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Title: Lettere di Lodovico Ariosto - Con prefazione storico-critica, documenti e note
Author: Ariosto, Lodovico
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Lettere di Lodovico Ariosto - Con prefazione storico-critica, documenti e note" ***


                                LETTERE
                                   DI
                            LODOVICO ARIOSTO

                     CON PREFAZIONE STORICO-CRITICA
                            DOCUMENTI E NOTE


                                PER CURA
                                   DI
                            ANTONIO CAPPELLI

                             TERZA EDIZIONE
            RIVEDUTA ED ACCRESCIUTA DI NOTIZIE E DI LETTERE



                             ULRICO HOEPLI
                    EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
                                 MILANO
                             NAPOLI — PISA
                                  1887



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

             119-87. — Firenze, Tip. dell'Arte della Stampa



AVVERTENZA


Nel presentare una terza ristampa delle Lettere di Lodovico Ariosto, mi
è grato di averle potuto ordinare cronologicamente (cosa che non ebbi
opportunità di fare nell'antecedente di Bologna, 1886), con introdurvi
le nove lettere che venni pubblicando negli _Atti e memorie di storia
patria_ (Modena, 1868-75), ed accrescerle inoltre di sole altre cinque
inedite che riescii a rintracciare da varie parti, più una scritta
dall'Ariosto a nome del cardinale Ippolito d'Este, indicandole ai loro
luoghi secondo il tempo che mi pervennero, ora cronologicamente ed ora
in fine del volume. Tenni però separate le lettere ch'egli scrisse
tanto a nome del cardinale suddetto, quanto a nome di Alessandra
Benucci vedova Strozzi; e in appendice non lasciai di ripetere con
alcune nuove osservazioni ciò che leggesi nell'edizione di Bologna,
aggiungendo finalmente otto privilegi accordati per la stampa
dell'_Orlando Furioso_, tratti dalle rarissime edizioni originali 1516
e 1532 e da documenti in parte inediti, formando essi un degno elogio
al celebre autore, ma che non raggiunsero il vantaggio ch'egli sperava
ricavarne.

Queste lettere riferisconsi in gran parte al suo Commissariato di
Garfagnana, giacchè quelle che scrisse a' suoi parenti ed amici
scarsamente a noi pervennero: e se le prime non possono sempre
interessare per il soggetto e la forma, giova ricordare che furono
dettate colla foga d'un imperioso dovere d'ingrato ufficio che non
permettevagli di formarne minuta o tenerne copia (v. lett. LXXIII, p.
138), ed hanno poi il pregio di mostrarci nell'Ariosto l'uomo abile
ai maneggi di Stato, fecondo di espedienti e zelante in sommo grado
della giustizia, con essersi emendato di quell'adulazione che apparisce
nel poeta di corte, per assumere un linguaggio francamente sincero e
dignitoso.

Le lettere da me ristampate più volte ho un poco riformate alla moderna
grafia, ma non ho minimamente toccate quelle che offro per la prima
volta o che riproduco da altri editori, e così feci pei documenti a
corredo della Prefazione o sparsi nelle note.

Per la Prefazione storico-critica ho cercato giovarmi di alcune
pubblicazioni uscite in questi ultimi vent'anni, e importanti mi sono
state in particolar modo le _Notizie per la vita di L. Ariosto_ del
ch. signor march. Giuseppe Campori (Modena, 1871) perchè tratte da
documenti inediti, e ciò dicasi degli _Studi e ricerche sulle poesie
latine di L. Ariosto_ del ch. Giosuè Carducci (Bologna, 1875), oltre
a vari altri lavori ch'ebbero, come il suddetto, felice impulso a
prodursi pel centenario ariostesco celebrato in Ferrara ed in Reggio
1874-75; chè la fama dell'insigne poeta tende sempre ad estendersi,
conoscendosi che il prof. Schuchardt lesse e commentò all'Università
di Lipsia nel 1872 l'_Orlando Furioso_, poema tradotto in tutte
le principali lingue d'Europa; ed è nostro dovere segnalare le due
edizioni di Parigi illustrate coi disegni del lodatissimo artista
Gustavo Doré, la prima del 1869 col poema imitato in versi francesi da
F. Ragon e la seconda del 1879 con una nuova traduzione del Du Pays:
disegni che, gareggiando colla fantasia del poeta, ci trasportano a
quel mondo di maraviglie che egli con eccellenza d'opera d'arte seppe
rappresentarci, e che noi pure abbiam potuto veder riprodotti col testo
originale e con una degna prefazione del Carducci (Milano, Treves,
1880).

Amo dunque licenziarmi dal cortese lettore col riferire i seguenti
versi che tolgo da alcune stanze di Anton Francesco Grazzini
detto il Lasca, pubblicate per la prima volta dal ch. C. Arlia nel
_Propugnatore, 1885_, vol. XVIII, parte I, p. 358-59:

      «Chi ebbe mai più alta e dolce vena
    In dir d'arme e d'amor che l'Ariosto?
    Tutti i maggior poeti e più fecondi
    Gli vanno sotto, e sono a lui secondi.
    . . . . . . . . . . . . . . .

      Fe' l'Ariosto le _Comedie_ prima,
    Come si può veder gioconde e belle,
    E le _Satire_ poi di tanta stima,
    Che in tutto il mondo se n'udì novelle;
    Dopo con chiara e gloriosa rima
    Fe' il _Furioso_ che passa le stelle:
    E se potesse Aristotil vedello,
    Lo terrebbe d'Omero assai più bello.»

                                        A. C.



PREFAZIONE STORICO-CRITICA

INTORNO A LODOVICO ARIOSTO E IL SUO TEMPO


La famiglia degli Ariosti è di antica nobiltà di Bologna, e il cognome
ebbe forse origine da una terra del bolognese detta _Riosto_. Nel 1156
un Ugo figlio di Alberto fu console di Bologna quando questa città
si reggeva a repubblica. La _bella Lippa_ discendeva dalla stessa
famiglia, e il nostro poeta non manca di ricordarla nel suo _Orlando
furioso_[1]. Veduta dal marchese Obizzo III d'Este quando pe' suoi
contrasti col papa dimorava in Bologna, se ne invaghì somma mente, e
la fece sua amica. Conciliatosi poi con Giovanni XXII che nel 1329
scelse per minor male investirlo del vicariato di Ferrara, Obizzo
persuase agevolmente la Lippa a seguirlo in quella città, ov'essa andò
in compagnia de' suoi fratelli Bonifazio[2] e Francesco. Seguìta poi
anche dal cugino paterno Nicolò, la famiglia Ariosti fu trapiantata
in Ferrara, col formarne tre rami che vi ebbero lunga discendenza. La
bella Lippa rimase sempre concubina di Obizzo, e in 20 anni lo fece
padre di 12 figli. Non avendone avuto alcuno dalla moglie Giacoma
Pepoli, morta nel 1341, e desiderando legittimare nel più valido modo
i figliuoli bastardi, aspettò egli che la madre loro fosse in estremo
pericolo della vita, e la sposò (come narrasi) la sera del 27 novembre
1347. Poche ore dopo la povera Lippa era morta; nè potè godere un sol
giorno di quegli onori principeschi, forse tanto ambiti e promessi da
prima; onori che il marchese serbava alla salma di lei con un pomposo
mortorio!

D'allora in poi gli Ariosti ebbero di frequente impieghi autorevoli
e vantaggiosi presso gli Estensi, sapendoli meritare pei loro zelanti
servigi e non per titoli di una parentela salita in tanto orgoglio e
potenza. Alcuni vennero anche fatti cavalieri; e nel 1469 trovandosi
l'imperatore Federico III in Ferrara, diede titolo di conte ai tre
fratelli Francesco, Lodovico e Nicolò Ariosti e loro discendenti[3].
Francesco fu scalco di Borso d'Este, poi ambasciatore ed anche capitano
di Modena; e venendo a morte nel 1505, il nipote e poeta Lodovico
compose a di lui memoria un epitaffio che leggesi fra le sue poesie
latine[4]. L'altro fratello Lodovico fu prima dottore e canonico, indi
arciprete della cattedrale di Ferrara. Il duca Ercole I voleva farlo
anche vescovo di Reggio, ma il papa vi si rifiutò, nominando invece
Bonfrancesco Arlotti ch'era stato spedito a Roma per raccomandare
l'Ariosto[5]. Nicolò, il più giovane dei fratelli suddetti, fu padre
del nostro poeta, e perciò di questo parleremo più a lungo.

Essendo stato molto famigliare di Borso d'Este, Nicolò Ariosto divenne
ancora maggiordomo del novello duca Ercole I, il quale essendosi
impadronito dello Stato contrastatogli a ragione da Nicolò figliuolo
di Leonello, diede incarico all'Ariosto di recarsi a Mantova ove il
nipote erasi riparato presso il marchese Federico suo zio, e veder
modo di avvelenarlo. L'Ariosto non rifuggi di addossarsi l'iniquo
mandato, e provveduto di quanto facevagli di bisogno partì sui primi
del dicembre 1471 col pretesto di presentare al Marchese di Mantova uno
zibetto (animale muschiato). Colà giunto ebbe campo di accordarsi con
Cesare Pirondoli siniscalco di Nicolò d'Este, e con larghe promesse lo
indusse ad accettare il veleno da porre nelle vivande: ma nella sera
destinata all'esecuzione, lo scalco maneggiando il tossico fu colpito
da vertigine, e temendo essersi da sè stesso avvelenato, confessò
tutta la trama. L'Ariosto intanto mettevasi in salvo a Ferrara, e il 18
detto mese Cesare Pirondoli insieme al fratello Galasso, che serviva a
tavola ed era consapevole della cosa, vennero decapitati e squartati in
Mantova[6].

Poco dopo i fatti narrati, e cioè col primo gennaio 1472, il duca
mandava Nicolò Ariosto capitano della cittadella di Reggio, e siccome
eravi altresì il capitano della città, nè facendosi sempre dai cronisti
la dovuta distinzione fra i due capitani o confondendoli insieme,
così alcuni dubitarono che l'Ariosto avesse avuto ancora l'officio
di governatore o podestà (come narra il Baruffaldi)[7], quando queste
cariche erano date ordinariamente a diversi soggetti.

E infatti quantunque l'Azzari[8] scriva che nel 1473 l'Ariosto «era
stato fatto governatore di Reggio,» mostra troppo chiaramente l'errore
involontario in cui cadde, avendoci detto che il giorno 8 agosto
dell'anno stesso fu mandato per governatore della città Antonio Sandeo,
in sostituzione di Uguccione Rangone morto poco prima nell'officio,
essendovi podestà Girolamo Guidone.

Una lettera del capitano Nicolò (Docum. II) ci conferma che le
attribuzioni ch'egli allora sostenne furono soltanto militari: avendo
poi essa la data _Civitatellae Regii, 28 jan. 1473_, possiamo ancora
arguire che il capitano abitava fin d'allora nella cittadella, sebbene
vi continuassero i lavori di riparazioni.

Nel settembre 1473 si unì in matrimonio colla Daria figlia di Gabriele
Malaguzzi Valeri d'illustre famiglia reggiana, che lo fece padre di
dieci figli; il primo de' quali fu il nostro Lodovico, il _favorito
delle Muse_ (come lo chiama l'Azzari), nato l'8 settembre 1474 nella
cittadella di Reggio: avvenimento che torna a splendido vanto ed onore
di quella città che il poeta stesso ricorda con assai compiacenza
pel suo nido natìo. «E perchè il sopraddetto Gabriele (continua
l'Azzari) fu nella poesia molto raro e stimato, perciò l'Ariosto solea
dire d'aver ricevuto l'arte del poetare dall'_utero materno_» e non
dal _vero maestro_, come legge malamente il Tacoli[9] e come viene
riportato dal Baruffaldi[10].

Un'iscrizione che non ha carattere di sufficiente antichità posta
sotto un ritratto di Lodovico dipinto in tela, e posseduto dalla
famiglia Malaguzzi, in cui leggesi _natus Regii.... in camera media
primi ordinis erga plateas_, ha fatto ritenere a qualcuno ch'egli fosse
nato nella casa materna anzichè in cittadella, la quale per essere in
risarcimento eziandio nella rôcca o palazzo del capitano, non poteva
prestargli conveniente abitazione. La data della lettera che abbiam
riferita sembra convincerci del contrario di ciò che narra soltanto
un'iscrizione, che rendesi meno autorevole coll'aggiugnere essere stato
il poeta _manu propria Caroli V imper. laureatus_; incoronazione che lo
stesso Virginio figlio naturale di Lodovico dichiara _una baia_.

Il palazzo di cittadella era un vasto fabbricato, che nel 1505 accolse
Lucrezia Borgia che fuggiva la peste di Ferrara, ed ove partorì un
figliuolo[11]: non è dunque difficile che mentre i lavori progredivano
da una parte, potesse prestare sufficiente abitazione dall'altra.
Questi lavori non erano ancora terminati nel 1496 e pur vi abitava
assai prima la famiglia del capitano, come ne dà prova il rogito col
quale la Daria Malaguzzi assolve i fratelli della dote pagatale in
mille ducati d'oro, pubblicato il 7 maggio 1479, _Regii in palatio
residentiae comitis Nicolai de Ariostis, in Civitatella_[12].

Stette Nicolò nell'ufficio di Reggio fino alla metà del 1481 in cui
fu traslocato capitano a Rovigo. Ciò avvenne in momenti assai critici,
poichè le armi Venete minacciavano impadronirsi di tutto il Polesine.
Il capitano nel 7 luglio 1482 faceva conoscere al duca di Ferrara
che in città non rimanevano che pochi fanti (circa 150), la maggior
parte ammalati, che più non potevano far le guardie alle porte, e che
«si troverebbe a mali termini quando venisse furia alcuna». Di fatto
nel 14 agosto seguente i Veneti entrarono in Rovigo, occupandola in
nome della Repubblica. Nicolò Ariosto non ritornò a Ferrara, come
dice il Baruffaldi, ma si ridusse a Masi villa del Polesine di san
Giorgio, aspettando gli ordini del duca, che forse tardarono, essendo
Ercole I gravemente infermo. In una lettera che Nicolò rivolgendosi
alla duchessa scrive da detto luogo il 30 ottobre 1482 dice essere da
necessità costretto a restare in villa per non avere che mettersi in
dosso; chè forse nella _furia_ dell'invasione temuta non ebbe tempo di
prendere le sue robe. Di là si ridusse colla famiglia a Reggio, come
rileviamo dalla lettera ch'egli vi scrisse il 22 novembre di detto anno
(Docum. III), ed eravi pure nel 1483, trovandosi più volte nominato
dal conte Paolo Antonio Trotti allora commissario generale in Reggio,
mandatovi dal duca ne' momenti più fortunosi del dominio Estense
durante la guerra colla Signoria di Venezia; ed anzi il Trotti in una
lettera del 17 maggio 1483 ricordando ad Ercole I le antiche promesse
fatte all'Ariosto, «avuto etiam rispetto a quello che V. S. ed io
sappiamo, che nelli tempi che si operavano gli amici ciò che ha fatto
per quella, non avendo rispetto, non che all'onore e alla vita, alla
propria anima» (alludendo al tentato avvelenamento di Nicolò d'Este),
lo pregava che al prossimo S. Pietro fosse provveduto d'un officio
utile ed onorevole, a motivo altresì «delli danni incalcolabili che ha
patito a Rovigo, quali in verità lo hanno frusto fino alle ossa; ed è
quì a Reggio con bocche XII e compra sino il sole»[13]. Le condizioni
d'allora non permisero forse al duca di sovvenire tostamente a Nicolò;
ma sappiamo che nel 1486 le terre da lui acquistate nel contado di
Reggio (55 biolche circa), «soggette alle gravezze e servitù rusticali,
le dichiarò immuni e privilegiate in perpetuo in grazia dell'essersi
trasferite in questo suo nobile e domestico gentiluomo»[14]; come
altresì in detto anno fu nominato giudice dei dodici savi, officio che
tenne per tre anni[15], a capo de' quali, e cioè dal febbraio 1489 al
marzo 1492, ebbe il capitanato della città di Modena.

Finalmente nel 1496 passò commissario ducale in Lugo di Romagna,
e vide quelle popolazioni stremate dalla fame, dal contagio, dalle
inondazioni. Ma non fu in sì difficili circostanze che incontrò il
biasimo di tutti; fu un atto d'ingiusto e crudele rigore a cui lasciò
trasportarsi dal suo carattere severo e irascibile.

— Col favor della notte un uomo era solito entrare in una delle più
civili abitazioni di Lugo, accolto dalla donna che amava. Il capo
della famiglia ignorava la cosa; ma venutone col tempo in sospetto,
riescì una volta a sorprendere colui, che dandosi a sùbita fuga
lasciò disgraziatamente il mantello. Colla prova sotto gli occhi del
fallo, il dabben uomo, forse padre o marito, diè luogo ad un giusto
risentimento con parole clamorose, che udite di leggieri in quell'ora
tacita da qualche indiscreto vicino o da chi per caso passava allora
per via, furono riportate al commissario. Il mattino dopo venne questi
chiamato dinanzi all'Ariosto. L'uomo prudente aveva già preso il
partito che più stimava convenire all'onor di sè stesso e de' suoi,
e, interrogato, negò francamente l'accaduto. Il commissario chiese
allora gli fosse consegnato quel mantello che avea rinvenuto, sperando
con quello di poter riconoscere il colpevole; ma essendo stato ciò
pure negato, l'Ariosto giunse al brutale eccesso di far uso della
tortura, e così strappare fra i tormenti una confessione che avviliva
e gettava nella maggior vergogna l'uomo innocente, degno soltanto di
elogio. — Il Baruffaldi[16] dice che il commissario, persuaso di aver
bene operato, ne scrisse al duca; ma che questi lo privò immantinente
dell'impiego (24 novembre 1496), lo condannò a una multa di 500 ducati
d'oro, nè più lo ammise ad altre cariche. Fra le molte lettere che di
Nicolò Ariosto si conservano in Archivio, non abbiamo quella accennata
dal Baruffaldi, nè crediamo probabile ch'ei potesse quasi vantarsi
dell'eccesso commesso. Troviamo invece che il duca lo aveva altre
volte ripreso di usar modi e parole troppo aspre co' suoi dipendenti:
ed egli con lettera del 7 marzo 1482, ringraziando dell'amorevole
correzione «non da principe a servo, ma che sarìa da equiparare a
Cristo quando correggeva gli Apostoli suoi», soggiungeva: «Io non ho
sì poco intelletto, nè son di natura tanto iracondo, Ill.o Signor mio,
ch'io non mi sappia molto ben temperare dove bisogna.... e mi porto con
quella reverenza e carità che si conviene, e che so essere la mente
di V.a Ill.a Signoria.» — Così l'antico adagio, che noi raramente
conosciamo i nostri difetti, trova sempre conferma.

Nicolò nel 1486 ritornato con la famiglia a Ferrara, pose il figlio
Lodovico, in età di undici anni, a scuola di latino, con obbligarlo
più tardi a darsi contro sua volontà allo studio delle leggi, volgendo
testi e chiose, ch'egli chiama _ciance_, pel corso di cinque anni. A
capo de' quali, e cioè nel 1494, accorgendosi il padre che Lodovico
erasi distolto dai gravi studi raccomandatigli per attendere unicamente
a quelli per lui sì graditi della poesia ove il genio fin dall'alba
della vita traevalo a forza e ne' quali avea cominciato a dar saggi
lodevoli; dopo molto contrasto, persuaso ancora da parenti ed amici, lo
pose in libertà.

Lodovico allora si ritenne felice, e attese con maggior fervore
agli studi poetici, in compagnia di Alberto Pio principe di Carpi,
di Pandolfo Ariosto suo diletto cugino e di Ercole Strozzi, giovani
anch'essi di raro ingegno, che servivangli a nobile emulazione. Sotto
il celebre Gregorio da Spoleti diedesi tutto agli studi classici,
e riuscì a spiegare i passi più oscuri degli antichi poeti latini,
principalmente di Orazio, di che riscosse molti elogi in Roma al tempo
di Leone X. Già sullo scorcio del secolo aveva composti vari carmi
latini ed era tutto occupato ad accrescerli, quando nel 1500 avvenne la
morte di Nicolò, che Lodovico pianse con un'ode affettuosissima[17].
Dovette allora «coi piccoli fratelli ai quali era successo in luogo
di padre» rivolgere il pensiero e le cure alla numerosa famiglia,
«cambiare Omero in vacchette». Anche il suo carissimo maestro Gregorio
da Spoleti fu costretto abbandonarlo per passare a Milano, indi in
Francia precettore di Francesco Sforza, ed essendo morto altresì
Pandolfo «il _suo_ parente, amico, fratello, anzi l'anima _sua_,»
parve per un momento temere non potesse offuscarsi quel punto luminoso
cui egli mirava per salire in gran fama: ma continuando a vederlo
risplendere, fattosi animo, superò questo ed ogn'altro impedimento
(Satira VII).

Quantunque le sostanze ereditate dal padre fossero di qualche entità,
pure dovendosi ripartire sopra dieci figliuoli, non potevano lasciare
abbastanza tranquillo il primogenito Lodovico che aveva assunto la
cura degli interessi della famiglia; e narrando egli stesso che di
que' giorni la mente sua era carca d'affanni (Satira VII, v. 214), si
rivolse al duca, e potè ottenere nel 1502 di essere nominato capitano
della Rocca di Canossa[18].

Le terre possedute nel reggiano e l'ufficio conferitogli in quella
provincia mossero l'Ariosto a portarsi al _nido natio_, ospitato
dai propri cugini Malaguzzi: e que' luoghi ameni, e specialmente il
Mauriziano ch'ei vagheggia e dipinge coi colori più belli, gli _furono
dolci inviti a empir le carte_ de' suoi versi (Satira V); e perciò i
carmi latini della sua giovinezza salirono a 65 che si hanno a stampa
divisi in tre libri, illustrati di recente dal ch. Carducci[19]. E il
poeta dirigendoli agli Estensi, ai congiunti, agli amici, non lascia
di narrarci ancora i suoi amori, celebrando in particolar modo una
reggiana sotto nome di Lidia, la quale lo costringe a star lungamente
lontano dalla madre carissima, gli fa grato il soggiorno di Reggio
colla sua presenza, glielo rende triste partendo.

Dopo quasi due anni trascorsi per la maggior parte nel reggiano,
Lodovico tornò a Ferrara nel 1503, ove sembrò dimenticarsi di Lidia,
ed ove da una certa Maria che da tempo serviva in sua casa ebbe un
figlio naturale chiamato Giovanni Battista, il quale essendo stato
secretamente mantenuto dal padre presso i parenti materni, partì
giovane da Ferrara per darsi al mestiere delle armi; e tornato poi in
patria, ove ebbe nel 1546 una missione dal duca alla corte imperiale,
vi morì capitano nel 1569. Avendolo Lodovico dichiarato nel testamento
del 1532 suo figlio naturale e contemplato nell'eredità, venne ancora
legittimato nel 1538 ad istanza di Galasso e Alessandro fratelli del
poeta.

Sullo scorcio del 1503 Lodovico rinunziò al capitanato di Canossa e
passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, ch'egli scelse con
poca fortuna a suo mecenate, ma che tanto influì su lo scopo delle sue
poesie.

Ippolito d'Este, figlio d'Ercole I e di Eleonora d'Aragona, nacque
il 20 marzo 1479, e per essere il terzo genito fu destinato alla
Chiesa: volendosi di regola ne' principi che il primo succeda al
padre nel governo dello stato, il secondo cerchi salire in dignità
cingendo la spada, il terzo faccia altrettanto vestendo la stola: ma
bene spesso _la traccia è fuor di strada, e fa mala prova_[20], non
essendosi prima indagata l'indole e tendenza d'ognuno. — Di sei anni
Ippolito vestì l'abito clericale, ricevendo la prima tonsura nel duomo
di Ferrara. Passava appena i sette anni, ed ecco che il re Mattia
Corvino marito di una zia materna d'Ippolito lo nominava arcivescovo
di Strigonia. Il papa non voleva approvare la nomina per l'età ancora
infantile, ma dopo pochi mesi vi si adattò. Il piccolo arcivescovo
partiva alla volta d'Ungheria, facendosi portare in una lettica con
grande accompagnamento affine di prender possesso della sua sede, e
serviva purtroppo ovunque passava a ridicolo spettacolo di profanata
autorità. Padrone troppo presto di sè stesso, insignito di una dignità
di cui solo misurava l'importanza dagli atti continui di un simulato
profondo rispetto, vivendo in una corte straniera, presso parenti che
cecamente lo amavano, nè mai contraddetto in qualunque capriccio,
sortì un carattere altiero, inflessibile, vendicativo, crudele.
Cambiato poi l'arcivescovato di Strigonia nel vescovato d'Agria, che
non l'obbligava a residenza, ebbe nel 1497 l'arcivescovato di Milano,
cui s'aggiunse nel 1499 quello di Narbona e nel 1502 quello di Capua.
Fu anche Vescovo di Ferrara nel 1503, di Modena nel 1507. Alessandro
VI lo nominò cardinale diacono di santa Lucia in Silice il 21 agosto
1493 di soli quattordici anni, e fu anche arciprete della Basilica
Vaticana, come pure prevosto della ricchissima Abbazia della Pomposa di
Ferrara: deplorabile abuso d'allora, e neppur tolto a' giorni nostri,
di cumulare tante dignità e tante rendite ecclesiastiche sopra un solo
uomo, che inoltre mostrava di seguire intieramente il genio dell'età
corrottissima, senza curarsi delle cose sacre. Erano in fatti sue cure
gradite le cacce[21], le mostre militari, i convegni gioviali, l'amor
delle donne, i ricchi e pontificali conviti ne' quali durava la maggior
parte della notte. Nel 1504 fece bastonare un messo del papa che gli
portò un monitorio che non gli garbava: prepotenza arditissima sotto
Giulio II. — Lo spirito delle cose mondane era allora molto esteso in
corte di Roma. Nelle lettere di cardinali amici d'Ippolito s'incontrano
spesso descrizioni di cacce fatte in Romagna, inviti a partecipare ad
altre che si preparavano, e domande di falconi e di levrieri, di cui si
lamenta la scarsità in Roma. Una lettera del cardinale Marco Cornaro ha
tutto il garbo di que' gentili e profumati viglietti soliti scambiarsi
fra due persone galanti: «Ho avuto piacer grande a intendere quanto
mi scrive V. S. Rev. di quelle due nobilissime madonne, l'una madonna
Clara Pusterla, l'altra madonna contessa Borromea sua sorella; e tanto
più quanto che essa V. S. Rev. mi scrive detta contessa esser fatta
molto bella, e l'una e l'altra, insieme con li suoi magnifici consorti,
essere state a piacere con quella. Se dette madonne non fossero
partite, pregherìa V. S. Rev. si degnasse raccomandarmele; a una delle
quali essendo servitore V. S. Rev., io desidererìa essere servitore
all'altra, per fare compagnia ad essa V. S.». — La passione delle armi,
unita ad un certo valore, portò il cardinale Ippolito ad una non comune
intelligenza delle cose di guerra; nel che rese importanti vantaggi al
duca Alfonso I di lui fratello nella guerra coi Veneziani e con papa
Giulio II. Ci narra il da Porto[22] che il cardinale Ippolito era «il
più disposto corpo con il più fiero animo che mai alcuno della sua
casa avesse, e sopra questa guerra (coi Veneti) d'ogni cosa ministro.
Piacciono a costui gli uomini valorosi, e quantunque sia prete, ne
ha sempre molti d'attorno». Trovandosi nel 1509 colle genti di suo
fratello sotto Padova, facevasi condurre «alla guisa di Dario sopra
una carretta per lo campo, benchè armato ed in abito di soldato»; e
queste foggie, sì poco convenienti a un personaggio del suo carattere,
ripetevansi sovente, ed erano da tutti con dispregio osservate. — Delle
donne ebbe amicizia troppo intima con parecchie. Secondo il Gordon[23]
fu rivale col duca Valentino negli amori con Sancia vedova di Goffredo
Borgia. Amò una certa Veronica che da Brescia gli scriveva il 23 giugno
1508, raccomandandosi a lui «tante volte quanti sono i pensieri che
nascono il giorno a quanti sono gli amanti riamati»; e prorompendo in
dire: «oh quanti sono!» finisce umilmente baciandogli «le belle manine,
lo prega di nuovo voglia ricordarsi di sua bassezza, e si dichiara
quella fedel serva che tanto ama e adora Sua Signoria». — Dalla Dalila
Putti di Ferrara ebbe un figlio naturale per nome Ippolito: da un'altra
donna ebbe Isabella, maritata nel 1529 con Giberto Pio di Sassuolo.
Ma l'amore, anzi una cieca brutale passione spinse il cardinale ad un
iniquo delitto, e macchiò d'infamia eterna il suo nome. — Erasi egli
perdutamente invaghito di una damigella della corte di Ferrara, la
quale, com'è solito delle donne lusinghiere, non contenta di accogliere
le istanze del cardinale, mostrò gradire moltissimo anche quelle di
don Giulio fratello bastardo di lui. Il cardinale se ne accorse, e
sollecitando la donna a dichiarargli la cagione di sì nuovo capriccio,
confessò ella di non aver potuto resistere agli occhi bellissimi di don
Giulio, che giudicava bastevoli a vincere il cuore di tutte le donne.
La vanità puerile del cardinale restò umiliata e nel vivo trafitta;
onde lasciandosi trasportare dall'impeto della gelosia e dell'invidia
macchinò un'atroce vendetta. Il 3 novembre 1505 don Giulio era andato
di buon mattino alla caccia; e il cardinale, forse travestito,
in mezzo a quattro de' suoi staffieri, si portò alla campagna di
Belriguardo, attendendo coll'insidia dell'assassino che il fratello
fosse di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente
a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto
videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò
de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile
ma pure certissima, _stando egli proprio a vedere_[24], fecegli con
acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il
cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del
duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi
per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo,
deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che
nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele
rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei»[25], fu
detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove
trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse,
cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo
sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio
sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso
al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto
perduto.

Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il
cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva
aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi
famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario
apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e
che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso
per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate
con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi
che vi era pure _qualche differenza_ tra esso cardinale e il fratello
medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che
però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene
fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere
i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti
trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla _solita desterità_ del
reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa.
Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un
segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano
del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove
diceva _cercarono estinguergli la luce degli occhi_ mutò in _batterono
negli occhi_, vi soppresse le parole _delitto e cosa facinorosa_, ed a
_scelleranza_ sostituì _scandalo_ (Doc. IV).

Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato
Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore
di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il
governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in
contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo
della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi
scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data
2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non
avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure
figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere
preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa
giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma
ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe
sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado
della Repubblica (Doc. V).

La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le
esigenze, tornò ad avere il cardinale in somma grazia e favore.
L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita
e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi
a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il
cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi
dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e
vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con
il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con
Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde
avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto
imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso
don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia
dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco
Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e
genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed
intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno
a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo,
e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando
perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non
ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle
insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito,
l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e
percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse
con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio
dalla testa[26]! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don
Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati
il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506:
messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste
confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti
sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una
gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del
pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su
la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie[27]; poichè,
essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il _veto_ di ucciderlo.
Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi
che l'avesse fatto di sua posta»[28]. Del cadavere fu fatto abominevole
strazio, attaccandolo per i piedi ad una carretta, trascinandolo per
la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra
del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè
stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un
palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà
del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle
sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le
loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di
tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello
amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua
prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da
lui, con finestre di tre doppie di ferro»[29].

Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata
gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi[30] la dice una damigella per
nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca
del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era
ancora sua parente. Il Litta[31] afferma invece che questa damigella
era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non
osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara
coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che
narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte
passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I,
la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto.
Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo
figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal
cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che
chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come
il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna
che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia
Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le
damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua
parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a
Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza[32], non esitiamo di
riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra
narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato
eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di
alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo
di castità[33]! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed
il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa
dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo
un'_Egloga_[34] nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i
motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e
designandolo di _mente invida, ingordo di adulterii_ (che pur sono due
de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio
di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia,
per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli
fratello. Fa di Lucrezia Borgia la _donna casta_, dicendo che quanti
la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este,
lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno altissimo, _l'opere
sante e l'inclita onestà_ di lei; cose tutte che sono in onta del
vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo
periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi
ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto
sempre a più alto prezzo.

Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al
cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice
anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche
allora sanato[35]. Così nel _Furioso_ loda la pietà del duca Alfonso
per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e
qui nettamente ricorda che _i miseri pur sono suo sangue, della sua più
cara famiglia_[36].

Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'_Orlando innamorato_ del
conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta
del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto
rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile
d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più
splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi
e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi
nella lingua italiana per proprio esercizio. E perchè l'_Orlando
innamorato_ rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli
a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il
luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo.
Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo _Orlando furioso_,
ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto
della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello,
gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza
fastidio, ma con piacere grandissimo»[37].

Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver
promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo,
a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc.,
componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e
da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una
sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario[38]; il che
venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di
carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato
sempre inclinato all'arte comica ed aveva già scritto la _Cassaria_
e più tardi i _Suppositi_, due commedie in prosa (che poi ridusse in
versi), vennero esse recitate, la prima nel 1508 e l'altra nel 1509,
intramezzate di danze moresche, canti e suoni, con ottenere entrambe
le commedie il più gradito successo, avendo altresì il medesimo autore
declamato il prologo dei _Suppositi_; sicchè il duca diedegli incarico
di soprintendere agli spettacoli teatrali di corte.

Al cominciare del 1509 venne stabilita la lega di Cambrai tra Giulio
II che ne fu il promotore, l'imperatore d'Austria, il re di Francia
Luigi XII e il re Ferdinando d'Aragona contro la Repubblica veneta. Fu
chiamato a farne parte anche il duca di Ferrara Alfonso I, che nel 19
aprile di detto anno nominavasi dal papa confaloniere della Chiesa.
Il duca per mostrarsi ossequiente al re di Francia andò a trovarlo a
Milano, ove allora era giunto col proprio esercito, e gli disse della
carica conferitagli, e che l'avrebbe accettata o rifiutata come meglio
fosse piaciuto al medesimo. Il re rispose di contentarsene: ma una
tale deferenza essendo stata riportata al papa, «n'ebbe tanto sdegno,
che l'amor che prima portava al duca Alfonso cominciò a convertirlo
in odio»[39]. L'Ariosto fu allora spedito per la prima volta a Roma
affinchè di concerto cogli amici prelati trovasse modo di pacificare
il papa; rilevandosi altrettanto da due _Rapporti di mess. Lud.
Ariosto da Roma_ molto corrosi dal tempo e mancanti di data, ma che
certamente si riferiscono a questa cagione. Leggesi in essi che il
duca doveva necessariamente portarsi a Roma e dichiarare in persona
al pontefice ch'egli «non era per corteggiare alcuno il quale volesse
alzar la cresta contro Nostro Signore.... che le cose passeriano
pessimamente quando non vi andasse e presto.... facendo intendere in
secreto al Cristianissimo il bisogno di andare a Roma per le cose sue
con i Veneziani, per esser liberato in perpetuo di quella obbligazione
(_del sale_); perchè la protezione di S. M. non può liberare se non
_de facto_, ma il papa può obbligare e liberare di ragione.... che la
natura del papa è che quando comincia a voler male ad uno, sèguita in
infinito.... che cadauna volta che andrà al re di Francia, dovrà anche
andare a S. Santità per espurgare ogni sospicione che avesse conceputa
di tale sua andata ecc.». Non abbiamo notizia che il duca si portasse
per allora a Roma; e forse le ostilità incominciate di sùbito colla
sconfitta dell'esercito veneziano a Ghiaradadda per opera dei Francesi
il 14 maggio 1509 fecero rivolgere il pensiero degli alleati a cose di
maggior importanza.

Nell'agosto dell'anno stesso il cardinale Ippolito era andato al campo
sotto Padova, e l'Ariosto scrivevagli da Ferrara le notizie che allora
correvano per la città, facendogli ancora conoscere i lamenti che non a
torto facevansi dal popolo per le colte di denaro che il duca ordinava,
mostrando però sempre buona dose di adulazione quando soggiunge: «se V.
S. fosse in questa terra, non seriano queste cose» (_pag. 8_).

Da un'Orsolina di villa san Vitale ebbe l'Ariosto in questo tempo
l'altro figlio naturale per nome Virginio che fu legittimato nel 1520 e
in più valido modo nel 1530. Fu molto amato dal padre che lungamente lo
tenne presso di sè, l'istruì con sollecitudine nel latino, poi lo mandò
allo studio di Padova ad apprendere il greco, raccomandandolo al Bembo
colla lettera del 23 febbraio 1521 (_pag. 282_) e colla Satira VII.

Il 16 dicembre l'Ariosto fu inviato di bel nuovo a Roma _con molta
fretta, mutando ognora vetture_ e con pericolo di affogarsi per le
acque cresciute fin su le ripe de' fiumi, affinchè chiedesse soccorso
al papa contro la flotta che i Veneziani avevano spinta sul Po a
danno del duca: «Poi nè cavalli bisognàr nè fanti»[40], giungendogli
la notizia della vittoria che ne ebbero sei giorni dopo le armi del
duca dirette dal cardinale, come dalla lettera che pubblichiamo in
data 25 dicembre 1509 (_pag. 9-11_). La qual lettera ha la speciale
importanza (di cui non s'accorse il Tiraboschi, che pur la vide e la
cita) di farci conoscere che il _Furioso_ poteva dirsi allora condotto
al suo termine, quantunque non completato, poichè in essa si dice
che il poeta _averà istoria da dipingere a nuova laude_ del cardinale
_nel padiglione_ ove succedono le nozze di Ruggero e Bradamante, che
formano il soggetto finale del poema; padiglione che porta figurate
e dipinte la nascita e le imprese d'Ippolito d'Este. Ora se questo
semplice cenno fu tenuto sufficiente per farsi comprendere dal
cardinale, è da inferire che questi avesse già piena conoscenza del
poema; come altresì è da inferire che provasse compiacenza delle lodi
a lui profuse, se l'Ariosto si diede premura di annunciargli la nuova
occasione di accrescerle, come infatti troviamo aver fatto colla stanza
97 introdotta nell'ultimo canto in cui dipinge la vittoria sulla flotta
veneta, «la quale tanto più fu onorata e memoranda quanto manco si è
inteso che alcuno imperatore o capitano, stando in terra, abbia mai
presa armata in acqua»[41]. — Ma noi vedremo più avanti qual fosse la
ricompensa serbata alle gentili sollecitudini del poeta.

Avvenuta nel febbraio 1510 la morte del cardinale Cesarini abate
commendatario di Nonantola (il quale pochi mesi prima erasi portato
a quell'abbazia per accomodare alcune differenze d'investiture
scadute e che fu colà dall'Ariosto visitato, _pag. 5_), il cardinale
Ippolito, insaziabile di benefizi ecclesiastici, corse a Nonantola
e nel 5 marzo sforzò que' monaci, che in numero solamente di sei ne
formavano l'intiero capitolo, ad eleggerlo commendatario. Del quale
arbitrio arditissimo sdegnossi altamente Giulio II, dicendo che il
cardinale d'Este «voleva suscitare una prammatica al modo di Francia»,
e minacciò di fargli contro un _grande processo_. Ad allontanar la
procella e trovar modo che restasse al cardinale l'agognata abbazìa,
fu spedito per la terza volta l'Ariosto a Roma, raccomandato colla
lettera che produciamo a pag. 305, da doversi intendere diretta al
vescovo d'Adria Beltrando Costabili, il quale nel 25 maggio scriveva
al cardinale Ippolito: «Ieri giunse mess. Ludovico Ariosto, e dipoi
desinare lo introdussi a Nostro Signore, al quale espose quanto egli
avea commissione molto accomodatamente, e parse che Sua Santità
accettasse la giustificazione di V. Rev. Sig., ma circa a darli
l'abbazìa non si risolse altramente, come più appieno quella intenderà
per lettere di esso mess. Lodovico». Consisteva la giustificazione nel
dar tutta la colpa ai poveri monaci, mostrando che avessero eletto il
cardinale di loro libera volontà, e tentando ricuperare il diritto che
un tempo avevano di farlo, e che poi si volle serbato al pontefice.
Il Tiraboschi nella sua _Storia della Badìa di Nonantola_ tace che il
cardinale esercitasse in ciò alcuna pressione, e aggiunge solo che i
monaci sperarono forse che il cardinale sostenuto dal duca suo fratello
potesse render valida ed efficace l'elezione. Ma il papa ebbe nuove
informazioni che confermarono in colpa il cardinale, come si dimostra
dalla lettera del Costabili 10 giugno 1510 (Docum. VI), e nominò abate
Gio. Matteo Sertorio modenese suo cameriere segreto.

I felici successi de' Francesi in Italia fecero temere al papa che
potessero valere ad estendere di troppo il loro dominio fra noi, e
perciò ritiratosi dalla lega di Cambrai, dopo aver ricuperato alcune
terre della Chiesa, si unì alla Repubblica di Venezia dichiarando che
voleva liberare l'Italia dal giogo straniero, chiamando però altri
stranieri in aiuto. L'8 giugno 1510 fece intimare al duca di Ferrara,
come suo feudatario, di non molestare i Veneziani, di separarsi dai
Francesi e di non fabbricare più sale in Comacchio a pregiudizio delle
saline di Cervia ritornate al papa. E perchè il duca stimò di maggior
interesse rimanere nell'alleanza di Francia, il papa lo fulminò il 9
agosto di una scomunica estendibile a qualunque gli porgesse aiuto e
che lo dichiarava decaduto; «con tutta l'altra serie (dice il Muratori)
di maledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti, che
inventate contro i più perversi eretici passarono poi in uso per
sostenere i fini politici contro de' cattolici»[42]. Al cardinale
Ippolito fu pure intimato di portarsi immediatamente a Roma, sotto pena
della perdita de' suoi beni ecclesiastici.

Fu giuoco forza che il cardinale abbandonasse il fratello e
s'incamminasse a Roma, o almeno alla volta di quella, in segno di
obbedienza. Giunto a Modena, munì l'Ariosto di sua credenziale al papa,
nella quale, esponendo risentirsi di un vecchio malore in una gamba,
chiedea dilazione che gli permettesse di fare il viaggio a piccole
riprese: e raccomandando specialmente all'Ariosto di procurargli un
salvocondotto per tranquillizzarsi del timore di vedersi posto in
prigione a motivo dell'odio di cui insieme col duca si vedea fatto
segno, lo mosse a portarsi in gran fretta e per la quarta volta nella
metropoli del mondo. — Fu detto che messer Lodovico non rinvenne il
papa a Roma, ma in una sua villa di delizie presso il mare; che forse
non ottenne udienza o l'ebbe brevissima e tutta spirante sdegno e
minaccia, e che Giulio II volle far gittare in mare l'Ariosto, il
quale a stento potè salvarsi fuggendo e temendo sempre di essere
inseguito[43]. Una lettera di Benedetto Fantini segretario del
cardinale narra invece che il poeta trovò il pontefice in Castello
a Roma, che ottenne tosto udienza, e, quel che più muove interesse,
riporta il dialogo passato fra i due illustri personaggi (Doc. VII).
Messer Lodovico parlò arditamente in favore del suo principale più che
non parrebbe convenirsi di fronte all'altiera e collerica natura di
Giulio II; e sebbene quest'ultimo rifiutasse di prorogare per iscritto
il termine assegnato nel monitorio e di rilasciare il salvocondotto
richiesto, diede però a voce assicurazioni tali in proposito da poter
credere che l'Ariosto giunse «A calmar la grand'ira di Secondo»,
per servirmi delle sue stesse parole (_Sat_. II). Ma la lettera del
Fantini, la quale manca della seconda metà del foglio, non esclude
che seguitasse a narrare essersi l'udienza risoluta da parte del papa
in uno scoppio d'ira per ulteriori insistenze dell'Ariosto: come
infatti rileviamo da una lettera del cardinale Ippolito in data di
Massa, ultimo d'agosto 1510, diretta ad altro cardinale non indicato
nella minuta che si conserva in quest'Archivio di Stato, ove leggesi
che il gentiluomo (l'Ariosto) mandato come terzo messaggio al papa
per una proroga a presentarsi in Roma, «non solamente potette avere
grazia o conclusione alcuna da Sua Santità, ma fu minacciato d'essere
buttato in fiume se non se le toleva denante, et di fare il simile
a ciaschedun altro delli miei che se li appresentasse, soggiungendo,
se non andassi a Roma, me privaria de li beneficj et del cappello»;
e concludeva col raccomandare la sua causa a quel cardinale[44]. —
Da Modena per altro, avanti di partire per Massa (chè voleva sempre
mostrarsi in viaggio) scrisse al vescovo Costabili ch'era allora in
Firenze di trovargli casa in quella città ove intendeva fermarsi per
quindici giorni, e il vescovo rispondendo di averlo fatto, aggiungeva:
«però con questi uomini, quali guardano al suo avvantaggio, non si è
potuto venire a conclusione se non con il condurla per due mesi. Ma
se la S. V. Ill. anderà di lungo a Roma, non gli sarà altro incomodo
che la spesa, la quale non credo gli gravi; e avendo mandato quella
mess. Lodovico Ariosto innanti, non si potrà giudicare altro che la sia
per andare: quando ancora la non andasse, non sarà che avere la casa
a suo piacere e comodo». Il cardinale si portò infatti a Firenze; ed
essendo sui primi di settembre caduto di cavallo, soffrendone qualche
lesione, n'ebbe scusa sufficiente a non proseguire il viaggio per Roma.
Il Muratori dice che la caduta fu una finzione[45]; e tale a noi pure
sembrerebbe, se, a lode del vero, non avessimo trovata una lettera
del duca, 9 settem. 1510 (Doc. VIII), che ricorda questa lieve caduta.
Ottenne quindi di rimanere a Firenze ove di continuo scriveva al duca
delle lettere _in cifra_. Avendo poi avuto il buon senno di non aderire
agli inviti di alcuni cardinali scismatici che allora trovavansi in
Toscana, prese motivo di allontanarsene, e si trasferì a Parma. Ne diè
avviso al cardinale di Pavia legato pontificio in Bologna che lodò la
prudente risoluzione del cardinale Ippolito, giudicandola meritevole
di tornarlo in grazia del papa; ed egli trovandosi più vicino agli
Stati di suo fratello, andò più volte a visitarlo celato sotto
un'armatura[46] per concertare una forte difesa.

Il papa aveva intanto cominciata la guerra contro il duca, togliendogli
le sue terre di Romagna, occupandogli Modena ed altre città, mentre
i Veneti minacciavano di ripigliare il Polesine. Molti cittadini di
Ferrara erano corsi nella stretta del grave bisogno ad accrescere le
fila dei soldati del duca Alfonso: lo stesso poeta, sempre bramoso di
quanto promettevagli onore, volle imitar l'esempio di tre altri della
famiglia Ariosto[47], e militò nella compagnia comandata dal principe
Enea Pio di Carpi, come vedesi dalle due lettere scritte da Reggio
nell'ottobre del 1510 al cardinale in Parma (_pag. 12 e 14_), che
anche in questa guerra poteva dirsi di ogni cosa ministro. Ed essendo
riescito al duca nel 24 settembre un vantaggioso fatto d'arme alla
Polesella, con ricacciare i Veneziani che pur tornavano a molestarlo
(Docum. IX), fu in tale occasione che probabilmente si distinse il
nostro Lodovico, impadronendosi, come si narra, di una ricca nave
nemica sul Po[48].

L'esercito della Chiesa guidato dal duca d'Urbino Francesco Maria della
Rovere, nipote del papa, minacciava di un prossimo assedio Ferrara.
Cresceva il pericolo aspettandosi da un momento all'altro la resa della
Mirandola che Giulio II braveggiando e imprecando stava in persona ad
espugnare: perciò invitati i Ferraresi d'ogni ceto e condizione, uomini
e donne, preti e frati (non occupati causa l'interdetto ai luoghi
sacri) di afforzare con terrapieni le mura della città, postisi tutti
al lavoro, questi ripari furono con nobile gara nel dicembre del 1510
condotti a termine[49].

Fecesi una notte dagli uomini d'arme del papa il tentativo di avere una
porta della città; ma il duca fu prima avvertito della cosa, e vennero
respinti. Anche Gio. Giacomo Trivulzio erasi portato coll'esercito
francese in Mantova pronto ad accorrere in aiuto di Alfonso I, che
a tale oggetto aveva pagato al re di Francia trentamila scudi d'oro.
Perciò il papa abbandonò per allora l'impresa di Ferrara, e avuta in
gennaio del 1511 la Mirandola, si ritirò col suo esercito a Bologna,
indi a Ravenna, causa le mosse vittoriose del Trivulzio.

Verso la fine del 1511 troviamo l'Ariosto in Ferrara che con lettera
accompagna a Giovanni de' Medici legato di Bologna, che poi fu papa, un
suo vecchio congiunto arciprete di sant'Agata che voleva rinunciargli
la sopravvivenza al proprio beneficio (_pag. 20_), quantunque Lodovico
con azione veramente generosa e amorevole, a quanto ci narra nella
Satira I (e tutte sette le Satire fanno conoscere la bontà dell'animo
suo), avesse desiderato preferirsi il fratello Galasso o l'altro per
nome Alessandro, che «dalla chierca non abborre»; mentr'egli schivo di
lasciarsi legare da _stole_ od _anella_, doveva chiedere al Medici una
bolla che lo dispensasse colle più ampie clausole dagli ordini sacri.
— Ma Lodovico non andò poi affatto esente da questi legami, potendosi
dire piuttosto che li ebbe entrambi ad un tempo.

Si avvicendavano intanto i successi della guerra, ora in vantaggio
ora in danno del duca Alfonso, che presso gli Strozzi di Firenze per
accattar denaro avea dovuto impegnare le gioie ed ogni oggetto prezioso
di casa, riducendosi a mangiare in piatti di maiolica fabbricati da
lui, allorchè l'11 aprile 1512 avvenne la sanguinosa battaglia di
Ravenna in cui Alfonso I governava l'antiguardia. Fu grande l'impeto
de' valorosi Francesi comandati dal prode Gastone di Foix, grande la
fermezza nel ributtarli de' gagliardi Spagnuoli capitanati dal vicerè
di Napoli Raimondo di Cardona, incerta per ambe le parti la vittoria,
che infine si decise a favor dei Francesi. Il duca Alfonso influì non
poco a tal esito, avendo saputo cogliere una favorevole posizione dalla
quale fulminava di fianco a colpi sicuri i nemici costretti a passar
vicino alle bocche delle sue micidiali artiglierie per accorrere al
soccorso delle squadre perdenti. Azzuffatisi i due eserciti corpo a
corpo, le milizie del duca chiesero se dovevano cessare da un fuoco che
poteva ad un tempo far strage di Spagnuoli e Francesi, ed egli rispose:
_Tirate senza timor di fallare, chè sono tutti nemici nostri_; e perciò
i morti si fanno ascendere in quella tremenda giornata a diciottomila,
metà circa per parte, tra gente di Spagna, di Francia, d'Italia e della
Svizzera, a causa specialmente della numerosa artiglieria del duca di
Ferrara, il quale fu detto usasse di due cavalli da guerra avvezzati
a scagliarsi di salto sopra i nemici e ucciderli a calci! L'animoso
petto di Gastone di Foix, non potendo tollerare che li Spagnuoli si
ritirassero in ordinanza, gli inseguì con furore; ma rintuzzato di
forza, cadde trafitto, e con lui rimase spento anche il fiore de'
capitani Francesi. — Se Lodovico Ariosto non fu presente a questa
battaglia, v'accorse subito dopo, dicendoci di aver vedute le campagne
rosse del sangue _barbaro_ e _latino_, e per molte miglia il suolo così
coperto di morti, che senza premerli non concedeva il cammino. Fu però
presente al sacco che il giorno dopo si diede alla miseranda città di
Ravenna, ove dai vincitori uscirono crudeltà tali da empiere il mondo
d'orrore[50].

Quest'amarissima vittoria indebolì siffattamente l'esercito francese
per la perdita dei capi, che il duca cominciò presto ad accorgersi che
su di esso non potrebbe più a lungo fondar speranze d'aiuto. Ascoltò
quindi i consigli di Fabrizio Colonna (ch'egli avea fatto prigioniero
di guerra, ma che teneva a Ferrara come amico), e volle tentare di
riconciliarsi col papa[51]. Per gli offici del marchese di Mantova
di lui cognato e per quelli del Colonna ottenne un salvocondotto per
trasferirsi a Roma. Il duca partì da Ferrara il 23 di giugno 1512, dopo
aver rimessi in libertà i Veneziani che teneva prigioni, e dopo aver
mandato avanti Fabrizio Colonna a disporgli accoglienze favorevoli.
Giunse in Roma il 4 luglio, in compagnia dell'Ariosto (se pure non lo
raggiunse dopo), e il papa gioì di vedere il suo nemico prostrarsegli
dinanzi e baciargli i piedi. L'esame delle differenze fu rimesso a
sei cardinali che furono favorevoli al duca: ma il papa voleva ad ogni
modo Ferrara, e gli propose in cambio la città d'Asti tolta allora ai
Francesi, chiedendo ancora gli fossero rilasciati i due prigionieri
don Ferrante e don Giulio. Il duca rifiutò di cedere Ferrara e i
fratelli!... Giulio II amava don Ferrante che aveva tenuto a battesimo,
e bramava poterlo togliere di pena. A quest'ultimo impreveduto rifiuto
inorridì dubitando che il duca l'avesse fatto uccidere di nascosto;
e qui l'ira, a lui sempre sì facile, scoppiò fieramente. Il duca
assicurò che don Ferrante era vivo, ma ripetè perfidiando che non
l'avrebbe ceduto, lagnandosi pure che contro la fede del salvocondotto
gli fossero state nel frattempo occupate alcune città; e, com'era
prevedibile, si lasciarono più nemici di prima. Sul capo del duca
rumoreggiava la tempesta, e giunto al suo alloggio scrisse il 17 luglio
al cardinale Ippolito col falso indirizzo _Ad Alessandro di Cremona_
la lettera in cifra di cui si pubblica la traduzione, nella quale con
animo di inesorabile crudeltà sembra compiacersi di non aver voluto
gratificarsi il papa nemmeno col cedere i due fratelli _prigioni_, e
specialmente _don Ferrante_ (Docum. X). Il papa dal canto suo voleva
vincerla sul duca a qualunque costo, e non ebbe riguardo a dar ordine
che fosse arrestato, facendo prima raddoppiare le guardie alle porte
di Roma e così impedirgli una fuga. Seppelo il cardinale d'Aragona
che in segreto lo riferì ai Colonna; ed essi a ricompensare il duca
«d'aver serbato il suo Fabrizio a Roma»[52] lo travestirono in mezzo a
buona mano di armati, sforzarono la porta di San Giovanni e lo trassero
a salvamento fuori della città, nascondendolo nel loro castello
di Marino. Come il papa lo seppe arse di sdegno, fecelo inseguire
d'ogni parte, ma inutilmente: volle almeno vendicarsi su quelli del
suo corteggio; e non trovando che il conte Lorenzo Strozzi, lo fece
imprigionare: gli altri erano stati avvertiti e fuggirono in tempo.
Dodici muli furono presi nel bosco di Baccano carichi de' bauli del
duca: ma i bauli, a derisione, eran vuoti, essendosi le robe occultate
in diversi monasteri. Tre mesi circa restò il duca nascosto finchè
Prospero Colonna venendo in Lombardia con duecento uomini d'arme
per unirsi a Raimondo di Cardona il prese con sè or sotto l'abito
di cacciatore, or di famiglio, or di frate, e così potè deludere la
vigilanza di Antonio della Sassetta che il papa aveva messo fra que'
soldati per iscoprirlo. Dovendo poi il duca dividersi dal Colonna,
per trovarsi soltanto in compagnia dell'Ariosto, narra questi in
una lettera del primo ottobre scritta appena giunto in Firenze, che
sembravagli d'essere uscito allora delle latebre e de' lustri delle
fiere, ormato in caccia dai levrieri (del papa), e di aver passata la
notte antecedente in una casetta di soccorso col nobile mascherato,
l'orecchio intento e il cuore in soprassalto (_pag. 23_). Così finirono
le paure sofferte, e il 7 ottobre il duca passò per Castelnovo[53],
quindi muovendo dalla strada di san Pellegrino arrivò il 14 dello
stesso mese felicemente a Ferrara.

Il gran concetto di Giulio II di cacciare _i barbari d'Italia_ pareva
tradursi ad effetto, giacchè i Francesi incalzati dagli Svizzeri
dovettero ripassare i confini: e il papa gloriandosi d'essersi tolto
dal collo il più forte nemico, sebbene con armi esterne, lo schernì un
giorno il cardinale Grimani, osservando che il regno di Napoli, così
ricca e importante parte della penisola, rimaneva pur sempre in potere
degli Spagnuoli. Per le quali parole l'animoso pontefice, alzato il
bastone su cui sosteneva il cadente fianco e percuotendo con forza lo
spazzo, gridò che, Dio concedente, anche quei popoli avrebbero presto
imitato il glorioso esempio degli altri[54].

Il cardinale Ippolito, rimasto nell'assenza del duca suo fratello al
governo dello Stato, aveva dovuto perdere Reggio, Brescello, Carpi
(ov'era tornato Alberto Pio), Cento, la Pieve e le terre di Romagna,
e così depositare in mano del Vit-Furst, che fu mandato governatore
Cesareo in Modena, anche S. Felice e Rubiera. Già i Lucchesi
approfittando del momento favorevole si erano impadroniti della
Garfagnana: già il duca prevedeva l'ultima ruina della tanto agognata
Ferrara che sola rimanevagli in potere, e dove teneva concentrate tutte
le sue forze per farne gagliardo contrasto, quando nel 21 febbraio 1515
Giulio II morì.

L'11 marzo Giovanni de' Medici veniva eletto papa col nome di Leone X.
L'Ariosto eragli stato amico, e più volte avendo udito ripetergli in
Firenze e in Bologna che non farebbe differenza tra lui e il suo stesso
fratello, corse a Roma _in abito di staffetta_ anche a nome del duca di
Ferrara. Leone X mostrò di udire assai volentieri le parole di omaggio
e congratulazione che gli venivano profferte; prese per mano l'Ariosto,
gli baciò ambe le gote (Satira IV); ma essendo di cortissima vista,
e sdegnando allora di portare l'_occhiale_, mal potè ravvisarlo: così
gli _altri amici_ del poeta, _divenuti grandi nuovamente_, desiderosi
d'imitare il santo padre, mostrarono quasi di non vederlo! (_pag. 24_).
Si fermò Lodovico a Roma all'incoronazione del papa: ma non essendogli
stato offerto alcun posto vantaggioso, com'egli se ne lusingava, lasciò
Roma non avendo ottenuto che l'esenzione della metà della tassa alla
bolla occorrente per succedere allo zio nel benefizio di sant'Agata!

Nel ritorno passò per Firenze e accadendovi le feste di San Giovanni
sentì vaghezza di fermarvisi a conforto dello spirito amareggiato dal
disinganno di Roma. In Firenze incontrò Alessandra Benucci rimasta
vedova da poco tempo di Tito Strozzi di Ferrara, e quella beltà che
non eragli _nè peregrina nè nova_ lo innamorò sommamente. Di que'
spettacoli tenne poco ricordo, e poco gliene calse:

    Sol _gli_ restò immortale
    Memoria ch'_ei_ non vide in tutta quella
    Bella città di _lei_ cosa più bella[55].

E la Benucci accolse e gradì l'amore del poeta, riempì degnamente il
vuoto ch'egli aveva nel cuore, gli fu dolce stimolo a completare il suo
poema che _aveva bisogno di grande opera_, nè era _limato nè fornito
ancora_ (_pag. 22_); ed anzi fu detto ch'ella esigesse ogni mese un
canto ricorretto del _Furioso_. L'Ariosto si trattenne in Firenze
quasi due mesi nella diletta compagnia della donna amata, _ne' cui
begli occhi e nel sereno viso_ andava errando il suo ingegno, ch'egli,
vestendo immagini colle grazie d'Anacreonte, chiedeva di poterlo
raccogliere colle labbra[56].

Verso la fine del 1513 essendosi il cardinale Ippolito ridotto a
Ferrara, anche l'Ariosto fu obbligato a seguirlo, e così fece poco
dopo la Benucci. Ivi terminò di rivedere il suo poema, che nel 1515
cominciò a stamparsi da Giovanni Mazzocco del Bondeno, con essere colà
pubblicato il 22 aprile del 1516 in 40 canti; avendo prima chiesto
e ottenuto privilegi che lo guarentissero da ristampe arbitrarie. Ne
mandò subito un esemplare al cardinale cui era dedicato e che allora
trovavasi a Roma: e quando al ritorno del medesimo a Ferrara, che
fu il 7 giugno[57], aspettavasi ringraziamenti e favori per averlo
sì altamente celebrato con tutti quelli di casa d'Este, udì invece
chiedersi dal cardinale: _Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante
corbellerie?_ Le quali parole, se pur furono veramente pronunziate,
come passarono in tradizione, non possono ritenersi dirette che in
via di scherzo, e per ostentare noncuranza delle lodi a lui prodigate:
poichè sappiamo che il cardinale aveva cognizione del poema avanti che
andasse alla stampa[58], la cui spesa sarebbe stata da lui assunta,
come sembra apparire dalla lettera scritta al cognato marchese di
Mantova in data 17 settembre 1515 nella quale chiede di poter estrarre
da Salò nientemeno che mille risme di carta esenti da dazio per farne
l'edizione[59]. È però indubitabile che il poco grato mecenate, se
intendevasi di matematica e filosofia, non aveva certo alcun gusto
poetico, avendo detto all'Ariosto che non faceva degni di mercede gli
elogi datigli _a piacere e in ozio_, e che avrebbe preferito fossegli
_stato appresso_ per adempiere alle commissioni che a lui piacesse
affidargli. Di che il poeta risentitosi, séguita nella Satira II
a lamentarsi del cardinale, che dopo averlo mandato tante volte a
correre in fretta per monti e balze a scherzar colla morte, mostra
poco apprezzarlo, non sapendo smembrar starne in aria sulla forchetta,
mettere il guinzaglio a' cani e sparvieri, nè potendo adattarsi a porre
o cavar speroni, ch'erano i servigi riconosciuti dal suo signore.
Lamenti forse alquanto esagerati, se pur fu vero che il cardinale
facesse a tutte sue spese l'edizione prima del _Furioso_, o non avesse
soltanto procurata l'esenzione del dazio della carta di cui occorsero
sole duecento risme; conoscendosi ancora che tanto il cardinale quanto
il duca Alfonso acquistarono parecchi esemplari del poema.

L'anno dopo il cardinale chiese a messer Lodovico di seguirlo in
Ungheria. Addusse egli motivi giusti di salute (catarro e debolezza
abituale di stomaco) che non permettevangli d'intraprendere un lungo
viaggio, nè affrontare un cambiamento di clima che poteva riescirgli
funesto; come fu anche dichiarato dal Valentini modenese medico dello
stesso cardinale. Queste ragioni non furono ammesse: ma persistendo
l'Ariosto nel suo rifiuto a partire, anche per fare un'ammenda della
soverchia servilità del passato, il cardinale se ne adontò, commettendo
l'imperdonabile risoluzione di congedarlo da sè, togliendogli ogni
assegno, sino a due beneficî ecclesiastici che gli avea procurato,
e dei quali volle fatta rinunzia a favore di altri suoi famigliari
designati da lui. Dovette solo conservargli quello su la cancelleria
di Milano perchè in società col Costabili di Ferrara, e perchè
pochi mesi prima aveva scritto a Ruffino Berlinghieri suo vicario
in Milano[60] le lettere in favore dell'Ariosto da noi riportate a
pag. 306, 307. — D'allora in poi Lodovico non comparve più innanzi al
cardinale, che mostrò averlo in dispetto, mentre il nostro poeta sempre
buono e cortese, ad onta dell'ingratitudine sofferta, continuava ad
offrirsi al suo primo signore per servirlo «di càlamo e d'inchiostro
in Ferrara, ove con chiara tromba farebbe sonar alto il suo nome»
(Satira II); dubitando quasi di non aver detto abbastanza per appagarne
l'orgoglio! Al novembre del 1517 l'Ariosto pensò di trasferirsi a Roma
per assicurarsi con una bolla papale, or che mancavagli il favore
del cardinale d'Este, i beneficî di Milano e sant'Agata (Satira I),
tentando ancora di procacciarsi altrove un impiego, poichè vedevasi
negletto a Ferrara. Di ciò fu avvertito il duca Alfonso, il quale
riflettendo all'enorme vergogna che sarebbe derivata alla casa d'Este
col permettere che il poeta che l'aveva sì altamente celebrata si
trovasse costretto a chieder servigio presso altra corte, lo nominò il
23 aprile 1518 fra' suoi famigliari coll'assegno di otto scudi al mese,
oltre il vitto per tre domestici e due cavalli.

Alfonso I, che in parte abbiamo imparato a conoscere, nacque il
21 luglio 1476 da Ercole I ed Eleonora d'Aragona. «Fu piuttosto
maninconico e severo che lieto e giocondo.... si dilettò d'aver
cognizione di tutte quelle cose che non solamente a S. Signoria, ma
anco a private persone son convenienti.... e della maggior parte di
quelle arti, che sono ad uso e necessità degli uomini, sapea più che
mezzanamente parlare, e di molte eziandio di propria mano lavorare, non
mediocre nè volgarmente; delle quali, sendo poi anco duca, si prese
spasso ed esercizio.... Ebbe profondissimo giudicio di artiglieria,
e fu inventore di nuove forme di essa a farle più comode e più
perfette che fin al tempo suo state non erano; e fecene fare gran
quantitade»[61]. l'imperatore Napoleone III conferma questo merito di
Alfonso «nell'aver dato opera ad un'artiglieria stupendamente mobile
ed efficace»[62], con riportare un brano delle _Memorie_ di Fleurange,
che in due armerie vide circa trecento grossi cannoni appartenenti al
duca, ove dice «non trovarsi tra suoi maestri di getto chi operasse
meglio di lui». E mostrossi pure appassionato ed esperto in adoperarli,
come abbiam veduto alla battaglia di Ravenna, e come troviamo che
fece all'espugnazione di Legnago, scrivendo il primo di giugno 1510
al fratello cardinale, ch'egli era diventato cannoniero vero, che
i suoi cannoni tiravano benissimo con il _diavolo_ da 35 a 40 colpi
il giorno (risultato assai raro in que' tempi), e che se non avesse
sentito affanno per la notizia allora giuntagli della pace conclusa dal
papa coi Veneziani, rompendo la lega di Francia, mai sarebbe stato più
contento (Doc. XI)[63].

Nel 1491 Alfonso si unì in matrimonio con Anna Sforza sorella del duca
di Milano, e a festeggiare per tre giorni queste nozze in Ferrara
fu ripetuta nella sera del 13 febbraio la commedia de' _Menecmi_ di
Plauto, «con tanto modo et gratia, che da tutti fu commendata.... e
il fine della commedia fu, che essendosi riconosciuti Menechino et
il fratello, e volendo ritornare con lui a casa, esso Menechino fece
mettere alla crida tutti li soi beni, dicendo volerli dare per 1700
onze d'oro, con la moglie sopra il prezzo», come rileviamo da una
lettera al duca di Milano scritta il giorno successivo da Ermes Maria
Sforza e da Gio. Francesco Sanseverino i quali accompagnarono con
altri 200 fra gentiluomini e cortigiani la sposa a Ferrara[64], e la
sera dopo fu recitato anche l'_Anfitrione_ tradotto da Plauto, con
intermezzi in ambe le commedie di danze, canti ecc.

Anna Sforza morì di parto nel 1497 senza lasciar prole; e poichè
Alfonso nell'agosto 1500, in cui Lucrezia Borgia restò vedova, non
erasi ancora determinato a riprender moglie, Alessandro VI, che sempre
pensava a più illustri nozze per la figliuola, incaricò il cardinale
Ferrari modenese di scrivere al duca Ercole (18 febbraio 1501) e
proporgli la mano di Lucrezia pel principe ereditario di Ferrara.
Il duca se ne adontò e diede un assoluto rifiuto, essendosi altresì
manifestata la maggior ripugnanza da parte di Alfonso e di tutta
la famiglia d'Este. Ma il papa, ottenuto pure l'appoggio del re di
Francia, insistette tanto col far conoscere i grandi vantaggi di tale
unione e i danni che verrebbero dal ricusarla, che riescì a vincere la
contrarietà del duca: il quale riguardando queste nozze come un ottimo
affare di Stato, pose innanzi delle alte pretese, che vennero quasi
tutte accettate.

Un corteo guidato dal cardinale Ippolito d'Este composto di un'eletta
cavalcata di 500 persone per andare a pigliare la sposa uscì da Ferrara
il 9 dicembre 1501 e giunse a Roma il 23 detto mese, accolto colle
maggiori dimostrazioni d'onore. Roma era tutta in festa, avendo il papa
ordinato che da quel dì incominciasse il carnevale, e ne' seguenti
furono dati spettacoli intesi ad esaltare le due congiunte famiglie
Borgia ed Este. Il penultimo giorno dell'anno fu ripetuta in Vaticano
d'ordine del papa la cerimonia dell'anello che don Ferrante a nome del
fratello pose in dito alla sposa, stando il papa sul trono e avendo
intorno 13 cardinali e il figlio Cesare.

Lucrezia nel colmo della contentezza, dopo aver ottenuto dal papa
quelle grazie che il duca Ercole fece chiedere col di lei mezzo[65],
impaziente di abbandonar Roma, partì il 6 gennaio 1502 con un corteo
da regina, accompagnata sino a porta del Popolo da tutti i cardinali,
ambasciatori e magistrati, e giunse la sera del 31 detto mese al
castello Bentivoglio sul bolognese a 20 miglia da Ferrara. Colà ebbe
la grata sorpresa d'incontrarsi col marito Alfonso che le si presentò
travestito, e trattenutosi alquanto con lei, ripartì nella stessa sera.
La Borgia fece la sua solenne entrata il 2 febbraio in Ferrara ove le
feste nuziali si protrassero con banchetti, balli e rappresentazioni
teatrali per sei giorni[66], e fra i poeti che fecero omaggio de' loro
versi alla sposa, anche l'Ariosto le offerse un epitalamio[67].

Quantunque Alfonso negasse fede alle turpitudini attribuite a Lucrezia,
non poteva certo mostrarsi lieto, almeno in que' primi momenti,
della bella moglie che tutti ammiravano, conoscendola pur sempre
di fama assai compromessa per aver avuto due altri mariti: il primo
(Giovanni Sforza signore di Pesaro) disgiunto da lei per imaginaria ed
estorta dichiarazione d'impotenza, ch'ella offerivasi convalidare con
giuramento; il secondo (Alfonso d'Aragona duca di Bisceglie che l'avea
fatta madre d'un figlio) fatto strangolare sul proprio letto dal duca
Cesare, scacciando dalla stanza Lucrezia la quale non ebbe ardire di
opporsi; e perciò le accoglienze della nuova famiglia di cui veniva
a far parte, riescirono «a dire il vero fredde», come si espresse la
marchesana Isabella d'Este, che inoltre scriveva a Francesco Gonzaga
suo marito: «La Ecc. V. non mi abbia già invidia di non esser venuta
a queste nozze, perchè sono di tanta freddura, ch'io ho invidia a chi
sono rimasti a Mantova»[68]. Però i vantaggi grandi che accompagnarono
cotesto matrimonio[69] fecero presto dimenticare la vita passata
da Lucrezia in Roma ove fu ceco strumento della ferrea volontà del
fratello e del padre.

Morto Ercole I il 25 gennaio 1505, Alfonso come figlio primogenito
gli successe nel dominio. Abbiam veduto i supplizi coi quali inaugurò
la sua salita al potere e l'odio implacabile che mantenne contro i
fratelli, che sono indizio di violente natura e di pessimo cuore: i
fatti che veniamo narrando mostreranno altre colpe.

— Il poeta Ercole Strozzi, amico dell'Ariosto[70], era venuto in grande
famigliarità e servitù con Lucrezia Borgia, che spesso lodò ne' suoi
versi, per mezzo della quale sperava di poter conseguire il cappello
cardinalizio: ma la notte del 6 giugno 1508 fu crudelmente assassinato
e deposto morto, involto nel proprio mantello, davanti la casa che
abitava[71]. Alla gelosia del duca per Lucrezia fu attribuita questa
morte: però il Giovio, dicendola procurata da _un personaggio di alto
affare_ per motivo di Barbara Torello sposata di recente dallo Strozzi,
e sapendosi altresì che la donna era amata e sollecitata dal duca[72],
tutto induce a credere che l'assassinio venisse da lui ordinato, come
ebbe a rimproverargli anche il papa, non essendosi pur fatta alcuna
inquisizione per scoprire e castigare i colpevoli[73].

— Un notaro bolognese per certa causa che aveva in Argenta tra un
famiglio di Ercole d'Este ed un balestriere per nome Gaione, li citò
a Roma, sebbene Argenta alla morte di Giulio II fosse stata ricuperata
dal duca. Trovandosi Alfonso I a Migliaro, i suoi quattro consiglieri
di giustizia in Ferrara credettero necessario di non lasciare impunito
l'ardimento di una tale citazione che scalzava di fatto l'autorità
ducale, e tradotti nelle prigioni di Ferrara il notaro e i contendenti,
chiesero con lettera del 3 ottobre 1520 il parere sovrano. Rispose
egli a tre ore della notte seguente al suo segretario Obizzo Remo,
irritandosi e lagnandosi che non avessero data un'immediata condanna
di loro arbitrio, dicendo: «l'assenza nostra serviva benissimo in
proposito, perchè sempre averessimo avuto la scusa accettabile quando
altri si fosse querelato di cosa che fosse stata fatta in Ferrara
essendo noi lontano; e massime che, come sarìa stato vero, sarìa
anco stato ben credibile che non fosse passato di nostra scienza nè
commissione, essendo la cosa sì presta che non aressimo potuto avere
avviso di quella citazione e mandar commissione a quel tempo: sì che
ci pare che tutti abbiate errato. E perchè ci domandate mo il parer
nostro di quel che abbiate a fare, vi rispondemo che non sapemo che
altro commettervi, se non che subito lasciate andare quello notario,
così come l'avete fatto imprigionare, nol dovendo fare: e quando
sarà lasciato, fatelo venire a voi e ditegli che subito che noi avemo
inteso della sua cattura, avemo scritto che _ci dispiace_, e ch'ei sia
liberato: benchè questo impiastro possa mal sanare lo error commesso. A
quelli altri due (il famiglio e il balestriero), se ci è _scusa_ alcuna
legittima o _colorata_, fate che sian dati tre gran squassi di corda
in piazza, e poi siano rimessi in un fondo di torre finchè loro sarà
deliberato altro. Ma fate la nostra ambasciata alli compagni vostri,
come è sopraddetto, _con aggiunta d'un càncaro che vi venga a tutti
quattro nel più brutto del corpo_». Terminata appena la lettera gli
dispiacque dover perdonare al notaro, e aggiunse l'iniquo poscritto
che segue: «Prima che quel notario sia lasciato, mettete ordine col
nostro collaterale, che trovi due o tre matti, fidati però, che lo
vedano quando uscirà di prigione, per poterlo riconoscere, e poi
l'abbino per spia quando se ne andrà; e in qualche loco ben comodo lo
tirino da cavallo e lo strascinino per li capelli e lo schiaffeggino
gagliardamente, pestandogli il volto e li occhi in modo ch'ei ne resti
segnato e ne senta per un mese.... E potendo eseguir questo in loco da
ciò, straccinogli tutti i panni d'addosso e lascinlo nudo: ma abbiasi
avvertenza di far che quando lo vedranno uscir di castello, non siano
visti da lui, acciochè poi egli non conoscesse alcun di loro in fatto».
La lettera è di pugno del segretario Bonaventura Pistofilo, che in un
brandello di carta staccata vi introdusse di nascosto queste parole
dirette al Remo: «Prego la Mag. V. ed essa sarà contenta pregare
per me li magnifici compagni, che mi perdonino se scrivo cosa che vi
dispiaccia; chè certo l'ho scritto mal volontieri, ed anco ho scritto
meno che non mi è stato commesso». — Non sappiamo come andasse a finire
la scena traditrice preparata al notaro: troviam soltanto memoria che i
magnifici consiglieri di giustizia restarono molto spaventati dell'ira
che avevano involontariamente suscitata, e cercarono discolparsi. Il
duca rispondeva: «Volemo che vi sia licito dir sempre la ragion vostra,
ma noi anco volemo poter dire e scrivere a voi e alli altri quel che ci
pare».

Or questo Pistofilo ci narra nella Vita di Alfonso I, ch'ei «fu
amantissimo della giustizia, la quale molto costantemente e con
grandissima integritade volle che fosse ministrata in tutto il suo
dominio[74]», quando a nome del suo encomiato facevasi strumento per
calpestare la medesima con turpitudine d'inganni e _colorati_ pretesti
che ne salvassero qualche grossolana apparenza!

— Nel 1508 Isabella vedova di Federico d'Aragona, spogliata del trono
di Napoli, licenziata dalla Francia ov'erasi riparata, venne raminga
a Ferrara con molti figli, e ottenne dal duca nato da un'Aragonese
assegnamento e ricovero. Due figlie d'Isabella, già cresciute degli
anni nelle strettezze della vita privata, neglette dai grandi com'è la
sventura, non potendo aspirare nella posizione in cui erano cadute ad
illustri nozze, si posero ad amoreggiare l'una con un mercante, l'altra
con un Pugliese nominato Ferrante. Il duca venne presto a saperlo, e
si lagnò di _questo grande disordine_ col loro maggior fratello don
Ferrante che era in Ispagna, scrivendogli il 9 maggio 1525 e proponendo
gravissimi castighi, unicamente per evitare il _pericolo_ di qualche
scandalo vergognoso. Ritardando la risposta, spediva il 18 luglio altra
lettera in duplicato esemplare, confessando che aveva più d'una volta
pensato di _far strangolare_ i due giovani innamorati e far chiuder
le donne in _separati conventi_, ma che aveva con _forzata pazienza_
voluto aspettare gli ordini del fratello da eseguirsi _contro tutti_,
de' quali sarebbe stato _fedele e severo esecutore_. — Speriamo che
don Ferrante si sarà contentato che i due giovani fossero allontanati
da Ferrara, e che avrà riconosciute le sorelle degne di compatimento.
— Più tardi il duca si mostrò molto sollecito in procurare che una di
queste Aragonesi per nome Giulia facesse un matrimonio che secondava le
sue viste col marchese di Monferrato. Ma l'infelice principessa pochi
giorni dopo le nozze celebrate in Ferrara videsi spento il marito di
veleno; poichè essendo egli l'ultimo dell'illustre famiglia Paleologa
e mancando senza figli, il Monferrato doveva passare sotto il dominio
del marchese di Mantova cognato di Alfonso I. L'ex regina Isabella,
che costretta a vivere di una sprezzante elemosina era divenuta pia
sollevando il cuore all'altezza del sacrificio, provò tanto orrore
di questo delitto di avvelenamento che la condusse fra non molto
alla tomba. Prima di morire aveva raccomandato con lettere al figlio
suo primogenito le disgraziate sorelle, ed egli che allora trovavasi
governatore in Granata le chiamò presso di sè, liberando il duca dal
pensiero di cercare alle medesime altre ragguardevoli nozze.

Non aggiungeremo nuovi fatti, ritenendo gli esposti anche di troppo
valevoli a farci conoscere il carattere del duca, che certamente non fu
il migliore di tutti i suoi fratelli, senza parlare di don Sigismondo
morto nel 1524, «perchè essendo stroppiato dal mal francese, poco potè
adoperarsi in mostrar suo valore»[75].

Alla morte di Giulio II il duca erasi affrettato al tempo della
sede vacante di ricuperare le sue terre di Romagna e la Garfagnana,
ma dovette presto desistere udendo l'elezione di Leone X, per non
compromettersi col novello papa, «che essendo cardinale avea così
ben dissimulato che era creduto mezzo santo; ma riuscì poi tutto il
contrario. Il detto duca andò a Roma alla sua coronazione e tornossene
a Ferrara assoluto dal monitorio di papa Giulio, con un'amplissima
bolla di papa Leone che gli promise molto ed osservò poco»[76].
— Trattava il duca coll'offerta di qualche somma di riaver Modena
dall'imperatore Massimiliano, cui era stata consegnata, «il quale
per essere nello spendere troppo profluso avrìa venduto poco manco
ch'io non dico i denti per aver denari». Il papa sotto colore di
agevolare il negozio accettò Modena in suo nome, sborsò quarantamila
ducati all'imperatore, e fece formale promessa di restituirla al
duca entro certo tempo a fronte del rimborso della somma pagata:
«Non scrivo il termine prefisso a redimerla perchè il predetto duca
mio Signore mai non lo potè sapere: chè se ben fu detto che era X
anni, la copia dello strumento celebrato sopra ciò avea vacuo il
luogo nel quale doveva essere dichiarato esso tempo!»[77]. Anche
«il card. Ippolito stando in Roma, ottenne dal papa un breve per la
restituzione di Reggio fra cinque mesi, con che il duca cessasse di
fare il sale in Comacchio. Il duca mantenne la promessa; ma il papa
in mille modi sempre l'ingannò»[78], fino a fargli depositare nelle
mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena;
senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca
andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che
questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici
all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20
febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto
di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò
tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo
segretario Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia
sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino[79], e che o per il
Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi
desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua
al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli,
e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi
il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale
reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza
e desterità di Sua Sig.».

Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto
Lucrezia Borgia[80]. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella
«lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che
venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine
usavano abiti ne' quali mostravano le carni nude del petto e delle
spalle, così essa signora introdusse il portare e l'uso di gorgiere che
velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto li capelli»[81]. —
E dobbiamo credere che Lucrezia, lasciate fra qualche tempo le mondane
pompe, conducesse in Ferrara gli ultimi anni di sua vita ossequiente
al suo sposo, «e non solo nel vestire, ma anco ne' costumi e religione
fosse al popolo di ottimo esempio, esercitando opere pietose «verso
i poveri e i letterati, che sono spesso una medesima cosa»[82],
specialmente dopo essere rimasta priva del suo più valido sostegno per
la morte del papa avvenuta il 18 agosto 1503, cui seguì la rovina degli
Stati acquistati a furia di rapine e tradimenti dal duca Cesare, che
terminò col cadere anch'esso morto in una imboscata il 12 marzo 1507,
combattendo da valoroso in Pamplona al soldo del cognato di Navarra.

E fu pure Lucrezia celebrata da tutti i poeti e uomini dotti che
l'avvicinarono in Ferrara, compreso l'Ariosto il quale nell'_Orlando
furioso_ (XLII, 83) giunse persino a collocarla per bellezza e onestà
al disopra dell'antica Lucrezia. Ma il Bembo, oltre di averla cantata
in versi e dedicatole nel 1504 il suo dialogo d'amore, _Gli Asolani_,
concepì per lei una decisa passione, ed essa accolse nel cuore più che
amicizia per lui, come può vedersi dalle lettere che scrisse al Bembo
e che si conservano autografe con una ciocca de' suoi biondi capelli
nell'Ambrosiana di Milano ove furono pubblicate nel 1859 da Bernardo
Gatti.

L'animo della duchessa di Ferrara in mezzo al suo quieto e riposato
vivere fu turbato nel 1510 dalla notizia della morte del suo primo
marito Giovanni Sforza, il quale essendosi nel 1504 ammogliato con
Ginevra Tiepolo, n'ebbe l'anno dopo un figlio per nome Costanzo che
confermò l'ingiustizia colla quale lo Sforza era stato da lei separato
con un processo da cui ebbe origine ogni maggior biasimo di Lucrezia in
quell'orrido passato di Roma.

Anche l'abbandono in cui lasciò nella cara età di due anni il figlio
Rodrigo avuto dal suo secondo marito Alfonso d'Aragona, senza mai più
curarsi di vederlo, e che morì di 13 anni in Bari presso una sua zia;
«quali si fossero le circostanze che costrinsero Lucrezia a tenerlo
lontano da sè, è certo ad ogni modo che questo infelice fanciullo
lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra»[83].

Nel 1519 il duca, al quale erano riesciti poco utili i bagni d'Abano
«per curarsi dai malori contratti in giovinezza,» ammalò gravemente.
Leone X spedì il vescovo di Ventimiglia con 600 uomini nel Mirandolese
con ordine di occupare Ferrara se avveniva la morte che si credeva
inevitabile di Alfonso. Essendo questi risanato, si volle che il papa
macchinasse con un Giberto (od Uberto) da Gambara suo protonotario
di corrompere con denari Rodolfo Hello capitano della guardia de'
Tedeschi di esso duca per farlo uccidere, e che il capitano fingendo
di accondiscendere per cavare due mila ducati di mano al protonotario,
scoprisse la cosa al duca, il quale ordinò se ne formasse un processo
che si conserva in Archivio. «Ed è da notare che il detto papa
Leone avea di bocca sua parlato con uno altro Tedesco (Gianni di
Malines), che era internunzio in questa materia, ed esortatolo a fare
diligente officio; assolvendolo, anzi persuadendolo che non peccava,
ma meritava ad aiutare la Santa Sede apostolica ad avere Ferrara,
la quale gli dava ad intendere che era occupata dal detto duca
Alfonso immeritamente»[84]. Il Muratori dà piena fede al tentativo
di assassinio contro il duca ed al processo che questi ne fece fare
«in forma autentica, coll'esame di varie altre persone consapevoli
del fatto, e con inserirvi le lettere originali del Gambara»[85]:
ma noi che pel fatto del notaro bolognese conosciamo come Alfonso I
calpestasse la giustizia e volesse giudici che ne salvassero soltanto
l'apparenza, moveremo qualche dubbio sulla verità della cosa, e tanto
più giacchè ora non troviamo in Archivio che un semplice abbozzo di
processo, o meglio narrativa, scritta dal segretario del duca Obizzo
Remo, mancante di ogni firma, delle lettere del Gambara e di qualunque
altro documento originale, ed ove in mezzo a molte stranezze non si
parla però mai di uccidere il duca, ma solo di farlo prigioniero e
occupargli a tradimento Ferrara (Doc. XII).

Il 2 settembre del 1520 morì il cardinale Ippolito fratello del duca
per aver mangiati troppi gamberi arrostiti e bevuta troppa vernaccia,
di cui aveva sempre «i fiaschi Nel pozzo per la sera in fresco a
nona»[86]. Così a papa Martino IV furono fatali «L'anguille di Bolsena
e la vernaccia»[87].

Leone X ormai palese nemico di Alfonso I fece lega nel 1521 con Carlo
V per discacciare i Francesi che nel 1515 erano tornati in Italia;
e perchè il duca si portò colle sue genti a soccorrerli e liberarli
dall'assedio di Parma, spingendosi ancora alla ricupera del Finale e
san Felice, il papa prese motivo di scomunicarlo così come aveva fatto
Giulio II, essendo stata eguale nell'un papa e nell'altro la brama di
estendere il poter temporale anche a vantaggio dei loro nipoti, e di
rivendicare Ferrara, tanto più che l'annuo censo, che si pagava alla
Chiesa fu ridotto a minima cosa pel matrimonio della Borgia.

Continuavasi con ardore la guerra contro i Francesi, «e perchè esso
papa Leone era entrato in un'impresa nella quale era necessario molta
spesa, non potendo con l'entrate ordinarie supplire al bisogno, fece
in una volta sola trentuno cardinali, dalli quali tirò grossa somma
di denari, senza rispetto alcuno di simonia»[88]. Ottomila Svizzeri
guidati dal cardinale Sedunense vennero in aiuto del papa e degli
imperiali; sicchè alla fine i Francesi furono costretti a perdere di
nuovo Milano e ritirarsi d'Italia. Il duca fu pure spogliato delle
terre che aveva riacquistate, e tornò a vedersi ridotto al solo
possesso di Ferrara, col sopraccarico dell'esercito del papa che veniva
a stringerlo d'assedio e lo minacciava d'imminente eccidio.... Ma la
sorte lo salvò un'altra volta mediante la morte di Leone X avvenuta il
primo dicembre 1521, non senza sospetto di veleno.

Nell'estremo pericolo ond'era trascinata la sua famiglia, Alfonso I non
poteva contentarsi di cadere onorevolmente colle armi alla mano, chè il
suo carattere maligno e vendicativo traevalo a dirigere una _Lettera
latina all'imperatore Carlo V e agli altri principi cristiani_ piena
di lagnanze ed accuse gravissime contro Leone X; lettera che tradotta
in italiano faceva stampare in Ferrara e in Venezia nel mese di
novembre 1521. La corte di Roma non tardava dal suo canto a formare una
_Risposta alla invettiva di don Alfonso_ inviandola alla stessa Maestà
Cesarea, nella quale non solo difendeva la fama vilipesa del pontefice,
morto nel frattempo, ma aggiungeva querele infinite contro il duca
e gli Estensi, facendola pure stampare in Roma il 6 gennaio 1522
unitamente alla _Lettera_ del duca[89]. Per la somma rarità ai nostri
tempi di queste pubblicazioni, che sfuggirono al Roscoe nella sua _Vita
di Leone X_[90], e per l'interesse storico che possono avere, ne daremo
in appendice alcuni estratti (Docum. XIII e XIV).

Lodovico Ariosto frattanto non sarebbe stato del tutto scontento del
servizio del duca, che poco molestava i suoi studi e che toglievalo
di rado da Ferrara ove sempre a motivo della donna amata rimaneva
il suo cuore (Satira IV), se per la morte del cugino Rinaldo Ariosto
accaduta il 7 luglio 1519 non avesse subíta una manifesta ingiustizia.
Non lasciando il cugino suddetto figli maschi legittimi[91], Lodovico
e i suoi fratelli, rimasti eredi _ab intestato_ del defunto, andarono
in possesso della ricca tenuta nella villa di Bagnolo, detta _delle
Arioste_, concessa a livello dal duca Ercole I a Francesco Ariosto
padre di Rinaldo, allorchè dopo alcuni giorni ne furono dal Fattore
generale del duca[92] Alfonso Trotti indebitamente spogliati,
dichiarando quei beni feudali devoluti alla Camera ducale. I fratelli
Ariosto supplicarono al duca, che, essendo stato «dal suo Fattore lor
fatto così espresso e manifesto torto, si degnasse dar loro qual si
volesse altro giudice dal Fattore in fuori, dinanzi a cui s'avesse a
conoscere e decidere di ragione questa causa. Non poterono ottenerlo,
anzi S. Ecc. li rimesse pure a detto Fattore. Onde non potendo essi
farne altro, furono sforzati cominciare la lite in Camera, dove fu
agitata, e instrutto il processo, pubblicati li testimoni e condotta
la causa sino alla sentenza: alla quale instando essi, il Fattore
per l'odio che portava _gratis_ a mess. Lodovico, e per rispetto di
lui a tutti gli altri fratelli, non comportò mai che se ne potesse
vedere il fine»[93]. L'odio di Alfonso Trotti fu creduto derivare da
due sonetti satirici contro il medesimo, «i soli (dice il Polidori)
in cui trascorresse la musa italica di Lodovico»[94] e vennero in
luce soltanto nel 1741 per averli trovati di suo pugno fra le carte
possedute dal seniore Baruffaldi. Ma non siamo però certi che fossero
composti dall'Ariosto, il quale dice che l'odio portatogli dal Trotti
era _gratis_, e cioè senza avergliene dato motivo (se pur non fu
simulato per coprire gli ordini del duca), mentre anzi il poeta lo
ricorda nel suo _Furioso_, XLI, 4. — Crediamo invece che appartengano
all'autore della serie de' sonetti maledici contro Cosmico, i
quali trovansi stampati fra le _Rime_ di Antonio Cammelli detto il
Pistoia (Livorno, 1884, pag. 223 e segg.); e chi li confronterà coi
due creduti dell'Ariosto, speriamo che assolverà il nostro autore
dall'attribuitogli trascorso.

Di Rinaldo Ariosto pubblichiamo una Lettera assai confidenziale, in
data del 7 giugno 1505, posseduta prima dal Mortara, che la disse
_bellissimo documento_ per conoscere la qualità del morbo ond'egli ebbe
a morire[95]; permettendoci però noi di osservare che dall'epoca della
lettera alla morte di Rinaldo passarono più di quattordici anni (Doc.
XV).

Uno de' primi incarichi dati da Alfonso I a Lodovico fu quello di
portarsi ad Urbino per condolersi della morte di quella duchessa moglie
di Lorenzo de' Medici il giovine: ma giunto il 4 maggio 1519 a Firenze,
intese che anche il duca d'Urbino era morto, onde non andò oltre;
ed anzi dopo pochi giorni si restituì a Ferrara, ove il 6 giugno lo
vediamo spedire al marchese di Mantova la sua _Cassaria_, ch'eragli
stata richiesta (_pag. 30_). Il 7 luglio diedegli pure notizia della
perdita del cugino Rinaldo: e avendo fatto sapere a Mario Equicola che
trovavasi immerso in litigi (per la contrastata eredità), ringrazia il
15 ottobre questo suo amico che si offriva di assisterlo coll'opera
propria, narrandogli che attendeva a fare «un poco di giunta al
_Furioso_.... ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale,
avendomi l'un tolto una possessione che già più di trent'anni era di
casa nostra, l'altro una possessione di valore appresso di dieci mila
ducati[96], _de facto_ e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie,
m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per
questo ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta» (_pag. 33_).
— Il 16 gennaio 1520 terminò di comporre la commedia intitolata il
_Negromante_ per desiderio di Leone X, e gliela mandò perchè fosse
recitata in quella corte in cui l'anno avanti si era data colla
maggiore splendidezza possibile l'altra sua commedia _I Suppositi_,
avendo la scena dipinta da Raffaello, e stando il pontefice alla
porta per regolare l'entrata degli spettatori, impartendo loro la
sua benedizione! Chè la corte di Leone X, partecipando alla generale
corruzione, era troppo amante dei sollazzi profani; e abbiamo una
lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara in data di Roma 8
marzo 1519 che non potrebbe più al vivo ritrarci «i costumi del
secolo e dell'uomo che gli diè il nome» (Doc. XVI)[97]. L'Ariosto
aggiunse al _Negromante_ un nuovo Prologo ove dirige al papa elogi
assai lusinghieri; ma vi mescola con acuta ironìa la liberalità
nell'assolvere di omicidi e di voti,

    «E se pur non in dono, per un prezio
    Che più costan qui al maggio le carciofole![98]»

È poi importante questo Prologo venendosi per esso a conoscere che
l'autore faceva tesoro dei vocaboli della lingua parlata che più gli
piacevano, e che diede opera a Firenze, a Siena e per tutta Toscana ad
apprenderne l'eleganza e nascondere le forme della pronunzia lombarda.
Di cotale studio si prevalse con sagacia nel suo _Negromante_ che aveva
in gran parte composto dieci anni addietro, e nel quale introdusse
tanti cambiamenti da non vederci più il _consueto idioma_, e cominciò
pure a giovarsene nella ristampa che nel 13 febbraio 1521 pubblicò in
Ferrara dell'_Orlando furioso_, ch'eragli da tutte parti richiesto,
non trovandosi allora alcun esemplare in commercio della prima
edizione. Però un libraio di Verona, che n'ebbe parecchi da vendere
per conto dell'autore, scusavasi di non pagarli per intiero, allegando
una rimanenza: ma l'Ariosto scriveva all'Equicola di verificare la
cosa, «chè troverà che i libri sono venduti e che quel libraro vuole
rivalersi di quelli denari» (pag. 36). Nel frontispizio di questa
seconda edizione il poema dicesi _con molta diligenza corretto e quasi
tutto formato di nuovo e ampliato_, rimanendo però circoscritto ne'
quaranta canti di prima. A rifarsi in parte delle spese di ristampa,
l'Ariosto ne cedè subito col 16 febbraio cento copie al libraio Giacomo
Gigli di Ferrara per il prezzo di sessanta lire marchesane. Il libraio
doveva venderle sedici soldi l'una, avendo così il venticinque per
cento di sconto; e fino a tanto che quelle cento copie non erano
esitate, l'autore non poteva disporre di alcuna delle rimanenti
presso di lui, nemmeno in regalo[99]. Oggi un esemplare della suddetta
ristampa si venderebbe ad altissimo prezzo.

Il duca di Ferrara liberato due volte dai più estremi pericoli colla
morte di Giulio II e con quella di Leone X, si credè il favorito
della fortuna, e fece battere cinque monete d'argento allusive alla
circostanza, due delle quali rappresentavano da una parte la sua
effigie, dall'altra un uomo che toglie un agnello di bocca a un leone
col motto _de manu leonis_, mentre in gran fretta portavasi durante
l'interregno a ripigliare i suoi Stati. Ebbe il Finale, San Felice,
le terre di Romagna, e per interne rivoluzioni anche il Frignano e
la Garfagnana. — Il 9 gennaio 1522 fu assunto al papato Adriano VI,
l'ultimo cardinale fatto da Leone X e precettore di Carlo V, nato
da bassi parenti, fiammingo d'origine. Era in Biscaglia al momento
dell'elezione, e il duca vi mandò un suo ambasciatore a far atto di
ossequio, informarlo dei torti sofferti, e chieder giustizia. Il nuovo
pontefice liberò il duca dalla scomunica, lo lasciò al possesso di
quanto aveva ultimamente ricuperato e lo confermò nell'investitura
di Ferrara, comprendendovi anche il Finale e San Felice per far
credere queste due terre della Camera apostolica, sebbene ritenute
spettanti al feudo imperiale di Modena. Il duca mandò poi a Roma
il suo primogenito Ercole, che in presenza del papa e del sacro
Collegio perorò la restituzione di Modena e Reggio. Il discorso fatto
francamente in lingua latina da un giovinetto di soli quattordici anni,
che ritraea le bellezze della Borgia sua madre, sorprese e interessò
i cardinali i quali gli corsero attorno abbracciandolo come fosse un
loro congiunto. Ma papa Adriano rispose: «Se quelle città, che dici
essere di diritto di tuo padre, le avessi racquistate nel tempo della
Sedia vacante, più facilmente potrei confermargliele; ma poichè le
possiede la Chiesa, acciocchè non sembri che ne sia spogliata, non sono
per darle a nessuno. — Queste parole studiosamente raccolte da Alfonso
l'ammonirono a tempo che cosa dovesse fare, morto il pontefice»[100].
— Anche l'imperatore Carlo V proponeva di restituire Modena e Reggio
al duca purchè gli pagasse cento cinquanta mila ducati: ma il papa
titubava sempre dichiarando di non poterlo permettere; finchè accadde
la di lui morte il 14 settembre 1523. Alfonso I non tardò allora di
mettere in pratica gli insegnamenti di Adriano, e mosse le sue genti
riconquistando Nonantola, indi Reggio e Rubiera. Erasi pure portato
sotto Modena, ma il celebre Guicciardini che n'era governatore e Guido
Rangoni che ne comandava la guarnigione, accresciuta in previdenza
di 1500 Spagnuoli, la mantennero sotto il governo della Chiesa. Il
cardinale Armellino camerlengo in Roma formò un nuovo monitorio contro
il duca come invasore degli Stati ecclesiastici: però il Collegio de'
cardinali tornò a chiudersi in conclave prima che il monitorio fosse
spedito, e il 19 novembre dell'anno stesso Giulio de' Medici divenne
papa col nome di Clemente VII.

Lodovico Ariosto aggravato di spese per la lite colla Camera ducale
e per la ristampa del suo poema avea troppo bisogno dello stipendio
assegnatogli in corte; pur si adattò a vederlo uscir lento od anche
affatto sospeso, finchè durarono le esigenze della guerra: ma gli
dolse accorgendosi che anche in migliorate condizioni la mano del duca
seguitava a tenerglisi chiusa. E tacendo in Milano in mezzo all'armi le
leggi, nè potendo perciò ricavare alcun vantaggio dal beneficio della
cancelleria di quell'arcivescovato, ricorse al duca affinchè lo levasse
di bisogno, o gli concedesse di cercarsi altrove da vivere (Satira V).

Accadde allora che la Garfagnana, già prima in possesso degli Estensi,
poi de' Lucchesi al tempo di Giulio II e de' Fiorentini a quello di
Leone X, volle per alimentato sobbollimento ritornare sotto al suo
antico signore: e facendosi reiterate istanze per avere un commissario,
il duca vi elesse l'Ariosto, segnandone il decreto il 7 febbraio
1522, come può rilevarsi dalla Lettera del poeta per noi pubblicata a
_pag. 207_. Il Micotti così racconta la rivoluzione della Garfagnana:
«Bernardino Ruffi commissario de' Fiorentini in Castelnovo, stordito
dall'avviso della morte di Leone, temendo di sollevazione per l'affetto
che questi provinciali portavano alla casa d'Este, dubitando di sè e
delle cose sue, si racchiuse nella rôcca di Castelnovo dove abitava,
non permettendo ad alcuno l'ingresso: ma li principali del castello,
che pur volevano liberarsi dai Fiorentini e restituirsi al loro
legittimo signore, non trascurando l'occasione somministratagli dalla
morte del papa, mandarono Gio. Pietro Attolini medico, del quale il
commissario si soleva servire nell'indisposizione d'una sua figliuola,
a procurare che, sotto pretesto di visita e d'aver a trattar seco
interessi di rilievo, fosse aperta la porta della rôcca; il che da
lui eseguito, benchè con difficoltà ottenuto, i cittadini principali
armati entrarono nella rôcca dove era il commissario, e gl'intimarono
che nel termine d'un'ora dovesse partire, altrimenti l'avrebbero
precipitato dalla finestra. Il commissario impaurito per sì improvviso
accidente, privo d'assistenza e temendo lasciarvi la vita, stimò buon
consiglio partirsi subito, come fece l'8 dicembre 1521. Scacciato il
commissario fiorentino, con ogni prestezza spedirono al duca Alfonso
l'avviso di quanto era successo: il quale avendo sommamente gradita la
fede e l'amore de' sudditi, scrisse anche un'amorevol lettera a Gio.
Pietro Attolini.... Fu poi mandato a governar la provincia Lodovico
Ariosto ferrarese, il famoso poeta e prudentissimo ne' maneggi di
Stato[101]. In memoria d'essersi liberati dal dominio di papa Leone e
de' Fiorentini, per pubblico decreto il Consiglio ordinò, che sempre
ne' tempi avvenire il settimo giorno di dicembre si solennizzasse
con luminarie e processioni di tutto il clero e popolo, e che il dì
seguente, giorno della liberazione, dedicato all'immacolata concezione
della Santissima Vergine, si celebrassero messe ed offici a spese del
pubblico. Fece anche il Consiglio scolpire in grosso macigno un'aquila
grande, intesa per la serenissima casa d'Este, che tiene un leone sotto
gli artigli, preso per papa Leone, e porre sopra la porta di Castelnovo
in mezzo a molt'arme che vi sono»[102].

L'offerta di andare al governo della Garfagnana fra un popolo rozzo,
turbolento ed inquieto, diviso da fazioni, guasto da spessi mutamenti
di padroni, pieno di banditi per l'opportunità di varî confini, non
poteva piacere all'Ariosto; ma presentando d'altra parte molti vantaggi
pecuniarii per tasse e diritti inerenti alla carica[103], vinto dal
bisogno, l'accettò. Ignorando quanto tempo sarebbe stato lontano da
Ferrara, incerto della sorte che lo attendeva, fece il 12 febbraio il
suo testamento, si disgiunse con dolore dalla Benucci, e in compagnia
del figlio Virginio partì alla volta di Castelnovo ove giunse il dì
20 dello stesso mese. Narra il Garofolo che Lodovico «nell'andare
al commissariato.... convenendogli presso a Rodea passar per mezzo a
una compagnia d'uomini con armi che sedevano sotto diverse ombre, non
sapendo chi si fossero, andò oltre non senza qualche sospetto per esser
quelle montagne allora molto infestate da ladronecci per le fazioni
di certo Domenico Morotto e di Filippo Pacchione capitali nemici. Ora
essendo passato avanti un tiro di mano, colui ch'era capo loro dimandò
al servitore ch'era più addietro degli altri, chi fosse il gentiluomo;
e udito ch'era Lodovico Ariosto, subito si mise così com'era armato
di corazza e di ronca a corrergli dietro. Lodovico vedutolo venire si
fermò, non ben sicuro come avesse a seguire il fatto. Colui giuntogli
presso e riverentemente salutatolo, gli disse ch'era Filippo Pacchione,
e gli domandò perdono se non gli avea fatto motto nel passar oltre,
perocchè non sapeva chi egli fosse; ma che avendolo inteso dipoi, era
venuto per conoscerlo di vista come molto prima l'aveva conosciuto
per fama: e nel fine fattogli cortesi inviti umilmente si licenziò
da lui»[104]. Questo fatto ammesso per vero dal Baruffaldi potè solo
a nostro giudicio accattar origine da qualche segno di rispetto che
taluno de' faziosi o fautori di essi ebbe poi ad usare verso l'Ariosto
(com'è detto a _pag. 80_), convertendolo in un incontro occorsogli
presso Rodea (Roteglia) _nell'andare al commissariato_ (ossia nel suo
primo viaggio); e ciò allo scopo di accrescere alla vita del poeta
una nuova situazione d'interesse drammatico. Incontro che non potrebbe
ammettersi fuorchè in un viaggio successivo e in una stagione diversa
dalla invernale del febbraio, in cui que' luoghi sono quasi sempre
coperti di neve e poco acconci in allora a _sedere sotto l'ombre_
(non già degli alberi che avevano ancora da rinnovare le foglie); e
giacchè inoltre l'Ariosto stesso, cui dobbiamo attenerci, non mancò
in un'elegia[105] di esporci questo suo viaggio accompagnato da
rabbiosa procella d'acqua e venti che prendeva ognora maggior possanza,
ferivagli come acuto strale il volto, e col fango impediva al suo
cavallo di affrettarsi per la via alpestre e lunga. Sembrava, egli
dice, che il cielo meritamente lo punisse d'essersi dipartito dalla
sua donna, di aver chiuse le orecchie alle preghiere di lei, di aver
promesso di assumere un carico che tanto lo allontanava da Ferrara. Era
pentito, ma non gli era lecito ritornare indietro: solo il cuore mille
volte ogni giorno sarà costretto di farlo!

Giunto a Castelnovo, capoluogo della Garfagnana, l'Ariosto cominciò
subito le fastidiose cure del suo governo, udendo ognora accuse e
liti, furti e omicidi; pregando gli uni, minacciando gli altri, e
scrivendo ogni giorno al duca per consiglio ed aiuto[106]. Obbligato
a lasciare in abbandono i dolci suoi studi per _aver sempre villani
alle orecchie_[107], sol dopo un anno fece il _primo motto alle Muse_,
dirigendo al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira V ove descrive la
vita ch'egli colà conduceva, e che riceve bel riscontro e accrescimento
di fatti dalle Lettere di lui che qui si producono. Alcune di esse
dànno prova della bontà del suo cuore, altre della sua giustizia e
imparzialità, molte della sua sagacia e accortezza politica, la maggior
parte della mala condizione di quella provincia. E perchè il duca
immerso in cure più gravi non gli prestava il braccio forte ch'egli
richiedeva, e lasciavalo con pochi balestrieri incapaci di affrontare
i banditi e gli assassini ch'erano più di loro (_pag. 200_), così
l'Ariosto si mostrò ridotto all'alternativa di dover proporre misure
estreme di ferro e fuoco sopra le sostanze de' banditi, loro congiunti
e aderenti (_p. 163_), e così contro i campanili, le canoniche e per
fino le chiese, che in causa delle immunità ecclesiastiche servivano
loro di sicuro ricovero[108]. Poco propenso verso i preti, che per
negatagli autorità dai vescovi e dal duca non poteva castigare se
mancavano (_pag. 103_), li fa colpevoli di favorire i malfattori;
ma dice al tempo stesso che non ponno fare altrimenti (_pag. 222_),
essendo invalsa presso tutti la tema della loro vendetta se non li
nascondono (_pag. 171_), e dicendosi minacciati della vita se parlano
(_pag. 236_). Per ovviare in parte a tanti disordini, l'Ariosto
concluse il 20 giugno 1523 a nome del duca una lega colla Repubblica
di Lucca, che mandò il suo bargello agli ordini del commissario
(_p. 164_)[109]; fece pubblicare alcune gride (_pag. 309-317_);
ebbe accrescimento di uomini d'armi: ma ciò fu di poco o momentaneo
profitto, chè le ottantatre terre di cui componevasi la provincia
alzavano le corna divise dalla sedizione (Satira V). L'Ariosto qualche
volta parlava alto e risentito (_pag. 213-216_); minacciava fuggirsi di
notte abbandonando l'officio, e concludeva: «Ognuno è di malavoglia,
e dicono mal di me, ma più di V. S. (_pag. 183_), che pigli li loro
denari e lasci abbandonate le rôcche (_pag. 229_); chè almeno, poi
che quella non li vuol difendere, gli dèsse licenza e li ponesse in
libertà, che si potessero dare a chi fosse atto a poterli difendere e
tener in pace» (_pag. 234_). Parole arditissime, ma giuste e degne del
maggior elogio, come l'altre: «fin che starò in questo ufficio non sono
per avervi amico alcuno, se non la giustizia».

Alla notizia dell'elezione al papato di Clemente VII, conoscendosi
le inimicizie passate tra gli Estensi ed i Medici, _parve che a tutti
fosse tagliata la testa_ (_pag. 199_), chè, non credendosi abbastanza
rassodato il governo del duca, era da molti preveduto un prossimo
tramestìo di padroni: di qui l'ardimento a nuovi disordini da una
parte, di qui il pretesto a lasciarli correre od anche favorire
dall'altra, non esclusi gli ecclesiastici. A ciò poi diedero fomento
anche le _bande nere_ del famoso Giovanni de' Medici, che venute
a contesa coi marchesi Malaspina di Lunigiana fecero scorrerìe e
occuparono nel 1524 alcuni luoghi della ducale provincia, accrescendo
seguaci alla _parte italiana_ che rappresentavano di fronte alla _parte
francese_ sostenuta dal duca.

Dopo essere stato due anni in quell'officio, l'Ariosto dichiarò che lo
muterebbe volentieri in un altro dove fosse più vicino al duca, «come
sarebbe il commissariato di Romagna» (_pag. 209_): desiderando forse
di cancellare in Lugo con dolcezza e bontà la memoria sfavorevole che
vi era rimasta del padre pel fatto che abbiam riferito a _pag. XVII_.
— L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica
di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la
Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato
dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva;
chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la
Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a
passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo[110].

Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto
presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo
ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche
un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del
_quartirone_ passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata
fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè,
quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la
dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio
che essendo stato tanto a fargli intendere questo suo desiderio, non lo
poteva compiacere perchè il Cattaneo designava di mettersi veramente in
cammino per la Garfagnana «fra tre o quattro giorni alla più lunga»,
onde bisognava lasciare che altri gli procurasse la detta esazione.
Quanto alla seconda lettera, aggiungeva: «Vi significamo che avemo
inteso con grave nostra dispiacenza il caso accaduto, e ci dispiace
che un nostro suddito sia stato tanto ardito e insolente che abbia
avuto animo di far violenza ad un figliuolo d'un nostro commissario
che in quel loco rappresenta la persona nostra, e commetteremo
efficacissimamente a messer Cesare che ne faccia quella severa
dimostrazione che merita la natura del caso in sè e la fede e diligenza
che voi avete usato in servizio nostro. E state sicuro che noi avremo
altrettanto caro che voi conosciate che desideramo e volemo che si
faccia esecuzione di questa cosa, quanto voi stesso arete ch'ella si
faccia. Infra tanto consolatevi, e state sano».

L'autorità dell'Ariosto continuò in Garfagnana a tutto il mese di
maggio, e il 5 giugno 1525 non essendo ancora arrivato in Castelnovo
il Cattaneo, il duca scriveva a messer Lodovico: «lodiamo che lo
aspettiate e facciate ogni opra per abboccarvi seco e instruirlo in
quel che occorre per l'ufficio, e sarà anche bene per esiger li vostri
crediti e avanzi».

Il Cattaneo giungeva poco dopo alla sua residenza, così descrivendosi
dal Carli le circostanze di una tale elezione: «Seguivano ancora (1524)
in provincia le sedizioni e i ladronecci, non passando mese che non si
contassero questioni, violenze, oppressioni e simili ingiustizie, senza
che la diligenza e l'autorità del governatore Ariosti bastasse a porvi
il conveniente riparo: ove dimorandovi egli di malissima voglia, faceva
di continuo instanza all'A. S. d'esserne rimosso; ma ciò non ostante
non ne venìa consolato. Discorrevasi ogni giorno nell'anticamera ducale
questo fatto fra molti di que' cavalieri assistenti con varietà di
pensieri, quando un Cesare Cattaneo gentiluomo ferrarese ritrovandosi
a sorte in corte, nell'udire le rappresentate doglianze dell'Ariosti,
rispose aver quello poco spirito, mentre con l'autorità non sapea
liberar la provincia da quella sediziosa peste de' fuorusciti: darsi
egli vanto, quando gli fosse sostituito, di estinguerne il veleno
nel primo mese. Parole che riferite al duca, fu dall'A. S. tantosto
determinato che fossero ridotte all'effetto, per far prova se il vanto
fosse veritiero o bugiardo: che però fattolo a sè chiamare, dichiarollo
governatore di questa provincia, e con la solita spedizione delle
patenti qua inviollo a dar la sospirata muta all'Ariosti, che tutto
assorto nelle dolcezze di Parnaso, non bastava ad applicare ai rigori
di Marte e d'Astrea.

«Ricevuto il Cataneo dai provinciali con dimostrazioni d'allegrezza
nella solita residenza della rôcca di Castelnovo, fece egli tantosto
pubblicare un editto, che qualunque bandito per qual si sia delitto
uccidesse in provincia il compagno, fosse certo d'ottenere subito la
remissione del bando _gratis_ e senza ben minimo dispendio; di che
restarono di tal sorte spaventati i fuorusciti, che nel breve spazio
d'un mese sgombrarono tutti la provincia e si dileguarono, lasciandola
in una perfettissima quiete. Invenzione così ammirata da tutti, che
celebrato per l'Italia restonne il Cataneo famoso, applaudito qual
Cesare vincitor senza pugna, e trionfante senza contrasto; e ne sarebbe
restato in Garfagnana il suo nome immortale, quando non l'avesse
poscia egli oscurato con ingiustissime operazioni e con vergognose
estorsioni.... onde citato a comparire (nel 1527) a Ferrara....
spaventato dalla reità della propria coscienza negò la comparsa.... e
partitosi dallo stato contumace.... fu dopo la formazione del processo
dichiarato bandito»[111].

Ma il Carli si dimostra assai male informato della verità dei fatti
che imprese ampollosamente a narrare[112]. Le gride V, VI, e VII da
noi stampate in questo volume (_pag. 315, 316_), provano all'evidenza
che l'offerta del perdono ai banditi che uccidessero degli altri
banditi in pena capitale non fu un'_invenzione ammirata_ del Cattaneo,
ma un'infelice risoluzione presa fin dal 1524 sotto il governo
dell'Ariosto; poichè se per essa potevasi scemare la schiera dei
tristi, dovevasi al tempo stesso portare lo scandalo e la corruzione
in quella dei buoni, accrescendola di uomini malvagi, assolti dai
delitti passati mediante un omicidio traditorio di più. È poi falso
che i fuorusciti si lasciassero spaventare così facilmente da questi
editti e sgombrassero la provincia; chè anche nel maggio 1525, e cioè
un anno dopo, l'Ariosto proponeva al duca di far grosse taglie contro i
medesimi per estirparli dalla Garfagnana ove continuarono a mantenersi
non solo durante il breve commissariato del Cattaneo, ma ben anche
per un tempo più lungo d'assai, come si rileva dalla grida che nel 20
novembre 1551 venne pubblicata in Castelnovo; leggendosi in essa: «....
perchè si conosce evidentemente che tutti i latrocinii e assassinamenti
che son fatti non procedono da altro, se non tollerando li banditi che
stieno nella provincia.... vuole S. S.... che ogni volta.... banditi in
pena capitale passeranno per alcuna terra o villa di detta provincia,
che subito quelli di detta terra uomini e donne che li vederanno siano
tenuti a dargli drieto a suon di campane e gridar _ammazza ammazza_,
e ammazzarli o pigliarli, o vivi o morti, e consegnarli alla corte
subito, che gli sarà donato scudi 25 d'oro; altrimenti, non lo facendo
_ipso facto_, s'intenda essere incorsa quella terra nella pena di
scudi 100 d'oro in oro, applicabili alla ducal Camera, la quale se
li farà pagare senza avergli remissione alcuna, facendo pigliar li
primi di detta terra o villa che li capiteranno in le mani.... non
avendo rispetto a giovedì[113] nè a ferie a farli incarcerare per
esigere la detta pena: sì che ognuno si guardi». — Il rigore di questi
provvedimenti e le convenzioni fatte prima colla Repubblica di Lucca,
estese poscia col Governatore di Bologna nel 1543 e col duca di Parma
e la marchesa di Massa nel 1551, di non lasciar posare in alcun luogo
i malfattori, arrestandoli e consegnandoli scambievolmente, portarono
alla per fine un po' di pace al paese. Non troviamo che un'egual
convenzione fosse fatta per allora coi Fiorentini, sebbene al suo
tempo l'Ariosto la riconoscesse necessaria: e forse questi disordini
non erano da essi veduti di mal occhio, tenendo viva la speranza di
poter un giorno riconquistare la Garfagnana: dovendo osservarsi che
tra Ercole II di Ferrara e Cosimo I di Firenze era sorta una grande e
vanitosa lite di precedenza per la quale furono sempre nemici; poichè
nell'abboccamento avvenuto a Lucca nel 1541 tra Paolo III e Carlo
V, il duca di Ferrara, presentatosi con altri principi italiani al
cerimoniale corteggio, corse a mettersi alla destra dell'imperatore ed
a porgergli alla mensa la salvietta, con volere che fosse fatto rogito
di quest'_onore di primo grado_; onore che Cosimo I, pur esso presente,
giudicava invece competere a lui medesimo.

Anche le fazioni politiche che tenevan divise quelle terre andavano
in allora scemando de' loro odii e delle frequenti vendette. Racconta
Daniello Bartoli che nel 1547 essendosi condotto colà il padre Landini
per dar corso alle fatiche apostoliche, «appena trovò luogo che non
fosse tocco da questa maladizione»: ma che la sua parola vi sanò
l'eresìa luterana che pur vi conobbe, ed estinse non poche inimicizie
passate in eredità da' padri a' figliuoli: cosicchè in Carreggine, nel
meglio del predicare, veggendo gli uditori in gran maniera commossi,
accennò col dito e chiamò per nome Giovanni Corso capo e mantenitore
della fazione _francese_, ed egli alzatosi per dichiararsi disposto ai
desiderî del Landini fece pace colla fazione _italiana_, come «il fatto
si notò su messali di quella chiesa»[114].

Ritornato l'Ariosto a Ferrara dove il sorriso della sua donna e
l'ozio beato delle Muse traevalo; lasciata una gente inculta, simile
all'asprezza de' sassi ov'è nata (Satira VI), per trovarsi nella
dotta compagnia de' suoi vecchi amici che mai non ebbe nè invidiosi
nè finti, potè acquistarsene uno nuovo nel poeta Ercole Bentivoglio
venuto anch'esso al servigio del duca, col quale passeggiava di
frequente nel cortile del palazzo ragionando e ridendo insieme de'
poemi cavallereschi del Cieco da Ferrara, del Guazzo e d'altri molti
così inferiori di merito al _Furioso_, il quale avidamente ricercato
da tutti accresceva diletto quanto più si leggeva, ed erasi ben nove
volte ristampato dal 1524 al 1527 tra Venezia e Milano. Alcune di
queste edizioni si dicevano fatte _con licenza dell'autore_, altre
lo tacevano: niuna però portava correzioni ed aggiunte che l'Ariosto
riserbavasi introdurre in una terza impressione da eseguirsi in Ferrara
colla propria assistenza: «non passando mai giorno, come scrive il
Giraldi, ch'egli non vi fosse intorno e con la penna e col pensiero». A
questo scopo bramando vivere più tranquillo e solitario, si divise nel
1527 dai fratelli, comprò nella contrada di Mirasole una casetta con
diverse pezze di terra all'intorno e si pose a fabbricarvi e a formarvi
un piccolo giardino, spendendo tutto quello che poteva ritrarre delle
sue rendite. «E perchè male corrispondevano (come nelle sue _Memorie_
lasciò scritto il figlio Virginio) le cose fatte all'animo suo, soleva
dolersi spesso che non fosse così facile il mutar le fabbriche come
i suoi versi; e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano
ch'esso non facesse una bella casa, essendo persona che così ben
dipingeva i giardini, rispondeva che faceva quelli senza denari».
Sull'entrata della casa leggevasi il seguente distico:

    _Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non_
    _Sordida, parta meo sed tamen aere Domus;_

ed ivi ritiratosi attese a dar l'ultima mano al suo _Furioso_,
occupandosi ancora di rivedere le sue commedie in versi, le _Satire_
e le poesie liriche. Erano suo passatempo le cure del giardino, ove
(séguita a dire Virginio) «teneva il modo medesimo che nel far de'
versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre
mesi in un loco: e se piantava anime di pesche o semente di alcuna
sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano che finalmente
rompeva il germoglio».

Pel duca Alfonso rinnovavansi intanto le triste condizioni dei tempi
di Leone X, poichè il nuovo papa Clemente VII, «nome tanto contrario
agli effetti che poi si videro di lui»[115], non tardò a mostrarsegli
ostile. Avendo il duca spedito oratori a Roma affine di essere
rintegrato di tutti i suoi Stati, ma con ottenere soltanto che dal 15
marzo 1524 ad un anno avvenire rimanesse ogni cosa in sospeso; papa
Clemente cominciò nell'agosto di detto anno a chiedere la restituzione
di Reggio e Rubiera, unitamente all'altre terre ricuperate ne' due
mesi della sede vacante. Si fece conoscere il torto del papa, ed
egli irritatosi «mandò un nunzio con una breve capitolazione circa la
restituzione trattata, che la portò del mese di ottobre, avendo posto
in punto genti da piedi e da cavallo delle sue e de' Fiorentini per
usarle all'improvviso contro esso duca quando lui non avesse voluto
sottoscrivere la detta capitolazione in termine di due ore: e il duca
Alfonso, temendo peggio e trovandosi disarmato sotto la fede che si
vedeva mancargli, sottoscrisse li capitoli nelli quali si conteneva,
che avesse a dare al detto papa Clemente Reggio e Rubiera con lor
territorii ed anco il Finale e san Felice fra venti giorni, e che esso
papa avesse a dare la investitura a lui di Ferrara... con pena di cento
mila ducati a chi non osservasse. Ma poi vedendosi esso duca tanto
iniquamente essere stato necessitato a sottoscrivere li detti capitoli,
deliberato di non li eseguire, lasciò passare il termine prescritto,
confidandosi nella venuta del re di Francia; che venne tanto presto,
che appena gli Spagnuoli ebbero tempo fuggendo di ridursi a Pavia, alla
quale esso re pose il campo, avendo già preso Milano. Ed è da sapere
che pendente il termine di detti venti dì, il conte Guido Rangone, che
stava col papa Clemente, con inganno rubò Montecchio al duca Alfonso;
il che, per quanto s'intese, fece di scienza ed ordine di detto papa».
Ciò rileviamo dal segretario del duca Bon. Pistofilo[116], il quale
sebben cerchi d'ogni lato trovar scuse al suo principale, mostrerà
sempre, anche ammettendo il fatto com'egli lo narra, che due uomini di
mala fede si stavano a fronte. — Venuto in Italia il re di Francia, il
papa cercò tosto di allearsi al medesimo, stimandolo più potente degli
Imperiali: ma questi nella memorabile giornata del 24 febbraio 1525
sconfissero sotto Pavia l'esercito francese, e lo stesso re Francesco
I cadde prigioniero nelle loro mani. Clemente VII fece poi nuova
pratica con Carlo V per ottenere l'adempimento della capitolazione
firmata dal duca, il quale riescì ancora ad allontanare la tempesta,
conciliandosi gli Imperiali mediante il prestito fatto nel 25 marzo
al vicerè di Napoli generale dell'imperatore di sessantacinque mila
scudi. — Volle pur mettersi in amichevole relazione coi Veneziani,
restituendogli le galere guadagnate in Po nel 1509; e il 20 settembre
s'avviò «per terra alla corte dell'imperatore Carlo V in Spagna per
far riverenza alla Cesarea Maestà, e per vedere se con tal mezzo potea
rassettare le cose sue con Clemente VII.... Ma perchè il re di Francia
era allora prigione in Spagna.... riputando i Francesi che lo andare
del duca fosse di troppa importanza al servigio di esso imperatore e a
detrimento della corona di Francia della quale detto duca era sempre
stato ed era affezionatissimo e devoto, non gli volsero concedere il
passo per la Francia: di maniera che, poi ch'ei fu stato un mese a S.
Giovanni di Moriana in mezzo la Savoia, che sin là era pervenuto, se
ne tornò a Ferrara»[117]. — Vennero poi in campo, a quanto ci narrano
gli storici di casa d'Este, le solite trame contro la vita del duca
«a satisfazione di papa Clemente e con consiglio comunicato col conte
Guido Rangone»[118], indi le rivelazioni dei traditori pentiti che
le sventarono, e le morti di alcuni complici principali, fra quali
Girolamo Pio di Sassuolo decapitato il 25 ottobre 1528, i cui beni
confiscati formarono la dote d'Isabella figlia naturale del cardinale
Ippolito d'Este.

Col trattato di Madrid 14 gennaio 1526, Carlo V, il più grande
dominatore del mondo a' suoi giorni, fece pace colla Francia, e il 18
marzo il re Francesco I venne posto in libertà. Il papa sperando poter
abbattere la soverchia potenza dell'imperatore in Italia, stabilì
una così detta lega santa colla Repubblica di Venezia, lo Sforza, e
il re di Francia il quale ruppe fede al trattato di Madrid. Il duca
Alfonso era stato escluso dal papa: ma gli altri alleati lo invitarono
a farvi parte, ed egli accettò. Anche Giovanni de' Medici, aderendo ai
consigli di Clemente VII, avea fin dal 1525 abbandonato gl'Imperiali
per collocarsi colle sue _bande nere_ al servizio di Francia. Da tutti
gli Stati italiani raccoglievansi forze per cominciare contro Carlo V
una grossa guerra che tornò ben presto fatale al papa, poichè mentre la
maggior parte delle milizie della lega trovavasi all'assedio di Milano,
il 21 settembre 1526 «don Ugo di Moncada insieme col cardinale Colonna
per nome Pompeo, accompagnati da altri signori e seguaci Colonnesi,
con buon numero di gente da piede e da cavallo, d'improvviso entrarono
in Roma e saccheggiarono il palazzo del papa e molte altre case; e
appena il papa ebbe tempo di salvarsi in Castel Sant'Angelo»[119], poi
scendere a patti per liberarsene. Il duca Alfonso vagheggiava in questo
mentre di abbandonare la lega per unirsi a Carlo V che lo invitava con
promessa di molti vantaggi e che inviavagli il 5 ottobre diplomi per
dichiararlo suo capitano generale in Italia: ma sembra ch'egli non si
risolvesse così di sùbito a ratificare la cosa: un po' vergognando di
mettersi contro la Francia, sua antica e fedele alleata, un po' mirando
a guadagnar tempo in attesa di nuovi fatti.

Sui primi di novembre calava in Italia Giorgio di Frundsberg con
quindici mila tedeschi per soccorrere l'esercito imperiale a Milano.
Portava egli seco e mostrava a tutti legati sull'arcione del cavallo un
laccio d'oro e molti altri di seta coi quali iniquamente vantavasi che
avrebbe appesi di sua mano il papa e i cardinali; «e volendo passare il
Po a Mantova, il duca d'Urbino capitano generale de' Veneziani ch'era
con l'esercito in Lombardia contro i Cesarei, venne con tutta la gente
che avea, ed insieme con esso il signor Giovannino de' Medici, per
impedire che non passassero: che certo gli aveva impediti e ridotti
anco a qualche gran necessitade, perchè non avevano nè cavalli, nè
artiglieria. Ma il duca Alfonso, il quale _se bene non avea ancor
fatto l'appuntamento, nè firmato intieramente con l'imperatore_, avea
però l'animo inclinato alla parte imperiale, mandò suso in nave sino a
Governolo dodici falconi e mezze colubrine fornite di munizioni agli
detti Germani.... che giunto un sì opportunissimo soccorso, presero
maggior coraggio, ed animosamente mostrarono la faccia ad essi nemici,
li quali vista e sentita la detta artiglieria, si ritirarono.... con
perdita di alcuni di loro troppo animosi, e fra gli altri del predetto
Giovannino, al quale una ballotta da falcone portò via la gamba destra,
e fu portato a morire in Mantova; e così poi essi Germani, senza
essere più seguitati, vennero a passare il Po a lor piacere ad Ostia, e
andarono verso Piacenza per unirsi col duca di Borbone[120]» comandante
supremo degli Imperiali.

Cotal fine ebbe il valoroso capitano delle _bande nere_ Giovanni
de' Medici. Aveva egli chiesto in quest'anno al duca di Ferrara,
all'amico della Francia per cui combatteva, alcune artiglierie che gli
abbisognavano; e il duca con sua lettera del 2 marzo[121] gliele aveva
negate, mandandole invece in aiuto ai Tedeschi, sebbene non ancora
dichiarato alleato dei medesimi: ed era destino che queste artiglierie
dovessero recargli la sconfitta e la morte avvenuta il 30 novembre
1526 fra le braccia dell'amico suo Pietro Aretino, il quale nelle sue
_Lettere_ ci lasciò interessanti dettagli su gli ultimi momenti del
Medici.

Operatasi, come abbiam veduto, la congiunzione dei due corpi d'armata,
già resi vittoriosi in Lombardia, vennero a Reggio ove fermatisi sei
giorni si diedero ad ogni licenza di corrotta soldatesca. Incerto
il Borbone da qual parte dirigere il suo grande esercito composto di
Tedeschi e Spagnuoli allo scopo di poterlo occupare e pagare, credesi
dal Guicciardini che il duca Alfonso suggerisse al Borbone che la
via unica era di correre a Roma, anche per togliersi al più presto
d'addosso questi nuovi amici, e vendicarsi del papa. Il 6 maggio
1527 piombarono in fatti su Roma che per forza fu presa, rimanendo
nell'entrare ucciso il duca di Borbone «con uno archibusetto _da un suo
soldato_»[122]. E in tutta la città venne dato quell'orribile sacco e
si commisero tanti eccidî e delitti che mai s'udirono i peggiori; «ove
il cardinale d'Araceli fu venduto all'incanto in Campo di Fiore come si
vende un bue, e furono fatte tante altre cose crudeli ed orrende, che
per timore d'essere tenuto bugiardo non ardisco scriverne.... ma ben
dirò che quel flagello venisse dalla giusta mano di Dio per li molti
peccati e scelleritadi ch'erano in quella cittade, e più in prelati che
in laici»[123].

Il papa erasi reso prigione con tredici cardinali; poi fuggì: ma solo
saziando in più volte l'avarizia e ingordigia di quelle orde arrabbiate
col mandare grandi somme di danaro, e con assolverle d'ogni eccesso
commesso, le ridusse a sortire da Roma quasi un anno dopo.

Senza perder tempo il duca Alfonso approfittò della cattività del
papa, e portatosi sotto Modena vide finalmente adempiuto il suo lungo
desiderio, ottenendone la resa il 6 giugno 1527.

Pochi mesi dopo tornava a far parte della _lega santa_, attiratovi
dall'offerta di condizioni assai favorevoli stipulate a Ferrara
col cardinal Cibo che agiva in nome del papa. Ma Clemente VII, poi
che venne l'8 dicembre in libertà, e gli fu proposta la ratifica
dei patti voluti dal duca, «mostrandosi persuaso che Alfonso fosse
stato l'istigatore del Borbone per condursi al sacco di Roma, negò
risolutamente di approvare il concordato»[124], e fece le sue proteste
per l'occupazione di Modena. Il duca chiese allora di bel nuovo la
grazia di Carlo V; indi a rannodare validamente l'amicizia con Francia,
mandò ad effetto il matrimonio progettato tra don Ercole figlio
primogenito di lui e la principessa Renea di Valois cognata del re
Francesco I; matrimonio che fu celebrato in Parigi il 28 giugno 1528.

Trattenutisi gli sposi in Parigi a motivo della peste che ancor
durava in Ferrara, solamente nel settembre si posero in viaggio con
accompagnamento di alcuni principi reali, e fermatisi molti giorni
a Modena fecero il loro pomposo ingresso in Ferrara il 1º dicembre.
A festeggiare queste nozze furono rappresentate alcune commedie in
un teatro che il duca avea fatto costruire nel suo palazzo secondo
l'architettura ideata e diretta dall'Ariosto, il quale vi ordinò una
scena stabile che figurava la piazza di Ferrara colle contrade che
vi fanno sbocco, i suoi _banchi, fondachi_ e _spezierie_; e l'Ariosto
sovente mostravasi

    ...... sul proscenio a recitar principii,
    E qualche volta a sostenere il carico
    Della commedia, e farle servar l'ordine[125].

In questo teatro venne data per la prima volta _La Lena_ dell'Ariosto,
e il principe don Francesco, altro figliuolo del duca, recitò in
persona il prologo della medesima, come pure diversi gentiluomini non
mancarono di sostenervi la parte di attori: chè Alfonso, e quindi tutti
di sua corte, si dicevano amanti di questi spettacoli; e il teatro era
riescito assai vago e bello: vanto gradito di messer Lodovico.

La commedia suddetta fu pure susseguita dalla rappresentazione della
_Cassaria_ ridotta in versi dallo stesso autore, e dicendo egli nel
prologo che fu data altra volta vent'anni addietro, viene a confermarsi
che la prima recita accadde, come già si disse, nel 1508. — _La Lena_
ebbe altresì una seconda rappresentazione nel 1531 con un nuovo prologo
ed una _coda_ di due scene aggiunte in fine.

Il 20 giugno 1529 fu stabilito in Barcellona un trattato di pace e di
confederazione tra Carlo V e Clemente VII, obbligandosi fra l'altre
cose l'imperatore di far rientrare in potere del papa Modena, Reggio e
Rubiera, e di aiutarlo a togliere Ferrara al duca Alfonso, dichiarato
ribelle della Chiesa. Nel 5 agosto fu altresì firmata in Cambrai la
pace col re di Francia, rimanendo l'Italia abbandonata per intiero
all'Austria. A queste notizie il duca doveva stimarsi irreparabilmente
perduto: ma come fu preservato altre volte in momenti non meno gravi e
supremi, un raggio di speranza non tardò anche allora di arridergli.

Sceso Carlo V per la prima volta in Italia, fu il 5 novembre in Bologna
a stabilire d'accordo col papa una pace generale. Nel viaggio passò
per Reggio e Modena, e il duca tenne a sua grande fortuna di poter
incontrarlo, accoglierlo e servirlo con ogni maniera di magnificenza,
esporgli le proprie ragioni, e lusingarsi prima di lasciarlo al confine
di averne guadagnato il favore.

Da Bologna il papa fece intimare le volute restituzioni ad Alfonso; ed
egli rispose che si sarebbe sottoposto alle decisioni dell'imperatore;
gettando con azzardo l'ultima àncora di sua incerta salvezza. In
febbraio del 1530 avvenne in quella città per mano di Clemente VII
l'incoronazione di Carlo V a imperatore e re d'Italia. Avrebbe il duca
desiderato trovarvisi in mezzo a tanti altri principi concorsi allo
splendido corteggio; ma il papa nol volle. Ottenne poi di potervi
andare nel marzo, e dopo molte dispute fu stipulato un compromesso
delle vicendevoli pretese nel giudizio di Carlo V da essere pronunciato
fra sei mesi. Nel frattempo Modena fu consegnata all'imperatore che vi
si recò in compagnia del duca, indi passarono entrambi a Mantova ove
Alfonso I conseguì colla spesa di cento mila ducati d'oro l'intiera
investitura di Carpi. — Nell'accompagnamento di molti gentiluomini
che il duca ebbe in questi viaggi è molto probabile vi fosse compreso
l'Ariosto; essendo poi certo che nel mese di novembre passò col
medesimo a Venezia, come si rileva da una lettera che Lodovico scrisse
dopo il suo ritorno a Ferrara il 22 gennaio 1531 a nome d'Alessandra
Benucci vedova Strozzi (_pag. 323_). Non comprendiamo poi come il
Baruffaldi[126] possa credere che il poeta si portasse a Venezia «per
attendere ad una nuova ristampa del suo _Furioso_», quando il poema non
fu ivi riprodotto nel 1530 una sola volta ma quattro, essendo ancora
per uscirne una quinta pubblicata in gennaio dell'anno seguente, e
quando tutte cinque, compresa quella dei Sessa citata dal Baruffaldi,
seguono il testo vecchio e non portano correzioni dell'autore:
unicamente il tipografo Zoppino ferrarese introdusse per la prima volta
nella sua edizione veneta del 1530 in-4º le figure in legno ad ogni
canto.

A questo tempo era certamente seguito il matrimonio dell'Ariosto colla
Benucci, poichè vediamo ch'egli di suo pugno scriveva lettere in di lei
nome ai parenti della medesima colla più grande intimità. — Dovendo poi
tali nozze rimanere avvolte nel segreto, essendo _periglioso il dirlo
altrui_ per non perdere le rendite ecclesiastiche de' suoi beneficî,
il nostro autore non palesò in quelle lettere il proprio nome (chè
una gli fu aperta con frode, — _pag. 289_), accennandosi soltanto pel
_cancelliero_ di madonna Alessandra. Costretto a vivere da lei separato
di casa (_pag. 296_), era non ostante sì al colmo della letizia, che
la sovrabbondanza del cuore diffondendosi nella fronte e negli occhi,
traevalo a darvi sfogo con un'elegia, nella quale tace la cagione
ond'è mosso ma deve assegnarsi al pieno conseguimento della donna che,
sebbene inoltrato degli anni, amava con trasporto giovanile; facendoci
pur conoscere in altra ancor più espressiva elegia di aver fruito
in antecedenza di qualche _furto d'amore_, non si sa poi con qual
_dea_[127], e come altresì lascia dedurre da parecchi de' suoi sonetti.

Stando al Litta, da questo matrimonio sarebbe nata una figlia l'8
novembre 1531, cui fu posto il nome di Lodovica. Se ciò è vero, convien
dire che morisse assai presto, non facendone l'Ariosto parola nel suo
ultimo testamento.

Carlo V pronunciava intanto sentenza nella lite tra il papa e il duca
di Ferrara, nella quale si confermava a quest'ultimo il possesso di
Modena, Reggio e Rubiera, purchè chiedesse perdono a Clemente VII
d'ogni mancato riguardo, portasse a settemila ducati d'oro l'annuo
censo di Ferrara, e pagasse all'imperatore per la nuova investitura
che gli avrebbe fatto di Modena altri cento mila ducati per una
volta tanto. Il duca ne fu molto lieto; nè gravandogli la spesa,
poichè facendo allora mercanzia si trovava assai danaroso[128], fu
sollecito all'adempimento delle condizioni; mentre il papa strepitava e
dichiarava che lui vivente non avrebbe mai approvato quel lodo.

Nell'estate di detto anno 1531 essendosi Alfonso portato ai bagni
d'Abano, vi andò seco l'Ariosto ove ammalò di febbre. Voleva subito
restituirsi a Ferrara, ma il cavalier Obici, che pur trovavasi ai
bagni, lo persuase a seguirlo nella vicina città di Padova e fermarsi
in sua casa finchè fosse ristabilito. Quivi ebbe un'altra febbre che fu
dichiarata terzana; e mentre attendeva a riaversi sopraggiunse il duca
che il volle a Venezia con lui, come lo stesso Ariosto c'informa in una
lettera scritta a nome di Alessandra (_pag. 325_).

Ritornato nel settembre a Ferrara, il duca ebbe avviso che il papa
radunava degli uomini d'arme che si dicevano destinati a ricuperar
Carpi ad Alberto Pio. Disponendosi perciò a farne buona difesa, chiese
all'uopo soccorso a don Alfonso Davalo marchese del Vasto comandante le
truppe imperiali in Mantova, e spedì tosto l'Ariosto a concertarsi col
medesimo. Il nostro poeta lo trovò in Correggio in casa della celebre
Veronica Gambara, ov'era passato a porre il suo quartier generale; ed è
facile il comprendere quanto il poeta vi fosse accolto con ogni festa e
favore, avendolo il marchese, grande estimatore degli uomini d'ingegno,
regalato al partir suo di un bellissimo lapislazzoli, di una catena
d'oro e di una pensione di cento ducati l'anno per sè e suoi eredi,
stipulata per atto notarile fatto in Correggio il 18 ottobre 1531, e
come apparisce dalla lettera dell'Alessandra Benucci vedova Strozzi che
pubblichiamo (_pag. 327_).

Questi apparecchi fecero dimettere al papa il pensiero d'invadere
gli stati d'Alfonso. Sembra per altro che si tramasse una nuova
congiura per ucciderlo con tutta l'Estense famiglia: ma venendo, come
sempre, scoperto il funesto disegno, Bartolomeo Costabili, vecchio di
ottantaquattro anni, fu sui primi del 1532 decapitato, e la testa ebbe
infissa in un'asta su la parte più alta del castello.

In quest'anno l'Ariosto si accinse alla terza sua ristampa
dell'_Orlando furioso_ corretto ed accresciuto, non isdegnando di
averlo prima sottoposto al Bembo e ad altri uomini dotti «per imparare
quello che per lui non era atto a conoscere» (_pag. 282_); così
umilmente scrivea di sè stesso, così era difficile a contentarsi del
proprio giudizio. L'edizione fu cominciata nel maggio e terminata _in
Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, addì primo d'ottobre
MDXXXII_. Rivide ei medesimo con somma pazienza e fatica le bozze di
stampa; e trovandosi esemplari che hanno fra loro alcune varietà, è
manifesto che a quando a quando faceva interrompere la tiratura dei
fogli per introdurvi nuovi miglioramenti. Al canto nono cominciano
le più notabili mutazioni e le aggiunte qui e là nel poema, che con
nuovo ordine portò a canti 46. Confrontando questa colle antecedenti
impressioni «apparirà incomprensibile (dice il Foscolo) come uno
scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contra le regole
del buon gusto e della dizione poetica, potesse in seguito espungere
tali colpe, e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti
bellezze»; ma lo studio che l'Ariosto confessa di aver fatto delle
grazie native dell'idioma toscano[129], e il continuo mutare e rimutare
de' suoi versi in cui seppe per più anni persistere, lo condussero a
vincere ogni difficoltà, a raggiungere una forma vigorosa e corretta,
armoniosa ed espressiva, onde viene a formarsi quel mirabile accordo di
pregio poetico che tanto risponde alla vaghezza dei fatti che trattano

    Di donne e cavalier, d'armi e d'amori.

«L'Ariosto avea pensato sull'arte e sul gusto de' suoi coetanei, e
una lunga esperienza gli aveva giovato. Ei tenevasi certo del buon
effetto del suo poetare.... di quel suo metodo di complicare l'azione
principale frapponendovi gran varietà di favole secondarie, le quali,
sebbene possano sviare chi legge, pure hanno virtù di colpirgli la
fantasia, e di strascinarlo alla catastrofe del poema, dove si vede lo
scioglimento delle varie avventure. — Egli inebria la fantasia, vuole
che quanto a sè piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch'egli
vede. — Nell'istante medesimo che la narrazione di un'avventura ci
scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e
subito dopo udiamo il mormorìo di ruscelli di cui avevamo smarrito il
corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si
mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzioni
diverse; talchè il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del
pescatore, che attonito all'armonia de' mille strumenti che suonano
nell'isola di Circe, _pende le reti.... e ode_»[130].

Con lettera del 9 ottobre 1532 mandò «innanzi a tutti gli altri» un
esemplare del _Furioso_ alla marchesana Isabella di Mantova cui sapeva
essere gratissime le composizioni di lui (_pag. 302_): ma quando aveva
il maggior bisogno di riposarsi dell'affoltata fatica dell'opera, e
godere in tutta quiete le felicitazioni degli amici e degli uomini
celebri di quel tempo ch'egli andò sempre più lodando o rammentando nel
suo poema, fu costretto portarsi in compagnia d'Alfonso I il 7 novembre
in Mantova all'arrivo dell'imperatore; chè il duca voleva spesso
l'Ariosto a sè vicino, e molto più adesso per l'ambizione di mostrar
nel suo séguito il poeta che ognor saliva in maggior fama e che formava
l'invidia delle altre corti.

In Mantova l'Ariosto presentò a Carlo V il suo poema che in questa
edizione lo colmava di lodi, e fu detto che l'imperatore dichiarasse di
voler rimeritare il poeta con imporgli sul capo la corona d'alloro. Il
pensiero potè essere suggerito dal marchese del Vasto, che anch'esso si
trovò per riconoscenza encomiato[131]: ma l'incoronazione solenne, come
l'uso e la dignità Cesarea richiedeva, non lasciò forse campo di essere
preparata nel breve soggiorno che il monarca fece in quella città, e
venne impedita per sempre dalla prossima morte dell'Ariosto[132].

Dopo l'assenza di oltre un mese, il nostro autore si restituì a Ferrara
in istato di assai debole salute; e avendogli il principe Guidobaldo
della Rovere richieste alcune commedie che non fossero sino allora
rappresentate, gli rispose il 17 dicembre dolersi di non poterlo
soddisfare, e gli narrò di aver composte solamente quattro commedie,
i _Suppositi_ e la _Cassaria_ rubategli dai recitatori e stampate
con suo dispiacere, la _Lena_ e il _Negromante_ recitate soltanto a
Ferrara. Gli aggiunse pure che molti anni addietro ne cominciò un'altra
intitolata _I Studenti_ che mai ebbe tempo di ripigliare, e che quando
la conducesse a fine non potrebbe esimersi che il duca suo signore ed
il principe don Ercole non la facessero eseguire nel loro teatro di
corte prima che altrove ne fosse mandata copia (_pag. 303_).

Il 25 detto mese scrisse anche a nome della moglie una lettera, che
è l'ultima che abbiamo di lui (_pag. 335_): ma costretto poco dopo a
mettersi in letto, prevedendo vicino il suo termine, fece l'abbozzo
di un secondo testamento in cui lascia un legato alla _magnifica
Alessandra Strozzi_, erede il figlio Virginio, ed un assegno vitalizio
all'altro figlio naturale Gio. Battista, chiamato pure a sostituire
Virginio nell'eredità.

La notte del 31 dicembre 1532 «s'accese il fuoco in una bottega
di Francesco Zangarino sotto la loggia del palazzo ducale, e
irreparabilmente arse tutta la parte dinanzi del detto palazzo dal
canto della piazzetta fin sopra la porta del cortile alle due statue di
bronzo, e fu cosa orrenda e giudicata prodigiosa. Nella gran sala era
la bella e ricca scena dell'Ariosto, che tutta rimase estinta; e quella
notte istessa s'infermò il detto poeta, che morì poi il 6 di giugno del
seguente anno»[133]. Travagliato, secondo il Pigna, da «un'ostruzione
alla vescica, alla quale volendo i medici Bonaccioli, Manardo e
Canani, i primi di Ferrara, con acque aperitive porger rimedio, gli
guastarono lo stomaco; e soccorrendosi con altre medicine a quest'altra
indisposizione, cadde nell'etica», e finì di vivere con dolore di tutti
nell'ancor verde età di 58 anni, mesi 8 e giorni 28.

«Dalla sua casa posta nella via di Mirasole, dove morì, fu portato da
quattro uomini notte tempo con due lumi soli alla chiesa vecchia di san
Benedetto, accompagnato però da quei monaci spontaneamente e fuori del
loro costume; tratti, come scrive il Garofolo, dall'amore che portavano
alle sue rare virtù. Ivi fu sotterrato assai semplicemente, com'egli
aveva voluto e prescritto nell'ultimo suo testamento»[134]. Il fratello
Gabriele desiderava innalzargli un monumento, e il figlio Virginio
fece anzi fabbricare una cappella in capo all'orto della sua casa,
intendendo trasportarvi le ossa del padre; ma la traslazione non seguì
che nel 1573 in un decoroso sepolcro di marmo eretto nella nuova chiesa
dei detti monaci a spese di Agostino Mosti che gli fu discepolo, indi
nel 1612 in un altro più ricco a spese di Lodovico Ariosti pronipote
del poeta, e finalmente nel 1801 con molta pompa e solennità nella
pubblica Biblioteca di Ferrara, essendone stato promotore il francese
generale Miollis.

Il figlio Virginio si studiò sempre di onorare la memoria del padre.
Raccolse le poesie latine di lui e diedele al Pigna che le stampò
colle sue e con quelle del Calcagnini nel 1553: somministrò ad Antonio
Manuzio cinque canti in ottava rima che uscirono nel 1545 in aggiunta
al _Furioso_, senza però seguirne regolarmente la materia[135]:
dettò alcune _Memorie_ da servire di buona traccia ad una vita che
doveva farsi del grande poeta, e condusse a termine la commedia _I
Studenti_ che fu dall'autore lasciata imperfetta. Di questa fatica
di Virginio non giunse a noi che il solo prologo: fu però completata
anche dal fratello Gabriele, ed è la commedia che abbiamo col titolo
_La Scolastica_. — Ignoriamo a chi debbasi la prima e cattiva stampa
fattasi nel 1534 delle _Satire_, che, dopo il poema, sono il lavoro
più importante e lodato dell'Ariosto; e senza estenderci a parlare
delle altre _opere minori_ di quest'ingegno privilegiato, rimettendoci
al giudizio autorevole di Filippo-Luigi Polidori che le illustrò
(Firenze, 1857), rigettandone alcune di non sincera derivazione, e
movendo dubbii sopra la schietta legittimità di altre; aggiungeremo
alla volta nostra che dove l'_Erbolato_, venuto in luce nel 1545 a
cura di un Jacopo Modanese, ci sembra una prosa troppo fiorita ed
elegante, così il frammento del poema il _Rinaldo ardito_ si mostra
al contrario di locuzione troppo rozza ed impropria per essere l'uno
e l'altro attribuiti con certezza all'Ariosto. E tornerebbe un po'
strano che mentre adoperava in confidenza e correntemente le parole
_raccomando, berretta, camera, gagliardo, figlio, reliquia_, ecc.,
come rilevammo dagli autografi indubitabili delle lettere di lui
esistenti nell'Archivio di Stato in Modena, venisse poi nel comporre
studiosamente in versi ad alterare siffatte parole con _arricomando,
bretta, ciambra, fio, galgiardo, relliqua_ che si veggono nel _Rinaldo
ardito_: il quale avendo allusioni storiche relative al 1525, è per
lo meno posteriore di cinque anni alla dichiarazione che l'Ariosto
fece nel Prologo della commedia il _Negromante_, di attendere il più
che poteva a nascondere nelle sue scritture la pronunzia lombarda.
Aggiungasi inoltre che il ms. originale del frammento di poema,
chiamato dal Baruffaldi _un primo abbozzo_, è sparso di corretture
e varianti che mostrano esservisi tornato sopra più volte. Ciò non
ostante occorrono spesso, fra gli altri difetti, certi troncamenti
di voci che l'Ariosto non usò mai, compresa la prima edizione del
_Furioso_ uscita nel 1516, con sì riprovevole licenza; tali essendo:
_car_ per _carro_, _col_ per _collo_, _don_ per _donna_, _fer_
per _ferro_ ecc.; troncamenti che potendo anche volgersi a diverso
significato, è un'ingiuria il ritenere che siano caduti dalla penna
del nostro poeta[136]. A malgrado dunque dell'asserzione, però unica e
non abbastanza apprezzabile, del Doni che assegna il _Rinaldo ardito_
a Lodovico Ariosto, e a malgrado di qualche somiglianza col carattere
e talora pure coi concetti del nostro autore, amiamo credere che il
frammento medesimo sia opera del figlio Virginio, il quale vivendo
col padre e avendo tutto per la mente il _Furioso_, potrebbe essersi
ancora approfittato di alcune abbandonate lezioni di stanze o versi del
poeta, trovate fra le carte di lui, con introdurle qui e là e alla fine
dei canti. Del resto se i frammenti del _Rinaldo ardito_ fossero stati
composti da Lodovico, non avrebbe dovuto mancare Virginio di accennarlo
nelle _Memorie_ lasciateci intorno a suo padre.

Ritornando ora al duca Alfonso di Ferrara, sempre avversato dal governo
di Roma, l'imperatore per favorirlo persuase il papa della necessità
di chiamarlo a far parte di una nuova lega per la pace d'Italia,
accordandogli una tregua di diciotto mesi. Clemente VII per tal
concessione ebbe il vantaggio di veder cacciare dagli stati del duca i
rifugiati della breve sì, ma nobile e nazionale repubblica di Firenze,
che avevano abbandonata la patria per non soffrire il giogo dei Medici.
— Avvicinavasi il tempo che la tregua doveva scadere e tornavano a
ridestarsi nel duca le antiche sospettose inquietudini, quando il
25 settembre 1534 la morte del papa gli mostrò anche una volta il
favore della fortuna. La successione seguìta poco dopo (28 ottobre) di
Alessandro Farnese, padre di Pier Luigi, creatura di casa Borgia, che
prese il nome di Paolo III, mise il colmo alla contentezza del duca. Ma
doveva per pochi giorni goderne. L'uomo forte che tanti papi non aveano
potuto non che abbattere piegare, che aveva saputo sciogliersi da tante
insidie, affrontare e vincere tanti pericoli, era costretto morire il
31 ottobre per la più frivola causa, come il fratello cardinale; per
aver mangiati troppi poponi[137].

Dice il Pistofilo che il duca Alfonso «più tosto maninconico e
severo, che lieto e giocondo.... fu poco amico della frequenza....
ed ebbe e volse che si avesse rispetto grandissimo all'onor delle
donne, di qual grado fossero, da tutti i suoi sudditi; dalle
quali continentissimamente si astenne»[138]. Non troviamo che ciò
sia confermato da altre memorie, sapendosi inoltre che fu spesso
travagliato dal mal francese. Ne' diari veneti scritti dal Sanuto
leggesi sotto il 1497: «Pochi zorni fa don Alfonso fece in Ferrara
cosa assai lizera, che andoe nudo per Ferrara, con alcuni zoveni in
compagnia, di mezo zorno»[139]. Anche nelle cronache di Francesco de'
Mantovani troviamo che al prete Gianni suo cantore «il duca voleva
molto bene, che lui in persona l'andava a torre di casa tre e quattro
volte il giorno, e lo toglieva in groppa e andavano per la terra a
bordello»; e così nel processo che fu poi fatto a Gianni prima di
metterlo nella gabbia di ferro e strozzarlo, «il traditore confessò
avergli una volta legato in casa di una sua femina le mani, mostrando
di scherzare con lui, e poi disse a uno famiglio: va, ammazza colui
ch'è suso in letto. Il famiglio vi andò, e il signore disse: sligami
col malanno!»[140].

Quando il duca rimase vedovo la seconda volta, tenne presso di sè una
giovane di rara bellezza chiamata Laura Dianti figlia di un berrettaio
di Ferrara, e le diede il cognome di Eustochia per indicare i suoi
pregi. N'ebbe due figli, Alfonso ed Alfonsino che cercò legittimare.
Il Muratori nelle sue _Antichità Estensi_ ritenne aver provato che
Laura fu sposata dal duca Alfonso negli ultimi periodi della sua vita:
però un documento pubblicato in Firenze nel 1845[141], contenente una
donazione e codicillo d'esso duca alla donna, mostra ch'egli cinque
giorni prima di morire non pensava ancora di farla sua moglie. —
Clemente VIII non volle mai riconoscere i discendenti di Laura per
legittimi successori del ducato di Ferrara, il quale nel 1598 tornò
finalmente ad essere aggregato al governo della Chiesa.

Succeduto al duca Alfonso il figlio primogenito Ercole II, ed essendo
anche morto il fattore generale Alfonso Trotti, non tardarono i
fratelli Gabriele, Galasso e Alessandro Ariosti ed il loro nipote
Virginio di sottoporre una prece al novello duca per ottenere che fosse
terminata con giustizia la causa delle terre livellarie ereditate da
Rinaldo Ariosto, essendo da «quindici anni straziati e menati in lungo
dalle cavillazioni e calunnie sì del fattore passato, come d'altri
procuratori, notari ed agenti della sua ducal Camera» (Documento
XVII). Il 23 dicembre 1534 Ercole II decretò che _i fattori generali
spedissero la causa con giustizia e rigettassero tutte le calunnie e
cavillazioni_: ma non pare che il rescritto sortisse l'esito bramato,
conoscendo in vece che le terre in contesa, che formavano la bella
tenuta in Bagnolo, detta delle _Arioste_ dal nome degli antichi
possessori, furono assegnate in dote ad una Estense maritata in
Bevilacqua, per indi passare in proprietà dei Gesuiti.

                   *       *       *       *       *

Il Municipio di Ferrara deliberò nell'anno 1872 di promovere e ordinare
feste nazionali ad onore di Lodovico Ariosto in occasione che nell'8
settembre 1874 veniva a compiersi il quarto centenario dalla sua
nascita, nominando a tale effetto un Comitato. Ma i disastri apportati
poco dopo dal Po al territorio ferrarese, cui fu d'uopo riparare, le
deliberate onoranze vennero rimandate al 1875.

La città di Reggio, ove nacque l'Ariosto, amò anch'essa celebrare quel
centenario e l'8 settembre 1874 una lunga schiera di persone autorevoli
seguita da molto popolo si recò alla vicina villa di S. Maurizio a
visitarvi il casino ove l'immortale poeta passò i più bei giorni della
sua giovinezza. Dopo lettura di applauditi componimenti in versi ed in
prosa allusivi alla circostanza, il signor Giuseppe Turri principal
promotore della festa offerse in dono al Municipio come preziosa
reliquia sotto cristallo una falange d'un dito dell'Ariosto che fu
sottratta nel trasporto delle sue ossa seguito nel 1801, regalando
pure i tre atti autentici che si riferiscono al detto trasporto e che
erano rimasti ignoti, facendoli poi anche stampare in appendice alla
Relazione di questo centenario (Reggio, Calderini, 1875-76).

Le feste splendidissime di Ferrara ebbero luogo dal 24 al 30 maggio
1875 in mezzo ad una popolazione esultante, ed essendovi accorsi
molti illustri personaggi e rappresentanti d'ogni parte d'Italia, _le
accoglienze oneste e liete furo iterate_ in tutti que' sette giorni.

Dal centenario Ariosteo derivarono pubblicazioni, tanto per invito
speciale del Comitato quanto per impulso spontaneo, le quali tornarono
a vantaggio delle lettere e ad onore dell'insigne poeta, come sono in
particolar modo: 1º l'_Orlando furioso secondo la prima stampa_ del
1516 (Ferrara, Taddei, 1875, in 2 volumi), con prefazione del prof.
CRESCENTINO GIANNINI, uno de' componenti il Comitato Ariosteo. — 2º _Le
satire autografe di Lodovico Ariosto pubblicate a cura del Comitato_
(Bologna, per Giulio Wenk litografo, 1875), con prefazione del prof.
PROSPERO VIANI. — 3º _Delle poesie edite e inedite di Lodovico Ariosto,
studi e ricerche di_ GIOSUÈ CARDUCCI (Bologna, Zanichelli, 1875,
in-8º), che l'autore e l'editore dedicarono_ all'inclita città di
Ferrara festeggiante il IV centenario_. Del presente libro ci siamo
qui addietro giovato, e il merito del medesimo apparisce per sè chiaro
abbastanza, avendo ottenuto una _seconda edizione con emendazioni ed
aggiunte_ nel successivo anno 1876, in-16º. — 4º _Le fonti dell'Orlando
furioso_, ricerche e studi di PIO RAJNA (Firenze, Sansoni, 1876) per
invito del Comitato suddetto; ed è lavoro di gran polso e di rara
erudizione che spazia su tutta l'epopea romanzesca e che più nulla
lascia a desiderare in proposito, con aver prestato altresì occasione
allo stesso autore di addentrarsi maggiormente in siffatti studi e
offerirci le _Origini dell'epopea francese_ (Firenze, Sansoni, 1884);
opera che presentata in concorso d'altri all'Accademia dei Lincei
ottenne il premio.

Il Comitato Ariosteo stampò la _Relazione delle feste celebrate
in Ferrara nel maggio 1875 coi Discorsi accademici_ ecc. (Ferrara,
Taddei, 1875), e avendo pure commesso a _Pietro Cossa_ di scrivere una
commedia in versi che riescì di cinque atti con un prologo, intitolata
l'_Ariosto e gli Estensi_, si recitò la sera del 26 maggio dalla
Compagnia drammatica Ciotti-Marini; e quantunque riscuotesse applausi
dal numerosissimo uditorio, fu dagli intelligenti giudicata inferiore
alla fama dell'autore del _Nerone_. Venne però anch'essa pubblicata
(con appellativo di _dramma_) in Torino, Casanova, 1878.

                   *       *       *       *       *

Ove a taluno per avventura sembrasse che noi siamo stati troppo
proclivi a cercar biasimo alla memoria del duca di Ferrara, ch'ebbe
pur esso il suo lato buono, e comecchessia raggiunse sempre il suo
intento, lo rimandiamo al documento XIV, in cui la Curia di Roma lo
accusa ad esuberanza di aver fatto scrivere un testamento falso dopo la
morte repentina del card. Ippolito suo fratello per usurparne l'eredità
ch'era di soli beni della Chiesa: lo accusa di altre falsificazioni
di processi, e «sannolo li infelici fratelli (don Ferrante e don
Giulio) crudelmente incarcerati, sallo il sangue e le viscere di quelli
gentiluomini dilacerati»: lo accusa di aver fatto «publice predicare
la dottrina dell'eretico Martino Lutero dal suo barbato frate Andrea
da Ferrara, che ancor maggiori errori publicò delli luterani, ed esser
causa d'eresia»: lo qualifica un crudele tiranno che rubò ad altri
quanto questa casa ha mai posseduto, per violentare li poveri sudditi
e mungerli sino al sangue: lo dice ingiusto, iniquo ed empio; voragine
d'avarizia, insidiatore di tutti i buoni, per esser lui perversissimo;
pietra di scandalo d'Italia, atroce inimico della santa Sede ecc. — Ma
nella dispiacenza di esserci troppo sovente incontrati nel male, tanto
in riguardo alle azioni del duca Alfonso I che a quelle del cardinale
Ippolito, ci conforta il sapere, che abbiam desunto ogni fatto da
documenti irrefragabili, e che d'altronde «nella verità intieramente
conosciuta e riguardata rettamente non può non essere moralità»,
com'ebbe a scriverci il ch. Niccolò Tommaseo.



AGGIUNTA ALLA PREFAZIONE

Pag. XLV, linea 14


L'Ariosto essendo in Reggio scrisse pure altre due lettere al
cardinale Ippolito (_pag. 17 e 18_) dalle quali apparisce ch'ebbe
commissione di andare a Carpi e parlare con Alberto Pio di _una
faccenda importantissima_, la quale riferivasi senz'altro alla cessione
che il duca doveva fare ad Alberto della metà del principato di
Carpi che Ercole I duca di Ferrara acquistò sin dal 1494 da Giberto
Pio fratello di Alberto, poichè l'imperatore aveva dichiarata di
_nullità_ quella vendita avvenuta senza il suo consenso, essendo
Carpi feudo imperiale. L'Ariosto non avrà mancato di abboccarsi
(come avea fatto anche prima in Roma) coll'amico Alberto cui tanto
interessava sciogliersi bonariamente da questo condominio; ma non
essendosi allora convenuti sul compenso preteso dal duca, e la cessione
rimanendo sospesa, avvennero in seguito tali dissensioni per gelosia
di stato, che proruppero nel 1517 in un grave alterco fra Alberto Pio
e l'ambasciatore estense Beltrando Costabili nella stessa anticamera
del papa in Roma: e vedremo da ultimo che il duca Alfonso colla sua
politica temporeggiante riescì a farsi investire dell'intiero dominio
di Carpi[142].



DOCUMENTI


DOCUMENTO I

A MESS. PAOLO COSTABILI, GIUDICE DE' SAVI IN FERRARA

Y. H. S.

_Magn. eques ac generose vir maior hon._ — Io notifico a V. Mag. come
doe fiate ho examinata la Venante rapita a' di passati dal fiolo di
Piero Mazolo, la quale sempre me ha dito in presentia di sua madre,
che già cinque anni fa lei è stata innamorata in epso fiolo di Piero
Mazolo, et insino al principio d'esso innamoramento loro contrassero
matrimonio insieme per parole: di presente et sempre sono stati in
questo proposito et voluntade, et per questo el fiolo de dicto Pedro
più volte è stato di maridarse in altre donne, sapendo essere sposo
et marito de dicta Venante, et che inanti che lei fosse permessa in
lo fiolo di Biaxio Fasolo, lei fue cognosciuta carnalmente dal dicto
fiolo di Pedro Mazolo, et consentigli come in suo marito. Et così mi
ha atestado el prete che la confessò questa quarexema haver inteso a
la confessione da lei. Il perchè quanto a Dio è sua mogliere, et non
può essere d'altri. Però serìa bene lassargela goldere in pace, et
perdonare a li incarzerati: et bene valete. Me raccomando a V. Mag. et
ricomandovi questi poveri homeni.

  (Ferrariae .......)

                                        LUDOVICUS DE ARIOSTIS doctor.


DOCUMENTO II

AL DUCA ERCOLE I D'ESTE IN FERRARA

Illustrissimo Signor mio. — Abenchè io non abia in mi una minima
sentilla che non sia certa che V. Ex. me abia per fidelissimo et
integro servitore; pur non voria che il continuo reportare male d'altri
in qualche cossa la facesse titubare. Ho presentito che a V. Ill. S. li
è stato riporto ch'io non tegno le mie page, como doveria fare. Quanto
ch'io creda che V. Ex. il creda, non credo che la il creda ponto[143]:
ma per mio contento et per caricho de chi ha facto tale reporto,
suplico a V. Cel. che i glie piaza espresse cometere al Capitano de
Rezo che ogni settemana me facia la mostra, et che il refferischa s'io
facio il debito, o non. — Ill. Signor mio, V. Ill. S. sa ch'io non li
adimandai mai questo, nè altro officio; ma una volta me li son ben del
tuto dado perchè la dispona de mi secondo che gli piage, et rendome
certissimo che la non me ha dacto questo officio per arichirme, nè
ancho io l'aceptai con quello animo, ma solum per satisfare a V. S. et
il debito et onor mio, il quale estimo più che tuto l'oro del mondo.
Cossì volesse Idio che ogni mio pensero fusse noto a V. Ex. Tuta via
farò come dice Cato: _Cum recte vivas_, etc.; et anche estimarò queste
zanze procedano più tosto da invidia che da altro, confortandomi in
uno vulgare proverbio che dice: essere meglio invidia che cordoglio.
Ma in vero s'io non sperasse che de questo officio me ne havesse a
seguire più la gratia de V. Ill. S. che altro avanzo, io ne farìa assai
male, chè per la fede che son christiano, oltra ch'io sia debito de le
lire più de 160, ho spexo de i miei più de 50 ducati. Io avanzo assai
quando io satisfacia al proposito de V. Ill. S.; a la quale sempre me
raccomando.

  Civitatelle Regij, 28 jan. 1473.

                                                               Servus

                                          NICOLAUS DE ARIOSTIS comes.


DOCUMENTO III

ALLA DUCHESSA ELEONORA D'ARAGONA D'ESTE IN FERRARA

Illustrissima Madona mia. — Hora mai V. Ill. S. può dire che se non
havesse altre facende, per lezere le mie lettere la serìa ocupata: ma
le cosse che se fano a bon fine sono de haver acepte; et questo che
dirò non sia affine di laudarmi, ma per alebiarla di qualche affanno.
Ritrovandomi qui, e tra gli altri disordini, ho ritrovato questo
Rezimento essere tanto refesso, et massime il Podestà con el Massaro;
e mi come quello che non penso pure che fusse suficiente adoperare se
non cosse che siano a beneficio di V. Ill. S., e parendone che queste
gare, massime a questi tempi, non se convengano; me sono operato a
pazificare il Podestà con il Massaro: così per mia mezanità se sono
restriti insieme e purgati li animi loro e rentigrati in bona amicitia.
Spero che questa serà casone anche de resetare fra questo populo molti
disordini principiati, como per mie lettere l'haverà intesa. Resta che
V. Ex. facia che, sia chi se voglia, demeta le arme, et proibissa ad
ogni persona a fare in casa loro guarnimento. Prego V. S. de questo
me creda, e piutosto a mi che a quelli che impetrano simile gracie.
La farà due cosse: la se asegurarà che non potrano così quando ne
havesseno voglia machinare contra il Stato, e ogni altro non harà
escusa de non volere deponere l'arme, nè de far guarnimento con poter
dire: perchè non mi è così licito a mi como al tale, facendo questo?
Non dubito che le cosse qui pigliaranno bono eseto. E mi die e nocte,
quanto sarà capace il mio debole ingegno, mai me vederò stracho a fare
l'opera de vero e buon servitore. A. V. Ill. S. sempre me raccomando.

  Regii, 22 nov. 1482.

                                         Ill. et Ex. D. D. V. Servus,

                                          NICOLAUS DE ARIOSTIS comes.


DOCUMENTO IV

A BELTRANDO COSTABILI IN ROMA

_Rev. Pater, amice noster carissime, salut._ — Quantunche ce rendiamo
certi che per lettere de la Ex. del sig. Duca la Santità de Nostro
Signore haverà inteso a pieno il caso occorso a lo Ill. sig. Don
Julio nostro fratello; non di meno et per debito de la sirvitù nostra
verso Sua Beatitudine et perchè questi ribaldi che hanno offeso il
prefato sig. Don Julio già stettero a li servitij nostri, ni è parso
per el megio de V. R. P. replicargli il medesmo brevemente. Et però
da parte nostra, basati li piedi de Sua Santità, li fareti intendere,
como ritrovandosi a Belreguardo el sig. Don Julio, et cavalchando a
piacere su quelle campagne dopo megio dì, fu assaltato da quattro, già
nostri familiari, quali el trassero da cavallo, et cum più percussioni
cerchorno extinguerli la luce de li occhi[144], abenchè speramo pure
che per gratia de Dio le cose passeranno bene. La causa di tal delicto
et cosa facinorosa[145], per quanto havemo possuto intendere, è stata,
che havendo inimicicie questi che diceámo esser de li nostri cum
alcuni de la famiglia del sig. Don Julio, pareva che Sua Signoria li
favoreggiasse extremamente contra li prefati; et intendendo costoro che
pur erano qualche differentie fra el prefato signore nostro fratello e
nui (per causa di quello preti vi scrivessimo), extimorno non ni haver
a fare iniuria a nui offendendo Sua Signoria, et cusì se misero a fare
una sceleranza tanto enorme[146]. Di che nui havemo preso quello dolore
che sia possibile a pensare: e non sapemo che altra cosa ni havesse
potuto incontrare a questo tempo che ne fosse di tanto affanno et
angustia como è questo caso, che ni ha premuto et preme tanto, che ni
fa uscire de li termini nostri. Imperò che, anchor che siamo persona
ecclesiastica, non siamo restati fare ogni opera ad complacentia
del prefato sig. Duca nostro fratello per havere ne le mani questi
malfactori, quali per anchora non si sono potuti havere. Et tutto V. R.
P. exponerà a la prefata Beatitudine cum la solita sua dexterità, cum
significarli el cordoglio ne havemo; et raccomandandomi humilmente a li
soi Santissimi pedi, _valete_.

  Ferrariae, VIII novemb. M. D. V.

                       HIP. S. LUCIAE IN SILICE DIACONUS CARD. ESTEN.

Fuori — _Rever. Patri D. Beltrando Costabili Proton. Apost. ac Ducali
Oratorio, amico nostro carissimo._

                                                       _Rome — cito._


DOCUMENTO V

A SIGISMONDO SALIMBENI IN VENEZIA

Mess. Sigismondo. — Per la littera vostra de heri siamo advisati de
la bona mente et dispositione de quella sereniss. Signoria et de li
soi amorevoli et paterni ricordi per la instantia che facemo d'havere
ne le mane quello Francesco Vergezino homo di pessima sorte, oltra il
particulare delicto commesso in la persona de l'Ill. Don Julio nostro
fratello; et appresso havemo inteso l'opera facta per il Reverendiss.
Cardinale nostro fratello, cum quelle escusatione et persuasione che
scriveti. E considerato bene il tutto, perseveramo pur in opinione
et in desiderio di essere compiaciuti et de havere tale gratia: unde
ve commettemo novamente, che debiate portarve a Sue Sublimità et
ringratiarle de core et cum quanta maggiore efficatia sapeti, e cussì
de le admonitione paterne come de la bona dimostratione che hanno facto
et fanno verso Noi in questo caso, subiungendo che accumuleremo questa
a le altre obligatione quali havemo cum epse: poi le pregareti, che ne
vogliano fare questo apiacere, de darne el dicto malfactore in le forze
nostre, come dal principio ne detteno intentione, quando gli facessemo
intendere il caso. Nè vogliano avere rispecto a la interpositione
del Reverendiss. Cardinale, perchè se bene Sua Signoria è figliuolo
de la prefata sereniss. Signoria, Noi pur siamo il primogenito
suo, et però meritamente dovemo essere preferiti et in amore et in
compiacentia[147]; et se considerano la causa che ni move e quella
che move il Cardinale, senza dubio iudicaranno la causa nostra dovere
proponderare a la sua, cussì per essere justa come anchora honorevole;
et insumma cognosceranno essere per seguire megliori effecti del darni
dicto malfactore, che de l'opposito. Fareti adunque ogni possibile
instantia opportuna et importuna per impetrare questa gratia, la
quale cussì denominiamo, perchè sopra modo la desideramo et reputamo
importarni a l'onore grandemente; et in bona gratia de la prefata Ill.
Signoria ne raccomandareti.

  Ferrariae, ij decemb. 1505.

                                              ALFONSUS DUX FERRARIAE.

_Post scripta._ — Quando havereti facto tutta la diligentia per havere
dicto malfactore liberamente, se vedreti non potere obtenire, ovvero
difficultarse molto questa materia et essere protracta in lungo, siamo
contenti che permettiati a quella Ill. Signoria, obbligandoli la fede
nostra de legale Signore, che, daendolo, non faremo de la persona del
malfactore alcuna dispositione, se non quanto a Sue Sublimità piacerà;
mostrando essere necessario per lo honore nostro che l'habiamo ogni
modo ne le mane.

Fuori — _Magnifico et Clarissimo Juriconsulto et Oratori nostro
dilectissimo Sigismondo Salimbeno,_

                                              _Venetiis — Cito cito._


DOCUMENTO VI

AL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE IN FERRARA

Rev. et Ill. S. mio observ. — Hieri cum la cavalcata hebbi lo invoglio
de li privilegij antiqui, secundo me scrive V. R. S. per la sua de'
5 mandarme, et ho inteso quanto la scrive et li usarò circumpictione.
Expectarò messer Carlo in lo aprire lo invoglio, et in sua presentia se
incontrerà li pecci cum la lista mandata.

Ultra quello vedrà V. R. S. io scrivo a la Ex. del Sig. duca suo
fratello, il papa nanti lo uscisse di camera hebbe a dirme anchora che
io giurava non esser vero che V. R. S. se fusse intrusa ne la Abbatìa
de Nonantula, et che pure lo è vero: et che quella sforciò li monaci,
como loro diranno, la elligessero, et si fece ellegere: dicendo che
quella voliva suscitare una pramatica al modo de Francia, et che la
ge farìa per decta causa uno processo grande. Et che havendo voluto
mandare il suo legato ad inventariare quelli fructi restati del morto,
quella havìa comisso el ge fusse prohibito, como fu. Al che si vede
che dubitandosi forsi per alcuni la Santità Sua non ge daesse alfine
decta Abbatìa per le parole la usò a me, hanno cercato verificare
le false informatione per questa via, del che io ne fu' advertito da
lo auditore de la Camera; et io ne advertii mess. Ludovico Fabriano.
Resposi che mess. _Ludovico Areosto_ ge havìa facto intendere como li
monaci l'haviano ellecta, et che la non li havìa voluto audire, et se
li havìa mandati dinanti, et che cussì stava la cosa. Ma rumpendomi la
Santità Sua et non me lasciando dire, conclusi che io non iustificarìa
altramente la S. V. R., ma lasciarìa fare a ley che lo sciaperìa ben
fare, la quale era per dimostrarsi sempre cussì bon servitore suo,
quanto sia chi la accusa; dicendo che imperò li voliva dare adviso del
tutto: al che la repplicò non ne curare, et che la me lo diceva bene a
quello fine. — Il tutto significoli, et de continuo mi recomando a la
sua bona gratia.

  Romae, X junij M. D. X.

                               E R. D. V.

                                                               Servus

                                      B. COSTABILI Epis. Adrianensis.


DOCUMENTO VII

A MESS. GHERARDO SARACENI IN FERRARA

M. Patron mio obser. — Per non manchare del debito mio et di quanto
vi promessi quando feci partita da vui, ve significo come Mess.
Ludovico Ariosto è ritornato da Roma, qual fue mandato per li effecti
che vui sapeti; et il riporto suo è questo: che gionto che fue a Roma
incontinenti se apresentoe al Castello, facendo domandare audienza
a N. S. il quale era per voler fare colatione, et la differì, et lo
fece metter dentro. Al quale havendo presentato la lettera del Sig.
Cardinale nostro de credenza, avante la legesse incontinenti li domandò
dove se retrovava S. S. R. et como stava. Et havendoli lui resposto
haverla lassata a Modena, et che tuttavolta veniva avanti, Sua Santità
aperse la lettera, et domandò quello havea a dire. Et domandandoli
epso Mess. Ludovico in nome di S. S. R. che li fusse alongato il
termine per modo che quella potessi commodamente trasferirsi a Roma;
allegando quella, sì per la indispositione della gamba sua, sì per
el camino aspro che faceva, sì etiam per lo intensissimo caldo era,
non potere nè essere possibile che fra il termine assignatogli nel
breve se retrovassi a Roma, Sua Santità li respose non volerne far
niente; et lui replicandoli, disse: «Ben, Padre Santo, che bisogna
che 'l Cardinale se metta a crepare per venire, non havendo resguardo
nè alla infirmità, nè perdonando ad alchuna fatica et disagio; se
poi, quando sarà qui et ch'el sia passato il termine del tempo che
quella ge ha concesso, non habbi facto cosa alchuna, et V. S. non
resti satisfacta de Sua Sig. R.?» Alhora Sua Beatitudine respose: «Nui
in scriptis non ge volemo altrimenti prorogare il termine; ma ben li
dicemo et damo la fede nostra, che quando S. Sig. voglia venire et che
cognosciamo cum effecto che la venga, li alongaremo il termine et X
et XV giorni, secundo che lei medesima vorà;» nè altro circha questo
potette obtenere da Sua Beatitudine. Et essendo dipoi venuto alla
parte del salvo conducto et dicendoli, «che Sua S. R. non lo domandava
già perchè la non se cognoscesse innocente, et che la non fusse per
iustificarsi gagliardamente delle imputationi che li erano date, et
che la se defidasse della clementia de Sua Beatitudine, ma perchè
universalmente ciascheduno la disuadeva ad andare a Roma, dicendoli
che Sua Beatitudine la faria ponere in Castello, si etiam perchè la
cognosceva quella prestare molto orechie alli malivoli soi; et che
poi quando bene Sua Signoria se iustificava, la non faceva alchuna
demonstratione contra a quelli che li porgevano il falso di lei, anci
dipoi li prestava fede come prima: ultra di questo perchè Sua Signoria
vedeva la Beatitudine Sua non solamente mostrarsi indegnata contra al
Sig. Duca suo fratello, ma anchora mostrava voler male et odiare tutta
la casa da Este; et però supplicava a Sua Beatitudine che li volesse
concedere libero et autentico salvo conducto.» Quella respose, «che Sua
Signoria andasse pure liberamente et che non temesse di cosa alchuna,
et che non li bisognava altro.»...

  (Firenze, .. agosto 1510).

                                                 (BENEDETTO FANTINO).


DOCUMENTO VIII

AL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE IN FIRENZE

R.me etc. — Havemo havuto la lettera de V. S. de' 6 in ziffra, la
quale è stata a pericolo de perderse, perchè il fu dato la catia a li
cavallari, et lassati li cavalli intorno in le valle, et se ne sono
venuti a piedi a salvamento.

Ni è stato dispiaciuto che in quella scaramuza fecero li nostri, non
procedessero oltra, quando havessero potuto intrare in Modena insieme;
come fa etiam de li 2000 fanti, che doveriano essere lì, non siano più
che 1200.

Piacene che V. S. habia mandato al gran Maestro per havere fanti o
dinari: quella non mancharà di replicare, perchè qua non è uno dinaro
al mondo, et per la paga che correrà tra octo o vero X giorni al più,
non sapemo come provederli, et se retrovamo desperati: sichè V. S. non
manchi, per Dio, de solicitudine, et cum importunità per questo caso.

Et per li 2500 ducati che se ritrovano lìe per fare fanti, ne piace il
pensiero di V. S. de farli in tempo che possino fare effecti. Non gli
dicemo il tenirli strecti, poi che l'ha inteso la penuria in che siamo.

Non siamo andati a l'hospitale del Bondeno sì come gli scrivessemo,
perchè le gente de' Venetiani sono ritornate a la Pelosella, come erano
prima, et cum la armata, la quale hanno in quelli canali lìe de dreto:
imperò siamo necessitati a starsene, per vedere quello che vogliono
fare.

De l'altre parte de la sua che contengono advisi, non accade dire
altro, se non che la ringratiamo.

Ni è doluto che la cascata del cavallo gli habia facto male, et Dio sa
quanto ne ha porto dispiacere: pur non essendo pegio de quello la ne
scrive, tenimo la convalerà presto.

La mala intelligentia de quelli capitani non può se non nocere a le
cose nostre, et se quelli fossero uniti cum questi, non gli seriano
queste altercatione, perchè il capo gli serìa.

Lo Ill. nostro figliolo, Dio gratin, comenza ad entrare in boni
termini; per il che speramo la totale salute sua, sì come ne dicono
questi medici.

  Ferrariae, 9 sept. 1510.

                                              ALFONSUS dux Ferrariae.


DOCUMENTO IX

AL MEDESIMO IN PARMA

R.me. — Questa mattina passassemo il Pò a la Pelosella cum questi sigg.
capitani regij et cum bono numero de gente da piedi e da cavallo et
artiglieria, et pigliassemo il camino nostro verso Pontechio, et gionti
al passo, se ne presentète inanti de là del fiume frate Lunardo cum dui
altri capitani cum circa 500 cavalli et alcuni falconeti a l'incontro
del suo ponte, et comintiorno a tirare cum dicti falconeti: ma noi cum
li nostri, per corresponderli, comintiassemo a scaricarli in modo che
loro per lo meglio se posero in fuga tagliando el ponte, et lassando
li falconeti che furno quattro: et li Guasconi nostri, per non haversi
ricordato li nimici de tagliare la corda de decto ponte, se misero a
passare et andorno a ritrovare la armata, la quale se era retirata, et
la conquistorno, che erano da 40 barche, e alcune barbote e ganzare,
et tute le faremo condure fuori de li canali per haverle in nostra
potestà, et quelle che non se poteranno condure le faremo brusare.
Quelli da Rovigo già erano in via per portarne le chiave, et li
inimici fugendo a Rovigo per intrare dentro, gli furno serate le porte
incontro. Noi se ne ritornamo, et veniremo questa sera a la Zocha, et
per sei ascolte che havemo pigliate de li inimici, se siamo chiariti
de le gente loro. Il che significamo a la V. S. sapendo che l'haverà
piacere de questa bona nova, come havemo anchora noi.

  Ex villa Peloselle, XXIIIJ sept. 1510.

                                              ALFONSUS dux Ferrariae.


DOCUMENTO X

AL MEDESIMO IN FERRARA[148]

(sotto nome di Alessandro di Cremona)

R.me — Il Papa mi adimanda Ferrara et ne vorìa dare Asti per
recompensa, de entrata de XV in XX mila ducati; et hora tanta intrata
in terre di Romagna, sino ne daesse Asti, et vorìa li pregioni.
Confessiamo don Ferrante esser vivo, et li negamo voler dare Ferrara,
et per consequenter don Ferrante. Lo orator catholico dice che le genti
Spagnole non ne seranno contra; et cussì ne afferma che ha parlato
per nui gagliardamente. Jo. Cola dice che lo Imperator non vole il
Papa habia Ferrara. Il sig. Alberto è ito al Burgense. V. S. facia mo
con Burgensi quanto pò et che anche, se possibile è, scriva a la M.
Catholica. Di Rubiera, quando V. S. non la potesse tenire, et noi se
partessimo sconclusi, la potrìa dare a Vico, havendo a sperare in lo
Imperatore. Quando se partiamo sconclusi non faremo compto andare più
per vie directe, ma salvarci al meglio poteremo, et quanto più presto
poteremo ridurci a Ferrara.

  Romae, XVIJ junii M. D. XIJ.

                                              ALFONSUS dux Ferrariae.


DOCUMENTO XI

AL MEDESIMO IN FERRARA[149]

Signor mio caro. — Non credo sia a l'omo vivo la maiore pena como è
avere afano da morire con fatica del corpo. Paciencia sopra il scrivere
al papa de sopraseder per fino me presenti ai soi pedi: non so se
questo me posese essere de gran dano, per essere il tempo, como lo è,
di fare il sale. Se porìa, parendo pur a la S. V. de calare in qualche
cosa, se porìa dire (con quele parole saperìte metere insieme), che
facendose sale, e per la iusticia fuse chiarito non se posese fare
sale, tuto il sale avese da essere di Sua Santità: pur sempre me remeto
a la S. V., chè me trovo inbalordito de sorta, che non ò bono judicio;
cosa che però non ebi mai.

De quela cosa del M.... non lo credo, se bene lo doverìa credere per
esere lui mato. Sopra quanto scrive Obizo[150] de abocarse la S. V. con
il legato, piaceriame sumamente: quando la S. V. lo posese fare, quanto
più presto tanto meio: pur me remeto.

A quelo dicono coloro del Papa, che Sua Santità sia intrata in loco de
Veneciani per proibire il sale; se pote, acadendo, respondere: che lo
facevano per forsa a non crederlo il Papa lo volìa, non lo volendo la
iusticia.

Signor mio, son balordito da li canoni. Se questa mia starà male, e
non responde a tute le parte, suplisca la S. V. como li pare. Li canoni
tirano con il diavolo[151]; e, se non avese questo afano, mai fui più
contento. Son doventato canonero vero, e fo il mio debito: li nostri
canoni tirano benissimo 35, 40 bote il dì. Eri me fu morto un canonero:
la S. V. non lo conose. Sono pasati l'Adise 26 pezi de artilarìa: il
resto bate de canto de Porto, como vedereti per uno sbegazone de mia
mano.

Me racomando a la V. S., e la prego me aiuti in quelo manco. La S. V.
me racomandi a mess. Antonio in canto a Porto.

  1º zugno (_ex castris apud Liniacum_) 1510.

                                  V. A. F. (Vostro ALFONSO fratello).

Fuori — _Al Rev.mo et Ill. Sig. mio fratello honor. il Sig. Cardinale
de Este._

                                                  _Ferrariae — Cito._


DOCUMENTO XII

PROCESSO CONTRO MONSIGNOR UBERTO DA GAMBARA

Al Nome di Dio. Amen. — Adì 28 de zugno 1521, in casa del magnifico
mess. Obizo da li Remi ducale segretario, in la sua camera terrena,
dinanti al magnifico iureconsulto mess. Matheo Casella da Faenza ducale
Consigliero di justitia, et in questa parte ducale judice et delegato
ecc., come da sua delegatione appare per mano da epso mess. Obizo
antedecto.

A perpetua memoria de le infrascritte cose trattate: Constituito il
Capitaneo Rodolpho El, mediante il suo iuramento a lui prima delato,
cum le interpretationi da maestro Joanne Grosso bombardiero et
Zani de Malines, a li quali anchora è stà differito il iuramento de
interpretare iustamente et referire quell'in italiano che esso Capitano
in lingua sua thodesca li dirà; dice et riferisce:

Como Gianni de Malines mo fanno dui anni questo Natal proximo passato,
ritornando ditto Gianni de Barbarìa, et essendo incontrato in monsignor
Uberto da Gambara figliuolo del quondam.... nel territorio de Verona,
ovvero de Brexa, il prefato Monsignor fece grande et bona cera ad
esso Gianni, et dipoi ch'el ebbe inteso da esso Gianni ch'el voleva
ritornare in Alemagna, li dixe che li voleva dimostrare un miglior
partito, dicendoli ch'el voleva che l'andasse a Ferrara a ritrovare il
capitano Rodolpho El suo patrone vechio, et fare intendere al predetto
Capitano che, s'el voleva, lo acconzarìa con bonissima conditione
con la Santità de Nostro Signore, et potrìa tore bona licentia dal
Duca et andarsene perchè il Signor era persona misera et hortulano,
et dal quale potrìa poco guadagnare: il che facendosi, prometteva a
Gianni farli havere bona conditione da esso Nostro Signore. Et havendo
ditto le preditte cose ad esso Capitano, esso Capitano rispose che
lui era gentilhomo et persona solita a spendere assai dinari, per il
che dagandoli il Duca XX ducati il mese di provisione, se ne potesse
havere mazore dal Papa la accettaría, potendo havere bona licenza
dal sig. Duca: per il che voleva che lui ritornasse cum lettere de
credenza sua dal prefato Monsignore, et vedere se a Sua Signoria li
bastava l'animo che Nostro Signore li daesse ducati 50 il mese di
provisioni, et per levarlo li mandasse ducati cento, che lui andarìa,
tolendo bona licentia dal prefato sig. Duca. E così detto Gianni
ritornò da esso Monsignor cum ditte lettere di credenza a Varuolo de
la Gisa, due milia longi da Bressa, et espose ad esso quanto li havea
commisso esso Capitano; et allora il prefato Monsignor, havendo inteso
la risposta del Capitano, disse ad esso Gianni: «Gianni, io t'ho a
parlare in secreto, notificandoti che heri sira ebbi una staffetta da
Roma; et alhora cominzò a dire al ditto Gianni qualmente la Santità
di Nostro Signore non toleva Capitano alcuno se non facevano prima
qualche apiacere a Sua Santità; et che quando il prefato Capitano
facesse un apiacere a Sua Santità li farìa havere non solo 50 ducati,
ma li farìa dare 300 ducati de provisioni il mese et altre cose assai
ch'el seria sempre richo, così como S. Santità havea fatto al capitano
Zucaro, al qual, per l'apiacere ha fatto a S. S., li dà 300 ducati
il mese de provisioni, et niuno però li crida dreto per questo. Et il
Capitano qual fa tanto conto de l'honore suo, et fa bene, non bisogna
habia a dubitare de alcuno dishonore per servire il Papa, perchè non
è put.... chi serve un homo secretamente, ma chi sta in bordello.»
Al quale Monsignore Gianni rispose: «che piacere era questo che Sua
Signoria voleva che 'l Capitano facesse a Nostro Signore?»; et alhora
'l prefato Monsignor li dixe: «Sapi, Gianni, che Sua Santità vole fare
guerra al Duca de Ferrara et già prepara gente per questo effetto,
et sapemo ch'el Duca ha tutta la sua fede et speranza in el capitano
Rodolpho El, qual li habii a menare gente et fantarìa de Alemagna.
Potrìa esso Capitano nel suo ritorno ch'el farà cum ditti fanti fingere
essere stato preso da le genti del Papa, e andare a li servitii de Sua
Santità con li fanti che lui conducesse; et noi daressimo dinari in
gran quantità sì ad esso Capitano como a le genti che lui conducesse.
Et oltra li doni quali li darìa Sua Santità, li darìa provisione de
300 ducati el mese et farlo capitano de tutte le fantarìe tedesche che
Sua Santità havesse.» Sopra di che Gianni rispose: «Non domandate simil
cosa al Capitano, perchè non è homo da fare simil cosa, perchè sempre
mai in Brexa, et in ogni altro loco et expeditioni dove lui è stato, ha
fatto più conto de l'honore che de ogni altra cosa: ma che ben sapeva
che quando il Capitano fosse a servitio di Nostro Signore, non mancarìa
di servire Sua Santità in ogni occorrentia contro il Duca et contro
qualunque altra persona.»

Il che intendendo esso Monsignore, pure instava che lui riportasse in
suo nome ditte parole al ditto Capitano; et se bene il Capitano non
volesse attendere a tal partito, non dovesse restare de dirge quanto
per lui era stato commisso: commettendo ad esso Gianni, che de quanto
havesse in risposta dal Capitano volesse advisargelo per una sua, la
qual dovesse dar ad un suo staffiero qual a posta per questo mandarìa
in casa del sig. Enea di Pii.

Et Gianni ritornato in Ferrara non volse già parlare al ditto Capitano
di tal cosa, cognoscendo la sua bona natura; nondimeno fingendo haverli
parlato, dixe al ditto staffiero, chiamato sopra nome Schiavon, che
'l Capitano non voleva per conto alcuno attendere a simil cosa, et lo
dovesse dire al prefato Monsignore.

Dipoi la proxima quaresima seguente esso Monsignore da Gambara se
trasferite a Ferrara, et alloggiò in casa del prefato sig. Enea, et
mandò per il Capitano et lo convitò in casa de ditto sig. Enea, in
presentia et a tavola del prefato sig. Enea. Et desinato, pigliò il
Capitano et dixe volere andare a Francolino per andare a Venezia, et
dixe al ditto Capitano nel zardino (presente Gianni preditto qual era
interprete tra esso Capitano et ditto Monsignore) se li volea tocare
la mano: al che rispose il Capitano, che molto voluntieri. Et così
tocandoli la mano, Monsignor dixe verso esso Capitano: «Per l'amore
vi porto, io vi voglio fare richo.» Al qual rispose il Capitano: «In
che modo, Monsignore?» Rispose Monsignore, che lo voleva conzare cum
la Santità del Papa, et farli dare magiore provisione che non haveva,
et farlo star bene tutto il tempo de la vita sua. Al qual Monsignore
esso Capitano rispose, che era contento, et lo pregava, pur che li
fosse l'honore suo, facendoli havere bona provisione et havendo bona
licenza dal sig. Duca, che le ne restarìa obligato. Et Monsignore
rispose: «Como, Capitano, credete ch'io volesse cosa alcuna che fosse
vostro dishonore, et che non gli fosse l'honor vostro? Lassative pur
consigliare a me, e fati a mio modo, che farò ben di modo che serete
richo et cum vostro honore.» Del che il Capitano restò contento, purchè
li fusse l'honore suo, et non altrimente. Et fatto questo parlamento,
se partirno d'insiemi.

_Qui seguita narrando, che Gianni andò a Napoli e fu fatto dal Vicerè
Castellano della Rocca di Sora ove stette due anni circa: Che nel
frattempo Monsignor Gambara scrisse da Roma una lettera al Capitano
Ello la quale si dice riportata in Processo, ma non vi si trova: Che
il Gambara si portò a Ferrara in casa di Enea Pio ove feee chiamare
il Capitano Ello per donargli a nome del Papa 100 scudi e rinnovargli
la proposta che andando a far fanti pel Duca conducesse detti fanti
dalla parte del Papa; al che il Capitano si rifiutò, accettando per
altro i 100 scudi come due mesi anticipati di paga del servizio che fin
d'allora si obbligava di prendere sotto il Papa: Che il Gambara passati
i due mesi gli mandò altri 100 ducati per una nuova anticipazione di
due mesi di paga, e fece dirgli a mezzo di un suo famiglio, che avrebbe
accolto ai servigi del Papa anche il figlio del Capitano, ch'era a
Cotrone, con 100 ducati al mese, purchè non si rifiutasse d'aiutarlo e
dargli avviso, quando parerà tempo, in qual notte potesse venire con
genti atte da Bologna_ a pigliare il Duca con il Cardinale (insieme
ad esso Capitano, acciò che la cosa vada più coperta per l'onor suo):
e facendo che uno di questi due casi abbia effetto, cioè che 'l Duca
o il Cardinale sia preso, _gli offeriva a nome del Papa 3,000 ducati,
più 100 al mese di provvisione propria, oltre quella pel figliuolo, e
finalmente larghi compensi a coloro che avessero agevolata la cosa: Che
il capitano Ello non ne volse sapere, ed anzi montò in collera, e fu a
denunziare tutto ciò al Duca, il quale gli suggerì di lasciar correre
la pratica, tenendolo informato: Che il Gambara più tardi chiamò Gianni
da Napoli, scrivendo al Vicerè che gli dèsse licenza per un mese; e
che essendosi Gianni portato a Roma, tornò a pregarlo di persuadere e
guadagnare il capitano Ello, promettendo che il Papa darebbe a quello
in regalo diecimila ducati, mantenendogli i 100 di provvisione al mese,
e farebbe inoltre il figliuolo di quello Cardinale[152], con altre
promissioni a favore dello stesso Gianni. — E qui il Processo continuua
di questo tenore:_

Gianni rispose, che era per andare a riferire al Capitano quanto
gli dicea Sua Signoria; ma che a fare simil effetto sarìa bono
l'havesse simil parole dal Papa che li havesse a mantenere quanto li
era promesso; et alhora esso Monsig. dixe: «Mo ben: io farò che tu
parlerai questa sira al Papa, e così tu venirai a le XXIV hore, ch'io
te introdurò al Papa.» Et così la ditta sira che fo al principio de
januario de' 4 di esso, Gianni andette col prefato Monsig. al palazzo,
et dipoi poco spatio fu introducto a li piedi di Sua Santità, et
intrato dentro, et basatoli li pedi santissimi et beatissimi, Sua
Santità l'interrogò se era quell'allievo del Capitano Rodolpho, a la
cui Sua Santità Gianni rispose, sì; et alhora Sua Santità li dixe:
«Avete ben inteso quel vi ha ditto il Protonotario di Gambara (qual
era lì presente)? Ve basta l'animo che 'l Capitano lo farà? Se 'l
Capitano farà quel che noi desideramo, adesso è il tempo de doventare
richo, perchè s'el ne darà in le man il Duca di Ferrara, qual ogni modo
deliberamo de havere, noi il faremo richo lui et voi; e tutto quel v'ha
ditto Monsignore vi servaremo: et così state suso il petto nostro. Et
hora è il tempo di fare simil cosa, perchè lo è morto il Cardinale et
havemo il Marchese de Mantua da la nostra, et non ha amico alcuno, et
lui è amalato de la persona, de maniera che questa cosa facilmente se
potrìa condure, et tanto più che se farìa cum honore de esso Capitano,
perchè se pigliarà ditto Capitano insieme col Duca. Nè dée pensare il
Capitano, che questo sia peccato alcuno, perchè Ferrara è nostra, et
operando il Capitano ch'ella ne sia restituita, non fa peccato alcuno.
Et per più sua certezza, quando se harà a confessare, dirà al prete
che lui ha aiutato il patrone a ricuperare una possessione qual era
occupata da altri, chè senza dubio il confessore lo absolverà et li
dirà che non è peccato. Et tanto più il Capitano lo debe fare, chè 'l
Duca è un miserazzo et un hortulano.» Et sopraggiunse Monsignore: «Et
un buzarone.» Il Papa confirmò: «Cusì è la verità, che è il magior
buzarone del mondo!» Et poi le predette cose et molte altre ditte per
il Papa et Monsignore, esso Gianni promise di fare il possibile; et
alhora il Protonotario dixe, replicando: «Su, hai mò inteso? Tu porai
dire al Capitano, che tu l'hai de bocca del Papa.» Et così preseno bona
licenza, et se ne partirno da Sua Santità...

_Gianni avviandosi alla volta di Ferrara_ giunse a Bologna, e lìe
inteso che 'l Duca havea mandato il Capitano a Trento per far fanti,
lì andete drieto, e così lo ritrovò a Trento, et a quello narrò
quanto havea in commissione et dal Papa et dal prefato Monsignore,
persuadendolo a non attendere a simil pratica[153]; benchè fusse
superfluo, perchè esso Capitano sempre fu de animo di non volervi
attendere, stimando più l'onore suo che 'l resto. Et havendo inteso
esso Capitano che i Svizzari non calavano più, ritornorno in compagnia
a Ferrara et narrorno il tutto al Duca. Il qual, secondo che esso
Capitano dice, in fin a quell'hora poca fede li havea prestato: ma
mò avendo inteso quanto li havea referto Gianni, li comenzò a prestar
fede; et volendoli Gianni mostrarli le lettere scrittele in Sora per
Monsignor de Gambara, il Duca non le volse vedere, dicendo prestarli
fede assai: per il che vedendo Gianni che esse lettere, portate perchè
le fossero testimonio, non esserli necessarie, le brusò[154].

_Il Gambara tornò più volte a tentare il capitano Ello per mezzo di
Gianni; e trovandosi a Bologna con quest'ultimo, saltò fuori col fargli
il seguente progetto:_

«Tu dirai al Capitano, che, volendo expedire questa cosa, il modo
è questo: Che esso Capitano una domenica mattina fingendo andare a
bevere cum li bombardieri che sono in Castel Tealdo, intrato dentro
con alcuni suoi fidati occida detti bombardieri et ritenga in sè ditto
ponte et porta, ritenendo cum sè quelli che li sono fidati, dandoli
denari. Et noi avvisati da te, Gianni, qual volemo sii cum noi; perchè
tu, venuto qui a Bologna il venere innanti a dirne como le cose sono
in ordine per ditta domenica, noi, inteso questo, il sabbato che se
fa il mercato faremo ritenere tutti li somieri, e fingendosi ch'el
si sia fatto costione tra due gentil homini in Bologna, faremo serar
le porte a ciò niuno possi uscire; et la notte cum fanti sopra ditti
somieri, che non saranno manco di mille[155], et cum cavalli che non
saranno meno di 500, quali tene il Papa qui in Bologna, et cum due mila
fanti che condurà Ramazoto et altre gente atte a ciò, ci troveremo
la matina al tempo debito al detto posto de Castel Tealdo, et gionti
intraremo dentro, et de mano in mano ne seguitarà il Presidente de
Bologna cum il popolo di Bologna et cum altra gente venuta de Romagna
et de altro loco, et così la cosa riuscirà: et in la intrata nostra
faremo correre 25 trombetti per Ferrara, gridando _Chiesa Chiesa_, et
confortando ogniuno per parte de la Santità di Nostro Signore che non
se movano: et per salvezza de honore del Capitano lo piglieremo anchora
lui.»................

                             . . . . . . .

_Resterebbe a dire come il progetto del Gambara fosse tirato in
lungo d'intelligenza del Duca, per meglio indagarne l'importanza e
diramazione, e come in questo mentre il capitano Ello potè carpire
al Protonotario del Papa alcune migliaia di scudi. Il processo viene
poi finalmente a concludersi con una lettera che si dice diretta
dal capitano Ello al Gambara, intesa a sciogliere bonariamente ogni
pratica; lettera che ci offre i particolari seguenti_[156]:

«Prego V. S. che mai più non mi tenti de tal cosa, perchè io non la
voglio fare; et ancho vi avviso che quando bene io la volesse fare
non sarìa così facile come forsi voi pensati, perchè questo sig. Duca
vive in grande zelosìa et quello Castel Tialdo se guarda con un altro
modo che non soleva, et ogni dì se mutano le guardie, e nessuno sa
quando debbia toccarli la guardia. Et quando Sua Signoria va fora de la
terra, non sta mai che tre o quattro dì, et non se sa mai quando vole
andare, se non all'improviso: et oltra la guardia de li alabardieri
mena una compagnia de trenta cavalli leggeri et seco lance spezzate,
et poi ancho più de 150 persone de la famiglia, che la maior parte
sono apti a menar le mani. Et quando è a Belriguardo, quel palazzo è
tanto (grande), che non bastariano tre millia uomini a circondarlo; sì
che uno che fusse dentro non potesse scampare. Et quando ancora va a
Porto, sta in loco circundato di fossi, dove dieci homini bastariano
a resistere contro mille. Et per venire a questi dui lochi bisogna
passare il Po et traversare assai campagna, et le case se trovano
spesse in modo che de dì non se potrìa far in effetto nessuno, et de
notte li cani bastariano a discoprir ogni cosa: perchè ancho sempre
S. S.ria fa fare le sentinelle de notte alli suoi cavalli leggeri; et
ancho in casa sempre de ogni hora de la notte sta gente levata de li
suoi creati. Et quando va a Comachio sta in una casa in mezzo la valle,
dove non se pò andare se non per canali stretti, et lì ha barca armata
con falconetti et archibusi et fa fare sempre dì et notte le guardie
verso Ravenna et verso Venezia.

«Et sappia che non bisogna pensare de fare adunar gente in Bologna per
questo effetto sotto nessuna altra scusa, perchè io ho inteso per bona
via che 'l sig. Duca ha in quella cittade tri o quattro gentilhuomini
de li primi, suoi amici, che lo avvisano de tutto quello che se fa et
se dice: et come se moveno fanti o cavalli da dieci in su, incontenenti
S. S. sta con li occhi aperti per la zelosìa che ha; sì che non bisogna
pensare che sia così facile.

«Prego V. S. che mai più no cerchi di mettermi in cosa che mi non ho
mai fatto, nè homo de casa mia: et se V. S. me vole far bene, me ne
faccia per altra via.

«Ho fatto scriver questa a uno mio fidato che sa italiano: e a V. S. me
raccomando.»


_La lettera non è che in forma di minuta, senza firma, e della mano
medesima che stese questo abbozzo di Processo, il quale difetta pur
esso di qualsiasi sottoscrizione ed autenticità, e così dei tredici
documenti citati in appoggio del Processo, riscontrandovi solo gli
spazi lasciati in bianco._


DOCUMENTO XIII

_Translato di latino in vulgare di una Littera scripta dallo ill. sig.
donno Alphonso da Este duca di Ferrara per sua iustificatione allo
Imperatore, et mutatis mutandis agli altri Principi christiani._

Perchè essendo io feudatario della Sancta Chiesa, come sono, penso
che molti non solamente potriano maravigliarsi ma ancho biasimarme,
ch'io mi fussi mosso in servitio et adiuto del Re christianissimo,
nella guerra cominciata a' mesi passati contro Sua Maestà dal presente
summo Pontefice Leone X, non sapendo la cagione che m'havesse inducto
a farlo: io così come in questo caso tengo d'essere senza colpa et
iustificato nel conspecto del divino tribunale, dinanzi al quale
sono palesi li torti et le ingiurie che m'hanno provocato, così
voglio rendere ragione del mover mio, et iustificarmi ancho presso
tutti li principi christiani, il primo de' quali è la Cesarea et
Catholica Maestà Vostra, della quale io fui et voglio esser sempre
osservantissimo servitore. Per questa mia adunque, la quale con la
debita reverentia mando in mio loco, la predicta Maestà V. Cesarea
intenderà como quando el presente summo Pontifice fu exaltato a
quella S. Sede, io n'hebbi una tale et tanta letitia, che non per
mezo de' miei oratori, come si sole, ma personalmente andai a Roma a
baciarli li piedi, et congratularmi con S. Santità. Et prima ch'io me
partissi per tornare a Ferrara mi diede ferma speranza di restituirmi
in breve la mia città di Reggio, la quale iniustamente da Papa Julio
suo precessore insieme con la città di Modena mi era stata tolta
sotto pretexto di uno monitorio sopra falsissime cause formato et
fulminato contra me................................ Nel 1514 del mese
di giugno per un breve sottoscripto de mano propria di S. Santità et
delli Rev. Cardinali de' Medici, et de S. Maria in Portico, il qual
breve è presso me, promise restituirmi la decta città di Reggio fra
5 mesi, et.... restai deluso.... Et quando il prefato PP. Leone fece
la decta promissione di restituirmi Reggio, io feci con S. Santità,
per mezzo del sig. Cardinale mio fratello, una compositione di levare
del sale suo da Cervia per il mio Stato, la qual mi fu di molto peso
et inextimabil danno, perchè volse che io me obligassi non farne a
Comacchio, ove ne potrei fare ogn'anno grandissima quantitade.....
Et essendo io in tractato di rihavere Modena, ch'era nelle mani dello
Imperator Maximiliano di immortal memoria, avo paterno di V. Alteza,
il prefato Papa Leone vi si interpose a disturbarmi la pratica, et
procurare di havere essa Modena per sè... per una tal summa di dinari,
che poco manco dava di rendita ogn'anno... Ma poi... col mezo de
l'episcopo d'Adria orator mio per la decta restitutione presso S.
Beatitudine, ella monstrò d'essere al tutto disposta reintegrarmi
del mio, pagando io una buona summa di denari delli quali, secondo la
compositione fatta, feci deposito et diedi buone cautioni in Fiorenza,
et fu fatto lo instrumento per Pietro Ardinghello cittadino fiorentino
et segretario di prefata S. Beatitudine, et era già publicato per
tutto che le mie terre mi erano restituite; et nientedimeno fui ancho
deluso ... et si diede a pensare di volermi togliere per qualunque
modo potesse quello che mi restava. Et havendo per un amplissimo
breve del 1515 tolto la protectione di me et de' miei figliuoli et
Stato, la quale protectione havea ancho tolto per il suprascripto
breve del 1514..... ha sempre cercato capitulare a mia ruina........
Et ritrovandome io gravemente infermo lo inverno del 1519 et sendosi
divulgata fama ch'io morrei di quella infirmitade, epso PP. Leone
mandò lo episcopo di Ventimiglia, che sotto colore di voler fare altra
impresa, fece adunatione di parecchie migliara di fanti sul Mirandulese
nelle confine di Ferrara per assalirla et occuparla a l'improviso,
o, se io fussi morto, per toglierla a' miei figliuoli, li quali per
la loro innocentia et tenera etade non meritavano già una sì crudele
ingiuria da Sua Beatitudine........................

Ma io ho ultimamente inteso, cognosciuto et toccato con mani che
il prefato PP. Leone, non per colpa mia, ma per lo odio ch'el mi
porta gratis, per via più detestanda ha teso insidie alla vita et
Stato mio, et per mezo di scelerati soi ministri ha tentato di fare
corrompere, con una grossa summa di denari et altre promissioni,
alcuni miei stipendiati, in che ha speso miara di ducati. Ma quella
infinita bontà che resiste alli iniqui pensieri de gli huomini, et
difende la iustitia, non ha voluto che un così impio disegno sortisca
effecto, perchè dalli decti miei stipendiati mi è stato rivelato il
tutto. Et essendo di tale tractato conscie alquante persone, ho facto
distendere in scripto tutto il processo della cosa che in autentica
forma è presso me, et li testimonij de sì abominevole delitto son
vivi, et con qualcuno di epsi el medesimo PP. Leone di bocca propria
ha parlato sopra il detto tractato in modo da fare stupire chi lo
intendesse. Onde vedendo io che colui che doverìa essere exemplo di
virtute et sanctitade a tutto il mondo per lo adorando loco ch'el
tiene, è caduto in così horrendo pensiero, nè sapendo più come
difendermi da tante insidie; è stato forza che la mia lunga et humil
piacientia provocata tante volte con tante offese si sia alfine
convertita in disperatione..... ben ch'io voglia persuadermi che le
continuate instigationi et venenose lingue de' miei malivoli sian state
quelle che habbino havuto forza de indurlo a fare contra me quanto è
soprascripto...................................

Io mi sono bene (con mia gravissima displicentia) ridutto a fare questa
excusatione, perchè non harei voluto dire di colui ch'è capo della
nostra fede, cosa che tanto disdice in la sua suprema dignitade; ma
credo di meritare perdono presso ognuno, se con iustitia et verità
difendo me et l'honor mio: protestando però ch'io non sono per
manchare mai verso la Santa Romana Chiesa di quella fede, osservantia
et servitute che da ogni fidele vassallo et christiano se le deve.
Supplico alla Cesarea et Catholica Maestà Vostra che, intendendo la
innocentia mia, se degni averme non solamente per excusato ma ancho
per raccomandato come osservantissimo suo vassallo et servitore, et
per quanto specta a lei non voglia comportare ch'io sia con tanto
odio iniquamente perseguitato. Et quando V. Altezza non si mova per la
riverente servitù ch'io le porto, nè perchè io sia pur nato del sangue
suo, oltra ch'io le sia vassallo, muovasi almeno per riverentia di Dio,
il quale l'ha electa a così alta sede et factola si potente signore
perchè ella favorisca la iustitia et non la lassi opprimere: et io me
offero apparecchiato di far constare alla V. Imp. Maestade et a tutti
gli altri Principi christiani quanto è suprascripto delli detti brevi,
processo et testimonij a mia iustificatione, che non allego cosa che
non sia verissima.

                      Stampata in Ferrara, del mese de novembre 1521.


DOCUMENTO XIV

_Resposta alla invectiva qui annexa di don Alfonso già duca di Ferrara,
publicata contro la sancta et gloriosa memoria di Leone PP. X, sotto
pretexto de una Littera scripta alla Cesarea Maestà. — Translata di
latino in vulgare._

Non è alcuna maraviglia, sacratissimo et victoriosissimo Cesare, se
don Alphonso da Este, già duca de Ferrara per beneficio et gratia
della Sancta Sede Apostolica, sendose manifestato ribelle di epsa, et
atroce inimico del summo Pontefice et de V. M., si sforzi con bugie
retrovare scuse, con le quali possi al manco apparentemente con parole
palliare et difendere le sue male opere, sendo consueto a ciascuno
che fa quel che non debbe, o nascondere li soi peccati potendo, o,
sendo palesi, affaticarse ritrovar cause per le quali dimonstri non
voluntariamente, ma sforzato, o per errore o caso, essere cascato
in epsi. Ma ben è forte da maravigliarse habbi presumpto alla M. V.
sapientissima indrizzare queste sue calunniose, mendace et sacrilege
littere..... Chè pur gran cosa è (_o Alfonso d'Este_) se siete stato
sempre sì obbediente et fidele alla Sede Apostolica, como scrivete,
che doi sommi Pontifici tanto gravi et successivi ve habbino declarato
inimico publico de Sancta Chiesa, excomunicato et maledecto, cioè
Julio et Leone, maxime sendo a voi questo ultimo tanto benevolo avanti
pervenesse al summo pontificato, et anchor nel principio d'epso
(come dicete). Certo è cosa aliena dal senso humano, che gratis et
senza scusa, alcuno deventi inimico del proximo; ma molto più che
'l grand'amico se facci inimico spontaneamente. Però se inimico
vi s'è facto, d'amico ch'el vi fusse, voi l'havete indocto a così
fare, continuando nel concepto odio verso l'Apostolica Sede, contra
la quale erigeste le corna a tempo della sancta memoria de Julio,
ch'anchor lui nell'initio del suo pontificato ve amò et gratificò, et
era compatre del sig. vostro patre: ma con la ingratitudine vostra,
liberato che vi hebbe dalla subiectione de' signori Venetiani, andaste
a toglier protectione de' principi extranei, dalla qual insuperbito,
accresceste datij et gabelle, publicaste legge et edicti contra la
iurisditione del vostro supremo signore, presumeste voler far il sale,
che mai epsi signori Venetiani vi havevano permesso, a chi non erave
subdito, et contra il diritto del vostro natural principe, in tanto
preiudicio della Camera apostolica, usurpar voleste quelle regalìe,
che sono riservate ai supremi Signori in tutti i regni et parte del
mondo. Per la qual vostra cupidità che non tentaste? Che lasciaste
a fare contra la povera Chiesa et vostro principe? Primo seminaste
la guerra, poi el scisma, et con le arme apertamente l'esercito
scismatico in persona adiustate. Sallo Bologna che dall'obbedientia
della Chiesa con scismatici rivoltaste; sallo Ravenna che spogliaste;
sallo Romagna nella qual tante rapine faceste.............. Sforzaste
Julio ad esservi inimico, parimente havete forzato Leone, il quale,
como mansuetissimo, nel principio del suo pontificato pensò con
dolcezza et beneficij retraherve da quel mal animo, da quel confirmato
odio teneate verso la Chiesa de Dio et sua S. Sede, nella qual epso
presidea.....................

Et perchè costui (_Alfonso d'Este_) tanto se querela di questo Reggio,
nominandolo terra sua, como se da soi maggiori fusse stata edificata,
et per naturale et antiqua successione li pervenesse, parmi necessario
aprire como epsa terra fusse occupata da casa sua, non son molti anni,
et le ragioni li pò pretendere. Manifestissima cosa è Reggio essere
delli antiqui beni della Chiesa Romana, contenuta nell'Exarcato de
Ravenna, et per più concessioni et donationi facte da Romani Imperatori
ad epsa Chiesa; ben che poi per discordie successe tra alcuni summi
Pontifici et electi Imperatori sia stata certo tempo posseduta in
nome dell'Imperio, et penultimamente dalla casa de' Visconti et dal
duca Jo. Galeazzo conte de Vertus, a morte del quale per l'avol de
don Alfonso, marchese Nicolò, fu a tradimento occupata insieme con
Parma, tagliato a pezzi messer Otto Terzo suo compatre, custode de
quella città, ricercato venir a Rubera ad amichevole parlamento, ma
da Parmesani cognosciuto, di sabito fu repulso, havendo lassato epso
Jo. Galeazzo Philippo Maria suo figlio di tenera età, impotente a
conservare et difendere l'amplo Stato paterno perturbatoli da diversi
tiranni, et dall'ill. Signoria di Venetia, et così per occasione
delle continue guerre tra epsa Signoria et duca Philippo fu retenuta
occupata dal decto marchese Nicolò, senza alcun titolo: la qual poi
dalla sancta memoria di PP. Julio per la ribellione de don Alphonso
et esser scismatico, che è tocco di sopra, fu in guerra recuperata
per la Chiesa, con permissione et consenso della gloriosa memoria del
divo Maximiliano Imperatore, avolo di Vostra Maestà del qual extano
le littere. Il che lui dice essere stato facto iniustamente, sotto
pretexto de un monitorio etc. Si mo: è iniusto o iuxto recuperare alla
Sancta Sede el suo occupatoli indebitamente da un ribelle et scismatico
in guerra iustissima? È si chiaro che non bisogna explicarlo. Et tamen
costui exclama, como si jure divino questa città fusse sua, quale suo
avo a tradimento rubò.......................

L'altra querela, Cesarea Maestà, è da Modena, ove dice che tractando
lui rehaverla, sendo pervenuta alle mani de Maximiliano Imperatore di
perpetua memoria, el PP. se li interpose con procurare d'haverla epso,
et che non la pigliò per la Sede Apostolica, et la hebbe a vil pretio,
poco più di quello se ne cavava ciascun anno d'entrata, et promisse
al Card. suo fratello darla poi a lui, et che nol fece etc. Al che si
responde prima a l'ultimo, quanto sia della promessa, che pure adduce
il fratello per testimonio, a chi non sarebbe da prestar fede: poi
dato l'havesse promesso incautamente per importunità, obligato era a
non servarla per le sopra allegate ragioni. Circa el contracto, dico
che forte se n'inganna, anzi principalmente da S. Santità fu facto per
la Chiesa: ma si lui non sa la forma di epso, ricerchila. Quanto al
pretio el fu quello se convenne tra le parte, et de che se contentò la
Cesarea Maestà de gloriosa memoria, qual fu anchora più volte per darla
gratis, ma pigliò quella summa di denari per adiutarsene al bisogno
della guerra contra Venetiani. Ma questo non appartiene a lui: sia
stato il pretio grande o piccolo, unum est che fu maggiore assai di
quello dice, anzi in molti anni la intrata non ascende a quella summa.
Ben è vero che al tempo la occupava lui, per tiraneggiare li populi
e mungerli sino al sangue, ne cavava fructo assai maggiore di quello
facea la Cesarea Maestà quando la tenea, nè di poi la S. Sede, chè il
simil anchor facea di Reggio............... Nè in epsa pò don Alphonso
pretendere veruna altra ragione che simile a quella di Reggio, perchè
pure da soi maiori fu rubata, scacciando li Vicarij Imperiali che la
governavano ne' tempi perturbati. Non havendo adunche lui megliore
ragioni in Modena che in Reggio, et la Sede Apostolica le medeme, sendo
stata recuperata nella dicta guerra et per quelle istesse cause; se
di sopra havemo declarato et provato iustamente esserli stato levato
Reggio, et recuperato per la Chiesa, viene anchora ad essere provato el
simile de Modena, et molto più adgiongendosi la vendita et contracto
facto per la Cesarea Maestà, il quale per ogni ragione havea potuto
fare, dato che colui fusse stato prima vero feudatario senza esserne
decaduto, como era per molto grave colpe, perchè havendo epso il
feudo, el Signore d'epso, che l'havea recuperato, ne potea fare il suo
beneplacito.

                             . . . . . . .

Ma perchè si parla di Ferrara, ragionevol cosa è, sì como di Modena
et di Reggio si è facto, declarare como iniustamente nel principio
pervenesse in potere di questi da Este et con maggior iniustitia et
iniquità sia stata poi ritenuta. Già notissimo è Ferrara essere delle
certe et antique cose della S. Chiesa, posseduta centinara d'anni dal
tempo de Carlo Magno sin che fu occupata per costoro, circa el tempo
che Pontifici stavano in Avignone, sendo stati posti stipendiati alla
custodìa di epsa città contro un certo Salinguerra cittadino che se era
elevato in tiranno: ma quelli che la doveano defendere la usurporno,
sendo le cose della Chiesa travagliate. La qual alquanto respirando
non volendo tolerare tanto iniuriosa iactura, scacciogli, recuperando
la città: ma poi pur epsi la reoccuporno, con adiuto de' tiranni
circumvicini, che in quel tempo molti se n'erano elevati in quelle
bande per le perturbationi della Chiesa et dell'Imperio, como acader
sole che sempre tiranni pululano, afflicti e principi che li hanno a
reprimere: et così correndo tal vicissitudine per alcuni anni, furno
scacciati più volte hor per el Pelagura Legato de Bologna, hor per
altri ministri della Sede Apostolica et excomunicati, como ne appare
anchor el processo nell'Archivio de Avignone. Ma di poi, sondo pur la
corte absente, et oppresso il Stato ecclesiastico dalla potentia de'
Visconti, parve al summo Pontifice defferir la lor punitione ad altro
tempo più comodo, tolerandoli cum conditione pagassero dieci mila
ducati de annuo censo alla S. Sede, per attendere al più importante:
et così la obtennero con iniqui principii, primo a tradimento, poi per
violentia et necessità, confirmandoseli nel funesto tempo che in breve
successe del scisma, che durò tanti anni. Et non contenti di questo,
alquanto di poi usurporno Argenta all'Arcivescovato di Ravenna, per il
che furno di novo excomunicati et astrecti a restituirla; ma appresso
la reoccuporno; et non satii usurporno anchor Comacchio et Lugo. Dipoi
cominciando a rehaverse la S. Sede, sendo le cose della Chiesa anchor
debile, se son mantenuti con appoggiarse sempre a chi inimicava ad epsa
Sede, con procurare al continuo stesse bassa et travagliata, ad ciò
non havesse facultà di ripetere el suo, et cercato ognhora diminuire
quel censo, secondo le occasioni o necessità de' summi Pontifici, che
se li sono offerte. Tanto che da diecimila ducati, l'hanno reducto a
nulla, cioè a cento, che ultimo li fu concesso da PP. Alexandro quando
don Alphonso pigliò sua figlia spuria per moglie, nella qual occasione
anchora usurpò Cento et la Pieve, terre del Vescovato de Bologna,
quantunche epso Alexandro avanti tal contracto havesse statuito et
tractato recuperar Ferrara alla Chiesa, como prima di lui Sixto et
Pio pessime disposto verso el duca Borso, secondo le sue epistole
attestano. Tacio li precedenti per non tanto extenderme, sendomi stato
bisogno summariamente quasi texere una historia, per far cognoscere
quanto iniquamente sia stata usurpata et retenuta epsa città de
Ferrara a la Sancta Sede, lassando anchora de scrivere quante volte sia
devoluta, sì per le rebellioni de' maggiori de don Alphonso, como per
essere mancata la linea loro legittima, chè al più del tempo bastardi
hanno signoreggiato in epsa casa: della quale se si volessero contare
le sanguinolente et abominevole tragedie, le occisioni, li stupri,
se maraviglierebbe ognuno che tanta iniquità fosse perdurata sino a
questi tempi; quali, et per non esser troppo longo, et per non voler
toccare cose calunniose, non pertinenti alla resposta, preterisco: ma
le historie de' moderni scriptori, communi ad ognuno, ne sono piene.
Questo non lassarò, per far a proposito, che l'avo de costui, march.
Nicolò, sendo bastardo, lassò Ferrara per testamento al march. Leonello
pur bastardo suo figlio, Modena al Sig. Hercole patre de don Alphonso,
Reggio, che havea occupato lui, al Sig. Sigismondo figlio legitimo; et
epso mar. Leonello morendo lassò il Stato di Ferrara al Sig. Nicolò
suo figlio legitimo, nato de matre della casa del march. de Mantoa,
al quale il sig. Hercole la occupò, et ad epso suo nepote crudelmente
fece tagliare il capo. Parimente levò Reggio al sig. Sigismondo suo
fratello: et si alcuno volesse defendere questa occupatione, allegando
el bastardo non poter succedere nel Stato, che dirà egli di Reggio che
era lassato al legitimo, et cosa acquistata di novo per el testatore?
Poi se li responde che parimente el march. Nicolò avo non potea
tenere Ferrara per essere bastardo, et però nulla ragione li potea
anchora havere el figlio legitimo; et si titulo alcuno o investitura
li acquistò per sè et il figlio bastardo, como fece per epso march.
Leonello, che lui solo qualche ragione pretendere li potea, et nulla il
signor Hercule, et non dimeno el figlio legitimo d'epso signor Leonello
decapitò con levarli el Stato.... Di san Felice gli è chiaro che
antiquamente era infeudato a' signori di Carpi predecessori _del_ sig.
Alberto _Pio_.

L'ultima querela di don Alphonso, sacratissima Maestà, è troppo
abominevole, impia et scelesta: non li parendo assai haver
calunniato il buon Pontifice, descrivendolo ingrato, fedifrago,
cupido, iniusto, ardisce anchora accusarlo de crudeltà, facendolo
sicario et sanguinolento. Temerità tanto grande et impietà, che non
meritarebbe risposta de parole, ma di debito supplicio. Al che la
vita innocentissima de PP. Leone nota a l'universo da sè responde
et purga; oltra che la calunnia da lui non se prova nè cum effecti,
nè cum argumenti nè alcuna coniectura; ma sol exagera la cosa con
parole grave, exordiendo che S. Santità l'havea in odio gratis: cosa
aliena non solo da li efferati homini, che non portano odio si non
per qualche causa, ma anchora dalli bruti animali; et lo impone ad
una natura tanto mansueta, suave et benefica, et dice havere toccato
con mano S. Beatitudine per mezo de' scelerati soi ministri con via
detestanda haverli poste insidie nella vita, allegando di ciò havere
testimonij soi famigliari, et stipendiati, tentati per tale effecto,
et esserne facto processo, quale ha appresso di sè con epsi testimonij
vivi, con alcuno de' quali el PP. istesso ha parlato di bocca propria
sopra decto tractato, in modo da far stupire chi lo intendesse.
Per certo subtile inventione, exquisita astutia, ma mal colorita
fabula!.................................. A voi dico, don Alphonso:
Chi sarebbe questi se maraviglierebbono, si non li grossieri, incapaci
et sciocchi, che havendo voi conficto uno processo, stato iudice
et parte, electi testimonij vi son piaciuti, che l'havessi exteso a
vostro modo? Maraviglia sarebbe che havendo facta la ribaldaria, non
vi fussi sforzato farla compita et apparente quanto poteate. Ma non
vedete voi che quanto la confingete più atroce, per movere li affecti
de chi leggesse le vostre Littere, tanto la rendete men verisimile?
Chè non vi havendo altro argomento nè prove (chè ben sapete vostri
famigliari non fanno fede nè processo facto avanti voi et vostri
iudici, in casa vostra et in causa propria) doveate tutto affidarve in
la verisimilitudine, volendo allucinare la mente di qualcuno? Questi
testimonij che dicete essere vivi, con li quali ha parlato el Papa,
o sono vostri ministri et famigliari, o soi. Si de' vostri, non è
da credere che un principe sì prudente et circonspecto, qual era Sua
Santità, anchor havesse tal animo, si fusse confidato dirlo a loro: si
erano de' soi, non è verisimile l'havessero palesato a voi, con tradire
un suo sì gran patrone: poi, si così è, produceteli, comparischino
questi vostri egregi testimonij, et se cognoscerà la vostra iniquità
et sceleraggine; chè me sforzate pure a così dire, parlando voi tanto
inhonesto et sordidamente del summo Pontifice vostro supremo Signore.
Doveate questo processo far produrre et estenderlo davanti altro
tribunale che'l vostro, che non se sa (pur sono astrecto toccare delle
cose che tacere volevo) come se formano li processi in casa vostra?
Sannolo li infelici vostri fratelli crudelmente incarcerati tanti
anni sono: sallo el sangue et le viscere de quelli poveri gentiluomini
dilacerati.....................

Quanto a l'antiqua amicitia adducete tra casa de' Medici et
vostra.......... se li eravate amico, perchè faceste in Francia
appresso el re Loysi et reverendissimo Rhoano Legato tanti mali officij
contra loro? Bisogna adunche dire, o che mai li fuste amico, ma della
fortuna loro quando era florida, et li voltaste le spalle como la se
mutò, o che siate stato perverso et malvagio a non subvenire e vostri
amici in le necessità; ma, che è peggio, adiutare a perseguitarli,
et voi istesso a procurarli el male: et questo quanto all'antiqua
amicitia basti....... mai la vostra amicitia fu utile ad alcuno,
dannosa sì, per non risguardar in epsa si non quanto serve al vostro
commodo......................... Ma el mendace ha fronte a dire
tutto quello pare li venga bene, maxime quando non l'ha a provare
altrimente; per il che presume poi anchora dire epso medemo PP. Leone
havere affirmato, che iniustamente Julio el perseguitava, chè troppo è
ridiculo che S. Santità qual era Legato del PP. et in facto all'occhio
vedea le sue pessime opere, più volte narrate, la union cum scismatici,
le insidie facea al Stato de Bologna et di Romagna, dicesse el PP.
indebitamente perseguitarlo. Pur, adducendo il Cardenale suo fratello
per testimonio, se li vuol credere; maxime se li occhi di don Julio suo
fratello lo consentessero!

............ L'eredità sua (_del card. Ippolito_) qual tutta era de
beni ecclesiastici (che ben sa delli paterni epso non hebbe mai alcuna
parte), sì grossa summa de denari, tanti altri beni de ogni sorte che
a maior valore ascendono de cento miara de ducati, se ha usurpati, che
tucti perveneano al summo Pontifice, et nientedimeno gli l'ha permessa,
sino a riportarse a Ferrara quella parte n'haveva in Roma! È questo
picciol dono? beneficio da tacere? inditio de mala voluntà verso lui,
et di volerli toglier Ferrara? chè pur l'anno passato fu questo; anchor
che S. Santità sapesse epso Cardenale essere morto repentinamente senza
poter testare (oltra che non havea sufficiente facoltà), quantunque lui
facesse scrivere un testamento falso, per potere sotto qualche colore
occupare quelli beni, contra il quale vi erano li testimonij parati a
provare la falsità: et questo beneficio con li altri tace, non volendo
essere meno ingrato con la lingua che con le opere.

Volse (_Alfonso_) implicitamente diminuire l'authorità pontificia,
accostandose alla venenata doctrina de l'heretico Martino Luther, la
quale però sin l'anno passato per molti giorni fece publice predicare
in Ferrara et anchora in Venetia, ben che non tanto apertamente,
dal suo barbato frate Andrea da Ferrara de l'ordine d'heremitani,
che anchora maiori errori publicò delli lutherani. Onde mandando il
PP. a comandarli lo facesse pigliare, epso obedire nol volse, ma lo
fece nascondere: colpa anchora maiore delle altre per essere causa
d'heresìa, per la qual sola meritava essere privato (_di Ferrara_) et
severissime punito..................

Accusa, invictissimo Cesare, questo inimico da V. Maestà la gloriosa
memoria de PP. Leone in queste sue Littere publicate de poi la morte
di epso (ben che ad ciò il tutto sia mendace, la data sia facta avanti
il suo deflendo caso, cioè di novembre: ma niuno se ritrovarà a chi
tal Littere siano pervenute a mano, si non molti giorni de poi mancò
S. Santità); accusalo de inconstantia, de perfidia, de cupidità, de
iniustitia, de crudelità: fallo un sicario, un homicida; cosa pur
troppo aliena, appresso ad ognuno che l'ha cognosciuta, da quella
mitissima, dolcissima et beneficentissima natura, qual da posteri serà
celebrata et predicata como cosa rarissima et singulare[157], morta che
serà l'invidia et odio d'alcuni; chè satisfare et contentare ogn'uno
non se pò per chi administra magistrati et potissime grandi, quanto
quello del summo pastore et de Vostra Maestà.

Dovea bastare a don Alphonso, volendo calonniare el bon Pontifice,
dire non li havere servate le promesse, non voluto donargli Reggio,
havere tentato ricuperare Ferrara, non permesseli la regalie del sale;
et ahstenerse dire haverlo voluto fare amazare, farlo un crudele et
sanguinario tiranno; chè le prime cose appresso alcuni forsi sarebbono
parse verisimile: ma quest'ultima denota il tutto essere conficto et
mendacio evidentissimo.

Excusatione chiama un libello famoso, un parlare sì petulante et
temerario, una invectiva piena de tante calunnie, ove parla de'
summi Pontifici con quel poco respecto farebbe d'alcuno infame et vil
plebeio, d'uno de' ministri del suo macello o fucina; ove lo chiama
ingrato, perfido, doloso, periuro, sicario et homicida... ha dato a
cognoscer il rancore esser radicato contra la S. Sede, perseguitare la
Chiesa Romana con li Pontifici, et che tale serà verso il successore
qual è stato contra Julio et Leone, della cui morte si è pur troppo
dishonestamente rallegrato, facendo dimostrationi tanto aperte et
inreverenti contra chi pure li era Signore et tenea il loco de Dio in
terra, con donare il nuncio li portò la nova (contra il costume della
sua avaritia) grossamente di vaso di argento et altre cose, aprire le
prigioni, intonar l'aere di sono di bombarde, et fare altri segni da
quasi essere impazato. Dal qual furore mosso, parendoli, vacante Sede,
più agevolmente poterli nocere, ritornò fori con le arme hostilmente,
quale il S. Pontifice li havea represse, repigliando il Finale et san
Felice destitute de presidio, et oppugnando Cento et altre terre, parte
cum arme, parte cum pratiche et tradimenti; benchè di Cento custodito
non li reuscì, nè di Cotignola: de Luco sì con littere falsificate, et
del Frignano et alcuni altri lochi. Di Reggio et Modena non parlo, per
le quali occupare nulla arte o fallacia ha pretermessa, prohibendoli
l'avaritia havere unite forze per oppugnarle, credendose però quelle
havea doverli bastare (congionte con le Franzese che oppugnavano Parma)
conseguite l'havessero.............

V. Maestà farebbe iniuria........ si lo esaudisse, ma molto più a
sè stessa, tolerando un crudele tiranno, inimico della S. Sede, del
Sacro Imperio et de V. Maestà, alla quale pur debbe CCCC milia ducati,
usurpatore de' beni d'altri, che, como narrato è, non tiene nè pretende
in cosa alcuna ove habbi veruna ragione; havendo rubato et occupato
ad altri quanto questa casa ha mai posseduto: Ferrara alla Chiesa,
Modena et Reggio al sacro Imperio, Comacchio pure alla Chiesa et a'
Rhavennati, Poleseno de Rovico a' Paduani, Graffignana a' Lucchesi,
Frignano a varie famiglie de gentili homini per loro annichilate,
Argenta et Luco all'Arcivescovato de Rhavenna, san Felice a' Carpesani,
Brixello a' Coregeschi, Bagnacavallo alli Barbiani, Nonantula
all'Abbatia. Le quali cose lui vorrebbe tenere occupate, et ne parla
como si fussero sue cum ogni antiquo et novo iusto titulo, et tamen in
Ferrara non ne ha alcuno: primo rubata, poi con violentia occupata,
appresso decaduta, ultimo lui privatone da doi summi Pontifici per
iustissime cause sopra narrate. In Modena et Reggio manco, quali pure
nel principio furno usurpate al Sacro Imperio, che poi ne son decaduti
per censi non pagati et multiplice rebellioni. Et lui oltra le medeme
cause essere stato scismatico, haverle perse in iusta guerra, ultimo
permesse et contractate per el divo Maximiliano Imperatore alla S. Sede
Apostolica, restituendola nelle sue antique ragioni, parimente manco
in le altre cose minori sopra narrate, nelle quali particularmente
discorrere sarebbe tedioso.

Però la Maestà V. qual è posta da Dio nel più sublime loco per essere
executor della iustitia, extirpatore et profligatore de' tiranni,
protector della S. Sede Apostolica, defensore et administratore
del Sacro Imperio, da epsa Sancta Sede in primis oppressa, li vien
supplicato dal venerando spirito del buon PP. Leone suo amantissimo
patre sì vituperosamente iniurato, dal Sacro Imperio, da tutti
l'Imperiali d'Italia, da' poveri subditi et altri violentati da
la tirannide de costui, non voglia patire che più perduri tanta
iniustitia, iniquità, impietà: che più persista questa voragine de
avaritia, questo insidiatore della S. Chiesa Romana, del Sacro Imperio,
de ogni nobilità et de tutti i boni, per essere lui perversissimo:
ma voglia levare questa pietra de scandalo de Italia, con liberare
quelli miseri populi dal suo tirannico iugo, et restituire la S. Sede
Apostolica in le sue ragione, mettendola in quiete et pace: qual mai
haverà perstando questo suo atrocissimo inimico con potentia et Stato.

  In Roma, a' di VI di gennaro M.D.XXII.


DOCUMENTO XV

ALLA MARCHESANA ISABELLA ESTENSE GONZAGA IN MANTOVA

Ill.a Sig.a et patrona mia observ. — Benchè io da me stesso mi cognosca
havere habuto molto de l'aseno verso V. Sig., non di mancho non restarò
de fare un bon animo como e non fusse quello, faciendo intendere a
quella che epsa me è debitora de uno bussolo de compositione et de
una bochaleta de acqua che sia bona; perchè io non la voglio de acqua
de cisterna, como fu quella de Camilazo: ma la S. V. lo ha trattato
proprio como el merita, perchè la adopera simile cossa in concubine
sporche, che pure a dirlo el me vene angostia. Sì prego V. S. a non me
manchare de la promessa, perchè io serìa desfato; perchè la desgratia
mia si ha voluto che da poi che la S. V. me attachò quello sudore de
man abe reguardo che sempre el me sta la mano sudoloxa, che el m'è
forza quando io vo a concubine prima tignire sempre la mano uno pezzo
a frescho: per modo che se io non me aiuto con qualcossa che amorzi
quello sudorozo, io non achataria asena nè vacha che me levasse. Si V.
S. intende el bisogno, così io mando uno messo a posta. Prego la Ex.
V. a darli bona expeditione, perchè in vero la cossa importa. Non dirò
altro, si non che a V. S. Ill. con tutto il core me raccomando.

  In Ferrara, adì VII di junio M. D. 5.

                               Di V. Ex.

                                                                Servo
                                                    RAINALDO ARIOSTO.


DOCUMENTO XVI

AL DUCA ALFONSO I D'ESTE IN FERRARA[158]

Ill. et Ex. Sig. colendiss. — Fui alla comedia domenica sera, et feceme
intrare Monsig. de' Rangoni[159] dove era Nostro Signore con questi
suoi Reverendissimi Cardinali gioveni in una anticamera di Cibo[160],
et lì pasegiava N. S. per lassar introdure quella qualità di homini
li parea; et intrati a quel numero voleva S. Santità, se avviamo al
loco de la comedia, dove il prefato N. S. si pose a la porta, e senza
strepito, con la sua benedictione, permesse intrare chi li parea; et
introssi ne la sala, che da un lato era la sena et da l'altro era
loco facto de gradi dal cielo de la sala sino quasi in terra, dove
era la sedia del Pontifico: quale, di poi forno intrati li seculari,
intrò et posesi sopra la sedia sua quale era cinque gradi alta de
terra, et lo seguitorno li Reverendissimi con li Ambasatori, et da
ogni lato de la sedia si poseno sicondo l'ordine loro. Et seduto il
populo, che potea esser in numero de dui milla homini, sonandosi li
pifari, si lassò cascare la tela, dove era pincto Fra Mariano[161]
con alcuni diavoli che giugavano con esso da ogni lato de la tela,
et poi a mezzo de la tela v'era un breve che diceva: _Questi sono
li capreci di Fra Mariano_. Et sonandosi tutavia et il Papa mirando
con el suo occhiale la sena che era molto bela, de mano de Rafaele,
et representava bene per mia fe forme[162] de prospective, che molto
forno laudate: et mirando anchora il cielo che molto si representava
belo, et poi li candeleri che erano formati in litere, che ogni litera
substenìa cinque torcie, et diceano LEO X. PON. MAXIMVS, sopragionse
el Nuncio in sena, et recitò l'argumento, in demostrare che Ferrara
era venuta lìe sotto fede de Cibo per non tenersi de minor vaglia di
Mantua, che era stà portata l'ano passato da S.a Maria in Portico[163]:
et bischizò sopra il titolo de la comedia, che è de' _Suppositi_, de
tal modo che 'l Papa ne rise assai gagliardamente con li astanti; et
per quanto intendo se ni scandalizorno Francesi alquanto sopra quelli
_Suppositi_[164]. Se recitò la comedia et fu molto bene pronuntiata;
et per ogni acto se li intermediò una musica de pifari, de cornamusi,
de dui corneti, de viole et leuti, de l'organeto che è tanto variato
de voce che donò al Papa Monsig. Ill. de bona memoria[165], et insieme
vi era un flauto et una vece che molto bene si commendò. Li fo ancho
un concerto de voce in musica, che non comparse per mio iuditio cossì
bene come le altre musice. L'ultimo intermedio fu la moresca, che si
representò la _Fabula de Gorgon_, et fu assai bella; ma non in quella
perfectione ch'io ho visto representare in sala de Vostra Signoria;
et con questa se finè: et li audienti si comentiorno a partire, e in
tanta presia et calca, che per mia sorte fui spinto a traverso una
bancheta, et portai pericolo de non rompermi una gamba, de modo ch'io
fui necessitato dire: _guarda la mia gamba;_ et lo replicai più de
quatro volte. Al Bondemonte[166] fu data una grande ciucata per uno
Spagnolo[167], et in quello che esso comentiava a menar pugni contra lo
Spagnolo palafrenero, fui adiutato a livarmi: ma certo è ch'io passai
gran pericolo de la gamba; et ne havi da Nostro Signor recompenso de
una larga benedictione, con una bona ciera. Et passati ne le camare
ove eran preparate le tavole de la cena, me incontrai in Monsignor
de' Rangoni et Salviati ch'io era con il Nuntio venuto de Madama[168]
che si chiama Lanfranco Spinola: et il prefato Rangoni me disse: «La
vostra _fè rara_[169].» Et io respondendoli: «Molto bene, Monsignor, la
_fede rara_ è quella che è preclara et pretiosa.» Et alhora Salviati
disse: «Lui dice el vero, tanto più che le belle inventione vengono
da Ferrara.» Et alhora parlàmo de Mess. Ludovico Ariosto, et quanto
vale in questa arte. Dipoi se retiràmo il prefato Mess. Lanfranco
et io; et parlando de questa comedia, si dolea che a la presentia de
tanta Maestà si recitasseno parole che non fosseno honeste; et invero
in quel principio gli sono alcune parole rematici. Esso con M. Poitom
et un altro francese andorno a cena con il Bondemonte; et benchè il
Bondemonte invitasse ancho me in quel instante cossì là, deliberai
refiutarlo et andarmine a la mia ceneta. Il giorno avante de quella
sera si corsero li cavalli, et poi comparve una compagnia de gieneti,
capo Mons. Corner, vestiti a la Moresca variamente, et dipoi un'altra
tuta a la Spagnola vestita de raso alesandrino con fodra de cangiante
capino et saio, capo Serapica[170] con molti camareri al numero
questa de vinti cavali, a la quale el Papa havia donato per ciascuno
quarantacinque ducati; et certamente che era bela livrea con stafieri
et trombeti vestiti de quelli medesimi colori de seda: et gionti in
piacia comentiorno a due a due a correre verso la porta del palazo
ove stava il Papa ad alcune fenestre: et facta questa corsa per ambe
le compagnie, la Serapica se ritirò da l'altro lato de la piacia et
la Cornera verso San Pietro. Et la Serapica prese le cane, et vene ad
assaltare la Cornera che havea anchora lei le cane, et slanciate le
cane la Serapica contra la Cornera, essa poi la inseguitò con le sue
cane: et cossì ferno per volte assai l'uno contra l'altro, che era
piacevole vedere et non pericoloso, et eravi de molto belli cavali et
cavale gienete. Il giorno seguente se travagliorno con li tori, et io
era con il sig. Mess. Antonio, sicondo scrissi, et si amaciorno tre
homini, et quatro feriti da li tori, et cinque cavali forno feriti et
dui ne sono morti; et fra li altri un de Serapica che era belissimo
gineto, et lui fu butato in terra et passò gran pericolo, perchè il
toro vi era intorno, et se non fosse stà stimulato con ferite non se
gli levava da presso, che lo amaciava. Et intendo che 'l Papa dicea,
_povero Serapica_, et molto si dolea. Li morti forno portati in campo
sancto per mundarvi (_sic_) le osse. La sera intendo si recitò una
certa comedia de un frate, el quale havea facto _Uno arboro de male_
(?)[171], et per non esser successa a molta satisfacione, il Papa in
cambio de Moresca fece balciar questo bom frate sopra una coltra, et
dete una gran panciata sopra el tabulato de la sena. Dipoi li fece
tagliar tute le strenghe intorno et tirare le calcie a li calcagni,
et il bom frate ne morsicò de quelli palafreneri tre o quatro de mala
sorte, et fu necessitato tandem a montar a cavalo[172], et cum le
mane li forno date tante sculaciate che, siccomo mi è referto, li sono
bisognate molte ventose et su la schena et su le chiape, et stassi in
lecto et non bene. Dicesi che 'l Papa lo fece fare in exempio de altri
frati a ciò se levino de pensier de non farli veder sue fraterie. Pur
questa Moresca lo fece assai bem ridere. — Hozi veramente si è corso a
l'Anelo denanti la porta del palazo, stante il Papa a quelle finestre,
et con li prezi già scripti, adiunctoli urinali; et poi si sono corsi
li bufoli, che è gran piacere a vedere quelle bestiacie correre, che
per un poco vano in anti et poi tornano a drieto, et quando giongeno al
palio, inanti lo possano tocare, li vol del tempo assai, chè mo vanno
un passo inanti et quatro in drieto, et de modo sterno in contrasto
a quella asesa, che l'ultima vi gionse fu quella andò inanti et have
il palio, et forno in numero diece, et per mia fe che fu gran solazo.
Me ritirai poi a casa de Bembo[173], et visitai Sua Signoria, che vi
era lo episcopo Bajosa[174], et non si parlò se non de mascare et cose
piacevole: et ancho si parlò quanto bene et vertuosamente V. Ex. fa
instituire li figliuoli: et molto lauda V. S. il prefato Mess. Pietro,
et dice esservi gran servitore. Altro non ho; et per esser la sera de
carnevale son stato in questa cianciarìa; et a V. S. humilmente sempre
mi raccomando: che 'l Signor Dio la conservi felicissima.

  De Roma, adì VIII marzio M. D. XVIIII,
    hora 4ª noctis.

      De V. S. Ill.

                                                                Servo

                                                    ALPHONSO PAULUZO.

Fuori — _A lo Ill.mo et Ex.mo S.r mio col.mo il Sig. Duca de Ferrara._


DOCUMENTO XVII

SUPPLICA AD ERCOLE II DUCA DI FERRARA

  Ill. et Ex. Sig.

Expongono a V. Ex. li fedelissimi sudditi et servitori suoi Gabriele,
Galasso, Alessandro fratelli, et Virginio lor nepote de li Ariosti,
che essendo sin de l'anno 1519 morto mess. Rainaldo lor fratello
consobrino, et essi rimasi suoi heredi ab intestato, con l'altra
eredità, come di cosa sua, pigliarono pacifica possessione d'alcune
terre arative, prative et d'altra sorte, poste nel territorio di
Bagnolo, quali, già molti et molti anni sono, furono concesse a livello
da l'Ill. duca Hercole avo di V. Ex. a mess. Francesco Ariosto scalco
alhora di sua Ill. S. et padre di detto mess. Rainaldo. Et essendo
stati già parecchi giorni in quieta possessione di queste terre,
dal quondam mess. Alfonso Trotto alhora fattore generale, forono,
senza nessun colore di ragione, de facto et ingiustissimamente non
solo spogliati del possesso di detti beni, ma insieme con quelli de
i frutti anchor ch'erano avulsi a solo alla morte di mess. Rainaldo.
Onde di ciò dolendosi i poveri servitori all'Ill. padre di V. Ex., et
supplicandogli, che poi che dal suo fattore era stato lor fatto così
expresso et manifesto torto, si degnasse dare loro qual si volesse
altro giudice dal fattore in fuori, dinanzi a cui s'havesse a conoscere
et decidere di ragione questa causa, non potero ottenerlo; anzi Sua
Ex. gli rimesse pur a detto fattore. Onde non potendo essi farne
altro, forono sforzati cominciare la lite in Camera, dove fu agitata,
et instrutto il processo, publicati li testimonij, et condotta la
causa sino alla sententia: alla quale instando essi, il fattore per
l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, et per rispetto di lui a
tutti gli altri presenti fratelli, non comportò mai che se ne potesse
vedere il fine; ma quando con una cavillatione, quando con un'altra,
maxime allegando l'absentia di mess. Ludovico Cato consultore de
la Camera, che la maggior parte di quelli anni stette sempre hora
appresso 'l Papa, hora l'Imperatore, et ultimamente oratore appresso
il Re christianissimo andò sempre diferendo questa expeditione
ingiustissimamente, et con extremo danno de i poveri supplicanti.
Quali veggendo apertamente inimico alla lor giustizia colui a chi erano
sforzati domandarla, hanno lasciato passare molti anni senza instare
più per la expeditione di detta causa: et se in questo tempo pur hanno
in essa processo a qualche atto di ragione, è stato più tosto per
tenerla viva et in memoria del mondo, che perchè ne sperassero nessun
bon fine.

Non sono però mai stati senza speranza che'l tempo apportasse un dì
occasione, che le sue ragioni havessero ad havere più giusto et benigno
giudice che alhora non haveano. La quale poi che finalmente è giunta,
et che V. Ex. non meno per merito de le sue infinite virtù che per
debito de la paterna successione et primogenitura è collocata nel suo
ducal seggio, ricorrono a lei come a desiderato et lungamente aspettato
lor refugio i servitori presenti, supplicandola che non voglia più
comportare che siano, come sono stati già quindeci anni, stratiati et
menati in lungo da le cavillationi et calumnie si del Fattore passato
come d'altri procuratori, notari et agenti de la sua ducal Camera; ma
si degni commettere per suo rescritto alli presenti Mag. suoi Fattori
et altri a chi spetta, che reiecte le cavillationi et calumnie, debbano
finalmente con effetto et con celerità terminare pro iustitia detta
causa, attento che già più anni sono si trova instrutta, publicati li
testimonij et fatto ciò che è da fare.

Il che essi riceveranno in singolar gratia da lei, la quale Dio
lungamente conservi in quella felicità ch'ella stessa desidera.

                           _Factores generales supplicantibus
                       justitiam faciant, causamque ipsam expediant,
                       reiectis calumniis et cavillationibus
                       quibuscumque. Ita ut supplicantibus ipsis iusta
                       querela locus relinquatur._

  XXIII decembris 1534.

                                               BARTHOLOMEUS PROSPERI.



LETTERE DI LODOVICO ARIOSTO



I

                              inedita[175]

                        DOMINO ALDO MANUCIO....

                _viro doctissimo ac mihi colendissimo,_

                                                          _Venetiis._


Cum Sebastianus Aquila vir bonarum artium sedulus cultor, qui apud
nos praeter medicinam quam publico stipendio docet, Academicum Dogma
profitetur, Platonem in Timaeo diebus festis maxima audientia legat;
non mediocre desiderium studiosis incidit habendi libros Marsilii[176]
et aliorum, qui aliquid de hac secta a graecis scriptum latine
transtulerunt. Et cum tu possis illos potissimum explere, nam id cum
ex aliis tum superioribus diebus ex Alberto Pio[177] viro magnifico
ac litteratissimo cognovi, qui abs te rediens ad nos volumen inter
ceteros attulit, in quo Platonicorum quorumdam opera quaedam congesta
sunt; ego ut his doctis viris qui me ad id hortantur morem geram, et ut
tuae utilitati consulam, quam non minimam existimo si quae imprimenda
curasti a pluribus emantur, meum officium duxi te litteris obsecrare ut
nostro huic honesto desiderio obsequi velis. Quare si tot litteratorum
rogationes non despicis, quicquid in hac re habes ad nos mitte. Nam
praeter tuum commodum studiosis etiam laborem ob hoc navigandi Venetias
demes. Vale.

  Ferrariae, nonis Januarii 1498.

                                                  LUDOVICUS AREOSTUS.


II

                      AL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE


Ill.mo Signor mio. Per eseguire quanto Vostra Signoria mi commette
io mi sforzarò di intendere quelle nove che saranno possibili da
intendersi, e di giorno in giorno ne terrò avvisata quella. Al
presente si parla assai per Ferrara di Beniamin ebreo da Riva[178]
che ha fallito di 14 mila ducati che avea da altri ebrei forastieri a
guadagno, e questo per avere esso credito col conte Rinaldo Sacrato
e col conte Jeronimo Roverella e con altri di qualche migliaro di
ducati che non può esigere. A Ferrara sopra di questo si dicono molte
ciancie: che è stato il Duca che avendo inteso che avea molti denari di
cristiani ad interesse, ha voluto sapere chi sono questi che per suo
mezzo prestano ad usura, e ha voluto torgli tutti questi denari che
erano di cristiani usurari;[179] e la fama sovvertendo la veritade,
dice che'l conte Rinaldo prefato avea su quel banco duemila ducati a
guadagno, e così molti altri che si nominano. Pur Marco Marighella,
al quale in queste cose si può dar fede, mi ha certificato esser così
come prima ho scritto, e m'ha detto ancora che molti argenti di V. S.
sono su quel banco; e avvenga che'l signor Duca abbia fatto il salvo
condotto a Beniamin, pur non vi sono molto sicuri, perchè un giorno se
ne potrebbe fuggire. M'ha detto ancora Marco che stanno in pericolo di
fallire de li altri appresso, perchè siamo a un tempo che ciascuno c'ha
denari fuora cerca di ritornarseli in borsa.

Per li denari che ha dimandato il Duca in prestito ad alcuni
particolari, si teme per la cittade che non segua in generale: anzi ho
odito dire, benchè io creda che sia falso, che vuol mettere una colta
sul Comune di centomila ducati, e di questo si fanno diversi parlamenti
fra il popolo, chè niuno se ne contentaria.

In tutto lo Ferrarese è tristissimo recolto di vino, _adeo_ che vale 14
e 15 lire la castellata: il formento è a 12 bolognini il staro.[180]
Quelli che ne hanno da vendere stanno in speranza che debba incarire
molto.

Per quanto io ho vedute alcune lettere di alcuni che abitano Adria, in
quella terra, e così in tutte quelle ville che sono ne l'estremità del
Po e presso la marina, si sta con gran sospetto che crescendo l'acque,
Veneziani non li assaglino con l'armata,[181] più presto per robarli
e farne preda e strazio per l'odio che ci hanno, che per avere animo
di tenerli: e alcuni di detti lochi si hanno già fatto provvisione di
case in Ferrara, dove salvino le persone e meglioramenti loro. Ricevuta
ch'io ho la lettera della S. V., ho dato a quella questi pochi avvisi
qualunque si siano, per non essere imputato di negligenza. Di giorno
in giorno starò attento e farò ogni instanza di sapere, e praticarò più
alla piazza e alla Corte che dopo la partita di V. S. non facevo; e di
ciò che mi verrà a notizia le ne darò avviso. Alla quale, _post manuum
oscula, humiliter_ mi raccomando.

  Ferrariae, VII septembris MDIX.

                               Ill. D. V.

                                                  Servitor fideliss.,

                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.

Fuori — _Ill.o et R.o D.o Domino meo unico D.o Cardinali Estensi — In
Castris Caesareis_.


III

                              AL MEDESIMO


Ill.mo Signor mio. Luni passato per una faccenda di un mio cognato
andai a Nonantola dove visitai il Rev. Cesarino,[182] dicendogli che io
ero venuto a far reverenza a Sua Sig., perchè mi rendevo certo che se
V. S. si fusse ritrovata a Ferrara averia mandato in ogni modo alcuno
de' suoi a far tal effetto, e che risapendo poi che ritrovandomi io
in loco dove l'avessi potuto fare e fussi mancato, ne averei da V. S.
avuto riprensione. Il Cardinale prefato mi fece gratissima accoglienza
e carezze assai per amore di V. S., e poi mi disse avere a' dì passati
mandato un suo sescalco per visitare in campo V. S., e che dopo la
partita di quello mai non ne avea inteso novella e ne dubitava molto,
e mi pregò ch'io ne scrivessi a V. S. e ch'io intendessi se quella ne
sapeva cosa alcuna. Appresso mi disse di un levorero che aveva inteso
che'l Mastro da stalla di V. S. avea bellissimo, mostrando nel dir suo
avere desiderio di averlo. Io gli feci intendere che uno del prefato
Mastro da stalla avea V. S. a' dì passati donato ad un Spagnolo e
dubitavo che fusse quello che era stato a Sua Sig. laudato, perchè
altro cane non sapea che fusse del Mastro da stalla di quella bellezza.
Egli vide, stando io lì, una mia bracca ch'io avea molto cara per la
sua bellezza perchè io la volea da eredi,[183] e me la domandò in dono.
Io non gli la seppi negare, benchè me ne dole ancora. Sabato si partì
per andare a Roma, e mi lasciò in commissione ch'io lo raccomandassi a
V. S. Ill.ma come a suo patrone, con mille parole umane e di servitù,
che serìa longo a scrivere. La differenza ch'avea con li uomini di
Nonantola, che erano decaduti, ha commesso a Mess. Teodosio Brugia, il
quale essendo io lì ha come adattata, che quelli uomini riaveranno le
loro investiture pagando _singulatim_ chi assai, chi poco secondo le
facoltà e il tempo delle decadute loro; e credo, secondo il principio
c'ho visto, che il Cardinale ne trarrà parecchie centinara di ducati.

Venuto in questa terra, ho trovato due Siciliani che hanno avuto
campo dal Duca per combattere. Un Marino da la Maitina ha chiamato un
Francesco Salamone[184] per provargli di certa causa matrimoniale, di
che credo che V. S. sia informata. Quando io credessi che V. S. non
la sapesse, me ne informarei meglio e pienamente le ne darei avviso.
Vèneri prossimo si dice che combatteranno se seranno d'accordo, ma sino
adesso sono in discordia, e questo è che quel Marino ha scritto volere
provare a quel Francesco quattro cose: l'una ch'una certa sua nipote o
figliastra è moglie di questo Francesco; alla quale Francesco risponde,
che questo che la ragione civile o sia canonica può decidere non vole
ponere in fortuna di arme. All'altre tre si attacca, che una è che
Marino dice che esso pose questo Francesco a dormire con la prefata sua
nipote; l'altra che questo Francesco ha malmessi e dilapidati li beni
de la prefata; la terza che questo Francesco non avrà ardire di venire
in campo perchè è codardo e che è un giudeo. A queste tre querele
risponde Francesco, che Marino mente: ma questo Marino par che si
attenga alla prima, per la quale Francesco non vuol combattere. Questo
è quanto sino a questa sera è successo di questa cosa. Così Ercole il
quale fa compagnia a quel Francesco mi ha detto. Di questa cosa che
a Ferrara ho trovato di novo, se non fusse per darne a V. S. avviso,
avrei poco pensero, verso un'altra che mi dispiace assai, perchè tutto
oggi si è andato per li Massari in volta, facendosi comandamento alli
cittadini che in termine di due dì ognuno abbia portato al Tesorero
del Comune li denari che gli toccano de la colta imposta novamente per
il Duca, come se tutti fussimo bancheri che avessimo denari in cassa.
E tutto il popolo dal maggiore al minore dice male e peggio; e io ho
odito dire da alcuno che se V. S. fusse in questa terra, non seriano
queste cose; e che poi che quella ha adattati li fatti del Duca col Re
di Francia e con l'Imperatore, serìa necessario anco che tornasse a
Ferrara per adattare le cose del popolo col Duca. Oltra questa colta
è stata imposta sopra li feudatarî un'altra gravezza, che è circa il
quarto de la intrata. Io chiamo feudatarî tutti quelli che riconoscono
roba de la casa da Este; ma questa non appartene a me perchè non ho
roba di tal sorte; ma se io ne avessi non mi gravaria già a pagare.
Nanti ch'io andassi a Nonantola, un dì vidi un tumulto di contadini che
si lamentavano a M. Antonio di Costabili di infiniti lavoreri che ogni
dì multiplicavano, e minacciavano di fuggirsi di Ferrarese; e odii un
nodaro d'argini[185] che attestava che de la sua guardia n'erano già
fuggite tre o quattro famiglie. Per Ferrara si ragiona, ma noi dico già
ch'io lo sappia certo, pur si dice publicamente, che a questo Natale
Mes. Antonio serà casso del giudicato de' Savi, e in suo loco andarà
Benedetto Brugia. Quelli che credono che tal cosa abbia a succedere
estimano da lungi a che effetto serà fatta. Io scrivo cose di fastidio
a V. S. perchè non ho da piacere: alla quale _humiliter_ mi raccomando.

  Ferrarie, XXII octob. MDIX.

      Ill. et R. D. V.

                                                    Servitor fidelis,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.


IV[186]

                              AL MEDESIMO


_Ill.mo Sig. mio_................. _Al Sig. Cardinale Regino[187] ho
fatto sentire_ il desiderio che V. S. avrebbe _che Mess. Giovanni_....
avesse la compagnia che era del conte de la _Mirandola_,[188] e oltra
questo le ho commendato il prefato Mess. Giovanni _quanto mi fu_
possibile, del quale il prefato Sig. Cardinale avea poca notizia. Sua
Sig. Ill., per amor de la S. V., si è offerta di far _tutto il_ poter
suo acciò che si consegua l'intento, avvenga che n'abbia poca speranza;
però che poco dinanzi, pregato dal Sig. di Pesaro, ne ha parlato con la
Santità del N. S. _acciò che_ il Sig. di Pesaro avesse tal condotta,
e dal N. S. n'ha avuto repulsa; e per questo estima che abbia tra sè
disposto di darla a qualche suo. Tuttavia non restarà far ogni opera
per satisfare a V. S. Quel dì ch'io giunsi qui, il conte _Lodovico_ da
Canossa[189] incidenter mi disse che'l Papa aveva eletto in loco del
conte de la Mirandola il Sig. Ottaviano Fulgoso, e che poi parea che
si fosse pentito, e che credea che divideria quella condotta tra più
d'uno.

Dopo ch'io mi _partii_ da Ferrara[190] è sempre piovuto il dì e la
notte, e di qua _le acque_ de li fiumi sono in su le ripe, sicchè
è molto pericoloso _il porsi_ in cammino. Per questo V. S. mi averà
per escuso s'io sarò _un po'_ tardo al ritorno; ch'io ritornarei mal
volontieri _nei pericoli_ di affogarmi c'ho scorsi al venire in qua.
Oggi è _arrivata_ la nova che V. S. insieme col Duca ha rotta l'armata
_Veneta in Po_,[191] di che a mio giudicio tutta questa Corte si è
rallegrata; _e il Sig. Cardinale Regino nel sortire da S. Santità_
trovò a caso che 'l Cornaro[192] descri_veva questa vittoria con ogni
partico_larità. Me ne sono allegrato, chè oltra l'util publico _la mia
Musa_ averà istoria da dipingere nel padiglione[193] del mio _Ruggiero
a nuova la_ude di V. S., alla quale mi raccomando.

  Romae, XXV _decembris_ MDIX.

                                                            Servitor,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.


V

                              AL MEDESIMO

                                                           _a Parma._


Ill. Sig. mio. Lorenzo di Pasti è giunto or ora qui in cittadella
dove io mi trovavo a parlar col Capitano, e mi ha detto che venendo ha
ritrovata una spia che gli ha fatto intendere, che subito che 'l Campo
nostro si levi da Carpi, quello di Modena è per venire alla volta di
Reggio, credo lasciando Rubiera da parte: e perchè detto Lorenzo ha
dubitato che se andasse prima a Carpi per tornare poi a Sassuolo e a
Rubiera, non fusse poi tardo col soccorso, ha mutato proposito, e ha
mandato un messo a posta al Sig. Enea[194] con una sua, informando Sua
Sig. del caso e del parer di V. S. circa a poner 200 fanti di quelli
di Rubiera e Sassuolo in questa cittadella, acciò che 'l detto Sig.
Enea abbia a dimandarne licenza a Monsignore Gran Maestro[195] e mandar
subito la lettera a Sassuolo, dove si trovarà questa notte Lorenzo per
non perder tempo; e così il messo direttivo al Sig. Enea è già in via,
e similiter Lorenzo ora che sono XXIII ore e mezza. Il Capitano qui de
la cittadella prega V. S. che lo voglia soccorrere di alcuno de li suoi
che stiano seco qui per quattro o cinque giorni, finchè si veda a chi
riescono queste cose, e dimanda Domenichino, Giacomo da le Sale, Pier
Moro,[196] Francesco Maria da Sassuolo e tali di che se ne possa fidare
e valere. Lorenzo di Pasti ha già incaparrato di venire domani a V. S.,
alla quale mi raccomando.

  (_Regii,... octobris_)[197] MDX.

                                                              Servus,
                                                       LUD. ARIOSTUS.


VI

                              AL MEDESIMO

                                                           _a Parma._


Ill. Sig. mio. Questa mattina si sono radunati dodici primi cittadini
di Reggio, che questa Comunità ha eletti provveditori de la guerra,
alli quali io ho parlato acciò che facciano elezione di cinque o sei
uomini che stiano appresso il Sig. Gran Maestro, secondo che da V.
Sig. mi è stato imposto; li quali mi hanno fatto intendere aver già
fatto provvisione di più numero di questo. Prima hanno dato l'impresa
di vendere il pane che va in campo, ed essergli assistente, a due
cittadini che hanno due famigli con loro. La cura del vino a Gian
Giacomo Messore con autoritade e patente di comandare a tutti li
uomini del distretto. La cura de le spelte ha uno Gian Francesco
Camonchiela, il quale ha due compagni. Sopra li guastatori hanno
fatto che ogni villa vi ha li suoi Massari, e Giambattista Cassola con
due famigli ne ha la cura. Oltra di questo gli hanno dato carico di
parlare per le cose che occorreno al Gran Maestro, e tenere avvisato
di continuo la Comunità di quanto serà di bisogno, e questo ieri andò
per tale effetto. Quattro beccari tengono di continuo in campo, e
molti venditori di altre robe. Ne la terra hanno messo grande ordine
che le vittuarie vadano abbondantemente in campo, e vi sono officiali
salariati sopra questo. Di mandare oltra questi altre persone a stare
presso al Gran Maestro, si sono molto ritirati indietro, allegando non
esser possibile a patire maggiore gravezza di quella che hanno, perchè
tutti questi e li famigli c'hanno sono salariati con gran provvisione
da la Comunità, imperocchè per li mali portamenti che gli usano
Francesi si trovano pochi che vogliano andare a tal cure, perchè nel
vendere le robe spesso rilevano di bone bastonate.

M'hanno fatto intendere ancora che gran difficoltade è a trovar spelte
per mandare in campo, perchè prima li contadini non hanno, avendo già
pagato e dato al Duca quelle che ogni anno gli sono obbligati:[198]
li cittadini _autem_ ascondono quella che hanno o negano di darla,
e questo avviene perchè prima valeva dieci soldi il staro, e ora gli
è dato metà, chè non la ponno vendere in campo più di nove soldi; e
quando l'hanno condotta in campo, la vogliono alla misura di Rubiera
che è maggiore della Reggiana; poi li pagano di moneta e vogliono che
corra secondo che fa a Parma, che secondo la ragion loro (di che io
poco mi intendo) gli ritorna in gran detrimento, e molto gli è meglio
venderla qui a Reggio, che far spesa di mandarla in campo con tanta
iattura. Oltra di questo ognun pensa che partito il campo valerà molto
in Reggio, e con speranza di venderla poi, la tengono occulta, e che
quando lasciassero vendere la roba il prezzo suo, _sponte_ portariano
le persone la roba dove valesse con speranza di guadagno; così de la
spelta come de l'altre cose. Oltra di questo bisognaria provveder che
li conduttori che vanno in campo, vadano securi: ma li togliono spesso
li buoi e li fanno lavorare in altro. Oltra di questo li rompono le
casse e brusano in che la portano. Così ancora accade a li guastatori,
che da li soldati sono tirati a nettare le lor stalle, e per questo
avviene che chi va una volta in campo non gli vole tornare l'altra;
nè questa Comunità può avere un carro se non manda li balestrieri
a pigliare li villani per forza, e così ancora li guastatori se ne
fuggiono, e di questo mi son trovato in fatto. Vorrìa ancora che V.
S. scrivesse al conte Gian Boiardo che facesse condurre del vino in
campo per esserne nel suo paese gran quantitade e prossimo al campo;
così al Sig. Mess. Ercole per San Martino e Campogaiano, e a questi
Castellani di Manfredi che tutti l'aiutasseno e mandassero vittuaglia
in campo, perchè il distretto di Reggio per sè non basterà a provvedere
al tutto: e mandare del pane, chè, oltra l'altre incomoditadi, sono
pochi forni in questa terra. Io del tutto dò avviso a V. S. la quale
farà poi il parer suo. Del mandare altre persone in campo si escusano
gagliardamente, e m'hanno pregato ch'io avvisi V. S. de le provvisioni
che han fatto, sperando che quella abbia a rimanere satisfatta. Se
quella vuol che di novo insti che mandino altri, mi avvisi, ch'io lo
farò. Ma mi par bene che sarà difficultade a disponerli. Io aspettarò
la risposta di V. S., alla quale mi raccomando.

  (_Regii... octobris MDX_).[199]

                                                  Servitor fideliss.,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.

Qui è nova giunta or ora, e si parla per vera, che 500 Spagnoli sono
fuggiti dal papa nel campo nostro.

Vorriano e che V. S. mandasse qui uno con autorità e patente di poter
comandare a tutti li gentiluomini e Castellanze che avessero a far la
rata sua in questi bisogni, perchè il Capitano gli pare che li vada con
troppo rispetto.


VII

                              AL MEDESIMO

                                                           _a Parma._


Illustrissimo signor mio. Come ieri fui a Reggio, intesi che'l signor
Alberto si ritrovava a Carpi: e volendo andar a ritrovarlo, fui
avvertito che li Stradiotti ecclesiastici erano corsi a Correggio, e
avean preso un figlio del signor Borso, e che erano etiam corsi a San
Martino le due vie per le quali si va a Carpi. E per questo subito
mandai a posta uno a piedi con una lettera al signor Alberto, avvisando
Sua Signoria ch'io ho da parlargli d'una sua faccenda importantissima,
e di quella medesima di che più volte avessimo insieme ragionamento a
Roma. E nella lettera non ho nominato V. S., e l'ho pregato che veda
qual loco gli pare dove gli potessi parlare senza pericolo; e non si
potendo altramente, mi mandi un suo fidato ch'io conosca, con una sua
di credenza. Mentre ch'io l'aspetto, V. S. mi avvisi se mandandomi un
suo fidato, io gli ho da parlare circa ecc. Ed a Vostra Signoria mi
raccomando.

Questa notte gli Ecclesiastici sono corsi a San Martino, e questa
mattina sono venuti presso due miglia a Reggio, e hanno menato via
il bestiame. Si dice che sono stati alle mani con Badino, e gli hanno
presi due o tre balestrieri.

  (_Regii, 29 octobris 1510_).[200]

                                                            Servitor,
                                                         LODOVICO AR.


VIII

                              AL MEDESIMO

                                                           _a Parma._


Ill.mo Sig.re Io dubito che'l mio messo non sia stato preso, perchè
a questa ora non è tornato ancora e lo spazai sin da ieri a 19 ore,
ed è uomo c'ha bisogno di tornare presto: pur quando sia così è manco
mio danno che non sería s'io stato fussi in suo loco. Li inimici son
corsi presso a Reggio un miglio pur a la via di Carpi e hanno menato
via gran numero di bestiami. Questi franciosi si sono tandem armati
o che s'armano tuttavia: se escono non credo che vadano a tempo. _Dum
hoc scribo_ mi è detto che Mess. Sigismondo de' Santi segretario del
sig. Alberto da Carpi è venuto, e sono ito a parlarli. E da lui ho
inteso, poi che averia parlato col Gran Maestro, avere commissione di
venire a Vostra Signoria. Io gli ho dimandato se per nostre faccende,
e m'ha detto per quella medesima causa per la quale io ero mandato a
lui: per il che dimattina veniremo. Egli, per quello che m'ha detto, ha
l'ultima intenzione del Signor suo circa l'effetto ecc. Tornando a casa
ho trovata una squadra di francesi menare prigioni circa XXX tra uomini
d'arme e cavalleggeri ecclesiastici che avevano preso a S.ta Agata,
loco presso San Faustino. Quelli che sono iti verso S. Martino non sono
tornati ancora: ben si dice, ma credo che non sia vero, che li nostri
qui insieme con Badino hanno assediati parecchi cavalli in S. Martino.
Il mio messo ornai son certo che sia preso, chè sono presso XXIIII ore
e non è tornato ancora. A Vostra Signoria mi raccomando.

  Regii, XXX octobris MDX.

                                                              Servus,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.


IX

                 AL CARDINALE GIOVANNI DE' MEDICI.[201]


_Reverendissime Domine, D.e mi colendissime._ La servitù ed osservanza
mia, che da molti giorni in qua ho sempre avuta verso Vostra Signoria
Reverendissima, e l'amore e benignità che quella mi ha dimostrata
sempre, mi danno ardire che, senza adoperare altri mezzi, io ricorra
ad essa con speranza di ottenerne ogni grazia. E quando intesi a' dì
passati che Vostra Signoria Reverendissima aveva avuta la legazion
di Bologna, n'ebbi quell'allegrezza che avrei avuta se il padron mio
cardinale da Este fosse stato fatto Legato; sì perchè d'ogni utile
e d'ogni onore di Vostra Signoria sono di continuo tanto desideroso
e avido quanto un vero ed affezionato servitore deve esser d'ogni
esaltazione del padron suo; sì anche perchè mi parve che in ogni mia
occorrenza io fossi per avere quella tanto propizia e favorevole,
quanto è debitore un grato padrone ad un suo deditissimo servo.

Supplico dunque Vostra Signoria Reverendissima di volermi per Bolla
dispensare _ad tria incompatibilia_, ed a quel più che ha autorità
di fare, o ch'è in uso, ed a più dignitade, insieme con quelle
ample clausole che si ponno fare; _et de non promovendo ad sacros
ordines_,[202] per quel tempo che più si può concedere. Io son ben
certo che in casa di Vostra Signoria Reverendissima è chi saprà far la
Bolla molto più ampia che non so dimandare io.

L'arciprete di Santa Agata, presente esibitore, il quale ho in loco di
padre, ed amo per li suoi meriti molto, venirà a Vostra Signoria per
questo effetto.[203] Esso torrà la cura di far fare la supplicazione
di quello che io dimando. Supplico Vostra Signoria Reverendissima
a farlo espedir gratis: la qual mi perdoni se io li parlo troppo
arrogante; chè l'affezione e servitù mia verso quella, e la memoria che
ho delle offerte fattemi da essa molte volte, mi darebbono ardire di
domandarle molto maggior cose di queste (ancorchè queste a me parranno
grandissime), e certitudine d'ottenerle da Vostra Signoria. Si ricordi
che deditissimo servo le sono: alla quale umilmente mi raccomando.

  Ferrariae, 25 novembris 1511.

      D. V. Reverendissime

                                      Deditissimus et humilis servus,
                                     LUDOVICUS ARIOSTUS Ferrariensis.

Fuori — _Reverendissimo in Christo Patri et Domino, Domino meo col. D.
Cardinali de Medicis, Bononiae Legato dignissimo._


X

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Prima per il Molino, e poi
per Jerondeo, mi è stato fatto intendere che Vostra Eccellenza averia
piacere di vedere un mio libro, al quale già molti dì, continuando
la invenzione del conte Matteo Maria Boiardo, io diedi principio. Io,
bono e deditissimo servitore di V. S., alla prima richiesta la avrei
satisfatta, e avuto di grazia che quella si fusse degnata leggere le
cose mie, se il libro fosse stato in termine da poterlo mandare in man
sua. Ma, oltre che il libro non sia limato nè fornito ancora, come
quello che è grande ed ha bisogno di grande opera, è ancora scritto
per modo, con infinite chiose e liture, e trasportato di qua e di
là, che fôra impossibile che altro che io lo leggessi: e di questo la
illustrissima signora Marchesana sua consorte me ne può far fede; alla
quale, quando fu a questi giorni a Ferrara, io ne lessi un poco. Ma
pur dispostissimo alli servizii di V. E., cercarò il più presto che mi
serà possibile di far che ne veda almeno parte; e ne farò transcrivere,
cominciando al principio, quelli quinterni che mi pareranno star manco
male; e scritti che siano, li manderò a V. S. Illustrissima. Alla quale
umilmente mi raccomando.

  Ferrara, 14 luglio 1512.

                                          Deditissimo servo di V. S.,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

Fuori — _Ill.mo et Ex.mo principi et D.no meo Obser.mo, Dom. Marchioni
Mantuae. Mantuae._


XI

                     AL PRINCIPE LODOVICO GONZAGA,

                                                        _in Mantova_.


V. S. Eccellentissima ha certamente della fada e del negromante, o di
che altro più mirando, nel venirmi a ritrovar qui con la sua lettera
del XX augusti, or ora che sono uscito dalle latebre e de' lustri delle
fiere, e passato alla conversazion degli uomini. De' nostri periculi
non posso ancora parlare: _animus meminisse horret, luctuque refugit_,
e d'altro lato V. S. ne avrà odito già._ Quis jam locus quae regio
in terris nostri non plena laboris?_ Da parte mia non è quieta ancora
la paura, trovandomi ancora in caccia, ormato da levrieri, da' quali
Domine ne scampi. Ho passata la notte in una casetta da soccorso, vicin
di Firenze, col nobile mascherato,[204] l'orecchio all'erta e il cuore
in soprassalto. _Quis talia fando etc_. l'illustrissimo signor Duca,
con il quale ieri ha conferito longamente il C. Pianelli, parlerà
de' duo affari al Cardinale,[205] il quale fra giorni si aspetta
da Bologna, ed io medesimo, per quanto sia bono a poterla servire,
adoperrò ogni pratica, essendo dell'onore di Vostra Signoria, qual
affezionato servitore, bramosissimo. Quello sia da fare e da sperare
saprà da Mess. Rainaldo,[206] e fido che ne sarà satisfatta, quantunque
io non sia troppo gagliardo oratore. Il cielo continua tuttavia molto
obscuro, onde non metteremoci in via così subito per non aver ancora da
andar in maschera fuori di stagione e col bordone. Voglia V. S. recarmi
alla memoria della illustriss. sig.a Principessa Flisca[207] quanto è
permesso a observantissimo e deditiss.o Servitore, e a quelle in buona
grazia mi raccomando.

  Florentiae, I octobris MDXII.


XII

                       A MESSER BENEDETTO FANTINO


Mes. Benedetto mio onor. Ho avuto per il mio ragazzo una vostra lettera
molto tarda, perchè da Firenze, dove si è fermato qualche giorno, è
venuto in qua a piedi ed è stato assai per via. Del negozio vostro
non ho fatto ancora nulla; non perchè non me lo sia raccordato, ma
perchè non vi ho saputo capo nè via. Io son arrivato qui in abito di
staffetta,[208] e per non aver panni ho schivato di andare a persone
di dignità, perchè qui, più che in tutti gli altri lochi, non sono
estimati se non li ben vestiti.[209] È vero che ho baciato il piè al
Papa e m'ha mostrato di odir volontera: veduto non credo che m'abbia,
chè dopo che è Papa non porta più l'occhiale. Offerta alcuna nè da
Sua Santità nè da li amici miei divenuti grandi novamente[210] mi
è stata fatta; li quali mi pare che tutti imitino il Papa in veder
poco. Io mi sforzarò e oggi cominciarò, che non serà più longo, a
vedere se io potrò aver mezzo alcuno con quel Mes. Paris.[211] Usar
Mes. Bernardo[212] per mezzo, credo poter male, perchè è troppo gran
maestro, ed è gran fatica a potersegli accostare; sì perchè ha sempre
intorno un sì grosso cerchio di gente che mal si può penetrare, sì
perchè si convien combattere a X usci prima che si arrivi dove sia:
la qual cosa a me è tanto odiosa, che non so quando lo vedessi; nè
anco tento di vederlo, nè lui nè uomo che sia in quel palazzo: pur per
vostro amor sforzarò la natura mia; ma potrò far poco, perchè fatta la
coronazione, che serà fra 4 dì, faccio pensiero di venirmene a Ferrara.
Io intendo che a Ferrara si estima che io sia un gran maestro qui: io
vi prego che voi li caviate di questo errore, cioè quelli con che vi
accade a parlare, e fategli intendere che son molto da manco che non
ero a Ferrara, acciò che richiedendomi alcuno qualche servicio, e non
lo facendo per impossibilità, e non lo sapendo essi, mi accusassino di
asinità. Altro non m'accade, se non che a voi mi raccomando.

  Romae, 7 aprilis MDXIII.

                                                              Vostro,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.

Fuori — _Al Mag. come fratello hon. M. Benedetto Fantino Cancellero
dell'Ill.o et R.o Card. de Ferrara,-in Ferr._


XIII[213]

                           AL DOGE DI VENEZIA


Ill.mo et Ser.moPrincipe et Signore mio observantissimo. — Supplico
alla Sublimità Vostra io devoto et affectionatissimo servo suo Ludovico
Ariosto Nobile Ferrarese et familiare del Reverendissimo Signor
Cardinale Estense come havendo cum mie longe vigilie et fatiche,
per spasso et recreatione de Signori et persone di anime gentili et
madonne composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli et
delectabili de arme et de amori, et desiderando ponerla in luce per
solazo et piacere di qualunche vorà et che se delecterà di leggerla;
et anche cum quello più benefitio et remuneratione delle fatiche mie
duratoli più anni in componerla che conseguire posso; ho deliberato
di farla stampire dove meglio a me parerà. Ma dubitando che qualche
altro in concorrentia della stampa, che io ne farò,[214] subito che tal
mia opera et stampa sia fuori, non se intrometta a restampare o farne
restampare una altra, et che non pigli il bene et utile de le fatiche,
che doverieno venire a me: pertanto prego et supplico la prefata vostra
Sublimità, che quella sia contenta per suo decreto et privilegio
concedermi de gratia, che per tutto el tempo della vita mia non sia
licito a persona cossì terriera come forestiera et di qualunche grado
se voglia esser o sia, che ardisca, nè presuma in le terre et loci et
dominio di vostra Serenità presumere di stampare, nè di fare stampare
in forma alcuna de lettera, nè di foglio grande, piccolo, nè piccolino,
nè possa vender o fare vender ditta mia opera senza expressa licentia
et concessione de mi Ludovico Ariosto auctore de ipsa, sotto pena de
perder tal opere tutte, che si trovassero stampate, o vendersi, et de
ducati mille per cadauno che presumerà stamparla o farla stampare, o
vendere o farla vender: la quale pena per la mità si applichi a cui
piacerà alla Sublimità Vostra, et l'altra mità et libri stampati o
venduti a mi Ludovico prenominato servitore di quella. Cujus gratiæ
etc.

                      _Die 25 Octobris 1515_[215]

_Quod suprascripto supplicanti concedatur gratia, quam ut supra petit._

                                   Consiliarii:

                                   MARCUS DE MOLINO
                                   PETRUS MARCELLO
                                   HIERONYMUS TEUPULO
                                   FRANCISCUS BRAGADENO.


XIV

                   AD ALFONSO D'ESTE DUCA DI FERRARA


Illustrissimo signor mio. Or ora, che son XIX ore, son giunto in
Fiorenza; e ho trovato che questa mattina il duca d'Urbino[216] è
morto. Per la qual cosa sono assai in dubbio di quello che ho a fare;
perchè andar a condolermi de la morte della duchessa,[217] non so
con chi; massimamente che mi par che la morte del duca importi tanto,
ch'abbia fatto scordare il dolore della duchessa. Finalmente mi risolvo
di aspettare nôva commissione da Vostra Eccellenza, ed in questo
mezzo starmi nascoso con messer Pietro Antonio, acciò parendo ch'io
mi condoglia col cardinal de' Medici o con quel de' Rossi,[218] de'
quali l'uno o l'altro s'aspetta oggi o domattina, io possa far l'uno
e l'altro officio. E anco quando a Vostra Eccellenza paresse ch'io
facessi solo quello per il che fui mandato, io potrò dire com'ero
venuto per dolermi della morte della duchessa; ma avendo veduto questo
nôvo caso, mi son restato, per non essere importuno. Sicchè Vostra
Eccellenza mi avvisi quanto ho a fare: e s'anco io fallo a non far
quello che mi è stato commesso, quella mi perdoni; c'ho fatto per far
bene. Ed in grazia di Vostra Signoria illustrissima mi raccomando.

  Florentiae, 4 maii (1519).

                                                      Humilis. serv.,
                                                       LUD. ARIOSTUS.

Fuori — _Illustriss. et Excellentiss. Dom., D. meo singulariss. Duci
Ferrariae._

                                                   _Ferr. cito cito._


XV

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Più presto per ubbidire
a quanto V. E. mi comandò, le mando la mia _Cassaria_, che perch'io la
reputi cosa degna di andarle in mano. Ho tardato alquanto a mandarla,
perchè non ho avuto così presto chi me la trascriva. Qualunque ella
si sia, V. E. la accetti con quella benignità colla quale è solita di
vedere le altre mie sciocchezze. In buona grazia della quale umilmente
mi raccomando; e la supplico che, dove mi creda bôno a poterla servire,
si degni di comandarmi.

Di V. E.,

  Ferrara, 6 giugno 1519.

                                                      Umil servitore,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

Fuori — _All'Ill.mo ed Ecc.mo Principe Signor Colen.mo il Signor
Marchese di Mantova._


XVI

                              AL MEDESIMO


Illustrissimo ed eccellentissimo Signor mio. Perchè credo che V. Ecc.
amava assai messer Rinaldo mio cugino e fratello, e grande servitor
suo, mi parrìa di commetter gran fallo a non dar avviso che oggi a nove
ore è passato di questa vita, ed in quattro dì si è spacciato, dopo
che era tornato dalli bagni di Caldera. Tutti noi suoi amici e parenti
ha lasciato di mala voglia, ma sopra tutti Madonna Contarina[219] sua
moglie; la quale, ancor che sia molto tribolata e in tanta agonìa che
io dubito che non gli môra appresso, pur non si è scordata di pregarmi
che io ne dia avviso a V. Ecc., che crede che sarà partecipe del suo
dolore. Alla quale meco insieme bacia le mani, e in buona sua grazia si
raccomanda.

Di V. Ecc.

  Da Ferrara, 7 luglio 1519.

                                               Devotissimo servitore,
                                                     LUDOVICO ARIOSTO


XVII

                       ALLA MARCHESANA DI MANTOVA


Ill.a ed Ecc.a mia Signora. Con gravissimo e intollerabile mio
dispiacere avviso Vostra Eccellenza che mess. Rinaldo Ariosto mio
onorandiss.mo cugino e fratello, e suo fedeliss.mo servitore, questa
mattina circa le nove ore è passato della presente vita oppresso da
subita infermità di non poter orinare, e in quattro giorni n'è stato
rubato e n'ha lasciati tanto malcontenti quanto sia possibile al mondo,
massimamente Madonna Contarina sua consorte, la quale mi ha pregato
ch'io ne dia a Vostra Eccell. avviso, rendendosi certa che le n'avrà
compassione, e sarà partecipe di qualche porzione del suo dolore:
la qual meco insieme in bona grazia di Vostra Eccell. umilmente si
raccomanda.

  _Ferrariae, VII julii MDXIX._

      Di Vostra Eccellenza

                                               deditissimo servitore,
                                                         LUD. ARIOSTO

Fuori — _All'Ill.ma ed Ecc.ma mia Sig.ra osser.ma Sig.ra Marchesana di
Mantova,_

                                                         _a Mantova._


XVIII

                        A MESSER MARIO EQUICOLA


Messer Mario mio pregiatissimo. Io ringrazio molto V. S. della offerta
ch'ella mi fa di prestarmi l'opera sua, accadendomi, nelli miei litigi:
la quale accetto di buon animo, e credo di usarla; ma non mi basteria
il scrivere quello che io dimandassi. Ho pensiero di trasferirmi un
giorno a Mantova, ed informarvi bene di quello che io voglio: ma non
è il tempo ancora. Circa l'oda che voi mi dimandate, la cercherò tra
le mie mal raccolte composizioni, e le darò un poco di lima al meglio
che io saprò, e manderòllavi. È vero che io faccio un poco di giunta
al mio _Orlando Furioso_, cioè io l'ho cominciata: ma poi dall'un lato
il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione,
che già più di trent'anni[220] era di casa nostra, l'altro un'altra
possessione di valore appresso di dieci mila ducati, _de facto_ e senza
pur citarmi a mostrare le ragioni mie,[221] m'hanno messo altra voglia
che di pensare a favole. Pur non resta per questo ch'io non segua,
facendo spesso qualche cosetta. S'io seguiterò, non mi uscirà di mente
di fare il debito mio; e tanto meglio che non ho fatto pel passato,
quanto questo debito da quel tempo in qua è cresciuto in infinito.
Messer Mario, siate certo ch'io son vostro, prima per inclinazione
naturale, già è molto tempo, poi per vostri meriti verso di me. A voi
mi raccomando, e pregovi che alcuna volta vi degnate di ridurre alla
signora Marchesana in memoria che io le sono deditissimo servitore. Al
magnifico Calandra vi degnerete anco di raccomandarmi.

  Ferrara, 15 ottobre 1519.

                                                              Vostro,
                                                     LUDOVICO ARIOSTO

Fuori — _Magn. ac Doctissimo Viro Dom. Mario Equicolae, mihi
amicissimo, Mantuae._


XIX

                             A PAPA LEONE X


Beatissime Pater. Avendomi Galasso mio fratello a' dì passati fatto
intendere che Vostra Santità averìa piacere ch'io le mandassi una
mia commedia[222] ch'io avea tra le mani; io, che già molti giorni
l'avevo messa da parte quasi con animo di non finirla più, perchè
veramente non mi succedea secondo il desiderio mio, son stato alquanto
in dubbio s'io mi dovea scusare di non l'avere finita, e che per
recitarla questo carnevale mi restava poco tempo di finirla (e questo
pel timore del giudizio di questi uomini dotti di Roma, e, più degli
altri, di quello di Vostra Santità; chè molto ben si conoscerà dove
ella pecca, e non mi sarà ammessa la scusa d'averla fatta in fretta);
o se pure io la dovea finire al meglio ch'io potea, e mandarla, e far
buono animo, e conto che quello che conoscevo io nessun altro avesse
a conoscere. Finalmente, parendomi troppo mancare dal mio debito, ed
essere ingrato alle obbligazioni grandissime che io ho a Vostra Santità
non satisfacendo a tutti li suoi cenni, ancora ch'io ne dovessi esser
riputato di poco giudizio; perchè forse la mia scusa, benchè vera,
non sarìa accettata; ho voluto fare ogni opera per mandarla, e più
presto esser imputato ignorante o poco diligente, che disobbediente
ed ingrato: e così l'ho ritolta subito in mano. E tanto ha in me
potuto l'essermi stata da parte di Vostra Santità richiesta, che
quello che in dieci anni, che già mi nacque il primo argomento, non ho
potuto, ho poi in due giorni o tre condutto a fine: ma non che però mi
satisfaccia a punto, e che non ci siano delle parti che mi facciano
tremare l'animo, pensando a qual giudizio la si debbia appresentare.
Pure, quale ella si sia, a Vostra Santità insieme con me medesimo
dono. S'ella la giudicherà degna della sua udienza, la mia Commedia
avrà miglior avventura, ch'io non le spero: s'anco sarà riputata
altrimente, prendasene quel trastullo almeno che delle composizioni del
Baraballo[223] già si soleva prendere; chè, pur che in qualche modo
la diletti, io me ne chiamerò satisfatto. Alli cui Santissimi piedi
umilmente mi raccomando.

  Di Ferrara, alli 16 di gennaro 1520.

      S. Vestrae.

                                           Humilis et devotus servus,
                                                       LUD. ARIOSTUS.

Fuori — _Sanctiss. D. N. Leoni Decimo._


XX

                        A MESSER MARIO EQUICOLA


Magnifico messer Mario mio onoratissimo. — Per messer Giangiacomo
Baretone ho avuto sei lire di vostra moneta, le quali Vostra
Magnificenza mi ha rimesse, credo, per parte delli denari che si
hanno d'avere dal venditore delli miei _Orlandi_ a Verona. Di che
ringrazio quella, ma mi paiono pochi a quelli ch'io aspettava; e non
posso credere che quel libraro non li abbia espediti tutti, perchè in
nessun altro luogo d'Italia non so dove ne restino più da vendere: e
se fin qui non li ha venduti, non credo che più li venda. Per questo
sarìa meglio che il libraro li rimettesse quì, perchè subito troverei
di espedirli, poichè me ne son dimandati ogni dì. Vostra Magnificenza,
essendo risanata, come spero che ella sia, la prego che si sforzi di
saper la cosa; chè troverà che i libri sono venduti, e che quel libraro
vuole rivalersi di quelli denari. La si ricordi che io sono suo, e
sempre me gli raccomando.

  Ferrara, 8 novembre 1520.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

Fuori — _Magnifico Domino Mario Equicolae, Secretario. Mantuae._


XXI[224]

                          AL CAPITANO DI BARGA


Mag.ce tanq. fr. hon. Avendo lo Ill.mo mio S.re duca di Ferrara fatta
elezione di me al governo di questa provincia sua di Carfagnana, e
sapendo io quanto sua Ecc.a è desiderosa che li sua sudditi stiano
in pace ed abbino a conversare senza sospetto con li circonvicini
e precipuamente con li sudditi della Eccelsa Repubblica di Firenze,
attenta la integra amicizia che sempre fu ed è fra prefata Eccelsa
Rep. e sua Eccell.a, mi è parso essere mio debito nel gionger mio
qui visitare con questa mia V. S. con pregarla che nelle occorrenze
del governo di questi sudditi a noi dato voglia essere meco ed io con
quella, sicchè con ogni industria e possibilità ci sforziamo di ridurli
in quella pace, unione e quiete in la quale li Eccelsi ed Illu.mi
nostri Signori sempre sono stati e di presente sono.

Appresso perchè alli dì passati un Giovanni Baricca da Barga a tempo
di notte venne a Castelnovo con uno bandito di qui, ed alcuni uomini
di commissione de' loro superiori andando per pigliar detto bandito,
per caso vi si ritrovò in compagnia un Battistino forastiero, ma che
abitava qui, il quale feritte detto da Barga, contro però la volontà
di tutti gli uomini di Castelnovo; e sì come ho detto, essendo pur
debito di noi ufficiali ridurre li sudditi in buona pace, oltre che ne
ho espressa e particolar commissione di tal cosa dal mio Ill.mo S.r
Duca, prego V. S. che in questo sia contenta di fare ogni opera dal
canto suo per disporre ad accordo detto suo da Barga con li parenti
suoi e questi di Castelnovo, dalli quali ne è riferito che si chiama
offeso (e veramente a torto), perchè loro incresce tal caso quanto
dir si può, acciò che inveterando non sortisca alfine maggior male: e
se 'l delinquente fusse in mani nostre ne faremmo tale dimostrazione
che questo da Barga ne resteria satisfatto in modo che anche V.
S. conoscerebbe essermi dispiaciuto tale eccesso; ed in questo mi
governerò secondo il consiglio e buon parere di V. S. ed in qualunque
altra mia occorrenza. Alla quale offrendomi dispostissimo sempre mi
raccomando.

Ex Castelnovo Carfignane, 2 martii MDXXII.

  E. M. V.

                                      Tanq. fr.ter LUDOVICUS ARIOSTUS
                                     Duc.lis Com.s gen.lis in Carf.na


XXII[225]

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Mando a V. S.
Belgrado da Valico con quello spiedo e giannettone, che quelle mi
scriveno lui tolse alla famiglia del vicario del Borgo alli giorni
passati; e perchè ditto Belgrado è stato obedientissimo a tale
restituzione, anco che in ditta rissa ricevesse delle ferite, per le
quali in liberarsi ha speso assai; e sì come lui a bocca dirà a V. S.
fu promisso di satisfare la medicatura e ogni suo danno che patisse,
per essersi intromisso a tale impresa; pertanto V. S. si degnino in le
cose licite e oneste esaudire ditto Belgrado, attento che per mio mezzo
volentieri ha ricorso alle prefate, alla cui bona grazia di continuo mi
raccomando sempre: _quae bene valeant._

Ex Castelnovo Carfagnanae, 22 martii 1522.

                                                             E. D. V.

                                  Observantissimus LUDOVICUS ARIOSTUS
                              comes et ducalis commissarius generalis
                                                  in Carfagnana[226].


XXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Sì come scrivino a
me le S. V., quel Belgrado da Valico averli narrato le sue ragioni, con
avere anco restituito il giannettone e lo spiedo, mi dicono appresso,
che hanno dato commissione al vicario del Borgo, che vogli udire
benignamente ditto Belgrado, con administrare giustizia; e perchè ditto
Belgrado è povero uomo, e devotissimo delle S. V., e anco ha ricevuto
di tal rissa più che alcun altro, e si commisse oltra il suo volere;
per tutti questi rispetti, e ultimo loco per amore mio, avendolo
ritrovato obedientissimo circa le restituzioni di dette arme, supplico
V. S. si degnino commettere al loro vicario che impuoni silenzio
contra di ditto Belgrado. Circa quelli dal Silico, che alli dì passati
ferirno quelli di Castiglione, ne farò ogni rigorosa dimostrazione di
giustizia, e quel più che mi ricercherà il vicario di Castiglione,
acciò le S. V. effettualmente cognoschino quanto mi sia dispiaciuto
tale eccesso perpetrato. E a V. S. mi raccomando, _quae feliciter
valeant_.

Ex Castronovo Carfagnanae, 8 aprilis 1522.


XXIV

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. V.ra Ecc.a a questi dì mi ha dato
commissione ch'io m'informi come sia stata fatta quella elezione per
gli uomini di Trasilico del lor podestade; se giuridicamente e secondo
il consueto, o pur altrimenti: et oltra di questo ch'io pigli notizia
della condizione dell'uomo e ch'io la riferisca. V.ra Ecc.a dunque
intenderà, che soleva essere costume che insieme con alcuni uomini
deputati da quella Vicaria il Commissario faceva la elezione, la quale
appresso V.ra Ecc.a confirmava; ma poi da quella fu loro concesso che
essi senza il Commissario potesson fare la elezione del lor podestade,
che essa poi avea da confirmare, se le parea: e acciò che V.a Ecc.a
ne sia più chiara, le mando le copie delle lettere su le quali questi
uomini di Trasilico si fondano. Circa alla condizione dell'uomo, per
quanto a me pare, e per quanto io me n'ho potuto informare, è assai
tenuto uomo da bene, secondo gli altri che son qui: è vero che egli e
Pierino Magnano hanno per lor mogli due sorelle, ed al presente abitano
amendue nella casa della loro suocera, l'uno per sospetto e per esser
più sicuro dentro da le mura in casa della suocera, che nel borgo
dove ha la propria casa, e questo è Pierino; e l'altro per essere da
Camporeggiano, e non avere casa qui. Amendui entrano per una porta,
ma le loro stanze, secondo ch'io intendo, hanno separate, e ciascuno
mangia da sua posta. Che costui seguiti parti, non ne fa dimostrazione
estrinseca, ma so bene che Bastiano Coiaio, un figliolo del quale è
cognato di costui e di Pierino, perchè ha l'altra sorella, ha fatto la
pratica per far che costui sia podestade; e che Bastiano l'abbia fatto
a qualche suo disegno, più presto si può dubitarne che non, perchè
lui non ho a modo alcuno per persona neutrale, ancora che si sforzi
di farlo credere a me. Tuttavia V.a Ecc.a può essere certa che avendo
da essere podestade di Trasilico uomo di questo commissariato (non
voglio dir di Castelnovo solo), è forza che sia notato o per bianco
o per nero: e se ben non fusse in effetto (il che sería difficillimo
a trovare), pur serà sempre in sospetto ad una delle parti. Il padre
di costui è un ser Giovanni notaio e procuratore a Camporeggiano,
il quale al tempo che Lucchesi ebbono questa provincia fu mandato da
loro ad un suo Castello detto Camaiore per notaio. Ch'egli fusse in
trattato mi saria difficile a ritrovare per la verità, perchè s'io ne
dimanderò la parte italiana, mi diranno che non fu vero, e ch'egli è
uomo da bene; se dimanderò la francese, tutti mi diranno che fu vero,
e mi aggiungeranno tutto il male che imaginar si potranno: ma sia
il padre come si voglia, che da quella macchia in fuore, che potria
essere così falsa come vera, non ne sento dir se non bene. Il figliolo
è assai costumata persona, ed essendo già stato eletto e avendo dalla
elezione in qua sempre fatto l'officio del podestade, non potria essere
dimesso senza suo gravissimo scorno ed ignominia: e parendomi che la
intenzione di V.a Ecc.a sia più presto di gratificarsi questi uomini
che dar loro alcuna mala contentezza; poi che quella si è degnata in
questo dimandare il mio parere, io dirò che mi parria che costui non
fusse rimosso per porre in quel luogo alcun altro di questa terra,
perchè potria essere causa di dar principio a qualche altra nimicizia.
Soggiungerò bene che non sería se non ben fatto, che venendo li uomini
di Trasilico a Ferrara, come son per venire, che V.a Ecc.a operassi
che fussino contenti di far che 'l Capitano della Ragion di Castelnovo
fusse ancora suo podestade, con capitolo espresso che avesse a
procedere secondo li loro statuti, perchè, così facendo, l'officio del
Capitano si faria migliore, e V.a Ecc.a potria mandare qui un dottore
di qualche sufficienza, che con questa aggiunta n'avria da poter
star meglio; ch'ogni modo il podestade ch'essi eleggono sta sempre a
Castelnovo, e se voglion ragione sono sforzati a venir qui, e appresso
hanno le più volte per podestate persona che sa a pena leggere: poi non
è possibile ch'eleggano podestade di questo luogo che non sia parziale.
Volerne mandare a torre uno di fuore, o che stia là con loro, l'officio
non può far la spesa. La ostinazione di volere un podestade particolare
dipende da dui o tre villani che governano quel Comune, che ogni anno,
quando per un paio di calze, quando per un fiorino o dui, vendono a
questi notaroli la lor podestaria. Ho voluto che V.a Ecc.a sia del
tutto fatta accorta, al miglior giudicio della quale mi rimetto sempre:
ed in sua bona grazia umilmente mi raccomando.

Ex Castelnovo, XIX aprilis MDXXII.


XXV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Ringrazio V. S.
delle benigne offerte e buona disposizione verso il mio illustrissimo
signor Duca, e dello avviso dato a me; e del tutto per mio debito e
per consolazione di sua Eccellenza ho scritto a pieno. Prego V. S. si
degnino, accadendo la opportunità e il bisogno per lo avvenire, sì dal
canto di Toscana, come anco di Lombardia, farmi participe delle nuove
averanno, offerendomi al simile con ogni sollecitudine verso quelle.
Circa quelli dal Silico che ferirno, sì come è stato ditto, quelli dui
da Castiglione, come per altre mie ho promisso a V. S., non resteranno
impuniti dello eccesso perpetrato; e penso domane o l'altro andare fino
a Castiglione per parlare con il vicario di V. S., e provedere che
di nuovo si assicurino ambi li comuni di Castiglione e Silico, acciò
possino praticare in qualunque loco, e l'uno a casa de l'altro senza
sospetto. Spero fra ditto vicario e me faremo buona opera. E a V. S.
offerendomi sempre mi raccomando; _quae bene valeant_.

Ex Castronovo Carfagnanae, die 20 aprilis 1522.


XXVI

                              AI MEDESIMI

_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Lo illustrissimo
signor mio mi scrive che hanno da essere garbugli in Toscana, e
che io usi ogni diligenza per intendere di ora in ora il successo
di quelli; e specialmente mi commette sua Eccellenza che io abbia
ricorso dalle S. V., rendendosi certo che da quelle si averà del
tutto la verità: e così con questa mia prego V. S. si degnino di tale
occorrenza farmene participe acciò io possi esequire lo intento del
mio illustrissimo signore. E tutta la spesa delli messi che manderanno
a posta, de la quale parte S. V. mi aviseranno, satisfarò a pieno; e
anco di quella spesa che alle prefate accascherà fare per mandare in
li lochi necessarii per avere la verità, sono contento che in quello
parerà onesto a V. S. di concorrere; chè così è anco la mente del mio
illustrissimo signore. E a V. S. offerendomi mi raccomando sempre:
_quae bene valeant_.

Ex Castelnovo Carfagnanae, 25 aprilis 1522.


XXVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Questo presente
esibitore del mio commissariato mi fa intendere, esserli stato rubato
uno suo mulo da certi suoi vicini; e che avendo ricercato di ritrovare
detto suo mulo alli giorni passati, uno Giovanni di Niccolò Giusti
da Pescaglia ebbe a dire, che sapeva colui che lo aveva rubato detto
mulo: e ora volendo il predetto esibitore intendere da ditto Giovanni,
chi era stato quello che glielo aveva rubato, ditto Giovanni li ha
negato, e non li vuole dire la verità. Pertanto V. S. saranno contente
commettere sia chiamato ditto Giovanni, ed esaminato quello lui sa
di questo furto, acciò che il povero uomo possi trovare la via di
rinvenire il malfattore e la sua robba; perchè, per quanto mi dice,
quello Giovanni sa il tutto. E a V. S. offerendomi, mi raccomando
sempre.

(Castelnovo.... 1522).


XXVIII[227]

                          AGLI OTTO DI PRATICA


_Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi._ Per obedire
a quanto Vostre Signorie mi comandano; perchè le loro esortazioni
voglio che mi sieno in luogo di comandamento; ho fatto chiamare a me
quelli sudditi al mio officio, delli quali Bartolomeo da Barga si
duole che da Buonconvento si sieno fuggiti con la paga; e ritruovo
che molto ben difendono la ragione loro, e dicono che Bartolomeo
mandandoli a chiamare a casa loro fece dare al capo (che tutti eran
sette) certi scudi, promettendo come fussino a Castel Fiorentino,
che darebbe loro la paga integra; e che venendo a trovare il detto
Bartolomeo a Barga, n'ebbono la medesima promissione; e di più disse
loro, che se a Castel Fiorentino non facea lor dar la paga, fusse
lor licito di ritornarsine indietro con quelli denari che avevano: e
quando furono a Castel Fiorentino, e non avendo denari, e per questo
volendo tornare a dietro, furon pregati dal detto Bartolomeo che si
conducessero fin a Poggibonici, dove avrebbon denari; e che mancando,
senza altra eccezione se ne tornassino a Poggibonici. Non ebbono anco
se non parole, e pur con li medesimi preghi e promissioni furo anco
tirati fin a Siena: dove venendo li nimici, feron senza aver avuti
altri denari le fazioni e il debito loro. Quindi volendoli di nuovo
Bartolomeo condurre a Buonconvento, negaro di non volervi andare: pur,
parte con prieghi, parte con dar loro alcuni pochi denari; che tutti
cominciando da li primi ch'avevano avuto a casa e tra via, non passaro
fra sette compagni in tutto la somma di X ducati; fece tanto, che li
trasse a Buonconvento, refermando pure il medesimo, che se quivi non
dava loro tutta la paga, se ne tornassino liberamente. E così condotti
a Buonconvento con grandissimo disagio e carestia, non fu dato lor la
paga più che in gli altri luoghi; e per questo non fuggendo, ma più
presto partendosi di patto se ne tornaro a....[228]: e fra il giorno
che si partiro da casa, fin a quello che si partiro da Buonconvento,
corsero 14 giorni. Io per ubbidire Vostre Signorie, e insieme per non
mancare del dovere, e non essendo io molto nè assai ancora esperto
nelle ragioni pertinenti al mistier del soldo, ho fatto alquanto di
ragunanza di uomini, che sono usati d'aver compagnie di fanti, avendo
fatto che due mandati da Bartolomeo in questa terra, e dall'altra
parte questi incolpati di esser fuggiti, han dette le ragioni loro.
Ultimamente mi dicono che 'l soldo di questi fanti ha da cominciar dal
dì che giunsero a Castel Fiorentino, secondo l'ordine e il costume
solito del mistier del soldo; maisì, quando sia vero che Bartolomeo
dicesse loro, che non avendo denari, cioè la paga intiera a Castel
Firentino, se ne potessono tornar indrieto; che li patti rompono le
leggi; che 'l soldo ha da cominciar dal dì che furon levati da casa
e ebbon la prima prestanza. Li mandati da Bartolomeo non negano nè
affermano questo patto. Io volevo assignare termine alli fanti a provar
questo, ma li mandati da Bartolomeo non se ne sono contentati, e dubito
che non sieno per farne a Vostre eccelse Signorie alcuna sinistra
e men che vera relazione. Per questo ho voluto a quelle dare avviso
del tutto, acciò ch'elle ancora ne sieno giudici, chè so che non si
partiranno dalla giustizia, essendo io per non mi partire dà quanto
parerà a quelle, delle quali son deditissimo; e in sua bona grazia mi
raccomando sempre.

  Ex Castronovo, 21 maii 1522.

      Di Vostre eccelse Signorie

                                                      Observantissimo
                                                     LUDOVICO ARIOSTO
                                    Ducale Commissario in Grafagnana.


XXIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Ho veduto quanto V.
S. mi raccomandano Francesco Martino suo: non mancherà per me di farli,
mediante la giustizia, ogni favore; e perchè sono in questa terra
alcuni Statuti, che il commissario non si può impacciare in le cause
pertinenti al capitano della Ragione, la qual via è alquanto lunga; io
ho avvisato il prefato del modo che ha da tenere per venire a presta
espedizione. E come in questa, così in ogni altra cosa sono paratissimo
sempre di ubbidire V. S., alle quali mi raccomando.

  Ex Castro novo, 23 maii 1522.


XXX

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Le troppe grazie che V. E. fa a questi uomini
de la Vicaria di Camporeggiano li inasinisce (chè più onesto vocabolo
non so loro attribuire), e nessuna cosa son per far mai se non per
forza: io dico questo, chè mi par che usino gran torto al Capitano di
Camporeggiano, che avendo esso fatto giustiziare quel ribaldo ch'aveva
in prigione, e per li ordini e usanza che qui è dovendo per questo
avere lire cinquanta, negano, per quanto me ne avvisa il Capitano,
di volerlo soddisfare; e credo che vorranno avere ricorso a V. E.,
confidandosi che così come quella è lor benigna e liberale nel suo
particolare, così anco debbia lor essere in quello che con gran fatica
e continuo fastidio li officiali si guadagnano. Supplico V. E. abbia
raccomandato il Capitano perchè è da bene e dotto e buono e fedele
servitore di quella, per accrescergli l'animo a lui e agli altri di
punir li tristi.

Appresso gli significo che ora son capitati qui alcuni che vengono di
Maremma, che dicono che molti fanti ch'avevan preso denari a Pisa e poi
s'erano imbarcati a Livorno per ire alla guardia di Genoa, son stati
tenuti in posta da Messer Andrea Doria, o sia da frate Bernardino,[229]
ad un luogo detto Meloria, e morti, feriti e presi con li legni che li
conducevano. O vera o falsa che sia la nova la dò a V. E. nel modo che
io l'ho; in bona grazia de la quale umilmente mi raccomando.

Ex Castelnovo, 22 junij 1522.


XXXI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi._ Io sono stato a
questi giorni a Ferrara, dove fra le altre commissioni che ho avute
dal mio illustrissimo signore, è stato che, per quanto si estende il
mio potere, io sia sempre pronto a servire e fare cosa che piaccia a
V. S., e specialmente ch'io non patisca che li ribelli della vostra
eccelsa Repubblica vengano in questa sua provincia, e che venendoci,
io li pigli e persegui non altrimenti che li ribelli e inimici di
sua Eccellenza; e così sono apparecchiato di fare, e questa e ogni
altra cosa, che di V. S. io pensi essere a beneficio e piacere. E
perchè intendo che, non essendo io qui, V. S. si sono dolute col
mio locotenente di certi assassinamenti che alcuni ribaldi di questa
provincia banditi hanno fatto contra terre di quelle, oltra quello
che io credo che 'l prefato locotenente abbi scritto, anch'io replico,
ch'io n'ho grandissimo dispiacere e non minore desiderio di rimediarci,
pur ch'io lo possi fare. Io n'ho scritto al mio illustrissimo signore,
e penso che sua Eccellenza in ogni modo mi mostrerà qualche via di
potere castigare li malfattori, meglio ch'io non ho potuto fare, nè
posso fin qui più, oltra quello che credo che il mio signore disegnerà
di fare. L'avviso di V. S. credo che mi saria per giovare molto,
scrivendo quelli alli vicari loro che confinano con questa ducale
provincia, che per perseguitare tali uomini di pessima vita, ad ogni
mia requisizione venissero coll'armi in aiuto delli miei balestrieri, e
non dessino in loro terre ricapito alli nostri banditi; che 'l medesimo
anch'io sono per fare contra li ribelli e banniti di V. S.: in buona
grazie alle quali mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 12 septembris 1522.


XXXII[230]

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Sign. mio. Oltra quello che per un'altra mia ho scritto
a V. Ecc. circa i disordini che sono in questo paese, alli quali senza
l'aiuto di quella non è possibile, non avendo più forza di quello ch'io
m'abbia, io possa rimediare; benchè non manco di tutti quelli rimedî
ch'io posso: prima ho fatto fare contra li assassini di Pontecchio e
suoi seguaci (tra quali è quel Battistino Magnano, il quale fu causa
de la discordia tra quelli di Barga e di questa terra) una grida,[231]
de la quale mando a V. Ecc. qui inclusa la copia, acciò che a quella
piaccia di confermarmela per sue lettere: e appresso ho scritto al
Commissario fiorentino da Fivizzano e alli Signori Lucchesi acciò che
tutti insieme mettiamo in ordine una bella caccia, sicchè da ogni banda
si dia addosso a questi ladri, li quali tuttavia non cessano di far
ogni dì assassinamenti e por taglie a chi lor pare, e hanno ardimento
di mandare a dire a gli uomini qui di Castelnovo, che se non mandano
loro certi denari che domandano, li verranno a tagliare a pezzi fin in
questo Castello: e forse avriano ardire di farlo, perchè hanno chi fa
lor spalle e li nutrisce e difende. E perchè V. Ecc. conosca ch'io non
m'inganno in tutto, le mando similmente qui incluso una lettera che
oggi mi è venuta in mani, voglio dire la copia d'una lettera che scrive
Bastiano Coiaio a questi banditi del Silico, il quale Bastiano è, come
per un'altra mia ho scritto a V. Ecc., il consigliere e guidatore de la
fazione di Pierino, e in casa del quale li banditi spesso si riducono a
consiglio, come ne sono esaminati testimonî appresso il Capitano qui. E
acciò che V. Ecc. intenda il tenore della lettera, quella sappia, che
quel dì proprio ch'io giunsi qui fu tolto un mulo a Camporeggiano e
trafugato a Cicerana in mano del Moro dal Silico, il quale è fratello
di quelli che ammazzâro Ser Ferdiano, ed esso ancora per altre cause
ha bando: tuttavia sta nel paese, e tiene la Rocca di Cicerana. Colui
a chi fu tolto il mulo è stato ritenuto a non venire a lamentarsi a me,
parte con minaccie, parte con promissione di fargli restituire il mulo.
Oggi si condusse a Bastiano Coiaio il quale gli ha fatto la lettera
della quale io mando la copia; ma prima ch'abbia dato la lettera è
stato _indotto venire_ a me, e io gli ho dato giuramento quella lettera
essere di mano di Bastiano e che esso glie l'ha veduta scrivere, e
poi n'ho _fatto la copia_, la quale io mando acciò che V. Ecc. conosca
che esso Bastiano ed Evangelista, che sono partesani e consiglieri di
Pierino, sono quelli che _aiutano_ e consigliano questi banditi; e chi
li levasse di questa terra insieme al loro capo Pierino la risanerebbe,
come chi ne levasse tutto il morbo.

Questa è la copia de la lettera:

  «Adì 13 di sett. 1522.

«Moro. Io sì ho visto li conti fra Bastiano Catucio e quelli di
Pierlenzo, in modo ch'io vedo che quelli di Pierlenzo si hanno torto,
sicchè pertanto egli _diceva che_ voleva andare dal Commissario e io
non ho volsuto per onor tuo, perchè il _mulo_ l'avete in le man vostre;
e per tanto a me pare che per mezzo tuo tu gli facci _rendere_ il suo
mulo in ogni modo, senza fargli pagar nulla; e questo sia l'onor di
noi: e se gli voleva por taglia, non lo doveva menar costì in le man
_vostre_: pertanto fatelo sùbito; se non voi avrete un comandamento
di renderlo, perchè qua si dice che voi l'avete in le mani. Appresso
farete quanto Giorgino _vi dirà_, e fate che non sia fallo perchè a Ser
Evangelista e a tutti noi ci pare che lo facciate e sùbito. De l'altre
cose io vi terrò avvisato per il mio _mezzadro_ del tutto. A me pare
che voi dobbiate dare il mulo a Giorgino; e non sia fallo, perchè a noi
serà vergogna grande: e se quelli di Pierlenzo credono aver nulla da
Ser Bastiano Catucio, facciami intendere sue ragioni, e poi lasci fare
a me.

                                    «Bastiano Coiaio, in Castelnovo.»

Questa è la copia de la lettera, sopra la quale V. Ecc. faccia quel
giudicio che le pare; e a questa e a molt'altre cose pertinenti a
questa provincia supplico che faccia quella provvisione che le pare più
espediente: in buona grazia de la quale umilmente mi raccomando.

  Castelnovi, XII sept. 1522.


XXXIII

                          A MESSER OBIZO REMO


Mag. Mes. Obizo. Vostra Mag. vederà per quest'altra mia quanto io
scrivo al Signore.[232] Prego quella che faccia presto ch'io abbia
risposta, perchè veramente che se non si rimedia a questi disordini,
ne nascerà un dì uno che non vi si potrà rimediare. Pierino è pur
anco in questa terra, e per quanto intendo non mi par ch'abbia voglia
di venire a Ferrara, e non si può pensare altro, se non che costui
sia consapevole di qualche gran maleficio, e non è sicuro che non si
sappia, e per questo dubita di venire. Già son sei dì ch'io son qui, e
ancora non è stato ardito di venire dove io sia. Ieri sera arrivò un
suo messo che aveva mandato a Ferrara, ed è quello al quale io dò la
colpa che tra via abbia tolte le lettere a quel nostro corriere. Ogni
modo io gli vo porre le mani addosso, ma voglio aspettare che Pierino
sia partito, se si ha a partire. Costui, cioè Pierino, ha pratica
secreta a Ferrara di persone che gli fanno animo di poter far ciò che
vole, e dopo che V. S. gli scrisse quella lettera ducale, venne da
Ferrara un balestriero il quale ha nome Quirino da Brescello, e parlato
che gli ebbe tornò subito indrieto. Prego V. Mag. che faccia intendere
ogni cosa al Sig., e forse non serìa male intendere da quel balestriero
che venne a fare. Appresso per levare spesa a questi poveri uomini,
acciò che per ogni cosa non abbino a venire a Ferrara, piglio cura di
mandare lor supplicazioni; e così mando questa inclusa, la qual parendo
a V. M. di segnare, la rimetta, che farò che la Cancellaria non perderà
il suo consueto: e a V. M. mi raccomando, e desidero di intendere che
Mes. Bonaventura[233] sia ben guarito.

  Castelnovi, 14 sept. 1522.

                                               Di Vostra Magnificenza
                                                     LUDOVICO ARIOSTO

Post scripta. Pierino Magnano mi ha fatto pregare (chè esso, non so
per che causa, se non _quia malus odit lucem_, non è mai venuto dove io
sia) ch'io prolunghi il suo termine di comparire a Ferrara otto giorni
ancora. Sono stato contento: non so se verrà.

Fuori — _Mag.o Domino Obizo Remo Ducali Secretario mihi honor.o —
Ferrariae._


XXXIV

                    AGLI OTTO DI PRATICA IN FIRENZE


_Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi._ Fin il maggio
passato io scrissi a Vostre eccelse Signorie quello ch'io avevo fatto e
potuto far con ragione nella causa che Bartolomeo di messer Jacopo da
Barga ha con alcuni di questa ducale provincia, che esso dice che con
la paga si fuggirono da lui a Buon Convento, e pienamente feci a Vostre
Signorie (s'elle ebbero la mia lettera) intendere che avendo l'una
parte e l'altra a paragone, avevo trovato quello che anco replicherò
di novo, acciò che quelle non abbino di me questa mala openione, che
a persona del mondo io volessi mancare di ragione, e tanto meno ne
vorrei mancare alli sudditi suoi, che oltra che Vostre eccelse Signorie
ho in riverenza, per rispetto della buona amicizia ch'io so essere
tra il mio ill.mo signore Duca e cotesta eccelsa Repubblica, anche io
particolarmente e per antiqua conversazione ch'i' ho avuta in Fiorenza
e per una naturale inclinazione son molto affezionato a cotesto Stato
e desideroso di ubbidire li comandamenti suoi. Vostre Signorie dunque
intenderanno di novo, che la cosa sta in questo modo: che Bartolomeo
mandò a levare alcuni di questa provincia, che in tutto furon sette,
e diè loro certi pochi denari, promettendoli come fussino a Castel
Fiorentino, avrebbono il supplemento della paga; e essi dubitando di
non essere menati a vento, gli protestaro, che non avendo quivi li
lor denari, se ne voleano poter ritornare con quelli pochi denari che
avevon presi; e così non niega uno, che Bartolomeo mandò quì, essere
vero: come furono a Castelfiorentino, non v'era chi dèsse denari, e
questi nostri voleano ritornarsi; ma pur pregandoli Bartolomeo, furon
contenti d'andare a Poggibonici; ma protestando di novo, se quivi non
avean la paga, se ne ritornerebbono a casa; da Poggibonici, con simili
preghi e promesse, furono tratti a Siena. Non essendo anco a Siena chi
lor dèsse denari, se ne volsono ritornare; pur Bartolomeo pregando
e promettendo e dando loro anche qualche quattrino, fece tanto che
restaro: e venendo il campo a Siena, furo in su le mura, e feron la
lor fazione; e da Siena poi, senza dar lor la paga, con simili preghi
e promesse furon tratti fino a Buon Convento; dove non avendo anco la
paga, nè speranza di averla, e per la più parte dissolvendosi il campo,
se ne vennero con molti altri, e se ne portaron quelli pochi denari
che avevan preso; che in sette compagni furon circa dieci o dodici
ducati. Questo ch'io scrivo a Vostre eccelse Signorie fu confirmato
da una parte e dall'altra in mia presenza esser vero. Ma perchè la
professione mia non è d'arme, non mi confidando di sapere giudicare
in questa causa, chiamai, con un dottore che abbiamo qui assai ben
dotto, molti uomini da bene, c'hanno fatto il mestiero del soldo; li
quali disseno, che a quel dì che arrivaro a Castelfiorentino doveva
cominciare il servizio di questi fanti, e poi compensare chi era più,
o li dì ch'avean servito o la rata delli denari che avevan presi.
Questa determinazione non piacque a chi era venuto per Bartolomeo, e
si partiron; e hanno fatto querela a Vostre eccelse Signorie come io
non gli voglia far ragione. Quelle intendono il caso, e perchè son
prudentissime, e hanno costì copia di soldati e persone che intendono
meglio l'uso dell'arme, che non fo io, nè questi qui meco, con li
quali io mi posso consigliare; supplico Vostre eccelse Signorie che
giudichino questa causa, e che mi avvisino quello che vogliono ch'io
faccia, ch'io sono per condennare e assolvere questi miei, secondo
il giudicio di quelle: e quando Bartolomeo dicessi che la cosa stessi
altrimente, io manderò a star seco al paragone uno di questi fanti, che
chiariranno le menti di Vostre Signorie; in bona grazia de le quali mi
raccomando sempre.

  Castelnovi, 24 septembris 1522.[234]


XXXV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Perchè, per
grazia di Dio, tutta questa ducale provincia di Garfagnana fino a
qui è sana e senza un male al mondo, vorrei con tutti li modi che mi
sieno possibili, che anco per lo avvenire si conservasse, e per questo
non cesso di far fare buona guardia di non lasciare venire persone di
paese sospetto: ma questi sono mali che nascono tanto improvviso, che
non mi confido di conoscere bene da chi mi debbia guardare. Per questo
ho voluto ricorrere a V. S. come a quelle nelle quali ho grandissima
fede, e credo che poco meno amino li sudditi del mio illustrissimo
signore che li suoi proprii; così le supplico che sieno contente per
questo messo, ch'io mando a posta, di avvisarmi le terre da chi mi
debbio guardare, e che anche mi consiglino, s'io debbo lassare fare la
fiera; la quale, sperando che le cose migliorasseno, avevamo differito
a'cinque di ottobre. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

Castelnuovo, 28 settembre 1522.


XXXVI

                              A OBIZO REMO


Magn. mihi hon. Ieri ho avuta una lettera del Sig. nostro mandatami da
Cristoforo Casanova da Sestola in risposta de la grida, de la quale
mandai la copia. Del procedere contra li assassini da Pontecchio e
gli altri banditi, non dubitate ch'io 'l faccia senza il consiglio del
Capitano qui, e ch'io possa essere imputato di far contra ragione. Mi
piace che 'l Sig. sia contento ch'io pigli accordo con Sig.ri Lucchesi
e Fiorentini che li lor banditi non sieno sicuri sul nostro, nè li
nostri sul loro: io tratterò la cosa maturatamente sì che vada di pari,
e non abbino vantaggio da noi. Credo che a quest'ora abbiate Pierino
a Ferrara. A Bastiano Coiaio ho dato alquanto di dilazione, e non
lo costringerò a venire altrimenti finchè io non abbia risposta alle
lettere che circa questo ho scritto a Vostra Mag.; e Ser Evangelista
in nome di questa Comunitade ha scritto al Sig. il testificato di
avere esso dato recapito a' banditi. Per un'altra mia avrete veduto
esso viene malissimo volentieri, e dice che questa è la sua ruina, e
mi prega e mi fa mille croci ch'io faccia opera che non venga. Io gli
ho compassione; pur in questo mi rimetto a chi ha miglior giudicio di
me, e a chi la misericordia non corrompe la giustizia. Io 'l confesso
ingenuamente, ch'io non son uomo da governare altri uomini, chè ho
troppa pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata.

Li balestrieri che seranno esibitori di questa son due uomini da bene
e bene in ordine e valentuomini: quanto gli ho saputo imputare è che
hanno moglie in questa terra. Io li raccomando a V. Mag. che faccia
che non perdano il lor loco. Ce n'è restato un altro detto il Magnano,
il quale per essere ammalato non ha potuto venire. Venirà più presto
che potrà. Prego Vos. Mag. che operi che per questo non perda il suo
loco, chè anco così mi promise mess. Giovanni Ziliolo. Quest'altri che
restano avranno il bisogno, e non accade mutarli per adesso altrimente.
Quel Giovanni Frascolino che Vos. Mag. mi raccomanda, non è comparso.
Se fin adesso non è partito da Ferrara, non curo che venga altramente
nè lui, nè altri, perchè di questi ch'i' ho mi contento.

Ringrazio Vostra Mag. dell'avviso che mi ha dato del Sig. Don
Ercole,[235] e così starò con speranza di meglio, e che quello che
fu promesso a Mes. Lod.o Cato[236] in Ispagna sia quello che tutti
desideràmo. Altro non occorre al presente. A Vostra Magnificenza mi
raccomando.

  Castelnovi, 2 octobris 1522.


XXXVII

                              AL MEDESIMO


Mag.co Mess. Opizo mio onor. — Bastiano presente esibitore viene
per supplicare al Signore nostro in suo nome e forse anco per suo
zio Leone, ambidui da Gragnanella, che voglia lor rimettere la
condennazione nella quale sono incorsi per aver feriti l'un l'altro,
e son quelli a punto di che V.a Mag.za mi scrisse addì passati che la
intenzione del Signore nostro era di non far loro altra grazia più
di quella ch'avevan per li Statuti. Pur perchè son poveromini e me
n'hanno pregato, io li raccomando a V.a Mag.za che faccia il Signore
star contento delle 35 lire c'ha pagato ciascun di loro. Gli è vero
che l'ordine era che non avessino ad uscire di prigione finchè non
avessino satisfatto a tutta la somma; pur a' preghi di molti uomini
da bene son stato contento di far lor termine del resto de la metade
per tutto questo mese e dell'altra metade per tutto novembre; ma ben
ho assicurato la Camera che al tempo debito sarà pagata. Or, come
dico, Sebastiano viene per impetrar grazia, e così io lo raccomando a
V.a Mag.za, facendoli fede che paga mal volentieri; e a V.a Mag.za mi
raccomando.

Appresso, io scrissi addì passati come un Balduccio da Carreggini
imputato di aver morto un Togno che stava alla Isola Santa si era
venuto _sponte_ a porre in prigione del Capitano di Camporeggiano,
ma che subito, cioè l'altro dì che 'l detto Balduccio si era posto
in prigione, il detto Capitano si era partito dall'ufficio con la
licenza alla usanza delle Suore da Genova,[237] e ito un poco a spasso
a casa sua in Lunigiana: e per questo e perchè non stavo sicuro che
costui, con speranza di purgare li indizi con poca lavatura si fusse
d'accordo andato a porre in prigione, avevo disegnato di mandare a
torre questo prigione e di tenerlo qui a Castelnovo acciò che non si
esaminasse senza me; ieri, essendomi per altre faccende accaduto andare
a Camporeggiano, avevo pensato di menarlo meco in qua, e tanto più me
ne venne voglia quando vidi in che modo era tenuto, però che va libero
per la rôcca e senza guardia, e a lui sta l'andare e il stare. Pur a'
prieghi di Ser Constantino, il quale è il notaro di quel loco, fui
contento di non far questa ingiuria al Capitano, ma ben comandai al
cavalliero del Capitano che lo ha in guardia, ed anco al notaro, che
lo dovessino tenere in prigione e con li ferri alli piedi, e che anche
quando accadesse che purgasse li indizi, non lo lasciasseno senza mia
commissione. La parte offesa ha fatto gran querela a me che costui
sia tenuto così largamente e vorria ogni modo ch'io pigliassi questa
causa in me, e credo che supplicherà. Io non mi curerei già di questo
impaccio perchè ci son mal atto, ma non sería male che alla cognizione
di questo s'accompagnasse il Capitano di Castelnovo con quell'altro
di Camporeggiano, acciò che una volta s'incominciasse in questo paese
a punire li malfattori, che per l'impunitade c'hanno avuto pel tempo
passato e pel poco braccio che li officiali han qui, moltiplican
di sorte che non è sicuro il paese in alcun lato. Ma la Vicarìa di
Camporeggiano sta molto peggio, che di poi ch'io son tornato da Ferrara
è stato morto uno a San Romano, un altro in un altro loco pur di quella
Vicarìa è stato preso da quel Ginese (che anche amazzò il conte di San
Donino) e legato ad un arbore nudo, e poi che l'ha avuto legato gli ha
dato sedici ferite: e tutta la notte quel pover uomo è stato legato
nella selva, nè fin al giorno a grande ora ritrovato, e pur ancora è
vivo. Quelli ribaldi da Ponteccio stanno tuttavia a casa e ancora hanno
ardimento di mandare a domandarmi accordo, e per l'uno di essi, cioè
Bernardello, è venuto Simon Contardo e mi ha offerto che quando io gli
perdoni, che darà sicurtà di trecento ducati di non fare dispiacere ad
uomo del mondo e di vivere costumatamente e di pagare tutto quello che
ha tolto dalli castronari di Domenico di Amorotto, e sopra questo di
donare a me, o voglia un muletto o voglia X ducati d'oro. Similmente
è venuto un altro da parte di Bertragnetto e mi ha fatto la medesima
offerta, ed anco lui, per la sua parte, di donarmi altri X ducati; poi
ieri, ch'io fui a Camporeggiano, gli Otto di quella Vicarìa mi pregarno
del medesimo per tutti quelli assassini che darebbono securtade di 300
ducati di vivere d'uomini da bene. Io ho mostrato di dar loro qualche
speranza, e questo perchè mi proponevano che s'io volevo far loro un
salvo condotto che mi venisseno a parlare, mi farebbono intendere
che il torre de li denari a quelli Lombardi, che poi restituiro, e
il torre di prossimo questi castroni era stato lor fatto fare sotto
fede che ne farebbono piacere al Signore nostro, e che parlandomi mi
direbbono chi fusse stato quelli che a ciò li avesse persuasi. Io non
ho voluto a patto ignuno che mi vengano a parlare, nè far loro alcun
salvo condotto, ma ho lor fatto dire che mi scrivano tutto questo che
mi voglion dire a bocca, e così son rimaso con loro. Gli ho usato anco
un poco di mansuetudine, perchè ho pratica con alcuni uomini da bene
da Sillano, che assicurandoli un poco sperano di darmeli ne le mani.
Questi altri dal Silico che amazzaron Ser Ferdiano stanno tuttavia al
Silico e a Cesarana. Io non cesso di pensare e di fantasticare come
senza spesa del Signore nostro io possa accrescere le mie forze per
far che almeno questi ribaldi abbian paura di me. E per questo ieri
fui a Camporeggiano dove avevo commesso che fusson chiamati gli Otto
di quella Vicarìa; ma per essere andato il mio comandamento tardi,
non ne potei avere se non quattro. A questi feci intendere come a'
dì passati ch'ero stato a Ferrara avevo avuto lungo parlamento con
l'Ecc.a del Signore circa li delitti ch'ogni dì si commettevano in
la lor Vicarìa, e che Sua Ecc.a volea provederli ogni modo, e che
stava in pensiero di mandare un'altra volta il suplemento fin alli 25
balestrieri, e che voleva più presto che essa Vicarìa si dolesse di
pagare questi balestrieri, che fusse lasciata a questo modo in preda
alli assassini e ribaldi; ma che da l'altra parte avendo pietà alla
povertà sua, era stato perplesso assai: ultimamente aveva eletto questo
espediente, che la Vicarìa di Camporeggiano eleggesse cinquanta uomini
sotto dui caporali, e quella di Castelnovo cinquant'altri sotto dui
altri caporali, e questi fussino obligati, o tutti o parte secondo li
bisogni, ad ogni richiesta del Commissario venire armati e insieme con
li balestrieri andare a fare le esecuzioni che serian lor commesse, ed
ogni volta che fusseno messi in opera, ogni Vicarìa fusse obligata a
pagare li suoi a sei bolognini per fante il giorno, chè questa serìa
poca spesa alla Vicarìa: e pigliandosi questo ordine non accaderà che
'l Signore mandi qui altri balestrieri. Alli quattro Otto che qui
si trovaro piacque questo modo, e dissero che era poca spesa e per
riuscire loro in grande utile, ma che volevano termine a rispondermi
finchè avessino parlato col resto degli Otto e che speravano che a
questo tutti seriano di una volontade. Io ho voluto di questo avvisare
V.a Mag.za acciò che accadendo che qualcuno di questi venisse a Ferrara
e ne parlassi, io non paressi bugiardo. Con quest'altra Vicarìa
di Castelnovo credo facilmente di ottener questo ordine, il quale
succedendo come spiero,[238] non credo che li banditi si fermino troppo
in questa provincia.

Pierino Magnano oggi son 12 giorni che con mie lettere si partì da
Castelnovo, e mi disse che voleva venire ad ubbidire il Signore. Se
sia a questa ora giunto o no, V. Magn. lo può sapere meglio di me. A
me è detto (ma non so se ben lo debbia credere, perchè la persona che
me l'ha detto non è troppo sua amica), che dopo che si partì di qui
è stato alcuni dì ascoso con alcuni banditi nel campanile di Villa,
terra qui vicina, e che poi è ito a Pistoia. A Bastiano Coiaio ho
fatto un altro comandamento, e assegnatoli un termine che mi è parso
conveniente di appresentarsi dinanzi al Signore.[239] Esso sta pur con
speranza, che, prima che 'l termine finisca, il Sig. abbia da revocare
questa commissione. Come ho detto, ieri fui a Camporeggiano, e quelli
uomini si maravigliano che 'l Sig. non manda un Capitano nuovo, o non
conferma questo che sin qui ci è stato, perchè il suo termine finì a
San Michele. Il Capitanato di Camporeggiano è molto migliore di questo
di Castelnovo, e ora che le cose sono pacifiche, credo ch'ogni uomo da
bene ci verria volentieri. Altro non m'occorre al presente. A V. Magn.
mi raccomando.

  Castelnovi, 5 octob. 1522.


XXXVIII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi_. Ancora che pochi
dì siano ch'io scrivessi a V. S. del medesimo tenore, e ch'io abbi
ritrovato quelle prontissime a compiacermi di quanto io l'ho pregate;
pure avendo di nuovo circa questa materia avuto lettere e nuova
commissione dallo illustrissimo mio signore, mi è parso di replicare
con questa altra, e fare loro intendere, come sua Eccellenza per
quiete di questa provincia desidera che fra V. S. e sua Eccellenza sia
rinnovata quella consuetudine e patto, ch'io intendo che altre volte
ci soleva essere: che li banniti di questa provincia per alcuno caso
enorme, come rebelli ovvero assassini ovvero omicidiali volontarii,
non possano essere securi nel dominio di V. S., _et e converso_; e che
capitando alcuni di tali banditi da V. S. in questa ducale provincia,
il Commissario qui sia obbligato a dare ogni favore a chi li domanderà
per parte di V. S., perchè li abbi nelle mani, _et e converso_:
pertanto io supplico V. S. che siano contente di compiacere in questa
onesta domanda il mio signore, e scriverne una lettera nel miglior modo
che paia a quelle, la quale io abbia a fare registrare nelli Statuti di
questo loco; e io farò il medesimo o per mie lettere, ovvero ch'io ne
farò venire una ducale come più piacerà a V. S.; in buona grazia delle
quali mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 9 octobris 1522.


XXXIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ V. S. vedranno
quanto questa comunità di Castelnuovo le raccomanda uno fratello di
prete Riccio, il quale costì è stato preso per imputazioni di monete
false. Quando sia novizio ne l'arte, e mai più non abbi fatto simile
errore, e sia stato sedotto dal compagno (sì come è più facile che li
cattivi corrompeno li buoni, che li buoni reducano li cattivi al ben
fare), io ancora insieme con gli altri lo raccomando a V. S.: ma quando
anco sie _inveteratus malorum_, io non sono per impedire la giustizia.
E a V. S. sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 14 octobris 1522.


XL

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Mi è stato
referito che a Ceserana, terra qui prossima e di questa ducale
provincia, è nascosamente uno di quelli Totti ribelli di V. S., in
compagnia degli figliuoli di Peregrino dal Silico banditi di questo
ducale sito; e per non avere io più braccio di quello che io mi abbi,
vi stanno contra mia volontà. Per questo mi è parso di avvisare V.
S., che con quello mezzo che loro paia il migliore veggano per la via
di Lupinaia o altre loro terre in quelle confine, di informarsi se
questo che mi è stato detto è vero o no, che anch'io dal canto mio
mi sforzerò di informarmene meglio che potrò: e ritrovandosi essere
vero, mi pareria ben fatto che V. S. mandassero il loro bargiello una
notte, o veramente qui a Castelnuovo o in qualche altro loco, dove più
giustamente questi balestrieri che io ho qui si potesseno congiungere
con lui e andare a Ceserana, e in un tratto pigliare il ribelle di V.
S. e li banniti di questa provincia. Prego dunque quelle, che usino
diligenza per trovare la verità di questo che io scrivo, che anch'io
farò il simile; e quello che ne arà prima certezza, ne avviserà
l'altro. E a V. S. sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 14 octobris 1522.


XLI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. Sig. mio. Ieri il Moro dal Silico mi appresentò la grazia che
V. Ecc. gli ha fatto per un certo omicidio che meritava più presto
clemenza che severità. Oggi ho avuto lettere e messo a posta dal
Commissario di Frignano, che mi avvisa che questo Moro insieme con li
fratelli e altri compagni, de li quali esso Moro era capo, tornando di
Frignano in qua, dove erano iti in soccorso di Virgilio, intrôro in
casa d'un suddito di V. Ecc. lì da Frignano, e gli spezzâro gli usci
e le casse, e depredarono roba e valuta di cento lire, non essendo in
casa altri che una vecchia; e mi prega ch'io faccia restituire questa
roba. Se 'l Moro mi torna più dinanzi, io lo piglierò e farò che 'l
Capitano lo punirà come merita il delitto, senza guardare a grazia che
gli abbia fatto V. Ecc., perchè non si estende in questo nè in altri
assassinamenti che _mi_ è stato detto che questo Moro insieme con
li fratelli hanno fatto; ma dubito che non ci tornerà, perchè questo
poveruomo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal
figliuolo e dal nipote _di_ Bastiano Coiaio e da ser Evangelista a
provare se per lo meno potesse riavere la sua roba: _e a ciò dice di_
essere stato consigliato da questi altri di Frignano che sono _uniti
col Moro in_ lega; e non avendo potuto aver niente _è ricorso_ a me;
sì che dubito n'avrà preso sospetto, e non tornerà _più_ a me. Se non
torna, parendo a V. Ecc., gli annullerei la grazia: in buona grazia
della quale humillime mi raccomando.

  Castelnovi, XIX novembris (1522).[240]

                                                 Humillimus servitor,
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.


XLII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ A' dì passati
scrissi a V. S. del desiderio che aveva lo illustrissimo signor mio,
che li banditi per omicidi volontari di questa ducale provincia e
ribelli non fusseno sicuri nel dominio di V. S., massimamente in
queste terre che ne confinano qui in Garfagnana; con obbligo che sua
Eccellenza facesse il medesimo verso V. S.: e perchè quelle non mi
hanno mai dato soluta risposta, e perchè anco di nuovo lo illustrissimo
signor mio me ne ha scritto, ho replicato questa, per la quale le prego
che mi rispondino, e siano contente di concedermi quanto li domando,
che veramente farà la quiete e tranquillità di tutta Garfagnana. E a V.
S. mi raccomando.

  Castelnovi, 22 novembris 1522.


XLIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi honorandissimi._ Perchè ogni dì
si rinfresca qualche nuova circa la peste in questi luochi, che non
sono da noi però molto distanti, mi pare che sia mio debito e ad ogni
altra persona che non sia in tutto stolta, di porre questa cosa per
il maggiore pensiero che io abbia; e come se la guerra mi instasse, io
avrei ricorso a V. S., come a quelle nelle quali dopo il signor mio ho
maggior fede, così in questa peste che non mi spaventa meno che farebbe
la guerra, userò la medesima confidenza. Di nessuna cosa ho più dubio,
che delli miei mulattieri, li quali mandati da Acconcio salinaro vanno
e vengono da Pisa; e questo solamente per li alloggiamenti che fanno
per via, che non so come siano securi: per questo mi è parso ricorrere
a V. S., e pregarle siano contente di fare trovare o in Lucca o fuora
di Lucca ne' borghi una stanza dove detti mulattieri possano albergare
senza andare alla publica ostaria; della qual stanza esso Acconcio
pagherà l'affitto, e se la fornirà secondo il suo bisogno. Maggior
grazia ancora avrei da V. S., che quelle si degnassero di provvedere
che detti mulattieri di Acconcio non avessero da passare Lucca, ma
che V. S. commettesseno alli suoi carrattieri e vetturali, che ad
istanza di detto Acconcio levasseno da Pisa la quantità del sale che
li bisogna, la quale è in tutto staia 3000 e la conducessino a Lucca, e
secondo l'ordinario e solito pagamento; dove si porrebbe in una stanza
deputata a questo, e di costì si manderebbe per li nostri vetturali a
tôrre qui a Castelnuovo: assicurando V. S. per tutte quelle cauzioni
che loro paresse, che non avessino di tal cosa a patire danno alcuno.
Io prego di questa grazia V. S. sì per più securità di mantenere sano
il paese, sì anco perchè la montagna di Modena ha gran bisogno di sale;
e dubito che li vetturali nostri non potranno supplire così presto,
come richiede il bisogno: e lo illustrissimo signor mio mi ha dato
commissione ch'io usi diligenza, che questi sali si conduchino presto.
S'io piglio troppa securità di V. S., quelle lo attribuischino più
presto a molta fede che io ho in esse, che a presunzione: alle quali
sempre mi raccomando.

  Castelnuovo, 25 novembre 1522.

Se V. S. fusseno contente di dare uno alloggiamento a Sesto alli ditti
vetturali, verrebbe comodo assai, e forsi manco disconcio a V. S.


XLIV

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Per ubbidire alla Ecc. V. ho fatto chiamare
gli uomini de la Vicarìa di Trasilico, e fatto loro intendere da parte
di quella che eleggano un altro potestade, chè V. Ecc. non vuole che
Ser Tomaso Micotto più faccia l'ufficio. Essi uomini mi domandaron
termine a far questa elezione sei giorni, e poi tornâro in capo di due,
e mi dissero che mi pregavano ch'almeno io dessi dilazione a questo
Ser Tomaso che potesse venire al cospetto di V. Ecc. prima ch'io lo
privassi de l'officio, e che essi n'eleggessino un altro, con speranza
che quella serìa contenta che per due mesi ancora seguitasse finchè
fusse in capo de l'officio che gli fu dato per un anno; e che essi mi
facevano questi preghi perchè erano pregati da detto Ser Tomaso, che
non gli facessino questa ingiuria; e che essi erano sforzati avergli
rispetto, fussino li suoi portamenti come si vogliano, per essere di
buon parentado in questi paesi. Io nè in tutto ho voluto negare la
loro domanda, nè anco compiacerli con disubbidienza di V. Ecc., e feci
che elessino un potestade che rendesse lor ragione finchè Ser Tomaso
o rifermato o in tutto escluso ritornasse da Ferrara; e così elessino
Mess. Achille Granduccio, che solo in tutta Garfagnana si trova essere
dottore, e veramente, oltra la dottrina, uomo molto da bene, che anco
V. Ecc. ne può avere avuta qualche prova, chè non son molti giorni
che era Giudice de' Malefici a Ferrara. Quando poi V. Ecc. vorrà che
o al presente o al principio de l'anno, o a marzo, che fu il tempo
che questo Ser Tomaso entrò in officio, che questi uomini facciano
la consueta elezione, s'eleggeranno questo medesimo che hanno ora
instituito, cioè Mess. Achille. La elezione non potria essere migliore:
se anco eleggeranno altri, io ne farò giusta relazione a V. Ecc.

Appresso, per essere alquanto di discordia fra il Capitano di
Camporeggiano e uno Leonardo da San Romano, al quale a' dì passati V.
Ecc. ha fatto grazia libera d'una condennagione che gli avea data detto
Capitano (e la discordia è che 'l Capitano vorrìa esigere il caposoldo,
cioè due bolognini per lira di detta condennagione, allegando che la
mente di V. Ecc. non è di donare quello che proviene agli officiali),
io son stato alquanto sospeso di determinare questa differenza, chè da
una parte mi pare che l'esattore non debbe aver guadagno dove non ha
fatica di riscodere; e io che sono esattore a Castelnovo e similmente
ho d'avere li due bolognini per lira, mai non gli ho domandati di
condennagione ch'io abbia riscossa: da l'altra parte la ragione del
Capitano non mi pare di poco momento, che dice questo essere suo
emolumento, e che levandogli li emolumenti non ci potrà vivere; e che
se non ne avrà frutto non farà per l'avvenire de le condennagioni:
sicchè prego V. Ecc. che si degni di chiarirmi quello c'ho da far, o
più presto da tollerare circa questo, perchè il Capitano ha voluto
ogni modo detto caposoldo. Ben la supplico che non faccia, come si
dice, de l'un figliolo e de l'altro figliastro, chè dovendo avere
lui li due bolognini per lira anch'io li abbia; tanto più ch'io ho la
fatica de l'esigere, che esso li ha senza fatica di esigere: perchè
a Camporeggiano è poi anco un esattore separato che oltra quelli del
Capitano tolle anche egli due bolognini per lira; e come vadano quelle
esazioni di quella Vicarìa, il fattore lo debbe sapere, se mai ne vede
conto.

Perchè V. Ecc. sappia tutto quello che accade in questa provincia, io
scrissi a' dì passati a quella che 'l Capitano predetto aveva avuto
ne le mani un Balduccio il quale insieme con prete Matteo e due altri
ribaldi avevano gettato giù d'una balza e ammazzato un poveruomo,
il qual Balduccio s'è ora venuto a porre spontaneamente in mano del
detto Capitano, e che intendendo io che lo tenea molto sciolto, e
per questo avendo suspicione che 'l Giudice e il malfattore fussino
d'accordo insieme, commisi al notaro di Camporeggiano, non ci essendo
il Capitano, che gli commettesse da mia parte che non lo lasciasse
senza mia licenza; e che poi senza farmene intendere alcuna cosa lo
assolse e liberò di prigione: a questo non mi è stato mai dato alcuna
risposta. Appresso ho a significare a V. Ecc. un'altra cosa simile,
non per dir male, ma perchè V. Ecc. intenda tutto quello che intendo
io pertinente a questo officio. Fu a' dì passati fatta una rissa qua
su a San Romano, dove padre e figliolo intervenne ad uno omicidio, e
io di questa cosa esaminai due o tre testimonî che deponevano assai
gagliardamente che 'l padre e il figliolo n'erano colpevoli, e tal
testificato mandai al detto Capitano. Appresso intesi, non già che
'l Capitano mai me n'abbia avvisato nè detto parola, che 'l padre si
era andato a porre in prigione, e poi ho sentito che è stato liberato
e assoluto. Signor mio Ill., a me pare, se in queste cose non fosson
fraudi, non si schivariano di comunicarle meco, e vengo in dubbio che
detto Capitano non metta in effetto quello che, essendo già in contesa
con gli uomini de la sua Vicarìa, che gli negavano di dare un certo
premio per aver esso fatto giustiziare un ribaldo, disse presente molti
uomini da bene: che poi che di questa esecuzione di giustizia negavano
di premiarlo, impiccaria per l'avvenire le borse e non i ladri. Questo
non ho scritto per referir male, ma per avvertire V. Ecc. che quando le
fusse rapportato, che qui non si fa giustizia, ella non creda che sia
mia colpa. Io avrei più ardire di riprenderli se non fusse che allegano
c'hanno comprato l'ufficio, e che bisogna che se ne rivagliano: pur o
comprino o abbiano in dono, mi parrìa lor debito che di queste cose che
importano mi dovesson far partecipe.

Appresso un Mess. Gian Giacomo, il quale sta alla badia di Frassinoro,
e al quale ho qualche obbligazione per onore che sempre a me e alli
miei ha fatto quando mi accade di andare e di mandare innanzi e
indrieto; e per questo (ma più perchè mi credo che sia gran servitore
di V. Ecc.) l'amo e desidero ogni suo bene; esso mi scrive la qui
inclusa lettera per la quale si duole come V. Ecc. vederà.[241] V. Ecc.
giudichi se si duole a ragione o torto. Di questo fo fede a quella, che
per quello ch'io lo conosco gli è molto fedele e affezionato, e anco
Ser Tito qui notaro potrìa di questo fargli più certa testimonianza.
Esso scrive, e anco più volte ha cercato di persuadermi, che Domenico
d'Amorotto sia buon servitore di V. Ecc. Che esso sia o non sia, V.
Ecc. lo debbe sapere meglio di me: io per me di questa bona opinione
di Domenico non son ben chiaro, perchè gli effetti che per li tempi
passati ho veduto mi paron contrarî: pur avendo esso più possanza in
questi paesi che non hanno li officiali di V. Ecc., non mi pare che
sia fuor di proposito mostrare di credere che più presto ne sia amico
che inimico, finchè un dì Mess. Domenedio provegga che possiamo più
di lui. Io mi son sforzato fin adesso di tenermelo per amico, e anco
di persuadere a lui che V. Ecc. l'abbia per buon servitore: e questo
credo che sia stato bona causa, che fin adesso non ha, sotto specie di
parzialitadi, molestata questa provincia. Se questo mio discorso par
bono a V. Ecc., prego quella che anco con estrinseche dimostrazioni si
sforzi di tenere Domenico, se non amico, almeno non nimico. Se anco le
par meglio ch'io faccia altramente, me ne dia norma.

Io ho da significare a V. Ecc. come a questi dì due preti, l'uno da
Reggio, e l'altro qui da Sillano, andaron a trovare il Sig. Alberto da
Carpi[242] a Lucca mandati da Domenico d'Amorotto, il quale Domenico
domandava di essere fatto Commissario similmente del piano di Reggio
come è de la montagna, e s'accompagnâro qui con uno, al quale per
via disseno quello che andavano a fare; e questo l'ha riferito a
me, e dettomi come il Sig. Alberto ha fatto a Domenico quanto ha
domandato.[243]

Qui si dice che Pierino Magnano si è presentato al cospetto di V.
Ecc.: quando sia vero, aspetto da lei intendere come m'ho da reggere,
circa la confiscazione de li suoi beni. Io ho fatto condurre certa
poca quantità di grano che era ad una sua possessione. Ancora che si
sieno (come anco ho scritto) appresentati chi dicon averlo comprato
dal figliolo, l'ho fatta condurre qui in rôcca, e ci farò anco condurre
un poco di vino, e tutto quello che di lui si trova mobile: ma non ne
farò altro contratto finchè non ho novo avviso da V. Ecc., salvo ch'io
pagherò li balestrieri e le spese de la condotta. Altro non occorre al
presente. In bona grazia di V. Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, XXV novembris 1522.

                                                      Umil servitore,
                                                     LUDOVICO ARIOSTO


XLV

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. È accaduto che per far scrivere le robe
mobili di Pierino che si trovava avere a Castelnovo e di fuore, e che
non parendo a me che fusse in tutto sicuro che 'l mio Cancelliero vi
andasse solo, ho mandato seco li balestrieri col suo capo ogni volta
in la terra, e tre è accaduto che li detti balestrieri son cavalcati
fuore ad un luogo distante di qui quattro miglia detto Villa: la
prima volta vi andâro a scrivere detti beni e li consegnâro in mano
del prete de la villa, e non parendo a me che fussino ben depositati,
volsi che vi tornasseno e che li mettessino in mano de l'officiale
de la Villa; la terza volta vi sono iti per farli condurre in qua,
e così hanno fatto condurre circa un moggio e mezzo di grano che
v'era, e lasciato comandamento a quelli uomini che conducano un poco
di vino che v'è. Ora non sapendo io come io avessi a satisfare il
Cancelliero, li balestrieri e il suo capo, scrissi a questi dì agli
Magnifici del Consiglio che mi avvisassino come io li avevo a pagare.
Sue Magnificenze mi risposeno ch'io facessi il consueto e quel manco
ch'io potessi, e che satisfatto a queste spese io mandassi il resto
a l'esattore de la Camera. S'io sapessi certo qual fosse questo
consueto, io non avrei avuto a domandare il parere di Sue Magnif.:
ma qui non è Statuto nè lettera alcuna che sia pervenuta in man mia,
che parli di quanto appunto sia la mercede di tali esecutori. Li
balestrieri ogni volta che cavalcano domandano un quarto di ducato per
volta, e il Capitano un ducato; e se fanno esecuzione in Castelnovo,
domandano la metade di questo, e dicono questo essere il consueto: e
il Capitano per queste esecuzioni avrebbe voluto tre ducati e mezzo;
e ogni balestriero tre quarti e mezzo: del Cancelliero non parlo
perchè sta meco e si contenterà di quello che vorrò io. Io dissi di
dare al Capitano due ducati, e mezzo ducato per balestriero, e tutti
si dolgono come io voglia torre quel che lor proviene. Io supplico V.
Ecc. acciò ch'un'altra volta io non abbia a contendere e dar causa
che questi che mi hanno ad ubbidire mi voglian male, che faccia
intendere com'è l'usanza ne li altri luoghi di V. Ecc. di satisfare
li balestrieri per l'esecuzioni che fanno, e far che così de le cose
che appartengono alli Criminali come di quelle che appartengono alla
Camera, io sia puntualmente instrutto, perchè tal lettera io farò qui
registrare ne li Statuti, acciò che per l'avvenire nè io nè li miei
successori stiano più sospesi in tali cause. — Per la Dio grazia qui
si vive molto quietamente e in pace, e ogni cosa anderìa bene se non
fosse per la vicinanza ch'avemo d'alcune terre che sono infette di
peste: ma io col Capitano de la Ragione e con alcuni uomini da bene
di questa terra non cessamo di far tutte le debite provvisioni; ma
gli è il pericolo ch'avemo a far con villani, che mal si ponno tenere
che non vogliano ir trafficando: pur Dio n'ha aiutato fin qui, spero
che anco ne aiuterà: pur quando accadesse che alcuno si infettasse,
supplico V. E. che sia contenta ch'io, senza scrivere altrimente,
possa levarmi e venirmene a casa, perchè in ogni altro luogo mi darìa
il core di poter schivar la peste fuor che qui, dove ho sempre villani
all'orecchie, e non c'è alcuno che stesse a maggior pericolo di me. —
Qui si dice che Pierino è a Ferrara: se 'l serà vero spero che da V.
E. n'averò avviso. Quest'altri confinati, cioè il Coiaio e il Casaia,
han scritto lettere a questa Comunità pregandoli che vogliano scrivere
a V. E. che li rimandi a casa, e promettono di volere far miracoli di
bontade: la lettera fu domenica letta in consiglio, e non fu uomo, di
circa quaranta che c'erano, che rispondesse mai nè ben nè male. Io n'ho
voluto dare avviso a V. Ecc., in bona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 26 novembris 1522.

                                                     Umil. servitore,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


XLVI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Iacopino da
Convalle, il quale da V. S. mi è stato raccomandato nella differenza
che ha con suoi cognati, mi ricerca ch'io facci fede a quelle di
quanto sia stato fatto da me nella causa sua. V. S. intenderanno come
a sua instanza io feci citare suoi cognati, delli quali uno detto G.
Francesco, il quale è principale di loro, e al quale li altri fratelli
si rimettono, non potè comparire per essere stato prima da me proibito
di uscire di casa, per essere egli stato in luoco sospetto di peste;
e dipoi che fu passato il termine della sospizione, la vicaria, della
quale egli è, fu anco da me vietata di venire in questa terra pure
per simile sospetto, sì che esso non è potuto comparire se non a
l'ultimo comandamento; e questo ho detto perchè Iacopino vorrebbe che
prima che si intendesse altro, lo satisfacesseno delle sue spese; e
a me non è paruto di farlo, e di non giudicare di spese se non poi
che averò cognosciuto li meriti della causa. Iacopino ha prodotto due
testificati; in l'uno mostra che gli furono promessi in dote 22 ducati,
e questo testificato è stato fatto citata la parte; poi ha fatto fare
un altro esamine, ne lo quale mostra che non sterno a quelli primi
patti, e che questi suoi cognati poi gli promisero 25 ducati: ma a
questo secondo esamine non fu citata la parte. Li cognati dicono avere
satisfatto Iacopino di questa dote, e di qualche cosa di più; Iacopino
lo nega: a me pareva di dare qualche dilazione alli cognati di provare;
Iacopino non se ne contenta, e mi prega che io facci relazione a V.
S. del termine in che si trova la causa, e così la faccio. Alle quali
sempre mi raccomando.

Li cognati di Iacopino dicono che hanno le loro prove nella vicaria del
Borgo, e che sono stati per farli esaminare; ma che per essere loro
stati creduti in sospetto di peste, hanno incorso in pericolo della
vita.

  Castelnuovo, 12 decembris 1522.


XLVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Perchè dubito
che una lettera del medesimo tenore di questa, che a' dì passati io
scrissi a V. S., non sia venuta in sue mani per colpa del portatore,
replico con questa altra per fare loro intendere che lo illustrissimo
signor mio mi aveva dato commissione ch'io ricordassi a V. S. come
sono passati due anni che tra il comune di Valico di sopra e quello
di Cardoso fu fatta una dichiarazione di confine, _intervenientibus
utrinque commissariis_, e di concordia ne fu contratto uno instrumento,
e dal prelibato signor mio ne fu mandata la ratificazione e
confirmazione a V. S.: e V. S. mai non hanno _mutuo_ mandata a sua
Eccellenza. E perchè sua Eccellenza desidera di averla ad ogni buono
fine, m'ha commisso ch'io scriva a quelle che siano contente di
mandarla; onde così io le prego e più presto che ponno, acciocchè da
sua Eccellenza io non sia tenuto per negligente.

Appresso, questi di Valico si dolgono, che contra li patti alcuni di
Cardoso hanno passato le confine, e arato e seminato sul terreno che
non è suo: io prego V. S. che si degnino d'intendere la veritade, e non
comportare che sia alli nostri fatto torto. Alle quali mi raccomando.

  Castelnovi, ultimo anni 1522.


XLVIII

                    AGLI OTTO DI PRATICA IN FIRENZE


_Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi._ È accaduto ch'uno,
detto il Pretaccio da Barga, suddito di Vostre Eccellenze, aveva
per un suo figliolo domandata per moglie una fanciulla di questa
terra, ed eragli da li tutori stata promessa. E mentre che si veniva
ordinando per fare il sponsalizio, la fanciulla, _nescio quo spiritu
ducta_, è intrata in un monasterio che abbiamo qui, dell'ordine di San
Francesco, ed èssi fatta vestir suora. Ma prima che si sia vestita,
io insieme con tutori e parenti di lei ho fatto ogni opera possibile
per rimoverla di questa opinione e far che 'l parentato segua; ma non
l'ho potuto ottenere. Per questo il Pretaccio non riman soddisfatto,
e vorrebbe per violenza avere costei, e minaccia alli tutori e alle
monache grandemente. Io me ne sono doluto col capitano di Barga, e sua
Magnificenza me n'ha dato assai giustificata e conveniente risposta;
ma non è restato però, che questa notte passata il Pretaccio non
sia venuto per mezzo li borghi di Castelnuovo con più di 50 compagni
armati, e ito ad una possessione qui presso de la fanciulla, e se ne
dimostra come padrone: ed ècci fin a quest'ora. Io l'ho fatto ammonire
che se ne levi subito. Non so quello che seguirà. Mi è parso di
ricorrere a Vostre Eccellenze, e pregarle che si degnino di scrivere
subito e d'operare in modo che questo suo suddito desista da usare
violenza, e segua li modi de la ragione, acciò che costui non sia causa
di attaccare alcuna nimicizia fra li sudditi del mio Ill.mo Signore e
quelli di Vostre Eccellenze, dove credo che la volontà de li Signori
sia bene unita e ottimamente disposta l'uno verso l'altro: e in bona
grazia di Vostre Eccellenze mi raccomando sempre.

  Castelnovi Grafagnanae, 7 ianuarii 1523.


XLIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Perchè V. S.
potriano avere inteso che alla Pieve Fossana, loco il quale è tra
Castiglione suo e questa terra di Castelnuovo, è stato sospetto di
peste; e per questo pensando le cose maggiori e di più pericolo che
non sono, averanno forsi fatti divieti, che quelli che vengano di qui
non possino intrare in Lucca; certifico V. S. come un Lucca Pierotto
per uno suo figlio che nascosamente era andato, non so dove, si è
infettato di modo, che due o tre sono morti di casa sua; ma presto si
è fatto provvisione, chè tutta quella famiglia si è fatta ire in loco
separato, e proibito a tutti quelli della Pieve, che non escano de
le loro confine; benchè, grazia di Dio, in quella terra non si sia la
peste scoperta in altra casa, e a Castelnuovo non è male nè sospezione
alcuna, e stiamo con buonissime guardie. Io scrivo questa a V. S.,
perchè sappiano come sono le cose, e per pregarle che siano contente
che lo esibitore di questa, che serà mio fratello messer Galeazzo
Ariosto, entri e alloggi in Lucca, il quale è venuto da Ferrara per
ire a Carrara a trovare il reverendissimo cardinale Cibo suo padrone;
e questo riceverò da V. S. per uno grandissimo piacere; le quali
ringrazio della copia che a questi giorni mi hanno mandata, di quella
ratificazione pertinente alli uomini di Valico e di Cardoso. E in buona
grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 29 ianuarii 1523.


L

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Giovanni da
Montepulciano, esibitore di questa, farà intendere a V. S. di un
torto che li fece uno di quelli delli quali sono stati confiscati
li beni per loro mali importamenti da V. S.; e mi dice che del tutto
è informatissimo il spettabile Baldassarre da Montecatino, il quale
domandato da quelle ne potrà fare buona relazione. Prego V. S. che
prima per la giustizia, e poi per misericordia di questo povero uomo,
il quale è da bene e merita essere aiutato, e appresso per mio amore,
si degnino di prestargli ogni favore e aiuto conveniente: in buona
grazia delle quali mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 18 ianuarii 1523.

_Post scripta._ Le S. V. non si diano maraviglia se la lettera è
tardata; la causa è stata per il suspetto che è stato di qua di non
potere entrare in Lucca: tuttavia ogni volta che si presenterà alle S.
V., prego quelle li sia raccomandato per mio amore.

  Castelnovi, 17 februarii 1523.


LI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Alli dì passati
scrissi una lettera a V. S. di uno torto che fu fatto a Giovanni da
Montepulciano per uno di quelli de li quali sono stati confiscati li
suoi beni per li loro mali portamenti, e che del tutto è informatissimo
il spettabile Baldassarre Montecatini e Baccio del Fava vostro
conestabile; li quali, dimandati da quelle, li potranno fare buona
e vera relazione. Prego V. S. che prima per la giustizia e poi per
misericordia di questo povero uomo il quale è da bene e merita di
essere aiutato, e appresso per mio amore, si degnino di volerli far
fare il debito suo conveniente, se non in tutto o in parte, e a quelle
non li serà grave di darne avviso di quello, ed esse si risolveranno,
notificando le S. V.; e serà una buona elemosina a farli del bene,
per essere disfatto per tale conto: e V. S. intenderanno per la
qui alligata tutto quello dimanda esso Giovanni, il quale vi sia
raccomandato in buona grazia. E a V. S. mi offro e raccomando.

  Castelnovi, 2 aprilis 1523.


LII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Essendo io
a questi giorni stato a Ferrara, lo illustrissimo signor mio m'ha
commisso ch'io replichi a V. S. quello che altre volte ho scritto, cioè
che quelle siano contente, che li banditi di questa ducale provincia
non siano securi nel dominio di V. S., _et versa vice_. Quelle ponno
intendere li omicidii e assassinamenti che tuttavia accadeno in
questi paesi, a li quali, per essere le giurisdizioni di V. S., de'
signori Fiorentini e dell'illustrissimo signor mio così appresso l'una
l'altra e come confuse, male si può provedere. Non ci vedo rimedio;
ma che più presto le cose abbino a ire di male in peggio, se V. S.
non mi soccorreno specialmente e presto, di non comportare che a li
miei banditi sia dato recapito in le sue terre; _et etiam_ per vedere
che quando noi dessimo campana a martello per perseguitare tal gente
di mala sorte, che le terre di V. S. accorressino in aiuto, che noi
saremmo apparecchiati di fare per V. S. il medesimo: in buona grazia
delle quali mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 10 aprilis 1523.


LIII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. Alla mia giunta qui trovai che questi
banditi del Costa da Pontecchio con li figliuoli di Pellegrin dal
Silico e alcuni lombardi de la fazione di Virgilio da Castagneto
erano in numero di circa sessanta in Grafagnana, li quali, oltre a
quello che avevano fatto fin a quel dì, di che il Capitano mi dice
aver avvisato V. Ecc.a, di poi erano stati a Salcagnana e avevano
preso un uomo da bene detto Cappello e l'avevano menato via legato
e poi ammazzato. Parendomi gran carico mio e anco di V. Ecc.a patire
stessino qui così senza contradizione alcuna, molte volte confortai
questi di Castelnovo che volessino porsi insieme e ire a cacciarli, il
che mai non potetti impetrare, come quelli che non si fidano l'uno de
l'altro, e dubitavano che con intelligenza de la parte italiana fussino
nel paese. Io pur mi deliberai di far il debito mio, e menai pratica
con gli uomini di Sillano, li quali soli di tutta questa provincia
gli avevano mostrato il volto ed erano stati seco alle mani, che luni
mattina prossimo passato si trovassino a Camporeggiano con cinquanta
de li suoi, che io mi troverei qui con quelle persone che potrei fare
più presto; poi la sera innanzi mandai comandamenti nella Vicarìa di
Trassilico che quelli che potevano portare armi la mattina del lunedì
fussino a Camporeggiano: e così senza far motto ad alcuno la mattina
del lunedì nell'aprire del giorno, con una gran pioggia, mi partii
da Castelnovo con li balestrieri, cioè X, chè il Capitano loro con un
altro balestriero restò ferito a Castelnovo, e avendo su la mezzanotte
mandato a chiamare li uomini di Turrita, villa qui più prossima, con
numero di circa quaranta persone, me n'andai a Camporeggiano, credendo
di trovarvi li uomini di Sillano; ma quelli villani non s'erano più
mossi, come nulla appartenesse loro questa cosa: tutti gli altri
comandati vennero a pezzo a pezzo. Fu forza mandare a chiamare questi
di Sillano, senza li quali non mi pareva di poter far cosa che stesse
bene, perchè sono armati e da far qualche espedizione, chè gli altri
erano da fare in loro poco fondamento. Mentre ch'io faceva questa
indugia, li avvisi delli uomini di Castelnovo andavano in volta, li
quali più ad agio mi dà l'animo d'investigare e di trovare. Finalmente
vennero quelli di Sillano, incirca sei persone, e mi fecero certa
scusa infangata, che non m'avevano bene inteso, e poi mi certificaro
che tutti li lombardi insieme con Filippo Pacchione, Bernardello
e Battistino Magnano s'erano partiti e tornati di costa da l'alpe,
e Bertagnetta e tre altri da Pontecchio partiti in discordia da li
compagni si trovavano a Pontecchio, ed erano certi che erano avvisati
e che non aspettariano, e che s'io volevo andare per bruciar le case,
sarei causa di far bruciare la metade di questo paese; e così quelli
da Camporeggiano e tutti gli altri mi pregavano che io non bruciassi,
ch'io sarei causa de la ruina di questo paese. Per questo e perchè mi
vedevo essere stato tardo per pigliarli, e perchè vedevo che nessuno mi
seguiva volentieri, e che sul fatto quando accadesse qualche contrasto
sarei abbandonato, come già due volte sono stati li balestrieri;
l'una da quelli di Castelnovo contra li borghesani, l'altra da quelli
di Camporeggiano contra li banditi; mi parve di licenziare la gente.
Subito mi furon ambasciatori di quelli banditi da Pontecchio, li quali
mi pregavano come per la qui inclusa di Bertagnetta V. Ecc.a potrà
vedere. Io per nessun modo son per farli tal salvocondotto: ben son
per darli bone parole e vedere di assicurarlo alquanto, se mai potessi
fare con astuzia quello che non posso per forza. Io avevo avvisato il
Commissario di Frignano e signori Lucchesi, il Commissario di Fivizzano
e alcuni altri che a me pareva che fussino buoni per serrare li passi
quando questi ribaldi volessono fuggire; ma mentre che ho tardato a dar
questi avvisi (che non ho potuto far sì secreto che li fautori suoi,
cioè tutti questi de la parte taliana di Castelnovo, non se ne siano
avveduti e non gli abbiano avvisati), si sono levati, come ho detto, e
tornati in Lombardia. Io voglio che V.a Ecc.a intenda ogni cosa acciò
che possa pensare e avvisarmi come mi ho da governare, chè veramente
se non ci si fa qualche buona provvisione, questa provincia anderà di
male in peggio e a V.a Ecc.a non resterà altro che 'l titolo di esserne
signore, e la signoria in effetto sarà di questi assassini e delli capi
e fautori c'hanno in questa provincia e specialmente in Castelnovo.

Ieri essendo a Camporeggiano feci chiamare il parlamento generale e
proposi tre cose: l'una che fussino contenti di conferire con l'altra
provincia ad accettare quindici o venti fanti scoppietteri appresso a
gli balestrieri che ci sono, e pagarli per un mese o per dui finchè
questa provincia si riducesse in tranquillità e sicurezza. Questo
non ho potuto con alcuna persuasione far che vogliano accettare, anzi
si sono levati in piedi alcuni vecchi e hanno cominciato a ricordare
li tempi passati e a dolersi che contra li capitoli ch'ebbeno quando
si dettono alla Casa da Este V.a Ecc.a gli abbia dato la gravezza de
li balestrieri, allegando che prima si solevano tenire ne le rocche
li castellani, il stipendio de li quali esse Comunità pagano senza
alcun loro utile, e che detti castellani erano obbligati a tenere chi
dui, chi tre, chi quattro famigli, de li quali famigli poi si soleva
prevalere il Commissario, e che questi erano più temuti ed erano
più atti a tenere queta la provincia che non sono li balestrieri. Io
risposi loro quello che mi parve conveniente; ma finalmente non ci fu
uomo che volesse consentire di crescere spesa, ma più presto instavano
che questa spesa de li balestrieri si levasse lor da dosso, o almeno
che li denari con che si pagano li balestrieri fussino spesi in tanti
fanti, che sarìa pur più numero, e in questi sassi niente vagliono li
cavalli e che li fanti più quietamente e per sentieri e per balze, di
notte e di giorno si potriano condurre in luoghi dove non ponno ire li
cavalli. Questo lor parere ho voluto scrivere: V.a Ecc.a lo intenda e
poi faccia il suo.

Io li proposi appresso che si facesse un battaglione di ducento o
di trecento fanti ne la sua Vicarìa distinto sotto li suoi capi e
che se gli desse l'arme o scoppietti o balestre o picche, con che
fussino sempre apparecchiati a poter obstare quando lombardi o altri
forastieri volesson lor dar noia; chè di voler fare io per mezzo del
suo aiuto alcuna esecuzione contro banditi o delinquenti son ben certo
che non mi succederìa. Questi rimasero contenti di voler fare, e così
ho cominciato a darli principio. Son quattro Vicarìe: mi sforzarò di
fare che ciascuna faccia il suo, per potermene valere almeno contra
l'insulti di forastieri.

Io feci lor la terza proposta, che mi dessino autorità di poterli
obbligare di 25 ducati per persona di delinquente, perchè intendono di
metter taglia a questi assassini, e proposi che non volevo che alcuno
di essi rispondessi in voce ma secretamente con le fave, acciò che
particolarmente non potessino essere notati e per questo offesi da li
banditi, de li quali ero certo che avevano più paura, e gli avevano in
maggiore osservanza e gli prestavano più ubbidienza che a V. Signoria.
Li Sindici furono li primi a rispondere che davano l'autorità di questo
agli Otto, sì come a quelli nelli quali era rimesso di poter spendere
quello de le Comunità a lor modo. Gli Otto risposero che erano certi di
tutti otto essere morti se facevano questo. Io mandai per le fave per
far ballottare la cosa: si cominciaro a levare in piedi e ad uscire dal
consiglio _catervatim_, dicendomi che non volevano intervenire a questo
perchè erano certi che li banditi gli averebbero tutti per inimici e
che se ne vendicariano sol per questo che avessino consentito che tal
cosa si ballottasse. Or V.a Ecc.a può comprendere in che paura è tutto
questo paese per sei o dieci ribaldi che ci sono.

Ultimamente gli Otto che mi sedevano più appresso mi disseno che
avriano di grazia di pagare questa taglia, fatto che fosse l'effetto,
ma che non volevano essere autori, ma che più presto volevano mostrare
essere sforzati da V.a Ecc.a e che sarìa bene che quella mi dèsse per
una sua lettera commissione o per una grida emanata da quella, che
io mettessi taglia a questi ribaldi, e l'uno che ammazzasse l'altro
uscisse di bando e appresso guadagnasse dieci ducati, chè fariano più
conto del denaio che d'essere rimessi. V.a Ecc.a ora consideri il tutto
e mi significhi ch'io per me, senza l'aiuto e consiglio di quella, non
so che mi faccia.

Per satisfare a quella di quanto ella mi commise de li prugnoli e
delle trote, passando da Montefiorino e ritrovandovi il Commissario
di Sestola, feci che subito spacciò un messo con certi pochi prugnoli
che erano ivi apparecchiati per lui; e credo che V.a Ecc.a gli abbia
avuti. Io ho fatto subito pescare a trote, e fin qui non ho potuto
averne se non tre assai piccole, le quali subito ho fatto amarenare.
Se n'avrò prima che io spacci il messo dell'altre, le manderò insieme;
se non V.a Ecc.a si contenterà di queste perchè l'acque sono in questo
paese ancora fredde di sorte, che non se ne può pigliare. Ho li messi
fuori per trovare delli prugnoli: se ne potrò avere li manderò insieme;
ma questo paese è più alto che 'l Frignano, e per questo più tardo a
produrre le cose, sì che V.a Ecc.a mi scusi s'io non posso fare al
presente quanto è il mio debito e desiderio. Altro non occorre. In
buona grazia di quella umil. mi raccomando.

  Castelnovi, 15 aprilis 1523.

(P. S.) Appresso mi ero scordato di dire a V.a Ecc.a che tutto il
consiglio di Camporeggiano mi pregava ch'io facessi a questi banditi
salvo condotto di star nel paese, dando essi sicurtà secondo che per
lettera loro inclusa propongono. Io risposi che questo non ero per fare
senza saputa di V.a Ecc.a e che gli ne darei avviso.

V.a Ecc.a debbe anco sapere questo, che per derisione dell'officio
questi banditi quando erano tutti insieme prima che si partissero del
paese ferono far una grida che promettevano di donare ducento ducati
a chi dèsse lor nelle mani vivo il Capitano Vicecommissario e cento
morto: così m'ha detto esso Capitano che l'ha per cosa certa.


LIV

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Ora ho ricevuto una di V. Ecc. per la quale
quella m'instruisce quanto ho da fare contra questi banditi, li quali
di nuovo hanno fatto li eccessi di che il Capitano de la Ragione
avea dato avviso; ma perchè per un'altra mia, la quale per la via del
Commissario del Frignano ho dirizzata a V. Ecc. io avviso quanto poi
ho fatto, e qual sarebbe il mio disegno per avere questi ribaldi ne
le mani, non farò altro fin che da quella non ho nuova commissione.
Le case sempre si ponno bruciare, ma non già sono atto d'avere li
delinquenti ne le mani, se non aspettando il tempo, e usando grande
industria. Pur io manderò la lettera di Vostra Eccell. al Commissario
del Frignano, acciò che ad ogni mia richiesta mi somministri le genti e
l'aiuto di che io lo ricercherò.

Li uomini del Poggio per aver negato di seguitare il Capitano de'
balestrieri, e per aver prima dato mangiare e bere alli banditi,
benchè io creda più presto per paura che per volontà; pur per non
avere fatto il debito loro di dar la campana a martello, o di mandare
ad avvisare l'officio, et etiam perchè sieno esempio agli altri; ho
condennato secondo il tenore de le mie gride in 200 ducati, ed anco
penso di non lasciar quelli di Camporeggiano impuniti, se con ragione
potrò procedere: ma fanno assai escuse, che li banditi erano molti più
in numero che tutto quel popolo, e che li balestrieri nostri giunseno
improvviso, e così presto furon rotti, che essi non ebbono tempo
di pigliar l'arme. Pur la cosa s'intenderà e similmente del Comun
di Ponticossi, che fu richiesto e non volse seguire; e s'io potrò
condennarli, non avrò loro remissione. A V. Ecc. starà poi a far la
grazia, ne la quale spero che avrà rispetto a far satisfare il Capitano
e quel povero balestriero, del quale il cavallo peritte, dei loro
interessi.

Appresso perchè si approssima il tempo che questo Capitano de la
Ragione _sit functus officio_, chè questo giugno è il suo termine, io
dubito di restar qui senza compagno, o vero che sia mandato in suo
loco uno che non sia così a proposito de l'officio come è lui, che,
come altre volte ho scritto e detto a bocca, è virile e uomo da farsi
temere e ubbidire, ed esso con la sua severità tempera quel mio difetto
che alcuni di Castelnovo m'hanno imputato, cioè di essere troppo
buono;[244] dove se fusse mandato qui un altro che similmente fusse
troppo buono, dubito che l'uno e l'altro insieme farìa una mistura che
valerìa poco: per tanto prego V. Ecc. a far che non si parta finchè
ella non abbia provvisto d'un altro simile a lui; che almeno non si
parta di qui per tutto agosto. Altro non occorre al presente. In bona
grazia di V. Ecc. umil.te mi raccomando.

  Castelnovi, XVI aprilis 1523.


LV

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Essendo io a questi giorni a Ferrara,[245]
accadde che due figlioli di Ser Evangelista dal Sillico entrâro qui a
Castelnovo una notte travestiti in casa d'una giovane; la quale ancora
ch'abbia nome di far piacere segretamente ad un uomo da bene di questa
terra, pur non è p.... di ognuno, e sta e pratica senza essere schivata
con le donne da bene; e gli messero le mani addosso per tirarla per
forza di casa. Ella gridò, e fu aiutata. La mattina si venne a dolere
al Capitano. Per questo un figliolo di Ser Evangelista, detto prete
Job, il quale è chierico ordinato in sacris, trovò la madre di detta
giovane, e gli ruppe la testa e lasciò per morta, ed è stata molti dì
in pericolo di morire. Per questo il Capitano gli processe contra, e lo
condennò in 200 lire. Ser Evangelista produsse le bolle de li ordini
del figliolo, e fece venire una inibitoria dal Vescovo di Lucca. Per
questi ed anco per altri rispetti il Capitano cessò dal procedere, in
modo che 'l detto prete Job è tornato a Castelnovo. Questa cosa è di
mal esempio, e anzi spiace sommamente, e se non fosse che io temo le
censure ecclesiastiche per aver beneficio,[246] io non guarderei che
costui fosse prete, e lo castigherei peggio che un laico: e quando io
non potessi fare altro, almen li darei bando: che se bene li signori
temporali non hanno potestà sopra li chierici, pur mi pare che nè anco
li chierici debbiano poter star nel dominio de li detti signori contra
lor volontà. Io n'ho voluto scrivere a V. Ecc. acciò che quella gli
faccia quella provvisione che le pare; e d'ogni cosa che determini
dia più presto al Capitano la commissione che a me, perchè esso non ha
beneficî come ho io. E in buona grazia di V. Ecc. umil. mi raccomando.

  Castelnovi, 17 aprilis 1523.

Post scripta. Avevo scritto al Vescovo di Lucca, de la cui diocesi
è Castelnovo, e a quel di Luna, che è superiore alli preti di
Camporeggiano, acciò che mi dessino autorità sopra li preti. Il
Vescovo di Lucca si trova ammalato, sicchè non ho potuto ancora averne
risposta. Questo di Luna mi risponde la qui inclusa lettera, per la
quale V. Ecc. può giudicare che se vogliamo ricorrere alli Vescovi
avremo poco aiuto: ed io anco n'ho fatto esperienza, chè questa passata
estade mandai in mano del Vescovo di Lucca quel prete Matteo[247] che
avea ferito il mio Cancelliero, ed era omicida e assassino publico, e
con poca acqua lo mandò assolto: e prima ch'io venissi qui, un prete
Antonio da Soraggio, ch'avea morto un suo zio, fu in mani del Vescovo
di Luna, e con un _misereatur_ fu liberato.


LVI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Li uomini di
Valico mi hanno pregato ch'io facci opera d'impetrare grazia appresso
V. S. per uno delli suoi detto Belgrado, che è prigione di quelle.
Quello che detto Belgrado abbia fatto di male di nuovo, non m'hanno
saputo dire, se non ch'è imputato d'aver voluto puorre taglia a certi
di ch'io non so il nome, e in sua escusa mi allegano che questi tali
erano debitori di lui; e più presto ha cercato per quella via che ha
potuto di avere il suo, che egli avesse intenzione di volere quello che
non gli apparteneva. Questo atto, ancora che sia violenza, chè non è
licito ad alcuno farsi da sè ragione, pure merita, intercedendo persona
quale io mi reputo di essere appresso V. S., per l'affezione e lo amore
ch'io li porto, di esserli usato indulgenza e perdonanza; e così quanto
so e posso, e prego e supplico V. S.: e se ben per li tempi passati
questo Belgrado è stato alquanto più gagliardo a danno delli sudditi di
V. S. e a difesa delli suoi di Valico in quelle differenze tra Valico
e Cardoso, prego quelle che adesso non voglino ritoccare quelle piaghe
che già più giorni dovrebbero essere salde, e così voglino rimettere
ogni passata ingiuria, ch'io ne averò a V. S. perpetuo obbligo, e lo
accumulerò appresso alli altri molti ch'i' li ho; e so che al mio
illustrissimo signore quelle faranno gran piacere: in buona grazia
delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 18 aprilis 1523.


LVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Cesare di Antonio
Evangelista da Valico si trovò insieme con alcuni di Coreglia a fare
certo omicidio, e perchè mi dice che tali suoi compagni hanno avuto da
V. S. salvo condotto, è ricorso a me come a quello la cui intercessione
spera che li debba giovare, e pregatomi che io supplichi a V. S. che in
questo lo voglino trattare come hanno fatto li altri che sono in pari
colpa: e così io, che debbo avere la protezione di questi sudditi dello
illustrissimo signor mio, quanto so e posso lo raccomando a V. S. che
lo faccino puorre nel medesimo salvo condotto, dove sono posti quelli
da Coreglia, seguaci di Francesco da Castiglione: e in buona grazia di
quelle mi raccomando.

  Castelnovi, 19 aprilis 1523.

                              Dominationum vestrarum observantissimus
                                                  LUDOVICUS ARIOSTUS.


LVIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Per una de' 16
di questo da V. S. ho inteso la buona volontà circa a quanto dal mio
illustrissimo signore sono state ricercate, e come per concludere tale
effetto sono per mandare uno suo commissario; e quelle mi domandano, se
io ho autorità dal mio illustrissimo signore che basti a fare questo.
Io non ho alcuno mandato altrimenti in scritto, se non che già molti
giorni e mesi sua Eccellenza per una sua mi commise ch'io facessi opera
con V. S., che li nostri banditi non fosseno securi nel dominio suo,
e che similmente li banditi di V. S. non fosseno securi nel nostro.
Allora io scrissi due volte o tre a V. S., e quelle mi rispuosero che
circa questo farebbeno certo consiglio, e che poi mi avviserebbeno; e
quelle, forse essendo in maggiori cose occupate, non mi mandarono mai
la resoluzione. A questi dì prossimi io fui a Ferrara, e il signore
duca mio mi commise di nuovo ch'io pure ritentassi e cercassi di nuovo
fare lega con V. S., sì come sua Eccellenza ancora ha scritto a quelle.
Altro mandato nè altra commissione in scritto ho io; bene vi rendo
certe, che di tutto quello che io farò per quiete di questa provincia
di Garfagnana, così pertinente a V. S. come a sua Eccellenza, essa
se ne chiamerà contenta, e sarà per ratificarlo: pure non starò di
avvisarne quelle, se, prima che la risposta venga, parrà a V. S. di
mandare il suo commissario; o se anche si parrà meglio che si aspetti
nuova commissione dal duca, faranno il suo parere. Al miglior consiglio
delle quali mi rapporto sempre; e di continuo in sua buona grazia mi
raccomando. Castelnovi, 19 aprilis 1523.


LIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Li uomini di
Valico si lamentano che quelli di Cardoso ogni giorno menano il suo
bestiame, oltra quello che già è stato determinato per li commissarii
di V. S. da una parte, e quelli dello illustrissimo signore mio
dall'altra, in loro grandissimo danno e pregiudicio: io prego V. S.
che siano contente o di admonire li suoi sudditi che stiano taciti
e quieti di quanto già è stato fatto, ovvero siano contenti che li
uomini di Valico, se ritrovano bestie di quelli di Cardoso nel suo,
le possino pigliare e menare qui a Castelnuovo; acciò che del danno e
trasgressione che fanno patischino la pena. E in buona grazia di quelle
mi raccomando.

  Castelnovi, 20 aprilis 1523.


LX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Sempre che il
commissario di V. S. verrà, io lo vederò e onorerò, come è mio debito,
molto volentieri. Di nuovo raccomando Belgrado, e così Giovanni da
Montepulciano a quelle; in buona grazia delle quali mi raccomando
sempre.

  Castelnovi, 23 aprilis 1523.


LXI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. V. E. può sapere che per essere stato su
quel di Cicerana assassinato un prete pisano da un Nicodemo e da un
Minello sudditi de' Fiorentini, ma che tuttavia abitavano a Cicerana,
e, per quanto dice il prete, da un Giuliano figliolo di Pellegrin
dal Sillico e bandito per esser stato uno di quelli che ammazzâro Ser
Ferdiano; benchè alcuni di Castelnovo li quali hanno la protezione di
questi dal Sillico non vogliano che 'l prete dica che questo Giuliano
vi fosse, e per questo l'hanno molte volte minacciato e minaccian
tuttavia; pur la verità sta che esso Giuliano v'era: il qual Giuliano
con questi assassini e con Baldone suo fratello e con altri banditi
è sempre abitato a Cicerana in casa di sua mogliera e de la mogliera
del Moro suo fratello, c'hanno due sorelle e hanno la casa comune;
non ostante gli ordini che non si può dar recapito a' banditi, e non
ostante che a quel Comune io n'ho fatto molte volte proibizioni e con
gride publiche, e con comandamenti particolari in scritto e a bocca,
e anco specialmente a questo Moro e alle mogliere, che sotto pena de
la disgrazia di V. E. ed essere loro arsa la casa non lascino questi
banditi venire in quella casa: per queste disobbedienze e per essere da
li sopradetti stato assassinato questo prete, condennai il detto Comune
di Cicerana 300 ducati, ancora ch'io conoscessi che 'l Comune non
era in tanta colpa di questo quanto era il Moro, chè il Comune aveva
peccato per paura e per non poterne fare altro; imperò che questo Moro
e li fratelli con li banditi loro seguaci e con la intelligenza c'hanno
con alcuni di Castelnovo, si son fatti tiranni e signori di quel luogo.
Ma io mi attaccai al Comune perchè non vedevo allora modo di avere
questi malfattori e questo Moro lor ricettatore e fautore e partecipe
ne le mani, e non mi pareva che ci fosse l'onore di V. E. che questo
prete si dovesse ir lamentando di essere stato assassinato nel dominio
di quella. V. E. di poi usando insieme giustizia e clemenza è stata
contenta che quel Comune, purchè satisfaccia il prete de li suoi danni,
del resto de la condennagione abbia grazia. Io che pur avevo animo che
chi ha fatto il peccato ne facesse la penitenza, ho tenuto modo che
questo Moro mi è venuto a parlare, e l'ho preso e l'ho in prigione,
non solo per questo (avvenga che per questo saria degno di grandissima
punizione, chè li danari de l'assassinamento son stati partiti in
casa sua, e credo ch'esso n'abbia avuto una buona porzione), ma ancora
perchè è sempre il capo o gran parte di tutti li assassinamenti che si
fanno in questa provincia: ora egli era a San Pellegrino con quelli
da Barga e da Sommacologna, or ne la Vicarìa di Sopra con quelli del
Costa, or con quelli de la Temporia, per modo che mi pareva che fosse
il Signore de la campagna di Garfagnana. Prego V. E. che ad instanza
di alcuno che venisse a quella per volerglielo dipingere per un uomo
contrario a quello che egli è, non si muova a commettere che non si
eseguisca quanto vuol di lui giustizia; ma la supplico appresso che
commetta questa causa al Capitano qui di Castelnovo, e non a me che non
è mio mestiero, ma in questo dia al Capitano autorità di Commissario;
chè se una volta non si comincia a castigare li tristi in questo
paese, moltiplicheranno in infinito. V. E. saprà appresso che, non
ieri, l'altro, un fratello di costui bandito detto Baldone, con circa
12 compagni o 15, andò a Camporeggiano, e fece spalle ad un ghiotto
detto Margutte da Camporeggiano perchè ammazzasse un Giannetto fabbro
pur da Camporeggiano; ma l'avventura aiutò quel poveruomo che non fu
morto; pur è restato ferito di due ferite, e ritornando indietro verso
Cicerana, quando furon ad una villa detta la Sambuca, tolsero un par di
buoi ad uno detto Gian-grasso, e li conducevan via, e quel Gian-grasso
venne correndo a Castelnovo a me che era circa mezz'ora di notte, ed
io feci subito montar li balestrieri a cavallo: ma quelli assassini
sentendo venire li balestrieri lasciaron li buoi e se ne fuggiron
verso Cicerana. È poi venuto a me Bastiano Coiaio, siccome quello che è
procuratore di tutti li tristi, e mi vorria persuadere che questi erano
iti a Camporeggiano per fare che quel Margutte facesse la pace con
quel Giannetto, e che poi Margutte contra volontà de li compagni aveva
voluto ammazzare quel Giannetto, e che questi buoi non avevan tolti
per menar via, ma per far paura a un fanciullo acciò che li insegnasse
una beretta che tra via era caduta ad uno di questi compagni. Io ho
voluto questa escusa sua scrivere a V. E. acciò che quella intenda la
cosa e cognosca il vero da la bugia, e questi protettori de' ribaldi
non li mostrino il nero pel bianco. Io ho esaminato oggi circa quattro
testimoni che depongono, che già è passato l'anno, che 'l Moro con li
fratelli si trovò al Poggio in compagnia di due da Sommacologna che
ammazzâro un povero uomo suddito di V. Ecc. Io aspetto da quella circa
a questo che sia data gagliarda commissione al Capitano qui: in buona
grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 25 aprilis 1523.


LXII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Li pecorai di
questa ducale provincia si dolgono, e massime questi della vicarìa di
Castelnuovo, che dalli daziarii di Lucca sono astretti a pagare de' lor
bestiami le gabelle maggior del solito; e intendendo io che altre volte
hanno voluto fare il medesimo, e che li commissarii miei predecessori
se ne sono querelati a V. S., e quelle hanno proibito e con nuove
dichiarazioni determinato, qualmente _hinc inde_ nessuna cosa s'abbia
a rinnovare; io ho voluto che V. S. sappiano questo, che senza saputa o
volontà di quelle credo che molti gabellarii tentino puorre in usanza,
con fiducia che V. S. non l'abbino a comportare, e che vogliano che le
medesime esenzioni che li uomini di questa Vicaria dànno alli sudditi
di V. S., questi reciprocamente le abbino da quelli; dalle quali
aspetto intendere che non siano per tollerare questo torto: e in sua
buona grazia mi raccomando.

  Castelnovi, ultimo aprilis 1523.


LXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Avendomi a questi
giorni V. S. domandato se avevo tanta autorità dal mio illustrissimo
signore di potere transigere e compormi con esse, o sia con il
commissario che le sono per mandar qui, di quanto per più mie lettere
io li ho ricercati, io subito scrissi a sua Eccellenza, e quella mi ha
mandato una patente della quale questa è la copia:

«_ALPHONSUS dux Ferrariae, Mutinae et Regii, marchio Estensis, comesque
Rodigii._

Essendo li magnifici ed eccelsi signori Lucchesi, amici nostri
onorandi, in quel medesimo volere e opinione che siamo noi, ciò è che
li banditi dal territorio di loro signori non abbino refugio nè porto
alcuno in le terre e territorio nostro di Garfagnana, nè li banditi
e ribelli nostri similmente abbino ricapito nella giurisdizione e
territorio di essi signori Lucchesi; e volendo loro signori mandare
uno commissario con ampia autorità a voi commissario nostro in
Garfagnana per concludere capitoli e composizioni sopra questo; il
che è per ridondare a beneficio comune e quiete delli loro sudditi e
nostri, e per tor via molti scandali, omicidi e delitti, li quali più
animosamente si commettono, quando per li delinquenti si sa dove si
possano a salvamento riducere; siamo contenti che tra il magnifico
commissario di detti signori Lucchesi e noi si faccino e fermino
autenticamente capitoli e composizioni, per li quali si dichiari: che
li banniti e ribelli _hinc inde_ non abbino sicuro refugio e ricorso,
li nostri nel dominio loro, e quelli di essi nel dominio nostro; e più,
che ogni vólta che voi volessi per li nostri balestrieri e barigello
fare pigliare alcuno bandito e ribelle nostro fuggito nel dominio di
loro signorie, il barigello loro sia obbligato prestare ogni favore al
nostro, e il nostro al loro per fare le catture che occorresse a farsi,
aiutandosi mutuamente con tutto il sforzo e potere nostro e loro: e
a concludere, fermare e stringere simili capitoli e composizioni col
prefato signor commissario, quale essi signori Lucchesi manderanno, per
questa nostra patente lettera, a voi messer Lodovico Ariosto, nostro
commissario in detta provincia di Garfagnana, diamo e concediamo ampla,
piena e valida autorità; promettendo di avere rato, fermo e approvato
tutto quello che da voi sarà trattato, concluso e stabilito col prefato
magnifico commissario delli prefati signori Lucchesi, quale sono per
mandare costì per questo buono e laudabile effetto. E in fede di ciò
avemo fatta questa nostra, e sigillata con il nostro consueto sigillo.

Dat. Ferrarie, in palatio nostre residentie, die 27 aprilis 1523.»

V. S. veggono quanto sia la mente del mio illustrissimo signore; ora
ponno a suo piacere mandare il suo commissario, che dal canto mio serò
sempre apparecchiato a riceverlo con quella riverenza che è mio debito:
in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, ultimo aprilis 1523.

    Di V. S.

                                                      Obsequiosissimo
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


LXIV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Peregrino esibitore
presente, il quale abita a Corfino, terra di questa ducale provincia,
si duole che tornando da Pisa con le sue bestie cariche di sale, li
sono state ritenute a Lucca, e non li è stato detto la causa; e da
martedì in qua non ha potuto avere licenza di partirsi, nè sapere
perchè sia ritenuto: è ricorso a me, acciò che io lo raccomandi a V.
S. che almeno possa intendere per che causa li sia fatto questo, acciò
che, dicendo la ragione sua, si possi discolpare di quanto è imputato.
Io lo raccomando a V. S., che non li lascino fare torto; e più presto,
quando abbi fallato, li usino clemenza e misericordia. E in buona
grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, ultimo aprilis 1523.


LXV

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill.mo et Ecc.mo Signor mio. Circa a quanto V.a S.ria mi scrive, che
non le pare che s'abbiano a far quelli fanti nè quelli battaglioni,
mi rimetto al miglior parere di quella: mi pare però strano che li
forestieri vengano con li banditi di questa provincia in ottanta e in
cento ad ardere e amazzare e saccheggiare il paese, e non sia modo di
risponderli. S'io m'avessi saputo imaginare meglior rimedio io l'averei
proposto. Circa il porre quella taglia, mi par d'aver scritto che in
quel consiglio di Camporeggiano non solo non fu concluso di porla, ma
nè anco fu permesso che si ponesse a partito, e che quando io mandai
per torre le fave, tutti _catervatim_ si levaron di consiglio, ma che
gli Otto che mi sedevano più appresso mi dissero che io _authoritate
propria_ la mettessi, e che poi io la facessi pagare alla sua Vicarìa,
_licet_ la maggior parte repugnasse poi; e mi dissero appresso che
sarìa buono ch'io avessi di questo una commissione da V.a Ecc.a
acciò che gagliardamente io la potessi eseguire, sicchè mi parrebbe
che fosse buono che V.a Ecc.a mi commettesse per una sua che per una
grida da parte sua io mettessi taglia di dieci ducati sopra ciascuno
di questi banditi che sono stati assassini, e che poi io la facessi
pagare comunamente a tutta questa provincia, _cum sit_ che non debbano
aggravarsine essendo per tornare in tanto utile loro quanto sarebbe
estirpando questi ribaldi del paese. Io son ben certo che ancora che
quelli Otto mi dicessino così, che serà fatica che lo vogliano fare
e verranno a querelarsine a Ferrara. Io avevo proposto di far li
battaglioni a questo effetto, che quando accade simile cosa, che forse
è per accadere più presto e più spesso che V.a Ecc.a non pensa, e che
montando io a cavallo per obstarli, avessi subito chi mi seguisse, chè
mentre io comando li Comuni che mi vengan dietro, l'un guarda l'altro,
e chi dice che non ha armi e chi trova altra scusa, e se pur vengono,
la cosa va in lungo di modo che li banditi han tempo di far li lor
disegni e di partirsi a salvamento. S'anco quando tali cose accadono
voglio ricorrere per aiuto dal Commissario di Sestola, non può la
venuta esser sì presta nè sì segreta che i banditi non abbian tempo di
far ciò che vogliono. Quando io non avessi dubitato di errare, averei
avuto il modo di pigliare o di tagliare a pezzi tutti questi ribaldi e
la sua compagnia, imperò che Domenico di Amorotto m'ha fatto per sue
lettere intendere che ogni volta che costoro si riducano o a Dallo o
a Pontecchio dove è il lor nido, io lo avvisi e gli dia termine dui
o tre dì, che verrà con trecento compagni lor da un canto, sì che con
ogni poco di gente con che io mi movessi dall'altro canto, sarei atto
a amazzarli o farli dare in mano del lor nimico che li amazzasse.
Io ho accettato la profferta e risposto che quando sia il tempo lo
avviserò: pur non lo farei senza saputa e commissione di V.a Ecc.a, nè
mi parrebbe male, quando non si può fare altrimenti, d'imitar Cristo
che disse _de inimicis meis cum inimicis meis vendicabo me_; avvenga
ch'io non abbia Domenico per inimico di quella, se alle lettere sue si
può dar fede, che mi scrive che per V.a Ecc.a è per porre la roba e la
vita propria. Supplico quella che circa questo mi risponda acciò che
tornando questi ladroni o che io non perdessi tanta occasione quanta
sarìa di pigliarli o d'amazzarli, o che io credendo di far bene non
facessi cosa contro la volontà di quella.

Se non fosse che pur ho speranza o per una via o per un'altra di avere
di questi ribaldi alcuno nelle mani, già avrei mandato a torre quelli
cavalli e fanti che sono in Frignano e avrei fatto ardere e spianare
le lor case; ma perchè questa vendetta contro le case si può fare da
ogni tempo, mi pare che sia meglio attendere e far ogni pruova d'aver
li banditi o alcun di essi in mano. E m'è dato intenzione per certe
spie c'ho messo che n'averò qualcuno. Io attenderò qualche giorno e
poi manderò a chiamare quelli cavalli e farò quanto da V.a Ecc.a ho in
commissione; ma non so però quanto tempo li detti cavalli sieno per
stare in Frignano, che già non vorrei mentre ch'io diferisco a farli
venire da questa parte fossino richiamati a Ferrara, e quando io li
volessi poi che mi fossino lontani: per questo mi parria ben fatto
che se non avessino più da fare in Frignano, che quando fossino per
tornare a Ferrara più presto venissero a stare qualche giorno in questa
provincia al medesimo modo che stanno in Frignano: pur mi rimetto al
parer di V.a Ecc.a

Circa a quanto quella mi commette, che io non condanni questi Comuni
c'hanno dato ricapito alli banditi secondo che meritano in effetto;
che se li nostri balestrieri vanno da luogo a luogo non gli dariano un
boccal di vino, nè pur un'abbracciata di paglia, e alli banditi portano
incontro la vittovaglia senza esser richiesti; io farò quanto V.a
Ecc.a mi commette da qui innanzi, ma la commissione è giunta tardi per
quelli del Poggio che già ho condennati 200 ducati per non avere voluto
seguitare il Capitano de li balestrieri: pur la condennagione non è a
libro, la qual ho fatta grande sì per terrore degli altri sì anco per
più facilmente indurli a pagar il cavallo del balestriero: e sebben
gli avessi condennati, non era però ch'io non credessi che V.a Ecc.a
avesse loro a far grazia, ma fra tutti almeno erano buoni senza molta
contradizione a pagare il cavallo e l'interesse del Capitano ferito,
chè se V.a Ecc.a permette che questo povero balestriero resti in danno,
tutti gli altri si faranno restii di andare in luogo dove siano a risco
di perdere, e questi villani si faranno ogni dì più insolenti.

Circa a quel prete che V.a Ecc.a mi commette ch'io lo rimetta al
Vescovo, la mia lettera non è stata ben intesa. Sappia V.a Ecc.a che
questa provincia di Grafagnana è subietta _in spiritualibus_ a dui
Vescovi: la Vicarìa di Castelnovo e di Trassilico al Vescovo di Lucca,
quella di Camporeggiano al Vescovo di Luna; e perchè, come altre volte
credo aver scritto, li peggiori e li più parziali di questo paese sono
li preti, essendo io a questi giorni a Ferrara, procurai d'aver lettere
di V.a Sig.ria l'una direttiva a l'un Vescovo e l'altra a l'altro. Quel
di Lucca si è trovato essere a Milano e ancora non ho avuto risposta,
quel di Luna rispose la lettera che ha veduto V.a Ecc.a Al qual Vescovo
di Luna non mi accade al presente di rimetterli alcun prete ne le
mani perchè non ho alcuno ne la sua diocesi che abbia fallito; ma in
_omnem eventum_ gli avevo domandato quella potestade perchè non può
star troppo a scoprirsene qualcheuno. Quel prete Job figliuolo di Ser
Evangelista, del quale mi son doluto con V.a Ecc.a,[248] che senza
aver fatto pace con le donne offese voleva sotto questa ombra di esser
prete star in questa terra, è subietto al Vescovo di Lucca, e lui non
ho a chi rimettere perchè il Vescovo non c'è: il suo Vicario credo ci
sia, ma della ragione che faranno, senza farne altra pruova, ne sono
chiarissimo, che già ho l'esempio di quello che fu fatto a prete Matteo
ch'io rimessi lor nelle mani, il quale aveva ferito uno officiale di
V.a Ecc.a e fatto omicidii e mille altri delitti e non fu pur messo
in prigione. Io voglio di nuovo pur dire anco quattro parole circa
questo prete Job, poi V.a Ecc.a terminerà quello che le parrà. Credo
che sia stato fatto intendere a quella che ha fatto ingiuria a una
puttana, e per questo paia che sia cosa da passarsene leggiermente.
V.a Sig.ria intenda che la violenza c'hanno patite queste donne si
arreca fra gli altri a grandissima ingiuria uno cittadino qui detto
Acconcio delli più ricchi e di più parentado e di più credito di questo
luogo, imperò ch'esso, a parlar chiaramente è innamorato in questa
giovine e l'ha segretamente a suo comando, e di questa cosa era per
farne dimostrazione di mala sorte, e tanto più che lui è di fazione
contraria a ser Evangelista e le inimicizie e parti di questa terra
cominciaro fra queste due case e il detto Acconcio reputa per suo
dispetto, più che per altra causa, quelle donne sieno state violentate
e battute....[249]

  Castelnovi, 2 maii 1523.


LXVI

                              AL MEDESIMO


Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio. Per altre mie V.a Ecc.a avrà inteso
la causa che mi fa soprassedere a non ardere e spianare le case di
questi banditi assassini, chè pur vorrei far prima ogni possibile
opera d'averli nelle mani. Tre se ne truovano, per quanto mi è
detto, a casa sua a Pontecchio, che vi stanno assai sicuramente, con
speranza di avere da V.a Ecc.a il salvo condotto, che per la Vicarìa
di Camporeggiano intendo hanno fatto domandare. Questi mi è dato
intenzione di darmi presi, avvenga ch'io non creda ad uomo di questo
paese cosa che mi prometta; pur starò alcuni giorni a vedere. Li altri
assassini, cioè Bernardello e Bertagnetta e Pellegrinetto e altri
ch'io non so il nome si truovano alla Villa al soldo di quel Marchese
detto il Marchese Malaspina, e di poi che vi sono andâro insieme con
un servitore per assassinare un certo mercadante che quindi passava, e
lo assassinâro: il che sentendo quel Marchese, mandò lor drieto e fece
restituire le robe al mercadante, e di sua mano (intendo) amazzò quel
suo servitore che era ito in compagnia di questi ribaldi. A loro non
fece altra ingiuria che di parole e di minaccie se più facevano nel
suo paese tal tristizia. Ora, rimettendomi però sempre al parere di V.a
Ecc.a, mi parrebbe che quella scrivessi caldamente a questo Marchese e
lo pregasse che pigliassi questi ribaldi e li dèssi in mano a chi V.a
Sig.ria o il vostro Commissario mandassi a torli. Mi pare che avendoli
V.a Ecc.a per questa via, sería con poca fatica e risulterebbe a
grandissimo utile di questo paese e a gran terrore degli altri ribaldi
e a non poco onore di V.a Ecc.a

La lettera in favore di Belgrado si è avuta, ed io subito l'ho mandata
al fratello di lui acciò che non perda tempo, sicchè credo che a
quest'ora sia a Lucca. Io farò intendere agli uomini di Vallico il
buon animo di V.a Ecc.a verso loro, nè credo che questa opera sia spesa
malamente, perchè quel Comune è buon suddito e servitore di quella ed
è gagliardo di assai gente e di buona gente più che Comune di questa
provincia. Altro non accade di nuovo, se non raccomandare a V.a Ecc.a
il balestriero c'ha perduto il cavallo e fu ferito, e il Capitano che
non è ancora ben guarito della ferita ch'ebbe a Camporeggiano; e in
buona grazia di quella mi raccomando.

  Castelnovi, 3 maii 1523.


LXVII

                    A MESSER SANTUCCIO SANTUCCI[250]


_Magnifice tanquam frater honorandus_. Credo che Acconcio avrà avvisato
V. M. delli suoi muli e del sale che li sono ritenuti a Lucca. La causa
io non la so; ma questo accade spesso, che li nostri, che vengono da
Pisa con sale, ritrovino a Lucca simili impedimenti. Io ne scrivo la
qui alligata a cotesti magnifici signori: prego V. M. che facci opera
che tali modi non siano usati da quelli daziarii: o se qualche rispetto
muove quelli magnifici signori, che vogliano essere intesi a cenni più
presto che a dirlo, prego V. M. che operi che si parli chiaro, acciò
che io ne possi avvisare lo illustrissimo signor mio, che vi pigli
qualche modo che a sua Eccellenza paia più espediente. Appresso prego
ed esorto V. M., che facci ogni possibile opera di pacificare cotesti
suoi di Gallicano, acciò che noi ancora, che saremmo vicini a tal
fuoco, quando seguisse, possiamo estinguendosi vivere più sicuri. E a
V. M. mi raccomando.

  Castelnovi, 5 maii 1523.

                                               Di Vostra Magnificenza
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


LXVIII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Io prego V. S. che
voglino con li suoi daziarii fare tale provvisione circa il passare
di questi sali che vengono da Pisa, che ogni giorno io non abbi da
querelarmi appresso quelle. Oltre quanto a' dì passati ho scritto per
alcuni nostri vetturali, alli quali sono stati ritenuti li muli e il
sale, di nuovo Acconcio, salinaro qui per lo illustrissimo signor mio,
si duole che similmente li sono stati li suoi muli e il sale ritenuti,
e non può intendere la cagione, come sia che già V. S. concesseno al
prefato signor duca il passo per x/m staia, per mandare per mano del
detto Acconcio in Lombardia, e fin qui ne ha mandato seimila: il resto
è comprato a sua instanza in Pisa come V. S. se ne ponno benissimo
chiarire; e ora essendoli usati questi termini, pare che quelle non
vogliano attenere quanto già una volta è stata sua volontà. Questo
non voglio nè posso credere bene; è più verosimile, che senza sua
saputa li daziarii usino queste nuovità. Io prego V. S. che faccino
tal monizioni a questi suoi, che non sieno causa assediarne di sali,
massime non ne avendo quelle al presente tal quantità in Lucca, che
senza andare a Pisa ne possino tenere fornite per il medesimo pregio;
che, _data paritate_, più volentieri si darebbe a V. S. utile, che ad
altre persone: quelle siano contente che, pagandosi le debite gabelle,
il sale possi senza impedimento venire, così per uso di questa ducale
provincia, come per mandare per la quantità concessa in Lombardia. E
quando anche qualche rispetto muova V. S. a fare usare questi modi, le
supplico me lo faccino sapere, acciò che io ne avvisi lo illustrissimo
signor mio, acciò che per utile e comodo delli sudditi facci quello che
li paia più espediente. E in buona grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 5 maii 1523.


LXIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi_. Li uomini di
Valico di sotto e delle Fabriche mi sono venuti a fare querela, che
uno loro uomo, il quale era venuto per mie faccende a Lucca, vi è
stato ritenuto per commissione di V. S., e ad instanza delli uomini
di Gello, li quali si pretendono che questi uomini di Valico e delle
Fabriche debbino loro pagare certe colte, per vigore di una stima che
già diede uno messer Antonio di Mercatello commissario a questo dello
illustrissimo signor nostro; alla quale stima il prefato signore non ha
mai voluto consentire nè ratificarla, sì come quella che fu data oltre
la commissione che 'l detto commissario aveva da sua Eccellenza. E come
V. S. per le qui incluse copie potranno vedere, essi uomini di Valico
e delle Fabriche fariano contro la volontà del prefato signore nostro,
quando consentisseno a pagare dette colte: e se bene qualche volta
per li tempi passati, li detti uomini avessero pagate tali colte o per
paura o per ignoranza o per altre cause, non ponno nè denno per questo
pregiudicare alla giurisdizione del suo signore. Pertanto prego quelle,
che faccino rilassare questo nostro ritenuto dalle Fabriche; e se le
si credono avere alcuna ragione in questo, siano contente scrivere
allo illustrissimo signor mio, e amicabilmente trattare la cosa, e
venire a una composizione, in la quale nè l'una parte nè l'altra sia
ingiustamente oppressa, e non volere cominciare alle represaglie; che
saria totalmente contrario a quello che pare sia la intenzione dello
illustrissimo signore mio e di V. S., che questi due Stati stiano
fraternalmente uniti e bene d'accordo. E a V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 10 maii 1523.


LXX

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio. Veduto quanto Vostra Eccell.a mi
commette per lo accluso rescritto, io riferisco a quella che mess.
Gio. Piero e Baldassare e Bartolomeo Attolini[251] sono reputati per
Castelnovo e tutta Grafagnana uomini da bene quanto altri che ci sieno,
e meritano che alli lor libri sia dato fede, ch'è d'aver circa questo
la concessione ch'altri di questa terra hanno avuta, come io ne mando
la copia d'una che già per la felice memoria dell'Ill.mo Duca Ercole e
poi per Vostra Eccell.a fu concessa a maestro Pietro de' Lavelli _et
inde_ a Pierino suo figliuolo, magnani; giusta la forma della quale
Vostra Eccell.a può conceder questa alli soprascritti fratelli: in
buona grazia della quale mi raccomando sempre.

  Castelnovi, XIIII maii 1523.


LXXI

                     A MESSER BENCI DE' BENCI[252]


_Magnifice tamquam, frater honorande._ Bartolino Zanotto da Corfino,
terra di questa ducale provincia, è venuto a me a dolersi che a
questi giorni alla Barca sul territorio de' Signori Lucchesi è stato
assassinato da Paulaccio da Barga, e da Donatello da Somma Cologna, e
altri compagni tutti da Barga e da Somma Cologna, e oltra che gli deron
molte ferite, gli levarno una cavalla e un par di buoi e uno gabbano
di valuta circa due ducati e trenta bolognini in denari, e se non erano
due di quelli compagni, di che l'uno si chiama Matteo Mazzoni da Barga,
e l'altro il Moro, pur da Barga, l'avrebbono finito di amazzare: ma
questi ne ebbono pur piatade, e lo difesero de la vita. E perchè Vostra
Magnificenza credo sappia per le gride che _hinc inde_ si son fatte,
ch'è la intenzione del mio Ill.mo Signore e de la eccelsa Repubblica
Fiorentina, che li sudditi de l'uno e de l'altro dominio non vadano a
danno nè in l'uno, nè in l'altro territorio, ne ho voluto dare avviso a
Vostra Magnificenza, perchè non solo mi dolgo che siano iti alla Barca
(chè di quel che sia fatto fuori de la mia giurisdizione non n'ho da
pigliare cura, se non gli fosse lo interesse de li nostri sudditi, che
non ponno ire da loco a loco, che non tocchino de le terre de' dominii
confinanti), ma mi dolgo più che questi medesimi con quelli e altri
compagni sudditi di V. M. vengono quasi ogni giorno nel territorio
nostro, e fannoci assassinamenti, e cose di pessima sorte. Pertanto
prego Vostra Magnificenza, che prima al caso di questo povero uomo,
e appresso a molti altri che sono per accader ogni giorno, voglia
riparare, acciocchè la unione fatta tra il mio e Vostri Signori,
paia esser fatta non solo in parole, ma in effetto ancora; e sopra
tutto prego V. M. che faccia restituire, se gli è possibile, a questo
Bartolino quanto ha perduto. Mi dice che in quella compagnia era un
Lorenzo Bertacca (il qual fu quello che gli levò li buoi) da Barga. E a
Vostra Magnificenza mi raccomando.[253]

  Castelnovi, 18 maii 1523.

                                                   LUDOVICUS ARIOSTUS
                                                Ducalis Commissarius.


LXXII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill.o ed Ecc.o Signor mio. Io mi trovo avere questo Moro di Pellegrino
dal Sillico in prigione, contra il quale di commissione di V. Ecc. il
Capitano ha processo e procede: prima per aver sempre dato ricapito a'
suoi fratelli banditi e ad alcun'altri pur banditi e assassini, come a
quelli che insieme con un suo fratello detto Giulianetto assassinâro
quel prete pisano e gli tolsero cento ducati, alla restituzione de
li quali è stato gravato il Comune di Cicerana: appresso gli procede
contra per essere caduto per le mie gride in disgrazia di V. Ecc. ed in
confiscazione di tutti li suoi beni, per essere ito con genti e banditi
e altra sorte in Lombardia in aiuto di una di quelle parti: appresso
gli procede per essersi trovato al Poggio, terra di V. S., in compagnia
di alcuni che amazzâro uno suddito di quella. Le prime due inquisizioni
confessa _de plano_: questa ultima, ancora che confessi che insieme
con quelli che feron tal omicidio (li quali dice che ritrovò tra via)
esso entrò in la terra del Poggio, e anco si partì quasi in un tempo
con loro; pur niega che di tale omicidio esso fosse consenziente: _quod
quomodocumque sit vel futurum sit_, questi che hanno la protezion sua
sono per supplicare a V. Ecc. e domandarli grazia, e apparecchiano a
tutte queste imputazioni escuse accettabili. Se Vostra Ecc. per qualche
rispetto è per esaudirli, io non sono per pregarla per il contrario:
solo voglio ricordarle che fra ogni grazia che sia per farli, si
ricordi che questo povero Comune di Cicerana non resti nel danno de
li cento ducati c'ha pagati al prete pisano: chè se a V. Ecc. è paruto
giusto che essi uomini, per aver tollerato che ne la lor terra questi
banditi e assassini si sieno alloggiati, debbiano pagare li suoi danni
al prete, tanto è più giusto che questo Moro, per averli alloggiati in
casa sua o sia di sua mogliere malgrado di quel Comune, sodisfaccia
ogni pena che per sua causa ha patito quel Comune; nè può allegare
alcuna escusa che contra sua volontà sieno stati in quella, la quale
per ragione de le mogliere è comune tra lui e suo fratello Giulianetto,
_cum sit_ che parimente è caduto alla medesima pena per essere ito
cento volte e praticato mille con essi banditi, che per ogni volta
e per ogni bandito è sempre caduto alla pena di cinquanta ducati: e
perchè V. Ecc. ne sia ben chiara, le mando la copia de le gride.

Ancora voglio raccordare a quella che, facendoli grazia del resto,
voglia per quiete di questo paese fare che, volendo uscire di prigione,
dia sicurtà sufficiente che per un anno o per due non venirà in questa
provincia; ed anco se paresse onesto a V. Ecc. che desse sicurtà per
li fratelli banditi, che fin che V. Ecc. non facesse lor grazia non
avessino a venire in questo paese, serìa a mio giudicio la salute e il
riposo di questa ducale provincia. A me basta di proporre quello che mi
pare che fosse ben fatto: di V. Ecc. è poi in disposizione di comandare
quanto le pare: in buona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 28 maii 1523.


LXXIII

                              AL MEDESIMO


Ill.o ed Ecc.o Signor mio. Oggi alcuni modanesi uomini da bene e boni
cittadini, e fra gli altri un Francesco Guidone, il quale dice essere
parente del Capitano Mesino dal Forno,[254] venendo per andare alli
bagni, quando son stati a Frassinoro, dubitando di essere assassinati,
hanno tolto in compagnia e scorta Mess. Gian Giacomo Cantello con
una grossa compagnia di gente, il quale Mess. Gian Giacomo gli ha
accompagnati fin 4 miglia appresso a S. Pellegrino; poi gli disse che
non ci era più pericolo, e li lasciò, e diede volta. Non furon slongati
un tratto di balestra che furon assaltati dagli assassini che pur
sono de la fazione di Mess. Gian Giacomo, che erano iti innanzi alla
posta, _et etiam_ da alcuni di quelli che li avevano accompagnati con
Mess. Gian Giacomo fin lì, li quali erano tornati indrieto, per modo
che presero quel Guidone dicendoli che era de' lor nemici, e gli hanno
tolto non solo quelli danari che li hanno trovato addosso, ma ancora
messogli taglia; sì che bisognò che li compagni, chi con 4, chi con
6 ducati, e chi con più e chi con meno lo riscodessono, chè dicevano
di volerlo ammazzare: e poi hanno levato ancora il resto de li danari
ch'avevan gli altri compagni. Son venuti a Castelnovo molto di mala
voglia, e dànno la colpa che Mess. Gian Giacomo sia stato consenziente
di questo assassinamento, e molto si lamentano di lui. Io non credo
già che la colpa sia di lui, se non quanto non può forse vietare alli
suoi seguaci che facciano di simili mal'opere; pur io gli ho scritto e
pregatolo, che faccia ogni opera possibile per far restituire questi
danari, e tanto più quanto la colpa è data a lui. Non so quello che
mi risponderà. N'ho voluto dar avviso a V. Ecc. alla quale non voglio
già dar ricordo di quello ch'ella sa meglio quello che debbe fare, che
non so io: pur la certifico che nè al bosco, nè dentro alle terre, nè
serrato in le case, nessuno in questo paese è sicuro da li omicidi e
assassini.[255] Io fo fare ogni notte la guardia a questa casa, o rôcca
che sia, dove abito, e ci fo dormire, oltra li miei famigli, sempre
due balestrieri perchè ogni dì son minacciato che mi verranno a tôrre
questo prigione, ch'io ci ho, per forza: e a V. Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, 28 maii 1523.


LXXIV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici etc._ Già sono alcuni giorni, che per una mia pregai V. S.
che volesseno provvedere, che li uomini di questa ducale provincia
potessino passare, pagando li debiti dazii, con li sali che portano
da Pisa, senza essere ritenuti e molestati costì, sì che noi non
fossimo assediati e fatti restare, per li nostri bisogni e della
montagna subietta allo illustrissimo signore mio, senza sale. V.
S. mi rispuoseno, che sopra di questo farebbeno consiglio e poi mi
avviserebbeno; e perchè fin qui non me n'è stato scritto altro, e il
nostro bisogno si potria fare maggiore, ho voluto con questa replicare,
e pregare V. S. che a ciò diano espedizione, e faccino secondo che
si richiede alli buoni vicini e alla fede e buona amicizia che ha il
mio illustrissimo signore in quelle; in buona grazia delle quali mi
raccomando.

  Castelnovi, 28 maii 1523.


LXXV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici etc._ A' dì passati io scrissi a V. S. in raccomandazione
di quello poveretto di Belgrado ritenuto nelle loro forze, e so che dal
mio illustrissimo signore fu loro scritto; e forse a tali preghi quelle
si sono inclinate a non lo fare morire; di che io particolarmente ne
referisco loro grazie. Resta, perchè questi suoi parenti mi dicono che,
quando esso desse sicurtà di non offendere mai alcuno suddito di V. S.,
che esse lo libereriano ancora dalla prigionia; ma perchè la pagarìa
che quelle vorriano che desse è molto grande ed eccede la facoltà di
lui, e perchè esso si trova preso e' non è chi possa fare per lui,
vorrei ancora da quelle grazia di due cose: e così le supplico che
siano contente di concedermele: una, che domandasseno a Belgrado una
pagaria di qualità conveniente al grado suo e che esso potesse dare;
l'altra, che lasciando esso in forza di V. S. uno suo figliuolo per
statico, fusseno contente di lasciarlo, tanto che potesse procurare e
procacciarsi di persone che entrassino in pagarìa per lui. Mi parria
ancora, quando paresse a V. S. che fusse onesto, che poi che esso ha da
promettere di non offendere mai alcuno del dominio di V. S., che esso
ancora per quella via fusse cauteggiato di non essere dalli sudditi di
quelle offeso; chè non saria licito che altri potesse nuocere a lui, ed
esso fosse legato, sì che non si potesse difendere. Pur mi confido in
V. S. che sono giustissime, che non faranno cosa fuori di ragione: in
buona grazia delle quali mi raccomando.

Oggi ho per una di V. S. visto quanto esse mi rispondono circa a quanto
li aveva scritto delli sali, e inteso il pericolo che abbiamo appresso
della peste: non manca nè mancherà premure per farli ogni buona
provvisione. Acconcio verrà a trattare la cosa dei sali con V. S.

  Castelnovi, 29 maii 1523.


LXXVI

             A MESSER LORENZO PANDOLFINI, POTESTÀ DI BARGA


_Magnifice et clarissime tanquam frater honorande._ Un famiglio qui
de' frati di San Francesco venendo ieri da Lucca, tra nona e vespero,
sul piano di Barga, dove si dice il Sasso di Menante, fu assaltato
da tre; de li quali, uno era di 18 anni in circa con un giubbarello
di pignolato negro stracciato, berretta nera, e con calze da mezza
coscia in giù, verdi; uno di 25 anni in circa, con un giubbone di
pignolato bigio, con calzoni larghi di tela bianca e berretta nera;
l'altro con una barba rossa da orecchie, e con un colletto di coiame;
li quali, prima quel più giovane gli lanciò una partesanella, e gli
ferì un muletto, sopra qual era, ne la groppa assai in profondo; e poi
lo presero, e gli tolsero certo poco di taffetà che portava ad uno di
questa terra e certe altre robe non di molta valuta: e perchè Vostra
Magnificenza, ancora che sia nuova in l'officio, può aver inteso li
assassinamenti che ogni dì si fanno qui d'intorno, nè io sono atto a
provvederli, perchè fatto c'hanno il male si riducono or sul territorio
de' Signori Fiorentini, ora de' Lucchesi; e appresso questi malfattori
vanno le più volte in più compagnia, che non sono li balestrieri ch'io
tengo qui per mia guardia; e per quanto intendo la maggior parte
di questi sono da Somma Cologna e da Barga, che vengono e fanno il
male, e poi fuggono a casa: siccome anco pochi dì sono ch'io scrissi
al precessor di Vostra Magnificenza di uno assassinamento che costì
alla Barca avevan fatto ad un poveretto di questa ducale provincia,
alcuni pur da Barga e da Somma Cologna, che gli tolsero un par di buoi
e una cavalla e panni e denari, e mai di quella mia lettera ho avuto
risposta, con tutto ch'io gli avvisassi il nome di molti di quelli che
s'erano trovati a far tale assassinamento. Ora se a tanti mali non si
piglia riparo, dubito che non solo li viandanti e uomini del paese che
vanno a lavorare fuori non saranno sicuri, ma nè noi ufficiali ancora
saremo sicuri ne le terre e ne le rôcche. A' dì passati feci fare una
grida[256] per parte del mio Ill.mo Signore, che nessuno di questa
ducale provincia, sotto pena de la disgrazia di Sua Eccellenza e de la
confiscazione di tutti li suoi beni, non ardisse di venire in armata
nè altrimente a far danno ne le terre de li eccelsi Signori Fiorentini:
e perchè lo Ill.mo Signor mio mi avea dato questa commissione, pensavo
che la medesima grida fosse stata fatta ne le terre de' prefati eccelsi
Signori. Che la sia o non sia stata fatta non so; so bene che molti di
tutte coteste terre ogni dì vengono in armata, in compagnia d'altri
ribaldi di questo paese, e fanno in questa nostra provincia cose di
mala sorte. Ho voluto fare questo poco preambolo a V. M., acciò che
quando quella sia d'animo che questi tristi si castighino dovunque
si truovino o ne le nostre o ne le vostre terre, e anco de' signori
Lucchesi; che per quanto mi scrivono sono assai bene disposti per
assicurare le strade e il paese; potiamo scrivere l'un l'altro, e dar
buono ordine, acciò che non stiamo qui totalmente inutili. Oggi ho
avuto una di Vostra Magnificenza, per la quale mi raccomanda quella
povera vedova. Io non mancherò di far che 'l Capitano, del quale è
ordinario officio, gli amministri giustizia, remosse le lunghezze e
cavillazioni, e anche io per amor di V. M. mi interporrò per intender
che non le sia fatto torto; e a quella mi offero e raccomando.

  Castelnovi, 29 maii 1523.

                                                   LUDOVICUS ARIOSTUS
                      Ducalis Carfignanae Commissarius generalis etc.


LXXVII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici etc._ Messer Giovanni Battista da Sassolo medico, abitante a
Silano, luoco di questa ducale provincia, è creditore di certa sua dote
costì in Lucca: io lo raccomando a V. S., si perchè in ogni loco le
cause delle doti sogliono essere favorevoli, sì ancora perchè li uomini
virtuosi denno essere aiutati da tutti li signori e uomini da bene,
massimamente a cagione essendo forestiero, oltra le predette cause,
merita di essere espedito con celerità; sì che di nuovo lo raccomando a
V. S. Oggi ho avuto risposta dal primogenito dell'illustrissimo signor
mio circa a quanto alla Eccellenza del signor duca io avevo scritto
per la ratificazione della convenzione ch'io feci con il magnifico
commissario di quelle: sua Signoria mi scrive che di giorno in giorno
aspetta il padre che torni da Venezia, e che alle giunte di sua
Eccellenza mi sarà mandata tale ratificazione. E a V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 3 iunii (1523).


LXXVIII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici etc._ A questi giorni ebbi una di V. S. in raccomandazione
di alcuni padri di S. Agostino, alli quali sono molestate e rubate
alcune terre da uno Streglia dal Silico; e pare che in quella V. S.
abbino ricordo, che per un'altra mia io permettessi di mandare per
li fratelli di detto Streglia, perchè sodasseno e assecurasseno detti
padri. Quello ch'io scrivessi non so, perchè non servo le copie delle
lettere, e non ho tanta memoria che io mi ricordi tutto quello che
ho fatto. Potria essere che io avessi scritto; ma s'io scrissi così,
fu mio errore, perchè sono pochi delli detti fratelli che non siano
banditi o condennati: e s'io potessi averli in le mani, averei da
castigarli di maggiore fallo che di questo; ma essi sono più forti in
questo paese che non sono io. È vero che io ne ho uno in prigione,
il quale, quantunque io non creda che sia buono, pure è il manco
cattivo delli altri. Se li detti padri manderanno o costituiranno
in questa terra uno per loro, io manderò uno comandamento a questi
fratelli che non debbino molestare sotto qualunque pena dette terre:
se compariranno, saria ben fatto che fusse qui chi dicesse la ragione
delli frati; e di ragione non mancherò loro, purchè la forza non
possa più che la ragione: ma se V. S. vorranno aiutare questi padri,
li potranno aiutare con fatti, dandomi un giorno modo di avere questi
ribaldi nelle mani; altramente la ragione si potrà dire ma non fare,
nè solo in le terre di questa ducale provincia, ma anche in quelle di
V. S.; chè d'ogni cosa mi paiono li assassini signori, e non il mio
illustrissimo, nè voi magnifici signori: in buona grazia delli quali mi
raccomando sempre.

  Castelnovi, 4 iunii 1523.


LXXIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici etc._ Prego di nuovo V. S. che siano contente di fare
rilassare quello povero uomo dalle Fabriche, che ad istanza delli
uomini di Gello è stato costì a Lucca ritenuto per le 15 lire ch'essi
pretendono di dovere avere ogni anno da quel comune delle Fabriche,
secondo la stima che messer Piero Antonio da Mercatello, per la parte
dello illustrissimo duca Ercole di bona memoria, diede insieme col
commissario di V. S.; e perchè, come per una copia di una lettera
dello illustrissimo signore presente quelle hanno potuto vedere, che
sua Eccellenza non si contenta di tale stima, io ne avevo scritto
a quella, e circa a questo mi significasse come io mi avessi a
governare, e perchè dal figlio e da chi è rimaso in suo loco mi è fatto
intendere, che di tal cosa fino alla tornata di sua Eccellenza non si
ponno risolvere, la quale tornata non sarà ancora fra X giorni, e mi
commetteno ch'io preghi V. S. che faccino rilassare il prigione; perchè
mi certificano che sua Eccellenza alla sua tornata ne scriverà a V. S.,
nè si partirà dalle cose oneste e dal dovere, e si rendeno certi che V.
S. e sua Eccellenza rimarrete d'accordio: pertanto io replico questa
e prego di nuovo quelle, che faccino rilassare il detto prigione, e
amicabilmente e non per via di represaglia vogliano vedere e difendere
le loro ragioni e delli loro uomini, acciò che non diano materia alli
nostri di difendersi per le vie medesime; perchè quando li nostri
facesseno qualche cosa simile, so che dispiacerebbe allo illustrissimo
mio signore: pure non potria fare che non fusse fatto. Io, che sono
servitore di quelle, vorrei vedere che tali differenze fusseno trattate
più presto per amore che per violenza e ingiuria. Alle quali mi
raccomando.

  Castelnovi, 5 iunii 1523.


LXXX

                       A MESSER NICCOLÒ RUCELLAI,
                 CAPITANO E COMMISSARIO DI PIETRA SANTA


_Magnifice tamquam frater honorandissime._ Gli uomini di Vagli m'hanno
riferito Vostra Signoria essere al tempo constituito ritrovatasi
sul luogo de la differenza, di che mi son maravigliato; chè la causa
che aveva ritenuto me, pensavo ed ero certo che dovesse anco avere
ritenuto lei; imperò che domenica montai a cavallo, che poteva essere
circa 19 ore, per andare quella sera a Vagli, ch'altrimente non potevo
ritrovarmi il dì del luni constituito, sul fatto. Ed essendomi già
mosso, si levò un tempo tanto orribile di tuoni, e con sì gran pioggia,
che son molt'anni che non se ne vide la pare, che durò tutto il giorno
senza mai allentarsi, e piovè la notte e la mattina seguente. Io
stavo pur aspettando che 'l tempo si richiarasse per venire, perchè
la via di qui a Vagli è di sorte, che per il miglior tempo del mondo
avrò fatica a venirvi, se non a piedi. E quando mi volsi movere, mi
vennero incontra alcuni, che mi dissero che V. S. era già stata su la
differenza, e ch'io venirei indarno. Io me ne maravigliai, che sì male
tempo fusse stato dal canto nostro, e che verso Pietra Santa non fosse
stato il simile, perchè se fosse stato tale, saria stato impossibile il
venire per Vostra Signoria, come fu per me. M'incresce che V. S. abbia
avuto tal disconcio, e poi sia venuta indarno: m'incresce appresso
d'avere inteso che Vostra Signoria sia venuta con tanta gente, con
scoppettieri in buon numero; chè mi pare, essendo così, che più presto
fosse venuta per combattere, che per terminare con giustizia ed equità
le contese di questi sudditi. E più me ne par strano, quando Vostra
Signoria mi scrisse ch'io volessi venire con poca gente, che in verità
venendo io, non menavo meco oltra dieci o XV persone. Poichè siamo qui
che io non son venuto, e anco al presente non è più d'importanza di
venire, che un'altra volta, che _omnino_, per quello ch'io intendo,
la pastura di quelli luoghi ora fin a settembre tocca agli uomini de
la Cappella; io non venirò più ora, ma ne darò avviso al mio Ill.mo
Signore, il quale forse mi farà un mandato di potere tutto quello ch'io
farò, fare rato e fermo: e forse anco farà elezione di qualche persona
che gli paia più sufficente in questo di me, che non son dottore, come
Vostra Signoria, nè anco ho copia di dottori in Grafagnana da potere
menar meco, come intendo che Vostra Signoria ha in Pietra Santa. Ma mi
pare anco, che oltra la dottrina, quelli di Pietra Santa vogliano far
di forza, non avendo voluto restituire le bestie a questi poveromini
di Vagli; chè ancora che io non sia dottore, pur mi pare che la equità
nol comporti; perchè, mentre la cosa sta in differenza, non dovrebbono
volere star per forza in possessione. Io prego Vostra Signoria per
singulare piacere, e come mio particulare comodo, che sia contenta di
far restituire a questi di Vagli le lor bestie, offerendomi io _versa
vice_ per amor di Vostra Signoria, e in specie per ogni uomo di Pietra
Santa compensare questa cortesia in maggiore cosa, dova accada ch'io
li possa gratificare; e per me non mancherà, scrivendo al mio Ill.mo
Signore, di operare perchè tal cosa, o per mio mezzo o per altrui,
pigli buono assetto: e a V. S. mi offro e raccomando.[257] Castelnovi,
9 iunii 1523.


LXXXI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Il Moro di Pellegrin dal Sillico è stato ed
è in prigione, come sa V. Ecc.: la principal causa perchè io 'l presi
fu per far satisfare questi poveri uomini di Cicerana de li denari in
che per aver patito che li banditi fossino stati ne lor terra, erano
stati condennati, e parendomi che se li uomini di detto Comune erano
incorsi in pena per non aver proibito che li banditi stessino in la lor
terra, maggiormente doveva essere condennato questo Moro, che li aveva
sempre tenuti in casa, mangiato e bevuto, e andato e stato tuttavia in
lor compagnia; che per ciascun di questi capi, secondo la mia grida,
di che a Mess. Obizo[258] mandai la copia, si doveva condennare. Poi
che questo Moro è stato in prigione, non è mai apertamente comparso
alcun di Cicerana a dolersi di lui, e questo per le minaccie che son
lor fatte da Giulianetto e altri fratelli del Moro e da altri banditi,
che pur senza alcun timore di V. S. stanno in Cicerana, e anco da li
fautori c'hanno questi di Pellegrino dal Sillico in questa terra; e
fin qui non è mai stato uomo di quello Comune ardito di presentare al
Capitano, a cui la causa è commessa, uno rescritto c'hanno da V. Ecc.,
che sieno gravati _realiter et personaliter_ il Moro e il fratello
ad ogni danno e interesse che, per aver essi fratelli ricettati li
banditi e assassini, essi di Cicerana abbiano patito. È ben vero che
molte volte sono a uno e a due venuti segretamente a pregarmi ch'io
li aiuti, e a farmi intendere li rispetti che li ritengono di fare le
debite querele, e che quella terra è giunta a tanta tirannide e a tanta
paura di questi ribaldi, massimamente di quel fratello del Moro detto
Giulianetto, che li batte, ferisce, ruba, sforza e minaccia, ch'alfin
sarà lor forza di abbandonar le lor case e andarsene dispersi pel
mondo. Io mosso a pietà di loro, e pel debito c'ho verso la giustizia,
ho molte volte pregato il Capitano qui che condanni il Moro siccome
ricettatore de' banditi a pagare e satisfare il detto Comune di quello
ch'esso per cagion del Moro e del fratello ha patito: esso Capitano
non l'ha mai voluto fare, e rispostomi che 'l Moro non può essere
condennato per aver ricettato banditi, _cum sit_ che dinanzi da sè
è provato per testimoni che di tal recezione il Moro non ha colpa,
ma che avendo la casa comune col fratello non ha potuto vietare al
fratello di non far de la sua parte quello ch'egli ha voluto, e che
gli è stato il fratello Giulianetto e non esso che ha dato ricetto a'
banditi. Io ho replicato al Capitano, che se per questo capo pur non
lo può condennare, perchè non lo condanna per avere mangiato e bevuto
con loro, parlato, conversato e menatoli seco in Lombardia e altrove,
che per ciascun di questi capi, secondo la mia grida, debbe essere
condennato? Mi risolve che non vuol farlo, e che l'ha condennato quello
che è stato conveniente. Ultimamente con comandamento penale ho fatto
che li uomini di Cicerana m'hanno esibita quella lor supplicazione
col rescritto di V. Ecc., nel quale è commesso al Capitano come
Commissario, che faccia che da questo Moro e dal fratello Giulianetto,
li quali sempre hanno in lor casa dato ricetto a' banditi, sia del
patito danno per lor causa satisfatto il Comune di Cicerana, e questa
supplicazione in presenza del Notaro e con testimonî ho data al
Capitano, e fattoli instanza in nome del Comune di Cicerana (del quale
in questo caso mi par conveniente ch'io sia procuratore) che eseguisca
quanto in essa supplicazione si contiene. Per questo il Capitano non si
è voluto muovere dal suo passo, ma risponde, che se quelli di Cicerana
vorranno ragione, bisognerà ch'essi siano quelli che si scoprano e
che la domandano; e per questo son venuto in sospetto, che a' preghi
e contemplazioni di qualcuno esso Capitano tenga questa via, acciò
che 'l Moro vada esente, e che quelli di Cicerana restino nel danno;
e che se bene ha condennato il Moro ne la confiscazione de li suoi
beni, e ne la disgrazia di V. Ecc. per essere ito in Lombardia in aiuto
d'una delle parti, contro la grida ch'io feci fare in nome di V. Ecc.,
forse si persuada (volendolo aiutare) che di questo troverà più presto
remissione e perdono da V. Ecc. che non farebbe del danno che per sua
causa hanno patito gli uomini di Cicerana. Del tutto ho voluto avvisare
quella, acciocchè andando le cose come si vogliano, non creda mai
che di mia volontà la giustizia, la equità e la misericordia, dove si
conviene, non abbia luogo: ed in sua buona grazia mi raccomando sempre.

  Castelnovi, XV iunii 1523.


LXXXII

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Per un'altra mia ho avvisato V. Ecc. de
l'assassinamento fatto d'una grandissima quantità di bestie minute e
grosse da alcuni fanti che stanno a Frassinoro, in favore di Mess.
Gian Giacomo Cantello. A lui io scrissi subito, e questa Comunità
scrisse, nè ancora n'ho avuto risposta. Poi questi uomini a chi son
state levate le bestie sono iti per ricuperarle, e sono iti indarno,
come a bocca il latore di questa potrà riferire. Questi uomini subito
han fatto ripresaglia di X muli di alcuni che sono da Castelnovo di
Reggiana e sono per farla di quante robe di Lombardi passeranno di qui.
Io gli ho ammoniti a non far ripresaglie, se prima non ricorrono a V.
Ecc., la quale o li aiuterà scrivendo di sorte a Mess. Gian Giacomo
e a Domenico di Amorotto che le bestie saranno restituite, o vero li
consiglierà quello c'hanno a fare; e per questo mandano: ma non li
ho potuto persuadere che restituiscano li muli; pur ho fatto che li
porranno in man mia. Domani tutta la Vicarìa è chiamata a Consiglio
per far provvisione, che quando per amor non possan riavere il suo,
di rivalersi per qualche via. Io dubito che non si attacchi qualche
gran discordia tra Lombardi e questi Toschi, e che cominciando questi
Grafagnini qualche impresa, e poi (come son di natura non troppo
valenti e mal d'accordo insieme) non la sostenendo, diano materia alli
Lombardi di passar di qua, e ridurre questa provincia ne li termini
che è il Frignano. Non mancherà per me finchè 'l male è fresco di
rimediare; ma senza l'aiuto e consiglio di V. S. non mi dà l'animo di
farlo. In bona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 20 iunii 1523.


LXXXIII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici etc._ V. S. avranno inteso quello che in su l'Alpe di S.
Peregrino, territorio di V. S., per li uomini parte della montagna di
Modena e parte di Reggio è stato fatto a danno di molti poveri uomini
di questa provincia di Garfagnana. Io ne ho subito dato avviso al mio
illustrissimo signore;[259] quello che sua Eccellenza farà non so.
Mi è parso anco di scriverne a V. S., le quali per essere più vicine
e per questo forse più preste a rimediare, ci piglieranno qualche
provvisione, che non ci so pigliare io, che per essere lontano dal
mio signore, tardi del suo aiuto mi posso valere. Ancora che a me non
stia di consigliare quelle, pure mi pare che non saria fuor di bisogno
di querelarsene e con la Santità di N. S., con li signori Fiorentini
_et etiam_ con il duca mio, e tutti insieme provvedere a tanti mali
che ogni dì ci moltiplicano; di modo che di tutte queste montagne li
assassini e uomini di mala condizione sono signori, e non il Papa, nè i
Fiorentini, nè il mio signore, nè V. S.: in buona grazia delle quali mi
raccomando.

  Castelnovi, 20 iunii 1523.


LXXXIV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi_. Oggi ho avuto
la ratificazione autentica dallo illustrissimo signor mio circa a
quanto il magnifico Commissario di V. S. e io rimanemmo d'accordio per
provvedere alle violenze, assassinamenti e omicidii e altri delitti
che sono fatti in questa Garfagnana; e così la mando a quelle, e le
prego e supplico che così come l'ordine è buono, così anco si ponghi
ad effetto, e che ormai si li dia tal principio, che si possi sperare
che abbi a succedere in meglio. A' dì passati io credo che io avvisassi
V. S. ch'alla Barca, sul suo territorio, fu assassinato uno nostro da
Corfino detto Bartolino, e li fu tolto un paro di buoi, una cavalla,
li panni del dosso e denari in buona somma secondo il grado dell'uomo:
li assassini furno di Barga e Sommocolognora _et etiam_ delle terre
di V. S., secondo che mi riferì colui che patì il danno. Poi sono
circa 4 o sei dì che sul nostro, fra Cascio e questo di Castelnovo,
furono assassinati alcuni da Minucciano e di altri luoghi sudditi
di V. S.; e per quanto il sostituto del vicario di Minucciano mi
scrive, il malfattore fu uno nostro da Camporeggiano, ma bandito, e
nulla ha di roba. Questa mattina mi è venuto a far querela uno nostro
da Reggio, che quelli della Barca in persona l'hanno assassinato,
toltoli alcune some che conduceva di grano e altre robe, e feritolo;
or io ho veduta la ferita. Io credo di udire anco questa sera qualche
altro delitto, e domani un altro, e l'altro dì uno altro, e ogni
giorno, non vi si facendo altra provvisione. Io prego V. S. che mi
voglino aiutare a rimediarci, cioè che per qualche giorno mandino
il suo bargello per stare a Gallicano, che egli da un lato e li miei
balestrieri da un altro vedremo o di pigliarli o di fare loro tal paura
che abbandonino l'impresa. Lo illustrissimo mio signore n'ha scritto
a' signori Fiorentini, e il capitano di Barga mi ha avvisato che la
intenzione de' suoi signori è di provvederci ogni modo, e che esso ne
ha strettissima commissione: pure io non ne vedo esecuzione alcuna. Se
V. S. si degnasseno, appresso quello che ho scritto io, di chiamare in
questa unione li signori Fiorentini ancora, e sollicitarli, instigarli
e spronarli, non credo che potesse se non giovare. Io ricordo quello
che mi occorre; V. S. prudentissime faranno quel che loro parrà il
meglio, chè pure che si facci qualche buona opera, o per una via o
per una altra, io mi chiamerò satisfatto: sopratutto le supplico, che
il delitto di questi della Barca, che sono persone che molto bene si
potranno avere a casa loro, non si lasci impunito. Costui che dice
essere stato rubato, si offerisce di stare con essi al paragone. Se in
questo mezzo mi capiteranno nelle forze, che vengano a Castelnuovo, io
farò il mio debito. A V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 6 iulii 1523.

A questa sarà alligato lo instrumento della ratificazione dello
illustrissimo signor mio: ora da V. S. aspetto la loro ratificazione
similmente autentica.


LXXXV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. L'esibitore di
questa è Tomeo di Andrea da Bargechia, il quale, come farà intendere a
V. S., ha ricevuto grandissimo torto da uno suddito di quelle, e anco
non molta ragione dal vicario di Gallicano. Io non mi diffonderò molto,
perchè esso a bocca e per le sue scritture narrerà meglio il caso suo
che io per lettere. Io raccomando a V. S. la giustizia, ben che credo
che non accada, e appresso questo uomo; e in buona grazia di quelle mi
raccomando sempre.

  Castelnovi, 7 iulii 1523.


LXXXVI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Ho avuto la notificazione di V. Ecc. di quanto
quel Commissario dei Signori Lucchesi e io avevamo concluso, e così
subito l'ho mandata a Sue Signorie insieme con una mia, per la quale
molto mi dolgo e lamento de li assassinamenti che in queste confine
tra la lor giurisdizione e nostra, ogni or da li loro, or da li nostri
sudditi son fatte; di modo che pochi di questi, che tornano di quel
di Roma o di Siena da lavorare, passano che non sieno spogliati e
predati. Io li ho pregati che mandino il loro bargello per qualche
giorno a star a Gallicano, luogo qui vicino a quattro miglia, acciò che
insieme con li nostri balestrieri possiamo pigliare o dar la caccia
a questi ladri. Di questo medesimo ho scritto ancora al Capitano di
Barga, e m'ha risposto averne scritto a' suoi Signori, e che circa
a questo ha strettissime commissioni da loro; pur nè di qua nè di
là veggo ancora uscire alcun buono effetto. Io non starò d'instare,
sollicitare e importunare. Circa alla differenza degli uomini di Vagli
con quelli di Pietra Santa, quello che V. Ecc. ha scritto a Fiorenza
e a Roma, non credo che possa se non giovare. Questi uomini dovevano
venire a Ferrara, e portare loro instrumenti e contratti, e chiarire
la mente di quella, che ad essi è fatto forza e violenza e ingiustizia
da quel Capitano di Pietra Santa;[260] il quale, secondo che mostra
per l'opere, debbe essere uomo di poca ragione, chè non solo mai non
ha voluto restituire le bestie che furon tolte, e tolte sul nostro,
ma poi parte n'ha fatto ammazzare alla beccaria, e il resto vendere
all'incanto per ventiquattro ducati: ma questi uomini di Vagli mai non
si sono potuti accordare di trovare li danari da pagare un messo che
venisse a V. Ecc., e stanno pure in questa ostinazione che vorrebbon
ch'io dessi loro licenza di far all'incontro ripresaglia d'uomini e di
bestie che càpitano dal canto nostro. Io gli ho pur tenuti in freno,
facendo lor sapere che faranno cosa che dispiacerà a V. Ecc.: quel
Capitano non resta di minacciar che se li nostri saranno arditi di
levar pur una capra de le loro, anderà a bruciar Vagli. Questi di Vagli
cognoscono che per sè non sono possenti a resistere a quelli di Pietra
Santa, e vorriano che se si attaccasse la zuffa, io li soccorressi:
ma io che omai cognosco la natura de li Grafagnini, che con tutti li
comandamenti del mondo non ne potrei far muovere uno a simil cose, chè
già n'ho fatto più d'una esperienza, eleggo per minor danno e minor
vergogna confortare li nostri a star con la testa rotta, e ricorrere a
V. Ecc. per consiglio.

Contra li sudditi de' Lucchesi per la differenza c'hanno li nostri
da Vallico con loro, si potria essere più audaci, perchè li nostri
sudditi, massime quelli di Vallico, mostrano aver poca paura di quelli
di Gelo, e anco fanno poca estima de li Signori di quelli: ma io son
stato rispettivo a non li lasciar fare, perchè le lettere ch'ogni
dì mi vengono da V. Ecc. sempre mi tolgono ogni ardire, e mai non
sento altro, se non che io vada destramente, e che io non attizzi li
galavroni: di modo che par che V. Ecc. non pur abbia rispetto alli
signori de le città, ma ancora alli villani de le montagne di Reggio;
sì come a' dì passati, essendo stata fatta quella preda di tanta
quantità di pecore da li seguaci di Gian Giacomo Cantello e di Domenico
d'Amorotto, e per questo li uomini qui de la Pieve aveano ritenuti
certi muli d'uno di Castelnovo di Reggiana; e io di questa cosa avendo
dato avviso, subito mi è stato rescritto, che senza dilazione alcuna io
faccia restituire questi muli, e che io non attizzi li galavroni; sì
che parea che non li facendo restituire subito io dovessi aver qui il
campo del Papa: ma io li avea già fatto restituire, ma ben con sicurtà
di rappresentarli o di pagarne la valuta ad ogni mia requisizione.
Queste lettere, e altre simili a queste, mi tolgono l'ardire e mi
fanno avere quel tanto rispetto, e quel che mi fa essere tenuto troppo
timido, che V. Ecc. in me riprende per la sua lettera: chè da un lato
aver poca forza e poco braccio all'officio, ed essere capo dei sudditi
che non sono (cioè questi altri a chi non s'appartiene) per seguitarmi
in alcuna impresa dove si maneggi arme; e da l'altra parte esser
tuttavia ammonito e fatto pauroso da le lettere di V. Ecc., e sempre
dettomi ch'io sopporti e ch'io proceda con prudenza e desterità, son
sforzato che s'io fossi un leone io diventassi un coniglio.

Questi di Vallico, quando la lettera di V. Ecc. è giunta direttiva alli
Signori Lucchesi in favor loro, già avevano mandato suoi ambasciatori
per questa causa a quella. Ma pur che sian venuti non è male, chè
meglio informeranno V. Ecc. del bisogno.

Ancora ch'io n'abbia scritto, non starò di replicare che questi uomini
a chi son state levate le bestie, son di mal animo, e mi dicono
gagliardamente che se non le rianno per favore e mezzo di V. Ecc.,
si deliberano di non stare in questa perdita e si rivaleranno su gli
uomini di Lombardia dove potranno, se ben fusson certi di perdere,
non che la roba, ma la vita. Io ho scritto di questa cosa più volte
al Cantello e a Domenico: mostrano ne le lor risposte che sua non sia
la colpa, e che gli ne rincresca: ma poi non mi pare che l'effetto si
accordi con le parole.

Si va pur dicendo che questa armata di Francia si vede in mare, e chi
dice ottanta e chi cento vele; ma io non ho certo autore: questa è ben
certezza, che tutte queste terre di mare ne stanno in gran sospetto. A
V. Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, 7 iulii 1523.


LXXXVII

                              AL MEDESIMO


Ill. Signor mio. Mando a V. Ecc. queste due lettere, l'una de' Signori
Fiorentini, l'altra de' Lucchesi. Credo sian le risposte di quanto
ha scritto loro V. Ecc. per quelle confine e ripresaglie. Quelli di
Pietra Santa vendêro le bestie per 24 ducati; pur quando li nostri
dessero sicurtà di pagarle _in casu sucumbentiae_, le restituiriano.
Quel Commissario mi fa instanza che di novo mi voglia trasferire sul
loco per terminare tal confine; ed io non voglio pigliare ardire senza
commissione di V. Ecc. porre a' danni di quella termini, perchè mi
rendo certo, che tra per sapere meglio dir la sua ragione perchè è
dottore ed ha molti dottori in compagnia, che io non ho qui alcuno,
e per essere più potente e più arrogante di me, vorrà o non mettere
confine o porle a suo modo: io m'ho sempre escusato, che non ho mandato
da V. Ecc., e senza quello non son per venire in su quel loco.

Intendo che Mess. Giovanni Ziliolo[261] è in Frignano per rassettare
quel paese: mi pare che stando là potrebbe anco rassettare questo;
e questo saria mettendo le mani addosso a quelli del Costa e a
quest'altri del Sillico e a parecchi da Somma Cologna, che intendo che
sono venuti in Frignano in soccorso de le parti di Virgilio.

Li portatori di questa saranno, credo, uomini mandati da la Vicarìa di
Camporeggiano per dolersi d'una sentenza data contra di loro. Io l'ho
data secondo _acta et probata_ e per consiglio del Capitano qui, e
tenendomi alle commissioni di V. Ecc., alla quale mi raccomando.

  Castelnovi, XI iulii 1523.


LXXXVIII

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Molte differenze di confine mi danno
grandissimo travaglio ch'avemo con Fiorentini da un canto e con
Lucchesi da l'altro. Tutto il dì fanno ripresaglia or d'uomini or di
bestiami: questi uomini si dolgono, e vorrebbono fare il simile contra
di loro: io per ubidir V. Ecc. li tengo repressi, or con ammonizioni
or con minaccie, perchè non usino la violenza: ma questo nostro troppo
rispetto fa gli avversari più ogn'ora insolenti e arroganti, chè quello
che noi facemo per bontade e desiderio di vivere in pace, essi estimano
che sia per viltade, e ogni dì si fanno più innanzi e trattano li
sudditi di V. Ecc. come fussino lor schiavi. A' dì passati mi dolsi de'
Signori Lucchesi ch'avevano ritenuto uno da le Fabriche per XV lire,
che volevano e vogliono che li uomini de le Fabriche paghino l'anno per
colta alli loro uomini di Gelo, facendo lor fondamento ne le confine
che già Mess. Pier Antonio Mercatello pose tra il territorio di V.
Ecc. e il loro. Io n'ho scritto a V. Ecc. e mandatoli alcune copie;
ma nel tempo ch'Ella si è ritrovata essere fuor di Ferrara, dal Sig.
Don Ercole mi fu risposto che alla tornata di V. Ecc. sarei instrutto
di quanto circa questo io avessi a fare, e così ne aspetto risposta.
In questo mezzo ho pregato li Signori Lucchesi che lascino quell'uomo
da le Fabriche che avevan prigione finchè V. Ecc. sia ritornata e
m'abbia avvisato del suo parere circa ciò, e così son stati contenti di
rilassarlo con promessa di ritornare in capo d'un mese ne le lor forze.
Mi è parso di darne per questa un poco di ricordo, acciò che quella non
credesse che la cosa non fosse di molta importanza. Ma questa cosa,
ancora che molto importi, non importa quanto un'altra differenza che
è fra gli uomini de la Cappella del Capitanato di Pietra Santa e li
nostri di Vagli di sopra. Il Comune de la Cappella ha fatto ripresaglia
di una gran quantità di bestie grosse ritrovate pascere in un luogo
confinale fra essi e li nostri di Vagli, e secondo l'instrumento che
li uomini di Vagli m'hanno esibito, e secondo che ancora in fatti ho
mandato a vedere, son certo che tal bestiame è stato tolto su quello
che è di nostra giurisdizione e non de la loro. Io n'ho scritto al
Capitano di Pietra Santa, e dolutomi che non faccia osservare quello
che per lo instrumento pare che già gran tempo fosse stabilito: esso
mi scrisse indrieto, che ad un certo dì constituito io mi ritrovassi
sul loco a veder le ragioni d'una parte e de l'altra, e che intanto
voleva ritenere le bestie, acciò che ritrovandosi li nostri uomini aver
passato su le confine e lochi loro, ne fussino puniti; e appresso mi
scrisse ch'io andassi con poche persone, che esso farebbe il simile,
per fuggire li tumulti e li scandali. Io, quantunque mal volentieri
mi trovassi a questa disputa, conoscendo che questo Capitano di Pietra
Santa è dottore ed era per menar seco dottori e notari, di che intendo
in quel luogo esserne copia, ed io non avendo chi menar meco, perchè
il Capitano de la Ragione non ci voleva venire, per essere via di più
di XV miglia la più aspra che sia in questo paese ed è impossibile
che possa farsi a cavallo, ed esso, per essere uomo grave, non pur ne
vuole andare a piedi; nè altro dottore è in tutta Grafagnana, se non
Mess. Achille che gravissimamente è ammalato; pur mi disposi di andare:
e così una domenica circa a XX ore mi mossi per ire quella sera ad
albergare a Vagli e ritrovarmi il luni, che era il giorno constituito,
sul luogo, il quale è alla sommità di Petra Pania. Fosse naturale
accidente, o fosse volontà di Dio, a quell'ora si levò il più orribil
tempo che fosse già dieci anni in questo paese, sicchè le fulmini
ammazzâro quel giorno uomini e bestie; e fu la maggior pioggia e la più
lunga che da questi tempi fosse mai: durò senza intermissione tutto il
giorno e gran pezzo de la notte. L'altro dì, quando il tempo cominciò a
rischiararsi e ch'io mi volsi movere, mi venne un messo che 'l Capitano
di Pietra Santa era stato sul luogo, il che potè fare agevolmente per
esservi molto vicino, e intendo che da quel canto non era stato alcun
mal tempo: nè ancora che fosse stato buon tempo ci vorrei essere ito,
perchè intendo che, contra l'ordine dato, vi era venuto con forse
ducento persone armate e vi aveva appresso cento scoppettieri, e avea
mostrato di venire più per combattere e ottenere per forza, che per
vedere di equità. Io subito gli mandai un messo ch'era de li uomini di
Vagli con la inclusa lettera, e come V. Ecc. potrà vedere lo pregavo
che restituisse queste bestie. Esso non si è degnato di darmi altra
risposta; anzi per mostrare più superbia mi ha rimandata la mia lettera
indrieto, e detto al messo che non vole restituire le bestie, anzi che
gl'incresce che ne restituisse una parte a' dì passati a' miei preghi.
A questa cosa io non so pigliare rimedio, perchè ancora ch'io fossi ito
o di nuovo mandassi sul luogo, so che questo Fiorentino e con le sue
leggi e più con la forza vorrebbe vincere; e più presto la mia andata
sarebbe a pregiudicio che a profitto del Stato di V. Ecc.[262] Questo
paese, che questi di Pietra Santa vorrebbono occupare, non è da lasciar
perdere così pianamente, perchè va a confinare col Stato de la Marchesa
di Massa, e per quella via potemo noi condur sali e altre robe di
tutta quella spiaggia; chè se Fiorentini l'usurpassino vi porrebbono la
Gabella con grandissimo detrimento di questo paese.

L'uomo che sarà portatore di questa supplirà a bocca dove io mancassi
nel scrivere, perchè credo che ne sarà informatissimo. Bisognerà a mio
giudicio che se ci avremo a condurre su queste confine, che l'una parte
e l'altra vi vada con quella gente sola che sia atta a giudicare di
tal lite, perchè per l'odio che è tra li nostri di Vagli e li uomini
de la Cappella e di Pietra Santa, si potrebbe attaccare una scaramuzza
di mala sorte: e dovendo V. Ecc. mandarci, io non sarò buono; salvo se
V. Ecc. non mi desse compagnia di dottore e persona bene instrutta. Ma
saria forse meglio che la causa fosse commessa o a Lucca o a Sarzana,
sicchè senza andare quelli che sono parte sul loco, si giudicasse per
la giustizia; chè la lite mi par che stia in prove di testimonî: qual
sia quel luogo che nomina lo instrumento Acquaruolo, e quali sieno
quelli che si chiamano li pascoli d'Arni. Pur V. Ecc. farà il suo
parere: in buona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, xiij (iulii) 1523.


LXXXIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ A questi dì ebbi
una di V. S. diretta allo illustrissimo signor mio; credo fusse in
risposta di quanto sua Eccellenza aveva scritto per la differenza
fra li uomini delle Fabriche e di Gello: la lettera mandai domenica
prossima passata, perchè prima non ho avuto mezzo. Sua Eccellenza
ha per questa che io mando replicato, per non avere ancora avuta
quella di V. S.: questo ho scritto, acciò che elle non ne pigliassino
ammirazione; alle quali del continuo mi raccomando.

  Castelnovi, 13 iulii 1523.


XC

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Per uno mandato da la Vicarìa di Camporeggiano
mandai a Vostra Ecc. una lettera de li Signori Fiorentini, e una de li
Signori Lucchesi. Credo che lo esibitore di questa sarà uno mandato da
li uomini di Vagli di sopra, alli quali, come per altre mie ho scritto
a Vostra Ecc., da li uomini di Pietra Santa è usata gran violenza.
Vostra Ecc. farà vedere li loro instrumenti e anco si degnerà pigliarne
informazione dal Mag. Mess. Agostino da Villa,[263] il quale intendo
che già fu sul fatto e se ne chiarì benissimo, poi quella farà e
commetterà secondo il suo parere.

Ho poi avuta una di V. Ecc. dì X di questo, e insieme una direttiva
alli Sig.i Lucchesi. Quella che va a' Lucchesi per li uomini medesimi
di Vallico, che ne sono stati portatori, ho mandata a Lucca, e ne
aspetto risposta. Io mandai anco l'altra ch'io ebbi a' dì passati, e
credo che quella ch'io ho mandata per l'uomo da Camporeggiano sia la
risposta. Se li prefati Sig.i Lucchesi faranno il lor debito, n'avrò
piacere; quand'anco non lo facciano, non mancherà per me; poichè io so
la intenzione di V. Ecc. di portarmi con loro come essi si porteranno
con noi: se faranno ripresaglia di nostre robe o nostri uomini, farò
altrettanto a loro. Circa alle novelle da Pisa, poco si può intendere
di verità, perchè vi è la peste. Io non lascio entrar qui persona che
venga di là, nè alcuno de' nostri andare a quella via.

Noi semo stati in gran pericolo circa la peste: perchè questi
contadini, fatto Pasqua, hanno usanza di andare in gran quantità su
quel di Roma e ne le Maremme a guadagnare, e poi, segati li grani,
tornano a casa, e nel ritorno molti hanno seco il morbo. Io ho durato
grandissima fatica a far che non sieno ricettati ne le lor terre, ma
confinati chi qua chi là, e provvisto lor al bosco de li lor bisogni;
pur non ho possuto provveder tanto, che molti furtivamente non sieno
andati alle mogli ed alle lor case; e in una de le terre nove detta
Roggio si è attaccata la peste, sì che subito ne son morti nove.
Provvisioni grandi se gli son fatte e fanno tuttavia, e spero che non
si dilaterà più innanzi. Questi Maremmani han fornito di venire, sicchè
non abbiamo dubbio di peggio. Sia come si voglia, n'ho voluto dare
avviso a V. Ecc.

Circa a quanto V. Ecc. mi commette, ch'io l'avvisi di che genti io
avrei bisogno per rassettare questo paese, io n'ho già dato avviso
a Mess. Gioan Ziliolo, e forse esso avrà mandata la mia lettera a V.
Ecc., pur lo scriverò anco a quella. Qui non è alcuna terra ribelle
che si bisogni brugiare o saccheggiare, nè alcuno capo di parte
ch'abbia sèguito di 200 o di 300 uomini, sicchè per questo sia bisogno
mandare esercito di qua. Qui sono quelli del Costa che sono circa
sei; li figlioli di Pellegrino dal Sillico altrettanti, e qualche
altro giottoncello che li seguita da Barga e da Sommocologna, che
senza l'aiuto de' Lombardi non ponno far gran squadra; e quando hanno
avuti li Lombardi con loro, cioè quelli Pacchioni e alcuni da la
Temporia, non sono arrivati a cento, ma spesso sono stati in trenta
o in quaranta. Io so che, come s'intenda che Mess. Giovanni sia per
passare o mandar gente di qua, si leveranno: nè finchè ci stia ci
appariranno; ma non sì presto sarà partito che saranno qui: nè altra
punizione si potrà dar loro, se non di mettere le mani addosso a' loro
padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che
non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre,
saccheggiar le case e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli
arbori, e distruggere li lor luoghi, ch'ogni modo non si potria trovar
chi li comprasse, nè aver se ne potria frutto per la Camera; ed anco
saria forse bene di non aver rispetto in questo alli padri, nè alle
mogliere per dar lor punizione, chè con tante proibizioni di V. Ecc.
han sempre dato lor recapito. Poi sarìa bene batter per terra tutti
li campanili, o vero aprirli di sorte che non potessino dar ricorso
alli delinquenti: _et similiter_ le rôcche che V. Ecc. non vuol far
guardare, o _saltem_ alcuna, come quella di Dallo, dove quelli del
Costa signoreggiano. A far tutte queste cose basteriano cento fanti,
e anco cinquanta: li cavalli qui ponno far poco frutto; pur questi
pochi che ci abbiamo con li fanti saranno a sufficienza. Io mandai ieri
questo capo di cavalli leggieri che sta qui, cioè Antonio da Cento,
a parlare a Mess. Giovanni Ziliolo per vedere se potesse avere fino
a 20 fanti, per tornare secretamente di notte, e provare se potesse
avere in Cicerana questi banditi: non so quello che sarà, pur dubito
più del no che io spieri del sì; perchè, poi che sentono questa furia
in Frignano, stanno tuttavia su l'ale. M'era stato detto che volevano
andare a trovare Mess. Giovanni, ed io lo aveva avvisato: e si mossono,
e poi sono tornati indrieto. Quelli del Costa intendo che sono passati
in Lombardia a danno de le reliquie di Domenico di Amorotto;[264]
non so se V. Ecc. avesse modo di farli pigliare là, che saría una
salutifera opera. Impiccati che fossino X ribaldi di questo paese, il
sarìa tutto risanato. Il barigello di Lucca oggi è venuto a Gallicano
con commissione da' suoi Signori di far quanto io gli comandarò, e gli
è accaduto venire in tempo che'l nostro Capitano di balestrieri non
ci era. Mi ha scritto e rescritto, e semo d'accordo che ad ogni mia
richiesta tornerà: io lo avrei fatto aspettare, ma essendo scoperta
la sua venuta tutti li tristi avranno sgombrato. Io gli ho mandata una
nota del nome di questi banditi. Mostrano le lettere sue che ci viene
di buono animo, e così anco le lettere che sopra ciò m'hanno scritto li
Signori Lucchesi. Altro non occorre. A V. Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, XV iulii 1523.


XCI

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Pier Morello m'ha portato una di V. Ecc.
ne la quale essa mi riprende ch'io abbia mandato a consigliare la
causa ch'egli ha col pisano a Lucca, e che più presto io non l'abbia
mandata a Ferrara. Ma acciò che la ragione mia anco s'intenda, V.
Ecc. intenderà come questa causa fu commessa al Commissario e alli
quattro soprastanti alla gabella, ed essendo venuto per questo in
mia mano questa causa, io ne presi consiglio a' dì passati con Mess.
Raffaele da Carrara allora Capitano di Camporeggiano, e questo perchè
il Capitano qui di Castelnovo è sospetto grandemente al pisano. Esso
Mess. Raffaele, veduto il processo, mi fece la sentenza in scritto;
ne la quale assolveva il pisano a _solutione datij_ per quelli legnami
_de quibus in causa_, e Pier di Morello _ab expensis_. E non mi fidando
io che questa sentenza fosse _de jure_ per certi andamenti che avevo
veduto, ne mandai la copia a V. Ecc., e la pregai che la facesse vedere
al Consiglio, e dissi di volere appresso mandare il processo. Ma V.
Ecc. mi fece rispondere, che non voleva che altrimenti il Consiglio
si intromettesse in questa causa, che pur io la terminassi secondo il
parer mio e de li quattro soprastanti. Dopo, fra pochi dì, venendo io
a Ferrara e parlando di questo col Mag. Mess. Matteo Casella,[265]
Sua Mag. mi disse ch'io non andassi cercando altri consigli, ma che
secondo il parer de li quattro io la espedissi: e così, tornato ch'io
fui qui, tolsi il processo e chiamai li quattro li quali si trovano
essere al presente, e poi ch'ebbi udito il parer loro, chiamai li altri
quattro, e gli altri quattro ancora ch'erano stati prima, e finalmente
quanti uomini di questa terra per diversi tempi erano stati a quello
officio de la gabella; li quali _nemine discrepante_ ho ritrovati
tutti conformi, che di tal petizione il pisano debbia essere assoluto,
fondando questo lor parere, parto sopra li capitoli de la gabella,
parte su la consuetudine che mai non si pagò, ma più che dicono che
la volontà di chi tali capitoli constituì, non fu mai che di tal cose
s'avesse a pagar dazio, e ne sono alcuni vivi che si trovâro a farli: e
aggiungono ancora, che quando questi capitoli non fussino ben chiari,
tutta questa terra sarebbe per far generale consiglio, e chiarire
nominatamente che di tal cose non s'avesse a pagar dazio; e questo
perchè quando tali imprese di legnami si facevano, si dava guadagno
a poveromini che mettevano opere e fatiche in tal condotte di mille
ducati l'anno; il che poi che questa lite è cominciata è cessato con
grandissimo danno del paese. Veduto io che 'l parer di tutti gli uomini
di questa terra era risoluto che 'l pisano _erat absolvendus_, proposi
loro che anco giudicassino, se Piero dovea essere condennato in le
spese, e in certa pena in che per li capitoli incorre il gabelliere che
domandi quello che non ha d'avere, e se lor pareva _an Petrus habuerit
iustam causam litigandi, an non_. A questo non potei condurre alcun
di essi che volesson giudicare, allegando che questa era materia da
dottori e non da essi, che sono volgari e idioti. Per questa causa,
desiderando io di dar sentenza che fosse giustificata e che quando
si avesse a vedere altrove non fosse riprovata, presi espediente di
mandare il processo a Lucca per farmi chiarire questo punto, sì come
luogo più vicino, sperando di mandare un dì il processo e l'altro
averne la espedizione. Ma la cosa è successa altrimente, perchè il
dottore a chi lo mandai si trovò ammalato e mai non l'ha potuto vedere;
ma ora ch'io intendo la volontà di V. Ecc. lo manderò subito a tôrre e
lo rimetterò a Ferrara.

Credo che Pier Morello si sia venuto a doler di me, come di persona
che non spiera poter trattare a suo modo contra la giustizia, perchè
mai non gli ho risposto, come forse sperava; imperò che nel principio
ch'io venni qui egli mi fece offerire prima per Ser Tito allora mio
Cancelliere, e poi a me in persona, di volermi dar la metade di ciò
che si poteva cavare da questo pisano, ed anco miglior condizione,
pur ch'io lo favorissi _usque ad victoriam_ in questa causa. S'io ho
fallito a mandar il processo a Lucca, m'incresce: ma non ho però fatto
cosa che altri miei predecessori non abbiano fatto, e che mi paia
che sia contra il dovere, essendo di qui a Lucca XX miglia e di qui a
Ferrara cento: nè anco ho Lucca per città nimica di V. Ecc., nè dove
una parte abbia più amicizia o parentado che l'altra; nè all'una parte
nè all'altra io dissi dove o a chi io l'avessi mandato, nè so come
Piero poi l'abbia inteso; ma dubito che esso abbia paura de la ragione
in ogni loco, e che non abbia fatto questa querela perchè dubiti più di
Lucca che d'altro luogo, ma perchè ogni indugia e dilazione fa per lui.

Se 'l pisano si duole perchè sia menato in lungo, ha ragione perchè
ha frustato tanto tempo qui, che se fosse stato in paradiso gli
dovrebbe rincrescere: ma la colpa non è mia. Questi uomini vengono
mal volontiera a dar questa sentenza, e studiosamente vanno tutti
differendo finchè possano uscire d'officio, e lasciar questo carico
alli successori: ma quando fosse commessa nominatamente a quelli
quattro che erano in officio al tempo che la causa fu commessa, cioè
Soardino, Maestro Gianpiero Atolino, Simon di Lorenzo e Valdrigo,[266]
o ad alcun altro che avesse essere giudice _usque ad expeditionem
cause_, credo che attenderebbono alla espedizione, e non a mirar di
dare il carico al successore. Tutti sono d'accordo a dire che Piero
ha il torto, ma non gli vorrebbono far male. Se pare a V. Ecc. che
io mandi il processo, e che io aspetti da Ferrara la sentenza o che
pur ch'io la dia secondo il consiglio di questi uomini secondo la
commissione di V. Ecc. senza altra consultazione, quella mi faccia dar
avviso, che subito io gli darò espedizione. In buona grazia de la quale
mi raccomando.

  Castelnovi, XVI iulii 1523.


XCII

                              AL MEDESIMO


Ill. Sig. mio. Avevo mandato il Capitano de li balestrieri qui a
Mess. Gioan Ziliolo perchè avessi in presto fino a XX fanti che volevo
che venissono di notte per provare se si potean pigliare li fratelli
del Moro dal Sillico che tuttavia stanno a Cicerana, cioè quelli che
assassinâro il prete pisano; ed è tornato senza, riferendomi che da V.
Ecc. Mess. Gioanni non ha commissione alcuna di mandar gente di qua. A
questo prego V. Ecc. che faccia quella provvisione che li pare, secondo
che per l'altra mia scrivo.

Il Camerlingo di Camporeggiano è qui che non ha portato se non una
parte de li danari de li balestrieri, e dice che quelli de le terre
nuove, cioè Dallo, Pontecchio e il Castello, e l'altre de la Vicarìa
di sopra, negano di voler più conferire alla provvisione di quelli,
allegando che ogni modo[267] non gli giovano, che sono assassinati
e depredati da li Lombardi e da altri, e non è chi li soccorra; e
non solo di questa paga, ma di due passate sono debitori. Io gli ho
subito fatto far li comandamenti con protesto se non pagano ecc., ma
non si trova messo che voglia ire in quel luogo: vederò di mandarli
un balestriere, se io potrò. È passato un anno che io feci in scritto
alcuni comandamenti alli padri e fratelli di quelli assassini da
Pontecchio, e li mandai alli officiali a Camporeggiano, acciò che per
uno di quelli messi gli mandassino, e mai non hanno potuto far che
messo vi voglia andare, e più che uno di questi citati in questo tempo
è venuto a Camporeggiano a certo parlamento, e il notaro del Capitano
che avea questi comandamenti in mano non è stato ardito di fargline
motto, e questo per esser di questo paese; chè dice che non vole essere
amazzato per questo.

Appresso,[268] certi banditi che sono assassini, e sono due
deserti[269] che non hanno nè credito nè sèguito, stanno tuttavia a
Camporeggiano, e non solo quelli officiali non si pongono alla prova
di pigliarli, ma pur mai non me n'hanno scritto: il che intendendo
io per altra via, vi mandai li balestrieri e giungendo improvviso si
trovò che uno di questi tristi, detto il Frate, giocava a carte con
uno da Camporeggiano col circulo di tutta la terra intorno, e come li
balestrieri si scopersono lo ascosero, e lo fêro fuggire in un campo
di canape: e tutti lo vedevano e sapevano, nè fu alcuno che volesse
cennare alli balestrieri, e fra gli altri ci era Ser Costantino da
Castelnovo ivi notaro, il quale poi si escusa che non vole essere
ammazzato. E appresso, colui che ivi fa l'ufficio del Cavalliero stette
quel dì medesimo a battere su un'ara con questo ribaldo il quale da XX
giorni in qua ha assassinato circa sei persone in più volte, poveromini
che veniano di Maremma, e tolto loro fin a XV ducati. M'incresce, chè
par che qui io non abbia da far altro che di riferir male: pur lo fo
perchè tutta la colpa, se le cose non vanno bene, non cada sopra di me.
A V. Ecc. umil. mi raccomando.

  (Castelnovi), XVII iulii 1523.

S'io volessi anco aggiungere cha a Camporeggiano o in quella Vicaria si
son fatti maleficî di più sorte, contra li quali non si è mai processo,
direi male, ma direi però la verità.


XCIII

                    AGLI OTTO DI PRATICA IN FIRENZE


Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Baccio de la Masa,
esibitore di questa, è venuto a me facendomi intendere, come da Vostre
Signorie è stato chiamato a Fiorenza, e non sapendo per che causa, ha
avuto ricorso al magnifico Potestade di Barga; il quale gli ha detto,
questo non dovere essere per altro, se non per le querele che di quelli
di Barga e di Somma Cologna son venute dal Commissario di Castelnuovo;
e mi ha pregato, che appresso Vostre Signorie io faccia fede de la
verità. Io dunque, perchè non fu mai mia intenzione di ascondere o di
fingere quella, dico che di questo Baccio non ho mai avuto richiamo
alcuno: anzi il dì di San Piero prossimo passato egli fu a ritrovarmi
per comporre certa lite e discordia, che fra un certo Giuliano Grigoro
e alcuni sudditi del mio Ill.mo Signore era sorta; e questo perchè li
nostri si dolevano che questo Giuliano era stato in grossa compagnia a
Massa, terra di questa ducale provincia, e avea usata certa violenza
contra di loro: e da quel giorno in qua le cose sono state molto
quiete, e mi ho creduto che sia stata assai opera di questo Baccio; e
così ne fo fede a Vostre Signorie, alle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 20 iulii 1523.


XCIV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici et excelsi domini, domini mihi observandissimi._ Molte
volte mi son doluto agli capitani di Barga de li latrocinii e
assassinamenti e altre violenze, che alcuni tristi da Barga e Somma
Cologna tuttavia fanno in questa ducale provincia di Grafagnana, nè
mai ho veduto effetto per il quale questi ribaldi si ritraggano da
le lor malopere; che sempre in buona quantità, _armata manu_, or in
compagnia de li nostri banditi, ora da per sè, non sieno in questo
paese, ora assassinando, ora mettendo taglie, e sempre or in questa
villa, or in quell'altra volendo vivere a discrezione. Io da parte
dell'illustrissimo mio Signore già molti dì sono ho fatto per publica
grida proibizione, che nessuno de li nostri vada in armata, nè in
compagnia di alcuno, sul territorio di V. S., sia per qual cagione
si voglia; ma non mi par che dal canto de li officiali di Vostre
Signorie mi sia stato renduto il cambio; imperò che io non sento mai
altro, se non che or uno, or un altro è stato assassinato, e sempre
vi si truovano genti or da Barga, or da Somma Cologna, in compagnia.
Li quali delitti riferire ad uno ad uno saria troppo lungo, massime
avendone io più volte, e secondo che sono accaduti, fatto intendere
al Capitano di Barga. Di nuovo ho da riferire a V. S., che un Togno
di Nanni del Calzolaro da Somma Cologna, e un Francesco detto Francio
figliuolo di Biagio di Gigrò, Stefano di Barzante di Stefano con altri
cinque compagni, sono iti su quel d'una terra di questa provincia detta
Cicerana, e hanno, spezzando e rompendo casse e sforzando il mandriano,
saccheggiato una quantità di cacio, il quale era di uno Nardino
da Cicerana. Mi è parso ancora che questa cosa non importi quanto
molt'altre che ogni dì si sentono, di farne a V. S. querela, e pregarle
che si degnino pigliarci qualche provisione, acciò che in effetto
cognosciamo essere vero che lor dispiaccia tali portamenti: in buona
grazia de le quali mi raccomando.[270]

  Castelnovi, 23 iulii 1523.


XCV

                              AI MEDESIMI


Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Ancora che io creda
che 'l magnifico Potestà di Barga abbia fatto intendere a Vostre
Signorie che quello Giuliano Grigoro abbia dinanzi a quelle difesa
la sua causa con molte bugie; non resterò io ancora di certificarle,
che colui di che si duole questo Giuliano che gli ammazzasse quel
suo parente, non è persona di questa provincia, nè suddito alla
giurisdizione mia. Anzi, per quanto intendo, la colpa di tale omicidio
ha uno Bogietto da Somma Cologna, forse aiutato da qualche lombardo,
sopra li quali io non ho potestade nè autorità alcuna, anzi sono
banditi e ribelli del mio illustrissimo Signore. Ma s'a lui è stato
fatta questa ingiuria da quelli di Somma Cologna, forse con aiuto
di qualche uno di questi c'ho detto, che a questa ducale provincia
niente appartengono, che colpa n'hanno gli uomini nostri di Massa?
che nè parentado, nè amicizia, nè forse cognizione hanno ancora con
questi che l'hanno offeso, sì che egli già due o tre volte sia venuto,
poich'io sono in questo officio, con quaranta o cinquanta persone in la
villa di Massa e altrove, e abbia rotto usci e casse, e tolto pane e
formaggio e roba da vivere, e voluto essere alloggiato a discrezione,
come se fosse rotta la guerra. E appresso in questi tempi sono alcuni
stati assassinati alla strada, che non si è potuto sapere da chi, ma
publicamente si è dato colpa alli compagni di questo Giuliano.

Circa a quell'altro Baccio de la Masa, gli è vero che venne a me, e mi
pregò ch'io facessi fede appresso Vostre eccelse Signorie, come io non
mi dolevo di lui, e menò seco alcuni di questa terra di Castelnuovo
ch'io tenevo per uomini da bene, che mi attestaro che questo Baccio
era persona quieta e ch'amava la pace e la tranquillitade, e che
mai non s'era interposto se non a far buone opere. Per questo io lo
compiacqui di fargli quella lettera, che non sapendo io per me alcun
male di lui, non mi pareva anco di dovermilo presumere e imaginare.
Gli è ben vero che poi da molt'altri mi è fatto intendere, che costui
è tutto il contrario di quello che da quelli altri mi fu dipinto, anzi
che esso è consigliere, impulsore, capo e guida di tutti li mali che
Donatello da Somma Cologna fa in questa Grafagnana: del quale Donatello
m'ho più da dolere che d'altro suddito di Vostre Eccellenze; chè di
lui son pochi giorni ch'io non abbia grandissimi richiami or d'avere
fatto una cosa, or un'altra, da farne venire orrore a Vostre Signorie,
quando lo intendessino: e sul libro de le nostre condennagioni è il
suo nome più scritto che d'alcun altro. Se questo Baccio abbia colpa
di tanti mali, o pur sia uomo da bene come quelli altri me l'avevano
dipinto, io lascierò giudicare a chi lo conosca meglio di me; perchè
essendo gli uomini di questa provincia la più parte faziosi, e che
parlano a passione, non mi fido a dar fede più a questi che a quelli.
Vostre Signorie, che sono prudentissime e piene di giustizia, credo
che ben ci sapranno e vorranno pigliar riparo; nè il mio illustrissimo
Signore dal canto suo mancherà di quanto gli sarà possibile, perchè le
strade sieno sicure, e gli uomini da bene nelle case loro. Per adesso
saria buona opera a provvedere che li sudditi di Vostre Signorie non
venisseno per causa alcuna, nè spontaneamente nè chiamati, in questa
ducale provincia, se non a due o tre insieme per far lor faccende, e
non in armate come fanno tutto'l dì; sì come anche io ho provvisto, di
commissione del mio illustrissimo Signore, che li nostri non possano
venire nel dominio di Vostre Signorie. E pur alcuni non obbediscono, e
sono banditi e gente di sorte, sopra la quale, perchè non hanno altro
al mondo che la persona, io non ho potestade alcuna. In bona grazia di
Vostre Signorie mi raccomando.

  Castelnovi, 6 augusti 1523.


XCVI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Circa a quelli
della vicaria di Minucciano, che sono stati assassinati da due
da Camporeggiano, di che V. S. un'altra volta mi hanno scritto,
rispondendo dico, che se io avessi potuto avere li malfattori in le
mani, o che di quelli che sono stati imputati si trovasse roba che
potesse satisfare il danno, io non avrei aspettato che da V. S. mi
fosse stato scritto a fare il debito mio; ma prima, non mi consta che
tale assassinamento sia stato fatto da quelli di Camporeggiano, se
non quanto si presume, per essere uomini di mala sorte, e che hanno
fatto di tal cose; ma per questo non sono restato, come io fussi certo
che fussino stati quelli, di fare ogni opera per averli nelle mani,
e fo tuttavia: ma fin qui non mi è successo andare contro la roba.
Ho provato l'uno di essi detto il Frate: non si trova ch'abbi altro
al mondo che una casetta di valore, per quanto io intendo, di due o
tre scudi; quella ho fatto porre all'incanto, nè mai se li è trovato
compratore: l'altro compagno, detto Margutte, ha poco similmente, e di
quel poco che si gli trova è comparsa la madre ed uno instrumento di
donazione fatto già 3 anni, al quale instrumento nè anco io sarei per
attendere, se si trovasse compratore a certa parte di selve e di campi,
che sono di queste ragioni: ma io non ho autorità di sforzare alcuno
a comprare contra sua voglia; sì che o V. S. mi abbino per escusato,
o mi mostrino che via io abbia a tenere da far satisfare cotesti suoi
sudditi, senza mancare di ragione. E in buona grazia di quelle mi
raccomando.

  Castelnovi, 7 augusti 1523.


XCVII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Meglio informato come il Moro è fuggito,
ho trovato un coltello in prigione, il quale per quattro testimoni è
provato esser di quel figliolo di Bastiano Coiaio il quale tutto ieri,
come per l'altra mia ho scritto, stette seco in parlamento. Con questo
coltello il Moro ha cavato dentro via una fessura in l'uscio, con la
quale è ito a trovar la chiavatura che di fuora era col cadenazzo, e
con questo coltello ha respinto il chiavistello, e così si ha aperto.
Questo sia per più chiarezza a Vostra Ecc. Se questo figliolo di
Bastiano io potrò, farò pigliare. Suo padre mi è stato a ritrovare, e
con la sua solita insolenza ha detto parole assai altiere, come è suo
costume, e mi ha voluto mostrar ch'io non scrivo cosa a Vostra Ecc.
ch'egli non ne sia avvisato. In somma non può patir ch'io abbia scritto
male di questi fratelli dal Sillico, e le sue parole più tendono per
far che per paura io desista di avvisar di volta in volta le cose
come occorrono a Vostra Ecc., che per buoni portamenti mi voglia far
suo amico: poi che venendo di certo suo luogo scontrò il Moro che
fuggiva, il quale gli aveva narrato di punto in punto come era uscito
di prigione. Vostra Ecc. può per questo solo conietturar se esso era
conscio di questo ordine; chè non mi par così verisimile che a ventura
l'avesse trovato, di quello che lo stesse ad aspettar alla posta. In
buona grazia di Vostra Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, 29 augusti 1523.


XCVIII

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Sig. mio. Appresso quello che de la morte del conte
giovine[271] di San Donnino e de la madre ho scritto, V. Ecc. intenderà
come mi è venuto alle mani uno instrumento per il quale Pier Madalena,
padre di questo Gian Madalena che di sua mano ha fatto l'omicidio,
promette a quel conte Giovanni che poi fu morto da Genese, che nè esso
Piero nè alcuno de li figliuoli nè de la sua famiglia offenderà nè farà
offendere il detto Conte, nè alcuno de la famiglia di esso, sotto pena
di ducati ducento da essere applicati per la metade alla Camera di V.
Ecc., l'altra metade alla parte offesa. Per questo ho chiamato a me
il detto Piero e l'ho cacciato in prigione, dove spero di tenerlo più
cautamente che non ho saputo fare il Moro. Ecci un'altra pagarìa di
centocinquanta ducati, che quel Genese non offenderìa il Conte prefato
nè li suoi: de la quale pagarìa questo Piero è per cento; e già è
passato l'anno che per questo io lo distenni e volevo che pagasse: ma
quel Giovanni suo figliolo che ora ha fatto questa orribile scellerità,
venne a V. Ecc. e portò una commissione che si procedesse _iure medio_,
di modo che si è agitato il processo lungamente. All'ultimo avevo date
le scritture in mano del Capitano qui acciò che mi consigliasse _in
ferenda sententia_; ma esso (non so perchè) non si è mai risciolto.
Saria buono che V. Ecc. o scrivesse che, messi li processi da parte, io
stringessi questo ribaldo vecchio, il quale credo ch'abbia poco meno di
cento anni, a pagare tutte queste pagarie, di consenso e istigazione
del quale è publica opinione che tutti questi mali sieno seguiti:
ovvero che si scrivesse al Capitano _qui exhiberet consilium_; e se vi
avesse dubbî mandasse quelli o tutto il processo a Ferrara: perchè il
non far pagare le pagarie o porle in disputa è causa di tutti questi
mali che sono in questa provincia. A Vostra Ecc. mi raccomando.

  Castelnovi, 29 augusti 1523.

A San Donnino in favore di questo Madalena s'ingrossa gente, e fra gli
altri vi sono quelli del Costa, eccetto Bernardello, il quale intendo
che è alle Verugole in favore delli Castellani, e mi è detto che da
quell'altro canto si fa un'altra armata dove è ito Battistino Magnano
con quelli da Sommacologna, e che questi dal Sillico vi sono iti o sono
per andare. Dubito, chi non l'estingue presto, che s'accenda un foco in
Garfagnana non minor di quel che è stato in Frignano.

Il figliuolo di Lucca Piretto è tornato, e questi che lo favoriscono
si lamentano di me che ho scritto che è capo alla Pieve de la parte
taliana,[272] e tutto quello c'ho scritto m'hanno saputo dire. Mi duole
che mi sien rotti li patti, che per altre sue V. Ecc. mi ha promesso,
di tener secreto tutto quello ch'io sia per scrivere.


XCIX

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Mando la copia de l'instrumento per vigore
del quale ho posto Pier Madalena in prigione. V. Ecc. farà giudicare
se per quello è obbligato o non a tal pagheria; e m'avviserà s'io lo
debbo tenere in distretto, o se pur dando sicurtà, come costoro che mi
pregano per lui m'instanno, lo debbo lasciar per rôcca.

Un Battistino Magnano bandito di qui per assassinio, è passato con
alcuni compagni, e fra gli altri con Bernardello da Pontecchio e altri
circa 18, e nel passare hanno fatti due prigioni: l'uno è figliolo d'un
detto il Vergaia da Corfino, e gli hanno posto taglia trenta ducati,
e avuta la sicurtà da uno da Corfino che fra tre dì pagherà, l'hanno
lasciato. De l'altro non mi ricordo ora il nome nè la quantità de la
taglia. Il padre di questo a chi è stato posto taglia, e colui che
gli ha fatto la sicurtà, son ricorsi a me, che non vorriano pagare,
e tuttavia aspettano che le case gli sieno saccheggiate. Io non gli
ho saputo dare altro che parole, e che io aspetto da V. Ecc. buona
provvisione a rassettare il paese. Quando io non avrò più che dire,
e che avrò totalmente perduto il credito, me ne fuggirò di notte, e
me ne venirò a Ferrara. Mentre io scrivo mi è venuto nuova che tra
Sillicano e Gragnanella è stato morto e assassinato un altro. Ognuno è
di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. Sig.ia, in buona grazia
de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, ult.o augusti MDXXIII.


C

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Perchè per
sospetto della peste di Fiorenza e di Pisa sono stato consigliato non
lasciare che la fiera si faccia, solita essere fatta a questa Nostra
Donna di settembre qui a Castelnovo, con mala contentezza di questi
uomini dalle ville dintorno: alli quali pure io desidererei satisfare,
quando senza pericolo d'infettarsi io pensassi che si potesse fare, di
farla almeno alla fine di questo mese, poi che non si è potuta fare a
principio: e perchè cognosco V. S. prudentissime, e che non mi siano
per consigliare se non fedelmente, mi ha parso, prima ch'io determini
altro, di ricorrere a quelle, e pregarle che circa questo si degnino
dirmi il parere loro; se sono di parere ch'io facci fare questa fiera
a S. Michele, non si innovando altro, o pure che per questo anno io la
proibisca in tutto; che tanto eseguo quanto quelle mi consigliano: in
buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 4 septembris 1523.


CI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Lo illustrissimo
signor mio mi ha mandata la qui annessa lettera con commissione che
io la rimetta per messo a posta a V. S. acciò che ne abbi a riportare
risposta: e così per lo esibitore presente, il quale sarà Giovanni da
Montepulsano, la mando; il quale Giovanni raccomando a V. S. per certo
torto che già li fu fatto, del che il povero uomo è rimaso disfatto: e
tutto quello che V. S. li faranno, o per giustizia o per misericordia,
tutto serà ben collocato, per essere persona da bene. E a V. S. mi
raccomando.

  Castelnovi, 8 septembris 1523.


CII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Ieri ebbi una
lettera dell'illustrissimo signor mio, per la quale mi commette che io
le avvisi di quanto serà seguito circa la cosa di Belgrado; e insieme
mi mandò la copia di una lettera, che per questo ultimamente ha scritto
a V. S.: sì che, per non mancare del debito mio, mi è parso di mandare
di nuovo lo esibitore presente, acciò che mi riporti quanto di questo
sia seguìto. Prego V. S. che siano contente di compiacere in questo sua
Eccellenza: e in buona grazia di V. S. mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 17 septembris 1523.


CIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ V. S. ponno avere
inteso come li figliuoli di Piero Madalena da Santo Donnino ammazzaro
il conte Carlo e la madre, loro signori, e appresso saccheggiaro la
casa; e perchè intendo che queste robe e le loro particolari appresso
hanno fuggite e salvate a Gurfigliano, terra di V. S., prego quelle
che per amore dello illustrissimo signor mio, che di questo gravissimo
delitto si chiama molto offeso, _et etiam_ per la giustizia, siano
contente di scrivere subito a chi parrà ad esse, che tali robe
siano ritenute come pertinenti allo illustrissimo signor mio, e non
comportare in modo alcuno che tornino in mano alli malfattori. E a V.
S. mi offero e raccomando.

  Castelnovi, 19 septembris 1523.


CIV

                    AGLI OTTO DI PRATICA DI FIRENZE


Magnifici ed eccelsi Signori miei osservandissimi. Non sono ancora
due anni ch'un ribaldo detto Giovanni di Pier Madalena, d'una terra
di questa ducale provincia detta San Donnino, fece ammazzare il conte
Giovanni suo signore e di quel luogo, il quale era da lui riconosciuto
in feudo dall'illustrissimo Duca mio; ma la cosa non si è scoperta
fin al presente, ch'esso di nuovo accompagnato da alcuni ribaldi ha
morto un giovenetto e la madre insieme, figliuolo e moglie del detto
conte Giovanni, e totalmente ha estinto quella progenie; e appresso ha
saccheggiato la casa, e statovi dentro molti giorni, ed esibitosi come
erede: poi finalmente avendomi il mio Ill.mo Signore mandato il braccio
di parecchi fanti da poter castigare lui e gli altri delinquenti,
si è levato e, secondo che mi è riferito, si è ridotto ad Ugliano
giurisdizione di Fivizzano, dominio di Vostre Signorie: e perchè le
convenzioni tra il mio Ill.mo Signore e Vostre Signorie sono, che
li banditi de l'uno non possano stare nel dominio de l'altro; prego
quelle che sieno contente di commettere al suo magnifico commissario
di Fivizzano che faccia pigliare questo ribaldo, e preso che sia,
avvisarmi, ch'io lo manderò a tôrre, o che per qualche altro modo
operi ch'io l'abbia ne le mani, acciò che tanto e sì enorme delitto non
resti impunito; ch'io similmente ad ogni requisizione sua e d'ogn'altro
officiale di Vostre Signorie serò pronto a far il medesimo e cosa di
maggior importanza di questa, quando me ne sia solamente accennato. E
in buona grazia di Vostre Signorie mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 24 septembris 1523.


CV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._

Maestro Giovanni Battista de' Rossi, abitatore a Sillano, mi ha
pregato ch'io lo ricomandi a V. S., che, come quelle ponno sapere, ha
costì avuto dal potestate una sentenza in suo favore, ma pare che la
esecuzione di quella non possa fare venire a capo circa alle spese
della lite; e perchè, dove mi è occorso poterlo fare con giustizia,
sono stato sempre favorevole alli sudditi di V. S., per quello tanto
più arditamente domando il cambio da quelle: e così le prego, prima per
la giustizia, la quale per sè debbe essere anteposta a tutti li altri
rispetti, e poi per amor mio, per inanimarmi a proseguire di bene in
meglio in fare piacere alti sudditi di V. S., che mi occorreno, che
siano contente di non patire che più lungamente questo uomo si consumi
su l'ostaria, ma farli dare quella più presta espedizione merita la
ragione che ha dal canto suo. E a V. S. in maggiore cosa di quella
mi offero paratissimo: in buona grazia delle quali mi raccomando.
Castelnovi, primo octobris 1523.


CVI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ L'esibitore di
questa è uno nostro da Vergemoli, al quale fu consegnato per dote un
poco di selva su quello di Castiglione, e già 4 o 5 anni l'ha côlta:
ora li è proibita dal magnifico vicario di V. S., sì come a forestiero,
perchè forsi non vuole che il frutto vada fuori del dominio di quelle.
Ora avendo io compassione al povero uomo, e parendomi che li sudditi
del mio illustrissimo signore siano anco di V. S., e che _hinc pro
inde_ debbino indifferentemente essere trattati, lo raccomando a
quelle, che sieno contente di non lo lasciare molestare; perchè anch'io
sono per fare il medesimo alli sudditi di quelle, che so che hanno e
selve e altre intrate da ricogliere in questa ducale provincia: e in
buona grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 7 octobris 1523.


CVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Lo esibitore
di questa viene a V. S. per espedire la cosa di Belgrado. E perchè
pare che alla liberazione sua resti l'avere la pace da alcuni che si
chiamano offesi da lui, io prego V. S. che si degnino di mandare per
questi tali; perchè quelle con una parola saranno più atte a fare
che la pace segua, che li parenti di Belgrado con ciò che ponno fare.
Io testifico a V. S. che la liberazione di lui sarà tanto grata allo
illustrissimo signor mio, quanto cosa che al presente potesse avere da
quelle, e altrettanto molesta, quando veda che sia menata in lungo; e
io in particolare la accumulerò appresso l'altre obligazioni, ch'io ho
da V. S.: in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 8 octobris 1523.


CVIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Io ringrazio V. S.
di quanto a' miei preghi hanno concesso a quello nostro da Vergemoli
che possa cogliere le sue castagne; ho anco speranza che quando saranno
secche e serà per estraerle non li faranno peggio ch'io sia per fare
alli sudditi di quelle; ora perchè nel medesimo caso sono molti nostri
che hanno similmente selve nel dominio di V. S., li quali mi daranno
molto da fare se particolarmente avrò da scrivere per ciascuno; prego
V. S. che siano contente di fare una commissione generale a tutti
li suoi officiali, che li nostri che hanno selve nelle giurisdizioni
loro le possino cogliere senza alcuno impedimento, ma non estraerle
senza nuova concessione, che anch'io farò dal canto mio il simile,
chè altramente le castagne andarebbeno a male, non essendo chi le
cogliesse, e sarebbe dannoso a molti e non utile ad alcuno. E in buona
grazia di V. S. sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 12 octobris 1523.


CIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Io ringrazio V.
S. della provvisione fatta circa che li nostri possino côrre le loro
castagne nel dominio di V. S., e io anco farò il simile dal canto mio.
Circa a quel Belgrado, io avviserò il signore mio di quello che si è
fatto e di quanto V. S. mi scriveno. Appresso, lo esibitore di questa
è uno lombardo suddito dell'illustrissimo signore mio, il quale ha
una selva su questo di Castelnuovo, e aveva côlte certe poche castagne
insieme con alcuni altri, e sopra 3 asini le portavano verso casa loro,
e su quello di Castiglione insieme con li asini sono loro state levate
per commissione di quello vicario. Quasi tutto in un tempo io feci fare
qui il divieto che nessuno potesse portar fuora di questa provincia
castagne, e appresso, ricercato dal detto vicario di Castiglione,
insieme con sua Eccellenza sono convenuto, che trovando portare fuora
di questa provincia castagne che ancorchè dicano averle tolte in questa
ducale provincia, e che siano senza mia bulletta, che le toglia,
che saranno ben tolte; ma perchè prima che io avessi fatto questa
convenzione con il detto vicario, già questi poveri uomini, non sapendo
essere qui di questo alcuno divieto, avevano levate quelle castagne,
e appresso, per essere venuti di nuovo sotto la ubidienza del signore
mio, e per questo credendo di poter condurre via roba come piacesse
loro, sono caduti in questo errore, il quale appresso di me par che
meriti perdono; pertanto io ne ho scritto al detto vicario e pregatolo
che restituisca le robe e le bestie. Sua Eccellenza mi ha risposto
avere scritto questo caso a V. S., e aspettarne risposta: mi è parso
di scrivere anch'io per non tenere questi uomini in tempo; e così prego
V. S. che scrivino al detto vicario che renda queste robe, attento che
sono state tolte prima della convenzione fatta fra noi, e non importano
alcuno danno al paese di V. S., perchè sono robe di questa provincia; e
in buona grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 17 octobris 1523.


CX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ L'avere io scritto
più volte a V. S. e da quelle avuto risposta, e l'essere rimaso in
buona e ferma conclusione e stabilimento di quanto s'abbia a seguire,
ora mi fa star sospeso d'onde proceda che di nuovo siano impediti
li passaggi de' sali ad Acconcio, officiale sopra questi per il
mio illustrissimo signore, e che li sia bisogno mandare di nuovo a
querelarsi a V. S., e a me di scrivere in suo favore. Sia processo
d'onde si voglia, prego quelle che siano contente di commettere alli
suoi doganieri, di modo che ogni giorno non ci impediscano li sali,
e non diano questo incomodo a questi ducali sudditi; chè quando sia
sospizione che Acconcio sia per lasciare parte di questi sali nel
dominio di V. S., e usare alcuna fraude a danno delle intrate di
quelle, esso si offerisce di dare pagatore di 500 e mille ducati costì
in Lucca, e cauteggiare in modo V. S. che saranno sicure che grano non
ne resterà nel suo dominio: in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 19 octobris 1523.

Acconcio scrive, e mandasi uomo a posta per parlare più diffusamente
circa questa materia: prego V. S. che lo espedischino bene e di modo
che sempre non si abbi a ritornare da capo, e che per questo non si dia
molestia allo illustrissimo signore mio.


CXI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi_. M. Giovanni
Battista esibitore di questa, per il quale molte altre volte ho
scritto a V. S., pure si duole che quantunque sia stato giudicato che
la ragione sia dal canto suo, non ne può avere la esecuzione circa le
spese; e a me ricorre come a quello che li pare che sia mio officio di
avere in protezione lui e li altri sudditi dello illustrissimo signor
mio. Per questo di nuovo scrivo a V. S., e le prego che non comportino
che li favori di alcuni particolari possino più che la giustizia, e non
mi diano esempio che anche io per favorire li miei, quando accada, usi
questi modi verso li sudditi di V. S.; perchè dove la ragione vada di
pari non sono per mancarvi, quando anco si abbi ad avere più rispetto
alli sudditi che a quelle; forse farò secondo me ne sarà dato la norma,
pur mi confido che V. S. non mancheranno nè patiranno che la giustizia
non abbi il loco suo. Appresso io feci intendere ad Acconcio quello che
V. S. mi rispuoseno; esso si offerisce di dare a quelle la cauzione
che sia onesta, costì in Lucca; ora ripeto che le mi significhino di
quanta somma vogliano che sia la pagarìa; in buona grazia delle quali
mi raccomando.

  Castelnovi, 28 octobris 1523.


CXII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi_. V. S. averanno
inteso lo assassinamento che fu fatto a Santo Peregrino a quelli
figliuoli e nepoti di maestro Andrea da Santo Donnino, suoi cittadini.
E perchè ho informazione che uno di questi ribaldi detto Donatello da
Sommocolognora, il quale non pure quella, ma molte altre ne ha fatte di
simile sorte, ora per essere di nuovo bandito dal dominio de' signori
Fiorentini si riduce a Cicerana, e non si potrebbe ire in fallo ch'ivi
si troverebbe, mi è parso di darne a V. S. avviso, acciò quelle,
parendoli, mandassino secretamente il suo bargello a Fiattone, il quale
è loco molto presso a questa Cicerana; e come il bargello fusse mosso,
mi mandasseno innanzi lo avviso, che da un'altra via manderei li miei
balestrieri, acciò che tutti a uno tempo, cioè di notte, giungessino
a Cicerana, che facilmente potrebbe essere che costui e delli altri
ribaldi si piglierebbeno quivi, che sarebbe la salute di queste terre
e di V. S., e del mio illustrissimo signore. Se anco quelle per la via
di Fiattone o di Monte Perpori, e altri loro loci vicini a Cicerana
potessino fare andare qualche spia, sì che questi latroni si potessino
fare cadere ne la rete, sarebbe opra laudevile. Io non cesserò dal
canto mio di fare il simile e avvisarne V. S.; in buona grazia delle
quali mi raccomando.

  Castelnovi, 3 novembris 1523.


CXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Già molti dì sono
che uno Tomeo da Valico di sotto rubò uno mulo ad uno suo zio; e avendo
io processo contra di lui, per essere figliuolo di famiglia, non è
mai comparito nè stato in loco dove io li abbi avuto potestade sopra.
E perchè il povero uomo al quale è stato fatto il danno, il quale è
suo zio, ne riceve grandissimo detrimento, e ne potria uscire qualche
scandolo, chè li figliuoli di questo a chi è stato rubato potriano
offendere o il padre o li fratelli di questo tristo; io, per vietare
questo scandalo e per provvedere alla indennità di questo povero uomo,
volentieri averei il prefato Tomeo in le mani. E perchè intendo si
riduce al Borgo, prego V. S. che commettino a quel suo vicario, che
essendoli mostrato lo ritenga a mia instanza, e mandando io per lui, me
lo dia nelle mani, perchè è bandito di questa provincia, e secondo li
capitoli nostri con V. S. non ponno negare questa grazia; alle quali mi
raccomando.

  Castelnovi, 6 novembris 1523.


CXIV

                           AL DUCA DI FERRARA


                                         _in Castris Herberiae._[273]

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Subito ch'io ebbi una di V. S. data a' dieci
di questo, la quale mi fu portata per un di Frignano a' XVI, subito
mandai una persona di qui assai destra a Pescia e indi a Pistoia, e
per altra via ho cercato ed ho avuto avviso da Pisa e da Pietrasanta,
e per un'altra da Barga, e non trovo che in alcuno di questi luoghi
si faccia o s'intenda ch'in altra terra di fiorentini si faccia gente
d'alcuna sorte. Solo passando di qui un fante di questo paese cercava
di comprare certi scoppietti: gli fu domandato che ne voleva fare:
rispose che Polinoro da Vallico, uomo pur suddito di V. Ecc., aveva
commissione da uno che guarda la porta di Pietrasanta di fare 150
fanti, con li quali aveva a passare in Lombardia per la via di Fornovo
per entrare in un castello di non so che gentiluomo; ma non sapeva
esprimere il nome nè il loco: pur non ho poi sentito altro, e credo
che anco questa sia una fola. È ben vero che questo Polinoro è molto
del conte Guido Rangone,[274] ed è stato molto tempo con lui soldato
in Modana e altrove. Io avrei mandato per lui, ma non si lascia trovare
per essere molto fitto di debiti in questa terra. Se pare a V. Ecc. che
s'abbia a rinnovar la grida che nessuno possa ire al soldo fuore, me
ne dia avviso: io la feci bene a' dì passati ancora ch'io non n'avessi
commissione. Li esibitori di questa seranno il Moro dal Sillico e li
altri fratelli de li quali a' dì passati V. Ecc. mi scrisse che io
facessi che venisseno in campo, che darebbe lor soldo. Si escusano se
fin qui hanno differita la loro venuta: è stato per povertà e non avere
avuto il modo di levarsi; il che molto ben ho lor creduto perchè so che
sono poveri. Ora che hanno colte certe loro castagne, che è quella poca
facultà che hanno, vengono. Se V. Ecc. darà lor recapito, credo che ne
avrà buon servizio, perchè credo che sieno valenti e fidelissimi a chi
servono. Altro non occorre: in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando
sempre.

  Castelnovi, XX novembris 1523.

Io feci che Pierino Magnano scrisse a Pistoia ad un suo amico fingendo
che aveva sentito che vi si dava danari, il che essendo vero voleva
mandare certi suoi amici a pigliarne. Questa è la risposta ch'io mando
qui inclusa.


CXV

                              AL MEDESIMO


                                              _in Castris Herberiae._

Ill. ed Ecc. Sig. mio. Io ebbi una di V. Ecc. dì 3 di novembre, non
ieri, l'altro[275] che n'avâmo 21. Il portatore fu un prete che mi
disse averla avuta da uno da Sillano, che diceva averla avuta da un
altro, la quale era in risposta di molte mie. Replicare non mi accade
altro, se non circa quelli assassini che praticavano a San Pellegrino,
che se io per me fossi sufficiente a farli pigliare, non domanderei a
V. Ecc. aiuto; ma li balestrieri ch'io ho qui non sono atti a farlo,
chè li assassini prima sono più di loro, poi quando li balestrieri si
partono di Castelnovo, come altre volte ho scritto, li avvisi corrono
subito intorno, e sempre vanno indarno. Questo Donatello e Ceccarello,
capi di questi ribaldi, al presente sono stati di novo banditi dal
Commissario di Barga e molto perseguitati da lui. Lui ha scritto a
me, ed io a lui per averli ne le mani: non so come la cosa succederà.
Si eran ridotti a Cicerana, terra di V. Sig.ia qui presso a 4 miglia,
e qui stavan sicuri perchè v'avevan le spalle di questi figlioli di
Pellegrino dal Sillico e altri banditi che tuttavia stanno in quel
loco. Ora che li figlioli di Pellegrino erano per venire a trovare V.
Ecc., che non so se saranno venuti, rimarranno disarmati de le migliori
difese che avevano, e forse quello che non si è potuto far sin qui,
ora si potrà fare. Ma quando anco fosseno stati sì arditi che fusseno
venuti in compagnia loro a trovar V. Ecc., quella potrà fare quello che
le parrà il meglio. Dicole bene che ha una bella occasione di purgare
questo paese di molte male erbe, chè credo che anco quel Battistino
Magnano, che appresso a Bernardello è il maggior assassino che avesse
questo paese, si trovi al soldo di V. Ecc., o se non v'è al presente
è stato male a lasciarlo partire, chè pur intesi che v'era. E ben vero
che questo paese resta ancora senza questi con qualche bandito, ma non
sono assassini come questi altri.

Circa a quelli di Pier Madalena, poco più gioverà loro il lor
clericato, perchè furon banditi la forca e confiscati li lor beni,
come n'ho scritto diffusamente a Mess. Bonaventura.[276] Io scrissi al
Commissario di Fivizzano per avere Gian Madalena che allora era in quel
loco, e mai non me n'ha dato risposta. Adesso non so dove sia, ma me ne
informerò più certo, e ne avviserò V. Ecc.

Appresso mi venne una lettera da Lucca che mi avvisava come Medici era
creato papa;[277] la qual nuova come si udì da questi di Castelnovo,
parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono entrati in
tanta paura, che fûro alcuni che mi volean persuadere che quella sera
medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere,
e chi di fuggir le sue robe. Io mi sforzo di confortarli, e dico lor
ch'io so che stretta amicizia è tra V. Ecc. e Medici, e che non hanno
da sperar se non bene. Mi è parso di darne a V. Ecc. avviso, acciò che
se quella ha qualche cosa con la quale io possa lor dar buono animo, si
degni di significarmela, e se non l'ha, almeno di fingerla. Altro non
occorre. In buona grazia di quella mi raccomando.

  Castelnovi, 23 novembris 1523.


CXVI

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Mentre io andavo investigando come informarmi
di certo dove si trovasse Gian Madalena per avvisarne V. Ecc.,
secondo che Ella per la sua dì 3 di questo mi avea commesso, mi è
stato riferito come ier sera, che fu lunedì, giunsero a S. Donnino,
cioè Giovan Madalena e li fratelli Olivo e Nicolao da Pontecchio e
quell'altro che intervenne all'omicidio del conte Carlo, detto il
Sartarello, e Genese, il quale già ammazzò il conte Giovanni, e altri
che sono circa a 14, e così vi si ritrovano al presente. Li balestrieri
non sariano atti non che a pigliarli, ma nè ad affrontare,[278] massime
in quel loco, dove sono in le case che pretendono che siano loro, e in
quel Comune dove sono più favoriti che non v'erano quelli poveri Conti.
V. Ecc. si degnerà avvisarmi quanto le parrà ch'io faccia o possa fare:
in bona grazia de la quale mi raccomando. Castelnovi, 24 novembris
1523.


CXVII[279]

                  A MESSER BONAVENTURA PISTOFILO[280]


. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Questo Coiaio, del quale
ho scritto, sta pur in questa terra e si lascia vedere, e dubito che
domani che è il giorno del mercato si farà vedere su la piazza. Io non
posso pensare che questa presunzione venga da altro che sia qualche
trama, che se li balestrieri si movano per ire a pigliarlo, di far lor
danno e vergogna, e dar forse principio a qualche ordine già tramato
con Barghesani. In fin ch'io non ho avviso da voi, son per serrar gli
occhi, chè credendo di far bene, non vorrei far male. Quando il Sig.
nostro avesse buona intelligenza col papa novo e con Fiorentini, e
non dubitassi di cose nove, saria di far di due effetti uno: o mandar
qui fin a XXV fanti, o scrivermi ch'io comandassi Bastiano suo zio e
tutti li Coiai, cioè Nicolao, Bartolomeo e Fantino e Bernardino tutti
fratelli di Franceschino, dinanzi a Sua Ecc., sotto quella pena che
gli paresse, perchè in casa loro si riduce e si è ridotto altre volte.
Le alligate mandavo per uno da Molazzana, ma è ritornato indrieto con
le lettere, perchè dice tra via avere inteso che 'l Sig. nostro si è
partito da Reggio e va verso Milano. Per questo io mando questo messo
a posta che vi venga a ritrovar dove voi siate. A V. Magn. e a Mess.
Obizzo ed alli amici mi raccomando.

  Castelnovi, 26 novembris 1523. LUD. ARIOSTUS.

Scrivendo il Sig. ch'io comandi costoro a Ferrara, vi prego facciate
che non paia a mia instanza, ma sì bene ch'io abbia avvisato che questo
Franceschino sia stato qui.

Fuori — _Al Magn.o mio hon.o Mess. Bonaventura Pistofilo ducale
Secretario ecc._


CXVIII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Oggi uno mandato da gli uomini di Meschioso
mi ha dato una lettera di V. Ecc., per la quale mi commette ch'io
lasci a quelli uomini cavare di questa provincia tutte le castagne che
hanno côlte ne le selve lor proprie o in quelle che hanno condotte ad
affitto. Prima ch'io abbia dato lor licenza, ho voluto avvisare V. Ecc.
che questa provincia si truova in gran carestia, chè ora il frumento
si vende 20 bolognini il staiolo, assai minore del nostro staro di
Ferrara, e le castagne, perchè ne sono state pochissime, sono in più
prezzo che sieno ancora state poi ch'io son qui. E già son fatti cinque
o sei mercati, che in tutto non è comparso più ch'un sacco di grano.
Intorno intorno tutte le tratte son serrate, che da nessun luogo ne
può venir granello. Di Lombardia, che forse ne potria venire, non ne
compare se non pochissimo; nè anco ce ne verrìa, se non fosse ch'io ho
fatto un ordine, che chi porta uno staro di frumento o d'altro grano,
può portar fuori due di castagne. Se V. Ecc., inteso che abbia questo
ch'io scrivo, sarà pur di volontà ch'io lasci portar fuori le castagne
a tutti li sudditi lombardi suoi, io la ubbidirò, ma questa provincia
si affamarà di modo che di questo avrà poco obbligo a V. Ecc. Queste
proibizioni c'ho fatte sono a mio danno; ma ho preposto l'utile comune
al mio, perchè per ordine antico li Commissari pigliano tre quattrini
di ogni soma di roba da mangiare che va fuori. V. Ecc. comandi, alla
quale mi raccomando.

  Castelnovi, 26 novembris 1523.


CXIX

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Perchè a' dì passati V. Ecc. mi commise che
s'io sentivo che di qua si facesse movimento alcuno io gli dessi
avviso, ora gli fo intendere come le genti d'arme de' Fiorentini
si raccolgono a Pisa, cioè genti a cavallo, e si sono cominciate ad
inviare a pezzo a pezzo. A Pietra Santa ne alloggiaron certi pochi, e
dicevano quelli, che aspettavano cinquecento cavalli per dirizzarsi
alla volta di Lombardia. Non m'ha saputo dir colui che ha portato
l'avviso, se siano uomini d'arme o cavalleggieri, se non che erano
tutti coperti a ferro. Bastiano Coiaio m'ha detto questa mattina che
anco a Pisa si dà denari a' fanti. Manderò oggi persona a posta ad
informarmi meglio: intanto ho voluto mandare questo messo, sì perchè
porti questo avviso, sì anco perchè desidero risposta di molte lettere
che a' dì passati scrissi. Avevo mandato un altro, ma non è stato
ardito di passar Reggio, e mi ha riferito che le strade son rotte, e
che ha mandate le lettere per via di Mess. Ieronimo Nasello. In buona
grazia di V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 8 decembris 1523.


CXX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


Magnifici e potenti miei signori osservandissimi. Avendo il vicario di
Gallicano ricercatomi ch'io facci pigliare a sua instanza uno Agostino
di Piero Andrea da Verni, l'ho fatto pigliare e l'ho nelle forze mie ad
ogni riquisizione di V. S.; con speranza che abbino a fare il medesimo,
quando alcuni delli banditi di questa provincia ducale vengano nel suo
dominio. Poi ch'io l'ho fatto pigliare, li uomini nostri del comune di
Carreggine mi hanno fatto gran querela di questa cattura, dolendosi
ch'essi lo avevano fatto venire per condurre una certa pace nel loro
comune, e esso era venuto sicuramente non sapendo della convenzione
e capitoli che sono fra V. S. e lo illustrissimo signor mio, e per
questo mi facevano instanza ch'io lo lasciassi; e vedendo ultimamente
che senza volontà di V. S. io non sono per lasciarlo, mi hanno pregato
ch'io scriva a quelle in suo favore, e ch'io lo raccomandi. Quello
ch'importi il suo caso io non so; io vorrei far piacere ad ogni uno,
ma non mai contra la giustizia. Quando, lasciandolo, e per questo
succedendo questa pace nel comune di Carreggine, abbi ad essere più
utile che a punirlo delli delitti che li sono imputati, prego V. S.
che siano contente che io lo lasci: quando sia anco altrimenti, quelle
faccino e disponghino come loro pare, ch'io non mi partirò dalli
comandamenti loro; in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 24 decembris 1523.


CXXI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Io ho consegnato il
prigione al barigello di V. S.; quelle ne disporranno quello che a loro
piacerà; e non solo in questo, ma in ogni altra cosa, dove io crederò
di far piacere a V. S., sarò sempre prontissimo, con fiducia che quelle
abbino a fare il medesimo verso il signore mio: bene le prego che il
capitano e li balestrieri nostri che l'hanno preso e condurranno sino
al Borgo, siano raccomandati a V. S., che non faccia loro peggio che
il signore mio, che di ogni cattura di bandito vuole che il capitano
abbi 4 ducati, e li balestrieri uno ducato per uno: e perchè a questi
balestrieri è stato detto che questo prigione ha certa taglia drieto,
quando sia vero, non dubito che V. S. siano per mancare: di ogni cosa
che a me ne pervenisse ne fo un dono a V. S.; in buona grazia delle
quali mi raccomando.

  Castelnovi, 27 decembris 1523.


CXXII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. L'esibitore di
questa, Giovanni da Santo Nastasio, è quello al quale V. S. ai miei
preghi concessero di cogliere una sua selva che ha nella vicarìa di
Castiglione; ed io mi contentai allora di questo, con speranza di fare
che poi permutasse le castagne côlte con qualcuno de' sudditi di V. S.,
che similmente avesseno selve in questa ducale provincia; ma li sudditi
di V. S. sono stati più cauti, che hanno estratto, non so come, le loro
castagne senza che io sia stato richiesto a dare loro licenza, o che
io abbi saputo; nè questo povero uomo è per avere le sue castagne per
permutazioni, ma bisogna che le ottenga di grazia; e per questo io lo
recomando a V. S., e le prego che esso (non ostante alcuno divieto)
possa avere il suo, offerendomi, quando accada, ricompensare li sudditi
di V. S. in maggior cosa di queste: alle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 27 decembris 1523.


CXXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Lo esibitore di
questa è un povero uomo, il quale fu condotto da uno lombardo ad andare
a caricare certe castagne che erano a Massa, qui di mia giurisdizione,
per portarle in Lombardia; ed esso povero uomo avendo tolti li asini
in presto, e credendo che colui che lo aveva condotto avesse licenza,
lo andò a servire; e quando fu su quello di Castiglione, li fu dalla
famiglia del vicario tolto li asini e le some; e avendo allora dato
sicurtà di rapresentare detta roba, li furono restituiti li asini.
Ora la sicurtade è astretta a rapresentare li asini, come esso più
diffusamente conterà il caso suo, del quale il vicario di Castiglione è
benissimo informato, e mostra di averli compassione non meno di me; pur
si recusa chè quello che esso ha fatto non può tornare in drieto senza
grazia di V. S. Io raccomando sommamente questo poveretto a V. S., il
quale non ha al mondo cosa che sia sua, se non grave famiglia, alla
quale, affaticandosi e stentando, fa le spese al meglio che può: e da
una parte li è minacciato da colui di chi sono li asini; e dall'altra,
dal lombardo di chi erano le castagne, che è uomo di pessima sorte.
Prego V. S. che per clemenza e pietà, e attento la innocenza e povertà
di costui, e appresso per mio amore, sian contente di farli restituire
tutto quello che li è stato tolto, offerendomi anch'io, quando troverò
alcuni delli suoi sudditi in simile fallo, d'averli per amore di V. S.
misericordia: in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 12 ianuarii 1524.


CXXIV[281]

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Ho visto quanto V. Ecc. mi commette _circa la
lettera per_ la quale a' dì passati ella m'avea dato autorità di poter
_far accordi_ e composizioni, acciò che questi sudditi fuggissino li
dispendi _della giustizia_, e che s'io l'ho fatta registrare ch'io la
cancelli... _Se V. Ecc. ha_ volontà che questa lettera si cancelli di
su il registro, lo può _ottenere, non già con mio_ biasimo, ma più
presto con mio onore, e _cioè_ differendosi a far tal cancellazione
finchè io esca di officio. _Frattanto io_ non m'interporrò in alcuna
cosa sicchè il Capitano si _lamenti_ ch'io gli turbi il suo guadagno:
poi alla mia partita, rivocando _una_ tal lettera, non si farà carico
ad alcuno, anzi io ne guadagnerò qualche _onore, mostrando_ che quella
abbia avuto in me quella fede che poi non vorrà avere ne _gli altri_:
e perchè V. Ecc. non creda che questo abbia ad essere lungo tempo, si
ricordi che a' sette giorni di febbraio prossimo saranno compiuti _due_
anni ch'io sono in questo officio,[282] il quale volentieri muterei
in un _altro_ dove io fossi più vicino a quella, quando con sua bona
grazia io potessi farlo; come sarebbe il Commissariato di Romagna, che
per qualche pratica ch'io ho pur imparata qui in Grafagnana mi darìa _a
sperare_ di far meglio quello officio ch'io non ho saputo far questo;
ed in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando sempre.

  Castelnovi, XII jan. 1524.


CXXV

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Se ieri avessi saputo che 'l Capitano de la
Ragione qui di Castelnovo fosse per venire a Ferrara, non mi sarei
trattenuto in lungo a scrivere a Mess. Bonaventura la mala condizione
in che si truova al presente questo paese per causa di cinque o sei
ribaldi che sono ritornati al loro solito esercizio, perchè, meglio
ch'io non lo posso scrivere, il Capitano prefato, così bene informato
come io del tutto, lo potrà riferire a bocca; e forse troverà più
credenza che non hanno fatto sin qui le mie lettere. Solo prego V. Ecc.
che per onore e utile suo e salute di questa provincia sia contenta
di ascoltarlo circa li portamenti che fa Bernardello con sèguito di
qualche altro, e come si portano quelli di Pellegrino dal Sillico,
che qui si dice c'hanno avuto la grazia da V. Ecc., e di quello che di
nuovo fa Battistino Magnano con Donatello, Ceccarello e altri assassini
publici e in che disperazione si truova questo paese, il quale estima
non essere in alcuna memoria di V. Ecc. Altro non occorre. In buona
grazia di quella mi raccomando.

  Castelnovi, 21 jan. 1524.


CXXVI

                              AL MEDESIMO


Ill. Sig. mio. Se V. Ecc. avesse avuta una mia lettera per _la quale_
significavo che colui ch'era venuto in favor di Ser Tomaso _Micotto_
in nome della Vicarìa di Trasilico, era stato mandato da alcuni pochi
che sono con il lor potestade in liga a rubare e a scorticare il resto
de la Vicarìa, non credo che fosse stato prestato più fede a quella
lettera che falsamente era in nome di tutta quella Vicarìa, che alle
mie che non contengono mai falsità nè bugia alcuna. Io avevo data
quella lettera ad uno da _Cicerana_ il quale penso che la portò in
luogo ove fu aperta e non lasciata andar più innanzi, e credo che sia
rimasa qui in Castelnovo. Pur ritrovandosi il Capitano di Castelnovo
costì, e volendo V. Ecc. pigliare informazione che uomo sia detto
Ser Tomaso, e quanto tirannicamente e contra la volontà de li tre
quarti di quella Vicarìa occupa quello officio, esso Capitano ne potrà
dare vera informazione a quella; e se anco gli pare di far scrivere
a qualche uomo da bene particolare in questa provincia e dimandare
informazione di costui, credo che tutti riferiranno a una voce che gli
è un tristo: salvo Pierino Magnano che è suo cognato, che però se gli
è dato sacramento non lo sapria negare, e Bastiano _Coiaio che pur_
non ne diria male, parte perchè è cognato d'un suo parente, parte chè
sua natura è d'avere la protezione de li Micotti; tutto il resto si
concorderìano meco... _A me pare_ se nella elezione di questo podestade
si avesse a chiamare _un uomo per_ casa e alla presenza del Commissario
s'avesse a porre _il parere per_ ballotte, che così la cosa succederìa
senza fraude, _ma dove_ solo si ha da chiamare li sindici ed officiali
de li Comuni che lo eleggano, li poveruomini ne restano fraudati,
perchè _tutti_ questi sindici ed officiali ogn'anno si eleggono per
volontà di officiali e sindici vecchi e del podestà, sicchè averanno
Ser Tomaso: e chi tien con lui disegnato di continuare _nel_ suo
officio ha procurato che siano fatti sindici e officiali quelli che san
che saranno in suo favore, e adesso son _certi_ che non cesseran per
mezzo di parziali e per tutti gli altri _nominati_ di confermare questi
elettori nella sua intenzione; _e però se_ un uomo per casa avesse da
dare il suo parere a _ballotte_, nessuno potria essere ingannato.[283]
Esso spiera che _al tempo_ che sarà il termine del suo officio io
non abbia _ad esser qui_, e che avrò avuto il successore, e che poi
guiderà _le cose_ meglio a suo modo che non potrà fare essendoci io,
come mi è stato riferito che Bastiano Coiaio ha detto. _Non avendo a_
star qui, quando fosse con buona grazia di V. Ecc., e _trovandomi_ da
quella provveduto o d'altro officio più vicino, o di _esserle_ appresso
con conveniente condizione, io avrei di gradimento il levarmi: non di
meno, o dovendo star qui o dovendo partirmi, sempre desidererei che la
giustizia avesse _luogo_.... V. Ecc. determini quello _che le pare:_ a
me basta di essere scaricato appresso a Dio _e agli uomini_ che vedono
come le cose passano, che per me non altro si cerca che la giustizia
abbia luogo; e in buona grazia di V. Ecc. mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 23 jan. 1524.


CXXVII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Io ringrazio V.
S. di quanto mi hanno scritto, che per mio amore sono contente che li
asini e le castagne siano rendute a questo povero uomo esibitore di
questa; ma maggiore saria l'obbligo mio, se fosse seguito lo effetto.
La ragione, perchè il vicario di Castiglione non abbia voluto rendere
le castagne, non so; nè di lui mi vo' dolere, non la sapendo: pur la
compassione che io ho a questo povero uomo, che ogni dì mi torna a
piangere dinanzi, mi sforza di nuovo raccomandarlo a V. S.; le quali
prego che, veduto il bisogno del poveretto e il poco guadagno che di
questo può risultare a chi li ritiene dette castagne, faccia che il
dono, che già m'hanno fatto, abbia esecuzione: in buona grazia delle
quali mi raccomando.

  Castelnovi, 26 ianuarii 1524.


CXXVIII[284]

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Sig. mio. Se V. Ecc. non mi aiuta a difendere l'onor de
l'officio, io per me non ho forza di farlo; chè se bene io condanno
e minaccio quelli che mi disubbidiscano, e poi V. Ecc. li assolva o
determini in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa
viene a dar aiuto a deprimere l'autorità del magistro.[285] Serìa
meglio, s'io non ci sono idoneo, a mandare uno che fosse più al
proposito, chè guastando tuttavia quello che bene o male io faccia
si attenuasse la maestà del Commissariato, sì come è accaduto ne la
rivocazione de la lettera già registrata, come ne l'assoluzione di
Ser Tomaso e confirmazione ch'abbia a proseguire l'officio fin al suo
termine, e altre cose che non voglio ora replicare. Se tali ignominie
si facessino a me solo, non ne farei parola, perchè V. Ecc. mi può
trattare come suo servo; ma ridondando tali incarichi più ne l'onor de
l'officio, e susseguentemente a far le persone con chi ho da praticare
più insolenti verso li lor governi, non mi par di tollerarlo senza
dolermene a V. S. — Di nuovo V. Ecc. può avere inteso, perchè n'ho
scritto a Mess. Bonaventura[286] (se quella lettera sarà però giunta
prima di questa), come quelli da le Verugole hanno prigione quel Genese
che ammazzò il conte Giovanni da S. Donnino, ed io mandai subito
subito un messo e poi li balestrieri per farlo condurre qui. Essi
ricusâro di darmelo, dicendo che n'aveano avvisato Mess. Bonaventura,
e finchè non avessino la risposta non erano per farne altro. Parendomi
che non ci fosse l'onore de l'officio, replicai con lettere che
essi lo conducessino qui, e mettessino per loro chi volessino che
intervenisseno alli esamini, ch'io non ero per farne se non quanto
volea la giustizia. Non mi hanno rescritto altro, se non che m'hanno
mandato a dire a bocca pel messo, che non me lo vogliono dare; e hanno
di più usato parole prima alli balestrieri e poi al secondo messo,
che sanno che io avevo preso denari da li Madaleni, e per questo io
non avevo fatto bruciare le lor case, e che dubitano che s'avrò questo
Genese in mano io lo lasci per danari. Se appresso all'insolenze che
per tutto il paese fanno questi di Simon prete, come V. Ecc. ne debbe
saper qualche cosa (che già non è mancato per me di darne avviso), e al
tenere di continuo banditi ne le rôcche appresso a Bernardello, ancora
V. Ecc. vuol comportare che non rendano ubbidienza al Commissario,
prego quella che mandi qui uno in mio luogo che abbia miglior stomaco
di me a patire queste ingiurie, che a me non basta la pazienza a
tollerarle. Io non so quello che V. Ecc. determini circa a Bernardello,
che non avendo pace da alcuno de' suoi nimici, de' infiniti che n'ha,
debbia stare nel paese dovunque voglia, e col favore di questi da le
Verugole avere sempre sèguito di compagnia armata, e ne' suoi bisogni
aver ricorso ne la miglior fortezza che in queste parti abbia V. Ecc.,
e tuttavia sèguiti di mettere taglie, come altre volte n'ho scritto
ed anco mandato a dire a bocca pel Capitano de la Ragione. Ma se nè a
questo, nè alli assassinamenti che fa Battistino Magnano e Donatello
e altri ribaldi, che hanno preso il campanile di Carreggine e vi
sono stati parecchi giorni dentro come in una lor fortezza, non pare
a V. Ecc. di provvedere, io non me ne debbio pigliar più cura che
essa voglia. Ma dove importa tanto smaccamento de l'onor mio, io vuo'
gridare e farne instanza, e pregare e supplicare V. Ecc. che più presto
mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna: in bona grazia de
la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 30 jan. 1524.

Appresso, il messo c'ho mandato la seconda volta mi ha riferito, che
Bernardello dice c'ha preso costui come suo nimico e ad instanza d'un
grande uomo, e che non è per darmelo. Poi il prete da le Verugole ha
detto avere avuto due lettere da li officiali de' Lucchesi, sul qual
territorio l'han pigliato, che fanno instanza che sia lasciato per un
salvocondotto ch'avea questo Genese da' suoi Signori, e già cominciano
questi da le Verugole a porre in disputa se costui sia ben preso o mal
preso, come essere n'abbiano essi li giudici.


CXXIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi._ Uno suddito di V.
S., portando certe castagne da Castiglione, quando fu su quel di Massa
di questa ducale provincia, li furono tolte, insieme con le bestie su
che le portava, da uno di Massa; e dolendosene a me, e avendo io fatto
chiamare questo da Massa, e interrogatolo, perchè avesse usata questa
violenza, mi disse, perchè il simile era stato fatto a lui a Lucca,
di certe some di sale che portava da Pisa. Io, senza volere ammettere
alcuna sua ragione, feci che subito restituì le some e le bestie al
suddito di V. S., e anco lo averei castigato, se non che molti uomini
di questa provincia insieme con lui si lamentavano, che dalli dazieri
di Lucca erano questi ducali sudditi molto male trattati, e nel sale
e ne l'altre mercanzie, che li passaggi erano loro proibiti, e anche
il pagamento delle gabelle accresciuto più del dovere, e che da V.
S. non potevano avere ragione, ed era forza che molti facesseno come
avea fatto questo da Massa, di rivalersi dove potevano, e che già
per questo erano ricorsi all'illustrissimo signor Duca nostro, e che
avevano portato una lettera direttiva a V. S. Io li confortai dunque,
poi che avevano questa lettera, che la mandassino per uomo a posta,
e che intendessino il parere di V. S.; che credevo che tal violenze,
di che essi si lamentano, non erano di loro volontà, ed ero certo che
quelle non erano per comportare alcuna ingiustizia; e così il messo si
manda con lettere ducali con speranza di ottenere da V. S. ogni cosa
licita e onesta; le quali appresso prego che siano contente di fare
restituire il suo sale a questo da Massa: in buona grazia delle quali
mi raccomando.

  Castelnovi, 18 februarii 1524.


CXXX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Ancora che mia
natura sia di non intercedere per alcuni delinquenti, non di meno
essendo io pregato da molti amici, ed essendo anche l'uomo per chi si
prega suddito per origine dell'illustrissimo signore mio, sono sforzato
a pregare quelle, si voglino degnare per amor mio, e per la osservanza
che io loro porto, di rimettere e perdonare la condennazione fatta
ad uno Geminiano di Cristoforo da Ricovolto, abitante al presente
in Coreglia, per avere esso estratto castagne e farina di detto loco
contro li divieti di V. S.: e tanto più mi induco a pregare quelle,
perchè esso Geminiano mi dice avere fallato per esempio di molti altri
che hanno fatto il simile, e se avesse creduto di fare dispiacere a V.
S., non saria incorso in tal fallo, ma più presto averia fatto, come
è solito, che avria portato vittuaglia in detto loco. Prego quelle
adunque si degnino avere raccomandato detto Geminiano: in buona grazia
delle quali sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 27 februarii 1424.


CXXXI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Circa quanto V. Ecc. per ricuperazione de l'onor mio
ha determinato che s'abbia a far quando sarà tempo di confirmare o
di eleggere di nuovo il potestà di Trasilico, io ne resto molto ben
contento e satisfatto da quella, alla quale rendo infinite grazie,
così di questo, come anco di aver commesso che Genese mi sia dato ne le
mani, il quale prima che le lettere di V. Ecc. sien giunte io l'avevo
avuto, e così l'ho nel fondo de la torre con li ferri a' piedi, nè temo
che mi sia tolto perchè non mi fidarò a compiacenza d'uomo del mondo
alleggerirgli la prigione, come io feci al Moro dal Sillico. Domani
fo pensiero di cominciare ad esaminarlo, chè qui è rimaso luogotenente
della _Ragione_ un Mess. Achille Granduccio di questa terra, il quale
già fu giudice al Maleficio a Ferrara, che serà ottimo _per tale_
officio perchè c'è pratico e uomo da bene, e _tratto le cose_ tuttavia
con lui. Se poi V. Ecc. vorrà mandare il Commissario del Frignano o
altri, il potrà fare: ma non accade _perchè_ Genese è già condennato
la vita per la morte del conte Giovanni, che Mess. Ludovico Albinello
allora Capitano _lo ebbe_ condennato, e la condennagione appare
sul libro de' Maleficî, sì che non accade a darne altra sentenza, e
quand'anco _occorresse_, questo Mess. Achille si offerisce di far il
bisogno. Il Commissario di Frignano non potria venir qui senza spesa
di questa provincia, e questi uomini fuggono le spese più che ponno.
Se a V. Ecc. pare che facciamo la cosa da noi o pur si aspetti altro
mandato, quella faccia _il voler suo_.

Se contra Simon prete io avessi scritto alquanto gagliardamente, tratto
un poco dal sdegno che mi negassino di dar questo prigione, io mi
emendo, e non voglio dar la colpa a Simone, perchè so che sua intenzion
era di darmelo subito che io lo richiedetti, ed anco gli altri suoi
figlioli c'hanno più senno erano del medesimo parere; ma solo il prete,
il quale ha assai de l'arrogante, e si tien troppo savio, vietava
insieme con Bernardello e altri simili a lui, che non mi fusse dato.
Quando ho mandato a tôrre il prigione, Bernardello _assieme_ col prete
erano andati non so dove. Simone _mi aveva_ mandato a dire ch'io lo
mandassi a tôrre, e _poi facendomi molte_ scuse e domandandomi cento
perdonanze _lo consegnò_ alli balestrieri. Serà ben fatto, a mio
_parere ed anco_ di Simone, a non lasciare che Bernardello _entri per
qualche_ tempo in quelle rôcche, perchè è con troppo dispiacere _di
tutto il_ paese ch'un scellerato come quello abbia _ad abitarvi_. E
se per avere già morto Bertagna e... merita qualche grazia, secondo
le gride _che furono_ fatte, s'intende però (siccome anco _fu da
me_ publicato) ch'abbia grazia avendo le paci dalli _suoi nemici, e_
intanto si può contentare d'un salvo condotto, ma non che debbia andare
per tutta la provincia a suo modo.

Circa gli altri banditi, sono stati (come il Capitano ne ha riferito
a V. Ecc.) un gran pezzo a Cicerana e _poscia_ a Carreggine, e stati
qualche giorno qui fortificati nel campanile de la chiesa, poi sono
ritornati a San Romano, ove stanno il più del tempo in la canonica
di quella chiesa, la quale _serve a ricetto_ di Pierino Magnano: e
quando li balestrieri sono iti a tôrre questo prigione, dicono d'averli
veduti da lontano che erano circa diciotto, e mai non vanno in meno
di XV, e sempre dove vanno si riducono alle chiese, e qui, da chi per
amicizia, da chi per paura, si fanno portare mangiare assiduamente
da gli uomini de la terra, e per questo io non posso condennare nè li
Comuni, nè li uomini particolari, chè non si può provare che altrove
abbiano recapito che da li preti, contra li quali io non ho autorità;
e già l'ho domandata alli Vescovi di Lucca e di Sarzana, e non me
l'hanno voluta dare. Io non veggo modo alcuno da farli dar ne la rete,
perchè li nostri balestrieri non sono atti affrontarli per sè. Chi
domandasse soccorso a' Lucchesi e Fiorentini, non credo che mandassino
lor bargelli fin qui _per esser_ troppo discosti, e quand'anco li
mandassino, non _potrebbero_ mandarli tanto secretamente che li banditi
non fossero _avvertiti, sicchè_ avriano tempo di levarsi; nè uomini
del paese mai _crederei di poter_ mandare che non fusson di fazione; e
qui tutte queste _famiglie_ hanno uno ordine, che come una fazione _si
muove_, subito quelli de la diversa parte avvisano li lor _seguaci_ in
l'altre terre. Circa questo già son parecchi dì che il Commissario di
Barga è meco in pratica ch'io lo tenga avvisato dove questo Donatello
e Battistino e li compagni si riducono, e che quando mi manderà un uomo
il quale già io conosco ed è de la fazione contraria di questi ribaldi,
ch'io mandi _subito_ li balestrieri, perchè avrà in ordine parecchi
uomini _da prendere_ li assassini. Io non ho mancato di far sempre
il debito, ma non siamo mai venuti a concluderlo, _chè le notizie
di ogni mossa si spargono_ subito in questa terra, e di qui volano
dove poi bisogna. Se questi balestrieri fussino dieci o dodici fanti,
sicchè senza richiedere uomo del paese io potessi porne venticinque
insieme, il Capitano de li balestrieri mi dice che anderia per tutto,
e non lasceria fermare questi tristi in luogo alcuno. E avendo questo
braccio, bisogneria un'altra cosa a mio giudicio: che il detto Capitano
avesse commissione da V. Ecc. che tutti quelli luoghi dove trovasse
che banditi fussino allogati, _e tanto se_ ci fussino o non ci fussino
li banditi allora dentro, cacciasse subito il fuoco, e massime in le
canoniche de le chiese, e mostrasse il Capitano farlo come da sè. Io
son stato più volte in animo di far bruciar questa canonica _di S.
Romano_, che non è mai sì povera che non abbia qualche bandito, e già
due o tre volte v'ho mandato li balestrieri _senza prenderne_ alcuno,
chè quando sono intrati dentro hanno trovato _essere_ il letto caldo,
e non è possibile che 'l bandito _non vi fosse allora;_ pur tutta la
terra è stata unanime _a negare di averlo_ veduto. Questo San Romano
è luogo alto, chè _uomini non_ vi ponno ire che non sieno veduti. Io,
come _ho detto, avrei voluto_ comandar che brugino quella canonica, poi
ho _avuto timore_ che quel Mess. Nicolò che è sollicitatore a Roma non
_soffra_ qualche fastidio in Roma: ma se V. Ecc. comanda al Capitano
quanto ho detto, saria un'opera santa; e far _altrettanto_ al prete da
Sillano, a quel da Ogno, da Cicerana, da _Carreggine_, e finalmente a
quante chiese sono in questo paese; chè tutte, parte perchè li preti
voglion così, parte perchè non ponno fare altrimenti, _servono a_
ricetto di banditi.

Poi che V. Ecc. mi scrive che 'l Commissario di Frignano è per venire
prima a Ferrara che possa venir qui, io differirò di mandargli la
lettera a lui direttiva,[287] finchè da V. Ecc. avrò altro avviso.
Circa al salvocondotto che questo Genese diceva avere da' Signori
Lucchesi, ho già provvisto sicchè non mi potrà ostare; nè per quanto
intendo li Signori Lucchesi l'avevano fatto, ma l'officiale del luogo
dove fu preso, il quale avrà pazienza.

Giorni sono V. Ecc. per un'altra sua mi commise ch'io comandassi a
Porfirio e Polinoro da Vallico di venire a trovare V. Ecc., e così
mandai subito li comandamenti al Potestà _di qui_ che li mandasse a
Vallico, ed oggi m'ha riferito _di averlo fatto_, e che Porfirio l'ha
avuto in persona, quell'altro, _cioè Polinoro_, l'ha avuto alla casa.
S'altro avrò da _aggiugnere_ a V. Ecc., lo farò per altre lettere,
che questa è lunga _anche troppo:_ in bona grazia de la quale mi
raccomando.

  Castelnovi, VIII martii MDXXIV.


CXXXII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Li esibitori di
questa sono poveri uomini di questa ducale provincia, li quali, per
la gran carestia che è in questo paese, erano iti al Borgo, e avevano
comprato tre some di farina di castagne; e, o fusse per ignoranza o
per avanzarsi li denari della bolletta, caricaro le some senza altra
licenza, e quando furo su quel di Gallicano s'incontraro per lor
disgrazia nel Vicario, che loro levò la farina e le bestie; al quale
caso, se V. S. per lor solita clemenza non hanno misericordia, li
poveri uomini rimarranno disfatti e moriranno di fame. Io, astretto da'
lor preghi e da compassione che ho alla povertade, scrivo questa a V.
S., siccome a quelle nelle quali ho fiducia che non mi siano per negare
alcuna grazia ch'io loro dimandi, e che appresso conosco clementissime
e di pietade piene; così le prego che abbino questi poveretti per
raccomandati, e siano contente di donare e fare loro elemosina di
questo, che per avere disubbidito alli ordini di V. S. debitamente
arebbeno perduto: in buona grazia delle quali medesime mi raccomando.

  Castelnovi, 17 martii 1524.


CXXXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Perchè noi siamo
per fare la fiera qui a Castelnuovo, e pure si va ragionando che in
qualche loco verso Roma e per le maremme è sospetto di peste, e perchè
mi rendo certo che V. S. ne siano informatissime, le prego che siano
contente di avvisarmi come passano le cose, e da che luochi si avemo
a guardare; e quando la cosa fusse pericolosa, seranno pregate di far
fare una grida, che nessuno, che venga senza bolletta e fede della
sanità, serà accettato a Castelnuovo: e con buona grazia di V. S. mi
raccomando. Castelnovi, 28 martii 1524.


CXXXIV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ V. S. Intenderanno
dalli esibitori di questa, suoi sudditi, quanto si sia eseguito in
quello che V. S. mi hanno domandato. Il prigione è al piacere di
quelle: in buona grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, ultimo martii 1524.


CXXXV

                        AL VICARIO DI GALLICANO


_Magnifico vicario._ A questa ora, che è circa mezza ora di notte,
essendo li miei servitori iti per dare mangiare a quello prigione da
Colognora, che io avevo qui ad instanza di V. Magnifica Signoria, hanno
trovato che con la propria cintola, avendosi legato l'uno capo al collo
e l'altro ad uno piede, si è strangolato. Mi è parso di darvene subito
avviso, acciò che V. M. mandi uno al quale io lo consegni morto, poichè
non lo posso consegnare vivo. E a V. M. mi raccomando.

  Castelnovi, 3 aprilis 1524.


CXXXVI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Ancora che io
creda che V. S. siano informate come successe del prigione che a loro
instanza io feci prendere alle Fabriche, perchè io ne diedi subito
avviso al vicario di Gallicano; pure per più sicurezza mi pare mio
debito di avvisare quelle, come, avendolo io fatto porre nel fondo
della Torre, esso con una cintola, che a pena era due braccia di
lunghezza, ligandosene una parte al collo e l'altra a uno piede, si
strangolò: cosa che pareva impossibile a seguire. Io aveva scritto
al detto vicario, che mandasse persona a chi io lo consegnassi
morto, poi che io non lo aveva potuto consegnare vivo; ma poi non
comparendo alcuno, e non essendo cosa da potere conservare, io lo feci
seppellire fuori nella gierra del fiume. Questo serà per avviso a V.
S.; alle quali mi raccomando, e al lor comandamento sempre mi offero
paratissimo.

  Castelnovi, 9 aprilis 1524.


CXXXVII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Questa mattina per tempo giunsi _a Castelnovo_
e trovai tutto il paese in grandissima paura, _sentendo da_ questi
di Castelnovo, che quasi ognuno aveva fuggita la sua roba. Ritrovai
qui circa quattrocento persone forastiere, venute ad instanza qual
di Pierino Magnano, qual di Aconzio, e qual di Soardino e qual
d'altri, che tutti hanno mostrato buona servitù verso V. Ecc., li nomi
particolari de' quali riferirò più ad agio a quella. De la potestarìa
di Montefiorino eran venuti circa cinquanta fanti; da molte altre
potestarìe de la montagna di Modena e di Reggio aveva avuto risposta
a mie lettere, che circa questo avevo lor scritto da Montefiorino, e
prometteanmi di mandar subito buona quantità di genti; sicchè s'io non
avessi _ricuperato_ quello che avean preso, avevo bona speranza che
non mi avrebbono tolto Castelnovo. La mia intenzione era di difendere e
non di combattere, finchè da V. Ecc. non avevo risposta, e mi spiacque
che ieri li nostri li andâro ad assaltare a Camporeggiano, e rimasero
de li nostri morti circa 2, avvenga che si portaro benissimo, e de
li nimici sei, benchè di questo il Capitano de la Ragione debbe aver
scritto diffusamente a V. Ecc. Oggi di nuovo son venuti due casi per
noi ottimi: il primo che li nimici si sono attaccati insieme ed hanno
ferito il lor Capitano a morte, del che avendo io avuto spia, avevo
fatto porre insieme circa 500 fanti per tornare a Camporeggiano e
dar lor dentro; ma in questo tempo è giunto Ser Costantino notaio a
Camporeggiano il quale era prigione, e mi ha riferito che Morgante
_Demino oggi stesso era giunto_ a Camporeggiano, con XXV cavalli e 60
schioppettieri chiamati dalle genti del Sig. Giovannino,[288] ch'avean
fatto _che a loro_ venisse in soccorso, perchè erano stati assediati
e _fatti quasi prigioni:_ e il detto Morgante quando vide che aveano
_minor_ forza di V. Ecc. fe' loro di male parole, dicendo che questo
era senza saputa del Sig. Giovannino,[289] e comandò che lasciasson
l'impresa e gli andasson drieto, e fe' liberare il detto Ser Costantino
notaio senza nullo _ostacolo_, e a lui consegnò la rôcca di V. Ecc.
e gli raccomandò quel Capitano Todeschino che è ferito a morte, che
gli fesse salvare la vita; e così la rôcca è restituita, ed è in man
nostra. Io ho subito mandato il Capitano con li balestrieri che vi stia
dentro finchè mandi altro, e gli ho comandato che salvi quel Todeschino
e lo faccia medicare. Fo pensiero di andare domani ad esaminarlo per
intendere chi lo ha fatto venire, chè son certo che è stato chiamato
da alcuni de la provincia, tanto più che Ulivo e Nicolao da Pontecchio
e due figlioli di Pier Madalena e il Bosatello, e sì il Cornacchia,
sono in squadra de li nemici. E qui V. Ecc. mi perdoni, che mi voglio
lamentare di lei un poco, chè _l'altro_ dì essendo io a Ferrara e
cercando d'una supplicazione fra molte che ve n'erano di segnate in
mano di Mess. Bartolomeo _di pugno di V. Ecc._, ne vidi una ne la quale
supplicavano questi due fratelli _Ulivo_ e Nicolao, che oltra gli altri
lor delitti _commessi_ in compagnia ad ammazzare quelli poveri conti di
San _Donnino_ supplicavano e dimandavan grazia di certo omicidio _con
tale di_ che avevan la pace, e la lor supplicazione _era stata esaudita
alla_ libera, ed era stata segnata questa _proprio_ nel tempo ch'io ero
a Ferrara. A me pare che in ogni cosa di Carfagnini, ed essendo io a
Ferrara, dovevo esser domandato di che condizione eran costoro: _sed de
his satis_.

V. Ecc., se un Signor può essere obbligato a un suddito, ha grande
obbligo a Morgante Demino perchè si avventura; e se la sua bona fede
non ne aiutava, V. Ecc. non so quando fosse mai più per riavere questa
rôcca di Camporeggiano, perchè a mio giudicio è la più forte di questo
paese, e non merita già di esser tenuta da quella in sì poco conto
come ella è, che non vi si debbia tenere dentro che un Capitano dottore
con un solo famiglio. Meglio sarìa minar queste rôcche totalmente, che
tenerle senza guardia; che oltre che tutti questi uomini si lamentino
fin al cielo che V. Ecc. pigli li lor denari, e le rôcche che li
potriano difendere da li assassini e da tali novità sieno abbandonate,
anco V. Ecc. può credere che non venirà sempre Morgante Demino a farle
restituire.[290] Altro non occorre. A V. Ecc. mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 5 iulij 1524.


Appresso, questi nimici hanno menato con loro alcuni sudditi e
servitori di V. Ecc. prigioni. Io ho scritto e pregato Morgante che
li facci liberare, se potesse. _Degnando_ V. Ecc. di scrivergliene
un'altra, serìa a gran satisfazione _del paese. Ancora_ questi uomini
hanno grandissimo sospetto che questi ribaldi.... faccin testa, e non
potendo rubar le castella, assassinare le ville. Per questo supplicano
a V. S. che non resti di _dare la_ provvisione che pare a quella.


CXXXVIII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Essendo io
ritornato da Ferrara, ho ritrovato questa provincia nel disordine, che
credo V. S. abbino inteso; della qualcosa, per lo effetto che dipoi è
seguito, io son certo che alcuni ribaldi banditi di questo paese siano
stati quelli che siano iti a far venire queste genti, con speranza
di dare loro questa provincia a sacco. _Sit quomodocumque_, con
queste genti era uno Bogietto da Sommocolognora detto il Cornacchia,
li latrocinii e assassinamenti del quale credo che a V. S. siano
notissimi; e Olivo e Nicola da Pontecchio, e uno delli figliuoli del
già Pier Madalena, che ammazzarono il conte Carlino da San Donnino e la
madre: ora ho avuto certo avviso che a Curfigliano, terra di V. S., si
ritrova questo Cornacchia, e qualcuno di questi altri sopranominati.
Non credo che bisogni ch'io ricordi a V. S. le convenzioni fatte tra
lo illustrissimo signore mio e V. S. per il magnifico messer Santuccio
suo e me, nè quello che in simili casi io abbi fatto ad ogni richiesta
di V. S., che io mosterrei avere diffidenza di quelle, e per la verità
non ho minor fede in quelle che nell'illustrissimo signore mio, a
conservazione di questo stato e della giustizia; solo mi pare che
basti significarli che questo ribaldo Cornacchia si trova a Gurfigliano
(delli altri non sono così certo), e pregare V. S., e così le prego,
che con quanto migliore modo che ponno o mandando il suo bargello
o comandando alli suoi sudditi del loco che faccino lo effetto,
operino di modo che questo ribaldo sia preso; e così se altri delli
sopranominati ci sono: e preso che sia, dare avviso. Io domando a V. S.
questa grazia: alle quali sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 7 iulii 1524.


CXXXIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici et excelsi domini._ Ho visto quanto le V. eccelse S. mi
scriveno circa la differenza delli uomini di Cardoso, sudditi di
quelle, e li nostri di Valico. Mi rincresce della loro insolenza;
farò chiamare le parti, e per quanto a me si aspetta, non mancherò
di ragioni; e se li nostri aranno fallito, non mancherò di punirli;
perchè ancora noi desideriamo, che li uni e l'altri de' vostri e nostri
sudditi vivino in concordia e pace: e alle prefate Vostre eccelse
Signorie del continuo mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, die 15 iulii 1524.


CXL

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Da questi vostri
di Cardoso intenderanno le V. eccelse Signorie, a quello sia rimaso
in la loro causa con quelli nostri di Valico: io non sono per fare
altra differenza fra li sudditi di quelle e li nostri, nè patirò, per
quanto potrò, li sia fatto torto nè violenza; e alle prefate V. eccelse
Signorie del continuo mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, die 18 iulii 1524.


CXLI

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. Quando io venivo in qua ed a Montefiorino,
_gli uomini_ del Sig. Giovannino erano in Carfignana. Come _n'ebbi
l'avviso_, a V. Ecc. spacciai tre messi, l'uno a Minozzo, l'altro a
Quaro, l'altro a Toano, li quali mi diede il _potestà_, e uno ne mandai
a Reggio, che pagai del mio; poi quando fui qui, il detto potestà mi
mandò per uno de li suoi uomini alcune lettere di V. Ecc. che a lui
erano state rimesse da Sestola, e mi scrisse ch'io fessi pagare il
messo. Per quella prima volta io feci pagare quel messo, ma con gran
fatica e lamentazione di questi uomini di Castelnovo, che allegavano
che ad essi non tocca pagare li messi che a servizio di V. Ecc. sono
mandati in qua, e che ben debbe bastare che paghino quelli che essi
mandano o a Ferrara o a Reggio o in altro luogo in servizio di V. Ecc.
Parendomi che avessino ragione non volsi che pagassino un altro messo
che di poi detto potestà m'avea mandato pur con lettere di V. Ecc. a
lui rimesse da Reggio, e gli scrissi che facesse che li suoi uomini lo
pagassino, o vero se ne dolesse a V. Ecc. acciò che quella determinasse
chi avesse a pagare tal _messo_. Esso potestà m'ha risposto quanto
quella potrà vedere ne la sua qui inclusa; e perchè stando la cosa
in controversia potria accadere che anderebbon lettere a Montefiorino
che sariano d'importanza per dover essere portate qui, e li uomini di
Montefiorino non le vorrebbon mandare, mi è parso di avvisarne V. Ecc.
acciò che quella faccia vedere chi debba pagare questi messi...

_A me pare che_ gli uomini di Montefiorino abbiano gran torto, che a
loro non sta di giudicare se le lettere che V. Ecc. loro manda perchè
le portino qui sieno a utilità di questa provincia, o particolarmente
di V. Ecc.; chè se 'l Capitano di Reggio o Signori Lucchesi o altri
mandasse qui una lettera perchè la mandassi a Montefiorino per
importanza di V. Ecc., questi uomini pagheriano il messo, e non
cercheriano che quelli di Montefiorino lo pagassino. Prego quella
che determini questa controversia, e parendole che gli uomini di
Montefiorino abbiano torto, gli faccia con sue lettere capaci del loro
errore; ed in buona grazia sua mi raccomando.

  Castelnovi, XX julij 1524.


CXLII

                              AL MEDESIMO


Ill. Sig. mio. Io non so quello che V. Ecc. avrà disposto circa
_quelli_ schioppettieri che gli uomini di questa terra m'hanno detto
aver domandato a quella, e per questo effetto aver mandato Bigo
_Camonchiella_ cavalleggiero qui che le ne faccia instanza a _bocca_;
avvenga ch'io creda che l'animo di questi che sono stati principali
a ricercar questo da lei, non sia che V. Ecc. li compiaccia, ma più
presto che negando dia loro buona escusa che un'altra volta, accadendo
il bisogno, si possano rendere a chi li vorrà per sudditi; perchè
publicamente dicono, che almeno, poi che quella non li vuol difendere,
gli desse licenza e li ponesse in libertà, che si potesson dare a chi
fosse atto a poterli difendere e tener in pace. E V. Ecc. non creda
che se a questa poca di guerra si sono tenuti, e hanno mandato a tôrre
persone forestiere a lor spese, che sia stato per amore sì grande che
portino a quella; ma l'hanno fatto per lor difensione e per aver scorta
da fuggire e da salvarsi, accadendo il bisogno, ed anco, se venía lor
ben fatto, per tagliare a pezzi li lor nimici. La parte italiana è
stata quella c'ha fatto questa ragunanza, e con essi Aconzio, avvenga
che sia francioso di parte, per il nuovo parentado c'hanno fatto
insieme, imperò che vedevano che queste genti del Sig. Giovannino
avevano con loro li figlioli di Pier Madalena e il Cornacchia e Olivo,
che sono di fazione francese: e se li fanti del Signor Giovannino
fusson stati in più numero che non erano, e se anco così pochi
com'erano davano l'assalto alla terra, V. Ecc. stia sicura che tutti
fuggivano, e la terra si abbandonava; e di questo n'ho argomento, chè
tutti e tutti affatto avevano fuggite le donne e li fanciulli e tutta
la lor roba, nè in questa terra era rimasa altra roba che la mia che
avevo in rôcca; io dico non ne eccettuando alcuno. Io son _certo che
Pierino_ Magnano procurerà di fare grandi li meriti di Battistino
_Magnano suo fratello_ e de li altri banditi e assassini suoi seguaci,
perchè V. Ecc. faccia lor grazia.... sono in circa XII o XV, e vanno
rubando intorno il _bestiame_, e fanno qui la beccarìa e vendono la
carne a gran denari, poi si lievano e vanno alle ville vicine e mettono
taglie a chi lor pare, e fra l'altre a un Cappellano d'un prete hanno
tirato tanto li c..... che gli hanno fatto pagare otto ducati: poi
hanno trovato il padrone; ma quello si è posto su le gambe, e fuggì fin
a Castiglione; e se gli uomini di Castiglione non saltavan fuor in suo
soccorso lo ammazzavano. Un altro prete hanno preso e dicevano che lo
volevano menare al suo potestade in Camporeggiano, cioè a Battistino
Magnano, e quel poveruomo per paura si ha posto taglia e pagato certi
ducati, sicchè l'hanno lasciato. Io anderei troppo in lungo s'io
volessi scrivere a V. Ecc. tutti li richiami ch'io n'ho, ma più ad
agio ne farò una lista e la manderò a quella. Non tacerò questo ancora,
che uomini di Salacagnana sono venuti in quattro insieme mostrando di
venire per altro, e quando sono stati a me hanno cominciato a piangere,
e non m'hanno voluto dire altro. Io ho lor domandato che voglion da me:
m'hanno risposto che non ponno parlare per essere minacciati della vita
se parlano, e per l'amor di Dio che non dica che di questo m'abbiano
fatto motto........

Ser Costantino notaro di Camporeggiano è fuggito in questa terra, _e
non è per_ tornare all'officio, chè questi nuovi officiali _non lo
vogliono_ in casa sua. Il Capitano con suo poco onore _ancora_ credo
che faccia quanto essi gli comandano. Io ho desiderio di avere questi
ribaldi e di farli subito, senza _udire_ altro, impiccare; ma io non
son sufficiente, parte perchè non ho se non dieci balestrieri, ed anco
perchè di essi non mi fido, che per il lungo tempo che sono stati in
questo paese non sono meno parziali de li Grafagnini, chè la maggior
parte v'ha moglie e parentado, e per questo ho scritto e pregato il
Capitano di Reggio e il Commissario di Sestola, che mi servino di 30
fanti per uno. Non so quello che mi risponderanno. Se 'l presente mio
scrivere parrà differente a quello che a' dì passati, cioè subito ch'io
fui giunto, io scrissi a V. Ecc., chè allora lodai alcuni di Castelnovo
che a salvazione e stato di quella si erano portati benissimo, quella
non si maravigli nè m'imputi per uomo incostante e leggiero; ma allora
io scrissi quello che mi parea e ch'io credeva: ma il veder succedere
mali effetti, mi fa credere e toccare con mano questo che ora io
scrivo. Ed anco m'ho da lamentare di Pierino, che di qui si partì con
parecchi fanti, e andò a Camporeggiano a parlar a questi ribaldi, e in
quella povera terra, secondo che mi riferîro quelli di Camporeggiano,
volse alloggiare a discrezione, e dar lor questa giunta, oltra li danni
che aveano patito. Io l'ho detto altre volte e sono stato male inteso,
pur io lo dirò anco di nuovo, che la salute di questa terra, senza
dare altra spesa a V. Ecc., saria di tenere confinati _lungi di qui_ in
perpetuo e in eterno quelli che sono banditi..............

_Io sempre scrissi_ e son per scrivere liberamente a V. Ecc. tutti
_quanti_ li andamenti ch'io veggo, sì per mutar proposito, _sì ora
a lode_ ed ora a biasimo, secondo li portamenti: ben prego V. Ecc. e
li Secretarî, che di quello ch'io scrivo o male o bene mi _tengano_
secreto, chè Dio mi è testimonio, che non affezione, _non odio ch'io_
porti più a l'uno che a l'altro, ma l'amore de la giustizia mi spinge a
scrivere e dire quello che accade.

Appresso, questo ferito Capitano de le genti del Sig. Giovannino credo
che risanerà: quando è stato un poco meglio io l'ho interrogato da
lui _solo_ e da me, e poi ho fatto una nota di quanto m'ha risposto,
copia de la quale mando a V. Ecc. Credo che in parte dica _il vero_ e
in parte anco lo taccia: non di meno quella può fare congiettura del
resto. Io le manderò anco alcuni altri testificati ad agio. Il prete
da Soraggio de li Bosi che ad instanza del Commissario di papa Clemente
era stato preso, cioè che diede quando _venne qui_, or ora è morto dopo
un mese ch'era stato ammalato. Non ho mancato, poi ch'io son stato
qui, ch'io non gli avessi fatto levare li ferri e andare li medici e
li parenti, e padre e fratello per sua cura, e fargli tutte quelle
provvisioni che mi sian state possibili; tuttavolta è morto, e sta
ben morto, perchè era una mala _bestia_, e teneva in grandissima paura
tutto Soraggio, e stuprava uomini, e dava ferite e bastonate, e ogni dì
n'avevo reclami. Altro non accade: a V. Ecc. sempre mi raccomando.

  Castelnovi,[291] XX iulij 1524.


CXLIII[292]

                              AL MEDESIMO


Ill. Sig. Sig. mio osseq. Benchè io creda che non abbia _di bisogno_,
pure perchè alle volte interviene de le cose ch'altri non pensa, _non_
sarìa fora di proposito che V. Ecc. facesse provvedere _una soma_ di
polvere in queste fortezze, fra qui in Castelnovo, Camporgiano e le
Verucole, in ogni caso che potesse avvenire, _perchè_ la polvere qua è
molto cara: e avendone V. Ecc. _in Rubiera,_ quando quella ne volesse
mandare una soma di là, io comanderò da qui a qualche giorni di farla
pagare de li denari de la gabella qui. Al presente non ci è ordine di
pagarla, per avere la gabella debito per altre occorrenze. V. Ecc. farà
cosa grata a questi uomini, e ancora li inanimerà; chè a non farlo,
queste fortezze non hanno provvisione alcuna quando accadesse alcuna
cosa; sicchè V. Ecc. pigli quello più espediente le pare: alla bona
grazia de la quale del continuo mi raccomando.

  Ex Castelnovo Carfignanae, die 24 iulij 1524.

      Excellentiae Vestrae

                                                            Servitor,
                                                  LUDOVICOS ARIOSTUS.


CXLIV

                              AL MEDESIMO


Ill. ed Ecc. Signor mio. Chi facesse impiccare quattro o cinque che
sono in questa provincia, basteria, senza bisogno di mandare qui
_altri balestrieri, nè_ fare altra spesa: e questi sono Battistino
Magnano e Donatello e certi suoi compagni da una parte e l'altra, e
quel Cornacchia da Sommacologna, de li quali tutti n'ho fatto più volte
querela a V. Ecc. Circa al Cornacchia ho scritto già il modo come si
potria avere per la via de' Lucchesi: ma questi altri che sono di più
importanza, adesso è accaduta la occasione che V. Ecc., volendoli,
li potrà avere. È accaduto per quel prete de li Bosi che è morto qui
prigione, che Mess. Nicolò cognato di Pierino Magnano ha mandato a
pigliare la possessione a suo nome de la chiesa di Soraggio, e v'ha
mandato e vi fa stare continuamente Battistino prefato e Donatello e li
compagni che sono in tutto circa XII, tutti banditi e assassini. Questo
Soraggio confina con Reggiana, e da Castelnovo di Reggiana vi si può
ire in un tratto: bisogneria a mio giudicio che V. Ecc. commettesse
al Capitano di Reggio che mandasse segretamente li suoi balestrieri
con buon numero di genti a piedi che arrivassino una notte a questa
chiesa, che tutti li pigliarebbono a man salva, e questa provincia
resteria netta. Sarìa anco bene che 'l Capitano de' balestrieri avesse
una patente di V. Ecc. acciò che potesse comandare nel paese che se
gli movesse contra, e quando non si potesson pigliare, s'assediarìa
la chiesa, che si avriano ogni modo. A questo effetto avevo scritto
al Commissario di _Pietrasanta che_ mi mandasse fin a 30 uomini: si
è escusato che sono occupati ne li ricolti, e anco me ne dissuade
perchè sono villani, e per conseguenza cattiva gente. Avevo scritto
al Capitano di Reggio, ma il prolungare che fa a darmi risposta, mi
fa dubitare che non sia per far _a mia_ instanza cosa alcuna. Ora io
ricorro a V. Ecc., in buona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi, 24 iulij 1524.


CXLV

                              AL MEDESIMO


Ill. Sig. mio. Gli uomini di Cicerana or ora m'hanno riferito che
Donatello con parecchi banditi è in quella terra, e _ieri usò_ certa
violenza a un poveruomo, che messero taglia _ad esso_ poveruomo, e, non
la potendo pagare, lo battêro. Se quelli dal Sillico che vorriano la
grazia da V. S. facessino quello che già s'hanno profferto, di cacciar
li altri banditi, questi ribaldi non si ardiriano di stare in Cicerana.

Appresso, li balestrieri oggi erano iti così a solazzo a piedi alla
Pieve, che qui a un miglio è lontana, e volendo andare alla canonica,
fu loro asserrato l'uscio incontro da questi fratelli del Moro dal
Sillico banditi, e facendo punta li balestrieri d'entrare dentro, si
affacciò un di loro, e disse alli balestrieri che se non si levavano
li taglieriano a pezzi. Il Capitano mandò subito ad avvisare. Io m'ero
mosso con questi _altri balestrieri_ per andarlo a soccorrere, e quando
son stato fuori del paese mi è venuto un balestriero all'incontra, che
mi ha detto che il prete per un uscio di drieto li ha fatto fuggire. Io
sono tornato indrieto, ed ho scritto questa perchè ho un messo ch'or
ora parte, nè posso sapere questa cosa in tutto, perchè il Capitano
de' balestrieri non si è _ancora veduto, ma_ solo per avvisare V.
S...............


CXLVI

                              AL MEDESIMO


Ill. Signor mio. Io credo che l'esibitore di questa Mess. Giacomo
pisano _si lagnerà che la_ causa che già molto tempo pende fra lui
e Pier Morello _non sia_ stata condotta a fine; e perchè V. Ecc.
non creda che la _colpa sia_ mia, io le fo intendere, come avendo io
chiamato li _quattro_ deputati sopra la gabella, alli quali e insieme
a me la causa fu commessa, e ben veduti e considerati li capitoli de
la gabella, e pigliato informazione da tutti quelli che per li tempi
innanzi erano stati conduttori di essa gabella, e da quelli ch'avevano
ricordo di poi che tal gabella fu constituita fin al dì d'oggi: ed
essendo ben _certi che_ se Mess. Giacomo doveva essere assoluto o non
_da la parte di esso_ Pier Morello, solo ne restava un dubbio _se la
parte perdente_ dovea essere condennata ne le spese o non; nè essendo
li prefati quattro nè io giurisperito, ci accordammo di domandare
sopra questo dubbio consiglio: e perchè li Capitani giurisperiti
della provincia vedevamo sospetti alle parti, deliberai di mandare
il processo a Lucca, siccome in luogo _dove più_ presto avessimo
risposta che da Ferrara, la quale ci pareva troppo rimota. In questo
tempo Pier Morello, o diffidandosi _di Lucca_ e che il consiglio
venisse per lui o pur desiderando di mandare la cosa in lungo, ebbe
ricorso a Ferrara, e fece _venire una lettera_ la quale commetteva che
per modo alcuno io non _avessi a risolvere_ secondo il consiglio di
Lucca, ma che volendo consiglio l'avessi a domandare a Ferrara. Per
questo io _domandai il processo alle_ parti per mandarlo a Ferrara,
e prima questo pisano rispose che non voleva dar la sua copia fuori
_nè permettere_ che la sua causa fosse veduta da altri, ma che fusse
giudicata secondo il Sig. l'aveva commessa, cioè da me e da li quattro.
Pier Morello non voleva dare se non quelli atti che erano stati fatti
dai predecessori............ per questo io non ho fatto altro, se non
che mi sono assunto di accordarli; ma Pier Morello non volse venire
_ad accordo. Gli_ uomini di Castelnovo mal volentieri vengono a dar
_sentenza contro_ li quattro che erano l'anno passato, per non far
danno a l'una parte o a l'altra. Pur quando V. Ecc. mi liberi ch'io
sentenzî _secondo_ la prima commissione, cioè secondo il parere de li
quattro, io _espedirò_ la cosa subito. Quando anco le paia che si pigli
consiglio a Ferrara, mi commetta ch'io astringa l'una de le parti o
amendue insieme a far levare il processo, ch'io lo manderò a _V. Ecc.,_
in buona grazia de la quale mi raccomando.

  Castelnovi ......... 1524.[293]


CXLVII

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Anco per altra mia
vi abbia scritto il medesimo, per questa ancora avviso le eccelse S.
V., che non mancherò di fare satisfare quelli vostri di Cardoso delle
loro capre; e anco circa il fieno, che loro dicono esserli stato tolto
da questi di Valico, non mancherò loro di ragione: e a V. eccelse S. mi
raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, 25 iulii 1524.


CXLVIII

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Signor mio. La lettera di V. Ecc. dì XXI di questo mese,
appresso il buono effetto venuto con quella de li 25 schioppettieri,
e così il Castellano mandato per le rôcche de le Verugole, sono stati
tanto grati agli uomini da bene ed amatori di pace di questo paese, che
di nuovo quella può far conto di aversegli acquistati per fidelissimi
sudditi. Alla lor giunta tutta li banditi hanno sgombrato il paese, nè
credo, finchè ci stiano, che se ne senta alcuno. Io ho messo di questi
schioppettieri una parte a Camporeggiano e una parte a Castelnovo, ma
nè a Castelnovo nè a Camporeggiano li lascierò fermare, perchè vorrò
che vadano in volta per il paese; e così ieri cominciai, e ne menai
meco una parte a Sassi, per far provvisione a quella rôcca, come V.
Ecc. per la sua mi commette, de la qual rôcca, non so se quella n'abbia
ricordo, ma sappia che gli è luogo molto più forte de le Verugole, e
di manco guardia assai, e fra gli altri Cristoforo Casanuova ne potria
dare cognizioni a V. Ecc. che già l'ha veduta e parlatone meco. È
situata in luogo importante perchè è alle confine de' Fiorentini e de'
Lucchesi, e tanto vicina a Castelnovo, che quando accadesse un bisogno,
e vi fosse un Castellano, questi uomini più volentieri vi fuggiriano le
sue robe e le sue brigate, che non fariano a Barga e ne l'altre terre
vicine, come hanno fatto a questi dì. E perchè V. Ecc. mi scrive, ch'io
veda di aver questa rôcca in le mani e ch'io vi ponga un Castellano a
mio modo, io fo congiettura che a quella sia stato scritto che qualche
bandito la tenesse e qualche nimico di V. Ecc. Quella sappia che
in quella rôcca non stà alcuno, nè anco vi può stare perchè è tutta
discoperta: gli è ben vero che in questi sospetti il Casaia e alcuni de
la parte francese che avean sospetto de li banditi, e la parte italiana
che da _Rocca e da S. Romano_ ha fatto venire Pierin Magnano si erano
ridotti a Sassi _perchè_ la chiesa di quella terra la quale è congiunta
con la rôcca è d'un Antonino nipote del quondam Ser Ferdiano, e la più
parte de la terra di Sassi è de la parte francese; e per questo non
solo adesso, ma anco in gli altri tempi li banditi che sono de la parte
francese spesso danno di capo a Sassi, con grandissimo dispiacere de la
parte taliana che non vorria che li nimici avessino ridotto alcuno; e
non pongono all'incontro che essi taliani tengono la rôcca di Cicerana
e quella del Sillico, che son qui in su gli occhi a Castelnovo, e con
molta più querela del paese, perchè nè a Sassi, nè a quella via è mai
stato fatto assassinamento alcuno, ma di quello che sia stato fatto da
quest'altro canto V. Ecc. si debbe ricordare: ancora li pover uomini
di Cicerana stan nel danno de li cento ducati che pagâro al prete.
Sarìa ogni modo ben fatto che ne la rôcca di Sassi stesse un Castellano
col suo salario, che sono undici lire al mese che paga questa gabella
di Castelnovo, e credo che abbia certo poco ancora di condennagione.
_Forse_ un uomo con un famiglio basteria a guardarla per tempo di
pace, e li banditi sapendo che ci fosse un Castellano non capitariano a
Sassi, e il prete medesimo nipote di Ser Ferdiano e questi uomini me ne
pregano, perchè il venire che fanno li banditi e seguaci in quel luogo
non è lor se non dannoso; ma non li ponno _negare,_ per averli essi già
serviti ne li lor bisogni, di dar lor _mangiare_ e bere. E perchè V.
Ecc. mi scrive ch'io vi ponga un Castellano a mio modo, secondo che mi
pare il bisogno, avevo pensato di porvi due di questi schioppettieri
mandati, ma vedendo che non c'è alcun coperto, ho lasciato stare ed
ho fatto chiamare li uomini de le Terre nove per domani a parlamento,
li quali uomini sono obbligati a riparare questa rôcca, perchè V.
Ecc. dona _la tassa_ della metade de le lor condennagioni, e farò che
subito _sia riparata e che il Castellano vi possa abitare, perchè non
avessero a farlo_ queste genti del Sig. Giovannino. So che _Pierino
ritiene che il_ Casaia e prete Bartolomeo da Gragnanello _non siano_
di questa parte francese, ma io non ho _di ciò alcun sentore_ nè
indicio alcuno: e se ben il Casaia e il detto prete si partì e andò
a Sassi, il Capitano de la Ragione mi _farà fede_ che fu di suo
consiglio e commissione, e questo perchè avendo Pierino fatto venire
questi banditi, e da l'altra parte avendo il Casaia fatto venire degli
altri forestieri, de la contraria parte, e dubitando che l'una parte
e l'altra si attaccasse insieme, perchè ne vedeva di manifesti segni,
consigliò li detti Casaia e il prete più presto a levarsi che a tener
qui pericolo di voltare ogni cosa sottosopra, e così feceno. Ora
Pierino quanto può s'affatica di voler mostrar che la partita di questi
sia stata una ribellione, e quando questo Capitano del Sig. Giovannino
rimase ferito a Camporeggiano, Pierino, oltra che io avessi mandato
li balestrieri, mandò una quantità de li suoi a torlo, e se lo voleva
far portare in casa, e poi ch'io l'ho avuto in rôcca, ogni dì veniva o
mandava a persuaderlo che si levasse di qui e andasse a casa sua perchè
staria meglio, di modo che ho avuto fatica a far che questo ferito
aspettasse la risposta di V. Ecc. E questo Pierino facea tutto perchè
avendolo in casa sperava di farlo dire a suo modo. Ultimamente poi
c'ho avuto la risposta di V. Ecc. l'ho lasciato partire; ma prima l'ho
persuaso, e così è stato contento di farsi portare in l'alloggiamento
del Capitano de' balestrieri, come loco che non sia sospetto nè all'una
parte nè all'altra, ma dubito che non camperà: pur se campa oggi,
il medico dice che n'averà speranza. E quanto Pierino si affatica a
voler far conoscere che il Casaia abbia colpa di questo movimento, fa
altrettanto il Casaia per farmi vedere che se ho _sospetto che in ciò_
v'ha colpa, ch'ella sia di Pierino............. e che poi quando il
tamburino venne a domandare la terra, venne seco un parente di Pierino
pur da Fivizzano e parlò con un altro parente di Pierino da Barga che
era qui lungamente, e poi quel da Barga parlò con Pierino, e Pierino
gli fe' mandare da mangiare e da bere per sei compagni: e che poi che
questa gente si fu ritirata a Camporeggiano, in Camporeggiano Pierino
parlò lungamente col Capitano Todeschino che ora è qui ferito e ancora
parlò con altri suoi parenti che erano nel campo di là. Queste cose
son ben vere, ma non credo già che Pierino le facesse a male effetto;
pur li suoi nimici le interpretano del modo che esso fa la lor partita,
sicchè l'una parte e l'altra ha che dire, e così è come la intendo io.
Voglio anche che V. Ecc. le sappia, perchè ne possa far quel giudicio
che le pare, e come ho fatto pel passato sarò per far per l'avvenire,
di avvisar sempre V. Ecc. di tutto quello che sento, e dir male e
bene de l'una parte e de l'altra secondo i lor portamenti. Fin ch'io
starò in questo officio non sono per avervi alcuno amico, se non la
giustizia.

Ho fatto a Pierino e agli altri li ringraziamenti o comendamenti che
V. Ecc. mi commette, chè ho lor letto la lettera di V. Ecc. ne le parti
che appartengono a loro, avvenga che per una lettera di quella già serà
fatto il medesimo.

_Ho scritto_ al Capitano di Fivizzano, e a quelli officiali _in
Lunigiana_, e ho fatto far una grida publica che gli _uomini_
di Fivizzano e d'ogni altro luogo possano venire sicuramente in
questa provincia. Ho fatto chiamare il parlamento per li _uomini_
de la Vicaria di Castelnovo, dove parlerò delle cose de li uomini
di Silicagnana, et etiam di por sul generale la spesa fatta per
questo movimento, secondo che V. Ecc. mi comanda. E lunedì anderò a
far il medesimo a Camporeggiano, chè per quel dì ho fatto chiamare
quelli altri a parlamento, dove parlerò e mi sforzerò che sia fatto
provvisione alle rôcche de le Verugole. Del successo avviserò poi V.
Ecc., in buona grazia de la quale mi raccomando intanto.

  Castelnovi, penultimo iulij 1524.

Or ora son venuti due del paese di Lucca, che dicon tornare di
Lunigiana, e riferiscono che le genti del Sig. Giovannino hanno presa
una fortezza detta la Bastia ch'era tenuta inespugnabile, e questo
per mezzo de li mastri che l'avean fatta, con certi _altri_, e che
sono a campo a un altro luogo detto Monti del marchese Spinetta, e che
quelli fanti dicono che avuti questi anderanno a Fossadinovo, ovvero
torneranno in Carfagnana.[294]


CXLIX

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Perchè ho inteso
che a Gurfigliano, in casa di quello prete Michele, sono alcune robe
della buona memoria del conte Giovanni da Santo Donnino, rubate da
quello Giovanni Maddalena; prego le V. eccelse S. voglino sequestrare
quelle robe in mano a quello prete per inventario, acciocchè quelli che
le ruborno non l'abbino a godere, e che le possino avere coloro a chi
pervengano di ragione: e alla buona grazia delle prefate V. eccelse S.
mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, die primo augusti 1524.


CL

                           AL DUCA DI FERRARA


Ill. ed Ecc. Sig. mio. Ebbi da V. Ecc. l'avviso come ella avea
commesso al Capitano di Reggio che mandasse a Soraggio per pigliar
quelli banditi ch'eran nella chiesa, ed io per essergli più presso
a dar soccorso se bisognasse, mi mossi con li schioppettieri verso
Camporeggiano e allora incontrai uno che mi diede una lettera di
Giacomo di Pasino Capitano de li cavalleggieri di Reggio, per la
quale mi avvisava che la sera dinanzi era giunto a Soraggio e avea
trovato in la chiesa un figliolo e un nipote di Bastian Coiaio e altri
compagni, circa X, e tutti li avea presi, e che li menava verso Reggio:
ma il medesimo messo che mi diè la lettera mi disse che alla giunta
di questo Giacomo di Pasino a Soraggio, Battistino Magnano e Margutte
da Camporeggiano banditi e assassini pubblici eran con gli altri, ma
che facendo lor spalle quest'altri che non eran banditi, se n'erano
fuggiti, e che ci avean avuto tempo perchè avean veduto venire li
balestrieri da lungi, imperocchè questa compagnia era giunta a Soraggio
su le XXII ore: de la qual cosa ho avuto dispiacere che questo Giacomo
non sia stato tanto avveduto, che non abbia saputo giungere di notte, o
su l'alba, sicchè non s'abbia lasciato vedere prima che sia stato lor
addosso. Io non so se l'abbia fatto scioccamente, o pur d'industria,
perchè di poi m'è stato detto che la moglie di Bastiano Coiaio è
parente di Giacomo di Pasino. _Sit quomodocumque_, io sento grandissimo
dispiacere che quelli due ribaldi sieno campati. Donatello con un
altro bandito detto Venturello s'era partito poco prima. Io non so che
farà il Capitano di Reggio di questi che son stati _menati_ prigioni:
non sarìa male di dar loro qualche ricordo, chè sempre non avessino a
favorire e star con banditi: e forse chi li esaminasse intenderia da
loro qualche andamento di questi ribaldi. V. Ecc. farà quello che gli
parrà.

Ier sera fui alle Verugole, e trovai quella rôcca fornita _solo di
tutti_ li disagi: ho detto al Castellano che mi mandi la _nota di
quanto gli bisogna_...... Io non mi partirò da Camporeggiano dove sono
ora, che gli farò provvisione di tutto quello che _occorrerà_; ma ho da
far con mali villani. Ieri feci chiamare a parlamento perchè facessino
provvisione di quattro guardie da _porre_ ogni notte in le Verugole:
mi risposeno che non lo volevano fare perchè non erano obbligati, e
che pagavano per quelle rôcche 4 bolognini il dì, e che toccava a V.
Ecc. farle guardare, e non già ad essi: pur impetrai dopo molte parole
che ne mandassino due per quindici giorni, tanto ch'io avessi scritto
e avuto da V. Ecc. risposta, e difficilmente furon contenti. Come
già quella può sapere, il luogo è grande e col suo salario compito
si vi solea tenere 14 persone, sette per rôcca. Ora che la cosa è
ridotta a cinque, male si potranno guardare, cioè quando accadesse
qualche novità di guerra; ma quando fossimo liberi da quel sospetto,
credo sieno assai: pur Bernardino dal Doccie non sta molto sicuro,
mentre che queste genti del Signor Giovannino stanno in Lunigiana,
che partendosi la sera potriano essere all'alba alle Verugole; e per
questo m'ha pregato ed io son stato contento di dargli due di questi
schioppettieri appresso. La provvisione più necessaria, che è di far
murare una porta che non è molto importante, che serà più sicura che
far di novo perchè è marza e guasta, e far conciar la cisterna, farò
prima ch'io mi parta di qui; e ho pur disposto gli uomini che questo
faranno a sue spese. Circa il resto io vederò li suoi capitoli, e
quello che saranno obbligati vorrò che facciano. Del resto V. Ecc.
serà prima avvisata che si faccia altra spesa. Qui ne la rôcca di
Camporeggiano ho posto Santo Giacomello Castellano, la quale similmente
è senza provvisione alcuna: di questa similmente, come di quell'altre,
farò poi ch'avrò veduti li capitoli di questa Vicarìa: ma poca spesa
farebbe questa Vicarìa non molto forte; e fortificata questa cognosco
_che in queste parti_ non sariano di bisogno _altre fortezze nè di
fare altra spesa_, e poi vi porrò due fanti finchè V. Ecc. mi avviserà
_diversamente_. Altra persona non saprei che porvi, perchè nessuno del
paese saria buono, nè nessuno vi vorria entrare, se non sapesse d'avere
la provvigione di che V. Ecc. non me ne dà avviso alcuno. V. Ecc.
scrive che manderà anco un Capitano a Camporeggiano, e non ha mandato
se non quello de le Verugole. Non so quanto abbia determinato, ma dico
ben secondo il mio parere che stava meglio un Castellano in la rôcca di
Camporeggiano che in le Verugole per essere più utile a quelli uomini
che in Camporeggiano stesse un poco di guardia che in le Verugole che
è lor più lungi, ed anco mi pare che con poca poca spesa la rôcca di
Camporeggiano si farìa molto più forte che quella de le Verugole, ed
è di minor guardia assai; pur a quella stà di fare il parer suo. Ma
riparato e provvisto a queste tre rôcche, Verugole, Camporeggiano e
Sassi, meglio saria minar l'altre, o smantellare e aprire di sorte che
banditi o altri nimici non vi potesson alloggiar dentro; ma meglio e
più pace del paese saria a guardarle. Ecci anco la rôcca di Trassilico,
che quando V. Ecc. non vi voglia porre altro Castellano, non sarìa
forse mal fatto che il potestade vi stesse dentro, poi che a quella
pare che 'l podestà abbia da stare a Trassilico, perchè vi starìa esso
più sicuro e sarìa causa che quelli uomini la terrìano riparata, come
sono obbligati; e intendo che è condotta a tal ruina, che forse il
volere ripararla sarebbe oramai tardi: pur quando questa fosse volontà
di V. Ecc. la anderei o manderei a vedere. Circa alle rôcche sia per
ora detto assai.

Di quanto V. E. mi scrive di far salvo condotto a quelli banditi che
per la lettera venuta da parte di questi uomini _era stata pregata,
dirò a quella.... che l'intenzione del_ paese è stata di supplicare
V. Ecc. che abbia per raccomandata questa provincia e per sua salute
faccia le provvisioni necessarie, ma dimandare salvo condotto o grazia
per Bastiano Magnano e Donatello e Venturello e certi altri assassini
o di pessima sorte, V. Ecc. sappia che nè il Comune, nè uomo da bene
è stato chiamato a questo, ma Pierin Magnano e Maestro Gian Piero e
Aconzio, c'hanno fatto una lega insieme e voglion guidare ogni cosa
a lor modo con Ser Evangelista or Cancelliero de la Comunità, hanno
fatto questa lettera a V. Ecc., senza chiamar consiglio, e senza
participazione d'alcun altro. Se questi ribaldi fosson banditi per uno
omicidio o due soli, V. Ecc. potria compiacere, non dico il Comune, chè
esso non domanda questo, ma ciascun di questi particolari: ma voler
far grazia ad ammazzatori, publici assassini, e che non vivon se non
di porre taglie, se tutto il mondo ne pregasse V. Ecc., quella non
lo dovria fare. Il balestriero che fu mandato di qui con lettera di
credenza è uomo da bene per soldato, ma è tanto di questa parte taliana
per aver moglie una parente di Ser Evangelista, ch'io dubito ch'abbia
detto a V. Ecc. a favor d'una de le parti e a biasimo de l'altra più
che non richiede il dovere, e massime ch'abbia fatto grandi li meriti
di questi banditi, li quali se son venuti in favore di questo paese V.
Ecc. non creda che sia stato perchè gli siano tanto affezionati più
degli altri, ma per difensione de la lor fazione, vedendo che con li
nimici veniva il Cornacchia e li figlioli di Pier Madalena, e quelli
da Pontecchio, cioè Ulivo e il fratello _che sono_ lor nimici capitali:
pur e di questa come de l'altre cose mi rimetto a V. Ecc......

Or ora ho avuto avviso che 'l Capitano Todeschino che fu ferito è
morto. Un che gli attendeva ne la sua infermitade e a chi io aveva
commesso che meglio che potea si sforzasse di cavarne quel che l'avea
mosso a venir in qua, mi ha riferito che sino alla morte è stato
nel fermo proposito che 'l Sig. Giannino nulla ne sapea, ma che quel
giudice da Fivizzano l'avea mosso, con speranza che, succedendo le cose
_ad vota_, il Sig. Giannino dovesse essere contento e pigliar questa
escusa che li uomini l'avesson chiamato. Io scrissi a V. Ecc. che
la Bastia era perduta; di poi hanno avuto monte di Simone dove hanno
preso il marchese Spinetta e moglie e figlioli. Si dice che v'è stato
tradimento. Son per ire a Fosdinovo, dove il marchese Lorenzo si fa
forte ed ha aiuto da San Giorgio.[295] Altro non occorre. A V. Ecc. mi
raccomando.

  Camporegiani, 2 augusti 1524.


CLI

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini etc_. Ho visto quanto le V. eccelse S.
scriveno: le ringrazio del buono animo. È ben vero che io prego quelle,
che la medesima commissione hanno dato al suo vicario di Castiglione,
la voglino ancora dare al vicario del Borgo, di Camaiore, ed altri
suoi officiali; che scadendo che quelli tali li capitasseno alle mani,
tengano via di averli e pigliarli. Circa quello che le prefate V.
eccelse S. mi scriveno della commissione data al suo bargello di venire
dove accaderà, per adesso la grazia del mio illustrissimo Signore mi ha
dato braccio, che se capitano in queste parti, da poterli castigare. Ho
parlato a bocca con il suo vicario di Castiglione, e conferito l'ordine
si ha a tenere acciò la cosa abbi effetto: e alle V. S. di continuo mi
raccomando.

  Ex arce Camporeggiani, die 2 augusti 1524.


CLII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Ieri, essendo a
Carreggine, mi venne un messo di V. S. con sue lettere, per le quali
mi avvisano, come li cavalli e fanti mandati dal governatore di Reggio
avevano preso a Soraggio alcuni banditi di V. S., e che io facessi
intendere al detto governatore le convenzioni e capitoli che sono fra
V. S. e il mio illustrissimo signore; e io, come sempre, desideroso
di fare piacere e servizio a quelle, per il medesimo messo scrissi al
governatore in buona forma, e non dubito che non faccia il medesimo
ch'io ho fatto per il passato e sempre sono per fare, purchè si trovi
essere vero che in questi, che il capitano del governatore ha menato a
Reggio, siano quelli banditi di V. S.; ma nella lista che mi mandò il
detto capitano, quando si partì da Soraggio, già non era nominato quel
Jeronimo. Pure credo che _oculata fide_ il governatore di Reggio farà
vedere al messo di V. S. tutti questi prigioni, acciò che conoschi li
suoi banditi, se vi sono; ed essendovi, e non li volendo il governatore
dare (il che però non credo), io sono per scrivere cento lettere non
che una all'illustrissimo Signore mio, acciò che V. S. abbino il suo
intento. Bene le prego, che per fare la volontà mia, che ho verso
quelle di buona optima[296] che l'officio c'ho sempre fatto e sono
per fare per quelle, esse all'incontro vogliano fare per me, di porre
qualche industria di far pigliare e darmi nelle mani Battistino Magnano
di Castelnovo e Margutte da Camporeggiano suo compagno, li quali
intendo che spesso si riducano in Tramonte e su quel di Castiglioni, e
vanno villeggiando per le terre di V. S.; che più facilmente riusciria
a V. S., delle quali non hanno sospetto, a farli pigliare, che a me dal
quale si guardano con troppo vigilanza, massimamente al presente che il
signore mio m'ha mandato 25 stioppettieri a piedi, oltra li cavalli ci
ho per ordinario. Quando V. S. mi faccino uno piacere di questa sorte,
stiano secure, che quello c'hanno di me in maggior parte al presente,
averanno poi in tutto, sì che non meno potranno disporre di me e di
questa provincia in cosa di giustizia, che possa lo illustrissimo
Signor mio. In buona grazia di V. S. sempre mi raccomando.

  Camporeggiani, 5 augusti 1524.


CLIII

                    AGLI OTTO DI PRATICA IN FIRENZE


_Magnifici et excelsi domini mihi observandissimi_. Li esibitori
di questa, Barone e Corsetto da Vagli di sopra, vengono a V. S. per
far loro intendere, in nome del suo Comune, di certe bestie che fur
lor tolte dagli uomini de la Cappella del capitaneato di Pietra
Santa; di che esse forse debbono essere informate, chè di questo
anco l'anno passato, quando fu il caso, lo Ill.mo Signor mio scrisse
a Vostre Signorie, o fosse alli predecessori suoi; e quelle mi par
che commettessino, che a questi nostri di Vagli fosson le bestie
restituite, o che essi fosson soddisfatti del prezzo: ma tal commission
non fu però eseguita. Ma che ne fosse causa, li detti uomini mandati
riguaglieranno Vostre Signorie, le quali prego dieno lor buona udienza
e indubitata fede, perchè non sono per esporre se non la verità; e che
appresso nella differenza c'hanno per certi lor paschi con detti uomini
de la Cappella, che sia lor servato quello che per antiqua composizione
(come appare per li contratti che son fra l'un Comune e l'altro) è
stato lungamente in uso, e le parole del contratto sieno interpretate
per la equità e non con cavillazioni, sì che tranquillamente possano
vicinare insieme. Ho fede nella benignità di Vostre Signorie che si
degneranno ascoltare le ragioni di questi nostri, e non tollereranno
che sieno trattati con tal violenza da questi de la Cappella; li quali
per esser sotto la protezione e favore di Vostre Signorie si arrogano
più di autorità, che non credo che sia volontà di quelle ch'abbiano.
Che se bene per essere suoi sudditi li hanno cari, non credo che però
abbiano men cara la giustizia. Credo che di questo anco a Vostre
Signorie scriva il capitano suo di Pietra Santa, il quale è assai
informato della cosa, e mi confido nella prudenza e bontà sua, che farà
relazione della verità. E in buona grazia di Vostre Signorie sempre mi
raccomando.

  Castelnovi Carfignanae, 29 augusti 1524.


CLIV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici et excelsi Domini mihi observandissimi._ Io ho dato
commissione agli esibitori di questa, che poi che delle sue faccende,
per che vengono, avranno parlato a Vostre Signorie, che anco da mia
parte faccian loro intendere uno assassinamento fatto ieri a un pover
uomo di questa provincia (appresso gli altri grandissimi, che a' dì
passati gli avevan fatto) da alcuni ribaldi da Barga, e in specialità
da uno detto Matteo del Mazone. Prego Vostre Signorie che circa questo
prestino lor fede, quanto a me proprio; e che appresso, intesa la cosa,
ne faccian quella dimostrazione che merita la giustizia, e io ho fede
che sieno per fare, sì che questi da Barga ne piglino tal esempio,
ch'ogni dì non abbiano questa provincia in preda. In buona grazia delle
quali sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 29 augusti 1524.

Ho preso informazione, e intendo che col detto Matteo era un detto il
Moro del Pazaglia, Luchino di Paolo d'Ochi e un detto Coietto, e altri,
di chi non so il nome.


CLV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini, domini observandissimi etc._ A' giorni
passati scrissi a V. S. di certe robe e forzieri sono appresso quel
don Michele rettore della terra vostra di Gurfigliano; le quali sono
robe tolseno quelli tristi che assassinorno quella povera donna del
conte Gian Maria da Santo Donnino e il figliuolo, che le portorono là;
e V. S., per sua grazia, per sue lettere commisseno a detto prete le
tenesse appresso di sè, nè le dovesse dare senza licenza di quelle. Il
perchè queste robe, se sono di quelle del conte, si spettano alli frati
e monache qui di Santo Francesco, che sono eredi, e a uno altare: se
anco sono di quelle di quelli assassini, si spettano alla camera del
mio illustrissimo Signore. E perchè quelli ribaldi su ciò molestano
il prete, e le vorrebbeno; per tanto, acciò non si possino gloriare di
avere la roba e morte le persone, e che la sia data a chi si spetta, V.
S. siano pregate, e anco per la giustizia, commettere al suo magnifico
vicario di Castiglioni, mandi per dette robe per parte di quelle, e me
le facci portare qui a me; e io molto bene farò pagare li portatori; e
a V. S. mi raccomando, offerendomi _ad similia etc._

  Castelnovi Carfagnane, 7 septembris 1524.


CLVI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Io ebbi grandissima
allegrezza, quando io viddi passare di qui le genti di V. S.; ma
maggiore, quando per lettere di quelle, e per una del suo magnifico
commissario mandato a Castiglioni, ho inteso che sono mandati ad
effetto di reprimere la temerità di alcuni omicidiali sudditi suoi,
e anco di questa provincia, che sono tutti una lega. Io sarò insieme
con il commissario di V. S. spesso, e con lettere e in persona; e in
tutto quello che io potrò, per operare che la violenza non possa più
della giustizia, non mancherò; e V. S. stiano sicure, che non meno
ponno disporre di me che di uno suo deditissimo, perchè così è la
volontà dello illustrissimo Signor mio, e appresso la inclinazione
mia e osservanza che ho verso quelle, in buona grazia delle quali mi
raccomando.

  Castelnovi, 19 septembris 1524.


CLVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini, domini observandissimi etc._ Per altre
mie quali scrissi pochi giorni fa a V. S., e circa quelle robe furono
tolte a Santo Donnino per quelli che assassinorno quella povera donna
del conte Giovanni e il suo figliuolo, le quali robe si ritrovano in
Gurfigliano, terra di V. S., appresso di quello prete Michele rettore
lì, e pregai V. prefate S. volessero commettere al suo magnifico
vicario di Castiglioni, che mandasse per dette robe, e me le facesse
condurre qui a me, che io farei satisfare alli portatori; e questo
per essere robe tolte in el mio commissariato, e che si spettano a
frati, monache, e uno altare lì in Santo Domenico; e per quanto mi
hanno riferito li frati qui, dicono aver avuto da V. S. che quelle
risponderebbeno a me, e che si contentavano veder le ragioni di detti
frati, monache e altare: pertanto per questa mia faccio noto a V. S.
che io ho visto li testamenti e del conte Carlo vecchio e del conte
Giovanni suo figliuolo ultimamente fatti per cadauno di loro, abbenchè
per certi altri vostri cittadini costì e della casa di Santo Donnino mi
fusse mostrato un altro testamento di detto conte Carlo, il quale per
l'ultimo suo prefato fu ed è annullato; e per adesso mando a V. S. la
copia dell'ultimo testamento del conte Giovanni, per virtù del quale
dette robe si spettano a detto altare, frati e monache, acciò quelle
siano chiare, che senza causa licita e onesta non mi sono mosso a così
richiedere V. S., le quali so che per giustizia e conscienza non sono
per mancare alle giuste domande: e così le prego di nuovo, voglino
fare ordinare, per quel miglior modo a loro parerà, che io abbi queste
robe per distribuirle a chi giustamente si pervengano. E a quelle mi
raccomando e offero.

  Castelnovi Carfagnane, 20 septembris 1524.


CLVIII

                              AI MEDESIMI

                             (inedita)[297]


_Magnifici ac potentes Domini mei observandissimi._ Hercole Saltarello,
nostro gentilhomo ferrarese, per sue lectere et per homo mandatomi
a posta, mi pregha con grandissima instantia ch'io facci opera di
acconciarlo con Y. S. per soldato, overo per capo di qualche cavalli
leggieri o fantarie, et nel suo scrivere monstra che crede V. S.
siano per fare molto per me. Io perchè non posso negare alli amici,
maximamente che siano homini da bene, alcuna cosa che mi ricerchino,
ancora che la mia domanda mi paia un poco temeraria, ho più presto
voluto incorrere in colpa di presumptione che di ingratitudine verso
di amici et compatrioti mei, sì che V. S. mi perdoneranno s'io parrò
troppo audace, et per loro humanità più che per miei meriti saranno
contente, potendolo fare senza loro incommodo, di dare ricapito per
mio amore a questo homo da bene, per il quale io prometto che sarà
fedelissimo, et lo conosco per valente et discreto et per fare honore
a chi l'havrà a V. S. rachomandato: in buona gratia delle quali mi
rachomando sempre.

  Castelnovi, XIII oct. 1524.

      D. V. S. obser.mo

                                                  LOD.O ARIOSTO.[298]


CLIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Già sono molti
giorni e mesi passati, che, essendo ad instanza delli uomini di Gello
stato ritenuto a Lucca uno delli nostri uomini delle Fabriche, il mio
illustrissimo signore scrisse a V. S. quanto per la annessa copia esse
si potranno ricordare; e V. S. furno contente farlo rilasciare, e parve
che ponesse silenzio a questa differenza, perchè da quel tempo in qua
non se n'è poi sentito altro. Or di nuovo mi riferiscono li nostri
uomini di Valico di sotto, che pure per tal causa e per la medesima
instanza uno delli suoi uomini è stato sostenuto al Borgo: per questo
mi è paruto, più presto che consentire a loro volontà che dimandavano
di fare ripresaglia d'alcuno delli sudditi di V. S., di ricordarli con
questa mia, quanto questa cosa sia per dispiacere allo illustrissimo
Signor mio, quando la intenda, e pregare e domandare di grazia a V.
S., delle quali sono deditissimo, che siano contente di commettere che
questo nostro sia subito relassato, e commettere alli suoi uomini di
Gello, che desistano da questa impresa; e più presto quietamente e di
concordia è da trattarla con lo illustrissimo Signore mio, che di nuovo
si facci rivedere questa causa; chè, per quello che già fu fatto, sua
Eccellenza si tiene avere riceputo torto, e il suo commissario non si
portasse molto bene. Di questo prego di nuovo V. S., alle quali sempre
mi raccomando.

  Castelnovi, ultima octobris 1524.


CLX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Ricercato da questi
mercatanti reggiani, li quali desidereriano intrare in Lucca, fo fede
a V. S., come quasi ogni giorno ho lettere dal capitano di Reggio, e
da' miei amici particolari, che mi avvisano di ogni cosa che accade
in quella terra, e non sento, per lettere che vengono di là nè per
persone, che vi sia alcuno sospetto nè pericolo di peste. Altro non
occorre: a V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, 8 novembris 1524.


CLXI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Io non ho dal
signore Duca mio avviso alcuno di questo passaggio del Duca di Albania,
nè da un commissario di sua Eccellenza che intendo essere con il detto
Duca d'Albania, e me ne maraviglio forte. Dalli uomini di Silano, per
lettere e per relazione a bocca di 3 delli miei che vi ho mandati a
posta, ho inteso come iersera a ore due di notte arrivò a Silano uno
terriero del detto Duca, che domandava vettovaglia per 14m. persone
tra piedi e cavallo; e che questa sera, che serà alli 30 di decembre,
arrivaranno a Silano. Ora io mando due altri nomini per avere più
chiara informazione; e a V. S. mi raccomando.

  Castelnovi, penultimo decembris 1524.


CLXII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. È accaduto a questi
dì, quando la gente del Duca di Albania passorno per questa provincia,
che alcuni soldati presero a Vitiana uno delli nostri, il quale andava
drieto il campo per pigliare denari; che, per quanto ne ho relazione
da uomini degni di fede, è giovane da bene; ma quelli soldati, o per
rubarlo o per qualche suspizione che a loro nascesse, lo presero, come
ho detto, e legaronlo, imputandoli che era delli banniti di questo
paese, e che andava drieto al campo per fare qualche tristizia. Di poi
accadde, che giungendo a Diecimo, incontrando uno suo parente detto
Cristoforo di Lucca da Dessa, ed essendo da lui conosciuto, fu per
opera di colui aiutato e favorito in modo che se ne fuggì. Pare che
dalli prefati soldati sia stato fatto relazione a V. S., di sorte che
hanno fatto pigliare il detto Cristoforo siccome uno commettitore di
grandissimo fallo per avere liberato costui. Io fo fede a V. S. che
questo che prima fu preso, nominato Battista di Gio. Andrea da Sassi,
è di buonissima famiglia, nè da chi lo conosce è reputato se non per
giovane da bene, e non ha bando nè condennazione alcuna; sì che nè
quell'altro che l'ha liberato ha commesso per questo grande errore:
onde io lo raccomando a V. S., e le prego che se non l'hanno ritenuto
per altra causa, siano contente per amore mio liberarlo: in buona
grazia delle quali sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 13 ianuarii 1525.


CLXIII

                    AGLI OTTO DI PRATICA DI FIRENZE


_Magnifici et excelsi domini, domini mihi observandissimi_. Credo che
a Vostre Signorie sia a mente, che alcuna convenzione è tra esse e lo
Ill.mo signor Duca mio di non permettere che li banditi del dominio
dell'uno stiano su quel dell'altro. La qual convenzione, poichè per il
prefato Signor mio mi fu notificata, ho sempre integramente osservata
in questa provincia a me da Sua Eccellenza commessa; chè li banditi
di cotesta eccelsa Repubblica ho avuto nel medesimo conto ch'io ho
li banditi e ribelli di Sua Eccellenza; e quanto più mi pare di fare
il mio debito, tanto mi dà più da dolere il non mi vedere rendere
il cambio. Già molti dì sono mi dolsi con Vostre Signorie che in
Fivizzano, e nel suo capitaneato, era dato ricapito ad alcuni che di
qui eran banditi per omicidii e assassinamento fatto in le persone del
figliolo e della madre delli Conti di san Donnino; e da Vostre Signorie
mi fu risposto che circa a questo avevan scritto al suo Commissario di
Fivizzano, come avesse da fare. Ma qual fusse tal commissione e come
quel Commissario avesse da fare, io non potei saper mai; se non che
vedendolo pure perseverare in patire che tali ribaldi stessino in la
sua provincia, mi pensai che così fusse di mente di Vostre Signorie,
e mi stetti senza replicare altro, persuadendomi, che per qualche
ragionevole rispetto esse volessino così; e mi bastò che quelle fussino
da me state avvisate. Così voglio fare ancora al presente: notificare
ad esse, che uno detto Bernardello da Ponteccio, bandito di questa
provincia per tanti omicidii, furti, assassinamenti e violenze d'ogni
sorte, che a volerle esplicare non basteria nè questo nè dieci altri
fogli appresso; poichè non trova più ricapito altrove; chè non è luogo
qui intorno dove non abbia fatto qualche enormissimo delitto; si è
ridotto a Fivizzano, e per quanto mi ha riferito chi lui, e due suoi
compagni non migliori di lui, l'un detto Pellegrino e l'altro Rafaello,
ha veduti su quello mercato, hanno il salvocondotto da quel Commissario
di starci sicuramente. Io n'ho voluto dare avviso a Vostre Signorie,
e supplicarle, che se non è di suo consenso che ci stiano, e che si
manchi delli capitoli e convenzioni, sieno contente per amor della
giustizia di commettere che questi tre assassini famosissimi sieno
presi, e fare che sia di loro eseguito secondo il merito; chè mi rendo
certo che anco nel dominio di Vostre Signorie abbino commesso più di
un delitto notabile, e quando qualche rispetto ritenesse quelle da far
questo effetto, almeno comandino che siano cacciati, e non patischino
che tal peste infetti il suo paese. Se anco per qualche causa (che
io non so) a Vostre Signorie piace che abbino ricapito e favor su
'l suo, io non sono per oppormi alla volontà loro, e mi basterà che
non sia mancato per me di non averne dato avviso: e se bene non serò
ricambiato circa questo officio e debito, non resterà per questo ch'io
non osservi, quanto dal mio Signore illustrissimo mi è stato imposto,
di avere li banditi e ribelli di Vostre Signorie come capitali nimici
di Sua Eccellenza, e che in questa e in ogni altra cosa ch'io possa, io
non studi di sempre gratificare Vostre Signorie; in bona grazia delle
quali sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 17 ianuarii 1525.


CLXIV

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes domini, domini mei observandissimi_. Uno
Paolino da Molazzana e uno Cecchino da Colomini sono ricorsi a me come,
per lo officio che io tengo, loro protettore, che io preghi V. S. e
li raccomandi due, l'uno figliuolo de l'uno, e l'altro fratello de
l'altro; li quali esse hanno in pregione per essersi trovati con certi
altri, che andavano drieto al campo del Duca di Albania a partecipare
di certa carne; di che V. S. debbono essere meglio informate che me.
Quando il loro delitto sia piccolo, come questi me lo narrano, che
non si sieno trovati ad ammazzare le bestie, ma a pigliare della carne
poi che sono state morte, li raccomando a V. S.; tanto più che essendo
essi ancora soldati della compagnia di Betto Cartolaro, come questi mi
dicono, l'avevano fatto con più sicurtà: sì che, essendo così, prego
V. S. che per mio amore non li faccino patire per altri più di quello
che merita la loro colpa; che quando fussino stati principali a questo
o altro delitto notabile, io non sarei per pregare per loro, anzi mi
dolerei che la giustizia non avesse suo loco. In buona grazia di V. S.
sempre mi raccomando.

  Castelnovi, 18 ianuarii 1525.


CLXV

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini, domini mei observandissimi._ Le S. V.
vederanno quanto a quelle, e similmente a me per le qui allegate,
scrive il capitano di Reggio circa di quelli assassini presi dal
barigello di V. S.; di che, quando al detto capitano sia stato referito
la verità, come scrive, prego V. S., per amore della giustizia, siano
contente darceli in le mani; chè cosa più grata non potriano fare allo
illustrissimo Signore mio: e a quelle in buona grazia del continuo mi
raccomando.

  Castelnovi, 2 februarii 1525.


CLXVI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ Io sono per
eseguire quanto V. S. mi ricercano, di fare publicare la taglia
in contra quel Jeronimo da Castiglione ad ogni loro requisizione;
nondimeno, perchè da alcuni giorni in qua il mio capitano delle genti
che ho qui è in pratica con certe spie che li promettono di darglielo
in le mani, mi pare, così parendo anche a V. S., di soprasedere
alquanto, e vedere lo effetto che farà questa spia: che se al
fine le promesse riusciranno vane, sempre si potrà venire a questa
publicazione. Il detto Jeronimo non si trova al presente, per quanto
mi è riferito, nel paese; e questo saria uno avvertirlo che non ci
venisse, e che non si fidasse di venire in questa ducale provincia:
pure al più savio parere di quelle mi riporto; in buona grazia delle
quali mi raccomando sempre.

  Castelnovi, 12 februarii 1525.


CLXVII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici etc._ Alcuni nostri da Carreggine erano iti al Borgo, e
avevan comprate due some di farina di castagne per portarsele a casa,
non sapendo che ci fusse divieto alcuno questo anno, sì perchè loro
parea che questo anno è assai buona ricolta, e che le cose dovessero
essere più larghe del solito, sì ancora perchè vedevano che di questa
ducale provincia si lascia estraere alli sudditi di V. S. ciò che
vogliano: e mentre che le some si caricavano, che ancora non si erano
partite dal loco, dalla famiglia di quel vicario fur loro levate le
bestie e le some, sì come côlte in frodo. Io ho voluto ricorrere a
V. S. sì come a quelle che mai m'hanno negata grazia ch'io abbi loro
domandata, e pregarle che faccino rendere a questi poveri uomini la
sua roba; che prima intendo, che questo anno non è stato fatto divieto
alcuno per bando, o per altra via, che s'abbi potuto intendere che le
robe che si vogliono per uso suo non possino ire fuora; e poi queste
some sono state prese prima che si siano partite del loco, chè pure,
quando apparisse che ci fusse frodo, l'uomo suddito delle S. V., che
le ha vendute a persone che non le possano estraere, doverìa essere
punito; chè esso non può avere la scusa di non sapere li ordini,
come per la verità l'hanno questi nostri di Carreggine, chè questi
sono forestieri e non sanno quello che di tempo in tempo, secondo li
bisogni, sia determinato. In somma, io prego V. S. che quelli boni
portamenti che tuttavia io uso verso li suoi sudditi, anco esse voglino
che siano usati verso quelli del mio illustrissimo Signore: in buona
grazia delle quali mi raccomando.

  Castelnovi, 24 februarii 1525.


CLXVIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mihi observandissimi._ Altra volta
scrissi alle V. S. in recomendazione del presente latore, che è
Gemignano di Cristoforo da Riccovolto abitante a Coreglia, quale era
incorso in certa pena per cavare robe dal distretto delle S. V.; e,
secondo che esso mi riferì, le S. V. erano contente per amor mio
lassarli la parte toccava a quelle, pure che fusse d'accordio con
li daziarii, e parmi che costui per povertà non abbi satisfatto li
daziarii; e di nuovo è stato preso: pertanto prego le S. V, che quello
che per amor mio lassavano a questo nostro suddito a quel tempo, o vero
il Collegio che allora era, di volerlo fare ancora adesso, offerendomi
in queste e in cose maggiori sempre al beneplacito delle S. V.: alle
quali sempre di buono core mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, ultimo martii 1525.


CLXIX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici etc._ Ho visto quanto V. S. mi scriveno in recomendazione di
Bartolomeo e Girolamo Mariani dal Borgo; le S. V. sanno che mi possono
comandare: io non sono per mancare del debito mio, e prestare tutto
quello favore a quelli suoi, che per me giustamente si potrà, con breve
espedizione, come sono obbligato per amore delle prefate V. S.: alle
quali di buono core mi raccomando.

  Ex Arce Castri novi, 27 aprilis 1525.


CLXX

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ A questi giorni ho
ricepute due di V. S., una delli 8, l'altra de' 12 del presente, per
le quali mi avvisano li mali deportamenti che fanno quelli di Valico
di sotto alti suoi di Coreglia e di Motrone; il che mi è dispiaciuto
sommamente: ma non mi meraviglio di quelli di Valico, perchè alli
giorni passati hanno avuto ardire di volere mettere mano alli nostri
balestrieri che erano andati là per fare certe esecuzioni. Sono certo
che il mio Signore ne farà dimostrazione verso loro, come già m'ha
scritto sua Eccellenza: ho mandato a chiamare quelli tali che V. S.
mi mandorno nominati in una sua lista, quali oggi hanno mandato qui a
me due suoi incaricati, per intendere la causa perchè io li chiamo: ho
detto loro che io voglio che comparischino personalmente: comparendo o
no, procurerò contra di loro a quanto vorrà la giustizia, nè mancherò
di fare tutto quello potrò, se aranno fallito, di punirli, come sono
obbligato per le V. S. e per la ragione. Circa quanto V. S. mi scrivono
di Belgrado, arìa grandissimo piacere fusse relassato di prigione, e
che V. S. pigliasseno da lui la sicurtà conveniente al grado suo di
vicinare bene con li suoi sudditi, che io ci veggio male ordine che
lui trovi sicurtà di 400 o 500 ducati, ma sì bene una sicurtà onesta, e
così lo recomando alle S. V.: alle quali mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, die 14 maii 1525.


CLXXI

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi._ È stato qui da me
uno Bernardo Guassello da Castiglioni, suddito di V. S., e dice, che
mandando alli dì passati una soma di capretti a Lucca suso un asino,
quale aveva tolto in presto da una vedova da Ponticosi, li fu levato
da certi di Aquilea, allegando che lo asino è loro; e parmi che costì
in vescovato sia stato giudicato l'asino essere di quelli di Aquilea;
adesso dice la causa essere davanti le S. V.: e perchè io ho parlato
con quelle due prove da Ponticosi, e anco con delli altri, che la
verità è, che l'asino è quello di quella vedova, e che lei glielo
prestò, e che già sono 3 anni che lei il comprò, prego le S. V. che,
se bene costui non ha indotto tante prove come li suoi avversarii, e
questo per la incomodità e spese, che quelle si voglino aderire alli
più degni, perchè questi dei Ponticosi sono uomini da bene e uomini che
non diriano questo, se non fusse la verità; e che perciò non permettino
sia fatto torto a questo suo, come sono certo faranno: alla buona
grazia delle quali mi raccomando.

  Ex Castelnovo Carfagnane, die 24 maii 1525.


CLXXII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Verrà dalle S. V.
prete Giovanni da Mulassana, e narrerà a quelle li mali portamenti di
prete Martino da Vergemoli, e massime il minacciare li fa d'andarli
alla casa con gente, se lui non si accorda seco: e perchè sono certo
che le S. V. amano la giustizia, e non hanno men caro li sudditi del
signor Duca che li suoi proprii, prego quelle che voglino fare qualche
provvisione che quel prete Martino non li abbi ed innovare cosa alcuna,
e che sia il vescovo che giudichi fra loro, e non le armi, perchè ne
porria resultare qualche grande scandalo. Circa quelli di Valico, in
risposta dico alle S. V., che, trovandomi alla fine del mio officio,
non passeranno 8 o dieci giorni che io verrò costì in persona, e
menerò meco qualche uomini di Valico, e avanti che io parti di costì
piglieremo quel più espediente modo che parerà alle S. V., acciò che
innanzi che io parti di qua, si operi questo bono effetto che esso
Belgrado sia liberato, e quelli di Motrone e di Valico restino boni
amici. E alle S. V. mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, 29 maii 1525.


CLXXIII

                              AI MEDESIMI


_Magnifici ac potentes domini mei observandissimi_. Anco che per
un'altra mia io abbi differito con le S. V. di parlare con esse, circa
al caso di Belgrado, alla mia venuta costì, sono stati poi da me questi
di Valico, e hannomi detto, che altre volte hanno menato costì a Lucca
li loro pagatori del suo territorio, e quando sono stati costì, gli
è stato detto nelle orecchie si vadino con Dio, _adeo_ che questi
di Valico si diffidano di potere trovare pagatore nel territorio di
quelle, perchè questi suoi temeno che se entrano pagatori per Belgrado,
non fare dispiacere alle S. V.; ma mi propongono un altro modo, che li
suoi di Mutrone dieno le sicurtà loro nel territorio delle S. V., e li
di Valico nel paese, quando bone e sufficienti, e che l'una sicurtà
e l'altra si obbligano in forma camerale: sì che V. S. si degnino
avvisarmi quello loro pare, perchè potriano passare 12 o 15 giorni
innanzi che io potessi venire costì, e averia più caro di venire con
risoluzione che in confuso. E a V. S. mi raccomando.

  Ex Castronovo Carfagnane, 30 maii 1525.


CLXXIV[299]

                           AL DOGE DI VENEZIA


Ser.mo Principe et Signor mio Ex.mo Supplicai alla Serenità Vostra nel
1515 a dì 25 ottubrio[300] io devotissimo servo suo Ludovico Ariosto
nobile Ferrariense, et familiare dell'Ex.mo S.r Duca di Ferrara, come
havendo già alcuni anni con mie longe vigilie et fatiche per spasso et
recreatione de Signori et persone de animo gentile composta una opera
di cose piacevole et dilettevole di armi et amor, chiamata _Orlando
furioso_, et desiderando alhora ponerla in luce per solazzo et piacer
d'ognuno, che mi concedesse gratia, la qual etiam obtenni da essa
et dal Collegio suo, che niuna persona nè terriera, nè forestiera
di qualunque grado esser si vogli ardisse nè presumesse in le terre
et loci del dominio di Vostra Sublimità de stampar nè far stampar in
forma alcuna di littera nè di foglio grande, piccolo, nè piccolino,
nè che potesse vender nè far vender ditta mia opera senza expressa
licentia et concessione de mi supplicante author di essa, sotto pena
di perder tutte tal opere, che si attrovasseno stampate et de ducati
mille per cadauno che le avesse stampate, o fatte stampar, vendute o
fatte vender, la mità della qual pena fosse applicata a chi piacesse
a Vostra Sublimità, et l'altra mità cum li libri stampati o venduti
a mi Ludovico prenominato. Et perchè per nova leze Vostra Serenità
ordinò, che tal gratie non fossono viridice se non fussero approbate
per lo Ex.mo Conseglio de Pregadi, questa mia opera è stata stampata da
molti incorrettissima,[301] onde mi è stà necessario prender fatica di
correggerla, et anchora la ho riconzata et riformata in molti loci. Et
volendola ora dar fuori cum queste nove corretione,[302] supplico alla
Sublimità Vostra, che la istessa gratia, che mi concesse del 1515 a'
25 di ottubrio, come ho ditto di sopra, se degni hora confermarmi, et
de novo conceder in questa mia opera cussì corretta et emendata, sì che
niuno nè terrier, nè forestier di qualunque grado presuma di stamparla
o farla stampar, nè venderla o farla vender cum queste corretione nove
in le terre, loci, et dominio di Vostra Ill.ma Signoria mentre ch'io
vivo, senza mia expressa licentia et concessione; sotto le dette pene
ut supra specificate nella gratia concessami per Vostra Serenità con
el suo Collegio del 1515 preditto. Alla gratia della qual humiliter mi
ricomando.

                   _Die dicto (7 genn. 1527)._[303]

  _Quod suprascripto supplicanti concedatur quantum petit._

                         _De parte_      126
                         _De non_         14
                         _Non syncere_     3

                            MARINUS MOLINO
                            DANIEL RHENER
                            IO. EMILIANUS
                            ALOY.S MOCENICUS eqs.
                            MARCUS MINIUS
                            FRANC.S DONATUS eqs. _Consiliarii_.

  _Facte fuerunt lit. patentes die 14 mensis suprascripti 1527._


CLXXV

                         A MESSER PIETRO BEMBO


Virginio mio figliuolo viene a Padova per studiare. Io gli ho commesso,
che la prima cosa che faccia, venga a far riverenza a V. S., e si
faccia da lei conoscere per suo servitore. Io priego V. S., che dove
gli sarà bisogno il suo favore, sia contenta di prestarglielo; e sempre
che lo vedrà, lo ammonisca ed esorti a non gittare il tempo.[304] Alla
quale mi offro e raccomando sempre.

Io son per finir di riveder il mio _Furioso:_ poi verrò a Padova per
conferire con V. S., e imparare da lei quello che per me non sono atto
a conoscere. Che Dio conservi sempre.

  Ferrara, alli 23 febraro 1531.

                                        Di Vostra Signoria Servitore,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

Fuori — _Al Reverendiss. Monsignor Pietro Bembo_.


CLXXVI (inedita)[305]

                  AL CONTE NICOLÒ TASSONE D'ESTE[306]


Signor Conte mio hon.mo Vostra Signoria non si gravarà s'io le darò
fatica, chè l'humanità sua verso di me mi daria ardire di affaticarla
in molto maggior cosa di questa, con fidutia che non meno la faria
volentieri che io haveria piacere ch'ella lo facesse. Io vorrei
stampare di nuovo il mio _Orlando furioso_ acciò che io gli emendassi
molti errori, che, oltra quelli che per poco diligentia vi ho fatti io,
hanno fatto ancora li stampatori; et anche vi ho fatto alcune aggiunte
che spierò che non spiaceranno a chi le leggerà. Et perchè vorrei
essere sicuro che li stampatori non l'havessino a stampare contra
mia volontà, prima ch'io lo stampisca, ho ottenuto da quasi tutte le
potentie d'Italia che finachè viva nessuno lo possa stampare senza mia
licentia. Io vorrei ancho ottenere il medesimo da l'Illu.mo Sig.r Duca
di Milano, et così prego Vostra Signoria che sia contenta d'impetrarmi
questa gratia da Sua Excellentia, et acciò sia informata di quello
che vorrei, le mando qui annessa una copia de la lettera che circa
questo mi ha fatto il Sig. Duca di Mantova.[307] Di questo io la priego
strettamente, alla quale mi offro et raccomando sempre, e la prego che
mi raccomandi in bona gratia del Sig. Conte Massimiano.[308]

  Ferrariae, XIX iunii 1531.

      Di Vostra Signoria

                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


CLXXVII

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Ill.mo ed Ecc.mo Sig. mio osserv.mo Essendo io in procinto per mandare
di nuovo a stampa il mio _Orlando furioso_, e per questo bisognandomi
far condurre da Salò quattrocento risme di carta, supplico Vostra
Eccellenza che sia contenta di commetter che per le sue terre possa
esser condotta liberamente senza pagamento di alcun dazio, sì come
anche la felice memoria del Marchese suo padre mi concesse di poterne
condurre fin alla somma di mille risme, della qual somma io mi feci
condurre solo risme duecento. E perchè non reputo che Vostra Eccell.a
m'abbia per manco servitor suo che m'avesse il padre, con non minor
fiducia ricorro a quella, e la supplico che mi faccia questa grazia; e
non solo per questa volta, ma per sempre che mi accadrà di stampare:
chè se ora ho aggiunto da quattrocento stanze al detto libro, spero
ad altra addizione di aggiungervene molte più: e come in questa ho
nominato Vostra Eccell.a con qualche laude, non sono anco per tacerla
nell'altra. Io fo pensier anco di stampare alcune mie cosette; sicchè
quella non voglia tenermi per importuno e poco discreto se sempre
ch'avrò bisogno di carta domanderò a quella il transito per le sue
terre libero: in buona grazia della quale umilissimamente mi raccomando
sempre.[309]

  Ferrariae, XV januarii MDXXXII.

      Di Vostra Eccellenza

                                             Ossequiosiss.o servitor,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.

Fuori — _All'Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio osservandiss.mo il Sig. Duca
di Mantova._


CLXXVIII

                        A GIANFRANCESCO STROZZI


Magnifico messer Giovanfrancesco. V. S. intenderà per la lettera di
frà Gasparo, come è venuto a Ferrara indarno; e questo per colpa del
portator delle lettere, che al passar che fece di qui, non mi parlò,
ma diede le lettere a casa mia, e se ne portò con lui il decreto, il
quale poi pur oggi per le mani di frà Gasparo ho avuto: sicchè non
l'ho potuto far vedere, ed è forza ch'io lo ritenga per far quanto
circa questo accade; ma n'avrò buona custodia, non meno che n'avria
il magnifico vostro padre: e poi ve lo rimetterò a salvamento, o pur
farò quanto mi scriverete. Col magnifico messer Guido non ho voluto
parlar circa le possessioni di Quartesana, se prima non vi avviso che
la possessione che voi vorreste non è in sua potestate, però che subito
dopo la morte di madonna Leona, gli fu forza a venderla per restituir
la dote alli suoi eredi; e solo gli resta in Quartesana quella sua
bella possession grande, che vale forse otto o dieci mila ducati: chè
più tosto credo che darìa via la moglie che la possessione, perchè non
ha se non quella appresso a quel bel palazzo. Di quelle che vi vorrìa
dare in godimento a Recano,[310] non siete ben informato circa il
condurre delli ricolti; perchè li lavoratori sono obbligati a condurre
ogni cosa a Ferrara. Gli è vero che per le rotte di Po due volte si è
affondata; ma Dio sa se questo accaderà più, perchè tal rotta è stata
perchè li Mantovani han tagliato l'argine: alla qual cosa penso che
i signori Veneziani ed il duca nostro abbian da provedere, o per una
via o per un'altra, che non lo faccian più. Circa questa e l'altre
particolarità si tratterà quando sia fatto quello che principalmente
s'ha da fare: che sarà alla tornata di madonna Simona e di frà Gasparo,
che gli è forza che torni un'altra volta.

Madonna Alessandra[311] si raccomanda a V. S., ed a vostra sorella;
e per questo messo le manda due drappeselli, di quelli ha fatto far
a posta; che tutti due insieme ha pagato uno scudo d'oro, ma con gran
parole e contese, che 'l giudeo che li ha fatti, ne volea quattro lire:
pur gli è convenuto aver pazienza. E si offerisce in quello che può, e
la prega che le comandi: e così fo io.

  Ferrara, 19 ianuarii 1532.

                                                  Di Vostra Signoria,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CLXXIX

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Io ho fatto vedere il
decreto vostro al magnifico messer Buonaventura,[312] il quale mi dice,
che non è bisognato nè bisogna farlo confermare altrimente, perchè così
è valido, e che ve ne sono assai altri simili, che sono buoni e validi.
Pur oggi n'ho parlato col magnifico messer Guido, il quale mi ha detto
di volerlo vedere ancora lui, e così glielo mostrerò: il quale messer
Guido ho pur trovato disposto più che mai. Appresso ho parlato ancora
con messer Bonaventura di questa nostra pratica; al quale è piaciuta
assai, e mi ha promesso, come madonna Simona sia tornata da Modena,
dove è andata per lo parto che si aspetta della figliuola, di parlarne
con lei; il che facendo (come farà), ed essendo persona che può molto
disporre di essa, credo che non bisognerà per questo dare fatica a
frate Gasparo di tornare in questa terra. Quando ella sarà venuta, e di
quello che si sarà fatto, vi darò avviso.

Madonna Alessandra si raccomanda a V. S., e dice d'aver avuto uno
scudo, e li parèa d'avervene avvisata, quando mi fe' scrivere che
quelli due drappeselli aveva avuto per uno scudo. Ha poi avuto per
il cancelliere delli Furgosi cinquanta bolognini, e per il velo della
Madonna (che poi non vi parse che si comprasse) aveva anco avuto trenta
bolognini, li quali tutti insieme, senza lo scudo, fanno lire quattro:
ma li primi drappeselli costaro tre lire e mezza tutti due; sicchè vi
resta debitrice di dieci bolognini: li quali, quando vi accaderà di
volere altro in questa terra, vi saranno menati buoni. Pur vi avvisa
che così come ogni dì cresce in questa terra il prezzo dell'altre
cose; anche questi Giudei vanno crescendo quello delli suoi lavori.
S'ella non vi avvisò il prezzo delli primi drappeselli, dice che non
restate per questo di comandarle ed adoperarla; chè non era tanta somma
che ci avesse a gravare, se ben voi non le aveste mandati i danari: e
che quando non vi vorrete servir di lei, voi e vostra sorella e tutta
casa vostra, dubiterà che non le vogliate bene. Alli quali tutti si
raccomanda sempre, ed io appresso.

  Ferrara, 20 ianuarii 1532.

                                                     Di V. S. sempre,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CLXXX

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio osservandiss.mo Io mi chiamo
perpetuamente obbligato a Vostra Eccell.a del dono ch'ella mi ha fatto,
che la mia carta possa passar pel dominio suo senza pagar dazio; ma
più me le obbliga molto l'aver per le sue lettere veduto quanto di
bona voglia mi ha concesso questo, e datomi speranza di maggior cosa
quando mi accada. Io all'incontro mi sforzerò di non parer ingrato a
tanta benignitade, ed anco in questa poco di aggiunta ch'io son per dar
al mio _Furioso_ Vostra Eccell.a potrà veder ch'io ho di lei parlato
onoratamente: in bona grazia della quale mi raccomando sempre.

  Ferrarie, XVII febr. MDXXXII.

      Di Vostra Eccellenza

                                                Devotissimo servitor,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


CLXXXI

                        A GIANFRANCESCO STROZZI


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Ho avuto, insieme con
messer Guido e con madonna Alessandra, gran dispiacere della lettera,
che vi sia stata aperta. S'userà per l'avvenire più diligenza, che non
accada più. Lo amico non è ritornato ancora dal loco dove era andato:
pur si aspetta in breve. Come sia ritornato, farò quanto per l'altra
ho promesso a V. S. Circa il nome delli lavoratori, l'uno ha nome Pier
Antonio Tomi, e l'altro Santo Zago. Madonna Alessandra mi dice, che
non facciate fondamento sopra queste possessioni, perchè ha da messer
Guido intenzione che più tosto vi saran date per una dimostrazione,
che perchè sieno in effetto quelle che v'abbiano a fare le spese,
perchè lui (non) vi mancherà di tutto quello che avrete bisogno.
Purchè si faccia che l'amico sia contento, non vi avete a pigliar cura
d'altro. Altro non dirò. Mi offero, e raccomando, insieme con madonna
Alessandra, a Vostra Signoria.

  Ferrara, 20 febr. 1532.

                                                  Di Vostra Signoria,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CLXXXII

                     A GIOVAN GIACOMO CALANDRA[313]


Mag.co mess. Giovan Jacomo mio onor.mo Io mando per l'apportator
della lettera di Vostra Signoria quattro commedie, cioè tutte quelle
che mi trovo mai aver fatte. Quella sarà contenta di donarle da mia
parte all'Ill.o sig. Duca. S'io ne finirò un'altra che già molt'anni
cominciai, e, menatala un pezzo innanzi, per altre occupazioni la messi
da parte, io ne farò copia a Sua Eccell.a Adesso io sono così occupato
per mettere un'altra volta il mio _Furioso_ a stampa con alquanto di
addizion, che non posso attender ad altro. E se in queste commedie
troverete qualche errore circa l'osservazion della lingua, scusatemi,
chè ancora ch'io li abbia veduti non ho avuto tempo di correggerli.
Oltre quello ch'io ne scrivo al sig. Duca, Vostra Signoria lo pregherà
da mia parte, che, per inavvertenza di chi avrà le commedie nelle
mani, non si lascino sicchè vadano a stampa, come sono andate delle
altre volte con mio gran dispiacere: e a Vostra Signoria mi offro e
raccomando.

  Ferrariae, XVIII martii MDXXXII.

      Di Vostra Signoria

                                                    LUDOVICO ARIOSTO.

Fuori — _Al molto mag.co mess. Giovati Jacomo Calandra maggior mio
onorand.mo_

                                                           _Mantova._


CLXXXIII

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Ill.mo ed Eccell.mo Signor mio. Io mando a Vostra Eccll.a per questo
suo gentiluomo, il quale è venuto qui, tutte le commedie che mi trovo
aver fatto, che sono quattro; come io promisi di far per una mia che
scrissi a Braghino: ed ora da mess. Giovan Jacomo Calandra mi sono
state da parte di Vostra Eccell.a domandate. Due ci sono che non credo
che quella abbia più vedute; l'altre, ancora che sieno a stampa per
colpa di persone che me le rubaro, non sono però nel modo in che io le
ho ridotte; massimamente la _Cassaria_ che tutta è quasi rinnovata. Se
le satisfaranno a Vostra Eccell.a n'avrò piacere grandissimo. Quella
supplico che sia contenta di non lasciarle andare in modo che sieno
stampate un'altra volta, che oltre che non credo che le stampassino
più corrette che abbian fatto l'altre volte, io ci cognosco dentro
delli errori circa la lingua, che, per trovarmi ora occupato in altro,
non ho avuto tempo di correggerli; ed anco chi le ha trascritte non
ci ha usato quella diligenza che avria possuto: ed io, perchè questo
uomo di Vostra Eccellenza non ne venga senza, non ho tempo di ridurle
altrimenti; chè piuttosto voglio ch'ella le abbia ora non così ben
scritte, che indugiando darle sospetto ch'io sia men pronto al servizio
suo di quello che è mio debito di essere. In buona grazia della quale
mi dono e raccomando sempre.

  Ferrariae, XVIII martii MDXXXII.

      Di Vostra Eccellenza

                                                  Devotiss. servitor,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


CLXXXIV

                        A GIANFRANCESCO STROZZI


Magnifico mio onorando. Pel messo di Vostra Signoria ho avuto una
lettera, per la quale ho inteso la morte del suo magnifico padre: cosa
che mi è dispiaciuta, perchè d'ogni piacere e dispiacere di V. S. ne
son partecipe, come debbe esser un amico per l'altro; ma queste cose
son tanto generali, che non si può dire altro se non confortarla, e
conformarsi con la volontà di Dio, ed aver pazienza. Circa l'altra
parte, io ho già (come io scrissi a V. S.) parlatone con messer
Bonaventura, e da lui ebbi intenzione che farebbe quel medesimo effetto
che 'l disegno nostro era ch'avesse a fare il frate: tuttavia non l'ha
fatto ancora. Io gli sarò alle spalle, e farò che lo farà ogni modo.
Ho parlato all'amico di nuovo, e cercato che si risolva; ma gli è
tanto lungo in tutte le sue cose, che gli è impossibile cavarne ferma
risoluzione; e adesso massimamente si rende più irrisoluto del solito,
perchè si trova molto di mala voglia, chè la maggior parte del suo si
trova sotto l'acque, ed ha quasi dubitazione che le entrate ch'egli ha
non possano supplire solamente al viver di casa, perchè, come sapete,
ha gran spesa alle spalle. Dio sa, che nè per madonna Alessandra nè
per me si manca di far tuttavia buono officio, e di combatterlo per
amor vostro: ma non si può aver dalle persone se non quello ch'esse
vogliono. Il vostro decreto è in loco salvo: del quale, come io credo
avervi scritto, parlai a messer Buonaventura: il quale mi disse, che
essendovi quella clausola, — per sè e figliuoli e discendenti, — non
accadeva altra riformazione. Ma non ci è stato tempo di farglielo
vedere, perchè, per il male del duca nostro, c'ha avuto qualche giorno,
e per altri travagli, non ha avuto tempo di vederlo; ma se gli farà
vedere, e lo solleciterò che faccia quest'altro effetto: benchè non
l'ha potuto far fin adesso, perchè la figliuola dell'amica, la quale
è maritata in questa terra, è stata male di parto, e la madre è stata
a casa sua sempre. Non si è mancato fin qui, bench'io non vi abbia
scritto altrimente, di far il debito nostro, nè si mancherà. Parlato
che si sia alla donna, se si potrà disporre, credo che 'l resto sarà
facile, e subito vi si avviserà: se poi vi parrà che vi sia data la
lunga, potrete poi provedere alli casi vostri. Altro non occorre. Mi vi
offero e raccomando sempre, e così madonna Alessandra.

  Ferrariae, 29 martii 1532.

                                                  Di Vostra Signoria,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CLXXXV

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. La pratica nostra per
un'altra mia vi messi un poco in dubbio: e perchè, per quello ch'io
vi scrissi allora, non vi vorrei aver tolto di speranza, sicchè voi
cercassi qualch'altra impresa nuova, per questa vi significo che
le cose anderanno bene; perchè l'amico ha parlato con la mogliere,
la quale ha rimesso a lui che faccia come gli pare, e l'amico mi ha
parlato da sè, il quale è tutto disposto a voi, purchè non ci partiamo
dalle condizioni di che già avemo ragionato: cioè che per adesso egli
non abbia da sentire altra spesa; perchè, come v'ho scritto, si trova
per le acque mezzo ruinato, ed avrà fatica a far le spese alla sua
famiglia quest'anno. Vi consegnerà le possessioni che sapete, pel
vostro vivere; con riserva, che quando s'affondassino, di far come per
altre v'ho scritto; e che voi abbiate a prestargli il modo di vestire,
restandovene esso padrone. Io v'ho scritto questa in fretta: poi vi
dirò più ad agio le cagioni che l'aveano fatto un poco parer restìo. A
V. S. mi raccomando.

  Ferrariae, 5 aprilis 1532.

Io forse vi scriverò fra pochi dì che vegnate in questa terra, e, senza
mezzo di frati, tratteremo e concluderemo fra noi. Io v'ho da dare un
avviso: che quel vostro che piativa la casa, come ha sentito la morte
di vostro padre, si ha voluto intromettere, e farsi mezzo in questa
pratica. Ma l'avemo spazzato. Madonna Alessandra vi si raccomanda.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CLXXXVI

                         AL MARCHESE DI MANTOVA


Ill.mo ed Ecc.mo Signor mio osservand.mo Mi duole che le mie commedie
per essere in versi non abbiano satisfatto a Vostra Eccell.a A me
pareva che stessero così meglio che in prosa: ma li giudicii son
diversi. Le due ultime io le feci da principio nel modo così strano,
e mi duole di non averle anch'io fatte in prosa per aver potuto
satisfarne a quella. La quale sia contenta d'accettare il buon animo.
Io le riferisco grazia che me le abbia (poi che non fanno per lei)
rimandate subito. In buona grazia della quale mi raccomando sempre.

  Ferrariae, V aprilis MDXXXII.

      Di Vostra Eccellenza

                                               Servitore deditissimo,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


CLXXXVII

                        A GIANFRANCESCO STROZZI


Magnifico mio onorando. Ora ritrovandomi in casa di madonna Alessandra,
è arrivato un vostro messo con una vostra lettera; ed è arrivato a
tempo, perchè avevo bisogno di scrivervi, e non sapeva come mandarvi
la lettera. Non ieri, l'altro, venne una febbre a messer Guido, ed
oggi, che è il terzo giorno gli è ritornata. Egli mi pare che si metta
alquanto di paura, ancora che li medici gli dicano che il male non
è pericoloso; e dice che si vuol confessare domani ed acconciar li
fatti suoi e per l'anima e pel corpo: ed oggi, essendolo io andato
a visitare, mi disse (ch'altri non v'era che egli ed io) ch'io vi
scrivessi che veniste in questa terra, perchè vuole che quello che si
ha da fare si concluda. Io poi sono venuto di qua a casa di madonna
Alessandra; e conferendo seco questa vostra venuta, è di parere che
non dobbiate correre così in fretta, perchè le pare che sarìa un far
disordine e tumulto, non essendo ancora placata quella fera salvatica.
Io avrei ben desiderato che questo vostro messo avesse avuto volontà
d'aspettar tutto domani, acciò che riparlando io con messer Guido poi
che la febbre fosse cessata, avessi meglio potuto sapere quello che
vorrà fare poichè sarete in questa terra; ma volendosi partire, non
ho voluto che venga senza questa mia. A me parria, e così a madonna
Alessandra, acciò che non veniste a volo per forse ritornarvene senza
conclusione indietro, che voi non veniste all'avuta di questa; ma che
voi mi mandaste qui un vostro messo subito, per lo quale io vi potessi
dare avviso più maturo dell'intenzion di messer Guido risoluta, poi
ch'io avessi potuto parlar seco, che non fosse sì gravato dal male come
è oggi. Pur io mi rimetto a voi, che facciate in questo quanto vi pare.

Della casa non s'è fatto altro, poichè fin qui non non ne abbiamo
ritrovate. Quelli de' Trotti dicono che non vogliono affittar la lor
casa, ma venderla. Io non starò di cercare. Madonna Alessandra farà
le vostre raccomandazioni, ma non tutte. Mi vi offero e raccomando.
Ferrariae, 21 iunii 1532.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

_A Villabona._


CLXXXVIII

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Avendo a questi dì
avuto una vostra lettera, subito le diedi risposta, ancora che fosse
direttiva a madonna Alessandra, con speranza di mandarla per lo messo
che ci avea portata la vostra, perchè promise di venire a tôrla la
mattina, ma poi non venne; sicchè la lettera restò qui più di tre
giorni poichè fu fatta. Finalmente la dirizzammo a Lendenara in mano
d'un Ercole Malmignato, con speranza che ve l'abbia a mandare: forse
che a quest'ora l'avete avuta, e forse anco che no. Quando pur fosse
andata in sinistro, mi è paruto di replicarvi questa, la quale il
fattore di messer Guido a Recano mi ha promesso di mandarvela per un
messo a posta. Voi dunque intenderete, se già non l'avete inteso, che
quando la vostra lettera arrivò, messer Guido si era ammalato d'una
febbre molto acuta; ed essendolo io andato a visitare, mi disse ch'io
vi scrivessi che voi venissi subito, per dar fine a quanto era tra
voi promesso. Poi, cessando la febbre ed essendo ritornato meglio in
sè, disse a madonna Alessandra, che vi rescrivessi che voi non vi
affrettassi di venire, ma che sarìa buono che voi mandassi qui un
vostro messo, il quale quando fosse accaduto peggio a messer Guido
vi potesse subito venire a darne avviso, acciocchè voi lasciando ogni
cosa aveste a venire. E così ella ve lo scrisse di sua mano, ed anco
vi mandò la mostra di certi capelli. Ora intenderete che messer Guido
sta assai bene; e gli è fallato un termine della febbre: speriamo che
non ne avrà più. Per questo non ci accade ad affrettarvi altrimente
per adesso; ma aspettare le cose vostre per poter poi venire espedito.
Ben vi conforta madonna Alessandra, ed io similmente, che cerchiate
d'espedirvi più tosto che sia possibile, e che vegnate poi, acciò non
intervenisse qualch'altra cosa che vi avesse a far danno. Altro non
accade. Madonna Alessandra ed io vi ci raccomandiamo. Se avrete la
lettera di sua mano, avrete inteso di quella camorra,[314] e d'altre
cose ch'ella vi scrive: se non l'avrete avuta, ve lo replicheremo
un'altra volta.

  Ferrariae, 28 iunii 1532.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

_A Villabona._


CLXXXIX

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Oltre quello che
madonna Alessandra scrisse ieri al sicuro, chè credo ch'avrete veduta
la lettera, vi avviso che messer Guido ha publicato il parentado
fra voi e lui a tante persone, che non può esser che molte donne non
comincino a visitar la sposa. Per la qual cosa madonna Alessandra vi
prega, che, con quella più fretta che potete, mandate o da far una
veste o una sottana, ma più tosto una sottana; ed anche un scuffiotto;
e che rimandiate il sarto incontanente sì per questo, sì ancora che
sua mogliere sta gravissimamente, nè si spera che abbia a campare; e
ritrovandosi lui fuori, non può esser senza pericolo della sua roba.
Se le donne l'anderanno a visitare, e non si trovi meglio vestita, sarà
vergogna di tutti. Sicchè affrettatevi quanto potete, e voi non passate
li 20 dì di questo mese a trovarvi qui per sposarla: chè solo questa
causa intertiene messer Guido, che non va a l'officio, ed ogni dì è
sollecitato d'andarvi. Circa il vostro venire con compagnia, so che
madonna Alessandra vi ha scritto. A messer Guido non pare che vegnate
se non più privatamente che potete; perchè, per aver avviate le sue
robe, non avrìa modo di accettarvi con gran compagnia. In questo si ha
da eseguire la sua volontade. Mi vi offero, e raccomando.

  Ferrariae, 12 augusti 1532.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CXC

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Madonna Alessandra non
accetta la vostra scusa, nè per questo vi leva quel nome che v'ha dato
nella sua lettera, per allegar voi d'aver faccende che vi ritengono:
chè a lei pare, e così anco a noi altri, che nessuna, fosse di che
importanza si volesse, vi dovesse più importar di questa. La scusa
che ci proponete che dovria usar vostro suocero, non sarìa accettata
per buona dal signor Duca; perchè già son dieci giorni che va fuor
di casa, e a voler mostrar di esser ricaduto non sarebbe più a tempo.
Sicchè pensate di metter ogni cosa da parte, e di venir più tosto sei
giorni innanzi il 28, che un'ora da poi, sì perchè siete aspettato
e desiderato, sì perchè fate gran danno con la vostra tardanza a
messer Guido; prima appresso al signor Duca, che lo sollecita che vada
all'offizio, e poi perchè, aspettandovi, sta con gran spesa. Chè 'l
genero e la figliuola e figliuolini son venuti da Modona, e l'altro
genero e figliuola son venuti da Carpi; e, fra l'uno e l'altro, vi sono
già parecchi dì alle spalle con presso a venti bocche, senza i cavalli:
e si aspetta anco da Mantova madonna Leonara sua sorella; sicchè a pena
han potuto servar una camera per voi. E più incresce a messer Guido che
tutti stanno incomodi, perchè ha già mandato buona parte innanzi delle
sue robe: in somma, voi avete da venir più tosto oggi, che tardare a
domani.

Gli scuffiotti si sono avuti da Mantova; che sono bellissimi, e son
molto ben piaciuti. Li danari si avranno dal fattor vostro; e si farà,
circa il comprar l'oro, quel ch'è di bisogno. Intanto ella ed io vi
ci raccomandiamo; ma molto più di noi, per quanto mi dice madonna
Alessandra, vi si raccomanda la consorte vostra.

  Ferrariae, 20 augusti 1532.

                                                              Vostro,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.

Fuori — _Al molto magnifico quanto fratello onorando Messer
Gianfrancesco Strozzi._


CXCI

               AD ISABELLA GONZAGA MARCHESANA DI MANTOVA


Illustrissima ed eccellentissima signora mia osservandissima. Io
mando a Vostra Eccellenza uno delli miei _Orlandi furiosi_,[315] che
avendoli meglio corretti e ampliati di sei canti, e di molte stanze
sparse chi qua chi là pel libro, mi parrebbe molto uscir del debito
mio, s'io, innanzi a tutti gli altri, non ne facessi copia a Vostra
Eccellenza, come a quella che riverisco e adoro, e alla quale so che le
mie composizioni (sieno come si vogliono) essere gratissime sogliono.
Quella si degnerà di accettarlo, insieme col buono animo col quale io
le fo questo picciol dono: in buona grazia della quale mi ricomando
sempre.

  Ferrariae, 9 octobris 1532.

      Di Vostra Eccellenza

                                                Servitor deditissimo,
                                                    LUDOVICO ARIOSTO.


CXCII[316]

               A MARGHERITA PALEOLOGA GONZAGA, IN MANTOVA


Ill.ma et eccell.a Signora osserv.ma Essendo io sempre stato
deditissimo servitore dell'Ill.ma casa di Gonzaga, è di necessità che
essendo V. Eccell.a fatta di quella, io sia verso di lei quello che
io sono stato verso gli altri; e perchè quella mi cognosca per suo,
mi è paruto di farle un piccol dono di questo mio libro di _Orlando
furioso_, il quale meglio corretto e ampliato ho fatto ristampare di
novo. Quella sarà per sua benignità contenta di accettarlo per segno
d'un principio di mia servitù ed annumerarmi nel numero de' suoi
servitori; in bona grazia della quale mi raccomando sempre

  Di Vostra Ecc.a

      Ferrara, 9 ottobre 1532.

                                                           Servitore,
                                                    LODOVICO ARIOSTO.


CXCIII

              AL PRINCIPE GUIDOBALDO FELTRIO DELLA ROVERE


Illustrissimo ed eccellentissimo signor mio. La lettera di Vostra
Eccellenza dì sette del mese passato ho ricevuta molto tardi, perchè
messer Antonio Bucio portatore di essa venendo a Ferrara, non mi
ci trovò, però che più d'un mese son stato col Duca patron mio a
Mantova. Poi ch'io son ritornato, mi ha dato la lettera, e dettomi
a bocca quanto sarebbe il desiderio di V. E. di avere alcuna mia
Comedia che non fosse più stata recitata. Mi ha doluto e duole di non
poter satisfare a quella in cosa di così poca importanza, alla quale
vorrei poter servire con le facultadi e con la vita. Ma sappia V. E.,
ch'io non mi trovo aver fatto se non quattro Comedie, delle quali
due, i _Suppositi_ e la _Cassaria_, rubatemi dalli recitatori, già
vent'anni che fûro rappresentate in Ferrara, andaro con mia grandissima
displicenzia in stampa: poi son circa tre anni che ripigliai la
_Cassaria_, e la mutai quasi tutta e rifeci di nuovo, e l'ampliai ne la
forma che 'l signor Marco Pio ne mandò copia a V. E.; e in questa nuova
forma è stata rappresentata in questa terra, e non altrove. L'altre
due, cioè la _Lena_ ed il _Negromante_, sono state recitate in questa
terra solamente, per quanto io sappia. Altre Comedie non ho. Gli è
vero che già molt'anni ne principiai un'altra, la quale io nomino _I
Studenti_;[317] ma per molte occupazioni non l'ho mai finita; e quando
io l'avessi finita, non la potrei difendere che 'l signor Duca mio
patron ed il signor don Ercole non me la facessino prima recitare in
Ferrara, ch'io ne dessi copia altrove. Sì che V. E. mi abbi scusato
in questo. S'in altra cosa posso servirla, disponga di me come d'un
suo deditissimo servitore. In buona grazia della quale mi raccomando
sempre.

  Di Ferrara, agli 17 di decembre 1532.

      Di Vostra Eccellenzia

                                               Servitore deditissimo,
                                                        LUD. ARIOSTO.

Fuori — _All'Ill.mo Signor mio Obser.mo Signor Guido Baldo Feltro da la
Rovere, Ducale primogenito d'Urbino ecc. — A Pesaro._



LETTERE SCRITTE DA LODOVICO ARIOSTO

A NOME DEL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE


I

                         A BELTRANDO COSTABILI

                                                           _in Roma._


Mess. Ludovico delli Ariosti familiare nostro carissimo viene per
certe sue faccende costì, e bisognandoli il favore e aiuto vostro averà
ricorso a voi, e noi riceveremo da voi piacere assai se in quello che
vi richiederà per la giustizia lo favorirete e aiutarete quanto vi serà
possibile; offerendosi noi in maggior cosa per voi: et bene valete.

  _Ferrariae,..... maij MDX._[318]

                                                HIPP. CARD. ESTENSIS.


II

                           AL REV. PADRE....


R. in Cristo P. tamq. Fr. car. Noi amamo grandemente frate _Anselmo_
de' Conti da Padua, sì per le virtù sue, come che suo patre e parenti
suoi son molto nostri, e desideramo fargli ogni piacere: e per questo,
quanto ne sia possibile, lo raccomandamo alla R. Paternità Vostra, che
per amor nostro voglia favorirlo e averlo nel numero de li suoi più
cari, e dove può farli beneficio e onore lo faccia, chè tutto quello
che per amor nostro gli farà avremo tanto grato quanto se in la persona
nostra fusse fatto; e a V. R. Paternità per sempre ci offerimo e
raccomandamo, quae bene valeat.

  Ferrariae, X iunij MDXVI.

                                           HIPP. Cardinalis ESTENSIS.


III

            AL REV. DON RUFINO BERLINGHIERI, VICARIO NOSTRO

                                                         _in Milano._


Ven. nobis car. Noi vi mandiamo qui incluse le copie di due lettere
che Mess. Ludovico ne ricerca che scrivamo, una a voi e l'altra al
Sufraganeo nostro, per utile de la Cancelleria de lo Arcivescovato
nostro di Milano: e perchè noi non vorressimo far cosa contra
giustizia, nè dar causa che persona si dolesse con ragion di noi,
ne è parso, prima che mandiamo le lettere, di mandarvene le copie:
così voi le vederete e ne darete subito avviso se tal lettere seranno
giustificate o non, perchè in questo ci reggeremo secondo la relazione
vostra: et bene valete.

  Ferrariae, XXIX novembris MDXVI.

                                            HIPP. S. Luciae in Silice
                                                Diaconus Card. ESTEN.


IV

                              AL MEDESIMO


Perchè nessuno si intrometta ne le cose che appertengono alla
Cancelleria de lo Arcivescovato nostro di Milano, se non Mess. Paolo
Rena e Mess. Filippo da Calcano, li quali Mess. Ludovico Ariosto
per l'autorità che di questo gli avemo data ha eletti all'officio
di quella,[319] volemo che per nostra parte facciate uno editto, che
nessuno altro notaro, se non li prefati Mess. Paolo e Mess. Filippo o
li sostituti loro, si debbia intromettere in alcun atto appertinente
a ditta Cancellaria, massime di collazioni e di instituzioni di
beneficî ne la città e diocesi di Milano, _sub poena nullitatis actus
et contractus, et ulterius sub poena quinquaginta ducatorum aureorum
auferendorum a quolibet contrafaciente, aplicandorum pro dimidia mensae
nostrae Archiepiscopatus, et pro alia dimidia Cancellariae_, e così voi
ancora avrete a mente di non interponere la vostra autorità in alcuno
contratto, se uno de li prefati Cancellieri non serà rogato de lo
instrumento _iuxta solitum_.


V

                          AL SUFRAGANEO NOSTRO

                                                         _in Milano._


Perchè avemo piacere che li familiari nostri alli quali avemo concessa
la Cancellaria de lo Arcivescovato nostro di Milano ne abbiano quel
maggior profitto che onestamente e per la giustizia se ne può avere,
ne è parso per questo di avvertire la P. V. che dove può far loro
utile, ne farà gran piacere a farlo, e questo serà non lasciando
preterire li tempi che non tenga le ordinazioni solite. Oltra di
questo sappia che non volemo per modo alcuno che ammetta altro notaro
che li Cancellieri nostri, cioè Mess. Paolo Rena e Mess. Filippo da
Calcano, o li sostituti loro. Ancora che reputamo che V. P. non sia per
fare altramente, pur la ne avemo voluta avvisare acciò lo faccia più
volontiera, conoscendo essere così di mente nostra; et bene valete etc.



GRIDE FATTE PUBBLICARE DA LODOVICO ARIOSTO

IN GARFAGNANA[320]


I

                    CONTRO I RICETTATORI DE' BANDITI

Per parte e comandamento del Magn. e Generoso conte Lud. Ariosto ducal
generale Commissario in Garfagnana, per questa publica presente grida
si notifica a ciascuno uomo particolare di che grado o condizione si
voglia essere o sia, che non ardisca per modo alcuno di ricettare nè
di dì nè di notte, nè dar mangiare nè bere, nè aiuto nè favore in modo
alcuno che si possa dire nè imaginare ad alcun bandito dello Stato
dell'Ill. Sig. Duca nostro, nè con detti banditi andare in compagnia,
nè menarli seco, nè parlar nè stare, nè scrivere nè tôr lettere, nè
praticare in alcun modo con essi, sotto pena di ducati cinquanta per
ogni volta, e per ciascun bandito, da essere applicata per li due
terzi alla Camera Ducale, e l'altro terzo all'accusatore, al quale
con un testimonio degno di fede e con il suo giuramento s'abbia da dar
fede: e chi non averà modo di pagare la detta pena, gli sia commutata
in quattro tratti di corda, e sia obbligato ognuno particolarmente
subito che vederà alcun bandito di andare con prestezza alla chiesa
più prossima, e di sonar la campana a martello, e sia obbligato ogni
Comune, ed ognuno particolarmente di detto Comune che sia atto a portar
armi e verisimilmente possa udire detta campana, di pigliar subito
le sue armi, e seguitar detti banditi, e pigliarli o ammazzarli, e
pigliandoli condurli in le forze dell'officio ordinario, ovvero del
Commissario: e chi mancherà di eseguire questo cascherà in la pena di
ducati venticinque, da essere applicati alla Ducal Camera per li due
terzi, e l'altro terzo all'accusatore, da essere pagati senza dilazione
e termine alcuno; e se alcuna persona non averà modo di pagare, se gli
commuterà questa pena in tre tratti di corda, da esserli data subito,
senz'altra remissione.

  Die 27 feb. 1522.[321]


II

                CONTRO IL METTER MANO ALL'ARMI IN RISSA
                               O TUMULTO

Per parte del Mag. Sig. Commiss. Conte Lud. Ariosto ducal Commiss. di
Garfagnana, si fa comandamento che qualunque volta accaderà che in su
la calcinaia, o in altri lochi della terra di Castelnovo si faccia
questione, rissa o tumulto, che nessuno sia ardito di metter mani a
l'arme, se non li balestrieri dello Ill. Sig. nostro, e qualunque serà
trovato con arme inastate o spade o pugnali nudi, caderà subito in pena
di 25 ducati, da essere applicati li due terzi alla Camera Ducale, e un
terzo all'accusatore; e chi non averà modo di pagare, averà tre tratti
di corda.[322]

  Die 14 octobris 1522.


III

             CONTRO L'ANDARE IN ARMATA SUL FIORENTINO[323]

Desiderando il nostro Ill. Sig. Don Alfonso Duca di Ferrara, Modena e
Reggio, Marchese d'Este e Conte di Rovigo ecc. di vicinar bene con li
eccell. Sig.ri Fiorentini, per questa presente publica grida notifica
e proibisce a ciascun suddito di qualunque condizione si voglia essere
o sia, che non ardisca nè presuma andare ne le terre o lochi delli
prefati eccell. Sig.ri Fiorentini in armata ovver guarnigione, sotto
alcun pretesto o scusa di fazione o parentado o altra causa, nè ardisca
dare alcuna molestia alli sudditi d'essi Sig.ri, altrimenti incorrerà
nell'indignazione e disgrazia di S. E. e in confiscazione di tutti li
suoi beni ecc.

  Die ultimo aprilis 1523.


IV

              SUL DOVERSI VENDERE IL PANE NELLE BOTTEGHE,
                    NÈ PORTARLO DIETRO A' VIANDANTI

Da parte ecc. Si fa intendere ad ogni persona che voglia far pan da
vendere, che non abbia a tener fora nè a venderlo in altro loco che
veramente drento dalle porte della terra ovvero su la calcinaria[324]
a loco deputato, e nessuno ardisca di partirsi dalla sua bottega o dal
suo banchetto con pane per andar drieto a' viandanti per vendere, sotto
pena di perder tutto il pane che si troverà aver fora di loco concesso,
ed essere condennato 10 scudi per volta, da essere applicata la metà,
della pena all'inventore, e l'altra metà da esser data per limosina
ecc.

  Die 20 iunij 1523.


V

                    SOPRA L'AMMAZZARE I BANDITI[325]

Perchè nessuno possa pretendere d'ignoranza, per questa presente grida
si replica da parte del Mag. Sig. Commissario generale di Garfagnana,
che ogni bandito o condennato che ammazzi un altro che sia bandito per
omicidio guadagnerà la grazia libera, avendo la pace da' suoi nemici; e
intanto che la pace si praticherà averà un salvo condotto di poter star
nella provincia: e se ammazzerà un bandito, e non fusse esso bandito nè
condennato, guadagnerà la grazia per un ch'esso voglia, purchè non sia
bandito per ribello o per assassino.

  Die 3 martii 1524.


VI

              CONTRO GIO. MADALENA E NICOLÒ DA PONTECCHIO
                              BANDITI[326]

Per parte ecc. Si fa comandamento ad ogni persona di che condiziono
voglia essere e sia di questa ducal provincia di Garfagnana, che non
ardisca sotto pena di 50 ducati di dar alloggiamento o recapito o
mangiare o bere a Gio. Madalena da S. Donnino nè a Nicolò di Gaspar da
Pontecchio.

E si notifica a ogni persona che andrà in sua compagnia con arme, e
lor presterà favore contro chi li volesse offendere, cascherà subito in
bando della testa e confiscazione de' suoi beni, e poterà essere morto
senza punizione alcuna.

E da l'altra parte chi ammazzerà li due predetti, cioè Gio. Madalena
e Nicolò da Pontecchio, ovvero li darà presi in mano de l'officio, se
serà bandito guadagnerà la grazia per ogni delitto che avesse fatto,
e quando non fosse bandito poterà cavar un altro di bando e chi più li
piacerà, purchè per altro non sia bandito per ribello o per assassino.

  Die decimo martii 1524.


VII

                      SOPRA L'AMMAZZARE I BANDITI

Volendo l'Ill. ed Ecc. Sig. nostro Don Alfonso Duca di Ferrara,
di Modena[327] e di Reggio, Marchese d'Este e Conte di Rovigo ecc.
provveder che li delitti ed eccessi gravissimi che ogni dì accadeno
in questa sua fedel provincia di Garfagnana per causa delli banditi
che contro la volontà di S. Ecc. ci stanno e abitano con grandissimo
danno de' suoi fedeli sudditi, per questa presente grida conferma
tutto quello che per altre gride da parte di S. Ecc. e del suo Mag.
Commissario altre volte è stato notificato circa tal materia, e
appresso per questa fa intendere ch'ogni bandito che ammazzasse un
altro bandito di questa provincia per omicidio, averà la grazia di sè,
e gli serà perdonato ogni pena in la quale fusse incorso.

  Die 14 maij 1524.[328]


VIII

               SUL DENUNCIARE IL GRANO CHE SI HA IN CASA

Per parte del Mag. Sig. Commiss, si comanda, sotto pena della disgrazia
di S. Ecc. e di 50 ducati per ciascheduno disobbediente, che tutti
quelli che hanno grano in casa, in poca o assai quantità, che fra il
termine di una _settimana_ lo debbano denunziare a S. S., altrimenti
ecc.

  Die prima jan. 1525.



LETTERE SCRITTE DA LODOVICO ARIOSTO

A NOME DI ALESSANDRA BENUCCI VEDOVA STROZZI[329]


I

                           A LORENZO STROZZI

                                                        _in Firenze._


Magnifico M.r Lorenzo mio onorand.o Con mio gran dispiacere mi ha detto
Goro da parte vostra ch'io faccia provisione di mandar a torre mie
figliuole, altrimente voi me le manderete infin qui. Io non so chi vi
mova a dir questo, perchè se quel monasterio ove sono ha mal governo,
la colpa non è mia: e se Tito lor padre vi le messe quando eran più
fanciulle, lo fece contra mia volontà; ma esso poteva sforzare me e
loro insieme, chè sempre io dubitai di questo che ora mi avviene, che
seriano allevate con poco timore e non com'erano state allevate da
me insino a quel dì e siccome io allevai l'altra che qui mi rimase,
la quale poi ho messa per mezzo della Regina di Napoli che sta a
Ferrara in un monasterio in Mantoana, il quale è stato fondato da
Madonna Antonia sorella di detta Regina: e per la bona creanza che
avea avuta quella fanciulla da me, vi andò e vi sta volentieri e ogni
volta ch'i'ho novella di lei ne ho grandissima consolazione. Ma ben
tutto il contrario mi accadde di queste altre due, che sempre ho da
sentire di loro cosa che mi dispiace, e tanto più mi dispiace quanto
vi posso meno pigliar rimedio, chè se io fussi stata più appresso non
arieno l'arroganza di dire e di fare a lor senno come hanno, e molte
volte mi serei transferita a Fiorenza se io avessi possuto; ma parte
il non avere il modo, e parte il non aver compagnia con chi io possa
venir con mio onore, mi ha ritenuta contra la mia volontà: e sarei
venuta con Madonna Costanza Salviata, ma la mia disgrazia volse che
mi trovava in letto inferma, come vi può sua Signoria render vera
testimonianza. Ma se io dovessi ruinarmi di questo poco che mi resta
e venir sola, delibero ogni modo di venir questa prossima quaresima; e
benchè io creda che la mia venuta serà di poco utile perchè hanno già
presa la briglia con li denti e bisognarìa maggior prudenzia e maggior
autorità della mia a reprimer l'audacia nella quale sono infistolite
per il mal governo che hanno avuto: non di meno io farò a loro e a
tutti li altri cognoscere che non hanno da sperar alcuna cosa meglio
per tornare a Ferrara, perchè di quel di suo padre non rimase tanto che
avesse potuto a me e ad essi figliuoli far le spese tutto uno anno. E
perchè Goro mi ha detto ancora che voi e alcuni altri avete opinione
che Tito si ritrovasse gran quantità di denari, Dio volesse che fosse
stato il vero, ch'io non arei patito li disagi che ho patito e patisco
tuttavia, e averei potuto locar meglio la mia brigata che io non ho
fatto e non arei consumato dieci anni del fiore della mia etade, come
ho fatto in viduità, subietta a mille iudicii temerari, come spesso
accade alle povere forastiere che non hanno da sè nè hanno parenti a
chi rivolgersi; ma Mess. Guido Strozza è bonissimo testimonio se io
trovai quantità di denari a Tito, che mentre il poveretto era amalato,
esso ebbe la chiave di ciò che era in casa, e sa che non ci trovò tanti
denari che lo potesse far seppellire senza il suo aiuto, e sa quante
massarizie di casa mi fu forza a vendere se io volsi pagare la cera
della sepoltura e quello che si era tolto dalla speciaria per la sua
infermità; ed esso e Madonna Simona sua mogliere sanno quello che mi
hanno dato e danno tuttavia, chè se essi non fussino non so come avessi
possuto vivere e come allevare la povera famiglia che mi era rimasa:
chè se io avessi avuto da me, non sarei stata così da poco ch'io
avessi voluto andare alla mercede di altri. E perchè mie figliuole non
stimino ch'io abbia tanta roba in casa che vendendola si possan cavare
le doti da maritarle, io mando loro lo inventario di tutto quello
che io mi trovo del loro padre. Ora lo esaminino e veggano se fra
sei che sono, partendo questa roba, se ne può cavare tanto tesoro che
elle si possino maritare o intrare in uno monasterio che lor piaccia
più di questo ove la lor disgrazia e la poca prudenzia del padre le
fece intrare. A quanto Goro mi ha detto, che voi le manderete in qua,
rispondo ch'io credo che Goro abbia detto più che non avea commissione
da voi; pure se vi par vergogna che essendo elle delli Strozzi voi ve
le veggiate in su gli occhi in un monasterio che non ha quel governo
che serìa conveniente, pensate che nè anco questi altri Strozzi da
Ferrara vorranno questa vergogna che serìa molto maggiore della vostra,
che fusson cavate d'un monasterio da Fiorenza e mandate a Ferrara,
perchè tutto il mondo dirìa che per qualche loro gran fallo fusson
rimandate a casa. E messer Guido dice che se voi le manderete, ben
saranno qui delli cavalli da rimandarle indrieto: ma, come ho detto,
non credo che siate per far questo, chè se lo onore di casa vostra vi
move, serà molto più onore a pigliarvi cura, avendo come avete il Papa
parente ed amico, di far metter l'osservanzia, vogliano o non vogliano
quelle monache, e dar loro miglior governo. Questo mi par che serà
più vostro onore che di fare a me questa ingiuria e questo scorno, che
non credo di averlo meritato con voi, nè anco Tito lo meritò che alla
sua memoria poniate questa macchia, nè anco li Strozzi di questa terra
debbono essere in sì poco conto appresso di voi che debbiate lor fare
questo dispiacere. E se mie figliuole seranno renitente ad accettar
la osservanzia o a far alcun'altra opera, ben sono delle carceri e
delli altri modi da castigarle, meglio ora che sono donne fatte che
non sono state castigate da fanciulle. Io vi prego cogli altri Strozzi
insieme che abbiate compassione a queste povere orfane, se bene esse
non cognoschino il suo bene nè il suo male, perchè levandole donde ora
sono, sereste causa che andassino al disonore del mondo. Se voi sapessi
il grado e le necessitadi in ch'io mi trovo avereste a me compassione
ancora; e mi vi raccomando.

  In Ferrara, a li 5 di ottobre 1525.

                                                  ALESSANDRA STROZZA.

Fuori — _Al Mag.co mio onor.mo Mess. Lorenzo Strozzi, in Firenze._


II

                       A GIOVANFRANCESCO STROZZI

                                                         _in Padova._


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Io ebbi a questo dì una
di V. S., la quale mi è stata cara per intender di quella: ma non che
per sollecitarmi o ricordarmi della vostra cosa mi fosse di bisogno;
perchè io non l'ho meno a côre, che se fosse particolarmente a mio
grande utile, e mai non mi accade occasione di parlarne, ch'io non lo
faccia con quella fede che mi par che mi sia debita. Ma circa questo
non possiamo più stringere messer Guido[330] di quello che voglia
essere stretto; il quale per modo alcuno non vuol che si parli di
maritar quest'ultima figliuola, finchè non si sia disbrigato di quelle
che già ha maritate, e che la Isabella non sia messa nel monasterio:
la quale vi doveva esser posta fin all'Ognissanti passato, e la dote
e le masserizie che le bisognano tutte sono in ordine: ma ella da
quel tempo in qua è sempre stata inferma, e molte volte in pericolo
di morte, e tuttavia sta male: sicch'ella è gran causa che non si può
venire a risoluzione alcuna. Ben questo vi affermo, che negli Strozzi
da Fiorenza non ha disegno alcuno; e, per certe occorrenze, è tanto
mal satisfatto da loro, che non li può sentir nominare. Questo è
quanto vi posso dire. Io ho buona speranza, e questa medesima posso
offerire a voi. Io son sana, Dio grazia. Messer Guido e il conte
Lorenzo[331] piateggiano gagliardamente circa la casa che il scrittor
di questa[332] dice che vi parlò a Venezia: il quale sta bene, ed a V.
S. si raccomanda, e non mancherà di fare il debito suo sempre che verrà
l'occasione. Altro non occorre. A V. S. mi raccomando, e la ringrazio
di quanto mi ha scritto di Tito mio.

  Da Ferrara, 22 ianuarii 1531.

                                                            Di V. S.,
                                                  ALESSANDRA STROZZA.

Fuori — _Al magn. Mess. Giovanfrancesco de' Strozzi, a Padova._


III

                              AL MEDESIMO


Questa sarà in risposta di tre lettere di V. S.; alle quali, fuorch'una
ch'io le scrissi di villa, non ho possuto risponder prima, perchè
dopo il mio ritorno non sono mai stata ferma, ma andata di qua e di
là, come carnovale. Alla prima, nella quale Ella mi dava commissione
di far fare quelli drappeselli, non potei satisfare, perchè mi fu
data tra via quando io andavo in villa; e non mi trovando io quì, se
ben ci avessi scritto, non avrei possuto far cosa buona: ma tosto
ch'io son ritornata, gli ho fatto fare, e pel primo che m'accada
sufficiente, ve li manderò. Aveva anco ordinato il velo per la Madonna;
ma il cancelliero del signor Alessandro mi ha detto da parte di V. S.
ch'io non lo faccia far più, e terrò li danari per li drappeselli. Il
medesimo che diede la lettera di V. S. al capitano Batistino, la diede
ancora al conte Lorenzo; e perchè ho inteso che 'l conte Lorenzo dice
che non l'ha avuta, sappiate che dice le gran bugie.

Io ho inteso delle nozze ch'avete fatte; delle quali ho preso tanto
contento, quanto di cosa ch'io avessi potuto udire. Così Dio faccia
che sieno felici e fauste, e che fra pochi giorni io senta che si
faccian l'altre di madonna Lucrezia, e quelle di V. S. Circa che vi
dolete che il Cancelliero di questa[333] fosse ammalato a Padova e V.
S. niente ne seppe, V. S. sappia, che quando gli venne alli bagni la
prima febbre, accadette che vi si trovò il cavaliero degli Obici, e lo
pregò che venisse a Padova ad alloggiar seco finchè fosse risanato;
e tanto lo persuase, che lasciò di venire a Ferrara, come avea prima
deliberato, e andò a Padova, dove ebbe un'altra febbre, che fu terzana.
Ed avendo egli disegnato, risanato che fosse, di star qualche giorno in
Padova, dove avria visitato V. S. e gli altri suoi amici, sopraggiunse
il signor Duca, e lo menò seco a Vinegia, che ancora era debole e non
ben guarito, sicchè gli mancò il tempo di far quello ch'era il debito
suo: e però V. S. lo scusi. S'un'altra volta gli accadesse a venire in
quelle parti, rifarìa questo dove ora par che sia mancato; ed a V. S.
molto si offerisce e raccomanda.

Il lino ebbi; del quale, oltra quello che di villa io le scrissi, senza
fin la ringrazio, e per amor suo me lo goderò; ancora che mi pare che
dovea bastare, chè l'anno passato V. S. me ne donò. Così mi pare che
la si voglia far mia feudataria. Alla quale mi raccomando sempre,
e la priego che da mia parte abbracci la madonna sua madre, e sue
sorelle; e all'una e all'altra senza fin mi raccomando, e s'io posso
lor far servizio, che senza rispetto mi comandino, c'ho gran piacere e
desiderio di far lor cosa grata.

  Ferrara, 26 ottobre 1531.

                                                            Di V. S.,
                                                  ALESSANDRA STROZZA.


IV[334]

                            AL MEDESIMO[335]


Magn.o M. Giovan Franc.o qual fratello hon. Heri sera hebbi una de
V. S. del primo dell'instante, per la qual ho visto quanto quella me
scrive, precipue del Mag.co Ariosto. Non ve pigliati admiration alcuna
se non ve ho scritto, rispetto che aspetava scrivervi una gran nova de
sua Sig.ria e al presente ve la notifico, qualmente ditto M.co Ariosto
è statto alquanti giorni con la Excell.tia dello Ill.o Sig.r Marchese
del Guasto, et al partir suo gli à donati D. 100 d'intrata all'anno per
lui e per sui heredi, et gli ha donato un lapis lazari belissimo legato
in oro cum una catena d'oro e una crosetta cum Iesù Christo d'oro. In
vero che è una cossa belissima da veder, sì che per hora sua Sig.ria
se ritrova qua in Ferrara sano e molto contento di questo dono che il
prefatto S.r Marchese gli à donato. Quanto al sposalitio della Mag.ca
madonna vostra sorella, certo io ne ho hauto tanto apiacer quanto
fusse stata una mia sorella, e tanto più quanto mi è stà riferto per
il Canc.ro dello Ill.o S.r Alessandro Fregoso, qual mi ha dimostrato
esser una delle bellissime spose habbia mai visto, e il simile della
bona gratia c'haveva sua S.ria dell'andar fora di casa, maxime de
belissimi gesti e movezi che quella tien in sua persona. Et etiam di
quello Mag.co sposo, giovine, galante, cortese; cossa che in verità non
desidero altro, et ne non è mai giorno che non prego l'altissimo Dio
che li conserva tutti doi in eterno nella sua contenteza: et credo che
ogni giorno se troveranno più contenti l'uno per l'altro.

Quanto alli drapeselli, io ve li mando per uno de quelli del S.r
Alessandro, e non ve pigliati admiration niuna se son statta tarda a
mandarli per amor de quello nostro non se trovava qua in la terra.[336]
Il Mag.co Mess. Guido Strozo se alegra molto del sponsalitio della
Mag.ca sorella di V. S. et molto se arecomanda, e il simile fa il
M.co mess. Ludovico Ariosto. Il M.co M. Guido à fondate tutte le sue
possessioni da Rechan: del resto stiamo benissimo. Altro per ora non mi
occorre, se non ch'a V. S. cum tutti di casa humilmente mi offero: et
ribasandovi la man, a quello M.co sposo e la sposa fazo il medemo.

  Da Ferrara, alli XVI novembrio MDXXXI.

      Di V. S.

                                                        Come sorella,
                                                   ALESSANDRA STROZA.


V

                              AL MEDESIMO

                                                       _a Villabona._


Magnifico messer Giovanfrancesco. Oggi abbiamo avuto una vostra de'
quattro di questo. Non accade a far altra scusa perchè non v'avemo
prima scritto: volevamo prima aver la vostra, ch'ogni modo aspettavamo
d'aver oggi; e domani, o avendola o non avendola, vi volevamo scrivere
per le navi. Voi intenderete che 'l magnifico vostro suocero è senza
febbre già cinque dì sono, ma tanto fiacco che par non si possa
riavere; e per disgrazia che facesse qualche disordine e che ricadesse,
avrei poca speranza nei fatti suoi: e per questo io vi conforto ad
accelerarvi più che potete di venir alla conclusione; ch'almanco al
fin d'agosto siate in questa terra ben espedito d'ogni cosa. Messer
Bonaventura[337] mi ha detto questa mattina, che di dì in dì aspetta
la dispensa. Se voi avessi così dal canto vostro in ordine il resto, si
farìa poco indugio per la dispensa.

Noi credemo di mandarvi il disegno del ricamo della veste morella:
pur non lo promettiam certo. Nella veste anderanno ventisei braccia
di raso, e nelle sottomaniche due, che faranno ventotto; e nulla
manco, per esser grande come ella è. Io non so la quantità dell'oro
che v'andrà. Io so ben che madonna Beatrice Gualenga se ne fe' ricamar
una questo carnevale, e fece le cordelline d'oro e di seta, e vi si
messero due libre d'oro, che messer Guido le mandò a tôrre a Fiorenza.
Credo che facendosi queste d'oro schietto, non ve n'andrà meno di tre
libre, perchè hanno da esser cordelle, e non cordoni, che mostrano
più ricco e più bello. Io vi conforto a non guardare un poco più o un
poco meno: chè quando si ha da far una spesa, si vuol far magnifica,
o lasciarla stare. Mi piace che abbiasi trovato il velluto rizzolino,
che sia bello. Similmente per le sottomaniche bisogneranno ventotto
braccia. Circa gli scuffiotti, mi piace che ne facciate fare uno
morello e d'oro, massimamente che si confarà con la veste; e così
vorrei che l'altro fosse rizzolino e d'oro, essendo l'altra camorra
così fatta, cioè rizzolina. La consorte vi prega che siate contento,
che facendole una camorra bianca, ch'anco abbia uno scuffiotto bianco
e d'oro; e tanto più quanto ella sta molto bene col bianco. Io vi
avvertisco a cercar oro sottile, che farà tanto più bello lavoro. E se
voi mi rimetterete queste robe, si terrà conto e del numero e del peso,
sicchè non ne sarete fraudato d'un ferlino;[338] e quando la veste sarà
messa insieme per mandarla al ricamatore, io la peserò; e la peserò di
nuovo quando il ricamatore me la ritornerà: e la farò lavorare tanto
secretamente, che non si saprà; sicchè parerà poi, che voi l'abbiate
mandata da Padoa bella e fatta. Altro non accade. Abbiamo fatte le
vostre raccomandazioni. Il suocero, la consorte, e la cognata e noi
senza fine ci raccomandiamo a Vostra Signoria.

  Ferrariae, 5 iulii 1532.

                                                              Vostri,
                            ALESSANDRA STROZZI ed il suo Cancelliere.


VI

                        A MADONNA LUCIA STROZZI


Molto magnifica madonna onoranda. Io avvisai a questi dì al magnifico
figliuolo di V. S. del male del Messer, e poi come era guarito, anzi
era andato due volte o tre fuori di casa. Ma dipoi è ricaduto, e
ieri ebbe una gran febbre. Mi è paruto mio debito di darne avviso; e
perch'io non so dove messer Giovanfrancesco si ritrovi, ho voluto darne
avviso a V. S., la quale sarà contenta di avvertirlo, che fin che 'l
Messer non è ben sano, stia in loco dove possiamo sapere di lui per
avvisarlo, se bisognerà. Alla quale mi raccomando, ed insieme a madonna
Lucrezia, per infinite volte.

  Ferrariae, 18 iulii 1532.

                                Quanto ubbidiente figliuola di V. S.,
                                                  ALESSANDRA STROZZI.

Fuori — _Alla molto Magn. come madre onor. mad. Lucia moglie già del
Mag. Mess. Carlo de' Strozzi. — A Padova._


VII

                       A GIOVANFRANCESCO STROZZI

(_Il magnifico Ambasciator di Ferrara sia contento di fare ch'abbia
recapito fedelmente_).


Messer Giovanfrancesco mio onorando. Credo che per un'altra mia avrete
inteso (la quale, non sapendo ove voi fossi, aveva indirizzata alla
magnifica vostra madre) come messer Guido era ricaduto, e per questo
vi facevo più fretta di dare espedizione alle vostre faccende, per
attender a questa. Ora vi significo come, ancora che 'l male se gli
sia molto alleggerito, e speramo che tosto riaverà la sua sanità, pur
non è uscito ancora del letto; ed appresso, voi intenderete che 'l
signor Duca nostro l'ha eletto per commissario di Romagna, dove avrà
da trasferirsi con tutta la sua famiglia tosto che sia guarito. E per
questo mi parrebbe che se ben la causa delli Calcagnini v'importa, la
metteste da parte un poco per attendere a dar espedizione a questa;
sicchè, innanzi che messer Guido si partissi di questa terra, voi
avessi sposata vostra mogliere, e che voi fossi sicuro che la pratica
non vi potesse esser turbata. Chè sebbene il signor Duca è rimaso
satisfatto da messer Guido, il figliuolo non cessa di fargli dar delle
battaglie; e sempre mai in tutte le cose l'avvenire è pericoloso: onde,
per tutti i rispetti, sarà bene che cercate l'espedizione; ed io son
quasi in animo, senza aspettar altra vostra risposta, di mandarvi il
Sivero con uno sarto, acciò che si possa far tagliare quei panni.

Oltre di questo poi, avete a sapere, ch'espedita che sia questa cosa,
non vi accaderà di provvedervi di casa altrimente; perchè, mentre che
messer Guido starà in quell'officio di Romagna (che non potrà esser
meno di due anni), voi potrete goder la casa di questa terra: in
questo mezzo, con vostra comodità, provvedervi d'un'altra casa, dove
vi possiate ridurre quando esso ritornerà. A questi dì esso disse al
Cancelliere di questa, che vi scrivesse che a lui pareva che facessimo
opera di comprar la casa di quei giovini de' Trotti da Santa Maria
del Vado; ch'ogni modo non vi mancherà mai a chi venderla pel prezzo
che voi l'aveste comprata: e le gabelle del comprare e del vendere
non costeranno quanto gli affitti di quella o d'un'altra casa che voi
toleste a pigione. Egli non ve ne scrisse altrimente, perchè tosto
di poi successe quest'altra cosa, per la quale potrete avere una casa
ottima senza pagarne pigione, pur che vegnate a capo di quanto avete
a fare: ed io n'ho già parlato a messer Guido, e l'ho trovato di modo
disposto, che spero che sarà contento di lasciarvi in casa. Ma non
cesserò di dire e ridire, e importunar tanto che o volontieri o suo
malgrado lo farà ogni modo; ma per quello ch'io n'ho finora, credo che
lo farà volentieri.

Circa l'oro, io vi dico, che senza dubbio quello di Fiorenza sarà
migliore; ed io, senza aspettare altro avviso da voi, ho fatto scrivere
a Fiorenza, e quest'altra settimana sarà quì. Non accade altro se non
che mandate trentatrè ducati d'oro per pagarlo: se costerà più o meno,
se ne terrà buon conto. Io credo di mandarvi un altro disegno della
veste; ma non l'ho potuto ancor aver dal maestro. A me piace più del
primo; e l'uno e l'altro non è stato più visto: ed io, senza che voi
me lo ricordassi, non farei fare una simil cosa che fosse stata vista
indosso ad altri. Ho parlato con la consorte; la quale, prima, si vi
raccomanda per infinite volte. Circa li ventagli, quel dal manico
d'oro vorria che fosse di penne morelle gialle, alla similitudine
della veste; l'altro dal manico bianco fosse anco di penne bianche.
Le sottane, ne vorrìa una di raso incarnato, listata di tela d'oro,
o di quello che piacerà a voi; l'altra di velluto alto e basso, di
colore che parrà a voi: e così d'ogni cosa si rimette al parer vostro;
chè tutto quello che piacerà a voi, piacerà a lei ancora. Del raso
bianco, qui non se ne trova braccio, ch'io n'ho fatto cercar per tutto:
bisognerà che mandiamo a Bologna, non vi piacendo di quello di Venezia.
Della seta chermesina ch'avevo domandata, non la vorrei più; ma in quel
cambio, due onze di morella, ch'abbia il chermisino, che non perda il
colore a lavarsi; e quattro onze d'oro, che sia sottile e ben coverto.
Lo potrete far vedere a persone che se n'intendano, perchè vorrei far
un colletto al modo della veste: e mandatelo presto, perchè si possa
cominciar a lavorare; chè in queste cose bisogna mettere assai tempo.
Oltra quello che vi scrisse madonna Alessandra, il Cancelliero vi
conforta di espedirvi tosto, perchè sempre fu pericolo nell'indugio.
E l'uno e l'altro, e prima la consorte e messer Guido senza fine vi si
raccomandano.

  Ferrariae, 23 iulii 1532.

                                                              Vostra,
                                                _Alessandra Strozza._

Fuori — _Al Magn. Messer Giovanfrancesco de' Strozzi, a Venezia._


VIII

                              AL MEDESIMO


Magnifico messer Giovanfrancesco mio onorando. Per lo messo di Vostra
Signoria ho avute tutte quelle cose ch'ella mi scrive di mandarmi per
lui. E prima, circa i danari, ho fatto che ser Iacomo Ziponaro gli ha
portati al mercadante, e satisfattolo, e fattosi render lo scritto, il
quale vi rimando; ed esso ser Iacomo di questo scriverà a V. S. più a
pieno. Circa la corona e le perle e le altre cose che 'l vostro messo
dovea portare a Lugo[339] a madonna Leona,[340] ci è parato di non
lasciarle andar più inante; perchè Lugo si trova da questo tempo tutto
allagato dintorno, e non vi può andare se non chi molto sia pratico
della strada, e molto peggio persona a cavallo: e oltre a questo,
tutto il paese è pieno di cavalli e di fanteria dell'imperatore,[341]
che starebbe a pericolo di essere rubato. Io ho mandate le lettere: le
cose ho ritenute appresso di me, cioè il zebelino, la corona, le perle
da orecchie, le pantofole e l'ufficio. Come mi occorra messo fedele
e sufficiente, e che si possa andare intorno, gliene manderò: intanto
saprà ella che sono appresso di me. Della catena che avete mandata a
me, molto riferisco grazie a V. S., ancora che non accadèa di pigliare
adesso questo disconcio, non vi ritrovando meglio in danari di quello
che vi dovete trovare; chè sempre si potèa fare. Io la salverò così a
nome vostro come a mio, chè non meno ne porrete disporre, come se fosse
in man vostra. Ben vi avvertisco e priego che non parliate di avermi
fatto questo dono; perchè se venisse all'orecchie di vostra suocera,
nè voi nè io avressimo mai più pace con lei. Io la terrò molto bene
occulta, nè altri saprà ch'io l'abbia, che voi e il Cancellier di
questa.

Circa il servitore che V. S. mi scrive, quella saprà che dopo la
partita vostra esso ha preso moglie: nondimeno esso è per venire
volontieri; ma io non l'ho voluto mandare, se prima non vi ho fatto
intendere questo termine in che egli si ritrova. La moglie che egli
ha preso, è donna attempata e senza figliuoli, e gli ha dato una casa
ed un casale, e sta così bene che non avrà bisogno del vostro. Lui
commendo a V. S. per uomo fidatissimo e sufficiente: tuttavia farete
in questo il parer vostro. Dell'Ebrèo io non vi scriverò altro, perchè
il servitor vostro vi riferirà a bocca quello ch'io gli ho detto.
Del vostro non venire in qua non solo vi escuso, ma vi laudo; chè mi
maraviglio come possa alcuno andare intorno. Altro non occorre. Insieme
col Cancelliere mi vi raccomando, e vi priego che a madonna vostra
madre ed alla sorella mi raccomandiate.

  Ferrara, 25 decembre 1532.

                                                             Di V. S.
                                                  ALESSANDRA STROZZA.



ALTRA LETTERA DI LODOVICO ARIOSTO

SCRITTA A NOME DEL CARDINALE IPPOLITO D'ESTE

                A FRANCESCO GONZAGA MARCHESE DI MANTOVA


Ill.me et Ex.me d[~n]e Cognate et d[~n]e mi obser.me Essendo per far
stampare un libro di M. Ludovico Ariosto mio servitore, et a questo
bisognandomi mille risme di carta, mando il presente exhibitor per
condurne hora una parte da Salò, e fatto che habbia questa condutta
per rimandarlo o lui o altri, tanto ch'io n'habbia tutta questa summa.
Prego V. Ex.tia che per mio amore sia contenta de commettere a' suoi
ufficiali, che sia lasciato passare senza pagamento alcuno de dacio
o altro impedimento de volta in volta che mostrarà la presente, che
gli ho fatta e gli farò per questo effetto, finchè m'habbia condutta
la quantità delle mille risme che per quest'opera mi son de bisogno;
et V. Ex.tia lo deve fare volontera, perchè essa anchora n'haverà la
sua parte del piacere, et leggendola vi trovarà esser nominata con
qualche laude in più d'un loco; et se ben forse non così altamente che
se arrivi alli meriti de V. Ex.tia, almeno per quanto s'hanno potuto
extendere le forze del compositore.

Quae bene valeat, et a cui mi raccomando.

  Ferrariae, XVII sept. MDXV.

                                                 Servitor et Cognatus
                                           HIPP. Card. ESTENSIS.[342]

Fuori — _Ill.mo et Ex.mo D[~n]o Cognato et D[~n]o meo observ.mo Domino
Marchioni Mantuae._



APPENDICE DI DUE LETTERE INEDITE

DI LODOVICO ARIOSTO


I

                AL MAGNIFICO NICOLÒ DE' CONTI IN PADOVA


Magnifico parente mio hon.mo Vostra Mag.tia se sarà forse maravigliata
che non le habbia mandato le copie di quelle sue investiture, di che
essa et a Gabriele mio fratello et a me a' dì passati ha molte volte
scritto. Sappia che, oltre le investiture le quali feci vedere al
suo messo e ch'egli mi disse non erano a proposito, se ne trovò poi
un'altra _la quale si sperò_ potesse essere quella che V. Mag.tia
cercava, ma niente _fu perchè essa_ si rimette ad un altro istrumento
fatto del.... libro di tal millesimo. Credevo che fusse a casa.... de
la camera, che così m'havea detto il notaro che intorno.... tal libro;
et essendo questo Consultore stato fuor de la terra molti giorni, ho
aspettato il suo ritorno. Quando poi è venuto, gli ho fatto cercare, et
finalmente non c'è questo libro.... Speranza resta che si potrà trovare
nella torre _del Castello_, dove scritture vecchie si conservano:
così ho messo ordine che vi sii cercato. Intanto perchè V. Mag.tia non
m'imputi di negligentia, gli n'ho voluto dare avviso. Non restarò di
far cercare finchè sarò chiaro se questa sua investitura si trova o
non. Intanto me le raccomando.

  Ferrariae, 4 augusti MDXX.

Di V[~r]a Mag.tia LUDOVICO ARIOSTO.[343]

Fuori — _Mag.co et generoso affini et tamquam fratri ac parente et
fratello, Domino Nicolao de' Comitibus, Paduae._


II

                 AGLI ANZIANI DELLA REPUBBLICA DI LUCCA


_Magnifici ac potentes Domini mihi observandissimi._ — Li exibitori di
questa sono homini della villa di Cascio di questa ducale provincia,
li quali havevano tolto a corre certe castagne al terzo sul territorio
di Gallicano, et poi che vi hanno posto le loro spese et fatiche, sono
vietati per la prohibitione di V.e S.e di potersele portare a casa. Io
confidentemente pregho V.e S.e per questa volta et per questi poveri
homini, che in tutto sono quattro, che siano contente, che poi che
hanno hauto le fatiche habbino ancho il fructo. Alle quali sempre mi
rachomando.

  Ex Castro Novo, XXV sept. MDXXII.

                                                    D.i V.e obser.mus
                          LUD.cus ARIOSTUS Duc.lis Commissarius.[344]



SONETTO

DI LODOVICO ARIOSTO A GIULIANO DELLA ROVERE

            eletto papa nel 1503 col nome di Giulio II[345]


    L'arbor ch'al viver prisco porse aita,
      Poi si converse a miglior tempo in oro,
      Or ha prodotto un sì soave alloro,
      Che la fragranza in fino al ciel n'è gita.
    Oh fra' mortali e fra gli Dei gradita,
      Felice pianta! oh vivo e bel tesoro!
      Per te s'allunga il seme di coloro
      Che per cosa divina il mondo addita.
    Quinci i rami gentil, quinci i rampolli
      Ch'empìo di gloria e di trionfo il mondo,
      E fan Roma superba e li suoi colli.
    Godi, sacra colonna, e scorgi a tondo:
      Alta sei d'ogni parte e senza crolli,
      Nè del tuo stato mai fu il più giocondo.



DUE STANZE

COLLE QUALI INCOMINCIA UN CODICE SINCRONO

                    POSSEDUTO DAI SIGG. EREDI ROSSI
                     DE' CINQUE CANTI DELL'ARIOSTO
             PUBBLICATI LA PRIMA VOLTA IN VENEZIA NEL 1545
                         DOPO L'ORLANDO FURIOSO


STANZA 1ª DEL CODICE

    Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso
      Molti in più volte avean de' lor malvagi;
      Ben che l'ingiurie fûr con saggio avviso
      Dal re acchetate e li comun disagi,
      E che in quei giorni avea lor tolto il riso
      l'ucciso Pinabello e Bertolagi:
      Nova invidia e nov'odio anco successe
      Che Franza e Carlo in gran periglio messe.[346]


STANZA 2ª DEL CODICE, E 1ª DELL'EDIZ. 1545

    Ma prima che di questo altro vi dica,
      Siate, Signor, contento ch'io vi mene,
      (Chè ben vi menerò senza fatica)
      Là dove il Gange ha le dorate arene;
      E veder faccia una montagna aprica,
      Che quasi il ciel sopra le spalle tiene,
      Col gran tempio nel quale ogni quint'anno
      L'immortal fate a far consiglio vanno.



PRIVILEGI ACCORDATI A LODOVICO ARIOSTO

PER LA STAMPA DEL SUO «ORLANDO FURIOSO»


I

                       DELLA SIGNORIA DI FIRENZE

  (Arch. della Repubblica. Registri delle deliberazioni de' Signori
    e Collegi)

«Die XII mensis martii 1515 [stile comune 1516].

«Item prefati Domini et Vexillifer simul adunati etc., et servatis
etc., deliberaverunt et deliberando mandaverunt omnibus et singulis
impressoribus, liberariis et aliis quibuscumque de civitate, comitatu
et districtu Florentiae, quatenus modo aliquo non audeant vel presumant
imprimere, nec imprimi facere nec vendere nec vendi facere librum sive
novum opus quod intitulatur ORLANDO FURIOSO, noviter editum per dominum
_Ludovicum de Ariostis_, sine expressa licentia dicti domini Ludovici,
sub poena eorum indignationis. Mandantes etc.»[347]


II

                            DI PAPA LEONE X

            «DILECTO FILIO LUDOVICO DE ARIOSTIS FERRARIENSI
                           LEO PAPA DECIMVS.

«Dilecte fili salutem et Apostolicam benedictionem. — Singularis
tua et pervetus erga nos familiamque nostram observantia egregiaque
bonarum artium et litterarum doctrina, atque in studiis mitioribus,
praesertimque poetices elegans ac praeclarum ingenium, jure prope
suo a nobis exposcere videntur, ut quae tibi usui futura sunt,
justa praesertim et honesta patenti, ea tibi liberaliter et gratiose
concedamus. Quamobrem cum libros vernaculo sermone et carmine, quos
ORLANDI FURIOSI titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio
et cogitatione, multisque vigiliis confeceris, eosque conductis abs
te impressoribus ac librariis edere cupias; cum ut cura diligentiaque
tua emendatiores exeant, tum ut si quis fructus ea de causa percipi
potest, is ad te potius, qui conficiendi poematis laborem pertulisti,
quam ad alienos deferatur: volumus et mandamus ne quis te vivente
eos tuos libros imprimere, aut imprimi facere, aut impressos
venundare, vendendosve tradere ullis in locis audeat sine tuo jussu
et concessione. Qui contra mandatum hoc nostrum fecerit et admiserit,
universae Dei Ecclesiae toto orbe terrarum expers excommunicatusque
esto, nec non librorum omnium amissione, ac ducatorum centum (quorum
quinquaginta fabricae divorum Apostolorum Petri et Pauli de urbe,
reliqui quinquaginta tibi et accusatoribus executoribusque pro rata
adscribantur) poenis plectatur. Mandantes propterea universis et
singulis Venerabilibus fratribus Archiepiscopis et Episcopis, eorumque
in spiritualibus Vicariis Generalibus, et aliis ad quos spectat in
virtute Sanctae obedientiae, ut praemissa servari omnino faciant,
contrariis non obstantibus quibuscumque.

«Datum Romae apud Sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XXVII
Martii M. D. XVI. Pontificatus nostri Anno quarto.

                                            «IACOBUS SADOLETUS.»[348]


III

             DI GIO. FRANCESCO GONZAGA MARCHESE DI MANTOVA


                   «FRANCISCUS MARCHIO MANTUAE, etc.

«Havendo lo nobilissimo et doctissimo M.r _Ludovico Ariosti_ gentilhomo
ferrarese, familiare del R.mo et Ill.mo Sig. Card. da Este nostro
cognato et fratello honorandissimo novamente fatto imprimer una
elegantissima opera volgar di battaglie composta per lui, intitolata
ORLANDO FURIOSO, amando noi esso M.r _Ludovico_ singolarmente per le
sue rare virtù et per la observantia sua verso noi, et per l'honor che
'l ne fa ne li suoi dottissimi scritti, disposti sempre a gratificarlo
in molte maggior cose, per la presente nostra gli concediamo che
in tutto il tempo di sua vita niuna persona possa imprimere la
soprascritta opera nè in la città, nè in lo dominio nostro di Mantua,
et questo acciò che lui più comodamente possa vender gli volumi di
essa opera che l'ha fatto imprimer. Comandiamo adunque in virtù della
presente nostra a qualunque nostro officiale così in la città di Mantua
come nel resto del dominio nostro a cui la presente sarà mostrata ad
instantia del prefato Mess. Ludovico, faciano observar quanto in essa
si contiene, prohibendo ad ognuno lo incominciar ad imprimer la dicta
opera et a perficerla quando l'havessero cominciata ad imprimer, che
così è di nostra volontà et intentione.

«Datum Mantuae sub fide nostri majoris sigilli, die XXV Maij MDXVI.

«Jo. Jacobus Calandra secretarius, mandato Domini ex relatione M.
Equitis domini Ptolomei Gonzagae primi secretarii et consiliarii,
subscripsit.»[349]


IV

                       DELLA SIGNORIA DI VENEZIA


«ANDREAS GRITTI, Dei gratia Dux Venetiarum et Universis et singulis
Rectoribus, Potestatibus, Jusdicentibus locorum et terrarum Dominii
nostri, ac Officialibus huius civitatis: fidelibus dilectis salutem et
dilectionis affectum.

«Alli VII de l'instante havemo concesso con el Consiglio nostro de
Pregadi gratia et facultà al dilettissimo nostro _Ludovico Ariosto_,
nobile ferrarese, famigliare dell'Eccellentissimo Signor Duca di
Ferrara, che una opera sua chiamata ORLANDO FURIOSO per lui composta
et novamente corretta et reformata possi lui solo farla stampar et
vendere. Nè ad altri questo sia licito nelle terre et loci nostri, con
quelli modi et conditioni et sotto quelle pene che pel Collegio nostro
li fu concesso del 1515 a dì 25 Ottubrio. Perhò vi commettemo che
ditta nostra gratia li osserviate et da tutti faciate inviolabiliter
osservare.

«Datum in nostro Ducali Palatio, die XIIII Januarii, inditione prima,
M. D. XXVII.»[350]


V

                               (inedito)

                  DI FEDERICO GONZAGA DUCA DI MANTOVA


«FEDERICUS DUX MANTUAE etc. — Essendo noi sempre facili in compiacere
ne le loro honeste domande a quelli che ricorreno a noi anchora che non
habbiamo lor cognitione, nè da essi possiamo sperare honore nè altro,
ragionevolmente dovemo essere facilissimi a compiacere a quelli che
conoscemo, e non solo a noi ma a molt'altri hanno dato cognitione de
le lor virtù et ne possono con esse dare, et già n'hanno dato laude
et fama, come il Mag.co et Dott.mo Mess. _Ludovico Ariosto_ Gentilhomo
ferrarese, qual ne li suoi elegantissimi scritti a noi et a casa nostra
ha fatto honore, per il quale havemo da esserli non mediocremente
obligati. Esso havendo novamente revista et ampliata l'opera di
battaglia tanto laudata composta per lui sotto il nome d'ORLANDO
FURIOSO, et volendo farla stampare e dar fuore, n'ha fatto pregare a
contentarci di provedere che nel dominio nostro, senza sua licentia non
sia impressa, acciò ch'altri non abbia a guadagnare de le fatiche sue:
nel che molto volentieri li compiacemo; et così per la presente nostra
comandiamo et vetiamo che tanto ch'egli vive niuna persona nè ne la
città di Mantova nè in altro loco del dominio nostro possa imprimere
la detta opera senza sua expressa licentia, nè venderla quando altrove
fosse stampita senza detta licentia, sotto pena di perdere li libri
et un ducato per volume da essere scosso irremissibilmente da chi
contrafarà, et applicata la metade alla Camera nostra fiscale, e
l'altra metade come piacerà a Mess. Ludovico, ad ogni requisitione
del quale comandiamo a tutti li nostri officiali così ne la città di
Mantova, come nel resto del dominio nostro, che facciano pienamente
servare quanto ne la presente si contiene: che così è nostro fermo
volere.

«Datum Mantuae sub fide nostri maioris sigilli, Die XVIa Jan.
MDXXXI.»[351]


VI

             DI FRANCESCO VISCONTI II DUCA DI MILANO, ecc.


«FRANCISCUS VICECOMES, etc. — Essendo Nui sempre facili in concedere
tutte le dimande che per qualunque causa hanno in sè honestà, tanto
più dovemo essere facilissimi in concedere quelle che per virtù sono
honestissime. Ricercandone adunque il nobilissimo et doctissimo Mess.
_Ludovico Ariosto_ Gentil'homo Ferrarese che vogliamo provedere non si
possi stampare nel nostro dominio senza sua licentia durante la lui
vita l'opera per lui novamente revista et ampliata, sotto il nome di
ORLANDO FURIOSO, ad ciò che altri non habbi ad guadagnare de le fatiche
sue, non habbiamo possuto in cosa tanto honesta desdirli: et però per
tenore de le presenti concedemo che vivendo il detto Ariosto, niuna
persona del Stato nostro, nè altri possi stampare, nè fare stampare, nè
stampato altrove vendere nel nostro Dominio la detta opera senza sua
espressa licentia, sotto pena de perdere li libri et uno ducato per
caduno volume, da essere scosso irremissibilmente da chi contrafarà,
et la mittà sia applicata alla Camera nostra, l'altra mittà come
piacerà al detto Ariosto. Ad ogni requisitione del quale commandiamo a
qualunque nostri offitiali et subditi ad chi appartenerà, che facciano
pienamente osservare quanto ne le presenti si contiene, perchè così è
nostra ferma voluntà.

«Datum Comi sub nostri fide sigilli. Die XX Julii M. D. XXXI.»[352]


VII

                        DELL'IMPERATORE CARLO V


«Carolus Augustus divina favente clementia Romanorum Imperator ac
Germaniae, Hispaniarum, utriusque Siciliae, Hierusalem etc. Rex,
Archidux Austriae, Dux Burgundiae et Galliae Belgicae Dominus etc.

«Librum ORLANDI FURIOSI per Ludovicum Ariostum alias editum et nunc
denuo purgatum et locupletatum, nulli hominum per universum Romanum
Imperium, Regnaque nostra nisi uni Ariosto aut ab eo mandatum habenti
quamdiu is vixerit typis excudere excussumve alibi vendere fas sit,
qui secus fecerit viginti Marcarum auri poena plectatur. Harum rei
testimonio litterarum manu nostra subscriptarum, et sigilli a tergo
impressione munitarum....

«Datum in Oppido nostro Bruxellensi. Die XVII mensis Octobris, Anno
Domini M. D. XXXI. Imperii nostri undecimo, Regnorumque nostrorum
omnium sextodecimo.

«Ad Mandatum Caesareae et Catholicae Majestatis perpetuum.

                                                «ALF. VALDEIUS.»[353]


VIII

                          DI PAPA CLEMENTE VII


«DILECTO FILIO LUDOVICO ARIOSTO NOBILI FERRARIENSI CLEMENS PAPA VII

«Dilecte fili salutem et Apostolicam benedictionem. — Cum sicut nobis
exponi fecisti tu librum tuum qui _Orlandus furiosus_ inscribitur a
te jamdiu editum et impressum vitio mendosum corrigere et supplere
ac in melius reformare, aliaque pariter tui ingenii opera imprimere
desideres verearisque ne alii te inscio vel invito illa imprimant, seu
impressa vendant; Nos qui tuo ingenio et virtuti libenter favemus,
tuamque postulationem aequissimam agnoscimus, tuis precibus super
hoc nobis porrectis inclinati inhibemus omnibus et singulis per omnem
Sanctae Romanae Ecclesiae Ditionem temporalem constitutis praesertimque
Bibliopolis et librorum impressoribus sub excomunicationis latae
sententiae, et insuper amissionis librorum et XXV aureorum tibi
applicandorum totiens quotiens contravenerint et eo ipso incurrenda
poena, ne sine tua expressa licentia, consensu et voluntate tam dictum
librum _Orlandi furiosi_ de novo a te imprimendum quam quaevis alia
per te in latino, seu vulgari sermone, in prosa vel in metris hactenus
composita, et deinceps componenda opera quae tu imprimi feceris
ulli alii donec tu vixeris imprimere aut imprimi facere seu vendere,
aut venales habere praesumant. Mandantes universis locorum nostrae
temporalis Ditionis tam Archiepiscopis et Episcopis eorumque Vicariis,
Gubernatoribus, Locatenentibus, Potestatibus et Tribunalibus, ac
Executoribus quibuscumque, ut ad omnem tuam vel tuorum requisitionem
praesentes litteras tibi efficaciter observari, et poenas praedictas a
contravenientibus irremissibiliter exigi faciant et curent cum effectu,
contrariis non obstantibus quibuscumquae. Volumus etiam praesentium
transumptis manu notarii publici subscriptis, et sigillo personae in
dignitate ecclesiastica constitutae munitis, plenam in iudicio et extra
ac eandem prorsus fidem adhiberi, quae literis originalibus adhiberetur
si essent ostensae.

«Datum Romae apud Sanctum Petrum, sub annulo piscatoris. Die ultima
Januarii MDXXXII. Pontificatus nostri anno nono.

                                                      «BLOSIUS.»[354]


                                  FINE



INDICE


  _Avvertenza_                                           Pag.     V

  PREFAZIONE storico-critica intorno Lodovico Ariosto
    e il suo tempo                                               IX
  AGGIUNTA alla Prefazione                                    CXXXI

  DOCUMENTI ALLA PREFAZIONE

  I    Lettera di Lodovico Ariosto (seniore)
         a Paolo Costabili                                  CXXXIII
  II   Lettera di Nicolò Ariosto al duca di Ferrara
         Ercole I                                            CXXXIV
  III  Lettera del medesimo alla duchessa d'Aragona
         d'Este                                               CXXXV
  IV   Lettera del cardinale Ippolito d'Este a
         Beltrando Costabili in Roma                         CXXXVI
  V    Lettera del duca di Ferrara Alfonso I a
         Sigismondo Salimbeni in Venezia                   CXXXVIII
  VI   Lettera di Beltrando Costabili al cardinale
         Ippolito d'Este                                        CXL
  VII  Lettera di Benedetto Fantino a Gherardo Saraceni       CXLII
  VIII Lettera del duca Alfonso I al cardinale Ippolito
         d'Este in Firenze                                   CXLIII
  IX   Lettera del medesimo al suddetto in Parma              CXLIV
  X    Lettera del medesimo al suddetto in Ferrara             CXLV
  XI   Lettera del medesimo al suddetto in Ferrara            CXLVI
  XII  Processo contro monsignor Uberto Gambara, 1521       CXLVIII
  XIII Lettera del duca di Ferrara Alfonso I
         all'Imperatore contro papa Leone X, 1521           CXLVIII
  XIV  Risposta della Corte di Roma alla lettera
         suddetta, 1522                                       CLXII
  XV   Lettera di Rinaldo Ariosto ad Isabella Estense
         Gonzaga in Mantova                                   CLXXV
  XVI  Lettera di Alfonso Paolucci al duca di
         Ferrara Alfonso I                                   CLXXVI
  XVII Supplica dei fratelli Gabriele, Galasso e
         Alessandro Ariosto e Virginio loro nipote ad
         Ercole II duca di Ferrara, 1534                    CLXXXII

  LETTERE DI LODOVICO ARIOSTO, n. cxciii per ordine cronologico
    (1498-1532), dirette:

    Ad Aldo Manuzio (il vecchio) _inedita_               1
    Al cardinale Ippolito d'Este                         2 e seg.
    Al cardinale Giovanni de' Medici                    20
    Al marchese di Mantova                              22 e seg.
    Al principe Lodovico Gonzaga                        23
    A Benedetto Fantino                                 24
    Al Doge di Venezia                                  26 e 279
    Al duca di Ferrara Alfonso I                        29 e seg.
    Alla marchesana di Mantova Isabella d'Este
      Gonzaga                                           31 e 302
    A Mario Equicola                                    32 e 36
    A papa Leone X                                      34
    A Benci de' Benci, capitano di Barga                37 e 126
    Agli Anziani della Repubblica di Lucca              39 e seg.
    Agli Otto di Pratica in Firenze                     46 e seg.
    Ad Obizo Remo, segretario ducale                    55, 60 e 63
    A Santuccio Santucci, commissario in Lucca         122
    A Lorenzo Pandolfini, podestà di Barga             134
    A Nicolò Rucellai capitano e commissario
      di Pietrasanta                                   140
    A Bonaventura Pistofilo segretario ducale          200
    Al Vicario di Gallicano                            225
    A Pietro Bembo                                     282
    Al conte Nicolò Tassone d'Este, _inedita_          282
    A Gianfrancesco Strozzi                            285 e seg.
    A Gio. Giacomo Calandra                            290
    A Margherita Paleologa Gonzaga                     302
    Al principe Guidobaldo Feltrio della Rovere        303

  LETTERE scritte da Lodovico Ariosto a nome del cardinale
    Ippolito d'Este:

    I   A Beltrando Costabili                          305
    II  Al rev. Padre                                  306
    III Al rev. don Rufino Berlinghieri                306
    IV  Al medesimo                                    307
    V   Al Sufraganeo nostro in Milano                 308

  GRIDE n. VIII fatte pubblicare da Lodovico
    Ariosto in Garfagnana                              309 a 317

  LETTERE scritte da Lodovico Ariosto a nome di Alessandra
    Benucci vedova Strozzi:

    I    A Lorenzo Strozzi in Firenze                  319
    II   A Giovanfrancesco Strozzi in Padova           323
    III  Al medesimo                                   325
    IV   Al medesimo                                   327
    V    Al medesimo                                   329
    VI   A madonna Lucia Strozzi                       331
    VII  A Giovanfrancesco Strozzi                     332
    VIII Al medesimo                                   335

  ALTRA LETTERA di Lodovico Ariosto a nome del cardinale
    Ippolito d'Este:

    A Francesco Gonzaga marchese di Mantova            339

  APPENDICE di due Lettere inedite di Lodovico Ariosto:

    I  A Nicolò de' Conti in Padova                    341
    II Agli Anziani della Repubblica di Lucca          343

  SONETTO di Lodovico Ariosto a Giuliano della Rovere
    eletto papa nel 1503                               345

  DUE STANZE colle quali incomincia un codice de'
    _Cinque Canti_ dell'Ariosto                        347

  PRIVILEGI accordati a L. Ariosto per la stampa del suo
    _Furioso_:

    I    Della Signoria di Firenze                     349
    II   Di Papa Leone X                               350
    III  Di Gio. Francesco Gonzaga marchese di
           Mantova                                     352
    IV   Della Signoria di Venezia                     353
    V    Di Federico Gonzaga duca di Mantova,
           _inedito_                                   354
    VI   Di Francesco Visconti II duca di Milano       356
    VII  Dell'Imperatore Carlo V                       357
    VIII Di Papa Clemente VII                          358



NOTE:


[1] Canto XIII, st. 73.

[2] Nicolò da Casola bolognese indirizzò nel 1358 il suo _Attila_,
poema in lingua francese, ad Aldobrandino d'Este e a Bonifazio Ariosti:

    Por fer a le Marchis da Est un riche don,
      Ovoiremant a suen oncles dam Boniface il baron.

Il Dolfi pretende che Bonifazio sposasse Misina figlia di Azzo d'Este.

[3] Nel diploma dell'imperatore non si trova nominato Ugo, il maggiore
dei fratelli Ariosti, che però in una lettera del duca di Ferrara
Ercole I è detto anch'esso conte e cavaliere.

[4] LOD. ARIOSTO, _Opere minori_, ordinate e annotate per cura di F. L.
Polidori. Firenze, 1857, tomo I, pag. 360.

[5] Riportiamo in Appendice una lettera dell'arcip. Lodovico (Docum. I).

[6] SCHIVENOGLIA, _Cronaca di Mantova_. Milano, 1857, vol. II, pag.
167. — _Diario ferrarese_ in MURATORI, _Rer. ital. scrip._, vol.
XXIV, col. 237. _Nicolò di Leonello d'Este_, notizie da noi pubblicate
negli _Atti e Memorie di storia patria_. Modena, 1870, vol. V, pag.
422 e 436 in cui si riporta una lettera dello stesso Nicolò d'Este
diretta al Mag. Lorenzo de' Medici in data 16 dicembre 1471, che narra
distesamente i particolari dell'attentato.

[7] _Vita di Lod. Ariosto_, scritta dall'ab. GIROLAMO BARUFFALDI.
Ferrara, 1807, pag. 12.

[8] _Croniche di Reggio lepido originate secondo le vite de' suoi
Vescovi_, di FULVIO AZZARI reggiano. Tomi 2, in-fol. MS. presso la
Bibl. Estense di Modena.

[9] _Memorie stor. di Reggio._ Carpi, 1769, T. III, pag. 563, e non già
tomo I, pag. 612, come dice il Baruffaldi.

[10] _Vita di Lod. Ariosto_, cit., pag. 32.

[11] Questo figlio di Lucrezia Borgia nacque secondo l'Azzari il 7
settembre 1505 e secondo il Panciroli due giorni dopo. Gli fu posto
nome Alessandro, in memoria di papa Alessandro VI padre di Lucrezia.
Morì poco dopo «per non essere il parto a termine», come nota anche
BONAVENTURA PISTOFILO nella _Vita di Alfonso I_, da noi pubblicata
negli _Atti e Memorie di storia patria_ (Serie I). Modena, 1865, vol.
III, pag. 493. Il Frizzi fa che il parto succeda a Rovigo: errore
invece di Reggio.

[12] TACOLI, _Memorie storiche di Reggio_. Parma, 1748, Tomo II, pag.
789.

[13] _Relazioni dei Governatori di Reggio al duca Ercole I di Ferrara_,
per cura del cav. GIOVANNI BATTISTA VENTURI. Vedi _Atti e Memorie di
storia patria_. Serie III, vol. II. Modena, 1884, pag. 269.

[14] _Notizie per la vita di Lodovico Ariosto_, tratte da documenti
inediti a cura di GIUSEPPE CAMPORI, 2ª ediz. Modena, 1871, pag. 13 e
14.

[15] Nicolò non aggradì in quest'officio a' suoi stessi colleghi ed al
popolo, di che abbiamo prova in 23 Sonetti satirici contro il medesimo
da noi pubblicati per la seconda volta nelle _Rime edite e inedite_ di
ANTONIO CAMMELLI detto IL PISTOIA. Livorno, 1884, pag. 251 e segg.

[16] _Vita di Lod. Ariosto_, l. c., pag. 23.

[17] ARIOSTO, _Opere minori_, cit., Tomo I, pag. 346 e 362.

[18] CAMPORI, _Notizie per la vita di Lodovico Ariosto_, ediz.
cit., pag. 21-22, ove si notano due pagamenti fatti nel 1502 e 1503
all'Ariosto per l'ufficio suddetto ch'era rimasto ignoto a tutti i
biografi del poeta.

[19] _Poesie latine edite e inedite di Lodovico Ariosto_, studi e
ricerche di GIOSUÈ CARDUCCI. 2ª ediz. Bologna, 1876. E veggasi anche
la nota alla lettera latina inedita dell'Ariosto, pag. 1 del presente
volume.

In tale proposito crediamo opportuno riferire il seguente epigramma
inedito dell'Ariosto, tratto dal codice Estense VI. B. 29 nel quale è
scritto due volte:

    Sum dat es, est; et edo dat es, est: genus unde, Magister,
      Estense ? an quod sit dicitur, an quod edit?

[20] DANTE, _Paradiso_, c. VIII, in fine.

[21] Essendo solito uccidere _capponi ed oche_ che incontrava ne'
campi altrui, il padre gli scrisse nel 1494 che dovesse astenersene, e
attendere piuttosto a studiare.

[22] _Lettere storiche_, di LUIGI DA PORTO. Firenze, Le Monnier, 1857,
pag. 156. Veggasi pure a pag. 109.

[23] _Storia della corte di Roma e di papa Alessandro VI_, cap. 61.

[24] BONAV. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, l. c., cap. IX. — Il
Pistofilo, segretario e favorito del duca, avrebbe avuto tutto
l'interesse a tacere la presenza del cardinale al delitto, se non fosse
stata troppo allora palese. Anche il Guicciardini l'afferma.

[25] ARIOSTO, _Orlando furioso_, c. XXXVI, st. 8.

[26] FRIZZI, _Memorie per la storia di Ferrara_. Ferrara, 1796. Tomo
IV, pag. 207.

[27] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. IX.

[28] FRANCESCO DE' MANTOVANI, _Libro di alcune croniche_. Ms. presso
la Bibl. Estense di Modena. Per congratulare della scoperta congiura
non mancarono lettere mandate da varie parti, e abbiamo da Modena la
seguente diretta al duca Alfonso: — «Ill. Princeps et Excell. d. nr.
sing. — Mandiamo a V. Ecc. per Oratori nostri li spettabili dottori di
legge mess. Lodovico Bellencino cavaliero e mess. Giovanni Sadoleto,
i quali in nome nostro si condoleranno con quella della congiurazione
fatta e ordinata contro la persona di V. Ecc., e successive si
congratuleranno che Dio abbia preservato per sua benignità la prefata
V. Ecc. da simile detestabile congiurazione.

«Così preghiamo quella si degni dare fede circa ciò ad essi nostri
Oratori come a noi proprii: ed a quella ci raccomandiamo di continuo.

  «Mutinae, die XIV aug. 1506.

    «E. Ex. V. fidel. servit.

                                 «Sap. presidentes Reipubl. Mutinae.»

[29] FRANCESCO DE' MANTOVANI, _Croniche_ mss. citate.

[30] ANTONIO FRIZZI, _Memorie per la storia di Ferrara_, Tomo IV, pag.
205, ediz. di Ferrara, 1796.

[31] POMPEO LITTA, _Famiglie celebri italiane_.

[32] DIOMEDE GUIDALOTTO nel suo _Tirocinio delle cose vulgari_ (Bologna
1501), parlando di Angela Borgia quand'anche trovavasi in Roma, dice in
un sonetto a Cristoforo Valdes:

    Chi ad Angiola già pose il divin nome,
      Fu, Cristofor mio, certo uom ch'ebbe ingegno,
      Chè costei passa di natura il segno,
      Da ornar, non una sol, ma cento Rome.
    Che occhi vid'io, che man, che petto!... _ecc._

È ricordata anche dall'ARIOSTO, _Orlando furioso_, c. XLVI, st. 4.
Nella _Cronaca modenese_ di TOMMASINO LANCILLOTTO (Parma, 1862, T.
I, pag. 141-42) si riporta il seguente fatto che ci dà prova della
condotta dell'Angela Borgia anche dopo il suo matrimonio con Alessandro
Pio: «Domenica, a dì 8 settembre 1510. La mogliera del sig. Alessandro
Pio signore di Sassuolo è stata menata via da Sassuolo dal sig.
Galeazzo Pallavicino in parmigiana, e lei ci ha dato Sassuolo nelle
mani per essere della parte dei Francesi, contro la voglia del suo
consorte».

[33] ARIOSTO, _Opere minori_, Tomo I, pag. 849.

[34] Idem, ivi, pag. 267 a 276.

[35] ARIOSTO, _Opere minori_, Tomo I, pag. 251.

[36] Canto III, st. 60-62, e canto XLVI, st. 95.

[37] Lettera d'Isabella d'Este duchessa di Mantova al cardinale
Ippolito, del 5 febbraio 1507, in TIRABOSCHI, _Storia della letteratura
italiana_, libro III, capo III.

[38] Fin dal 1486 venne rappresentata in Ferrara la commedia de'
_Menecmi_ di Plauto, traduzione fatta ad istanza di Ercole I, la cui
sola messa in scena gli costò mille scudi, e diedesi pure il _Cefalo_,
favola pastorale di Nicolò da Correggio. Ma senza estenderci su questi
spettacoli, ricorderemo almeno di aver rilevato dalla _Cronaca_ del
Zambotto, che per festeggiare l'arrivo in Ferrara di Lucrezia Borgia
sposa ad Alfonso d'Este vennero recitate dal 3 all'8 febbraio 1502
cinque commedie tradotte da Plauto, e cioè l'_Epidico_, le _Bacchidi_,
il _Milite glorioso_, l'_Asinaria_ e la _Casina_.

[39] BONAV. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. XI.

[40] ARIOSTO, _Furioso_, canto XL, st. 3.

[41] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. XIV.

[42] _Antichità Estensi_. Modena, 1740, tomo II, pag. 296. Veggasi
anche a pag. 410, ove in proposito della scomunica data dal papa a
Cesare I nel 1597 col privarlo di Ferrara, Cento, la Pieve ed altri
luoghi di Romagna, dice: «come lo spirito pacifico e mansueto, lasciato
dal divino Salvatore per eredità alla sua Chiesa, potesse mai per
beni temporali procedere a tanti castighi e maledizioni contra di un
principe cattolico.»

[43] BARUFFALDI, _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 140 e 141.

[44] CAMPORI, _Notizie_ ecc., l. c., p. 43.

[45] _Antichità Estensi_. Modena, 1740, tomo II, pag. 298.

[46] Da Parma scriveva al suo segretario in Ferrara di mandargli
«il corsetto, la gola di ferro, li spallazzi, la braga di maglia, li
scanni, le balle e il guizzotto».

[47] Una lettera del duca in data 5 settembre 1510 rammenta fra questi
un Alfonso Ariosto, come parve anche al FRIZZI nelle sue _Memorie
storiche della nobil famiglia Ariosti. Vedi Raccolta di opuscoli_, ecc.
Ferrara, 1779, tomo III.

[48] BARUFFALDI, _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 137.

[49] Isabella d'Este marchesana di Mantova così scriveva al cardinale
Ippolito suo fratello in Parma sotto la data del 7 dicembre 1510:
«Io mi conforto, che da tutti quelli che vengono da Ferrara mi è
certificato che gentiluomini, cittadini, artisti, preti, frati e donne
con grande animo lavorano alli ripari, e sono in buona disposizione di
difendersi e star saldi; che mi fa sperare che li nemici si pentiranno
d'andarvi.»

[50] ARIOSTO, _Opere minori_, tomo I, pag. 232. V. anche nel _Furioso_,
canto XIV, st. 2 a 9, e c. XXXIII, st. 40 e 41.

[51] A tale oggetto il duca aveva già mandato a Roma il celebre
giureconsulto reggiano Carlo Ruini, ma il papa non accettando scuse e
giustificazioni, proruppe in nuove lagnanze contro il duca, accusandolo
di tirannia, imputandogli l'uccisione di Ercole Strozzi la notte del 6
giugno 1508 e di un prete ricco a denari e per beneficii, come pure di
aver coniata moneta falsa di cui aveva le prove, e perciò disse aver
deliberato di privarlo giuridicamente del feudo di Ferrara (CAMPORI,
_Notizie_ ecc., l. c., p. 47-48).

[52] ARIOSTO, _Furioso_, canto XIV, st. 4.

[53] ANSELMO MICOTTI, _Descrizione di Garfagnana_. Ms. presso la R.
Biblioteca Estense di Modena.

[54] GIOVIO, _Vita di Alfonso I_, trad. del Gelli. Fir., 1553, pag. 127.

[55] ARIOSTO, _Opere minori_, tomo I, pag. 283.

[56] Idem, _Furioso_, canto XXXV, st. 2.

[57] Il BARUFFALDI, _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 174, seguendo la
Cronaca di Jacopo da Marano, dice che il cardinale Ippolito ritornò a
Ferrara il 7 luglio 1516. Vi è certamente l'errore di un mese, poichè
a pag. 146 di questo volume riportiamo una lettera del cardinale datata
di colà il 10 giugno.

[58] Vedi lettera dell'Ariosto, 25 dicembre 1509, pag. 9 a 11 del
presente volume e note relative.

[59] CAMPORI, _Notizie_ ecc., l. c., pag. 56, ov'è pubblicata per la
prima volta la lettera del cardinale. La riportiamo in appendice alla
presente edizione, avendo rilevato essere tutta di pugno dell'Ariosto.

[60] Il BARUFFALDI dice che il vicario del cardinale a Milano era
Beltrando Costabili, confondendolo forse col socio del beneficio. _Vita
di Lod. Ariosto_, pag. 178.

[61] BONAVENTURA PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. II. Questa vita
rimase imperfetta al cap. CIV per la morte dell'autore avvenuta il
primo ottobre 1533, un anno prima di quella del duca. È lodata dal
Muratori perchè scritta da persona molto bene informata delle cose
da lui stesso trattate a nome di Alfonso I; ma pecca di soverchia
parzialità al medesimo.

[62] NAPOLÉON III, _Études sur le passé et l'avenir de l'artillerie_,
liv. I, chap. 2 (_Bataille d'Aguadel_).

[63] A' suoi maggiori cannoni d'assedio pose nome di _diavolo_, di
_gran diavolo_ e di _terremoto_ (ricordandolo anche l'ARIOSTO nel
_Furioso_, c. XXV, s. 14), e così chiamò _Giulia_ una famosa bombarda
perchè fatta col bronzo della statua che i Bolognesi avevano innalzata
a Giulio II col magisterio del divino Michelangiolo. Su questa bombarda
stanno nell'Archivio di Stato in Modena degli Epigrammi a penna dettati
da diversi autori in latino ed in italiano, ed eccone un saggio:

    _Tela Jovis supero, tremefactaque pondera terræ,_
      _Alphonsi Estensis machina facta manu...._
    Chi non dirà che Giove e 'l ciel s'adiri,
      Se avvien che 'l fulminar mio si rimiri?...

Gli avanzi delle artiglierie del duca Alfonso conservaronsi in
Modena sino alla fine del secolo scorso, in cui se ne appropriarono i
Francesi.

[64] PIETRO GHINZONI, _Nozze e commedie alla corte di Ferrara nel
febbraio 1491_ (v. _Archivio storico lombardo_, anno XI, fasc. IV,
dicembre 1884). La citata _grida_ aggiunta in fine dal traduttore
dei _Menecmi_ ci fa conoscere che la recita venne eseguita sulla
riduzione libera in ottava e terza rima che fu poi stampata a Venezia
1528 e 1530, due edizioni molto scorrette. L'_Anfitrione_, commedia di
PLAUTO recitata la sera dopo, fu tradotta prolissamente in terza rima
da PANDOLFO COLLENUCCIO. Trovasi pubblicata a Venezia nel 1530, e da
ultimo nella _Biblioteca rara_ del DAELLI (Milano 1864); ma convien
credere che per recitarla (e ciò avvenne anche due volte nel 1487) si
dovesse accorciare in più luoghi, giacchè a darla conforme la stampa, e
con intermezzi, sarebbe occorso troppo tempo.

[65] FRANCESCO DE' MANTOVANI, nel suo _Libro di alcune croniche_, mss.,
parlando di Lucrezia, dice: «Il papa li voleva bene, a tale che niuno
non poteva ottenire beneficii, se non per via di lei, e per questo
guadagnava un tesoro.» Il RAYNAL, _Ann. Eccles._, dichiara che le fu
talvolta ceduto dal padre il governo temporale di Roma.

[66] Veggasi a pag. XXXV, nota 2 del presente volume.

[67] ARIOSTO, _Opere minori_, vol. I, pag. 327.

[68] _Archivio storico italiano. Appendice_, tomo II (Firenze, 1845),
pag. 307 e 308.

[69] «Oltre cento mila scudi d'oro di dote.... e molte gioie e argenti,
ch'ella portò seco venendo a marito, papa Alessandro dette anco
all'illustrissima casa d'Este il dominio di Cento e della Pieve. Oltre
di questo, come si soleva pagare di censo e per ricognizione di Ferrara
alla Sede Apostolica quattro mila scudi l'anno, dedusse il censo a
cento ducati l'anno, col consenso del sacro Collegio de' cardinali.»
BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. V.

[70] Gli diresse un carme latino, e gli fece l'epitaffio in morte.
_Opere minori_, tomo I, pag. 333 e 361. Lodato anche nel _Furioso_,
canto XLII, st. 83.

[71] POMPEO LITTA, _Famiglia d'Este_. — ARIOSTO, _Opere minori_, tomo
I, pag. 361 in nota.

[72] SIMONE FORNARI, _La Sposizione sopra l'Orlando furioso di L.
Ariosto_. Fiorenza, 1549, pag. 690-91. Vedi anche CARDUCCI, _Delle
poesie latine edite e inedite di L. Ariosto_, ed. cit., pag. 192-195; e
CAMPORI, _Notizie di Lod. Ariosto_, pag. 47, in nota.

[73] Girolamo Mugiasca (il Comasco) scriveva da Bologna il 30 giugno
1508 al cardinale Ippolito d'Este: «Della morte del signor Ercole
Strozzi qua se ne parla assai, e la pubblica voce è che la cagione
della morte sua sia stato il signor Alessandro da Sassuolo. Oggi
parlando con uno quale dirò a V. S. a bocca, m'ha detto che ne vien
data imputazione a Mesino del Forno, benchè non gli sia da credere.
Iddio sa la verità!...» (_Arch. di Stato in Modena_).

[74] Al capitolo II.

[75] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LVIII.

[76] Idem, ivi, cap. XXXVII.

[77] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. XXXIX.

[78] Idem, ivi, cap. XL.

[79] Questa pittura doveva rappresentare il trionfo di Bacco
nell'India, poi sembra che per essere stato un egual soggetto trattato
da altri, si volesse mutare.

[80] Nel maggior travaglio della duchessa venne incaricato un tal Colle
_alias_ Libo d'implorare l'aiuto di Dio con una speciale _pregaria_,
che incomincia: _Oh! creante, e increato_; ed egli riferendo di
averlo fatto prosteso nella sua solitaria camera con fervore e lagrime
infinite, soggiunge che all'ultima sillaba dell'orazione «fu rapito
nel più alto cielo, dove fra le divine e maravigliose cose vide una
cattedra tanto ricca e tanto bella, che lo admirabile suo lavoro cosa
impossibile narrar sarebbe, sopra la quale era questo motto: _locus
Lucretiae_»! (_Arch. di Stato in Modena_).

[81] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. V.

[82] FRIZZI, _Storia di Ferrara_, ediz. cit. T. IV, pag. 263.

[83] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia, secondo documenti e carteggi
del tempo_. Traduzione dal tedesco di Raffaele Mariano. Firenze, Le
Monnier, 1874, pag. 291, 314-319.

[84] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. XLVIII.

[85] _Antichità Estensi_, tomo II, pag. 323. Il Muratori espone che
si vergognerebbe di riferir cosa cotanto ripugnante al decoro di papa
Leone, e di cui l'animo grande di papa Giulio non sarebbe stato capace,
se il famoso storico Francesco Guicciardini non avesse levato il velo
a tentativo sì enorme. Ma il Guicciardini dice che si cercò solo di
avere a tradimento la porta di castel Tedaldo in Ferrara (come Giulio
II, stando in Bologna, tramò pure di averla), non di far assassinare
il duca. Vedi _Storia d'Italia_, libro XIII, in fine: e ciò sta in
relazione all'ultima parte del processo contro il Gambara.

[86] ARIOSTO, _Satira II_, v. 102.

[87] DANTE, _Purgatorio_, canto XXIV, v. 24.

[88] BON. PISTOFILO, l. c., cap. L.

[89] Abbiamo tre edizioni della Lettera del duca, una di Ferrara e due
di Venezia, di 4 carte in forma di quarto piccolo. La risposta della
corte di Roma impressa in quella città è di carte 20, più altre 4 carte
in fine che contengono la ristampa della Lettera del duca, nel formato
pure di quarto piccolo.

[90] Il Muratori parla della Lettera o Manifesto del duca contro Leone
X, ma sembra che non conoscesse la risposta che vi fece la corte di
Roma. _Antichità Estensi_, tomo II, pag. 326.

[91] Rinaldo Ariosto aveva tre figliuole, Lucrezia e Costanza maritate
ne' conti Antonio e Ruggiero da Bagno, e l'altra per nome Bianca
(oltre ad Ercole naturale che si fece frate minore di S. Francesco),
non aventi diritto alla successione dei beni feudali. La marchesana di
Mantova sentendo che le facoltà libere lasciate dal conte Rinaldo si
trovavano molto scarse, fu sollecita di raccomandare con lettera del
21 luglio 1519 al duca di Ferrara le due sorelle Lucrezia e Costanza
affinchè potessero conseguire il pagamento di due mila scudi che il
padre aveva loro assegnato per dote. — La parentela dei da Bagno cogli
Ariosto prestò occasione al nostro Poeta di indirizzare unitamente al
proprio fratello Alessandro e a Lodovico da Bagno la _Satira II_, e
tanto più che quest'ultimo fu anche cancelliere del cardinal d'Este.

[92] Il Fattor ducale in Ferrara era capo direttore dei beni Camerali
colla presidenza all'economia e contratti privati del principe.
L'amministrazione dei beni Camerali era giudice in causa propria,
e questo privilegio venne conservato altresì in Modena sotto gli
Austro-Estensi finchè durò il loro dominio.

[93] Supplica dei fratelli Ariosto al duca Ercole II, che si vedrà
riportata come ultimo documento sotto il n. XVII.

[94] ARIOSTO, _Opere minori_, tomo I, pag. 307 e 308.

[95] ARIOSTO, _Opere minori_, tomo II, pag. 356, nota 4.

[96] Questa seconda possessione formava forse il miglior beneficio
ecclesiastico fra quelli avuti dal cardinale Ippolito, e che l'Ariosto
fu obbligato di rinunciare, cessando di servirlo.

[97] March. GIUSEPPE CAMPORI, _Notizie inedite di Raffaello d'Urbino_
negli _Atti e Memorie di storia patria_. Modena, 1863, Tom. I, pag.
130: e vi è pure per la prima volta stampata la suddetta lettera del
Paolucci.

[98] ARIOSTO, _Opere minori_, Tom. II, pag. 352.

[99] BARUFFALDI, _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 283 e 284.

[100] GUIDO PANCIROLI, _Storia della città di Reggio_, trad. di
Prospero Viani. Reggio, 1846, lib. VII.

[101] E qui pure sarebbe a dire che l'Ariosto poteva in una successiva
rivoltura di cose correr pericolo di veder su lui rinnovata la minaccia
fatta al commissario fiorentino, e andar sommerso nell'acque della
Turrita e del Serchio, a somiglianza di quanto fu detto per l'incarico
avuto presso Giulio II.

[102] ANSELMO MICOTTI, _Descrizione cronologica di Garfagnana_, ms.
presso la Biblioteca Estense di Modena.

[103] Di queste tasse e diritti di somministrazioni di fieno e paglia
per mantenimento di cavalli od altro parlano gli Statuti delle Vicarie
di Garfagnana posseduti nella Biblioteca Estense di Modena; ed un
prospetto levato dagli Statuti di Camporgiano fu pure presentato dal
compianto prof. cav. Olinto Dini alla Deputazione di storia patria
di cui faceva parte (v. _Atti e Memorie_ della Deputazione suddetta.
Modena, 1864, Tom. II, pag. VI). Il celebre Fulvio Testi, che nel 1640
andò governatore di Garfagnana, ha nelle sue Lettere: «chi si diletta
d'aver nette le manine caverà 1300 in 1600 scudi l'anno, computandovi
il certo e l'incerto: chi ha la coscienza più larga si provecchierà
2500 e fors'anche 3000 scudi».

[104] GIROLAMO GAROFOLO, _Vita di Lodovico Ariosto_, che sta in fronte
all'_Orlando furioso_ dell'edizione di Venezia, 1584, colle figure in
rame del Porro.

[105] ARIOSTO, _Opere minori_, Tom. I, pag. 218 a 220, ove l'Ariosto
descrive senza meno il primo viaggio che fece andando al governo di
Garfagnana e non un viaggio posteriore, qualunque sia il tempo in cui
abbia dettata la sua _Elegia_: chè qui la passione è propria del primo
e più forte distacco dalla donna amata, qui scorgesi il pentimento
di aver allora accettato quell'officio, e qui il poeta vien quasi a
dirci che non aveva altra volta veduta la sua residenza di Castelnovo,
figurandosela col pensiero in relazione alla scena che gli stava
dintorno:

    «Deh! chi spero io che per sì iniqua strada,
    Sì rabbiosa procella d'acqua e venti,
    Possa esser degno che a trovar si vada?...
        Altre pioggie al coperto, altre tempeste
    Di sospiri e di lagrime m'aspetto».

[106] Il sig. cav. Vittorio Della Nave quando venti e più anni sono
tenne l'ufficio di Sottoprefetto in Garfagnana ebbe il lodevole
pensiero di cercare e ricuperare quasi tutte le lettere (andate in
gran parte smarrite) che il duca Alfonso I diresse all'Ariosto durante
il suo commissariato, e ne preparò anche accurata copia in un grosso
e ben ordinato volume con altri documenti relativi alla provincia
medesima prima e dopo quel tempo; volume del quale degnossi ultimamente
far dono gradito alla R. Deputazione modenese di storia patria. Le
lettere scritte dal duca all'Ariosto in Castelnovo dall'8 marzo 1522
al 5 giugno 1525 sono 117, e servono per la maggior parte di risposta
a un centinaio di lettere che si citano mandate dall'Ariosto allo
stesso duca e ai suoi due segretari Pistofilo e Remo. Non essendosi
rinvenuto nell'Archivio di Stato in Modena che una metà circa delle
citate lettere, è dunque da lamentare che l'altra metà andò perduta
nei vari incendi sofferti dall'Archivio Estense in Ferrara. E noi che
conoscevamo soltanto le ultime sedici lettere suddette offerte molti
anni sono alla stessa Deputazione dal ricordato socio prof. Olinto
Dini, non abbiamo potuto abbastanza giovarci delle anteriori perchè
il dono del signor Della Nave arrivò allorchè il testo delle presenti
lettere dell'Ariosto terminavasi di stampare.

[107] Fra le cure del commissariato si assunse anche quella di tenere
i registri di dare ed avere, e nell'Archivio di Stato in Modena
abbiamo un libro di 20 carte in foglio scritto di pugno dell'Ariosto,
e intestato _Conto de' Balestrieri a l'anno MDXXII_. A destra trovasi
il _Dare della Camera ducale dalle Vicarie_ diverse, tassate del
mantenimento proporzionale degli uomini d'arme. I Balestrieri erano 10,
che percepivano L. 1,2 il giorno, e il capitano Giovanni Manara col suo
famiglio L. 2,6 di moneta lunga ferrarese, ossia di marchesini.

[108] Il duca a queste proposte rispondeva il 31 luglio 1523, che
«sarìa troppa gran ruina e crudeltà di bruciare case, tagliare vigne,
minare i campanili, e che i padri fossero tenuti per gli figliuoli»;
ma essendo poco dopo avvenuto l'assassinio della intiera famiglia
dei conti di San Donnino per opera dei Madalena, altra famiglia
potente e rivale dei detti conti, il duca ne provò tale risentimento,
da permettere all'Ariosto di usare ogni giusta severità contro i
delinquenti, con spianare e bruciare ancora le case loro: e gli mandò
a tale effetto un rinforzo di soldati da pagarsi colle confiscazioni e
condannazioni; e quando avesse alcun dubbio in _iure_, si consultasse
col capitano della ragione (Lett. del 13 settembre).

[109] Le relazioni degli Anziani della Repubblica di Lucca col
commissario di Garfagnana furono sempre cordiali; ed anzi racconta il
citato Garofolo, che «occorrendo all'Ariosto per certi particolari del
suo ufficio abboccarsi con uno de' principali gentiluomini di Lucca,
si trasferì secondo l'ordine appuntato tra loro a S. Pellegrino, dove
non pure trovò il gentiluomo, ma molti altri de' primi della terra, che
in compagnia di molte gentildonne, tratti dalla fama del suo valore,
erano concorsi e per vederlo e per onorarlo, e così trattenutolo
ad una onorevolissima abitazione, l'accolsero ad una mensa molto
splendidamente apprestata, facendogli a gara segnalate cortesie, ed
usando verso lui insolite dimostrazioni di amore e di riverenza».

[110] Fra le quattro o cinque gite dell'Ariosto a Ferrara durante il
suo commissariato di Garfagnana, quella che avvenne tra il mese di
marzo e l'aprile del 1523 fu ordinata dal duca, il quale gli scrisse
di recarsi a Ferrara per 15 o 20 giorni a motivo di _certo negotio che
avemo a cuore_, non gravandolo però di molta fretta.

[111] VALENTINO CARLI, _Storie della Garfagnana antica_, libro VI. Ms.
presso la Biblioteca Estense di Modena.

[112] Il Carli ci dà pure poco prima un esempio d'inesattezza storica,
narrando che il capitano Todeschini alla testa di mille soldati Côrsi
tentò alla morte di Leone X impadronirsi della Garfagnana prima che il
duca vi mandasse un suo commissario; che avutosi da lui Camporgiano,
spedì un tamburino a chiedere la resa di Castelnovo; che nell'essere
respinto venne a contesa col capitano Segalara suo compagno d'armi,
restando ferito di una stoccata mortale nel petto; e che fatto
prigioniero dai Castelnovesi morì nel 1522. — Questi fatti avvennero
invece nel movimento fatto in Garfagnana dalle bande nere di Giovanni
de' Medici di cui faceva parte il Todeschino morto il 2 agosto 1524,
come l'Ariosto accenna nelle presenti sue Lettere a pag. 228, 237, 248
e 255.

[113] Abbiamo negli Statuti di Castelnovo, lib. II, cap. 16: «Nel
giorno del mercato pubblico del giovedì, niuno terriero o forestiero
possa esser fatto prigione, nè distenersi, ecc.»

[114] DANIELLO BARTOLI, _Degli uomini e de' fatti della Comp. di Gesù_,
libro I, cap. 26.

[115] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LVII.

[116] _Vita di Alfonso I_, cap. LIX.

[117] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LXVI.

[118] Idem, ivi, cap. LXVII.

[119] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LXXII.

[120] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LXXIII.

[121] _Archivio storico italiano_, nuova serie. Tomo IX, parte II, pag.
128.

[122] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. LXXIV. Il codice
Antonelli di Ferrara da noi tenuto a confronto, dice: _da uno
archibugiero del papa_; diversità di lezione, la quale offre nuova
prova dell'incertezza che fin d'allora correva sull'uccisore del
Borbone, di che il Cellini nella propria Vita si vantò essere stato
egli stesso.

[123] BON. PISTOFILO, l. c., cap. LXXV.

[124] ANTONIO FRIZZI, _Memorie per la storia di Ferrara_, tomo IV.

[125] Prologo di Gabriele Ariosto alla commedia _La Scolastica_: in
LODOVICO ARIOSTO, _Opere minori_, tomo II, pag. 426-427.

[126] _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 207.

[127] LOD. ARIOSTO, _Opere minori_, tomo I, pag. 222-225.

[128] Lo storico Guicciardini ha secondo un ms. de' suoi _Avvertimenti
politici_, che trovasi presso di noi: «Dico che il duca di Ferrara,
che fa mercanzia, in questo non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno,
facendo quel ch'è ufficio de' privati e non suo; e pecca tanto verso
i popoli quanto peccherebbono essi verso lui, volendo intromettersi in
quel ch'è ufficio _solum_ del principe.»

[129] LOD. ARIOSTO, _Opere minori_, tomo II, pag. 353.

[130] UGO FOSCOLO, _Sui poemi narrativi e romanzeschi italiani_,
traduzione dall'inglese del Maggi.

[131] Abbiam veduto come il marchese del Vasto fosse prodigo
all'Ariosto in Correggio del regalo di alcuni oggetti preziosi e di
una pensione vitalizia (_pag. 327_), ond'egli non mancò di encomiarlo
in quest'ultima sua ristampa del _Furioso_: e abbiam anche veduto
quanto il cardinale Ippolito e il duca Alfonso I si mostrassero avari
di questa sorta favori verso colui che li aveva sì altamente celebrati
con tutta l'Estense progenie. Pure il cav. Luigi Lamberti, cui dobbiamo
in gran parte la pubblicazione nel _Poligrafo_ di Milano dell'_Egloga_
del nostro autore, dichiara che «se l'Ariosto non raccolse dal suo
poema quel frutto che a sì squisito lavoro si competeva, ebbe però
alcuna cosa di cui non si fa menzione dagli scrittori della sua vita».
Questa notizia egli la trae da una lettera latina inedita di Paolo
Manuzio, che Santo Fattori vide nell'Archivio di Modena, e diretta al
cardinale Ippolito d'Este al quale il Manuzio (nel 1557) aveva dedicata
la sua opera _De legibus Romanis_, e che dice: «.... Io mi doleva che
il figlio del tuo fratello, giovane di animo prestante, infiammato
dall'amore dell'immortalità per le fole dell'impazzito Orlando
stampate col nome di lui, avesse donato una collana d'oro del valore di
cinquecento scudi; e che tu, uomo cotanto grande, con tante ricchezze e
di sì gran fama, pel libro delle _Romane leggi_, non punto comparabile,
siccome credo, con quelle furie d'Orlando, non avessi mandato a me
neppure un fermaglio di rame.... _Venezia, 1 feb. 1557_». (V. Vita
del Lamberti nelle _Notizie bibliog. in continuaz. della Biblioteca
modenese del Tiraboschi_. Reggio, 1835, Tom. IV, pag. 75, 76). Ma il
Lamberti non s'accorse che qui si parlava del cardinale Ippolito II
d'Este nipote del I, come la data della lettera e della edizione del
libro del Manuzio lo dimostrano: e così è da stabilire che il regalo
che mosse la brutta invidia cadde in vece su Girolamo Ruscelli, il
quale nel 1556 dedicò al principe Don Alfonso d'Este figlio ad Ercole
II una ristampa del Furioso uscita in Venezia pei tipi del Valgrisi
colle figure che si ritengono designate dal pittore Dosso Dossi.

[132] Il FRIZZI nelle sue _Memorie storiche della famiglia Ariosti_
sembra far qualche calcolo di alcuni Rogiti di data assai prossima alla
morte di Lodovico ov'è detto _laureatus poeta_. Questa qualifica la
troviamo data nelle cronache reggiane a Gabriele Malaguzzi padre della
Daria onde nacque l'Ariosto, e nelle cronache ferraresi a Lodovico
Carbone e a Tito Strozzi: il che significa l'essere riconosciuto da
tutti come buon poeta anche senza bisogno di materiale incoronazione.
L'Ariosto poi col suo poema si pose da sè stesso in capo tal serto, che
ben vale quanto quello e più di quello che non potè essergli conferito
dalle mani dell'imperatore.

[133] BON. PISTOFILO, _Vita di Alfonso I_, cap. CII.

[134] BARUFFALDI, _Vita di Lod. Ariosto_, pag. 239-240.

[135] In fine di questo volume, oltre di ristampare un sonetto che
trovammo inedito dell'Ariosto, aggiungiamo sull'appoggio di un ms.
sincrono de' _Cinque canti_ la prima ottava mancante in tutte le
edizioni, ma che in parte è conforme alla st. 68 del XLVI ed ultimo
canto del _Furioso_. Il Barotti sospettò che il canto II fosse scritto
dall'Autore tra il 1516 e il 1520, per quanto dice nell'osservazione
che pose alla st. 52: però sembra che messer Lodovico vi attendesse
assieme agli altri quattro dopo essersi portato al suo commissariato
di Garfagnana (1522-25), poichè nella st. 18 dello stesso canto II
parla del ferro che raccolto nelle montagne di quella provincia veniva
separato in un villaggio, per ciò detto _Forno Volasco_, di cui nota lo
stretto e difficile sentiero da lui senz'altro percorso.

[136] Sono infiniti i miglioramenti di locuzione che l'Ariosto venne
introducendo nel suo poema dopo la prima stampa del 1516: ma anche in
questa noi vediamo _camera_ (che pur è nella commedia _La Cassaria_
tanto in prosa che in versi), _fata, giglio, lancia_, e non una sola
volta _ciambra, fada, ziglio, lanza_ che sempre s'incontrano come
segni più espressi della pronunzia provinciale nel _Rinaldo ardito_.
L'Ariosto che si studiava di mutare: _Si tol la vista_ in _La vista
tolle_ — _trastul_ in _piacer_ — _metal_ in _bronzo_ (III, 67; IV, 22;
XIX, 76), è mai possibile che potesse poi seguitare a dettar versi con
troncamenti di questa fatta: _L'amorosa mia don gran tempo aspetta —
Cui sotto il ceppo ha il col per esser morto — Il fer li pose con tanta
possanza_, ecc. (_Rin. ard._, I, 10 e 5, V, 12)?

Un difensore dell'originalità ariostesca di detto codice comparve da
ultimo nella persona del bibliofilo Paolo Antonio Tosi di Milano, il
quale si mostrò punto dalle nostre osservazioni in contrario, e vi fece
risposta alla sua maniera, che stampò in Busto Arsizio nel 1863, poi in
appendice alla _Bibliografia dei romanzi di cavalleria_, Milano, 1865.
Giova però ricordare che il Tosi era divenuto proprietario di questo
codice, che non trovava un padrone un po' stabile; nè deve quindi far
caso se il libraio sbracciavasi per tener in credito la sua mercanzia.

[137] Queste due morti per indigestione trovano riscontro
nell'epigramma giovanile fatto dall'Ariosto sul cognome Estense e che
abbiamo prodotto a pag. XXI in nota.

[138] _Vita di Alfonso I_, cap. II.

[139] CANTÙ, _Storia universale_, ottava ediz., Tomo IX, pag. 379.

[140] Ms. citato, presso la R. Biblioteca Estense di Modena.

[141] _Archivio storico italiano._ Appendice. Tomo II, pagina 67-68.

[142] _Memorie storiche e documenti sulla città e sull'antico
principato di Carpi, studi e indagini della Commissione municipale di
storia patria e di arti belle di detta città._ Carpi, 1879-80, Vol. II,
p. 12 a 20 e 355.

[143] Sembra che a Nicolò Ariosto cadesse in mente il verso di Dante:
_Io credo ch'ei credette ch'io credesse_ (_Inf._, c. XIII, v. 25).

[144] Invece di _cerchorno extinguerli la luce de li occhi_, il
cardinale corresse di suo pugno la minuta del segretario, temperando
l'enormezza a lui dovuta, con _lo batterono ne li occhi_.

[145] Corretto come sopra con _la causa di questo, per quanto_ ecc.

[146] Corretto come sopra con _a fare tal scandalo. Di che_ ecc.

[147] I due fratelli Alfonso ed Ippolito d'Este erano stati tenuti a
battesimo dalla Repubblica di Venezia.

[148] Questa lettera fu scritta in cifra.

[149] Questa lettera è tutta di pugno del duca Alfonso I.

[150] Obizo Remo segretario del duca.

[151] _Diavolo_, _Gran-diavolo_ e _Terremoto_ erano i nomi dati dal
duca a' suoi più grossi cannoni, oltre la _Giulia_ famosa bombarda;
come si è detto a pag. LVIII, nota 2.

[152] Or sembra che incomincino le esagerazioni.

[153] Non è verosimile che Gianni dopo aver voluto le assicurazioni
dalla bocca stessa del Papa per rendere più efficaci i di lui maneggi,
fosse poi corso a persuadere in senso contrario il capitano Ello.

[154] Anche questo bruciamento di lettere si direbbe essere una
scappatoia ritrovata dal compilatore del Processo.

[155] Il progetto di questa impresa coi mille somieri è ridicolo.

[156] Sarebbe stato della natura di Alfonso I lasciare che il progetto
del Gambara fosse messo in atto per tirar questi nell'agguato e farne
vendetta.

[157] E non mancò infatti il favore che fece verificare fino ai giorni
nostri una sì grande aspettativa, onde quel secolo prese nome di Leone
X.

[158] Quest'importante lettera fu pubblicata per la prima volta dal
signor march. Giuseppe Campori (come si è detto a pag. LXXX, nota 1),
ed è ora riscontrata sull'originale. Le note che abbiam conservate del
lodato editore hanno il contrassegno: (G. C.).

[159] Ercole Rangoni cardinale (G. C.).

[160] Il card. Innocenzo figlio di Franceschetto Cibo e di Maddalena
de' Medici sorella di Leone X (G. C.).

[161] Fra Mariano Fetti laico domenicano che fu successore di Bramante
e antecessore di Sebastiano Veneziano nell'ufficio del piombo.
Costui fu principalissimo giullare della corte di Leone X insieme col
Baraballo, col Querno e simili; ma fu anche in un tempo amico e fautore
degli artisti (G. C.).

[162] Il signor march. Campori lesse: _forami._ — Il _Fanfulla della
domenica_ (n. 4, 24 gennaio 1886), che ristampò in parte questa
lettera, ha: _per mo se foravano._ — E avendo detto più sopra:
«_capreti_ di Fra Mariano», invece di _capreci_, lo riteniamo errore di
stampa.

[163] Figurando la scena dei _Suppositi_ la città di Ferrara, dice che
Ferrara era venuta a Roma sotto fede del card. Cibo (nelle sue stanze)
per non esser da meno di Mantova, ossia di un'altra commedia colla
scena in Mantova, la quale l'anno avanti era stata egualmente portata
a Roma dal card. di Bibiena (per favore e cura di lui). Un giuoco
pressochè eguale di parole è fatto dall'Ariosto anche nei due prologhi
della commedia _Il Negromante_ che ha la scena in Cremona, e da poter
servire alle recite di Roma e Ferrara.

La commedia poi che si accenna recitata in Roma nel 1518
potrebb'essere, fra l'altre, l'_Eutichia_ di Nicola Grasso mantovano,
la quale ha la scena in Mantova e si dice nel Prologo esposta in
diverso luogo (però in un pubblico teatro): commedia che fu stampata
in Roma l'anno 1524, contemporaneamente ai _Suppositi_ in prosa
dell'Ariosto, ed alla _Calandra_ del Bibiena ecc.

[164] Veggasi il Prologo dei _Suppositi_ in prosa ed in versi: ma
sembra che l'Ariosto facesse per la rappresentazione di questa commedia
in Roma un nuovo Prologo in cui si accennasse la gara tra Mantova e
Ferrara e avesse ancora maggiori _bisticci aromatici_ (allusioni men
che oneste) per soddisfare vie più all'umore di Leone X.

[165] Cioè _il card. d'Aragona_ (Vedi _Fanfulla_ cit.)

[166] Uomo del duca d'Urbino (Vedi _Fanfulla_ cit.).

[167] Qui nel _Fanfulla_ è saltata una riga, e perciò il senso resta
interrotto.

[168] Forse Madama Margherita zia di Carlo V, la quale tenne il governo
delle Fiandre dal principio del 1508 al 1º dicembre 1530, nel qual
giorno morì (G. C.).

[169] _Fè rara_ per Ferrara; allusione al fatto svolto nella commedia
che si finge avvenuto in quella città e al ferrarese Ariosto autore di
essa (G. C.).

[170] Principale favorito e cameriere del Papa, che dopo la morte di
lui fu messo in prigione per sospetto non si fosse appropriato certe
preziose masserizie del medesimo. Fu poi assoluto. Vedansi in proposito
le _Lettere di Principi_ (G. C.).

[171] Che parrebbe titolo di fondo morale; se pure non è da leggere
_Uno arboro de mele._ — Il _Fanfulla_ ha «uno arboro de mati»
(_cuccagna?_).

[172] Cioè montare a cavalluccio d'un palafreniere. Così diciamo:
_Dare un cavallo_, a chi fa spropositi da essere frustato, posto a
cavalluccio d'un altro.

[173] Il celebre Pietro Bembo segretario del Papa, e poi Cardinale (G.
C.).

[174] Lodovico Canossa vescovo di Bayeux (G. C.).

[175] Dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano, favoritami in copia dal
degn. sig. Bibl. cav. Antonio Ceruti. È una lettera «della gioventù del
nostro grande poeta, che fu tutta latina», come giustamente osserva il
ch. Carducci; e in essa tanto per fatto dell'Ariosto che delle lezioni
date dall'Aquila si avvalorano i buoni risultati del risorgimento degli
studi classici in Ferrara (V. _Poesie latine di Lod. Ariosto, studi e
ricerche di_ G. CARDUCCI, Bologna, 1876, 2ª edizione).

[176] Di Marsilio Ficino erano già a stampa: _Theologia Platonica_
(Florentiae, 1482); _Platonis, Opera latine interpr._ (Venetiis,
1491); _Commentaria in Platonis Parmenidem, Sophistam, Timaeum_ etc.
(Florentiae, 1496).

[177] L'Ariosto fu amico e condiscepolo di Alberto Pio principe di
Carpi, e a lui intitolò alcuni de' suoi carmi.

[178] Dell'ebreo da Riva, che teneva banco di prestiti in Ferrara, è
fatto cenno dall'Ariosto anche nella commedia _La Lena_, atto 3º, sc.
6ª.

[179] A scemar le usure il Duca aprì in Ferrara il 3 gennaio 1508 un
Monte di pietà. In Modena e Reggio eravi fino dal 1494.

[180] Sarebbero in oggi da lire 34,68, a lire 37,16 per oltre 7
ettolitri di vino: e lire 1,49 per circa 23 chilogr. di frumento.

[181] Intende l'armata di 18 galee che i Veneziani spedirono in Po
sotto il comando di Angelo Trivisani a danno specialmente del duca
Alfonso di Ferrara che aveva ricuperato il Polesine di Rovigo. Il Duca
faceva parte dell'infausta lega di Cambray promossa dal Papa contro la
Repubblica Veneta. Il cardinale Ippolito, d'indole guerresca, trovavasi
colle genti di suo fratello a rinforzare il campo Cesareo sotto Padova.

[182] Il cardinale Giuliano Cesarini fu abbate commendatario di
Nonantola dal 1505 fino al 1510 in cui morì.

[183] Cioè: per averne le figliature.

[184] Questo Salomone, essendo uno de' tredici valorosi italiani
che nel 1503 vinsero in Barletta la famosa disfida con altrettanti
francesi, è più avanti a torto chiamato un codardo giudeo. Fu però
vinto nel duello che ebbe con Marino dalla Maitina in Ferrara il 14
novembre 1509 (V. A. BERTOLOTTI, _La disfida di Barletta_, in _Arch.
stor. lomb._, an. IX, fasc. IV, dicembre 1884).

[185] I _notari d'argini_ sorvegliavano di continuo i lavoratori di
Po, secondo il comparto dei _giudici d'argini_. Nella _Lena_, atto 3º,
sc. 2ª, l'Ariosto ricorda anche i _giudici alle fosse_, che scavavansi
attorno di Ferrara.

[186] È in parte consunta dal fuoco. Le parole o lettere in corsivo
sono state da me supplite ove parvero probabili.

[187] Pietro Isualli arcivescovo di Reggio in Calabria.

[188] Il conte della Mirandola, Lodovico Pico, mandato da papa
Giulio II alla testa di una campagnia di duecento fanti e altrettanti
cavalleggieri in aiuto del duca Alfonso, restò ucciso il 15 dicembre
1509 da una palla d'artiglieria delle navi veneziane, dopo aver
respinto gli stradiotti nel bastione che avevano eretto sulla riva del
Po in faccia alla Polesella, e mentre cavalcava a fianco del cardinale
Ippolito.

[189] Lodovico Canossa vescovo di Tricarica.

[190] L'Ariosto partì da Ferrara il 16 dicembre 1509, come rilevasi dal
_Furioso_, c. 40, st. 3, subito dopo avvenuta la morte del conte della
Mirandola, per chiedere soccorso al Papa.

[191] La rotta dell'armata Veneta in Po accadde la mattina del 22
dicembre a merito principalmente del cardinale Ippolito, che fece
tagliare in più luoghi gli argini del fiume, ed appostarvi a pelo
d'acqua dei grossi cannoni e delle colubrine di nuova e miglior
costruzione del duca Alfonso. La scarica impreveduta scompigliò la
flotta, e decise della vittoria. _Furioso_, c. 3, st. 57. Tre Ariosti
vi presero parte. Id., c. 40, st. 2 a 5.

[192] Il cardinale Marco Cornaro d'illustre famiglia veneta.

[193] Accenna all'ultimo canto del _Furioso_ (che potrà dirsi fosse
nel 1509 terminato ma non completato), ove si descrive il maraviglioso
padiglione, sotto il quale la maga Melissa volle che seguissero le
nozze di Ruggiero e Bradamante da cui doveva uscire la famiglia d'Este,
perchè in detto padiglione la profetica Cassandra, ricamandolo per
Ettore, aveva figurata la puerizia e le future imprese del lontanissimo
nipote cardinale Ippolito! In sì magnifico quadro di adulazione non
mancò quindi di essere dipinta la vittoria su l'armata Veneta (c.
46, st. 97). Forse l'idea di questo fantastico padiglione venne al
poeta per aver veduto in Ferrara quello che il duca Ercole nel 1494
regalò a Carlo VIII, tutto di seta ed oro, «fatto in forma di una
casa, con sala, camera ed altre dentro,» come si legge nella _Cronaca
modenese_ di IACOPINO DE' LANCILLOTTI (Parma, 1861, p. 127) edita dalla
Deputazione di Storia patria di Modena.

[194] Enea Pio di Carpi comandava la squadra ov'era andato a militare
Lodovico Ariosto, e il nostro poeta in uno de' suoi carmi, parlando di
sè stesso, dice: _Pio celebri sub principe miles_ (V. _Opere minori_ di
LOD. ARIOSTO per cura di F.-L. Polidori. Firenze, Le Monnier, 1857, T.
I, p. 340).

[195] Carlo d'Amboise signor di Chaumont, gran maestro (governatore) di
Milano, che si portò a difendere il duca Alfonso. Il papa, dopo aver
ricuperato alcune terre che appartenevano alla Chiesa, abbandonò la
lega di Cambray, e unito ai Veneziani mosse guerra al duca di Ferrara,
il quale alla propostagli alleanza di Giulio II a condizioni onerose
aveva preferita quella del re di Francia.

[196] Questo Pier Moro è ricordato nel _Furioso_, c. 40, st. 4.

[197] Il duca d'Urbino colle armi del papa e il favore dei Rangoni
occupò Modena il 18 agosto 1510, e due giorni dopo ebbe Carpi. Sassuolo
non fu costretto alla resa che il 21 ottobre. Rubiera e Reggio tennero
forte per allora. Alla sola data dell'anno in questa lettera credo
poter fissare anche quella del mese di ottobre, poco prima della resa
di Sassuolo, e quando già il Chaumont aveva riavuto Carpi. Che fosse
scritta in Reggio è per sè chiaro abbastanza.

[198] Nel 23 aprile 1510 il Duca aveva avuto dai Reggiani mille staia
di frumento ed altrettanti di spelta e di frumentone, con salsumi e
mille cogni di vino per la guerra coi Veneziani. PANCIROLI, _Storia di
Reggio_, trad. di PROSPERO VIANI, lib. VI.

[199] Il campo Francese andò a Reggio il 29 ottobre 1510, e perciò la
data di questa lettera può fissarsi alla fine di detto mese.

[200] Le date fra parentesi s'intendono supplite da me.

[201] Poi papa Leone X.

[202]

    Io nè pianeta mai, nè tonicella,
      Nè chierca vo' che in capo mi si pona.
                            ARIOSTO, _Sat._ I, _v._ 113-114.

[203]

    E provveder ch'io sia il primo, che mocchi
      Sant'Agata, se avvien che al vecchio prete,
      Sopravvivendogli io, di morir tocchi.

                            ARIOSTO, _Sat._ I, _v._ 103-105.

[204] Era questi il duca di Ferrara Alfonso I che travestito da frate
fuggiva da Roma in compagnia dell'Ariosto la grand'ira di Giulio II il
quale faceva inseguirlo e ad ogni modo voleva averlo nelle mani.

[205] Giovanni de' Medici.

[206] Rinaldo Ariosto cugino di Lodovico.

[207] Francesca del Fiesco moglie di Lodovico Gonzaga.

[208] «Così alla mia speranza, che a staffetta Mi trasse a Roma,» dice
alla _Satira VI_. Non appena seppe l'Ariosto che Giovanni de' Medici
suo amico era stato eletto papa (11 marzo 1513), corse a Roma per
fargli ossequio e congratulazioni anche a nome del duca. Leone X mostrò
gradirne la visita; ma la concepita speranza di essere beneficato
coll'offerta di qualche carica rimase al poeta delusa.

[209] Lamentavasi quindi nella _Satira II_ colla famosa terzina:

    Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
    Collegio delle Muse, io non possiedo
    Tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.

[210] Molti suoi amici avevano conseguito impieghi onorifici e
lucrativi, o erano in procinto di diventar cardinali: il papa alla
prima creazione ne fece trentuno; onde l'Ariosto disse alla _Satira
VI_: «.... vidi A tanti amici miei rosse le spoglie.»

[211] Paride Grassi maestro delle cerimonie sotto Giulio II, promosso
da Leone X a prelato di palazzo.

[212] Bernardo Dovizi da Bibbiena segretario particolare del Medici,
creato poscia cardinale datario. Era anch'esso amico dell'Ariosto, che
nella _Satira IV_ lo chiama il suo Bibbiena.

[213] Dall'Archivio de' Frari in Venezia: _Notatorio, Collegio_ I,
anni 1515-1520, a carte 23. Questa domanda di privilegio e quella che
si legge più avanti sotto il 7 gennaio 1528 vennero pubblicate per la
prima volta nella mia seconda edizione delle _Lettere dell'Ariosto_,
Bologna 1866, sopra una copia favoritami da Mons. Giuseppe Antonelli.
Ricomparvero, credute ancora inedite, nel _Buonarroti_ (Quad. VI,
giugno 1868) a cura del signor Andrea Tessier, il quale avendo dato il
testo conforme all'originale lo riproduco anch'io egualmente.

[214] L'_Orlando Furioso_ dell'Ariosto uscì la prima volta in Ferrara
per maestro Giovanni Mazzocco dal Bondeno, adì 22 aprile 1516, e
la seconda volta _da lui corretto e quasi tutto formato di nuovo e
ampliato_ pure in Ferrara per Gio. Battista dalla Pigna milanese, adì
13 febbraio 1521, in forma di 4º.

[215] Sì di questo che di altri privilegi accordati all'Ariosto per la
stampa del suo poema, veggansi le due ricordate edizioni 1516 e 1521,
ove però il privilegio veneto manca della data de' 25 ottobre 1515.

[216] Lorenzo de' Medici, il giovine.

[217] Maddalena de la Tour d'Auvergne.

[218] Il card. de' Rossi era figliuolo di una sorella naturale di
Lorenzo de' Medici detto il Magnifico.

[219] Contarina Farnese. Di boria nobilesca, fu esigente col marito
che la compiaceva soverchiamente nelle spese di lusso, sì che meritò le
censure del nostro poeta. _Satira III_, v. 138.

[220] _Trecent'anni_ leggono per errore le prime edizioni.

[221] Allude alla tenuta di Bagnolo ereditata dal cugino Rinaldo
Ariosto, negatagli dal fattore ducale Alfonso Trotti, ed alla rinuncia
che dovette emettere de' benefici ecclesiastici per non aver voluto
seguire in Ungheria il card. Ippolito d'Este. Vedi anche l'ultimo
documento alla _Prefaz. storico-critica_ di questo libro. All'Ariosto
furono attribuiti due sonetti satirici contro il Trotti perchè si
trovarono scritti di sua mano (Opere minori, T. I, p. 307-8). Io li
credo invece dettati da Antonio Cammelli detto il Pistoia.

[222] Il _Negromante_. Non pare fosse recitata in Roma, ove però
l'anno prima si diedero i _Suppositi_ dell'Ariosto colla scena dipinta
da Raffaello nel palazzo papale, stando lo stesso Leone X a regolare
l'entrata degli spettatori. Sulla recita delle sue commedie parla
l'Ariosto nella lettera del 17 dicembre 1532 più avanti riportata.

[223] Chiamato anche _l'abbate di Gaeta_ dal luogo ove nacque.
Credendosi assai valente verseggiatore serviva da buffone a Leone
X, il quale nel 1515 lo mandò con sontuoso e burlesco trionfo sopra
un elefante per Roma fra le risa e gli scherni del popolo a farsi
incoronare poeta.

[224] N'ebbi copia, come inedita, dal ch. Gaetano Milanesi.

[225] Questa e così le altre lettere dirette agli Anziani suddetti
furono tratte dai copiari dell'Archivio di Stato in Lucca e pubblicate
la prima volta dal signor Angelo Fondora nel _Gior. stor. degli Archivi
Toscani_, 1862.

[226] Le sottoscrizioni sono omesse nelle seguenti lettere, quando si
trovano conformi alle antecedenti.

[227] Le lettere agli Otto di Pratica e ad altri ufficiali della
Repubblica fiorentina vennero tratte dall'Archivio centrale di Stato in
Firenze per cura del ch. G. Milanesi, e pubblicate la prima volta nel
_Gior. stor. degli Archivi Tosc._, 1864.

[228] Forse _casa_.

[229] Andrea Doria il più grand'uomo di mare del suo tempo e che
divenne il ristauratore della libertà genovese. — Fra Bernardino
d'Airasa ammiraglio gierosolimitano.

[230] Questa lettera per gl'incendi avvenuti all'Archivio Estense in
Ferrara e per l'acqua adoperata ed estinguerli è in parte corrosa e
tanto dilavata nell'inchiostro che mi fu difficile interpretarla. Con
le parole in corsivo ho cercato supplire ov'eravi assoluta mancanza.

[231] Per le Gride dell'Ariosto citate più volte in queste Lettere,
veggasi in fine del volume.

[232] Intende la lettera precedente diretta al duca, a cui questa serve
di accompagnatoria.

[233] Bonaventura Pistofilo anch'esso segretario del duca.

[234] Questa lettera, com'è detto in principio, ripete in gran parte la
XXVIII del 23 maggio 1522.

[235] Don Ercole d'Este primogenito del duca, che trovavasi a Roma
per raccomandare al nuovo papa Adriano VI la restituzione di Modena e
Reggio.

[236] Lodovico Cato era stato spedito ambasciatore al papa in Ispagna,
ove questi trovavasi all'atto dell'elezione (8 gennaio 1522). Le
provincie ricuperate dal duca al tempo della sede vacante, e così la
Garfagnana, gli furono lasciate in possesso.

[237] Molti sono i decreti pronunziati dalla Repubblica di Genova
dal 1445 al 1490 intorno alla necessità di riformare la disciplina
e lo stato degli ecclesiastici. Un frammento di costituzione già
emanata dall'arcivescovo Jacopo da Varagine e confermata fin dal
1299 da Porchetto Spinola fa conoscere come vi fossero sacerdoti che
_nec clericater vivunt, nec abitum clericalem deferunt_. Una lettera
di frate Zanetto, o Giovanni da Udine, maestro generale dell'Ordine
de' Minori di S. Francesco (1472) asserisce che i frati e le monache
della provincia di Genova _incontinenter, sine freno et irreligiose
vivunt_ (Foliat. Notar. Ms. della Civico-Beriana). È certo poi che
le domenicane de' SS. Giacomo e Filippo si arbitravano lasciare la
clausura a loro piacimento, e quando tornavano al chiostro dicevano
alla priorissa: _Madre, con vostra licenza, siamo ite a diporto_
(BANDELLO, _Novelle_). Nei registri _Diversorum Communi Januae_ si
leggono i seguenti decreti della Signoria: 1445, _Decretum contra vitam
monalium SS. Philippi et Jacobi_. — 1466, _De monacabus cohibendis_.
— 1467, _Contra moniales_. — 1472, _De reformatione status monialium_.
Un breve di Alessandro VI lamenta (1497) che: _moniales ipsae, abiecta
religionis honestate, extra dictum monasterium_ (de' SS. Giacomo e
Filippo) _pro libito et desiderio suo per totam urbem vagantur, et
inhonestam vitam ducunt in ipsius religionis oprobrium, animarum
earundem periculum, et totius populi ianuensis scandalum non modicum_;
e comanda al Maestro generale dell'Ordine di S. Domenico che si ponga
ogni cura e si adoperi ogni mezzo ad infrenare gli scandali e sradicare
i disordini. Un breve di Clemente VII (1529) commette all'Arcivescovo
di Genova ed al Priore di S. Teodoro di attendere alla riforma de'
monasteri, dicendo chiaramente che le monache continuavano nella
rilassatezza del costume _ex maiori frequentia et familiaritate cum
clericis, religiosis et secularibus personis_, e altrettanto ripete
Giulio III in una bolla del 4 settembre 1551. (Da docum. esaminati e
comunicatimi dall'amico G. B. Passano).

[238] All'orecchio poetico dell'Ariosto parve più sonoro introdurre
spesso in questo vocabolo il dittongo mobile, che si perde quando
l'accrescimento della parola porta innanzi la sede dell'accento, come
in _niego_, _priego_, _siedo_ ecc.

[239] Gli imputati di aver dato recapito ai banditi, che entro il
termine assegnato non comparivano al cospetto del duca in Ferrara
per giustificarsi, erano considerati come colpevoli di ribellione e
cadevano nella confisca dei beni.

[240] Anche questa lettera è in parte consunta dal fuoco, come si vede
per le parole supplite in carattere corsivo. Non potendosi più leggervi
la data dell'anno, l'ho fissata al 1522 coll'aiuto della _Cronaca
modenese_ di Tomasino de' Lancellotti (Parma, 1862, vol. I, p. 419),
ove sotto il 10 novembre 1522 si nota una grande rotta che Virgilio da
Castagneto e suoi seguaci (il Moro dal Sillico, fratelli e compagni)
ebbero nell'azzuffarsi colla banda di Domenico d'Amorotto: due fazioni
di briganti tendenti a soverchiarsi.

[241] Gian Giacomo Cantello nella citata lettera (diretta il 15 nov.
al _conte Lud. Ariosto_) si scusa altresì degli inconvenienti a cui
venne forzato con _Domenico de Morotto_ nel respingere l'assalto
che fu dato ad entrambi poco tempo prima sul monte di Mocogno da una
fazione contraria, la quale ebbe eccitamento, come egli si duole, dagli
ufficiali ducali.

[242] Alberto Pio di Carpi, buon cultore di lettere e amico dei
letterati (Aldo Manuzio, che fu suo maestro, gli dedicò alcune opere
da lui impresse), teneva allora a nome del papa le fortezze di Reggio
e Rubiera, e fu creduto volesse tradirle ai Francesi, sperando con ciò
di allontanare il pericolo imminente di perdere del tutto per opera del
duca di Ferrara il dominio di Carpi, già ceduto per una metà da Giberto
di lui cugino ad Ercole I nel 1500. — Alberto favoriva l'Amorotto per
averne un aiuto che poi non riescì, e fors'anco perchè accrescesse
nella provincia del Frignano imbarazzi al duca, il quale in una lettera
del 22 nov. 1522 diretta al suo ambasciatore Lod. Cato trovo che ne
fece lagnanze alla corte di Roma.

[243] Di Domenico d'Amorotto (o Morotto) di Carpineti, figlio di
un oste, che, reso temibile per delitti di sangue e straordinario
ardimento, tentò più fiate, alla testa de' suoi ribaldi seguaci,
d'invadere Reggio, e, quantunque respinto e cercato a morte, ebbe due
volte dal Guicciardini governatore papale, per farlo a sè favorevole,
il commissariato della montagna Reggiana, parla a lungo il Panciroli
nella _Storia di Reggio_, e Tomasino de' Lancellotti nella _Cronaca di
Modena_. Francesco Rococciolo in fine di un suo poema latino intitolato
_Mutineis_, che si conserva ms. nella Bibl. Estense di Modena, tocca
pure dell'Amorotto.

[244] Della sua bontà parla degnamente anche nella Lettera XXXVI:
ma «bisogno era di asprezza, Non di clemenza all'opre lor nefande»
(_Satira V_), e perciò dice gli fosse imputata a difetto.

[245] L'Ariosto, per non morir dalla noia in Castelnovo, avea bisogno
di portarsi ogni cinque o sei mesi a passeggiarne uno nella piazza di
Ferrara, come ricorda nella _Satira VI_.

[246] Così per non perdere le rendite ecclesiastiche tenne sempre
occulto il suo matrimonio con Alessandra Benucci vedova Strozzi.

[247] Di prete Matteo è toccato anche alla Lett. XLIV. Tali richiami ed
insinuazioni tendevano a far rimovere il duca da quanto aveva più volte
ordinato all'Ariosto, come rilevo da lettera scrittagli da Ferrara il
29 marzo 1522, ove leggesi: «Circa quel prete Matteo, avete visto quel
che per un'altra v'avemo scritto, e così vedrete di eseguire; perchè,
per ordinario, nè voi nè altro nostro officiale si può impacciare a
castigar preti ecc.»

[248] Vedi Lett. LV.

[249] Manca il fine, che doveva trovarsi in un altro foglio o mezzo
foglio perduto.

[250] Commissario lucchese.

[251] Il medico Gio. Pietro Attolini coi fratelli surricordati furono
alla testa della congiura che nel 1521 levò la Garfagnana dalla
dipendenza de' fiorentini per ridarla al duca di Ferrara: circostanza
che dev'essere stata principale movente ad ottener privilegi. Veggasi
anche la Prefazione al presente volume.

[252] Capitano di Barga.

[253] Veggasi anche la Lettera LXXXIV diretta agli Anziani di Lucca.

[254] Mesino dal Forno, valoroso condottiero di una compagnia di
cavalleggeri nella guerra coi Veneziani, ebbe nel 1521 il Capitanato
delle fanterie di Alfonso I per ricuperare il Finale. Ma all'epoca di
questa Lettera congiurava col di lui fratello Girolamo contro il duca,
e n'ebbe per un tempo l'esilio.

[255] Perciò disse alla _Satira V_, v. 145-147.

    O siami in rôcca, o voglia all'aria uscire,
      Accuse e liti sempre e gridi ascolto,
      Furti, omicidi, odii, vendette ed ire.

[256] Riportata fra le Gride in fine di questo volume, n. III.

[257] V. la Lett. LXXXVIII diretta dall'Ariosto al Duca, ove anche più
evidente apparisce la mala volontà della Repubblica di Firenze, che
tendeva a ricuperare Pietra Santa.

[258] Obizo Remo segretario ducale. V. Lett. XXXIII.

[259] Come vedesi alla Lettera LXXIII.

[260] Niccolò Rucellai.

[261] Commissario ducale spedito nel Frignano con molti uomini d'arme,
e che ad estirpare la fazione dell'Amorotto abbruciò Mocogno, Riva e
Gaiano (_Cronaca modenese_ di TOM. DE' LANCELLOTTI, anno 1523).

[262] Quanto è detto di sopra si riferisce alla precedente Lettera LXXX.

[263] Consigliere ducale tenuto in molta grazia, e mandato nel 1519
ambasciatore a Carlo V.

[264] Ucciso il 5 luglio 1523 con molti seguaci di sua parte nella
pianura fra la Riva e Montespecchio per opera della contraria fazione
di Virgilio da Castagneto, anch'esso morto nel conflitto (TOMASINO DE'
LANCELLOTTI, _Cron. modenese_, T. I, pag. 238-39).

[265] Consigliere di giustizia. Fu nel 1522 oratore a Roma per togliere
gli interdetti di Giulio II e Leone X sopra Ferrara.

[266] Donde l'illustre famiglia de' conti Valdrighi in Modena.

[267] Usa sempre _ogni modo_, ommessa a maggiore speditezza e fuggir
l'iato, la preposizione _a_, più conforme al latino _omnimodo_.

[268] _Appresso_ per _dopo_, locuzione avverbiale elittica molto usata
in queste Lettere e che l'Ariosto qualche volta riempie: _Appresso gli
significo che_ ecc.

[269] Notisi _deserto_ per _chi non ha credito nè sèguito_, che in
questo luogo è bellissimo modo: ma forse a taluno non potrà piacere
la frase di _certi banditi.... e sono due deserti_, ove il numero
indeterminato si riducea un determinato troppo ristretto, ed ove anche
i nomi de' banditi non sono affatto indeterminati poichè uno era _detto
il Frate_.

[270] Veggasi anche la Lettera LXXVI.

[271] Cioè il conte Carlo figlio di Giovanni che fu anch'esso ucciso.
Manca la lettera antecedente qui accennata; ma veggansi in proposito
le successive lettere CIII e CIV. Il duca scriveva all'Ariosto il 23
maggio 1524: «Perchè lo assassinamento nella persona del conte Carlo
da Sandonnino e della madre, con rapimento delle lor robe, fu tanto
atroce e di sì malo esempio, e tanto ci dispiacque, che sempre avemo
giudicato che tutti quelli che ne furon partecipi e colpevoli meritino
d'esser severissimamente puniti e desideriamo che la giustizia abbia
loco.... vi replichiamo che non solamente contra quel Iacopo Buoso che
avete nelle mani, ma anco contra qualunque altro capitasse nelle vostre
forze, che in modo alcuno avesse colpa nel detto assassinamento, volemo
che possiate procedere, condannare ed eseguire rigidamente secondo che
ricerca la natura del caso, non come Capitano, ma come Commissario
ecc.» Una contessa Vittoria di San Donnino (la cui famiglia ebbe un
Vescovo di Modena nel 1465) fu madre del celebre cardinale Pietro di
Giammaria Campori, nato in Castelnovo verso l'anno 1554.

[272] Per parte italiana (contraria al duca di Ferrara alleato colla
Francia) s'intende la Lega che per cacciare d'Italia i Francesi era
stata fatta dal papa coi Veneziani e l'imperatore. Qui però, da quanto
si scorge più innanzi alla Lett. CXIV, si accenna a chi favoriva
di prender soldo nell'unica milizia veramente italiana comandata da
Giovanni de' Medici detto _dalle bande nere_ che allora dimorava in
quelle vicinanze, avendo comprato alcune terre nella Lunigiana, e
fabbricatovi una fortezza. Ad istanza del cardinale Giulio de' Medici,
che fra poco vedremo papa, Giovanni erasi ritirato dai servigi della
Francia per darsi a quelli della Lega (Vedi E. RICOTTI, _Storia delle
Compagnie di ventura_, vol. IV).

[273] Alla morte di Adriano VI, 14 settembre 1523, essendosi il duca
affrettato di ricuperare i suoi Stati durante la sede vacante, ebbe
Reggio il 29 detto mese, ed ora trovavasi in Rubiera, che, fatta
sollevazione contro Lionello Pio governatore papale, gli aperse le
porte. Avverte il PANCIROLI, _Storia di Reggio_, che a' suoi tempi
Rubiera era considerata la più celebre di tutte le fortezze tra Milano
e Cesena.

[274] Il duca, prima di passar sotto Reggio, tentò ancora di riaver
Modena, ma Guido Rangoni alla testa di molti soldati la mantenne nel
governo della Chiesa. Perciò il nuovo papa Clemente VII donavagli
molte terre e lo conservava al presidio di Modena sino al 1526, in cui
fu destinato al comando dell'esercito della Chiesa per la nuova Lega
contro Carlo V.

[275] Cioè _non ieri ma l'altro giorno avanti_, corrispondente
all'affermativo _ier l'altro_, e che può meglio precisare il giorno che
non fa _l'altro ieri_. L'usò anche nella Lett. LXI, p. 110.

[276] Pistofilo. Manca la Lettera qui accennata.

[277] Giulio de' Medici fu eletto papa col nome di Clemente VII il 19
novembre 1523.

[278]

    Qui vanno gli assassini in sì gran schiera,
      Che un'altra, che per prenderli ci è posta,
      Non osa trar del sacco la bandiera.

                               (ARIOSTO, _Sat. V_).

[279] Manca in questa Lettera la prima metà del foglio.

[280] «Ecco il dotto, il fedele, il diligente Segretario Pistofilo»:
così l'Ariosto all'ultimo canto del _Furioso_, e gli diresse anche la
_Satira VI_, per ringraziarlo delle offerte di ottenergli che fosse
mandato ambasciatore a Clemente VII, invece del commissariato di
Garfagnana.

[281] Questa Lettera e la maggior parte di quelle che seguono dirette
al duca di Ferrara sono molto consunte dal fuoco e dall'acqua.
S'intendono sempre mancanti nei luoghi punteggiati, o supplite per
approssimazione colle parole in corsivo. Nella parte omessa della
presente ho potuto rilevare da parole qui e là intelligibili, che
l'Ariosto si lagna del Capitano della Ragione il quale, all'unico
scopo di accrescere il proprio guadagno, non solo vietavagli qualunque
ingerenza nel di lui officio, ma avrebbe ancora voluto far buona parte
di quello del Commissario, giacchè ottenne altresì che fosse rivocata
ogni autorità di comporre litigi senza la sentenza del giudice.

[282] Da ciò si ricava che il 7 febbraio 1522 fu il giorno preciso
in cui l'Ariosto venne nominato Commissario, come dalla _Satira V_ si
conosce che solo nel 20 del mese stesso si portò in Garfagnana. Veggasi
anche l'_Elegia III_ ove descrive il suo viaggio con procella d'acque e
venti.

[283] Notinsi i motivi e la proposta di questa votazione.

[284] A questa magnifica Lettera (salvatasi fortunatamente dal
fuoco) allude il Tiraboschi, ove dice: «Una tra le altre è degna di
considerazione per la libertà con cui (l'Ariosto) in essa si duole che
il duca non sostenga la sua autorità e gli ordini da lui dati in quel
suo governo, ma si lasci talvolta piegare ad annullar le sentenze da
esso date.» (_Storia della Lett. ital._ T. VII).

[285] _Magistro_ per _magistrato_. Così il Davila dice _maestro_ il
_maire_ de' Francesi. (_Storia delle guerre di Francia_, lib. II).

[286] Anche questa lettera diretta al Pistofilo è perduta.

[287] La desinenza in _ivo_ applicata ai participî dà ai medesimi
la forma esteriore dei nomi qualificanti, che perciò diconsi non
_aggiunti_ ma _aggiuntivi_. Per conseguenza _direttivo_ ha virtualmente
e in potenza quello che _diretto_ ovvero _indirizzato_ ha in atto.

[288] Intende le genti di Gio. de' Medici, o come dice altre volte
di _parte italiana_, le quali essendo venute a contesa coi marchesi
Malaspina, devastarono la Lunigiana, occupando e malmenando ancora
alcuni luoghi di Garfagnana.

[289] Gio. de' Medici trovavasi allora a Roma.

[290] L'Ariosto potrà essersi compiaciuto della coincidenza di un nome
cavalleresco in chi fece restituire al duca la rôcca di Camporgiano,
vedendo assunti per nomi di guerra quelli che erano resi celebri dai
poeti romanzieri dell'epoca. È a notarsi altresì che la Lett. LXI
ricorda un _ghiotto Margutte_, il cui soprannome di biasimo sembra
derivato dal poema di Luigi Pulci, potendo anche questo Margutte
ripetere coll'altro: «Io fui prima alle strade malandrino.» (_Morgante
Maggiore_, cant. 18, st. 136).

[291] La Lettera ha la data di Ferrara per errore di penna, chè senza
dubbio venne scritta, come l'antecedente dello stesso giorno, da
Castelnovo.

[292] Questa Lettera, a differenza di tutte le altre, non pare di pugno
dell'Ariosto.

[293] Questa Lettera ripete in gran parte quello che fu detto nella
XCI del 15 luglio 1523. Manca della data del giorno e mese, e l'ho
qui posta dopo l'antecedente, che resta interrotta perchè consunta
nell'ultima parte, avendo nel presente caso seguito l'ordine
dell'antica collocazione in filza di tali autografi. — Dalla data del
1524 rimasta leggibile, si rileva che la causa dopo un anno era nello
stesso piede di prima.

[294] Abbiamo la risposta del duca Alfonso a questa Lettera, in data
del 4 agosto, ove dice che in quanto alle rôcche non vuol fare per ora
altri Castellani nè altre provvisioni, ma che gli piace e giudica ben
fatto che il podestà di Trassilico si riduca ad abitare nella rôcca di
detto luogo, sperando che la desterità dell'Ariosto sia per indurre
quella Vicaria a ripararla. Approva che siasi scritto al Capitano di
Fivizzano ed alli officiali di Lunigiana per ordinare gli uomini loro,
e richiama l'attenzione del Commissario affinchè i disordini accaduti
in generale ne' giorni passati non facciano sorgere scandalo di
inimicizie particolari. Si raccomanda infine che la buona giunta (di 25
uomini) mandata alli balestrieri ordinari sia tenuta unita, onde serva
per timore e castigo dei delinquenti e ribaldi, per quiete dei buoni
e per servigio dello Stato, sicchè la spesa non sia gittata e fatta
invano.

[295] Queste ultime notizie date dall'Ariosto, unitamente a quelle
aggiunte nella Lettera antecedente, mossero il duca a scrivere il 12
agosto al suo segretario Pietro Antonio Torello residente in Napoli
presso la corte di quel Vicerè: «.... se ben la persona del Sig.
Gioannino de' Medici si trovi in Roma, la gente sua che è in Lunigiana
va pigliando li castelli e lochi di quelli marchesi Malaspini, e già
ha tolto tutto al marchese Spinetta, e fatto prigione lui con gli
figliuoli e moglie in un castello chiamato Monti, e ora dicono che è
d'intorno a Fosdinovo che è del marchese Lorenzo, il quale intendemo
che è aiutato da San Giorgio, cioè da Genova: e a favore della detta
gente di esso Sig. Gioannino, per quanto semo avvisati, son venuti
sette pezzi d'artiglieria con le sue munizioni per mare da Pisa: il
che tutto comunicarete per parte nostra con lo Ill. Sig. Vicerè, se ben
pensamo che S. S. Ill. possa saperlo per altra via meglio che noi; e a
S. Ecc. molto ci raccomandate.»

[296] Così ha il manoscritto.

[297] Dal R. Archivio di Stato in Lucca, e ne resto obbligatissimo
agli amici cav. Salvatore Bongi direttore, e cav. Giovanni Sforza
archivista.

[298] Gli Anziani gli risposero il 14 d'ottobre: «_M.ce Dom.e_ Ci
ritroviamo una di V. M.tia in commendatione di Hercole Saltarello
gentile homo ferrarese, il quale desidereria essere electo capo
di qualche cavallo leggeri o di fantaria in questa nostra città et
indichiamo sia persona di buona qualità, integrità et experientia,
poi che quella intercede per lui. Ma vivendo noi qua al presente
pacificamente, nè havendo bisogno condurre gente, non vediamo ordine
poterli gratificare; et quando haremo a fare electione di simili
persone, non mancheremo ricordarci di lui per causa di V. M. et
demostreremo le commendationi sue non essere state vulgari.»

[299] Dall'Arch. de' Frari in Venezia. Reg. n. 24, _Terra_, 1525-27, a
carte 227-28, riprodotta nella sua originale ortografia.

[300] Veggasi in questo vol. la Lettera XIII, p. 26.

[301] E cioè due volte a Milano e quattro a Venezia a tutto il 1526,
sebbene una di Venezia 1524 porti sul frontispizio _con licentia del
ditto autore_.

[302] Allude a una terza edizione originale che l'autore fin dal
1527 proponevasi di fare del suo poema e che venne soltanto in luce a
Ferrara per Francesco Rosso da Valenza adì 1º ottobre 1532, in-4, di
nuovo corretto e ampliato di sei altri canti, come si è già avvertito.

[303] _More veneto_, corrispondente al 7 genn. 1528. L'Ariosto avendo
tardato sino al 1532 a far uso di questo rinnovato privilegio veneto
_approvato dal Consiglio di Pregadi_, il Furioso seguitò a ristamparsi
senza utilità dell'autore, che morì il 6 giugno 1533.

[304] Veggasi la _Satira_ VII dell'Ariosto diretta al Bembo ove con più
efficacia raccomanda il figlio Virginio.

[305] Dall'Archivio di Stato in Milano. Favoritami dal chiarissimo
signor soprintendente comm. Cesare Cantù.

[306] Oratore Estense presso il duca di Milano.

[307] Riportata in fine del volume fra i _Privilegi per la stampa
dell'Orlando furioso_.

[308] Conte Massimiliano Stampa.

[309] Lettera di qualche importanza per l'intenzione manifestata
dall'Ariosto di dare alle stampe altre sue cose oltre il poema che
venne in luce nell'ottobre di quest'anno con l'aggiunta di sei canti;
benchè la morte che il sorprese l'anno seguente non gli lasciasse tempo
neppure di dar principio all'effettuazione di questi suoi pensieri. (G.
CAMPORI).

[310] Quartesana e Recana, due villaggi del Ferrarese, dove la casa
Strozzi aveva molti poderi. (BAROTTI).

[311] Alessandra Strozzi vedova Benucci sposata dall'Ariosto
secretamente per non perdere i suoi benefici ecclesiastici. Veggansi
in fine del volume sette Lettere scritte o dettate quasi sempre
dall'Ariosto a nome di Alessandra.

[312] Il segretario e biografo del duca Alfonso, Bonaventura Pistofilo,
più volte ricordato.

[313] Letterato e dotto in molte discipline, segretario del marchese di
Mantova, nominato al canto XLII del _Furioso_ (G. C.).

[314] _Camorra_, per Camurra alla sanese, o Gamurra alla fiorentina.
Veste di panno da donna. (BAROTTI).

[315] Dell'ediz. di Ferrara per Francesco Rosso da Valenza, colla data
del primo ottobre 1532, in-4.

[316] Dall'Arch. Gonzaga in Mantova, e pubblicata la prima volta dal
signor ALESS. LUZIO nel _Gior. Storico della letter. ital._, anno I,
1883, vol. II, p. 167.

[317] Detta poi _La Scolastica_ da Galasso e Virginio Ariosto che la
terminarono.

[318] Questa minuta di Lett. manca della data e della firma. L'ho
giudicata dei primi di maggio 1510, quando l'Ariosto fu spedito in
Roma a cercar favore e discolpe al card. Ippolito, accusato di essersi
intruso nell'Abbazia di Nonantola dopo la morte del cardinale Cesarini,
e di aver forzato quei monaci ad eleggerlo Abbate; di che il papa
sdegnato minacciava fargli contro un processo.

[319] L'Ariosto ebbe tre benefici eccles. dal card. Ippolito, ma
essendosi rifiutato di seguirlo in Ungheria ne perdè la grazia, e
dovette rinunciarne due nel 1517. Forse per queste recenti Lettere a
favore di Lodovico, e perchè dato in società di un Costabili, venne
per convenienza conservato nel beneficio di Milano, che fruttavagli «il
terzo Di quel che al notar vien d'ogni negozio.» _Sat._ II.

[320] Ricordate più volte nelle Lettere LIV, LXXII e LXXXI ecc.

[321] Il duca approvava questa grida dirigendo all'Ariosto la Lettera
che qui si riporta, poichè le nuove proposte di compensi per cattura e
giudicatura de' banditi vengono a formarne il complemento. Segue indi
l'autenticazione notarile che l'Ariosto fece farvi.

«M. Lud. Noi avemo avuto la lettera vostra dì 27 del passato, per la
quale avemo inteso come in esecuzione di quel che vi avemo commisso,
avete fatto ardere la casa di quel Genese che occise a' dì passati
il conte Giovanni da S. Donnino, di che vi commendiamo, e per questa
nostra approviamo e confirmiamo la grida che avete fatto publicare
contra quelli che dànno ricetto a' banditi, e vi diamo piena libertà
che procediate alla esecuzione contra qualunque contraffacesse, secondo
la comminatoria apposta in detta grida, come parrà a voi; alla prudenza
e discrezione del quale ci riportiamo.

«E perchè li banditi abbino causa di star più dalla lunga, e li
officiali ed esecutori di far più volentiera e con più diligenza
l'officio loro in cercar di avere nelle mani li delinquenti e punirli,
vorressimo da mò innanzi il Capitano de' Balestrieri avesse per la
cattura d'ogni bandito in pena capitale quattro ducati, e ciascuno
balestriero un ducato, e il Cap. della Ragione che commettesse la
esecuzione della giustizia avesse quattro ducati, la qual spesa si
dovesse pagare in comune, perchè per comune benefizio avemo pensato
questa ordinazione. Fate dunque congregare il Consiglio generale,
e proponete la cosa, facendo intendere a quelli nostri dilettissimi
sudditi la causa che ci move, ed esortandoli a contentarsi di fare la
detta spesa; attento che è da credere che li banditi si guarderanno
di praticare in quella nostra provincia per non essere presi, come
intendino che sia posto questo ordine, e conseguentemente essa spesa
si averà da pagare di rado; e se pur si pagherà spesso, purgherà
essa provincia; e così non può il detto ordine essere se non utile,
partorire buon frutto a l'uno e a l'altro modo: e se essi uomini se ne
contenteranno, come credemo, fate che 'l si registri, e che si ponga in
osservanza, e daretene avviso; e se a voi e a' detti uomini paresse che
si dovesse construire o maggior o minor mercede a' detti officiali ed
esecutori, similmente daretene avviso. Bene valete.

«Ferrariae, IV maij 1522.

«Ego Laurentius filius q. providitoris Antonij a Porta de Castelnovo
Carfignanae publicus Apostolica, Imperialique Auctoritate Notarius,
de mandato Mag. D. Ludovici de Ariostis de Ferraria ducalis generalis
Commissarij provinciae Carfignanae sup. proclama una cum suprascriptis
litteris ducalibus de verbo ad verbum sicut in suis originalibus
inveni exemplavi, nil addito vel diminuto quod sensum mutet, et quia
facta diligenti auscultatione de ipsis exemplis ad eorum originalia
sup. utraq. concordare inveni: idcireo in fidem praemissorum
hic me subscripsi meisque solitis et consuetis signo et nomine
autenticavi.»(l. ✠ s.)

[322] A scemare il disgusto che fa nascere la brutta formola d'uso
generale e qui più volte ripetuta di minacciare la pena della corda,
giova osservare che nelli _Statuta Castronovi Carfignanae_, approvati
nel 1505, si ha al lib. IV, cap. 8: «reiterari nemo possit ad torturam
nisi praecedentibus novis indicijs, et cum omni moderamine ita quod
corpus valeat sustinere: et si persona ultra modum torta decesserit in
tormentis, Capitaneus (justitiae) eadem poena debeat puniri.» Questi
_Statuta_ (col moderativo del taglione) si conservano mss. nella R.
Biblioteca Estense, che li possiede pure volgarizzati e scritti nel
1576 da Francesco Porta Garfagnino, con carattere, lettere capitali e
frontispizio, il tutto condotto e figurato sì bellamente, che il libro
ne par quasi inciso. Francesco apparteneva alla famiglia del celebre
pittore Giuseppe Porta così felice imitatore del suo maestro Francesco
Salviati, e che in Venezia contribuì molto ad illustrare co' suoi
disegni ed intagli in legno parecchi libri stampati dal Marcolini assai
ricercati dagli amatori di belle arti.

[323] Citata nella Lettera CXIV del 20 nov. 1523.

[324] Di questa _calcinaria_, o _calcinaia_, come leggesi alla Grida
II, non trovo alcun'altra memoria. Corrisponde forse alla _carbonaia_,
che è lo spalto con fosse che gira attorno de' luoghi murati. Vedi
TOMMASI, _Sommario della Storia di Lucca_, nell'_Arch. Stor. Ital._, T.
X, pag. 53 e 66.

[325] Citata nella Lettera CXXXI.

[326] Un'antecedente Grida contro gli assassini di Pontecchio è
ricordata nella Lettera XXXII, p. 52.

[327] Quantunque Modena non fosse stata ricuperata dal duca Alfonso che
nel 6 giugno 1527, approfittandosi del momento che il papa era fatto
prigioniero e che Roma mettevasi a sacco da Tedeschi e Spagnuoli, pur
non lasciavasi di chiamarlo duca di Modena, come vedesi anche alla
Grida III.

[328] Il ms. ha 1521, che ritengo errore di penna in luogo di 1524.

[329] Ad eccezione della Lett. IV, vennero tutte scritte o dettate
dall'Ariosto a nome ed anche sotto il titolo di cancelliere della
Strozzi la quale più tardi divenne sua secreta moglie.

[330] Guido Strozzi, figlio di quel Tito e fratello di quell'Ercole de'
quali abbiamo, dalle stampe d'Aldo e del Colineo, un lodato volume di
latine poesie (BAROTTI).

[331] Lorenzo Strozzi fratello di Guido.

[332] Lo stesso Lodovico Ariosto, il quale era stato poco tempo prima a
Venezia col duca Alfonso, come si vedrà nella Lettera seguente.

[333] Intendasi sempre lo stesso Lodovico Ariosto.

[334] L'autografo fa parte della ricca collezione storica ferrarese
del fu mons. can. Giuseppe Antonelli da cui l'ebbi da pubblicare per
la prima volta. Ora la detta collezione venne acquistata a lodevole
corredo della Biblioteca Comunale di Ferrara.

[335] Questa Lettera, è tutta di pugno e locuzione di Alessandra
Strozzi, e per essa si accrescono i dettagli di un fatto importante
ricordato dal BARUFFALDI nella _Vita di Lodovico Ariosto_, Ferrara,
1807, pag. 210.

[336] Cioè: per amore dell'Ariosto.

[337] Pistofilo.

[338] Sedicesima parte di un'oncia.

[339] Dalla Lettera de' 23 luglio 1532 siamo accertati dell'elezione
fatta dal duca di Guido Strozzi in commissario di Romagna, da quella
delli 12 agosto, che ogni dì era lo Strozzi sollecitato a portarsi
al suo governo; da quella de' 20, che aveva già mandato buona parte
innanzi delle sue robe; e da questa de' 25 dicembre abbiamo bastante
ragione per credere che fosse già nell'esercizio del suo commissariato,
se in Lugo (residenza consueta de' commissarii ducali) si trovava la
moglie di lui, e non di passaggio ma di piè fermo, come si argomenta
da quanto si segue a leggere in questa medesima Lettera. E quindi
mi fa maraviglia che il BONOLI, nella sua _Storia di Lugo_, al lib.
3, c. 19, dove registra i commissarii della Romagna, riponga a quel
tempo Scipione Bonléo dal 1530 sino al 1535, e di Guido Strozzi non
faccia menzione, nè prima nè dopo (BAROTTI). — Nell'Archivio di Stato
in Modena lessi io una lettera di Guido Strozzi al duca di Ferrara
datata da Lugo 6 ottobre 1532, che lo mostrava nell'esercizio della sua
carica.

[340] Temo che vi sia sbaglio nell'originale, e che debba dire _madonna
Simona_, moglie di messer Guido Strozzi, di cui nella Lettera del 20
gennaio 1532. La _Leona_ figlia d'Alberto Petrati, fu moglie di Roberto
Strozzi fratello di Tito, che fu il padre di _messer Guido_. Di essa
si parla nella Lettera del 19 gennaio dell'anno suddetto; ed era morta
senza figli circa l'anno 1528 (BAROTTI).

[341] Quattromila Spagnuoli sotto il comando del marchese del Vasto,
acquartierati in Lugo. BONOLI, _Istoria di Lugo_, lib. 3, c. 29
(BAROTTI).

[342] Fu pubblicata la prima volta dal ch. sig. march. G. Campori
nelle citate sue _Notizie per la vita di L. A._, p. 56. Sembrandomi
questa lettera tutta cosa dell'Ariosto, mi rivolsi al cortese direttore
dell'Archivio Gonzaga di Mantova, ove si conserva, per sentire se era
di pugno del poeta; il che essendomi stato confermato, compresa ancora
(a quanto pare) la sottoscrizione, ritengo che il Cardinale dicesse
soltanto all'Ariosto di scrivere in suo nome al Marchese per avere
l'esenzione del dazio della carta, ma che Lodovico ad agevolare il buon
esito della soprabbondante richiesta delle mille risme (sufficienti
altresì per le prevedibili ristampe del poema) ottenesse di esporre
che l'edizione era fatta dal Cardinale. Il quale se veramente ne
avesse sostenuta la spesa, non avrebbe mancato l'Ariosto al dovere
di farlo in più esplicito modo conoscere; e poichè occorse tanto al
cardinale Ippolito quanto al duca Alfonso di regalare alcuni esemplari
del _Furioso_, non sarebbe loro abbisognato di cercarli altrove, nè
l'autore poteva permettere che ne pagassero il prezzo, come venne
accennato a pag. LV della mia Prefazione.

[343] È tratta così manchevole (salvo le parole in corsivo da me
aggiunte in senso probabile) dal codice 9 della Biblioteca particolare
del sig. march. Trivulzio di Milano, e l'ebbi dalla gentilezza del
sig. conte senatore Giulio Porro Lambertenghi, il quale con sua
lettera del 18 novembre 1886 (forse l'ultima ch'egli scrisse essendo
disgraziatamente morto in Fino, provincia di Como, dopo soli quattro
giorni) mi avvertiva che non è autografa, ma copia mandata al marchese
G. G. Trivulzio dal Tomitano, il che pure rilevasi dal _Catalogo dei
codici manoscritti della Trivulziana_ compilato dal Porro (Torino,
Bocca, 1884), pag. 210. — Ed ebbi altresì tratta da copia la seguente
scrittura unita allo stesso codice 9:

«A questo dì di San Michele 1518 io Lodovico Ariosto ho consegnato
a Guido da Guastalla mio lavoratore in San Vidale le infrascritte
bestie buine in socida per anni cinque: a partire in capo di anni 5 il
guadagno per mezzo, et stando il mio capital fermo; et al tempo del
partire avrò a cavare del chioppo altre tante bestie della medesima
sorte et etade ch'io consegno a lui al presente et per il medesimo
capitale ch'io apprecio a lui, che a suo pericolo e spesa le habbia
a custodire et governare secondo li modi et Statuti di Ferrara,
videlicet:

Una vacca bruna stellata, detta _ghirlanda_, con una vedella lattante,
di precio l'una e l'altra di lire tredeci.

Una vacca rossa detta _la rossina_, con uno vedello dietro lattante,
l'una e l'altro di precio lire undeci.

La soprascritta bruna ha fatto un vitello maschio questo Luglio 1519.

La vedella soprascritta c'havea de capitale lire 13, ha fatto un
vitello questo anno del 1521, et essa è morta.»

Il suddetto _Catalogo della Trivulziana_ ricorda inoltre a pag. 211 che
nel codice 577 si contiene una lettera dell'Ariosto, ma questa era già
stata pubblicata e leggesi nel presente vol. a pag. 302.

[344] Dall'Archivio di Stato in Lucca, e favoritami dagli amici Bongi e
Sforza unitamente alla lettera CLVIII, p. 264.

[345] Tratto dal cod. Estense VI, C. 34, e pubblicato da me come
inedito nella seconda edizione di queste _Lettere_, Bologna, 1866.

[346] Questa stanza ommessa sempre ai _Cinque canti_ veniva a togliere
ad essi quella súbita imperfezione che apparve tanto disgustosa ai
successivi editori, da far loro tralasciare anche la stanza seguente.
Credo per altro che la prima fosse avvertitamente soppressa da Virginio
figlio del poeta, che diede questi _Canti_ da stampare ad Antonio
Manuzio, sia perchè in massima parte è conforme alla stanza 45, canto
XL ed ultimo, ediz. 1516 (corrispondente alla 68, canto XLVI, ediz.
1532), sia per mostrarcelo d'un tratto componimento manchevole e non
già una continuazione regolare del _Furioso_. L'Ariosto compose, almeno
in parte, i _Cinque canti_ quand'era Commissario in Garfagnana, 1522-25
(v. Prefaz., p. CXXI), con intendimento di servirsene in una terza
ristampa del suo poema, da condurre in cinquanta canti fino alla rotta
di Roncisvalle, come fu detto da Galasso fratello del poeta; poi ne
dimise il pensiero per attendere unicamente a rivedere e ampliare in
miglior modo il _Furioso_, il quale restò compitissimo colla guarigione
d'Orlando e la morte di Agramante. Il prof. Adolfo Gaspary ha creduto
poter fissare che i _Cinque canti_ rannodavansi al poema colla prima
stanza da me riportata e che li abbandonò per sostituirvi gli ultimi
impedimenti famigliari al matrimonio di Ruggiero con Bradamante
(_Zeitschrift für roman philologie_, III, p. 232); ma non essendo
essi in relazione coi fatti narrati in antecedenza, restano dunque un
tentativo di più vasto lavoro che non ebbe seguito, sebbene l'Ariosto
vi tornasse sopra parecchie volte, come si rileva dalle varie lezioni
che presentano i mss. e che vennero raccolte dal Barotti (Venezia,
1766), dal Molini (Firenze, 1822) e da me (2ª ediz. di Bologna, 1866).

[347] Pubblicato dal ch. CESARE GUASTI nel _Giornale storico degli
Archivi Toscani_. Firenze, 1858, vol. II, p. 139.

[348] Questo privilegio trovasi al _recto_ della seconda carta della
prima edizione dell'_Orlando furioso_ uscita in _Ferrara per Mastro
Mazocco del Bondeno adì XXII de Aprile_ M. D. XVI in-4º, e sotto
di esso leggesi: «Similemente il Christianissimo Re di Francia et
la Illustrissima Signoria de' Venetiani et alcune altre potentie
prohibiscono che ne le lor terre a nessuno sia licito stampare nè
far stampare, nè vendere nè far vendere questa opera senza expressa
licentia del suo Authore, sotto le gravissime pene che ne li ampli lor
privilegi si contengono.»

Non conosco il testo del privilegio del Re di Francia. Per quello della
Signoria di Venezia tiene luogo la supplica che l'Ariosto diresse al
Doge di Venezia, col rescritto: _concedatur gratia ut supra petit_,
in data 25 ottobre 1515, di cui a p. 26; ma perchè non gli venne
rilasciata speciale lettera patente, l'Ariosto si limitò qui a farne
semplice ricordo. Anche la 2ª edizione del _Furioso_ data dall'autore
in Ferrara nel 1521, per quanto concerne i privilegi, ripete soltanto
ciò che fu detto nella 1ª.

Il privilegio di Leone X fu pure tradotto in italiano da G. Aiazzi
e stampato (non però intieramente) da P. FANFANI nel fasc. I
dell'_Istruzione secondaria_, Firenze, 1876.

[349] Pubblicato dal lodato sig. march. G. CAMPORI, _Notizie_ ecc.,
pag. 84.

[350] Stampato in fine dell'_Orlando furioso_, 3ª ediz. di _Ferrara,
Francesco Rosso da Valenza_, 1532, in-4º. — Veggasi a pag. 279 la
seconda supplica dell'Ariosto al Doge di Venezia, 7 genn. 1527,
intesa ad ottenere che gli fosse confermato il privilegio ottenuto nel
1515, giacchè a render valide tali grazie occorreva per nuova legge
l'approvazione del Consiglio di Pregadi. Ma la 3ª ediz. del _Furioso_,
che l'autore sperava presto pubblicare, tardò ancora cinque anni, e nel
frattempo il suo poema si ristampò 17 volte senza dargli alcun utile;
poi venne poco dopo a morire.

[351] È tratto da una copia mandata dall'Ariosto al conte Nicolò
Tassone il 19 giugno 1531, da servire di norma per ottenere un egual
privilegio dal Duca di Milano. Vedi a pag. 282.

[352] Stampato in fine della 3ª ediz. ferrarese dell'_Orlando furioso_,
1532.

[353] Stampato in principio della 3ª ediz. ferrarese dell'_Orlando
furioso_, 1532.

[354] Stampato in principio della 3ª ediz. ferrarese dell'_Orlando
furioso_, 1532. E de' privilegi tratti dalle rarissime edizioni
originali ebbi pur copia dalla gentilezza del signor dott. Aldo
Gennari, Bibliotecario Comunale in Ferrara.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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