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Title: - To be updated
Author: - To be updated
Language: English
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We will be presenting this work in a wide variety of formats, in
both English and Italian, and in translation by Longfellow, Cary
and possibly more, to include HTML and/or the Italian accents.


Right now we mostly need help with the Italian and Longfellow, I
think we may have enough proofers for a first run at the Cary.

We hope to have a decent versions of each one by August 31, 1997

Because these are preliminary versions, they are named xxxxx09.*

Also because they are so preliminary, I have not placed the names
of the person working on the files in them, as I take my complete
repsponsibility for all errors that need to be corrected.  Credit
will be completely given when we have the final version ready.

July 31, 1997

The Italian files with no accents appear as follows:

La Divina Commedia di Dante in Italian, 7-bit text[0ddcd09x.xxx]1000
Divina Commedia di Dante: Purgatorio 7-bit Italian[2ddcd09x.xxx] 998
Divina Commedia di Dante: Paradiso, 7-bit Italian [3ddcd09x.xxx] 997

followed by:

La Divina Commedia di Dante in Italian, 8-bit text[0ddc8xxx.xxx]1012
Divina Commedia di Dante: Inferno    [8-bit text] [1ddc8xxx.xxx]1011
Divina Commedia di Dante: Purgatorio [8-bit text] [2ddc8xxx.xxx]1010
Divina Commedia di Dante: Paradiso   [8-bit text] [3ddc8xxx.xxx]1009

and

H. F. Cary's Translation of Dante, Entire Comedy  [0ddccxxx.xxx]1008
H. F. Cary's T-anslation of Dante, The Inferno    [1ddccxxx.xxx]1007
H. F. Cary's Translation of Dante, Puragorty      [2ddccxxx.xxx]1006
H. F. Cary's Translation of Dante, Paradise       [3ddccxxx.xxx]1005

and

Longfellow's Translation of Dante, Entire Comedy  [0ddclxxx.xxx]1004
Longfellow's Translation of Dante, The Inferno    [1ddclxxx.xxx]1003
Longfellow's Translation of Dante, Purgatory      [2ddclxxx.xxx]1002
Longfellow's Translation of Dante  Paradise       [3ddclxxx.xxx]1001

in what I hope will be a timely manner.

Thank you so much for your cooperation and your patience.
This will be a LONG month of preparation.

[hart@pobox.com]
Executive Director



LA DIVINA COMMEDIA

DI DANTE ALIGHIERI


CANTICA III: PARADISO



La Divina Commedia
di Dante Alighieri



PARADISO



Paradiso: Canto I


La gloria di colui che tutto move
  per l'universo penetra, e risplende
  in una parte piu` e meno altrove.

Nel ciel che piu` de la sua luce prende
  fu' io, e vidi cose che ridire
  ne' sa ne' puo` chi di la` su` discende;

perche' appressando se' al suo disire,
  nostro intelletto si profonda tanto,
  che dietro la memoria non puo` ire.

Veramente quant'io del regno santo
  ne la mia mente potei far tesoro,
  sara` ora materia del mio canto.

O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
  fammi del tuo valor si` fatto vaso,
  come dimandi a dar l'amato alloro.

Infino a qui l'un giogo di Parnaso
  assai mi fu; ma or con amendue
  m'e` uopo intrar ne l'aringo rimaso.

Entra nel petto mio, e spira tue
  si` come quando Marsia traesti
  de la vagina de le membra sue.

O divina virtu`, se mi ti presti
  tanto che l'ombra del beato regno
  segnata nel mio capo io manifesti,

vedra'mi al pie` del tuo diletto legno
  venire, e coronarmi de le foglie
  che la materia e tu mi farai degno.

Si` rade volte, padre, se ne coglie
  per triunfare o cesare o poeta,
  colpa e vergogna de l'umane voglie,

che parturir letizia in su la lieta
  delfica deita` dovria la fronda
  peneia, quando alcun di se' asseta.

Poca favilla gran fiamma seconda:
  forse di retro a me con miglior voci
  si preghera` perche' Cirra risponda.

Surge ai mortali per diverse foci
  la lucerna del mondo; ma da quella
  che quattro cerchi giugne con tre croci,

con miglior corso e con migliore stella
  esce congiunta, e la mondana cera
  piu` a suo modo tempera e suggella.

Fatto avea di la` mane e di qua sera
  tal foce, e quasi tutto era la` bianco
  quello emisperio, e l'altra parte nera,

quando Beatrice in sul sinistro fianco
  vidi rivolta e riguardar nel sole:
  aquila si` non li s'affisse unquanco.

E si` come secondo raggio suole
  uscir del primo e risalire in suso,
  pur come pelegrin che tornar vuole,

cosi` de l'atto suo, per li occhi infuso
  ne l'imagine mia, il mio si fece,
  e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso.

Molto e` licito la`, che qui non lece
  a le nostre virtu`, merce' del loco
  fatto per proprio de l'umana spece.

Io nol soffersi molto, ne' si` poco,
  ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
  com'ferro che bogliente esce del foco;

e di subito parve giorno a giorno
  essere aggiunto, come quei che puote
  avesse il ciel d'un altro sole addorno.

Beatrice tutta ne l'etterne rote
  fissa con li occhi stava; e io in lei
  le luci fissi, di la` su` rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
  qual si fe' Glauco nel gustar de l'erba
  che 'l fe' consorto in mar de li altri dei.

Trasumanar significar per verba
  non si poria; pero` l'essemplo basti
  a cui esperienza grazia serba.

S'i' era sol di me quel che creasti
  novellamente, amor che 'l ciel governi,
  tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.

Quando la rota che tu sempiterni
  desiderato, a se' mi fece atteso
  con l'armonia che temperi e discerni,

parvemi tanto allor del cielo acceso
  de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
  lago non fece alcun tanto disteso.

La novita` del suono e 'l grande lume
  di lor cagion m'accesero un disio
  mai non sentito di cotanto acume.

Ond'ella, che vedea me si` com'io,
  a quietarmi l'animo commosso,
  pria ch'io a dimandar, la bocca aprio,

e comincio`: <>.

S'io fui del primo dubbio disvestito
  per le sorrise parolette brevi,
  dentro ad un nuovo piu` fu' inretito,

e dissi: <>.

Ond'ella, appresso d'un pio sospiro,
  li occhi drizzo` ver' me con quel sembiante
  che madre fa sovra figlio deliro,

e comincio`: <>.

Quinci rivolse inver' lo cielo il viso.



Paradiso: Canto II


O voi che siete in piccioletta barca,
  desiderosi d'ascoltar, seguiti
  dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
  non vi mettete in pelago, che' forse,
  perdendo me, rimarreste smarriti.

L'acqua ch'io prendo gia` mai non si corse;
  Minerva spira, e conducemi Appollo,
  e nove Muse mi dimostran l'Orse.

Voialtri pochi che drizzaste il collo
  per tempo al pan de li angeli, del quale
  vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l'alto sale
  vostro navigio, servando mio solco
  dinanzi a l'acqua che ritorna equale.

Que' gloriosi che passaro al Colco
  non s'ammiraron come voi farete,
  quando Iason vider fatto bifolco.

La concreata e perpetua sete
  del deiforme regno cen portava
  veloci quasi come 'l ciel vedete.

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
  e forse in tanto in quanto un quadrel posa
  e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa
  mi torse il viso a se'; e pero` quella
  cui non potea mia cura essere ascosa,

volta ver' me, si` lieta come bella,
  <>, mi disse,
  <>.

Parev'a me che nube ne coprisse
  lucida, spessa, solida e pulita,
  quasi adamante che lo sol ferisse.

Per entro se' l'etterna margarita
  ne ricevette, com'acqua recepe
  raggio di luce permanendo unita.

S'io era corpo, e qui non si concepe
  com'una dimensione altra patio,
  ch'esser convien se corpo in corpo repe,

accender ne dovria piu` il disio
  di veder quella essenza in che si vede
  come nostra natura e Dio s'unio.

Li` si vedra` cio` che tenem per fede,
  non dimostrato, ma fia per se' noto
  a guisa del ver primo che l'uom crede.

Io rispuosi: <>.

Ella sorrise alquanto, e poi <>, mi disse, <>.
  E io: <>.

Ed ella: <>.



Paradiso: Canto III


Quel sol che pria d'amor mi scaldo` 'l petto,
  di bella verita` m'avea scoverto,
  provando e riprovando, il dolce aspetto;

e io, per confessar corretto e certo
  me stesso, tanto quanto si convenne
  leva' il capo a proferer piu` erto;

ma visione apparve che ritenne
  a se' me tanto stretto, per vedersi,
  che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
  o ver per acque nitide e tranquille,
  non si` profonde che i fondi sien persi,

tornan d'i nostri visi le postille
  debili si`, che perla in bianca fronte
  non vien men forte a le nostre pupille;

tali vid'io piu` facce a parlar pronte;
  per ch'io dentro a l'error contrario corsi
  a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte.

Subito si` com'io di lor m'accorsi,
  quelle stimando specchiati sembianti,
  per veder di cui fosser, li occhi torsi;

e nulla vidi, e ritorsili avanti
  dritti nel lume de la dolce guida,
  che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

<>,
  mi disse, <>.

E io a l'ombra che parea piu` vaga
  di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
  quasi com'uom cui troppa voglia smaga:

<>.
  Ond'ella, pronta e con occhi ridenti:

<>.

Ond'io a lei: <>.

Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco;
  da indi mi rispuose tanto lieta,
  ch'arder parea d'amor nel primo foco:

<>.

Chiaro mi fu allor come ogne dove
  in cielo e` paradiso, etsi la grazia
  del sommo ben d'un modo non vi piove.

Ma si` com'elli avvien, s'un cibo sazia
  e d'un altro rimane ancor la gola,
  che quel si chere e di quel si ringrazia,

cosi` fec'io con atto e con parola,
  per apprender da lei qual fu la tela
  onde non trasse infino a co la spuola.

<>, mi disse, <>.

Cosi` parlommi, e poi comincio` 'Ave,
  Maria' cantando, e cantando vanio
  come per acqua cupa cosa grave.

La vista mia, che tanto lei seguio
  quanto possibil fu, poi che la perse,
  volsesi al segno di maggior disio,

e a Beatrice tutta si converse;
  ma quella folgoro` nel mio sguardo
  si` che da prima il viso non sofferse;

e cio` mi fece a dimandar piu` tardo.



Paradiso: Canto IV


Intra due cibi, distanti e moventi
  d'un modo, prima si morria di fame,
  che liber'omo l'un recasse ai denti;

si` si starebbe un agno intra due brame
  di fieri lupi, igualmente temendo;
  si` si starebbe un cane intra due dame:

per che, s'i' mi tacea, me non riprendo,
  da li miei dubbi d'un modo sospinto,
  poi ch'era necessario, ne' commendo.

Io mi tacea, ma 'l mio disir dipinto
  m'era nel viso, e 'l dimandar con ello,
  piu` caldo assai che per parlar distinto.

Fe' si` Beatrice qual fe' Daniello,
  Nabuccodonosor levando d'ira,
  che l'avea fatto ingiustamente fello;

e disse: <>.

Cotal fu l'ondeggiar del santo rio
  ch'usci` del fonte ond'ogne ver deriva;
  tal puose in pace uno e altro disio.

<>,
  diss'io appresso, <>.

Beatrice mi guardo` con li occhi pieni
  di faville d'amor cosi` divini,
  che, vinta, mia virtute die` le reni,

e quasi mi perdei con li occhi chini.



Paradiso: Canto V


<>.

Si` comincio` Beatrice questo canto;
  e si` com'uom che suo parlar non spezza,
  continuo` cosi` 'l processo santo:

<>.

Cosi` Beatrice a me com'io scrivo;
  poi si rivolse tutta disiante
  a quella parte ove 'l mondo e` piu` vivo.

Lo suo tacere e 'l trasmutar sembiante
  puoser silenzio al mio cupido ingegno,
  che gia` nuove questioni avea davante;

e si` come saetta che nel segno
  percuote pria che sia la corda queta,
  cosi` corremmo nel secondo regno.

Quivi la donna mia vid'io si` lieta,
  come nel lume di quel ciel si mise,
  che piu` lucente se ne fe' 'l pianeta.

E se la stella si cambio` e rise,
  qual mi fec'io che pur da mia natura
  trasmutabile son per tutte guise!

Come 'n peschiera ch'e` tranquilla e pura
  traggonsi i pesci a cio` che vien di fori
  per modo che lo stimin lor pastura,

si` vid'io ben piu` di mille splendori
  trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia:
  <>.

E si` come ciascuno a noi venia,
  vedeasi l'ombra piena di letizia
  nel folgor chiaro che di lei uscia.

Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia
  non procedesse, come tu avresti
  di piu` savere angosciosa carizia;

e per te vederai come da questi
  m'era in disio d'udir lor condizioni,
  si` come a li occhi mi fur manifesti.

<>.

Cosi` da un di quelli spirti pii
  detto mi fu; e da Beatrice: <>.

<>.

Questo diss'io diritto alla lumera
  che pria m'avea parlato; ond'ella fessi
  lucente piu` assai di quel ch'ell'era.

Si` come il sol che si cela elli stessi
  per troppa luce, come 'l caldo ha rose
  le temperanze d'i vapori spessi,

per piu` letizia si` mi si nascose
  dentro al suo raggio la figura santa;
  e cosi` chiusa chiusa mi rispuose

nel modo che 'l seguente canto canta.



Paradiso: Canto VI


<>.



Paradiso: Canto VII


<>.

Cosi`, volgendosi a la nota sua,
  fu viso a me cantare essa sustanza,
  sopra la qual doppio lume s'addua:

ed essa e l'altre mossero a sua danza,
  e quasi velocissime faville,
  mi si velar di subita distanza.

Io dubitava e dicea 'Dille, dille!'
  fra me, 'dille', dicea, 'a la mia donna
  che mi diseta con le dolci stille'.

Ma quella reverenza che s'indonna
  di tutto me, pur per Be e per ice,
  mi richinava come l'uom ch'assonna.

Poco sofferse me cotal Beatrice
  e comincio`, raggiandomi d'un riso
  tal, che nel foco faria l'uom felice:

<>.



Paradiso: Canto VIII


Solea creder lo mondo in suo periclo
  che la bella Ciprigna il folle amore
  raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei faceano onore
  di sacrificio e di votivo grido
  le genti antiche ne l'antico errore;

ma Dione onoravano e Cupido,
  quella per madre sua, questo per figlio,
  e dicean ch'el sedette in grembo a Dido;

e da costei ond'io principio piglio
  pigliavano il vocabol de la stella
  che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.

Io non m'accorsi del salire in ella;
  ma d'esservi entro mi fe' assai fede
  la donna mia ch'i' vidi far piu` bella.

E come in fiamma favilla si vede,
  e come in voce voce si discerne,
  quand'una e` ferma e altra va e riede,

vid'io in essa luce altre lucerne
  muoversi in giro piu` e men correnti,
  al modo, credo, di lor viste interne.

Di fredda nube non disceser venti,
  o visibili o no, tanto festini,
  che non paressero impediti e lenti

a chi avesse quei lumi divini
  veduti a noi venir, lasciando il giro
  pria cominciato in li alti Serafini;

e dentro a quei che piu` innanzi appariro
  sonava 'Osanna' si`, che unque poi
  di riudir non fui sanza disiro.

Indi si fece l'un piu` presso a noi
  e solo incomincio`: <>.

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
  a la mia donna reverenti, ed essa
  fatti li avea di se' contenti e certi,

rivolsersi a la luce che promessa
  tanto s'avea, e <> fue
  la voce mia di grande affetto impressa.

E quanta e quale vid'io lei far piue
  per allegrezza nova che s'accrebbe,
  quando parlai, a l'allegrezze sue!

Cosi` fatta, mi disse: <>.

<>.

Questo io a lui; ed elli a me: <>.
  E io: <>.

Ond'elli ancora: <>.
  <>, rispuos'io; <>.

<>.

Si` venne deducendo infino a quici;
  poscia conchiuse: <>.



Paradiso: Canto IX


Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
  m'ebbe chiarito, mi narro` li 'nganni
  che ricever dovea la sua semenza;

ma disse: <>;
  si` ch'io non posso dir se non che pianto
  giusto verra` di retro ai vostri danni.

E gia` la vita di quel lume santo
  rivolta s'era al Sol che la riempie
  come quel ben ch'a ogne cosa e` tanto.

Ahi anime ingannate e fatture empie,
  che da si` fatto ben torcete i cuori,
  drizzando in vanita` le vostre tempie!

Ed ecco un altro di quelli splendori
  ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi
  significava nel chiarir di fori.

Li occhi di Beatrice, ch'eran fermi
  sovra me, come pria, di caro assenso
  al mio disio certificato fermi.

<>, dissi, <>.

Onde la luce che m'era ancor nova,
  del suo profondo, ond'ella pria cantava,
  seguette come a cui di ben far giova:

<>.

Qui si tacette; e fecemi sembiante
  che fosse ad altro volta, per la rota
  in che si mise com'era davante.

L'altra letizia, che m'era gia` nota
  per cara cosa, mi si fece in vista
  qual fin balasso in che lo sol percuota.

Per letiziar la` su` fulgor s'acquista,
  si` come riso qui; ma giu` s'abbuia
  l'ombra di fuor, come la mente e` trista.

<>,
  diss'io, <>.

<>,
  incominciaro allor le sue parole,
  <>.



Paradiso: Canto X


Guardando nel suo Figlio con l'Amore
  che l'uno e l'altro etternalmente spira,
  lo primo e ineffabile Valore

quanto per mente e per loco si gira
  con tant'ordine fe', ch'esser non puote
  sanza gustar di lui chi cio` rimira.

Leva dunque, lettore, a l'alte rote
  meco la vista, dritto a quella parte
  dove l'un moto e l'altro si percuote;

e li` comincia a vagheggiar ne l'arte
  di quel maestro che dentro a se' l'ama,
  tanto che mai da lei l'occhio non parte.

Vedi come da indi si dirama
  l'oblico cerchio che i pianeti porta,
  per sodisfare al mondo che li chiama.

Che se la strada lor non fosse torta,
  molta virtu` nel ciel sarebbe in vano,
  e quasi ogne potenza qua giu` morta;

e se dal dritto piu` o men lontano
  fosse 'l partire, assai sarebbe manco
  e giu` e su` de l'ordine mondano.

Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco,
  dietro pensando a cio` che si preliba,
  s'esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba;
  che' a se' torce tutta la mia cura
  quella materia ond'io son fatto scriba.

Lo ministro maggior de la natura,
  che del valor del ciel lo mondo imprenta
  e col suo lume il tempo ne misura,

con quella parte che su` si rammenta
  congiunto, si girava per le spire
  in che piu` tosto ognora s'appresenta;

e io era con lui; ma del salire
  non m'accors'io, se non com'uom s'accorge,
  anzi 'l primo pensier, del suo venire.

E' Beatrice quella che si` scorge
  di bene in meglio, si` subitamente
  che l'atto suo per tempo non si sporge.

Quant'esser convenia da se' lucente
  quel ch'era dentro al sol dov'io entra'mi,
  non per color, ma per lume parvente!

Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami,
  si` nol direi che mai s'imaginasse;
  ma creder puossi e di veder si brami.

E se le fantasie nostre son basse
  a tanta altezza, non e` maraviglia;
  che' sopra 'l sol non fu occhio ch'andasse.

Tal era quivi la quarta famiglia
  de l'alto Padre, che sempre la sazia,
  mostrando come spira e come figlia.

E Beatrice comincio`: <>.

Cor di mortal non fu mai si` digesto
  a divozione e a rendersi a Dio
  con tutto 'l suo gradir cotanto presto,

come a quelle parole mi fec'io;
  e si` tutto 'l mio amore in lui si mise,
  che Beatrice eclisso` ne l'oblio.

Non le dispiacque; ma si` se ne rise,
  che lo splendor de li occhi suoi ridenti
  mia mente unita in piu` cose divise.

Io vidi piu` folgor vivi e vincenti
  far di noi centro e di se' far corona,
  piu` dolci in voce che in vista lucenti:

cosi` cinger la figlia di Latona
  vedem talvolta, quando l'aere e` pregno,
  si` che ritenga il fil che fa la zona.

Ne la corte del cielo, ond'io rivegno,
  si trovan molte gioie care e belle
  tanto che non si posson trar del regno;

e 'l canto di quei lumi era di quelle;
  chi non s'impenna si` che la` su` voli,
  dal muto aspetti quindi le novelle.

Poi, si` cantando, quelli ardenti soli
  si fuor girati intorno a noi tre volte,
  come stelle vicine a' fermi poli,

donne mi parver, non da ballo sciolte,
  ma che s'arrestin tacite, ascoltando
  fin che le nove note hanno ricolte.

E dentro a l'un senti' cominciar: <>.

Indi, come orologio che ne chiami
  ne l'ora che la sposa di Dio surge
  a mattinar lo sposo perche' l'ami,

che l'una parte e l'altra tira e urge,
  tin tin sonando con si` dolce nota,
  che 'l ben disposto spirto d'amor turge;

cosi` vid'io la gloriosa rota
  muoversi e render voce a voce in tempra
  e in dolcezza ch'esser non po` nota

se non cola` dove gioir s'insempra.



Paradiso: Canto XI


O insensata cura de' mortali,
  quanto son difettivi silogismi
  quei che ti fanno in basso batter l'ali!

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
  sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
  e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare, e chi civil negozio,
  chi nel diletto de la carne involto
  s'affaticava e chi si dava a l'ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,
  con Beatrice m'era suso in cielo
  cotanto gloriosamente accolto.

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
  punto del cerchio in che avanti s'era,
  fermossi, come a candellier candelo.

E io senti' dentro a quella lumera
  che pria m'avea parlato, sorridendo
  incominciar, faccendosi piu` mera:

<>.



Paradiso: Canto XII


Si` tosto come l'ultima parola
  la benedetta fiamma per dir tolse,
  a rotar comincio` la santa mola;

e nel suo giro tutta non si volse
  prima ch'un'altra di cerchio la chiuse,
  e moto a moto e canto a canto colse;

canto che tanto vince nostre muse,
  nostre serene in quelle dolci tube,
  quanto primo splendor quel ch'e' refuse.

Come si volgon per tenera nube
  due archi paralelli e concolori,
  quando Iunone a sua ancella iube,

nascendo di quel d'entro quel di fori,
  a guisa del parlar di quella vaga
  ch'amor consunse come sol vapori;

e fanno qui la gente esser presaga,
  per lo patto che Dio con Noe` puose,
  del mondo che gia` mai piu` non s'allaga:

cosi` di quelle sempiterne rose
  volgiensi circa noi le due ghirlande,
  e si` l'estrema a l'intima rispuose.

Poi che 'l tripudio e l'altra festa grande,
  si` del cantare e si` del fiammeggiarsi
  luce con luce gaudiose e blande,

insieme a punto e a voler quetarsi,
  pur come li occhi ch'al piacer che i move
  conviene insieme chiudere e levarsi;

del cor de l'una de le luci nove
  si mosse voce, che l'ago a la stella
  parer mi fece in volgermi al suo dove;

e comincio`: <>.



Paradiso: Canto XIII


Imagini, chi bene intender cupe
  quel ch'i' or vidi - e ritegna l'image,
  mentre ch'io dico, come ferma rupe -,

quindici stelle che 'n diverse plage
  lo ciel avvivan di tanto sereno
  che soperchia de l'aere ogne compage;

imagini quel carro a cu' il seno
  basta del nostro cielo e notte e giorno,
  si` ch'al volger del temo non vien meno;

imagini la bocca di quel corno
  che si comincia in punta de lo stelo
  a cui la prima rota va dintorno,

aver fatto di se' due segni in cielo,
  qual fece la figliuola di Minoi
  allora che senti` di morte il gelo;

e l'un ne l'altro aver li raggi suoi,
  e amendue girarsi per maniera
  che l'uno andasse al primo e l'altro al poi;

e avra` quasi l'ombra de la vera
  costellazione e de la doppia danza
  che circulava il punto dov'io era:

poi ch'e` tanto di la` da nostra usanza,
  quanto di la` dal mover de la Chiana
  si move il ciel che tutti li altri avanza.

Li` si canto` non Bacco, non Peana,
  ma tre persone in divina natura,
  e in una persona essa e l'umana.

Compie' 'l cantare e 'l volger sua misura;
  e attesersi a noi quei santi lumi,
  felicitando se' di cura in cura.

Ruppe il silenzio ne' concordi numi
  poscia la luce in che mirabil vita
  del poverel di Dio narrata fumi,

e disse: <>.



Paradiso: Canto XIV


Dal centro al cerchio, e si` dal cerchio al centro
  movesi l'acqua in un ritondo vaso,
  secondo ch'e` percosso fuori o dentro:

ne la mia mente fe' subito caso
  questo ch'io dico, si` come si tacque
  la gloriosa vita di Tommaso,

per la similitudine che nacque
  del suo parlare e di quel di Beatrice,
  a cui si` cominciar, dopo lui, piacque:

<>.

Come, da piu` letizia pinti e tratti,
  a la fiata quei che vanno a rota
  levan la voce e rallegrano li atti,

cosi`, a l'orazion pronta e divota,
  li santi cerchi mostrar nova gioia
  nel torneare e ne la mira nota.

Qual si lamenta perche' qui si moia
  per viver cola` su`, non vide quive
  lo refrigerio de l'etterna ploia.

Quell'uno e due e tre che sempre vive
  e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,
  non circunscritto, e tutto circunscrive,

tre volte era cantato da ciascuno
  di quelli spirti con tal melodia,
  ch'ad ogne merto saria giusto muno.

E io udi' ne la luce piu` dia
  del minor cerchio una voce modesta,
  forse qual fu da l'angelo a Maria,

risponder: <>.

Tanto mi parver subiti e accorti
  e l'uno e l'altro coro a dicer <>,
  che ben mostrar disio d'i corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,
  per li padri e per li altri che fuor cari
  anzi che fosser sempiterne fiamme.

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
  nascere un lustro sopra quel che v'era,
  per guisa d'orizzonte che rischiari.

E si` come al salir di prima sera
  comincian per lo ciel nove parvenze,
  si` che la vista pare e non par vera,

parvemi li` novelle sussistenze
  cominciare a vedere, e fare un giro
  di fuor da l'altre due circunferenze.

Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
  come si fece subito e candente
  a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

Ma Beatrice si` bella e ridente
  mi si mostro`, che tra quelle vedute
  si vuol lasciar che non seguir la mente.

Quindi ripreser li occhi miei virtute
  a rilevarsi; e vidimi translato
  sol con mia donna in piu` alta salute.

Ben m'accors'io ch'io era piu` levato,
  per l'affocato riso de la stella,
  che mi parea piu` roggio che l'usato.

Con tutto 'l core e con quella favella
  ch'e` una in tutti, a Dio feci olocausto,
  qual conveniesi a la grazia novella.

E non er'anco del mio petto essausto
  l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi
  esso litare stato accetto e fausto;

che' con tanto lucore e tanto robbi
  m'apparvero splendor dentro a due raggi,
  ch'io dissi: <>.

Come distinta da minori e maggi
  lumi biancheggia tra ' poli del mondo
  Galassia si`, che fa dubbiar ben saggi;

si` costellati facean nel profondo
  Marte quei raggi il venerabil segno
  che fan giunture di quadranti in tondo.

Qui vince la memoria mia lo 'ngegno;
  che' quella croce lampeggiava Cristo,
  si` ch'io non so trovare essempro degno;

ma chi prende sua croce e segue Cristo,
  ancor mi scusera` di quel ch'io lasso,
  vedendo in quell'albor balenar Cristo.

Di corno in corno e tra la cima e 'l basso
  si movien lumi, scintillando forte
  nel congiugnersi insieme e nel trapasso:

cosi` si veggion qui diritte e torte,
  veloci e tarde, rinovando vista,
  le minuzie d'i corpi, lunghe e corte,

moversi per lo raggio onde si lista
  talvolta l'ombra che, per sua difesa,
  la gente con ingegno e arte acquista.

E come giga e arpa, in tempra tesa
  di molte corde, fa dolce tintinno
  a tal da cui la nota non e` intesa,

cosi` da' lumi che li` m'apparinno
  s'accogliea per la croce una melode
  che mi rapiva, sanza intender l'inno.

Ben m'accors'io ch'elli era d'alte lode,
  pero` ch'a me venia <> e <>
  come a colui che non intende e ode.

Io m'innamorava tanto quinci,
  che 'nfino a li` non fu alcuna cosa
  che mi legasse con si` dolci vinci.

Forse la mia parola par troppo osa,
  posponendo il piacer de li occhi belli,
  ne' quai mirando mio disio ha posa;

ma chi s'avvede che i vivi suggelli
  d'ogne bellezza piu` fanno piu` suso,
  e ch'io non m'era li` rivolto a quelli,

escusar puommi di quel ch'io m'accuso
  per escusarmi, e vedermi dir vero:
  che' 'l piacer santo non e` qui dischiuso,

perche' si fa, montando, piu` sincero.



Paradiso: Canto XV


Benigna volontade in che si liqua
  sempre l'amor che drittamente spira,
  come cupidita` fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,
  e fece quietar le sante corde
  che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a' giusti preghi sorde
  quelle sustanze che, per darmi voglia
  ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene e` che sanza termine si doglia
  chi, per amor di cosa che non duri,
  etternalmente quello amor si spoglia.

Quale per li seren tranquilli e puri
  discorre ad ora ad or subito foco,
  movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,
  se non che da la parte ond'e' s'accende
  nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che 'n destro si stende
  a pie` di quella croce corse un astro
  de la costellazion che li` resplende;

ne' si parti` la gemma dal suo nastro,
  ma per la lista radial trascorse,
  che parve foco dietro ad alabastro.

Si` pia l'ombra d'Anchise si porse,
  se fede merta nostra maggior musa,
  quando in Eliso del figlio s'accorse.

<>.

Cosi` quel lume: ond'io m'attesi a lui;
  poscia rivolsi a la mia donna il viso,
  e quinci e quindi stupefatto fui;

che' dentro a li occhi suoi ardeva un riso
  tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
  de la mia gloria e del mio paradiso.

Indi, a udire e a veder giocondo,
  giunse lo spirto al suo principio cose,
  ch'io non lo 'ntesi, si` parlo` profondo;

ne' per elezion mi si nascose,
  ma per necessita`, che' 'l suo concetto
  al segno d'i mortal si soprapuose.

E quando l'arco de l'ardente affetto
  fu si` sfogato, che 'l parlar discese
  inver' lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s'intese,
  <>, fu, <>.

E segui`: <>.

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
  pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
  che fece crescer l'ali al voler mio.

Poi cominciai cosi`: <>.

<>:
  cotal principio, rispondendo, femmi.

Poscia mi disse: <>.



Paradiso: Canto XVI


O poca nostra nobilta` di sangue,
  se gloriar di te la gente fai
  qua giu` dove l'affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sara` mai:
  che' la` dove appetito non si torce,
  dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se' tu manto che tosto raccorce:
  si` che, se non s'appon di di` in die,
  lo tempo va dintorno con le force.

Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie,
  in che la sua famiglia men persevra,
  ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch'era un poco scevra,
  ridendo, parve quella che tossio
  al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: <>.

Come s'avviva a lo spirar d'i venti
  carbone in fiamma, cosi` vid'io quella
  luce risplendere a' miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fe' piu` bella,
  cosi` con voce piu` dolce e soave,
  ma non con questa moderna favella,

dissemi: <>.



Paradiso: Canto XVII


Qual venne a Climene', per accertarsi
  di cio` ch'avea incontro a se' udito,
  quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito
  e da Beatrice e da la santa lampa
  che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna <>, mi disse, <>.

<>.

Cosi` diss'io a quella luce stessa
  che pria m'avea parlato; e come volle
  Beatrice, fu la mia voglia confessa.

Ne' per ambage, in che la gente folle
  gia` s'inviscava pria che fosse anciso
  l'Agnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso
  latin rispuose quello amor paterno,
  chiuso e parvente del suo proprio riso:

<>; e disse cose
  incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: <>.

Poi che, tacendo, si mostro` spedita
  l'anima santa di metter la trama
  in quella tela ch'io le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,
  dubitando, consiglio da persona
  che vede e vuol dirittamente e ama:

<>.

La luce in che rideva il mio tesoro
  ch'io trovai li`, si fe' prima corusca,
  quale a raggio di sole specchio d'oro;

indi rispuose: <>.



Paradiso: Canto XVIII


Gia` si godeva solo del suo verbo
  quello specchio beato, e io gustava
  lo mio, temprando col dolce l'acerbo;

e quella donna ch'a Dio mi menava
  disse: <>.

Io mi rivolsi a l'amoroso suono
  del mio conforto; e qual io allor vidi
  ne li occhi santi amor, qui l'abbandono:

non perch'io pur del mio parlar diffidi,
  ma per la mente che non puo` redire
  sovra se' tanto, s'altri non la guidi.

Tanto poss'io di quel punto ridire,
  che, rimirando lei, lo mio affetto
  libero fu da ogne altro disire,

fin che 'l piacere etterno, che diretto
  raggiava in Beatrice, dal bel viso
  mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d'un sorriso,
  ella mi disse: <>.

Come si vede qui alcuna volta
  l'affetto ne la vista, s'elli e` tanto,
  che da lui sia tutta l'anima tolta,

cosi` nel fiammeggiar del folgor santo,
  a ch'io mi volsi, conobbi la voglia
  in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El comincio`: <>.

Io vidi per la croce un lume tratto
  dal nomar Iosue`, com'el si feo;
  ne' mi fu noto il dir prima che 'l fatto.

E al nome de l'alto Macabeo
  vidi moversi un altro roteando,
  e letizia era ferza del paleo.

Cosi` per Carlo Magno e per Orlando
  due ne segui` lo mio attento sguardo,
  com'occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
  e 'l duca Gottifredi la mia vista
  per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra l'altre luci mota e mista,
  mostrommi l'alma che m'avea parlato
  qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato
  per vedere in Beatrice il mio dovere,
  o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,
  tanto gioconde, che la sua sembianza
  vinceva li altri e l'ultimo solere.

E come, per sentir piu` dilettanza
  bene operando, l'uom di giorno in giorno
  s'accorge che la sua virtute avanza,

si` m'accors'io che 'l mio girare intorno
  col cielo insieme avea cresciuto l'arco,
  veggendo quel miracol piu` addorno.

E qual e` 'l trasmutare in picciol varco
  di tempo in bianca donna, quando 'l volto
  suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui volto,
  per lo candor de la temprata stella
  sesta, che dentro a se' m'avea ricolto.

Io vidi in quella giovial facella
  lo sfavillar de l'amor che li` era,
  segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,
  quasi congratulando a lor pasture,
  fanno di se' or tonda or altra schiera,

si` dentro ai lumi sante creature
  volitando cantavano, e faciensi
  or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi;
  poi, diventando l'un di questi segni,
  un poco s'arrestavano e taciensi.

O diva Pegasea che li 'ngegni
  fai gloriosi e rendili longevi,
  ed essi teco le cittadi e ' regni,

illustrami di te, si` ch'io rilevi
  le lor figure com'io l'ho concette:
  paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
  vocali e consonanti; e io notai
  le parti si`, come mi parver dette.

'DILIGITE IUSTITIAM', primai
  fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
  'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai.

Poscia ne l'emme del vocabol quinto
  rimasero ordinate; si` che Giove
  pareva argento li` d'oro distinto.

E vidi scendere altre luci dove
  era il colmo de l'emme, e li` quetarsi
  cantando, credo, il ben ch'a se' le move.

Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi
  surgono innumerabili faville,
  onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi piu` di mille
  luci e salir, qual assai e qual poco,
  si` come 'l sol che l'accende sortille;

e quietata ciascuna in suo loco,
  la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi
  rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge li`, non ha chi 'l guidi;
  ma esso guida, e da lui si rammenta
  quella virtu` ch'e` forma per li nidi.

L'altra beatitudo, che contenta
  pareva prima d'ingigliarsi a l'emme,
  con poco moto seguito` la 'mprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme
  mi dimostraro che nostra giustizia
  effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per ch'io prego la mente in che s'inizia
  tuo moto e tua virtute, che rimiri
  ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia;

si` ch'un'altra fiata omai s'adiri
  del comperare e vender dentro al templo
  che si muro` di segni e di martiri.

O milizia del ciel cu' io contemplo,
  adora per color che sono in terra
  tutti sviati dietro al malo essemplo!

Gia` si solea con le spade far guerra;
  ma or si fa togliendo or qui or quivi
  lo pan che 'l pio Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
  pensa che Pietro e Paulo, che moriro
  per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: <>.



Paradiso: Canto XIX


Parea dinanzi a me con l'ali aperte
  la bella image che nel dolce frui
  liete facevan l'anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui
  raggio di sole ardesse si` acceso,
  che ne' miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,
  non porto` voce mai, ne' scrisse incostro,
  ne' fu per fantasia gia` mai compreso;

ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro,
  e sonar ne la voce e <> e <>,
  quand'era nel concetto e 'noi' e 'nostro'.

E comincio`: <>.

Cosi` un sol calor di molte brage
  si fa sentir, come di molti amori
  usciva solo un suon di quella image.

Ond'io appresso: <>.

Quasi falcone ch'esce del cappello,
  move la testa e con l'ali si plaude,
  voglia mostrando e faccendosi bello,

vid'io farsi quel segno, che di laude
  de la divina grazia era contesto,
  con canti quai si sa chi la` su` gaude.

Poi comincio`: <>.

Quale sovresso il nido si rigira
  poi c'ha pasciuti la cicogna i figli,
  e come quel ch'e` pasto la rimira;

cotal si fece, e si` levai i cigli,
  la benedetta imagine, che l'ali
  movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: <>.

Poi si quetaro quei lucenti incendi
  de lo Spirito Santo ancor nel segno
  che fe' i Romani al mondo reverendi,

esso ricomincio`: <>.



Paradiso: Canto XX


Quando colui che tutto 'l mondo alluma
  de l'emisperio nostro si` discende,
  che 'l giorno d'ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s'accende,
  subitamente si rifa` parvente
  per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,
  come 'l segno del mondo e de' suoi duci
  nel benedetto rostro fu tacente;

pero` che tutte quelle vive luci,
  vie piu` lucendo, cominciaron canti
  da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t'ammanti,
  quanto parevi ardente in que' flailli,
  ch'avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
  ond'io vidi ingemmato il sesto lume
  puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
  che scende chiaro giu` di pietra in pietra,
  mostrando l'uberta` del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
  prende sua forma, e si` com'al pertugio
  de la sampogna vento che penetra,

cosi`, rimosso d'aspettare indugio,
  quel mormorar de l'aguglia salissi
  su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
  per lo suo becco in forma di parole,
  quali aspettava il core ov'io le scrissi.

<>, incominciommi,
  <>.

Quale allodetta che 'n aere si spazia
  prima cantando, e poi tace contenta
  de l'ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembio` l'imago de la 'mprenta
  de l'etterno piacere, al cui disio
  ciascuna cosa qual ell'e` diventa.

E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio
  li` quasi vetro a lo color ch'el veste,
  tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, <>,
  mi pinse con la forza del suo peso:
  per ch'io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l'occhio piu` acceso,
  lo benedetto segno mi rispuose
  per non tenermi in ammirar sospeso:

<>.

Cosi` da quella imagine divina,
  per farmi chiara la mia corta vista,
  data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
  fa seguitar lo guizzo de la corda,
  in che piu` di piacer lo canto acquista,

si`, mentre ch'e' parlo`, si` mi ricorda
  ch'io vidi le due luci benedette,
  pur come batter d'occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.



Paradiso: Canto XXI


Gia` eran li occhi miei rifissi al volto
  de la mia donna, e l'animo con essi,
  e da ogne altro intento s'era tolto.

E quella non ridea; ma <>,
  mi comincio`, <>.

Qual savesse qual era la pastura
  del viso mio ne l'aspetto beato
  quand'io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m'era a grato
  ubidire a la mia celeste scorta,
  contrapesando l'un con l'altro lato.

Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,
  cerchiando il mondo, del suo caro duce
  sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d'oro in che raggio traluce
  vid'io uno scaleo eretto in suso
  tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso
  tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
  che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
  le pole insieme, al cominciar del giorno,
  si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
  altre rivolgon se' onde son mosse,
  e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
  in quello sfavillar che 'nsieme venne,
  si` come in certo grado si percosse.

E quel che presso piu` ci si ritenne,
  si fe' si` chiaro, ch'io dicea pensando:
  'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne.

Ma quella ond'io aspetto il come e 'l quando
  del dire e del tacer, si sta; ond'io,
  contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'.

Per ch'ella, che vedea il tacer mio
  nel veder di colui che tutto vede,
  mi disse: <>.

E io incominciai: <>.

<>,
  rispuose a me; <>.

<>, diss'io, <>.

Ne' venni prima a l'ultima parola,
  che del suo mezzo fece il lume centro,
  girando se' come veloce mola;

poi rispuose l'amor che v'era dentro:
  <>.

Si` mi prescrisser le parole sue,
  ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi
  a dimandarla umilmente chi fue.

<>.

Cosi` ricominciommi il terzo sermo;
  e poi, continuando, disse: <>.

A questa voce vid'io piu` fiammelle
  di grado in grado scendere e girarsi,
  e ogne giro le facea piu` belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
  e fero un grido di si` alto suono,
  che non potrebbe qui assomigliarsi;

ne' io lo 'ntesi, si` mi vinse il tuono.



Paradiso: Canto XXII


Oppresso di stupore, a la mia guida
  mi volsi, come parvol che ricorre
  sempre cola` dove piu` si confida;

e quella, come madre che soccorre
  subito al figlio palido e anelo
  con la sua voce, che 'l suol ben disporre,

mi disse: <>.

Come a lei piacque, li occhi ritornai,
  e vidi cento sperule che 'nsieme
  piu` s'abbellivan con mutui rai.

Io stava come quei che 'n se' repreme
  la punta del disio, e non s'attenta
  di domandar, si` del troppo si teme;

e la maggiore e la piu` luculenta
  di quelle margherite innanzi fessi,
  per far di se' la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udi': <>.

E io a lui: <>.

Ond'elli: <>.

Cosi` mi disse, e indi si raccolse
  al suo collegio, e 'l collegio si strinse;
  poi, come turbo, in su` tutto s'avvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse
  con un sol cenno su per quella scala,
  si` sua virtu` la mia natura vinse;

ne' mai qua giu` dove si monta e cala
  naturalmente, fu si` ratto moto
  ch'agguagliar si potesse a la mia ala.

S'io torni mai, lettore, a quel divoto
  triunfo per lo quale io piango spesso
  le mie peccata e 'l petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo
  nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno
  che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O gloriose stelle, o lume pregno
  di gran virtu`, dal quale io riconosco
  tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s'ascondeva vosco
  quelli ch'e` padre d'ogne mortal vita,
  quand'io senti' di prima l'aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
  d'entrar ne l'alta rota che vi gira,
  la vostra region mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
  l'anima mia, per acquistar virtute
  al passo forte che a se' la tira.

<>,
  comincio` Beatrice, <>.

Col viso ritornai per tutte quante
  le sette spere, e vidi questo globo
  tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo
  che l'ha per meno; e chi ad altro pensa
  chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
  sanza quell'ombra che mi fu cagione
  per che gia` la credetti rara e densa.

L'aspetto del tuo nato, Iperione,
  quivi sostenni, e vidi com'si move
  circa e vicino a lui Maia e Dione.

Quindi m'apparve il temperar di Giove
  tra 'l padre e 'l figlio: e quindi mi fu chiaro
  il variar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
  quanto son grandi e quanto son veloci
  e come sono in distante riparo.

L'aiuola che ci fa tanto feroci,
  volgendom'io con li etterni Gemelli,
  tutta m'apparve da' colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.



Paradiso: Canto XXIII


Come l'augello, intra l'amate fronde,
  posato al nido de' suoi dolci nati
  la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disiati
  e per trovar lo cibo onde li pasca,
  in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,
  e con ardente affetto il sole aspetta,
  fiso guardando pur che l'alba nasca;

cosi` la donna mia stava eretta
  e attenta, rivolta inver' la plaga
  sotto la quale il sol mostra men fretta:

si` che, veggendola io sospesa e vaga,
  fecimi qual e` quei che disiando
  altro vorria, e sperando s'appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,
  del mio attender, dico, e del vedere
  lo ciel venir piu` e piu` rischiarando;

e Beatrice disse: <>.

Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto,
  e li occhi avea di letizia si` pieni,
  che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne' plenilunii sereni
  Trivia ride tra le ninfe etterne
  che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid'i' sopra migliaia di lucerne
  un sol che tutte quante l'accendea,
  come fa 'l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea
  la lucente sustanza tanto chiara
  nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Beatrice, dolce guida e cara!
  Ella mi disse: <>.

Come foco di nube si diserra
  per dilatarsi si` che non vi cape,
  e fuor di sua natura in giu` s'atterra,

la mente mia cosi`, tra quelle dape
  fatta piu` grande, di se' stessa uscio,
  e che si fesse rimembrar non sape.

<>.

Io era come quei che si risente
  di visione oblita e che s'ingegna
  indarno di ridurlasi a la mente,

quand'io udi' questa proferta, degna
  di tanto grato, che mai non si stingue
  del libro che 'l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue
  che Polimnia con le suore fero
  del latte lor dolcissimo piu` pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero
  non si verria, cantando il santo riso
  e quanto il santo aspetto facea mero;

e cosi`, figurando il paradiso,
  convien saltar lo sacrato poema,
  come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema
  e l'omero mortal che se ne carca,
  nol biasmerebbe se sott'esso trema:

non e` pareggio da picciola barca
  quel che fendendo va l'ardita prora,
  ne' da nocchier ch'a se' medesmo parca.

<>.

Cosi` Beatrice; e io, che a' suoi consigli
  tutto era pronto, ancora mi rendei
  a la battaglia de' debili cigli.

Come a raggio di sol che puro mei
  per fratta nube, gia` prato di fiori
  vider, coverti d'ombra, li occhi miei;

vid'io cosi` piu` turbe di splendori,
  folgorate di su` da raggi ardenti,
  sanza veder principio di folgori.

O benigna vertu` che si` li 'mprenti,
  su` t'essaltasti, per largirmi loco
  a li occhi li` che non t'eran possenti.

Il nome del bel fior ch'io sempre invoco
  e mane e sera, tutto mi ristrinse
  l'animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse
  il quale e il quanto de la viva stella
  che la` su` vince come qua giu` vinse,

per entro il cielo scese una facella,
  formata in cerchio a guisa di corona,
  e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia piu` dolce suona
  qua giu` e piu` a se' l'anima tira,
  parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira
  onde si coronava il bel zaffiro
  del quale il ciel piu` chiaro s'inzaffira.

<>.

Cosi` la circulata melodia
  si sigillava, e tutti li altri lumi
  facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi
  del mondo, che piu` ferve e piu` s'avviva
  ne l'alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l'interna riva
  tanto distante, che la sua parvenza,
  la` dov'io era, ancor non appariva:

pero` non ebber li occhi miei potenza
  di seguitar la coronata fiamma
  che si levo` appresso sua semenza.

E come fantolin che 'nver' la mamma
  tende le braccia, poi che 'l latte prese,
  per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma;

ciascun di quei candori in su` si stese
  con la sua cima, si` che l'alto affetto
  ch'elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser li` nel mio cospetto,
  'Regina celi' cantando si` dolce,
  che mai da me non si parti` 'l diletto.

Oh quanta e` l'uberta` che si soffolce
  in quelle arche ricchissime che fuoro
  a seminar qua giu` buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro
  che s'acquisto` piangendo ne lo essilio
  di Babillon, ove si lascio` l'oro.

Quivi triunfa, sotto l'alto Filio
  di Dio e di Maria, di sua vittoria,
  e con l'antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.



Paradiso: Canto XXIV


<>.

Cosi` Beatrice; e quelle anime liete
  si fero spere sopra fissi poli,
  fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d'oriuoli
  si giran si`, che 'l primo a chi pon mente
  quieto pare, e l'ultimo che voli;

cosi` quelle carole, differente-
  mente danzando, de la sua ricchezza
  mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella ch'io notai di piu` carezza
  vid'io uscire un foco si` felice,
  che nullo vi lascio` di piu` chiarezza;

e tre fiate intorno di Beatrice
  si volse con un canto tanto divo,
  che la mia fantasia nol mi ridice.

Pero` salta la penna e non lo scrivo:
  che' l'imagine nostra a cotai pieghe,
  non che 'l parlare, e` troppo color vivo.

<>.

Poscia fermato, il foco benedetto
  a la mia donna dirizzo` lo spiro,
  che favello` cosi` com'i' ho detto.

Ed ella: <>.

Si` come il baccialier s'arma e non parla
  fin che 'l maestro la question propone,
  per approvarla, non per terminarla,

cosi` m'armava io d'ogne ragione
  mentre ch'ella dicea, per esser presto
  a tal querente e a tal professione.

<>.  Ond'io levai la fronte
  in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
  sembianze femmi perch'io spandessi
  l'acqua di fuor del mio interno fonte.

<>,
  comincia' io, <>.

E seguitai: <>.

Allora udi': <>.

E io appresso: <>.

Allora udi': <>.

Cosi` spiro` di quello amore acceso;
  indi soggiunse: <>.
  Ond'io: <>.

Appresso usci` de la luce profonda
  che li` splendeva: <>.  E io: <>.

Io udi' poi: <>.

E io: <>.

Risposto fummi: <>.

<>,
  diss'io, <>.

Finito questo, l'alta corte santa
  risono` per le spere un 'Dio laudamo'
  ne la melode che la` su` si canta.

E quel baron che si` di ramo in ramo,
  essaminando, gia` tratto m'avea,
  che a l'ultime fronde appressavamo,

ricomincio`: <>.

<>,

comincia' io, <>.

Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace,
  da indi abbraccia il servo, gratulando
  per la novella, tosto ch'el si tace;

cosi`, benedicendomi cantando,
  tre volte cinse me, si` com'io tacqui,
  l'appostolico lume al cui comando

io avea detto: si` nel dir li piacqui!



Paradiso: Canto XXV


Se mai continga che 'l poema sacro
  al quale ha posto mano e cielo e terra,
  si` che m'ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudelta` che fuor mi serra
  del bello ovile ov'io dormi' agnello,
  nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
  ritornero` poeta, e in sul fonte
  del mio battesmo prendero` 'l cappello;

pero` che ne la fede, che fa conte
  l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi
  Pietro per lei si` mi giro` la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi
  di quella spera ond'usci` la primizia
  che lascio` Cristo d'i vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,
  mi disse: <>.

Si` come quando il colombo si pone
  presso al compagno, l'uno a l'altro pande,
  girando e mormorando, l'affezione;

cosi` vid'io l'un da l'altro grande
  principe glorioso essere accolto,
  laudando il cibo che la` su` li prande.

Ma poi che 'l gratular si fu assolto,
  tacito coram me ciascun s'affisse,
  ignito si` che vincea 'l mio volto.

Ridendo allora Beatrice disse:
  <>.

<>.

Questo conforto del foco secondo
  mi venne; ond'io levai li occhi a' monti
  che li 'ncurvaron pria col troppo pondo.

<>.
  Cosi` segui` 'l secondo lume ancora.

E quella pia che guido` le penne
  de le mie ali a cosi` alto volo,
  a la risposta cosi` mi prevenne:

<>.

Come discente ch'a dottor seconda
  pronto e libente in quel ch'elli e` esperto,
  perche' la sua bonta` si disasconda,

<>, diss'io, <>.

Mentr' io diceva, dentro al vivo seno
  di quello incendio tremolava un lampo
  subito e spesso a guisa di baleno.

Indi spiro`: <>.

E io: <>.

E prima, appresso al fin d'este parole,
  'Sperent in te' di sopr'a noi s'udi`;
  a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiari`
  si` che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo,
  l'inverno avrebbe un mese d'un sol di`.

E come surge e va ed entra in ballo
  vergine lieta, sol per fare onore
  a la novizia, non per alcun fallo,

cosi` vid'io lo schiarato splendore
  venire a' due che si volgieno a nota
  qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi li` nel canto e ne la rota;
  e la mia donna in lor tenea l'aspetto,
  pur come sposa tacita e immota.

<>.

La donna mia cosi`; ne' pero` piue
  mosser la vista sua di stare attenta
  poscia che prima le parole sue.

Qual e` colui ch'adocchia e s'argomenta
  di vedere eclissar lo sole un poco,
  che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fec'io a quell'ultimo foco
  mentre che detto fu: <>.

A questa voce l'infiammato giro
  si quieto` con esso il dolce mischio
  che si facea nel suon del trino spiro,

si` come, per cessar fatica o rischio,
  li remi, pria ne l'acqua ripercossi,
  tutti si posano al sonar d'un fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,
  quando mi volsi per veder Beatrice,
  per non poter veder, benche' io fossi

presso di lei, e nel mondo felice!



Paradiso: Canto XXVI


Mentr'io dubbiava per lo viso spento,
  de la fulgida fiamma che lo spense
  usci` un spiro che mi fece attento,

dicendo: <>.

Io dissi: <>.

Quella medesma voce che paura
  tolta m'avea del subito abbarbaglio,
  di ragionare ancor mi mise in cura;

e disse: <>.

E io: <>.

E io udi': <>.

Non fu latente la santa intenzione
  de l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsi
  dove volea menar mia professione.

Pero` ricominciai: <>.

Si` com'io tacqui, un dolcissimo canto
  risono` per lo cielo, e la mia donna
  dicea con li altri: <>.

E come a lume acuto si disonna
  per lo spirto visivo che ricorre
  a lo splendor che va di gonna in gonna,

e lo svegliato cio` che vede aborre,
  si` nescia e` la subita vigilia
  fin che la stimativa non soccorre;

cosi` de li occhi miei ogni quisquilia
  fugo` Beatrice col raggio d'i suoi,
  che rifulgea da piu` di mille milia:

onde mei che dinanzi vidi poi;
  e quasi stupefatto domandai
  d'un quarto lume ch'io vidi tra noi.

E la mia donna: <>.

Come la fronda che flette la cima
  nel transito del vento, e poi si leva
  per la propria virtu` che la soblima,

fec'io in tanto in quant'ella diceva,
  stupendo, e poi mi rifece sicuro
  un disio di parlare ond'io ardeva.

E cominciai: <>.

Talvolta un animal coverto broglia,
  si` che l'affetto convien che si paia
  per lo seguir che face a lui la 'nvoglia;

e similmente l'anima primaia
  mi facea trasparer per la coverta
  quant'ella a compiacermi venia gaia.

Indi spiro`: <>.



Paradiso: Canto XXVII


'Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo',
  comincio`, 'gloria!', tutto 'l paradiso,
  si` che m'inebriava il dolce canto.

Cio` ch'io vedeva mi sembiava un riso
  de l'universo; per che mia ebbrezza
  intrava per l'udire e per lo viso.

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
  oh vita integra d'amore e di pace!
  oh sanza brama sicura ricchezza!

Dinanzi a li occhi miei le quattro face
  stavano accese, e quella che pria venne
  incomincio` a farsi piu` vivace,

e tal ne la sembianza sua divenne,
  qual diverrebbe Iove, s'elli e Marte
  fossero augelli e cambiassersi penne.

La provedenza, che quivi comparte
  vice e officio, nel beato coro
  silenzio posto avea da ogne parte,

quand'io udi': <>.

Di quel color che per lo sole avverso
  nube dipigne da sera e da mane,
  vid'io allora tutto 'l ciel cosperso.

E come donna onesta che permane
  di se' sicura, e per l'altrui fallanza,
  pur ascoltando, timida si fane,

cosi` Beatrice trasmuto` sembianza;
  e tale eclissi credo che 'n ciel fue,
  quando pati` la supprema possanza.

Poi procedetter le parole sue
  con voce tanto da se' trasmutata,
  che la sembianza non si muto` piue:

<>.

Si` come di vapor gelati fiocca
  in giuso l'aere nostro, quando 'l corno
  de la capra del ciel col sol si tocca,

in su` vid'io cosi` l'etera addorno
  farsi e fioccar di vapor triunfanti
  che fatto avien con noi quivi soggiorno.

Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
  e segui` fin che 'l mezzo, per lo molto,
  li tolse il trapassar del piu` avanti.

Onde la donna, che mi vide assolto
  de l'attendere in su`, mi disse: <>.

Da l'ora ch'io avea guardato prima
  i' vidi mosso me per tutto l'arco
  che fa dal mezzo al fine il primo clima;

si` ch'io vedea di la` da Gade il varco
  folle d'Ulisse, e di qua presso il lito
  nel qual si fece Europa dolce carco.

E piu` mi fora discoverto il sito
  di questa aiuola; ma 'l sol procedea
  sotto i mie' piedi un segno e piu` partito.

La mente innamorata, che donnea
  con la mia donna sempre, di ridure
  ad essa li occhi piu` che mai ardea;

e se natura o arte fe' pasture
  da pigliare occhi, per aver la mente,
  in carne umana o ne le sue pitture,

tutte adunate, parrebber niente
  ver' lo piacer divin che mi refulse,
  quando mi volsi al suo viso ridente.

E la virtu` che lo sguardo m'indulse,
  del bel nido di Leda mi divelse,
  e nel ciel velocissimo m'impulse.

Le parti sue vivissime ed eccelse
  si` uniforme son, ch'i' non so dire
  qual Beatrice per loco mi scelse.

Ma ella, che vedea 'l mio disire,
  incomincio`, ridendo tanto lieta,
  che Dio parea nel suo volto gioire:

<>.



Paradiso: Canto XXVIII


Poscia che 'ncontro a la vita presente
  d'i miseri mortali aperse 'l vero
  quella che 'mparadisa la mia mente,

come in lo specchio fiamma di doppiero
  vede colui che se n'alluma retro,
  prima che l'abbia in vista o in pensiero,

e se' rivolge per veder se 'l vetro
  li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
  con esso come nota con suo metro;

cosi` la mia memoria si ricorda
  ch'io feci riguardando ne' belli occhi
  onde a pigliarmi fece Amor la corda.

E com'io mi rivolsi e furon tocchi
  li miei da cio` che pare in quel volume,
  quandunque nel suo giro ben s'adocchi,

un punto vidi che raggiava lume
  acuto si`, che 'l viso ch'elli affoca
  chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci piu` poca,
  parrebbe luna, locata con esso
  come stella con stella si colloca.

Forse cotanto quanto pare appresso
  alo cigner la luce che 'l dipigne
  quando 'l vapor che 'l porta piu` e` spesso,

distante intorno al punto un cerchio d'igne
  si girava si` ratto, ch'avria vinto
  quel moto che piu` tosto il mondo cigne;

e questo era d'un altro circumcinto,
  e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
  dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo si` sparto
  gia` di larghezza, che 'l messo di Iuno
  intero a contenerlo sarebbe arto.

Cosi` l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
  piu` tardo si movea, secondo ch'era
  in numero distante piu` da l'uno;

e quello avea la fiamma piu` sincera
  cui men distava la favilla pura,
  credo, pero` che piu` di lei s'invera.

La donna mia, che mi vedea in cura
  forte sospeso, disse: <>.

E io a lei: <>.

<>.

Cosi` la donna mia; poi disse: <>.

Come rimane splendido e sereno
  l'emisperio de l'aere, quando soffia
  Borea da quella guancia ond'e` piu` leno,

per che si purga e risolve la roffia
  che pria turbava, si` che 'l ciel ne ride
  con le bellezze d'ogne sua paroffia;

cosi` fec'io, poi che mi provide
  la donna mia del suo risponder chiaro,
  e come stella in cielo il ver si vide.

E poi che le parole sue restaro,
  non altrimenti ferro disfavilla
  che bolle, come i cerchi sfavillaro.

L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
  ed eran tante, che 'l numero loro
  piu` che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.

Io sentiva osannar di coro in coro
  al punto fisso che li tiene a li ubi,
  e terra` sempre, ne' quai sempre fuoro.

E quella che vedea i pensier dubi
  ne la mia mente, disse: <>.



Paradiso: Canto XXIX


Quando ambedue li figli di Latona,
  coperti del Montone e de la Libra,
  fanno de l'orizzonte insieme zona,

quant'e` dal punto che 'l cenit inlibra
  infin che l'uno e l'altro da quel cinto,
  cambiando l'emisperio, si dilibra,

tanto, col volto di riso dipinto,
  si tacque Beatrice, riguardando
  fiso nel punto che m'avea vinto.

Poi comincio`: <>.



Paradiso: Canto XXX


Forse semilia miglia di lontano
  ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
  china gia` l'ombra quasi al letto piano,

quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
  comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
  perde il parere infino a questo fondo;

e come vien la chiarissima ancella
  del sol piu` oltre, cosi` 'l ciel si chiude
  di vista in vista infino a la piu` bella.

Non altrimenti il triunfo che lude
  sempre dintorno al punto che mi vinse,
  parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,

a poco a poco al mio veder si stinse:
  per che tornar con li occhi a Beatrice
  nulla vedere e amor mi costrinse.

Se quanto infino a qui di lei si dice
  fosse conchiuso tutto in una loda,
  poca sarebbe a fornir questa vice.

La bellezza ch'io vidi si trasmoda
  non pur di la` da noi, ma certo io credo
  che solo il suo fattor tutta la goda.

Da questo passo vinto mi concedo
  piu` che gia` mai da punto di suo tema
  soprato fosse comico o tragedo:

che', come sole in viso che piu` trema,
  cosi` lo rimembrar del dolce riso
  la mente mia da me medesmo scema.

Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
  in questa vita, infino a questa vista,
  non m'e` il seguire al mio cantar preciso;

ma or convien che mio seguir desista
  piu` dietro a sua bellezza, poetando,
  come a l'ultimo suo ciascuno artista.

Cotal qual io lascio a maggior bando
  che quel de la mia tuba, che deduce
  l'ardua sua matera terminando,

con atto e voce di spedito duce
  ricomincio`: <>.

Come subito lampo che discetti
  li spiriti visivi, si` che priva
  da l'atto l'occhio di piu` forti obietti,

cosi` mi circunfulse luce viva,
  e lasciommi fasciato di tal velo
  del suo fulgor, che nulla m'appariva.

<>.

Non fur piu` tosto dentro a me venute
  queste parole brievi, ch'io compresi
  me sormontar di sopr'a mia virtute;

e di novella vista mi raccesi
  tale, che nulla luce e` tanto mera,
  che li occhi miei non si fosser difesi;

e vidi lume in forma di rivera
  fulvido di fulgore, intra due rive
  dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,
  e d'ogne parte si mettien ne' fiori,
  quasi rubin che oro circunscrive;

poi, come inebriate da li odori,
  riprofondavan se' nel miro gurge;
  e s'una intrava, un'altra n'uscia fori.

<>:
  cosi` mi disse il sol de li occhi miei.

Anche soggiunse: <>.

Non e` fantin che si` subito rua
  col volto verso il latte, se si svegli
  molto tardato da l'usanza sua,

come fec'io, per far migliori spegli
  ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
  che si deriva perche' vi s'immegli;

e si` come di lei bevve la gronda
  de le palpebre mie, cosi` mi parve
  di sua lunghezza divenuta tonda.

Poi, come gente stata sotto larve,
  che pare altro che prima, se si sveste
  la sembianza non sua in che disparve,

cosi` mi si cambiaro in maggior feste
  li fiori e le faville, si` ch'io vidi
  ambo le corti del ciel manifeste.

O isplendor di Dio, per cu' io vidi
  l'alto triunfo del regno verace,
  dammi virtu` a dir com'io il vidi!

Lume e` la` su` che visibile face
  lo creatore a quella creatura
  che solo in lui vedere ha la sua pace.

E' si distende in circular figura,
  in tanto che la sua circunferenza
  sarebbe al sol troppo larga cintura.

Fassi di raggio tutta sua parvenza
  reflesso al sommo del mobile primo,
  che prende quindi vivere e potenza.

E come clivo in acqua di suo imo
  si specchia, quasi per vedersi addorno,
  quando e` nel verde e ne' fioretti opimo,

si`, soprastando al lume intorno intorno,
  vidi specchiarsi in piu` di mille soglie
  quanto di noi la` su` fatto ha ritorno.

E se l'infimo grado in se' raccoglie
  si` grande lume, quanta e` la larghezza
  di questa rosa ne l'estreme foglie!

La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza
  non si smarriva, ma tutto prendeva
  il quanto e 'l quale di quella allegrezza.

Presso e lontano, li`, ne' pon ne' leva:
  che' dove Dio sanza mezzo governa,
  la legge natural nulla rileva.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
  che si digrada e dilata e redole
  odor di lode al sol che sempre verna,

qual e` colui che tace e dicer vole,
  mi trasse Beatrice, e disse: <>.



Paradiso: Canto XXXI


In forma dunque di candida rosa
  mi si mostrava la milizia santa
  che nel suo sangue Cristo fece sposa;

ma l'altra, che volando vede e canta
  la gloria di colui che la 'nnamora
  e la bonta` che la fece cotanta,

si` come schiera d'ape, che s'infiora
  una fiata e una si ritorna
  la` dove suo laboro s'insapora,

nel gran fior discendeva che s'addorna
  di tante foglie, e quindi risaliva
  la` dove 'l suo amor sempre soggiorna.

Le facce tutte avean di fiamma viva,
  e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco,
  che nulla neve a quel termine arriva.

Quando scendean nel fior, di banco in banco
  porgevan de la pace e de l'ardore
  ch'elli acquistavan ventilando il fianco.

Ne' l'interporsi tra 'l disopra e 'l fiore
  di tanta moltitudine volante
  impediva la vista e lo splendore:

che' la luce divina e` penetrante
  per l'universo secondo ch'e` degno,
  si` che nulla le puote essere ostante.

Questo sicuro e gaudioso regno,
  frequente in gente antica e in novella,
  viso e amore avea tutto ad un segno.

O trina luce, che 'n unica stella
  scintillando a lor vista, si` li appaga!
  guarda qua giuso a la nostra procella!

Se i barbari, venendo da tal plaga
  che ciascun giorno d'Elice si cuopra,
  rotante col suo figlio ond'ella e` vaga,

veggendo Roma e l'ardua sua opra,
  stupefaciensi, quando Laterano
  a le cose mortali ando` di sopra;

io, che al divino da l'umano,
  a l'etterno dal tempo era venuto,
  e di Fiorenza in popol giusto e sano

di che stupor dovea esser compiuto!
  Certo tra esso e 'l gaudio mi facea
  libito non udire e starmi muto.

E quasi peregrin che si ricrea
  nel tempio del suo voto riguardando,
  e spera gia` ridir com'ello stea,

su per la viva luce passeggiando,
  menava io li occhi per li gradi,
  mo su`, mo giu` e mo recirculando.

Vedea visi a carita` suadi,
  d'altrui lume fregiati e di suo riso,
  e atti ornati di tutte onestadi.

La forma general di paradiso
  gia` tutta mio sguardo avea compresa,
  in nulla parte ancor fermato fiso;

e volgeami con voglia riaccesa
  per domandar la mia donna di cose
  di che la mente mia era sospesa.

Uno intendea, e altro mi rispuose:
  credea veder Beatrice e vidi un sene
  vestito con le genti gloriose.

Diffuso era per li occhi e per le gene
  di benigna letizia, in atto pio
  quale a tenero padre si convene.

E <>, subito diss'io.
  Ond'elli: <>.

Sanza risponder, li occhi su` levai,
  e vidi lei che si facea corona
  reflettendo da se' li etterni rai.

Da quella region che piu` su` tona
  occhio mortale alcun tanto non dista,
  qualunque in mare piu` giu` s'abbandona,

quanto li` da Beatrice la mia vista;
  ma nulla mi facea, che' sua effige
  non discendea a me per mezzo mista.

<>.

Cosi` orai; e quella, si` lontana
  come parea, sorrise e riguardommi;
  poi si torno` a l'etterna fontana.

E 'l santo sene: <>, disse, <>.

Qual e` colui che forse di Croazia
  viene a veder la Veronica nostra,
  che per l'antica fame non sen sazia,

ma dice nel pensier, fin che si mostra:
  'Segnor mio Iesu` Cristo, Dio verace,
  or fu si` fatta la sembianza vostra?';

tal era io mirando la vivace
  carita` di colui che 'n questo mondo,
  contemplando, gusto` di quella pace.

<>,
  comincio` elli, <>.

Io levai li occhi; e come da mattina
  la parte oriental de l'orizzonte
  soverchia quella dove 'l sol declina,

cosi`, quasi di valle andando a monte
  con li occhi, vidi parte ne lo stremo
  vincer di lume tutta l'altra fronte.

E come quivi ove s'aspetta il temo
  che mal guido` Fetonte, piu` s'infiamma,
  e quinci e quindi il lume si fa scemo,

cosi` quella pacifica oriafiamma
  nel mezzo s'avvivava, e d'ogne parte
  per igual modo allentava la fiamma;

e a quel mezzo, con le penne sparte,
  vid'io piu` di mille angeli festanti,
  ciascun distinto di fulgore e d'arte.

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
  ridere una bellezza, che letizia
  era ne li occhi a tutti li altri santi;

e s'io avessi in dir tanta divizia
  quanta ad imaginar, non ardirei
  lo minimo tentar di sua delizia.

Bernardo, come vide li occhi miei
  nel caldo suo caler fissi e attenti,
  li suoi con tanto affetto volse a lei,

che ' miei di rimirar fe' piu` ardenti.



Paradiso: Canto XXXII


Affetto al suo piacer, quel contemplante
  libero officio di dottore assunse,
  e comincio` queste parole sante:

<>.

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
  piover, portata ne le menti sante
  create a trasvolar per quella altezza,

che quantunque io avea visto davante,
  di tanta ammirazion non mi sospese,
  ne' mi mostro` di Dio tanto sembiante;

e quello amor che primo li` discese,
  cantando 'Ave, Maria, gratia plena',
  dinanzi a lei le sue ali distese.

Rispuose a la divina cantilena
  da tutte parti la beata corte,
  si` ch'ogne vista sen fe' piu` serena.

<>.

Cosi` ricorsi ancora a la dottrina
  di colui ch'abbelliva di Maria,
  come del sole stella mattutina.

Ed elli a me: <>.

E comincio` questa santa orazione:



Paradiso: Canto XXXIII


<>.

Li occhi da Dio diletti e venerati,
  fissi ne l'orator, ne dimostraro
  quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l'etterno lume s'addrizzaro,
  nel qual non si dee creder che s'invii
  per creatura l'occhio tanto chiaro.

E io ch'al fine di tutt'i disii
  appropinquava, si` com'io dovea,
  l'ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m'accennava, e sorridea,
  perch'io guardassi suso; ma io era
  gia` per me stesso tal qual ei volea:

che' la mia vista, venendo sincera,
  e piu` e piu` intrava per lo raggio
  de l'alta luce che da se' e` vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
  che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,
  e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual e` colui che sognando vede,
  che dopo 'l sogno la passione impressa
  rimane, e l'altro a la mente non riede,

cotal son io, che' quasi tutta cessa
  mia visione, e ancor mi distilla
  nel core il dolce che nacque da essa.

Cosi` la neve al sol si disigilla;
  cosi` al vento ne le foglie levi
  si perdea la sentenza di Sibilla.

O somma luce che tanto ti levi
  da' concetti mortali, a la mia mente
  ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
  ch'una favilla sol de la tua gloria
  possa lasciare a la futura gente;

che', per tornare alquanto a mia memoria
  e per sonare un poco in questi versi,
  piu` si concepera` di tua vittoria.

Io credo, per l'acume ch'io soffersi
  del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
  se li occhi miei da lui fossero aversi.

E' mi ricorda ch'io fui piu` ardito
  per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
  l'aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond'io presunsi
  ficcar lo viso per la luce etterna,
  tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s'interna
  legato con amore in un volume,
  cio` che per l'universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume,
  quasi conflati insieme, per tal modo
  che cio` ch'i' dico e` un semplice lume.

La forma universal di questo nodo
  credo ch'i' vidi, perche' piu` di largo,
  dicendo questo, mi sento ch'i' godo.

Un punto solo m'e` maggior letargo
  che venticinque secoli a la 'mpresa,
  che fe' Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.

Cosi` la mente mia, tutta sospesa,
  mirava fissa, immobile e attenta,
  e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,
  che volgersi da lei per altro aspetto
  e` impossibil che mai si consenta;

pero` che 'l ben, ch'e` del volere obietto,
  tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
  e` defettivo cio` ch'e` li` perfetto.

Omai sara` piu` corta mia favella,
  pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
  che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perche' piu` ch'un semplice sembiante
  fosse nel vivo lume ch'io mirava,
  che tal e` sempre qual s'era davante;

ma per la vista che s'avvalorava
  in me guardando, una sola parvenza,
  mutandom'io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza
  de l'alto lume parvermi tre giri
  di tre colori e d'una contenenza;

e l'un da l'altro come iri da iri
  parea reflesso, e 'l terzo parea foco
  che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto e` corto il dire e come fioco
  al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
  e` tanto, che non basta a dicer 'poco'.

O luce etterna che sola in te sidi,
  sola t'intendi, e da te intelletta
  e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che si` concetta
  pareva in te come lume reflesso,
  da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da se', del suo colore stesso,
  mi parve pinta de la nostra effige:
  per che 'l mio viso in lei tutto era messo.

Qual e` 'l geometra che tutto s'affige
  per misurar lo cerchio, e non ritrova,
  pensando, quel principio ond'elli indige,

tal era io a quella vista nova:
  veder voleva come si convenne
  l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da cio` le proprie penne:
  se non che la mia mente fu percossa
  da un fulgore in che sua voglia venne.

A l'alta fantasia qui manco` possa;
  ma gia` volgeva il mio disio e 'l velle,
  si` come rota ch'igualmente e` mossa,

l'amor che move il sole e l'altre stelle.



POSTSCRIPT


     'Ich habe unter meinen Papieren ein Blatt gefunden,
     wo ich die Baukunst eine erstarrte Musik nenne.'
        (Johann Wolfgang Goethe, 1829 March 23)

I found Dante in a bar.  The Poet had indeed lost the True Way to be found
reduced to party chatter in a Capitol Hill basement, but I had found him at
last.  I must have been drinking in the Dark Tavern of Error, for I did not
even realize I had begun the dolorous path followed by many since the
Poet's journey of A.D. 1300.  Actually no one spoke a word about Dante or
his Divine Comedy, rather I heard a second-hand Goethe call architecture
"frozen music."  Soon I took my second step through the gate to a people
lost; this time on a more respectable occasion--a lecture at the Catholic
University of America.  Clio, the muse of history, must have been aiding
Prof. Schumacher that evening, because it sustained my full three-hour
attention, even after I had just presented an all-night project.  There I
heard of a most astonishing Italian translation of 'la Divina Commedia' di
Dante Alighieri.  An Italian architect, Giuseppi Terragni, had translated
the Comedy into the 'Danteum,' a projected stone and glass monument to Poet
and Poem near the Basilica of Maxentius in Rome.

Do not look for the Danteum in the Eternal City.  In true Dantean form,
politics stood in the way of its construction in 1938.  Ironically this
literature-inspired building can itself most easily be found in book form.
Reading this book I remembered Goethe's quote about frozen music.  Did
Terragni try to freeze Dante's medieval miracle of song?  Certainly a
cold-poem seems artistically repulsive.  Unflattering comparisons to the
lake of Cocytus spring to mind too.  While I cannot read Italian, I can read
some German.  After locating the original quotation I discovered that
'frozen' is a problematic (though common) translation of Goethe's original
'erstarrte.'  The verb 'erstarren' more properly means 'to solidify' or 'to
stiffen.'  This suggests a chemical reaction in which the art does not
necessarily chill in the transformation.  Nor can simple thawing yield the
original work.  Like a chemical reaction it requires an artistic catalyst, a
muse.  Indeed the Danteum is not a physical translation of the Poem.
Terragni thought it inappropriate to translate the Comedy literally into a
non-literary work.  The Danteum would not be a stage set, rather Terragni
generated his design from the Comedy's structure, not its finishes.

     The poem is divided into three canticles of thirty-three cantos
     each, plus one extra in the first, the Inferno, making a total of
     one hundred cantos.  Each canto is composed of three-line tercets,
     the first and third lines rhyme, the second line rhymes with the
     beginning of the next tercet, establishing a kind of overlap,
     reflected in the overlapping motif of the Danteum design.  Dante's
     realms are further subdivided: the Inferno is composed of nine
     levels, the vestibule makes a tenth.  Purgatory has seven
     terraces, plus two ledges in an ante-purgatory; adding these to
     the Earthly Paradise yields ten zones.  Paradise is composed of
     nine heavens; Empyrean makes the tenth.  In the Inferno, sinners
     are organized by three vices--Incontinence, Violence, and
     Fraud--and further subdivided by the seven deadly sins.  In
     Purgatory, penance is ordered on the basis of three types of
     natural love.  Paradise is organized on the basis of three types
     of Divine Love, and further subdivided according to the three
     theological and four cardinal virtues.
        (Thomas Schumacher, "The Danteum,"
         Princeton Architectural Press, 1993)

By translating the structure, Terragni could then layer the literal and the
spiritual meanings of the Poem without allowing either to dominate.  These
layers of meaning are native to the Divine Comedy as they are native to
much medieval literature, although modern readers and tourists may not be
so familiar with them.  They are literal, allegorical, moral, and
anagogical.  I offer you St. Thomas of Aquinas' definition of these last
three as they relate to Sacred Scripture:

     . . .this spiritual sense has a threefold division. . .so far as
     the things of the Old Law signify the things of the New Law,
     there is the allegorical sense; so far as the things done in
     Christ, or so far as the things which signify Christ, are types
     of what we ought to do, there is the moral sense.  But so far as
     they signify what relates to eternal glory, there is the
     anagogical sense.    (Summa Theologica I, 1, 10)

Within the Danteum the Poet's meanings lurk in solid form.  An example: the
Danteum design does have spaces literally associated with the Comedy--the
Dark Wood of Error, Inferno, Purgatorio, and the Paradiso--but these spaces
also relate among themselves spiritually.  Dante often highlights a virtue
by first condemning its corruption.  Within Dante's system Justice is the
greatest of the cardinal virtues; its corruption, Fraud, is the most
contemptible of vices.  Because Dante saw the papacy as the most precious of
sacred institutions, corrupt popes figure prominently among the damned in
the Poet's Inferno.  In the Danteum the materiality of the worldly Dark Wood
directly opposes the transcendence of the Paradiso.  In the realm of error
every thought is lost and secular, while in heaven every soul's intent is
directed toward God.  The shadowy Inferno of the Danteum mirrors the
Purgatorio's illuminated ascent to heaven.  Purgatory embodies hope and
growth where hell chases its own dark inertia.  Such is the cosmography
shared by Terragni and Dante.

In this postscript I intend neither to fully examine the meaning nor the
plan of the Danteum, but rather to evince the power that art has acted as a
catalyst to other artists.  The Danteum, a modern design inspired by a
medieval poem, is but one example.  Dante's poem is filled with characters
epitomizing the full range of vices and virtues of human personalities.
Dante's characters come from his present and literature's past; they are
mythological, biblical, classical, ancient, and medieval.  They, rather than
Calliope and her sisters, were Dante's muses.

'La Divina Commedia' seems a natural candidate to complete Project
Gutenberg's first milleditio and to begin its second thousand e-texts.
Although distinctly medieval, its continuum of influence spans the
Renaissance and modernity.  Terragni saw his place within the Comedy as
surely as Dante saw his own.  We too fit within Dante's understanding of the
human condition; we differ less from our past than we might like to
believe.  T. S. Eliot understood this when he wrote "Dante and Shakespeare
divide the modern world between them, there is no third."  So now Dante
joins Shakespeare (e-text #100) in the LibraryBlog collection.  Two
works that influenced Dante are also part of the collection: The Bible
(#10) and Virgil's Aeneid (#227).  Other major influences--St. Thomas of
Aquinas' Summa Theologica, The Metamorphoses of Ovid, and Aristotle's
Nicomachean Ethics--are available in electronic form at other Internet
sites.  If one searches enough he may even find a computer rendering of the
Danteum on the Internet.  By presenting this electronic text to Project
Gutenberg it is my hope that in will not rest in a computer unknown and
unread; it is my hope that artists will see themselves in the Divine Comedy
and be inspired, just as Dante ran the paths left by Virgil and St. Thomas
that lead him to the stars.

Dennis McCarthy, July 1997
Atlanta, Georgia USA
imprimatur@juno.com



TECHNICAL NOTES


This edition has been rendered in 7-bit ASCII.  Special Italian characters
that require an 8-bit format have been transcribed into multiple characters.
Below is a chart with the 8-bit character (which may not display properly),
its written description, and how it has been rendered in this 7-bit version.

  «   guillemot left      <<
  »   guillemot right     >>
  à   a grave accent      a` (at the end of a word, otherwise: a)
  è   e grave accent      e` (at the end of a word, otherwise: e)
  é   e acute accent      e' (at the end of a word, otherwise: e)
  ì   i grave accent      i` (at the end of a word, otherwise: i)
  ï   i diaresis/umlaut   ii
  ò   o grave accent      o` (at the end of a word, otherwise: o)
  ó   o acute accent      o' (at the end of a word, otherwise: o)
  ù   u grave accent      u` (at the end of a word, otherwise: u)

Italic text, displayed with mark-up tags (italic) in the 8-bit
version, has has not been rendered here.  To view the italics and
special characters please refer to the 8-bit or HTML version of this
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