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Title: - To be updated
Author: - To be updated
Language: English
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We will be presenting this work in a wide variety of formats, in
both English and Italian, and in translation by Longfellow, Cary
and possibly more, to include HTML and/or the Italian accents.


Right now we mostly need help with the Italian and Longfellow, I
think we may have enough proofers for a first run at the Cary.


Because these are preliminary versions, they are named xxxxx09.*

Also because they are so preliminary, I have not placed the names
of the persons working on the files in them as I take my complete
repsponsibility for all errors that need to be corrected.  Credit
will be completely given when we have the final version ready.

The Italian files with no accents appear as follows:

La Divina Commedia di Dante in Italian, 7-bit text[0ddcd09x.xxx]1000
Divina Commedia di Dante: Inferno, 7-bit Italian  [1ddcd09x.xxx] 999
Divina Commedia di Dante: Purgatorio 7-bit Italian[2ddcd09x.xxx] 998

followed by:

La Divina Commedia di Dante in Italian, 8-bit text[0ddc8xxx.xxx]1012
Divina Commedia di Dante: Inferno    [8-bit text] [1ddc8xxx.xxx]1011
Divina Commedia di Dante: Purgatorio [8-bit text] [2ddc8xxx.xxx]1010
Divina Commedia di Dante: Paradiso   [8-bit text] [3ddc8xxx.xxx]1009

and

H. F. Cary's Translation of Dante, Entire Comedy  [0ddccxxx.xxx]1008
H. F. Cary's T-anslation of Dante, The Inferno    [1ddccxxx.xxx]1007
H. F. Cary's Translation of Dante, Puragorty      [2ddccxxx.xxx]1006
H. F. Cary's Translation of Dante, Paradise       [3ddccxxx.xxx]1005

and

Longfellow's Translation of Dante, Entire Comedy  [0ddclxxx.xxx]1004
Longfellow's Translation of Dante, The Inferno    [1ddclxxx.xxx]1003
Longfellow's Translation of Dante, Purgatory      [2ddclxxx.xxx]1002
Longfellow's Translation of Dante  Paradise       [3ddclxxx.xxx]1001

in what I hope will be a timely manner.

Thank you so much for your cooperation and your patience.
This will be a LONG month of preparation.

[hart@pobox.com]
Executive Director



LA DIVINA COMMEDIA

DI DANTE ALIGHIERI



CANTICA I: INFERNO



Incipit Comoedia Dantis Alagherii,
Florentini natione, non moribus.


La Divina Commedia
di Dante Alighieri



INFERNO



Inferno: Canto I


Nel mezzo del cammin di nostra vita
  mi ritrovai per una selva oscura
  che' la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era e` cosa dura
  esta selva selvaggia e aspra e forte
  che nel pensier rinova la paura!

Tant'e` amara che poco e` piu` morte;
  ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
  diro` de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
  tant'era pien di sonno a quel punto
  che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al pie` d'un colle giunto,
  la` dove terminava quella valle
  che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spalle
  vestite gia` de' raggi del pianeta
  che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta
  che nel lago del cor m'era durata
  la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata
  uscito fuor del pelago a la riva
  si volge a l'acqua perigliosa e guata,

cosi` l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
  si volse a retro a rimirar lo passo
  che non lascio` gia` mai persona viva.

Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
  ripresi via per la piaggia diserta,
  si` che 'l pie` fermo sempre era 'l piu` basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
  una lonza leggera e presta molto,
  che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
  anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
  ch'i' fui per ritornar piu` volte volto.

Temp'era dal principio del mattino,
  e 'l sol montava 'n su` con quelle stelle
  ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
  si` ch'a bene sperar m'era cagione
  di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione;
  ma non si` che paura non mi desse
  la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse
  con la test'alta e con rabbiosa fame,
  si` che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
  sembiava carca ne la sua magrezza,
  e molte genti fe' gia` viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
  con la paura ch'uscia di sua vista,
  ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E qual e` quei che volontieri acquista,
  e giugne 'l tempo che perder lo face,
  che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
  che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
  mi ripigneva la` dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
  dinanzi a li occhi mi si fu offerto
  chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
  <>, gridai a lui,
  <>.

Rispuosemi: <>.

<>,
  rispuos'io lui con vergognosa fronte.

<>.

<>,
  rispuose poi che lagrimar mi vide,
  <>.

E io a lui: <>.

Allor si mosse, e io li tenni dietro.



Inferno: Canto II


Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
  toglieva li animai che sono in terra
  da le fatiche loro; e io sol uno

m'apparecchiava a sostener la guerra
  si` del cammino e si` de la pietate,
  che ritrarra` la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
  o mente che scrivesti cio` ch'io vidi,
  qui si parra` la tua nobilitate.

Io cominciai: <>.

E qual e` quei che disvuol cio` che volle
  e per novi pensier cangia proposta,
  si` che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec'io 'n quella oscura costa,
  perche', pensando, consumai la 'mpresa
  che fu nel cominciar cotanto tosta.

<>,
  rispuose del magnanimo quell'ombra;
  <>.

Quali fioretti dal notturno gelo
  chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca
  si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec'io di mia virtude stanca,
  e tanto buono ardire al cor mi corse,
  ch'i' cominciai come persona franca:

<>.
  Cosi` li dissi; e poi che mosso fue,

intrai per lo cammino alto e silvestro.



Inferno: Canto III


Per me si va ne la citta` dolente,
  per me si va ne l'etterno dolore,
  per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:
  fecemi la divina podestate,
  la somma sapienza e 'l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
  se non etterne, e io etterno duro.
  Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

Queste parole di colore oscuro
  vid'io scritte al sommo d'una porta;
  per ch'io: <>.

Ed elli a me, come persona accorta:
  <>.

E poi che la sua mano a la mia puose
  con lieto volto, ond'io mi confortai,
  mi mise dentro a le segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
  risonavan per l'aere sanza stelle,
  per ch'io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
  parole di dolore, accenti d'ira,
  voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira
  sempre in quell'aura sanza tempo tinta,
  come la rena quando turbo spira.

E io ch'avea d'error la testa cinta,
  dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

E io: <>.
  Rispuose: <>.

E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
  che girando correva tanto ratta,
  che d'ogne posa mi parea indegna;

e dietro le venia si` lunga tratta
  di gente, ch'i' non averei creduto
  che morte tanta n'avesse disfatta.

Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
  vidi e conobbi l'ombra di colui
  che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
  che questa era la setta d'i cattivi,
  a Dio spiacenti e a' nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
  erano ignudi e stimolati molto
  da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
  che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
  da fastidiosi vermi era ricolto.

E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
  vidi genti a la riva d'un gran fiume;
  per ch'io dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
  temendo no 'l mio dir li fosse grave,
  infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso noi venir per nave
  un vecchio, bianco per antico pelo,
  gridando: <>.
  Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

disse: <>.

E 'l duca lui: <>.

Quinci fuor quete le lanose gote
  al nocchier de la livida palude,
  che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,
  cangiar colore e dibattero i denti,
  ratto che 'nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
  l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
  di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
  forte piangendo, a la riva malvagia
  ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia,
  loro accennando, tutte le raccoglie;
  batte col remo qualunque s'adagia.

Come d'autunno si levan le foglie
  l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
  vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo
  gittansi di quel lito ad una ad una,
  per cenni come augel per suo richiamo.

Cosi` sen vanno su per l'onda bruna,
  e avanti che sien di la` discese,
  anche di qua nuova schiera s'auna.

<>, disse 'l maestro cortese,
  <>.

Finito questo, la buia campagna
  tremo` si` forte, che de lo spavento
  la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
  che baleno` una luce vermiglia
  la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l'uom cui sonno piglia.



Inferno: Canto IV


Ruppemi l'alto sonno ne la testa
  un greve truono, si` ch'io mi riscossi
  come persona ch'e` per forza desta;

e l'occhio riposato intorno mossi,
  dritto levato, e fiso riguardai
  per conoscer lo loco dov'io fossi.

Vero e` che 'n su la proda mi trovai
  de la valle d'abisso dolorosa
  che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

Oscura e profonda era e nebulosa
  tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
  io non vi discernea alcuna cosa.

<>,
  comincio` il poeta tutto smorto.
  <>.

E io, che del color mi fui accorto,
  dissi: <>.

Ed elli a me: <>.
  Cosi` si mise e cosi` mi fe' intrare
  nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Quivi, secondo che per ascoltare,
  non avea pianto mai che di sospiri,
  che l'aura etterna facevan tremare;

cio` avvenia di duol sanza martiri
  ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
  d'infanti e di femmine e di viri.

Lo buon maestro a me: <>.

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
  pero` che gente di molto valore
  conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

<>,
  comincia' io per voler esser certo
  di quella fede che vince ogne errore:

<>.
  E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

rispuose: <>.

Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,
  ma passavam la selva tuttavia,
  la selva, dico, di spiriti spessi.

Non era lunga ancor la nostra via
  di qua dal sonno, quand'io vidi un foco
  ch'emisperio di tenebre vincia.

Di lungi n'eravamo ancora un poco,
  ma non si` ch'io non discernessi in parte
  ch'orrevol gente possedea quel loco.

<>.

E quelli a me: <>.

Intanto voce fu per me udita:
  <>.

Poi che la voce fu restata e queta,
  vidi quattro grand'ombre a noi venire:
  sembianz'avevan ne' trista ne' lieta.

Lo buon maestro comincio` a dire:
  <>.

Cosi` vid'i' adunar la bella scola
  di quel segnor de l'altissimo canto
  che sovra li altri com'aquila vola.

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
  volsersi a me con salutevol cenno,
  e 'l mio maestro sorrise di tanto;

e piu` d'onore ancora assai mi fenno,
  ch'e' si` mi fecer de la loro schiera,
  si` ch'io fui sesto tra cotanto senno.

Cosi` andammo infino a la lumera,
  parlando cose che 'l tacere e` bello,
  si` com'era 'l parlar cola` dov'era.

Venimmo al pie` d'un nobile castello,
  sette volte cerchiato d'alte mura,
  difeso intorno d'un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura;
  per sette porte intrai con questi savi:
  giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
  di grande autorita` ne' lor sembianti:
  parlavan rado, con voci soavi.

Traemmoci cosi` da l'un de' canti,
  in loco aperto, luminoso e alto,
  si` che veder si potien tutti quanti.

Cola` diritto, sovra 'l verde smalto,
  mi fuor mostrati li spiriti magni,
  che del vedere in me stesso m'essalto.

I' vidi Eletra con molti compagni,
  tra ' quai conobbi Ettor ed Enea,
  Cesare armato con li occhi grifagni.

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
  da l'altra parte, vidi 'l re Latino
  che con Lavina sua figlia sedea.

Vidi quel Bruto che caccio` Tarquino,
  Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
  e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

Poi ch'innalzai un poco piu` le ciglia,
  vidi 'l maestro di color che sanno
  seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
  quivi vid'io Socrate e Platone,
  che 'nnanzi a li altri piu` presso li stanno;

Democrito, che 'l mondo a caso pone,
  Diogenes, Anassagora e Tale,
  Empedocles, Eraclito e Zenone;

e vidi il buono accoglitor del quale,
  Diascoride dico; e vidi Orfeo,
  Tulio e Lino e Seneca morale;

Euclide geometra e Tolomeo,
  Ipocrate, Avicenna e Galieno,
  Averois, che 'l gran comento feo.

Io non posso ritrar di tutti a pieno,
  pero` che si` mi caccia il lungo tema,
  che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in due si scema:
  per altra via mi mena il savio duca,
  fuor de la queta, ne l'aura che trema.

E vegno in parte ove non e` che luca.



Inferno: Canto V


Cosi` discesi del cerchio primaio
  giu` nel secondo, che men loco cinghia,
  e tanto piu` dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:
  essamina le colpe ne l'intrata;
  giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
  li vien dinanzi, tutta si confessa;
  e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno e` da essa;
  cignesi con la coda tante volte
  quantunque gradi vuol che giu` sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
  vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
  dicono e odono, e poi son giu` volte.

<>,
  disse Minos a me quando mi vide,
  lasciando l'atto di cotanto offizio,

<>.
  E 'l duca mio a lui: <>.

Or incomincian le dolenti note
  a farmisi sentire; or son venuto
  la` dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
  che mugghia come fa mar per tempesta,
  se da contrari venti e` combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
  mena li spirti con la sua rapina;
  voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
  quivi le strida, il compianto, il lamento;
  bestemmian quivi la virtu` divina.

Intesi ch'a cosi` fatto tormento
  enno dannati i peccator carnali,
  che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l'ali
  nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
  cosi` quel fiato li spiriti mali

di qua, di la`, di giu`, di su` li mena;
  nulla speranza li conforta mai,
  non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
  faccendo in aere di se' lunga riga,
  cosi` vid'io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
  per ch'i' dissi: <>.

<>, mi disse quelli allotta,
  <>; e piu` di mille
  ombre mostrommi e nominommi a dito,
  ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
  nomar le donne antiche e ' cavalieri,
  pieta` mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai: <>.

Ed elli a me: <>.

Si` tosto come il vento a noi li piega,
  mossi la voce: <>.

Quali colombe dal disio chiamate
  con l'ali alzate e ferme al dolce nido
  vegnon per l'aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov'e` Dido,
  a noi venendo per l'aere maligno,
  si` forte fu l'affettuoso grido.

<>.
  Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand'io intesi quell'anime offense,
  china' il viso e tanto il tenni basso,
  fin che 'l poeta mi disse: <>.

Quando rispuosi, cominciai: <>.

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
  e cominciai: <>.

E quella a me: <>.

Mentre che l'uno spirto questo disse,
  l'altro piangea; si` che di pietade
  io venni men cosi` com'io morisse.

E caddi come corpo morto cade.



Inferno: Canto VI


Al tornar de la mente, che si chiuse
  dinanzi a la pieta` d'i due cognati,
  che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati
  mi veggio intorno, come ch'io mi mova
  e ch'io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova
  etterna, maladetta, fredda e greve;
  regola e qualita` mai non l'e` nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve
  per l'aere tenebroso si riversa;
  pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,
  con tre gole caninamente latra
  sovra la gente che quivi e` sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
  e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
  graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;
  de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
  volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
  le bocche aperse e mostrocci le sanne;
  non avea membro che tenesse fermo.

E 'l duca mio distese le sue spanne,
  prese la terra, e con piene le pugna
  la gitto` dentro a le bramose canne.

Qual e` quel cane ch'abbaiando agogna,
  e si racqueta poi che 'l pasto morde,
  che' solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
  de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
  l'anime si`, ch'esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l'ombre che adona
  la greve pioggia, e ponavam le piante
  sovra lor vanita` che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante,
  fuor d'una ch'a seder si levo`, ratto
  ch'ella ci vide passarsi davante.

<>,
  mi disse, <>.

E io a lui: <>.

Ed elli a me: <>.  E piu` non fe' parola.

Io li rispuosi: <>.

E quelli a me: <>.

Qui puose fine al lagrimabil suono.
  E io a lui: <>.

E quelli: <>.

Li diritti occhi torse allora in biechi;
  guardommi un poco, e poi chino` la testa:
  cadde con essa a par de li altri ciechi.

E 'l duca disse a me: <>.

Si` trapassammo per sozza mistura
  de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
  toccando un poco la vita futura;

per ch'io dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

Noi aggirammo a tondo quella strada,
  parlando piu` assai ch'i' non ridico;
  venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.



Inferno: Canto VII


<>,
  comincio` Pluto con la voce chioccia;
  e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi: <>.

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
  e disse: <>.

Quali dal vento le gonfiate vele
  caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
  tal cadde a terra la fiera crudele.

Cosi` scendemmo ne la quarta lacca
  pigliando piu` de la dolente ripa
  che 'l mal de l'universo tutto insacca.

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
  nove travaglie e pene quant'io viddi?
  e perche' nostra colpa si` ne scipa?

Come fa l'onda la` sovra Cariddi,
  che si frange con quella in cui s'intoppa,
  cosi` convien che qui la gente riddi.

Qui vid'i' gente piu` ch'altrove troppa,
  e d'una parte e d'altra, con grand'urli,
  voltando pesi per forza di poppa.

Percoteansi 'ncontro; e poscia pur li`
  si rivolgea ciascun, voltando a retro,
  gridando: <> e <>.

Cosi` tornavan per lo cerchio tetro
  da ogne mano a l'opposito punto,
  gridandosi anche loro ontoso metro;

poi si volgea ciascun, quand'era giunto,
  per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
  E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

E io: <>.

Ed elli a me: <>.

<>, diss'io, <>.

E quelli a me: <>.

Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
  sovr'una fonte che bolle e riversa
  per un fossato che da lei deriva.

L'acqua era buia assai piu` che persa;
  e noi, in compagnia de l'onde bige,
  intrammo giu` per una via diversa.

In la palude va c'ha nome Stige
  questo tristo ruscel, quand'e` disceso
  al pie` de le maligne piagge grige.

E io, che di mirare stava inteso,
  vidi genti fangose in quel pantano,
  ignude tutte, con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano,
  ma con la testa e col petto e coi piedi,
  troncandosi co' denti a brano a brano.

Lo buon maestro disse: <>.

Cosi` girammo de la lorda pozza
  grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo,
  con li occhi volti a chi del fango ingozza.

Venimmo al pie` d'una torre al da sezzo.



Inferno: Canto VIII


Io dico, seguitando, ch'assai prima
  che noi fossimo al pie` de l'alta torre,
  li occhi nostri n'andar suso a la cima

per due fiammette che i vedemmo porre
  e un'altra da lungi render cenno
  tanto ch'a pena il potea l'occhio torre.

E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
  dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

Corda non pinse mai da se' saetta
  che si` corresse via per l'aere snella,
  com'io vidi una nave piccioletta

venir per l'acqua verso noi in quella,
  sotto 'l governo d'un sol galeoto,
  che gridava: <>.

<>,
  disse lo mio segnore <>.

Qual e` colui che grande inganno ascolta
  che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
  fecesi Flegias ne l'ira accolta.

Lo duca mio discese ne la barca,
  e poi mi fece intrare appresso lui;
  e sol quand'io fui dentro parve carca.

Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
  segando se ne va l'antica prora
  de l'acqua piu` che non suol con altrui.

Mentre noi corravam la morta gora,
  dinanzi mi si fece un pien di fango,
  e disse: <>.

E io a lui: <>.
  Rispuose: <>.

E io a lui: <>.

Allor distese al legno ambo le mani;
  per che 'l maestro accorto lo sospinse,
  dicendo: <>.

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
  basciommi 'l volto, e disse: <>.

E io: <>.

Ed elli a me: <>.

Dopo cio` poco vid'io quello strazio
  far di costui a le fangose genti,
  che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: <>;
  e 'l fiorentino spirito bizzarro
  in se' medesmo si volvea co' denti.

Quivi il lasciammo, che piu` non ne narro;
  ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
  per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

Lo buon maestro disse: <>.

E io: <>.  Ed ei mi disse: <>.

Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
  che vallan quella terra sconsolata:
  le mura mi parean che ferro fosse.

Non sanza prima far grande aggirata,
  venimmo in parte dove il nocchier forte
  <>, grido`: <>.

Io vidi piu` di mille in su le porte
  da ciel piovuti, che stizzosamente
  dicean: <>.
  E 'l savio mio maestro fece segno
  di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno,
  e disser: <>.

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
  nel suon de le parole maladette,
  che' non credetti ritornarci mai.

<>, diss'io, <>.

E quel segnor che li` m'avea menato,
  mi disse: <>.

Cosi` sen va, e quivi m'abbandona
  lo dolce padre, e io rimagno in forse,
  che si` e no nel capo mi tenciona.

Udir non potti quello ch'a lor porse;
  ma ei non stette la` con essi guari,
  che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Chiuser le porte que' nostri avversari
  nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
  e rivolsesi a me con passi rari.

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
  d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
  <>.

E a me disse: <>.



Inferno: Canto IX


Quel color che vilta` di fuor mi pinse
  veggendo il duca mio tornare in volta,
  piu` tosto dentro il suo novo ristrinse.

Attento si fermo` com'uom ch'ascolta;
  che' l'occhio nol potea menare a lunga
  per l'aere nero e per la nebbia folta.

<>,
  comincio` el, <>.

I' vidi ben si` com'ei ricoperse
  lo cominciar con l'altro che poi venne,
  che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,
  perch'io traeva la parola tronca
  forse a peggior sentenzia che non tenne.

<>.

Questa question fec'io; e quei <>, mi rispuose, <>.

E altro disse, ma non l'ho a mente;
  pero` che l'occhio m'avea tutto tratto
  ver' l'alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
  tre furie infernal di sangue tinte,
  che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
  serpentelli e ceraste avien per crine,
  onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
  de la regina de l'etterno pianto,
  <>, mi disse, <>; e tacque a tanto.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
  battiensi a palme, e gridavan si` alto,
  ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

<>,
  dicevan tutte riguardando in giuso;
  <>.

<>.

Cosi` disse 'l maestro; ed elli stessi
  mi volse, e non si tenne a le mie mani,
  che con le sue ancor non mi chiudessi.

O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
  mirate la dottrina che s'asconde
  sotto 'l velame de li versi strani.

E gia` venia su per le torbide onde
  un fracasso d'un suon, pien di spavento,
  per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d'un vento
  impetuoso per li avversi ardori,
  che fier la selva e sanz'alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;
  dinanzi polveroso va superbo,
  e fa fuggir le fiere e li pastori.

Gli occhi mi sciolse e disse: <>.

Come le rane innanzi a la nimica
  biscia per l'acqua si dileguan tutte,
  fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

vid'io piu` di mille anime distrutte
  fuggir cosi` dinanzi ad un ch'al passo
  passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell'aere grasso,
  menando la sinistra innanzi spesso;
  e sol di quell'angoscia parea lasso.

Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
  e volsimi al maestro; e quei fe' segno
  ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
  Venne a la porta, e con una verghetta
  l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

<>,
  comincio` elli in su l'orribil soglia,
  <>.

Poi si rivolse per la strada lorda,
  e non fe' motto a noi, ma fe' sembiante
  d'omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li e` davante;
  e noi movemmo i piedi inver' la terra,
  sicuri appresso le parole sante.

Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra;
  e io, ch'avea di riguardar disio
  la condizion che tal fortezza serra,

com'io fui dentro, l'occhio intorno invio;
  e veggio ad ogne man grande campagna
  piena di duolo e di tormento rio.

Si` come ad Arli, ove Rodano stagna,
  si` com'a Pola, presso del Carnaro
  ch'Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt'il loco varo,
  cosi` facevan quivi d'ogne parte,
  salvo che 'l modo v'era piu` amaro;

che' tra gli avelli fiamme erano sparte,
  per le quali eran si` del tutto accesi,
  che ferro piu` non chiede verun'arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
  e fuor n'uscivan si` duri lamenti,
  che ben parean di miseri e d'offesi.

E io: <>.

Ed elli a me: <>.
  E poi ch'a la man destra si fu volto,

passammo tra i martiri e li alti spaldi.



Inferno: Canto X


Ora sen va per un secreto calle,
  tra 'l muro de la terra e li martiri,
  lo mio maestro, e io dopo le spalle.

<>, cominciai, <>.

E quelli a me: <>.

E io: <>.

<>.

Subitamente questo suono uscio
  d'una de l'arche; pero` m'accostai,
  temendo, un poco piu` al duca mio.

Ed el mi disse: <>.

Io avea gia` il mio viso nel suo fitto;
  ed el s'ergea col petto e con la fronte
  com'avesse l'inferno a gran dispitto.

E l'animose man del duca e pronte
  mi pinser tra le sepulture a lui,
  dicendo: <>.

Com'io al pie` de la sua tomba fui,
  guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
  mi dimando`: <>.

Io ch'era d'ubidir disideroso,
  non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
  ond'ei levo` le ciglia un poco in suso;

poi disse: <>.

<>,
  rispuos'io lui, <>.

Allor surse a la vista scoperchiata
  un'ombra, lungo questa, infino al mento:
  credo che s'era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardo`, come talento
  avesse di veder s'altri era meco;
  e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: <>.

E io a lui: <>.

Le sue parole e 'l modo de la pena
  m'avean di costui gia` letto il nome;
  pero` fu la risposta cosi` piena.

Di subito drizzato grido`: <>.

Quando s'accorse d'alcuna dimora
  ch'io facea dinanzi a la risposta,
  supin ricadde e piu` non parve fora.

Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
  restato m'era, non muto` aspetto,
  ne' mosse collo, ne' piego` sua costa:

e se' continuando al primo detto,
  <>, disse, <>.

Ond'io a lui: <>.

Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
  <>, disse, <>.

<>,
  prega' io lui, <>.

<>, disse, <>.

Allor, come di mia colpa compunto,
  dissi: <>.

E gia` 'l maestro mio mi richiamava;
  per ch'i' pregai lo spirto piu` avaccio
  che mi dicesse chi con lu' istava.

Dissemi: <>.

Indi s'ascose; e io inver' l'antico
  poeta volsi i passi, ripensando
  a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, cosi` andando,
  mi disse: <>.
  E io li sodisfeci al suo dimando.

<>, mi comando` quel saggio.
  <>, e drizzo` 'l dito:

<>.

Appresso mosse a man sinistra il piede:
  lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
  per un sentier ch'a una valle fiede,

che 'nfin la` su` facea spiacer suo lezzo.



Inferno: Canto XI


In su l'estremita` d'un'alta ripa
  che facevan gran pietre rotte in cerchio
  venimmo sopra piu` crudele stipa;

e quivi, per l'orribile soperchio
  del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
  ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta
  che dicea: "Anastasio papa guardo,
  lo qual trasse Fotin de la via dritta".

<>.

Cosi` 'l maestro; e io <>,
  dissi lui, <>.  Ed elli: <>.

<>,
  comincio` poi a dir, <>.

E io: <>.

Ed elli a me <>,
  disse <>.

<>,
  diss'io, <>.

<>, mi disse, <>.



Inferno: Canto XII


Era lo loco ov'a scender la riva
  venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco,
  tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.

Qual e` quella ruina che nel fianco
  di qua da Trento l'Adice percosse,
  o per tremoto o per sostegno manco,

che da cima del monte, onde si mosse,
  al piano e` si` la roccia discoscesa,
  ch'alcuna via darebbe a chi su` fosse:

cotal di quel burrato era la scesa;
  e 'n su la punta de la rotta lacca
  l'infamia di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;
  e quando vide noi, se' stesso morse,
  si` come quei cui l'ira dentro fiacca.

Lo savio mio inver' lui grido`: <>.

Qual e` quel toro che si slaccia in quella
  c'ha ricevuto gia` 'l colpo mortale,
  che gir non sa, ma qua e la` saltella,

vid'io lo Minotauro far cotale;
  e quello accorto grido`: <>.

Cosi` prendemmo via giu` per lo scarco
  di quelle pietre, che spesso moviensi
  sotto i miei piedi per lo novo carco.

Io gia pensando; e quei disse: <>.

Oh cieca cupidigia e ira folle,
  che si` ci sproni ne la vita corta,
  e ne l'etterna poi si` mal c'immolle!

Io vidi un'ampia fossa in arco torta,
  come quella che tutto 'l piano abbraccia,
  secondo ch'avea detto la mia scorta;

e tra 'l pie` de la ripa ed essa, in traccia
  corrien centauri, armati di saette,
  come solien nel mondo andare a caccia.

Veggendoci calar, ciascun ristette,
  e de la schiera tre si dipartiro
  con archi e asticciuole prima elette;

e l'un grido` da lungi: <>.

Lo mio maestro disse: <>.

Poi mi tento`, e disse: <>.

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
  Chiron prese uno strale, e con la cocca
  fece la barba in dietro a le mascelle.

Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,
  disse a' compagni: <>.
  E 'l mio buon duca, che gia` li er'al petto,
  dove le due nature son consorti,

rispuose: <>.

Chiron si volse in su la destra poppa,
  e disse a Nesso: <>.

Or ci movemmo con la scorta fida
  lungo la proda del bollor vermiglio,
  dove i bolliti facieno alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
  e 'l gran centauro disse: <>.
  Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
  <>.

Poco piu` oltre il centauro s'affisse
  sovr'una gente che 'nfino a la gola
  parea che di quel bulicame uscisse.

Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,
  dicendo: <>.

Poi vidi gente che di fuor del rio
  tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
  e di costoro assai riconobb'io.

Cosi` a piu` a piu` si facea basso
  quel sangue, si` che cocea pur li piedi;
  e quindi fu del fosso il nostro passo.

<>,
  disse 'l centauro, <>.

Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo.



Inferno: Canto XIII


Non era ancor di la` Nesso arrivato,
  quando noi ci mettemmo per un bosco
  che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
  non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
  non pomi v'eran, ma stecchi con tosco:

non han si` aspri sterpi ne' si` folti
  quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
  tra Cecina e Corneto i luoghi colti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
  che cacciar de le Strofade i Troiani
  con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
  pie` con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
  fanno lamenti in su li alberi strani.

E 'l buon maestro <>,
  mi comincio` a dire, <>.

Io sentia d'ogne parte trarre guai,
  e non vedea persona che 'l facesse;
  per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
  che tante voci uscisser, tra quei bronchi
  da gente che per noi si nascondesse.

Pero` disse 'l maestro: <>.

Allor porsi la mano un poco avante,
  e colsi un ramicel da un gran pruno;
  e 'l tronco suo grido`: <>.

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
  ricomincio` a dir: <>.

Come d'un stizzo verde ch'arso sia
  da l'un de'capi, che da l'altro geme
  e cigola per vento che va via,

si` de la scheggia rotta usciva insieme
  parole e sangue; ond'io lasciai la cima
  cadere, e stetti come l'uom che teme.

<>,
  rispuose 'l savio mio, <>.

E 'l tronco: <>.

Un poco attese, e poi <>,
  disse 'l poeta a me, <>.

Ond'io a lui: <>.

Percio` ricomincio`: <>.

Allor soffio` il tronco forte, e poi
  si converti` quel vento in cotal voce:
  <>.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
  credendo ch'altro ne volesse dire,
  quando noi fummo d'un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
  sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
  ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
  nudi e graffiati, fuggendo si` forte,
  che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi: <>.
  E l'altro, cui pareva tardar troppo,
  gridava: <>.
  E poi che forse li fallia la lena,
  di se' e d'un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
  di nere cagne, bramose e correnti
  come veltri ch'uscisser di catena.

In quel che s'appiatto` miser li denti,
  e quel dilaceraro a brano a brano;
  poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
  e menommi al cespuglio che piangea,
  per le rotture sanguinenti in vano.

<>, dicea, <>.

Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
  disse <>.

Ed elli a noi: <>.



Inferno: Canto XIV


Poi che la carita` del natio loco
  mi strinse, raunai le fronde sparte,
  e rende'le a colui, ch'era gia` fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte
  lo secondo giron dal terzo, e dove
  si vede di giustizia orribil arte.

A ben manifestar le cose nove,
  dico che arrivammo ad una landa
  che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l'e` ghirlanda
  intorno, come 'l fosso tristo ad essa:
  quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
  non d'altra foggia fatta che colei
  che fu da' pie` di Caton gia` soppressa.

O vendetta di Dio, quanto tu dei
  esser temuta da ciascun che legge
  cio` che fu manifesto a li occhi miei!

D'anime nude vidi molte gregge
  che piangean tutte assai miseramente,
  e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,
  alcuna si sedea tutta raccolta,
  e altra andava continuamente.

Quella che giva intorno era piu` molta,
  e quella men che giacea al tormento,
  ma piu` al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
  piovean di foco dilatate falde,
  come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde
  d'India vide sopra 'l suo stuolo
  fiamme cadere infino a terra salde,

per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
  con le sue schiere, accio` che lo vapore
  mei si stingueva mentre ch'era solo:

tale scendeva l'etternale ardore;
  onde la rena s'accendea, com'esca
  sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca
  de le misere mani, or quindi or quinci
  escotendo da se' l'arsura fresca.

I' cominciai: <>.

E quel medesmo, che si fu accorto
  ch'io domandava il mio duca di lui,
  grido`: <>.

Allora il duca mio parlo` di forza
  tanto, ch'i' non l'avea si` forte udito:
  <>.

Poi si rivolse a me con miglior labbia
  dicendo: <>.

Tacendo divenimmo la` 've spiccia
  fuor de la selva un picciol fiumicello,
  lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello
  che parton poi tra lor le peccatrici,
  tal per la rena giu` sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici
  fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato;
  per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

<>.

Queste parole fuor del duca mio;
  per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
  di cui largito m'avea il disio.

<>,
  diss'elli allora, <>.

E io a lui: <>.

Ed elli a me: <>.

E io ancor: <>.

<>,
  rispuose; <>.

Poi disse: <>.



Inferno: Canto XV


Ora cen porta l'un de' duri margini;
  e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
  si` che dal foco salva l'acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
  temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa,
  fanno lo schermo perche' 'l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
  per difender lor ville e lor castelli,
  anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
  tutto che ne' si` alti ne' si` grossi,
  qual che si fosse, lo maestro felli.

Gia` eravam da la selva rimossi
  tanto, ch'i' non avrei visto dov'era,
  perch'io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d'anime una schiera
  che venian lungo l'argine, e ciascuna
  ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
  e si` ver' noi aguzzavan le ciglia
  come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Cosi` adocchiato da cotal famiglia,
  fui conosciuto da un, che mi prese
  per lo lembo e grido`: <>.

E io, quando 'l suo braccio a me distese,
  ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
  si` che 'l viso abbrusciato non difese

la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
  e chinando la mano a la sua faccia,
  rispuosi: <>.

E quelli: <>.

I' dissi lui: <>.

<>, disse, <>.

I' non osava scender de la strada
  per andar par di lui; ma 'l capo chino
  tenea com'uom che reverente vada.

El comincio`: <>.

<>,
  rispuos'io lui, <>.

Ed elli a me: <>.

<>,
  rispuos'io lui, <>.

Lo mio maestro allora in su la gota
  destra si volse in dietro, e riguardommi;
  poi disse: <>.

Ne' per tanto di men parlando vommi
  con ser Brunetto, e dimando chi sono
  li suoi compagni piu` noti e piu` sommi.

Ed elli a me: <>.

Poi si rivolse, e parve di coloro
  che corrono a Verona il drappo verde
  per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.



Inferno: Canto XVI


Gia` era in loco onde s'udia 'l rimbombo
  de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
  simile a quel che l'arnie fanno rombo,

quando tre ombre insieme si partiro,
  correndo, d'una torma che passava
  sotto la pioggia de l'aspro martiro.

Venian ver noi, e ciascuna gridava:
  <>.

Ahime`, che piaghe vidi ne' lor membri
  ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
  Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.

A le lor grida il mio dottor s'attese;
  volse 'l viso ver me, e: <>,
  disse <>.

Ricominciar, come noi restammo, ei
  l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
  fenno una rota di se' tutti e trei.

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
  avvisando lor presa e lor vantaggio,
  prima che sien tra lor battuti e punti,

cosi` rotando, ciascuno il visaggio
  drizzava a me, si` che 'n contraro il collo
  faceva ai pie` continuo viaggio.

E <>,
  comincio` l'uno <>.

S'i' fossi stato dal foco coperto,
  gittato mi sarei tra lor di sotto,
  e credo che 'l dottor l'avria sofferto;

ma perch'io mi sarei brusciato e cotto,
  vinse paura la mia buona voglia
  che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

Poi cominciai: <>.

<>, rispuose quelli ancora,
  <>.

<>.

Cosi` gridai con la faccia levata;
  e i tre, che cio` inteser per risposta,
  guardar l'un l'altro com'al ver si guata.

<>,
  rispuoser tutti <>.
  Indi rupper la rota, e a fuggirsi
  ali sembiar le gambe loro isnelle.

Un amen non saria potuto dirsi
  tosto cosi` com'e' fuoro spariti;
  per ch'al maestro parve di partirsi.

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
  che 'l suon de l'acqua n'era si` vicino,
  che per parlar saremmo a pena uditi.

Come quel fiume c'ha proprio cammino
  prima dal Monte Viso 'nver' levante,
  da la sinistra costa d'Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante
  che si divalli giu` nel basso letto,
  e a Forli` di quel nome e` vacante,

rimbomba la` sovra San Benedetto
  de l'Alpe per cadere ad una scesa
  ove dovea per mille esser recetto;

cosi`, giu` d'una ripa discoscesa,
  trovammo risonar quell'acqua tinta,
  si` che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.

Io avea una corda intorno cinta,
  e con essa pensai alcuna volta
  prender la lonza a la pelle dipinta.

Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
  si` come 'l duca m'avea comandato,
  porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond'ei si volse inver' lo destro lato,
  e alquanto di lunge da la sponda
  la gitto` giuso in quell'alto burrato.

'E' pur convien che novita` risponda'
  dicea fra me medesmo 'al novo cenno
  che 'l maestro con l'occhio si` seconda'.

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
  presso a color che non veggion pur l'ovra,
  ma per entro i pensier miran col senno!

El disse a me: <>.

Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
  de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
  pero` che sanza colpa fa vergogna;

ma qui tacer nol posso; e per le note
  di questa comedia, lettor, ti giuro,
  s'elle non sien di lunga grazia vote,

ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro
  venir notando una figura in suso,
  maravigliosa ad ogne cor sicuro,

si` come torna colui che va giuso
  talora a solver l'ancora ch'aggrappa
  o scoglio o altro che nel mare e` chiuso,

che 'n su` si stende, e da pie` si rattrappa.



Inferno: Canto XVII


<>.

Si` comincio` lo mio duca a parlarmi;
  e accennolle che venisse a proda
  vicino al fin d'i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda
  sen venne, e arrivo` la testa e 'l busto,
  ma 'n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d'uom giusto,
  tanto benigna avea di fuor la pelle,
  e d'un serpente tutto l'altro fusto;

due branche avea pilose insin l'ascelle;
  lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
  dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con piu` color, sommesse e sovraposte
  non fer mai drappi Tartari ne' Turchi,
  ne' fuor tai tele per Aragne imposte.

Come tal volta stanno a riva i burchi,
  che parte sono in acqua e parte in terra,
  e come la` tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s'assetta a far sua guerra,
  cosi` la fiera pessima si stava
  su l'orlo ch'e` di pietra e 'l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,
  torcendo in su` la venenosa forca
  ch'a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: <>.

Pero` scendemmo a la destra mammella,
  e diece passi femmo in su lo stremo,
  per ben cessar la rena e la fiammella.

E quando noi a lei venuti semo,
  poco piu` oltre veggio in su la rena
  gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi 'l maestro <>,
  mi disse, <>.

Cosi` ancor su per la strema testa
  di quel settimo cerchio tutto solo
  andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
  e` di qua, di la` soccorrien con le mani
  quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani
  or col ceffo, or col pie`, quando son morsi
  o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
  ne' quali 'l doloroso foco casca,
  non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca
  ch'avea certo colore e certo segno,
  e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

E com'io riguardando tra lor vegno,
  in una borsa gialla vidi azzurro
  che d'un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
  vidine un'altra come sangue rossa,
  mostrando un'oca bianca piu` che burro.

E un che d'una scrofa azzurra e grossa
  segnato avea lo suo sacchetto bianco,
  mi disse: <>.
  Qui distorse la bocca e di fuor trasse
  la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

E io, temendo no 'l piu` star crucciasse
  lui che di poco star m'avea 'mmonito,
  torna'mi in dietro da l'anime lasse.

Trova' il duca mio ch'era salito
  gia` su la groppa del fiero animale,
  e disse a me: <>.

Qual e` colui che si` presso ha 'l riprezzo
  de la quartana, c'ha gia` l'unghie smorte,
  e triema tutto pur guardando 'l rezzo,

tal divenn'io a le parole porte;
  ma vergogna mi fe' le sue minacce,
  che innanzi a buon segnor fa servo forte.

I' m'assettai in su quelle spallacce;
  si` volli dir, ma la voce non venne
  com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.

Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
  ad altro forse, tosto ch'i' montai
  con le braccia m'avvinse e mi sostenne;

e disse: <>.

Come la navicella esce di loco
  in dietro in dietro, si` quindi si tolse;
  e poi ch'al tutto si senti` a gioco,

la` 'v'era 'l petto, la coda rivolse,
  e quella tesa, come anguilla, mosse,
  e con le branche l'aere a se' raccolse.

Maggior paura non credo che fosse
  quando Fetonte abbandono` li freni,
  per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;

ne' quando Icaro misero le reni
  senti` spennar per la scaldata cera,
  gridando il padre a lui <>,

che fu la mia, quando vidi ch'i' era
  ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
  ogne veduta fuor che de la fera.

Ella sen va notando lenta lenta:
  rota e discende, ma non me n'accorgo
  se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia gia` da la man destra il gorgo
  far sotto noi un orribile scroscio,
  per che con li occhi 'n giu` la testa sporgo.

Allor fu' io piu` timido a lo stoscio,
  pero` ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
  ond'io tremando tutto mi raccoscio.

E vidi poi, che' nol vedea davanti,
  lo scendere e 'l girar per li gran mali
  che s'appressavan da diversi canti.

Come 'l falcon ch'e` stato assai su l'ali,
  che sanza veder logoro o uccello
  fa dire al falconiere <>,

discende lasso onde si move isnello,
  per cento rote, e da lunge si pone
  dal suo maestro, disdegnoso e fello;

cosi` ne puose al fondo Gerione
  al pie` al pie` de la stagliata rocca
  e, discarcate le nostre persone,

si dileguo` come da corda cocca.



Inferno: Canto XVIII


Luogo e` in inferno detto Malebolge,
  tutto di pietra di color ferrigno,
  come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno
  vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
  di cui suo loco dicero` l'ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque e` tondo
  tra 'l pozzo e 'l pie` de l'alta ripa dura,
  e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura
  piu` e piu` fossi cingon li castelli,
  la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;
  e come a tai fortezze da' lor sogli
  a la ripa di fuor son ponticelli,

cosi` da imo de la roccia scogli
  movien che ricidien li argini e ' fossi
  infino al pozzo che i tronca e raccogli.

In questo luogo, de la schiena scossi
  di Gerion, trovammoci; e 'l poeta
  tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A la man destra vidi nova pieta,
  novo tormento e novi frustatori,
  di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
  dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,
  di la` con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l'essercito molto,
  l'anno del giubileo, su per lo ponte
  hanno a passar la gente modo colto,

che da l'un lato tutti hanno la fronte
  verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;
  da l'altra sponda vanno verso 'l monte.

Di qua, di la`, su per lo sasso tetro
  vidi demon cornuti con gran ferze,
  che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze
  a le prime percosse! gia` nessuno
  le seconde aspettava ne' le terze.

Mentr'io andava, li occhi miei in uno
  furo scontrati; e io si` tosto dissi:
  <>.

Per ch'io a figurarlo i piedi affissi;
  e 'l dolce duca meco si ristette,
  e assentio ch'alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette
  bassando 'l viso; ma poco li valse,
  ch'io dissi: <>.

Ed elli a me: <>.

Cosi` parlando il percosse un demonio
  de la sua scuriada, e disse: <>.

I' mi raggiunsi con la scorta mia;
  poscia con pochi passi divenimmo
  la` 'v'uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;
  e volti a destra su per la sua scheggia,
  da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo la` dov'el vaneggia
  di sotto per dar passo a li sferzati,
  lo duca disse: <>.

Del vecchio ponte guardavam la traccia
  che venia verso noi da l'altra banda,
  e che la ferza similmente scaccia.

E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,
  mi disse: <>.

Gia` eravam la` 've lo stretto calle
  con l'argine secondo s'incrocicchia,
  e fa di quello ad un altr'arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia
  ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,
  e se' medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d'una muffa,
  per l'alito di giu` che vi s'appasta,
  che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo e` cupo si`, che non ci basta
  loco a veder sanza montare al dosso
  de l'arco, ove lo scoglio piu` sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giu` nel fosso
  vidi gente attuffata in uno sterco
  che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch'io la` giu` con l'occhio cerco,
  vidi un col capo si` di merda lordo,
  che non parea s'era laico o cherco.

Quei mi sgrido`: <>.
  E io a lui: <>.

Ed elli allor, battendosi la zucca:
  <>.

Appresso cio` lo duca <>,
  mi disse <>.



Inferno: Canto XIX


O Simon mago, o miseri seguaci
  che le cose di Dio, che di bontate
  deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,
  or convien che per voi suoni la tromba,
  pero` che ne la terza bolgia state.

Gia` eravamo, a la seguente tomba,
  montati de lo scoglio in quella parte
  ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.

O somma sapienza, quanta e` l'arte
  che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
  e quanto giusto tua virtu` comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo
  piena la pietra livida di fori,
  d'un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi ne' maggiori
  che que' che son nel mio bel San Giovanni,
  fatti per loco d'i battezzatori;

l'un de li quali, ancor non e` molt'anni,
  rupp'io per un che dentro v'annegava:
  e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
  d'un peccator li piedi e de le gambe
  infino al grosso, e l'altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;
  per che si` forte guizzavan le giunte,
  che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
  muoversi pur su per la strema buccia,
  tal era li` dai calcagni a le punte.

<>,
  diss'io, <>.

Ed elli a me: <>.

E io: <>.

Allor venimmo in su l'argine quarto:
  volgemmo e discendemmo a mano stanca
  la` giu` nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca
  non mi dipuose, si` mi giunse al rotto
  di quel che si piangeva con la zanca.

<>,
  comincia' io a dir, <>.

Io stava come 'l frate che confessa
  lo perfido assessin, che, poi ch'e` fitto,
  richiama lui, per che la morte cessa.

Ed el grido`: <>.

Tal mi fec'io, quai son color che stanno,
  per non intender cio` ch'e` lor risposto,
  quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse: <>;
  e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;
  poi, sospirando e con voce di pianto,
  mi disse: <>.

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
  ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
  <>.

E mentr'io li cantava cotai note,
  o ira o coscienza che 'l mordesse,
  forte spingava con ambo le piote.

I' credo ben ch'al mio duca piacesse,
  con si` contenta labbia sempre attese
  lo suon de le parole vere espresse.

Pero` con ambo le braccia mi prese;
  e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
  rimonto` per la via onde discese.

Ne' si stanco` d'avermi a se' distretto,
  si` men porto` sovra 'l colmo de l'arco
  che dal quarto al quinto argine e` tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,
  soave per lo scoglio sconcio ed erto
  che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.



Inferno: Canto XX


Di nova pena mi conven far versi
  e dar matera al ventesimo canto
  de la prima canzon ch'e` d'i sommersi.

Io era gia` disposto tutto quanto
  a riguardar ne lo scoperto fondo,
  che si bagnava d'angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo
  venir, tacendo e lagrimando, al passo
  che fanno le letane in questo mondo.

Come 'l viso mi scese in lor piu` basso,
  mirabilmente apparve esser travolto
  ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso;

che' da le reni era tornato 'l volto,
  e in dietro venir li convenia,
  perche' 'l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza gia` di parlasia
  si travolse cosi` alcun del tutto;
  ma io nol vidi, ne' credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
  di tua lezione, or pensa per te stesso
  com'io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso
  vidi si` torta, che 'l pianto de li occhi
  le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
  del duro scoglio, si` che la mia scorta
  mi disse: <>.

E io: <>.

Allor mi disse: <>.

Si` mi parlava, e andavamo introcque.



Inferno: Canto XXI


Cosi` di ponte in ponte, altro parlando
  che la mia comedia cantar non cura,
  venimmo; e tenavamo il colmo, quando

restammo per veder l'altra fessura
  di Malebolge e li altri pianti vani;
  e vidila mirabilmente oscura.

Quale ne l'arzana` de' Viniziani
  bolle l'inverno la tenace pece
  a rimpalmare i legni lor non sani,

che' navicar non ponno - in quella vece
  chi fa suo legno novo e chi ristoppa
  le coste a quel che piu` viaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;
  altri fa remi e altri volge sarte;
  chi terzeruolo e artimon rintoppa -;

tal, non per foco, ma per divin'arte,
  bollia la` giuso una pegola spessa,
  che 'nviscava la ripa d'ogne parte.

I' vedea lei, ma non vedea in essa
  mai che le bolle che 'l bollor levava,
  e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mentr'io la` giu` fisamente mirava,
  lo duca mio, dicendo <>,
  mi trasse a se' del loco dov'io stava.

Allor mi volsi come l'uom cui tarda
  di veder quel che li convien fuggire
  e cui paura subita sgagliarda,

che, per veder, non indugia 'l partire:
  e vidi dietro a noi un diavol nero
  correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero!
  e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
  con l'ali aperte e sovra i pie` leggero!

L'omero suo, ch'era aguto e superbo,
  carcava un peccator con ambo l'anche,
  e quei tenea de' pie` ghermito 'l nerbo.

Del nostro ponte disse: <>.

La` giu` 'l butto`, e per lo scoglio duro
  si volse; e mai non fu mastino sciolto
  con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s'attuffo`, e torno` su` convolto;
  ma i demon che del ponte avean coperchio,
  gridar: <>.

Poi l'addentar con piu` di cento raffi,
  disser: <>.

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
  fanno attuffare in mezzo la caldaia
  la carne con li uncin, perche' non galli.

Lo buon maestro <>, mi disse, <>.

Poscia passo` di la` dal co del ponte;
  e com'el giunse in su la ripa sesta,
  mestier li fu d'aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta
  ch'escono i cani a dosso al poverello
  che di subito chiede ove s'arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,
  e volser contra lui tutt'i runcigli;
  ma el grido`: <>.

Tutti gridaron: <>;
  per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -,
  e venne a lui dicendo: <>.

<>, disse 'l mio maestro,
  <>.

Allor li fu l'orgoglio si` caduto,
  ch'e' si lascio` cascar l'uncino a' piedi,
  e disse a li altri: <>.

E 'l duca mio a me: <>.

Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto;
  e i diavoli si fecer tutti avanti,
  si` ch'io temetti ch'ei tenesser patto;

cosi` vid'io gia` temer li fanti
  ch'uscivan patteggiati di Caprona,
  veggendo se' tra nemici cotanti.

I' m'accostai con tutta la persona
  lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
  da la sembianza lor ch'era non buona.

Ei chinavan li raffi e <>,
  diceva l'un con l'altro, <>.
  E rispondien: <>.

Ma quel demonio che tenea sermone
  col duca mio, si volse tutto presto,
  e disse: <>.

Poi disse a noi: <>.

<>,
  comincio` elli a dire, <>.

<>,
  diss'io, <>.

Ed elli a me: <>.

Per l'argine sinistro volta dienno;
  ma prima avea ciascun la lingua stretta
  coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.



Inferno: Canto XXII


Io vidi gia` cavalier muover campo,
  e cominciare stormo e far lor mostra,
  e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,
  o Aretini, e vidi gir gualdane,
  fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,
  con tamburi e con cenni di castella,
  e con cose nostrali e con istrane;

ne' gia` con si` diversa cennamella
  cavalier vidi muover ne' pedoni,
  ne' nave a segno di terra o di stella.

Noi andavam con li diece demoni.
  Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
  coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Pur a la pegola era la mia 'ntesa,
  per veder de la bolgia ogne contegno
  e de la gente ch'entro v'era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno
  a' marinar con l'arco de la schiena,
  che s'argomentin di campar lor legno,

talor cosi`, ad alleggiar la pena,
  mostrav'alcun de' peccatori il dosso
  e nascondea in men che non balena.

E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso
  stanno i ranocchi pur col muso fuori,
  si` che celano i piedi e l'altro grosso,

si` stavan d'ogne parte i peccatori;
  ma come s'appressava Barbariccia,
  cosi` si ritraen sotto i bollori.

I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,
  uno aspettar cosi`, com'elli 'ncontra
  ch'una rana rimane e l'altra spiccia;

e Graffiacan, che li era piu` di contra,
  li arrunciglio` le 'mpegolate chiome
  e trassel su`, che mi parve una lontra.

I' sapea gia` di tutti quanti 'l nome,
  si` li notai quando fuorono eletti,
  e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.

<>,
  gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: <>.

Lo duca mio li s'accosto` allato;
  domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose:
  <>.

E Ciriatto, a cui di bocca uscia
  d'ogne parte una sanna come a porco,
  li fe' sentir come l'una sdruscia.

Tra male gatte era venuto 'l sorco;
  ma Barbariccia il chiuse con le braccia,
  e disse: <>.

E al maestro mio volse la faccia:
  <>, disse, <>.

Lo duca dunque: <>.  E quelli: <>.

E Libicocco <>,
  disse; e preseli 'l braccio col runciglio,
  si` che, stracciando, ne porto` un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
  giuso a le gambe; onde 'l decurio loro
  si volse intorno intorno con mal piglio.

Quand'elli un poco rappaciati fuoro,
  a lui, ch'ancor mirava sua ferita,
  domando` 'l duca mio sanza dimoro:

<>.
  Ed ei rispuose: <>.

E 'l gran proposto, volto a Farfarello
  che stralunava li occhi per fedire,
  disse: <>.

<>,
  ricomincio` lo spaurato appresso
  <>.

Cagnazzo a cotal motto levo` 'l muso,
  crollando 'l capo, e disse: <>.

Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,
  rispuose: <>.

Alichin non si tenne e, di rintoppo
  a li altri, disse a lui: <>.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
  ciascun da l'altra costa li occhi volse;
  quel prima, ch'a cio` fare era piu` crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
  fermo` le piante a terra, e in un punto
  salto` e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,
  ma quei piu` che cagion fu del difetto;
  pero` si mosse e grido`: <>.

Ma poco i valse: che' l'ali al sospetto
  non potero avanzar: quelli ando` sotto,
  e quei drizzo` volando suso il petto:

non altrimenti l'anitra di botto,
  quando 'l falcon s'appressa, giu` s'attuffa,
  ed ei ritorna su` crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,
  volando dietro li tenne, invaghito
  che quei campasse per aver la zuffa;

e come 'l barattier fu disparito,
  cosi` volse li artigli al suo compagno,
  e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
  ad artigliar ben lui, e amendue
  cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor subito fue;
  ma pero` di levarsi era neente,
  si` avieno inviscate l'ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
  quattro ne fe' volar da l'altra costa
  con tutt'i raffi, e assai prestamente

di qua, di la` discesero a la posta;
  porser li uncini verso li 'mpaniati,
  ch'eran gia` cotti dentro da la crosta;

e noi lasciammo lor cosi` 'mpacciati.



Inferno: Canto XXIII


Taciti, soli, sanza compagnia
  n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
  come frati minor vanno per via.

Volt'era in su la favola d'Isopo
  lo mio pensier per la presente rissa,
  dov'el parlo` de la rana e del topo;

che' piu` non si pareggia 'mo' e 'issa'
  che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia
  principio e fine con la mente fissa.

E come l'un pensier de l'altro scoppia,
  cosi` nacque di quello un altro poi,
  che la prima paura mi fe' doppia.

Io pensava cosi`: 'Questi per noi
  sono scherniti con danno e con beffa
  si` fatta, ch'assai credo che lor noi.

Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,
  ei ne verranno dietro piu` crudeli
  che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'.

Gia` mi sentia tutti arricciar li peli
  de la paura e stava in dietro intento,
  quand'io dissi: <>.

E quei: <>.

Gia` non compie' di tal consiglio rendere,
  ch'io li vidi venir con l'ali tese
  non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di subito mi prese,
  come la madre ch'al romore e` desta
  e vede presso a se' le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s'arresta,
  avendo piu` di lui che di se' cura,
  tanto che solo una camiscia vesta;

e giu` dal collo de la ripa dura
  supin si diede a la pendente roccia,
  che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.

Non corse mai si` tosto acqua per doccia
  a volger ruota di molin terragno,
  quand'ella piu` verso le pale approccia,

come 'l maestro mio per quel vivagno,
  portandosene me sovra 'l suo petto,
  come suo figlio, non come compagno.

A pena fuoro i pie` suoi giunti al letto
  del fondo giu`, ch'e' furon in sul colle
  sovresso noi; ma non li` era sospetto;

che' l'alta provedenza che lor volle
  porre ministri de la fossa quinta,
  poder di partirs'indi a tutti tolle.

La` giu` trovammo una gente dipinta
  che giva intorno assai con lenti passi,
  piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi
  dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
  che in Clugni` per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, si` ch'elli abbaglia;
  ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
  che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!
  Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
  con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca
  venia si` pian, che noi eravam nuovi
  di compagnia ad ogne mover d'anca.

Per ch'io al duca mio: <>.

E un che 'ntese la parola tosca,
  di retro a noi grido`: <>.
  Onde 'l duca si volse e disse: <>.

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
  de l'animo, col viso, d'esser meco;
  ma tardavali 'l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco
  mi rimiraron sanza far parola;
  poi si volsero in se', e dicean seco:

<>.

Poi disser me: <>.

E io a loro: <>.

E l'un rispuose a me: <>.

Io cominciai: <>;
  ma piu` non dissi, ch'a l'occhio mi corse
  un, crucifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse,
  soffiando ne la barba con sospiri;
  e 'l frate Catalan, ch'a cio` s'accorse,

mi disse: <>.

Allor vid'io maravigliar Virgilio
  sovra colui ch'era disteso in croce
  tanto vilmente ne l'etterno essilio.

Poscia drizzo` al frate cotal voce:
  <>.

Rispuose adunque: <>.

Lo duca stette un poco a testa china;
  poi disse: <>.

E 'l frate: <>.

Appresso il duca a gran passi sen gi`,
  turbato un poco d'ira nel sembiante;
  ond'io da li 'ncarcati mi parti'

dietro a le poste de le care piante.



Inferno: Canto XXIV


In quella parte del giovanetto anno
  che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
  e gia` le notti al mezzo di` sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
  l'imagine di sua sorella bianca,
  ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,
  si leva, e guarda, e vede la campagna
  biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,

ritorna in casa, e qua e la` si lagna,
  come 'l tapin che non sa che si faccia;
  poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
  in poco d'ora, e prende suo vincastro,
  e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Cosi` mi fece sbigottir lo mastro
  quand'io li vidi si` turbar la fronte,
  e cosi` tosto al mal giunse lo 'mpiastro;

che', come noi venimmo al guasto ponte,
  lo duca a me si volse con quel piglio
  dolce ch'io vidi prima a pie` del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
  eletto seco riguardando prima
  ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch'adopera ed estima,
  che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
  cosi`, levando me su` ver la cima

d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia
  dicendo: <>.

Non era via da vestito di cappa,
  che' noi a pena, ei lieve e io sospinto,
  potavam su` montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto
  piu` che da l'altro era la costa corta,
  non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perche' Malebolge inver' la porta
  del bassissimo pozzo tutta pende,
  lo sito di ciascuna valle porta

che l'una costa surge e l'altra scende;
  noi pur venimmo al fine in su la punta
  onde l'ultima pietra si scoscende.

La lena m'era del polmon si` munta
  quand'io fui su`, ch'i' non potea piu` oltre,
  anzi m'assisi ne la prima giunta.

<>,
  disse 'l maestro; <>.

Leva'mi allor, mostrandomi fornito
  meglio di lena ch'i' non mi sentia;
  e dissi: <>.

Su per lo scoglio prendemmo la via,
  ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
  ed erto piu` assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
  onde una voce usci` de l'altro fosso,
  a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso
  fossi de l'arco gia` che varca quivi;
  ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era volto in giu`, ma li occhi vivi
  non poteano ire al fondo per lo scuro;
  per ch'io: <>.

<>, disse, <>.

Noi discendemmo il ponte da la testa
  dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
  e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa
  di serpenti, e di si` diversa mena
  che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Piu` non si vanti Libia con sua rena;
  che' se chelidri, iaculi e faree
  produce, e cencri con anfisibena,

ne' tante pestilenzie ne' si` ree
  mostro` gia` mai con tutta l'Etiopia
  ne' con cio` che di sopra al Mar Rosso ee.

Tra questa cruda e tristissima copia
  correan genti nude e spaventate,
  sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
  quelle ficcavan per le ren la coda
  e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
  s'avvento` un serpente che 'l trafisse
  la` dove 'l collo a le spalle s'annoda.

Ne' O si` tosto mai ne' I si scrisse,
  com'el s'accese e arse, e cener tutto
  convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra si` distrutto,
  la polver si raccolse per se' stessa,
  e 'n quel medesmo ritorno` di butto.

Cosi` per li gran savi si confessa
  che la fenice more e poi rinasce,
  quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba ne' biado in sua vita non pasce,
  ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
  e nardo e mirra son l'ultime fasce.

E qual e` quel che cade, e non sa como,
  per forza di demon ch'a terra il tira,
  o d'altra oppilazion che lega l'omo,

quando si leva, che 'ntorno si mira
  tutto smarrito de la grande angoscia
  ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era il peccator levato poscia.
  Oh potenza di Dio, quant'e` severa,
  che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domando` poi chi ello era;
  per ch'ei rispuose: <>.

E io al duca: <>.

E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,
  ma drizzo` verso me l'animo e 'l volto,
  e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: <>.



Inferno: Canto XXV


Al fine de le sue parole il ladro
  le mani alzo` con amendue le fiche,
  gridando: <>.

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
  perch'una li s'avvolse allora al collo,
  come dicesse 'Non vo' che piu` diche';

e un'altra a le braccia, e rilegollo,
  ribadendo se' stessa si` dinanzi,
  che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, che' non stanzi
  d'incenerarti si` che piu` non duri,
  poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri
  non vidi spirto in Dio tanto superbo,
  non quel che cadde a Tebe giu` da' muri.

El si fuggi` che non parlo` piu` verbo;
  e io vidi un centauro pien di rabbia
  venir chiamando: <>.

Maremma non cred'io che tante n'abbia,
  quante bisce elli avea su per la groppa
  infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
  con l'ali aperte li giacea un draco;
  e quello affuoca qualunque s'intoppa.

Lo mio maestro disse: <>.

Mentre che si` parlava, ed el trascorse
  e tre spiriti venner sotto noi,
  de' quali ne' io ne' 'l duca mio s'accorse,

se non quando gridar: <>;
  per che nostra novella si ristette,
  e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
  come suol seguitar per alcun caso,
  che l'un nomar un altro convenette,

dicendo: <>;
  per ch'io, accio` che 'l duca stesse attento,
  mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

Se tu se' or, lettore, a creder lento
  cio` ch'io diro`, non sara` maraviglia,
  che' io che 'l vidi, a pena il mi consento.

Com'io tenea levate in lor le ciglia,
  e un serpente con sei pie` si lancia
  dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' pie` di mezzo li avvinse la pancia,
  e con li anterior le braccia prese;
  poi li addento` e l'una e l'altra guancia;

li diretani a le cosce distese,
  e miseli la coda tra 'mbedue,
  e dietro per le ren su` la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
  ad alber si`, come l'orribil fiera
  per l'altrui membra avviticchio` le sue.

Poi s'appiccar, come di calda cera
  fossero stati, e mischiar lor colore,
  ne' l'un ne' l'altro gia` parea quel ch'era:

come procede innanzi da l'ardore,
  per lo papiro suso, un color bruno
  che non e` nero ancora e 'l bianco more.

Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
  gridava: <>.

Gia` eran li due capi un divenuti,
  quando n'apparver due figure miste
  in una faccia, ov'eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
  le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
  divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
  due e nessun l'imagine perversa
  parea; e tal sen gio con lento passo.

Come 'l ramarro sotto la gran fersa
  dei di` canicular, cangiando sepe,
  folgore par se la via attraversa,

si` pareva, venendo verso l'epe
  de li altri due, un serpentello acceso,
  livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima e` preso
  nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
  poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto 'l miro`, ma nulla disse;
  anzi, co' pie` fermati, sbadigliava
  pur come sonno o febbre l'assalisse.

Elli 'l serpente, e quei lui riguardava;
  l'un per la piaga, e l'altro per la bocca
  fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai la` dove tocca
  del misero Sabello e di Nasidio,
  e attenda a udir quel ch'or si scocca.

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;
  che' se quello in serpente e quella in fonte
  converte poetando, io non lo 'nvidio;

che' due nature mai a fronte a fronte
  non trasmuto` si` ch'amendue le forme
  a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,
  che 'l serpente la coda in forca fesse,
  e il feruto ristrinse insieme l'orme.

Le gambe con le cosce seco stesse
  s'appiccar si`, che 'n poco la giuntura
  non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
  che si perdeva la`, e la sua pelle
  si facea molle, e quella di la` dura.

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,
  e i due pie` de la fiera, ch'eran corti,
  tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li pie` di retro, insieme attorti,
  diventaron lo membro che l'uom cela,
  e 'l misero del suo n'avea due porti.

Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela
  di color novo, e genera 'l pel suso
  per l'una parte e da l'altra il dipela,

l'un si levo` e l'altro cadde giuso,
  non torcendo pero` le lucerne empie,
  sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,
  e di troppa matera ch'in la` venne
  uscir li orecchi de le gote scempie;

cio` che non corse in dietro e si ritenne
  di quel soverchio, fe' naso a la faccia
  e le labbra ingrosso` quanto convenne.

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
  e li orecchi ritira per la testa
  come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch'avea unita e presta
  prima a parlar, si fende, e la forcuta
  ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

L'anima ch'era fiera divenuta,
  suffolando si fugge per la valle,
  e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,
  e disse a l'altro: <>.

Cosi` vid'io la settima zavorra
  mutare e trasmutare; e qui mi scusi
  la novita` se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi
  fossero alquanto e l'animo smagato,
  non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
  ed era quel che sol, di tre compagni
  che venner prima, non era mutato;

l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.



Inferno: Canto XXVI


Godi, Fiorenza, poi che se' si` grande,
  che per mare e per terra batti l'ali,
  e per lo 'nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
  tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
  e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
  tu sentirai di qua da picciol tempo
  di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

E se gia` fosse, non saria per tempo.
  Cosi` foss'ei, da che pur esser dee!
  che' piu` mi gravera`, com'piu` m'attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
  che n'avea fatto iborni a scender pria,
  rimonto` 'l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
  tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
  lo pie` sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
  quando drizzo la mente a cio` ch'io vidi,
  e piu` lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,

perche' non corra che virtu` nol guidi;
  si` che, se stella bona o miglior cosa
  m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.

Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
  nel tempo che colui che 'l mondo schiara
  la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,
  vede lucciole giu` per la vallea,
  forse cola` dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
  l'ottava bolgia, si` com'io m'accorsi
  tosto che fui la` 've 'l fondo parea.

E qual colui che si vengio` con li orsi
  vide 'l carro d'Elia al dipartire,
  quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea si` con li occhi seguire,
  ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
  si` come nuvoletta, in su` salire:

tal si move ciascuna per la gola
  del fosso, che' nessuna mostra 'l furto,
  e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
  si` che s'io non avessi un ronchion preso,
  caduto sarei giu` sanz'esser urto.

E 'l duca che mi vide tanto atteso,
  disse: <>.

<>, rispuos'io, <>.

Rispuose a me: <>.

<>, diss'io, <>.

Ed elli a me: <>.

Poi che la fiamma fu venuta quivi
  dove parve al mio duca tempo e loco,
  in questa forma lui parlare audivi:

<>.

Lo maggior corno de la fiamma antica
  comincio` a crollarsi mormorando
  pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e la` menando,
  come fosse la lingua che parlasse,
  gitto` voce di fuori, e disse: <>.



Inferno: Canto XXVII


Gia` era dritta in su` la fiamma e queta
  per non dir piu`, e gia` da noi sen gia
  con la licenza del dolce poeta,

quand'un'altra, che dietro a lei venia,
  ne fece volger li occhi a la sua cima
  per un confuso suon che fuor n'uscia.

Come 'l bue cicilian che mugghio` prima
  col pianto di colui, e cio` fu dritto,
  che l'avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l'afflitto,
  si` che, con tutto che fosse di rame,
  pur el pareva dal dolor trafitto;

cosi`, per non aver via ne' forame
  dal principio nel foco, in suo linguaggio
  si convertian le parole grame.

Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio
  su per la punta, dandole quel guizzo
  che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: <>.

Io era in giuso ancora attento e chino,
  quando il mio duca mi tento` di costa,
  dicendo: <>.

E io, ch'avea gia` pronta la risposta,
  sanza indugio a parlare incominciai:
  <>.

Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
  al modo suo, l'aguta punta mosse
  di qua, di la`, e poi die` cotal fiato:

<>.

Quand'elli ebbe 'l suo dir cosi` compiuto,
  la fiamma dolorando si partio,
  torcendo e dibattendo 'l corno aguto.

Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio,
  su per lo scoglio infino in su l'altr'arco
  che cuopre 'l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.



Inferno: Canto XXVIII


Chi poria mai pur con parole sciolte
  dicer del sangue e de le piaghe a pieno
  ch'i' ora vidi, per narrar piu` volte?

Ogne lingua per certo verria meno
  per lo nostro sermone e per la mente
  c'hanno a tanto comprender poco seno.

S'el s'aunasse ancor tutta la gente
  che gia` in su la fortunata terra
  di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra
  che de l'anella fe' si` alte spoglie,
  come Livio scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie
  per contastare a Ruberto Guiscardo;
  e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie

a Ceperan, la` dove fu bugiardo
  ciascun Pugliese, e la` da Tagliacozzo,
  dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo
  mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
  il modo de la nona bolgia sozzo.

Gia` veggia, per mezzul perdere o lulla,
  com'io vidi un, cosi` non si pertugia,
  rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
  la corata pareva e 'l tristo sacco
  che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
  guardommi, e con le man s'aperse il petto,
  dicendo: <>.

<>,
  rispuose 'l mio maestro <>.

Piu` fuor di cento che, quando l'udiro,
  s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
  per maraviglia obliando il martiro.

<>.

Poi che l'un pie` per girsene sospese,
  Maometto mi disse esta parola;
  indi a partirsi in terra lo distese.

Un altro, che forata avea la gola
  e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
  e non avea mai ch'una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia
  con li altri, innanzi a li altri apri` la canna,
  ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia,

e disse: <>.

E io a lui: <>.

Allor puose la mano a la mascella
  d'un suo compagno e la bocca li aperse,
  gridando: <>.

Oh quanto mi pareva sbigottito
  con la lingua tagliata ne la strozza
  Curio, ch'a dir fu cosi` ardito!

E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
  levando i moncherin per l'aura fosca,
  si` che 'l sangue facea la faccia sozza,

grido`: <>.

E io li aggiunsi: <>;
  per ch'elli, accumulando duol con duolo,
  sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
  e vidi cosa, ch'io avrei paura,
  sanza piu` prova, di contarla solo;

se non che coscienza m'assicura,
  la buona compagnia che l'uom francheggia
  sotto l'asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
  un busto sanza capo andar si` come
  andavan li altri de la trista greggia;

e 'l capo tronco tenea per le chiome,
  pesol con mano a guisa di lanterna;
  e quel mirava noi e dicea: <>.

Di se' facea a se' stesso lucerna,
  ed eran due in uno e uno in due:
  com'esser puo`, quei sa che si` governa.

Quando diritto al pie` del ponte fue,
  levo` 'l braccio alto con tutta la testa,
  per appressarne le parole sue,

che fuoro: <>.



Inferno: Canto XXIX


La molta gente e le diverse piaghe
  avean le luci mie si` inebriate,
  che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse: <>.

<>, rispuos'io appresso,
  <>.

Parte sen giva, e io retro li andava,
  lo duca, gia` faccendo la risposta,
  e soggiugnendo: <>.

Allor disse 'l maestro: <>.

<>, diss'io,
  <>.

Cosi` parlammo infino al loco primo
  che de lo scoglio l'altra valle mostra,
  se piu` lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l'ultima chiostra
  di Malebolge, si` che i suoi conversi
  potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,
  che di pieta` ferrati avean li strali;
  ond'io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali,
  di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
  e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti 'nsembre,
  tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
  qual suol venir de le marcite membre.

Noi discendemmo in su l'ultima riva
  del lungo scoglio, pur da man sinistra;
  e allor fu la mia vista piu` viva

giu` ver lo fondo, la 've la ministra
  de l'alto Sire infallibil giustizia
  punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch'a veder maggior tristizia
  fosse in Egina il popol tutto infermo,
  quando fu l'aere si` pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,
  cascaron tutti, e poi le genti antiche,
  secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;
  ch'era a veder per quella oscura valle
  languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle
  l'un de l'altro giacea, e qual carpone
  si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,
  guardando e ascoltando li ammalati,
  che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a se' poggiati,
  com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
  dal capo al pie` di schianze macolati;

e non vidi gia` mai menare stregghia
  a ragazzo aspettato dal segnorso,
  ne' a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso
  de l'unghie sopra se' per la gran rabbia
  del pizzicor, che non ha piu` soccorso;

e si` traevan giu` l'unghie la scabbia,
  come coltel di scardova le scaglie
  o d'altro pesce che piu` larghe l'abbia.

<>,
  comincio` 'l duca mio a l'un di loro,
  <>.

<>, rispuose l'un piangendo;
  <>.

E 'l duca disse: <>.

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
  e tremando ciascuno a me si volse
  con altri che l'udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
  dicendo: <>;
  e io incominciai, poscia ch'ei volse:

<>.

<>,
  rispuose l'un, <>.

E io dissi al poeta: <>.

Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
  rispuose al detto mio: <>.



Inferno: Canto XXX


Nel tempo che Iunone era crucciata
  per Semele` contra 'l sangue tebano,
  come mostro` una e altra fiata,

Atamante divenne tanto insano,
  che veggendo la moglie con due figli
  andar carcata da ciascuna mano,

grido`: <>;
  e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l'un ch'avea nome Learco,
  e rotollo e percosselo ad un sasso;
  e quella s'annego` con l'altro carco.

E quando la fortuna volse in basso
  l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
  si` che 'nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,
  poscia che vide Polissena morta,
  e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,
  forsennata latro` si` come cane;
  tanto il dolor le fe' la mente torta.

Ma ne' di Tebe furie ne' troiane
  si vider mai in alcun tanto crude,
  non punger bestie, nonche' membra umane,

quant'io vidi in due ombre smorte e nude,
  che mordendo correvan di quel modo
  che 'l porco quando del porcil si schiude.

L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
  del collo l'assanno`, si` che, tirando,
  grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l'Aretin che rimase, tremando
  mi disse: <>.

<>, diss'io lui, <>.

Ed elli a me: <>.

E poi che i due rabbiosi fuor passati
  sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
  rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
  pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
  tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

La grave idropesi`, che si` dispaia
  le membra con l'omor che mal converte,
  che 'l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte
  come l'etico fa, che per la sete
  l'un verso 'l mento e l'altro in su` rinverte.

<>,
  diss'elli a noi, <>.

E io a lui: <>.

<>,
  rispuose, <>.

E l'un di lor, che si reco` a noia
  forse d'esser nomato si` oscuro,
  col pugno li percosse l'epa croia.

Quella sono` come fosse un tamburo;
  e mastro Adamo li percosse il volto
  col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: <>.

Ond'ei rispuose: <>.

E l'idropico: <>.

<>,
  disse Sinon; <>.

<>,
  rispuose quel ch'avea infiata l'epa;
  <>.

<>,
  disse 'l Greco, <>.

Allora il monetier: <>.

Ad ascoltarli er'io del tutto fisso,
  quando 'l maestro mi disse: <>.

Quand'io 'l senti' a me parlar con ira,
  volsimi verso lui con tal vergogna,
  ch'ancor per la memoria mi si gira.

Qual e` colui che suo dannaggio sogna,
  che sognando desidera sognare,
  si` che quel ch'e`, come non fosse, agogna,

tal mi fec'io, non possendo parlare,
  che disiava scusarmi, e scusava
  me tuttavia, e nol mi credea fare.

<>,
  disse 'l maestro, <>.



Inferno: Canto XXXI


Una medesma lingua pria mi morse,
  si` che mi tinse l'una e l'altra guancia,
  e poi la medicina mi riporse;

cosi` od'io che solea far la lancia
  d'Achille e del suo padre esser cagione
  prima di trista e poi di buona mancia.

Noi demmo il dosso al misero vallone
  su per la ripa che 'l cinge dintorno,
  attraversando sanza alcun sermone.

Quiv'era men che notte e men che giorno,
  si` che 'l viso m'andava innanzi poco;
  ma io senti' sonare un alto corno,

tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
  che, contra se' la sua via seguitando,
  dirizzo` li occhi miei tutti ad un loco.

Dopo la dolorosa rotta, quando
  Carlo Magno perde' la santa gesta,
  non sono` si` terribilmente Orlando.

Poco portai in la` volta la testa,
  che me parve veder molte alte torri;
  ond'io: <>.

Ed elli a me: <>.

Poi caramente mi prese per mano,
  e disse: <>.

Come quando la nebbia si dissipa,
  lo sguardo a poco a poco raffigura
  cio` che cela 'l vapor che l'aere stipa,

cosi` forando l'aura grossa e scura,
  piu` e piu` appressando ver' la sponda,
  fuggiemi errore e cresciemi paura;

pero` che come su la cerchia tonda
  Montereggion di torri si corona,
  cosi` la proda che 'l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona
  li orribili giganti, cui minaccia
  Giove del cielo ancora quando tuona.

E io scorgeva gia` d'alcun la faccia,
  le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
  e per le coste giu` ambo le braccia.

Natura certo, quando lascio` l'arte
  di si` fatti animali, assai fe' bene
  per torre tali essecutori a Marte.

E s'ella d'elefanti e di balene
  non si pente, chi guarda sottilmente,
  piu` giusta e piu` discreta la ne tene;

che' dove l'argomento de la mente
  s'aggiugne al mal volere e a la possa,
  nessun riparo vi puo` far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa
  come la pina di San Pietro a Roma,
  e a sua proporzione eran l'altre ossa;

si` che la ripa, ch'era perizoma
  dal mezzo in giu`, ne mostrava ben tanto
  di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s'averien dato mal vanto;
  pero` ch'i' ne vedea trenta gran palmi
  dal loco in giu` dov'omo affibbia 'l manto.

<>,
  comincio` a gridar la fiera bocca,
  cui non si convenia piu` dolci salmi.

E 'l duca mio ver lui: <>.

Poi disse a me: <>.

Facemmo adunque piu` lungo viaggio,
  volti a sinistra; e al trar d'un balestro,
  trovammo l'altro assai piu` fero e maggio.

A cigner lui qual che fosse 'l maestro,
  non so io dir, ma el tenea soccinto
  dinanzi l'altro e dietro il braccio destro

d'una catena che 'l tenea avvinto
  dal collo in giu`, si` che 'n su lo scoperto
  si ravvolgea infino al giro quinto.

<>,
  disse 'l mio duca, <>.

E io a lui: <>.

Ond'ei rispuose: <>.

Non fu tremoto gia` tanto rubesto,
  che scotesse una torre cosi` forte,
  come Fialte a scuotersi fu presto.

Allor temett'io piu` che mai la morte,
  e non v'era mestier piu` che la dotta,
  s'io non avessi viste le ritorte.

Noi procedemmo piu` avante allotta,
  e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
  sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

<>.

Cosi` disse 'l maestro; e quelli in fretta
  le man distese, e prese 'l duca mio,
  ond'Ercule senti` gia` grande stretta.

Virgilio, quando prender si sentio,
  disse a me: <>;
  poi fece si` ch'un fascio era elli e io.

Qual pare a riguardar la Carisenda
  sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
  sovr'essa si`, ched ella incontro penda;

tal parve Anteo a me che stava a bada
  di vederlo chinare, e fu tal ora
  ch'i' avrei voluto ir per altra strada.

Ma lievemente al fondo che divora
  Lucifero con Giuda, ci sposo`;
  ne' si` chinato, li` fece dimora,

e come albero in nave si levo`.



Inferno: Canto XXXII


S'io avessi le rime aspre e chiocce,
  come si converrebbe al tristo buco
  sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco
  piu` pienamente; ma perch'io non l'abbo,
  non sanza tema a dicer mi conduco;

che' non e` impresa da pigliare a gabbo
  discriver fondo a tutto l'universo,
  ne' da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso
  ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
  si` che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe
  che stai nel loco onde parlare e` duro,
  mei foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giu` nel pozzo scuro
  sotto i pie` del gigante assai piu` bassi,
  e io mirava ancora a l'alto muro,

dicere udi'mi: <>.

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
  e sotto i piedi un lago che per gelo
  avea di vetro e non d'acqua sembiante.

Non fece al corso suo si` grosso velo
  di verno la Danoia in Osterlicchi,
  ne' Tanai la` sotto 'l freddo cielo,

com'era quivi; che se Tambernicchi
  vi fosse su` caduto, o Pietrapana,
  non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

E come a gracidar si sta la rana
  col muso fuor de l'acqua, quando sogna
  di spigolar sovente la villana;

livide, insin la` dove appar vergogna
  eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
  mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giu` tenea volta la faccia;
  da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
  tra lor testimonianza si procaccia.

Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,
  volsimi a' piedi, e vidi due si` stretti,
  che 'l pel del capo avieno insieme misto.

<>,
  diss'io, <>.  E quei piegaro i colli;
  e poi ch'ebber li visi a me eretti,

li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
  gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
  le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse
  forte cosi`; ond'ei come due becchi
  cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

E un ch'avea perduti ambo li orecchi
  per la freddura, pur col viso in giue,
  disse: <>.

Poscia vid'io mille visi cagnazzi
  fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
  e verra` sempre, de' gelati guazzi.

E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
  al quale ogne gravezza si rauna,
  e io tremava ne l'etterno rezzo;

se voler fu o destino o fortuna,
  non so; ma, passeggiando tra le teste,
  forte percossi 'l pie` nel viso ad una.

Piangendo mi sgrido`: <>.

E io: <>.

Lo duca stette, e io dissi a colui
  che bestemmiava duramente ancora:
  <>.

<>, rispuose, <>.

<>,
  fu mia risposta, <>.

Ed elli a me: <>.

Allor lo presi per la cuticagna,
  e dissi: <>.

Ond'elli a me: <>.

Io avea gia` i capelli in mano avvolti,
  e tratto glien'avea piu` d'una ciocca,
  latrando lui con li occhi in giu` raccolti,

quando un altro grido`: <>.

<>, diss'io, <>.

<>, rispuose, <>.

Noi eravam partiti gia` da ello,
  ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
  si` che l'un capo a l'altro era cappello;

e come 'l pan per fame si manduca,
  cosi` 'l sovran li denti a l'altro pose
  la` 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

non altrimenti Tideo si rose
  le tempie a Menalippo per disdegno,
  che quei faceva il teschio e l'altre cose.

<>, diss'io, <>.



Inferno: Canto XXXIII


La bocca sollevo` dal fiero pasto
  quel peccator, forbendola a'capelli
  del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi comincio`: <>.

Quand'ebbe detto cio`, con li occhi torti
  riprese 'l teschio misero co'denti,
  che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
  del bel paese la` dove 'l si` suona,
  poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,
  e faccian siepe ad Arno in su la foce,
  si` ch'elli annieghi in te ogne persona!

Che' se 'l conte Ugolino aveva voce
  d'aver tradita te de le castella,
  non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'eta` novella,
  novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
  e li altri due che 'l canto suso appella.

Noi passammo oltre, la` 've la gelata
  ruvidamente un'altra gente fascia,
  non volta in giu`, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso li` pianger non lascia,
  e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
  si volge in entro a far crescer l'ambascia;

che' le lagrime prime fanno groppo,
  e si` come visiere di cristallo,
  riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, si` come d'un callo,
  per la freddura ciascun sentimento
  cessato avesse del mio viso stallo,

gia` mi parea sentire alquanto vento:
  per ch'io: <>.

Ond'elli a me: <>.

E un de' tristi de la fredda crosta
  grido` a noi: <>.

Per ch'io a lui: <>.

Rispuose adunque: <>.

<>, diss'io lui, <>.
  Ed elli a me: <>.

<>, diss'io lui, <>.

<>, diss'el, <>.  E io non gliel'apersi;
  e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi
  d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
  perche' non siete voi del mondo spersi?

Che' col peggiore spirto di Romagna
  trovai di voi un tal, che per sua opra
  in anima in Cocito gia` si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.



Inferno: Canto XXXIV


<>,
  disse 'l maestro mio <>.

Come quando una grossa nebbia spira,
  o quando l'emisperio nostro annotta,
  par di lungi un molin che 'l vento gira,

veder mi parve un tal dificio allotta;
  poi per lo vento mi ristrinsi retro
  al duca mio; che' non li` era altra grotta.

Gia` era, e con paura il metto in metro,
  la` dove l'ombre tutte eran coperte,
  e trasparien come festuca in vetro.

Altre sono a giacere; altre stanno erte,
  quella col capo e quella con le piante;
  altra, com'arco, il volto a' pie` rinverte.

Quando noi fummo fatti tanto avante,
  ch'al mio maestro piacque di mostrarmi
  la creatura ch'ebbe il bel sembiante,

d'innanzi mi si tolse e fe' restarmi,
  <>, dicendo, <>.

Com'io divenni allor gelato e fioco,
  nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,
  pero` ch'ogne parlar sarebbe poco.

Io non mori' e non rimasi vivo:
  pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
  qual io divenni, d'uno e d'altro privo.

Lo 'mperador del doloroso regno
  da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;
  e piu` con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia:
  vedi oggimai quant'esser dee quel tutto
  ch'a cosi` fatta parte si confaccia.

S'el fu si` bel com'elli e` ora brutto,
  e contra 'l suo fattore alzo` le ciglia,
  ben dee da lui proceder ogne lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia
  quand'io vidi tre facce a la sua testa!
  L'una dinanzi, e quella era vermiglia;

l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa
  sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
  e se' giugnieno al loco de la cresta:

e la destra parea tra bianca e gialla;
  la sinistra a vedere era tal, quali
  vegnon di la` onde 'l Nilo s'avvalla.

Sotto ciascuna uscivan due grand'ali,
  quanto si convenia a tanto uccello:
  vele di mar non vid'io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello
  era lor modo; e quelle svolazzava,
  si` che tre venti si movean da ello:

quindi Cocito tutto s'aggelava.
  Con sei occhi piangea, e per tre menti
  gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.

Da ogne bocca dirompea co' denti
  un peccatore, a guisa di maciulla,
  si` che tre ne facea cosi` dolenti.

A quel dinanzi il mordere era nulla
  verso 'l graffiar, che talvolta la schiena
  rimanea de la pelle tutta brulla.

<>,
  disse 'l maestro, <>.

Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai;
  ed el prese di tempo e loco poste,
  e quando l'ali fuoro aperte assai,

appiglio` se' a le vellute coste;
  di vello in vello giu` discese poscia
  tra 'l folto pelo e le gelate croste.

Quando noi fummo la` dove la coscia
  si volge, a punto in sul grosso de l'anche,
  lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov'elli avea le zanche,
  e aggrappossi al pel com'om che sale,
  si` che 'n inferno i' credea tornar anche.

<>,
  disse 'l maestro, ansando com'uom lasso,
  <>.

Poi usci` fuor per lo foro d'un sasso,
  e puose me in su l'orlo a sedere;
  appresso porse a me l'accorto passo.

Io levai li occhi e credetti vedere
  Lucifero com'io l'avea lasciato,
  e vidili le gambe in su` tenere;

e s'io divenni allora travagliato,
  la gente grossa il pensi, che non vede
  qual e` quel punto ch'io avea passato.

<>, disse 'l maestro, <>.

Non era camminata di palagio
  la` 'v'eravam, ma natural burella
  ch'avea mal suolo e di lume disagio.

<>, diss'io quando fui dritto,
  <>.

Ed elli a me: <>.

Luogo e` la` giu` da Belzebu` remoto
  tanto quanto la tomba si distende,
  che non per vista, ma per suono e` noto

d'un ruscelletto che quivi discende
  per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,
  col corso ch'elli avvolge, e poco pende.

Lo duca e io per quel cammino ascoso
  intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
  e sanza cura aver d'alcun riposo,

salimmo su`, el primo e io secondo,
  tanto ch'i' vidi de le cose belle
  che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.





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