accendere il
lume, camminò nella stanza, a tentoni. Un profondo sospiro le sollevò il
petto.

--Che silenzio...--mormorò sottovoce.

Rimase così un pezzo, immobile nel mezzo della stanza, come una statua
nera nell'ombra. Si lasciava avvolgere da quell'ambiente cupo e deserto.

--E che freddo!--soggiunse, rabbrividendo.

Poi, quasi por sottrarsi a quelle cattive impressioni, accese
rapidamente due o tre candele, gittò pezzi di legno nel caminetto. Con
le mani delicate sollevò il soffietto e accese il fuoco. Subito la
stanzina s'illuminò. Era tutta gaia nella stoffa chiara dei suoi parati
a fiorellini rossi, nei suoi mobili eleganti, nelle trine della sua
_toilette_. Gaia di colore, ma deserta. Magda si guardò attorno. Aveva
freddo, sempre che ritornava ad aspettare in quella stanza solitaria
colui che doveva venirci. Non si riscaldava che al solo suo arrivo:
anzi, appena ne udiva il passo per le scale, le mani le bruciavano come
per febbre, il sangue le dava una vampata alla faccia. Ora essa gelava,
coi brividi che le passavano sul volto bianco, che le ammollivano le
radici dei capelli fulvi. Da dieci giorni egli mancava da quella stanza.
Lei lo aspettava ogni giorno.

--Neppure questa sera verrà--pensò lei, sciogliendosi i magnifici
capelli per pettinarli.

Ma guardandosi nello specchio, si rincorò. Si trovava bella nelle labbra
rosse e carnose, negli occhi verdi che si facevan fosforescenti alla
sera, nella bianchezza senza macchia della fronte, del collo.

--Verrà sicuramente--pensò rassicurata.

Si assorbì nel ridurre a minime proporzioni la ricca capigliatura che
ondeggiante rassomigliava alla criniera di un leone, nel prodigare alla
sua persona le cure più minute che una donna bella, ricca e disoccupata
può inventare. Un passaggio di torcie la sgomentò.

--Quanta gente per le vie...--pensò--ma egli verrà sicuramente.

Pure, come l'ora passava, cresceva la sua inquietudine. Le mani si
stancavano, andavano a rilento, cadevano fiacche in grembo: tutta la sua
persona era presa da un senso di infinita debolezza.

--Coraggio, egli verrà--ripeteva a sè stessa.

Così andò all'armadio di legno scolpito e ne cavò fuori un costume
completo da _Follia_, metà di raso azzurro, metà di raso rosa, tutto a
sonaglini di argento, col berrettone puntato, ornato di campanellini.
Era un costume corto, scollato, quasi senza maniche. Vi mise le calze,
una di seta azzurra, una di seta rosa, gli stivalini anche differenti
fra loro: era pronta anche la _marotte_ carica di sonaglini. Tutto
questo insieme di abbigliamento le fece vergogna. Lei abituata agli
strascichi di broccato e di trine, alle severità dei velluti, aveva
orrore di quell'ignobile abito corto da ballerina, da saltatrice di
corda. Non l'avrebbe mai messo, mai. Rimaneva in piedi, presso il
divano, contemplando col viso addolorato quell'abito. Non avrebbe mai
osato metterlo, mai.

Suonò mezzanotte. Non aveva che un'ora per vestirsi ed andare, un'ora
sola. Lentamente, sedendosi ad ogni istante, abbattuta ad ogni istante
da subitanei abbandoni, rialzata da impeti subitanei, senza guardarsi
nello specchio, arrossendo nelle spalle nude, dal collo alla fronte,
rabbrividendo come una febbricitante. Quando vide che sotto la gonna si
distinguevano i piedi sino al collo della gamba, si buttò sul divano,
tutta raggricchiata, non osando più muoversi; quando si fu decisa ad
appuntare sul capo il berrettone e che solo facendo un movimento tutti i
campanellini suonavano, ella ebbe tutta l'angoscia del suo ridicolo. Non
sarebbe mai andata.

--Non importa, egli verrà--pensò ancora, con un eroismo muto.

Mise alle dita i suoi anelli gemmati che le facevano rassomigliare la
mano a qualche cosa di fulgidamente alato, infilò il dominò di raso
nero, che la coprì tutta. Prima di partire fu presa da una esitazione,
quasi che abbandonasse per sempre una persona cara. Pareva che tutto le
dicesse sommessamente: Rimani, rimani.

--No, io andrò--disse lei a voce alta, quasi per incoraggiarsi--poichè
egli verrà.

Solo nella via sentì il freddo delle spalle nude sotto il raso nero del
dominò; non aveva messo pelliccia, lei abituata a stare calduccio. Ma
come la febbre divoratrice le saliva al cervello, non sentì più il
freddo. Una nuova paura fu quella di non trovare carrozza. Camminava
impacciata e guardinga, gelata dal freddo, riarsa dal caldo, urtando
nelle colonnine; smarrendo la via sotto la maschera. Già qualche
viandante si era fermato a veder passare questo dominò imbarazzato,
profumato ed elegante. Uno l'aveva chiamata, offrendole da cena. Lei
tremava, lei, la contessa, abituata alla devozione dei servi, al
rispetto degli amici--sola, abbandonata, morente di vergogna e di paura.
Finalmente una carrozza passa, ella chiamò, vi salì dentro come un
naufrago che giunge a riva.

--Che importa? Egli verrà.

Era la sua giaculatoria, la sua litania, la sua ultima, solenne,
grandiosa speranza. Era la preghiera: in lui si riassumeva tutta la sua
vita. Non vide la via, non avvertì il tempo trascorso. Si trovò innanzi
all'atrio senza sapere come. Scendendo di carrozza, sulla soglia, un
dominò la complimentò brutalmente sulla bellezza del piedino. Ella tirò
innanzi rapidamente, non trovando il corridoio buono che la menasse al
suo palco, smarrita, mordendosi le labbra sotto il sussulto nervoso.

--Pazienza, egli verrà.

Quando arrivò al suo palco era la una, l'ora dell'appuntamento. Lei si
mise a guardare attentamente nella platea, dove si agitava una folla
nera e urlante, variegata di costumi vivaci e di dominò chiari.
Ballavano, saltavano, con le braccia in aria, le gambe di qua e di là,
come burattini chiassosi e fracassoni. Una nebbia rossastra saliva al
soffitto del teatro; non si distinguevano molto le faccie. Lei fissava i
suoi occhi acuti attraverso la maschera; un turbamento le appannava la
vista.

--Egli verrà, egli verrà.

Dopo aver esplorato la platea, esplorò i palchi, uno per uno. Nulla.

--Verrà, verrà, verrà.

Stette a guardare un lunghissimo, un interminabile _galopp_, di cui la
fila danzante pareva un serpente, ora squassante la coda, ora balzante,
rotto a tronconi. Tutta la sala si lasciava prendere dalla follìa del
chiasso. Si udivano le voci sottili, in falsetto, delle maschere che non
volevano farsi riconoscere. Uno stridìo acuto, un urlare incomposto. Lei
se ne sgomentò. Tutto questo le pareva una ridda infernale, un'orgia di
dannati. Giammai sarebbe discesa laggiù, nella bolgia.

--Egli verrà, verrà qui.

Qualcuno entrò nel palco; Magda non lo conosceva. Le parlò come ad una
mascherina sola, che aspetta avventure; lei impallidiva di sdegno, lei,
la fiera contessa indomata. Non rispose: il qualcuno, stancato, finì per
andarsene. Erano le due e mezzo.

--Sarà forse nella sala, avrà dimenticato il numero del palco. Se lo
cercassi? Così egli verrà.

Combattuta fra la paura e l'amore, discese lentamente nella sala,
cercando lui. La chiamavano da ogni parte, vedendola sola, sentendo il
maledetto e ridicolo tintinnìo dei campanelli: chi la prendeva pel
braccio, chi la urtava, chi le gettava una parola sul volto bianco della
maschera, chi gliene susurrava una all'orecchio. Lei resisteva, si
scioglieva, non rispondeva, tirava innanzi, mezzo impazzita, cercando
sempre, come una belva ferita, con lo sguardo feroce ed umile nel
medesimo tempo.

--Egli verrà, egli verrà.

Non lo trovò, non lo sapeva cercare forse. Poi la sormontava il dubbio
che lui fosse andato in palco, mentre lei era assente. Risalì aspettando
ancora, morendo ad ogni minuto, fremendo ad ogni calpestìo nel
corridoio, tremando ad ogni rumore di voce, stirando i guanti sotto le
larghe maniche, sfilacciando la trina del suo dominò.

--Egli verrà.

                                   *
                                  * *

Alle quattro del mattino, mentre tutta la sala si abbandonava all'ultimo
sfrenato ballo, diventato un delirio, Magda, nel suo costume di Follìa,
corto e scollacciato, piangeva silenziosamente sotto la maschera, poichè
egli non era venuto, poichè mai più sarebbe venuto.



                         VITTORIA DI ANNIBALE.


Dopo un anno di matrimonio, la duchessa Adriana di Castroreale fu
abbandonata da suo marito, corso dietro alla principessa Natalia
Lapouckine, russa, che viaggiava l'Europa. Allora il bel mondo si pose a
osservare e domandò: Chi sarà il consolatore della duchessa Adriana? Ma
la bella signora, che era dotata di un temperamento nervoso, molto
eccitabile, con una lieve inclinazione all'originalità, si montò la
testa per questo abbandono, si persuase di essere disperata, pianse per
due giorni, vegliò per tre notti, si vestì di velluto nero ed uscì in
carrozza chiusa. Niente balli. Il teatro, qualche concerto, qualche
società di beneficenza, ma con l'abito rigorosamente chiuso al collo,
senza fiori in testa, senza gioielli. Naturalmente, si accese nell'idea
di non avere alcun consolatore, e rinunziò all'amore, come aveva
rinunziato ai diamanti. Ogni _corte_ celata o manifesta, ogni amoretto
nascente, ogni passioncella furtiva, furono respinti con alterezza
metodica. Ci si provarono i più valenti; ma non si vince un preconcetto
alimentato, non dalla ragione, ma da una fantasia ostinata. La sconfitta
più clamorosa fu quella del conte Giorgio Filomarino, uomo bruttissimo,
spiritoso, audace ed irresistibile, che volendo giuocare di ardimento
sbagliò tutto, offese la duchessa e fu messo addirittura alla porta.
Dopo di che il mondo disse: la duchessa Adriana è insensibile; e come
ogni filosofia muore quando ha trovato la sua formola, così ogni donna
non è più interessante quando è stata definita. Adriana passò fra le
donne _classificate_: la principessa Giovanna era intelligente e
cattiva, la contessa Francesca montava troppo a cavallo, la principessa
Ester era bionda e sensibile, la duchessa Adriana era insensibile. Ella
passò fra le risposte prestabilite, fra le frasi fatte, fra le
definizioni immutabili: le era stata assegnata la sua parte, non si
pensò più a lei.

                                  *
                                 * *

Ella, che comprese tutto questo, s'insuperbì della propria virtù, si
riscaldò in un ideale di vita illibata, severa; credette sinceramente
alla fermezza del proprio carattere, alla singolarità della propria
anima. Le sue amiche, parlandole, le dicevano: Tu, Adriana, che sei una
donna insensibile, ecc., ecc. Sua zia, la marchesa di Sorito, diceva:
mia nipote, che è una donna insensibile, ecc., ecc. I suoi amici
arrivavano fino a dirle: lei, duchessa, che è una donna insensibile,
ecc., ecc. In tal modo si avvezzò a pensare di sè stessa, a ripetere da
sè stessa: Io, che sono una donna insensibile, ecc., ecc. A poco a poco
gli adoratori diradarono. All'amore succedè l'ossequio che carezzava la
sua vanità, ma la lasciava deserta. La salutavano con profonde
scappellate, suscitavano intorno a lei che passava un mormorio
d'ammirazione, ma le visite si facevano scarse nel suo palco ed in casa
sua. La rispettavano troppo. Quando un novellino si metteva a farle la
corte, vi erano subito pronti gli amici ad avvisarlo che era inutile,
che avrebbe perduto il suo tempo, e lui abbandonava il campo prima
ancora che la duchessa lo licenziasse con uno sguardo glaciale o una
parola mordente. Adriana si esaltava sempre più nella sua parte di donna
insensibile, malgrado le piccole ferite al suo amor proprio; e provava
una specie di ebbrezza nei sagrifici che faceva.

                                  *
                                 * *

Ma vi era Annibale Massenzio, un giovanotto strano e ragionevole, che
non credeva all'insensibilità di nessuna donna. Se ne avesse avuto le
prove, non si sa; ma su questo punto aveva profondi convincimenti. Egli
diceva dappertutto che le donne finiscono per amare, e che basta saper
trovare il momento in cui vogliono amare. Quando gli parlavano della
insensibilità di Adriana, si stringeva nelle spalle. Onestamente
disoccupato come era, cominciò a farle la corte quasi per scherzo: lei
si ribellò, come era solita ribellarsi, il che servì a mettere un certo
interesse nell'animo di Annibale.--Mi piacerebbe d'innamorare questa
donna--pensava fra sè. Visto che con l'assiduità non vi riusciva,
trovando sempre quell'aria severa di virtù offesa che lo irritava, si
allontanò tentando il più comune dei mezzi, a cui molte donne si
lasciano pigliare. La duchessa non se ne curò che per un giorno solo,
chiedendo di lui ad un'amica comune. Egli lasciò dire da molti che
avrebbe sposato Maria Mormile, una bellissima giovinetta, per osservare
che effetto avrebbe fatto questa diceria sulla duchessa: e lei, la prima
volta che lo rivide, gli fece le sue congratulazioni con una
disinvoltura che nulla aveva di stentato. Annibale comprese che aveva da
fare con una donna non volgare, e tralasciò i mezzucci soliti. Ritornò
in casa di lei. Fu accolto con compitezza, ma senza gioia. Solamente,
nella profonda notte, nella oscurità della sua camera, la duchessa
Adriana si permise di sorridere per compiacenza. Ma l'indomani scontò
quel sorriso, raddoppiando di rigore, corazzandosi nella più glaciale
indifferenza. Come si consolava all'interno, così si mostrava noncurante
e sprezzosa all'esterno; i piccoli e quotidiani peccati di vanità che
commetteva inasprivano sempre più le apparenze della sua virtù, simile
in questo ai mistici appassionati che si esaltano maggiormente nella
voluttà amara del pentimento. Del resto, era perfettamente sicura di sè
stessa.

Quegli che si eccitava al giuoco pericoloso era Annibale. La duchessa
Adriana lo metteva fuori di strada, egli non comprendeva più il modo
come si riesce con le donne, commetteva errori sopra errori, stordito,
ostinato, incapricciato come un bambino. Tante volte egli faceva a se
stesso un bel ragionamento, provando che Adriana era incapace di amare e
che quindi era meglio lasciar stare, se non volea correre il pericolo
d'innamorarsi per davvero, il che sarebbe stata una disgrazia grande in
quelle condizioni: ma era troppo infastidito dal contegno di quella
donna antipatica per decidersi ad una ritirata. Poi, poco a poco,
vedendola più spesso, avendo colpito certi momenti rivelatori, egli si
persuase che Adriana poteva amare, avrebbe amato quando avesse compreso
che cosa fosse l'amore, quando l'animo di lei fosse stato educato al
sentimento, quando ella avesse vissuto accanto all'amore. Egli formò il
bel progetto di questa educazione, di questa rigenerazione, col coraggio
entusiasta di chi crede dover compiere una missione. L'ozio elegante
della sua vita era finito, egli aveva trovato come riempire di azione la
sua giornata e di sogni la sua nottata. Bene spesso, come la sua natura
sarcastica prendeva il di sopra, egli si burlava lungamente di un
paladino, di un cavaliere errante che rispondeva al nome di Annibale
Massenzio.

Eppure, malgrado le ironie ed i frizzi di cui era prodigo con sè stesso,
la sua corte alla duchessa diventava più assidua, più completa, più
aperta. Col pretesto di educarla all'amore, egli le mandava i fiori ogni
mattina, andava a trovarla ogni giorno alle due, la rivedeva alle cinque
alla passeggiata, le scriveva un bigliettino dopo pranzo, la ritrovava
ogni sera al teatro, al ballo, al concerto, alle riunioni famigliari. La
gente cominciava a compatirlo. Ma non glielo dicevano ancora, credendo
che la cosa sarebbe finita lì per lì. Invece la cosa durava: ad una
corte accanita Adriana opponeva una resistenza vivace, quasi che si
fosse formato un perfetto piano di difesa. Qualche debole e meschina
concessione, uno sguardo più languido, una intonazione di voce più
amabile, una mano più abbandonata, confortavano per un istante Annibale,
ma duravano anche un istante. In realtà, egli finiva per disperarsi; in
realtà, aveva finito lui per innamorarsi come tutti quelli che fingono
troppo d'amare. Scriveva ad Adriana certe lettere riboccanti di passione
per cercare di scuotere quel cuore immobile: e ne riceveva in cambio una
frase cortese, una parolina di gentilezza, un sorriso che lo calmavano
per breve tempo. Quando stavano insieme era una lotta continua in cui
l'eloquenza dell'amor vero infiammava le parole di Annibale, in cui la
passione lo rendeva più bello, più seducente: una lotta in cui Adriana
combatteva strenuamente negando sempre, ricorrendo a tutte le
sottigliezze della dialettica, con quell'arte infinita dei paradossi e
degli assiomi che le donne variono all'infinito. Da queste lotte
Annibale usciva estenuato, disfatto, con la testa perduta, ogni giorno
volendo fuggire, ogni giorno rimanendo; ma Adriana era anch'essa ogni
giorno più debole, più sgomenta. L'amore di Annibale la martellava ad
ogni ora sul cuore per entrare: i fiori la illanguidivano, le lettere la
intenerivano, le parole calorose, gli atti di disperazione la
scuotevano; voleva irrigidirsi contro queste impressioni, ma non vi
riusciva. Per eccesso opposto diventava crudele con Annibale che,
innamorato come era, non sapeva, non poteva accorgersi dei suoi
vantaggi. Ella s'inferociva contro lui, lo scacciava dalla sua presenza
e, quando rimaneva sola, piangeva. Annibale nulla sapeva di queste
lagrime. Adriana viveva in un'atmosfera di amore, era impregnata
d'amore, satura d'amore, sognando ad occhi aperti tutte le sue dolcezze,
comprendendo il trionfo del sentimento; ed Annibale, vedendola più
fiera, più rude, più cattiva, si convinceva della infelicità della sua
passione. Stette un giorno senza vederla, ma passò la notte a
passeggiare per la riviera di Chiaia; non le scrisse per due giorni, ma
quattro lettere lunghissime furono lacerate. Poi si ritirò per una
settimana in una sua villa a Capodimonte...

--Se ha anche un'ombra di affezione per me, mi scriverà un
biglietto--pensava l'innamorato, desolandosi nel suo eremitaggio.

                                  *
                                 * *

Per quattro giorni la duchessa Adriana resistette a non aver notizie di
Annibale. Ma si sentiva vinta e non cercava che di prorogare il momento
in cui la prima parola di amore sarebbe uscita dalle sue labbra.
Annibale non veniva, la casa le pareva deserta. Si annoiò mortalmente al
teatro. Una mattina entrò in chiesa, cercando rifugiarsi nel misticismo,
ma, dopo una convulsione nervosa, si trovò l'animo più afflitto di
prima. A casa, nella sua camera, pianse due volte. Desiderò di morire,
vestita di raso bianco, coi capelli disciolti, coperta di fiori.
Rimpianse di non essersi fatta monaca. Vagava nei suoi appartamenti come
un'anima in pena. Una tenerezza grave le saliva dal cuore alle labbra.
Finalmente una sera si decise. Stanotte, a mezzanotte, scriverò un
biglietto ad Annibale, lo avrà domattina: fu la sua risoluzione. Mentre
stava distesa sulla poltroncina, presa da un grande abbattimento, le
annunziarono il conte Giorgio Filomarino.

--Benvenuto, mi distrarrà--pensò lei.

Il conte Filomarino era tornato in casa Castroreale da poco tempo. La
duchessa aveva voluto benignamente dimenticare la dichiarazione di una
volta, tanto più che il conte ritornava come amico, senza farle punto la
corte. Dicevano anzi che fosse occupato altrove: anzi il conte
sorrideva, ritrovando Annibale presso la duchessa. Era innocuo dunque.
Quella sera egli si fermò un istante sulla soglia, osservando quella
mezza luce insolita, quelle poltroncine sbandate, quei libri aperti e
buttati via, quei fiori che appassivano, gli occhi della duchessa
nuotanti in un velo di lagrime. La conversazione si annodò lenta, a voce
bassa. Ogni tanto Adriana si passava una mano sulla fronte, quasi
volesse diradarne i pensieri. Parlavano di cose semplici, temi usuali
della conversazione. Ma due o tre volte Giorgio Filomarino fissò il suo
sguardo dominatore sopra Adriana e la vide impallidire. Due o tre volte
la voce di Adriana tremò in una insolita vibrazione. Senza accorgersene
arrivarono sul terreno del sentimento; e allora Giorgio fu tenero,
delicato, imperioso, malinconico, ironico, scettico, appassionato,
parlando a meraviglia di amore, con la voce, con gli occhi, con
l'espressione del volto. Egli colorì la sua parola, rese brillante e
profonda ogni sua idea. Adriana lo stava a udire, socchiudendo gli
occhi, mentre un'onda di sangue saliva a rianimarle le guancie smorte.
Quella sera, con una intuizione rapidissima, egli indovinò tutto, egli
seppe essere tutto, tutto quello che desiderava Adriana. E quando la
vide sconvolta, l'occhio smarrito, la bocca fremente, vinta
dall'affetto, dalla tenerezza, dall'amore, egli osò dirle ad alta voce,
audacemente, che l'amava.

                                  *
                                 * *

Fu così che Adriana di Castroreale s'innamorò perdutamente di Giorgio
Filomarino. Fu questa la vittoria di Annibale.



                         FALSO IN SCRITTURA.


Trovò nel prezioso cassettino di ebano, tutto odoroso di profumi
antichi, tutto pieno di morticini sotto la forma di un braccialetto, di
un ditale, di un frammento di marmo, di un brandello di merletto, di una
perla smarrita, queste tre lettere che formano un morto solo che furono
un sol lutto.

                                                       12 Maggio...

Egregio signor Cesare--La sua lettera m'ha fatto male. Passai tutta la
notte a interrogare la mia coscienza di donna onesta, per sapere che
atto, quale parola mia le abbiano permesso scrivermi quel che m'ha
scritto. Ella m'ama, signor Cesare, e vuole essere amato da me--da me
donna vincolata, malamente sì, ma vincolata. Quale idea ha ella della
donna, della virtù, dell'onestà? E in quale pessimo ambiente femminile
ha vissuto per creder pessime tutte le donne? E di sua madre, che fu
sicuramente una santa donna, se ne ricorda? Mi perdoni la vivacità di
queste parole. Fui offesa e se prendessi consiglio soltanto dalla
dignità, non le risponderei neppure. Ma la bontà rende mite il mio
cuore. Che io mi sappia, nel dolore così forte che lei mi descrive con
tanta sincerità di parole, io non ho colpa. Le usai quelle oneste
preferenze che si debbono a giovane intelligente e colto; m'intrattenni
con lei in quei piacevoli e sereni discorsi che elevano o purificano
l'anima, resa troppo volgare dalle materialità della vita; accolsi le
manifestazioni della sua stima, le ricambiai con quelle della mia. Tutto
era casto, tutto era candido fra noi--ed ecco che lei mi sgomenta con le
espressioni infuocate di un amore che non posso permettere in lei, che
non troverà mai--no, mai--corrispondenza in me. Ho marito, signor
Cesare. Lei pare che lo abbia dimenticato. Io non posso dimenticare.

D'altra parte lei è così solo, così soffocante, così affettuoso che io
non oso infierire contro lei. Io stessa, signor Cesare, sono molto sola,
molto infelice in questa dura e lunga vita che trascino a stento. Lei sa
quale e quante disillusioni ha avuta la mia gioventù. Tutte le mie balde
e azzurre speranze caddero come foglie inaridite da un albero decrepito.
Io nella vasta solitudine che ho intorno non sento voce amica, non vedo
uno sguardo luminoso che mi riscaldi. Il mio sogno è scomparso, l'amore
del mio cuore è distrutto. Non so di che popolare questo deserto. Ho
freddo nell'anima. E lei rabbrividisce allo stesso brivido. È lei capace
di un grande sagrificio, signor Cesare? Vuole ella rinunziare ad ogni
idea d'amore nel presente e nell'avvenire? Vuol ella dirmi sì, senza
condizioni, senza speranza?

Mi dica sì. Me lo dica quando sia perfettamente sicuro di sè, Allora
vedrà che io non sarò ingrata a questo abbandono immenso che ella farà
per amore di me. Io ho per quel tempo un bel progetto uno stupendo
progetto tutto spirituale, tutta fragranza d'anima. Se vuole, io sarò la
sua amica, la sua buona e servizievole amica; lei sarà il mio sincero
amico. L'amicizia è un affetto più grave e più serio di quel che pare.
Molti--i volgari--lo prendono alla leggera. Noi possiamo comprenderlo.
Lei ha un'anima coraggiosa: io sono temprata alla sventura. Ad ambedue
un profondo e segreto dolore disfiorò la gioventù: diamoci la mano.
Siamo fratello e sorella. Uniamo queste due lente sciagure e derivi da
questa unione, non l'amore--che non è possibile--ma almeno la pace ai
nostri cuori. Troverà in me il sentimento che non finisce mai, la parola
consolatrice, l'azione efficace; troverà me presente ad ogni
abnegazione, ad ogni sacrificio. Sarò per lei la madre, la sorella,
l'amica. E lei mi prometta di farmi trovare il consiglio saggio, la
parola leale, l'azione energica. Io conterò sempre sul suo fermo cuore,
lei conterà sul mio cuore affettuoso. Ci sosterremo a vicenda,
segretamente, per questa via spinosa e pietrosa. Nulla saprà il mondo,
nulla potrà dire di noi. Sarà un segreto altissimo. Sinchè al giorno
ultimo della vita, io potrò morire nelle sue braccia, soddisfatta,
stringendole mormorando: T'amai, non ho peccato, t'amo.

Solo allora. E mi scriva--Adriana.

                                  *
                                 * *

                                                    25 Settembre...

Cesare, mio re--Vieni. Questa sera egli va a Roma, per quattro giorni.
Parte col treno delle dieci e mezzo. Lo accompagno alla stazione. Poi
torno a casa; alle undici e mezzo. Tu verrai, o mio fuoco consumatore.
Passeremo quattro giorni divini, divini, divini. Fremo al pensarci.
Vieni dunque. Pensa come possiamo morire in questi quattro giorni. Non
t'amo, non t'adoro, t'idolatro. Sei il mio Dio--Adriana.

                                  *
                                 * *

                                                    4 Dicembre...

Amico mio. Senza dubbio sono giunta alla più dolorosa ora della mia
vita. Quello che soffro in questo momento, non posso dirvelo, non posso
descrivervelo. È uno strazio senza nome. Sento un unghia che mi lacera
il cuore, me lo sento sanguinare: a goccia a goccia perdo il più ricco
sangue della mia vita. Non posso piangere, non posso gridare, non posso
singhiozzare: affogo. Debbo dissimulare, debbo essere allegra e felice:
ma soffoco. Amico mio, è venuta la settimana tragica del nostro amore.
Debbo riunire tutto il mio coraggio per dirvi che questo amore deve
finire. Deve finire la luce della nostra esistenza, la giocondità della
nostra giovinezza. Finire. Morire. Amico mio, è forza che sia così. In
questi giorni ho pianto, ho pregato, ho chiesto a Dio la forza del
sacrificio. Oggi sono nello spasimo, ma sono decisa. Parla all'anima mia
l'alta voce del dovere. Troppo peccammo. Ingannammo un uomo fiducioso e
tranquillo, che crede nel mio onore e nel mio amore, che crede nel
vostro onore e nella vostra amicizia. Facendo tacere la coscienza,
errammo dolcemente ma gravemente. Abbiamo portata la maschera della
virtù mentre eravamo colpevoli. Io ho portata in giro la mia fronte pura
di sposa mesta, mentre i vostri baci avevano abbracciate le mie labbra.
Pentiamoci insieme. Io non voleva, vel rammentate. Ricordate la mia
prima lettera. Fui sorpresa, stupidita. Perdetti la testa: ma voi che
eravate uomo, perchè non foste il più saggio, il più freddo? Non voleva
io. Forse, non vi amava. Vi ho amato poi. Cesare, vi amo ancora, ma vi
lascio. Non posso più durare a questa vita di vergogna e di disonore:
arrossisco dinanzi a mio marito, dinanzi ai miei servi. Bramo che mi
raggiunga l'ultima sciagura, il tradimento svelato. O Cesare, che
disperazione! Ci vuol molto coraggio. Aiutatemi in questa opera. Siate
calmo. Non vi desolate in mia presenza, non mi scrivete, non venite a
casa. Lasciatemi alle mie lagrime notturne, alle mie preghiere ardenti.
Non vogliate che io muoia dall'onta e dal dolore. Debbo vivere per
quest'uomo che ho ingannato, di cui sono la consolazione. Sono una sposa
indegna ma pentita. Vi amo ancora, vi amerò per molto altro tempo, non
vi dimenticherò mai. Siete stata la mia gioia, il mio solo amore. Tutto
rientra nel passato, ora. Io continuo a vivere, macchinalmente, come un
orologio, senza affetti, senza conforti, nell'unica, arida soddisfazione
del dovere compiuto. Addio, Cesare; siate felice. Se potete, amate
altrove. Ma non potrete, forse. Addio, Cesare--Adriana.

                                  *
                                 * *

Quanti anni sono trascorsi? Non so; non mi ricordo più. Molti
certamente. Ma per quanto tempo sia passato, per quanto io abbia
studiato, non mi sono mai potuto accertare in quale delle tre lettere,
quella donna mentiva.



                             PRIMO GIORNO


In verità quando io ho visto passare la bellissima donna, bianca bianca
nel volto, dai capelli fulvi e crespi che fiammeggiano cupamente, dagli
occhi verdi e gelati, dalla bocca rossa e carnosa come un fiore
appassionato, dal corpo ondeggiante come quei magnifici serpenti che
danzano innanzi alle bacchette dell'incantatore, io mi sono chiesta chi
amasse e quale turbine rovinoso fosse il suo amore. Quando l'ho vista
passare in mezzo all'amore, fredda, sorda, indifferente, impassibile,
negazione dell'amore, gli occhi rivolti al cielo, vivendo serenamente
glaciale nel mondo, ma tormentandosi come disperata nella preghiera, mi
sono domandata quale storia avesse pietrificato quell'organismo di
donna, lasciandole nell'anima solo la tortura di un misticismo
impossente.

                                  *
                                 * *

Ebbene, nel passato, malgrado il suo odioso matrimonio, ella era stata
lungamente e tranquillamente virtuosa. L'avevano maritata a un'ignobile
duca, giovane, brutto e villano, che si andava mangiando la sua
fortuna--e seguitò sempre--con tutte le attrici di terz'ordine, le
ballerine dei piccoli teatri, le cantatrici di operette dei baracconi in
legno. Lui era fatto così, era democratico in amore--diceva. Soggiungeva
che gli piaceva più l'anticamera che il salotto: quindi si asteneva dal
far la corte alle amiche di sua moglie, ma era l'amante della cameriera,
della sarta, della modista, financo di quella che veniva a stirare a
giornata, al palazzo. Questo essere ducale i cui antenati salivano su
per dieci secoli, credeva che questo tradimento volgare, laido, di ogni
ora non desse diritto di lagnanza a sua moglie. Poichè il capriccio
dell'uomo--diceva questo borghese ducale--deve passare. Così era
selvaggiamente geloso dei suoi diritti di marito, geloso senza amore,
geloso per amor proprio. La duchessa Emma era considerata come la più
infelice ma la più dignitosa fra le mogli: lei non sapeva mai nulla, lei
non accoglieva le maldicenze, lei non parlava mai contro suo marito, non
gli faceva mai scene, sorrideva sempre. Attorno attorno a lei fervevano
gli amori segreti, le dichiarazioni audaci, le passioni che ogni donna
mal maritata ispira: lei non se ne accorgeva. Se ne accorgeva il duca
marito che ogni sera la brutalizzava, chiedendole se il tale era il suo
nuovo amante e se lei permetteva che andasse a tirare due schiaffi al
tale altro. Lui sapeva bene che non era vero: ma godeva a queste
villanate in cui scoppiava tutto il suo istinto di staffiere finto duca.

In realtà quello che sosteneva quella donna eccezionale era il più
grande, il più tetro orgoglio femminile. Cadere--tutte le donne cadono e
si chiama debolezza. Per lei si chiamava vigliaccheria. Tradire--tutte
le donne finiscono per tradire e si dice leggerezza. Per lei si diceva
disonestà, senza sotterfugi, senza transazioni. Essere vile, essere
disonesta, essere come tutte le altre, giù, a capofitto, brancicando nel
fango, sporche le mani, sporca la gonna, sporca l'anima. La sua fierezza
si ribellava, irrompente, furiosa contro l'amore che l'avrebbe fatta
tale. Invero ella odiava tutti questi uomini che la circondavano, che le
facevano la corte, che le scrivevano; li odiava come nemici, come
persone accanite contro lei, come cacciatori crudeli. Il suo orgoglio le
gonfiava il cuore, pigliando il posto di qualunque altro sentimento. Per
orgoglio sopportava quello scostumato marito, per orgoglio non se andava
alla casa paterna, per orgoglio sorrideva, per orgoglio non amava, per
orgoglio viveva. Tali mostruosità sentimentali esistono--e sono chiamate
vizii--ma sono chiamate anche virtù.

Un giorno, questa donna s'incontrò in un amore sincero, profondo e
segreto, come ogni donna ci s'incontra una volta nella vita. Lui non
parlava, non scriveva, non la seguiva, la schivava, era serio,
contegnoso, di una freddezza assoluta: ma l'amava con tutte le forze di
un animo giovanile e tutto l'impeto di una passione repressa. Come lo
comprese lei, che disprezzava l'amore, che comprendeva solo l'orgoglio?
Chi le narrò la storia di quel lungo e ardente e immenso amore, e come
ci credette lei scettica? È ignoto. Oh, la psicologia è una scienza
perfettamente ridicola; essa spiega le minuzie e le questioni gravi le
sfugge, essa nota i particolari, le sfumature, i cambiamenti di tono, ma
la figura principale, ma la frase tematica non la spiega. Gira intorno
alle difficoltà, si approssima, conquista terreno: a un certo punto si
ferma. Quello che avvenne nel silenzio di quell'anima che si apriva
all'amore è ignoto. Come l'edificio dell'orgoglio crollò, come tutto fu
distrutto, abbruciato, purificato dall'amore, non so dirvi. Voi che
amaste, ricordatevi: e voi che non amaste siete indegni di saperlo.

Fra quei due fu lungo, aspro, fierissimo il combattimento. Lui non
chiedeva nulla, non si avanzava, non si muoveva, sopportando, taciturno,
uno spasimo senza nome, consumando le sue forze a reprimere qualunque
manifestazione. Sapeva di essere amato? Forse: ma non mostrava di
saperlo. Lei vedeva tutto, comprendeva tutto, si abbandonava giorno per
giorno, linea per linea, all'amore, conoscendo quello che faceva,
comprendendo il precipizio, spalancando gli occhi per vederlo,
innamorata del precipizio, folle della caduta. Un giorno si guardarono,
pallidi, senza una parola, scambiando quell'occhiata rossa, succhiatrice
dell'anima. Compresero che l'uno camminava verso l'altro,
inesorabilmente, contro la volontà, contro la ragione contro tutto. Non
una parola: ma l'uno sentiva i passi che l'altro faceva, pur parendo
immobile, calcolava lo spazio, calcolava il tempo.

--Il giorno viene, il giorno viene--mormorava la duchessa presa da un
terrore che la sconquassava.

--L'ora viene, l'ora viene--mormorava lui, affogato dalla dolcezza.

Insensibilmente e senza che niuno comprendesse intorno, il giorno
veniva. Poteva il duca essere più villano, più brutale, buttare il suo
nome dietro le donne più volgari: questo non valeva a nulla. Era per
l'amore che Emma amava Luciano, non per la vendetta, non per la
rappresaglia. Lei non si scusava, lei non buttava la colpa sugli altri,
lei si dava perchè voleva darsi, perchè amava, perchè l'amare le pareva
la più alta, la migliore cosa della vita. Poteva la duchessa essere
fredda, severa, rigida per Luciano, egli non ne soffriva: l'amava,
sentiva di essere amato, _doveva_ essere amato.

Era un martedì notte, in un ballo. Vedendosi, di lontano, provarono la
medesima sensazione: che l'ora era giunta. Lui si accostò quasi per
interrogarla, levandole gli occhi in viso. Lei non chinò i suoi e
tranquillamente ad alta voce gli disse:

--Domenica, da me. Alle due.

Un inchino, un saluto; più altro.

                                  *
                                 * *

Quattro giorni fra il martedì e la domenica, quattro giorni lunghi,
eterni, febbrili, deliranti, in cui ad ogni minuto la duchessa Emma si
pentiva di quel convegno, decideva di fuggire, si vestiva, poi ristava
indebolita, vinta, incapace di rinunciare all'amore. Quando vide partire
suo marito per Nizza--una fatalità--volle gridargli di restare, di
salvarla, gridarlo a lui, al selvaggio, all'indegno gentiluomo, al
marito traditore. N'ebbe disgusto, una nausea tutta fisica, una
ripulsione invincibile di donna--fatta sacra da un forte amore. Ella
andava su e giù per la casa, come una tigre che ha la febbre, rodendosi,
non potendo piangere, non potendo singhiozzare--cadendo poi, per
esaurimento, in un torpore dolce, come se si acquietasse un dolore nel
sonno, come se la ferita non sanguinasse più. No, non era il mondo
esteriore: lei non lo vedeva più. Era il suo spirito sussultante e
trabalzante, era dentro sè, era nel cuore, era nel cervello, era nei
nervi il tormento volubile che pigliava tutte le forme, dal grave dolore
all'acutissimo piacere. Oh la notte tempestosa dal sabato alla domenica,
le preghiere alla Madonna, le disperazioni, i subitanei abbandoni, tutto
il suo essere che chiamava Luciano e lo respingeva, che malediceva
l'amore e adorava l'amore, che trasaliva, fremeva, si scuoteva, tremava
nel delirio. Poi, infine, una spossatezza, un'attesa calma--la
reddizione.

Alle due il trasalto feroce. Egli veniva. O amore, o amore, o amore!

Dalle due, alle tre, alle sette, a mezzanotte, egli non venne. Non venne
più, non venne. Lei fredda nella sua follia, automaticamente,
prendendosi la testa fra le mani per poter pensare, diventata di sasso,
gli scrisse queste parole:

"Si manca al primo appuntamento solo per la morte".

Infatti egli era morto; all'una, nella sua stanza da letto, mentre
prendeva i guanti per uscire. Avea una gardenia all'occhiello. Da tre o
quattro giorni era inquieto, agitatissimo. Un mal di cuore, una vena
rotta, poichè avevano trovato del sangue sul tappeto, dove era lungo
disteso. Questo lo lesse nel giornale, la Duchessa.

                                  *
                                 * *

Così lei non ama più, non può amare più. Lei vive, ma portando quella
sconosciuta tragedia in sè; lei prega, sconvolta da quella morte che
sembra un castigo di Dio. E forse più infelice, più sciagurata ancora,
lei ama sacrilegamente quel morto, e vive nel desiderio profondo di
quell'amore, di quei baci, di quel primo appuntamento, di quel peccato
che la morte le ha tolto.



                              SCONOSCIUTO.


Nell'oscurità della notte fiammeggiava nella stanza il fuoco del
caminetto. Ogni tanto una mano bianca si coloriva di fiamma attizzando
lentamente il fuoco. Le tre fanciulle tacevano, prese da un pensiero.
Ognuna di esse s'immaginava di essere sola, in un ambiente vago e
indefinito, senza nozioni di spazio, senza nozioni di tempo. Quando il
crepuscolo era cresciuto, avevano sentito il bisogno di tacere, di
raccogliersi. L'una abbandonata sulla poltroncina, col capo riverso
sulla spalliera, con gli occhi chiusi, pareva dormisse; l'altra tutta
ravvolta in uno scialle, raggomitolata nella poltrona, aveva il capo
abbassato sul petto; la terza coi piedini sugli alari si chinava
macchinalmente ad avvivare il fuoco. Non si vedeva se fossero bionde,
brune, belle, brutte, robuste, ammalate: nulla si vedeva, se non il
basso delle gonne che si tingeva di colori falsi alla luce del
caminetto. Scomparsa ogni traccia di età, di condizione, di nome. Erano
ombre nell'ombra.

Dopo un'ora di silenzio una di esse parlò. Non si dirigeva ad alcuno,
parlava verso le tenebre. Aveva una voce debole, ogni tanto più
affievolita da una corrente di tenerezza.

--Egli m'ama. Lo conobbi singolarmente in un ospedale di bambini, una
casa tutta candida di marmi e di sorrisi infantili. Nella chiesetta
serena pregavano dame, signori, fanciulli: due bambini prendevano la
prima comunione. Lui aveva chinato il capo. Non so se pregasse: ma
guardandolo fiso, vidi bene che le sue labbra si agitavano. La sua testa
bionda e serafica, in quell'atto riverente, acquistava soavità. Egli mi
guardava coi suoi occhi azzurri, di un azzurro smaltato e chiaro: io mi
sentiva tutta inondata dalla dolcezza di quello sguardo. Non era peccato
quello che commettevamo. Io pregava il Dio in cui egli credeva: noi ci
effondevamo nei tranquilli trasporti dello stesso amore divino. Quando
la Messa fu finita, egli salutò profondamente l'altare, poi me: uscì.
Dopo, nel giorno della Madonna, un lucido e bel giorno io ho ricevuto a
casa un mazzo di fiori, mughetti e gigli, una meraviglia di candore. Io
ho mandato a lui il mio rosaio di legno di _sandal_, i cui granelli,
sotto lo stropiccio delle dita, sprigionano un profumo acutamente
mistico. Ci vediamo sempre, la domenica, al vespro nella chiesa dei
Gerolomini. Egli mi aspetta alla porta e con le dita tremanti mi offre
l'acqua benedetta; insieme facciamo il segno della croce. Siede un po'
lontano da me, ma ci guardiamo spesso. Dio sicuramente non si offende di
questo amore che è puro. L'atto di adorazione, che nel mio libro è un
vero inno poetico, lo leggo prima io, poi passo il libro a lui perchè
legga. Usciamo insieme, non ci parliamo. Fino a casa mi accompagna,
senza darmi il braccio. Stringe appena la mia mano nel licenziarsi. Mi
scrive ogni giorno lettere sublimi, di una poesia tutta spirituale,
tutta essenza luminosa, tutta sfavilío d'anima. In verità, dal suo
spirito prigioniero nella materia parte un tale raggio d'idealità che io
mi vi sento vivificata e riscaldata. Gli rispondo ogni giorno, cerco
mettere nelle mie labbra lo stesso palpito affettuoso, la stessa
iridiscente vibrazione che egli imprime alle proprie parole. Noi ci
amiamo perchè amiamo le stesse cose; i cieli sbiancati delle notti
autunnali, le acque d'acciaio dei laghi che tremolano sotto il puro
raggio della luna, i marmi bigi delle chiese, i pavimenti freddi e duri
dove le ginocchia si martoriano. Noi ci amiamo nelle lagrime gelide che
quietano i nervi e smorzano l'ardore delle guance, nei sorrisi lenti e
placidi che si rivolgono a un punto indefinito, nei poeti celestiali
come Chateaubriand, Lamartine, Manzoni, nel distacco tranquillo da ogni
contatto terreno, nelle aspirazioni al più alto, al sempre più alto...

Tacque la voce, smorzata in un entusiasmo sommesso e soffocante. Nessuno
le rispose. Solo, poco dopo, la seconda che teneva il capo abbassato sul
petto, si sollevò e parlò, a scatti, a sussulti, con una voce variabile,
ora troppo forte, ora stridente e nervosa.

--Egli mi ama; io lo amo. Non so come, non so perchè. È bello, di una
bellezza calda, fulva, virilmente giovane. I capelli gli si piantano
sulla fronte, possenti come la criniera di un leone. Gli occhi bruni
affascinano. Al teatro mi guardava sempre. Attraverso le lenti
dell'occhialino sentivo il suo sguardo che mi toccava e mi abbracciava,
lasciandomi sul volto, sul collo, sulle braccia le stimmate della
passione. Io credo di aver ceduto a un magnetismo, poichè mentre il capo
mi pesava come se fosse coperto di piombo, il cuore si dilatava
precipitosamente sotto l'urto del sangue. Ho baciato il mio fazzoletto.
Egli m'ha visto e un pallore di trionfo ha scomposto il suo volto. Nelle
scale mi ha aspettato, gli sono passata daccanto, ha osato stringere la
mia mano nuda, ha rubato il mio guanto. Ha passata la notte sotto la mia
finestra: io, alla finestra. Nevicava; non sentivamo il freddo. Da
allora questa mia vita è diventata una tempesta di desiderii, di
sconfitte, di dolori acuti, di gioie morenti: quando non lo vedo, va
lentissima l'ora nell'intensa brama del rivederlo. Quando ci vediamo,
restiamo l'uno di fronte all'altro, smorti, col cuore in tumulto, le
mani brucianti, la voce strangolata: questo è l'impeto dell'amore che ci
fa impazzire. Le sue lettere sono brevi, a frasi nette come un colpo di
coltello, scritte a frasi dove vi è il sangue della vita, dove vi è
l'eccitazione dei nervi, dove vi è lo scoppio furibondo di un amore
supremo. Io l'amo come egli m'ama. Ambedue siamo torturati dall'amore,
ambedue soffriamo le pene dei dannati per la gelosia che ci rode,
ambedue rotoliamo, inebbriati di amore e di dolore, per una china
dirupata dove a nulla possiamo rattenerci. Noi abbiamo le medesime folli
e ammalate inclinazioni per i fiori rossi del papavero, per le cose cupe
e tragiche, per i tramonti incendiati, per le albe sanguigne, per gli
azzurri oltremarini, per le maremme pestilenziali sotto il sole, per i
profumi violenti, per l'oro intarsiato che pare scorrere, fluido,
liquido, sul fondo nero della lacca, per i grilli sfiniti che muoiono
d'amore nel solco fumicante, per le farfalle nere che si abbruciano
intorno al lume. Ci amiamo: è lui il mio poeta, sono io la sua dea. Con
me, per me, piange le sue lagrime scarse e roventi; con lui, per lui, io
trovo il mio sorriso scapigliato, inebbriante. Noi comprendiamo che per
una sola cosa viviamo, ed è l'amore; che per una sola cosa moriremo, ed
è l'amore. Sono nostri gli spasimi, le trafitture; i fremiti allo
stringere lieve di una mano, i pallori incomposti, le convulsioni
disperate. Lui distrugge la mia vita: io distruggo la sua...

Bruscamente si arrestò, stringendosi il viso fra le mani. Allora la
terza parlò, quietamente, con una voce media, giusta, di una monotonia
grave:

--Egli mi ama; io l'amo. Almeno, ogni tanto, me lo dico. Almeno, ogni
tanto, mi sembra d'amarlo. Non ne siamo punto sicuri. Egli non ha mai
creduto all'amore: io non vi credo da che lui ha fatto crollare la mia
fede. Una giornata plumbea, in una sala di accademia, quando un oratore
scalmanato cercava invano ispirare nel pubblico il suo falso entusiasmo,
egli mi disse: Tutto questo è molto ridicolo. Moltissimo--gli risposi.
Lui s'inchinò, soddisfatto di aver ritrovato una donna arida come lui.
Non mi ha mai scritto lettere d'amore, non me ne scrive: io non gliene
scrivo. Noi non crediamo alle lettere d'amore. Non mi ha dato nè i suoi
capelli, nè un anello, nè un piccolissimo dono; mi disse che tutta
questa roba non serve, e che va sempre a finire, in cucina, nella
spazzatura. Quando io gli dico di amarlo, fa un sorriso d'incredulità, e
mi risponde: Sai? non t'affannare, chè non ti credo. Quando gli giuro
che gli voglio bene, egli mi lascia dire, poi mi soggiunge, sorridendo:
Non giurare, non giurare, non giurare, tu non sai nulla; può darsi che
tu non m'ami. Egli non impallidisce, non arrossisce, non cerca vedermi,
non cerca sedersi accanto a me, non mi stringe la mano, non mi offre il
braccio: la sua sola manifestazione è il sorriso, un sorriso freddo e
lento. Egli non ha entusiasmi, mai. Non si scalda mai per nulla. Non
comprende l'arte, non comprende la politica, non comprende la scienza,
non comprende Dio: egli è un assiduo e calmo demolitore di quanto gli
altri credono. È l'apostolo più sicuro dello scetticismo. Lui sostiene
brillantemente la falsità delle cose, la falsità della natura, la
falsità della virtù, la falsità della passione. Lui è forte, bello: nei
suoi occhi grigi, quasi felini, vi è tutto il riflesso metallico della
sua anima minerale. Egli rassomiglia all'acciaio. È d'un pezzo solo. Non
hanno peso su lui nè sospiri, nè lagrime. Non ci erede. Contro lui mi
spezzo. Dacchè l'amo, l'anima mia subisce la sua influenza, si
trasforma. Quello che lui non crede, io non credo. Quello che lui vuole,
io fo. Quando, in un momento di ribellione disperata, gli domando:
Perchè mi vuoi bene, dunque? Egli esita, si conturba, mi risponde:
Chissà! Non so: noi non sappiamo nulla. Io ripeto con lui: Noi non
sappiamo nulla. Rimaniamo silenziosi, pensosi nello sconfinato dubbio di
due anime inaridite...

Di nuovo il silenzio si fece. Niuno non lo interruppe più. Nell'ambiente
caldo e bruno, si calmavano gli echi dei tre amori, così profondamente
diversi fra loro.

Eppure era lo stesso uomo che le amava tutt'e tre.



                             UN INVENTORE.


--Ebbene, Ulrich, non mi rispondi?--chiese Lottchen, molto indispettita.

Egli stava ritto presso la finestruola archiacuta, dai vetri impiombati,
guardando fisso nella viottola. Nell'ombra della sera che cresceva, il
suo duro ed energico profilo teutonico si addolciva; e il corpo alto si
curvava, quasi preso dalla stanchezza.

--Ulrich, tu non mi ascolti--ripetè Lottchen, con una certa tristezza
nella voce.

Egli si volse, e sulle sue labbra spuntò un sorriso debole ed indeciso.
Lo sguardo gli vagò incerto per la stanzetta, come se la mente lo
mandasse in traccia di un pensiero smarrito.

--A che pensavi tu dunque, mentre io ti parlava?

--A nulla, Lottchen--disse finalmente lui, con la sua voce grave e
sonora.

--Sempre così, sempre così, Ulrich. Tu mi ami molto meno delle tue
sciocche fantasie.

Ulrich chinò il capo, e parve che attorno maggiormente gli si addensasse
l'ombra. Mentre Lottchen continuava a tormentarlo ed a tormentarsi,
ricominciando per la centesima volta le sue recriminazioni, egli non osò
risponderle parola. La fanciulla si chinava verso di lui per vederne il
volto, ma si ritraeva scontenta: sulla faccia di Ulrich non si vedeva
alcuna impressione. Solo un lieve tremolío gli agitava le dita. Infine
la bionda Lottchen si tacque, stringendosi nelle spalle, come se dicesse
che tutto, tutto era inutile; ed i due fidanzati stettero per tanto
tempo in quel silenzio penoso, pieno di pensieri dolorosi. Ad un tratto,
mentre una fantesca posava un lume monumentale sopra la tavola, una voce
infantile gridò di fuori:

--Zio Ulrich! zio Ulrich!

Ed un bambino entrò correndo nella stanza, cercando d'arrampicarsi sulle
ginocchia del giovanotto. Quando ebbe conquistato quel posto, col tono
lento e carezzevole dei bambini, gli domandò:

--Me lo fai un giocattolo, zio Ulrich?

Ulrich impallidì, arrossì e posò una mano sul capo del bimbo.

--Te lo farò, Hans.

--Bello?

--Bello.

--Un giocattolo che avrò io solo, io solo?

--Tu solo.

--Uno di quei giocattoli belli belli che tu solo sai fare?

--Sicuro, uno di quei giocattoli belli che io solo so fare.

Ulrich per la prima volta sorrise d'orgoglio: ma fu anche una lagrima di
orgoglio offeso quella che Lottchen celò andando in un'altra stanza. Il
bimbo rideva e stringeva le mani, quasi che possedesse già il prezioso
giocattolo.

                                  *
                                 * *

Perchè, pochi lo sanno e nessuno ci pensa, ma è una piccola città di
Germania quella che fa contenti tutti i bambini dell'Europa. Da
Nuremberg, la città gotica, dall'architettura fantastica e bizzarra,
dalle torricelle merlate e dalle case di legno, dalla piccola Nuremberg
partono i tesori che destano il riso sulle labbra infantili: le bambole
dal roseo viso di cera, dagli occhi azzurri senza pensiero, dai capelli
biondi come la stoppa; i fantoccetti vestiti da zuavo, da Arlecchino, da
Rigoletto; le armi miracolose, le trombettine di stagno dal suono
stridulo; le scatole donde vengono fuori le casettine microscopiche che
puzzano di vernice fresca, gli alberetti fatti con un bastoncello ed un
fiocchetto di trucioli tinti di verde, i piccoli appartamenti, le
piccole cucine, i piccoli animali, i piccoli soldati ed infine tutto il
mondo minuscolo, la vita microscopica che prepara il bimbo alla vita
vera. In Nuremberg, città della gioia e della tranquillità, dove gli
innocenti operai delle fabbriche di giocattoli sorridono nella
consolazione di una coscienza soddisfatta; in Nuremberg dovrebbero
andare in gaio pellegrinaggio tutti i bambini, accompagnati dalle madri
giovanette, processione fulgida e meravigliosa. Ma dovrebbero salutare
con le grida d'allegria la casa di Ulrich, il grande ed ignoto artista,
il grande ed umile inventore.

                                  *
                                 * *

Ulrich era stato un bimbo infelice nella casa di una dura matrigna.
Sapeva quante lagrime segrete si possono versare in una notte, come
possano soffocarsi mordendo il lenzuolo; aveva conosciuto la monotonia
delle lunghe ore, passate in un angolo oscuro, sopra una seggiolina, con
le mani in grembo. Non aveva giocattoli e ne vedeva dappertutto e ci
pensava spesso, e li desiderava tacitamente e li chiamava nel suo cuore.
Chiudendo gli occhi, li rivedeva nella sua mente e li scomponeva, li
ricomponeva, cercava loro una forma nova. Passando dinanzi ad una
fabbrica, guardava, timido, per la porta socchiusa. Stare là dentro
sarebbe stata per lui una felicità. Quelle bacchinucce, quei pennelli,
quegli strumentini, quei lembi di stoffa, quei pezzetti di legno, lo
seducevano, lo affascinavano. La notte li sognava. E anche di giorno
egli era un sognatore, perduto nella contemplazione del suo fantasma.
Egli vedeva nella sua immaginazione nuovi congegni, combinazioni strane
ed audaci; e fuori egli rimaneva un pallido e debole adolescente, dalle
labbra smorte, dallo sguardo errante, troppo alto, troppo magro,
talvolta abbattuto ed inerte, talvolta arse le guancie dalla febbre
dell'idea. Quando entrò come operaio nella fabbrica, credè di essere
diventato un re; ma soffrì profondamente, perchè il lavoro usciva dalle
sue mani rozzo e incompiuto. Egli piangeva di rabbia per quelle
spaventose difficoltà manuali, ed avrebbe voluto mordere le dita
incapaci di tradurre in atto le sue fervide creazioni. Si castigò,
condannandosi, lui che aveva un mondo nel cervello, a lavorare di copia,
a seguire i modelli antichi. Visse un altro anno in desiderio
raddoppiato, ardente, contenuto; si consolava passeggiando sulla piazza
e guardando i bambini che s'inseguivano. Provava una grande tenerezza
che gli faceva venire le lagrime agli occhi. In fondo era rimasto anche
lui un bambino, col cuore buono ed appassionato.

Così, a poco a poco, egli dominava e vinceva la materia, e le sue dita
diventavano esperte e leggiere, affinando la loro sensibilità, ed egli
potè metter fuori il lavoro utile, le idee nuove che s'erano chiuse come
fiori al caldo della sua fantasia. Tutto consisteva nel dare una parte
d'anima ai giocattoli, nell'imprimer loro un soffio di vita: fu lui che
inventò la bambola, la quale, coricata, chiude gli occhietti, quella che
dice _papà_, _mammà_, quella che saluta col capo, quella che nuota come
una ranocchia. Subito il direttore della fabbrica gli assegnò una
stanzetta solitaria, dove potesse lavorare tranquillamente ai modelli
che gli altri operai dovevano riprodurre. Da quella stanzetta uscivano
tutte le piccole meraviglie che sono la consolazione dell'infanzia. Il
sorcio volante che si precipita per due trampoli di legno; il ginnasta
che sale per una scaletta con l'agilità di uno scoiattolo e si slancia
dall'altra parte, per ricominciare ogni momento il suo gioco; il
coniglio accovacciato che suona il timpano, abbassa la testa e si frega
il muso con le bacchette; il violinista vestito da _marquis_, in raso ed
oro, che nel medesimo tempo suona il violino e balla un passo di
gavotta; le oche, le anitre, le navicelle galleggianti attirate alla
sponda da un pezzetto di calamita; i cavallini galoppanti, le
carrozzette semoventi; tutto questo usciva dalle mani fatate di Ulrich.
La sua ispirazione non si fiaccava mai: talvolta egli si stringeva la
testa calda fra le mani gelate, per timore gli scoppiasse, tante idee
battevano contro le pareti del cervello per uscire; correva di notte,
nella campagna, facendosi soffiare il vento aquilonare sul volto. Quando
cominciava il lavorío interno per qualche cosa di nuovo, egli si
concentrava profondamente e nulla valeva a distrarlo: nè la voce di
Bertha sua sorella, nè quella di Lottchen, la fidanzata che egli amava
nei suoi momenti di libertà. L'arte ha questi feroci egoismi. Finalmente
l'opera veniva alla luce, dopo tre o quattro giorni, tre o quattro notti
passate nel laboratorio, curvo sui suoi congegni delicati, senza nè
dormire, nè mangiare, non toccando neppure il boccale di birra che gli
ponevano accanto; l'opera veniva alla luce bella e perfetta. Allora egli
sorrideva, cantava, ballava dalla gioia, amava Bertha, amava Lottchen,
amava tutto il mondo, viveva, scendeva in piazza, acchiappava un par di
bambini e li soffocava di baci, mormorando, balbettando che aveva
lavorato per essi, che li voleva veder contenti per quanto egli aveva
sofferto. E il suo pensiero si fermava sulle infinite testoline bionde e
brune che sono le stelle della terra; si fermava con orrore nelle cupe
officine, dove tristi inventori lavoravano a creare un'arma nuova e più
delle altre micidiale--ed allora l'anima sua si allargava nell'orgoglio
di un lavoro onesto e giocondo.

                                  *
                                 * *

Malgrado la sua cera assorta, noncurante, le sue distrazioni, il suo
silenzio, la gente gli voleva bene. Il direttore se lo teneva caro,
sfruttandone il genio inventivo. Bertha lo curava come un grosso bambino
inesperto, dandogli sulla voce, carezzandolo, dirigendolo in tutte le
azioni della vita in cui si mostrava tanto ingenuo. Lottchen lo
disprezzava, lo tormentava e lo amava. I bambini se lo mostravano a dito
nella via, gli tenevano dietro, gli saltavano addosso, gli frugavano
nelle tasche, era la divina provvidenza per loro. Egli camminava colla
testa nelle nuvole, artista innamorato dell'arte, sognatore
incorreggibile, con le dita che gli si movevano come se toccassero molle
misteriose. L'idea fissa scacciava a poco a poco tutte le altre. Alle
volte si stordiva tanto da rimanere inebetito per un paio di minuti; poi
nel cervello cominciava una ridda infernale d'idee che cozzavano fra
loro, e allora gli operai non avevano il tempo di copiare un modello che
già dalla cameretta usciva nuovo lavoro. Il direttore sorrideva.
Lottchen diventava sempre più triste, sempre più collerico; il polso di
Ulrich era mosso da una febbre continua che ne consumava e rinnovava il
sangue. Egli si faceva sempre più esperto nell'arte, ne aveva penetrati
tutti i segreti: era arrivato alla finezza dell'ultimo tocco, della più
lieve sfumatura, all'eleganza più leggiadra, al gusto raffinato, alla
solidità, a tutte le qualità riunite insieme in un'armonia completa.
Creava dei giocattoli meravigliosi--e mai, mai si era sentito così
intensamente felice.

Il direttore gli dava sempre notizie del favore che toccava a que'
giocattoli. Venivano grandi ordinazioni. Solamente, un giorno, gli disse
con un mezzo sorriso:

--Siate più semplice.

Ulrich non vi badò. Anzi, nella sua mente s'intrigavano, si complicavano
sempre più mille forme, mille congegni. Fece un uccellino che apriva le
ali, gonfiava la gola e cantava. Il direttore lo ammirò, ma non molto;
fece qualche difficoltà per le riproduzioni, poi non disse più nulla.
Dopo un paio di mesi, duramente:

--Sapete, Ulrich? L'uccellino ha fatto fiasco. È troppo ingegnoso: i
bambini non lo capiscono.

                                  *
                                 * *

Il povero artista impallidì e tacque. Solo, pianse. Ecco che i bambini
non lo comprendevano più, adesso! Si spezzava dunque il grande legame
fra lui e il suo piccolo pubblico? Poi, ubbidiente e buono, si sfogò _a
far semplice_. Non gli riusciva. Era arrivato ad un punto in cui l'arte
divenuta poema, non s'adatta a ritornar sillabario. Le forme semplici
gli sfuggivano e correva dietro, di nuovo, alle astruserie più alte.
L'insuccesso cresceva, Ulrich tremava di paura ogni volta che una nuova
creaturina del suo cervello gli usciva dalle mani. Era mortificato.
Dubitava di sè stesso, dell'arte, di tutto. Temeva sempre aver commesso
qualche grosso sbaglio materiale. Sentiva intorno a sè una diffidenza
vaga; non osava guardare in viso sua sorella, la sua fidanzata. I
ragazzi gli davano soggezione: a volte un dolore cocente lo spingeva
quasi a chieder loro: Ma che debbo io fare di meglio? Perchè non vi
comprendo più, perchè non mi comprendete più? Invece fuggiva nella
campagna a sfogare solitario i suoi lamenti. Odiava quasi l'arte sua;
lasciava inoperosi gli strumenti, vuota la cameretta, secchi i pennelli.
Pensava troppo, oramai. Il suo pensiero si smarriva. Era ammalato, aveva
un fuoco insolito negli occhi. Poi, dopo un lungo periodo d'inerzia,
prese una risoluzione energica e si chiuse nel suo laboratorio. Voleva
meravigliar tutti con un lavoro stupendo, riacquistare d'un tratto la
sua fama d'artista, riconquistare per sè l'ammirazione e il riso dei
fanciulli. Concentrò tutta la sua attenzione, adoperò utilmente,
riunendole, raddoppiandole, le forze dell'arte, compì sino alla
perfezione ogni piccolo pezzo, lavorandoci con amore infinito, con
ardore, con la passione della disperazione. Ne venne fuori un giocattolo
straordinario: sullo stesso piano, una fattoria, delle contadinelle che
battevano il burro, le pecore che pascolavano, le galline che
razzolavano, il gallo sul campanile della chiesetta, l'acqua del
ruscello fra le pietre, le lavandaie che lavavano; tirata la corda,
tutto questo mondo si muoveva, il gallo cantava, le galline pigolavano,
le contadinelle agitavano le braccia, le pecore brucavano l'erba, il
ruscello scorreva, le lavandaie lavavano. Una meraviglia, a compire la
quale Ulrich aveva esaurita tutta la potenza del suo ingegno. Compiuta
che fu, una soddisfazione gli entrò nell'anima esacerbata, e sorrise.
Dopo tanto tempo che non sorrideva. Ma quando fu a dar la via al suo
capolavoro, tremò....
...................................................................
...................................................................


Egli sedeva nella sua cameretta, con la testa fra le mani, ansioso,
trepidante. Era l'ultima prova che tentava. Sulla porta Lottchen
comparve.

--Dove è Hans?--chiese egli vivamente.

--È di là.

--Chiamalo.

--Non verrà.

--Perchè?

--Ha paura di venire.

--Paura di venire?... e perchè?...

--Non affliggerti, Ulrich, e non castigare il bimbo. Ha rotto il
giocattolo.

--.... Lo ha rotto?

--Per la rabbia. Non lo capiva, Ulrich.
..................................................................
..................................................................

Ora quando la luna piove la sua luce pallida nelle viuzze di Nuremberg,
dove tutti dormono, un uomo corre e gesticola, oppure siede in terra e
guarda il cielo. Ma le sue dita si agitano come se lavorassero intorno a
misteriosi congegni. È Ulrich che folleggia, avendo nel cervello l'idea
grandiosa ed informe di un giocattolo mostruoso, immane, impossibile.



                              COMMEDIOLA.


Nel parco, nel bosco, ne' prati, avevan passeggiato per molto tempo.
Avevan calpestato moltissima erba odorosa, e le scarpette della signora
dovevan esserne profumate; lei si lagnava di una pietruzza fra la calza
di seta e la suola. Avevan disturbato una quantità infinita di nervose
lucertoline, di grilli, di formiche; anzi, a proposito delle formiche,
il signore, un po' intenerito, voleva dare un tuffo nella poesia. Il
sole di luglio, dal cielo, avrebbe voluto disturbar loro, ma
l'ombrellino della signora era largo, gli alberi erano pieni di foglie
ed un leggiero ponente soffiava. Poi erano profondamente allegri, con
una vena inesauribile di spirito, mordendo tutte le malinconie umane col
loro sorriso, che nella signora era gaio e sincero, e nel signore un po'
scettico. Questi due esseri, che per conto mio e di chi mi legge
dichiarerò insopportabili, erano ancora giovani, e se non belli,
simpatici; eran soli, nella campagna, nella stagione ricca e non erano
punto innamorati. Neppure turbati. Ridevano, si divertivano immensamente
e non si erano dati braccio. Si erano burlati di molte cose insieme,
dell'idillio specialmente. Si erano burlati delle eterne vergini bionde
che sfogliano un'eterna margarita, di Paolo e Virginia a proposito del
grande ombrellino della signora, delle famose farfallette innamorate che
s'inseguono sulle siepi, dell'usignuolo storico che canta fra i rami, di
Catullo che la signora non aveva letto ed il signore sì, della _Faute de
l'abbé Mauret_ che ambedue avevano letto, di tutte le elegie più o meno
malinconiche, di tutte le descrizioni più o meno colorite che da tempo
immemorabile si scrivono sui boschi, sui prati, sui fiori. Quante risate
sull'edera tenace e sul ruscello che mormora! La signora aveva dei
dentini bianchi da gattina cattiva, ed il signore dei mustacchietti
biondi dalle curve armoniose e seducenti. Passavano una mattinata
gioconda. I loro cuori erano tranquilli, i nervi quieti, lo spirito
agile, la parola briosa. Con tutta l'arditezza del suo carattere e
l'indipendenza della sua vita, la signora era onesta, pacificamente
onesta: aveva marito, a Milano, e lo amava e si scrivevano ogni paio di
giorni. Essa adorava il mare e veniva a prendere i bagni a
Castellammare. Il signore aveva moglie, a Potenza, in Basilicata; ed era
di carattere freddissimo sotto il suo allegro scetticismo, avendo in
fondo al cuore un tacito disprezzo della donna. Ecco perchè non erano
innamorati; e insomma, senza tante spiegazioni, non s'amavano perchè non
s'amavano. Difficilmente si potrebbe assegnare una ragione all'amore: ed
è la stessa cosa per l'indifferenza.

--Se noi facessimo colazione?--domandò a un tratto la signora.

--Signora Lucia, ecco che avete un'idea--disse lui, con cera spaventata.

--Preparatevi perchè ne ho un'altra. Che vuol dire quando mi ci metto! È
una valanga. Signor Federigo, andiamo a far colazione qui, a cento passi
di distanza, da Giovannino, nei boschetti delle rose e delle mortelle.

--Ci darà delle rose e delle mortelle per colazione? Il dubbio è
crudele.

--Bah! m'han detto che si pranza benissimo. A quest'ora non ci sarà
nessuno. Solo i matti come noi vanno in giro. Ci comprometteremo
orribilmente di fronte al cameriere ed all'oste...

--Signora Lucia, le classi dirigenti debbono moralizzare....

--Basta, basta, per carità. Siete voi deciso?....

--Dal primo momento che parlaste di colazione, un dolce palpito...

--Agitò il mio povero cuore....

--Una soave immagine....

--Intravveduta nella nebulosa dei miei sogni.....

--Parve si realizzasse....

E risero di nuovo e camminarono nella polvere alta della via maestra, e
ne ingoiarono della polvere! Il meriggio era soffocante. L'osteria di
Giovannino, tutta bianca, aveva le persiane socchiuse; il silenzio più
completo dominava.

--Signora Lucia, qui non si fa colazione.

Si guardarono con una cera afflitta. Erano rossi dal caldo. In questa un
cameriere con un calzone militare ed una marsina civile, venne sulla
porta, sogguardandoli con la più grande meraviglia. Quando essi salivano
per la scaletta, li seguì.

--Ho da preparare in una stanzina particolare?--poi chiese, come se
parlasse fra sè, sottovoce, timidamente.

Federigo esitò un momento, ma lei prontamente, con un risolino schietto,
si voltò e disse:

--Sicuro.

Dopo, rimasti soli, nella sala grande, furono un po' imbarazzati. Ma fu
un lampo. Subito subito, da persone di spirito, compresero la graziosità
della posizione.

--Sì, o signora,--esclamò Federigo, con accento drammatico,--turbiamo
l'onesta coscienza di quest'uomo....

--Scandalizziamo addirittura. Noi ci amiamo, noi siamo due esseri
colpevoli e felici, in procinto di fare una tragica colazione, mangiando
la costoletta del disonore e bevendo il vino del tradimento...

--Signora, noi rotoliamo in un abisso...

--Senza fondo....

--Noi potremo essere sorpresi. O Lucia, io vi farò scudo del mio petto,
tanto più che non avrei altri scudi....

--Perchè non ho io un velo, un lungo velo nero? Che vi pare, signor
Federigo, io dovrei tremare ed impallidire?

--Provate un momento; io proverò ad essere agitato.

Il cameriere venne ad annunziare che era apparecchiato. La signora Lucia
si alzò, con un passo affrettato; Federigo la seguì, parlandole
sottovoce, dicendole delle scempiaggini che figuravano frasi d'amore--il
cameriere si manteneva, come di dovere, a distanza. Ella, arrivata nella
stanzina, si lasciò cadere sopra una sedia e nascose il volto fra le
mani con molta naturalezza.

--Amica mia, che volete da colazione?

--Amico mio, non ho fame--fu la malinconica risposta.

--Prenderete del Chablis?

--Sì, sì--rispose lei, con la voce gutturale e lo sguardo vagante delle
donne che perdono la testa.

Il cameriere uscì con gli ordini. Essi dettero in uno scoppio di risa;
non ne potevano più. Lucia aveva le lagrime agli occhi, Federigo si
nascondeva la testa nel tovagliolo. Che cosa buffa! Si spassavano come
scolaretti in vacanza. Poi Lucia venne a un tratto seria. Guardava
attorno un po' disillusa. Non trovava nulla di strano, nulla di nuovo.
Lui comprese.

--Ecco un salottino che non ha nulla di particolare. Non ce ne sono più
che nei romanzi. Noi diventiamo borghesi.

Lei sorrise distrattamente. Ritornò alla commediola.

--Che faremo ora, signor Federigo, che faremo per ingannare quest'uomo?
Inventate.

--Dovremo darci del _tu_.

--È vero, è vero; anzi, fingiamo d'imbrogliarci col _tu_ e col _voi_.

--Sicuro. Poi guardiamoci lungamente e balbettiamo qualche parola
incomprensibile....

--Quando lui ci parla fingiamo di essere distratti, io fisserò l'acqua
nel mio bicchiere....

--Ed io farò delle pallottoline di pane...

La commediola andava innanzi, concertata a meraviglia, recitata a
meraviglia. Il pubblico composto del cameriere e dell'oste, in
lontananza, in un corridoio, ci cascava. Ma per cinque minuti gli attori
si occuparono delle costolette, con molta attenzione.

--Signora Lucia, noi non dovremmo mangiare.

--O perchè?

--Capite, col cuore divorato dai rimorsi...

--Avete ragione.... infatti.... Ma infine noi saremo di quelli che
mangiano per rabbia....

--E bevono per disperazione....

--Per annegare il rimorso....

Continuarono quindi a far colazione col buon appetito dei giovani che
hanno l'anima tranquilla e la salute in equilibrio. Ma non si scordavano
la loro parte.

--Quando lui viene, signora Lucia, fingeremo di bere nel medesimo
bicchiere.

--Io dirò: "Federigo, ti ricordi di Viareggio?".

--Ed io mi turberò, sospirerò, farò un atto di rimpianto.

Ci prendevano gusto; come si dice in vocabolo teatrale, s'investivano
del carattere. Pensavano che cosa si potesse far di meglio, di più fine.
Si guardavano in volto, interrogandosi. Nella stanzetta il calore estivo
diventava insopportabile, dalla finestra aperta, con le gelosie
socchiuse, non entrava un filo d'aria ed entravano molte mosche. La
signora Lucia agitava il suo ventaglio; aveva bevuto due bicchieri di
Chablis e la commedia la esaltava. Federigo rimaneva più calmo; del
resto, in ambedue era chiara, netta, lucida la coscienza del dualismo.
Non si confondevano, no. Non entravano in una intimità maggiore per la
rappresentazione; non si aumentava di una linea la mutua confidenza.
Erano lì buoni amici, contentoni, felici di burlare l'oste ed il
cameriere. Una commediola perfetta, addirittura un successo. Il
cameriere parlava sottovoce, era pieno di rispetto, camminava forte
venendo, camminava piano andandosene. Essi sorridevano, dietro le sue
spalle. Lucia sbucciò una pesca, e staccandone un pezzetto, lo diede a
Federigo con un vezzoso gesto d'amore: un'idea venuta lì per lì.
Federigo prese il pezzetto di pesca, baciò lievemente le dita della
manina: anche questa un'idea improvvisata. Il cameriere vide e finse di
non vedere: scappò a prendere il caffè. Essi si strinsero la mano,
scambiandosi le loro felicitazioni: in verità, si ammiravano. Non si
erano mai tanto divertiti nella loro vita.

Trovavano naturale quello che facevano, naturale la propria
indifferenza, l'impersonalità. Anzi, non pareva loro neppure arrischiata
la posizione, tanta era la serenità del loro animo. Andavano innanzi
come due fanciulli soddisfatti di un nuovo giuoco, trovato per caso.
Federigo sapeva, poichè aveva vissuto; Lucia indovinava, perchè era
donna. L'impensato la interessava.

--Signor Federigo, non vi pare che dovremmo fumare delle sigarette?

--Accendendole, scambieremo un'occhiata. Poi scambieremo proprio le
sigarette.

--E guarderemo il fumo con aria triste.

Quando il cameriere venne a sparecchiare, essi fumavano. Un rumore di
ruote s'intese sulla via. Lucia gittò un grido e si lasciò cadere quasi
nelle braccia di Federigo, tremando.

--Dio mio, tu ti ucciderai con queste emozioni...--mormorò lui,
sorreggendola, dandole coraggio.

--È un carro, signora--osò dire il cameriere.

--Va bene, andate--disse severamente Federigo.

O cordiali risate! Non le avrebbero ritrovate più. Si sentivano
vivificati, rinfrescati in quel meriggio di luglio. Rimasero a
discorrere di tante cose leggiadre, come nel parco, scherzando sulle
_maniere_ del mondo intiero. Fumavano, Ogni tanto il cameriere passava
innanzi la porta socchiusa, senza volgersi. Essi sorridevano ancora e
ripigliavano il discorso. Se ne partirono dopo un'oretta di
conversazione. Si dettero il braccio scendendo le scale. Voltandosi,
videro sulla porta il cameriere, il guattero, il cuoco, l'oste che li
sbirciavano.

E se ne andarono leggieri, riposati e quieti fra la polvere alta.

All'albergo la signora Lucia dormì profondamente per tre ore. La sera
non vide Federigo nello _Stabia-Hall_. La mattina seguente ricevette un
dispaccio dal marito che la richiamava a Milano, per andare sui laghi.
Cosa che le procurò una grande consolazione, poichè Castellammare
cominciava ad essere noioso. Scrisse un bigliettino di congedo,
ringraziandolo, a Federigo, e se ne partì affrettando l'ora del ritorno.
Federigo lesse il biglietto mentre si radeva la barba, si strinse nelle
spalle e andò al bagno.

                                  *
                                 * *

Per tre anni non si videro mai, non seppero nulla l'uno dell'altro. Ma
la prima sera in cui si rividero, il primo momento, in un palchetto
della Pergola, a Firenze, senza parlare, senza toccarsi la mano, dinanzi
a molta gente, scambiarono quello sguardo ardente che rimescola il
sangue e per cui due vite s'uniscono. E fu una spaventosa tempesta la
passione che li travolse.



                           RITRATTO DI DONNA.


A voi non piacciono i ritratti di donna. Dite che sono inutili, non mi
avete mai voluto dire il colore dei capelli della vostra prima
innamorata, nè descrivere la linea del naso della vostra penultima. Ma
quando la persona di cui voglio farvi il ritratto passava in carrozza,
voi vi fermavate sul marciapiede, guardandola, senza salutarla, con le
palpebre battenti, le braccia prosciolte, lasciandovi urtare dai
viandanti; quando la persona compariva in un palchetto di teatro, voi
dalla platea, voltavate tranquillamente le spalle alla scena, per
guardare lei, inconscio, dimentico di ogni altra cosa. Oggi io ho la
voglia di tormentare la vostra amicizia, facendovi il ritratto di quella
donna.

Una principessa: eppure nessuno di voi ha visto sulla sua testa la
corona principesca. È una corona pesante, carica di gemme, di forma poco
elegante, difficile ad adattarsi con grazia. La ragione segreta era
nella testa un po' grossa della principessa. Non era punto un difetto e
lei sollevava il capo con alterigia, ma desiderava nel fondo dell'anima
una di quelle teste piccine e schiacciate da vipere. Così non portava
mai nastri, mai piume, mai pettini, mai spilloni di brillanti nei
capelli: ed i fiori, a grandi gruppi, li appuntava sotto l'orecchio,
lasciando che strisciassero sulla nuca, che strisciassero sul collo,
producendole un piccolo solletico che le faceva socchiudere gli occhi.
Per lo più i fiori erano rossi; quelle rose violente, a bocciuoli
stretti, quasi a vita condensata; quei papaveri rossi e leggieri; quelle
fucsie della passione cascante, già morente. Rossi i fiori, poichè i
capelli erano neri, di un nero senza lucido, appannato, di carbone:
capelli arruffati che gonfiavano nelle treccie, che piovevano sulla
fronte. Invano il principe chiedeva ogni due giorni alla principessa che
dominasse, che regolasse un poco quell'arruffio di capelli sulla fronte.
La principessa, che adorava il bellissimo e stupido principe, cercava di
moderare la propria selvaggia capigliatura, ma non ci riusciva. Pure
quel disordine era seducentissimo, mettendo contorni irregolari intorno
a quella testa, e lasciando cadere ombre singolari su quel volto.

La principessa era bruna, molto bruna nella faccia, nel volto, nelle
spalle, nelle braccia. Lo sapeva e non si scollacciava mai negli abiti
azzurri, verdi o violetti. Portava gli abiti montanti in raso
bianco-latte, o in raso giallino, ora col lungo ed alto colletto alla
Medici, ora con certe immense cravatte di merletto che la immergevano in
una nuvola di trine. Ma una sera, per far dispetto a certe amiche che
avevano detto esserle impossibile l'abito scollacciato, venne al teatro
con un abito scollato di raso rosso, quasi senza maniche, con un'audacia
tranquilla ed irresistibile. L'abito era corruscante, il busto
splendido. Nessuno osò dire nulla, poichè tutti sapevano che la
principessa era profondamente virtuosa.

Nessuno si accorgeva che ella si tingeva lievemente gli occhi. Aveva gli
occhi grigi, molto luminosi e grandi: ma quando ella si turbava, per uno
strano effetto, gli occhi si facevano di un azzurro-carico, quasi cupo.
Qualcuno, di sera, diceva che ella aveva gli occhi neri: cambiamenti
pericolosi che moltiplicano la potenza di uno sguardo. Quella piccola
tinta di bistro, segreto orientale, con cui accentuava questo sguardo
era messa con sapienza artistica: sebbene la principessa nulla sapesse
di arte e odiasse specialmente la scultura, la pittura e la poesia.
Comprendeva solo la musica, senza dirlo. Aveva due sguardi: l'uno
dritto, fermo, duro, come una domanda imperiosa; l'altro cadeva
dall'alto, quasi filtrato attraverso l'anima, un po' errante, con uno
smarrimento giovanile, senza calore, ma dolcissimo. La principessa aveva
ventiquattro anni e dicevano che in casa passasse rapidamente dalla
bontà più larga ad una indifferenza completa.

Il suo sguardo imperioso andava d'accordo con la linea orgogliosa e
nobilesca di un naso aquilino. Era un naso ben piantato, la cui radice
spianava armoniosamente l'arco delle sopracciglia, un naso forte, dalle
nari colorite ma senza fremiti. Quella linea fiera di profilo dava un
carattere a tutta la fisonomia: carattere di superbia calma e solida,
aristocrazia senza derogazioni, sangue puro, blasone splendido, nome
altissimo. Anzi, non vi erano altri eredi del nome, poichè la
principessa in tre anni di matrimonio non aveva avuto figli.

Si aspettavano. Ma nessuno gliene parlava, poichè la principessa rizzava
il capo, aggrottava le sopracciglia e tutta la sua fisonomia si
chiudeva, s'induriva nello sdegno. Però anche in questi momenti, la
bocca rimaneva fresca, viva, divina. Vi ricordate? Aveva quel bellissimo
difetto del labbro superiore un po' corto, quasi tirato in mezzo,
graziosamente, infantilmente sollevato, lasciando un po' vedere i denti.
Non si comprendeva bene il disegno della bocca, ma sembrava purissimo,
di un rosso garofanato, tutto vivace, tutto rigoglioso come un fiore
pieno di vita. Ebbene, vi era anche questo di bizzarro: che quando la
principessa guardava col suo sguardo freddo e laminoso, con lo sguardo
diritto ed orgoglioso, allora le labbra si ammorbidivano nel sorriso--e
quando il suo sguardo si faceva dolce, vagabondando come in cerca
d'immagini, allora la bocca non sorrideva più. Singolare e perenne
contraddizione fra la parte superiore e la inferiore del volto. Veniva
voglia di baciarle le labbra, coprendole con la mano gli occhi--o si
provava il desiderio di guardarla sino nell'anima, nascondendole la
bocca. Ma nessuno ancora aveva osato esprimere questi audaci desiderii.
Nascevano gli amori, ma non trovavano la forma per manifestarsi. Non si
conosceva ancora troppo bene la principessa: e troppo i suoi lineamenti
si urtavano fra loro, nella espressione. Lei aveva il mento energico,
che le allungava il volto e dava un pensiero a tutta la fisonomia: quel
mento là era impeccabile. Ma la linea con cui il colle si attaccava alle
spalle era molle, e lei, nelle sere in cui si scollacciava, non portava
mai un filo di brillanti, nè vezzo di perle, nè nastrino di velluto.
Quella mollezza era una confessione inconsciente? Fra venti giovanotti
che le avrebbero fatto volentieri la corte, l'uno aspettava che l'altro
incominciasse per vedere come era ricevuto. Certe faccie dicono
chiaramente quello che vogliono. Ma la principessa aveva nel volto una
volontà variabile--quindi misteriosa.

Era più bella seduta, che in piedi. Il busto magnifico era troppo lungo,
le gambe troppo corte. Per questo non ballava volentieri, non andava mai
allo _skating_, andava volentieri a cavallo, con uno strascico
lunghissimo da amazzone. Ma seduta nella carrozza, nel palchetto, in una
poltroncina, in un angolo di divano, sembrava sopra un trono;
inginocchiata nella chiesa, sembrava ancora sopra un trono. Non
passeggiava mai. Appena si alzava dalla sua seggiola, l'illusione
cadeva: molti l'hanno amata e disamata in una serata per questo. Il
principe non era punto geloso, ma se lo fosse stato, un rimedio
all'innamoramento dell'amante poteva essere condurre la moglie sempre a
piedi. Ma lui non ci pensava.

Si poteva supporre che i piedi della principessa fossero piccini, ma
essa non li mostrava mai. Invece le mani erano lunghe, sottili, con
certe unghie rosee e crudeli. Portava le dita cariche di gemme, d'ogni
colore, d'ogni forma, sino al medio. Un carico di anelli, un carico
odioso per cui nessuno poteva stringerle la mano: temevano farle male.

Anzi si ripeteva dappertutto che li portava appunto per non lasciarsi
stringere la mano. Pure di sera non calzava mai guanti, nella nudità
provocante di quelle mani ingemmate come quelle di un idolo indiano.

Così, alla rinfusa, come difetti e come qualità, ella aveva l'orecchio
troppo piccolo, non si abbandonava mai col capo per stanchezza,
impallidiva molto spesso lasciando scorgere l'onda del pallore che
saliva dal collo alla fronte, si vedeva troppo in luce nel palco,
salutava senza sorridere mai chinando lentamente la testa, parlava
rapidissimamente, tirando indietro la lettera _esse_; la voce era molto
bassa, sempre intima. Non faceva mai dello spirito, ma rideva sempre per
quello degli altri. Non discuteva con nessuno, mai. Alla passeggiata
della Riviera, non guardava mai il mare; sempre, fisamente, la collina
di Posilipo.

                                  *
                                 * *

Ora la principessa è perduta. Non si sa perchè. S'è perduta per il suo
sguardo grigio o pei suoi ventiquattro anni? Pel suo labbro troppo corto
o per la sua larga indifferenza? Pei capelli arruffati o per la sua
adorazione pel principe? Per le sue rose rosse o pel suo orgoglio? Non
si sa. Ditemelo voi, amico, che odiate i ritratti di donna e
v'innamorate delle sciarade.



                             NOVELLA GRECA.


Questa novella non è mia. Io l'ho udita narrare e me la son fatta
ripetere più volte. Nei lunghi pomeriggi estivi, nelle lunghe sere
d'inverno, io prendeva uno sgabello e sedeva ai piedi di mia madre,
appoggiando il capo sulle sue ginocchia. Ella, accarezzando con la mano
lieve e delicata i selvaggi capelli della mia testa indomita, mi narrava
le storielle di Grecia, del nostro bel paese lontano, di cui ci pungeva
il cuore la nostalgia: lei, una nostalgia piena di ricordi, me, una
nostalgia fervida di speranze. Ora la mamma, i rimpianti, le speranze,
tutto è sparito: ma nell'anima mi ronzano pian piano le novelle. Questa
qui, come tutte le altre, è vera.

                                   *
                                  * *

Nereggia l'isola di Santa Maura. Chi passa al largo, pel mare Jonio la
prende per uno scoglio bruno, arido e disabitato. La città, la campagna
si scoprono dietro un gomito di terreno: piccola città edificata sopra
un'eruzione vulcanica, due volte quasi distrutta dall'eruzione, con la
previsione di una distruzione completa e di una scomparsa nelle onde del
mare; la campagna, sparsa di vigneti e di ulivi. Nell'isola vi sono
proprietarî, commercianti, agricoltori e pescatori. Vi si commercia di
quell'uva minuta e nera, la passolina, che l'Inghilterra compra a
milioni dalla Grecia per metterla nei suoi pasticcetti. I ricchi
commercianti mandano i loro figliuoli a studiare a Londra e questi
giovanotti ritornano all'isola verso i venticinque anni per darsi alla
passolina; le figliuole, quelle ricche, sono educate in qualche collegio
di Parigi e ritornano all'isola a diciotto per sposare un negoziante di
passolina. Quest'uva piccina e nera, così saporita nei _plum-puddings_,
è la base della felicità, dell'amore, di tutta l'esistenza in Santa
Maura.

Eppure Calliope Stavro odiava profondamente la passolina. Era una
fanciulla a venti anni, alta, elegante di figura, con uno strano e
gracile volto bruno sotto il biondo dei capelli, con certi singolari
occhi verdi. Anche lei era stata educata a Parigi, una educazione
frivola ed arida. L'anima sua era rimasta chiusa. Nel collegio le sue
bizzarre e gaie amiche, con lo spiritello francese demolitore, le avevan
messo in burla la Grecia, i Greci, i _clefti_, lord Byron, Haydée e
l'uva passolina. Poi le avevan dato a leggere quello spiritoso, sincero
e perfido libro di About: _La Grèce contemporaine_. A questo fuoco vivo
di ridicolo, molte cose in lei si erano disseccate. Ella aveva
rinunziato a questi sogni di gioventù, ed era ritornata all'isola
taciturna, senza dire quello che odiava e quello che amava, ma serbando
sul viso giovanile l'impronta torva ed annoiata di un'anima scontenta.
Essa era fiera, ma più spesso indifferente; qualche volta un riso
sprezzante e stridulo metteva la sua dissonanza in una conversazione, ma
più spesso non vi era sorriso in lei; era capricciosa talvolta, ma più
spesso lo sbadiglio ignobile contorceva la linea sottile della bocca:
una stanchezza mortale decomponeva l'espressione del suo volto.

Calliope Stavro non era poetica. Aveva un fidanzato e lo avrebbe sposato
tranquillamente e senza ribellioni. Era un negoziante di uva, alto,
ossuto, coi pomelli sporgenti, di un rosso affogato nel bruno, con tutta
la faccia color mattone, bruciata dal sole, la barba nera, gli occhi
neri, vivaci ed incavernati, le dita nodose. Aveva diciotto anni più
della sua fidanzata, il che si usa laggiù. Galantuomo, ricco,
grossolano, parlando un francese spaventoso ed un inglese commerciale,
amando le canzonette italiane, il vino di Porto, idolatrando la
passolina, era un buon fidanzato, sarebbe stato un ottimo marito. Faceva
la sua corte nel modo più rudemente innamorato che sia possibile, e
Calliope Stavro l'accettava senza disgusto, ma senza piacere. Poco a
poco, nel segreto del cuore, ella entrava nell'indifferenza,
nell'atonia. Le sue notti erano senza sogni. Nella bella stagione, nel
maggio fiorito, venne a Santa Maura Paolo de Joanna, un giovanotto a
ventott'anni, un po' Dalmata, un po' Italiano, cresciuto a Londra, a
Parigi, a Firenze. Era viaggiatore, poeta e ricco--tre egoismi
armoniosi. Per completare l'accordo, egli era bello. Era sbiancato nel
volto di un pallor animato. L'arricciatura dei capelli nerissimi,
un'arricciatura originale, non da bambino Gesù, ma da Nerone, gli dava
un'aria di Dio antico. L'occhio lionato, dallo sguardo audace, smentiva
talvolta la dolcezza dei tratti, la mollezza dei lineamenti. Più che
bello era seducente. Simili uomini esistono--e piacciono moltissimo alle
donne. Egli non sorrideva che raramente con quei sorrisi lenti che
completano l'occhiata e che sottolineano la parola. La voce, questo
incanto irresistibile, era grave, bassa. Parlava poco. Quando
l'entusiasmo faceva vibrare le sue parole, invece di arrossire,
impallidiva.

                                  *
                                 * *

Paolo si fermò a Santa Maura per un capriccio di viaggiatore raffinato
che aborre le grandi città. Aveva lettere per i ricchi dell'isola. Ebbe
liete accoglienze. Certo quei Greci bruni, attivi, poco poetici, molto
magri e molto intraprendenti, guardavano con una certa diffidenza questo
poeta bianco, felice e indolente, questo fanciullo bello, orgoglioso e
ricco, pieno di languidezze femminili, di silenzi interessanti e di
sguardi misteriosi. Ma lui aveva con essi quella dolcezza di modi,
quell'attenzione amabile, quella cordialità rattenuta che affeziona le
anime. Finirono per amarlo, con quella espansione greca che rassomiglia
tanto a quella italiana.

Egli non corteggiava le fanciulle, oppure le corteggiava tutte, compresa
Calliope Stavro.

Quando passava a cavallo per le vie di Santa Maura, cavaliere bello ed
elegante, egli salutava ogni fanciulla che accorreva al balcone con un
saluto profondo e uno sguardo significante. Egli scriveva sui loro
_albums_ bellissimi versi, versi cupi e passionati, che turbavano quella
a cui erano diretti. Nelle escursioni di piacere egli si smarriva nei
boschetti or con una, or con un'altra, ma non parlava d'amore a nessuna.
Egli passava volentieri le notti di estate all'aria aperta, passeggiando
sotto le terrazze imbalsamate dal profumo delle rose, senza che si
sapesse per quale terrazza egli passeggiasse più specialmente. Così se
qualcuna aveva per lui una simpatia segreta, non si poteva dire quale
fosse la sua segreta simpatia.

Pure in casa Stavro ci andava spesso. Ma era così discreto, così
incantevole nella sua semplicità, che in quella casa avevano finito per
adorarlo. Egli s'interessava vivamente agli affari di Spiridione Stavro,
il padre di Calliope; egli era il confidente d'amore di Nicolaki Stavro,
fratello di Calliope: egli cantava al pianoforte le romanze italiane per
Dionisio Catargì, il fidanzato di Calliope. Le serve erano innamorate di
lui. Solo la fanciulla, non lo amava, nè lo odiava, come il suo solito.
Ella serbava il suo aspetto insoddisfatto e sdegnoso, un silenzio lungo
e torbido.

Paolo la interrogava spesso per conoscerne l'anima. Egli tentava di far
risuonare tutte le corde, per sentire l'armonia di quel cuore. Ma
l'anima era dura e il cuore senza musica. Nulla vibrava in quella
fanciulla. Invano egli le parlava dell'Italia, della divina e profumata
Italia, in cui la vita si colorisce nell'amore, dalle tinte più delicate
dell'argentino-roseo sino alle cupe, profonde e rosse, del rosso che
pare nero. Invano egli le diceva della bionda Dalmazia dalle forti
donne, della Dalmazia bionda cui bagna malinconicamente il freddo,
glauco e malvagio Adriatico. Lei ascoltava e talvolta un'aura di sorriso
ironico le aleggiava sulle labbra. Paolo se ne accorgeva e desisteva.
Calliope lo irritava. Ella scomponeva la sua calma olimpica.

Allora, pensando che ella fosse frivola e vana, le portava i giornali
francesi, le canzonette della nuova operetta, i libri nuovi. Li
leggevano insieme. Lui leggeva benissimo, con una voce in cui tremava
un'emozione strana. Ella stava a sentire quelle singolari descrizioni,
quelle scene amorose, ora fredde e gravi, ora ardenti; stava a sentire,
ma parea non ascoltasse. Spesso sembrava che ella si annoiasse
profondamente di tutto. Si stringeva nelle spalle come infastidita, ma
non diceva nulla. Una volta erano soli. Da una settimana Dionisio
Catargì era partito per la campagna, per la raccolta della passolina che
si fa nel luglio. Paolo leggeva un libro francese, un romanzo d'amore.
Calliope ascoltava. D'un tratto egli si arrestò e la guardò. Ella era
pallida, con gli occhi chiusi. Lui, preso dal suo orgoglio di seduttore,
si chinò per baciarla audacemente sulle labbra. Ma i grandi occhi verdi
si aprirono e lo fissarono con uno sguardo così glaciale che egli
s'arretrò, chiuse il libro e partì senza pronunziare una parola.

Provò a parlarle di arte. Dinanzi agli orrizonti sereni, dinanzi
all'Jonio azzurro, con la frase eloquente e calda, egli ricostruì quei
templi dalle linee pure, dalla bellezza immortale, quelle città piene di
luce e di amore, quei portici dove s'elevava nell'aria l'alto
insegnamento dell'ideale. Più indietro, più indietro ancora, le disse di
quella stupenda natura, in cui tutto era divino, gli alberi, i fiori, i
fiumi, in cui cinquemila Dei popolavano un Olimpo, in cui le nozze fra
il cielo e la terra mettevano nell'aria l'immensità della passione, il
mormorìo dei baci e l'olezzo dell'amore. Ella non comprendeva. Paolo
taceva, disgustato, annoiato, con la bocca amara e le labbra inaridite.

Fu più tardi, nel colmo dell'estate, che per la prima volta le parlò
d'amore. Mai ne aveva detto nè con Calliope, nè con altri. Il volto del
poeta diventava duro e immobile come il marmo, quando il discorso cadeva
sull'amore. Trascinato da un impeto, lasciandosi portare dove la natura
mobile ed egoista lo trasportava, una sera egli ruppe il silenzio. Quel
soggetto lo eccitava, lo esaltava. Sgorgavano le idee ora incandescenti
come la lava, ora scettiche, ora sprezzanti. Si contraddiceva, se ne
accorgeva, spiegava la sua contraddizione. Il paradosso sfoggiava i suoi
colori iridescenti. Tutto quanto era compresso nell'anima, scoppiava col
fracasso di un torrente. La voce ora tremula e bassa, ora grave e
sonora; gli occhi vaganti, quasi ispirati, il gesto largo. La fanciulla
ascoltava. Egli finì per dire che noi abbiamo una sola via alla vita ed
è l'amore, una sola via alla felicità ed è l'amore, una sola via alla
morte ed è ancora l'amore. Poi tacque. Calliope ascoltava ancora.

                                  *
                                 * *

In casa Stavro si ballava. Era il dicembre. Si dava una festa in onore
di Paolo de Joanna che partiva per l'Inghilterra. Erano riunite tutte le
belle donne, tutte le belle fanciulle dell'Isola. Qualcuna certamente
sospirava dietro quello straniero che se ne andava così tranquillo e
felice, senza curarsi di quello che lasciava dietro di sè. Lui ballava
con tutte. Calliope anche aveva molto ballato; il primo waltzer con
Dionisio Catargì, il suo ossuto innamorato, il quale, poichè la
passolina era andata splendidamente, era contentissimo e le aveva donato
un paio di orecchini di brillanti. Ora, la quadriglia chiamata con voce
nasale da un direttore greco, Calliope la ballava con Paolo de Joanna.
Discorrevano con una certa indifferenza, lasciando cadere le parole.

--Tornerete?

--Ho promesso di ritornare--le rispose lui, evasivamente, anche in
italiano.

--Tornerete?--insistette duramente lei, come se volesse obbligarlo alla
verità.

--No--disse lui, raddrizzandosi nell'orgoglio feroce del suo animo. Non
tornerò.

Il babbo li divise. Quando il babbo li riunì:

--Non siete triste?--chiese lei.

--Io non sono mai triste, nè mai allegro. Io sono saggio; siatelo anche
voi.

--Lo sarò--rispose Calliope nettamente sorridendo.

Si riposavano. Lui le parlava sempre quietamente. Lei ascoltava con gli
occhi bassi, con un lieve riso della bocca.

--Cara fanciulla, la vita è fatta di queste separazioni. Ci sembrano
amare, non sono. Bisogna vivere filosoficamente, godendo la gioia di
oggi, non rimpiangendo quella di ieri, non desiderando quella di domani.

--È vero,--rispose lei tranquillamente.

--Poi--riprese lui--il piacere non può essere intenso che sagrificando
la sua lunghezza. Per vibrare molto, non si può vibrare per molto tempo.

--È vero--e andò a ballare.

Quando la fanciulla ritornò, egli ricominciò il suo discorso.

--.... anche l'amore è una cosa volgare e comune. Noi lo poetizziamo,
per orgoglio, per fingerci esseri superiori. L'amore non mantiene una
sola delle promesse che fa. L'amore è inutile.

--È vero--disse lei per la terza volta.

                                   *
                                  * *

Nella notte rigida d'inverno lo scoglio altissimo si rizza, tutto nero.
È a picco, tagliato nettamente come con un colpo di accetta gigantesca.
Il suo capo di roccia pare debba essere abitato appena dall'aquila.
Niuna luce vi fa piovere lo scintillío delle stelle che paiono di
acciaio tersissimo. Non un albero, non una pianticella, non un filo
d'erba. Roccia angolosa, arida, dura, quasi livida di collera. Silenzio
profondo, il silenzio delle altitudini. Sotto, l'Jonio rumoreggia, si
rompe contro la parete dello scoglio. La fanciulla compare. Non si
affretta, non va lenta; il suo passo ritmico nulla ha d'incerto. Non
piange, non singhiozza. Giunta sul picco, sulla breve piattaforma si
ferma, guarda giù, lungamente, quasi ascoltando. Per un momento le
braccia si levano al cielo, come una bestemmia, come una minaccia,
disperate. Poi si scioglie i bei capelli biondi, guarda l'Jonio bruno e
si butta giù.

                                  *
                                 * *

O mamma cara, come si chiamava Santa Maura in greco antico?

--Leucade.

--Leucade di Saffo, mamma?

--Leucade di Saffo.

Ella chinava il capo e pensava. Io taceva.

                                  *
                                 * *

Sono morti gli Dei di Grecia. È caduto in Leucade il tempio di Apollo:
la storia di Saffo pare una fola. Ma sopravvive eterno, implacabile e
sorridente, il mito dell'amore.

FINE.



                                INDICE

     Novella d'amore
     Paolo Spada
     Sulla tomba
     La settimana delle novelle
     Delfina
     Cuore di porcellana
     La donna dall'abito nero e dal ramo di corallo rosso
     Scena
     Ideale
     Giuoco di pazienza
     Aspettando
     Duetto di salone
     Al veglione
     Vittoria di Annibale
     Falso in scrittura
     Primo giorno
     Sconosciuto
     Un inventore
     Commediola
     Ritratto di donna
     Novella Greca





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