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Title: Psicologia criminale
Author: Longo, Michele
Language: Italian
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NOTE DEL TRASCRITTORE:

      Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.

      Il testo in grassetto è indicato come =testo grassetto=.



PSICOLOGIA CRIMINALE


      *      *      *      *      *      *

                 PUBBLICAZIONI DELLO STESSO AUTORE



                   PUBBLICAZIONI DELLO STESSO AUTORE

  =Lucrezio=—Saggio critico-filosofico-letterario                 L. 2—

  =La causale a delinquere=                                       »  3—

  =Della responsabilità civile a seguito di un giudicato di
  assoluzione penale=                                             »  1—

  =Delle condizioni attuali del periodo istruttorio nella
  Legislazione penale italiana e delle riforme di cui avrebbe
  bisogno =                                                       »  2—

  =Trattato di Codice penale italiano=—Parte I. Dei reati e
  delle pene in generale                                          »  6—

  =Il processo penale indiziario=—Libri due                       »  3—

  =La premeditazione=—Libri due                                   »  5—

  =Del resto di ingiurie secondo il Diritto romano=               »  1—

  =Macbeth=—-Studio di psicologia penale                          »  1—

  =Schiller=-=Ibsen=—Studî di psicologia penale                   »  2—

  =La coscienza criminosa=—Studio psicologico-giuridico             »  3—

      *      *      *      *      *      *


Avv. MICHELE LONGO

Professore di Diritto e Procedura penale presso la R. Università di
Napoli

PSICOLOGIA CRIMINALE



Torino
Fratelli Bocca, Editori
Librai di S. M. Il Re d’Italia

        Roma                       Milano                Firenze
Corso Umberto I, 216-17    Corso Vitt. Eman., 21    (F. Lumachi Succ.)
                                                     Via Cerretani, 8

_Deposit. gener. per la Sicilia_: O. FIORENZA. _Palermo_
_Dep. gen. per Napoli e Prov._: SOCIETÀ EDITRICE LIBRARIA, _Napoli_

1906

Proprietà Letteraria

N. 10217—Stab. Tip. Torinese, via Ormea, 3.



                          ALLA SACRA MEMORIA

                             DELL’AVVOCATO

                             RAFFAELE JUSO

                                 1906.



PREFAZIONE

_ Il lettore che, per avventura, abbia conoscenza delle precedenti mie
pubblicazioni, vedrà subito, scorrendo questo libro, che in esso io ho
voluto sistematizzare le sparse nozioni di Psicologia criminale, dando
loro una forma organica._

_Convinto, dopo lunga ed assidua meditazione, che qualunque branca
dello scibile debba riconnettersi alla cognizione unitaria scientifica,
la cui più esatta ed elevata sintesi è racchiusa nel Monismo, ho
creduto non ingannarmi col risolvere il problema soggettivo del delitto
mediante teorie le quali ritraggono del processo dinamico di tutti i
fenomeni della natura, dagli inorganici agli organici e da questi agli
umani. È così che il còmpito del giudice si spoglia di tutto ciò che
fittizio son venuto creando vecchi errori metafisici, tradizionali
preoccupazioni sociali; ed è così, benanche, che il diritto di punire
rientra nel progresso evolutivo a cui tutte le discipline tendono
ad avvicinarsi, in teoria ed in pratica. Se non che, questo libro
non contiene che la parte generale o fondamentale della psicologia
criminale. Perchè le nozioni in esso svolte abbiano più evidente
dimostrazione, è necessario che a questo seguano altri due lavori;
un trattato di Psicologia criminale etnologica, col fine di studiare
l’azione delle forze ambienti sulla genesi e lo sviluppo del delitto;
ed un trattato di Psicologia criminale speciale, che esamini per
ciascuna categoria di fatti l’evento soggettivo criminoso._

_Spero che l’accoglienza, che io mi auguro per questi miei studî, mi
sia conforto, in avvenire, a novelli sforzi e più meritevoli._

  _Lucera, 9 dicembre 1905._

  M. LONGO.



INTRODUZIONE


 1. Contenuto scientifico della psicologia criminale.—2. Processo
 di _distinzione_ di qualunque fenomeno; formazione naturale del
 pensiero.—3. Come sorge l’evento psichico del dato giuridico
 punitivo.—4. Genesi della _sanzione_ sociale; concetto del _dolo_
 nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei popoli.—5.
 Cenno storico dello studio psico-fisiologico del delinquente.—6.
 Gli odierni scrittori delle differenti discipline intorno al
 delinquente.—7. Stadio integrativo della psicologia criminale.—8.
 La teoria _dinamica criminale_ fondamento degli studi psicologici del
 delinquente; precedenti scientifici in Romagnosi ed in Carmignani.

=1.=—La psicologia criminale è una branca distinta della psicologia
comune e della scienza del diritto di punire. La psicologia comune
insegna le leggi del pensiero o le leggi della formazione naturale
della coscienza; la scienza punitiva si occupa della genesi giuridica
del reato e delle norme legislative per prevenirlo e reprimerlo.
Dall’accordo ultimo dei principî, che regolano la produzione e la
evoluzione dei fenomeni psichici, con quelli inerenti al fenomeno del
delitto, nasce la psicologia criminale il cui contenuto scientifico
è nel _complesso delle leggi che presiedono alla formazione psichica
del fenomeno del delitto considerato dal duplice aspetto di processo
evolutivo e di processo dissolutivo_. La trattazione della materia
assunta darà la spiegazione di quanto per ora enunciamo.—Ma come la
psicologia criminale è nata e quali sono i suoi limiti di svolgimento?

=2.=—Qualunque fenomeno progressivo, quello del pensiero compreso, non
è che _distinzione_ operata su precedenti fenomeni meno distinti. Dalla
formazione naturale del sistema solare alle più alte manifestazioni
della umana intelligenza il principio è costante e si concreta
nell’accrescimento di precisione e coerenza con maggiore integrazione
dell’effetto prodotto. La scienza può concepirsi come conoscenza
definita in opposizione alle conoscenze indefinite del volgo, e però
il suo carattere essenziale di progresso sta nell’accrescimento di
precisione; di guisa che—secondo Spencer—se la scienza è stata, com’è
indubitabile, uno sviluppo graduale delle cognizioni indefinite del
volgo, compiutosi attraverso i secoli, è necessario che la conquista
graduale della grande precisione che oggi la distingue sia stato il
tratto principale della sua evoluzione.

Il vero, che è l’obbietto della mente, dapprima lo percepiamo confuso
con la esistenza delle cose; poscia grado a grado lo apprendiamo
determinato nei rapporti di spazio e di tempo, per indi sottoporlo
al potere riflessivo e precisarlo, distinguendolo, nelle molteplici
attinenze dell’attività del pensiero scientifico. Nè suppongasi che
la distinzione interrompa la continuità dei processi formativi, chè a
ciò si oppone la legge di persistenza di qualunque specie di energia;
nè che l’unità del fenomeno impedisca che questo si decomponga negli
elementi primigenî. Quindi, al dire di Ardigò, «il pensiero è,
effettivamente, e molteplice e uno; poichè anch’esso, il pensiero, è
natura, ossia una formazione naturale, come tutte le altre cose. È
molteplice come l’aggregazione degli atomi dell’organismo, del quale
è la funzione. È uno, come la legge per la quale gli atomi stessi
non possono sottrarsi all’azione dell’uno sull’altro. Il pensiero
è una formazione, ossia un effetto determinato, per la legge della
distinzione, in un punto dell’universo, per la forza risiedente nel
tutto, come ogni altra cosa. La contraddizione fra i due termini, della
unità e della molteplicità, non è che la conseguenza d’una idea falsa e
ormai discacciata definitivamente dalla scienza positiva; l’idea, cioè,
della sostanza metafisica, sottoposta ai fenomeni del pensiero e della
materia»[1].

=3.=—L’evento psichico del dato giuridico punitivo sorge per la
distinzione ed organizzazione delle idealità sociali antiegoistiche
di fronte alle tendenze egoistiche individuali. Ammesse le relazioni
tra’ simili, il primo insorgere d’una ragione naturale di diritto
è nell’affermazione di _prepotenza_ del forte verso il debole;
ovvero nell’esplicazione del talento egoistico in opposizione colla
ragione antiegoistica o della idealità sociale o della giustizia. Gli
effetti della civiltà, e l’abito mentale di adattamento ai medesimi,
partoriscono l’idea d’un _potere_ costituito il quale elimini o
impedisca gli atti di prepotenza individuale, dapprima con la sanzione
spontanea della pubblica opinione, con gli usi, con i costumi, col
sentimento religioso; poscia con sanzioni preventive e repressive
legali.

Procedendo la vita sociale parallela alla creazione della idea di
giustizia, ed essendo questa la condizione integrale perchè l’aggregato
collettivo conservi il suo organismo, si conclude, con l’Ardigò, che
la giustizia sia la _forza specifica_ della Società; ne è la forza
specifica come si direbbe che l’_affinità_ è la forza specifica delle
sostanze chimiche, la _vita_ delle organiche, la _psiche_ degli animali.

=4.=—Assommandosi le esigenze delle idealità sociali in contrasto
con l’uso della forza individuale, l’elemento psichico del delitto si
venne vieppiù distinguendo; poichè, col tramutarsi l’idea di giustizia
in forza di repressione, si separò il dato obbiettivo, di pericolo
e di danno, dell’atto antigiuridico, dal dato soggettivo, di stato
di coscienza contrario al modo comune di sentire, di pensare e di
volere, e si concluse con la necessità di una _sanzione sociale_,
mercè l’applicazione della pena. Di qui il concetto del _dolo_, il
cui significato, nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei
popoli, è vario ed indeterminato. Il Mittermayer[1], il Nicolini[2] ne
assegnano il fondamento or di inganno e di finzione, or di ogni arte e
stratagemma onde nascondere altrui la propria intenzione nei fatti che
serbano l’apparenza di essere ad essi contrarî. Il Buccellato, dopo di
aver detto che il _dolus_ in origine significa _esca_ (_δέλ-εαρ_) e per
traslato ogni mezzo di _adescamento_ per trarre gli altri in inganno,
conclude che il _dolus_ si contrappose a _vis_, l’aperta violenza;
dualismo che si riscontra anche nell’antico diritto germanico[3].

Finalmente il dolo, o elemento soggettivo del reato, si è mano
mano integrato con la intenzione e volontà di infrangere l’ordine
morale e giuridico, con la coscienza di contravvenire al dovere di
rispetto verso i simili, con la volontarietà del fatto dannoso, e
con altri fattori psichici ai quali si è ricorso per suffragare
teorie indirizzate a meglio fissare il fondamento dell’imputabilità
dell’individuo.

Per l’influsso delle idee metafisiche ed aprioristiche intorno ai
fenomeni della psiche e per la errata interpretazione dei fatti sociali
si giunse a concepire il delitto un _ente giuridico_, ed il delinquente
quale un essere fuori la influenza dell’ambiente o delle leggi naturali
dinamiche alle quali tutti i fenomeni sono sottoposti.

=5.=—Parallelo al processo storico-giuridico differenziale
dell’elemento soggettivo del delitto, si maturava lo studio del
medesimo obbietto, ma in campo diverso, con l’uso del metodo
sperimentale ed induttivo, senza punto allontanarsi dall’osservazione
della realtà effettuale delle cose. Non già, quindi, astratte
supposizioni ed ipotesi gratuite ed arbitrarie suffragate dalla
sola necessità logica di sistema; ma indagini analitiche, raffronti
analogici, pazienti comparazioni, spassionate riflessioni furono i
mezzi onde scienziati positivisti si indirizzarono alla soluzione
del fenomeno del delitto col prendere ad esaminare la persona del
delinquente, nelle sue qualità fisiche e morali e nelle cause ambienti
che avrebbero potuto influire a destare ed a rafforzare le di lui
tendenze malefiche.

La maggiore attenzione fu dagli antichi rivolta alle note esteriori
somatiche, teratologiche od atipiche, massimamente della fisonomia,
ed al complesso dei segni degenerativi fisici, che facevano arguire
qualità morali anormali.

Aristotele e Galeno sono tra’ primi; presso i Romani evvi Cicerone,
per non parlare di minori. Ippocrate lasciò preziose riflessioni
circa l’azione del mondo esterno sulle nostre inclinazioni, non che
il rilievo da attribuirsi alle forme irregolari organiche. Erano
osservazioni profonde che dal campo della scienza passavano nel campo
dell’arte e si rispecchiavano in concezioni geniali di sommi poeti.
Il Tersite di Omero, eppoi, dello stesso, il brigante Autolico, nonno
materno di Ulisse; Achille, Menelao predoni abituali e crudeli; e,
nei tragici, Edipo parricida, Ulisse com’è dipinto nel _Filottete_
di Sofocle, l’Ercole furente di Euripide, l’Ajace di Sofocle, ed
in fine Oreste, delinquente tipico impulsivo, sì maestrevolmente
tratteggiato da Eschilo (nelle _Coefore_ e nelle _Eumenidi_), da
Sofocle (nell’_Elettra_), da Euripide (nell’_Elettra_ e nell’_Oreste_),
sono a dimostrarci quanto l’arte valga ad anticipare le scoverte della
scienza, e come essa, cogliendo direttamente la visione della realtà,
meno si allontani dalle vie del vero, dal quale ci distoglie, sì di
frequente, il ricercato sussidio di una logica artificiale.

=6.=—Era, però, riserbato ai nuovi tempi l’assunto di dettagliare
ed approfondire la conoscenza psicofisica del delinquente. Ed ecco
una schiera di nomi, nelle cui opere è sparso tutto il materiale
scientifico che dovrà servirci di fondamento alle applicazioni nella
nostra disciplina: G. B. Porta, Lavater, Gall, Lauvergne, Gasper,
Morel, Lucas, Ferry, Wilson, Nicolson, Thompson, Despine, ecc.

Ai nostri dì nessuno più sconoscerà il merito sommo di C. Lombroso che,
avendo sistematicamente raccolti i dati antropologici del delinquente,
agevola di molto il còmpito del psicologo inteso a costruire su solide
basi la scienza della psiche del criminale, in applicazione di teoriche
positive le più accettate da reputati scrittori di psicologia generale.

7.—Ma, anche ad ammettere che sia già preparato il materiale
scientifico, in molta parte sperimentale, per la sistemazione di
teorie psicologiche criminali, la peculiare branca distinta manca
tuttavia di contenuto proprio. Molti confondono la psicologia
criminale con l’antropologia, con la sociologia criminale o con la
psichiatria. Krafft-Ebing, ad esempio, nel suo magistrale trattato di
_Psicopatologia Forense_, non fa che limitare lo studio psicologico
alla discussione della libertà o meno degli atti criminosi, ed ai
principî fondamentali della imputabilità: il resto è materiale di
patologia o neuropatologia. Nè altrimenti avviene in altri scrittori,
compresi Lombroso, il Virgilio, il Marro tra’ nostri; vi sono nozioni
isolate preziose; manca l’ordine, la coordinazione, l’unità del
sistema. Forse—e lo vedremo—un indirizzo organico scientifico
comincia ad apparire nel dominio della psicologia criminale collettiva,
dopo le opere del Tarde, del Rossi, del Sighele: ma oh! quanto è ancora
desiderabile che le ricerche avanzino perchè si possa dire di aver
tracciati sicuri confini di separazione tra la nostra disciplina e
le affini. In generale il difetto promana dalla esagerata importanza
accordata al fattore o lato patologico del reato a detrimento dei
fattori psichici: il che non deve recar meraviglia, se si consideri
che quelli che più di frequente si propongono il còmpito di esame del
delinquente non sono psicologi di professione, ma psichiatri: ciò che
abbonda in un campo, manca nell’altro.

=8.=—Lo stadio percorso, fino a noi, dalla psicologia criminale è
semplicemente _descrittivo_: vi sono le nozioni, manca la scienza.

La psicologia generale è, però, sì innanzi da facoltarci ad avvalerci
dei suoi lumi per coordinare il prezioso materiale sparso intorno
ai principali problemi della psiche del delinquente, fecondarlo ed
unificarlo.

La teorica, che da anni noi propugniamo e che va sotto il nome di
_teorica dinamica criminale_, segna l’estremo limite di conciliazione
tra i veri generalmente accettati dalla psicologia dell’uomo normale
e le nozioni delle anomalie, somatiche e psichiche, proprie del
delinquente. L’uomo è una energia, od un complesso di energie in
atto: o che egli si svolga normalmente, o che devii dal funzionamento
della media degli uomini, non si libererà giammai dal potere delle
leggi dinamiche che si riconnettono, in ultima espressione, alla
legge di causalità. Comprendere, dunque, la genesi, le variazioni,
le oscillazioni, l’antagonismo delle energie psicofisiche dell’uomo
comune; saperne cogliere l’aumento ed il decremento, le successive
trasformazioni, la repentina insorgenza ed il lento accumularsi
e stratificarsi di esse negli atti riflessi e nel fondo oscuro
dell’inconscio, è sufficiente preparazione per scendere nei penetrali
inesplorati dell’anima del delinquente e render palesi le leggi
ond’ella è governata. Che se ai cànoni derivati dalla psicologia si
aggiungano i sussidî della psichiatria, dell’antropologia e della
sociologia criminale, il còmpito ci riuscirà meno difficile e con più
probabile buon esito.

A dir vero, in Italia non è la prima volta che siasi intuita la genesi
dinamica del delitto: il Romagnosi ne fu l’antesignano.

Egli comprese che «esiste una infallibile e costante connessione fra
i motivi, che sono presenti all’intendimento, e le determinazioni
dell’umana volontà; e queste determinazioni sono sempre relative e
proporzionate alle specie e alla energia dei motivi medesimi»[4]. Ed
altrove: «Se entro le idee reprimenti non fosse racchiusa una naturale
energia operante sulla sensibilità e volontà umana; se il consenso di
queste facoltà non piegasse a seconda ed a proporzione delle forze
delle idee suddette, come potrebbesi spiegare ed asserire, non dico
soltanto che esse abbiano efficacia a frenare o a rallentare gli altri
precedenti impulsi, ma che nemmeno abbiano la facoltà di produrre un
effetto qualunque?»[5]. Anche il Carmignani afferma, che la forza
dell’animo necessaria all’offesa non può decrescere che per l’azione di
forze estranee che la deprimono; ed oltracciò, che la forza dell’animo
umano è come tutte le altre forze, che agiscono in natura, soggetta
ad anomalie, ad aberrazioni, ed a vicende prodotte da altre forze, le
quali, quasi episodiche alla principale, s’innestano, la modificano e
talvolta ne cambiano l’indole affatto[6].

Le idee sostanziali del novello indirizzo erano bene apprese: ma prima
che la filosofia non abbandonasse il metodo aprioristico, e prima che
la biologia, la fisiologia e la psicologia non si uniformassero al
comune sistema evolutivo unitario, mancavano i mezzi per verificare nei
singoli fatti o nei multiformi stati di coscienza del delinquente la
non difformità, al dir del Carmignani, della forza dell’animo umano, da
tutte le altre forze che agiscono in natura.

La psicologia criminale, finalmente, non soltanto si propone l’intento
di analizzare ed apprezzare il fenomeno del delitto nel suo contenuto
soggettivo, ma si propone ancora di tentare il problema penitenziario
o repressivo, nei modestissimi confini a lei imposti; di contrapporre
al funzionamento psichico pericoloso del delinquente qualche rimedio
di cui ci sia concesso disporre senza infrangere le esigenze della
giustizia _forza specifica_ della Società.



CAPO I.


Le funzioni psichiche criminose.


 1. Concetto scientifico della parola _funzione_.—2. Funzionamento
 psicofisico proprio del delinquente.—3. Anormalità del medesimo:
 legge generale di equilibrio violata dal delitto.—4. Il concetto
 di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione tra l’uomo
 normale ed il delinquente.—5. L’equivalente etico dello squilibrio
 psichico; suoi riflessi al dato soggettivo ed oggettivo del
 delitto.—6. In che consistano le funzioni psichiche criminose nel
 loro aspetto intrinseco ed estrinseco.

=1.=—Gli atti della nostra vita son tanti effetti che si connettono
a reciproche cause. Se queste cause ci son note, ce ne serviamo per
qualificare l’atto, distinguendolo da tutti gli altri che con esso
abbiano rassomiglianza. Diciamo, per esempio, che taluno sia stato
sottoposto ad operazione _chirurgica_ per significare che l’atto su
lui operato sia il prodotto di causa intelligente, che noi riferiamo
alla persona di un chirurgo. Oltracciò, noi siamo soliti, costretti
dal bisogno, di rivolgerci all’opera di un tecnico per la costruzione
di qualche macchina, per la cura d’una malattia, per la difesa d’una
lite; e ciò perchè presupponiamo che le dette persone sieno le più
_adatte_ a soddisfare il nostro desiderio. Congiungendo il primo dato
di esperienza al secondo, concludiamo che le qualifiche, con le quali
distinguiamo la specialità degli atti e la ragione di scelta delle
persone più capaci a compierli, s’integrano nel giudizio abituale di
ritenere che date cause con maggiore _facilità_ producano dati effetti.
Identica osservazione facciamo, riflettendo sul perchè si distinguano
i nostri organi di senso. Noi affermiamo la virtù propria dell’occhio
a vedere, dell’udito ad udire, poichè ci è noto che questi organi
posseggono le qualità adatte per gli effetti riferiti; che in essi
risegga l’attitudine di percepire i colori, di apprendere i suoni.

L’idea di attitudine, di capacità, di facilità sottintesa negli esposti
giudizî è espressa, in termine generale, dalla parola _funzione_. In
fisiologia parlasi di funzioni di tessuti, di organi, di apparecchi; di
funzioni di nutrizione, di riproduzione, di relazioni, per significare
dei fenomeni, isolati o complessi, compiuti dall’organismo per la
conservazione dell’individuo e della specie. La sociologia si occupa di
funzioni sociali; la psicologia di funzioni della mente. In ogni caso,
la parola funzione è accompagnata dal senso di processi con più agevoli
disposizioni ad effettuare determinati risultati.

Il Wundt bene osserva, che tutte le volte che, come per gli apparati,
a struttura sì complessa, del sistema nervoso, noi non abbiamo alcuna
coscienza della composizione reale delle modificazioni molecolari,
nelle quali consiste l’esercizio, ci resta solamente questa espressione
generale di _disposizioni funzionali_, la quale può sempre prendersi in
un buon senso: quindi, al contrario della teoria delle tracce materiali
persistenti, questa espressione suppone un’azione consecutiva, la quale
è dapprima durevole e sparisce di nuovo gradatamente per la cessazione
o il difetto di esercizio, effetto consecutivo che non consiste punto
nella continuazione della durata della funzione, ma nella facilità, con
la quale essa riapparisce[7].

E lo stesso aggiunge, che se, dal dominio fisico, trasferiamo questo
modo di considerazione al dominio psichico, le sole rappresentazioni
coscienti dovranno essere riconosciute come rappresentazioni reali;
e le rappresentazioni, sparite dalla coscienza, lascieranno dopo di
sè delle _disposizioni psichiche_, di specie sconosciuta, al loro
rinnovarsi. L’unica differenza, che separa il dominio fisico dal
dominio psichico, è la seguente: dal lato fisico egli ci è permesso
sperare che gradatamente perverremo a conoscere più intimamente la
natura di coteste modificazioni permanenti, che noi designiamo in breve
col termine di disposizione; mentre che, dal lato psichico, questa
speranza ci è sempre interdetta, poichè i limiti della conoscenza
segnano, nel medesimo tempo, i limiti della nostra esperienza
interna[8].

=2.=—Se la funzione dipende dall’esercizio ed ha per esponente una più
perfetta disposizione, siamo facoltati a credere che essa si rannodi
all’adattamento ed alla selezione organica. L’antagonismo tra la legge
della _variabilità_, delle forme e dei caratteri, e la legge della
_ereditarietà_, che mantiene o conserva la specie tra gli individui;
non che la sopravvivenza e la prevalenza di individui più adatti
e di attitudini meglio consolidate, ci inducono a ritenere che la
funzione, fisica o psichica, sia l’equivalente di energia più conforme
all’ambiente esterno od interno, e più omogenea al nostro stato di
specificazione.

Accingendoci, quindi, allo studio della psiche del delinquente, noi,
per prima, troveremo opportuno di formarci un concetto generale
del medesimo; ritenendo _a priori_, salvo dopo a dimostrarlo, che,
occupando, nella scala differenziata dell’uomo, il delinquente una
_varietà_ sociale e morale, debba anche presentare nell’esercizio delle
sue energie un funzionamento affatto proprio, di cui dobbiamo fin da
ora tener conto. Le inclinazioni al delitto, appunto perchè tali,
debbono farci supporre che l’individuo che, n’è affetto, possegga la
specialità di vincere gli ostacoli che nell’imperio della psiche vi si
frappongono, pel più facile corso verso l’azione esterna.

La funzione apparisce quando la facoltà dallo stato puramente
_potenziale_ passa allo stato _attuale_; essa, perciò, mentre segna
il grado evolutivo degli individui, ne rende palesi le impronte e ci
fornisce il mezzo per caratterizzarne le azioni.

=3.=—A chi guarda gli effetti del delitto apparisce evidente la
idea che, nella specie, trattisi di qualche cosa di anormale; di
funzionamento psichico non obbediente alle norme logiche, etiche,
sociali comuni al rimanente della cittadinanza; ond’è che, anche prima
dei lumi apportatici dalle scienze antropologiche, la coscienza della
maggioranza considerava il delinquente un essere di tempra eccezionale,
da sottoporsi alla sanzione di leggi preventive e repressive. Chi
voglia appellarsi al criterio di senso comune, sentirà rispondersi
che questi non serba nelle sue azioni la legge di _equilibrio_ e che,
infrangendo lo stato di ordine, mostrasi disadatto alla vita civile.
La risposta, sì facile e spontanea, suppone il principio _che la vita
degli esseri, a qualunque categoria appartengano, non sia che ordinata
sequela di atti retti dalla legge di equilibrio, e che, non appena
questa legge si viola, o gli esseri spariscono o sopravvivono lottando
con continue difficoltà per adattarsi all’ambiente_.

Spencer ha scritto: «la coesistenza universale delle forze antagoniste,
che produce l’universalità del ritmo e la decomposizione di tutte
le forze in forze divergenti, rende anche necessario l’equilibrio
definitivo. Ogni moto, essendo sottoposto a resistenza, subisce
continuamente delle sottrazioni che finiscono colla cessazione
del movimento. Così, quando in mezzo a cambiamenti ritmici, che
costituiscono la vita organica, una forza perturbatrice opera
un eccesso di cambiamenti in una direzione, essa è gradualmente
diminuita e finalmente neutralizzata dalle forze antagoniste che
effettuano un cambiamento compensatore in una direzione opposta, e
ristabiliscono, dopo oscillazioni più o meno ripetute, la condizione
media. Tale processo è quello chiamato dai medici _forza mediatrice
della natura_»[9]. L’equilibrio psichico suppone più forze o sistemi
di forze in antagonismo. Esso non è la inerzia, ma la risultante di
contrarî movimenti che compensano le loro spinte per la eliminazione
di qualunque cangiamento. Analogamente al sentimento chiamato
_senso di equilibrio_, pel quale il corpo conserva la sua posizione
ed orientazione, gli atti della nostra vita psichica trovansi in
equilibrio allorchè il loro centro di gravità non si sposta dalla
ordinaria sfera di azioni; segnano la linea ascendente e discendente
con moto _retto_ o _rettilineo_, non si allontanano dalle norme d’una
condotta che fa dell’individuo parte integrale del tutto sociale, ed
il tutto sociale armonizza ai fini prossimi o remoti della nostra
esistenza. Il delitto, negando l’equilibrio, è elemento da eliminarsi;
non è soltanto un processo distinto e che trovi il posto nella serie
multiforme di effetti della legge di variabilità, ma è epifenomeno o
prodotto sovraggiunto, che si distacca dall’armonia dell’insieme e, per
soprappiù, ne mina le basi, introducendovi forze disgregative contrarie
alla natura evolutiva dell’uomo civile.

=4.=—L’anormalità del delinquente ci dice che esiste il tipo
dell’uomo normale. Non vogliasi, pertanto, esagerare il significato
d’una distinzione meramente relativa agli scopi della vita sociale ed
alla necessità protettiva di ciascuno. Quando diciamo tipo normale o
anormale di uomo, vogliamo intendere concetti che rispecchiano date
condizioni di cose; mutate le quali, ogni nozione perde il valore
scientifico.

Il concetto di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione
tra l’uomo normale ed il delinquente.

La coscienza, l’io individuale, non sarebbe concepibile, negli stati
successivi del tempo, se non poggiasse su base stabile ed invariabile
che si rende evidente nella fisonomia di ciascun atto, e serve ad
enucleare le nostre azioni in organismo compatto ed analogo, pur
subendo svariate trasformazioni. Ciò che è per l’individuo, è per
l’uomo collettivo; ciò che è per la specie, è pel genere. Mercè
l’astrazione noi ci formiamo l’idea del tipo, simbolo d’un modo di
essere differenziato e permanente. L’osservazione sulla esistenza
e sulle norme regolatrici d’individui formanti la gran maggioranza
sociale ci mena all’induzione di regole di funzionamento e di condotta
comune, donde l’idea astratta del tipo di uomo normale. Le variazioni,
cui il tipo è soggetto, sono analoghe alle condizioni di ambiente o
sociale o storico o etnico. Insomma, il concetto di tipo non si diparte
da ciò che è inerente a qualunque altro concetto della nostra mente e
che si riassume nell’infrascritto principio: _il pensiero non è che il
prodotto necessario della relatività delle nostre funzioni psichiche._

Nell’antagonismo di forze divergenti il centro di gravità del
processo intero è sempre fisso; nella deviazione di moto l’azione e
la reazione corrispondono ad oscillazioni compensatrici. Allo stesso
modo, la instabilità e la stabilità dell’equilibrio psichico dipende,
nella serie di oscillazioni, dall’uso maggiore o minore di _potere
inibitorio_ o di forza di resistenza e di arresto. Ciò, in seguito,
sarà ampiamente dimostrato.

=5.=—L’equivalente etico dello squilibrio psichico risponde al
_disordine_ causato da volizioni ed azioni non conformi alla media di
esistenza sociale in armonia al benessere individuale o collettivo; il
delitto turba, di per sè, questa media di ordine, e ciò perchè con
esso il comune centro di gravità della nostra attività è spostato; è
scosso o negato l’accordo tra l’individuo ed i suoi simili. Uno dei
tratti della condotta detta immorale—osserva Spencer—è l’eccesso,
mentre la morale ha per carattere la moderazione. Gli eccessi implicano
divergenze delle azioni da un medio; la moderazione, per contro,
implica conservazione della via di mezzo; donde segue, che le azioni
dell’ultima specie possono essere definite più facilmente che non
quelle della prima. Chiaramente, la condotta che non è repressa si
raggira fra grandi ad incalcolabili oscillazioni, per cui differisce
dalla condotta che è moderata, le cui oscillazioni naturalmente
sono fra limiti ristretti. Ed essendo fra limiti ristretti, apporta
necessariamente determinazioni relative di movimenti[10].

Le regole di condotta ci apprendono che vi sieno determinati intenti
a cui dobbiamo dirigere le azioni; e che vi siano modi o maniere
da prescegliere onde si pervenga ai detti intenti. La nostra
attività, estrinsecandosi, è accompagnata, negli atti consecutivi,
dalla consapevolezza, spontanea immanente o riflessa, di relazioni
preordinate o sistematizzate a causa della nostra previsione o
dell’abitudine. Il delitto, cagionando danno privato e pubblico, è in
contraddizione con i fini della coesistenza, di concorrere al benessere
dei simili; ed è in contraddizione, ancora, con i modi o le maniere
onde debba estrinsecarsi l’attività nelle azioni. L’esquilibrio,
quindi, dal soggettivo si proietta nel mondo oggettivo; e desta
allarme, perchè scuote la sicurezza del benessere altrui e minaccia
di privare, la esistenza, delle condizioni che le sono più propizie.
Finchè l’esquilibrio resta nello stato soggettivo, non vi è ragione
di esserne allarmati; vi sono dei primi atti di estrinsecazione,
i quali neppure richiedono di essere repressi: potendo i medesimi
servire a scopi indifferenti o criminosi, nel dubbio, il dovere
impone di sospendere qualunque decisione. Ma, tostochè dagli atti
incerti, di mera preparazione, si passa agli atti di esecuzione,
accrescendosi il pericolo sociale, la legge provvede a che la minaccia
sia repressa, poichè nessuno ha il diritto di turbare quell’ordine od
equilibrio di vita, il quale è fondamento e condizione imprescindibile
di esistenza. Proseguendo a riflettere, si avrà il perchè certi
fatti, pur ristretti in termini di mera possibilità di danno, sieno
dalla legge puniti; ad esempio il tentativo in alcuni reati, la
falsità in atti che debbono serbare la impronta della pubblica fede.
L’esquilibrio proprio del delitto, obbiettivandosi esteriormente,
conserva sempre i caratteri intrinseci di soggettività: senza che
si renda causa di atti che _materialmente_ o _realmente_ offendano
i simili, in costoro, soggettivamente, apporta un’alterazione di
benessere, il cui esponente è l’allarme o il timore di veder rotta la
compagine sociale, ed infranto il reciproco dovere di assistenza e di
rispetto tra i componenti l’aggregato. Il concetto di equilibrio o di
esquilibrio etico o sociale, soggettivo od oggettivo, va inteso sempre
comparativamente alle esigenze di condotta o di benessere comune tra le
persone facienti parte d’una società; donde il dovere d’una giustizia
distributiva, che s’ispiri, cioè, all’obbligo di salvaguardare il
diritto di ciascuno in proporzione del bisogno di mantener saldi i
legami delle parti verso il tutto. I costumi, gli usi, le leggi sono
tanti termini delimitativi delle umane azioni; sono le pietre miliari
che segnano le tappe progressive dell’uomo sul cammino della civiltà.
Ma sono, anche, argini opposti al dilagare di correnti che minacciano
di travolgere povere vittime. Ciò che altera la costante evenienza dei
fenomeni di natura non può tornar mai di bene per l’uomo; ed il delitto
n’è l’esempio.

=6.=—Riassumendo, diciamo, che le funzioni psichiche criminose,
considerate nel loro aspetto intrinseco, sono l’equivalente di facoltà
disadatte all’uso del potere inibitorio ed allo stato di equilibrio;
considerate nell’aspetto estrinseco, sono le cause di turbamento di
quell’ordine sociale che è la forza specifica del benessere individuale
in accordo col benessere collettivo.



CAPO II.


Gli elementi psichici criminosi.

 1. Legge di _continuità_ nei fenomeni psicofisici; legge di
 _correlazione_ tra l’essere ed il suo ambiente.—2. La legge di
 continuità e di ambiente rispetto al delitto.—3. Ragioni per cui il
 funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge all’analisi
 sperimentale; norme relative alla prova della genesi fisica del
 delitto.—4. Gli elementi psicofisici del delitto e l’interno stato
 di equilibrio.—5. Stato di esquilibrio psichico; forza e movimento;
 motivo, causa ed azione.—6. Che cosa s’intenda per impulso; duplice
 principio fondamentale della psicologia monistica.—7. La psicofisica
 ed il suo valore nei fenomeni di esquilibrio del delitto.

=1.=—Tutti i fenomeni da noi percepiti sono accompagnati dal carattere
essenziale di reciproca coordinazione o di continuità. La distinzione
che sogliamo fare tra l’uno e l’altro fenomeno, tra l’uno e l’altro
modo di esistenza, tra la vita psichica e la fisica non serve che alla
nostra conoscenza, la quale, stante la _relatività_ di sua natura, non
potrebbe apprendere il vero delle cose se non procedesse per singole
nozioni. Questa legge suprema dell’umana conoscenza, detta legge di
_continuità_, impera ancora nella genesi e nella serie evolutiva dei
fenomeni psicofisici. La vita mentale e la corporea sono due lati di un
unico processo integrativo con gradi ascendenti di maggiore distinzione
e complessità: dagli atti puramente automatici, dalle semplici azioni
riflesse alle alte concezioni del pensiero non vi è che progresso
ininterrotto per gradi infinitesimali.

Chi, dunque, si accinga a studiare qualunque fenomeno psichico non deve
arrestarsi alle sue forme estreme; deve, invece, saper cogliere la
genesi ed apprezzarne il graduato sviluppo dagli elementi primigenî al
più alto esponente della intelligenza.

La seconda legge, base anch’essa della evoluzione organica, è quella
di correlazione tra l’essere ed il suo ambiente; la quale legge
è espressa, secondo Spencer, dal cànone, che la vita non sia che
_corrispondenza_.

=2.=—Il delitto sottostà egualmente alla legge di _continuità_ e
di _ambiente_. La continuità riguarda più intimamente l’elemento
soggettivo; ossia lo stato di coscienza sintesi di tutti i coefficienti
interni i quali concorrono a far sì che la energia criminosa si
effettui esternamente mercè l’azione antigiuridica. È da osservare
che, essendo il delitto azione anomala in confronto alla media della
comune condotta, anche la legge di continuità, nella correlazione dei
fenomeni psichici del delinquente, debba subire qualche variazione, di
genesi e di sviluppo, da distinguersi, per chi ne analizzi gli elementi
informativi, da ciò che avviene per l’uomo normale. La differenza di
genesi è analoga alla natura propria della energia criminosa ed ai
fattori fisici che ne originano il primo grado di apparizione. La
differenza di sviluppo è in relazione specialmente all’azione dei
motivi onde la energia criminosa è determinata.

=3.=—Noi non abbiamo nozioni esatte circa i fattori fisici del
delitto; il funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge
all’analisi diretta permessa col sussidio dell’esperienza.

Ciò avviene per tre ragioni: _a_) perchè non è concesso di riprodurre
a nostro beneplacito il fenomeno del delitto; _b_) perchè nel momento
in cui questo fenomeno si manifesta l’opera riflessiva dello scienziato
non può aver luogo; _c_) perchè, sottostando la produzione del delitto
alla influenza dell’ambiente, questa è relativa alle circostanze
accidentali e fugaci ond’è accompagnata. Quindi le seguenti norme,
le quali vanno ricordate in materia di prova della genesi fisica
del delitto: 1^a Non essendo permesso sul delinquente che l’uso del
metodo _a posteriori_, ossia quel metodo che dalla constatazione di
qualità permanenti organiche risale, per supposto, all’accertamento
di ciò che nel momento del delitto sia avvenuto, in definitiva non
ci è dato apprendere, della genesi fisica del delitto, che nozioni
affatto probabili; 2^a La certezza induttiva, sul riguardo, non
superando il valore d’ipotesi, è motivo per cui nell’affermazione
della imputazione e nella commisurazione della pena evvi un limite
abbandonato all’arbitrio del giudice il quale sappia, mercè criterî di
esperienza personale, integrare la prescrizione repressiva di legge con
la relatività di colpa del delinquente.

=4.=—Gli elementi psicofisici del delitto si risolvono in tanti
equivalenti della natura intima, ereditaria o acquisita, del
delinquente, in concorso con gli stimoli, esterni od interni, efficaci
a mettere in moto la energia criminosa. Lo studio dei detti elementi ci
apprende: _a_) che il delitto, avvisato come entità giuridica, sia il
composto di fattori diversi la cui analisi deve precedere la sanzione
repressiva; _b_) che il delitto, considerato siccome la risultante di
coefficienti psicofisici individuali, ha bisogno di prove, le quali
raccolgano, in sintesi logica, quanto sia necessario pel convincimento
del magistrato. Così per lo studio del lato giuridico che per quello
del lato psicofisico del delitto ci occorre un concetto fondamentale
che sia punto di partenza della nozione dei fatti: concetto, per quanto
logicamente semplice, altrettanto obbiettivamente adatto a fissare
l’idea di normalità e quella di anormalità nel dominio morale. La
esistenza di energia criminosa importa funzionamento difforme alla
natura normale dell’uomo, cioè alla media di rettitudine di condotta in
conformità a norme imprescindibili di ordine sociale o giuridico.

Questa difformità è conseguenza d’un interno stato di _squilibrio_ o
disturbo di armonia di stati di coscienza e contrasto col mondo esterno
configurato nella vita di relazione con i proprî simili. L’adattamento,
per intima tendenza ereditaria e per qualità acquisite, apporta nel
ritmo degli stati di coscienza un funzionamento di regolarità che
noi chiamammo di _equilibrio_, secondo il quale i fatti psichici
_rappresentativi_, _emotivi_ e _volitivi_ si svolgono con nessi, di
successione e di simultaneità, integrativi, ossia con la legge costante
di corrispondenza al grado ed alla entità degli impulsi che imprimono
il moto iniziale all’azione. Siffatto stato di equilibrio, permanendo
nei successivi atti esterni, si trasforma in tanti altri stati che,
prendendo il nome dalla sfera di azione in cui appariscono, sono
altrettanti fulcri di vita individuale o collettiva e corrispondono a
differenziata sanzione preventiva o repressiva. Indi abbiamo la prima
forma di stato giuridico di equilibrio nell’ordine della famiglia;
poscia in quello delle differenti specie di società create dalla
legge od imposte dalla esigenza di assicurare e garantire i mezzi per
l’esplicamento dei nostri bisogni; per ultimo, in quello più ampio
ed universale che dalla idea di nazione, di umanità arriva fino al
concetto di giustizia assoluta.

Sono stati di equilibrio, il cui fondamento va sempre riposto
nell’armonia di facoltà e di atti, di funzioni e di leggi:
dall’individuo all’uomo collettivo il processo è unico, garantire
il ritmo del funzionamento cosciente, non fallire all’intento di
perfezionamento progressivo che assicuri il benessere proprio con
quello degli altri.

=5.=—Lo stato di squilibrio è di natura opposta a quella esaminata.
Indi la nozione di stato _anomalo_, ovvero contrario al funzionamento
normale dell’uomo.

Abbiamo detto che lo stato psichico di equilibrio è ereditario ed
acquisito: il funzionamento principale, su cui poggia, è posto da
natura, poichè è regola imprescindibile psicologica, che qualunque
atto interno emotivo o volitivo abbia la genesi spontanea nel processo
organico individuale.—Tostochè negli stati di coscienza comincia
a mancare il ritmo, all’azione di qualche stimolo non corrisponde
la reciproca reazione; vien meno, perciò, l’attitudine, sia anche
passeggiera, al processo integrativo; le correnti di energia funzionale
si turbano; le tendenze impulsive vincono l’azione reattiva delle
facoltà di arresto; la efficacia dell’impulso non comporta più
resistenza; spariscono i confini del campo visivo della coscienza ed
all’ottenebramento dell’intelletto succede lo scoppio della passione.
Il fenomeno qui descritto, ristretto propriamente al fatto del
delitto, c’impone, innanzi tutto, lo studio dei motivi o degli impulsi
dell’azione interna ed esterna della energia criminosa.

L’equivoco che in generale si vuole ingenerare, nella dinamica, tra
la idea di forza e l’idea di movimento, assumendosi la prima per una
potenzialità astratta ed il secondo per qualche cosa che non inerisca
alla materia, ma di questa sia modalità accidentale, si riscontra
tuttodì tra l’idea di motivo o di impulso e quella d’azione. Si
confonde il motivo con la causa; non riflettendo che il primo è in
realtà ciò che la seconda è, in astrazione o nei rapporti logici, con
l’idea di effetto.

Ora, a chi ben guardi apparirà che il motivo o l’impulso,
dinamicamente, si confonde con l’azione; ne è l’essenza e la realtà
concreta.

La energia psichica, con funzionamento normale o anomalo, è sempre in
attività: appena si effettua l’azione di qualche impulso, il precedente
stato di coscienza subisce cambiamento; comincia così un effetto che
percorre i gradi di svolgimenti conformi alla intensità impulsiva, e o
si esaurisce, perchè arrestato, nel dominio interno, ovvero si riversa
nel mondo esterno e si completa in analogo atto di condotta. L’atto
esterno è l’equivalente di quello interno, il che spiega la ragione del
moto causale dell’impulso, la continuità della energia psicofisica dal
momento iniziale di sentimento o di idea fino al termine dell’azione,
ed in ultimo il perchè si connetta l’imputabilità fisica dei nostri
atti ad analoga imputabilità morale.

=6.=—Ciò che chiamiamo impulso non è che una scossa, un primo
movimento, il quale, rientrando nel campo visivo della coscienza, o
influisce a creare un novello stato, ovvero, per identità di natura,
riproduce stati precedenti passati nel dominio dell’inconscio o
assopiti da non destare più alcun interesse. Per quanto facile,
ad intendersi, sembri l’asserto, esso racchiude il problema
fondamentale della vita. Che è mai, in fatti, la vita, se non, al
dire di De Blainville, il duplice movimento interno di composizione
e decomposizione, a un tempo generale e continuo? ovvero, secondo
lo Spencer, la coordinazione delle azioni? Nè movimento interno è
verificabile, nè coordinazione senza che vi sia un fenomeno chimico
e fisico di assimilazione e di trasformazione della energia dello
stimolo, senza che l’organo del senso non vi si presti a trasmettere ai
centri il cambiamento dinamico subìto.

Migliore definizione della vita, nel senso qui appresa, è quella
suggerita da G. H. Lewes, che cioè essa sia una serie di cambiamenti
definiti e successivi, tanto di struttura quanto di composizione, che
hanno luogo entro un individuo senza distruggere la sua identità.—La
psicologia monistica, considerando la concezione naturale della vita
psichica quale somma di fenomeni vitali che, come tutti gli altri,
sono legati a determinato substrato materiale, detto _psicoplasma_
(Haeckel), rapporta i fenomeni dell’anima _alla legge della sostanza_,
vale a dire al duplice principio della conservazione della materia e
della energia; e però ne deriva la conclusione, che all’assimilazione
dell’energia trasformata, dello stimolo, segua la funzione delle
cellule mediante la irritabilità, la sensibilità ed il movimento. Io
accetto pienamente la dottrina di Haeckel, che così si esprime: Il
problema neurologico della coscienza è soltanto un caso speciale del
problema cosmologico che abbraccia in sè tutti gli altri, il problema
della sostanza. Se noi avessimo compreso l’essenza della materia e
della forza, si potrebbe anche comprendere come la sostanza, che
ne è il fondamento, possa, sotto determinate condizioni, sentire,
desiderare e pensare. La coscienza è, come la sensazione e la volontà
degli animali superiori, un lavoro meccanico delle cellule gangliari,
e si deve, come tale, ricondurre a processi fisici e chimici che
avvengono nel plasma di queste. Inoltre, applicando i metodi genetici
e comparativi, arriviamo alla convinzione che la coscienza—ed insieme
anche la ragione—non è affatto una funzione esclusiva dell’uomo; al
contrario questa si riscontra anche in molti animali superiori, non
solo vertebrati ma anche articolati. La coscienza dell’uomo è diversa
solo a gradi, per uno sviluppo maggiore, da quella degli animali
più perfetti, e lo stesso vale per le altre attività spirituali
dell’uomo[11].

=7.=—Data la permanenza di rapporti tra l’azione esterna degli
stimoli e gli stati susseguenti sensoriali, Fechner fondò la novella
scienza che chiamò _Psico-fisica_. Egli, però, si arrestò alla misura
delle sensazioni; altri, discepoli più diretti di Weber, estesero la
misura alla sensibilità in genere; altri arrivarono fino alla misura
della durata degli atti psichici, ed ai nostri dì, con maggiore
precisione, all’analisi quantitativa delle percezioni. Il Fechner, per
mezzo di operazioni matematiche, dedusse la sua «legge psicofisica
fondamentale», secondo la quale «le intensità delle sensazioni
crescono in proporzione aritmetica, mentre quelle degli stimoli
crescono in progressione geometrica»[12].

Checchè altri ne pensi in contrario, noi riteniamo, e ne daremo
la prova, che la psicofisica abbia grande valore, specialmente in
fenomeni di squilibrio psichico, per comprendere i dati sensibili ed
emotivi della conoscenza, i quali contribuiscono alla formazione della
percezione, e per misurare i fenomeni psichici attraverso i fenomeni
fisici.

Di già appariscono i primi prodotti, abbastanza plausibili, nelle
perizie psichiatriche: la psicologia criminale si varrà di siffatti
studi in più larga copia, non sfuggendo ai suoi cultori il rilievo
di norme sperimentali che, quantunque spesso ipotetiche, tendono a
raggiungere la esattezza matematica.



CAPO III.

La dinamica dei motivi.


 1. Centro di attività psichica; che si intenda per motivo, impulso,
 movente.—2. Motivi sensitivi, rappresentativi ed ideali.—3. Che cosa
 s’intenda per _motivo criminoso_; differenza tra i motivi di azioni
 lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli.—4. Postulati sull’energia
 del motivo e sullo stadio evolutivo dei motivi criminosi.—5.
 La dottrina della inibizione, base dinamica della coscienza
 criminosa.—6. Modi onde avviene il processo integrativo psichico
 della energia dei motivi.—7. Assimilazione e fusione dei motivi.—8.
 L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo psichico dei
 motivi.—9. Stato emotivo criminoso.

=1.=—Nella coesistenza e successione degli stati di coscienza è a
notare la maggiore o minore permanenza di qualche centro, sensitivo o
intellettivo, di attività, al quale convergono, per impulso di affinità
o di analogia, delle correnti che atteggiano l’io a propria fisonomia e
ne differenziano le qualità accidentali. Il centro di attività psichica
è causato dalla sovrapposizione, agli stati precedenti di coscienza,
di novello elemento il quale, cominciando col divergere le correnti
interne, finisce per dirizzarle ad un punto diverso od opposto a quello
cui dianzi tendevano. La espressione _centro di attività psichica_ è
presa nel senso reale, perchè l’alterazione o cambiamento di coscienza
per noi equivale a nuovo modo onde l’energia dell’io sposta il suo
centro di gravità; dovendosi ritenere che, nella reciproca attrazione
di coefficienti interni, la gravità prevalente sia prodotta dalla
maggiore energia di azione o di reazione di fronte alle energie
concorrenti. L’elemento transitorio integrativo o disintegrativo degli
stati di coscienza noi l’appelliamo _motivo_, _impulso_, _movente_.
Esso _a_) è contraddistinto da una energia propria iniziale; _b_)
è sottoposto alla legge generale di causalità ed alla speciale
di assimilazione; _c_) agisce o reagisce sugli stati precedenti
concomitanti o consecutivi secondochè corrisponde ai medesimi per
natura organica ereditaria, per grado di attività genetica o per unità
di coerenza.

=2.=—I motivi si distinguono, secondo i piani successivi degli
stati di coscienza, in sensitivi, rappresentativi ed ideali. Il lato
sensitivo del motivo è accidentale, transitorio; resta, però, di esso,
nella serie progressiva di trasformazione psicofisica, qualche cosa
corrispondente al _grado_ ed alla _natura_ della energia in attività,
e che, permanendo, si riproduce quantitativamente nei fenomeni di
coscienza ond’è seguito.

Maggiore energia occorre perchè l’impulso o motivo sensitivo si
ripresenti o riproduca; il che s’intende dal riflettere che il motivo,
per la primitiva azione sensitiva, trova il soggetto in istato di più
o meno passività e quindi incontra minori ostacoli reattivi; mentre,
riproducendosi, deve vincere le difficoltà provenienti da stati
similari od opposti coesistenti ed il cumulo di reazioni inerenti alla
natura del soggetto.

Nel piano ideale il motivo assomma la energia di tutti i sentimenti
ed i rapporti mentali ond’è preceduto ed accompagnato. Trasformatosi
in idea od in concetto esercita sulla condotta la influenza che il
Baldwin chiama _suggestione motrice_. Essa significa—secondo il detto
psicologo—che noi non possiamo avere alcun pensiero o sentimento, sia
che provenga dai sensi, dalla memoria, dalle parole, dal contegno o dal
comando degli altri, che non abbia una influenza diretta sulla nostra
condotta. Noi non possiamo per nulla evitare l’influenza dei nostri
proprî pensieri sulla nostra condotta, e spesso gli avvenimenti più
comuni della nostra vita quotidiana agiscono come suggestione di fatti
di grandissima importanza per noi stessi e per gli altri[13].—E qui
cade a proposito un’altra originale osservazione del Baldwin; che cioè
noi non possiamo eseguire un atto qualsiasi senza che gli corrisponda
nella nostra mente il pensiero o l’immagine o la memoria che spinge
all’azione. Questa dipendenza dell’atto dal pensiero, che lo spirito ha
in un dato momento, si dimostra in modo evidentissimo in certi casi di
paralisi parziali, ecc. Un numero considerevole di tali casi autorizza
a stabilire il principio generale, che per ognuno degli atti, che
abbiamo intenzione di compiere, noi dobbiamo avere qualche modo
particolare di pensare l’atto stesso, o di ricordare l’impressione che
esso produce e la forma che possiede; noi dobbiamo avere nello spirito
qualcosa di _equivalente_ all’esperienza del movimento stesso. Questo
principio vien detto dell’_equivalente cinestetico_, espressione che
perde il suo imponente aspetto quando ci ricordiamo che _cinestetico_
non significa altro se non la coscienza del movimento[14].

=3.=—Quando diciamo _motivo criminoso_ intendiamo dire determinante
del delitto. Ne segue, che la parte fondamentale della psicologia
criminale consista appunto nell’esame dinamico dei motivi. Il che non
sfuggiva al grande Romagnosi, il quale assegnava tanta parte, nella
genesi del diritto punitivo, alla dottrina dei motivi. Sarei, anzi, per
dire, che la specialità delle discipline repressive sia la conseguenza
di vedute teoretiche e pratiche intorno ai motivi delle azioni che noi
giudichiamo violatrici della legge penale.

Tra’ motivi di azioni lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli non
vi ha differenza dinamica se non per gli elementi che, nel dominio
psichico, li generarono o li precedettero ed accompagnarono. Questi
elementi sono di natura rappresentativa ed ideale; sono anche di
natura emotiva e si distinguono per certo grado di intensità della
loro attività evolutiva. Suppongasi, ad esempio, che Tizio abbia
ucciso Sempronio: il motivo può essere la vendetta o l’odio. Ma ciò
nulla spiegherebbe, chè la vendetta o l’odio per tanto mostrano di
impulsività per quanto, alla loro volta, sono generati ed animati
da altro stato di coscienza, o coefficiente dinamico, che, nella
fatta ipotesi, potrebbe essere l’idea ed il sentimento dell’_offesa_
ricevuta. E non basta ancora. La offesa qualche volta merita ed attira
il perdono: perchè nel caso di Tizio fu cagione di spinta all’omicidio?
È da osservare due cose: la prima, che qualunque stato di coscienza
agisce e reagisce sugli stati concomitanti; ha un ritmo di equilibrio
mobile con tendenza ad addivenire stabile: la seconda, che nell’azione
e reazione di ciascuno stato sugli altri, il processo integrativo
psichico, che ne consegue, ha per fulcro l’unità cosciente dell’io
col grado quantitativo di attitudine all’adattamento. Chi voglia,
perciò, dallo stato emotivo interno, prodotto dall’offesa, estendere
la riflessione sugli stati che, in dato momento della nostra vita
psichica, sono ad esso concomitanti, deve rendersi di ciò conto col
constatare i rapporti intercedenti fenomenici, senza punto pretendere
di coglierne il nesso intimo ed essenziale: l’umana conoscenza non può
estendere il suo potere oltre la ricerca delle circostanze subbiettive
ed obbiettive dello stato individuale di coscienza, circostanze che
formano l’ambiente in mezzo a cui il motivo agisce ed a cui l’io è
indotto necessariamente ad adattarsi. Tizio, per proseguire l’esempio,
nel momento dell’offesa era eccitato per questa o quest’altra ragione;
in lui la offesa ebbe presa maggiore perchè fatta alla presenza di
persone di cui egli voleva conservare la stima; in pubblico, mentre,
per circostanza accidentale, egli era alquanto ebbro, esaltato da
precedente dispiacere, e così via dicendo.

=4.=—In conclusione di quanto si è esposto raccogliamo i seguenti
postulati: _a_) La energia del motivo ritrae dell’azione o reazione
degli stati di coscienza similari coesistenti e successivi; ne
aumenta o diminuisce il grado secondo lo adattamento individuale
alle circostanze favorevoli o sfavorevoli; _b_) I motivi _criminosi_
appartengono segnatamente allo _stadio evolutivo_ degli stati
rappresentativi od ideali; la loro energia è in ragione della
complessità degli elementi con i quali sono in rapporto di causalità e
di successione.

Il primo postulato è abbastanza chiaro da non richiedere ulteriore
spiegazione. Non così il secondo. Esso s’intenderà bene quando si
pensi, che per _stadio evolutivo_ vogliamo significare il processo
dinamico integrativo o disintegrativo di coscienza, quel periodo, breve
o lungo che sia, durante il quale avviene il cambiamento di stati
interni con moto equivalente all’impulso iniziale, trasformato, del
motivo. Il cambiamento o il moto si determina tra stati rappresentativi
ed ideali. Finchè il motivo fosse presente, senza uscire dalla sfera
della sensibilità o dell’affettività, non produrrebbe reazione se non
istintiva od automatica. Noi istintivamente allontaniamo la mano dalla
fiamma che ci scotta, ci avviciniamo al cibo quando siamo tormentati
dalla fame. Se, in simili operazioni, alla mente non si affaccia o
ripresenta l’idea, che la fiamma bruci, che il cibo sia il mezzo per
soddisfare il bisogno della fame, non si hanno azioni coscienti di cui
si possa esser chiamato a rispondere. Il processo psichico evolutivo
comincia dal momento che la energia del motivo passa la soglia della
coscienza e si prospetta all’attenzione con fisonomia propria, sia
trasformandosi in immagine, più o meno vivace e colorita, del fatto
esteriore, sia destando sentimento di piacere o di dolore in precedenza
non provato. Si ha la prima ipotesi allorchè la mente ha avuto agio
di riprodurre, o per ricordo o per istantanea rappresentazione, il
fatto nella totalità delle circostanze determinanti il cambiamento,
integrativo o disintegrativo, di coscienza; il che succede quando
l’individuo ha qualità atte ad imporsi una certa calma, mediante l’uso,
anco momentaneo, dei poteri inibitorî di arresto. Il cambiamento, che
ne segue, o integra la coscienza, procurandole nuovo stato che con
i precedenti si accordi e si armonizzi, dando luogo ad equilibrio
più stabile; ovvero la disintegra, causando un turbamento, il cui
effetto si compie esternamente con azione criminosa. Chi ne desideri
la dimostrazione ricordi due esempî. Per fortunate circostanze
della vita versiamo in istato di contentezza; inopinatamente ci si
annunzia qualche notizia apportatrice di grande consolazione. La
notizia è appresa e ripresentata alla mente con i caratteri piacevoli,
ond’è accompagnata; essa influisce ad accrescere lo stato interno
di felicità, ossia integra, rafforzandolo, il precedente stato di
equilibrio di coscienza.

Suppongasi, all’opposto, che ci venga riferita qualche notizia
dolorosa; essa mette subito in agitazione l’animo e finisce con lo
squilibrare, disintegrandolo, il precedente stato di coscienza.

Ognuno vede che nella rappresentazione, o riproduzione immaginaria, del
fatto esterno, si accompagna un senso di piacere o di dolore. Allorchè
tale senso, attesa la intensità, è fenomeno secondario o semplicemente
conseguenziale della rappresentazione ideale del fatto, obbietto del
motivo, il cambiamento di coscienza segue il processo più normale,
con serie di trasformazioni interne percepibili; ma, avvenendo il
contrario, nella ipotesi che la impressione piacevole o dolorosa
predomini con potere irresistibile, qualunque reazione di arresto si
indebolisce o sparisce, e ne succede il repentino scoppio dell’azione.

=5.=—A meglio chiarire gli enunciati principî, racchiudenti la teoria
fondamentale della dinamica dei motivi in genere, e dei criminosi in
ispecie, sentiamo il dovere di ritornare sulle idee avanti espresse
intorno alla importanza da accordarsi alla dottrina della inibizione,
base, senza dubbio, della genesi dinamica degli atti di coscienza più
interessanti allo studio del delinquente.

Tra le teorie svolte da Lourie, e riassunte magistralmente dall’Oddi,
in un libro[15] che tutti i cultori di psicologia dovrebbero meditare,
intorno alla inibizione, opino che la più esatta sia quella insegnata
dal Wundt, cioè che non vi sono apparati distinti per l’inibizione,
bensì esistono diversi processi, uno _attivo_ di _eccitamento_, l’altro
_depressivo_ di _inibizione_.

È teoria fondata sulla _meccanica molecolare_; sul principio
che l’aggregazione fisica (molecolare) e l’associazione chimica
(atomica) presentano analogia completa in quanto si riferisce al
lavoro molecolare. «Il sistema nervoso—riferisce l’Oddi—non entra
in attività se non viene _irritato_ da qualche stimolo. È mestieri
dunque distinguere lo stato di attività e lo stato di riposo. Questo
stato di riposo non è che apparente, come in tutti i casi nei quali
si tratta di stati stazionarî del movimento. Gli atomi di queste
combinazioni complesse eseguiscono dei movimenti continui. Essi
sortono da tutti i lati, dalle sfere di azione degli atomi, ai quali
essi erano legati fino a quel momento, entrano nelle sfere d’azione
di altri atomi, che sono egualmente divenuti liberi. In altri
termini, si hanno dissociazioni ed associazioni; e se all’esterno
non apparisce nulla, gli è perchè questi due processi contrarî si
compensano vicendevolmente. Lo stato di riposo, adunque, è uno stato di
equilibrio. Il lavoro molecolare interno resta press’a poco _costante_,
il lavoro esterno press’a poco _nullo_. Nel nervo, durante il processo
di eccitamento, quando, cioè, ad esso viene applicato uno stimolo, due
effetti opposti si manifestano: un effetto _stimolante_, che apparisce
sotto forma di contrazione muscolare, secrezione, sensazione, ecc.; un
altro _inibitore_, che tende a sopprimere il movimento, a sospendere la
secrezione, a ricondurre il nervo allo stato primitivo di equilibrio.
Questi due effetti cominciano nel nervo contemporaneamente: sul
principio predominano gli effetti di arresto; quando lo stimolo è molto
debole, questi possono essere la sola manifestazione dell’irritazione,
poichè gli effetti opposti non arrivano ad estrinsecarsi; se invece
lo stimolo è forte, gli effetti d’arresto, che crescono molto più
lentamente che non quelli di eccitamento, vengono tosto superati
da questi ultimi. L’effetto finale, il risultato esterno, è una
contrazione muscolare o un equivalente. Riferendoci ai dati meccanici
sopra esposti, ciò vuol dire che per l’influenza dello stimolo
irritante si rompe nel nervo lo stato di equilibrio: le molecole e gli
atomi subiscono una specie d’urto che li spinge ad entrare in nuove
combinazioni. E la spinta è doppia, poichè doppî sono gli effetti;
e si ha contemporaneamente lavoro positivo e lavoro negativo, con
prevalenza del primo.—In ultima analisi ed in modo riassuntivo, si può
dire che per Wundt il processo di eccitamento rappresenta l’effetto
della disintegrazione del tessuto nervoso, quello dell’inibizione è
l’espressione della sua integrazione»[16].

=6.=—La efficacia criminosa del motivo non si comprende bene se,
dopo essersene conosciuta la genesi, non se ne conoscano i modi di
adattamento nella coscienza individuale o collettiva.

Il processo integrativo psichico della energia dei motivi avviene:
_a_) o per assimilazione; _b_) o per fusione; _c_) o per addizione o
sovrapposizione sulle energie dei precedenti stati di coscienza.

L’assimilazione del motivo criminoso va intesa nel senso che le qualità
ereditarie individuali si prestino ad identificare, con la propria
natura essenziale, la efficacia dinamica del novello coefficiente
entrato nel campo della coscienza; il che importa adattamento,
dell’elemento accidentale, all’ambiente morale predisposto dalla natura
ereditaria dell’individuo. L’adattamento avviene in modo _spontaneo_
quando tra il novello coefficiente ed i vecchi siavi _identità_
assoluta; mentre, poi, occorre un certo sforzo di interna tensione
allorachè tra essi siavi sola _uniformità_. La proclività, o facilità,
e la repugnanza ad assimilare dati sentimenti o date idee non sono
che effetti di quanto è detto: noi crediamo che ciò dipenda da libera
scelta, ma non è guari difficile accorgerci di essere soggetti ad
un’illusione, facilmente spiegabile se si rifletta allo sforzo, qualche
volta inutile, per vincere la tendenza o la resistenza di stati di
animo in contrasto con impulsi che ne variano l’atteggiamento.

Se due correnti di due diversi fiumi si incontrano in un punto e
scorrono sul medesimo declivio, si mescoleranno senza difficoltà e
continueranno il loro percorso: ma, se le correnti sono di opposta
direzione, prima che si uniscano e perdano l’apparenza di direzione
diversa, è d’uopo che tra loro succeda un contrasto, un gorgoglio, e
che insieme si rimescolino a seconda la prevalenza di spinta o di più
agevole piano su cui ciascuna scorre.

=7.=—Nel processo di assimilazione, dei motivi, si tien conto
dell’adattamento alla natura ereditaria individuale; in quello di
_fusione_ l’attenzione cade specialmente sulle relazioni intercedenti
tra la energia del coefficiente psichico rappresentato dal motivo e
l’energia di coefficienti acquisiti ed assimilati in precedenza. Nella
fusione dei motivi le correnti psichiche impulsive al delitto sono
tante forze concorrenti la cui risultante consiste nella loro somma
organizzata ed unificata dalla tempra del carattere individuale. La
convergenza delle correnti si verifica per l’attrazione di qualità
ereditarie o acquisite; la differenza, tra esse, sparisce subito che
il moto potenziale addiviene attuale e si ristabilisce l’equilibrio
relativo.

=8.=—L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo
psichico dei motivi si origina, per lo più, in un periodo _statico_
dell’io criminoso.

O che questo periodo sia precedente all’altro di preparazione e di
esecuzione del delitto, o che interceda tra atti intermedî, certo è che
esso è contrassegnato da maggior calma interna e comporta il potere di
controllo della riflessione. Insomma, nell’addizione dei motivi, alla
mente appariscono chiari i termini che debbono sommarsi o sovrapporsi.
La educazione e le mal contratte abitudini molto influiscono a
sovrapporre, al carattere primigenio e spontaneo personale, delle
tendenze o inclinazioni le quali finiscono per avere il sopravvento
ed alterare l’equilibrio interno; di guisa che, data la occasione
propizia, lo stato di coscienza si turba e subisce la trasformazione
che ad esso imprime qualche motivo accidentale sopravvenuto.

Non essendo avvenuta la fusione delle correnti di energie sovrapposte,
sarà agevole, mediante l’uso di potere inibitorio, di sceverare,
nell’addizione, i termini a sommarsi, e di paralizzare quei motivi
che, estranei all’indole ed al carattere individuale, riescirebbero
altrimenti a turbare l’equilibrio ed a spingerci al delitto: il che
avviene quando, con mezzi preventivi, si allontanano le occasioni
propizie all’insorgere di sentimenti e di passioni incomposte, oppure
al formarsi di idee di egoistici intenti prevalenti.

=9.=—Il lato emotivo del motivo criminoso attiene al sentimento.
Dipendendo l’azione del motivo dalla serie di atti ripetuti in tempi
successivi, il sentimento dapprima è di disgusto, di repulsione ed
ha pochissima presa nel campo della coscienza. Basta che correnti
piacevoli o dolorose attraversino l’animo perchè il velo dell’oblio
si estenda sulla triste impressione provata. Ma, ammesso che il
motivo si ripeta e la riflessione ci avverta che possa ulteriormente
rinnovarsi, al disgusto succede l’impulso rapido ed alquanto intenso
che, rafforzandosi pel ricordo del precedente atto repulsivo, si
trasforma in sentimento di odio. Comincia dal fondo della coscienza
a venire a galla il primo conato reattivo; però ben tosto è represso
per la speranza che l’atto non abbia a ripetersi e per l’influenza
dei controstimoli emotivi interni. Durando l’azione del motivo, con
graduale attenuazione si indebolisce in noi il potere spontaneo
inibitorio e si crea un ambiente psichico più adatto alla germinazione
di sentimenti e passioni di cui per lo innanzi non si aveva l’esempio.

Lo stato interno, che vieppiù si va specializzando, è qualificato da un
senso di costrizione o di depressione; l’io si avvede di esser sotto
l’incubo di potere estraneo e, per quanto si sforzi a liberarsene,
comprende che riesce vano. Ne succede lo stato di sconforto: la vittima
è consapevole che la forza di resistenza comincia a venir meno, e si
addolora al pensiero dell’abisso che si scava nell’animo ed in cui
potrebbero precipitare tutte le buone intenzioni, i naturali istinti
di rettitudine. Durando tuttavia il motivo, di tratto in tratto il
campo visivo della coscienza si restringe, si abbuia: l’inconscio
piglia il predominio e l’animo è maggiormente oppresso da ricordi di
precedenti stati di felicità, da idee frammentarie che passano con
rapido corso innanzi alla mente, mostrando appena da lontano un lembo
luminoso od oscuro di loro esistenza, la visione crepuscolare di
avvenire incerto, alterato dalla fantasia, con aspetto reso pauroso
dall’incertezza e dal mistero. L’epilogo di questo dramma psichico
si compie o con irresistibile reazione, per la scarica di energia
scoppiata con atti rapidi ed irrefrenabili, ovvero, allorchè l’azione
del motivo sia perdurata, con indebolimento totale dei controstimoli e
con l’insorgenza di poteri reattivi di disordine.

La emotività del motivo è ben altra cosa dalla serie di emozioni
speciali che, in tempo più o meno prossimo alla prima spinta al
delitto, destansi nell’animo. Inoltre, lo stadio criminoso della
emotività, per chi voglia comprenderne a fondo lo sviluppo, dev’essere
esaminato, non solo nel corso ordinario di genesi e di progresso, ma,
in singolar guisa, per rispetto alle categorie di delitti ed alla
diversità dei motivi capaci ad esercitare un’azione sui medesimi. La
emotività, nei delitti di scoppio repentino e tumultuoso di passioni
di ira, di odio, di vendetta, non sorpassa la sfera del sentimento;
mentre, nei delitti di calcolo e di riflessione, si estende fin nel
campo della ideazione. Si prenda in esame il delitto di furto. Il
ladro, nel concertare il piano della sua azione, è animato dalla idea
di arricchire, la quale idea, alla sua volta, si converte in iscopo o
intento del delitto. Chi ben rifletta sul contenuto dinamico dei motivi
del furto, si accorgerà di leggieri che questi sono scevri della vivace
impulsità passionale propria dei reati d’impeto, causati da odio o da
vendetta. Il lato emotivo rilevante, nel furto, è affatto ideale, nel
significato d’intento calcolato alla stregua di mero interesse. Ciò
costituisce il peculiare stato psichico che io chiamo _stato emotivo
ideale criminoso_, dipendente da bisogni insoddisfatti, da desideri
vivi, da speranze o lusinghe di miglioramento di benessere personale.



CAPO IV.

Cenestesi del criminale—Fisio-psicologia dei motivi.


 1. Cenestesi o sensibilità generale del criminale.—2. Ontogenesi
 e filogenesi dell’anima del criminale.—3. Insensibilità e
 disvulnerabilità dei criminali.—4. La eredità.—5. L’infanzia del
 delinquente.—6. La teoria psico-fisiologica dei motivi.—7. Efficacia
 attuale e potenziale dei motivi; concomitanti somatici caratteristici
 del piacere e del dolore.—8. La dinamica del _motivo-idea_;
 specificazione della coscienza criminosa.

=1.=—Allargando ed approfondendo l’esame della vita psicofisica minore
dei criminale, c’incontriamo nel problema della sensibilità generale
o cenestesi del medesimo. «Il senso cenestetico—scrive il Bianchi—è
la sintesi di tutte le sensazioni, in cui si riassume la personalità
organica. Le informazioni di tutte le funzioni organiche, e di tutto
il lavoro compiuto dagli organi nelle diverse officine organiche della
vita, vengono trasmesse ai centri nervosi superiori. Da tutte le
parti dell’organismo, anche le meno importanti e le più lontane, è un
continuo flusso di onde nervose che stabiliscono rapporti tra tutti
gli organi ed i centri nervosi superiori. A queste si aggiungono tutte
le sensazioni specifiche, per mezzo delle quali il soggetto sperimenta
una serie infinita di mutazioni per gli immediati contatti col mondo
esterno, la cui ultima risultante è la progressiva comprensione del
proprio organismo, sempre più distinto nell’ambiente in cui vive, mercè
la riproduzione mnemonica di tutte le qualità fisiche del mezzo e delle
modificazioni che l’organismo subisce sotto l’influenza degli agenti
che operano su di esso»[17].

Questo apparato o composto organico, il cui equivalente psicologico
corrisponde alla neuropsiche, quarto grado principale della
psicogenesi filetica, è il sostrato della vita psichica di tutti gli
animali superiori, non che di quella dell’uomo, la quale, secondo
l’Haeckel, «è legata ad un _apparato psichico_ più o meno complicato, e
questo si compone sempre di tre parti principali: gli _organi di senso_
portano le varie sensazioni; i _muscoli_, per contro, determinano
i movimenti; i nervi compiono la comunicazione tra i primi e gli
ultimi, attraversando un organo centrale particolare, il _cervello_
o _ganglio_. La disposizione e il funzionamento di questo apparato
psichico si paragona comunemente con un sistema di telegrafo elettrico;
i nervi sono i fili conduttori, il cervello è la stazione centrale, i
muscoli e gli organi di senso sono le stazioni locali subordinate. Le
fibre nervose motrici conducono centrifugamente ai muscoli gli stimoli
volontari o impulsi, e determinano il movimento con la contrazione
muscolare; le fibre nervose sensitive, per contro, conducono
centripetamente le varie sensazioni degli organi di senso periferici
al cervello, e riferiscono le impressioni ricevute dal mondo esterno.
Le cellule gangliari o _psichiche_, che compongono l’organo nervoso
centrale, sono le più perfette di tutte le parti organiche elementari;
poichè esse non compiono solo la comunicazione tra i muscoli e gli
organi di senso, ma anche le più alte tra tutte le funzioni della
psiche animale, la formazione di rappresentazioni e di pensieri ed
all’apice di tutto la coscienza»[18].

=2.=—La cenestesi del criminale, analogamente a quella dell’uomo
normale, va considerata sotto il duplice aspetto, ontogenetico e
filogenetico. Le conseguenze, che ne trarremo, agevoleranno il
còmpito di seguire la formazione dell’anima del criminale nelle fasi
d’integrazione fino all’ultimo grado evolutivo di coscienti azioni
esterne. Sono nozioni appartenenti alla biologia ed alla psicologia. La
biologia ci apprende come tutti i fenomeni di coscienza si connettano
alla vita di relazione col mondo esterno; che dal protoplasma alla
più elevata funzione cerebrale qualunque cambiamento organico abbia
per esponente uguale modificazione integrativa o disintegrativa della
vita psichica; che il nesso causale tra lo sviluppo _biontico_
(individuale) e quello _filetico_ (storico), legge suprema d’ogni
ricerca biogenetica, ha lo stesso valore per la psicologia, come per
la morfologia (Haeckel). Ci apprende eziandio che la _sensibilità_
non sia che carattere di vita degli esseri, e che dal _psicoplasma_
(o sostanza psichica nel senso monistico), dal _riflesso_ o _funzione
riflessa_ o, meglio, _atto riflesso_, alla rappresentazione cosciente
ed all’intelletto non evvi che trasformazioni continue di sanzioni
soggette alla legge di eredità e di adattamento. La mente, sintesi
delle leggi psicologiche, non è in fin dei conti che l’altra faccia
della vita e costituisce come un organismo che ha la sua storia
evolutiva ed è retta nelle sue esplicazioni da leggi fondamentali
comuni alla vita in genere (Bianchi). La concezione unitaria, adunque,
o monistica degli esseri ci obbliga a concludere, che la genesi
cenestetica del delitto, fenomeno affatto naturale, si connetta alla
legge di continuità, o che vogliasi semplicemente riferire alla
psicogenia individuale o biontica, o che si estenda alla storia
genealogica della specie.

=3.=—Il Lombroso, riflettendo sulla preferenza singolare dei
delinquenti per un’operazione così dolorosa e spesso lunghissima e
pericolosa, com’è quella del tatuaggio, e la grande frequenza in loro
dei traumi, s’indusse a sospettare in essi una sensibilità ai dolori
più ottusa del comune degli uomini, come per l’appunto accade in
alcuni alienati, dementi in ispecie[19]. Dall’insieme dei fatti da lui
osservati dedusse, in effetti, la verità della tesi, concludendo che la
insensibilità al dolore ricorda assai bene quella dei popoli selvaggi
che possono sopportare, per le iniziazioni della pubertà, torture non
tollerabili da un uomo bianco[20]. Al che si aggiunge una gran forza
vitale che ripara prontamente i tessuti in caso di ferite o di lesioni
gravi, ciò che Benedick designa col nome di _disvulnerabilità_[21].
Uguali caratteri si riscontrano nella sfera della sensibilità morale,
causa dell’assenza di pietà o della ferocia onde si consumano molti
delitti.

Fisiologicamente la spiegazione è nella genesi del dolore, il quale,
dipendendo da differenziazione progressiva ontogenetica e filogenetica,
pel perfezionamento e sviluppo maggiore degli organi dei sensi, non
che per raffinata squisitezza di sentimenti altruistici, nel criminale
ha dovuto arrestarsi in un grado molto basso, indice o di forma
degenerativa o di reversione atavica ad organismi meno perfetti.

=4.=—Ontogeneticamente la sensibilità del criminale dipende in primo
luogo dalla _eredità_. È fin dal momento della generazione e della
vita intrauterina che le qualità malefiche pigliano consistenza e
cominciano a palesarsi. Le leggi della eredità fisiologica e patologica
si applicano specialmente alla biogenesi del delitto. Le varietà di
risultati, che spesso mettono in dubbio la verità delle leggi generali,
dipendono dalla infinita serie di circostanze imprevedibili. Ma la
indagine accurata sui germi embriologici del delitto, non trascurando
alcuno degli elementi ereditarî ed atavici, i quali potettero influire
direttamente o indirettamente sulle qualità acquisite dalla nascita,
deve fornirci molti lumi, intorno alla conoscenza delle qualità
medesime, senza i quali resteremmo di fronte ad imperscrutabili misteri.

Fin dal momento che la vita individua comincia con la cellula-uovo
fecondata o cellula stipite (_cytula_), i caratteri organici dei
genitori si trasmettono nella prole. Il dubbio che ne potrebbe sorgere,
secondo che abbiamo detto, è dal non conoscersi ancora esattamente le
trasformazioni tutte inerenti alla legge di _variazione_ nei novelli
organismi sôrti dalla unione dei germi dei genitori: però eziandio in
ciò vige il principio universale dell’unità della vita nello spazio e
nel tempo, non che l’altro della varietà con la identità sostanziale
degli esseri.

=5.=—Dalla biogenesi cenestetica del criminale passiamo ai primi
stadî di sviluppo, alla infanzia. Qui troveremo analoghi caratteri
tra ciò che si osserva nei fanciulli e la delinquenza nei selvaggi.
L’imprevidenza, la crudeltà, la insensibilità, l’impetuosità, sono
distintivi dell’infanzia del criminale e trovano perfetto riscontro
in uomini barbari a livello sottostante alla civiltà. La natura di
questo scritto mi dispensa dall’addurre esempî comprovanti l’asserto,
i quali, d’altronde, furono così bene raccolti dal Lombroso nel
primo volume del suo _Uomo delinquente_. Concludendo, diciamo, che la
genealogia del delitto, sopratutto nelle forme inferiori della vita
psicofisica, non deve mai scompagnarsi dagli opportuni riscontri con lo
sviluppo delle qualità criminose dell’individuo; i due campi di studî
s’integrano e si completano a vicenda.

Vogliamo soltanto aggiungere, che le anomalie di sensibilità, fisica
o morale, del fanciullo, più che da costituzione organica, dipendono
dalla deficienza o mancanza di discernimento di molte operazioni
causanti effetti dolorosi per sè o per gli altri. Molti psicologi
dell’infanzia furono sorpresi di atti in apparenza crudeli in fanciulli
che, cresciuti in età adulta, diedero prova di squisita sensibilità
e tendenze altruistiche. Essi attribuirono il mutamento, in bene,
all’opera della istruzione e della educazione. Si ingannarono. La
insensibilità era l’effetto dello stato d’incoscienza o di imprevidenza
del fanciullo; la qualità opposta nacque dal momento che si acquistò
consapevolezza di ciò che equivalga produrre uno stato doloroso.
L’attenzione, facoltà molto tarda a svilupparsi; la riflessione,
prodotta dalla padronanza negli interni processi di arresto, giuocano
influenza massima sui fenomeni di percezioni sensitive: mancando di
regola, od essendo molto deboli nei fanciulli, non vi è a meravigliarsi
se questi si mostrino così poco sensibili e sì poco inchinevoli alla
pietà per i dolori altrui.

=6.=—Conosciuta la cenestesi del criminale, riprendiamo la trattazione
dei motivi, sotto il riguardo della teoria fisio-psicologica. Abbiamo
visto che l’azione dei motivi, sulla nostra sensibilità, interna od
esterna, obbedisce a leggi affatto dinamiche. Essi, in altri termini,
non sono che altrettanti coefficienti di energie.

La loro principale legge è la _legge della dinamogenesi_, per cui
ogni stato di coscienza tende a continuarsi in un movimento. I motivi
furono da noi distinti in esterni ed interni. Essi, però, in quanto
sono efficienti o coefficienti dei delitti, non sono che equivalenti di
_sentimenti_ o di _idee_. Vedremo, a suo tempo, la natura differenziale
delle emozioni criminose, e quanta efficacia abbiano nel predisporre al
delitto.

Per ora diciamo, che l’azione dei motivi, con la energia di sentimenti,
svolgesi nella regione dei fenomeni affettivi. Senza pretendere, che
non ne sarebbe il luogo, di fare distinzioni dei fenomeni medesimi,
basterà dire, pel nostro intento, che essi tutti o sono causa di
_dolore_, ovvero di _piacere_. Ridotta la energia dei motivi alle due
forme primigenie della nostra vita emotiva od affettiva, non resta che
ricorrere alle leggi generali, onde quelle sono rette, per concludere a
nozioni soddisfacenti.

Il piacere ed il dolore sono i due limiti estremi in cui si polarizza
la nostra vita. Corrispondono al primo tutti gli stati psicofisici che
rialzano la tonalità delle funzioni al grado di maggiore successo, per
esuberanza di energia attuale che non superi la media del bisogno e
che agevoli l’opera dell’attenzione ad effettuarsi senza incontrare
ostacoli.

Corrispondono al secondo gli stati depressivi delle energie
psicofisiche; ne sono cause le difficoltà al funzionamento, l’arresto
o l’impedimento alla soddisfazione di bisogni, lo squilibrio parziale
o totale dell’organismo. Che vi sieno stati interni indifferenti io
non ne dubito; ma indifferenti verso chi?—Certo verso il soggetto
che non li avverte, non in sè stessi considerati o nelle loro cause.
Il passaggio da un estremo ad un altro, in ogni specie di fenomeno,
è segnato da punti intermedî. Il campo visivo della coscienza ha dei
limiti abbastanza mutabili, che acquistano o perdono estensione a
seconda della luce mentale riflessa: ma chi può dire che nei più oscuri
confini essa manchi di contenuto; o che, al disotto o nei pressi della
sua soglia, non funzionino delle energie di cui non abbiamo neppure il
sospetto?

=7.=—I motivi o agiscono per efficacia _attuale_ o per efficacia
_potenziale_. Diciamo che la efficacia sia attuale allorchè dipende da
motivo presente; diciamo che sia potenziale allorchè dipende da motivo
trascorso e del quale si serbi ricordo.

L’attualità del motivo ha importanza grande nei delitti passionali o
d’impeto, non così nei delitti di calcolo per i quali il materiale
dinamico della determinazione consiste nella risonanza piacevole o
dolorosa di svegliati ricordi.

Di qualunque genere si consideri il motivo, purchè sia causa di stato
piacevole o doloroso, esso si accompagna a concomitanti somatici
caratteristici. «Concomitanti somatici—scrive il Bianchi—del piacere
sono: aumento della circolazione del capo senza corrispondente
aumento della pressione arteriosa (secondo Meynert, il quale ammette
dilatazione vasale con pressione arteriosa diminuita); dilatazione
volumetrica degli organi periferici (Lehmann); elevazione del polso;
acceleramento del cuore; viso raggiante (si dice gonfio dalla gioia);
aumento delle sensazioni; rapidità ed energia dei movimenti; aumento
della profondità dell’ispirazione, ritmo respiratorio accelerato;
aumento della potenza muscolare. Il piacere è dinamogeno.—Concomitanti
somatici del dolore sono: diminuzione del calibro dei vasi per
contrazione delle pareti vasali; pallore della cute per ischemia;
diminuzione di alcune secrezioni (la bocca secca, la scomparsa del
latte) e l’aumento di alcune altre (lagrime); costrizione dei vasi
polmonari donde quel senso d’oppressione che avvertono tutti quelli che
sono sotto la tirannia del dolore; senso di freddo; atonia dei muscoli
volontari, donde il capo curvo (curvato dalla tristezza, dice Lange),
la faccia allungata; la voce fioca; gli occhi più grandi (maggiore
apertura delle rime palpebrali); il dolore è paralizzante»[22].

=8.=—Allorchè il motivo si trasformi in equivalente ideale, dal campo
affettivo passa nel campo percettivo o rappresentativo. All’azione
diretta dell’efficacia determinante si sostituisce l’azione riflessa.
Il fenomeno è molto complesso e formerà obbietto degli ulteriori studî
sul processo formativo della coscienza criminosa. Limitandoci ora alla
parte affatto _determinante_ del _motivo-idea_, non ci allontaneremo
dal rapporto puramente _causale_, che intercede tra la dinamica ideale
del motivo criminoso e l’effetto di squilibrio di coscienza.

L’idea, chi lo ignora? è di per sè un composto psichico. I coefficienti
sensitivi o fisiologici ne sono la base soggettiva; le presentazioni
o percezioni del mondo esterno ne apprestano il materiale. La forza,
dunque, integrante o disintegrante dell’idea equivale alla risultante
di componenti fusi insieme in fenomeno di tensione sulla medesima linea
direttiva.

Scomposta negli elementi, l’idea si risolverà in fattori fisici e
psichici assimilati od unificati per _coesione_ immediata o successiva.
Ma perchè il motivo-idea pel criminale è causa di squilibrio, a
differenza di quanto avviene nell’uomo normale? Perchè l’offesa è
respinta sempre con pari o maggiore offesa dall’impulsivo ed è motivo
di generoso perdono per l’uomo virtuoso? La risposta è contenuta
nelle nozioni svolte intorno allo stato di equilibrio e di squilibrio
psichico, non che nelle leggi della dinamica dei motivi criminosi,
secondo le quali, nel criminale, la nota culminante dello stato
psicofisico è l’_anomalia_. Manca, non per tanto, un altro dato ai
precedenti e qui crediamo utile ricordarlo.

La legge di coesione nelle formazioni psichiche ci dà il grado e la
fisonomia di ciascun nuovo composto. Essa, però, è completata dalla
legge di _continuità nella coesione psichica_. Più coesione, più
specificazione; meno coesione, meno specificazione (Ardigò). Quindi,
date le attitudini del criminale a maggiormente assimilare le energie
squilibranti dei motivi, ed a renderne più coerenti gli effetti, lo
stato proprio che ne seguirà, di squilibrio, sarà più differenziato o
specificato. Nel ritmo psichico le energie seguono la linea di minore
resistenza. Il fondo degenerativo del criminale, meno ostacolando
il predominio di tendenze malefiche, più ne rende agevole la
specificazione; il che vale tanto per la singola formazione psichica,
quanto per la continuità della intera vita psichica.



CAPO V.

Il processo cosciente del delitto. Stadio di formazione.


 1. Formazione naturale della psiche.—2. I germi malefici del delitto
 nei primordi della vita. 3. La genesi di forze antagoniste nella
 vita di relazione.—4. Il periodo primordiale di tendenze criminose
 nel fanciullo.— 5. Il secondo periodo formativo della personalità
 individua del delinquente.—6. La legge di imitazione nell’infanzia
 del delinquente.—7. La selezione organica degli elementi integrativi
 del delitto.—8. Il fenomeno della _simpatia_ e le sue leggi—9.
 Influenza dell’ambiente di famiglia e del fattore economico sul
 delitto; la educazione ed i pervertimenti ereditarî. —10. Influenza
 delle necessità sociali.—11. Effetto degenerativo dell’azione
 suggestiva criminosa.—12. Influenza dei motivi sentimentali che
 agiscono sulla immaginazione.

=1.=—La nostra vita psichica non è che un alternarsi di stati di
coscienza. Dalla sensazione alla ideazione, dalla volizione all’azione
il processo integrativo dell’io si risolve in atti successivi che o
si collegano o si elidono o si fondono insieme. La consapevolezza
della vita psichica comincia dal momento che lo stimolo, coefficiente
dinamico, agendo sulle nostre tendenze ereditarie od acquisite, entra
nel campo visivo della coscienza e ne muta la superficie.

Da siffatto momento ha principio la vita psichica con equivalenti
paralleli alle funzioni organiche. Da siffatto momento comincia il
processo di formazione della coscienza e nel singolo individuo si
rendono percepibili le prime distinzioni di qualità destinate ad
ulteriori progressi nel tempo.

Chi desideri formarsi esatti giudizî sul perchè di tendenze spiccate
ad azioni virtuose o meno, deve, fin da questo primo periodo, dirò
embrionale, della psiche, non tralasciare di notare tutti i modi onde
l’organismo psicofisico si va formando, e le leggi che ne regolano lo
sviluppo.

Avanti ci occupammo della delinquenza nella età dell’infanzia e ne
rassegnammo le somiglianze con la natura dell’uomo selvaggio. Simile
analogia ontogenetica e filogenetica, in gran parte, ha la origine
in germi ereditarî non per anco differenziati per l’adattamento
dell’ambiente sociale; ciò che, con l’opera del tempo, molto facilmente
potrà avvenire.

Volendo, frattanto, conoscere come, fin dall’indicato periodo, l’anima
del delinquente a poco a poco si venga plasmando, egli è d’uopo
rifarci alquanto indietro e, ripigliando la trattazione dei motivi o
dei determinanti al delitto, vedere quale efficacia essi giuochino in
concorso a tutti gli altri coefficienti, esterni ed interni, nel dare
il primo contenuto organico alla coscienza.

=2.=—La forma indistinta delle tendenze ereditarie ci apprende, che
nei primordi della vita i germi malefici del delitto siano involuti in
centri di energie di natura siffatta da non sottostare necessariamente
alla immanenza di speciale differenziazione. La ereditarietà,
tuttochè sia la principale scaturigine del bene o del male operato
dall’individuo, non è a concepirsi sotto l’aspetto di _causa fatale_;
chè, così dicendo, si trascurerebbero tutti gli elementi di ambiente e
di adattamento, i quali concorrono, simultaneamente o successivamente,
alla formazione dell’organismo psicofisico. Invece egli sembra più
esatto il pensare, che i germi ereditarî o, meglio, le energie
costituenti l’organismo dell’individuo, nella loro forma involuta
primigenia, diano luogo all’apparire di caratteri che facilmente
si confondono insieme ed agevolmente sono convertibili negli atti
esteriori.

La inclinazione al mal fare, all’altruismo, alla carità, alla
beneficenza sono qualità che in pratica possono effettuarsi in maniere
svariate. Mal fa l’egoista, l’ambizioso, il delinquente; eppure non si
dirà che l’uno equivalga gli altri. In breve, è verità incontrastabile
che la ricerca del male, o etico o giuridico, debba eseguirsi non
già in sè o nella essenza organica germinativa, bensì nei primi atti
esteriori con note differenziali.

Proponiamoci, dunque, il dovere di vedere perchè ordinariamente nel
fanciullo si riscontrino le qualità dell’uomo selvaggio; vale a dire
perchè nei primordi della nostra esistenza il delitto rimugghi dal
fondo dell’anima e desti l’allarme in chi n’è spettatore.

=3.=—Il sentimento primo fondamentale della nostra vita è il
sentimento di esistenza. Esistere non significa soltanto essere o
vivere, ma avere il senso immanente della potenzialità ad agire ed a
mettersi a contatto col mondo esterno. Insieme a questo sentimento un
altro ne sorge: il sentimento della difficoltà nell’esplicarsi, ossia
il senso di ostacoli frapposti al proprio funzionamento organico. È
dal contrasto dei due sentimenti suddetti che sorge la prima forma di
forze antagoniste nella vita di relazione; è dalle successive vittorie,
effettuate dalla potenzialità sugli ostacoli funzionali, che il
progresso personale si concreta con gradi vieppiù ascendenti.

Dagli atti riflessi dei primi mesi di vita, del fanciullo, alle azioni
reattive contro qualunque ostacolo si frapponga alla soddisfazione
dei più vivi suoi desideri, vi sono esempî d’una coscienza automatica
ed istintiva ad affermare vieppiù la prevalenza di energia del tutto
personale, base della vita incipiente della psiche e della identità
dell’io in mezzo alla varietà incessante dei fenomeni. Fra le relazioni
interne, o delle funzioni interne, e le relazioni esterne si stabilisce
un rapporto sempreppiù costante: più l’ambiente addiviene complesso e
più l’individuo, differenziandosi, si organizza, fino a che egli, in
mezzo a’ simili, assume fisonomia personale stabile.

=4.=—Or, considerate il fanciullo nel descritto periodo primordiale
di vita di relazione, e vi accorgerete, di leggieri, che, se germi
malefici egli ha ereditati, questi faranno la loro prima comparsa
nell’accentuare la energia reattiva personale verso intenti per nulla
altruisti, con la scelta di mezzi meno adatti all’ambiente civile.
In somma, a dir breve, la genesi psicofisica del delitto, mentre
biologicamente non si allontana dalle leggi dell’ontogenesi e della
filogenesi, leggi comuni a tutte le specie degli organismi viventi, si
ricongiunge al principio generale di perenne lotta per l’esistenza,
con la prevalenza degli organismi più adatti all’ambiente. Il senso
di delitto, a certe azioni eticamente condannabili e legalmente
reprimibili, trova la spiegazione giuridica nella necessità
dell’ordine sociale: la sua origine naturale deve attingersi
direttamente alle leggi della vita ed alle condizioni ond’essa si
accompagna pel progresso dell’organismo umano. Data la lotta tra
l’energia individuale e le energie antagoniste, si ha contrasto tra
stimoli e controstimoli, e l’aumento di potenzialità è a detrimento
della possibilità ad essere indirizzati dalla forza degli agenti
esterni che, o naturalmente o artificialmente, hanno effetto su noi.

La prima ed elementare differenza avvertita dal fanciullo,
nell’apprezzare l’entità d’un’azione, è improntata dall’attrattiva
di sentimento piacevole o doloroso. L’ostacolo, un impedimento alle
nostre funzioni, reca dispiacere; l’azione istintiva è di allontanarlo.
Il contrario avviene con obbietti piacevoli, i quali ci attraggono a
contendercene il possesso.

Il sacrificio di astenersi da ciò che piaccia è ben raro che si
esperimenti nel bambino. La ragione è perchè esso si connette ad un
processo di arresto, che nei primi anni della vita manca in noi.
Nel bambino la sensazione del piacere è seguìta immediatamente da
impulsione esterna: mancando l’ideazione dell’atto, il fenomeno è
semplicemente riflesso ed istintivo.

=5.=—Formatosi il primo abbozzo della personalità individua, i
dati della coscienza si vanno gradatamente aumentando e spunta la
prima volta la distinzione in principio semplicemente intuita poi
imposta dalla necessità di adattamento tra le azioni lecite e le non
lecite o, meglio, tra ciò che è conseguibile e ciò che dev’essere
rispettato. Le impulsioni verso oggetti o atti piacevoli sono frenate
dal contrasto dei controstimoli, di cui si comincia a percepire la
esistenza; il mondo esterno, durante la lotta, è rappresentato con più
precise modalità e confini; fino a che, nel ritmo di azioni e reazioni
crescenti, non cominci ad apparire la prima forma di equilibrio o di
squilibrio.

Il fanciullo, proiettando al di fuori la sua personalità, assorbe
dalle personalità altrui le energie similari alle ereditarie o,
accidentalmente, acquisite per sopravvenute modificazioni organiche.
Di qui i due potenti coefficienti della evoluzione o dissoluzione
personale, la _imitazione_ e la _simpatia_.

=6.=—Nessuno scrittore, che io mi sappia, ha dato al adeguata
importanza alla imitazione quale coefficiente genetico del delitto,
anzi quale mezzo principale di organizzazione spontanea della coscienza
del delinquente.

La origine della imitazione si connette ad un fenomeno di vera
_suggestione_, che distingueremo col nome di _motrice_. Ogni atto,
anzi ogni pensiero, ogni sentimento implicano movimento o muscolare o
cerebrale: movimento che deve trasmettersi esternamente.

I fenomeni telepatici, e ciò che la quotidiana esperienza ci apprende,
sono lì per dimostrarci che nei nostri centri cerebrali, ideativi,
emotivi o volitivi, si ripercuotono ininterrottamente movimenti che
ci vengono dal di fuori e che rispondono alla equivalenza di energie
in via di trasformazione. Reciprocandosi, in tal modo, la relazione
dinamica tra noi ed i nostri simili, finiamo col prendere le abitudini
mentali, le inclinazioni morali trasmesseci a contatto od a distanza.
La imitazione è il fatto più complesso del riferito principio. Essa si
connette dall’un lato alla energia potenziale delle qualità ereditarie,
dall’altro alle influenze attrattive degli atti o delle azioni
costituenti l’ambiente morale e civile in mezzo al quale ci esplichiamo.

È sì grande la influenza imitativa che, qualche volta, arriva alla
forza di contagio. Tra la infezione delle malattie fisiche e la
infezione delle malattie morali evvi sì stretta analogia che quasi noi
possiamo, per spiegarcene l’essenza, supporre dei microbi del vizio e
del delitto.

Alcuni scrittori, sforzandosi con pazienti osservazioni di costruire
una psicologia scientifica dell’infanzia, incorsero nel difetto di
origine di porsi sempre da un sol punto di vista; facendo le loro
osservazioni e gli esperimenti in ambienti privilegiati, tra fanciulli
nati e cresciuti in famiglie civili, con qualità ereditarie normali.
Ben altrimenti dovrebbe praticare chi desiderasse formarsi opinioni
illuminate sulla psicologia della delinquenza, il cui massimo esponente
si ritrova nei bassi fondi sociali, negli ambienti preparati alla
fecondazione spontanea dei germi del male.

Non giova farsi illusioni: la vita sociale, come ovunque si svolge, è
formata a strati sì differenti tra loro da non permettere neppure la
rassomiglianza di analogia. Pensieri, costumi, azioni son tanto diversi
dall’uno all’altro strato sociale che erroneo sistema sarebbe quello
di confonderne le osservazioni e le illazioni; peggiore il credere di
aver conseguito l’intento scientifico col raccogliere dei principî o
dei cànoni d’indole interamente relativa, di valore unilaterale.

=7.=—La imitazione ad assorbire, ad assimilare gli elementi
psicofisici del delitto succede, in ambienti adatti, per legge
spontanea di selezione organica. Il delinquente, piccolo o adulto, non
si accorge neppure delle infezioni malefiche delle quali è la vittima;
proprio allo stesso modo onde le più letali malattie ci trasmettono il
loro germe senza che ne avessimo consapevolezza. Durante il periodo di
incubazione, embriologico del delitto, la imitazione, agevolandoci i
mezzi di contatto e di riproduzione dei germi del male, è la via meglio
adatta per la trasmissione di energie criminose destinate a causare,
nel soggetto passivo, cambiamenti ed impulsioni a futuri delitti.

Per comprendere il meccanismo o la statica e la dinamica della
imitazione criminosa, noi dobbiamo ricordare un altro fenomeno
abbastanza trascurato in psicologia, il fenomeno della _simpatia_,
sulla quale non a torto Adamo Smith fondava la morale.

=8.=—La simpatia fisiologicamente si rapporta alla teoria delle
azioni riflesse; psicologicamente è l’attitudine a riprodurre in noi
i piaceri ed i dolori dei simili; sociologicamente è la base della
legge di solidarietà umana; naturalmente non è che uno dei tanti modi
della legge universale di attrazione. Le distinzioni, che delle forme
svariate della simpatia, massime sotto il riguardo fisio-patologico,
fecero gli scrittori, sono argomenti della importanza ad essa
generalmente attribuita e dell’obbligo che si ha di tenerne quel conto
che effettivamente merita.

Barthez distingue le _sinergie_ dalle _simpatie_; Tissot le simpatie
_attive_ e le _passive_; Hunter le simpatie per continuità e le
simpatie per contiguità. Noi, riferendoci al sistema meccanico
unitario, diciamo che anche la simpatia debba spiegarsi con la
legge di attrazione di centri di energie e con la più agevole
trasformazione di movimenti per le vie di _minore resistenza_. Quindi
è che la simpatia, nelle relazioni con i simili, è la ragione davvero
efficiente della imitazione; poichè questa non si verificherebbe se
tra esseri consimili intercedesse tale avversione da allontanarci
irremissibilmente l’uno dall’altro. In conclusione, e tenuto presente
tutto quanto è sopra detto, possiamo tirare l’infrascritta prima legge:
L’_attitudine ereditaria inclina verso l’azione attrattiva di energia
similare per la prevalenza di potere di simpatia_. L’osservazione
quotidiana è che i simili si attraggono con i simili; tra essi, qualche
volta, si desta una corrente di affinità irresistibile. Sono le
molecole fisiche sociali, che si attraggono, si unificano per formare
l’essere virtuoso o il delinquente: è l’immanente potere della vita
nelle variazioni delle forme omogenee ed eterogenee, è la perpetuazione
degli individui e delle specie nella selezione continua organica e
sociale.

La seconda legge, di evidente applicazione all’ambiente del delitto,
è che _la simpatia agisce con l’attenuare la forza di arresto delle
tendenze antagoniste, col rafforzare la efficacia degli stimoli
analoghi tra energie a contatto, con l’abituare l’attenzione a
trascurare ciò che meno ci alletta, con l’unificare i motivi sinergici_.

Chi abbia l’agio di osservare l’amicizia di individui dediti al
delitto, vedrà che tra gli stessi ogni divergenza di opinioni o di
abitudini tace allorchè trattasi di stringersi nella vicendevole
fiducia di sentirsi adatti a commettere date azioni, e nel
suggestionarsi, con sforzi reciproci, a non temere la minaccia della
legge o le difficoltà che ostacolano la perpetrazione del reo disegno.
La forza di simpatia duplica in ciascuno la spinta al delitto, come
smorza o attenua l’opera della controspinta; oltre che fa sorgere
un senso di compiacimento per l’opera propria, purchè questa riesca
gradevole altrui.

Una terza legge, che nelle osservazioni pratiche potrà tanto giovare,
è la seguente: _La simpatia, in quanto influisce ad organizzare
la coscienza criminosa, distinguesi in individuale o collettiva,
diretta od indiretta; la prima attiene alle persone con cui si abbia
uniformità; la seconda dipende dalla inclinazione a voler commuovere
favorevolmente la pubblica opinione_.—L’influsso della pubblica
opinione sull’animo del delinquente è di estrema considerazione.
Consistendo, d’ordinario, il delitto in prevalenza di _forza_ o di
_astuzia_, porta seco la lusinghiera persuasione del compiacimento
di coloro da cui amiamo essere ammirati e dell’ammirazione della
generalità degli uomini.

=9.=—La prima fonte di morale degenerazione è la mal costituita
famiglia; il primo rimarchevole fattore è l’economico.

Anche a non accettare le estreme conclusioni del materialismo storico,
che coordina tutti i fenomeni sociali al sottosuolo dei rapporti
economici e pretende che dall’espandersi delle energie produttive sieno
determinati gli incessanti contrasti, cause di cambiamenti nella vita
pubblica o privata, egli è ragionevole ritenere che la mancanza o la
deficienza dei mezzi necessarî alla esistenza ed alla disciplina delle
personali facoltà debba molto concorrere all’arresto d’incremento
progressivo dell’organismo fisico e morale. Il problema, tuttochè
complesso negli elementi, è di facilissima soluzione a chi attenda
a quanto avviene tuttodì sotto gli stessi suoi occhi. La miseria
è baratro scavato ai più nobili sentimenti morali, alle migliori
iniziative dell’esistenza: è tenebra in cui il lume della intelligenza
poco a poco si spegne; è causa di sconforto e di esaurimento per
le volontà più robuste e meglio agguerrite. A contatto forzato con
genitori scioperati, bevoni, dediti al vizio, al delitto; in mezzo a
gente non guidata che da motivi di egoismo; privi di controstimoli o
di esempî di virtù; col microbo latente e costituzionale del delitto,
chi vorrà pretendere atti onesti da uomini sì sventurati? Aggiungasi
l’opera incessante, potente dei pregiudizî, il falso convincimento
d’una morale fittizia esclusivista, e si avrà il dato giusto del come
e perchè la famiglia sia, nei bassi fondi sociali, la vera scuola
della demoralizzazione e degli istinti perversi.—Dimandato F. B., un
giovanetto di 17 anni, da me difeso pel reato di omicidio, dopo altre
due condanne per ferimenti, perchè mai, senza sufficiente motivo, in
tenera età si fosse reso colpevole di delitto sì grave, rispondendomi,
mi raccontò una lunga istoria di reati in famiglia, dei quali uno di
assassinio commesso dal padre morto in carcere, e concluse: «Che cosa
potevo far io se non uccidere il primo che mi avesse offeso?». Difesi,
in tempi diversi, sei individui della famiglia D. F., tutti per delitti
di sangue: l’ultimo rivoltosi al mio patrocinio, perchè responsabile
di ferimento, essendo stato richiamato sui precedenti dei congiunti, mi
rispose: «Non è a meravigliarsi; è malattia di famiglia!...».

La educazione può molto modificare i pervertimenti ereditarî, ed
aiutare lo sviluppo dei buoni semi: ma per educazione, osserva
Lombroso, intendiamo non le semplici istruzioni teoriche che di raro
giovano, anche agli adulti, per cui vediamo sì poco approdare la
letteratura, i discorsi, le arti dette moralizzatrici, e meno ancora
le violenze con cui al più si ingenerano degl’ipocriti, si trasforma
non il vizio in virtù, ma il vizio in un altro vizio; bensì una serie
di impulsioni, moti riflessi sostituiti lentamente a quegli altri che
furono cause dirette o almeno favorevoli al mantenimento delle prave
tendenze, e ciò col mezzo dell’imitazione, delle abitudini gradualmente
introdotte colla convivenza in mezzo a persone oneste e con precauzioni
sapienti per evitare che sorga in terreno adatto a proliferarsi l’idea
fissa che vedemmo divenire sì fatale nell’infanzia»[23].

=10.=—La seconda fonte più abbondante e più probabile di morale
degenerazione e di preparazione al delitto è l’ambiente di necessità
sociali analogo alla classe a cui ciascun di noi appartiene.

I fattori dell’umano progresso, generalmente intesi sotto il nome
comune di civiltà, in quanto sono elementi differenziati di maggiori
attitudini nella lotta per la vita portano la conseguenza di accrescere
la incapacità di adattarsi alle risorse di cui si contentavano i nostri
avi. Indi è che, come bene osserva Féré, la consumazione di alimenti,
di eccitanti, di materie d’ogni specie da soddisfarsi si accresce di
giorno in giorno.

«Per soddisfare i suoi bisogni incessantemente moltiplicati, l’uomo
si esaurisce nella lotta contro gli elementi; ed è per compensare gli
effetti di questo esaurimento ch’egli si sforza di chiamare in aiuto
delle deboli sue braccia le risorse del suo spirito, le quali dovranno
compensare con molteplici invenzioni la insufficienza delle lor proprie
forze. Ma ciascun nuovo sforzo di adattazione, ciascun progresso di ciò
che noi chiamiamo civilizzazione, è una nuova causa di esaurimento
il quale si manifesta ognora con più intensità sugli individui
maggiormente indeboliti. Questi individui divengono ben tosto incapaci
di continuare la lotta, e soccombono sia a disordini generali della
nutrizione, sia a degenerazioni più o meno localizzate, trasformandosi
in affezioni organiche diverse o in disordini funzionali con predominio
verso l’organo il più debole»[24].

Nelle attuali condizioni di lotta per l’esistenza, in particolare nelle
città, è sopratutto il sistema nervoso centrale che sopporta le spese
del lavoro d’adattazione; l’esaurimento può risultare tanto per sforzi
fisici che psichici. «Uno dei principali effetti dell’esaurimento
nervoso è l’incapacità dello sforzo continuato. È vero che per i
soggetti congenitamente sani e ben conservati il lavoro eccessivo non
determina che una fatica in generale facilmente riparabile; ma, se a
questo lavoro eccessivo si aggiungono delle privazioni di ogni sorta,
ne segue un esaurimento più profondo e più duraturo, il quale non pure
favorisce la discesa individuale, ma ancora prepara le attitudini
morbose della generazione seguente. È meno in ragione della fatica
personale che in ragione dell’esaurimento ereditario, dello spossamento
capitalizzato, che la razza subisce l’imposta progressiva della
degenerazione e diviene meno capace di sforzi produttivi»[25].

=11.=—I moltiplici esempî di vizî e di azioni delittuose agiscono,
sulla organizzazione della coscienza criminosa, con la forza di
stimoli suggestivi. Nè alcuno più dubita sull’effetto degenerativo
della suggestione in ambiente propizio alla germinazione di esempî
viziosi. Essa altera profondamente la psiche, producendo perversioni
nella sensibilità e nelle più alte funzioni cerebrali; giunge perfino
a mutare interamente i caratteri della personalità ed a far sorgere
inclinazioni e bisogni per lo innanzi sconosciuti. L’effetto equivale
ad una stratificazione graduale di sentimenti e di idee, all’abitudine
d’adattazioni coscienti o incoscienti a percepire in diverso modo la
realtà, a creazione di poteri psichici difformi dai precedenti, a
risultati psicofisici con relazioni ed indirizzi nuovi. Dopo alcun
tempo, più o meno lungo, il candidato al delitto si trova preformato e
preparato all’esperimento; non mancano che le occasioni, le quali, di
certo, non si faranno guari attendere.

Lo avete voi mai osservato quel fanciullo che, poco amante di
un’ordinata e costante occupazione, ama spesso sfuggire all’autorità
paterna e si abbandona al vagabondaggio; buona parte della giornata, di
niente altro preoccupato che di provar gusto nel giuoco, nei piccoli
vizî, negli atti di sopraffazione, nell’uso di audace astuzia pel
conseguimento di qualche intento, con imprevidenza dell’avvenire,
con trascuratezza di ogni atto meritevole di lode? Seguitelo nei
susseguenti anni della vita. Egli un bel giorno si ribellerà
all’autorità dei genitori; ne schernirà i consigli, acquisterà di sè
la coscienza autonoma d’una energia disordinata, in lotta con i freni
sociali, con chiunque gli apparisca di ostacolo alla soddisfazione
di bisogni resi urgenti dalla eccezionalità di vita. Lo sforzo di
vincere le difficoltà, nella lotta impegnata, si traduce in un aumento
di pericoli di soccombere, da un istante all’altro, sia sotto la
sanzione repressiva della legge, sia sotto la reazione altrui; finisce,
però, sempre o con l’esaurire la energia, causando qualche forma di
degenerazione, ovvero col trasformare fisicamente e psichicamente il
soggetto e spingerlo irremissibilmente nel baratro del delitto. È la
storia uniforme di quasi tutti i frequentatori della prigione: dalla
vita di disordine si passa al vizio; dal vizio al delitto.

=12.=—Non poca influenza deve attribuirsi a tutti i motivi
sentimentali che agiscono direttamente sulla immaginazione. È
incredibile dire quanta forza suggestiva sulla pubblica opinione e
sui singoli animi possano esercitar delle credenze artificiosamente o
morbosamente ridestate; dei sentimenti di malintesa pietà, di falso
entusiasmo, di un’attesa ansiosa, di un volere imposto fin con la
costrizione di morale supremazia. Dapprima quello che è impossibile fin
anche a pensarsi, appare possibile, ma sotto condizioni eccezionali;
poi si rende plausibile con le date circostanze di fatti; indi si
ritiene per sicuro, anzi certo, e finisce con l’impossessarsi degli
animi e col trascinarli fatalmente là dove la ragione non avrebbe
giammai permesso che si arrivasse.

La immaginazione, massimamente se ravvivata dal sentimento, è la
facoltà magica che tutto trasforma e colorisce, alcuna volta in bene,
quasi sempre in male. Chi potrà mai calcolare l’effetto dinamico,
sulla immaginazione di poveri degenerati o deboli di mente, prodotto
per la teatralità di drammi giudiziarî dai colori i più foschi, dalle
scene le più atroci? Chi è abituato, avvocato o magistrato, nelle
aule dei Tribunali e della Corte di assise, ha dovuto, oh! quante
volte, accorgersi che di fronte alla figura audace, feroce d’un
imputato od accusato, il pubblico minuto di persone indifferenti,
di donne, di ragazzi, restava estasiato, ammirato. In quelle ore di
pubblico spettacolo, in quel periodo di ansie, di godimento morboso,
la coscienza degli spettatori è così suggestionata, è così scossa che,
quando si arriva all’epilogo o della condanna o dell’assoluzione,
molti buoni sentimenti si saranno affievoliti, correnti passionali han
preso possesso della coscienza, germi deleterî di pervertimenti futuri
han messo radice: e dire che tutto questo succede perchè la giustizia
funzioni!



CAPO VI.

Le norme fondamentali della psicologia criminale.


 1. Si riassumono le principali verità in precedenza svolte.—2. Norma
 che guidar deve la conoscenza dei rapporti interni con i fenomeni
 esterni; legge principale di anomalia del delitto.—3. L’ordine
 morale ed il processo di arresto inibitorio.—4. L’_autosuggestione
 motrice_; legge della risultante impulsiva al delitto.—5.
 Rapporti dinamici e logici tra i motivi.—6. Processo organico ed
 accidentale dei motivi criminosi.—7. Conservazione e sviluppo dei
 fattori psicofisici del delitto.—8. Legge di _atipicità_; tipo
 antropologico del criminale.—9. Disintegrazione dell’anima del
 criminale; dissoluzione della funzionalità psicofisica organica.—10.
 In che, psicologicamente, consiste tale dissoluzione.—11. La
 teoria degenerativa del delitto.—12. La fenomenologia clinica
 di dissoluzione della personalità.—13. Norma per constatare la
 ipotesi del processo evolutivo della energia criminosa e la ipotesi
 d’intervento di qualche affezione patologica; differenza tra anomalia
 ed infermità; importanza psicologica del criterio della pena.—14.
 Inefficacia scientifica e pratica delle perizie psichiatriche.—15.
 Disposizioni dell’articolo 46 e 47 del Codice penale; quali sieno
 le norme dei periti perchè riescano a constatare le condizioni
 di integrità psichica necessaria alla imputabilità penale.—16.
 Necessità, pel perito, di una seria coltura psicologica.—17. In che
 consistano il metodo di _esperimento_ e quello di _osservazione_;
 l’indirizzo sperimentale nei fenomeni psicologici; come debbano
 servirsene i periti psichiatri.—18. Ragioni di antagonismo tra periti
 e magistrati: dovere del perito psichiatra; dovere del psicologo e del
 giurista.

=1.=—Pervenuti a questo punto sentiamo il bisogno di riassumere le
verità che sono la base di ciò che in prosieguo verrà svolto.

Abbiamo detto che il delitto sia un prodotto di attività psicofisica
effettuata nell’azione antigiuridica esteriore. Questa attività è
sottoposta alla _continuità_; il suo processo, nel tempo, ha un
principio ed una serie di atti consecutivi i quali cessano con la
violazione della legge penale. La detta attività, soggettivamente
presa, tende alla formazione della coscienza criminosa; gli atti
psichici corrispondenti si risolvono nell’associazione di fatti
elementari organizzati ed unificati secondo leggi statiche e dinamiche.
I fatti psichici criminosi non sarebbero possibili senza il fondo
di degenerazione ereditaria o acquisita, senza la _divergenza_ o
l’_allontanamento_ dell’attività psichica dalla comune linea di
condotta sociale. L’attività soggettiva del delinquente è causata
pel funzionamento di un’_energia criminosa_ specializzatasi nella
trasformazione, dell’azione esterna o interna dei motivi, in impulsi al
delitto; oggettivamente essa consiste nella serie dei fattori fisici e
sociali che predispongono l’azione esterna in antagonismo con l’interno
processo di arresto inibitorio e con i controstimoli reattivi.

=2.=—Ammessa l’anomalia del delitto, le leggi che ne accompagnano la
genesi e lo sviluppo debbono presiedere fin dai fattori elementari
dell’attività psichica; da quando incomincia la organizzazione della
coscienza criminosa con integrazione degli elementi costitutivi.

Nella serie dei rapporti interni con i fenomeni esterni, in particolar
guisa se trattasi di conoscenza di fenomeni sociali, la norma che
ne regola la disamina e la nozione è quella che non si scosta dalla
costanza di realtà delle cose. Sorprendere e concepire la realtà dei
fenomeni esterni val quanto sentire e rappresentare nel campo visivo
della coscienza la identica _attualità_ statica o dinamica di ciò che
corrisponde alla verità degli obbietti presi a considerare. Il che, a
ben riflettere, non si verifica se le condizioni antropologiche del
soggetto non sono in istato di equilibrio funzionale; se tra esse non
esiste coerenza di facoltà ed armonia di atti. Or, nella dinamica
del mondo psichico in relazione col mondo esterno, l’alterazione di
funzionamento avviene o perchè l’obbietto della cognizione non si
percepisce adeguatamente per difetto dei sensi, o perchè, percepito,
non si assimila che in modo erroneo. L’errore è relativo o alla
conoscenza o all’affettività, perchè o nasce da alterazione di nessi
di causalità, o è prodotto da esuberanza passionale del sentimento che
ci offusca la mente e fuorvia la volontà. Dicendo _condotta retta_,
vogliamo intendere conformazione delle nostre azioni alla realtà delle
esigenze sociali: con lo scostarci dalla realtà non soltanto neghiamo
implicitamente ed esplicitamente il nesso intrinseco di verità tra le
cose, ma ci allontaniamo dalla maniera onde le cose ci si rappresentano.

Ciò premesso, osserviamo che la legge principale di anomalia del
delitto è inerente allo stato di squilibrio di coscienza in contatto
col mondo esterno; essa si concreta nella tendenza ad alterare l’ordine
reale delle cose col seguire dettami di falsa logica. Questa tendenza,
che assomma i coefficienti psicofisici degenerativi, si sostanzia nella
preponderanza di sentimenti egoistici e nel difetto di adattamento di
relazione.

=3.=—L’ordine morale, o armonia di doveri e di diritti, non è che
adattamento di arresto delle tendenze individuali entro i limiti
imposti dalla necessità della vita in comune. Nel detto arresto è
riposto il fondamento del dovere etico. Chi non possa o non sappia
comprenderlo trovasi straniero tra simili: in lui gl’impulsi alla
soddisfazione dei bisogni s’impongono senza freno e la vita di
relazione si svolge attraverso continui sacrificî della felicità altrui
per assicurare la propria. Si consideri la fase evolutiva dell’anima
del criminale: ogni tappa sulla via del delitto è segnata da un
accumulo e da una scarica di energia; accumulo il quale, in definitiva,
non appare altrimenti che quale aumento di attitudine a date azioni
esteriori, mediante l’opera dell’adattamento. Gli atti psichici, dalla
sensazione alla volizione, sia che integrino o che disintegrino la
coscienza, sono riducibili ad accumulo o scarica di energia: in altri
termini, essi sono gli equivalenti di stimoli ed impulsioni, isolate od
organizzate, nel ritmo perenne della vita dello spirito.

=4.=—Il processo qui descritto di _selezione organica_ è specialmente
l’effetto di _autosuggestione motrice_. La vita sensitiva e la
percettiva, addivenute coscienti, si convertono in cause interne di
analoghi atti esteriori. Si giunge così—attraverso mutamenti di
coscienza—a rinnovare di continuo la fisonomia della personalità,
pur rimanendo integra l’unità sostanziale. Ma questi rinnovamenti non
restano inefficaci: essi finiscono con lo scuotere le basi naturali
dell’io e col creare delle inclinazioni, dei sentimenti e delle
volizioni per lo innanzi sconosciute.

In ciò è a segnalare lo sforzo sopportato per fissare il motivo così
da renderlo centro del nucleo accumulativo di energia la cui azione
immediata è di mutare i precedenti stati di coscienza nel novello stato
che è l’ambiente morale meglio adatto agli ulteriori gradi evolutivi
degli interni atti psichici. I modi, onde il novello stato di coscienza
si esplica, sono: _a_) di sopire o reprimere le correnti di attività
psichica inerenti agli accumuli di energie di precedenti stati; _b_) di
creare novelli centri di impulsività in proporzione della spinta del
motivo; _c_) di restringere o allargare il campo visivo della coscienza
nei confini permessi dalla efficacia quantitativa della energia
volontariamente accumulata.

Il motivo, tuttochè sia da noi concepito quale unità astratta, è, a
sua volta, risultanza di coefficienti dinamici decomponibili. L’idea
di offesa comprende tante idee sottostanti; il sentimento ed il
concetto della dignità personale violata, l’ingiustizia dell’atto,
le conseguenze del medesimo e via dicendo. «In un pensiero—scrive
l’Ardigò—anche singolo, di un uomo, molti e diversi sono gli elementi
psichici costitutivi: come gli elementi materiali in ogni individualità
fisica. E l’unità propria di un pensiero non è altro che il fenomeno
accidentalissimo della concorrenza dei momenti mentali, che entrano a
formarlo; vale a dire, in ultima analisi, delle sensazioni elementari
e dei tenuissimi risentimenti non avvertiti ed innumerevoli, nei quali
ciascuna di esse si risolve»[26]. L’estimare l’idea di offesa nel senso
logico di causa a reagire o di forza motrice alla vendetta, trascurando
gli elementi onde promana, sarebbe grave errore, poichè si verserebbe
nella ipotesi di spiegare l’ignoto con l’ignoto; l’ignoto della ragione
del delitto con l’ignoto insito a ciascun elemento inavvertito del
motivo impulsivo all’azione.

Raccogliendo le esposte osservazioni e facendone l’applicazione alla
nostra disciplina, abbiamo l’infrascritta legge: _che nella serie
consecutiva di stati di coscienza, per l’accumulo o la scarica di
energia criminosa, la risultante impulsiva al delitto è proporzionata
alla somma degli elementi psichici del motivo_.

=5.=—Non basta: proseguendo l’analisi degli elementi del motivo, ci
troviamo a considerare i rapporti dinamici e logici tra gli stessi.
Così, nella idea di offesa, gli elementi sopra enumerati si compongono
diversamente tra loro e la diversità trae al risultato: _a_) di
differenza qualitativa o quantitativa del motivo; _b_) di modalità o
fisonomia peculiare del medesimo. Il predominio della idea di dignitá
individuale violata, su i rimanenti componenti della idea di offesa,
ci trascinerà, per esempio, a ricorrere ad una riparazione per le vie
cavalleresche; prendendo la reazione, dirò così, fisonomia più analoga
allo stato di civiltà in cui si vive.

Il sentimento di ingiustizia dell’atto, se accompagnato da ambiente
morale corretto del paziente, indurrà costui a ricorrere all’ausilio
della legge. Ma, data la preponderanza, nell’offeso, di energia
reattiva impulsiva, con deficiente potere di arresto, si vedrà subito
l’effetto di immediata personale vendetta.

=6.=—Gli elementi dei motivi criminosi s’integrano per processo
organico, ovvero accidentale. L’integrazione organica è per
sovrapposizione di fattori similari agli ereditarî. La tendenza
ereditaria, per esempio, ai reati di sangue non raggiungerà subito
il grado estremo; ma si rafforzerà durante la perpetrazione di reati
consecutivi, passando dai delitti di lesioni all’omicidio; il che, nei
riguardi della forza dei motivi, vi dice che gli elementi, onde questi
si compongono, acquistano efficacia maggiore secondo la progressiva
integrazione nel tempo.

La integrazione si concreta o per _concezione_ e _discriminazione_
dei fattori fisici e sociali, o in virtù di _esperienza_. La serie
cogitativa degli elementi del motivo, obbietto della conoscenza,
comincia dalla oscura visione d’un mondo, dello spirito, confinante
con l’inconscio, e si estende ed eleva alla forma più complessa ed
evoluta del pensiero. Ne acquistiamo consapevolezza soltanto dopo
che ne _concepiamo_ la forza rinnovatrice di stati precedenti: ciò
che ratifica la legge di relatività, secondo il concetto di Bain, il
quale ammette che noi non percepiamo una impressione, non diventiamo
coscienti senza un cambiamento di stato o d’impressione.

Il processo di _discriminazione_ comincia dal momento che, accumulato
il materiale integrativo del motivo, ci sentiamo in grado di porre tra
gli elementi una distinzione qualitativa o quantitativa. Colui che
voglia dare sfogo all’ira, col far ricorso alla vendetta, dapprima
avverte in complesso i coefficienti determinanti all’azione criminosa,
non scorgendo innanzi a sè che l’intento d’un castigo da infliggersi
all’avversario; poscia egli distingue e misura la importanza (qualità)
e la efficacia (quantità) di ciascuno dei detti coefficienti in
relazione al fine da conseguire pel mezzo del delitto.

La esperienza completa la discriminazione, dando peso, per la
conoscenza degli effetti degli atti a compiersi, al valore
rappresentativo e logico di ciascun elemento del motivo. In che mai
va riposto questo valore? Nella possibilità maggioro o minore di
creare il nesso causale tra la idea astratta del motivo e l’intento
ultimo e reale del delitto: possibilità la quale, relativamente alla
ricerca della prova, si traduce in quel _perchè_ logico di imputabilità
generalmente inteso con la espressione di _causale a delinquere_.

=7.=—Un’altra legge qui ricorre: quella di _conservazione di sviluppo
dei fattori psicofisici del delitto_. Lo sviluppo non significa
soltanto accrescimento dinamico dei fatti, o aumento della energia
risultante pel composto organico degli stati di coscienza; ma significa
ben anche maggiore coerenza degli stati di già rassodati.

La educazione morale, abituandoci all’idea del bene, alla pratica
della virtù, forma il tipo dell’onesto; l’azione lenta o rapida,
che sia, del male, aiuta i germi degenerativi a metter radice e a
crescere; il rigoglio, che ne segue, è effetto duraturo di alterazione
e ricomposizione di sopravvenuti stati di coscienza.

Insomma, la energia criminosa, conservandosi, non perde le forme
psichiche acquisite; onde, in estremo limite, i caratteri differenziati
delle specie di delinquenti. È interessante osservare, oltre al già
detto, che la enunciata legge di conservazione è soggetta ad un ritmo
di qualità morali, che indicherò col principio di _compensazione di
qualità negative_. I termini più opposti e contrarî si compensano con
costanza infallibile.

Potremmo tracciare una tabella quasi esatta per scriverci, l’una
accanto all’altra, qualità di natura opposta e che pure ricorrono
nei singoli individui. La timidezza, per esempio, è compensata
dall’astuzia; la mancanza di discernimento e di riflessione è
compensata da grande impulsività. Sono osservazioni di pratica comune;
caratteristiche non sfuggite a scrittori di antropologia criminale. Ma
che questo debba riferirsi ad una legge, non credo sia stato detto.

=8.=—Avanzandoci nel processo di differenziazione dei caratteri dei
delinquenti, comprendiamo che ciò segue un’altra legge, la quale,
allontanando i singoli caratteri da quelli della comune degli uomini,
ci fa acquistare il concetto più preciso dell’anormalità integrata
di ciascuna specie di delinquente. Tale legge la denomineremo di
_atipicità_, appunto perchè per essa il delinquente, differenziandosi
dal tipo dell’uomo comune, ne apparisce da questo palesemente
dissimile. Quanto più l’atipicità è perfetta, altrettanto si ingenera
il tipo antropologico del criminale.

Discutere se questo tipo esista o non esista in forma perfetta, cioè
distinto al grado da essere una individualità a sè, è ignorare la
relatività delle umane concezioni, delle nozioni scientifiche.—Il
diritto penale è il portato della civiltà sociale; esso spunta tostochè
le relazioni individuali si tramutano in relazioni collettive, e la
idea della difesa personale si allarga fino al concetto di guarentigia
dell’ordine giuridico. Eguale processo evolutivo ha subita la idea
di delinquente. Dall’inimico individuale al tipo criminale evvi una
serie indefinita di concezioni di atipicità, le quali si distinguono
a seconda il grado di avanzamento del concetto del diritto di difesa,
dalla guarentigia della persona privata, rispetto alla integrità fisica
o morale ed ai beni patrimoniali, alla guarentigia delle relazioni tra’
simili e dei bisogni nascenti dallo stato di avanzata civiltà sociale.
Dire, dunque, secondo qualcuno, che il criminale rappresenti un tipo a
sè e che esso abbia qualità tali da non trovare riscontro se non con
folli e degenerati, non altrimenti deve intendersi che nel senso di un
essere racchiudente note sì spiccate da indurre se ne abbia speciale
concetto antropologico.

=9.=—Le svolte osservazioni ci agevolano il mezzo onde studiare la
psiche del delinquente da un punto nuovo di vista.

Ci siamo sforzati di dimostrare come dalla cenestesi, o sensibilità
generale, agli estremi e più complessi atti della coscienza criminosa
si proceda per alterna integrazione e disintegrazione, assorbendosi
ed assimilandosi i germi malefici ed affievolendosi i poteri morali
di arresto, con risultato ultimo di squilibrio funzionale instabile.
L’anima del criminale, abbiamo anche detto, si accompagna a forme
specifiche di degenerazione; ond’è che molta analogia esiste tra i
suoi atti e gli atti di persone affette da affezioni morbose. Anzi
alcuni non dissimularono il convincimento che il delitto, in fondo, non
sia che una delle tante specie della umana degenerazione, mettendo,
così, più in evidenza il lato patologico dello stato psicofisico del
criminale, e confondendo questo col pazzo morale e con l’epilettico
psichico. Noi, proseguendo il precedente sistema di studi, diciamo che
la morbosità del delitto sia un altro lato della genesi e sviluppo di
fenomeni psicofisici che, avendo la base in leggi puramente naturali,
possono però giungere ad assumere caratteri talmente patologici da
costringerci a ravvisarli sotto l’aspetto di vere affezioni morbose.
Lo stadio di formazione della psiche criminale, nel processo, dirò,
ordinario, non è che graduale trasformazione evolutiva di una energia
che, messa in moto dalla dinamica dei motivi, si organizza in istati
specifici di coscienza ed è la causa di azioni la cui equivalenza
morale è nella negazione della condotta comune informata a principî di
ordine sociale.

Ma—dato che il lato degenerativo del delitto si accentui ed affetti
sì il delinquente da trasformarlo in soggetto del tutto patologico—la
conseguenza è di assistere, non più a processi _evolutivi_ della
energia criminosa, ma ad uno stadio di _dissoluzione psicofisica_.
Anche nel delitto, dunque, e negli analoghi stati psichici, ha vigore
la legge della evoluzione e della dissoluzione; legge universale
degli esseri inorganici, organici e superorganici, ed a cui dobbiamo
riferire le nozioni della nostra disciplina se non vogliamo che essa si
distacchi dalla conoscenza unitaria fondamento dell’odierno indirizzo
positivo scientifico.

Vi sono forme fisiologiche e forme patologiche del delitto; la
distinzione serve a farci meglio apprendere il doppio lato
dell’identico fenomeno, non che il grado minore o maggiore del germe
degenerativo fondamentale del medesimo.

Delle distinzioni, per esempio, fin’ora seguite di delinquente di
occasione e di delinquente nato o epilettico psichico o pazzo morale,
possiamo ritenere che la prima specie risulti propriamente dalla forma
comune fisiologica di manifestazione della energia criminosa: non così
la seconda specie che si sostanzia nello stato morboso di evidente
_dissoluzione_ della funzionalità psicofisica organica.

=10.=—In che, psicologicamente considerata, consiste essa mai questa
dissoluzione?

Abbiamo detto che lo stato interno normale del delinquente sia
contraddistinto da _squilibrio_ funzionale _instabile_; ne abbiamo
inferito che da ciò appunto nasce il carattere di _anomalia_ del
delitto. Ora, ammesso il caso di malattia ereditaria od acquisita,
che, aumentando l’effetto degenerativo di germi criminosi, giunga ad
alterare talmente l’organismo da invertire o pervertire completamente
lo stato funzionale psicofisico, si avrà, in conseguenza, che lo
squilibrio instabile addiverrà _stabile_ e l’anomalia si convertirà in
_affezione morbosa_.

Krafft-Ebing scrive: «Tra gli arresti di sviluppo e le alienazioni
mentali v’ha un gruppo intermedio che comprende delle forme
psicopatiche le più svariate a seconda dei varî individui. Esse, in
rapporto con le malattie mentali propriamente dette, vanno considerate
come dei semplici vizî di conformazione, e tra questi e quelle
intercorre la stessa differenza che passa tra una _anomalia_ di
sviluppo ed una malattia. Del resto, la parentela che queste speciali
forme, di cui veniamo ad occuparci, hanno con le malattie mentali è
dimostrata prima di ogni altra cosa dal fatto che quelle molto spesso
rappresentano il rudimento, il periodo premonitorio, od uno stato di
transizione alle psicosi vere e proprie. Immenso è il pericolo che
corrono questi individui di perdere il _labile equilibrio_. A ciò
portano facilmente le critiche situazioni nelle quali essi facilmente
si trovano a causa della loro stravaganza e del deficiente adattamento
alla vita sociale, in dissolutezze di ogni genere (eccessi sessuali,
alcoolici, ecc.), ai quali essi sono singolarmente predisposti a motivo
della deficiente evoluzione del loro carattere, dell’astenia del loro
sistema nervoso e dell’anomalia della loro vita istintiva, ed in fine a
causa delle passioni e delle nevrosi le quali rappresentano una delle
molte manifestazioni della labe organica da cui sono bollati.—Ora,
appunto per il fatto che le loro funzioni psichiche più elevate
in parte non hanno raggiunto la loro maturità di evoluzione ed in
parte sono foggiate in modo pervertito; e altresì per il fatto che
in conformità di ciò questi individui deviano dal normale sviluppo
psichico e da ciò che costituisce il normale processo di formazione
della individualità psichica, essi si possono designare come dei
_degenerati_ e l’anomalia della loro esistenza psichica come una
_degenerazione psichica_.—Questi stati degenerativi hanno dei punti
di ravvicinamento e di transizione negli stati d’arresto di sviluppo,
inquantochè anche in quelli si tratta, in definitiva, di un cervello in
via di sviluppo che in questa sua evoluzione naturale viene disturbato
per delle cause organiche. Per altro, questo danno che il cervello
viene a risentire non ne ferma addirittura l’ulteriore sviluppo in
modo da portare per effetto finale la idiozia o una imbecillità; chè
anzi permette che esso sviluppo progredisca; soltanto ciò avviene in
una direzione morbosamente pervertita e spesso in maniera incompleta.
Questo disturbo della evoluzione cerebrale, pur non portando, come
dicemmo, ad una vera e propria debolezza mentale (a meno che nei
casi in cui trattasi di forme di transizione), rende difettoso lo
sviluppo delle funzioni psichiche più elevate (giudizio, sentimenti
ed idee morali). Mentre il processo formale della ideazione può
essere risparmiato, la elaborazione delle intuizioni fondamentali ed
universali superiori, sia nell’orbita della morale che in quella della
ragione e che guidar debbono un ben determinato volere, è incompleta e
non può farsi addirittura.

Ne risulta che in questi individui manca il carattere e lo spirito di
penetrazione del valore, dei doveri e dell’importanza della propria
esistenza. Le conseguenze psichiche di ciò sono la inettitudine a
raggiungere ed a mantenere una posizione nella società; la incapacità
a pensare e ad agire con salda energia e con coscienza sicura dello
scopo a cui mirasi, ad utilizzare i mezzi, come, ad esempio, il danaro,
a conseguire uno scopo elevato nella vita; la incapacità a condursi
secondo i dettami della morale, con il pericolo di dover soccombere
ad istinti immorali ed anche criminosi, i quali, per giunta, per lo
più sono pervertiti e si fanno sentire con una potenza veramente
morbosa. Il pubblico non vede in questi individui che dei vagabondi,
della gente di scarsa moralità, degli scialacquatori, dei delinquenti;
l’uomo di scienza, invece, vi riscontra le stigmate di un infralimento
delle funzioni psichiche più elevate, il quale può a volte aver i
caratteri di una vera e propria imbecillità.—Questi stati degenerativi
si distinguono poi dalle psicosi—quali malattie acquisite di un
cervello che nella maggior parte dei casi ha raggiunto il suo completo
sviluppo e che fin qui ha funzionato normalmente,—per il fatto che
sollecitamente e stabilmente le funzioni psichiche si alterano, per il
sopravvento che le anomalie dei sentimenti superiori e degli istinti
ed in generale del carattere prendono sopra i fenomeni intellettuali
(imbecillità, delirio, illusioni sensoriali); però anche sotto questo
rispetto è da avvertire che talvolta trovansi delle sfumature e delle
forme di transizione per il fatto che su questo fondo degenerativo si
possono sviluppare, sia a mo’ di episodio o come forme terminali, delle
psicosi. Talchè può dirsi che in questi stati degenerativi l’intimo
nucleo della personalità psichica venga colpito mentre trovasi in via
di sviluppo»[27].—Ed il Sergi: «Di che parlano quelle anomalie, quelle
deformità, quegli stati morbosi, quelle perturbazioni funzionali,
quando s’incontrano nel delinquente? di che sono indizio? Ricerchiamo.
O l’organismo psichico non si è mai formato, o è in dissoluzione; manca
l’equilibrio delle funzioni e manca assai spesso qualche elemento
integrante dello stesso organismo psichico. Il carattere o non esiste
affatto, o è a frammenti, mescolati i nuovi coi vecchi strati e
confusamente. La condotta diventa frammentaria e perciò squilibrata.
L’organismo psichico, cioè, non è normale, quando non è normale il
fisico; l’abnormità totale o parziale di questo apporta abnormità
analoga in quello: ciò è una condizione morbosa»[28].

=11.=—La unilateralità della teoria degenerativa del delitto segna
una fase dell’antropologia criminale, con i nomi, specialmente, del
Morel, Lucas, Ferrus, Despine, Thompson, Wilson, Nicolson, Maudsley,
Féré. Oggi appena, con i progressi fatti dalla psicologia sperimentale
e dalla psichiatria, i due campi dell’antropologia criminale, il
psicologico ed il patologico, hanno proprî confini delineati. È quindi
oggi possibile integrare le cognizioni tutte scientifiche intorno alla
psiche del delinquente, seguendone le ricerche funzionali nella fase
affatto normale o fisiologica e nella fase patologica, nello stadio di
evoluzione e nello stadio di dissoluzione.

=12.=—La fenomenologia clinica degli stati morbosi, a cui si riferisce
la fase degenerativa di dissoluzione della umana personalità,
è svariatissima quant’altra mai. La ereditarietà ha importanza
principalissima, fino ad ammettersi che vi sieno intere famiglie
fatalmente destinate alla degenerazione criminosa. Nel campo della
_funzionalità sensitiva_ spesso verificasi una abnorme suscettibilità;
dal _lato sensoriale_ si trova la propensione alle iperestesie, fin
anco alle allucinazioni, ed una accentuazione estremamente energica e
talvolta anche pervertita (idiosincrasia) delle percezioni piacevoli
o spiacevoli; in ciò che si riferisce alla _funzionalità vasomotoria_
si manifesta il labile equilibrio dei centri nervosi; dal lato della
_motilità_ si riscontrano, quali residui del disturbo funzionale
indotto da quei processi morbosi che colpirono il cervello durante la
vita fetale o l’età infantile, il nistagmo, lo strabismo, le paralisi
spastiche, gli accessi epilettici ed epilettoidi, ecc.; oppure, quali
estrinsecazioni di una reattività convulsivante agli stimoli sensitivi,
le smorfie della faccia, il tic convulsivo e via dicendo (Krafft-Ebing).

Nel campo della ideazione manca la coordinazione, la coerenza; vi è,
ora sistematicamente ora ad intervalli, insorgenza di idee coatte, di
intenti fissi o a sbalzi, senza motivi o interesse reale.

La vita affettiva è disturbata da impreveduti turbamenti, da morbosa
eccitabilità, che dà luogo, il più delle volte, a passioni impulsive,
ad atti irresistibili. Nell’animo di cotesti degenerati ora evvi la
calma ed il sereno, ora la tempesta e l’uragano: manca il centro
sicuro di gravità delle correnti psichiche, manca qualunque freno
morale. La facoltà che più se ne risente è la volontà, che è debole,
ed obbedisce alla azione rapida di stimoli accidentali, in forma
esplosiva; ovvero mostra impronte di tanta apatia ed indifferenza
da far sospettare che qualunque energia personale siasi spenta. Il
delitto, che sì di frequente corona l’opera disordinata di costoro,
finisce col concorrere a prestare le occasioni di più celere
dissoluzione psichica. La vita in prigione, tra stenti, al contatto di
altri degenerati, che facilmente si prestano a porgere l’esempio e le
istruzioni del male, crea l’ambiente meglio adatto di pericolosissimo
contagio morale, le cui tracce restano, durante la vita seguente, a
maggiormente disintegrare le poche attitudini che ancora rimanevano in
istato di integrità.

In generale, la media della intelligenza—nei
degenerati—delinquenti—è molto bassa. Molte volte noi ci inganniamo
alle apparenze. Confondiamo l’intelligenza con l’astuzia, con
l’avvedutezza nel disimpegno di peculiari atti della vita. Chi
è abituato, però, a frequentare la popolazione carceraria, ed a
studiarla, si accorge subito che la media dei delinquenti è affetta da
palese depressione psichica e che coloro, i quali mostrano maggiori
anomalie fisiche teratologiche od atipiche, sono anche meno adatti
ad un’associazione ideativa coordinata o ad atti volitivi coonestati
da intenti logici. «Malizia, simulazione ed insensibilità—scrive il
Marro—sono i tratti caratteristici di questi miserabili, discendenti
quasi sempre di genitori alcoolisti, neuropatici od alienati.
Le sorgenti dell’affettività sono in essi pressochè inaridite:
disamorati della famiglia, incapaci di amicizia ai compagni, essi
sono indifferenti per lo stesso loro benessere, che ogni momento
compromettono, ed incuranti della propria vita, di cui per un nulla
tentano spogliarsi col suicidio. La loro esistenza segna un tormento
continuo per tutti; per le famiglie cui procurano mille angustie, non
che per la società che è continuamente minacciata dalle stranezze dei
loro impulsi; ed in carcere, dopo avere stancate guardie e direttore,
vengono colle loro finzioni e simulazioni a mettere in imbarazzo
il medico, il quale, mentre le scopre, è obbligato a riconoscere
l’anormalità del loro stato psichico ed a tenerne conto nei giudizî
che emette su di essi, non che nel trattamento che adotta a loro
riguardo»[29]. Son cotesti i caratteri spiccati della forma più
culminante della dissoluzione psichica, la forma della pazzia morale.
Essa, secondo le osservazioni fatte dal Marro e che corrispondono a
verità, è così connaturata coi delinquenti che il numero dei pazzi, a
stretto rigore, abbraccierebbe buona parte di quanti frequentano il
carcere.

=13.=—Il psicologo criminalista, contemplando il delinquente nella
doppia fase, di uomo il cui organismo psicofisico si distingue per
speciali anomalie e di un degenerato affetto da grado più o meno di
dissoluzione, ha il dovere di domandarsi: come si farà a porre un
criterio teoretico il quale riesca sufficiente, nella pratica, a far
bene indicare quando, per assodare la causa del delitto, si debba far
ricorso al processo evolutivo di energia criminosa, e quando si debba
accontentarsi di constatare l’azione morbosa di qualche affezione
patologica? Ben osserva il Maudsley, che come in tutti i fatti naturali
v’hanno gradazioni d’intelligenza dal genio all’idiozia, così ancora,
secondo la legge naturale, v’hanno gradazioni della forza morale fra la
suprema energia d’una volontà ben costrutta e l’assenza completa del
senso morale. Ed in oltre, egli aggiunge: fra il delitto e la pazzia
corre una linea intermedia; da una parte osservasi poca pazzia e molta
perversità; dall’altra è insignificante la perversità e tiranna la
pazzia[30].

Insomma, ritornando a quanto già scrivemmo, lo squilibrio psicofisico,
caratteristica del delinquente, allorchè si arresta a semplice anomalia
funzionale o percettiva o di stati di coscienza, ci faculta a servirci
delle comuni nozioni che sono il fondamento della imputabilità; se poi
esso giunga a prendere le parvenze di stato patologico, effetto di
disintegrazione psichica morbosa, ci costringe a ricorrere al giudizio
peritale del medico, con previsioni di trovarci dinanzi piuttosto ad un
infermo che ad un delinquente.

Ma—si aggiungerà—e qual’è la differenza tra anomalia ed infermità?
Comincio con l’accettare quanto scrive il Maudsley a proposito della
nota zona intermedia tra pazzia e stato di ragione, e che essa sia
popolata da così fatti equivoci che mette bene studiare. «A nostro
avviso—la conseguenza d’un simile studio, sebbene a tutta prima
sembra miri a cancellare distinzioni da tutti accettate, e a rendere
incerto ciò che prima appariva sicuro, non può che riuscire ad una
reale utilità. L’esperienza giornaliera ci addita come molte persone,
senz’essere pazze, presentano talune originalità di pensieri, di
sentimenti, di carattere che le fan ben spiccare dalla comune degli
uomini e le rendono oggetto di rimarco. Può darsi che queste persone
divengano o non divengano mai pazze, ma esse discendono da famiglie
in cui esiste o la pazzia o qualche altra affezione nervosa; esse,
infatti, portano nel loro carattere l’impronta della loro peculiare
eredità: hanno un temperamento nervoso particolare, una certa
_nevrosi_, e talune altre ancora un temperamento più peculiarmente
pazzo, vale a dire una _nevrosi mattesca_» [31].

Ritenuta la continuità di processi psicofisici dallo stato normale
all’esquilibrato ed al patologico, a meno che non ricorrano casi
spiccati e tipici da non farci dubitare del grado cosciente di azione
nella perpetrazione del delitto, il criterio da seguire, in pratica,
credo che debba, _a posteriori_, attingersi da una nozione estranea
alla diretta indagine del delinquente, dalla nozione della _pena_. Il
perito, il magistrato, invitati a pronunciarsi sulle condizioni fisiche
e morali d’un delinquente, sono obbligati, mercè il cumulo di fatti che
potranno assodare, di risolvere il quesito, se, nella specie, trattisi
di fatto imputabile e punibile _penalmente_, ovvero se trattisi di atti
che si rapportano ad una causa morbosa, priva delle qualità necessarie
perchè si ricorra a mezzi repressivi. Assunto gravissimo, siccome
ognun vede; ma che, con l’uso dei mezzi sperimentali o peritali, onde
disponiamo, può essere conseguito con speranza di molta esattezza.

Il criterio della pena, innanzi enunciato, è criterio, oltre che
giuridico, sopratutto psicologico; perchè esso implica il concetto
che, e riguardo all’individuo e riguardo alla società, sia vano
ricorrere a mezzi repressivi nel caso che l’individuo, incapace a
comprenderne e risentirne la efficacia, non ne otterrebbe alcun utile;
e la società, in contemplazione della incoscienza del soggetto,
ne risentirebbe piuttosto pietà e repugnanza. Anzi, il criterio
psicologico ne avverte che la pena, in esseri degenerati o mentecatti,
è nuova cagione di danno all’individuo e di pericolo alla società;
all’individuo che, nell’ambiente propizio del carcere, perverrebbe
al risultato di definitiva dissoluzione psichica, ed alla società
che da un essere di simile specie dovrebbe, in avvenire, temere
maggiori delitti. Non sarà mai proclamata abbastanza la verità, che
rischiarar deve l’attenzione di ognuno sulla necessaria instituzione
di ricoveri di cura di uomini la cui eccezionale natura degenerata
attende dalla scienza e dalla pratica illuminata i pronti rimedî! La
legge repressiva, la pena per costoro non ha effetto di sorta, quando
pure non concorra ad esserne di nocumento. Il pubblico, che assiste
nelle aule di giustizia, il magistrato che pronuncia la sentenza, pur
troppo si accorgono della differenza onde la pena è accolta da molti
condannati: essi ciò chiamano cinismo, depravazione morale!—Nessuno,
o qualcuno appena, si accorge che il presente stato di indifferenza
cinica sia causato da incoscienza; da sì profondo ottundimento morale
che non lascia neppure il modo, al disgraziato, di comprendere quanto
avvenga a lui dintorno. Non una, ma tante volte, dopo grave condanna,
il detenuto è stato condotto via tra la curiosità ed i lazzi del
pubblico: il dì seguente—dopo 24 ore!—recatomi in carcere a porgere
la parola di conforto al misero, che indarno io cercai dimostrare
ai giudici trattarsi di epilettico o di pazzo morale, egli, tra lo
stordito e l’apatico, mi ha dimandato quale condanna si abbia ricevuta,
non avendo nulla compreso della sentenza del tribunale!

Le guardie carcerarie, se dotate di alquanta coltura e sano
discernimento, hanno intimo il convincimento della inutilità della
pena per la maggior parte dei detenuti. Essi sanno che costoro, nelle
carceri, sono il tormento dei superiori: la disciplina, per loro,
è motivo non di freno ma di intemperanza, di stranezze, di atti
pazzeschi. Molte volte, per liberarsene o aver tregua, li assegnano
nelle infermerie dove il detenuto è trattato da infermo, mentre non ha
mali apparenti; trova, però, la calma relativa, vivendo lontano dagli
incentivi ad esaltarsi, a commettere atti pericolosi verso le persone
con cui tratta.

=14.=—È utile aggiungere alcune altre osservazioni, che riflettono
sopratutto il modo onde generalmente si suol procedere alle perizie
psichiatriche su delinquenti il cui stato di mente offra dei sospetti
di infermità. Oggi, in generale, i cultori di psichiatria comprendono
il dovere di erudirsi negli studi di psicologia per le ricerche da
praticare sugli stati mentali dei soggetti loro affidati. Ma, oh
quanto talune perizie lasciano a desiderare di esattezza scientifica
e di chiarezza di vedute!—Ordinariamente gli esami procedono
piuttosto bene nella constatazione delle misure antropometriche, delle
rilevanti note somatiche, della vita psichica minore (sensibilità,
emotività, affetti, sentimenti); ma quando si passa alla vita psichica
superiore, a dover assodare la maniera onde funziona la coscienza, la
intelligenza, la volontà, i periti psichiatri, se non posseggono soda
coltura psicologica, incorrono in inesattezza ed errori da meritare il
biasimo del giudice, chiamato, sui lumi da essi forniti, a decidere
sulla imputabilità del prevenuto. Lo stesso Lombroso, che con l’ultimo
suo libro dal titolo «La perizia psichiatrico-legale» si è proposto
di assegnare i cànoni ed i metodi da seguire nell’esame peritale dei
delinquenti, è abbastanza limitato nella parte psicologica. Egli dà
molto rilievo alla scrittura, alla pronunzia, alla misura dell’emozione
e riflessi vasali; alla attenzione; alla suggestibilità visiva; alla
misura del campo appercettivo; alla memoria, ed a niente altro!
Dovremmo concludere che, a seguire i dettami peritali del Lombroso, ben
scarso materiale psicologico avrebbe a sua disposizione chi volesse
risolvere, nei singoli casi, il problema della responsabilità.

=15.=—L’ultima conclusione, cui deve tendere il perìto psichiatra, nel
campo psicologico, è di risolvere il problema giuridico col constatare
se nel fatto in esame esista o non esista punibilità per colui che
n’è autore, tenuto conto del suo stato di mente. Acciò si riesca
nell’arduo còmpito, è necessario che, prima di qualunque altra nozione,
il perito abbia il concetto esatto del contenuto giuridico degli
art. 46 e 47 del nostro Codice penale. Nel primo articolo è detto:
«Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto,
era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza
o la libertà dei proprî atti». La parola _mente_, giusta quando
scrisse il Zanardelli, va intesa nel suo più ampio significato, sì da
comprendere tutte le facoltà psichiche dell’uomo, innate ed acquisite,
semplici e composte, dalla memoria alla coscienza, dall’intelligenza
alla volontà, dal raziocinio al senso morale. Il legislatore, con la
formola sanzionata, non ha voluto, dunque, indicar altro se non uno
stato psichico affetto da tale malattia che tolga il funzionamento
di qualcuna o di tutte le facoltà onde promana la consapevolezza
dell’atto antigiuridico e la libera esplicazione della volontà. Chi
non ha compresa la natura criminosa di ciò che operava o, per forza
irresistibile impulsiva, non era in condizione di far uso dei poteri
inibitorî, non deve rispondere penalmente del suo operato: egli è un
povero infermo, non un delinquente.

Il perito, usando delle cognizioni tecniche, desunte dalla psichiatria,
ha il dovere, primamente, di constatare l’esistenza d’una malattia,
fisica o psichica, che affetti il funzionamento cosciente ed affettivo
del soggetto; e non basta: dopo di aver fatto questo, egli entra nel
dominio esclusivo della psicologia, perchè è chiamato a dire se e fino
a che punto lo stato morboso abbia agito sugli atti coscienti e liberi.
Poichè, o lo stato morboso è sì grave da far scomparire completamente
la imputabilità penale dell’atto, e quindi la responsabilità, e si
versa nella ipotesi dell’art. 46; ovvero esso è tale da scemare
grandemente la imputabilità, senza escluderla, e si versa nella
ipotesi dell’art. 47. Riassumendo, dunque, il problema complesso, la
cui soluzione formar deve il còmpito del perito, diciamo che questi
debba: _a_) intendere chiaramente il disposto di legge, sulla cui base
il giudice è necessitato di far ricorso al di lui giudizio tecnico;
_b_) indagare se nel soggetto si riscontri, o non, una malattia la
quale interessi il suo funzionamento psichico; _c_) determinare la
facoltà lesa o, meglio, quale regione cerebrale e quale serie di atti
psichici ne risentano la patologica influenza; _d_) dire il grado
maggiore o minore della malattia e della sua influenza; _e_) esaminare
se la detta influenza si versi nel campo della coscienza od in quello
della volontà, e se produca l’effetto di alterare, di restringere,
di sopprimere il primo, annullandone la interna _visione_; od anche
di turbare il secondo sì da abbattere e distruggere il potere della
pienezza di arbitrio.

A prescindere dalle cognizioni tecniche attenenti alle forme molteplici
di malattie che affettano la sensibilità, la ideazione, l’attenzione,
la emotività, la personalità, la volontà, la libera o spontanea
esplicazione degli atti interni; il perito, nel risolvere il problema
psicologico, cioè il problema del _funzionamento normale o meno
della coscienza e della volontà, non che il grado di responsabilità
soggettiva dell’atto formante obbietto d’imputazione_, deve _a_) aver
chiare ed esatte nozioni psicologiche sulle leggi onde si producono e
si effettuano tutti i fenomeni interni, dalla sensazione all’ideazione,
dall’attenzione al giudizio, dalla riflessione alla volizione,
dalla consapevolezza dell’io alla sua spontanea manifestazione nel
mondo esterno; _b_) saper cogliere il _motivo_ vero dell’azione
incriminata, misurarne ed apprezzarne l’efficacia dinamica in relazione
agli stadî di coscienza del prevenuto; _c_) mettere in palese, non
solo il rapporto logico tra il motivo e l’azione, ma ancora lo
stato _funzionale_ della coscienza e della volontà circa l’effetto
esercitato dal motivo o isolatamente (ipotesi di _responsabilità_) o
in concorso con cause patologiche (ipotesi di _irresponsabilità_), per
concludere alla normalità o non degli atti psichici ed alla spontaneità
(_libertà_) dell’azione, ovvero al carattere di _necessità_ della
medesima.

=16.=—Donde trarrà il perito le cognizioni utili ed i metodi per
riuscire nell’intento di risolvere il problema concernente lo stato
psichico del prevenuto, non che le condizioni di responsabilità per
l’atto da lui compiuto? Dai sommi scrittori di psicologia. Ma non è
sufficiente; chè, in complesso, i risultati della odierna psicologia,
per quanto ammirevoli, non sono poi tali da suffragare abbastanza tutte
le esigenze pratiche a cui deve giungere l’esame peritale. Per provare
l’asserto e perchè nello studio del delinquente si abbia il concetto
dei giusti confini, entro i quali debbono limitarsi le pretese del
perito, ci permetteremo, a compimento di questo capo, di tracciare
sommariamente le nozioni alle quali deve farsi ricorso se vuolsi avere
i criterî scientifici in materia di coltura generale psicologica.

=17.=—Qualunque fenomeno psichico è di sua natura un processo composto
risolvibile in elementi. Anche in ciò evvi la riprova d’una legge
fondamentale di natura, che ogni parte sia un tutto e che ogni tutto
sia il prodotto di parti; non solo, ma che ogni formazione naturale
sia il risultato di unità relative. Così, i primi elementi psichici,
secondo l’Ardigò, sono i proestemi, le sensazioni minime, i dati
ipotetici non sperimentabili direttamente e che entrano nella somma di
ciascuna sensazione da noi percepita.

La psicologia, avendo per proprio oggetto non contenuti specifici
dell’esperienza ma l’_esperienza generale nella sua natura immediata_,
non può servirsi di altri metodi che di quelli usati dalle scienze
empiriche, così per l’affermazione dei fatti, come per l’analisi e pel
causale collegamento di essi (Wundt).

Due sono i metodi, di cui dispongono le scienze naturali,
l’_esperimento_ e l’_osservazione_. L’_esperimento_ consiste,
giusta le definizioni del Wundt, in un’osservazione, nella quale i
fenomeni da osservare sorgono e si svolgono per l’opera volontaria
dell’osservatore; l’_osservazione_, poi, in senso stretto, studia i
fenomeni senza un tale intervento dello sperimentatore, ma così come si
presentano all’osservatore nella continuità dell’esperienza.

L’indirizzo sperimentale (e vedremo fino a che punto) nei fenomeni
psicologici è tutto una conquista dell’odierno positivismo filosofico.

Esso, per non parlare che dei fondatori, si deve sopratutto all’opera
di Tetens, del Weber, del Fechner, del Wundt. Gli esperimenti che
si eseguono nei laboratorî sono di due specie; alcuni attengono
alla misura della sensazione ed all’esame delle rappresentazioni,
rientrando nel còmpito della _psicofisica_; altri si estendono ai
processi psichici più complessi ed interessanti, formando materia
della _psicometria_. L’indole del mio libro mi dispensa dal rassegnare
tutti i sistemi pratici che si tengono per constatare le leggi,
a cui obbediscono i rapporti tra gli stimoli e le sensazioni, le
rappresentazioni di spazio e di tempo; non che dal ricordare che,
con l’uso degli esperimenti _psicometrici_, si pervenga a misurare
il cosidetto _tempo di reazione_, l’estensione della coscienza e
dell’attenzione, i processi mnemonici ed associativi. Il Wundt pretende
che la psicologia, per il modo naturale in cui sorgono i processi
psichici, è costretta al metodo sperimentale, appunto come la fisica
e la fisiologia. Egli spiega: «Una sensazione si presenta in noi
sotto condizioni favorevoli all’osservazione, se essa è suscitata
da uno stimolo esterno; una sensazione di suono, ad esempio, da un
movimento sonoro esterno, una sensazione di luce da uno stimolo
luminoso esterno. La rappresentazione di un oggetto è originariamente
determinata da un insieme sempre più o meno complesso di stimoli
esterni. Se noi vogliamo studiare il modo psicologico in cui sorge una
rappresentazione, noi non possiamo usare alcun altro metodo che quello
di imitare questo processo nel suo svolgimento naturale. In questo
modo abbiamo il grande vantaggio di potere volontariamente variare le
rappresentazioni stesse, facendo variare le combinazioni degli stimoli
agenti nelle rappresentazioni, e così di giungere ad una spiegazione
dell’influenza che ogni singola condizione esercita sul nuovo prodotto.
Le rappresentazioni della memoria non sono, è ben vero, direttamente
suscitate da impressioni sensibili esterne, bensì le seguono solo
dopo un tempo più o meno lungo; ma è chiaro che anche sulle loro
proprietà, e specialmente sul rapporto loro alle rappresentazioni
primarie svegliate da impressioni dirette, si giunge alla più sicura
spiegazione quando non ci si affidi alla loro casuale apparizione,
ma si tragga vantaggio di quelle immagini che sono lasciate dagli
stimoli precedenti in un modo sperimentalmente regolato. Non altrimenti
si fa coi sentimenti e coi processi volitivi; noi li potremo porre
nella condizione più opportuna ad un’esatta ricerca, se a nostra
volontà produrremo quelle impressioni che, secondo l’esperienza, sono
regolarmente legate alla reazione del sentimento e del volere. Non vi
è quindi alcuno dei fondamentali processi psichici pel quale non sia
possibile usare il metodo sperimentale ed egualmente alcuno per la cui
ricerca questo metodo non sia richiesto da ragioni logiche»[32].

Io non oso contestare al Wundt quanto egli ritiene nel campo della
psicologia generale; forse qualche eccezione va fatta per i sentimenti
e la volontà; ma, ripeto, fino a che noi versiamo nell’esame di
processi psichici comuni, il metodo sperimentale riuscirà di
inestimabile vantaggio. È lo stesso per i processi psichici criminosi?

I periti psichiatri se ne servono, con buon risultato, nell’esame della
vita psichica inferiore (la sensazione, la emotività, l’appercezione,
la memoria); ma che diremo delle applicazioni da essi fatte nel
dominio della intelligenza o della coscienza, e tanto più nel proporsi
l’intento di risolvere il quesito psicologico-giuridico intorno alla
responsabilità del prevenuto pel reato da lui commesso? I periti, di
consueto, credono di aver adempito al dovere se, con adatti istrumenti,
abbiano avuto i dati psicofisici del soggetto; convinti che gli atti
di coscienza, di intelligenza o di volontà non dipendano che dalla
vita fisica, o che il parallelismo psicofisico si estenda, non solo
ai processi sensitivi ed appercettivi, ma eziandio a tutti gli altri
che costituiscono la nostra vita psichica superiore. L’errore non è
perdonabile. Poichè la vita dello spirito, nella crescente evoluzione
delle funzioni coscienti, si appalesa di grado in grado più svariata,
più complessa: dagli elementi protoestematici, o dalle impercettibili
e minime sensazioni, alle più alte concezioni dei rapporti causali tra
le cose ed alle ideali aspirazioni d’un bene altruista, vi è, è vero,
continuità di processi, ma vi è puranco sì differenziata distinzione
qualitativa di fenomeni, che, ad estimarne l’intima essenza, non
bastano le leggi apprese per spiegarci gli atti puramente fisici
della vita psichica inferiore. A tutti ormai è noto, che negli atti
o nelle manifestazioni della psiche non è a cogliere solamente una
somma di elementi informativi, quantitativamente multipli; ma un’unità
ed identità che, nel mentre suppongono dei processi composti, si
staccano dalla serie degli stati sottostanti e permangono con attività
e leggi proprie. La sensibilità, la emotività, chi ne dubita?,
si ricongiungono, per leggi dinamiche, con la potenzialità della
intelligenza e della volontà: ma altra cosa è la eccitazione prodotta
da movente passionale, altra cosa scorgere il nesso causale tra un atto
e la responsabilità che se ne assume; tra la scelta di qualsiasi mezzo
e l’effetto che vuolsi raggiungere; tra la rappresentazione del motivo
a delinquere ed i moltiplici stati di coscienza prodotti; tra il cumulo
di nozioni e di apprezzamenti sulla natura soggettiva dell’agente
e la conclusione giuridica di ammettere od escludere o graduare la
responsabilità delle azioni di cui questi fu causa.

=18.=—Il delitto, avvisato soggettivamente, è un processo di
organizzazione della energia criminosa. La scienza sua propria è la
psicologia criminale. E, allo stesso modo che ogni scienza si risolve
in unità elementare—la biologia nella molecola, la fisica nell’atomo,
la chimica nella monade eterea—la psicologia criminale si risolve nei
motivi, che sono i minimi psicofisici del fenomeno complesso dell’anima
del delinquente.

Ha il perito la coltura sufficiente per risalire, con analisi minuta,
dal motivo criminoso alla determinazione del delitto? Ha egli
l’abitudine, per non dir l’attitudine, di riunire in sintesi i dati
raccolti e rivolgerli ad illuminare sè medesimo ed il giudice nella
risoluzione, alla base di criterî affatto giuridici, del problema
penale? Quante volte mi son trovato di fronte a coltissimi medici, i
quali, credendo di avere esaurientemente risposto all’ufficio di perito
psichiatra, col constatare la esistenza, nel soggetto sottoposto ad
esperimenti, di qualsiasi manifestazione psicopatica, concludevano,
senz’altro considerare, pel vizio totale o parziale di mente; per la
irresponsabilità o per la semiresponsabilità! Essi, come negli esercizî
acrobatici, facevano un salto nel vuoto: e se la parola del magistrato
o del difensore li richiamava all’apprezzamento psicopatologico della
causale del delitto, al decorso dell’azione impulsiva di qualche
motivo; eppoi, allo stato normale o transitorio di coscienza, al grado
e specie di coordinazione associativa delle idee, dei sentimenti, delle
volizioni del prevenuto; alla estensione del di lui campo visivo di
coscienza, all’attitudine di attendere, di riflettere, di prevedere;
alla forza maggiore o minore di far uso dei poteri inibitorî; alla
fisonomia che d’ordinario prendono gli affetti; alla vivacità delle
immagini, alla energia delle idee; alla specie dei ligami delle vita
di relazione; ed, in ultimo, al complesso di levatura della mente
del soggetto, di energia della sua volontà; i periti, d’ordinario, o
rimanevano incerti e reticenti, ovvero finivano col confessare che
ciò non rientrava nel loro assunto tecnico. Peggio, poi, è avvenuto
nel caso siasi richiesto al perito, che cosa ne pensasse, tenuto
conto dello stato psicopatico dell’imputato, circa la responsabilità
attribuitagli del fatto compiuto. O non si aveva che risposta evasiva,
ovvero i giudici doveano accorgersi che una qualsiasi risposta era
data senza tener punto calcolo, non solo dello stato del soggetto,
bensì di tutti i coefficienti processuali; epperò si è sempre finito
coll’annettere minima importanza al giudizio dell’uomo che dicesi
_tecnico_! Di qui l’antagonismo sistematico tra periti e magistrati.
Si riconosca una volta per sempre: le perizie, come generalmente son
praticate, hanno gran valore pel lato esclusivo dell’esame patologico
dell’imputato: il rimanente appartiene al cultore di psicologia,
appartiene al giurista: voler confondere l’un ufficio con l’altro è lo
stesso che emettere giudizî unilaterali, o erronei o punto confortati
dai lumi della scienza. Le nozioni peritali debbono servire di punto di
partenza nell’apprezzamento dello stato psichico dell’accusato; esse,
cioè, debbono servirci per premettere che l’atto incriminato non possa
avere che decorso morboso; mentre, il pronunziarsi sul come e perchè
del decorso istesso, sulla genesi e sulle fasi di progresso, non che
sulla opportunità di ricorrere, tenuto riguardo alla difesa sociale
ed al pericolo di ripetizione dell’atto commesso, a mezzi repressivi,
rientra nella sfera di altra coltura che non sia la patologia o la
psichiatria: è per altra via, che quella segnata dal perito, che il
criterio _a posteriori_ della pena, del quale avanti facemmo motto, si
integrerà col criterio _a priori_ dell’intima conoscenza del prevenuto,
ed è così che il giudice emetterà il suo giudizio retto ed illuminato.



CAPO VII.

Processo cosciente del delitto. Stadio di sviluppo.


 =1.=—Le diverse classi di elementi constatativi dell’io cosciente
 del criminale.—2. Sviluppo del carattere individuale; sua importanza
 nella psicologia criminale dell’infanzia.—3. Condizioni e modi
 onde si organizza la coscienza comune e quella del delinquente.—4.
 Le fasi di successiva integrazione della psiche del criminale.—5.
 Esame delle emozioni criminose; le diverse teoriche—6. Svolgimento
 della essenza unitaria dell’evento psichico, dalla forma monistica
 alla manifestazione complessa del pensiero.—7. Errori di James e di
 Lange intorno alla genesi delle emozioni.—8. Natura delle emozioni
 criminose.—9. Reazione, periodicità, antagonismo delle emozioni:
 la reazione.—10. La periodicità.—11. L’antagonismo.—12. La
 dissoluzione psicologica; teorica meccanica.

1.—Lo stadio di sviluppo di coscienza del delitto suppone un
materiale, ereditario ed acquisito, di fattori antropologici, fisici e
sociali criminosi. L’io del delinquente si viene plasmando gradualmente
quale prodotto di assimilazione dei motivi che a lui porge l’ambiente
in mezzo al quale si svolge. Gli elementi, ond’egli assomma e trasforma
le energie, sono i medesimi che nella esistenza di ciascun individuo
concorrono a dare il peculiare assetto differenziato alla singola
coscienza. Questi elementi, secondo la giusta teoria di James, si
possono dividere in tante classi costituite rispettivamente: _a_)
dall’io materiale; _b_) dall’io sociale; _c_) dall’io spirituale; _d_)
dall’io puro.

Il delinquente comincia col risentire, sopratutto, gli effetti del
proprio organismo, o che funzioni nello stato di equilibrio, dirò così,
fisiologico, o che risenta l’influsso di cause patologiche. Indi egli
assimila i germi deleterî del vizio o delle tendenze depravate nella
propria famiglia, e molto in ciò influisce la condizione economica di
privazione di mezzi necessarî perchè egli sollevi il suo stato morale
con sufficiente coltura e retta educazione. Le enunciate cause sono
altri tanti elementi costitutivi dell’io _materiale_ del delinquente.

Vengon dopo gli elementi sociali, quei fattori che promanano dalla
vita di relazione con i simili; quindi gli esempî di virtù o di
vizî, che eccitano la nostra tendenza imitativa; l’influsso della
pubblica opinione col corredo dei pregiudizî, degli usi, dei costumi,
specialmente tradizionali; la cura, la sollecitudine di conservare
integra la buona fama personale, comunque essa s’intenda e per
qualunque via si giunga a conquistarla.

Ed eccoci all’io spirituale, cioè alla somma delle disposizioni e delle
attitudini personali, al complesso delle energie di cui disponiamo
per estrinsecarci nella realtà della vita. Sostanzialmente, per
questo verso, l’io si viene sviluppando attraverso una lotta continua
di tendenze in contrasto tra loro, una successione ininterrotta
d’impulsi e d’inibizioni; in guisa che si dovrebbe concludere che
ciò che costituisce la coscienza, che noi abbiamo di noi stessi, è
essenzialmente il sentimento di _movimenti accomodativi_, oppure, se si
vuole, di impulsioni motrici, di riflessi inibiti[33].

Il primo effetto peculiare, che ne emerge dallo sviluppo organicamente
composto dell’io criminoso, è l’antagonismo che vieppiù si viene
accentuando tra il fattore antropologico, il cui esponente si sostanzia
nella aperta tendenza di egoismo, ed il fattore di ordine sociale
nascente dal complesso dei controstimoli, naturali od imposti.

Il fattore antropologico agisce per _azione impulsiva_; il sociale
per _azione repulsiva_; il primo, nel ritmo dinamico della vita di
relazione, è l’equivalente d’un _moto accelerato_; il secondo di un
_moto ritardato_. Il diritto ed il dovere si limitano reciprocamente;
ove l’uno finisce, l’altro comincia. Non è concepibile l’individuo
in società senza che a lui si imponga di sacrificar qualche cosa pel
benessere altrui: data la ipotesi che l’individuo sia regolato da
impulsi incomposti di egoismo, l’armonia tra la parte ed il tutto
scompare, e nell’urto dei moti, con opposte direzioni, l’equilibrio è
indotto da una forza estranea, la quale impedisce che ne provengano
disastrose conseguenze: indi la legge repressiva, la funzione del
magistrato.

=2.=—Dalla lenta o accelerata lotta antagonista tra i sentimenti e le
idee del delinquente, improntate ad un fondo di egoismo, manifestantisi
in atti di squilibrio psichico, ed i freni imposti dalla sanzione
naturale e sociale in correlazione alle umane azioni, si viene
assodando e sviluppando il carattere individuale. La fisonomia del
criminale si rende meglio delineata; spuntano i segni della specie
a cui egli in avvenire apparterrà: la coscienza criminosa si fa più
salda, più sicura; l’io personale, bene organizzato, può dire oramai di
essere una individualità a sè, non confondibile, per chi sappia bene
osservarla, con le rimanenti individualità in comunione.

La psicologia criminale dell’infanzia dovrebbe aver di mira,
segnatamente, questo periodo di sviluppo del delinquente; periodo
fecondo di utilissime osservazioni, perchè l’io criminoso, non
trovando peranco la via unica d’incanalamento (mi si passi la frase)
della propria energia, la via del delitto, è proteiforme e si lascia
sorprendere senza difficoltà nelle attinenze con la vita esteriore.
Si vedrà, per esempio, subito il futuro sanguinario, nel fanciullo,
alquanto adulto, che compie, senza mostrare di impressionarsi, atti
di crudeltà sulle bestie; che, ribelle o impulsivo, corre là dove
lo chiamano le compagnie dei peggiori; che ha posa di prepotente,
si accende ad ira per la minima offesa, per un benevolo richiamo;
serba odio, cova la vendetta, si sente felice di sacrificare l’altrui
benessere ad un momento solo di felicità. Egli ha mobilità di atti, ha
scatti felini; esuberante, alle volte, nell’affetto, non sa nascondere
il fondo egoistico: la passione lo accieca; lo alletta, lo trascina
l’idea di sè, l’umiliazione del debole, dell’oppresso.

3.—È da osservare con Wundt, che «la coscienza individuale soggiace
alle stesse condizioni esterne che tutto l’insieme dei fatti psichici,
del quale essa è soltanto una espressione diversa, che serve
specialmente a mettere in luce le relazioni reciproche delle parti onde
esso è costituito. Come sostrato delle manifestazioni di una coscienza
individuale ci si offre dappertutto un individuale organismo animale;
nell’uomo e negli animali a lui somiglianti l’organo principale della
coscienza è la corteccia del cervello, nei cui tessuti cellulari e
fibrosi sono rappresentati tutti gli organi che stanno in relazione coi
processi psichici. Noi possiamo considerare la connessione generale
degli elementi corticali del cervello come l’espressione fisiologica
della connessione dei processi psichici data nella coscienza; e
la divisione di funzioni nelle diverse regioni corticali, come il
correlativo fisiologico delle varietà numerose dei singoli processi
di coscienza. Ma, certamente, in quel centralissimo organo del nostro
corpo la divisione di funzioni è pur sempre soltanto relativa; ogni
formazione psichica composta presuppone sempre la cooperazione di
numerosi elementi e di molte regioni centrali»[34].

Ugualmente, nella coscienza del delinquente, si organizzano e si
unificano tutti i germi degenerativi che si accumulano per le forme
atipiche delle funzioni a lui proprie. L’antropologia vi dirà in che
consistano i caratteri differenziali tra il fondo permanente del
delinquente e quello dell’uomo normale; la fisiologia descriverà il
funzionamento anormale dell’organismo fisico, onde gli atti psichici
hanno il primo materiale avariato; la psicologia, prevalendosi dei lumi
tolti alle discipline affini, dirà come e perchè il delitto sia il
prodotto naturale di condizioni psichiche, il cui esponente causale è
nello squilibrio di stati di coscienza.

4.—I germi criminosi, fermentando, componendosi, organizzandosi, con
processo parallelo psicofisico, vengono gradatamente trasformandosi
da forme omogenee ed indistinte in eterogenee e definite. Dapprima le
tendenze egoistiche non sono che l’indice generale di stato funzionale
di squilibrio: i segni esteriori, in età, in ambienti diversi del
delinquente, lasciano appena intravedere l’essere futuro; il nucleo,
dirò, centrale di ciascuna formazione psichica, il colorito dei
sentimenti, gl’intenti prossimi o remoti della vita di relazione, il
tutto insieme dei processi di affettività, di attività addimostrano
il fondo di incoerenza, di insensibilità, di immoralità: il vizio ed
il delitto, nei primi stadî di sviluppo dell’anima del criminale,
si confondono e si unificano. Ma, se le forze ambienti non giungono
a modificare le correnti malefiche dei germi in fermentazione,
verrà giorno in cui queste prenderanno direzioni distinte, e l’io
del criminale, organizzandosi, si unificherà e rafforzerà, mercè
l’assorbimento e la fusione, con la propria energia, di tutte le
energie similari coerenti alla inclinazione verso data specie di
delitto. Avviene, allora, che tutto intero l’organismo psichico
subisca novella trasformazione, e, seguendo un’altra fase di processo
disintegrativo ed integrativo, abbandonerà, per legge di selezione
organica, gli elementi difformi alla specie di delitto in prevalenza e
si rafforzerà a percorrere la discesa fatale su cui si è messo. Le idee
morali, i sentimenti, l’intero corredo dei pregiudizî, il cumulo delle
impulsioni sociali, fin i convincimenti religiosi avranno modificazioni
appariscenti: un nuovo mondo si va enucleando, con leggi e con moto
proprio.

Il sanguinario, l’uomo dall’abitudine alla violenza, attingerà coraggio
all’offesa, alla vendetta da idee strane, ma sistemate, di falsi
pretesti protettivi dell’onore e della dignità personale; da sentimenti
morbosi di alterigia di supremazia; da passioni dissolute al giuoco,
all’alcoolismo, ai piaceri sessuali; dalla frequenza del delirio di
persecuzione; da credenze religiose inchinevoli piuttosto al feticismo,
che alla concezione di sanzione dell’ordine etico. Egli, assorbito
dall’io egoistico primeggiante, sdegnerà di attentare alla proprietà,
di commettere furti; rifuggirà dall’abusare dell’altrui buona fede,
dal commettere frodi o falsità; anzi, la esagerata coscienza di sè,
gli imporrà l’obbligo di prestare, financo, aiuto a chi sia caduto
vittima dell’altrui ingordigia e raggiri. Quante volte, dimandando ad
un omicida se in precedenza abbia riportate altre condanne, sentirete
rispondere: per ferimenti, per oltraggi; ma giammai per furto! Ogni
specie di delinquente ha la sua morale: pel sanguinario è obbligo
imprescindibile di non macchiarsi di reati di furto: il rispetto verso
i simili si limita alla proprietà, non alla persona!

Ben altrimenti accade per i truffatori ed i ladri. Il fondo comune è
sempre lo stato di squilibrio degenerativo. Tra i primi, giusta le
osservazioni del Marro, prevalgono le anomalie patologiche; nelle
atipiche essi eguagliano i normali, e solo li superano d’alquanto nelle
ataviche: l’alcoolismo assume forme più gravi che non nei feritori, in
grazia del più propizio terreno naturale che trova in essi; non rare
manifestansi le alienazioni mentali; loro tratto caratteristico è la
diffidenza, che in nessun’altra classe di delinquenti trovasi così
spiccata e generale; avvi frequente propensione al giuoco, l’avidità
e la cupidigia del guadagno[35].—I ladri, nel significato generico,
sono anch’essi alcoolisti, pieni di pregiudizî religiosi, deficienti di
mente, ma astuti e cauti; per lo più timidi; soggetti a forme tipiche
di manie impulsive; con scarsezza di sentimenti etici, anzi questi, per
loro, messi in ostentazione, servono quali motivi di scuse, quali mezzi
onde sfuggire la responsabilità: dediti all’ozio, il lavoro è pretesto
di disgusto d’una condotta retta; l’allettamento suggestivo della
riuscita della impresa li solletica, li anima, li conquide.

=5.=—A questo stadio cosciente del delitto appartiene l’esame delle
emozioni criminose.

Le percezioni e le rappresentazioni, oltre ad avere un contenuto
ideale permanente, sono accompagnate da tono sentimentale di piacere
e di dolore. Abbiamo visto che il piacere ed il dolore non sieno che
stati integrativi o disintegrativi di coscienza, seguìti da aumento
o diminuzione di energia personale. Le emozioni sono stati interni,
i quali alterano il senso generale cenestetico e tendono ad impedire
il corso naturale di correnti della vita ideale ed affettiva. Circa
la loro origine vi sono differenti teoriche. La prima, desunta dalla
comune esperienza, ammette che gli stati emotivi sieno di origine
centrale ed affatto interna: una rappresentazione, una percezione,
una idea destano sentimento piacevole o doloroso che si diffonde e si
ripercuote sull’organismo producendo espressioni somatiche. L’ira,
l’odio, l’amore sono il prodotto dell’energia di analoghi motivi:
il loro equivalente fisico è rappresentato da concomitanti fenomeni
vaso-motori.

La seconda teorica, propugnata da Lange e da James, segue il processo
inverso. Essa sostiene, _che le modificazioni fisiche conseguono
direttamente alla percezione del fatto eccitante, e che il senso nostro
di quelle modificazioni, mentre avvengono, costituisce l’emozione_.
James spiega: «Il senso comune dice: Noi perdiamo la nostra fortuna,
siamo tristi, piangiamo; incontriamo un orso, siamo spaventati e
scappiamo; veniamo insultati da un rivale, siamo arrabbiati e reagiamo.
L’ipotesi, che qui difenderemo, afferma che tale ordine di seguenza
è scorretto, che l’uno stato mentale non è indotto immediatamente
dall’altro, ma che vi si debbano dapprima frapporre le modificazioni
organiche, e che l’affermazione più razionale è, che noi siamo tristi
perchè piangiamo, siamo spaventati perchè tremiamo, arrabbiati perchè
reagiamo, e non che piangiamo, tremiamo, reagiamo perchè siamo tristi,
spaventati, arrabbiati, secondo i casi. Se le modificazioni organiche
non tenessero dietro immediatamente alla percezione, quest’ultima
sarebbe soltanto cognitiva, pallida, fredda, destituita di colore
emotivo. Potremmo in tal caso vedere l’orso e giudicare che fosse
meglio fuggire; ricevere un insulto e decidere di reagire, ma non
sapremmo sentirci effettivamente spaventati o arrabbiati»[36].

A meglio dilucidare le sue idee, James ricorda i seguenti fatti: che
gli oggetti eccitano modificazioni organiche mediante un meccanismo
preorganizzato, oppure che le modificazioni sono così indefinitamente
numerose e sottili, che l’intero organismo può venir chiamato un
_risonatore_ che ogni modificazione della coscienza, per quanto lieve,
può porre in vibrazione; che ogni manifestazione organica, qualunque
essa sia, è _sentita_, acutamente od oscuramente, appena si produce.
«Se ci immaginiamo qualche emozione forte, quindi cerchiamo di
astrarre, dalla coscienza che di essa abbiamo, tutte le sensazioni dei
suoi sintomi fisici, troviamo che non ci resta alcun residuo, nessuna
_sostanza mentale_ onde possa constare l’emozione, ma che non ci resta
che uno stato freddo e indifferente di percezione intellettuale.
Vero è che, sebbene molte persone interrogate dicano che la loro
introspezione verifica questa asserzione, altre persistono nel negare.
Molti ancora non arrivano ad intendere la questione..... Un’emozione
umana incorporea è una non-entità. Non dico già che essa sia una
contraddizione nella natura delle cose, o che i puri spiriti siano
condannati ad una fredda vita intellettuale; ma dico che, per _noi_, è
inconcepibile l’emozione dissociata da ogni sensazione organica. Quanto
più intimamente io indago i miei stati d’animo, e più mi persuado che
tutte le condizioni, gli affetti, le passioni che io ho sono veramente
costituite da quelle modificazioni organiche che ordinariamente diciamo
essere la loro espressione o la loro conseguenza; e, più, mi sembra
che, se mi accadesse di diventare anestesico in tutto il corpo, verrei
ad essere escluso dalla vita degli affetti, aspri o teneri, per menare
una vita puramente conoscitiva e intellettiva. Una simile esistenza, se
anche è apparsa come una vita ideale a certi antichi saggi, è troppo
apatica per essere desiderata da coloro che sono nati da qualche
generazione, dopo che la sensibilità è tornata in grazia»[37].

=6.=—Per bene apprezzare la esposta teoria, sostenuta anche dal Ribot,
dal Sergi e dall’alienista francese G. Dumas, è d’uopo rifarci alquanto
indietro e svolgere l’essenza unitaria, di cui già facemmo parola,
dell’_evento psichico_, dalla più bassa forma monistica alla più
complessa manifestazione del pensiero.

La scala psicologica evolutiva, dal _psicoplasma_ (o sostanza psichica
nel senso monistico) agli atti volitivi, percorre degli stadî che sono
altrettanti gradi integrativi organici differenziati. A prescindere
dagli strati più bassi, arriviamo a comprendere che, rispetto alla vita
psichica dell’uomo, il fenomeno fondamentale sia la rappresentazione
(Herbart). Il gruppo importante delle attività psichiche emotive
interessa specialmente perchè dimostra immediatamente il nesso diretto
delle percezioni cerebrali con altre percezioni fisiologiche (impulso
cardiaco, attività dei sensi, contrazione muscolare); perciò diventa
chiaro quanto c’è di non naturale e di insostenibile in quella
filosofia, che vuole separare fondamentalmente la psicologia dalla
fisiologia (Haeckel). Il principale problema, al quale si attese da chi
volle sorprendere il mistero della vita psicofisica, fu posto, innanzi
tutto, nella ricerca dell’equivalente meccanico, chimico o fisico, e
fisiologico degli stati di coscienza; indi fu allargato alle forme
primigenie dell’attività psichica. Il primo aspetto del problema, però,
è un residuo, o non confessato o inconsapevole, del vecchio dualismo,
che distingueva la forza vitale dalle altre forze naturali; peggio
ancora, l’anima dei bruti da quella dell’uomo.—Senonchè «il pensiero,
la coscienza, non è altro che il lato subbiettivo dei fenomeni vitali,
e però non può differenziarsi da questi, meno che mai può mettersi di
fronte ad essi in una specie di antagonismo, come in fin dei conti
avviene del lavoro meccanico di fronte al calore, di guisa che l’uno
abbia finito di essere quando l’altro incomincia ad essere. Il fenomeno
_coscienza_ accompagna i mutamenti interni trofici e metagenetici
del cervello, non li anticipa nè li sussegue; perciò malamente si
capisce come entro allo stesso cervello debbano prodursi _altri_
mutamenti o assimilativi o dissimilativi, di cui il pensiero sarebbe la
manifestazione subbiettiva. Si dovrebbe perciò supporre (cosa assurda e
antibiologica) che i centri nervosi sieno sede di due diverse specie di
metabolismo!»[38].

Il principio unitario dell’evento psichico (Mili, Lewes, Spencer,
Lotze, Horwicz, Lippe, Haeckel, Morselli, ecc.) si riassume nel
ritenere, con Ardigò, che quelle, che i metafisici chiamano
facoltà attive e passive, interne ed esterne, animali e razionali,
rappresentative affettive e volutive, e così via, non sono infine che
combinazioni variate dei medesimi elementi, come altrettante parole, di
suono e di significato diverso, formate colle medesime lettere dello
stesso alfabeto[39].

=7.=—Dopo aver ciò premesso, sarà agevole inferire in che consista
l’equivoco del James, del Lange e dei loro seguaci. Si è voluto
spezzare l’unità psicofisica del fenomeno interno della emozione; si è
voluto credere che ciò che per mera opportunità metodica gnoseologica
poteva essere avvisato in due momenti differenti (il momento fisico ed
il momento psichico) fosse davvero il prodotto di due fatti separati
con seguenza necessaria. La verità è, che i due momenti, in apparenza
analoghi a fatti diversi, non sono che due lati di unico fenomeno, il
cui sostrato dinamico ha l’equivalente nella energia trasformata del
motivo esterno od interno. Il Lange e James, separando il contenuto
della percezione dal tono sentimentale della emozione, credono di aver
trovata la possibilità di uno stato di freddezza e di indifferenza
intellettuale; l’argomento, cioè, che la emozione non sia concepibile
se non quale effetto di modificazioni organiche. Essi non si avvedono
che la fatta ipotesi poggia sull’errore di credere che davvero possa
ricorrere una percezione intellettuale fredda ed indifferente, e che
sia a noi concesso di astrarre, dalla emozione, tutti i sintomi fisici,
senza che di essa non si muti sostanzialmente l’intima essenza. Ogni
percezione non è mai disgiunta da un grado di equivalente dinamico: se
alla emozione si sottraggono i concomitanti fisici, sopprimendosene fin
il ricordo, essa si trasforma in idea; dal campo affettivo passa nel
campo intellettivo. A che, dunque, parlare di precedenza o di seguenza,
se nella continuità degli stati di coscienza la singola unità d’un
fenomeno per tanto serba la fisonomia di processo differenziato per
quanto si concepisce quale somma o composto di elementi constitutivi? I
fenomeni intellettivi e gli affettivi son due rami del medesimo tronco,
le cui radici si profondano nel suolo sottostante delle funzioni
riflesse, automatiche ed istintive: la psicologia comparata ci sospinge
ancora oltre, e ci induce a concludere con Haeckel, che una catena
ininterrotta di tutti i gradi di passaggio possibili riunisca gli
stati originarî primitivi del sentimento nel psicoplasma dei protisti
unicellulari con queste altissime forme evolutive della passione
nell’uomo, che hanno la loro sede nelle cellule gangliari della
corteccia cerebrale.

=8.=—Passando a trattare delle emozioni criminose, non possiamo che
ripetere ciò che altrove[40] scrivemmo.

Poichè, come osserva il Sergi, sono varie le vie di attività, varie
le condizioni dell’ambiente e di diverso carattere i bisogni animali
e umani, varî gruppi di percezioni e di stati psichici, che si
riferiscono a dolori e a piaceri associati organicamente, devono
essersi formati; i quali gruppi sono come tanti centri psicorganici di
emozioni diverse e secondo le condizioni speciali e la composizione
degli elementi psichici e degli organici tutti insieme e delle cause
esterne determinatrici dei medesimi stati coscienti[41].

Tali gruppi psicorganici, _centri emozionali derivati o istintivi_,
considerati riguardo al delitto, sono la base reale delle tendenze
criminose; quindi il vero criterio per una differenziazione scientifica
di tipi di delinquenti. La emozione è la scaturigine, prossima o
remota, dell’umana attività; ad essa si ricongiungono tutte le nostre
azioni. Data, dunque, la ipotesi di centri emotivi differenziati,
per lunga azione integrativa di coefficienti d’ambiente o di cause
contingenti, l’attività individuale si indirizzerà a fini analoghi
alla natura degli impulsi che ne sono la manifestazione, e di qui i
caratteri distintivi di tipi criminali.

=9.=—Questi _centri emotivi_ obbediscono, non che alle leggi statiche
e dinamiche, eziandio a dei modi che possono raccogliersi sotto
gl’infrascritti termini: _reazione_, _periodicità_, _antagonismo_.

Nel mondo psichico, similmente che nel mondo esterno della materia, è
dominante la legge della _inerzia_, per la quale non sarebbe possibile
la produzione di un fenomeno di movimento senza che in precedenza non
fosse impresso l’impulso che valga a determinarlo; nè, determinato
che sia, si avrebbe la cessazione se il moto non fosse arrestato da
ostacoli o da contrario impulso. La coscienza, prodotto di processi
accumulatisi, resterebbe in condizione invariata se non sopravvenissero
continui motivi, che ne producono i cambiamenti e ne alterano il
contenuto. Di qui l’_azione_ di questi motivi, alla quale corrisponde
eguale _reazione_.

=10.=—La _periodicità_ delle emozioni rientra nella gran legge del
_ritmo del moto_.—La prova della periodicità di emozioni criminose
noi la troviamo nella influenza delle età, dello stato sociale, delle
meteore, degli elementi etnici sulla produzione di taluni crimini in
aumento o in diminuzione con costante processo statistico. Che se da
considerazioni generali scendiamo all’analisi di singole emozioni,
vedremo che la legge ha riscontro indefettibile e che ci serve, alle
volte, per elevarci a dei criterî logici preziosi di cui ci avvaliamo
nella prova della successione degli atti incriminabili e della entità
di ciascuno.

Consideriamo, ad esempio, la collera, che, ridestata dall’idea di
offesa ricevuta, è emozione caratteristica la quale accompagna i reati
d’impeto. L’individuo, che n’è affetto, dapprima è come travolto
da tempesta, che gli toglie il discernimento e lo spinge ad atti
incomposti di violenza. Poco a poco, dopo che sia avvenuta, mediante
una mimica concitata di reazione, la scarica della energia accumulata,
subentra lo stato di calma apparente; l’individuo resta oppresso sotto
l’incubo della idea che ne ha invasa la coscienza: nell’oscillazione
tra il passato ed il presente, il pensiero ed il sentimento ora
attingono il grado di esplosione, ora si abbassano fino allo stato
di abbattimento, di umiliazione: basterà che qualunque circostanza
aggiunga o tolga peso al motivo di offesa perchè o si precipiti
difilato all’azione reattiva, o ritorni la calma e si ristabilisca
l’equilibrio.

=11.=—Intendo per _antagonismo delle emozioni criminose_ la
concorrenza, simultanea o successiva, di correnti di attività
ridestatesi nella coscienza del delinquente, a séguito del motivo
interno, per conseguire lo scopo del delitto. Queste correnti sono
energie attuali, che partono dal medesimo fondo degenerativo e che, ad
un punto del campo della coscienza, insorgono e tendono a prevalere,
ciascuna per la sua direzione; alcuna volta fondendosi insieme, altra
volta sforzandosi o di elidersi o di sovrapporsi con vicendevole moto,
per opposte impulsioni. Nella ipotesi di fusione, la energia emotiva
si rafforza in ragione delle coefficienze di correnti; nella ipotesi
di contrasto, si hanno i seguenti stati interni: turbamento generale
del soggetto, che dapprima tentenna a quale fine indirizzarsi, indi
a quali mezzi di scelta appigliarsi; indebolimento dell’eccitamento
emotivo iniziale; equilibrio instabile di condizioni associative o
appercettive; esaurimento di eccitazione o prevalenza d’una corrente
sulle altre ed impulsione unica all’azione.

=12.=—Parlando della dissoluzione psicofisica del delinquente, ci
fermammo segnatamente ad osservarne la forma morbosa o patologica.
Dobbiamo completare la trattazione restringendoci, con maggiore
attenzione, alla sfera della affettività e della ideazione, in istato
non patologico, ma fisiologico; vale a dire durante il processo
disintegrativo ordinario della psiche del delinquente, senza che vi
intervenga l’influsso deleterio di qualche specie di malattia.

Il Ribot scrive: «La legge di dissoluzione, in psicologia, consiste
in una regressione continua che discende dal di sopra al disotto,
dal complesso al semplice, dall’instabile allo stabile, dal meno
organizzato al meglio organizzato: in altri termini, le manifestazioni,
che sono le ultime in data nella evoluzione, spariscono le prime;
quelle che sono apparse le prime spariscono le ultime. L’evoluzione e
la dissoluzione seguono un ordine inverso»[42].

Il Janet, al Congresso di psicologia di Roma, ha svolto un tema sulle
_oscillazioni del livello mentale_, dimostrando che il progresso e il
regresso del livello mentale non sono costanti; che grandi fluttuazioni
di questo livello sono state osservate da lungo tempo negli isterici,
ma sarebbe un errore il credere che gli individui normali ne vadano
esenti. Questo abbassamento del livello mentale è costituito da grande
depressione psichica, da un senso di depressione, di diminuzione di sè,
di amnesie e da amnesie retrograde. L’ultima cosa appresa è la prima ad
essere distrutta nell’abbassamento del livello mentale; ed è perciò che
quello che vi è di più nuovo, di più recente, cioè il momento attuale,
è ciò appunto che per primo viene a perdere il suo interesse quando lo
spirito s’indebolisce; e il primo sintomo dell’indebolimento mentale è
appunto l’inseguire fantasticamente oggetti o idee lontane od inutili,
perdendo di vista la necessità e l’attività del presente[43].

Rifacendoci alquanto indietro, diamo la teorica più probabile da
adottare. Le sensazioni, le rappresentazioni, le idee, i sentimenti,
serbando il doppio ritmo di coesistenza e di successione, si fondono,
si organizzano, si unificano in composti psichici separati, che tra
loro sono in relazioni di affinità o di identità. Il funzionamento
psichico, in generale, ha l’equivalenza in analoga funzione cerebrale,
che non ammette energie singole ristrette, con attività chimico-fisica,
in centri qualitativamente differenziati, nè ammette la localizzazione
di facoltà in senso materiale ed assoluto. La localizzazione cerebrale
funzionale deve intendersi nel senso di maggiore attitudine di
alcuni centri, rispetto agli altri, nel ridestare la efficacia di
data energia, o, meglio, nel far sì che l’attività dell’io, fisica
o psichica, prenda una direzione o un’altra, si manifesti in modo
speciale. Il solo vero interessante è di sapere, che la funzione
del cervello sia l’attività risultante di tante energie componenti,
e che «una mentalità sia una specialità di onda cerebrale, più o
meno estendentesi nella trama craniale, più o meno composta di
varie concorrenti, più o meno normalmente spiegantesi, più o meno
alterantesi, per le condizioni diversificate del cervello»[44].

Psichicamente avvisata, la risultante ultima della funzione cerebrale
corrisponde ai due atti più complessi, il mentale e l’affettivo, la
intelligenza e la volontà. La intelligenza, unificando il prodotto
psichico delle rappresentazioni, è alla sua volta un composto
decomponibile negli elementi di idee e di appercezioni; la volontà,
assommando il cumulo delle energie attuali di motivi e di sentimenti,
segna la linea discendente della curva descritta dall’integrarsi della
psiche, poichè essa corrisponde al momento dinamico in cui l’io tende
a proiettarsi al di fuori ed a completarsi nell’azione esteriore.
In questo ascendere o discendere continuo, in questa organizzazione
vicendevole del tutto insieme e delle parti, in questa relazione
statica (o di sola _sussistenza_) e dinamica (o di sola _operazione_)
tra i centri funzionali cerebrali, o tra i composti psichici, è
tutta la vita dell’io, è la origine degli stati di coscienza, della
evoluzione e della dissoluzione della personalità; evoluzione quando si
ascende, dissoluzione quando si discende.

La coscienza si rende più complessa, più stabile a seconda che meglio
si organizzi; i suoi piani, o strati, si consolidano come più le
rappresentazioni acquistano maggiore compattezza.

L’ultimo composto psichico formatosi è il primo a dissolversi nella
disintegrazione della personalità; le emozioni disinteressate, cioè che
attingono la più alta cima della vita affettiva, sono le prime, secondo
Ribot, a scomparire nella discesa morale. L’importante a ricordare è
però questo, che la esaminata dissoluzione è modificata dal duplice
ordine di vita di relazione, l’ordine di tempo o della seguenza degli
stati di coscienza, e l’ordine di coesistenza o del simultaneo concorso
di energie convergenti.

Chi voglia formarsi l’idea approssimativa di ciò che sia la coscienza
nello stato normale e nello stato di alterazione, immagini un piano
liquido, sotto limpido cielo, attorniato da verdeggianti alberi,
rispecchiante i molti oggetti cosparsi sulla riva.

Il cielo, gli alberi si riflettono col colore, con le forme naturali.
Anche a non rivolgere gli occhi attorno, basterà fissarli sulla
superficie dell’acqua per vedere e riconoscere la realtà di esistenti
sopra ed in giro, da vicino e da lontano.

Le onde, che appena si increspano, fan fluttuare le immagini,
rendendole, talfiata, poco visibili; altra volta confuse, ondeggianti,
di forme alterate: ma, purchè si porga un po’ d’attenzione, purchè si
fissi meglio l’occhio, è facile accorgersi dell’errore di senso, ed
avere la percezione esatta degli oggetti riflessi.—Suppongasi che
qualcuno gitti nell’acqua un grosso sasso. Al rumore del tonfo, subito
vi accorgete che succede gran turbamento. La luce più non espande il
suo riflesso; le immagini degli oggetti spariscono, le correnti si
intorbidano e confondono. Se attendete alcun poco, permettendo che
ritorni alquanto la calma, vi accorgete subito che attorno al punto
dell’urto, là dove il tonfo è avvenuto, cominciano a descriversi dei
cerchi concentrici, con movimenti repulsivi e con ritmo decrescente.

Il piano liquido è la coscienza allo stato normale: essa rispecchia il
mondo esterno con naturalezza di forme e di colorito; l’osservazione
introspettiva, l’occhio della mente, che si riflette sul suo campo
visivo, ne percepisce la realtà; la più perfetta armonia esiste tra il
mondo esterno e l’interno, tra le immagini, o le rappresentazioni, e
gli stati oscillanti ed instabili, ma contenuti in ritmo di equilibrio.
Alla scossa d’un’idea, che viene dal di fuori o insorge repentina dal
fondo dell’anima; al furioso assalto di un sentimento, che mette il
tutto in subbuglio, succede lo scompiglio della coscienza e scompare
la serenità e la calma. Passa alcun tempo, l’ordine si ristabilisce
alquanto, ma dal punto, ove la scossa è avvenuta, si seguono continue
impulsioni, le quali, con moto centrifugo, sprigionano, con seguenza di
scariche, la energia accumulata in grado esuberante.

Suppongasi ancora che, invece dell’urto del sasso (della scossa d’una
idea), senza che altra causa di turbamento vi si aggiunga, l’acqua sia
messa in moto da tempestose correnti che ne alterino profondamente
la superficie e ne sconvolgano il fondo: ov’è più l’agio di veder
riflessi gli oggetti esterni, ov’è il flusso e riflusso delle onde,
l’avvicendarsi tranquillo di tenui movimenti? Ed ugualmente, se la
coscienza sia profondamente turbata, gli stati psichici sovrapposti
si infrangono, le energie accumulate ed omogenee si confondono,
vengono, con moto incomposto, furiosamente a galla e si espandono;
le tendenze, che ad esse sono unite, di impulsività egoistiche,
riprendono il sopravvento a detrimento di nuove energie sovrapposte;
il fondo rimugghia e distrugge, col sollevarsi, l’ultimo piano, il
meno differenziato, ma il più perfetto nella selezione organica della
coscienza.



CAPO VIII.

Concetto psicologico del delinquente.


 1. Che cosa sia il delinquente.—2. Il prodotto psichico del delitto
 nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico.—3. Il tipo di
 Caliban nella _Tempesta_ di Shakspeare.—4. Il Tersite di Omero.—5.
 Caratteri morali dei delinquenti in formazione.—6. L’integrazione
 evolutiva anomala del delinquente.—7. Analisi del _Riccardo III_ di
 Shakspeare.

=1.=—Dopo aver esaminati gli elementi dinamici della psiche del
delinquente, non che i due stadi di coscienza del medesimo, lo
stadio di formazione e lo stadio di sviluppo, ci sentiamo in dovere
di rivolgerci la dimanda: che è mai il delinquente? In parte vi
abbiamo risposto, analizzando i coefficienti psicofisici del delitto;
ma è bisogno che si esprima con più chiarezza il nostro concetto,
raccogliendo in sintesi ultima le esposte idee.

La dimanda non è nuova, anzi risale al problema fondamentale della
genesi del delitto e della imputabilità. Le risposte furono difformi;
ciascuna ritraendo del sistema di idee, onde si partiva, e dell’intento
pratico cui si tendeva. Maudsley, alla dimanda che cosa fossero i
delinquenti, risponde: sono esseri intermedî fra i pazzi e i sani;
Albrecht: i criminali sono i normali della umanità; Lombroso: i
delinquenti sono i selvaggi di un popolo civile; Sergi: i delinquenti
sono degenerati; Minzloff: i criminali non sono che ammalati; Dally: i
criminali non sono che pazzi; Benedikt: i delinquenti sono neurastenici
fisici e morali; Féré: i criminali sono gl’inadatti all’ambiente
sociale; Colajanni: i criminali sono moralmente atavici; Riccardi: i
criminali sono inferiori dannosi[45].

=2.=—Tutte coteste risposte sono abbastanza generiche ed indeterminate
per non soddisfare la nostra richiesta. Il problema resta insoluto, il
problema della genesi psichica e della imputabilità del delitto.

Per bene intenderci e per liberarci dagli equivoci, presceglieremo
metodo diverso da quello fin’ora adottato. Che cosa abbiamo fatto con
le precedenti indagini? Niente altro che, per via analitica, tentare
di ricostruire la formazione naturale dell’anima del delinquente,
cominciando dall’assodare le leggi dinamiche dei motivi criminosi,
proseguendo col vedere il processo evolutivo ed integrativo degli stati
di coscienza, per finire col prospettare lo stato di dissoluzione
della medesima, sia per effetto di cause ereditarie e latenti, che per
effetto di cause acquisite ed attuali.

Indugiamoci e riflettiamo. Gli elementi formativi della psiche sol
per comodità scientifica si dispongono in serie di atti o di stati
simultanei o successivi; ma essi formano un tutto insieme organicamente
unificato. La forza psichica, nella risultante finale di ciascuno
stato, di ciascun atteggiamento e produzione, non è che energia unica,
per quanto complessa altrettanto identificata nel funzionamento totale
di azioni coscienti.

L’unità, la totalità, la funzionalità non sarebbero da noi apprese
se non si estrinsecassero in atti aventi il valore di tanti effetti,
i quali ritraggono dei caratteri qualitativi e quantitativi della
causa onde promanano. Il delitto—concepito nella sintesi psichica di
stati di coscienza analogamente differenziati—non è che attività, la
cui genesi è nella natura del soggetto e nell’azione degli stimoli,
o motivi, e la cui perfezione si sostanzia nel fatto violatore
dell’altrui diritto.

Abbiamo visto che tale attività criminosa percorre un primo periodo
embrionale o di formazione, la cui nota culminante è lo stato tuttavia
involuto degli elementi che poscia, allo stadio di sviluppo, debbono,
per effetto di selezione organica, attingere il grado di omogeneità
e distinzione. Or, dopo che con l’uso dell’analisi ci siam resi
conto dei coefficienti dinamici di ciascuno dei due sovraccennati
stadî, possiamo, adoperando vedute sintetiche, completare la nostra
conoscenza, che deve, poscia, facilitarci la via per più difficili
induzioni e deduzioni pratiche e scientifiche.

Nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico, il prodotto
psichico del delitto prende la forma istintiva, immanente, quasi
automatica. L’animabilità ha predominio incondizionato. Il contrasto di
correnti antagoniste segue il ritmo sincrono: le energie si mantengono
nello stato di latenza; ma, appunto perchè poco coerenti, sfuggono
al potere di controllo e di arresto. A volte, se un forte stimolo ne
ecciti la scarica, riappariscono con scoppî istantanei ed imprevisti;
poi, incontrando difficoltà a fondersi ed assimilarsi con le energie
esterne trasformate, ritornano in istato di inerzia accompagnata da
equilibrio stabile.

=3.=—La concezione artistica più perfetta, che io mi conosca, di
questo stadio di formazione psichica del delitto, credo sia il Caliban
della «Tempesta» di Shakspeare. Altrove ne scrissi, dimostrandone
segnatamente il lato dell’azione inconscia[46]; qui ne completerò
l’esame, che tornerà molto utile per concretare gli esposti criterî
scientifici.

Caliban, deforme e selvaggio, era figlio della strega Sicora, che
per mille malefizî e sortilegi fu sbandita da Algeri e confinata
in un’isola ov’ella si sgravò. Prospero, privato, ad opera di suo
fratello Antonio, del ducato di Milano, venne insieme alla figlia
Miranda abbandonato in alto mare, alla balìa dei venti, e capitò di
approdare all’isola di Caliban. Costui fu subito spogliato del possesso
dell’isola, e, poichè egli era un essere stupido, un mezzo idiota,
il buon Prospero lo commiserò, prese il fastidio di insegnargli a
parlare, ed a conoscere ora una cosa ora l’altra. Ma, ad onta di tali
insegnamenti, nessun essere buono poteva sostenere il suo ignobile
contatto: fino a che, quantunque trattato umanamente ed albergato nella
stessa cella del benefattore, un bel giorno osò attentare all’onore
di sua figlia! La bestia umana si svegliava cogli impulsi del senso.
Prospero ne comprese la natura di fango e lo assoggettò ai più bassi
e degradanti uffici. Non l’ombra d’un rimorso turbò l’anima dello
schiavo, che, alla deformità del corpo, per degenerazione ereditaria,
univa istinti e sentimenti criminosi, indole perversa, odio profondo
irresistibile contro Prospero che gli carpì quell’isola, a lui
appartenuta per cagione di sua madre Sicora.

La bellezza, la innocenza di Miranda avrebbero dovuto agire, con forza
rigeneratrice, sull’anima di Caliban; ma questi nulla poteva sentire di
elevato, ed ai rimproveri di Prospero per la immonda azione, invece di
scusarsi, risponde: oh, oh ... così fossi riuscito! Tu me lo impedisti,
altrimenti avrei popolata quest’isola di Calibani!»

Le continue esplosioni di mal compresa ira, le invettive fiorite sì
spontanee sulle labbra del mostro, tuttochè a lui fossero minacciati
atroci castighi, vi fanno indovinare che la sua psiche era tuttavia
involuta, sotto l’azione immanente di stimoli senza freno, non
illuminata dalla luce del vero, non confortata dal desiderio del bene.
La scena seconda del secondo atto è tutta una rivelazione incomposta
della natura primitiva e bestiale dell’uomo. Caliban, con un carico
di legna, si avvia verso casa di Prospero: si ode il rumore del tuono
e lo schiavo non sa che profferire maledizioni di odio e di vendetta.
«Tutte le infezioni—egli esclama—che il sole estrae dalle acque
stagnanti, dalle paludi e dai pantani, cadano su di Prospero e lo
convertano in tutto una piaga. I suoi spiriti mi ascoltano, e nondimeno
mi è forza il maledirlo!» La fantasia, non sorretta dal sussidio della
ragione, facilmente si turba ed è preda di balorde illusioni. Caliban
crede nella grande arte magica di Prospero: vede attorno a sè scimie
che gli fanno i versacci; tal’altra ei son ricci che gli stan sotto i
piedi ignudi appuntando le loro spine; spesso egli è tutto fasciato di
serpenti, che colle loro lingue forcute gli sibilano nelle orecchie
in modo da farlo diventar pazzo. Egli vede avvicinarsi il buffone
Trinculo e, prendendolo per uno spirito, gittasi bocconi per terra,
sperando di non esser visto. Gli si avvicina Stefano e Caliban prende
lui e Trinculo per discesi dal cielo. È appellato mostro assai balordo,
debole e credulo, ed è schernito; ma egli di nulla si risente ed a
coloro che lo insultano risponde con atti sommessi, con parole melate,
con profferte di obbedienza e di servitù. Traspare, nonpertanto, in
tutto ciò, l’istinto vendicativo del criminale e l’accenno a qualche
disegno delittuoso che cominciava a profilarsi ed a prender forma
nella mente. Il mostro—ed è qualità di animi degenerati—abbassa la
sua dignità fino a voler leccar le zampe a Stefano; lo circuisce, lo
lusinga, lo attrae a sè soffrendo le più atroci ingiurie, gli scherni
più inumani. Dimentica ogni cosa che lo circonda, non pensa che alla
vendetta, a procacciar la morte di Prospero con orrendo assassinio. In
quell’anima mostruosa, impasto informe di degenerazione ereditata dalla
strega Sicora, la donna da’ sortilegi e da’ malefizî, e di sentimenti
sistemati, per lungo adattamento, di odio cieco e di malfrenata ira,
il delitto si vien disegnando con tinte fosche, con particolari di
inaudita ferocia. La simulazione, l’astuzia, trasparenti nel linguaggio
accorto e melato, si scovrono; il criminale, in formazione, non sa
concepire le difficoltà del progetto, non vede ostacoli: la vendetta
si materializza, e la mente, funestata da luce vermiglia di sangue,
gode di prospettare innanzi a sè la scena omicida; ei ne racconta i
particolari ed anima Stefano a metterli ad esecuzione. Promette di
accompagnare costui alla capanna di Prospero; glielo farà trovare
addormentato e potrà conficcargli un chiodo nella testa!

E, come se ciò non bastasse, aggiunge: «egli ha il costume di dormire
dopo il mezzodì; allora potrai strappargli le cervella, essendoti
prima impadronito dei suoi libri; o potrai con una pertica fendergli
il cranio, o sventrarlo con un palo, o tagliargli l’arteria maestra
col tuo coltello. Ricorda di impadronirti prima dei suoi libri, chè,
senza di essi, egli non è che uno sciocco come son io, nè ha più uno
spirito al suo comando ... Ma il più importante è la bellezza di
sua figlia; egli stesso la dice incomparabile; non ho veduto altre
femmine che mia madre Sicora e lei; ma ella è così superiore a Sicora,
come quello che v’è di più grande è superiore a quello che vi è di
più piccolo».—L’odio è tal sentimento che, se mette nel cuore le
radici, aduggia e perverte ogni impulso, sia pure sensuale, istintivo,
fortemente passionale. Il pervertimento morale spinge, fin’anco,
Caliban a persuadere Stefano al delitto, solleticandolo colla speranza
della conquista di Miranda, la bella fanciulla pel cui amore perdette
le grazie di Prospero—È proprio così bella fanciulla?—dimanda
Stefano: ed egli: sì, monsignore; starà a meraviglia nel tuo letto,
te ne assicuro, e ti darà una magnifica prole»—Stefano è deciso:
«mostro, io ucciderò quell’uomo; sua figlia ed io saremo re e regina».
Gli assassini son pronti al delitto; ma Prospero è sull’avviso. Egli
è compreso di meraviglia per l’indole sì perfida di Caliban: «un
demonio, un vero demonio, per cui l’educazione può nulla; per cui vane,
interamente vane furono tutte le pene che pietosamente mi presi; e,
come, col crescer degl’anni, cresce la sua deformità corporea, così
si corrompe la sua anima». Avvicinasi il momento di operare; Stefano,
Trinculo sono presso la grotta di Prospero: Caliban, nell’ebbrezza
di entusiasmo e di gioia pel delitto, esclama: «te ne prego, mio
re, fermati. Vedi tu costà? Questa è la bocca della grotta: entra
senza strepito. Compi questo _bel_ maleficio, che farà tua sempre
quest’isola, ed io, tuo Calibano, leccherò per sempre i tuoi piedi».
Ma essi sono assaliti da parecchi spiriti sotto forma di cani che,
incitati da Prospero e da Ariele, si avventano sui tre malandrini e li
mettono in fuga.

Caliban, _tanto deforme_, come Prospero afferma, _nella parte morale
come nella fisica_, insuscettibile di miglioramento, si arresta
_involuto_ tra le tendenze della bassa animalità. Non l’idea del vero,
non il sentimento del dovere han presa in quella coscienza mostruosa:
solo la fantasia, facoltà puramente sensibile, talora gli apre la mente
alla visione di immagini e di cose che, dilettandolo, lo sollevano ad
una sfera alquanto superiore: in quel momento la bestia tace e spunta
l’uomo, al cui sguardo appariscono novelli orizzonti di idealità e di
bellezza. «Non aver paura—Caliban dice a Stefano—l’isola è piena di
suoni, di rumori, di arie dolci, che dilettano e non fan male. Talvolta
sento mille istrumenti sonori a rombarmi all’orecchio; e talvolta odo
voci che, se mi fossi anche allora svegliato dopo un lungo sonno, mi
fanno dormir di nuovo; poi, nei miei sogni mi sembra di veder aprirsi
le nubi, per mostrarmi in procinto di cader su di me le più belle cose;
e allora, svegliandomi, desidero di sognare ancora!».

=4.=—Altro tipo di delinquente in formazione, meravigliosamente
abbozzato, è il Tersite di Omero.

  Non venne a Troia di costui più brutto
  Ceffo: era guercio e zoppo, e di contratta
  Gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso
  Di raro pelo..........[47].

In lui l’istinto della malvagità si era arrestato al disotto della
soglia della coscienza criminosa: non il delitto, ma i bassi sensi
dell’odio, dell’invidia lo mettevano in mostra e gli procacciavano la
repugnanza o lo scherno di tutti. Se l’assemblea del popolo si riunisce
per udire i progetti di Agamennone, e se Ulisse interviene, assieme
a Nestore, per esortare i Greci a proseguire la guerra, il petulante
Tersite non resta di gracchiare e fa tomulto.

                             Avea costui
  Di scurrili indigeste dicerìe
  Pieno il cerébro, e fuor di tempo e senza
  O ritegno o pudor le vomitava
  Contro i re tutti; e quanto a destar riso
  Infra gli Achivi gli venia sul labbro,
  Tanto il protervo beffator dicea[48].

Le rampogne del triste, senza motivo, erano l’effetto di impulsività
perversa: egli rivolse ad Atride ingiurie atrocissime. Ma gli fu sopra
repente il figlio di Laerte e, guatandolo torvo, gridò:

                             Fine alle tue
  Faconde ingiurie, ciarlator Tersite;
  E tu, sendo il peggior di quanti a Troia
  Con gli Atridi passar, tu audace e solo
  Non dar di cozzo ai re, nè rimenarli
  Su quella lingua con villane arringhe,
  Nè del ritorno t’impacciar; chè il fine
  Di queste cose al nostro sguardo è oscuro,
  Nè sappiam se felice o sventurato
  Questo ritorno riuscir ne debba[49].

Così dicendo, gli percuote con lo scettro le terga e le spalle; il
manigoldo si contorce e lagrima dirottamente:

  Di dolor macerato o di paura
  S’assise, e obliquo riguardando intorno,
  Col dosso della man si terse il pianto[50].

Gli Achivi si rallegrarono di quella scena; in mezzo alla tristezza
sorse il riso e vi fu chi (interpetre della comune opinione) dicea:

  Molte in vero d’Ulisse opre vedemmo
  Eccellenti e di guerra e di consiglio;
  Ma questa volta fra gli Achei, per dio!
  Fe’ la più bella delle belle imprese,
  Frenando l’abbaiar di questo cane
  Dileggiator. Che sì, che all’arrogante
  Passò la frega di dar morso ai regi?[51].

=5.=—In delinquenti di simile specie nè la minaccia della legge, nè
la sanzione o morale o sociale han freno di sorta: il potere assoluto
dell’animalità non ancora differenziata in tendenze più umane, avendo
la insidenza in organismi in formazione ed a cui l’avvenire forse,
sviluppando i germi del male, contrapporrà i rimedî del bene, priva
l’individuo di regolare le proprie azioni con intenti altruisti e lo
tiene stretto alla dura necessità istintiva. Per i medesimi, ugualmente
che per qualunque delinquente a forma tipica di degenerazione organica,
va ben appropriato ciò che Tucidide mette sulle labbra a Diodoto, che,
combattendo l’opinione di chi consigliava doversi dar morte a quei
di Mitilene, osserva: «l’uomo è tratto dalla sua stessa natura ad
errare; nè vi ha legge atta a ritenerlo; ed invano sono stati trovati e
profusi i più crudeli supplizî per tenere in freno i malvagi. Ed egli
è a credere, che ab antico fossero assai più miti le pene, ma che,
non valendo a porre riparo ai misfatti, elle s’inacerbissero fino al
punto di punire di morte. Ma, per dirla in brevi parole, ella è stolta
cosa il credere che le leggi o il timore di ogni più grandissimo male
ritenga l’uomo dall’errare, allorchè vel trascina una irresistibile
natura»[52].

=6.=—Il delitto, allo stadio di sviluppo, si trasmuta in forza
specifica del complesso organismo individuale. Gli elementi, innanzi
discorsi, concorrono tutti insieme, o in parte, a plasmare il nuovo
essere, che, differenziandosi, prende il suo posto di dinamica sociale
col causare effetti disorganizzatori del concetto etico e giuridico di
ordine. La nuova personalità può percorrere tutti i gradi ascendenti
di integrazione anomala, dal più basso, a cui appartiene il crimine
per assenza ereditaria di controstimoli e per deficienza di attività
intellettuale, al più alto rappresentato dal delitto geniale, preparato
ed accompagnato dal proteiforme corteggio di astuzia, di riflessione,
di tradimento, di insidia: onde più grande sorge il pericolo sociale
e più urgente l’obbligo di prevenzione e di repressione. Accetto la
teorica del _delitto naturale_ escogitata dal Garofalo, consistente in
un fatto nocivo dei sentimenti altruisti elementari, la _pietà_ e la
_probità_. Ma, a dir vero, simile teorica, tuttochè scientificamente
sostenibile, non ha che valore puramente metodico; essa, limitandosi
alla parte sopra tutto emotiva dell’azione criminosa, ne trascura
i rimanenti fattori psicofisici, che, organizzandosi, per tendenze
ereditarie o attitudini acquisite, si assommano in intimo meccanismo
individuale, con equivalenza e funzionamento di speciale energia.

Il meglio che sia possibile ci adopreremo di rendere vieppiù evidente
il nostro pensiero; il che faremo col ricorrere a qualche esempio
che possegga la virtù di metterci sott’occhio in forma vivente e
drammatica quanto la scienza ci apprende. Nè ad altro sussidio potremo
più opportunamente far capo che all’arte, la quale, come ben dimostrò
l’Alimena, si accompagna con la scienza: ad ogni manifestazione
scientifica, come ad ogni manifestazione sociale, corrisponde una
parallela manifestazione artistica. E questo parallelismo non è nuovo,
poichè esso è inerente alla natura umana; per cui, dato un problema,
il quale, per così dire, acquista tanto volume da occupare buona
parte dell’aria che si respira, ciascheduno deve assorbirne una parte,
e, alla sua volta, la comunica agli altri, secondo le sue proprie
attitudini[53].

Esamineremo Riccardo III di Shakspeare con uguale intento pratico ed
esito abbastanza proficuo onde esaminammo Macbeth del medesimo, i
Masnadieri di Schiller ed alcuni drammi di Ibsen. Per penetrare nei
profondi ed oscuri abissi del cuore umano non havvi guida più fida che
i lumi prestatici dall’arte, e, chi sappia servirsene, renderà più
evidenti e sicure delle norme il cui valore altamente scientifico o non
è, di per sè, bene appreso, o lascia sempre incancellabili tracce di
dubbio.

=7.=—Iago e Riccardo III—scrive l’Alimena—sono i delinquenti
per eccellenza: in essi, cercheremmo invano la più lieve orma di
rimorso[54].

Non siamo interamente d’accordo; poichè, se Iago ordisce, pari ad un
freddo ed abile giuocatore di scacchi, insidie all’altrui felicità, per
odio e gelosia dell’altrui grandezza, non mostra di sentire l’impulso
cieco aberrante del delitto: in lui la dissoluzione si arresta alla
sfera della vita morale.

Riccardo III, invece, trova i germi di rassomiglianza nei grandi
delinquenti del teatro tragico greco, in Egisto specialmente, e fu il
modello cui ebbe presente Schiller nell’ideare Francesco dei Moor,
questo tipo di criminale tra l’istintivo, il pazzo e l’impulsivo,
rimasto famoso per chi ne comprenda l’importanza profondamente
artistica e scientifica.

Riccardo III anche lui ha fondo ereditario degenerativo; il suo corpo,
la sua anima troppo si rassomigliano. Egli, ruvidamente sbozzato, ha
il viso asimmetrico; è deforme, zoppo, ridicolo nell’incesso: lo sa, e
non osa rimirarsi allo specchio. Ma sa puranco di avere a disposizione
una grande potenza malefica; e, poichè non gli è dato godere come
gli altri, fa proposito di divenire uno scellerato e abborrire i
frivoli diletti. Comincia l’infame vita di delinquente con l’uccidere
Enrico VI; indi passa all’uccisione del di lui figlio Eduardo di
Galles. Geloso del fratello Clarenza, usa insidiose macchinazioni
per farlo venire in disgrazia del re e chiudere in prigione. La
sua anima demoniaca è tutta palese fin dal principio dell’azione
drammatica: Shakspeare, presentandolo intero nella sua mostruosità,
ottiene l’effetto desiderato, di colpire la fantasia e di eccitare la
riflessione a sprofondarsi nell’abisso dei misteri del cuore umano.

Siamo alla scena II dell’atto primo: si vede giungere un corteggio
funebre; il corpo del re Enrico VI è portato in un feretro scoperto.
Lady Anna, in gramaglia, lo accompagna e, versando amare lagrime, lo
compiange ricordando il suo sposo Eduardo caduto vittima dalla stessa
mano omicida di Riccardo. Costui si avvicina ed ordina che il feretro
sia deposto: Anna lo redarguisce, lo insulta, gli ricorda il duplice
assassinio, di Enrico e di Eduardo; dapprima egli nega, poi confessa
con cinismo ributtante. Al ricordo, fatto da Anna, della virtù dello
sposo, risponde, con scherno, dapprima che fosse tanto più degno del
re del cielo che lo possiede; e poscia: riconoscente mi sia di averlo
inviato in cielo, più adatto egli era a quel luogo che alla terra!
Anna maggiormente se ne duole e lo maledice; ma qui avviene qualche
cosa che davvero sorprenderebbe se la scienza non ci venisse in
aiuto. L’energia criminosa è sommamente suggestiva: ce lo dimostra la
psicologia dei _meneurs_, dominatori della folla delinquente; ce lo
mostra l’esperienza di grandi malfattori dal fascino irresistibile nel
destare ogni forma di passione nell’animo di persone che furono loro
a contatto: Musolino conquistatore della protezione, della simpatia e
dell’amore di donne di ogni ceto n’è esempio recente. Ebbene, avviene
l’istesso per Riccardo: alla presenza d’un feretro, egli osa tentare
il cuore di Anna; costei, dapprima sorpresa, poi renitente, in ultimo
dubitante, finisce col cedere e col dare una promessa che era speranza
di favorevole condiscendenza. Riccardo se ne meraviglia: Che!—egli
esclama—Io che le uccisi lo sposo e il padre, trovarla nell’impeto del
suo odio, colle maledizioni alla bocca, le lagrime agli occhi, accanto
al testimonio sanguinoso che eccitava la sua vendetta, e in onta del
cielo, della sua coscienza e di quel feretro..... io, senz’alcun amico
che secondasse le mie preghiere, senza altro sussidio che l’inferno e
i _miei sguardi diabolici_, vincerla? Sì, giuoco il mondo contro nulla,
ch’ella è mia»[55].

Il colloquio con Margherita[56], l’infelice vedova di Enrico VI,
è improntato ad un senso di ironia e di scherno, indice della
insensibilità morale dell’omicida; anche il sentimento di gratitudine
è messo in dileggio. Rimasto solo, Riccardo confessa a sè stesso le
proprie colpe, le segrete tristizie che andava ordendo e che egli
poneva a conto altrui. Fa porre in carcere Clarenza, e lo compiange,
a suo dire, innanzi a molti stolti, quali sono Stanley, Hastings e
Buckingham, sostenendo che la regina e la sua famiglia inveleniscano
il re contro suo fratello. «Questo essi credono e quindi mi esortano
a vendicarmi di Riverys e di Grey; senonchè allora io gemo e con un
brano di scrittura dico ad essi che Dio ci impone di fare il bene per
il male. Così è che io cuopro la mia perfidia col manto di quell’antica
e strana morale, tolta dai libri sacri, e rassembro un santo allorchè
recito le parti del demonio!»[57]. Allorchè la energia criminosa
perviene a sistemarsi, convertendosi in potere specifico, atteggia
tutta intera la coscienza, imprimendo la efficacia sui sentimenti,
le idee, i convincimenti, i propositi: la serietà dei controstimoli
morali, perdendo qualsiasi valore, è motivo di ridicolo; appunto
perchè, avendo l’etica la sanzione nelle migliori attitudini dell’uomo
a conformarsi ad intenti di ordine, se queste attitudini mancano, i
sacrificî, che altri faccia del proprio benessere per l’altrui, non
ha significato; onde l’ironico compatimento per azioni le quali si
informano ad illusioni di menti deboli e vinte da pregiudizî.

Lo schernire e mettere in dileggio le credenze, le abitudini, che altri
predilige in adempimento di dovere religioso o morale e che abbiano
scopi altruisti, è segno di malferma coscienza etica e di inclinazioni
poco adatte ad opere lodevoli. La delinquenza innalza il culto alle
sue divinità sugli altari da cui ha scacciato financo il ricordo del
rispetto alla morale: il contrasto perenne, che ne promana, tra
le sue opere ed i sentimenti e le idee della comune degli uomini o
è incentivo a nascondere, sotto la maschera della astuzia e della
simulazione, l’interno pervertimento, o, se non si teme la immanenza di
minacce della legge, è fonte di scherno e di dileggio che ora traspare
evidente nel gergo adoperato da’ malfattori, ora è perpetuato in segni
e figure strane del tatuaggio. Chi ha pratica con grandi delinquenti
sa da quanto scetticismo è circondata la loro condotta nei minimi
atti della vita. Musolino mostrò divertirsi della requisitoria del
Pubblico Ministero; P., famoso in un’associazione a delinquere della
mia provincia, tante e tante volte recidivo in reati di sangue, da
me difeso, mi confessò di non sapersi ancora persuadere del perchè i
magistrati qualificassero le sue azioni per riprovevoli, mentre egli
aveva fatto quello che nessuno avrebbe saputo e potuto fare, poichè
impotente a farlo!—Il male ha grandi risorse nella coscienza del
proprio potere: il mezzo migliore per combatterlo è di diminuire le
lusinghe e le speranze che di questo potere sono l’ordinario corteggio;
ma ciò torna impossibile fin quando la società non sostituisce, e ne
vedremo il perchè ed il come, all’unica sanzione della pena, altri
mezzi che, in date evenienze, abbattono il male attaccandolo alle
radici.

Riccardo—sulla china del delitto—non sente neanche il dubbio ad
arrestarsi: egli chiama a sè due sgherri cui commette il mandato di
uccidere il povero Clarenza. Il dialogo, tra’ tre malfattori, procede
rapido, incisivo; l’idea del delitto infiamma vieppiù mandante e
sicarî: Riccardo, licenziandoli, dice: «I vostri occhi versano folgori
quando quelli dei pazzi spargono pianti. Vi amo, garzoni; all’opera,
presto; ite, ite, affrettatevi»[58].

Clarenza fu trucidato, nè Riccardo è pago di sua morte; egli sentivasi
così sprofondato nel sangue che un delitto dovea richiamar l’altro.
Nè è a meravigliarsi; per lui il delitto era il prodotto spontaneo di
tempra morale sortita dalla culla, non modificata dall’età o dalla
educazione. La duchessa di York, di lui madre, gli dice: «No, per la
santa croce, tu ben sai che venisti sulla terra per far della terra
l’inferno mio. La tua nascita fu un peso doloroso per me: bieca e
caparbia fu la tua infanzia; la tua adolescenza violenta, selvaggia,
forsennata; la giovinezza scapigliata, cupida, temeraria. Nell’età
matura divenisti altero, astuto, dissimulato, sanguinario, meno fiero,
ma più pericoloso, carezzevole mentre odiavi»[59].

Alleatosi con Buckingham, triste e remissivo consigliere, Riccardo fa
uccidere coloro che avrebbero potuto ostacolare le mire di assorgere
al trono, Rivers, Grey, Waugan, Hastings: temendo di affrontare
la responsabilità di sì riprovevole condotta, innanzi la pubblica
opinione, trova complici che ne mistificano le notizie, ne coonestano
gli eventi. Malleabile, simulatore e dissimulatore in pari tempo,
mentre medita la morte del legittimo erede al trono, si circonda
di religiosi, piega il capo con l’umile posa di uomo contrito e
pietoso. Pregato—a sua istanza e sollecitazione—di accettare il
trono d’Inghilterra, si scusa, rinunzia; in apparenza costretto,
pienamente accetta. Anna, la vedova dell’ucciso Eduardo, è richiamata
alla promessa di addivenire sua moglie: ella, tra i tristi ricordi
del passato e le maledizioni, che erompono veementi di sua bocca,
subisce tuttavia l’effetto suggestivo delle _melate parole_ di lui,
e cede, pur sapendo che e’ l’odia a cagione del padre, Warwick, e
che fra breve debba da lei disciogliersi. Salito sul trono, ricorre
alla mano del sicario Tyrrel per far trucidare i figli del fratello,
calunniandoli per bastardi: uccide la moglie Anna, per sposare la
figlia del fratello; insospettito di Buckingham, gli nega il premio
della cooperazione in tante opere di scelleraggini. Costui si ribella,
ma arrestato è messo a morte.

Il dramma di sangue procede alla fine: un esercito, capitanato da
Richmond, si avanza contro l’infame usurpatore; costui si prepara
a resistere, ma sente di essere impari alla impresa. L’anima del
criminale, dopo di essere ascesa all’apice del maleficio, comincia a
dissolversi sotto il peso della propria ambizione soddisfatta. Mentre
pel passato non un rimpianto, non un solco di rimorso lasciavan
dietro di sè gli inumani delitti, la compagine morale di Riccardo, al
primo urto di imminenti pericoli, va in frantumi, e dal fondo buio
misterioso del suo interno vien su il cumulo di controstimoli morali,
la cui forza era stata repressa dal sovrapposto e saldo strato di
degenerata coscienza. La fantasia, turbata dall’insorgere di morbosi
sentimenti, diffonde una triste luce su quell’anima tenebrosa: cadono
le lusinghe, le ardite speranze, e su quel cuore deserto giganteggia
minaccioso il dubbio. L’io, la coscienza perdono l’equilibro; le
energie si disorganizzano, e l’uomo dal freddo scetticismo è in preda
al ribollimento incomposto di timori e di preoccupazioni manifestate
in un vero accesso di delirio. Leggasi il soliloquio nella tenda, pria
della battaglia, dopo l’apparizione, in sogno, degli spettri delle
persone trucidate, e si avrà una pagina di profonda psicologia dello
stadio di dissoluzione dell’anima del criminale. Nel primo momento
evvi la sorpresa di insolite rappresentazioni: l’idea di imprevista
sventura, esercitando forte e repentina scossa sulla compagine della
coscienza, eccita lo strazio del rimorso: Riccardo esclama: e Datemi
un altro cavallo ... fasciate le mie ferite ... abbi pietà, Gesù!...
Silenzio, ho soltanto sognato—Oh rea coscienza, come mi strazî!... Le
lampade mandano raggi azzurri ... È la morta ora della mezzanotte ...
Fredde goccie spremute dal terrore stanno sulla mia carne tremante»[60].

L’io, disgregato, si sdoppia e si prospetta alla mente personeggiato
in duplice immagine: le due coscienze per un momento acquistano
opposta omogeneità; il contrasto dinamico di prevalenza si accentua
nell’antagonismo di ricordi del passato e di realtà del presente, e,
perdutosi il freno di arresto, le idee, i sentimenti si svolgono con
la fuga tumultuosa del delirante. «Che! Temo io me stesso? Qui non è
alcun altro; Riccardo ama Riccardo; io, son pure io ... È qui qualche
omicida? No; ... sì; io ci sono,.. allora si fugga ... Che! Da me
stesso? Efficace movente ... Come?... Per paura della mia vendetta ...
Oh? Di me, sopra di me? Oimè, io amo me stesso»[61].—Finalmente,
nel turbinìo della mente, la coscienza riacquista un certo equilibrio
instabile: il passato s’integra col presente e l’uomo, giudicando sè
medesimo, si prevale, in parte, delle proprie energie e si accascia
sotto il peso d’una realtà tenuta nascosta per forza di abituale
dissimulazione.

«Perchè? Per qualche bene ch’io stesso abbia a me stesso fatto? No,
sciagurato, mi abborro piuttosto per opere ree da me concepite. Io
sono uno scellerato ... No, mento, tale non sono ... Insensato, di’
bene di te ... Insensato, non adularti. La mia coscienza ha mille
lingue, ed ognuna di esse ha il suo racconto, ed ogni racconto mi
condanna come uno scellerato. Lo spergiuro, lo spergiuro, al sommo
grado; l’omicidio, il crudele omicidio, in tutta la sua efferatezza;
tutti i delitti, praticati tutti nelle loro varie forme, si accalcano
alla sbarra gridando: Colpevole! colpevole! Mi è forza disperare
...»[62].—L’isolamento dell’animo porta lo sconforto; l’ambizione,
perduta l’aureola delle intime risorse, cade abbattuta dinanzi al
minimo ostacolo; l’annichilimento dello spirito, ultimo termine di
dissoluzione affettiva, paralizza la forza del volere e l’anima si
spegne nel doloroso rimpianto d’una pietà che si sa di non meritare.
«Nessuno mi ama e, se muoio, nessuno mi rimpiangerà..... In effetto,
perchè lo farebbero? Dacchè io stesso in me non trovo alcuna pietà per
me ... Mi parve che le anime di tutti coloro che ho trucidato venissero
nella mia tenda e che ognuno minacciasse per dimani vendetta sulla
testa di Riccardo»[63].

Passata l’onda tempestosa del rimordente delirio, ritorna, con la calma
dello spirito, la insensibilità, lo scetticismo. In Riccardo la psiche
criminosa è, come dicemmo, solidamente organizzata; la propensione al
delitto ha la scaturigine nel sentimento di orgoglio, nella speranza
di soddisfare la sfrenata ambizione d’un regno. Non manca perciò la
tenacia delle imprese, il coraggio di eseguirle. Ed i propositi rei,
tuttochè alle volte impulsivi, si fondano in convincimenti, che hanno
modificato completamente l’interno ambiente morale. La fortezza di
propositi e la tempra salda di carattere pel criminale evoluto son
suffragate dal disprezzo di principî direttivi della comune condotta;
egli sente di impersonare una forza che fa eccezione in mezzo ai
simili, e se ne vanta e si adopra di conservarne la dignità, aureola
di luce fosca e di triste augurio. «La coscienza—egli dice—è parola
che adoprano i codardi, inventata per tenere i forti in rispetto; le
nostre nodose braccia siano la nostra coscienza; le nostre spade siano
la nostra legge»[64].

Francesco Moor, sorpreso dall’estremo pericolo, presso a soccombere
vittima dell’imperversare di furibondi nemici, trema, si dispera,
finisce col suicidio. In lui la degenerazione fisica avea il
sopravvento sulle tendenze morali; epperò, di fronte al pericolo, il
coraggio mancò, per dar luogo allo estremo sussidio di animo debole e
disperato, il suicidio. Riccardo, per esuberante combattività, trova
in sè la leva di coraggio e di audacia; pugna e cade sul campo di
battaglia, incontrando la fine degna di ben altra sorte!



CAPO IX.


La dinamica della psiche criminosa.

 1. Efficacia genetica del motivo.—2. La psicologia delle
 _idee-forze_; stadî integrativi di coscienza percorsi dal motivo.—3.
 Stadio di discernimento del motivo.—4. Stadio di rappresentazione
 piacevole o dolorosa; conseguenze, dei due descritti stadî, nella vita
 psichica del delinquente; le manifestazioni istintive; meccanismo
 dell’attenzione criminosa.—5. La dottrina della conoscenza ed il
 problema del contenuto dinamico del pensiero; l’unità di legge
 nella natura, nel pensiero, nella storia; come agisca l’energia
 criminosa nell’atteggiare diversamente la psiche.—6. Influenza
 della immaginazione o della fantasia nel processo psichico del
 delinquente,—7. Analisi, della detta influenza, specialmente nel
 delinquente epilettico ed in quello affettivo.—8. La legge di
 _rassomiglianza_ e la legge di _contiguità nel tempo e nello spazio_,
 e la dinamica della psiche criminosa.—9. La dinamica psichica
 del delinquente negli atti del volere.—10. Lo stato di ansia
 conseguenza della polarizzazione della volontà criminosa; psicologia
 dell’emozione della paura; differenza tra l’atto spontaneo ed il
 volontario.—11. Le oscillazioni del volere ed il relativo processo
 meccanico-cerebrale.—12. Gli atti _alternanti_ o _intermittenti_ di
 azioni di motivi sopraggiunti; esempio dell’Alfieri nell’_Agamennone_.

=1.=—Il motivo, com’è stato da noi concepito, è il dato mentale
o primordiale della vita psichica. Esso, tuttochè si apprenda
isolatamente, non resta staccato dalla serie degli atti precedenti di
coscienza; ma si fonde e si integra coi medesimi. «Nel cosmo mentale
di un individuo—scrive l’Ardigò—i dati cogitativi emergono e stanno
come emergono e stanno le cose nel cosmo materiale universo. Qui per
una data pianta, ad esempio, si deve pensare, che il seme, onde è nata,
è il compendio di una serie infinita di azioni esercitate dall’ambiente
a ridurlo alla sua specie; e si deve pensare, che lo sviluppo del seme
stesso esige l’azione su di esso del terreno, dell’acqua, dell’aria,
del calore, della luce, che operano in quanto il potere loro è
determinato dall’insieme di tutte le esistenze; e si deve pensare,
che lo stesso è da dirsi per la continuità della esistenza come
individuo vegetante, il quale, come tale, si risente di quanto avviene
nell’ambiente più distante, fino a quello infinitamente lontano. E allo
stesso modo è un pensiero nel cosmo mentale. Nascendovi, concorrono
tanto o quanto tutti gli altri a farlo emergere come emerge; standovi,
non vi sta isolato, ma coll’accompagnamento, anzi col sostegno, per
quello che apparisce che sia, di tutta la psichicità già preparata»[65].

A parte la quistione se le rappresentazioni sieno di origine primitiva
o derivata nella dinamica della psiche, certa cosa è che i fenomeni
mentali sono in sè stessi _appetizioni_, le quali, contrariate o
favorite, si accompagnano a sensazioni dolorose o piacevoli; in
conseguenza, essi sono delle _azioni_ e _reazioni_ (Fouillée).

Allorchè noi parliamo di motivo, dobbiamo estenderne la efficacia
dinamica a tutta la serie degli atti psichici, la totalità dei
quali, in forma permanente o transitoria, s’incentra nelle qualità
psicofisiche organiche fondamentali, ereditate od acquisite,
dell’individuo.

È grande illusione di considerare, nel prodotto psichico del delitto, i
coefficienti dinamici in modo separato e formanti, ciascuno di per sè,
il contenuto logico dell’azione; donde l’erroneo sistema di ricorrere
senz’altro a questo o quel movente, o fattore, morale, etnico, sociale
ed economico, per spiegare il perchè del delitto.

Il motivo è energia, è attività, è azione: dalla sensazione,
percezione o rappresentazione fino al volere non vi sono che stadî
di trasformazione e di integrazione della energia iniziale; è perciò
che il motivo da efficiente finisce col convertirsi in finale. La
psicologia delle idee-forze svolta dal Fouillée credo che abbia
l’identico fondamento dei concetti qui enunciati: per essa gli stati
mentali debbono avere efficacia interna ed indivisibilmente esterna
in ragione della unità del fisico e del morale. Il principio donde
parte la psicologia delle idee-forze è il seguente, che stabilisce
l’unità di composizione mentale: «Ogni fatto di coscienza è costituito
per un processo di tre termini inseparabili: 1^o un discernimento
qualunque, il quale fa sì che l’essere senta il suo cambiamento di
stato, ed è così il germe della sensazione e della intelligenza; 2^o
un _benessere_ o _malessere_ qualunque, per quanto sordo che vogliasi,
ma che fa sì che l’essere non sia _indifferente_ al suo cambiamento;
3^o una _reazione_ qualunque, la quale è il germe della preferenza e
della scelta, cioè a dire dell’appetizione. Quando questo processo
indivisibilmente sensitivo, emotivo e appetitivo, arriva a riflettersi
su sè stesso e a costituire una _forma_ distinta della coscienza, noi
l’appelliamo, in senso cartesiano o spinoziano, una _idea_, cioè a dire
un _discernimento_ inseparabile d’una _preferenza_»[66].

Il motivo, qualunque forma psichica prenda, o di sentimento o di
idea, deve percorrere i seguenti stadî integrativi di coscienza:
1^o stadio, _discernimento_ d’un cambiamento avvenuto; 2^o stadio,
_rappresentazione_ piacevole o dolorosa del cambiamento; 3^o stadio,
_discriminazione_ del perchè del cambiamento; 4^o stadio, _fusione_
coi precedenti stati emotivi od ideativi, con analoga eliminazione
degli stati antagonisti; 5^o stadio, _unificazione_ qualitativa della
energia specifica criminosa; 6^o stadio, _unificazione_ quantitativa
dell’attività iniziale dell’azione.

=2.=—Giustamente osserva Fouillée, che il discernimento di cambiamento
di stato sia il germe della sensazione e della intelligenza. La
cenestesi, o sensibilità generale, non si specificherebbe, in qualunque
prodotto sensitivo, se non ci fosse accordato il potere di concepire
questo effetto isolatamente dagli altri, di discernerlo e di fissarlo
nel campo del pensiero. Dal punto di vista dell’intelligenza, aggiunge
Fouillée, il discernimento può essere implicito, quando un solo termine
è presente allo spirito, senza comparazione con altro. Ma la facoltà
di discernere non si sviluppa che con la scelta: se noi abbiamo
coscienza delle _differenze_, principalmente sensitive, è perchè queste
differenze sensitive trascinano delle differenze reattive. «Si può
anche andar più lontano e dire, che ogni discernimento contiene già
una scelta pratica rudimentale, che ogni determinazione intellettuale
è nello stesso tempo una determinazione dell’attività, sopratutto
nei sensi primordiali, i quali sono per essenza vitali, e dove la
reazione è inseparabile dalla sensazione. Discernere il piacere di
mangiare ed il dolore della fame è indivisibilmente preferire l’uno
all’altra. I discernimenti in apparenza indifferenti sono un risultato
ulteriore; anche in questo caso l’adesione, che noi accordiamo a ciò
che ci apparisce tale o tale, è ancora una preferenza intellettuale,
una determinazione in un senso piuttosto che in un altro, ciò che, ben
inteso, non implica alcun libero arbitrio»[67].

L’unità indissolubile del _pensare_ e dell’_agire_ è la legge
psicologica di importanza capitale riassunta nella espressione di
_idea-forza_.

In cotesto primo stadio, di discernimento del motivo o di energia
cosciente nel cambiamento dei precedenti stati di coscienza, ha molta
importanza la _inerzia psichica_. Ciascuno, in fatti, si accorge dello
sforzo adoperato ogni qualvolta la coscienza debba modificare il suo
stato totale o parziale: la causa è nella forza di resistenza delle
energie organizzate, massimamente per la fusione con gli elementi
statici dei residui psichici del passato. L’inerzia, però, della psiche
dev’essere intesa non in senso assoluto, ma in relazione al movimento
già stabilito con dato ritmo; mentre il cambiamento, sostituendo
novello ritmo, mette in giuoco attività che prima o restavano tuttavia
in istato latente, ovvero non erano discernibili alla coscienza.

Il lettore si sarà accorto che, trattando della dinamica della psiche
criminosa, noi completiamo quanto scrivemmo intorno alla dinamica
dei motivi. Allora vedemmo la efficacia _isolata_ del motivo, ora ne
esaminiamo l’azione complessa, nell’insieme di tutti gli stati psichici
costituiti ed unificati organicamente.

=3.=—Lo stadio di rappresentazione psichica integrativa della energia
criminosa, messa in giuoco dal motivo, è contrassegnato da stato
piacevole o doloroso; di che abbiamo esaurientemente discorso trattando
della genesi evolutiva e dissolutiva delle emozioni o della vita
affettiva.

La legge di composizione e decomposizione della vita fisica, per
l’alternarsi continuo di fenomeni di riparazione e di consumo, vale
ancora per la vita dello spirito, dove la funzionalità cosciente si
polarizza o in sensazione piacevole o in sensazione dolorosa. È da
questo momento che l’attività cogitativa, servendosi dell’appercezione,
afferma la propria esistenza di forza autonoma o differenziata e
l’io personale comincia a costruirsi con materiali consistenti. Il
mondo ambiente non è più visto al di fuori, ma si soggettivizza
e le energie, che ci partecipa, prendono il posto, che meritano,
negli atti successivi o coesistenti interni. L’io, in quanto afferma
il novello stato rappresentativo, afferma se stesso, e pone la
base d’una realtà soggettiva, che ha il corrispettivo dinamico nel
prodotto di attività psichica risultata dalla somma delle energie
precedenti fuse con la energia del motivo. Essendo così, la ragione
dell’affermazione della rappresentazione non deve attingersi in altro
principio che in quello di necessità di effettuarsi. «Per cui—scrive
Ardigò—colle diverse forme della rappresentazione si hanno pure
diverse forme dell’affermazione. E cioè, affermazione del dato puro
della sensazione nella psiche iniziale o del dato integrale nella
psiche adulta; del dato di coesistenti o del dato di successivi; del
dato intuitivo o del dato discorsivo; del me o del non me; del sentito
o del percepito o del ricordato o del riconosciuto; del singolo o del
concreto o dell’astratto; del reale o dell’ideale; dell’_a priori_ o
dell’_a posteriori_; del relativo o dell’assoluto; del necessario o
dell’esistente o del possibile»[68].

=4.=—I due primi stadî integrativi, di cambiamento di stato e di
rappresentazione con funzionalità piacevole o dolorosa, portano, nella
vita psichica del delinquente, o un’alterazione nelle manifestazioni
istintive, ovvero il processo di attenzione più o meno intenso e
duraturo. Il Despine bene osserva «che, quantunque l’organismo presieda
alla natura delle facoltà istintive, nel senso che noi non possediamo
se non quelle di cui esso permette la manifestazione, e che queste
facoltà cangiano di natura a misura che i nostri organi subiscono
profonde modificazioni o impressioni passeggiere, c’inganneremmo
molto se attribuissimo tutti i cambiamenti, che hanno luogo nelle
manifestazioni morali, a delle cause fisiche, a delle modificazioni o
a delle impressioni organiche. Si operano cambiamenti considerevoli
nel carattere, sotto l’influenza di cause le quali eccitano vivamente
certi sentimenti rimasti latenti, e la cui attività sostituisce
quella di altri sentimenti che avevano predominio fino ad allora
nell’individuo»[69].—Lo stadio di cambiamento, dunque, nella psiche
del delinquente, riducesi al destarsi di attività istintive latenti con
immediata formazione di tendenza verso l’azione.

Non si saprebbe comprendere come mai il criminale nato, a cui la
sensibilità morale fa completamente difetto, trovi in sè le risorse di
una potenzialità di tanta attività da meravigliare. «Se l’individuo
moralmente insensibile—scrive Despine—la perversità del quale non è
affatto attiva, si trova in condizioni che gli permettono di soddisfare
i suoi gusti con fortuna, ed alcuna causa non interviene ad eccitare
vivamente in lui dei desideri perversi, la sua insensibilità morale
non si manifesterà punto, non avendone l’occasione. Questo uomo,
tuttochè moralmente insensibile, non essendo trasportato al male, si
comporterà in maniera da non meritare biasimo. Tutte le cause che
eccitano nelle popolazioni le passioni perverse, cagionano, presso un
certo numero di individui, la manifestazione di loro insensibilità,
rimasta latente per manco di una causa che abbia eccitato prima
in essi dei desideri perversi, criminali»[70]. Il che può essere
eziandio l’effetto momentaneo della influenza di violenta passione
la quale, se imperiosamente lo richiede, è causa per cui qualcuno
sia spinto a commettere un misfatto proprio allo stesso modo di chi
sia in permanenza privo di senso morale. Ma, tostochè cessa lo stato
passionale, ed accade in generale molto prontamente dopo l’atto
compiuto, il senso morale si fa sentir di nuovo e, vivamente compunto,
da luogo al rimorso[71].

Per legge fondamentale dinamica evvi, dunque, gran differenza tra
l’attività psichica iniziale del delinquente nato e quella del
delinquente per passione; nel primo è la energia latente istintiva, che
si mette in giuoco, nel secondo il cambiamento è l’effetto transitorio
di eccitamento passionale.

Il criminale che uccide per uccidere, che ruba per soddisfare piuttosto
al potere imperioso istintivo e non al desiderio di procacciarsi dei
mezzi necessarî ai bisogni; che incendia, distrugge sotto l’azione
di impulsioni irresistibili, non trova affatto nel compimento delle
sue opere il corrispettivo di piacere o di dolore. Tanto è vero che,
molte volte, non ne serba ricordo; pare che abbia agito in istato
d’incoscienza. Il contrario interviene pel delinquente di occasione,
gli atti del quale sono l’effetto transitorio di momentanea sospensione
della vita affettiva altruista; forse potrà in esso appalesarsi la più
grande ferocia, ma, tornata la calma, l’animo riacquista il perduto
equilibrio sentimentale ed il malfatto è causa di rimpianto.

Non essendo la vita affettiva in giuoco, o per la qualità dello stimolo
o per la natura del soggetto passivo, bensì la vita cogitativa, il
cambiamento di stato è rappresentato dall’atto col quale la mente
prende possesso in forma limpida e vivace di uno fra tanti oggetti o
fra diverse correnti di pensieri che si presentano come simultaneamente
possibili (James). In simile atto, di spontanea o volontaria
attenzione, la finalità è di localizzare la coscienza concentrandone
la peculiare energia, e ciò vuoi pel maggiore interessamento che alcun
elemento sperimentale ha per noi, vuoi perchè ne siamo sollecitati
dalla impulsione inerente ad ogni cambiamento avvenga nel dominio
dello spirito. L’analogia riscontrata dal Wundt[72] tra l’attenzione,
rispetto alla coscienza, e la fissazione rispetto alla retina
dell’occhio, sembrami molto esatta. L’attenzione è sforzo _selettivo_;
è processo di arresto ed è funzionamento diretto del potere inibitorio.

Fissandosi la rappresentazione sulla linea degli assi visuali della
mente, si prospetta con più chiarezza e distinzione. Ma, si è detto
che tutto ciò non è che effetto di _interessamento_ e di _impulsione_
emotiva; la qual cosa ci richiama al punto vero della indagine,
il punto in cui la dinamica del motivo si converte in dinamica
rappresentativa e cogitativa pel delinquente.

L’attenzione è sollecitata a concentrarsi, sul novello stato interno,
dall’appetizione di qualche cosa di cui si sente il difetto o la
mancanza: quest’appetizione già di per sè equivaleva ad un movimento
vago ed indeterminato con tendenza a determinarsi. E poichè, per
legge meccanica, il movimento cominciato nell’organismo si continua,
si propaga e si traduce in atto, basta che vi si offra l’incentivo
perchè l’appetizione prenda consistenza e si idealizzi, non solo, ma
partecipi la energia alla rappresentazione presente alla mente in
contrapposizione della cosa di cui si abbia difetto o mancanza, e ci
spinga ad opere di estrinsecazioni necessarie a renderci soddisfatti.
La scaturigine del movimento della appetizione è nel ricordo di atti
e di godimenti reali o possibili, che si provarono pel possesso
della cosa in difetto o mancante, o che si ha speranza di provare in
conformità della esperienza fatta su altri: indi ne risulta la verità
del principio Spenceriano, che la tendenza a produrre un atto non è
altro che l’eccitazione nascente dagli stati psichici implicati in
quest’atto. In altri termini, la idea d’un movimento è questo movimento
cominciato e, per conseguenza, l’idea intensa ed esclusiva d’un
movimento trascina il movimento reale (Fouillée). Un ladro, ad esempio,
si decide a commettere un dato furto: il fondamento dinamico di questo
atto psichico implica parecchi dati: 1^o che si senta il bisogno di
qualche cosa di cui si abbia difetto o mancanza; 2^o che questa qualche
cosa sia proprio presente alla mente; 3^o che la rappresentazione
avutane abbia prodotto un cambiamento nello stato di coscienza; 4^o che
insieme al bisogno sia nato il desiderio della cosa e l’animo versi
nello stato di agitazione o movimento, sollecitato, più o meno, dalla
intensità del bisogno; 5^o che la idea di aver posseduta la cosa e
volerla ripossedere, ovvero la speranza di possederla, eserciti azione
stimolatrice acciò il movimento interno indeterminato si determini
e la impulsione del bisogno si trasformi in energia attrattiva
dell’intento perseguibile. Veggasi, quindi, che l’opera dell’attenzione
a fissare, nel campo della coscienza, qualche corrente di pensiero,
o ad arrestarne l’apparizione, per risentirne la efficacia dinamica,
deve riferirsi alla legge di unità continuativa dei processi psichici;
nel senso che l’insorgenza di qualche stato di coscienza, obbietto
dell’attenzione, si connetta alla esistenza di precedenti stati. La
fatta osservazione ha la riprova eziandio nelle singole impulsioni di
delinquenti nati, pazzi od epilettici che siano.

Che è mai la manìa omicida se non la impulsione irresistibile
ad estinguere la vita dei simili? Ebbene, anche in ciò non si
constaterebbe la tendenza a sparger sangue, se non se ne sentisse il
bisogno, e se in precedenza non si fosse creato nell’animo quello stato
di agitazione, di commozione, di cui l’ultimo termine è il delitto.
La differenza, anche qui, tra il delinquente nato ed il delinquente
d’occasione risiede nel dato psichico; che pel primo il movimento
psichico iniziale è originato da costituzione organica, è istintivo, e
l’_attenzione_ non fa che _passivamente_ risentirne l’eco con risonanza
stridente; pel secondo l’attenzione è analoga ai precedenti stimoli ed
alla energia del motivo che ha dato l’estremo impulso all’azione.

=5.=—Trattando della dinamica dei motivi e delle norme generali della
nostra disciplina, parlammo del terzo e del quarto stadio percorsi dal
motivo: qualche cosa sentiamo di dover aggiungere sul quinto e sesto
stadio, vale a dire intorno alla unificazione qualitativa della energia
specifica criminosa, ed alla unificazione quantitativa dell’attività
iniziale dell’azione.

Premettiamo, che la dottrina della conoscenza sembra che abbia
risoluto, con probabile competenza, il problema dell’origine del
contenuto dinamico del pensiero, nonchè delle forme graduali in cui
successivamente si va esplicando. Il funzionamento cerebrale presuppone
il funzionamento fisiologico dell’organismo, ed il funzionamento
fisico il mondo ambiente. La sfera dell’attività psichica è l’ultimo
modo di essere dell’attività fisica della natura e dell’attività
biologica; il pensiero, dunque, in quanto si organizza, è la formazione
naturale più alta nella scala delle sottostanti formazioni puramente
inorganiche ed organiche. Il cervello non è solo l’organo di risonanza
delle note armoniche, onde la natura afferma la sua esistenza e la
evoluzione ritmica dei fenomeni; nè è lo specchio che riflette,
semplicemente, in vane immagini il mondo esterno; ma è l’organo d’una
manifestazione reale delle energie della natura, è l’estremo limite in
cui si polarizza la vita nella immanenza di movimento conservato con
equivalenza.

Tutto ciò fu formolato dal nostro Bovio nel principio di unità di legge
nella natura, nel pensiero, nella storia: il pensiero è la natura che
si conosce, la storia è il pensiero che si muove. Il che torna a dire,
che la legge di reciprocità è sempre la medesima necessità, che nella
natura esteriore opera come gravitazione universale, a cui la natura
obbedisce e non sa; nel cervello opera come gravitazione ideale a cui
il cervello obbedisce, la intuisce, la insegue, e cerca tramutarla in
sistema; nella storia opera come gravitazione di tempi, a cui la storia
obbedisce e cerca tramutarla in codici, tirando dal passato i documenti
per l’avvenire[73].

La evoluzione è conservazione di energia con parallela continuità di
moto: dunque, passando le attività dal mondo esterno all’interno,
tramutandosi da attività fisiche in cerebrali, assommando il pensiero
i coefficienti dinamici dei motivi, la coscienza, col cambiar di
stato, cambia il funzionamento degli atti che ne conseguono, sia
qualitativamente che quantitativamente. La qualità non attiene alla
essenza o permanenza di identità personale, ma ai modi onde la energia
specifica passa di prodotto in prodotto psichico, di meccanismo in
meccanismo dell’io, di formazione in formazione, dalla rappresentazione
ed appercezione all’attenzione, alla riflessione ed al volere.

L’io senziente, intelligente, attivo son tre fasi dell’identica energia
vivente, ma tre fasi che si differenziano sì da non permettere che
l’una si scambi nell’altra, se non perchè tutt’e tre sono dipendenti
dall’unica ed identica sorgente di energia personale: alla stessa guisa
che l’organismo, nel tempo, non resta identico a sè stesso meno che
per la conservazione equivalente della energia individuale, la psiche;
permutando fisonomia e contenuto, non conserva la identità se non nella
sua natura differenziata rispetto ad altri individui della medesima
specie.

Si conclude, che la energia criminosa, atteggiando diversamente la
psiche, imprime la propria caratteristica e grado di attività alle
facoltà messe in moto, il sentimento, la intelligenza, la volontà.

Anche in natura le forze, in correlazione, si trasformano
qualitativamente e quantitativamente: «in ogni cambiamento la forza
subisce una metamorfosi; e a seconda delle forme che essa assume può
risultarne o la ripetizione delle condizioni precedenti, o condizioni
nuove in un numero infinito di ordini e combinazioni. Inoltre si vede
nettamente che le forze fisiche, non solo presentano tra di loro delle
correlazioni qualitative, ma anche quantitative. Dopo aver provato che
un modo di forza può trasformarsi in un altro, le esperienze mostrano
ancora che da una definita quantità di forza nascono sempre definite
quantità di un’altra»[74].

Indi è che l’evento psichico del delitto, effettuatosi nell’azione,
esaurisce, individualmente preso, la totalità della energia che lo
informa: quel che resta è la conseguenza obbiettiva, fatto imputabile,
e qualche traccia di attitudine meglio rafforzatasi per la futura
ripetizione dell’atto. Dunque, a che varranno le indagini meramente
antropologiche e psichiatriche, non che le norme aprioristiche
giuridiche sul giudizio che il magistrato dovrà emettere intorno
alla imputabilità soggettiva del fatto incriminato? Tutte coteste
indagini e norme si limitano all’ufficio di prove dell’evento psichico
criminoso: alla sola psicologia criminale è riservato il debito di
sintetizzare i dati psicofisici del delinquente e di unificarli in un
giudizio definitivo, tenuto conto di tutti i coefficienti dinamici che
precedettero ed accompagnarono la perpetrazione del maleficio.

=6.=—Avvenuta la rappresentazione del motivo, ed avvertito il
cambiamento di coscienza seguitone; fusi ed unificati in un solo
processo gli elementi dinamici similari della mentalità; eliminati gli
elementi antagonisti, la dinamica ideativa ed affettiva è sussidiata
dall’intervento della immaginazione o della fantasia. Nel mondo
psichico del criminale questa potenza ha imperio assoluto: essa
assoggetta, modifica, trasforma tutto ciò che incontra; dai più lontani
orizzonti, di lusinghiere speranze, all’ambiente attuale di turbamento
per l’azione soppravenuta di cause passionali, la immaginazione
influisce nell’atteggiare e predisporre l’animo a sentire, a pensare,
a volere in modo affatto proprio e secondo lo schema ed i fantasmi
che ella gli appresta. Le rappresentazioni presenti si rafforzano,
le passate si ridestano; le naturali inclinazioni acquistano un più
facile avviamento di attività; la realtà obbiettiva delle cose a poco
a poco si scolorisce, perde i contorni, è ricoverta dal velo diafano
e denso dell’oblio; e, a séguito di processo astrattivo, la immagine
ed il fantasma dell’intento logico, compresi nel contenuto statico
del motivo, si prospettano alla mente ed esercitano azione immanente
suggestiva. Tacciono i ricordi dei controstimoli; sulla superficie
della coscienza si ristabilisce un’apparente calma; ma, sotto ad un
cielo plumbeo ed attraversato da dense nubi, gli oggetti si confondono,
e l’animo è aduggiato dal senso di ansia e di tristizia. Le immagini, i
fantasmi si intensificano, si circondano del corteggio lusinghiero di
appetiti insoddisfatti, di promettenti speranze; la visione periferica
della coscienza si restringe, la centrale si acutizza; il fantasma,
idealizzato, dapprima oscillante, finisce col fissarsi sulla linea
degli assi visuali; l’occhio della mente n’è attratto, dominato,
ossessionato. Le potenze inibitorie, le correnti intercerebrali,
subiscono un periodo d’intermittenza; la memoria è lacunare. È cotesto
lo stato più interessante della dinamica psichica criminosa; stato in
cui la coscienza insensibilmente è travolta dal fondo e la meccanica
cerebrale segue il ritmo di movimenti instabili, varianti, dissociati.
La fantasia, malefica maliarda, con ghigno satanico innalza il suo
trono sulla rovina delle più nobili aspirazioni, e consacra, nel cupo
tempio dell’anima del criminale, la religione del delitto!

=7.=—Chi, di tutto ciò, desideri la prova evidente, rivolga
l’osservazione a quanto avviene nella psiche del delinquente epilettico.

La immaginazione e la fantasia sono per l’epilettico la forza specifica
della impulsività irresistibile. La emotività enorme (Krafft-Ebing);
la straordinaria irritabilità morbosa (Schüle); la lesione delle
affezioni (Despine); l’anestesia fisica e morale (Thompson); i facili
accessi maniaci, fanno sì che l’epilettico sia davvero lo zimbello
di morbosi fantasmi, che gli attraversano la mente e ne travolgono
il ritmo ideativo ed affettivo. Il processo morboso ha principio con
intensa e protratta preoccupazione, che è la caratteristica istintiva
del _carattere epilettico_: è l’ansioso desiderio di qualche cosa
d’indeciso, di vago; è il bisogno di estrinsecare attività latenti di
natura incompresa, della cui esistenza appena ci accorgiamo.

Mancando il fondo di realtà al processo ideativo e la coordinazione
associativa agli stati emotivi, la fantasia dell’epilettico giuoca una
parte essenzialissima nella trama cerebrale. L’equilibrio di facoltà
e di atti si mantiene oscillante; la mente, sorpresa, cerca un centro
stabile di gravità; attratta dal fantasma, lo scambia con la realtà
e lo insegue e vi si affida: ma, in un momento, perdesi del tutto
l’equilibrio, la base ideale ed affettiva vacilla, l’abisso si apre
repentinamente dinanzi. La stessa vittima se ne spaventa; al fremito
passionale, alla scossa, che si diffonde in tutte le regioni dello
spirito, risponde il gemito convulso di chi comprende a quale cieco
fatale destino sia nato soggetto!

La nota morale di anomalia del delinquente, e specie del delinquente
epilettico, risiede proprio nel funzionamento fantastico della dinamica
psichica. Il prodotto fittizio ed attrattivo del contenuto ideale ed
affettivo risulta dal compenetrarsi ed assommarsi di discrepanti
elementi frammentarî, i quali, non trovando posto stabile nella
coscienza, o son passati nel fondo di riserva dell’inconscio, ovvero
vagano nel vuoto oscuro della mente. Qualcuno di questi elementi,
per l’affinità dinamica col novello motivo rappresentativo, insorge
ed è attratto verso il centro visivo della coscienza: esso—chi il
crederebbe?—molte volte si sviluppa, si svolge in forma così imponente
da predominare l’ambiente con potere pieno ed assoluto. Le difficoltà,
che di frequente si incontrano nell’indagare il perchè prossimo o
remoto di azioni delittuose, sorgono dall’abitudine, tanto comune, di
credere che la logica del delinquente sia la logica dell’uomo normale,
e che la causa intima o psichica dell’azione debba esser sempre
ricercata nel motivo che, in apparenza, è percepito il più sufficiente
ed il più coerente con l’insieme logico del processo speciale mentale.
E poichè con la prova dei fatti o vien meno la speranza di attingere
il movente causativo in qualche circostanza o avvenimento, il quale
abbia la sufficienza logica di erudirci circa la origine soggettiva
del delitto; ovvero trascuriamo di accordare la debita importanza a
dati processuali irrilevanti, si finisce o con erroneo giudizio sulla
quantità morale del delitto o col credere che questo sia l’effetto di
brutale malvagità!

8.—Indugiandoci, chè ne vale la pena, sulla dinamica coordinatrice
o di relazione delle immagini o dei fantasmi a cui, in gran parte,
si connette la causalità criminosa, io credo che essa obbedisca
alle due leggi essenziali del meccanismo dell’associazione, la
legge di rassomiglianza e la legge di contiguità nel tempo e nello
spazio. La tendenza di connessione, secondo Stuart Mill, tra idee
che si richiamano, dopo che furono pensate insieme, è, sopra tutto,
osservabile tra le immagini ed i ricordi fantastici della mentalità
criminosa. Il contagio morale del delitto n’è l’esempio ordinario e più
apparente.

Le idee, i sentimenti, i giudizî, le rappresentazioni di fatti
sensibili, di avvenimenti complessi, sono, bene spesso, i precedenti
veri di azioni con le quali la rassomiglianza è equivalenza dinamica di
energia causativa; il che può avvenire eziandio in modo incosciente.

Talune persone, ad esempio, molto facilmente perdonerebbero una
ingiuria; ma nel loro animo si sveglia il ricordo che altri, in simile
contingenza, ricorse alla vendetta consumata in determinata guisa; si
affaccia il presentimento della disistima, nella pubblica opinione,
a cagione della diminuita dignità personale offesa, e così via
discorrendo. Nella prima ipotesi, per seguire l’esempio, la efficacia
del ricordo del caso simile si fonde con la efficacia operativa della
ingiuria sofferta; l’azione delittuosa altrui si delinea innanzi
alla mente con colori fantastici attrattivi e, poco a poco, i due
elementi, quello dinamico attuale e quello di ricordo, si unificano
ed organizzano in un solo evento psichico ed invadono e preoccupano
intero il campo della coscienza. Anzi, evvi di più. La ingiuria
subita, forse, di sua natura non avrebbe avuta forza impulsiva, perchè
scusata dalla supposizione di un equivoco: ma la _suggestione motrice_
del ricordo è sì potente che, per illusione non guari difficile a
verificarsi, noi scambiamo, nel prodotto fantastico, il valore dei due
termini mentali e crediamo di sentirci sospinti, all’azione, dalla idea
dell’offesa ricevuta, mentre non ci accorgiamo che questa passa in
seconda linea nell’associazione, per contiguità di tempo, con la idea
dell’avvenimento al quale siamo guidati dalla rassomiglianza dei due
fatti presenti al pensiero.

Nella seconda ipotesi, sopra riferita, la connessione fantastica è tra
la idea attuale dell’ingiuria ed il sentimento doloroso in noi destato
dal presentimento di diminuita dignità o reputazione. Il risultato
psichico, derivatone, sarà composto dalla realtà rappresentativa della
ingiuria in unione alla coefficienza di sentimentalità associata;
ossia, mentre il contenuto sostanziale sarà l’idea della ingiuria, la
fisonomia o colorito affettivo corrisponderà al sentimento doloroso
inerente al presentimento di dignità personale diminuita di fronte alla
pubblica stima.

=9.=—La dinamica psichica del delinquente rendesi più complessa e più
difficile negli atti del volere.

Il Wundt vede, come noi, il fondamento degli atti del volere nei
motivi, di cui egli distingue una parte rappresentativa ed una
sentimentale, la prima delle quali è detta _ragione determinante_ e
la seconda _forza impellente_. Dalla combinazione di una varietà di
motivi, cioè di rappresentazioni e sentimenti, i quali in un composto
decorso di emozioni si presentano come quelli che sono decisivi per il
compimento di un’azione, sta la condizione essenziale da un lato per
lo _sviluppo_ del volere, dall’altro per la distinzione delle _singole
forme di atti volitivi_[75].

Generalmente, nei Codici penali, la responsabilità d’un delitto si fa
risalire al fattore soggettivo del _dolo_, e questo si fa consistere in
atti liberi del volere ora avvisato come semplice _intenzione_ ed ora
come _volontarietà_ dell’effetto antigiuridico. Sceverando l’estremo
grado evolutivo dell’attività psichica criminosa, cioè il volere, dalla
serie dei gradi ond’è preceduto, e dando esclusivo rilievo all’evento
psichico il più complesso, col trascurarne gli elementi rappresentativi
ed intellettivi, si comprende la incertezza del dato giuridico il quale
in pratica deve incontrare insuperabili difficoltà di applicazione.

Chi non sa, in vero, in quale buio si versi allorchè, chiamati ad
assodare la imputabilità penale d’un reato, ci sentiamo in dovere,
anzitutto, di ricercare la esistenza o meno del dolo?

La legge fa obbligo ai magistrati di enunciare nelle sentenze i
_motivi_ su cui fondano il loro convincimento; l’art. 45 Cod. pen.,
pone il cànone fondamentale, che nessuno possa essere punito per un
delitto, se non abbia _voluto_ il fatto che lo costituisce: ma in
che consiste la _ragionevolezza_ dei motivi, in che la _volontarietà
del fatto_, staccata dal complesso degli elementi psichici o stati
di coscienza, dei quali è il delitto l’esponente ultimo? Dimandatelo
al magistrato, ed egli, nelle sue sentenze, si aggirerà tra concetti
e giudizî affatto arbitrarî e che, mentre pretendono di rispecchiare
cànoni scientifici, sono il riverbero di impressioni fugaci, talvolta
passionali, sulla natura dell’atto incriminato e della prova raccolta
contro l’imputato. Io mi sono sforzato, in altri miei libri, di
assegnare il valore logico al fattore soggettivo del reato così com’è
formolato dal patrio legislatore; ma, debbo confessarlo, durante la
lunga pratica professionale, ho dovuto, dolorosamente, constatare
quale e quanta incertezza resti sempre nell’animo di tutti, giudici,
avvocati e pubblico, per riguardo ai criterî di prova sufficiente a
ritenere, in singoli reati, il concorso dell’elemento del dolo. Nè
altrimenti dovea avvenire. L’opera del giudice non è l’opera dello
scienziato; solo a quest’ultimo è affidato il còmpito di mettere
in chiaro le norme regolatrici delle umane azioni, ed il modo di
interpretarne il significato: voler convertire un codice in trattato
di teorie e di cànoni dottrinarî è lo stesso che sottoporre l’alto ed
indipendente ufficio del magistrato a restrizioni mentali arbitrarie e
pericolosissime. Ed ecco, anche in ciò, la riprova del danno di sistemi
aprioristici scientifici, e dell’errore di trascurare, nelle umane
cognizioni, il principio logico fondamentale della _relatività_.

Tornando in argomento, diciamo che il volere è atto complementare
del processo psichico, appunto perchè, secondo James, _i movimenti
volontarî debbono essere funzioni secondarie, non primitive_, del
nostro _organismo_. La prima conseguenza, che ne emerge, è di dover
ritenere che la facoltà del volere si connetta alla esistenza di
rappresentazioni e sentimenti, che formano il suo presupposto dinamico;
e che, secondo Wundt, l’ipotesi di un atto di volere sorgente da
considerazioni puramente intellettuali, di una decisione volitiva
contraria alle tendenze che si esplicano nei sentimenti, ecc. racchiude
in sè contraddizione psicologica. Essa si fonda sul concetto astratto
di un volere trascendente, assolutamente diverso dai reali processi
psichici di volere.

«Nella fisiologia—scrive Fouillée—la dottrina della evoluzione
esplica, a mezzo dello sviluppo d’un organo rudimentale e primitivo, la
formazione d’un organo posteriore più completo; allo stesso modo, nella
psicologia, tutti gli atti riflessi o istintivi, con la loro varietà
attuale, debbono essere i derivati d’una sola impulsione essenziale e
primitiva. Trasportate questa impulsione in tutte le cellule elementari
d’un organismo, ella sarà il fondo psicologico di ciò che succede nei
piccoli esseri viventi ond’è composto l’organismo totale. D’altra
parte, le reazioni esteriori di queste cellule cadono, com’egli è
inevitabile, sotto la legge del meccanismo. Per simile combinazione
d’impulsioni psichiche semplici all’interno, di rapporti meccanici
all’esterno, voi potrete esplicare i fenomeni più complessi e le
adattazioni della volontà alle svariate circostanze»[76].

La meccanica psicologica del cervello ci è nota. Ogni eccitazione
periferica o intercerebrale è trasportata e risentita in analoghi
centri; indi, mercè l’apparato efferente, si diffonde in operazioni
riflesse. Il cervello è l’organo dell’_attività_, cosciente o
incosciente, della psiche: noi abbiamo il senso di questa _attività_
più specialmente all’apparire dell’atto volitivo. «Questo sentimento
dell’attività è di natura spiccatamente eccitante e a seconda degli
speciali motivi di volere è a vicenda accompagnato da elementi di
piacere o di dispiacere, i quali, alla loro volta, nel corso dell’atto
possono mutare e gli uni prendere il posto degli altri. Come sentimento
totale, il sentimento di attività è un processo crescente e decrescente
nel tempo, il quale si stende su tutto il corso dell’azione e col
finire di questa passa nei sentimenti, molto varî, di soddisfazione,
contentezza, delusione, ecc., come pure in sentimenti ed emozioni
diversi, che sono legati alla speciale riuscita dell’azione»[77].

La consapevolezza di possedere l’attività necessaria al delitto è il
primo e fondamentale effetto immanente della energia criminosa. Non si
può sentire la spinta al delitto, nè pensarlo nè volerlo, se non se
ne possegga l’attitudine; se l’organismo, e per esso il cervello, non
risentano l’azione specifica di forze esterne od interne trasformate e
concorrenti a quell’evento esteriore dalla legge represso.

Messasi in attività la energia criminosa, ella, diffondendosi
riflessivamente, in primo luogo è causa di atti di _tensione_; la quale
potenza di tendere è in ragione della intensità della eccitazione
centrale, ed è soggetta alla dispersione della energia eccitatrice,
non che all’aumento od alla diminuzione di equivalenti dinamici
fisiologici. Le ipotesi verificabili sono svariate, a seconda
della natura intensiva dell’attività, dell’attitudine dell’apparato
efferente, delle maggiori o minori difficoltà fisiopsichiche della
funzionalità organica. È possibile, primamente, che dallo stadio
iniziale emotivo all’azione non vi intervenga che trascurabile
intervallo, quasi che l’atto esteriore fosse di natura automatica o
riflessa. Il perchè del fenomeno si riconnette al problema formolato,
nel seguente modo, da James: La semplice idea degli effetti sensibili
di un movimento è uno stimolo motore sufficiente, o vi deve essere
uno antecedente mentale addizionale, come un _fiat_, una decisione,
un acconsentimento di un mandato imperativo, o qualche altro fenomeno
analogo, perchè si possa avere il movimento? Ed egli risponde, che
talvolta la semplice idea è sufficiente, ma tal’altra il movimento
è proceduto da un elemento addizionale cosciente. Ogni qualvolta
un movimento tien dietro _senza esitazione ed immediatamente_ al
pensiero di esso, noi abbiamo l’_azione ideo-motrice_[78].—Le azioni
impulsivamente istantanee, effetti di impeti passionali, di scoppî di
ira, di odio senza la previsione delle difficoltà e delle conseguenze,
appartengono allo stadio attivo qui descritto. Tostochè evvi insorgenza
di antagonismo tra le correnti intercerebrali, e le linee di movimenti
efferenti o divergono o si elidono, la vivezza della psichicità si
diminuisce; i poteri inibitori si riattivano, e gli atti del volere
obbediscono a delle fasi tipiche, che giova ricordare.

=10.=—Al senso ed alla consapevolezza di un’attività disponibile,
accompagnata da tensione, tien subito dietro l’_ansia impaziente_ di
veder cessare il presente stato di incertezza e di dubbio, come anche
di dar libero corso alla scarica delle energie reattive. La intensità e
la specie di cotesta ansia sono analoghe alla specie ed alla intensità
dell’affettività sentimentale del motivo. La volontà è tra due poli
della vita psichica: tra la emotività, che attira ed assorbe tutte le
risorse di equilibrio della coscienza, e l’idea motrice o suggestiva
dell’intento dell’azione esteriore. Or, nei riguardi del delinquente,
egli è d’uopo ricordare, che lo stato di ansia, qui accennato, si
riconnette, molto di frequente, a due emozioni di cui dobbiamo tenere
gran calcolo, la emozione della _paura_ e la emozione dell’_ira_ o
della _collera_.

Il Lange, il Bain, il Ribot ed il Mosso ci hanno data la descrizione
più accurata dei sintomi fisici e psichici della paura. Noi li
riassumeremo seguendo segnatamente il Lange[79], che, se non andiamo
errati, è sulla materia lo scrittore più autorevole. La paura è
ligata alla tristezza: in ambedue evvi paralisi dell’apparato motore
volontario e costrizione spasmodica dei vasi-motori; però, alla paura è
da aggiungere una contrazione spasmodica di tutti i muscoli organici,
ed un sentimento d’_oppressione_, con consecutivo sforzo centrifugo
cerebrale o segni esterni somatici abbastanza pronunziati.

Il Ribot nota, che la psicologia della paura comprende due momenti
ben distinti da studiare. Il primo momento sembra rapportarsi a
tendenze ereditarie che appariscono molto evidenti nell’età infantile
dell’uomo. Al secondo momento appartiene la paura cosciente,
ragionevole, posteriore alla esperienza. Essa ha per base la memoria,
non intellettuale, ma affettiva; onde si è accessibile al timore nella
misura in cui la rappresentazione del male futuro è intensa, cioè a
dire affettiva e non intellettuale, sentita e non concepita. Presso
molti l’assenza di paura non è che un’assenza di immaginazione[80].

Circa la emozione della collera ci basti, per ora, notare, col Ribot,
che ella ha origine dall’istinto di conservazione individuale, sotto
la forma offensiva; e che, secondo Bain, può definirsi: una impulsione
cosciente che spinge ad infliggere una sofferenza ed a trarre da ciò un
piacere positivo.

La emozione della paura, deprimendo l’energia reattiva ed abbassando
il livello cosciente dell’io, fa risentire più a lungo il senso di
ansia della irrisolutezza e del dubbio. Assorbita la mente a misurare
la probabilità e l’importanza del pericolo presente o futuro; oppresso
l’animo dal sentimento vago e doloroso d’un male o danno che è per
coglierci; turbata la mente da improvvise rappresentazioni le quali
sfuggono al controllo dell’attenzione e della riflessione, il giudizio
che ci formiamo del nostro stato è d’imperiosa necessità ad agire in
qualsiasi senso, preoccupati dalla sola idea che forse non riusciremo
ad allontanare da noi l’imminente pericolo che ci sovrasta. Al primo
periodo di depressione succede un secondo periodo di turbamento misto
a sentimento d’odio e d’ira per colui che è causa della minaccia;
l’equilibrio mentale si ristabilisce in parte, e noi ci accorgiamo
di sentirci autorizzati ad usare di tutta la nostra energia per
respingere il pericolo, anche a costo di violare la integrità fisica
o morale altrui. A questo secondo momento l’emozione della paura ha
molta somiglianza con l’emozione della collera: tutt’e due divengono
impulsive, con la differenza che la paura è tenuta in certi confini
dal calcolo del pericolo minacciato, e la collera, invadendo l’intero
campo della coscienza, travolge tempestosamente qualunque sforzo
di inibizione e precipita l’azione. In ciò ha grande influenza il
carattere risoluto o irresoluto dell’individuo: l’impulso a persistere
nella presa risoluzione è, al dir di James, un’altra componente
costante nella rete delle motivazioni.

La rapida ed istantanea impulsività degli atti emotivi dell’ira,
dell’odio, della tensione risolventesi in energia reattiva, è
generalmente qualificata per _spontanea_ ed irresistibile; mentre
ritiensi per _deliberata_ qualunque propensione in cui avvi minor grado
di sentimentalità passionale. Nella forma volitiva della deliberazione
si fa intervenire con maggior potere la libertà di scelta e di azione;
credesi che la spontaneità equivalga ad assenza di sforzo di tensione,
e che negli atti deliberati noi godessimo la _pienezza_ di forza
disponibile, non che a discernere tra motivo e motivo, a risolverci per
l’un verso e non per l’altro.

È questa un’illusione molto facilmente dimostrabile per l’analisi
del momento genetico della spontaneità degli atti. È illusione pari
all’altra di supporre che nella psiche possa esservi uno stato di
inerzia assoluta o di assoluto equilibrio stabile. Queste differenze,
che appartengono, per linguaggio usuale, alla qualità di stati interni,
non sono, in fondo, che differenze di quantità; ed è perciò, che,
secondo l’Ardigò, spontaneo si dice quando lo sforzo del centro in
tensione è minimo, e quindi non ne è avvertibile il senso; volontario,
quando lo sforzo è grande, prolungato e a riprese, e quindi è
distintamente rilevabile il senso di esso. Nella deliberazione la
volontarietà dello sforzo è accompagnata da più risentita psichicità
mentale; per cui, tra l’antagonismo dei controstimoli, si riattiva
un ritmo ideativo più costante e la selezione inibitoria riesce ad
allontanare le difficoltà apparse sulla linea della corrente cerebrale
predominante.

=11.=—L’ultima conclusione, a cui siamo pervenuti, ci ricorda la
esatta osservazione del Wundt, che le emozioni, dalle quali sono
introdotti i processi di volere, sempre più decrescono in intensità
a causa dell’azione contraria di sentimenti diversi e inibentisi a
vicenda, così che alla fine i processi di volere possono nascere da un
decorso sentimentale apparentemente tutt’affatto libero di emozioni: di
fatto, però, non si ha mai una mancanza assoluta d’emozione.

Intanto, succede che la indecisione si protrae, anche se i motivi
contrarî siensi affievoliti, ed il volere non sa prendere stabile
direzione, non perchè gli manchi la spinta, ma perchè l’azione
attrattiva dell’intento non si fa sentire abbastanza. Quante volte il
pensiero fluttua tra disparati ricordi ed opposti propositi, senza
tregua incessanti ed opprimenti, nè si è in grado di appigliarsi a
qualche divisamento pur di far cessare il doloroso stato di dubbio!
Dopo ore, dopo giorni, dopo mesi, l’intervento di qualche motivo
irrilevante, la cui accidentale insorgenza resta per noi innavvertita,
dà l’ultimo tracollo alla bilancia e noi ci sentiamo senza ulteriore
difficoltà trascinati all’opera. Come avviene tutto questo? La
meccanica del cervello ci presta una ipotesi molto plausibile. Sappiamo
che l’associazione delle rappresentazioni e delle idee si effettua in
due modi, o in forma _lineare_ e _temporale_ o in forma _spaziale_.

L’associazione lineare, giusta l’osservazione di Henle, ha il campo
d’azione in un solo e medesimo organo, nell’organo del pensiero sotto
forma di associazione di idee, nell’organo centrale dell’udito sotto
forma di melodia, assonanza e via dicendo. La seconda specie, cioè
l’associazione spaziale, salta da un organo all’altro, dall’organo dei
concetti a quello delle rappresentazioni sensorie e viceversa. Essa è
identica alla simpatia nervosa[81]. Or, che l’associazione spaziale
abbia per punto di partenza la struttura del sistema nervoso centrale,
e che i prolungamenti colleganti fra di loro le cellule nervose
acquistano tanto maggiore conduttibilità, quanto più frequentemente
essi si adoprano, sono ipotesi più o meno plausibili per spiegarci
il passaggio dall’un centro all’altro, con collegamento spaziale;
ma la difficoltà non è neppure quella proposta da Henle, cioè come
l’associazione delle rappresentazioni tra loro corrispondenti sia
tratta dal patrimonio dell’uno e dell’altro centro. La difficoltà
emerge dal vedere che tra due vicini o lontani centri si generi una
corrente, o delle serie di correnti, senza che vi sia stato da parte
nostra veruno sforzo, o senza che tra le due lontane sedi di attività
cerebrali sia intervenuto un motivo medio che collegasse gli estremi
come anello di ininterrotta catena.

Qui, certamente, dobbiamo far ricorso alla causa di energie latenti,
per lo più ereditarie; per le quali, in casi simili, si svegliano
simpatie nervose, attrattive ideali impreviste. Ciò lo vediamo, con
processi più sistematizzati, in forme morbose di squilibrî mentali:
le idee fisse, le tendenze irresistibili rinascono con la identica
modalità ritmica di forme ereditarie od ataviche; lo stesso, senza
dubbio, è per le associazioni tra elementi psichici discrepanti, i
quali, poi, sono i fattori immediati o mediati di impulsioni o di
deliberazioni volitive. Apprezzando il perchè di date decisioni,
noi facciamo le grandi meraviglie del come, per motivi estranei o
irrilevanti, si sia pervenuto all’azione di grave delitto; perchè,
in oltre, mentre, subito dopo la ragione di odio e di ira, niente di
anormale mostrò il paziente, nè alcuno avrebbe dubitato di lui, poscia,
all’impensata, egli siasi reso autore di atti feroci di vendetta.
Il motivo di odio, nel momento occasionale, restringeva l’efficacia
nel mettere in moto l’attività di un solo centro rappresentativo ed
ideale; ma, col passare del tempo, altri centri, vicini o lontani,
si ridestarono, mettendosi con esso in relazione, alcuna volta per
accidentalità sopraggiunta; e, per la confluenza di correnti similari,
avvenne, nel momento dato, la fusione e quindi il formarsi di novella
energia con potenzialità sufficiente a trascinar seco il pravo volere.
Nei reati premeditati il fenomeno è costante, ed è per questo che, in
simili reati, evvi la presunzione di maggiore imputabilità e temibilità
del reo; supponendosi che nel medesimo siavi un fondo di perversità
degenerativa, non domabile sì facilmente, riferendosi ad attitudini
antropologiche eccezionali.

Se non che, io dico, che una seconda causa concorre a produrre il
fenomeno, e si riferisce al mutamento di stato organico dell’individuo,
in periodi di tempo. L’illusione della piena libertà di arbitrio ci
persuade che sempre ed ovunque noi disponiamo di forza sufficiente
per scegliere e seguire gli intenti delle nostre azioni. Ma la cosa
è ben altrimenti. Molta parte del funzionamento cerebrale ci riesce
ignota e misteriosa; argomento, per molti, di ricorrere all’ipotesi
di _cerebrazione incosciente_. Certo è che lo sforzo a sovvenirci
di alcuna idea, di ristabilire la trama ideale tra centri similari
mentali, di riprodurre le rappresentazioni di già avveratesi, spesso
ci torna di impossibile esecuzione; e che, mentre meno ci pensavamo,
improvvisamente le correnti, che sembravano spente, di pensieri e di
sentimenti, si riattivano e producono effetti meravigliosi.

Il citato Henle molto opportunamente, osserva, che la volontà non è
assoluta, ma dipende dallo stato d’animo e dal particolare sviluppo
della materia pensante. «Quanto i pensieri appaiano arbitrarî, lo
attesta anche l’Apostolo allorchè dice che essi reciprocamente si
accusano e si scusano. «Essi vengono quando vogliono» lamenta Rousseau,
«e non quando voglio io»; e Lichtenberg caratterizza in modo energico
la sensazione per cui noi assistiamo quasi come spettatori allo
svolgersi del processo dialettico nel nostro intimo, affermando che non
si dovrebbe dire «io penso», ma «pensa», come si direbbe «lampeggia».
E Goethe esprime la stessa idea, con quella forma vivace che gli è
propria: «Il male è che ogni pensiero non aiuta a pensare; dobbiamo
essere retti per natura, cosicchè le idee felici si presentino dinanzi
a noi come libere figlie di Dio e ci dicano: Eccoci qua!» Goethe
c’insegna, inoltre, cosa avvenga nel laboratorio intimo del poeta, con
queste parole colle quali egli nella dedica del Faust evoca le fugaci
immagini della sua fantasia:

  «Cingetemi di voi, spettri diletti,
  Come da nebbia o da vapor suoi farsi»[82].

Non trascuriamo di aggiungere che, all’alternarsi di idee, di pensieri
e di voleri, in molta parte dobbiam far capo alle opinioni individuali.
Allorchè le credenze inspirate da’ sentimenti e dalle passioni sono
combinate in sistema su d’un obbietto determinato, o religioso, o
politico, o artistico, esse costituiscono le opinioni (Despine). Le
quali, nè è difficile sperimentarlo, informano di sè tutta la vita
psichica; formano il fondo permanente donde si diramano le correnti
di energie direttive del lavoro cerebrale; forniscono il materiale di
riserva ai deficienti processi mentali.

=12.=—L’ultima specie dinamica del volere ricorre negli atti
_alternanti_ o _intermittenti_ di azioni impulsive di motivi
sopraggiunti. La relatività temporale e spaziale del contenuto attivo
del pensiero alcuna volta apparisce in momenti così staccati e per
sì differenti impulsioni, che la nostra attenzione può fissarne la
separata entità dinamica. Volontà deboli, caratteri incerti sono alla
discrezione di moventi alternanti, e, talora, tra loro discrepanti; di
guisa che, in definitiva, è assai incerto stabilire quando la decisione
criminosa ebbe luogo, quale ne sia stato il motivo _efficiente_. Prima
che si generi la _persuasione_, ossia prima che gli atti mentali si
equilibrino e si muovano attorno ad un centro fisso di gravità, si è a
discrezione di attività sentimentali od ideali con differenti movimenti
suggestivi distaccati: l’ultimo impulso fissa la direzione associativa
ed emotiva e decide l’idea dell’azione.

Il fenomeno qui descritto venne intuito in modo sorprendente
dall’Alfieri nell’_Agamennone_. Egisto, l’uomo dalla premeditata e
feroce vendetta, arriva ad assoggettare ai suoi voleri Clitennestra, la
quale, resa vittima di morbosa passione, dovea servirgli di strumento
per sfogare sui discendenti di Atrèo l’odio ereditato dal padre Tieste.
La infelice donna sa che il marito Agamennone è di ritorno in Argo
dopo i trionfi della distrutta Troia, e teme di per sè e dell’amante
costretto ad allontanarsi, esulando dalla reggia ov’egli era dimorato
colla speranza che, morto il re in battaglia, ne potesse usurpare
il trono. Clitennestra, agitata tra timori e speranze, sente di non
potere staccarsi dall’uomo fatale che ne avea conquistato il cuore:
ella chiede un sol giorno per escogitare un rimedio, ma invano la sua
mente si dibatte, che tutto concorreva a persuaderla dover Egisto
allontanarsi di Argo, se a maggiori sventure ambidue non avessero
voluto andare incontro. Il periodo di incertezza, di ansia dolorosa
dell’animo di lei è riprodotto dal poeta con esatto rilievo: sotto il
dominio suggestivo della passione, ella è chiusa, cogitabonda; dinanzi
al marito non sa trovare il verso di dissimulare l’interno stato,
di simulare un tratto solo dell’antico affetto che a lui la legava;
dinanzi ad Elettra, sua figlia, non sa far altro che scusare Egisto, e,
se con qualche affettuoso ricordo è richiamata alla spaventevole realtà
del presente, esplode in atti di veemenza e dice:

                              Sola
  Col pensier miei, colla funesta fiamma,
  Che mi divora, lasciami—L’impongo[83].

È profondamente artistico, e troppo verisimile, il modo onde Egisto
insinua nella mente della donna il reo proposito di uccidere il
marito: si mediti la scena prima del quarto atto; la drammaticità
passionale, la sentimentalità persuasiva criminosa attingono il colmo
di colorito e di efficacia intensiva. Egisto dapprima accenna, poi si
ritrae dissimulando; Clitennestra dapprima non intende e vuole essere
illuminata, poi intuisce il reo pensiero e, sorpresa, esclama:

                       Or t’intendo—Oh quale
  Lampo feral di orribil luco a un tratto
  La ottusa mente a me rischiara! oh quale
  Bollor mi sento entro ogni vena!—Intendo:
  Crudo rimedio,... e sol rimedio..., è il sangue
  Di Atride[84].

Eppure, ella resta scossa sì ma titubante; la passione amorosa
era insufficiente a deciderla di eseguire l’orrendo maleficio. La
sua volontà versa in quello stato di tentennamento che è proprio
dell’equilibrio instabile per manco di poteri attrattivi predominanti
di qualche idea o sentimento in giuoco. Ma Egisto se ne avvede ed
aggiunge esca al fuoco, forza alla spinta: confessa alla donna,
dissimulandone accortamente il mendacio, che Agamennone sia preso
d’amore per Cassandra, la bella fanciulla da lui condotta schiava da
Troia. La misura è colma; Clitennestra esclama: «Che ascolto!». Egisto
insiste:

              Aspetta intanto
  Che, di te stanco, egli con lei divida
  Regno e talamo; aspetta, che a’ tuoi danni
  L’onta si aggiunga; e sola omai, tu sola,
  Non ti sdegnar di ciò, che a sdegno muove
  Argo tutta.

L’effetto è immediato: Clitennestra più non tentenna; ella dice:
«Atride pera!».—Egisto:

               Or come?
  Di qual mano?

  CLIT.:        Di questa, in questa notte,
  Entro a quel letto, ch’ei divider spera
  Con l’abborrita schiava[85].

Ma, non ostante la presa decisione, trascorse poche ore, la donna non
ha più la forza di tradurre in atto il reo proposito: col pugnale
tra mano, sulla soglia della stanza ove dorme Agamennone, ella si
arresta. La sua mente vacilla; onde di pensieri, di ricordi, di
rimorsi, si accavallano, ribollono, la turbano, la travolgono: dal
fondo di quell’anima passionata già veniva su la idea di arretrarsi, e
forse, per la fusione di concomitanti motivi, la controspinta avrebbe
trionfato: ma Egisto appare, e la misera dice a sè stessa: «Io sono
perduta, oimè!».—Si ridesta la interna lotta per nuovi coefficienti
suggeriti, accumulati dal reo eccitatore: la vista del ferro, a lei
offerto dall’uomo che le ricorda il sangue sparso della propria figlia,
Ifigenia, da Agamennone, la riaccende; la volontà omicida esplode e
l’azione precipita. Clitennestra penetra nella stanza del marito e lo
trafigge!...

Quanta verità di naturale riproduzione di cose: quale visione reale di
stati di animo sì fugaci e per ciò sì difficili ad esser compresi!...



CAPO X.


Psicologia dell’azione criminosa.

 1. Che cosa debba intendersi per azione criminosa.—2. Anomalie ed
 esquilibrio del carattere del delinquente.—3. Stato di esquilibrio
 psichico del delinquente nato: caratteri distintivi che accompagnano
 la sua azione criminosa.—4. La organizzazione psicofisica anomala
 del delinquente nato: le note culminanti psico-patologiche proprie
 della sua attività.—5. L’azione del delinquente folle; la pazzia
 a forma melanconica.—6. La manìa impulsiva; le ossessioni
 psichiche criminose.—7. Esame dell’_Ercole furente_ di Euripide,
 esempio di manìa omicida accompagnata da allucinazione impulsiva;
 le _emozioni ossessive_ con impulsioni di fobia.—8. L’azione
 criminosa dell’epilettico.—9. La epilessia larvata o _equivalente
 epilettico_.—10. Il delinquente per passione.—11. Psicologia
 dell’odio.—12. Psicologia della _gelosia_: Fedra e Medea.—13.
 L’azione criminosa del delinquente per passione: psicologia
 dell’ira.—14. Esame di Oreste, secondo Eschilo, Sofocle ed Euripide,
 quale esempio di delinquente per passione.—15. Il delinquente di
 occasione.

=1.=—Intendiamo per azione criminosa la sintesi degli atti che
preparano, accompagnano e susseguono il delitto. L’opera esteriore,
non che essere il compimento di ciò che entro siasi divisato, ne è la
prova più appariscente; quella prova onde, con metodo induttivo, noi
procediamo dalla constatazione del noto per arrivare a comprendere
l’ignoto. È così che il rito giudiziario completa le prescrizioni
della legge repressiva; poichè la imputabilità, avendo bisogno di
individualizzarsi per partorire la responsabilità, non può far a meno
di date prove di fatto raccolte e coordinate secondo norme logiche
prestabilite e consecrate da apposite prescrizioni rituali.

Chi opera, esteriorizza il suo essere intrinseco; ondechè l’azione
non è che la manifestazione di ciò che rimane occulto; di ciò che è
la somma della vita psichica individuale, dagli elementi sensitivi,
emotivi ed intellettivi, alla più completa formazione della coscienza,
della intelligenza, della volontà. Il delitto, dunque, considerato
obbiettivamente nella azione, non è mai un fatto _fortuito_, dipendente
del tutto da accidentalità di tempo e di luogo; è l’indice della
costituzione organica dell’agente, fisica e psichica: il suo fattore
è sempre a ricercarsi, come bene si esprime il Garofalo, nella
_specialità_ dell’_individuo_, plasmato dalla natura in modo da essere
_delinquente_[86].

Gli atti esecutivi si differenziano secondo il fine cui tendono; il
fine rispecchia gl’interni propositi e completa la fisonomia morale
del carattere individuale. La composizione di questo carattere, pel
delinquente, perchè sia bene compresa, ci obbliga a rifarci alquanto
indietro ed a ricordare parecchie anomalie psichiche le quali informano
le modalità dell’azione, imprimendovi delle note interessantissime
nello apprezzamento degli elementi di prova processuale.

=2.=—Il Marro scrive, che il carattere saliente della mente dei
delinquenti è dato per lo più da una mancanza di riflessione, che,
congiunta ad egual difetto di affettività, li dispone a forme più
o meno gravi del delirio di persecuzione[87].—Questa anomalia di
esquilibrio dipendente dal prevalere di morbosa sentimentalità sul
contenuto ideale di associazione riflessa è causa di frequenti
_ossessioni_ congiunte ad instabilità di propositi e di atti; il
che, a prima vista, sembra contraddittorio, ma è pur corrispondente
al vero. I delinquenti, per chi ne abbia pratica, sono i vinti, più
che della lotta per la vita, dell’invincibile potere di idee fisse
o ricorrenti di persecuzioni immaginarie, che, prendendo corpo e
rilievo per l’influsso deleterio di scompigliata fantasia, partecipano
alla psiche il fondo di grande vulnerabilità, predisponendola ad
atteggiarsi, senza difficoltà, secondo gli instabili eventi quotidiani.
Dai facili trascorsi in famiglia, nella tenera età, al continuo
cambiamento di occupazione e, in fine, al vagabondaggio, la esistenza
di codesti disgraziati è alla mercè di perenne flusso e riflusso di
forze antagoniste: la personalità si disgregherebbe più facilmente
del consueto, se non fosse tenuta salda da idee fisse, da sentimenti
giganteggianti, il cui esito è di ossessionare la mente, alterando il
carattere di volta in volta che le impulsioni rendonsi più intense.

La incoerenza psichica è causa di imprevidenza sulla possibilità
probatoria, di responsabilità, di atti che potevansi evitare o
effettuare altrimenti. Chi guarda l’azione criminosa, partendo
dall’atto compiuto, è soggetto ad ingannarsi se crede di dover seguire
i dettami della comune logica, cioè se crede di scorgere il necessario
legame causale tra i precedenti ed i concomitanti del delitto. Questo
legame esiste, ma è l’effetto di processo mentale anomalo, perchè
predisposto ed originato da fattori rappresentativi ed ideali di cui
difficilmente ci è concesso, _a posteriori_, di riprodurre in noi la
trama mentale.

L’eccessiva vanità dei delinquenti spiega come essi, con
un’imprevidenza inconcepibile, escano a parlare dei proprî delitti
prima e dopo d’averli compiuti, fornendo, così, l’arma più potente che
abbia la giustizia per coglierli e condannarli (Lombroso). Il che,
aggiungerei, è da manco di riflessione, perchè non si ha il potere di
controllare quel che si dice o si opera: il campo visivo della mente
è alterato da correnti di sentimentalità invadenti; l’io, staccandosi
dalla normale vita di relazione con l’ambiente, si isola e troneggia in
una sfera di fantasioso egoismo.

=3.=—Per procedere con più esattezza in quest’ultima parte del
processo psicologico del delitto, esamineremo separatamente:

_a_) la psicologia dell’azione criminosa dei delinquenti nati, o con
fondo di pazzia morale o di epilessia;

_b_) quella dei delinquenti passionali;

_c_) quella dei delinquenti di occasione.

Facendo principio dal delinquente nato, osserviamo che in esso lo
stato di esquilibrio psichico presenta completa organizzazione a base
di fattori degenerativi ereditarî e di fusione integrativa degli
elementi similari dell’ambiente. La energia criminosa ereditaria, a
contatto con le forze ambienti, si è corroborata, intensificata, ed
eliminando, dalla organizzazione dell’io individuale, gli elementi
estranei alla sua natura, si è unificata con analoga specificazione.
La forma psichica, che ne risulta, apparisce senza veruna impronta di
rappresentazione dell’ordine dinamico esteriore con l’ordine immanente
di stati di coscienza: il sentimento altruista, di famiglia, di
sociabilità, di simpatia non esiste, e dal suo luogo domina assoluto
il senso di egotismo, che dispone il delinquente a sentirsi estraneo
tra’ simili, anzi in lotta con essi perchè diversamente da lui
conformati. Se lo sviluppo mentale si è tenuto basso, il delinquente
nato neppur bada ai controstimoli del delitto; per lui la legge penale,
la morale, i costumi, la pubblica opinione son come non esistessero;
appena, ma di rado, son percepiti o ricordati siccome incentivi ad
eseguire il maleficio con maggiore astuzia ed accortezza. Se, poi,
lo sviluppo mentale si è arricchito di alquanta coltura e la vita di
relazione si è resa vieppiù complessa, il ricordo dei controstimoli
serve ad accrescere la morbosità fantastica dell’azione criminosa,
poichè è causa per cui dal fondo pervertito del criminale venga su
la irresistibile tendenza ad agire in controsenso ed a dispetto del
comune modo di sentire e di giudicare. La lotta di prevalenza sociale,
che per l’uomo normale si svolge con lo sforzo di arricchirsi di
qualità morali preminenti o di maggiori sostanze economiche, frutto
di progredita attività, nella mente del criminale si prospetta con le
parvenze di antagonismo brutale, con l’urto dispettoso di presunti
nemici o persecutori, con l’assenza di ogni traccia di probità o di
pietà. Basta il minimo motivo per coonestare i più atroci misfatti:
leggasi in Despine[88], in Lombroso[89] i moltissimi esempî di
delinquenti, che si scusarono da immani delitti adducendo dei motivi
i quali sembravano ridicoli pretesti. La polizia giudiziaria, messa
sulla traccia di trovare il responsabile di alcun grave delitto,
molte volte erra nel seguire ipotesi, che a lei vengono suggerite
dai presupposti di ordinaria esperienza dei fatti umani; perchè
credesi che il reo abbia dovuto aver rilevante motivo all’azione, e
che questa abbia dovuto consumarsi con tutto l’apparato di mezzi
scelti e creduti meglio adatti all’intento criminoso. Niente di tutto
questo: il delitto è l’effetto di circostanza, di motivo futilissimo;
talfiata è il mezzo di soddisfazione degli istinti perversi che trovano
nell’azione il completamento ad una attività irrefrenabile. Il vero
motivo presupposto di processo logico degenerativo è a ricercarlo nel
fondo anomalo dell’anima del criminale; fondo che ben può indovinarsi
apprezzando senza preoccupazioni le modalità esteriori dell’azione, le
quali, tuttochè testimoni muti, sono abbastanza eloquenti per indurci a
scovrire il vero agente del delitto.

La fredda ferocia e la sensibilità apatica[90] di molti omicidî sono
l’indice dello stato psichico dei rei. La sensibilità, fisica e morale,
è nell’uomo integro il frutto di coefficienti organici biologici: se
questi coefficienti mancano, i nostri atti debbono essere in palese
opposizione con la comune condotta.

=4.=—Trattando degli stadi coscienti di formazione e di sviluppo del
delitto, mostrammo il processo integrativo o disintegrativo dell’anima
del criminale. Dovendo, ora, veder tali elementi rispecchiati
esteriormente nell’azione, converrà aggiungere altre osservazioni che
in precedenza furono appena adombrate.

La organizzazione anomala del delinquente nato percorre le fasi di
arresti dello sviluppo psichico: di qui la relazione biologica ed
antropologica tra il pazzo morale, l’epilettico ed il criminale.
Dallo stato di idiozia al deficiente equilibrio psichico ed
all’equilibrio pieno si hanno gradi considerevoli, a cui il
psicologo è obbligato a rivolgere la sua attenzione. «Per quanto
svariati—scrive Krafft-Ebing—possano essere i gradi della idiozia
(idiozia propriamente detta e imbecillità) pure vi ha sempre una
frontiera che la separa dalla debolezza mentale, e ciò consiste nel
fatto che le rappresentazioni psichiche, per quanto frammentarie ed
elementari, non possono compiersi spontaneamente ed indipendentemente
dagli elementi sensoriali, nè possono servire ad elaborare delle idee
astratte (concetti, giudizî). Ma anche la riproduzione delle idee,
pur ammesso che avvenga, si fa in modo incompleto, come quella che per
la massima parte tien dietro soltanto ad una eccitazione esterna o ad
un bisogno organico che si faccia sentire. È perciò che tutto quanto
l’andamento del processo ideativo decorre in modo puramente meccanico,
come se l’idea si fosse formata primitivamente. L’idiota completo
non è suscettibile di emozioni. Sono a lui sconosciuti e simpatia e
sentimenti sociali, ed esso non prova nemmeno il bisogno della vita
in società: egli ne gode i vantaggi senza comprenderne affatto il
significato etico. Egli è capace di reagire in un solo senso, e cioè
quando il suo _io_, così limitato, è contrariato. Allora reagisce con
la esplosione dell’ira la più veemente, ma che è addirittura esagerata,
e che si manifesta con una brutalità assolutamente sproporzionata allo
scopo»[91].

Lo stato più normale del delinquente nato è di debolezza o di
insufficienza nei processi mentali. Difettosa l’attività sensoriale,
difettosa la rappresentazione del mondo esterno; privo dell’idea
dell’intima essenza delle cose e dei loro minuti rapporti; privo della
ricchezza necessaria di linguaggio onde ricordare od esprimere le idee
che sorpassino le comunicazioni della vita, esso è insensibile al
bene ed al male altrui; credulo, inesperto, difeso più dall’astuzia
del felino che dalla previdenza di bruti alquanto evoluti. «A causa
della facile suggestionabilità, gli individui deboli di mente si
possono facilmente incitare a commettere dei gravi delitti con minacce,
intimidazioni e prestigio di autorità, e spesso diventano dei docili
strumenti nella mano di delinquenti nati più perversi»[92]. In omicidî
per mandato, in complicità per assistenza ed aiuto è molto facile
incontrarsi in uomini di tale natura: essi subiscono il fascino
dell’altrui azione suggestionatrice; obbedendo agli istinti malefici,
provano soddisfazione e piacere a sentirsi capaci, ciechi strumenti
nell’altrui mano, a commettere qualche impresa criminosa: per costoro
l’azione del delitto reca sforzi minori che il vincere l’ordinaria
apatia di carattere, poichè nel delitto essi trovano l’incentivo
più forte a rendersi attivi, a vivere della vita esteriore. Dopo il
delitto, la fantasia si accende e si esalta alla idea delle conseguenze
penali; la pubblica riprovazione del fatto risuona con eco di sorpresa
sulla indifferenza di animo di malfattori così fatti; ond’essi,
trasportati dalla corrente della pubblica curiosità ed incitati
dal solletico della vanità, non sanno a lungo nascondere il loro
malfatto; ma, o simulando o dissimulando, accentuano talmente i loro
atti, il linguaggio, le precauzioni, che finiscono con lo scoprirsi
ed esser puniti. Durante la esecuzione del maleficio, son mossi ed
accompagnati da contegno di tanto scetticismo da destare ribrezzo:
solo in qualche momento, il supremo dell’azione, la loro anima è
tempestosa; la mimica è felina, precipitosa fino alla incoscienza.
L’intento dell’utile, della vendetta, dello sfogo di odio, per cotesti
disgraziati, è piuttosto in apparenza il motivo del misfatto: essi
sono attratti dall’ignoto, che circonda sempre il maleficio: se questo
debba consumarsi a tradimento, con agguato, di notte, con mezzi
pericolosi, il delinquente nato, dalla mente debole, è più proclive ad
accettare; egli vede, nelle difficili circostanze, onde l’opera dovrà
accompagnarsi, tanti motivi che svegliano in lui un’attività nuova,
che lusingano la sua debolezza creandogli la illusione di compiere
imprese pari a quelle di uomini superiori per fortezza ed astuzia. La
idea di provarsi nei pericoli dell’azione ha attrattiva irresistibile:
insemina l’apatia, l’atonia di animo, la coscienza di debolezza, di
inferiorità è pel criminale la fonte d’un senso di avvilimento, di
disgusto da cui egli cerca tutte le vie per liberarsi; la prima che
gli si offra, sia anche pericolosa, è da lui accettata con entusiasmo.
Che se, poi, il delitto debba commettersi in più persone, da individui
di tempra superiore e da degenerati inferiori, questi ultimi si
trascinano con moto automatico: son pronti ed esatti nell’apprestare
i mezzi al delitto, fanno mostra di porsi in prima linea, e, compiuto
il fatto, acquistano la coscienza fittizia di sì grande superiorità da
schernire i complici ed arrogare a sè tutto il merito della riuscita.
Guai—però—se durante la esecuzione si è sorpresi da reazione per
parte della vittima, o la pubblica forza trovasi pronta ad arrestare i
rei: il delinquente, di che scriviamo, è preso da vero panico; manca in
lui la forza sufficiente a resistere, manca il coraggio di uomini che
abbiano la tempra morale elevata, tuttochè con impronta malefica.

=5.=—Tra le forme più accentuate della delinquenza con fondo
degenerativo ricorrono i casi di follie morali ed epilettiche.

Il delinquente folle è vittima di alterazioni psichiche, le quali o
spingono all’azione per stato depressivo di coscienza, ovvero per stato
impulsivo. Esempio della prima specie osservasi nella pazzia a forma
melanconica, i cui fenomeni consistono in una dolorosa disposizione
dell’animo, della quale mancano affatto o non vi sono sufficienti
ragioni nel mondo esterno, in un decadimento del sentimento di sè
stesso ed in una difficoltà generale nello svolgersi di tutti quanti
i processi psichici, la quale può giungere sino al loro temporaneo
arresto (Krafft-Ebing). L’individuo è oppresso da un’ansia angosciosa,
che lo circonda di tristizia e di sospetto; l’avvenire è buio, il
presente è opprimente, privo di speranza e di lusinghe. Quindi è che
il melanconico è spesso l’esecutore di azioni violente ed incomposte
ed è in preda ad una impulsività sfrenata con furore. «Questa attività
del melanconico—scrive Krafft-Ebing—non è che un fatto di reazione
provocata dalla tormentosa agitazione della coscienza, che può
giungere a tale da spingere il malato alla disperazione; ed allora
la potente eccitazione così prodotta può, almeno temporaneamente,
spezzare ogni freno interiore. A queste esplosioni affettive e a
queste reazioni del malato possono dar occasione delle impulsioni
penose o delle memorie dolorose, con i conseguenti moti passionali
della sorpresa e dell’attesa, nonchè delle sensazioni pervertite
sia fisiche (nevralgie, ecc.), sia psichiche (senso di sconsolata
anestesia psichica, inceppamento del pensiero, idee fisse, indecisioni,
il sentirsi come soggiogato dalla malattia). A ciò si aggiungono,
quali motivi importanti determinanti all’azione, e come complicanze
del quadro morboso sinora abbozzato della malinconia senza delirio,
certe sensazioni di angoscia (ansia precordiale) tali da provocare un
violento scoppio affettivo, nonchè delle allucinazioni sensoriali e
delle idee deliranti»[93].

=6.=—La manìa impulsiva merita più seria considerazione. «Un modo
di estrinsecarsi degli stati di degenerazione psichica estremamente
importante dal punto di vista medico legale è rappresentato dal
verificarsi di certi atti, i quali non hanno il loro movente in idee
chiaramente definite nella coscienza,—il cui meccanismo non si
svolge secondo lo schema dalla riflessione sulle svariate possibilità
del volere, con una savia valutazione dei motivi e con la decisione
in favore di ciò che appare il giusto,—ma nei quali l’idea, che
muove all’azione, prima ancora di essersi affacciata ben netta e
chiara alla soglia della coscienza, si trasforma in azione; o, per
parlar in termini anche più generali, mai arriva a tale da esser ben
apprezzata e valutata dalla coscienza. Ond’è che l’atto apparisce,
tanto a chi lo compie come a chi lo osserva, addirittura senza motivo
e perciò inconcepibile,—il modo nel quale esso vien compiuto ha in sè
l’impronta dell’azione coatta, impulsiva, istintiva e sorprende anche
l’individuo stesso che la compie. Essa apparisce come una necessità
organica, la quale sorga su dal fondo incosciente dalla vii» psichica,
paragonabile ad una convulsione nel campo psicomotorio»[94].

Accetto la teoria del Bianchi, che la _ossessioni_ siano elementi
psichici non eliminati: nelle menti male organizzate (ereditarietà
morbosa o altre influenze degenerative) può accadere che il processo di
ricambio psichico sia turbato, e che un componente psichico, destinato
a passare transitoriamente per il campo della coscienza ed a cadere
nell’incosciente, invece vi resti, e non possa venir eliminato: così
come talvolta alcuni veleni fabbricati nell’organismo e sostanze
introdotte dal di fuori non possono venire espulsi, rimangono e si
accumulano nell’organismo[95].—Questa invasione eterogenea di prodotti
psichici, con forma statica o di _ossessione_ propriamente detta, e
con forma dinamica o _impulsiva_ (Féré) è accompagnata da emotività
morbosa (Morel, Ballet, Seglas, Dallemagne, Pitras, Régis); nè dipende
da fiacchezza di volontà (Magnan); nè va confusa con malattia della
attenzione (Ribot).

Il fenomeno è essenzialmente di insorgenza e di predominio dinamico.

La mancata eliminazione di prodotti psichici avviene perchè le
correnti ideative ed emotive sono ostacolate da qualche intoppo che
loro impedisce il libero corso; e, come nella confluenza di correnti
di acqua, se ad un punto esse incontransi senza sfogo e declivio, si
verifica il gorgoglio, così nel flusso delle idee e dei sentimenti
qualunque specie di arresto produce disturbo di funzionamento generale
psichico. Da principio la invasione è limitata ad un punto solo del
campo della coscienza, la quale, accorgendosene, mette in atto tutti
gli sforzi, di cui dispone, per liberarsene: subito dopo, se resta
impotente ad ottenere lo scopo, la visione mentale è ottenebrata e
poscia circonfusa di colori abbaglianti; la volontà resiste tuttavia,
ricorrendo al sussidio dei controstimoli ideativi ed emotivi; forse
vi riuscirebbe, ma, per l’avvenuto disturbo funzionale, sopravvengono
delle illusioni ed allucinazioni, le quali travolgono e trasformano
completamente la natura dell’io cosciente.

=7.=—Una classica intuizione artistica della manìa omicida,
accompagnata da allucinazione impulsiva, la troviamo nell’_Ercole
furente_ di Euripide. Ercole, dopo lunga assenza, ritorna in Tebe,
ove era suo padre Anfitrione, sua moglie Megara ed i suoi figli.
Tostochè giunge presso la sua casa, sa da Megara che Lico, il re di
Tebe, avea deciso di sacrificare l’intera famiglia di lui, e già i
figli intorno al capo aveano avvolte funeree corone ed attendevano il
momento fatale. Egli entra in casa per venerare i domestici dei, deciso
a far aspra vendetta su Lico. Costui giunge accompagnato dai suoi
sergenti, e, nulla sapendo dell’inatteso ritorno di Ercole, penetra in
casa per trarre a morte Megara ed i figli. Ma, abbattutosi in Ercole,
è tosto ucciso. Però, per volere degli dei ed accompagnata da Iride,
sopravviene l’Insania (_ἡ Λύττα_), detta vergine figlia della fosca
notte, nata del nobile sangue di Urano, ed inviata per castigare il
misero Ercole. Un nunzio, sbigottito, racconta che Ercole, dopo la
uccisione di Lico, apprestava un sacrificio innanzi all’ara di Giove:
erano accolti i suoi figli con l’avo e con la madre, e già portato era
in giro all’altare il canestro ed elevavansi sacre preci:

    Ma ecco, allor che con la destra il tizzo
  Tôrre, e nella lustrale acqua tuffarlo
  Dovea d’Alcmena il figlio, immoto stette,
  E tacito. In quell’atto lungamente
  Si rimase e teneano i figli in lui
  Fisso il guardo. Più desso egli non era.

La idea o l’ossessione omicida invade repentinamente l’animo con la
scintilla di una sensazione o di un pensiero improvviso; indi—in
un terreno predisposto per degenerazione personale o ereditaria—va
poi divampando e preoccupando l’attività mentale dell’ammalato
e può assumere e presentare tutti i diversi gradi di intensità
dell’ossessione morbosa, vincibile od invincibile (Ferri).—Dapprima
è un arresto improvviso dei movimenti intercerebrali; un rapido
restringersi, con senso di angoscia, del campo della coscienza;
l’oscillamento della percezione della realtà; lo sforzo di rendersi
conto di ciò che si ha consapevolezza che avvenga: poscia, perdutosi
l’equilibrio o il centro dei moti ideativi ed affettivi, gli occhi, la
fisonomia, la mimica presentano i segni evidenti del delirio invadente.

  Gli occhi stravolti roteggiava intorno,
  Le sanguigne radici in fuor spingendone;
  E una schiuma stillava dalla bocca
  Giù sul mento barbuto.

Completatosi l’accesso, comincia l’allucinazione: l’ammalato dimentica
il luogo ov’è, le persone ond’è circondato. Tra le idee ricorrenti,
con turbinìo di sangue e di vendetta, una gli si fissa nella mente,
con insistenza, l’idea di dar morte ad Euristeo, altro suo nemico. E
l’uomo che, pochi istanti prima, avea con calma e freddo discernimento
disegnato il come ed il perchè di sue future imprese; inebbriato, pel
sopravvenuto delirio, dall’insania di odio irresistibile, è spinto,
anzi trascinato a quell’azione che gli si riproduce in modo fantastico,
con fondo tenebroso, con contorni foschi, ed alla quale egli già crede
di prender parte con la veemenza di chi è di fronte all’aborrito
nemico.

      Indi proruppe
  Con risa forsennate in questo dire:
  «Padre, a che accendo or io, pria di dar morte
  Ad Euristeo, l’espiatrice fiamma,
  E fo doppia opra, ove pur tutto io posso
  Compier con una? D’Euristeo qui porto
  La tronca testa, e di più morti a un tratto
  Poi mi purgo le mani. Olà, versate
  L’acqua a terra: i canestri al suoi gittate:
  Chi mi dà l’arco? chi mi dà la clava?
  Corro a Micene. Oprar picconi e leve
  A spezzarne fia d’uopo, a rovesciarne
  Quelle sue mura, che i Ciclopi un giorno
  Costruir con le subbie alla rubrica».
  Dettò ciò, quivi presto immaginando
  Il cocchio aver, fa di salirvi, e spinge
  (Come avesse la aferza) i corridori,
  Dimenando la destra. Eran quegli atti
  E di riso a’ sergenti e di paura:
  E l’un l’altro guatandosi, dicea
  Questi a quello: di noi gioco si prende
  Il signor nostro, o ch’ei delira?

Intanto, scorrendo su e giù la casa, dice di esser giunto a Megara;
si adagia sul suolo e si apparecchia la cena; indi, levatosi, si dà
a lottare, ignudo, senza avversario di fronte; poi, ordinato a tutti
di ascoltare, si proclama vincitore del giuoco. Credendosi in Micene,
scaglia, fremendo, fiere minacce contro Euristeo.

Il padre, allora, gli afferra la mano e gli dice: figlio, che cosa fai?
che strana cosa è questa? Forse ti tolse il senno il sangue che qui hai
sparso poc’anzi?

        Ei d’Euristeo credendo
  Lui genitor, che supplice la mano
  Per timor gli toccasse, lo respinge,
  E dardi trae della feretra, e l’arco
  Tende contro i suoi figli, uccider quelli
  D’Euristeo divisando. Esterrefatti
  Chi qua, chi là si sgominar quei miseri;
  E l’un corse alle vesti della madre;
  L’un si acquattò d’una colonna all’ombra:
  L’altro come augellin tremante stette
  Dell’ara a piè. Grida la madre: oh sposo,
  Che fai? che fai? tuoi proprî figli uccidi?
  Grida il vecchio e i famigli: ei non abbada;
  E l’un dei figli alla colonna intorno
  Insegue pria, poi con terribil volto
  Voltasi indietro, gli si pianta incontro,
  E nel cor lo saetta. Supin cade
  Il pargoletto, e la marmorea base
  Bagna di sangue, l’anima spirando.

Ercole crede di aver ucciso un figlio di Euristeo; così continua
ad infuriar contro altro figlio: invano è richiamato alla realtà,
l’allucinazione dura prepotente; finchè, essendosi egli slanciato alla
strage del padre, dopo aver ucciso figli e consorte, Pallade, comparsa,
gli gitta sul petto un sasso (detto, secondo Pausania, sofronistèro,
cioè risanator della mente) e, rattenendo il di lui furore, lo fa
cadere in profondo sonno.

Siamo allo stadio di esaurimento dell’accesso maniaco. La energia
impulsiva, scaricatasi nell’incomposta e turbinosa azione omicida,
conduce l’individuo in istato di abbattimento e di prostrazione. Quando
Ercole rinviene, si meraviglia di trovarsi legato e di ciò che gli si
dice aver commesso; con la calma ritorna la coscienza, ma, ahi!, il
misero non può che rimpiangere la sventura toccatagli!

Un tal Fortuna, da me difeso, guardia di finanza, un giorno era in
sentinella in un posto di guardia. Vede un amico, lo chiama a sè e,
nello stato di semicoscienza, gli porge un orologio con l’incarico di
consegnarlo in ricordo alla madre.—Poscia si avvia alla volta del
paese, tira una fucilata contro il primo compagno che incontra; si
avanza fino al corpo di guardia, e tira, all’impazzata, contro amici e
superiori, dieci o dodici fucilate: ferisce qualcuno gravemente. Tra le
grida della gente accorsa, si dibatte, si difende, minacciando morte
a tutti: è preso, finalmente, ed egli, fissando gli occhi sbalorditi
sui presenti, cade in profondo sonno, che dura più di un’ora. I suoi
precedenti erano ottimi; niuna causale lo aveva spinto al delitto.

Sostenni il vizio parziale di mente, che, senza difficoltà, mi fu
accordato dalla giuria. Il giorno seguente alla condanna, mi recai
in carcere per chiedergli se desiderasse voler produrre ricorso in
Cassazione. Lo trovai depresso, avvilito. Parlandogli, gli ricordai
le modalità del processo. Egli mi fissò lo sguardo, muto, impassibile.
Ad un certo punto del discorso mi accorsi che il misero cominciava a
tremare, sbarrava gli occhi, avea le pupille dilatate. Mi accorsi che
cominciava ad essere in preda ad allucinazione: dopo poco perdette la
coscienza del luogo ove trovavasi, di quanto gli era accaduto.

Mi chiese—si crederebbe?—la restituzione dell’orologio consegnato
all’amico, scambiando me per costui; finì col minacciare le guardie
carcerarie presenti, le quali furono costrette, con forza, a
trascinarlo altrove. Mi fu detto che, dopo un’ora e più, riacquistò la
coscienza, serbando appena un barlume di ricordo di quanto avea detto
ed operato.

Alcuna volta la follia del delitto prende la forma di _emozioni
ossessive_ con impulsioni di fobia: l’equivalente psichico è nello
scoppio repentino di illusioni sensorie o di allucinazioni. La volontà
è trasportata a credere alla realtà di semplici apprensioni, il cui
fondo può avere la lontana origine di odio o di altra passione: la
coscienza è sconvolta grandemente, nè è più atta a percepire la realtà
vera delle cose. Il paziente, se l’accesso è repentino, è preso da
angosciosa costrizione di idee e di atti; egli credesi in imminente
pericolo, ed è necessitato a veemente reazione.

R. R. da me difeso, un giorno sa che suo fratello, reduce da Napoli,
ove dimorava, desiderava vederlo ed abbracciarlo. Egli fu ben lieto
dell’incontro, nè frappose tempo a recarsi nella propria abitazione,
ove il fratello lo attendeva. Le accoglienze reciproche furono
affettuose. Se non che, discorrendo, il fratello lo rimproverò di
alcuni dissensi tra lui ed il padre. R. lo fissa, non risponde. Poscia,
con azione rapida, corre alla caserma dei carabinieri e, spaventato,
chiede aiuto contro un forestiere il quale era in sua casa e tentava di
assassinare lui e la moglie! Accorrono un brigadiere ed un carabiniere.
Ma quale fu la loro sorpresa nel vedere che il forestiere fosse il
fratello di R.? Costui, presente alla scena, insiste a richiamarsi di
imminenti pericoli, e, poichè il fratello rispondeva scherzosamente,
egli guarda un tiretto, lo apre, tira fuori la rivoltella e la esplode,
in mezzo ai carabinieri, ferendo mortalmente il germano.

Arrestato, è tradotto in carcere, senza che nulla osservasse; però,
dimandato, lungo il tragitto, da un amico che cosa avesse commesso,
ed inteso dai carabinieri di aver ferito il fratello, riacquistò la
coscienza del mal fatto, diede in ismanie, ruppe in dirotto pianto,
dichiarandosi innocente di ciò che si diceva aver commesso.—In
famiglia vi erano casi di isteria, di epilessia. Al dibattimento
si svolse la più commovente scena: tutti i testimoni parlarono
dell’affetto cordiale tra i due fratelli: gli stessi carabinieri,
presenti al fatto, dissero essersi persuasi trattarsi di accesso
maniaco. I giurati concessero il vizio parziale di mente.

=8.=—Ed ora diremo dell’azione criminosa dell’epilettico. Rimandando
il lettore ai libri tecnici sulla materia, ci restringeremo a
considerare i sintomi che più appartengono alla parte psicologica
del delinquente e che, nella pratica, con maggiori difficoltà sono
conosciuti ed adeguatamente estimati. È da pochi anni che nelle aule
giudiziarie la psicosi epilettica ha cominciato ad avere la debita
considerazione sotto il lato scientifico ed il lato giuridico.
In generale credevasi che l’epilettico, quando non commettesse i
delitti in istato di accesso, dovesse rispondere nel medesimo modo
che qualunque individuo normale, perchè, aggiungevasi, la malattia
o la frenosi dura i pochi momenti dell’attacco, passato il quale,
la coscienza ritorna nel suo decorso normale. Oggi si ammette, in
generale, che la epilessia di per sè sia una psicosi e che apporti,
in chi n’è affetto, disturbi mentali e morali: durasi, tuttavia, nel
credere che questi disturbi debbano limitarsi a certi casi molto gravi,
e a quelli in cui l’azione, per prove evidenti, non sia l’effetto
di motivi sufficienti e non abbia il decorso di atti in apparenza
coscienti. Donde le molte difficoltà e le continue distinzioni di una
casistica indegna di tempi sì progrediti nelle scienze positive e
sperimentali, inutili, anzi pregiudizievoli e contrarie a giustizia,
quando la psichiatria ha detto ormai la sua ultima parola sulla natura
della epilessia, assicurando che le sue manifestazioni sono così
multiformi e singolari, da costringerci a ritenere che il giudizio di
apprezzamento sulla loro imputabilità debba essere molto circospetto,
ma tale da non escludere, in qualunque ipotesi, la diminuente di
responsabilità pel vizio parziale di mente. La continuità e l’unità
nella organizzazione dei fatti psichici debbono convincerci non esser
possibile che chi sia affetto da epilessia, quantunque mostrisi ad
intervalli sano di mente, goda la pienezza di equilibrio psichico:
certi difetti organici, insiti alla vita intima della coscienza,
sfuggono alla prova esteriore, ma sono il presupposto scientifico
imprescindibile per arrivare a conclusioni giuste che, altrimenti, non
sarebbero suffragate dal criterio dottrinale e dalla pratica della
esperienza.

=9.=—Il problema rendesi molto più difficile e complesso nel caso
di epilessia larvata o di _equivalente epilettico_. Essa —al dir di
Bianchi—è un disturbo mentale a breve e rapida evoluzione, d’ordinario
accompagnato da profondo turbamento della coscienza e amnesia più o
meno completa del periodo di durata dell’attacco. Assume le forme
più differenti: talora è una qualunque delle psicosi descritte come
_prae_-epilettiche o _post_-epilettiche; la differenza sta solo nel
fatto che manca la convulsione epilettica, la quale è sostituita dal
disordine psichico. Molte forme maniache o psicosi allucinatorie
ricorrenti, di breve durata, di cui i rispettivi infermi non serbano
ricordo, sono di natura epilettica, veri equivalenti psichici della
epilessia[96].

Questa forma di epilessia _psichica_ ha la genesi fisiologica nella
estrema irritabilità di carattere del paziente, la genesi patologica
in disturbi, per lo più ereditarî, dei centri psichici corticali, con
esaurimento dei poteri direttivi, ed atrofia parziale od assoluta delle
energie associative e coordinatrici degli atti interni e delle azioni
esterne, che ne sono la conseguenza. La coscienza è o intermittente
o a fondo di continuato turbamento; la memoria è lacunare; la
fantasia accesa, veemente; la sentimentalità con decorso tumultuoso
ed impulsività furiosa. Ma—nè è raro il caso—talvolta il disturbo
epilettico si sistematizza in periodi abbastanza lunghi; la coscienza
funziona, ma è dominata da ossessione o da esquilibrio costituzionale:
il paziente ha l’agio ed il tempo di preordinare gli atti alla
esecuzione del delitto, di scegliere i mezzi; di cogliere la vittima
nel luogo, nel momento più adatto. L’apparenza del fatto induce il
magistrato ad elevare rubrica di piena responsabilità con l’aggravante
della premeditazione, o, mancando una causale, con la qualifica della
brutale malvagità. Il psicologo, intanto, osserva; _a_) che tra i
precedenti, i concomitanti ed i susseguenti del fatto incriminato
non è possibile, quando l’imputato sia affetto da epilessia, che
esistano e si provino quei nessi logici, di cause e di effetti, i quali
sono la prova più evidente della normalità psichica d’un individuo;
_b_) che l’azione dell’epilettico è sempre disordinata, repentina,
furiosa, sebbene rapportisi a precedenti motivi sufficienti ed a
preordinazione di mezzi. La morbosità dell’atto è messa in mostra dalla
mimica incoordinata, dalla fisonomia stravolta, dall’occhio torbido,
da parole incomposte, dalla assenza di previdenza nell’affrontare
i pericoli di reazione della vittima o di sorpresa della pubblica
forza; dall’immediato abbassamento, dopo il delitto, dell’energia
attiva, o dal totale esaurimento della stessa, con stupore morale
consecutivo, tendenza al suicidio, ovvero apatica indifferenza come di
chi non senta il peso della responsabilità incorsa e non si scuota al
ricordo rappresentativo degli atti constituenti il delitto. Infine, il
psicologo conclude, che la misura della imputabilità di simili atti
dev’essere apprezzata con processo logico sintetico, poichè, se gli
atti, normali o morbosi che siano, ma più in quest’ultima ipotesi, si
staccano l’uno dall’altro e si valutano isolatamente, non è strano
s’incorra in flagrante errore: l’unità del prodotto psichico del reato,
corrispondendo, nel caso in esame, ad equivalente epilettico, deve,
nella totalità del funzionamento interno ed esterno, portare la nota
del disordine e d’un esquilibrio spiegabile non più con germi organici
criminosi, ma come l’effetto di affezione morbosa.

Il lettore, che ci ha seguìti fino a questo punto, avrà avuta la prova
irrefutabile della verità del nostro indirizzo positivo, di scorgere,
in qualsivoglia manifestazione tipica del delitto, il germe della
degenerazione, dell’esquilibrio, della anomalia. O che l’anima del
criminale versi nello stato di dissoluzione, o che, più propriamente,
sia il subbietto di follia morale o di psicosi epilettica, il fondo
disintegrativo è identico: i fenomeni interni ed esterni sono i
medesimi, con relazione e decorso alternantisi diversamente, e
con concorso or di tutti or specificatamente di taluni. Il patrio
legislatore, ad imitazione dei migliori codici vigenti, ha per
avventura ben fatto a raccogliere in una formola generica tutte le
molteplici specie di psicosi, le quali possono diminuire od escludere,
secondo il grado, la responsabilità di fatti incriminabili. È
affidato al giudizio pratico del giudice, la cui mente sia stata di
già illuminata dalla luce della scienza, di schematizzare i singoli
fatti sotto il punto di vista generale e di concludere con l’ammettere
od escludere la responsabilità penale dell’agente. Le distinzioni
scientifiche debbono valere perchè si abbiano norme sicure nella
disamina dei fatti; ma la conseguenza è unica: nè il convincimento
del giudice, in definitiva, deve preoccuparsi di dettagli teoretici i
quali, qualche volta, meglio che illuminare, confondono la rettitudine
della sua mente.

=1O.=—I delinquenti per passione formano una categoria speciale:
essi, come osserva il Lombroso, dovrebbero dirsi per impeto, perchè
tutti i delitti hanno per substrato la violenza di alcune passioni;
ma, mentre nel delinquente abituale, in quello per riflessione
l’impulso della passione non è subitaneo, nè isolato, ma cova da lungo
tempo e si ripete e rinnova sempre, e si associa, quasi sempre, alla
riflessione,—qui accade tutto il contrario.

La passione ha il fondamento negli affetti ed è accompagnata da
emozione o di piacere o di dolore. Però, al dir del Tommaseo, la
passione è distruggitrice, inaridisce l’anima e la tormenta; l’affetto
la solleva e la scalda: la passione è cieca, imprudente, provocatrice;
l’affetto è costante, umano, magnanimo: la passione è torrente che
assorda, trascina e, per vincere, devasta: l’affetto scorre quieto, ma
inesauribile, e per vari rivi discende a portare nei luoghi più riposti
le gioie della vita.

Il delinquente passionale non ha le stigmate della degenerazione; in
lui la sensibilità, la emotività sono sviluppate in grado elevato,
qualche volta eccessivo: la vita psichica superiore, della intelligenza
e della riflessione, è alquanto meno accentuata; la fantasia, non
che la immaginazione, è predominante, impetuosa, a forti colori, a
tinte abbaglianti. La passione, e qualsiasi energia sentimentale,
si organizza, si sistematizza, cristallizzandosi, stratificandosi
nella coscienza. Dapprincipio l’idea, che ne forma il contenuto; il
sentimento, ond’è resa piacevole, scorrono sul campo della coscienza
come un giuoco della immaginazione: l’attrattiva, ad essi inerente,
sfugge alla riflessione e si rende accetta per le lusinghe, ond’è
circondata, per la speranza di futuri intenti desiderati, pel bagliore
d’una luce diafana suffusa nell’intera serie delle rappresentazioni,
dei ricordi che formano il materiale attuale delle nostre cognizioni.
Poco a poco ciò che dapprima era inavvertito prende consistenza, e noi
sentiamo il potere di una seduzione lenta, inconscia, ma costante,
e tanto più forte quanto più vi si adatta all’ambiente morale e
trascina a sè, paralizzandole, le altre inclinazioni della nostra vita
affettiva. Il Bergier riteneva, che i moti delle passioni non siano
volontari, e che l’uomo è puramente passivo quando vi acconsente o
li reprime: no; la passività comincia gradatamente solo dal momento
che noi abbiamo accolto nell’animo il germe della passione; ma, se
l’attenzione fosse stata più vigile vedetta sulla rocca del cuore, i
poteri inibitori potevano allontanare e respingere l’insidioso assalto
della passione e questa sarebbe rimasta abortita prima che fosse stata
riconosciuta vitale.

=11.=—Nei delinquenti lo stato passionale si germina dal contrasto di
opposte idee e sentimenti; l’idea, il sentimento di qualche bene, di
cui manchiamo, o di cui siamo privati, e l’idea ed il sentimento di
odio contro chi o vi si oppone o ne contrastò il possesso. È perciò che
Plutarco scriveva esser l’odio una disposizione e volontà osservatrice
dell’occasione di far male[97]; ed il Machiavelli, che l’odio produce
timore e che dal timore si passa all’offesa.—Tra l’idea del bene
sperato o perduto e la persuasione, che di ciò sia qualcuno colpevole,
si va scavando un abisso in cui precipitano tutti i buoni propositi,
i sentimenti altruisti, le idee di simpatia e di benevolenza verso
i simili. Questo è ordinariamente verificabile trattandosi di odio
muto concentrato. L’intensificarsi del sentimento di ripugnanza della
persona dell’avversario; la risonanza dolorosa d’un affetto tradito,
d’un’offesa ricevuta; gli scatti ripetuti di interna energia emotiva;
il vuoto, che si va formando attorno per la cagione ricorrente ed
iniziale dell’ansia, dell’angoscia, dell’incertezza, assorbono tutta
la personalità ed ottenebrano la mente. La mimica, che esternamente
esprime gli interni moti, è caratteristica. All’inizio della passione,
qualora non sia originata da forte impulsione dolorosa, l’animo è
compreso da tal quale ilarità o eccitazione piacevole, nascente dalla
coscienza della propria superiorità di fronte al nemico. Addensatosi il
sentimento di ripugnanza e disegnatasi la idea reattiva, l’individuo è
preoccupato, tetro: talora il suo volto è chiuso in tenebrosi pensieri;
tal’altra, allo scoppio improvviso di lusinghiera speranza di vendetta,
un sorriso sardonico, con ostentata jattanza, sfiora le labbra;
l’occhio brilla di luce sinistra ed il cuore anticipa il piacere del
castigo destinato al nemico. Ad intervalli sempre meno lunghi, la calma
è indotta dalle quotidiane occupazioni della vita, dagli interessi che
ne distraggono; ma, nel momento in cui il motivo dell’odio risorge,
l’animo è sinistramente scosso e col dolore, resosi più acuto, noi
sentiamo accrescersi la repugnanza, l’avversione, finchè si aggiunge
un sentimento di particolare dispetto che ci costringe e ci trascina
all’azione.

Nella donna l’odio è più profondo, meno soggetto ad esser represso:
massime allorchè esso scaturisce dalla passione di amore tradito, o
dalla gelosia, arriva financo alla forma di delirio.

=12.=—Il psicologo criminale deve tenere gran conto di quest’ultima
potente cagione di odio, che finisce d’ordinario con l’esplodere in
aspra vendetta. Il Mantegazza tentò dare la definizione della gelosia,
dicendo: gelosia vuol dire propriamente un dolore del sentimento
dell’amore, e quello precisamente che è prodotto dall’offesa recata
a noi dall’infedeltà dell’oggetto amato. Questo dolore è naturale
in tutti gli uomini, in tutti i tempi e in quasi tutte le razze. È
l’offesa della nostra proprietà applicata all’amore[98]. Meglio, però,
il Metastasio:

  O di soave pianta amaro frutto,
  Furia ingiusta e crudele,
  Che di velen ti pasci,
  E dal fuoco d’amor gelida nasci.

Il Descuret, in un libro che ha tuttavia valore psicologico, scrive:
«A vicenda tiranno e schiavo, il geloso si lascia trasportar dall’ira
senza misura, o vilmente prega: agitano il suo cervello malato le
supposizioni più bizzarre: quindi non riposa mai; chè i sospetti,
i timori lo perseguitano in fin nei sogni. Nei gesti, negli atti e
massimamente nello sguardo ha qualche cosa di sinistro che fa paura e
spegne qualunque simpatia uno provasse per le pene ch’ei soffre. Non è
possibile giustificarsi con un geloso: se un moto di pietà gli lascia
accordare qualche testimonianza di affetto da colei che egli accusa,
questa testimonianza non è agli occhi suoi che dissimulazione abilmente
calcolata. Allora i sospetti raddoppiano; ingiuria e minaccia o, anche
cedendo ad un moto di convinzione e di pentimento, ammette le prove che
gli dànno; ma ricade ben presto ne’ suoi terrori immaginarî, e ritorna
non meno ingiusto, nè meno furibondo di prima.

«In generale, il geloso si sforza di nascondere ad ogni sguardo i
tormenti che l’agitano, se ne vergogna come di una vil debolezza: non
è raro udirlo parlar con disprezzo di chi si abbandona alla gelosia.
Ma se prescrive a sè stesso tal riserva innanzi agli estranei, se
ne compensa a usura contro la sua vittima, massimamente ove abbia
acquistato sopra di lei diritto da far valere. Accade d’ordinario nelle
sorde e ascose violenze della domestica tirannia che più terribili sono
gli effetti di questa passione; imperciocchè allora la lotta accade fra
la forza e la debolezza, e questa non ha che lacrime in sua difesa»[99].

L’arte greca ha rappresentato in Fedra e Medea il delitto passionale
della donna portato fino al delirio. Sono due tipi concepiti da
Euripide in modo sorprendente. Fedra, presa da cieco amore pel
figliastro Ippolito, versa in fenomeni di isterismo, e si abbatte e si
dispera e giunge infine all’esaurimento morboso, fisico e morale. Ella
si accorge di essere schiava di Ciprigna, e lotta con i ciechi impulsi
ond’è dominata, ora col tacere, col chiudersi e raccogliersi tra le
domestiche mura, le cure familiari; ora col confessare, disperandosi,
ogni cosa alla nutrice.

Ben si avvede che in lei si riproduce, ereditariamente, la passione
brutale della madre Pasifae, la quale si innamorò d’un bianco toro
visto nelle valli dell’Ida in Creta ed, _imbestiandosi nelle imbastiate
schegge_ di una giovenca di legno costruita da Dedalo, fece copia
di sè, e ne nacque il minotauro. La nutrice procura di apprestarle
soccorso, e ne fa accenno ad Ippolito, il quale, inorridito, minaccia
di rivelar tutto al padre. Fedra, travagliata dalla insoddisfatta
passione e turbata dal timore della vergogna, decide di suicidarsi;
ma in pari tempo concepisce il reo disegno di vendicarsi del virtuoso
giovane lanciando contro di lui la più infame accusa. Alla nutrice ella
confessa:

  Oggi, uscendo di vita, io, sì, contenta
  Farò Ciprigna che a perir mi porta.
  D’acerbo amor vinta morrò; ma infesta
  Pur farò la mia morte anco ad un altro,
  Sì che male esser vegga di mie pene
  Altero andar. Sua parte anch’ei provando
  Di questi guai, fia che umiltade impari[100].

Ella s’impicca, ma in una scritta lascia detto di aver ciò fatto perchè
a viva forza violata da Ippolito!

Medea è la furia personificata della gelosia. Ella, posposta da Giasone
ad altra donna, dissimula la profonda angoscia, simula contegno calmo
remissivo e, per infliggere il castigo al suo offensore, gli uccide la
sposa, uccide i proprî figli e si confessa felice di aver tutto ciò
commesso![101].

=13.=—Il delinquente passionale, vittima di spinta veemente,
aberrante, di rado si attiene al piano preordinato di esecuzione del
delitto. Egli è imprudente; si serve della prima arma che gli capiti;
gode di far mostra della vendetta compiuta. Affronta il pericolo con
incosciente coraggio, appunto perchè in lui è fermo il convincimento
che senza lo sfogo della passione, ond’è agitato, la esistenza rendesi
insopportabile: qualunque danno ne consegua sarà minore della tempesta,
che lo mette in iscompiglio. Dopo commesso il fatto, il delinquente per
passione non sfugge il giudizio della pubblica opinione, che egli sa a
sè favorevole; ma rendesi alla pubblica forza e confessa il suo operato
senza nulla tacere.

Ritornata la calma, egli è assalito dal rimorso e, sotto il peso
della sventura toccatagli, si rammarica, piange, e mostrasi dimesso
ed avvilito. Ben osserva il Lombroso, che simili delinquenti, assai
più che ai rei comuni, si avvicinano ai pazzi impulsivi e meglio agli
epilettici, per l’impetuosità, istantaneità, ferocia degli atti, di
alcuni dei quali, notisi l’importante analogia, non ricordansi spesso
che incompletamente.

La rassomiglianza è tanto più vera perchè costoro sono vittime
dell’_ira_, il cui scoppio fu da Orazio e dal Petrarca paragonato
a _breve furore_. Gli antichi, allo stesso modo che gli odierni
scrittori, ne ebbero cognizione completa, e Seneca scrisse sull’_ira_
tre libri che desidererei fossero consultati da chi voglia sulla
materia aver preziose nozioni. «Alcuni savî—egli scrive—dissero
che l’ira sia breve pazzia, perciocchè parimenti con quella è priva
di poter signoreggiare a sè stessa; non si ricorda dell’onore, non
tien memoria delle amicizie: ostinata ed intenta in quello che una
volta ha principiato, serra la via alla ragione ed ai consigli, ed,
agitata da vane cause, è inabile a distinguere il giusto ed il vero,
somigliante molto alle rovine, le quali si fiaccano e si rompono sopra
quello che hanno oppressato. Ma perchè tu conosca esser pazzi quelli
che dall’ira dominati sono, pon mente all’abito loro: perciocchè, come
dei pazzi sono indizî certi il volto audace e minaccioso, la fronte
malinconica, la faccia torva ed aspra, l’andar frettoloso, le mani
inquiete, il colore mutato, i sospiri spessi e veementi, così degli
irati sono i medesimi segni. Gli occhi sono vermigli e focosi, in
tutto l’aspetto è un rossore acceso; bollendo il sangue nei più bassi
precordi, le labbra si muovono e si stringono i denti; s’arricciano
e si rizzano i capelli; lo spirito è in loro ristretto e stride, le
membra, torcendosi, risuonano; essi sospirano, mugghiano e parlano
interrotto con voci non bene spiegate, e le mani spesso si percuotono;
batton la terra coi piedi, e tutto il corpo si commuove, facendo molte
minacce di collera, ed han la faccia brutta e spaventevole a vedere;
perciocchè si contraffanno e gonfiano. Tu non sapresti dire se gli è
vizio più detestabile o brutto. L’altre cose si possono ascondere e
tener coperte; l’ira scoppia ed esce in faccia, e quanto è maggiore,
tanto più manifestamente trabocca. Non vedi come in tutti gli animali,
subito che insorgono a nuocere, precorrono indizî, e che in tutto il
corpo escono del solito e queto abito, ed esasperano la loro fierezza?
Ai cignali esce la spuma di bocca; arrotano ed aguzzano i denti
stropicciandoli insieme; i tori muovon le corna al vento e spargono
l’arena coi piedi; i leoni fremono; i serpenti istizziti alzano il
collo; le cagne, arrabbiate, sono spaventevoli a vedere. Non è alcun
animale tanto orrendo e tanto per natura pernicioso, che non appaja in
esso, sendo dalla collera assalito, aggiunta di nuova fierezza, Ben so
che gli altri affetti ancora mai si occultano, e che la libidine, la
paura e l’audacia dànno segni di sè e si possono antivedere. Perciocchè
non si sveglia cogitazione alcuna veemente nell’animo nostro, che non
muova qualcosa nel volto. Che differenza c’è, dunque? Che gli altri
affetti appariscono, questo più di tutti si scopre e si palesa»[102].

E Seneca pone la distinzione tra gli atti, che rapportar si possono
alla passione dell’ira, e gli atti che sono l’effetto di _ferità_;
siccome avviene per coloro che d’ordinario incrudeliscono e s’allegrano
del sangue umano senza che si avessero ricevuta ingiuria: non cercando
essi di battere e lacerare gli uomini per vendetta, ma per piacere.
Cita l’esempio del crudele Annibale, che, vedendo una fossa piena di
sangue umano, disse: «Oh! bello spettacolo!»; e l’esempio di Voleso, il
quale, sendo proconsole dell’Asia sotto il divo Augusto, ed avendo in
un giorno decapitati trecento, e andando con superbo volto tra i corpi
morti, come se avesse fatta una cosa magnifica e degna di ammirazione,
gridò in lingua greca: «oh cosa regia!».—Il filosofo conclude: che
avrebbe fatto costui se fosse stato re? Non fu ira questa, no, ma un
male maggiore ed insanabile![103].

=14.=—Negli scrittori di antropologia criminale troverete raccolti
esempî molti, i quali illustrano le sintetiche osservazioni
psicologiche qui esposte; eppoi, non basterebbe la quotidiana
esperienza delle aule giudiziarie? Meglio, mi avviso, sia rammentare
al lettore la più perfetta rappresentazione tragica, tramandataci
dall’antichità, del tipo di delinquente per passione: intendo parlare
di Oreste. Eschilo, Sofocle, Euripide se ne occuparono: il primo
trattando del delitto passionale con la profondità che gli veniva dalla
intuizione dei più ascosi misteri dell’umana natura; il secondo con la
sentimentalità e fantasia d’un’arte che attinge ispirazione e colorito
dal bello armonico di facoltà e di contrasti; il terzo coll’uniformarsi
alla realtà immanente e spontanea dei comuni fenomeni della vita. Fu
osservato, che Oreste abbia molto di Amleto; rassomiglianza nelle
vicende storiche di vendetta imposta dalla necessità degli eventi,
nell’angoscioso contrasto tra l’apparenza dell’azione ed il fondo
dell’anima, nella fine egualmente disavventurata. Se non che Oreste,
coonestando l’operato col volere inoppugnabile degli dei e la spinta
necessitante del fato, ha meno di contenuto personale, e ritrae in sè
l’indeterminatezza psicologica di quella vita greca, che da un sommo
poeta fu appellata ombra d’un sogno. Amleto è l’uomo moderno, tutto
riflessione, scetticismo, forte sentire temperato dal dubbio della
scelta, dalla titubanza dell’azione.

Oreste, bandito anzi trafugato dalle mura domestiche, cresce, alla
mercè d’un amico, alimentando nel cuore la speranza, la passione di
vendetta contro la madre Clitennestra, non che contro il drudo Egisto,
rei di aver ucciso il padre Agamennone. All’opera vendicatrice si
unisce Elettra, sorella di Oreste, anima or cupa or simulatrice, ma
tenace nell’odio, ispiratrice dei mezzi bene adatti all’intento: ella,
con la sentimentalità suggestiva, allontana il dubbio dalla mente
del fratello, ne sollecita l’operare. In Eschilo[104] la scena, in
cui, dopo la uccisione di Egisto, Oreste mette a morte la madre, è
qualificata da tutto l’impeto cieco, tempestoso dell’uomo reso schiavo
da prepotente passione: invano la donna ricorda al figlio rispetto a
quel seno da cui egli con tenere labbra succhiò il vitale latte, e
su cui tante volte si addormentò. Oreste ha un momento, meglio che
di pietà, di dubbio e ne chiede consiglio a Pilade: al ricordo che
costui gli fa degli oracoli di Apollo e dei sacri suoi giuramenti, lo
snaturato figlio dice:

                     Vince, lo sento
  Il tuo giusto parer—Seguimi; io voglio
  Svenarti là, presso colui. Lui vivo
  Più in pregio assai del padre mio tenesti:
  Morta or posa con lui; poi che pur ami
  Uom tale, e l’uom che amar dovevi aborri.

Ma, non appena commessa la strage, il delinquente passionale è colto da
una specie di accesso di epilessia psichica, con turbamento funzionale
ed allucinazione. Agli elogi del Coro, egli, che poco prima erasi
addimostrato soddisfatto del duplice delitto, esclama:

                  Ahi ahi! che veggo?
  Come Gòrgoni, avvolte in negri panni,
  Eccole, o donne, e d’affollate serpi
  Attorte i crini... Io più non resto.

Il Coro lo richiama e dimanda quali fantasie lo perturbino; Oreste
risponde:

  Non fantasie, non fantasie: le furie
  Della madre son queste.

Il Coro:

                         Un fresco sangue
  Su le mani ti sta: quindi spavento
  Su l’animo ti piomba.

Oreste:


                        Oh sire Apollo!
  Cresce la turba; affollansi; e dagli occhi
  Stillano sangue che mette ribrezzo.

  Fa’ cor; d’Apollo ti avvicina all’ara:
  Ei ti sciorrà da questi mali.

Oreste:

                                         Voi
  Non le vedete: io si le veggo; e sento,
  Sento incalzarmi, e più restar non posso!

Sofocle[105] rappresenta Oreste alquanto più calmo: in lui l’odio,
essendosi sistemato, ha minori parvenze di impeto: Elettra è più
feroce. Mentre Oreste pugnala la madre, e questa chiede da lui
pietà, la figlia la schernisce; e quando la misera grida: ahi! son
ferita!—ella incita l’uccisore dicendo: ancor, se puoi, ferisci!

Per Euripide[106] la strage si consuma con preordinazione di tempo e
di luogo e con scelta di mezzi. Clitennestra è tratta, con inganno, in
casa di Elettra data in isposa ad un contadino; Egisto accoglie Oreste
e Pilade con l’affabilità dovuta a due ospiti, li invita a prender
parte ad un sacrificio. È ucciso prima lui e poscia sua moglie. Anche
qui Oreste tituba all’idea di mettere a morte la madre; ma Elettra
ve lo incita. Commesso il delitto, essi son presi da turbamento e da
rimorsi: veggono il precipizio sotto i loro piedi, e si sforzano di
destare pietà: Oreste, però, osserva:

  Or la tua mente, or l’animo
  Tuo si rivolge, come l’aura spira.
  Pia di sensi or tu sei, pia di pensieri:
  E tal dianzi non eri,
  Quando, o sorella, a dira
  Opra il fratel, che non volea, spingesti.
  Visto hai come le vesti
  Via strappando la misera,
  Nudo mostrommi agonizzando il seno...
  Ahi ahi, me lasso!... e le ginocchia al suolo
  Mettea, misera! ed io mi venia meno
  Di pietade e di duolo!

Con più naturalezza di concezione, Euripide in altra tragedia,
l’_Oreste_, rappresenta gli effetti del delitto. Oreste, agitato da
insano furore, cade in istato di estremo esaurimento, ha il volto
squallido, irto il crine, e giace di continuo disteso in letto. Egli
è di tratto in tratto assalito da accessi di allucinazioni: Elettra,
che, pel rimorso, vede la _parte migliore di sua vita trascorrere in
gemiti e lamenti, consumata in insonni e lacrimose notti_, lo assiste,
lo conforta; ma ben si avvede trattarsi di _impeti insani_; ed il Coro
parla di _manìa furente_, e Menelao vuol sapere il momento in cui
questa la prima volta ebbe a prorompere.

Tostochè sopraggiunge il pericolo di essere sopraffatto dagli
Argivi, ei riacquista le forze, riprende l’usato furore ed affronta
imperterrito l’ira dei nemici, _addossando morte a morte_, come Menelao
si esprime; nè, com’egli medesimo dice, mostrandosi giammai stanco di
uccidere ree donne. Aumentandosi il pericolo, la passione infierisce e
si converte in impulso di distruzione: egli è pronto ad incendiare la
reggia ed a svenare tra le fiamme altra vittima (Ermione) alla presenza
del padre: costui, Menelao, implora pietà, ma l’altro è fermo e impone
ad Elettra di accender le fiamme in basso, e a Pilade di metter fuoco
agli alti palchi. Il reo proposito sarebbe stato messo in atto se
opportunamente non fosse comparso Apollo a calmare l’animo tempestoso
di Oreste ed a porre fine alla triste istoria di violenze e di delitti.

Ed è così che la Grecia, coll’armonico accordo di facoltà e di atti, di
arte e di vita pratica, di entusiasmo pel bello e di sacrificio eroico
pel trionfo del bene (il che Socrate, a riguardo della didattica,
esprimeva con la parola _musica_), personificò il tipo del delinquente
per passione contornato da soggetti a lui affini e materiato in forma
d’arte a cui la scienza invidia tuttavia la perfetta interpetrazione
della verità e dei particolari.

=15.=—Completeremo l’assunto di trattare la psicologia dell’azione
criminosa, scrivendo del delinquente di occasione.

Il Lombroso, ammettendo l’esistenza del reo d’occasione, ritiene che
esso non offre un tipo omogeneo come potrebbe offrirlo il reo-nato od
il reo per passione; ma esso è costituito da molti gruppi disparati, e
sopratutto dai pseudo-criminali, indi dai _criminaloidi_ propriamente
detti[107]. Il Ferri, poi, osserva che delle due condizioni, onde
si determina psicologicamente il delitto, insensibilità morale ed
imprevidenza, a questa risale in prevalenza il delitto d’occasione,
a quella invece la delinquenza congenita ed abituale; perchè, mentre
nel delinquente nato è sopratutto la mancanza di senso morale che non
rattiene dal delitto, nel delinquente d’occasione, invece, questo
senso morale esiste ed è assai meno ottuso, e soltanto, non aiutato da
una vivace previsione delle conseguenze del delitto, cede all’impulso
esterno, senza del quale era e sarebbe stato sufficiente a mantenere
la via diritta[108]. Io credo che le osservazioni qui riferite, pur
mostrando di contenere, in apparenza, qualche importanza, non spiegano
punto la genesi psicologica del delitto di occasione. La previsione più
o meno degli effetti del proprio operato, o dell’azione di incentivi
a cui ci troviamo esposti, non ci induce a discernere il perchè,
in pratica, di tanti uomini imprevidenti, che tuttodì dànno fondo
alle loro fortune economiche ed incorrono in errori deplorevoli; ma
che pure, messi a contatto con moventi criminosi, sanno opporre più
energica resistenza.

Il delitto di occasione ha per genesi psicologica una energia criminosa
rimasta, per manco di organizzazione, in istato latente, nè con grado
di sviluppo tale da suscitare singole tendenze distinte. Vi è, dunque,
il germe del delitto; manca la disposizione del terreno in cui si
fecondi e cresca. Ecco perchè nei delinquenti di occasione non vi
sono tipi spiccati, ed il Lombroso ha dovuto ricercarli tra gruppi
disparati e sopratutto tra’ pseudo-criminali.—La vita di relazione,
col mondo esterno e con i simili, è tutta un complesso di incentivi
che, in date favorevoli contingenze, ci spingono ad infrangere i
dettami dell’etica e le sanzioni della legge: quando l’equilibrio
psichico è ben rafforzato ed è reso stabile, il potere dell’incentivo o
passa inavvertito o è facilmente vinto; se l’equilibrio è instabile ed
incerto, a causa di contrastanti energie opposte, le propizie occasioni
possono produrre delitti di cui noi medesimi non avremmo mai creduto di
esser capaci.



CAPO XI.

Psicologia degli aggregati criminosi.


 1. Relazioni tra singole coscienze.—2. Leggi d’integrazione e
 disintegrazione della coscienza in quanto si irradia nel mondo
 psichico esterno.—3. Luce e calore delle energie irradiate; qualità
 delle correnti di riflesso.—4. Il ritmo dinamico delle psichi
 concorrenti.—5. L’inconscio dell’anima della folla: la specie di
 imputabilità dei delitti da questa commessi.—6. Organizzazione
 delle energie della folla.—7. Le emozioni della folla; il loro
 ritmo di depressione e di esaltamento.—8. L’esaltamento in forma di
 psicosi con influsso epidemico; il contagio passionale morboso di
 sentimenti e di idee.—9. L’azione dei _meneurs_ nella folla.—10.
 L’associazione per delinquere; germinazione e sviluppo del microbo del
 delitto associato.—11. La forma e l’esplicamento delle emozioni ed
 il complesso dei principî etici messi a base delle azioni criminose
 associate.—12. L’anima della folla e quella delle associazioni
 criminose.

=1.=—In altro lavoro[109] noi scrivemmo: la coscienza individuale è a
considerarsi come centro di molte attività convergenti, e come energia
risultante pel cumulo di aggregati di componenti che nella successione
di stati interni, trasformandosi, conservano la loro natura essenziale.
Uscendo dalla sfera delle azioni puramente individuali, e coordinando
queste ultime alle azioni di altri individui, ci accorgeremo che tra le
singole coscienze possono intercedere delle relazioni le quali aprono
l’adito ad importantissime nozioni, che interessano tanto il cultore di
psicologia generale, quanto quello di psicologia criminale.

La coscienza individuale, quale attività, si irradia nel mondo esterno
e comunica la sua energia attraendo nella propria orbita le attività
concentriche delle coscienze altrui. La parola _concentriche_ esprime
la condizione, perchè ciò avvenga, di centri coscienti di natura
simile, ossia che abbiano caratteri che tra loro non si elidano col
neutralizzare le energie comunicatesi.

=2.=—In quanto la coscienza si irradia nel mondo esterno, sottostà
alle infrascritte leggi di integrazione e disintegrazione:

1^a _Gli elementi psichici della coscienza attiva, non trovando
contrasto di resistenza negli elementi d’una coscienza passiva,
imprimono la propria energia in guisa che il novello aggregato psichico
sia il composto associativo degli elementi anteriori sommati con gli
elementi assimilati._

L’azione integrativa o disintegrativa d’una coscienza sull’altra
avviene per addizione o per sottrazione: si aumenta, mercè la
partecipazione di attività, il contenuto degli stati interni; si
modifica il tono della personalità col privarsi in parte dei caratteri
che demarcavano la precedente fisonomia psichica individuale. Tutto ciò
avviene per l’atto associativo degli elementi psichici; poichè, nel
dominio della coscienza, la serie progressiva di stati è prodotta da
connessioni successive di rapporti e di processi.

2^a _Gli elementi psichici passivi, assimilando l’energia partecipata,
si differenziano; e, o integrando maggiormente il precedente aggregato
ovvero disintegrandolo, permangono, col trasformarsi, nel contenuto
della coscienza attiva._

La differenziazione degli elementi psichici con analoga integrazione
del sistema indica progresso della coscienza passiva; il che avviene,
tuttodì, nelle relazioni tra insegnante e discepolo, superiore e
dipendente. Nella ipotesi di disintegrazione, invece, la coscienza
passiva perde lo speciale contenuto e si modella sull’intima natura
della coscienza alla cui energia di assorbimento non ha potuto
resistere. Il che si riscontra nei caratteri deboli o poco progrediti,
i quali molto facilmente sottostanno alla influenza prepotente altrui.

3^a _La trasformazione, per integrazione o disintegrazione, della
coscienza passiva avviene in ragione dei caratteri simili tra i suoi
elementi e quelli della coscienza altrui._

Qualunque alterazione psichica, in conseguenza di energia partecipata,
dipende dal grado di recettività specifica degli elementi onde
l’aggregato è composto; tale grado corrisponde alla maggiore o
minore identità degli elementi in relazione. Gli elementi della
coscienza, tuttochè parti di aggregati, sono di per sè dei composti
di coefficienti psichici primitivi; ond’è che tra essi, come tra
particelle materiali, vige la legge di coesione, che dinota la mutua
attrazione di _molecole_ dello stesso corpo, cioè di molecole le
quali, non che scomporsi in atomi, abbiano tra loro identità organica.
Per l’Ardigò la _coesione psichica_ è la legge onde nelle formazioni
psichiche gli elementi si compongono con ligami minori o maggiori.
Massima è la coesione nella _percezione_, media nelle formazioni
_ideali_, minima nei rapporti _logici_: la norma fondamentale è, che la
coesione sta in rapporto inverso con la complessità del lavoro mentale.

4^a _Delle energie partecipate, quelle che, per manco di attitudine
della coscienza passiva, non sono state nè paralizzate nè assimilate,
dànno luogo ad uno stato impulsivo di azione associativa automatica._

Il moto trasmesso dall’urto, diciamo così, di due aggregati psichici
o entra nel campo visivo della coscienza passiva, ed allora questa
trasforma il contenuto in novello sistema di coefficienti; o in parte
si arresta sotto la soglia della coscienza, ed allora, continuando
nell’impulsione attrattiva, agisce e trascina, con azione automatica,
nella propria orbita gli elementi sottoposti.

=3.=—Oltre all’effetto integrativo o disintegrativo degli aggregati
di coscienze in relazione, le energie irradiate contengono, riguardo
alla trasmissione di attività psichica, un grado di _luce_ che ha
l’equivalente ontologico nel _vero_ comunicato, non che un grado di
_calore_ per i fenomeni _affettivi_ causati.

Le correnti irradiate o trasmesse, esteriorizzandosi, ritornano, per
riflesso, nel centro di origine, rafforzandone la intensità del campo
visivo. Questo s’intenderà agevolmente considerando che l’assorbimento,
di cui abbiamo parlato, da parte della coscienza attiva non è che
accumulo di attività pel soprappiù di energia attratta e ritornata
nel punto iniziale di movimento impulsivo. Chi ne voglia l’esempio,
consideri quanto si rafforzi la coscienza di un convincimento per
colui che, messosi in comunicazione con altri, siasi persuaso di averne
l’approvazione.

4.—Dall’unione a due, alla forma più complessa della folla
delinquente, la dinamica delle psichi concorrenti segue il ritmo d’un
differenziamento che comincia dalla identificazione di due volontà
in una sola e giunge alla formazione di coscienza collettiva, il cui
esponente estremo è un risultato di cui non si hanno che i germi
negli individui che vi prendono parte. Come nella dinamica cerebrale,
ciascuna _cellula psichica_, per usare l’espressione di Haeckel, ha
vita propria, ma nell’accordo di infinite altre cellule si trasforma
in elemento di organo del pensiero; nella composizione di individui,
mentre ognuno è di per sè una coscienza integrata, in unione con
altri concorre alla formazione psichica della collettività, la quale
ha funzione più o meno variata. La suggestione, la imitazione, a
cui si è fatto ricorso per fissare il perchè del fenomeno dinamico
dell’aggregato psichico, non ne sono che i dati apparenti o
accidentali: il meccanismo intimo è nel sincronismo di correnti di
energie trasmesse ed accumulate in un centro unico, che, senza aver
esistenza a sè od indipendente, si manifesta nel perfezionamento di
unica _attività complessa_, alla stessa guisa che il pensiero, la
coscienza individuale siano a considerarsi risultanti di infinite
componenti psicofisiche, che, isolatamente prese, hanno vita ed energia
propria.

=5.=—In fondo all’anima della folla evvi molto dell’inconscio, di
quell’inconscio che è ripercussione di energie coincidenti, che, per
la rapidità d’azione ed il ritmo incomposto, inerente all’equilibrio
instabile di sentimenti passionali, si arrestano al disotto della
soglia della coscienza e, turbinando, spingono, saltuariamente, ad
intenti imprecisi. Vero è che su tutti gli individui affollati si
diffonde la efficacia della idea, del pensiero comune, a cui si
riferisce il movimento iniziale dell’azione; ma è pur vero che tra
l’effetto verificatosi e la relativa causa motrice, a chi ben mediti,
non si troverà mai nè la proporzione logica nè la equipollenza
dinamica. L’inconscio, del quale parliamo, è nel gesto, nella
instabilità del volere, negli accenti inconsulti, negli atti senza
significato; ai quali fanno eco i sentimenti di odio, di simpatia
senza un perchè chiaro; il rapido svolgersi d’azioni di ferocia,
inconcepibili in ciascuno degli associati; la esuberante espansività
per scopi o ignoti o per sè poco calcolabili.

Io che ho assistito—per ufficio di difensore—a processi di delitti
perpetrati dalla folla, mi son convinto, che l’attenuazione di
responsabilità è insita al comune stato d’inconscio ond’è accompagnato
il simultaneo concorso di coloro che presero parte all’azione. Pare
che tutti, meno chi ne abbia preordinato gli atti, agiscano in
condizioni di _automatismo psicologico_, fino al punto da obliare quel
che ciascuno operò e da sconfessare ciò che tutti, con consenso in
apparenza evidente, vollero conseguire. Il magistrato, tante volte, non
crede alla schiettezza di confessione degli imputati, anzi li sospetta
di mala fede e corre dietro alle fantastiche ed architettate accuse
di agenti di pubblica sicurezza, i quali, non sapendo approfondire
un giudizio su quanto effettivamente si svolse sotto i loro occhi,
ricorrono ad opera misteriosa di sobillatori e prospettano intenti
criminosi che non furon mai nelle menti dei giudicabili.

Il problema della responsabilità di azioni collettive non sarà mai
risoluto fino a quando non si acquisti l’abitudine di prescindere,
per l’apprezzamento dell’operato comune, dal l’opera dei singoli.
Insomma, la imputabilità della folla deve essere illuminata da concetti
affatto diversi da quelli che comunemente seguiamo nella valutazione
dei delitti individuali, sia che questi avvengano isolatamente, sia
che avvengano in conseguenza di moventi collettivi. La partecipazione
maggiore o minore, verificabile nel concorso di pochi individui in un
delitto, può dipendere da maggiore o minore volontà ed azione negli
atti esteriori. Per la folla succede altrimenti. I più volenterosi, i
più attivi non sono sempre i più pericolosi; ma lo sono coloro sulla
cui psiche con più vigore si ripercosse la coincidenza attrattiva
o repulsiva delle psichi altrui. Sono questi i più deboli alla
resistenza: nè è da imputarsi a lor conto; perchè nell’aggregato
psichico di pochi concorrenti si ha l’agio di riflettere e di
resistere, ma nella folla ciò riesce difficilissimo per la legge, che
la inibizione rendesi tanto più difficile per quanto non ci è permesso
di sceverare la nostra energia individuale dalle energie ambienti a
cui siamo soggetti.

Il Sighele scrive, che la folla sia un terreno in cui si sviluppa
assai facilmente il microbo del male, e in cui il microbo del bene
quasi sempre muore, non trovandovi le condizioni della vita; ciò
perchè in una moltitudine le facoltà buone dei singoli, anzichè
sommarsi, si elidono. «Si elidono, in primo luogo, per una necessità
naturale e, direi, aritmetica, come una media di molte cifre non può,
evidentemente, essere eguale alle più alte fra queste cifre, così un
aggregato di uomini non può rispecchiare, nelle sue manifestazioni,
le facoltà più elevate, proprie di alcuni tra questi uomini; esso
rispecchierà soltanto le facoltà medie che risiedono in tutti o almeno
nella gran maggioranza degli individui. Gli strati ultimi e migliori
del carattere, direbbe il Sergi, quelli che la civiltà e l’educazione
sono riuscite a formare in alcuni individui privilegiati, restano
eclissati di fronte agli strati medî che sono il patrimonio di tutti;
nella somma totale questi prevalgono e gli altri scompariscono»[110].

=6.=—La osservazione del Sighele e del Sergi è acutissima; ma non
pare che la spiegazione addotta sia molto chiara. Perchè le migliori
qualità individuali restano eclissate di fronte agli strati medî della
comune degli uomini? Il motivo è nella maggiore energia organizzata
di quelli stati di coscienza, che, pel tempo e per forza di naturale
selezione organica, acquistarono maggiore compattezza ed unità.
Il tronco d’un albero è sempre più resistente della foglia e del
fiorellino, ultimi a spuntare sui suoi rami. Le qualità prevalenti ed
eccezionali dell’individuo, in confronto delle qualità fondamentali
e stratificate della coscienza, hanno minor presa nella trasmissione
della loro energia sul fondo dell’animo della collettività. Di qui
la forza del costume, delle abitudini, delle comuni credenze, dei
pregiudizî. Il delitto è bene spesso il frutto di sentimenti ed idee
germinate nell’ambiente morale di falsi principî, di erronee credenze,
di inconsulte e cieche passioni. La folla è in soprammodo vittima di
questo ambiente morale. I suggerimenti, i consigli, l’azione dei pochi
privilegiati non arrivano a scuotere, a rompere lo strato malefico
della comune coscienza. Anzi succede, nè è raro, che per una naturale
legge dinamica di assorbimento, i pochi finiscono col cedere ai più,
non solo perchè impotenti materialmente alla resistenza, ma perchè
la loro energia, trasfusa nella larga piena dell’energia altrui, ne
è trasformata e sparisce travolta da correnti le quali ne modificano
sostanzialmente l’indole. Fate che nella corrente impura d’un fiume
cada una quantità di pura acqua, essa perderà tosto la sua purezza e
finirà con identificarsi alla gran massa di liquido con cui va confusa.

È legge costante, che le energie, fisiche o psichiche, poste a
contatto, tendono a compenetrarsi ed unificarsi. Il centro attrattivo
in prevalenza, o il nucleo del nuovo aggregato, si fissa per la
affinità di energie similari; la risultante non solo ne comprende la
somma, ma ne segna il grado di _identificazione_.

=7.=—Nella folla è da apprezzare, segnatamente, lo stato di emotività.
Le emozioni, componendosi, si intensificano e si accrescono. Il che
avviene in ragion diretta degli incentivi individuali ed in ragione
inversa dei controstimoli eliminati o attenuati dall’ambiente di
contrarie tendenze in prevalenze.

Le emozioni della folla dapprima sorgono con carattere _depressivo_,
in ultimo prendono il carattere di _esaltamento_. Sono depressi i
controstimoli della calma, dell’ordine: indi sorge la impulsività ad
azioni subitanee ed incomposte. Il ritmo è incostante: allo stato
caotico o di confusione, che turba le coscienze e fa che ognuno,
incerto, tentenni e versi in equilibrio instabile di sentimenti e
di idee, sopravviene il rifluire di correnti attive che, fissando
uno o più centri di emotività, finiscono con l’imprimere al novello
aggregato la fisonomia e la tonalità di atti impreveduti. L’esaltamento
produce l’effetto di sospendere il funzionamento autonomo di ciascuna
coscienza: sugli animi degli aggregati si diffonde una luce diafana
e triste, si va addensando una nube, la quale, mentre toglie allo
spettatore l’agio di distinguere i tratti caratteristici e la fisonomia
di ciascun partecipante, elimina le singole iniziative e le confonde e
le identifica nella unità di prodotto sinergetico.

L’azione delittuosa, per chi ne ignori la genesi in moventi prossimi o
lontani, ha l’apparenza di scoppio fulmineo: essa sorprende con fasi
impetuose; non ha altri limiti che nelle accidentali difficoltà del
momento; scorre con la rapidità spaventevole di corrente tempestosa
e, quando giunge alla fine, lascia dietro di sè la distruzione e lo
squallore, ma non la prova di chi ne debba dirsi responsabile.

=8.=—Talora l’esaltamento, per favorevoli circostanze di tempo,
investe così l’anima della folla da ingenerare una vera forma di
psicosi con influsso epidemico.—Il Rossi—che per profondità ed
originalità di vedute io giudico il vero fondatore, in Italia, della
psicologia collettiva—così scrive: «Un sentimento od un’idea che si
diffonda con una celerità più o meno grande; che conquisti, più o meno
prestamente, molta gente, che ad esso creda fermamente, fortemente,
è una epidemia psichica». Essa è dunque «uno stato ideo-emotivo che
da uno o da pochi si diffonde a molti in maniera rapida ed intensa da
produrre un arresto nel flusso della coscienza, e da dominarla, dando
luogo a fenomeni strani di psicologia e di neuropatia». Gli elementi,
adunque, d’una epidemia o d’un contagio psichico sono tre: uno stato
ideo-emotivo, una diffusione anormale, un arresto ed un ingigantimento
nel campo consciente capace di generare fenomeni anormali del corpo e
della psiche. Abbiamo detto «uno stato ideo-emotivo», ossia uno stato
di coscienza, giacchè una idea sola o una sola emozione non avrebbe
in sè la forza di determinare uno stato di condotta, una piega del
carattere qual’è quella che da un’epidemia psichica. La quale, a coloro
che ne sono investiti e trascinati, dà come una personalità nuova. Ora
questo non avverrebbe, se il contenuto della psicosi epidemica non
fosse un pensiero ed un sentimento, giacchè è risaputo oramai che il
carattere è donato non meno dal sentimento che dal pensiero. Inoltre,
come noi dicemmo più volte, quelli che compongono la maggior parte
della folla sono della gente amorfa o parziale—caratteri, cioè, o
non ben definiti o incompleti—; mentre i _meneurs_ sono, a seconda
la classificazione del Ribot, dei caratteri «attivi o contradditorî
successivi». E gli uni e gli altri—_meneurs_ e folla—per formarsi una
personalità nuova o per modificare l’antica, hanno bisogno di essere
pervasi in tutto il loro essere; han bisogno di rifarsi o di crearsi il
carattere e questo—lo si sa—non è meno pensiero che sentimento, idea
meno che emozione»[111].

Il contagio passionale paralizza la facoltà di attendere in persone
che, per altre contingenze, han mostrato di possedere il potere di
frenare o di indirizzare i voleri, i desideri, le convinzioni dei
molti. Lo scompiglio o il turbamento generale di animo fa sì che
si perda la visione di un perchè chiaro nelle proprie operazioni:
le correnti impulsive e repulsive sovrastano il piano visivo della
mente; fin l’istinto di conservazione si indebolisce, perchè pare
che tutto sia per crollare; che leggi, costumi, interessi non
abbiano più valore, che la vita sia alla mercè d’un evento o sperato
o immaginato o temuto. È l’effetto dell’uragano, che sconvolge
tutto quello che incontra, abbatte le messi e gli alberi, travolge,
rimescola, trascina e precipita in lontani baratri quanto gli si
offre dinanzi; il che avviene specialmente nei casi di esplosione
degli stati emotivi collettivi. Ma vi sono altri esempî, in cui la
idea, il sentimento si sistematizzano lentamente: evvi un periodo
di incubazione ed uno di rigoglio; durante il primo l’aggregato si
organizza, nel secondo vive di vita tutta propria ed imprime orme
indelebili. Fa meraviglia, ed in pari tempo desta orrore, vedere
a qual segno possa giungere il contagio epidemico di credenze, di
pregiudizî in epoche e tra persone che pur, sotto altro aspetto,
restano ammirevoli nella storia della umana civiltà! Basterà citare
la epidemia di credenze, al secolo XV e XVI, nelle stregherie, col
relativo corredo di occultismo, per persuadersi di quanto danno alla
umanità tornino i pregiudizî ed i falsi convincimenti allorchè si
diffondano nelle turbe ed acquistino il potere di ottenebrare le
coscienze della collettività. «Siffatte credenze—scrive il Cantù—si
conservarono traverso al medio evo, sicchè ne son piene le leggende,
nelle quali si confondono il misticismo e l’empietà, il tremendo e
il grottesco; repulsate dai legislatori e dai dottori, ma serbate
tenacemente dal vulgo, finchè vennero a mescolarsi con quella fungaia
delle scienze occulte: i Settentrionali vi unirono il tributo delle
loro saghe e valchirie e oldi e gnomi e spiriti elementari; gli Arabi
le loro fate»[112]. «Massime nella Germania—prosegue il Cantù—così
proclive al misticismo, erasi largamente diffuso il timor delle
streghe; onde Innocenzo VIII nel 1484 le fulminò di severissima bolla,
e spedì due inquisitori, Enrico Institore e Giacomo Sprenger, con
facoltà d’estinguere tali infamie con qual fosse mezzo. Appoggiati da
Massimiliano I, essi inquisitori si vantano d’averne mandate a morte
quatrocentotto in cinque anni nella diocesi di Costanza; nel solo
elettorato di Treveri, racconta Möhsen, fossero processate in pochi
anni seimila cinquecento persone per stregheria; moltissime trucidate
nelle Fiandre il 1459; a Ginevra in tre mesi se ne condannarono più di
cinquecento, convinte; Spagna e Francia ne furono insanguinate. Pietro
Crespet dice che, al tempo di Francesco I, v’avea centomila streghe;
ma Trescale, condannato il 1571 e avuta l’impunità, confessò che erano
assai più. Nicola Remy, profondo criminalista e gran giureconsulto,
consigliere intimo del duca di Lorena, vanta averne in quindici anni
fatte morire novecento: dicono che Enrico IV ne mandasse al fuoco più
di seicento nella sola provincia di Labourd; in Slesia nel 1651 ne
furono arse ducento; cencinquantotto negli anni 1627, e 28 a Wurtzburg,
fra cui quattordici curati e cinque canonici. In Italia pare, per
questa sciagura, specialmente segnalata la diocesi di Como, il cui
inquisitore nel 1485 ben quarantuno ne bruciò; e Bartolomeo Spina
asserisce, che oltre mille in un anno vi si processavano, e più di
cento bruciavansi»[113].—Non mancarono spiriti indipendenti, e scevri
di apprensioni, nel combattere, ora apertamente ed ora sotto il velame
d’una fede religiosa meglio diretta ed illuminata, errori di cotanto
nocumento alla umanità; fino al famoso Reginaldo Scoto, il quale negava
che il demonio possa cambiar corso alla natura. I supplizî, i roghi
moltiplicavansi ovunque; la fantasia popolare era eccitata, nutrita
dai pubblici sermoni, dai suffumigi e dalle unzioni, dal secreto di
processi terminati quasi sempre con la confessione del paziente estorta
col mezzo della tortura. Quando si pensa agli effetti di un’epidemia
psichica durata, forse, fino a qualche secolo fa, si resta colpiti
dal profondo dubbio se tante credenze reputate oggi scientifiche ed
irrefutabili non abbiano la base nell’opera della suggestione e della
illusione, e se davvero quella, che noi appelliamo verità, non sia che
il prodotto soggettivo di passeggiare stato di coscienza!

=9.=—Il citato Rossi constata, che «la folla riceve impronta, nelle
sue manifestazioni, da coloro che la compongono; massa talora amorfa,
talora no per ciò che riguarda il carattere, e sui quali i _meneurs_
gettano l’ombra immane della propria psiche. Onde l’azione della
folla nasce da un incontro dei _meneurs_ e degli uomini a fondo
attivo su altri a fondo inerte, plastico, facile ad essere dominato
e a seconda che gli attivi son volti al bene o al male, sono normali
o no, l’azione della folla è buona o triste, normale o criminosa.
Ora nella folla delittuosa, oltre i _meneurs_ che vedemmo quali
sieno, prevalgono i criminali nati, i pazzi, gli abituali, i quali la
conducono al delitto, avvolgendo, nelle sfere d’una passione criminosa,
gli amorfi, gli squilibrati, i parziali e facendone dei delinquenti
passionali»[114].—La osservazione è esattissima, però richiede che
sia completata. È vero che i _meneurs_, suggestionando la folla, le
dànno una forma qualsiasi, il più spesso criminosa; ma è anche vero
che essi sono coinvolti nelle spire dell’anima dell’aggregato, ed a
seconda della natura di quest’ultima inconsciamente plasmano i loro
convincimenti e le loro passioni. L’ambiente, di qualsiasi specie,
è dominato dalla potenza di energia di individui predominanti, ma
questi, alla loro volta, sono il portato dell’ambiente istesso: ciò che
potrebbe semplificarsi nella legge, che tra gl’individui e la folla
evvi rapporto di scambievole influenza; con questo di singolare, che la
forza definitiva è equivalente alla somma delle forze concorrenti, e
l’indirizzo dell’azione è impresso dalla spinta dell’individuo la cui
attività suggestiva s’impone alle attività dei componenti l’aggregato.

=10.=—Tra le forme di aggregati criminosi, che maggiormente attirano
l’attenzione del psicologo, va notata la _associazione per delinquere_.
Il patrio legislatore, riproducendo dettami di legge seguìti in tutti
i tempi, con gli art. 248-251, ha voluto disciplinare questa forma
di delinquenza, la quale, tuttochè per l’influsso della civiltà vada
perdendo le modalità più gravi sì frequenti in tempi antecedenti,
suscita tuttavia grande preoccupazione, poichè contiene la maggiore
minaccia contro il diritto privato ed il pubblico ordine. Gli associati
per delinquere, ossia, giusta la definizione non molto felice ma
perspicua di Zanardelli, coloro che si uniscono, non già per commettere
questo o quel reato, ma in genere una serie di delinquenze, per far
quasi, a così dire, il mestiere del delinquente, sono tra loro stretti
da vincoli di comune sentire, pensare e volere, e le aspirazioni,
ond’essi sono animati, riescono a formare di molteplici energie
una sola energia, quasi organismo composto dalla fusione di corpi
concorrenti e compenetrati da potente forza coesiva. Non è, dunque,
come nella folla, che la dinamica di sentimenti e di idee subisca
l’antagonismo e l’alternativa di azione e reazione, per la fusione
accidentale di energie di natura simile o diversa; ma le energie
associate si organizzano ed unificano con più spontanei e forti
vincoli, appunto perchè di natura similare e tra loro congiunti dopo
reciproca elaborazione selettiva.

La psicologia di qualunque specie di associazione criminosa procede
per virtù di energie attrattive _latenti_ e per azione immanente di
assorbimento di energie _palesi_ ed _attuali_.

Contingenze favorevoli predispongono l’ambiente ad accogliere e far
germogliare il microbo del delitto associato. Capita in una città, in
una regione, per motivo di occupazioni familiari, un individuo rotto al
vizio, proclive al mal fare. Fungendo da nucleolo germinativo del male,
egli comincia col circondarsi di persone che posseggano qualità simili
alle sue; più spesso di giovani, dall’indole più espansiva, dalla mente
meglio accensibile ed inclinevole ad esser vinta dal miraggio della
imitazione. La fantasia dei neofiti è colpita dall’attrattiva del
mistero; gli animi sono sollecitati dalla speranza di conquistare,
senza grandi sacrificî e duri sforzi, un posto di rispetto, di
prestigio tra’ compagni; le virtù dei capi, esaltate da cointeressati,
esercitano il fascino delle leggende: poco a poco, per la confluenza
di elementi estranei, si forma uno speciale consorzio, che, dapprima
ristretto a pochi, poscia in più larga sfera, stringe gli affiliati in
piccolo mondo e lusinga ed attira gli altri a farvi parte, blandendone
le volontà con la promessa di dolci premi, rafforzando il desiderio
e le innate tendenze con l’agevolare il loro potere di espansività
e renderne più facile lo sperato intento. L’obbligo del secreto, la
obbedienza passiva, la ignoranza del perchè di ordini o di comandate
azioni; eppoi, il racconto, susurrato appreso di straforo, di imprese,
di avventure strane passionali di compagni, che cominciano a mettersi
in evidenza; il piacere di sorprendere la buona fede altrui, di
violentarne il dominio, di credersi fuori l’imperio della legge, anzi
di ridersi del prestigio dei suoi funzionanti, sono tanti incentivi a
che l’associazione del delitto prenda consistenza, metta salde radici,
si espanda, si imponga.

Le energie latenti e malefiche dei consociati si sviluppano: col
vincere la resistenza opposta dai controstimoli etici, sociali e
giuridici, si raffermano, e, da principio incerte di sè, finiscono con
l’assicurare il loro potere; finchè, cogliendo le occasioni, producono
i primi frutti in azioni o disordinate o viziose o delittuose. I
vincoli interposti tra individui tratti al male, meglio che da chiari
propositi, per opera suggestiva di comunione ed uniformità di tendenze,
trascorso alcun tempo, si rendono più stretti e più saldi; n’è motivo
principale la coscienza del comune interesse, la reciproca fiducia
negli intenti formanti lo scopo o gli scopi di un’unione animata e
sorretta da qualche bene o dal cumulo di beni posti a base del novello
aggregato.

=11.=—Due coefficienti principali vanno ricordati nelle associazioni
ad organismi composti di persone strette, con lento processo, da fini
criminosi effettuabili per ordini ed obbedienza gerarchica; la forma
e l’esplicamento delle emozioni, ed il complesso dei principî etici
qualificanti le azioni.

Chi ha studiato qualcuna delle vaste associazioni criminose, le quali,
com’è quella della _Mala vita_ e della _Camorra_, fioriscono in grandi
centri industriosi e commerciali, di leggieri avrà potuto osservare
come tra gli associati si stabiliscano correnti morbose passionali,
che accecano e trascinano al delitto per motivo di jattanza, meglio
che per intenti di serio interesse ed utilità: la vendetta, lo spirito
di rivincita, di sopraffazione simulata sotto le parvenze di giusta
reazione, sono ragioni poco attendibili per spiegarci il perchè logico
di atti dei quali la vera causa è nel travolgimento del senso di
civiltà, nell’abitudine contratta ad esser dominati da basse passioni,
che estinguono l’idea di dovere, di previdenza, di rispetto dei
simili. Nella scala della decadenza morale dell’uomo, l’ultimo gradino
è contrassegnato dall’assenza completa di sentimenti di ordine o di
premura del proprio benessere d’accordo con le leggi protettrici del
benessere altrui: il vincolo di sociabilità, di solidarietà è spezzato,
e l’individuo, raccogliendo gli sforzi nel conato supremo dell’egoismo,
si inabissa nella perdizione!

L’abitudine a miscredere alla forza della morale e della legge,
l’abbiettezza contratta in consorzio privo di risorse della personale
dignità, l’abbandono cieco passivo alla volontà altrui, imposta con la
idea di superiorità gerarchica, finiscono col disseccare nell’animo
di delinquenti associati la fonte o di rimorso o di resipiscenza,
ingenerando lo stato di supina incoscienza, indice di completa
dissoluzione morale. Salvo i capi, la massa dei seguaci è poco
differenziata, materia amorfa, irreducibile: il delitto si desidera, si
compie più istintivamente o per jattanza, che suggerito da necessità o
sufficiente motivo; ed è così che l’aggregato di coteste associazioni,
formate con processo lento e per effetto di energie latenti sistemate,
non presenta al sociologo od al magistrato verun piano certo di prove o
di argomenti onde concludere alla imputabilità di tutti o di parte dei
prevenuti, ed abilitarci a misurare il grado della responsabilità di
ciascuno.

=12.=—Nella folla, agglomerata e trascinata da subitaneo motivo
passionale, evvi un’anima collettiva che vibra e s’impone: non così
nelle associazioni criminose, di che discorriamo. Mancando l’unità
assoluta d’intenti, e frazionandosi le volontà individuali in atti
criminosi isolati e sol tra loro congiunti da uniformità di tendenze,
le energie si armonizzano in serie poco compatte, tenute strette dalla
forza suggestiva del potere intransigente ed assoluto nell’ordine
della gerarchia. La lealtà, la onorabilità, ostentate ad ogni momento,
opportunamente o inopportunamente, sono tra gli associati i facili
pretesti per coonestare atti turpi, disonorevoli anche per chi della
parola _onore_ si serve come scudo di difesa contro i giusti richiami
dell’intima coscienza, dei mòniti della morale, delle minacce della
legge. Lo spirito abituale di simili disgraziati, diffuso su tutte le
operazioni buone o riprovevoli della loro esistenza, è quello di un
pessimismo reso leggiero e mutabile per indifferentismo di carattere
causato da assenza di sensibilità, di solito fisica, ordinariamente
morale. Simulatori e dissimulatori, non è raro il caso che difensori
e magistrati sien presi per essi da sentimento di sincera pietà,
attenuando le loro colpe con argomenti i quali o nascono dal dubbio
sulla prova di responsabilità, o dal convincimento trattarsi di
disgraziati, invece che di delinquenti.

Per disilludersi, basterà—a processo finito—informarsi della
impressione prodotta sui loro animi dalla mitezza di condanna o
dall’assoluzione: il ghigno ributtante, lo scherno cinico accompagna
la sentenza del magistrato!—Ricordo d’un famoso capo d’associazione
della _mala vita_, condannato a lieve pena per scatto di arma in rissa,
assoluto da altri reati: in un’ora circa di colloquio, il giorno
seguente al dibattimento, rideva, rideva sgangheratamente, asserendo
che la magistratura dovesse riformarsi per _mandare a casa_ (sue
parole) uomini inetti come quel signor presidente, il quale si era
fatto gabbare dal suo contegno e dalle sue profferte di innocenza!.....
E dire che, in udienza, il furbo avea sì ben simulato tutto ciò che
anch’io, e con me il pubblico, mi convinsi della schiettezza e verità
di quanto asseriva!...



CAPO XII.

La vita del delitto.


 1. Vita individuale e collettiva del delitto.—2. Vita storica del
 delitto.—3. La _necessità_ nell’apparizione del delitto; teoria
 del Bovio: la legge di continuità nel fenomeno del delitto.—4.
 Coefficiente _qualitativo_ e _quantitativo_ nel processo vitale del
 delitto.—5. Causalità ed uniformità di fenomeni; contenuto metodico e
 scientifico della statistica; psicologia criminale e statistica.—6.
 Obbietto della statistica criminale: valore _probatorio_ delle leggi
 statistiche.—7. Principio fondamentale del calcolo di probabilità
 applicato alla vita del delitto: norme relative ai dati numerici
 delle leggi statiche e dinamiche del delitto; opinione del Ferri
 intorno alla influenza dei vari fattori criminosi nella determinazione
 del delitto; confutazione.—8. Criterî da seguire nel calcolo di
 probabilità dei dati statistici criminosi.—9. La psicologia criminale
 etnografica, suo còmpito e suoi principali obbietti.

=1.=—Il delitto, fenomeno affatto naturale, ha una vita individuale ed
una vita collettiva e storica. Individualmente, il delitto si germina
ed apparisce azione di disordine causata da coefficienti statici e
dinamici di atipicità antropologica e di anomalia funzionale nel
processo evolutivo o dissolutivo di moventi esterni od interni. L’esame
da noi fatto, degli stati di formazione e di sviluppo di cotesto
processo, ci autorizza a concludere, che il delitto, dalla genesi
cenestetica alla consumazione esteriore, non sia che esplicamento della
forma di _energia_ da noi appellata _criminosa_. Abbiamo, quindi, nel
delitto i due estremi necessarî alla vitalità o realtà di qualunque
fenomeno naturale, una _energia in atto_, ed il _limite_, _di spazio_
e _di tempo_, entro il quale essa si viene effettuando. Inoltre, da
quanto abbiamo svolto nei precedenti capi si deduce, che l’attività
vitale del delitto dall’individuo si proietta nella collettività,
vuoi per la ripercussione del danno privato e pubblico, che per la
possibilità di svariate forme di organizzazione negli aggregati.
La energia criminosa trova la via di funzionare sia per azioni
individuali, che per azioni collettive: nell’uno e nell’altro caso
obbedisce a quelle leggi meccaniche, la cui espressione fondamentale è
nel principio di _causalità_.

=2.=—Il delitto, in fine, ha una vita storica. Il fattore storico,
agendo con il cumulo dei coefficienti formanti il proprio ambiente,
predispone la energia criminosa a manifestarsi in taluni effetti a
preferenza che in altri. Da ciò il mutamento di specie di delitti
secondo le epoche; la scomparsa, cioè, di alcuni di essi per la
trasformazione del clima storico o l’intervento di nuovi elementi di
progresso e di civiltà; l’attenuazione di altri per la eliminazione
delle cause onde erano prima resi più gravi.

L’individuo, la collettività, la storia, ecco le tre fasi percorse
dal delitto in quanto afferma la propria vitalità. E questa vitalità,
si noti, è _continuativa_, per la legge di permanenza della energia;
e le modificazioni, ond’è segnata in apparenza, non la privano della
_identità_ di contenuto, poichè, nella indefinita variazione di
forme, essa conserva la nota culminante dell’esquilibrio funzionale
psicofisico e dell’anomalia antropologica.

La scuola classica, astraendo il concetto del delitto dalla realtà
naturale, ne creò un _ente giuridico_; il positivismo, partendo dalla
nozione unitaria o monistica della natura, scorge nel delitto una
vitalità accompagnata dal carattere di necessità e di permanenza. Di
necessità, perchè in esso i fattori individuali, collettivi e storici
agiscono in forza della causalità; di permanenza, perchè la energia
criminosa si connette alla legge generale della conservazione, con
equivalenza, della energia in genere.

=3.=—Il Bovio ebbe l’intuito della influenza della _necessità_
sull’apparizione del delitto. Egli divise questa necessità in naturale,
storica e sociale. Ricordando le tre possibilità del reato secondo
la scuola dei giureconsulti, vale a dire la possibilità del dolo,
la possibilità del danno e la possibilità di trasmutare il dolo in
danno, domandava: «è compiuta questa dottrina della possibilità o è
difettiva, astratta, unilaterale, governata da presupposti ciechi d’una
vecchia e bolsa metafisica? Io domando: la possibilità subbiettiva
è tutta individuale o entravi in dose più o meno densa la necessità
naturale? Domando ancora: nella possibilità obbiettiva entra e in
quanta parte la necessità storica? Domando in ultimo: nella possibilità
esecutiva entravi e come la necessità sociale? La _necessità_, in
somma, è qualcosa o niente nella storia dell’uomo, della quale il
reato è parte sì larga? Sarebbe stato, adunque, assai desiderabile
che accanto a quelle tre possibilità si fossero vedute queste tre
necessità. Ma niente:—si credette sempre sconfinata la libertà,
gelosa cavallerescamente di sè e disdegnosa d’ogni necessità; si
credette l’individuo umano affatto autogenetico, autonomo e prodotto
d’un solo fattore, di sè solo; e però furono escogitate quelle tre
grandi menzogne che furono chiamate tre possibilità»[115].—«La natura
ferma il destino d’ogni specie, non esclusa l’umana, e dà carattere
e fisonomia così a ciascuna persona come a ciascun popolo: dallo
svolgimento di questo carattere per asseguire il proprio destino deriva
il presente in cui consiste la necessità sociale; dunque la necessità
sociale deriva dalla necessità storica e questa dalla naturale. Ogni
libertà deriva da una libertà; ogni necessità da una necessità: la
libertà è necessaria; la necessità è libera. I codici dispaiano questa
profonda armonia dei contrarî, rompono la dialettica del mondo,
divellono la libertà dalla necessità, l’individuo dal popolo, il popolo
dal tempo, il tempo dalla natura, e con un fattore credono trovare il
prodotto storico e sociale»[116]. Concludendo, il Bovio, proclama, che
in ogni reato entrano complici la _natura_, la _società_ e la _storia_,
oltre la volontà individuale.

E sia. Ma il Bovio, non peranco liberato dalla influenza del sistema
sillogistico, crede aver scossa la base del diritto di punire sol
perchè in questo entrano elementi che ne modificano profondamente i
modi di applicazione. E che è mai la necessità sceverata dalla legge
di _continuità_ del fenomeno?; che la ragion penale dissociata dalla
causalità naturale, e dall’unità di legge meccanica guidatrice dei
fenomeni da noi percepibili? Potete pur negare la proporzione penale,
e dire che essa, essendo tra il reato e la pena, che sono termini
eterogenei, è intrinsecamente assurda: ma il delitto esiste, ed esiste
la necessità sociale di combatterlo e di attenuarne, se non eliminarne,
gli effetti.

Il fenomeno, umano o puramente materiale, in sè e nei limiti della
conoscenza non ha esistenza assoluta, ma relativa. Relativa è la
energia parziale rispetto alla forza universale; relativo è il suo
modo di essere e di apparire; relativo il modo onde noi la percepiamo;
relativa la conoscenza del suo passato e dell’avvenire. Eppure, in
tanta relatività, non evvi forse un che di certo, di permanente? Lo
stesso è del delitto: il suo essere individuale, collettivo e storico
sono fasi, ond’è segnato il suo cammino: la vitalità, che gli è
propria, è, nella energia criminosa, una delle tante guise onde la
forza universale si realizza, il perchè dinamico e logico di fenomeni
di esquilibrio e di anomalie, il tratto di tenebra che oscura, a
momenti, la luce che rischiara ed abbella la nostra esistenza terrena.

=4.=—La conclusione delle sopraesposte idee è la seguente: il
delitto, avendo una vita, con fasi successive nello individuo, nella
collettività sociale e nella storia, deve di necessità risentire
dei coefficienti statici e dinamici che, qualitativamente e
quantitativamente, presiedono al suo nascere ed al suo sviluppo. Due
specie di coefficienti, dunque, debbono riscontrarsi nel processo
vitale del delitto; un coefficiente che attiene alla _qualità_ ed uno
alla _quantità_ del suo contenuto intrinseco ed estrinseco: qualità
e quantità che rispondono, nei medesimi fenomeni, all’elemento
statico ed al dinamico. È elemento statico del delitto ciò che di
esso permane attraverso le forme assunte durante le diverse fasi; è
elemento dinamico ciò che cambia di apparenza e di atto, ovvero ciò
che è inerente agli effetti multiformi e variabili nella violazione
dei diritti individuali e collettivi. L’elemento statico è insito
alla _specialità_ della energia criminosa, la quale ha la essenza
nello stato di esquilibrio e nell’anormalità di azioni disturbatici
dell’ordine sociale; l’elemento dinamico, poi, si ravvisa nella serie
degli atti di coscienza, che preparano, accompagnano e seguono
gli stadî psicofisici del funzionamento criminoso, individuale o
collettivo, non che le forme successive onde la delinquenza si attenua,
si aggrava, si trasmuta durante il percorso del progresso o regresso
storico.

=5.=—«Dalla legge causale generale—scrive il Tammeo—deriva come
deduzione la uniformità generale dei fenomeni, la quale, a sua volta,
risulta dalla coesistenza di uniformità parziali. Il che vuol dire
che il corso generale della natura è uniforme, perchè uniforme è il
corso degli innumerevoli fenomeni di cui la natura si compone. Date
certe condizioni, è necessario quel determinato effetto, e, viceversa,
un qualunque fenomeno è necessario così come si manifesta; il che
vuol dire che avrebbe potuto essere diverso, se le cause che lo hanno
prodotto fossero state diverse. Ciò parrebbe una nozione volgare;
eppure tale non è quando si vede che quasi tutti nei giudizî intorno ai
fatti sociali dimenticano di considerarli come conseguenze necessarie
di cause immutabili. La legge causale spiega le uniformità dei
fenomeni, il meccanismo cioè della natura e dei fatti sociali»[117].

Causalità ed uniformità di fenomeni: onde nei fatti sociali la energia
criminosa, principio vitale della immanenza e permanenza del delitto,
va appresa e dimostrata con la osservazione intorno ad azioni, le quali
nei loro caratteri anomali e di esquilibrio conservino il meccanismo
necessario alla produzione d’ogni formazione naturale, fisica o morale
che sia. Dunque il calcolo numerico nelle grandi masse di dati di
osservazione, quando abbia per obbietto la constatazione della vitalità
spaziale o temporanea del delitto, non deve essere solamente reputato
opera di metodo, ma materia di scienza.

È dall’essersi trascurati i veri principî della statistica, che
dura tuttavia il dibattito tra chi in essa non riconosce che solo
un metodo, negandole il carattere di scienza (Lo Savio, Guerry,
Körösi, Lilienfeld, Gumplowicz, Benini, ecc.), e coloro che in essa
riconoscono una scienza ed un metodo (Mayr, Conrad, Engel, Rawson,
Block, Wagner, Bodio, Ferraris, Gabaglio, ecc.)[118].

L’aggruppamento e la enumerazione dei fatti sociali, pur essendo
il frutto di accurata rilevazione, non saranno mai sufficienti ad
insegnarci alcun concetto scientifico, se non sieno lumeggiati da
verità e leggi apprese in precedenza e dedotte da principî universali
ed inconcussi. La statistica, dunque, perchè ci aiuti ad apprendere
la nozione della vita del delitto, importa che non si limiti alla
semplice raccolta e comparazione dei dati; deve integrarli con le
norme psicologiche criminali, ossia deve saperli rapportare alle leggi
generali meccaniche della psiche del delinquente, o che questi sia
studiato isolatamente, o che formi parte di aggregato collettivo.

Che cosa è mai lo spettacolo meraviglioso di mondi di esseri viventi
per chi non ne conosca che l’apparenza esteriore fenomenica?—per chi
non ne comprenda le intime leggi, e non sappia sollevarsi col pensiero
a quell’unità di forza universale che tutto spiega e semplifica nel
concetto assoluto della conservazione della sostanza? Che son mai le
cifre numeriche per chi in esse non sappia leggere, in caratteri muti
sì, ma eloquenti, il processo psichico del delitto, formazione naturale
di fattori antropologici, fisici e sociali?

La probabilità delle leggi statistiche acquista certezza in ragione
della perfetta comparazione ed integrazione con le verità inconcusse
delle scienze alle quali si appartengono i dati elaborati. La
statistica criminale deve ricorrere alla nostra disciplina, se non
vuole errare nelle conclusioni. Ne volete l’esempio? Suppongasi che
in una data località, in dato tempo, la media dei reati di sangue
si aumenti rapidamente. Lo statista vi segnerà il fenomeno e, per
spiegarselo, ricorrerà, in ipotesi, al consumo aumentato di alcool, ad
accidentali frangenti di accanite lotte politiche, alla deficienza di
pubblica sicurezza, alla mancata percentuale di emigrazione, tante
volte valvola di salvezza di fronte ad individui spostati e bisognosi
di lavoro o di maggiore espansione di attività.

Quali ne saranno le conclusioni? Che tutte coteste cause abbiano potuto
influire alla determinazione di aumento di reati di sangue; ma come,
perchè? La psicologia criminale, intervenendo all’uopo, studierà il
processo psicofisico dell’aumento della speciale criminalità, ossia vi
dirà come dati coefficienti sociali agiscano, trasformandosi in energie
individuali, ad eccitare e corroborare le tendenze, latenti od attuali,
criminose; ad alterare gli stati di coscienza, far insorgere impulsioni
irrefrenabili, creare l’ambiente morale del delitto.—Insomma, per
noi la statistica è metodo ed è scienza: è metodo perchè ci dimostra
ad evidenza l’utile della osservazione e della induzione indirizzate
a raccogliere fatti numericamente noti onde elevarci a conclusioni
definitive: è scienza in quanto serve a semplificare quantitativamente
la esattezza razionale di cànoni appartenenti a discipline a cui si
riferiscono i dati raccolti in grandi masse.

=6.=—Intesa così la statistica, ben si conclude, che ella debba
sussidiarci nello studio della vita del delitto.

Le energie criminose, le attività disorganizzatrici dell’ordine
sociale, prese isolatamente, o nell’individuo o nella collettività,
formano il contenuto della psicologia criminale; studiate nella media
quantitativa di tempo e di luogo entrano nel dominio della statistica
criminale e ci insegnano: _a_) come e perchè l’evento psichico del
delitto, allargando l’attività entro i limiti quantitativi di grandi
cifre numeriche, giunga a certo grado di intensità della energia
criminosa; _b_) come e perchè il meccanismo, statico e dinamico, delle
contingenze accidentali temporanee e spaziali influiscano ad imprimere
la direzione alle tendenze criminose; _c_) come e perchè si debba
ricorrere alla scelta di taluni mezzi, di preferenza, per ostacolare
l’incremento maggiore di cause predisponenti al delitto.

Le leggi statistiche non esprimono la _necessità_ dell’evento;
ma il grado approssimativo di _probabilità_. Il loro contenuto è
eminentemente condizionato all’ambiente mutabile dei fattori sociali: è
perciò che Rümelin negava di attribuire ad esse il valore di leggi nel
senso assoluto della parola, ed insieme al Mayr le chiama _regolarità_
e _normalità_.

Nondimeno, anche nella sfera limitata della probabilità, le leggi della
statistica, allorchè sieno precedute da induzione su fatti raccolti
con accuratezza, hanno valore logico importantissimo; poichè, nei
limiti soggettivi della conoscenza, servono di argomento onde assorgere
ad intuizioni, che qualche volta hanno l’effetto di divinazioni.
Herschel scriveva: «fu inventata l’espressione _probabilità_, voce che
dimostra la nostra ignoranza nell’analisi degli avvenimenti e delle
cause efficienti che guidano _necessariamente_ i passi successivi pei
quali essi accadono, non già in modo generale, ma bensì speciale e
personale a chi usa questa espressione, per cui una relazione fisica,
una esposizione storica, un avvenimento futuro possano avere gradi di
probabilità molto vari all’occhio delle parti diversamente informate
delle circostanze, delle cause in azione, della riputazione di veracità
degli autori che ne fanno testimonianza, o delle occasioni che ebbero
per conoscere i fatti in questione.

«La scala di probabilità, considerata nella sua maggiore lunghezza,
stendesi evidentemente dall’_impossibilità_ certa dell’avvenimento
considerato, alla _certezza_ che accadrà. L’intervallo totale fra
questi estremi, ciascuno dei quali è una completa conoscenza,
trovasi occupato da gradi più o meno alti o bassi di aspettazione o
di credenza, determinati per mezzo della parziale conoscenza che ci
è dato possedere, e può essere riguardata come una unità naturale,
suscettibile di essere divisa numericamente in parti frazionarie,
esattamente come l’intervallo fra il punto di congelazione e quello
dell’acqua bollente, sulla scala termometrica, può essere suddivisa in
parti aliquote o gradi. Realmente, non esiste una _misura_ numerica
naturale di una impressione mentale, come non esiste per le sensazioni
corporali; ma in ambi i casi noi siamo certi che gradi più elevati
della scala numerica possono ben rappresentare intensità più grandi di
impressioni, ed in tutti due vi sono prove che accrescimenti uguali
di un certo elemento puramente ideale per l’uno, e che potrebbe
essere sostanziale per l’altro, corrispondono a diversità numeriche
eguali nella scala, e che l’abbondanza più o meno grande di questo
elemento _determina_ in una maniera o in un’altra il grado d’intensità
dell’impressione di cui si tratta»[119].

=7.=—Il calcolo della probabilità, fondato da Pascal e via via
perfezionato e svolto da Fermat, Leibnitz, Huyghens, Hudde, Halley,
Buffon, Bernouilli. De Moivre, Laplace, Quetelet, ecc., applicato alla
constatazione delle leggi concernenti la vita del delitto deve basarsi
sul principio, che _nel processo evolutivo delle formazioni psichiche,
con rispondenza in effetti integrativi o disintegrativi dell’ordine
sociale, la permanenza della energia in atto, trasformandosi, conserva
qualitativamente e quantitativamente la efficacia di ripresentarsi se
concorrano date circostanze favorevoli_.

Fissato il punto di partenza, o la stabilità effettuale della energia,
ne viene logica la illazione, che la probabilità di riapparizione di
certa specie di delitti non sia che _accidentalmente_ l’effetto di
circostanze predisponenti, poichè, in essenza, essa riposa sull’opera
costante della energia criminosa attutita o scomparsa, non distrutta.
Insomma, la statistica criminale deve, prima dei calcoli numerici,
accertare il fondamento dinamico del delitto o di generi di delitti;
il primo quesito è questo: evvi presso il tal popolo, in tale regione
la proclività, l’attitudine, che mostrino la tale specie di _energia
criminosa_ propria dei delitti di sangue, dei furti e via dicendo? La
risposta affermativa non deve esser data dalle cifre se non di accordo
con la nozione di cause esaminate dapprima _isolatamente_: il fatto
di aumento o diminuzione di omicidî può essere l’opera accidentale e
passeggiera di torbidi politici, di brigantaggio, di conflitti locali;
che direbbe mai il calcolo quantitativo al riguardo?

Trasportate nei rilievi numerici le leggi statiche e dinamiche del
delitto; applicate alla vita progressiva o regressiva del delitto
nel tempo le norme che accompagnano le oscillazioni della coscienza
individuale criminosa, ed avrete il bandolo onde percorrere, senza tema
di smarrirvi, il laberinto intricato delle umane azioni in controsenso
della morale e della legge. Ciò facendo, però, occorre prescindere
da’ singoli casi: il Quetelet, rispondendo alla dimanda, se le azioni
dell’uomo morale ed intellettuale siano sottoposte a leggi, scriveva:
«impossibile sarebbe il risolvere una simile questione a _priori_: se
vogliamo procedere in modo sicuro, bisogna ricercarne la soluzione
nell’esperienza.—Noi dobbiamo, prima di tutto, perdere di vista l’uomo
preso isolatamente e considerarlo soltanto siccome una frazione della
specie. Spogliandolo della sua individualità, noi elimineremo tutto
ciò che non è che accidentale; e le particolarità individuali, che
hanno poca o nessuna azione sulla massa, si cancelleranno da sè stesse
e permetteranno di afferrare i generali risultati»[120]. Dello stesso
Quetelet giova rammentare le infrascritte altre osservazioni: che sia
difficilissimo il determinare la divisione delle forze umane e delle
forze materiali che agiscono nei fenomeni; ciò che di leggieri si può
vedere si è che le leggi del mondo materiale cambiano infinitamente
di più mediante le forze della natura, che per l’intervento dell’uomo
_in generale_; e più ancora, che l’azione _individuale_ dell’uomo può
essere considerata siccome sensibilmente nulla[121]. Finchè trattasi di
cambiamento di leggi fenomeniche io son d’accordo col Quetelet; e son
d’accordo nel doversi prescindere, per i calcoli di probabilità, dai
casi singoli: ma sarebbe imperdonabile errore voler esagerare la teoria
sino a cancellare, nell’ordine logico delle leggi sociali, la impronta
_iniziale_ e _definitiva_ dell’azione individuale. La famiglia, la
società, la nazione non sono che concetti astratti, di mero interesse
logico soggettivo; di reale non evvi che l’individuo. Similmente è
nella conoscenza della vita del delitto; la fase storica-sociale, in
fondo, non è che il compimento della fase individuale: in sintesi essa
è rappresentata dal complesso di cause accidentali temporaneamente
sistematizzate da produrre, in forme costanti, l’aumento o la
diminuzione della efficacia vitale della energia criminosa. L’azione
delittuosa, non essendo immaginabile senza il soggetto cui inerisca,
non è neppure apprezzabile se non si percepisca siccome l’effetto
di _singola energia_, centro dinamico del concorso di coefficienti
accidentali e causa prima in atto.

Il Ferri, esaminando la influenza dei vari fattori criminosi nella
determinazione del delitto, scrisse: «Quando noi assistiamo al
movimento della criminalità per una data serie di anni, in questo
o quel paese, con un generale ritmo di aumento o di diminuzione,
non è neppur pensabile che questo dipenda da analoghe e costanti ed
accumulate variazioni dei fattori antropologici e fisici. Infatti,
mentre le cifre assolute della delinquenza sono assai lontane dal
presentare quella stabilità, che fu molto esagerata dal Quetelet in
poi, le cifre proporzionali invece sui fattori antropologici, per il
concorso delle diverse età, sesso, stato civile, ecc., nel movimento
criminale, presentano in realtà minime differenze, anche in lunghe
serie di anni. E per quanto riguarda i fattori fisici, se con taluni
di essi potremo spiegarci, come ho dimostrato altrove, le oscillazioni
repentine, in epoche determinate, evidentemente però nè il clima, nè la
disposizione del suolo, nè lo stato meteorico, nè l’avvicendarsi delle
stagioni, nè le temperature annuali possono aver subite nell’ultimo
mezzo secolo tali cambiamenti costanti e generali, che neppur di
lontano siano paragonabili all’aumento continuo di criminalità, con
una serie incalzante di vere ondate del delitto, che ora constateremo
in alcuni paesi d’Europa.—È dunque ai fattori sociali, a quelle
«altre cause, come dice il Tarde, più o meno facili ad estirparsi, ma
di cui non ci si preoccupa abbastanza», che noi dobbiamo attribuire
l’andamento generale della criminalità, anche per queste altre ragioni.
Primo, che le variazioni pur verificatesi o che si possono verificare
in alcuni fattori antropologici, come il vario concorso della età e dei
sessi al delitto e la maggior o minor libertà di esplosione lasciata
alle tendenze antisociali, congenite o per alienazione mentale,
dipendono, per rimbalzo, esse stesse, dai fattori sociali, quali sono
le istituzioni relative alla protezione dell’infanzia abbandonata, al
lavoro industriale dei fanciulli, alla partecipazione delle donne alla
vita esterna e commerciale, ai provvedimenti di sicurezza preventiva
o repressiva sulla segregazione degli individui pericolosi e via
dicendo: e sono perciò un effetto mediato degli stessi fattori sociali.
Secondo, perchè, prevalendo questi fattori sociali nella delinquenza di
occasione e per abitudine acquisita, ed essendo queste il contingente
più numeroso della criminalità totale, è chiaro come ai fattori sociali
spetti in maggior parte l’andamento di rialzo o di ribasso, segnato
dalla delinquenza in una lunga serie d’anni. Tanto è vero questo, che,
mentre i maggiori reati, specie contro le persone, che rappresentano
cioè in prevalenza la delinquenza congenita e per alienazione mentale,
offrono una costanza di ritmo, veramente straordinaria, con lievi
aumenti e diminuzioni, il movimento generale della criminalità, invece,
prende la sua fisonomia da quei piccoli ma molto numerosi reati contro
le proprietà, le persone, l’ordine pubblico, che più hanno l’indole
occasionale, e, quasi microbi del mondo criminale, più direttamente
dipendono dall’ambiente sociale»[122].

Innanzi discorremmo della influenza esercitata dalle necessità sociali
sul delitto. La società, comunione di beni e di mali tra gl’individui
che ne partecipano, è la fonte delle condizioni e dei moventi alla
criminalità; è il terreno in cui germina il microbo del delitto. Grande
errore, peraltro, sarebbe confondere il terreno adatto alla cultura
con la forza germinativa del seme in esso sparso. Il fattore sociale è
secondario in paragone del fattore antropologico; l’evento criminoso
è effetto psichico dell’individuo, fuori la sfera del quale le leggi
dinamiche non rientrano più nella serie dei fenomeni umani, ma nella
serie dei fenomeni materiali. È per l’individuo e con l’individuo che
le forze, fisiche o sociali che siano, si compongono e si unificano in
formazioni psichiche coscienti; il delitto è una di queste formazioni.
Il che, altresì, è dimostrato dall’argomento, che l’estremo del danno,
privato e pubblico, prodotto dalle nostre azioni, attinge il carattere
di punibilità, o di ragione di mera risarcibilità civile, dall’elemento
soggettivo del fatto. Dunque, sia come genesi dinamica, che come
effetto di nocumento, nella criminalità è in prevalenza il fattore
individuale antropologico sul fattore sociale. Le quali osservazioni
smentiscono in parte le conclusioni a cui il Ferri è pervenuto.

=8.=—Dall’individuo alla società, dalla società alla storia, la vita
del delitto, con ritmo statico e dinamico di aumento e di diminuzione,
con effetti ora integrativi dei processi di squilibrio psicofisico
ed ora dissolutivi della personalità, permane con costanza di
organizzazione e di effetti.

La statistica, nel significato di scienza e di metodo, ha il fine di
apprestarci i dati numerici e le leggi onde conoscere i processi vitali
del delitto nei limiti di spazio e di tempo: perchè ella vi riesca,
non deve trascurare due cose: _a_) il significato logico da attribuire
al calcolo di probabilità degli avvenimenti criminosi; _b_) i termini
delimitativi di cotesto calcolo.

Laplace disse: la probabilità è relativa in parte alle nostre
conoscenze ed in parte alla nostra ignoranza.—Ed, inoltre, spiegò:
«tutte le nostre conoscenze non sono che probabili; e nel piccolo
numero delle cose che noi possiamo sapere con certezza, nelle medesime
scienze matematiche, i principali mezzi di pervenire alla verità, la
induzione e l’analogia, si fondano su probabilità.»[123]—Forse con più
esattezza, il nostro Mario Pagano osservò: «Il regno della probabilità
è confinante con quello della certezza, ma è diviso da quello. La
massima probabilità si ha per certezza, ma è distinta da quella. Nelle
probabilità la mente non vede nè intuitivamente la verità, nè per
necessaria dimostrazione, ma per congettura, la quale, più o meno, si
può avvicinare alla dimostrazione. In questa la mente intuitivamente
vede la necessaria connessione della media idea cogli estremi della
proposizione, onde conchiude la necessaria connessione dei due
estremi»[124].

Ritenuto, che il grado di probabilità degli avvenimenti percepibili
sia in ragione degli argomenti concorrenti ad aumentare in noi la
possibilità dello stato di certezza, si conclude che quanto più
cotesti argomenti poggino su nozioni inconcusse di principî e di leggi
affatto naturali, altrettanto debbono influire a fermare in noi il
convincimento logico di certezza degli avvenimenti.

Nei dati statistici criminosi il calcolo di probabilità deve,
innanzitutto, fondarsi sulla conoscenza delle leggi psicologiche,
individuali e collettive, del processo evolutivo e dissolutivo
dell’evento del delitto; la quale conoscenza ci agevolerà il lavoro di
rilevazione dei dati e ci faculterà alla migliore scelta comparativa
degli stessi. Nè basta: la probabilità deve estendersi tra due limiti
estremi di conoscenza; il primo, soggettivo, consistente nella nozione
sintetica delle leggi proprie della _energia criminosa_; il secondo,
obbiettivo, consistente nelle prescrizioni della legge penale,
racchiudenti la semplificazione delle differenti specie di delitti. Ma,
perchè si ottemperi a tutto ciò, la statistica criminale, invece che
attenersi alla legge o, meglio, ai mezzi dei grandi numeri, deve aver
cura di compiere le sue osservazioni sul cumulo dei casi studiati con
i lumi o con i criterî desunti dalle leggi della psicologia criminale.
L’aumento o la diminuzione per questo o quel motivo sociale è scevro
di valore scientifico, se non si conosca l’azione dinamica del motivo
sulla genesi e la organizzazione vitale e permanente del delitto
nell’ambiente sociale o storico. È desiderabile, quindi, tra i mezzi
pratici usati dalla statistica, di aggiungere un giudizio definitivo o
sintetico del _perchè_ del delitto e del _come_ siasi venuto producendo
nel prevenuto: acciò, raccogliendo dopo un periodo di tempo tutti
cotesti giudizî, si abbia la cognizione della equivalenza psichica e
sociale dei fattori dinamici del delitto, e si scovrano le leggi onde
la energia criminosa permane organicamente vitale attraverso le forme
sociali e storiche.

=9.=—È da aggiungere, oltre a ciò, che, nella pratica, le norme della
psicologia criminale generale riuscirebbero insufficienti ad illuminare
il lavoro statistico: la relatività abbastanza nota del modo onde, in
luoghi assegnati, il delitto funziona, ci apprende che, per ottenere
risultati statistici probabilmente esatti, occorra conoscere, in
precedenza e bene, la psicologia criminale _etnografica_ della regione
sulla quale cadono le nostre ricerche.

È qui opportuno ricordare due osservazioni del Quetelet: la prima,
che le piante e gli animali sembrano, come i mondi, obbedire alle
leggi immutabili della natura, e queste leggi si verificherebbero
senza dubbio colla stessa regolarità per gli uni e per gli altri,
senza l’intervenzione dell’uomo, il quale esercita sopra sè stesso e
sopra tutto ciò che lo circonda una vera _azione perturbatrice_, la
cui intensità pare svolgersi in ragione della sua intelligenza, ed i
cui effetti sono tali, che la società potrebbe non rassomigliarsi più
in due epoche diverse[125];—la seconda osservazione è, che l’uomo,
in società, sia l’analogo dei centri di gravità dei corpi; esso è la
media intorno a cui oscillano gli elementi sociali; sarà, se vuolsi, un
essere fittizio pel quale le cose tutte accadranno in conformità dei
risultati medî ottenuti per la società[126].

L’uomo è forza perturbatrice dell’imprescindibile funzionamento delle
leggi di natura, ed è altresì il centro di gravità dei fenomeni
sociali. Dunque il primo e principale còmpito della psicologia
criminale etnografica è di esaminare la _genesi e lo svolgimento del
processo di perturbazione della energia criminosa considerata centro
di gravità di elementi sociali omogenei in data località_. Il detto
còmpito è complesso e si risolve negli infrascritti doveri: _a_) esatta
descrizione della regione scelta ad esaminare; rilievo di tutti i dati
fisici che hanno relazione col fenomeno del delitto; _b_) rassegna dei
costumi, delle credenze, dei pregiudizî, che influir possono a generare
e ad aggravare i moventi criminosi; _c_) rilevazione delle principali
note antropometriche in massa secondo la età, il sesso, le condizioni
sociali ed economiche; _d_) apprezzamento delle qualità _anomale_ ed
_atipiche_, ereditarie o transitorie.

Dopo coteste notizie di fatto, si ha l’obbligo, servendosi di nozioni
psicologiche, di attendere a considerazioni, affatto soggettive, sulle
persone, con l’assodare il grado medio di sensibilità generale, di
coltura, di proclività a credenze etiche, a principî di progresso,
ad abiti di civiltà. L’ultima specie di considerazione mette capo
al dettame spenceriano, che la morale non sia che adattamento alle
buone abitudini, e deve reputarsi il concetto sintetico delle qualità
psichiche individuali e collettive, poichè quanto appartiene alle
nostre facoltà affettive e volitive presuppone il fondamento della
sensibilità e della intelligenza.

Compiuto il lavoro di analisi, si passerà a fissare, con ordine
regolato da vedute scientifiche, le specie di tendenze criminose
locali, compartendo la serie dei delitti in categorie generali; ad
esempio: _a_) delitti contro la persona (fisica e morale); _b_) delitti
contro la proprietà (semplici o aggravati); _c_) delitti appartenenti
alla vita morale e fisica di relazione (violazioni della fede pubblica
e privata, della libertà, del buon costume, ecc.).

Estimandosi le tendenze criminose, si avrà cura di rammentare quel che
si debba alla costituzione organica e psichica, alla tradizione di
credenze, usi e pregiudizî, alle peculiari anomalie e, segnatamente,
alle più abituali passioni pel giuoco, per l’alcool, e via dicendo.

Lo statista—volendo, in ultimo, tirare delle leggi di _stato_, della
criminalità, o di _sviluppo_—si avvedrà, che gli elementi numerici
sono, in concreto, l’indice, oscillante ma indicativo, della genesi ed
evoluzione della vita del delitto nelle tre fasi, individuale, sociale
e storica. Adempiendo a questo intento, egli appresterà alla nostra
disciplina il sussidio numerico del calcolo, ossia avvalorerà le sue
leggi con dati probabili sì, ma che rendono meno astratte e più reali
le nostre conoscenze.



CAPO XIII.

Teoria dinamica della Imputabilità.


 1. Equilibrio interno ed esterno delle forze; l’idea ed il
 sentimento di giù. stilla.—2. Che cosa s’intenda per _principio di
 causalità_.—3. I tre concetti onde risalta la imputabilità; intento
 della psicologia criminale.—4. I due problemi fondamentali della
 imputabilità, quello etico e quello del determinismo giuridico:
 significato e contenuto della morale positiva.—5. La _necessità
 effettuale_; il determinismo organico o determinismo vitale;
 conseguenze rispetto alla imputabilità.—6. Svolgimento della teoria
 dinamica del dolo.—7. Dovere, in pratica, di attenersi agli elementi
 proprî del _dolo specifico_ di ciascun reato.—8. Dottrina del
 _temperamento_.—9. I due metodi per la indagine del dolo; il metodo
 obbiettivo.—10. Il metodo subbiettivo: principio fondamentale della
 _induzione_; tentativo d’una logica della psicologia.—11. Norme
 imposte al giudice nella indagine del dolo.—12. La prova del dolo nei
 processi indiziarî; la _ipotesi_ del fatto imputabile.—13. Teoria
 della _colpa_.—14. Psicologia della _prevedibilità_ nella colpa.—15.
 La _disattenzione_ e la colpa.—16. Teoria del _caso_.

=1.=—Il delitto, abbiamo dimostrato, è, nel ritmo composto
dell’aggregato dinamico sociale, un centro di attività con moto
divergente, ossia con azione disturbatrice dell’armonia delle forze
consociate pel comune scopo di progressivo benessere. Abbiamo eziandio
accennato alla verità del principio spenceriano, che la coesistenza
universale delle forze antagoniste, che produce l’universalità del
ritmo e la decomposizione di tutte le forze in forze divergenti, rende
anche necessario l’equilibrio definitivo.

Per meglio comprendere le conclusioni, alle quali perverremo, dobbiamo
ricordare talune verità chiaramente svolte dallo stesso Spencer:
che, cioè, «quei fenomeni, che chiamiamo, subbiettivamente, stati di
coscienza, sono obbiettivamente modi di forza: che una certa quantità
di sentimento corrisponde a una certa quantità di moto: che il
compimento di un’azione corporea qualunque è la trasformazione di
una certa quantità di sentimento nell’equivalente quantità di moto;
che quest’azione corporea lotta con varie forze e viene impiegata
per vincerle; e in fine, che ciò che rende necessaria la ripetizione
frequente di quest’azione è il frequente ritorno delle forze che da
quest’azione devono esser vinte. Perciò l’esistenza in un individuo di
stimoli emozionali, che siano in equilibrio con certe esigenze esterne,
è alla lettera la produzione abituale di una porzione specializzata, di
energia nervosa equivalente a un certo ordine di resistenze esterne,
che essa abitualmente incontra. Così l’ultimo stato formante il limite,
verso cui l’evoluzione ci conduce, è uno stato in cui le specie e
le quantità di forze mentali ogni giorno prodotte e trasformate in
movimento sono equivalenti ai diversi ordini e ai diversi gradi delle
forze ambienti che lottano con questi movimenti o sono con essi in
equilibrio»[127].

Ritenuto, che il delitto sia un centro di attività perturbatrice
dell’ordine sociale, esso rappresenta un’azione divergente dallo stato
o intento di equilibrio definitivo al quale volgonsi le azioni degli
individui, siccome ad ultima mèta dei loro sforzi per procacciarsi il
miglior bene desiderabile. Indi è che, per naturale legge dinamica,
all’azione perturbatrice del delitto debba contrapporsi la reazione
della collettività; il che avverrà con quei modi che comporta il grado
di progresso sociale, secondo la necessità di soddisfare bisogni
conformi allo stato della umana coscienza etica e giuridica.

Avvisata soggettivamente, cotesta umana tendenza alla integrazione
dell’equilibrio sociale ha dato origine al primitivo sentimento ed
alla prima idea di giustizia; ciò che è avvenuto per l’affermazione
dell’istinto di egoismo contemperato dalla consapevolezza di
limitazione della libertà propria a garanzia della libertà altrui.
«L’affinità, la vite, la psiche—scrive Ardigò—scaturiscono dalle
stesse forze onde esistono i loro soggetti; e ne rappresentano
la risultante, che, come tale, si distingue specificamente dalle
forze producenti medesime. E così la giustizia scaturisce dalle
stesse autonomie prepotenti degli individui, ed è la _specie
distinta di essere_ risultante naturalmente dal loro contemperarsi
insieme»[128].—E lo Spencer: «è chiaro che il sentimento egoistico
della giustizia è un attributo subbiettivo, il quale corrisponde a
quella esigenza obbiettiva che costituisce la giustizia, l’esigenza,
cioè, che ogni adulto riceva gli effetti della propria natura e
conseguente condotta. Perchè, se tutte le facoltà non hanno libertà di
esercitarsi, questi effetti non possono essere ottenuti nè sofferti,
e se non esiste un sentimento, il quale favorisca la conservazione di
un campo adatto a questa libertà, il campo sarà invaso ed il libero
esercizio delle facoltà sarà impedito»[129].

=2.=—Chi desideri approfondire i concetti su esposti, vedrà che la
loro origine sia il principio di _causalità_, immanente in tutte le
nostre cognizioni.—Per principio di causalità vogliamo intendere la
sintesi di due termini: d’una idea di _successione_ di più fenomeni, e
d’un rapporto di _necessità_ pel passaggio dall’uno all’altro fenomeno.

Non disputiamo, chè non sarebbe il luogo, se il _principio di
causalità_ derivi dall’osservazione puramente sensibile della costante
vicissitudine delle cose (Locke): ovvero se non sia che semplice
rapporto di successione da noi riguardato costante in virtù del ricordo
e dell’associazione delle idee (Hume); o se appartenga alla interna
potenza degli atti di coscienza, ossia alla volontà (Maine de Biran);
o se, lungi dall’essere un prodotto empirico, sia uno degli elementi
constitutivi, uno dei principî della nostra facoltà di conoscere,
una delle _categorie_ (Kant): per noi, com’è detto, nel principio di
causalità deve entrare un elemento sensibile, la successione, ed un
elemento soggettivo sorto dalla certezza sperimentale intorno alla
conservazione della energia attraverso le trasformazioni dei fenomeni;
il che importa che questa conservazione, a condizioni date, produce
costantemente dati effetti, e che l’elemento soggettivo o rapporto
causale tra le cose sia _necessario_.

=3.=—Nella parola _imputabilità_, generalmente, non si suol vedere
che il significato giuridico, quantunque questo significato abbia
per presupposto il senso logico di relazione di causa e di effetto.
L’agente, si dice, fu causa del maleficio; dunque egli deve esserne
imputato. Chi, peraltro, spinga innanzi l’esame, vedrà che il nesso
causale suppone, alla sua volta, il concetto di _necessità_, il quale
racchiude due termini, l’uno logico e soggettivo, e l’altro obbiettivo.
Il termine logico si converte nel noto principio di contraddizione,
che ciò che è non può non essere; il termine obbiettivo si identifica
nella legge universale della conservazione della forza e della materia,
ossia nella legge della sostanza, secondo la teoria di Haeckel. Laonde
nella imputabilità conviene distinguere: _a_) un concetto fondamentale
dinamico, che si converte nell’equivalente reale dell’energia
criminosa; _b_) un concetto logico, di necessità di causa e di effetto;
_c_) un concetto giuridico, di sanzione legale, che attribuisce
all’autore del fatto punibile la responsabilità delle conseguenze.

La psicologia criminale, occupandosi della genesi dell’imputabilità,
ha l’obbligo di far principio dall’elemento fondamentale dinamico, dal
quale, pel processo evolutivo, i coefficienti psicofisici mano mano si
determinano, a cominciare dalla efficacia del motivo infino agli atti
della volizione e dell’azione.

I seguaci della scuola antropologica o, in genere, dell’indirizzo
positivo del diritto penale, ritengono che la repressione del reato
sia coonestata dal dovere di difesa sociale; ma donde il dovere di
difesa se non dalla necessità naturale di ristabilire quell’equilibrio
di energie collettive turbato dall’azione anomala del delinquente?
Il delitto disintegra o tende a disintegrare l’aggregato; la legge
repressiva si sforza di reintegrarlo. Ciò—nel ritmo della vita
sociale—non è che contrasto od antagonismo di forze con tendenza
all’effettuazione di equilibrio definitivo. La energia criminosa,
ritraendo della genesi di stato psicofisico di esquilibrio, rompe
l’armonia funzionale dell’organismo collettivo: la legge, prevedendo
i tristi effetti, è sollecita di apprestare il rimedio; il che si
converte in minaccia di pena contro l’autore del fatto, ossia in
sanzione legale di quella imputabilità che ha la origine naturale e
logica nella esplicazione della energia criminosa.

=4.=—Le esposte idee ci richiamano a meditare su due problemi, che
sono base della imputabilità; il problema etico dei principî direttivi
dell’umana condotta, ed il problema del determinismo giuridico.

Bandito dalla scienza positiva l’indirizzo dualistico, ed accettata
la concezione monistica unitaria, anche la scienza della morale,
informata al principio di relatività, si è liberata dalle astrazioni
trascendentali metafisiche, restringendosi alla constatazione dei
rapporti esigibili tra i componenti l’umano consorzio. «Spetta
al secolo XIX—scrive il Morselli—il vanto di avere concepita e
formata una morale empirica o scientifica, indipendente, utilitaria,
trasformistica, sociologica, ossia naturale ed umana nel vero
significato dei termini. _Empirica_, perchè trae i suoi principî
unicamente dalla esperienza, al pari d’ogni altra disciplina
scientifica; _indipendente_, perchè si è liberata dal giogo che
le avevano imposto le religioni ed ha acquistata piena autonomia;
_utilitaria_, perchè prende di mira unicamente il bene che è poi
l’utile collettivo, e a questo dirige e prescrive la condotta
dell’individuo, non senza dimenticare il vantaggio dello svolgimento
delle attività individuali; _trasformistica_, perchè si risolve in
uno sviluppo di sentimenti che non mancano nell’animalità inferiore e
portano nell’uomo soltanto la impronta di essere resi coscienti a causa
del loro rappresentarsi all’intelletto; infine, _psico-sociologica_,
perchè desume l’esistenza del senso etico dall’analisi degli elementi
costitutivi della natura umana, così nell’individuo come nella specie e
razza»[130].

=5.=—Non più, quindi, l’idea del bene, del dovere, della
responsabilità morale, alla dipendenza da concezioni trascendentali
di ordine o religioso o metafisico; ma insita alla natura umana,
alla immanenza dei fattori naturali di cui questa è il risultato;
non difforme dalla produzione di fenomeni causati dalle leggi della
dinamica universale. La _necessità effettuale_ non è la fatalità delle
umane azioni, chè queste non sono preordinate da entità estranea al
corso spontaneo delle cose, ma obbediscono al processo evolutivo di
permanenza delle energie attraverso le successive forme esteriori.
Niuno dubitò che i fenomeni fisici e chimici fossero il risultato di
leggi che, a condizioni uguali, dessero luogo ad identici effetti:
Claudio Bernard dimostrò, che ciò dovesse eziandio ritenersi pel
determinismo organico o determinismo vitale, proclamando, che conoscere
il numero e l’ufficio di tutte le funzioni organiche, tale è il punto
di partenza del determinismo, ed il suo punto di arrivo è che l’armonia
la più rigorosa sia anche la legge delle cose della vita: perchè non
dovrebbe il medesimo principio spiegarci i fenomeni psichici, che
degli organici hanno la identica origine dinamica?—Quest’ultima
verità sperimentale contiene e riassume la dottrina da noi fin qui
svolta intorno all’evento psichico del delitto; ed abbiamo voluto
esplicitamente enunciarla, perchè essa modifica di molto quanto già
ritenemmo e propugnammo altrove circa il fondamento etico della
imputabilità[131].

=6.=—Alla dottrina della imputabilità appartiene la teorica del
_dolo_ e della _colpa_. Ne parleremo nei limiti richiesti dal nostro
assunto esclusivamente psicologico; ciò che faremo riferendo quello che
scrivemmo parecchi anni or sono, e che, meno per alcuni concetti ed
opinioni meglio svolti e corretti, resta tuttavia, in chiara sintesi, a
delineare la teorica dinamica ampiamente esplicata in questo libro.

Nella dottrina del dolo—noi scrivemmo—[132] debbono concorrere: _a_)
un fattore iniziale; _b_) un fattore psicologico; _c_) un fattore
fisio-psicologico; _d_) un’attività cosciente.

Qualunque forza in azione ha un principio ed un fine; un prima ed
un poi. Il principio è dato dall’azione impulsiva di altra forza
con cui si è in contatto; il fine dall’esaurimento dell’energia, o
dell’attitudine in atto. Quando, dunque, diciamo _fattore iniziale_,
vogliamo intendere la nozione complessiva del movente, cui si è
passivo, e della efficacia impulsiva esercitata sulla nostra forza. Da
questo momento comincia il processo di trasformazione della energia
passiva in energia attiva dell’io; il tempo, che vi occupa, è maggiore
o minore a seconda la maggiore o minore attitudine _qualitativa_
del movente rispetto alla nostra forza ed al grado di resistenza
determinato o da precedente nostra conformazione o da stato transitorio
poco conforme all’adattamento circa l’azione dello stimolo. Anzi,
succede che, se lo stimolo agente è interno, l’adattamento è più
agevole, perchè tutto ciò che si presenta coi caratteri o di sentimento
o di idea partecipa di già sostanzialmente con la natura della nostra
psiche; non essendo logico concepire, che una forza si determini in
dato effetto senza che ne abbia conformità di attitudine. L’azione
o la _efficacia_ d’un’idea, come diceva il Romagnosi, sulle nostre
facoltà psichiche ha tutti i caratteri impulsivi degli stimoli esterni:
mentre, per questi, il periodo iniziale è la sensibilità fisica, per
l’idea è il sentimento (o il _tono sentimentale_): la differenza è nel
momento evolutivo della energia in atto; ma le due forme di agenti si
identificano nella passività psichica. Ed è facile capire che, avuto
lo stimolo, si è stabilita una relazione o di accordo o di opposizione
tra due energie, le quali o tendono ad equilibrarsi, o si collidono:
nel primo caso la risultante ha maggiore vigore e si converte nella
intima soddisfazione, che è il grado primo del _piacere_; nel secondo
caso, o l’impulso vince, e si ha il primo grado della _coazione
psichica_; o è vinto, e la _spontaneità_ di facoltà si converte in
attitudine all’azione. La coscienza di questi primi stadî dell’attività
psichica è sottoposta a delle restrizioni notabili: se l’impulso
viene dall’esterno, dobbiamo distinguere se appartenga e formi parti
dell’ambiente in mezzo a cui viviamo, ovvero se sorga isolatamente da
accidentalità di relazioni; nella prima ipotesi, la trasformazione
di energia avviene a nostra insaputa, inconsciamente; nella seconda
ipotesi, ci è dato accorgercene quando altro stimolo simultaneo non
ci preoccupi l’attenzione. E la coscienza, ridestandosi, non fa
che notare il nesso di _tempo_ o di _successione_ tra la esistenza
esterna dello stimolo e la esistenza interna; il che è dato dalla così
detta percezione sensitiva, intesa nel significato di affermazione
della esistenza di un certo che estraneo al nostro organismo e che
col medesimo si è messo a contatto. Se lo stimolo è interno, ovvero
nasce da idea prevalente sulle rimanenti, le quali nella simultaneità
mentale si addimostrano, bisogna eziandio distinguere se essa idea
sorga nuova, ovvero abbia dei lontani germi in idee precedenti: nella
prima ipotesi, la sua efficacia può essere minima o massima a seconda
l’indole o natura speciale che la distingue e la rende conforme alla
serie delle idee e dei sentimenti con cui si connette nello stato
attuale interno; nella seconda ipotesi, la efficacia è più forte,
perchè l’origine latente, cui si riattacca, risulta a maggiore qualità
di adattamento alla nostra psiche, ed a maggiore facoltà di resistenza
con le idee concomitanti e che hanno tendenza di prevalere.

La coscienza, in questa duplice ipotesi, è in ragione non solo del
grado dello stimolo, ma dei precedenti stati di abitudine: poichè,
se le idee stimolanti, o idee consimili, abbiano altra volta fatta
apparizione nel mondo psichico, la coscienza, essendosi alquanto
adattata passivamente, è meno atta a sorprendere il nuovo stato
transitorio della interna attività: ma, se la idea è nuova, la
coscienza ne avverte di più la presenza o ne sopporta l’azione.

Nei descritti fatti, oltre che aver delineato il fattore iniziale
del dolo, abbiamo anche compreso il fattore fisiologico ed il
fisio-psicologico. Si comprende, in vero, che nel fatto complesso della
coscienza, con significato il più ordinario a concepirsi, lo stato
fisiologico dell’individuo è il primo dato permanente di qualunque
interna modificazione.

E se abbiamo distinto il fattore fisiopsichico, ciò è per indicare
il momento di passaggio dallo stadio della passività, esterna o di
percezione sensitiva ed interna o di sentimento, allo stato di attività
cosciente od incosciente.

Arrivati a segnalare l’apparire della coscienza, adempiremo l’assunto
di studiare la sua attività nei diversi gradi onde suole funzionare.

La efficacia dello stimolo, attuatasi, addiviene _motivo_; vale a
dire partecipa l’azione meccanica o dinamica all’io, mettendolo in
grado di agire in un modo ovvero in un altro. La coscienza, a questo
punto, passa dallo stato di quasi passività al primo stadio di
attività: poichè le energie concorrenti, di idee e di sentimenti, si
attuano con speciale direzione e mostrano già di essere indirizzate a
determinato sogno. Se il simultaneo sorgere di qualche altro stimolo
non viene o a frenare, reagendo, o a rivolgere altrove l’attività
iniziale, il primo motivo si trasforma in impulso vittorioso, ed alla
mente si rappresenta, non già con i caratteri di agente o di stimolo,
ma di _fine_ ultimo da raggiungere, siccome mèta dell’azione. La
mente, usando della sua _razionalità_, vede il nesso _causale_ fra il
carattere d’_impulso_ del motivo e quello di _fine_, e _delibera_ se
dar corso all’attività iniziata, ovvero arrestarne la tendenza. Ed in
che modo ciò può avvenire?

Nella collisione delle energie dei motivi comprendesi che la prevalenza
è di chi abbia maggior forza; ma non è così nel rapporto tra il motivo
e la psiche. Il motivo, di qualunque origine e natura, non ha che
efficacia dinamica; nella psiche evvi, per di più, energia _razionale_,
cioè consapevole dei proprî atti, o tale da seguire il corso di
qualsiasi spinta, con la coscienza di finalità. È qui, veramente, il
problema psicologico, e noi non ne sappiamo dare che la dimostrazione
per analogia con le restanti forze naturali.

Come l’_affinità chimica_, la forza _vitale vegetale_ e la _vitale
animale_ diconsi prevalere ciascuna in un piano particolare di
esistenza, similmente nei fenomeni umani la forza razionale è la
predominante nel grado più elevato di funzione psichica, e quella
che, ritraendo del risultato quantitativo delle coefficienze di
energie concorrenti, si spiega nell’attività di funzione circa la
scelta di mezzi, i quali debbono procacciarle la soddisfazione di
un bisogno. Insomma, il _motivo_ comunica alla psiche la energia
meccanica; ne ritrae il carattere di _razionalità_: dapprima agisce
da impulso, poscia acquista la natura di _scopo_ e rientra nella
sfera di spontaneità di elezione. Si comprende che, a questo punto,
la _determinazione_ comincia ad addivenire necessaria, obbedendo alla
_causalità_ del fine, la cui efficacia ideale assorbisce l’attività e
ci trasporta alla esecuzione del proposito, ovvero all’uso dei mezzi
prescelti.

Riassumendoci, diciamo, che nel _dolo_ vi è la sintesi delle facoltà
psichiche dirette a divisato scopo; la quale sintesi consta: _a_) di
un _motivo_ convertibile in _iscopo_; _b_) di una _scelta_ di mezzi
adatti all’azione; _c_) di una _determinazione_ ad agire. Ai quali
fattori occorre aggiungere, che, quantunque lo scopo, talfiata, sia
conseguibile per le vie legali, la immoralità dei mezzi è sempre
intrinsecamente riprovevole e perciò causa di sanzione penale. Ond’è
che il dolo può definirsi: _La determinazione Ai scelta di mezzi
rivolti a fine criminoso_. Dico _determinazione di scelta_ per segnare
il vero momento psicologico in cui la passività mentale si trasmuta in
attività cosciente, cioè nel vedere, misurare ed eleggere quei mezzi,
i quali, in sè medesimi, contengono la prova della deliberazione,
o inclinazione a raggiungere un fine piuttosto che un altro; ossia
di correr diritto, per esempio, alla soddisfazione del desiderio di
vendetta, piuttosto che attenersi alla garentia della legge, per
vedersi fatta giustizia di qualche offesa ricevuta. Dico, inoltre,
_mezzi rivolti a fine criminoso_, per esprimere, non solamente la
natura della deliberazione, ma eziandio la qualità dei detti mezzi,
ed il fine speciale cui sono indirizzati perchè servissero ad effetti
imputabili penalmente. Trovo del Nani la seguente osservazione
degnissima di essere ricordata: «La determinazione della volontà
dipende dall’agire la medesima per un principio intrinseco della
sua attività e dall’avere una forza elettiva regolatrice delle sue
operazioni, per cui fra gli oggetti rappresentati dall’intelletto
siasi scelto quello che si poteva rifiutare. L’intelletto è quella
facoltà con l’uso della quale si conoscono e si distinguono le qualità
assolute e relative di più oggetti, si scuopre la loro convenienza
o disconvenienza, e colla istituita comparazione tra le diverse
conseguenze, che ne risultano o possono risultarne, si viene a
deliberare sulla preferenza dei motivi in vista di cui la volontà si
determina piuttosto all’un oggetto che all’altro»[133]. Come vedesi,
alla mente del Nani non sfuggiva punto l’intrinseco principio attivo
della volontà in correlazione della forza elettiva o della funzione
dell’intelletto di deliberare sulla preferenza dei motivi; il che, in
complesso, adombra l’odierna teorica dinamica della energia criminosa,
completata dall’applicazione della legge della conservazione delle
forze e della prevalenza qualitativa e quantitativa di una energia
sulle altre concorrenti alla formazione dei fenomeni della natura.

=7.=—Fin qui secondo quello che, come ho detto, ebbi a scrivere
parecchi anni or sono. Nondimeno, son di avviso, che la dottrina
del dolo, enunciata nelle linee generali o in termini di principî
teoretici, nella pratica non abbia che valore molto relativo. Se
ne accontenterà lo scienziato, ma il giudice non ne avrà nessun
giovamento; anzi potrebbe, nè è raro il caso, esser per lui motivo di
difficoltà ed incertezza quando volesse farne scrupolosa applicazione
ai fatti sui quali debba dare il giudizio.

Invece, tornerà utilissimo prescindere dalle nozioni puramente
dottrinarie intorno al dolo in genere, ed approfondire l’analisi delle
qualità e degli elementi proprî di questo o di quel dolo specifico;
vale a dire dedurre i coefficienti psicofisici di ciascun evento
soggettivo criminoso dal genere e dall’indole di ogni singolo delitto.

E non basta. Alla stessa guisa che in medicina, così in tema di
imputabilità, più che fissarsi alle norme generali scientifiche, molto
giova osservare e curare l’individuo. Nella disparità irreducibile,
perchè eminentemente mutabile, di qualità psicofisiche individuali,
l’obbligo del giudice è di non dipartirsi dalle accidentalità di fatto
e dagli elementi soggettivi che lo prepararono e lo causarono. Però,
siccome con l’abbandonarsi, egli, ai mutabili ed indefiniti concetti
accidentali, molto facilmente incorrerebbe nel sistema d’una casistica
pericolosa, stimiamo porre dei limiti alle indagini, noti, non che per
le nozioni finora svolte, per le osservazioni che aggiungeremo.

=8.=—Il fondo psicofisico o soggettivo dell’individuo è racchiuso
nella specie del suo _temperamento_. Gli antichi ne compresero
l’importanza e si adoperarono, con teorie e distinzioni a sufficienza
esatte, di delinearne il concetto scientifico. Il Wundt osserva, che
«ciò che l’eccitabilità è per rapporto alla sensazione sensoriale,
è il temperamento per rapporto alla emozione ed all’istinto. Noi
possiamo discernere una eccitabilità permanente e, in ricambio,
delle oscillazioni continue di questa eccitabilità; parimenti,
il temperamento apparisce, si manifesta sia come permanente, sia
sotto forma di accessi variabili, i quali possono dipendere da
cause esterne ed interne»[134]. Il temperamento è la risultante di
fattori individuali; non è solo la somma di questi fattori, ma la
caratteristica che investe e dirige le nostre tendenze e le facoltà ad
agire in quel modo onde l’una azione dall’altra è differenziata.

Il Béhier avvertiva di doverci guardare dal confondere il temperamento
con la costituzione e la idiosincrasia. Son tre espressioni che
soglionsi scambiare, perchè esprimono insieme uno stato generale
dell’economia; ma la parola _temperamento_ esprime la predominanza
d’un sistema funzionale sugli altri; esso può ben avere della
influenza sulla costituzione; questa, però, offre dei tratti speciali.
Per costituzione deve intendersi lo stato generale che risulta
dall’azione collettiva dei differenti atti dell’economia e nel quale
l’influenza del temperamento entra per la sua parte. L’idiosincrasia,
al contrario, è una disposizione generale, che determina una tendenza
particolare, più o meno accentuata, a contrarre o ad evitare tale o tal
forma patologica. Il temperamento, la costituzione, verisimilmente,
concorrono al suo sviluppo; ma questo è affatto ipotetico, e, al di
fuori di queste due ultime influenze, si ritrova la idiosincrasia, che
noi non possiamo in verun modo riconoscere _a priori_, che giudichiamo
per i suoi risultati sovente sì straordinarî e costituenti un fatto la
cui causa ci è interamente sconosciuta.

=9.=—Il fatto imputabile è noto al giudice in forma o espressione
sintetica. Egli non lo conosce che per quanto gli vien riferito per
testimoni o gli è appreso per documenti. Come farà ad estimarne le
circostanze, onde risalire alla conoscenza della esistenza, qualità e
quantità del dolo?

Il giudice ha dinanzi a sè due metodi, dei quali debba servirsi:
l’uno obbiettivo, l’altro subbiettivo. Il metodo obbiettivo consiste
nella raccolta ordinata di tutte le circostanze, che precedettero,
accompagnarono e seguirono il fatto delittuoso; nel fissare il motivo
od i motivi, i quali agirono a suscitare il desiderio o la spinta
dell’azione, il grado approssimativo di importanza del motivo o dei
motivi medesimi, nonchè le prove apparenti onde il soggetto ebbe a
dimostrare di averne risentiti gli effetti. I precedenti del delitto
sono riducibili alle cause, o permanenti ovvero occasionali, di nuovi
rapporti interceduti tra l’autore del fatto e chi ne fu la vittima;
tra lo stato psichico dell’agente, prima che in lui si destasse
il desiderio o la spinta al mal fare, ed il tempo in cui l’interno
mutamento si verificò; tra il primo impulso criminoso e la serie degli
atti esterni rivelatori della lotta sostenuta per schivare od evitare
il delitto; tra il grado di efficacia del motivo o dei motivi e la
energia criminosa addimostrata nel momento dell’azione.

Le circostanze concomitanti formano il cumulo degli argomenti per
stabilire, non che il genere e la specie del delitto, la prova di
_relazione causale_ tra il motivo od i motivi e l’azione; ciò che
induce la mente a ravvicinare i due punti estremi del decorso storico
del delitto, il momento della genesi soggettiva del proposito ad agire
in controsenso alla legge, ed il momento in cui la interna energia si
appalesa nell’attività esterna. In fine, le circostanze susseguenti al
fatto, tuttochè sovente non abbiano interessante relazione con gli atti
incriminabili, debbono, nondimeno, ben investigarsi, perchè possono
essere indizî o prove sicure di ciò che il delinquente ha voluto
conseguire col suo operato. Si ricordi, che nel processo logico del
delitto il _motivo_ ad agire si trasforma in _intento_ dell’azione;
di guisa che la prova del fine d’una serie di atti interni ed esterni
è per noi il materiale logico per non smarrire la via nel risalire,
dall’ultimo atto operato, alle prossime e lontane cagioni che ci
spiegano il perchè ad agire.

=10.=—Il metodo subbiettivo poggia sull’uso della _induzione_ aiutata
dallo sforzo di connettere le proprie rappresentazioni del fatto alla
serie delle circostanze storiche dello stesso.

La induzione—e chi lo ignora?—ha la base sul principio di uniformità
dei fenomeni della natura; il che avviene, non soltanto in senso
generale, ma eziandio particolare, nel senso cioè, secondo Bain,
che nella uniformità della natura vi hanno delle categorie le quali
sono, per dir così, radicalmente distinte l’una dall’altra: di guisa
che la espressione _legge della natura_ dev’essere considerata come
l’equivalente di due affermazioni: 1^o che la natura sia uniforme;
2^o che questa uniformità comprende un gran numero di uniformità
distinte[135].

Il Bain, in applicazione dei principî generali deduttivi ed induttivi,
volle gettare le fondamenta d’una logica della psicologia; ed egli
credette di adempiere l’assunto esaminando il problema degli attributi
dello spirito, quello dell’unione costante dello spirito e del corpo,
e degli aspetti sotto cui si presenta ogni fenomeno dello spirito;
per indi trascorrere all’esame delle proposizioni psicologiche, dei
metodi logici della psicologia e della logica della scienza del
carattere[136]. Il tentativo, secondo me, rimase incompleto, perchè
il contenuto d’una logica della psicologia non deve arrestarsi alla
genesi ed alle forme degli stati di coscienza, ma deve suggerirci le
norme per riprodurre in noi, coordinare ed unificare i fatti della
psiche nel loro ordine temporale e spaziale; ciò che appartiene al
processo _rappresentativo_ degli altrui fenomeni psichici. Il metodo
di introspezione può essere adoperato sia per comprendere ciò che
intrinsecamente avviene in noi, che quanto sia stato prodotto per
sforzo di riflessione e di immaginazione sui ricordi di fatti e di
stati interni appartenenti ad altri: è così che noi abbiamo il mezzo,
in forma rappresentativa, di osservare, come per riflesso, i dati
soggettivi di importanti avvenimenti sociali, nati dalla vita di
relazione tra’ simili ed apparsi con effetti esterni. Esempio evidente
si ha nell’ufficio del giudice di investigare l’elemento soggettivo del
delitto. Qualunque logica formale circa la specie e la qualità di prove
giudiziarie sarà insufficiente se il giudice, ben usando del metodo
induttivo, non possegga la virtù di riprodurre e rappresentare in sè,
in forma almeno fugace, il processo interno dell’agente, connettendo
il tutto insieme obbiettivo del fatto a quel complesso di fattori
dinamici soggettivi, i quali debbono, in ultimo, farci consapevoli del
nesso logico di causalità tra l’evento psichico del delitto ed il suo
effettuarsi nell’azione.

=11.=—Abbiamo spesso ripetuto, che le nostre cognizioni son sottoposte
alla legge di _relatività_. Qui non intendiamo parlare di quella
relatività per cui Spencer, sulla scorta di Hamilton, concludeva,
che la realtà esistente dietro le apparenze è e deve sempre essere
sconosciuta; ma della relatività limitata alla conoscenza dei fenomeni
umani.

Una siffatta relatività dipende in parte dal soggetto, che conosce,
ed in parte dall’oggetto della conoscenza. Il psicologo, che vuol
comprendere le leggi di certi fenomeni dell’altrui coscienza, dovrebbe
aver tutte le attitudini e le opportunità di riprodurre in sè,
qualitativamente e quantitativamente, i detti fenomeni; la qual cosa è
impossibile che avvenga.

In oltre, pur ammesso che egli possegga le qualità richieste, si
troverà dinanzi a difficoltà che trascendono il di lui potere;
avvegnachè i fatti interni, perchè fossero esattamente riprodotti,
dovrebbero essere conosciuti nelle loro più lontane cagioni ed in tutti
gli infiniti rapporti casuali che sfuggono alla più minuta ed attenta
osservazione.

Abbiamo voluto richiamare il lettore sulle fatte osservazioni, perchè
vegga quanti siano gli ostacoli frapposti all’opera del giudice che
voglia adempiere il dovere di rendersi ragione dello stato soggettivo
e dell’elemento del dolo d’un imputato. Ciò non ostante, avverrà
pel giudice quello che avviene per ogni studioso di fatti psichici.
Egli deve aver cura, in primo luogo, di _condizionare_ le conoscenze
subbiettive del fatto, ricordando quel che Hamilton scriveva, che
_pensare è condizionare, e che la limitazione condizionale è la legge
fondamentale di possibilità del pensiero_.

Il giudice, per convincersi del perchè di avvenimenti affidati al
suo giudizio, dovrà saper distinguere e coordinare le circostanze
interessanti, eliminare le superflue e cogliere i punti impercettibili
che sono gli anelli intermedî tra le cose e che, poco apprezzati in
apparenza, sono in sè di inestimabile valore. Il secreto è di non
tralasciare verun dato che non sia, in precedenza, posto in relazione
con altri dati soggettivi antecedenti, poichè, al dire di Spencer,
«ogni completo atto di coscienza, con la relazione e la distinzione,
implica anche la rassomiglianza: prima che uno stato di coscienza
diventi idea o costituisca un elemento di conoscenza, deve non solo
essere conosciuto come separato di specie da certi stati anteriori,
coi quali è notoriamente in relazione di successione, ma deve anche
essere conosciuto come appartenente alle stessa specie degli stati
anteriori»[137].

Le ragioni di precedenti rapporti logici in parte si ricavano dalla
pratica della vita, in parte dalla psicologia comune e, massimamente,
dalla nostra disciplina: il risultato ottenuto, quale materiale del
giudizio definitivo, conterrà la certezza proporzionata al corredo di
coltura e di esercizio mentale individuale; avvegnachè, secondo lo
stesso Spencer, «una cosa è perfettamente conosciuta solo quando è,
sotto tutti gli aspetti, simile a certe cose previamente osservate;
e resta incognita in proporzione del numero dei rapporti in cui essa
differisce da quelle: in oltre, quando una cosa manca assolutamente di
attributi comuni a cose note, essa è assolutamente fuori dai limiti
della conoscenza»[138].

=12.=—Le maggiori difficoltà s’incontrano nella prova del dolo in
processi indiziarî. In questo caso il giudice procederà per via di
_ipotesi_. Egli, cioè, partirà, per la estimazione dei fatti, da
congetture che avranno più grande conformità sia con l’indole apparente
del reato, che con l’evento verificatosi. Bisogna, intanto, avvertire,
1^o che la ipotesi dell’avvenimento non sia nè arbitraria, nè ispirata
da impressioni passionali, poichè, altrimenti, o si devierà dal nesso
logico effettuale, ovvero si esagererà, pro o contra, l’apprezzamento
della qualità e quantità della energia criminosa che abbia causato il
delitto. Per quanto si abbia l’abitudine ad apprendere e considerare
i fenomeni delittuosi, noi non siamo in grado di spogliarci della
impressione che ciascun di essi desta nel nostro animo: la repugnanza,
che ognun sente pel maleficio; il sentimento di pietà, di disgusto
per le altrui sofferenze; il colorito vivace, che la immaginazione
aggiunge al fatto; il modo tutto personale, onde giudichiamo le umane
azioni; la influenza esercitata sulla nostra riflessione da’ cento
motivi palesi ed occulti, sono altrettante cagioni per cui la mente
o è impedita o fuorviata dal cogliere la verità delle cose. Egli è
d’uopo spogliarci delle preoccupazioni, o degli _idoli_ della mente,
come da Bacone eran chiamati, se vogliamo non errare investigando il
perchè logico d’un dato fenomeno. In oltre, 2^o, occorre che la ipotesi
abbia la consistenza in qualche circostanza essenziale del fatto;
circostanza che sia resa ben chiara e che serva di punto di partenza
per comprendere la condizione morale del soggetto agente, il primo
ridestarsi in lui di motivi, i quali si trasformarono in azione lenta
o rapida agli ulteriori atti interni criminosi. Anche in ciò è da
avvertire, che, a riguardo della scelta della circostanza fondamentale
alla ipotesi, noi sottostiamo, non pure all’abitudine contratta di
percepire le cose e di valutarle in modo peculiare, ma alla suggestione
partecipataci da’ testimoni, dall’indole sentimentale degli avvenimenti
e dall’interesse che, molte volte senza averne sentore, noi annettiamo
a date ipotesi per nostre personali predisposizioni di animo, di
educazione e di coltura. L’indizio (da _indice_), accenna alla verità;
ma chi di questa non siasi reso padrone con precedenti e lunghi
esercizî della mente, scambia i termini del giudizio, e, messosi su
falsa strada, erra nel ragionare e nel concludere.

=13.=—Se il _dolo_—scrivemmo altrove[139]—è nella determinazione
di scelta di mezzi, la _colpa_ è nella mancanza di determinazione
di scelta; che è a dire, nell’assenza di estimazione del legame tra
l’atto voluto e l’effetto conseguito. Il quale stato di animo si
vuol dividere nei seguenti termini: _a_) un motivo che ci stimola ad
operare;_ b_) uno scopo prossimo, e da noi preveduto, da raggiungere;
_c_) uno scopo rimoto fuori le nostre previsioni; _d_) la scelta di
mezzi analoghi direttamente allo scopo prossimo, indirettamente allo
scopo rimoto. La relazione tra essi termini, sulla quale si fonda la
differenza tra il dolo e la colpa, si è che il motivo non si converte
che in iscopo prossimo; e la scelta dei mezzi solo a questo scopo è
conforme; mentre la imputabilità dell’atto tira la ragione d’essere
dallo scopo rimoto lesivo del diritto. In somma, la nostra dottrina non
è differente da quella che ripone la essenza della colpa in un _errore
evitabile_[140], per effetto del quale si è verificata un’involontaria
dannosa conseguenza. Il _fatto inconsulto_, di cui parlavano gli
interpreti del Diritto romano[141], si risolve sempre nella
imprevedibilità o mancanza di cognizione di qualche effetto che poteva
essere in relazione coi mezzi destinati a fine diverso. Il Kleinschrod
spiega l’enunciato concetto osservando, che «un errore si connette
senza contrasto con una determinazione della volontà, in quanto che
nella colpa è palesemente riposto il difetto della volontà di usare,
operando, di quella diligenza a cui ciascuno è obbligato, e così il
difetto della volontà di deporre l’errore, che si sarebbe potuto e
dovuto agevolmente scoprire. Ogni uomo di mente sana può e dee sapere,
che è tenuto ad un certo grado di diligenza, a fine di non offendere
i diritti degli altri. Ogni uomo probo rifletterà più o meno nelle
sue azioni di qualche importanza, se sieno conformi alla giustizia, e
se possa derivarne alcuna violazione del diritto. Ogni uomo conosce
ancora, che la sua azione soggiacerà ad una pena, se trasgredisce
colposamente le leggi. Quando, dunque, uno si rende debitore di
colpa, non ha la volontà di applicare la necessaria diligenza alle
sue azioni: non vuole, in vero, trasgredire la legge, ma non si dà
il pensiero, che dovrebbe, per non trasgredirla. Egli, dunque, è
punibile, perchè trascurò contro l’ordine giuridico questa diligenza,
non si tolse all’errore, e così produsse una violazione del diritto:
egli è punibile, in somma, perchè non si servì della forza della sua
volontà, per superare un errore, che si poteva facilmente evitare. Se
il delinquente doloso commette col vigore della sua volontà il fatto
illegale, si può affermare, che il delinquente colposo lo commette con
la debolezza della sua volontà, non usando la debita diligenza»[142].

=14.=—Da parecchi scrittori si propugna la teoria che ripone la colpa
nel nesso _aggettivo_ dell’azione col danno; e noi opiniamo che essa
meriti plauso quando trattasi di colpa derivante da quasi-delitti
civili; non così in casi di colpa punibile penalmente. La imputabilità,
lo abbiamo visto, è l’equivalente giuridico d’una causalità cosciente,
o, com’è nella colpa, d’una causalità alla cui coscienza del fatto
manchi l’uso d’una facoltà, quello della prevedibilità appartenente al
comun modo di funzionamento psichico per evitare le possibili cause di
danni altrui.

La prevedibilità o la previsione del fatto, e delle conseguenze
che da esso derivano, dipende da due fattori, l’uno _psicologico_,
l’altro _logico_: il fattore psicologico consiste nel buon uso
dell’_attenzione_; il fattore logico nel criterio di _possibilità_ di
antivedere le probabili evenienze dannose.

Cominciando a trattare del primo fattore, osserveremo: _a_) che cosa
si intenda per attenzione relativamente ad una conseguenza dannosa
imputabile; _b_) in quante categorie vadano divisi i reati colposi
per i modi e le specie secondo cui l’attenzione è distinta; _c_) il
meccanismo dell’attenzione nei riguardi dell’obbietto dannoso non
preveduto; _d_) in che consista la disattenzione.

Nei precedenti capi abbiamo, più d’una volta, avuta la opportunità di
parlare dell’attenzione e del suo funzionamento psichico: usando la
definizione di James, diciamo, che essa sia l’atto per cui la mente
prende possesso in forma limpida e vivace di uno fra tanti oggetti e
fra diverse correnti di pensieri che si presentano come simultaneamente
possibili.

Avendo per origine degli _stati affettivi_, i quali hanno per causa
delle tendenze, dei bisogni, degli appetiti, l’attenzione si riattacca,
in ultima analisi, a ciò che vi è di più profondo nell’individuo,
l’istinto di conservazione (Ribot): si converte in una condizione
della vita, e conserva il medesimo carattere nelle forme superiori, in
cui, cessando di essere un fattore di adattamento all’ambiente fisico,
addiviene fattore di adattamento all’ambiente sociale.

Restringendo questi concetti al nostro assunto, premettiamo, che
l’attenzione, come causa selettiva, concentra la coscienza agli oggetti
ed ai rapporti reali che, isolatamente considerati o come effetti di
data azione, contengono la violazione del diritto altrui e cadono
sotto la sanzione preventiva o repressiva della legge penale. Ond’è
che, essendo il difetto di attenzione la causa psicologica dei reati
colposi, la diversità degli oggetti, cui si riferisce, costituisce
categorie o serie differenti di fatti imputabili. Una prima divisione
dell’attenzione è quella di _sensoriale_ e d’_intellettuale_,
secondochè trattisi di oggetti presenti ai sensi, ovvero di oggetti
ideali o rappresentati. Nell’ordine dei reati colposi, appartengono
al difetto di attenzione sensoriale quei fatti i quali possono ledere
l’integrità fisica dell’individuo, e che dipendono, per l’appunto,
dal non aver noi previsto certi avvenimenti _materiali_ in dipendenza
_immediata_ con qualche nostra azione. Ho detto avvenimenti materiali
per mostrare la causa reale e sensibile del fatto dannoso; come,
ad esempio, sarebbe la lesione prodotta per arma da fuoco, quando
l’atto della scarica, di natura sensibile, dia luogo ad una ferita
involontaria: ho detto dipendenza immediata, per precisare il rapporto
diretto tra l’atto della scarica e ciò che n’è derivato, senza che
altro motivo vi sia intervenuto. Appartengono, invece, all’attenzione
intellettuale quei reati colposi i quali sono imputabili per ragione
strettamente preventiva e perchè sono inerenti ad un dovere di ufficio
a cui si era tenuto; come, ad esempio, l’omesso avviso di rinvenimento
d’un fanciullo (art. 389 Cod. pen.); l’omessa denuncia d’un reato, per
parte d’un pubblico ufficiale (art. 180); la trascurata custodia di
detenuti (229, capoverso 2^o); oltre le contravvenzioni degli art. 439,
471, 477, 482 Cod. penale.

Maggiori difficoltà presenta l’attenzione quando sia studiata nel
suo meccanismo, essendo questo tema, secondo il Ribot, finora molto
trascurato, e dipendendo da esso, non soltanto il completamento della
teoria dell’associazione, ma i concetti per misurare qualitativamente
e quantitativamente la specie ed il grado di coscienza necessaria
per concludere alla prevedibilità di certi effetti in correlazione
con certe cause. Per procedere con ordine, ricordiamo la distinzione
dell’attenzione in _naturale_ o _spontanea_, _volontaria_ od
_artificiale_.

«La prima, osserva Ribot, negletta dalla maggior parte dei psicologi, è
la forma vera primitiva fondamentale della attenzione. La seconda, sola
studiata dalla maggior parte dei psicologi, non è che una imitazione,
un risultato dell’educazione, dell’ammaestramento, dell’adattamento.
Precaria e vacillante per natura, essa attinge ogni sua sostanza
dall’attenzione spontanea, in cui soltanto trova un punto di appoggio.
Sotto queste due forme, l’attenzione non è un’attività indeterminata,
una specie di _atto puro_ dello spirito, agente con mezzi misteriosi
ed impercettibili. Il suo meccanismo è essenzialmente _motore_, cioè a
dire che essa agisce sempre sui muscoli e per i muscoli, principalmente
sotto la forma di arresto, ond’è che come epigrafe di questo studio
potrebbe scegliersi la frase di Maudsley: _colui che è incapace di
governare i suoi muscoli è incapace di attenzione_»[143].

Per l’interesse delle conseguenze dannose, ossia in correlazione alla
colpa, giova notare alcuni caratteri principali dell’attenzione. Essa,
come si è detto, risiede in uno stato affettivo dell’animo, ossia è
mossa e determinata da un _interesse_ o da uno _stimolo_; ond’è che fu
divisa in _immediata_ e _derivata_. È immediata, secondo James, quando
lo stimolo è di per sè interessante, senza relazione con niente altro;
derivata quando lo stimolo è interessante soltanto per le associazioni
che ha con qualche altra cosa più direttamente interessante. Inoltre,
l’attenzione, consistendo nella sostituzione di un’unità relativa della
coscienza alla pluralità di stati, al cangiamento che n’è la regola;
ed essendo il prodotto, insieme alla coscienza, della connessione
delle formazioni psichiche (Wundt), ha la virtù di meglio percepire,
concepire, distinguere, ricordare, aumentare le forze cognitive
stesse. Quest’ultimo carattere dipende dall’assioma scientifico, che
la forza non si crea ma si trasforma soltanto; quindi, aumentare la
forza cognitiva può significare soltanto trasformare, a disposizione
dell’intelligenza, una forza organica (Brofferio).

Da quanto si è detto, nei riguardi psicologici della colpa, crediamo
fermare le verità infrascritte: _a_) La prevedibilità, la quale poggia
sull’attenzione spontanea, ha bisogno di minore sforzo che quella la
quale poggia sull’attenzione volontaria o artificiale; imperocchè la
prima si svolge per potere intrinseco e con adattamento naturale ed in
gran parte ereditario; la seconda è soggetta a dei poteri estrinseci
e sopraggiunti. Di qui la maggiore responsabilità o il grado maggiore
di colpa in quei fatti, i quali si riferiscono all’ordinario modo di
vivere, alla comune esperienza; cioè all’uso di quella attenzione che
è un portato spontaneo della natura; come la responsabilità minore in
avvenimenti per i quali si richiede una sviluppata educazione, un
retto indirizzo, un abituale uso di volontaria attenzione, _b_) La
regola generale qui espressa soffre eccezione nel caso di diminuita
prevedibilità per lo stato di _sorpresa_ o di _stupore_, essendo
esso indice di maggiore colpa nell’uso di attenzione volontaria od
artificiale, che nell’uso di attenzione spontanea. Avviene, talora, in
qualche nostra operazione, che oggetti o fatti nuovi e straordinarî
attraggano l’ammirazione, e pel lato _emotivo_ restringano il potere
della coscienza in guisa da arrestare il corso alle nostre idee e
fissarci potentemente alla contemplazione di un punto solo percettivo.
Siffatto fenomeno, non molto raro ad avverarsi, è causa ordinaria
di imprevedibilità; epperò va tenuto in considerazione. Il grado di
colpa, a cui da luogo, è maggiore nell’attenzione volontaria che
nella spontanea, pel principio logico, che _chiunque volontariamente
intraprenda qualche operazione, seguendo gli artificî che una speciale
attitudine ed istruzione gli hanno appreso, ha l’obbligo di meglio
attendere a che qualche evento fortuito non lo sorprenda e lo renda
causa involontaria di danno altrui_.

Il chirurgo, per esempio, che intraprende un’operazione, deve attendere
che non si verifichi una emorragia; e, se questa lo sorprenda, egli,
che non ha saputo prevederla, è responsabile di non lieve colpa.
_c_) L’attenzione spontanea è meglio adatta agli oggetti esterni; la
volontaria, o riflessione, meglio agli interni. Darwin ben disse,
che quest’ultima è l’attitudine della visione difficile, trasferita
dagli oggetti esterni agli avvenimenti interni, i quali si lasciano
malagevolmente comprendere.

Tutti i reati colposi, i quali appartengono all’adempimento d’un
dovere di ufficio, debbono comprendersi nella seconda specie di potere
intenzionale o riflessivo: il grado di responsabilità, dal lato
subiettivo, è in ragione della maggiore e più protratta attitudine ad
attendere; ciò che rientra nella specie colposa della _negligenza_,
ossia nell’aver omesso quello che si è soliti di non omettere in
adempimento d’un dovere esigibile.

=15.=—A compimento di studio del primo fattore della prevedibilità, il
fattore psicologico, dobbiamo parlare della _disattenzione_.

Chi attende concentra l’energia mentale su un punto fisso, restringendo
in esso il campo visivo alla medesima maniera di chi adoperi una
lente per raccogliere i raggi sopra unico obbiettivo: chi, invece,
non attende, o malamente attende, disperde le attività coscienti ed
o resta privo della percezione, o da motivo a confusione di idee e
di giudizî. Da ciò lo stato di _distrazione_, la quale o avviene per
incapacità della mente a fissarsi in modo stabile e per la mobilità
di passaggio da una all’altra idea; ovvero per l’assorbimento
d’un’idea, la quale non lascia agio alla mente di volgersi altrove
e di occuparsi altrimenti. Il fenomeno è molto complesso, poichè
risultante da particolari condizioni fisiche e di analogo adattamento
psichico: basti, però, dire con Helmholz, che noi non avvertiamo
tutte quelle impressioni che non hanno valore per noi come segni
utili a _differenziare le cose_. Intanto, o che, secondo il Müller,
le correnti delle impressioni non avvertite da alcuni centri trovino
la scarica in altre vie inferiori; o che il potere concentrativo
diminuisca gradatamente in proporzione dell’abituale funzionamento
cerebrale, permettendo che dallo stato di coscienza si passi in quello
d’incoscienza, certa cosa è che la disattenzione forma l’obbietto di
serî studî, i quali interessano così la pedagogia come la psichiatria,
e cercano ancora la spiegazione di problemi rimasti tuttavia insoluti.

In tema di colpa, lo stato di distrazione è generalmente ritenuto
motivo di pena: ma fino a che punto ciò è giusto? Vi sono stati normali
di distrazione, i quali dipendono da cattiva abitudine dell’uso
mentale, ovvero da leggerezza di carattere, e per essi parmi che non
vi sia dubbio sulla necessità di mezzi repressivi. Ma altri stati vi
sono, i quali mostrano caratteri morbosi, tuttochè non sempre palesi;
e parlare di repressione varrebbe quanto contraddire il cardine
fondamentale della imputabilità.

Il Bianchi molto esattamente tratta del diminuito potere di detenzione
nella coscienza ed anche del potere regolatore selettivo, che scapita,
imperocchè tutto quello che invade la mente, non per volere del
soggetto ed anzi spesso contro il voler suo, non incontra ripulsa.
«Esso irrompe liberamente nel campo della coscienza, togliendole più o
meno di potere percettivo e sopratutto del potere dell’appercezione.
Trattasi qui sempre di due fatti, i quali si associano e caratterizzano
questo stato patologico: da una parte, incapacità a contenere nella
coscienza la costellazione ideativa, che è obbietto della attenzione
volontaria; incapacità, dall’altra parte, a contenere fuori della
coscienza un’altra quantità d’idee, che con le prime non hanno
relazione alcuna, e contro le quali si esercita fiaccamente ed
inefficacemente il potere volitivo dell’attenzione»[144].

Lo stesso Bianchi ricorda i singoli stati più o meno patologici
dell’attenzione; il fenomeno di _ipoprosessi_ (diminuzione di
attenzione) per effetto di stanchezza; la diminuzione del potere della
medesima, più del distributivo che del fissativo, prodotta dalle
emozioni (Feré, Binet, Pick, Mosso); quel che avvenga nel dominio
dell’inconscio, dell’automatismo psichico, negli stati nevrastenici e
via discorrendo.

=16.=—Abbiamo detto, che il secondo fattore della prevedibilità
sia quello logico consistente nella possibilità di antivedere le
probabili conseguenze dannose di un nostro atto. La impossibilità della
previsione dà luogo al _caso_, e quindi alla nessuna responsabilità
del fatto. Che è mai il caso? Nel senso usuale è tutto ciò che non può
essere rapportato ad una legge; nel senso logico è la ignoranza di tale
legge, ovvero la impossibilità di ricordarla pel cumulo di circostanze
accidentali, o di prevederla nel nesso di causalità tra fatti a noi
noti e gli eventi a cui avrebbero data l’origine.

La teoria del caso, in tutte le attinenze mentali, si fonda sulla
teoria della probabilità, appunto perchè, secondo il Mill, noi possiamo
supporre che le conclusioni relative alla possibilità d’un fatto
riposano sulla conoscenza della proporzione tra i casi in cui si
producono dei fatti di questo genere e quelli in cui non si producono;
la quale proporzione, d’altronde, può essere trovata per una esperienza
speciale o dedotta dalla conoscenza precedente delle cause la cui
azione è favorevole alla produzione del fatto in questione, comparate a
quelle che la possono neutralizzare.

Applicando tali norme al concetto logico di probabilità nella
previsione di conseguenze dannose del fatto proprio, si hanno
gl’infrascritti corollarî: 1^o il grado di probabile previsione d’un
effetto ignoto, relativo a causa nota, è in ragione diretta dei casi,
in cui l’effetto si verifica, ed in ragione inversa dei casi nei quali
suole avvenire il contrario; 2^o diminuendo i casi di probabilità,
entriamo nel dominio dell’imprevedibile: il che contrassegna una serie
indefinita di stati di coscienza incalcolabili _a priori_, e che vanno
dall’accorgimento il più riflessivo alla disattenzione la più abituale;
3^o per l’unità funzionale psicofisica della nostra mente, tutto ciò
che direttamente o indirettamente diminuisce o turba la facoltà di
attendere, rende meno probabile la previsione; così la retta educazione
dell’attenzione e l’uso costante delle attitudini inibitorie, nello
eliminare le cause di errori, ci facilitano la prevedibilità,
rendendoci più pronti nell’eliminare le cause occasionali concorrenti a
far nascere da una nostra azione conseguenze che dobbiamo evitare.



CAPO XIV.

Di alcune forme giuridiche della psicologia criminale


I.


La provocazione.

 1. Origine dinamica dello stato affettivo.—2. L’azione di _arresto_
 nei fenomeni affettivi.—3. Soggettività dell’atto provocativo.—4.
 Forme anomale di sensibilità nella scusa della provocazione; le
 _illusioni_.—5. Le _allucinazioni_.—6. Il _linguaggio interiore_;
 sdoppiamento dell’io, esempio d’un soliloquio di Lancilotto, nel
 _Mercante di Venezia_ di Shakspeare.—7. Conseguenza giuridica del
 turbamento d’animo nello stato di agitazione allucinatoria.—8.
 Anomalia _incosciente_ d’interno processo provocativo.—9.
 La provocazione e l’_isterismo_.—10. La provocazione nei
 _nevrastenici_.—11. Psicologia dell’_intenso dolore_.

=1.=—Lo stato passionale, che abbiamo detto esser causa di tendenza
impulsiva al delitto, non dovea trascurarsi dal legislatore chiamato
a proporzionare la responsabilità al grado della forza soggettiva
dell’azione, diminuita da alcun motivo che ne abbia turbato il naturale
funzionamento. È legge fondamentale dinamica, che a qualsiasi azione
corrisponda uguale reazione; com’è istintiva nostra inclinazione di
respingere l’offesa con l’offesa pel risentimento contro chiunque
attenti al benessere personale od alteri l’economia psicofisica della
vita. Da ciò la prima specie di giustizia repressiva affidata alla
vendetta personale, ed il primo apparire di quella lotta pel diritto,
la quale è guarentigia di conservazione della propria esistenza. Da ciò
il dovere, nell’aggregato sociale, di limitare l’attività individuale
con apposite prescrizioni, che, degradando la responsabilità dei
malefici scusati dal turbamento della passione, sanciscano una pena
col fine di impedire l’irrompere sconfinato degli istinti brutali
della vendetta, e di ristabilire l’imperio del reciproco rispetto tra’
consociati.

Il concetto della provocazione, com’è fermato dal nostro legislatore
con l’art. 51 Codice penale, fa sì che noi ci rifacessimo alquanto
indietro col ricordare quanto si disse circa la origine delle emozioni,
massimamente di quelle dell’ira e dell’odio, e delle leggi dinamiche
onde in noi si producono gli stati affettivi di coscienza e son
cagione di atti esteriori contrarî al buon ordine sociale. Dobbiamo,
primieramente, rammentare, che qual si sia specie di sensazione non è
che cangiamento di movimento, il quale dal di fuori si trasforma nel
nostro interno ed è indizio d’una forza che agisca in conflitto od in
concorso con le altre forze esteriori.

«La sensazione—scrive il Fouillée—non è un riflesso passivo della
realtà: essa è la realtà medesima in travaglio e che senta il suo
travaglio. Il tutto non avverrebbe affatto, nel mondo, al modo usato,
se non vi avesse alcuna sensazione, ma solo dei movimenti non sentiti.
Nella ipotesi che questi movimenti fossero stati sufficienti a produrre
i medesimi effetti che oggi si producono, per preservare gli esseri
organizzati contro le influenze distruttive del di fuori, per assicurar
loro il vantaggio della lotta per la esistenza, le sensazioni, essendo
_inutili_, non si sarebbero punto prodotte, ed i fenomeni meccanici
non avrebbero provato il bisogno di aggiungersi questo estraneo
epifenomeno»[145].

Il _bisogno_, che qui il Fouillée ricava da un ragionamento di logica
conseguenza, non è che l’esponente della legge biologica di azione
delle forze sulla materia organica, non che dell’altra di reazioni
della materia organica sulle forze[146], nel senso, cioè, generale,
che la forza incidente sul nostro organismo, mentre ne altera la
precedente economia, deve essa stessa soggiacere ad una corrispondente
differenziazione.

=2.=—Il legislatore, attribuendo la ragion di scusa, della
provocazione, al momento dell’_impeto_ passionale di ira o di intenso
dolore, suppone che il giudice non trascuri gli stati precedenti
affettivi dell’animo dell’agente; anzi vuole che egli debba farne
minuta analisi per concludere, in singoli casi, se e fino a qual punto
la passione abbia degradata la coscienza e la libertà degli atti,
sì da richiedere che non si applichi la pena in tutta la estensione
voluta dalla legge. L’uomo può esser considerato come un complesso di
fenomeni, che tendono in una certa misura a sistematizzarsi: ciascuna
sua parte fisica o morale tende ad organizzarsi per suo conto, e
sovente questa organizzazione d’una parte si opera a spese d’un’altra
parte (Paulhan). Il che, a ben considerare, è la fonte della nostra
spontanea attività, che, a cominciare dal preservare l’economia
organica, è immanente in tutti gli atti della esistenza e, mentre si
appalesa nei fenomeni della vita interna ed esterna, acquista vigore
dalla lotta con i perenni ostacoli che incontra. È accettabile, quindi,
il concetto di coloro i quali nel fenomeno affettivo non scorgono che
una _tendenza arrestata_, o, in altri termini, secondo il Paulhan,
un’azione riflessa più o meno complicata, che non può riescire al
termine verso il quale riescirebbe se la organizzazione de’ fenomeni
fosse stata completa, se vi fosse armonia completa tra l’organismo o le
sue parti e la loro combinazione di esistenza, se il sistema, formato
a cagion dell’uomo dapprima e poscia a cagion dell’uomo e del mondo
esteriore, fosse perfetto[147].

=3.=—Dopo ciò, egli è a concludere, che il primo elemento ed il più
importante della scusa sia l’_atto ingiusto_, che ebbe a disorganizzare
l’equilibrio delle nostre facoltà, convertendosi in motivo di arresto
di quel normale funzionamento psichico che è condizione imprescindibile
del proprio benessere. Il quale atto, secondo che prescriveva l’abolito
Codice sardo e ritengono gl’insegnamenti della dottrina, deve essere
valutato in modo soggettivo al provocato; ondechè, al dire del
Carrara, «purchè la non sia irragionevole del tutto e bestiale, anche
la credulità erronea di aver patito un oltraggio, di avere ragione
di temere imminenti percosse o danni nella persona, deve nei congrui
termini valutarsi. Altrimenti si farebbe l’uomo responsabile della
ignoranza del proprio intelletto, o di un errore involontario. Se,
desto ad un rumore notturno, io veggo introdursi nelle mie stanze
furtivamente un estraneo, e, credendolo un ladro od un assassino,
esplodo un’arme contro di lui, non sarò io più scusabile se viene
poscia a verificarsi che nè un ladro nè un assassino era colui, ma
sibbene un infelice sonnambulo, oppure l’amante occulto della fantesca,
che aveva sbagliato di camera?»[148].

La giustizia o la ingiustizia dell’atto è in relazione ad un concetto
variabile desunto dalla somma delle circostanze che lo occasionarono,
ed in ragione al grado di _sensibilità_ con cui l’atto fu appreso dal
soggetto passivo. Indi l’infrascritto cànone: _il grado di efficacia
del motivo provocatore è indicato dalla serie delle circostanze,
le quali influirono ad aumentarne la ingiustizia e ad eccitare la
sensibilità di chi ne risentì la influenza_.

Dal quale cànone dipendono i due seguenti corollarî: 1^o _il grado di
efficacia del motivo provocatore s’innalza per le circostanze che meno
scusano l’ingiustizia dell’atto e favoriscono la proclività a reagire;_
2^o _diminuisce per circostanze in contrario senso_.

La ingiustizia dell’atto e la sensibilità del soggetto, ecco i
due termini i quali, componendosi in unico stato transitorio di
coscienza, debbono servirci per concludere alla scusa di imputabilità
in chi, reagendo, fu trasportato a commettere un maleficio. Il primo
termine è appreso dal soggetto con rapido giudizio, che si estende
a constatare la contraddizione tra l’operare altrui ed il proprio
diritto al rispetto; la niuna necessità dell’offesa, la diminuita
dignità personale, la costrizione a far ciò che non si avea in animo
di fare. Elementi o modi, questi, d’un solo giudizio, che preoccupa
l’attenzione ed, affievolendo ovvero ottenebrando ogni contrario
fattore sentimentale ed ideale, assorbe tutta l’energia in uno sforzo
reattivo, con l’oblio fin del pericolo cui si va incontro.

=4.=—Per sensibilità intendiamo il potere di recettività o di
passività del soggetto; ossia il grado di attitudine a ripercuotere in
sè le impressioni con maggiore o minore tonalità sentimentale, colorito
fantastico, senso affettivo.

Parlando delle passioni in genere, notammo il tipo del delinquente
impulsivo o d’impeto: per completare l’assunto, dobbiamo occuparci di
talune forme anomale di sensibilità ricorrenti sì spesso in delitti che
diconsi occasionati da precedente provocazione.

Parleremo, in primo luogo, delle _illusioni_ e delle
_allucinazioni_.—Non è raro il caso di assistere all’interrogatorio
d’un imputato, il quale chieda al giudice la scusa di provocazione per
fatti che la vittima nega e che nessun testimone ebbe agio di poter
constatare. Se il chiesto beneficio non sia vano pretesto suggerito
dall’astuzia o dall’interesse di ottenere una diminuzione di pena,
potrebbe esser coonestato, in congrui casi, dalla ipotesi di illusione
o di allucinazione. L’illusione è apparenza ingannatrice, errore dei
sensi: essa potrebbe definirsi _l’alterata percezione d’un obbietto
al quale si attribuiscono, per disturbo associativo o disordine
funzionale dei sensi, qualità apparenti non rispondenti al vero e che
siano il prodotto di ricordi mal tra loro organizzati, vivificati dalla
immaginazione_.

È legge generale della percezione, che, _mentre una parte di ciò che
noi percepiamo viene dagli oggetti che ci stanno dinanzi, attraverso
i nostri organi di senso, un’altra parte, ed è possibile sia la parte
maggiore, proviene sempre_ (secondo la frase di Lazarus) _dal nostro
proprio cervello_ (James).

Il materiale della esperienza e della coltura permane nei centri
cerebrali con nesso logico di ricordi e di immagini organizzati insieme
dall’unità funzionale dell’equilibrio psichico. Mettendosi gli organi
di sensi in relazione col mondo esterno, noi apprendiamo gli oggetti
con la esattezza rispondente, non che alla _realtà_ obbiettiva,
benanche alla _verità_ soggettiva: rispecchiarne in noi il mondo
esterno con visione non ingannatrice, e possiamo, con certezza di
convincimento, dar giudizio sulla esistenza ed importanza di nozioni
acquistate. Ma talora i ricordi, le immagini sono frammentarî; i nessi
logici tra le idee sono deboli ed instabili, e sulla estensione della
coscienza i pensieri fluttuano con correnti indeterminate, senza che
tra esse l’attenzione abbia sufficiente forza per arrestarne il corso
tumultuoso. È possibile, allora, che qualche ricordo sensorio-ideale
prenda, di botto, il sopravento, stimolato da sensazione di oggetto
esterno, ravvivato da interna impulsione, e che la coscienza, come
sorpresa, si arresti nel suo oscillare: ne seguirà che all’occhio della
mente si prospetti una visione che non è conforme a realtà, ma che pure
s’impossessa di noi con tal forza da farcene risentire gli effetti fin
nel fondo dell’animo. Crediamo di vedere quel che non è; e, ciò che
maggiormente preme, l’inganno proietta, nella trama cerebrale, la sua
influenza deleteria fino a travolgere il precedente ritmo psichico ed
imprimere ai nostri atti inattesa direzione.

Il fenomeno è molto più facile che avvenga tra idee emotive, appunto
perchè le illusioni, fisiologiche o patologiche, si germinano in
ambiente psichico preparato da antecedenti impulsioni rimaste abortite,
da sentimenti repressi o soffocati, da sensazioni piacevoli o dolorose
non completamente dileguate, da vivaci tendenze mal represse.

Io so di un marito geloso, che giurava di aver scorto sulla guancia
della moglie la impronta di un bacio a lei dato dal suo amante; di un
altro marito che, osservando gli occhi di un figlio neonato, giurava
che fossero celesti e somiglianti a quelli del sospettato drudo della
moglie; mentre, senza dubbio, eran neri. So di un imputato che vide
l’avversario in atto di slanciarsi contro di lui armata mano, mentre
questi non si mosse dal posto ed aveva solo il pugno stretto pel
risentimento di ingiurie contro lui pronunziate; di un altro imputato
il quale diceva di aver visto nelle mani della moglie il ritratto
dell’amante, di averlo proprio riconosciuto, mentre trattavasi, e fu
dimostrato ad evidenza, di immagine di un santo!

Riguardo ai motivi provocatori, vi sono illusioni meno considerevoli
dal lato patologico di serî disturbi sensoriali, ma, peraltro, vieppiù
importanti dal lato psicologico. Intendo parlare delle percezioni
alterate per interne disposizioni di animo, massime provenienti da
tonalità sentimentale o depressa o troppo eccitata; da qualche idea
dominante nel processo associativo; da transitoria intermittenza di
poteri riflessivi.

L’oggetto, o l’atto percepito, atteggia e riverbera il modo di sentire
e di pensare: senza accorgerci dell’errore, ne restiamo impressionati.
Un avversario avrà sorriso con aria indifferente? Noi vi scorgiamo
il sogghigno dello scherno e ce ne adontiamo. Altri avrà pronunziato
parole di consigli? Noi vi leggiamo, dal tono della voce e dal gesto,
la intenzione di disistima e di offesa.

Usualmente diciamo esser questi _ingannevoli errori_: ma, chi ben
guardi, si avvedrà che il difetto non è nell’intelletto, sibbene nei
sensi; e che l’erroneo giudizio è dipendente da una illusione.

=5.=—Affine alla illusione, ma con disturbo sensoriale più grave,
è l’_allucinazione_. «L’allucinazione—scrive il Bianchi—_è una
percezione subbiettiva_. Mentre nella illusione è l’obbietto mal
percepito, perchè il soggetto ha fornito i connotati di cui è piena la
sua coscienza, e che non appartenevano a quello, nell’allucinazione
manca addirittura lo stimolo esterno, e la riproduzione è originaria,
primitiva, dai centri sensoriali, di immagini che forse altra volta
sono state formate e registrate nei rispettivi centri. Ovvero risultano
da connotati forniti da diverse sensazioni in tempi diversi, ed
associate ora in un’immagine concreta per la proprietà creatrice del
cervello nelle stesse aree sensoriali, nelle quali sono formate e
registrate le immagini per processo fisiologico, onde queste vengono
risvegliate, per intrinseca attività degli elementi nervosi, e
proiettate di fuori, o, come si suoi dire, obbiettivate»[149].

In pratica sogliamo dire, che, dovendosi giudicare gli stati
soggettivi, l’ipotetico equivalga al reale, e noi sopra abbiamo
riportato il giudizio autorevole del Carrara per ciò che sia
l’effetto di errore: tanto più varrà nella ipotesi di illusioni o di
allucinazione.

La psicologia allucinatoria, dopo gli studi classici di Brierre de
Boismont, ha esteso il dominio in ampi confini, e si è resa dominante
nella interpetrazione di fenomeni un tempo appartenenti alle credenze
religiose e che ebbero tanto peso in avvenimenti storici di individui e
di nazioni.

La idea, il sentimento, lo abbiamo visto, hanno attività propria, anzi
non sono che forme di attività cerebrale. Il materiale psichico,
nell’attualità di formazioni, ha rapporto accidentale col mondo
esterno: esso conserva le energie immagazzinate, le attitudini latenti
atte ad insorgere e addivenire operanti, indipendentemente dalle
eccitazioni sensoriali. Il lavorio scientifico speculativo, tutto
giorno in progresso, il perfezionamento delle belle arti e gli innumeri
atti di automatismo psicologico ci addimostrano, che il mondo dello
spirito ha vita a sè, quantunque le ricchezze, di cui dispone, gli
sian venute d’altronde e si aumentino o si alterino continuamente
mercè l’opera dei sensi. In un opificio meccanico vi si osservano
gli istrumenti pel lavoro geniale: essi vennero dal di fuori; ma
gli operai, impossessatisene, se ne servono per loro conto senza
che alcuno, all’esterno, ne abbia sentore. È così che si comprende
l’allucinazione, fenomeno tutto interno, scevro dall’influsso del
senso, senza riferenza con oggetti fuori dell’io; fatto psichico
isolato o staccato dal nesso di continuità con la vita di relazione.

L’analisi introspettiva ci fa consapevoli, che le immagini percepite
si proiettano all’occhio della mente e, con moto incerto, prendono
fisonomia conforme al nostro desiderio affettivo, alle condizioni
passionali di tristezza, di gioia, di simpatia, di odio: ciò è per
ciascuno la fonte di quel vagare della mente, or dolce, or doloroso;
ora dubbio, or animato da sicurezza, or vinto da sconforto.

La sensazione fissata, sotto forma di immagine, nella memoria,
si ripresenta ed è causa di una _visione mentale_ che, giusta la
definizione di Ballet, «è quella facoltà che noi abbiamo di conservare,
sotto forma di immagini, il ricordo più o meno indebolito delle nostre
sensazioni visuali, e di riprodurre e ravvivare queste immagini sotto
la influenza di diverse sollecitazioni, per associazione di idee»[150].
E lo stesso prosegue: «Questa facoltà esiste appo ciascun di noi.
Ma essa è molto diversamente sviluppata. Mentre che alcune persone
non conservano, degli obbietti, che un ricordo vago ed una immagine
a contorni indecisi, altre ravvivano le loro immagini visuali con
grande facilità; queste immagini hanno presso essi una chiarezza tale
che l’oggetto immaginario ha quasi tutta la precisione dell’oggetto
reale»[151].

=6.=—Incontra spesso di osservare che, oltre alla visione mentale
di immagini riprodotte, andiamo soggetti al fenomeno inteso col nome
di _linguaggio interiore_ o di _parola interiore_, cioè di udizione
mentale consistente nel risveglio delle sensazioni uditive percepite
dal nostro cervello e ritenute sotto forma d’immagini, specialmente
rappresentative di segni del linguaggio (Rivarol, Egger, Paulhan,
Taine, Binet, Charma, Ballet, ecc.). La persona, la cui immagine ci si
presenta, dev’essere già stata a contatto con noi per via di qualche
atto che ci abbia lasciato nella memoria il ricordo impressionante di
disgusto o di odio; com’è, ad esempio, per antipatia, contrarietà o
dispetto. Mentrechè pel momento non ne abbiamo risentito che passeggera
impressione, in corso di tempo la rappresentazione dell’atto può
intensificarsi e convertirsi in visione allucinatoria accompagnata,
financo, da sensazioni uditive del linguaggio dell’avversario. Se,
per strana combinazione, dopo cotesto lavorio di autosuggestione,
il creduto nemico s’incontra, basterà leggiero incidente perchè
l’allucinazione, dianzi poco vivace, si accenda e scoppi con impeto
tempestoso di ira.

Altra volta, dopo la impressione, poniamo, di dispetto verso qualcuno
a séguito di sufficiente motivo, lo stato di equilibrio di animo si
affievolisce, la personalità si disgrega, si sdoppia; e noi avvertiamo
che l’io si è messo in contrasto con sè medesimo, raddoppiandosi
in una visione immaginaria persistente, in atteggiamento di aperta
opposizione. L’io primitivo, sorretto dalla ragione, dalla forza
persuasiva della educazione e dei principî di ordine, tenta e si
ingegna di lottare contro l’io novello che più e più insorge e si
ribella e contorna la persona dell’avversario con note repugnanti,
ingigantisce l’atto da lui commesso, lo delinea con tinte oscure;
risveglia, dai bassi fondi della vita animale, gli istinti sopiti della
vendetta; fa sentire, con allucinazione uditiva, proprio la voce, il
linguaggio offensivo dell’uomo che di già si odia; accende il fuoco
dell’ira e, avuta la occasione propizia, ci spinge impetuosamente al
delitto.

Un esempio di questo sdoppiamento dell’io, con la visione di contrasto
tra immaginarie energie simbolizzate nel demone e nella coscienza, lo
abbiamo in un soliloquio di Lancilotto, nel _Mercante di Venezia_ di
Shakespeare.

  Certo è per me dover di coscienza
  Tormi al servizio di cotesto Ebreo:
  Il diavol mi sta al pelo; egli mi tenta
  E dice: _gobbo_—_o gobbo Lancilotto_,
  _Buon Lancilotto_—ovver: _buon gobbo_—od anco:
  _Buon Lancilotto gobbo_; _su, ti spaccia,
  Dàlle a gambe_, va via!—La coscienza
  Risponde: _bada bene, onesto gobbo,
  Onesto Lancilotto, bada bene_;
  Od anche: _Onesto Lancilotto gobbo_,
  Com’io dicea pur or, _non andar via,
  L’aiuto non cercar delle calecagne_.
  E il dimon, più animoso, di rimbecco
  M’ordina di sfrattar: _Via!_ mi ripete:
  _Vattene! per lo ciel!_ dice il dimonio:
  _Ti decidi da forte_, a dir ritorna
  Messer lo dimonio, _e netta il campo_.
  Allor si apprende del mio core al collo
  La coscienza, e con gran senno: _o mio
  Onesto amico, Lancilotto_, aggiunge,
  _Tu che figliuolo sei d’un uom dabbene_:
  O meglio: _d’una femmina dabbene_—
  (Poichè a mio padre talor pizzicava
  Non so ch’altro sapor, non so che gusto):
  La coscienza, dunque: _Statti fermo_
  Dice; e il dimonio: _Va;_—_No statti_, l’altra
  Replica—[152].

=7.=—Chi mi domandasse come debba estimarsi l’ultimo atto
esecutivo dell’interno proposito criminoso di individuo in preda al
sopradescritto stato di agitazione allucinatoria, risponderei: la legge
intende minorare la responsabilità in proporzione della degradata
coscienza e libertà di arbitrio; intende calcolare, tra’ criterî di
imputabilità, di temibilità del reo, di ingiustizia dell’atto, lo
stato di turbamento di animo del prevenuto: se tutto questo trova
applicazione nella specie dianzi esaminata, perchè non dev’essere
accordato il beneficio della provocazione? Il giudice ricordi sempre
l’infrascritto mònito del Romagnosi: «A parlar precisamente, l’uomo
non è mosso più o meno ad agire a misura della _realtà_ dell’utile,
cioè di quello, che le sue cagioni reali prese in sè stesse e
combinate colla natura e costituzione dell’uomo possono costantemente
e veramente apportare di bene o di male; nè meno a proporzione che
certi combinati rapporti fisico-morali possono specialmente apportare
di utile agli _altri_ suoi simili; nemmeno a proporzione che l’uomo
stesso deliberante e delinquente lo conosce più o meno _chiaramente_, o
semplicemente se lo può ripromettere con maggiore o minore _certezza_;
ma bensì a proporzione, che la di lui idea solletica ed attrae con più
o meno di forza la di lui sensibilità»[153].

8.—Un’altra forma, più difficile a considerarsi, di anomalia di
interno processo provocativo (mi si passi la frase) è quella che, di
origine, o non, patologica, si elabora nel dominio dell’inconscio,
al disotto della soglia della coscienza, tra attività ereditarie
istintive. Di ciò abbiamo, sotto altri riguardi, parlato ripetutamele
innanzi: crediamo, nonpertanto, ripeterne qui l’esame, con novelle
applicazioni.

Verificatosi il motivo, che abbia impressionata la nostra sensibilità,
ne rimaniamo turbati: tosto ritorna la calma e, per seguite
distrazioni, obliamo fin il ricordo di quanto sia avvenuto. Che anzi,
qualche volta, ritornando, con la riflessione, sul risentimento
provato, ce ne meravigliamo, sicuri di noi stessi, del potere inibitore
onde disponiamo, della forza di resistenza a qualsivoglia, non dico
reazione delittuosa, ma intemperanza di condotta. Frattanto, in corso
di tempo, il motivo provocatore, nascostosi nel buio dell’inconscio,
prende vigore a contatto di energie rimaste in perenne stato di
potenzialità: non avendo forza sufficiente di venire a galla sulla
superficie del piano visivo, rimane involuto in una specie di
vita embrionale. Ma—quando meno vi pensiamo—qualche circostanza
accidentale ferma, di sorpresa, l’attenzione sul l’insorgere d’una
preoccupazione che, apparendo tra reminiscenze del passato, fa sì
che si squarci il velo del mistero e ci si mostri la idea ridestata
della _offesa_ obliata. L’animo è preso da fremito; e noi rimaniamo
vinti, scorati sotto l’incubo opprimente di sentimenti e di triste
incertezza. Contro questo stato doloroso, affannoso si spuntano le
armi della ragione; par che all’apparire del mostro, rimasto infino
a quel momento nascosto nella tenebra, ogni buona intenzione sia
messa in fuga. Occorrendo favorevoli circostanze di ritornare a
contatto con l’offensore, noi, mercè sforzi estremi, ci adoperiamo,
col trattarlo ed esagerare la di lui vicinanza, di sfidare quasi noi
medesimi a mostrarci superiori, vittoriosi di fronte all’eccitamento
emozionale del ricordo doloroso. Però, senza avvedercene, così
operando, aggiungiamo esca al fuoco: ad un dato istante, allorchè, per
accidentalità, la vigile nostra resistenza riflessiva si indebolisca,
la marea monta rapidamente, eccitata da impreveduto pretesto; la
tempesta rugge dal fondo e la nostra volontà è travolta da impeto
infrenabile di collera. Se, in conseguenza di ciò, si verifica un
delitto, non è improbabile che il giudice, riandando sui precedenti
del fatto e notando, dall’apparenza degli avvenimenti, un presunto
stato di calma del prevenuto, la insufficienza di motivo ultimo
dell’azione, concluda per l’aggravante della premeditazione! E tuttodì
simili ingiustizie si deplorano, coonestate da niente altro che dalla
ignoranza di fenomeni per quanto strani, altrettanto conformi all’umana
natura.

=9.=—Trattando della specie e del grado di sensibilità, misura di
attenuazione d’imputabilità in dipendenza di atti provocativi, non
dobbiamo trasandare d’intrattenerci a parlare dello stato di emotività
di chi sia affetto da _isterismo_ o da _nevrastenia_, due forme
cliniche morbose altrettanto comuni ai nostri dì, quanto trascurate
nelle aule giudiziarie.

Consiste l’isteria in uno _stato costituzionale abnorme_ del cervello,
che si appalesa in tutte le funzioni, le _motorie_, le _sensitive_,
le _psichiche_ (Borri). In chi ne sia affetto, i disturbi della
sensibilità e della emotività sono polimorfi: evvi irruenza o apatia
nella vita di relazione; percezione reattiva sproporzionata agli
stimoli; esaltamento della fantasia; suggestibilità irresistibile;
predominio dell’automatismo; vivace rappresentazione e mutabilità di
carattere sui minimi toni della sentimentalità; strani orientamenti
della coscienza; saltuaria associazione tra le idee più dissimili;
fissità di idee fino alla ossessione; insorgenza di prepotenti atti
istintivi per effetto del più lieve motivo autosuggestionante (Laségue,
Esquirol, Janet, Pitres, Dally, Bianchi ed altri). La gioia ed il
dolore, la calma e la tempesta, la simpatia e l’antipatia, l’ira e la
quiete sono nella isterica gli eccessi opposti in cui si polarizza la
vita dello spirito; epperò sono i tanti segni che debbono metterci in
guardia al momento di dover giudicare su azioni commesse in conseguenza
di stati cotanto anomali. Bene spesso siamo ingannati dalle apparenze,
ondechè qualifichiamo per generosi atti ispirati al più profondo
egoismo, ed in cui non evvi di vero che la teatralità, la quale, per la
isterica, giunge fino all’architettura dei più fantasiosi progetti. La
menzogna, l’inganno sono l’armi onde questa si avvale per lo sfogo di
odi mal repressi, di preordinati propositi di vendetta: il sentimento
non si limita a muover ed ispirare le comuni disposizioni dell’animo, i
varî umori, ma invece si esalta e degenera in un vero moto passionale,
iperestesia psichica (Krafft-Ebing).

La sovraeccitabilità morbosa delle isteriche ci autorizza a ritenere
in esse estrema suscettibilità ad esaltarsi per qualsiasi motivo di
provocazione, massime, poi, allorchè questo appartenga alla sfera
dell’affettività erotica, e quindi concorra a suscitare la gelosia,
il dispetto, l’ansia del contrasto, la disperazione d’un abbandono.
L’azione suggestiva, resa incoercibile pel fascino della immaginazione,
molto facilmente, in casi trascurabili, da corpo alle ombre, finisce
di scompigliare il labile equilibrio psichico, e l’ira è l’effetto di
delirio persecutorio, con scatti od irruzione di estrema violenza.

In processi penali i più complicati, in sensazionali dibattimenti il
giudice, e massimamente il giurato, non sa rendersi ragione di delitti
atroci per fugaci motivi, che non meritano neanche l’onore di esser
presi in considerazione: l’accusata o non sa difendersi, chiusa nel
cupo dolore della sventura in cui sia precipitata, o esagera talmente
in addurre le sue ragioni da non esser creduta e, quasi sempre, da
ingenerare biechi sospetti di malizia, simulazione o dissimulazioni
inesistenti.

Quando il difensore, in vista di analoghi casi, si sforzerà di chiedere
la scusa della provocazione, sia pure per motivi futili, ma che, per lo
stato abnorme psichico della isterica, furon causa di sì gravi effetti
disorganizzatori della coscienza e di profondi turbamenti nel dominio
dell’affettività, l’accusatore, se non è all’altezza scientifica del
suo ministero, comincerà a sillogizzare sulla sproporzionalità della
causa con l’effetto, per indurne il convincimento che, riuscendo
financo strano, nella specie, che un omicidio fosse commesso per
sì lieve motivo, altrettanto più strano sarebbe lo ammettere che
all’accusata competa il beneficio della provocazione!

Fino a che, si ricordi, dalle aule della giustizia non siano banditi
gli astratti aforismi sillogistici, e non sarà sostituita, in quella
vece, la temperanza che viene dalla _relatività_ delle nostre
convinzioni, l’errore troverà la via di penetrare nella mente del
giudice e di sconvolgere i più santi principî della equità e del vero!

Tra’ criterî misuratori della scusa della provocazione il Carrara
voleva quello desunto dall’_intervallo_ più o meno lungo interceduto
fra la offesa e la reazione; appunto perchè, secondo il detto scrittore
ed altri della scuola classica, gli affetti non valgono a costituire
scusa, se non in quanto abbiano, tra gli altri, il carattere di
un’azione _rapida_ e dentro certi limiti breve, _veemente_, che vinca
la ordinaria calma della ragione.

Noi conveniamo, in genere, ad ammettere gli enunciati criterî, ma guai,
nella pratica, ad accordar loro autorità assoluta! L’elasso del tempo
può dar luogo alla calma, dopo che l’animo sia stato turbato da motivo
qualunque di offesa; ma, nè è raro che avvenga, può essere ancora
cagione per cui il risentimento si intensifichi e scoppî in impeto
susseguente di ira; la qual cosa s’incontra di solito nelle isteriche
ed in chiunque non goda la piena integrità delle facoltà sensitive ed
emotive.

=10.=—Dopo di aver accennato allo stato di sensibilità ed emotività
delle isteriche, rispetto alle conseguenze di scusa della provocazione,
diremo dei _nevrastenici_.

La nevrastenia, questo stato nevropatico, che ai nostri giorni
ripercuote i suoi effetti in sì larga misura su tutte le classi
sociali e che è l’esponente così dell’esaurimento dello spirito
in lotta con sè stesso, come dello sperpero inadeguato di energia
per le necessità dell’esistenza, è da poco tempo che dallo studio
del psichiatra è passato allo studio del psicologo-giurista, e ciò
pel fine di illuminare il giudice in continui dubbî e difficoltà
ingenerati in lui allorchè si trova a dover sentenziare sul grado di
imputabilità di infelici talora reputati ingiustamente i più proclivi
artefici di delitti, sol perchè meno adatti ad avvalersi dei mezzi di
freno suggeriti dalla società civile. Avendo per fondo degenerativo
una _debolezza irritabile del sistema nervoso_ (Krafft-Ebing), la
nevrastenia va distinta dai seguenti caratteri psichici: atonia
generale, con alterazione funzionale del senso cenestetico; passività
della coscienza a qual si sia stimolazione esterna o interna;
abbassamento dei poteri discriminatori con relativa ripercussione
nei processi associativi; affettività tumultuosa, violenta;
intermittenza di coscienza in periodi transitori; avventatezza nelle
azioni; imprevidenza dell’avvenire; veemente insorgenza di idee
fisse, che assediano l’animo, e ne turbano il ritmo dell’equilibrio;
proclività alle passioni impetuose, massime all’ira, alla vendetta;
sovraeccitazione, commozione che possono giungere al grado di
scompigli deliranti. Specialmente la forma eretistica comprende, al
dir del Bianchi, individui spesso abbastanza evoluti nella sfera dei
sentimenti e dell’intelligenza, ma che sotto i più leggieri stimoli
si sovraeccitano, si commuovono, esagerano nei giudizî e nelle azioni
sulle quali non possono esercitare il debito controllo, con sperpero
mutile di energia; sono violenti, impulsivi, si allarmano per nulla e
precipitano le cose[154].

=11.=—Fu lodevole pensiero del nostro legislatore di aggiungere alla
vecchia nozione della provocazione, ristretta al turbamento dell’ira,
benanco la ipotesi di minorata responsabilità in conseguenza d’impeto
d’intenso dolore.

Discorremmo della cenestesi del criminale e dei concomitanti somatici
del dolore: per completarne la conoscenza dobbiamo penetrare più
addentro nell’anima del delinquente e veder come, esso dolore, si
germini e si confonda con l’attività dell’energia criminosa, e si
addensi e preoccupi di sè le più ascose ed intime parti del cuore.

Lo vedete quell’uomo che, ricco per fortunata posizione sociale,
rispettato ovunque, traeva, non è guari, vita tranquilla e felice,
abbellita dalla pace domestica, lusingata da fulgide speranze
nell’avvenire? Egli ora è cogitabondo, è stanco, abbattuto; poco ama
il conversare, punto si diletta delle comodità onde dispone: talora
inclinato a mestizia, il più delle volte concentrato in cupi pensieri,
preoccupato da un mistero che ei si adopera di tener chiuso in sè,
geloso che se ne indovini l’esistenza. Se egli opera, se ei conversa,
l’acuto osservatore indovina in lui il turbamento, l’indecisione,
il timido balenare del pensiero: la fede nell’avvenire è scossa;
la mente, ad intervalli, si abbuia, e l’uomo, che poco prima parea
oggetto d’invidia, è reso segno di curiosa attenzione del pubblico,
di diffidenti riguardi da parte degli intimi. Nell’animo di lui è
penetrato dapprima il sospetto, poscia il convincimento di tradimento
della fede coniugale, in addietro fonte di beatitudine tranquilla,
di fervido lavoro, di sacrificî pazienti. In lui ha preso imperio il
dolore, il quale, per essere più intimo, è altrettanto più mesto,
più sconsolante: non trovando sfogo nelle affettuose confidenze,
si concentra ed assedia l’animo e ne estingue qualunque risorsa di
sollievo.

Incerto sui rimedî a tanto male, l’infelice non sa che straziare sè
medesimo; ansioso che da sè si allontani l’amaro calice costretto a
sorbire goccia a goccia, non sente più amore alla vita trasmutatasi
in teatro di amarezze: premuroso di conservare il bene sommo
dell’esistenza, l’onore, sente ribollire nel cuore la passione
dell’odio, dell’ira contro chi fu causa volontaria della grave
offesa: sull’orlo del baratro scavatosi sotto i suoi piedi, egli non
teme d’altro che di non soddisfare al dovere impostogli di vendicare
l’oltraggio sopportato, di ristabilire, quand’anche col delitto, il
suo equilibrio morale sconvolto dall’onta del talamo violato. L’idea
fissa—scrive Bourget—produce sul nostro cuore il medesimo effetto
che un punto brillante ed immobile sui nostri occhi; ella ipnotizza
l’essere dominato e circoscrive la sua sensibilità ad un cerchio
affatto piccolo di sensazioni.

Così, lo sventurato coniuge tradito, vittima di intenso dolore, o
agitato da tutte le furie; dalla gelosia, che lo richiama alla perduta
dolcezza dei godimenti dell’amore e gli incute repugnanza per chi
sprezzava la sua felicità nel darsi alle voglie altrui; dal pensiero
del disonore cagionato alla persona, al cognome, ai figli, ai parenti;
dal convincimento di un male irrimediabile, non colmandosi il vuoto
scavato dal disonore se non col ricorrere al mezzo estremo della
vendetta!

Il descritto esempio è tra i tanti di dolori intensi per motivi intimi;
ma altri vi sono, che si convertono in cause di delitti e si scusano,
oltre che dalla legge, per comune sentimento di pietà, di compatimento
dei tristi destini inseparabili dalla misera vita umana.

La emozione comune agli stati, alternanti o continui dell’intenso
dolore, è la _tristezza_, il cui tratto caratteristico fisiologico e
della fisonomia è l’azione paralizzante ch’ella esercita sui muscoli
volontarî (Lange).

Ella o è negativa o positiva: nella prima forma invade e riempie di
sè l’animo, abbattendolo e privandolo fin della speranza di rimedio;
l’energia personale si abbassa al disotto del livello di reazione
istintiva; è disseccata la fonte del desiderio, del volere; è
ottenebrato l’orizzonte del pensiero; annichilito lo spirito, chiusa
la via alla speranza; prostrata benanco la forza di protestare o di
chieder l’altrui compianto. L’uomo è distrutto, poichè a lui venne meno
ogni puntello all’esistenza, ed è noto a tutti, che la vita è sorretta
da illusioni, da fede, da ideali; guai a chi se ne spogli e crea a sè
d’intorno il vuoto; misero chi, per disavventura, siasi ridotto in
condizione cotanto abbietta!

Ma la tristezza può essere attiva (seconda forma); quel che, di
solito, incontra nel secondo stadio di forte dolore morale. L’uomo
comincia, poco a poco, col riattivare i motivi d’interesse alla vita;
con sforzi di autosuggestione ricupera la fede in sè, e negli altri;
l’orizzonte del pensiero si spiana, il volere è pronto, impaziente
d’indugi. Molti—osservatori poco accorti—facilmente scambiano questo
stadio, dirò così, accomodativo dell’intimo dolore d’un’offesa, con la
calma generata dal convincimento e dall’assuefazione, nella vittima,
di deporre il risentimento e sopportare, anche in avvenire, con
rassegnazione l’onta patita o direttamente o indirettamente. La calma
apparente può nascondere, al disotto, il furore tempestoso dell’anima
di Otello, ovvero la riflessione cupa, inflessibile, aspettante
l’opportunità della vendetta, siccome in Amleto; ma il dolore continua
a dominare, e, quando altri meno sel creda, irrompe furente alla
vendetta, con meraviglia di chi credette, per l’apparente calma,
quetata la tempesta, la quale, all’incontro, tenendosi nascosta nel
fondo dell’animo, avea bisogno di nuovo soffio di vento per scoppiare e
travolgere ogni cosa!


II.

Legittima difesa e stato di necessità.

 1. Carattere di _legittimità_ o di _giustizia_, di _necessità_ e di
 _attualità_ nella discriminante della legittima difesa.—2. Stadio
 fisio-psicologico del meccanismo della difesa dell’uomo: coefficienti
 fisici, intellettivi e morali.—3. Valutazione del _timore_ qual
 fondamento _naturale_ della legalità dell’offesa.—4. Psicologia del
 timore; esquilibrio psichico; coefficienti secondarî della necessità
 di difesa.—5. Sistema seguito dal nostro Codice.—6. Delimitazione
 della legittima difesa.—7. Legittima difesa in persona degli
 altri.—8. Dello stato di _necessità_; suo contenuto giuridico e
 logico.—9. Teoria dei giureconsulti romani.—10. Differenza tra lo
 stato di necessità e la legittima difesa.—11. Estremi dello stato
 di necessità.—12. La _gravezza_ e la _imminenza_ del pericolo.—13.
 L’_accidentalità_ e la _inevitabilità_ del pericolo.—14. Lo stato di
 necessità per la salvezza degli _altri_.

=1.=—A completamento di alcune forme giuridiche di psicologia
criminale, tratteremo della legittima difesa e dello stato di
necessità. Ciò facendo, prescinderemo dalle nozioni puramente di
diritto, estranee alla materia di questo libro.

Parlando della legittima difesa, altrove[155] scrivevamo le seguenti
osservazioni, le quali, ricordate dopo circa dieci anni, servono quale
nuovo argomento onde convincere il lettore del come fosse costante
in noi la persuasione, che l’unico ed efficace indirizzo positivo in
materia criminale fosse quello non difforme dai principî scientifici
della _scuola dinamica_, e che a torto i cultori di antropologia e
di sociologia criminale han voluto allontanarsene, allora quando
ponevano a sostegno delle loro teorie o l’esclusivo elemento somatico
dell’individuo, ovvero la influenza assoluta delle necessità sociali.

Quasi tutti gli scrittori avvisano nella difesa il carattere di
_legittimità_ o di _giustizia_; di _necessità_ e di _attualità_. È
legittimo tutto quello che non è fatto contro la legge, anzi per
respingere un attacco antigiuridico: ciò che più non avviene quando
si è cagione prima del male che poscia si respinge col danno altrui.
La necessità è inerente al pericolo imminente del male minacciato; è
imposta dalla eccezionale condizione di non essere alcuno più in grado
di far ricorso alla tutela delle leggi, ma di doversi avvalere della
forza privata, dell’opera individuale. L’attualità, poi, contiene
l’obbligo di far cessare il diritto di reazione tostochè sia cessata
l’azione. Il carattere di legittimità è valutabile obbiettivamente,
alla base di qualche prescrizione legale, che, determinando l’indole
permessa o vietata dei nostri atti, ci apprende altresì il modo
di estimarla. Ma il carattere di necessità e di attualità sono
da considerarsi soggettivamente ed in relazione, non solo alle
circostanze speciali che accompagnarono la violenza, o l’attacco, e la
offesa o reazione, ma altresì in relazione all’indole dell’offeso e
dell’offensore ed allo stato peculiare di animo che determinò l’offeso
a reagire.

Con questo metodo, risalendo alla natura intima e primitiva dell’uomo,
si avrà che la discriminante della legittima difesa, piuttosto che
poggiare sul godimento di un diritto o l’adempimento d’un dovere, e
sulla necessità d’obbedire ad una coazione, sia il risultato spontaneo
di una legge dinamica, la quale è costante; presiede a qualunque
umana operazione, individuale o collettiva, e si effettua nella
_prevalenza dell’energia di conservazione dell’essere, in collisione
con altre energie che ne vorrebbero distruggere la natura sostanziale
ovvero ostacolarne il perfezionamento_. La lotta di esistenza o di
conservazione, che costituisce la naturale dimostrazione della vita
_dinamica_ degli esseri animati, quando vogliasi riguardare nelle
relazioni tra gli individui, si converte in prevalenza di energia
di conservazione; appunto perchè, come fu da noi accennato, gli
esseri individui, e l’uomo segnatamente, sono il prodotto di qualche
speciale energia che, per natura propria ond’è differenziata dalle
rimanenti, ottiene il sopravvento nella lotta di continua produzione
e trasformazione degli esseri, ed impronta di sè la nuova apparizione
fenomenica risultatane. L’uomo che, aggredito, si difende, non ha,
certamente, il tempo di pensare al diritto o al dovere che gli compete,
ovvero di misurare lo stato di coazione in cui versa: in lui l’istinto
della conservazione rimugghia potente dall’intimo del cuore, e la
reazione è il compimento di un moto meccanico che spontaneamente
insorge e si esplica.

Chi ne desideri la prova palese, riguardi a quei nostri movimenti
automatici ed incoscienti alla presenza di qualche fatto che
all’improvviso e, quasi sempre per caso, minacci il nostro benessere:
la mano corre rapida ad allontanare un oggetto che era per riversarsi
addosso; l’occhio, pel movimento delle palpebre, è difeso dal pericolo
di contatto offensivo con oggetti esterni; la repugnanza dell’olfatto
per alcuni cibi vi dice, che questi mal si confanno ai nostri bisogni
di nutrizione e di benessere. In questi moti istintivi è la sede della
reazione di offesa per respingere la ingiusta violenza, la quale ne
minaccia di pericolo; e la ragione per cui appo tutti i popoli e tutte
le legislazioni non si dubitò mai dell’origine naturale del moderarne
d’incolpata tutela, quantunque discrepanti applicazioni se ne facciano
in pratica.

=2.=—Senonchè, il meccanismo della difesa dell’uomo, per la facoltà
di razionalità in lui, quantunque cominci da moto spontaneo, si compie
in moti riflessi: alla semplice impulsività iniziale della violenza
attuale si aggiungono svariati coefficienti, che conviene classificare
in tre ordini; in fisici, intellettivi e morali. Sono fisici tutti quei
coefficienti che, dipendendo dalla presenza di un dolore o dall’assenza
di un piacere goduto, determinano lo stato psichico conveniente alla
scelta del mezzo dell’offesa in preferenza del ricorso alla guarentigia
dell’autorità o della legge. È tanto forte la proclività, nello stato
di dolore, all’offesa, che qualche volta siamo indotti a respingere,
nostro malgrado, colui che, cagionandoci un dolore passeggiero, intende
procurarci il risanamento da qualche morbosa affezione fisica. I
bruti, che, meglio di noi, sentono la forza degli istinti puramente
fisiologici, respingono l’azione dolorosa con reazione altrettanto
potente che subitanea.

Sono coefficienti intellettivi quelli che si connettono alla
_relazione_ degli eventi, o precedenti o concomitanti o successivi:
cioè a dire, che fanno dipendere la prevalenza di una data disposizione
dal concorso simultaneo di efficacia psichica di tutte le _idee_, che
abbiano nesso con l’evento verificatosi della violenza e con quello da
verificarsi della reazione per respingerla. Sono coefficienti morali
quelli che si riferiscono ai sentimenti od alle passioni, le quali
preparano o accompagnano il conflitto criminoso dell’attacco e della
difesa. Tutti questi coefficienti possono riassumersi in un concetto ed
in un sentimento; il concetto di _pericolo_ e quello di _timore_.

Il pericolo o è fisico, e produce la costrizione di allontanare
una causa disorganizzatrice del nostro benessere fisiologico; o
intellettivo, ed è la sintesi di tutte le idee che sono il frutto della
istruzione ed educazione, non che delle prescrizioni legali ed etiche
e della misura o proporzione tra il danno, che si cerca di evitare e
quello che ne deriverà dall’appigliarci, con preferenza, all’uso della
forza privata, e non al mezzo della legge o dell’autorità competente.
Il pericolo, in fine, se è morale, si muta in sentimento di _timore_,
il quale consiste in un turbamento psichico, ovvero in un disordine
di facoltà con aumento delle energie istintive di conservazione e
diminuzione di energia delle attitudini acquisite e delle cause che
loro si riferiscono.

Nel contrasto di tendenze, ogni energia istintiva piglia il
sopravvento; la cagione è perchè le facoltà da noi acquistate o,
meglio, sviluppate, per lo stato sociale, presuppongono, perchè
abbiano peso, la condizione di ordine giuridico; la quale condizione,
laddove sparisca con la eccezionale evenienza di non poterci
avvalere della protezione delle leggi, mena seco l’indebolimento o
la sparizione del potere dei motivi che ci contengono ad agire nei
limiti della legalità e del rispetto dell’altrui diritto. Chi fino
a questo punto ci ha seguito, nell’analisi della teorica dinamica in
materia criminale, intenderà facilmente, che lo stato di necessaria
difesa sia il contrapposto dello stato di delinquenza punibile. Pel
delinquente evvi prevalenza di energia criminosa con scelta, più o
meno cosciente, di mezzi adatti al fine di dar corso all’efficacia del
motivo, il quale si è convertito in iscopo; per chi legittimamente si
difende, la prevalenza di energia è per una azione di ordine ovvero
di ristabilimento dell’equilibrio, naturale e civile, contro cui è
dirizzata la violenza dell’aggressore. Se, dunque, vi sono delle leggi
che puniscono il primo, perchè non vi deve altresì essere una legge che
assolva il secondo?

=3.=—Parlandosi del timore, fondamento _naturale_ di legalità della
reazione, alcuni ne vollero, come pel pericolo, formolare un precetto
esclusivo, il quale si adottasse quasi regola logica e costante. Si
disse, quindi, che siffatto precetto fosse deducibile dalla natura del
danno, che ci vien minacciato; dalla gravezza ed inevitabilità dello
stesso, e dalla specie dei mezzi di che facciamo o potevamo far uso,
nel respingerlo. Il Carrara, per esempio, scrive[156], che, perchè al
timore si accordi questo potente effetto di rendere legittimo un atto
violatore dei diritti altrui e materialmente contrario alla legge, è in
tutti i casi necessario per regola _assoluta_, che nel male minacciato
si trovino questi tre requisiti: 1^o _ingiustizia_, 2^o _gravità_,
3^o _inevitabilità_. E, parlando del requisito di inevitabilità,
aggiunge: «Certamente, se al male, che ci minaccia, potevamo sottrarci
_altrimenti_ che col violare la legge, la violazione deve rimanere
punibile; perchè l’arbitrio dell’agente non era più ristretto fra la
scelta di due mali ugualmente gravi; e la legge dell’ordine poteva
essere osservata, purchè egli eleggesse il mezzo innocente col quale
avrebbe evitato e il danno proprio e l’altrui. Sottrarsi _altrimenti_
dal male, che ci è minacciato, si può o con previsioni _anteriori_, o
con provvedimenti _successivi_, o con ripari _concomitanti_. Perciò
la _inevitabilità_ nel pericolo, che indusse ad agire o reagire, si
desume da _tre_ criterî distinti: 1^o che sia _improvviso_; 2^o che
sia _presente_; 3^o che sia _assoluto_»[157]. Ecco un ragionamento
il quale pecca di eccesso: perchè, quando anche si giunga a definire
il significato di ciascuno dei tre distinti criterî, non si arriverà
mai a precisare, nella indefinita serie dei fatti, la ipotesi in
cui o l’uno o l’altro, o tutti insieme, abbiano a riscontrarsi.
Il Berner[158], partendo dalla necessità di proteggere un diritto
aggredito, che vuol mantenersi contro un assalto ingiusto ed attuale,
conclude molto più _logicamente_, che «non è necessario che lo assalto
sia _impreveduto_, nè che il diritto difeso sia irreparabile. Se si
mantiene la legittima difesa nel suo concetto semplice, che il diritto,
cioè, non deve piegare davanti una ingiustizia, risulta evidente che
essa è applicabile anche per un diritto risarcibile». Esagerando in
sistemi restrittivi, si giunge a creare delle norme troppo astratte ed
arbitrarie, le quali, se accontentano lo scienziato, non possono a meno
che essere dannose pel giudice, che, non della imputabilità, ma della
imputazione è chiamato a decidere, ed ha l’obbligo di tenere presenti
tutte le circostanze le quali accompagnano il fatto e ne modificano
l’indole; lo attenuano o lo aggravano.

=4.=—L’errore degli scrittori, che posero a fondamento della legittima
difesa la teorica della _coazione_, è nell’avere trasformata la nozione
del timore da idea soggettiva e relativa in criterio imprescindibile
ed obbiettivo. Indi si adottarono dei concetti di _gravezza_ e di
_assolutezza_ non sempre congrui alla realtà delle cose, anzi il più
delle volte troppo ipotetici. Il timore, causa morale dell’azione
difensiva, non è a staccarsi dalle altre cause fisiche ed intellettive
che determinano la scelta e l’uso della forza privata e non della forza
pubblica e delle leggi. Fino a che il pericolo è puramente fisico,
non sarà difficile il ricorrere a mezzi legali, reprimendo l’atto
della istintiva reazione; parimente avviene nel pericolo dall’aspetto
intellettivo, perchè vi è l’agio di rafforzarsi nell’intenzione di non
reagire pel concorso opportuno di tutte le idee che sono la fonte del
diritto e del dovere; ma non è più così pel pericolo addivenuto timore,
perchè in questo caso l’equilibrio morale o è indebolito o distrutto.
Tornerà chiaro quanto qui è detto se si esaminano alcuni esempî. Tizio
è minacciato da Caio per azione involontaria o colposa. Il pericolo per
Tizio è già fisico, perchè qualche cosa si è realizzata, la quale mette
in dubbio l’animo sulla conservazione della nostra integrità corporale;
eppure Tizio sarà facile che non reagisca.

La ragione è perchè egli sa con certezza, che il fatto delittuoso non
dovrà ripetersi; epperò non richiede che sia antivenuto o prontamente
represso. E del pari: Tizio minaccia Caio di morte; questi, se la
esecuzione della minaccia non è immediata, non crederà dì reagire
usando della propria forza, perchè riflette alla opportunità di
aver comodo a mettersi in condizione, nell’avvenire, di non cadere
vittima dell’avversario, e di prendersi la giusta vendetta, che a lui
competa, dal soccorso punitivo della legge. Ma non è lo stesso quando
il pericolo fisico, vincendo ogni freno intellettivo, si converte in
sentimento di timore e giunge ad impossessarsi del nostro animo. Il
turbamento, che ne segue, distrugge in pochi istanti l’opera faticosa
di buona e lunga educazione, di virtù ereditarie di rispetto della
legge; fa scomparire o attenua la forza proveniente dal convincimento
di incorrere in possibile responsabilità, dovendosi un giorno dar conto
del proprio operato sebbene non delittuoso.

Sapere, però, comprendere l’intimo nesso tra le energie psicofisiche,
e vederne poscia lo stato di turbamento, è solo contemplare in
apparenza il problema psicologico del moderarne d’incolpata tutela.
La maggiore difficoltà è quando ci facciamo a studiare la relazione
disorganizzatrice tra l’energia del motivo, causa del pericolo,
trasformata in sentimento di timore ossia in causa di esquilibrio
(perchè non coerente alla nostra abituale natura), e le facoltà
psicofisiche armonizzate ad unità razionale e tendenti alla
conservazione dell’ordine giuridico, il quale rispecchia esternamente
il nostro ordine interno. È d’ogni stato di squilibrio affettivo
l’indebolimento o l’obliterazione della coscienza; ond’è che neppure
dal lato meramente morale, o soggettivo, l’azione criminosa commessa
nel descritto stato avrebbe sufficiente e plausibile argomento di
responsabilità penale.

La legge di necessità, _necessaria difesa_, è la legge dominante
dell’azione reattiva: essa, comechè non sia tutta meccanica, come nei
fenomeni puramente automatici, obbedisce alla dinamica di conservazione
e si proporziona istintivamente all’energia di tendenza protettiva
della integrità personale. Lo stato psichico qui descritto è il normale
per chi reagisce spinto dalla necessità di difendersi; è lo stato,
cioè, di chi si appiglia all’uso della forza privata perchè veramente
ed assolutamente non è in grado di ricorrere all’ausilio della legge.
Ma, bene spesso, l’azione è il risultato di un concorso di parecchi
altri fattori che mette bene di esaminare. Il primo e più ordinario
fattore è quello di _vendetta_.

Il timore abbatte l’animo, il sentimento di vendetta lo rialza, e la
passività prodotta dalla sorpresa dell’attacco è vinta dalla rinata
attività di reazione, che di automatica addiviene cosciente. A questo
punto, dal fondo della coscienza si desta un secondo fattore, l’idea
del diritto proprio in correlazione col dovere dell’avversario; il
diritto al rispetto, il dovere, in altri, di non rompere l’ordine
imposto dalla legge e dalla necessità della vita sociale. In pari tempo
si affaccia alla mente una serie di idee, le quali per lo innanzi
non facevano avvertire la loro presenza; idee di tutti i doveri da
noi adempiti per conservarci il rispetto alla conservazione; idee
delle conseguenze dannose, morali e materiali, che ne deriverebbero,
se l’atto illecito non fosse represso: al che si aggiunge un certo
istinto, per quanto domato dal progresso e dalla civiltà dell’uomo,
altrettanto potente (laddove non ricorrano le ordinarie condizioni
della vita giuridica) a sentirci trascinati alla distruzione del simile
per blandizia di preminenza, sia pure di forza bruta, contro chiunque
osi esserci di contrasto. Il diritto della forza, condannato dalla
morale, represso dal mònito della legge, rinasce potente, in tutto il
vigore brutale, ogni qualvolta la morale e la legge perdono l’imperio:
l’individuo si sostituisce alla società, e nel momento supremo della
lotta tra la propria esistenza, protetta dal convincimento del diritto,
e l’operare altrui in contraddizione del dovere, la scelta non è
dubbia, poichè la conservazione dell’essere, oltrechè spontanea, è
frutto di abituale riflessione e di adattamento al consorzio sociale
cui apparteniamo.

=5.=—Pel nostro Codice la legittima difesa è limitata alla _persona_,
cioè, come si espresse il Zanardelli, alla vita, all’integrità
personale ed al pudore, non ai _beni_; salvochè la violenza ai
medesimi vada unita ad un attacco alla persona. Il § 53 Cod. pen.
tedesco, da cui l’art. 49 del nostro Codice penale è tolto, prescrive
che «necessaria difesa è quella che è richiesta per respingere da sè
o da un altro un’aggressione attuale ed ingiusta». E gli scrittori
interpetrano, secondo il Berner[159], che, essendo il fondamento della
legittima difesa la protezione del diritto, ella si estende non solo
alla difesa del corpo, della vita, della proprietà e dell’onore, ma
anche dei diritti famigliari (adulterio), della libertà, del pegno, di
una servitù, ecc.

=6.=—Questa teorica, com’è detto, non è accettata dal nostro
legislatore.

Il Zanardelli, commentando l’art. 357 del suo progetto ultimo[160],
così ne significava le ragioni: «Si è dubitato se la giustificazione
per l’omicidio e per la lesione personale, universalmente ammessa
quando si tratta di difendere a persona, debba ammettersi anche nel
caso in cui si tratti di difendere la proprietà. I nostri progetti
di codice hanno costantemente respinta, come esorbitante, la teoria
accolta da alcuni scrittori ed in qualche codice, secondo la quale si
ammetterebbe che, anche al solo fine di salvare la roba, sia sempre
legittima l’uccisione del ladro. «La proprietà (scriveva il Nicolini)
è cosa sì lieve a fronte dell’onore e della vita, che sarebbe avvilir
troppo questi beni sovrani dando a quella i privilegi medesimi; per
essa vi è sempre tempo di implorare i giudizî. Che se è violenza,
sempre inescusabile, _quoties quis id quod sibi debetur non per judicem
reposcit_ (L. 7, D. XLVIII, 7, ad leg. Iul. _de vi privata_), molto più
dev’esserlo quando in vendetta della proprietà violata si trascorre
a’ corrucci ed al sangue»[161]. Ma, se l’attentato alla proprietà
abbia tali caratteri, o avvenga in tali circostanze da presentarsi
quasi inseparabile dall’attentato alla vita o alla sicurezza personale
del proprietario, allora ogni ritegno deve cessare verso i ladri e
gli aggressori; e chi è posto in pericolo ha diritto di respingere
l’aggressione con tutti i mezzi che a questo effetto siano necessarî.
Per tali considerazioni, e limitatamente ai delitti di omicidio e di
lesione personale, la giustificazione della legittima difesa, di cui
è proposito nell’art. 50, num. 2 (del Progetto), viene estesa alla
necessità di difendersi contro gli autori di violenti attentati alla
proprietà, come sarebbe nel caso di furto violento o di saccheggio, o
quando si respingano i ladri, che scalano o scassano la casa in tempo
di notte, o quando, avvenendo ciò in tempo di giorno, la casa sia posta
in luogo isolato».

=7.=—La legittima difesa non è soltanto ammessa per respingere da
sè una violenza attuale ed ingiusta, ma ancora per respingerla da
altri. Chi desiderasse apprendere la ragione vera ed ascosa di questo
precetto, che è sanzionato ben anco dalla morale, dovrebbe risalire a
due nozioni essenzialissime del progresso dell’umanità; la prima, che
le medesime leggi, le quali regolano la natura individuale dell’uomo,
ne regolano la collettiva; la seconda, che il diritto, mediante lo
stato sociale o l’integrazione graduale della nostra personalità, si è
venuto universalizzando nel suo contenuto di relazione e di imperio.
L’individuo, unendosi ai suoi simili, non pure rendesi partecipe dei
diritti da lui estimati essenziali e costanti della vita, ma di tutti
gli altri onde accidentalmente egli potrebb’essere in facoltà di
servirsi: quindi è che la famiglia sociale, mentre è un tutto composto
di svariate parti, ciascuna delle quali ha diritti e fini proprî, è
parimente unità organica stretta da vincoli di necessità di esistenza,
e da bisogni sviluppatisi tra i suoi membri per legge di reciproca
convivenza. L’amore, la simpatia tra gli uomini, tutti i sentimenti
altruisti, quantunque abbiano la lontana fonte nell’egoismo, sono,
allo stato di civiltà, così spontanei ed imprescindibili che, per
essere messi in atto, non esigono sforzo, ma sono rivelazione del
carattere di espansività della nostra vita affettiva e del fine del
progresso di avvicinare i due poli estremi della sociale esistenza,
quello dell’individuo e quello della umanità.

Qualunque idea o legge, teoricamente riconosciuta e fermata, ha dovuto,
in precedenza, essere da noi scorta quale condizione permanente di
un singolo essere o fenomeno; il carattere di universalità è dato
dall’astrazione, la quale col considerare i fenomeni individuali si
solleva alla serie di verità generali, la cui assolutezza è causa
del convincimento e della certezza, che è in noi, quando ci facciamo
a giudicare od operare guidati dal lume di nozioni già acquistate.
La religione, divinizzando questo principio, fa che tutti dobbiamo
considerarci figli d’un solo padre: ognuno sente di non essere nato per
vivere isolato o per sè solo, ma di compartecipare al benessere dei
simili; poichè l’eccitamento delle tendenze altruiste e la voce della
coscienza morale e giuridica ci richiamano al dovere di considerare
negli altri noi stessi, e di fare per i medesimi quello che per noi
avremmo voluto che fosse fatto. «Il quale, a dir vero, come osserva
il Nicolini, non è che il principio ben inteso della conservazione
di noi stessi. Imperocchè non vi ha mezzo di esistere, non che di
essere educati e giungere all’estrema vecchiezza; non vi ha sicurtà
di poter soddisfare alle necessità, alle utilità, ai comodi ed anche
ai piaceri della vita, senza concorso di altri. Che se natural cosa è
il volgerci altrui per aiuto in qualunque nostro bisogno, natura ci
comanda di non esser lenti ad accorrere quando altri ci invoca. Qual’è
quell’uomo che in un incendio, in una ruina, in un naufragio o in un
assalto repentino, che da qualche fiera, o da uomo peggior di fiera ei
sostiene; chi è che pronta non desideri una mano soccorrevole? Ed egli
poscia, invocato nel bisogno altrui, si mostrerà restìo, benchè col
suo pericolo, ad accorrere? Disse già quel grande interpetre di ogni
sentimento umano e della ragione: _chi ne ricusa il peso, rinunzia al
benefizio_[162]. Ma chi può far tal rinunzia senza perire? È dunque un
tal peso inerente alla natura dell’uomo, e condizione necessaria della
sua esistenza»[163].

=8.=—Ci resta ora a dire alcun che dello _stato di necessità_[164].
Il suo contenuto giuridico è in un conflitto tra il proprio e l’altrui
diritto a motivo di evento fortuito o di accidenti naturali; il
fondamento logico è nell’imperio assoluto ed ineluttabile della legge
di necessità. La lotta che si impegna tra la forza uomo e le altre
forze della natura; tra il diritto personale e quello dei consociati,
è cagione, talfiata, di collisione di interessi, la quale giunge fino
al punto di persuaderci ad agire a detrimento altrui, senzachè fossimo
animati da sentimento di odio o da vendetta verso la vittima.

=9.=—Il diritto romano derivava la irresponsabilità dal riguardo di
preferenza di un bene maggiore rispetto ad uno minore; epperò Labeone
scrive: Se l’impeto dei venti spinse una nave nelle gomene dell’ancora
di un’altra, ed i nocchieri hanno tagliate le gomene, non competerebbe
verun’azione, qualora non si avesse potuto liberarsi in altro modo che
col tagliare le funi. Lo stesso Labeone e Procolo pensarono, che ciò
si dovesse applicare anche al caso delle reti de’ pescatori, nelle
quali avesse urtata la nave. Certamente, se ciò avvenne per colpa dei
nocchieri, avrà luogo l’azione della legge Aquilia[165]. Ed Ulpiano
aggiunge, che quegli che, per salvare le proprie merci, ha gittato
in mare le altrui, non è tenuto per veruna azione. Ma, se ciò avesse
fatto senza giusto motivo, sarebbe tenuto per l’azione del fatto (_in
factum_); se con dolo, per quella del dolo[166].

La ragione discriminatrice di responsabilità era da Gelso, secondochè
Ulpiano riferisce[167], ammessa in considerazione di _justus metus_;
ciò che è qualche cosa di più della semplice considerazione di entità
materiale di un bene in paragone di un altro. Ad uguali risultati
arrivarono il diritto canonico e gli antichi giureconsulti.

=10.=—Secondo il legislatore italiano, dobbiamo, in primo luogo,
distinguere lo stato di necessità dalla legittima difesa; in quanto che
la difesa legittima è diretta a respingere la violenza altrui, cioè
a dire un’aggressione, laddove nello stato di necessità il conflitto
tra il proprio e l’altrui diritto è creato da un evento fortuito o
da accidenti naturali. Nella quale distinzione è solo indicato il
lato oggettivo della giustificazione, di cui ci occupiamo; il che
riscontrasi appo tutti coloro i quali si sforzarono di non dipartirsi,
nell’assegnare il fondamento giuridico dello stato di necessità, da
formole contenenti, con maggiore o minore esattezza, il conflitto tra
due beni in lotta, ed il dovere di sacrificare il minore per conservare
quello di entità maggiore.

Se fosse così, come da molti è ritenuto, si confonderebbe il
caso di giustificazione di inimputabilità penale, con quello di
irresponsabilità civile; potendo avvenire, che la _necessità_, anche
in caso di infrangimento di diritto risarcibile civilmente, escluda
l’azione di responsabilità, salvo che non si ravvisi nel fatto qualche
traccia di colpa da parte dell’agente, relativa all’avvenimento
fortuito di cui si deplorano le conseguenze dannose. La essenza
propria della discriminante dello stato di necessità parmi che debba
cogliersi nell’estremo del _pericolo grave ed imminente_; ch’è a
dire, in uno stato tale di animo da rendere dubbio quel concorso
di coscienza e di libertà di atti, che pel nostro legislatore è il
primo requisito di qualunque fatto imputabile penalmente. Ed è troppo
noto, che vi sono degli stati di coscienza nei quali l’intelligenza e
l’attività dell’uomo si arrestano, o per manco di sviluppo o per causa
accidentale, e l’azione, che ne deriva, deve rapportarsi piuttosto
all’azione meramente meccanica del motivo iniziale, esterno o interno
che sia, che all’azione riflessa della nostra mente.

=11.=—Gli estremi dello stato di necessità sono: _a_) un _pericolo
grave ed imminente alla persona_; _b_) l_’accidentalità e
l’inevitabilità_ di tale pericolo; _c_) _la necessità di salvare sè od
altri_.

Il contenuto reale è sempre un _pericolo_, il quale esternamente
si converte in un _bene_ contro cui è rivolto l’evento fortuito, e
soggettivamente in uno stato di _giusto timore_. La necessità è termine
medio tra il bene minacciato ed il timore suscitatosi nell’animo
dell’agente; termine medio che sorge quando innanzi alla mente
dell’individuo sia preclusa qualunque via di salvezza, meno quella
di sacrificare l’altrui diritto; e quando, perciò, la coscienza di
scelta di mezzi all’operare è obliterata, o distrutta, dall’esquilibrio
psichico causato per l’imminenza del pericolo cui si è di fronte. Ed il
legislatore, col fine di rendere meno equivoci gli esposti concetti,
ha limitato l’evento del pericolo alla _persona_, con significato
restrittivo che noi facciamo voto sia serbato dalla giureprudenza,
acciò non si esageri in arbitrarie ipotesi.

=12.=—Il pericolo dev’essere _grave ed imminente_: donde trarremo le
regole per giustamente estimarlo? Il Codice tace, ed è logico; perchè
anche qui, come per la legittima difesa, versiamo in apprezzamenti
del tutto soggettivi. La gravezza e la imminenza non sono caratteri
permanenti, ma transitorî; la loro influenza sulla nostra attività è
regolata da una serie indefinita di circostanze che torna impossibile
esaminare singolarmente.

=13.=—Il pericolo dev’essere _accidentale_ («al quale non avea dato
volontariamente causa») e _inevitabile_ («che non si poteva altrimenti
evitare»). È accidentale il pericolo che non potè essere previsto,
ed al quale non si è concorso in guisa veruna. Che se il pericolo
fosse l’effetto di qualche nostro fatto volontario, non saremmo più
nel diritto di invocare la giustificazione della necessità, dovendo
sopportare le conseguenze del proprio inconsulto operato. Dev’essere
anche inevitabile, ch’è a dire, non poteasi altrimenti sfuggire che col
produrre un nocumento altrui. L’obbligo, a siffatto riguardo, imposto
dalla legge è molto più stretto che non per la legittima difesa. Chi
è aggredito ingiustamente, oltre ad avere il diritto di respingere la
violenza pel fine di garentirsi dalla offesa minacciata, ha il dovere
di opporsi a che altri infranga quell’ordine giuridico che è cardine
del consorzio civile, e che limita l’azione di ciascuno al punto di
non permettere che si violi la sicurezza altrui. Ma chi, necessitato,
sacrifica il bene di un altro al bene proprio, non si propone che un
solo scopo, quello della sua conservazione; ogni motivo diverso, invece
di accrescere in lui il diritto di respingere il pericolo, ne attenua
il carattere di giustizia e rende eccessivo e punibile l’atto eseguito.
Quindi si comprende come la _necessità della salvezza_, ultimo
requisito che accompagnar deve il pericolo, non sia giustificabile
le quante volte l’agente abbia fatto prevalere qualche altro motivo
che non sia l’esclusivo ed ineluttabile di sottrarsi dalla imminente
minaccia di grave danno: dico qualche altro motivo, intendendo
di parlare di qualunque coefficiente che, senza essere l’unica
determinante dell’azione, vi ha però influito in grado apprezzabile,
rendendo, per avventura, necessario ciò che poteva non esser tale. Non
è difficile riscontrare dei casi in cui il nostro concetto apparisca
chiaro. Ammettasi, ad esempio, che l’incendio si appicchi ad un teatro;
e che gli spettatori si accalchino alle porte per mettersi in salvo.
Un infelice casca per terra e, calpestato, è in evidente pericolo di
morte. Se altri, senza badargli, gli è sopra e gli è cagione di grave
lesione, sarà responsabile dell’operato?—ovvero dovrà rispondere in
parte del danno, di cui fu l’autore? La risposta equa sarà data dal
considerare se tutto quello, che è avvenuto, era _necessariamente_
occorrente per la salvezza di chi ha cagionata la lesione all’infelice
caduto; che, se chi si è all’impazzata precipitato alla porta di
uscita, senza badare che altri ne soffrisse danno, poteva ancora
indugiare ma non lo ha voluto pel _motivo_, poniamo, o di uscir subito
di teatro o di recarsi a chiamar gente che accorresse a spegnere il
fuoco, o per ogni altra ragione, la quale non sia propriamente quella
di mettersi in salvo, egli risponderà, della lesione cagionata, in
proporzione della importanza del motivo secondario in comparazione al
principale ed impellente di procurarsi, a qualunque costo, la salvezza.

«E più particolarmente—scrive il Conti—non vi ha necessità quando
non sia legittimo il motivo che indusse l’agente alla violazione del
diritto altrui, quando, cioè, il minacciato non agisca pel principio
della conservazione giuridica. Non vi è necessità, se la rinuncia
al bene proprio sarebbe stata giusta e naturale, secondo le idee ed
i sentimenti della comune dei cittadini onesti in dato Stato e in
data civiltà. Non vi è necessità, se non vi è lotta fra due diritti
preesistenti, senza che per questo si fondi l’eccezione dello stato
di necessità sulla teorica della collisione e sulla prevalenza, in
ogni caso, del diritto maggiore al minore. Ma, certo, il concetto
di necessità va basato specialmente sul criterio, inapprezzabile _a
priori_, della _proporzione_ fra i beni tolti ed i beni salvati. Ed
esclusa così assolutamente la necessità, resta il fatto delittuoso
passibile di pena ordinaria; esclusa solo in parte, resta un fatto
solo parzialmente illegittimo, e quindi passibile di pena diminuita.
Se non vi ha necessità, non vi ha nè scusa, nè giustificazione;
se vi ha tuttora necessità, ma per imprudenza od imprevidenza si
diè causa al pericolo, lo si affrontò potendolo evitare, gli si
contrappose un’azione sproporzionata, vi ha l’eccesso nello stato di
necessità»[168].

=14.=—Il legislatore estende alla salvezza _di altri_ la giustificante
dello stato di necessità; strana, invero, ipotesi di scriminazione;
sembrando esorbitante, al dire del Villa, fuori di ragione, che sia
lecito sacrificare il diritto di taluno per beneficare un terzo
qualsiasi. Checchè si opponga in contrario, noi ci avvisiamo che,
estesa fino a questo punto la necessità, molto facilmente può dar luogo
all’arbitrio; mancando, in atto, l’estremo vero della giustificazione,
vale a dire il _timore_, e riscontrandosi invece la _compassione_,
la quale, se pure è ragione di attenuare la responsabilità, non può
esimere, senza che non si commetta ingiustizia, da pena chi, seguendone
il consiglio, infranse la legge.

Il magistrato, ricordando i principî sui quali noi abbiamo creduto di
riporre la discriminante in parola, sarà oculato nell’apprezzare molto
scrupolosamente i fatti, e nel ritenere, in casi molto eccezionali, la
ipotesi di giustificazione per delitti commessi da chi invoca lo stato
di necessità di un pericolo che altri correva. La carità, l’amore del
prossimo non distinguono individuo da individuo se non pel riguardo
di maggiore bisogno di ciascuno; il quale dettame suona ingiustizia
allorchè il bisogno, non che essere giustificato da ragionevole
opinione di torto o di ragione, è motivato da eventi fortuiti ed
accidentali, a cui nessuno degli individui versanti in pericolo ha dato
causa.



CAPO XV.


Psicologia della prova del delitto.

 1. Dovere del giudice in materia penale; le leggi di rito e le
 idee teoretiche del delitto.—2. La verità storica del fatto; il
 criterio di verisimiglianza.—3. Necessità d’una psicologia del
 testimone; guarentigie logiche della prova testimoniale.—4. Qualità
 del testimone; importanza del suo fondo individuale sensitivo,
 intellettivo ed etico: il suo fondo sensitivo.—5. Lato intellettivo
 del testimone.—6. La relatività delle leggi logiche nella prova
 testimoniale.—7. Il _temperamento_ individuale ed il _tempo_,
 dall’avvenuto delitto, son le due principali cause modificatoci
 dell’opera del testimone.—8. L’ufficio del giudice, esigenze
 psicologiche cui egli è sottoposto.

=1.=—Avvenuto il delitto, importa alla società di punirlo. Ma, prima
che questo ufficio si adempia, è mestiere che il giudice, organo
di funzionamento della giustizia, si renda conto sia della _verità
storica_ del fatto imputabile, che della sua speciale natura violatrice
della legge. Anche in questo, alla stessa guisa che per la serie di
nozioni e per l’ulteriore e definitiva conoscenza dell’evento psichico
del delitto, noi ci troviamo dinanzi a problemi d’indole psicologica e
che, risoluti, agevoleranno il lavoro logico di indagini affidate al
giudice.

In generale, egli è a notare, che il progresso delle norme di rito è
in ragione della conoscenza più o meno scientifica ed approfondita del
fenomeno del delitto. Quando, in vero, il delitto consideravasi una
infrazione, più che della legge penale, dei supremi principî morali
e religiosi, il rito inquisitoriale, affidato all’ufficio pratico
d’incerta casistica, esagerò talmente i suoi metodi di ricerca e di
estimazione della prova da scuotere il sentimento della umanità a
protestare ed a ribellarsi: nè interviene altrimenti oggi in cui, per
gli errori e le preoccupazioni di falsa dottrina metafisica, tuttavia
seguìta dalla maggioranza, abbiamo un’errata procedura giudiziaria
causa, oh! come frequente!, di ingiustizie irreparabili.

=2.=—Dicemmo, che il primo obbligo del giudice sia quello di rendersi
conto della _verità storica_ del fatto. Egli, cioè, deve accertarsi che
il fatto violatore della legge abbia avuto esistenza reale e non sia,
invece, artificiosa invenzione di persone interessate a creare falsi
addebiti. La logica, di accordo con la psicologia, ci insegna, che i
fatti naturali si assodano, di regola, con la _immediata percezione_.

«Per assodare un fatto storico—scrive il Masci—occorre, nell’immensa
maggioranza dei casi, affidarsi alla percezione che altri ne ebbe, e
valutare il grado di certezza che si può attribuire a questa, cioè
occorre avere, non solo la testimonianza, il racconto, ma anche la
possibilità di apprezzare la sua conformità al fatto raccontato.
E poichè ciò non può farsi col paragone del racconto col fatto,
che più non esiste, e (se potesse essere fatto renderebbe inutile
la valutazione della testimonianza), così ogni valutazione di una
testimonianza è, in fondo, la valutazione di un _indizio_, di un
_segno_ del fatto, e si fonda sul presupposto logico generale, che,
se taluno attesta qualche cosa, la ragione più naturale di questa
attestazione è che il fatto asserito sia realmente accaduto, e che
la testimonianza sia la traccia, il segno, che il fatto storico ha
lasciato di sè nella memoria di quegli che l’ha percepito»[169].

Il primo criterio di valutazione della testimonianza è, che il fatto
raccontato sia _verisimile_, cioè «che il racconto abbia non solo
intrinseca coerenza e non implichi contraddizione, ma anche che abbia
verisimiglianza, tenuto conto delle epoche (del tempo), dei costumi,
delle circostanze nelle quali si svolse»[170].

Nella verisimiglianza, criterio logico fondamentale della credibilità
storica del fatto, il psicologo nota, che pel testimone e pel
giudice la verità imputabile penalmente non consiste solo nella
materialità dell’avvenimento, ma nei caratteri o nelle circostanze
che lo qualificano. Di guisa che, rispetto all’intento repressivo
della giustizia, non basta constatare che una morte sia avvenuta,
che un oggetto sia stato trafugato; ma che _causa_ della morte e del
trafugamento sia stata un’_azione_ perseguibile penalmente.

Nè si opponga, che, quando il giudice siasi persuaso della
perseguibilità o meno d’un dato fatto, egli abbia già formato il
convincimento della natura criminosa del medesimo e quindi ogni altra
ricerca appare superflua; perocchè giova distinguere, negli atti
istruttorî, due momenti interessantissimi: il primo, che è quello in
cui il magistrato, sulla semplice nozione sommaria del fatto, si induce
a promuovere l’azione; il secondo, quando, per le prove raccolte, egli
si decide a rinviare a giudizio l’imputato.

La verisimiglianza, quale criterio probatorio, è sufficiente pel primo
momento; sarebbe erronea pel secondo, in cui necessita la certezza del
convincimento.

=3.=—Il testimone, percependo direttamente il fatto, crede di essere
in possesso della verità tutte le volte che, secondo la effettuale
esistenza delle cose, egli presume di uniformarsi alla _realtà_.
Ma, e non è il problema più importante della psicologia quello di
sapere _come_ e _perchè_ noi, mercè l’opera dei sensi, ci mettiamo
in relazione col mondo esterno e ne rappresentiamo, internamente, la
realtà? La logica giudiziaria, che tale fu dal Nicolini appellata la
procedura, attenda, dunque, a ben premunirsi contro le difficoltà, ed i
pericoli inerenti al modo onde il testimone abbia potuto impossessarsi
della verità d’un avvenimento e possa, quindi, riuscire argomento di
attendibilità pel giudice.

Tutti gli scrittori, dai giureconsulti pratici ai grandi logici
moderni, si sono occupati delle norme di credibilità del testimone,
secondo il diverso grado di probabilità logica del suo asserto; ma
nessuno, ch’io mi sappia, si è occupato ancora della psicologia del
testimone. La legge di rito, ossequente a certi dettami tradizionali,
ha creduto di segnalare un certo limite alla importanza giudiziale
del testimone, escludendo alcuni a deporre ed altri circondando di
guarentigie morali, il giuramento, o legali, la pena per la falsità;
ma, pel convincimento del giudice, simili restrizioni non hanno
valore; anzi, e non di rado si osserva, chi meno, secondo legge,
dovrebbe meritar fede, com’è il caso d’un fanciullo, è cagione
irrefutabile perchè il giudice formi tranquillamente la sua decisione
di condanna o di assoluzione.

Il testimone dev’essere circondato ed accompagnato da tutte le
prevenzioni, onde la scienza ci rende edotti, in ordine: _a_) al modo
normale o difettoso di percepire un fenomeno esteriore; ed al modo,
_b_) onde il fenomeno percepito impressiona la nostra mente, si fissa
o registra nella memoria, si riproduce, più o meno fedelmente, nella
dichiarazione giudiziale. È regola costante questa, che le nostre
percezioni e rappresentazioni del mondo esterno sono in apparenza
l’opera dei sensi, ma effettivamente appartengono al nostro stato
soggettivo, transitorio o permanente: il senso non è che il semplice
tramite di stimolazione della recettività interna, ma la visione della
realtà, il ricordo corrispondente, l’apprezzamento, che ne diamo,
appartengono al peculiare stato della nostra coscienza, o, meglio, alle
condizioni psico-organiche individuali.

Or, confondere, come si è soliti fare, l’asserto d’un testimone con
quello di altri, e discernere la maggiore credibilità di ciascuno
tenendo sol conto della verisimiglianza logica, ossia dell’argomento
di probabilità, è gravissimo errore: molto facilmente s’invertono i
termini del giudizio, poichè quanto noi attribuiamo al testimone non
è, bene spesso, che modo nostro personale di vedere e di giudicare
le cose, le quali, poi, debbono essere i motivi indefettibili per
concludere alla responsabilità o alla innocenza del prevenuto.

=4.=—Prima che si assuma il testimone a prova di convincimento, è
d’uopo che il giudice comprenda ed apprezzi la di lui _attitudine_
a percepire la _verità_ d’un fatto, a ricordarne le _modalità_, a
riprodurne la _realtà_.

Qualunque avvenimento, circa le percezioni che di esso abbiamo, si
svolge in dato spazio ed in dato tempo; son questi i due termini
storici di maggiore rilievo per precisare la realtà delle cose, e da
queste due nozioni deve cominciare ciascuna indagine istruttoria, se
non vuolsi vagare nell’incerto e nell’indeterminato.

Il testimone, posto di fronte all’avvenimento, ed obbligato, per
dovere morale, a riprovarne le conseguenze, comincia, con lavorio
mentale inconsapevole, a plasmare le circostanze, di cui è spettatore,
a seconda il suo fondo individuale sensitivo, intellettivo ed etico,
obbedendo alla legge di necessità _selettiva di coscienza_, la
quale consiste nella disposizione, di ciascun di noi, a scegliere e
registrare tra’ ricordi, tra le rappresentazioni, tra le idee tutto ciò
che si uniformi al nostro modo di sentire e di pensare, trascurando il
rimanente. Di parecchi testimoni d’un fatto, troverete che taluno siasi
fissato su di una circostanza specifica o generica e ne conservi, con
evidenza, la entità storica, mentre egli abbia trascurato le altre che
pur si svolsero sotto i suoi occhi con pari impressione sensibile.

Credesi, da alcuni, che ciò avvenga per casualità di cose; invece
è l’effetto dell’opera dell’_attenzione_, la quale ha fondamento
organico, da cui non si può mai prescindere in tutti gli atti della
nostra vita di relazione. La _reticenza_, tante volte, non è l’effetto
di mala fede, ma d’impossibilità a scorgere, a concepire ed a ricordare
il vero altrimenti.

Il fondo sensitivo individuale è la causa delle attitudini accomodative
al mondo esterno. La influenza delle meteore sul senso cenestetico;
il sentimento di simpatia, di avversione per dati atti e persone;
l’inclinazione a fissarci su taluni oggetti a preferenza che su altri;
la prerogativa di percepire, di distinguere certi colori, certi suoni;
la diversità di rappresentarci un oggetto con dati contorni, colorito,
tono sentimentale, accidentalità piacevoli o dolorose, dipendono dalla
nostra costituzione organica, soggetta a tante cause, delle quali
l’individuo poco si avvede. Nella pratica della vita, generalmente,
noi, parlando, operando, partiamo dal falso supposto, che tutti sentano
come noi sentiamo e che tutti apprendano il mondo esterno con l’istesso
grado di vivacità e di perpiscuità; ma in ciò evvi grande inganno.

La differenza di età, di sesso, di coltura, di stato sano o infermo,
sono le principali e più comuni cagioni di vario sentire ed apprendere
i fenomeni esterni. Nè basta; poichè il medesimo stato sensitivo
è l’effetto del cumulo di energie precedenti stratificatesi in
noi (fondamento dell’io), le quali, predisponendoci a plasmare
diversamente la coscienza, nel flusso di atti di questa, permettono, o
non, che si aggiunga la novella impressione proveniente dal tramite del
senso.

Come per i motivi dell’azione, in genere, altresì per la maniera, onde
il testimone percepisce gli avvenimenti esteriori, molto influisce:
_a_) la sinergia di azione attiva dell’oggetto sensibile e dell’organo
sensitivo; _b_) la predisposizione individuale accomodativa a data
specie di sensazione; _c_) la più completa risonanza di coscienza
perchè le sensazioni ricevute esternamente si ripresentino e prendano
un posto nella serie successiva o simultanea di stati interni.

=5.=—Passando, dall’esame del fondo sensitivo del testimone, al suo
lato intellettivo, il problema si rende molto più complesso; nondimeno,
siamo in grado di disporre di maggiori e più esatti mezzi di studio; la
qual cosa è conforme ad una legge filosofica formulata da Augusto Comte
nell’infrascritto modo: «a misura che i fenomeni da studiare divengono
più complicati, sono nel medesimo tempo suscettibili, per loro natura,
di mezzi di esplorazione più estesi e più varî, senza che, tuttavia,
vi si possa avere una esatta compensazione tra l’accrescimento delle
difficoltà e l’aumento delle risorse; di guisa che, malgrado questa
armonia, le scienze relative ai fenomeni i più complessi non restano
meno necessariamente le più imperfette»[171].

Il progresso fatto, massime in questi ultimi tempi pel sussidio delle
scienze sperimentali, dalla logica induttiva e deduttiva ci ha di molto
agevolato il dovere di esattamente raccogliere e rettamente esaminare
la prova testimoniale: però, seguendo la legge di relatività dell’umano
intendimento, si è costretti a non esagerare l’importanza di siffatte
leggi logiche, le quali soffrono continue eccezioni in ragione di
condizioni individuali di coloro sulla cui fede intendiamo adagiare il
nostro giudizio.

Il testimone vive anch’esso di bisogni, di necessità, di passioni:
la sua trama intellettuale è limitata alle esigenze della sua vita
personale «Esiste—scrive il Comte—in tutte le classi delle nostre
ricerche e sotto tutti i grandi rapporti, un’armonia costante e
necessaria tra l’estensione dei nostri veri bisogni intellettuali
e la portata effettiva, attuale o futura, delle nostre conoscenze
reali. Quest’armonia non è punto, come i filosofi volgari son tentati
di credere, il risultato nè l’indice d’una causa finale. Essa deriva
semplicemente da questa necessità evidente: noi abbiamo solamente
bisogno di conoscere ciò che può agire su noi, d’una maniera più o
meno diretta; e, d’altro canto, per ciò stesso che una tale influenza
esiste, ella diviene per noi, tosto o tardi; un mezzo certo di
conoscenza»[172].

=6.=—Fu detto, che qualunque prova possa ridursi a sillogismi,
partendo da premesse di teoremi o di principî, è terminando nella
constatazione della tesi a dimostrare. Questo può esser vero nel campo
delle scienze pure o affatto teoretiche; non così nello studio dei
fatti per i quali vige la nota regola Aristotelica, che la induzione va
segnatamente applicata ai casi particolari (_ἡ γὰρ ἠπαγωγὴ διἀ πἀντων_).

La specialità della prova testimoniale, segnatamente in ordine
all’applicazione delle leggi logiche alla medesima, dipende dalla
maniera con cui ciascuno riproduce in sè e riconnette alle precedenti
sue cognizioni tutto ciò che forma obbietto della esperienza della
vita. La necessità tra i bisogni intellettuali e la portata delle
conoscenze reali, di che Comte faceva motto, è uno dei lati della
composizione della trama cerebrale; essa si riferisce piuttosto
all’azione stimolatrice dei moventi del pensiero: ma un altro lato,
ed è quello che forma la soggettività dell’io, consiste nella
preformazione mentale di metodi e di maniere di pensare, nella
risonanza dinamica delle novelle onde cerebrali con le preesistenti,
nel ritmo personale di coscienza, con il quale le nuove correnti di
idee son necessitate a mettersi d’accordo.

=7.=—Raccogliendo in sintesi le cause che influiscono a modificare,
nella mente del testimone, la forma di riproduzione del fatto,
con l’analogo ricordo delle circostanze, diciamo che esse sono il
_temperamento_ individuale ed il _tempo_ trascorso dal momento in cui
il fatto è stato percepito al momento in cui venga ad altri comunicato.
Tra l’uomo impressionabile ed il flemmatico, tra un nevrastico ed
impulsivo ed un equilibrato e riflessivo, evvi differenza incalcolabile
di percezione d’un avvenimento: la squisita o morbosa sensibilità dei
primi, esaltata da vivida fantasia, farà sì che delle circostanze
insignificanti e trascurabili si ripercuotano sull’animo e si fissino
nella memoria con caratteri indelebili, a forti tinte; ciò che non
avverrà per i secondi. E quando, il di del pubblico dibattimento, e gli
uni e gli altri sien chiamati a deporre, difficilmente il magistrato,
suo malgrado, non si sentirà trasportato dal detto di chi con una
mimica animata, con parola colorita, con espressioni suggestive va
narrando il fatto, non secondo la esattezza delle cose, ma secondo
la fisonomia e la impronta di un animo fortemente o morbosamente
impressionato.

Come si è fatto per i delinquenti, dovrebbe eziandio farsi con i
testimoni; dividerli per categorie e studiarne l’indole e le note
culminanti psichiche. Non perchè tra gli uni e gli altri vi sia
analogia, ma perchè insieme s’integrano, tra la perpetrazione e
la rappresentazione del delitto. Il testimone—mi sia concesso il
paragone—è l’artista drammatico in comparazione dello scrittore: vero
è che usualmente sogliamo dire, che meno arte scorgesi nel testimone
e più balza fuori la sincerità del deposto; ma è benanco vero, che
niun di noi, per sforzi che faccia, perviene a cancellare la impronta
personale in tutto quello che si appartenga ai proprî atti.

Oltre del temperamento, influisce a modificare la riproduzione del
fatto, nella mente del testimone, altresì il tempo. Secondochè la
impressione è prossima all’avvenimento, la rappresentazione di questo è
più vivace: poco a poco il colorito si sbiadisce, le tinte si rendono
incerte, i contorni si restringono e sul registro della memoria non
resta segnato che il puro necessario al ricordo della verità.

Ciò per avvenimenti impressionanti, a fondo passionale, riesce molto
giovevole: il testimone torna meno suggestivo sull’animo del giudice,
meno pericoloso nel trasmettere le sue erronee o esagerate impressioni.
Ma non è parimenti in cause indiziarie, nelle quali il lungo tempo
trascorso, affievolendo le impressioni, attenua il ricordo di modalità
le quali, per avventura, sarebbero preziose al giudice obbligato ad
integrare il fatto nella totalità del contenuto storico.

=8.=—Se il testimone è l’attore o colui che rappresenta o _ripresenta_
il dramma giudiziale, il giudice n’è lo spettatore chiamato a darne
l’apprezzamento.

Il giudice, però, non resta impassibile innanzi al testimone; egli,
mentre ne giudica i detti, si adopera ad aiutarne l’opera, ed il Codice
di rito ha per lui delle particolari prescrizioni, le quali ne dirigono
e ne limitano prudentemente l’ufficio.

Si crede comunemente, che dovere del giudice sia di attendere con
impassibilità allo svolgimento rappresentativo dei fatti e di formarsi
il definitivo giudizio col tenersi immune da qualunque influsso
sentimentale o passionale. Così non è, nè potrebbe essere. Non vi è
nozione—lo abbiamo dimostrato—che entri nella mente, la quale non
contenga una energia suggestiva e motrice. Sarebbe strano concepire un
uomo in cui la mente funzionasse indipendentemente dal cuore. Quel che
soltanto vuolsi consigliare è, che il cuore non prenda il sopravvento
sulla mente, ossia che la ragione non sia vinta dal talento.

La psicologia del giudice merita anch’essa particolare considerazione
ed attende tuttavia chi ne formi oggetto de’ suoi studî. Noi ci
limitiamo ad osservare, e ciò per la lunga pratica del fôro, che
qualsiasi esagerazione, pro o contro l’imputato, da parte del giudice,
è la conseguenza o delle preconcette preoccupazioni di minacce e di
pericoli sociali, non che di convenienze morali o politiche, nel
caso di istruzioni di processi; ovvero, nel caso di dibattimenti, è
l’effetto deleterio della teatralità di discussione, di concorso di
spettatori, di iperboleggiamenti da parte dell’accusa e della difesa.
Se, durante un dibattimento, avessimo agio di interrogare ciascuno dei
presenti, e di sentire l’eco dell’anima collettiva di tutti insieme,
dovremmo confessare, che i cardini dell’ordine sociale, anzi della
esistenza del mondo, poggino sull’esito del giudizio in attesa: eppure,
oh!, tante volte, di quali futili interessi, meramente passionali,
sogliamo con tanta cura occuparci!... Confesso, senza peritanza, un mio
profondo convincimento: verrà giorno, e forse non è lontano, nel quale
il giudizio sui delinquenti sarà dato così come quello di infermi; da
uomini tecnici, non interessati di altro che di esaminare e constatare
la verità nuda delle cose; con la calma possibile delle ricerche
sperimentali ed induttive, col senso della equanimità, col giudizio
illuminato da coltura sufficiente, da lunga pratica: la giustizia se
ne avvantaggerà per evitare tanti errori di che son piene le cronache
giudiziarie!



CONCLUSIONE


=1.=—Pervenuti alla fine del nostro assunto, aggiungeremo, in
conclusione, alcune riflessioni che completeranno le teorie svolte.

Il delitto è un fenomeno affatto naturale, il suo evento psichico segue
le leggi dinamiche onde tutti gli altri fenomeni son dominati.

Il delitto, però, ha la specialità di essere contrassegnato dal grado
evolutivo di _coscienza_ della forza uomo; il che significa che esso ha
d’uopo, per effettuarsi, di tutti i coefficienti i quali influiscono a
ridestare e modificare, nel nostro dominio morale, talune inclinazioni
poco conformi al comune stato di ordine sociale della generalità degli
uomini. La legge penale, prevenendo o reprimendo il delitto, tende
a riaffermare quest’ordine ed a proteggere il benessere singolo e
collettivo. Ma—si domanda—essa legge è sempre cònsona, nelle sue
prescrizioni, allo stato o grado evolutivo della nostra società; la sua
azione imperativa è in armonia con le guarentigie legali e sociali a
cui ella fa supporre di riferirsi ogni qualvolta prescrive una pena per
la repressione di dato delitto? La risposta non può essere che negativa.

La società—come oggi giuridicamente è composta—è retta da un cumulo
di errori e di pregiudizî contro i quali la scienza ha la missione di
energicamente protestare. La cieca tradizione dell’errore, gravitando
sui nostri sforzi di progresso, arresta o ritarda fatalmente il
nostro cammino sulla via delle riforme legislative; l’interesse
politico, quello economico o di lotta di classe, sognano pericoli
inesistenti per ciascuna riforma consigliata dalla scienza, ed
invano la verità, frutto di lunghe meditazioni, brilla agli occhi di
uomini che aman chiudersi nella tenebra per non essere illuminati.
Pochi solitarî, paghi di cogliere il premio del loro lavoro nella
soddisfazione di adempiere un dovere, fan sentire la loro voce per
richiamare i proprî simili al riconoscimento del vero scoverto; ma essi
o son derisi o restano ammirati senza che altri ne ascolti i mòniti
preziosi! Magistrati, giurati, quanti sono addetti al funzionamento
della giustizia, o per ignoranza o per malintesa boria di spirito
conservatore, seguono, impassibili, teorie confinate ormai tra’ ferri
vecchi della scienza: se la parola di colto difensore li richiama alle
ignorate verità, oh! quanti pochi di essi lo ascoltano con interesse di
serena coscienza! Eppure tuttodì debbono aver la riprova degli errori
commessi nei loro giudizî circa apprezzamenti di fatti i quali ben
altrimenti si vengono svolgendo in realtà: tanto è, dunque, a noi arduo
di vincere l’errore, di infrangere gli altari di idoli della mente sì
deleterî al progresso sociale?

=2.=—La psicologia criminale insegna il processo evolutivo e
dissolutivo dell’evento psichico del delitto; ed essa non si arresta
neppure di fronte ai problemi di scelta dei mezzi onde il legislatore
giunga ad infrenare o a correggere la energia che del delitto è
propria. È debito, nondimeno, di chi amministra la giustizia di
studiare, in pratica, come le teorie debbano disposarsi alle riforme
legislative; appunto perchè in esso la continua conoscenza svariata
dei fatti è fonte sicura per risalire alla riconferma di quei veri che
dalla scienza furon proclamati.

=3.=—Richiamo l’attenzione di alcun giurista sull’impegno di scrivere
un lavoro, il quale contenga i dettami da seguire, nella pratica
giudiziaria, per assorgere, caso per caso, ai principî della scienza;
esso dovrebbe essere un lavoro di riorganizzazione dei tanti concetti
teoretici ed osservazioni di fatto, che balzan fuori dallo studio dei
processi, dall’esame quotidiano dei delinquenti; ciò che è generalmente
trascurato, quasi non avesse importanza alcuna. Mi avviso, che anche
la psicologia criminale, come qualunque altra scienza, abbia un lato
teoretico ed un lato pratico: essa, per acquistare la importanza che
le compete, deve integrarsi nell’unico fine di non tradire la esatta
notizia e valutazione del fatto: fuori del fatto, qualunque nostra
conoscenza o è ipotetica o arbitraria.

E desidererei che un poco più d’interesse si destasse nel cuore dei
magistrati per gli ammaestramenti impartiti da chi osa prescindere dal
dettame nudo della legge ed approfondire il problema della imputabilità
mediante i lumi che ci vengono dall’odierno indirizzo positivo; abbiano
anche un poco più di fiducia per verità ormai lampanti agli occhi dei
meno veggenti. Nondimeno, mi è obbligo constatare, che di già uomini
insigniti di alti uffici nell’amministrazione della giustizia non si
peritano, nei loro scritti, di proclamare la religione della nuova
scienza, combattendo vecchie teorie[173]; ad essi, come a tutti coloro
che se ne rendono seguaci, sia lieto il plauso di quanti amano che
l’umano pensiero, rinnovandosi, progredisca e, progredendo, trionfi
sempre contro l’errore!



                      INDICE DEGLI AUTORI CITATI


  Albrecht, 94.

  Alfieri, 135.

  Alimena, 102, 103.

  Ardigò, 2, 3, 41, 86, 91, 111, 115, 132, 200.

  Aristotele, 4.

  Bacone, 214.

  Ballet, 147, 231, 233.

  Bain, 58, 130, 211.

  Baldwin, 24.

  Barthez, 47.

  Béhier, 210

  Benini, 187.

  Benedickt, 36, 94.

  Bergier, 157.

  Bernard, 204.

  Berner, 215, 246, 249.

  Bernouilli, 191.

  Bianchi, 34, 36, 40, 147, 154, 221, 222, 230, 236, 238.

  Binet, 222, 233.

  Block, 188.

  Bodio, 188.

  Borri, 235.

  Bourget, 239.

  Bovio, 120, 184, 185.

  Brierre de Boismont, 230.

  Brofferio, 219.

  Buccellati, 3.

  Buffon, 191.

  Charma, 232.

  Cantù, 176, 177.

  Carmignani, 7.

  Carrara, 226, 230, 237, 245.

  Casper, 7.

  Cicerone, 4.

  Celso, 253.

  Colajanni, 94, 188.

  Comte, 263, 264.

  Conti, 256.

  Conrad, 188.

  D’Auria, 271.

  Dallemagne, 147.

  Dally, 94, 236.

  Darwin, 220.

  De Blainville, 20.

  De Francesco, 271.

  De Moivre, 191.

  Descuret, 159.

  Despine, 5, 65, 116, 128, 135, 142.

  Drago, 36.

  Dumas, 83.

  Egger, 232.

  Engel, 188.

  Eschilo, 5, 163.

  Esquirol, 236.

  Euripide, 5, 148, 159, 163, 165.

  Fechner, 21, 73.

  Ferraris, 188.

  Féré, 50, 65, 147, 222.

  Ferri, 143, 149, 166, 193, 195.

  Ferrus, 5, 65.

  Fermat, 191.

  Foucault, 22.

  Fouillée, 112, 113, 118, 127, 225.

  Gabaglio, 188.

  Galeno, 4.

  Gall, 5.

  Gumplowicz, 187.

  Garofalo, 102, 140.

  Goethe, 134, 135.

  Guerry, 187.

  Haeckel, 21, 35, 36, 86, 87, 202,

  Halley, 191.

  Hamilton, 212, 213.

  Henle, 132, 133, 134.

  Helmholz, 221.

  Herschel, 190.

  Horwicz, 86.

  Hudde, 191.

  Hume, 201.

  Hunter, 47.

  Huyghens, 191.

  Ippocrate, 4.

  James, 78, 84, 87, 117, 127, 129, 131, 219, 228,

  Janet, 90, 236.

  Kant, 201.

  Kleinschrod, 216.

  Körösi, 187.

  Krafft-Ebing, 5, 62, 65, 94, 128, 143, 144, 146, 236, 238.

  Labeone, 253.

  Lange, 40, 84, 87, 130, 240.

  Laplace, 191, 195.

  Lavater, 5.

  Laségue, 236.

  Lauvergne, 5.

  Lazarus, 228.

  Lehmann, 40.

  Leibnitz, 191.

  Lewes, 20, 86.

  Lichtemberg, 134.

  Lilienfeld, 187.

  Lippe, 8.

  Locke, 201.

  Lombroso, 5, 6, 36, 38, 50, 70, 142, 156, 161, 166, 167.

  Lo-Savio, 187.

  Lotze, 86.

  Lourie, 28.

  Lucas, 5, 65.

  Machiavelli, 157.

  Magnan, 148.

  Maine de Biran, 201.

  Mantegazza, 158.

  Marro, 6, 66, 67, 82, 140.

  Masci, 259.

  Maudsley, 65, 67, 68, 94, 219.

  Mayer, 188, 190.

  Meynert, 40.

  Metastasio, 158, 251.

  Mill, 86, 124.

  Minzloff, 94.

  Mittermayer, 3.

  Möhsen, 177.

  Morel, 5, 65, 147.

  Morselli, 86, 203.

  Mosso, 130, 222.

  Müller, 221.

  Nani, 208.

  Nicolini, 3, 249, 251, 260.

  Nicolson, 5,65.

  Oddi, 28.

  Omero, 5, 100.

  Orazio, 161.

  Pagano, 195.

  Pausania, 151.

  Petrarca, 161.

  Pick, 222.

  Pitres, 147, 236.

  Paulhan, 126, 232.

  Plutarco, 167,

  Porta, 5.

  Procolo, 252.

  Quetelet, 191, 192, 197.

  Rawson, 188.

  Régis, 147.

  Remy, 177.

  Renazzi, 215.

  Ribot, 85, 90, 92, 130, 148, 217, 218.

  Riccardi, 94.

  Rivarol, 232.

  Romagnosi, 7, 205, 234.

  Rossi, 6, 175, 178.

  Rousseau, 134.

  Rümelin, 189.

  Scoto, 177.

  Seglas, 147.

  Seneca, 161, 162.

  Sergi, 64, 85, 88, 94, 173.

  Shakspeare, 96, 103, 233.

  Sighele, 6, 173.

  Schiller, 103.

  Schüle, 128

  Smith, 47.

  Sofocle, 5, 163, 165.

  Spencer, 12, 14, 17, 86, 121, 199,
  201, 212, 213, 214, 225.

  Spina, 177.

  Tarde, 6, 193.

  Taine, 232.

  Tammeo, 187.

  Tetens, 73.

  Tissot, 47.

  Thompson, 5, 65, 128.

  Tommaseo, 156.

  Tucidide, 101.

  Ulpiano, 252, 253.

  Virgilio, 6.

  Wagner, 188.

  Weber, 21, 73.

  Wilson, 5, 65.

  Wundt, 10, 28, 29, 73, 74, 80, 118, 125, 127, 128, 132, 209, 219.

  Zanardelli, 71, 179, 249.



                            INDICE-SOMMARIO


  DEDICA                                                    _Pag._     v

  PREFAZIONE                                                 »      vii

 INTRODUZIONE

  1. Contenuto scientifico della psicologia criminale.—2. Processo
  di _distinzione_ di qualunque fenomeno; formazione naturale del
  pensiero.—3. Come sorge l’evento psichico del dato giuridico
  punitivo.—4. Genesi della _sanzione_ sociale; concetto del _dolo_
  nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei popoli.—5.
  Cenno storico dello studio psico-fisiologico del delinquente.—6.
  Gli odierni scrittori delle differenti discipline intorno al
  delinquente.—7. Stadio integrativo della psicologia criminale.—8.
  La teoria _dinamica criminale_ fondamento degli studî psicologici del
  delinquente; precedenti scientifici in Romagnosi ed in Carmignani.
                                                           _Pag._ 1 a 8


 CAPO I.

 Le funzioni psichiche criminose.

  1. Concetto scientifico della parola _funzione_.—2. Funzionamento
  psicofisico proprio del delinquente.—3. Anormalità del medesimo:
  legge generale di equilibrio violata dal delitto.—4. Il concetto
  di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione tra l’uomo
  normale ed il delinquente.—5. L’equivalente etico dello squilibrio
  psichico; suoi riflessi al dato soggettivo ed oggettivo del
  delitto.—6. In che consistano le funzioni psichiche criminose nel
  loro aspetto intrinseco ed estrinseco.
                                                          _Pag._ 9 a 15


 CAPO II.

 Gli elementi psichici criminosi.

  1. Legge di _continuità_ nei fenomeni psicofisici; legge di
  _correlazione_ tra l’essere ed il suo ambiente.—2. La legge di
  continuità e di ambiente rispetto al delitto.—3. Ragioni per cui il
  funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge all’analisi
  sperimentale; norme relative alla prova della genesi fisica del
  delitto.—4. Gli elementi psicofisici del delitto e l’interno stato
  di equilibrio.—5. Stato di equilibrio psichico; forza e movimento;
  motivo, causa ed azione.—6. Che cosa s’intenda per impulso; duplice
  principio fondamentale della psicologia monistica.—7. La psicofisica
  ed il suo valore nei fenomeni di esquilibrio del delitto.
                                                         _Pag._ 16 a 22


 CAPO III.

 La dinamica dei motivi.

  1. Centro di attività psichica; che si intenda per motivo, impulso,
  movente.—2. Motivi sensitivi, rappresentativi ed ideali.—3. Che cosa
  s’intenda per _motivo criminoso_; differenza tra i motivi di azioni
  lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli.—4. Postulati sull’energia
  del motivo e sullo stadio evolutivo dei motivi criminosi.—5.
  La dottrina della inibizione, base dinamica della coscienza
  criminosa.—6. Modi onde avviene il processo integrativo psichico
  della energia dei motivi.—7. Assimilazione e fusione dei motivi.—8.
  L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo psichico dei
  motivi.—9. Stato emotivo criminoso.
                                                         _Pag._ 23 a 33


 CAPO IV.

 Cenestesi del criminale—Fisio-psicologia dei motivi.

  1. Cenestesi o sensibilità generale del criminale.—2. Ontogenesi
  e filogenesi dell’anima del criminale.—3. Insensibilità e
  disvulnerabilità dei criminali.—4. La eredità.—5. L’infanzia del
  delinquente.—6. La teoria psico-fisiologica dei motivi.—7. Efficacia
  attuale e potenziale dei motivi; concomitanti somatici caratteristici
  del piacere e del dolore.—8. La dinamica del _motivo-idea_;
  specificazione della coscienza criminosa.
                                                         _Pag._ 34 a 41


 CAPO V.

 Il processo cosciente del delitto—Stadio di formazione.

  1. Formazione naturale della psiche.—2. I germi malefici del delitto
  nei primordi della vita.—3. La genesi di forze antagoniste nella
  vita di relazione.—4. Il periodo primordiale di tendenze criminose
  nel fanciullo.—5. Il secondo periodo formativo della personalità
  individua del delinquente.—6. La legge di imitazione nell’infanzia
  del delinquente.—7. La selezione organica degli elementi integrativi
  del delitto.—8. Il fenomeno della _simpatia_ e le sue leggi.—9.
  Influenza dell’ambiente di famiglia e del fattore economico sul
  delitto; la educazione ed i pervertimenti ereditarî.—10. Influenza
  delle necessità sociali.—11. Effetto degenerativo dell’azione
  suggestiva criminosa.—12. Influenza dei motivi sentimentali che
  agiscono sulla immaginazione.
                                                         _Pag._ 42 a 53


 CAPO VI.

 Le norme fondamentali della psicologia criminale.

  1. Si riassumono le principali verità in precedenza svolte.—2. Norma
  che guidar deve la conoscenza dei rapporti interni con i fenomeni
  esterni; legge principale di anomalia del delitto.—3. L’ordine
  morale ed il processo di arresto inibitorio.—4. L’_autosuggestione
  motrice_; legge della risultante impulsiva al delitto.—5.
  Rapporti dinamici e logici tra i motivi.—6. Processo organico ed
  accidentale dei motivi criminosi.—7. Conservazione e sviluppo dei
  fattori psicofisici del delitto.—8. Legge di _atipicità_; tipo
  antropologico del criminale.—9. Disintegrazione dell’anima del
  criminale; dissoluzione della funzionalità psicofisica organica.—10.
  In che, psicologicamente, consiste tale dissoluzione.—11. La
  teoria degenerativa del delitto.—12. La fenomenologia clinica
  di dissoluzione della personalità.—13. Norma per constatare la
  ipotesi del processo evolutivo della energia criminosa e la ipotesi
  d’intervento di qualche affezione patologica; differenza tra anomalia
  ed infermità; importanza psicologica del criterio della pena.—14.
  Inefficacia scientifica e pratica delle perizie psichiatriche.—15.
  Disposizioni dell’articolo 46 e 47 del Codice penale; quali sieno
  le norme dei periti perchè riescano a constatare le condizioni
  di integrità psichica necessaria alla imputabilità penale.—16.
  Necessità, pel perito, di una seria coltura psicologica.—17. In che
  consistano il metodo di _esperimento_ e quello di _osservazione_;
  l’indirizzo sperimentale nei fenomeni psicologici; come debbano
  servirsene i periti psichiatri.—18. Ragioni di antagonismo tra periti
  e magistrati: dovere del perito psichiatra; dovere del psicologo e del
  giurista.
                                                         _Pag._ 54 a 77

 CAPO VII.

 Processo cosciente del delitto—Stadio di sviluppo.

  1. Le diverse classi di elementi costitutivi dell’io cosciente del
  criminale.—2. Sviluppo del carattere individuale; sua importanza
  nella psicologia criminale dell’infanzia.—3. Condizioni e modi onde
  si organizza la coscienza comune e quella del delinquente.—4. Le
  fasi di successiva integrazione della psiche del criminale.—5. Esame
  delle emozioni criminose; le diverse teoriche—6. Svolgimento della
  essenza unitaria dell’evento psichico, dalla forma monistica alla
  manifestazione complessa del pensiero.—7. Errori di James e di
  Lange intorno alla genesi delle emozioni.—8. Natura delle emozioni
  criminose.—9. Reazione, periodicità, antagonismo delle emozioni:
  la reazione.—10. La periodicità.—11. L’antagonismo.—12. La
  dissoluzione psicologica; teorica meccanica.
                                                         _Pag._ 78 a 93


 CAPO VIII.

 Concetto psicologico del delinquente.

  1. Che cosa sia il delinquente.—2. Il prodotto psichico del delitto
  nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico.—3. Il tipo di
  Caliban nella _Tempesta_ di Shakspeare.—4. Il Tersite di Omero.—5.
  Caratteri morali dei delinquenti in formazione.—6. L’integrazione
  evolutiva anomala del delinquente.—7. Analisi del _Riccardo III_ di
  Shakspeare.
                                                        _Pag._ 94 a 110


 CAPO IX.

 La dinamica della psiche criminosa.

  1. Efficacia genetica del motivo.—2. La psicologia delle
  _idee-forze_; stadî integrativi di coscienza percorsi dal motivo.—3.
  Stadio di discernimento del motivo.—4. Stadio di rappresentazione
  piacevole o dolorosa; conseguenze, dei due descritti stadî, nella vita
  psichica del delinquente; le manifestazioni istintive; meccanismo
  dell’attenzione criminosa.—5. La dottrina della conoscenza ed il
  problema del contenuto dinamico del pensiero; l’unità di legge
  nella natura, nel pensiero, nella storia; come agisca l’energia
  criminosa nell’atteggiare diversamente la psiche.—6. Influenza
  della immaginazione o della fantasia nel processo psichico del
  delinquente.—7. Analisi, della detta influenza, specialmente nel
  delinquente epilettico ed in quello affettivo.—8. La legge di
  _rassomiglianza_ e la legge di _contiguità nel tempo e nello spazio_,
  e la dinamica della psiche criminosa.—9. La dinamica psichica
  del delinquente negli atti del volere.—10. Lo stato di ansia
  conseguenza della polarizzazione della volontà criminosa; psicologia
  dell’emozione della paura; differenza tra l’atto spontaneo ed il
  volontario.—11. Le oscillazioni del volere ed il relativo processo
  meccanico-cerebrale.—12. Gli atti _alternanti_ o _intermittenti_ di
  azioni di motivi sopraggiunti; esempio dell’Alfieri nell’_Agamennone_.
                                                       _Pag._ 111 a 138

 CAPO X.

 Psicologia dell’azione criminosa.

  1. Che cosa debba intendersi per azione criminosa.—2. Anomalie ed
  esquilibrio del carattere del delinquente.—3. Stato di esquilibrio
  psichico del delinquente nato: caratteri distintivi che accompagnano
  la sua azione criminosa.—4. La organizzazione psicofisica anomala
  del delinquente nato: le note culminanti psico-patologiche proprie
  della sua attività.—5. L’azione del delinquente folle; la pazzia
  a forma melanconica.—6. La manìa impulsiva; le ossessioni
  psichiche criminose.—7. Esame dell’_Ercole furente_ di Euripide,
  esempio di manìa omicida accompagnata da allucinazione impulsiva;
  le _emozioni ossessive_ con impulsioni di fobia.—8. L’azione
  criminosa dell’epilettico.—9. La epilessia larvata o _equivalente
  epilettico_.—10. Il delinquente per passione.—11. Psicologia
  dell’_odio_.—12. Psicologia della _gelosia_: Fedra e Medea.—13.
  L’azione criminosa del delinquente per passione: psicologia
  dell’_ira_.—14. Esame di Oreste, secondo Eschilo, Sofocle ed
  Euripide, quale esempio di delinquente per passione.—15. Il
  delinquente di occasione.
                                                       _Pag._ 139 a 167


 CAPO XI.

 Psicologia degli aggregati criminosi.

  1. Relazioni tra singole coscienze.—2. Leggi d’integrazione e
  disintegrazione della coscienza in quanto si irradia nel mondo
  psichico esterno.—3. Luce e calore delle energie irradiate; qualità
  delle correnti di riflesso.—4. Il ritmo dinamico delle psichi
  concorrenti.—5. L’inconscio dell’anima della folla: la specie di
  imputabilità dei delitti da questa commessi.—6. Organizzazione
  delle energie della folla.—7. Le emozioni della folla; il loro
  ritmo di depressione e di esaltamento.—8. L’ esaltamento in forma
  di psicosi con influsso epidemico; il contagio passionale morboso di
  sentimenti e di idee.—9. L’azione dei _meneurs_ nella folla.—10.
  L’associazione per delinquere; germinazione e sviluppo del microbo del
  delitto associato.—11. La forma e l’esplicamento delle emozioni ed
  il complesso dei principî etici messi a base delle azioni criminose
  associate.—12. L’anima della folla e quella delle associazioni
  criminose.
                                                        _Pag._ 168 a 182


 CAPO XII.

 La vita del delitto.

  1. Vita individuale e collettiva del delitto.—2. Vita storica del
  delitto.—3. La _necessità_ nell’apparizione del delitto; teoria
  del Bovio: la legge di continuità nel fenomeno del delitto.—4.
  Coefficiente _qualitativo_ e _quantitativo_ nel processo vitale del
  delitto.—5. Causalità ed uniformità di fenomeni; contenuto metodico e
  scientifico della statistica; psicologia criminale e statistica.—6.
  Obbietto della statistica criminale: valore _probatorio_ delle leggi
  statistiche.—7. Principio fondamentale del calcolo di probabilità
  applicato alla vita del delitto: norme relative ai dati numerici delle
  leggi statiche e dinamiche del delitto; opinione del Ferri intorno
  alla influenza dei varî fattori criminosi nella determinazione
  del delitto; confutazione.—8. Criterî da seguire nel calcolo di
  probabilità dei dati statistici criminosi.—9. La psicologia criminale
  etnografica, suo còmpito e suoi principali obbietti.
                                                       _Pag._ 183 a 198


 CAPO XIII.

 Teoria dinamica della imputabilità.

  1. Equilibrio interno ed esterno delle forze; l’idea ed il sentimento
  di giustizia.—2. Che cosa s’intenda per _principio di causalità_.—3.
  I tre concetti onde risulta la imputabilità; intento della psicologia
  criminale.—4. I due problemi fondamentali della imputabilità,
  quello etico e quello del determinismo giuridico: significato e
  contenuto della morale positiva.—5. La _necessità effettuale_; il
  determinismo organico o determinismo vitale; conseguenze rispetto alla
  imputabilità.—6. Svolgimento della teoria dinamica del _dolo_.—7.
  Dovere, in pratica, di attenersi agli elementi proprî del _dolo
  specifico_ di ciascun reato.—8. Dottrina del _temperamento_.—9.
  I due metodi per la indagine del dolo; il metodo obbiettivo.—10.
  Il metodo subbiettivo: principio fondamentale della _induzione_;
  tentativo d’una logica della psicologia.—11. Norme imposte al
  giudice nella indagine del dolo.—12. La prova del dolo nei processi
  indiziarî; la _ipotesi_ del fatto imputabile.—13. Teoria della
  _colpa_.—14. Psicologia della _prevedibilità_ nella colpa.—15. La
  _disattenzione_ e la colpa.—16. Teoria del _caso_.
                                                       _Pag._ 199 a 223


 CAPO XIV.

 Di alcune forme giuridiche della psicologia criminale.

 I.

 La provocazione.

  1. Origine dinamica dello stato affettivo.—2. L’azione di _arresto_
  nei fenomeni affettivi.—3. Soggettività dell’atto provocativo.—4.
  Forme anomale di sensibilità nella scusa della provocazione: le
  _illusioni_.—5. Le _allucinazioni_.—6. Il _linguaggio interiore_;
  sdoppiamento dell’io, esempio d’un soliloquio di Lancilotto, nel
  _Mercante di Venezia_ di Shakspeare.—7. Conseguenza giuridica del
  turbamento d’animo nello stato di agitazione allucinatola.—8.
  Anomalia _incosciente_ d’interno processo provocativo.—9.
  La provocazione e l’_isterismo_.—10. La provocazione nei
  nevrastenici.—11. Psicologia dell’_intenso dolore_.
                                                       _Pag._ 224 a 241


 II.

 Legittima difesa e stato di necessità.

  1. Carattere di _legittimità_ o di _giustizia_, di _necessità_ e di
  _attualità_ nella discriminante della legittima difesa.—2. Studio
  fisio-psicologico del meccanismo della difesa dell’uomo: coefficienti
  fisici, intellettivi e morali.—3. Valutazione del _timore_ qual
  fondamento _naturale_ della legalità dell’offesa.—4. Psicologia del
  timore; esquilibrio psichico; coefficienti secondarî della necessità
  di difesa.—5. Sistema seguito dal nostro Codice.—6. Delimitazione
  della legittima difesa.—7. Legittima difesa in persona degli
  altri.—8. Dello _stato di necessità_; suo contenuto giuridico e
  logico.—9. Teoria dei giureconsulti romani.—10. Differenza tra lo
  stato di necessità e la legittima difesa.—11. Estremi dello stato
  di necessità.—12. La _gravezza_ e la _imminenza_ del pericolo.—13.
  L’_accidentalità_ e la _inevitabilità_ del pericolo.—14. Lo stato di
  necessità per la salvezza degli _altri_.
                                                       _Pag._ 241 a 257


 CAPO XV.

 Psicologia della prova del delitto.

  1. Dovere del giudico in materia penale; le leggi di rito e le
  idee teoretiche del delitto.—2. La verità storica del fatto; il
  criterio di verisimiglianza.—3. Necessità d’una psicologia del
  testimone; guarentigie logiche della prova testimoniale.—4. Qualità
  del testimone; importanza del suo fondo individuale sensitivo,
  intellettivo ed etico: il suo fondo sensitivo.—5. Lato intellettivo
  del testimone.—6. La relatività delle leggi logiche nella prova
  testimoniale.—7. Il _temperamento_ individuale ed il _tempo_,
  dall’avvenuto delitto, son le due principali cause modificatrici
  dell’opera del testimone.—8. L’ufficio del giudice, esigenze
  psicologiche cui egli è sottoposto.
                                                       _Pag._ 258 a 267

 CONCLUSIONE                                           _Pag._ 269 a 271

 INDICE DEGLI AUTORI CITATI                              »    273 a 274


              _Errori_                          _Correzioni_

_Pag._   5 linea    22 Gasper, Ferry            Casper, Ferrus

  »     14   »      10 ad incalcolabili         ed incalcolabili

  »     36   »       8 di sanzioni              di sensazioni

  »     71   »       8 quando scrisse           quanto scrisse

  »     7    »      12 proestemi                protoestemi

  »     86   »      30 e volutive               e volitive

  »    105   »      26 non ha significato       non hanno significato

  »    115(in nota) (68) _La psychologie_, ecc. (68) _Op. cit._, pag. 267

  »    122 linea    10 soppravenuta             sopravvenuta

  »    126   »       1 Dalla combinazione       Nella combinazione

  »    132   »       6 è accompagata            è accompagnata

  »    140   »      24 contradditorio           contradittorio

  »    142   »       5 e dal                    ed al

  »    146   »      36 melinconia               melanconia

  »    164   »      37 Coro                     Il Coro



                                 NOTE:

[1] _Opere_, vol. II, pag. 45.

[2] _Dell’idea e dei caratteri del dolo malo_, § 1.

[3] _Della proc. pen._, parte II, § 871.

[4] _Ist. di dir. e proc. pen._, pag. 158.

[5] _Genesi del dir. pen._, § 510.

[6] _Ivi_, § 493

[7] _Teoria delle leggi della sicur. soc._, tomo II, pag. 33-41.

[8] _Éléments de Psychologie physiologique_, tom. II, pag. 230.

[9] _Ivi_.

[10] _I primi principî_, cap. XXII.

[11] _Le basi della morale_, cap. V.

[12] Ved. _Il Monismo_.

[13] Ved. FOUCAULT, _La Psychophysique_, pag. 1-4; HAECKEL, _I problemi
dell’Universo_, pag. 128.

[14] Ved. _L’intelligenza_, pag. 21.

[15] _Ivi_, pag. 25.

[16] Prof. R. ODDI, _L’Inibizione, ecc._ Bocca, 1898.

[17] _Ivi_, pag. 112-115.

[18] _Trattato di Psichiatria_, pag. 326.

[19] _I problemi dell’Universo_, pag. 216.

[20] _L’uomo delinquente_, vol. I, pag. 386.

[21] _Ivi_, pag. 423.

[22] Ved. L. M. DRAGO, _I criminali nati_, pag. 32.

[23] _Trattato di Psichiatria_, pag. 334.

[24] _L’Uomo delinquente_, vol. I, pag. 134.

[25] _Dégénérescence et Criminalité_, pag. 87.

[26] _Ivi_, pag. 89.

[27] L’_Unità della coscienza_, vol. VII delle _Opere_, pag. 11.

[28] _Trattato di Psicopatologia Forense_, pag. 347.

[29] _Le degenerazioni umane_, pag. 96.

[30] _I caratteri dei delinquenti_, pag. 329.

[31] _La responsabilità nelle malattie mentali_, pag. 35.

[32] _Compendio di Psicologia_, pag. 17.

[33] Ved. JAMES, _Principii di Psicologia_, pag. 221-225.

[34] _Comp. di Psicologia_, pag. 166.

[35] _I caratteri dei delinquenti_, pagg. 379-380

[36] _Principii di psicologia_, pag. 751.

[37] _Principii di psicologia_, pagg. 752-753.

[38] MORSELLI, _Annot. ai Problemi dell’Universo_ di Haeckel, pag. 171.

[39] _Opere Filosof._, vol. I, pag. 181.

[40] Ved. il mio libro _La coscienza criminosa_, pag. 49.

[41] _Psicologia per le scuole_, pag. 165.

[42] _La Psychologie des Sentiments_, pag. 424.

[43] Non avendo potuto assistere di persona al Congresso, mi riporto al
resoconto pubblicato dal _Giornale d’Italia_, n. del 30 aprile 1905.

[44] ARDIGÒ, _La formaz. natur. e la dinam. della psiche_, pag. 285.

[45] Ved. P. RICCARDI: _Teoria antropologica dell’imputabilità e dati
fondamentali di antropologia criminale_, pag. 258.

[46] Ved. il mio libro _La Premeditazione_, pag. 56.

[47] _Iliade_ (_trad._ Monti) lib. II, vv. 283-286.

[48] _Ivi_, vv. 276-282.

[49] _Ivi_, vv. 322-331.

[50] _Iliade_ (_trad._ Monti), lib. II, vv. 348-350.

[51] _Ivi_, vv. 354-360

[52] _Delle Guerre del Peloponneso_, Lib. III.

[53] _I delitti nell’Arte_, pag. 17.

[54] _Ivi_, pag. 41.

[55] Atto I, sc. 2.

[56] _Ivi_, sc. 3.

[57] _Ivi_.

[58] Atto IV, sc. 2.

[59] Atto IV, sc. 4.

[60] Atto V, sc. 3.

[61] Atto V, sc. 3.

[62] _Ivi_.

[63] _Ivi_.

[64] Atto V, sc. 3.

[65] _La formazione naturale e la dinamica della psiche_, pag. 248.

[66] _La Psychologie des Idées-Forces_, tom. I, pag. ix.

[67] _La Psychologie des Idées-Forces_, tom. I, pag. IX.

[68] _La Psychologie des Idées-Forces_, tom. I, pag. 267.

[69] _Psychologie naturelle_, tom. I, pag. 177.

[70] _Ivi_, tom. II, pag. 213.

[71] _Psychologie naturelle_, tom. I, pag. 215.

[72] Risc. _Éléments de Psychologie Physiologique_, vol. II, pag. 232.

[73] Ved. _Corso di Scienza del Diritto_, pag. 114.

[74] SPENCER, _Primi principî_, cap. VIII, § 66.

[75] Ved. _Compendio di Psicologia_, pag. 151.

[76] _La Psychologie des Idées-Forces_, tom. II, pag. 249.

[77] WUNDT, _Ivi_, pag. 153.

[78] _Principî di Psicologia_, pag. 791.

[79] _Les Émotions_, pag. 51.

[80] _La Psychologie des Sentiments_, pag. 219.

[81] _La Vita e la Coscienza_, pag. 168-169.

[82] _La Vita e la Coscienza_, pag. 174.

[83] Atto III, sc. 5.

[84] Atto IV, sc. 1.

[85] Ivi.

[86] _Criminologia_, pag. 99.

[87] _I caratteri dei delinquenti_, pag. 352.

[88] _Psychologie naturelle_, special, vol. II, pag. 336 e seg.

[89] _L’uomo delinquente_, vol. I, pag. 336 e seg.

[90] Ved. FERRI, _L’Omicidio_, pag. 340.

[91] _Trattato di Psicopatologia forense_, pag. 82.

[92] KRAFFT-EBING, _Ivi_, pag. 84.

[93] _Trattato di Psicopatologia forense_, pag. 119.

[94] _Trattato di Psicopatologia forense_, pag. 388.

[95] _Trattato di Psichiatria_, pag. 585.

[96] _Trattato di Psichiatria_, pag. 485.

[97] _Dell’inv. e dell’odio_, VIII.

[98] _Fisiol. dell’amore_.

[99] _Medicina delle passioni_, C. VII.

[100] Ved. la tragedia di Euripide intitolata _Ippolito_.

[101] Ved. Euripide, _Medea_.

[102] Lib. I, cap. 1 (_Trad. Serdonati_).

[103] _Op. cit._, Lib. II, cap. V.

[104] _Le Coefore_.

[105] _Elettra_.

[106] _Elettra_.

[107] _L’uomo delinquente_, vol. II, pag. 491.

[108] _Sociologia criminale_, pag. 184.

[109] _La Coscienza criminosa_, Cap. X.

[110] _I delitti della folla_, pag. 62-63.

[111] PASQUALI ROSSI, _Psicologia collettiva morbosa_, pag. 25.

[112] _Storia Universale_, vol. IX, pag. 355.

[113] _Ivi_, pag. 358.

[114] _Psicologia criminale morbosa_, pag. 108.

[115] _Saggio critico del diritto penale_, pag. 61.

[116] _Ivi_, pag. 73.

[117] _La statistica_, pag. 167.

[118] Ved. COLAJANNI, _Manuale di statistica teoretica_, pag. 65.

[119] _Sulla teorica della probabilità e sulle sue applicazioni alle
scienze fisiche e sociali._

[120] _Fisica sociale_, Libro I.

[121] _Ivi_.

[122] _Sociologia criminale_, pag. 241.

[123] _Teoria analitica delle probabilità._

[124] _Logica dei probabili_, Cap. II.

[125] _Fisica sociale_, Lib. I, 9.

[126] _Ivi_, 10.

[127] _Primi principî_, Cap. XXII, § 174.

[128] _Sociologia_, vol. IV delle _Opere_, pag. 104.

[129] _La Giustizia_, Capo IV.

[130] _Annot. ai Problemi dell’Universo_ di Haeckel, pag. 405.

[131] Ved. il mio _Trattato di Codice penale_, pag. 180-181.

[132] _Ivi_, pagg. 184-194.

[133] _Principî di giurisprudenza criminale_, pag. 147.

[134] _Éléments de Psychologie physiologique_, tom. II, pag. 391.

[135] _Logique déductive et inductive_, tom II, pagg. 13-14.

[136] _Op. cit._, pagg. 408-431.

[137] _I Primi Principî_, Cap. IV, § 24.

[138] _Op. cit._

[139] _Trattato di Codice pen. ital._, pag. 192.

[140] BERNER, _Trattato di dir. pen._, § 94, pag. 138.

[141] RENAZZI, _Elementa_, Lib. I, Cap. VI, § 2.

[142] _Cenni sopra l’essenza e la punizione dei delitti colposi_. Ved.
il mio _Trattato di Cod. pen._, pag. 193 e seg.

[143] _Psychologie de l’attention_, pag. 3.

[144] _Trattato di psichiatria_, pag. 226.

[145] _La psychologie des idées-forces_, tom. I, pag. 46.

[146] Ved. Spencer, _Le basi della vita_, Cap. II e III.

[147] _Les Phénomènes affectifs_, pag. 21.

[148] _Programma_, Parte spec., vol. I, § 1289.

[149] _Trattato di psichiatria_, pag. 200.

[150] _Le Langage intérieur_, pag. 39.

[151] _Op. cit._

[152] Atto II, scena 2.

[153] _Genesi del diritto pen._, § 496.

[154] _Trattato di Psichiatria_, pag. 608.

[155] Vedi il mio _Trattato di Cod. pen._, Part. I^a, pag. 255 e seg.

[156] _Programma_, Part. gen., vol. I, § 296.

[157] _Op. cit._, §§ 302-303.

[158] _Trattato di diritto penale_, § 85.

[159] _Trattato di diritto penale_, § 86, pag. 123.

[160] _Relaz. min. sul progetto del 1887_, n. CLI.

[161] NICOLINI, _Questioni di diritto_, p. III, XXV, n. 8.

[162] METASTASIO, _Regolo_, atto II, sc. 1.

[163] _Questioni di diritto_, part. I, pag. 268.

[164] Ved. il mio _Trattato di Cod. pen. ital._, part. I, pag. 271 e
seg.

[165] _Item Labeo scribit, si cum vi ventorum navis impulsa esset in
funes anchorarum alterius_, (_et_) _nautae funes praecidissent, si
nullo alio modo, nisi praecisis funibus, explicare se potuit, nullam
actionem dandam. Idemque Labeo et Proculus, et circa retia piscatorum,
in quae navis_ (_piscatorum_) _inciderat aestimarunt. Plane, si culpa
nautarum id factum esset, lege Aquilia agendum_ (_Dig._, lib. IX, tit.
II, leg. 29, § 3).

[166] _Dig._, lib. XIX, tit. V, leg. 14.

[167] _Dig._, lib. IX, tit. II, leg. 49, § 1.

[168] _Della imputabilità e delle cause che la escludono o la
diminuiscono_ (nel _Trattato completo_ del Cogliolo) pag. 149.

[169] _Logica_, pag. 487

[170] _Ivi_.

[171] _Cours de Philosophie Positive_, tom. II, pag. 10.

[172] _Op. cit._, pag. 8.

[173] Mi giova qui segnalare, a titolo di onore, due egregi magistrati
da me personalmente conosciuti e pei quali l’adempimento esatto del
loro ufficio è sì adornatamente illuminato da larga coltura positiva
e da franchezza nel proclamarne i postulati; parlo di Fortunato De
Francesco, procuratore del re in Lucera, e del prof. Salvatore D’Auria,
sostituto procuratore generale in Trani.





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