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Title: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I
Author: Villari, Pasquale
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I" ***


                            PASQUALE VILLARI


                          NICCOLÒ MACHIAVELLI
                                   E
                              I SUOI TEMPI


                               ILLUSTRATI
                          CON NUOVI DOCUMENTI

              3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore

                                VOLUME I



                             ULRICO HOEPLI
                    EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
                                 MILANO
                                  1912



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

   169-911. — Firenze, Tipografia di S. Landi, Via Santa Caterina, 14



_A_

_LINDA VILLARI_


_A te, che mi sei compagna diletta negli studî, nelle gioie e nei
dolori della vita, dedico questo libro con un affetto che invano
cercherei parole a descrivere._

                                                        _P. VILLARI._



AVVERTENZA


Nel dare alle stampe la terza edizione di questa mia opera, debbo solo
dire al lettore, che ho cercato di tener conto delle pubblicazioni
fatte, in questi ultimi anni, intorno al Machiavelli.

  Firenze, ottobre 1911.



AVVERTENZA

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE


Nel presentare al lettore una nuova edizione di questo libro, non ho
bisogno di aggiungere molte parole. Mi basta dir solamente, che l'ho
riveduto con quella maggiore diligenza che ho saputo, correggendo gli
errori di cui mi sono avvisto, tenendo conto di tutte le osservazioni
che mi furono fatte dai critici, e dei nuovi scritti che vennero alla
luce sul Machiavelli. Sento però il dovere di ringraziar sinceramente i
miei amici professor Cesare Paoli e cav. Alessandro Gherardi. Il primo
di essi mi ha aiutato rileggendo tutte le bozze di stampa, il secondo,
facendo per me nell'Archivio fiorentino i moltissimi riscontri di cui
l'ho continuamente pregato.

  Firenze, 1895.



PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE


Si è scritto e si scrive tanto sul Machiavelli, che nel pubblicare una
nuova biografia di lui, mi par necessaria qualche spiegazione.

Per lungo tempo sembrava che egli fosse una sfinge, di cui niuno poteva
comprendere l'enigma. Chi lo dipingeva come un mostro di perfidia,
e chi lo diceva animato dal più puro e nobile patriottismo. Secondo
alcuni, i suoi scritti davano iniqui consigli, per rendere sicura la
tirannide; secondo altri, il _Principe_ era una satira sanguinosa dei
despoti, fatta per affilare i pugnali contro di essi, ed istigare i
popoli a ribellione. A coloro che esaltavano il merito letterario e
scientifico delle sue opere, rispondevano altri affermando che erano un
ammasso di dottrine erronee e pericolose, capaci solo di corrompere e
di mandare a rovina qualunque società stolta abbastanza per accettarle.
E così il nome stesso del Machiavelli divenne nel linguaggio popolare
un'ingiuria.

Non poche di queste esagerazioni, è vero, sono coll'andare del tempo,
e per opera di critici autorevoli scomparse; ma s'ingannerebbe di
certo chi credesse, che almeno sui punti di capitale importanza vi sia
oggi un giudizio universalmente accettato. Molti ricorderanno le grida
d'indignazione che alcuni sollevarono, specialmente in Francia, contro
il Governo Provvisorio della Toscana, quando sin dai primi giorni
della rivoluzione del 1859, esso decretava una nuova edizione di tutte
le opere del Segretario fiorentino. Alle ingiurie che allora furono
scagliate contro gl'italiani in generale, e contro il Machiavelli in
particolare, risposero altri esaltandone il genio politico e l'animo
incorrotto. È scorso appena qualche anno dacchè vide la luce una nuova
_Storia della Repubblica di Firenze_, scritta da uno degli uomini
più amati e venerati in Italia. In essa troviamo un paragone molto
eloquente, pieno di acute e giuste osservazioni, fra il Guicciardini
ed il Machiavelli, nel quale, dopo aver manifestato una preferenza
decisa pel primo dei due scrittori, si afferma che il Machiavelli
ebbe _malvagio l'ingegno, l'anima corrotta dalla disperazione del
bene_.[1] Questo giudizio non è certo improvvisato; è anzi il resultato
di molti studî e di lungo meditare, ed è dato da uno storico fra noi
autorevolissimo. I due eruditi toscani, che incominciarono nel 1873
la più recente edizione delle opere del Machiavelli, alludono più
volte all'intima e cordiale amicizia che, secondo essi, egli avrebbe
avuta col Valentino, di cui lo fanno consigliere, anche quando questi
insanguinava le sue mani nei più atroci delitti; e pubblicano qualche
documento inedito a conferma della loro asserzione. Da un altro lato i
più recenti biografi, sebbene non vadano sempre fra di loro d'accordo,
pure esaltano di nuovo il patriottismo non meno che l'ingegno del
Machiavelli, e qualcuno, dopo accurate indagini sulle opere di lui
e su documenti inediti, ne loda la generosità, la nobiltà e squisita
delicatezza d'animo, tanto da farne un modello impareggiabile di virtù
pubbliche e private. Tutto questo prova, mi sembra, che siamo assai
lontani da un giudizio, da un'opinione concorde, e che però nuove
ricerche e nuovi studî non sono del tutto superflui.

Le cagioni di un così grande e continuo dissenso furono varie. I tempi
in cui il Machiavelli visse, sono per lo storico pieni di difficoltà
e contradizioni, che in lui si personificano e moltiplicano in modo
da farlo qualche volta sembrare addirittura un mistero inesplicabile.
Vedere un uomo che in alcune pagine esalta la libertà e la virtù con
eloquenza inarrivabile; in altre insegna come ingannare e tradire,
come opprimere i popoli e render sicuri i tiranni, deve far nascere
certamente molti dubbî. Vederlo quindici anni servire fedelmente
la Repubblica, sostenere poi miseria e persecuzioni pel suo amore
alla libertà, e vederlo più tardi ancora raccomandarsi per essere
adoperato a servire i Medici, fosse pure _a voltolare un sasso_, non
può certo dissipare questi dubbî. Pure le contradizioni nella storia
e nell'umana natura sono molte, e nel caso presente si sarebbero
assai più facilmente spiegate, se la maggior parte degli scrittori
non avessero in ogni modo voluto essere accusatori o difensori del
Machiavelli, facendosi giudici non sempre imparziali della moralità e
del patriottismo di lui, piuttosto che veri biografi. A molti sembrava,
specialmente in Italia, che bastasse aver provato che egli amò la
libertà, l'unità e l'indipendenza della patria, per essere indulgenti
su tutto il resto, esaltarne le dottrine ed il carattere morale, anche
prima d'averli con diligenza e con critica esaminati, quasi che il
patriottismo fosse una prova sicura del genio politico e letterario, nè
venisse mai accompagnato da vizî e da colpe nella vita privata. Questo
doveva inevitabilmente promuovere opinioni contrarie, cui dettero
facile alimento le contradizioni più sopra notate. Così fu che, a poco
a poco, tutta la questione parve ridotta a sapere se il _Principe_ e
i _Discorsi_ erano stati scritti da un uomo onesto o disonesto, da
un repubblicano o da un cortigiano, quando invece si doveva cercar
di sapere che valore scientifico avevano le teorie in essi sostenute:
erano vere o erano false, contenevano o no verità nuove, facevano o no
avanzare la scienza? Nessuno vorrà negare che se le dottrine fossero
false, le virtù dello scrittore non le muterebbero in vere; come, se
fossero vere, non potrebbero i suoi vizî renderle false.

Certo non mancarono scrittori autorevoli, i quali intrapresero un esame
imparziale e razionale delle opere del Machiavelli; ma essi ci dettero
quasi sempre opuscoli storici o dissertazioni critiche, non vere e
proprie biografie. Occupati nell'esame filosofico delle dottrine, si
fermarono troppo poco ad esaminare i tempi ed il carattere dell'autore,
o ne parlarono solo, come se ogni disputa si potesse comporre dicendo,
che il Machiavelli ebbe la sua indole dal secolo in cui visse, e che
fedelmente ritrasse nei proprî scritti. Ma in un secolo v'è luogo per
molti uomini, molte idee, vizî e virtù diverse; nè possono i tempi
per sè soli spiegare tutto ciò che è opera, creazione personale del
genio. Lo studio di essi è tuttavia sempre necessario a chi vuol
conoscere e giudicare le dottrine di un pensatore, massime quando si
tratta d'un uomo come il Machiavelli, che tanto ricevette dalla società
in cui nacque, e tanta parte di sè pose ne' suoi libri. Ma io non
voglio qui prendere in esame i biografi ed i critici, dei quali dovrò
parlare altrove, assai spesso citandoli e valendomi delle loro opere.
Il mio scopo è ora solamente di dichiarare che non intendo essere nè
l'apologista, nè l'accusatore del Segretario fiorentino. Mi accinsi a
studiarne la vita, i tempi e gli scritti, per tentare di conoscerlo e
descriverlo quale fu veramente, con tutti i suoi meriti e demeriti, i
suoi vizî e le sue virtù.

Questo, è vero, può sembrare una strana presunzione, dopo i tentativi
fatti da uomini assai più autorevoli di me. Se non che i materiali
storici di recente pubblicati, e quelli che solamente ora son divenuti
accessibili a tutti, rendono oggi molto più agevole il risolvere
parecchi di quei dubbî che prima sembravano presentare difficoltà
insormontabili. È certo che pubblicazioni come, ad esempio, i dieci
volumi delle _Opere inedite_ del Guicciardini, i carteggi diplomatici
di quasi ogni provincia italiana, un numero infinito d'altri documenti,
per non parlare dei tanti scritti originali d'Italiani e stranieri,
hanno dissipato molte oscurità e contradizioni nella storia letteraria
e politica del Rinascimento italiano. Anche i rapidi progressi fatti ai
nostri giorni dalle scienze sociali, debbono rendere assai più agevole
determinare il valore intrinseco ed il carattere storico di quello
che molti chiamarono il Machiavellismo. E quanto alla persona stessa
del Segretario fiorentino, non poca luce posson dare le carte che,
dopo la sua morte, andarono alla famiglia Ricci, poi alla Biblioteca
Palatina di Firenze, dove per molto tempo vennero assai gelosamente
custodite, ed oggi sono nella Nazionale visibili a tutti, in parte
anzi già pubblicate. I signori Passerini e Milanesi, nei cinque
volumi[2] finora usciti alla luce della nuova edizione delle _Opere_,
da essi cominciata in Firenze, sono andati stampando dagli archivî e
dalle biblioteche fiorentine molti utili documenti. Restava nondimeno
ancora inesplorata una mole non piccola di carte preziosissime. Posso,
ad esempio, affermare che ascendono a parecchie migliaia le lettere
d'ufficio scritte di propria mano del Machiavelli, tuttavia inedite, e,
per quanto io sappia, da nessun biografo esaminate. In tali condizioni
adunque non mi parve addirittura presuntuoso l'accingersi a ritentare
la prova.

Se tutte le biografie dovessero aver sempre la medesima forma, io di
certo potrei meritar severo biasimo, per essermi, in alcune parti di
quest'opera, fermato assai lungamente a parlar dei tempi. Ma ho creduto
di dover preferire quella forma che meglio s'adattava alla natura del
soggetto. Si conosce così poco del Machiavelli in tutti gli anni nei
quali egli compiva i suoi studî giovanili, e s'andava formando la sua
propria indole, che io ho cercato di colmare, in qualche parte almeno,
la grave lacuna con un minuto esame della società e dei tempi in cui
egli visse. Mi sono quindi sforzato di esaminare come nel secolo
XV andasse sorgendo lo spirito del Machiavellismo, prima che egli
comparisse sulla scena a dargli l'impronta originale del suo genio, a
formularlo scientificamente. E dopo di avere, se così posso esprimermi,
studiato il Machiavelli prima del Machiavelli, mi sono finalmente
avvicinato a lui, quando egli comincia personalmente a divenir visibile
nella storia, ed ho cercato di studiarne, di conoscerne le passioni,
i pensieri, per quanto ho saputo e potuto, nei suoi proprî scritti, in
quelli degli amici più intimi e degli altri contemporanei. Non ho mai
tralasciato d'esaminare gli scrittori moderni, ma ho preferito sempre
fondarmi sull'autorità di coloro che più erano vicini ai fatti che
dovevo narrare.

Ma anche ciò ha contribuito non poco a dare una forma del tutto
speciale a questa biografia. Uno dei documenti più importanti a
conoscere la vita del Machiavelli sono di certo le _Legazioni_,
trovandosi in esse non solamente la storia fedele delle sue ambascerìe,
ma anche i primi germi delle sue dottrine politiche. Nondimeno, sebbene
tutto ciò fosse stato già da altri, specialmente dal Gervinus, più
volte avvertito, pure continuarono sempre ad esser poco lette, perchè
in esse l'autore è necessariamente costretto a ripetere assai spesso
le medesime cose, fermandosi di continuo sopra minuti particolari,
e perchè a farle universalmente intendere e gustare occorrerebbe
un comentario perpetuo sugli avvenimenti di cui ragionano o a cui
alludono. Io quindi, affinchè il lettore potesse assistere da sè, e
quasi vedere coi proprî occhi come nacquero e come s'andarono formando
le idee del nostro autore, ho dovuto riportare letteralmente od in
sunto molti de' suoi dispacci,[3] assai più che non avrei voluto e che
non giovi alla rapidità della narrazione, ma non più di quello che mi
parve necessario alla piena conoscenza del soggetto.

Complemento opportunissimo alle _Legazioni_ sono le lettere d'ufficio,
che il Machiavelli scrisse nella Cancelleria. Se le prime ci fanno
conoscere la sua vita politica fuori, le seconde ce la fanno conoscere
dentro la Repubblica. Moltissime di certo non hanno valore alcuno,
essendo semplici ordini dati ad uno o un altro Commissario, ripetendo
fino alla sazietà in fretta e furia le medesime cose. In altre però
rifulgono di tanto in tanto lo stile, il pensiero, l'originalità del
grande scrittore. La massima parte di esse restando, come abbiamo già
detto, ancora inedite, era pur necessario percorrerle ed esaminarle.
E però m'accinsi al lungo e spesso ingrato lavoro, copiandone o
facendone copiare qualche migliaio, molte citandone nelle note, di
altre riportando notevoli brani; solo alcune poche dètti integralmente
nell'_Appendice_, affinchè si potesse avere una chiara idea di ciò che
veramente sono. Ed anche questo fece procedere più lenta la narrazione.
Ma, per quanto io vi riflettessi e stessi in guardia contro me stesso,
non vi potei trovare rimedio alcuno. Passare sotto silenzio quello
che per tanti anni era stato il lavoro principale del Machiavelli,
non mi sembrava possibile; nè potevo parlare d'una sì vasta mole di
lettere inedite senza spesso citarle e darne qualche saggio, tanto
più non essendo sperabile che qualcuno mai s'accingesse a pubblicarle
tutte. Non starò qui ad enumerare i molti altri documenti che cercai
e che lessi: si vedrà facilmente dalle note. Ricorderò nondimeno
che, durante queste indagini, potei dare alla luce i tre volumi di
_Dispacci_ d'Antonio Giustinian,[4] i quali raccolsi e studiai, non
solamente perchè recavano nuova luce sui tempi di cui m'occupavo, ma
ancora perchè mi davano modo di porre accanto al Segretario ed Oratore
fiorentino uno dei principali ambasciatori della repubblica veneta, e
così paragonarli fra loro.

Quando nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, i Medici tornarono a
Firenze, la libertà fu spenta, ed il Machiavelli, uscito d'ufficio,
ricadde nell'oscurità della vita privata. La sua biografia allora
muta aspetto, dovendosi ridurre quasi esclusivamente all'esame delle
opere che scrisse, ed al racconto degli avvenimenti in mezzo ai quali
le compose. Ma tutto ciò formerà il soggetto del secondo volume, il
quale, mi duole di doverlo dire, si farà aspettare più lungamente che
non vorrei, essendo ancora lontano dal suo compimento.[5] Avrei certo
preferito di ritardare la stampa fino a quando avessi potuto dare alla
luce tutta l'opera. Ma nei lunghi anni nei quali andavo continuando
i miei studî, vidi pubblicar di continuo non solamente nuove
dissertazioni e biografie del Machiavelli, ma anche documenti spesso da
me già trovati e copiati, ed altri lavori già s'annunziano ora; sicchè,
arrivato alla fine di questo primo volume, deliberai di darlo alla
luce, senza più aspettare. È questa del resto un'usanza divenuta ormai
così generale, che spero di non dover esser biasimato, se anch'io me ne
giovo.

Debbo qui avvertire che per gli scritti del Machiavelli, mi sono valso
dell'edizione che porta la data d'Italia 1813, una delle migliori fra
quelle finora compiute. Ho però tenuto sempre a riscontro l'altra più
recente, incominciata in Firenze l'anno 1873, ma ancora lontana dal
suo compimento, e che ora ha perduto nel conte Passerini il principale
suo collaboratore. In questa si cercò di riprodurre più fedelmente
l'antica ortografia del Machiavelli, il che fu certo lodevole pensiero.
Ma nel riportare, come spesso dovetti fare, brani de' suoi scritti,
io ho creduto che certe forme puramente convenzionali e notissime
si potessero, senza danno, purchè con molta cautela e parsimonia,
tralasciare in un libro moderno, anche per non mutare troppo spesso e
troppo rapidamente la forma materiale dello scrivere. Nell'_Appendice_
mi sono invece attenuto sempre scrupolosamente all'antica ortografia.
Il lettore vedrà che ho dovuto più volte dissentire dai due eruditi,
i quali curarono la nuova edizione, massime per la importanza e pel
significato che vollero attribuire ad alcuni dei documenti da essi
pubblicati. Ma di ciò altrove; qui non intendo menomamente porre in
dubbio il merito che ebbero per la molta diligenza usata nel darli
alla luce, tanto più che, in ogni modo, sono documenti utilissimi al
biografo, ed io stesso me ne giovai di frequente.

V'è però una notizia errata, che essi dettero, e della quale debbo qui
necessariamente parlare. Nella _Prefazione_ al terzo volume, venuto
alla luce nel 1875, dopo aver deplorato la perdita di molte lettere del
Machiavelli, i nuovi editori aggiungevano: «È noto infatti che andarono
fuori d'Italia e per sempre i molti volumi delle sue lettere familiari,
che erano nelle case dei Vettori, venduti per fraudolento inganno d'un
prete a lord Guildford, e poi passati nelle mani di un signor Phillipps
inglese, il quale tenne, finchè visse, con grandissima gelosia
quelle ed altre rare cose che possedeva, tantochè si rifiutò di farle
esaminare, non che copiare, anche per la nuova edizione delle _Opere_
del Machiavelli, decretata nel 1859 dal Governo Toscano, il quale per
il marchese di Laiatico suo ambasciatore straordinario a Londra, ne lo
aveva fatto richiedere. Nè ora che egli, morendo, ha per testamento
lasciato quelle ed altre sue cose al Museo Britannico, possiamo
profittarne, perchè sono saltati fuori i suoi creditori, ed impediscono
che quel lascito abbia il suo effetto.» — Scrivere una biografia del
Machiavelli, senza prima cercare in ogni modo di vedere i molti volumi
di lettere familiari, delle quali con tanta certezza s'affermava
l'esistenza, non era possibile. Fatte dunque alcune indagini, trovai
che realmente erano da Firenze venuti nelle mani di lord Guildford
tre volumi di lettere manoscritte, date nel suo Catalogo a stampa
per lettere inedite del Machiavelli, e dichiarate anche un _tesoro
letterario_ d'inestimabile valore. Le aveva comprate poi il gran
collettore inglese di manoscritti d'ogni genere, sir Thomas Phillipps,
che le lasciò, con tutta la sua ricchissima biblioteca,[6] alla propria
figlia, la quale, maritata al reverendo signor E. Fenwick, trovasi ora
in Cheltenham, dove io andai, e così finalmente ebbi nelle mani i tre
_preziosi_ volumi. Il lettore capirà certo la mia maraviglia, quando
gli dirò che nell'aprirli dovetti quasi istantaneamente accorgermi,
che una sola di quelle lettere, sebbene neppur essa autografa, poteva
ritenersi del Machiavelli; tutte le altre certamente non eran di lui.

Questi tre volumi di antica scrittura, segnati nel Catalogo Phillipps
col numero 8238, hanno per titolo: _Carteggio originale di Niccolò
Machiavelli, al tempo che fu segretario della Repubblica fiorentina.
Inedito._ La prima lettera, senza nessuna importanza, è del 20 ottobre
1508, scritta in nome dei Dieci, ed a piè di pagina vi si trova il
nome _Nic.^s Maclavello_, messovi, secondo il solito, dal coadiutore
che copiava nei registri della Cancelleria. È la sola di cui si possa
credere che la minuta sia stata scritta dal Machiavelli, senza però
neppure averne l'assoluta certezza. Tutte le altre, a cominciare dalla
seconda del primo volume, vanno dal 1513, quando già il Machiavelli era
uscito d'ufficio, e i Medici erano tornati a Firenze, sino al 1526,
quando di certo egli non era stato ancora richiamato agli affari.
Esse sono tutte indirizzate a Francesco Vettori, che in quegli anni
fu ambasciatore a Roma ed altrove; sono scritte sempre in nome degli
Otto di Pratica, che successero ai Dieci di Libertà nel 1512, quando
il Machiavelli venne destituito. A piedi di molte pagine del registro
si leggono le iniziali _N. M._ Qualche volta invece vi si legge, più
o meno abbreviato, in modo però da non lasciare nessun dubbio, il nome
di Niccolò Michelozzi, che allora appunto era il Cancelliere degli Otto
di Pratica. La prima lettera adunque, cavata da un più antico registro
della Repubblica, fu messa in fronte a questi volumi, per ingannare il
troppo credulo compratore, il quale perciò le credette tutte di Niccolò
Machiavelli, sebbene, anche senza conoscerne la scrittura, avrebbe
assai facilmente, guardando solo alle date, potuto capire che non erano
di lui. E così, dopo aver fatto invano il lungo viaggio, esaminato che
ebbi il Catalogo della ricca biblioteca, preso qualche appunto da altri
manoscritti italiani, dovetti tornarmene a Firenze con la certezza che
il supposto epistolario del Machiavelli era un sogno.

Ed ora non mi resta che un'ultima parola. Assai spesso chi scrive
un libro ha, nello scegliere il soggetto, un segreto pensiero che
lo muove. Io sono stato mosso principalmente dal pensiero, che il
Rinascimento italiano, di cui il Machiavelli fu certo uno dei più
illustri rappresentanti, è il tempo in cui il nostro spirito nazionale
ebbe la sua ultima manifestazione, la sua ultima forma veramente
originali. Seguì poi un lungo sonno, da cui appena ci siamo svegliati.
Lo studio d'un tale periodo storico può quindi, se non m'inganno,
riuscire a noi doppiamente utile, facendoci non solo conoscere una
parte assai splendida della nostra antica cultura, ma dandoci ancora
più d'una spiegazione così dei vizî, contro i quali combattiamo
oggi, come delle virtù che ci aiutarono a risorgere. E la lezione
potrà essere ancora più utile, se lo storico non dimenticherà, che
il suo ufficio non è di bandire precetti di politica o di morale, ma
solo di sforzarsi a far rivivere il passato, dal quale è venuto il
presente, che da esso riceve lume ed ammaestramento continuo anche
per l'avvenire. Un tale pensiero in ogni modo è quello che più volte
m'infuse lena e mi diè coraggio, mantenendo in me sempre viva la fede
che, pure restando lontano dal mondo e chiuso fra i libri, io non
dimenticavo il debito che tutti noi, ciascuno secondo le sue forze,
oggi più che mai, abbiamo verso la patria.

  Firenze, 1877.



INTRODUZIONE


I.

IL RINASCIMENTO

È difficile trovare nella storia dell'Europa moderna un periodo che
abbia l'importanza di quello cui suol darsi, nella storia italiana,
il nome di Rinascimento. Posto fra il cadere del Medio Evo ed il
costituirsi delle società moderne, può dirsi che già cominci con Dante
Alighieri, il quale nelle sue opere immortali ci lasciò la sintesi
d'una età che muore, e ci annunziò il sorgere d'un'èra novella.
Questa, che è appunto il Rinascimento, s'iniziò davvero con Francesco
Petrarca e con gli eruditi, finì con Martino Lutero e la Riforma, la
quale alterò profondamente la storia anche dei popoli che restarono
cattolici, e portò di là dalle Alpi il centro di gravità della cultura
europea. Durante il periodo di cui ragioniamo, vedesi in Italia una
rapida trasformazione sociale, una grandissima operosità intellettuale.
Da per tutto tradizioni, forme, istituzioni antiche, che crollano
dinanzi alle nuove che sorgono. La scolastica cede il luogo alla
filosofia, il principio d'autorità cade innanzi alla libera ragione
ed al libero esame, che s'avanzano. Comincia lo studio delle scienze
naturali: con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si danno i
primi passi alla ricerca del metodo sperimentale; progrediscono il
commercio e l'industria; si moltiplicano i viaggi, e Cristoforo Colombo
scopre l'America. La stampa, trovata in Germania, diviene subito
un'industria italiana. L'erudizione classica si diffonde per tutto, e
l'uso della lingua latina, che sembra, per qualche tempo, tornata la
lingua universale dei popoli civili, pone l'Italia in stretta relazione
con l'Europa, che l'accetta a guida e maestra del sapere. Si creano
la scienza politica e l'arte della guerra; la cronaca cede il luogo
alla storia civile del Guicciardini e del Machiavelli; la cultura
antica rinasce, ed il poema cavalleresco sorge in mezzo ad altre ed
altre nuove forme di componimenti letterarî. Il Brunelleschi crea
un'architettura nuova, Donatello fa risorgere la scultura, Masaccio ed
una miriade di pittori toscani ed umbri apparecchiano, collo studio
della natura, la via a Raffaello ed a Michelangelo. Il mondo sembra
rinnovarsi e ringiovanirsi, illuminato dal sole della cultura italiana.

Ma in mezzo a così grande splendore si osservano strane ed
inesplicabili contradizioni. Questo popolo tanto ricco, industrioso,
intelligente, innanzi a cui l'Europa resta come estatica d'ammirazione,
va corrompendosi rapidamente. La libertà scomparisce e sorgono
tiranni per tutto; i vincoli della famiglia sembrano indebolirsi,
e il focolare domestico profanarsi: nessuno si fida più della fede
italiana. La nazione diviene politicamente e moralmente così debole,
che non può resistere ad alcun urto di potenza straniera; il primo
esercito che passa le Alpi, percorre la Penisola senza quasi colpo
ferire, e seguono altri, che vengono con uguale facilità a lacerarla
e calpestarla. Usi a sentire ogni giorno ripetere, che l'istruzione e
la cultura costituiscono la grandezza e misurano la forza dei popoli,
siamo naturalmente indotti a domandarci: come dunque l'Italia, in mezzo
a tanto splendore di lettere e di arti, s'indebolisce, si corrompe e
decade? È facile il dire: colpa degl'italiani, che, invece d'unirsi a
difesa comune, si lacerano fra loro. Ma perchè sono essi a un tratto
divenuti così colpevoli? L'Italia del Medio Evo non era stata più
divisa e più forte ad un tempo, le vendette e le guerre civili non
erano state più cieche e più sanguinose? Nè vale il dire che essa
s'era esaurita nelle lotte e nella grandezza raggiunta nel Medio Evo.
Può dirsi veramente esaurita una nazione nel momento in cui, con la
sua intelligenza ed operosità, trasforma la faccia del mondo? Invece
d'affaticarsi a formulare giudizî e sentenze generali, val meglio
fermarsi ad osservare e descrivere i fatti. Ed il fatto principale nel
secolo XV è questo: che le istituzioni medievali avevano in Italia
prodotto una società nuova ed un progresso civile tale, che esse si
trovarono a un tratto divenute insufficienti o anche dannose. Una
radicale trasformazione e rivoluzione era quindi inevitabile. Or fu nel
momento appunto, in cui questo generale sconvolgimento sociale seguiva
nella Penisola, che gli stranieri le piombarono addosso, e le resero
impossibile l'andare innanzi.

Il Medio Evo non conosceva quell'organismo politico che noi chiamiamo
Stato, che riunisce e coordina con norme precise le forze sociali. La
società era invece divisa in feudi e sotto-feudi, in Comuni grossi
e piccoli, ed il Comune non era altro che un fascio di associazioni
minori, malamente legate insieme. Al di sopra di sì vasta ed incomposta
mole stavano il Papato e l'Impero, che sebbene, essendo spesso in
guerra fra loro, crescessero il generale scompiglio, pur costituivano
allora la informe unità del mondo civile. Tutto ciò era mutato affatto
nel secolo XV. Da un lato le grandi nazioni cominciavano a formarsi,
da un altro l'autorità dell'Impero, circoscritta in Germania, era
in Italia poco più che una memoria del passato; ed i papi, occupati
a costituire un vero e proprio principato temporale, restando pur
capi della Chiesa universale, non potevano più pretendere al dominio
politico del mondo, e cercavano perciò divenire sovrani come gli altri.
In questo stato di cose il Comune, che aveva costituito la passata
grandezza d'Italia, si trovò in una condizione sostanzialmente nuova,
che fu troppo poco esaminata dagli storici.

Esso aveva ora ottenuto la tanto sospirata indipendenza, e non doveva
contare che sulle proprie forze; nelle sue guerre coi vicini non v'era
più da sperare o temere che s'interponesse un'autorità superiore.
Era quindi necessario estendere il proprio territorio, e rendersi
più forte, specialmente se, volgendo intorno lo sguardo, si osservava
che in tutta Europa s'andavano formando i grandi Stati e le monarchie
militari. Ma la costituzione politica del Comune era tale, che ogni
estensione del suo territorio faceva sorgere pericoli nuovi e così
gravi che ne mettevano a repentaglio l'esistenza. Poteva dirsi giunta
per esso un'ora funesta, nella quale ciò che più gli era necessario,
più lo minacciava. Il Comune medievale non conosceva il governo
rappresentativo, ma solo il governo diretto de' suoi liberi cittadini,
i quali era perciò necessario ridurre ad un numero assai ristretto,
se non si voleva cadere nell'anarchia. Il diritto di cittadinanza era
quindi un privilegio concesso solo ad alcuni di coloro che abitavano
dentro la cerchia delle mura. Firenze, che era la repubblica più
democratica dell'Italia, e che nel 1494 ebbe la sua più libera
costituzione, contava allora circa 90,000 abitanti, di cui solo 3200
erano veri e proprî cittadini.[7] Neppure i Ciompi, nel loro incomposto
tumulto, avevano preteso di dare la cittadinanza a tutti. E quanto al
contado, pareva già molto l'avere abolito la servitù; a nessuno sarebbe
mai venuto in mente di chiamarlo a parte del governo.

Questo stato di cose trovava la sua sanzione non solo negli statuti,
nelle leggi e nelle consuetudini esistenti, ma nelle convinzioni
radicate e profonde degli uomini più illustri. Dante Alighieri, che
aveva preso non piccola parte alla legge tanto democratica degli
_Ordinamenti di Giustizia_, al tempo di Giano della Bella, rimpiange
nel suo poema i tempi nei quali il territorio del Comune si stendeva
solo fino a pochi passi oltre le mura, e gli abitanti delle vicine
terre di Campi, Figline e Signa non s'erano venuti a mescolare con
quelli di Firenze; perchè

    Sempre la confusion delle persone
      Principio fu del mal della Cittade.[8]

Ed il Petrarca, che sognava anch'egli l'antico Impero, ed era tanto
entusiasta di Cola di Rienzo, raccomandava che, nel riordinare la
repubblica romana, se ne affidasse il governo ai soli cittadini,
escludendone come stranieri gli abitanti del Lazio, ed anche gli Orsini
ed i Colonna, perchè, sebbene romani, discendevano, secondo lui, da
stranieri.[9]

Quando adunque il Comune ingrandiva il suo territorio, sottomettendo un
altro Comune, questo, anche se governato con mitezza, si trovava d'un
tratto escluso da ogni vita politica, ed i suoi principali cittadini
se ne andavano esuli e raminghi per il mondo. Vedere un Pisano, un
Pistoiese nei Consigli della repubblica fiorentina, sarebbe stato
allora come il vedere oggi un cittadino di Parigi o Berlino sedere
fra i deputati del Parlamento italiano. Si preferiva quindi cadere
sotto una monarchia, perchè in essa almeno tutti i sudditi erano nelle
medesime condizioni, ed agli ufficî pubblici poteva ogni abitante, di
qualunque provincia, partecipare. Il Guicciardini infatti osservava al
Machiavelli, quando questi immaginava una grande repubblica italiana,
che ciò sarebbe stato tutto a vantaggio d'una sola città, ed a rovina
delle altre; perchè la repubblica non concede il benefizio della
sua libertà «a altri che a' suoi cittadini proprî;» la monarchia
invece «è più comune a tutti.»[10] E non v'era spavento che potesse
uguagliare quello provato dalle repubbliche italiane, quando Venezia,
che pur governava i sudditi suoi con maggiore libertà, volgendosi
alla terraferma, sembrò aspirare al dominio della Penisola. Avrebbero
preferito non solo la monarchia, ma ancora lo straniero, che poteva
lasciar qualche locale indipendenza, cosa allora non sperabile in
Italia da una repubblica. Cosimo dei Medici, quando aiutò Francesco
Sforza a divenir signore di Milano, salvò, secondo il Guicciardini,
la libertà di tutta Italia, che sarebbe altrimenti caduta sotto
Venezia.[11] E Niccolò Machiavelli, che pur sospirava così spesso
la repubblica, in tutte le sue lettere d'ufficio, in tutte le sue
legazioni, parla sempre di Venezia come del maggior nemico che avesse
la libertà d'Italia.

Fra queste condizioni e queste convinzioni, era impossibile sperare che
il Comune potesse, formando una forte repubblica, riunire l'Italia. Si
poteva sperare in una confederazione o in una monarchia; ma la prima
supponeva già un governo centrale diverso da quello dei Comuni, nel
quale la città non fosse più lo Stato, e aveva contro di sè i papi
ed i re di Napoli. La monarchia, invece, trovava contro di sè, da un
lato l'antico amore di libertà, che aveva reso gloriosa l'Italia,
e da un altro i papi, che, messi nel centro della Penisola, troppo
deboli per poterla riunire, abbastanza forti per impedire che altri
la riunisse, di tanto in tanto chiamavano gli stranieri, i quali
venivano a sovvertire ogni cosa. Per tutte queste ragioni il Comune,
che aveva formato l'antica forza e grandezza d'Italia, sopravvisse come
a sè stesso, in presenza dei nuovi problemi sociali, che sorgevano ad
ogni piè sospinto; fra i mille pericoli, che scaturivano come dal suo
proprio seno.

Esso aveva proclamato la libertà e l'uguaglianza; era quindi naturale
che il basso popolo, il quale trovavasi escluso dal governo, dopo
avere coi ricchi mercanti combattuto e vinto il feudalismo, non
potesse rimanere contento. Nè gli abitanti del contado, che pure
erano colle armi chiamati a difendere la patria, tolleravano più di
buon animo d'essere esclusi da ogni ufficio pubblico, da ogni diritto
di cittadinanza. E quando il territorio si estendeva, e nuove città
venivano conquistate, la moltitudine degli oppressi cresceva, e le
passioni s'infiammavano, perchè la sproporzione fra il piccolo numero
dei governanti e quello sempre maggiore dei governati aumentava, ed
ogni equilibrio riusciva affatto impossibile. Un abile tiranno, che
fosse sorto allora, avrebbe trovato in suo appoggio la moltitudine
infinita degli scontenti, ai quali sarebbe apparso come un liberatore o
almeno come un vendicatore.

Se poi dalle condizioni politiche volgiamo lo sguardo alle sociali,
osserveremo una trasformazione non meno grave, nè meno pericolosa. I
Comuni del Medio Evo, chi li guarda da lontano, appariscono già come
un piccolo Stato, nel senso moderno della parola; ma erano invece
un agglomerato di mille associazioni diverse: Arti maggiori ed Arti
minori, Società delle torri, Consorterie, Leghe, ordinate tutte come
altrettante repubbliche, con le loro assemblee, statuti, tribunali,
ambasciatori. Esse erano qualche volta più forti dello stesso governo
centrale, di cui facevano le veci, quando, fra le continue rivoluzioni,
questo si trovava come momentaneamente soppresso, il che di tanto
in tanto avveniva. Si direbbe quasi che la forza del Comune fosse
tutta nelle associazioni, che lo dividevano e lo governavano. I
cittadini erano ad esse così tenacemente legati, che spesso sembravano
combattere a difesa della repubblica, solo perchè tutelava l'esistenza
dell'associazione cui essi appartenevano, ed impediva che venisse
oppressa dalle altre.

Il Medio Evo è stato perciò a giusta ragione chiamato un'età di
consorterie e di caste. Il numero e la varietà grande di esse
produssero una varietà infinita di caratteri e di passioni, ignota al
mondo antico; ma l'indipendenza dell'uomo moderno non era anche nata,
perchè l'individuo restava come assorbito nella casta, in cui e per
cui viveva. Infatti, per lunghissimo tempo la storia italiana ci tace
quasi del tutto i nomi dei politici, dei soldati, degli artisti e dei
poeti, che fondarono e difesero i Comuni; crearono le istituzioni, le
lettere, le arti. Sono Guelfi e Ghibellini, Arti maggiori e minori,
poeti vaganti, maestri comacini, sempre associazioni o partiti, non mai
individui. Le stesse grandi figure dei papi e degl'imperatori ricevono
la loro importanza, meno dal proprio carattere personale, che dal
sistema e dalla istituzione cui appartengono e che rappresentano.

Tutto ciò scomparisce rapidamente nel secolo XIV. La figura colossale
di Dante si stacca dal fondo medievale, in mezzo a cui vive ancora,
ed egli si vanta orgogliosamente d'essersi fatta parte per sè stesso.
I nomi dei poeti, dei pittori, dei capi di parte si moltiplicano
d'ora in ora, e i caratteri individuali si determinano, si disegnano
nettamente, e si separano dalla folla. Noi assistiamo ad una generale
trasformazione di tutta la società italiana, la quale, dopo avere
distrutto il feudalismo e proclamata l'uguaglianza, si trova obbligata
a decomporre le associazioni che l'avevano costituita. E ciò si
vede assai più chiaro che altrove in Firenze, dove gli _Ordinamenti
di Giustizia_ (1293) abbattono i nobili e li cacciano dal governo;
sopprimono alcune delle associazioni e rendono impossibili le
consorterie; pongono per la prima volta alla testa del Comune un
gonfaloniere.[12] La necessità di cominciare a costituire l'unità
dello Stato moderno scaturiva naturalmente dalla forma sempre più
democratica che aveva preso il Comune; questo era anzi il grande
problema che doveva risolvere l'Italia del secolo XV. Ma il periodo di
passaggio e di trasformazione era pieno di mille pericoli, perchè le
antiche istituzioni si decomponevano prima che le nuove sorgessero;
l'individuo, abbandonato a sè stesso, si trovava dominato solo
dall'interesse personale e dall'egoismo: la corruzione dei costumi
diveniva inevitabile.

La moralità del Medio Evo era fondata principalmente sugli stretti
vincoli della famiglia e della casta cui si apparteneva. Di questi
vincoli le leggi e le consuetudini erano state in mille modi gelose
custodi: mantenevano la eredità nelle famiglie; impedivano che i
matrimonî la portassero fuori del Comune; rendevano difficilissimi
quelli fra persone non solo di diverso Comune, ma di diverso partito
o consorteria. Di qui una grande comunanza d'interessi, le affezioni
tenaci e i forti sacrifizî nel seno della casta, le gelosie e spesso
gli odî, le vendette contro i vicini. A poco a poco tutto questo
scomparve per le riforme politiche, che spezzarono i vecchi legami,
per la cresciuta uguaglianza, pel continuo prevalere del diritto
romano imperiale, che rendeva la donna meno sottoposta alla tutela de'
suoi. E nel medesimo modo in cui il Comune s'era a un tratto trovato
abbandonato a sè stesso, per la cessata supremazia dell'Imperatore e
del Papa, il cittadino, sciolto da ogni vincolo, si trovò isolato e
costretto a fare assegnamento sulle sole sue forze. Esso quindi non
poteva più sentire l'antico interesse nel destino de' suoi vicini,
che non s'occupavano più di lui; il suo avvenire, il suo stato nel
mondo dipendeva unicamente dalle sue qualità individuali. Così si
vide, in un medesimo tempo, l'egoismo impadronirsi rapidamente degli
animi, e la personalità umana svolgersi sotto forme sempre più varie e
nuove. Non solo si moltiplicano ora i nomi degl'individui, e ambiziosi
capi di parte sorgono per tutto; ma le guerre intestine dei Comuni
sembrano mutarsi in guerre personali; le città si dividono secondo
i nomi dei più potenti e turbolenti; le famiglie stesse si scindono
e si lacerano, perchè gli uomini non sanno sottostare più a nessun
vincolo. I pregiudizi, le tradizioni, le virtù e i vizî del Medio Evo
scompariscono affatto, per dar luogo ad un'altra società, ad altri
uomini.

Chi osserva ora la doppia mutazione che han subita le nostre
repubbliche, s'accorge come da un lato, secondo che esse ingrandivano
il proprio territorio, divenivano internamente più deboli, e sentivano
sempre maggiore bisogno d'un governo centrale più forte e più uguale
verso tutti; e come da un altro lato, secondo che le consorterie si
scioglievano, aumentava il numero degli ambiziosi e degli audaci, i
quali non avevano altro scopo, che d'essere primi e soli a comandare.
Queste ambizioni, manifestandosi nel tempo appunto in cui il Comune
era portato naturalmente verso la forma monarchica, costituivano un
pericolo gravissimo; e così, come v'era stato un giorno nel quale si
videro in Italia sorgere per tutto i Comuni, era adesso giunta l'ora in
cui si vedevano per tutto sorgere i tiranni.

Il tiranno italiano però, con molti vizi, aveva una propria originalità
di carattere, una vera importanza storica. A lui non era necessario
discendere di nobile o potente famiglia, e neppure essere primogenito
della sua casa. Un mercante, un bastardo, un venturiero qualunque
potevano comandare un esercito, fare una rivoluzione, divenire
tiranni, se avevano l'audacia e l'arte necessarie a riuscire. Le
storie ci raccontano, a questo proposito, strane avventure, ed i
novellieri italiani, che sì fedelmente descrivono i costumi del
tempo, ridono spesso d'uomini da nulla, i quali si ponevano in mente
di farsi tiranni, come quel calzolaio che, invece di fare scarpe,
voleva, secondo narra il Sacchetti, «tor la terra a messer Ridolfo da
Camerino.»[13]

Il secolo XV fu giustamente chiamato il secolo degli avventurieri e
dei bastardi: Borso d'Este a Ferrara, Sigismondo Malatesta a Rimini,
Francesco Sforza a Milano, Ferdinando d'Aragona a Napoli, molti e molti
altri signori o principi erano bastardi. Nessuno di essi si sentiva
più legato da alcuna convenzione o tradizione; tutto dipendeva dalle
qualità personali di coloro che osavano tentare la fortuna, dagli
amici e aderenti che sapevano guadagnarsi. Costretti ad impadronirsi
del potere in mezzo a mille pericoli, contro mille emuli, si trovavano
come in uno stato di guerra continua, nel quale tutto era permesso:
nessuno scrupolo vietava la violenza, il tradimento ed il sangue. Il
male, per questi tiranni, non aveva altri limiti se non quelli imposti
dalla opportunità e dalla utilità personale; doveva essere un mezzo
adatto a conseguire il fine desiderato. Di là da questi confini era
non una colpa, ma una follìa indegna d'un uomo politico, perchè non
portava alcun vantaggio. La loro coscienza non conosceva rimorsi, la
loro ragione calcolava e misurava tutto. Ma una volta superate le
difficoltà, e riusciti nell'intento, i pericoli non cessavano per
questo. Bisognava lottare contro lo scontento fierissimo di coloro
che, per lunga consuetudine, s'erano usati a non saper vivere senza
partecipare al governo; contro le ire feroci di coloro che avevano
anch'essi aspirato alla tirannide, ed erano stati prevenuti o vinti.
Se colla forza si vinceva un tumulto popolare, i pugnali s'appuntavano
nelle tenebre da ogni lato. E le congiure erano allora più crudeli,
perchè assumevano il carattere di vendette personali; s'ordivano fra
gli amici, nella famiglia stessa: si vedevano i più stretti parenti,
anche i fratelli, contendersi il trono col ferro o col veleno. Così il
tiranno italiano poteva dirsi condannato a riconquistare ogni giorno
il suo regno; e pur di ottenere questo fine, esso credeva giustificato
ogni mezzo.

In sì misero stato di cose, non bastavano il coraggio personale, il
valor militare e una coscienza senza rimorsi; bisognava avere anche
una grande accortezza, una fine astuzia, una profonda conoscenza degli
uomini e delle cose, sopra tutto un perfetto dominio delle proprie
passioni. Bisognava studiare i fenomeni sociali come si studiano i
fenomeni della natura, non avere alcuna illusione, fondarsi solo sulla
realtà delle cose. Bisognava conoscere a fondo il proprio Stato e gli
uomini in mezzo ai quali si viveva, per poterli dominare; trovare la
nuova forma di governo; riordinare, in mezzo alle rovine del passato,
l'amministrazione, la giustizia, la polizia, le opere pubbliche, ogni
cosa. Il potere, in sostanza, si concentrò allora tutto nel tiranno,
e l'unità del nuovo Stato nacque come una creazione personale di lui.
E con lui nascevano la scienza e l'arte di governo; ma si cominciava
ancora a diffondere quella opinione, che divenne poi un errore assai
generale e funesto, che cioè le leggi e le istituzioni siano un trovato
dell'uomo politico, non già un resultato naturale della storia, dello
svolgimento sociale e civile dei popoli. Pel Medio Evo lo Stato e
la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla potevano
la ragione e la volontà dell'uomo; pel Rinascimento, invece, tutto
era opera dell'uomo, che se non riusciva, doveva dolersi prima di se
stesso, e poi della fortuna, a cui si dava allora grandissima parte nel
destino delle cose umane.

In un paese diviso e suddiviso come l'Italia, queste vicende si
moltiplicavano e ripetevano per tutto; ed è facile immaginarsi quanto
dovessero contribuire alla corruzione del paese, e in quanti modi
diversi. Sorgevano i tiranni in mezzo alle repubbliche, ai papi, ai re
di Napoli; e gelosi tutti gli uni degli altri, ricorrevano all'amicizia
dei vicini o degli stranieri, cercando indebolire o dividere i nemici.
Così le trame e gl'intrighi crescevano all'infinito; e nello stesso
tempo si formava un intreccio singolare d'interessi politici, che
moltiplicava le relazioni fra i diversi Stati; faceva sorgere in Italia
la prima idea d'un equilibrio politico; dava alla nostra diplomazia
un'attività, una intelligenza, un'accortezza meravigliose. Fu allora
un tempo in cui ogni Italiano sembrava un diplomatico nato: il
mercante, il letterato, il capitano di ventura sapevano presentarsi e
discorrere ai re ed agl'imperatori con tutta la conoscenza delle forme
convenzionali, con un acume ed una penetrazione che facevano restare
ammirati. I dispacci dei nostri ambasciatori furono uno dei più grandi
monumenti della storia e letteratura di quel tempo. Primeggiavano i
Veneziani pel senno pratico e l'osservazione dei fatti, i Fiorentini
per la eleganza del dire e l'acume con cui esaminavano, intendevano
i caratteri; ma tutti gli altri erano emuli non indegni di quelli.
L'arte del dire e dello scrivere divenne così una potenza formidabile,
acquistò una importanza nuova fra gl'italiani.

Si videro allora dei soldati di ventura, che non si movevano per
minacce, per preghiere o pietà, cedere ai versi di un erudito. Lorenzo
dei Medici, andando a Napoli, persuadeva coi suoi ragionamenti Ferrante
d'Aragona a smettere la guerra e fare alleanza con lui. Alfonso il
Magnanimo, prigioniero di Filippo Maria Visconti, quando tutti lo
credevano morto, fu invece liberato con onore, perchè, secondo il
Machiavelli, aveva saputo persuadere a quel tiranno cupo e crudele,
che gli tornava più conto avere gli Aragonesi che gli Angioini a
Napoli, concludendo: Vuoi tu piuttosto soddisfare ad un tuo appetito
che assicurarti lo Stato?[14] Nella rivoluzione promossa a Prato da
Bernardo Nardi, questi aveva, secondo lo stesso Machiavelli, già messo
il capestro al Podestà fiorentino per impiccarlo, quando si lasciò
dagli accorti ragionamenti di lui persuadere a desistere, e così nulla
più gli potè riuscire.[15] Simili fatti possono essere qualche volta
esagerati o anche inventati; ma il vederli tante volte ripetuti e
creduti, prova quali erano le idee e l'indole di quegli uomini.

Non è perciò da meravigliarsi, se anche i tiranni studiavano e
proteggevano con sì grande ardore le arti, le lettere, la cultura
sotto ogni sua forma. Non era solo un sottile accorgimento di governo,
un mezzo per deviare dalla politica l'attenzione del popolo; era una
necessità della loro condizione, un bisogno vero e reale del loro
spirito. Una nota diplomatica abilmente scritta, un discorso accorto
solevano risolvere le più gravi questioni politiche. A chi il tiranno
italiano doveva il proprio Stato, se non al suo ingegno? E come poteva
essere indifferente alle arti che lo educano e lo accrescono? Le più
felici ore di riposo dagli affari di Stato, le passava tra i libri, i
letterati e gli artisti. Il museo e la biblioteca tenevano per lui il
posto che presso molti signori feudali del settentrione, tenevano la
scuderia e la cantina; tutto ciò che poteva coltivare o ingentilire lo
spirito era un elemento necessario alla sua esistenza; nel suo palazzo
si formavano il perfetto cortigiano, la raffinatezza dei modi del
gentiluomo moderno.

V'era però un singolare contrasto negli uomini di quel tempo, un
contrasto che ci sembra spesso un enimma inesplicabile. Noi possiamo
perdonare al Medio Evo, tanto diverso da noi, le sue selvagge passioni
ed i suoi delitti, o almeno possiamo comprenderli; ma vedere degli
uomini, che discorrono e pensano come noi; che sono rapiti con la più
spontanea sincerità innanzi ad una Madonna del Beato Angelico o di Luca
della Robbia, innanzi alle aeree curve dell'architettura dell'Alberti
e del Brunelleschi; che si mostrano disgustati da ogni atto appena
grossolano, da un gesto che non sia della più perfetta eleganza;
e vederli abbandonarsi ai più atroci delitti, ai più osceni vizî;
apparecchiare il veleno per cacciar dal mondo un rivale o un parente
pericoloso, questo è quello che non comprendiamo. Era un periodo di
transizione, in cui si direbbe che le passioni ed i caratteri di due
età diverse si trovavano fra loro come innestati, per formare innanzi
ai nostri sguardi una sfinge misteriosa, che ci maraviglia e quasi ci
spaventa. Verso di essa noi siamo troppo severi, quando dimentichiamo
che un secolo non può essere giudicato colle norme e i criterî di un
altro.

Ovunque noi rivolgiamo lo sguardo, vediamo sotto forme diverse
riprodursi i medesimi fatti. La milizia del secolo XV anch'essa
non è più quella del Medio Evo, ma inizia la moderna, da cui pur
tanto differisce. Al tempo dei Comuni, le guerre s'erano fatte con
fanti leggermente armati: il mercante e l'artigiano ogni primavera
indossavano la corazza, ed uscivano fuori delle mura a combattere
i castelli baronali e le terre vicine, per poi tornare alle loro
officine. Pochissima importanza aveva la cavalleria, formata il più
dai nobili. Ma col tempo le cose mutarono affatto. Le guerre divennero
assai più complicate, e la forza degli eserciti passò nella cavalleria
pesante o, come dicevano allora, negli uomini d'arme. Ognuno di
essi era seguito da due o tre cavalieri, che portavano la sua grave
armatura, di cui egli ed il cavallo di battaglia si coprivano solo
nel momento dell'azione, perchè era così pesante, che, se con essa
cadevano a terra, non si rialzavano più senza aiuto. E questa specie di
torre corazzata spingeva innanzi una lunghissima lancia, colla quale
atterrava il fantaccino prima che esso, coll'alabarda o la spada,
potesse recare alcuna offesa. Uno squadrone di tale cavalleria bastava
a sbaragliare un esercito di fanti, fino a che la invenzione della
polvere e il perfezionamento delle armi da fuoco non vennero più tardi
a trasformar di nuovo l'arte della guerra. I Fiorentini se ne avvidero
a Montaperti (1260), quando pochi cavalieri tedeschi uniti agli esuli
ghibellini, posero in rotta il più forte esercito di fanti che si fosse
mai visto in Toscana. Ed a Campaldino (1289) i fanti, per abbattere gli
uomini d'arme, dovettero avanzarsi sotto i loro cavalli e sventrarli.
Questo nuovo modo di guerreggiare riuscì funesto alle nostre
repubbliche. L'uomo d'arme doveva educarsi con un lungo tirocinio, un
esercizio continuo; come potevano l'artigiano ed il mercante avere il
tempo da ciò? Eserciti stanziali non v'erano allora, e l'aristocrazia,
che sola poteva educarsi a vivere nelle armi, era stata nei Comuni
italiani distrutta. Che fare adunque? Si ricorse agli stranieri, e
cominciarono i soldati mercenarî.

Fuori d'Italia l'aristocrazia era sempre potentissima, e però gli
uomini che vivevano nelle armi, abbondavano: erano appunto nobili
seguìti dai loro vassalli. Ogni volta che gli Angioini ritentavano la
loro eterna impresa di Napoli, o gli Spagnuoli facevano qualche nuova
scorrerìa, restavano, dopo la guerra, soldati e drappelli sbandati,
che, vaghi d'avventure, cercavano e trovavano servizio presso i
signori o le repubbliche. I primi arrivati furono subito di richiamo
agli altri, perchè le paghe erano grosse, e lo straniero trovava più
facile preda e vittoria, per la mancanza fra noi d'uomini d'arme.
E cominciarono a formarsi le compagnie di ventura, che mettevano a
prezzo la propria spada al maggiore offerente. Esse divennero subito
minacciose, insolenti, e dettarono leggi ad amici ed a nemici. Ma
gl'Italiani più tardi s'arrolarono alla spicciolata sotto queste
bandiere, ed allettati da questo nuovo genere di vita, crebbero tanto
di numero, e così bene riuscirono, che si provarono poi a costituire
compagnie nazionali. Non mancava invero fra noi la materia per formare
capitani e soldati. Che cosa dovevano fare tutti quei capi di parte,
che erano stati vinti nei loro ambiziosi disegni da più ambiziosi
o fortunati rivali? Essi correvano là dove trovavano rizzata una
bandiera di ventura, e s'educavano alle armi, per comandare poi una
squadra o una compagnia. I più piccoli tiranni, servendo sotto un
capo di reputazione, o formando una compagnia, trovavano modo di
difendere il proprio Stato e d'ingrandirlo. Quando una repubblica era
vinta e sottomessa da un'altra, i cittadini che l'avevano governata e
poi difesa invano, emigravano qualche volta in massa, per correre il
mondo come soldati di ventura, e cercavano nell'armi quella libertà
che avevano perduta in casa. Così fecero i Pisani, quando la loro
repubblica cadde sotto i Fiorentini; così altri moltissimi. Il contado
dava buon numero di soldati; ed alcune provincie, come la Romagna, le
Marche e l'Umbria, dove il disordine era tale che gli uomini sembravano
vivere di rapine, di vendette e di brigantaggio, furono addirittura un
vivaio e mercato di capitani e soldati di ventura.

Queste compagnie non si possono dire una istituzione del Medio Evo, e
neppure una istituzione moderna. Proprie d'un periodo di transizione,
si compongono dei rottami di tutte le vecchie istituzioni, ora
distrutte o cadenti, e sono una grande calamità; ma lo spirito del
Rinascimento italiano si manifesta anche in esse, che ne ricevono e ne
determinano sempre più il carattere. Le nostre, che subito cominciarono
ad aver vittoria contro le straniere, specialmente quando Alberico da
Barbiano creò la nuova arte della guerra, presero una forma, ebbero
un carattere proprio e diverso dalle straniere. Queste, infatti,
erano comandate da un Consiglio di capi, ognuno dei quali aveva molta
autorità sopra i suoi uomini, che solevano essere, in parte almeno,
suoi vassalli, i quali all'occorrenza lo seguivano, quand'egli voleva
separarsi dagli altri. In Italia, invece, l'importanza e la forza della
compagnia dipesero affatto dal valore e dal genio militare di chi la
comandava e quasi la personificava; i soldati obbedivano alla volontà
suprema del capo, senza però essere legati a lui da alcuna fedeltà o
sottomissione personale, pronti ad abbandonarlo per un capitano più
famoso o per una paga maggiore. La guerra divenne l'opera d'una mente
direttrice, l'esercito fu unito dal nome e dal valore del capitano, la
battaglia fu come una sua creazione militare.

Così si formò la scuola d'Alberico da Barbiano, cui tennero dietro
quelle di Braccio da Montone, degli Sforza, dei Piccinini e di molti
altri, gli uni formandosi sotto la guida e disciplina degli altri.
Il capitano italiano creava la scienza e l'arte militare, come il
principe creava la scienza e l'arte di governare. Nell'uno e nell'altro
l'ingegno e la personalità si manifestavano in altissimo grado;
nell'uno e nell'altro mancava quella forza morale, che sola può dare
stabilità vera alle opere dell'uomo. Nella compagnia, più che altrove,
il capitano era sciolto da tutti i vincoli convenzionali del Medio Evo;
la sua fama e la sua potenza dipendevano unicamente dal suo valore e
dal suo ingegno. Muzio Attendolo Sforza, uno dei più temuti capitani
del suo tempo, divenuto anche gran contestabile del regno di Napoli,
aveva in origine coltivato i campi, e cominciò la sua vita militare
col custodire e condurre i cavalli. Il suo bastardo Francesco fu duca
di Milano. Il Carmagnola, che comandò i più formidabili eserciti di
Venezia, e fu signore di molte terre, era stato in origine guardiano
di vacche. Niccolò Piccinini, prima di diventare capitano famoso,
era stato ascritto all'arte dei macellai in Perugia. Nè ciò recava
la più piccola maraviglia ad alcuno. La compagnia era il campo aperto
all'attività individuale; in essa comandavano solo la forza, la fortuna
e l'ingegno; non v'erano vincoli tradizionali nè morali di sorta. La
guerra si faceva senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria,
passando, per danari o promesse, dall'amico al nemico. L'onor militare,
la fede ai patti giurati, la fedeltà alla propria bandiera, tutto
ciò era ignoto al capitano di ventura, che avrebbe trovato puerile e
ridicolo il lasciarsi da questi ostacoli fermare nel cammino intrapreso
a costituire la propria fortuna e potenza, unico scopo alla vita.

Sotto molti aspetti la sua sorte ed il suo carattere somigliavano
a quelli del tiranno italiano. Alla testa di un'amministrazione
complicata e difficile, doveva ogni giorno pensare a raccogliere
nuovi soldati, per riempire i vuoti che facevano nelle sue file, non
tanto il ferro nemico, quanto la continua diserzione, e trovare ogni
giorno i danari, coi quali pagare, nella pace e nella guerra, i suoi
uomini. Egli era in continua relazione cogli Stati italiani, per
cercare condotte, avere danari colle minacce o colle promesse, dare
ascolto a coloro che, con maggiori offerte, volevano levarlo al nemico.
Pareva in sostanza quasi principe d'una città che si moveva di paese
in paese, il che non la rendeva di certo più facile ad amministrare o
governare; ed al pari del tiranno, viveva in continui pericoli, nella
pace non meno che nella guerra. Egli era minacciato dalle gelosie degli
altri capi di bande o compagnie; dalle ambizioni dei sottoposti, che
spesso tramavano congiure contro di lui; dalla mancanza di condotte,
che, lasciandolo senza danari, poteva sciogliere il suo esercito. La
nessuna sicurezza della sua fede teneva gli Stati che serviva sempre
in sospetto, e dal sospetto facilmente si passava alle vie di fatto,
testimonî il Carmagnola e Paolo Vitelli, improvvisamente presi e
decapitati, l'uno dai Veneziani, l'altro dai Fiorentini, alla testa dei
cui eserciti combattevano. Singolare era poi vedere questi uomini, il
più delle volte di bassa origine e senza cultura, circondati in campo
da ambasciatori, e da poeti, da eruditi, che leggevano loro Livio e
Cicerone, e nei propri versi li paragonavano sempre a Scipione, ad
Annibale, a Cesare o Alessandro. Quando conquistavano per proprio conto
una terra, o la ricevevano in cambio di servigi prestati, il che pur
seguiva qualche volta, erano addirittura capitani e principi ad un
tempo.

La guerra divenne allora per gli Stati italiani una specie di
operazione diplomatica e finanziaria: vinceva chi sapeva trovare più
danari, procurarsi più amici, meglio lusingare e pagare i capitani più
reputati, la cui fedeltà si alimentava solo con nuovi danari o nuove
speranze. Ma il vero spirito militare andò presto decadendo in questi
soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, coi quali
potevano essere domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era più la
vittoria, ma la preda. Più tardi le compagnie di ventura scomparvero
affatto cedendo il luogo agli eserciti stanziali, cui avevano
apparecchiato la via; ma esse lasciarono dietro di loro la memoria
di grandi calamità, durante le quali gl'Italiani dettero prova di
molto ingegno e molto coraggio; fondarono la nuova arte della guerra;
manifestarono una varietà infinita di attitudini e di qualità militari;
produssero una gran moltitudine di capitani, e pure sbandarono
indebolendo e corrompendo sempre di più.

Nelle lettere, meglio che altrove, si vede chiara la generale
trasformazione che seguiva in quel tempo. Gli storici deplorano
generalmente, e sembrano non comprendere per qual ragione gl'Italiani,
dopo avere creata una così splendida letteratura nazionale con la
_Divina Commedia_, il _Decamerone_ ed il _Canzoniere_, deviassero
dal cammino gloriosamente percorso, volgendosi alla imitazione degli
antichi, disprezzando quasi la propria lingua, e rimettendo in onore
l'uso del latino. Ma leggendo le opere di Dante, del Boccaccio, del
Petrarca, si vede subito che aprirono essi la via per cui il secolo
XV entrò. Nella _Divina Commedia_ l'antichità riceve continuamente
un posto d'onore, ed è quasi santificata da un'ammirazione senza
limiti; nel _Decamerone_ il periodo latino già trasforma e sconvolge
il periodo italiano; il Petrarca è addirittura il primo degli eruditi.
Chi poi paragona gli scrittori italiani del Trecento con quelli
che compariscono sul finire del secolo XV e sul cominciare del XVI,
s'accorge subito, che il tempo speso in questo mezzo sui classici,
non è andato perduto. Leggendo infatti, non dirò i _Fioretti di
San Francesco_ e le _Vite_ del Cavalca, ma il _De Monarchia_ ed il
_Convivio_ di Dante, anche alcuni canti della _Divina Commedia_,
noi dobbiamo come trasportarci in un altro mondo: l'autore assai di
frequente ragiona ancora al modo scolastico, non osserva e non vede il
mondo come lo vediamo noi. Se invece apriamo le opere del Guicciardini,
del Machiavelli e dei loro contemporanei, troviamo degli uomini che,
anche avendo opinioni diverse dalle nostre, pensano o ragionano come
noi. La scolastica, il misticismo, l'allegoria del Medio Evo sono
scomparsi per modo che sembra quasi se ne sia perduta la memoria. Siamo
sulla terra, in mezzo alla realtà, con uomini che non guardano il mondo
attraverso alcun velo fantastico di mistiche illusioni, ma con i propri
occhi, con la propria ragione, senza essere schiavi d'alcuna autorità.
E così vien fatto di chiedere: in che modo gli eruditi del secolo
XV, tornando verso gli antichi, poterono scoprire un mondo nuovo,
simili quasi, come fu detto, al Colombo che trovò l'America, cercando
d'arrivare alle Indie per un'altra strada?

Il Medio Evo, per ridestare nell'uomo una nuova vita dello spirito,
aveva disprezzato la vita terrena e la società civile; sottomesso
la filosofia alla teologia, lo Stato alla Chiesa. Il reale gli
sembrava utile solo come simbolo o allegorìa per esprimere l'ideale,
la Città terrena solo come un apparecchio alla Città di Dio: si
reagiva contro tutto ciò che era stata l'essenza del Paganesimo,
l'ispirazione dell'arte antica. E così lo spirito umano restò chiuso
nei sillogismi della scolastica, nelle nebbie del misticismo, nelle
fantastiche e intricate creazioni della poesia cavalleresca e delle
canzoni provenzali. Ma quando, come per uno slancio improvviso di
nuova ispirazione, in mezzo alle libertà comunali, sorsero la poesia e
la prosa italiana a descrivere gli affetti, le passioni reali e vere
dell'uomo, il mondo del Medio Evo fu condannato a perire. Le vecchie
forme, incerte e fantastiche, non resistettero più di fronte a quelle
nuove analisi così precise, a quelle immagini così splendide e chiare,
a quello stile, a quel linguaggio, in cui il pensiero trasparisce
come attraverso purissimo cristallo. Ma questa letteratura, dando un
nuovo indirizzo allo spirito umano, fece ben presto nascere anche
bisogni nuovi, che essa non poteva tutti soddisfare. Il linguaggio
poetico s'era già trovato, e s'erano avuti, in una forma ammirabile,
la novella, il sonetto, la canzone ed il poema; ma il nuovo stile
filosofico, epistolare, oratorio, storico mancavano affatto: il bisogno
di trovarli diveniva irresistibile.

Lo scrittore del Trecento somigliava perciò assai spesso ad un uomo
che, pure avendo buone gambe, si trovi in una via così piena di
ostacoli e di pericoli, che non può camminar senza aiuto: di tanto in
tanto egli s'appoggia novamente alle grucce della scolastica. Quando
lo stesso Alighieri, nella sua _Monarchia_, discute se il Papa debba
essere paragonato al sole, e l'Imperatore alla luna; se il fatto di
Samuele che depose Saul, e l'offerta dei re Magi a Cristo bambino
possano provare la dipendenza dell'Impero dalla Chiesa, chi non vede
che egli ha ancora un piede nel Medio Evo? Leggendo la _Cronica_ di
Giovanni Villani, troviamo non solo uno scrittore molto chiaro, ma un
osservatore acutissimo, cui nulla sfugge; un uomo pratico del mondo
e degli affari. Tutto egli vede e registra: battaglie, rivoluzioni
politiche e sociali, forme di governo, nuovi edifizî, quadri, opere
letterarie, industria, commercio, tasse, entrate ed uscite della
Repubblica, perchè egli comprende che di tutto ciò si compone la
società umana, e che da ciò risulta la potenza e la prosperità degli
Stati. Ma egli ci dà ancora come storie le più favolose e fantastiche
leggende sull'origine di Firenze. E neppure una volta sola gli riesce
di trovare la logica unità della narrazione storica, che connette i
vari avvenimenti, e ne rende visibile il legame; il suo lavoro non
esce perciò mai dai modesti confini della cronica. Ogni volta che lo
scrittore del Trecento scrive di filosofia o di politica, ogni volta
che compone una orazione o una lettera, egli è condannato a tornare fra
quelle pastoie, che poco prima sembrava avere spezzate per sempre.

Bisognava dunque allargare lo stile; diffondere la lingua; renderla
più universale, più duttile; trovare le nuove forme letterarie, che
ancora mancavano ed erano divenute necessarie. Ma questo bisogno
cominciava a sentirsi nel momento stesso in cui ogni giovanile e
vigoroso incremento delle forze nazionali veniva contrastato dalle
complicazioni politiche e sociali, che abbiamo più sopra accennate.
Cominciava perciò a mancare quella forza creatrice che già aveva dato
origine alla nostra letteratura, e sola poteva portarla al suo naturale
compimento, facendole trovare le altre forme che essa cercava. Se non
che, queste forme non sono mutabili a capriccio, sono determinate dalle
leggi stesse del pensiero e della natura, ed erano state trovate la
prima volta dai Greci e dai Romani, negli scritti dei quali serbano
in eterno tutto il vigore, lo splendore e la originalità, che le
opere dell'arte raggiungono solo nel momento della prima creazione.
Il ritorno al passato si presentava quindi come un progresso naturale,
necessario, e la grande relazione della cultura latina con la italiana
lo faceva sembrare come un ritemprarsi alle prime sorgenti, un ritorno
all'antica grandezza nazionale. I Greci ed i Latini presentavano
inoltre agl'Italiani una letteratura ispirata alla natura ed alla
realtà, guidata dalla ragione, non sottoposta ad alcuna autorità, non
circondata da nessun velo allegorico, da nessun misticismo: imitarla
era quindi un liberarsi affatto dal Medio Evo. E così tutto spingeva
ora verso il mondo antico. La pittura e la scultura vi trovavano
lo studio perfezionato delle forme umane, un disegno insuperabile;
l'architettura vi trovava una costruzione più solida e meglio
pieghevole ai varî bisogni della vita sociale; l'uomo di lettere, quel
magistero di stile, di cui andava in cerca; il filosofo, l'indipendenza
della ragione e l'osservazione della natura; il politico trovava
nel concetto di Roma antica quella unità dello Stato, che non solo
la scienza, ma la società stessa cercavano allora come un loro fine
necessario. La imitazione dei Greci e dei Romani divenne perciò come
una manìa, che s'impadronì rapidamente di tutti gli animi: i tiranni
vollero imitare Cesare ed Augusto; i repubblicani, Bruto; i capitani
di ventura, Scipione ed Annibale; i filosofi, Aristotele e Platone; i
letterati, Virgilio e Cicerone; perfino i nomi stessi delle persone e
dei paesi si mutarono in greci e romani.

Il Medio Evo conosceva certo molti degli antichi scrittori; per alcuni
di essi ebbe anzi come un ossequio religioso. Ma la sua erudizione,
salvo alcune eccezioni, era ben diversa da quel rinascimento che
cominciava ora. Essa restringevasi ad un piccolo numero di scrittori
latini, dei più recenti, i quali, meno lontani dalle idee cristiane,
e vissuti sotto l'Impero, che sembrava dominare ancora la società
umana, essere anzi immutabile ed immortale, erano quasi letti come
scrittori contemporanei, e le loro opere venivano forzate, piegate a
sostenere i concetti stessi del Cristianesimo. Virgilio profetizzava la
venuta di Cristo; l'etica di Cicerone doveva essere identica a quella
del Vangelo; ed Aristotele, conosciuto solo nelle traduzioni latine,
alterato dai comentatori, era costretto a sostenere l'immortalità e
spiritualità dell'anima, cui non aveva creduto. Ben diversi erano
i desideri e i gusti del secolo XV. Esso non voleva trasformare
in cristiano il mondo pagano; voleva anzi tornare a questo, che lo
riconduceva dalla Città di Dio a quella degli uomini, dal cielo alla
terra. Non gli bastava perciò la conoscenza di pochi scrittori più
recenti; li voleva leggere tutti, ed i più lontani con più ardore,
perchè obbligavano ad uno sforzo maggiore della mente, e facevano
fare un più lungo viaggio intellettuale. Si cercarono, quindi, si
disseppellirono ed illustrarono gli antichi codici, gli antichi
monumenti con una febbrile attività, di cui non v'è altro esempio
nella storia. Sembrava che gl'Italiani volessero non solo imitare il
mondo antico, ma evocarlo dalla tomba, farlo rivivere, perchè in esso
sentivano di ritrovare sè stessi, entrando come in una seconda vita:
era un vero e proprio rinascimento. E non s'accorgevano punto che le
loro imitazioni e riproduzioni venivano animate da uno spirito nuovo,
che si andava svolgendo, dapprima invisibile e nascosto, per liberarsi
poi a un tratto dalla sua crisalide, uscendo alla luce in una forma
nazionale e moderna.

Così l'erudizione fu il mezzo con cui gl'Italiani seppero liberare sè
stessi e l'Europa dalle pastoie del Medio Evo, non interrompendo, ma
continuando e compiendo, sotto diversa forma, l'opera iniziata dagli
scrittori del Trecento. Ma le nuove opere letterarie ed artistiche
non furono il risultato d'una giovane e vigorosa ispirazione, sorta in
una società come quella in cui visse Dante, piena d'ardore e di fede,
tra forti caratteri e fiere passioni. Formate in un tempo, nel quale
continuava una febbrile attività della mente, ma si spegnevano le più
nobili aspirazioni del cuore umano, risentirono le conseguenze di un
tale stato di cose. Si riescì mirabilmente in tutti quei generi nei
quali la natura visibile, lo studio esteriore dell'uomo e delle sue
azioni hanno parte principale. Le arti belle, plastiche sempre di loro
natura, perderono l'epica grandezza di Giotto e dell'Orcagna, quella
ispirazione religiosa che tanto si ammira nelle antiche cattedrali
cristiane; ma, assimilando le forme classiche, che modificarono
inconsapevolmente, s'ispirarono al genio greco, imitarono la natura,
e la riprodussero nelle loro nuove e spontanee creazioni, circondate
d'un velo etereo, con colori che hanno uno smalto, una freschezza, una
fragranza inarrivabili. È un'arte che, innestando le forme cristiane
e pagane, acquista una spontaneità e verginità nuova; resta una gloria
immortale del secolo e dell'Italia, la manifestazione più compiuta del
Rinascimento, da cui riceve ed a cui comunica il proprio carattere.
La poesia fu del pari inarrivabile nelle descrizioni e riproduzioni
del vero, che apparisce chiaro e preciso anche in mezzo alle più
fantastiche creazioni del poema cavalleresco ed eroicomico. La scienza
politica, che esamina le azioni umane nel loro valore obbiettivo
ed esteriore, nelle loro pratiche conseguenze, quasi astraendo dal
carattere morale che acquistano nella coscienza dell'uomo, e dalle
intenzioni con cui vengono compiute, non solo fiorì del pari, ma fu la
creazione più originale nella letteratura dei secoli XV e XVI.

Si lavorò con energia irrefrenabile; si cercarono e si trovarono tutte
le forme letterarie; si ottenne una grande verità e facilità nella
prosa e nella poesia; si crearono il linguaggio e lo stile oratorio,
diplomatico, storico, filosofico; ma svaniva il sentimento religioso;
s'infiacchiva il senso morale, ed il culto della forma cresceva
spesso a scapito della sostanza, difetto che rimase per molti secoli
nella letteratura italiana. Nel vedere questa prodigiosa attività
intellettuale, che sotto mille forme diverse si riproduce sempre più
ricca e più splendida, eppur sempre accompagnata da una sociale e
morale decadenza, lo storico che studia quei tempi, resta sgomento,
sentendosi come in presenza di una misteriosa contradizione, che
fa presagire futuri guai. Quando il male che travaglia internamente
questo popolo, verrà alla superficie, una catastrofe sarà inevitabile.
Il lento e continuo avanzarsi di essa, in mezzo a tanto progresso
intellettuale, è appunto la storia del Rinascimento. Per meglio
comprenderla bisogna esaminare le cose anche più da vicino.


II.

I PRINCIPALI STATI ITALIANI


1. — MILANO.

La prima trasformazione del Comune italiano che, per mezzo della
tirannide, aprì la via alla costituzione dello Stato moderno, noi
la troviamo a Milano. Divenuta centro d'una vasta agglomerazione di
repubbliche e signorie, che interessi e gelosie diverse ora riunivano
ed ora separavano, vide sorgere nel suo seno il dominio della famiglia
Visconti, lacerata anch'essa da interni e sanguinosi dissidî. Nel 1378
si trovano di fronte Bernabò ed il nipote Giovan Galeazzo, più noto
col nome di conte di Virtù. Ambedue ambiziosi e malvagi del pari, il
primo era ciecamente dominato dalle sue passioni, e fu quindi preda del
nipote, che sapeva dirigerle ad un fine premeditato. Questi riuscì nel
1385 a farlo con i figli mettere in prigione, donde non uscirono più
vivi; e restato così solo, si pose con ardore all'opera di riordinare
lo Stato, per liberarlo dall'anarchia.

In mezzo a mille nemici, egli non aveva un esercito, ed era anche
privo di valor militare; ma accoppiava ad una grandissima astuzia una
profonda conoscenza degli uomini ed un vero ingegno politico. Chiuso
nel suo castello di Pavia, prese a stipendio i primi capitani d'Italia,
ed i più accorti diplomatici, distendendo con questi le fila della sua
tenebrosa politica in tutta la Penisola, che subito riempì d'intrighi
e di guerre, dirigendo le operazioni militari dal suo gabinetto. Con
un occhio sicuro ed una volontà pronta, egli riuscì a fare una vera
ecatombe di piccoli tiranni nella Lombardia, unendosi con gli uni ad
abbattere gli altri, per poi rivolgersi contro quelli che lo avevano
aiutato, e impadronirsi dei loro Stati. Così formò il Ducato di Milano,
di cui ebbe l'investitura dall'Imperatore. Estese poi il suo dominio
sino a Genova, a Bologna, alla Toscana, e vagheggiava mettersi sul capo
la corona d'Italia, dopo aver vinto Firenze, che già aveva esaurita
con le continue guerre. Ma il 3 dicembre 1402 la morte venne a troncare
tutti gli ambiziosi disegni.

Mirabile fu vederlo chiuso nelle mura del suo castello, gettarsi in
tante guerre, che di là seppe dirigere e vincere fortunatamente. Nello
stesso tempo egli creò ed ordinò un nuovo Stato. Occupazione principale
del suo governo fu veramente imporre tasse, per alimentare le guerre
incessanti; ma la giustizia veniva nei casi ordinarî bene amministrata,
le finanze procedevano con ordine, e la prosperità cresceva. Le libere
assemblee furono mutate in Consigli amministrativi e di polizia; ogni
città ebbe un Podestà, eletto dal Duca, non più dal popolo; il Comune
non fu più uno Stato, ma un organo amministrativo, come nelle società
moderne; ed un collegio d'uomini autorevoli nella capitale rendeva
già immagine dei nostri ministeri. Circondato da letterati ed artisti,
iniziatore di molte opere pubbliche, fra cui i due più grandi monumenti
della Lombardia, il duomo di Milano e la certosa di Pavia, ove dètte
anche nuova vita e splendore alla università, egli fu uno dei primi
principi moderni. Con lui le istituzioni del Medio Evo scompariscono
affatto, e sorge l'unità del nuovo Stato. Questo fu però una creazione
tutta personale del principe, che ebbe di mira solamente il suo
interesse personale; e quindi con la sua morte la società ricadde ben
presto nell'anarchia, lacerata dalle ambizioni dei capitani di ventura.

Più tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigliò in mano
le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva
dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce,
che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perciò gran
moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il
12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia
peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto,
falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini
un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla viltà, aveva
la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le
quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani
d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro
dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello
di Milano, da cui non usciva mai, ingannò sempre e trovò sempre da
ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salvò sempre dalle
disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel
1424; dai Veneziani, che sempre combattè, fu più e più volte vinto;
ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari
e ripigliava la guerra. Si gettò perfino nella contesa napoletana
fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riuscì a prendere prigioniero
Alfonso d'Aragona, che poi liberò per non lasciar piena vittoria agli
Angioini. In mezzo a questo grande turbinìo d'eventi e di nemici da
lui provocati, riconquistò e riordinò lo Stato paterno, che tenne
sicuro fino alla morte (1447), unicamente per mezzo della sua infernale
astuzia.

Egli non aveva eredi legittimi, ma solo una figlia naturale, Bianca,
il che aveva reso assai più pericolosa la sua condizione, essendo
molti coloro che aspiravano a succedergli. Fra di essi v'era Francesco
Sforza, tenuto in Italia il primo capitano del secolo, al cui
aiuto il Visconti dovette di continuo ricorrere, trovandosi perciò
inevitabilmente in balìa di lui. Questi era un leone che sapeva far la
volpe, e Filippo Maria era una volpe che amava mettersi la pelle del
leone. Così vissero ambedue lunghi anni, tendendosi a vicenda agguati,
e conoscendo ognuno assai bene le intenzioni segrete dell'altro. Lo
Sforza fu più e più volte sull'orlo d'una totale rovina, circondato
dalle trame del Visconti, che poi invece lo aiutava. Nel 1441 davagli
in isposa la propria figlia, e ne alimentava così le ambiziose
speranze, per meglio valersene nelle guerre, salvo poi a ordir nuove
trame contro di lui, che pur sapeva scamparne senza mai lasciarsi
vincere dal desiderio della vendetta. Ed in questo modo, quando, dopo
quasi mezzo secolo di regno, il Visconti moriva di morte naturale, lo
Sforza si trovò abbastanza potente per riuscire nel disegno lungamente
meditato d'impadronirsi del Ducato.

A una dinastia ne succede ora un'altra, ed il principato italiano
si presenta a noi sotto un aspetto totalmente diverso. I Visconti
erano stati una grande famiglia, e coll'astuzia, l'ardire e l'ingegno
politico s'erano impadroniti del Ducato che avevano costituito; gli
Sforza, invece, uomini nuovi, usciti di assai basso stato, s'aprirono
la via colla spada. Muzio Attendolo, il padre di Francesco Sforza,
era nato d'una famiglia romagnola, che viveva in Cotignola una vita di
semi-brigantaggio e d'ereditarie vendette. Dicesi che la cucina della
loro casa pareva un arsenale di guerra: tra i piatti e le padelle
affumicate pendevano le corazze, i pugnali e le spade, che uomini,
donne e bambini maneggiavano con uguale ardire. Ancora giovanetto,
Muzio fu menato via da una banda di ventura, ed in breve tempo,
raggiunto dai suoi, si pose alla testa d'una propria compagnia, e
fu noto col nome di Sforza, datogli in campo. D'un coraggio, d'una
forza e d'una volontà indomabili, più che un generale fu un soldato
che si gettava nella mischia, e scannava i nemici colle proprie mani.
D'indole assai impetuosa, commise spesso azioni da brigante, come
quando trapassò con la spada Ottobuono III di Parma, mentre questi
parlamentava col marchese d'Este. Eppure, sebbene andasse sempre da
uno ad un altro padrone, portando scompiglio e desolazione per tutto,
riuscì ad esser signore di molte terre, le quali tenne per sè e per
coloro che lo avevano seguìto. Nel regno di Napoli, ai servigi della
capricciosa regina Giovanna II, ebbe le sue maggiori e più strane
vicende: prima generale, poi prigioniero, poi gran contestabile
del regno, poi di nuovo in carcere, era per finire i suoi giorni
miseramente, quando a Tricarico la sorella Margherita, con la spada
in pugno e l'elmo in testa, spaventò per modo i messi reali, che ne
ottenne la salvezza del fratello. Fu di nuovo comandante delle forze
reali, e poi morì presso Aquila, affogando nel fiume Pescara, quando lo
passava a nuoto, per incoraggiare i suoi a seguirlo nella vittoria, che
pareva assicurata. E così compiè la vita, non meno agitata del mare, in
cui il suo corpo andò finalmente a trovar sepoltura (1424).

Francesco suo figlio naturale, che aveva 23 anni, prese subito il
comando delle schiere paterne, e le condusse di vittoria in vittoria,
dimostrando un vero genio militare, una grandissima accortezza
politica. Sempre padrone di sè, scatenava l'impeto indomito delle sue
passioni solamente quando voleva. Servì il Visconti contro i Veneziani,
i Veneziani contro il Visconti; attaccò il Papa, togliendogli la
Romagna, ed emanando colà i suoi ordini: _invitis Petro et Paulo_; poi
lo difese. Pel suo valor militare divenne l'uomo che tutti volevano a
loro servigio, perchè pareva che senza di lui nessuno in Italia potesse
vincere, sebbene vi fossero allora capitani come i Piccinini ed il
Carmagnola. Ma in mezzo a tutte queste vicende, egli seppe tener sempre
fermo l'occhio alla sua mira costante; e quando Filippo Maria morì, si
vide subito in che modo il capitano di ventura sapeva mutarsi in uomo
di Stato.

Milano aveva proclamato la repubblica; le città sottoposte s'eran
ribellate; Venezia minacciava; i partiti interni si scatenavano.
Egli offrì la sua spada in servigio della pericolante città, che
credette d'aver trovato un'àncora di salvezza, ed invece fu poco di
poi assediata dal suo stesso capitano, che il 25 marzo 1450 vi faceva
l'ingresso trionfale, avendo già ordinata la propria corte. Il suo
primo atto fu d'interrogare il popolo se, a difesa contro i Veneziani,
volevano ricostruire la fortezza di porta Giovia, o mantenere piuttosto
un esercito permanente in città. Votarono per la fortezza, che fu
invece valido baluardo della tirannide contro il popolo. Amici e
nemici, se temibili, furono subito imprigionati, spogliati di tutto, ed
anche spenti senza esitare. Il territorio dello Stato fu riconquistato;
i ribelli furono sottomessi; l'ordine, l'amministrazione, la giustizia
dei tribunali ordinarî ristabiliti con maravigliosa rapidità. E in
tutto ciò lo Sforza procedeva con la calma dell'uomo che si sente
forte, e che vuole aver nome d'imparziale e giusto. Pure quando gli
pareva opportuno, nessuno più di lui sapeva, per disfarsi d'amici o
nemici, essere perfido e crudele.

La rivolta di Piacenza fu soffocata nel sangue dal suo fido capitano
Brandolini. Arrivate le stragi al colmo, e pacificata ogni cosa,
si vide con generale maraviglia il Brandolini messo in carcere come
sospetto; poi fu trovato con la gola tagliata, e una spada spuntata
e sanguinosa accanto. Si disse dal volgo, che il Duca aveva voluto
disapprovare e punire le crudeltà eccessive del suo capitano; si
disse invece dai più accorti che, dopo essersene servito, gettava via
l'inutile strumento, perchè su di esso solamente cadesse l'odio del
sangue versato. Nato e vissuto nella guerra, egli voleva ora essere
un uomo di pace, e mirava unicamente a consolidare il proprio Ducato
ne' suoi naturali confini, abbandonando del tutto gli ambiziosi e
pericolosi disegni dei Visconti. E quando, dopo una guerra quasi
generale, ma di nessuna importanza, i potentati italiani vennero
l'anno 1454 ad una pace comune, egli seppe fare in modo da essere
implicitamente riconosciuto da tutti, restando a lui anche il
Bergamasco, la Ghiara d'Adda ed il Bresciano. Noto fra i più audaci e
tumultuosi capitani di ventura, conosceva meglio d'ogni altro di che
grande calamità essi erano agli Stati ordinati e pacifici; quindi fu
tra coloro che più contribuirono, se non a farli scomparire del tutto,
a far loro perdere assai della passata importanza, come già per forza
naturale delle cose cominciava a seguire. Uno solo della vecchia scuola
sopravviveva allora, Iacopo Piccinini, ed era veramente di quelli che,
rizzando una bandiera, potevano mettere insieme un esercito pericoloso.
Costui se ne viveva tranquillo a Milano, quando gli venne voglia
d'andare a vedere le sue terre nel reame di Napoli, e fu dal Duca
assai incoraggiato, sebbene ognuno sapesse quanto era inviso a Ferrante
d'Aragona. Arrivato colà, venne accolto a braccia aperte dal Re, che
lo condusse a vedere la reggia e poi lo mise in prigione, dove presto
morì. Lo Sforza protestò, strepitò contro la violata fede; ma tutti
credettero che, d'accordo con Ferrante, egli si fosse voluto liberare
d'un incomodo vicino.

Francesco Sforza, dice felicemente uno storico moderno, era proprio
l'uomo secondo il cuore del secolo XV.[16] Grande capitano ed
accorto politico, egli sapeva fare a tempo la volpe ed il leone;
sapeva, occorrendo, metter le mani nel sangue: ma quando ciò non era
necessario, voleva invece giustizia imparziale, e si dimostrava anche
generoso e pietoso. Fondò una dinastia; conquistò uno Stato, che
lasciò sicuro e bene amministrato; costruì grandi opere pubbliche,
come il canale della Martesana e l'ospedale maggiore di Milano. Si
circondò d'esuli greci e d'eruditi italiani, e così la corte del già
capitano di ventura divenne subito una delle più splendide d'Italia.
Sua figlia Ippolita fu celebre pei discorsi latini, che tutti lodavano,
esaltavano. Il famoso Cicco (Francesco) Simonetta, calabrese, uomo
dottissimo e d'una fedeltà a tutta prova, fu il segretario del Duca;
il fratello Giovanni ne fu lo storiografo; Francesco Filelfo, il poeta
cortigiano, ne cantò le lodi nella _Sforziade_. Celebrato così in verso
ed in prosa, col nome di giusto, di grande, di magnanimo, moriva il
giorno 8 marzo 1466. Tutto aveva tentato ed in tutto era riuscito; i
contemporanei lo credettero perciò il più grande uomo del secolo. Ma
che cosa era lo Stato da lui definitivamente costituito? Una società in
cui tutte le forze s'andavano rapidamente esaurendo; un popolo di cui
il sovrano credeva poter fare tutto quello che voleva, materia plastica
nelle mani d'un nuovo artista, il cui valore stava solo nel conseguire
il fine propostosi, qualunque esso fosse. Nè i Visconti nè lo Sforza
ebbero mai alcuna idea politica veramente grande e feconda, perchè essi
non s'immedesimarono mai col popolo, ma lo fecero solo servire ai loro
propri interessi. Furono maestri nel trovar l'arte di governo; ma non
riuscirono a fondare un vero governo, perchè ne avevano colla tirannide
disfatti gli elementi essenziali. Le funeste conseguenze di questa
politica, che fu pur troppo la politica italiana del secolo XV, si
dovevano ben presto vedere in tutta la Penisola, come si cominciarono a
vedere in Milano dopo la morte del Duca.

Il figlio Galeazzo Maria, dissoluto e crudele, era di un'indole così
triste, che fu perfino accusato d'avere avvelenato la propria madre.
Credendo che al principe tutto fosse lecito e possibile, egli, in un
secolo che omai si poteva dir civile, fece seppellir vivi alcuni de'
suoi sudditi; altri condannò a morir fra torture crudeli, per frivoli
pretesti, perdonando solo a coloro che si riscattavano con danaro.
Dissipava tesori nelle feste in Milano e nelle cavalcate che faceva
per tutta Italia, portando corruzione dovunque andava. Nè gli bastava
corrompere le donne delle più nobili famiglie milanesi, che le esponeva
egli stesso anche al pubblico disprezzo. Le istituzioni o la volontà
popolare non potevano allora metter freno a questo cieco furore,
perchè un popolo più non esisteva, e le istituzioni eran tutte divenute
congegni atti solo a servir la tirannide. Ben vi pose fine una congiura
delle più singolari e notevoli, in quello che può veramente dirsi il
secolo delle congiure.

Girolamo Olgiati e Giannandrea Lampugnani, discepoli di Niccola
Montano, che li aveva coi classici educati all'amore della libertà
e all'odio della tirannide, ingiuriati dal Duca, deliberarono di
vendicarsi, e trovarono in Carlo Visconti, per le stesse ragioni, un
terzo compagno. S'infiammarono all'impresa colla lettura di Sallustio e
di Tacito, si esercitarono tra loro a ferire colle guaine dei pugnali;
e quando ebbero fissato ogni cosa pel 26 dicembre 1476, l'Olgiati,
entrato nella chiesa di Sant'Ambrogio, si gettò ai piedi della immagine
del Santo, pregandolo che non facesse fallire il colpo. Il mattino del
giorno stabilito assistevano alle funzioni religiose nella chiesa di
Santo Stefano, recitando una preghiera latina, espressamente composta
dal Visconti: — Se tu ami la giustizia e odii l'iniquità, — dicevano al
Santo, — sii favorevole alla magnanima impresa, e non ti adirare quando
fra poco dovremo insanguinare i tuoi altari, per liberare il mondo
da un mostro. — Il Duca fu ucciso, ma il Visconti ed il Lampugnani
restarono vittime del furore del popolo, che volle vendicare il proprio
oppressore. L'Olgiati fuggì e si nascose, ma fu di poi anch'egli preso
e condannato all'estremo supplizio. Lacerato dalla tortura, evocava
in suo aiuto le ombre dei Romani, e si raccomandava alla Vergine
Maria; incitato a pentirsi, dichiarava che, se avesse dieci volte
dovuto spirare fra quei tormenti, avrebbe dieci volte consacrato il
sangue all'eroica impresa. Vicino a morire, componeva ancora epigrammi
latini, rallegrandosi che riuscissero bene; e quando il carnefice gli
era già accanto, le sue ultime parole furono: _Collige te, Hieronyme,
stabit vetus memoria facti. Mors acerba, fama perpetua_.[17] Qui si
vede che, se era spenta nel popolo ogni vera passione politica, in
alcuni individui si mescolavano, nel modo più strano, sentimenti
pagani e cristiani; l'amore della libertà con un odio personale,
irrefrenabile e feroce; un'eroica rassegnazione alla morte con una sete
inestinguibile di sangue, di vendetta e di gloria. I rottami di vecchi
sistemi, gli avanzi di civiltà diverse si trovano mescolati insieme
nello spirito italiano, e con essi s'apparecchia e si feconda il germe
d'una nuova forma individuale e sociale, che ancora non è visibile ai
nostri occhi. Poco di poi Lodovico il Moro, fratello del morto Duca,
ambizioso, timido, irrequieto, usurpò il dominio al nipote Galeazzo, e
per mantenere la male acquistata signoria, mise a soqquadro l'Italia
intera, come avremo occasione di vedere, quando, dopo esaminate le
condizioni dei varî Stati italiani, daremo uno sguardo generale a tutta
la Penisola.


2. — FIRENZE.

La storia di Firenze ci conduce in mezzo a condizioni sostanzialmente
diverse da quelle di Milano. A prima vista sembra che noi siamo in
un gran caos di avvenimenti disordinati, dei quali non si possa
comprendere nè la ragione nè il fine. Ma, esaminando poi le cose
più da vicino, si ritrova un filo conduttore, e si vede come quella
repubblica, attraverso una serie infinita di rivoluzioni, percorrendo
tutte le forme politiche che il Medio Evo poteva conoscere, mirò
costantemente al trionfo della democrazia, alla distruzione totale
del feudalismo, scopo che conseguì cogli _Ordinamenti di Giustizia_
di Giano della Bella, l'anno 1293. Da quell'anno Firenze, divenuta
una città di soli mercanti, non è più divisa in Grandi e popolani;
ma in popolo grasso e popolo minuto, in Arti maggiori ed Arti
minori. Le prime s'occupano della grande industria e del grande
commercio d'importazione e di esportazione; le seconde s'occupano
della piccola industria e del commercio interno della Città. Nasce
da ciò una divisione, e spesso ancora una collisione d'interessi,
da cui scaturisce la nuova formazione dei partiti politici. Quando
si tratta d'ingrandire il territorio della repubblica; di combattere
Pisa per tenersi aperta la via del mare, o Siena per assicurarsi il
commercio con Roma; di respingere gli assalti continui e minacciosi
dei Visconti di Milano, il governo cade inevitabilmente in mano delle
Arti maggiori, più ricche, più intraprendenti, più audaci e capaci
d'intendere e tutelare i grandi interessi dello Stato fuori de' suoi
confini. Ma quando posano le armi e comincia la pace, allora subito
le Arti minori, sospinte anche dall'infima plebe, insorgono contro la
nuova aristocrazia del danaro, che, con le guerre e le tasse continue,
le opprime, e chiedono maggiori libertà, più generale uguaglianza.
Questo continuo avvicendarsi dura per più di un secolo, fino al
tempo, cioè, in cui il territorio della repubblica si è costituito,
e le interminabili guerre con Milano hanno termine. Allora diviene
inevitabile il trionfo definitivo delle Arti minori, ed esse con
la loro inesperienza, colle loro intemperanze, spianano la via alla
tirannide dei Medici.

Ben s'illuderebbe, però, chi s'aspettasse di vederli salire al potere
con le arti ed i mezzi adoperati dai Visconti e dagli Sforza. Colui che
avesse in Firenze cominciato a torturare arbitrariamente i cittadini,
a seppellirne vivo qualcuno, a farne sbranare qualche altro dai cani,
come fecero i signori di Milano, sarebbe stato subito cacciato a
furore di popolo dalle Arti maggiori e dalle minori unite insieme.
L'importanza e l'originalità politica tutta propria dei Medici sta
anzi in questo, che il loro trionfo è la conseguenza d'una condotta
tradizionale, seguita da quella famiglia, per più di un secolo, con una
costanza ed un'accortezza impareggiabili, per arrivare ad impadronirsi
del potere senza ricorrere alla violenza. E l'essere a ciò riusciti in
una città così accorta, così inquieta, così gelosa delle sue antiche
libertà, è prova di un vero genio politico.

Sin del 1378, in mezzo all'incomposto tumulto dei Ciompi, noi troviamo
la mano di Salvestro dei Medici, che, quantunque delle Arti maggiori,
aiuta, eccita le minori a rovesciarne il potere, e acquista così una
grande popolarità. Fallito quel tumulto, ricominciata la guerra, e
quindi tornate le Arti maggiori e gli Albizzi al potere, noi vediamo
Vieri de' Medici rimanersene tranquillo, pensando solo a far danari.
Non cessò tuttavia di mostrarsi favorevole sempre al partito popolare,
nel quale seppe acquistarsi tanta autorità da far dire al Machiavelli,
«che se fosse stato più ambizioso che buono, poteva, senza alcuno
impedimento, farsi principe della città.»[18] Vieri però conosceva
meglio il suo tempo, e si contentò d'aspettare, agevolando la via
a Giovanni di Bicci, che fu il vero fondatore politico della casa.
Questi vide chiaramente, che trasformare colla violenza il governo
non era possibile in Firenze, e che non avrebbe giovato gran fatto
il salire, anche più volte, al potere, in una repubblica che mutava
ogni due mesi i suoi principali magistrati. Non v'era che un mezzo
solo per ottenere un predominio reale e sicuro: costituire e guidare
un partito che avesse la prudenza e la forza di far continuamente
entrare nei più importanti uffici della Repubblica i propri aderenti.
E gli Albizzi s'avvidero subito che questo disegno cominciava a
riuscire, perchè i loro avversari, nonostante il continuo ammonirli
ed esiliarli, risultavano eletti in numero sempre maggiore. Invano
cercarono di controminare l'opera di Giovanni de' Medici, col proporre
inopportunamente leggi intese ad indebolire le Arti minori, perchè
essi non potevano farle approvare nei Consigli senza l'aiuto del loro
avversario, che invece le combatteva apertamente, e ne diveniva così
sempre più potente appresso il popolo (1426). Egli, come afferma
il Machiavelli, sostenne la legge del Catasto,[19] con la quale si
ordinava che fosse riconosciuta e scritta la fortuna di ciascun
cittadino, il che impediva che i potenti, tassando ad arbitrio,
gravassero senza misura i più deboli. La legge fu vinta, l'autorità
dei Medici ne crebbe sempre di più, e mentre essi salivano volando al
principato, pareva invece che dessero solo una forma più popolare alla
Repubblica. Questa fu allora e sempre la loro arte.

Quando nel 1429 Cosimo dei Medici, in età di quarant'anni, succedeva
al padre, egli, che era per sè stesso uomo di grande autorità e
fortuna, trovava la via già spianata dinanzi a sè. Aveva col commercio
aumentato assai il ricco patrimonio avìto, e ne usava così largamente,
imprestando o donando, che non v'era quasi uomo autorevole in Firenze,
che, nei suoi bisogni, non ricorresse a lui e non lo trovasse pronto.
Onde è che, senza mai uscire, in apparenza almeno, dalla modestia di
privato cittadino, vedeva ogni giorno aumentare la sua potenza, e se
ne valeva a demolire gli ultimi avanzi del potere degli Albizzi e de'
loro amici. Il che li fece montare in tanto furore, che, levatisi a
tumulto, lo cacciarono in esilio, non osando fare di peggio (1433).
Ma Cosimo neppure allora perdette la sua calma prudente. Se ne andò
a Venezia come un benefattore ripagato d'ingratitudine, e fu da per
tutto accolto come un principe. L'anno seguente un tumulto popolare,
favorito dal numero infinito di coloro che aveva beneficati o che
speravano benefizi, cacciati gli Albizzi, lo richiamò a Firenze, dove
essendo partito potente, tornò potentissimo, coll'animo irritato
dal desiderio della vendetta. Abbandonò allora l'antica riserva,
per mettere a profitto il momento opportuno. Senza spargere molto
sangue, colle persecuzioni e gli esilî disfece addirittura il partito
avverso, abbassando i potenti, tirando su uomini «bassi e di vile
condizione.»[20] Ed a chi lo accusava di trascendere, rovinando troppi
cittadini, soleva rispondere: coi paternostri non si governano gli
Stati, e con poche canne di panno rosato si fanno nuovi cittadini e
uomini da bene.[21]

Cosimo de' Medici era adesso di fatto il padrone della Città; ma
legalmente restava sempre un privato, il cui potere, fondato tutto e
solo sulla propria autorità personale, poteva da un momento all'altro
svanire. Si pose quindi a consolidarlo, dando un passo nuovo e assai
accorto. Fece creare una Balìa con facoltà d'eleggere per cinque anni
i principali magistrati. Composta di cittadini a lui devoti, essa lo
rendeva sicuro per lungo tempo; e facendola ogni quinquennio rinnovare
nel medesimo modo, Cosimo potè risolvere questo singolare problema:
essere, per tutto il resto della sua vita, principe e padrone assoluto
in una repubblica, senza mai entrare negli ufficî, conservando anzi
le apparenze di privato cittadino. Ciò per altro non gl'impedì, a suo
tempo, di ricorrere anche al sangue. Quando vide sorgere ogni giorno
più potente nella Città Neri di Gino Capponi, che, politico accorto e
valoroso soldato, aveva anche l'aiuto di Baldaccio d'Anghiari capitano
delle fanterie, non potendo assalirlo di fronte, pensò disfarlo,
abbattendone gli amici. Infatti, appena che fu eletto gonfaloniere un
nemico personale di Baldaccio, questi venne in un improvviso tumulto
gettato dalle finestre di Palazzo Vecchio; e molti sospettarono,
sebbene nessuno potesse provarlo, che Cosimo fosse stato il principale
istigatore del delitto.[22] Ma dopo uno di tali fatti, egli tornava
subito a governare con quelli che chiamavano allora i _modi civili_, e
che costituirono sempre l'arte dei Medici. Questo accorto e poco dotto
mercante, che non lasciò mai il banco; questo politico senza scrupoli,
si circondò di letterati ed artisti: parchissimo nello spendere per
sè, profuse tesori nel proteggere le arti belle, costruire chiese,
biblioteche ed altri pubblici edificii; passò le ore più felici della
sua vita facendosi leggere e comentare i _Dialoghi_ di Platone; fondò
l'Accademia Platonica. Così in parte non piccola si deve a lui, se
Firenze divenne allora il centro principale della cultura in Europa.
Egli aveva capito che le arti, le lettere e le scienze divenivano
nella nuova società una potenza, su cui ogni governo doveva fare
assegnamento.

Nè fu meno accorto nella politica estera. Avendo protetto e soccorso
di danari Niccolò V, quando era cardinale, lo ebbe amicissimo quando
fu papa; e così gli affari della Curia vennero affidati al banco
de' Medici in Roma, con loro grande guadagno. Aveva anche prima di
tutti presentito il futuro destino di Francesco Sforza, e gli s'era
perciò fatto amicissimo; onde questi, divenuto signore di Milano, gli
fu alleato potente e fido. Cessarono allora le guerre continue fra
Milano e Firenze, che si tenne debitrice a Cosimo della lunga pace.
Non è quindi da maravigliare se, dopo la morte, continuando sempre a
governare i Medici, lo chiamarono _Padre della patria_. Il Machiavelli
dice, che egli fu il più riputato cittadino «d'uomo disarmato,» che
avesse mai non solo Firenze, ma qualunque altra città. Secondo lui,
nessuno lo raggiunse nella intelligenza delle cose politiche, perchè
vedeva i mali discosto, e vi provvedeva in tempo; e solo così potè
tenere lo Stato trentun anno, «in tanta varietà di fortuna, in sì varia
città e volubile cittadinanza.»[23] Nè diversa è in ciò l'opinione, del
pari autorevole, del Guicciardini. Pure, con questa politica, tutte le
antiche istituzioni della Città furono ridotte ad un nome vano, senza
che si riuscisse a crearne delle nuove; ed una continua accortezza, una
serie inesauribile di sempre nuovi ripieghi fu necessaria a reggere il
timone dello Stato.

Gli ultimi anni della vita di Cosimo furono assai tristi per Firenze,
perchè i partigiani dei Medici, non moderati più dalla prudenza del
loro capo, divenuto per l'età impotente, si diedero a parteggiare,
e così crebbero a dismisura le persecuzioni e gli esilî. Nè mutarono
le cose quando, per breve tempo, gli successe il figlio Piero. Alla
costui morte però (1469) compaiono sulla scena Lorenzo e Giuliano,
il primo dei quali, sebbene avesse solo ventun anno, era già assai
autorevole. Educato dai principali letterati del secolo, s'era
dimostrato uguale a molti di essi per ingegno e dottrina; viaggiando
l'Italia, per conoscere le Corti ed acquistare esperienza degli uomini,
aveva dovunque lasciato grande opinione di sè. Egli afferrò subito con
animo deliberato le redini del governo, ed avvistosi che la elezione
della nuova Balìa non era d'esito sicuro nel Consiglio dei Cento,
fece, con l'aiuto dei più fidi, e come per sorpresa, votare che i
Signori in ufficio, insieme con la vecchia Balìa, eleggessero la nuova.
Assicuratosi così il potere per cinque anni, si mise all'opera assai
più tranquillo.

Lorenzo, simile all'avo per accortezza politica, lo superava di
gran lunga per ingegno e cultura letteraria. In molte cose era però
assai diverso da lui. Cosimo non lasciò mai il suo banco; Lorenzo
lo trascurava, ed era così poco adatto al commercio, che dovette
ritirarsi dagli affari, per non mandare a rovina il ricco patrimonio
avìto. Cosimo era parco nello spendere per sè, ed imprestava largamente
agli altri; Lorenzo amava il vivere splendido, e fu perciò chiamato
il _Magnifico_; spendeva fuor di misura nel proteggere i letterati;
si perdeva negli amori più che la sua debole salute non comportasse,
tanto che abbreviò i suoi giorni. Questo suo vivere lo ridusse a tali
strettezze, che dovette vendere alcuni de' suoi possessi, e ricorrere
agli amici per danari. Nè ciò bastando, s'indusse anche a mettere
la mani nel pubblico danaro, cosa che non era seguìta mai a Cosimo.
Più volte, per avidità d'illeciti guadagni, fece pagare gli eserciti
fiorentini dal suo proprio banco; profittò ancora delle somme raccolte
nel Monte Comune o cassa del debito pubblico, e di quelle raccolte
nel Monte delle Fanciulle, dove erano le doti accumulate dai privati
risparmî, danari fino allora rispettati da tutti come sacri. Fu
opinione assai generale de' suoi contemporanei, che egli, mosso sempre
dalla stessa avidità di guadagno, entrasse l'anno 1471 a parte dei
guadagni delle ricche miniere d'allume in Volterra, nel momento in cui
quel Comune voleva sciogliersi da un contratto tenuto eccessivamente
oneroso. Ed avrebbe allora, colla sua autorità, spinto le cose a tale,
che ne seguì nel 1472 prima la guerra, e poi il sacco crudelissimo
dell'infelice città, cosa affatto insolita in Toscana.[24] Di tutto
ciò fu sempre universalmente biasimato in Firenze. Ma egli era oltre
misura superbo, e non si curava d'alcuno; non tollerava uguali; voleva
essere il primo sempre ed in tutto, anche nei giuochi. Nell'abbattere
i potenti e nel sollevare gli uomini di bassa condizione, non usava
nessuno di quei riguardi, di quelle cautele tanto osservate da Cosimo.

Non è quindi da far maraviglia, se i nemici crebbero a segno tale che
ne scoppiò la terribile Congiura dei Pazzi, il 26 aprile del 1478.
Tramata nel Vaticano stesso, dove Sisto IV era nemico di Lorenzo, vi
presero parte molti delle più potenti famiglie fiorentine. In duomo,
nel momento in cui s'elevava l'ostia consacrata, si sguainarono i
pugnali, e Giuliano de' Medici venne ucciso; ma Lorenzo si difese
colla spada, e potè salvarsi. Fu un tumulto tale che pareva ne
crollasse il tempio. La plebe si sollevò al grido di _palle, palle_;
i nemici de' Medici furono scannati per le vie, o impiccati alle
finestre di Palazzo Vecchio. Ivi si videro fra gli altri sospesi i
cadaveri dell'arcivescovo Salviati e di Francesco de' Pazzi, che nella
convulsione della morte, s'erano addentati fra loro, e così restarono
un pezzo. Da settanta persone perirono in quel giorno, e Lorenzo,
profittando del momento, spinse le cose agli estremi con le confische,
gli esilî, le condanne. La sua potenza ne sarebbe stata infinitamente
accresciuta, se papa Sisto IV, accecato dall'ira, non si fosse indotto
a scomunicare la Città, ed a muoverle guerra insieme con Ferdinando
d'Aragona. Ma Lorenzo allora, senza esitare, andò a Napoli, e fece
capire al Re, come a lui convenisse molto meglio avere in Firenze il
governo d'un solo, piuttosto che una repubblica, mutabile sempre, e che
certo non gli sarebbe stata mai amica. Così tornò con la pace conclusa,
e con un'autorità e popolarità senza limiti. Ora egli poteva dirsi
davvero signore della Città, e facile doveva sembrargli distruggere
affatto il governo repubblicano. Ambizioso e superbo come era, il
desiderio di rendersi uguale agli altri principi e tiranni italiani
fu certo in lui vivissimo, tanto più che il riuscirvi pareva allora
dipendere solo da lui. Ma Lorenzo mostrò invece che la sua accortezza
politica non si lasciava accecare dai prosperi successi, e conoscendo
bene la sua Città, non deviò dalla politica tradizionale dei Medici:
dominare la Repubblica di fatto, rispettandola in apparenza. Pensò bene
a rendere saldo e duraturo il suo potere; ma per ciò fare ricorse ad
una riforma accortissima, con cui, senza abbandonare la vecchia strada,
ottenne mirabilmente lo scopo.

Invece della solita Balìa quinquennale, istituì nel 1480 il Consiglio
dei Settanta, che si rinnovava da sè, e fu come una Balìa permanente
con poteri ancora più larghi. Composto d'uomini tutti a lui devoti,
gli assicurò per sempre il governo. Con esso, dicono i cronisti del
tempo, la libertà fu in tutto sotterrata e perduta;[25] ma con esso
ancora gli affari più importanti dello Stato furono condotti da uomini
intelligenti e colti, che ne promossero grandemente la prosperità
materiale. Firenze si chiamava ancora una repubblica, i nomi delle
antiche istituzioni duravano ancora; ma tutto ciò sembrava ed era solo
un'ironia. Lorenzo, padrone assoluto di tutto, si poteva veramente
dire un tiranno: circondato da staffieri e da cortigiani, che spesso
ricompensava coll'affidar loro l'amministrazione delle opere pie;
scandaloso pe' suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo,
ingerendosi anche negli affari privati; non permetteva i matrimonî
di qualche importanza, se non gli piacevano; e gli uomini più vili,
saliti ai maggiori uffici, erano, come dice il Guicciardini, divenuti i
«signori del giuoco.»[26] Pure abbagliava tutti col suo ingegno, collo
splendore del suo governo; onde lo stesso scrittore osserva, che era un
tiranno, ma sarebbe stato impossibile immaginare «un tiranno migliore e
più piacevole.»

L'industria, il commercio, le opere pubbliche erano fiorenti.
L'uguaglianza civile, propria degli Stati moderni, non aveva allora
in alcuna città del mondo raggiunto il grado, a cui era pervenuta
non solo in Firenze, ma nel suo contado ed in quasi tutta la Toscana.
L'amministrazione, la giustizia civile procedevano nei casi ordinarî
assai regolarmente; i delitti comuni scemavano. Soprattutto poi la
cultura letteraria era divenuta un elemento sostanziale del nuovo
Stato; gli uomini dotti entravano facilmente nei pubblici ufficî, e
da Firenze irradiava una luce che illuminava il mondo. Lorenzo, che
aveva un intelletto vario ed universale, con una grande penetrazione,
un giusto criterio in tutte le parti dello scibile, era un Mecenate
che proteggeva, ed era anche egli stesso fra i primi letterati del
secolo; partecipava attivamente al lavoro che promoveva non solo per
arte di governo, ma anche per un bisogno sincero e reale del proprio
spirito. Tuttavia, per far servire le lettere a scopo politico, cercò
co' suoi Canti carnascialeschi e colle feste d'infiacchire, corrompere
il popolo, e pur troppo vi riuscì. Così senza un esercito, senza un
ufficio con cui potesse legalmente comandare, era di fatto non solo
il padrone di Firenze e di gran parte della Toscana, ma esercitava un
predominio immenso su tutti i potentati italiani. Morto il suo nemico
Sisto IV, papa Innocenzo VIII che successe, non solo gli fu amico ma
s'imparentò con lui, ne nominò cardinale il figlio Giovanni ancora
fanciullo, e si volgeva sempre a lui per consiglio. L'antagonismo che
era nato tra Lodovico il Moro e Ferdinando d'Aragona, e minacciava
di porre a soqquadro tutta Italia, fu raffrenato da Lorenzo, il quale
venne perciò giustamente chiamato l'ago della bilancia d'Italia, e solo
dopo la morte di lui si videro le funeste conseguenze di quell'odio. Le
sue lettere politiche, che sono spesso monumenti di politica sapienza
e d'eleganza, vennero dallo storico Guicciardini dichiarate fra le più
eloquenti del secolo.

Ma neppure questa politica poteva riuscire a fondar nulla di stabile.
Modello impareggiabile d'accortezza e prudenza, essa promosse e svolse
in Firenze tutti quanti i nuovi elementi, di cui la società moderna
doveva comporsi, senza riuscir mai a costituirla definitivamente,
perchè era una politica di equivoco e d'inganno, diretta da un uomo di
molto ingegno, che in sostanza aveva di mira il suo interesse personale
e quello della propria famiglia, ai quali era sempre disposto a
sacrificare i veri interessi del popolo e dello Stato.


3. — VENEZIA.

La storia di Venezia sembra essere in diretta contradizione con quella
di Firenze. Questa, infatti, ci presenta una serie di rivoluzioni
che, partendo da un governo aristocratico, arrivano alla più grande
uguaglianza democratica, per cadere poi nel dispotismo d'un solo;
Venezia, invece, procede con ordine e fermezza alla costituzione di
un'aristocrazia sempre più forte. Firenze cerca invano salvare la
libertà, mutando sempre più spesso i suoi magistrati; Venezia crea
il Doge a vita, rende ereditario il Maggior Consiglio, consolida la
repubblica, diviene potentissima e riman libera per molti secoli. Una
così grande divergenza però, non solamente si spiega, ma apparisce ai
nostri occhi assai minore, se esaminiamo le speciali condizioni, tra
cui s'andò formando la repubblica veneta.

Fondata dai rifugiati italiani che popolarono la laguna, sulla quale
non arrivarono le invasioni barbariche, non ebbe, o assai poco, il
feudalismo nè le altre istituzioni e leggi germaniche, che penetrarono
largamente nel resto d'Italia. Così a Venezia, fin dal principio si
trovarono di fronte il popolo dato all'industria ed al commercio, e
le antiche famiglie italiane, che, non avendo l'aiuto dell'Impero, nè
la forza dell'ordinamento feudale, vennero facilmente domate e vinte.
E si formò subito l'aristocrazia del danaro o del popolo grasso, cui
fu molto facile impadronirsi del governo e tenerlo per secoli. Questo
trionfo, che a Firenze fu lento, che seguì dopo molte lotte, dopo
lunghe interruzioni, e condusse poi alla signoria de' Medici, fu invece
a Venezia rapidissimo e permanente. Sin dal principio la prosperità
della laguna venne dalle lontane imprese, dai lontani commerci, che,
più o meno dappertutto in Italia, costituirono la forza del popolo
grasso. A ciò si aggiungeva da un lato, che il popolo minuto era
occupato molti mesi dell'anno in lunghe navigazioni, e dall'altro,
che il governo delle colonie dava modo ai più ambiziosi cittadini di
comandare senza mettere a repentaglio la Repubblica.

Così la costituzione veneta, cominciata con forme non molto dissimili
da quelle degli altri Comuni italiani, s'andò alterando per le
condizioni affatto diverse, in mezzo a cui si trovava. Sin dal
principio s'ebbe il Doge a vita, perchè la città, divisa in isole
che tendevano a rendersi indipendenti l'una dall'altra, sentì assai
presto il bisogno d'un accentramento maggiore che altrove. Il Doge
era circondato da nove cittadini, coi quali formava la Signoria, e
v'erano, come negli altri Comuni, due Consigli, i Pregati o Senato, ed
il Maggior Consiglio. Nei casi più solenni si faceva appello al popolo
radunato in pubblica assemblea, che chiamavasi Arrengo, come a Firenze
era detta Parlamento. Se le cose fossero restate in questi termini, la
costituzione di Venezia, salvo il Doge a vita, non sarebbe stata gran
fatto diversa da quella di Firenze. Ma la forza assai maggiore che, per
le condizioni da noi accennate, prese subito l'aristocrazia del denaro,
a poco a poco concentrò quasi tutti i poteri dello Stato nel Maggior
Consiglio, che, abolito l'Arrengo e limitata l'autorità del Doge, fu il
vero sovrano, e divenne ereditario, mercè una serie di lente riforme
(1297-1319), che portarono a quella che si chiamò la _Serrata_ del
Maggior Consiglio. Il cerchio fu così chiuso, e si ebbe il governo
d'una potente aristocrazia, che più tardi volle il suo _Libro d'oro_.
Sebbene però non s'avesse a lottare contro il feudalismo, tutte queste
riforme non seguirono senza forte resistenza delle antiche famiglie,
che, vedendosi escluse dal governo, cercarono e trovarono seguito nel
popolo minuto. La congiura di Baiamonte Tiepolo (1310) fu tale che,
per alcuni giorni, mise a grave repentaglio l'esistenza stessa della
Repubblica. Ma, dopo un ostinato combattimento nelle vie della città e
fuori, venne anch'essa soffocata nel sangue; e fu creato il terribile
Consiglio dei Dieci, tribunale, che con processi sommarî, ma sempre
assai bene determinati dalle leggi, puniva di morte qualunque tentativo
di rivolta. Allora finalmente non vi furono più pericoli pel governo
aristocratico, che acquistò una forza ogni giorno maggiore. La fermezza
delle istituzioni aiutò la prosperità del commercio, e le cresciute
ricchezze dettero animo a sempre nuove imprese in Oriente, che era il
campo dei guadagni e delle glorie veneziane.

Colà aveva la Repubblica incontrato due potenti rivali, Pisa e Genova;
ma la potenza marittima dei Pisani venne disfatta alla Meloria (1284)
dai Genovesi, che alla loro volta, dopo lunga e sanguinosa lotta,
furono irreparabilmente sconfitti dai Veneziani a Chioggia (1380).
E così, alla fine del secolo XIV, Venezia si trovò senza rivali,
signora dei mari, sicura nell'interno, prosperissima nel commercio.
Rivolse allora le sue mire anche alle conquiste di terraferma, ed
entrò in un nuovo periodo della sua storia, durante il quale si trovò
trascinata fra tutti gl'intrighi della politica italiana; perdette il
suo primo carattere di potenza esclusivamente marittima, e cominciò a
corrompersi. Di ciò le venne mossa grave accusa dai contemporanei e dai
posteri; ma Venezia era spinta nella nuova via da cause irresistibili.
Infatti, quando si andavano formando intorno ad essa Stati più grossi
assai dei piccoli Municipî d'una volta, il dominio delle lagune non
era più sicuro, e non le bastava a tutelare il proprio commercio sulla
terraferma. Gli Scaligeri, i Visconti, i Carrara, gli Este odiavano
la fiorente repubblica, la minacciavano e cercavano d'isolarla,
nel momento appunto in cui essa aveva un bisogno sempre maggiore di
trovare nuovi sbocchi alle sue progredite industrie, al suo commercio
d'Oriente, che s'alimentava con quello d'Occidente. E quando i Turchi
s'avanzarono e cominciarono a fermarla nelle sue conquiste orientali, a
minacciare le sue colonie, quella necessità divenne per un altro verso
anche più stringente. Certo Venezia, spingendosi nella terraferma, si
trovò d'ambo i lati circondata da mille pericoli; ma erano inevitabili,
ed essa li affrontò, combattendo per mare e per terra, con un ardimento
eroico, e sulle prime con non sperata fortuna.

A promuovere questi suoi nuovi interessi non ebbe di certo molti
scrupoli: costretta più volte a combattere in Italia nemici sleali,
usò anch'essa la violenza e l'inganno. Pure non era mai il capriccio
personale d'un solo, che sottoponeva tutto al proprio volere; ma
un'aristocrazia, che aveva il sentimento della patria, e la difendeva
colle armi. Primi nel secolo XV a sentire in Italia le unghie del
Leone di San Marco furono i Carrara, signori di Padova, che finirono
strangolati (1406). Dopo di ciò fu mandato a Padova un rettore pel
civile, un capitano pel militare, lasciando intatte le antiche leggi
ed istituzioni locali. Lo stesso seguì o era già seguìto altrove,
nel Friuli, nell'Istria, a Vicenza, Verona, Treviso. Questa era una
politica assai intelligente e liberale per quel tempo; ma i nuovi
sudditi perdevano pur sempre, colla indipendenza, ogni speranza
di libertà. I paesi conquistati traevano certo grande vantaggio
dall'essere sotto un governo forte e giusto, e dal partecipare
all'immenso commercio di Venezia; ma se il benessere materiale
faceva nelle moltitudini dimenticare l'amore della libertà e della
indipendenza, nelle famiglie potenti che avevano governato o sperato di
poter governare, restava invece un odio inestinguibile contro la nuova
dominatrice, che, invidiata per l'ordine e la forza del suo governo,
era giudicata il nemico più temibile di tutti gli altri Stati italiani.

Essa procedeva tuttavia sicura nelle sue conquiste, ed il secolo XV,
in cui l'Italia cominciava rapidamente a decadere, sembrava invece
aprire a Venezia un'êra di crescente prosperità. La sua aristocrazia,
coi grandi sacrifizî fatti per la patria, col coraggio dimostrato
nelle battaglie navali che essa comandava, aveva fatto dimenticare
la violenza della propria origine. Occupata nella politica, lasciava
liberamente partecipare il popolo al commercio ed all'industria, che,
tutelati dalla fermezza delle istituzioni e dalle armi, prosperavano
maravigliosamente. Lo stesso avanzarsi dei Turchi, che pur doveva
recare tanti danni alla Repubblica, sembrava tornarle ora quasi di
vantaggio. Infatti molte isole dell'Arcipelago, molte terre, trovandosi
in gran pericolo per l'impotenza dell'Impero greco a difenderle dal
terribile uragano che s'avanzava, invocarono la protezione di Venezia,
e si abbandonarono ad essa, che così cresceva il proprio dominio, ed
acquistava nuovi sudditi, pronti a versare il sangue combattendo il
comune nemico, che nei primi scontri subì gravissime perdite. Tutto
ciò rialzava moltissimo l'animo della Repubblica, che in quel momento
si sentiva come destinata ad essere la difesa dei Cristiani e la
dominatrice d'Italia. Nella sua condotta politica, nelle relazioni
de' suoi ambasciatori, nelle guerre continue per terra e per mare,
il sentimento della patria dominava su tutto, ed ispirava una balda
fierezza al linguaggio di quei cittadini, che erano sempre pronti a
sacrificarsi per essa. L'onore, la gloria di Venezia erano in cima dei
loro pensieri, e nella lotta col Turco che s'avanzava, dettero prove
di vero eroismo. Quando nel maggio 1416 l'armata veneta s'affrontò
col formidabile nemico presso Gallipoli, Pietro Loredano, che l'aveva
comandata, scriveva al suo governo: «Virilmente io capitano investii
nella prima galera nemica, piena di Turchi che combattevano come
draghi. Circondato da ogni lato, ferito da una freccia che mi passò
la mascella sotto l'occhio, da una che mi passò la mano, e da altre
molte, non mi restai punto, nè mi sarei restato fino alla morte: presi
la prima galera e misi la mia bandiera su quella. I Turchi che vi erano
sopra furono tagliati a pezzi, il resto della flotta sconfitto.»[27]
Di queste ardite imprese, di questo franco linguaggio, solo Venezia era
capace in Italia nel secolo XV. La piccola repubblica delle lagune era
divenuta uno dei grandi potentati d'Europa, e pareva sorgere a nuova
altezza, quando tutti gli altri Comuni decadevano. Ma i pericoli che
s'accumulavano intorno ad essa erano immensi e crescevano da ogni lato.

Il doge Tommaso Mocenigo li prevedeva, e dal suo letto di morte,
nell'aprile del 1423, pregava, scongiurava i suoi amici, perchè non
si lasciassero spingere più oltre alle guerre ed alle conquiste;
sopra tutto non eleggessero a suo successore Francesco Foscari, la
cui smodata ambizione li avrebbe trascinati in mezzo alle più audaci
e pericolose imprese. Ma questi consigli di prudenza erano vani
adesso. Filippo Maria Visconti minacciava tutta l'Italia superiore e
la centrale; il Turco s'avanzava; Francesco Foscari venne eletto, ed
egli non era certamente uomo da voler ricondurre in porto la nave già
lanciata in alto mare. E quando i Fiorentini chiesero a Venezia aiuto
contro il Visconti, egli esclamò in Senato: Se mi trovassi in capo al
mondo, e vedessi un popolo in pericolo di perdere la sua libertà, io lo
aiuterei. «Nu patiremo che Filippo tuoga la libertà ai Fiorentini? Sto
furibondo tiran scorrerà per tutta Italia, la struggerà e conquasserà
senza gastigo?»[28] Così nel 1426 incominciò quella formidabile lotta
che, interrotta e ripresa più volte, finì solo colla morte del Visconti
l'anno 1447. In questi ventun anno il Foscari dimostrò un patriottismo
ed un'energia veramente romani, combattendo contro pericoli esterni ed
interni d'ogni sorta. Coi suoi tesori il Visconti metteva ogni anno in
campo nuovi eserciti, e la Repubblica era sempre pronta ad affrontarli.
Il Carmagnola, che lo aveva disertato per servire Venezia, parve,
subito dopo le prime vittorie, divenire a questa infido, e fu perciò,
senza esitazione, con regolare processo condannato a morte. Il 5 maggio
1432, _cum una sprangha in bucha, et cum manibus ligatis de retro,
iuxta solitum_,[29] venne condotto fra le colonne della Piazzetta, e
decapitato. Nel 1430 vi fu un attentato contro la vita stessa del Doge,
e nel 1433 una congiura contro il suo governo; ma i Dieci fecero di
tutto pronta ed esemplare giustizia. Più tardi, istigato dal Visconti,
l'ultimo dei Carrara tentò di ripigliare i suoi dominî, e fece anche
ribellare Ostasio da Polenta, signore di Ravenna, che era sotto la
protezione di Venezia. E allora al Carrara fu tagliata la testa fra
le colonne della Piazzetta (1435); il Polentano finì esule in Creta, e
Ravenna fece parte del dominio veneto. Morto il Visconti, e posata da
poco la guerra di Venezia con Milano, seguì la caduta di Costantinopoli
(1453), nella quale tanti Italiani, massime Veneti, perderono la vita.
Questo fatto, che incominciò un'epoca nuova nella storia dell'Europa,
fu un colpo mortale a Venezia. Pure essa riuscì nel 1454 a fare un
trattato, che assicurò libero commercio ai proprî sudditi, e le dètte
il tempo d'apparecchiarsi a nuove battaglie.

Ma il pericolo maggiore alla Repubblica venne dai nuovi germi di
corruzione interna, che cominciarono a minacciare di dividerla. I
nemici del Foscari, dopo avere invano cospirato contro la sua vita ed
il suo governo, si volsero ora a tormentarlo col perseguitare il figlio
Iacopo, unico superstite dei maschi, di carattere leggerissimo, ma pur
ciecamente amato dal padre. Esiliato nel 1445, per avere accettato
donativi, il che le leggi vietavano severamente al figlio del Doge,
fu, dopo ottenuta la grazia, esiliato di nuovo nel 1451 alla Canea,
perchè accusato di connivenza nell'uccisione d'uno di coloro che
erano stati suoi giudici. Richiamato di là nel 1456, venne sottoposto
a nuovo processo, per aver tenuto segreta corrispondenza col duca di
Milano, e fu condannato a più lungo esilio. Entrato nella prigione,
il vecchio Doge disse, impassibile, al figlio che cercava grazia ai
suoi piedi: «Va, obbedisci a quel che vuol la terra, e non cercar più
altro.» Ma uscito dal carcere, appoggiato al suo bastone, Francesco
Foscari tramortì.[30] Poco dopo Iacopo morì nell'esilio (12 gennaio
1457), ed il cuore paterno di colui che aveva sostenuto con una volontà
di ferro una lotta titanica in difesa della repubblica, si spezzò per
le persecuzioni patite dal figlio. Invecchiato, abbattuto, prostrato,
non aveva più la forza necessaria a condurre gli affari e a difendersi
dai nemici. Allora, invitato a dimettersi e non volendo, fu deposto.
Spezzatogli l'anello e toltogli il berretto ducale, egli discese,
franco e sereno, per la scala medesima per cui era salito all'alto
ufficio, discorrendo tranquillo con chi gli era accanto, senza volersi
appoggiare ad alcuno. Il suo successore fu eletto il 30 ottobre, ed
egli morì di crepacuore il dì 1º novembre, dopo trentaquattro anni di
dogato. Francesco Foscari è certo uno dei più grandi caratteri politici
del suo tempo.[31] Con lui Venezia giunse al colmo della sua potenza;
dopo di lui cominciò subito a decadere, ma fu una decadenza eroica.

Abbandonata da tutti gl'Italiani, si trovò sola di fronte al Turco,
che s'avanzava con forze formidabili. Il sopracomito Girolamo Longo
scriveva nel 1468, che la flotta turca con cui doveva affrontarsi, era
di 400 vele, le quali occupavano sei miglia di lunghezza. «Il mare
pareva un bosco: questa a sentirla dire pare cosa incredibile, ma a
vederla è cosa stupenda...; or vedete se sia possibile con astuzia
aver vantaggio. Ci vogliono forze e non parole.»[32] Sembrano quasi un
linguaggio di paura accanto a quello da noi riportato più sopra del
Loredano. Infatti i tempi erano mutati: la Repubblica armava sempre
altre navi, che combattevano con eroismo; organizzava la resistenza
di tutte le popolazioni cristiane, che versavano generosamente il
proprio sangue; mandava armi e danari ai Persiani, perchè anch'essi
attaccassero Maometto II, che s'avanzava minaccioso; ma tutto ciò era
inutile. Negroponte, Caffa, Scutari, altre città e terre cadevano l'una
dopo l'altra, sebbene si difendessero con gran valore. E finalmente
Venezia, stanca di trovarsi sempre sola a combattere il nemico della
Cristianità, venne nel gennaio 1479 ad una pace che le assicurava il
proprio commercio, e che nelle tristi condizioni a cui era ridotta,
poteva dirsi onorevole. Allora tutti gl'Italiani, che nulla avevano
fatto per aiutarla, furono pronti a gridare unanimi contro di essa,
specialmente nel 1480, quando il loro spavento giunse al colmo, per
avere i Turchi preso la città di Otranto. Ma questi poco dopo si
ritirarono per la morte di Maometto II, e per le discordie seguite nel
suo impero: allora gl'Italiani non pensaroro più ad altro.

Da questo momento l'orizzonte della Repubblica si va restringendo
sempre di più. Occupata solo de' suoi interessi materiali, avviluppata
negl'intrighi della politica italiana, essa non pretese più d'essere la
guardiana della Penisola e della Cristianità contro gl'infedeli. Tutto
allora sembrava seguire a suo danno nella storia del mondo. La scoperta
d'America e quella del Capo di Buona Speranza la posero fuori delle
principali vie del commercio. Ristretta da ogni lato, perdette a poco
a poco con i grandi guadagni la sua storica importanza, che le veniva
dall'essere stata l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente.
Ora tutto si ridusse a strappar qualche terra ai vicini; imporre ad
essi il proprio commercio, sempre grande e potente. Avanzatasi fino
all'Adda da un lato, occupava dall'altro Ravenna, Cervia, Rimini,
Faenza, Cesena ed Imola nelle Romagne; nel Trentino teneva Roveredo
e le sue dipendenze; aveva anche portate le sue armi sulla costa
adriatica del Napoletano, dove si era impadronita di alcune terre. Ma
l'aver tolto a tutti qualche cosa, faceva sì che tutti la temessero e
l'odiassero.

Da un altro lato questo Stato così vasto era dominato tutto da una sola
città, nella quale comandava per diritto ereditario una piccola parte
dei cittadini. Neppure in Venezia era quindi possibile aspettarsi il
grande ed organico svolgimento dello Stato moderno; essa anzi rimase
esempio vivente dell'antica forma repubblicana, sopravvissuta quasi
a sè stessa, destinata ad esaurirsi come per mancanza d'alimento.
Ma intanto essa era sempre il governo più forte, più morale che vi
fosse in Italia. A misura però che si restringeva la cerchia della
sua attività, cessavano le magnanime virtù e gli eroici caratteri,
sorti fra i grandi pericoli, contro cui avevano dovuto combattere, e
i continui sacrifizî che erano stati chiamati a fare. Crebbero invece
l'egoismo, l'amore del lusso e del danaro negli ordini dominanti dei
cittadini. Le mogli dei patrizî veneti, coperte di gioie, vestite di
stoffe preziose, abitavano nel secolo XV quartieri di tanta ricchezza,
che non si trovavano neppure nei palazzi dei principi italiani. Gli
uomini però, dice il milanese Pietro da Casola, erano sempre assai
più modesti e severi che altrove; «parevano a vederli tanti dottori
di legge, e chi trattava con essi doveva tener bene aperti gli occhi
e le orecchie.»[33] Tuttavia la loro politica, se non era quella
dell'egoismo personale, che dominava nel resto d'Italia; se ebbe ancora
giorni di grandi sacrifizî e d'eroismo, era anch'essa guidata da un
ristretto patriottismo locale e quasi di casta. Guardavano con piacere
alla rovina d'Italia, perchè speravano così di riuscire più facilmente
a dominarla. E quando gli stranieri s'avvicinarono alle Alpi, li
lasciarono passare, credendo di poterli poi cacciare per succedere ad
essi. Invece, questo egoismo che non giovava a nessuno e minacciava
tutti, portò alla Lega di Cambray, in cui l'Europa s'alleò ai danni
della piccola Repubblica, la quale potè qualche tempo ancora resistere
con valore, ma non già salvarsi, come aveva presunto, in mezzo alla
rovina generale della patria comune.


4. — ROMA.

Fra l'infinita varietà di caratteri e d'istituzioni che ci presenta
l'Italia nel secolo XV, la storia di Roma forma quasi un mondo a
parte. Centro principale degli interessi di tutti i paesi cristiani,
la Città Eterna risentiva, più d'ogni altra, le grandi trasformazioni
che seguivano in Europa. La costituzione di Stati grandi e indipendenti
aveva spezzata e resa impossibile per sempre quella universale unità,
che il Medio Evo in parte aveva conseguita, in parte sognata. L'Impero
s'andava sempre più restringendo nei confini della Germania, e
l'Imperatore cercava rendersi forte con un dominio più sicuro e diretto
ne' suoi Stati proprî e personali. Così i Papi, dovendo omai rinunziare
ad ogni pretensione di universale dominio civile nel mondo, sentivano
più urgente la necessità di costituire davvero un loro regno temporale.
Se non che il trasferimento della sede in Avignone, ed il lungo scisma
avevano gettato nel disordine e fatto cadere nell'anarchia lo Stato
della Chiesa. Roma era dicerto un Comune libero, con una costituzione
simile a quella delle altre città italiane; ma, trovandosi in mezzo
ad una campagna deserta, il commercio e l'industria non vi erano mai
progrediti, ed il suo organismo politico non s'era mai potuto svolgere
con vigore, a cagione anche della eccezionale supremazia esercitata dal
Papa, dall'Imperatore, e dalla strapotenza dei nobili, che, favoriti
dai Papi, mettevano tutto a soqquadro. Gli Orsini, i Colonna, i
Prefetti di Vico erano veri e propri principi nei loro immensi dominî,
nei quali tenevano armi ed armati, nominavano giudici e notai, qualche
volta coniavano anche moneta. Il territorio di Roma era abbastanza
vasto, perchè andava dal Garigliano ai confini della Toscana; ma molte
delle città che ne facevano parte erano o cercavano continuamente di
rendersi indipendenti.

A che cosa fosse poi ridotto allora il dominio dei Papi in città
come Bologna, Urbino, Faenza, Ancona, le quali facevano parte dello
Stato della Chiesa, ma erano costituite in repubbliche o signorie
affatto indipendenti, può immaginarselo ognuno. Per fondare il dominio
temporale, bisognava quindi fare una vera e propria conquista.
Innocenzo VI (1352-62) aveva iniziato l'opera, mandando in Italia
il cardinale d'Albornoz, che col ferro e col fuoco sottomise una
gran parte dello Stato della Chiesa. Ma questa vantata sottomissione
si ridusse, in fondo, a costruire nelle principali città, fortezze
tenute in nome del Papa; a trasformare i tiranni in vicarî del Papa,
e far prestare dalle repubbliche atto d'obbedienza, riconoscendo
però i loro Statuti. Così gli Este, i Montefeltro, i Malatesta,
gli Alidosi, i Manfredi, gli Ordelaffi furono legittimi signori di
Ferrara, Urbino, Imola, Rimini, Faenza, Forlì. Invece Bologna, Fermo,
Ascoli ed altre città restarono repubbliche, sebbene riconoscessero
anch'esse la supremazia del Papa. La costituzione politica del Comune
di Roma cominciò allora ad essere trasformata. I Papi da lungo tempo
cercavano mutare in amministrative le sue magistrature politiche, e
per questa medesima via continuarono sempre fino a che non riuscirono a
distruggere del tutto le libertà comunali della Città Eterna. Un tale
lavoro, già molto avanzato, fu alla fine del secolo XIV interrotto
dallo scisma che lacerò lungamente la Chiesa, gettò di nuovo ogni cosa
nell'anarchia, e impedì la formazione d'ogni forte governo, d'ogni
ferma autorità.

L'anno 1417 finalmente il Concilio di Costanza fece cessare lo scisma,
deponendo tre Papi, ed eleggendo Ottone Colonna, che prese il nome di
Martino V. Così incominciò nella storia del Papato un nuovo periodo,
che durò sino al principio del secolo seguente, ed in esso i successori
di San Pietro sembrarono deporre ogni pensiero della religione, per
occuparsi solo di costituire il loro regno temporale. Divenuti simili
affatto agli altri tiranni italiani, adoperarono le stesse arti di
governo. Se non che la grande diversità della loro condizione nel
mondo, e l'indole propria dello Stato che dovevano governare, dava alle
loro azioni un carattere affatto speciale. Eletti generalmente in età
avanzata, i Papi si trovavano ad un tratto, in mezzo ad una nobiltà
riottosa e potente, alla testa d'uno Stato disordinato, scomposto,
in una città tumultuosa, nella quale erano spesso senza parenti o
amici, qualche volta stranieri affatto. Quindi, per cercar forza,
chiamavano e si davano a proteggere i fratelli, i nipoti che spesso
invece erano figli; e così ebbe origine quello scandalo nella Chiesa,
che fu noto col nome di nepotismo, e che è proprio più specialmente di
questo secolo. Entrati una volta nel turbinoso vortice della politica
italiana, i Papi si trovarono costretti a promuovere nel medesimo
tempo due interessi, che non di rado erano in collisione fra loro,
il politico cioè ed il religioso. Assai spesso la religione divenne
il mezzo di cui si valsero per conseguire i loro fini politici, e
quindi, sebbene sovrani di uno Stato piccolo e disordinato, poterono,
con l'autorità della Chiesa, mettere l'intera Italia a soqquadro;
e quantunque non riuscissero mai a dominarla tutta, la tennero
divisa, debole e sempre più facile preda degli stranieri, che essi
continuamente chiamarono. Da un altro lato cercavano valersi della loro
autorità politica, per tener viva quella forza religiosa che s'andava
spegnendo negli animi. Uno stato di cose tanto anormale sembrò turbare
stranamente la coscienza stessa di coloro che avrebbero dovuti essere
i rappresentanti di Dio sulla terra, e che, a poco a poco, perduto
ogni pudore, caddero in tali oscenità e delitti, che il Vaticano parve
qualche volta essere divenuto un'orgia di avvelenamenti, di congiure
e di stupri. Si correva così il rischio di estirpare ogni sentimento
religioso dal cuore dell'uomo, di scalzare per sempre le basi stesse
della morale.

I primi germi di questa funesta corruzione pur troppo nascevano
fatalmente dalle condizioni in cui si trovava allora il Papato, e
quindi cominciarono a portare i loro frutti anche sotto Martino V,
che fu forse il migliore dei Papi in quel secolo. Egli s'avanzò da
Costanza, secondo l'espressione d'un moderno, come un signore senza
terra, sì che a Firenze i fanciulli gli cantavano dietro canzoni di
scherno. Quando entrò in Roma il 28 settembre 1420, cogli aiuti della
regina Giovanna di Napoli, il popolo romano, perdute ormai le libere
istituzioni, si presentava a lui come una folla di poveri. La peste,
la fame, la guerra avevano per molti anni desolata la Città Eterna;
i monumenti, le chiese e le case erano in rovina; le strade piene
di macerie e di pantani; i ladri assalivano di giorno e di notte.
Nella Campagna era scomparsa l'agricoltura, e immense estensioni di
terre erano divenute deserti; le città del territorio combattevano
fra loro, e i nobili, chiusi nei loro castelli, che parevano nidi di
ladri, sprezzanti d'ogni autorità, intolleranti d'ogni freno e d'ogni
legge, facevano una vita da briganti. Martino V si pose all'opera con
fermezza, e prima di tutto compiè la distruzione del libero reggimento
di Roma, mutandolo addirittura in un municipio amministrativo. Molte
terre ribelli furono poi sottomesse, molti capi di bande armate furono
presi ed impiccati: cominciò così a ristabilirsi l'ordine, e ad aversi
finalmente una forma di regolare governo. Questo fu però ottenuto coi
mezzi che abbiamo qui sopra accennati. Il Papa, per trovare fautori
ed amici, si gettò addirittura in braccio ai Colonna, suoi parenti,
e fece loro concludere ricchi matrimonî, concesse loro nello Stato
della Chiesa o fece concedere nel regno di Napoli vasti feudi. Così
di potenti li rese strapotenti, ed iniziò il nepotismo. Per mantenere
la supremazia pretesa sempre dai Papi nel reame, e per cavarne in
ogni modo vantaggio ai suoi, sostenne prima Giovanna II, che lo aveva
aiutato ad entrare in Roma; poi Luigi d'Angiò, che la combatteva; poi
Alfonso d'Aragona, che trionfò di tutti. E questa funesta politica,
continuata anche da' suoi successori, fu precipua cagione della totale
rovina del Napoletano, ed in parte anche della rimanente Italia.
Pure in Roma si vedeva finalmente un'apparenza almeno di ordine e
di regolare governo. Le vie, le case, i monumenti si cominciavano a
restaurare; per la città e per molte miglia nella campagna si poteva,
dopo tanti anni, camminare senza tema d'esser rubati o assassinati. E
però, dopo la morte di Martino V (20 febbraio 1431), fu scritto sulla
sua tomba: _Temporum suorum felicitas_. Nè la iscrizione può dirsi del
tutto immeritata, tanto più che le sue colpe vennero ben presto fatte
dimenticare da quelle assai maggiori de' successori, ai quali mancarono
le sue virtù.

Eugenio IV che s'appoggiò agli Orsini, ed ebbe quindi fieramente
avversi i Colonna, venne subito cacciato da una rivoluzione, ed
inseguíto a colpi di pietre, quando se ne fuggiva pel Tevere, a
mala pena riuscendo a ripararsi in una barca (giugno 1434). Giunto a
Firenze, egli dovette rifarsi da capo, e mandò a Roma il patriarca
Vitelleschi, più tardi cardinale, che alla testa di bande armate,
cominciò col ferro e col fuoco un vero sterminio. La famiglia dei
Prefetti di Vico s'estinse in Giovanni, cui fu mozzato il capo; quella
dei Colonna fu in parte distrutta dal fiero prelato; la medesima
sorte subirono i Savelli. Molti castelli vennero spianati, molte
città distrutte, e gli abitanti correvano la Campagna affamati,
cercando qualche volta di vendersi come schiavi. Quando finalmente
il Vitelleschi, alla testa d'un piccolo esercito, entrava come un
trionfatore nella Città Eterna, che tremava ai suoi piedi, il Papa
insospettito gli mandò per successore lo Scarampo, altro prelato della
stessa tempra; ed il Vitelleschi, che voleva allora resistere, fu
subito circondato, ferito, preso e messo in Castel Sant'Angelo, dove
morì. Eugenio IV potè finalmente tornare tranquillo e sicuro in Roma; e
dopo tre anni anch'egli morì (1447).

Il destino di questo Papa, che sottomise definitivamente la Città
Eterna, fu singolare. Quando il Vitelleschi e lo Scarampo facevano
correre il sangue a fiumi, egli se ne stava a Firenze tra le feste
e gli eruditi. Senza aver grande cultura, nè sentir molto amore per
le lettere, trovandosi al Concilio fiorentino, ed avendo bisogno
d'interpetri per discutere e trattare coi rappresentanti della Chiesa
greca, si vide costretto ad ammettere gli eruditi nella Curia, la quale
ben presto ne fu inondata, il che portò poi un notevole mutamento
nella storia del Papato. Accanto al suo feretro venne recitato un
solenne elogio funebre, in latino classico, dal celebre umanista
Tommaso Parentucelli, il quale fu eletto a succedergli unicamente per
la gran fama della sua erudizione. Prese il nome di Niccolò V, e si
disse allora da tutti, che con lui era salita sulla cattedra di San
Pietro l'erudizione stessa. Trovando lo Stato abbastanza sicuro e
tranquillo, egli che non aveva un ingegno originale, nè conosceva il
greco (gravissima mancanza per un dotto del secolo XV), ma che era
il più grande raccoglitore ed ordinatore di antichi codici, portò
questa passione sulla sedia apostolica, facendone quasi unico scopo
del suo Papato. Il sogno principale della sua vita fu di trasformare
Roma in un gran centro di letterati, in una grande città monumentale,
con la prima biblioteca del mondo. Potendo, egli avrebbe trasportato
tutta Firenze sulle rive del Tevere. Mandò suoi messi in giro per
l'Europa, a raccogliere o copiare codici antichi; eccitò molti eruditi
a tradurre, con lauti stipendî, classici greci, senza occuparsi
delle loro opinioni religiose o politiche. Il Valla, che aveva con
gran clamore scritto contro la donazione di Costantino ed il potere
temporale dei Papi, fu dei primi ad essere chiamato da lui. Stefano
Porcari, che con la lettura dei classici s'era, come Cola di Rienzo,
infatuato della repubblica, fu pure colmato di onori. Costui però,
avendo addirittura cospirato per sovvertire il Governo e restaurare
gli ordini repubblicani, fece finalmente perdere la pazienza al Papa,
e venne condannato a morte. Ma nulla poteva intiepidire la passione
erudita di Niccolò V: a tutto egli rimediava con qualche discorso
latino, come fece per la caduta di Costantinopoli; e continuava sempre
a comprare codici, a chiamare eruditi. La Curia divenne un'officina di
truduttori e di copiatori; la biblioteca Vaticana s'andò accrescendo
con rapidità, e fu arricchita di molti volumi splendidamente legati.
Nello stesso tempo s'aprivano strade, si costruivano fortezze,
sorgevano chiese e monumenti d'ogni sorta. Era una febbrile attività,
perchè il Papa, coll'aiuto dei primi architetti del mondo, fra cui Leon
Battista Alberti, ideava un disegno, secondo cui Roma avrebbe vinto lo
splendore di Firenze. La città leonina doveva essere trasformata in
una grande fortezza papale, in cui San Pietro e il Vaticano dovevano
essere ricostruiti dalle fondamenta. Sebbene Niccolò V non riuscisse
a compiere questa impresa veramente grandiosa, alla quale sarebbero
bastate appena molte generazioni; pure la iniziò con tanto ardore,
che sotto di lui Roma mutò totalmente aspetto, ed i lavori immortali,
eseguiti al tempo di Giulio II e di Leone X, continuarono l'attuazione
del suo medesimo disegno.

Il 24 marzo 1455 Niccolò V moriva da vero erudito, dopo aver fatto cioè
un discorso latino ai cardinali ed agli amici. Successe a lui, col
nome di Calisto III, uno Spagnuolo, abile giurista, venuto in Italia
come avventuriero politico, accompagnando Alfonso d'Aragona. Costui
aveva settantasette anni; apparteneva al clero allora corrottissimo
della Spagna, non ancora disciplinato e domato dalla politica di
Ferdinando e d'Isabella; portava il nome, divenuto poi assai infausto,
dei Borgia: il suo breve papato fu come una meteora annunziatrice di
futuri guai. Di codici e di eruditi non s'occupò punto nè poco. Con
una cieca avidità, senza riguardi e senza pudore, colmò di onori, di
possessi e di danari i suoi nipoti, uno dei quali doveva poi prender la
tiara col nome ben noto d'Alessandro VI. Riempì la città d'avventurieri
spagnuoli, affidando loro l'amministrazione e la polizia, il che
fece crescere a dismisura i delitti. Il sangue scorreva, l'anarchia
minacciava di tornare in Roma, quando il vecchio Calisto morì (6 agosto
1458), ed allora uno scoppio improvviso di furor popolare mise in fuga
gli Spagnuoli, e gli stessi nipoti del Papa a fatica scamparono la
vita.

Successe un altro Papa erudito, Enea Silvio Piccolomini senese, uomo
vario, versatile d'ingegno e di carattere. Dopo una vita passata
prima nei piaceri, poi nelle discussioni di Basilea, dove sostenne
l'autorità di quel Concilio contro il Papa; più tardi tra gli affari
della cancelleria imperiale in Germania, dove fu primo a propagare la
erudizione italiana, egli rinnegò finalmente le sue ardite dottrine,
condannò i trascorsi giovanili, e così potè salire di grado in
grado negli ordini ecclesiastici fino al Papato (19 agosto 1458),
pigliando il nome di Pio II. Continuò sempre a studiare ed a scrivere
pregevoli opere; ma non protesse i dotti, come tutti avevano sperato,
occupandosi invece di dare ufficî e protezione a' suoi parenti ed a'
suoi Senesi. Roma era caduta nuovamente in preda all'anarchia, in
conseguenza della pazza politica di Calisto III, il quale, sebbene
creatura degli Aragonesi, aveva favorito gli Angioini; ma Pio II, più
accorto, favorì gli Aragonesi, e potè col loro aiuto sottomettere i
ribelli. Il pensiero dominante di questo Papa, fu la Crociata contro
il Turco; ma, uomo del suo secolo, ed umanista, egli era mosso più da
entusiasmo retorico che da zelo religioso. In Mantova, dove invitò a
solenne congresso i principi cristiani (1459), s'udirono molti discorsi
latini; ma fu più che altro un'accademia letteraria, con grandi
promesse, che restarono senza effetto. Perseverando nella stessa idea,
il Papa erudito scrisse una lettera latina al sultano Maometto II, con
la strana pretensione di convertirlo. Invece arrivavano sempre nuovi
esuli greci, fuggendo dinanzi ai Turchi, che avevano invaso la Morea;
e Tommaso Paleologo, che ne era stato il despota, portava ora in Roma
la testa dell'apostolo Andrea. Tutta la città parve allora trasformata
in una chiesa in festa, per ricevere la sacra reliquia, che venne
accompagnata da 30,000 fiaccole; e Pio II ne pigliò occasione a fare un
altro solenne discorso latino in favore della Crociata, ad un popolo
scettico, nel quale molti ammiravano la nuova reliquia cristiana solo
perchè era portata da gente che parlava la lingua d'Omero.

Nel 1462 il Papa aveva raccolto buona somma di danaro, per l'improvvisa
scoperta di ricche miniere d'allume a Tolfa, e tornò da capo all'idea
della Crociata, invitando i principi a partire subito per l'Oriente.
Vecchio e malato com'era, si fece portare in lettiga ad Ancona, dove
s'aspettava di trovar navi ed eserciti, che voleva accompagnare per
benedire egli stesso la battaglia, come fece Mosè quando Israele
combatteva contro Amalech. Invece il porto era vuoto, e quando
arrivarono finalmente poche galee veneziane, Pio II spirò guardando
l'Oriente, e raccomandando la Crociata (15 agosto 1464). Questa vita,
che a primo aspetto può sembrare soggetto degno di romanzo o anche
d'epico racconto, fu in sostanza priva d'ogni vera gloria o santità
religiosa. Pio II fu un erudito di molto ingegno, che voleva compiere
qualche cosa d'eroico, senza avere in sè stesso nessuna eccezionale
grandezza morale. Sebbene fosse, tra i Papi di quel secolo, il più
notevole certo per ingegno, non ebbe profonde convinzioni; rifletteva
le opinioni e le velleità degli uomini fra cui viveva, mutando sempre,
secondo i tempi e secondo le condizioni, in cui si trovava. Il suo
regno sembrò avere un certo splendore, e dar molte speranze; ma in
fatto poi non lasciò nulla di durabile dietro di sè. Dopo che v'erano
stati Papi che avevano colla forza fondato il temporale dominio, e
Papi che avevano fatto fiorire a Roma le lettere e le arti; dopo che
egli, mantenendo l'ordine, aveva col predicare la Crociata, dato anche
l'apparenza d'un risveglio religioso in Italia, poteva aspettarsi
un'èra migliore di pace sicura. Invece ora appunto si scatenano le
passioni, e sono vicine le più grandi oscenità, i più terribili delitti
nella Corte di Roma.

Paolo II, consacrato il 16 settembre 1464, s'avvicinò a questo nuovo
e più funesto periodo, senza averlo però ancora cominciato davvero;
può anzi dirsi migliore della sua fama. Tuttavia, non curante delle
lettere, egli era invece dato ai piaceri della vita, e sebbene non
privo di qualità politiche, reputò arte di governo corrompere il popolo
colle feste, che promosse profondendo tesori. Il suo nome passò odiato
appresso i posteri, perchè, senza riguardi, cacciò gli eruditi dalla
segreteria apostolica, per mettervi invece i suoi fidi. E quando gli
scacciati levarono i più alti clamori, e nell'Accademia Romana di
Pomponio Leto cominciarono a tenere discorsi che ricordavano Cola di
Rienzo e Stefano Porcari, sciolse l'Accademia e ne imprigionò i membri.
Il Platina allora, chiuso e torturato in Castel Sant'Angelo, giurò
vendetta, e la fece nelle sue ben note _Vite dei Papi_, le quali ebbero
una grande diffusione. In esse egli descrisse il suo persecutore come
un mostro di crudeltà. Il vero è però che Paolo II, senza punto essere
un buon Papa, non fu privo di meriti. Riordinò la giustizia, punendo
severamente molti di quei manigoldi, che, a servizio dei magnati,
empivano Roma di delitti; fece fare una nuova compilazione degli
Statuti romani; combattè con energia i Malatesta di Rimini, e distrusse
l'oltracotanza degli Anguillara, che possedevano gran parte della
Campagna e del territorio di San Pietro. Nè si può troppo fermarsi a
biasimare le sue colpe, quando si pensa ai tempi ed a coloro che gli
successero.

I tre Papi che seguono adesso, Sisto IV, Innocenzo VIII ed Alessandro
VI, sono quelli che riempiono il più triste periodo nella storia del
Papato, e ci mostrano davvero a quali condizioni fosse ridotta allora
l'Italia. Il primo di essi era un frate genovese, che, appena eletto
(9 agosto 1471), si mostrò subito un tiranno violento, senza scrupoli
di sorta. Aveva bisogno di danari, e mise in vendita ufficî, benefizî,
indulgenze. Proteggeva con indomabile ardore i nipoti, alcuni dei quali
si credeva, invece, che fossero suoi figli. Uno di essi, Pietro Riario,
fatto cardinale, ebbe 60,000 scudi di rendita, e s'abbandonò al lusso,
alle feste, alle dissolutezze, così perdutamente che ne morì subito,
esausto di forze e carico di debiti. Il fratello Girolamo, ugualmente
favorito, faceva la medesima vita. Tutta la politica del Papa era
diretta dall'avidità d'acquistare o conquistare pei nipoti e pei figli.
L'avere Lorenzo dei Medici attraversato questi disegni, fu cagione
che la congiura dei Pazzi venisse tramata nel Vaticano stesso; e non
essendo riuscita, il Papa mosse guerra a Firenze, e la scomunicò. Più
tardi s'unì coi Veneti contro Ferrara, sempre col medesimo intento di
strappare qualche provincia pe' suoi, e ne seguì una guerra generale,
pigliandovi parte ancora i Napoletani, che assalirono Roma, dove subito
si scatenarono le fazioni dei nobili. Roberto Malatesta da Rimini
fu chiamato a difendere la Città Eterna, ed essendo morto di febbre
malarica, presa nella guerra, il Papa voleva profittarne, spogliando
dello Stato l'erede di lui, disegno però che i Fiorentini mandarono a
vuoto.

Vedendosi in pericolo, mutò bandiera, e s'unì coi Napoletani contro
Ferrara e contro i Veneti, i quali ultimi sembrava a lui che volessero
condurre la guerra solo a proprio vantaggio. Si volse inoltre a far
vendette contro i nobili, a lui avversi, specialmente i Colonna.
Girolamo Riario, avido di sangue, comandava le artiglierie che furono
benedette dal Papa stesso, e prese a tradimento il castello di Marino,
con la promessa di salvare la vita al protonotario Lorenzo Colonna, che
fu invece decapitato. Al funerale in SS. Apostoli, la madre, accecata
dal dolore, prese pei capelli la testa del figlio, e mostrandola al
popolo esclamò: Ecco la fede del Papa! Tutte queste scene di sangue
non turbarono punto nè poco l'animo di Sisto IV. Quando però gli giunse
improvvisa la notizia che i Veneti, da lui abbandonati, avevano, senza
consultarlo e senza tener conto di lui nè de' suoi, fatto la pace di
Bagnolo (7 agosto 1484); allora, assalito da febbre violenta, morì (12
agosto), come si disse da tutti, pel dolore della pace.

    _Nulla vis saevum potuit extinguere Sixtum;_
      _Audito tantum nomine pacis, obit_.[34]

Le case del Riario andavano a sacco, gli Orsini e i Colonna erano in
armi, quando i cardinali, accorsi in fretta al Conclave, riuscirono
a stabilire una tregua. Ed allora cominciò il più scandaloso mercato
di voti per la elezione alla sede apostolica, che si vendeva al
maggiore offerente. Il fortunato compratore fu allora il cardinale
Cibo, che venne proclamato il 29 agosto 1484 col nome d'Innocenzo
VIII. Nemico degli Aragonesi, entrò subito nella congiura dei baroni
napoletani, promettendo loro uomini, armi, danari, e la chiamata d'un
nuovo pretendente angioino. La città d'Aquila cominciò la ribellione,
sollevando la bandiera della Chiesa (ottobre 1485); Firenze e Milano
si dichiararono per gli Aragonesi; Venezia e Genova furono, invece,
col Papa e coi baroni, i quali erano aiutati dai Colonna: gli Orsini,
armati nella Campagna, vennero fin sotto le mura stesse di Roma. La
confusione giunse al colmo; il Papa, disperato d'aiuto, armò anche
i condannati per delitti comuni; i cardinali erano divisi, il popolo
impaurito, e solo il cardinale Giuliano della Rovere passeggiava sulle
mura, pronto alla difesa. Da un momento all'altro s'aspettava l'assalto
del Duca di Calabria. Se non che, l'invito fatto dal Papa a Renato II
di Lorena fece concludere la pace, obbligandosi Ferrante ad un annuo
tributo, ed a dare amnistia ai baroni, che invece poi furono uccisi.

L'anarchia s'era, fra tanta confusione, di nuovo scatenata in Roma,
nè si vedeva modo di contenerla: ogni mattina si trovavano cadaveri
per le vie. Chi pagava, otteneva un salvocondotto; chi non pagava, era
impiccato a Tor di Nona. Ogni delitto aveva la sua tariffa, e le somme
maggiori di 150 ducati andavano a Franceschetto Cibo figlio del Papa,
le minori alla Camera. Il parricidio, lo stupro, tutto poteva essere
assoluto per danaro. Il Vice-Camerlengo diceva ridendo: Il Signore
non vuole la morte del peccatore, ma che viva e paghi. Le case dei
cardinali erano piene di armi, di bravi e di malfattori, cui davano
asilo. Nè era molto diverso lo stato delle cose in provincia. A Forlì
fu assassinato Girolamo Riario (1488), dicevasi, perchè il Papa voleva
dare quello Stato a Franceschetto Cibo; a Faenza Galeotto Manfredi
fu ucciso dalla moglie. Il pugnale ed il veleno lavoravano per tutto;
le più diaboliche passioni s'erano scatenate in Italia, e Roma era la
fucina principale dei delitti.

Intanto Innocenzo VIII si divertiva colle feste. Egli fu il primo dei
Papi che riconoscesse apertamente i proprî figli, e ne celebrasse le
nozze. Franceschetto sposò Maddalena di Lorenzo de' Medici (1487), ed
il fratello di lei, Giovanni, fu in compenso fatto cardinale all'età
di 14 anni. In mezzo a queste ed altre splendide feste di famiglia,
arrivava un singolare personaggio, il quale veniva a compiere lo
strano spettacolo che offeriva Roma in quel tempo. Djem o, come lo
chiamavano gl'Italiani, Gemme, era stato vinto e messo in fuga quando
contrastava al fratello Bajazet la successione al trono di Maometto
II. Capitato a Rodi, i cavalieri di quell'Ordine lo avevano fatto
prigioniero, ricevendo da Bajazet 35,000 ducati l'anno, a condizione
che non lo lasciassero fuggire. Più tardi Innocenzo riuscì ad avere
per sè la ricca preda, ottenendo 40,000 ducati annui da Bajazet, il
quale prometteva una somma assai maggiore, quando gli fosse stato
mandato il cadavere del fratello, cosa che però al Papa non metteva
conto. E così il 13 marzo 1489 Gemme, vestito del suo abito nazionale,
immobile sul suo cavallo, impassibile nella sua severa malinconia
orientale, entrava solennemente in Roma, ed alloggiava nel Vaticano,
dove s'occupava di musica e di poesia. La presa di Granata, ultimo
asilo dei Mori nella Spagna, l'arrivo di sacre reliquie dall'Oriente,
tutto dava luogo a feste, a processioni, a baccanali romani. Memorabile
fu anche l'arrivo del giovane cardinale Giovanni dei Medici, che aveva
allora soli diciassette anni. A lui il padre Lorenzo, fra molti savî
consigli, scriveva: si ricordasse che entrava nella sentina di ogni
male. E così era veramente. I figli ed i nipoti del Papa facevano
tutti parlare della loro vita scandalosa. Franceschetto Cibo in una
sola notte perdeva 14,000 fiorini, giocando col cardinal Riario, che
accusò al Papa come giocatore falso; ma i danari erano già pagati.
La Città Eterna era divenuta un gran mercato d'ufficî, che spesso
venivano creati a bella posta per essere venduti; nè solo ufficî, ma
si vendevano ancora bolle false, indulgenze ai peccatori, impunità agli
assassini. L'Infessura afferma che un padre fu con 800 ducati assoluto
dell'uccisione di due figlie. Ogni sera si gettavano nel Tevere i
cadaveri trovati nelle vie.

In mezzo a queste orgie infernali, il Papa di tanto in tanto cadeva
in un sopore che lo faceva creder morto; ed allora i cardinali, i
parenti correvano ad assicurarsi di Gemme, dei tesori, e la città era
in tumulto. Il Papa si risvegliava, e di nuovo cominciavano le feste,
continuavano gli assassinî. Finalmente un altro accesso del male non
dava più nessuna speranza. I parenti circondavano ansiosi il letto
del moribondo, che pigliava solo latte di donna: si disse ancora che
fu tentata la trasfusione del sangue, nel quale esperimento sarebbero
morti tre bambini. Ma tutto fu vano, chè il 25 luglio 1492, l'anno
stesso in cui chiudeva gli occhi Lorenzo de' Medici, Innocenzo VIII
cessava di vivere in età di sessanta anni. Quando era morto Sisto
IV, l'Infessura benediceva il giorno in cui Iddio aveva liberato
il mondo da un tal mostro; e fu eletto invece un Papa peggiore.
Nessuno supponeva ora che fosse possibile peggiorare ancora; eppure
venne eletto Alessandro VI, che seppe, colle sue scelleratezze, far
dimenticare tutte quelle dei suoi predecessori. Noi ne parleremo quando
dovremo narrare la catastrofe che, sotto il suo pontificato e in parte
per opera sua, colpì tutta l'Italia.[35]


5. — NAPOLI.

Il regno di Napoli somiglia ad un mare sempre in burrasca, che però,
nella immutabile uniformità de' suoi movimenti, ci presenta una
continua monotonia. Glorioso senza dubbio era stato il periodo degli
Hohenstaufen; ma esso si chiuse colla nobile morte di Manfredi, e colla
tragica fine di Corradino (29 ottobre 1268), dramma il cui lugubre eco
riempie tutto il Medio Evo. Il trionfo degli Angioini, chiamati dai
Papi, stati sempre acerrimi nemici del grande Federigo II e de' suoi
successori, fu il principio d'infinite calamità. La mala signoria di
Carlo I d'Angiò fece ben presto ribellare i popoli; onde per domarli
fu giuocoforza appoggiarsi ai baroni, che divennero potentissimi, si
divisero in fazioni, lacerarono quel misero paese, e divennero spesso
un'arme potentissima in mano dei Papi, i quali vi chiamarono sempre
nuovi pretendenti, ogni volta che videro un principe farsi colà troppo
potente. Con questi mezzi cercarono acquistar terre ai loro nipoti,
e mantenere la loro supremazia nel Reame, che di continuo desolarono,
gettandolo nell'anarchia con danno infinito di tutta Italia. Pagarono
nondimeno il fio di questa iniqua politica, perchè i nobili romani,
avendo esteso i loro dominî anche colà, divennero sudditi dei due
sovrani, e furono così una leva adoperata vicendevolmente dall'uno
a danno dell'altro, con inevitabile rovina d'ambedue. Intanto il
Napoletano fu sottoposto ad un vero e lungo processo di dissoluzione.
Ogni giorno sorgevano nuovi pretendenti, il popolo era sempre oppresso,
i baroni sempre in rivolta, nessuna istituzione poteva acquistare
stabilità e fermezza, nessun carattere riesciva lungamente a dominare
e guidare gli altri. Sotto Giovanna I, che ebbe quattro mariti e morì
soffocata con un piumaccio, il Reame era già caduto nell'anarchia, e la
corte era un ridotto di avventurieri dissoluti. Più tardi re Ladislao
pareva che dovesse iniziare un'èra novella: domati i baroni, vinti i
nemici interni, poneva guarnigione in Roma stessa, e s'avanzava alla
testa di un forte esercito, facendo credere di volere ed anche di
sapere divenire re d'Italia, quando improvvisamente morì a Perugia
di veleno, secondo che generalmente fu detto e creduto (1414). Con
Giovanna II, sorella di Ladislao, si fu di nuovo tra le oscenità e
l'anarchia. Vedova, vecchia, dissoluta, innamorata del suo scalco, fece
cadere lo Stato in preda dei nobili, dei capitani di ventura e dei più
bassi cortigiani. Martino V, che l'aveva fatta incoronare nel 1419,
chiamò l'anno seguente Luigi III di Angiò a combatterla qual nuovo
pretendente; ed essa invitò di Spagna Alfonso d'Aragona, che proclamò
suo successore, per poi nominare invece Renato di Lorena, il quale ebbe
l'aiuto di Eugenio IV e del duca di Milano. Ne seguì una guerra lunga
e rovinosa, che finì solo quando Alfonso d'Aragona, vittorioso in molte
battaglie, entrò nella capitale pei condotti d'acqua di Porta Capuana,
il 2 giugno 1442, e fu finalmente signore del Reame con grandi fatiche
e guerre conquistato. Così venne fondata la dinastia aragonese.

In che misere condizioni si trovasse quello Stato, e quanto
universalmente fosse allora desiderata la pace, non occorre dirlo.
Il trionfo d'Alfonso fu salutato come il principio d'un'èra novella.
Egli aveva lasciato la Spagna per venire a fare tra noi una guerra
avventurosa, con la quale, sostenendo fatiche e pericoli d'ogni
sorta, aveva conquistato un vasto regno combattendo e vincendo i
primi capitani del secolo, un numero assai grande di nemici. Straniero
all'Italia, comandava ora provincie da lungo tempo lacerate e dominate
da stranieri; mutò assai rapidamente il suo carattere nazionale, per
divenire in tutto simile ai nostri principi, con uno spirito militare
e cavalleresco, però, che essi avevano di rado. Passeggiava disarmato
e senza guardie in mezzo al suo popolo, dicendo che un padre non deve
temere de' suoi figli. La sua corte era piena di eruditi, e mille
aneddoti si raccontavano a provare la sua straordinaria ammirazione per
gli antichi.

Passando coll'esercito accanto alle città, in cui qualche scrittore
latino era nato, si fermava come dinanzi ad un santuario; viaggiava
sempre con un esemplare di Livio o di Cesare. Il suo panegirista
Panormita pretendeva di averlo guarito da una malattia, leggendogli
alcune pagine di Quinto Curzio; e si diceva che Cosimo de' Medici
aveva concluso con lui la pace, inviandogli un codice di Livio. Uomo di
guerra e d'animo spregiudicato, spesso in lotta coi Papi, accoglieva
tutti quei dotti che altrove erano perseguitati. Così fu del Valla,
quando dovè fuggire da Roma per l'opuscolo contro la donazione di
Costantino ed il potere temporale dei Papi; così del Panormita,
quando il suo _Ermafrodito_, tanto lodato per la facile eleganza del
verseggiare, scandalizzò per la oscenità che allora non erano anche
divenute familiari tra gli eruditi, e fu anatemizzato dai pergami.
Questi ed altri molti letterati venivano amichevolmente accolti, e
splendidamente remunerati con stipendî, anche con case e con ville.
Portato a cielo dai dotti, Alfonso ebbe il nome di Magnanimo per la
sua generosità e pel suo spirito cavalleresco. Ma come uomo politico,
come fondatore d'una dinastia e riordinatore d'un regno, non gli si
può dare gran merito. Dopo avere desolate colla guerra le infelici
provincie del Mezzogiorno, le dissanguò colle imposte, per pagare i
soldati e premiare i nobili suoi fautori, sui quali accumulò immensi
favori, rendendoli sempre più prepotenti. Dato ai piaceri della vita,
non seppe, in sedici anni di un regno non contrastato, fondare nulla
di stabile; nulla che sollevasse il popolo dalla estrema miseria in
cui l'aveva colla guerra trascinato; nulla che, consolidando lo Stato,
assicurasse la dinastia. Morto in età di 63 anni compiuti (1458),
lasciò i suoi dominii ereditarî nella Spagna, con la Sicilia e la
Sardegna, al fratello; il regno di Napoli, frutto della conquista,
al figlio naturale Ferdinando, la cui origine materna era avvolta nel
mistero.

Erede d'un vasto regno conquistato e pacificato dal padre, poteva
Ferdinando o Ferrante, come lo chiamavano, sperare di possederlo
tranquillamente; ma dovè invece riconquistarlo colle armi, perchè il
disordine latente portò subito i suoi frutti. La prima scintilla fu
accesa da papa Calisto, il quale doveva tutto ad Alfonso, ed aveva
legittimato Ferrante. Invece ora dichiarava estinta la discendenza
aragonese, ed il Reame devoluto alla Chiesa come feudo. I baroni
angioini furono in armi; Renato di Lorena sbarcò tra le foci del
Volturno e del Garigliano; la rivoluzione scoppiò in Calabria
ed altrove. Pure, combattendo continuamente, Ferrante riuscì nel
1464 a sottomettere di nuovo tutto il Regno; ed allora non pensò a
riordinarlo, ma solo a fare le sue vendette. Egli preferiva spegnere
i proprî nemici a tradimento. Con una crudeltà ributtante davvero li
abbracciava, li carezzava e li cibava lautamente prima di mandarli a
morte. Uomo di singolare ingegno, di grande penetrazione politica e
di coraggio, ma pieno di vizî e di contradizioni, mantenne nel Regno
un'amministrazione rovinosa, facendo anche commercio per proprio conto.
Raccoglieva derrate, ed obbligava i sudditi a non vender le loro, se
prima egli non aveva venduto le sue al prezzo che voleva. Tutto era
fondato sopra un sistema artificioso, falso, che finiva col distruggere
le forze dello Stato, sebbene il re avesse scelto a ministri uomini
abilissimi. Fra questi sono noti il segretario Antonello Petrucci ed il
Pontano, che era non solamente uno dei più grandi eruditi del secolo,
ma anche un accortissimo diplomatico. Egli fu il principale ministro
di Ferrante, conduceva le relazioni cogli Stati italiani, scriveva i
dispacci diplomatici, concludeva i trattati. Francesco Coppola conte
di Sarno, ricchissimo e potente, dirigeva l'amministrazione e le
operazioni commerciali per trovare danari, senza alcun rispetto umano
o divino. Ma questi abili ministri non erano che strumenti della falsa
politica d'un tiranno accorto e d'ingegno, il quale trattava il popolo
e lo Stato come una tenuta, da cui voleva, durante la sua vita, cavare
più danaro che poteva, lasciando ai posteri la cura del poi. A ciò
s'aggiungeva che il Duca di Calabria, Alfonso, più crudele, superbo e
tiranno del padre, senza averne l'ingegno nè il coraggio, disgustava
chiunque lo avvicinava. Quando i Turchi, che avevano occupato
Otranto, si ritirarono per la morte di Maometto II, parve al volgo che
fuggissero dinanzi alle armi d'Alfonso, e ciò lo rese più superbo ed
insopportabile che mai, in modo che lo stesso Antonello Petrucci ed
il conte di Sarno, disgustatissimi del presente, e temendo più ancora
dell'avvenire, pel carattere di colui che sarebbe successo al trono,
si gettarono a capo degli scontenti, decisi a tentare la rivolta. Papa
Innocenzo soffiò nel fuoco, e ne venne la congiura dei baroni, la quale
mise in fiamme il Reame, e minacciò di portare una guerra generale in
Italia (1485). Ma Ferrante seppe, colla sua astuzia e col suo coraggio,
sedare anche questa tempesta; concluse la pace e fece poi le sue
vendette.

Questa politica era tale da poter riuscire solamente finchè si trattava
di domare un regno esausto e disordinato, esaurendolo ancora di più.
Quando invece fosse sorto un pericolo esterno, essa non poteva più
trovarsi in grado di riparare. Ed un tale pericolo allora appunto
era vicino, perchè Carlo VIII di Francia s'apparecchiava a quella
funesta impresa, che doveva ricominciare le invasioni straniere nella
Penisola. Ferrante, già vecchio, se ne avvide subito, ed annunziò
le vicine calamità a tutti i principi d'Italia, pregandoli d'unirsi
a difesa comune. Le lettere che scrisse allora hanno un accento di
dolore, un'eloquenza passionata che sembra sollevare e nobilitare il
suo animo, e dimostrano un acume politico, che par quasi profetico.[36]
Egli ora prevedeva e descriveva mirabilmente tutte le sventure che
s'apparecchiavano alla patria ed a quei principi che, come lui accecati
dalla propria furberia, avevano reso inevitabile la comune sciagura. Ma
era troppo tardi. L'Italia non poteva più salvarsi dall'abisso in cui
cominciava a rovinare; Ferrante doveva morire colla coscienza torturata
dinanzi alla caduta del suo regno e della sua dinastia, già visibile
quando egli chiudeva gli occhi (25 gennaio 1494).

Tutto il lungo dramma che abbiamo esaminato, è un apparecchio alla
generale catastrofe che s'avvicina. E se dai più grossi Stati, in cui
è divisa la Penisola, ci volgessimo ai minori, troveremmo a Ferrara,
Faenza, Rimini, Urbino, dappertutto la stessa serie di delitti, la
stessa corruzione. I piccoli principi, anzi, essendo più deboli e fra
maggiori pericoli, commettevano spesso più numerose e crudeli violenze,
per salvare il minacciato potere. Non tralasciavano però neppur essi di
promuovere la cultura delle lettere, delle arti, d'ogni più squisita
gentilezza del vivere civile, rendendo sempre più evidente quel
singolare contrasto, che è uno dei caratteri propri del Rinascimento
italiano, e forma per noi una delle difficoltà principali a ben
comprenderlo.

Non pochi scrittori italiani, animati da un patriottismo che non
è sempre guida sicura nel giudicare i fatti della storia, vollero
dimostrare che la condizione politica e sociale dell'Italia nel secolo
XV era simile a quella di tutta l'Europa, e non ha perciò nulla che
possa maravigliarci. Luigi XI, si disse, fu un mostro crudele, autore
dei più fraudolenti intrighi; i veneficî di Riccardo III non sono
ignoti; Ferdinando il Cattolico si vantava di avere più di dieci
volte ingannato Luigi XII; il gran capitano Consalvo era un famoso
spergiuro, ecc.[37] Pur troppo i grandi Stati s'andavano formando in
Europa, distruggendo coll'inganno e con la violenza i governi e le
istituzioni locali. In tali condizioni di guerra i più neri delitti,
le più atroci vendette avevano luogo dappertutto; e se nella barbarie
del Medio Evo ci sembrano fatti quasi naturali, in mezzo alla cultura
rinascente per ogni dove, ci appaiono enormi ed inescusabili. Ma più
inescusabili assai appaiono in Italia, dove tanto maggiore era la
cultura, e quindi più visibile la contradizione che ci presenta questa
mescolanza di civiltà e di barbarie, riunite in un medesimo secolo.
Nè si deve dimenticare che i principi come Luigi XI e Ferdinando
il Cattolico compierono pure, nonostante i loro delitti, un'opera
nazionale, facendo della Francia e della Spagna due grandi e potenti
Stati, quando i nostri mille tiranni mantennero sempre divisa la patria
coll'unico scopo personale di restare sui loro deboli troni. E se la
iniqua politica del secolo XV riuscì triste da per tutto, essa venne
pure iniziata in Italia, che ne fu maestra alle altre nazioni; e fra
di noi il numero di coloro che vi presero parte fu anche infinitamente
maggiore che altrove. Ad ogni piè sospinto s'incontravano tiranni, capi
di parte, cospiratori, politici, diplomatici; ogni Italiano pareva anzi
un politico ed un diplomatico nato. Così la corruzione ebbe modo di
diffondersi assai più che altrove, penetrando largamente dal governo
nella società. E questa politica italiana, che mise in moto tante e
così prodigiose forze intellettuali, e produsse una sì grande varietà
di caratteri, finì poi col fabbricar solamente sull'arena.

Certo, discendendo assai basso negli ordini sociali, si trovano sempre
saldi i vincoli della famiglia, ancora intatti i costumi antichi,
un'assai migliore atmosfera morale. E quando usciamo da quelle regioni
in cui, come a Napoli, a Roma, nelle Romagne, una serie continua di
rivoluzioni aveva disordinato e sovvertito ogni cosa, noi troviamo
in Toscana, nel Veneto, altrove, un popolo più civile, più mite,
più culto assai che nel resto d'Europa, ed un assai minor numero di
delitti comuni. Di questo gli storici, specialmente gli stranieri, non
tennero conto; e giudicando tutta la nazione dagli ordini superiori
della società, che erano i più corrotti, furono indotti in errore nel
giudicare le condizioni morali dell'Italia, la quale sarebbe caduta
assai più basso e non avrebbe potuto sopravvivere a sè stessa, se fosse
stata veramente quale essi la descrissero. Ma non si può negare che
nella Francia, nella Spagna, nella Germania, appunto perchè la vita
politica era serbata a pochi, la corruzione che ne seguiva era assai
meno diffusa; e vi erano pur sempre istituzioni e tradizioni ancora
salde, opinioni non soggette a discussione, autorità rispettate.
Questo creava naturalmente una forza ed una moralità pubblica, che
mancava fra noi, dove tutto era sottomesso alla più minuta analisi
dall'irrequieto spirito italiano, che cercava gli elementi d'un
mondo nuovo, distruggendo quello in cui si trovava. Gli ambasciatori
veneti e fiorentini, quando vanno alla corte di Carlo VIII o di Luigi
XII, sembrano ridere di tutto. Trovano il principe senza ingegno, i
diplomatici rozzi, l'amministrazione confusa, le faccende abbandonate
al caso; ma sono maravigliati ancora nel vedere l'autorità immensa
che gode il re: quando egli si muove, essi dicono, tutti lo seguono
e l'obbediscono. E questo formava la grande forza del paese. Il
Guicciardini, nei suoi dispacci dalla Spagna, dimostrava chiaro di
odiare e disprezzare quella nazione; pure non si poteva astenere
dal notare che gl'interessi personali di Ferdinando il Cattolico,
trovandosi d'accordo con l'interesse generale del paese, la politica
di quel re traeva da ciò una forza ed un valore grandissimi. I costumi
della Germania e della Svizzera sembravano al Machiavelli simili a
quelli degli antichi Romani, ch'egli tanto ammirava. Se il disordine
e la corruzione morale delle altre nazioni fossero stati in tutto
identici a quelli in cui si trovava l'Italia, come si spiegherebbero
questi giudizî d'uomini pure assai competenti? Come si spiegherebbe che
l'Italia decadeva già prima d'essere invasa dagli stranieri, quando
le altre nazioni sorgevano a nuova vita? Ma bisogna, come abbiamo
già detto, guardarsi dall'esagerare, perchè altrimenti resterebbe
inesplicabile ancora la grande vitalità che pur ebbe la nazione
italiana, e più di tutto il suo meraviglioso progresso nelle arti e
nelle lettere. Di questo passiamo ora a dare un cenno.


III.

LETTERATURA


1. — IL PETRARCA E L'ERUDIZIONE.[38]

Fra Dante Alighieri (1265-1321) e Francesco Petrarca (1304-74) non
passa una gran distanza di tempo; ma chi studia la vita e gli scritti
loro crederebbe quasi che essi appartengano a due secoli diversi.
Dante apre colle sue opere immortali un'èra novella; resta però sempre
con un piede nel Medio Evo. Egli si è fatta «parte per sè stesso,» ed
ha un supremo disdegno per la compagnia «malvagia e scempia» che lo
circonda;[39] ma è anche un partigiano fierissimo, che lotta tra le
fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini; impugna la spada a Campaldino.
L'Impero che vagheggia ed invoca è sempre l'Impero medievale, che egli
difende con ragioni prese parte dalla scolastica, che penetra anche nel
suo divino poema, in parte però ispirate ad un senso quasi profetico
dell'avvenire. La sua anima è piena di fede religiosa e d'energia
morale; la sua immagine ci apparisce come scolpita dalla mano di
Michelangelo, in mezzo al tumulto delle passioni del secolo contro cui
combatte, ma dal quale non è ancora uscito del tutto.

Il Petrarca invece fa parte d'un altro mondo, e quando si pensa che con
lui s'inizia un periodo affatto nuovo dello spirito e della cultura
nazionale, riesce assai difficile comprendere, come mai in sì breve
periodo di tempo, l'Italia abbia potuto tanto e così rapidamente
mutare. D'un carattere più debole, d'un genio poetico meno originale,
e, sebbene vesta l'abito ecclesiastico e goda parecchi benefizî, d'una
fede religiosa assai più fiacca, egli non è nè guelfo, nè ghibellino;
disprezza la scolastica; sente che la letteratura diviene una nuova
potenza nel mondo, che egli deve tutta la sua forza al proprio ingegno
e valore letterario; ha quasi dimenticato il Medio Evo, e si presenta
a noi come il primo uomo moderno. Singolare è però il vedere come
tutto questo s'unisca in lui ad un amore, quasi ad un fanatismo per
gli scrittori latini, che studiò ed imitò in tutta la sua vita, non
sapendo immaginare nè desiderare nulla di meglio, che far rinascere la
loro cultura, le loro idee. Spiegare come in questo sforzo costante e
continuo per tornare all'antico, si scoprisse invece un mondo nuovo, è,
noi lo abbiamo già notato, il problema che deve risolvere lo storico
della erudizione del secolo XV. Questo singolare fenomeno assai più
chiaramente che in altri si può osservare nel Petrarca, perchè in lui
trovasi come in germe tutto il secolo che segue, e i molti eruditi
che gli succedono sembrano non fare altro che prendere, ciascuno per
sè, una parte sola del molteplice lavoro che egli abbracciò nel suo
insieme, se facciamo eccezione dello studio del greco, che egli potè
solo promuovere co' suoi consigli.

Fin dai primi anni il Petrarca abbandonò la legge e la scolastica per
Cicerone e Virgilio; percorse il mondo; scrisse agli amici per avere
antichi codici, di cui formò una preziosa raccolta. Ne copiò di sua
mano; cercò autori sconosciuti o dimenticati, sopra tutto opere di
Cicerone, che era il suo idolo, e di lui scoprì due orazioni a Liegi,
le lettere familiari a Verona.[40] Questo fu un vero avvenimento
letterario, perchè la facile ed alquanto pomposa eloquenza di Cicerone
divenne il modello costante del Petrarca e degli eruditi, come le sue
epistole furono il componimento letterario più diffuso, più ammirato,
imitato tra loro, che ne scrissero un gran numero. Quelle del Petrarca
incominciano la lunga serie, formano la sua migliore biografia,
sono un monumento di grandissima importanza storica e letteraria.
Ne scrisse agli amici, ai principi, ai posteri, ai grandi scrittori
dell'antichità. In esse v'è luogo per ogni affetto, per ogni pensiero,
e l'autore si esercita, sotto la fida scorta di Cicerone, in ogni
stile letterario. Da un lato v'entrano la storia, l'archeologia, la
filosofia, e formano così come un manuale enciclopedico, adattatissimo
a raccogliere e diffondere una cultura nuova, che, incominciata appena,
non è capace ancora d'una più scientifica trattazione. Da un altro
lato l'autore può manifestare in esse tutto il proprio spirito, dare
libero corso ai suoi affetti, descrivere popoli e principi, caratteri
e paesi diversi. L'erudito e l'osservatore del mondo reale si trovano
in esse uniti; anzi noi vediamo come il secondo nasca del primo, e come
l'antichità, conducendo per mano l'uomo del Medio Evo, lo guidi dal
misticismo alla realtà, dalla Città di Dio a quella degli uomini, e gli
faccia acquistare la indipendenza del proprio spirito.

Se guardiamo alla forma di queste epistole del Petrarca, troviamo che
il suo latino non manca d'ineleganze, nè di errori; nessuno oserebbe
metterlo accanto a quello dei classici; è inferiore anche a quello che
usarono più tardi il Poliziano, il Fracastoro, il Sannazzaro. Bisogna
paragonarlo con quello del Medio Evo, per vedere l'immenso cammino
che ha fatto, e come esso superi di gran lunga anche il latino di
Dante. Ma il merito principale del Petrarca non sta tanto in questa
nuova eleganza classica, quanto nell'essere egli il primo che scriva
di tutto liberamente, come un uomo che parli una lingua vivente. Egli
ha gettato dietro di sè le grucce della scolastica, e dimostra come si
possa camminare speditamente, senza appoggiarsi. Inorgoglito di ciò, fa
qualche volta abuso della sua facilità, e cade in artifizî nei quali
sembra voler dar prova di agilità e di forza, o s'abbandona, osserva
giustamente il Voigt, al bisogno di chiacchierare, come un fanciullo,
il quale, avendo scoperto che può colla voce esprimere i suoi pensieri,
parla anche quando non ha nulla da dire. Qualche volta si vede in lui
apparire anche un primo germe di ciò che fu chiamato il Secentismo del
Quattrocento. Il Petrarca, in sostanza, ha spezzato la rete medievale,
in cui trovavasi allora incatenata l'intelligenza, ed ha col suo nuovo
stile trovato il modo di parlar d'ogni cosa, manifestando chiaramente,
spontaneamente tutto sè stesso.

Nel leggere le sue epistole, assai spesso ci reca maraviglia il vedere
quanto era ardente in lui un amore quasi pagano della gloria. Pare
qualche volta che esso sia il movente principale delle sue azioni, lo
scopo della vita, e che si sostituisca al vero ideale cristiano. Dante
s'era già fatto insegnare da Brunetto Latini come l'uom s'eterni; ma
se nell'_Inferno_ del suo poema i dannati si curano molto della loro
fama nel mondo, ciò segue assai meno nel _Purgatorio_, dove Oderisi da
Gubbio è condannato «per lo gran desio dell'eccellenza,» e scomparisce
affatto nel _Paradiso_, in cui la terra è quasi dimenticata. Il Medio
Evo cercava l'eternità in un altro mondo, il Rinascimento la cercava
in questo, ed il Petrarca era già entrato nel nuovo ordine d'idee.
La gloria, secondo lui, ispira l'eloquenza, le imprese magnanime,
la virtù; ed egli non si stanca mai di cercarla, non ne è mai sazio,
sebbene nessun uomo ne ottenesse in vita quanta ne ebbe lui. I Signori
della repubblica fiorentina gli scrivevano «ossequenti e riverenti,»
come ad un uomo, di cui «nè i passati videro, nè i posteri vedranno
mai l'uguale.»[41] Papi, cardinali, principi e re si tenevano
onorati d'accoglierlo in casa.[42] Un vecchio cieco, cadente, viaggiò
tutta l'Italia, appoggiato a suo figlio e ad un suo discepolo, per
abbracciare le ginocchia dell'uomo immortale, baciare la fronte che
aveva pensato cose tanto sublimi; ed il Petrarca ci racconta tutto ciò
con soddisfazione.[43] Il giorno che ricevette la corona poetica in
Campidoglio (8 aprile 1341) fu il più solenne, il più felice della sua
vita: non per me, egli dice, ma per eccitare altri alla virtù. Questo
sentimento diviene qualche volta come il demone del Rinascimento.
Cola di Rienzo, Stefano Porcari, Girolamo Olgiati e tanti altri furono
mossi, meno da un vero amore della libertà, che dal desiderio d'emulare
Bruto. Vicini al patibolo, non era più la fede in un altro mondo, ma
solo la speranza della gloria in questo, ciò che dava loro animo ad
affrontare la morte. Ed il Machiavelli esprime il pensiero del suo
secolo, quando dice che gli uomini se non possono aver la gloria con
opere lodevoli, la cercano con opere vituperevoli, pur che sopravviva
la propria fama.[44] Quanto è diverso questo stato d'animo da quello
del Medio Evo, e con quale straordinaria rapidità questo mutamento è
avvenuto!

Tutto spinge il Petrarca, che trascina con sè i contemporanei ed
i posteri, verso il mondo reale; egli ha un grandissimo bisogno
di viaggiare, per vedere e descrivere: _multa videndi amor ac
studium_.[45] Corre a Parigi, per riscontrare se son vere le maraviglie
che si raccontano di quella città; a Napoli si pone a visitare
minutamente gl'incantevoli dintorni della città con l'Eneide in mano,
per guida; cerca i laghi d'Averno, d'Acheronte, di Lucrino, la grotta
della Sibilla, Baia, Pozzuoli, e descrive tutto minutamente, rapito ad
un tempo dalla bellezza della natura e dalle classiche memorie.[46]
Virgilio era stato la guida di Dante nei tre regni dell'altro mondo,
Virgilio è in questo la guida del Petrarca allo studio della natura.
Una spaventosa tempesta scoppia di notte nel golfo di Napoli, ed egli
salta dal letto; percorre la città; va alla marina; guarda i naufraghi;
osserva il mare, il cielo, tutti i fenomeni: entra nelle chiese dove
si prega, e scrive poi una lettera divenuta celebre.[47] Tutto ciò non
ha più alcuna novità per noi, che siamo nati nel realismo moderno;
ma bisogna ricordarsi che il Petrarca era primo ad abbandonare il
misticismo del Medio Evo. Il singolare è che, per uscirne, si avvolgeva
nella toga romana. Dante, è ben vero, ha qualche volta con tocchi
maravigliosi descritto la natura; ma sono paragoni o sono accessorî
che servono a mettere in rilievo le sue idee, i suoi personaggi; nel
Petrarca, per la prima volta, la natura acquista un proprio valore,
come nei quadri dei Quattrocentisti. Nelle sue descrizioni di caratteri
v'è un realismo che ricorda i ritratti che fecero più tardi Masaccio,
il Lippi e Mino da Fiesole; anch'egli disegna e colorisce il vero
qual'è, solo perchè vero, senza altro scopo. Sente d'una certa Maria
di Pozzuoli, donna di straordinaria forza, che vive sempre nelle
armi, combattendo una guerra ereditaria, e fa una gita per vederla,
parlarle e descriverla.[48] Vivissima è la descrizione dell'osceno
disordine in cui era caduta la corte di Giovanna I, e del dominio
che vi esercitava il francescano Roberto d'Ungheria. «Piccolo, calvo,
rubicondo, colle gambe gonfie, marcio pei vizî, curvo sul suo bastone
per ipocrisia e non per vecchiezza, avvolto in un lurido saio, che
lascia scoperta metà della persona, per far pompa d'una mentita
povertà, percorre silenzioso la reggia in aria di comando, sprezzando
tutti, calpestando la giustizia, contaminando ogni cosa. Quasi nuovo
Tifi o Palinuro, egli regge in mezzo alla tempesta il timone di questa
nave che dovrà presto affondare.»[49] Altrove ci viene dinanzi, con una
singolare evidenza, il fiero aspetto di Stefano Colonna, dicendo che,
«sebbene la vecchiezza abbia raffreddato l'animo nel suo feroce petto,
pure, cercando la pace, egli trova sempre la guerra, perchè deciso
piuttosto a scendere nella tomba combattendo, che piegare l'indomito
suo capo.»[50] Questi profili evidenti e parlanti, si presentano
fra continue citazioni classiche; son come esseri viventi in mezzo a
rottami dell'antichità, ed acquistano pel contrasto maggiore evidenza;
ci fanno vedere, toccare con mano, come un nuovo mondo vada sorgendo
insieme al rinascimento dell'antichità.

Se poi nel Petrarca cerchiamo non il letterato, ma l'uomo, allora
troviamo che, per quanto egli fosse buono ed ammiratore sincero della
virtù, v'era già in lui quella fiacca mutabilità di carattere, quella
eccitabile vanità, quel dare alle parole quasi l'importanza stessa che
ai fatti ed alle azioni, che formò più tardi l'indole generale degli
eruditi nel secolo XV. Egli è uno di coloro che più hanno esaltato
l'amicizia, a tutti prodigando tesori d'affetto nelle sue epistole; ma
non sarebbe molto facile trovare nella sua vita esempî d'un'amicizia
ideale e profonda come quella, per esempio, che trasparisce dalle
parole di Dante per Guido Cavalcanti. Gran parte di quelle effusioni
s'esauriva nell'esercizio letterario cui davano luogo. Si potrebbe
dire che a ciò contradica la passione costante che il Petrarca ebbe
per madonna Laura, la quale gl'ispirò quei versi immortali che egli
disprezzò troppo, ma che pur formarono la sua gloria maggiore. Certo
nel Canzoniere si trova la più vera, la più fine analisi del cuore
umano; una lingua in cui i pensieri traspariscono come in purissimo
cristallo, libera da ogni forma antiquata, più moderna della lingua
stessa di molti scrittori del Cinquecento. Certo non può dubitarsi
d'una passione vera e sincera; ma questo canonico che annunzia il
suo amore ai quattro venti, che per ogni sospiro pubblica un sonetto,
che fa sapere a tutti come egli sia disperato se la sua Laura non lo
guarda, e intanto fa all'amore con un'altra donna, per la quale non
scrive sonetti, ma da cui ha figli, a chi farà credere che la sua
passione sia nel fatto qual'egli la descrive, eterna, purissima e sola
dominatrice del suo pensiero?[51] Ed anche qui sorge dinanzi a noi,
e risplende di nuovo la nobile immagine di Dante, che si nascondeva,
per tema che altri s'accorgesse del suo amore, e scriveva solo quando
la passione, divenuta più forte di lui, erompeva dal suo petto, sotto
forma di poesia immortale. La Beatrice di Dante è ancora avvolta in un
velo aereo di misticismo, e finisce col trasfigurarsi nella teologia,
allontanandosi da noi; la Laura del Petrarca, invece, è sempre una
donna vera e reale, di carne e d'ossa, che vediamo vicino a noi, che
affascina col suo sguardo voluttuoso il poeta, il quale, anche nel
suo maggiore esaltamento, resta sulla terra. Una terra dalla quale, il
divino dovrà fra poco essere inesorabilmente escluso.

Nella condotta politica si vede assai chiara la mutabilità, per
non dir peggio, del Petrarca. Amico dei Colonna, ai quali diceva
di dover tutto, «la fortuna, il corpo, l'anima;»[52] amato da essi
come figlio, accolto come fratello, li colmò sempre delle lodi più
esaltate, abbandonandoli poi nel momento del pericolo. Quando infatti
Cola di Rienzo cominciò in Roma lo sterminio di quella famiglia, il
Petrarca, che era pieno d'una sconfinata ammirazione letteraria pel
classico tribuno, lo incoraggiò a continuare nella distruzione dei
nobili: «Verso di essi ogni severità è pia, ogni misericordia inumana.
Inseguili con le armi in mano, quando anche tu dovessi raggiungerli
nell'inferno.»[53] Ma ciò non gli impediva di scrivere, quasi nello
stesso tempo, pompose lettere di condoglianza al cardinale Colonna:
«Se la casa ha perduto alcune colonne, che monta? Resta sempre con te
un saldo fondamento. Giulio Cesare era solo e bastò.»[54] Più tardi
i Colonna furono per lui di nuovo Massimi e Metelli;[55] ma non cessò
tuttavia di rimproverare al tribuno la sua debolezza, per non essersi
disfatto dei nemici quando poteva.[56] È ben vero che si scusava
dicendo, che egli non mancava di riconoscenza; _sed carior Respublica,
carior Roma, carior Italia_.[57] Chi gl'impediva però di tacere? E
questo repubblicano così ardente ammiratore del terzo Bruto, «che
riunisce in sè, e supera la gloria dei due precedenti,»[58] poco dopo
invitava l'imperatore Carlo IV a venire in Italia, «la quale invoca
il suo sposo, il suo liberatore, e non vede l'ora che l'orma de' tuoi
piedi si stampi su di essa.»[59] Non molto prima aveva esaltato anche
Roberto di Napoli, dichiarando che la monarchia era l'unico mezzo per
salvare l'Italia.[60] È noto poi quanti rimproveri facesse ai Papi,
perchè avevano abbandonato Roma, che senza di essi non poteva vivere.
Eppure il nostro giudizio viene assai temperato, quando vediamo che
egli non s'accorgeva punto di queste contradizioni, perchè in sostanza
tutti questi discorsi erano più che altro un esercizio letterario, non
già l'espressione d'una vera e profonda passione politica, che volesse
manifestarsi in atto. Dato il soggetto, la penna correva rapidissima
dietro le traccie di Cicerone, seguendo l'armoniosa cadenza del
periodo. Ma, e qui ricomparisce di nuovo la grande originalità del
Petrarca, che parli di repubblica, di monarchia o d'impero, non è più
fiorentino, ma italiano. L'Italia che egli vagheggia, si confonde, è
vero, sempre col concetto dell'antica Roma, che vorrebbe ripristinare;
ma in tutto questo suo sogno erudito, egli è il primo a vedere l'unità
dello Stato e della patria. L'Italia di Dante è ancora medievale;
quella del Petrarca, quantunque s'avvolga maestosamente nella toga
degli Scipioni e dei Gracchi, è finalmente un'Italia unita e moderna.
Così qui, come da per tutto, noi vediamo che il nostro autore, anche
in ciò vero rappresentante del suo tempo, volendo tornare al passato,
s'apre una via nuova all'avvenire. Veste sempre all'antica, alla
romana, ma è sempre moderno. Non dobbiamo però mai dimenticare che la
sorgente prima della sua ispirazione è letteraria, altrimenti cadremo
in continui errori ed in giudizî fallaci.

Il Petrarca assale fieramente la giurisprudenza, la medicina, la
filosofia, tutte le scienze del suo tempo, perchè non dànno mai quel
che promettono, e tengono invece la mente inceppata tra mille sofismi.
I suoi scritti sono spesso rivolti contro la scolastica, l'alchimia,
l'astrologia, ed egli è ancora il primo che osi apertamente rivolgersi
contro l'illimitata autorità di Aristotele, l'idolo del Medio Evo.
Tutto ciò fa un grandissimo onore al buon senso, che lo sollevò al
disopra dei pregiudizî del suo secolo. Ma s'ingannerebbe a partito
chi volesse per ciò trovare in lui un ardito novatore scientifico.
Il Petrarca non combatte in nome d'un principio o d'un metodo nuovo,
ma in nome della bella forma e della vera eloquenza, che non ritrova
nei cultori di quelle discipline, come non la ritrova nell'Aristotele
mal tradotto e raffazzonato del suo tempo. La scolastica ed il suo
barbaro linguaggio s'erano immedesimati con tutto lo scibile del Medio
Evo, ed era questo barbaro linguaggio che il Petrarca combatteva in
tutto lo scibile. Il Rinascimento italiano è una rivoluzione prodotta
nello spirito umano e nella cultura dallo studio della bella forma,
ispirata dai classici antichi. Questa rivoluzione, con tutti quanti
i pericoli che doveva recare il cominciar dalla forma per arrivar poi
alla sostanza, si manifesta la prima volta chiara e ben definita nel
Petrarca erudito, che perciò fu a ragione chiamato da alcuni, non solo
il precursore, ma il profeta del secolo seguente.


2. — GLI ERUDITI IN FIRENZE.[61]

L'opera iniziata dal Petrarca trovò subito in Firenze un grandissimo
numero di seguaci, e di qui si diffuse rapidamente in tutta Italia. A
Firenze, però, essa era il portato naturale delle condizioni politiche
e sociali di quel popolo, in mezzo a cui anche i dotti d'altre
provincie venivano ad istruirsi, a perfezionarsi, e v'acquistavano come
una seconda cittadinanza. Nelle nostre antiche storie letterarie, che
spesso si occupano troppo di aneddoti biografici e di fatti esteriori,
si presentano alla rinfusa i nomi di questi eruditi, che sembrano
essere tutti uomini sommi, avere la stessa fisonomia ed il medesimo
merito, mirare a un identico scopo. Ma a noi importa conoscere solo
quelli, cui si può attribuire una vera originalità in mezzo al lavoro
febbrile che migliaia di altri, i quali già sono caduti o meritano di
cadere in oblio, ripetevano meccanicamente. Il nostro scopo non è di
dare un catalogo esatto dei dotti e dei loro scritti, ma di studiare
la trasformazione letteraria ed intellettuale, che per opera loro si
compiè in Italia.

I primi eruditi che si presentano sono amici, discepoli o copisti del
Petrarca. Il Boccaccio fu dei più operosi nel secondarlo, raccolse
molti codici, ammirò i classici latini e li imitò, promosse lo studio
del greco, che fu dei primi a conoscere. Con tutto ciò l'opera sua,
come erudito, manca di una vera originalità. I suoi scritti latini
sulla Genealogia degli Dei; sulle Donne illustri; sui Nomi dei Monti,
delle Selve, dei Laghi, ecc., sono più che altro, una vasta raccolta
di antichi frammenti, senza grande valore filologico o filosofico.
Ma lo spirito dell'antichità è penetrato in lui per modo, che si
manifesta in tutte le sue opere, anche nelle italiane. La sua prosa
volgare, infatti, se ne risente per la soverchia imitazione del periodo
ciceroniano, e sembra annunziare anch'essa che il trionfo del latino
sarà fra poco universale.

Dopo che due uomini come il Petrarca ed il Boccaccio s'erano messi per
questa via, Firenze sembrò subito divenire come una grande officina
d'eruditi. Discussioni e riunioni di dotti si facevano dappertutto,
nei palazzi, nei conventi, nelle ville,[62] fra i ricchi, fra i
mercanti, fra gli uomini di Stato: si scriveva; si viaggiava; si
mandavano messi per cercare, comprare o copiare codici antichi.
Tutto ciò non costituiva ancora un lavoro originale; ma pure si
raccoglievano grandi materiali, e s'apparecchiavano i mezzi necessarî
ad una vera rivoluzione nel campo delle lettere. L'importanza di questa
attività non stava finora nei risultati immediati che si ottenevano;
ma nell'energia e nelle forze che s'adoperavano e svolgevano per
ottenerli. La città delle associazioni d'arti e mestieri era divenuta
la città delle associazioni di letterati.

La prima di queste riunioni si formò nel convento di Santo Spirito,
intorno a Luigi Marsigli o Marsili, agostiniano e dottore in teologia,
che visse nella seconda metà del secolo XIV. Stato già amico del
Petrarca, egli era uomo di mediocre ingegno; ma univa ad una grande
ammirazione per gli antichi, una straordinaria memoria, il che lo
rendeva adattissimo al conversare erudito: per lungo tempo i dotti
fiorentini ricordarono nelle loro lettere il profitto cavato da quelle
discussioni. Il Comento fatto dal Marsigli sulla canzone del Petrarca
all'Italia, dimostra che egli non s'era ancora separato affatto dalla
letteratura del Trecento.[63] I due più noti frequentatori della sua
cella, Coluccio Salutati[64] e Niccolo Niccoli,[65] erano però entrati
addirittura nella nuova via.

Il Salutati, nato in Val di Nievole l'anno 1331, fu anch'egli amico
ed ammiratore del Petrarca; grande promotore dell'erudizione e grande
raccoglitore di codici; autore di orazioni, dissertazioni, trattati
latini in gran numero, pei quali venne a titolo d'onore, chiamato
da Filippo Villani vera «scimmia di Cicerone.» Ma il suo stile poco
semplice e non sempre corretto, la confusa erudizione non lo avrebbero
fatto passare alla posterità, se le qualità morali non avessero dato
anche alla sua opera letteraria una impronta originale. Di un carattere
esemplare, amante della libertà, fu nel 1375 eletto segretario della
Repubblica, che servì con fede ed ardore grandissimi sino alla morte.
Animato dall'amore della patria e delle lettere, liberò lo stile della
cancelleria fiorentina da tutte le forme scolastiche, sforzandosi di
renderlo classico, ciceroniano, e fu così il primo che si provasse
a scrivere le lettere diplomatiche e di affari come opere d'arte,
ottenendo a' suoi tempi un successo grandissimo. Si narra che Galeazzo
Maria Visconti dicesse di temere più una lettera del Salutati, che
mille cavalieri fiorentini; certo è in ogni modo, che quando la
Repubblica fu in guerra col Papa, le lettere scritte dal Salutati,
il quale col suo stile magniloquente evocava le antiche memorie di
Roma, contribuirono assai a far sollevare in nome della libertà molte
terre della Chiesa. L'entusiasmo che destavano allora nell'animo
degl'Italiani i nomi, le reminiscenze, le forme classiche era davvero
singolare.

Ma l'opera del Salutati ebbe anche per l'avvenire conseguenze notevoli.
L'aver messo la letteratura a servigio della politica contribuì molto
a dare alla prima una importanza sempre maggiore, e ad affrettare
quella radicale trasformazione della seconda, che ben presto doveva
manifestarsi in Firenze. Alle convenzioni e formole antiche s'andò
sostituendo una forma sempre più vera e precisa, la quale, come
aveva forzato i letterati a passare dal misticismo alla realtà, così
esercitò la sua azione anche sulla condotta degli uomini di Stato, e
li indusse a trattar gli affari pigliando norma dalla natura delle
cose, a dominare principi e popoli studiandone le passioni, senza
lasciarsi vincolare da pregiudizi o tradizioni. In questo modo
s'arrivò finalmente alla scienza politica del Machiavelli e del
Guicciardini, che dovette alla erudizione più d'uno de' suoi maggiori
pregi e difetti. L'uso ed abuso della eloquenza, della logica e della
sottigliezza, per ottenere i proprî fini politici, condotto sino alla
furberìa ed all'inganno, incominciò ben presto a divenire generale. Il
Salutati restò però sempre d'animo sincero ed aperto.[66]

Sino all'ultimo giorno della sua vita egli continuò a studiare, ed
a promuovere nella gioventù l'amore dei classici.[67] Aveva 65 anni,
quando la voce corsa che Emanuele Crisolora di Costantinopoli sarebbe
venuto in Firenze ad insegnare il greco, lo mise fuori di sè per
la gioia, e parve ringiovanirlo. Nel 1406 morì in età di 76 anni, e
fu sepolto in Duomo con solenni esequie, dopo che la sua vita venne
celebrata in un discorso latino, alla fine del quale sul suo cadavere
fu messa la corona poetica. D'allora in poi la Repubblica elesse a
suoi segretarî quasi sempre uomini celebrati nelle lettere. La lunga
serie, incominciata col Salutati, continuò fino a Marcello Virgilio,
al Machiavelli, al Giannotti,[68] e l'esempio venne imitato anche nelle
altre città italiane.

Niccolò Niccoli ebbe al suo tempo una gran fama, sebbene non fosse
punto uno scrittore, ma un semplice raccoglitore intelligente di
codici, i quali spesso copiava e correggeva di sua mano. Le cure che
spese e i sacrifizî che fece per gli studî classici furono infiniti.
Le sue ricerche di codici s'estesero in Oriente ed in Occidente, per
mezzo di lettere e commissioni date a chiunque partiva da Firenze,
o risiedeva per affari lungi dalla patria. Parco nel vivere, spese
tutta la sua fortuna, caricandosi poi anche di debiti, per acquistar
codici. La sua attività, la sua perizia eran tali, che da ogni parte
si ricorreva a lui per aver notizia di antichi manoscritti; ed a
lui devesi, in gran parte, se Firenze divenne allora il gran centro
librario del mondo; se potè avere librai intelligenti come Vespasiano
da Bisticci, che fu pure il biografo di tutti gli eruditi del suo
tempo. Infaticabile si dimostrò il Niccoli anche nel chiamare a Firenze
i dotti più reputati d'Italia, perchè venissero adoperati nello Studio
o altrove. Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, il
Traversari, il Crisolora, il Guarino, il Filelfo, l'Aurispa furono per
opera sua invitati. Essendo però molto irritabile, la sua amicizia si
mutava facilmente in avversione, ed allora egli perseguitava coloro
che aveva protetti, e le sue persecuzioni, pel favore che godeva appo
i Medici, erano molto pericolose. A lui ed a Palla Strozzi devesi la
riforma dello Studio fiorentino, in cui promossero l'insegnamento del
greco. Era così invasato dall'amore degli studî, che, quasi fosse un
missionario religioso, fermava per via i ricchi giovani di Firenze,
esortandoli a darsi alla _virtù_, cioè alle lettere latine e greche.
Piero de' Pazzi che viveva solamente, come egli diceva, per «darsi bel
tempo,» fu uno appunto dei convertiti alla nuova vita dell'erudito.[69]

La casa del Niccoli era un museo ed una biblioteca classica; egli
stesso pareva una enciclopedia bibliografica vivente. Aveva raccolto
800 codici, valutati 6000 fiorini.[70] Nè deve oggi esser molto
difficile immaginarsi la straordinaria importanza che aveva per gli
studî una buona biblioteca, in un tempo nel quale la stampa non era
trovata, ed il prezzo d'un codice superava assai spesso le forze degli
studiosi, oltre di che non sempre si sapeva dove cercarlo. In tali
condizioni, essendo la biblioteca del Niccoli liberamente aperta ad
ognuno, tutti accorrevano da lui a studiare, a riscontrare, a copiare,
a chiedere aiuti e consigli non mai negati. Circondato d'oggetti greci
o romani anche nella sua parca mensa, «a vederlo così antico,» dice
Vespasiano, «era una gentilezza.» Le puerilità del suo carattere, e gli
scandali alquanto ridicoli della sua vita privata, a causa d'una serva
che lo dominava, furono dimenticati per l'ammirazione che destava in
tutti il suo zelo sincero, costante e disinteressato per le lettere.
Morendo nel 1437, in età di 73 anni, l'unico pensiero che ebbe fu
quello d'assicurare al pubblico l'uso de' suoi libri, che infatti
formarono la prima pubblica biblioteca in Europa, mercè le cure de'
suoi esecutori testamentarî, e la munificenza di Cosimo de' Medici,
che rinunziò al credito che aveva di 500 fiorini, pagò altri debiti
del Niccoli, e, ritenendo per sè una parte dei codici, ne pose in San
Marco, ad uso del pubblico, quattrocento i quali aumentò poi a sue
spese.[71]

Una terza riunione di dotti tenevasi nel convento degli Angioli, dove
era Ambrogio Traversari, nato in Portico di Romagna l'anno 1386, e
nominato generale dei Camaldolesi nel 1431. Uomo accorto ed ambizioso,
amicissimo dei Medici, che insieme col Niccoli, col Marsuppini, col
Bruni ed altri non pochi frequentavano la sua cella, aveva un gran
tatto per conservare le amicizie anche dei più permalosi, e per
tener viva la discussione, ma ben poca originalità letteraria. Fece
traduzioni dal greco; scrisse un'opera intitolata Hodaeporicon, in
cui si trovano varie notizie letterarie e le descrizioni de' suoi
viaggi; ma le _Epistolae_ sono l'opera sua principale, perchè le molte
relazioni che ebbe con i dotti del suo tempo, ne fanno un monumento
importante per la storia di quel secolo. Tutto questo però non basta
a giustificare la gran fama che ebbe allora, la quale si mantenne viva
anche più tardi, perchè il Mehus, pubblicandone le _Epistolae_, cercò,
nella prefazione e nella biografia che le precede, di raccogliere
intorno a lui la storia letteraria di quel secolo.

Infinito sarebbe il numero delle riunioni di dotti, se volessimo
ricordarle tutte; in ogni modo però non è possibile dimenticare la casa
dei Medici, ove ognuno di essi trovava accoglienza, protezione, ufficî.
Colà si riunivano anche gli artisti e gli stranieri di qualche fama.
Quasi tutti i più ricchi Fiorentini erano allora cultori o protettori
delle lettere. Roberto dei Rossi, conoscitore del greco, passò la
vita celibe nel suo studio, ed insegnò a Cosimo de' Medici, Luca degli
Albizzi, Alessandro degli Alessandri, Domenico Buoninsegni. Il Nestore
poi di questi aristocratici eruditi era Palla Strozzi, colui che col
Niccoli riformò lo Studio fiorentino; che pagò di suo buona parte della
somma necessaria per farvi venire ad insegnar greco il Crisolora, e
spese moltissimo per avere codici antichi da Costantinopoli. Esiliato,
senza giuste ragioni, si può dire anche iniquamente, da Cosimo dei
Medici, all'età di 62 anni, si fece animo a sopportare questa sventura,
e la perdita che ebbe poi della moglie e di tutti i figli, studiando a
Padova sugli antichi autori fino all'età di 92 anni, quando scese nella
tomba.[72]

E finalmente bisogna ricordar lo Studio fiorentino. In generale
le Università italiane erano state sedi della cultura medievale e
scolastica; l'erudizione era cominciata fuori di esse, spesso anche
contro di esse. Ma a Firenze può dirsi invece che lo Studio fiorì e
decadde con la erudizione. Fondato nel dicembre del 1321, languì,
ora chiuso ed ora riaperto, fino al 1397, quando il Crisolora,
coll'insegnamento del greco, iniziò da Firenze l'ellenismo in Italia.
Più tardi decadde di nuovo, ma fu poi nel 1414 riformato per opera del
Niccoli e dello Strozzi, i quali, valendosi d'un'antica legge, secondo
cui gl'insegnanti non dovevano essere Fiorentini, vi chiamarono i
più celebri uomini d'Italia e di Grecia, il che valse sempre più ad
unire la cultura latina con la greca, e l'erudizione fiorentina con
l'italiana. Nel 1473 lo Studio venne da Lorenzo de' Medici trasferito
a Pisa, dove fu riaperta la celebre Università; ma a Firenze restarono
alcune cattedre di lettere e di filosofia, occupate sempre da uomini
celebri.[73]

Questo gran moto di studî, che abbiamo finora esaminato, non aveva
prodotto, dopo del Petrarca e del Boccaccio, nessun uomo di grande
ingegno. Tutto era stato un raccogliere, copiare, correggere codici;
si erano apparecchiati i materiali per un nuovo progresso letterario,
che però non era cominciato. Lo scrivere italiano era decaduto, ed il
latino non aveva acquistato ancora qualità originali: abbiamo visto
grammatici, bibliofili e bibliografi, non veri scrittori. Ma a poco
a poco cominciò una nuova generazione d'eruditi, che manifestavano
un vero e fino allora insolito valore. Questo era il resultato d'un
processo naturale. Gli scrittori, sentendosi finalmente padroni
della lingua latina, si cominciavano ad esprimere con una libertà e
spontaneità, che dètte origine a nuove qualità letterarie ed anche
filosofiche, ad una nuova letteratura. Le questioni grammaticali,
esaminate e discusse da uomini di così acuto ingegno e di gusto così
fine, com'erano allora gl'italiani, si trasformavano inevitabilmente
in questioni filosofiche, il che fu principio di un nuovo progresso
scientifico.

Ma vi furono ancora cause estrinseche, le quali affrettarono e
provocarono una così notevole trasformazione, e prima fra queste fu
lo studio del greco. Con esso vennero a contatto non solo due lingue,
ma due letterature, due filosofie, due civiltà diverse. S'allargò
ad un tratto l'orizzonte intellettuale, giovando a ciò non solo la
maggiore originalità del pensiero e della lingua greca, ma ancora
l'essere l'uno e l'altra molto diversi dalla lingua e dal pensiero
latino. La mente italiana era così costretta ad uno sforzo maggiore,
quasi ad un più lungo e difficile viaggio ideale, che richiedeva e
svolgeva una maggiore energia intellettuale. Nel Medio Evo la lingua
greca era stata assai poco nota in Italia; e molto fu esagerata
la cognizione che n'ebbero in Calabria i monaci di San Basilio. I
due Calabresi, Barlaam e Leonzio Pilato, l'avevano empiricamente
appresa a Costantinopoli, ed il primo di essi ne insegnò i rudimenti
al Petrarca, che, nonostante il grande ardore d'apprenderla, restò
sempre col suo Omero dinanzi, senza capirlo.[74] Il secondo fu tre
anni professore a Firenze, per opera del Boccaccio, che fece così
istituire la prima cattedra di greco in Italia. Ma dal 1363 al 1396
questo insegnamento, che era stato abbastanza povero, tacque di nuovo.
Gl'Italiani che volevano averlo, si trovarono, come il Guarino ed il
Filelfo, costretti ad andare fino a Costantinopoli. E i primi profughi
greci venuti fra noi giovarono meno assai che non si crede, perchè
essi, ignorando l'italiano, conoscendo poco il latino, e molto spesso
non essendo neppure uomini di lettere, non erano punto in istato di
soddisfare una passione che pure stimolavano vivamente colla loro
presenza. L'elezione di Emanuele Crisolora a professore dello Studio
nel 1396 incominciò veramente un'èra nuova per l'ellenismo in Italia.
Già professore a Costantinopoli, e vero uomo di lettere, egli potè
dare un efficace insegnamento, ed ebbe per alunni i primi letterati
di Firenze. Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, Poggio Bracciolini,
Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini andarono subito a seguire le sue
lezioni. Leonardo Bruni, che allora studiava legge, nel sentire che
si poteva finalmente apprendere la lingua d'Omero, e bere alla prima
sorgente del sapere, lasciò tutto per poter divenire, come divenne, uno
dei più celebri ellenisti del suo tempo.[75] Da quel momento chi non
sapeva il greco, fu in Firenze un dotto a metà. E lo studio di questa
lingua fece subito rapidi progressi, per l'arrivo di nuovi profughi,
i quali erano in generale più colti dei primi, e trovavano il terreno
meglio apparecchiato.[76] A tutto ciò s'aggiunse nel 1439 il Concilio
fiorentino, che doveva riunire la Chiesa greca e la latina, ma valse
invece ad unire lo spirito letterario di Roma e di Grecia. Il Papa ebbe
bisogno d'interpetri italiani per capire i rappresentanti della Grecia,
e così gli uni come gli altri, indifferenti del pari alle questioni
religiose, quando s'avvicinarono, passarono subito dalla teologia
alla filosofia, che in generale soleva essere anche più delle lettere
coltivata dai Greci. Giorgio Gemisto Pletone il più dotto fra quelli
che allora vennero in Italia, ammiratore entusiasta di Platone, seppe
infondere la sua ammirazione in Cosimo de' Medici, e così ebbe origine
l'istituzione dell'Accademia Platonica. Un grande ardore, una singolare
operosità intellettuale cominciarono allora in Firenze, e noi vediamo
finalmente da un lato apparire la nuova originalità letteraria, da un
altro il principio d'un risorgimento filosofico.[77]

L'erudito che prima di tutti si dimostra adesso scrittore originale,
è Poggio Bracciolini, nato a Terranuova presso Arezzo, l'anno 1380.
Studiato il greco col Crisolora, andò con Giovanni XXIII al Concilio di
Costanza, facendo parte della Curia, e vestendo l'abito ecclesiastico,
senza aver preso gli ordini sacri, il che era assai comune fra
gli eruditi, i quali, purchè non avessero moglie, si assicuravano
così molti dei vantaggi serbati ai preti, di cui solevano dir pure
un grandissimo male. Annoiato ben presto delle dispute e contese
religiose, il Bracciolini si pose a viaggiare, ed in una sua lettera
descrisse mirabilmente la cascata del Reno e i bagni di Baden, facendo
di tutto ciò una pittura così viva da potersene anche oggi riconoscere
la fedeltà.[78] Il suo latino, quantunque assai più corretto di quello
dei predecessori, non manca di molti italianismi e neologismi; ma ha
una spontaneità e vivacità tale che sembra una lingua viva: non è una
semplice riproduzione, ma un vero e proprio rinascimento. E di certo
il fiore dell'umanesimo dobbiamo cercarlo nel Poggio ed in altri suoi
contemporanei, non già in coloro che, come il Bembo ed il Casa, ci
dettero una imitazione più fedele, ma anche più meccanica e materiale.
Dimenticando dizionarî e grammatiche, egli sente il bisogno di scrivere
come parla; s'esalta in presenza della natura; cerca il vero e ride
dell'autorità; ma resta pur sempre un erudito, il che non bisogna
mai dimenticare. L'anno 1416 assisteva al processo ed al supplizio di
Girolamo da Praga, descrivendo poi tutto in una sua lettera notissima
al Bruni. È singolare l'indipendenza di spirito, con cui questo
erudito della Curia papale ammirava l'eroismo del precursore di Lutero,
proclamandolo degno della immortalità. Ma che cosa ammirava in lui? Non
il martire, non il riformatore; dichiarava anzi che, se Girolamo aveva
detto qualche cosa contro la fede cattolica, meritava il supplizio che
ebbe. Ammirava in lui il coraggio d'un Catone e d'un Muzio Scevola;
ammirava «la voce chiara, dolce, sonora; il gesto dignitoso e bene
adatto ad esprimere lo sdegno o a muovere la compassione; l'eloquenza
e la dottrina, con cui vicino al rogo citava Socrate, Anassagora,
Platone, i Santi Padri.»[79]

Ben presto noi lo vediamo allontanarsi da Costanza per fare lunghi
viaggi. Percorse la Svizzera e la Germania, cercando nei conventi
antichi manoscritti, dei quali fu il più fortunato scopritore in
quel secolo. A lui si debbono opere di Quintiliano, Valerio Flacco,
Cicerone, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lucrezio, Tertulliano,
Plauto, Petronio, ecc. Quando la notizia di queste scoperte arrivava
a Firenze, la Città tutta era in gioia. Il Bruni gli scriveva, a
proposito specialmente della scoperta di Quintiliano: «Tu sei ora
divenuto il secondo padre dell'eloquenza romana. Tutti i popoli
d'Italia dovrebbero muoversi per venire incontro al grande scrittore,
che hai liberato dalle mani dei barbari.»[80] Molti altri lo imitavano
allora in queste ricerche di codici. Dell'Aurispa s'affermava che ne
aveva portati da Costantinopoli 238; del Guarino si ripeteva la favola
che lo diceva incanutito ad un tratto, per avere in un naufragio
perduti i molti codici che portava d'Oriente.[81] Ma nessuno fu mai
operoso e fortunato quanto il Bracciolini.

In Inghilterra, presso il cardinale di Beaufort, egli trovossi come
isolato, in una società di ricchi aristocratici senza cultura, che
passavano gran parte della vita mangiando e bevendo.[82] In quei
desinari, che lo tenevano a tavola perfino quattro ore di seguito,
egli era costretto ad alzarsi e lavarsi gli occhi con acqua fresca,
per non addormentarsi.[83] Pure il paese offeriva, per la sua novità,
vasto campo alle osservazioni del Bracciolini, il quale fin d'allora
assai acutamente, fra le altre cose, scorgeva il carattere proprio
dell'aristocrazia inglese.[84] Infatti, sebbene venisse da Firenze,
già tutta democratica, egli notava con sua grande maraviglia, che colà
i mercanti arricchiti, i quali si ritiravano in campagna, a vivere
delle loro rendite nelle proprie ville, erano dai nobili accolti e
trattati alla pari. E così all'accorto viaggiatore del secolo XV non
sfuggiva sin d'allora ciò che solamente parecchi secoli dopo notarono
gli storici, che cioè l'aristocrazia inglese assai più facilmente
delle altre si mescola con la borghesia e col popolo, di cui sostiene
gl'interessi, a differenza di quanto avvenne nei paesi latini, dove
essa rimase sempre separata ed ostile al popolo, che perciò ne volle la
rovina. Ma la novità del paese, la varietà dei costumi e dei caratteri,
le quali a Poggio Bracciolini mai non sfuggivano, che occupavano anzi
di continuo la sua attenzione, non bastavano a compensarlo del poco
conto in cui erano colà tenuti i dotti, e quindi sospirava l'Italia.

Ben presto, infatti, lo troviamo a Roma segretario della Curia romana,
al tempo di Martino V. Ivi egli era di nuovo nel suo elemento. Passava
le lunghe serate d'inverno coi suoi colleghi in una stanza della
Cancelleria, che chiamavano il B_ugiale, sive mendaciorum officina_,
perchè in essa raccontavano aneddoti veri o falsi, più o meno osceni,
coi quali ridevano del Papa, dei cardinali, dei dommi stessi della
religione, in difesa della quale scrivevano i Brevi. La mattina
attendeva al suo ufficio che gli dava poco da fare, e poi componeva
opere letterarie, fra cui furono allora i dialoghi sull'Avarizia e
sull'_Ipocrisia_, vizî che egli diceva proprî del clero, che perciò
flagellava a morte. Ma in questa specie di satire non si trova mai
una seria intenzione; è invece lo stesso spirito mordace e scettico
dei nostri comici e novellieri, che come lui ridevano della religione
che professavano. Questi cercavano dipingere i costumi del tempo;
gli eruditi volevano principalmente far prova di possedere il latino
in modo da saper trattare argomenti sacri e profani, serî, comici ed
osceni. Ecco tutto. Non c'era mai da sperare nessun alto scopo morale.

Il Bracciolini, infatti, che flagellava i corrotti costumi del
clero, menava poi una vita tutt'altro che morigerata. E quando il
cardinale di Sant'Angelo, scrivendo, gli faceva il rimprovero d'aver
figli, il che non conveniva ad un ecclesiastico, e di averli poi da
una concubina, il che non conveniva ad un laico, egli, senza punto
sgomentarsi, rispondeva: «Ho figli, il che conviene ad un laico; li ho
da una concubina, il che è antico costume del clero.» E, continuando
la lettera, raccontava d'un abate il quale presentò a Martino V un suo
figlio, ed essendone da lui biasimato, gli diceva, fra le risa della
Curia, che ne aveva ben altri quattro, prontissimi sempre a prendere le
armi per sua Santità.[85]

Venuto a Firenze con papa Eugenio IV, si trovò in mezzo ai dotti
qui radunati, e fu subito in dispute assai violenti coll'irrequieto
Filelfo, che insegnava allora nello Studio. Questi, essendo stato
a Costantinopoli dove aveva preso una moglie greca, era quasi il
solo in Italia che allora parlasse e scrivesse la lingua di Platone
e d'Aristotele. Colla sua sconfinata vanità, col suo carattere
irrequieto non dava pace a nessuno: attaccò i Medici e finì col doversi
allontanare da Firenze. Allora cominciò a scrivere satire contro i
dotti già stati suoi amici e colleghi, ed il Bracciolini gli rispose
colle sue _Invettive_. Fu una guerra d'accuse indecenti, nella quale
i due eruditi, ingiuriandosi crudelmente, facevano gara di abilità
retorica e di maestria nella conoscenza del latino. Il Filelfo aveva il
vantaggio di scrivere in versi, e quindi le sue ingiurie si ritenevano
più facilmente a memoria; ma il Bracciolini, avendo maggiore ingegno
e brio, scrivendo in prosa, poteva più facilmente dire tutto quello
che voleva. Egli respingeva le ingiurie che «il Filelfo aveva vomitate
dalla fetida cloaca della sua bocca,» ed attribuiva l'indecenza del
linguaggio di lui alla educazione che aveva ricevuto dalla madre, «il
cui mestiere era stato, diceva, di vuotar budella d'animali: così il
fetore di lei emanava ora dal figlio.»[86] Lo accusava d'aver sedotto
la figlia del proprio maestro, per sposarla e poi venderne l'onore,
e finiva offrendogli una corona degna di tanta laidezza.[87] Nè ciò
bastava, chè essi s'accusavano anco di vizî che il pudore impedisce
oggi di nominare, e di cui i dotti parlavano allora senza ritegno,
quasi ridendo, istigati dall'esempio degli scrittori greci e romani.

L'animo rifugge dal pensare che grande rovina morale tutto ciò
dovesse portare nello spirito italiano. Ma Poggio scriveva le sue
lodate _Invettive_ in una deliziosa villa, dove aveva raccolto
statue, busti, monete antiche, di cui si valeva a meglio comprendere
l'antichità, ed iniziava così l'archeologia, come aveva già fatto
a Roma descrivendone i monumenti. A lui pareva che questo fosse il
paradiso dovuto ad uno spirito eletto, ad un letterato enciclopedico,
destinato all'immortalità. Aveva allora 55 anni, e per sposare una
giovanetta di cospicua famiglia, abbandonò la donna con cui aveva sino
allora vissuto, da cui gli erano venuti quattordici figli, quattro
dei quali, vivi e legittimati, restarono poi senza averi. Ma rimediò
scrivendo un dialogo: _An seni sit uxor ducenda_, in cui difese la
propria causa. Bastava uno scritto in latino elegante a risolvere i più
difficili problemi della vita, ed a mettere in pace la coscienza. Per
l'erudito del secolo XV, già lo dicemmo, le parole valevano quanto e
più dei fatti: lodare con eloquenza la virtù era lo stesso che essere
virtuoso. I più grandi uomini della Grecia e di Roma non dovevano forse
la immortalità alla eloquenza con cui la loro vita era stata narrata
da sommi scrittori? Che sarebbe della fama di Annibale, di Scipione,
d'Alessandro, d'Alcibiade senza Livio, senza Plutarco? Chi sapeva
scrivere con eloquenza il latino, non solo era sicuro della propria
immortalità, ma poteva a suo arbitrio concederla anche agli altri.

Dalla Toscana Poggio tornò a Roma, e sotto il pontificato di Niccolò
V, valendosi della grande libertà concessa agli eruditi, pubblicò
scritti contro i preti, contro i frati, ed il _Liber Facetiarum_,
in cui raccolse tutte le satire e le oscenità altra volta raccontate
nel _Bugiale_, dicendo chiaro nella prefazione, che il suo scopo era
di mostrare come il latino potesse e dovesse essere adoperato a dir
tutto. Invano i rigoristi biasimarono questo vecchio che aveva ora
settanta anni, e contaminava così la sua canizie: dopo che il Panormita
aveva pubblicato l'_Hermaphroditus_, l'orecchio italiano s'era usato
a tutto, e Poggio passava tranquillo il suo tempo nello scrivere
oscenità, e nelle dispute letterarie. Una disputa l'ebbe allora col
Trapezunzio, e finì a pugni; l'altra l'ebbe col Valla, e questa dètte
origine da una parte all'_Antidoto contro il Poggio_, dall'altra a
nuove _Invettive_. La questione versava sulle proprietà del latino e
sui precetti grammaticali sostenuti nelle _Elegantiae_ del Valla, il
quale, essendo di un acume critico superiore, ebbe il vantaggio nella
controversia. Ma anche qui la gara di oscenità fu scandalosa. Accusato
d'ogni più disonesto vizio, il Valla rese pan per focaccia, senza
gran fatto occuparsi di difendere sè stesso, anzi spesso dando prova
d'un singolare cinismo. Così a Poggio che lo accusava d'aver sedotto
la fantesca della propria sorella, rispondeva ridendo d'aver voluto
provar falsa l'accusa fattagli dal cognato, che la sua morigeratezza,
cioè, non derivasse da virtù dell'animo.[88] S'ingannerebbe però
assai chi volesse dalla violenza delle ingiurie misurare la forza
delle passioni. Le _Invettive_ erano quasi sempre semplici esercizî
retorici; i due contendenti scendevano nell'arena come istrioni venuti
a dare spettacolo della loro destrezza e della loro nudità. Se però
le passioni non erano reali, reale era pur troppo il danno morale che
risultava da sì misero spettacolo.

Abbandoniamo dunque questo terreno fangoso e passiamo ad altro,
giacche siamo ancora lontani dall'avere descritta tutta la prodigiosa
attività del nostro autore. Le orazioni erano, dopo le epistole, il
genere più popolare fra gli eruditi. In esse raccoglievano tutte
quante le reminiscenze dell'antichità, e tutte quante le figure
retoriche. La memoria era spesso la sola facoltà veramente necessaria
al buon successo: — aveva una memoria eterna, citava tutti quanti
gli autori antichi, — era l'elogio che Vespasiano soleva fare ai più
celebri di questi oratori, i quali sembravano aver dei florilegi,
cui ricorrere per ispirare la propria eloquenza. Si trattava d'un
generale, e ricordavano tutte le grandi battaglie; si trattava d'un
poeta, e si sciorinavano precetti di Orazio o di Quintiliano. Il
soggetto principale svaniva dinanzi al bisogno di far servire tutto
come un'occasione a render sempre più familiare l'antichità: lo stile
era falso, l'artifizio continuo, le esagerazioni innumerevoli, e le
orazioni funebri riuscivan sempre apoteosi. Un giorno che il Filelfo
voleva accusare un suo persecutore, salì la cattedra, e cominciò
in italiano: «Chi è cagione di tanti suspecti? Chi è principio di
tante ingiurie? Chi è autore di tanti oltraggi? Chi è costui, chi è?
Nominerò io tal mostro? Manifesterò io tal Cerbero? Dirollo io? Io
certo il debbo dire, io il dico, io il dirò, se la vita n'andasse.
Egli è il maledico ed il prodigioso, il detestabile ed abominevole....
Ahi! Filelfo, taci, non dire per Dio! Abbi pazienza. Chi sè medesimo
contenere non può, male potrà alcun altro d'intolleranza e d'incostanza
ammaestrare.»[89] Ecco ciò che allora sembrava modello d'eloquenza;
e però non aveva torto Pio II, quando diceva che un'orazione fatta
con arte poteva commovere solo gente di volgare intelligenza.[90]
Il cardinale di Estouteville, francese di buon gusto, ascoltando
l'elogio di S. Tommaso d'Aquino fatto dal Valla, ebbe ad esclamare:
ma quest'uomo è impazzato![91] Eppure quelle orazioni erano allora
talmente in voga, che nelle paci, nelle ambascerie, in tutte le
solennità pubbliche o private, non poteva farsene a meno. Ogni corte,
ogni governo, qualche volta anche le ricche famiglie, avevano il
loro oratore ufficiale. E come oggi di rado v'è festa senza musica,
così allora un discorso latino in versi o in prosa era il migliore
trattenimento d'una società culta. Molti ne furono dati alle stampe, ma
sono la parte minore; le biblioteche italiane ne contengono centinaia
ancora inediti. Eppure in tutta questa abbondanza non si trovano
mai esempi di vera eloquenza, se facciamo eccezione d'alcune fra le
orazioni di Pio II, il quale non parlava sempre per mero esercizio
letterario, ma spesso anche per giungere ad un fine determinato, ed
allora non affogava nella retorica. Poggio Bracciolini era tenuto
uno dei gran maestri del genere, e non mancò anch'egli di fare molte
orazioni, specialmente in lode dei letterati amici che morivano. La
facilità dello stile che pur cadeva spesso in verbose lungaggini, il
brio, la disinvoltura ed il buon senso lo rendono più leggibile degli
altri, ma non eloquente.

Gli ultimi anni della sua vita li passò a Firenze, dove, per la morte
di Carlo Marsuppini (24 aprile 1453), fu nominato segretario della
Repubblica, e scrisse il suo ultimo lavoro, che fu la _Storia di
Firenze_ dal 1350 al 1455. In quest'opera egli, come aveva già fatto
Leonardo Bruni, abbandonò la via tenuta dai cronisti fiorentini, e non
ebbe la vivacità ed evidenza di cui essi avevano dato così splendide
prove. Non vi si trova mai un aneddoto, non un racconto ritratto dal
vero; non si scopre mai una conoscenza personale degli avvenimenti, in
mezzo ai quali l'autore era pure vissuto, partecipandovi. Egli sembra
narrare fatti greci e romani; non parla mai delle interne vicende
della Repubblica, e noi assistiamo solo a grandi battaglie, a lunghi
e solenni discorsi latini di Fiorentini vestiti sempre alla romana.
Poggio in sostanza mira principalmente ad imitare l'epica narrazione
di Livio, e se questo gli fa perdere le spontanee qualità dei cronisti,
l'obbliga pure a cercare un legame, se non scientifico e logico, almeno
letterario tra i fatti, e la cronaca così comincia a trasformarsi nella
storia. Il Bruni è assai superiore per critica storica, il Bracciolini
per facilità di stile, spesso però diviene verboso. Questi fu dal
Sannazzaro accusato di soverchia parzialità per la sua patria;[92] ma
ciò dipende in gran parte dall'attitudine che assume, parlando sempre
di Firenze come se fosse la repubblica romana.

Se Poggio Bracciolini fu il principale rappresentante di questo
secondo periodo della erudizione italiana, non fu il solo; si trovò
anzi in mezzo ad una schiera numerosa d'altri dotti, e fra questi il
più celebre era Leonardo Bruni, nato nel 1369 in Arezzo, e chiamato
perciò l'Aretino. Noi lo abbiam visto già all'arrivo del Crisolora
in Firenze, abbandonare lo studio del diritto, per darsi tutto al
greco; ed il profitto che fece fu tale da poter ben presto tradurre
non solo i principali storici ed oratori, ma anche i filosofi greci.
Con ciò egli rese un immenso servigio alle lettere, perchè le sue
versioni furono le prime in cui i classici greci vennero fedelmente
tradotti dall'originale, nè solo in un latino elegante, ma senza
essere alterati dalle idee del traduttore; e perchè comparivano nel
momento appunto in cui il bisogno di averle era universale. Le versioni
dell'_Apologia di Socrate_, del _Fedone_, del _Critone_, del _Gorgia_,
del _Fedro_ di Platone, e quelle dell'_Etica_, dell'_Economica_,
della _Politica_ d'Aristotele, furono un vero e proprio avvenimento
letterario. Da un lato veniva rivelata la filosofia platonica, fino
allora quasi sconosciuta in Italia; da un altro compariva finalmente
quello che fa chiamato il _vero_ Aristotele, ignoto al Medio Evo. Gli
eruditi potevano adesso ammirare quella eloquenza, che il Petrarca
aveva cercata invano nell'Aristotele travestito e quasi barbaro de'
suoi tempi; non erano più costretti a studiare uno scolastico invece
del filosofo greco. Così il Bruni dètte un impulso grandissimo alla
filosofia ed alla critica. Il suo era infatti un ingegno critico,
come apparisce anche dalle _Epistole_, nelle quali troviamo per la
prima volta sostenuta l'opinione che l'italiano sia derivato dal
latino parlato, diverso dallo scritto, e ciò con argomenti tali, che
l'umanista del secolo XV sembra qualche volta un vero precursore della
filologia moderna.[93]

Queste qualità si vedono anche meglio ne' suoi lavori storici, primo
dei quali è la _Storia di Firenze_ dalle origini sino al 1401. Di essa
noi dobbiamo dare giudizio diverso di quello già espresso sulla Storia
del Bracciolini, che ne è la continuazione. Questi, come dicemmo è
superiore per la grande facilità dello stile, ma è vinto di gran lunga
per lo spirito critico, e per l'esame delle fonti. Il Bruni ricorre
anche, il che è notevolissimo, ai documenti d'Archivio, e si occupa
assai più dei fatti interni della Repubblica.[94] Più di una volta,
come avremo occasione di vedere, egli ci apparisce come un precursore
delle _Storie_ del Machiavelli. Tuttavia anche in lui troviamo la
stessa tendenza a vestire i Fiorentini alla romana, la stessa mancanza
di colorito locale, gli stessi lunghi discorsi retorici, messi in bocca
dei personaggi storici per la irresistibile passione d'imitare gli
antichi.[95]

Leonardo Aretino era uomo di grandissima autorità personale in Firenze,
dove ebbe molti ed importantissimi uffici, fra i quali tenne lungamente
quello di segretario della Repubblica.[96] Morto nel 1444, gli successe
Carlo Marsuppini d'Arezzo, chiamato perciò Carlo Aretino. Costui
scrisse assai poco, e nulla d'importante; pure fu un insegnante di
grido, emulo fortunato del Filelfo nello Studio fiorentino, ed ebbe
una gran fama, dovuta principalmente alla sua memoria, che gli faceva
fare gran figura nei pubblici discorsi. La sua prima Prolusione fu
applauditissima, perchè, secondo dice Vespasiano, «non ebbono i Greci
nè i Latini scrittore ignuno, che messer Carlo non allegasse quella
mattina.»[97] Egli ostentava un gran disprezzo pel Cristianesimo,
ed una grande ammirazione per la religione pagana.[98] A lui come al
Bruni furono dalla Repubblica decretati solenni onori funebri. Ambedue
ebbero sulla bara la corona poetica; ambedue riposano, l'uno di fronte
all'altro, in Santa Croce, sotto due monumenti del pari eleganti,
con due iscrizioni del pari pompose, quasi seicentistiche, sebbene
grande fosse la distanza che passava dall'ingegno dell'uno a quello
dell'altro. L'elogio funebre del Marsuppini venne letto dal suo scolare
Matteo Palmieri, quello del Bruni, invece, da un altro letterato di
sommo grido, e riuscì un avvenimento solenne. In mezzo alla pubblica
piazza, accanto alla bara, su cui era il cadavere del Bruni col volume
della sua _Storia Fiorentina_ sul petto, in presenza dei magistrati
della Repubblica, incominciò a leggere Giannozzo Manetti, che da
molti era tenuto, massime per le orazioni, il primo letterato allora
vivente. Eppure chi legge adesso questa Orazione, resta maravigliato,
e non sa comprendere come in un secolo tanto culto e tanto ammiratore
dei classici, si potesse, con un gusto così barocco, riscuotere così
universali applausi. Egli incomincia col dire che, se le Muse immortali
(_immortales Musae divinaeque Camoenae_) avessero potuto fare un
discorso latino o greco, e piangere in pubblico, non avrebbero lasciato
fare a lui quella solenne orazione. Viene poi a parlar della vita del
Bruni, ed, arrivato al tempo in cui fu segretario della Repubblica,
percorre la storia di Firenze. Tocca delle opere di lui, e poi si
distende a ragionare degli scrittori greci e latini, specialmente
di Cicerone e di Livio, al di sopra dei quali pone il Bruni, per la
gran ragione, che questi non solo traduceva dal greco come il primo,
ma scriveva anche storie come il secondo, così riunendo in sè i
pregi dell'uno e dell'altro. Avvicinatosi il momento, in cui doveva
mettere la corona sulla testa del morto amico, parlò dell'antichità
di questo uso e delle varie corone: _civica, muralis, obsidionalis,
castrensis, navalis_, continuando la descrizione per cinque grosse
pagine di fittissimo carattere. Affermò che il Bruni meritava la corona
come vero poeta, e subito s'abbandonò ad una serie di vuote frasi,
per spiegare che significhi la parola poeta, che sia la poesia, e
finalmente conchiudeva con una pomposa apostrofe, coronando «il felice
ed immortale sonno della maravigliosa stella dei Latini.»[99] Strana
è veramente questa gonfiezza di stile in coloro che passavano la vita
studiando, imitando i classici!

Il Manetti era nato a Firenze nel 1396, ed in età di 25 anni, morto
il padre, lasciò il banco per darsi allo studio con tanto ardore, che
dormiva solo cinque ore. Dalla sua casa aprì un uscio che dava nel
giardino del convento di Santo Spirito, ove andava a studiare, e per
nove anni non passò l'Arno.[100] Imparò il latino, il greco, l'ebraico;
aveva una grande facilità di scrivere, una memoria «eterna, immortale,»
secondo la solita espressione di Vespasiano. Ma il pregio di quest'uomo
era più che altro nel suo carattere morale. Pratico degli affari,
religioso, fermo, onestissimo, gli studi lo condussero a formarsi un
alto ideale della vita, al quale si mantenne sempre fedele nei molti
uffici che gli furono affidati. Vicario o Capitano della Repubblica in
più città lacerate dalle fazioni, riuscì a dare sentenze severissime,
a porre gravi tasse, senza mai essere accusato di parzialità. Ricusava
anche i donativi d'uso, dando invece del suo a chi ne abbisognava,
portando la concordia e la pace per tutto. Le ore d'ozio passava
scrivendo la vita di Socrate e di Seneca, _De dignitate et excellentia
hominis_, la storia delle città in cui si trovava. Ma il suo caval
di battaglia, come erudito, furono le orazioni, che fece nelle molte
ambascerìe, cui venne inviato appunto per la grandissima fama d'oratore
che s'era guadagnata. A Roma, a Napoli, a Genova, a Venezia venne
accolto come un principe; e la sua reputazione era tale, che solo a
lui riescì, con una lettera latina, di farsi rendere dal capitano
Piccinini otto cavalli che i soldati di lui gli avevano rubati.
Essendo andato a rallegrarsi in nome della repubblica fiorentina per
la elezione di Niccolò V, la gente accorse dalle città vicine, ed il
Papa lo ascoltò con tale attenzione, che un prelato accanto gli toccò
più volte il gomito, credendolo addormentato. «Finita l'orazione,
a tutti i Fiorentini fu tocca la mano, come se avessino acquistato
Pisa e il suo dominio;»[101] e i cardinali veneziani scrissero subito
al loro governo, che bisognava mandare a Roma un oratore simile al
Manetti, altrimenti ne andava il decoro della Serenissima. A Napoli il
re Alfonso sembrava «una statua sul trono,» quando parlò il Manetti.
Eppure questi era un oratore senza originalità: i suoi discorsi, d'uno
stile gonfio e falso, sono centoni di notizie diverse, florilegi di
frasi latine. Ma ciò appunto era quello che piaceva allora, perchè
dimostrava la sua vasta lettura, la sua grande memoria, la sua
prodigiosa facilità di cucire insieme periodi sonori. Scrisse molte
storie e biografie che, senza la vivacità dei cronisti antichi, non
hanno neppure i pregi dell'Aretino e del Bracciolini. I suoi trattati
filosofici sono vuote dissertazioni; le sue molte traduzioni dal
latino e dal greco non hanno la importanza di quelle dell'Aretino,
che lo aveva preceduto; le sue versioni del _Salterio_ dall'ebraico e
del _Nuovo Testamento_ dal greco mostrano che era poco contento della
Volgata; ma s'ingannarono coloro che vollero in ciò vedere un ardimento
religioso, di cui egli era incapace. Gli ultimi anni della sua vita
furono amareggiati dall'invidia che l'obbligò a lasciare Firenze; ma
trovò protezione a Roma ed a Napoli, dove morì, stipendiato da Alfonso
d'Aragona, il 26 ottobre 1459.

Sebbene la grande reputazione del Manetti sia oggi assai decaduta,
pure egli merita un posto d'onore nella storia del secolo XV, perchè
la sua vita dimostra chiaramente come non vi sia professione nè secolo
corrotto in modo da impedire ad un uomo di serbare una vera nobiltà
di animo. Quella stessa erudizione pagana, che lasciava dietro di sè
tante rovine morali in Italia, a lui valse invece per levare in alto
il proprio spirito. Ed invero è un grande errore, quantunque assai
comune, il condannare con una sentenza generale il carattere di tutti
gli eruditi. Noi abbiamo già dovuto ammirare Coluccio Salutati e Palla
Strozzi; molti altri potremmo citare anche fra i meno noti. Basta
leggere il biografo Vespasiano, di cui si può biasimare la troppa
ingenuità, ma non si può mettere in dubbio l'ammirazione sincera per la
virtù. Egli ci parla di messer Zembrino da Pistoia, che insegnava «non
solo lettere, ma costumi,» e, lasciato ogni altro ufficio, «per vivere
alla filosofia,» parco e morigerato, dava tutto il suo ai poveri,
cibandosi come un eremita; ed era «di un animo interissimo, libero,
senza dolo e fraude ignuna, come vogliono esser fatti gli uomini.»
Parlando di maestro Paolo fiorentino, dotto in greco, in latino e
nelle sette arti liberali, dato anche all'astrologia, aggiunge, che
non conobbe mai donna; dormiva vestito sopra un'asse, accanto allo
scrittoio; nutrivasi di erbe e di frutta; «solo era volto alla virtù,
e quivi aveva posto ogni sua speranza.... Quando non istudiava, andava
alla cura di qualche suo amico.»[102] Tutto ciò per altro non può far
dimenticare, che la maggior parte di essi erano bensì uomini dati con
ardore allo studio, ma pur troppo senza carattere. Il perenne esercizio
della mente in questioni assai spesso di pura forma; la vita vagabonda
di cortigiani costretti a guadagnarsi il pane con elogi venduti; le
continue gare; la mancanza d'ogni sentimento di fratellanza o di casta
nel lavoro e nell'ufficio comune che adempivano, e la demolizione
che cinicamente facevano di ogni cosa più sacra, non potevano certo
contribuire a nobilitare il loro carattere. Se si aggiunge poi, che
tutto ciò seguiva in un momento nel quale la libertà era già spenta,
la società decadeva, la religione veniva scandalosamente profanata dai
Papi stessi, allora solamente si capirà che profonda corruzione morale
dovesse ritrovarsi in Italia, quando questi eruditi erano i predicatori
della virtù, i distributori della gloria, i rappresentanti della
pubblica opinione. Ma ciò non deve impedirci di riconoscere gli onesti,
che si salvarono dal generale naufragio. Se non si tien conto di tutti
gli elementi di cultura e della diversa indole degli uomini che vissero
in quel secolo, si corre pericolo di non poter mai più intendere come
lo spirito italiano sapesse allora, fra tanti pericoli, trovare in sè
stesso la forza necessaria a promuovere uno straordinario progresso
intellettuale, evitando una totale rovina morale, a cui forse ogni
altro popolo in simili condizioni sarebbe andato soggetto.


3. — GLI ERUDITI IN ROMA.

Dopo Firenze, la città di maggiore importanza per le lettere è di
certo Roma. I Papi sin dai tempi del Petrarca cominciarono a sentire
il bisogno di far scrivere i loro Brevi da qualche dotto in latino.
E sotto Martino V gli eruditi della Curia già pretendevano nelle
pubbliche funzioni d'aver la precedenza sugli avvocati concistoriali,
di cui parlavano con disprezzo.[103] Fra di essi, come già vedemmo,
Poggio Bracciolini primeggiava, e con lui si trovavano altri di
minor fama, come Antonio Lusco, scrittore di epistole in versi e di
epigrammi, che aveva cavato dalle Orazioni di Cicerone le regole della
retorica, e composto così un formulario da servirsene per trattare in
linguaggio classico gli affari della Curia.[104] Gli eruditi però,
che a Firenze avevano una vera importanza sociale, ed una grande
indipendenza, a Roma invece erano in ufficî subordinati, nei quali
spesso guadagnavano bene, ma in sostanza potevano solo aspirare alla
condizione di cortigiani favoriti. Tuttavia ogni giorno crescevano di
numero, entrando nell'Abbreviatura, dove si trovarono sino a cento
scrittori di Brevi, o nella privata segreteria del Papa, dove si
portava l'abito ecclesiastico senza obbligo di prendere gli ordini
sacri. L'ufficio di abbreviatore era stabile, quello di segretario
durava generalmente quanto la vita del Papa; dava però molti incerti
guadagni, e la speranza di farsi strada coi possibili favori: ambedue
si comperavano a caro prezzo (chè a Roma tutto allora si vendeva), ma
il primo era preferito e si pagava di più.[105]

L'età dell'oro per gli eruditi in Roma fu quella di Niccolò V, il
quale, potendo, avrebbe portato nella Città Eterna tutti i codici del
mondo, tutti i dotti e tutti i monumenti di Firenze. Le economie che
fece, e i danari del giubileo nel 1450 gli dettero modo di mettersi
all'opera. La Curia e la Segreteria furono subito piene di eruditi
che il Papa, il quale conosceva poco o punto il greco, occupava a far
traduzioni, pagandole lautamente. Al Valla fu affidata la traduzione
di Tucidide, finita la quale ebbe 500 scudi e l'incarico di tradurre
Erodoto; al Bracciolini quella di Diodoro Siculo; a Guarino Veronese,
che era in Ferrara, quella di Strabone con la promessa di 500 scudi
per ogni parte dell'opera; altri ebbero altre commissioni. Solo per
una traduzione in versi latini d'Omero, Niccolò V non potè trovare
l'uomo adatto, quantunque avesse cercato per tutto, e fatte al Filelfo
le più larghe offerte. Anche gli esuli greci Teodoro Gaza, Giorgio
Trapezunzio, il Bessarione e molti altri accorsero a Roma, e parecchi
di essi ricevettero gli stessi ufficî e le medesime commissioni. La
più parte di questi erano però specie d'avventurieri irrequieti, che
avevano mutato religione per la speranza di guadagni. Il Bessarione,
convertito anch'egli, era invece uomo assai autorevole e sincero, dotto
e conoscitore del latino più de' suoi connazionali, cardinale, ricco,
gran raccoglitore di codici,[106] e la pretendeva inoltre a Mecenate.
Niccolò V lo mandò coll'ufficio di Legato a Bologna, probabilmente,
così almeno si disse, per non vederlo quasi suo emulo in Roma.

Tutta questa grande società di traduttori ed emigrati, riuniti dai
danari del Papa, si poteva dire un'accozzaglia d'elementi eterogenei.
Essa di certo valse assai a diffondere i risultati del lavoro iniziato
in Firenze, ma era incapace di opere veramente originali; fece molte
utili traduzioni, ma si può anche osservare, che se quelle del Bruni
a Firenze avevano aperto una via nuova agli studî, ed erano fatte da
un uomo che le aveva intraprese di sua iniziativa, quelle pagate da
Niccolò V erano invece lavori di commissione, eseguiti assai spesso
da dotti, il cui merito principale non era la cognizione del greco,
o da emigrati greci che conoscevano poco il latino. Ciò che di più
notevole ed originale produsse questa società romana di dotti, furono
opere come le _Facezie_ del Bracciolini, le _Invettive_ dello stesso
o l'_Antidoto_ del Valla, con le quali opere abbiam visto che basse
ingiurie quegli eruditi si scagliassero fra di loro. Il Papa avrebbe
potuto facilmente mettere un freno al poco edificante spettacolo,
ma sembrava invece compiacersene. Sotto il suo pontificato però, è
necessario notarlo, vennero da coloro che egli proteggeva pubblicate
anche opere di argomento grave, e di grandissima importanza; ma queste
appunto o non furono scritte in Roma, o non furono incoraggiate da lui.

Era assai naturale che chi aveva formato una così grande officina
di traduttori, fondasse ancora una grande biblioteca. Ed infatti, se
prima di lui Martino V aveva già cominciato a raccogliere codici; se
dopo di lui Sisto IV aprì al pubblico la famosa biblioteca Vaticana,
il vero fondatore di essa, come abbiamo altrove accennato, fu Niccolò
V. Enoch di Ascoli corse il mondo cercando codici nei conventi, con
Brevi che lo raccomandavano, perchè potesse copiare o comprare;[107]
Giovanni Tortello, autore d'un Manuale d'ortografia pei copisti,[108]
fu il bibliotecario di questo Papa che, secondo Vespasiano, raccolse
5000 volumi, li legò con grandissimo lusso, e spese per essi 40,000
scudi.[109] Oltre di che egli incominciò un grande restauro delle
strade, dei ponti, delle mura aureliane; pose le fondamenta d'un nuovo
Vaticano; fortificò il Campidoglio e Sant'Angelo; restaurò o costruì
di pianta un gran numero di chiese in Roma, Viterbo, Assisi, altrove,
e nuove fortezze in molte città dello Stato. Insomma coi consigli
dell'Alberti, coll'opera di Bernardo e Antonio Rosselli, Niccolò V
seppe trasformare Roma in una grande città monumentale, emulando non
solo i Medici, ma i più grandi imperatori antichi.[110]

Da tutto ciò si può facilmente comprendere come senza avere un
grande ingegno, egli riuscisse a far passare il suo nome ai posteri.
S'aggiunge ancora che il suo pontificato fu illustrato dalla presenza
di tre uomini d'ingegno assai singolare, due dei quali adoperati da
lui. E sebbene le loro opere più originali o non fossero, come dicemmo,
scritte in Roma, o appunto di esse il Papa non sembrasse curarsi
affatto, pure gliene venne indirettamente un onore che non meritava.

Il primo di essi fu Lorenzo Valla, che abbiamo veduto tra i segretarî
e traduttori, e che aveva per lo innanzi avuto una vita assai
avventurosa. Di famiglia piacentina, nato a Roma (1407), si vantava
romano. Fino a 24 anni restò in patria dove fu discepolo dell'Aurispa
e del Rinucci, ed ebbe anche soccorso di buoni consigli da Leonardo
Bruni.[111] Andò poi professore a Pavia, dove subito manifestò il
suo carattere irrequieto ed il suo ingegno originale. In quel gran
centro di studî legali attaccò fieramente la dottrina del celebre
Bartolo, a cagione dello stile barbaro e scolastico di lui. Ignorando,
egli diceva, il classico linguaggio dell'antichità, col quale la
giurisprudenza romana era e doveva essere scritta, ignorando anche la
storia, non poteva Bartolo intendere il vero significato delle leggi di
Roma, nè commentarle a dovere. Questa audacia parve un'eresia, e destò
tale rumore fra gli studenti di legge, che il povero Valla dovè fuggire
da Pavia, ed andare insegnando in altre città.[112]

Pure in mezzo a queste inquietudini, egli dètte alla luce la sua
prima opera, _De voluptate et vero bono_,[113] nella quale troviamo
subito un vero pensatore, e vediamo come dall'erudizione nascesse
allora lo spirito nuovo del Rinascimento. Ponendo a confronto le
dottrine degli stoici e degli epicurei, esaltava il trionfo dei sensi,
ribellandosi contro ogni mortificazione della carne. — Scopo della
vita, egli dice francamente, sono la felicità, il piacere, e noi
dobbiamo cercarli, perchè la natura ce lo impone. La virtù stessa, che
deriva dalla volontà e non dall'intelletto, è un mezzo per giungere
alla beatitudine, che è la felicità vera, sempre incompiuta su questa
terra. Noi non possiamo colla ragione spiegar tutto: i dommi della
religione restano spesso un mistero, e la filosofia cerca solo, se
può, di esporli razionalmente; non è possibile neppure conciliare il
libero arbitrio colla preveggenza divina. La scienza si fonda sulla
ragione, che è in armonia colla realtà delle cose; sulla natura, che
è Dio stesso. La verità si manifesta in una forma semplice, precisa,
vera; la logica e la retorica son quasi una sola e medesima cosa;
uno stile confuso e scorretto accusa verità mal comprese, una scienza
falsa o incompiuta. — E quindi egli attaccava fieramente la scolastica,
Aristotele, Boezio, facendo continuo appello dall'autorità al sano uso
della ragione, alla realtà, alla natura, che veniva da lui esaltata
in mille modi. Questo bisogno del reale, questa redenzione dei sensi
e della natura, formano il concetto dominante e l'anima di tutto il
libro; costituiscono l'indole propria degli scritti del Valla: è in
sostanza lo spirito stesso del Rinascimento, che viene con lui alla
luce. Non si tratta qui di un nuovo sistema filosofico; ma si vede che
la natura ed il buon senso trionfano; e l'indipendenza della ragione si
presenta a noi come una conseguenza logica dell'antichità risorta, come
una conquista ormai compiuta.

Quest'opera avrebbe ottenuto assai migliore successo, se il Valla,
spirito irrequieto e battagliero, che amava qualche volta il paradosso,
non si fosse lasciato trascinar troppo dalla sua penna. Pigliando la
difesa dei sensi, egli dichiara che la verginità è contro natura, e fa
dire al Panormita, che se le leggi di questa debbono essere rispettate,
le cortigiane sono più utili al genere umano che le monache. Esponendo
e difendendo la dottrina di Epicuro contro gli stoici, condannando
tutto ciò che significa disprezzo del mondo, si lascia andare a molte
espressioni contrarie allo spirito ed alla lettera delle dottrine
cattoliche, anzi cristiane. E quantunque dichiarasse di voler
rispettare l'autorità della Chiesa, i suoi attacchi contro il clero
erano fierissimi, e più pericolosi assai di quelli di Poggio e degli
altri eruditi, perchè questi si valevano del frizzo, il Valla, invece,
della critica. Per tutte queste ragioni si levò un gran rumore contro
di lui, e fu subito accusato d'eretico, d'epicureo e profanatore d'ogni
cosa sacra. Nè gli valse difendersi col dire che il vero piacere, la
vera felicità eran per lui la beatitudine divina; perchè gli venivan
gettate in viso le frasi più aggressive e audaci della sua opera,
ricordati i fatti più immorali della sua vita, che prestava il fianco a
molti attacchi.

Dopo aver insegnato in varie città, il Valla si trova dal 1435 al
'42 presso Alfonso d'Aragona, ne è fatto segretario nel '37, e lo
accompagnò nelle imprese militari, che poi portarono quel principe al
trono di Napoli.[114] Nel '44 egli era a Roma, ma dovette fuggirne,
ricoverandosi di nuovo a Napoli, per le persecuzioni minacciategli
a causa d'uno scritto da lui composto nel 1440: _De falso credita et
ementita Constantini donatione_.[115] Il Valla sosteneva in esso che
la donazione di Costantino non era stata mai fatta, non poteva farsi,
e che l'originale del preteso documento non fu mai visto. Esaminando
poi con la critica il linguaggio del documento, ne provava la falsità,
dimostrando che non aveva il carattere del latino del tempo. Dopo di
che attaccava fieramente la simonia del clero, osando dichiarare che
il Papa non aveva il diritto di governare nè il mondo, nè Roma; che
il dominio temporale aveva rovinato la Chiesa e privato della libertà
i Romani; minacciava poi d'incitarli anche a sollevarsi contro la
tirannìa d'Eugenio IV e contro i Papi in genere, che di pastori s'eran
fatti ladri e lupi. Quando pure, egli concludeva, la donazione fosse
vera, sarebbe nulla, perchè Costantino non poteva farla: in ogni caso i
delitti dei Papi l'avrebbero già annullata. E sperava, egli concludeva,
di vivere abbastanza per vederli costretti a tornare pastori col solo
potere spirituale. — Veramente, già durante il Concilio di Basilea, il
Cusano ed il Piccolomini avevano sostenuta la falsità della donazione,
con argomenti che si trovano anche nel Valla.[116] Ma a lui più che ad
altri si deve la demolizione del falso documento, il che potè fare con
la sua critica mordace, e con l'impeto della sua eloquenza ciceroniana.
Inoltre, come abbiam detto, egli non si fermava ad un esame letterario
e teoretico del documento, ma voleva addirittura abbattere il potere
temporale, minacciando di invitare le popolazioni ad insorgere. Non
si trattava più d'una semplice disputa teologica o storica; ma era la
prima volta che un erudito già celebre, dopo avere ampiamente esposta
la questione critica, la rendeva popolare e le dava una pratica
applicazione. Allora Alfonso d'Aragona trovavasi in guerra con Eugenio
IV, ed il Valla, pigliando le parti del suo protettore, poteva dare
libero corso alla sua eloquenza. Attaccato da preti e da frati, egli
che combatteva come sotto una fortezza, raddoppiò i colpi con altri
scritti. In questi sostenne non esser vera la lettera di Abgaro a Gesù
Cristo, pubblicata da Eusebio; che il Simbolo non era stato composto
dagli Apostoli, ma dal Concilio di Nicea. E prima aveva già notati
molti errori della Volgata, raccogliendoli in un libro d'annotazioni,
che Erasmo di Rotterdam ripubblicò più tardi con una lettera di elogio
e difesa.[117] Questi scritti e queste dispute lo fecero chiamare
dinanzi all'Inquisizione in Napoli; ma egli, sicuro dell'appoggio
del Re, si difese in parte col sarcasmo, in parte dichiarando che
rispettava i domini della Chiesa, i quali non avevano da far nulla
colla storia, colla filosofia e la filologia. Quanto alla donazione di
Costantino, non ne fu parlato, per non risollevare una questione troppo
spinosa.

Liberato da tale pericolo, continuò le sue lezioni all'Università, e
attaccò dispute letterarie con Bartolommeo Fazio e Antonio Panormita,
contro i quali scrisse quattro libri d'invettive.[118] Ma insieme con
questi lavori pubblicò altre opere storiche, filosofiche e filologiche,
dettate sempre col medesimo spirito critico ed indipendente, e fra di
esse vanno principalmente notate le _Elegantiae_ e la _Dialectica_. Le
prime[119] ebbero subito una grande popolarità, perchè il Valla in esse
fece prova di tutta la sua maestria nel latino classico, che scriveva
con eleganza e vigore. Dimostrò anche una conoscenza assai profonda,
per quel tempo, delle teorie grammaticali; ma, quel che è più, passava
insensibilmente dalle questioni filologiche alle filosofiche. Il
linguaggio, egli diceva, è formato secondo le leggi del pensiero,
per il che la grammatica e la retorica si basano sulla dialettica,
di cui sono il complemento e l'applicazione. Anche di quest'opera si
occupò Erasmo di Rotterdam, facendone un sunto che pubblicò.[120] In
essa ed in quella _De Voluptate et vero bono_, si vede tutta quanta
l'originalità dell'autore, ed il passaggio dalla erudizione alla
critica ed alla filosofia. La _Dialectica_, lavoro esclusivamente
filosofico, ha un merito assai inferiore alle _Elegantiae_, ma sostiene
anch'essa il medesimo concetto, che il vero studio del pensiero si
debba, cioè, fare collo studio del linguaggio.[121]

In mezzo a queste battaglie ed a questa attività letteraria, protetto
da un re splendido come Alfonso, in una città che per gli studî
filosofici ebbe sempre singolare attitudine, il Valla poteva esser
contento. Pure egli mirava a Roma, perchè colà era il gran centro dei
letterati, e perchè il suo stato presente non era punto sicuro. Il Re
poteva conciliarsi col Papa, poteva succedergli il figlio, e le cose
sarebbero subito mutate. Infatti, non andò guari che gli Aragonesi
tornarono d'accordo coi Papi, ed il Valla dovè pensare ai casi suoi.
Colla disinvoltura propria degli eruditi, si decise allora a mutare
strada. Cominciò collo scrivere lettere ad alcuni cardinali, dicendo
che non era stato mosso da odio ai Papi; ma da amore alla verità,
alla religione, alla gloria. Se la sua opera veniva dagli uomini,
sarebbe caduta da sè stessa; se veniva da Dio, nessuno avrebbe potuto
abbatterla. Del resto, e qui era per lui il punto importante, se con
qualche opuscolo aveva potuto far molto male alla Chiesa, dovevano
riconoscere che egli era in grado di fare ad essa altrettanto bene. Ma
tutto ciò non bastava ancora a calmare Eugenio IV, ed il Valla scrisse
addirittura la sua Apologia, indirizzandola al Papa, cui prometteva di
ritrattarsi.[122] In essa respingeva le accuse d'eresia, che «l'invidia
dei nemici gli aveva scagliate contro,» e conchiudeva: «Se non peccai,
restituisci la mia fama nel pristino suo stato; se peccai, perdonami.»

Ma neppure con ciò ottenne il resultato voluto. Solamente dopo la
elezione di Niccolò V, egli venne chiamato a Borna (1448), dove
fu adoperato a far traduzioni dal greco. Più tardi insegnò nella
Università romana, e così fra le lezioni, le traduzioni e le dispute
letterarie col Trapezunzio e con Poggio, passò la sua vita, senza
occuparsi punto di questioni religiose. Sotto Calisto III arrivò
ad essere segretario nella Curia ed anche canonico di San Giovanni
Laterano, dove venne finalmente sepolto quest'uomo, che era stato
di poco carattere e di costumi corrotti, ma di grandissimo ingegno
letterario, critico e filosofico, il novatore e pensatore più originale
fra tutti gli eruditi. Cessò di vivere il dì 1º agosto 1457.[123]

Trovavasi allora in Roma un altro erudito di molto ingegno, e questi
era Flavio Biondo o Biondo Flavio, secondo altri. Nato a Forlì nel
1388, segretario di Eugenio IV, di Niccolò V, di Calisto III e di
Pio II, fu da tutti adoperato e da tutti trascurato, a segno tale
che qualche volta indagò se poteva altrove provveder meglio alla sua
miseria. Eppure aveva servito Eugenio IV, nella prospera e nell'avversa
fortuna, con una fedeltà a tutta prova, e gli dedicò qualcuno de' suoi
importanti lavori. Lo stesso fece con Niccolò V, che era il Mecenate di
tutti gli eruditi; con Pio II, che si valse delle opere di lui, anzi ne
compendiò una, per aggiungervi il bello stile che vi mancava. Questa
era la gran colpa del Biondo, e questa lo fece restar quasi oscuro in
mezzo agli umanisti, molti dei quali non erano degni neppure di stargli
accanto. Egli non conosceva il greco, non era elegante latinista,
non era adulatore, non scriveva invettive: una sola disputa ebbe col
Bruni, che fu tutta letteraria e scientifica, sull'origine della lingua
italiana, senza alcuna personalità. Le sue Epistole non contengono
motti nè frasi eleganti, non furono quindi mai raccolte, e nessuno
scrisse la biografia di lui. Pure fu uno dei più intemerati caratteri,
dei più nobili ingegni in quel secolo, e le sue opere hanno un acume
di critica storica, che non si trova in alcuno de' contemporanei,
eccettuato forse Leonardo Aretino. Il primo lavoro del Biondo, dedicato
ad Eugenio IV, ed intitolato _Roma instaurata_, è una descrizione
di Roma pagana e cristiana, e de' suoi monumenti. In essa abbiamo il
primo tentativo serio d'una topografia compiuta della Città Eterna:
l'autore apre la via ad una scientifica restaurazione dei monumenti,
valendosi degli scrittori con critica singolarissima. Ma, quel che
è anche più notevole in un umanista, l'antichità classica non gli fa
punto dimenticare i tempi cristiani: io non sono, egli dice, di coloro
che, per la Roma dei Consoli, dimenticano la Roma di S. Pietro. E così
la sua erudizione fu più universale e profonda, s'estese al Medio Evo
ed al suo tempo. La seconda sua opera fu l'_Italia illustrata_, scritta
ad istanza d'Alfonso d'Aragona, e dedicata a Niccolò V. In essa egli
descrive l'Italia antica, determinandone le varie regioni, dando una
enumerazione delle principali città, con ricerche sui loro monumenti,
sulla loro storia antica e moderna, sugli uomini più famosi. La terza
opera, dedicata a Pio II, fu la _Roma triumphans_, in cui propose di
esporre la costituzione, i costumi, la religione dei Romani antichi,
e fece così il primo Manuale di antichità. Finalmente, oltre ad un
libro _De Origine et gestis Venetorum_, egli scrisse una storia della
decadenza dell'Impero romano, _Historiarum ab inclinatione Romanorum_,
etc., lavoro di vasta mole, del quale però abbiamo solamente le tre
prime Decadi, ed il principio della quarta. Essa doveva arrivare fino
ai tempi dell'autore; ma nello stato in cui si trova, è pure la prima
storia universale del Medio Evo, che sia degna d'un tal nome. Ed è
singolare il vedere come il Biondo ricorra alle sorgenti, e distingua
i narratori contemporanei dai posteriori, paragonandoli fra di loro.
Con quest'opera la storia comincia a divenire una scienza, e la critica
storica è già nata. Noi avremo occasione di riparlarne, quando dovremo
osservare che il Machiavelli se ne valse molto nel primo libro delle
sue _Istorie_, qualche volta traducendo addirittura. Ed anche Pio II ne
riconobbe tutta l'importanza, facendo di essa un compendio, per cercare
di darle la forma classica. E si valse molto anche d'altre opere del
Biondo, che pur lasciò morire povero e quasi oscuro (1463).[124]

Il terzo erudito di cui dobbiamo parlare, è appunto Enea Silvio de'
Piccolomini, che successe a Niccolò V col nome di Pio II (1458-64).
Noi lo vedemmo già al Concilio di Basilea, dove sostenne l'elezione
dell'antipapa Felice V, di cui fu segretario; più tardi lo vedemmo
nella cancelleria imperiale, dove restò lunghi anni, e mutò le sue
opinioni, divenendo sostenitore dell'autorità papale contro le idee del
Concilio, già prima difese da lui. Nella giovinezza s'era abbandonato
al suo carattere leggiero, al suo ingegno vario, e aveva scritto
poesie, commedie, novelle oscene, lettere in cui parlava con cinico
sarcasmo della vita dissoluta che faceva. Come erudito, anche a lui
mancava la conoscenza del greco e degli autori greci, dei quali aveva
letto solo qualcuno nelle traduzioni fatte in Italia; dei latini però,
massime di Cicerone, fece assai lungo studio: mirava alla facilità e
semplicità, seguiva l'esempio di Poggio Bracciolini, che era in ciò
quasi il suo ideale. Gli scritti del Piccolomini avevano una spontanea
disinvoltura che risultava principalmente dalle qualità pratiche del
suo ingegno, dalla conoscenza degli uomini e del mondo. Diverso in ciò
da tutti gli eruditi, scrivendo, cercava sempre di andare al pratico
ed al reale, senza farsi dominare troppo dalle classiche reminiscenze
dell'antichità. Perfino nelle sue opere oscene, invece di fermarsi a
far prova di stile, ed a citare esempî cavati dagli antichi, raccontava
fatti veri seguiti nella sua vita ed in quella degli amici. Le sue
Orazioni al Concilio non erano certo saggi di grande eloquenza, ma
avevano uno scopo chiaro, volevano ottenere un fine determinato.
Nelle Epistole, o si occupava d'affari o descriveva i paesi in cui
era; e così vediamo spesso il segretario della cancelleria imperiale,
disperato di trovarsi in mezzo a Tedeschi che bevevano birra da mattina
a sera. Gli studenti, egli dice, ne tracannano quantità enorme; un
padre svegliava i suoi bimbi la notte, per far loro a forza bere del
vino. Intanto egli diffondeva l'umanesimo italiano in Germania, e le
sue lettere formarono per molti anni l'anello di congiunzione fra i due
paesi, ricevendo da ciò la loro principale importanza storica.

Al Piccolomini mancavano il valore d'un pensatore indipendente,
l'erudizione del vero umanista e la pazienza del raccoglitore; ma
la vivacità, prontezza e spontaneità dell'uomo di lettere e di mondo
arrivavano in lui ad un tal grado da fargli giustamente, per questo
lato, attribuire una propria originalità. Egli non era un filosofo che
avesse un proprio sistema, era anzi talmente pieno dell'antichità,
che voleva confondere la filosofia greca e romana con la cristiana.
In ciò per altro non sta la vera indole del suo ingegno, la quale si
manifesta invece quando egli parla di materie affini alla filosofia, ma
più pratiche, come, per esempio, di educazione. Allora cita assai poco
Aristotele e Platone; nota invece osservazioni suggerite dalla propria
esperienza. Non riuscì mai a scrivere veri trattati scientifici, ma
ciò che in tutte le sue opere più ferma la nostra attenzione, è sempre
la descrizione dei paesi e dei costumi. Così, se scrive _De curialium
miseriis_,[125] la parte più notevole del libro è quella che narra
la vita infelice che faceva egli stesso, insieme coi minori curiali
della cancelleria imperiale, i loro viaggi, i loro alloggi in comune, i
cattivi alberghi, il pessimo desinare, la nessuna quiete.[126] In altre
delle sue opere troviamo descritti i paesi nei quali aveva viaggiato,
scene della natura, costumi, istituzioni. Questo è ciò che si presenta
a lui con maggiore evidenza, e che con maggiore evidenza egli presenta
a noi. Non è un viaggiatore che cerca regioni ignote; ma la natura è
sempre nuova per lui, sempre ammirabile, sempre gli parla. Anche quando
fu Papa, vecchio e malato, si faceva trasportare per monti e per valli,
a Tivoli, ad Albano, a Tuscolo, per contemplare la bellezza di quella
campagna, che tanto ammirava, e così bene descriveva. La forma e la
varietà della vegetazione, il sistema dei monti e dei fiumi, l'origine
filologica dei nomi, la diversità dei costumi, nulla gli sfugge, tutto
vede coordinato in unità. Genova, Basilea, Londra, la Scozia sono da
lui descritte, notando la estensione del paese, il clima, i costumi,
i cibi, il vivere, la costruzione delle case, le opinioni politiche
degli abitanti. La descrizione di Vienna è tanto vera, che qualche
volta se ne trovano anche oggi dei brani ristampati nelle _Guide_
più recenti di quella città.[127] La sua grandezza, il numero degli
abitanti, la vita dei professori e degli studenti, la costituzione
politica e amministrativa, il modo di vivere, gli scandali nelle vie,
la condizione dei nobili e dei borghesi, la giustizia, la polizia,
tutto sembra che avesse quello stesso carattere generale che Vienna
serba ancora oggi.[128] Qui non è un dotto che scrive, è un semplice
viaggiatore costretto dalla propria curiosità ad osservare e fare
osservar tutto. Il Piccolomini è l'uomo del suo tempo; le sue qualità
sono nell'atmosfera stessa che egli respira, e le manifesta tanto più
facilmente, quanto minore è la sua individuale originalità. Egli visse,
è ben vero, nel secolo degli eruditi; ma questo fu anche il secolo in
cui nascevano Leonardo da Vinci, Paolo Toscanelli, Cristoforo Colombo,
e si educava, si formava il loro genio collo spirito d'osservazione,
col metodo sperimentale.

È facile comprendere che le opere storiche e geografiche del
Piccolomini sono le più importanti; che in esse il merito principale si
trova là dove descrive cose ed uomini da lui veduti, e quando storia,
geografia, etnografia si presentano come una sola scienza. La storia
greca e romana egli conosceva solamente a brani; quella del Medio Evo
trattava leggermente, cavando molto dal Biondo e da altri, esaminando
però con acume gli scrittori di cui si serviva, il tempo, il valore,
la credibilità delle opere loro, perchè la critica era penetrata nel
sangue stesso degli uomini di quel tempo. Tuttavia non giunse mai ad
una forma, ad un rigore veramente scientifico; raccoglieva alla rinfusa
dalla memoria e da appunti in cui registrava ciò che vedeva, leggeva o
sentiva. Questo modo di comporre, unito alla sua mobilità e mutabilità
di carattere, gli fece in tempi diversi esprimere giudizî diversissimi
sopra lo stesso soggetto, perchè scriveva sempre sotto l'impressione
del momento. Ma ciò appunto cresce la spontaneità de' suoi scritti, e
ci permette di leggere nella mutabilità delle opinioni, la storia del
suo spirito.

Meditò lungamente una specie di _Cosmos_, in cui voleva scrivere la
geografia delle varie regioni allora conosciute, e la loro storia
dal principio del secolo fino ai suoi giorni. La sua _Europa_ è un
frammento di quest'opera colossale, non mai compiuta, ed in essa la
geografia è come il sostrato della storia. Egli ragionò con disordine
e senza proporzione dei popoli diversi, scrivendo assai spesso
di memoria, come era suo costume. Più tardi scrisse la geografia
dell'Asia, valendosi delle tradizioni dei geografi greci, e dei viaggi
del veneziano Conti, stato 25 anni in Persia, dei quali Poggio aveva
lasciata un'assai minuta narrazione nelle sue opere, raccolta dalla
bocca dello stesso viaggiatore.[129] L'ultima e più importante opera
del Piccolomini è la sua autobiografia, che egli scrisse quando era già
Papa, chiamandola _Commentarii_, ad imitazione di Giulio Cesare. Usava
dettarli quando gli affari lasciavano a lui tempo: sono è ben vero dei
brani mal cuciti fra loro; ma forse appunto perciò dànno una più giusta
idea delle qualità intellettuali dell'autore, e manifestano, insieme
riuniti, i varî e diversi pregi, che si trovano sparsi nelle altre sue
opere. Qui infatti egli si mostra qual era veramente come erudito,
poeta, descrittore di paesi, ammiratore della natura, pittore di
genere, con uno spirito tutto pieno del realismo moderno.[130] Qui sono
quelle descrizioni, cui accennammo più sopra, della Campagna romana,
di Tivoli, della Valle dell'Anio, di Ostia, di Monte Amiata, dei
Monti Albano, che possono anche oggi servire di guida al forestiero, e
fanno sentir quasi il soffio della fresca aura dei monti; e qui ancora
l'immagine di tutto un secolo si specchia, senza ordine prestabilito,
ma fedelmente, nell'animo dello scrittore, il quale appunto perchè non
ha un carattere ed una personalità propria, non impone mai un colore
subiettivo alle cose ed agli uomini di cui parla. Questi _Commentarii_
vanno dall'anno 1405 fino al luglio del 1464.[131]

Ciò che abbiam detto del Valla, del Biondo e del Piccolomini dimostra
chiaro che, sebbene gli eruditi di Roma non avessero l'importanza ed il
carattere proprio di quelli di Firenze, pure la Città Eterna fu sempre
un gran centro, a cui i dotti accorrevano da ogni parte d'Italia, e
fra poco potrà dirsi anche d'Europa. Quando i tre dotti di cui abbiamo
parlato, non vivevano più, noi troviamo che vi fiorivano Pomponio
Leto, il Platina e l'Accademia Romana. Il primo di essi era noto
assai meno pel suo ingegno che per la singolarità del suo carattere,
ed era generalmente tenuto figlio naturale dei principi Sanseverino
di Salerno. Discepolo del Valla, cui successe nell'insegnamento, era
venuto a Roma, lasciando i suoi, ai quali dicesi che rispondesse,
quando lo chiamarono, con questa laconica lettera: _Pomponius Laetus
cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis fieri non potest.
Valete._ Preso d'un amore entusiasta per l'antichità romana, menava
una vita da eremita, coltivando una sua vigna secondo i precetti
di Varrone e Columella; andava innanzi giorno alla Università, dove
l'aspettava un uditorio immenso; leggendo i classici, e abbandonandosi
intere ore a contemplare i monumenti romani, era qualche volta in
presenza di essi così esaltato che piangeva. Faceva rappresentare le
Commedie di Plauto e di Terenzio, e divenne il capo di molti eruditi
che raccolse nell'Accademia Romana da lui fondata. In essa ognuno dei
membri si ribattezzava pigliando un nome pagano; e nelle ricorrenze
dei fasti di Roma, specialmente l'anniversario dei natali di essa, si
radunavano ad un desinare, nel quale venivano letti componimenti in
verso ed in prosa.[132] Qui si parlava di repubblica e di paganesimo;
qui vennero il Platina e molti altri degli eruditi che Paolo II aveva
cacciati dalla Segreteria, e davano nei loro discorsi sfogo all'ira
contro il Papa. Questi, che era un uomo energico ed impaziente, sciolse
l'Accademia: molti degli accademici furono imprigionati, alcuni anche
torturati, altri fuggirono (1468). Pomponio Leto era a Venezia, e fu
rimandato a Roma, dove si salvò, sottomettendosi e chiedendo perdono,
cosa sempre facile agli eruditi, nei quali tutto ciò che pensavano e
sentivano prendeva forma e carattere semplicemente letterario.[133]
E così potè sotto Sisto IV, in forma alquanto diversa, riaprire
l'Accademia, che durò fino al sacco di Roma nel 1527.[134] Morì nel
1498, in età di 70 anni, e i suoi funerali furono solenni. Pubblicò
varie edizioni dei classici, qualche lavoro sulle antichità di Roma;
ma la sua vera importanza veniva dal suo insegnamento, dall'entusiasmo
pagano che seppe infondere negli altri, dalla vita semplice e tutta
data allo studio.

Un altro membro dell'Accademia, e di maggiore ingegno, era Bartolommeo
Sacchi di Piadena nel Cremonese, soprannominato il Platina.
Imprigionato la prima volta, quando protestava contro la perdita
del suo ufficio, fu di nuovo chiuso in Castel Sant'Angelo, quando
l'Accademia venne sciolta. Posto alla tortura, egli non solo piegò, ma
si sottomise al Papa con parole basse, promettendo di obbedirgli, di
celebrarlo con altissime lodi, di denunziargli[135] chiunque sparlasse
di lui, e tutto ciò avendo l'animo sempre pieno d'un gran desiderio di
vendetta. Uscito di carcere, e nominato bibliotecario della Vaticana
da Sisto IV, con l'incarico di raccogliere documenti sulla storia
del potere temporale, egli si vendicò nelle sue _Vite dei Papi_,
descrivendo Paolo II, come il più crudele dei tiranni, che si dilettava
a torturare e straziare gli eruditi in Castel Sant'Angelo, divenuto
perciò un vero «toro di Falaride». Avendo le biografie del Platina
avuto una grande popolarità, Paolo II passò ai posteri come un mostro,
e l'erudito ottenne per qualche tempo il suo scopo. Ma il merito
principale del libro e la ragione della sua fortuna stavano sopra tutto
nello stile: la critica storica dell'autore era assai debole. Bisogna
però convenire che egli tentò un'impresa difficilissima, alla quale
neppure oggi basterebbero le forze d'un uomo solo, per quanto dotto e
d'ingegno, e riuscì la prima volta a cavare dalle favolose cronache
del Medio Evo un compendio storico assai chiaro, nel quale sono
molti modelli della biografia erudita del secolo XV, che si leggono
volentieri, perchè l'autore cercava sinceramente la verità storica,
quantunque non sempre la ritrovasse. Avvicinandosi ai suoi tempi,
l'importanza ed il valore delle biografie crescono, quando però non lo
acceca la passione. Gli altri suoi lavori storici hanno minor pregio.
Egli morì nel 1481, in età di 61 anno.[136]

A Roma, accorrevano anche allora, come già notammo, non solo Italiani,
ma stranieri, specialmente Tedeschi, e fra questi meritano una
particolar menzione tre giovani, Conrad Schweinheim, Arnold Pannartz,
Ulrich Hahn, i quali avevano nel loro paese lasciato le officine di
Faust e Schöffer, e verso il 1464 portarono l'arte della stampa in
mezzo a noi. Essi dovettero combattere con la fame, e vincere immense
difficoltà, perchè in Italia la passione degli antichi codici era tale,
che molti, fra cui, come vedemmo, lo stesso duca d'Urbino, preferivano
i volumi manoscritti agli stampati. Pure la nuova industria si diffuse
rapidamente, e prima del 1490 si stampava già in più di trenta delle
nostre città.

Nel 1469 moriva ed era poi sepolto in San Piero in Vincoli il celebre
cardinale Niccola di Cusa, chiamato il Cusano, che, nato da un
pescatore della Mosella, aveva studiato a Padova, ed era divenuto uno
dei pensatori più illustri del secolo. Egli precedette il Piccolomini
ed il Valla nel porre in dubbio l'autenticità della donazione di
Costantino, ma non combattè il potere temporale dei Papi. Più tardi
mutò alquanto le sue opinioni, e venne poi fatto cardinale; ma
il suo carattere si mantenne sempre integro. Avverso all'autorità
d'Aristotele, ingegno filosofico di grandissima originalità, panteista,
ed in ciò vero precursore di Giordano Bruno, più che erudito fu un
vero pensatore.[137] Nel 1461 venne la prima volta a Roma un altro
straniero, Giovanni Müller o sia il celebre Regiomontanus, dotto nel
greco, sommo per quei tempi nelle matematiche e nell'astronomia; egli
fu da Sisto IV incaricato della riforma del Calendario, e morì a Roma
nel 1475. Nell'82 venne Giovanni Reuchlin, il quale fece più tardi
esclamare all'Argiropulo, professore nell'Università di Roma, che le
Muse della Grecia passavano le Alpi per emigrare in Germania.[138]
Colà infatti l'erudizione s'era allora propagata, e portava già i
suoi frutti. Il sole della nuova cultura italiana, levatosi in alto,
illuminava tutta l'Europa; ma sorgeva sempre dall'Italia, che era più
che mai l'antica madre del sapere.

Dalla morte di Paolo II a quella d'Alessandro VI, le cose in Roma
peggiorarono assai, e i Papi pensarono a ben'altro che agli eruditi,
all'erudizione o alle arti belle. Pure Sisto IV aprì la Vaticana al
pubblico, e compiè molte costruzioni importanti nella Città. Nè,
per lungo tempo ancora, l'ammirazione a tutto ciò che era antico,
si spense nel popolo, come prova un fatto seguìto appunto in quegli
anni. Nell'aprile del 1485 si sparse la voce che alcuni muratori,
scavando nella via Appia, presso il sepolcro di Cecilia Metella,
avevano in un sarcofago romano trovato il cadavere d'una «formosa e
pulita giovane,» JULIA FILIA CLAUDI, secondo l'iscrizione, che alcuni
pretendevano avervi letta: «era adornata sua trezza bionda da molte
e ricchissime pietre preziose.... e erano suoi chiome d'oro ligate
_cum_ una bendella di seta verde.»[139] Altri scrivevano invece che
i capelli erano neri, che iscrizione nel sarcofago non v'era; ma che
Pomponio Leto credeva fosse il cadavere d'una figlia di Cicerone. Certo
lettere e cronache del tempo sono piene del fatto, e vanno d'accordo
nel ripetere, che il cadavere era maravigliosamente conservato; che
gli occhi, la bocca si potevano aprire e chiudere, le membra muovere;
la bellezza del volto superava ogni immaginazione. Tutto ciò provava
«quanto li antiqui nostri studiavano li animi gentili farli inmortali,
ma ancora li corpi, neli quali la natura per farli belli havea posto
ogni suo inzegno.»[140] Si disse che i muratori erano fuggiti con
le gioie ritrovate; certo è che, quando il cadavere venne portato
in Campidoglio, una moltitudine, che qualcuno fece ascendere fino a
ventimila persone, andò in pellegrinaggio a vederlo. Vi fu chi suppose
ai nostri giorni, che il cadavere avesse una maschera in cera, come
se ne trovarono a Cuma ed altrove. Ma dagli scrittori contemporanei
apparisce invece, che esso era stato artificialmente conservato,
con qualche processo simile a quelli adoperati dagli Egizi. In ogni
modo, ciò che destava così grande entusiasmo era la convinzione
allora universale, che una bellezza antica dovesse essere immortale e
superiore ad ogni bellezza vivente. Tale sembrava davvero il pensiero o
meglio l'illusione del secolo. Ma tutto questo mondo erudito era adesso
assai vicino a crollare, e ben presto doveva sembrare come l'eco d'una
società che s'andava allontanando. Una dura realtà apparecchiava nuove
e ben più tristi esperienze: sotto Innocenzo VIII ed Alessandro VI ogni
cosa doveva andare a rovina in Italia.


4. — MILANO E FRANCESCO FILELFO.

Dopo di Firenze e Roma, le altre città italiane hanno assai minore
importanza per la storia delle lettere. Anche nelle repubbliche come
Genova e Venezia, esse fiorirono più tardi assai che in Toscana. Napoli
era stata troppo lungamente in una quasi anarchia, ed a Milano poco
si poteva sperare sotto un mostro come Filippo Maria Visconti, un
capitano di ventura come Francesco Sforza, o un giovane dissoluto e
crudele come il figlio di lui, Galeazzo Maria. Eppure tali erano allora
le condizioni dello spirito italiano, che nessuno poteva o sapeva
allontanarsi affatto dagli studi, e dal proteggere gli studiosi. Lo
stesso Visconti sentiva il bisogno di leggere Dante ed il Petrarca, e
cercava d'avere intorno a sè alcuni dotti. Era però difficile trovare
chi a lungo volesse rimanere presso di lui. Il Panormita, uomo assai
poco scrupoloso, non fu trattenuto neppure da un soldo di 800 zecchini,
ed andò via a cercare fortuna altrove. L'uomo fatto proprio per quella
Corte era solo Francesco Filelfo da Tolentino, che vi trovò un sicuro
asilo donde insultare da lontano i suoi nemici, e vivere adulando
o vendendo la propria penna. Costui si credeva ed era generalmente
creduto uno dei più grandi ingegni del secolo; ma, privo invece d'ogni
vera originalità, aveva una dottrina assai confusa ed incerta. Mandato
dalla repubblica veneziana ambasciatore a Costantinopoli, dove sposò
la figlia del suo maestro di greco, Emanuele Crisolora, tornò in
Italia nel 1427, in età di 29 anni. Portò molti manoscritti, parlava
e scriveva greco, aveva una grande facilità nel compor versi latini,
e ciò bastava allora a farlo subito giudicare uomo straordinario.
La sua immensa vanità, il suo carattere irrequieto fecero il resto.
Chiamato ad insegnare nello Studio fiorentino, scrisse subito a tutti
che aveva avuto felicissimo successo: «perfino le nobili matrone, egli
diceva, mi cedono il passo nella via!» Ben presto però fu in guerra con
tutti; divenne aspro nemico dei Medici, e si unì a coloro che volevano
uccidere Cosimo, quando era ancora prigioniero in Palazzo Vecchio;[141]
finalmente dovette fuggirsene a Siena, dove corse pericolo d'essere
ammazzato da uno che egli credè sicario dei Medici. Intanto a Firenze
era processato e condannato come cospiratore contro la vita di Cosimo,
di Carlo Marsuppini e d'altri.

A Siena scrisse le sue _Satire_ oscene contro Poggio; più tardi lo
troviamo a Milano, dove riceve uno stipendio di 700 zecchini l'anno,
e la casa; esalta la virtù e sopra tutto la liberalità del suo «divino
principe,» Filippo Maria Visconti, quel tiranno cui non sarebbe facile
trovar l'eguale in perfidia e crudeltà. Morto il Visconti e proclamata
la Repubblica Ambrosiana a Milano, lodò i nuovi Padri Coscritti; poi
fece parte della deputazione che andò a portare le chiavi di Milano
a Francesco Sforza, in onore del quale scrisse il suo gran poema, _La
Sforziade_.

Autore fecondo di biografie, satire, epistole, la sua eloquenza
somigliava, come disse il Giovio, ad un fiume non contenuto da
argini, che straripa ed intorbida ogni cosa. Pure egli si teneva il
dispensatore della immortalità, della fama e dell'infamia. Quando dovè
scrivere in italiano un comento al Petrarca, deplorava l'avvilimento
cui era condotta la sua epica musa. A vendere però i suoi versi
latini e le sue lodi al maggiore offerente era sempre pronto, e non si
vergognava.

Le sue opere principali, oltre le _Satire_, furono due, e restarono
inedite, senza gran danno delle lettere. La prima, intitolata _De Iocis
et seriis_, è una raccolta d'epigrammi, divisa in dieci libri, ognuno
di mille versi, secondo la retorica, artificiosa sempre, dell'autore.
Piena di facezie, d'insulti osceni e poco poetici, sembra avere per
unico scopo dimostrare la facilità dell'autore nello scrivere versi,
e guadagnar danari con basse adulazioni o più basse ingiurie. Ora è la
figlia che non ha dote, o le vesti di lei sono lacere; ora la musa del
Filelfo tace per mancanza di danari, ed egli supplica, tra minaccioso
ed umile, per averne.[142] Il 18 giugno 1459, quando lavorava a
quest'opera, egli scrisse al cardinal Bessarione: «Ora che sono libero
dalla febbre, vengo a soddisfare il mio debito verso di voi e verso
il Santo Padre Pio II, cioè a scriver dei versi ricevendo in cambio
danaro.»[143]

Nè diversamente si condusse, quando scriveva l'altra sua opera,
del pari inedita, _La Sforziade_, in 24 canti, dei quali si trovano
nelle biblioteche solo dieci. Essa pretende di essere un poema epico
sulle imprese dello Sforza, a cominciare dalla morte di Filippo
Maria Visconti. In versi sempre facili, che imitano Virgilio e più
spesso Ovidio, l'autore esalta fino alle stelle tutte le azioni, le
perfidie stesse del suo eroe. Gli Dei dell'Olimpo, qualche volta anche
Sant'Ambrogio o altri santi cristiani, sono i veri attori di questo
dramma; ma essi restano sempre mere astrazioni, e riescono solo a
togliere ogni personalità all'eroe del poema. La vera poesia manca
sempre, ed il Filelfo ha più ragione che non crede, quando dichiara che
la musa davvero ispiratrice è per lui il danaro. Quando doveva chiamar
sulla scena qualche nuovo personaggio allora vivente, cominciava
subito a patteggiare. Guai a chi non lo pagava! E così riceveva danari,
commestibili, cavalli, vesti, ogni cosa. Diceva di esser povero e di
aver fame, quando viveva nel lusso con sei persone di servizio e sei
cavalli. Deplorava la miseria in cui era, secondo lui, tenuta la sua
musa immortale; si vergognava di stentare, ma non di pitoccare. E tutti
gli davano ascolto, perchè temevano i suoi versi. Perfino Maometto
II liberò dalla prigionìa la suocera e la cognata del Filelfo, quando
questi gli mandò un'ode ed una lettera in greco, che diceva: «Io sono
uno di coloro i quali, celebrando con la eloquenza i fatti illustri,
rendono immortali coloro che di natura sono mortali, ed ho intrapreso
a narrare le vostre gesta gloriose, che, per le colpe dei Latini e la
volontà di Dio, vi hanno dato la vittoria.»[144] Una eguale condotta
tenne nello scrivere le _Satire_, che furono cento, divise in dieci
decadi, e ogni satira essendo di 100 versi, era da lui chiamata
_Hecatostica_.

Di Roma non fu molto contento il Filelfo. Ebbe da Niccolò V, è ben
vero, un dono di 500 ducati d'oro, quando gli lesse le _Satire_; fu
colmato di gentilezze; gli fu dato l'incarico di tradurre Omero con
l'offerta di lauto stipendio, di donativi, casa e altro ancora, se
accettava. Ma egli ricusò tutto, avendo altre mire. Dopo la morte della
sua prima moglie aveva fatto capire che sarebbe andato a Roma, quando
gli avessero dato prima o poi un cappello cardinalizio, e ripetette la
stessa dichiarazione dopo la morte della seconda moglie. Non essendo
riuscito nell'intento, prese una terza moglie, e respinse per sempre
ogni invito. Morto lo Sforza, però, tutto mutò per lui; egli cadde
nella miseria, e dovè raccomandarsi a Lorenzo dei Medici, che lo
richiamò allo Studio in Firenze, dove, arrivato in età di 83 anni,
nel 1481, esausto di danari e di forze, dopo poco morì. Il Filelfo
fu un esempio di quel che potevano allora una grande memoria, una
grande facilità nello scrivere o parlare varie lingue, una grandissima
petulanza e superbia, senza carattere, senza moralità e senza
originalità.[145]

Egli non fu certamente il solo erudito a Milano. Al tempo di Francesco
Sforza vi troviamo, come già si disse, Cicco Simonetta, segretario
dottissimo; Giovanni fratello di lui e storiografo del Duca, di cui
narrò le vicende dal 1423 al '66, in una storia che non è senza pregio,
perchè egli descriveva ciò che aveva veduto; Guiniforte Barsizza,
maestro dei due figli del Duca, Galeazzo Maria e Ippolita divenuta
celebre pei suoi discorsi latini.[146] Battista Sforza, figlia
d'Alessandro, signore di Pesaro e fratello di Francesco, anch'ella
celebre pei suoi discorsi latini,[147] fu del pari educata in questa
Corte. Ma tutto ciò non basta per dare a Milano un valore suo proprio
nella storia dell'erudizione.


5. — GLI ERUDITI A NAPOLI.

Alfonso d'Aragona, uomo di guerra, ma anche d'ingegno non comune,
seppe dare alla sua Corte una importanza maggiore. Egli abbandonò con
singolare rapidità il suo carattere nazionale, per divenire affatto
italiano, e gareggiare coi nostri principi nel proteggere le arti;
cercare codici antichi; studiare i classici; circondarsi di letterati,
pei quali, secondo Vespasiano, spendeva 20,000 ducati l'anno.[148] Tito
Livio era il suo idolo, tanto che raccontavano come Cosimo dei Medici,
volendo pacificarlo, gl'inviasse un codice prezioso delle opere di
quello storico. Ai Veneziani scrisse pregandoli che gli ottenessero
da Padova un osso del braccio di Livio, quasi fosse sacra reliquia.
Camminando col suo esercito, gli fu un giorno indicata Sulmona, patria
di Ovidio, e subito si fermò abbandonandosi ad esclamazioni di gioia:
il suo solenne ingresso in Napoli lo fece passando per la breccia, ed
imitando in tutto un trionfo romano.

Il Trapezunzio, il Valla, il Fazio, il Beccadelli, Porcellio de'
Pandoni furono lungamente alla sua Corte, e per breve tempo vi furono
anche il Filelfo, il Gaza, il Manetti, il Piccolomini. Tutti erano
trattati con splendore e con gentilezza. Quando il Fazio ebbe finito
la sua _Historia Alphonsi_, il Re, che pur gli dava 500 ducati l'anno,
fecegli il dono di altri 1500, dicendo: «con ciò non intendo pagare
la vostra opera, che non potrebbe aver prezzo.»[149] Quando invitò il
Manetti che fuggiva da Firenze, gli disse: «dividerò con voi il mio
ultimo pane.»

Uomo senza pregiudizî, in guerra continua coi Papi, egli dava asilo e
protezione ai dotti, quali che si fossero le loro opinioni, e garantiva
ad essi piena libertà di parola, difendendoli dall'Inquisizione e
da ogni pericolo. Così il Valla, che fu l'erudito più celebre nella
Corte, potè scrivere contro i preti, contro i Papi, ed esporre
liberamente negli scritti, dalla cattedra, le sue opinioni religiose
e filosofiche. Tutto ciò dava una fisonomia propria, una importanza
speciale alla società erudita in Napoli. Lo stesso fu di Antonio
Beccadelli più noto col nome di Panormita. Nato a Palermo nel 1394,
egli dopo avere studiato a Padova, aveva ad un tratto acquistata una
clamorosa celebrità, scrivendo un libro che fece grandissimo scandalo
per le sue indecenze, allora non anche molto in uso negli scritti
degli eruditi. Quest'opera che porta il titolo di _Hermaphroditus_, è
una raccolta d'epigrammi, i quali per arguzie spudorate, per frivolità
indecenti, superarono quanto s'era scritto fino allora ad imitazione
dei satirici romani. Non solo il mal costume in genere, ma oscenità
e vizî d'ogni sorta formavano l'argomento continuo de' suoi versi, i
quali non essendo privi d'eleganza, e molte difficoltà di stile o di
lingua avendo superate, ottennero grandissimo favore. Ma gli attacchi
contro di lui furono pure assai vivi. Egli però, senza punto perdersi
d'animo, menò vanto del suo libro, perchè aveva imitato gli antichi, e
dimostrato che il latino poteva adoperarsi a dire ogni cosa. Si difese
citando Tibullo, Catullo, Properzio, Giovenale, ed anche filosofi o
politici greci e romani che, pure essendo virtuosi, avevano scritto
simili oscenità, ed aggiungeva che se tali erano le sue poesie, la sua
vita era invece senza macchia.[150] Il rumore continuò tuttavia assai
grande. Poggio, che non era certo scrupoloso, lo biasimò; i frati
Minori lo fulminarono dal pergamo, e secondo il Valla lo bruciarono
anche in effigie. Ma Guarino Veronese, dotto assai celebrato, vecchio
allora di 63 anni, padre di molti figli, carattere intemerato, incapace
egli stesso d'imitarlo, pur lo difese arditamente, deridendone i
detrattori, i quali «non sanno, egli diceva, che la vita ha uno scopo,
la poesia un altro.» E queste erano veramente le idee del secolo.
Sigismondo re dei Romani coronò il Panormita in Siena poeta laureato,
e l'_Ermafrodito_ fece scuola, tanto che lo scrivere indecenze latine
fu d'allora in poi quasi un pregio per l'erudito italiano. Alfonso,
non curandosi punto delle accuse lanciate contro il poeta, fermo nel
voler dare asilo a tutti coloro che gli altri perseguitavano, tenne
sempre il Panormita in grande onore. E questi scrisse i suoi _Dicta et
facta Alphonsi_, ricevendone in premio mille ducati; poi, _Alphonsi
regis triumphus_, lettere, orazioni, poesie latine, tutte opere che
lo dimostrano facile scrittore senza merito singolare. Leggeva e
commentava al Re Livio, Virgilio, Seneca; venne dichiarato nobile;
ebbe una villa e molti danari. Bartolommeo Fazio e gli altri erano
uomini anche di minor valore. Ma l'ingegno veramente originale della
Corte restò sempre il Valla, che contribuì non poco ad alimentare in
Napoli lo spirito critico e filosofico, cui per natura quel popolo è
inclinato. Un altro uomo eminente era colà Giovanni Gioviano Pontano;
ma questi fiorì più tardi, ed appartiene ad un periodo successivo nella
storia delle nostre lettere.


6. — I MINORI STATI ITALIANI.

Se noi ci volgiamo alle piccole città ed ai minori Stati d'Italia,
vi troviamo la società sottoposta ad un numero così grande di scosse
continue e violenti, lacerata da tanti e così sanguinosi delitti, che
riesce impossibile immaginare come le arti e le lettere vi potessero
mai fiorire. I piccoli tiranni erano di continuo esposti agli assalti
dei vicini, o alle congiure che scoppiavano ogni giorno nei loro Stati.
Quando si trattava di città come Ferrara o Bologna, la posizione
strategica della prima, l'importanza del territorio che aveva la
seconda, davano certo occasione a sempre nuove e mutabili vicende.
Quando si trattava di principi come Alessandro Sforza di Pesaro, che
aveva il sostegno del fratello a Milano, o di Federico d'Urbino, che
era valoroso capitano di ventura, e poteva difendersi col suo proprio
esercito, allora, se non s'evitavano sempre i pericoli, si riusciva
almeno più facilmente a salvare lo Stato. Ma là dove simili aiuti
mancavano, noi abbiamo una serie non interrotta di fatti sanguinosi,
simili a quelli dei Baglioni in Perugia. Questi non arrivarono mai
nella città ad una signoria sicura: era il predominio d'una famiglia,
con un capo non sempre riconosciuto in essa, e un forte partito
avverso, alla testa del quale si trovavano gli Oddi. Tutto era pieno
d'armi e di bravi, e da un momento all'altro scoppiavano tumulti
violenti. Verso la fine del secolo XV gli scontri dentro e fuori della
città furono tanti e tali, che le case del contado ne cadevano in
rovina, i campi erano devastati, i contadini facevano gli assassini, i
cittadini si davano alle bande di ventura, e i lupi mangiavano «carne
di cristiani.»[151] Eppure era questo il tempo, in cui fioriva a
Perugia la più nobile, ideale e delicata pittura della scuola umbra:
era sempre il contrasto medesimo che allora s'osservava per tutto in
Italia.

Sigismondo Pandolfo Malatesta di Rimini fu un altro dei piccoli
tiranni, e fra i più singolari. Capitano di ventura rinomato,
quantunque non avesse mai comandato grossi eserciti, si dimostrò più
volte un vero mostro di crudeltà. Respinse la sua prima sposa, dopo
averne ricevuta la dote; la seconda e la terza ammazzò per gelosia o
vendetta; amò per altro con ardore fino alla morte la sua concubina
Isotta. Insanguinato in mille delitti, era irreligioso e cinico oltre
misura. Sulla sua tomba volle che si ponesse questa iscrizione:

    Porto le corna ch'ogn'uno le vede,
    E tal le porta che non se lo crede.

Negava Iddio, negava l'immortalità dell'anima, e quando arrivavano
le scomuniche del Papa, domandava se gli scomunicati continuassero a
gustare il buon vino ed i buoni pranzi. In occasione d'una gran festa,
fece empire d'inchiostro la pila dell'acqua benedetta, per ridere
dei fedeli che, senza avvedersene, si tingevano il volto.[152] Eppure
anch'egli era circondato di letterati, ad alcuni dei quali donò terre,
ad altri assegnò stipendî; e nel suo castello, _Arx Sismundea_, essi
lodavano il principe e il suo amore per la bella Isotta, a cui fu
innalzato nella chiesa di San Francesco un monumento, _Divae Isottae
sacrum_, accanto a quello del suo amante. La chiesa stessa, a cui
lavorò Leon Battista Alberti dal 1445 al 50, e che riuscì uno dei più
eleganti, dei più belli edifizî del Rinascimento, porta in fronte il
nome di Sigismondo, e nei fregi le lettere S(igismundus) ed I(sotta).
Nei due lati esteriori si trovano nicchie destinate a servir di
tomba ai soldati ed agli eruditi della Corte. E tutto questo non era
in lui affettazione; rispondeva invece ad un bisogno reale del suo
spirito culto ed artistico. Pio II che fu in aspra guerra con lui, e
lo bruciò in effigie, scrisse, che egli «conosceva le istorie, aveva
una grande cognizione della filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che
intraprendeva.»[153]

A Ferrara, a Mantova, Urbino, le cose pigliavano ben diverso aspetto.
Senza essere grandi centri, come Roma e Firenze, esse riuscirono ad
avere una fisonomia ed importanza propria nella storia delle lettere.
Più di tutte fu celebre Ferrara. La sua posizione strategica la rese
in mezzo alle sue varie vicende, indipendente, non potendo nessuno
dei grandi Stati italiani permettere che altri se ne impadronisse.
I Signori d'Este che la dominarono e fortificarono, furono uomini
d'ingegno e spesso anche di molto valor militare. Nell'interno del
palazzo ducale seguirono spesso scene di sangue. Parisina, moglie del
bastardo Niccolò III, innamoratasi d'un figlio naturale del marito,
ebbe con l'amante tronca la testa (1425). E il Duca dovette poi
consolidare il suo regno, combattendo l'avversa nobiltà, con ogni arte
di guerra, con ogni sorta di tradimento. Succedono due bastardi di
questo bastardo, Lionello e Borso. Più tardi Ercole, figlio legittimo
di Niccolò III, strappa colle armi il dominio di mano al figlio di
Lionello, facendo sanguinosa strage dei nemici. E così si continuò
anche nel secolo XVI, quando il cardinale Ippolito fece cavare gli
occhi al fratello Giulio, altro bastardo, perchè lodati dalla donna che
corteggiavano insieme, e che ne adduceva al Cardinale la irresistibile
bellezza, come causa della sua preferenza. L'operazione fu male
eseguita, e dètte occasione ad altre tragedie nella infausta Corte,
perchè Giulio, che era restato con un occhio solo, cospirò insieme
con don Ferrante contro il comune fratello, il duca Alfonso I,[154]
marito di Lucrezia Borgia. Il Cardinale rivelò la trama (1506), e i
due fratelli furono condannati al carcere perpetuo, in cui don Ferrante
morì, e donde Giulio fu liberato solo quando successe il duca Alfonso
II (1559).

Pure questa appunto fu la Corte tanto celebrata per lo splendore di
lettere e di arti fino ai tempi del Boiardo, dell'Ariosto e del Tasso,
che la illustrarono coi loro nomi, colle loro opere immortali. Nel
Medio Evo essa era stata città longobarda, feudale e cavalleresca, e
non aveva nei secoli XIII e XIV partecipato al gran moto letterario
che s'era visto a Firenze. Nel secolo XV fu invece una delle città
d'Italia per lettere e cultura più fiorenti. I disordini della
Corte, circoscritti principalmente dentro le mura del palazzo ducale,
sembrava che di rado turbassero la città. Costruita secondo un disegno
prestabilito, amministrata con ordine, v'accorrevano esuli da Firenze
e da altre parti d'Italia; vi si fermavano, v'edificavano palazzi.
Le vie, le case ora deserte, bastavano allora appena a contenere
la popolazione. I suoi duchi provvedevano a tutto, e vi chiamavano
dotti, fra i quali tiene il primo posto Guarino Veronese, che portando
l'erudizione a Ferrara, dove così vive erano le tradizioni feudali e
cavalleresche, vi promosse quel rinascimento letterario che ci dètte
poi l'_Orlando Innamorato_, l'_Orlando Furioso_ e tanti altri lavori,
di cui la fama non perirà mai.[155]

Nato nel 1370 imparò il greco a Costantinopoli, di dove tornò con una
ricca mèsse di codici, che gli erano così cari da far generalmente
prestar fede alla favola, che egli incanutisse a un tratto, per
averne perduto buona parte in un naufragio.[156] Insegnò prima a
Firenze, poi a Venezia, dove ebbe a discepolo Vittorino da Feltre, nel
quale infuse la sua dottrina e i suoi principî educativi. Chiamato
nel 1424 da Niccolò III, per esser maestro di Lionello e professore
nell'Università, dandosi con febbrile ardore al doppio ufficio, scrisse
un numero assai grande di opere: traduzioni di Plutarco, Platone,
Strabone e Luciano; biografie, grammatiche e più di cinquanta orazioni.
Il merito principale di lui sta più che altro nel suo nobile carattere
e nel suo insegnamento, nel quale ebbe grande originalità, e da cui
ottenne resultati singolarissimi. Buon padre di famiglia, temperato
e sobrio nel vivere, non mai maldicente, viveva fra i suoi scolari,
dei quali aveva sempre piena la casa. Si diceva che erano usciti più
dotti dalla sua scuola che Greci dal cavallo troiano. E veramente più
di trenta de' suoi alunni furono celebrati come eruditi,[157] sebbene
Vittorino da Feltre fosse il solo che arrivasse ad una fama duratura.
Ma l'opera di Guarino va misurata dall'impulso che dètte agli studî in
Ferrara, la quale fu dal suo insegnamento e dal governo di Lionello e
Borso d'Este, suoi alunni, trasformata in una piccola Atene italiana.
Egli continuò a lavorare con lo stesso zelo fino alla sua morte,
avvenuta il 4 dicembre 1460, novantesimo della sua età, quando spirò
fra le braccia de' suoi, amato e venerato da tutti.

I Gonzaga di Mantova, alcuni dei quali comandarono poderosi eserciti,
non commisero mai quei delitti che resero così sanguinosa la storia
degli Este. La loro Corte, è vero, fu assai splendida solamente nel
secolo XVI, ai tempi del Bembo, del Bandello, dell'Ariosto e del Tasso,
massime quando viveva la buona marchesa Isabella. Pure nel secolo
XV Mantova fu illustrata dalla dimora colà di Vittorino Rambaldoni
da Feltre (n. 1378, m. 1446), il primo educatore moderno, ed il più
illustre discepolo di Guarino. Chiamato (1423) da Gio. Francesco
Gonzaga, che gli dètte un lauto stipendio ed un locale, fondò in
esso il suo celebre convitto, che prese il nome di _Casa gioiosa_,
o semplicemente _Gioiosa_. Secondo alcuni avrebbe avuto questo nome
per l'allegria che vi dominava in conseguenza dei buoni principî
pedagogici; ma il vero è che l'edilizio in cui fu messo il convitto
aveva già prima il nome di _Zoiosa_.[158] Vi s'insegnavano le lingue
classiche, per le quali furono chiamati Greci assai rinomati, come
il Gaza ed il Trapezunzio. A queste e ad altre discipline comuni alle
scuole di quel tempo, s'aggiungevano la musica, la danza, il disegno,
la ginnastica, l'equitazione. Il principio su cui si fondava la scuola
di Vittorino, era: educare con la mente il corpo, per formare il
carattere. E ciò potette riuscirgli principalmente perchè egli era un
uomo d'animo elevato e nobilissimo, che spendeva tutto il suo stipendio
per dare educazione gratuita ai poveri, i quali si trovavano nella sua
scuola accanto ai figli del marchese di Mantova ed al giovane Federico
da Montefeltro, che fu poi il celebre duca d'Urbino. Ed anche questa
comunanza ed uguaglianza d'ogni ordine di cittadini nella scuola,
era voluta dai principii pedagogici di Vittorino, che fu il primo a
condurre l'istruzione e l'educazione secondo norme scientifiche.[159]
I buoni frutti della _Casa gioiosa_ si videro non solo a Mantova, ma
anche altrove, giacchè per lungo tempo si riconobbero gli alunni di
Vittorino da una lealtà di carattere, che faceva singolare contrasto
con la generale corruzione di quei tempi.

Ed a questa educazione si dovette in gran parte, se la Corte d'Urbino
divenne un modello fra quelle d'Italia; se il duca Federico fu buono,
leale e fedele, sebbene capitano di ventura. Celebrato universalmente
per la sua capacità strategica, per la disciplina de' suoi soldati,
e per essere allora il solo capitano, che non mancasse mai alla fede
giurata o alla parola data: conosceva il latino, la filosofia, la
storia; leggeva i classici e disputava assai volentieri di teologia.
Queste cognizioni unite a quelle acquistate nel campo e nel governo,
lo condussero a possedere, o almeno ad intendere quasi tutto lo
scibile de' suoi tempi. La sua vita procedeva con ordine, come un
orologio, e dei ritagli di tempo profittava sempre per disputare ed
istruirsi. Accompagnando Pio II a Tivoli, sotto la sferza del sole,
fra la polvere sollevata dai cavalli, al luccicare degli elmi e delle
spade, discorreva col dotto Papa sulle armi degli antichi, sulla guerra
troiana, e non riuscivano a mettersi d'accordo intorno ai confini
dell'Asia Minore.[160] Il danaro raccolto dalle ricche paghe avute
come capitano di ventura, spendeva nella pace a rendere più splendida
la città e la Corte d'Urbino. Sembrava che del suo Stato volesse fare
quasi un'opera d'arte. Il palazzo da lui costruito fu dei più celebri
in Italia, non per ricchezza o sfoggio d'architettura, ma per gusto
squisito. Vi teneva più centinaia di persone, a ciascuna delle quali
affidava un ufficio determinato, con orario preciso e istruzioni
scritte. Era come una grande scuola militare, alla quale molti signori
mandavano i loro figli, per educarli alla disciplina delle armi ed
alla eleganza dei modi. Il suo tesoro principalissimo era la ricca
biblioteca, nella quale spese 30,000 ducati,[161] occupando per
quattordici anni da trenta a quaranta copisti, in Urbino, Firenze ed
altrove.[162] Procedette nel comporla con ordine grandissimo, seguendo
in parte il concetto del Parentucelli,[163] ma cercando d'abbracciare
tutto quanto lo scibile antico e moderno.[164] Così riuscì allora
una cosa unica al mondo. Circondato da artisti italiani e stranieri,
da soldati, non aveva seco gran numero d'eruditi; ma molti di essi
corrispondevano con lui, e gli dedicavano le loro opere. Passeggiava
disarmato in mezzo al popolo; desinava frugalmente all'aperto,
ascoltando la lettura di Livio o d'altri antichi. Verso sera assisteva
agli esercizî militari e ginnastici, che facevano i giovani sul prato
di San Francesco. Il popolo amava il suo Duca, e i successori di lui
ne seguirono le tradizioni.[165] Non si può dire che Urbino dèsse uno
straordinario impulso alla cultura letteraria in Italia; ma si può ben
dire che fu come uno splendido gioiello in mezzo agli Appennini, una
città esemplare, la patria di molti uomini grandi, e di Raffaello che
vale per tutti.


7. — L'ACCADEMIA PLATONICA.

Gli scrittori fino ad ora notati vissero, lo abbiamo già detto, in
mezzo ad una moltitudine di altri, i cui nomi, celebri al loro tempo,
andarono a poco a poco più o meno dimenticati. Non v'è stato invero un
secolo che abbia dato luogo nella storia ad una così grande ecatombe
di supposte celebrità, come il secolo XV. E ciò si spiega facilmente,
perchè allora vi fu un doppio lavoro. Da un lato, volendo far rinascere
l'antichità, sì dètte opera ad una imitazione e riproduzione assai
spesso meccanica del passato, alla quale cooperarono coloro che sono
stati poi dimenticati; dall'altro si ottenne un resultato nuovo ed
inaspettato, che fu l'opera d'un numero assai minore di dotti, i
cui nomi la storia deve più specialmente ricordare. E questo doppio
ordine di fatti e di uomini si ritrova in quasi tutta la cultura del
Rinascimento, nella filosofia non meno che nelle lettere. La filosofia
sembra avere una grandissima e generale importanza fra gli eruditi;
ma la più parte di essi avevano solo cavato dagli antichi scrittori
un florilegio di frasi sulla gloria, sull'amicizia, sul disprezzo
della morte, sul Sommo Bene, sulla felicità, la virtù, e le ripetevano
sempre, senza che valessero mai a dirigere in qualche modo le loro
azioni, nè a formare le loro convinzioni. In quelle frasi noi vediamo
di continuo una strana mescolanza di Paganesimo e di Cristianesimo, che
si trovano accanto ed in contradizione fra loro, senza che di ciò lo
scrittore si occupi punto. Ben presto però si manifesta il bisogno di
trovare alla vita umana un fondamento razionale, filosofico, il quale
valga a spiegare ad un tempo la virtù pagana e la cristiana, facendo
scomparire la troppo visibile contradizione. Allora incominciò il
lavoro più o meno originale, iniziato dai neoplatonici e dall'Accademia
che essi fondarono in Firenze.

Gli esuli greci non contribuirono tanto alla diffusione fra noi
della loro lingua, che già s'era cominciata a studiare in Italia, e
molto meno poi della erudizione letteraria assai fiorente prima del
loro arrivo, quanto a rivolgere l'erudizione stessa verso lo studio
dei filosofi antichi. La prima origine del platonismo o, per meglio
dire, del neoplatonismo in Italia, si deve infatti a Giorgio Gemisto,
soprannominato Pletone, per l'ammirazione che professava a Platone.
Nato nel Peloponneso, secondo alcuni, secondo altri solo rifugiato
colà da Costantinopoli, egli era il più dotto e autorevole di quanti
Greci vennero al Concilio fiorentino. Ed era poi così convinto,
anzi entusiasta del platonismo, che s'aspettava da esso anche un
rinnovamento religioso. Ciò fece dire ai detrattori di lui, che voleva
far rivivere il Paganesimo; ma stando ai suoi scritti, a quelli dei
seguaci, ed a ciò che risultò veramente dalle sue dottrine, è più
giusto il dire, essere egli convinto che il Cristianesimo avrebbe
trovato nuova conferma nella filosofia di Platone, e poteva perciò,
sotto altra forma e, secondo lui, più razionale, essere rinnovato.
Esaminando le differenze che passano tra la filosofia platonica
e l'aristotelica, in un opuscolo che divenne assai celebre,[166]
egli dava, come è facile immaginare, la preferenza alla prima, e
riduceva tutta la controversia ad una sola questione. I due grandi
filosofi ammettono, egli diceva, che la natura operi, non a caso,
ma secondo un fine. Aristotele però sostiene che a questo fine si
giunge inconsapevolmente, _non consulto_; Platone invece sostiene
più giustamente, che la natura è razionale, è consapevole, _consulto
agit_: la sua è un'arte divina, perchè è Dio che opera in essa.[167]
Un'ardentissima disputa sorse intorno a siffatta questione, la quale
può sembrare a noi di nessuna importanza, ma ne aveva allora una
grandissima. Per essa infatti s'apriva la via al panteismo, ed il
concetto del Dio personale, che presso gli Ebrei era stato solo un
Dio onnipotente, che nel Cristianesimo era divenuto il Dio padre
dei credenti, si trasformava fra noi nel concetto dell'Assoluto
filosofico.[168] Gli eruditi greci e italiani, senza rendersi chiara
ragione di ciò che facevano, presentivano pure l'importanza grandissima
della questione, e però si fermavano tanto intorno ad essa.

Giorgio Scolario e Teodoro Gaza, ambedue greci ed aristotelici,
attaccarono fieramente Pletone col solito linguaggio plateale degli
eruditi d'allora. Il cardinale Bessarione, volendo metter pace, si
lasciò sfuggire che giudicava Teodoro Gaza più dotto di Giorgio
Trapezunzio, il quale con più furore che mai si scagliò contro
tutti, attaccando lo stesso Platone. Il Bessarione pubblicò allora
un'opera voluminosa, _In Calumniatorem Platonis_, nella quale, pur
respingendo gli attacchi di G. Trapezunzio, cercava colla sua facile
e molto diffusa eloquenza latina, priva d'ogni originalità letteraria
o filosofica, di conciliare tutte le opposte sentenze. Secondo lui
Aristotele e Platone dicevano, in sostanza, la medesima cosa. Questa
disputa agitata fra i Greci non ebbe una vera importanza filosofica,
restando là dove l'aveva lasciata G. G. Pletone; ma richiamò la mente
degl'italiani ad una parte dell'erudizione che avevano fin allora
troppo trascurata, essendo stato lo studio da essi fatto sui filosofi
greci più che altro letterario. G. G. Pletone intanto, senza perder
tempo nel rispondere alle ingiurie, prima di tornarsene in patria,
seppe infondere nell'animo di Cosimo de' Medici tanta ammirazione per
le dottrine platoniche, che lo lasciò deliberato a dare ogni opera per
propagarle in Italia, e ripristinare in essa l'antica Accademia.

Ad ottenere questo scopo, Cosimo col suo pratico buon senso, capì che
bisognava cercare prima di tutto un uomo adatto, e credè di averlo
trovato in un giovinetto che, nato nel 1433 da un medico di Figline,
s'era dato a seguir con ardore gli studî del padre. — Tuo figlio, disse
Cosimo, è nato a curare gli animi, non i corpi; — e lo accolse, in
età di 18 anni, nella propria casa, destinandolo ad essere il futuro
campione del platonismo. Questo giovane era Marsilio Ficino, il quale,
messosi all'opera con grandissimo zelo, dopo cinque anni di studio,
presentò un lavoro sulla filosofia platonica, fatto però solo con
le traduzioni. Cosimo lodò molto l'operosità del suo protetto, e gli
regalò una villetta presso Careggi, ma gli consigliò di studiare il
greco per lavorare sulle fonti. E da quel tempo sino alla fine di sua
vita, il Ficino non fece altro che studiare Platone ed i neoplatonici,
scrivendo un gran numero di traduzioni e di trattati originali
aggiungendo a ciò l'insegnamento che dava ai figli ed ai nipoti
di Cosimo, più tardi anche ad una numerosa scolaresca nello Studio
fiorentino.

Chi espone le opere del Ficino fa la storia del platonismo in Italia;
chi narra la vita di lui fa la storia dell'Accademia Platonica. I suoi
seguaci si contentarono di ripeterne le idee, e l'Accademia nacque e
morì con lui. Essa non era veramente altro che, una riunione di amici
e discepoli, i quali, protetti dai Medici, si radunavano intorno a
lui, per discutere di filosofia platonica. Somigliava alle riunioni
tenute già nella cella del Marsigli o del Traversari; se non che alle
adunanze dell'Accademia, i Medici, specialmente Lorenzo, assistevano
più spesso, con più ardore le promovevano, e le materie filosofiche
che in esse si disputavano, ebbero un'eco assai più clamorosa in tutta
Italia. Alcune delle adunanze si tennero di state nella foresta di
Camaldoli; altre più solenni si tenevano ogni anno in Firenze, e nella
villa dei Medici a Careggi, il giorno sette di novembre, che, secondo
la tradizione alessandrina, era il giorno della nascita e della morte
di Platone.[169] L'uso di celebrarlo con solennità, osservato fino ai
tempi di Plotino e di Porfirio, veniva ora, dopo 1200 anni, così diceva
il Ficino,[170] ripreso. Si cominciava con un desinare, a cui seguiva
una disputa filosofica, che finiva generalmente con un'apoteosi e quasi
un inno religioso al sommo maestro. Riunioni e dispute meno solenni
si tenevano in molte occasioni diverse, ma sempre nello stesso modo
familiare e libero.

Il nome di Accademia veniva solo dalle dottrine professate ad
imitazione di quelle di Platone. Non aveva, per quanto sappiamo,
proprî statuti o regolamenti. S'adunava di solito nella villetta
del Ficino presso Careggi; la tenevano unita la sua persona, la sua
dottrina, l'ardore de' suoi amici e discepoli.[171] Il che se da un
lato la riduce a poca cosa come istituzione, da un altro ne accresce
l'importanza storica, perchè la dimostra un prodotto naturale e
spontaneo della società in cui nacque. Infatti, mutate appena le
condizioni intellettuali e sociali che l'avevano creata, non fu più
possibile mantenerla in vita. Essa procedette assai regolarmente
fino al 1478; scoppiata allora la sanguinosa congiura dei Pazzi, e
incominciate le persecuzioni, gli animi restarono turbati; mancò la
tranquillità necessaria alle contemplazioni filosofiche, e le riunioni,
già molto diradate, cessarono del tutto colla morte del Ficino. Quelle
che si tennero dipoi negli Orti Oricellarî, alle quali assisteva
anche il Machiavelli, avevano ben poco da fare col Platonismo, come
dimostrano chiaro i suoi dialoghi _Dell'Arte della Guerra_, e le
congiure che ivi si tramarono. Il nome di platoniche, che pure ebbero
queste adunanze, si direbbe qualche volta un pretesto per nascondere
il loro vero scopo. I tentativi fatti nel secolo XVII da Leopoldo de'
Medici per ripristinare l'Accademia, appartengono ad un altro tempo,
hanno altro significato, e ben poca importanza nella storia della
scienza.[172]

Quasi tutti coloro che scrissero dell'Accademia Platonica e del
Ficino, si fermarono a raccogliere minutamente aneddoti biografici
e letterarî, cose tutte che hanno un valore assai secondario.[173]
Importa invece moltissimo conoscere quale è il merito intrinseco delle
dottrine, quale la ragione della grandissima popolarità che ebbero nel
secolo XV, quale l'ingegno di coloro che le trovarono o propagarono.
In verità, quando si guarda il numeroso elenco dei platonici che si
raccolsero intorno al Ficino, reca meraviglia l'osservare che due soli
meritano davvero qualche lode come scrittori di opere filosofiche.
Uno di essi è Cristoforo Landino, il celebre commentatore di Dante
e del Petrarca, ellenista reputato, professore nello Studio, autore
delle _Disputationes Camaldulenses_,[174] nelle quali si dà lungo e
minuto ragguaglio delle platoniche discussioni. L'altro è Leon Battista
Alberti, sommo artista, poeta, prosatore, erudito, scienziato, uomo
universale, precursore di Leonardo da Vinci per la prodigiosa varietà
delle sue doti intellettuali. Ad essi s'univano altri minori: Donato
Acciaioli, Antonio Canigiani, Naldo Naldi, Peregrino Agli, Alamanno
Rinuccini, Giovanni Cavalcanti, che era l'amico più intimo del Ficino,
ed altri molti. Pure fra tutti costoro, senza eccettuare neppure il
Landino e l'Alberti non se ne trova uno solo che sia vero filosofo:
ripetono sempre le stesse idee, e sono le idee del Ficino. Ben si può
ricordare che Angelo Poliziano e Lorenzo de' Medici, ingegni certo
eminenti, furono anch'essi dell'Accademia Platonica; ma tutti i loro
scritti li dimostrano letterati e non filosofi. Pico della Mirandola
venne solamente più tardi, neppur lui con originalità filosofica, a
farsi propagatore delle idee del Ficino. Ma, pochi o molti, di che
cosa parlavano, quali erano e che valore avevano queste dottrine, che
trovavano tanti e così ardenti sostenitori?

La nostra meraviglia in vero cresce quanto più noi ci avviciniamo ad
essi. Nelle sue _Disputationes Camaldulenses_ il Landino ci rappresenta
gli Accademici, durante la state del 1468[175] nel delizioso convento
di Camaldoli, adunati colà per godere il fresco, e disputare di
filosofia. V'erano Lorenzo e Giuliano de' Medici, Cristoforo Landino
e suo fratello, Alamanno Rinuccini, Leon Battista Alberti allora
venuto di Roma e Marsilio Ficino. Dopo aver sentito la messa, andavano
all'ombra, sotto gli alberi della foresta, ed ivi il primo giorno
disputarono sulla vita contemplativa e sulla vita attiva, l'Alberti
sostenendo con argomenti assai poco originali, doversi preferire la
prima; Lorenzo de' Medici invece opponendogli che l'una e l'altra sono
del pari necessarie. Nel secondo giorno si parlò del Sommo Bene, ed
abbiamo una serie di vuote frasi e di citazioni classiche. Nel terzo
e quarto l'Alberti dimostrò la sua platonica sapienza con un lungo
comento su Virgilio, sforzandosi colle più strane allegorie di provare,
che nell'_Eneide_ si trova nascosta tutta quanta la dottrina platonica
e tutta la dottrina cristiana, le quali in fondo sono per lui una
sola e medesima cosa. E queste allegorie, le quali facevano dire ad
Angelo Maria Bandini, nel riferirle, che i platonici gli sembravano
spesso aver perduto la testa,[176] sono ciò su cui essi più di tutto
insistono, quasi fosse parte sostanziale della filosofia.

Noi ci volgiamo ora a cercare i discorsi tenuti in uno dei più solenni
desinari dell'Accademia, che fu dato nella villa di Careggi, il 7
novembre 1474,[177] per ordine di Lorenzo il Magnifico, sotto la
presidenza di messer Francesco Bandini. Qui è lo stesso Ficino che ne
stende la minuta narrazione.[178] Gl'invitati al banchetto, scelti
dal Bandini furono nove, perchè nove erano le Muse: Antonio degli
Agli vescovo di Fiesole, Marsilio Ficino e suo padre, C. Landino,
Bernardo Nuzi, Giovanni Cavalcanti, Tommaso Benci, Carlo e Cristoforo
Marsuppini. Finito il desinare, cominciò la lettura del _Simposio_
di Platone, e i discorsi tenuti in casa di Agatone furono stranamente
esposti dai convitati. Fedro dice nel _Simposio_, che l'amore ispira
l'eroismo, è nato subito dopo del Caos e prima degli altri Dei, è
ammirato da chiunque ammira la bellezza. E il Cavalcanti comenta:
Iddio principio e fine di tutti i mondi crea gli angeli, che a loro
volta formano per mezzo dell'anima universale, creata da Dio, le terze
essenze. Queste sono le anime di tutte le cose, e quindi anche dei
varî mondi, ai quali dànno vita, perchè il corpo è formato dall'anima.
Quando il Caos incomincia a pigliar forma, sente appetito di bellezza,
cioè amore; e perciò appunto, secondo Platone, l'amore precede
gli altri Dei, i quali sono una cosa stessa cogli angeli. E qui il
Cavalcanti comincia a dimostrare come gli angeli sono la stessa cosa
che gli Dei antichi, e come le terze essenze sono le idee di Platone
e le forme di Aristotele ad un tempo. Ma non si contenta di ciò, e
continua dicendo che le terze essenze, create dagli angeli, divengono a
loro volta anch'esse identiche agii antichi Dei; e neppure basta, anzi
segue una tal confusione da non potere più tener dietro all'autore.
Giove è il cielo, Saturno e Venere sono i due pianeti di questo nome;
ma essi sono anche le terze essenze o le anime del cielo e dei due
pianeti; sono le tre Divinità degli antichi, ed anche tre angeli;
sono finalmente l'anima del mondo in quanto essa intende, muove e
genera.[179] Ciò che risulta di più chiaro in mezzo a tanta confusione,
si è che per gli accademici, Cristianesimo e Paganesimo debbono formare
una sola e medesima cosa col Platonismo. L'allegoria è la chiave di
vôlta di questo edifizio, o meglio artifizio, nel quale le cose non
significano mai sè stesse, ma divengono geroglifici e simboli di altre;
e siccome tutto ciò è arbitrario, così esse possono sempre significar
tutto quel che si vuole.

Aristofane, uno degl'interlocutori, dice nel _Simposio_, che in origine
v'erano tre sessi, uomini, donne e promiscui, cioè individui che,
uomini e donne ad un tempo, avevano due teste, quattro mani, ecc.
Questi esseri promiscui vollero lottare cogli Dei, e furono perciò
divisi in due metà, una delle quali cerca sempre l'altra; quindi è
che solo nella loro riunione possono gli amanti essere felici. Se
però i mortali continuano nel proprio orgoglio, saranno puniti con
una nuova divisione; e sarà curioso allora, prosegue Aristofane,
vederli girare pel mondo come basso-rilievi, con mezza testa, con un
occhio, una mano, un piede solamente. Il Landino, cui tocca comentare
questo singolare discorso, non cerca l'origine della leggenda, nè la
spiegazione mitologica di essa. L'anima, egli dice, fu creata da Dio
integra, ornata di lume divino che guarda alle cose superiori, di
lume naturale, ingenito che guarda alle inferiori. Ma l'uomo peccò di
superbia, volle uguagliarsi a Dio, credendo che potesse bastargli il
lume naturale, ingenito; il suo pensiero restò allora rivolto alle sole
cose corporali, e la prima unità fu spezzata. Se continuerà nel suo
orgoglio, affidandosi tutto al lume naturale, sarà punito di nuovo col
perdere anche questo.[180] Ecco la facile spiegazione di tutto.

Ultimo a parlare fu Cristoforo Marsuppini, il quale concluse comentando
il bellissimo discorso di Alcibiade, e le parole che questi, in fine
del _Simposio_, rivolge a Socrate. Il comento è fatto dall'oratore,
esponendo le idee di Guido Cavalcanti sull'amore, e parlando del
_divino furore_, pel quale l'uomo, sorgendo al disopra della propria
natura, _in Deum transit_. Per esso Iddio trae l'anima caduta nelle
cose inferiori, nuovamente alle superiori. E tutto finisce con un
elogio dell'amor socratico, ed un inno al divino Amore o sia allo
Spirito Santo, che ha ispirato la discussione ed illuminato gli oratori
platonici.[181]

Questi filosofi che vogliono avvicinare il Paganesimo ed il
Cristianesimo, lo spirito e la materia, il divino e l'umano, Dio e il
mondo, non riuscendo a trovare l'unità razionale di tutto ciò, riducono
ogni cosa a simboli, a geroglifici. Eppure la grande popolarità e
la immensa efficacia di questa filosofia sulla letteratura e sulla
cultura del secolo, non può mettersi in dubbio da nessuno; non le si
può quindi negare una grande importanza storica. E questa nasce da
un nuovo modo di concepire il mondo, che apparisce chiaro abbastanza,
anche in mezzo alla nebbia delle più strane allegorie. Pei platonici
il mondo è divenuto il gran Cosmo fisico e morale, creato dall'amor
divino, immagine del Dio che l'abita, e che essi risguardano non
già come una persona vivente, ma come l'Unità suprema del tutto,
lo Spirito universale, l'Assoluto. E questo concetto, per opera
loro, penetra nella letteratura della seconda metà del secolo XV, la
informa e ne determina il carattere. Quindi è chiaro che il Platonismo
italiano, senza nessun grande valore scientifico, è pure un elemento
importantissimo della nuova cultura.

Ma, per conoscerlo pienamente, è pur necessario fermarsi sulle opere di
colui che seppe meglio formularlo ed insegnarlo. Marsilio Ficino ebbe
una sconfinata ammirazione per tutta quanta la filosofia antica; lesse
e volle assimilarsi Platone, Aristotele, i neoplatonici, ogni brano che
trovava citato di Confucio, Zoroastro, ecc. Tutto ciò che essi dicono è
sacro per lui, solamente perchè antico; e così i suoi scritti diventano
una vasta congerie di elementi diversi, senza che egli ritrovi un vero
principio dominatore ed organico, che possa valere a costituire un
sistema, e dargli diritto al nome di filosofo originale. Le allegorie
neoplatoniche, che G. Pletone e gli altri suoi connazionali portarono
fra noi, sono il solo mezzo con cui egli sappia riunire i diversi
elementi. Pure il Ficino si propose uno scopo assai notevole, che
comincia a farci intravedere la sua importanza filosofica. In mezzo
al trionfo dell'antichità pagana, egli vide che il Cristianesimo non
poteva cadere; ma vide del pari che la sola autorità dei profeti,
della Bibbia, della rivelazione non bastava più allora a sostenerlo e
mantenerlo vivo negli animi. Bisognava dunque ricorrere alla ragione, a
quella che era per lui la vera filosofia, cioè alla filosofia antica;
ora fra i varî sistemi, quello che meglio di tutti si prestava allo
scopo, era senza dubbio il Platonismo. Così nacque in lui il pensiero,
e lo dichiara egli stesso, di fondare il Cristianesimo sulla dottrina
platonica, di provare anzi che sono una sola e medesima cosa, e che
l'uno è la conseguenza logica dell'altra. Questa dottrina parve allora
una nuova rivelazione, ed è per essa che egli accendeva le candele
innanzi a Platone, e lo adorava come santo. Nel suo libro _Della
Religione Cristiana_, infatti, i più solidi argomenti che egli trovi a
sostegno di essa, sono i responsi delle Sibille, i vaticinî che della
venuta di Gesù Cristo fecero Virgilio, Platone, Plotino, Porfirio.
La vita di Socrate è per lui un simbolo continuo della vita di Gesù,
le dottrine dell'uno e dell'altro sono identiche. Così l'antichità
veniva ribenedetta dal Cristianesimo, che a sua volta era dimostrato
vero dall'antichità. Che cosa poteva avere maggiore importanza per
gli eruditi del secolo XV? Il Ficino era così pieno, così entusiasta
di queste sue idee, che qualche volta, più che l'inventore d'un nuovo
sistema, sembrava credersi il fondatore d'una nuova religione.

Scrisse un gran numero di epistole, traduzioni e trattati in latino; ma
il più grande e solido monumento alla sua fama fu la prima e, per molto
tempo, la sola buona traduzione di tutte le opere di Platone. A questa
lavorò indefessamente gran parte della vita, meditando anche un'opera
che doveva raccogliere sistematicamente, in organica unità, le sue
dottrine. Al quale proposito egli ci dice, che fu lungamente incerto
se quest'opera dovesse essere una esposizione filosofica dell'antica
religione pagana, ovvero una dimostrazione del Cristianesimo, fatta
coll'aiuto dell'antica filosofia. Prevalse il secondo concetto; ma
la nuova opera fu tuttavia intitolata Theologia Platonica, il che ben
dimostra qual fosse l'ordine delle idee, in cui era entrato l'autore.
Essa riuscì una vasta ed incomposta enciclopedia erudita, scritta con
uno stile confuso e scolorito, difetto che si trova in tutte quante
le sue opere, perchè, sebbene egli avesse consumata la vita intera sui
classici, la incertezza delle idee gli rendeva impossibile acquistare
una vera originalità e vigorìa di stile.

Nel leggere attentamente la _Theologia Platonica_, si direbbe più di
una volta, che i materiali ivi accumulati comincino come a fermentare,
e che seguano fra loro assimilazioni spontanee, di cui l'autore
stesso non si rende conto. Vi è in fatti qualche cosa che può dirsi
un resultato del pensiero del secolo, un progresso impersonale della
scienza, di cui il Ficino sembra più lo strumento che l'autore. La
quistione del _consulto_ o _non consulto_ _agit_ nella natura, diviene,
sin dal principio, quella intorno a cui tutte le altre s'aggruppano,
ed è da lui risoluta nel modo stesso che aveva fatto Gemisto Pletone.
Egli distingue nel mondo due diverse categorie di anime. Le une sono
intellettuali ed universali; le altre sensibili, mortali, ma anch'esse
razionali. Queste, che chiama le _terze essenze_ delle cose, si
trovano in tutta la natura, e l'animano. La terra, la luce, l'aria,
i pianeti hanno, ciascuno, la loro terza essenza, e ciò spiega come
la terra produca le piante, nell'acqua si generino animali, ecc. Le
terze essenze inoltre sono divise in dodici ordini, secondo le dodici
costellazioni del zodiaco; ma s'uniscono e confondono fra loro,
formando anime o terze essenze più generali. Così nel nostro pianeta
vi sono l'acqua, la terra, l'aria, che hanno, ciascuna, la loro terza
essenza; ma questo pianeta ha anche la sua propria e più generale, che
tutte le comprende.

L'uomo poi ha due anime, l'una razionale e sensibile, che è la terza
essenza del corpo, col quale essa muore; l'altra, intellettuale,
immortale, infusa direttamente da Dio. Per mezzo di questa, la creatura
si trova in relazione, e può venire in contatto col Creatore: in essa
si specchiano tutte le altre, che infondono vita nell'universo. Così
l'uomo è un microcosmo; può discendere fino agli animali, alla natura
inanimata, e salire agli angeli, a Dio che gli parla e lo guida. Gli
astri, le piante, le pietre stesse hanno poi colle loro terze essenze
diretta influenza sulle passioni, sul destino di lui. E con ciò si
viene a dimostrare la verità delle scienze occulte, a cui il Ficino
prestava una fede quasi puerile. Attribuiva a Saturno la sua continua
malinconia; ogni giorno mutava con scrupolosa diligenza i suoi amuleti,
dai quali mai non si separava. Su tutte queste cose egli scrisse un
trattato, _De vita coelitus comparanda_,[182] che bisogna leggere
per vedere fino a qual punto arrivassero i pregiudizî d'un uomo così
dotto, e d'un secolo tanto progredito. La fede che ebbero nelle scienze
occulte gli uomini più notevoli del Rinascimento, è un'altra delle non
poche contradizioni che noi osserviamo in quel tempo. Pure, chi bene
la esamina, s'accorge che essa era alimentata dal bisogno di sostituir
sempre alle spiegazioni soprannaturali una naturale, anche quando la
scienza non era in grado di trovarla.

Se ora guardiamo questa filosofia del Ficino nella sua generale unità,
apparisce assai chiara la tendenza irresistibile a cercare un'anima
universale e razionale, la quale sembra infatti, ne' suoi scritti,
confondersi col mondo e con Dio stesso. Le sue terze essenze, che
sono una cosa sola colle idee di Platone, colle forme d'Aristotele,
e s'uniscono poi fra loro in anime più generali, come potrebbero non
riunirsi tutte in un'anima sola? Il mondo non è, secondo le stesse
parole del Ficino, un grande animale vivente? La natura non ha essa
un'anima razionale che _consulto agit_? Se non che, innanzi a queste
che pur sono le conseguenze naturali, inevitabili delle sue premesse,
il nostro autore s'arresta quasi spaventato, perchè egli _deve_
accettare e spiegare la creazione dal nulla, e non può rinunziare al
Dio personale del Cristianesimo.

Quando però viene ad esporre filosoficamente la creazione, torna
sempre alle stesse idee, e s'avvicina di nuovo alle conseguenze da cui
rifugge. Iddio concepisce (ed il concepire nella mente divina equivale
al creare) l'anima sensibile delle cose, e l'anima immortale, angelica.
Con questa Esso forma gli angeli, per mezzo dei quali crea le terze
essenze, che sono a lui tanto inferiori che non può degnarsi di crearle
direttamente. In noi, però, come vedemmo, oltre l'anima del corpo,
ve n'è una immortale, creata, infusa da Dio, e per mezzo di essa la
debole creatura umana può ascendere fino al divino ed eterno. A bene
esaminarla, la creazione del Ficino è una emanazione; il suo Dio è
l'anima e l'unità del mondo, anzi la sola definizione che egli sappia
darne è: l'Unità assoluta di tutte le cose. Il Panteismo, conseguenza
logica di questo concetto, è nell'aria stessa del secolo XV, che non
trova altro modo di conciliare Dio e la natura, il divino e l'umano.
Già scientificamente abbozzato dal Cusano, reso popolare dal Ficino,
venne poi esplicitamente formulato e sostenuto dal Bruno. Se non che
il Cusano ed il Bruno sono veri pensatori e filosofi, il Ficino è
invece un erudito che filosofeggia senza vera originalità. Il concetto
panteistico si manifesta nelle sue opere in un modo indistinto e
confuso, quasi inconsapevole; ma ciò appunto lo dimostra un resultato
dei bisogni generali del tempo, lo rende subito popolare, e lo fa
penetrare largamente nella letteratura. Nelle poesie di Lorenzo il
Magnifico, del Poliziano, dell'Alberti, in molti anche dei prosatori
contemporanei, il Dio personale s'è mutato nell'Assoluto, il mondo è
il gran Cosmo da esso abitato ed animato, la natura lungi dall'essere
disprezzata, è quasi divina anch'essa. Questa trasformazione, come
dicemmo, si deve appunto al Ficino ed all'Accademia Platonica, che
scompariscono senza lasciare un nuovo sistema, ma lasciano invece un
nuovo modo di vedere il mondo, e di concepire Iddio.

L'ardore entusiasta del Ficino, nello spiegare le nuove dottrine,
trovò un'eco grandissima in Italia e fuori. Alle lezioni che dava
nello Studio, accorrevano uditori d'ogni parte del mondo. Molti
Inglesi tornarono in patria, portandovi l'ellenismo italiano; anche
il Reuchlin, quando passò per Firenze, fu più che mai convertito alle
nuove idee, le quali già trovavano grande favore in Germania, dove
aiutarono la Riforma religiosa, che cominciò colla interpetrazione
individuale delle Sacre Scritture, e col mettere il credente in diretta
comunicazione col suo Creatore, senza bisogno di alcun intermediario:
in Italia invece le conseguenze dell'erudizione restarono sempre
letterarie e scientifiche.

Giovanni Pico della Mirandola, tanto celebre in tutta Europa, era
chiamato fra noi la Fenice degl'ingegni, per la conoscenza che
si diceva avesse di ventidue lingue, per la grande erudizione, la
straordinaria memoria, al che si aggiungeva la bontà del suo carattere,
l'amabile e gentile aspetto, l'avere egli, di famiglia principesca,
abbandonato tutto pei suoi studî. Esaltato dalle lodi che gli facevano,
e da una filosofia che colle sue allegorie pretendeva di abbracciare
l'universo, propose una specie di singolare torneo scientifico, che
doveva darsi in Roma. Aveva ridotto lo scibile in 900 conclusioni,
su ciascuna delle quali si offeriva pronto a dare risposta a tutti i
dotti, che invitava promettendo di pagare il viaggio ai più poveri.
L'esperimento non si fece, per le difficoltà frapposte dal Papa,
all'autorità del quale Giovanni Pico fu sempre ossequentissimo. Pure
anche quest'uomo che levò allora così gran fama di sè, fu in sostanza
un ingegno non molto diverso dagli altri seguaci del Ficino. Le sue
cognizioni erano estese, ma superficiali; i suoi giudizî, guidati più
dall'entusiasmo che dalla critica. Egli trovava le poesie di Lorenzo
de' Medici superiori a quelle di Dante e del Petrarca. Della più parte
delle ventidue lingue che pretendeva avere studiate, conosceva poco
più che l'alfabeto e gli elementi grammaticali. Tuttavia, ellenista e
latinista fra i valenti, fu ancora dei primi a promuovere gli studî
orientali. Ma nè i suoi scritti italiani o latini, e molto meno la
sua filosofia, hanno alcuna originalità. Voleva conciliare Averroè ed
Avicenna, Scoto e San Tommaso, Platone ed Aristotele, per combattere
i nemici della Chiesa. Ciò doveva portarlo di necessità ad unirsi col
Ficino, che voleva appunto combattere «la religione dell'ignoranza
e la filosofia della miscredenza.» Amico dei Medici, egli finì
ammiratore entusiasta del Savonarola, e fu sepolto in San Marco, dopo
che lo ebbero, secondo la sua ultima volontà, vestito dell'abito dei
Domenicani.[183] Cessò di vivere nel 1494, anno memorabile nella storia
dell'Italia e di tutta l'Europa.


8. — RISORGIMENTO DELLA LETTERATURA ITALIANA.

I Platonici e gli eruditi scompariscono ora assai rapidamente
dalla scena, e la letteratura nazionale che s'è andata per sì lungo
tempo apparecchiando, comincia a manifestarsi in tutto il suo nuovo
splendore.

Nel secolo XV il nostro volgare era assai decaduto, per colpa
principalmente degli eruditi, che o scrivevano latino, o forzavano
l'italiano ad una artificiosa imitazione del latino. L'anno 1441 fu
fatto nel Duomo, in occasione della dimora in Firenze d'Eugenio IV,
un solenne esperimento letterario, chiamato _Accademia Coronaria_,
perchè si prometteva una corona d'argento a chi leggesse i migliori
versi italiani sull'amicizia. Ed il premio non fu potuto concedere,
tanto riuscirono miserabili quelle poesie, che anche oggi nessuno può
leggere senza restar maravigliato del gusto corrotto e del puerile
artificio. S'ingannerebbe però chi credesse che lo scrivere in volgare
fosse stato allora abbandonato del tutto. Canzoni italiane, composte da
scrittori poco noti, ma non poco numerosi, venivano cantate dal popolo
delle città e delle campagne, e in italiano si scrivevano le lettere
familiari, molti racconti, novelle, cronache. Era una letteratura in
gran parte fatta pel popolo, ed a cui il popolo in più modi pigliava
parte, senza che si potesse dire popolare nel vero senso della parola.
Ed andò, col procedere del secolo XV, crescendo sempre d'importanza,
fino a che i dotti, abbandonato il latino, tornarono anch'essi
all'italiano, iniziando così un secondo grande periodo nella storia
delle nostre lettere.

I Platonici vanno messi appunto fra coloro che primi tornarono
alla lingua volgare. Cristoforo Landino aveva molto aiutato a ciò,
promovendo coi suoi Commenti lo studio di Dante e del Petrarca. Ma
a Leon Battista Alberti spetta un luogo ancora più onorevole. Nato
(l'anno preciso è incerto) circa il 1404 a Venezia, dove la sua
famiglia era esiliata, si dimostrò subito uomo singolarissimo. D'una
gran forza e bellezza, egli riusciva mirabilmente in tutti gli esercizî
del corpo, in tutte le opere d'ingegno. Era valente nella musica,
nel canto, nelle arti del disegno, nelle lettere e nelle scienze,
tanto le morali, quanto le matematiche o naturali, nelle quali molte
scoperte sono a lui attribuite.[184] Il Landino, il Poliziano[185]
ed altri esaltarono, non solo la universalità di questo singolare
ingegno, ma, quello che ora più importa notare, anche i suoi meriti
nel promuovere lo studio e l'uso dell'italiano, cosa che risulta
assai chiara anche dalla lettura delle sue opere, sebbene intorno ad
alcune di esse si siano fatte e si facciano molte dispute. Alcune
poesie dell'Alberti hanno di certo una freschezza e spontaneità
grande;[186] ma ciò potrebbe far meraviglia se il Poliziano e Lorenzo
de' Medici non ci dimostrassero che la Musa italiana già si ridestava
allora animata da uno spirito nuovo, quasi rinascendo per seconda
giovinezza. La sua prosa è veramente molto artificiosa per la continua
imitazione del latino; pure merita una particolar menzione l'opera
intitolata: _La cura della famiglia_, e specialmente il terzo libro
di essa, _L'Economico_ o _Il Padre di famiglia_, in cui si descrive
appunto il buon padre, ed il miglior modo di governare la casa.
Questo è quasi un lavoro a parte, e nella prefazione che lo precede,
l'Alberti piglia le difese della lingua italiana, che dichiara non
punto inferiore alla latina, ed aggiunge di voler fare uso d'uno stile
«nudo e semplice.[187]» Infatti la sua prosa qui è assai più spontanea
del solito, tanto che egli sembra voler fare uno sforzo per tornare
all'aurea semplicità del Trecento.

L'_Economico_ è generalmente noto nella forma assai più disinvolta e
popolare che ricevette da Agnolo Pandolfini, col titolo: _Del governo
della famiglia_; ed è in questa forma uno dei più bei monumenti della
nostra letteratura. Si è da alcuni sostenuto che il Pandolfini avesse
copiato e migliorato l'Alberti, da altri invece il contrario. Certo
è però che il primo scrive in una lingua parlata, molto ricca ed
evidente, sebbene non sempre irreprensibile affatto nella grammatica,
mentre l'Alberti è più corretto grammaticalmente, ma è più pesante,
non ba di certo la semplicità del Pandolfini. Nel suo linguaggio si
vede l'innesto della forma popolare con la erudita, le quali non sono
ancora ben fuse insieme, rimanendone offuscato il nativo splendore
della prima. Non è ancora accertato pienamente quale dei due libri
sia l'originale, quale il rifacimento; ma il trovarlo diffuso sotto
due forme diverse, prova certo che esso esprime i sentimenti e le
opinioni del tempo, il che lo rende importante non solo nella storia
della lingua e della letteratura, ma ancora in quella della società
italiana.[188]

Quest'opera, massime nella forma che gli ha dato il Pandolfini, sembra
scritta da un uomo vissuto tra la fine del secolo XIV e il principio
del XV, il quale, dopo aver preso parte al governo della città, si
ritira disgustato in villa, per darsi al comporre. Così abbiamo in
essa una fedele descrizione dello stato sociale, morale e intellettuale
degl'Italiani nel secolo XV, quale vanamente cercheremmo negli storici.
Qui v'è sopratutto un profondo disgusto della vita politica, «vita
d'ingiurie, d'invidia, di sdegni e di sospetti.[189]» Lo spirito
italiano già si sente condannato a rinchiudersi in sè stesso, senza
trovare nella sua coscienza il conforto della vita religiosa. La
virtù gli sembra risultare unicamente dal bisogno d'un benessere
quasi artistico, «è tutta lieta e graziosa.[190]» Ciò che si vuole
è solo: non aver l'animo alterato da alcuna cupidigia, pentimento o
dolore;[191] mantenere non mai disturbata l'armonia interiore. L'onestà
è il più bello _ornamento_ della donna, che il vizio rende volgare e
brutta.[192] Trasparisce anche assai chiara la nuova tendenza infusa
nello spirito italiano dal Platonismo. In questo libro infatti la virtù
risulta da una legge necessaria della nostra natura, non da alcun
comando di autorità superiore. Quando il capo della famiglia prende
moglie, la conduce innanzi al domestico tabernacolo della Madonna, e
là pregano inginocchiati, non la Vergine o i Santi, ma il Sommo Iddio.
Nè si raccomandano per avere la felicità di un'altra vita, ma solo
perchè sia loro dato di godere i beni di questo mondo. La moglie deve
saper governare la casa con l'accortezza e la gentilezza, per mantenere
sempre l'armonia generale, e perchè tutti siano felici. Noi siamo come
dinanzi a un quadro di Masaccio o del Lippi. Non v'è nessuno slancio,
nessuna aspirazione verso l'infinito, v'è un'armonia che si contenta di
sè, che è come il principio universale della vita, quale l'intendevano
allora gl'italiani. Ogni piccolo accessorio di questo quadro ci pone
dinanzi agli occhi la democrazia fiorentina, con la sua raffinatezza
e la sua civile uguaglianza. In quasi tutta Europa il contadino era
ancora attaccato alla gleba, in una condizione servile; egli qui è
già divenuto il tormento del suo padrone. Vuole che gli sia comperato
il bue, la giumenta, le pecore; vuole che gli sian pagati i debiti,
gli sia data la dote per la figliuola, fatta la casa e fornite le
masserizie: nè mai si contenta.[193]

Ma fra le sorgenti della nuova letteratura, specialmente della prosa,
che sono pur molte, dobbiamo qui menzionare le corrispondenze politiche
e diplomatiche, che in questo secolo divengono davvero uno dei più
notevoli monumenti letterarî, che abbia non solo l'Italia, ma l'Europa.
Esse non erano scritte per esercizi di retorica erudita, ma per
condurre gli affari ad un fine determinato, e giunsero perciò subito ad
una semplicità, spontaneità e lucidezza veramente singolari.

Nelle _Commissioni_ di Rinaldo degli Albizzi, recentemente
pubblicate,[194] si vede ancora lo sforzo con cui lo scrittore cercava
innestare l'incolto, ma ingenuo linguaggio popolare col periodo latino
degli eruditi; si vede il processo di formazione della nuova prosa.
Questo sforzo è cessato, e la prosa politica italiana ha superato ogni
incertezza, senza però ancora nascondere del tutto i due elementi
da cui risulta, nelle lettere di Lorenzo dei Medici, delle quali il
Guicciardini stesso fece i più alti elogi.[195] In esse si scorge da
un lato la popolare disinvoltura con cui scriveva questo discepolo
del Ficino e amico del Poliziano, e da un altro quella mirabile
prudenza con cui egli cercava mantenere l'equilibrio fra gli Stati
italiani, la grande autorità che esercitava su di essi, in tutta la
Penisola. Quando Ferdinando di Napoli vuol fare una lega particolare
col Papa, Lorenzo subito s'adopera, perchè si levi «questa scintilla
d'alterazione in Italia,»[196] e si faccia invece una pace generale.
Quando sua figlia Maddalena sposa Franceschetto Cibo, figlio naturale
del Papa, egli subito avverte, che non intende stringere legami a danno
della pace generale d'Italia, nè fare lontani disegni per l'avvenire,
a cui bisogna, invece, «pensare dì per dì, e secondo che si troverà
il suono ballare.»[197] Quando il Papa vuol chiamare in Italia il duca
di Lorena, egli s'adopera a tutt'uomo per impedirlo, ponendo innanzi i
molti pericoli, cui essi sarebbero andati incontro, e ricordando «che
non è in mano degli uomini tenere la briglia alla fortuna.» Il duca
di Milano, Lodovico il Moro, sempre vario e mutabile ed ambizioso,
che ogni ora fa nascere nuove complicazioni, va trattato, egli dice,
come porta la sua natura, secondandolo, cioè, fino a che è possibile
senza pericolo; ma in modo da «restare a cavallo,» quando egli volesse
mutare.[198] È quindi tanto più necessario tenersi amici i Veneziani,
«per aver sempre qualche àncora in «mare.»[199] E quando suo figlio
Giovanni, a 17 anni già da un pezzo cardinale, parte per Roma, Lorenzo
lo avverte dei pericoli, cui va incontro in una città così corrotta,
e gli ricorda che a Firenze giova l'unione colla Chiesa, e che
«l'interesse della casa nostra ne va con «quello della Città; sicchè
voi dovete essere in ciò buona catena, e non vi debbono, in ogni caso,
mancare modi di salvare, come si dice, la capra e i cavoli.»[200]
— Questa prosa disinvolta, popolare, efficace, divenne subito
generalissima in Toscana, e Lorenzo de' Medici fu dei primi ad usarla,
come fu dei primi ancora a scrivere poesie volgari.

Nel Trecento era seguìto fra noi un innesto di due poesie, che
facilmente si possono distinguere anche oggi nei sonetti, nelle
canzoni, nella stessa _Divina Commedia_. Una era semplice, chiara,
spontanea; ispirazione, se non del tutto, certo assai più popolare
dell'altra, che era artificiosa, allegorica, scolastica, cortigiana,
imitazione francese o provenzale. Da questa unione d'elementi
diversi, il genio nazionale aveva, aiutandosi sin d'allora collo
studio dei classici, cavata una letteratura nuova. Ed essa discese
assai facilmente nel popolo, che, rapìto, dominato da un'arte a lui
superiore, e pur da lui intesa e gustata, sembrava non aver quasi
più bisogno d'altre canzoni o d'altri racconti suoi proprî. Ma in sul
finire del secolo XIV i letterati scrivevano latino, ed il popolo, che
in mezzo alle lotte della libertà, aveva assai progredito anche nella
cultura, dovette altrimenti provvedere ai bisogni del suo spirito.
Per tutta la campagna toscana[201] s'udirono allora nuove canzoni,
rispetti, strambotti; e nelle città si moltiplicarono prodigiosamente
le novelle, i racconti d'avventure cavalleresche, che dalla Francia
s'erano diffusi tra noi, e le sacre rappresentazioni. Tutto ciò
naturalmente in lingua volgare.

Alcuni rispetti, alcuni strambotti e qualche canzone sgorgarono
veramente dal cuore del popolo. Essi risuonano ancora oggi fra le
valli toscane, dove, osserva il D'Ancona, sono come l'eco dell'ultima
creazione d'un popolo che perdeva allora la sua libertà.[202] Ma
altri non pochi, e i racconti cavallereschi, e le sacre o profane
rappresentazioni non si possono dire creazione impersonale del popolo,
perchè erano invece composti da una specie di cantastorie, che,
sorti dal popolo per il quale scrivevano, non mancavano d'una qualche
cultura, sebbene assai imperfetta. Noi vi troviamo spesso reminiscenze
classiche ed artificî retorici, ben di rado vera spontaneità popolare.
V'è però una certa semplicità ed anche una certa ingenua delicatezza
di sentire, che attestano l'origine di questi lavori, e ricordano
come il popolo fosse allora assai meno corrotto degli uomini culti e
di tutti gli ordini superiori della società. Gli eruditi scrivevano
l'_Ermafrodito_, le _Invettive_, oscenità d'ogni sorta: i cantastorie
narravano le fantastiche prodezze dei cavalieri erranti; gli amori
infelici d'Ippolito e Dianora, e la loro eroica abnegazione;[203] le
sventure di Ginevra degli Almieri, che, uscita dalla tomba in cui fu
sepolta viva, non è riconosciuta nè dal marito nè dalla madre che la
fuggono, ma solo dal primo amante, da cui era stata per forza separata,
e che ora la salva,

    Mischiando la letizia col dolore.[204]

La poesia italiana del secolo XV fu dai letterati fondata in gran
parte su questa poesia che spesso è chiamata popolare, quantunque
tale propriamente non sia. Ed in verità i canti dei letterati e quelli
del popolo s'intrecciano fra noi per modo, e tanta azione e reazione
esercitano gli uni sugli altri, che il distinguerli è spesso impresa
molto malagevole anche alla critica dei più acuti ed intelligenti.
Comunque sia di ciò, uno dei primi, non solo a proteggere, ma a
promuovere e coltivare la nuova poesia, fu Lorenzo de' Medici. A lui
che fondava la tirannide, appoggiandosi sul popolo contro i Grandi,
conveniva molto farsi conoscere anche come poeta del popolo, massime in
una città come Firenze, dove il dominio intellettuale era la base più
solida al dominio politico. Le stampe del tempo ce lo rappresentano, di
fatti, in mezzo alla moltitudine, occupato a cantar poesie.

Per render giustizia al valore letterario di Lorenzo, non è necessario
in modo alcuno seguire i ditirambi del Roscoe e del Ruth, che
vorrebbero farne addirittura un genio.[205] Egli fu in poesia ciò che
era stato in tutto il resto, conoscitore degli uomini, osservatore
accorto, di gusto finissimo, senza però un animo abbastanza elevato
per giungere alle somme altezze dell'arte. Ne è una prova la storia
che ci fa egli stesso delle sue prime ispirazioni. Quando morì la
bella Simonetta, amata da Giuliano dei Medici, molti poeti, fra cui
il Poliziano,[206] ne scrissero le lodi. Lorenzo, per fare anch'egli
qualcosa di simile, s'immaginò d'aver perduto la sua amata; ma poi
ne cercò una addirittura, la trovò in Lucrezia Donati,[207] giovane
bella e d'ingegno, e si diè subito a scrivere versi d'amore. Tutto
ciò non gl'impediva di far trattare pel suo matrimonio con Clarice
Orsini a Roma. E la madre Lucrezia Tornabuoni scriveva allora al marito
Piero dei Medici, così ragionando della fidanzata: «È di recipiente
grandezza, e bianca, et ha sì dolce maniera, non però sì gentile
come le nostre; ma è di gran modestia, e da ridulla presto a nostri
costumi. Il capo non ha biondo, perchè non se n'ha di qua; pendono i
suoi capegli in rosso, e n'ha assai. La faccia del viso pende un poco
tondetta, ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma
mi pare un po' sotiletta. Il petto non potemo vedere, perchè usano
ire tutte turate; ma mostra di buona qualità.... La mano ha lunga e
isvelta. E tutto raccolto, giudichiamo la fanciulla assai più che
comunale.[208]» E dopo una così minuta descrizione del corpo, non
una parola sola dell'animo, dell'ingegno e del carattere. Lorenzo poi
che il 4 giugno 1469, in età di ventun'anno, si fidanzava con questa
fanciulla, scriveva nei suoi Ricordi: «Tolsi donna,... ovvero mi fu
data.»[209]

E le sue poesie, che pure han molto valore, lo dimostrano degno figlio
di questa madre. A diciassette anni descriveva le labbra, gli occhi,
i capelli dell'amata; lodava i monti, il praticello fiorito, il fiume,
la solitudine campestre, in cui poteva contemplare l'immagine di lei,
lungi dal rumore della città. Fin d'allora troviamo in esse gusto
finissimo, disinvoltura, forma spontanea e qualche volta anche troppo
popolare: egli descriveva la natura ed il mondo reale con una evidenza
propria d'osservatore acutissimo. Queste qualità vanno più tardi
risplendendo sempre di più nei varî componimenti di Lorenzo, giacchè
egli sinceramente ammirava il bello, amava la vita campestre, ed era un
vero artista, un pittore del mondo esteriore. Alla potenza descrittiva
s'aggiunge nei _Beoni_ uno spirito mordace e satirico; ma l'indole
propria della sua poesia apparisce principalmente nelle _Canzoni a
ballo_, che egli prese dal popolo, dando ad esse la loro vera forma, e
nei _Canti Carnascialeschi_, che esistevano appena in germe, e che egli
sollevò a dignità letteraria, divenendo così il creatore del genere.

Il pensiero dominante in queste poesie è: godete oggi della vita,
abbandonatevi ai piaceri, e non pensate al domani. Non esitate, o
giovanetti, colle donne, e voi

    Arrendetevi, belle,
    A' vostri innamorati,
    Rendete e' cuor furati,
    Non fate guerra al maggio.[210]

L'accorto politico, che voleva addormentare il popolo nei sensi, ai
quali egli medesimo s'abbandonava, qui manifesta tutto sè stesso,
ritrovando la sua massima spontaneità di stile e freschezza di forma.
Ma qui ancora si vede, che la sua è un'arte corruttrice, la quale in
ciò appunto trova la propria condanna. Se nelle _Canzoni a ballo_
è contento del dolce far niente e d'una vita sensuale, nei _Canti
Carnascialeschi_ va ancora più oltre. Alcuni di essi ci pongono
innanzi, con molto brio, figure mitologiche, piene di vita; altri
invece descrivono oscenità tali, che oggi non si potrebbero neppure
accennare, e che allora venivano senza ritegno cantate nelle pubbliche
vie, ed erano opera d'un principe ammirato in tutto il mondo civile.
Egli dirigeva le feste e le mascherate carnevalesche, chiamando in
suo aiuto scultori e pittori,[211] per renderle più allegre, e per
fare colla eleganza del gusto penetrare più addentro la corruzione
dei costumi; faceva comporre la musica che doveva accompagnare le
sue oscene canzoni, e mescolandosi coi letterati, cogli artisti e
col popolo, era l'anima e la guida di tutti questi baccanali. Non si
può tuttavia negare che Lorenzo, trattando varî generi di poesia, che
trovò diffusi nel popolo, e sollevandoli a vera dignità di arte, fu
promotore d'una rivoluzione letteraria, nella quale, se alcuni dei
contemporanei lo superarono, egli ebbe pure una parte che gli torna a
sommo onore.[212]

Il vero rinnovatore della poesia italiana nel secolo XV fu però
Angelo Ambrogini da Monte Pulciano, chiamato il Poliziano. Nato il 14
luglio 1454, fu sino al 1474 discepolo nello Studio Fiorentino, dove
ascoltò il Ficino, l'Andronico, l'Argiropulo, il Landino. A sedici
anni aveva cominciato una traduzione d'Omero, che lo fece chiamare dal
Ficino l'omerico fanciullo, e gli assicurò per sempre la protezione
di Lorenzo, il quale l'accolse nella propria casa, e lo volle maestro
di suo figlio Piero.[213] A 29 anni era professore d'eloquenza greca
e latina nello Studio, ed alle sue lezioni accorrevano non solo
Italiani, come Pico della Mirandola e i Medici stessi, ma stranieri
d'ogni nazione. Poco di poi, nel 1486, fu nominato canonico della
Cattedrale. In breve tempo la sua fama aveva riempito tutta Italia e
passato anche le Alpi. Dimostrò un grande acume critico, specialmente
paragonando i testi antichi, nelle sue _Miscellanee_; collazionando
poi l'edizione delle _Pandette_, pubblicata a Venezia nel 1485, sul
codice Laurenziano, conosciuto col nome di _Pandette d'Amalfi_, fece
osservazioni che forse furono troppo lodate, ma che pur dimostravano di
che grande aiuto la filologia poteva essere alla giurisprudenza.[214]

Il merito principale del Poliziano sta però nelle poesie, e spesso
anche le più belle prolusioni che leggeva dalla cattedra non erano che
versi latini, nei quali restò senza rivali fin dalla prima giovinezza.
A diciotto anni i suoi versi greci erano stati molto lodati; ma egli
aveva addirittura fatto maravigliare il mondo colla sua elegia latina
in morte di Albiera degli Albizzi. In essa pare che il sentimento
pagano per la bella forma, e l'eterea gentilezza dei pittori del
Quattrocento si siano riuniti; che la lingua italiana si sia fusa con
la latina, la quale, pur essendo morta, pareva ritornata ad essere
lingua parlata e viva, tante erano la sua vivacità, la sua freschezza.
Si direbbe che il soffio della poesia popolare italiana rianimi adesso
di nuova vita l'erudito, e lo renda capace di ricondurre il suo
latino alla primitiva spontaneità greca. In questa elegia troviamo
la medesima inarrivabile eleganza, lo stesso lusso di descrizioni,
ed anche la stessa composizione, qualche volta alquanto artificiosa,
delle immortali Stanze italiane. Bellissime sono le ultime parole della
moribonda al marito, che osserva, atterrito, il pallore crescere di
momento in momento sul volto dell'amata, la quale

    _Illius aspectu morientia lumina pascit,_

e già si sente come rapire nell'altra vita:

      _.... Heu! nostro torpet in ore sonus;_
    _Heu rapior! Tu vive mihi, tibi mortua vivam._
      _Caligant oculi iam mihi morte graves._

Questi pregi che il Poliziano ebbe sin dal principio, aumentarono
sempre, come può vedersi, fra le molte altre, nella poesia in morte
della bella Simonetta, e in quella stupenda sulle viole.[215] Leggendo
questi versi, che sono più classici di quanti se ne scrissero prima
dagli eruditi, il lettore qualche volta, quasi obliando sè stesso,
crede di vedere il latino trasformarsi nel nuovo e più bel fiore della
poesia italiana, la quale rinasce davvero sotto i suoi occhi. È ora
infatti che la crisalide italiana rompe l'involucro latino, dentro cui
s'era lungo tempo nascosta, e comparisce finalmente alla luce del sole.

Il Poliziano resta immortale nella storia della letteratura italiana,
come autore delle _Stanze_ per la Giostra di Giuliano de' Medici,
perchè esse incominciano addirittura il secondo e non meno splendido
periodo della nostra poesia. Formano il principio d'un poema che non
va oltre la quarantesimasesta ottava del secondo libro, restando
interrotto, assai probabilmente, per la morte di Giuliano nella
congiura dei Pazzi.[216] Esse sono però un lavoro di tal natura,
che soffre assai poco da questa interruzione, mancandovi ogni unità,
ogni materia epica, a segno tale che riesce in vero assai difficile
argomentare come il poeta avrebbe potuto continuarlo e come finirlo. Il
suo gran pregio sta tutto in una forma limpida, elegante, cristallina,
d'una freschezza impareggiabile. L'ottava, osserva giustamente il
Carducci, che era stata diffusa nel Boccaccio, stemperata nel Pulci,
aspra ed ineguale in Lorenzo, acquista nel Poliziano unità, armonia,
colore, varietà, quel carattere che poi ha sempre serbato. Posto fra
la letteratura originale, primitiva del Trecento, e quella più varia,
raffinata, e pur sempre d'imitazione, che fiorisce nel Cinquecento,
egli riunisce le grazie dell'una col vigore dell'altra, somigliando
in ciò ai pittori del Quattrocento, che resero assai più gentile la
pittura di Giotto, più perfetta la tecnica dell'arte, senza ancora
cadere nel convenzionale, che comincia ben presto nel Cinquecento.
Tutto questo però, non bisogna dimenticarlo, è vero solo per la forma;
giacchè quanto alla sostanza il Poliziano non ha certo nè l'altezza
o il vigore di Dante, nè la fantasia dell'Ariosto. Ma è una forma che
può dirsi poesia essa stessa, e riproduce la natura con una eleganza
inarrivabile. Le donne del Poliziano non sono così mistiche ed aeree
come quelle di Dante, non così sensuali come quelle dell'Ariosto;
hanno una delicatezza e dolcezza che innamora; ricordano il Lippi ed il
Ghirlandaio. La bella Simonetta è nelle _Stanze_ sensibile e visibile,
ma non manca di bellezza ideale:

    Ridegli attorno tutta la foresta,
      . . . . . . . . . . . . . . .
      L'aer d'intorno si fa tutto ameno,
      Ovunque gira le luci amorose.[217]

Il poeta non cerca che il vero, ma è un vero elegante, gentile sempre.
Le immagini, liberate dal misticismo medievale, sembrano giovarsi della
veste mitologica, in cui spesso le vediamo avvolte, per meglio fare
indovinare le forme del corpo, dal quale non vogliono mai separarsi. La
loro nudità apparisce di tratto in tratto splendida, quasi luminosa,
per un classico smalto, ed una pagana freschezza tutta propria del
Rinascimento. Ed invero, per citare anche un esempio d'altro autore,
chi, dopo aver letto, nella _Vita Nuova_ o nella _Divina Commedia_,
la descrizione della Beatrice, sempre vicina a trasformarsi nella
teologia, legge la ben nota ballata d'Olimpo da Sassoferrato:

    La brunettina mia
      Con l'acqua della fonte
      Si lava il dì la fronte
          E il seren petto, ecc.,[218]

s'accorge subito della distanza, e capisce il mutamento che è seguito
nello spirito italiano.

Il Poliziano sollevò i Rispetti o gli Strambotti del popolo a dignità
nuova, con tal gusto e tale eleganza, «che primo forse in poesia,»
dice il Carducci, «dette l'impronta dell'atticità ai fiorentinismi,
e la finitezza dell'arte all'espressione famigliare.[219]» La ballata
poi, che già nel Trecento aveva ricevuto una forma letteraria, e, così
ingentilita, era rimasta nel popolo; che servì di modello alle molte
laudi spirituali composte in tutto il secolo XV, ed anche a Lorenzo de'
Medici, che seppe darle nuova forma letteraria, venne dal Poliziano
sollevata fin quasi all'altezza dell'ode, senza che con ciò perdesse
la sua primitiva semplicità.[220] Non mancano in queste liriche,
allusioni sensuali, le quali ricordano che egli era compagno di
Lorenzo: il Poliziano però non perdè mai il pudore, come spesso seguì
al suo Mecenate. Coll'_Orfeo_ il Poliziano si provò anche nel dramma;
ma è un dialogo che riesce qualche volta lirico, senza arrivar mai ad
un vero conflitto di passioni. La poesia drammatica nasce tardi assai
nella vita d'un popolo, quando cioè il suo spirito e la sua lingua
sono arrivati ad una sana e vigorosa maturità. L'Italia v'era appena
giunta, quando divenne preda degli stranieri, che distrussero le sue
istituzioni e la sua indipendenza, la oppressero e travagliarono per
modo, che le impedirono di trovar la via d'uscire, in questo genere
essenzialmente nazionale, da quella imitazione latina, da cui s'era
altre volte liberata.

Il Poliziano, poi che aveva un gusto assai fine e quasi greco, non
poteva in nessun caso essere l'uomo capace di elevarsi alla vera
altezza drammatica, creando il teatro che a noi mancava. Si capirà
facilmente perchè il suo genio non potesse volare troppo alto,
quando si pensi alla vita di cortigiano e d'adulatore che menava. Fa
qualche volta sdegno il vedere come l'autore di versi tanto gentili,
ne scrivesse altri pieni delle più basse adulazioni. Ciò non può
scusarsi neppur col ricordare che pel suo Mecenate egli aveva un
affetto veramente sincero e profondo. Era accanto a Lorenzo il giorno
che scoppiò la celebre congiura dei Pazzi, e fu primo a chiudere la
porta della sagrestia appena lo vide là dentro ricoverato. Quando
Lorenzo tornò dal suo pericoloso viaggio di Napoli, egli lo salutò con
bellissimi versi latini, che paiono d'un amante all'amata; e quando
morì, lo pianse con parole di grandissimo dolore, seguendolo poco dopo
nella tomba. Ma ciò non toglie che quando il poeta s'umilia dinanzi al
suo protettore, chiedendo perfino abiti vecchi, si senta una profonda
compassione, e si capisca che così non si sale mai alle maggiori
altezze dell'arte.

La letteratura del Trecento era stata, può dirsi, esclusivamente
toscana; quella del Rinascimento fu invece nazionale. Gli eruditi
infatti si trovano, come vedemmo, in ogni parte della Penisola,
ed ora anche gli scrittori in lingua volgare cominciano a sorgere
contemporaneamente e coi medesimi caratteri in diverse provincie. Così
se dal Poliziano e da Firenze andiamo verso il Mezzogiorno, incontriamo
Giovanni Gioviano Pontano. Nato a Cerreto (1426) nell'Umbria, si recò
ben presto a Napoli, dove fu ministro ed ambasciatore di Ferdinando
d'Aragona; lo accompagnò per tutto; lo consigliò negli affari più
gravi di Stato, nei quali ebbe sempre parte principalissima; fu maestro
di Alfonso II. A poco a poco divenne napoletano affatto, e può dirsi
che meglio d'ogni altro rappresenti lo stato della cultura in quella
Corte ed in quel tempo. Uomo d'affari, diplomatico accorto, ed uno dei
più celebri eruditi, istituì l'_Accademia Pontaniana_, trasformando
quella già fondata da Antonio Panormita col titolo di _Porticus
Antoniana_. Scrisse un numero infinito di opere filosofiche, fisiche,
astrologiche, politiche, storiche, sempre in latino. Ma in tutte queste
opere si vede chiaro che l'erudizione era già vicina a subire una
trasformazione. I trattati _della Fortezza, della Liberalità, della
Beneficenza_, ecc., come pure quello _del Principe_, non sono altro che
dissertazioni senza alcuna originalità, raccolte diffuse di sentenze
morali. Le sue varie opere astrologiche riuniscono tutti quanti i
pregiudizî del tempo, senza neppur tentare di fondarli su qualche
pretesa teoria filosofica, come presumeva di fare il Ficino. — Il sole,
cuore del cielo e dell'universo, è principio generatore delle cose.
La costellazione del Cancro, che influisce sui corpi freddi, si dice
casa della luna, perchè quando questo pianeta, di sua natura umido e
freddo, si trova in quella costellazione, acquista maggiore efficacia.
— Anche la sua storia della _Guerra Napoletana_ tra Giovanni d'Angiò
e Ferdinando d'Aragona, sebbene abbia una certa importanza, per essere
scritta da un contemporaneo, è piena di digressioni inutili, si perde
in considerazioni astrologiche, e manca di critica.[221] Ma chi vuol
conoscere davvero il Pontano, e scoprire dove è il valore de' suoi
scritti, un valore tutto letterario, deve leggere i _Dialoghi_ e le
poesie latine, specialmente le liriche.

Qui si osserva subito lo stesso fenomeno che nel Poliziano: un gusto
classico finissimo; uno stile lucido, evidente, spontaneo come di
chi usa una lingua viva, perchè anche qui la nuova vita del latino
nasce dall'innesto di esso col linguaggio parlato dall'autore, che
però non è il fiorentino, ma un italiano napoletanizzato. Dal che
deriva, per quanto sia grandissimo l'ingegno poetico del Pontano, una
innegabile inferiorità di forma ne' suoi scritti, di fronte a quelli
del Poliziano; l'atticismo toscano dà al latino di questo una greca
eleganza che non si può del pari ritrovare nell'altro. Tuttavia è certo
che anch'egli riesce mirabilmente nell'adoperare il latino ad esprimere
il pensiero moderno, e dove non gli basta, latinizza parole italiane
o napoletane, e va innanzi spedito come uno che parli la lingua
imparata sin dalla cuna. Nei dialoghi, il _Caronte_, l'_Antonio_,
l'_Asino_, che sono tutti lavori d'immaginazione, in elegante prosa
latina, spesso interrotta da poesie bellissime, v'è una dipintura dei
costumi napoletani, di feste popolari, di scene campestri e d'amore;
una serie d'aneddoti pieni di brio tale, che par di leggere le pagine
più belle del Boccaccio. La festa del porcello a Napoli, l'indole
delle città italiane, la corruzione dei preti a Roma, le dispute
ridicole dei pedanti, e l'accanimento con cui perseguitano la gente,
per una particella o un ablativo non adoperati secondo le loro regole,
spesso fallaci, hanno una potenza descrittiva, una freschezza, una
_vis comica_ tali da far mettere il Pontano fra gli uomini di vero
genio letterario. Egli scrive in latino, ma il suo spirito, il suo
ingegno sono moderni, e le sue opere sono perciò un vero gioiello
della letteratura italiana. Nel suo _Antonius_ vediamo i Napoletani
seduti all'ombra, motteggiare chi passa; il Pontano vivo parlante; un
figlio che racconta le querele di casa; un poeta che, preceduto da un
trombetto, sale, secondo l'uso napoletano del tempo, sopra un poggio a
recitare la descrizione d'una battaglia, di tanto in tanto abboccando
il fiasco di vino. Poi leggiamo l'ode di Galatea inseguìta da Polifemo,
una delle sue più belle:

    _Dulce dum ludit Galatea in unda,_
      _Et movet nudos agilis lacertos,_
      _Dum latus versat, fluitantque nudae_
                     _Aequore mammae_, etc.;

ed in mezzo a tutto ciò sempre un gusto squisito, uno spirito che
s'inebbria, anche nella vecchiezza, in una voluttà sensuale ed
artistica, uno scetticismo profondo che ride d'ogni cosa.

Nelle liriche si manifesta veramente tutto quanto il genio letterario
dell'autore, e si vede più chiaro ancora che in quelle del Poliziano,
l'immagine del Rinascimento. Le sue donne, dice il Carducci, denudano
ridenti ogni loro bellezza in cospetto del sole e dell'amore. «E con
quel suo riposato senso di voluttà e di sincero godimento della vita,
il Pontano, in latino, è il poeta più moderno e più vero del suo tempo
e del suo paese.»[222] Leggendo le odi, è davvero mirabile il vedere
come in quel suo latino egli si muova agile e felice, quasi navighi a
seconda d'un fiume; e come il suo italiano napoletano cerchi infondere
giovane sangue nel vecchio idioma, anche quando lo altera un po'
troppo:

    _Amabo mea chara Fanniella,_
    _Ocellus Veneris, decusque amoris,_
    _Iube isthaec tibi basiem labella_
    _Succiplena, tenella, mollicella,_
    _Amabo, mea vita, suaviumque,_
    _Face istam mihi gratiam petenti_, etc.[223]

Egli ride e motteggia; canta la ninna nanna; s'inebria nella voluttuosa
bellezza, fra le molli braccia delle Ninfe, che l'accolgono in riva
al mare, in presenza della natura, in mezzo ai fiori. E questo è il
suo mondo, il mondo del Rinascimento. Tutte le città, le ville, le
isole dei dintorni di Napoli, le strade, le fontane, personificate
in esseri fantastici, camminano, danzano intorno al poeta. Le Ninfe
Posilipo, Mergellina, Afragola, Acerra, _Panicocolis studiosa lupini_,
e Marianella che canta accompagnando Capodimonte,

                            _et cognita bucellatis_
    _Ulmia, et intortis tantum laudata torallis:_[224]

tutte si muovono e vivono nella sua _Lepidina_.[225] Il Vesuvio, in
forma di vecchio, discende dal monte sopra un asino per venire alla
festa, e le donne lo circondano. A chi dà un anello da cucire, a chi un
fusaiuolo, a chi dice un motto, e tutte fanno a gara intorno a lui ed
all'asino, per salutarli con alte e festose grida,

    _Plebs plaudit, varioque asinum clamore salutant,_
    _Brasiculisque apioque ferum nucibusque coronant._

I medesimi pregi possono notarsi nei due libri degli _Amori_,
negli _Endecasillabi_, nella _Buccolica_, e nel poema didascalico,
_L'Urania_, in cui sono mirabili descrizioni della natura. Vi troviamo
sempre un singolare impasto di due lingue, l'una viva e l'altra
morta, nel quale ambedue sembrano rinascere; e questa varia e ricca
unione d'immagini classiche, di bizzarrìe fantastiche, di splendide
descrizioni della natura, di sentimenti moderni, tutto mescolato e
tutto in fermento nella fantasia dell'erudito, che si trasforma in
poeta, ci fa capire come la nuova letteratura nasca dall'antica, e
come, in mezzo al mondo classico, con tanta cura evocato, possa sorgere
il poema cavalleresco, che pare e non è una contradizione nel secolo
degli eruditi.

Qui dovremmo accennare alle lettere politiche di Ferrante d'Aragona,
che portano la firma anche del Pontano suo primo ministro, il quale
ebbe certo una parte non piccola nel compilarle. Ma, oltre che è ben
difficile il determinare con precisione qual fosse veramente questa
parte, ci sarà data occasione di parlarne in luogo più opportuno. Per
ora ci basti ricordare che anch'esse hanno rarissimi pregi: scritte
con verità ed eloquenza, potrebbero stare fra le migliori nostre prose
letterarie, se la loro forma italiana non fosse troppo alterata dal
dialetto napoletano, che spesso aggiunge forza e naturalezza, ma non
può giovare alla unità, nè alla eleganza della lingua.

Accanto al Pontano viveva un altro scrittore, che era nato nel
Napoletano, che morì nella seconda metà del secolo XV, e del quale
abbiamo un volume di novelle assai notevoli, massime se ricordiamo
che quel genere, dopo il Sacchetti, pareva quasi abbandonato. Uomo di
mondo e non erudito, ma vissuto in mezzo alla erudizione, egli ci dice
di aver voluto imitare, «il vetusto satiro Giovenale, e l'ornatissimo
idioma e stile del famoso commendato poeta Boccaccio.»[226] Spesso
invoca gli Dei immortali; e Mercurio eloquentissimo Dio gli ragiona
degl'inganni fatti dalle donne «al sommo nostro padre Giove, e al
radiante Apollo, a noi e agli altri Dei.»[227] Egli, come il Sacchetti,
dichiara che vuol raccontare novelle «per autentiche istorie approbate,
e certi moderni e altri non molto antichi travenuti fatti.»[228]
La sua lingua è molto artificiosa, per la imitazione visibile del
latino e del _Decamerone_; vi si mescolano in buona copia il dialetto
napoletano ed il salernitano, che dànno grande vivacità, ma alterano
l'italiano, e rendono sconnessa la grammatica di Masuccio, che era
nato a Salerno. Il suo brio spontaneo, la sua verità ed evidenza sono
tali, che egli sarebbe uno dei nostri classici, se la forma fosse meno
scorretta. Tuttavia il suo _Novellino_, così com'è, ci dà una immagine
fedele dei tempi e della Corte di Napoli. Con una grande conoscenza
degli uomini e delle cose, con un animo che sembra assai schietto e
buono, l'autore sa infondere vita ne' suoi personaggi; sa raccontare
con la disinvoltura, la naturalezza ed il sorriso d'un vero scrittore
del Rinascimento. Domina in lui un odio profondo contro le immoralità
dei preti, i quali egli sferza sanguinosamente, senza perciò essere
punto avverso alla religione. Nell'_Esordio_ alla terza novella, che
è dedicata al Pontano, di cui esalta le virtù, le quali egli dice
macchiate solo dal conversare che esso fa continuo con preti, frati
e monache, «atteso che con loro non altro che usurai e fornicatori e
omini di mala sorte conversare se vedono.» Tutto ciò non ci maraviglia
molto in uno scrittore che viveva nella Corte degli Aragonesi, la quale
fu di continuo in guerra coi Papi, ed aveva accolto e protetto Antonio
Panormita e Lorenzo Valla. Il vedere però dedicato ad Ippolita, figlia
di Francesco Sforza e giovane sposa d'Alfonso II d'Aragona, un libro
di novelle assai spesso molto oscene, alcune delle quali sono anche
dedicate in particolare a qualche nobile donna, reca certo grande
maraviglia, ma è pure un altro segno dei tempi.

Dai _Dialoghi_ del Pontano e dalle _Novelle_ di Masuccio non
occorre un gran salto per passare ai poemi cavallereschi, un altro
dei generi di letteratura proprî di questo secolo. Veramente erano
nati in Francia, e parrebbero in tutto contrarî al genio nazionale
dell'Italia. La Cavalleria s'era infatti poco o punto diffusa tra
noi; il feudalismo era stato combattuto ed in grandissima parte
distrutto; alle Crociate avevamo preso una parte secondaria; Carlo
Magno, eroe nazionale della Francia, era fra noi un principe straniero
e conquistatore. E questi sono tutti elementi sostanziali, per la
formazione del poema cavalleresco. Lo scetticismo religioso, cominciato
assai presto in Italia, contrastava anch'esso coll'indole di poemi
fondati principalmente sulla guerra dei Cristiani contro gl'Infedeli.
Ed il maraviglioso che ne costituisce l'essenza, neppure era adatto
all'indole degl'italiani, ammiratori sempre della bellezza classica.
Passati da uno stato di decadenza ad una nuova forma di civiltà, essi
non avevano avuto la selvaggia e vigorosa giovanezza, in mezzo alla
quale era stato creato quel mondo d'eroi, le cui avventure impossibili,
i cui caratteri fantastici si mutano e confondono continuamente fra
loro. Tuttavia questi poemi francesi, come si diffusero rapidamente in
tutta l'Europa feudale, così vennero anche fra noi, e si propagarono
assai più largamente che non si crederebbe.

Prima ancora che sorgesse la nostra letteratura, quando nel
Settentrione d'Italia molti scrivevano provenzale o francese, avemmo
una serie di poemi cavallereschi, compilati da Italiani in un francese
italianizzato o in un italiano infranciosato. Nel Mezzogiorno, invece,
quei racconti furono portati dai Normanni, e nel Centro della Penisola
si diffusero per mezzo di scritti italiani e di poeti vaganti. Ma
quegli eroi, nati e cresciuti in una nebbia fantastica, che non era
punto adatta alla nostra indole, trovarono fra noi, specialmente
nell'Italia centrale, un terreno poco favorevole, e quasi si
dileguarono dalla nostra letteratura, per rifugiarsi nelle capanne del
contado o nei tugurî del popolo, quando sorse sull'orizzonte il sole
della poesia di Dante. In molti lavori del Boccaccio, nei _Trionfi_ del
Petrarca, anche nella _Divina Commedia_, troviamo spesso reminiscenze,
che riconfermano come quei poemi fossero sempre assai diffusi nel
popolo. Paolo e Francesca ricordano nell'_Inferno_ la lettura che,
nei tempi felici, avevano fatta insieme degli amori di Lancillotto; e
quando il Sacchetti racconta del fabbro che sciupava, nel recitarli,
i versi di Dante, dal quale veniva perciò aspramente rimproverato,
egli aggiunge: e così, se volle, dovè invece cantare di Tristano
e di Lancillotto: segno evidente che questi racconti erano allora
giudicati più adatti alla fantasia popolare anche in Firenze. Quando
poi i dotti cominciarono a scrivere in latino, i poemi cavallereschi
sembrarono risorgere fra noi da un temporaneo letargo, ed insieme coi
Rispetti, gli Strambotti, le Canzoni, le Laudi e le Rappresentazioni,
fecero parte di quella letteratura che, come già vedemmo, fu chiamata
popolare. Così largamente e così profondamente infatti si diffusero,
che ancora oggi il cantastorie napoletano racconta d'Orlando e di
Rinaldo ad un popolo estatico, e nella campagna toscana i _Maggi_,
che si rappresentano la primavera, dinanzi ai contadini, pigliano
dai medesimi poemi i loro soggetti. Alcuni di questi _Maggi_ e di
questi racconti sono composizioni recenti; ma altri non pochi sono
addirittura del secolo XV. Allora se ne scrisse un numero sterminato,
ed erano letti con l'avidità stessa, con cui oggi si leggono i romanzi.
Gl'Italiani non creavano nuovi poemi, nè ripetevano materialmente gli
antichi; ma di questi facevano compilazioni in verso o in prosa, e più
in prosa che in verso, spesso molti riunendone in uno, e formando così
come grandi repertorî di novelle fantastiche, che i cantastorie, il
più delle volte essi stessi autori, andavano leggendo al popolo delle
città e delle campagne, che li ascoltava con insaziabile avidità. La
così detta _Cronaca di Turpino_, ed in generale il ciclo di Carlo Magno
forniscono la materia principale dei racconti italiani; ma il ciclo del
re Arturo e della _Tavola Rotonda_ vi ha pure una grandissima parte.

Il più grande di questi compilatori, che può bastare a darci un'idea
degli altri, visse nella seconda metà del secolo XIV e nella prima del
XV. Egli è Andrea dei Mangabotti da Barberino in Val d'Elsa, che chiama
Firenze _la mia città_, perchè colà visse e fu educato. Di un'attività
senza pari, scrisse non solo i famosi _Reali di Francia_ in sei libri,
ma ancora l'_Aspromonte_ in tre libri, la _Storia di Rinaldo_ in sette,
la _Spagna_ in uno, la _Seconda Spagna_ in uno, le _Storie Narbonesi_
in sette, _Aiolfo_ in un libro lunghissimo, _Ugone d'Avernia_ in tre, e
finalmente _Guerino il Meschino_, che, sebbene continui i fatti narrati
nell'_Aspromonte_, forma un lavoro a sè, la cui popolarità, di poco
inferiore a quella dei _Reali_, dura anch'oggi. Tutti questi lavori
sono scritti in prosa, salvo alcune parti dell'_Ugone d'Avernia_.

L'autore s'era proposto di raccogliere e coordinare la gran moltitudine
dei racconti, che fanno parte del ciclo di Carlo Magno. E così nei
_Reali_, che son sempre la sua opera principale, compilò la storia
della stirpe del grande Imperatore, senza però fare nè una vera storia,
nè un vero romanzo cavalleresco. Egli vuol mettere nesso e precisione
là dove era confusione deplorabile, corregge la geografia, ordina le
genealogie, ma perde con ciò la ingenuità popolare e l'originalità
poetica. Sembra che quel realismo italiano tanto ammirato nelle
novelle, che restan sempre il racconto più proprio e nazionale della
nostra letteratura, predomini anche qui, ed alteri il poema, formando
un lavoro che non è certo senza merito, ma di un genere ibrido. Noi
qui non abbiamo veramente nè poesia popolare, nè poesia letteraria,
ma piuttosto una materia epica, che si va trasformando, e cerca una
forma nuova, senza ancora trovarla. Il linguaggio parlato si mescola
colle reminiscenze classiche, familiari allora a tutti gl'Italiani;
la narrazione ha una riposata solennità quasi liviana, e l'autore
vuol riunire dentro i confini d'una macchina ideale ben disegnata e
determinata, una miriade di racconti originariamente germogliati con la
ricchezza esuberante e disordinata d'una foresta vergine.[229] Queste
qualità degli scritti del Mangabotti sono comuni a quelli di centinaia
d'altri compilatori in verso o in prosa.

Da quanto abbiamo detto fin qui risulta chiaro, che il giorno in
cui i nostri letterati ricominciarono a scrivere in italiano, e,
stanchi della retorica di poemi come la _Sforziade_ e la _Borseide_,
s'avvicinarono al popolo, trovarono in mezzo ad esso diffusi, insieme
coi Rispetti e le Ballate, racconti come i _Reali di Francia_, in
verso o in prosa. Si diedero allora a rifare anche questi, provandosi
a renderli vere opere d'arte. Lasciarono inalterata la macchina
generale della narrazione; la divisione in canti; le ricapitolazioni
in principio d'ognuno di essi, indirizzate agli «amici e buona gente»
dal poeta del popolo, che di ogni canto era costretto a far come un
lavoro indipendente. Anche questi nuovi scrittori usavano leggere a
brani i loro racconti, non in piazza, ma nelle Corti, nei desinari
dei signori, a gente culta, che però voleva divertirsi, ed era stanca
della vuota solennità degli eruditi. Spesso i cambiamenti che portavano
nel riscrivere quelli che ora chiameremo anche noi poemi popolari, si
restringevano solo a ritoccarli, correggerli, ravvivarli nella forma,
aggiungendovi nuovi episodî, nuove descrizioni, qualche volta interi
canti. In questo ritoccarli però stava l'arte, che infondeva vita là
dove mancava, ed arrivava così ad una creazione nuova ed originale.

I personaggi si staccavano dal fondo ancora fantastico e nebuloso,
nel quale erano confusi, per divenire vivi e veri; le descrizioni
della natura spiravano come un'aura di primavera, avevano un'insolita
fragranza; e quelle parti che restavano inalterate nella loro prima
e più rozza forma, facevano meglio risaltare la verità, quasi direi,
la giovinezza di tutto ciò che veniva presentato sotto nuovo aspetto,
animato di nuova vita. Era quasi una improvvisa ribellione contro
ogni retorica convenzionale, contro ogni vincolo artificiale; lo
spirito italiano si sentiva come chi ritorna a respirar l'aura fresca
dei campi e dei monti, dopo essere stato lungamente rinchiuso in
un'atmosfera divenuta insalubre. Cercare in questi poemi profondità di
sentimenti, uno svolgimento logico di caratteri, un disegno generale e
filosofico, è cercarvi quello che non può e non deve esserci. L'autore
anzi disordina a bella posta la narrazione monotona de' racconti
che trova già compilati, confonde e ricompone a capriccio le fila
intricate della vasta tela, per meglio tener desta la curiosità del
lettore. L'importante per lui è che egli sia padrone de' suoi eroi, e
che essi appariscano sempre ben definiti e vivi nel momento in cui li
chiama sulla scena. Egli cerca un ideale diverso dal nostro; non vuole
scendere nelle profondità del cuore umano; vuole ritrarre la mutabile
realtà di tutto ciò che fugge, passa e si vede. Se torna di continuo
a nascondere nel fantastico fondo del quadro i suoi personaggi, ciò
è solo per meglio illuderci, per farcene meglio ammirare la verità e
realtà, quando di nuovo li avvicina a noi, presentandoli quasi come
quei putti del Correggio, che spingono innanzi la testa di sotto a un
bosco di fiori, o come quelli che sulle pareti del Vaticano sembrano
muoversi fra un laberinto d'eleganti rabeschi. Così segue che, sebbene
ci parli continuo di mostri, di fate, d'incantesimi, di bevande
prodigiose, la sua narrazione ha pur tale verità, che crediamo leggere
la storia d'avvenimenti reali. È però ben naturale, che in questo
stato di cose, un perenne sorriso apparisca sulle labbra dell'autore,
rallegrato egli stesso dalla illusione e dalla maraviglia che desta
ne' suoi lettori, dei quali sembra pigliarsi giuoco, per poi dominarli
e commuoverli ancora più profondamente. S'ingannano coloro che
vogliono in tutto ciò vedere una satira o una ironia profonda. Credere
sul serio a questi personaggi il poeta stesso non può; a lui basta
d'esprimere nel suo racconto tutta la varia vicenda della vita, tutte
le contradizioni che sono nel suo spirito, in un secolo così pieno
d'elementi diversi e cozzanti fra loro; di rapire e di essere rapito
dalle proprie creazioni. La sua fantasia, uscita dalle convenzioni
classiche ed artificiali, ha finalmente ritrovato tutta la propria
libertà nel mondo fantastico in cui sola comanda. Si richiede quindi
un temperamento artistico, per gustare tutto il valore di questi poemi,
che si godono anche meglio leggendoli a brani, come li avevano letti al
popolo i cantastorie, e come li lessero ai loro protettori o amici il
Pulci, il Boiardo e l'Ariosto.

Il primo che fra questi poemi possa veramente chiamarsi un'opera
d'arte, è il _Morgante Maggiore_ del fiorentino Luigi Pulci, nato
nel 1431. Questo lavoro è un rifacimento d'altri più antichi. I
primi ventitrè canti riproducono, ora più ora meno fedelmente, uno
di quei poemi che i cantastorie leggevano al popolo, ed in esso si
narravano le avventure d'Orlando. Gli ultimi cinque raccontano,
invece, la rotta di Roncisvalle, e sono rifacimenti di altre due
compilazioni popolari, intitolate _La Spagna_. Tra l'una e l'altra
parte del _Morgante_ passano venticinque o trenta anni; sicchè i
personaggi che nella prima erano giovani, sono nella seconda divenuti
vecchi, cosa della quale l'autore non si dà gran pensiero.[230]
Nè egli si perita punto, specialmente nella prima parte, di andare
così fedelmente dietro al suo modello, correggendone o modificandone
appena le ottave, da sembrare un vero plagiario.[231] Tuttavia sono
questi semplici e leggerissimi tocchi di mano maestra, quelli che
mutano un'opera volgare in un'opera d'arte, dànno ai personaggi vita
e rilievo, lasciano da parte gli artifizî retorici, per condurci in
presenza della natura. Di tanto in tanto però egli abbandona affatto
il suo originale, e abbiamo, per esempio, le 275 ottave che narrano
l'episodio di Morgante e di Margutte, in cui risplendono tutto lo
spensierato scetticismo e la ricca fantasia e la mordace ironia del
Pulci.[232] Questo poema, che ad ogni passo rompe il filo principale
della narrazione, sembra ritrovare la propria unità solo nella sempre
chiara, definita, evidente precisione de' suoi varî ed inesauribili
episodî. È un singolare turbinìo d'eventi: scene pietose, ridicole,
maravigliose, allegre. Gli elementi che formavano la cultura di quel
secolo, Paganesimo e Cristianesimo, scetticismo e superstizione, ironia
ed entusiasmo artistico per le bellezze della natura, coesistono tutti,
e senza bisogno di sforzo per mettersi d'accordo, sembrano essere in
armonia fra loro, perchè il solo scopo del poeta sta nel riprodurre
la irrequieta mutabilità degli eventi nella natura e nella realtà
della vita. Il Pulci è un impareggiabile novellatore; la sua ironia
cade, come quella dei novellieri, sui preti e sui frati, qualche
volta anche sulla religione stessa,[233] ma sempre in modo da far poi
capire che egli non vuol punto rinnegarla, intende anzi rispettarla.
L'antichità non gli è ignota, e penetra nel suo lavoro, quantunque
manchi nell'originale che egli imita; la sua musa è, nonostante,
essenzialmente popolare:

    Infino a qui l'aiuto del Parnaso
      Non ho chiesto nè chieggo....
      Io mi starò tra faggi e tra bifulci,
      Che non dispregin le muse del Pulci.

La sua forma è difatti così popolare, che spesso manca di lima, e
quando si scolorisce, non cade mai nel retorico, ma piuttosto nel
volgare. La spontaneità di questa forma ha più di tutto contribuito
alla fama del _Morgante_, scritto a richiesta di Lucrezia Tornabuoni,
madre di Lorenzo dei Medici, alla cui tavola veniva letto, nelle
fuggevoli ore dei lieti desinari.

Il Pulci, che rideva sempre, passò pure giorni molto tristi, perchè il
fallimento di suo fratello Luca involse anche lui. Nè gran fatto gli
valse l'amicizia di Lorenzo, di cui era intimo ed affezionatissimo,
perchè restò sempre, anche nella più grande familiarità, un cortigiano
protetto. L'aiutava invece un'indole allegra che mai non si smentiva.
Lontano da Firenze, per non cadere in balìa di creditori ai quali egli
personalmente nulla doveva, nelle sue lettere a Lorenzo si doleva
dell'infausta stella, che lo aveva destinato ad esser sempre preda
degli altri. «Pure i ribelli, ladri, assassini ho visto a' miei giorni
venire costì, essere uditi, avere qualche termine al morire.» Solo a me
tutto è negato, nulla concesso. «Se mi sforzeranno a questo modo, senza
udire la mia ragione, io verrò costì in su la fonte a sbattezzarmi,
dove fui in maledetta ora e punto e fato et augurio indegnamente
battezzato, che certo io ero più tosto destinato al turbante che
al cappuccio.»[234] E prometteva che quando sarebbe nella Mecca,
manderebbe a Lorenzo versi in lingua moresca, e dall'inferno gliene
manderebbe altri per mezzo di qualche spirito.[235] «Non permettere,»
gli diceva poi, «nel colmo della tua felicità, che i tuoi amici siano
come cani ributtati e straziati. Io però ho paura che quando non mando
versi, tutto quello che ti scrivo in prosa, venga da te mal volentieri
letto e subito gettato via.»[236] Lorenzo era sempre lo stesso uomo,
proteggeva tutti, ma non aveva gran cuore per nessuno, neppure per
quelli che come il Pulci erano stati suoi compagni d'infanzia, e lo
amavano quale fratello. Più tardi però l'autore del _Morgante_ fu da
lui inviato a trattare presso le Corti d'Italia faccende di qualche
gravità, ed anche allora le sue lettere non smentiscono punto l'indole
propria dell'autore, paiono anzi più di una volta brani del suo poema
ridotti in prosa.

Il 20 maggio 1472 scriveva da Fuligno, come era stato in Roma «a
visitare la figliuola del dispoto della Maremma, volsi dire della
Morea.... Descriverò adunque brevemente questa cupola di Norcia, anzi
questa montagna di sugna, che noi visitammo, che non credevo ne fussi
tanta nella Magna, non che in Sardigna. Noi entramo in una camera, dove
era parato in sedia questo berlingaccio, et avea con che sedere! almeno
ti prometto.... Due naccheroni turcheschi nel petto, un mentozzo, un
visozzo compariscente, un paio di gote di scrofa, il collo tralle
nacchere. Due occhi che sono per quattro, con tanta ciccia intorno
e grasso e lardo e sugna, che 'l Po non ha sì grandi argini.»[237]
Questa forma tutta popolare è nelle poesie del Pulci assai più ne'
suoi sonetti, che correggono la maniera troppo volgare e spesso anche
plateale del povero barbiere Burchiello, nella cui bottega, secondo che
egli stesso ci dice,

    La poesia combatte col rasoio.

Il Pulci scriveva allora gareggiando con Matteo Franco, col quale
scambiava ogni sorta di piacevolezze, di oscenità, d'insolenze, per
mero passatempo, riducendo i sonetti ad una specie di dialogo in
versi, cercando e trovando quella spontanea semplicità, divenuta ora il
bisogno irresistibile della nuova letteratura.[238]

A questi facili scrittori di sonetti popolari, che al loro carattere
comico, buffo e satirico univano quel gergo toscano proprio del
Burchiello, se ne potrebbero aggiungere altri non pochi. Ricorderemo
solo il più noto fra di essi, Tommaso Cammelli, che fu chiamato il
Pistoia, dalla città dove nacque (1440), in assai umile condizione. A
lui disse la musa:

    Di tutto quel che vedi fai sonetti.

E continuamente ne scrisse, continuamente tutti gliene chiedevano, in
ogni più futile occasione,

    Come s'io avessi i versi in un sacchetto.

In questi sonetti il Pistoia descrive i particolari più minuti, più
insignificanti, spesso anche più indecorosi della sua vita vagabonda
e misera. Noi lo vediamo percorrere le varie Corti d'Italia, andare
da Ferrara a Mantova, da Mantova a Milano, altrove, facendo più o meno
il poeta cortigiano e buffone, attaccando gli emuli, ridendo di tutto
e di tutti, lamentando la sua miseria, questuando, lodando coloro
da cui spera danaro o protezione, per schernirli poi quando la ruota
della fortuna gira contro di essi. Quello che dà a lui una speciale
importanza, e costituisce l'indole propria de' suoi sonetti, è che egli
ci ha in essi lasciato quasi un gazzettino politico dei tempi in cui
visse, ricordando, giorno per giorno, tutto ciò che avveniva in quegli
anni fortunosi davvero per l'Italia. Il Papa e i Cardinali, Carlo VIII
e i Francesi, Firenze, il Savonarola, i Medici, Pisa, Venezia, i re di
Napoli, tutti sono ricordati, per essere lodati quando si trovano in
alto, derisi, sferzati quando cadono in basso. E sebbene queste sue
descrizioni o piuttosto rapidi accenni riescano qualche volta assai
vivi, sì che la desolante miseria d'Italia, che egli pur freddamente
deplora, apparisce evidente, tuttavia, in mezzo a tante sventure, ad
una catastrofe che avvolge e trascina la intera Penisola, di rado esce
dal suo petto un accento di vero, profondo dolore, una scintilla di
nobile, alta poesia. Egli è stato definito quale anello di congiunzione
fra il Burchiello ed il Berni. Se però il suo riso è la manifestazione
d'uno spirito arguto e satirico, che vede sempre il lato comico
della vita, quel ridere continuo, anche quando vi sarebbe materia di
pianto, disgusta. Troppo spesso v'è nei suoi versi qualche cosa di
cinico e degradante, che opprime. Il Pistoia è un poeta popolare,
che frequentando le Corti, ne ha preso tutta la corruzione, senza
quella raffinatezza di modi e di forme, che, esteriormente almeno, la
correggeva.[239]

Per comprendere quanto più basso da quel che era stato una volta, fosse
moralmente e politicamente disceso lo spirito italiano, basterebbe
paragonare i versi del Pistoia con quelli d'Antonio Pucci, il poeta
popolare del secolo XIV. Animato sempre dalla speranza che _'l giglio
di Fiorenza avanzi_, questi cantava,

    A morte e struggimento de' tiranni,
    Che consumati ci hanno già è più anni.

E quando il Duca d'Atene venne a furor di popolo cacciato, egli
scriveva una sua ballata, in cui, pieno di gioia, esclamava:

    Viva la libertà
    Ch'ha rinfrancato il Comun di Fiorenza![240]

Di questa libertà, che andava ad irreparabile rovina, importava assai
poco al poeta cortigiano Pistoia.

Ma anche nel secolo XV assai diverso da lui fu Matteo Maria Boiardo,
che nacque poco dopo di Luigi Pulci, e del quale tre città si contesero
l'onore d'essere state la culla. Questa disputa sorse probabilmente
perchè egli, di famiglia reggiana, nacque a Scandiano, e fu educato a
Ferrara.[241] Scrittore erudito di egloghe latine, di liriche italiane
affettuose e gentili, traduttore dal greco, era un nobile signore ed un
nobile carattere; viveva presso gli Este, ma non amava punto la vita di
Corte, perchè, come egli stesso scriveva,

    Ogni servir di cortigiano
    La sera è grato e la mattina è vano.

Fu governatore di Modena e poi di Reggio-Emilia; ebbe altri ufficî
importanti; ma sebbene li adempiesse tutti con onore, la sua testa,
più che alla politica o all'amministrazione, era vòlta a pensare, a
fantasticare di eroi e di racconti cavallereschi. Narrano che, vagando
un giorno pei campi, si stillasse il cervello cercando il nome da
dare ad uno de' suoi eroi, quando a un tratto gli venne in pensiero
di chiamarlo Rodomonte, e la sua allegrezza allora fu tale, che tornò
correndo a Scandiano, per farvi sonare a distesa tutte le campane.
Credeva sinceramente nella cavalleria, e sperava vederla di nuovo
fiorire in Italia. Compose la tela del suo poema, valendosi di racconti
che appartenevano a cicli diversi. Grande ammiratore della _Tavola
Rotonda_, cogli eroi di Carlo Magno mescolò quelli di Artù, che secondo
il Boiardo, era più grande, perchè non aveva come Carlo il cuore
chiuso alla passione d'amore, sorgente d'ogni grandezza. Il suo Orlando
infatti è l'eroe d'una virtù che trova nell'amore la prima origine e
l'ultimo compenso. Molti episodi sono di sana pianta creati da lui, che
ingenuamente credeva e viveva nel mondo evocato dalla propria fantasia,
il che forma ad un tempo il suo pregio ed il suo difetto. Egli riesce
più sincero e più affettuoso; ma il raccontare seriamente e senza
alcuna ironia, avventure impossibili, lo rende necessariamente meno
moderno del Pulci. Questi scolpisce assai meglio la individualità de'
suoi personaggi; il Boiardo invece descrive meglio il turbinìo generale
dei fantastici eventi, con i quali però i suoi eroi s'immedesimano per
modo da annebbiare qualche volta la precisione de' loro lineamenti.
Troppo spesso bevande incantate ridestano o spengono l'amore, armi
incantate dànno la vittoria o la morte. Il Pulci cerca la realtà
psicologica anche in mezzo agl'incantesimi; il Boiardo anche in mezzo
alla realtà invoca il fantastico ed il soprannaturale. Ma in compenso
di ciò v'è sempre ne' suoi eroi e nel suo poema qualche cosa di nobile
e di generoso, che manca negli altri. Egli loda ed ammira sinceramente
la virtù, esalta il conforto che viene agli animi nobili dall'amicizia:

    Potendo palesar l'un l'altro il core,
    E ogni dubbio che accada raro o spesso,
    Poterlo ad altrui dir come a sè stesso.[242]

Non mancano certo neppur qui sensualità e scherzi osceni; son cose che
si trovano nel poema, perchè sono nella vita. E il dare una importanza
eccessiva all'amore, come sorgente d'ogni virtù, è prova del secolo
in cui il poema fu scritto. In questo è però sempre un fondo di
serietà morale, che dà una singolare elevatezza alla nobile parola del
Boiardo, massime se si pone a confronto col continuo ridere e sorridere
di tutto, che domina negli altri. È un mondo pieno di varietà,
d'immaginazione, di affetto; ed in esso il poeta vive e s'illude. Ma
pur troppo questa illusione doveva durar poco. Invano egli diceva:

    E torna il mondo di virtù fiorito;

chè invece ogni cosa precipitava a rovina. Ben presto dovette
avvedersene egli stesso; ed alla fine del secondo libro, la sua
malinconia si tradisce:

    Sentendo Italia di lamenti piena,
    Non che ora canti, ma sospiro appena.

Ripigliò di nuovo il lavoro, e giunse al punto in cui per l'arrivo
d'Orlando viene impedito ai Saraceni d'entrare in Parigi. Allora, poco
prima della sua morte, che seguì la notte dal 20 al 21 dicembre 1491,
i Francesi passarono le Alpi, e la penna gli cadde per sempre di mano,
restando interrotto il filo del racconto con quella celebre ottava che
comincia:

    Mentre ch'io canto, oh Dio redentore!
      Vedo la Italia tutta a fiamma, a foco.
      Per questi Galli che con gran furore
      Vengon per disertar non so che loco....

Sebbene i pregi dell'_Orlando Innamorato_ sieno molti, tali in fatti
che il Berni si pose a riscriverlo sotto altra forma, e l'Ariosto
lo continuò nel suo _Orlando Furioso_; pure la mancanza di lima, e
quindi una lingua non sempre correttissima, spesso troppo ferrarese,
impedirono che divenisse popolare davvero, ed acquistasse quella fama
che pur meritavano l'ingegno ed il carattere dell'autore, a cui faceva
difetto l'atticismo toscano. Egli era un erudito così profondamente
immerso nel suo mondo fantastico, che quando si presentavano a lui
le immagini e gli eroi dell'antichità, per renderli più evidenti, li
paragonava a quelli della Cavalleria, nella quale si sentiva come più a
casa sua.

L'Ariosto, nato a Ferrara dove il Bojardo era stato educato, fu il
primo che sapesse superare tutte quante le difficoltà del non essere
toscano, e con lui la nostra lingua potò dirsi finalmente italiana.
Con una lima paziente, dotato veramente del genio della forma, giunse
con l'arte ad una spontaneità meravigliosa, ed aprì la via a coloro
che lo seguirono. Non erudito com'era il Boiardo, ignaro del greco,
aveva però molto più vivo il sentimento della bellezza classica. Al
contrario di ciò che soleva fare il suo predecessore, aveva bisogno
di paragonare gli eroi cavallereschi ai personaggi del mondo pagano. I
suoi cavalieri erranti hanno il senno di Nestore, l'astuzia d'Ulisse,
il coraggio d'Achille; le loro donne son belle come se Fidia le
avesse scolpite, hanno la voluttà di Venere, il senno di Minerva. Egli
torna di continuo al suo Virgilio ed al suo Ovidio; ma, come osserva
il Ranke, sembra tornarvi per ricondurli, colla potenza della sua
fantasia, al primitivo Omero. Simile assai più al Pulci che al Boiardo,
non si occupa molto di cercare l'intreccio, l'insieme, l'unità degli
avvenimenti; ma vuol ritrarre invece i fuggevoli momenti della mutabile
realtà, e descrivere le passioni individuali. I fatti della sua vita e
del suo tempo s'introducono nel poema sotto forme abbastanza visibili,
e qualche volta si crede vederli anche là dove non sono, tale e tanta
è l'evidenza che il poeta sa ritrovare. Perciò se l'_Orlando Furioso_
continua il racconto dell'_Orlando Innamorato_, letterariamente si
connette invece col _Morgante_ del Pulci, che si può chiamare il
creatore del genere, quantunque tanto si giovasse de' suoi precursori.

Ma l'Ariosto è già fuori del periodo di cui ci siamo finora occupati:
dobbiamo dunque fermarci. Osserveremo tuttavia per concludere, che sino
dai tempi della _Divina Commedia_ e del _Decamerone_, la letteratura
italiana aveva cominciato col liberare lo spirito umano dalle nebbie
medievali, riconducendolo alla realtà. Nella poesia e nella prosa
aveva sempre cercato l'uomo e la natura. Fermatasi nel suo cammino, a
cagione del disordine politico e della decadenza sociale, che sovvertì
ogni cosa nel secolo XIV, essa chiese aiuto all'antichità, per poter
continuare nell'antica sua strada. E così, dopo la metà del secolo
XV, noi vediamo ricomparire anche più chiaro lo stesso realismo, non
solamente nelle lettere, ma nelle scienze, nella società, nell'uomo.
Il bisogno infatti di studiare e conoscere il mondo, liberandosi
dai vincoli di ogni autorità, di ogni pregiudizio, creò la nuova
letteratura e la nuova scienza, iniziò il metodo sperimentale, spinse
ai più arditi viaggi, rianimò quasi di una seconda vita tutto quanto
lo spirito italiano. Fatto meraviglioso, perchè seguiva in mezzo al
più profondo sconvolgimento della società, la quale, corrompendosi e
decadendo, faceva germogliare i grandi elementi della cultura moderna.

Allora, come fu giustamente osservato, sembrava che fosse nella società
italiana scomparso ogni distinzione di classe e di sesso: i Mecenati e
i loro cortigiani, discorrendo di lettere o di scienze, si trattavano
come uguali, e si davano del tu; la donna studiava il latino, il greco,
la filosofia, e qualche volta governava gli Stati, accompagnava,
armata, in campo i capitani di ventura. A noi oggi reca grande
meraviglia, quasi profondo disgusto, quando sentiamo i più osceni
discorsi fatti in quel secolo alla presenza, non solo di culte matrone,
ma anche d'ingenue fanciulle; quando sentiamo ragionar di politica come
se la coscienza non esistesse. Ma l'uomo del Rinascimento credeva che
si potesse dire, esaminare e descrivere senza scrupoli, tutto quello
che si osava fare. E ciò non era sempre effetto della sua corruzione,
ma spesso invece conseguenza del suo realismo, bisogno di uno spirito
osservatore ed indagatore. Egli sembrava vivere in una calma olimpica,
sempre padrone di sè, sempre col sorriso ironico sulle labbra; ma
era una calma apparente. Egli in realtà soffriva per la disarmonia
interiore del suo animo, per la mancanza d'ogni equilibrio fra il vuoto
del cuore e l'attività febbrile della mente, la quale pareva qualche
volta che delirasse come in una ebbrezza inconsapevole. I rottami del
mondo medievale che l'uomo del Rinascimento aveva distrutto, e quelli
dell'antichità che aveva disseppellita, cadevano intorno a lui e su di
lui prima che egli avesse trovato il principio generatore d'un mondo
nuovo, e potesse convertire in propria ed organica sostanza tutti gli
avanzi del passato.

Sia che gl'Italiani, dopo aver create le grandi unità dell'Impero
romano e del Cattolicismo, fossero divenuti incapaci di creare una
società nuova, fondata solo sul libero individualismo moderno, a cui
pure avevano aperto la via, anzi lo avevano con l'opera loro formato;
sia che le invasioni straniere li avessero fermati nel mezzo del
cammino, certo è che paiono spesso come smarriti e incerti di loro
medesimi. Abbandonano ogni fede in Dio, ma credono nel fato e nella
fortuna;[243] disprezzano la religione, e studiano con ardore le
scienze occulte. Quasi ogni repubblica, ogni principe, ogni capitano
di ventura aveva il suo astrologo, a cui chiedeva l'ora propizia per
firmare un trattato, cominciare una battaglia. Cristoforo Landino e
Battista Mantovano tiravano l'oroscopo delle religioni; il Guicciardini
ed il Machiavelli credevano negli spiriti aerei; Lodovico il Moro, che
aveva una fede illimitata nella propria prudenza, non osava muovere
passo senza consultare l'astrologo. La ragione che voleva tutto
spiegare, si trovava invece di fronte alla propria impotenza.

Il sentimento del bello si direbbe che fosse allora l'unica e più
sicura guida della vita umana, la quale sembrava cercasse immedesimarsi
coll'arte. Nel _Cortegiano_ del Castiglione vediamo fino a qual punto
il gentiluomo del secolo XVI poteva, per questa via, ingentilire e
nobilitare sè stesso; ma vediamo ancora che debole fondamento aveva
la sua morale coscienza. La virtù, quando non risulta in lui da un
felice temperamento, viene cercata solo perchè gentile e graziosa ed
elegante, come dice il Pandolfini. Grandi, invero, dovettero essere
le qualità dell'ingegno e anche del carattere degl'Italiani, se in
mezzo a così profonda incertezza, essi non solamente non rovinarono
affatto, ma spinsero poderosamente innanzi la scienza, l'arte, la
società umana. Del resto, fu quello un periodo di transizione, che mal
si può giudicare nella sua irrequieta mutabilità, se non si esamina
come conseguenza del passato, e preparazione necessaria dell'avvenire.
Ad un tratto le invasioni straniere soffocarono ogni vita politica
fra noi, ed il Rinascimento italiano restò come istantaneamente
petrificato dinanzi ai nostri occhi, con tutte le sue incertezze, le
sue contradizioni. E forse perciò appunto riesce materia di grande
insegnamento per noi. In esso vediamo infatti assai chiara la notomia
del passato che si trasforma, scorgiamo le origini della società
moderna, impariamo a conoscere i primi germi di molti fra i nostri
presenti difetti nazionali.


IV.

CONDIZIONI POLITICHE DELL'ITALIA ALLA FINE DEL SECOLO XV


1. — ELEZIONE DI PAPA ALESSANDRO VI.

Più il secolo XV s'avvicinava alla sua fine, e più si vedeva
inevitabile la catastrofe da molti anni già preveduta. Quando Galeazzo
Maria Sforza fu pugnalato a Milano (1476), il figlio Giovan Galeazzo
non aveva che otto anni, e però la madre Bona di Savoia assunse la
reggenza. Ma i fratelli del marito defunto cospiravano contro di lei,
e finalmente Lodovico il Moro, che aveva titolo di duca di Bari, ed
era il più furbo ed ambizioso di essi, s'impadronì del governo. Prima
separò la Duchessa dal suo fedel consigliere Cicco Simonetta, che fu
messo a morte;[244] poi separò la madre dal figlio, che aveva solo
12 anni, e che s'indusse ad eleggere per suo tutore, con pubblico
strumento, il proprio usurpatore (1480). La Duchessa andò via, ed
il Moro restò di fatto signore di Milano; ma sempre in mezzo a mille
pericoli, perchè non riconosciuto da nessuno. Nel 1485 sfuggì a mala
pena al pericolo minacciato di una congiura ordita contro di lui.
Nel 1489 Giovan Galeazzo, che aveva già ventun anno, sposò Isabella
d'Aragona, figlia d'Alfonso duca di Calabria; e così in parte per la
cresciuta età, in parte per le impazienze della moglie, che cercava e
sperava aiuti dal re di Napoli suo avo, lo stato delle cose diveniva
assai pericoloso. Nel 1491 Lodovico il Moro sposava Beatrice d'Este,
ed allora le gelosie donnesche inasprirono sempre più gli animi,
alimentando i rancori. Tormentato dalla paura, non è dicibile quanti
disegni mulinasse l'irrequieto animo di lui, pronto sempre a mettere
l'Italia intera a soqquadro, pur di conservare la male usurpata
signoria. Il pensiero su cui da un pezzo ritornava, era quello di
chiamare i Francesi contro il re di Napoli, sperando così di sollevare
una guerra generale, in mezzo alla quale, con la sua accortezza,
nella quale, come dicemmo, riponeva una fede illimitata, sperava
d'aggiustare le proprie cose a danno di nemici e di amici. Che tutto
ciò gli riuscisse, era molto difficile; ma invece era assai facile
che scoppiasse una guerra generale e venissero gli stranieri a danno
comune. Infatti solamente Lorenzo dei Medici, con una grandissima
accortezza e perseveranza, sapeva tenere le cose in equilibrio, ed
impedire l'irrompere improvviso della catastrofe.

Per queste ragioni l'anno 1492 fu un anno infausto all'Italia. Il dì
8 aprile Lorenzo moriva, ed a lui succedeva il figlio Piero, assai
presuntuoso, leggero e vano, che perdeva il tempo nel giuoco della
palla e del calcio, incapacissimo a governare la Toscana, nonchè ad
esercitare alcuna autorità in Italia. E come se ciò non bastasse, il 25
luglio moriva Innocenzo VIII, e gli succedeva il più tristo di quanti
pontefici sedessero mai sulla cattedra di San Pietro, un uomo tale da
sconvolgere co' suoi delitti qualunque umana società.

Radunato appena che fu il Conclave (6 agosto), pareva non si trattasse
già dell'elezione d'un Papa; ma d'un giuoco di borsa, tale e così
manifesto era il mercato che si faceva dei voti. Il danaro era accorso
presso i banchieri di Roma da ogni parte d'Europa, per favorire l'uno
o l'altro dei tre candidati alla tiara. La Francia favoriva Giuliano
della Rovere, Lodovico il Moro favoriva suo fratello Ascanio, e questi
due parevano i più vicini a toccare la mèta. Ma Roderigo Borgia,
valendosi delle sue grandi ricchezze e delle sue più grandi promesse,
potè, quando Ascanio parve messo fuori di combattimento, guadagnare
per sè anche i voti promessi a questo, che era stato dapprima il più
temibile competitore, e che ora votò anch'egli pel Borgia, il quale
così riuscì finalmente eletto. La notte dal 10 all'11 agosto, egli
gridava fuori di sè per la gioia: «Io son Papa, Pontefice, Vicario di
Cristo!» Ed il cardinale Giovanni dei Medici, accostandosi all'orecchio
del suo vicino, il Cardinal Cibo, diceva: «Siamo in bocca al lupo,
che ci mangerà, se non fuggiamo in tempo.» Il giorno dopo tutta Roma
ripeteva che s'erano visti quattro muli carichi d'oro portare a casa
del cardinale Ascanio il prezzo del voto. Certo è che nel giorno
stesso della consacrazione (26 agosto), il nuovo Papa, preso il nome
di Alessandro VI, lo nominava vice-cancelliere della Chiesa, ufficio
ricchissimo, e gli dava anche il proprio palazzo, ora Sforza-Cesarini,
con ciò che vi si trovava. Feudi, ufficî, rendite ragguardevoli dètte
agli altri cardinali; giacchè tutti i voti del Conclave, meno cinque,
erano stati da lui comprati.

Alessandro VI ha una così gran parte nella storia d'Italia; il nome
dei Borgia desta tanto orrore, ricorda tante tragedie, si trova così
spesso mescolato col soggetto principale di questo libro, che dobbiamo
qui fermarci a parlare di lui e de' suoi figli. Ora i figli dei Papi
non si chiamano più nipoti. Roderigo Borgia, nato il 1º gennaio 1431
in Xativa presso Valenza, era nipote di Calisto III, che lo aveva
nominato vescovo, cardinale, vice-cancelliere della Chiesa con 8000
fiorini l'anno. Egli aveva studiato legge a Bologna, era pratico degli
affari, e sebbene non riuscisse sempre a dominare le sue passioni,
lasciando troppo facilmente vedere quel che pensava, sapeva pure a
tempo essere simulatore e dissimulatore impenetrabile. Non era uomo
di molta energia, nè di propositi deliberati; tergiversava per natura
e per sistema, e gli ambasciatori italiani più d'una volta lo dicono
«di natura vile.»[245] La fermezza e l'energia che mancavano al suo
carattere, venivano però supplite spesso dalla costanza delle sue
cattive passioni, che quasi lo accecavano. Sorridente e tranquillo
sempre, con l'aria d'un uomo espansivo ed ingenuo, amava il lieto
vivere, era sobrio, anzi frugale a tavola, e forse perciò coll'andare
degli anni si mantenne sempre assai vegeto. Avidissimo del danaro,
lo cercava con ogni mezzo e lo spendeva con ogni profusa larghezza.
La passione per le donne era quella che lo dominava sopra tutto; i
figli che ebbe da esse amava perdutamente, e voleva in ogni modo fare
potentissimi. Di qui la sorgente prima de' suoi delitti, che commetteva
con animo tranquillo, senza scrupoli, senza rimorsi, facendone quasi
pompa, non perdendo un'ora sola la calma, nè cessando mai di godere
la vita. Era già cardinale, sebbene assai giovane, quando Pio II
dovette a Siena, con una lettera molto severa, rimproverarlo, perchè
passava le notti nelle feste, ballando colle signore, come un laico
o peggio. Ma non valse a nulla, chè egli non sapeva, nè voleva vivere
altrimenti.[246]

Fra i molti amori del Cardinale, durò assai costante quello che ebbe
per Giovanna, chiamata Vannozza de' Cattani (_de Cataneis_), la quale,
nata nel 1442, era fin dal 1470 in relazione con lui, e gli diè molti
figli. Per nascondere lo scandalo, il Borgia più volte le trovò marito,
ed ai mariti dette ufficî e danari. L'ultimo di essi fu un erudito,
Carlo Canale, mantovano, cui il Poliziano dedicò il suo _Orfeo_.[247]
Non faceva però alcun mistero circa i figli, che anzi pubblicamente
riconosceva. Erano senza dubbio figli della Vannozza e di lui Giovanni,
poi duca di Gandia (n. 1474); Cesare, ben noto col nome di Duca
Valentino (n. 1476); Lucrezia (n. 1480); Goffredo o Giuffrè (n. 1481
o 82).[248] Oltre di questi aveva ancora altri tre figli di maggiore
età, Girolamo, Isabella e Pier Luigi, dei quali si sa assai poco, e
solo può dirsi molto probabile, che l'ultimo di essi fosse figlio della
Vannozza. Comunque sia di ciò, dopo la nascita di Giuffrè, cioè poco
prima della propria elezione, papa Alessandro, avendo la Vannozza già
passato i quaranta anni, sentì raffreddare l'antica passione per lei,
trattandola però sempre come madre de' suoi figli, sui quali accumulava
danari, ufficî, benefizî quanti poteva. Così ella resta d'ora in
poi nel fondo del quadro, e non piglierà parte ai tragici eventi che
avverranno fra non molto. Il Papa aveva affidato la figlia prediletta,
Lucrezia, alle cure di Adriana De Mila, sua parente,[249] che era anche
la più intima confidente de' suoi intrighi scandalosi. Sino dal 1489
vedova di Lodovico Orsini, ella aveva circa il medesimo tempo sposato
suo figlio Orsino Orsini con la famosa Giulia Farnese, bionda come la
Lucrezia, e per la grande bellezza chiamata Giulia Bella. Questa aveva
appena quindici anni, ed era già ammirata dal cardinale Borgia, che ne
divenne poi l'amante riconosciuto, quando s'allontanò dalla Vannozza.
Ed anche in ciò egli veniva secondato dall'Adriana.[250]

Tale era lo stato delle cose, quando egli fu eletto. Il 26 agosto venne
celebrata con insolita festa la sua consacrazione, e la Città Eterna
fu piena di fiori, di arazzi, archi di trionfo, statue allegoriche e
mitologiche, iscrizioni, una delle quali diceva:

    _Caesare magna fuit, nunc Roma est maxima, Sextus_
    _Regnat Alexander, ille vir, iste Deus._

Di questa elezione si spaventarono solamente coloro che avevano
conosciuto personalmente e da vicino il Borgia, come il cardinale dei
Medici e Ferrante d'Aragona, principe accortissimo, che rammentava
l'ingratitudine di Calisto III verso gli Aragonesi:[251] gli altri non
temevano o anche speravano. La vita scandalosa del nuovo Papa era nota
in parte; ma quali erano allora i prelati che non avessero intrighi
amorosi e figli? I primi giorni non annunziavano male, giacchè le paghe
cominciarono a correre regolarmente; l'amministrazione pareva avviarsi
con ordine; il prezzo delle derrate scemava; anche nella giustizia si
dimostrò un rigore, di cui eravi sommo bisogno, perchè nel breve tempo
corso dalla malattia d'Innocenzo VIII alla incoronazione d'Alessandro
VI, erano, si afferma, seguìte 220 uccisioni.

Ben presto però la fiera cominciò a metter fuori le unghie. La passione
d'ingrandire i parenti, specialmente i figli, alcuni dei quali il Papa
amava con delirio, divenne quasi cieco furore, e non si poteva più
prevedere dove dovesse trascinarlo. Nel primo concistoro (1º settembre)
il nipote Giovanni Borgia, vescovo di Monreale, fu nominato cardinale
di Santa Susanna. Il figlio prediletto Cesare, di 16 anni, che studiava
a Pisa ed era già corso a Roma, aveva avuto nel giorno stesso della
consacrazione l'arcivescovado di Valenza. Quanto a Giovanni, duca
di Gandia, ed a Giuffrè, più giovane di tutti, il Papa faceva vasti
disegni nel reame di Napoli, e voleva dare al primo i feudi di Cervetri
e d'Anguillara. Ma qui incominciarono subito gravissime complicazioni,
le quali inasprirono fieramente l'animo d'Alessandro VI.

Non era appena morto Innocenzo VIII, che il figlio Franceschetto Cibo,
conoscendo la sua mutata condizione, se n'era fuggito a Firenze, presso
il cognato Piero de' Medici, ed aveva per 40,000 ducati venduto appunto
i feudi di Cervetri e d'Anguillara a Gentil Virginio Orsini, capo della
famiglia, potentissimo e superbo a segno che aveva minacciato una volta
di gettare lo stesso Innocenzo VIII nel Tevere. Asserivasi inoltre
che Ferrante d'Aragona aveva anticipato il danaro. Di qui un odio
inestinguibile del Papa contro Ferrante, e più ancora contro l'Orsini.
In mezzo a tutti questi pericolosi disordini, Lodovico il Moro, per
conoscer meglio chi gli era amico e chi gli era nemico, propose che
i suoi ambasciatori andassero a congratularsi col nuovo Papa, insieme
con quelli di Napoli, Firenze e Venezia. La proposta non fu accettata,
perchè Piero de' Medici, così almeno dicevasi, per la vanità di mandare
un'ambasciata in suo proprio nome, indusse Ferrante a mettere innanzi
dei pretesti. Al Moro parve allora d'essere isolato in Italia, e si
volse disperatamente al partito di chiamare i Francesi.

Mentre così l'orizzonte già nero, diveniva ancora più tetro, il Santo
Padre non pigliava alcun partito, ma tergiversava con tutti, aspettando
a decidersi quando fosse possibile farlo con sicuro vantaggio per sè
e per i figli. E intanto profittava del tempo per darsi tutto, vecchio
com'era, ai piaceri. La Vannozza era ormai lontana dal Vaticano, ed il
Papa si abbandonava sempre più all'amore, cominciato già fin dal 1491,
con la Giulia Bella, che aveva allora 17 anni. La figlia Lucrezia, più
giovane di quattro anni, continuava a vivere in casa dell'Adriana, ed
in mezzo a questi scandali riceveva la sua prima educazione. Può ognuno
immaginar facilmente, se le era possibile ricevere quella coltura, che
alcuni pretesero attribuirle perchè imparò facilmente a parlar molte
lingue.[252] Ella, infatti, conosceva non solo l'italiano, il francese
e lo spagnuolo, che era la lingua propria dei Borgia; ma capiva il
latino, e qualche cosa pare che avesse praticamente appreso anche del
greco, forse dagli emigrati di Costantinopoli che frequentavano il
Vaticano. Pure le lettere che abbiamo di lei, le quali sono quasi tutte
di poca importanza, non valgono a dar prova di questa vantata cultura.
Quanto al suo misterioso carattere sarà meglio aspettare a giudicarlo
dai fatti; per ora l'aria che ella respira è avvelenata non meno del
sangue che scorre nelle sue vene.

Nel 1491, in età di soli undici anni, era stata con regolare contratto
promessa sposa ad uno Spagnuolo, e poi, sciolto il contratto, promessa
contemporaneamente a due altri Spagnuoli, con uno dei quali, don
Gasparo conte d'Aversa, tutto fu concluso. Ma salito sulla cattedra di
San Pietro Alessandro VI, la figlia del Papa non poteva più contentarsi
di un tal matrimonio. Difatti venne sciolto il contratto con danaro,
ed il 2 febbraio 1493 Lucrezia Borgia, _virgo incorrupta, aetatis iam
nubilis existens_, sposò Giovanni Sforza, signore di Pesaro.[253] Le
nozze furono celebrate il 12 giugno in Vaticano, con grandi e ricchi
donativi alla sposa, che portava una dote di 31,000 ducati; con
splendida festa, cui intervennero da 150 signore; con una cena data
agli sposi dal Papa, alla quale presero parte Ascanio Sforza, parecchi
cardinali e alcune signore, fra cui primeggiavano, come racconta
l'ambasciatore di Ferrara, «Madonna Iulia Farnese _de qua est tantus
sermo..._,[254] e Madonna Adriana Ursina, la quale è socera de la
dicta madonna Iulia.» Si attese l'intera notte a danzare, a recitar
commedie con canti e suoni, e furono presentati ricchi donativi. Il
Papa, conchiude l'ambasciatore, assistè a tutto, e sarebbe troppo lungo
descrivere ogni cosa: _Totam noctem consunpsimus, indicet modo Exc.
Dominatio Vestra si bene_ o _male_.[255]

Il duca di Gandia s'apparecchiava ad andare nella Spagna, per contrarre
un ricco matrimonio. L'altro figlio del Papa, Cesare, sebbene,
giovane come era, avesse un vescovado col benefizio di 16,000 ducati
l'anno, pure si mostrava assai insofferente della vita ecclesiastica;
andavasene a caccia vestito da laico; aveva passioni violenti ed
irrefrenabili; esercitava sull'animo del padre un ascendente quasi
magnetico. Quanto a Giuffrè, si facevano sempre nuovi disegni di
matrimonio.[256] Roma era intanto piena di assassini e di delitti,
di preti, di Spagnuoli e di donne perdute. Ogni giorno arrivavano
Musulmani ed Ebrei cacciati dalla Spagna, i quali trovavano facile
accoglienza, perchè il Papa, imponendo loro gravi tasse, si faceva
largamente pagare la sua cristiana tolleranza. Egli stesso andava a
caccia o al passeggio, circondato d'armati, in mezzo a Gemme ed al duca
di Gandia, vestiti ambedue alla turca. Qualche volta fu visto ancora
fra le sue donne, con abiti alla spagnuola, con stivali, pugnale ed un
berretto di velluto assai elegante.[257]

Da un pezzo i Papi del Rinascimento s'erano abbandonati alla vita
mondana ed ai vizî: ma solo il Borgia, perduto ogni pudore, ne menava
vanto e ne faceva pompa cinicamente. Fino allora non s'era visto,
nè poi si vide mai, la religione tanto profanata dal Santo Padre,
in mezzo al sorriso ironico ed ai più spudorati baccanali, tutto ciò
accompagnato da un'aria d'ingenua bonarietà![258]


2. — VENUTA DI CARLO VIII IN ITALIA.

Carlo VIII, educato colla lettura di romanzi cavallereschi e di storie
delle Crociate, senza alcuna serietà di carattere, aveva la testa piena
di fantastici disegni, e si lasciava dominare da due ambiziosi che gli
erano sempre dintorno. Il primo di essi, Stefano di Vesc, di cameriere
fatto ciambellano e siniscalco di Beaucaire, divenuto assai ricco, era
avido di sempre nuovi guadagni. L'altro, Guglielmo Briçonnet, ricco
signore della Touraine, dopo aver perduto la moglie, era stato nel
1493 nominato vescovo di San Malò; aspirava al cappello cardinalizio,
e conduceva intanto le faccende principali dello Stato. Su questi
due uomini operava con promesse e con danari Lodovico il Moro. Egli,
dopo il matrimonio di Lucrezia Borgia col signore di Pesaro, che era
degli Sforza, sentiva crescere in Roma il proprio potere, sostenuto
dalla presenza colà di suo fratello il cardinale Ascanio. Ora trattava
contemporaneamente con tutti i potentati d'Italia, perchè il suo più
segreto pensiero era di far venire i Francesi, e formare poi una
lega per cacciarli, sperando così di restare solo arbitro d'ogni
cosa. Intanto gli esuli italiani, e specialmente i napoletani, lo
secondavano, spingendo con ogni lor possa il re Carlo a partire; ma gli
uomini di Stato e i capitani più reputati in Francia disapprovavano
altamente questa impresa. Il domani non era quindi più certo per
nessuno, e gli animi erano pieni d'una straordinaria trepidazione.

In questo stato di cose ambasciatori italiani percorrevano la Penisola
e l'Europa intera, in mille direzioni diverse. Un'operosità simile a
questa non fu mai veduta al mondo: ogni altro lavoro intellettuale
dell'Italia sembrava che dovesse sospendersi, per dar luogo ad un
nuovo, grande lavoro diplomatico; e l'infinita moltitudine di dispacci
che si scriveva adesso, divenne un monumento storico e letterario
di capitale importanza, che ci rivela mirabilmente il vero stato
della società e degli animi in quei giorni così infausti per noi. Gli
ambasciatori veneti, ora come sempre, primeggiano per senno pratico e
politica prudenza; i fiorentini invece per forza d'analisi psicologica,
studio di caratteri e di passioni, evidenza nelle descrizioni, eleganza
impareggiabile nella forma sempre disinvolta e spontanea. I medesimi
pregi si trovano più o meno in tutti gli altri: è questo il momento
in cui si forma la nuova educazione politica degl'italiani, e si crea
finalmente la moderna scienza di Stato.

Sin dal 1492 l'ambasciatore veneto Zaccaria Contarini aveva mandato
un ragguaglio minutissimo delle condizioni commerciali, politiche,
amministrative della Francia. A lui pareva impossibile che quel paese
potesse mai risolversi alla spedizione d'Italia, circondato com'era
da ogni lato di pericoli e di nemici, con un Re che, secondo lui,
valeva assai poco d'animo e di corpo.[259] Se non che, nello stesso
anno, il Re s'accordava con l'Inghilterra mediante danaro, con la
Spagna cedendo il Rossiglione ed altre terre sulla frontiera dei
Pirenei, con Massimiliano facendo un trattato che prometteva altre
cessioni importanti.[260] Lodovico il Moro s'obbligava a dare uomini e
denari, lasciando libero in Lombardia il passo all'esercito francese.
Continuava intanto i segreti accordi con alcuni degli Stati italiani;
prometteva sua figlia Bianca con ricca dote a Massimiliano, per aver
in cambio l'investitura di Milano.[261] Tuttavia le cose erano ancora
lontane da una conclusione definitiva. L'ambasciatore fiorentino
scriveva da Napoli: «il duca di Bari» (così, a suo grande dispetto,
soleva esser chiamato Lodovico il Moro) «ha gran piacere di tenere le
cose in travaglio, e sa fare mille disegni, che riescono per ora solo
in mente. Pure bisogna stare in guardia.»[262]

Il Casa, oratore fiorentino in Francia, nel giugno del 1493 giudicava
ancora impossibile l'impresa, perchè grandissima era la confusione, il
Re lasciavasi tirare da ogni lato, e si dimostrava tanto incapace da
vergognarsene a dirlo.[263] Ma poi, vedendolo deciso contro l'opinione
dei più autorevoli, e vedendo che gli apparecchi continuavano contro
tutti i ragionamenti, disperato quasi del suo proprio giudizio,
scriveva: «a capire le cose di qui bisognerebbe essere magico o
indovino, che prudente non basta. Questa faccenda aiuterà secondo che
la si butterà.»[264] E Gentile Becchi, altro oratore sopraggiunto
nel settembre, scriveva a Piero de' Medici, che la cosa era tanto
innanzi da non «potersi sperare di svolgere capi di bronzo come i
Francesi.[265] Questa serpe ha la sua coda in Italia. Sono gl'italiani
che spingono a più potere; Lodovico avrebbe voluto solamente sbattere
Napoli, e restar egli padrone del gioco; ma la rabbia l'ha condotto
nella trappola apparecchiata ad altri.[266] Il meglio perciò è starsene
sulle àncore fra Napoli e Milano: loro che se hanno appiccata questa
rogna, lor se la grattino.[267] Per fermare tutto occorrerebbe spendere
più danari che non ne spende Lodovico; sicchè ormai l'impresa anderà,
e se il Be vince, _actum est de omni Italia_, tutta a bordello: se
perde, si vendicherà sui mercanti italiani in Francia, massime sui
vostri.»[268] Piero de' Medici sperava sempre di poter persuadere
Lodovico, ma il Becchi che lo aveva conosciuto bambino, quasi lo
sgridava, scrivendogli: «attendete ai casi vostri, che avete briga un
mondo. Credete voi che Lodovico non sappia a che pericolo mette sè
e gli altri? Coi vostri consigli lo farete solo più ostinato.»[269]
Sopravvennero nuovi ambasciatori, fra i quali Piero Capponi, che allora
pareva amico de' Medici, e scrissero chiaro non esservi ormai altro da
fare, che apparecchiarsi alla difesa.

A Milano invece gli ambasciatori fiorentini cavavano assai poco dal
Moro. Agnolo Pandolfini, stato colà nel 1492 e 93, l'aveva trovato
occupato a mulinare disegni ed a consultare gli astrologi, cui prestava
fede grandissima: diceva di voler mettere una briglia in bocca a
Ferrante, troppo vago di novità. Nel 1494 il dado era tratto, ma
neppure allora l'ambasciatore Piero Alamanni poteva cavar nulla da lui.
«Voi mi parlate pure di questa Italia,» egli diceva, «ed io non la vidi
mai in viso. Nessuno s'è mai dato pensiero delle cose mie; ho dovuto
quindi assicurarle in qualche modo.»[270] E quando l'ambasciatore gli
faceva notare il pericolo in cui s'era messo, rispondeva, che lo vedeva
bene, ma che il peggior pericolo era d'essere «tenuto una bestia.» Poi,
quasi pigliandosi gioco di lui, aggiungeva: «Parlate pure. Che cosa
suggeriscono i Fiorentini? Non vi adirate, aiutatemi a pensare.»[271]
Nè altro v'era da cavarne.

Da Venezia gli ambasciatori scrivevano, che quei patrizî s'erano
chiusi in un estremo riserbo, e tagliavano i discorsi quando si
parlava dei Francesi. «Credono che lo stare in pace essi, e vedere
li altri potentati d'Italia spendere e patire, non possa essere se
non a proposito loro.[272] Diffidano di tutti, e sono persuasi d'aver
tanti danari da potere in ogni momento assoldare quanti uomini d'arme
vogliono, e così essere sempre padroni di condur le cose dove parrà a
loro.»[273]

A Napoli, invece, quel Re era in preda alla più grande agitazione, e
coll'aiuto del Pontano scriveva lettere, che parevano qualche volta
profetizzare i vicini guai del Regno e dell'Italia. Il Papa non sapeva
perdonargli l'opposizione fatta alla propria elezione, nè l'avere
secondato la vendita di Cervetri e d'Anguillara all'Orsini. Sua nipote
Isabella, moglie di Galeazzo Sforza, era tenuta come prigioniera dal
Moro, che agitava l'Italia co' suoi tenebrosi disegni; sua figlia
Eleonora, moglie d'Ercole d'Este, la sola che riuscisse a moderare
l'animo del Moro, era morta nel 1493; l'altra figlia, Beatrice, era
ripudiata dal re d'Ungheria, ed il Papa favoriva lo scioglimento
del matrimonio.[274] Intanto tutti parlavano della prossima venuta
dei Francesi. Vi fu un momento di speranza, quando il Papa trattò di
sposare uno de' suoi figli con una figlia naturale del Re; ma poi si
ritirò, quasi avesse voluto canzonarlo. Ferrante scrisse allora al suo
ambasciatore in Roma, amaramente dolendosi di questa condotta del Papa,
nel momento in cui stavano «per _mestecare_ insieme il loro sangue.
Si ricordi,» egli concludeva, «che non siamo giovani, nè da lasciarci
condur per il naso da lui.»[275]

Di tutto ciò Alessandro VI si curava poco, e andava innanzi negli
accordi coi Veneziani e con Milano; onde il Re scriveva: «Da chi
si vuol difendere quando nessuno lo assale? Pare proprio destinato
che i Papi non debbano lasciare in pace nessuno, per mettere a
rovina l'Italia. Noi ora siamo forzati alle armi; ma il duca di Bari
deve pensare a quello che può seguire dal tumulto che suscita. Chi
muove questa procella non sarà in grado di fermarla a sua posta.
Consideri bene il passato, e vedrà come ogni volta che per le interne
dissensioni si sono chiamate e condotte in Italia potenze ultramontane,
esse l'hanno oppressa e tiranneggiata, che ancora se ne vedono i
vestigi.»[276]

E poco dipoi scriveva al suo ambasciatore in Spagna addirittura come un
uomo disperato: «Questo Papa vuol proprio mettere a soqquadro l'Italia.
Per far danari s'accinge a nominare tredici cardinali a un tratto,
dai quali caverà non meno di 300,000 ducati. Trovò tutto tranquillo,
e si diè subito a far leghe e cercare tumulti.» — «Fa tale vita che
da tutti è abominata, senza respecto de la sedia dove sta, nè cura de
altro che, ad dericto e reverso, fare grandi li figliuoli, e questo è
solo il suo desiderio; e li pareno mille anni intrare in guerra, che da
principio del suo papato non ha facto altro, si non ponerse in affanno,
e molestarne quando per una via e quando per un'altra.... E Roma è
tutta piena de soldati più che de preiti, e quando va per Roma, va con
le squatre de le gente d'arme avanti, con li armetti[277] in testa, e
lance a la cossa, per forma che tutti motivi soi sono ad la guerra, et
in pernitie nostra, nè mai obmictere cosa che possa machinare contra
de noi, sublevando non solamente in Francia el principe de Salerno et
alcuni altri nostri rubelli, ma per Italia omne cancello rotto, lo qual
senta essere adverso: et in tutte cose va con frode e simulatione,
come è sua natura, e per fare danari vende omne minimo officio e
beneficio.»[278]

Pure nell'agosto Virginio Orsini s'obbligava a pagare al Papa, per
aver liberi i feudi contrastati, 25,000 ducati colla garanzia di
Ferrante e di Piero dei Medici;[279] e nel medesimo giorno veniva
finalmente segnato il contratto di matrimonio fra don Giuffrè Borgia,
figlio del Papa, in età di dodici anni, e donna Sancia, figlia di
Alfonso d'Aragona. Ella era rappresentata da don Federigo[280] suo
zio, che ricevette per lei l'anello nuziale fra le risa degli astanti,
specialmente del Papa che lo abbracciò.[281] Ferrante era fuori
di sè per la gioia di questo matrimonio, che doveva restar segreto
fino a Natale. Egli allora s'abbandonò tanto alla speranza, che il 5
dicembre propose al Papa una lega italiana.[282] Ma questi, prima che
s'arrivasse a Natale, aveva già mutato parere, e s'era avvicinato al
Moro. «Noi e nostro padre,» scriveva allora il Re all'ambasciatore,
«abbiamo sempre obbedito ai Papi; eppure non ve n'è stato uno solo che
non abbia cercato farci il peggio che ha potuto. Con questo Papa poi,
che pure è della nostra patria, non c'è stato possibile avere un sol
giorno di riposo. Non sappiamo davvero perchè vuole stare in travaglio
con noi, se non sia per influenza dei cieli, e per seguire l'esempio
degli altri, che pare destino che tutti i Papi ci debbano tormentare.
Esso ci vuol tenere sempre sospesi, mentre noi»....«non avimo pilo
adosso, che mai abbia pensato di darline una minima causa.»[283]

Il Re sente adesso vicina ed inevitabile la catastrofe; sente che le
forze gli mancano, che la morte s'avanza, e che il suo regno anderà
in frantumi. L'angoscia traspare da ogni linea delle sue lettere,
nelle quali egli dice e ripete, si adira e si umilia. Il 17 gennaio
1494 scriveva quella che può dirsi la sua ultima lettera. «Il signor
Lodovico consiglia al Papa di tenerci in parole, perchè se i Francesi
non vengono, potrà sempre accomodarsi con noi, che, secondo egli dice,
non lo vorremmo, non che per parente, neppure per cappellano. Se poi
vengono, sarà liberato dalla servitù nostra, degli Orsini e degli
altri baroni, i cui beni potrà dare ai suoi figli; e così i Pontefici
potranno in avvenire dominare lo Stato loro con la bacchetta in mano.
In questo modo va mettendo l'Italia a fuoco, di che conviene egli
stesso; ma aggiunge che il Papa deve postergare i danni d'Italia,
perchè a schifare la febbre continua si deve comportare la terzana.
Ed il Papa, essendo pur acuto e timido, si lascia tutto dominare da
Ascanio e guidare da Lodovico; onde invano cerchiamo indurlo a godersi
tranquillo il papato, senza entrare in affanni e partiti da capitani
di ventura, come lo ricerca il duca di Bari. Questi asserisce che noi
facciamo solo mostra d'armare, e che in estremo caso ricorreremmo anche
all'aiuto del Turco. Ma noi siamo parati a difenderci, e saremo pronti
ad ogni partito più disperato, quando non si ha da altri rispetto nè
alla fede, nè alla patria, nè alla religione. Ci ricordiamo che lo
stesso papa Innocenzo scrisse:

    _Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo.»_

Finalmente, quasi vedesse dinanzi a sè il nemico temuto, concludeva con
parole che possono dirsi profetiche: «Francesi mai vennero in Italia,
che non la ponessero in ruina, e questa venuta è de natura che quando
sia ben considerata, che porterà ruina universale, perbenchè se minacci
solo a noi.»[284]

E con l'animo lacerato da questo tormentoso pensiero, dopo una
malattia di soli tre giorni, il 25 gennaio 1494 cessava finalmente di
vivere.[285] Gli successe Alfonso che, più impetuoso, più crudele, e
d'ingegno inferiore al padre, capiva pure in che pessime condizioni
si trovava, e cercava aiuto al Papa, a Lodovico, al Turco; ma invano,
perchè la venuta dei Francesi era inevitabile, e con essa la fine degli
Aragonesi in Napoli.

Piero de' Medici non si curava di nulla a Firenze, inclinava
verso gli Aragonesi, e si divertiva nella giostra, che allora
s'apparecchiava;[286] i Veneziani stavano a vedere; Ferrara
si dichiarava amica di Francia; Bologna s'alleava col Moro; il
Papa, sempre uguale a sè stesso, spaventato dalla minaccia di un
conciliabolo, che Carlo VIII diceva di voler radunare, dichiarava che
lo avrebbe ricevuto in Roma da amico,[287] e nel medesimo tempo mandava
in Napoli un suo nipote ad incoronare il re Alfonso. La confusione
era al colmo, e gli esuli italiani spingevano più che mai i Francesi a
partire, sperando ognuno di poter così fare le proprie vendette contro
i governi esistenti.

Ai primi di marzo Carlo VIII faceva il suo solenne ingresso a Lione,
per assumere il comando dell'impresa; un'avanguardia sotto lo scozzese
d'Aubigny s'avanzava già verso la frontiera napoletana, e il duca
d'Orléans era a Genova. I Napoletani dall'altro lato mandavano il
principe d'Altamura con trenta galere verso Genova, nel tempo stesso
in cui il duca di Calabria, giovinetto inesperto, sotto la guida
di provetti generali, tra cui era G. G. Trivulzio, valoroso esule
milanese, entrava nello Stato pontificio. Il Papa sembrava aver
perduta la testa, e non sapeva più a qual partito appigliarsi. Pure,
profittando del momento, chiedeva al Sultano l'anticipazione dei 40,000
ducati dovutigli ogni anno per tenere in custodia Gemme. A mettergli
poi spavento, aggiungeva che i Francesi venivano a liberare il
prigioniero, volendo col suo aiuto portar guerra in Oriente. E i danari
sarebbero arrivati, se a Sinigaglia l'ambasciatore che li recava, non
fosse stato nel settembre preso e svaligiato dal prefetto Giovanni
della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli.[288]

Ai primi di settembre Carlo VIII, passato il Monginevra, entrava in
Asti. E presto gli arrivava la notizia, che don Federico, col naviglio
napoletano, era stato respinto da Porto Venere con gravi perdite, e il
duca d'Orléans, entrato cogli Svizzeri a Rapallo, aveva saccheggiato
il paese, mettendo gli abitanti a fil di spada, anche i malati
nell'ospedale, con universale spavento di tutti gl'Italiani, non usi
allora a questo genere di guerra. Arrivato a Piacenza, il Re seppe
che Gio. Galeazzo, poco prima da lui veduto a Pavia, era colà morto
avvelenato, almeno così dicevasi universalmente, dal Moro, il quale,
fatte celebrare le esequie in Milano, entrava subito in Sant'Ambrogio,
all'ora indicatagli dall'astrologo, per consacrare l'investitura già
prima concessagli da Massimiliano re dei Romani. Tutto questo metteva
sospetto e quasi terrore nell'animo dei Francesi, che comprendevano
ora quale era la fede del più stretto alleato del Re in Italia. Il
Moro infatti da un lato raccoglieva uomini e danari per aiutarli,
dall'altro lavorava a stender le fila d'una lega, per poterli a suo
tempo cacciare. Perrone de' Baschi, di origine italiana, era venuto
nel 1493 a visitare le Corti della Penisola, e ne aveva, come scriveva
Piero de' Medici, «riportato vento;»[289] ed ora Filippo di Commines,
uomo di grande accortezza ed ingegno, ma di pessima fede, che conosceva
bene l'Italia, dove già era stato altre volte, non trovava in nessuna
delle Corti speranza d'amicizia sicura, e meno ancora d'aiuti efficaci,
sebbene molti desiderassero l'arrivo degli stranieri, per secondare i
proprî disegni. Egli che nelle sue Memorie scrisse intorno agli uomini
del suo tempo: «Nous sommes affoiblis de toute foy et loyaulté, les uns
envers les aultres, et ne sçauroye dire par quel lien on se pouisse
asseurer les uns des aultres,»[290] sperimentava ora in Italia la
verità della sua osservazione, e s'accorgeva d'essere in mezzo a gente
anche più accorta e più furba di lui.[291]

Ma la fortuna di Francia camminava nonostante a gran passi. Il duca
di Calabria, giunto in Romagna, si ritirava nel Napoletano al solo
apparire del d'Aubigny, ed il grosso dell'esercito francese, col Re
alla testa, s'avanzava per la Lunigiana senza incontrare ostacoli
di sorta. Dopo aver preso e saccheggiato Fivizzano, ponendo a fil di
spada i cento soldati che v'erano a guardia, e parte degli abitanti,
i Francesi si spinsero verso Sarzana, sopra un terreno sterile, fra
i monti ed il mare, dove ogni lieve resistenza avrebbe potuto riuscir
loro funesta. Ma invece i piccoli castelli, che erano posti a guardia
di quei luoghi, cedettero l'un dopo l'altro, senza neppur tentare la
difesa, e non era appena l'assedio di Sarzana cominciato, che Piero dei
Medici arrivò tutto spaventato, e si arrese a discrezione, promettendo
anche di pagare 200,000 ducati.

Se non che, tornato a Firenze il dì 8 novembre, trovò che la
Città s'era ribellata, e aveva mandato per suo conto ambasciatori
al Re, con incarico di riceverlo onorevolmente; ma nello stesso
tempo s'apparecchiava a difendersi, occorrendo. Lo sdegno era così
universale, che Piero se ne fuggì a Venezia, dove il suo ambasciatore
Soderini a mala pena lo guardò, essendosi già dichiarato per il governo
repubblicano,[292] in questo mezzo proclamato a Firenze, dove tutto era
rapidamente mutato. Il giardino dei Medici a San Marco, e le loro case
erano andati a sacco; gli esuli erano stati richiamati ed assoluti;
una taglia era stata messa su Piero e sul suo fratello cardinale. Nel
medesimo tempo però Pisa s'era ribellata sotto gli occhi stessi di re
Carlo, gettando in Arno il Marzocco;[293] Arezzo e Montepulciano ne
avevano imitato l'esempio. L'opera dei Medici, con tante cure e in sì
lungo tempo condotta a termine, andava ora quasi istantaneamente in
fumo.

Il 17 novembre Carlo VIII, alla testa del suo formidabile esercito,
entrava in Firenze colla lancia in resta, credendosi per questo atto
padrone della Città. Ma i Fiorentini s'erano armati, avevano raccolto
seimila uomini dalla campagna, e sapevano bene che dalle torri e dalle
case potevano mettere a grave pericolo un esercito diviso nelle strade.
Respinsero quindi le eccessive domande del Re, e quando egli minacciò
di far sonare le trombe, Piero Capponi, stracciando i capitoli che
venivano insolentemente proposti, rispose che i Fiorentini avrebbero
sonato le loro campane. Così si venne a patti più equi. Là Repubblica
pagherebbe in tre rate 120,000 fiorini; le fortezze però le sarebbero
state rese in breve. Il 28 novembre i Francesi lasciavano la Città, non
senza aver prima rubato quella parte ancora rimasta intatta del tesoro
di antichità, raccolte nel palazzo dei Medici. Fecero a chi più poteva,
dice lo stesso Commines, e gli alti uffiziali rubarono più degli
altri. Pure i cittadini erano contenti d'essere finalmente liberi dagli
antichi tiranni e dai nuovi stranieri.

Arrivato a Roma Carlo VIII, per farla finita col Papa,[294] che ora si
mostrava deciso a resistere, puntò i cannoni contro Castel Sant'Angelo,
e così tutto fu subito aggiustato. Il 16 gennaio 1495 il Briçonnet
venne nominato cardinale di San Malò, ed il Re assistette il giorno
20 ad una messa solenne, celebrata dal Santo Padre, il quale, o per
distrazione o per preoccupazione, commise, nei riti e nelle forme
prescritte, molti errori, che il Burcardo, maestro delle cerimonie, in
parte osservò troppo tardi, in parte lasciò correre per non richiamare
su di essi l'attenzione degli altri.[295]

Secondo l'accordo firmato a Roma, Carlo VIII, s'avanzò verso Napoli,
accompagnato dal cardinal di Valenza come ostaggio, insieme con
Gemme. Arrivati però a Velletri, il Cardinale scomparve: le sue
argenterie s'erano già fermate a mezza via; i bauli che, caricati sopra
diciassette muli, contenevano gli abiti e le masserizie, furono trovati
vuoti; Gemme s'era ammalato così gravemente, che giunto a Napoli morì.
Tutti dissero che era stato veleno dei Borgia; ma i Veneziani, sempre
benissimo informati dai loro ambasciatori, affermavano invece che era
stata morte naturale.[296] Pure il Re fu molto sdegnato della fuga,
ed esclamò: «Malvas Lombard, e lo primiero lo Santo Padre.»[297] Ogni
ricerca fu però vana. Egli continuò con l'esercito il suo cammino,
senza quasi incontrare ostacoli di sorta fino a Napoli. Alfonso
d'Aragona rinunziò al trono, e fuggì in Sicilia; Ferdinando II o, come
dicevano, Ferrandino, dopo aver cercato invano aiuto da tutti, anche
dal Turco, fece una resistenza inutile a Monte San Giovanni, che fu
preso e distrutto: gli abitanti andarono a fil di spada.[298] Gian
Giacomo Trivulzio disertò gli Aragonesi, e passò al nemico; Virginio
Orsini s'apparecchiava a far lo stesso; Napoli tumultuò in favore
dei Francesi, che vi entrarono il 22 febbraio. Il giorno seguente
Ferrandino fuggì ad Ischia, poi a Messina. E subito arrivarono gli
ambasciatori degli altri Stati italiani a congratularsi col vincitore.

Ma adesso finalmente i Veneziani s'erano svegliati, ed avendo mandato
i loro ambasciatori a Milano, per sapere se il Moro era disposto
ad armarsi per cacciare i Francesi, lo avevano trovato non solo
prontissimo, ma ancora pieno di sdegno. «Il Re non ha testa,» aveva
egli detto; «è in mano di gente che pensa solo a guadagnar danaro,
e tutti insieme non farìano mezz'uomo savio.» Ricordava l'alterigia
con cui era stato trattato da essi, e si dichiarava deciso ad entrare
in ogni lega per cacciarli. Consigliava di mandar danari alla Spagna
ed a Massimiliano, perchè assalissero la Francia; ma aggiungeva, che
bisognava guardarsi bene dal chiamarli in Italia: «chè dove ora abbiamo
una febbre, allora ne avremmo due.»[299]

La lega fu infatti conclusa tra i Veneziani, il Moro, il Papa, la
Spagna e Massimiliano. E l'ambasciatore Filippo di Commines, che ora
si trovava a Venezia, dove alla notizia dell'entrata del suo Re in
Napoli aveva visto i Senatori abbattuti per modo che i Romani, dopo
la disfatta di Canne, non potevano essere «plus esbahis, ne plus
espouvantés,»[300] adesso li trovava invece colla testa alta e pieni
di fierezza. I Napoletani già stanchi della mala signoria, s'erano
sollevati, e Carlo VIII, dopo soli cinquanta giorni di dimora fra di
loro, partiva più che in fretta, per non trovar tagliata ogni ritirata;
lasciava nel Regno poco più di 6000 uomini, menando seco un esercito
numeroso, nel quale però si trovavano solo 10,000 veri e proprî
combattenti. Il 6 di luglio si venne a giornata, a Fornuovo presso il
Taro. Gli alleati avevano messo insieme circa 30,000 uomini, tre quarti
dei quali erano dei Veneziani, il resto del Moro, con alcuni Tedeschi
mandati da Massimiliano. Nel momento dell'assalto avevano pronti a
combattere un numero d'uomini doppio dei Francesi; ma una metà di
essi restò inoperosa per errore di Rodolfo Gonzaga, ed i nemici invece
furono tutti al loro posto, con l'avanguardia sotto gli ordini di G.
G. Trivulzio, il quale era adesso coi Francesi, e sebbene combattesse
contro la patria sua, dimostrò pure grandissimo valore e capacità
militare. La battaglia fu sanguinosa, e si disputò molto di chi fosse
veramente la vittoria; ma se gl'Italiani non furono respinti, anzi
restarono padroni del campo, i Francesi volevano passare e passarono;
ottennero quindi essi lo scopo cui miravano.

Ad Asti il Re si fermò alquanto, e ricevette gli ambasciatori
fiorentini, ai quali promise nuovamente di render loro così le fortezze
occupate dai suoi, come la città di Pisa, e ne ebbe 30,000 ducati
a saldo dei 120,000 promessi in Firenze, dando però in pegno gioie
d'egual valore, da restituirsi appena rese le fortezze. Oltre di ciò i
Fiorentini promisero 250 uomini d'armi per aiutare il Re a Napoli, ed
un prestito di 70,000 ducati, che poi non dettero, perchè non riebbero
le fortezze.[301] Il Moro, profittando dell'occasione, venne subito
ad accordo coi Francesi, senza occuparsi dei Veneziani, credendo così
d'essersi liberato dagli uni e dagli altri, mentre invece s'esponeva
all'odio d'ambedue, come dovette ben presto accorgersene.

La fortuna dei Francesi continuava ora a decadere rapidamente in
Italia, e contribuiva a renderla peggiore non solamente la loro mala
signoria nel Reame, ma la pessima condotta che tenevano verso i pochi
amici restati loro fedeli nella Penisola. Il capitano d'Entrangues,
infatti, violando tutte le promesse del Re, cedeva ai Pisani, per
danaro, la fortezza della loro città, ed essi v'entrarono a gran
dispetto dei Fiorentini, il primo di gennaio 1496. Più tardi cedeva,
per altra somma, Pietrasanta ai Lucchesi; altri capitani, imitando
l'esempio, cedettero Sarzana e Sarzanello.[302] Ferdinando II intanto,
coll'aiuto degli Spagnuoli comandati da Consalvo di Cordova, s'avanzava
vittorioso nelle Calabrie, ed entrava in Napoli il 7 luglio 1496. In
breve tutte le fortezze napoletane capitolarono, ed i Francesi che
le guardavano, tornarono in patria più che decimati ed in pessime
condizioni. Il 6 di ottobre Ferdinando II moriva esausto dalle
agitazioni e fatiche della guerra, e gli succedeva lo zio don Federico,
che in tre anni fu il quinto re di Napoli,[303] e venne incoronato dal
cardinal di Valenza.

L'Italia poteva dirsi ora nuovamente libera dagli stranieri. Vi fu,
è vero, in quell'anno stesso, una breve corsa di Massimiliano che,
istigato dal Moro, venne ad aiutare Pisa, per non farla cadere in mano
dei Fiorentini, nè dei Veneziani; ma egli, arrivato con poche genti
e non trovando nessun aiuto, partì senza aver nulla concluso. Napoli
era in realtà venuta sotto l'assoluto predominio degli Spagnuoli, i
quali già maturavano sul Reame tenebrosi disegni; ma questi vennero
in luce solo più tardi. Carlo VIII diceva d'essere pentito, di voler
mutar vita, di voler punire il Papa, e tornare all'impresa d'Italia;
ma intanto se ne restava in Francia, abbandonato ai piaceri. Così,
in apparenza almeno, tutto era tranquillo. Se non che il giorno 7
aprile 1498, il Re moriva d'apoplessia, estinguendosi con lui il ramo
primogenito dei Valois, e gli succedeva il duca d'Orléans col nome di
Luigi XII. Questi, pei suoi legami di sangue coi Visconti, aveva sempre
preteso d'avere diritti sul Ducato di Milano. Ponendosi ora in capo
la corona di Francia, aggiungeva a ciò la presunzione di altri diritti
sull'Italia, e la forza per farli valere. Con lui infatti ricominciano
e continuano lungamente nuove invasioni e calamità nella Penisola.


3. — I BORGIA.

Mentre però la pace apparente durava ancora, l'attenzione generale era
richiamata sui fatti che seguivano in Roma e nella Campagna. Alessandro
VI aveva profittato della cattiva fortuna dei Francesi, confiscando
i beni degli Orsini, i quali avevano disertato gli Aragonesi per
darsi a Carlo VIII, e dopo averlo abbandonato, quando ne videro
mutate le sorti, erano più tardi tornati nuovamente a lui. Virginio
Orsini cadde allora prigioniero nelle mani degli Spagnuoli venuti a
rimettere sul trono di Napoli Ferdinando II. Essi dovevano, secondo i
patti, ricondurlo al confine; ma a ciò si oppose fieramente il Papa,
minacciando la scomunica, perchè egli voleva lo sterminio di quella
famiglia. E così fu invece chiuso nel Castello dell'Uovo a Napoli, dove
morì. Le sue genti vennero intanto svaligiate negli Abruzzi, restando
prigionieri l'Alviano e Giovan Giordano Orsini.

Fu questo il momento scelto dal Papa per muovere guerra a que' suoi
eterni nemici, sempre numerosi e potenti. Le genti di lui, comandate
dal duca d'Urbino e da Fabrizio Colonna, uscirono in campo il 27
d'ottobre contro gli Orsini, che s'erano ritirati a Bracciano. Sebbene
i principali di essi fossero allora prigioni, e molte battiture crudeli
avesse d'anno in anno ricevute tutta la famiglia, pure erano sempre
in grado di misurarsi col nemico. E le loro speranze crebbero poi
moltissimo, quando Bartolommeo d'Alviano,[304] fuggito dal carcere,
giunse in Bracciano con alcuni de' suoi. Ben presto si venne fieramente
alle mani, combattendo con valore non solo l'Alviano, ma anche sua
moglie, sorella di Virginio Orsini. I primi scontri furono tutti a
danno dei papalini. Arrivarono poi di Francia Carlo Orsini e Vitellozzo
Vitelli, ma gli avversarî si ripresentarono anch'essi aumentati d'armi
e d'armati, onde si venne il 23 gennaio 1497 ad una vera battaglia, che
finì con una segnalata vittoria degli Orsini. Negli scontri antecedenti
il cardinale di Valenza era stato inseguìto fin sotto le mura di Roma;
ora poi il duca di Gandia fu ferito, il duca d'Urbino venne fatto
prigioniero, il cardinale Lunate fuggì con tanta fretta e spavento che
ne morì. I nemici dei Borgia esultarono; gli Orsini furono di nuovo
padroni della Campagna. Il Papa, fuori di sè per lo sdegno, faceva
nuovi apparecchi di guerra, e chiamava in aiuto lo stesso Consalvo di
Cordova, quando i Veneziani entrarono di mezzo, e la pace fu fatta.
Pagarono gli Orsini 50,000 ducati, ma tornarono padroni delle proprie
terre, e vennero liberati quelli fra di loro che erano prigioni nel
Napoletano, salvo Virginio, morto prima ancora che gli giungesse la
nuova della vittoria. Il duca d'Urbino, su cui avevano posto la taglia
di 40,000 ducati, fu da essi consegnato al Papa in conto della somma
che gli dovevano, ed il Papa non liberò il Duca, che era stato suo
proprio capitano, se prima non pagò a lui la taglia imposta dai nemici.
Questo figlio del celebre Federico, era senza prole, e i Borgia dopo
essersi fatti difendere da lui, lo spogliavano ora de' suoi danari, per
poi più iniquamente ancora spogliarlo dello Stato.

Nonostante la pace gravosa, gli Orsini avevano un potere immenso; il
Papa, odiato da tutti, non poteva più fidare in altri che ne' suoi
3000 Spagnuoli e nell'amicizia dimostratagli da Consalvo di Cordova,
che ripigliò per lui la fortezza di Ostia. Non potevano dunque i
Borgia pensare a nuove imprese di guerra, ed allora subito sembrò
che volessero adoperare le proprie armi per sterminarsi fra di loro,
con non credibile malvagità. La notte del 14 giugno 1497 il duca di
Gandia non tornò a casa. Il giorno di poi il suo staffiere fu trovato
ferito, senza che sapesse dir nulla del padrone; la mula che il Duca
aveva cavalcata, girava per le vie con una staffa sola, pendente dalla
sella; l'altra era stata tagliata. Tutto pareva un mistero. Aveva la
sera innanzi cenato con suo fratello il cardinale di Valenza presso
la madre Vannozza. Erano usciti insieme a cavallo, separandosi poco
dopo, il Duca seguìto da un uomo in maschera, che da molto tempo lo
accompagnava sempre, e dallo staffiere che lasciò in Piazza dei Giudei.
Null'altro si potè sapere. In sulle prime il Santo Padre rise, credendo
che suo figlio si fosse nascosto con qualche donna.[305] Non vedendolo
però tornare a casa la seconda notte, fu preso da uno spavento e da
un'agitazione grandissima. A un tratto, senza saper come, si sparse in
Città la voce, che il Duca era stato gettato nel Tevere. Interrogato
uno degli Schiavoni, che facevano a Ripetta commercio di carbone,
rispose come, dormendo in barca la notte del 14, aveva visto arrivare
un cavaliere con un cadavere in groppa, accompagnato da due pedoni,
e gettato nel fiume il cadavere, erano tutti scomparsi. Interrogato
perchè non ne avesse parlato prima, rispose, che di continuo aveva
visto la notte, in quel medesimo luogo, seguir centinaia di simili
fatti, senza che mai vi si facesse caso.[306] Un gran numero di
marinari fu mandato a cercar nel fiume, e pescarono il figlio del Papa
ancora con gli stivali, sproni e mantello. Aveva le mani legate; nove
ferite alla testa, alle braccia, al corpo, una delle quali mortale alla
gola; trenta ducati nella borsa,[307] segno evidente che non lo avevano
ucciso per derubarlo.[308] Il cadavere fu solennemente sepolto in Santa
Maria del Popolo. I più erano contenti dell'accaduto; gli Spagnuoli
bestemmiavano e piangevano; il Papa, quando fu certo che suo figlio era
stato a Ripetta gettato nel Tevere come la spazzatura, s'abbandonò ad
un profondo dolore, di cui nessuno lo credeva capace.[309] Si chiuse
nel Castel Sant'Angelo, inseguìto, dicevano molti, dallo spirito
del Duca, e pianse. Non volle prendere cibo per più giorni, e le sue
grida si sentivano di lontano. Il 19 giugno tenne un concistoro, in
cui disse, che non mai aveva provato così grande dolore: «Se avessimo
sette papati, li daremmo tutti per aver la vita del Duca.»[310] Mostrò
un pentimento, che parve sincero, della sua vita passata, e annunziò
a tutti i potentati, che aveva affidato la riforma della Chiesa a
sei cardinali: ad altro ormai non voleva più pensare. Tutti questi
proponimenti cristiani andarono però subito in fumo.

Chi era l'autore dell'assassinio, da quali ragioni era stato mosso?
Si sospettò degli Orsini;[311] si sospettò del cardinale Ascanio
Sforza, che aveva recentemente avuta qualche contesa col Duca, e
questi sospetti furon tali, che il cardinale, anche dopo le esplicite
dichiarazioni del Papa, di non aver mai prestato alcuna fede a simili
dicerìe, non si presentò a lui senza essere accompagnato da amici
sicuri e con armi nascoste.[312] Si fecero mille ricerche, che poi a
un tratto vennero sospese,[313] e corse la voce da tutti creduta, che
l'assassino del Duca era stato suo fratello il cardinal Cesare Borgia.
«E certamente,» scriveva l'ambasciatore fiorentino, sin dal principio,
«chi ha governato la cosa ha avuto e cervello e buono coraggio, et in
ogni modo si crede sia stato gran maestro.»[314] A poco a poco i dubbi
non caddero più sull'autore dell'assassinio; ma sulle ragioni che aveva
avute, per giungere a tale misfatto.

Si parlò di gelosia tra il Cardinale e il Duca per la cognata
donna Sancia, moglie di don Giuffrè, la quale menava una vita assai
scandolosa. Si disse di peggio ancora, osandosi pubblicamente parlare
di gelosia tra i due fratelli, che si disputavano col padre la sorella
Lucrezia.[315] E queste voci orrende venivano registrate e credute da
storici gravissimi, ricordate da poeti illustri. Pure, sebbene tutto
ciò si ripetesse pubblicamente da ognuno, e tutti chiamassero autore
dell'assassinio Cesare Borgia, questi allora appunto divenne l'uomo più
potente in Roma e più temuto, anche dal Papa, che pareva subisse come
il fascino misterioso del proprio figlio. Questi s'era omai deciso a
lasciar la vita ecclesiastica, e già si parlava di fare in sua vece
cardinale il fratello don Giuffrè, separandolo dalla moglie, la quale
avrebbe sposato Cesare, appena fosse tornato laico.[316]

Alessandro VI continuava intanto le sue tresche con la Giulia Bella
e con alcune Spagnuole. Egli aveva ancora, secondo la pubblica voce,
avuto un figlio da una Romana, il cui marito si vendicò uccidendone il
padre, che l'aveva prostituita al Sommo Pontefice.[317] La Lucrezia,
che nel giugno 1497, quando cioè il duca di Gandia veniva assassinato
dal fratello, trovavasi confinata in un convento, senza che se ne
sapesse la ragione, fu per volontà del padre separata nel decembre dal
marito Giovanni Sforza, che venne a tal fine dichiarato impotente.[318]
Nel marzo 1498, secondo notizie riferite anche da ambasciatori, essa
partoriva un figlio illegittimo, intorno al quale si avvolse un gran
mistero. Da un lato nessuno più parla di lui, da un altro comparisce
alcuni anni dopo un Giovanni Borgia, che per la sua età dovè esser
nato appunto verso il 1498.[319] Il Papa lo legittimò prima con un
Breve del 1º settembre 1501, come figlio naturale di Cesare, dicendolo
di tre anni circa;[320] e con un secondo Breve, in data dello stesso
giorno, lo riconobbe invece come suo proprio figlio, dichiarando però
che doveva, nonostante,[321] sussistere la precedente legittimazione,
la quale in sostanza fu fatta, perchè il misterioso fanciullo
potesse legalmente ereditare. Tutti i documenti che lo risguardano,
sono nell'archivio privato di Lucrezia, che fu portato a Modena. E
presso di lei abbiamo notizie che si trovava una volta in Ferrara lo
stesso Giovanni, di cui questo solo possiam dire, che la sua nascita
misteriosa è quella certamente che dette origine alle sinistre voci che
correvano intorno alle relazioni del Papa con la propria figlia. Queste
voci vennero propagate dallo Sforza marito di lei, il quale a Milano
disse chiaro, che questa era la ragione, per cui il Papa lo aveva
voluto dividere dalla propria moglie.[322]

Nel luglio 1497 Cesare Borgia andò a Napoli per incoronare re Federico,
e per chiedere danari, favori, feudi, con tale insistenza, che
l'ambasciatore fiorentino scriveva: «Non sarebbe da maravigliarsi se,
per liberarsi da tante angherìe, il povero Re si gettasse disperato al
Turco.»[323] Il 4 settembre era di ritorno in Roma, dove fu notato che
baciò il Papa senza che l'uno all'altro dicesse verbo. Cesare allora
parlava poco e faceva paura a tutti.[324] A lui occorrevano danari per
supplire alle entrate che perdeva lasciando il cappello cardinalizio,
e per attuare i suoi nuovi e vasti disegni. Il Papa, che in tutto lo
secondava, si diede perciò, senza scrupoli, a cercar nuove vittime.
Il segretario Florido fu accusato come autore di falsi Brevi, e subito
venne saccheggiata la sua casa, e si portarono in Vaticano i danari, i
tappeti e le argenterie che v'erano. L'infelice, gettato in un carcere
perpetuo, vi restò solo con pane, acqua ed una lucerna. Il Papa di
tanto in tanto vi mandava qualche prelato, perchè, giocando con lui a
scacchi, s'adoperasse a cavarne confessioni, che déssero modo di porre
le mani addosso ad altri, fino a che nel luglio 1498 quel disgraziato
cessò di vivere.[325]

Nel medesimo tempo si trattava col re di Napoli per sposare la figlia
di lui, Carlotta, con Cesare ancora cardinale. Ed il Re, disperato
di tante vessazioni, dopo aver dichiarato di voler piuttosto perdere
il regno che dare la sua figlia leggittima ad un «prete bastardo
di prete,»[326] dovette nondimeno, per salvarsi dalle gravi minacce
del Papa, quando già correvano le voci, di cui più sopra parlammo,
consentire invece al matrimonio di Lucrezia Borgia con don Alfonso
duca di Bisceglie,[327] giovane di appena 17 anni, figlio naturale di
Alfonso II. Le nozze furono celebrate il 20 giugno 1498, «et il Papa,»
scriveva l'ambasciatore veneziano, «stete fino a zonzo (_giorno_) alla
festa, _adeo_ fece cosse da zovene.»[328]

Il 13 agosto 1498 finalmente Cesare dichiarò in concistoro, che
aveva accettato il cappello per far piacere al Papa; ma che la vita
ecclesiastica non era per lui, e voleva ormai lasciarla. I cardinali
consentirono, Alessandro VI soggiunse cinicamente, che dava il proprio
assenso pel bene dell'anima di Cesare, _pro salute animae suae_;[329] e
questi, spogliato l'abito, venne subito inviato in Francia, dove portò
una Bolla di divorzio a Luigi XII, che voleva separarsi dalla moglie, e
sposare la vedova di Carlo VIII, la quale recava in dote la Brettagna.
Il Re aveva già promesso a Cesare il ducato di Valentinois ed alcuni
soldati, che con la bandiera di Francia dovevano aiutarlo grandemente
nell'impresa di Romagna. Per trovare le molte migliaia di scudi
necessarie a questo viaggio, che doveva superare in splendore ogni
immaginazione, furono venduti ufficî, vennero accusati come Marrani
e poi assoluti per danaro trecento individui. Il maestro di casa del
Papa, col medesimo pretesto, venne messo in carcere, portandogli via
da 20,000 ducati, che aveva in casa e nelle banche.[330] Il 1º di
ottobre 1498 Cesare partì per la Francia, con la Bolla del divorzio,
con un cappello cardinalizio per monsignor d'Amboise, ed una lettera
con cui il Papa diceva al Re: «destinamus Maiestati tuae _cor nostrum_,
videlicet dilectum _filium_ Ducem Valentinensem, quo nihil carius
habemus.»[331] Lo splendore del viaggio fece davvero sbalordire i
Francesi; l'abito del Duca Valentino, ormai è questo il suo nome,
era tempestato di gioie, ed egli gettava danaro per le vie. Anche
adesso però fallirono i nuovi tentativi da lui fatti per ottenere la
mano di Carlotta d'Aragona, che allora trovavasi in Francia. Invano
il cardinale di San Pietro in Vincoli, altra volta nemico del Papa,
s'adoperò a tutt'uomo.[332] Il Duca la desiderava con ardore, per la
speranza di potersene un giorno valere a impadronirsi del regno di
Napoli; ma quella principessa aveva per lui un vero orrore, e trovavasi
in ciò d'accordo col proprio padre.

Così Cesare, avuto il ducato di Valentinois e cento lance francesi,
si dovè contentare di sposare Carlotta, sorella di Giovanni d'Albrét,
re di Navarra, e parente di Luigi XII. Questi prometteva al Duca
nuovi aiuti, quando la Francia avesse conquistato Milano, al qual
fine metteva insieme un esercito, e s'era già alleato con Venezia (15
aprile 1499), aderendovi anche il Papa, che secondo il suo solito
aveva mutato bandiera. Da ciò era seguìto un alterco vivissimo fra
lui e l'ambasciatore spagnuolo. Questi minacciò di provargli che egli
non era vero Papa, e l'altro di rimando minacciò di farlo gettare
nel Tevere, e dimostrare che la regina Isabella non era poi «quella
casta donna si predicava»[333] Ne restò tuttavia il Santo Padre assai
sgomento, perchè, sebbene si fosse dato alla Francia, aveva pur sempre
molte speranze sul regno di Napoli, e queste riuscivano vane senza
l'aiuto di Spagna. Egli, è ben vero, diceva e ripeteva ora di voler
fare Italia «tutta de uno pezzo;»[334] ma gli ambasciatori veneti, che
lo conoscevano a fondo, avvertivano sempre che quest'uomo simulatore e
dissimulatore, a 69 anni floridissimo di salute, e abbandonato sempre
ai piaceri, mutava ogni giorno politica, e cercava garbugli solo per
dare il Reame al figlio: intanto aveva ridotto Roma ad una «sentina di
tutto il mondo.»[335]

Il 6 di ottobre 1499 Luigi XII entrava in Milano, alla testa del
suo esercito comandato da G. G. Trivulzio, e Lodovico il Moro, che
s'era apparecchiato alla difesa, vedendo ora che aveva contro di sè
Francesi e Veneziani, e che i suoi lo abbandonavano, se ne fuggì invece
a cercare aiuti in Germania. Gli ambasciatori italiani accorrevano
intanto a Milano per ossequiare il Re, che ricevette fra gli altri
anche il Valentino, venuto in persona con piccolo seguito e con la
bandiera di Francia. Assicuratosi della buona amicizia del vittorioso
monarca, avuta promessa di nuovi aiuti per condurre innanzi le sue
sanguinose imprese, e fatto a Milano un prestito di 45,000 ducati, egli
se ne tornò a Roma, dove il Papa raccoglieva danari allo stesso fine,
valendosi d'ogni mezzo, onesto e disonesto, anche di nuovi assassinii.
Il protonotario Caetani messo in prigione vi morì, e i suoi beni
furono confiscati; il suo nipote Bernardino venne ucciso dai birri
del Valentino presso Sermoneta, feudo di cui subito s'impossessarono
i Borgia.[336] Intanto il Valentino venne nominato gonfaloniere della
Chiesa, ed essendo già stata pubblicata la sentenza che dichiarava
decaduti i signori della Romagna e delle Marche, col pretesto che non
avevano pagato al Papa la somma dovuta, se ne partì per Imola, dove
aveva inviato le sue genti, fra le quali un migliaio di Svizzeri,
sotto il comando del Baglì di Dijon: era in tutto un esercito di
circa 8000 uomini. Ai primi di dicembre cadde Imola e poi Forlì, dove
Caterina Sforza, che vi comandava, si difese con gran valore nella
fortezza fino al 12 gennaio 1500, cedendo solo ad un assalto dei
Francesi, i quali, ammirati del coraggio virile di lei, la salvarono
dai soldati del Valentino e dall'ira del Papa, che voleva fosse subito
ammazzata, perchè, secondo lui, casa Sforzesca era «semenza di la serpe
indiavolata.»[337] In questo modo potè invece finire i suoi giorni a
Firenze, ritirata nelle Murate.

Dopo di Forlì, il Valentino prese anche Cesena; ma si dovette
allora fermare, perchè, tornato in Francia Luigi XII, il generale
Trivulzio scontentò per modo Milano e la Lombardia, di cui era restato
governatore, che il Moro, sostenuto da un esercito di Svizzeri,
secondato dalle popolazioni, potè ripigliare il suo Stato, entrando
vittorioso nella capitale il giorno 5 di febbraio. Questo fece sì
che i Francesi del Duca Valentino furono in fretta richiamati, per
raggiungere i compagni già in ritirata, ed egli dovette sospendere la
guerra. Pensò allora d'andare a Roma, dove il Giubileo già incominciato
portava molti danari, che venivano raccolti con l'usata avidità per i
soliti fini. Vestito di velluto nero, con una catena d'oro al collo,
severo e tragico nell'aspetto, alla testa del proprio esercito,
fece il suo solenne ingresso trionfale nella Città Eterna, dove fu
ricevuto dai cardinali a capo scoperto. Si gettò poi ai piedi del
Papa, che, dopo scambiate alcune parole in spagnuolo, _lacrimavit
et rixit a un trato_.[338] E subito, ricorrendo allora il Carnevale,
s'apparecchiarono grandi feste. Una figura rappresentante _Victoria
Iulii Caesaris_, condotta sopra un carro a bella posta costruito, fece
il giro della Piazza Navona, dove _servatae sunt fatuitates Romanorum,
more solito_.[339] E le feste crebbero assai più, quando arrivò la
notizia che Luigi XII era tornato in Italia alla testa d'un nuovo
esercito; che il Moro, abbandonato e tradito da' suoi Svizzeri, era il
10 aprile caduto in mano dei Francesi col fratello Ascanio. Questi fu
messo nella torre di Bourges nel Berry, donde più tardi venne liberato;
il Moro stette invece dieci anni prigione a Loches, dove finì i suoi
giorni.

Al primo annunzio di sì liete novelle, il Duca Valentino, sicuro di
poter ripigliare ormai subito la sanguinosa impresa di Romagna, non
sapeva più frenare la sua gioia. Presso la chiesa di San Pietro fu dato
un solenne torneo, in cui egli ammazzò sei tori selvaggi, «combattendo
a cavallo, alla giannetta; et a uno tagliò la testa alla prima botta,
cosa che a tutta Roma parve grande.»[340] Continuava intanto l'arrivo
dei pellegrini del Giubileo; crescevano le cerimonie religiose, e con
esse le indulgenze e le rendite. Ogni mattina si trovavano per le vie
cadaveri di gente ammazzata la notte, fra cui spesso erano prelati.
Un giorno (27 maggio) se ne videro diciotto impiccati sul Ponte
Sant'Angelo. Erano ladri condannati dal Papa, tra i quali fu anche
il medico dell'ospedale di San Giovanni in Laterano, che la mattina
di buon'ora rubava ed ammazzava.[341] Il confessore dei malati quando
sapeva di qualcuno che avesse danari, lo rivelava subito a lui, _qui
dabat ei recipe_, e poi dividevano fra loro la preda.[342] L'esempio
di severa e pronta giustizia fu ora dato, perchè 13 degl'impiccati
avevano rubato l'ambasciatore della Francia, che il Papa voleva tenersi
amica.[343]

Nel luglio di quel medesimo anno seguiva un'altra di quelle tragedie
che erano proprie dei Borgia. Il duca di Bisceglie, marito della
Lucrezia, s'era avvisto che, per l'amicizia coi Francesi, l'animo
del Papa e del Valentino s'era subito alienato da lui, che per ciò
non si sentiva più sicuro in Roma. Già nel 1499 aveva veduto che sua
sorella donna Sancia era stata esiliata, minacciando il Santo Padre
di cacciarla a forza di casa, se non se ne andava.[344] Da questi e da
altri segni restò sempre più insospettito, e però, dopo avere esitato
alquanto, fuggì a un tratto presso i Colonna in Gennazzano, per andar
poi nel Napoletano, lasciando la Lucrezia incinta, che piangeva o
fingeva di piangere. Ma nell'agosto egli si lasciò persuadere, e venne
a Spoleto, dove ella era stata nominata reggente della città. Di là
tornarono insieme a Roma.[345] La sera del 15 luglio 1500, il duca di
Bisceglie venne sulle scale di San Pietro improvvisamente assalito da
sicarî che lo ferirono al capo, alle braccia, e poi fuggirono. Egli
corse in Vaticano, e raccontò come e da chi era stato ferito, al Papa,
che al solito si trovava con la Lucrezia, la quale prima svenne, e poi
condusse il marito in una camera del Vaticano, per curarlo. Si mandò a
Napoli per medici, temendosi a Roma di veleno. Il malato era assistito
dalla moglie e dalla sorella donna Sancia, che gli cucinavano «in una
pignatella,» non fidandosi d'alcuno. Ma il Valentino disse: «quello che
non s'è fatto a desinare, si farà a cena;» e tenne la parola. Vedendo
infatti che quel disgraziato non voleva morire, quantunque fosse pur
grave assai la ferita alla testa, entrò una sera improvvisamente in
camera, e mandate via le due donne, che senza resistenza obbedirono,
lo fece nel letto strangolare da don Micheletto.[346] Nè questa volta
si fece gran mistero dell'accaduto. Il Papa stesso, dopo il ferimento,
disse tranquillamente all'ambasciatore veneto, Paolo Cappello: «il
Duca (Valentino) dice di non lo aver ferito; ma se l'avesse ferito, lo
meriterìa.» Il Valentino invece scusavasi solamente dicendo che il duca
di Bisceglie voleva ammazzar lui.

Egli aveva allora ventisette anni; era nel fiore della salute e della
forza; si sentiva padrone di Roma e del Papa stesso, il quale lo temeva
a segno da non osar quasi di parlare il giorno in cui vide il suo
fidato cameriere Pietro Caldes, o Pierotto, scannato fra le proprie
braccia dal Duca, e sentì il sangue di lui schizzargli sulla faccia.
Alessandro VI, del resto, non si turbava punto di tutto ciò, e non
perdeva i sonni. «Ha anni settanta,» scriveva l'ambasciatore Cappello,
«ogni dì si ringiovanisce, i suoi pensieri non passano mai una notte, è
di natura allegra, e fa quello che gli torna utile.»[347]

Il 28 settembre, per far danari, nominò a un tratto dodici cardinali,
fra cui sei Spagnuoli, il che gli fruttò 120,000 ducati, che andarono
subito al Valentino. Il quale con essi, con le entrate del Giubileo,
e cogli aiuti francesi, uniti alle sue genti capitanate dagli Orsini,
Savelli, Baglioni e Vitelli, s'impadronì di Pesaro, cacciandone
(ottobre 1500) il già suo cognato Giovanni Sforza; quindi di Rimini,
cacciandone Pandolfo Malatesta; e finalmente si fermò a Faenza,
dove Astorre Manfredi di 16 anni era tanto amato dal suo popolo,
che fu difeso valorosamente fino a che la fame non costrinse tutti
a capitolare il 25 aprile 1501. Cesare Borgia dovette nondimeno, per
aver la città, giurare di risparmiar gli abitanti e salvare la vita
al Manfredi; ma invece poi, violando ogni fede, lo chiuse in Castel
Sant'Angelo, e dopo averlo sottoposto ai più osceni oltraggi, lo
fece strangolare e gettar nel Tevere il 9 giugno 1502.[348] Dopo di
ciò venne dal Papa nominato duca di Romagna. Imola, Faenza, Forlì,
Rimini, Pesaro e Fano facevano già parte del suo Stato, di cui Bologna
doveva più tardi esser la capitale, e che doveva poi allargarsi
verso Sinigaglia ed Urbino, sperandosi di potervi annettere anche la
Toscana. Ma per ora la Francia mise il suo veto al procedere verso
Bologna o verso la Toscana, che a loro volta s'armavano per difendersi.
Intanto seguivano segretissimi accordi tra la Spagna e la Francia,
per dividersi fra loro il regno di Napoli: il Papa vi prendeva parte,
sempre con l'usata, avida speranza di potere anche colà allargare la
potenza del figlio.


4. — IL SAVONAROLA E LA REPUBBLICA FIORENTINA.

Mentre queste cose avvenivano in Roma, i Borgia avevano ordito un'altra
tragedia in Firenze, dove erano seguìti mutamenti gravissimi, dei quali
dobbiamo ora parlare.[349]

Sin dalla venuta di Carlo VIII, un frate domenicano, Priore del
convento di San Marco, uomo singolarissimo, era divenuto quasi padrone
della Città, ed in essa nulla più si faceva senza prima avere dal
pergamo i suoi consigli. Nato a Ferrara, venuto a Firenze sotto i
Medici, aveva predicato contro il mal costume, contro la corruzione
della Chiesa, attaccando più o meno copertamente papa Alessandro,
e dimostrandosi fautore di libertà. In molte cose egli non pareva e
non era uomo del suo tempo. Privo d'una vera cultura classica, odiava
quel paganesimo letterario che allora invadeva tutto. Educato colla
Bibbia, i Santi Padri e la filosofia scolastica, era animato da un
vivissimo entusiasmo religioso. Dotto d'una dottrina allora poco
stimata, scriveva versi non molto eleganti, nè sempre corretti, ma
pieni d'ardore cristiano; aveva una grande indipendenza di carattere
e d'ingegno, nè mancava di accortezza e buon senso, sebbene assai
spesso parlasse come un uomo ispirato, perchè si credeva veramente
privilegiato del dono profetico, e mandato da Dio a correggere la
Chiesa, a salvare l'Italia. L'essere così diverso dagli altri, il
non avere le qualità e le doti che allora erano in tutti, mentre a
tutti mancavano quelle appunto che egli aveva, dava a questo Frate
un prodigioso ascendente non solo sulle moltitudini, ma ancora sugli
uomini più culti. Lorenzo de' Medici lo fece chiamare presso al suo
letto di morte, chiedendo assoluzione de' suoi peccati, assoluzione
che fu negata, per essere egli stato tiranno della sua patria. Angelo
Poliziano, Pico della Mirandola, seguaci di quella erudizione pagana
tanto condannata dal Savonarola, vollero avere sepoltura in San Marco,
vestiti dell'abito domenicano. Molti altri letterati, moltissimi
artisti pendevano estatici dalle labbra del Frate.

Trasportato dalla sua fantasia, ed ancora da un singolare
presentimento, che spesso sembrava fargli davvero leggere
nell'avvenire, non solo annunziava in genere futuri guai all'Italia;
ma, determinando, aveva profetato la venuta d'eserciti stranieri,
guidati da un nuovo Ciro. E la profezia parve miracolosamente avverarsi
nel 1494, con la discesa di Carlo VIII. E però il Frate divenne
addirittura il primo uomo di Firenze, la quale ricorreva a lui nei più
difficili momenti, per le più gravi faccende di Stato. Così, insieme
con Piero Capponi ed altri, egli fu mandato ambasciatore al Re, quando
Piero de' Medici aveva vilmente ceduto ogni cosa. Ed il Re, che s'era
mostrato assai burbero con tutti, divenne umile dinanzi a colui che
gli minacciava l'ira di Dio. Quando poi furono in Firenze firmati gli
accordi, e l'esercito alloggiato dentro le mura non si moveva, con
pericolo grandissimo della Città, solo il Savonarola osò presentarsi
a Carlo VIII, invitandolo severamente a partire, e fu obbedito. Non è
quindi da far maraviglia, se ponendosi allora mano alla formazione d'un
nuovo governo, tutti si rivolgessero al Frate, e nulla più si facesse
in Firenze senza prima sentir lui, che diè prova non solo di vero e
disinteressato amore del pubblico bene, ma anche di un senno politico
veramente singolare.

Il 2 dicembre la campana di Palazzo Vecchio chiamava a generale
Parlamento il popolo, che accorse ordinato e condotto dai Gonfalonieri
delle Compagnie. Fu subito data Balìa a venti Accoppiatori di nominare
i magistrati, e fare le necessarie proposte di riforma. Così in
breve si venne ad un nuovo ordinamento della Repubblica, col quale le
antiche istituzioni, dai Medici profondamente falsate o distrutte,
vennero richiamate in vita, modificandole però in molte parti. Il
Gonfaloniere cogli otto Priori, che costituivano la Signoria, da
rinnovarsi ogni due mesi, furono conservati; e così pure gli Otto,
che vegliavano all'ordine interno della Città, ed erano un tribunale
pei delitti criminali, più specialmente ancora per quelli di Stato.
L'antico magistrato dei Dieci, che provvedeva alle cose della guerra,
fu del pari conservato. I Gonfalonieri delle Compagnie e i dodici Buoni
Uomini, residuo di antiche istituzioni, i quali formavano i così detti
Collegi, che assistevano la Signoria, sebbene non avessero più una vera
importanza, pure restarono. Sorse però una grave disputa intorno ai
Consigli o sia assemblee della Repubblica. Il Consiglio dei Settanta,
organo del dispotismo mediceo, fu subito abolito; ma non era possibile
ricostituire quelli del Popolo e del Comune, perchè rispondevano
nell'antica Repubblica ad uno stato di cose, ad una divisione della
cittadinanza, che più non esisteva, nè potevasi rinnovare. Cominciarono
quindi le discussioni. Alcuni, alla testa dei quali trovavasi Paolo
Antonio Soderini, tornato allora da Venezia, proponevano addirittura
un Consiglio Maggiore, in cui entrassero tutti i cittadini, ed un
Consiglio, meno numeroso, di Ottimati, a similitudine appunto del Gran
Consiglio e dei Pregadi in Venezia. Ma a questa proposta si opponevano
coloro che, capitanati da Guidantonio Vespucci, volevano un governo
più ristretto, e combattevano perciò l'istituzione del Consiglio
Maggiore, che dicevano utile a Venezia, dove erano i Patrizi, che soli
ne facevano parte; pericolosissimo invece a Firenze, dove, mancando
i Patrizi, bisognava ammettervi tutti i cittadini. Il pericolo, in
tanta divisione degli animi, stava, secondo ciò che ne scrive anche
il Guicciardini, in questo, che prevalendo un governo ristretto
invece di uno temperatamente libero, si sarebbe poi, per reazione,
venuto ad un governo di eccessiva larghezza, il quale avrebbe messo
a repentaglio la Repubblica. Ed è perciò che quel grande storico ed
accorto politico esaltò il Savonarola,[350] come colui che, entrato di
mezzo, salvò ogni cosa, predicando una forma di _governo universale_
con un Consiglio Maggiore al modo veneziano, adattato però ai bisogni
e costumi fiorentini. L'autorità della sua parola fece subito vincere
questo partito già proposto dal Soderini, ed il Frate ne guadagnò tale
ascendente sul popolo, che d'allora in poi le discussioni fatte in
Palazzo, e le leggi che ne seguirono, sembrano spesso copiate dalle sue
prediche.

Il 22 e 23 dicembre 1494 fu deliberato il Consiglio Maggiore, di cui
vennero chiamati a far parte tutti i cittadini di ventinove anni, che
erano _beneficiati_, che godevano cioè il _beneficio dello Stato_,
o sia che, secondo le antiche leggi della Repubblica, avevano il
diritto di prender parte al governo. Quando costoro avessero passato
il numero di 1500, un terzo di essi solamente, alternandosi cogli
altri due, avrebbero di sei in sei mesi formato il Consiglio.[351] La
Città aveva allora circa 90,000 abitanti; i cittadini _beneficiati_
dell'età di ventinove anni erano 3200, sicchè il Consiglio Maggiore
veniva ad essere formato di poco più che mille persone.[352] Ogni tre
anni si sceglievano inoltre sessanta cittadini senza il beneficio, e
ventiquattro giovani di ventiquattro anni, con facoltà di partecipare
al Consiglio, e ciò si faceva «per dare animo ai giovani ed incitarli
a virtù.» L'ufficio principale del Consiglio era quello d'eleggere
i magistrati, nel che si riponeva allora la garanzia della libertà,
e di votare le leggi, senza però discuterle. Esso doveva inoltre
eleggere subito ottanta cittadini di quarant'anni almeno, per formare
il Consiglio degli Ottanta, specie di Senato, che si rinnovava ogni
sei mesi, e del quale facevano parte di diritto alcuni dei principali
magistrati. Esso radunavasi ogni settimana, per deliberare, insieme
colla Signoria, gli affari più gravi e gelosi, che non si potevano
esporre a molti. Vi pigliavano parte anche i Collegi, quando trattavasi
di nominare gli ambasciatori e i capitani, o deliberare condotte di
genti d'arme.

In tal modo venne costituita la nuova Repubblica. La divisione dei
poteri non era allora conosciuta, e le attribuzioni dei magistrati
erano quindi assai confuse. Nondimeno, quando si voleva sanzionare una
nuova legge, il procedimento ordinario era questo: la proposta toccava
alla Signoria, che poteva, se la cosa lo richiedeva, radunar prima una
Pratica o una Consulta, composte dei Collegi, dei principali magistrati
e di Arroti, o sieno cittadini richiesti a quello scopo determinato,
domandando il loro avviso. Quando tutto ciò non si reputava necessario,
s'andava addirittura agli Ottanta, e poi al Consiglio Maggiore. Nella
Pratica e nella Consulta[353] soleva farsi una qualche discussione;
ma nei Consigli si votava e non si discuteva. Lo stesso procedimento
si seguiva ancora, quando trattavasi non di leggi, ma di affari molto
gravi, come sarebbe stato il dichiarare la guerra, il fare qualche
alleanza, che potesse aver gravi conseguenze, e simili.

Questa nuova costituzione cominciò subito ad operare regolarmente, ed
il Savonarola, che ne era stato uno dei principali autori, contribuì
colle sue prediche a consigliare e promuovere altre riforme importanti.
Fu istituita la Decima, cioè l'imposta del 10% sui beni stabili,
fino allora tassati ad arbitrio; fu abolito il Parlamento, il quale,
approvando sempre per acclamazione tutte le proposte della Signoria,
era stato più volte docile strumento d'inconsulte mutazioni e di
tirannide; fu istituito il Monte di Pietà. Venne poi votata una nuova
legge che, nelle cause di Stato, concedeva l'appello dagli Otto al
Consiglio Maggiore, cosa di certo assai poco prudente, perchè affidava
la giustizia alle passioni popolari. Il Savonarola, che pur desiderava
l'appello, ma ad un assai minor numero di persone, non riuscì questa
volta a fermare il popolo, istigato dagli avversari, i quali volevano
cogli eccessi mettere a pericolo la Repubblica, o almeno levarla, come
essi dicevano, dalle mani del Frate. Infatti ben presto si vide che
quella legge era stata imprudentissima.

Tuttavia le cose cominciarono a procedere assai regolarmente, nè altri
disturbi vi furono in sul principio, se non quelli che nascevano dalla
guerra contro i Pisani, la quale però, senza essere ancora di molta
gravità, contribuiva a tenere in Firenze gli animi uniti. Gli alleati,
è vero, chiamarono in Italia Massimiliano re dei Romani, perchè recasse
aiuto a Pisa; ma quando egli venne senza un proprio esercito, non gli
dettero nè uomini nè denari, sicchè dovette tornarsene a casa senza
aver concluso nulla.

V'erano tuttavia in Firenze i germi di un gravissimo pericolo. Il
Savonarola predicava con crescente ardore la riforma dei costumi e
la difesa della libertà, suggeriva utili provvedimenti, faceva una
dipintura vivacissima dei mali che portava la tirannide, ma non si
fermava a ciò. Egli predicava ancora la necessità d'una riforma della
Chiesa, caduta, come tutti sapevano e vedevano, nella più triste
corruzione. Non toccava il domma e neppure il principio dell'autorità
papale, restò infatti sempre cattolico; ma accennava pure alla
necessità di un Concilio per attuare la riforma, ed alludeva assai
spesso alla vita scandalosa di papa Alessandro VI. Questi cominciò
quindi ad impensierirsi vivissimamente d'uno stato di cose tanto nuovo
in Italia, tanto pericoloso per lui che era, come altra volta aveva
scritto Piero Capponi, «di natura vile e _conscius criminis sui_.[354]»
Dapprima invitò a Roma, con parole assai benevole, il Savonarola,
il quale si scusò. Allora invece lo sospese dalla predicazione; ma
i Dieci scrissero subito con tanto favore in difesa di lui, che il
Breve, per paura di peggio, venne revocato. Si tornò alle lusinghe,
lasciando sperare al Frate perfino il cappello cardinalizio; ma egli
nuovamente ricusò di partire, e nella quaresima dal 1496 tuonò più
che mai dal pergamo. Annunziava future calamità, tornava a proporre
la riforma della Chiesa, e conchiudeva che Firenze doveva fermar
bene il suo governo popolare, affine di promuovere in Italia e fuori
il rinnovamento ed il trionfo della religione, purificata da ogni
corruzione. La cosa assunse allora una così straordinaria gravità,
che da ogni parte d'Italia gli occhi si rivolsero sopra di lui con
intenzioni assai diverse. Si sentiva da tutti che la corruzione
della Chiesa era spaventosa, e si capiva che, nonostante il profondo
e generale scetticismo religioso degl'Italiani, non si poteva così
durare a lungo. I segni precursori di una riforma, già manifestatisi a
Costanza, a Basilea, altrove, non si potevano dimenticare. La grande
attenzione, l'entusiasmo con cui una città indifferente e scettica
come Firenze, ascoltava ora il Savonarola, ispirava una confusa paura
in moltissimi, ed uno sdegno feroce in Alessandro VI, che si vedeva
attaccato personalmente da un frate, senza poter far nulla, egli che
pure così facilmente aveva saputo mandare all'altro mondo tanti prelati
e cardinali.

Il pericolo temuto non era però senza qualche speranza di rimedio
pel Papa. Il Savonarola era certo un oratore rozzo, ma potente; aveva
un'attività prodigiosa; scriveva un numero grandissimo di opere, di
opuscoli, di lettere; non si fermava mai; predicava ogni giorno, più
volte al giorno, in diverse chiese; il suo amore pel bene era grande;
il suo religioso entusiasmo ardentissimo; la sua autorità immensa.
Pure, noi lo abbiamo già notato, egli non era in tutto uomo del suo
tempo; la sua cultura era in parte scolastica, e il suo entusiasmo
arrivava spesso fino quasi al fanatismo; aveva visioni e si credeva
profeta; qualche volta anche gli pareva che il Signore, per mezzo di
lui, volesse operare miracoli. Amava ardentemente la libertà; ma era
pur sempre un frate, che la cercava come mezzo a promuovere la riforma
religiosa; non di rado pareva che volesse proprio ridurre Firenze ad
un convento, il che doveva a molti sembrare una puerile illusione. Egli
era circondato da artisti e da eruditi, sui quali aveva come sul popolo
e sugli uomini politici un ascendente straordinario; ma se amava la
cultura e promoveva le arti, era pure acerrimo nemico di quello spirito
pagano che allora invadeva e, secondo lui, corrompeva tutto. Tra i suoi
frati, come tra i suoi seguaci fuori del convento, si trovavano uomini
di nobile carattere e di grande energia; ma non mancavano neppure
spiriti deboli e superstiziosi, che esageravano le idee del maestro, il
quale non era senza esagerazioni egli stesso. L'immenso potere da lui
acquistato in Firenze pei savi consigli politici che aveva dati, per
le nobilissime doti del suo animo, per la sua irresistibile eloquenza,
veniva cresciuto più dalla maraviglia che recava la singolarità del suo
carattere, che dall'essere egli riuscito a risvegliare in Firenze un
vero ardore religioso, il che non era invece avvenuto. Questo era anzi
il punto su cui il Savonarola s'illudeva assai, e non s'avvedeva perciò
che, in parte almeno, egli fabbricava sull'arena: voleva il governo
libero per promuovere la riforma religiosa, ed i Fiorentini accettavano
la riforma religiosa, solo per meglio rafforzare il libero governo.
La base del suo potere era quindi meno solida di quel che pareva, e
non dovevano al Papa mancar modi di formare o di alimentare i partiti
avversi.

Un buon numero di giovani amanti del lieto vivere, già tanto favorito
dai Medici, ed ora così aspramente biasimato e combattuto dal Frate, si
raccolsero pigliando nome di _Compagnacci_, combattendo, col ridicolo e
con ogni arte, lui e i suoi amici, che chiamavano _Piagnoni, Frateschi_
e simili. Tutto questo fece sì che nel 1497, da un lato si tentò di
ripristinare l'antico carnevale mediceo co' suoi baccanali e le sue
oscenità; dall'altro, invece, per opera del Savonarola e de' suoi
seguaci, i fanciulli giravano le vie e le case di Firenze, cercando
le _vanità_, o sia libri, scritture, disegni e statue oscene, abiti
e maschere carnovalesche. Il 7 febbraio, ultimo giorno di carnovale,
fu fatta una solenne processione, la quale ebbe fine col famoso
_bruciamento delle vanità_, raccolte in Piazza della Signoria, sopra
gli scalini d'una grande piramide di legno, a tal'uopo costruita. Come
è ben naturale, tutto ciò fu soggetto di molte accuse e di ridicolo
da parte dei Compagnacci, quantunque i magistrati stessi avessero
non solo permessa, ma quasi diretta la singolare solennità, affinchè
procedesse ordinata e dignitosa. I Compagnacci biasimavano aspramente
che il governo s'andasse mescolando di processioni fratesche. E ad essi
s'univano poi gli Arrabbiati, i quali volevano un governo più ristretto
di Ottimati, ed i Bigi, chiamati così perchè non osavano manifestare
il loro segreto pensiero, che era di tornare ad una pura e semplice
restaurazione medicea. Ma tutto ciò non bastava ancora a mettere in
pericolo nè la Repubblica, nè il Savonarola. I Compagnacci non erano un
partito politico; gli Ottimati avevano poco séguito in Firenze, stata
sempre città popolare; i Bigi, con aderenze potenti in città e fuori,
avevano in Piero de' Medici un capo così odiato e disprezzato, da non
poter esser desiderato da molti. Un primo tentativo da lui fatto, per
rientrare in Firenze, dove si lusingava di trovar grandissimo favore,
riuscì solo a fargli con disprezzo chiudere le porte in faccia. Una
congiura tentata allo stesso effetto da Bernardo del Nero e da altri,
finì con la loro condanna a morte.

Questo è ciò che formava uno stato di cose, in cui Alessandro VI
facilmente poteva trovare quell'occasione di vendetta, che con tanto
ardore cercava da un pezzo. Il Savonarola ogni giorno lanciava nuove
accuse contro gli scandali di Roma, accennava sempre più apertamente
alla necessaria riunione del Concilio, alludeva dal pergamo alle
oscenità ed ai delitti del Papa. Invitato più volte a tacere, aveva
invece parlato più forte. Giunse finalmente una scomunica contro di
lui, ed egli la dichiarò nulla, aggiungendo che parlava in nome di
Dio, ed era pronto a sostenere la propria innocenza al cospetto del
mondo; rinunziava però a convincere Alessandro VI, il quale, eletto
simoniacamente, autore di tanti scandali e delitti, non poteva dirsi
vero Papa. Era allora seguìta l'uccisione del duca di Gandia; correvano
per tutto le voci d'incesto tra il Papa e la figlia Lucrezia; il
Savonarola s'era esaltato per modo che non sapeva, nè voleva più
frenarsi. Indirizzò lettere ai principi d'Europa, incitandoli a
radunare un Concilio, per salvare da totale rovina la Chiesa, la quale,
come egli avrebbe pubblicamente dimostrato, era senza capo vero e
legittimo. Una di queste lettere venne sfortunatamente nelle mani di
Alessandro VI. S'aggiunse poi che Carlo VIII, il quale pareva pentito
de' suoi peccati, e deciso a metter mano alla riforma consigliata dal
Savonarola, che vedeva in lui appunto il suo più valido sostegno, morì
improvvisamente nei primi mesi del 1498. E quantunque ciò ancora non
fosse noto in Italia, pure si vedeva già che tutto cospirava ai danni
del povero Frate. Fu questo il momento in cui inaspettatamente si
presentò al Papa un'occasione favorevole, che egli colse senza punto
esitare.

La Signoria in ufficio era avversa al Savonarola; gli Arrabbiati
ed i Compagnacci erano audacissimi per i continui incoraggiamenti
che ricevevano di fuori; i Bigi erano pronti sempre a tutto ciò che
poteva riuscire in danno della Repubblica; perfino alcuni dei Piagnoni
erano impensieriti della fiera lotta col Papa, quando seguì un fatto
stranissimo, di cui nessuno avrebbe potuto mai prevedere le gravi
conseguenze. Un frate francescano, chiamato Francesco di Puglia,
predicando in Santa Croce aspramente contro il Savonarola, venne fuori
con la dichiarazione che era pronto ad entrare nel fuoco con lui, per
provargli la falsità delle dottrine che sosteneva. Al Savonarola la
cosa parve assai strana, e si tacque: ma non fu così del suo discepolo
frate Domenico Buonvicini da Pescia. Uomo di poca testa, ma d'una
grande energia e buona fede, d'uno zelo ardentissimo, accettò la
sfida, e si dichiarò senz'altro prontissimo a tentare l'esperimento
del fuoco, per provare la verità delle dottrine sostenute dal suo
maestro. Francesco di Puglia rispose, che aveva sfidato il Savonarola,
e con lui solamente sarebbe entrato nel fuoco; ma con fra Domenico
Buonvicini da Pescia si sarebbe provato invece Giuliano Rondinelli,
anch'egli francescano. La cosa sfortunatamente andò innanzi, ed al
Savonarola non riuscì di fermarla, quantunque lo tentasse, perchè fra
Domenico era già caduto nella rete che gli avevano tesa, e perchè egli
stesso non sembrava punto alieno dal prestar fede alla buona riuscita
dell'esperimento, convinto com'era d'essere mandato da Dio, e da lui
ispirato nel predicare le dottrine che venivano ora combattute. Gli
Arrabbiati e i Compagnacci spingevano a tutta possa, perchè speravano
di poter seppellire i Piagnoni nel ridicolo, e uccidere il Savonarola
nel tumulto che apparecchiavano. Teneva loro mano la Signoria stessa,
che si trovava allora in segreti accordi con Roma.

In conseguenza di tutto ciò lo stranissimo esperimento, che nel
secolo XV era un vero e proprio anacronismo, fu fissato pel giorno 7
aprile 1498. All'ora indicata i frati vennero nella Piazza, davanti al
Palazzo, dove tutto era stato dalla Signoria ordinato, e dove un popolo
immenso era impaziente di vedere uno spettacolo che ricordava il Medio
Evo. Il Savonarola, persuaso anch'egli che lo zelo impaziente di fra
Domenico, contro cui aveva invano resistito, fosse veramente ispirato
da Dio, aveva consentito a dirigere i suoi frati. Quando però tutto era
pronto da parte loro, e fra Domenico da Pescia aspettava il segnale
per muoversi, i Francescani, i quali avevano mirato solo a tendere
una rete agli avversarî, esitavano, ed il Rondinelli non pareva che
avesse nessuna voglia di cimentarsi. Si cercarono mille pretesti per
far nascere un tumulto desiderato, ma invano, perchè l'ardita figura
di fra Domenico era lì, sempre pronta a muoversi, e questo contegno
disarmava ogni avversario. Se non che, le continue dispute e i nuovi
pretesti dei Francescani fecero consumare il giorno, e finalmente una
pioggia improvvisa e dirotta diè modo alla Signoria, già scoraggiata,
di dichiarare che l'esperimento non poteva ormai più farsi.

Secondo ogni ragione, la disfatta doveva essere dei nemici
del Savonarola; ma accadde invece il contrario. Il popolo era
scontentissimo di non aver avuto il desiderato spettacolo, e molti ne
davano la colpa al Savonarola, dicendo che se veramente fosse stato
persuaso del suo lume divino, sarebbe, senza altre discussioni, egli
stesso, anche solo, entrato nel fuoco, il che avrebbe d'un tratto e per
sempre fatto tacere gli avversari. I suoi seguaci erano in buona parte
o fanatici credenti, o uomini politici che vedevano in lui solamente
il sostenitore del libero reggimento. I primi restarono addolorati che
l'esperimento non si fosse fatto, i secondi deploravano che egli vi
avesse consentito, e così lo scontento parve a un tratto universale.
Allora riuscì agevole agli Arrabbiati ed ai Compagnacci, secondati
dai Bigi, aiutati dalla Signoria, sollevare un vero e proprio tumulto
contro i Piagnoni, alcuni dei quali vennero infatti ammazzati o feriti
per le vie, gli altri furono per ogni dove insultati, inseguiti.
Cominciata una volta la reazione, s'andò, armata mano, ad assaltare
addirittura il convento di San Marco, che, dopo la gagliarda resistenza
d'alcuni frati e di pochi amici ivi radunati, fu preso. Il Savonarola,
fra Domenico, che mai non lo lasciò, e fra Salvestro Maruffi, altro
de' suoi più noti seguaci, ma superstizioso e di carattere debolissimo,
vennero condotti in prigione, e s'iniziò subito il processo.

Il Papa voleva ad ogni costo aver nelle mani il Frate, e faceva
perciò grandi promesse; ma la Signoria, sebbene composta d'Arrabbiati
dispostissimi a consentirne la morte, non volle, per la dignità della
Repubblica, permettere che il processo si facesse altrove. Lo fece
però a Firenze secondo le istruzioni e gli ordini venuti da Roma.
Si adoperò ripetutamente la tortura, ed al Savonarola si strapparono
confessioni nel delirio del dolore. Ma sebbene in quello stato egli
non fosse più padrone di sè, e non avesse più la forza di sostenere
che la sua dottrina e la sua opera erano ispirate da Dio, pure negò
recisamente d'aver mai avuto un fine personale, o d'essere stato di
mala fede; confermò anzi d'aver solo e sempre operato pel pubblico
bene. A tutto questo s'aggiunse, che se fra Salvestro, debolissimo
e vanissimo sempre, rinnegò il maestro, e disse tutto quello che
gli vollero far dire, fra Domenico, invece, sprezzando le minacce e
la tortura, restò uguale a sè stesso, riconfermando coraggiosamente
l'indomita fede nel suo maestro. Si ricorse quindi all'antico e
facile espediente d'alterare, nel miglior modo che si poteva, anche le
confessioni strappate colla tortura, senza tuttavia riuscire, neppure
con questo artifizio, a trovare giusta materia di condanna. E intanto
il Papa minacciava ferocemente da Roma, perchè o gli dessero in mano i
tre frati, che avrebbe egli pensato al resto, o li mettessero subito
a morte. Nè la Signoria voleva o poteva ormai più tornare indietro.
Siccome però due mesi erano già trascorsi, ed essa doveva quindi,
secondo le leggi fiorentine, uscire d'uffizio, così s'occupò solo a
fare in maniera che le nuove elezioni risultassero favorevoli agli
Arrabbiati, il che ottenne facilmente. E i nuovi eletti convennero
subito col Papa, che egli avrebbe inviato a Firenze due commissarî
apostolici, per condurre a termine il processo, e trovar materia di
condanna capitale, specialmente in ciò che si riferiva all'accusa
d'eresia. Il Savonarola intanto, lasciato qualche tempo tranquillo
in carcere, aveva scritto altri opuscoli religiosi, nei quali,
riconfermando le sue dottrine, dichiaravasi nuovamente in tutto e per
tutto cattolico fedelissimo ed incrollabile, quale era sempre stato.
Ma ciò non voleva dir nulla, la sua morte era stata irremissibilmente
decisa.

Il 19 maggio arrivarono i due commissarî apostolici, con ordine
di condannarlo, _fosse pure un San Giovanni Battista_. Essi lo
processarono e torturarono da capo più fieramente; e quantunque egli,
indebolito com'era, resistesse al dolore anche meglio di prima, e
non si potesse quindi trovare alcun giusto pretesto di condanna,
pure, senza esitare, sentenziarono a morte lui ed i suoi compagni,
e li consegnarono al braccio secolare, non usando indulgenza neanco
al Maruffi, che aveva vilmente calunniato, rinnegato il maestro, ed
affermato tutto quello che avevano voluto. — Un frataccio di più o
di meno poco monta, — così essi esclamarono. Ed in verità non era per
loro prudente salvare la vita d'un uomo così debole e vano, che avrebbe
potuto, anche senza volerlo, rivelare la falsificazione dei processi.
Il giorno 23 maggio 1498 si vide in Piazza della Signoria costruito
un lungo palco, alla estremità del quale sorgeva una gran croce, alle
cui braccia furono impiccati i tre frati, il Savonarola nel mezzo, gli
altri due dai lati. Quando essi furono spirati, i loro cadaveri vennero
subito bruciati, e le loro ceneri gettate in Arno, in mezzo a una folla
di monelli che applaudivano.

In tutto questo dramma v'era stato qualche cosa di eroico, e qualche
cosa d'effimero. Eroici erano stati la fede, l'amore del bene
universale, l'abnegazione del Savonarola; grande la sua eloquenza, il
suo senno politico; effimero era stato invece lo zelo religioso che
egli credette aver destato nel popolo fiorentino. Questo s'era esaltato
solo per l'amore della libertà, ed aveva ascoltato con entusiasmo
la parola religiosa del Frate fino a che essa aveva dato forza al
governo popolare. Ma appena vide in lui un pericolo per la Repubblica,
senza molto esitare lo abbandonò al Papa. Ed invero, quando il povero
Frate cessò di respirare, parve un momento che i pericoli da ogni
parte minacciati al governo da lui fondato, scomparissero del tutto.
Gli alleati non parlavano più di voler rimettere Piero de' Medici;
il Papa, contentissimo, mandava elogi e dava speranze; il Valentino
non minacciava più d'invadere la Toscana, e Firenze credette perciò
di potersi occupare solo della guerra contro Pisa, senza pensare ad
altro. Pur troppo non andò molto e si vide che queste erano speranze
vane, che ben altro ci voleva a saziare la inestinguibile avidità dei
Borgia. Ma non v'era allora più rimedio. Bisognò invano pentirsi d'aver
soffocato una voce che aveva sempre sostenuto la libertà; di avere
spento ingiustamente, iniquamente un uomo che tanto bene aveva fatto
e poteva ancora fare allo Stato, alla morale, alla religione. La sua
morte lo rese per molti un santo ed un martire, e per più di un secolo
gli mantenne in Firenze ammiratori ed adoratori, i quali nei nuovi
pericoli della patria si dimostrarono degni seguaci del loro maestro,
illustrando con eroismo la fine della Repubblica. Comunque sia di ciò,
nel maggio del 1498 gli Arrabbiati avevano trionfato; ma non osarono
per questo di mutar la forma di governo consigliata dal Savonarola, la
quale fu invece consolidata. I Piagnoni continuarono tuttavia ad essere
perseguitati, e molti di essi vennero cacciati dagli uffici, nei quali
entrarono i loro avversarî più dichiarati. In questo momento appunto
comparisce sulla scena, ed ottiene ufficio politico un uomo che fu
certo più grande del Savonarola, ma di una grandezza assai diversa. Di
lui dobbiamo ora esclusivamente occuparci.



LIBRO PRIMO.

DALLA NASCITA DI NICCOLÒ MACHIAVELLI ALLA SUA DESTITUZIONE DALL'UFFICIO
DI SEGRETARIO DEI DIECI (1469-1512)



CAPITOLO I.

    Famiglia, nascita e primi studî di Niccolò Machiavelli. Viene
    eletto segretario dei Dieci.

    (1469-1498)


Niccolò Machiavelli comparisce la prima volta nella storia l'anno
1498, ventinovesimo di sua età. Allora era già arrivata in Firenze la
scomunica contro il Savonarola, cui la Signoria era avversa, e intorno
a lui s'addensava da ogni lato la tempesta, che doveva tra qualche
mese condurlo al patibolo. Per evitare maggiori scandali, egli aveva
ordinato al suo fido discepolo fra Domenico da Pescia di predicare
in San Lorenzo alle donne, e, lasciato il Duomo, s'era ritirato in
San Marco, dove rivolgeva la sua parola agli uomini solamente. Colà
venne il Machiavelli ad ascoltare due prediche, delle quali dètte poi
ragguaglio ad un amico in Roma, con una lettera del giorno 8 marzo di
quell'anno medesimo. In essa appariscono già evidenti alcune qualità
più notevoli della sua indole, tanto diversa, anzi contraria affatto
a quella del Savonarola. Egli non riesce a capir nulla di ciò che v'è
di grande e di nobile nel Frate. Ascolta con un sorriso d'ironia e di
scherno lo strano linguaggio di questo che chiamerà più tardi _profeta
disarmato._ Lo sente «squadernare i libri vostri, o preti, e trattarvi
in modo che non ne mangerebbero i cani;» lo sente dire del Papa quello
«che di quale vi vogliate scelleratissimo uomo dire si puote;» gli
sembra che questo Frate venga «secondando i tempi e le sue bugìe
colorendo:»[355] ma non sa capire come abbia preso un così gran potere
in Firenze, nè come debba andare a finire la faccenda, e quindi prega
l'amico che, se può, lo illumini.

Chi era, in mezzo a tanto bollore di passioni, questo indagatore a
freddo? Ricordando la parte non piccola che egli ebbe dipoi negli
affari della Repubblica, e quella grandissima che ebbe nella storia
del pensiero moderno, ogni particolare intorno ai suoi studî, alla sua
giovinezza, riuscirebbe prezioso. Invece i primi anni del Machiavelli
sono e forse resteranno per sempre avvolti nelle tenebre. I suoi
contemporanei non parlarono quasi mai di lui; dopo la sua morte nessuno
degli amici o conoscenti pensò di scriverne la vita. Ed egli, occupato
continuamente ad osservare gli uomini e le cose che lo circondano, non
si ferma mai sopra sè stesso, non torna mai sul suo passato. Come uomo,
come carattere, non pare che abbia un gran peso fra coloro che gli son
vicini; le sue azioni o non ebbero molta importanza, o non furono molto
avvertite. La stessa sua prodigiosa attività negli affari si manifesta
principalmente colla penna; la sua vita si può dire che sia quasi tutta
ne' suoi scritti, quantunque egli si trovasse in mezzo a molte e varie
vicende. In ciò è assai diverso dal Guicciardini, cui pur somiglia in
tante cose. Questi, infatti, salito ad alti ufficî, fa ben sentire il
potere e l'autorità della sua persona. Assalito dai contemporanei,
si difende nell'_Apologia_, nei _Ricordi biografici_ ed in altri
scritti, nei quali spesso ed a lungo parla di sè. Comunque sia, noi ci
sforzeremo di raccogliere tutte le notizie che ci fu dato trovare sulla
famiglia e sui primi anni del Machiavelli. Sfortunatamente però sono
assai poche.

La famiglia dei Machiavelli era antichissima in Toscana, e veniva da
Montespertoli, piccolo Comune fra la val d'Elsa e la val di Pesa,
poco lungi da Firenze. Nei loro antichi _Quaderni di ricordanze_,
qualcuno dei quali trovasi anche oggi nelle biblioteche fiorentine,
si legge che essi erano consorti dei signori di Montespertoli,
anzi discendevano da un medesimo stipite. Buoninsegna di Dono dei
Machiavelli, secondo queste _Ricordanze_, avrebbe, circa il 1120,
avuto due figli, Castellano e Dono. Dal primo sarebbero venuti i
Castellani signori di Montespertoli, dal secondo quelli che ebbero
il nome di Machiavelli.[356] L'arme dei primi fu un'aquila ad ali
spiegate in campo azzurro; l'arme dei secondi fu una croce azzurra
in campo d'argento, con quattro chiodi (_chiovi, chiavelli_) del pari
azzurri, ai quattro angoli della croce. Nel 1393 Ciango dei Castellani
di Montespertoli lasciò a Buoninsegna e Lorenzo di Filippo Machiavelli,
trisavolo del grande scrittore, il castello di Montespertoli con
diritti di giuspatronato sopra molte chiese. Questa eredità, che non
aveva gran valore, essendo allora aboliti i diritti feudali, portò
ai Machiavelli alcuni privilegi, come, per esempio, la privativa del
peso e della misura pubblica, l'omaggio di alcuni ceri offerti ogni
anno, e permise loro di mettere la propria arme sulla gola del pozzo,
nella piazza del mercato, alla quale s'è ora dato il loro nome. Il
resto della non pingue eredità s'andò dividendo fra i molti rami della
numerosa famiglia. Assai poco ne venne quindi al padre di Niccolò
Machiavelli, i cui beni erano nel vicino Comune di San Casciano. Aveva
però sempre sul castello alcuni diritti, che non gli rendevano nulla,
e diritti di patronato su varie chiese, parte dei quali venivano
anch'essi dalla eredità di Montespertoli. I Machiavelli avevano le loro
case[357] nel quartiere di Santo Spirito, tra Santa Felicita e il Ponte
Vecchio in Firenze: colà si erano stabiliti da tempi assai remoti, e
furono poi tra i più notabili popolani.[358] Infatti noi li troviamo
fra coloro che dovettero nel 1260,[359] dopo la rotta a Montaperti,
esulare. Ben presto però rimpatriarono cogli altri Guelfi, e sono assai
spesso ricordati nelle storie della Repubblica, al cui governo presero
parte, vantando un gran numero di Priori e di Gonfalonieri.[360]

Bernardo di Niccolò Machiavelli, nato nel 1428, fu giureconsulto,
esercitò qualche tempo l'ufficio di tesoriere nella Marca,[361]
e nel 1450 ereditò ancora i beni di suo zio Totto di Boninsegna
Machiavelli.[362] Nel 1458 sposò Bartolommea vedova di Niccolò Benizzi,
e figlia di Stefano dei Nelli, antica famiglia fiorentina. Non si
può supporre che questo matrimonio aumentasse la sua privata fortuna,
giacchè le donne portavano allora meschinissime doti. In ogni modo,
nel catasto del 1498 la sua entrata, che poi, come vedremo, passò
tutta, mediante un accordo di famiglia stipulato nel 1511, al figlio
Niccolò, era valutata a fiorini larghi 110 e soldi 14,[363] il che
lo rendeva non ricco, ma certo neppur povero. È impossibile fare un
calcolo esatto; ma, tenuto conto del valore assai maggiore che aveva
l'oro in quel tempo, non si va forse molto lungi dal vero, affermando
che era una rendita corrispondente a quel che sarebbero oggi quattro
o cinquemila lire italiane.[364] Se Bernardo era uomo dato agli studî,
Bartolommea era donna religiosa e non priva di cultura, avendo scritto
alcuni Capitoli e Laudi alla Beata Vergine, indirizzati, secondo che
troviamo affermato, appunto al figlio Niccolò.[365] Dal loro matrimonio
nacquero quattro figli: Totto, Niccolò, Primerana e Ginevra. Delle
donne, la prima sposò messer Francesco Vernacci, la seconda messer
Bernardo Minerbetti. Dei maschi, Totto, nato nel 1463, non si sa che
prendesse moglie, e cadde ben presto in oscurità; Niccolò, invece, nato
il 3 di maggio 1469, divenne subito, come vedremo, il personaggio più
autorevole della famiglia, così pe' suoi studî come pel suo ingegno.
Il giorno 11 d'ottobre 1496 moriva la madre del Machiavelli; e neppure
su questo fatto, che nella vita d'ogni uomo ebbe sempre un'importanza
grandissima, troviamo una sola parola che ci possa, anche da lontano,
far sapere quello che il figlio sentisse allora. Tutto rimane per
noi interamente oscuro. Egli aveva già ventisette anni, e sino a quel
tempo non ci resta di lui un sol verso, una qualche parola di scrittori
antichi, che ce lo facciano conoscere poco o molto.[366]

I più antichi scritti che abbiamo di lui, sono una lettera italiana
ed un brano di lettera latina, ambedue del dicembre 1497, che
trattano il medesimo argomento.[367] Sin da tempi antichi, non però
antichissimi, i Machiavelli avevano avuto il diritto di giuspatronato
sulla chiesa di Santa Maria della Fagna in Mugello. Questo diritto
era poi stato ad essi tolto, e volevano ora usurparlo i Pazzi. Laonde
tutta la famiglia, sebbene fosse ancora vivo Bernardo, commise al
figlio di lui, Niccolò, che scrivesse in favore dei comuni diritti.
Così abbiamo le sue due prime lettere, che sono dirette _A un prelato
romano_, che probabilmente era il cardinal Perugino, giacchè a lui
scriveva con calore sul medesimo argomento anche la Repubblica.[368]
In esse il Machiavelli, con molta accortezza, con molte lusinghe e
promesse, con un linguaggio altisonante, sostenne i giusti diritti, che
_Maclavellorum famiglia_ aveva alla sua difesa affidati, e che difatti
finalmente trionfarono.

Due cose risultano chiare da tutto ciò: che egli conosceva allora il
latino e lo scriveva, il che era stato messo in dubbio da qualcuno;
che tutti i Machiavelli facevano gran conto di lui, avendolo eletto
come loro rappresentante e difensore. In mezzo alle poche notizie
pervenuteci, le quali spesso anche si contradicono, non sarà
inopportuno cercare di fermar bene quelle almeno che sono sicure. Non
può di certo far maraviglia, che avesse già una sufficiente istruzione
letteraria un uomo così singolarmente dotato dalla natura, nato in
una famiglia non priva di fortuna, nè di cultura; che passò la sua
giovanezza ai tempi di Lorenzo il Magnifico, quando abbondavano le
scuole e le pubbliche lezioni nello Studio, quando le lettere italiane
e le latine s'imparavano quasi senza accorgersene, anche conversando,
e le reminiscenze dell'antichità erano nell'atmosfera stessa che
si respirava. Strano sarebbe stato invece quello che pretesero
alcuni, seguendo le poco sicure affermazioni del Giovio, che cioè il
Machiavelli fosse allora quasi privo d'ogni cultura, e solo più tardi
apprendesse da Marcello Virgilio Adriani tutte quelle cognizioni,
che troviamo nelle sue opere, d'autori greci o latini.[369] Da un
altro lato, sebbene egli avesse fin dalla sua gioventù una discreta
cultura, e col tempo progredisse molto nello studio dei classici
latini, ed in ciò gli giovasse non poco il conversare frequente con
Marcello Virgilio, non si può neppure prestar fede all'affermazione
di coloro che vorrebbero farne un erudito, un profondo conoscitore
del greco.[370] Che abbia o no conosciuto i primi elementi del greco,
non si può nè affermare nè negare, ed è cosa in sè stessa di nessuna
importanza; che molto leggesse le traduzioni di autori greci, e se ne
valesse ne' suoi scritti, non si può mettere in dubbio; ma che fosse in
grado di leggerli nell'originale, il che avrebbe certo molta importanza
a sapersi, non vi è nessun sicuro argomento per poterlo credere. In
mezzo a tante citazioni latine, non se ne trova una sola in greco;
abbiamo di lui qualche traduzione dal latino, non una sola pagina
che egli dica di aver tradotta dal greco, nè un solo autore che egli
affermi di aver letto in quella lingua. Da un altro lato è certo che
i suoi contemporanei non lo ponevano fra gli eruditi; il Varchi anzi
lo dice «più tosto non senza lettere che letterato.»[371] Giuliano de'
Ricci, che pur era figlio d'una figlia del Machiavelli, combattendo
il Giovio, dimostra che il suo illustre antenato conosceva il latino,
ma del greco non dice neppure una sola parola.[372] In conclusione, da
tutto quel che sappiamo con certezza, si può dedurre che il Machiavelli
ebbe nella sua gioventù la più generale istruzione letteraria de'
suoi tempi, non quella d'un erudito, e gli scrittori greci studiò
assai, ma solo nelle traduzioni; nè pare che si addentrasse gran
fatto nello studio della giurisprudenza, di cui dovette però aver
qualche cognizione.[373] Il resto fece più tardi da sè con la
lettura, con la meditazione, più di tutto con la esperienza degli
affari e la conoscenza degli uomini. Certo egli dovè da una cultura
comparativamente ristretta sentir qualche danno; ma ne ebbe anche
l'inestimabile vantaggio di serbare più viva la spontanea originalità
del suo ingegno e del suo stile, i quali non furono perciò, come a
tanti seguiva allora, soffocati sotto il peso della erudizione.

Grande era tuttavia il suo entusiasmo per gli antichi, specialmente pei
Romani; ma questa sua ammirazione aveva qualche cosa che ricordava Cola
di Rienzo e Stefano Porcari, piuttosto che il semplice erudito. Vivendo
poi in quel secolo di lettere, di arti, di congiure, di scandali papali
e d'invasioni straniere, egli aveva passato il suo tempo non solo coi
libri, ma anche con gli uomini, conversando e meditando di continuo
sugli avvenimenti che seguivano assai rapidi intorno a lui. E fra
questi, dovè fargli una profonda e penosa impressione la venuta dei
Francesi nel 1494, impressione mitigata solo in parte dalla cacciata
dei Medici e dalla proclamazione della repubblica in Firenze. Se non
che, pieno di reminiscenze pagane e d'una grande avversione per tutto
ciò che sentiva di preti o di frati, gli andò assai poco ai versi, che
la Repubblica fosse dominata dalla eloquenza di un frate, ed inclinò
piuttosto verso coloro che lo menarono al supplizio, sebbene più tardi
si lasciasse ne' suoi scritti sfuggire parole di ammirazione, neppure
queste però libere affatto da ogni ironia. Ma quando le ceneri del
Savonarola vennero gettate in Arno, ed i Piagnoni furono perseguitati,
le cose pigliarono un aspetto meno contrario alle sue idee. Allora,
come è naturale, seguirono anche diversi mutamenti nei pubblici
ufficî, ed il Machiavelli, che a ventinove anni si trovava senza una
professione e senza una fortuna propria, pensò di cercare qualche
occupazione, che gli désse col proprio lavoro onesto guadagno. La
cosa non doveva essere molto difficile, perchè egli non mirava troppo
alto, e la Repubblica soleva già da molto tempo adoperare in ufficî
retribuiti, massime nelle sue segreterie, uomini di lettere.

La prima di esse era quella dei Signori, a capo della quale stava il
primo Segretario o Cancelliere della Repubblica. Questo era un ufficio
assai onorevole, affidato ad uomini come Leonardo Aretino, Bartolommeo
Scala e simili. Veniva poi la seconda segreteria o cancelleria, che,
sebbene avesse una sua propria importanza, e forse anche maggior
lavoro, dovendo trattare gli affari interni dello Stato, pure
dipendeva dalla prima. V'erano inoltre due, più specialmente chiamati
i Segretarî della Signoria, ai quali s'assegnavano uffici diversi.
Spesso li mandavano in giro pel territorio o fuori, con speciali
commissioni; qualche volta affidavano ad uno di essi la direzione
della seconda cancelleria, o lo ponevano a servigio dei Dieci.
Questi, come è noto, provvedevano alle cose della guerra; nominavano
o proponevano i commissarî nel territorio della Repubblica; inviavano
anche ambasciatori all'estero, e tenevano con essi corrispondenza, ma
allora si trovavano come alla dipendenza dei Signori, i quali con la
loro prima cancelleria trattavano di regola gli affari esterni. Così la
seconda cancelleria, della quale i Dieci si valevano pei loro affari,
riceveva spesso ordini dalla prima, e quando, cosa che seguì più volte,
essi non venivano eletti, ne facevano le veci i Signori.[374]

Verso la fine del 1497 era morto Bartolommeo Scala, celebre erudito,
il quale, salvo una breve interruzione, era stato fin dal 1465
Segretario della Repubblica, ed in sua vece fu, nel febbraio del
1498, nominato Marcello Virgilio Adriani.[375] Più tardi fu privato
d'ufficio Alessandro Braccesi, che era uno dei due Segretari della
Signoria, messo a capo della seconda cancelleria, ed allora, il 15
giugno, vennero messi a partito quattro nomi, nel Consiglio degli
Ottanta, e dopo quattro giorni, cioè il 19 dello stesso mese, nel
Consiglio Maggiore. Fra questi nomi trovavasi appunto quello di Niccolò
di Bernardo Machiavelli, il quale ebbe il maggior numero di voti, e
restò quindi eletto. Fu così il primo dei due Segretari della Signoria,
con l'incarico di reggere la seconda cancelleria.[376] Il 14 luglio
seguente venne dai Signori rinominato, con incarico di servire anche
i Dieci; ed in questo doppio ufficio cui era stato eletto allora per
un anno, fu di tempo in tempo riconfermato, fino a che non cadde il
governo repubblicano nel 1512.[377] Dopo la riforma delle segreterie,
fatta nel 1498, al cancelliere della seconda spettava lo stipendio
di fiorini 200 l'anno, al primo dei due Segretarî della Signoria ne
spettavano invece 192, ma il Machiavelli, per le riduzioni recentemente
fatte, ne riceveva solamente 100.[378] Egli aveva circa ventinove anni,
quando si trovò la prima volta in ufficio accanto a Marcello Virgilio,
il quale potè essere perciò il suo dotto amico, non il suo maestro come
da alcuni si pretese.

Marcello Virgilio era nato nel 1464, aveva quindi soli cinque anni
più del Machiavelli. Era stato discepolo del Landino e del Poliziano;
conosceva il greco ed il latino, la medicina e le scienze naturali;
aveva una grande facilità di parlare improvviso, anche in latino.
E queste qualità oratorie venivano favorite dalla sua apparenza
esteriore; giacchè egli era alto della persona, di un portamento
dignitoso, con una fronte spaziosa, un viso aperto. Nominato nello
Studio professore di lettere nel 1497, continuò per alcuni anni,
certamente fino al 1502, a dar lezione, cumulando, dopo il 1498,
l'ufficio di professore con quello di segretario. Egli in realtà
continuò ad esser sempre un erudito, ed anche come segretario della
Repubblica si occupò più che altro di dar forma classica alle lettere
che scriveva, secondo gli ordini ricevuti, e non tralasciò mai i suoi
studi. Nelle biblioteche fiorentine si trova un gran numero di suoi
lavori manoscritti. Molte sono le sue orazioni latine di ogni genere,
filosofiche, letterarie, politiche, sempre erudite e retoriche. Egli
fece, come vedremo fra poco, la solenne orazione, quando fu dato a
Paolo Vitelli il bastone del comando dell'esercito, e fece anche
l'elogio funebre di Marsilio Ficino. Non pochi sono gli scritti
letterari che lasciò: poesie latine, traduzioni, comenti di autori
greci o latini. Ma l'opera sua più nota, cominciata sin dai primi anni
del suo ufficio di professore, fu la traduzione dell'_Ars Medica_ di
Dioscoride, pubblicata a Basilea nel 1518 e dedicata a Leone X. Nel
1515, per una caduta da cavallo, ebbe a soffrir molto degli occhi e
restò balbuziente per tutta la vita.[379] Morì nel 1521 in età di 56
anni.

Diverso assai appariva il Machiavelli. Di media statura, magro, con
occhi vivacissimi, capelli scuri, naso piuttosto piccolo; la sua
testa non era grossa, la fronte era larga, e la bocca soleva tenere
sempre stretta: tutto aveva in lui l'espressione di un accortissimo
osservatore e di un pensatore, non però d'un uomo molto autorevole,
che s'imponesse agli altri.[380] Nè poteva facilmente liberarsi da
un sarcasmo che stava continuo sulle sue labbra, e scintillava da'
suoi occhi, dandogli tutta l'apparenza d'uno spirito calcolatore,
impassibile e mordace. Pure la sua fantasia aveva su di lui un gran
potere, e facilmente lo dominava, qualche volta anzi lo trasportava
a segno da farlo inaspettatamente sembrare un visionario. Cominciò
subito a servire la Repubblica fedelmente, con tutto l'ardore d'un
antico Fiorentino, esaltato com'era dalle reminiscenze di Roma pagana e
repubblicana. Se egli non era in tutto contento del presente governo,
era però contentissimo che fossero cessati la tirannide dei Medici, e
il predominio di un frate. Certo il conversare con Marcello Virgilio
fu utile ai suoi studî, ed è credibile che egli assistesse ancora ad
alcune lezioni del suo superiore di ufficio; ma non gli poteva restare
molto tempo libero, perchè era occupato da mattina a sera a scrivere
lettere d'affari, delle quali si trovano anche oggi molte migliaia
nell'Archivio fiorentino. Oltre di ciò, egli fu di continuo mandato
dai Dieci in giro pel territorio dello Stato, e ben presto gli vennero
affidate anche importanti legazioni all'estero. In queste faccende
poneva tutto sè stesso, perchè erano di suo gusto, e perchè ebbe
sempre una febbrile attività. Le poche ore che gli restavano libere
dedicava alla lettura, al conversare, ed anche ai piaceri della vita.
Di allegra compagnia, si trovava in buoni termini coi colleghi delle
due cancellerie, e più assai che con Marcello Virgilio, fece lega con
quelli che avevano un grado inferiore al suo, sopra tutto con Biagio
Buonaccorsi, il quale, sebbene di non grande ingegno, era assai buon
uomo e amico fedele. Quando il Machiavelli si trovava lontano, il
Buonaccorsi gli scriveva lettere lunghe e affettuose, dalle quali
trasparisce una vera amicizia; ma si vede ancora che il capo della
seconda cancelleria e segretario dei Dieci era molto dato al vivere
allegro, ai mutabili e poco casti amori, dei quali discorrevano fra
loro con un linguaggio tutt'altro che edificante.



CAPITOLO II.

    Niccolò Machiavelli comincia ad esercitare l'ufficio di
    Segretario dei Dieci. — Sua legazione a Forlì. — Condanna e
    morte di Paolo Vitelli. — _Discorso sopra le cose di Pisa_.

    (1498-1499)


La principale faccenda che la Repubblica avesse ora alle mani era la
guerra di Pisa, e pareva che gli altri Stati dovessero finalmente
permetterle che si misurasse coll'antica sua avversaria, senza
altrimenti mescolarsene. Il Papa e gli alleati si dichiaravano,
infatti, contenti di Firenze per il supplizio del Savonarola, e non
chiedevano altro; l'amicizia di Firenze colla Francia si sperava che
dovesse tenere in freno gli altri potentati italiani. È vero che Luigi
XII, salendo sul trono di Francia, aveva assunto ancora i titoli di re
di Gerusalemme e di Sicilia, di duca di Milano, alle antiche pretese
sul Napoletano aggiungendo così quelle sulla Lombardia, da lui vantate
a cagione della sua avola Valentina Visconti; ed è vero del pari
che ciò faceva prevedere nuovi guai all'Italia, aveva anzi già messo
Milano e Napoli in una grandissima paura. Ma da un altro lato tutto ciò
procurava ai Fiorentini i segreti aiuti del Moro, che cercava d'averli
amici; e così crescevano le loro speranze. Se non che i Veneziani
continuavano apertamente a favorire Pisa; i Lucchesi, come più deboli,
si contentavano d'aiutarla di nascosto, ed essa con animo risoluto, con
mirabile energia, si teneva sempre pronta alla difesa. Aveva armato non
solo tutti i suoi cittadini, ma anche gli uomini del contado, che nelle
continue scaramucce s'erano agguerriti. I Veneziani le avevano mandato
trecento Stradiotti, o sia Albanesi a cavallo, armati alla leggera,
abilissimi nelle scorrerie e negli assalti improvvisi; parecchi soldati
francesi erano, fin dalla venuta di Carlo VIII, rimasti nelle sue mura
a difenderla. A questo s'aggiungeva che, negli ultimi tempi, a causa
delle interne dissensioni, i Fiorentini avevano trascurato assai le
cose della guerra, ed il loro capitano generale, conte Rinuccio da
Marciano, insieme col commissario Guglielmo de' Pazzi, avevano in uno
scontro di qualche importanza ricevuto tale rotta, che a fatica ne
erano essi stessi scampati vivi.[381] E fu questo appunto il momento
scelto dai Veneziani, per minacciare d'avanzarsi nel Casentino, a fin
di richiamare colà l'esercito assediante. Occorrevano adunque nuovi e
sempre più energici provvedimenti.

Si cominciò collo scrivere lettere urgenti al re di Francia, perchè
impedisse ai Veneziani suoi alleati di penetrare nel Casentino; si
chiese e s'ottenne dal Moro buona somma in prestito; si deliberò ancora
di far venire di Francia, col consenso del Re, Paolo e Vitellozzo
Vitelli, al primo dei quali, che aveva reputazione di gran capitano,
venne offerto addirittura il comando dell'esercito.[382] Arrivato
egli a Firenze, vi fu subito, ai primi del giugno 1498, una grande
solennità. In piazza della Signoria, dinanzi al Palazzo, erano il
popolo affollato e i magistrati della Repubblica; Marcello Virgilio
leggeva un'orazione latina, in cui, celebrando le battaglie e le virtù
del nuovo capitano, ivi presente, le paragonava a quelle dei più grandi
dell'antichità.[383] E nello stesso tempo, l'astrologo che il Vitelli
menava seco, era con quelli della Signoria dentro la corte del Palazzo,
osservando ed «aspettando l'avvenimento del felice punto.»[384] Non
appena che essi fecero il cenno convenuto, fu dato nelle trombe, e
venne sospesa l'orazione, affrettandosi il Gonfaloniere a consegnare
il bastone del comando, con la speranza di prosperi successi. Dopo
di che, finita l'orazione, s'andò in duomo a sentire la messa, ed
il 6 di giugno 1498 il celebrato capitano partì per il campo. Allora
cominciò subito l'attività dei Dieci per dare impulso alla guerra, e
cominciarono le molte e gravi faccende del Machiavelli.

È appena credibile quante brighe, noie e pericoli questa piccola
impresa désse alla Repubblica. Si principiò subito con le gelosie tra
il vecchio ed il nuovo capitano, per le quali fu necessario dare al
conte Rinuccio la paga stessa che al Vitelli, lasciandogli il titolo
di governatore generale, mentre a questo, col nome di capitano,
veniva affidata la direzione principale della guerra. Le cose parevano
cominciar prosperamente con la presa di varie terre, quando s'intese
a un tratto che i Veneziani s'avanzavano già verso il Casentino.
Bisognò quindi assoldare in fretta nuove genti e nuovi capitani,
indebolire la guerra nel Pisano, per portare lo sforzo maggiore contro
di questi, che nel settembre, passando per Val di Lamone, presero
Marradi. Ivi trovarono però i Fiorentini comandati dal conte Rinuccio,
ed ingrossati da genti mandate in aiuto dal Moro. Retrocessero perciò
alquanto, ma s'inoltrarono invece per la via del Casentino, occupando
la badìa di Camaldoli; passato poi il Monte Alvernia, pigliarono per
sorpresa Bibbiena. Questi fatti costrinsero i Fiorentini a sospendere
addirittura la guerra di Pisa, e, lasciati colà pochi uomini a guardia
delle terre più importanti, a mandare tutto l'esercito col Vitelli
contro il nuovo nemico. L'abate don Basilio dei Camaldolesi era
corso intanto nella montagna a sollevare e comandare i contadini di
quei luoghi alpestri, che a lui erano devoti, e riuscì a fermare i
Veneziani, recando loro gravissimi danni.[385] In questo momento il
duca d'Urbino, che comandava nel campo nemico, trovandosi ammalato,
chiese un salvocondotto per sè e pei suoi al Vitelli, che subito glielo
concesse. La qual cosa produsse uno sdegno, e destò un gravissimo
sospetto nell'animo dei Fiorentini, i quali allora seppero anche come
il loro capitano si era pubblicamente fatto vedere in colloquio con
Piero e Giuliano de' Medici, che seguivano il campo nemico.

Sopraggiunse intanto il verno, e la guerra con difficoltà si poteva
continuare nei monti, sebbene nessuno volesse ritirarsi, quando il
duca Ercole di Ferrara s'offerse mediatore di pace tra Firenze, Pisa e
Venezia. Accettata che fu la mediazione, egli pronunziò il suo lodo ai
primi del 1499. Secondo il quale, pel 24 di aprile i Veneziani dovevano
ritirarsi dal Casentino e dal Pisano; i Fiorentini dovevano pagar loro
la somma di 100,000 ducati in dodici anni; i Pisani, restando padroni
della fortezza e liberi nel loro commercio, dovevano tornare sotto
Firenze. Nessuno fu contento; pure i Fiorentini accettarono il lodo,
ed i Veneziani ritirarono le loro genti; ma i Pisani s'apparecchiarono
invece, con più ardore che mai, a combattere.[386] Il segreto di
tutta la faccenda era, che s'aspettavano altrove nuovi e maggiori
avvenimenti, essendosi Luigi XII accordato col Papa e coi Veneziani,
per venire in Italia contro il Moro. Quindi ognuno ritirava le sue
genti dalla Toscana, dove Firenze e Pisa erano perciò lasciate sole,
l'una di fronte all'altra.

Per questi eventi il Machiavelli aveva avuto moltissimo da fare,
giacchè da lui dipendeva tutto il lavoro dell'ufficio dei Dieci.
Scriveva un numero infinito di lettere; mandava ordini; spediva danari,
armi, e qualche volta doveva egli stesso muoversi per andare a parlare
ai capitani. Così il 24 marzo del 1499 fu mandato a Pontedera, presso
Jacopo IV d'Appiano signore di Piombino, che essendo a servizio della
Repubblica, chiedeva maggiore condotta ed una paga uguale a quella
del conte Rinuccio. Potè indurlo a contentarsi d'un aumento della
condotta;[387] ma gli altri capitani erano più insistenti; le loro
pretese e lamenti non avevano mai fine. Paolo Vitelli, non volendo
stare alla pari col conte Rinuccio, chiese maggiore paga e l'ottenne,
il che subito destò la gelosia del Conte, che a sua volta cominciò a
strepitare. Tutte queste cose avevano portato le spese della guerra, e
quindi le gravezze, a tale che erano divenute proprio incomportabili.
I libri delle provvisioni della Repubblica in questi anni non ci
presentano altro che una serie di sempre nuovi e più ingegnosi trovati,
per cavar danari dai cittadini. Lo scontento popolare veniva cresciuto
dal vedere che i Dieci, chiamati perciò i _Dieci spendenti_, avevano
largheggiato non solo per poca prudenza, ma ancora per indebiti favori
ai loro amici, cui davano commissioni o condotte inutili;[388] e si
minacciava quasi di prorompere in aperto tumulto. Così fu che, quando
nel maggio doveva procedersi alle nuove elezioni, si sentì il popolo
gridare: _nè Dieci nè danari non fanno pei nostri pari_; e non vi fu
modo alcuno di indurlo a votare.[389] La Signoria dovette quindi, per
qualche mese piegarsi a dirigere essa le cose della guerra, coll'aiuto
d'alcuni fra i più autorevoli cittadini. Tutte le accuse fatte ai
Dieci non toccavano però, nè direttamente nè indirettamente, il
Machiavelli loro segretario, il quale aveva anzi in questo breve tempo
guadagnato assai di autorità e di reputazione. La seconda cancelleria
a lui affidata, si trovò allora, insieme colla prima, alla dipendenza
esclusiva dei Signori; ma questo modificò poco o punto la sua
condizione, e solo potè crescergli le faccende.

Il 12 luglio 1499 egli ebbe la prima commissione di qualche importanza,
essendo stato inviato con lettera dei Signori, firmata Marcello
Virgilio, presso Caterina Sforza, contessa d'Imola e Forlì. Era questo
un piccolo Stato, la cui amicizia veniva con grande premura ricercata
dalla Repubblica, perchè trovavasi non solo sulla via che dall'Italia
superiore conduce alla inferiore, ma anche su quella che per Val di
Lamone conduce in Toscana. Di là s'erano avanzati i Veneziani, di là
aveva minacciato il duca Valentino. Il paese era inoltre armigero, e
forniva soldati di ventura a chi ne chiedeva alla Contessa, la quale
ne faceva quasi commercio. Suo figlio primogenito, Ottaviano Riario,
sebbene giovanissimo, per guadagnar danari cercava condotte, e nel
1498 ne aveva ottenuta dai Fiorentini, che volevano tenersi amica sua
madre, una di quindicimila ducati, da durare sino a tutto giugno, ma
che poteva essere rinnovata, a beneplacito dei Signori, per un secondo
anno. Il primo termine era scorso con assai poca soddisfazione del
Riario, il quale diceva che non gli erano stati mantenuti tutti i
patti, e però non voleva saperne altro. Ma la Contessa, più prudente
assai, vedendo che i Fiorentini desideravano esserle amici, e che il
Valentino faceva sempre grandi disegni sulla Romagna, si dimostrava
disposta invece a confermare il _beneplacito_, aggiungendo che aveva
richiesta d'uomini d'arme da suo zio il Moro, e voleva quindi pronta
risposta, per sapere come regolarsi. Da ciò la commissione data al
Machiavelli.

La Contessa era una donna singolarissima, e ben capace di tenergli
testa. Nata nel 1462 da illegittimi amori di Galeazzo Maria Sforza[390]
con Lucrezia, moglie d'un Landriani milanese, di forme regolari e
belle, forte di corpo, d'animo più che virile, ebbe molte e strane
avventure, nelle quali aveva sempre fatto prova di un'accortezza e
prontezza ammirabili davvero, di una energia e d'un coraggio, che
l'avevano resa celebre in tutta Italia. Giovanissima fu sposata
al dissoluto figlio di Sisto IV, Girolamo Riario, il quale, per la
violenza del suo carattere e del suo governo, si trovò sempre sotto il
pugnale de' congiurati. Nel 1487, già vicina a partorire, lo assisteva
malato in Imola, quando arrivò la nuova, che la fortezza di Forlì era
stata presa dal maestro di palazzo Innocenzo Codronchi, il quale aveva
ucciso il castellano. E Caterina partì la notte stessa, entrò nel
castello, vi lasciò a guardia Tommaso Feo, e ne uscì menando seco il
Codronchi ad Imola, dove il giorno di poi partorì. Il 14 aprile 1488
scoppiò in Forlì una congiura contro Girolamo Riario, che fu pugnalato;
ed ella, restata a 26 anni vedova con sei figli, si trovò prigioniera
degli Orsi capi della rivolta. Ma neppure allora si perdette d'animo.
Entrò nel castello, che si teneva per lei, facendo credere che ne
avrebbe ordinato la resa al popolo, nelle cui mani lasciava perciò
in ostaggio i suoi figli. Invece aveva già mandato a chiedere aiuti a
Milano, e quando fu al sicuro nel castello, s'apparecchiò a difendersi
sino all'arrivo dei soccorsi. A chi voleva spaventarla, minacciando
d'uccidere i figli, rispose che avrebbe avuto modo di farne degli
altri. La città fu ripresa, e la ribellione venne da lei punita col
sangue. Più tardi la Contessa fece a un tratto disarmare il fido
castellano che l'aveva salvata, sostituendogli il fratello, Giacomo
Feo, bellissimo giovane che poi sposò. Anche questo secondo marito fu
assassinato nel 1495, un giorno che seguiva a cavallo la Contessa, la
quale era in carrozza, e tornavano insieme dalla caccia. Ella montò
subito a cavallo, ed entrò in Forlì, dove fece aspra, sanguinosa,
quasi furibonda vendetta. Quaranta persone andarono a morte fra strazi
atroci, e cinquanta vennero imprigionate o perseguitate. Pure fu
detto e ripetuto, che ella aveva prezzolato gli uccisori del marito,
e che ora ne pigliava pretesto a disfarsi dei propri nemici. Ma a ciò
rispose, che, grazie a Dio, nè essa nè altri di casa Sforza avevano
mai avuto bisogno di ricorrere a così volgari assassini, quando si
erano voluti disfare di qualcuno. Nel 1497 sposò la terza volta, e fu
moglie di Giovanni di Pier Francesco, del ramo cadetto de' Medici, che
era stato mandato colà ambasciatore della Repubblica fiorentina.[391]
E allora fu fatta cittadina di Firenze, in parte perchè si cercava
occasione di lusingarla e tenersela amica; in parte perchè le antiche
leggi, che vietavano i matrimoni di cittadini, massime cittadini
potenti, con stranieri, erano state rimesse in vigore dopo che il
parentado dei Medici cogli Orsini di Roma aveva fatto salire i primi
in grande superbia. Nell'aprile del 1498 ella ebbe un altro figlio,
assai noto più tardi col nome di Giovanni delle Bande Nere, soldato
valorosissimo e padre di Cosimo, primo granduca di Toscana. Verso la
fine di quel medesimo anno, anche il suo terzo marito cessò di vivere.
La Contessa dunque aveva 36 anni, era vedova di tre mariti, madre di
molti figli, padrona assoluta del suo piccolo Stato, e nota come donna
piena d'accortezza, d'ingegno e di grandissima energia, quando le si
presentò Niccolò Machiavelli.[392]

I Fiorentini erano disposti a riconfermare il beneplacito al signor
Ottaviano, ma con una condotta che non superasse i 10,000 ducati, il
loro scopo essendo solo d'avere la Contessa amica. Incaricavano il
Machiavelli di ciò, e anche di comperare da lei, se ne aveva, polvere,
salnitro e palle, perchè le richieste non cessavano mai dal campo di
Pisa.[393] Ed egli, dopo essersi fermato a Castrocaro, donde ragguagliò
i Signori intorno ai partiti che dividevano quel paese, arrivato a
Forlì, il giorno 16 luglio, si presentò subito alla Contessa, che trovò
con l'agente del Moro, in presenza del quale espose lo scopo della sua
legazione, l'animo della Repubblica e il desiderio che essa aveva di
buona amicizia con lei. E questa, dopo avere ascoltato con attenzione,
disse che le parole dei Fiorentini «l'avevano sempre soddisfatta, ma
che le erano bene dispiaciuti sempre i fatti;»[394] e pigliò tempo
a pensare. Più tardi gli fece sapere che da Milano le erano offerti
migliori patti, e poi cominciarono le trattative. Di polvere o altro
non potè dar nulla, perchè ne mancava ella stessa. Invece abbondava di
fanti, che raccoglieva, passava ogni giorno in rivista, e mandava poi
a Milano. Il Machiavelli, invitato da Marcello Virgilio, trattò per
averne subito e spedirli a Pisa; ma non furono d'accordo nè sulla somma
da pagare, nè sul tempo in cui si potevano avere.[395] Il 22 luglio
egli credeva d'aver concluso la condotta, avendo offerto fino a 12,000
ducati; pure aggiungeva di non essere certo, perchè la Contessa «era
stata sempre sull'onorevole,» ed a lui non era riuscito di capire se
inclinava verso Firenze o verso Milano. «Io vedo bene,» egli scriveva,
«la Corte piena di Fiorentini, i quali sembrano avere in mano lo
Stato; inoltre, ed è quello che più importa, la Contessa vede pure
il duca di Milano assalito, senza sapere che sicurezza vi sia in lui;
ma da un altro lato l'agente del Moro par che comandi, e di continuo
partono fanti per Milano.» Infatti, sebbene il 23 luglio tutto paresse
che fosse concluso, e che si dovesse il giorno di poi sottoscrivere
l'accordo, pure quando il Machiavelli si ripresentò per la firma,
la Contessa, ricevutolo in presenza del solito agente milanese, gli
disse: «Avere ripensato la notte, che a lei conveniva meglio aderire ai
patti, solo quando i Fiorentini si dichiarassero obbligati a difenderle
lo Stato. Che se essa gli mandò a dire altrimenti il giorno innanzi,
non doveva maravigliarsene, perchè le cose quanto più si discutono,
meglio s'intendono.»[396] Ma i Signori avevano già fatto sapere al
Machiavelli, che erano decisi a non assumere un tale obbligo; a lui
dunque non restava altro che tornarsene a Firenze, come fece.[397]

Tutta l'apparenza di questa legazione farebbe credere, che la Contessa
fosse stata più furba del Machiavelli, il quale sembrerebbe essersi
lasciato aggirare da una donna. Nè, se ciò fosse, vi sarebbe da
maravigliarsene punto, pensando che Caterina Sforza era una donna
d'animo virile, che da più tempo governava sola il suo Stato, ed aveva
molta pratica degli affari, quando il Segretario fiorentino, invece,
con tutto il suo grande ingegno, era un semplice letterato, che faceva
ora le sue prime armi nella diplomazia. In sostanza però i Fiorentini
non avevano nessuna ragione d'essere scontenti. Il loro scopo non era
stato di concludere la condotta, bensì d'avere amica la Contessa, senza
spendere danari; e ciò era riuscito a maraviglia, perchè le trattative
non furono rotte, ma venne da Forlì un uomo fidato di lei a continuarle
in Firenze.[398] Al Machiavelli poi la legazione fu utilissima, perchè
le sue lettere erano state da tutti molto lodate in Palazzo. Il suo
sempre fido amico e collega Biagio Buonaccorsi, che era un repubblicano
ammiratore del Savonarola, del Benivieni, di Pico della Mirandola;
amante degli studi, sebbene mediocre letterato; autore di poesie e
d'un _Diario_ che narra assai fedelmente i fatti di Firenze dal 1498
al 1512, gli scriveva continuamente e lo ragguagliava di tutto. «A mio
giudizio,» diceva una sua lettera del 19 luglio, «voi avete eseguito
insino a ora con grande onore la commissione ingiuntavi, di che io ho
preso piacere grandissimo, e di continuo piglio...: sì che seguitate,
che infino ad ora ci avete fatto grande onore.» Lo stesso ripeteva
in altre lettere, in una delle quali gli chiedeva un ritratto della
Contessa, pregandolo che ne facesse «uno ruotolo, acciò le pieghe non
la guastino.» E gli faceva anche vivissima istanza che tornasse subito,
perchè senza di lui la cancelleria era caduta in un gran disordine,
e l'invidia e la gelosia lavoravano assai; onde «lo star costì non fa
per voi, e qui è un trabocco di faccende quanto fussi mai.»[399] Questi
furono pel Machiavelli anni di dolori domestici. Nell'ottobre del 1496
gli era morta la madre, nel maggio del 1500 gli moriva il padre.

Prima di partire per la sua legazione a Forlì, il Machiavelli era
stato, come dicemmo, occupato a scrivere lettere per calmare le
gelosie dei capitani, e spingerli concordi alla guerra, cercando con
ogni argomento di far nascere in essi quell'amore alla Repubblica,
che non sentivano. Il Vitelli aveva proposto d'assaltare Cascina, ed
essendogli stato consentito, la prese il 26 giugno, cosa che riempì
di gioia e di speranza i Fiorentini, i quali cominciarono subito ad
aver grande opinione del suo valore. Ma invece da questo momento
ogni cosa restò ferma, mentre le spese crescevano smisuratamente;
sicchè, quando il Machiavelli fece ritorno da Forlì trovò i Signori
sgomenti, il popolo irritato, e i capitani che chiedevano danari che
non v'erano. Nei primi d'agosto egli faceva loro scrivere, in nome dei
Signori, che le difficoltà, per indurre i Consigli a votar nuove spese
erano grandissime; che se si andava ancora in lungo così, «sarebbe
impossibile a mezza Italia sopperire a queste artiglierie.»[400] E poco
di poi aggiungeva, «come, avendo infino a oggi per cotesta espedizione
speso fra costì e qui circa sessantaquattro mila ducati, si è munto
ogni uno; e per fare questi vi mandiamo al presente (2000 ducati), si
sono vôte tutte le casse....» Se non fate presto, «senza dubbio noi
resteremo a piè, perchè sei mila ducati che bisognassino ancora, ci
farebbero desperare al tutto di codesta vittoria.»[401]

Allora però vi fu un momento di grandissima speranza, perchè giunse
la nuova che era stata presa la torre di Stampace, e che da 25 a 30
braccia delle mura di Pisa erano già a terra; sicchè d'ora in ora
s'aspettava il corriere con la desiderata notizia che gli assalitori
erano entrati per la breccia. Invece si seppe che il giorno 10, data
la battaglia, e giunti fino alla chiesa di San Paolo, quando tutto
l'esercito, e specialmente i giovani fiorentini andati come volontarî
al campo, si mostravano pieni d'indomabile ardore, sopravvenne a
un tratto, non desiderato nè aspettato da nessuno, l'ordine della
ritirata. Anzi Paolo Vitelli, vedendo che i soldati volevano andar
oltre in ogni modo, corse con suo fratello Vitellozzo a ributtarli
indietro a colpi di stocco.[402]

Queste notizie portarono al colmo lo sdegno dei Fiorentini, e fecero
nascere gravi sospetti di tradimento a carico del Vitelli. Si ricordava
da tutti il salvocondotto da lui dato in Casentino al duca d'Urbino,
quando s'era lasciato anche vedere dai suoi soldati parlare con Piero
e Giuliano dei Medici. Poco prima della presa di Cascina, aveva fatto
prigioniero un tal Ranieri della Sassetta, che, dopo essere stato a
soldo dei Fiorentini, aveva disertato ai Pisani, pigliando parte in
mille intrighi contro la Repubblica. I Signori lo volevano subito a
Firenze, per condannarlo, ed egli invece lo lasciò fuggire, dicendo
«non volersi render bargello d'un soldato valente e da bene.»[403]
Ed ora fermava l'esercito, quando appunto la vittoria era certa, e
la città stessa di Pisa sembrava già presa, adducendo esser sicuro
d'averla a patti! Tutto ciò era più che sufficiente a distruggere ogni
fede in lui, ed a far perdere la pazienza. I Signori infatti dissero
chiaro, che non volevano essere più «menati al buio;»[404] ed il 20
agosto fecero dal Machiavelli scrivere ai commissarî nel campo: Noi
abbiamo dato al capitano tutto quello che ha voluto, eppure vediamo,
«con varie cavillazioni ed aggiramenti, tornare in vano ogni nostra
fatica.»[405] Due di noi sarebbero perciò venuti costà in persona, se
le leggi lo consentissero, per cercar di scoprire le origini di codesti
aggiramenti, «poi che voi o non ce li volete scrivere o in fatto non ve
li pare conoscere.»[406] Ma tutto era vano. Intanto le febbri facevano
stragi nel campo, che s'andava così assottigliando, mentre i Pisani
ricevevano aiuti. I due commissarî s'ammalarono di febbre anch'essi,
ed uno ne morì. Ai nuovi che furono subito mandati, il Machiavelli
scriveva in nome dei Signori: Noi avremmo preferito una disfatta al
non tentare nulla in un momento così decisivo. «Non sappiamo nè che ci
dire, nè con qual ragione escusarci in cospetto di tutto questo popolo,
il quale ci parrà aver pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con
vana promessa di certa vittoria.»[407]

Un partito in ogni modo bisognava prendere, e siccome non v'era altro
rimedio, nella totale mancanza di danaro, dopo la condotta del Vitelli
ed i gravi sospetti che di lui s'erano concepiti, così fu dato ordine
di levare addirittura il campo, lasciando fortificati e guardati solo
alcuni luoghi di maggiore importanza. Ma anche allora tutto andò male,
giacchè, fra le altre cose, affondarono in Arno dieci barche, che
portavano munizioni ed artiglierie, parte delle quali vennero in mano
dei Pisani, che le ripescarono.[408] Ma questa faccenda non poteva
passar liscia pel Vitelli. Dopo quel che era seguìto, e quando già
tutti in Firenze lo credevano traditore, s'era anche sparsa la voce,
che nella fuga del Moro da Milano, erano in mano dei Francesi venute
delle carte dalle quali s'aveva la certezza, che egli trovavasi in
segreti accordi per tirare in lungo la guerra.[409] Braccio Martelli
e Antonio Canigiani erano già partiti come commissarî di guerra,
incaricati in apparenza di fornire il danaro necessario a levare il
campo, ma in realtà mandati ad impadronirsi della persona di Paolo e di
Vitellozzo Vitelli, il secondo dei quali, per fuggirsene, aveva allora
chiesto un congedo, che gli era stato negato.

Le lettere scritte dal Machiavelli in questa occasione dimostrano
che il segreto dell'affare era nelle sue mani, e che egli, persuaso
della perfidia e tradimento del Vitelli, lavorava con zelo ed ardore
grandissimi ad ottenere lo scopo desiderato. Il 27 settembre era
assai vicino lo scioglimento del dramma, ed egli raccomandava ai
commissarî che procedessero con energia contro i «nemici e ribelli»
della Repubblica, trattandosi di salvarne l'onore, e di mostrare
anche alla Francia, che si aveva il coraggio di provvedere alla
propria sicurezza, e che si voleva essere rispettati non meno d'ogni
altro potentato d'Italia. Poi conchiudeva, raccomandando che alla
sollecitudine s'unisse tale circospezione e prudenza, «che nè il troppo
animo, nè i troppi rispetti vi faccino errare, accelerando per l'una
cagione più che non bisognerebbe, e per l'altra più che non patissi la
occasione.»[410]

I due commissarî eseguirono gli ordini con prudenza. Il Vitelli
alloggiava un miglio lontano da Cascina, dove arrivavano le artiglierie
del campo. Lo invitarono colà il giorno 28, sotto colore di volerlo
consultare sulle cose della guerra; ma dopo avere desinato insieme,
si ritirarono con lui in una stanza segreta, ed ivi lo ritennero
prigione. Avevano nel medesimo tempo mandato a pigliar Vitellozzo,
che era ammalato in letto; questi però, avvedutosene, chiese tempo a
vestirsi, ed invece fuggì verso Pisa.[411] Portato a Firenze, Paolo
fu esaminato l'ultimo di settembre, e sebbene non avesse confessato
nulla, pure il giorno appresso venne decapitato. Di questo fatto si
parlò molto nella Città e fuori, essendo il Vitelli un soldato di
reputazione, che aveva anche l'amicizia di Francia. Il Guicciardini lo
giudica innocente, spiegandone la inesplicabile condotta con la natura
e le consuetudini dei capitani di ventura; il Nardi invece lo dichiara
colpevole e giustamente condannato; il Buonaccorsi, che si trovava
nella cancelleria, racconta la cosa senza comenti, conchiudendo: «e
questo fu il fine di Pagolo Vitegli, uomo eccellentissimo.» Quanto al
Machiavelli, sebbene non avesse occasione di parlare del fatto nelle
_Storie_ o nei _Frammenti_, i quali non vanno oltre la metà del 99,
pure la opinione di lui è manifesta dai suoi _Decennali_,[412] dalle
lettere che scrisse, e dall'ardore che mise nel condurre l'affare.
Non sappiamo se il tradimento vero e proprio venisse allora provato;
ma dalle deliberazioni e lettere del Consiglio dei Dieci in Venezia
si vede chiaro che il Vitelli era disposto a tradire. Si tratta in
esse di rimettere Piero de' Medici in Firenze con l'aiuto del Vitelli,
cui si sarebbe data una condotta di quarantamila ducati, quale aveva
già dai Fiorentini, o anche di più se egli insisteva.[413] Sia che
di ciò i Fiorentini fossero avvertiti o no, certo ad essi parve
dimostrato abbastanza, che il Vitelli non aveva nessuna voglia di
pigliar Pisa fino a che non si vedesse chiaro il resultato della
guerra che i Francesi facevano contro Lodovico il Moro, col quale i
Fiorentini temporeggiavano ancora.[414] Seguìta che fu la vittoria dei
Francesi, pare che il Vitelli si fosse deciso, secondo afferma anche
il Nardi,[415] ad operare per davvero; ma ormai era troppo tardi, aveva
perduto ogni riputazione.[416]

Un'altra prova, se pur ve ne fosse bisogno, della parte grandissima che
il Machiavelli prendeva in tutte le faccende della guerra, e del conto
in cui l'opera sua era tenuta, la troviamo nel suo breve _Discorso
fatto al Magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa_, che non ha data,
ma che dalla lettura apparisce scritto in quest'anno o poco dopo.[417]
È uno dei molti lavori, cui era dal suo ufficio obbligato, ed in esso,
dopo avere con diversi e giusti ragionamenti dimostrata vana ogni
speranza di sottomettere Pisa altrimenti che con la forza, ragguagliava
intorno alle varie opinioni espresse dai capitani, circa il modo di
distribuire in due o tre campi le genti fiorentine, ed alle operazioni
di guerra che essi proponevano. Il Machiavelli esponeva questi pareri
e proposte con tanta esattezza, con tanta minuzia, da mostrare come
sin d'allora la sua mente ed il suo studio si fossero rivolti non solo
alle cose politiche, ma anche alle militari. O per meglio dire, si vede
assai chiaro che la cognizione dell'arte della guerra già era divenuta
per lui una parte essenziale della scienza di Stato.



CAPITOLO III.

    Luigi XII in Italia. — Disfatta e prigionia del Moro. — Niccolò
    Machiavelli al campo di Pisa. — Prima legazione in Francia.

    (1499-1500)


I Fiorentini s'erano affrettati a condannare il Vitelli, anche perchè
non volevano che i nuovi e prosperi successi della Francia in Lombardia
ponessero ostacolo alla esecuzione della sentenza. Questi eventi,
infatti, portarono non piccola alterazione nelle cose di Toscana, e
però dobbiamo ora parlarne.

Dopo la battaglia di Fornuovo, il Moro pareva divenuto davvero, secondo
il suo antico desiderio, arbitro delle cose d'Italia. E per Firenze si
ripeteva:

    Cristo in cielo e il Moro in terra
    Solo sa il fine di questa guerra.[418]

Egli stesso aveva fatto coniare una medaglia d'argento, con un vaso
d'acqua da un lato, e il fuoco dall'altro, a simboleggiare che si
teneva padrone della pace e della guerra. Aveva anche sopra una
parete del suo palazzo fatto disegnare la carta d'Italia con molti
galli, galletti e pulcini, ed un moro che li spazzava tutti con la
granata in mano. Quando però chiese all'ambasciatore fiorentino,
Francesco Gualterotti, che cosa pensasse del quadro, questi rispose che
l'invenzione era bella, ma gli sembrava che quel moro, volendo spazzare
i galli fuori d'Italia, si tirasse addosso tutta la spazzatura.[419] E
così fu veramente.

Luigi XII pretese sempre d'aver diritti sul Ducato di Milano.
Salito che fu sul trono di Francia, cominciò subito col provvedere
alla sicurezza interna dello Stato, diminuì le imposte, ordinò
l'amministrazione, nominò ministro dirigente Giorgio d'Amboise
arcivescovo di Rouen, rispettò le autorità costituite, e non deliberò
mai senza consultarle, mantenne l'indipendenza delle Corti di
giustizia, incoraggiò le libertà gallicane, fu economo. Quando con
questo nuovo indirizzo egli ebbe assicurato l'ordine allo Stato, e
molto favore a sè stesso, rivolse l'animo alla guerra d'Italia, che
ormai non era più impopolare in Francia, per la maggiore fiducia che
s'aveva nel nuovo Re, e pel desiderio di vendicare le umiliazioni
sofferte. Il 9 febbraio del 1499 egli concluse coi Veneziani una lega
offensiva e difensiva, per la conquista del Ducato di Milano, di cui
s'obbligava a ceder loro una parte. Così il Moro si trovò tra due
fuochi, senza speranza di soccorso, giacchè i Fiorentini erano stati
sempre amici della Francia, ed il Papa, dopo le promesse di aiuti
al Valentino, la secondava anch'egli. L'esercito francese, comandato
da G. G. Trivulzio milanese, che dopo la battaglia di Fornuovo aveva
acquistato un gran nome, e da altri capitani di grido, forte di molti
Svizzeri, si avanzò con una grande rapidità senza trovare ostacoli.
I capitani del Moro parte lo tradirono, parte furono incapaci, ed il
popolo si sollevò contro di lui; sicchè egli dovè pensare alla fuga,
prima ancora che si fosse riavuto da questi inaspettati rovesci.[420]
Si fece precedere dai due figli, accompagnati da suo fratello,
il cardinale Ascanio, cui affidò la somma di 240,000 ducati. Il 2
settembre li seguì egli stesso in Germania.

Il dì 11 di quel mese l'esercito francese entrò in Milano, e poco dipoi
fece il suo solenne ingresso Luigi XII, cui subito si presentarono gli
ambasciatori dei vari Stati italiani, tra i quali ricevettero migliore
accoglienza quelli di Firenze, per essersi la Repubblica, nonostante
qualche oscillazione, serbata sempre fedele alla Francia così nella
prospera, come nell'avversa fortuna.

I Fiorentini avevano però molte ragioni d'essere scontenti dei capitani
francesi restati in Toscana, ai quali attribuivano la resistenza
dei Pisani, e in parte l'esito sfortunato dell'assedio, il che li
aveva appunto allora costretti a levare il campo ed a decapitare
Paolo Vitelli. Ma invece di perdersi in vani lamenti, conchiusero in
Milano un nuovo trattato col Re (19 ottobre 1499). Questi si obbligò
ad aiutarli a sottomettere Pisa in ogni modo; essi dovevano tener
pronti, per mandarli a Milano, 400 uomini d'arme e 3000 fanti, aiutare
l'impresa di Napoli con 500 uomini d'arme e 50,000 scudi. La resa di
Pisa doveva seguire prima che i Francesi tornassero nel Napoletano, e i
Fiorentini dovevano intanto restituire al Re le somme imprestate loro
dal Moro, secondo che verrebbero determinate da G. G. Trivulzio, dopo
avere esaminato le carte trovate a Milano.[421] E promettevano inoltre
pigliare a loro soldo il prefetto Giovanni della Rovere, fratello
del cardinale di San Piero in Vincoli, cui la Francia voleva far cosa
grata.[422]

Ma tutto ciò rimase sospeso a cagione di nuovi eventi. I Francesi,
specialmente il loro generale Trivulzio, che era stato nominato
governatore di Milano, scontentarono per modo le popolazioni, che
il Moro, presentatosi alla testa di 8000 Svizzeri da lui nuovamente
assoldati, e 500 uomini d'arme, venne acclamato da coloro stessi che
poco prima lo avevano cacciato, ed entrò in Milano il giorno 5 di
febbraio. Il Trivulzio ne era già prima uscito, lasciando però ben
guardato il castello; a Novara lasciò altri 400 uomini, e s'avanzò
verso Mortara, dove stette ad aspettare rinforzi, mentre parecchi de'
suoi Svizzeri lo abbandonavano per servire anch'essi il Moro, che dava
paghe migliori. Se non che, nell'aprile, scesero in Italia, sotto
il comando del La Trémoille, 10,000 Svizzeri, i quali combattevano
agli stipendi della Francia. Ben presto i due eserciti si trovarono
di fronte, già in ordine di battaglia, quando gli Svizzeri del Moro
dichiararono che essi erano stati assoldati individualmente, e però
non potevano combattere contro la bandiera elvetica, portata dai loro
connazionali, che Luigi XII aveva avuti mediante trattato concluso
direttamente con la Confederazione. E così lo tradirono in faccia al
nemico, chiedendo ancora, con mille pretesti e senza indugio, le paghe
scadute, non volendo neppure aspettare fino a che arrivassero a lui
aiuti italiani. Tutto quello che il misero Duca potè ottenere, fu di
nascondersi nelle loro file, travestito da frate per salvarsi. Ma,
fosse la sua paura o il nuovo tradimento d'alcuni soldati, egli fu
riconosciuto e preso prigioniero il 10 di aprile 1500. La stessa sorte
toccò a parecchi de' suoi capitani ed al fratello Ascanio, che, fuggito
da Milano, fu da un falso amico tradito ai Veneziani, e da essi ceduto
ai Francesi. Così, secondo la profezia del Gualterotti, il Moro s'era
veramente «tirata addosso tutta la spazzatura,» e la sua fortuna cadde
per sempre. Quando entrò prigioniero a Lione, accorse a vederlo una tal
moltitudine, che bisognò difenderlo colle armi. Chiuso nel castello di
Loches in Turena, vi morì dopo 10 anni di dura prigionìa. Il cardinale
Ascanio fu condotto invece nella torre di Bourges, ma venne dopo
qualche tempo rimesso in libertà.

Il Re, fatto accorto dalla passata esperienza, mandò a governare
la Lombardia Giorgio d'Amboise, il quale era adesso cardinale, e lo
chiamavano in Italia il cardinale di Roano (Rouen). Egli, pensando
che valeva meglio «taglieggiare che saccheggiare,» condannò Milano a
pagare per le spese di guerra 300,000 ducati, e così, in proporzione,
le altre città, promovendo assai minore scontento di quel che aveva
fatto il Trivulzio. Dopo di ciò fece il suo ingresso nella capitale
lombarda, precedendo di poco il Re, che subito fu colà raggiunto
dall'ambasciatore fiorentino, Tommaso Soderini, venuto a congratularsi
ed a trattare circa il numero dei soldati da mandare a Pisa, secondo
i patti già prima fermati. Fu giudicato che bastassero 500 lance,
4000 Svizzeri e 2000 Guasconi, le prime a spese della Francia, gli
altri invece, con le artiglierie e carriaggi, pagati dai Fiorentini, a
ragione di 24,000 ducati il mese.[423] Questi patti erano onerosissimi
per la Repubblica, che già aveva assunto tanti altri obblighi verso la
Francia; pure si piegò a tutto, per la speranza di potere con un valido
esercito venir subito a termine dell'impresa, sborsando solo due o tre
paghe.

Invece dovette fare adesso una nuova e più dura esperienza dei
Francesi. Il cardinale di Rouen, nelle cui mani era la somma delle
cose, cercava di far mantenere da altri l'esercito del Re, e quindi
volle non solo che le paghe cominciassero a decorrere dal maggio,
assai prima cioè che le genti fossero in Toscana, ma ancora che se ne
promettesse una pel ritorno. E bisognò consentire. Ai 22 di giugno
finalmente gli Svizzeri ed i Guasconi partirono da Piacenza con 22
falconetti e 6 cannoni, sotto il comando del Beaumont, chiesto dai
Fiorentini stessi, invece d'Ives d'Alègre, che il Re voleva mandar
loro. Il Beaumont o Belmonte, come lo chiamavano tra noi, era il
solo dei capitani francesi rimasti in Toscana, che avesse serbato la
fede. Messo al comando di Livorno, l'aveva, secondo i patti, ceduta
ai Fiorentini, i quali per ciò appunto di lui solamente si fidavano.
I nuovi mercenarî svizzeri e guasconi s'avanzarono con lentezza,
taglieggiando e saccheggiando le terre per cui passavano, a benefizio
proprio o del Re, sebbene avessero già riscosso le paghe. Anzi, quando
a Piacenza furono numerati, se ne trovarono 1200 più del fissato, e
bisognò, per una volta almeno, pagare anch'essi.[424] La condotta di
tutta questa gente sarebbe davvero inesplicabile, se non si sapesse
che cosa erano allora i soldati mercenarî, e se non si sapesse che
il cardinale di Rouen mirava sopratutto a cavar danari da amici e da
nemici. Si fermarono quindi a Bologna per averne dal Bentivoglio; ed
in Lunigiana, contro ogni volontà dei Fiorentini, spogliarono Alberigo
Malaspina di parte del suo proprio Stato, istigati a ciò dal fratello
Gabriello, cui lo cedettero. Pigliarono Pietrasanta, e non la resero ai
Fiorentini, come avrebbero dovuto. Le grida, i tumulti e le minacce che
facevano per avere le vettovaglie, di cui parevano sempre scontenti,
erano poi qualche cosa d'incredibile.

La Repubblica aveva già mandato Giovan Battista Bartolini commissario
al campo, perchè apparecchiasse tutto; ma conoscendo che cosa era la
petulante insolenza dei soldati stranieri, aveva mandato anche presso
di loro due commissarî speciali, Luca degli Albizzi e Giovan Battista
Ridolfi, con Niccolò Machiavelli in qualità di loro segretario.
Questi avevano assai difficile faccenda alle mani, perchè dovevano
accompagnare l'esercito e provvedere alle insaziabili voglie di quelle
orde affamate, che dopo il pasto avevano più fame che prima. Presero
la via di Pistoia e Pescia, ragguagliando i Signori con brevi lettere
del loro cammino. Il 18 giugno, arrivati a Camaiore, incontrarono
l'esercito che accompagnarono a Cascina, dove giunsero il 23. Qui si
cominciarono subito a sentire più forti i minacciosi lamenti, per la
pretesa mancanza di vettovaglie, specialmente del vino.[425] Giovan
Battista Ridolfi, che sin dal principio era stato contrario al chiedere
o accettare gli aiuti di Francia, dai quali non si aspettava nulla di
bene, appena seguirono i primi disordini, se ne partì col pretesto di
far conoscere ai Signori lo stato delle cose, e sollecitare pronti
rimedî. Ma Luca degli Albizzi, uomo d'un coraggio quasi temerario,
restò invece col Machiavelli in mezzo alle orde minacciose, senza mai
perdersi d'animo. A qualcuno che lo consigliava di starsene alquanto
lontano dal campo, rispose: chi ha paura, torni a Firenze,[426] e andò
oltre con l'esercito. Vennero ambasciatori pisani, offerendo di cedere
la città in mano dei Francesi, con la condizione però che la tenessero
un 25 o 30 giorni prima di darla ai Fiorentini. Il Beaumont voleva
accettare; ma l'Albizzi, in nome dei Signori, ricusò, dicendo che in
un mese potevano seguire mutamenti impreveduti, e che ormai, essendo
armati era necessario usare la forza.[427]

Il 29 giugno l'esercito era finalmente sotto le mura di Pisa, in numero
di 8000 uomini, sempre lamentando la mancanza di vettovaglie; pure
la notte si piantarono le tende, e poi si puntarono le artiglierie.
L'Albizzi, sempre in mezzo a loro, faceva quanto era in lui perchè
nulla mancasse, e non si sgomentava, sebbene vedesse molto chiaro che
da un momento all'altro poteva trovarsi a gravissimo pericolo. «S'egli
è possibile mandarci del pane, voi ci rimetterete l'anima in corpo,»
scriveva il 30 di giugno al commissario Bartolini, che si trovava in
Cascina.[428] Quello stesso giorno si cominciò a far fuoco, e si durò
fino alle ore 21, quando furono gettate a terra da quaranta braccia di
mura. Era il momento di dare l'assalto e farla finita; ma s'avvidero,
invece, che i Pisani avevano cavato un fosso dietro al muro, e
dietro al fosso fatto ripari, dai quali si difendevano; sicchè non fu
possibile andar oltre. E così anche questa volta, nel momento in cui la
città pareva presa, tutto andò in fumo. L'esercito invilito cominciò
a ritirarsi ed a tumultuare di nuovo, per la mancanza o la cattiva
qualità delle vettovaglie, e subito fu in un così gran disordine,
che il Beaumont disse all'Albizzi di non poter più rispondere
della impresa, dando la colpa di tutto ai cattivi provvedimenti de'
Fiorentini. Nè valsero proteste o assicurazioni in contrario.[429]

Il 7 luglio i soldati guasconi se ne erano senz'altro partiti, tanto
che l'Albizzi scriveva al Bartolini, che li trattasse addirittura da
nemici. Ma il giorno seguente scriveva ai Signori, che gli Svizzeri
erano entrati nella sua camera, chiedendo danari e minacciando pagarsi
del suo sangue. «I Francesi sembrano spaventati, scusansi e confortansi
con l'acqua fresca; lo stesso capitano Beaumont è smarrito, ma insiste
sempre per aver le paghe. Io non volli prima annoiare invano le
Signorie Vostre; ma ora bisogna in ogni modo risolvere che partito si
vuol prendere con questa gente, e provvedere. Sarebbe bene pensare
anche se si vuole salvare la mia vita.» «Non reputino le Signorie
Vostre che viltà muova a questo, che io intendo a ogni modo non fuggire
il pericolo, quando sia giudicato a proposito della Città.»[430]

Le previsioni dell'Albizzi s'erano il giorno dopo già avverate. Il
Machiavelli, della cui mano sono la più parte di queste lettere,
scriveva dal campo, in suo proprio nome, che verso le tre ore
s'erano presentati un centinaio di Svizzeri, chiedendo danari, e non
ottenendoli, avevano menato prigioniero l'Albizzi.[431] Questi venne
trascinato a piedi fino all'alloggiamento del baglì di Dijon, e di
là scriveva lo stesso giorno, che trovavasi d'ora in ora a disputare
la vita, in mezzo ai soldati che lo minacciavano con le alabarde
in sul viso. Volevano che désse le paghe anche ad una compagnia di
circa 500 Svizzeri arrivati da Roma, alla qual cosa, non avendo essa
alcun fondamento di ragione, s'era opposto energicamente. Neppure
in quei difficili momenti egli perdette la calma, anzi nella stessa
lettera dava utili consigli; si doleva però amaramente d'essere
stato abbandonato «come persona rifiutata e perduta.... Che Dio mi
conforti almeno, se non con altro, con la morte.»[432] Non ci fu però
verso d'essere liberato fino a che non sottoscrisse, obbligandosi
personalmente a pagare 1300 ducati per gli Svizzeri venuti da
Roma.[433] L'esercito allora si sciolse, ultimi a partire essendo stati
gli uomini d'arme. Dopo tante spese e tanti sacrifizi, i Fiorentini si
trovavano ora col campo sfornito di gente, e coi Pisani divenuti più
audaci di prima.[434] Mandarono subito Piero Vespucci e Francesco Della
Casa, nuovi commissari, a provvedere, per quanto si poteva, così alle
paghe, come a raccogliere dai luoghi vicini nuove genti. Il Re scrisse
lettere, dolendosi dell'accaduto, rimproverando i capitani, minacciando
i soldati, promettendo di sottomettere Pisa in ogni modo.[435] Ma erano
parole, cui non tenevano dietro i fatti. Mandò il Duplessis, signore di
Courçon, che a Firenze chiamavano _Corcu_ o _Corco_, perchè esaminasse
sul luogo quanto era accaduto, e riferisse.

Intanto però i Pisani uscivano dalle mura, e pigliavano prima
Librafatta, poi il bastione detto della Ventura, che con molta
spesa era stato costruito dal Vitelli. In questo modo aprivano le
loro comunicazioni con Lucca, di dove ricevevano aiuti continui. Il
Courçon, è vero, offeriva ai Fiorentini nuove genti del Re, con le
quali potevano, egli diceva, fare continue scorrerìe, e stancare nel
verno i Pisani, per sottometterli poi, al sopravvenire della buona
stagione. Ma essi non vollero ormai più sapere nè di Francesi nè
di Svizzeri, cosa che irritò moltissimo il Re, il quale, scontento
dell'esito dell'impresa, perchè vergognoso alle sue armi, ne dava
colpa ai Fiorentini, che avevano voluto a loro capitano il Beaumont
e non Ives d'Alègre, da lui offerto; non avevano provveduto alle
vettovaglie, nè dato in tempo le paghe richieste. Ma la principale
ragione del suo scontento, era il vedere svanita la speranza di potere
più a lungo addossare a Firenze la spesa d'una parte del suo esercito.
Questi lamenti, non senza minacce, erano assai gravi, ed i nemici
della Repubblica soffiavano tanto nel fuoco, che si credette necessario
mandare in Francia messer Francesco Della Casa e Niccolò Machiavelli,
come quelli che essendosi trovati ambedue al campo, potevano
ragguagliare _de visu_ il Re, e smentire le ingiuste e calunniose
accuse, annunziando anche l'arrivo sollecito di nuovi ambasciatori, per
trattare accordi.[436]

Fino all'anno 1498 Niccolò Machiavelli aveva assai poco conosciuto
gli uomini ed il mondo; il suo spirito s'era formato principalmente
coi libri, massime cogli scrittori latini e la storia di Roma. Ma nei
due anni trascorsi dipoi aveva con molta rapidità cominciato a fare
esperienza della vita reale e delle faccende di Stato. La legazione a
Forlì gli aveva dato una prima idea degl'intrighi diplomatici; l'affare
del Vitelli e la condotta degli Svizzeri gli avevano ispirato un
profondo disprezzo, quasi un odio contro i soldati mercenarî. La morte
di suo padre, seguìta il 19 maggio 1500, quattro anni dopo quella della
madre, e pochi mesi prima che morisse la sorella sposata al Vernacci,
lo costrinse a far da capo della famiglia, sebbene non ne fosse il
primogenito, e gli aumentò quindi cure e pensieri. La gita in Francia
apriva adesso un nuovo campo di osservazione ed un largo orizzonte
dinanzi al suo spirito, tanto più che, dopo i primi mesi, essendosi
ammalato il suo collega, egli restò solo incaricato della modesta, ma
pure importante legazione.[437]

Il 18 luglio 1500 fu fatta la deliberazione, che mandava il Della Casa
ed il Machiavelli al Re, e vennero scritte le istruzioni con cui erano
incaricati di persuadergli, che tutti i disordini del campo erano
seguiti per colpa solamente de' suoi soldati, e cercare d'indurlo a
diminuire le ingiuste ed esorbitanti pretese di denari, che egli voleva
prima d'aver sottomesso Pisa. Dovevano far capo dal cardinale di Rouen,
e guardarsi bene dallo sparlargli del capitano Beaumont, suo protetto.
«Se però,» dicevano i Signori, «voi trovaste disposizione a sentirne
dir male, allora fatelo vivamente e dategli imputazione di viltà e
di corruzione.»[438] Lorenzo Lenzi, che era stato già da più tempo
con Francesco Gualterotti ambasciatore fiorentino in Francia, sebbene
fosse per andar via,[439] ripeteva loro presso a poco le stesse cose.
Potevano essi sparlare quanto volevano degl'Italiani al campo; ma,
«solo come in un trascorso di lingua,» lasciarsi andare ad accusare i
veri colpevoli.[440]

Bisognava dunque navigare tra Scilla e Cariddi, per non offendere
l'insolenza francese. Ed a queste difficoltà s'aggiungeva ancora
l'essere i due inviati uomini di assai modesta condizione sociale,[441]
non ricchi e male retribuiti. A Francesco Della Casa era assegnato lo
stipendio di lire otto di fiorini piccoli al giorno, ed al Machiavelli,
che aveva grado inferiore, solo dopo molti lamenti da lui fatti per le
spese incomportabili che sosteneva,[442] non punto minori di quelle del
suo collega, fu dato uguale stipendio:[443] ma l'uscita restò sempre
superiore all'entrata. Ben presto egli aveva già speso di suo quaranta
ducati, ed ordinato al fratello Totto di far nuovo debito per altri
settanta. Dovendo seguire il Re di città in città, era stato necessario
fornirsi di servi e di cavalli, e sebbene in sul partire avessero
avuto 80 fiorini ciascuno, avevano subito speso 100 ducati; il vivere
e mantenersi decentemente costava loro uno scudo e mezzo al giorno,
cioè più di quello che ricevevano. Così ambedue se ne lamentavano,[444]
massime il Machiavelli, che non era ricco, ma di sua natura facile allo
spendere.

Comunque sia di ciò, il 28 di luglio essi erano a Lione, dove
trovarono il Re partito. Lo raggiunsero a Nevers, e dopo aver parlato
col cardinale di Rouen, furono ricevuti il 7 agosto, presente esso
cardinale, il Rubertet, il Trivulzio ed altri. Gl'Italiani formavano
un terzo della Corte, erano tutti scontentissimi e desiderosi che
l'esercito francese tornasse presto a rivalicare le Alpi.[445] Esposti
i fatti, appena che si accennava ad accusare i soldati di Francia,
il Re ed i suoi «tagliavano i discorsi.» Tutto doveva essere colpa
dei Fiorentini. Luigi XII voleva pel suo decoro condurre a termine
l'impresa di Pisa, e però bisognava dar subito i danari necessarî. Gli
oratori risposero che alla Repubblica, esausta come era, col popolo
scontento per gli ultimi fatti, sarebbe stato impossibile trovarli.
Si poteva bene sperare di averli ad impresa finita, quando la città
di Pisa fosse stata consegnata. Ma qui subito esclamarono tutti ad una
voce, che questa era una sconvenientissima proposta, perchè il Re non
poteva fare le spese ai Fiorentini.[446] E così si continuò per molti
giorni sempre allo stesso modo. Luigi XII vuol mandare i soldati,
che i Fiorentini non vogliono; lamenta che gli Svizzeri non abbiano
avuto il danaro fissato, e non dà ascolto quando gli si osserva che
neppure avevano prestato il servizio promesso. Il cardinale insiste
vivamente,[447] ed il Courçon,[448] tornato di Toscana, aggrava lo
stato delle cose, che finisce col divenire minaccioso davvero. «I
Francesi,» scrivevano i due oratori, «sono accecati dalla loro potenza,
e stimano solo chi è armato o è pronto a dar danari. Vedono in voi
mancare queste due qualità, e però reputanvi ser Nichilo, battezzando
l'impossibilità vostra, disunione, e la disonestà dell'esercito loro,
cattivo governo vostro. Gli ambasciatori qui residenti sono partiti,
nè si sente che arrivino i nuovi. Il grado e la qualità nostra, senza
commissione grata, non sono per ripescare una cosa che sommerga.[449]
Il Re è quindi scontentissimo, lamenta sempre d'aver dovuto pagare agli
Svizzeri 38,000 franchi, i quali, secondo la convenzione di Milano,
dovevate pagar voi, e minaccia fare di Pisa e d'altre terre vicine uno
Stato indipendente.»[450] Per dar poi un utile consiglio, i due oratori
suggerivano alla Repubblica «di farsi, mediante danaro, alcuni amici
in Francia, mossi da altro che da affezione naturale; giacchè così fa
chiunque ha da trattare qualche faccenda in questa Corte. E chi non fa
così, crede di vincere il piato senza pagare il procuratore»[451].

Fino al 14 settembre le lettere erano state firmate sempre dai due
inviati, ma erano quasi tutte scritte di mano del Machiavelli. Quel
giorno poi il Re partiva da Melun, e il Della Casa, ammalato, andava
per curarsi a Parigi; sicchè il Machiavelli restava solo a continuare
il viaggio e la legazione, che dal 26 settembre in poi prende subito
maggiore importanza, e s'estende in un più vasto campo. Egli non si
ferma più al solo affare, pel quale era stato inviato; ma interroga,
discorre sulle varie questioni attinenti alla politica italiana; di
tutto ragguaglia i Signori, e poco dopo, invece, ragguaglia i Dieci,
che furono allora rieletti, e tutto ciò fa con tale e tanta premura,
con tanto ardore, che qualche volta sembra quasi perdere di vista lo
scopo particolare, molto limitato, della sua commissione. Valendosi
ora del latino ed ora del francese, giacchè nella stessa Corte ben
pochi parlavano l'italiano, egli ragionava con tutti, interrogava
ognuno. E per la prima volta vediamo incominciare a manifestarsi
tutta la penetrazione e l'originalità del suo ingegno, la potenza e la
forza maravigliosa del suo stile. Viaggiando col cardinale di Rouen,
e trovandolo sempre duro sull'altare del danaro, volse il discorso
sull'esercito che il Papa raccoglieva cogli aiuti di Francia, per
secondare i disegni del Valentino. E potè capire, «che se il Re aveva
concesso tutto per l'impresa di Romagna, era stato mosso più dal non
saper resistere alle sfrenate voglie del Papa, che dal desiderare
veramente un esito favorevole.[452] Pure,» continuava il Machiavelli,
«quanto più teme di Germania tanto più favorisce Roma, perchè ivi è
il capo della religione, che è bene armato, ed ancora ve lo spinge il
Cardinale, il quale, sentendosi qui invidiato da molti per avere in
mano la somma delle cose, spera ricevere di là protezione efficace.»
E appena si tornò a parlar di danari, subito il Cardinale s'infuriò di
nuovo, e minacciò dicendo «che i Fiorentini sapevano far molto buone le
loro ragioni, ma finirebbero col pentirsi della loro ostinazione.»[453]

Fortunatamente allora appunto l'aspetto delle cose cominciò a
migliorare assai, essendo stato in Firenze eletto il nuovo ambasciatore
Pier Francesco Tosinghi con più ampi poteri, ed avendo i Signori
ottenuto dai Consigli facoltà di dare nuova somma di danari. Così
al Machiavelli riuscì meno arduo calmare i furori dei Francesi,
e continuare con essi ragionamenti di politica più generale: egli
ottenne anche la esplicita assicurazione, che il Valentino non avrebbe
danneggiato la Toscana.[454] Ma il 21 novembre gli veniva da un amico
affermato, che il Papa faceva ogni opera per metter male, assicurando
che a lui sarebbe bastato l'animo, con l'aiuto che sperava dai
Veneziani, di rimettere in Firenze Piero de' Medici, il quale avrebbe
subito pagato al Re tutti i danari che voleva. Prometteva inoltre di
tòrre lo Stato al Bentivoglio, e quanto a Ferrara ed a Mantova, che si
mostravano pur sempre amiche di Firenze, farle «venire con la correggia
al collo.» Il Machiavelli cercò allora di veder subito il Cardinale, e
trovatolo ozioso, potè parlargli a lungo. Per combattere le calunnie
del Papa contro i Fiorentini, addusse «non la loro fede, ma il loro
interesse a stare uniti con la Francia. Il Papa cerca con ogni arte la
distruzione degli amici del Re, per cavargli più facilmente l'Italia
dalle mani.» «Ma Sua Maestà dovrebbe seguire l'ordine di coloro che
hanno per lo addietro voluto possedere una provincia esterna, che è:
diminuire i potenti, vezzeggiare i sudditi, mantenere gli amici, e
guardarsi da' compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere
uguale autorità.» «E certo non sono i Fiorentini, nè Bologna o Ferrara
che vogliono essere compagni del Re; ma piuttosto coloro che sempre
pretesero dominare l'Italia, cioè i Veneziani e sopra tutti il Papa.»
Il Cardinale prestò benigno ascolto a queste teorìe, che il modesto
Segretario, esaltandosi sempre più nel parlare, esponeva in tòno quasi
di maestro, e rispose che il Re «aveva gli orecchi lunghi ed il creder
corto; ascoltava cioè tutti ma credeva solo a ciò che toccava con
mano.»[455] E forse fu questa l'occasione in cui, avendo il Cardinale
detto che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, il Machiavelli
gli rispose che i Francesi non s'intendevano dello Stato, «perchè
intendendosene, non avrebbero lasciato venire la Chiesa in tanta
grandezza.»[456]

Il 24 novembre scrisse le due ultime lettere di questa legazione. Il
Valentino aveva fatto allora minacciosi progressi, e i Fiorentini,
impensieriti di ciò, avevano non solo sollecitata la partenza del
nuovo ambasciatore, ma promesso ai rappresentanti della Francia,
che in breve tempo avrebbero mandato danari al Re. Questi aspettava
quindi più tranquillo, e mandò ordini precisi al Valentino, che
non osasse assalire Bologna nè Firenze. Ed il Machiavelli, data
con una prima lettera questa notizia, scriveva lo stesso giorno la
seconda ed ultima, con cui raccomandava la lite di un tal Giulio De
Scruciatis[457] napoletano, contro gli eredi Bandini in Firenze. «Aveva
il De Scruciatis reso, e poteva rendere ancora utili servigi alla
Repubblica. Io non so nulla,» egli continuava, «di questa sua causa;
ma so bene che, mentre lo essere vostro con questa Maestà è tenero e
in aria, pochi vi possono giovare, e ciascuno vi può nuocere. Perciò è
necessario intrattenerlo almeno con buone parole, altrimenti alla prima
vostra lettera che arriva qui, egli sarà come una folgore in questa
Corte;» «e fiegli creduto il male più facilmente che non gli è stato
creduto il bene; e lui è uomo di qualche credito, loquace, audacissimo,
importuno, terribile e senza mezzo nelle sue passioni, e per questo da
fare qualche effetto in ogni sua impresa.» Dopo di ciò s'apparecchiava
a partire.

Il lettore si sarà accorto come in alcuni punti di questa legazione,
paia già quasi veder balenare da lontano, sebbene ancora in nube,
lo scrittore dei _Discorsi_ e del _Principe_. Quelle massime che più
tardi il Machiavelli esporrà in una forma scientifica, vengono ora con
mano ancora incerta abbozzate alla sfuggita, e come per caso: nelle
successive legazioni vedremo che egli andrà sempre più chiaramente
determinando e formulando gli stessi concetti. Anche il suo stile già
comincia a prendere quel vigore, col quale ben presto egli riescirà
a scolpire, con pochi tocchi di penna, uomini veri e vivi, a dare
una straordinaria lucidità al proprio pensiero, e quindi a meritare
d'essere universalmente giudicato il primo prosatore italiano. Non
recherà quindi maraviglia il sentire come questa legazione facesse in
Firenze un grandissimo onore al Machiavelli, e come il Buonaccorsi, fin
dal 23 agosto, gli scrivesse con vero compiacimento, che le lettere da
lui inviate venivano molto lodate dai più autorevoli cittadini[458].
E nell'agosto egli era ancora col Della Casa, che poneva la firma
prima di lui, come principale incaricato. Possiamo dunque supporre
facilmente che la Repubblica restasse poi sempre più soddisfatta del
suo Segretario.

Tornato in patria, il Machiavelli si rimise con l'usato ardore al
proprio ufficio, e i registri della Cancelleria son di nuovo ogni
giorno pieni delle sue lettere. Gli affari procedettero subito
con ordine maggiore, sia perchè egli esercitava molta autorità sui
suoi sottoposti, sia perchè erano stati rieletti i Dieci, i quali
venivano scelti fra le persone più pratiche di cose militari, erano
meno distratti da altre cure, duravano in ufficio sei mesi e non due
solamente come i Signori. Le loro attribuzioni inoltre erano state,
con la Provvisione del 18 settembre 1500, che li ristabiliva, meglio
definite e limitate, non potendo più di loro autorità far paci o
leghe, nè condotte per più di otto giorni, e dovendo in tutte le cose
d'importanza avere l'approvazione degli Ottanta, prima che fossero
definitivamente deliberate.[459]



CAPITOLO IV.

    Tumulti in Pistoia, dove è inviato il Machiavelli. — Il
    Valentino in Toscana; Condotta da lui stipulata coi Fiorentini.
    — Nuovo esercito francese in Italia. — Nuovi tumulti in
    Pistoia, e nuova gita del Machiavelli colà. — Continua la
    guerra di Pisa. — Ribellione di Arezzo e della Val di Chiana.
    — Il Machiavelli ed il vescovo Soderini inviati presso il
    Valentino in Urbino. — I Francesi vengono in aiuto per sedare i
    disordini d'Arezzo. — _Del modo di trattare i popoli della Val
    di Chiana ribellati_. — Creazione del Gonfaloniere a vita.

    (1501-1502)


E le faccende non mancavano davvero, sebbene la guerra di Pisa fosse
alquanto sedata. A Pistoia s'erano gravemente rincrudeliti i sanguinosi
tumulti tra i Cancellieri ed i Panciatichi, i quali ultimi erano stati
cacciati dalla città, che restava sempre sottomessa a Firenze, ma
con pericolo continuo di ribellione. Fu quindi necessario inviare a
rimetter l'ordine, commissari speciali, uomini ed armi. Il Machiavelli
non solo teneva la corrispondenza, dava ordini, veniva dai Signori e
dai Dieci richiesto del suo avviso; ma fu più volte mandato colà. Ivi
infatti lo troviamo nel febbraio, nel luglio e nell'ottobre, andato a
vedere coi proprî occhi per poi riferire.

Molti dell'una e dell'altra parte furono confinati in Firenze; tutti i
rimanenti invitati a rientrare in Pistoia, con obbligo a quel Comune di
difenderli e di risarcirli largamente d'ogni nuovo danno che potessero
patire, dandogli facoltà di rivalersene sugli offensori; e tutto ciò
con una deliberazione dei Signori e dei Dieci fiorentini, in data
del 28 aprile 1501.[460] Volevano i Pistoiesi lasciar fuori della
loro città i Panciatichi, perchè avversi a Firenze; ma il Machiavelli
scriveva ai Commissari, in nome dei Signori, il 4 maggio, che il
tenere i Cancellieri dentro e i Panciatichi fuori era assai pericoloso,
potendosi così a un tratto «perdere tutta la città o tutto il contado,
e forse questo e quella insieme, trovandosi l'uno malcontento, l'altra
piena di sospetto.» Concludeva che si eseguissero senz'altro gli
ordini dati, valendosi delle forze che erano colà, perchè i Panciatichi
rientrassero disarmati e fossero tenuti sotto buona guardia.[461]

Ben presto cominciavano più gravi pensieri da un altro lato. Il
Valentino, impedito dagli ordini di Francia d'assalire Bologna, si
rivolgeva verso la Toscana, ed insignoritosi di Brisighella, chiave
della Val di Lamone, s'era, con l'aiuto di Dionigi Naldi,[462] uomo
d'armi e di gran parentado colà, messo in grado di disporre di tutto
quel paese. Egli chiedeva, minaccioso, libero passaggio attraverso il
territorio della Repubblica, dicendo di volersene coi suoi tornare a
Roma. Ed i Fiorentini, che sapevano con chi avevano da fare, mandarono
a lui Piero Del Bene suo amico privato, mandarono un commissario di
guerra sul confine a Castrocaro, ed uno speciale inviato a Roma, per
informare di tutto l'ambasciatore francese: apparecchiarono nello
stesso tempo 20,000 ducati[463] da spedirsi a Luigi XII, per averlo,
come l'ebbero difatti, più decisamente favorevole. Intanto mille voci
diverse correvano per tutto. I Senesi ed i Lucchesi mandavano continui
aiuti a Pisa, dove Oliverotto da Fermo, soldato del Valentino, era
entrato con alcuni cavalieri; i Vitelli aiutavano i Panciatichi a
vendicarsi dei loro nemici. Da ogni parte erano noie e pericoli.
Bisognava subito provvedere, ed il Machiavelli sembrava moltiplicarsi,
scrivendo lettere, dando ordini ai capitani, ai commissari, ai
magistrati.[464] Fortunatamente però arrivarono avvisi di Francia, che
promettevano sicuro aiuto, e così la Repubblica fu nel maggio assai più
tranquilla.

Ma il Valentino non si fermava. A Firenze infatti venne la nuova
che gli Orsini ed i Vitelli minacciavano già al confine; che un tal
Ramazzotto, vecchio amico dei Medici, s'era presentato a Firenzuola,
chiedendo la terra in nome del Duca e di Piero de' Medici.[465] E per
questi fatti gli animi si sollevarono in modo, che si parlava perfino
di creare una Balìa con pieni poteri,[466] cosa che poi non si fece;
pure si pigliarono i necessarî provvedimenti a difendere la Città
da un improvviso assalto. Si posero nei dintorni alcuni comandati,
fatti venire dal Mugello e dal Casentino, sotto l'abate don Basilio;
ne vennero anche dalla Romagna; altre genti furono messe dentro le
mura. Il Machiavelli era l'anima di questi movimenti d'armati, e se ne
occupava con un ardore singolarissimo in un uomo di lettere. Ma egli
aveva, contro l'opinione prevalente allora, perduto ogni fede nelle
armi mercenarie; questi comandati gli parevano il germe d'una milizia
nazionale, chiamata a difendere la patria nel modo stesso che facevano
gli antichi Romani, e ciò bastava a tener viva la sua fede, il suo
entusiasmo.

Dopo di ciò si mandarono ambasciatori al Duca, invitandolo a passar
pure se voleva; ma alla spicciolata, senza gli Orsini ed i Vitelli.
Egli s'avanzò sdegnato pel Mugello, dove i suoi soldati venivano
insultando e saccheggiando le terre; onde l'irritazione popolare andò
sempre più crescendo nella Città e nella campagna, gridandosi per
tutto contro la «pazienza asinina» dei magistrati, i quali dovettero
durare grandissima fatica ad impedire una sollevazione generale contro
quell'esercito di predoni.[467] Il Duca finalmente, vedendo la mala
parata, e sapendo che i Fiorentini adesso erano davvero protetti dalla
Francia, dichiarò di volere stringere con essi sincera amicizia,
mediante una condotta in qualità di loro capitano. Aggiungeva però
che dovevano lasciargli libero il passo per andare alla sua impresa
contro Piombino, e dovevano anche mutare la forma del governo,
richiamando Piero dei Medici, affinchè si potesse esser sicuri delle
loro promesse. Di fronte a queste pretese, i Fiorentini prima di tutto
armarono altri mille uomini in Città, ordinando maggiore diligenza e
buona guardia per ogni dove; risposero poi che, quanto all'impresa di
Piombino, continuasse pure il suo viaggio; ma quanto al dovere essi
mutare governo, non ne ragionasse neppure, che non era affar suo, e
dei Medici nessuno voleva più sapere in Firenze. Il Valentino allora,
non aggiungendo altro, arrivato che fu a Campi, fece sentire che si
contentava d'una condotta di 36,000 ducati l'anno per un triennio,
senza obbligo d'effettivo servizio, pronto però ad ogni richiesta,
con 300 uomini d'arme, in caso di bisogno. In sostanza, non potendo
ormai sperare altro, voleva almeno, secondo il solito, danari. Ed
i Fiorentini, per farlo una volta partire, firmarono il 15 maggio
1501 la convenzione con cui gli concedevano la condotta, e fermavano
alleanza perpetua fra le due parti.[468] Essi in verità speravano
di non dargli neppure un soldo, ed il Duca, che se n'era avvisto,
accettava nonostante i patti, perchè, non avendo il danaro, avrebbe,
in tempo più opportuno, trovato facile pretesto a nuove aggressioni.
Intanto continuava il suo cammino saccheggiando, e giungeva a Piombino
il 4 giugno. Ivi non potè far altro che pigliare qualche terra vicina
e l'isola di Pianosa; passò poi, sopra alcune navi mandate dal Papa,
nell'isola d'Elba.[469] Ma di là fu subito richiamato, per accompagnare
i Francesi, che tornavano alla guerra nel Napoletano; e così, lasciate
ben difese le poche terre conquistate, se ne andò in fretta a Roma,
dove entrò come un trionfatore, sebbene le sue imprese fossero state
più di predatore che di capitano.

Ma se la guerra nel Reame liberava la Repubblica dalla presenza del
Valentino, essa le recava pure altri danni e pensieri. L'esercito
francese forte di 1000 lance e 10,000 fanti, di cui 4000 erano
Svizzeri, senza tener conto di più che 6000 uomini, i quali venivano
per mare, s'avanzava diviso in due parti, l'una delle quali passava,
col maggior numero delle artiglierie, per Pontremoli e Pisa; l'altra,
discendendo da Castrocaro, doveva traversare quasi tutta la Toscana. Al
che s'aggiungeva, che soldati spicciolati del Valentino con Oliverotto
da Fermo, Vitellozzo Vitelli ed altri capitani, venendo alla coda,
sarebbero andati al solito predando, o entrati in Pisa, avrebbero
aiutato i ribelli. Bisognò dunque scrivere ai Commissarî e Podestà,
perchè apparecchiassero vettovaglie agli uni, si difendessero dagli
altri; bisognò con 12,000 ducati soddisfare alle continue domande dei
Francesi, fatte sempre col pretesto delle paghe dovute agli Svizzeri,
che tanto male avevano servito la Repubblica.[470] Il Machiavelli
s'adoperò a tutt'uomo in queste faccende, e finalmente, come Dio volle,
l'esercito abbandonò la Toscana ed entrò nello Stato del Papa. A questo
allora solamente fu reso noto il trattato segreto concluso in Granata
fra i re di Spagna e di Francia, ed egli col suo solito cinismo promise
l'investitura ai due sovrani.

Arrivati i Francesi al confine napoletano, l'infelice Federico
raccoglieva le sue poche genti, avendo già messo ogni speranza d'aiuto
nella Spagna, il cui esercito era comandato dal valoroso Consalvo
di Cordova. Ma questi allora appunto dichiarò che doveva ricusare i
feudi nel Napoletano, perchè i suoi doveri di capitano di Spagna non
si conciliavano più con quelli di vassallo di Federico. Così il misero
Re si trovò senza aiuti, ed il Reame fu in breve tempo tutto occupato
da stranieri. Solo Capua resistette ai Francesi, e fu presa d'assalto
nel mese di luglio, messa crudelmente a sacco, perdendovi la vita da
settemila persone. Il Guicciardini afferma, che neppure le vergini
nei chiostri poterono sfuggire alla libidine dei soldati, che molte
donne si gettarono disperate nel Volturno, altre si ricoverarono in
una torre. Colà il Valentino, che aveva seguìto l'esercito colla sua
guardia, ma senza comando effettivo, e s'era nel saccheggio abbandonato
ad ogni eccesso, avrebbe, secondo lo stesso scrittore, voluto vederle
per sceglierne quaranta delle più belle. Il 19 agosto i Francesi
entrarono in Napoli, e poco dopo Federico cedette interamente al
loro Re, che gli diè in Francia il Ducato d'Angiò con 30,000 scudi di
rendita. Ivi egli morì il 9 settembre 1504; i suoi figli lo seguirono
ben presto nella tomba l'un dopo l'altro, e con essi s'estinse la casa
aragonese di Napoli. Consalvo aveva intanto, senza trovare resistenza,
preso la parte del Reame che spettava alla Spagna. Se non che, il
trattato di Granata era stato, forse non a caso, scritto in maniera
da dar luogo, nella divisione, a diverse interpretazioni. Ben presto
fu chiaro infatti che l'uno o l'altro dei due sovrani doveva restare
padrone di tutto, e che la decisione finale spettava alle armi.
Nondimeno fra gli eserciti si venne allora ad un temporaneo accordo,
amministrando in comune le province soggette a disputa.

Ed ora le genti del Valentino entravano il 3 di settembre in Piombino,
donde l'Appiano fuggiva, e dove nel febbraio veniva il Papa stesso col
figlio a vedere i disegni delle fortezze, che questi voleva costruire
colà.[471] Così i Fiorentini si trovavano da capo col temuto nemico
alle porte, mentre che i Lucchesi ed i Pisani si mostravano sempre più
audaci, e la Francia tornava a dimostrarsi poco benevola, sebbene,
dopo averle pagato 30,000 ducati per gli Svizzeri, si trattasse ora
di pagargliene ancora da 120 a 150 mila, in tre o quattro anni, sempre
con la solita vana promessa di restituire Pisa.[472] Mentre tutto ciò
teneva la Repubblica in sempre maggiori strettezze, e rendeva sempre
più impopolari i Dieci, da Pistoia si chiedevano nell'ottobre pronti
aiuti, perchè la città era di nuovo lacerata dal furore delle parti,
e nessun ordine di governo vi era possibile. Il Machiavelli, che già
era stato ripetutamente inviato colà, vi fu ora, nel mese d'ottobre,
mandato altre due volte, per portare ordini, e suggerire, tornando, i
necessari provvedimenti così ai Dieci come alla Signoria.[473] E questa
faceva poi da lui stesso scrivere, che unico rimedio era pensare adesso
a riordinare il governo e l'amministrazione della città, facendovi
subito tornare i Panciatichi, per pensare più tardi al contado, ove i
guai erano anche maggiori.[474] In questi mesi, tra le molte lettere,
ordini ed istruzioni, egli scrisse ancora, nella sua qualità di
segretario, una breve relazione dei fatti seguìti in Pistoia, per dare
ai magistrati una più chiara idea di tutto.[475] Di siffatte relazioni
o narrazioni di quello che avveniva nel territorio della Repubblica,
se ne compilavano allora molte nella cancelleria dei Dieci e della
Signoria, e questa del Machiavelli, scrittura d'ufficio come le altre,
non ha neppur essa maggiore importanza.

Calmati appena i torbidi di Pistoia, si sentiva nel maggio 1502 che
Vitellozzo e gli Orsini s'avanzavano nella Val di Chiana, seguìti a
poca distanza dal Valentino. E Massimiliano, volendo venire in Italia
a prendere la corona, chiedeva ai Fiorentini, col solito pretesto di
far guerra al Turco, 100,000 ducati, di cui 60,000 subito. Questi
danari non furono dati; ma colla Francia bisognò bene obbligarsi a
pagarle in tre anni 120,000 ducati, secondo un trattato d'alleanza,
concluso il 12 aprile 1502, col quale il Re prometteva di difendere la
Repubblica e mandarle 400 lance ad ogni richiesta.[476] Tutto questo
però non bastava punto a fermare il Valentino, che invece lentamente
s'avanzava, e intanto s'era talmente esausta di danari la Repubblica,
che non si poteva più ricorrere a nuove gravezze, essendosi già messa
perfino la _Decima scalata_, che differisce poco da quella che noi
oggi chiamiamo imposta progressiva.[477] Così la guerra di Pisa dovè
restare come sospesa, e restringersi solo a dare il guasto nel contado.
I cittadini perciò furono da capo tanto scontenti dei Dieci, che di
nuovo tornarono a non eleggerli, affidando le cose della guerra ad
una commissione scelta dalla Signoria, il che le fece subito andare
di male in peggio.[478] I Pisani infatti s'avanzarono impadronendosi
di Vico Pisano, e continuarono le trattative iniziate nello scorso
dicembre col Papa e col Valentino, per formare uno Stato indipendente,
che arrivasse fino al mare, e ripigliasse dall'altro lato le terre
occupate dai Fiorentini, coi quali non volevano in nessun modo far
mai pace o tregua. Il Valentino avrebbe avuto il titolo di duca
di Pisa, e il Ducato sarebbe stato ereditario; verrebbe conservato
l'antico magistrato degli Anziani, e uno dei Borgia sarebbe nominato
arcivescovo della città.[479] Questi disegni restarono senza effetto,
ma bastavano a mettere in pensiero i Fiorentini, a danno dei quali
i Borgia cercavano sollevare nemici in tutta Italia, dicendo ora di
volerla unire in lega contro gli stranieri in genere ed i Francesi in
particolare.

Intanto Vitellozzo era già presso Arezzo, con manifesta intenzione
di sollevarla, ed il Valentino se ne stava a poca distanza, con la
simulata apparenza di non pigliar nessuna parte a ciò che uno dei
suoi proprî capitani faceva.[480] Firenze, non potendo ora disporre
di nessuna forza, spedì in gran fretta, come commissario di guerra,
Guglielmo dei Pazzi, che era padre del vescovo d'Arezzo. Ma il
commissario non era appena giunto colà, che il popolo si levò a tumulto
(4 giugno), e dovettero, padre e figlio, chiudersi nella fortezza
insieme col capitano fiorentino. Vitellozzo allora entrò con centoventi
uomini d'arme e buon numero di fanti, seguìti subito da Giovan Paolo
Baglioni, altro capitano del Valentino, con cinquanta uomini d'arme e
cinquecento fanti. Per riparare a questi pericoli, Firenze richiese
dalla Francia le 400 lance promesse, anzi mandò Piero Soderini a
Milano, per farle addirittura partire. Le genti del campo di Pisa
ebbero intanto ordine d'avanzarsi per la Val di Chiana, dove fu mandato
commissario, con ufficio di capitano, Antonio Giacomini Tebalducci,
il quale, datosi da qualche tempo al mestiere dell'armi, aveva già
cominciato a provare alla Repubblica quanto i capitani proprî valessero
più dei mercenarî.[481] Ed il Machiavelli, che a lui continuamente
doveva scrivere, ne seguiva i passi, e continuava le sue osservazioni,
maturando le proprie idee sulla milizia nazionale. Ma le cose
precipitavano, perchè la cittadella d'Arezzo, dopo una resistenza di 14
giorni, dovette arrendersi prima di poter ricevere aiuto dagli uomini
partiti dal campo di Pisa, i quali perciò ebbero dai Dieci, nuovamente
eletti, ordine di ritirarsi a Montevarchi, ora che i nemici, ingrossati
in Arezzo, occupavano tutta la Val di Chiana, e Piero dei Medici col
fratello s'era già unito ad essi.[482]

I Fiorentini, com'è facile immaginarlo, aspettavano ansiosissimi
gli aiuti di Francia, per uscire dall'imminente pericolo, quando
il Valentino (19 giugno) chiese che gl'inviassero persona con cui
conferire; ed essi mandarono subito Francesco Soderini vescovo di
Volterra, accompagnato dal Machiavelli. Il Duca trovavasi in Urbino,
di cui s'era a tradimento impadronito; e l'infelice Guidobaldo di
Montefeltro aveva potuto appena, con una fuga precipitosa su pei
monti, salvare la propria vita, dopo che s'era creduto amico dei
Borgia, e li aveva aiutati colle sue genti, il che era valso invece
a fargli torre improvvisamente lo Stato. Il Machiavelli restò in
compagnia del Soderini qualche giorno solamente, per tornare subito
in Firenze, a ragguagliare a voce i Signori. E però solo i due primi
dispacci di questa legazione sono scritti da lui, sebbene anch'essi
firmati dal vescovo Soderini. Nel secondo, che ha la data di Urbino 26
giugno, _ante lucem_, si trova descritto un ritratto del Valentino,
che dimostra chiaro come questi avesse già lasciato una profonda
impressione sull'animo del Segretario fiorentino. Furono ricevuti la
sera del 24, a due ore di notte, nel palazzo in cui il Duca si trovava
con pochi de' suoi, tenendo la porta sempre serrata e ben guardata.
Egli disse di volere ormai uscire da ogni incertezza coi Fiorentini,
ed essere loro amico o nemico vero. Quando non accettassero la sua
amicizia, sarebbe scusato con Dio e cogli uomini, se avesse cercato
d'assicurare in qualunque modo il proprio Stato, che confinava col
loro per sì lungo tratto. «Io voglio avere esplicita sicurtà, chè
troppo bene conosco come la città vostra non ha buono animo verso
di me, anzi mi lascerà come un assassino, ed ha cerco già di darmi
grandissimi carichi con il Papa e col re di Francia. Questo governo
non mi piace, e dovete mutarlo, altrimenti se non mi volete amico, mi
proverete nemico.» Gl'inviati risposero che Firenze aveva il governo
che desiderava, e nessuno poteva in Italia vantarsi di serbar meglio
la fede. Che se il Duca voleva davvero esserle amico, poteva provarlo
subito, facendo ritirare Vitellozzo, che in fine era suo uomo. A questo
egli disse, che Vitellozzo e gli altri operavano per proprio conto,
sebbene a lui non dispiacesse punto che i Fiorentini ricevessero, senza
sua colpa, una buona e meritata lezione. Nè altro fu possibile cavarne,
onde gli ambasciatori scrissero subito, parendo loro che importasse
assai far conoscere con quale intenzione erano stati dal Duca invitati,
tanto più che «il modo del procedere di costoro è di essere altrui
prima in casa che se ne sia alcuno avveduto, come è intervenuto a
questo Signore passato,[483] del quale si è prima sentito la morte che
la malattia.»

Il Duca aveva detto ancora che della Francia era sicuro, e lo stesso
fece ripetere loro dagli Orsini, i quali non solo lasciarono capire che
l'impresa di Vitellozzo era fatta di comune accordo, ma aggiunsero che
tutto era in ordine per invadere subito la Toscana con 20 o 25 mila
uomini, che gli oratori però valutavano a 16 mila solamente. «Questo
Signore,» concludeva la lettera, «è tanto animoso, che non è sì gran
cosa che non li paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai
si riposa, nè conosce fatica o pericolo; giugne prima in un luogo, che
se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a'
suoi soldati; ha cappati i migliori uomini d'Italia, le quali cose lo
fanno vittorioso e formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna.»
Ma il fatto era, che egli sapeva che i Francesi venivano in aiuto de'
Fiorentini, che voleva perciò stringere subito in ogni modo. Infatti
a tre ore della notte dal 25 al 26, quando gli oratori avevano già
parlato cogli Orsini, li fece chiamare di nuovo, per dire loro che
voleva una pronta risposta dalla Signoria, nè fu possibile ottenere
un indugio maggiore di quattro giorni. E però la lettera,[484] finita
all'alba, partì subito con un corriere espresso, cui teneva dietro il
Machiavelli stesso, che altro non aveva ora da fare colà. Egli se ne
tornava con l'animo pieno d'una strana ammirazione per questo nemico
della sua patria, ammirazione che era stata in lui alimentata da quella
che già aveva pei Borgia anche il vescovo Soderini.[485] Questi restò
presso il Duca, che faceva ogni giorno maggiori premure e minacce, a
cui però i Fiorentini davano assai poca retta, perchè sapevano che già
erano in via gli aiuti francesi.

E per la medesima ragione, al Giacomini, che aveva dato prova d'un
coraggio, d'un'attività maravigliosa, e scriveva che, se gli mandavano
3000 fanti e mille comandati, sentivasi in grado d'assalire i nemici,
rispondevano, ai primi di luglio, che si contentasse di stare sulla
difensiva; giacchè erano in via le artiglierie e 4000 Svizzeri mandati
dalla Francia; che bisognava subito dar loro le paghe, e non era
perciò prudente impegnare la Repubblica in nuove spese, tanto più
che il Valentino già abbassava le ali.[486] E lo stesso ripetevano
nei giorni successivi.[487] Il 24 luglio il Re scriveva da Asti,
che sarebbero arrivati uomini a piè ed a cavallo, con sufficienti
artiglierie, capitano La Trémoille: si tenessero pronte le paghe e le
vettovaglie.[488] E ben presto il capitano Imbault presentavasi con
pochi soldati ad Arezzo, dove Vitellozzo venne subito a patti, che
furono di rendere tutte le terre, eccetto la città stessa, nella quale
egli si trovava, e dove gli fu concesso di restare con Piero dei Medici
fino al ritorno del cardinale Orsini, andato a trattar direttamente col
Re. Ma anche questa concessione, che ai Fiorentini parve giustamente
indecorosa,[489] venne poi ritirata, perchè il Papa stesso e il
Duca, gettando la colpa d'ogni cosa su Vitellozzo e sugli Orsini,
che odiavano a morte, li abbandonarono; nè dei Medici in sostanza si
curavano molto, appunto perchè amici e parenti degli Orsini.[490]
S'impegnarono inoltre ad aiutare la Francia nella impresa di
Napoli.[491] E i Fiorentini, ottenuto che al capitano Imbault, il quale
li aveva scontentati, succedesse il De Langres,[492] riebbero subito
dopo tutte le loro terre, come annunziavano ai sudditi con lettera del
28 agosto, ordinando ancora pubbliche feste.[493]

Il Machiavelli fu mandato, verso la metà d'agosto, al campo francese,
per accompagnare il De Langres e raccogliere notizie a carico
dell'Imbault; ma tornò subito al suo ufficio, essendo stati mandati
in Arezzo Piero Soderini e Luca degli Albizzi, uomini autorevolissimi,
con incarico di riordinare la terra appena sedata la ribellione, e fare
che il De Langres non partisse troppo presto, non potendo i Fiorentini
disporre delle loro forze, occupate contro i Pisani che s'avanzavano
dall'altro lato.[494] Dalla cancelleria intanto egli scriveva al
Soderini, che si affrettasse a mandare in Firenze, prima che i Francesi
partissero, tutti quegli Aretini, «che tu giudicherai, o per cervello o
per animo o per bestialità o per ricchezza, potere trarsi dreto alcuno,
e penderai più presto in mandarne più venti che manco uno, senza avere
rispetto nè al numero nè a rimanere vota la terra.»[495] L'11 ed il 17
settembre lasciò di nuovo l'ufficio per far due corse ad Arezzo, a fin
di vedere da sè lo stato delle cose, e provvedere alla partenza dei
Francesi, che erano ormai decisi ad andarsene.[496]

Per fortuna tutto riuscì discretamente bene, ed egli che già da
un pezzo meditava sulle faccende politiche, non solo come semplice
segretario, ma più ancora come uomo di studio e di scienza, cercando
sempre indagar le cagioni dei fatti, che raccoglieva e coordinava
poi nella sua mente, sotto norme e principî generali, compose, dopo
l'esperienza avuta delle cose d'Arezzo, il suo breve scritto: _Del
modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati_.[497] È un
discorso che l'autore suppone di fare ai magistrati della Repubblica,
ma non fu compilato per obbligo d'ufficio nella segreteria; è anzi
addirittura il primo tentativo per sollevarsi dalla pratica burocratica
di tutti i giorni, alle sommità della scienza. E noi possiamo fin
d'ora cominciare a vedere in germe i grandi pregi e i difetti che più
tardi ritroveremo nelle opere maggiori del Machiavelli. Ciò che prima
di tutto qui ferma la nostra attenzione, è il modo singolare con cui
nella mente dello scrittore si trovano fra loro innestati l'esperienza
dei fatti veduti, i giudizî che si era andato formando sulle azioni
degli uomini da lui conosciuti, tra cui non ultimo il Valentino, con
una straordinaria ammirazione dell'antichità romana, la quale sembra
essere per lui quasi l'unico anello che congiunga le osservazioni
raccolte di giorno in giorno con le generalità della sua scienza ancora
incerta. — Paragonando, egli dice, quello che oggi succede con quello
che in simili casi è seguito e s'è fatto a Roma, possiamo arrivare a
capire quello che dovremmo fare noi, giacchè gli uomini in sostanza
sono sempre gli stessi, hanno le medesime passioni, e però quando
le condizioni sono identiche, le medesime cagioni portano i medesimi
effetti, e quindi gli stessi fatti debbono suggerire le stesse regole
di condotta.

Certo il ricorrere all'antichità ed alla storia per cercare,
paragonandole coll'esperienza del presente, i principii che regolano
l'andamento delle azioni umane, e debbono guidare i governi, era a
quei tempi un pensiero ardito ed originale. Ma se la storia ci espone
la successione delle umane vicende, essa anche ci dimostra che l'uomo
e la società mutano di continuo, e però norme assolute ed immutabili
difficilmente si possono trovare. Ed in verità, se bene si osserva,
quantunque essa sia l'esemplare, il modello a cui di continuo ricorre
il Machiavelli, pure assai spesso gli serve solo a dare maggiore
autorità, o a fornirgli la dimostrazione di quelle massime che a
lui, in sostanza, erano state già suggerite dalla esperienza. Ed in
ciò si può trovare la prima sorgente di molti suoi pregi e difetti.
Non essendo ancora riuscito a veder chiaro il processo, secondo
cui dal passato risulta un presente sempre diverso, e pure ad esso
intrinsecamente unito; non essendo ancora abbastanza sicuro del suo
metodo, per cavare con rigore scientifico principii generali dai fatti
particolari, tra gli uni e gli altri poneva l'antichità, la quale
doveva riuscire un legame artificiale, ogni volta che era chiamata solo
a dimostrare ciò, di cui egli s'era già innanzi persuaso. Tuttavia in
questo suo primo tentativo noi vediamo assai chiaro, come solo salendo,
direi quasi, sulle spalle di essa, a lui riuscisse, stanco com'era
delle minute faccende di tutti i giorni e d'una politica di piccoli
ripieghi, sollevarsi in un mondo superiore. Ivi portato e sospinto
dalla potenza della sua analisi, dal suo genio, da una fantasia
irrequieta, tentava creare una scienza nuova, non senza cadere qualche
volta in eccessi, che nei suoi scritti non scomparvero mai del tutto, e
che più tardi gli furono rimproverati anche dal Guicciardini, il quale
lo accusò di amare troppo «le cose e modi estraordinarî.»

Ecco adunque come egli incomincia il suo discorso. «Lucio Furio
Camillo, dopo aver vinto i popoli ribelli del Lazio, entrò in Senato
e disse: Io ho fatto quello che si poteva colla guerra; ora tocca a
voi, Padri Coscritti, sapervi stabilmente assicurare per l'avvenire
dei ribelli. Ed il Senato perdonò generosamente ai vinti, facendo solo
eccezione per le città di Veliterno e di Anzio. La prima fu demolita,
e gli abitatori mandati a Roma; nella seconda si mandarono invece
abitatori nuovi e fedeli, dopo aver distrutto le sue navi, proibito
di costruirne altre. E ciò perchè i Romani sapevano che bisogna
sempre fuggire le vie di mezzo, e guadagnarsi i popoli coi benefizî, o
metterli nella impossibilità di offendere.» «Io ho sentito dire che la
istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de' principi,[498]
e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto le
medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal
volentieri e chi serve volentieri, e che si ribella ed è ripreso.» «Si
può dunque approvare la condotta da voi tenuta coi popoli della Val di
Chiana in generale; ma non quella tenuta in particolare cogli Aretini,
che si sono sempre ribellati, e che voi non avete saputo nè beneficare
nè spegnere, secondo l'esempio romano. Non avete infatti beneficato
gli Aretini, ma li avete tormentati col chiamarli a Firenze, toglier
loro gli onori, vendere i loro possessi; nè ve ne siete assicurati,
perchè avete lasciato in piedi le loro mura, lasciato in città i cinque
sesti degli abitatori, non mandato altri che li tengano sotto. E così
Arezzo sarà sempre pronta a ribellarsi di nuovo, il che non è cosa di
poco momento, perchè Cesare Borgia è vicino, e cerca formarsi uno Stato
forte col pigliare anche la Toscana. E i Borgia non vanno coi rispetti
e colle vie di mezzo. Il cardinal Soderini, che li conobbe assai, più
volte mi ha detto che fra le altre lodi di grande uomo, che si posson
dare al Papa ed al figlio, vi è questa, che sono conoscitori della
occasione e la sanno usare benissimo, il che viene confermato dalla
esperienza di ciò che han fatto.»[499] E qui si ferma in tronco questo
discorso, di cui non abbiamo la fine.

Il Machiavelli che aveva messo tanto ardore nel condurre a fine
l'affare della presa e condanna del Vitelli, ed il dì 8 settembre
aveva scritto ai commissari fiorentini che, nel mandar via gli uomini
pericolosi da Arezzo, preferissero inviarne piuttosto «venti di più
che uno di meno, non temendo neppure di lasciar vuota la terra,» non
aveva bisogno di dimostrare che a lui non piacevano in politica i mezzi
termini, che credeva solo in una condotta risoluta e pronta, e non
era punto contento del misero e continuo tergiversare dei Fiorentini.
Ma non bisogna neppur credere, che in questi suoi discorsi teoretici
egli volesse addirittura biasimare, senza riserve, la condotta dei
magistrati. Sapeva bene che questi dovevano tener conto delle passioni
e dell'indole degli uomini fra cui e su cui governavano; scriveva
per indagare quale avrebbe dovuto essere la vera politica di un gran
popolo, formato come lo immaginava, dopo aver letto e meditato la
storia di Roma.

Certo è però che le cose della Repubblica procedevano allora così
fiacche ed incerte, che tutti vedevano la necessità di qualche
riforma. Una nuova legge s'era fatta nell'aprile di quell'anno,
con la quale s'erano aboliti il Podestà ed il Capitano del popolo,
antichi magistrati che avevano avuto in origine un ufficio politico
e giudiziario; ma perduta da un pezzo la prima delle due loro
attribuzioni, male adempivano ora anche la seconda, che pure era
importantissima. Fu quindi istituita, secondo un antico suggerimento
del Savonarola, la _Ruota_, composta di cinque dottori in legge, di cui
ognuno presiedeva a turno per sei mesi, durante i quali teneva il luogo
del Podestà. Essa, che doveva giudicar le cause civili e criminali,
fu iniziata, con una provvisione del 15 aprile 1502, per soli tre
anni, termine che venne poi prorogato.[500] Con altra del 21 aprile
fu riformata la Corte della Mercanzia, destinata a trattare i soli
affari commerciali.[501] Ma tutto ciò, come è ben facile immaginare,
non rimediava punto all'andamento generale delle cose d'un governo,
la cui debolezza nasceva principalmente dal mutare ogni due mesi il
Gonfaloniere e la Signoria.[502] In esso non si formavano tradizioni,
nè vi potevano essere segreti di Stato; tutto si trattava in pubblico,
e solamente il primo cancelliere, Marcello Virgilio, per la sua molta
fede ed autorità, poteva mantenere una qualche coerenza ed uniformità
nella condotta degli affari.[503] I provvedimenti erano sempre lenti
ed incerti, i danari si profondevano, i cittadini, gravati d'imposte,
erano scontentissimi, e non potevano rivolgersi contro alcuno, perchè
i magistrati scomparivano dalla scena quando appena s'erano seduti in
ufficio. Così si finiva col non votare il danaro che era richiesto,
e i soldati non si pagavano, e i cittadini autorevoli ricusavano di
accettare le ambascerìe o gli uffici più onorevoli, che erano invece
occupati da uomini leggieri e di poco conto, gente che, secondo la
espressione del Guicciardini, avevano «più lingua che persona,» si
facevano avanti, ed erano eletti perchè sempre pronti.[504]

Per tutte queste ragioni si pensò di portare addirittura qualche
mutamento nella forma stessa del governo. Fu dapprima proposto un
Senato a vita, a similitudine dei Pregadi di Venezia, che era sempre il
modello cui si guardava; ma temendo poi di restringere con ciò lo Stato
in mano di pochi, si pensò invece di creare un Gonfaloniere a vita come
il Doge,[505] ed il 26 agosto 1502 fu votata la Provvisione.[506] Il
carattere e l'ufficio del nuovo Gonfaloniere non furono molto diversi
da ciò che era stato in passato: egli era capo della Signoria e non
altro. Se non che poteva sempre prendere in essa l'iniziativa delle
proposte di legge; poteva ancora intervenire e votare coi giudici nelle
sentenze criminali, il che già gli dava un aumento di potere. L'essere
poi eletto non più per due mesi, ma a vita, fra magistrati politici
che mutavano tutti così spesso (i Signori ogni due mesi, i Dieci
ogni sei), era quello che gli dava ora un'autorità ed una forza assai
maggiori. Doveva avere cinquant'anni almeno, e non poteva esercitare
altri ufficî: i figli, fratelli e nipoti avevano divieto dall'ufficio
dei Signori; a lui ed ai figli era vietato d'esercitare il commercio;
lo stipendio era di 1200 fiorini l'anno. Il numero degli eleggibili
era grande, essendovi ammessi anche i cittadini che appartenevano
alle Arti Minori; la elezione doveva farsi dal Consiglio Maggiore,
potendovi allora intervenire e votare tutti coloro che erano abilitati
a sedervi. Ogni consigliere era chiamato a dare il nome del cittadino
che voleva eleggere, e quelli che ottenevano la metà più uno dei voti,
venivano sottomessi a nuovo scrutinio per tre volte, intendendosi la
terza volta eletto colui che aveva raccolto più voti, tra coloro che
ne avevano ottenuti più della metà. I Signori, i Collegi, i Dieci, i
Capitani di Parte Guelfa e gli Otto, riuniti insieme, potevano con tre
quarti di voti privarlo dell'ufficio, quando avesse violato le leggi.
Questa Provvisione portata due volte negli Ottanta e due nel Consiglio
Maggiore, dopo che molti l'ebbero difesa,[507] fu finalmente vinta
con 68 voti contro 31 negli Ottanta, e 818 contro 372 nel Consiglio
Maggiore. Il 22 settembre venne poi con grandissimo favore eletto Piero
Soderini, che, fratello del vescovo, era stato poco prima Gonfaloniere,
aveva tenuto molti altri uffici politici, e sebbene fosse di antica e
ricca famiglia, era tenuto amatore del popolo e del governo libero.
Egli era inoltre facile parlatore, buon cittadino; non aveva figli,
non aveva nè grande energia nè grandi doti da potere suscitare troppi
odî o troppi amori, il che non fu tra le ultime cause della sua
elezione.[508] Il 23 dello stesso mese, il Machiavelli, in nome dei
Dieci, gli faceva scrivere e mandare in Arezzo, dove era commissario,
la lettera di partecipazione, esprimendogli la speranza che riuscisse
a dare alla Repubblica quella felicità, per cui il nuovo ufficio era
stato creato.[509] Questa elezione fu un fatto assai importante, non
solo nella storia di Firenze, ma anche nella vita del Machiavelli,
perchè egli conosceva da più tempo la famiglia Soderini, alla quale
subito scrisse rallegrandosi,[510] e ben presto seppe guadagnarsi tutta
quanta la fiducia del nuovo Gonfaloniere, che, come vedremo, si valse
di lui continuamente ed in affari di molta importanza.



CAPITOLO V.

    Legazione al duca Valentino in Romagna. — Ciò che nel
    medesimo tempo fa il Papa in Roma. — Il Machiavelli compone la
    _Descrizione_ dei fatti di Romagna.

    (1502-1503)


E qui son di nuovo i Borgia che richiamano l'attenzione di tutta
Italia. La Lucrezia per sua fortuna scompariva adesso dalla scena di
Roma, dove aveva continuato ad essere il soggetto principale dei più
scandalosi e turpi racconti, dei quali sembrava curarsi assai poco.
Infatti si era lasciata vedere col padre e col fratello assistere
ridendo a mascherate, a balli così osceni, che erano veramente orgie,
e sarebbe a noi impossibile descriverli.[511] Ma nel gennaio del 1502
finalmente partiva per Ferrara, con un grandissimo séguito, con un
lusso che passava ogni misura; e qualche volta promuove addirittura
disgusto vedere i cronisti del tempo occuparsi minutamente a darcene
eterne descrizioni. Andava in moglie al duca Alfonso d'Este in Ferrara,
e colà per molti giorni continuavano da capo le feste col medesimo
lusso.[512] Ma la sua vita entrò allora in un periodo assai più
tranquillo e riservato, perchè aveva da fare con un marito, il quale
non avrebbe esitato molto a valersi delle arti stesse dei Borgia,
per mandarla via dal mondo. I pochi fatti che potevano ricordare
ancora la vita passata, restarono perciò avvolti sempre nel più gran
mistero.[513] Ella si circondò di letterati che l'adularono, si dètte
anche ad opere di pietà; ed a ciò si deve la reputazione migliore che
godette allora, e la difesa che fecero di lei molti scrittori.

A Roma, dove era il Papa, ed in Romagna, dove si trovava il Valentino,
la scena invece mutava solo per divenire sempre più tragica e
sanguinosa. Nella Città Eterna comparivano libelli, epigrammi atroci;
ma il Papa non se ne curava punto, occupato com'era d'altri pensieri.
Di tanto in tanto qualche cardinale, divenuto assai ricco, s'ammalava
e moriva a un tratto, o sotto falso pretesto gli era fatto un processo
sommario, per metterlo poi in Castel Sant'Angelo, donde non usciva
più vivo. Mobili, tappezzerie, argenti e danari andavano subito in
Vaticano. I loro uffici e benefizi venivano concessi ad altri, che,
appena arricchiti, erano assai spesso destinati a fare la medesima
fine. «Nostro Signore,» scriveva l'ambasciatore veneto, «suole prima
ingrassarli, per far poi loro la festa.» Così avvenne nel luglio di
quell'anno al datario Battista Ferrari, cardinale di Modena, che era
stato il suo più fido strumento nell'aiutarlo a cavar danari da tutto
e da tutti. Divenuto ricchissimo, s'ammalò improvvisamente; il Papa
lo visitò nell'ultima ora, e poi al solito spogliò la casa e prese i
danari. La più parte de' suoi benefizi andò a Sebastiano Pinzon, intimo
segretario del defunto, a cui, secondo la comune opinione, aveva, per
ordine del Santo Padre, amministrato il veleno.[514]

In quei giorni la città era illuminata; il governatore di Roma e
le guardie palatine, seguite da una gran turba, andavano per le vie
gridando: _Duca, Duca_.[515] Cesare Borgia era entrato in Camerino, ed
aveva preso prigioniero il signor Giulio Cesare da Varano coi figli.
Il Papa era per ciò pieno di tanta gioia, che gli riusciva impossibile
frenarsi. Radunato il Concistoro con l'intendimento d'annunziare una
vittoria degli Ungheresi contro i Turchi, parlò invece di Camerino
e del Duca. Avvertito dal cardinale di Santa Prassede dello scopo
che li aveva fatti radunare, mandò subito a pigliare la lettera; ma
poi, continuando nel primo discorso, dimenticò di farla leggere.[516]
Parlando coll'ambasciatore veneto e collo spagnuolo, non poteva
tenersi sulla sedia, e girava per la stanza; faceva leggere invece la
lettera, in cui il Duca, dopo aver tutto narrato, concludeva: «che buon
pro faccia alla Santità Sua;» ne esaltava la grandezza d'animo e la
prudenza, «laudandolo _ab omni parte._»[517] Egli vedeva già le future
conquiste del figlio, lo vedeva col pensiero signore di tutta l'Italia
centrale. Non sapeva però che cosa avrebbe detto o fatto Venezia, in
presenza di così rapidi progressi. Chiamato quindi l'ambasciatore
veneto, aveva subito cominciato a fare grandi proteste d'amicizia,
tanto per sentire che cosa dicesse. Ma Antonio Giustinian era una volpe
vecchia, e scriveva al Doge: «In risposta di quanto è soprascritto,
Principe Serenissimo, _ambulavi super generalissimis_, se il Pontefice
andò _super generalibus_.»[518]

Il Valentino intanto assumeva i titoli di Cesare Borgia di Francia,
per la grazia di Dio, Duca di Romagna, di Valenza e d'Urbino, Principe
di Andria, Signore di Piombino, Gonfaloniere e Capitano generale
della Chiesa; e senza perdere tempo s'avanzava verso Bologna. Se non
che, in questo punto arrivò il _veto_ della Francia, la quale fece
sentire, come non avrebbe mai permesso che i Borgia s'andassero così
insignorendo d'Italia: smettessero dunque di pensare a Bologna ed
alla Toscana.[519] E nel medesimo tempo i principali capitani del
Duca, la più parte piccoli tiranni dell'Italia centrale, vedendo come
egli andasse, a uno per volta, distruggendo tutti i loro compagni,
capirono che sarebbe ben presto sonata l'ora anche per essi. Seppero,
in questo mezzo, che egli aveva già deliberato d'insignorirsi prima
di Perugia e Città di Castello, di metter poi le mani sugli Orsini;
onde, «per non essere a uno a uno devorati dal dragone,»[520] si
riunirono, deliberando di prendere le armi e ribellarsi contro di
lui, sembrando opportuno il farlo ora che la Francia lo abbandonava.
Il primo resultato di questo accordo fu, che il giorno 8 di ottobre
alcuni de' congiurati s'impadronirono per sorpresa della rôcca di
San Leo nel ducato d'Urbino, dove la cosa produsse una straordinaria
impressione, come segno e principio di nuovi eventi. Il giorno 9 di
ottobre,[521] infatti, tutti i congiurati convennero alla Magione
presso Perugia, per stipulare solennemente i patti della lega. V'erano
molti degli Orsini, cioè il cardinale, il duca di Gravina, Paolo e
Frangiotto; inoltre Ermes, figlio di Giovanni Bentivoglio, con pieno
mandato del padre; Antonio da Venafro con pieno mandato di Pandolfo
Petrucci; messer Gentile e Giovan Paolo Baglioni, e Vitellozzo Vitelli
che, essendo ammalato, si fece portare in letto.[522] Si obbligarono a
difesa comune, a non muovere guerra senza mutuo accordo, ed a mettere
insieme un esercito di 700 uomini d'arme in bianco,[523] 100 cavalli
leggieri, 9000 fanti e più, occorrendo; pena 50,000 ducati e la taccia
di traditore a chi non osservasse questi patti legalmente stipulati. Si
cercarono subito aiuti ai Fiorentini; ma si corse senz'altro aspettare
alle armi, e il ducato d'Urbino fu da Paolo Vitelli, che il 15 ottobre
prese d'assalto anche la rôcca della città, sollevato tutto, restando
colà al Valentino qualcuna solamente delle molte fortezze che v'erano.

Questi capì bene la gravità di siffatta ribellione. Ma, senza perdersi
d'animo, mandò contro i nemici quella parte dell'esercito che gli
restava fedele, sotto il comando di don Michele Coriglia, crudelissimo
spagnuolo,[524] suo capitano e suo strangolatore, più noto col nome
di don Micheletto. Questi entrò subito nella rocca della Pergola,
che si teneva ancora pel Duca, e di là fece impeto nella terra che
saccheggiò. Si racconta che allora scannasse Giulio da Varano con la
moglie e due dei figli tenuti prigioni colà, mentre che un altro di
loro veniva prima straziato in Pesaro, e poi menato semivivo in una
chiesa, dove era trucidato da un prete spagnuolo, che a sua volta fu
più tardi, a furore di popolo, fatto in pezzi a Cagli. Dalla Pergola
l'esercito andò a Fossombrone, e allora molte donne, per scampare
al furore dei soldati, si gettarono coi propri bimbi nel fiume.[525]
Se non che l'esercito dei ribelli, essendo già arrivato il Baglioni
co' suoi, s'era ingrossato fino a 12,000 uomini, ed a tre miglia da
Fossombrone venne a giornata con quello del Valentino, comandato ora
da don Micheletto e da don Ugo di Moncada, anche questi spagnuolo.
La disfatta dei ducheschi fu intera; don Ugo cadde prigioniero, don
Micheletto scampò a stento, e la gioia dei ribelli fu al colmo. Il
fuggitivo Guidobaldo di Montefeltro tornò di nuovo nel suo Stato, e
venne accolto trionfalmente in Urbino; Giovan Maria da Varano, unico
superstite della stirpe infelice, tornò a Camerino. Così pareva che ad
un tratto la faticosa e sanguinosa opera dei Borgia andasse in fumo.
Tuttavia seguivano ancora scontri abbastanza importanti: don Micheletto
si difendeva sempre in Pesaro; il Duca era in Imola con buon numero
di armati, che cercava aumentare. I ribelli avevano chiesto aiuto a
Venezia, la quale se ne stava invece a guardare, ed a Firenze che,
ricordando sempre le imprese degli Orsini e dei Vitelli in Toscana, nè
volendo entrare in guerra coi Borgia, temporeggiò prima, poi ricusò
addirittura. Il Duca invece ricorse ai Francesi, che gli mandarono
subito alcune lance, sotto il comando di Carlo d'Amboise, signore di
Chaumont. Questo atto, di cui furono universalmente biasimati, mutò a
un tratto lo stato delle cose, perchè mise un timor panico nei nemici
del Valentino, i quali, non avendo potuto o saputo profittar del
momento, vedevano ormai nella bandiera di Francia la salvezza di lui e
la loro rovina.

Fin dal momento in cui la rottura cogli Orsini divenne manifesta,
il Valentino ed il Papa avevano con premura chiesto a Firenze, che
mandasse ambasciatori presso di loro, volendo assicurarsi l'amicizia di
uno Stato che, confinando così largamente colla Romagna, poteva molto
giovare e molto nuocere. Quanto al Papa, i Fiorentini deliberarono
subito di mandare Gian Vittorio Soderini, che per indisposizione di
salute, partì solo il 7 dicembre, e intanto v'andò invece Alessandro
Bracci. Ma quanto al Duca, vi fu lunga discussione, perchè, se non lo
desideravano nemico, neanche volevano stringere con lui un'amicizia che
li obbligasse ad aiutarlo. Certo a loro non metteva conto irritarlo,
ma neppure tirarsi addosso l'ira dei ribelli, così numerosi ed in
armi; non potevano poi, nè volevano decidersi a nulla senza previo
accordo colla Francia. Sicchè dopo molto disputare non si potè vincere
l'elezione, e fu deliberato invece, che i Dieci mandassero un inviato
speciale.[526] La loro scelta cadde su Niccolò Machiavelli, che non
aveva nè il grado, nè la reputazione necessaria ad un ambasciatore;
ma aveva fatto buona prova in altre legazioni, e, secondo osserva il
Cerretani, era «uomo da servire bene alla voglia di pochi,»[527] cioè
da guadagnarsi la fiducia di coloro coi quali veniva in relazione
diretta, come fece più tardi col gonfaloniere Soderini.[528]

Essendo segretario dei Dieci, egli non poteva ricusare l'onorevole
commissione; pure sembra che l'accettasse con grande rincrescimento,
e partisse di malissima voglia. Ognuno di questi incarichi l'obbligava
a far nuovi debiti, perchè era sempre assai poco retribuito, ed a lui
piaceva lo spendere ed il tenere la dignità del suo ufficio. Sentiva
ancora di non avere nè il grado nè l'autorità necessaria a trattare
onorevolmente col Valentino. A tutto ciò si aggiungeva che da breve
tempo aveva preso per moglie Marietta di Lodovico Corsini, la quale
era a lui affezionata molto, e dolentissima perciò di una così pronta
separazione.[529] Veramente anche di questo fatto, certo importante
nella vita privata del Machiavelli, conosciamo assai poco. Pure tutto
ciò che si è scritto contro la povera Marietta, affermando che a
lei avesse alluso il marito nella sua famosa novella di Belfagor,
sappiamo che non ha ombra di fondamento. Alcune lettere di lei, e
molte scritte da amici al Machiavelli, provano invece che ella era
affezionata ai figli ed al marito.[530] Questi pur troppo della moglie
parla assai poco, nè pare che le scrivesse di frequente valendosi
invece spesso di altri per farle arrivare le sue nuove. Anzi neppure
il recente matrimonio gli fece smettere del tutto un abito di vivere
assai poco morigerato, di che parlava e scriveva, ridendo, a molti,
e fra gli altri al Buonaccorsi stesso, di cui appunto si valeva
per ricevere notizie della Marietta, e mandarle le sue. Ma senza
volergli attribuire, in fatto di costumi, una delicatezza raffinata
di sentimenti, la quale egli certo non ebbe, non possiamo neppure
concludere punto, che non sentisse molta affezione per la moglie e per
la famiglia. Questo sarebbe un errore smentito dai fatti. Nella sua
condotta, nei suoi discorsi dobbiamo invece vedere la conseguenza di
quel poco rispetto, per non dire disprezzo della donna, cominciato in
Italia con la decadenza morale della nazione, e di quel cinismo nel
parlare di tutto ciò che s'attiene al costume, cinismo che largamente
introdotto fra noi dagli eruditi, era divenuto allora un abito anche
negli uomini più buoni ed affettuosi. Da quanto noi sappiamo infatti
del Buonaccorsi, questi era d'un animo sotto ogni rispetto eccellente;
eppure le sue lettere al Machiavelli ci forniscono un'altra prova
assai chiara di quanto abbiam detto qui sopra, e nel pubblicarle
bisogna spesso sopprimere molte parole ed anche molti periodi, per
non disgustare troppo il lettore moderno. Comunque sia di ciò, il
Machiavelli, non potendo ricusare la commissione che vollero dargli,
ed avendo ogni ragione di credere che la sua assenza sarebbe stata
assai breve, la fece credere alla moglie brevissima, e s'apparecchiò a
partire.

Il 4 di ottobre fu firmato il salvocondotto; il dì seguente, la
commissione che gli ordinava di partire senza indugio, per recarsi
dal Duca, a fargli ogni più larga protesta di buona amicizia, e a
dichiarargli che la Repubblica aveva esplicitamente negato ogni aiuto
ai congiurati, i quali già ne avevano fatto richiesta. «Ed in questa
parte ti allargherai quanto ti parrà a proposito; ma di quanto Sua
Eccellenza ti ricercasse più oltre, ti rimetterai a darcene avviso,
ed aspettarne risposta.» Gli veniva inoltre commesso di chiedere un
salvocondotto pei mercanti fiorentini che, andando o venendo d'Oriente,
passavano per gli Stati del Duca, raccomandando assai vivamente una
tal cosa come quella «che è lo stomaco di questa città.»[531] Ognuno
capisce che ardua impresa dovesse essere pel modesto Segretario
fiorentino, l'andare in sostanza a vender parole ad un uomo come il
Valentino, che di parole ne faceva poche e dagli altri ne voleva meno,
e che ora si trovava coll'animo assetato di vendetta. Pure, appunto in
questa legazione così mal volentieri accettata, il Machiavelli cominciò
la prima volta a manifestare tutto il suo genio di scrittore politico.

Ancora inesperto della vita pratica, e per natura più facile assai a
scrutare e capire che ad operare, egli si trovò di fronte ad un uomo
che non parlava, ma operava; che non discuteva, ma accennava il suo
pensiero con un gesto, un atto, i quali indicassero la risoluzione già
presa o eseguita. Sentendo tutta la superiorità del suo ingegno su
quello del Duca, il Machiavelli sentiva del pari la sua inferiorità
come uomo d'azione, e vedeva quanto poco giovasse, in mezzo all'urto
delle passioni e nella realtà della vita, il troppo riflettere e
troppo ponderare. Tutto questo cominciò subito a crescere in lui
quell'ammirazione, di cui i primi segni vedemmo già nella sua andata
col cardinal Soderini ad Urbino. Il Valentino non era, come già
notammo, nè un gran politico, nè un gran capitano; ma una specie
di capitano brigante, la cui forza veniva principalmente dal Papa e
dalla Francia. Aveva però saputo creare uno Stato dal nulla, ispirando
terrore a tutti, perfino al Papa stesso. Circondato a un tratto da
gran numero di nemici potenti e armati, seppe liberarsene e disfarsene
con un'audacia grande ed un'arte infernale. Quest'audacia e quest'arte
erano ciò che tanti allora ammiravano, ed il Machiavelli anche più
degli altri. Considerandole in sè stesse, e senza troppi scrupoli,
egli si domandava: dove non potrebbero esse arrivare, quando fossero
adoperate ad un diverso e più nobile fine? E così la sua mente cominciò
ad esaltarsi. Il Duca, dall'altro lato, trovandosi di fronte ad un uomo
educato sui libri e nella cancelleria di Firenze, sentiva di fronte a
lui tutta la superiorità della propria forza, e lo mostrava chiaro ne'
suoi discorsi. Quest'uomo era però Niccolò Machiavelli, il cui occhio
penetrava assai addentro, e se non aveva sempre quell'istinto che
suggerisce la pronta risposta e l'immediata azione, nessuno poteva al
pari di lui, dopo il fatto, arrivare ad una più sicura analisi delle
azioni altrui. Il Machiavelli non poteva nè voleva prendere nessuna
parte a quel che seguiva sotto i suoi occhi; ma nella sua mente ora per
la prima volta si cominciava a formulare preciso e chiaro il concetto,
che lo dominò poi sempre, e che mirava a dare alla scienza politica una
base scientifica e sicura, dandole un suo proprio valore indipendente,
separato affatto da ogni valore morale, quasi un'arte di trovare i
mezzi per ottenere il fine, qualunque esso fosse. E sebbene nella
Repubblica che egli serviva si fosse tutt'altro che scrupolosi e teneri
della morale, pure quest'arte egli la vedeva ora per la prima volta
personificata, vivente nel Valentino, chiara dinanzi ai suoi occhi. Di
lui fece perciò il tipo rappresentativo di essa, ed esaltandosi sempre
di più, finì con l'ammirarlo quasi fosse la creatura della sua propria
mente. Ma su di ciò torneremo più oltre.

Il Machiavelli partì subito a cavallo, e giunto a Scarperia, si mise
in vettura, continuando fino ad Imola, dove arrivò il 7 ottobre, e ad
ore 18, senza neppure mutare abiti, si presentò al Duca (scrive egli ai
Dieci) così _cavalchereccio com'ero_. Allora la ribellione era appena
cominciata, e non se ne poteva misurare l'importanza. Il Duca ascoltò
le proteste d'amicizia fatte dal Machiavelli in nome della Repubblica,
senza rispondere, tenendole come semplici formole d'uso. Disse volergli
confidare dei segreti, che non aveva mai rivelati ad uomo vivo; e
cominciò a raccontare come gli Orsini s'erano altra volta quasi gettati
ai suoi piedi, perchè assalisse Firenze, ed egli non aveva mai voluto
consentirvi. Della loro andata in Arezzo non aveva saputo nulla, ma non
gli era dispiaciuta, perchè i Fiorentini non gli avevano mantenuto la
fede. Venute poi le lettere di Francia e del Papa, dovè ordinare che si
ritirassero. Da ciò gli odî che li avevano portati a questa «dieta di
falliti;»[532] ma erano pazzi, perchè l'essere il Papa vivo e il Re di
Francia in Italia, gli facevano «tanto fuoco sotto, che ci voleva altra
acqua che coloro a spegnerlo.» La conclusione di tutto il discorso
fu, che questo era pei Fiorentini il momento di fare una stretta
alleanza con lui. Se aspettavano che egli si fosse «rimpiastrato cogli
Orsini,» tornavano i medesimi rispetti e le stesse difficoltà di prima.
Bisognava quindi dichiararsi e venire subito ai patti. Il Machiavelli
dovè rispondere che avrebbe scritto a Firenze, il che subito annoiò
per modo il Duca, che non volle aggiungere altro, quando fu pregato
che determinasse in qualche modo, che specie d'accordo voleva. «E
non ostante che io gli entrassi sotto, per trarre da lui qualche
particolare, sempre girò largo.»[533]

Il giorno 9, quello in cui i ribelli firmarono i patti alla Magione,
il Duca chiamò il Machiavelli, colmandolo di tali gentilezze, che
questi diceva di non saper come fare a descriverle. Gli fece sentire
alcune lettere favorevoli, venute di Francia, volendo che leggesse la
firma al Machiavelli già nota, e insisteva da capo sulla necessità di
pronti accordi. «Si vede chiaro,» concludeva il Machiavelli, dopo aver
dato molti altri ragguagli, «che il Duca è pronto ora ad ogni mercato;
ma sarebbe necessario mandare un ambasciatore con patti definiti e
precisi.»[534] Il segretario e gli agenti del Duca gli ripetevano le
medesime cose, stringendolo da ogni lato. Arrivava intanto la nuova
della rotta data a don Ugo e don Micheletto dagli Orsini e Vitelli,
ed il Machiavelli trovava una difficoltà grandissima a conoscerne i
particolari, «perchè in questa Corte tutto si governa con un segreto
mirabile, e le cose che sono da tacere non si dicono mai.» Il Duca,
sempre impenetrabile, affettava un sommo disprezzo pe' suoi nemici e
pel numero delle genti d'arme, che pretendevano di avere, dicendo, che
facevano bene a chiamarle «uomini d'arme in bianco, che vuol dire in
nulla.» Vitellozzo fra gli altri non s'era mai visto fare «una cosa da
uomo di cuore, scusandosi col mal francioso. Solo è buono a guastare i
paesi che non hanno difesa, e a rubare chi non gli mostra il volto, e
a fare di questi tradimenti.» In ciò dire si diffuse assai, «parlando
così pianamente senza mostrarsi punto alterato.»[535] Il pericolo
lo aveva reso più mite, ed il Machiavelli potè allora ottenere il
salvocondotto pei mercanti fiorentini, che mandò subito ai Dieci,[536]
aggiungendo sempre tutte le notizie che poteva raccogliere.

Il 23 ottobre ebbe un'altra lunga conferenza col Duca, che gli lesse
una lettera assai amichevole del Re di Francia, aggiungendo che le
lance francesi erano per arrivare subito, e così i fanti forestieri.
Poi parlò con grandissimo sdegno del tradimento degli Orsini, i quali
ragionavano d'accordo. «Ora fanno,» egli disse, «gli amici, e scrivonmi
buone lettere. Oggi deve venire a trovarmi il signor Paolo, domani il
Cardinale, e così mi scoccoveggiano a loro modo. Io dall'altro canto
temporeggio, porgo orecchio ad ogni cosa, ed aspetto il tempo mio.»
E tornò a ripetere, che i Fiorentini avrebbero dovuto fare con lui
amicizia esplicita.[537] Era sempre la stessa conclusione, alla quale
l'oratore non poteva mai dare risposta. A tutto ciò s'aggiungeva,
per crescere la sua confusione, che egli non riusciva a capire qual
risultato potessero avere gli accordi iniziati coi ribelli. Il 27
ottobre arrivava Paolo Orsini, travestito da corriere, per trattare;
«ma quale animo sia ora quello del Duca, io non lo giudicherei: non
vedo come egli possa perdonare l'offesa, nè come gli Orsini possano
lasciare la paura.»[538] Il segretario Agapito lo avvertiva che non si
era anche concluso nulla, perchè il Duca voleva nei patti aggiungere
una clausola, «la quale, se è accettata, gli apre una finestra, se
ricusata, una porta per uscire di questi capitoli, dei quali infino
alli putti se ne debbono ridere.»[539] Altri agenti tornavano a
ripetergli, che quello era il momento per Firenze di stringere
amicizia col Duca, dandogli la condotta promessa, senza perdere un
tempo prezioso. «Quanto agli accordi coi ribelli, dicevano, non erano
anche conclusi, e in ogni caso non doveva darsene pensiero, perchè
dove è uomini è modo. Una parte sola degli Orsini sarà salva; ma di
Vitellozzo, che è il vero nemico di Firenze, il Duca non vuol neppure
sentir parlare, per essere un serpente avvelenato, il fuoco di Toscana
e d'Italia.»[540]

Finalmente i capitoli dell'accordo furono conclusi colla data del 28
ottobre, firmati dal Duca e da Paolo Orsini; ed il Machiavelli con
la lettera del 10 novembre ne mandava ai Dieci una copia ottenuta
segretamente.[541] Si giurava pace e lega offensiva e difensiva tra
il Duca e i ribelli, con l'obbligo di rimettere in obbedienza Urbino
e Camerino. Il Duca prometteva tenere ai suoi stipendi gli Orsini
ed i Vitelli, come prima, con questo che essi non erano obbligati a
stare in campo più d'uno alla volta, ed il Cardinale non era tenuto
a stare in Roma se non quando a lui piacesse. Il Papa avrebbe, come
fece, confermato i capitoli. Quanto al Bentivoglio, non venne incluso
in questi patti, e ciò perchè, avendo la protezione di Francia, non
sarebbe stato possibile ai Borgia violarli. Era chiara la diffidenza
con cui veniva da una parte e dall'altra fatto l'accordo, nè si può
capire come mai gli Orsini ed i Vitelli si lasciassero così miseramente
tirare nella rete, se non fosse che l'aiuto delle lance francesi
al Duca li aveva atterriti, e la mancanza di danaro rendeva loro
impossibile continuare la guerra con un avversario potente, sostenuto
dal Papa e dalla Francia. Speravano prendere tempo, per tornare da
capo alle cospirazioni; ma il Duca era in sull'avviso, e sebbene
circondato da molti nemici, doveva riuscirgli facile _sbrancarne_
qualcuno, e indebolirli, cosa che non potevano essi, avendo da fare
con un uomo solo.[542] Il Machiavelli descriveva ai Dieci con la più
grande evidenza, passo per passo, tutto il procedere di questi eventi;
e quando il dì 11 novembre essi si dolevano con lui di non avere per
otto giorni ricevuto alcuna sua lettera[543] rispondeva: «Le SS. VV. mi
abbino per scusato, e pensino che le cose non s'indovinano, e intendino
che si ha a fare qui con un principe che si governa da sè, e che chi
non vuole scrivere ghiribizzi e sogni, bisogna che riscontri le cose, e
nel riscontrarle va tempo, e io m'ingegno di spenderlo e non lo gittare
via.»[544] Egli infatti osserva, esamina, studia il dramma che si
svolge sotto i suoi occhi, con tutto l'ardore di chi, con uno spirito
ed un metodo scientifico, va dietro alla ricerca del vero. Qualche
volta par proprio di vedere un anatomico che sezioni un cadavere, nel
quale è sicuro di scoprire il germe d'un male ignoto. Racconta con una
fedeltà ed una evidenza non mai uguagliata, ed il suo stile acquista
un vigore, una originalità, di cui la prosa moderna non aveva ancora
dato esempio. Qui, sotto i nostri occhi, si cominciano a formare ed
a formulare le dottrine politiche, il rigore metodico, e si manifesta
finalmente tutta quanta l'eloquenza, di cui è capace il Machiavelli.

Eppure, strano a dirsi, egli era scontentissimo, e chiedeva ogni
giorno con maggiore insistenza d'essere richiamato. Alcune ragioni di
questa sua scontentezza le abbiamo già notate. Di natura irrequieto,
non gli piaceva il restar lungamente fermo in un luogo;[545] in questa
come in tutte le sue legazioni non trovava modo di vivere con quel
poco che la Repubblica gli dava, e non volendo, come altri facevano,
starsene a spese del Duca nella Corte, nè mancare in nulla alla dignità
del proprio grado, gli toccava spendere e far debiti. La moglie,
trovandosi, appena sposata, priva del marito, che le aveva promesso di
rimanere assente soli otto giorni, ed invece non tornava e di rado le
scriveva, lasciandola anche in domestiche strettezze, era ogni giorno
nella cancelleria a chiedere nuove di lui, a dolersi, a strepitare
col Buonaccorsi e cogli altri amici, che di continuo gli scrivevano
di ciò.[546] A queste ragioni se ne aggiungevano però altre, anche
di maggior peso per lui. Era certo un ufficio penosissimo stare a
temporeggiar col Duca, senza nulla poter concludere, trovarlo ogni
giorno più impaziente, e sentirsi con derisione ripetere dagli agenti
di lui, «che chi aspetta tempo ed hallo, cerca miglior pane che di
grano.»[547] A concludere ci voleva in ogni modo un ambasciatore, che
venisse con proposte chiare e decise. Era stato, secondo lui, un errore
mandarne uno a Roma invece che ad Imola, perchè dell'accordo doveva
contentarsi il Duca e non il Papa, il quale non avrebbe mai potuto
disfare ciò che il Duca faceva, mentre l'opposto poteva facilmente
seguire.[548] Ma sebbene, per queste inquietudini e travagli, la sua
stessa salute ne soffrisse, ed egli se ne dolesse, i suoi lamenti non
approdavano a nulla,[549] avendo i Fiorentini assai buone ragioni per
voler temporeggiare.

Nè dei Borgia, nè degli Orsini e Vitelli potevasi la Repubblica in
modo alcuno fidare, perchè gli accordi fatti con essi valevano solo
finchè tornava loro il conto. La base della sua politica in Italia
era l'alleanza colla Francia, non certo sicura, ma non così mal fida
come quella dei Borgia. A questi dunque non si volevano dare che
parole, e però un ambasciatore poteva bene mandarsi per ossequio al
Papa, ma non al Duca che voleva subito stringere. Per inviarlo anche
a lui, era necessario aspettare avvisi ed istruzioni di Francia.
Questo i Dieci scrivevano di continuo al Machiavelli, che non se
ne contentava, giacchè la sua condizione restava sempre la stessa.
Da un altro lato a Firenze v'era bisogno grandissimo d'informazioni
esatte sui movimenti non solo, ma ancora sulle intenzioni del Duca,
e per questo verso la importanza delle lettere del Machiavelli era
ormai così universalmente riconosciuta da tutti, che nessuno voleva
sentir parlare di richiamarlo, non potendosi trovare uomo più di lui
adatto al suo ufficio presente. Niccolò Valori gli scriveva il 21
ottobre: «E veramente queste due ultime (lettere) ci avete mandate,
v'è suto tanto nervo, e vi si mostra sì buono iudicio vostro, che
non le potrebbano essere sute più aprovate. Ed in spezie ne parlai
a lungo a Piero Soderini, che non iudica si possa a nessun modo
rimuovervi di costì.»[550] Più tardi gli scrissero il Buonaccorsi,
Marcello Virgilio ed il Gonfaloniere stesso, ripetendogli che non era
possibile richiamarlo, perchè bisognava pure che uno stésse presso
il Valentino, e più adatto di lui non si sapeva trovarlo.[551] Il
Gonfaloniere e i Dieci aggiungevano a ciò l'invio di 25 ducati d'oro e
16 braccia di damasco, i primi affinchè egli si potesse mantenere più
convenientemente colà, il drappo per donativi da farsi.[552]

Ma a tutte le ragioni sinora accennate del suo scontento, bisogna
aggiungerne un'altra. Sebbene il Machiavelli trovasse grandissima
materia di studio nell'osservare le azioni del Valentino e di coloro
che lo circondavano,[553] pure, per quanto egli astraesse la politica
dalla morale, e non avesse una coscienza troppo tenera e troppo
scrupolosa nelle faccende di Stato, il vivere in mezzo a una rete
così continua e fitta d'infamie; fra uomini così pieni di delitti,
così pronti al tradimento ed al sangue, i quali tutti non rispettavano
altro che la forza, senza potere egli nè impedire, nè moderare le loro
azioni in modo alcuno, era più assai di ciò che la sua indole potesse
comportare. Non c'è un'opinione più erronea di quella di coloro i quali
vollero supporre, che in questo momento le azioni del Valentino fossero
consigliate e guidate dal Machiavelli.[554] Da tutte le lettere che
questi scrisse, si vede chiaro come egli durasse invece una gran fatica
a scoprire le intenzioni e i segreti disegni del Duca, assai spesso non
riuscendovi e restando al buio di tutto. Il Duca non aveva bisogno dei
consigli del Segretario fiorentino, di cui qualche volta sembrava quasi
prendersi gioco. Il Machiavelli non era punto sanguinario e crudele,
anzi quando si trovava proprio in presenza ed in contatto del male,
anche per mitezza d'indole ne rifuggiva. Più volte, difatti, in questa
legazione cadono dalla sua penna parole che, sotto l'apparente cinismo,
tradiscono un certo angoscioso terrore. Ed allora, per allontanarsi
dal tristo spettacolo, scriveva lettere oscene e facete ai compagni
d'ufficio, i quali rispondevano che, leggendole, smascellavano dalle
risa,[555] e poi gli raccontavano a loro volta i pettegolezzi e le
baruffe seguite nella cancelleria, dove in sua assenza il disordine
era sempre grande, o pure i loro stravizî e le loro oscenità. Altra
volta, stanco di tutto ciò, si chiudeva in sè stesso a meditare sugli
antichi scrittori, e lo vediamo chiedere con febbrile insistenza le
_Vite_ di Plutarco al suo Buonaccorsi, cui ricorreva di continuo per
libri, per danari e per mille altre faccende, trovandolo sempre pronto
e servizievole. Questi in una lettera del 21 ottobre gli scriveva:
«Habbiamo fatto cercare delle _Vite_ di Plutarco, e non se ne truova in
Firenze da vendere. Abbiate pazienza, che bisogna scrivere a Venezia;
ed a dirvi il vero, voi siete lo 'nfracida a chiedere tante cose.»[556]
Singolare spettacolo è questo del Machiavelli che, contemplando gli
eroi di Plutarco da un lato e le azioni del Valentino dall'altro,
comincia a creare quella scienza politica che deve fondarsi sulla
storia del passato e sull'esperienza del presente. La scolastica aveva
cercato le origini prime e la base della società umana, partendo dal
concetto di Dio e del Sommo Bene, perdendosi in considerazioni che
non avevano nessun valore nella pratica della vita. Lo stesso Dante
Alighieri non s'era potuto nella sua _Monarchia_ liberare dalle troppo
artificiali e astratte teorie. Il Machiavelli non aveva nè tempo, nè
opportunità, nè voglia da ciò. Trovandosi dinanzi alla realtà delle
cose, indagava secondo quali leggi seguivano i fatti umani, per cavarne
precetti utili a governare gli uomini. Voleva sapere donde tragga la
sua forza l'uomo di Stato, e come debba adoperarla per ottenere il
fine propostosi, e quando non rispondevano i moderni, interrogava gli
antichi.

Intanto gli riusciva sempre più difficile vedere il Duca, il quale,
quando lo riceveva, tornava sempre sulla necessità di stringere
alleanza, di confermargli la condotta già stipulata, e quando sentiva
nuove proteste d'amicizia, senza che si venisse a proposte determinate,
prorompeva sdegnato: «ecco che qui non si stringe nulla.»[557] Pure di
tanto in tanto lo chiamava e cercava di scoprire terreno, sotto colore
di far nuove confidenze. Un giorno gli disse che Giovan Paolo Baglioni
aveva nel passato chiesto una lettera, con cui gli si ordinasse di
seguire Vitellozzo, per aiutarlo a rimettere i Medici in Firenze, ed
egli l'aveva scritta. «Ora non so,» seguì egli, guardando a un tratto
il Machiavelli, «se se ne sarà fatto bello, per darmi carico.» Al che
questi rispose di non averne notizia.[558] Un altro giorno cominciò con
molta gravità a confidargli, come Paolo Orsini dicesse d'avere allora
appunto avuto dai Fiorentini offerta d'una condotta, per andare al
campo di Pisa, offerta che fu ricusata. Al che il Machiavelli chiese se
l'Orsini aveva pronunziato il nome di chi gli portò l'offerta, o fatto
vedere le lettere, e se aveva mai detto bugìe. Il Duca, accorgendosi
che il Segretario non cadeva nella rete, rispose che l'Orsini non aveva
detto i nomi, nè mostrato le lettere; ma che delle bugìe gliene aveva
dette assai. «E così si risolvè questa cosa ridendo, nonostante che nel
principio lui ne parlasse turbato, mostrando di crederla e che la gli
dolesse.»[559] Raccontò poi d'un segreto accordo fatto dai Veneziani in
Rimini, per mezzo d'un Veneto che abitava colà, aggiungendo che egli,
«per l'onor loro, lo aveva fatto impiccare.» Dato questo avvertimento,
come di passaggio, venne a parlare della espugnazione di Pisa, ed
osservò che sarebbe la più gloriosa impresa che potesse fare un
capitano. «Di qui saltò in Lucca, dicendo che era la più ricca terra,
e che era un boccone da ghiotti. Poi aggiunse che se egli, Firenze e
Ferrara fossero d'accordo, non avrebbero avuto a temere di nulla.»[560]
Pareva proprio il gatto che volesse pigliarsi gioco del topo, se non
che il topo era Niccolò Machiavelli.

In questo mezzo le trattative già iniziate continuavano, per
tirarvi dentro quanti più si poteva. Vitellozzo era ancora restìo e
temporeggiava, sicchè di lui parlavasi con grande sdegno nella Corte.
«Questo traditore ci ha data una coltellata, e ora crede guarirla con
le parole.»[561] Pure anch'egli fu preso finalmente al laccio. Tutto
essendo ormai concluso, il Duca d'Urbino si trovò da capo abbandonato;
laonde dovè subito pensare ai casi suoi, e quindi, demolite alcune
delle fortezze, altre lasciate in mano di gente fida, se ne fuggì
sopra una muletta, piangendo, ed era fatto cercare a morte, con furore
indescrivibile, dal Papa e dal Valentino. L'angoscia e la fatica furono
tali, che a Castel Durante si svenne. Pure riuscì a salvarsi.[562] Nel
suo Stato fu dal Borgia mandato ad amministrare giustizia Antonio da
San Savino, il quale procedette con qualche moderazione; in Romagna
invece adempiva lo stesso ufficio, con crudeltà inaudita, un tal messer
Ramiro.[563] Nel medesimo tempo il Valentino partiva con l'esercito per
Forlì; il Machiavelli lo seguiva, ed il 14 dicembre scriveva da Cesena,
pieno d'incertezza, che tutti erano sospesi, vedendo che non licenziava
neppure una lancia: e però, sebbene ci fosse l'accordo, il passato
faceva giudicare dell'avvenire, e costringeva a creder che volesse ora
assicurarsi de' suoi nemici. Tornava poi sulla necessità di concludere
accordo per mezzo di un ambasciatore, e chiedeva nuovamente d'essere
richiamato.[564] Ma la Repubblica meno che mai lo ascoltava ora che le
cose si avvicinavano ad una soluzione, e che la Francia faceva capire
di non voler più lasciare la briglia sciolta ai Borgia.

Infatti le 450 lance francesi, che avevano dato al Duca tanta
riputazione, furono a un tratto richiamate, e partirono il 22 dicembre:
cosa, scriveva il Machiavelli, che ha mandato il cervello sossopra a
questa Corte....; e «ognuno fa sua castellucci.» La ragione di così
subito mutamento non si capiva allora, e le conseguenze di un tal
procedere non si potevano prevedere.[565] Certo è però, che questo
fatto, l'essere ancora tutte le fortezze d'Urbino o smantellate o
tenute sempre in nome di Guidobaldo, il non aversi nè potersi avere
nessuna fiducia negli accordi conclusi, «avevano subito tolto metà
delle forze e due terzi della riputazione al Duca.»[566] Pure le sue
artiglierie andavano innanzi, come se nulla fosse. Mille Svizzeri erano
arrivati a Faenza, altri 1500 ne aveva già tra Svizzeri e Guasconi.
Nessuno sapeva indovinare lo scopo di tali mosse, tutto era mistero,
perchè «questo signore non comunica mai cosa alcuna, se non quando e'
la commette, e commettela quando la necessità strigne, e in sul fatto
e non altrimenti; donde io prego VV. SS. mi scusino, nè m'imputino
a negligenza, quando io non satisfaccia alle SS. VV. con gli avvisi,
perchè il più delle volte io non satisfo _etiam_ a me medesimo.»[567]
E ad accrescere il mistero seguiva, in quei giorni appunto, un caso
strano. Messer Rimino o Ramiro, il fidato strumento del Duca in
Romagna, autore delle più nefande crudeltà per sottomettere quel paese,
da cui era perciò odiatissimo, arrivato da Pesaro in Cesena, fu, con
generale maraviglia di tutti, preso il 22 dicembre e messo in fondo
d'una torre.[568] Dopo quattro giorni il Machiavelli scriveva ai Dieci:
«Messer Rimino questa mattina è stato trovato in dua pezzi, in sulla
piazza dove è ancora, e tutto questo popolo lo ha possuto vedere: non
si sa bene la cagione della sua morte, se non che li è piaciuto così
al principe, il quale mostra di saper fare e disfare gli uomini a sua
posta, secondo i meriti loro.»[569]

Ma ora le cose procedevano rapidamente al loro fine; tutto era diretto
alla presa di Sinigaglia. Questa terra, fino dai tempi di Sisto IV
appartenuta a Giovanni della Rovere, marito di Giovanna sorella di
Guidobaldo d'Urbino, era per la morte di quel Signore, pervenuta nel
1501 al figlio suo Francesco Maria, di anni 11, che Alessandro VI
nominò prefetto di Roma, come era stato il padre. Nella sua prima fuga
Guidobaldo aveva menato seco il nipote, che trovavasi ora di nuovo
in Sinigaglia con la madre, la quale governava pel figlio, aiutata
dai consigli del celebre Andrea Doria tutore di lui, ed era chiamata
la prefettessa. Vedendo che l'esercito del Valentino s'avvicinava in
gran fretta, e innanzi a lui erano già le genti di Vitellozzo e degli
Orsini, disposte ad assalir la città, il Doria salvò la madre ed il
figlio alle sue cure affidati, e poi, ordinato ai suoi di difendere
la fortezza più che potevano, se n'andò egli stesso a Firenze.[570]
Il 29 dicembre, il Machiavelli scriveva da Pesaro una lettera che
andò smarrita, nella quale narrava minutamente ciò che compendiò
poi in altre, cioè come Vitellozzo e gli Orsini erano entrati in
Sinigaglia, e come il Duca, avutone notizia, ordinò subito che
ponessero le loro genti nel borgo, fuori delle mura, e s'avanzò col
suo esercito verso la terra, in cui entrò la mattina del 31. Primo
a farglisi incontro fu Vitellozzo, colui appunto che più di tutti
aveva resistito all'accordo, il quale, sapendo d'essere perciò il più
odiato, veniva sopra una muletta, disarmato, dimesso, con la berretta
in mano. Seguivano il duca di Gravina, Paolo Orsini, Oliverotto
da Fermo, e tutti quattro accompagnarono il Duca per le vie della
città, nella casa in cui alloggiò. Egli che già aveva fatto cenno a
chi doveva guardarli, entrato che fu con essi in una stanza, li fece
subito prendere prigioni; dette ordine che fossero svaligiate le loro
fanterie nel borgo, ed inviò una metà del suo esercito per fare lo
stesso alle genti d'arme, che erano alloggiate nelle vicine castella, a
sei o sette miglia da Sinigaglia. Quel medesimo giorno il Machiavelli
dava immediata notizia del fatto ai Dieci, aggiungendo: «La terra va
tuttavia a sacco, e siamo a ore 23. Sono in un travaglio grandissimo;
non so se i' mi potrò spedire la lettera, per non avere chi venga.
Scriverò a lungo per altra; e secondo la mia opinione, non fieno vivi
domattina.»[571]

Un'altra lettera, più lunga e più importante assai, scritta quel
medesimo giorno, andò perduta. Abbiamo però quella del primo di
gennaio 1503, in cui egli racconta come verso un'ora della notte
innanzi era stato chiamato dal Duca, il quale «colla miglior cera del
mondo si rallegrò meco di questo successo, aggiungendo parole savie
e affezionatissime sopra modo verso cotesta Città. Disse che questo
era il servigio che aveva promesso di rendervi a tempo opportuno. E
come aveva dichiarato, che vi offrirebbe la sua amicizia con istanza
tanto maggiore, quanto più fosse stato sicuro di sè, così ora teneva
la promessa; e venne esponendo tutte le ragioni che l'inducono a
desiderare questa amicizia, con parole che mi fecero restare ammirato.
M'invitò ancora a scrivervi che, avendo spento i capitali nemici suoi,
di Firenze e di Francia, e levata quella zizzania che minacciava
guastare l'Italia, dovevate dargli segno manifesto d'amicizia, col
mandar gente verso Perugia dove s'avviava ora, e col ritenere per lui
il duca Guidobaldo, se nella sua nuova fuga entrasse in Toscana. È
seguìto poi che questa notte passata, a ore dieci, fece strangolare
Vitellozzo e messer Oliverotto da Fermo;»[572] «gli altri due sono
rimasi ancora vivi, credesi, per vedere se il Papa arà avuti nelle
mani il cardinale[573] e gli altri che erano a Roma, che si crede di
sì, e dipoi ne delibereranno tutti di bella brigata.» La rôcca s'era
già arresa; l'esercito era partito quel giorno stesso alla volta di
Perugia, per continuare verso Siena; il Machiavelli lo seguiva, ed
essendo inverno, erano grandissimi gli stenti dei soldati e di chiunque
andava con essi.[574]

Il disordine, il trambusto divennero universali, ed all'avvicinarsi
del Duca tutti i piccoli tiranni del paese fuggivano come dinanzi
all'idra.[575] Ben si può credere che, in tanta confusione, corrieri
per portar le lettere non se ne trovassero, o non fossero sicuri,
e però non poche di quelle scritte allora dal Machiavelli andarono
perdute. Il 4 gennaio 1503, egli avvisò che le genti vitellesche
ed orsine erano riuscite a scampare. Intanto s'andava innanzi, e i
Baglioni fuggivano da Perugia, che il giorno 6 si arrese. Le loro
sorelle, arrivate al confine, donde il Commissario fiorentino Piero
Ardinghelli aveva, per gli ordini ricevuti, respinto tutti i profughi,
vestirono due figlie giovinette da uomo, abbandonandole per forza alla
compassione di lui, piuttosto che vederle cadere nelle mani dei nemici.
Sicchè quegli scriveva il 19 gennaio al gonfaloniere Soderini: «Ora
io non ho potuto far che la pietà di questa fortuna, di questa età
non mi abbia commosso.... Ho eletto scriverne in proprio all'E. V.,
per intendere se le persone sole delle quattro donne o almeno le due
pulzelle io possi qui receptare.... Quando non fussi contro la pubblica
intenzione, io che naturalmente ho compassione agli afflitti, me ne
terrò obbligatissimo.»[576] E gli fu permesso.

Il giorno 8 Niccolò Machiavelli scriveva da Assisi, che tutti si
maravigliavano come ancora non fosse venuto da Firenze alcuno a
congratularsi col Duca, il quale ripeteva d'avere cogli ultimi fatti
reso gran servigio alla Repubblica, perchè «alle SS. VV. sarebbe costo
lo spegnere Vitellozzo e gli Orsini dugento mila ducati, e poi non
sarebbe riuscito loro sì netto.» E intanto continuava il suo cammino,
procedendo sempre «con una fortuna inaudita, un animo e una speranza
più che umana,»[577] risoluto a cacciare di Siena il tiranno Pandolfo
Petrucci, e, potendo, anche impadronirsi della sua persona, al qual
fine il Papa cercava «addormentarlo coi Brevi,» perchè è bene, diceva
il Duca, «ingannare costoro che sono suti li maestri dei tradimenti.»
Non si attentava d'impadronirsi della città stessa, non permettendolo
la Francia; ma quanto a Pandolfo, che era stato «il cervello» dei
congiurati, voleva levarlo di mezzo.[578]

Il 13 gennaio si trovavano a Castello della Pieve, ed essendo
finalmente per arrivare il nuovo ambasciatore fiorentino, Iacopo
Salviati, il Machiavelli s'apparecchiava a partire, come fece poi
il 20. Ma prima, per sopperire alle molte lettere perdute, si pose
a scriverne una che riepiloga tutti i fatti seguìti, della quale
sfortunatamente non abbiamo che il primo foglio. In essa egli
incomincia con grandissima cura ed amore a fare un quadro generale
dell'impresa che, sin dalle prime parole, dichiara veramente «rara
e memorabile.» Non accenna nel Duca alcun disegno premeditato di
tradire, ma piuttosto un animo risoluto a vendicarsi in tempo, quando
s'avvide che, per la partenza delle lance francesi, volevano tradirlo.
Descrive la somma accortezza che egli usò per tener celato agli
Orsini ed ai Vitelli il numero delle genti che ancora gli rimanevano,
facendole credere minori che non erano. Con uguale ammirazione descrive
minutamente gli ordini dati per dividere in piccoli drappelli tutto
l'esercito, e condurlo poi unito a Sinigaglia, in modo da arrivare
inaspettato con forze preponderanti, trovando disseminate lungi
dalla città quelle dei falsi amici, i quali così non avrebbero potuto
disobbedirgli, senza scoprirsi traditori prima del tempo. Ma appunto
quando si è per descrivere l'entrata in Sinigaglia, finisce il brano
di questa lettera,[579] in cui lo scrittore, cercando pure di restar
fedele alla verità storica, sembra quasi esaltarsi a descrivere
un eroe, cosa di cui qualche rimprovero gli era stato già fatto da
Firenze, come apparisce dalle lettere stesse del Buonaccorsi.[580]

Il Machiavelli trovavasi ancora il giorno 18 gennaio a Castello della
Pieve, quando il Valentino, ricevuta la notizia lungamente aspettata,
che il Papa aveva cioè preso prigioniero il cardinale Orsini e gli
altri in Roma, fece strangolare anche Paolo e il duca di Gravina
Orsini, che aveva menati seco da Sinigaglia, sotto buona guardia. Il
Duca procedette saccheggiando le terre del Senese, e minacciando di
assalire la città stessa, se non ne cacciavano subito il Petrucci;
ma si contentò poi di lasciarlo partire, quando questi chiese un
salvocondotto, perchè la Francia gli vietava d'assalire la terra, ed il
Papa lo chiamava in fretta a Roma. Ciò per altro non impedì punto che,
dopo avergli concesso il salvocondotto e raccomandatolo con lettera
ai Lucchesi, gli mandasse dietro cinquanta uomini armati, per averlo,
morto o vivo, nelle mani. E veramente il tiranno di Siena scampò
questa volta per miracolo. Il 28 gennaio, infatti, aveva lasciato la
sua città, e fuggiva più che in fretta con Giovan Paolo Baglioni verso
Lucca, perchè, sebbene non sapessero di essere inseguiti, pure nessuno
si fidava dei Borgia. E gli sgherri erano sul punto di raggiungerlo, se
non che, durando sempre la guerra tra Firenze e Pisa, il commissario
fiorentino, ignaro di tutto, non volle permettere che uomini armati
corressero liberamente un paese guerreggiato, e li fermò chiedendo
istruzioni a Firenze. Questo bastò perchè la desiderata preda avesse il
tempo necessario a sfuggire dagli artigli avvelenati del Duca. Ed egli
dovette ora finalmente decidersi ad andar subito verso Roma, chiamatovi
con febbrile istanza dal Papa, il quale non si sentiva punto sicuro,
essendo la Campagna piena d'armati che lo minacciavano. La Francia da
un altro lato aveva di nuovo e severamente vietato che si procedesse
oltre nelle conquiste.

Mentre in Romagna e nell'Italia centrale vediamo il Duca, e Niccolò
Machiavelli che con tanta evidenza ci fa assistere a tutto quello
che seguiva colà; a Roma possiamo osservare il rovescio, non meno
tragico, della medaglia. Ivi si trovavano di fronte il Papa, che sapeva
dominarsi assai meno del figlio, e Antonio Giustinian che, senza avere
nè l'ingegno nè la cultura del Machiavelli, aveva assai maggiore
autorità, maggiore esperienza del mondo, straordinaria conoscenza
degli uomini, e, come ambasciatore veneto, molti mezzi che mancavano al
Segretario fiorentino, per conoscere il segreto delle cose. Fin dal 6
agosto egli aveva scritto al Doge, che Vitellozzo andava «scantonando»
il Duca, e che tutto faceva prevedere che questi ed il Papa fossero
decisi a «mozzar le ali» agli Orsini. Quando vennero le nuove della
ribellione, e della rotta di don Ugo e don Micheletto, il Papa si
scagliò in Concistoro con un furore forsennato contro gli Orsini, ma
poi subito, a poco a poco, abbassò la voce in modo da mostrarsi, scrive
l'oratore, quasi umile ed avvilito. Alle prime notizie dei favori di
Francia la sua gioia era di nuovo tale, che i cardinali sogghignavano
fra loro, vedendo che il Santo Padre sapeva così poco frenarsi.[581]
Cominciarono poi le trattative per gli accordi, e subito l'ambasciatore
veneto, senza avere i dubbi e le incertezze del fiorentino, notava che
erano condotti in modo da non farvi entrare di mezzo persone potenti,
per non trovare poi ostacoli a violarli, venendo al sangue.[582]

Intanto non si perdeva tempo. Il Papa confessava d'avere in pochi
giorni mandato al Duca 36,000 ducati;[583] e raccoglieva artiglierie,
armava come se i nemici fossero alle porte, pigliando danari «cusì
da amici come da nemici, non avendo respetto che sieno nè Orsini, nè
Colonnesi: e fa come chi se aniega, che se attacca alle frasche.»[584]
Senza punto occuparsi di cercare i principî o teorie d'una nuova
scienza dello Stato, il Giustinian era, quanto e più del Machiavelli,
intento a dare una fotografia di quel che vedeva; e sin dai primi di
novembre, notando che la mala fede grandissima con cui procedevano
gli accordi, traspariva dalle parole stesse del Papa, le riferiva al
Doge _de verbo ad verbum_, aggiungendo: «E se possibile fosse, vorìa
depenzerli la cosa inanti li occhi, perchè el modo fa molte fiate
vegnir li uomini in cognizion dell'intrinseco più che le parole:»
ognuno è persuaso che sia un finto accordo.[585] Infatti quando si
lessero i nomi degli Orsini che lo avevano firmato, il Papa disse
ridendo all'ambasciatore fiorentino: «Non vi pare che questa sia una
compagnia di tristi e di falliti? Non vedete dai patti, come diffidano
e si confessano traditori, non escluso il cardinale stesso, che ci
fa l'amico, e intanto vuol mettere per condizione di stare a Roma
solo quando gli pare?» Al quale proposito, il Giustinian scriveva:
Gli Orsini possono essere ben certi d'aver preso il «tossego a
termene.»[586] Nessuno invero capiva la cecità loro, massime del
cardinale, che era sempre intorno al Papa, quasi volesse da sè medesimo
entrare nella rete.

A misura che Alessandro VI credeva più vicini e sicuri i nuovi trionfi
del Duca in Romagna, faceva ogni opera per cattivarsi l'amicizia
della repubblica veneziana. Egli chiamava a parte l'ambasciatore,
ed incrociando le braccia, stringendole al petto, deplorava che la
gelosia dei governi d'Italia avesse dato il paese in mano a stranieri,
che stavano con la bocca aperta per pigliarsi il resto. «Finora ci
ha salvati solo la gelosia tra Francia e Spagna, altrimenti saremmo
già rovinati. Ma non vi pensate esser figli dell'oca bianca. Ce ne
sarebbe stato anche per voi. Noi siamo vecchi e dobbiamo pensare
alla nostra posterità, onde non possiamo sperare in altri che nella
serenissima Repubblica, che è eterna. Per amor di Dio, uniamoci insieme
e provvediamo alla salute d'Italia. Sapete che cosa si dice? Che volete
esser troppo savî. Contentatevi d'esser savî e lasciate quel troppo.
E nel dir queste cose (aggiunge l'ambasciatore) pareva quasi gli si
aprisse il petto, e che le parole gli uscissero dal core e non dalla
bocca.»[587] Ma chi poteva prestar fede ai Borgia? E però gli disse
in risposta brevissime parole; «e _solum_ rengraziai la Santità Sua
del bon volere dimostrato verso la Eccellentissima Signoria Vostra.»
Del resto neppur Venezia era allora capace di seguire una politica
veramente nazionale, e tale da cavar partito dalle giuste idee che,
per suo proprio interesse e per fini malamente mascherati, esponeva il
Papa, pronto il giorno dopo a fare il contrario di quel che con tanta
passione diceva allora.

Comunque sia di ciò, il 24 novembre, quando il Machiavelli in Romagna
era ancora al buio dei disegni del Valentino, e invano si stillava
il cervello, il Giustinian scriveva da Roma: «La prima botta sarà a
Sinigaglia, per impedire che la Prefettessa aiuti il duca d'Urbino, che
il Papa ha una passione sfrenata d'aver nelle mani.»[588] Raccoglieva
e mandava di continuo danari al figlio, che spendeva da 1000 ducati al
giorno,[589] e s'aiutava perciò col saccheggiare e rubare. Aspettava
con straordinaria impazienza le nuove dei progressi di lui, a segno
tale che quando lo seppe per qualche tempo fermo a Cesena, andava
gridando, fuori di sè per la stizza: Non sappiamo che diavolo stia a
fare colà; gli abbiamo scritto che si spicci in sua buon'ora. E ad alta
voce, per ben tre volte ripeteva, sì che tutti l'udirono: «Al fio de
putta bastardo!» e simili parole e bestemmie in spagnuolo.[590] Per
riposarsi poi da questi pensieri, e deviare la pubblica attenzione da'
suoi segreti maneggi, promuoveva in Roma feste e mascherate popolari,
che percorrevano le strade, e divenivano più oscene, quando arrivavano
sotto le sue finestre, donde egli guardava ridendo il suo solito riso
di vecchio dissoluto.[591] La sera la passava in Vaticano, continuando
spesso fino a giorno «ne li consueti solazzi,» non mancandovi mai le
solite belle donne, senza le quali «non se ne fa festa che diletti,»
e giocavansi qualche volta centinaia di ducati. A questi sollazzi
interveniva anche il cardinale Orsini, con maraviglia di tutta la
Corte, la quale non capiva come egli si andasse così da se stesso
«intrapolando.»[592]

Il 31 dicembre il Papa girava per le stanze del Vaticano, dicendo di
non saper capire che cosa facesse il Duca, consumando invano mille
ducati al giorno; ma poi non poteva celare il suo buon umore, e ridendo
aggiungeva: «Vuol far sempre cose nuove, ha troppo grande animo.» Ed
i cardinali gli dicevano che stesse contento, perchè il Duca sapeva
spender con profitto il danaro. « — Noi tutti, essi aggiungevano,
lo aspettiamo presto qui di ritorno per fare un bel carnevale. — Lo
sappiamo bene, lo sappiamo, diceva il Papa, continuando a ridere,
che voi non pensate ad altro. — » Era quello il giorno stesso, in cui
Niccolò Machiavelli annunziava ai Dieci la presa di Sinigaglia e dei
nemici del Duca. Il giorno dipoi il Santo Padre, finita la messa,
chiamò gli ambasciatori presenti, e dètte loro la grande notizia,
mostrandosi quasi maravigliato; ed aggiungeva che il Duca non perdonava
mai a chi gli faceva ingiuria, e la vendetta non la lasciava ad altri,
e minacciò quelli che l'avevano offeso, ed in particolare Oliverotto,
«el qual el Duca aveva giurato in ogni modo di appiccar con le soe
proprie mane.» I cardinali lo circondavano, e con varî rallegramenti
«li grattavan le orecchie,»[593] mentre che esso «entrò in un gran
cantar della virtù e magnanimità del Duca.» Poi si guardavano in viso,
e stringendosi nelle spalle, pensavano a quello che presto sarebbe
seguito.»[594]

Infatti il giorno 3 di gennaio 1503, essendo arrivata al Papa, sebbene
ancora tenuta segreta, la notizia certa che Oliverotto e Vitellozzo
erano stati strangolati, egli fece in gran fretta chiamare in Vaticano
il cardinale Orsini, che venne col Governatore e con Iacopo da
Santa Croce, i quali pare avessero ordine d'accompagnarlo, sebbene
fingessero di venir con lui a caso. Non era anche arrivato, che fu
preso e messo, come tutti prevedevano, in Castel Sant'Angelo, per
non uscirne mai più vivo. La casa fu subito svaligiata, e la madre
con due giovinette che le tenevano compagnia, cacciate senza poter
portare seco altro che quello avevano in dosso. Le tre donne andaron
raminghe per Roma, non trovando chi volesse riceverle, perchè ognuno
temeva. Seguirono senza indugi moltissimi altri arresti. L'auditor
della Camera, vescovo di Cesena, fu portato via dal letto con la
febbre, e la sua casa del pari svaligiata; lo stesso fu fatto al
protonotario Andrea _de Spiritibus_,[595] e così ad altri ed altri
ancora. Chiunque aveva danari tremava per la sua vita, perchè ora «non
par che il Pontefice pensi ad altro che a recuperar denari. Si afferma
che abbia, tra robe, ufficî e beneficî, raccolto non meno di 100,000
ducati; e dice che quel che è fatto è nulla a quello che farà.»[596] I
Medici stessi a Roma erano assai sbigottiti, ed il vescovo di Chiusi
morì di spavento. Quelli che fuggirono erano già tanti, che il Papa
credè necessario chiamare i Conservatori della Città, per dir loro che
ormai erano presi tutti quelli che avevano commesso male: attendessero
dunque gli altri a fare un bel carnevale.[597] Ed egli stesso, pure
continuando la sua opera di sterminio, passò i due mesi di gennaio e
febbraio tra le feste carnevalesche. L'ambasciatore veneto, andato a
parlargli d'affari, lo trovò al balcone che rideva guardando il popolo
mascherato buffoneggiare sotto le sue finestre.[598] Invitato poi a
veglia una sera, lo trovò che assisteva, dopo aver passato il giorno
a veder correre palii, alla recita di commedie, delle quali fu sempre
amantissimo, in presenza d'altri diplomatici, in mezzo ai cardinali,
«alcuni con l'abito cardinalesco, ed alcuni anco da maschera, con
quelle compagnie che soleno gradir al Pontefice, e qualcuna ne era a'
piedi del Santo Padre.»[599]

Il giorno che seguì a quella festa, il cardinale Orsini spirava nella
prigione di Castel Sant'Angelo, dove, secondo che tutti dicevano, era
stato avvelenato. Invano i cardinali avevano supplicato per la sua
vita, invano i parenti avevano offerto 25 mila ducati per salvarlo.
La madre, cui prima era stato concesso di mandar cibo al figlio, e
poi vietato, inviò una donna amata dal cardinale, con l'offerta d'una
grossa perla al Papa, che da più tempo la desiderava, sperando così
di muoverlo a pietà. Prese la perla, ma non fece la grazia. Solo
concesse che si mandasse di nuovo il desinare. Allora però il cardinale
cominciava a dar «segni di frenesia,» e secondo la comune opinione,
aveva già bevuto alla tazza avvelenata: quasi per ironia si ordinò
poi ai medici lo curassero con ogni diligenza.[600] Il 15 si disse
che lo avevano trovato con la febbre: il 22 era morto; il 24 quelli
che lo avevano assistito furono chiamati a giurare che era stata morte
naturale. Vennero poi, per ordine di Sua Santità, celebrate pubbliche
esequie.[601]

Ed ora s'aspettava il Duca. Il cardinale d'Este era già fuggito da
Roma a tale annunzio, temendo per la propria vita. Tra le mille voci
che correvano, dicevasi anche che egli amasse donna Sancia cognata
del Duca, e da questo pure amata.[602] Quelli fra gli Orsini che erano
avanzati alla strage, i Savelli, i Colonna, corsi alle armi, s'erano
fortificati in Ceri, Bracciano, altrove, ed avevano il 23 gennaio
assalito il ponte Nomentano. Sebbene fossero stati respinti, pure
il Papa aveva armato il Palazzo; era fuori di sè per la rabbia e la
paura; andava gridando che voleva sradicar casa Orsini, e chiedeva
al suo Duca, che non perdesse tempo, s'affrettasse a venire. Ed egli
s'era avanzato, portando sterminio dovunque arrivava. A San Quirico,
non trovò che due vecchi e nove vecchie, essendo fuggiti tutti gli
altri. Li fece sospendere per le braccia, ponendo il fuoco sotto i
loro piedi, perchè rivelassero dove erano nascosti i tesori; e non
potendo nè sapendo essi rispondere nulla, dovettero morire. Simili
atrocità commise a Montefiascone, Acquapendente, Viterbo, ecc.[603]
Ma quantunque tutto cedesse dinanzi a lui, e molti dei nemici si
fossero ritirati, pure Ceri e Bracciano resistevano, non bastando
a sottometterli le artiglierie mandate dal Papa, nè il Duca osando
secondarlo ora con troppo zelo, a cagione degli ordini ricevuti di
Francia, dei quali l'altro non si curava punto. In questo modo le cose
andarono per le lunghe; e però il Valentino, lasciati in una villa
vicina 50 uomini armati, coi quali era venuto, entrò il 26 febbraio
in Roma, insieme con il cardinale Borgia, il cardinale d'Alibret e
tre servitori, tutti in maschera. La sera assisteva mascherato alla
rappresentazione d'una delle solite commedie in Vaticano, sebbene
ognuno lo riconoscesse.[604]

Il Machiavelli intanto, con la fantasia esaltata, piena la mente di
tutto quello che aveva veduto e sentito del Valentino e dei Borgia,
era tornato a Firenze, dove continuava nella cancelleria a leggere ed
a scriver lettere che parlavan di loro. Ma chi credesse che egli si
fosse addirittura illuso nel giudicare il vero carattere del Papa e del
figlio, dovrebbe rileggere la sua prima _Legazione_ a Roma, ed il suo
primo _Decennale_, per convincersi facilmente del contrario. In questo
egli chiama il Duca uomo senza pietà, ribellante a Cristo, l'idra, il
basilisco, degno della più trista fine, e parla in termini non molto
diversi del Papa.[605] Pure fu, come dicemmo, accanto al Valentino,
che nella sua mente sorse la prima volta e cominciò a formularsi assai
chiaro il pensiero, che doveva poi occupare tutta la sua vita, d'una
scienza dello Stato, separata, indipendente da ogni concetto morale. In
questa separazione egli credette di vedere l'unico mezzo per concepire
chiaramente, e fondare su nuova base la vera arte di governare. Si
trovò in uno stato d'animo e di mente non molto diverso da quello
di chi si fosse la prima volta messo a ricercare le leggi, secondo
cui si aumenta o si diminuisce la ricchezza delle nazioni, ed avesse
esaminato il fenomeno economico così nel mercante, nell'industriale
e nell'agricoltore che producono, come nel soldato che saccheggia,
nel brigante e nel pirata che rubano. Da questa separazione, più o
meno astratta e forzata, di uno solo dei fenomeni sociali da tutti
gli altri, cominciò infatti la scienza economica a formarsi, ed a
ciò dovette così il suo rapido progresso come anche alcuni di quegli
errori che più tardi cercò di correggere. E da una separazione non
molto diversa partiva il Machiavelli, quando cominciò ad esaminare, a
studiare le azioni del Valentino: in esse l'assoluta distinzione della
politica dalla morale non appariva come un'ipotesi o un'astrazione,
perchè era invece un fatto reale. Se non che, allora il Machiavelli
riusciva solo a formulare alcune massime generali, senza innalzarsi
ad un concepimento teoretico di principî, e molto meno poteva riuscire
ad esser tanto sicuro del suo metodo, da tentar di raccoglierli in un
corpo di dottrine. Le sue idee, quasi inconsapevolmente, lo conducevano
piuttosto a formar nella sua mente un personaggio ideale, che
rappresentava l'uomo politico, accorto, abile, audace, non trattenuto
da nessuno scrupolo di coscienza, da nessuna autorità morale, pur di
giungere, superando ogni ostacolo, anche attraverso il sangue ed i
tradimenti, allo scopo che s'era prefisso. In sostanza, esaminando le
azioni del Valentino, egli aveva finito col concepire un Valentino
immaginario, al quale ritornò continuamente più tardi. È la nota
figura che così spesso ricomparisce in mezzo alle considerazioni dei
_Discorsi_ e del _Principe_, come a ricordare la loro prima sorgente,
ed a testimoniare di nuovo che l'autore ha cercato il fondamento della
sua politica, non già risalendo al Sommo Bene, o movendo da qualche
metafisica astrazione, ma solo esaminando la realtà della vita. Ad
un simile impulso egli obbediva, quando più tardi scrisse la _Vita di
Castruccio Castracani_, la quale, come tutti sanno, non è storia, ma
è invece un tentativo per cavare dalla storia il suo proprio ideale
politico. Tutto questo ci spiega com'egli potesse tanto lodare e tanto
biasimare il Valentino. Le lodi vanno generalmente al personaggio della
sua mente, il biasimo a quello della storia. L'uno però non è così
diverso dall'altro, che non ci accada qualche volta di confonderli
insieme, tanto più che ciò segue anche all'autore, trasportato come è
da una fantasia, che spesso lo domina con forza tanto maggiore, quanto
più egli crede di ragionare a freddo. Nè è veramente raro il caso di
vedere appunto gli uomini che più riflettono e ponderano, cadere a un
tratto in assoluta balìa della propria immaginazione.

Qualunque del resto fosse lo stato del suo animo e delle sue idee, il
Machiavelli non aveva allora il tempo necessario alle scientifiche
meditazioni, ed a scrivere lavori di lunga lena. Si provò quindi
solamente a narrare in breve tutto quel che aveva veduto in Romagna,
non per darne un esatto ragguaglio storico, che già trovavasi nelle
molte lettere della sua legazione, sebbene più d'una ne fosse andata
perduta; ma per mettere, invece, anche meglio in chiaro la prudenza e
l'arte, secondo lui maravigliose, del Duca. Compose perciò la ben nota
_Descrizione_,[606] in cui il modo da questo tenuto nell'uccidere i
suoi nemici, vien dipinto in quella forma che meglio rispondeva allo
scopo che lo scrittore aveva preso di mira. Così e non altrimenti
si può spiegare perchè il Machiavelli ora descriva i fatti tanto
diversamente da quel che vedemmo nella _Legazione_, quando egli era sul
luogo, e ragguagliava i Dieci per dovere d'ufficio.

Nella _Descrizione_ comincia col presentarci il Duca che ritorna di
Lombardia, dove era stato a scusarsi col Re di Francia «di molte
calunnie gli erano state date da' Fiorentini per la ribellione
d'Arezzo.» Il che non è vero, perchè i Fiorentini non lo avevano
calunniato, e ciò dovrebbe in ogni caso bastare a far ricredere tutti
coloro che in questa _Descrizione_ non vollero vedere altro che una
delle sue solite lettere ai Dieci o ai Signori. Certo il Segretario
non avrebbe potuto, scrivendo ad essi, parlare delle _calunnie_ de'
Fiorentini. Continuando poi, egli narra con molta brevità la congiura
alla Magione, e l'accordo più tardi seguìto fra i ribelli e il Duca,
del quale fa in ogni maniera risaltare l'astuzia. Qui il Duca parte da
Imola alla «uscita di novembre,» e nella _Legazione_ il 10 dicembre;
parte da Cesena «intorno a mezzo dicembre,» e nella _Legazione_,
invece, era il 26 dicembre ancora «in sul partire.» Si procede poi
narrando come, presa Sinigaglia dai Vitelli e dagli Orsini, la fortezza
non si volle arrendere, avendo il castellano dichiarato di cederla
solo «alla persona del Duca,» che fu perciò invitato a venire. A
lui, osserva il Machiavelli, parve la occasione buona e da non dare
ombra, e per meglio colorire la cosa licenziò i Francesi.[607] Nella
_Legazione_ invece aveva detto, come del resto da tutti gli storici
ed ambasciatori del tempo risulta chiaro, che i Francesi partirono
improvvisamente il 22 dicembre, perchè furono richiamati senza che
se ne sapesse la ragione, e in ogni modo con grande dispiacere e
pericolo del Duca.[608] Anzi il 20 dicembre scriveva che la cosa aveva
«mandato il cervello sottosopra a questa Corte,» ed il 23, che al Duca
erano così «mancate più che la metà delle forze e a due terzi della
reputazione.» Nella _Descrizione_, invece, tutto ciò si muta in un
tratto di fina accortezza del Valentino. Anche la strada che da Fano
mena a Sinigaglia, apparisce qui assai diversa da quella minutamente
descritta nel brano che ci resta della citata lettera, in cui si
epiloga il racconto dei fatti. E sino alla fine si continua sempre allo
stesso modo. Il Duca comunica il suo disegno a otto de' suoi fidi, di
alcuni dei quali sono dati i nomi della _Descrizione_, sebbene nella
_Legazione_ di ciò non si faccia parola. Si racconta diversamente anche
la presa dei quattro capitani, e si danno le parole dette da Oliverotto
e Vitellozzo in sul morire, parole di cui nessuno può confermare
o negare la verità storica, non avendone l'autore accennato nulla
altrove, nè essendo presumibile che le conoscesse di certa scienza.
Come si spiegherebbero mai così patenti contradizioni, se non si
ammettesse che qui non si tratta di storia vera e propria? Il Valentino
che il Machiavelli ci descrive ora, calunniato dai Fiorentini, abile
ed accorto anche più di quel che appaia nella _Legazione_, non è altro
che il precursore del suo _Principe_, nel quale ci sarà più tardi
esposto in una forma teoretica ciò che ora vediamo invece in una forma
individuale e concreta. Il concetto scientifico, sebbene ancora non
apparisca molto chiaro, è però già nascosto nel personaggio ideale che
ci sta dinanzi.



CAPITOLO VI.

    Necessità di nuove imposte. — _Discorso sulla provvisione del
    danaro_. — Provvedimenti contro i Borgia. — Guerra di Pisa.
    — Nuovi misfatti del Papa. — Prevalenza degli Spagnuoli nel
    Reame. — Morte di Alessandro VI. — Elezione di Pio III e di
    Giulio II.

    (1503)


La Repubblica trovavasi ora molto angustiata dall'urgente bisogno di
danari necessarî ad assoldare nuove genti; giacchè non solo i Borgia
minacciavano da un lato e i Pisani dall'altro, ma un nuovo esercito
francese era in via per Napoli, ed a nessuno era dato prevedere le
complicazioni e i pericoli che da ciò potevano nascere. Pure fu questo
il momento, in cui il gonfaloniere Soderini, che finora aveva governato
con grandissimo favore, e tutto gli era riuscito, trovò la prima forte
opposizione nei cittadini. Sette proposte diverse furono nel febbraio
e nel marzo 1503 presentate al Consiglio Maggiore, per ottenere il
danaro necessario, e nessuna fu vinta. Nè si sapeva più a quale partito
appigliarsi, perchè se la imposta che si proponeva era grossa, non
poteva essere accettata da un popolo già tanto gravato; se piccola, non
soddisfaceva al bisogno. A queste ragioni di scontento se ne univano
altre, che rendevano la presente opposizione assai viva. I cittadini
più ricchi avevano non solo pagato le ordinarie gravezze; ma erano
stati costretti ad imprestare non piccole somme di danaro al Comune,
il quale perciò aveva con essi un debito di 400,000 fiorini, di cui
18,000 erano dovuti al Soderini ed ai suoi nipoti. Non volevano adunque
i ricchi sentir parlare di provvedimenti straordinarî; ma chiedevano
una imposta ordinaria e generale che, cadendo del pari su tutti, desse
alla Repubblica modo di pagare qualche parte de' suoi debiti a chi essa
aveva finora più aggravato. Questa norma s'era appunto seguìta nelle
varie proposte sostenute dal Gonfaloniere, e respinte dal Consiglio,
in cui prevalevano i meno ricchi, i quali si dolevano che egli, eletto
dal popolo, favorisse invece i potenti. Ed aggiungevano che tutto ciò
seguiva, perchè voleva ora farsi pagare i crediti che aveva egli verso
lo Stato, dal quale riscoteva pure così grosso stipendio. Nè bastando,
si univano a questi lamenti anche le grida di coloro che erano stati
colpiti dai molti risparmî introdotti nella nuova amministrazione; e si
faceva perfino un gran brontolare, perchè la moglie del Gonfaloniere,
che era dei marchesi Malaspina, «bellissima, benchè attempata, e savia
con modi regî,» secondo l'espressione del Cerretani, avesse allora
preso alloggio in Palazzo, e quindi si vedesse per quelle scale un gran
salire e scendere di signore, cosa fino allora insolita a Firenze.

La conseguenza naturale di tutto ciò fu, che il credito della
Repubblica, rapidamente salito per la elezione del nuovo Gonfaloniere,
e per la ordinata amministrazione di lui, discese ora con uguale
rapidità, e i luoghi del Monte Comune e del Monte delle Fanciulle si
tornavano a negoziare a bassissimo prezzo come in passato. Onde egli,
stanco ormai di più temporeggiare, radunò il Consiglio Maggiore, e
fece un solenne discorso, in cui, esposti gl'imminenti pericoli, rimise
nei cittadini stessi la forma da dare alla nuova gravezza, pur che il
danaro necessario a conservare e difendere la Repubblica, fosse una
volta deliberato. E così finalmente si vinse una Decima universale
su tutti i beni immobili, compresi gli ecclesiastici, quando se ne
avesse il permesso da Roma, consentendo anche «un poco d'arbitrio.» Era
l'_arbitrio_ una tassa sull'esercizio delle professioni, e questo nome
derivava forse dal mettersi senza regole molto determinate, massime poi
nel caso presente, in cui veniva affidata del tutto alla discrezione
dei magistrati. In ogni modo le cose tornarono subito nel loro stato
normale, essendosi così superate le difficoltà assai più facilmente che
non si sarebbe potuto supporre.[609]

Il Machiavelli si provò allora a mettere sulla carta il discorso che,
secondo lui, avrebbe dovuto essere fatto in quella occasione. Se lo
scrivesse per ordine del Soderini, e se veramente sia lo stesso che
questi lesse o recitò in Consiglio, noi non possiamo affermarlo. Certo
egli lo compose come se a ciò fosse destinato. Scritto in modo da
poter essere, nel pronunziarlo, ancora più ampliato e svolto, ha una
forza e concisione di stile singolarissime, e vi si trovano molte di
quelle massime, di quelle sentenze generali e reminiscenze storiche,
che, quasi direi, galleggiavano ancora non bene coordinate fra loro
nella mente del Segretario fiorentino, ma venivano pur sempre da lui
esposte e ripetute con una lucidità inarrivabile.[610] Egli incomincia
col notare che tutti gli Stati hanno bisogno d'unire la forza alla
prudenza. I Fiorentini avevano fatto prova di prudenza, nel dare unità
e capo al governo; mancarono però subito al debito loro, non volendo
provvedere alle armi, quando pochi mesi prima erano stati, per opera
del Valentino, vicini all'ultima rovina. Nè valeva il dire che ora
egli non aveva più ragione di offendere, «perchè bisogna sempre tenere
che sia nemico chiunque può levarci il nostro, senza che noi siamo in
grado di difenderci. E voi non potete ora difendere i vostri sudditi,
e siete fra due o tre città, che desiderano più la vostra morte che
la loro vita. Se andate poi fuori di Toscana, troverete che l'Italia
gira tutta sotto i Veneziani, il Papa e il Re di Francia. I primi vi
odiano e vi chiedono danari, per farvi guerra: meglio spenderli voi,
per farla ad essi. Ognuno conosce che fede si può avere nel Papa e nel
Duca, coi quali finora non vi è stato possibile concludere alleanza
di sorta, e quando pure vi riuscisse, io vi ripeto che quei signori
solamente vi saranno amici, che non vi potranno offendere, perchè fra
gli uomini privati le leggi, le scritte, i patti fanno osservare la
fede, e fra i Signori le armi. Quanto al Re di Francia, ci vuol proprio
chi osi dirvi il vero, e quest'uno son io. O egli non troverà altro
ostacolo che voi in Italia, e allora siete perduti, o vi saranno anche
altri, e la salute vostra dipenderà solo dal sapervi fare rispettare
in modo, che non si pensi d'abbandonarvi in preda a lui, e che egli
non creda potervi lasciare fra i perduti. Pensate, in ogni caso, che
non sempre si può mettere mano sulla spada di altri, e però gli è bene
averla allato e cingersela, quando il nemico è discosto. Molti di voi
debbono ricordare che, quando Costantinopoli fu per esser presa dal
Turco, l'Imperatore previde la rovina, e non potendo provvedere colle
sue entrate, chiamò i cittadini, ed espose quali erano i pericoli
ed i rimedî; e se ne feciono beffe.» «La ossidione venne. Quelli
cittadini che aveano prima poco stimato i ricordi del loro Signore,
come sentirono suonare le artiglierie nelle loro mura, e fremere lo
esercito de' nemici, corsono piangendo all'Imperadore con grembi pieni
di danari, i quali lui cacciò via, dicendo: andate a morire con codesti
danari, poi che voi non avete voluto vivere senz'essi.... Se però gli
altri diventano savi per li pericoli dei vicini, voi non rinsavite
per li vostri.... Perch'io vi dico, che la fortuna non muta sentenza
dove non si muta ordine; nè i cieli vogliono o possono sostenere una
cosa che voglia ruinare ad ogni modo. Il che io non posso credere,
veggendovi Fiorentini liberi, ed essere nelle mani vostre la vostra
libertà. Alla quale credo che voi avrete quei rispetti, che ha avuto
chi è nato libero e desidera viver libero.» Quello che noi dobbiamo
per ora notare si è la tendenza, che apparisce sempre più chiara nel
Machiavelli, a formulare massime di politica generale, anche parlando
di un affare così semplice come era il raccomandare una nuova imposta.

Le trattative intanto iniziate dai Borgia, per fare alleanza coi
Fiorentini, continuavano senza speranza d'alcun resultato, perchè
questi volevano procedere in tutto col consenso della Francia, la quale
ora s'allontanava dal Papa, che dimostrava favore agli Spagnuoli. Essa
cercava di favorire una lega tra Siena, Firenze, Lucca e Bologna,
il che era finora riuscito solo ad aiutare il Petrucci a tornare in
Siena. Colà i Fiorentini mandarono nell'aprile il Machiavelli, per
comunicare a quel Signore le pratiche e le premure fatte dal Papa; e
ciò per dargli una prova d'amicizia, più che per speranza o desiderio
avessero di venire a qualche pratico resultato.[611] E però vinta
che fu la provvisione del danaro, pensarono seriamente a mettersi in
difesa contro inaspettati assalti dei Borgia, ed il Machiavelli era
di nuovo al suo banco a scrivere lettere. Ad un commissario scriveva
di tener d'occhio i nemici, ad un altro d'armare la fortezza, un
terzo veniva rimproverato aspramente di mollezza e pigrizia. Nel
maggio avvertiva che il Valentino licenziava le sue genti, le quali
potevano fare qualche colpo di mano per proprio conto, o anche tentar,
sotto queste mentite apparenze, di meglio servire il loro signore.
Intanto esse erano verso Perugia, e minacciavano il confine. «Laonde,
sebbene il divieto della Francia non ci faccia credere possibile un
assalto, nè abbiamo pelo addosso che pensi quella Maestà essere per
consentirgliene;[612] pure non bisogna punto addormentarsi, ma stare
in guardia come se ci si credesse, visto il modo con cui procedono
ora le cose, riuscendo quasi sempre dove nessuno immagina. Più adunque
le vedi rannugolarsi e le conosci pericolose, e più terrai gli occhi
aperti.»[613] I Dieci invero temevano poco un assalto manifesto,
ma dubitavano molto di furti, di rapine, di saccheggi o anche di
ribellione provocata in qualche terra, per poi scusarsene. «Se si
ha a dubitare di assalto manifesto a 12 soldi per lira, e' se n'ha a
dubitare a 18 soldi di furto.»[614] Forse ancora tutti questi segni
di minacce avevano per unico scopo d'impedire che si désse il solito
guasto ai Pisani, richiamando altrove l'attenzione e le forze della
Repubblica. Ma quanto a ciò, essa era fermamente decisa a profittar
della buona stagione.

Infatti s'erano già inviati al campo, come commissarî di guerra,
Antonio Giacomini, che faceva anche l'ufficio di capitano con ardore
sempre maggiore, e Tommaso Tosinghi. Nell'aprile una circolare dei
Dieci ordinava che s'arrolassero nel territorio alcune migliaia di
marraiuoli per dare il guasto, e nel maggio si mandavano al campo
travi, bombarde, maestri d'ascia, e si annunziavano pronti a partire
fanti, uomini d'arme e guastatori, tanto che i Pisani si spaventarono
e dettero segno di voler venire ad accordi. Ma nè il Giacomini nè il
Tosinghi si lasciarono prendere a questa pania, dichiarando di volere
stare ai fatti, non alle parole, e ne furono molto lodati dai Dieci,
in nome dei quali Niccolò Machiavelli scriveva loro il 22 maggio,
confortandoli «a seguire co' medesimi termini in ogni vostra azione,
mostrando sempre dall'una mano la spada e dall'altra l'unguento,
in modo che conoscano essere in loro arbitrio pigliare quale e'
vogliano.»[615] E il 23 del mese uscirono in campagna 300 uomini
d'arme, 200 cavalli leggeri, 3000 fanti e 2000 guastatori, che per
l'energia del Giacomini, in due giorni, dettero dalla parte dell'Arno
un guasto così generale, che i Dieci stessi ne restarono assai
soddisfatti, anzi maravigliati, e incoraggiavano a continuare in Val
di Serchio.[616] Il Machiavelli, nello scrivere tutte queste lettere,
non solo trasmetteva gli ordini avuti; ma qualche volta si distendeva
a dare consigli, direzioni, suggerimenti, entrando nei più minuti
particolari, quasi fosse un uomo di guerra, e che si trovasse in sul
posto, pure ripetendo sempre che la Repubblica si rimetteva del tutto
ai giudizî dei commissarî e capitani.[617]

Ai primi di giugno era finito il guasto anche nella Valle del Serchio,
ed arrivava il balì di Caen, il quale, portando poco più che la
bandiera di Francia, e qualche uomo d'arme, cominciava subito coi
soliti lamenti e le solite pretese. Tuttavia la sua presenza e quella
dei suoi, senza poter fare nè gran male nè gran bene, toglievano
animo ai Pisani e ne davano ai Fiorentini, i quali subito presero
Vico Pisano e la Verruca, di che i Dieci molto si rallegrarono,[618]
ed il 18 giugno ordinarono che si espugnassero Librafatta e la Torre
di Foce.[619] Ma la notizia che i Francesi comandati dal La Trémoille
s'avanzavano verso Napoli, fece sospendere queste operazioni, essendo
ora necessario d'avere l'esercito libero ad ogni occorrenza imprevista;
e però fu dato invece ordine di limitarsi a pigliar solo la Torre di
Foce, «perchè si lievi questo riceptacolo ai Pisani, e che non possino
più rifarci nidio alcuno.»[620] Dopo di ciò la guerra fu da quel lato
sospesa, ed il Giacomini richiamato per mandarlo ai confini.

Le cose del Reame avevano preso una piega assai contraria alla Francia,
di cui i Borgia perciò cominciavano a curarsi assai poco, e quindi
i Fiorentini si sentivano ora meno sicuri che mai. Alcune genti del
Valentino scorrevano già nel Senese, di che il commissario Giovanni
Ridolfi era in grandissimo pensiero, e però, con lettera del 4 agosto,
il Machiavelli cercava fargli animo, scrivendo: «Gaeta non è poi
all'olio santo come tu supponi, gli Spagnuoli cominciano a ritirarsi,
i Francesi s'avanzano. Ed è falsa la tua opinione che l'esercito loro
resti in Lombardia per paura dei Veneziani;» «e' quali non sono meglio
in su le staffe, che si sieno stati tutto questo anno, nè si sente che
tramutino un cavallo, nè che muovino un uomo d'arme, tale che, per
tornare al proposito, noi non veggiamo come el Duca in su el traino
di queste cose, abbi a cominciare una guerra e turbare apertamente le
cose di Toscana, possendo in mille modi esserli, colla metà di questi
favori, messo fuoco sino sotto el letto.»[621] Tuttavia, non ostante
questa fiducia apparente, si davano gli ordini per la difesa, e si
mandavano al Ridolfi 250 lance francesi. Così fra questo ondeggiare
passò buona parte dell'anno, quando nuovi eventi in Roma mutarono
affatto le condizioni della politica italiana.

Colà, dopo che le genti del Duca avevano finalmente preso Ceri,
pareva che fosse nato dissenso fra lui ed il Papa, non volendo quegli
procedere risoluto contro Bracciano e gli Orsini, per rispetto della
Francia, quando l'altro si mostrava per ciò pieno di così gran furore,
che minacciava scomunicare il figlio; e corse perfino la voce che una
sera erano tra loro venuti alle mani.[622] Ma tutto questo, secondo
l'ambasciatore veneziano, era una commedia. Nella presente incertezza
intorno ai prossimi eventi del Reame, il Papa dimostrava d'inclinare a
Spagna, il Duca a Francia. Pure, «buttandosela un all'altro, continuava
il Giustinian, non restano di far li soi disegni.»[623] La verità era
che adesso più che mai speravano poterli finalmente, fra i prossimi ed
inevitabili disordini, porre in atto, e perciò con ogni mezzo davano
opera a far danari. Il dì 29 marzo lo stesso ambasciatore scriveva
che erano stati con una Bolla creati ottanta nuovi ufficî nella Curia,
venduti subito a 760 ducati l'uno. «La Sublimità Vostra fazi el conto,
e vedrà quanti denari ha toccato el Pontefice.»[624] E nel maggio
aggiungeva, che erano stati nominati nove cardinali, uomini della
peggior sorte, pagando tutti buona somma di danaro, alcuni da 20,000
ducati in su, tanto che s'erano messi insieme da 120 a 130 mila ducati.
Così Alessandro aveva fatto vedere al mondo, che le entrate d'un Papa
possono esser quali e quante esso vuole.[625]

Ma tutto ciò non bastava, e si ricorreva quindi ad altri mezzi. La
notte dal 10 all'11 aprile, il cardinale Michiel, dopo due giorni di
vomito, moriva, e prima dell'alba la sua casa era svaligiata, per
ordine del Papa, che, secondo il Giustinian, tra danari, argenti,
tappezzerie, prese più di 150,000 ducati. Infatti, andato questi in
Vaticano, trovò tutte le porte serrate, e non fu ricevuto, perchè erano
occupati a contar danari, e continuavano ancora nella sala, in cui fu
condotto la mattina del 13, quando v'andò perchè invitato dal Papa.
Questi gli disse: «Vedete, non sono che 23,832 ducati, e pure tutta
la terra è piena della notizia che abbiamo avuto in contanti da 80
a 100 mila ducati.» E domandava la testimonianza di quelli che erano
presenti, «quasi,» osservava l'ambasciatore, «ch'el fosse gran cosa
che loro el dovessero servire di busìa.» E tuttavia il Papa gli faceva
vivissime premure, perchè si ricercasse nel Veneto dove erano gli altri
danari del cardinale, parendogli pochi quelli che aveva trovati.[626]
Non andò guari, e Iacopo da Santa Croce, colui che lo aveva aiutato
ad impadronirsi del cardinale Orsini, accompagnandolo in Vaticano,
fu fatto prigioniero anch'egli, e dopo pattuito con lui di lasciarlo
vivo, mediante buona somma di danari, gli fu invece il dì 8 giugno
tagliata la testa. Il suo cadavere venne lasciato per terra sul ponte
Sant'Angelo fino a sera, i suoi beni mobili e immobili confiscati, la
moglie ed il figlio mandati raminghi.[627]

Intanto il 19 maggio era a un tratto fuggito di Roma il Troches o
Troccio, uno dei più fidati strumenti degli assassinii de' Borgia, i
quali ora lo cercavano a morte.[628] Il Valentino, con lettera dello
stesso giorno, pregava gli amici, ed ordinava «a tucti nostri vaxalli,»
sotto pena di ribellione, che lo ritenessero prigioniero, fuggendo
egli per cose che erano «contro l'onore del Re di Francia.»[629] Altri
però affermavano, che causa della fuga di questo assassino era stata
lo sdegno di non esser messo nella lista dei nuovi cardinali, sdegno
da lui manifestato al Papa, il quale gli avrebbe risposto che tacesse,
se non voleva essere ammazzato dal Duca; e ciò lo aveva, come si
affermava, indotto a rivelare alla Francia i loro segreti maneggi colla
Spagna. Quindi il furore dei Borgia, e la brama ardente d'averlo nelle
mani. Comunque sia, fu preso in una nave che lo menava in Corsica,
e portato subito a Roma, venne chiuso in una torre nel Trastevere.
Colà, dopo poche ore, comparve il Duca che gli parlò brevemente, e
poi, ritiratosi in luogo donde lo vedeva e non era visto, mandò don
Micheletto a strangolarlo. La sua roba, che era stata già inventariata,
fu distribuita secondo gli ordini del Papa. E così, osservava il
Giustinian, di tutti i più sicuri e fedeli strumenti dei Borgia
restavano ora vivi solo don Micheletto e Romolino, ai quali era forse
tra poco serbata la medesima sorte degli altri.[630] Veramente pareva
che non vi dovesse essere più fine alle persecuzioni ed alle morti.
Molti vennero imprigionati come ebrei, altri in maggior numero come
marrani: con questi pretesti s'entrava nelle loro case, svaligiandole
d'ogni cosa; poi si pattuiva con ciascuno di essi di lasciar solo salva
la vita, mediante una somma più o meno grossa. «Sono tutte invenzioni
da far danari,» scriveva l'ambasciatore fiorentino Vittorio Soderini,
e lo stesso diceva presso a poco il veneto.[631] Questi annunziava più
tardi che il dì 1º agosto, verso l'_Ave Maria_, dopo due soli giorni di
malattia, era improvvisamente morto il cardinal di Monreale, Giovanni
Borgia, «per la morte del quale el Pontefice ha abuto una bona zera,
benchè li fosse nepote.» Andato l'ambasciatore in Vaticano, non fu
ricevuto, scusandosi il Papa col dire d'esser fastidito per la morte
del cardinale nepote; «et el fastidio doveva esser in contar danari
e manizar zogie.» Infatti, tutto computato, si trovò, fra contanti ed
altro, pel valore di 100,000 ducati; e pubblicamente si affermava, «che
lui _etiam_ sia sta' mandato per la via che sono tutti gli altri, da
poi che sono bene ingrassati; e dassi di questo la colpa al Duca.»[632]
Le cose erano ormai arrivate a tal punto, che chi aveva danari o fama
d'averne, tremava per la sua vita, parendogli da tutta ora aver el
barisello alle spalle.»[633]

I Borgia facevano ora ogni sforzo, per trovarsi pronti a nuove imprese,
in mezzo al disordine generale che s'aspettava pei rapidi mutamenti che
seguivano nel Napoletano. Il D'Aubigny era stato disfatto in Calabria
dagli Spagnuoli sopravvenuti di Sicilia; il Nemours alla Cerignola da
Consalvo di Cordova, che era uscito di Barletta, e dopo una splendida
vittoria entrò nel maggio trionfante in Napoli. In breve ai Francesi
non restò che la fortezza di Gaeta, dove si rifugiò il maggior numero
dei loro soldati avanzati alla rotta; Venosa, dove era Luigi d'Ars;
Santa Severina, dove era assediato il principe di Rossano. Luigi XII
si dovette quindi rifar da capo, assalendo direttamente la Spagna,
ed inviando in Italia un nuovo esercito sotto Luigi La Trémoille e
Francesco Gonzaga, esercito che doveva essere poi accresciuto cogli
aiuti promessi da Firenze, Siena, Mantova, Bologna, Ferrara. Questa
spedizione procedeva però con una lentezza incredibile, a causa della
sospetta neutralità di Venezia, e della sempre più mutabile e meno
comprensibile politica del Papa. Egli manifestamente inclinava a
Spagna, cui permetteva fare pubblici arrolamenti in Roma; ma faceva
poi sentire ai Francesi, che gli avrebbe aiutati nella loro impresa,
pagando sino a due terzi della spesa, quando però dessero il Reame
o la Sicilia al Valentino, rifacendosi nell'Italia superiore a loro
piacere.[634] Nello stesso tempo faceva le più grandi profferte
d'amicizia e d'alleanza ai Veneziani, perchè s'unissero con lui contro
la Francia e contro la Spagna, a difesa comune dell'Italia dagli
stranieri.[635] A Massimiliano re dei Romani, che pensava sempre di
venire in Italia a pigliar la corona imperiale, chiedeva invece con
grande istanza la investitura di Pisa pel Duca, dicendo che altrimenti
sarebbe obbligato d'abbandonarsi alla Francia, che gli prometteva il
Reame in cambio della Romagna.[636] Che riuscita potesse avere una
così stolta condotta, lo lasceremo giudicare a coloro che esaltarono
l'accortezza e il senno politico dei Borgia. Trattando con tutti
contro tutti, dopo tanto agitarsi, il Papa si trovava condannato alla
immobilità, senza poter contare sull'amicizia di alcuno. E il Duca, che
s'armava con animo d'andar contro Siena, di unirsi a Pisa, e, fattosene
padrone, spingersi contro Firenze, non poteva neppur egli muovere ora
un passo; giacchè avrebbe per via incontrato l'esercito francese, e gli
sarebbe stato necessario dichiararsi amico o nemico, cioè combatterlo
o unirsi con esso e seguirlo nel Reame. Volendo invece serbarsi pronto
a tutti i possibili eventi, a lui non conveniva nè l'uno nè l'altro
partito, e quindi il resultato di tanto agitarsi, di tante astuzie, di
tanti assassinii, era anche per lui l'immobilità e l'incertezza.

Ma un fatto inaspettato venne a mutare improvvisamente lo stato delle
cose. Il 5 agosto verso sera, il Papa andò col Duca a cena nella vigna
del cardinale Adriano da Corneto, in Vaticano, e stettero colà fino
a notte. Il mese di agosto, sempre cattivo per le febbri romane, era
quell'anno pessimo. Alcuni degli ambasciatori, moltissimi della Curia,
specialmente coloro che abitavano in Palazzo, s'erano ammalati; e però
tutti quelli che erano stati alla cena, se ne risentirono più o meno
gravemente. Il giorno 7 il Giustinian andò dal Papa che, rinchiuso e
rimbacuccato, gli disse volersi aver cura, perchè gli facevano paura
le tante febbri e morti che allora seguivano in Roma.[637] Il giorno
11 il cardinale Adriano era a letto colla febbre; il 12 il Papa fu
preso da un assalto di febbre e di vomito; il Duca s'ammalò anch'egli
dello stesso male.[638] Il Papa aveva allora 73 anni, e quindi era
evidente la gravità del suo stato. Infatti cominciarono subito minacce
di congestione cerebrale, cui si cercò riparare con abbondanti salassi,
i quali, indebolendo il malato, rendevano più forte la febbre.[639]
Sopravvenne un sopore minaccioso, che pareva quasi di morte. Il 17
la febbre, che l'ambasciatore di Ferrara chiama tertiana nota,[640]
tornò con parossismi così violenti, che il medico dichiarò il caso
disperato. Il disordine fu subito grandissimo in Vaticano, molti
cominciavano già a mettere in salvo le loro robe. Alessandro VI, che
durante tutto questo tempo non aveva neppur chiesto notizia del Duca o
della Lucrezia,[641] il giorno 18 si confessò e comunicò. Verso le ore
6 si svenne in modo che parve spirare, e si rinvenne solamente per dar
subito dopo l'estremo respiro, verso l'ora di vespro, in presenza del
vescovo di Carinola, del Datario e di alcuni camerieri.[642]

Allora la confusione fu al colmo. Il Duca, sebbene stésse sempre assai
male, tanto che pareva in pericolo di vita, aveva fatto trasportare
in Castello buona parte delle proprie robe, e dato ordine alle sue
genti di venire in Roma. Don Michele era con alcuni armati entrato
nelle stanze del Papa, e, chiuse le porte, aveva fatto puntare un
pugnale alla gola del cardinal Casanova, minacciando di ucciderlo e
gettarlo dalle finestre, se non dava subito le chiavi e i danari del
Papa. Così furono presi pel Valentino da 100,000 ducati in contanti,
oltre le argenterie e le gioie, in tutto un valore di più che 300,000
ducati.[643] Fu però dimenticata la stanza accanto a quella, in cui
era spirato Alessandro, nella quale erano le mitrie preziose, anelli e
vasi d'argento da empirne molte casse.[644] I servitori pigliarono ogni
altra cosa che trovarono nelle camere già saccheggiate. Da ultimo si
spalancarono gli usci e fu pubblicata la morte.

Tutto ebbe un aspetto lugubre e sinistro fino alla sepoltura. Lavato
e vestito il cadavere, fu abbandonato con due soli ceri accesi. I
cardinali chiamati non vennero, e neppure i penitenzieri che dovevano
dire l'ufficio dei morti. Il giorno seguente il cadavere s'era, per la
corruzione del sangue, alterato in modo che aveva perduto ogni forma
umana. Nerissimo, gonfio, quasi altrettanto largo che lungo; la lingua
s'era ingrossata così che riempiva tutta la bocca, la quale rimaneva
aperta.[645] In sul mezzogiorno del 19 agosto fu esposto, secondo il
costume, in San Pietro; «_tamen_ per esser el più brutto, mostruoso
et orrendo corpo di morto che si vedesse mai, senza alcuna forma nè
figura de omo, da vergogna lo tennero un pezzo coperto, e poi avanti
el sol a monte, lo sepelite, _adstantibus duobus cardinalibus_ de'
suoi di Palazzo.»[646] In San Pietro mancava il libro per leggere le
preci, e poi seguì un tafferuglio tra preti e soldati, in conseguenza
del quale il clero, smesso il canto, fuggì verso la sagrestia, ed
il cadavere del Papa restò quasi abbandonato. Portatolo all'altar
maggiore, si dubitò d'insulti per l'ira popolare, e lo posero perciò
con quattro ceri dietro un'inferriata che venne chiusa: così restò
tutto il giorno. Dopo 24 ore fu portato nella cappella _de febribus_,
dove sei facchini, beffando ed insultando la sua memoria, cavarono la
fossa per seppellirlo, mentre che due falegnami, i quali avevano fatto
la cassa troppo corta e stretta per lui, messa la mitria per parte,
copertolo con un vecchio tappeto, ve lo introdussero pestandolo a
forza di pugni.[647] La sepoltura fu tale, che il marchese di Mantova,
il quale nel settembre trovavasi coll'esercito francese presso Roma,
scriveva a sua moglie, la marchesa Isabella: «Fugli fatto un deposito
tanto misero, che la nana, moglie del zoppo, l'ha lì a Mantova più
onorevole.»[648]

La rapida decomposizione del cadavere per la corruzione del sangue,
e l'essersi nello stesso tempo ammalati il Papa, il Valentino ed il
cardinale Adriano, fecero spargere la voce, e credere universalmente,
che vi fosse stato veleno, opinione che veniva suggerita dal nome
stesso dei Borgia. Si disse che il Papa e il Duca volevano disfarsi
del cardinale; ma che per errore, il vino, già prima avvelenato per
lui, era stato dato invece ad essi. Senza qui osservare che i Borgia
non erano nel proprio mestiere tanto inesperti da lasciar facilmente
commettere, a proprio danno, simili errori, non si capirebbe in questo
caso, come mai anche il cardinale si fosse ammalato.[649] Da altri
si affermava che questi si salvò, perchè, avvedutosi a tempo del
pericolo, corruppe con 10,000 ducati il coppiere, che dètte perciò
il veleno solo ai Borgia. Ma tutte queste voci pèrdono ogni valore
dinanzi ai dispacci degli ambasciatori, massime del Giustinian, il
quale descrisse, giorno per giorno, l'origine ed il progresso della
malattia; parlò continuamente col medico del Papa, e così seppe che
la congestione cerebrale, sopravvenuta alla febbre, aveva prodotto la
morte. Lo stesso ambasciatore ferrarese Beltrando Costabili, che il 19,
dopo la rapida corruzione del cadavere, annunziava la voce per questa
ragione diffusa e creduta di avvelenamento, aveva il 14 dichiarato
esplicito, che era febbre terzana, di che nessuno poteva maravigliarsi,
perchè quasi tutti della Corte erano stati presi dallo stesso male,
che allora infieriva in Roma, «per la mala conditione de aere.» Sarebbe
in ogni caso assai strano, per non dire di più, che il veleno dato la
sera della cena avesse cominciato a produrre i suoi effetti visibili
solo dopo sette giorni, quando infatti cominciò la febbre.[650] Anche
l'oratore ufficiale, che dinanzi ai Cardinali radunati prima del
Conclave, pronunziò la orazione funebre sopra Alessandro VI, dice che
fu _quadriduana febris_ quella che lui _e medio abstulit_.

Noi risparmieremo al lettore tutti gli altri racconti che furono allora
ripetuti, di diavoli visti presso al letto del Papa, con cui avevano
pattuito sin dal principio del pontificato, per avere la sua anima,
e simili altre favole, tanto più credute, quanto più incredulo era il
secolo. Il 19 agosto anche il Duca sembrava vicino a morte, le botteghe
si chiudevano, gli Spagnuoli si nascondevano, e correva voce che Fabio
Orsini era entrato in Roma coll'Alviano e cogli altri di sua casa,
pieni d'un furore indescrivibile di vendetta. Cesare Borgia lo sapeva;
ma egli che, come disse al Machiavelli più tardi, aveva pensato a
tutto meno che al caso di trovarsi moribondo quando il Papa era morto,
sembrava che ora si fosse perciò affatto smarrito.[651] I suoi soldati
tumultuavano e mettevano fuoco alle case degli Orsini, bruciandone una
parte. Finalmente il Conclave, per mezzo degli ambasciatori, riuscì
a persuadere tutti ad una specie di tregua. Gli Orsini ed i Colonna
si allontanarono quindi da Roma; il Duca, essendo migliorato, mandò
innanzi le sue artiglierie, ed il 2 settembre uscì anch'egli da Roma
in portantina, per andarsene al castello di Nepi ancora suo. Colà si
trovava vicino all'esercito francese, già in via per Napoli, e da esso
sperava aiuto, essendosi a un tratto dichiarato per la Francia, sebbene
ponesse sempre tutta la sua fiducia nei cardinali spagnuoli, dai quali
era circondato e favorito.

Arrivarono a Roma il cardinale Giuliano Della Rovere, dopo un esilio di
dieci anni; il cardinale Ascanio Sforza, liberato dalla prigionìa per
opera del cardinale di Rouen, che aspirava al papato, ed altri molti.
Il 3 di settembre furono fatte le esequie solenni e di rito al Papa
morto; il 22 fu eletto finalmente Francesco Todeschini dei Piccolomini,
nipote di Pio II, e prese il nome di Pio III. Aveva allora 64 anni,
ed era così malato, che saliva sul trono come un'ombra passeggera,
quasi destinato solamente a lasciar continuare le trame che d'ogni
parte si ordivano, e dar tempo di misurarsi ai varî partiti, che già
erano in moto per la prossima elezione. L'esercito francese che s'era
fermato, proclamato che fu il nuovo Papa, continuò il suo cammino;
ed allora il Duca, trovandosi solo co' suoi a Nepi, dove s'avvicinava
l'Alviano assetato di sangue e di vendetta, tornò subito a Roma. Ivi
seppe che le città, già sue una volta, richiamavano i loro antichi
signori, i quali tornavano ed erano festosamente accolti. La Romagna
però, essendo stata da lui assai meglio governata, gli restava ancora
fedele, e le sue fortezze colà, occupate da comandanti spagnuoli, si
mantenevano sempre per lui. Pure non gli venne mai l'idea di mettersi
alla testa del suo piccolo esercito, per aprirsi la via fra i nemici,
riconquistare e difendere il proprio Stato colle armi. Sperava sempre e
solo negli intrighi orditi, acciò la prossima elezione riuscisse a lui
favorevole. Intanto il nuovo Papa, d'indole mitissima, gli dimostrava
per ora compassione. Ma gli Orsini, sentito che egli s'era volto a
Francia ed era stato accettato, ne furono sdegnatissimi, e fecero
subito alleanza coi Colonna, con Consalvo e la Spagna. Una parte di
essi assalirono Borgo, misero fuoco a porta Torrione, per entrare in
Vaticano ed ivi impadronirsi del Borgia, che essi cercavano a morte.
A fatica ed in fretta egli potè essere salvato da alcuni cardinali, i
quali lo menarono pel corridoio in Castel Sant'Angelo. E così là dove
tante vittime di lui e del padre erano spirate nelle tenebre, fra i
tormenti, consumati dal veleno, si trovò finalmente anch'egli per un
momento quasi prigioniero. Seppe allora che Pio III, il quale non s'era
potuto tenere in piedi il giorno 8 ottobre, quando fu incoronato, dopo
dieci giorni era morto.[652]

Il resultato della nuova elezione non poteva ormai essere più dubbio,
perchè tutto era stato apparecchiato con danari, concertato con
promesse, con intrighi fatti per ogni verso, anche coi cardinali
spagnuoli, per mezzo del Valentino, il quale credeva così d'essersi
assicurata valida protezione. Il 31 ottobre trentacinque cardinali
entrarono in Conclave. S'erano a mala pena radunati, e quasi non s'era
ancora, secondo il costume, chiusa la porta, che già il nuovo Papa
veniva proclamato nella persona di Giuliano Della Rovere, che prese
il nome di Giulio II. Questo acerrimo nemico dei Borgia, il quale
pure seppe a tempo favorirli, nato presso Savona, di bassa origine,
aveva allora 60 anni; ma della forte stirpe di Sisto IV, di cui era
nipote, cardinale dal 1471 e per molti vescovadi ricchissimo, aveva una
tempra di ferro. Sebbene la sua gioventù non fosse stata molto diversa
da quella dei prelati d'allora, e sebbene non fosse uomo di molti
scrupoli, pure egli mirava alla potenza e grandezza politica della
Chiesa con un ardore ed un ardire maravigliosi alla sua età. Senza
abbandonare i suoi, non voleva sacrificare ad essi gl'interessi dello
Stato e della Chiesa, e però non trasmodò mai troppo nel nepotismo.
Le sue vie, le sue mire, il suo carattere impetuoso, violento, erano
affatto contrari a quelli dei Borgia. Pure sapeva a tempo simulare
e dissimulare, e non aveva avuto scrupolo alcuno di trattare col
Valentino per la propria elezione, promettendo di farlo Gonfaloniere
della Chiesa, lasciargli governar la Romagna, far sposare la figlia
di lui con Francesco Della Rovere, prefetto di Roma. Sebbene però egli
non fosse proprio deliberato a violare queste promesse, era ben altro
che deciso a mantenerle. Tutto dipendeva dal vedere se il Duca poteva,
per un po' di tempo almeno, essere utile strumento ai disegni del Papa,
che erano di respingere i Veneziani dalla Romagna, dove s'avanzavano.
Prima o poi doveva consegnare le fortezze che ancora si tenevano per
lui, qualunque fossero le promesse fatte o le speranze date; giacchè
l'interesse generale della Chiesa non poteva cedere dinanzi ad alcun
riguardo umano. In questi propositi Giulio II era saldo e deliberato,
ed il suo carattere era tale, che nulla poteva ormai farlo deviare. Lo
stato delle cose s'andò quindi rapidissimamente complicando; con questo
Papa anzi cominciò addirittura un'epoca nuova, non solamente in Italia,
ma in Europa. Ha perciò tanto maggiore importanza la nuova legazione
del Machiavelli, che allora appunto fu spedito a Roma.



CAPITOLO VII.

    I Fiorentini si dimostrano avversi ai Veneziani. — Legazione a
    Roma. — Gli Spagnuoli trionfano nel Reame. — Seconda legazione
    in Francia. — Si ripiglia la guerra di Pisa. — Vani tentativi
    per deviare l'Arno. — _Decennale Primo._ — Uno scritto perduto.

    (1503-1504)


Quando a Roma seguivano i fatti da noi ora descritti, Firenze teneva
l'occhio rivolto a quello che accadeva negli Stati già appartenuti
al Valentino, coi quali essa confinava. Ciò che più di tutto voleva
evitare era l'avanzarsi dei Veneziani, che aspiravano sempre alla
_Monarchia d'Italia_. E però il Machiavelli, per ordine e in nome dei
Dieci, scriveva ai commissarî e podestà, che favorissero la Chiesa
o il ritorno degli antichi Signori o quello del Duca stesso, secondo
la piega che gli avvenimenti pigliavano, pur di chiudere la porta a
Venezia.[653] Nè si tralasciasse di considerare, se non fosse possibile
profittare del generale trambusto, impadronendosi per conto proprio di
qualche terra vicina: si raccomandava però sempre di farlo con molta
prudenza, e senza esporre la Repubblica a conseguenze pericolose. In
questo senso i Dieci scrivevano al commissario Ridolfi per Citerna,
Faenza, Forlì, dichiarandosi pronti a spendere, per avere quest'ultima
terra, sino a 10,000 ducati. Ma aggiungevano al solito che, non avendo
la Repubblica forze sufficienti a fare imprese ardite, bisognava, ad
eccezione dei Veneziani, favorire in ogni caso chiunque avesse maggiore
probabilità di fortunato successo.[654] Mentre però si discuteva se
conveniva impadronirsi di Forlì, v'entrò invece il signor Antonio
Ordelaffi, il quale fu bene accolto dalle popolazioni, e dichiarò
subito di rimettersi tutto alla protezione dei Fiorentini. Questi
allora non seppero più come regolarsi. Non potevano convenientemente
ricusargli protezione; ma non si sentivano in forze da difenderlo
contro la Chiesa e contro il Valentino, che facilmente lo avrebbero
assalito. Ricorsero quindi al ripiego d'invitarlo a Firenze, dicendo
che ivi starebbe più sicuro, e che avevano da trattare con lui
faccende di importanza. Nello stesso tempo il Machiavelli scriveva
al commissario in Castrocaro: «Questa venuta farà sollevare gli animi
dei Forlivesi, e insospettire le genti del Duca. Ai primi dirai che lo
abbiamo fatto venire per aiutarlo meglio; ai secondi, invece, che lo
abbiamo chiamato per vantaggio del Duca, e per chiudere quella porta
aperta ai Veneziani, togliendo loro di mano uno strumento. E così
verrai bilanciando la cosa per farci guadagnare tempo. Bisogna però
governare con destrezza e segretamente questo maneggio, e colorirlo
in modo che nessuna delle parti s'avvegga d'essere aggirata o tenuta
in pratica.»[655] Un così continuo e misero tergiversare era ciò
che più di tutto disgustava il Machiavelli, che vi si trovava, per
obbligo d'ufficio, costretto, e lo spingeva sempre più ad un'esagerata
ammirazione per la condotta di uomini come il Valentino, i quali, senza
riguardi umani nè divini, andavano diritti al loro fine.

Per buona fortuna egli fu presto levato da siffatta tortura, giacchè
il 23 ottobre ebbe le istruzioni e l'ordine di recarsi a Roma, con
lettere di raccomandazione a molti cardinali che doveva visitare,
specialmente al cardinal Soderini, che trattava colà i principali
affari della Repubblica, e dal quale egli doveva dipendere.[656] Era
mandato a far condoglianze per la morte di Pio III; a raccogliere tutte
le notizie che poteva, durante il Conclave, ed ancora a concludere,
mediante il cardinale di Rouen, una condotta con G. P. Baglioni.
Questa si faceva in nome dei Fiorentini, ma tutta nell'interesse ed
a servizio della Francia, per bilanciare il danno da essa risentito
a causa dell'abbandono degli Orsini, che insieme coi Colonna s'erano
uniti a Consalvo di Cordova, appena che l'amicizia del Valentino era
stata accettata dai Francesi. Come era naturale, la condotta fu subito
conclusa, ed il Baglioni s'apparecchiò senza indugio a partire, per
riscuotere il danaro in Firenze, che s'era impegnata a pagarlo coi
60,000 ducati dovuti alla Francia «per conto della protezione.»[657]
Al quale proposito il Machiavelli scriveva di lui, «che anch'egli era
come gli altri che saccheggiano Roma, i quali sono più ladruncoli che
soldati, e vengono cercati più pel nome e le amicizie che hanno, che
pel loro valore o per gli uomini di cui dispongono. Obbligati come sono
alle proprie passioni, le alleanze fatte con essi durano fino a quando
non torna loro l'occasione d'offendere, e però chi li conosce cerca
solo di temporeggiarli.»[658]

Del resto gli avvenimenti mutarono subito lo scopo e l'indole di
questa legazione. Al giungere del Machiavelli in Roma, già erano in
sul finire quegli scandalosi maneggi coi quali, secondo che scriveva
l'ambasciatore veneto, i voti s'erano contrattati non a migliaia,
ma a diecine di migliaia di ducati, chè «ormai non è differenzia
dal papato al soldanato, perchè _plus offerenti dabitur_.»[659] Il
cardinale Giuliano Della Rovere aveva così guadagnato rapidissimamente
terreno, ed essendogli, come già dicemmo, riuscito, mercè le promesse
fatte al Valentino, di avere il favore dei cardinali spagnuoli, era
sicuro del fatto suo. Gli animi erano però sempre assai agitati, e
grandissimo il disordine nella città, a segno tale che un servitore
di quel cardinale, la sera del 31 ottobre, fu accompagnato da venti
uomini armati, nell'andare a casa del Machiavelli. Tuttavia questi
scriveva la sera stessa, che l'elezione era omai sicura. Il giorno
seguente, infatti, radunatosi il Conclave, veniva proclamato il nuovo
Papa, che prese subito il nome di Giulio II, e senza esitare strinse
con mano fermissima le redini del governo. Così ora non si trattava più
di pensare a raccogliere e trasmettere notizie intorno al Conclave;
ma sorgevano invece due altre questioni assai più gravi. Che cosa
il Papa intendeva fare del Valentino, cui aveva tanto promesso? Che
condotta voleva tenere di fronte a Venezia, la quale già si dimostrava
deliberata ad avanzarsi in Romagna?

E due erano gli uomini, che con maggiore diligenza e penetrazione le
esaminavano: il Machiavelli ed il Giustinian. Questi però, come era
naturale, s'occupava assai meno dell'affare del Valentino, di cui la
sua Repubblica poco temeva. Fin da quando sentì parlare delle promesse,
che gli faceva colui che stava per essere eletto Papa, era andato con
grande accortezza a scrutarne l'animo. E gli fu risposto: «Fate che
l'elezione riesca, e non dubitate. Voi vedete la miseria, in cui ci
ha condotto la carogna che dopo sè ha lasciato papa Alessandro, con
questo gran numero di cardinali. La necessità costringe gli uomini a
fare quello che non vogliono, finchè dipendono da altri; ma, una volta
liberati, fanno poi in diverso modo.»[660] Il Giustinian non ebbe
dopo ciò bisogno d'altre spiegazioni, nè più si occupò del Valentino,
anzi ripetutamente da lui pregato che venisse a trovarlo, non volle
andare, per non crescergli importanza.[661] Invece scrutava, con una
riserva e costanza maravigliose, i più segreti pensieri del Papa circa
l'avanzarsi dei Veneziani, e ne ragguagliava il suo Governo con una
diligenza insuperabile. Egli si era subito avvisto che i primi segni
di benevolenza e le prime incertezze del Papa erano solo apparenti ed
illusorie, essendo questi deciso a mettere a repentaglio la tiara e la
pace d'Europa, per riprendere le terre, che, secondo lui, appartenevano
alla Chiesa. E così, prima che si manifestino ad altro occhio umano,
noi vediamo i germi della Lega di Cambray nei dispacci del veneto
ambasciatore, che invano dava consigli di prudenza al suo Governo, ed
invano cercava calmare l'animo irritato e fiero del Papa. Diversa assai
apparisce di fronte a questi fatti la condizione del Machiavelli. I
Fiorentini erano sopra ogni altra cosa impazientissimi di vedere Giulio
II dichiararsi nemico dei Veneziani. Le necessarie riserve da lui
usate alle prime notizie dell'avanzarsi di costoro, venivano da essi
interpetrate non solo come segni d'imperdonabile freddezza; ma quasi
come una prova che egli fosse contento, e forse andasse d'accordo, per
impedire così il ritorno del Valentino. Il Machiavelli perciò veniva
dai Dieci spronato a destare con ogni arte gelosia e odio contro
Venezia; ma ben presto egli si dovette avvedere che la cosa era assai
facile, perchè i primi accenni del passionato e deliberato sdegno del
Papa non tardarono a manifestarsi. Invece doveva tener d'occhio il
Valentino, il quale, quando fosse andato in Romagna, avrebbe dovuto
passare per la Toscana, il che non sarebbe stato un piccolo malanno per
la Repubblica. Egli poi non aveva come il Giustinian molto frequenti
occasioni d'avvicinare il Papa, e quindi non sapeva quale fosse
veramente l'animo di lui verso un uomo che aveva molto odiato, ma a cui
aveva pure molto promesso.

L'importanza di questa legazione, per quel che risguarda la vita del
Machiavelli, viene dal trovarsi egli, dopo breve tempo, nuovamente in
presenza del Valentino, caduto dal potere e dalla fortuna in cui lo
aveva la prima volta veduto. Infatti ora ne scrive e ragiona con una
indifferenza ed un freddo disprezzo, che ha scandalezzato moltissimi,
i quali vollero in ciò vedere non solo una flagrante contradizione
con quanto aveva scritto di lui altra volta; ma anche la prova di un
animo basso, che sapeva ammirare solo il prospero successo e la buona
fortuna, pronto a calpestare il proprio eroe appena lo vedeva caduto.
Questo falso giudizio però non è altro che la conseguenza naturale
del precedente errore, commesso nel voler dare all'ammirazione del
Machiavelli pel Valentino un significato ed un valore che non potevano
avere. Anche presso un capo di briganti, che fosse stato assai
audace ed accorto, tale da saper mettere a soqquadro tutto un paese
e dominarlo, il Machiavelli ne avrebbe ammirato l'accortezza ed il
coraggio, senza lasciarsi spaventare da qualsiasi azione più sanguinosa
e crudele. Ne avrebbe anzi potuto formare nella propria fantasia una
specie d'eroe immaginario, lodandone la prudenza e la virtù, nel senso
che a questa parola dava il Rinascimento italiano. E tutto ciò per la
natura del suo ingegno, per l'indole dei tempi, ed anche, se vuolsi,
per la freddezza del suo cuore, non punto cattivo, ma neppur sempre
riscaldato da troppo ardenti entusiasmi pel bene. Se però avesse più
tardi ritrovato il medesimo brigante, caduto dalla prima fortuna,
ritornato nella vita privata, e si fosse visto dinanzi l'_uomo_,
avvilito ed abbietto, nella sua ributtante ed immorale mostruosità,
egli, seguendo sempre lo stesso esame impassibile della realtà, senza
punto esitare e senza punto temere di contradirsi, lo avrebbe descritto
e giudicato quale veramente lo vedeva ed era. Non molto diverso dobbiam
credere che fosse allora lo stato del suo animo di fronte al Valentino;
e la contradizione non è perciò ne' suoi giudizî, ma in quelli di chi
volle attribuirgli opinioni, virtù o vizi che non ebbe mai.

Intanto molte e molto varie erano le voci che correvano sulle
intenzioni del Papa, a proposito delle promesse fatte. Non voleva
mantenerle, e non voleva passare per violatore della fede, accusa da
lui tante volte lanciata ai Borgia. E il Duca dall'altro lato, scriveva
il Machiavelli, trasportato sempre «da quella sua animosa confidenza,
crede che le parole d'altri sieno per essere più ferme che non sono
sute le sue, e che la fede data de' parentadi debba tenere.»[662] Il 5
novembre le lettere dei Dieci narravano come Imola s'era ribellata dal
Valentino, e i Veneziani s'avanzavano verso Faenza. Il Machiavelli recò
queste notizie prima al Papa, che le ascoltò senza turbarsi, e poi ad
alcuni cardinali, cui disse che, andando di questo passo, Sua Santità
si ridurrebbe ad essere il cappellano dei Veneziani. Si presentò quindi
al Duca, che subito si turbò sopra modo, e si dolse amaramente dei
Fiorentini, i quali, egli diceva, con cento uomini avrebbero potuto
assicurargli quegli Stati, e non lo avevano fatto. «Giacchè Imola
è perduta, Faenza assalita, egli dice che non vuol più raccogliere
gente, nè essere uccellato da voi: metterà tutto quello che gli resta,
in mano dei Veneziani. Così crede che vedrà presto rovinato lo Stato
vostro, e sarà per ridersene, avendo i Francesi tanto da fare nel
Reame, che non potranno aiutarvi.» «E qui si distese con parole piene
di veleno e di passione. A me non mancava materia di rispondergli,
nè anco mi sarebbe mancato parole; pure presi partito di andarlo
addolcendo, e più destramente ch'io posse' mi spiccai da lui, che mi
parve mill'anni.»[663] Lo stato delle cose era adesso totalmente mutato
da quello d'una volta; il Duca non aveva più la forza a suo comando;
si trattava solo di ragionare e discutere, ed in ciò il Machiavelli
sentiva tutta la propria superiorità sul suo interlocutore, che altra
volta gli era apparso tanto maggiore.

A Roma si trattavano adesso i più grandi affari diplomatici e politici
del mondo: quelli della Francia e della Spagna, che erano i più
importanti in Europa; le faccende della Romagna; le fazioni dei baroni
nel Reame e nello Stato della Chiesa. Ma il Papa, obbligato a tutti per
la sua elezione, non avendo ancora raccolto proprie forze o danari,
non poteva decidersi a favorire alcuno. «Conviene di necessità che
giocoli di mezzo, infino a tanto che i tempi e la variazione delle
cose lo sforzino a dichiararsi, o che sia in modo rassettato a sedere,
che possa, secondo lo animo suo, aderire a fare imprese.» «Nessuno
capisce che cosa voglia fare col Valentino: lo spinge a partire, ha
scritto e fatto scrivere a VV. SS. che gli diate il salvocondotto,
ma non si cura poi che lo abbia davvero.[664] Questi s'apparecchia a
prendere la via di Porto Venere o Spezia, e di là per la Garfagnana e
Modena, in Romagna. Le sue genti, che sono 300 cavalli leggieri e 400
fanti, passerebbero per la Toscana, avuto il salvocondotto da VV. SS.,
verso cui si dimostra ora tutto benigno. Ma chi si può fidare della
sua amicizia, massime ora che egli stesso non sembra sapere che cosa
voglia? Il cardinal di Volterra lo ha trovato» «vario, inresoluto e
sospettoso, e non stare fermo in alcuna conclusione, o che sia così
per sua natura, o perchè questi colpi di fortuna lo abbino stupefatto,
e lui, insolito ad assaggiarli, vi si aggiri drento.» Il cardinal
d'Elna[665] ha detto che «gli pareva uscito di cervello, perchè
non sapeva lui stesso quello si volesse fare, sì era avviluppato e
irresoluto.»[666]

Il nome del Valentino poi era così odiato dalla generalità dei
cittadini in Firenze, che, nonostante le raccomandazioni, certo non
molto calde, del cardinal Soderini e del cardinal di Roano,[667]
portata nel Consiglio degli Ottanta la proposta del suo salvocondotto,
sopra 110 votanti ve ne furono 90 contrarî.[668] Ed al ricevere questa
notizia, Sua Santità, alzando il capo, disse al Machiavelli, che andava
bene così e che era contento; laonde questi scriveva: «si vede chiaro
che vuol levarselo dinanzi, senza parere di mancare alla fede, e quindi
non si cura punto di quel che altri faccia contro di lui.»[669] Ben
diversa naturalmente doveva essere l'impressione prodotta nell'animo
del Duca, il quale, appena vide il Machiavelli, andò in furore, dicendo
che aveva già inviato le sue genti, che era per montare in acqua, e
non voleva più aspettare. L'oratore cercò calmarlo col promettergli
di scrivere a Firenze, dove anche il Duca poteva spedire un suo uomo,
e qualcosa di buono si sarebbe certo concluso. Ma ai Dieci scriveva
invece d'aver parlato così per calmarlo, e perchè esso minacciava
che, ove non si concludesse subito, si sarebbe gettato ai Pisani, ai
Veneziani, al diavolo, pur di far loro male. «Venendo il suo uomo, VV.
SS. potranno trascurarlo e governarsene come parrà loro. Quanto alle
genti che sono già partite, 100 uomini d'arme e 250 cavalli leggieri,
cercheranno intendere di loro essere, e, quando paia a proposito,
opereranno che le si svaligino in qualche modo.»[670] Il Valentino
partiva per Ostia con 400 o 500 persone, secondo la pubblica voce, la
quale faceva ascendere a 700 i cavalli in via per la Toscana,[671] e
il vescovo di Veroli li aveva preceduti, recandosi a Firenze con una
lettera di raccomandazione, firmata dal cardinal Soderini, e scritta di
mano del Machiavelli,[672] che subito ne inviava direttamente un'altra,
con cui avvertiva che erano lustre per addormentare e mandar via il
Duca. Potevano regolarsi come volevano.[673]

Ora però le cose si complicavano, perchè arrivava la notizia che
i Veneziani avevano preso Faenza, e non molto dopo che avevano
acquistato Rimini, per accordo col Malatesta. Il Machiavelli allora,
con un linguaggio veramente profetico, scriveva che questa impresa
dei Veneziani «o la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o la
fia la ruina loro.»[674] Infatti qui è il germe della futura lega di
Cambray. Il cardinal di Rouen, fieramente alterato, giurava sull'anima
sua che, se i Veneziani minacciavano Firenze, il Re lascerebbe tutto
per soccorrerla; il Papa dichiarava che, se non mutavano consiglio e
non si fermavano, s'accozzerebbe con la Francia, con l'Imperatore,
con chiunque, per pensare solo alla loro rovina, come difatti poi
fece.[675]

E non potendo più stare alle mosse, se prima aveva tollerato che il
Valentino se ne andasse ad Ostia, senza lasciare i contrassegni delle
fortezze di Cesena e Forlì, che ancora si tenevano per lui, mandava
ora il cardinal di Volterra ed il cardinal di Sorrento, perchè se li
facessero dare in ogni modo, avvertendolo che altrimenti Sua Santità
lo avrebbe fatto arrestare, e dato ordine che fossero svaligiate le
genti di lui. Infatti, essendo essi tornati senza aver potuto nulla
concludere, spedì subito l'ordine al comandante delle navi in Ostia,
che s'impadronisse del Duca; e scrisse a Siena ed a Perugia, perchè
ne svaligiassero le genti, e, potendo, gli mandassero prigioniero
don Michele che le comandava.[676] Tutto ciò fece correr la voce che
Cesare Borgia era stato gettato addirittura nel Tevere, cosa a cui il
Machiavelli non prestava piena fede, aggiungendo però: «Credo bene che
quando non sia, che sarà.... Questo Papa comincia a pagare i debiti
suoi assai onorevolmente, e li cancella con la bambagia del calamaio;
e poichè gli è preso (il Duca), o vivo o morto che sia, si può fare
senza pensare più al caso suo....[677] Vedesi che i peccati sua lo
hanno a poco a poco condotto alla penitenza: che Iddio lasci seguire il
meglio.»[678] Ecco un esempio di quel linguaggio che tanto scandalezza
coloro i quali, dopo aver fatto del Machiavelli non solo un cieco
ammiratore, ma quasi un consigliere ed un agente segreto del Valentino,
si debbono maravigliare, non possono comprendere che ne parli ora con
così freddo disprezzo, e trovano quindi in ciò materia di nuove accuse
contro di lui. Ma la condotta del Valentino in questi giorni apparve a
tutti, quale veramente era, bassa, inconseguente, spregevole. Invece
di difendere colla spada i male acquistati dominî, divenuto umile
ed incerto, fidava solo nei più volgari intrighi. Non è questi più
l'uomo che il Machiavelli aveva ammirato e lodato. E per quanto il
suo presente linguaggio paia cinico a coloro che lo vogliono, in ogni
modo, o troppo lodare o troppo biasimare, assai diverso era il giudizio
dei contemporanei. A Firenze egli veniva invece accusato di voler
sempre fare gran caso del Duca, al che i meno benevoli aggiungevano
ancora la derisione e perfino la calunnia. «Voi,» dice una lettera
del Buonaccorsi, «nell'universale ne siete uccellato, scrivendo di lui
gagliardo; nè è chi manchi di credere, che voi ancora vogliate cercare
di qualche mancia, che non è per riuscirvi.»[679]

Cesare Borgia intanto, accompagnato dalla guardia del Papa, arrivava il
29 novembre per il Tevere, sopra un galeone, fino a San Paolo, donde
la sera entrò in Roma. «Le SS. VV.,» scriveva il Machiavelli, «non
hanno a pensare per ora dove possa spelagare. Le genti partite con
lui son tornate alla sfilata, quelle venute con don Michele in costà,
non la faranno molto bene.»[680] Il primo dicembre infatti arrivava
la notizia che esse, inseguite dai Baglioni e dai Senesi, erano state
disfatte e svaligiate, e don Michele, preso dalle genti di Castiglion
Fiorentino, mandato prigioniero a Firenze. Il Papa ne fu lietissimo, e
voleva averlo nelle mani, per «scoprire tutte le crudeltà di ruberìe,
omicidî, sacrilegi e altri infiniti mali, che da undici anni in qua si
sono fatti a Roma contro Dio e gli uomini. A me disse sorridendo, che
voleva parlargli, per imparare qualche tratto da lui, per saper meglio
governare la Chiesa. Spera che voi glielo mandiate, ed il cardinal
di Volterra gliene ha dato ferma speranza, e conforta quanto e' può
le SS. VV. a fargliene un presente, come di uomo spogliatore della
Chiesa.»[681] Il Duca, come era naturale, ne restò sempre più avvilito
nelle stanze del cardinal di Sorrento, dove alloggiava. Non per questo
però mutava modo. Aveva finalmente dato i contrassegni a Pietro
d'Oviedo, che doveva partire con essi, per far cedere le fortezze;
ma chiedeva dal Papa assicurazioni per le terre di Romagna, e che il
cardinal di Rouen gli guarentisse in iscritto queste assicurazioni.
Ma mentre che egli «sta così in sul tirato,» scriveva il Machiavelli,
«e pretende guardarla pel sottile, il Papa, sicuro del fatto suo,
lascia correre e non vuole sforzarlo. Credesi però che, senza altra
assicurazione, il D'Oviedo parta domani;» «e così pare che a poco a
poco questo Duca sdruccioli nello avello.»[682]

È inutile ora fermarsi a raccontare come il D'Oviedo partisse; come
venisse in Romagna impiccato da uno dei comandanti delle fortezze,
che non volle cedere, perchè il suo signore era sempre in potere del
Papa, e come questi avesse finalmente le fortezze, ed il Valentino,
da tutti abbandonato, andasse a Napoli, dove Consalvo di Cordova lo
prese prigioniero, e lo mandò nella Spagna. Sono cose molto note, ed
estranee al soggetto di questa narrazione. Importa invece ricordare
un ultimo fatto, che illustra assai bene la condotta del Valentino
in questi giorni, gettando una luce sinistra sul suo carattere. Egli,
che aveva così iniquamente tradito il povero duca Guidobaldo d'Urbino,
inseguendolo, cercandolo a morte, volendolo costringere a sciogliere il
matrimonio come impotente, a rinunziare al proprio Stato di cui già lo
aveva spogliato, ed _a farsi prete_, come più volte ripetè, aggiungendo
che _senza questo non li darìa uno suspiro_,[683] adesso invece
chiedeva, supplicava, come «una grazia speciale,» d'essere ricevuto
dal duca Guidobaldo, che da Urbino era venuto a Roma, dove trovavasi
in assai buoni termini col Papa. Guidobaldo, sdegnato e disgustato,
come era naturale, ricusava di vederlo; ma pure cedè finalmente
alle intercessioni di Sua Santità. Il Valentino, scrive un testimone
oculare, entrò con la berretta in mano, e s'avanzò facendo due volte
umile riverenza, trascinandosi con le ginocchia per terra, fino al duca
d'Urbino, che sedeva nell'anticamera dei pontefici sopra una specie di
letto. Questi, al vederlo in tale posizione, mosso da un sentimento
di dignità e quasi di rispetto per sè stesso, si levò e lo fece con
le proprie mani alzare e sedere accanto a sè. Chiese il Valentino
umilmente perdono del passato, «incolpando la gioventù sua, li mali
consigli suoi, le triste pratiche, la pessima natura del Pontefice,
e qualche uno altro che l'haveva spinto a tale impresa, dilatandosi
sopra el Pontefice, e maledicendo l'anima sua.» Promise di restituirgli
la roba rubata, salvo alcuni «panni troiani» dati al cardinale di
Rouen, e qualche altra cosa che più non aveva. Guidobaldo rispose
poche parole cortesi, ma tali che l'altro «remase pauroso assai e bene
chiarito.»[684] Nonostante, continuò con tutti nella stessa petulante
e bassa umiltà, come apparisce dal seguito della citata lettera e dai
dispacci dei varî ambasciatori italiani a Roma. Possiamo noi dunque
maravigliarci, che il Machiavelli sentisse ora per la persona del
Valentino un freddo disprezzo, e cercasse quasi cancellar dalla sua
memoria il presente spettacolo, per non perdere la reminiscenza delle
osservazioni già fatte, e delle idee che altra volta gli erano state
suggerite dallo stesso individuo in condizioni ben diverse?

La legazione può dirsi adesso quasi finita. Il Machiavelli si
trattenne qualche giorno di più in Roma, impedito di partire da una
tosse allora prevalente colà, e dalle premure del cardinal Soderini,
che mal volentieri si separava da lui. In questo mezzo continuò a
trasmettere le notizie che raccoglieva alla giornata. Annunziò la presa
d'un segretario, che si riteneva avesse, per ordine di Alessandro VI,
avvelenato il cardinale Michiel, e che si diceva ora sarebbe perciò
stato pubblicamente arso;[685] continuò, come aveva fatto sempre, a
dare le notizie che correvano sulla guerra nel Reame, e scritta qualche
altra cosa del Valentino, che ormai era come prigione, mandava la sua
ultima lettera in data del 16 dicembre, e partiva per Firenze con una
del cardinal Soderini, la quale faceva di lui i più alti elogi alla
Repubblica, come uomo di fede, diligenza e prudenza senza pari.[686]

Durante la sua dimora in Roma, il Machiavelli aveva mandato sempre
notizie incerte e contradittorie sulla guerra che seguiva allora fra
gli Spagnuoli ed i Francesi, i quali si trovavano accampati da una
parte e dall'altra del Garigliano, su terreni paludosi, sotto piogge
continue. Fino alla sua partenza, infatti, non era seguìto nulla di
veramente decisivo, e non v'erano che voci sempre diverse. Ma egli
non era appena giunto a Firenze, che arrivò la notizia di quella che
si chiamò la rotta del Garigliano, seguìta nella fine del dicembre,
e che fu pei Francesi una vera catastrofe. Il loro esercito venne
disperso e distrutto; i loro migliori capitani uccisi, prigionieri o
fuggiaschi; il Reame ormai fu tutto nelle mani degli Spagnuoli. Fra
le tante notizie arrivate allora a Firenze, ve ne fu una che rallegrò
assai la Città: Piero de' Medici, che seguiva l'esercito francese,
era rimasto, come altri non pochi, affogato nel Garigliano, mentre
cercava passarlo in una barca. L'essere finalmente liberati da questo
tiranno odioso e spregiato, era però un piccolo compenso di fronte alla
gravità dei nuovi pericoli che ora appunto minacciavano la Repubblica.
A molti pareva già di vedere il gran capitano Consalvo, alla testa del
suo esercito vittorioso, avanzarsi fino in Lombardia, per cacciare
addirittura dall'Italia i Francesi. Che sarebbe stato allora di
Firenze? Sape vasi che Consalvo favoriva i Pisani. E quale animo poteva
mai essere il suo verso la più fida alleata di Francia nella Penisola?

Per tutte queste ragioni il Machiavelli, quasi non aveva ancora ripreso
il suo ufficio in Firenze, che fu per la seconda volta, spedito
in Francia, dove era già ambasciatore residente Niccolò Valori. Le
istruzioni, in data 19 gennaio 1501, firmate da Marcello Virgilio,
dicevano: «Anderai a Lione presso il nostro oratore Niccolò Valori e
presso la Maestà del Re, per far loro conoscere lo stato delle cose di
qua; vedere in viso le provvisioni che fanno i Francesi, e scrivercene
subito, dando il giudizio tuo. E quando non ti paiano sufficienti,
farai bene intendere, che noi non siamo in grado di mettere insieme
tante forze da poterci difendere; e però saremmo costretti di volgerci
altrove, per cercare la salute nostra donde si può averla, non ci
restando altro che questa piccola libertà, la quale ci conviene salvare
con ogni industria. Nè ti contenterai di grandi promesse e disegni, ma
farai capire che occorrono aiuti effettivi ed immediati.»[687] Oltre
di ciò, essendo stata rotta la condotta del Baglioni, doveva sollecitar
qualche provvedimento anche per questo verso.

Il Machiavelli partì subito, ed il 22 gennaio 1504 scriveva da Milano,
che il signore di Chaumont non credeva che Consalvo fosse per venire
innanzi, e affermava che in ogni caso il Re avrebbe saputo difendere
i suoi amici, ed egli stesso gli avrebbe scritto, perchè si fermasse
la condotta col Baglioni, e s'aiutasse la Repubblica a fare amicizia
«con questi spicciolati d'Italia;» quanto ai Veneziani «li farebbero
attendere a pescare.» Altri gli assicuravano invece che il re di
Francia si trovava senza danari, con poche genti e sparse in più
luoghi, mentre «i nemici erano in sulla sella, freschi e «in sulla
vittoria.»[688] Il 26 il Machiavelli arrivava a Lione, ed il 27 si
presentava col Valori al cardinale di Rouen, cui parlò assai vivamente,
esponendo lo stato delle cose e la necessità d'immediati provvedimenti.
Le risposte erano sempre vaghe e tali da non soddisfare; ma ad un
tratto si vide che l'orizzonte abbuiato rapidamente si rischiarava. La
Spagna, sebbene avesse ottenuto una straordinaria vittoria, non s'era
lasciata ubriacare dalla prospera fortuna, e cercava consolidare quello
che aveva conquistato, piuttosto che slanciarsi in nuove e pericolose
imprese. Essa prestava perciò facile ascolto alle proposte di tregua
fatte dalla Francia, la quale non poteva negli accordi dimenticare
i Fiorentini, che così vedevano inaspettatamente dileguarsi i temuti
pericoli. Una tregua di tre anni fu infatti firmata a Lione il dì 11
febbraio. Gli Spagnuoli restavano per ora padroni del Reame, le buone
relazioni venivano ristabilite temporaneamente fra i due potentati, e i
Fiorentini erano inclusi nella tregua come amici della Francia. Subito
il Valori ne dava notizia ai Dieci; ed ora al Machiavelli non restava
da fare altro che apparecchiarsi a partire. Il 25 febbraio, infatti,
egli scriveva che, appena giunta la notizia della tregua, era stato in
sulle staffe per tornarsene, come fece dopo qualche giorno, essendo
trattenuto solo per affari di poco momento dal Valori. Questi faceva
di lui moltissimo conto; ne lodava ai Dieci lo zelo e l'intelligenza;
si valse molto de' suoi consigli; ma pure continuò sempre a tenere da
sè la corrispondenza diplomatica, e così in tutta questa _Legazione_
non troviamo che tre lettere del Machiavelli, fra le quali solo quella
scritta da Milano è notevole.[689]

Tornato questi a Firenze, venne il 2 di aprile mandato a Piombino, per
dare a quel Signore assicurazioni di sincera amicizia da parte della
Repubblica, e metterlo in diffidenza contro i Senesi.[690] Al solito
gli ordinavano di esaminare attentamente quale fosse l'animo di lui e
di chi lo avvicinava, per poi riferirne, come fece, quando fu di nuovo
in Firenze. E dopo ciò ricominciarono più fitti che mai gli affari
della cancelleria, ripigliandosi con nuovo zelo la guerra di Pisa.

Il Soderini aveva ora preso animo, e cominciava un poco a fare di sua
testa; il Machiavelli, che aveva gran potere su di lui, lo secondava
per meglio dominarlo. L'ufficio di Gonfaloniere perpetuo toglieva
naturalmente importanza a tutti gli altri, nei quali si rimaneva assai
poco, e vi entravano perciò uomini di minore autorità, che lasciavano
mano sempre più libera a colui che era il capo effettivo dello Stato,
ed al quale un'amministrazione assai economica dava, dopo il tanto
profonder danari, sempre maggior credito appresso gli uomini prudenti.
Per il che egli otteneva facilmente dalla Pratica, dagli Ottanta e
anche dal Consiglio Maggiore quello che voleva, sebbene non mancassero
già le gelosie contro di lui, ed anche contro del Machiavelli, nel
quale egli aveva riposto pienissima fiducia.[691] In ogni modo si
fermarono le condotte con G. P. Baglioni, Marcantonio Colonna e con
altri capitani più o meno reputati, per 50, per 100 o più uomini d'arme
ognuno. Si assoldarono 3000 fanti per dare il guasto.[692] Era allora
commissario di guerra il Giacomini, che incominciò subito le operazioni
militari. Nel maggio uscì a dare il guasto a San Rossore, e tutto fu
compiuto in quattro giorni; lo stesso fece in val di Serchio, e poi
subito prese Librafatta. Si assoldarono tre galee, che furono assai
utili ad impedire l'arrivo di vettovaglie ai nemici, ed intanto egli
eseguì varie scorrerìe nel Lucchese, per fare vendetta degli aiuti
che di là venivano sempre ai Pisani. A lui scrivevano il dì 1º luglio
i Dieci, per mezzo del Machiavelli, rallegrandosi di ciò che aveva
compiuto, ed invitandolo a far ben capire, essere egli deliberato
ad operare in modo che i Lucchesi «non presumino rinfrescare di un
bicchiere d'acqua i Pisani; e perchè sai che da essi li è mantenuto
loro la vita in corpo, hai fatto fermo pensiero che non vada più così,
e sarai per andarli a trovare fin dentro in Lucca.»[693]

Ma tutto ciò non aveva nulla d'insolito. Se non che era entrata ora
nella testa del Soderini un'idea assai infelice, nella quale egli ed
il Machiavelli s'erano riscaldati stranamente, contro il parere delle
persone più competenti. Trattavasi nientemeno che di deviare l'Arno
presso Pisa, gettandolo in uno stagno vicino a Livorno, per lasciare a
secco quella città, e toglierle ogni comunicazione col mare. Consultati
i maestri d'acqua, dissero che con 2000 operai e certa quantità di
legname, poteva farsi una pescaia, la quale avrebbe fermato il corso
del fiume, deviandolo e gettandolo nello stagno, per mezzo di due
fossi a questo fine cavati, e di là poi nel mare. Bastavano 30,000 o
40,000 giornate di lavoro. Portata la cosa dai Dieci nella Pratica,
non fu consentita, parendo «più tosto ghiribizzo che altro.»[694] Ma
il Gonfaloniere allora la girò per tante vie che ne venne a capo, e fu
deliberata. Il 20 agosto Niccolò Machiavelli scriveva una lunga lettera
al Giacomini, comunicandogli la risoluzione presa, ed ordinandogli
di metter mano ai necessari provvedimenti per eseguirla, d'accordo
con Giuliano Lapi e Colombino, mandati espressamente.[695] La cosa
non persuadeva punto nè al Bentivoglio, nè al Giacomini. Il primo con
la penna in mano dimostrava che, avendosi in tutto a cavare 800,000
braccia quadre di terreno, occorrevano 200,000 opere almeno, e poi non
si sarebbe concluso nulla.[696] Il Giacomini, pur dichiarandosi, come
doveva, pronto ad eseguire gli ordini avuti, scriveva: «Vedranno VV.
SS. che ci nascerà grandissime difficultà ogni giorno, e che la tanta
facilità monstrasi, resterà inferiore.»[697] Anch'egli in tutto ciò
non vedeva altro che una perdita di danaro e di tempo, con l'obbligo di
stare a guardare gli operai, senza poter fare intanto altre fazioni di
guerra. Ed essendo uomo di poca pazienza, ben presto, tolta occasione
dalle febbri che davvero lo avevano ridotto a mal partito, chiese
con lettera del 15 settembre licenza, che gli fu concessa il giorno
seguente, inviando i Dieci a succedergli Tommaso Tosinghi.[698]

Il Machiavelli intanto scriveva una serie interminabile di lettere per
dirigere i lavori. Si ordinava a tutti i Comuni l'invio al campo di
zappatori per fare i fossi; si ordinava il mettere soldati a guardia
per difendere i lavori; si mandavano maestri d'ascia per la pescaia;
si facevano venire maestri d'acqua da Ferrara: non si posava mai.[699]
Il lavoro dei due canali che dovevano essere profondi sette braccia,
e larghi, l'uno 20, l'altro 30, procedeva rapidamente; ma più rapida
ancora procedeva la spesa, non essendosi con 80,000 opere anche a mezzo
dell'impresa. E quel che era peggio, ben presto cominciarono gravi
dubbi sulla possibile riuscita; giacchè, fatta, durante una piena,
entrar l'acqua nel primo dei fossi che era già compiuto, ritornò tutta
in Arno cessata che fu la piena.[700] Si affermava che la pescaia,
fermando il corso del fiume, ne avrebbe rialzato il letto; ma si vide
poi che, dovendola costruire a poco per volta, si restringeva il corso
delle acque, che subito procedevano più rapide, e quindi invece lo
abbassavano. Si rispondeva che l'inconveniente sarebbe cessato una
volta compiuto il lavoro, e intanto i soldati restavano oziosi a far
guardia agli operai.

Il Soderini tuttavia non si dava per vinto, ma, portata la cosa prima
nella Pratica e poi nel Consiglio degli Ottanta, fece deliberare che si
continuasse, e così fu scritto al Tosinghi il 28 e 29 settembre.[701]
Tuttavia ben presto si cominciò a desiderar solamente, che la spesa
già fatta di 7000 ducati non riuscisse del tutto inutile, operando in
modo che i fossi, allagando il paese, servissero almeno ad impedire
l'avanzarsi dei Pisani.[702] Si mandò poi fuori un bando, che fu letto
sotto le mura di Pisa, e diceva che i Signori avevano dal Consiglio
Maggiore ottenuto di poter perdonare coloro che, uscendo da quella
città, si dichiarassero obbedienti alla Repubblica.[703] Ma anche
questo riuscì male, perchè i Fiorentini speravano così di levar forze
ai Pisani, e questi ne profittarono invece per scaricarsi delle bocche
inutili, durante la carestìa. Altri si fecero, uscendo, reintegrare nei
loro beni, e tornavano poi di nascosto. Fu quindi necessario riscrivere
subito a fin di provvedere in modo, che le intenzioni benevole del
bando non ne facessero frodare lo scopo.[704] Ma tutto andò rapidamente
a rovina in questi giorni. Le navi noleggiate per guardare il mare,
erano già naufragate con la morte di 80 uomini; le genti d'arme si
dimostravano sempre più scontente; gli operai al sopravvenire delle
pioggie andavano via.[705] E sebbene nuovi maestri d'acqua, venuti da
Ferrara, uniti con quelli che erano al campo, non dessero la impresa
per disperata affatto, pure il 12 ottobre si commetteva al Tosinghi
che decidesse egli se bisognava andar oltre, o licenziare l'esercito e
sospendere tutto, il che significava che in Firenze ormai mancava ogni
fiducia per continuare. Infatti il Tosinghi poco dopo fu richiamato,
inviandogli un successore; l'esercito fu licenziato, e i fossi con
tanta spesa e fatica condotti, vennero in fretta ripieni dai Pisani.
Così ebbe fine la mal consigliata impresa.[706]

In questo momento appunto il Machiavelli si mise a scrivere i primi
versi che abbiamo di lui, ed in quindici giorni compose il suo
_Decennale Primo_,[707] che con lettera del 9 novembre 1504[708] dedicò
ad Alamanno Salviati, uno degli uomini più autorevoli in Firenze, e
del quale si fanno nel _Decennale_ medesimo grandi lodi, sebbene più
tardi egli si dimostrasse molto avverso al Machiavelli.[709] In questo
breve lavoro noi non possiamo dire di trovar poesia vera, perchè si
tratta d'una semplice narrazione storica dei fatti seguìti in Italia
nel decennio che incominciò coll'anno 1494. Il racconto procede
assai rapido, in terzine semplici e disinvolte, accennando solo i
principalissimi avvenimenti, senza tralasciarne alcuno d'importanza,
massime in tutto quel che risguarda la storia di Firenze. Di tanto in
tanto però scoppia una pungente ironìa, che ravviva coi suoi frizzi la
narrazione, e fa singolare contrasto colle espressioni di vero dolore,
che non meno spesso sfuggono all'autore.

Egli invoca la Musa, perchè l'aiuti a descrivere le sventure d'Italia,
incominciate quando questa si lasciò nuovamente calpestare dalle genti
barbariche, così chiama sempre gli stranieri. I Francesi invitati dalle
nostre discordie nazionali, percorrono la Penisola, senza che alcuno
osi far loro fronte. Solo in Firenze resiste il coraggio di Piero
Capponi:

    Lo strepito dell'armi e de' cavalli
      Non potè far che non fosse sentita
      La voce d'un Cappon fra cento Galli.

Ma quando essi si debbono ritirare dall'Italia, ed al Taro passano,
respingendo l'esercito della Lega, Firenze non sa più separarsi dalla
loro alleanza, e «col becco aperto aspetta sempre che qualcuno venga
d'oltr'Alpe a portarle la manna nel deserto.» Invece fu ingannata,
e per tutto le si levarono contro nemici, che ne misero a pericolo
l'esistenza, specialmente quando essa si lasciò «dominare e dividere
dalle dottrine di quel gran Savonarola, che, afflato da virtù divina,
l'avvolse colla sua parola.» Nè vi sarebbe stato più modo a riunirla,
conclude egli cinicamente:

    Se non cresceva o se non era spento
    Il suo lume divin con maggior foco.

Seguono i guai della guerra nel Casentino, della guerra di Pisa, ed
il Machiavelli accenna chiaro al tradimento di Paolo Vitelli «cagion
di tanto danno.» Egli continua ricordando le guerre di Lombardia
e la ribellione di Arezzo, al quale proposito esalta anche più del
dovere la virtù e prudenza di Piero Soderini, che trovavasi allora
Gonfaloniere, non però ancora a vita. Descrive poi i fatti di Romagna,
rappresentando il Valentino e i suoi capitani come serpenti avvelenati
che si lacerano, rivolgendo l'un contro l'altro i denti e gli ugnoni.
Il Duca è fra essi il basilisco che, soavemente fischiando, li attira
nella sua tana e li uccide. E mentre di nuovo i Francesi scendono in
Italia, per tornare all'impresa di Napoli, «lo spirito glorioso di
papa Alessandro è portato fra l'anime dei beati, e ne seguono i passi
tre sue indivisibili ancelle: lussuria, crudeltà e simonìa.» Giulio II
venne allora eletto «portinar di Paradiso;» i Francesi furono disfatti,
ed il Valentino ebbe finalmente dal Papa e da Consalvo la punizione

    Che meritava un ribellante a Cristo.

Per dieci anni, conchiude il Machiavelli, tornando di nuovo serio
e grave, il sole ha girato su questi eventi crudeli, che tinsero il
mondo di sangue. Ora esso raddoppia l'orzo ai suoi corsieri, perchè
presto seguiranno altri fatti, in paragone dei quali parrà nulla tutto
ciò che è avvenuto sinora. La fortuna non è ancora contenta; la fine
delle italiche guerre non è ancora vicina. Il Papa vuol ripigliare le
terre della Chiesa; l'Imperatore vuole essere coronato; la Francia si
duole del colpo avuto; la Spagna tende lacci ai vicini, per assicurarsi
quello che ha preso; Firenze vuole Pisa; Venezia ondeggia fra la paura
e l'ambizione di nuove conquiste; onde facilmente si vede che la nuova
fiamma, una volta riaccesa, arriverà fino al cielo. Il mio animo resta
tra la speranza ed il timore,

    Tanto che si consuma a dramma a dramma,

perchè vorrei sapere dove anderà a riparare la navicella della nostra
Repubblica. Io m'affido tutto al suo accorto nocchiero; ma il cammino
sarebbe assai più facile e certo, se i Fiorentini riaprissero il tempio
di Marte.

In tutto questo lavoro troviamo un continuo e singolare contrasto.
Non solo, come già notammo, una pungente e qualche volta cinica ironìa
trovasi accanto al più profondo dolore per le sventure d'Italia; ma un
sentimento assai vivo della unità nazionale, sta di fronte all'amore
anche più vivo per la piccola patria fiorentina. L'autore incomincia
col deplorare le crudeli ferite che l'Italia riceve dagli stranieri, e
vorrebbe saperle guarire; ma l'odio contro Pisa, Venezia e gli altri
Stati vicini prorompe subito. Spesso egli ritorna al suo primo e
nobile dolore; ma il pensiero con cui il canto si chiude, è rivolto a
Firenze, non all'Italia. L'ultimo verso accenna poi all'idea, che da un
pezzo agitava la sua mente, di salvare cioè la Repubblica, armandola
di proprie armi. Del resto questa lotta di scetticismo e di fede
politica, d'ironìa e di dolore sincero, di sentimento nazionale e di
municipalismo, trovasi in tutto il Rinascimento italiano; è però meglio
che in altri personificata nel Machiavelli, massime in questi anni, nei
quali, non potendo egli darsi a studî più serî e prolungati, gettava
sulla carta i più intimi suoi pensieri così come venivano.

Questo _Decennale Primo_ fu dato alle stampe solo nel principio del
1506, per opera d'uno dei coadiutori della cancelleria;[710] ne venne
poi subito fatta una ristampa illegale, ad insaputa dell'autore,
e così circolò subito largamente fra gli amici, letto con grande
avidità, a causa delle allusioni contemporanee, senza però esser tale
da poter crescere di molto la fama dell'autore. È tuttavia notevole
una lettera che il dì 25 febbraio del 1506, gli scrisse da Cascina,
dove era a servizio della Repubblica, il signor Ercole Bentivoglio,
cui il Machiavelli aveva inviato un esemplare del proprio scritto.
Ringraziandolo, lodava prima di tutto l'arte, con la quale in sì
piccolo spazio erano raccolti i principali eventi del decennio,
senza tralasciarne alcuno che fosse notevole davvero. Lo confortava
poi a continuare, «perchè, sebbene questi tempi sono stati e sono
tanto infelici, che il ricordarli rinnuova ed accresce a noi altri
dolori non pochi, pure ci è gratissimo che queste cose scritte in
verità pervenghino a chi verrà dopo noi, sì che conoscendo la mala
sorte nostra di questi tempi, non c'imputino che siamo stati cattivi
preservatori dell'onore e riputazione italiana.» «Chi non legge la
storia di questi anni,» conchiude il Bentivoglio, «non potrà mai
credere, come in sì breve tempo l'Italia sia da tanta prosperità
precipitata a così grande rovina, alla quale pur troppo sembra correre,
come a cosa desiderata, anche tutto il poco che resta, se non ci salva
inopinatamente Colui che salvò dai Faraoni il popolo d'Israele.»[711] È
certo singolare assai questo serio e severo linguaggio in un capitano
di ventura; ma tali erano i tempi, e tale era il presentimento che
tormentava allora tutti coloro che pensavano in Italia.

Pare che il Machiavelli si dilettasse in quegli anni d'accoppiare
spesso l'ironìa e la satira al quotidiano lavoro degli affari, ed
alle severe meditazioni politiche; giacchè è assai probabile che
allora appunto componesse anche un secondo lavoro letterario, il quale
sfortunatamente andò perduto. Era un'imitazione delle _Nuvole_ e di
altre commedie d'Aristofane, intitolata _Le Maschere_. Tutto quello
che ne sappiamo è che la scrisse ad istigazione di Marcello Virgilio,
e che pervenne con altre sue carte e lavori nelle mani di Giuliano de'
Ricci, il quale non volle copiarla, come aveva fatto di tante altre
cose inedite del suo illustre antenato, perchè era ridotta in frammenti
appena leggibili, e perchè l'autore «sotto nomi finti va lacerando e
maltrattando molti di quelli cittadini, che nel 1504 vivevano.» Dopo
di che lo stesso scrittore aggiunge: «Fu Niccolò in tutte quante le
sue composizioni assai licenzioso, si nel tassare persone grandi,
ecclesiastiche e secolari, come anche nel ridurre tutte le cose a cause
naturali o fortuite.» E veramente questo spirito satirico e mordace
fu quello che gli procurò molti nemici, molti dispiaceri nella vita;
ma l'ostinarsi a ridurre tutti i fatti, massime della storia, a cause
naturali, se fu, come osserva con dolore il Ricci, la cagione che ne
fece proibire le opere da Paolo IV e dal Concilio di Trento,[712] fu
quella ancora che lo condusse ad iniziare la scienza della storia e la
scienza politica.



CAPITOLO VIII.

    Tristi condizioni dell'Umbria. — Legazione a Perugia. —
    Pericoli di guerra. — Nuova Legazione a Siena. — Rotta
    dell'Alviano. — I Fiorentini assaltano Pisa e sono respinti.
    — Legazione presso Giulio II. — Istituzione della milizia
    fiorentina.

    (1505-1507)


Verso la fine del 1504 le cose sembravano avviarsi assai male per la
Repubblica. Bartolommeo d'Alviano s'era partito scontento da Consalvo
di Cordova, e dicevasi volesse tentare qualche impresa per suo conto
nell'Italia centrale. I Vitelli, gli Orsini, il signore di Piombino
e quello di Siena lo secondavano; ma quel che era peggio, pareva che
anche G. P. Baglioni, sebbene capitano dei Fiorentini, fosse con lui
d'accordo. Questi se ne stava a Perugia, senza rinnovare la condotta
scaduta, ed alle lettere che essi gli scrivevano,[713] rispondeva
evasivamente, o non rispondeva affatto. Le cose non procedevano bene nè
a Livorno nè a Pisa,[714] ed alla fine del marzo 1505, incontrandosi
sul fiume Osole, al ponte a Cappellese, e venuti fra loro alle mani
buon numero di Pisani e di Fiorentini, questi ebbero una vera disfatta,
dovuta quasi esclusivamente alla negligenza dei loro capi. Di tale
rotta, com'è naturale, la Repubblica si dolse amaramente,[715] e dopo
aver mandato danari al campo per riordinarlo, pensò ad assicurarsi per
l'avvenire. Ma prima di tutto fu mandato Niccolò Machiavelli a Perugia,
a fin d'indagare quale fosse veramente l'animo del Baglioni.

È difficile farsi un'idea dello stato d'anarchia in cui trovavasi
allora tutta l'Umbria, specialmente Perugia, e del modo con cui in
questa dominavano i Baglioni. Era uno stato di guerra continua.
Le città vicine erano tutte piene de' suoi esuli, fra i quali
primeggiavano gli Oddi, che di tanto in tanto tornavano per sorpresa,
ed insanguinavano ferocemente le strade. Quando Alessandro VI, cacciato
dalla paura di Carlo VIII, andò a Perugia nel 1495, pensò profittare
dell'occasione, e propose ai Baglioni che facessero qualche gran
festa, col segreto intendimento di pigliarli nella rete tutti in una
volta. Ma Guido Baglioni rispose, che la più bella festa sarebbe stata
di fargli vedere il popolo armato sotto il comando de' suoi parenti,
che ne erano i condottieri. Allora, dice il cronista Matarazzo, Sua
Beatitudine capì che Guido «aveva sale in testa,» e non insistè più
oltre. Non era appena partito il Papa, che i Baglioni combattevano
per le vie di Perugia, alcuni di essi ancora in camicia, per essere
stati improvvisamente assaliti dagli Oddi, i quali, entrati di notte
in città, li avevano cercati a morte nelle case, fin dentro i proprî
letti. Più di cento furono i cadaveri sparsi per le vie o impiccati
alle finestre: il sangue corse a fiumi, e ne bevvero, secondo che
afferma il medesimo cronista, i cani ed anche un orso domestico, che
girava per le strade.[716] Finalmente i Baglioni restarono vittoriosi.

Dopo due anni venne il cardinale Borgia, mandato da Roma a mettere
ordine nell'Umbria. Tutti si dichiaravano obbedienti all'autorità del
Sommo Pontefice; ma aggiungevano essere pronti piuttosto a spianare
al suolo la loro città, che rinunziare alle vendette. Laonde il
cardinale scriveva essergli impossibile concludere nulla, se non gli
mandavano genti d'arme per combattere «contra questi demonii, che
non fugono per acqua santa.»[717] Partito il cardinale, senza aver
nulla concluso, seguì una guerra tra i Baglioni stessi, divisi per
gli odii di Guido e Ridolfo fratelli. I giorni della state del 1500,
nei quali si celebravano le feste per le nozze di Astorre figlio di
Guido, furono quelli appunto in cui si venne alle mani. I Varano di
Camerino cominciarono la strage, uccidendo molti dei Baglioni, prima
che avessero tempo di svegliarsi. Giovan Paolo che fuggì, dopo essersi
difeso colla spada, fu creduto morto, e Grifone Baglioni trionfava pel
sangue sparso de' suoi parenti. La madre lo maledisse e lo respinse
dalla casa, in cui s'era ritirata coi figli di Giovan Paolo. Ma dopo
poco, questi entrò in città, alla testa d'uomini armati, che aveva
raccolti fuori delle mura, e si sentirono le grida di Grifone pugnalato
nella piazza. A mala pena la desolata madre fu in tempo per accorrere
colla moglie a vederlo spirare. Gli assassini si ritirarono, compresi
di rispetto, ed il figlio, obbedendo, strinse «la bianca mano de la
sua giovanile matre,» in segno di perdono ai nemici, e spirò. Il suo
cadavere fu messo nella stessa bara, in cui era stato ventiquattro ore
innanzi Astorre da lui fatto uccidere, in quei giorni in cui se ne
celebravano le nozze. Così G. P. Baglioni rimase signore di Perugia
per la distruzione dei suoi, e passò trionfante davanti all'arco
innalzato a celebrare gli sponsali del cugino, e su di esso si leggeva
l'iscrizione poco prima composta dal Matarazzo. Questi, dopo averci
data la minuta narrazione dei fatti sanguinosi, conclude dicendo, che
«Perugia non si potrà più chiamare augusta, ma angusta, _et, quod peius
est, combusta_.» Pure egli va in estasi quando parla dei Baglioni,
quando descrive il terrore che ispiravano a tutti, e la fama che di
loro correva nel mondo. Ogni volta che uno di essi comparisce coll'elmo
in testa e la spada in pugno, è sempre per lui un nuovo San Giorgio, un
nuovo Marte, e la città doveva essere superba delle loro prodezze.[718]
Questi erano i tempi!

G. Paolo Baglioni non era però contento di viversene tranquillo a
Perugia; ma cercava sempre agguati, guerre ed avventure dentro e fuori
della città, lasciando governare i suoi parenti superstiti. Unitosi con
Vitellozzo, noi lo vediamo andare alla caccia di un tale Altobello da
Todi, contro del quale l'odio popolare si scatenò così ferocemente, che
molti si ferirono colle proprie armi, per volere ognuno essere primo
ad ucciderlo. I Perugini mangiarono la sua carne, secondo che afferma
il cronista, il quale aggiunge che uno di essi ne morì d'indigestione;
che altri la cercavano invano ad altissimo prezzo, e non potendola
avere, per furore di vendetta ponevano nelle vie carboni accesi sul
suo sangue.[719] Dopo di ciò il Baglioni si trovò fra i congiurati
della Magione; ma questa volta, meno fortunato, dovè presto fuggire
innanzi all'idra che s'avanzava. Allora fu capitano di ventura a
servizio dei Francesi e dei Fiorentini, e Carlo Baglioni governò pel
Valentino in Perugia. Quando però si seppe, nell'agosto del 1503, la
morte del Papa, Giovan Paolo lasciò subito il soldo dei Fiorentini, ed
insieme con Gentile, che era cugino di Carlo Baglioni, corse armato a
ripigliare il proprio Stato. Il dì 8 di settembre fu dato l'assalto; i
due cugini Carlo e Gentile vennero alle mani inferociti come due leoni,
«mostrandosi la virtù di ciascheduno, e quanta sia la virtù e fortezza
che Marte concesse a questa magnifica casa Baglioni, la cui fama per
Italia resona.»[720] Il 9 settembre Giovan Paolo era di nuovo signore
di Perugia, e tornò al soldo di Firenze; ma con uno o un altro pretesto
non prestava effettivo servizio. Chiamato con più insistenza che mai,
quando si cominciò a diffidare di lui, propose che dessero a suo figlio
una condotta con qualche lancia, sperando così di far credere ad essi
che restava fedele alla Repubblica, senza compromettersi coi loro
nemici. Ed anche in ciò i Fiorentini s'erano indotti a contentarlo;
ma ora che l'Alviano s'avanzava, e sopra tutto dopo la rotta che essi
avevano avuta dai Pisani, al ponte a Cappellese, non volevano più
restare in questa incertezza. Mandarono quindi parte della prestanza
o anticipazione che soleva darsi a chi veniva in campo, ordinandogli
d'inviar subito i cavalli leggieri, e seguire senza indugio egli stesso
colle genti d'arme, che avrebbe trovato il resto della prestanza.
Vedendo che non pigliava il danaro e non partiva, si decisero a mandare
il Machiavelli, perchè venisse in chiaro di tutto, se poteva.

Le istruzioni, in data 8 aprile, dicevano, che egli doveva far le
viste di prestar fede alle pretese ragioni che avrebbe addotte il
Baglioni per scusarsi; ma, «pungendolo poi in qualche parte,» cercare
di scoprir le vere, e indagare se operava così solo per migliorare i
patti, o perchè s'era addirittura collegato coll'Alviano e cogli altri
nemici di Firenze. Il giorno 11 il Machiavelli scriveva, che G. P.
Baglioni adduceva, per non muoversi, le macchinazioni fatte contro di
lui in Perugia, e l'essere a servizio della Repubblica i Colonna ed i
Savelli suoi capitali nemici, aggiungendo, che aveva fatto esaminare
da molti dottori perugini i capitoli della condotta, e che gli era
stato assicurato non doversi per essi tenere obbligato a servire i
Fiorentini. Io gli risposi, continuava il Machiavelli, che da ciò
poteva venire più danno a lui che a voi, giacchè se per colpa sua
«voi rimanete ora allo scoperto _ex improvviso_ di 130 uomini d'arme,
egli era tanti cavalli in Italia fuora della stalla, che voi non eri
per rimanere a piè, a nessun modo.» «Ma il suo male invece non era
curabile, perchè, se anche voi non vi dolevate di lui, chiunque conosce
il suo procedere, e sa la condotta data al figlio a sua richiesta, e la
prestanza portata a lui infino a casa,» «lo accuserà d'ingratitudine
e d'infedeltà, e sarà tenuto un cavallo che inciampa, che non trova
persona che lo cavalchi, perchè non facci fiaccare il collo a chi
vi è su, e che queste cose non hanno a essere giudicate da dottori,
ma da' signori, e che chi fa conto della corazza e vuolvisi onorare
drento, non fa perdita veruna che la stimi tanto quanto quella della
fede, e che mi pareva che a questa volta e' se la giuocasse.» «Gli
uomini debbono far di tutto per non aversi mai a giustificare; ma a
lui seguiva invece di doversi giustificare troppo spesso.» «E così lo
punsi per ritto e per il traverso, dicendogli molte cose come ad amico
e da me; e benchè più volte li vedessi mutare il viso, mai fece col
parlare segno da potere sperare che mutassi opinione.» Il risultato
di tutto ciò fu, che il Machiavelli si convinse esservi accordo fra
l'Alviano, gli Orsini ed il Baglioni, per tòrre Pisa a' Fiorentini, e
fare anche peggio potendo; che il Petrucci di Siena secondava queste
trame, e che se tutti in parole professavano amicizia per Firenze, in
fatto si armavano. Laonde, ripetuto anche una volta al Baglioni, che
pensasse bene a quel che faceva, perchè «questa cosa pesava più che
non pesava Perugia,» se ne tornò a casa. Questa Legazione è composta
d'una sola lettera, scritta però con molto vigore, con una singolare
evidenza, ravvivando col linguaggio più domestico e familiare la
dignità diplomatica, il che forma uno dei grandi pregi nella prosa
del Segretario fiorentino, aggiunge vivo colorito alla originalità sua
propria.[721]

In Firenze ora si spingevano innanzi, a tutta possa, le cose della
guerra, per essere pronti alla difesa contro i minacciati pericoli.
Si sparse in quei mesi la voce che Luigi XII era morto, e subito si
diceva che l'Alviano, aiutato non solo dagli Orsini e dai Vitelli,
ma dai Veneziani, dallo stesso Consalvo di Cordova e dal cardinale
Ascanio Sforza, si sarebbe avanzato per rimettere i Medici in Toscana,
e poi cacciare i Francesi da Milano, dove avrebbe nella persona del
cardinale ristabilito il dominio degli Sforza.[722] Tutte queste voci
però svanirono qual fumo al vento, quando si seppe che il re di Francia
non era morto, e che nel maggio moriva invece Ascanio. Non per questo
l'Alviano si fermava; ma i suoi disegni si restringevano alla Toscana,
come s'era sin dal principio sospettato, tanto che alcuni in Firenze
fecero persino la strana proposta di dargli una condotta, e così farla
finita. Quantunque non pochi cercassero di sostenere un tale partito,
esso non poteva riuscire accetto a nessun uomo prudente, perchè
contrario alla dignità della Repubblica, ed anche assai pericoloso,
sapendo ognuno che l'Alviano e gli Orsini desideravano il ritorno dei
Medici. E quindi, colla elezione dei nuovi Dieci, tutti gl'intrighi
andarono a monte, prevalendo invece la proposta di fare una condotta
di 300 uomini d'arme col marchese di Mantova, come capitano generale.
Ma anche qui le trattative andarono in lungo, e sebbene il 4 maggio si
spedisse il Machiavelli per concludere, non si venne a capo di nulla,
affacciando il Marchese sempre nuove difficoltà.[723]

Le gravi cure dei Fiorentini perciò non diminuivano, ma invece
crescevano ogni giorno. Anche il signore di Piombino sembrava ora
unirsi ai nemici di Firenze, e si parlava del prossimo arrivo colà di
1000 fanti spagnuoli; laonde al commissario Pier Antonio Carnesecchi
fu dato ordine d'andare a vedere un poco quale fosse il vero stato
delle cose.[724] Ranieri della Sassetta, altro venturiero nemico di
Firenze, si recava in Piombino, ed il Machiavelli, in data del 28
giugno, scriveva di nuovo al Carnesecchi, che sembra fosse alquanto
incerto e prosuntuoso, che si tenesse in forze da quel lato, e se la
intendesse bene col governatore Ercole Bentivoglio. «Il che non ti si
è ricordato per diffidarsi di te, nè per parerci che' e' panni tuoi
non sieno finissimi, e per questo volere che tu ti vesta con quelli
d'altri;» «ma perchè egli è prudente, ha ai suoi ordini tutte le nostre
forze, e quindi bisogna pure in ogni modo intendersela con lui.»[725]
Lo stesso giorno fu scritto al Bentivoglio, esponendogli i dubbî che
avevano i Dieci sul procedere del signore di Piombino, incerto sempre
tra Pandolfo Petrucci e i Fiorentini, diffidente di questi e di quello.
«Si era rivolto a Consalvo, il quale dicevasi avesse mandato 800 fanti
spagnuoli per farli pagare agli altri, e intanto sbigottire con essi
Firenze. Se tutte queste notizie,» concludeva la lettera, «non sono
certe, è certo l'arrivo degli Spagnuoli, onde bisogna in ogni modo
stare in guardia.»[726] Si pensò quindi d'inviare un ambasciatore a
Consalvo stesso, e sebbene il Soderini desiderasse mandarvi Niccolò
Machiavelli, trovò ne' Consigli tale opposizione, che fu eletto invece
Roberto Acciaiuoli. Il Machiavelli ebbe allora un'assai più modesta
commissione presso il Petrucci in Siena, il quale era noto avversario
dei Fiorentini; eppure avvertiva ora delle mene dell'Alviano contro di
essi, coi quali proponeva di fare alleanza, offerendo 100 uomini d'arme
per l'impresa di Pisa, e 50 di più l'anno seguente. La cosa pareva
assai strana, e si voleva quindi indagare che intenzione egli veramente
avesse.

Se il Baglioni era un tiranno della scuola del Valentino, il Petrucci
non era uomo di guerra, ma uno di quelli che s'impadronivano allora del
potere quasi unicamente con l'accortezza e l'astuzia, come i Medici,
non senza di tanto in tanto ricorrere al sangue. Era suo consigliere e
segretario Antonio da Venafro, che di poco conosciuti natali, fu prima
professore nello Studio di Siena, e giudice delle Riformagioni; poi,
mescolandosi nella politica, s'arricchì, e co' suoi consigli aiutò
assai efficacemente il Petrucci a farsi tiranno. La potenza di costui,
cominciata a consolidarsi nel 1495, quando, tornando Carlo VIII da
Napoli, lasciava a Siena alcune lance francesi, si andò rafforzando
negli anni successivi colla morte de' suoi più temuti rivali, i quali
furono in un modo o nell'altro assassinati, aiutandolo sempre il
Venafro co' suoi consigli. Cacciato dal Valentino, che lo chiamava il
_cervello_ dei congiurati della Magione, dove infatti aveva inviato
il Venafro come uno dei più abili ad ordire la trama, era tornato
coll'aiuto francese e col favore di tutto il popolo. Questo gli si era
affezionato, perchè lo vedeva uomo d'ingegno, e perchè gli oppositori
erano peggiori di lui, il quale, una volta sicuro di sè, cercò d'esser
mite e giusto nel governare. A ciò si aggiungeva, che l'odio universale
contro il Valentino destava nel popolo una simpatia assai naturale
verso un uomo che, quasi per miracolo, era scampato vivo dalle mani
di lui. Il Petrucci non ostante continuò sempre ad aver mano in tutti
gl'intrighi, desiderando esserne stimato come l'autore principale. In
mezzo alle nuove complicazioni che nascevano ora, si destreggiava con
grandissima accortezza, e mentre si dimostrava amico di Firenze, da cui
certo poteva ricevere molti danni, cercava avvicinarsi anche ai nemici
di essa, vedendo che la cattiva fortuna di Francia aumentava la loro
forza, e rendeva sempre più potenti gli amici di Spagna.

Le istruzioni, in data 16 luglio 1505, dicevano al Machiavelli: «Tu
chiederai consiglio sul da fare, e allargandoti su questa materia,
la rivolterai per tutti i versi, regolandoti, secondo che procederà
il discorso, con quella prudenza che fu sempre tua, per arrivare a
conoscere quale sia l'animo di quel signore.»[727] Ed il 17 egli
scriveva da Siena, che il Petrucci voleva stringere accordo con
Firenze, senza punto impegnarsi a far desistere l'Alviano dalla sua
impresa, proponendo che si dovesse prima indebolirlo, isolandolo dai
Vitelli, «perchè, essendo di natura fiera e senza rispetti, trovandosi
ora armato e senza Stato, poteva far qualche colpo disperato; e
l'Italia era piena di ladri, usi a vivere di quel d'altri, onde
molti per predare gli sarebbero corsi dietro.»[728] Da più lati però
l'oratore veniva messo in diffidenza, ed assicurato che Pandolfo
Petrucci era nemico di Firenze e del Gonfaloniere, andava d'accordo
con Consalvo e con l'Alviano, era l'autore di tutti i movimenti che
ora seguivano, «e teneva il piè sempre in mille staffe, in modo da
poternelo trarre a sua posta.»[729] Sicchè, quando egli e Antonio da
Venafro, «che è il cuore suo e il caffo degli altri uomini,» tornarono
a proporre che si facesse prima l'accordo, per pensar poi ad isolare
l'Alviano dagli altri, il Machiavelli, temendo che volessero così
compromettere sempre più la Repubblica, chiedeva invece che si venisse
prima ai fatti, cominciando «a por piè in su queste faville.»[730]

Il 21 luglio si venne ancora più alle strette, dichiarando il Petrucci
con lungo ragionamento, che, nonostante il suo buon volere, non
poteva solo e senza previo accordo opporsi all'Alviano, e fermare
quei movimenti. «Non era già vero che lui avesse in questo caso la
briglia e gli sproni; perchè gli sproni non ci ebbe mai, e la briglia
tira quanto può.» Invano il Machiavelli replicava tutte le ragioni
suggerite dal suo ingegno, chè l'altro, ben fermo nel suo proposito,
cercava aggirarlo con strani consigli e notizie contradittorie. E però
egli scrisse ai Dieci: «Per fargli capire che intendevo bene quegli
aggiramenti, dissi che queste pratiche mi facevano in modo confuso,
che io dubitavo non dare la volta avanti me ne ritornassi. Ora si
sentiva che Bartolommeo d'Alviano veniva coi danari e fanti di Spagna,
ed ora invece che Consalvo gli era contrario e l'avrebbe fermato; ora
che era pronto a passare, ed ora che limosinava aiuto; ora che era
d'accordo col Papa, ed ora che erano nemici; ora che era d'accordo
con Siena, ed ora che i suoi soldati predavano i cittadini senesi.
Pertanto io desideravo che Sua Signoria mi rilevasse questa ragione.»
E Pandolfo, senza punto confondersi, rispose: «Io ti dirò come disse il
re Federico ad un mio mandato in un simil quesito, e questo fu, che io
mi governassi dì per dì, e giudicassi le cose ora per ora, volendo meno
errare, perchè questi tempi sono superiori a' cervelli,» aggiungendo
che l'Alviano li secondava, perchè «uomo da dare in un tratto speranza
e timore ai suoi vicini, mentre che sarà così armato.»[731] Ed in
questo tenore continuò fino all'ultimo il Petrucci, il quale era tale,
dice il Machiavelli, «che per guardarlo in viso non si guadagna nulla
o poco.» La sera del 23 il Petrucci gli fece leggere una lettera, che
avvisava avere Consalvo ordinato all'Alviano di non alterare le cose di
Toscana; e chiedendogli l'oratore che cosa ne pensasse, rispose: «La
ragione vorrebbe che l'Alviano obbedisse e restasse fermo; pure gli
uomini non sempre seguono la ragione, quindi potrebbe invece muoverlo
la disperazione.» «E benchè di quelli che si muovono per disperati,
de' quattro, tre capitino male, _tamen_ sarebbe bene che questa
disperazione egli non l'usasse, perchè non si può muovere una cosa,
non se ne muova mille, e gli eventi sono varî.» Perciò era bene che
i Fiorentini provvedessero.[732] Nè ci fu verso di cavarne mai nulla;
sicchè, dopo un colloquio avuto col Venafro, cui disse di avere da un
pezzo in qua veduti molti «ridere la state e piangere il verno,»[733]
il Machiavelli se ne tornò a Firenze più confuso di quel che ne fosse
partito.

Non c'era dunque che apparecchiarsi alla guerra, e i Dieci richiamarono
in ufficio il prode commissario Giacomini, inviandogli la patente il 30
luglio, con ordine di mettersi subito d'accordo col governatore sul da
fare; e nello stesso tempo davano coraggio al commissario Carnesecchi
in Maremma, assicurandolo che non v'era immediato pericolo.[734]
Ben presto però dovettero ricredersi, dolendosi con lui stesso che
già l'Alviano fosse presso a Campiglia, e cominciasse ad assalire
«avanti che la testa nostra sia fatta. Ma ci pare che la tela sia
ordinata in modo che, per la prudenza vostra, si potrà rassettare
ogni cosa.» E promettevano solleciti rinforzi.[735] L'Alviano sapeva
di non poter far nulla contro la voglia di Consalvo, il quale non
voleva che i Fiorentini pigliassero Pisa, ma neppure che fossero
direttamente assaliti, perchè erano compresi nella tregua firmata
in Francia, e aveva mandato pochi fanti spagnuoli in Piombino, solo
acciò si tenessero pronti ad ogni possibile evento. L'altro adunque,
sebbene avesse con sè il favore ed i segreti aiuti del Baglioni
e del Petrucci, non aveva ancora potuto deliberare un disegno di
guerra. Avrebbe bene accettata una condotta dai Fiorentini, per
far poi a suo modo; ma questo non sembrando ormai possibile, restò
fino al 17 luglio in Vignale, luogo del signore di Piombino, ed ora
s'apparecchiava ad entrare in Pisa, donde poteva assai danneggiarli.
Circa la metà di agosto, infatti, il Giacomini faceva sapere che i
nemici s'avanzavano, e che egli era deciso di venire a giornata; al
che i Dieci rispondevano, rimettendo il giudizio di tutto in lui e nel
governatore: «Osservassero però che se l'entrata dell'Alviano in Pisa
era pericolosa, più pericolosa assai poteva essere una zuffa, in cui si
dovesse tutto vincere o tutto perdere.»[736]

I Fiorentini avevano in campo 550 uomini d'arme e 320 cavalli leggieri,
oltre poca artiglieria, e qualche migliaio di fanti. Di questi un cento
uomini d'armi erano a Cascina, gli altri a Campiglia ed a Bibbona,
centro principale delle loro forze. Quelle dell'Alviano non erano
minori, e quindi lo scontro poteva essere aspro e decisivo. Il 14
venne al Giacomini l'avviso che il nemico s'avanzava, ed il mattino del
17, in sul far del giorno, che già era vicino, ordinato a battaglia:
i Fiorentini lo affrontarono alla Torre di San Vincenzo, e cominciò
subito la zuffa. Le fanterie che erano, a quanto si diceva, pagate coi
denari del Petrucci, furono rotte al primo scontro, e poi subito detter
l'assalto gli squadroni di Iacopo Savello e Marcantonio Colonna, di
fronte ai quali cominciarono a piegare tutte le genti dell'Alviano.
Questi allora si fece innanzi coi suoi 100 uomini d'arme, e guadagnò
terreno; ma sopravvenuto dall'altro lato Ercole Bentivoglio col grosso
delle forze fiorentine, la vittoria fu sua, e l'artiglieria finì di
sbaragliare il nemico. Il combattimento non durò più di due ore, nel
qual tempo l'Alviano, assai abile capitano, ma quasi sempre sfortunato,
dopo la totale disfatta de' suoi, ferito nel viso, a mala pena scampò
con 8 o 10 cavalli nel Senese. I Fiorentini presero da 1000 cavalli,
grandissimo numero di carri, di prigionieri, e videro l'esercito che
li minacciava, come per incanto scomparso: la gioia fu universale nella
Città.[737]

Ma questa vittoria riuscì a loro assai poco utile, per la troppa
fiducia in cui vennero delle proprie forze. Il Giacomini aveva
reso conto della rotta data al nemico, senza aggiungere altro; il
Bentivoglio, invece, che era tenuto generalmente più capace a far
disegni di battaglie che ad eseguirli, proponeva d'assaltare Pisa
senza metter tempo in mezzo, dando poi ancora qualche colpo a Siena ed
a Lucca.[738] Il Gonfaloniere allora s'infatuò appunto nel pensiero
d'assaltare e prendere subito Pisa, profittando del caldo della
vittoria. Invano s'opposero i cittadini più prudenti e i Dieci, facendo
osservare che non si avevano forze, e che si correva un gran rischio,
essendo gli Spagnuoli in Piombino. Questi erano pochi, è vero, ma
altri ne potevano d'ora in ora arrivare, imbarcandosi, se non s'erano
già imbarcati, a Napoli. Alcuni parlavano pure d'un campo formato o
da formarsi in Livorno. Certo il Gran Capitano s'era assai adirato,
e chiamato a sè l'Acciaiuoli, aveva fatto grandissime minacce ai
Fiorentini, i quali avevano, diceva egli, promesso di lasciar stare
per ora almeno la città di Pisa, la quale egli farebbe in ogni modo
difendere da' suoi soldati. Ma il Soderini rideva di ciò, affermando
che in otto giorni l'impresa sarebbe compiuta.[739] Tenuta dai Dieci
una Pratica assai numerosa, la sua proposta non fu approvata; ma egli
portò la cosa negli Ottanta e nel Consiglio Maggiore, dove volle
spuntarla e la spuntò, riuscendo il 19 agosto a far votare 100,000
fiorini per correre senza indugio all'assalto.

Il Machiavelli venne spedito in campo a portare gli ordini al Giacomini
ed al Bentivoglio, che fu nominato capitano generale.[740] Il 24 egli
era di ritorno a Firenze, dove faceva conoscere quello che occorreva
al campo, e ponevasi con ardore a spingere innanzi i necessarî
provvedimenti. Si ordinarono fanti in tutto il territorio; se ne
assoldarono in Bologna, in Romagna, e perfino in Roma, dove vennero
pagati 575 Spagnuoli, che erano liberi, non per servirsene, ma solo per
impedire che andassero in aiuto dei Pisani. Si comandarono marraiuoli;
si spedirono armi, munizioni, tutte le artiglierie.

Il 7 di settembre il campo si trovava a poche ore da Pisa, e il
giorno dipoi 11 cannoni furono piantati dinanzi alla porta Calcesana.
Cominciato il fuoco al levare del sole, verso le 22 ore s'erano buttate
a terra 36 braccia di mura; ma, dato l'assalto, venne subito respinto.
Tuttavia, essendosi adoperato solo un terzo delle forze fiorentine,
il cattivo successo non aveva importanza. Se non che, in quel mezzo
entravano per la Porta a Mare 300 fanti spagnuoli, partiti da Piombino
per ordine di Consalvo, e questo era un pessimo segno. Pure, mutata
la posizione delle artiglierie, si ricominciò a far fuoco, continuando
nei giorni 10, 11 e parte del 12. A ore 18 cadevano a terra 136 braccia
di mura, e si diè un secondo e più generale assalto, che riuscì assai
peggio del primo, non avendo voluto le fanterie fiorentine combattere
in modo alcuno, preferendo piuttosto farsi ammazzare dai loro capi che
presentarsi davanti alla breccia. E allora cominciarono le mille voci
che provano il disordine e la dissoluzione morale di un esercito. Si
parlava di 2000 Spagnuoli entrati in Pisa, di altri partiti da Napoli
per Livorno, e si affermava già formato colà un campo che nessuno vide
mai. A Firenze poi, dove tanti avevano biasimata l'impresa, e dove
alcuni erano perfino accusati d'essersi intesi col nemico per non farla
riuscire, la notizia dell'esercito per la seconda volta respinto, e del
campo in pieno disordine, produsse tale effetto, che fu subito deciso
di abbandonare l'impresa. In breve, alla mezzanotte del 14, si levarono
le artiglierie; il 15 fu portato il campo a Ripoli, poi a Cascina,
donde le genti d'arme andarono alle loro stanze.

L'autorità del Soderini per questo fatto ne scapitò assai; ma,
non potendo tutti pigliarsela con lui, le ire si rivolsero assai
ingiustamente contro il Giacomini, che aveva eseguito gli ordini avuti
con indomita energia e mirabile coraggio. Egli fu assai sdegnato
di questa ingratitudine, e mandò la sua rinunzia, che venne subito
accettata, inviandogli anche il successore. Da quel giorno, dopo aver
reso tanti servigi alla patria, la sua fortuna cadde per sempre, e la
sua vita militare può dirsi finita.[741] Il Machiavelli fu dei pochi
che gli restarono sempre fedeli, e nel _Decennale Secondo_ ne esaltò la
virtù, biasimando l'ingratitudine dei Fiorentini, che lasciarono morire
il loro generoso concittadino, cieco, povero e vecchio, senza aiutarlo,
e lo fece con un linguaggio che onora del pari l'uno e l'altro. Iacopo
Nardi lo pose accanto a Francesco Ferrucci, nè meno largo di lodi gli
fu il Pitti; e tutto ciò aumenta non poco la vergogna di coloro che
così vilmente lo abbandonarono finchè visse.

Il deplorabile resultato che ebbe l'assalto di Pisa, fece nel 1506
rivolgere l'animo del Machiavelli, con più ardore che mai, ad un
suo antico disegno, l'istituzione cioè d'una milizia propria della
Repubblica fiorentina. A questo pensiero egli rivolse ora per molti
anni tutte le sue forze. Ma prima di cominciare a parlarne, noi
dobbiamo accennare alla legazione presso Giulio II, che fu un episodio
importante della sua vita, in questo medesimo anno. Il nuovo Papa non
trascurò i parenti, ma provvide subito ai casi loro, per darsi poi
tutto all'impresa di riconquistare alla Chiesa le provincie che le
appartenevano. Ora che gli Spagnuoli dominavano nel Napoletano, era più
che mai necessario distendersi verso il settentrione, per non restare
in balìa dei vicini. Cacciare i Veneziani dalla Romagna, distruggere
i piccoli tiranni ritornati ivi potenti per la caduta dei Borgia, e
tutto ciò a benefizio della Chiesa, non dei nipoti, ecco lo scopo che
si propose, ed a cui questo vecchio di 63 anni dedicò il resto della
sua vita, con una volontà di ferro, con un ardore giovanile, con un
coraggio da soldato e non da sacerdote. Già nel trattato firmato a
Blois, tra la Francia e la Spagna, il 22 settembre del 1504, s'era
per opera sua convenuto, che Luigi XII, l'Imperatore e l'arciduca
Filippo assalirebbero i Veneziani. Ciò non ebbe effetto; ma la pace
definitivamente conclusa nella medesima città, il 26 ottobre del 1505,
tra i Francesi e gli Spagnuoli, che dovettero sottomettersi a molti
sacrifizî per restare padroni del Reame, lasciava l'Italia tranquilla;
ed il Papa si decise allora a cominciare da sè quello che gli altri
non volevano fare per lui. E prima di tutto, per esser sicuro della
quiete in Roma, reintegrò molti dei nobili negli averi tolti loro
da Alessandro VI, che nelle sue Bolle egli chiamava fraudolento,
ingannatore ed usurpatore. Strinse ancora parentado cogli Orsini e
coi Colonna, dando una sua figlia in moglie a Giovan Giordano Orsini,
ed una nipote al giovane Marcantonio Colonna. Dopo di ciò, il 26
agosto, con ventiquattro cardinali, alla testa di 400 uomini d'arme,
e della sua poca guardia di Svizzeri, partì per andare alla conquista
di Perugia e di Bologna, due città fortissime e ben difese da armati.
Aspettava da Napoli 100 Stradiotti; altre genti dai Gonzaga, dagli
Este, dai Montefeltro, dalla Francia e dai Fiorentini, che tutti
erano amici. Questi ultimi, ai quali aveva chiesto il loro capitano
Marcantonio Colonna con la sua compagnia, spedivano il 25 agosto
Niccolò Machiavelli, per dirgli che erano pronti a favorire la sua
«santa opera;» ma non potevano in sul momento mandare il Colonna, per
non lasciare senza comando il campo di Pisa; promettevano però dargli
tutto quel che voleva, quando la sua impresa fosse «in sul fatto.»[742]

Il Machiavelli andò subito, ed il 28 agosto scriveva da Civita
Castellana, che a Nepi aveva trovato il Papa già pronto a partire,
pieno di buona speranza. Era contento delle promesse dei Fiorentini,
aspettava 400 o 500 lance dai Francesi, oltre i 100 Stradiotti
da Napoli, «e de' fanti aveva piena la scarsella.» Cavalcava in
persona, alla testa delle sue genti comandate dal duca d'Urbino.
L'ambasciatore veneto gli prometteva aiuti dai Veneziani, se lasciava
loro tenere Faenza e Rimini; ma egli se ne faceva beffe, e andava
innanzi sicuro.[743] Il 5 settembre già il Baglioni, spaventato dal
fatto insolito di vedere il capo stesso della Chiesa venirgli contro
in persona, s'era presentato ad Orvieto, per trattare della resa. Ed
il 9 il Machiavelli scriveva da Castel della Pieve, che l'accordo era
concluso: già erano cedute le porte e le fortezze della città. Quel
signore servirebbe nella impresa come capitano del Papa, il quale
dichiarava perdonargli il passato; ma se peccasse poi anco venialmente,
lo avrebbe impiccato. Giulio II aveva deliberato di porre 500 fanti
nella piazza di Perugia, e 50 a ciascuna delle porte, per poi entrare
in città;[744] ma tale e tanta era la sua furia, che il 13 settembre
entrava coi cardinali, senza lasciare al duca d'Urbino il tempo
necessario per eseguire gli ordini ricevuti. Questi aveva condotto
le sue genti presso alle porte, e poco discosto si trovavano quelle
del Baglioni, in modo che il Papa e i cardinali erano a disposizione
di costui. «Se non farà male,» scriveva il Machiavelli, «a chi è
venuto a tòrgli lo Stato, sarà per sua buona natura e umanità. Che
termine si abbi ad avere questa cosa io non lo so; doverassi vedere
fra 6 o 8 dì che 'l Papa sarà qui.»[745] Giovan Paolo diceva di avere
preferito allora salvare lo Stato con la umiltà, piuttosto che con la
forza, affidandosi perciò al duca d'Urbino. Ma il Papa, senza curarsi
d'altro, occupata che ebbe la città, vi fece entrare i fuorusciti
vecchi, non però i nuovi, giudicandoli troppo pericolosi all'ormai
spodestato signore: intanto arrivarono da Napoli i cento Stradiotti che
aspettava.[746]

È noto che, nei _Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio_,[747] il
Machiavelli biasimò la condotta del Baglioni, accusandolo di viltà, per
non avere osato impadronirsi della persona del Papa e dei cardinali,
levandoli addirittura dal mondo, e dimostrando il primo ai prelati
«quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro.» Ma noi non
dobbiamo qui fermarci, ad esaminare ciò che egli disse assai più tardi
in opere di un'indole affatto teoretica e scientifica. Questa Legazione
ci obbliga invece a fare un'altra osservazione. Colui il quale s'era
potuto esaltare accanto al Valentino, ammirandone l'astuzia e le arti
assai poco oneste, rimane ora quasi indifferente dinanzi a Giulio II,
che, nonostante molti difetti e molte colpe, aveva pure alcune parti
di vera grandezza. È certo che non solamente egli restò maravigliato
assai, vedendo che il Baglioni non osava resistere, profittando della
occasione propizia; ma la sua indifferenza verso il Papa fu tale,
che questa Legazione riesce una delle meno importanti, quantunque ci
sarebbe stato da aspettarsi appunto il contrario. Adempì strettamente
il dovere d'ufficio, senza trovare materia particolare di studio, senza
abbandonarsi a nessuna considerazione generale o estranea allo scopo
pratico del momento.

Il suo pensiero era in verità rivolto altrove, alla istituzione cioè
della milizia fiorentina da lui già iniziata; e però egli ardeva
del desiderio di tornare a casa per condurla a termine: ne chiedeva
infatti e riceveva continue notizie dal Buonaccorsi.[748] Inoltre
il Machiavelli aveva un disprezzo, quasi un odio singolare contro i
preti, e più specialmente contro i Papi, che secondo lui erano stati
sempre la rovina d'Italia. Era poi persuaso che l'uomo politico poteva
apprendere ben poco dallo studio fatto sui principati ecclesiastici,
perchè la loro forza, egli diceva, viene tutta dalla religione, ed essi
sono i soli che si mantengano sempre, comunque siano governati.[749]
Se l'autorità della religione e la potenza della Chiesa erano ancora
tali che un uomo perfido, accorto, audace come il Baglioni, si sentiva
spaventato dalla sola presenza del Papa, il Machiavelli non credeva
che da questo fatto potesse molto apprendere colui che cercava indagare
l'arte dell'uomo di Stato, e voleva nel fenomeno politico ritrovare le
cause _naturali_, le passioni _umane_ che lo producono. Ciò che era o
pretendeva essere divino usciva dalla sfera de' suoi studî prediletti,
e però non se ne occupava. Il fato, i capricci stessi della fortuna
potevano secondo lui essere soggetto di studio, non la volontà di Dio,
che, comunque si consideri, trascende sempre il nostro intelletto.
Quanto poi al generoso ardimento di Giulio II, che a 63 anni, nel
fitto della state, s'avanzava senza curarsi se cadeva in balìa del
nemico, questo non gli sembrava che fosse prova di vero accorgimento
politico. La prudenza e l'astuzia infernale del Valentino potevano
essere studiate come modelli dell'arte; ma la cieca audacia del Papa,
se poteva essere una sua virtù personale, non dimostrava le qualità
vere di un uomo di Stato, e quindi egli se ne occupava assai poco. Come
aveva separato il fenomeno politico dal morale, così separava anche
l'arte politica dal carattere individuale, privato di colui che la
esercitava, cercando in esso solamente le qualità utili o necessarie a
bene adoperarla.

E non si fermò neppure a descrivere come venisse allora ordinato il
nuovo governo in Perugia. Il 25 settembre scriveva da Urbino, che il
Papa era più caldo che mai nel voler compiere la sua impresa, la quale
era difficile prevedere dove e come andasse a finire, potendo egli,
se mancavano gli aiuti francesi, colla sua furia precipitare.[750]
I Veneziani lo aspettavano a qualche stretta, per farlo, con l'aiuto
del Re, venire alla voglia loro; altri affermavano invece che il Papa
avrebbe saputo condurre il Re, «tali sproni gli metterà ai fianchi...;
ma che sproni si abbino ad essere questi, io non li so.»[751] Certo
il 3 di ottobre Luigi XII s'era già chiarito pel Papa contro Venezia
e Bologna, e sei oratori di questa città erano in Cesena per trattare
della resa. Quando però essi gli ricordarono i capitoli firmati già da
più Papi, Giulio II rispose che non se ne curava punto, e non voleva
sapere neppur di quelli che avesse egli stesso firmati. S'era mosso
per liberare quel popolo dai tiranni, e sottomettere alla Chiesa tutto
ciò che le spettava; non facendolo, gli sarebbe sembrato di non poter
trovare scusa appresso Dio.

Sicuro ormai degli aiuti francesi, fatta in Cesena una mostra delle
sue genti, 600 uomini d'arme, 1600 fanti e 300 Svizzeri, chiese ai
Fiorentini che mandassero senz'altro indugio il Colonna co' suoi 100
uomini d'arme, essendo egli vicino a partire per Bologna.[752] Giovanni
Bentivoglio già cominciava a parlare di resa; ma quando propose che
il Papa entrasse in città colla sola sua guardia svizzera, questi,
in risposta, pubblicò una Bolla contro di lui e de' suoi seguaci,
dichiarandoli ribelli di Santa Chiesa, dando le loro robe in preda
a chiunque le pigliasse, concedendo indulgenza a chiunque operasse
contro di loro o anche li ammazzasse, e continuò il suo cammino.[753]
Non volendo ora toccar le terre usurpate dai Veneziani, andò da Forlì
ad Imola, passando pel territorio dei Fiorentini, di che dette loro
avviso, quando già era per passare il confine. Essi fecero nondimeno
tutto quello che potevano per dimostrargli amicizia ed ossequio.
Marcantonio Colonna ebbe da loro ordine di partire in ogni modo
il 17 per raggiungerlo; Niccolò Machiavelli s'avanzò, perchè in un
viaggio così rapido ed improvviso non mancassero al Papa le cose più
necessarie. I Dieci scrivevano poi in fretta a Piero Guicciardini,
commissario in Mugello, che Sua Santità s'avanzava: «Gli spedisse
incontro quattro o sei some del vino di Puliciano, e del migliore
che vi si trovava, qualche poco di trebbiano, qualche soma di caci
raviggiuoli buoni, e una soma almeno di belle pere camille.»[754]
Il Papa passò rapidamente per Marradi e Palazzuolo, dove tutto fu
pronto; il 21 era ad Imola e vi pose il suo quartier generale. Di
là il Machiavelli scriveva lo stesso giorno, che Sua Santità voleva
dal Bentivoglio resa incondizionata, e tutto faceva prevedere che
l'avrebbe. Se non che, divenendo ora lo stato delle cose assai più
grave, e dovendosi trattare delle condizioni generali d'Italia, era
necessario che fosse mandato al campo un ambasciatore. Il Papa lo aveva
chiesto, ed i Fiorentini gl'inviarono Francesco Pepi, che arrivò il 26
ad Imola, donde partì il Machiavelli per tornar subito a Firenze.

Il Bentivoglio avrebbe potuto respingere l'assalto, quando non fosse
stato in odio al suo popolo, che già s'era sollevato all'arrivo delle
Bolle papali, e non fosse stato abbandonato dalla Francia, che mandò in
aiuto di Giulio II 8000 uomini comandati da Carlo d'Amboise, il quale
s'impadronì subito di Castelfranco. I Bolognesi, temendo il saccheggio,
obbligarono il loro Signore ad andarsene il giorno 2 di novembre, e poi
inviarono messi ad Imola, per sottomettersi addirittura al Papa. Quando
però i Francesi volevano entrare, il popolo si levò a tumulto, andò
contro il campo nemico, mostrandosi parato alla difesa; e così obbligò
il Papa a licenziare l'Amboise, mediante buona somma di danaro, oltre
la promessa del cappello cardinalizio al fratello di lui. Giulio II
potè allora, il dì 11 novembre, entrare in Bologna trionfante come un
Cesare, in mezzo a cardinali, vescovi, prelati e signori delle vicine
città. Egli mutò subito il governo, istituendo un Senato di quaranta
cittadini, il quale durò poi lunghissimo tempo; rispettò gli Statuti
municipali; fece costruire una fortezza, e finalmente il 22 di febbraio
1507 se ne partì contentissimo d'essere così riuscito in tutto quello
che aveva voluto. Il 27 marzo arrivava pel Tevere a Ponte Molle, e
faceva poi la sua entrata solenne nella Città eterna. Questa impresa lo
aveva già innalzato, con maravigliosa rapidità, ad una grande altezza
dinanzi agli occhi de' suoi contemporanei.

Il Machiavelli intanto, giunto a Firenze, s'era già dato al suo lavoro
prediletto per la milizia. Da un gran pezzo egli s'era persuaso, che
la rovina degli Stati italiani veniva dal non avere essi armi proprie,
dal dovere perciò sempre ricorrere a soldati mercenarî. E si confermò
in questa sua idea ogni volta che, costretto ad andare in campo, potè
coi proprî occhi osservare il disordine, l'insolenza e la mala fede di
quei venturieri, nella cui balìa i magistrati si trovavano costretti
a rimettere la salute della patria. Aveva visto la forza acquistata
dal Valentino, quando «comandò un uomo per casa nelle sue terre,»[755]
formando così un grosso nucleo di soldati proprî. Tutti gli Stati
d'Europa che si facevano rispettare, come la Spagna, la Germania,
la Francia, avevano proprî eserciti, che fedelmente li servivano; la
Svizzera stessa, così piccolo paese, ma con libere istituzioni, era
riuscita ad aver la prima fanteria del mondo; perchè non potevano
gl'Italiani, i Fiorentini fare lo stesso? Non lo avevano fatto i
Comuni del Medio Evo; non se ne vedeva ora un debole esempio nella
pertinace difesa dei Pisani, dalla necessità educati alle armi; non
lo avevano sopra tutto fatto i Romani, maestri al mondo nelle arti
della pace e della guerra? Perchè non si potevano i loro ordini e
quelli degli Svizzeri imitare in Firenze; ed imitandoli, che dubbio
poteva esserci, che identici ne sarebbero stati gli effetti? Così
pensava il Machiavelli, e l'animo suo era a tali idee singolarmente
esaltato. Dare a Firenze, e più tardi forse all'Italia, armi proprie,
e con esse quella forza che loro mancava, quella dignità politica che
gli Stati deboli non hanno mai, fu d'ora in poi il sogno della sua
vita. A questo si dedicò con un ardore così disinteressato, con un
entusiasmo così giovanile, che il suo carattere desta adesso in noi
una simpatia, un'ammirazione che ancora non avevamo potuto provare per
lui. Il cinico sorriso del freddo diplomatico scomparisce dalle sue
labbra; la sua fisonomia si colorisce a un tratto, dinanzi ai nostri
occhi, di una seria e severa solennità, che ci rivela la fiamma d'un
sincero patriottismo, la quale arde nel suo cuore e nobilita la sua
esistenza. Come padre, come marito e come figlio, se poco abbiamo
trovato da biasimare in lui, poco abbiamo anche trovato da ammirare. I
suoi costumi non erano liberi dalle colpe del secolo. Come cittadino,
finora egli non ha fatto che servire fedelmente la Repubblica, con
quell'ingegno che la natura gli aveva così prodigamente largito. Ma
ciò non bastava a sollevare in alto il suo carattere. Lo abbiam visto,
è vero, nelle molte legazioni che gli furono affidate, non pensar mai
a valersi della opportunità, per farsi strada nel mondo; abbandonarsi
invece a cercare i principî d'una nuova scienza, con un ardore che
gli faceva dimenticare i suoi interessi personali, e qualche volta
trascurare anche i più piccoli affari che di giorno in giorno gli
venivano raccomandati. Ma questo era un disinteresse scientifico, di
cui infiniti esempî troviamo in mezzo alla corruzione del Rinascimento
italiano. Quando però il Machiavelli cerca di esaltare l'animo del
Gonfaloniere, per indurlo a fondare la nuova milizia, e scrive al
cardinale Soderini, perchè lo aiuti a persuadere di ciò il fratello,
e corre tutto il territorio della Repubblica, portando armi, arrolando
fanti, scrivendo migliaia di lettere, e si raccomanda che non lo levino
di mezzo ai campi ed agli armati, noi non possiamo in tutto ciò non
vedere la prova d'una sincera, d'una profonda abnegazione in favore del
pubblico bene. Come segretario e come uomo di lettere, che non seguì
mai il mestiere delle armi, non poteva da questo suo lavoro aspettarsi
alcun grande vantaggio personale, avanzare di grado nel proprio
ufficio. Suo unico movente fu quindi allora quel patriottismo, di cui
gli esempî cominciavano già a divenir troppo rari in Italia; ed esso
circonda perciò la sua immagine di un'aureola, che invano ricerchiamo
intorno a quella degli altri più illustri letterati del secolo.

Da quanto abbiam detto non segue però che sia opportuno esaltarsi qui a
segno da dimenticare gli errori o i difetti del Machiavelli, e neppure
da farne, come alcuni han preteso, un genio militare. La grandezza e la
originalità del suo pensiero furono in ciò quali possiamo aspettarci
da un patriotta e da un uomo politico, che aveva amministrato le cose
della guerra, e che, quando essa era molto più semplice che non è oggi,
s'era trovato spesso in campo, ne aveva a lungo ragionato col Giacomini
e con altri capitani del tempo; ma non aveva in nessun caso comandato
mai una compagnia. Il suo medesimo libro dell'_Arte della guerra_,
in cui sono tante osservazioni giuste, e tante idee originali, più
di una volta ci obbliga a ricordarci, che egli non era un capitano,
nè un soldato. Basterebbe la poca o nessuna fede che ebbe nei grandi
effetti delle armi da fuoco, che pur distrussero l'antica e crearono
la nuova tattica. Matteo Bandello, in uno dei proemî che pone alle sue
_Novelle_, racconta d'essersi un giorno trovato sotto le mura di Milano
con Giovanni dei Medici, il celebre capitano, più noto col nome di
Giovanni delle Bande Nere, e col Machiavelli. Questi, volendo dar loro
un'idea dell'ordinanza da lui tante volte così bene descritta, li tenne
al sole per più di due ore, senza poter mai venire a capo di mettere in
ordine 3000 uomini, tanto che, essendo già passata l'ora del desinare,
Giovanni, perduta la pazienza, lo mise da parte, ed in un batter
d'occhio, coll'aiuto dei tamburini, li ordinò mirabilmente in più modi.
Dopo di che il Machiavelli, a sdebitarsi del tempo che aveva fatto loro
perdere, raccontò a tavola una novella, che si legge appunto fra quelle
del Bandello.[756] L'aneddoto non si trova, è vero, ricordato nelle
storie; ma pur non ha nulla d'improbabile, ed in ogni caso può valere
a riconfermare, che ai suoi tempi l'autore dell'_Arte della guerra_,
da tutti ammirato come scrittore di cose militari, non era del pari
riconosciuto veramente pratico delle armi.

L'idea d'istituire una milizia propria c'era nella Repubblica da più
tempo; mancava però la fede nella riuscita, e questa fede ebbe il
Machiavelli. La pessima prova che facevano quasi sempre i comandati;
la viltà delle fanterie fiorentine che, nell'ultimo assalto alle
mura di Pisa, s'erano ricusate di presentarsi dinanzi alla breccia
aperta, avevano persuaso i più che ormai si dovesse contar solo sui
soldati di mestiere; ed era questa un'opinione che il Machiavelli
combattè sempre, sforzandosi di mostrare che tutto il male veniva
solo da mancanza di buoni ordini e di disciplina. Cercò innanzi tutto
persuaderne il Gonfaloniere, «e veduto che gli era capace, cominciò a
distinguergli particolarmente i modi.»[757] Ma quando l'ebbe persuaso,
si presentarono subito le mille difficoltà dell'attuazione, e prima la
diffidenza di coloro i quali temevano che il Soderini potesse o volesse
in questo modo farsi tiranno. Si ricorse quindi al prudente consiglio
di cominciare qualche parziale esperimento della nuova ordinanza,
sperando che i cittadini, vedendola alla prova, si convincerebbero
della sua utilità, e voterebbero i provvedimenti legislativi, necessarî
a renderla stabile e più generale, come di fatto avvenne più tardi.

Noi abbiamo uno scritto del Machiavelli, che ci espone per filo e per
segno le norme seguite in questo primo tentativo, norme che furono
poi approvate per legge. E da esse impariamo sempre più a conoscere
quanto diverse dalle nostre fossero le idee di quel tempo, e contro
quali enormi e spesso insuperabili difficoltà si dovesse combattere.
Prima di tutto egli afferma, come cosa la quale non meriti d'essere
discussa, che, volendo la Repubblica avere un esercito proprio (salvo
il comandante in capo, che doveva essere straniero, come poteva essere
ancora qualche altro ufficiale), era necessario che fosse comandato
solo dai Fiorentini, i quali soli dovevano formarne la cavalleria. Non
potendosi subito metter mano a questa, che era la parte più difficile
della nuova ordinanza, bisognava cominciare intanto col far le leve
di fanti fuori della Città. Ma il territorio si divideva in contado
propriamente detto, ed in distretti, cioè quelle parti che contenevano
grosse città, cui avevano obbedito prima che queste fossero, per
la forza delle armi o per libera dedizione, divenute suddite della
Repubblica. Sarebbe stato sommamente pericoloso dare le armi ai
distretti, appunto perchè in essi erano le città; e «li umori di
Toscana sono tali, che come uno conoscessi potere vivere sopra di sè,
non vorrebbe più padrone.»[758] Bisognava quindi contentarsi per ora
di armare solo il contado. Nè ciò bastava. La generale diffidenza era
tale e tanta, che ancora i conestabili eletti a comandare i drappelli
formati sotto le bandiere, non dovevano mai, secondo il Machiavelli,
essere dello stesso luogo dei fanti, e ogni anno bisognava mutarli,
perchè si temeva che altrimenti, affezionandosi troppo ai loro uomini,
avrebbero preso più autorità che non conveniva, e sarebbero divenuti
pericolosi.[759]

Or chi non s'avvede che dovevano mancare i primi e i più essenziali
elementi della forza ad uno Stato, nel quale tutte le città tendevano
a separarsi da quella che le comandava, e che, serbando per sè sola
la libertà politica, era di necessità condannata ad una grandissima
diffidenza verso quei medesimi sudditi, cui voleva poi affidare la
propria difesa? Ma il Segretario fiorentino alcune di queste difficoltà
non le valutava neppure, perchè secondo le idee del tempo non v'era in
esse nulla di anormale o d'insolito; altre sperava che si sarebbero
a poco a poco superate. Così, per esempio, egli scriveva che, dopo
avere armato il contado, si poteva forse, con qualche cautela, armare
una parte almeno del distretto. Nondimeno la sua fiducia in questi
nuovi ordini militari era illimitata, ed egli concludeva dicendo ai
suoi cittadini: «Vi avvedrete ancora a' vostri dì, che differenza è
avere de' vostri cittadini soldati per elezione e non per corruzione,
come avete al presente, perchè se alcuno non ha voluto ubbidire al
padre, allevatosi su per li bordelli, diverrà soldato; ma uscendo dalle
scuole oneste e dalle buone educazioni, potranno onorare sè e la patria
loro.»[760]

Animato da queste idee, egli non solo cercava infonderle direttamente
nell'animo del Gonfaloniere; ma si valeva anche dell'opera di coloro
che su di esso avevano autorità. Nel principio dell'anno 1506 scriveva
al cardinal Soderini in Roma, perchè persuadesse il fratello che solo
una severa giustizia nella Città e nel contado poteva essere la salda
e sicura base della nuova Ordinanza. Ed il cardinale rispondevagli
il 4 marzo: «Essere più che mai convinto che i fatti confermavano
la speranza nostra, _pro salute et dignitate patriae_; non potersi
dubitare che le altre nazioni siano divenute superiori a noi solamente
perchè ritengono la disciplina, la quale già da gran tempo è sbandita
d'Italia; nè debbe esser poca la contentezza vostra, che per vostra
mano sia dato principio a sì degna cosa.» E, secondando la domanda del
Machiavelli, il giorno stesso scriveva al Gonfaloniere, rallegrandosi
per la fede universalmente riposta nella nuova milizia, da cui ognuno
s'aspettava il rinnovamento delle antiche glorie, e ripetevagli appunto
che tutto dipendeva dalla buona disciplina, _quae plurimum consistit in
obedientia, maximeque fundatur in iustitia_. Concludeva poi, proponendo
che, per mantenere questa giustizia, si nominasse «qualche ministro
simile a Manlio Torquato, rigido e severo, el quale ne le cose liquide
proceda alla esecuzione de fatto, nelle altre lassi la cura alli
officiali.»[761]

La nuova milizia, essendo appena in formazione, non richiedeva ancora
un comando generale, e potevano gl'iscritti istruirsi sotto i loro
conestabili, di cui si fece qualcuno venire anche di fuori; ma v'era
pur bisogno di uno che comandasse con maggiore autorità, non foss'altro
per mantener ferma la disciplina generale, ed, occorrendo, punir
severamente i colpevoli. A questo fine si deliberò di eleggere, secondo
il consiglio dato o meglio fatto dare dal cardinale al Gonfaloniere,
un uomo pratico delle armi, e di reputazione. Ora chi crederebbe mai
che appunto il Gonfaloniere ed il Machiavelli, animati allora da un
così puro e nobile patriottismo, da tanta ammirazione per Manlio
Torquato, gli Scipioni ed i Camilli dell'antica Roma, pensassero
d'eleggere ad un tale ufficio lo spagnuolo don Micheletto, l'assassino,
lo strangolatore, il confidente del Valentino, colui che poco prima
la Repubblica aveva fatto prigioniero e mandato a Giulio II, come un
mostro d'iniquità, nemico di Dio e degli uomini? Eppure così fu. Il
fatto destò in sul principio qualche contrarietà nei magistrati e nei
cittadini, non per alcuna repugnanza morale, ma pel titolo di bargello
che si voleva dare ad un tale uomo,[762] e per tema che il Soderini
volesse farne un pericoloso strumento di tirannide. Il Machiavelli, che
ebbe incarico di tentare destramente l'animo di Francesco Gualterotti,
G. B. Ridolfi e Piero Guicciardini, che erano dei Dieci, per sentire
se volevano consentire a nominare don Michele, con 100 provvigionati
e 50 balestrieri a cavallo, li trovò infatti assai poco favorevoli; ma
quando, mutato il titolo di bargello in quello di capitano, la proposta
venne portata negli Ottanta, essa fu vinta dopo essere stata messa tre
volte a partito.[763]

In Romagna ed in Roma il Machiavelli aveva avuto occasione di conoscere
molto bene chi era don Michele. Lo aveva visto sotto il Valentino
comandare uomini raccolti dal contado, i quali non essendo soldati
di ventura nè di mestiere, avevano pur fatto assai buona prova nelle
fazioni; lo credeva perciò adatto a mantenere l'ordine e la disciplina
nella nuova milizia fiorentina. Non gli erano ignoti i delitti e
le iniquità da lui commessi, come non erano ignoti a nessuno; ma la
reputazione di sanguinario e di crudele gli pareva che giovasse anzi
che nuocere nel caso presente. Voleva che don Michele si facesse
rispettare e temere dai soldati; che, occorrendo, li conducesse dinanzi
al nemico, e col suo esempio, unito al nome della sua crudele severità,
li rendesse arditi e temuti nelle fazioni. Infatti, quando nel giugno
di quell'anno alcuni de' nuovi fanti, inviati al campo di Pisa,
non pareva che facessero buona prova, egli scriveva al commissario
generale Giovanni Ridolfi in Cascina, che «gli si mandava don Michele
con la sua compagnia di 100 uomini, per servirsene contro i Pisani, i
quali fanno poco conto di questi nostri fanti, di che vorremmo farli
ridire.» «Ed essendo dall'altro canto uso, mentre fu con il Duca, a
comandare e maneggiare simili uomini, pensiamo, quando si potessi, che
sarebbe da alloggiarlo costì con loro, acciò prima lui li praticassi,
e dipoi, bisognando correre in un subito in qualche luogo, fossi pur
presto con li suoi fanti insieme con loro, i quali, per averli veduti
e maneggiati in su le mostre, possono etiam meglio convenire costà
nelle fazioni.»[764] Questo era dunque il pensiero del Machiavelli; don
Michele doveva infondere il nuovo spirito militare nel giovane esercito
fiorentino! — Ma perchè, si può assai ragionevolmente qui domandare,
non chiamarono invece il Giacomini sempre fedele alla patria e valoroso
soldato? Come potevano mai credere un assassino capace d'infondere
in altri la vera disciplina, cioè l'onor militare? — Quando anche il
Giacomini non fosse allora caduto in disgrazia, assai difficilmente
avrebbero i Fiorentini dato mai ad uno solo dei loro cittadini grande
autorità sul nuovo esercito, e ciò sempre per la paura che non si
facesse poi tiranno. Come in altri tempi il Podestà, così ora volevano
che il capitano della guardia nel contado fosse uno straniero.

Questa milizia doveva dunque, secondo il Machiavelli, essere animata
da un vero patriottismo, e perciò composta d'uomini onesti e bene
educati; ma a chi era chiamato ad istruirla e comandarla bastava
aver solo l'arte a ciò necessaria, la quale non aveva nulla che fare
col carattere morale di lui. Spesso anzi la bontà dell'animo poteva
riuscire d'ostacolo a quegli atti severi o crudeli, che il capitano
come l'uomo di Stato sono pure costretti a compiere. Quella unità
tanto desiderabile fra chi guida e chi è guidato, quasi siano un corpo
solo con un'anima sola, la quale personifichi in colui che comanda la
coscienza di tutti, e faccia della sua condotta come la manifestazione
più intelligente ed elevata del pensiero comune, e della sua severità
stessa un atto di giustizia, il Machiavelli non la vide negli eserciti,
come non la vide nei governi. Anche il popolo della sua Repubblica
deve essere buono; ma esso poi perde quasi la propria coscienza,
per divenire nelle mani dell'uomo di Stato come una creta molle, cui
questi può dare la forma che più gli piace, se sa quello che vuole, e
conosce il modo di recarlo in atto, senza arrestarsi dinanzi ad alcuno
scrupolo. Calunnia atrocemente il Machiavelli o non lo conosce punto
chi dice che egli non ama, non ammira la virtù. Non bisognerebbe esser
nato d'uomo, ripete egli più volte, per non amarla, non ammirarla; e
le parole con cui la esalta hanno spesso tanta eloquenza, che nessuna
retorica potrebbe mai suggerirle, se non venissero veramente da una
profonda convinzione. Ma la morale era per lui, come per quel secolo
in generale, un affare del tutto individuale e personale; l'arte
di governare, di comandare, di dominare non era in opposizione,
ma indipendente affatto da essa. L'idea d'una coscienza e moralità
pubblica, intelligibile solo quando s'abbia già il concetto della unità
e personalità sociale, che ci fanno comprendere chiaramente come non
solo per gl'individui, ma anche per le nazioni, il vero governo sia
il governo di sè stessi, e come esso porti inevitabilmente seco una
propria responsabilità, questa idea mancava affatto al secolo XV, e
non si presentò mai chiara neppure alla mente del Machiavelli. Pel
Medio Evo gli eventi della storia, le trasformazioni della società
erano effetto della volontà divina, e l'uomo non ci poteva nulla;
pel Machiavelli invece il fatto sociale è divenuto un fatto umano,
razionale, che egli studia per conoscerne le leggi; e per lui le
vicende della storia son quasi sempre opera esclusiva dei principi o
dei capitani. La forza perciò che egli attribuisce all'arte dell'uomo
di Stato, alla volontà e prudenza di lui, alle istituzioni ed alle
leggi che può escogitare, se ha l'ingegno e l'energia necessarie, si
direbbe quasi che non abbia limiti.

E così potè facilmente persuadersi, che la nuova Ordinanza militare,
immaginata da lui secondo l'esempio degli Svizzeri[765] e dei Romani,
dovesse produrre infallibili resultati, purchè ne fossero fedelmente
e severamente seguite, rispettate le norme. Quando egli ebbe di ciò
persuaso il Gonfaloniere, si pose, fin dal dicembre del 1505, in
moto per la Toscana, con regolare patente, e cominciò ad iscrivere
fanti sotto le bandiere. Nel gennaio e febbraio la sua attività si
moltiplica, trovandolo noi ogni giorno in un luogo diverso[766] anche
alla metà di marzo, quando tornò a Firenze, donde, scrivendo infinite
lettere, continuò la medesima opera.[767] Come fu prima possibile, cioè
nel febbraio di quell'anno stesso, si fece una mostra di 400 uomini,
i quali condotti in piazza della Signoria, vestiti con colori diversi
e bene armati, piacquero moltissimo alla cittadinanza; e ripetendosi
l'esperimento di tanto in tanto, la nuova milizia divenne sempre più
popolare.[768] Alcuni di questi fanti furono, come dicemmo, mandati
anche al campo di Pisa, dove in verità non fecero prodezze, e don
Michele ebbe perciò ordine di raggiungerli con la sua compagnia.[769]
Sebbene neanche con ciò s'ottenessero grandi risultati, pure
nell'agosto si riuscì a qualche scaramuccia con successo non del tutto
infelice.[770]

In ogni modo, essendo l'Ordinanza ormai istituita di fatto, e già
venuta in favore del popolo, era necessario sanzionarla definitivamente
con una legge. Per questa ragione il Machiavelli scrisse la relazione,
cui abbiamo più sopra accennato. In essa espose come s'era nel contado
messo una bandiera in ogni podesterìa, nominando un conestabile per
ogni tre, quattro o cinque bandiere. V'erano in tutto già 30 bandiere
ed 11 conestabili, con più di 5000 uomini iscritti, che potevano
ridursi a minor numero, rinviando a casa i meno abili: di 1200 s'era
già fatta mostra in Firenze.[771] Dopo di ciò egli veniva col suo
scritto a provare la necessità d'istituire un nuovo magistrato, cui
fosse affidato l'ordinamento regolare della milizia. Il 6 dicembre
1506 fu nel Consiglio Maggiore approvata, con 841 fave nere contro 317
bianche, la Provvisione che creava i _Nove ufficiali dell'Ordinanza e
milizia fiorentina_, chiamati più comunemente i _Nove della milizia_;
e questa Provvisione non fece altro che sanzionare tutte quante le
proposte presentate dal Machiavelli. Eletti dal Consiglio Maggiore,
i Nove duravano in ufficio otto mesi, e dovevano iscrivere i fanti,
armarli, ordinarli, educarli alla disciplina, punirli, nominare
i conestabili, ecc.; appena però che fosse dichiarata la guerra,
l'Ordinanza doveva venire sotto la dipendenza dei Dieci.[772] La
stessa Provvisione istituiva il Capitano di guardia del contado e
distretto di Firenze, cui si davano ora solo 30 balestrieri a cavallo
e 50 provvigionati. Esso doveva stare sotto il comando dei Nove,
ed essere eletto come gli altri condottieri, con questo però, che
la elezione non poteva cadere sopra «alcuno della Città, contado o
distretto di Firenze, nè di terra propinqua al dominio fiorentino,
a quaranta miglia.»[773] I Nove vennero eletti il 10 gennaio 1507,
prestarono giuramento il 12, ed il 13 presero possesso dell'ufficio.
La Provvisione dava loro facoltà d'avere uno o più cancellieri, e come
era naturale, essi pigliarono subito a loro servizio il Machiavelli.
Con deliberazioni dei 9 e dei 27 febbraio rinominarono poi don Michele
capitano di guardia del contado e distretto, con i 30 balestrieri a
cavallo e i 50 fanti concessi dalla legge.[774]

Ed ora incomincia nella vita del Machiavelli un nuovo periodo, nel
quale egli entra sempre più convinto d'essere chiamato a restituire non
solo a Firenze, ma a tutta Italia l'antica gloria delle armi e l'antica
virtù. Una tale speranza egli era stato il primo, ma non era adesso più
solo ad averla. Il cardinale Soderini esprimeva la opinione di molti,
quando gli scriveva da Bologna il 15 dicembre 1506: «Parci veramente
che cotesta Ordinanza _sit a Deo_, perchè ogni dì cresce, non ostante
la malignità;» e continuando aggiungeva, che la Repubblica da lungo
tempo non aveva fatto cosa tanto onorevole come questa, che si doveva
tutta a lui.[775] E se ormai tale era l'opinione dei più autorevoli
suoi concittadini, non deve farci maraviglia il vedere che l'uomo,
cui tutti riconoscevano il merito della grande riforma, guardasse
l'avvenire pieno di speranza. Questa speranza di certo non si poteva
in tutto avverare, in parte anzi doveva esser solo una nobile e grande
illusione; nondimeno l'opera del Machiavelli riuscì più tardi di non
dimenticabile gloria alla Repubblica. Quando infatti nel 1527 Firenze
si trovò circondata ed assediata da innumerevoli nemici, allora il
suo amore di libertà venne riacceso dai seguaci del Savonarola, e la
Repubblica rinacque e fu eroicamente difesa da quella milizia, che era
stata consigliata ed istituita da Niccolò Machiavelli.



APPENDICE DI DOCUMENTI



DOCUMENTI



DOCUMENTO I.

(Pag. 243)

    _Lettera di Piero Alamanni a Piero de' Medici, nella quale si
    discorre della prossima venuta dei Francesi in Italia, e di ciò
    che a questo proposito diceva Lodovico il Moro. — 30 e 31 marzo
    1494._[776]


Magnifico Piero....[777] Stamani andai a Castello um poco innanzi
agl'altri, et lexi la lectera tua de xxiiij al sig. Lodovico, presente
il Chalcho,[778] la quale S. E. stette a udire con grande attentione.
Poi mi rispose: — Io non ho manco desiderio della amicitia vostra,
come altre volte vi ho decto, che voi diciate desiderare la mia, per
le ragioni altre volte narrate; et se io intendessi liberamente quello
che desiderate, come etiam più volte vi ho decto, non mancherei dello
offitio mio. Ma voi mi parlate pure di questa Italia, et io non la
vidi mai in viso; et non sento che di noi altri si faccia pensiero,
il che dà anchora a me confusione d'animo; et quando voi parlerete
liberamente con me, et che vi lasciate intendere, sempre troverrete
correspondentia. — Io li risposi: — Quanto al parlare delle cose
d'Italia, mi parea che si potessi intendere e' beneficii nostri,
benchè non si dicessi per expresso; a il lasciarsi intendere, che noi
li haviamo parlato molto liberamente: prima, che desiderando la pace
et quiete, la venuta de Franzesi per niente non ci piaceva, et più
preghavamo la Excellentia Sua che, come l'havea dato principio a dare
favore in Francia, che non havessimo a essere astretti a declaratione,
seguitassi. Ma ci dava bene grandissima molestia d'animo havere veduto
la Excellentia Sua dar principio a tante buone cose, et da poi in uno
subito mutarsi come ha facto, non ci conoscendo maxime alcuna nuova
cagione. —

La S. E. dixe, che poichè non era chi pensassi a' facti suoi, era
necessario che vi pensassi lui, et se non basteranno i Franzesi, sarà
necessitato aiutarsi et con Franzesi et con Tedeschi; et saltò a dire:
— Questi regii hanno usato dire, che il re Alfonso si farà innanzi
insino qua con la gente dell'arme; et che[779] havea scripto una
lettera che faceva intendere alla Maestà Sua, che, volendo muovere la
gente d'arme, facessi pensiero di non passare le terre della Chiesa,
perchè, quando volessi venire più avanti, li andrebbe all'opposito con
tucte le sue forze, et rimanderebbeli la figliuola a casa. — Ad questo
io risposi, che credevo che in questa proposta il Re farebbe pocha
perdita, perchè si stima che, venendo e' Franzesi con le spalle di S.
E., l'harebbe per nimica in ogni modo. — Replicò che non era obbligato
a' Franzesi, se non a cinquecento huomini d'arme. — Io li subiunsi, che
la E. S. havessi rispecto di non mettersi Franzesi in casa, perchè,
quando fussi imbarcato, li bisognerebbe andare a 500 et a 1000, et a
quella somma che paressi a loro. Et in su questo mi parve di toccarlo
umpoco più avanti, et dixi: Signore, io vi voglio parlare liberamente
come servitore, et ho caro ci sia presente messere Bartolommeo. Io vi
affermo quello che altre volte vi ho decto, che della città nostra et
di Piero in specie, la E. V. si può promettere come delle prime cose
che abbi, andando con quelli termini che ragionevolmente si conviene
alli amici. Dipoi le voglio ricordare amorevolmente, che consideri bene
in che termine si truovano le cose; et havendo quella autorictà che ha
di poterle posare, se è bene lasciarle schorrerle; perchè, quando pure
si venissi all'arme in Italia, o per mezo di Franzesi o altrimenti,
potrebbe accadere che non sarebbe poi in sua facultà poterle posare
quando li paresse, et ch'io ero certo, per la sua prudentia, ne
intendeva più di me. — Dixe: — A questa parte non voglio rispondere. Ma
che vorresti voi da me? Domandatemi liberamente ciò che voi vorresti,
et io vi responderò. — Dixi: — Che la E. V. mi chiarisca, che cagione
l'ha facto fare tanta mutazione: acciò che noi possiamo remediarvi,
se e' nascessi da noi. — Risposemi, la cagione essere che avendoci
richiesto d'uno scripto per la sicurtà,[780] etc., tu li havevi renduto
solamente buone parole; et che, veduto non era havuto consideratione
a' facti suoi, era constrecto pensarvi _ut supra_; accennando che non
li basterebbe anche starne alla sicurtà vostra sola; che si vede volle
ritornare a quello ti scripsi per l'ultime mie, che questi Signori non
li erano venuti a particulare alcuno, etc. Et subiunse: — Et anche vi
ricerchai per mio fratello della sicurtà delli Orsini, come sapete, che
benchè io sia disposto di queste cose di Roma non me ne travagliare,
pure tuttavolta non posso lasciare mio fratello.[781] — Io domandai
di nuovo: — Sono queste le cagioni che hanno facto mutare la E. V.?
— Dixe: — Sì veramente. — Risposili, parermi che la E. S. havessi
torto, concio sia che le lettere tue, dal mandare lo scripto infuora,
parlavano in modo che gli haveva molto bene potuto comprehendere lo
animo tuo buono; et intorno a questo m'ingegnai quanto potei farli
intendere la tua buona disposizione, nientedimeno con parole di natura
che non obligassino, et non togliessino speranza. Alla parte delli
Orsini: che la S. E. medesimamente haveva inteso, che tucta la autorità
che tu havevi con loro, la opereresti più volentieri per monsignore
Ascanio, che non faresti pel Cardinale tuo. Et compresi che, o per
le parole li haveva prima decte el Conte,[782] aggiunte quelle gli
havevo decte io, che furono più non ti scrivo per brevità, et delle
brusche et delle dolci, o perchè così fussi disposto, che gl'era volto
di cominciare a parlarmi liberamente, et per tornare in su quelli
ragionamenti buoni che ti scripsi. Et sopragiugnendo li ambasciatori
regii et venetiano, dixe: — Io voglio che ci riserbiamo a oggi a finire
questo ragionamento. — E diemmi la posta alle xx hore.

Non voglio lasciare di dirti, che nel sopradecto discorso egli toccò
pure qualche paroletta di quelle ha altra volta facto, se e' ti piaceva
tanta grandezza del Re;[783] et mostrando lui che 'l Papa se n'andava
alla volta di Sua Maestà, subiunse, che, non li bisognando più le
gente d'arme di questo Stato, le richiamerebbe, con dire che un altro
li farebbe forse un Concilio adosso come potrebbe lui; ma che essendo
in quella sede per loro, et havendolo beneficato (come hanno), non si
potevono sì presto ridire, et che se la Santità Sua non farà verso di
loro quello che è conveniente, non sarà per questo che li vogli fare
altro che bene.

Desinando, arrivò la tua de' xxviij con li advisi da Roma de' 26. Andai
a Castello alle xx hore, secondo l'ordine datomi; trovai el signore
Lodovico essendo con tucti e' consiglieri, che erono gran numero; et
per quanto ritrahessi da uno amico, erono in sull'accordo di Roma, che
ne haveva lettere di là, de xxiij, che gliene davono qualche fiuto,
ma non particolarmente, come intesi poi per la tua. Stette poco et
licenziolli, et fecemi chiamare, et trova' lo assai di buona cera.
Quando li lexi le particolarità dello achordo, si vide manifestamente
et mutarsi et risentirsi, et poi mi disse: — Ambasciatore, havetemi
voi a dire altro? — Risposi, che ero venuto per finire quello
ragionamento, come eravamo rimasti stamani. Dixemi, che era in sulla
medesima sententia di stamane, ciò è che s'era mutato per le cagioni
predecte. Quanto alle cose di Ascanio, ciò è delli Orsini, etc., non
ne dixe parola; ma che bene era xv o xx dì, che haveva scripto ad
Ascanio, che e' farebbe bene a venirsene di qua sotto ombra di venire
ad visitarlo, che riscontra che Ascanio si partirà di Roma. Entramo
dipoi nelle cose nostre di Francia, et promise più liberamente che
havessi ancora facto mai, di aiutarci sanza exceptione alchuna, et che
non era per fare a voi in queste occorrentie mercantìa, sì come non
vorrebbe che voi pensassi di volerla fare seco.... Mi tochò quest'altra
corda: che non li mancherà riconoscere el re Alfonso per cognato,
et il Duca di Calabria per nipote, et che dalla sera alla mattina lo
potrebbe fare....[784] Et vedesi manifestamente che lo adviso da Roma
li ha entorbidato in modo el cervello, che e' restò tucto confuso e
con grandissima suspensione, che mi persuado fussi cagione che non
seguitassi el ragionamento. Sarò domattina con la E. S., et farò quel
bene che potrò, et di tucto ti darò adviso. Et io non mi sono molto
curato che la sia ita per hoggi così, perchè non ho giudicato fuora di
proposito lasciarlo stare in questa concia, tanto che habbi resposta da
te come mi habbi a governare....

Come io ti ho tocho di sopra, costui si vede in tanta confusione di
animo, quanta io non credo che fussi mai alla vita sua; et per bene
che vedessi che il Papa era per accordarsi col Re, non stimò però mai
che l'accordo venissi con tanta securtà et reputatione del Re quanto
ha facto. Nè harebbe creduto che el Re si fusse lasciato andare a sì
gran partito col Papa, ciò è di dare Stati et sì gran provisioni al
figliuolo; et èccisi aggiunta la venuta subita del Vincula a Roma,
che interamente li ha tocho il cuore, et parli, quello che è il vero,
che ci sia andato assai della reputatione sua. Et per la sua natura
fumosa, et per havere parlato in sua gloria quanto ha facto a questi
tempi, questa bastonata è stata molto maggiore, e più li è doluta. Et
perchè tu intenda, qua, in fra e' suoi medesimi, ci ha tanto perso, che
non te lo potrei mai dire, benchè ci sieno molti che ne fanno fuoco
ne l'orcio. Et in effecto costui è tristo come una starna, et non
credo sia cosa alcuna, et fussi di che natura si vuole, vedendo fussi
a suo proposito, che e' non tentasse, che è pure da haverci qualche
consideratione. Et parmi ancora essere certo che buona parte del grado
tocchi a noi; et quando voi fussi in proposito di costà di non lasciare
andare le cose a totale disperatione, et di mantenervi costui, non so
se sia da lasciare transcorrere più in là, perchè, secondo el mio poco
iuditio, egli è in luogo che potrà molto bene conoscere, che quello
che si facessi procederebbe da altro che da paura et da minaccia, ma
da buona natura d'altri. Se noi giriamo tucta la buxula, si vedrà che
costui è necessitato o rimettersi nelli Ultramontani, et séguiti quello
che vuole, o reconciliarsi col Re nel modo che potrà, et temporeggiare
quanto potrà (et el Re per la natura sua et per posarsi, la doverìa
fare), o tentare qualch'altra via scandalosa, o veramente rassettarsi
et ritornare in fede et amicitia con voi, il che io credo senza dubio
nessuno, quando non havessi vergognosamente a mendicare, che sarebbe
volto a farlo, et sommamente lo desideri. Io col mio poco iuditio sono
nella sententia medesima che ti scripsi nell'altra, et crederrei quello
si aprovassi essere bene da farlo presto, in uno tempo a farlo in un
altro sarebbe grande differentia nell'averne o più o manco grado. Voi
siate prudenti, et in tutto vi resolverete bene, et _super omnia_ è
necessario che spesso spesso mi advisiate delle deliberationi vostre, a
fine che io possa di mano in mano accordarmi con quelle; chè vedi a che
termini strecti ci riduciamo.

Non lascerò di dirti che el signor Lodovico considerò molto bene
tucti quelli capi dello accordo, ad uno ad uno, più d'una volta; et
in su quella parola che dice, il Papa s'obliga difendere il Re contra
Franciosi et _quoscumque alios_, si fermò et replicò più volte quello
_quoscumque alios_, et mostrò considerarlo molto bene.

Tenuta a stamani a dì 31, che hiersera tornai tardi da Castello....

Postcripta. Deliberai, poi che tanto era soprastato il cavallaro, di
tenerla tanto che parlassi col sig. Lodovico. Et dixemi havere advisi
di Francia, che le cose procedono nel modo che advisano li ambasciatori
nostri, con quella caldezza, et che il Re insiste in voler venire in
persona. Dipoi mi dice, che Monsignore di Obignì era partito, et con
lui Perone di Baccie,[785] et già erano cominciate ad adviarsi le genti
d'arme, che sarebbono insino in ccc^to lancie....

Di sopra ti dico, che il sig. Lodovico mi aveva toccho di reconciliarsi
col Re, etc.; stamani ha decto a messere Ferrante, che in ogni modo
vuole aconciare le cose della Maestà del Re, et che li farà un servitio
el più relevato che si sia facto gran tempo fa a huomo in Italia.
_Ulterius_ li vuole dire un secreto con iuramento di grandissima
importantia, con promissione che la Maestà del Re non li faccia
risposta se non di sua mano o di mano del Duca di Calabria, perchè
non vuole che cancelliere nessuno l'habbi ad intendere. Questa è la
substantia di molte buone parole et liberalissime offerte ha facto
stamani a costoro, che sono molte più che insino ad hora habbi mai
facto: tucto non replico per non essere sì lungo....

                                  _Servitor devotus_ PETRUS ALAMANNI.


DOCUMENTO II.

(Pag. 263)

    _Lettera di Alessandro Bracci, ambasciatore fiorentino in
    Roma, ai Dieci, relativa all'uccisione del Duca di Gandia. — 17
    giugno 1497._[786]

_Magnifici Domini mei observandissimi._ Hieri diedi notitia alle S.
V. del miserando caso del Duca di Candia,[787] el quale fu sepellito a
ore 24 in Santa Maria del Popolo, et andò scoperto in sulla bara, con
non molta cerimonia di pompa funebre, et fu acchompagnato solamente
dalli oratori della Legha, excepto il Venitiano, et dalla famiglia
sua et del Papa, la cui Santità non resta di affliggersi, et non dà
anchora audentia a persona. Et per li ministri suoi di iustitia, et
per tucti li modi possibili di coniecture, di inditii et d'altro
non si attende se non a ricercare et investigare li auctori del
male, nè per anchora truovono cosa di fondamento: et se bene hanno
varie opinioni, non le riscontrano poi. El Ghovernatore et così el
Bargello sono entrati in più case, non _solum_ dove il Duca havea
qualche consuetudine manifesta, ma anchora occulta, non senza nota di
qualche persona da bene, con examinare famigli et fantesche, intra
li quali è suto il conte Antonio Maria Dalla Mirandola, per havere
una figliuola molto formosa, ma di buonissima fama: et questo perchè
è certissimo che el Duca fu morto non molto dischosto dalla casa
sua, la quale è poco lontana da luogho donde il Duca fu buttato in
fiume. Et è comune opinione, che chi ha voluto condurre alla rete il
povero signore, li habbi gittato innanzi questo logoro, et datoli
ad intendere che l'ordine fusse dato per quella sera, perchè colui
che li parlò stravestito, et che li montò in groppa, li ha parlato
altra volta in simile habito, et sempre di nocte per monstrarli bene
el secreto. Et stimasi che lo habbi pasciuto con vana speranza d'una
simile impresa, tanto che chi lo voleva giugnere al bocchone, havessi
l'esca bene preparata. Et certamente chi ha governata la cosa ha havuto
cervello et buono coraggio, et in ogni modo si crede sia stato gran
maestro. La Santità del Papa è immodo accesa alla vendecta, per quanto
si può intendere, che non è per lassare alcuno pensiero indietro,
per ritrovare li malfactori, et per valersi della iniuria, la quale
non li poteva essere facta nè più intollerabile nè maggiore, per le
circumstantie che la aggravono....

Et io mi rachomando humilmente alle S. V.

  Rome, xvij iunii 1497.

                                   _Servitor_ SER ALEXANDER BRACCIUS.


DOCUMENTO III.[788]

(Pag. 299)

    _Traduzione assai libera, fatta dal Machiavelli, d'un brano
    dell'_Historia persecutionis vandalicae_ di Vittore Vitense._

_Libro delle persecutione d'Africa per Henrico re dei Vandali, l'anno
di Cristo 500, et composto per San Victore vescovo d'Utica._ — Già sono
sexanta anni da questo tempo, che quello crudele popolo de' Vandali
entrò ne' confini d'Affrica, passando per lo stretto del mare, quale
è intra l'Africa et la Spagna. Venendo adunque questa generatione
di huomini, che erano fra piccoli et grandi, giovani et vecchi, più
che octocento mila, secondo che loro medesimi affermavano, acciò che
li huomini sbigottiti da tale numero pensassino meno a difendersi;
et trovando l'Affrica pacifica et quieta, piena di richeze et d'ogni
bene abbundante, non mancorno di alcuna ragione d'iniuria, così contro
alli huomini come contro al paese, perchè questo arsono et ruinorno
dovunche passavano, et li huomini rubavano, ammazavano, pigliavano ad
prigioni, et li facevono morire in carcere, con ogni ragione suplitio.
Nè perdonò la loro crudeltà alli arbori et ad le piante, et, che è
peggio, non lasciorno indreto le chiese, nè le sepulture de' sancti,
che tucte le arsono et disfeciono. Nè valeva ad li huomini nascondere
loro et loro cose per le valli o selve o caverne, perchè in ogni loco
erano ritrovati, et dipoi rubati et morti, et con maggiori odii et
maggiori persecutioni guastavano e' templi di Dio che le case de'
privati, et trovandole serrate, con le scure le assaltavono, come si
fa le querce ne' boschi, acciò che si potesse dire quel verso della
Scriptura: _Quasi in silva lignorum, securibus conscinderunt ianuas
eius; in securi et ascia deiecerunt eam, incenderunt igni sanctuarium
tuum._[789]

Quanti preclari[790] vescovi et prelati et nobili sacerdoti furono
morti con diversa ragione di suplicio, acciò che palesassino[791]
s'egli havevono o oro o ariento apresso di loro. Et non bastava che
dessino loro quello ch'egli havevono, perchè semple (_sic_) estimando
che ne potessino dare più, quanta maggior somma ne davono, tanto più li
tormentavano, mettendo ad alcuno del fango puzolente giù per la gola,
ad alcuni facevono bere acqua di mare, ad alcuni aceto, ad alcuno altro
sterco o feccia di vino, o qualunque altra cosa liquida et puzolente,
et di quelle li riempievono come otri, senza havere di loro alcuna
misericordia: nè perdonavano anchora alle donne o alle fanciulle.
Quivi non era consideratione di nobiltà nè di doctrina, non reverentia
di sacerdotio; ma queste cose facevano li animi loro più efferati;
et dove era più nobiltà et più grado, quivi si vedeva il loro furore
più esercitarsi. Quanti sacerdoti egregii, quanti huomini inllustri
(_sic_) si vedevono con pesi adosso, ad uso di cammegli et d'asini, e'
quali erano da loro con certi pungenti, come e' buoi, punzechiati, ad
ciò ch'eglino accelerassino el passo, de' quali molti socto la graveza
di detti pesi morivano. Non gli moveva ad misericordia la vechiaia,
non la pueritia; et infiniti fanciulli erano da' pecti delle madri
divelti o[792] mandati in captività, o presi per li piedi et bactuti
in el conspecto delle madri in terra, o veramente presi per le gambe,
et divisi infino al capo in due parti. Et potevasi in ogni loco dire
questo verso: _Dixit inimicus incendere se fines meos, interficere
infantes meos, et parvulos meos se elisurum ad terram_.[793]

Quelli edifitii che per lo splendore et grandeza loro non potevono
essere offesi dal fuoco, li distruggevono con la ruina, in modo che
l'antiqua belleza di molte città non apparisce niente come la era
già; et molte terre o da nessuno o da pochi sono habitate, et in
Cartagine si vede come e' teatri, le chiese, la via che si chiamava
celeste, et molti altri belli edifitii essere ruinati. Oltra di questo,
molte chiese che non destruxono, come la basilica dove sono e' corpi
di Sancta Perpetua et di Sancta Felicita, li accomodorno ad templi
della loro religione; et dove e' trovavano qualche ròcca o sito forte
che loro non potessino expugnare, e' vi ammazavono intorno di molti
huomini,[794] et conducevonvi di molti huomini morti, acciò che quelli
di drento fussin constrecti per il puzo o morire o arrendersi.

Quanti sancti sacerdoti fussino da costoro cruciati et morti non
si potrebbe explicare, infra e' quali el venerabile Pampinia[795]
(_sic_), vescovo della nostra città, con lame di ferro ardenti fu
tucto dibruciato, et similmente Mansueto fu arso in su la porta decta
Fornitana. Et in quel medesimo tempo la città di Ippona era assediata,
della quale era vescovo sancto Agostino, huomo degno di ogni laude,
perchè el fiume della sua eloquentia correva per tucti e' campi della
Chiesa; ma in quel tempo adverso si veniva ad sechare, et la dolceza
del suo parlare era convertita in amaro absentio, et verificavasi quel
detto di Davit: _Dum consisteret peccator adversum me, obmutui_.[796]
Infino a quel tempo lui haveva scripto dugento trentadue libri,
oltre alle innumerabili Epistole ch'egli haveva facte, insieme con la
expositione di tucto el Saltero et de' Vangelii,[797] le quali sono
decte ordinariamente Omelìe; el numero delle quali non si potrebbe
appena comprendere.

Che bisogna dire tante cose? Dopo molte crudeli impietà, Gisserico
expugnò et obtenue la bella et grande città di Cartagine, et quella
antiqua, ingenua et nobile libertà riduxe in servitù, perchè fece servi
tucti e' Senatori d'essa, et propose uno decreto, che ciascuno dovessi
portagli tucto l'oro, pietre pretiose et vestimenti richi ch'egli
havessi: et così in breve tempo li huomini si privorno delle robe che
'l padre et l'avolo havieno loro lasciate; perchè e' divise infra sua
soldati tucte le provincie, riservandosi ad sè le principali, anchora
che Valentiniano imperadore ne difendessi alcuna, le quali poi furno
medesimamente occupate da Gisserico dopo la sua morte. Nel quale tempo
egli occupò tucta l'Affrica insieme con l'isole che sono tra quella
et l'Italia, come la Sicilia, la Sardigna, Maiorca et Minorica, le
quali occupò et difese con la sua consueta superbia; nondimanco poi la
Sicilia a Clodoacro re d'Italia, con reservo di certo tributo.[798]
Facta che Gisserico hebbe questa distributione, comandò ad tucti e'
Vandali, che cacciassino tucti e' vescovi e tucti e' nobili de' luoghi
et terre loro, il che fu facto in dimolti lati: et noi conoscemo et
vedemo essere servi de' Vandali molti nobili vescovi et honorati et
clarissimi huomini.

In quel medesimo tempo el vescovo della detta cictà di Cartagine,
chiamato _Quodvultdeus_, insieme con una gran turba di cherici furono
spogliati et posti sopra certi navilii, et cacciati d'Affrica, e' quali
per miseratione di Dio si conduxono ad Napoli in Italia, e' quali,
cacciati di facto, la chiesa loro nominata Restituta, nella quale
sempre facevono residenza e' vescovi, la consacrò alla sua religione.
Et tucte l'altre chiese, così drento alla città come fuori, spogliò,
et in particulare due grandi et belle chiese, di San Cipriano martire,
l'una, dove lui sparse el sangue, l'altra dove fu sepolto, el quale
luogo si chiama Mappalia. Chi potrebbe sanza lacrime ricordarsi, come
questo crudele tiranno comandava, ch'e' corpi de' nostri sancti, sanza
solennità di salmi o altre cerimonie ecclesiastiche, fussino sepelliti?

Et mentre che queste cose si facevano, quelli sacerdoti delle decte
provincie che lui haveva divise, e' quali ancora non erano iti in
exilio, deliberorno d'andare ad trovare il Re, et suplicare che dovessi
havere compassione di loro. Et così, sendo tucti convenuti, andorno ad
Re, che era questo al lito Maxilitano, suplicandolo che per consolare
el popolo di Dio, e' dovessi essere loro dato solamente facilità di
potere habitare in Affrica, et mendicare la vita loro. A' quali dixe el
Re: — Io ho deliberato del nome et generatione vostra non ne lasciare
alcuno, et voi havete ardire di domandarmi gratia? — Et voleva farli in
quel medesimo punto gittarli tucti in mare, se non fussi suto da' suoi
baroni lungamente pregato, che non volessi fare questo male. Fattisi
loro maninconosi et afflicti, cominciorno, come potevano et dove
potevano, administrare e' divini misterii.


DOCUMENTO IV.

(Pag. 300)

    _Lettera che non ha firma, nè indirizzo, nè data;
    trascritta dal Machiavelli, ma non sua; accenna ad affari di
    famiglia_.[799]

_Carissime frater_. Sabato fece 8 dì, ti scripse,[800] dandoti
notizia come e' ci pareva da pensare di far San Piero in Mercato
litigioso,[801] come hanto da messer Baldassarre per simonìa, perchè 'l
piovano vechio non volle mai cedere alla renuntia, se non haveva cento
ducati da Pèro, et di questo ce ne è tanti testimoni et sì autentici
et sì disposti al provare, che se questa cosa si dà in accomandita ad
chi voglia la golpe, el priore ci ha una speranza grandissima, et crede
che sia costì chi ci attenderà. Messesi innanzi messer Pº. Accolti o el
Cardinal di San Piero in Vincula o messer Ferrando Puccietti.

Ad me pare che tu ti ingegni di tòrre huomo che _non solum_ sia atto
ad favorire la causa, ma anchora ad spendere di suo, et che dal canto
nostro non corra spesa; et più tosto convenire collui grassamente,
purchè e' titoli una volta rimanghino: dell'altre cose.... mettile
ad tuo modo, perchè la spesa si lievi da dosso ad noi, et che
altri....[802] colli favori et con la industria et con danari. Dal
canto nostro puoi offerire la simonìa certa, la contenteza de' 2/3
de' padroni, la possessione facile, le pruove della simonìa vera et
autenticha, le quali son tucte cose da farci correre un di cotesti
cortigiani, che non sogliono attendere ad altro che ad simile imprese,
quando e' ne possono havere. Et tu sai che per la soddomia, che è causa
più ingiusta, sono molti che hanno e' benifitii litigiosi, et assai
li hanno perduti. È costì messer Giovanni delli Albizi, che è huomo
d'animo: penserai se ad questo tu potessi valertene in cosa alcuna.
Nicholò nostro ci farà tucti quelli favori che saranno possibili, et
parli mill'anni vedere el fummo di questo fuoco. Le altre letere si
mandorno per la via dello 'mbasciatore, et harai ricevuto la cifera,
con la quale hora ti scrivo. Di nuovo ti ricordo el mettere in questa
impresa huomo che spenda et habbi favori da sè. _Vale._[803]


DOCUMENTO V.

(Pag. 305)

    _Lettera del professore Enea Piccolomini intorno a due scritti
    del professore Triantafillis, nei quali si sostiene che N.
    Machiavelli conosceva la lingua greca._[804]

  Pregiatissimo sig. Professore,

Fino da quando Ella mi fece conoscere lo scritto del professor
Triantafillis intitolato: _Niccolò Machiavelli e gli scrittori
greci_ (Venezia, 1875), nel quale è provato con tutta evidenza che il
Segretario fiorentino si valse di Polibio nei _Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio_, della _Orazione d'Isocrate a Nicocle_ nella dedica
del _Principe_, e dell'opuscolo di Plutarco _Del non adirarsi_ nel
Dialogo _Dell'ira e dei modi di curarla_; mentre mi parve importante
che per siffatte indagini fosse posta in chiaro la cognizione e l'uso
che il Machiavelli ebbe della materia trattata dagli scrittori greci,
non seppi liberarmi da un certo sentimento di meraviglia, accorgendomi
come il prof. Triantafillis ne inferiva che esso avesse attinto
direttamente ai testi greci, e che per conseguenza ben conoscesse
la lingua greca. A chiunque ponga mente alle condizioni degli studî
classici in Italia nei secoli XV e XVI, non può sfuggire che fu
principale opera degli ellenisti italiani di quel tempo di propagare
per mezzo di traduzioni latine i monumenti della letteratura greca;
come ancora, che una gran parte di quelle versioni che allora andavano
manoscritte per le mani di molti, o non fu mai stampata e rimase
obliata nelle biblioteche, o andò perduta dal momento che si spense in
Italia il fervore per gli studî classici. Conseguentemente, le prove
addotte dal prof. Triantafillis, che cioè i frammenti del VI libro di
Polibio non fossero tradotti in latino prima del 1557, nè l'opuscolo
di Plutarco prima del 1525, non essendo appoggiate ad altra autorità
che a quella del _Lexicon Bibliographicum_ dell'Hoffmann, mi parvero
affatto prive di valore rispetto all'asserto, per il quale l'autore
se ne serviva. Questa convinzione che io mi era formata _a priori_,
trovò piena conferma appena ebbi agio di far qualche ricerca nelle
biblioteche fiorentine.

Rispetto dunque al Polibio, posso affermare che anche i frammenti
del libro VI erano tradotti in latino fino dal principio del secolo
XVI; essendosi occupato della versione del brano sulla milizia dei
Romani Giovanni Lascaris, come attestano Filippo Strozzi e Bartolomeo
Cavalcanti, che poco appresso volgarizzarono quel medesimo brano; e
leggendosi anc'oggi nel Cod. Laur. 40 del Plut. 89 inf. una traduzione
latina di Francesco Zefi del frammento sulle forme degli Stati. Alcune
notizie intorno allo Zefi sono date dal Bandini, _Catalogo dei Mss.
latini della Laurenziana_, vol. III, pag. 401, nota.

Egualmente una traduzione latina antichissima dell'opuscolo di
Plutarco, corretta e raffazzonata nello stile da Coluccio Salutati,
si trova nel Cod. 125 della biblioteca del Convento di Santo Spirito,
ora Laurenziano. Nel Cod. 40 tra quelli provenienti dal Convento di
Ognissanti questa versione è attribuita senz'altro al Salutati.

Del discorso di Isocrate a Nicocle non ho trovato una versione
più antica di quella che da Giovanni Brevio fu intitolata al duca
Alessandro de' Medici, e che si trova nel Cod. 67 Mediceo-Palatino,
oggi Laurenziano.

Una seconda pubblicazione del prof. Triantafillis (_Sulla vita di
Castruccio Castracani descritta da Niccolò Machiavelli_: Venezia, 1875)
è intesa a provare come il Machiavelli si valesse eziandio di Diodoro
Siculo e di Diogene Laerzio.

Quanto alle _Vite_ di Diogene Laerzio, è ben noto che Ambrogio
Traversari le tradusse in latino. Le biblioteche di Firenze hanno
esemplari manoscritti a dovizia di questa traduzione, che del resto fu
messa a stampa già nella fine del secolo XV.

Dei libri XIX e XX delle _Storie_ di Diodoro, che contengono la
narrazione verace dei fatti di Agatocle, sopra la quale dimostrò il
Triantafillis essere stata composta dal Machiavelli quella favolosa dei
fatti di Castruccio, una versione latina che potesse essere adoperata
dal Machiavelli non mi è nota. Poggio Bracciolini non voltò in latino
che i primi cinque libri di Diodoro. Un'altra versione di anonimo
dedicata a Pio II (non già fatta da lui, come erroneamente fu creduto
da alcuni, perchè egli stesso si lagna nelle epistole di non sapere
di greco) si trova nel Cod. Laur. 10 del Plut. 67; ma non va oltre
il libro XIV. Nondimeno questa versione inedita e poco conosciuta
basterebbe a provare che siffatte ricerche, se non condurrebbero
ad un risultato definitivo quando pur comprendessero le collezioni
dei manoscritti (niuna delle quali è pervenuta sino a noi nella sua
integrità), riescono poi affatto illusorie quando non si estendano
oltre le cose messe a stampa.

Certo è pertanto che al tempo del Machiavelli erano già voltati in
latino i frammenti del VI libro di Polibio, le _Vite_ di Diogene
Laerzio e l'opuscolo di Plutarco: nè è inverosimile che a quel tempo
già esistessero traduzioni del discorso d'Isocrate e dei due libri di
Diodoro. Non è dunque da escludere la possibilità che il Machiavelli
attingesse alle traduzioni latine anzichè ai testi greci, restando però
intatta la questione se e quanto egli sapesse di greco; per risolvere
la quale non mi sembra che abbiamo dati sufficenti. Positivo e pratico
parve a me di ricercare, mettendo a confronto i luoghi del Machiavelli
dal Triantafillis indicati, con il testo greco e con le antiche
versioni latine, se egli si valse di quello o di queste. E tralasciato
il confronto del dialogo, sull'autenticità del quale cade qualche
dubbio, presi infatti ad esaminare quelli tra i detti memorabili della
vita di Castruccio, che sono foggiati sopra gli apoftegmi da Diogene
Laerzio attribuiti al filosofo Aristippo, e il frammento di Polibio,
del quale il Machiavelli fece suo pro nei _Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio_. Sennonchè nè rispetto al Diogene Laerzio, nè
rispetto al Polibio, mi fu dato di giungere ad un risultato per me
soddisfacente, cioè sicuro e definitivo. Nè ciò è da far meraviglia
se si considera che il Machiavelli, piuttosto che tradurre, imita
liberamente i due scrittori greci, di rado gli segue da vicino; mentre
le interpretazioni del Traversari e dello Zefi sono così letterali, che
difficilissimo è decidere se l'imitatore attinse, come io suppongo, sia
da quelle sia da altre versioni latine, oppure dal testo greco, come
crede il professor Triantafillis.

Mi creda con distinto ossequio.

  Pisa, 11 novembre 1876.

                                                      Suo devotissimo

                                                      E. PICCOLOMINI.


DOCUMENTO VI.

(Pag. 325)

    _Lettere di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli in Forlì.
    — Luglio 1499._


1[805]

Chiarissimo Niccolò. Benchè dopo la partita vostra di qui non sia
accaduto cosa di molto momento, nè che io reputi degnia di vostra
notitia, _tamen_ non voglio obmectere darvi notitia come le cose vadino
circa la impresa nostra di Pisa, le quali sono cominciate immodo ad
riscaldare, che indubitatamente si può dire habbino ad havere quello
fine che merita una impresa tanto iusta quanta è questa; perchè, come
sapete, Giovanni di Dino tornò di campo, il quale era ito per intendere
a punto l'animo et intentione di quelli Signori, dove si risolveranno,
et circa il danaio volevono loro, et la somma de' fanti et il numero
delle artiglierie et altre cose necessarie a simile expeditione; et
tornò al tucto instructo et benissimo resoluto, et le cose chiese per
parte del Capitano et Governatore sono state tucte approbate, perchè in
vero sono state tanto giuste et tanto honeste, che ciascuno ne è rimaso
contentissimo. Et perchè intendiate ad punto la somma del danaio,
vogliono fra amendua di presente, cioè innanzi alla expugniatione di
Pisa, e' ducati dodicimila di grossi, il che sapete quanto è stato
fuora della intentione di omni uno, che si stimava molto maggiore
somma. Hora la principale cosa era questa, la quale è ferma, le altre
cose sono ordinarie; et di già si è incominciato ad fare li fanti, et
mectere ad ordine tucte le altre cose necessarie, le quali il signore
Capitano vuole che _omnino_ sieno in campo a dì 28 del presente,
che vuole il primo dì d'agosto senza manco accamparsi; et se al dì
disegniato de 28 dì, non saranno le cose ad ordine, che possa uscire ad
campo il dì dallui disegniato, dice non si moverà poi, se non a dì 13
di agosto: sì che qui con omni sollicitudine si attende sieno expedite
il sopradecto dì 28, etc., le quali io stimo certamente saranno, in
modo si sollicitano, che a Dio piaccia.

Qui ci è di nuovo come il Duca di Milano ha richiamato da Roma
Monsignore Ascanio che vadia ad stare in Milano, perchè lui vuole
cavalcare a' confini, et in persona trovarsi in campo. Et benchè noi
non habbiamo più lettere di Francia, per esserci intercepte, etc.,
_tamen_ per le private si intende il Re a dì X di questo essere
arrivato a Lione, et con pompa grandissima: et il transferirsi la
persona del Duca in campo è segnio che la cosa riscalda troppo, come
_etiam_ è da credere.

Da Roma ci è come lo agente del Re Federigo residente quivi, dicendo
al Papa, che bisognava che Sua Santità pensassi ad rimediare alli
disordini di Italia, etc., li espose, lo haveva facto et farebbe;
et decto agente replicò che bisognava uscire de' generali, et che
il suo Re non voleva essere giunto al sonno, et che pareva che Sua
Santità più tosto cercassi la ruina d'Italia che la salute di quella,
con altre parole più ingiuriose. Lui respose reprehendendolo della
poca reverentia che elli usava a Sua Santità, et più oltre che il Re
passerebbe in Italia, in modo sarebbe per opporsi et al Turco et a omni
altro, et expugniare Milano, etc.

Da Vinegia non ci è altro: accadendo, ve ne farò parte, etc.

Scrivendo, sono comparse lettere di là, et in effecto del Turco non si
intende altro, se non grande scorrerìe et prede, per non essere anchora
giunta l'armata, la quale dicono è cosa grandissima, etc.

Io vi conforto ad tornare più presto potete, che lo stare costì non fa
per voi, et qui è uno trabocho di faccende tanto grande, quanto fussi
mai.

Tra lo havere ad scrivere fugiasco, et essere impedito quanto è
possibile, non posso fare mio debito, et altro non mi accade, se non
recomandarmivi, et di nuovo dirvi come le cose di Pisa si sollicitano
quanto più è possibile, ad ciò sieno ad ordine a dì 28, etc. _Bene
valete._

  Ex Palatio, die xviiij iulii MCCCCLXXXXVIIII.

                                                  _Servitor_ BLASIUS.

  _Al suo honorando Niccolò Machiavelli,_
    _Dominationis Florentinae Secretario_
    _dignissimo._
                          _Forlivii._


2[806]

Che io non sia adirato, et che sempre mantenga la fede mia, ve ne
faranno buona testimonianza li advisi et de' Turchi et Franzesi, li
quali saranno inclusi nella publica;[807] chè, benchè sia stato un
poco dificile, pure mi parse meglio farlo per via publica che privata,
benchè anchora io _private_ vi advisi di qualche cosetta, et così
mi sforzerò, Niccolò mio, di fare mentre sarete costì. Ma vi fo fede
che se qui fu mai faccende, hora trabochano; sì che, se non fussino
scripte le mia lettere come si richiederebbe, harete patientia, et
voi con la industria et ingegno vostro ne caverete più constructo vi
fia possibile; et quando harò punto di tempo, più vi scriverrò, et più
ad pieno et più distincto, benchè io non credo habbiate ad soprastare
costì molto tempo, che qui è nicistà de' casi vostri.

Et quanto al fuggirmi et venire costà, se havessi voluto fussi
venuto, non bisogniava mi indugiassi ad hora, chè farei fare uno viso
a ser Antonio della Valle,[808] che parrebbe non havessi ritenuto
l'argomento; che se farete a mio modo, recherete assai acqua rosa per
rinvenirlo, che qui non si sente altri che lui; et di già ci ha facto
lavare il capo a' nostri Magnifici Padroni, et da maledecto senno:
che li venga il cacasangue nel forame! Pure la cosa è qui, et quattro
fregagioni hanno assettato omni cosa. In effecto tucti vi desideriamo,
et sopra omni altro il vostro Biagio, il quale a omni hora vi ha in
bocha, et parli omni hora un anno, come non pareva a voi quando lui
era fuori, il che credo habbia ad essere il riscontro di quelli stratiò
lui, etc.[809]

Io non dubito punto che la Ex.^tia di Madonna[810] vi faccia quello
honore, et vi vegga lietamente, come ne scrivete, _maxime_ per più
respecti, li quali al presente non replicherò per non essere tedioso,
chè presto vi verrei ad noia.

A mio iudicio voi havete exequito insino a hora con grande vostro
honore la commissione iniunctavi, di che io ho preso piacere
grandissimo, et di continuo piglio; ad ciò si vegga ci è altri anchora,
che benchè non sia così pratico, non è inferiore a ser Antonio, etc.,
che gonfiava così; sì che seguitate, chè insino ad hora ci havete facto
grande onore.

Io vorrei per il primo,[811] mi mandassi in su uno foglio ritracta la
testa di Madonna, che costì se ne fa pure assai; et se la mandate,
fatene uno ruotolo ad ciò le pieghe non la guastino. Et altro al
presente non mi occorre, se non recomandarmi et offerirmi a voi, etc.
_Bene valete._

  Ex Palatio, die xviiij iulii MCCCCLXXXXVIIII.

                                     SERVITOR _Blasius Bona_: CANCEL.

  _Al suo honorando Niccolò Machiavelli,_
   _Dominationis Florentinae dignissimo_
   _Secretario._
                          _Forlivii._


3[812]

_Spectabilis vir et honorande patrone_, etc. Per le mani di messer
Marcello mi fu presentata una vostra, la quale mi fu nel numero delle
altre cose vostre oltre ad modo grata, come di quello che io amo sopra
tucti li altri di, etc. Et perchè intendiate in che modo ci fu lavato
il capo da' nostri padroni, ad ciò siate anchora advisato de' casi
della Cancelleria, _brevibus accipite_. Ser Antonio, come sapete, è
in omni minima cosa impedito, et non ci sendo noi la mattina così ad
buona hora, et la sera non stando insino alle 3 hore, ne fe' querela
grandissima; donde la mattina, chiamati al conspecto de' Signori,
fumo pure honestamente admoniti, etc. A che fu resposto prima per lo
Alphano, dipoi per il grande ser Raphaello,[813] tanto bestialmente
quanto fussi possibile, benchè fussi lasciato dire ad suo modo. Et
prima dixe,[814] che Loro Signorie havevono preposto a quello officio
uno che haveva poco obligo con la natura, et che non sapeva dove si
era, et che quando fussi conmesso a lui farebbe cose grande, maggiore
di lui; et così molte altre cose et parole più iniuriose, etc., immodo
che lo essere prosumptuoso li è giovato, che a omni hora è chiamato
da' padroni, etc. Et io sono et da Marcello et da omniuno sbattuto,
et stomi _continue_ ad pregare et sollicitare che ne vegniate, chè
ce n'è di bisognio; et _tandem_ io ho voluto giucare il resto con lo
amico, et dectoli lo servirò infino alla tornata vostra, et poi voglio
ritornare al mio luogo, cioè ad scrivere con voi. Et così mi sto da me,
et se non mi è decto, non parlo a persona; in modo s'è adveduto già lo
amico, che mi ha iniuriato et non poco; et questo fu che a una certa
lettera mi vagliò,[815] et comandò non mi fussi decto cosa alcuna, il
che sarà l'ultima volta, perchè mi chiama sei volte inanzi responda;
ma io ho disposto l'animo, et così voglio seguire mentre ci starò. Et
voi conforto ad expedirvi con quanta più presteza si può, chè non è
il facto vostro ad stare costì, di che a bocha vi raguaglierò; così di
molte altre cose, et di Marco anchora, il quale ha sentito molto lodare
le vostre lettere, et omni dì viene ad fiutare et sbottoneggiare; ma vi
possete presummere per certo, li resposi in modo non me ne parla più,
nè me ne parlerà per lo advenire: et credo conoscerete nel fine chi è
stato et è Biagio, et basti. Alla tornata saremo insieme, et potremovi
conferire di quelle cose, pure nostre, che ad scriverle sarebbe lungo,
etc.

Con messer Marcello, circa il respondervi presto, etc., non vi sono più
buono nè voglio essere, sì che cercate altro mezo, et quello potrò fare
io, sapete non sono nè sarò mai per mancare, come a quello al quale
sono sommamente obligato.

Qui ci è di nuovo come il Re ha rotto a Milano, et messer Gianiacopo
ha facto certe scorrerìe, ma non di danno, secondo habbiamo; et il
Re, quanto più vede il Duca[816] prepararsi, tanto più si accende alla
impresa.

Li Svizeri et Alamanni sono venuti a questi dì alle mani, et chi se ne
habbia havuto il meglio, non si può sapere il vero, come vi è noto,
perchè donde viene, se è amico, la fa grassa, et _e converso_: pure
stimiamo per più riscontri li Svizeri havere havuto il meglio.

L'armata del Turco uscì fuora dello strecto, et stimasi vadia ad ferire
ad Napoli di Romanìa: è cosa grande, secondo si intende. Così quella
Signoria[817] ha facto grande preparationi per defendersi, et anchora
ha cominciato ad dare danari alle gente d'arme vuole adoperare in
Lombardia, ad rompere a Milano, che dicono vogliono servare le promesse
al Re, etc. Dio lasci seguire il meglio.

La impresa nostra di Pisa va di bene in meglio, et questi M.^ci S.^ri
non restono nè dì nè nocte di fare le provisioni necessarie et di
danari et di omni altra cosa, et di già hanno ad ordine quasi tucti
li fanti, in modo si stima certo Pisa essere presso che in potestà
di questa M.^ca S.^ria, benchè loro sieno per ancora durissimi, etc.
Ben sapete che ser Philippo Radichi monstrò tanti disegni, che elli
andò Commissario in Lunigiana ad sgallinare,[818] et sovi dire farà il
dovere. _Nec alia._ A voi mi recomando et offero, etc.

  Florentie, die xxvij iulii MCCCCLXXXXVIIII.

                                                  _Servitor_ B., etc.

  _Al suo honorando Niccolò Machiavelli,_
    _D. F.^tie Secretario dig._
                         _Forlivii._


DOCUMENTO VII.[819]

(Pag. 329)

    _Lettera dei Dieci di Balìa a Paolo Vitelli, per esortarlo
    all'espugnazione di Pisa. — 15 agosto 1499._

_Illustri Capitaneo Paulo Vytello. Die xv augusti 1499._ — Anchorchè
la Signoria Vostra, per mezo de nostri Comissarii, habbi più volte
inteso lo animo et desiderio nostro, et che quella, per la sua innata
affectione verso della nostra Excelsa Repubblica, non habbi bisogno
di essere altrimenti pregata et exortata ad expedire quelle chose
che ci habbino a tornare in utilità et honore maximo; _tamen_ per
lo offitio et debito nostro non vogliamo omettere di scrivere alla
Signoria Vostra, et monstrarle come li infiniti oblighi habbiamo con
seco, e' quali, non sendo necessarii, non rianderemo altrimenti,
richieghono di corroborarsi con questo ultimo della recuperatione
di Pisa, per la quale _potissimum_ li fu concesso lo arbitrio delli
exerciti nostri. Et veramente quando noi pensiamo con noi medesimi
la somma sua virtù, et quanto felice exito habbino auto e' preteriti
sua conati, noi non dubitiamo in alcuno modo di conseguire questa
desiderata victoria. Dall'altra parte, el desiderio che habbiamo di
conseguirla, ci fa stare dubbii assai che la dilatione del tempo non
rechi tale incomodità et disordine seco, che non sia in nostro potere
el ripararvi; nè ci darebbe mancho dispiacere quando tal cosa seguissi
(_quod absit_), l'honore di che si priverrebbe Vostra Illustrissima
Signoria, che lo utile, commodo et sicurtà dello Stato nostro, di
che saremo privati noi, perchè non mancho habbiamo a core la grandeza
sua che la preservatione nostra, di che sappiamo non bisognare farle
altra fede che le opere che si sono facte sino a qui, le quali sempre
si accresceranno con li meriti suoi. Sia adunque Vostra Signoria
contenta et pregata volere prima coronare sè di cotanta victoria quale
è cotesta, con admiratione non solo di tutta Italia, ma di tutto
el mondo; et dipoi, con satisfactione et nostra e di tutto questo
popolo, preso supplicio di cotesti nostri ribelli, ed reintegrati
delle cose nostre, possiamo voltarci a chosa che facci la città nostra
felicissima, et la Signoria Vostra non seconda ad alcuno altro, benchè
antico et famosissimo capitano. A la quale del continuo ci offeriamo.


DOCUMENTO VIII.[820]

(Pag. 329)

    _Lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini, presso il capitano
    Paolo Vitelli. — 20 agosto 1499._

_Comissariis in Castris contra Pisanos. Die xx augusti 1499._ —
Noi veggiamo, et con tanto dispiacere nostro quanto si possi mai
sentire per alcun tempo, differirsi in modo cotesta giornata, che
noi non sapiamo più che ci sperare di bene; perchè, nonobstante che
voi scriviate che per tutta stanocte futura saranno ad ordine tutte
le cose disegnate; _tamen_ per le parole del Capitano, non ci pare
ancora vedere terra, nè ad che porto noi habbiamo ad applicare questa
barchetta. Et se Sua Signoria dice che è per fare quello di bene può,
et che elli è necessario che ancor noi lo aiutiamo, etc.; noi non
veggiamo in che cosa noi li siamo mancati, perchè e' ci pare havere
infino a qui et concedutoli ogni cosa che Sua Signoria ci ha adomandata
in sua particolarità, et provistolo in tutto quello ci ha richiesto a
benefitio della impresa; et per ultimo con quanta celerità ci è stato
possibile, vi habbiamo provisto delle balle della lana, delle palle,
del fuocho lavorato, et della polvere in quella quantità si è possuto;
et questa mattina, per non mancare del consueto, vi habbiamo mandato
le lame del ferro stagnato, secondo ne richiedete; et e' danari per
rinfrescare e' soldati vi si sono promessi ogni volta ci advisavi il
dì della giornata. Ma veggiendo con varie cavillationi et agiramenti
tornare invano ogni nostra fatica, et ogni nostra diligentia usatasi
annihilarsi,[821] sentiamo dolore infinito; et se la honestà o le
leggi el permettessino, egli è più giorni che due di noi sarebbono
venuti costì, per vedere con gli occhi et personalmente intendere la
origine di cotanti aggiramenti, poi che voi o non ce li volete scrivere
o in facto non ve li pare conoscere. Et veramente noi credevamo, et
ancora non possiamo se non crederlo, che cotesti Signori volessino più
presto tentare la fortuna, et essere ributtati per forza da cotesta
expeditione, che per socordia et inertia, consumando il tempo, essere
necessitati, per la diminutione della reputatione et delle forze,
partirsi di costì con una inhonesta fuga. Il che succederà ad ogni
modo, se passa due giorni da oggi che la forza non si sia tentata;
perchè, venuta la pagha nuova, cotesti pochi soldati vi restano,
haranno iuxta causa di partirsi, et e' nostri cittadini, per parere
loro essere dondolati, non saranno per volersi più votare le borse,
veggendo non essere del passato suto alcuno utile alla loro città.
Noi vi parliamo liberamente a ciò che con la prudentia vostra possiate
tocchare fondo, et a noi fare intendere apertamente come ci habbiamo
a governare, se hora non succeda la cosa secondo l'ordine dato.[822]
Parendoci non havere mancato in nulla, saremo in ferma opinione di
essere trastullati, et faremo tutta quella provisione per la salute
et honore nostro che ci occorrerà. Et perchè dal canto nostro, come
insino ad hora si è facto, non resti ad fare alcuna chosa, siamo
contenti che il Capitano facci venire costì a' soldi sua messer Piero
Ghambacorti,[823] et riceva _etiam_ e' balestrieri a cavallo sono in
Pisa, secondo che voi ne scrivete. Il che facciamo contro a nostra
voglia, per molte ragioni, le quali noi vi habbiamo per l'adrieto
significate: pure il desiderio habbiamo fare piacere a Sua Signoria
ci fa non pensare se non satisfarli; et così confortate Sua Signoria
satisfare a noi di questo unico et singulare benefitio, di fare
questa benedecta giornata, della quale voi, per nostra parte, con
quelle parole vi occorreranno più efficaci il pregherrete, et con ogni
instantia graverrete.

Le genti del Signore di Piombino si potranno in parte satisfare
alla giunta de' danari vi manderemo, et con questa speranza li
intracterrete.

Habbiamo questa mattina lettere da Milano, come e' Franzesi hanno
expugnato Annone,[824] castello populato assai, forte di sito, di
munitioni et di presidio, in uno dì, et noi siamo già con cotesta
obsidione a dì 20, et non sapiamo qual successo seguirà.

Da Lucha intendiamo come Rinieri della Saxetta è tornato in Pisa, sì
che vedete quello possiamo sperare, poi che luy vi creda stare sicuro
hora, et per lo adrieto ne dubîtava. _Valete._


DOCUMENTO IX.

(Pag. 330)

    _Altra lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini, presso Paolo
    Vitelli. — 25 agosto 1499._

_Comissariis in Castris contra Pisanos. Die xxv augusti 1499._[825]
— Se voi vedessi in quanta mala contenteza et afflictione di animo
è tutta questa Città, non che a voi che siete membri di quella, ma
a qualunque altro verrebbe istupore et admirazione grande; ma chi
sapessi come le cose fino a qui sieno procedute, et con quale spendio
conducte, et di che speranza nutriti, non se ne maraviglierebbe,
perchè conoscerebbe noy et questa città dopo una lunga fatica et
dispendio, quando aspectava indubitata victoria, essere minacciati di
manifesta ruina; et sì de repente la vedrebbe menare da uno extremo
all'altro, che più tosto la indicherebbe animosa per non si prostèrnere
et invilire in tanta angustia, che altrimenti. Et veramente e' ci
dorrebbe manco ogni damno che di cotesta impresa fussi resultato a la
Città nostra, quando e' si fussi un tracto secondo el desiderio nostro
tentato animosamente la forza; perchè, se ne fussino suti ributtati,
si sarebbe da' nostri cittadini con più prompteza reparata tanta
forza che si fussi al nemico superiore. Ma sendosi consumata tanta
fanteria, et preparata con tanti danni, in otio et sanza farne alcuno
experimento in favore della nostra città, non sapiamo nè che ci dire
nè con qual ragioni exscusarci in cospecto di tutto questo popolo, el
quale ci parrà havere pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con
vana promessa di certa victoria. Il che tanto più ci duole quanto più
ce lo pare havere conosciuto, et con ogni efficacia ricordato alli
antecessori vostri.[826] Pure, poi che Dio o la fortuna e qual si fussi
altra causa ha condocto le cose in termine che bisogna o soldare di
nuovo fanteria, o perdere con perpetua infamia coteste artiglierie, ci
sforzeremo di non mancare di fare quanto ci fia possibile.

Et perchè nel fare nuovi danari, per havere a fare nuovi provvedimenti,
andrà più tempo; et desiderando che in questo mezo coteste cose si
salvino, habbiamo scripto per tutto el territorio nostro, per numero di
comandati, de' quali buona parte dovevano essere costì subito, et noi
seguiremo col provedimento, per poterci valere di buon numero di fanti
freschi e pratichi come ci scrivete....

Siamo a hore 3, et habbiamo differito la staffetta, perchè desideravamo
pure con quella mandarvi somma di danari. Ma per essere hoggi domenica,
et tutto il giorno suti occupati nella pratica, non ne habbiamo possuto
expedire alcuna somma; ma domattina di buon'ora vi se ne manderà quelli
ci fia possibile.


DOCUMENTO X.

(Pag. 332)

    _Lettera di Paolo Vitelli a Messer Cerbone. 28 settembre
    1499._[827]

Cerbone. Questa sera, a hore 24, questi Signori Commissarii, essendo
in casa del Governatore, me retennoro, et hannome messo, a petitione di
testa Signoria, nella roccha di Cascina. Io ve ne do notitia, aciò che
siate con testi Signori et con testi cittadini, et faciateli intendere
come, se non m'è fatto torto, in me non trovaranno errore di natura che
meriti minima penitentia. Voi sete prudente; pigliate in questa cosa
quello riparo che vi pare expediente, per giustificare la innocentia
mia.

  Ex Cascina, die 28 settembris 1499.

                                                PAULUS VITELLUS, etc.

  _Al mio Cerbone dei Cerboni_
    _de Castello, in Firenze, etc._


DOCUMENTO XI.

(Pag. 333)

    _Lettere approvate nel Consiglio dei Dieci sulle pratiche
    dei Venetiani, per rimettere Piero de' Medici in Firenze,
    coll'aiuto di Paolo Vitelli._


1.[828]

1498 (s. n. 1499) Die XXX Januarij. — In Cons.º X cum additione.

Quod Magnifico Petro de Medicis, respondeatur in hunc modum:

Nuij habbiamo ben intesa la relatione et propositione factane per
Vostra Magnificentia, et hane molto piaciuto intender el bon animo et
la oblatione del Magnifico Paulo Vitellio, sì verso la Magnificentia
Vostra, come verso l'assetamento de le presente dissensione. Et
ricercando la importantia de la materia celere resolutione, non
habiamo voluto interponer puncto de dilatione a la resposta. Dicemovi
adunque ad questo modo: Nuij haver grandemente desiderà et desiderar
el ritorno vostro et dei fratelli vostri ne la patria, sicome per
experientia habiamo dimonstrato et tutavia demonstramo. Et pero, quando
el. Mag.^co Paulo sia per far questo effecto, nuij siamo per vederlo
tanto volentiera, quanto dir se possi, et maxime, essendo accompagnato
cum la compositione de le cosse pisane, sicome ne havete proposto.
Et per dirvj in particulari la nostra opinione, circa el desyderio et
oblatione del Mag.^co Paulo, siamo ben contenti attender al partito el
ne propone. Et promettendovi luij el remettervj in casa, cum assetar
le cosse de Pisa per quelle vie et modi che siano convenienti, et
che ne ha toccato la Mag.^tia Vostra, ex nunc nuij volemo concorrer
a la conducta soa insieme cum Sig.^r Fiorentini, perchè serà via et
forma ben rasonevele; et intrando Vostra Magnificentia in casa, come
se presupone, potria esser certissima Sua Mag.^tia de esser non solum
secura de quello li serà promesso, ma etiam cum perpetuo honor et
stabilità de le cosse sue. Diremo anche questo altro particulare, per
stringersi più a la conclusione, che 'l stipendio del prefato Magnifico
Paulo ne pararia conveniente dover esser quello ne ha dichiarito Vostra
Mag.^tia Luij al presente haver cum Fiorentini, zoè ducati XL/m., de
li quali nuij contribuissamo la portione nostra. Questo è quanto ne
occorre.

Ben havessamo grato che Vostra Magnificentia subito se transferisse
personalmente ad stringer la practica, et veder de condurla ad
votivo fine, come ben la saperà far per la prudentia sua, et dielo
far gagliardamente, intervenendo principaliter el suo interesse. Li
mezi non tocheremo altramente, remettendosi a quella; a la qual etiam
volemo affirmar questo per conclusione: che quantunque ne sia sta et
sia necessario, per honor nostro, non manchar a Pisanj de le promesse
nostre, pur sempre habiamo havuto bon animo verso Sig. Fiorentini, sì
per la conformità de l'uno et l'altro Stato, come etiam per la antiqua
benivolentia et mutui beneficij che in diversi tempi sono stati fra
nuij.

  De parte        30
  De non           0
  Non sincere      0


2.[829]

1498 (s. n. 1499) Die ultimo Januarij, in Cons.º X cum additione.

  _Ser Jacobo Venerio Provisori nostro.[830]_

Non ve replicheremo altramente la propositione factane dal Magnifico
Petro de Medici circa Paulo Vitellio, sì per esser sta prima da vui
particolarmente significata, si etiam perchè la resposta nostra ve
la farà manifesta; la copia de la qual ve mandamo qui introclusa, non
perchè la participiate cum alcuno, ma solum per instructione vostra.
Vederete per essa nostra resposta tutto el sentimento et resolutione
nostra, et anche el desiderio habiamo de vederne presto alcuno effecto,
et perhò habiamo deliberato cum el Conseglio nostro di Dieci, cum
la Zonta, scrivervi le presente. Et volemo che, zonto el Magnifico
Pietro, de lì insieme cum lui vui intrate in questa pratica, cum quella
più secreta et cauta via vi apparerà esser cum decoro de la Signoria
nostra, forzandovi vederne, senza interpositione de tempo, l'exito
de la cosa, cum tal fundamento, che intendiamo subito, et vediamo
la ultimatione de tal practica; et se cum Nui se prociede cum quella
rectitudine, che Nui procediamo cum altri. Et perchè potria occorrer
che sopra doi articoli Paulo Vitellio fusse renitente, et movesse
difficultà, come anche de qui ha cegnato el Mag.^co Pietro, habiamo
deliberato in chadauno de loro resolverne et dechiarirve la mente
nostra, per trunchar ogni forma de dilatione che per questo potesse
esser introducta.

Primo el potria esser che Paulo Vitellio non se contentasse del solo
titulo de Capitanio de' Fiorentini, nel qual caso el M.^co Pietro ha
proposto che per nui se li desse titulo de Vicario nostro. Ad questo
ve dicemo che, occorrendo tale difficultà, vui promettiate tal titulo,
et dagate speranza che per questo la cossa non resterà de recever
bon fine. Preterea, se dicto Paulo omnino volesse, ultra la conducta
de cavalli, per li quali l'ha el stipendio de ducati XL,[831] alcuno
numero de fanti, come se affirma lui haver da Fiorentini, etiam in
questo affirmerete che nui seremo contenti contribuir insieme cum
Fiorentini la portion nostra de la spesa de dicti fanti, in caso che i
se habino adoperar. Queste sono le doe particularità ve habiamo voluto
far intender resolutamente, per remover ogni termino de dilatione.
Vui però non procederete a la promissione de quelle, nisi vedendo, che
altramente far non potesti, et che la conclusione se differisse, over
se rompesse per esse difficultà, over alcuna de quelle. Et però, in tal
caso, semo contenti vui li possiate prometter cum le altre condicion
contenute et expresse ne la resposta nostra. Sollicitate adunque cum
ogni vostro studio et diligentia stringer questa pratica a la fine; et
venendo Paulo Vitellio ad alcuna resolutione, lo farete confortar ad
mandarne subito suo nuncio, cum pieno et sufficiente mandato, azò se
possi far la sigillatione. Et tutto questo ordine tenerete apresso vui
secretissimo, quanto recercha la importantia sua, dandone hora per hora
diligentissimo adviso de ogni successo.

  De parte      29
  De non         1   _Facte et misse littere cum incluso_
  Non sincere    0     _exemplo._


DOCUMENTO XII.

(Pag. 333)

    _Lettera, senza firma e senza indirizzo, che discorre della
    cattura di P. Vitelli._[832]

Sendo pervenuta nelle mani d'un mio amico una lettera sopradscripta
ad m. Jacobo Corbino canonico pisano, me la portò, et io per lo
officio mio apertola, non mi maravigliai tanto del subbiecto di epsa,
quanto io mi maravigliai di voi che lo havessi scripto, perchè io mi
persuadevo che ad uno huomo grave, quale sete voi, et ad una persona
publica, quale voi tenete, si aspectassi scrivere cose non disforme
alla professione sua. Hora come e' sia conveniente ad un secretario di
cotesti magnifici Signori notare d'infamia una tanta Republica, quale
è questa, ne voglio lasciare fare iuditio ad voi, perchè di quello
che dite contro ad qualunque pontentato di Italia, se ne ha più ad
risentire e' Signori vostri che alcuno altro; perchè, sendo voi la
lingua loro, si crederrà sempre che quelli ne sieno contenti, et così
venite ad partorire loro odio sanza loro colpa. Nè io mi sono mosso
ad scrivere tanto per purghare le calunnie, di che voi notate questa
Città, quanto per advertire voi adciò per lo advenire siate più savio,
il che mi pare essere tenuto ad fare, sendo noi sotto una medesima
fortuna. Fra molte cose che dimostrono[833] li (sic) huomo quale e'
sia,[834] non è di poco momento el vedere, o come egli è facile ad
credere quello che li è decto, o cauto ad fingere quello che vuole
persuadere ad altri; in modo che ogni volta che un crede quello che
non debbe, o male finge quello che vuole persuadere, si può chiamare et
leggiere et di nessuna prudentia.

Io voglio lasciare indirieto la malignità dello animo vostro,
demostrato per queste vostre lettere; ma solo mi distenderò in
demostrarvi quanto ineptamente o voi avete creduto quello vi è suto
referito, o fincto quello desideravi si disseminassi in infamia di
questo Stato. Io vi ringratio prima della congratulatione fate col
Pisano, per la gloria che ad vostro iuditio hanno adquistata, et per la
infamia ne haviamo reportato noi, condonando tucto alla affectione ci
portate. Di poi vi domando, come può stare insieme, che questa Città
habbi speso un tesoro da non poterlo extimare, et li Pisani si sieno
difesi sanza fraude di Pagolo Vitelli, come voi volete inferire.[835]
Appresso vi domando, quale sana mente o quale bene edificato ingegno
si persuaderà o che Pagolo Vitelli ci habbi prestati danari, o che
la cagione dello haverlo preso[836] sia per non pagharlo. Nè vi
advedete, povero huomo, che questo totalmente excusa la Città nostra et
accusa Pagolo; perchè ogni volta che un crederrà che Pagolo ci habbi
prestati danari, crederrà de necessitate che Pagolo sia tristo, non
potendo haver avanzato danari, come ognun sa, se non o per corruptione
factegli, perchè c'inghannassi, o per non havere tenuta ad un pezo[837]
la conpagnia. Donde ne nascie che, o per non havere voluto, sendo
corropto, o per non [hav]ere potuto, non havendo la conpagnia, ne
sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra [Città; et] merita
l'uno o l'altro errore o tucta dua insieme (che possono stare),
infinito [castigo].[838] Alle altre parti della lettera vostra, per
essere fondate tucte in su questi due [errori],[839] non mi occorre
rispondere; nè mi schade etiam iustificarvi la captura, come cosa che
non mi si aspecta ad farla; et quando mi si aspectassi, ad voi non
si richiede lo intenderla. Solum vi ricorderò che non vi rallegriate
molto delle pratiche, che voi dite andare attorno, non sapiendo maxime
le contrappratiche che si fanno; et admunirodvi, _fraterno amore_, che
quando pure voi vogliate per lo advenire seguitare nella vostra captiva
natura di offendere sanza alcuna vostra utilità, voi offendiate in modo
che ne siate tenuto più prudente.


DOCUMENTO XIII.[840]

(Pag. 355)

    _Lettera di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli in
    Francia. — 23 agosto 1500._

Honorando et charo mio Niccolò. Se io vi ho ad confessare la verità,
questa vostra lettera ricevuta stamani mi ha facto un poco gonfiare et
levare in superbia, vedendo che tra li Stradiotti[841] di Cancelleria
pure tenete un poco più conto di me; et per non calare di questa mia
opinione, non ho voluto ricercare se ci è vostre lettere in altri. Io
ne ho preso piacere grandissimo, parendomi parlare con voi proprio et
familiarmente, come eravamo usati; et ne havevo preso qualche poco di
passione, havendo visto la prima volta vostre lettere, et non esser
facto da voi mentione alcuna di me, dubitando che il proverbio che
si dice vulgarmente — dilungi da ochio, dilungi da quore — non si
verificassi in voi, il che questa vostra lettera ha cancellato: et così
vi prego seguitiate quando vi avanza tempo, chè io per me non mancherò
mai di fare mio debito verso di voi.

Io non voglio mancare di significarvi quanto le vostre lettere
satisfanno a omniuno; et crediatemi, Niccolò, chè sapete che l'adulare
non è mia arte, che trovandomi io ad leggere quelle vostre prime
a certi cittadini et de' primi, ne fusti sommamente commendato; di
che io presi piacere grandissimo, et mi sforzai con qualche parola
dextramente confermare tale oppinione, mostrando con quanta facilità lo
faciavate.[842] Et così dove io veggo potere giovare, lo fo, parendomi
farlo per me proprio, come certamente fo; et pure stamani fui con Luca
delli Albizi, col quale era di già stato Totto vostro fratello, et
facto il bisognio: fece lo officio dello amico, come sempre è usato
fare. Così messer Marcello, insieme con Totto vostro, fa omni cosa
obtegniate il desiderio vostro;[843] et credo per adventura, avanti il
serrare di questa, harà effecto; et non lo havendo così hora, lo harà
un'altra volta. Scrivete pure a Totto che non la stachi, perchè stamani
mi dixe: — Se io non la fo hoggi, io me ne andrò in villa, etc. — Voi
sete savio, et basti.

La vostra lettera mi dètte il nostro messer Marcello, et seco era
Totto, al quale havea date le altre vostre fidelissimamente. Così havea
mandate quelle di Francesco[844] ad casa sua per huomo ad posta, chè
per non mi sentire bene non ero in Cancelleria: basta che hanno havuto
optimo ricapito, et così haranno tutte le altre.

Io ho messo da uno canto tutt'i piaceri che io ho, sendo qui, et tutti
li altri che io harei, sendo costì; et certamente lo essere insieme
con voi dà il tracollo alla bilancia; pure bisognia havere patientia,
da che non si può: et se voi continuerete nello scrivermi anchora, mi
sarà manco grave questa vostra absentia, di che io vi prego quanto più
posso.

Io feci la ambasciata del _parcatis_ a messer Cristophano. Mi respose
che alla tornata vostra facessi motto a Lione al Rosso Buondelmonti,
che da lui sarete informato di tutto, per essere pratico, etc.

Dapoi la partita vostra habbiamo perso Libbrafacta et il bastione della
Ventura, et per anchora Pisani sono signori della campagnia.

Pistoia ha facto grandi movimenti, et la parte Cancelliera ha cacciato
la parte Panciatica con grande arsione di case et botteghe, et morte di
qualche huomo; pure la parte restata superiore si dimostra fidelissima
et observantissima di questa Excelsa Signoria. Dio ne aiuti, chè ce n'è
bisogno.

Niccolò, io vi prego che a mia contemplatione spendiate uno scudo in
guanti et dua scarselle di tela, delle più piccole trovate, et qualche
altra zachera, che ve ne rimborserò a chi mi ordinerete. Così vi prego
mi mandiate uno stocco, ma lo voglio in dono, poichè non ho havuto
quello mi promectesti alla partita. E raccomandatemi quanto più possete
al nostro Francesco Della Casa, et me li offerirete in tutto quello li
accaggia di qua, et che lui stimi si possa fare per me. _Nec plura_. A
voi mi raccomando quanto più posso, et prego Dio vi guardi dalle mani
di Svizeri.

  Florentie, die xxiij augusti M. D.

                              _Vester_ BLAS. BO. _Cancellarius_.[845]

  _Spectabili viro Nicolao de Maclavellis,_
    _mandatario fiorentino_
    _apud Christianissimam Maiestatem,_
    _amico honorando._
                      _Alla Corte._


DOCUMENTO XIII^bis.

    _Due lettere di Agostino Vespucci da Terranova, scritte da Roma
    nel luglio e agosto 1501, al Machiavelli. Ragguagliano di fatti
    seguìti in Roma_.[846]


1[847]

_Spectabilis vir, honorande_, etc. È sul mezo dì, et io spiro del gran
chaldo è a Roma, et per non dormire fo questi pochi versi, et _etiam_
mosso da Raffaello Pulci che si trastulla con le muse. Spesso alle
vigne di questi gran maestri et mercanti dice improviso, et comprendo
dica con uno ser Francesco da Puligha di costà, che non so che si
faccia a Roma. Et costui a' dì passati fe' uno sonetto per contro a
Francesco Cei nostro, che mi pare un poco troppo dishonesto; et ho
facto ogni cosa di haverlo scripto, et non ho possuto; et questo ser
Francesco non lo ha dato a persona, ma sì bene lecto o vero recitato:
potendolo havere ve lo manderò. El Pulcio si trastulla, et sempre è
in mezo di quattro p....; et emmi decto lui havere qualche dubio, che
sendo di lui opinione et certeza di esser poeta, et che l'Academia
di Roma lo vuole coronare ad sua posta, non vorrìa venire in qualche
pericolo circa _pedicationem_, perchè è qui Pacifico Phoedro, et delli
altri poeti, _qui nisi haberent refugium in asylum nunc huius, nunc
illius Cardinalis, combusti iam essent._

_Evenit etiam_ che in questi proximi dì in Campo di Fiore fu abrusciata
viva una femina, et assai di grado, venitiana, per havere lei pedicato
una puctina di 11 in 12 anni, che la si teneva in casa, et factole
_etiam_ altro che taccio, per esser troppo dishonesto, et simile alle
cose di Nerone romano. Il che _etiam_ conferma decto Raffaello in
dovere stare continue per li giardini fra donne, et altri simili ad sè,
dove con la lyra loro _suscitent musam tacentem,_ diensi piacere, et si
trastullino. Ma, _bone Deus_, che pasti fanno loro, secondo intendo, et
_quantum vini ingurgitant_ poy che li hanno poetizato! Vitellio romano,
et _apud hesternos_ Sardanapalo, si _reviviscerent_, non ci sarìano per
nulla. Hanno li sonatori di varii instrumenti, et con quelle damigelle
dansono et saltono _in morem Salium, vel potius Bacchantium._ Honne
loro invidia, et mi bisogna rodere la cathena in camera mia, che è
ad tecto, chalda, et con qualche tarantola spesse volte: et moro di
chaldo, _ut vix possim ferre estum_; che se non fussi uno respecto, il
quale sa Biagio, mene verrei in costà. Vogliovi pregare che rispondiate
a Raffaello o ad me, et traheteci mattana del capo, che so lo saprete
fare.

El Papa mi pare entrato nel pensatoio in su questo romore de' Turchi,
che già risuona forte; et comincia sospirando a dire: _Heu quae me
tellus, que me equora possunt accipere!_ Dupplica le guardie al Palazo,
dì et nocte, _prebet se quibuscumque difficillimum, et tamen animus
eius sullaturit[848] et proscripturit in dies magis_, che, _omnibus
videntibus_, ad chi toglie la roba, ad chi la vita, et chi manda
in exilio, chi in galea ad forza, ad chi toglie la casa et mettevi
entro qualche marrano: _et haec nulla aut levi de causa_. Lascia
oltre ad questo fare ad di questi baroni et sua amici molti oltraggi,
et torre roba et votare fondachi, et huiusmodi 1000. Sono qui più
venali li beneficii che non sono costì e' poponi o qui le cyambelle
et acqua.[849] Non si seguita più la Ruota,[850] perchè _omne ius
stat in armis_ et in questi marrani, _adeo_ che pare necessario il
Turcho, poi li Christiani non si muovono ad extirpare questa carogna
del consortio humano: _ita omnes qui bene sentiunt, uno ore locuntur._
Restavami dire, che si nota per qualcheuno, che, dal Papa in fuori,
che vi ha del continuo il suo greggie illecito, ogni sera XXV femine
et più, da l'Avemaria ad una hora, sono portate in Palazo, in groppa
di qualcheuno, _adeo_ che manifestamente di tutto il Palazo è factosi
postribulo d'ogni spurcitie. Altra nuova non vi voglio dare hora di
qua, ma se mi rispondete vene darò delle più belle. Godete _et valete_.

  Ex Roma, 16 julii 1501.

                                                 AUGUSTINUS _vester._

  _Spectabili viro Nicolao domini Bernardi_
    _de Maclauellis, secundo Cancellario_
    _florentino, Secretario honorando._
                            _Florentie._


2[851]

_Spectabilis vir_, etc. Nicolò Machiavello mio amatissimo, sommi
spogliato in pitoccho, sarei in giubbone, _nisi austrum nocentem per
auctumnos corporibus metuerem_. Sendo il desiderio vostro di volere
intendere _utrum_ la heredità del Cardinale di Capua sia restata al
Papa, o vero _instituerit alios heredes_, in risposta vi dico, _serio
loquens (nam secus_ (sic) _fortasse quam claudam istas)_: il Papa non
permettere ad alcuno Cardinale che loro faccino herede, _immo_ circa
il testamento la vuol vedere molto pel sottile, il che testifica il
caso del Cardinale di Lysbona, quale ne' dì passati, sentendosi grave,
non possendo lasciare de' danari che si trovava, che furono 14 mila,
ad chi harìa desiderato, più tosto se ne volle spotestare vivente, che
il Papa, _se mortuo_, li havessi ad godere luy. Et chiamando tutta la
sua famiglia a giumelle in sul suo lecto, ad vista, tutti li spartì
in dono per li sua di casa; et così rinuntiò tutti li sua beneficii
veramente, in modo che non si truova nulla in questo mondo, se non
la grazia grande, non solo della sua famiglia, ma di tutta Roma. È
dipoi sanato, benchè sia vecchio, et hieri parlò con lo ambasciatore,
me presente, una hora o più sempre in latino, _et constabat sibi in
omnibus_. Onde il Papa decte l'arcyvescovado di Capua, che vale VI mila
ducati l'anno, al cardinale di Modena, il quale, benchè sia o vero pare
in gratia del Papa, sborsò 15 mila ducati per la Santità di N. S.; uno
altro suo arciveschovado che è in Hispania diè a Monreale, con questo
che lasciassi al cardinale da Esty il vescovado di Ferrara. Delli altri
beneficij non dico nulla, sennonchè il Papa (_quod pace sua dixerim_)
ne ha di _pretio numerato_ hauto insino in XXV mila o più, perchè
era il prefato molto richo. Se volessi intendere _quo genere mortis
obierit,_ quì _vulgo tenetur_ ch'è veneno, per esser lui poco amico al
gran Vexillifero, che di simil morte si intende spessissimo in Roma:
_et omnia ex fonte, nec non ex primo rivo emanant. Habes, puto, plus
quam petieras;_ et però resta che ser Antonio, Biagio, ser Luca, et ser
Octaviano faccino quanto mi scrivete.

Circa al Pulcio lo trouerrò, et leggerolli la vostra, credo haremo poi
materia da rispondere, et piacevole: è un mal muscione, fa più facti
che parole, et non pare quel desso.

Hoggi, benchè siamo a dì 25, qui si celebra la festa di San
Bartholommeo, et dicesi è per honorare più la festa di San Ludovico
re di Francia, che è questo medesmo dì. È in Roma una chiesecta di
questo Santo, ignobile, et che mai non vide 50 persone insieme, et
questo anno, per havere facto la invitata lo Re di Francia a tutti li
cardinali, oratori, prelati et baroni di Roma, stamattina vi è stato
ogniuno, _videlicet_ 16 cardinali, tutti l'imbasciatori si truovono in
Roma, tutti li baroni et altri signori, e tutti stati a la Messa, che
durò 3 hore di lungo. Fuvi la Capella del Papa, che è cosa mirabile:
li sua pifferi che ad ogni cardinale, arrivando, li faceano lor dovere;
tutti li trombecti; altri delicatissimi istrumenti, _id est_ l'armonia
papale, che è cosa dulcisona e quasi divina; non so per ora nominare
nissuno de' sei instrumenti per nome, di che non credo Boetio facci
mentione, _quia ex Hispania_. Fu _etiam_ ad meza la Messa per uno
doctissimo huomo recitato una oratione latina, contenente _breviter_ la
somma della vita di San Ludovico. Dipoi _latissime fatta in transgressu
aliqua mentione de regibus Gallorum_, della grandeza, sublimità et
maestà del presente Re, _in cuius virtutibus recensendis, videlicet
in dotibus corporis et animi, quantumque adversam fortunam egerit
sub pedibus prosperae vero quam bene moderetur frenis_, consumò circa
una grossa hora. Et veramente, Nicolò mio, qui è l'arte dell'oratore,
perchè costui è uno ignobile, et non più visto, nè udito circulare o
poco; et nondimeno per esser Romano è piaciuto più che o il Fedra o il
Marso o il Sabellico o el Lippo, che _habentur optimi_, et ha dimonstro
havere auto _in primis_ memoria grande, sapere _bene distinguere et
apte narrare_; monstrò _quantum valeat pronuntiatio, quantum verborum
copia et gestus, qui et ipsi voci consentit et animo, cum ea simul
paret, ut equidem affirmare ausim_, che spessissimo, _non solum manus
sed nutus ipsius_, haria dimonstro alli auditori la sua volontà. Et non
so come _tam feliciter_ costui mai avessi potuto orare _nisi imitatus
Demosthenem, qui actionem solebat componere, grande quoddam speculum
intuens_. Et lassando la doctrina, la eloquentia, i colori infiniti,
molti flosculi et aculei _quibus inspersa sua oratio est, illud
mehercule prestitit, ut sibi conciliaret, persuaderet, moveret, ac
denique delectaret. Et in calce orationis tantam eloquentiae procellam
effudit, ut omnes admirarentur ac stupescerent; obque factum est, ut
plausus ei quasi theatralis, quamvis in templo, a multis datus sit._
Credono molti che, sendo suto alla presentia il Re, che lo harìa facto
in quello instanti grande homo appresso di sè.

Una sol cosa mi resta, che alli dì passati, sendo il Papa in fregola
di voler ire a spasso, et sendo in camera del Pappagallo uno circulo
di 5 in 6 docti, che invero ce ne è assai, benchè anche delli scelerati
et ignoranti, ragionando et di poesia et astrologia, etc., uno di loro
fu che dixe esser solo uno a Roma, ad che il Papa prestava fede in
astrologia, et costui havere male, et è in miseria et povertà per la
gran liberalità di questo Principe. Et il Fedra dicendomi costui havere
predicto al Papa che sarìa pontefice, sendo ancora cardinale, li mossi
che si vorría fare qualche procnostico _sine auctore_, et lasciarselo
cadere, _et ita factum est_. Prima ci partissimo di lì, questi 3
versolini furon facti, videlicet:

    _Praedixi tibi papa, bos, quod esses_,
    _Praedico moriere, hinc abibis_,
    _Succedet rota, consequens bubulcum._

La rota è insignia di Lysbona, el bubulco è lui. Questo effecto
se ne è visto, che mai poy ha ragionato di partirsi, se bene ci è
opinione, che se si scuopre il parentado con Ferrara, lui vorrà ire
là, et vagare per la Romagna. Vedreno quello seguirà; et se Valentino
tornerà qui, che ce ne è varie opinioni, tornando assai delle sua genti
alla sfilata, et _etiam_ havendo mandato Vytellozo e fare quello che
vorrìa ragionevolmente poter fare presentialmente da sè. Et venendo
la beatitudine del Papa in costà, voi et altri che volessi qualche
dispensa o di tòrre o di lasciare la mogliera, la harete benignamente,
_modo gravis aere sit manus_. In questo mezo Camerino teme, Urbino
fila, perchè dubita delle relliquie di casa Sforzesca, et di Piombino
non dico nulla. _Bene vale et excusatum me habe_, se io non vi scrivo
lungo, perchè non ho tempo. _Alias._

  Roma, XXV augusti 1501.

                                           _Deditissimus_ AUGUSTINUS.

  _Spectabili uiro Nicolao de Maclauellis,_
    _Secretario, Maiori honorando._
    _Alli Signori Dieci._
                       _In Firenze._


DOCUMENTO XIV.[852]

(Pag. 362)

    _Lettera dei Dieci al Vicario di Scarperia. 7 maggio 1502._

_Iuliano Caffino, Vicario Scarperie. Die vij maii._ — Tu ci hai
scripto più lettere piene di tante exclamationi et tante paure, che
le sarebbono sute troppe havendo el campo intorno, et in terra cento
braccia di muro. Et perchè sappia da quello che tu ti hai ad guardarti,
et quanto habbino ad ire in su e' tuoi sospecti, el campo del
Valentinese è ad Medecina, e' Franzesi se ne sono iti verso Lombardia,
et noi teniamo buona amicitia con el Duca et col Papa. Ma tucti e'
sospetti che si hanno, sono perchè, sendo nel campo del Valentinese
Orsini et Vitegli, pensiamo che, sendo inimici nostri, potrebbero di
furto fare qualche insulto ad qualche nostro luogo, nè si crede che per
altri conti o per altra via possiamo essere offesi. Et sta' di buona
voglia, che non ha ad venire costì campo ordinato et con artiglierie
et altri instrumenti atti ad expugnare una terra come è cotesta; et
se pure e' vi havessino ad venire, l'artiglierie non volano, hanno
ad passare li monti, et per certo noi el doverremo intendere, et
intendendolo, vi provederemo; sì che non è necessario sbigottire a
cotesto modo li subditi nostri, ma confortarli ad stare alla vista et
a' passi, et ricorrere così quando tu li chiamerai, et fare la nocte
qualche guardia, per guardarsi da' facti; et mostrare di essere huomo,
et conoscere di essere in una terra che habbi bisogno del campo ad
perdersi, et non ne andare preso alle grida. Noi ti haviamo voluto dire
questo, acciò che tu ti conforti et conforti e' sudditi nostri, perchè
noi non siamo per abbandonarli, quando tu et loro faranno loro debito,
come speriamo....


DOCUMENTO XV.[853]

(Pag. 370)

    _Lettera dei Dieci al Commissario Giacomini Tebalducci. 1º
    luglio 1502._

_Commissario generali, Antonio Iacomino. Die prima iulii 1502._ —
Hiarsera ti si scripse quello ci occorreva in risposta di più tua;
haviamo dipoi ricevute l'ultime di hieri, et per quelle inteso cosa
che ci satisfa, et questo è come Anghiari si tiene, et come e' nemici
non lo possono molto sforzare per mancamento di palle, etc. Et havendo
dipoi ricevuto una lettera da M.^re di Volterra,[854] el quale pochi
dì sono mandamo ad Urbino ad el Duca Valentinese, della quale ti
mandamo copia, et per quella intenderai quello che lui giudicha et
advisa delle genti di quello Duca. El quale adviso, quando fussi vero,
ci renderebbe più sicuri, et più facile ci farebbe la recuperatione
delle cose nostre. Ma desidereremmo bene che la perdita di quelle
non fussi maggiore che la si sia suta infino ad qui, ad ciò che si
cominciassi dipoi più facilmente ad racquistare la reputatione, et non
si continuassi in perderla. Et per questo, se si possessi soccorrere
Anghiari o monstrarli qualche speranza di soccorso, ci sarebbe
sopradmodo grato, et tornerebbe molto approposito alle cose nostre: il
che ci fe' più desiderare uno adviso haviamo hauto da huomo prudente,
che ci scrive dalla Pieve ad San Stephano, significandoci prima come
gli Anghiaresi si difendono ingenuamente: et che se si mandassi un
cento cavalli et qualche fante, admonendogli che facessino spalla
ad quelli della Pieve et ad altri del paese, sarebbono per molestare
intanto e' nemici, che sarebbono necessitati levarsi da campo. Et per
questa cagione ci è parso mandarti la presente volando, ad ciò veggha
quello si può fare in questa cosa, et non manchi del possibile. Et
ad noi pare che, havendo hora la gente franzese alle spalle, si possa
governare le cose costì più audacemente, et con più fiducia mettersi
avanti; et però di nuovo ti ricordiamo, se possibile è, se non in
facto, _saltem_ in demostratione, rincorare quelli nostri fedeli
d'Anghiari, sì per dare animo loro ad stare forti, sì _etiam_ per
non lo tòrre ad li altri, et per non dimostrare ad li subditi nostri
che noi li lasciamo in preda et sì vilmente nelle mani d'un semplice
soldato: et di questo ne aspectiamo risposta, et lo effecto se li è
possibile.

Noi attenderemo ad sollecitare e' Franzesi, e' quali fieno ad Sexto
domani ad ogni modo, et di mano in mano li respigneremo secondo che
ad voi occorra o al capitano di epsi, con el quale speriamo di essere
domattina ad Lugo. Scriverete oltre ad di questo ad Poppi, alla Pieve,
et se voi potete, ad Anghiari et al Borgo, confortando, monstrando gli
aiuti propinqui et che presto con loro satisfactione et danno delli
adversarii saremo liberi da ogni molestia. _Bene valete._


DOCUMENTO XVI.[855]

(Pag. 370)

    _Altra lettera dei Dieci allo stesso. — 12 luglio 1502._

_Antonio Thebaldutio, Commissariis[856] in castris. Die xii (iulii)._
— Noi haviamo diferito il rispondere alle vostre ultime de' 10, ad
questa mattina, per essere stati tutto el giorno di hieri occupatissimi
in cose di gravissima importanza, et pertinenti tucte alla salute
nostra et confusione delli inimici. Et venendo a' particulari delle
vostre lettere, intendiamo el disegno vostro dello alloggiare sopra li
inimici, havendo le forze chieste più volte de' 3000 fanti, giudicando
che quelli fussino necessitati o appiccarsi con voi al disavvantaggio,
o ad ritirarsi in Arezo, il quale disegno vostro non ci potrebbe più
piacere, nè ve ne potremo più commendare. Ma ad intelligentia vostra vi
si fa intendere, come la Maestà del Re Cristianissimo ha preso questa
difensione nostra sopra di sè, et ha deliberato questa volta, con
honore et reputatione sua, levarci el nimico da dosso, et restituirci
el perso. Et però, oltre ad coteste lance et alle 150 che si debbono
questo giorno trovare presso ad Bologna, egli ha mosso Messere della
Tramoio,[857] uno de' primi capitani del Regno, con dugento altre lance
et 15 carra d'artiglieria, et con questi el Balì di Digiuno con 4000
Svizeri, le quali forze et aiuti fieno qua subito. Et perchè noi havemo
ad concorrere alla maggiore parte di questa fanteria; et perchè oltre
ad questo ci correrà addosso infinite spese di vectovaglie, provisioni
et altre cose consuete, delle quali non si può manchare, havendosi ad
servire de' capitani, ci pare da fare masseritia et restringersi da
ogni banda. Et però verrete temporeggiando le cose di costà, come vi
si scripse per l'ultima nostra, et el Signore franzese intracterrete
o con questo adviso, quando e' vi paressi, monstrandoli la voglia del
Re essere che si temporeggi infino che le sue forze venghino, o vero,
se in questo modo vi paressi da alterarlo, piglierete qualche altro
expediente come alla prudentia vostra occorrerà, per farlo quieto et
patiente ad mantenersi, perchè, recando in somma el desiderio nostro,
voi havete ad intractenervi et sanza spesa o con mancho che si può....


DOCUMENTO XVII.[858]

(Pag. 370)

    _Altra lettera dei Dieci allo stesso. — 24 luglio 1502._

_Antonio Thebaldutio, Commissariis in castris. Die 24 (iulii)._ —
Anchora che per la nostra di hieri vi si scrivessi lo animo nostro
circha ad quello ne haveva referito Lorenzo de' Medici della pratica
tenuta fra Ubalt[859] et Vitellozo; nondimancho, veduto quanto ci
scrivete per la vostra di hiarsera circha la medesima praticha, et
quello che Ubalt ha disegnato dire ad Vitellozo et concludere seco,
ci parve necessario di nuovo farvi intendere lo animo nostro, perchè
questa resolutione d'Ubalt, facta ultimamente, ci pare poco discosto da
quello ha referito Lorenzo. Nè veggiamo con che honore della Maestà del
Re o utile nostro la si possa fermare così, sendovi incluse conditioni,
che 'l cardinale Orsino debbe prima parlare ad quella Maestà; perchè
per la parte del Re ogni conditione che si mette nell'appuntamento è
con poco suo honore; et per la parte nostra non veggiamo che sicurtà
ci rechi rimetterci al parlamento del cardinale Orsino, per essere
uno de' capi delli adversarii nostri. Per tanto non ci consentirete
per la parte vostra in alcun modo, se già, come hieri si dixe, non
si levassino tucte le conditioni, et che subito le terre tucte si
rimettessino nelle mani di cotesti capitani, sanza riservo di alcuna
cosa, et che quelli ne havessino ad fare tucto quello ne disponessi
la Maestà del Re, sanza mettervi alcuna conditione o interpositione di
tempo, perchè ad questo modo venemo ad restare solo ad discretione di
quella Maestà, il che ci sarebbe grato per essere sempre suti disposti
riconoscere el bene et il male da quella. Pure, quando voi vedessi
cotesti capitani vòlti ad alcuna cosa contro ad questo nostro disegno
et opinioni, vedrete, sanza consentirvi, di non li alterare; ma li
anderete temporeggiando prudentemente.

Piaceci bene sommamente questa ultima vostra conclusione et resolutione
facta di uscire in campagna, perchè ci veggiamo più beni; el primo,
che Vitellozo si perderà quella reputatione che li ha dato questo
abboccamento; el secondo, che si salverà buona parte di questi grani
di Val di Chiana, che ne vanno tucti in quello di Siena; l'altro, che
voi viverete con più facilità, potendovi provedere da quelli castelli
et terre, che sono pieni di vectovaglie; et oltra queste comodità che
sono certe, potrebbe seguirne dal farsi innanzi molto honore et molto
utile, che la occasione ne potrebbe arrecare per la reputatione che si
adquisterebbe d'essere in compagnia....

Havendo[860] scripto fino qui, ci è suto referito di luogo che noi li
prestiamo fede assai, come Perugia è in arme per esservisi achostato
el duca Valentino colle sue genti, et volere entrare dentro, et li
Perugini non lo volere acceptare; il che quando fussi vero, che lo
crediamo in maggior parte, vi debba dare tanto più animo allo andare
avanti, perchè tucto torna in preiudicio di Vitellozo, per essere una
medesima cosa Giovan Paolo et lui, come sapete.


DOCUMENTO XVIII.[861]

(Pag. 379)

    _Lettera dei Dieci al Soderini, cui si partecipa la sua nomina
    a Gonfaloniere a vita. — 23 settembre 1502._

_Petro Soderini, ad Arezzo, die quo supra (23 settembre)_. — E' fu
sempre mai giudicato da tutti li huomini che sono chiamati prudenti,
cosa utile et necessaria costituire un capo al governo di questa[862]
Città, el quale potesse mantenere nelli ordini suoi le cose che ancora
non ne fussino uscite, et quelle che ne fussino uscite ridurvele; la
quale opinione è stata tanto favorita dalla industria di buoni,[863]
da' tempi et da la fortuna della Città, che prima e' se ne fece
pubblica deliberatione, et da poi, havendosi ad venire ad lo individuo
della electione, come è piaciuto a Dio (che in vero sua opera la
giudichiamo) è cascata la sorte sopra di te, di che noi tanto più ci
rallegriamo, quanto elli è stato più secondo el desiderio nostro,
conoscendo nelle qualità tue tutte quelle parti che in comuni si
possono immaginare in uno huomo che habbi a tenere tanto segno quanto
è questo. Ringratiamone adunche lo altissimo Dio et la gloriosa sancta
Madre, le intercessioni[864] della quale non sono stati ad noi manco
propitie in questo, che si sieno stati per qualunque altro tempo,
in qualunque altro accidente che habbia auto questa Repubblica. Nè
e' nostri preghi et supplicationi sono stati meno accepti che si
richiegha, et a la fede nostra et alla clementia sua. Rallegriancene
per tanto con tutti e' pretettori di questa Città,[865] con tutto
questo popolo, et con epso teco, pregando l'altissimo Dio che ti sia in
tanto favorevole, che la patria nostra non manchi di questo bene, et di
quelle felicità che la spera con seguitare mediante le opere tue.


DOCUMENTO XIX.[866]

(Lib. I, cap. V)

                    LETTERE DI AMICI AL MACHIAVELLI,
                 DURANTE LA SUA LEGAZIONE AL VALENTINO.


1 _Lettera di Niccolò Valori al Machiavelli. 11 ottobre 1502_.[867]

Niccolò mio carissimo. Anchora ch'io sappia che per le lettere del
publicho siete bene raguagliato, et io stia contento a quelle, non
posso però fare che a mia satisfactione non vi faccia dua versi. Il
discorso vostro et il ritratto non potrebbe essere suto più aprovato,
et conoscesi quello che senpre io in specie ho congniosciuto in voi,
una necta, propria et sincera relatione, sopra che si può fare buono
fondamento. E io in verità, discorrendola con Piero Soderini, ne paghai
il debito tanto larghamente quanto dire vi potessi, dandovi questa
loda particulare et peculiare. Pare che, essendo cotesto Signore
vostro,[868] dovessi farsi più inanzi; et a chi ne ha iudicio, pare
di aspectare lui, et che la ragione voglia vengha con qualche offerta
et condictione honorevole. Il iudicio vostro è desiderato qui delle
cose di costà, et il ritratto delle di Francia, et la speranza ne ha
il Ducha. Perchè voi ne promettete scrivere le forze, et dipresente
di cotesto Principe, et così quelle spera, et taliane et franzese, non
accade dirne altro, sennone che quanto meglio s'intenderanno, tanto più
facilmente et meglio qui ci potreno risolvere. Se nulla v'accade, sono
così vostro come huomo habbiate in questa città, et bastivi, solo per
le vostre bone qualità ed affectione havete. Raccomandomi a voi. Cristo
vi guardi.

  A dì xj d'ottobre 1502.

                                         NICCOLÒ VALORI _in Firenze_.

  _Egregio v[iro] Niccolò Machiavelli,_
    _Segretario degnissimo all'illustrissimo_
    _ducha Valentino._


2 _Lettera di Agostino Vespucci da Terranova al Machiavelli. 14 ottobre
1502_.[869]

Nicholae, salve. Scribam ne an non scribam, nescio: si non, negligentia
obest; si scripsero, vereor ne maledicus habear, et presertim in
Marcellum et Riccium.[870] Marcellus tanquam rei, hoc est officii tui,
neglector, onus scribendi reiecit. Riccius interim, qui usquequaque
rimatur istiusmodi officia, ecce tibi heri sero, cum esset in Consilio
LXXX^ta virorum, ambitiosulus iste vocat Marcellum, qui modico illo
momento et puncto temporis a Palatio aberat. Surgit statim, descendit
schalas, in Cancellarium se proripit, et minitabundus quodam modo
clamitat: — Heus heus, scribite. — Blasius statim, quasi divinans quod
evenit, ne Riccio dictante scriberet, fugam arripit. Solus remansi
miser, suspiriaque ab imo pectore ducens, et anhelus, capio pinnam
cadentem, conscribillo, veritus si verbum proferrem, ne mihi et eveniat
hic quod in Gallia aiunt Perusgino evenisse; et quia Dominis nostris
collega est, idcirco bolum devoro plus fellis quam mellis habens;
ternas scribo, eo dictante, sive quaternas litteras. Homo iste, cum
libro, eo unde venerat redit, legit, et quod recitat approbatur.
Adeoque sive hac re, sive ob aliam, iam illum Domini deputarunt
mittendum, longis itineribus in Galliam ad Gallorum regem. Vides igitur
quo nos inducat animus iste tuus equitandi, evagandi, ac cursitandi tam
avidus: tibi non aliis imputato, si quid adversi venerit.

Velim equidem quod nullus praeter te astaret essetque in Cancellaria
mihi superior, quamvis tu omnia tentes et audeas quibus mihi vipera
venenosissima insurgat, me petat, me frustatim necet, mihi pessimus
et nequam et ambitiosus imperitet: sinemus vel nos aquam fluere.
Blasius itidem, praeter id quod te ob talia odit, blatterat, maledictis
insectatur, imprecatur ac diris agit, nihil dicit, nihil curat, flocci
omnia faciens. Credo hercule isthic sis magno in honore constitutus,
cui Dux ipse et aulici omnes faveant te, veluti prudentem laudibus
prosequantur, circumstent, blandiantur; quod volupe est, quia te deamo;
nolim tamen id negligas, propter quod munus istud paulo post amplius
exequi nequeas. Et si nunc, mi Nicholae, ista obrepant ac serpant,
non multo post palam fiant necesse est. Nosti hominum ingenia, nosti
simulationes ac dissimulationes, simultates et odia, nosti denique
quales sint, a quibus homo totus hoc tempore pendet. Tu itaque, cum
prudens sis, illud age quo tibi et nobis prospicias, quo in commune
consulas. Marcellum tuis litteris excites, cohorteris, urgeas, instes
et ita flagites, ut velit aliquot dies, officio tuo fungens, onus
dictandi litteras subire, non detrectare, connivere seu, ut facit,
despicere. Murceam deam, postquam tu discessisti, is incolit arbitror,
adeo Murcidus, idest nimis desidiosus et inactuosus, factus est.[871]

Uxor tua duos illos aureos accepit, opera Leonardi affinis et amantis
tui.

Heri mane dum litteras proxime scriptas Petro Soterino recitarem,
dumque ipse quampluries eas interlegendum mussitaret, inquit tandem:
— Autographus hic scriptor multo quidem pollet ingenio, multo iudicio
praeditus est, ac etiam non mediocri consilio. — Pro ad viso. Vale.

  Ex Cancellaria. Die xiiij octobris 1502: raptim et cum strepitu.

                                        AUGUSTINUS _tuus, coadiutor_.

  _Spectabili uiro Nicolao de Malclauellis,_
    _Secretario et mandatario fiorentino honorando._
      _In Corte dell'Ill. Duca di Romagna._


3 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 18 ottobre 1502_.[872]

_Niccolò mio_....[873] io non sono adirato, nè anchora fo iuditio dello
animo vostro verso di me da queste favole,[874] perchè in facto non mi
è se non briga, et io pure ho delle occupationi poi non ci sete, ma sì
bene da infinite altre cose, che mi costringnerebbono, ricordandomene,
ad non vi portare quella affectione che io fo, di che io non voglio mi
sappiate grado, perchè, volendo non amarvi et non esser tutto vostro,
non lo potrei fare, forzato, dico, sì dalla natura che mi constrigne
ad farlo, benchè in facto sia da tenerne poco conto, non vi potendo
io nuocere, et manco giovare. Et se io vedessi o havessi visto che
voi fussi il medesimo che siete meco con tutti li altri amici vostri,
non ne harei facto tale impressione in me medesimo; ma io veggo che
io mi ho ad dolere della mi' cattiva fortuna et non buona electione,
et non di voi, poichè io non truovo riscontro alcuno in quelli che io
amo tanto quanto me medesimo, et che io ho scelti per mia patroni et
signori; di che voi potete esser optimo iudice, prima da voi, dipoi da
qualcun altro che vi è così noto come a me. Ma di questo non si parli
più, che io non voglio se non quel che voi, et basti.

Le vostre lettere questa mattina ho mandate tutte ad posta et
fidatamente. Expecto il velluto da Lorenzo, et da mona Marietta il
farsetto, et subito havuto, vi manderò omni cosa; et se altro vi
accade, scrivete.

Scrivendo, Lorenzo mi ha mandato il velluto, et così per il presente
latore, che sarà Baccino, ve lo mando, et con epso il farsetto, che
pure siate uno gaglioffo, poichè, ad posta di uno braccio di domasco,
voi volete portare una cosa tutta uncta et stracciata: andate ad
recere, che voi ci farete un bello honore.

Mona Marietta mi ha mandato per il suo fratello ad domandare quando
tornerete, et dice che la non vuole scrivere, et fa mille pazìe, et
duolsi che voi li promectessi di stare 8 dì et non più; sichè tornate
in nome del Diavolo, che la matrice non si risentissi, chè saremo
impacciati insieme con frate Lanciolino.

Io vi harei da dire circa «la electione[875] di Bernardo dei Ricci per
in Francia molte cose più bella l'una che l'altra, et così molte favole
del nostro ser Antonio da Colle,[876] che secretamente andò ad Siena
con certi sua ghiribizzi che non è stato niente;» ma penso lo farò
meglio ad bocca, et più sicuramente. «Il Riccio» anchora non è ito, et
non so se si andrà, benchè habbi «havuto la commissione et ogni cosa,
da danari in fuora;» et perchè dubitava «chi lo mandava, che la letera
credentiale non si vincessi, per ire sicuramente lo indirizzava a lo
Oratore, et voleva che lui lo presentassi al Re, et dipoi exequissi la
commissione;» et in effecto «non portava nulla, ma era facto per farli
sgallinare» un cento ducati, poichè «cotesta proda era presa, et simile
quela di Milano. Non è ancora ito et non so se andrà,» perchè «li
parenti de lo Imbasciatore si sono risentiti, parendo non passi sanza
suo carico; et il vostro Lionardo non li vuole dare danari, se non si
stantiano, il che non si vincerebbon mai, sendo» maxime «scoperta la
cosa.»

Io vo omni dì 4 o 6 volte al nuovo Gonfaloniere, et è tutto nostro, et
Monsignor suo fratello mi domandò hoggi, sendo seco, di voi, et mostra
amarvi _unice_, et io anche feci seco lo officio dell'amico circa casi
vostri: così li facessi voi di me, chè non desidererei più da voi.

Se non vi incresce, scrivete uno verso al Guidotto in mio favore, che
poichè io ho lo stantiamento, mi cavi del generale.[877] Fatelo se vi
pare, o se vi viene bene....

  Florentie, die 18 octobris M D I J.

                                                              BL. BO.

  _Nicolao Maclauello, Secretario florentino_
    _p[lurimu]m honorando._
                     _Ad Imola._


4 _Lettera di B. Buonaccorsi al Machiavelli. 21 ottobre 1502._[878]

Niccolò. Perchè hieri, quando riceve' la vostra, era festa, non potetti
farvi fare l'uchettone;[879] ma stamani di buona hora andai ad trovar
Lionardo Guidotti, et tolsi il panno, lasciandomene governare a lui
come mi scrivesti; et tagliossi in su uno taglio che haveva, che a me
pare bello; et intròvi dentro braccia 7 et 1/2 di panno, che, a quello
potetti vedere, vi costerà la canna da 4 ducati et 1/2 in giù. Hollo
facto tagliare a me, et del collare et altre cose ho facto quanto ne
commectesti, et il meglio ho possuto....[880]

Habbiamo facto cercare delle _Vite_ di Plutarco, et non se ne truova
in Firenze da vendere. Habbiate patientia, chè bisogna scrivere ad
Venetia; et a dirvi il vero voi siate lo 'nfracida ad chiedere tante
cose.

Expecto habbiate scripto al Guidotto, et non tractatomi all'usato.

E' mi duole non vi havere servito in tutto, perchè mona Marietta
vostra [ha] saputo di questo uchettone, et fa mille pazìe. Et se voi
non havessi allogato la putta sua sì bene, come havete, starebbe di
mala voglia; ma desiderrebbe intendere le circunstantie della dota; il
donamento et altre cose è ad ordine, et tutte le cornachie di Sardigna
verranno ad honorarla et accompagnarla honorevolmente.[881]

Io non so se io harò l'uchettone stasera, havendolo lo manderò; se
non, per il primo non mancherà. Et voi mi adviserete della ricevuta del
velluto, il prezo del quale Lorenzo non volse chiedere alla Marietta,
ma dice lo metterà ad piè di un altro vostro conto havete seco. Et
se quel cieco del Guidotto mi havessi voluto dare li mia danari, co'
danari contanti si faceva ogni cosa meglio. Habbiate patientia, chè
maggiore tocca ad havere ad me.

Io non ho che scrivervi niente di nuovo, et però habbiate patientia; et
se nulla verrà, vi tracterò da amico.

Ser Antonio della Valle è in sullo impazare, et disputando lui et ser
Andrea[882] di Romolo, a' dì passati, dello Sbaraglino, ser Andrea li
adventò uno zocholo et ruppeli le rene, et il povero huomo porta uno
bardellone adosso, non sapendo o potendo fasciarsi più comodamente, et
non c'è rimedio se lo voglia levare da dosso. Vanno armati amendua,
non so se voi m'intendete: ser Andrea di pesceduovi, et ser Antonio
d'argomenti; et ciascuno di loro sta in su' sua. Credo che noi la
comporreno, se si trova modo da racconciare le rene a ser Antonio.

Niccolò, io sono ad mal partito, perchè ser Antonio ha smarrito il suo
caldanuzo, et fassi ad me, et vuole lo rifacci di danni et interessi:
non so come me lo accordare, et vorrei pure contentarlo, però non mi
mancherete del consiglio vostro.

Il presente latore, che sarà Iacopino, vi porta l'uchettone, et a
me pare stia bene, et dinanzi è cucito, perchè ho visto portate così
e' luchi: quando non vi piacci, fia poca fatica ad sdrucirlo. Et in
effecto ho facto il meglio ho possuto: fate pure che la prima volta vi
sia assettato adosso, che pigli buona forma....

Lionardo ha pagato il rimendo et la fattura dell'uchettone lire
5, et di tanto li siate debitore, et con me siate debitore qualche
sgallinatura.[883]

Io non ho parlato di licentia, perchè voi non ve ne curate et io lo so.
A me basta c.... il sangue per voi et per me, et che voi «sgaliniate.»

Niccolò, io vi ho ad dire ch'e' Collegi fanno mille pazìe del mio
stantiamento,[884] et dicono che se non si revoca non faranno nulla,
perchè non vogliono habbiamo dua salarii; sichè quando voi siate al
termine dello havere guadagnato e' danari havesti, ordinate di non
havere ad chiedere stantiamento, et anche non credo lo habbiate mai,
per potere poi cancellare il debito dove appariranno li danari havete
havuti.[885] Governatevene come vi parrà meglio....

Lorenzo di Giacomino mi dice che domattina manderà il vino et che vi
ha servito da huomo da bene, et che avanti sia costì, vi costerà poco
meno di 5 ducati; sichè voi ve n'andate in chiasso. Et di più mi ha
pregato che, havendo cotesto Signore ad mectere le poste per di qua,
che desidererebbe operassi con li amici vostri costì, che lui havessi
la posta qui di Firenze. Et perchè voi sapete quanto io lo ami, ve lo
raccomando quanto posso.

  Florentie, die xxi octobris M D i j.

                                                              BL. BO.

  _Nicolao Maclauello, Secretario florentino_
    _suo plurimum honorando._
                         _Ad Imola._


5 _Lettera di Niccolò Valori al Machiavelli. 21 ottobre 1502._[886]

_Carissimo tamquam frater._ Noi habiamo dato per conto vostro a Biagio
ducati 40, che meglio non s'è possuto fare per dua cagione: l'una
per la scarsità et miseria in che ci troviamo; l'altra mi riserberò
nella penna. Se io ho manchato di satisfarvi con i detti, _Deus
testis_, ho sopperito et in publicho et in privato di fare cognioscere
le opere vostre; _quæ, nihilominus per se luceant_, non è fuora di
proposito scoprille, et in verità et con i Signori nuovi et Dieci ne ho
satisfatto ad me medesimo. Et veramente queste due ultime lettere ci
havete mandate v'è suto tanto nervo, et vi si mostra sì buono iudicio
vostro, che le non potrebbano essere sute più aprovate; et in spetie ne
parlai a lungho con Piero Soderini, che non iudicha si possa a nessuno
modo rimuovervi di costì. Et io non manchai fargli intendere quello
bisognava fare, et vedrete lo troverrete favorevolissimo alle domande
vostre. Confortovi a pacientia, et fare come solete, che doverranno
essere più cogniosciute le opere non sono sute qui. Et se io posso
nulla per voi, poi non ho fratelli, fo pensiero non vi havere et non mi
habbiate in altro luogho che di fratello. Et questa vi vaglia in luogho
di contratto. Cristo vi guardi.

Non entro in nuove, perchè _etiam_ non ne voglio da voi.

  A dì 21 d'ottobre 1502.

_Vostro _N. V._ in Palagio._

  _Prestantissimo Niccolò Machiauelli,_
    _Segretario degnissimo._
                         _In Imola._


6 _Lettera di Niccolò Valori al Machiavelli. 23 ottobre 1502._[887]

_Carissime tanquam frater._ Io ho una vostra de' XX, che mi è suta
carissima, come mi saranno sempre tutte le cose vostre. Et veramente
i raguagli et discorsi vostri non potrebbano essere migliori, nè più
approvati. Et volessi Idio che ogni huomo si governassi come voi,
che si farebbe mancho errori. Noi qui, perchè le nuove dipendano
di costà, non habiamo molto che dirvi. Mandamo ser Alexandro[888] a
Roma, che doverrà essere cosa grata a cotesto Principe, et voi ve ne
potrete honorare assai. Le gente comandate non si sono mandate alle
frontiere, perchè non farebbono sennon male; ma potete bene dire a Sua
Excellentia, s'è mandati più conestabili, de' migliori et da fare fatti
al Borgho et negli altri luoghi. Et tutta volta si pensa fare qualche
dimostratione che darà reputatione a Sua Excellentia, et sicurtà a noi.
Circa a' casi miei particulari, _Deus testis_, che io v'amo et stimo
più che fratello. Et perch'io so haresti voglia d'esserci a questa
cerimonia del Gonfaloniere nuovo, ne farò pruova, ma non riuscirà,
perchè lui _etiam_ non se ne accorda molto. Bastavi in coscientia non
s'è mancato secho di fare l'officio per voi, et satisfare alla verità.
Et per la fede è fra noi, io in particulare ne ho parlato secho due
volte a lungho, in modo credo che d'amicho vi sia diventato amicissimo.
Quello desiderate in secondo luogho, non vi doverrebbe essere dinegato;
ma questi nostri Collegii sono in modo attraversati, e non habbiamo mai
possuto farne fare loro nessuno: non resteremo d'aiutarne, et voi et
gli altri. Nè più per fretta, sennone sono senpre a' piaceri vostri.
Cristo vi guardi.

  A dì 23 d'ottobre 1502.

                                         NICCOLÒ VALORI _in Palagio_.


7 _Lettera di Iacopo Salviati al Machiavelli. 27 ottobre 1502._[889]

                                        IHS. Addì xxvij ottobre 1502.

_Magnifice Vir_, etc. Io ho la vostra de XXIII per la quale resto
avisato a quanto vi trovate d'acchatto,[890] et il desiderîo avete
di ricuperarlo, per soprire[891] a' vostri affari. All'entrata del
futuro mese, o a pochi dì di quello, se ne risquoterà lo viijº, et
rimanente dipoi subcessivo per e' tempi correranno. Et perchè desidero
compiacervi, et soprire possiate a' comodi vostri, sono parato servirvi
sino a detta somma di mio, non per ritragli di detto assegnamento,
ma in presto. Accadendovi, avisate, et pagherogli a chi commetterete,
quando così v'attagli. E per questo non acchade altro. Sono a' piaceri.
Cristo vi guardi.

Delle nuove, accepto la deliberazione n'avete presa, et quella conmendo.

                                      IACHOPO SALVIATI, _in Firenze_.

  _Magnifico domino Niccolao de_
    _Machiauellis, apud Ill. Ducem_
    _Valentinensem._
                  _A Imola._


8 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 28 ottobre 1502_.[892]

Niccolò, anchora che voi siate savio et prudente, et che la mia sia
presumptione ad volervi ricordare come habbiate ad scrivere, et di
quelle cose maxime che a omni hora vedete in viso; _tamen_ io vi dirò
brevemente quello mi occorre, non obstante che qui io habbi facto
il debito mio, in tutti quelli luoghi et con tutti quelli che vi
havessimo volsuto dare carico. Et prima vi ho ad ricordare lo scrivere
più spesso, perchè lo stare otto dì per volta ad venire quagiù vostre
lettere, non passa con vostro honore, nè con molta satisfactione di chi
vi mandò; et siatene stato ripreso da' Signori et dalli altri, perchè,
sendo coteste cose della importantia sono, qui si desidera assai
intendere spesso in che grado si truovino. Et non obstante che voi
habbiate scripto largamente le genti che si truova cotesto Principe,
et li aiuti in che li spera, et il prompto animo suo ad defendersi; et
che voi habbiate benissimo dichiarato et le forze sua et quelle delli
inimici, et messole avanti alli ochi, _tamen_ voi fate «una conclusione
troppo gagliarda» quando voi scrivete, che «li inimici non possono
horamai nuocere molto a cotesto Signore;» et a me pare, nonchè di
questo ne habbiate havuto carico che io sappia, che voi non ne possiate
fare iudicio così resoluto, perchè costì ragionevolmente, et secondo
havete scripto, non si debbano publicare li progressi delli inimici,
et che forze si habbino così ad punto, da che ha ad nascere il iudicio
vostro. «Et qui per diversi advisi si intende le cose de la lega essere
gagliarde, et non si fa molto buono iudicio de le cose di cotesto
Signore:» sì che come voi havete facto et prudentemente, discorso
che havete particolarmente tutto quello ritrahete, «del iudicio
rimetetevene a altri;».... et non me ne rispondete cosa alcuna.[893]

La lettera al Salviato si presentò, et lui ve ne risponde. Et
scrivendomi voi che, riscotendo, vi mandi la berretta, non havendo
riscosso, non credo la vogliate; volendola a omni modo, advisate che
la comperrò del mio, et con più rispiarmo potrò. Le altre vostre a
Niccolò et Albertaccio similmente si presentorono; et io di bocca
feci lo officio da amico con Piero Soderini, leggendoli la vostra;
perchè nell'ultimo, dove voi chiedete licentia o etc., lui rise; et
io seguitai con dire che mi havate scripto, che se non eri provisto ve
ne verresti, perchè havate inteso che qui non si stantiava se non alli
electi per li Ottanta, et che voi non volavate consumarvi.[894] Ridendo
mi rispose et dixe: — Elli ha ragione, ma li scrive troppo di rado,
— et così finirono li nostri ragionamenti. Et io vi conforto ad non
adormentarvi, perchè voi non ritrarresti mai il servito; governatevi
hora come meglio vi pare....

Il signore Niccolò Valori mi ha facto fare dua lettere in nome
vostro, una al signore Luigi Venturi, et l'altra al signore Giannozo,
pregandoli vi provegga: et in effecto mi hanno promesso lo faranno.
Io ci uso ogni extrema diligentia, et credo bucherare tanto, ve li
manderò. _Nec plura_.

  Florentie, die 28 octobris 1502.

                                                             BLASIUS.

  _Nicolao Maclavello, suo_
    _plurimum honorando._
                  _In Imola._


9 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 3 novembre 1502_.[895]

Niccolò mio. Perchè costà non venga huomo sanza mia lettere, vi fo
questi pochi versi, havendovi scripto li oggi insieme con una del
Gonfaloniere, il quale, poichè intrò in Palazo, pare si sia omni cosa
cominciata ad indirizare: et di già ha dato principio di volere che le
faccende si faccino ad buon'ora, perchè la mattina a 18 hore, et la
sera a 3 omniuno sbuca.[896] Et questa sera ha fatto imbasciatore in
Francia il vescovo de' Soderini suo fratello, con tanto favore che è
stata cosa mirabile; et ha parlato, poi che fu facto alli Ottanta, et
decto che, benchè habbi ad essere al Vescovo cosa grave, pure lui farà
_ultimum de potentia_, che vi vadia, et di certo vi andrà, et con lui
Alexandro Nasi. Èssi hoggi cominciato ad assettarli la audentia de'
Dieci nel modo sapete; et la nostra Cancelleria per hora servirà a'
Dieci, et la sala a noi: et questo vi basti.

Io vi ho scripto havere li 30 ducati,[897] nè volere mandarli sanza
vostra commissione; sichè advisate, et tanto farò. Il capitano che
pagò il fante ritenne li 30 soldi: faromeli dare se vorrà; se non, harò
patentia, et di tutto harete buon conto.

La Lessandra[898] non è ita alla Marietta, perchè la non si parte di
casa Piero del Nero, et lei non sapeva la casa; manderovela come prima
potrà.

Io vi manderò la berretta di velluto, se voi non scrivete in contrario.
_Nec plura_.

  Florentiae, die iij novembris 1502.

                                                             BLASIUS.

Carlino Bonciani, quel bello, è stato morto, nè so da chi.

Giovanbatista Soderini si raccomanda a voi.

  _Nicolao Malclavello, suo_
    _honorando._
                    _Imola_


10 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 5 novembre 1502._[899]

Niccolò mio. Chi iudica le cose troppo presto, spesso si ha ad ridire,
come di presente adviene a me. «Il nuovo Gonfaloniere comincia ad
rassettare la Città dal volere scemare li salarii a' cancelieri,»
et ha facto di havere in nota tutti li ordinari, et il salario loro,
in modo che se questa cosa si desta, farà dua cattivi effecti: l'uno
della diminutione, l'altro che non obterrà nessuno. Et io vi havevo
scripto mirabilia, parendomi pure il principio buono: non errerò
più, perchè mi governerò dì per dì, et anche mi parrà lungo tempo, et
piutosto farò hora per hora. Voi medesimo conoscete l'importantia della
cosa, et quello faccino di malo effecto simili rumori, però non ve ne
scriverò altrimenti ad lungo. Io con ser Antonio Vespucci ho facto
una diligentia, ma ad dire meglio, ho voluto fare, che mi pareva ci
havessi ad giovare assai, et questo era, che in su la nota si mectessi
il salario risquotavamo ad punto il mese,[900] ad ciò si vedessi dove
battevano le centinaia, et che le non tornavano nulla: non credo si
facci anche questo. Et così omni uno s'arrovescia, «et il Gonfaloniere»
lo fa sanza saputa nostra: ma perchè io vi ho decto non volere iudicare
più sì presto, di questo anchora fo il simile, per non mi havere ad
ridire, perchè potrebbe essere che così come elli ha volsuto in nota et
tavolaccini et cavallari et omni altro, volessi questo, per il medesimo
effecto, cioè per vedere et sapere una volta quanti ministri habbi.
Harei caro fussi ad questo fine, benchè il rumore sia in contrario,
et parlisi di quello vi ho decto disopra. Stareno ad vedere, et
pregherreno Dio ci aiuti.

El tempo della rafferma ne viene forte, et io non piglierò già cura
per voi di andare ad dire dello albero et de' fructi, et della mula et
della..., perchè non lo farò per me, et anco non satisfarei. Pensate a
questo che importa.

Scrivendo ho ricevuto la vostra de' iij, et benchè io sia in faccende,
et perciò, Niccolò mio, disperato, sendomi facto forza ad ire in
Francia con questi oratori, che sono il vescovo de' Soderini et
Alexandro, come vi scripsi, pure ho lasciato stare, o ad dire meglio,
lascerò et farò quanto mi dite; et in Francia mi lascerò prima
impiccare che andare. El drappo l'acconcerò in modo non si guasterà, et
advertirò il cavallaro come advisate.

Dello accatto voi intendesti quello vi scripse il Salviato, et il
medesimo mi ha confermato dipoi, dicendomi vi servirà di suo, ma non
in su quello assegnamento, volendo, perchè non si può trarre la cosa
dell'ordinario: et di quello ve ne havete ad rimborsare hora, lo dirò
al Guidotto, et farò quello mi dirà.

Il velluto lo riebbi et andò ad casa.[901]

A Lorenzo ho dato ducati 29, et mi manderà il drappo, et scriverravi,
secondo mi ha promesso, del costo et di omni altra cosa; sichè io me ne
rimecto a lui.

Scrivendo, Lorenzo è stato ad me et mi dice che, per non havere in
bottega raso nero, che sia cosa da servirvi, bisogna lo compri, et che
per esser tardi et cattivo tempo, ad volere servirvi bene, bisogna
differisca ad lunedì; et io che vorrei fussi contento et havessi
honore, non me ne sono curato.

Li ambasciatori vanno via domani, et io credo mi sgabellerò al certo;
et portano seco lettere di cambio di X^m scudi per la paga, etc. Et
se l'amico fussi vivo, rinnegherebbe Dio, perchè Monsignore subito che
acceptò, dixe era a cavallo, et sollicitò Alexandro, et così col nome
di Dio andranno. Nè altro di presente mi accade.

La lettera alla Marietta mandai subito, et così manderò l'altra ad
Andrea.

  Florentiae, die iiiii novembris MDII.

                                                    _Frater_ BLASIUS.

  _Nicolao Maclavello, suo_
    _plurimum honorando._


11 _Lettera di Marcello Virgilio Adriani al Machiavelli. 7 novembre
1502._[902]

_Spectabilis vir_, etc. Il Gonfalonieri stamani mi ha decto che non
li pare ad verun modo che tu ti parta, per non li parer anchor tempo,
et lasciare cotesto luogo vacuo di qualche segno di questa Città;
per havervi ad mandare un altro, non sa chi si potessi essere più a
proposito, respecto a molte cose. Però mi ha decto ch'io ti scriva
così, et ti advertisca ad non partire; et se io lo fo volentieri, Dio
lo sa, che mi truovo con le faccende mie, con le tue et con la lectione
addosso. Et se tu harai ad seguire il Duca o non, andando ad Rimine,
per la publica ti si dirà più appunto. _Vale._

  Ex Palatio Florentino, die VII novembris MDII.

                                                      MARCELLUS VIRG.

  _Spectabili viro Nicolao Malchiavello,_
    _Secretario et mandatario Florentino,_
    _apud Ill.mum Ducem Romandiole,_
    _tanquam fratri._
               _A Imola._


12 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 12 novembre
1502._[903]

Niccolò honorando. Io vi scripsi hier sera per Carlo cavallaro et non
vi pote' mandare quelli danari, che ne ho havuto dispiacere grandissimo
per vostro amore, et così la berretta, la quale, benchè havessi nello
scannello aconcia, non me ne ricordai. Questa mattina dipoi Lorenzo è
stato ad me, et hammi portato li 29 ducati che io li havevo dati, et
così per il presente cavallaro, che sarà un Caio, ve li mando, et con
epsi la berretta, la quale vi costa uno ducato, che per essere colore
vario non ho potuto fare meglio. Habbiate patientia.

[A Li]onardo ho dato la poliza, che risquota quelli 2 fiorini vi
toccano hora dello accatto; et havendoli, li manderò ad madonna
Marietta, o li farò scrivere a lui ad vostro conto, così li 30 soldi
che ancora non li ho riscossi, ma sono in buon luogo; et volendo altro,
advisate, che volentieri farò omni cosa.

Di quello vi scripsi dello scemare,[904] etc., non se n'è sentito
altro; ma c'è chi dice che non è necessario farlo solamente de' salari,
ma anchora delli huomini, Dio lasci seguire il meglio. Et io vi credo
ne siate stucco, et che non vi habbi ad dare molta briga; et doverresti
fare omni instantia di tornare, come havete facto infino ad qui....

  Florentie, die XII novembris 1502.

                                                    _Frater_ BLASIUS.

  _Niccolao Malclavello maiori_
    _suo honorando._


13 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 15 novembre
1502._[905]

Niccolò honorando. Poichè io hebbi scripto la alligata, comparse la
vostra de' 10, et dipoi una delli 8, venuta per uno vetturale. Che
vi venga il cacasangue. Et scrivendo la vostra de' 13, et circa ad
quello ne ricercate per la preallegata de' dieci, di intendere se
io sono ito in Francia, et in che modo me ne liberai, _in primis_
vi respondo, che io mi credo essere in Firenze. Potrebbe essere me
ne ingannassi, perchè, considerato la calca me ne fu facto, mi pare
ancora essere in compromesso; nè altro mi liberò da tale gita, che
una extrema diligentia usata dalli amici, et con lo havere facto io
intendere chiaramente lo animo mio al Vescovo, il quale, benchè ancora
insieme con Alexandro me ne riscaldassi, pure, mònstroli che io ero per
sopportare omni pena piuttosto che andare, mi promisse di aiutarmene,
et così fece.

La cagione che ha mosso Monsignore ad andare così presto, non è stata
ad altro fine che per amore del fratello, et per credere al certo avere
ad fare là qualche buono frutto, per essere appresso la Maestà del Re
la Città in buona gratia, et havere tal sicurtà del nuovo Gonfaloniere,
che non li sarà dato cagione di alterarla, perchè non se li mancherà
de' pagamenti debiti, di uno dì solo. Et hora hanno portato seco li
diecimila ducati; et omni bene che ha ad havere la Città, et honore che
ha ad havere il fratello, ha ad dependere dalla Maestà del Re, dove,
per fare et l'una et l'altra cosa, è ito volentieri, et con animo li
habbi ad riuscire, secondo mi dixe al partire suo: et io, conosciutolo,
ne sto di bonissima voglia. Hallo mosso anchora la necessità, perchè
li pareva si fussi troppo indugiato ad mandarvi oratori, come pareva
anchora a voi quando eravate qui, et lui è huomo resoluto. Et dello
augmento non ha parlato, ma sì bene Alexandro, il quale per l'auctorità
del Gonfaloniere ne è stato contento, benchè nel favorirlo, il
Gonfaloniere promectessi al Collegio che per l'advenire non se ne
parlerebbe più.

Di quello vi scripsi dello scemarci, etc.,[906] non s'è poi altrimenti
parlato, nè anche credo se ne habbi ad parlare; et dello ambulare io
ne sto di buona voglia, perchè la dispositione universalmente è buona,
pure li appetiti sono varii. Et voi staresti meglio qua che costà, et
credo desideriate di tornare, ma voi vedete quello vi fa scrivere il
Gonfaloniere: governatevene in quel modo che voi crediate obtenere il
desiderio vostro, et anche non li dispiacere.

Il presente apportatore vi porterà la berretta et li danari, et sarà
Carlo, et vengono ad vostro ristio. Harò caro venghino ad salvamento,
che così piacci a Dio et a' ladri.

Mandai la vostra alla Marietta, et le racomandatione et ambasciate ho
facte a tutti, et di più raccomandatovi a Giovambaptista Soderini, che
li parlo omni mattina allo studio. Et tornate per l'amore di Dio, che
io non posso contentare «Piero Guicciardini,» benchè quasi habbi preso
la piega: diguazomi il meglio posso, et duro troppa fatica....

A questi Signori pareva che voi indugiassi ad scrivere, perchè una
allegata da voi de' dì 5 non comparse mai, nè voi forse la scrivesti;
et quel c.... del Totto penò 8 dì ad giugnere, et Carlo hora ha servito
benissimo....

Dove si acconci per il Gonfaloniere ve l'ho scripto diffusamente,
et di lui non vi ho da dire altro, se non che omni dì li cresce la
reputatione, et lui se la saprà mantenere.

Niccolò, voi berete bianco, perchè credesti «fare costì qualche
conclusione che piacesse a cotesto Signore,» et questa risposta
«la intorbida,» et siate uno c..., se voi credessi che noi voliamo
«comperare tanto tanto a punto penitere.»[907]

Mandovi in uno legato 29 ducati, 25 scempi et 2 doppioni, et la
berretta. Advisate della ricevuta, et non guardate se non fussi così
bello oro, che mi parve fare un mondo ad haverlo così. Vorrei scrivessi
ad Niccolò Valori, et lo ringratiassi della opera fece per voi, perchè
è huomo che per natura è tirato ad servire li amici. _Bene valete_.

  Florentiae, die xv novembris 1502.

                                                    _Frater_ BLASIUS.


14 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 18 novembre
1502_.[908]

E' bisogna che io mi adiri con voi in omni modo, perchè voi mi scrivete
per questa vostra de' 14, come se da me venissi lo havere differito ad
mandarvi li danari et non da voi, che havete tanta fermeza che non vi
basta una hora, ad stare in uno proposito.[909] Voi sapete ch'e' danari
io li haveo dati a Lorenzo, et bisognommi poi, havendo voi mutato
sententia, expectare Lorenzo che era in villa, ad poterveli mandare;
et se io ho differito qualche poco, è stato per il desiderio havevo di
contentarvi; et quando io vi offersi de' mia, che di nuovo lo raffermo,
non haveo anchora ritracti de' vostri. Et basterà solo un cenno, quando
ne vogliate, che io non sono come voi, che vi venga 40 mila cacasangui,
che voi havete tanta paura di non havere ad spendere 20 soldi, poi
vi richiesi per compare, che io non vi potevo scrivere peggio, che
si disdirebbe a me, havendo havuto per maestro uno che era principe
delli avari: andate ad recere. Et il voler hora così ad punto intendere
della mancia, mi chiarisce più che doverresti a simili cose minime non
pensare. Sichè voi la havesti col malanno che Dio vi dia; che io non ho
procurato per voi, qui in questa vostra absentia, li casi vostri, come
facesti voi nella mia; et il provveditore non è in Firenze, ma a Arezo.
Et se voi non volete vi scriviamo più la festa dei Magi, scriverrenvi
quella dell'asino, et fareno in modo che vi contenteremo....[910]

Di Dieci non si ragiona per anchora, et di omni altra cosa vi ho
scripto adbastanza.

Lionardo Guidotti riscosse quelli dua ducati dello accatto, et halli
messi ad vostro conto, come mi ordinaste. Se altro vi accade, semate.
Le vostre si dettono.

  Florentie, die XVIII novembris MDII.

                                                    _Frater_ BLASIUS.

  _Nicolao Malclavello, suo_
    _honorando._
                  _Imole._


15 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 21 dicembre
1502_.[911]

Io vi vorrei scrivere uno guazabuglio di cose, che se io lo facessi
vi farei spiritare; però me la passerò di leggieri, et Totto vi
raguaglierà della opera che io ho facto col Gonfaloniere, che voi siate
provisto; et se l'à havuto buono fine, il provedimento ve lo dimonstra,
et della licentia, voi vedrete per la alligata quello vi scriva lo
Ill.mo Gonfaloniere nostro.[912] Bastavi che per le cose vostre ho
havuto una buona fortuna, non so come io havessi facto nelle mia; ma io
dubito che la mancia vostra non vadi ad sacco, perchè qui si grida tra
questi cancellieri che voi siate una cheppia, et non facesti mai loro
una gentilezza. Et io che desidero purgare omni infamia che vi venissi
a dosso, la riempierò loro alle spese et barba vostra; et andate ad
recere, se voi non ve ne contentate, che così ha ad ire....

Dalla Corte non c'è anchora lettere, cioè da Monsignore, da una breve
letteruza infuora, da Lione; ma bene c'è hoggi lettere inpru....[913]
dalla Corte proprio, et danno nuove dello adrivare suo là, et dicono
esserli stato facto honore grandissimo, et visto tanto volentieri
quanto huomo che vi andassi mai: intenderete quello seguirà. Ma io vi
expectavo in queste belle stanze ad fare buona cera, et per adventura
avanti torniate, chi ambulerà qua et chi là. Dio ci aiuti. Io governo
in buona parte questo officio al comando vostro, et così mi vo
dignazando, et expectovi per Dio con grande desiderio, et non credo
veder l'ora; et Madonna Marietta riniega Dio, et parli havere gittato
via la carne sua et la roba insieme. Per vostra fè, ordinate che
l'abbia le dotte sua come l'altre sua pari, altrimenti non ci si harà
patientia.

De' mogliazi ci si sono facti di nuovo, vi ho scripto abbastanza, et il
vostro Albertaccio Corsini è delli Octo nuovi.

Io sono successo nel luogo vostro, quando questi Dieci fanno certe
cenuze, et ser Antonio sta intozato,[914] tal sia di lui....

  Florentie, die XXI decembris MDII.

                                                    _Frater_ BLASIUS.


16 _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli. 9 gennaio 1503_.[915]

Niccolò. Io non so quale sia stato maggiore o il carico che havate del
non ci adrivare vostre lettere, o il contento che dipoi si è havuto,
visto per queste vostre che siate vivo; perchè qui non se ne stava
sanza sospecto, veduto che da otto dì che era seguito il caso,[916]
non ci era vostre lettere, et pure da omni banda et da omni altri ci
piovevano li advisi. Adrivò hieri la vostra dell'ultimo di dicembre,
scripta in sulla presura di coloro, la quale fu data in quello di
Urbino a uno viandante, et quello che voi spacciasti fu svaligiato,
et qui non comparse mai. Et la lettera capitò al Borgo, ad Giovanni
Ridolphi, il quale per tucte sua lettere si rimecteva de' particulari
a voi, et visto quella breve lettera, si immaginò quello che in facto
era, cioè che da voi non si era mancato di diligentia, scrivendo queste
formali parole: che s'è portato amorevolmente verso di voi. Le altre
vostre del primo et de' dua sono adrivate hoggi, che siamo a dì 9, et
così habbiamo havuto cattiva fortuna in questi advisi di questa cosa,
benchè di assai luoghi sempre habbiamo havuti li particulari, et assai
veri. Doverrete hora poterle mandare più facilmente, avendo più luoghi
de' nostri vicini dove fare scala, et non se ne perdere più, che da
quella dell'ultimo dì infuora, et queste dua, non ci è capitata altre
lettere. Subito che adrivò hieri quella prima, mandai uno correndo
alla Marietta, ad ciò non stéssi più sospesa; et hoggi sono stato col
signore Domenico Stradi, che fa lo officio del depositario, et hammi
promesso di rimborsarmi de li 5 ducati, li quali manderò subito alla
Marietta vostra.

Hovi scripto più volte ad questi dì, et datovi molti advisi, et così
molte chiachiere. Harò caro intendere se le havete havute. _Bene
valete_.

  Florentie, die VIIII ianuarii MDII.[917]

                                                    _Frater_ BLASIUS.

    _Nicolao Maclavello,_
  _suo plurimum honorando._


DOCUMENTO XX.[918]

(Pag. 430)

    _Lettera dei Dieci al Commissario di Borgo a S. Sepolcro_.

_Petro Ardinghello Commissar. Burgi. Die xiiij maij 1503_. — Noi
haviamo questo dì ricevute tre tua, l'una di hieri et l'altre d'avanti
hieri; et commendiamoti della diligentia che usi et hai usata in
intendere et advisarci. Et perchè tu desideri sapere prima quello che
delle genti venute ad Perugia noi ne intendiamo, et dipoi quanto noi
confidiamo nella natura et fortuna di quello Duca, ti rispondiamo, che
da Roma di coteste genti nè dell'altre non se ne è mai inteso nulla; et
se ci havessimo ad rapportare ad quelle lettere, ad Perugia non sarebbe
un cavallo; nè ce ne maravigliamo come fai tu, perchè le vengono
di verso Roma et non da Roma, sendo sute alloggiate 30 o 40 miglia
discosto; et movendosi _ad nutum Principis_, et ad hora che lo Oratore
nostro non ne può havere notitia, non ce ne ha possuto advisare.
Pertanto conviene rapportarcene ad te, del quale crediamo li advisi
essere fedeli ed ben fondati; nè possiamo di coteste cose fare altro
iuditio che si possa chi è costì, nè dartene altro adviso.

Et se noi habbiamo da pensare alla natura et fortuna di quello Signore,
non crediamo che la meriti disputa, perchè tucti gli andamenti et cenni
suoi meritono di essere considerati et advertiti da chi è discosto,
non che da noi ad chi lui è addosso. Nè manchiamo di pensare che
quelle genti conviene sieno venute là, o per venire alle stantie, o per
assicurarsi di quella città, o per assaltarci per divertire el guasto,
o per darci tali sospecti che noi o non diamo el guasto a' Pisani,
per paura di essere divertiti, o, dandosi, non si dia gagliardamente,
come si farebbe quando fussimo liberi da ogni sospecto. Le prime dua
cagioni ci dànno piccola brigha, la terza pensiamo che el Duca ne
habbi voglia grande et che la desideri, quando e' non habbi ad havere
altro rispecto che 'l nostro. Et perchè noi non veggiamo però che
sieno cessati tucti e' rispecti, ne stiamo alquanto sollevati con lo
animo, perchè nè lui nè el Papa sono sì pochi obbligati ad el Re,
nè el Re ha tanti impedimenti, che loro non li debbino havere, non
vogliamo dire reverentia, ma respecti grandi, o che lui facciendo loro
qualche temerità non li possa correggere. Et benchè noi conosciamo
quello Duca volonteroso, giovane et pieno di confidentia; _tamen_
non lo giudichiamo al tucto temerario, et che sia per entrare in una
impresa che facci alla fine ruinarlo, come delli altri che infino ad
qui vi sono entrati. Noi siamo però obstinati in questa opinione, anzi
crediamo che facilmente ci potremo ingannare, et per questo si pensa
ad non lasciare cotesto paese al tucto abbandonato di forze. Diciamoti
bene questo, che se si ha da dubitare di assalto manifesto ad 12 soldi
per lira, e' se ne ha da dubitare ad 18 soldi di furto, et acciò che
lui sotto qualche colore potessi nascondersi, come sarebbe di fare
rebellare una di coteste terre, et possere excusarsene. Et perchè ad
questo si ha ad pensare più noi, più te lo haviamo sempre ricordato,
et di nuovo te lo ricordiamo, che ti guardi dagl'inganni, et di non
essere giunto incauto in modo, o che di nocte non ti truovi e' nemici
in corpo, o di dì non sia ad tempo ad serrare le porte.

Nè possiamo dirti altro in questa materia, nè dartene altri advisi,
perchè quanto ti si discorre et scrivetisi, ti si dice in su li advisi
tuoi; et quando quelle genti vi fussino venute per quella quarta
cagione di farci risolvere la presa o ire freddamente, siamo disposti
che ci facci male la forza et non la opinione. Nè voliamo desistere,
nè allentare un punto da lo incepto nostro; perchè ci conforta ad
questo el malo essere dei Pisani, el desiderio di toccarne fondo, la
causa iusta et li conforti della Maestà del Re, el quale non vorrà
che le cose cominciate sotto gli auspitii suoi habbino altro fine che
honorevole....


DOCUMENTO XXI.[919]

(Pag. 431)

    _Lettera dei Dieci ai Commissarî nel Campo presso Pisa._

_Commissariis in Castris. Die 27 maij 1503._ — Questo giorno occorre
fare risposta alla vostra di hiarsera, data ad 2-1/2 di notte, per la
quale restiamo advisati della cagione perchè hieri non passasti Arno,
et come hoggi disegnavate ad ogni modo passarlo, et noi crediamo lo
habbiate facto. Et quanto a' fanti da pagarsi di nuovo, vi si mandorno
hieri e' danari, et con lo adviso come havessi ad soldare et pagarli,
et così come e' danari dovettono arrivare hiarsera di buona hora,
così questa sera debbono essere arrivati Lazzero di Scaramuccia et il
Guicciardino, perchè così ci promissono. Et perchè voi ci dite circha
el capo da darsi ad quelli cento fanti da farsi costì, non vi parere
ad proposito Bernardo di messere Criacho, rispecto alla emulatione, ci
conformiamo facilmente nell'opinione vostra; et se per la nostra vi se
ne scripse, fu più per ricordo che perchè ne fussimo al tucto resoluti;
et però ve ne governerete come vi parrà, et noi tucto approvreremo.

El discorso che voi ci fate del passare in val di Serchio, et la
prontepza dello animo vostro, non ci potrebbe più satisfare, il che
tanto più vi si adcrescerà, quanto voi vi vedrete provisti di quella
forza più per li fanti 200 nuovamente ordinati. Nè vi potremo più
confortare ad procedere animosamente et tirare la 'mpresa avanti;
perchè veggiamo el tempo fuggirsi fra le mani, et essere in preiuditio
nostro et in favore de' nemici, e' quali si vede che non pensono ad
altro, se non come e' possessino temporeggiarci. Voliamo nondimancho
ricordarvi più per el debito dello ofitio nostro, che per credere che
bisogni farlo, che noi equalmente desideriamo et stimiamo la salute di
cotesto exercito quanto il danno dell'inimici, et però vi confortiamo
ad adoperare in questa parte animo, et in quella prudentia, et ad
pensare bene ogni accidente che potessi nascere, non perchè vi facci
stòrre dalla impresa, nè dal procedere avanti; ma per farvi entrare
ne' periculi con maggiore securtà et più cautamente. Le cose che noi
vi havemo ad ricordare in questa parte sarebbono molte; ma non ci pare
da dirle per giudicarlo superfluo, sapiendo voi el paese come egli è
facto, le fiumare come le stanno, quello possete temere da Pisa per la
disperatione loro, quello da Lucha per la invidia et odio naturale di
ogni nostro bene. Et havendo innanzi ad gli ochi tucte queste cose,
potrete facilmente pensare ad li rimedii, e' quali noi giudichiamo
facili, stando voi ordinati sempre, et ciascuno sotto le bandiere sua,
non permettendo ad alchuno che esca dell'ordine, o per cupidità di
preda, o per altra insolentia che suole disordinare e' campi, et fare
spesso ruine grandissime: di che stiamo di buona voglia per conoscere
e' capi, et sapere che tenete bene el segno nostro, et vi fate
obbidire.

Noi, perchè la desperatione de' Pisani non ci offenda, haviamo
provedute quelle tante forze havete con voi; ma perchè l'odio de'
Luchesi non vi nuoca oltre alle forze vi trovate, come più dì fa vi
si dètte notitia, si mandò Andrea Adimari in montagna di Pistoia, Lº.
Spinelli in Val di Nievole, et prima si era mandato Girolamo de' Pilli
in Lunigiana, con ordine tenessi parati tucti gli huomini delle loro
provincie et in su quella frontiera di Lucha, per assaltare e' Luchesi
da quella banda, quando e' movessino contro a di voi in su la factione
del Val di Serchio. Commissesi loro s'intendessino con voi, et colli
cenni, ordini et consigli vostri si governassino. Non si sono dipoi
altrimenti sollecitati, per volerli lasciare disporre ad voi, e' quali
scriverrete quanto sia necessario, componendovi con quelli del modo,
acciò che altri stia a' termini, et che disordine non segua sanza
bisogno.

Et perchè voi ci dite, che non potendo condurre con voi in una volta
tante vectovaglie in Val di Serchio, che voi potessi fare quella
factione, et che, bisognandovi ritornare per esse, è bene pensare
di farne una canova o ad Bientina o ad Monte Carlo, vi si risponde
che questa cura ha ad essere vostra, et di quello di voi che ha ad
rimanere ad Cascina, dove è bene rimanghi tu, Pierfrancesco, ad ogni
modo, perchè una volta havete la Comunità obbligata ad portare el pane,
havete costì la farina, havete e' ministri che ne hanno carico, a'
quali potrete ordinare dove le habbino ad volgere et ad farne canova,
per rinfrescarne lo exercito, anchora che ad noi paressi che fussi più
ad proposito fare capo con quelle a Bientina che ad Monte Carlo, per
potervi servire del lago, et condurvele co' navicelli incontro.

Noi crediamo che vi sia venuto in consideratione in questa passata
d'Arno, ch'e' Pisani non possono havere altro expediente ad molestarvi,
che assaltare Cascina o qualchuno di cotesti luoghi nostri; et siamo
certi, havendovi pensato, vi harete anchora proveduto. Et noi, stimando
questa cosa, disegnavamo mandare ad Cascina gli huomini d'arme di
Luca Savello, e' quali questa sera in parte debbono essere comparsi ad
Poggibonzi. Ma non volendo noi _etiam_ abbandonare in tucto le cose di
sopra, per esservi pure qualche cavallo del Duca, c'è parso fermarle
ad Poggibonzi, per potercene servire ad un tracto, et ad Cascina et
di sopra. Haviamovi voluto scrivere la verità, et voi darete nome che
decte genti habbino ad venire subito costì ad Cascina, per tenere e'
nemici addreto, et valervi di questa reputatione....


DOCUMENTO XXII.[920]

(Pag. 431)

    _Lettera dei Dieci ai Commissarî nel Campo presso Pisa._

_Commissariis in Castris. Die 14 iunii 1503._ — La vostra lettera
data questa nocte ad 7 hore, ci dètte et piacere et speranza grande
di quello che è poi seguìto, come per l'altra vostra data ad 9
intendiamo, cioè Vico et la forteza essere venuta nelle mani nostre,
la quale nuova è stata da tucta questa Città ricevuta con allegreza
grande, et ciascuno insieme con epso noi ne ringratia sommamente lo
Omnipotente Iddio, et ne exalta et lauda con infinita laude la virtù
del signore balì et del signore messer Hercole, et di cotesti altri
signori et conductieri nostri, et ne commenda la vostra diligentia
et amore verso la patria sua. Et ciascuno crede che questo principio
buono et felice ci habbia ad partorire presto fructo più desiderato da
noi, et di che ne habbi ad seguire maggiore honore et utile ad cotesto
nostro exercito. Et perchè noi conosciamo quanta sia la prudentia di
cotesti capitani, et così quale sia la diligentia vostra, et come voi
conosciate che la fortuna buona si fa optima collo andare avanti et
usare bene l'occasione, nè lasciare freddare la caldeza del vincitore,
nè respirare ad chi perde, pensiamo che subito voi harete di già
pensato di andare avanti et levarvi dinanzi alli occhi la Verrucola,
la quale ci è stata sempre una continua molestia et uno impedimento ad
cotesti nostri luoghi all'intorno, et adiuto non piccolo alli inimici.
Et tanto più crediamo vi sarete vòlti ad expugnarla, et noi tanto
più desideriamo lo facciate, quanto per altri tempi et da chi è capo
di coteste genti è stata giudicata tale impresa non molto difficile.
Desideriamo adunque che voi la facciate subito et sanza perdere una
hora di tempo, perchè non perderemo tempo anchora noi in dare la
pagha ad cotesti soldati nel tempo debito. Et quando pure in questa
impresa voi vedessi qualche difficultà, la quale non crediamo, ce ne
darete subito risposta, significandoci lo animo vostro et opinione di
cotesti signori capitani, perchè, come vi si è detto, el desiderio et
voglia nostra è che non si perda una hora di tempo; et ci adviserete
quando tale impresa non paressi da farsi, quello vi occorra, et così
quello che fussi da fare poi, faccendo la 'mpresa della Verrucola, et
havendola expugnata. _Vale._


DOCUMENTO XXIII.[921]

(Pag. 436)

    _Lettera in cui Beltrando Costabili, ambasciatore ferrarese
    in Roma, al Duca di Ferrara, narra la morte di Troccio. — 11
    giugno 1503._

Mercuri de nocte passata fu tagliato la testa a Iacobo de Sancta Croce,
et la mattina seguente se ritrovò el corpo cum la testa tagliata in
Ponte, et lì stette tutto el dì; poi alla sera accompagnato da multi
homini et done romane, fu portato a la casa sua, et poi sepulto.

La zobia de matina[922] fu menato Trochia; et secondo intendo,
essendo giunto in Ostia la notte, li andò don Michele (capo delle
navi pontificie),[923] il quale lo fesce descendere da nave in
terra, et dètte voce che 'l se fusse gitato in mare. Poi lo condusse
qui, et venendo in Transtevere, intrò nel barco apresso una torre
rotunda de le mura, fece fare Papa Nicola, et lì lasciò dicto Trochia
guardato da alcuni alabarderi, et lui andò a la Santità del Papa et
a la Excelentia del signor Duca; et poi ritornò, dopo spacio de due
hore, et fece partire tutti quelli lo haveva lasciato a la guardia de
Trochia, restando lui cum due altri soli. Et secondo intendo, el Duca
poi li andò, et parlò cum Trochia per un poco; poi, mettendosse Sua
Excelentia in loco dove la poteva vedere et non essere vista, Trochia
fu strangolato per mano di don Michele. La matina seguente fu dipensata
tutta la roba sua, la quale insino a quella hora non era stata mossa,
ma solo inventariata, et la famiglia fu licentiata. Et secondo intendo,
la Santità de Nostro Signore, havendo longamente parlato de esso
Trochia in camera, affirmò che lo era morto, se ben la monstrò che 'l
se fusse gitato in mare ad Ostia ed annegato, et poi che 'l corpo fusse
stato trovato et portato qui. Et dopoi intendo, che Sua Santità ha pur
dicto al cardinal Sancto Severino la cosa come la sta, dicendoli che 'l
Duca lo ha facto amaciare a quella torre che è nel barcho, et che Sua
Santità non se ne è impaciata.

De li beneficii de dicto Trochia intendo chel migliore ha havuto el
cardinale de Trani, uno altro ne ha havuto el cardinale de Euna, et uno
altro è in Viterbio ha havuto el cardinale Farnese.

Del fallo suo, altro non se intende se non che Nostro Signore ha havuto
a dire più volte, che 'l se ne era fugito perchè el voleva essere
cardinale. Dopoi intendo che, havendo veduto Trochia la lista de li
cardinali se haveano a creare, el se dolse cum la Santità del Papa, per
non li essere lui descripto. Et dicendo Sua Beatitudine che 'l signore
Duca havea facto la scripta, intendo che 'l se dolsse poi anche più cum
Sua Santità del signore Duca; et che la Santità Sua li dixe che l'hera
uno pacio a dire cussì, et che se 'l signore Duca intendesse quello che
'l diceva, lo farìa morire: et per le parole de Sua Beatitudine pare
che, impaurito, la matina el se ne fugisse. El che tutto per mio debito
significo a Vostra Illustrissima Signoria; et a la sua bona gratia de
continuo me ricomando

De V. Ill.ma S.

  Rome, xj iunii 1503.

                                      _Servo_ BELTRANDO DE COSTABILI.


DOCUMENTO XXIV.

(Pag. 449)

    _Lettera dei Dieci al Commissario in Castrocaro. 5 ottobre
    1503._[924]

_Amerigo Antinori, Capitaneo et Commissario Castricarii. Die quinta
octobris._ — Questa mattina si è ricevuto la tua di hieri, et con
piacere habbiamo inteso la venuta costì del signor Antonio degli
Ordelaffi, che veramente la liberalità sua dello essersi rimesso nelle
mani nostre et lo honore che gli ha facto ad questa Repubblica ci ha in
modo satisfacto, che quando e' non ci havessi ad muovere altro rispecto
ad piacerli, ci ha ad muovere questo. Et perchè e' si hanno in questa
materia ad praticare più cose, che hanno necessario della presentia sua
qui, e conviene, ad volerne deliberare bene, parlarli ad boca, voliamo
gli facci intendere per parte nostra, che, quanto prima e' può, ne
venga alla volta nostra. Et t'ingegnerai che parta subito, perchè lo
attendiamo acciò non si habbi ad perdere tempo, quando o la occasione
o altra cosa si mostrassi favorevole ad li disegni di Sua Signoria et
nostri; et ce li offerirai.

_Post Scripta._ — L'allegata ti si scrive, acciò la possa leggiere
et comunicare al signor Giovannantonio, et appresso fare opera come
in quella si contiene, che detto Signore ne venga qui; et perchè noi
pensiamo che lui habbi bisognio di qualche danaio per potersi levare,
voliamo che, ricercandotene lui o bisognandogli, lo serva al più di
25 ducati d'oro, et noi ci obblighiamo ad rimborsartene al primo
tuo adviso. Et in summa lo ofitio tuo debbe essere circa al decto
Signore, di fare con ogni dextreza che subito ne vengha ad questa
volta. _Ulterius_, noi pensiamo che questa venuta costà di decto signor
Antonio habbi dall'un canto dato buona speranza ad quelli di Furlì,
che desideravono e' ritornassi per le mani nostre, et fàccilli stare
sollevati; et è ragionevole che ti mandino ad fare intendere qualche
cosa di loro animo. Dall'altra parte crediamo che 'l maiordomo et altri
huomini, ofitiali et partigiani del Duca Valentino, e' quali per ordine
nostro da Giovambaptista Ridolfi sono stati intractenuti infino ad
qui et favoriti, insospectischino al presente di noi, et dubitino che
noi non voliamo perturbare lo Stato di Furlì, et disfavorire el loro
Signore con questo signore Antonio, et che quello che noi vedevamo di
non potere fare con Madonna[925] et li figliuoli, per le conditioni
loro, noi lo vogliamo fare con cotestui. Et essendo certi che le
cose di quella terra saranno in tali dispareri, et non ci venendo per
ancora ad proposito farci inimici di alcuna delle parti, voliamo, in
quanto fare si può, che le s'intractenghino tutte addua, in questo
modo: che ad li huomini ed ministri del Duca facci intendere, quando
gli vedessi ne' sospecti predecti, che decto signor Antonio si è
facto venire di qua _solum_ ad benefitio del Duca loro, per levare ad
li Vinitiani questa via di perturbare quella città di Forli, et per
chiudere loro quella porta che solo pareva fussi loro aperta; et con
questa iustificatione li intracterrai. Et per adverso, a' Furlivesi che
favorissino el signore Antonio predecto, et che ti facessino intendere
alcuna pratica, mostrerai come noi lo haviamo facto venire qui in
Firenze per pratichare, ordinare et disporre seco quanto sia da fare,
et che non si mancherà di cosa alcuna. Et così da ogni parte verrai
bilanciando la cosa, acciò noi ci guadagnamo tempo, el quale stimiamo
assai in questo maneggio; ma bisogna haverci buona prudentia et
dextreza, et governarlo secretamente et in modo colorirlo, che nessuna
delle parti si advegha di essere o adgirata o tenuta in pratica. Et
sappiamo che non ci mancherai dentro, et sopr'ad tucto ci scriverrai
spesso quanto harai o inteso o operato in questa materia.

Ricorderenti solo questo, che di tucte quelle cose che aspectono tempo,
te ne rimetta ad scrivercene et pigliarne ordine et parere da noi.


DOCUMENTO XXV. (Pag. 456)

    _Due lettere del Buonaccorsi al Machiavelli in Roma. 15 e 17
    novembre 1503._


1[926]

Niccolò. Elli è comparsa questa mattina la resposta vostra alla nostra
delli 8, spacciata ad posta per le cose di Romagna, dove voi discorrete
coteste cose lungamente, et maxime di quello si possa sperare costà,
che in facto saranno provisioni a fare poco fructo. Et qui si è facto
tutto il possibile, et pare a ogniuno che qui la Città, oltre allo
interesse suo, habbi ancora operato in beneficio di cotesta Santa
Sede, tanto da haverne qualche grado. Et presto si vedrà che Vinitiani
non fanno questo per odio del Duca, ma per loro sfrenata cupidità et
ambitione, etc.

Io non voglio mancare di farvi intendere in privato anchora, benchè
per la nostra di hieri[927] lo harete possuto vedere, che «qui è tanto
in odio cotesto nome solo del Duca, che ogni volta che gli è ricordato
in una lettera, non pare che vi possi essere cosa più accetta.[928]
Et vogliovi dare questo segnio di questa cosa: che, proponendosi ieri
per via di parere ne li Ottanta et buon numero di cittadini, se si
haveva ad dare il salvacondotto o non, quelli che non volevano furono
circa novanta, et quelli del sì circa venti. Et qui» è ferma oppinione
che «il Papa voglia levarselo presto dinanzi, et ad questo fine dica
di mandarlo in Romagnia, et non per altro; et voi ne lo universale
ne siate uccellato,» scrivendo «di lui gagliardo. Nè è chi manchi di
credere che voi ancora vogliate cercare di qualche mancia, che non
è per riuscirvi,» perchè qui non bisogna «ragionarne,» ma sì bene
di qualche cosa che «gli avessi ad nuocere.»[929] Hovi voluto fare
intendere questo ad vostra informatione.

Il vostro figliuolo et la Marietta sta bene, et così tutti li altri
vostri, et qua vi desiderano. Pregovi che, venendovi alle mani una
plasma, ma vorrei fussi piccola, la togliate ad mia instantia, et io
rimborserò chi ordinerete. Io non vi scrivo questo, perchè creda ne
habbiate ad usare una minima diligentia; ma perchè io non sono chiaro
anchora ad facto di voi, et sono un pazo.

  Florentiæ, die 15 novembris 1503.

Noi operreno che quello tallo[930] sia di qualità da haverne honore,
non dubitate; ma pare uno corbachino, si è nero.

    _N[icolao] Maclavello, Secretario_
  _flo[renti]no, Romae, suo honorando._


2[931]

Questa mattina ho ricevuto la vostra delli XI, col postscripto de'
XIII, che dovesti ricordarvi di me ad punto quando andavate al cesso,
poichè voi la trovasti tra li scartafacci, cercando di qualcosa per uno
paragone. A l'usato, et basti.

Voi doverresti esser chiaro che nelle cose che vi importano, io non
le ho altrimenti mai havute ad quore che le mie proprie. Et però, se
vi scripsi del fanciulo mastio, vi scripsi la verità; et di più vi
dico che la Marietta l'à dato ad balia qui in Firenze; et lui et lei
sta bene, gratia di Dio. Vero è che la vive con grandissima passione
di questa vostra absentia; nè vi è rimedio. Et quando la Lessandra
potrà andarvi, non ne mancherà, che pure domenica vi fu. Et lei et io
pensiamo sempre ad farvi piacere. Così pensassi voi ad me.

Io vi scripsi ultimamente, non mi ricordo già del dì, tutto quello
mi occorreva, che vi fu qualcosa da haverlo caro. Se voi harete facto
all'usato, non lo harete letto. Vostro danno. Nè io vi scrivo con altro
animo. Dal canto mio non si mancherà mai del debito, benchè alle volte
mi adiri, et ad ragione.

Piacerami habbiate aggiunto alla lettera mia al Cardinale[932] quello
dite, di che ne dubito. Non dubito già della ricevuta, perchè ne ho
da lui risposta. Voi sapete il desiderio mio; et buscando per voi,
ricordatevi che io sono qui in tanta fatica et servitù quanto posso,
con quello emolumento vi è noto.

Li ambasciatori per costì s'apprestano, et hanno il tempo assignato
tutto dì 25 di questo. Et Niccolò Valori anchora presto ne andrà in
Francia.

Erami scordato respondere alla domanda vostra delli altri compari,[933]
che furono messer Batista Machiavelli, messer Marcello, Lodovico,
il capitano Domenico et Io, di bella brigata: et demovi tutti grossi
nuovi. _Bene valete._

  Florentiae, die xvii novembris MDiii.

                                                     _Uti frater_ BL.

    _N[icolao] Maclavello, Secretario_
  _F[lore]ntino, Romae, suo honorando._
                               _Romae._


DOCUMENTO XXVI.

(Pag. 463)

    _Lettera di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli_. 4 dicembre
    1503_.[934]

Compare honorando. Questa mattina ho ricevuto dua vostre de' 29 et
30, et mi maraviglio non habbiate ricevuto mie lettere da' 21 in qua,
che pure vi ho scripto dua o tre volte, et ultimamente per le mani di
Bolognino, quale venne in costà con danari del Re; la quale mi sarà
caro intendere habbiate ricevuto, perchè per vostro amore ne desidero
risposta, ad ciò si mitigassi il signor Agnolo Tucci, il quale, come
per quella harete visto, era alterato gravissimamente contro di voi,
per non li havere mai resposto, che dice havervene facto scrivere dal
Gonfaloniere et da quanti Cancellieri è in questo Palazo. Scripsivi
qualcuna delle parole che, in presentia di tutti Signori, haveva
usato contro di voi, che invero «furono di mala natura;» et tutti
gli altri Signori «stettano ad udire, che chi per una passione et
chi per un'altra, non si hebbono per male. Et alla tornata vostra vi
raguaglierò di cose che non le iudico da scrivere. Bastivi che ci è di
maligni cervelli, et a chi dispiace scriviate bene di Volterra, et a
chi un'altra cosa; et così altri con poco suo grado si affatica, et con
mettervi del suo.»

Se voi fusti stato presente alla resposta, haresti iudicato vi amo
più che me medesimo. Non mi sforzerò già di persuadervelo altrimenti,
perchè un dì harete tanti riscontri di questo che lo crederrete, et
forse userete verso di me altri termini non havete facto fino qui. Et
dove io possa farvi honore, o di parole o di facti, sanza respecto la
do per il mezo. Nè sono per mutarmi mai di questo animo, anchorachè
poco vi possa fare. Chi vi scrive che troviate altro exercitio non vi
vuole bene, perchè io non veggo altro pericolo ne' casi nostri che il
consueto. Il Vespuccio una volta ha carpito il tordo, che buon pro
li facci, et anche a noi altri se ci riuscirà. Credo habbiate speso
assai, et spendiate anchora: non so già come qui habbiate ad esserne
satisfacto. Una volta li ambasciatori verranno, fra 4 o 5 dì, et voi
harete subito licentia. Et io non so per anchora niente di venire,[935]
nè qui si pensa a questo. Verranno honorevolissimamente ad ordine, et
maxime il Girolamo et Matheo Strozzi, che si fanno vesti et altre cose
sumptuosissime; et credo hareno honore....

«Intendo che il Gonfaloniere pensa mandarvi con Roano verso Alamagnia,
per essere là a questo loro Parlamento.» Se fa per voi, _bene quidem_;
se no, ordinate li defensivi. «Ma questo sia secreto, chè mi faresti
danno assai.»

La Marietta non ha possuto fin qui scrivere, per essere in parto; credo
lo farà per lo advenire. Et pure hieri vi andò la Lessandra, et per Dio
non è possibile farla acquiescere che stia in pace.

Duolmi delli affanni vostri, et a Lodovico Morelli farò l'ambasciata.
Sarà in una poliza in questa, quello desideri[936] per il fratello,
quello de' Tucci; et dice che, spendendo, vi rimborserà. Pregovi ne
riscriviate una sola parola. _Bene valete_.

  Florentiae, die 4 decembris MDiij.

                                                         _Frater_ BL.

Nicolò vostro dice non vi scrive per non vi dare noia, che ha
raguagliato Totto vostro; et li casi sua non vi ricorda.

  _Nicolao Maclavello, mandatario [et]_
    _Secretario fiorentino, tanquam fratri_
    _honorando._
            _Romae_.


DOCUMENTO XXVII.

(Pag. 469)

    _Lettera dei Dieci ad Antonio Giacomini._ 20 agosto 1504_.[937]

_Antonio Jacomino. Die xx augusti 1504_. — Hiarsera ti si scripse
della deliberatione facta da noi circha el voltare Arno alla Torre
ad Fagiano, et come noi volevamo fare questa factione subito dopo el
guasto, et che per questo egli era necessario che tu pensassi dove,
dato el guasto, stéssi bene el campo, per rendere securo chi lavorerà
ad tale opera. Di nuovo ti replichiamo per questa el medesimo, perchè
tale deliberatione è ferma, et voliamo ad ogni modo che la si metta
innanzi; et però bisognia che oltre allo aiutare tale cosa collo
effecto, la si aiuti _etiam_ colla demostratione. Questo ti si dice,
perchè se fussi costì alcuno condottiero ad chi non paressi, voliamo tu
li possa fare intendere quale sia lo animo nostro, et che noi voliamo
unitamente et con le parole et co' fatti la sia favorita.

Et perchè noi non voliamo che si perda punto di tempo, domattina
manderemo costà Giuliano Lapi e Colombino, ad ciò sieno teco, et,
mostroti el disegnio, possiate ordinare quanto sia necessario. Et acciò
intenda qualche particolare, e' si è ragionato che bisognino dumila
opere il dì, et che gli habbino le vanghe et zappe; voliamo pagare
questi huomini ad dieci soldi el dì per ciascuno. Bisogna adunque
pensare se di cotesto paese all'intorno se ne può trarre tanti, perchè
bisognia che siano buoni, pagandogli noi nel modo soprascripto. Et
havendo ragunato così 1000 marraioli, secondo lo adviso di Francesco
Serragli, potrai examinare fra loro quali sieno sufficienti all'opera
soprascripta, et li farai fermare et provedere degli instrumenti
loro; et el resto provedere in quel modo che ti occorrerà meglio. Et
non ti bastando ad adempiere el numero questi luoghi convicini, te ne
andrai ne' luoghi più propinqui; et quando non si potessi el primo dì
cominciare la opera con dumila huomini, voliamo si cominci con quegli
più si può, et così quanto prima si può, adempia el numero decto.

Ragionerai tucte queste cose con Giuliano Lapi, et ti varrai dell'opera
sua per comandare ad quelle cose che in tale factione sono necessarie.
Mena decto Giuliano seco tre o quattro huomini per valersene, et noi
facciamo conto che tu ti vaglia, oltre ad quelli, di Pagolo da Parrano
et altri simili, che fussino in cotesto campo buoni ad essere soldati,
et ad indirizare una simile faccenda. Nè ti scrivereno altro in questa
cosa, ma ci rimettereno ad quello che ad bocca ti discorrerà Giuliano
Lapi. Et el disopra ti si è scripto, acciò che intenda avanti allo
arrivare suo, e' meriti di questa cosa, vi volga l'animo, et ti prepari
ad quella con ogni modo possibile.

Fara' ci scrivere appunto da chi ne ha la cura, quante marre, vanghe,
pale, et libbre d'auti[938] si truovono costì in munitione, et di tucto
ci darai adviso. Potrai cominciare ad fare comandare e' Comuni che
venghino con quelli huomini ti parrà, et un dì, quale tu giudicherai
che si possa, principiare l'opera; et farai che portino seco la metà
vanghe, et l'altra metà meze pale et meze zappe.


DOCUMENTO XXVIII.

(Pag. 471)

    _Lettera dei Dieci al Commissario T. Tosinghi. 28 settembre
    1504_.[939]

_Tomaso Tosinghi, Commissario in Campo. Die 28 septembris 1504._ —
Questo dì si sono ricevute tre vostre lettere di hieri, le quali,
perchè ci confermavano in quello medesimo che voi ci havevi scripto
per la de' 26 dì, accrescendo le dubitationi et le difficultà circa
el fornire coteste opere, deliberamo haverne consulta del Consiglio
degli Ottanta, et di buon numero di cittadini, per vedere come havamo
ad procedere. Et insumma, loro consigliono che per ogni respecto si
debbe ire avanti et non abbandonare l'opera, anzi raddoppiare la buona
diligentia, perchè l'abbi el fine si desidera, et non perdonare ad
alcuna spesa, nè disagio; et lo hanno consigliato con tanta caldezza
che non si potrebbe stimare. Pertanto è bene che si faccia in modo che
nè per voi, nè per noi manchi, et se sturbo veruno habbi ad seguire,
nasca dal tempo; perchè desideriamo, avendoci addolere di alcuna
cosa, dolerci del tempo et non delli huomini. Et per non mancare dal
canto nostro, questa sera manderemo danari per li operai, et così
sollecitereno le altre cose che per noi si hanno ad sollecitare. Ma
perchè e' danari et el tempo si spenda utilmente, ci pare che non
si spenda ad nessuno modo danari in quelli operai che voi giudicate
disutili, così di quelli che si truovono costì, come di quelli vi
venissero per lo advenire. Et però potrete tali disutili licentiare,
perchè voliamo piuttosto habbiate 500 huomini che sieno buoni, che
1000, et che ve ne sia 500 inutili.

Vorremo, oltre ad di questo, che si pensasse come infinite volte si è
decto, che quando pure el tempo sforzassi ad levarsi, la opera restassi
meglio et più perfecta che fussi possibile, il che ci parrebbe seguissi
quando voi ordinassi in modo quello è facto, che tucto operassi
qualche cosa. Et però vorremo che con sollecitudine si attendesse
ad ridurre la pescaia in modo che la facessi qualche operatione, et
che le piene la fermassino et facessino più forte, et così che si
sboccassi ad ogni modo el secondo fosso. Et se non si potesse detto
secondo fosso condurlo ad Arno tucto largo come e' fu cominciato, vi si
conducessi con quella largheza si potessi, acciochè per qualche modo
e' pigliassi le acque, et non havessi ad rimanere una buca in terra
senza fructo. Parrebbeci anchora che voi facessi la sboccatura di quel
fosso fornito, largo almeno cento braccia, ritirando la largheza in
verso dove havessi ad essere la bocca del secondo fosso; et se voi non
potessi fare questa tale sboccatura quadra, la farete smussata, facendo
che el più largo fussi dalla parte del fosso fornito. Questa cosa ci
parrebbe che déssi la via più facilmente all'acqua, che con maggiore
empito entrassi nel fosso, et togliesse facilità a' Pisani di chiudere
la sboccatura, sendo largha. Di nuovo vi si dice che noi desideriamo
che l'opera si tirassi innanzi infino al fine, servendo el tempo. Ma
perchè el tempo può guastarsi ad ogni hora, vorremo che si lavorasse
in quello che facessi l'opera più utile, il che ci pare che sii il
fermare la pescaia, sboccare _quomodocunque_ el fosso secondo, et al
fosso primo fare una sboccatura. Noi penseremo in questo mezo dove
debbino andare cotesti huomini d'arme alle stanze, et te ne mandereno
listra, acciochè, bisognando levarsi in un subito, tu sappi dove si
habbino ad distribuire, et non segua disordine. Ma terrai questa cosa
in te, acciochè, sappiendosi per il campo, e' non cominciassino a
levarsi prima che tu non ordinassi o che non fussi el desiderio nostro.
Et perchè tu ci scrivi che il sig. Marcantonio desiderrebbe essere
alloggiato in Maremma, potrai nel discorso del parlare dirli, come
tu credevi che si fussi pensato qui, per honore della sua persona, et
per riputatione delle cose nostre costà, di alloggiare la persona sua
et li cavalli leggieri in Cascina, et le genti sue d'armi ne' luoghi
convicini et commodi.

Intendiamo oltre ad di questo quello tu scrivi delle castagne, le
quali noi desiderreno tòrre ad li Pisani ad ogni modo; et però vorremo
pensassi ad questa cosa, et ci scrivessi el modo come ti paressi da
procedere, et se andandovi con una scorta grossa et con li huomini del
paese ad ritorle, e' bastassi. Communicherai questa ad Giuliano Lapi.


DOCUMENTO XXIX.

(Pag. 471)

    _Lettera dei Dieci al Commissario T. Tosinghi. 30 settembre
    1504_.[940]

_Tomaso Tosinghi in Castris Commissario. Die xxx septembris 1504_. —
Hieri et avanti hieri et questa mattina ti si scripse particularmente
quale fussi el nostro desiderio circa el procedere nelle cose di costà,
et di nuovo brevemente ti replicheremo, come noi vogliamo si stia tanto
in campagna et si seguiti cotesta opera, quanto el tempo ci serve, el
quale, per essere questo dì bellissimo, ci dà speranza che, se non
mancha da voi, cotesta impresa debbi havere el fine desideriamo. Et
vi si ricorda particularmente el fortificare la pescaia, et ridurla
in termine che la facci qualche fructo, et così che voi diate la
perfectione ad quel secondo fosso, et lo riduciate in termine che
pigli dell'acqua; et sopra ad ogni altra cosa, vi si ricorda fare
l'abboccature de' fossi larghissime, in modo che fra l'uno et l'altro
fosso presso ad Arno, almeno ad cento braccia, non rimanghi punto di
grotta, anzi sia sgrottato ogni cosa, se non infino al piano de' fossi,
almeno quanto più giù si può, acciò che venendo Arno grosso, et non
trovando chi lo ritengha, e' rovini più facilmente verso quella parte
donde se gli è cominciato ad dare la via. Noi ve lo replichiamo spesso
perchè lo desideriamo, parendoci che, potendosi finire l'opera o non
si potendo finire, questa sia una delle più utili cose et delle più
necessarie che voi dobbiate fare. Non voliamo manchare farvi intendere
come e' ci è venuto ad notitia, che in Barbericina et _etiam_ da
cotesta parte d'Arno donde è il campo, si truovono anchora ritte buona
quantità di biade; di che ti diamo notitia, perchè vorremo che ad ogni
modo le si togliessino o guastassino a' Pisani. Et se non si potessi nè
guastare nè tòrre quelle di Barbericina, si guastassino almeno quelle
che fussino da cotesta parte del fiume; però intenderai dove le sieno,
et vedrai ad ogni modo di privarne e' nemici. _Vale._

Sendosi dato per il Consiglio Grande della nostra Città, autorità
amplissima a' nostri Excelsi Signori di potere per arbitrio loro
perdonare et rendere e' beni ad qualunque Pisano, ti mandiamo, in
questa, copia d'uno bando, per il quale si possi pubblicare tale loro
autorità; el quale bando vorremo che tu mandassi ad quella hora ti
paressi più comodo, in lato che chi fussi in sulle mura di Pisa lo
potessi udire; et dipoi lo mandassi anchora in cotesto exercito nostro.
_Vale._

_Per parte de' Magnifici et Excelsi Signori Priori di Libertà et
Gonfalonieri di Iustitia del Popolo Fiorentino, si fa bandire et
pubblicamente notificare, come egli è stato ad loro Excelse Signorie
conceduta amplissima autorità et facultà dal Popolo et Consiglio
Maggiore della città di Firenze, di potere concedere venia per arbitrio
loro ad ciascuno di qualunque grado, stato o conditione si sia, el
quale al presente habiti nella città di Pisa, et restituirli e' suoi
beni, et adsolverlo da qualunque delitto, maleficio o oxcesso, per
alcun tempo infino ad questo dì havessi commesso._


DOCUMENTO XXX.

(Pag. 471)

    _Lettera dei Dieci al Commissario T. Tosinghi. 3 ottobre
    1504._[941]

_Tomaso Tosinghi, Commissario in Castris adversus Pisanos. 3 octobris
1504._ — Per questa tua di hieri mattina, data ad levata di sole, siamo
advisati di molti particulari del fosso facto, et dello ad farsi, et
della pescaia, et così di tucta l'opera: commendiamoti del ragguaglio.
Restaci hora solo un desiderio d'intendere quello habbi facto tanta
acqua che voi ci scrivete havere preso et continuamente pigliare el
fosso facto; perchè vorremo intendere bene dove l'approda, et quello
che la fa, et quanto s'allargha, et che volta piglia, et se la è ancora
condocta allo stagno. Intendiamo appresso con piacere grande che del
secondo fosso sia fornito per tucta la sua lungheza, una largheza
di 10 braccia, et come per tucto dì di hieri non vi doveva restare
altro che 80 braccia di sboccatura, la quale voi disegnate largha 55
braccia; et benchè voi ci scriviate che con ogni studio et diligentia
voi adtendiate ad decta sboccatura, nondimeno vi ricordereno quello
ci occorre. Noi intendiamo quello che voi dite della difficultà che ha
cotesta sboccatura ad cavarsi, rispetto alla strada et alla grotta dove
è el terreno più fermo et più forte che in tucta la coda del fosso;
intendiamo come fra sei dì credete haverla fornita, secondo el parlare
di cotesti capi maestri, et come e' se ne potrebbono ingannare, etc.;
et examinato con quante difficultà vi si conducono gli huomini, et con
quanta, condocti vi sono, voi ve gli mantenete, stiamo con dispiacere
in qualche parte di questa cosa; perchè, scorciandosi el tempo,[942]
giudichiamo che bisognerà levare mano subito, veggiendo maxime la
voglia di coteste genti d'arme, et quando el tempo non si scorciassi,
la pagha delle fanterie ci è addosso. Pertanto noi vorremo che si
attendessi con quella più diligentia è possibile alle sboccature, et
però ci parrebbe che voi deputassi al lavorare in su la sboccatura del
fosso secondo, et in su el fare più largha quella del primo, tucte
quelle opere che vi si possono maneggiare; et se ve ne avanzassi,
non levando mano dalla pescaia, nelle cose necessarie, ci parrebbe
le mettessi a lavorare in allarghare più, secondo el primo disegno,
la coda del secondo fosso; et potrete cominciarvi da capo, andando
lavorando col benefitio del tempo et della fortuna, perchè si potrà
ogni volta levar mano, et tucto quello che sarà facto, recherà utile
all'opera, et quello che rimarrà ad farsi, non la disturberà.

Tale modo ci pare da tenere per le cagioni dette; et perchè voi ci
ricordate vangatori et danari, vi diciamo che bisogna teniate ordine
che non si fughino, perchè fare venire nuovi huomini da San Giovanni
et Mugiello non sarebbeno a tempo, et tucti questi Vicarii credono che
voi teniate quelli vi si sono mandati infino all'ultimo dell'opera,
perchè altrimenti loro non li possono ogni dì mandare. Pertanto, se voi
gli lasciate fuggire ad stiere, voi rimarrete in secho, et quanto a'
danari, noi hiarsera l'altra si mandò ad Giuliano Lapi 200 ducati, et
questa sera se ne manda dugento altri....

E' caporali di coteste genti sono stati qui, et in summa ci siamo
resoluti con quelli, si stia costì tanto che la opera sia finita,
servendo el tempo; habbiamo bene detto loro questo: che fra sei o otto
dì crediamo che la harà hauto el suo debito. Et perchè Marcantonio
Colonna ci fa intendere desiderare venire infino qui, siamo contenti
gli dia licenza vengha la sua persona, con ordine di ritornare in costà
subito. _Vale._


DOCUMENTO XXXI.

(Pag. 478)

    _Lettera dei Dieci a Giovan Paolo Baglioni. 9 dicembre
    1504._[943]

_Johanni Paulo de Balionibus. 9 decembris 1504._ — Havendo noi inteso
più volte da qualche giorno in qua, et da più luoghi da prestar loro
fede, come Bartolomeo d'Alviano ingrossa in terra di Roma di gente,
non vi habbiamo vòlto molto lo animo, giudicando che la non possessi
essere cosa di molto momento, et non appartenente allo Stato nostro.
Ma havendo inteso nuovamente el medesimo, et di più come e' Vitegli
fanno el simile, et richiamano tucti li huomini d'arme, usi ad militare
sotto e' padri loro, et rassettono insieme tucte le bandiere delle
lor fanterie, et che sono uniti con decto Bartolomeo, et che gli
hanno delli altri seguaci; ci è parso, anchora che per questo non
ci sia cresciuto molta dubitatione, di darvi notitia di quanto per
noi s'intende, non per altra cagione che per riscontrare con Vostra
Magnificentia questi advisi, et di più intenderne l'opinione et el
parere suo, et che iuditio ne facci; et se tali ristringimenti sono
veri, ad che fine si faccino, et se altri che Vitelli et Alviano
convengono con questi preparamenti, et qual fine sia el loro; perchè in
su l'opinione di Vostra Magnificentia ci riposereno assai; la quale per
essere più propinqua loro, et per molti altri respecti, ne harà potuto
intendere el vero o coniecturarlo. Et ad questo effecto le mandiamo
ad posta el presente nostro cavallaro, ad ciò habbi più occasione di
responderci indreto.

_Ulterius_, ricercando questi tempi che si riveggha spesso le sua
armi in viso, per satisfarsi nel riconoscerle, et per potersene
servire, bisognando, desiderremo che quelli suoi huomini d'arme et
cavalli leggieri che per loro commodità si ritruovono nel Perugino,
ritornassino alle stanze loro, acciò che in sul dare questi nuovi
danari o prima, li possiamo vedere in viso et rassegnarli. Nè altro, se
non offerirci alla Signoria Vostra.


DOCUMENTO XXXII.

(Pag. 478)

    _Lettera dei Dieci al Capitano di Livorno. 10 gennaio 1504
    (1505)._[944]

_Al Capitano di Livorno. Die x ianuarii 1504._ — La Excellentia del
Gonfaloniere nostro ci ha mostro una tua lettura che tu li scrivi,
dandogli notitia delle cose di costà, et della buona et diligente
guardia che per te si fa in cotesto luogo, il che ci è suto sommamente
grato, perchè in vero non habbiamo al presente chosa che noi
desideriamo più che cotesta. Et di tale tua diligentia ci fa assai
buona testimonianza, lo esservi stato ropto la carcere, et tractone el
prigione sanza che da te o da altri per tuo ordine sia suto sentito,
et dipoi sanza essere visto se ne sia per le mura fuggito, in modo che
ogni poco meno di diligentia che per te si fussi usata, posseva costì
nasciere caso di maggiore importanza e per adventura inremediabile;
perchè chi può uscir fuora per le mura senza esser visto, può _etiam_
sanza esser visto entrar drento; et così chi sanza esser sentito può
rompere una prigione, può _etiam_ fare delle altre cose più pernitiose,
le quali non hanno per adventura bisogno di tanto aiuto, et con mancho
strepito si possono condurre. Pertanto noi non restereno mai satisfacti
della tua diligentia, infino non intendiamo che tu l'habbi in modo
raddoppiata, che costì non si possa muovere una foglia che la non si
veggha o non si senta; et perchè noi speriamo che ad questa hora tu
harai ritrovato chi è suto autore della roptura della carcere et della
fuggita del prigione, voliamo ce ne dia subito notitia, scrivendoci chi
furno et di quale compagnia sono et da quali cagioni mossi. Et quando
tu non li havessi anchora ritrovati, userai diligentia in cercarli per
poterci satisfare in darcene notitia.

Tu accenni, oltre ad di questo, nella preallegata lettera al
Gonfaloniere nostro, come haresti da dire altre cose, oltre ad
quelle scrivi che ragguardano alla salute di cotesta terra, et sono
d'importantia grande; ma non lo fai per esser cose da riferire ad
bocha. Donde e' ci pare che in questo caso tu non usi minor prudentia
che ti habbi usata diligentia in quel primo; et veramente le cose
d'importanza si debbono tener segrete, ma non tanto che per ignoranza
di quelle non vi si possa provedere. Et però era bene considerare
che tu parlavi di Livorno, et che bisognia parlar chiaro, et le cose
d'importanza dirle, maxime scrivendo alla Excellentia del Gonfaloniere
in particulare, del quale ragionevolmente doverresti confidarti. Et
però se tu hai da dire alcuna cosa, dilla et scrivila larghamente,
acciò che vi si possa fare provisione, et che noi non restiamo in aria
per li advisi tuoi.


DOCUMENTO XXXIII.

(Pag. 486)

    _Lettera dei Dieci a P. A. Carnesecchi Commissario in Maremma.
    — 6 giugno 1505._[945]

_Ad Pierantonio Carnesechi. Die 6 iunii, in Maremma._ — Le ultime
tue de' 3 et 4 del presente, per essere più copiose di advisi delle
cose di Piombino, ci hanno dato alquanto più piacere, et più ci hanno
satisfacto che le altre tua; perchè quanto alli advisi, come hiarsera
ti si scripse, desideriamo essere tenuti un po' meglio raggualiati;
dell'altre cose ne siamo sempre restati cumulatissimamente satisfacti.
Habbiamo notato _inter alia_, in queste tue lettere, come tu ricordi
che sarebbe bene, per fare venire in maggiore desperatione e' subditi
di quello Signore, et per fare riconosciere lui de' suoi errori,
prohibire alli suoi subditi che non potessino venire nel dominio
nostro, nè godere el benefitio et commodo traggono delle mulina, come
fanno continuamente; et havendo bene discorso et examinata questa cosa,
laudiamo assai questo tuo motivo, et lo metteremo ad effecto, quando
non credessimo che questo havessi ad essere un principio di zuffa. Et
però, pensato ad tucto, voliamo che si tenti una terza cosa; et pare
con questo pigliare occasione d'appiccare ragionamento, et intendere
et scoprire in parte lo animo di quel Signore, et questo è che tu li
scriva una lettera con quella prudentia che tu saprai; et li mostri
maravigliarti assai della prohibitione che Sua Signoria ha facta,
che non entrino subditi nostri nella sua terra; et che tanto più te
ne maravigli, quanto tu non sai indovinare la cagione; et li dirai
non havere voluto scrivercene, se prima non intenderai la causa da
lui, perchè e' fa tale prohibitione, desiderando che più presto, con
rimutare quel suo edicto, noi non lo havessimo hauto ad sapere, che,
sappiendolo, noi fossimo forzati ad prohibire anchora noi e' paesi
nostri a' subditi suoi. Et lo graverai ad volerci scrivere se si tiene
offeso, o si truova in alcuno sospecto d'alcuno nostro, promettendoli
essere parato ad iustificarlo con quella facilità che il vero si
iustifica; et in questa sententia li scriverai con quella prudentia che
ad te occorrerà, et della risposta ci manderai copia.

Quanto alla paga di cotesti conestaboli, qua non si pensa ad altro che
alla expeditione d'epsa, et subito si manderà. Noi scriviamo l'alligata
ad messere Criacho, per la quale l'imponiamo si transferischa in
Cascina, dove voliamo stia per capo di quella guardia, et con la
provisione sua ordinaria, et con cento provigionati: nè se li dà più
compagnia, per non essere necessario accrescere quivi più guardia.
Conforteralo ad risolversi et presto, secondo el voto nostro,
monstrandoli che chi vuole bene da questa città, bisogna si lasci
regolare et governare ad lei; et non voglia che lei sia regolata da
lui; et che questa via è da ire insino in cielo, dove noi siamo per
condurlo et presto: quando altrimenti, che sarà male consigliato.
_Vale._


DOCUMENTO XXXIV.

(Pag. 486)

    _Lettera dei Dieci al Governatore Ercole Bentivoglio. 28 giugno
    1505_.[946]

_Ad messere Ercole Bentivoglio Governatore. Die 28 iunii 1505_. —
Quanto la S. V. discorre per questa sua de' 26, ci satisfa assai,
parendoci che sia tucto bene considerato et ragionevole. Et perchè
quella presuppone che questi fanti venuti ad Piombino sieno paghati
da' Sanesi et da' Luchesi, et che vi sieno condocti con consentimento
loro (e' quali giudichano più facilmente farci ritirare da la impresa
di Pisa, et _per conseguens_ tenerla più viva in questo modo, che
se li havessin seguitato di pagare e' fanti et cavalli di Pisa, come
feciono lo anno passato); et così questi fanti, secondo quello scrive
la S. V., satisfanno al desiderio de' Luchesi et Sanesi, et a Consalvo
assicurarsi che Pisa non ci verrà sotto, non voliamo manchare di farvi
intendere quello che contro ad tale opinione s'intende. Riferisce
alcuno che ha hauta qualche tempo la mente del Signore di Piombino,
come sendo decto Signore, poichè li entrò in quello Stato, vixuto
sempre con paura che noi o Pandolfo non ne lo priviamo, monstrò prima
di confidarsi di Pandolfo più che di noi, presupponendo che lui havessi
meno animo ad ingannarlo; et Pandolfo, che dubitava che noi non ce ne
insignorissino, attese sempre ad crescerli e' sospecti in modo, che nè
e' nostri buoni portamenti, nè la fede observata, nè e' benefitii li
habbiamo facti, li hanno mai possuto trarre questa gelosia dal capo.
Nè si è però tanto diffidato di noi che interamente si fidassi di
Pandolfo, come di sopra si dice; onde vivendo in questa diffidenza,
pensò ricorrere ad un terzo aiuto, et non lo trovando propinquo, si
gittò ad intractenere Consalvo, con el quale dice costui essere chiaro
che li ha contracto parentado, et che sarà presto per scoprirsi. Et di
questa confidentia che el Signore ha hauto in Consalvo, ne allega, che
tenne già praticha di assicurarsi per via del Papa, et come e' trovò
luogho in Consalvo, lo lasciò. Dice questo tale havere sollecitato
decto Signore[947] Consalvo al mandargli in casa questi fanti, per
esserli cresciuto el sospecto di Pandolfo, rispecto allo havere alle
spalle Bartolomeo d'Alviano, in campagna et sanza partito et sanza
stato, del quale ha dubitato, che con consenso di Pandolfo, sotto
colore di passare per ad Pisa, non se li gittassi in casa; et Consalvo
ha mandati volentieri tali fanti, perchè li torna ad proposito haverli
quivi, per tenerci indreto et sbigottirci da el fare la 'mpresa di
Pisa; et che ad Consalvo non è importato molto el tenere questi fanti
più ad Piombino che nel Regno, havendoli ad paghare in ogni modo; ma
piuttosto ci guadagna per discaricarsene, faciendoli pasciere in sul
paese d'altri.

Et così giudicha costui che, sendo venuti decti fanti sanza
participatione de' Sanesi et Luchesi, che non sieno per havere altra
coda, nè possino fare altra factione, nè che sia da temerli, se non
per quanto possono per il numero sono. Nondimancho la conclusione vera
è, che questi 800 fanti sono là in vicinanza nostra, et che bisogna
pensare che possino havere coda et possino non la havere, et fare
in ogni opinione quelle provisioni si può, delle quali non siamo per
manchare. Et ad Volterra et ad Campiglia et ad Pescia si è ricordato
quello habbiamo giudicato convenirsi per la salute di quelle terre, ad
ciò si preparino che di furto non possino essere offesi. Alle forze si
provedrà ogni volta s'intenda che maggiore bisogno lo richiegga; nè
siamo per abbandonarci, nè dubitiamo _etiam_ essere abbandonati. Et
Vostra Signoria si transferirà personalmente in tucti quelli luoghi,
dove ella crederrà fare qualche fructo per honore suo et securtà
nostra. _Valete_.


DOCUMENTO XXXV.

(Pag. 490)

    _Lettera dei Dieci a P. A. Carnesecchi Commissario in Maremma.
    — 30 luglio 1505_.[948]

_Pier Antonio Carnesechi. 1505, die 30 iulii_. — Noi habbiamo questo dì
ricevute dua tua lettere di hieri, le quali ci hanno dato dispiacere,
veduto quanto tu monstri di temere in su li advisi ci sono suti porti
di Bartolomeo; et perchè tu intenda l'ordine nostro, quando infino
ad qua non lo havessi inteso, sappi che in su questi movimenti di
Bartolomeo, havendo noi considerato l'insulti ci poteva fare, et
veduto ci posseva assaltare in Maremma et in Valdichiana, habbiamo
sempre creduto che vengha più presto verso Valdichiana che in costà:
le ragioni che ce lo facevono credere sono molte, le quali non adcade
replicare. Et per questa cagione si era pensato fare testa grossa al
Poggio, luogo comune ad potere soccorrere costà et le Chiane, dove
fussi bisognio. Et quivi habbiamo vòlte tucte le fanterie che si sono
facte, et tucta volta le spignamo ad quella volta, andando dietro ad
el primo disegno nostro. Habbiamo questo dì hauto l'adviso tuo, per
il quale scrivi Bartolomeo doveva essere infino hieri ad Scarlino;
el quale adviso, quando fussi vero, harebbe chiarito la partita che
venissi con le genti in costà et non nelle Chiane; et haremo facto
spignere ad cotesta volta tucte le forze ordinate, se noi d'altronde
non intendessino Bartolomeo a' 28 dì essere ad Istia[949] in sul fiume.
Et perchè questo riscontro habbiamo di più d'un luogho, lo crediamo;
et essendo anchora in lato da potersi anchora voltare in Valdichiana,
non ci determiniamo ad voltare tucte le forze costà. Pure alcuni
conestaboli, che hanno la compagnia loro qui in Firenze, l'inviereno
ad cotesta volta, nè manchereno, al primo adviso certo dove e' sia,
d'inviare gli altri; nè siano per manchare di aiuto nè ad te, nè ad
cotesto paese.

Et perchè tu intenda meglio le qualità del nimico, sappi che el conte
Lodovico di Pitigliano, che ha 60 huomini d'arme, non _solum_ non viene
seco, ma noi questa mattina l'habbiamo condocto, et è diventato soldato
nostro. El signore Renzo de Ceri, che ha più di 80 huomini d'arme, non
vuole seguirlo; molti huomini da bene, spicciolati, come el Mancino da
Bologna et altri, l'hanno lasciato, tale che non li resta 150 huomini
d'arme et 200 cavalli leggieri: fanterie non ha; Gian Paulo nè Sanesi
non lo aiutono. Viene ad questo insulto contro la voglia di Consalvo;
et di questo ne habbiamo mille riscontri, in modo che delle fanterie di
Piombino non è per valersi, nè per havere riceptaculo in quella terra.

Onde, considerato ogni cosa, non è tanto terribile questa sua venuta
che non si possa opporseli, et che con le forze ti truovi costì non
lo possi tenere ad bada tanto che li altri soccorsi venghino, che
verranno subito. Et quando havessi dove fussi al certo, ne scriverrai
al Governatore, chiedendogli quelle forze che ti può subministrare.
Pertanto di nuovo ti si fa fede che noi non siamo per abbandonare
nè te nè cotesto paese, purchè tu non l'abbandoni te medesimo. Et
comunicherai li advisi di questa lettera ad el signor Marcantonio,
ad ciò veggha in quanti passi d'acqua si trova el nemico, et conosca
quanto e' si abbia ad temere di lui, ad ciò che non ci nuoca più la
reputatione sua che le forze. Polvere, passatoi, gavette et molte altre
cose ti se ne mandò infino domenica buona somma.

Se Girola[mo] Pilli si truova in cotesto paese, fermera'lo costì, et
per la prima ti scriverreno quello voliamo ne facci.


DOCUMENTO XXXVI.

(Pag. 491)

    _Lettera dei Dieci al Commissario Antonio Giacomini. 16 agosto
    1505_.[950]

_Antonio Giacomino, Commissario Generali. 16 augusti._ — Per la tua
Δ,[951] data hiarsera ad 6 hore, intendiamo come voi, per havere inteso
per duplicate, Bartolomeo d'Alviano volere ire alla volta di Pisa, eri
deliberati andarne questa mattina alle Caldanelle, per essere el passo
dove lui è necessitato venirvi sotto, quando voglia ire ad Pisa per
la Maremma. Intendiamo le genti dite che sono rimase ad Bartolomeo,
et la opinione certa havete di metterlo ad mal cammino, quando vi
vengha ad trovare. Noi habbiamo considerato et examinato bene questo
scrivere vostro; et considerata la prudentia tua et della Signoria del
Governatore, non ne habbiamo pelo che pensi e' vi possa incontrare per
alcun conto alcuna cosa sinistra, perchè sappiamo harete pensato ad
ogni cosa che potessi sforzarvi, et mettere in ruina coteste genti; et
che harete considerato come, nonobstante che si dica che Gian Paulo
sia ad Grosseto, e' potrebbe sanza la persona sua havere ingrossato
Bartolomeo delle sue genti; et come nonobstante che el Signore di
Piombino vi habbi testificato havere ad sospecto Bartolomeo, potrìa
_tamen_ essere che fussino confidenti, et che queste cose fussin facte
per havervi più incauti. Crediamo che harete _etiam_ pensato gli aiuti
ch'e' Pisani possono dare ad Bartolomeo nel farsi avanti, et ad mille
altre cose che noi non sapremo altrimenti discorrere.

Nondimancho, con tucta questa opinione, vi significhereno lo animo
nostro, quale è che noi desideriamo assai, che Bartolomeo d'Alviano non
passi per ad Pisa, per fuggire tutte quelle molestie che ci potrebbe
fare, essendo congiunto co' Pisani. Ma noi desideriamo molto più, et
senza comparatione, che si salvi cotesto exercito; perchè, passando
lui ad Pisa, noi haremo mille rimedi, come potete per voi immaginare,
mediante le nuove genti condocte, le quali fanno adcelerare forse
Bartolomeo di darvi occasione d'appiccarvi, per non lo havere ad fare
quando fussi tucti insieme, et mediante le pratiche che vanno adtorno,
di che vi habbiamo dato piena informatione. Ma, perdendo coteste genti,
non ci sarebbe remedio alcuno; et però desiderreno che si fuggissino
tucte quelle zuffe, dove tucte coteste nostre forze s'havessino ad
impegnare, et nelle quali bisognassi o vincere al tucto o essere ropti
al tucto. Nè crediamo che voi la intendiate altrimenti, nè habbiate
altro in disegno che questo, per le ragioni preallegate, per quelle che
per altre vi habbiamo decte, et per quelle che voi medesimi conosciete
et ad noi anchora havete scripte. Insomma noi ricordiamo di nuovo alle
prudentie vostre la salute di coteste nostre genti, la quale voliamo
si prepongha ad ogn'altra cosa. Noi non vi ricordereno che egli è bene
pensare in ogni evento come rimane Volterra et Livorno; perchè, sendo
certissimi che el fine habbi ad essere buono, governandovi con quella
prudentia che noi ci persuadiamo, non scade pensarvi. Pure, quando ad
voi paressi di havervi consideratione et provedervi in qualche modo, o
voi lo farete costà, o voi ce ne adviserete; et così d'ogni altra cosa
che ad voi occorra. Et noi di nuovo vi ricordiamo el salvare coteste
genti.[952]


DOCUMENTO XXXVII.[953]

(Pag. 492)

    _Lettera del Commissario Antonio Tebalducci Giacomini ai Dieci,
    scritta in Bibbiena il 17 agosto 1505. Narra la rotta data
    dall'esercito fiorentino all'Alviano in quello stesso giorno._

_Magnifici Domini mei observandissimi_, etc. — Hiersera a hore una,
fu l'ultima mia da presso a Campiglia, donde questa mattina, per haver
notitia che il signor Bartolomeo si levava, ci mettemo in ordine ancora
noi. Et stando in aspectatione alla volta di Pisa, nel levare del sole,
lo vedemo sulla campagnia, con le battaglie, appresso le Caldane; al
quale passo non parve al signor Governatore et ad me assaltarlo, ma
andarne per la via che va da Campiglia a San Vincenti, con ordine
che dove lo trovavamo, incontrarlo. Et affine di haverlo maturo et
disordinato, et che non ci schappassi innanzi, li mandamo per dirieto,
per la via delle Caldane, messer Malatesta et Pavolo da Parrana, con
commissione che andassino tucta volta assaltando; et per davanti,
per la via facemo noi, tucto il resto de' cavalli leggieri, per fare
quello medesimo effecto che quelli mandati per coda, quali arrivati a
Santo Vincenti avanti loro, furono alle mani. Et ancora che pigliassino
parecchi cavalli de' nimici, non poterono risistere, et se ne tornorono
per la via nostra, quali ci trovorono a mezo miglio discosto a Santo
Vincenti, con li fanti et gente d'arme.

Et ritracto da loro che e' nimici erono in buona parte passati, piacque
al signor Governatore che temporeggiando ci conducemo appunto alla
coda de' nimici, nelle ruine di Santo Vincenti, dove havevono fatto
testa di loro gente d'arme et fanti. Et noi, visto tale ordine, con
il colonnello del Zitolo et messer Victorio, uniti insieme, et con le
squadre del signor M. Antonio et signor Iacopo investimo ne' nimici,
i quali al primo assalto ne detton le spalle: dove furono feriti et
amazati buona parte de' fanti, talmente che mai più se ne vide nissuno.
Così fu preso qualche cavallo. Et non più avanti ci detton le spalle,
che una arcata passato il fosso di Santo Vincenti, verso Bibbona;
et fatto testa, li ributtorono li nostri fino al detto fosso, tanto
gagliardemente del mondo (_sic_): al che si provide con il tirare
avanti il colonnello del signore Piero et Conte di Sterpeto uniti, et
le squadre di messer Hanibale Bentivogli et lance spezate. Et fatto
grandissima punta li inimici di riguadagnare tal passo, maxime la
persona del signor Bartolomeo, quale fu ferito nella faccia, con tutto
il fiore delle sue genti non potè mai spuntarne: dove fu guasti assai
cavalli et huomini. Infra il qual tempo giunsono i falconetti, quali
per insino allora non s'erono possuti operare: in su che facemo gran
fondamento, et vincere a ogni modo sanza nissuno pericolo, et sanza
cacciaregli altrimenti con le genti, battendo con detti falconetti il
ristringimento delle loro genti, che era circa cento huomini d'arme.
Quale cominciatosi per le artiglierie ad aprire et desordinare, ci
parve tempo investirgli con tutte le forze, et così con li cavalli
leggieri per marina, le gente d'arme per la strada, et li fanti dal
canto di sopra per il boscho, li mettemo per quella via che più volte
s'è detto a Vostra Signoria di fare, talmente che da Santo Vicenti sino
in Ciecina, mai s'è facto che pigliare.

Et in effecto, abreviando, ritraiamo solo essere schappato il signor
Bartolomeo con circa XX cavalli corridori, tutti disarmati, quali
crediamo che da Musachino et quelli di Rosignano non possino schappare;
perchè non potendo li nostri seguitarli sin là charichi di preda et di
prigioni (che infino a' fanciulli et pastori di Bibbona n'ànno presi),
usaron li nostri cacciatori farlo intendere a Rosignano. Donde in
questa hora habbiamo lettere da Giovanni, che Musachino calava loro
adosso, non sapendo però fussi della fuga de' cacciati da noi, non
havendo nuova della rotta, ma indicando solo cavalli di Pisa. Harannoli
trovati strachi talmente, che tenemo per certo non ne sia schappato
nissuno; et maxime che intendiamo andavano per marina, dove sono passi
strectissimi. Piaccia a Nostro Signore Dio che li nostri li arrivino,
affine che lo insolente sia exemplo alli altri presuntuosi.

Se le Signorie Vostre non saranno per questa raguagliate secondo il
desiderio di quelle, mi haranno per iscuso; et fia con la prima, altra
con dire particularmente e' nomi de' baroni presi et numero della
bella gente trovata, quali di cavalli, arme et veste sono benissimo
addobbati, con presentia di huomini da bene: di che hanno facto
prova, non havendo perso per difetto loro, ma di chi insolentemente li
conduceva.

Scordavami dire che, poi havemo rotto e' nimici alla Torre, non havendo
comodità di scrivere, spacciai il Zerino cavallaro, che a boca facessi
intendere quel tanto haveva visto, et la speranza che havamo dipoi
sotto Castagneto, seguitando la caccia de' nimici. Dètti fatica a Luca
Cavalcanti di venire fino costì, per ragguagliare Vostre Signorie,
quali haranno agiustar fede, per essere stato in fatto. Et se ho
tardato fino a mo' a scrivere, l'à causato lo attendere le genti qui,
con tanti prigioni che sono più di noi.

Domane et non prima che noi ci saremo tucti, piglieremo qualche
luogo dove si possa stare; et in questo mezo Vostre Signorie diranno
quel tanto voglion si facci, quali sono sapientissime, et noi siamo
figliuoli di obbedientia. _Que feliciter valeant. Ex felicibus castris
iusta Bibbonam, die_ xvij _augusti 1505, hora_ xxiiij.[954]

                                               ANTONIUS DE TEBALDUCIS
                                             _Generalis Commissarius_

  _Magnificis dominis Decem Viris_
    _Libertatis et Balie Reypublice_
    _Florentine.... observandissimis._


DOCUMENTO XXXVIII.

(Pag. 472 e 498)

    _Lettere di B. Buonaccorsi al Machiavelli in legazione presso
    Giulio II._[955]


1[956]

_Niccolò honorando._ Io ho ricevuto la vostra de' 30, et mandato
le chiavi alla Marietta, con farli intendere quanto m'ordinasti. Il
simile farò domani de' danari della Δ,[957] benchè non vegga modo ad
mandarveli securi. Et però vorrei ve ne valesti costì o da Monsignore
reverendissimo o da qualcuno altro, et me li traessi qui, dove
subito li pagherei. Expecteronne una risposta: dipoi ne farò quanto
m'imporrete.

Le cose de' fanti vanno per quello ordine desiderate; et così feci
pagare quelli 4 conestabili mi lasciasti in nota. Et se nulla mi
mancava, questo rifiorisce, che voi non fusti partito di dua dì, che
io ero per Palazo con tre drieto; et questa mattina n'ho rimandato il
Tedesco, che volse ire in quello di Pisa ad vedere il paese. State
di questo con lo animo posato, perchè sendo rinfrescati qui quelli
medesimi advisi della passata dello Imperatore che scrivete voi, tra
li primi ragionamenti in su tale accidente fu che le ordinanze si
tenessino di presso, come cosa più salutifera et più importante per
ogni respecto. Nè vo' mancare di dirvi che, havendo facto mettere dreto
allo officio Bastiano da Castiglione, capo di quelli del Valdarno di
sotto, per lo effecto sapete, et essendo domandato come haveva li
homini ad ordine, rispose: — Io ve ne darò in 4 hore 700, et tutti
homini da ogni factione. — In sulle quali parole si maravigliarono
gustam[ent]e[958] come cosa di grande momento; et così fu expedito di
ciò che desiderava. Hovvi volsuto [dire] queste poche parole di questa
materia, ad vostra satisfactione, stimando vi habbi[no ad] essere
grate. Le altre cose tutte vanno per l'ordine loro.

Se io dicessi non vi havere invidia, non vi confesserei la verità; et
per la fede mia, non per altro, se non per la continua conversatione
harete col nostro reverendissimo Monsignore, la quale sono certo vi
riuscirà tra le mani d'una gran lunga meglio non ve la haveva dipinta.
Raccomandatemeli, ve ne prego, quando vi viene bene. Con le altre
Dio vi dia migliore fortuna non dètte a noi, che credo le faccende vi
adiuteranno assai, quale fanno destare li homini et mutare di natura.

Io non so che altro mi vi scrivere. Messer Iustiniano vi si raccomanda,
et io fo il simile. Adio.

  Florentie, die prima augusti 1506.

                                                        _Vester_ BLA.

  _Nicolao Maclavello, Secretario florentino_
    _apud Summum Pontificem, Secretario,_
    _[su]o plurimum honorando, etc._
                          _Alla Corte._


2[959]

_Niccolò honorando._ Io vi ho scripto ad questi dì più volte et
dectovi della ricevuta delle chiavi, et come s'eron mandate ad madonna
Marietta, et dell'origine ad punto del tumulto di Casentino, et ciò
che altro s'intendeva di nuovo, et di più quello che si pensassi.
Et perchè io stimo pure che ad quest'hora le avete ricevute, non le
replicherò altrimenti; perchè, quando bene volessi, non potrei, che
non mi ricordo di quello feci due hore fa. Inoltre harete, per mano
di Michelagnolo scultore, ricevuto li denari della Δ, di che expecto
intenderne qualcosa, per la prima vostra. Hieri dipoi mi furono
presentate l'ultime de' dua et de' 3, alle quali non mi accade che
dire, perchè non ho udito brontolare persona, nè reprehendervi in cosa
alcuna. Delle altre cose sapete ne sono del medesimo animo di voi,
havendovi, alla tornata mia di cotesta Corte, assai bene expresso el
modo del vivere, et le qualità et condictioni di ciascuno. A Alexandro
farò l'ambasciata, et con quelli altri non harò a durare molta fatica,
perchè non ce ne conosco troppi. Così voi farete per me l'officio
d'amico col Monsignor reverendissimo di Volterra.

Hoggi è stato al magistrato de' Dieci uno Iacopo Doffi nostro
cittadino, homo sensato et di bonissimo cervello, quale 3 dì sono
tornò di Alamagna; et delle cose dello Imperatore referisce quanto vi
dirò appresso. Et prima, haverlo lasciato qualche 5 giornate di qua da
Anspruc, verso el Friuoli pure, dove attendeva ad fare buona cera, et
alle caccie: et le gente sue essere tutte alle stanze, quali (quando
le havea insieme) non erano, tra homini ad piè et cavallo, 4 mila: et
quivi ragionarsi poco del passare, anchora che habbi comandato tutte
quelle città che li hanno ad dare aiuti, che stieno ad ordine con
epsi: et in effecto esservi poca preparatione al passare, et maxime
di danari, che dice non ha un soldo. In Anspruch era il Consiglio
suo et buono numero d'artiglierie, ma movimento alcuno non vi si
vedeva. Et che del passare suo non ha udito, se non poichè fu in su
quel de' Vinitiani, quali ne parlarono assai, et mandavono anchora
qualche forza verso quelli confini, ma poche: et lui havea trovati
quando 50 et quando 100 fanti: altre provisioni no. A Venetia era 3
sua ambasciatori, quali non havevono, tra tutti tre, 12 cavalli; et la
expositione loro non si ritraheva. In modo che, udito costui, persona
sensata, io credo certo che queste nuove della passata sua non sieno
da' Vinitiani tracte fuora ad altro fine che quello scrivete voi.

Altro non ho da dirvi stasera, se non che di hora in hora si expecta
el Catholico a Piombino; et qui non s'è anchora facto ambasciatori in
alcun luogo....

  Florentie, 6 7bris 1506.

                                                         _Frater_ BL.

  _Nicolao Maclavello, Secretario florentino_
    _apud Summum Ponti[ficem], maiori_
    _honorando. Alla Corte, in casa Monsignore_
    _reverendissimo di Volterra._


3[960]

_Carissimo Niccolò_.... Le nuove dello Imperatore ogni dì rinfrescano
qui, et l'ultime che ci furono per quello Iacopo Doffi venuto di là,
per l'ultima mia vi scripsi particularmente, quale portò el canonico
de' Serristori, con molte altre et pubbliche et private. Rinvenitele.
_Tamen_, perchè la cosa importa quanto sapete, et lo haversi a fondare
in su advisi incerti e confusi è periculoso, vi si manda[961] Bernardo
de' Ricci con salario di dua fiorini larghi di grossi el dì; et alla
mano ha havuto 150 ducati. Doverranne fare meglio di voi; «et chi lo
ha messo innanzi, ha facto per riuscitarlo, et darvi uno contrappeso:
è homo che si sappia accomodare meglio di voi.»[962] Dio li dia buona
fortuna, et li altri non dimentichi, se li piace, che ce n'è bisogno,
anzi necessità. La commissione sua è rappresentarsi a quello Principe,
et in nome di questa Signoria offerirli come buon figliuoli tutti li
loro favori, etc., con parole larghe et generali. Ma il fine della
mandata è per havere certa notitia di questa passata, per potersi
meglio deliberare a quello che si havessi ad fare, etc. Hoggi si
faranno ambasciatori per ad Napoli, per honorare el Catholico; et se
tocherà Piombino, vi si manderà messere Giovanvictorio, Alamanno, el
Gualterotto et Niccolò del Nero, per riceverlo et honorarlo anchora in
quello luogo. Sono homini di assai qualità et che lo sapranno fare; et
quella Maestà doverrà restarne satisfacta.

Delle ordinanze non vi ho da dire altro, se non che Bastiano da
Castiglione, che sta a San Miniato, 8 dì sono fece il battaglione
generale; dove si trovò el Signore di Piombino che tornava da' bagni,
ad instantia di chi fu facto, et molti altri di quelli di Cascina.
Satisfece assai, secondo mi scrive Bastiano. Ma questa voce di darsi
danari a Bologna et in Romagna, ha facto che qualcuno di quelli del
vicariato di Firenzuola vi sono andati. Èvisi riparato in modo non si
doverrà partire da casa persona.

La vostra brigata sta bene: così stéssi la mia, che io a ogni modo
ho ad girare, in modo sono traficto! Et advisate se havesti da
Michelagnolo quelli danari. Ringratiovi dell'oferta facesti, che
anchorachè io sia in extrema necessità, so che a voi costà non avanza,
et haresti bisogno di molti più. Non altro.

  Florentie, die viiij 7bris 1506.

                                                          _Frater_ B.

  _Nicolao Maclavello, Secretario florentino_
    _apud Summum Pontificem,_
    _[tan]quam fratri honorando_.[963]


4[964]

_Niccolò honorando_. Io ho paura di non diventare con li amici un poco
transcurato come voi. Dicovi questo, perchè mi pare un anno che io non
vi scripsi, et solo è accaduto per infingardaggine, ad chiamarla per il
nome suo. Dua dì fa riceve' la vostra, credo de' 26, con la alligata
a Francesco, quale si mandò fidatamente. Et io, per respondervi al
quesito, credo possiate domandare danari al publico securamente, perchè
«de li ambasciadori facti non verrà nessuno, nè vi si pensa più per
hora.» Et però credo la cosa sia per durare anchora qualche dì, non si
mutando vento: et voi non lo dovete havere per male, perchè le faccende
non vi assassinano. Dicovi bene questo, che le due vostre de' 25 et
26 giunsono ad tempo, perchè «digià Iacopo Ciachi diceva: si [v]ole
farlo tornare, poichè non vi fa niente: con alttre parole de le sua,
quali furono ribattute da Bernardo Nasi vostro amico.» Sì che scrivete
più spesso, se vi pare. Al Soderino lessi quanto mi scrivete. Credo vi
riscriverrà di nuovo, et voi farete quanto vi parrà.

Ad Napoli andranno li dua ambasciatori, cioè messer Francesco
Gualterotti et Iacopo Salviati: et sarà bella legatione, et per la
qualità delle persone, et per la compagnia de' giovani si dice andranno
con loro: che tutto sarà ad proposito, perchè questo Catholico Re,
che dua dì fa era a Savona, viene con tanta pompa di abriglamenti et
di ogni altra cosa, che chi vi andrà bene ad ordine, li bisognerà ad
volervi comparire. Consalvo a' dì 27 fu a Livorno, che andava incontro
al suo Re, et dal Commissario nostro di decto luogo fu visitato et
presentato, in modo se n'andò satisfactissimo, con dire che Italia
riceverà molti beni per la venuta del suo Re, et che Firenze ne harà
la parte sua; excusandosi delle cose di Pisa con dire che quelli tempi
ricercavono così, ma che per l'advenire farà in modo che la Città
conoscerà che ne fa capitale. Fu a Piombino, dove erano ambasciatori
pisani; et non obstante lo pregassino ad ire in Pisa, absolute lo
recusò. Le cose di Genova al continuo sono peggiorate per li gentili
homini, quali tutti sono fuora; et di già hanno tolto tutte le terre
teneva messer Gianluigi nella Riviera di Levante, o buona parte di
esse. «Et il Re tiene da chi vince, a lo usato suo.» Questa mattina,
per advisi privati da Lione, de' 23 dì, s'intendeva esservi stato lo
homo di Ays che veniva di Corte, con commissione del Re ad Ciamonte,
che déssi a Nostro Signore, per la impresa di Bologna, quelle tante
lance vorrà. Così andrà l'impresa avanti a ogni modo, po' che costì
si va di buone gambe. Qui non è altro di nuovo; et io non so che mi vi
dire di più, se non che la brigata vostra sta bene, et li danari della
Δ sono in quel medesimo legato, chè non seppi la venuta di Giuliano
Lapi. Credo domani adoperarne uno ducato, che ne lo riporrò fra pochi
dì, che ne ho preso sicurtà in sulle parole vostre. _Nec plura._

  Florentie, die xxx 7bris, hora 4 noctis 1506.

                                                      _Quem nosti_ B.

Respondete della ricevuta almeno.

  _Nicolao Maclavello, Secretario florentino_
    _[apud] Pontificem, suo maxime_
    _honorando._
                     _Alla Corte._


5[965]

_Niccolò honorando._ Io non ho dato a Piero del Nero quelli danari,
et la causa fu, perchè io sono sì bene agio, che non pote' valermi
d'uno fiorino per rimectervi quello ne haveo cavato. Et poichè non
volete gnene dia, non lo farò; anzi per il primo cavallaro che verrà
ad Castracharo, li manderò al Ruffino, con ordine ne segua l'ordine
vostro. Nè di questo accade parlarne più.

Questi Signori Dieci, in sulla domanda vostra di qualche danaio,
dixono: — Elli è ben ragione, noi lo faremo ad ogni modo. — Et stamani
mi dixe el Gonfaloniere, che voi gnene scrivevi per quella li decti;
et che hoggi li parlassi, et così farò. Et credo, senza manco per il
primo, mandarvi qualche provisione. Et statene sopra di me, che il
chiedere non mancherà.

A Giovambatista Soderini leggerò quel capitulo, come feci l'altro; ma
voi vi volete scusare sempre, o con la trascuraggine o con le faccende;
et questo non basta alli amici, perchè vogliono essere riconosciuti
per tali; et io sono in modo fracido ad fare scuse per voi, che se
vo' fussi mie padre, harei più d'una volta decto: — Vadi ad recere. —
Scrivete una volta se voi desti la lettera d'Alexandro a San Giorgio,
o se mai lo rivedesti poi dal primo adviso me ne desti. Se voi sapessi
quanto v'è amico, ne terresti altro conto. Ma voi siate un carellone,
et chi vi vuole vi trassini col bastone.

Io non voglio mancare di dirvi, benchè lo potessi differire alla
tornata, che, per chi vi fu presente et più d'uno, che «Alamanno[966]
sendo a Bibona, ad tavola con Ridolfo, dove v'erano anchora molti
giovani, parlando di voi, dixe: — Io non commissi mai nulla a cotesto
ribaldo, poi che io sono de' Dieci, — »[967] seguitando el parlare
in questa sententia o meglio. Notate questo, se voi non fussi bene
«chiaro de lo animo suo ad facto.» Et ingegnatevi di esserci avanti
le raferme.[968] Potre' vi scrivere molte altre cose, _sed coram
copiosius_.

Questa mattina ci sono suti advisi in questi Uguccioni, della morte
dell'Arciduca, in 4 dì, di riscaldato et rafreddato: cosa veramente
di grandissimo momento, perchè si tiene per certo, et ad quest'hora
ne è l'adviso costì. Non si stima però che habbi tale nuova ad
fare ritornare indrieto el Re d'Aragona, che per li ultimi advisi
s'aspettava a Genova, perchè quelli baroni di Castiglia hanno el suo
figliolino nelle mani, et vorranno governarlo ad loro modo, come
feciono Fiaminghi del padre; nè anche si fiderebbono di lui, per
essersi una volta inimicati, etc. Et però, vedendo Sua Maestà la cosa
incerta, et sendo horamai vicino ad Napoli, che è suo certo, et da non
lo stimare manco che la Castiglia, si fa iudicio verrà avanti: che Dio
lo voglia per il bene d'Italia. Se pure tornassi indrieto, ci sarà pure
questo bene, che li ha seco Consalvo, et non lo doverrà ragionevolmente
volere più nel Regnio. È iudicata questa cosa molto ad proposito del
Christianissimo, et il contrario de' Vinitiani, che non potranno più
usare la maschera dello Imperatore, nè lui passare in Italia, et li dua
Re sopradecti, sanza respecto, procedere all'acquisto di quello tengono
di loro. Perchè mancando questo sospetto al Christianissimo della
passata del Re de' Romani, mancheranno quelli respecti che lo facevano
tanto intractenerli; et il Papa anchora doverà più liberamente et
più animosamente cercare il suo. Sono cose che bisogna, ad non volere
ingannarsi, rimectersene al successo.

Per lettere di Francia de' 25, s'intende il medesimo che scrivete voi,
della larga et honorevole concessione facta al Papa delle gente; et di
più una caldeza oltr'ad misura del legato in favore di Sua Santità.
Ma la condotta di Giampaulo è dispiaciutali fino alla anima. Perchè,
nel parlare, Sua Signoria dixe: — El Papa ci dovea adiutare castigare
quello mecciante, che ci fece, etc. Ma avanti che 'l giuoco resti,
noi ci varreno ad ogni modo: indugi quanto può, che non la camperà. —
Dànno al Papa 550 lance, et di più messer Mercurio greco, con cento
cavalli leggieri, 8 cannoni grossi et più altri pezi d'artiglierie,
et Ciaimonte per capo. Et hanno ordinato che il conte Lodovico della
Mirandola sia tracto di Stato, et messovi el conte Giovanfrancesco.

El Re d'Inghilterra non ha volsuto publicare el mariaggio di madama
Margherita, perchè pare che il Duca di Savoia perissi di mal franzese,
et che lei ne patissi: et in su questo sospecto sta sospeso. Di
che Franzesi hanno pensato valersi, con tenere pratica di darli la
damisella d'Angolème, «non per concludere, ma per tenerlo sospeso», et
farlo ire ratenuto nello adiutare l'Arciduca contro ad Ghelleri.[969]

El Christianissimo è partito da Bles, et viene verso Borges; et non
passando l'Imperatore, si tornerà indrieto con animo resoluto venire
ad primavera in Italia. Quivi non era anchora adviso della morte
dell'Arciduca. Et di più hanno ordinato di guadagnarsi el Duca di
Savoia per più respecti. Le vostre lettere mandai ad bottega di Piero
del Nero. Adio.

  Florentie, die 6 octobris 1506.

                                                      _Quem nosti_ B.

Non rispondete dello adviso vi do di quello ragionamento «facto a
Bibona.»

  _Nicolao Maclavello, Secretario_
    _florentino apud Pontificem..._
    _suo observ._
                      _Alla Corte._


DOCUMENTO XXXIX.[970]

(Pag. 506-507)

    _Relazione del Machiavelli sulla istituzione della nuova
    Milizia._

Voi mi havete richiesto che io vi scriva el fondamento di questa
Ordinanza, e dove la si truovi: farollo; et ad maggiore vostra
cognitione, mi farò un poco da alto, et voi harete patienza ad
leggierla.

Io lascierò stare indreto el disputare se li era bene o no ordinare lo
Stato vostro alle armi; perchè ognuno sa che chi dice Imperio, Regno,
Principato, Repubblica; chi dice huomini che comandono, cominciandosi
dal primo grado et descendendo infino al padrone d'uno brigantino, dice
iustitia et armi. Voi della iustitia ne havete non molta, et dell'armi
non punto; et el modo ad rihavere l'uno et l'altro è solo ordinarsi
all'armi per deliberatione publica, et con buono ordine, et mantenerlo.
Nè v'ingannino cento cotanti anni che voi sete vissuti altrimenti et
mantenutivi; perchè se voi considerrete bene questi tempi et quelli,
vedrete essere impossibile potere preservare la vostra libertà in quel
medesimo modo. Ma perchè questa è materia chiara, et quando pure la si
havessi addisputare, bisognerebbe entrare per altra via, la lascierò
stare indreto. Et presupponendo che la sententia sia data, et che
sia bene armarsi, volendo ordinare lo Stato di Firenze alle armi, era
necessario examinare come questa militia si avessi ad introdurre. Et
considerando lo Stato vostro, si truova diviso in Città, contado et
distrecto; sì che bisognava cominciare questa militia in uno di questi
luoghi, o in dua, o in tutti ad tre ad un tracto. Et perchè le cose
grandi hanno bisogno d'essere menate adagio, non si poteva in nessuno
modo, nè in dua, nè in tucti ad tre e' sopraddecti luoghi, sanza
confusione et sanza pericolo, introdurla: bisognava pertanto eleggierne
uno. Nè piacque di tòrre la Città, perchè chi considera uno exercito,
ad dividerlo grossamente, lo truova composto di huomini che comandano
et che ubbidiscono, et di huomini che militano ad piè et che militano
ad cavallo; et havendo ad introdurre forma di exercito in una provincia
inconsueta all'armi, bisognava, come tutte l'altre discipline,
cominciarsi da la parte più facile; et sanza dubbio egli è più facile
introdurre militia ad piè che ad cavallo, et è più facile imparare ad
ubbidire che ad comandare. Et perchè la vostra Città et voi havete ad
essere quelli che militiate ad cavallo et comandiate, non si poteva
cominciare da voi, per essere questa parte più difficile; ma bisognava
cominciare da chi ha ad ubbidire et militare ad piè, et questo è el
contado vostro. Nè parse pigliare el distrecto, anchora che in quello
si possa introdurre militia ad piè, perchè non sarebbe suto securo
partito per la Città vostra, maxime in quelli luoghi del distrecto dove
sieno nidi grossi, dove una provincia possa far testa; perchè li humori
di Toschana sono tali, che come uno conoscessi potere vivere sopra
di sè, non vorrebbe più padrone, trovandosi maxime lui armato, et il
padrone disarmato: et però questo distrecto bisogna, o non l'ordinare
mai all'armi, o indugiarsi ad hora che l'armi del contado vostro
habbino preso piè, et sieno stimate. Quelli luoghi distrectuali che
sono da non li armare, sono dove sono nidi grossi, come Arezo, Borgo
ad San Sipolcro, Cortona, Volterra, Pistoia, Colle, Sangimigniano:
li altri dove sono più castella simili, come la Romagna, Lunigiana,
etc., non importono molto, perchè non riconoscono altro padrone che
Firenze, nè hanno particulare superiore, come interviene nel contado
vostro; perchè el Casentino, Valdarno di sotto et di sopra, Mugiello,
etc., ancora che sieno pieni di uomini, _tamen_ non hanno dove fare
testa, se non ad Firenze; nè più castella possono convenire ad fare una
impresa. Et però si è cominciata questa Ordinanza nel contado, dove,
volendola ordinare, bisognava darle ordine et modo, cioè segni sotto
chi e' militassino, armi con che si havessino ad armare; terminare
chi havessi ad militare sotto ciascuno segno, et dare loro capi che li
exercitassino.

Quanto alle armi, quelle che sono date loro sono note. Quanto a'
segni, è parso che le siano bandiere tucte con un segno medesimo del
Lione, ad ciò che tucti li huomini vostri sieno affectionati di una
medesima cosa, et non habbino altro per obiecto che 'l segno publico,
et per questo ne diventino partigiani: sonsi distinti e' capi ad
ciò che ciascuno riconosca la sua: sonsi numerate, perchè la Città
ne possa tener conto, et comandarle più facilmente. Era necessario
dare ad queste bandiere termine di paese; et ad questo bisognava,
o terminare el paese vostro di nuovo, o pigliare de' termini suoi
antiqui; et perchè e' si truova diviso in Capitaneati, Vicariati,
Potesterie, Comuni et Populi, parve, volendo andare con uno di questi
ordini, da terminare queste bandiere con le Potesterie, sendo li
altri termini o troppi larghi, o troppi strecti. Et però si è dato ad
ogni Potesteria una bandiera; et ad dua, tre, 4, et cinque bandiere
si è dato uno conestabole che li struischa, secondo la commodità del
ragunarli, et secondo la moltitudine delli uomini descripti sotto tali
bandiere; tanto che trenta bandiere che voi havete, sono in governo
d'undici connestaboli; et li luoghi dove le sono messe, sono Mugiello,
Firenzuola, Casentino, Valdarno di sopra et di sotto, Pescia et
Lunigiana. Pareva bene, anchora non si sia facto, scrivere sotto ogni
bandiera, cioè in ogni Potesteria, più huomini si poteva, perchè, come
dixe messer Hercole in uno suo scripto, questo ordine vi ha ad servire
sempre in reputatione, et qualche volta in fatto; nè può servirvi in
reputatione poco numero di huomini; nè _etiam_, in facto, del poco
numero di huomini, quando pure bisognassi, si può trarre lo assai,
ma sì bene dello assai el poco. Nè impedisce cosa alcuna el tenere
ordinati ne' paesi assai huomini, non li obbligando ad fare più che
12 o 16 monstre lo anno, et dando loro libera licentia d'andare dove
vogliono ad fare e' facti loro. Et però el tenerne ordinati assai è
più prudentia, con animo di non havere poi adoperare, nè levare da casa
chi ha honesta cagione di starvi, o chi si conoscessi inutile. Et così
alla reputatione ti giova el numero grande, al facto el numero minore e
buono; perchè sempre si potrà farne nuova scielta et meglio, havendogli
visti più volte in viso, che non li havendo visti.

Voi dunque vi trovate scripti ne' sopra scripti luoghi, et sotto 30
bandiere et undici connestaboli, più che cinquemila huomini; havetene
facto mostra in Firenze di 1200;[971] et sono procedute le cose, sendo
nuove, assai ordinatamente; ma le non possono stare più così, perchè
e' bisogna, o che la 'mpresa ruini, o che la facci disordine; perchè,
sanza dare loro capo et guida, non si può reggiere contro alli inimici
che la ha. El capo che bisogna dare loro, è fare una leggie che ne
dispongha, et uno Magistrato che l'observi; et in questa leggie bisogna
provvedere ad questo, che li scripti stieno bene ordinati, che non
possino nuocere, et che si remunerino. Ad tenerli ordinati, bisogna
che questo magistrato habbi autorità di punirli, et facultà da farlo,
et che la leggie lo necessiti ad fare tucto quello che è in substantia
della cosa, et che, stralasciandola, le facessi danno; et però bisogna
costringerlo ad tenerne armati un numero, almeno ad tenere le bandiere
et e' connestaboli, ad provvedere all'armi, ad far fare loro le mostre
et vicitarli, ad rivederne ogni anno cento, et cancellare in certi
dì et in certo tempo, et rimetterli, ad mescolarvi qualche cosa di
religione per farli più ubbidienti. Quanto ad ordinare che non possino
nuocere, si ha ad considerare che possono nuocere in dua modi: o fra
loro, o contro alla Città. Se fra loro, possono ferirsi l'uno l'altro
particularmente, o fare ragunate per fare male, come soglono. Nel primo
caso si vuole duplicare loro la pena, et maxime quelli che ferissino
in su le mostre; ma ferendo altrove, si potrebbe observare le leggie
vechie. Quando e' facessino ragunate in comuni, bisognerebbe fare
ogni viva et grande demostrazione contro ad chi ne fussi capo, et
uno exemplo basta uno pezo nella memoria delli huomini. Contro alla
Città costoro possono fare male in questi modi: o con ribellarsi et
adherirsi con uno forestiero, o essere male adoperati da uno magistrato
o da una persona privata. Quanto ad lo adherirsi ad uno forestiero,
li huomini ordinati nelli luoghi sopraddecti non lo possono fare,
et non se ne debbe dubitare. Quanto allo essere male operati da uno
magistrato, è necessario ordinare le cose in modo che conoschino più
superiori. Et considerando in che articulo loro hanno ad riconoscere
el superiore, mi pare che li habbino ad riconoscere chi li tenga ad
casa ordinati, chi li comandi nella guerra, et chi li remuneri. Et
perchè e' sarebbe periculoso che riconoscessino tucte queste autorità
in uno solo superiore, sarebbe bene che questo Magistrato nuovo li
tenessi ordinati ad casa; e' Dieci dipoi li comandassino nella guerra;
et e' Signori, Collegi, Dieci et nuovo Magistrato li premiassi e
remunerassi: et così verrebbono sempre ad havere in confuso el loro
superiore, et riconoscere un pubblico et non un privato. Et perchè una
moltitudine sanza capo non fecie mai male, o, se pure lo fa, è facile
ad reprimerla, bisogna havere advertenza alli capi ad chi si dànno le
bandiere in governo continuamente, che non piglino più autorità con
loro si conviene; la quale possono pigliare in più modi, o per stare
continuamente al governo di quelle, o per havere con loro interesse.
Et però bisogna provedere, che nessuno natìo delli luoghi dove è una
bandiera, o che vi habbi casa o possessione, la possa governare; ma
si tolga gente di Casentino per il Mugiello, et per Casentino gente
del Mugiello. Et perchè l'autorità con el tempo si piglia, è bene fare
ogni anno le permute de' connestaboli, et dare loro nuovi governi, et
dare loro divieto qualche anno da quelli governi primi; et quando tutte
queste cose sieno bene ordinate et meglio observate, non è da dubitare.
Quanto al premiarli, non è necessario ora pensarci; ma basterebbe solo
darne autorità, come di sopra si dice, et dipoi venire a' premi di mano
in mano, secondo e' meriti loro.

Questo ordine bene ordinato nel contado, de necessità conviene
che entri ad poco ad poco nella Città, et sarà facilissima cosa ad
introdurlo. Et vi advedrete anchora a' vostri dì, che differentia
è havere de' vostri cittadini soldati per electione et non per
corruptione, come havete al presente; perchè se alcuno non ha voluto
ubbidire al padre, allevatosi su per li bordelli, diverrà soldato;
ma uscendo dalle squole honeste et dalle buone educationi, potranno
honorare sè et la patria loro; et il tucto sta nel cominciare addare
reputatione ad questo exercito, il che conviene si faccia di necessità,
fermando bene questi ordini nel contado, et che sono cominciati.[972]



INDICE DEL PRIMO VOLUME


  DEDICA                                                     Pag. vii
  AVVERTENZA                                                       ix
  AVVERTENZA PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE                        xi
  PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE                                 xiii

  INTRODUZIONE

  I.   Il Rinascimento                                              1
  II.  I principali Stati italiani                                 27
       1. Milano                                                  ivi
       2. Firenze                                                  37
       3. Venezia                                                  48
       4. Roma                                                     59
       5. Napoli                                                   73
  III. Letteratura                                                 82
       1. Il Petrarca e l'Erudizione                              ivi
       2. Gli eruditi in Firenze                                   94
       3. Gli eruditi in Roma                                     123
       4. Milano e Francesco Filelfo                              148
       5. Gli eruditi a Napoli                                    153
       6. I minori Stati italiani                                 156
       7. L'Accademia Platonica                                   165
       8. Risorgimento della letteratura italiana                 183
  IV.  Condizioni politiche dell'Italia alla fine
         del secolo XV                                            229
       1. Elezione di papa Alessandro VI                          ivi
       2. Venuta di Carlo VIII in Italia                          239
       3. I Borgia                                                258
       4. Il Savonarola e la Repubblica fiorentina                276

  LIBRO PRIMO

  Dalla nascita di Niccolò Machiavelli alla sua destituzione
  dall'ufficio di segretario dei Dieci

  (1469-1512)

  CAP.                                                           Pag.

  I        Nascita e primi studî di Niccolò Machiavelli. — Viene
             eletto segretario dei Dieci (1469-1498)              293
  II       Niccolò Machiavelli comincia ad esercitare l'ufficio
             di segretario dei Dieci. — Sua legazione a
             Forlì. — Condanna a morte di Paolo
             Vitelli. — _Discorso sopra le cose di Pisa_
             (1498-1499)                                          313
  III      Luigi XII in Italia. — Disfatta e prigionia del
             Moro. — Niccolò Machiavelli al campo di Pisa. — Prima
             legazione in Francia (1499-1500)                     335
  IV       Tumulti in Pistoia, dove è inviato il Machiavelli. — Il
             Valentino in Toscana; Condotta da lui stipulata
             coi Fiorentini. — Nuovo esercito francese in
             Italia. — Nuovi tumulti in Pistoia, e nuova gita
             del Machiavelli colà. — Continua la guerra di
             Pisa. — Ribellione d'Arezzo e della Val di
             Chiana. — Il Machiavelli e il vescovo Soderini
             inviati presso il Valentino in Urbino. — I Francesi
             vengono in aiuto per sedare i disordini
             d'Arezzo. — _Del modo di trattare i popoli
             della Val di Chiana ribellati_. — Creazione
             del Gonfaloniere a vita (1501-1502)                  356
  V        Legazione al duca Valentino in Romagna. — Ciò che
             nel medesimo tempo fa il Papa in Roma. — Il Machiavelli
             compone la _Descrizione_ dei fatti di Romagna
             (1502-1503)                                          379
  VI       Necessità di nuove imposte. — _Discorso sulla
             provvisione del danaro_. — Provvedimenti contro i
             Borgia. — Guerra di Pisa. — Nuovi misfatti del
             Papa. — Prevalenza degli Spagnuoli nel Reame. — Morte
             di Alessandro VI. — Elezione di Pio III e di
             Giulio II (1503)                                     424
  VII      I Fiorentini si dimostrano avversi ai
             Veneziani. — Legazione a Roma. — Gli Spagnuoli
             trionfano nel Reame. — Seconda legazione in
             Francia. — Si ripiglia la guerra di Pisa. — Vani
             tentativi per deviare l'Arno. — _Decennale
             Primo_. — Uno scritto perduto (1503-1504)            448
  VIII     Tristi condizioni dell'Umbria. — Legazione a
             Perugia. — Nuova Legazione a Siena. — Rotta
             dell'Alviano. — I Fiorentini assaltano Pisa e sono
             respinti. — Legazione presso Giulio II. — Istituzione
             della milizia fiorentina (1505-1507)                 478

  APPENDICE DI DOCUMENTI

  DOC.

  I        Lettera di Piero Alamanni a Piero de' Medici, nella
             quale si discorre della prossima venuta dei Francesi
             in Italia, e di ciò che a questo proposito diceva
             Lodovico il Moro. — 30 e 31 marzo 1494               519
  II       Lettera di Alessandro Bracci, ambasciatore fiorentino
             in Roma, ai Dieci, relativa all'uccisione del Duca
             di Gandia. — 17 giugno 1497                          525
  III      Traduzione assai libera, fatta dal Machiavelli, d'un
             brano dell'_Historia persecutionis vandalicae_ di
             Vittore Vitense                                      527
  IV       Lettera che non ha firma, nè indirizzo, nè data;
             trascritta dal Machiavelli, ma non sua; accenna ad
             affari di famiglia                                   531
  V        Lettera del professore Enea Piccolomini intorno a
             due scritti del professore Triantafillis, nei quali si
             sostiene che N. Machiavelli conosceva la lingua
             greca                                                533
  VI       Lettere di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli
             in Forlì. — Luglio 1499                              536
  VII      Lettera dei Dieci di Balìa a Paolo Vitelli, per
             esortarlo all'espugnazione di Pisa. — 15 agosto
             1499                                                 542
  VIII     Lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini, presso il
             capitano Paolo Vitelli. — 20 agosto 1499             543
  IX       Altra lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini,
             presso Paolo Vitelli. — 25 agosto 1499               546
  X        Lettera di Paolo Vitelli a Messer Cerbone. — 28
             settembre 1499                                       547
  XI       Lettere approvate nel Consiglio dei Dieci sulle
             pratiche dei Veneziani, per rimettere Piero de'
             Medici in Firenze, coll'aiuto di Paolo Vitelli       548
  XII      Lettera, senza firma e senza indirizzo, che discorre
             della cattura di P. Vitelli                          551
  XIII     Lettera di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli
             in Francia. — 23 agosto 1500                         555
  XIII^bis Due lettere di Agostino Vespucci di Terranova,
             scritte da Roma nel luglio e agosto 1501, al
             Machiavelli. Ragguagliano di fatti seguìti in
             Roma                                                 557
  *XIV     Lettera dei Dieci al Vicario di Scarperia. — 7 maggio
             1502[973]                                            563
  *XV      Lettera dei Dieci al Commissario Giacomini
             Tebalducci. — 1º luglio 1502                         564
  *XVI     Altra lettera dei Dieci allo stesso. — 12 luglio
             1502                                                 566
  *XVII    Altra lettera dei Dieci allo stesso. — 24 luglio
             1502                                                 567
  *XVIII   Lettera dei Dieci al Soderini, cui si partecipa la
             sua nomina a Gonfaloniere a vita. — 23 settembre
             1502                                                 569
  XIX      Lettere di amici al Machiavelli, durante la sua
             legazione al Valentino                               570
             1. Lettera di Niccolò Valori. — 11 ottobre 1502      ivi
             2. Lettera di Agostino Vespucci da Terranova. — 14
                ottobre 1502                                      571
             3. Lettera di Biagio Buonaccorsi. — 18 ottobre
                1502                                              573
             4. Lettera dello stesso. — 21 ottobre 1502           575
             5. Lettera di Niccolò Valori. — 21 ottobre 1502      578
             6. Lettera dello stesso. — 23 ottobre 1502           579
             7. Lettera di Iacopo Salviati. — 27 ottobre 1502     580
             8. Lettera di Biagio Buonaccorsi. — 28 ottobre
                1502                                              581
             9. Lettera dello stesso. — 3 novembre 1502           583
            10. Lettera dello stesso. — 5 novembre 1502           584
            11. Lettera di Marcello Virgilio Adriani. — 7 novembre
                1502                                              586
            12. Lettera di Biagio Buonaccorsi. — 12 novembre
                1502                                              587
            13. Lettera dello stesso. — 15 novembre 1502          588
            14. Lettera dello stesso. — 18 novembre 1502          590
            15. Lettera dello stesso. — 21 dicembre 1502          592
            16. Lettera dello stesso. — 9 gennaio 1503            593
  *XX      Lettera dei Dieci al Commissario di Borgo a S.
             Sepolcro. — 14 maggio 1503                           594
  *XXI     Lettera dei Dieci ai Commissarî nel Campo presso
             Pisa. — 27 maggio 1503                               596
  *XXII    Lettera dei Dieci ai Commissarî nel Campo
             presso Pisa. — 14 giugno 1503                        599
  XXIII    Lettera in cui Beltrando Costabili, ambasciatore
             ferrarese in Roma, al Duca di Ferrara, narra
             la morte di Troccio. — 11 giugno 1503                600
  XXIV     Lettera dei Dieci al Commissario in Castrocaro. — 5
             ottobre 1503                                         602
  XXV      Due lettere di Biagio Buonaccorsi al Machiavelli
             in Roma. — 15 e 17 novembre 1503                     604
  *XXVI    Lettera dello stesso. — 4 dicembre 1503                607
  *XXVII   Lettera dei Dieci ad Antonio Giacomini. — 20
             agosto 1504                                          609
  *XXVIII  Lettera dei Dieci al Commissario T. Tosinghi. — 28
             settembre 1504                                       610
  *XXIX    Lettera dei Dieci allo stesso. — 30 settembre 1504     612
  *XXX     Lettera dei Dieci allo stesso. — 3 ottobre 1504        614
  *XXXI    Lettera dei Dieci a Giovan Paolo Baglioni. — 9
             dicembre 1504                                        616
  *XXXII   Lettera dei Dieci al Capitano di Livorno. — 10
             gennaio 1504 (1505)                                  617
  *XXXIII  Lettera dei Dieci a P. A. Carnesecchi, Commissario
             in Maremma. — 6 giugno 1505                          618
  *XXXIV   Lettera dei Dieci al governatore Ercole
             Bentivoglio. — 28 giugno 1505                        620
  *XXXV    Lettera dei Dieci a P. A. Carnesecchi, Commissario
             in Maremma. — 30 luglio 1505                         622
  *XXXVI   Lettera dei Dieci al Commissario Antonio
             Giacomini. — 16 agosto 1505                          624
  XXXVII   Lettera del Commissario Antonio Tebalducci
             Giacomini ai Dieci, scritta in Bibbiena il 17
             agosto 1505                                          626
  XXXVIII  Lettere di B. Buonaccorsi al Machiavelli in
             legazione presso Giulio II                           629
  *XXXIX   Relazione del Machiavelli sulla istituzione della
             nuova Milizia                                        637



ERRATA-CORRIGE


  Pag. 188,  verso 89  e del Poliziano  _leggi_:  e amico del
             e 29.                                Poliziano

   »    »    nota 2,   1867-69             »      1867-73
             verso 2.

   »   194,  nota 1.   La Canzone          »      La Canzone, che
                       incomincia:                è però del
                                                  Poliziano,
                                                  incomincia:



NOTE:


[1] Gino Capponi, _Storia della Repubblica di Firenze_, vol. II, pag.
368. Firenze. Barbèra, 1875.

[2] Ora sono sei, e l'edizione restò poi interrotta.

[3] Prego il lettore di notar bene, che quando io riporto testualmente
un brano d'autore o di documento qualunque, pongo le virgolette ad ogni
verso; quando invece ne do un sunto assai simile all'originale, pongo
le virgolette solo in principio ed in fine del brano.

[4] Firenze, Successori Le Monnier, 1876.

[5] Il primo volume venne in luce nel 1877 (Firenze, Successori Le
Monnier); il secondo dovette poi esser diviso in due, che furono
pubblicati nel 1881 e 1882.

[6] Più tardi questa ricca biblioteca si cominciò a vendere ed una
parte dei codici fu acquistata dal Museo Britannico. Nel giugno del
1910 tutto il rimanente della collezione fu messo all'asta, e qualche
volume fu acquistato anche dall'Italia.

[7] VILLARI, _Storia di Girolamo Savonarola:_ Firenze, Successori Le
Monnier, 1887, vol. I, pag. 287-8.

[8] _Paradiso_, XVI, 66-68. Vedi anche tutti i versi 42-72.

[9] _Lettere familiari_, lib. XI, lett. 16, ediz. Fracassetti.

[10] GUICCIARDINI, _Opere inedite_, pubblicate per cura dei conti Piero
e Luigi Guicciardini, in Firenze, dal 1857 al 1866, in dieci volumi.
Vedi nel vol. I (_Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli_)
la Considerazione sul cap. XII dei _Discorsi_. Il Guicciardini, in
questo luogo, chiama regno ciò che noi diciamo monarchia, e monarchia
l'unione di più Comuni in una repubblica.

[11] _Opere inedite_, vol. II, _Storia di Firenze_, pag. 8-9.

[12] Questo argomento l'ho esaminato a lungo in un articolo (_La
Repubblica fiorentina al tempo di Dante Alighieri_), pubblicato nella
_Nuova Antologia_ di Firenze, vol. XI, luglio 1869, pag. 443 e segg.;
ripubblicato nel mio libro: _I primi due secoli della storia di
Firenze_.

[13] Novella XC, ediz. Le Monnier: Firenze, 1860-61.

[14] MACHIAVELLI, _Storie_, vol. II, lib. V, pag. 11. Per le opere di
questo scrittore citiamo generalmente l'edizione colla data d'Italia,
1813.

[15] Id., op. cit., lib. VII, pag. 184.

[16] BURCKHARDT, _Die Cultur der Renaissance in Italien_: Basel, 1860.
Di quest'opera importantissima fu fatta una seconda edizione (Berlin,
1878) con modificazioni ed aggiunte; ne è stata pubblicata anche
un'assai fedele traduzione italiana in due volumi, dal prof. Valbusa,
con alcune aggiunte e correzioni fatte dall'autore: _La civiltà del
secolo del rinascimento in Italia_, ec.: Firenze, Sansoni, 1876.
L'opera continuò e continua a ristamparsi in Germania.

[17] Il MACHIAVELLI dice invece: _Mors acerba, fama perpetua,
stabit vetus memoria facti. Storie_, vol. II, lib. VII, pag. 203. La
confessione dell'Olgiati trovasi nel Corio. Vedi anche ROSMINI, _Storia
di Milano_, vol. III, pag. 23; GREGOROVIUS, _Geschichte der Stadt Rom_
(zweite Auflage), vol. VII, pag. 241 e seg.; _Cola Montano_, Studî
storici di GEROLAMO LORENZI: Milano, 1875.

[18] MACHIAVELLI, _Storie_, vol. I, lib. III, pag. 193.

[19] Così affermano il Cavalcanti ed il Machiavelli, ai quali si
attiene il marchese Gino Capponi, sebbene il Berti dell'Archivio
fiorentino ed altri, appoggiandosi ad alcuni documenti dell'Archivio
stesso, abbiano sostenuto che Giovanni de' Medici non fu favorevole
alla legge. Questa, secondo il Machiavelli, fu poi anche da Cosimo,
sempre per ottenere il favore del popolo, richiamata in vigore nel
1458. Io ho discusso a lungo la questione nell'_Arch. Stor. It_., Serie
V, vol. I, pag. 185, e non ripeterò ora quello che ivi ho scritto.
Aggiungerò solo che, nella prima pagina dei _Ricordi_ di MATTEO
PALMIERI (assai affezionato ai Medici), i quali trovatisi nell'Archivio
fiorentino, si parla della istituzione del Catasto nel 1427, ed a carte
52 retro, se ne riparla, ricordando che il dì 11 gennaio 1457 (1458
s. n.) fu rimesso in vigore. Il Palmieri non dice nulla della parte
presa dai Medici in favore della legge; ma egli, mediceo dichiarato,
al pari del Machiavelli afferma che prima di essa non «mai si poson le
gravezze secondo stima vera di sostanze,» e così coloro che ne avevano
l'incarico, «aveano a porre, secondo loro discretione, a chi pareva
loro, quella prestanza volevano.» Ci sembra che se davvero Cosimo fosse
stato, come alcuni vogliono, contrario alla legge, il Palmieri non
l'avrebbe così apertamente lodata.

[20] GUICCIARDINI, _Storia di Firenze_, pag. 6.

[21] Voleva con ciò dire, che, per esser cittadini da bene, bastava
avere il panno per farsi il lucco necessario a sedere negli ufficî.

[22] Il Machiavelli, che nelle sue _Storie fiorentine_ cerca spesso di
scusare i Medici, attribuisce il fatto solo al gonfaloniere Bartolommeo
Orlandini. Il GUICCIARDINI, invece, che nella sua _Storia fiorentina_ è
giudice assai più imparziale dei Medici, attribuisce tutto a Cosimo.

[23] MACHIAVELLI, _Storie_, vol. II, pag. 148-52.

[24] Vedi gli storici fiorentini del tempo, e le _Cronache volterrane_
pubblicate dal TABARRINI nell'_Archivio Stor. It_., App., vol. III,
pag. 317 e seg. Alla opinione generalmente accolta, e seguita anche da
G. Capponi, si è recentemente opposto L. FRATI (_Il Sacco di Volterra
nel 1472_, ecc. nella _Scelta di Curiosità letterarie_: Bologna,
Romagnoli, 1886). Non mi sembra però che sia riuscito a scagionare
Lorenzo dall'accusa che i contemporanei gli fecero. Se il suo nome
non si trova nel contratto degli appaltatori delle miniere, bisogna
ricordarsi che l'accusa fatta a Lorenzo, era, come dice lo stesso
Frati, di essere _sottomano_ interessato nell'appalto.

[25] _Diari di Alamanno Rinuccini_, pubblicati dall'AIAZZI: Firenze,
1840, pag. CX-XII. Nell'_Archivio Stor. It._, vol. I, pag. 315 e seg.,
si trovano pubblicate ed illustrate dal marchese G. Capponi le due
Provvisioni, che istituirono il Consiglio dei Settanta.

[26] _Storia Fiorentina_, cap. IX, pag. 91.

[27] Il ROMANIN (_Storia documentata di Venezia_, vol. IV, lib. X, cap.
3) riporta, cavandola dal Sanuto, tutta questa relazione, di cui noi
abbiamo dato un breve sunto.

[28] ROMANIN, Op. cit., vol. IV, pag. 108.

[29] Parole della sentenza nel ROMANIN.

[30] _Diari_ di Marin Sanuto, e _Cronaca_ del Dolfin. Vedi i brani
riportati dal ROMANIN, vol. IV, pag. 286 e seg.

[31] Sotto il suo ritratto, nella Sala del Maggior Consiglio, fu messa
questa iscrizione:

    _Post mare perdomitum, post urbes Marte subactas,_
    _Florentem patriam longaevus pace reliqui._

[32] La lettera trovasi negli _Annali_ del Malipiero, ed è riportata
anche dal ROMANIN, vol. IV, pag. 335-36.

[33] Vedi il _Viaggio_ di frate Pietro da Casola, milanese, pubblicato
da G. Porro: Milano, Ripamonti, 1855. Il ROMANIN, vol. IV, pag. 494-95,
ne riporta qualche brano.

[34] GUICCIARDINI, _Storia fiorentina_, pag. 70.

[35] Per la storia di Roma, oltre le opere più antiche, vedi
GREGOROVIUS, _Geschichte der Stadt Rom_, vol. VII, e REUMONT,
_Geschichte der Stadt Rom_, vol. III, parte I e II. Recentemente il
Dr. PASTOR pubblicò la sua _Geschichte der Päpste_, ecc. (Freiburg
i. B. 1891), che è stata già tradotta in francese ed in italiano, ed
è un'opera di molto valore, scritta però con tendenza esclusivamente
cattolica. Anche il CREIGHTON, _History of the Papacy_ (London,
1882-87), merita d'esser consultato.

[36] Vedi il _Codice Aragonese_, pubblicato dal prof. F. TRINCHERA,
già sopraintendente degli Archivi Napoletani, in tre volumi: Napoli,
1866-74.

[37] _Considerazioni sul libro del Principe_, premesse dal prof.
A. ZAMBELLI al volume che contiene _il Principe e i Discorsi di N.
Machiavelli_: Firenze, Le Monnier, 1857. Le osservazioni, a questo
proposito fatte dal prof. Zambelli, vennero poi da moltissimi altri
ripetute.

[38] Per ciò che s'attiene al Petrarca come erudito, bisogna valersi
principalmente delle sue lettere, pubblicate con pregevoli note
dal FRACASSETTI: — _Epistolae de rebus familiaribus et variae_:
Florentiae, typis Felicis Le Monnier, 1859-63, tre vol.; — _Lettere
Familiari e Varie_ (traduz. con note), cinque vol.: Firenze, Le
Monnier, 1863-64; — _Lettere Senili_ (traduzione con note), due vol.:
Firenze, Successori Le Monnier, 1869-70. Oltre di ciò assai importanti
sono le considerazioni che fa sul Petrarca GIORGIO VOIGT nella sua
opera _Die Wiederbelebung des classischen Alterthums, oder das erste
Jahrhundert des Humanismus_: Berlin, Reimer, 1859. Quest'opera (di
cui una seconda edizione assai ampliata, in due vol., fu pubblicata
nel 1888, e una traduzione italiana ne fu poi fatta dal professor
Valbusa) e quella, molte volte pubblicata, tradotta anch'essa dal
Valbusa, del BURCKHARDT, _Die Cultur der Renaissance in Italien_,
sono della massima importanza per la storia dell'erudizione italiana.
Meritano ancora di esser menzionate: A. MÉZIÈRES, P_étrarque, Étude
d'après des nouveaux documents_: Paris, Didier, 1868, e LUDWIG GEIGER,
_Petrarca_: Leipzig, Duncker und Humblot, 1874. Il prof. Mézières si
vale molto delle lettere pubblicate dal Fracassetti, ma poco o punto
dei pregevoli lavori del Voigt e del Burckhardt; l'opera del Geiger
è invece una chiara sintesi di tutto ciò che fu scritto prima di lui,
e venne pubblicata in occasione del Centenario celebrato in Arquà il
18 luglio 1874. Il DE SANCTIS, nel suo _Saggio critico sul Petrarca_
(Napoli, 1869), si occupò del poeta italiano e non dell'erudito.
Vedansi anche: KOERTING, _Petrarca's Leben und Werke_ (Leipzig, 1887);
BARTOLI, _Storia della Letteratura Italiana_, vol. VII (1884); GASPARY,
_Geschichte der Ital. Literatur_, vol. I (1885); DE NOLHAC, _Pétrarque
et l'Humanisme_: Paris, 1892.

[39] _Parad_., XVII, 61-3; 68-9.

[40] È noto che il Petrarca credette d'aver posseduto il libro _De
Gloria_ di Cicerone, e d'averlo poi perduto, imprestandolo al suo
maestro, che per miseria lo avrebbe venduto, il che egli deplorò
per tutta la vita. Il VOIGT (_Wiederbelebung_, ecc., 1ª ediz.,
pag. 25-7) esprime il dubbio, che il Petrarca siasi ingannato. Il
volume imprestato conteneva molti trattati; è possibile, quindi,
dice il Voigt, che il titolo _De Gloria_ fosse dato, come pur
facevano i copisti, ad uno o più capitoli d'altra opera, per esempio
delle _Tusculane_. Questa ipotesi del dotto scrittore si fonda
sull'osservazione, che il Petrarca imprestò il suo codice in età assai
giovane, quando conosceva pochissimo Cicerone, e che più tardi non fu
mai in grado di dir niente di particolare su quell'opera: se fosse
stata veramente posseduta dal Petrarca, conclude il Voigt, non era
facile che egli non ne ricordasse nulla, e che, anche smarrita, andasse
perduta per sempre. V. pure DE NOLHAC, _Pétrarque et l'Humanisme_,
chap. IV, pag. 216-223.

[41] _Lettere Familiari_, ediz. italiana. Vedi la nota alla lettera 5
del libro XI. Il Petrarca ricevette l'invito il dì 6 aprile 1351.

[42] «Et ita cum quibusdam fui, ut ipsi quodammodo mecum essent,»
dice egli stesso nella Lettera _ad Posteros_, nelle _Fam. et Variae_,
edizione latina, vol. I, pag. 3.

[43] _Lettere Senili_, lib. XVI, ep. 7, vol. II, pag. 505-07.

[44] _Opere_, vol. I, proemio alle _Storie_, pag. CLV.

[45] _Epistola ad Posteros_, in principio delle _Familiares_.

[46] _Lettere Familiari_, lib. V, ep. 4.

[47] _Lettere Familiari_, lib. V, ep. 5.

[48] _Lettere Familiari_, lib. V, ep. 4.

[49] _Lettere Familiari_, lib. V, ep. 3. Il Fracassetti dà a questa
lettera la data del 23 novembre 1343.

[50] _Lettere Familiari_, lib. VIII, ep. 1.

[51] Il professore MÉZIÈRES, nel cap. IV del suo libro sul Petrarca,
racconta come il poeta cominciò nel 1330 ad amar Laura, che già nel
1325 aveva sposato Ugo De Sade, e morì nel 1348, lasciandogli più
figli. Nel 1331 la passione del Petrarca era, secondo il Mézières,
fortissima, e tale continuò fin dopo la morte di Laura. Il biografo
francese poi, costretto a notare che il Petrarca, canonico di Lombez
e arcidiacono di Parma, non si contentò di questo amore, ma nello
stesso tempo amava altra donna, da cui ebbe nel 1337 un figlio, nel
1343 una figlia, osserva: «Ce n'est pas _une des particularités les
moins curieuses_ de son amour pour Laure, qu'au moment où il éprouvait
pour elle une passion si vive, il fût capable de chercher ailleurs
ces plaisirs des sens qu'elle lui refusait obstinément. C'est une
histoire analogue à celle d'un grand écrivain de notre siècle, qui, au
sortir du salon d'une femme célèbre, qu'il était réduit, malgré lui,
à aimer platoniquement, se dedommageait dans des amours plus faciles
des privations qu'il subissait auprès de sa maîtresse.» (Pag. 153).
Ma sono queste _particularités curieuses_ quelle che fanno giudicare
gli uomini: ed il prof. Mézières, che voleva dimostrare la serietà e
profondità della passione del Petrarca e del carattere di lui in ogni
cosa, avrebbe forse fatto meglio a non alludere qui allo Chateaubriand,
che di leggerezze e contradizioni n'ebbe non poche.

[52] _Lettere Senili_, lib. XVI, ep. 1. Vedi anche _Lettere Familiari_,
lib. V, ep. 3; lib. VII, ep. 13; lib. XIII, ep. 6; _Epist. ad
Posteros_; e nell'edizione italiana delle _Lettere Familiari_, le due
note alle lettere 1 e 12 del libro VIII.

[53] _Epistolae de rebus famil. et variae_, vol. III, ep. 48, pag.
422-32. Questa epistola è indirizzata a Cola di Rienzo ed al popolo
romano.

[54] _Lettere Familiari_, lib. VII, ep. 13. Il Fracassetti ritiene che
questa lettera sia stata scritta nel 1348.

[55] _Lettere Familiari_, lib. VIII, ep. 1.

[56] _Lettere Familiari_, lib. XIII, ep. 6.

[57] _Lettere Familiari_, lib. XI, ep. 16.

[58] Epistolae de rebus famil. et variae, vol. III, ep. 48, pag. 422-32.

[59] _Lettere Familiari_, lib. XII, ep. 1, 24 febbraio 1350.

[60] _Epist. de rebus famil. et variae_, lib. III, 7: «Monarchiam esse
optimam relegendis, reparandisque viribus Italis, quas longus bellorum
civilium sparsit furor. Haec ut ego novi, fateorque regiam manum
nostris moribus necessariam,» etc. Fu scritta nel 1339, secondo il
Fracassetti. Vedi la sua nota nell'edizione italiana.

[61] Per la storia degli eruditi sono una fonte assai importante le
_Vite di uomini illustri del secolo XV_, scritte da VESPASIANO DA
BISTICCI, pubblicate la prima volta dal Mai, poi dal prof. Adolfo
Bartoli (Firenze, Barbèra, 1859). Ora n'è uscita, a cura di L. Frati,
una nuova edizione, anche più compiuta, di cui il primo volume fu
pubblicato nella _Collezione dei Testi di lingua_ a Bologna sin dal
1892. Questo autore pregevole per le molte e sicure notizie che dà,
vuole essere esaminato con giudizio, a cagione della sua eccessiva
ingenuità, e mancanza di critica. Le sue lodi sono spesso sconfinate;
poco c'è da fidarsi delle sue cifre, e generalmente non si occupa
di date. La _Storia della Letteratura italiana_ del TIRABOSCHI
contiene una mèsse preziosa di fatti intorno agli eruditi. Il VOIGT
ed il BURCKHARDT, più volte citati, meritano d'essere a preferenza
studiati. L'opera del NISARD, _Les gladiateurs de la république des
lettres aux XV^me, XVI^me et XVII^me siècles_ (Paris, Levy, 1810),
nonostante il titolo bizzarro, ha notizie ed osservazioni di pregio.
Una vasta miscellanea di notizie trovasi nelle _Epistolae_ di AMBROGIO
TRAVERSARI, pubblicate dal Mehus con la biografia dell'autore; e
utilissime sono anche, non per critica, ma per esattezza di fatti, le
molte biografie scritte da CARLO DE' ROSMINI. Altri lavori più speciali
citeremo dove occorra.

[62] A questo proposito moltissime notizie si trovano raccolte nel
volume, che il signor Alessandro Wesselofsky pose innanzi al _Paradiso
degli Alberti_. Vedi I_l Paradiso degli Alberti, ritrovi e ragionamenti
del 1389, romanzo di Giovanni da Prato_, a cura di ALESSANDRO
WESSELOFSKY: Bologna, Romagnoli, 1867. Questi ritrovi si facevano ora
in casa di Coluccio Salutati, ed ora nel _Paradiso_, villa di Antonio
degli Alberti, fuori della Porta San Niccolò.

[63] _Comento a una canzone di Francesco Petrarca_, per LUIGI MARSILI:
Bologna, Romagnoli, 1863. Il Wesselofsky è stato dei primi a notare che
vi fu un periodo di transizione fra i Trecentisti e gli eruditi.

[64] Detto anche Lino, Niccoluccio, Niccolino.

[65] Il VOIGT, pag. 115 (lª ediz.) pose anche Giannozzo Manetti fra
coloro che frequentavano queste riunioni, ma fu un errore. Luigi
Marsigli nacque verso il 1330, e morì il 21 agosto 1394 (TIRABOSCHI,
vol. V, pag. 171: Firenze, Molini, Laudi e C., 1805-13); il Manetti
nacque l'anno 1396 (TIRABOSCHI, vol. VI, pag. 773), ed appartenne
ad una generazione posteriore. L'errore nacque da ciò, che dopo la
morte del Marsigli, insegnarono in Santo Spirito Vangelista da Pisa e
Girolamo da Napoli, presso i quali studiò il Manetti.

[66] Il Voigt è stato il primo che abbia, sotto questo aspetto,
richiamato l'attenzione sul Salutati. Una compiuta edizione delle sue
epistole è stata recentemente iniziata dall'Istituto Storico Italiano
per opera del prof. Novati.

[67] Leonardo Aretino scriveva, che se egli sapeva il greco, se aveva
approfondito lo studio del latino, lo doveva a Coluccio Salutati: «Nemo
unquam parens in unico diligendo filio tam sedulus fuit quam ille in
me.» E Coluccio parla di questa amicizia con gran delicatezza d'animo
e nobilissimo linguaggio: «Continua et studiosa nobis consuetudo fuit,
et cum de cunctis quae componerem iudex esset, et ego suarum rerum
versa vice, nos mutuo sicut ferrum ferro acuitur, exacueramus; nec
facile dixerim ex hoc dulce et honesto contubernio, uter nostrum plus
profecerit. Uterque tamen eruditior evasit, fateri operteat mutuo nos
fuisse vicissim discipulus et magister.» Questi due brani di lettere
si trovano riportati nella Prefazione (pag. XI) premessa dal MORENI
alla _Invectiva Lini Colucci Salutati in Antonium Luscum Vincentiuum_:
Florentiae, 1826. Il Loschi o Lusco, come lo chiama P. Bracciolini, era
dotto nel latino e nel diritto civile; fu cancelliere di Gio. Galeazzo;
poi segretario a Roma, dai tempi di Gregorio XII fino ai tempi di
Niccolò V. Avendo egli detto male di Firenze, Coluccio gli rispose
colla sua _Invectiva_, nella quale si può vedere a quale esagerazione
e gonfiezza arrivasse qualche volta lo stile degli eruditi. «Quaenam
urbs, non in Italia solum, sed in universo terrarum orbe est moenibus
tutior, superbior palatiis, templis ornatior, formosior aedificiis;
quae porticu clarior, platea speciosior, viarum amplitudine laetior;
quae populo maior, civibus gloriosior, inexhaustior divitiis, cultior
agris; quae situ gratior, salubrior coelo, mundior caeno; quae puteis
crebrior, aquis suavior?» ec. ec. E con questo stile continua per
molte pagine. (Vedi pag. 125 e seg.). Secondo P. BRACCIOLINI (vedi
nota a pag. XXVII della Prefazione all'Invectiva) il Salutati aveva
una collezione di 800 codici, numero che è veramente straordinario per
quei tempi. Della liberalità con cui ne faceva copia a tutti, ecco come
parla Leonardo Aretino: «Ut omittam quod pater communis erat omnium,
et amator bonorum.... omnes in quibus conspiciebat lumen ingenii, non
solum verbis incendebat ad virtutem, verum multo magis cum copiis,
tum libris suis iuvabat, quos ille pleno copia cornu non magis usui
suo quam ceterorum esse volebat.» (Vedi questo brano nella citata
Prefazione, pag. XXVII). I libri del Salutati andarono poi dispersi,
essendo stati venduti da' suoi figli (Ibid., pag. XXVII-VIII). Lo
Shepherd, nella _Vita di Poggio Bracciolini_, dà varie notizie sul
Salutati, alcune lettere e un elenco delle opere, molte delle quali
son sempre inedite nelle biblioteche fiorentine. L'edizione delle
_Epistolae_ del Salutati fatta dal Mehus è assai poco corretta. Invece
con grandissima cura è condotta quella del prof. Novati recentemente
venuta alla luce tra le _Fonti_ dall'Istituto Storico Italiano. V.
anche NOVATI, _La giovinezza di Coluccio Salutati_: Torino, Loescher,
1888.

[68] Dopo di Coluccio Salutati furono successivamente segretarî della
Repubblica, Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini,
Benedetto Accolti, Cristoforo Landino, Bartolommeo Scala, Marcello
Virgilio Adriani (che fu primo segretario quando il Machiavelli era
secondo), Donato Giannotti, ed altri non pochi.

[69] VESPASIANO nella _Vita di Piero dei Pazzi_.

[70] VESPASIANO, nella _Vita di N. Niccoli_, paragrafo VIII; Poggio
Bracciolini nella Prefazione all'Invectiva del Salutati, citata più
sopra, pag. XXVII. Altri portano i codici a poco più di 600.

[71] Vedi VESPASIANO, _Vita di N. Niccoli_; MEHUS, _Ambr. Camaldulensis
Epist. Praefatio_, pag. XXXI, LXIII, LXXXII; TIRABOSCHI, vol. VI, pag.
125 e seg., e l'opera del VOIGT, già citata. Cosimo de' Medici fece
porre i libri in San Marco, l'anno 1444, nella stupenda sala costruita
a sue spese dall'architetto Michelozzi, la quale fu restaurata ed
ampliata dopo il terremoto seguito l'anno 1453. (P. MARCHESE, _Scritti
varii_: Firenze, Le Monnier, 1885, pag. 135). Più tardi, cioè dopo la
cacciata di Piero de' Medici, seguita nel 1494, i frati di San Marco
comprarono i codici della libreria privata dei Medici, che vennero poi
ricomprati dal cardinal Giovanni, che fu papa col nome di Leone X, ed
alla sua morte il cardinal Giulio dei Medici, anch'egli poi eletto papa
col nome di Clemente VII, esecutore della volontà di Leone, li riportò
in Firenze, ordinando a Michelangelo la costruzione dell'edifizio, in
cui dovevano essere collocati, nel chiostro di San Lorenzo. L'edifizio
fu compiuto sotto Cosimo I, dopo la morte di Clemente VII, e così fu
fondata la famosa libreria Laurenziana. Secondo il Padre Marchese,
avendo Cosimo de' Medici pagato i debiti del Niccoli, ed avendo
mescolati in San Marco codici suoi con quelli del morto amico, i
figli e nipoti ritennero su di essi un certo diritto; e così quando
riacquistarono dai frati i libri che erano stati di proprietà privata
dei Medici, ve ne inclusero parecchi anche di quelli del Niccoli.
Intorno alla storia di queste collezioni, notizie svariate si trovano
in VESPASIANO, _Vita di N. Niccoli_, e _Vita di Cosimo de' Medici_;
TIRABOSCHI, vol. VI, pag. 128 e segg.; POGGIO, _Opp_.: Basilea, 1538,
pag. 270 e seg.; MEIIUS, _Ambr. Camaldulensis Epist. Praefatio_, pag.
LXIII e seg., LXXVI e seg.; P. MARCHESE, _Scritti varii_, pag. 45
e seg. Parecchie notizie con nuovi documenti pubblicai io nella mia
_Storia di Girolamo Savonarola e de' suoi tempi_. Una breve relazione,
_Della biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze_; Firenze, Tofani,
1872, fu pubblicata dal cav. FERRUCCI bibliotecario e dal sig. ANZIANI
vice-bibliotecario, che ne fu l'autore. Ma tutto ciò che risguarda
la storia della privata Collezione dei Medici trovasi ampiamente
narrato ed illustrato con nuovi ed importanti documenti dal prof. E.
PICCOLOMINI nell'_Archivio Storico Italiano_, tomo XIX, dispense 1, 2
e 3 del 1874, e tomo XX, 4ª dispensa del 1874. Questo medesimo lavoro
fu poi stampato a parte col titolo: _Intorno alle condizioni ed alle
vicende della libreria Medicea privata_, Ricerche di E. PICCOLOMINI:
Firenze, Cellini e C. 1875.

[72] VESPASIANO, _Vita di P. Strozzi_.

[73] La deliberazione è del 1472. V. PREZZINER, _Storia del Pubblico
Studio_, ecc.: Firenze, 1812, volumi due. Quest'opera non ha però
gran valore storico. Altre notizie sullo Studio trovansi sparse negli
scritti degli eruditi, e si può consultare anche l'opera intitolata:
_Historia Academiae Pisanae_, auctore ANGELO FABRONIO: Pisis, 1791-95,
in tre volumi. Nel 1881 la R. Deputazione sugli Studi di Storia
Patria in Firenze pubblicò gli Statuti dello Studio fiorentino, con
un discorso del prof. C. MORELLI, e altri documenti a cura del cav. A.
GHERARDI.

[74] PETRARCA, _Lettere Senili_, lib. III, lett. 6; lib. V, lett. 1;
lib. VI, lett. 1-2.

[75] LEON. BRUNI, _Rerum suo tempore in Italia gestarum, Commentarius_,
in MURAT., _Script._, tomo XIX, pag. 920.

[76] TIRABOSCHI, _Storia della Letteratura italiana_; GIBBON, _Decline
and Fall_, ec.; VOIGT, _Die Wiederbelebung_, ec.

[77] Vedi il VOIGT, il GIBBON, ed anche la mia _Storia di G.
Savonarola_, vol. I, cap. IV.

[78] G. SHEPHERD, _Vita di Poggio Bracciolini_, tradotta dall'inglese
da T. Tonelli, con note ed aggiunte: Firenze, Ricci, 1825, volumi due.
Vedi nel vol. I, pag. 65 e segg., la traduzione della lettera citata.

[79] POGGII, _Opera_, edizione di Basilea, pag. 301-05.

[80] L. ARETINI, _Epist_., lib. IV, ep. 5.

[81] TIRABOSCHI, _Storia della Letteratura italiana_, vol. VI, pag.
118; ROSMINI, _Vita e disciplina di Guarino, Veronese_: Brescia,
1805-06.

[82] Vedi Lettera al Niccoli in data 29 ottobre 1420, pubblicata nella
traduzione dello SHEPERD, vol. I, pag. 111, nota C.

[83] VESPASIANO, Vita di Poggio Bracciolini, § I.

[84] POGGII, _Opera_, pag. 69.

[85] Vedi la lettera nello SHEPHERD, vol. I, pag. 184-85.

[86] «Verum nequaquam mirum videri debet, cum eius mater Arimini dudum
in purgandis ventribus et intestinis sorde deluendis quaestum fecerit,
maternae artis foetorem redolere. Haesit naribus filii sagacis materni
exercitii attrectata putredo et continui stercoris foetens halitus.»
POGGII, _Opera_, pag. 165.

[87] «At stercorea corona ornabuntur foetentes crines priapei vati.»
POGGII, _Opera_, pag. 167. Riesce impossibile riferire i più osceni
brani delle _Invettive_ di Poggio e delle _Satire_ del Filelfo.
Il NISARD (_Les Gladiateurs_, etc.) si provò a riportarne parecchi
nelle appendici alle _Vite del Filelfo e di Poggio_, ma anch'egli fu
costretto a fermarsi.

[88] «Volui itaque eis ostendere id quod facerem non vitium esse
corporis, sed animi virtutem.» _Antid. in Pogium_, pag. 177: Parisiis,
1529.

[89] ROSMINI, _Vita di F. Filelfo_, vol. I, doc. IX, pag. 125.

[90] PLATINA, _Vita Pii II_.

[91] Gasparo Veronese citato in VOIGT, _Die Wiederbelebung_, etc., pag.
437.

[92] Il Sannazzaro scrisse:

    _Dum patriam laudat, damnat dum Poggius hostem,_
      _Nec malus est civis, nec bonus historicus._

[93] Questa lettera è diretta a Flavio Biondo di Forlì e trovasi
riportata anche in A. BARTOLI, _I due primi secoli della Letteratura
italiana:_ Milano, Vallardi, 1880.

[94] Una elegante edizione di questa Storia, colla traduzione di
Donato Acciaioli, fu pubblicata in Firenze, 1856-60, in tre volumi
in-8. Il signor CIRILLO MONZANI pubblicò un accurato _Discorso_ sul
Bruni nell'_Archivio storico italiano_, Nuova Serie, vol. V, parte I,
pag. 29-59 e parte II, pag. 3-34. Vedi anche le considerazioni che fa
sulle storie del Bracciolini e del Bruni il GERVINUS nel suo lavoro,
_Florentinische Historiographie_, pubblicato nel volume intitolato:
_Historische Schriften:_ Frankfurt a. M., 1883.

[95] Sulla storia dell'Aretino si può consultare un pregevole lavoro di
E. Santini, pubblicato nel vol. XXII degli _Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa_ (1910). L'autore però ne esalta un po' troppo i
meriti, che pur sono in buona parte innegabili.

[96] La prima volta nel 1410 per un anno solo, la seconda dal 1427 al
44.

[97] VESPASIANO, _Vita di Carlo d'Arezzo_.

[98] VESPASIANO, op. cit., TIRABOSCHI, _Storia della Letteratura
italiana._

[99] Questa orazione fu premessa alle _Epistolae_ del Bruni.

[100] VESPASIANO, _Vita di G. Manetti_, § II.

[101] VESPASIANO, _Vita di G. Manetti_, § XV.

[102] Vedi in VESPASIANO le due _Vite di Zembrino pistolese_ e di
_Maestro Pagolo_.

[103] VOIGT, _Die Wiederbelebung_, etc., pag. 279, nota 3.

[104] «Scripsit item exempla quaedam et veluti formulas, quibus Romana
Curia in scribendo uteretur, quae etiam ab eruditissimis viris in usum
recepta sunt.» — FACIUS, _De viris, illustribus_, pag. 3.

[105] VOIGT, _Enea Silvio de' Piccolomini, als Pabst Pius der Zweite_,
vol. III, pag. 548 e segg.

[106] La sua libreria, in 30 casse che contenevano 600 volumi,
fu lasciata a Venezia, e formò il primo nucleo della Biblioteca
di San Marco. VESPASIANO, _Vita del card. Niceno_; VOIGT, _Die
Wiederbelebung_, etc.; TIRABOSCHI, _Storia della Letteratura italiana_.

[107] VESPASIANO, _Vite di Enocke d'Ascoli, di Niccolò V, di Giovanni
Tortello_.

[108] TORTELLII, _Commentariorum grammaticorum de Ortographia dictionum
e Graecis tractarum Opus_, Vicentiae, 1479.

[109] Così nella _Vita di Niccolò V_, § XXV: in quella di Tortello, §
I, dice, invece: «Aveva fatto inventario di tutti i libri che aveva in
quella libreria, e fu mirabile cosa la quantità ch'egli diceva avere,
ch'erano «da volumi novemila.» Altri danno altre cifre; il numero
preciso è difficile conoscerlo. VOIGT,_ Die Wiederbelebung_, ecc., pag.
364.

[110] VESPASIANO,_ Vita di Niccolò V_. G. MANETTI, nella sua _Vita
Nicolai V_, dà un ragguaglio minuto dei disegni di questo Papa. Vedi
anche VOIGT, _Die Wiederbelebung_, ecc.; GREGOROVIUS e REUMONT nelle
loro _Storie di Roma_.

[111] BAROZZI e SABBADINI, _Studi sul Panormita e sul Valla_, nelle
_Pubblicazioni dell'Istituto superiore_, pag. 52 e seg.: Firenze,
successori Le Monnier, 1891.

[112] Poggio e Fazio lo accusano di avere anche fatto un falso
chirografo, ed attribuiscono a ciò la sua fuga. Essi però erano suoi
nemici, e sono quindi poco credibili testimoni contro di lui.

[113] È divisa in tre parti. Vedila nella edizione delle Opere del
Valla fatta a Basilea, 1543. Nel 1430 l'opera era già scritta, nel 1433
ne usciva a Pavia una seconda edizione.

[114] A questo proposito egli dice: «Tot praelia vidi, in quibus de
salute quoque mea agebatur.» _Opera_, edit. Basil., 1543, pag. 273. Gli
eruditi però assai facilmente si vantavano d'aver corso pericoli, ogni
volta che accompagnavano un principe al campo.

[115] Vedila nelle _Opere_.

[116] VOIGT, _Enea Silvio de' Piccolomini, als Pabst Pius der Zweite_,
vol. II, pag. 313; _Die Wiederbelebung_, ecc., pag. 221. Vedi anche un
articolo del professore FERRI sul Cusano, nella _Nuova Antologia_, anno
VII, vol. XX, maggio 1872, pag. 109 e segg.

[117] _In Novum Testamentum e diversorum utriusque linguae codicum
collatione annotationes_, etc.: nelle _Opere_ del VALLA.

[118] In _Bartholomeum Facium ligurem, Invectivarum seu Recriminationum
libri IV_. L'occasione della disputa era stata una critica del
Fazio contro la Vita che il Valla aveva scritta del padre d'Alfonso
d'Aragona. L. VALLAE, _Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri
III_: Parisiis, per Robertum Stephanum. — Nel rispondere al Fazio, il
Valla attaccò anche il Panormita.

[119] _Elegantiarum libri VI_, nelle _Opere_ del VALLA.

[120] _Paraphrasis luculenta et brevis in Elegantias Vallae_: Venetiis,
1535. — _Paraphrasis, seu potius Epitome in Elegantiarum libros Laur.
Vallae_: Parisiis, 1548.

[121] Il RITTER, _Geschichte der neuern Philosophie_, parte prima,
pag. 252, nota appunto questa superiorità che il Valla attribuisce
alla _Retorica_ sulla _Dialettica_: «Noch viel reicher ist die
Redekunst, welche ein unerschöpfliches Gedächtniss, Kenntniss der
Sachen und der Menschen voraussetzt, alle Arten der Schlüsse gebraucht,
nicht allein in ihrer einfachen Natur, wie sie die Dialektik lehrt,
sondern in den mannigfaltigsten Anwendungen auf die verschiedensten
Verhältnisse der öffentlichen Gescäfte nach der Lage der Sachen,
nach der Verschiedenheit der Hörenden abgeändert. Dieser reichen
Wissenschaft solle die philosophische Dialektik dienen (_Dial_., disp.
II, praefatio). Das meint Valla, wenn er die Philosophie unter dem
Oberbefehl der Rede stellen will.» Questo è il concetto che espone
nella _Dialettica_, ma nelle _Eleganze_ va ancora più oltre, cercando
ritrovare la filosofia o la logica nel linguaggio.

[122] «Ut si quid retractatione opus est, et quasi ablutione, en tibi
me nudum offero.» _Ad Eugenium IV, Pont. Apologia_: VALLAE, _Opp_. Le
Lettere ai cardinali Scarampo e Landriani trovansi nelle _Epistolae
Regum et Principum_: Argentinae per Lazar. Zetzenerum, A. 1595, pag.
336 e 341.

[123] TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag. 1029 e segg.; VOIGT, _Die
Wiederbelebung_, ecc., pag. 224 e segg.; VOIGT, _Enea Silvio de'
Piccolomini_, ecc., vol. I, pag. 237; ZUMPT, _Leben und Verdienste des
L. Valla_, nel vol. IV del _Zeitschrift für Geschichtswissenschaft_,
von A. SCHMIDT; RITTER, _Geschichte der neuern Philosophie_, parte
prima; INVERNIZZI, _Il Risorgimento_ (secoli XV e XVI), cap. III, opera
che fa parte della _Storia d'Italia_ pubblicata a Milano dall'editore
Vallardi; _Lorenzo Valla, ein Vortrag_ von J. VAHLEN: Berlin, F.
Vahlen, 1870, pag. 26 e segg. Recentemente furono pubblicati altri
lavori sul Valla. Oltre quello già da noi citato di L. BAROZZI e L.
SABBADINI, si possono consultare: G. MANCINI, _Lorenzo Valla_: Firenze,
Sansoni, 1891: D.^r MAX VON WOLFF, _Lorenzo Valla, sein Leben und seine
Werke_: Leipzig, Seemann, 1893.

[124] VOIGT, _Die Wiederbelebung_, ecc.; GREGOROVIUS, _Geschichte der
Stadt Rom_, vol. VII, pag. 577 (2ª edizione): TIRABOSCHI, op. cit.,
vol. VI, pag. 635 e segg. La _Roma instaurata_ e la _Italia illustrata_
furono stampate la prima volta: _Romae in domo nob. v. Iohannis de
Lignamine_, 1474, e ristampate insieme con tutte le opere del Biondo a
Basilea nel 1559; vennero poi anche tradotte e pubblicate in italiano.

[125] È un trattato indirizzato, in forma di lettera, a Giovanni Aich,
il 30 novembre 1444.

[126] _Opera_: Basil., Hupper, 1551, vol. I, pag. 91-93.

[127] _Wiener Baedeker, Führer durch Wien und Umgebungen_, von B.
BUCHER und K. WEISS, Zweite Auflage: Wien, Faesy und Frick, 1870,
pagine 43-44.

[128] _Epist._ 165, ediz. di Basilea, 1571.

[129] POGGII, _De varietate fortunae:_ Parisiis, 1723. Quest'opera
incomincia con una lunga introduzione, nella quale l'autore parla
della devastazione in cui erano i monumenti di Roma. Il primo libro
descrive le rovine, e passa quindi a narrare le vicende di Tamerlano e
le calamità di Bajazet. Nel secondo libro Antonio Lusco discorre delle
vicissitudini seguite in Europa dal 1377 fino alla morte di Martino
V. Il terzo contiene un compendio della storia italiana sotto Eugenio
IV. Il quarto, che è come un lavoro staccato, e fu tradotto più volte,
contiene un ragguaglio dell'India e della Persia, che Poggio raccolse
dal Conti, il quale era andato fino di là dal Gange. È certo un lavoro
fra i più importanti che Poggio abbia lasciati, e vi si trova un po'
di tutto: filosofia, descrizione della politica italiana nel secolo XV,
viaggi in Oriente, ecc.

[130] PAOLO CORTESE dice: «In eo primum apparuit saeculi mutati
signum.» _De Cardinalatu_, pag. 39 (ediz. del 1510).

[131] I _Commentarii_ furono riveduti e in parte ritoccati da
Gianantonio Campano, vescovo di Teramo. Vedi GREGOROVIUS, _Geschichte_,
ecc., vol. VII, pag. 599 e segg. (2ª ediz.) Il VOIGT ha dato una
compiuta biografia di questo Papa nella sua opera, già molte volte
citata: _Enea Silvio de' Piccolomini als Pabst Pius der Zweite und
Seine Zeitalter_. Vedi più specialmente vol. I, lib. I, cap. 12, e
_passim;_ vol. II, lib. III, cap. 6-11. Il D.^r Lesca ha recentemente
pubblicato un accurato lavoro sui _Commentarii_: Pisa, Nistri, 1894.

[132] IOVII, _Elogia doctorum virorum_; TIRABOSCHI, op. cit., vol.
VI, pagine 107, 210, 644-49; BURCKHARDT, op. cit.; GREGOROVIUS,
_Geschichte_, ecc., vol. VII.

[133] «Fateor et me errasse, peccasse et ideo pœnas mereri.... Rursus
peto veniam; ad pedes me Pauli Pont. clementissimi esse credatis,
qui solita pietate et misericordia omnibus parcit, etc.» Così dice la
confessione di cui il GREGOROVIUS trovò non l'originale, ma una copia
nella Vaticana: _Geschichte der Stadt Rom_ (2ª ediz.), pag. 587 e
seguenti.

[134] Su Pomponio Leto e l'Accademia alcune nuove notizie si trovano in
A. DELLA TORRE, _Paolo Marsi da Pescia_, Rocca S. Casciano, Cappelli,
1903.

[135] «Tibi polliceor, etiam si a praetervolantibus avibus aliquid
contra nomen salutemque tuam sit, audiero, id statim literis aut
nunciis Sanctitati tuae indicaturum. — Celebrabimus et prosa et
carmine Pauli nomen, et auream hanc aetatem, quam tuus felicissimus
pontificatus efficit.» Questa lettera del Platina che trovasi
in VAIRANI, _Monum. Cremonensium_, vol. I, pag. 30, è citata dal
GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 588.

[136] GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 603 e seguenti,
(2ª ediz.); TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag. 317 e segg.

[137] RITTER, _Geschichte der neuern Philosophie_; GREGOROVIUS,
_Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 592; FERRI, _Il Card. Niccolò di
Cusa e la Filosofia della Religione_ (_Nuova Antologia_, vol. XX,
anno VII, maggio 1872, pag. 100 e segg.). In questo articolo l'autore
esamina il sistema filosofico del Cusano. «L'idea che signoreggia
tutto, egli dice, è l'assoluto, pensabile e incomprensibile nella sua
infinità, minimo e massimo, principio e termine di tutte le esistenze;
da esso nascono i contrarii che esso armonizza. L'idea del Cusano non
è l'identità del pensiero e dell'essere, ma è solo un'immagine della
verità assoluta. L'intelletto umano rimane distinto dal divino, ma la
creazione è una esplicazione del mondo da Dio, non è una creazione _ex
nihilo_. La dialettica del Cusano non arriva all'identità del pensiero
e dell'essere come in Hegel; il suo sistema non è ancora schietto
panteismo, perchè ammette due ordini d'esistenze, finito ed infinito.»
Il Bruno dette un passo più oltre in questa via. Su di ciò si legga il
lavoro pubblicato dal professore Tocco negli Atti dell'Accademia dei
Lincei: _Le fonti più recenti della filosofia del Bruno_: Roma, 1892.

[138] GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 596.

[139] MATARAZZO, _Cronaca di Perugia_, nell'_Archivio Storico_, vol.
XVI, parte II, pag. 180; NOTARIUS A NANTIPORTU, _Diarium_ etc., in
MURATORI, _Scriptores_, vol. III, parte II, col. 1094; INFESSURA,
_Diaria rerum romanorum_, ediz. Tommasini (nelle _Fonti per la storia
d'Italia_, pubblicate dall'Istituto Storico Italiano): Roma, 1890.

Nelle _Mittheilungen des Instituts für oesterreische
Geschichtforschung_, vol. IV (Innsbruck, 1883), si leggono due lavori,
che esaminano assai minutamente tutto ciò che fu scritto e detto sul
ritrovamento di questo cadavere. Il primo (p. 75-91) è di HENRY THODE;
il secondo (p. 443-49) è di CHR. HÜLSEN, il quale confuta alcune
ipotesi del Thode, pubblica qualche nuovo documento, e determina
ciò che si può ritenere come veramente accertato, e ciò che si deve
ritenere come ipotetico. V. anche BURCKHARDT, _Die Renaissance_, pag.
183 (1ª edizione).

[140] Lettere del 1485, pubblicate dall'HÜLSEN, nelle citate
_Mittheilungen_, pag. 435-6.

[141] Così conchiudeva una satira, che scrisse allora:

    _.... Vobis res coram publica sese_
    _Offert in medium, referens stragesque necesque_
    _Venturas, ubi forte minus pro lege vel aequo_
    _Supplicium fuerit de sonte nefando;_
    _Aut etiam officium collatum munere civis_
    _Namque relegatus, si culpae nomine mulctam_
    _Pendeat, afficiet magnis vos cladibus omnes._

(PHILELPHI, _Satirae_, quartae decadis hecatostica prima).

[142] Il ROSMINI nella sua _Vita di F. Filelfo_ (Milano, Mussi, 1808,
volumi tre) ha pubblicato alcuni di questi versi:

A Francesco Sforza il Filelfo dice:

    _Nam quia magnifici data non est copia nummi_
      _Cogitur hinc uti carmine rancidule._
    _Quod neque mireris, vocem pretiosa canoram_
      _Esca dat, et potus excitat ingenium._
    _Ingenium spurco suerit languescere vino,_
      _Humida mugitum reddere rapa solet._
                  (ROSMINI, vol. II, pag. 285, doc. VI).

A Gentile Simonetta:

    _Filia nam dotem petit altera et altera restes,_
      _Filiolique petunt illud et illud item._
                  (Vol. II, pag. 287, doc. VI).

A Bianca Maria Sforza:

    _Blanca, dies natalis adest qui munera pacis_
      _Adtulit eternae regibus et populis,_
    _Dona mihi quae, Blanca, tuo das debita vati,_
      _Cui bellum indixit horrida pauperies?_
    _Foenore mi pereunt vestes, pereuntque libelli,_
      _Hinc metuunt Musae, Phaebus et ipse timet._
      . . . . . . . . . . . . . . .
    _Non ingratus ero: nam me tua vate per omne_
      _Cognita venturis gloria tempus erit._
                  (Vol. II, pag. 288, doc. VI).

A Francesco Sforza:

    _Si, Francisce, meis rebus prospexeris unus,_
      _Unus ero, qui te semper ad astra feram._
                  (Vol. II, pag. 290, doc. VI).

[143] C. DE ROSMINI, _Vita di F. Filelfo_, vol. II, pag. 317, doc. XX.

[144] C. DE ROSMINI, _Vita di F. Filelfo_, vol. II, pag. 90, e pag. 305
e 308, doc. X.

[145] Per il Filelfo si possono consultare, oltre le sue opere, i tre
volumi della biografia pubblicata dal Rosmini (troppo lodatore) con
molti documenti, fra cui brani degli scritti inediti di quell'erudito.
Lo SHEPHERD nella _Vita di P. Bracciolini_ parla a lungo del Filelfo.
Vedi anche NISARD, _Les Gladiateurs_, ecc., vol. I; GUILLAUME FAVRE,
_Mélanges d'Histoire littéraire_, tome I: Genève, 1856; TIRABOSCHI,
VESPASIANO e VOIGT nelle opere citate.

[146] Nel 1465 moglie d'Alfonso d'Aragona, duca di Calabria.

[147] Divenuta poi moglie di Federigo, duca d'Urbino.

[148] VESPASIANO, _Vita d'Alfonso d'Aragona_, § VI e XIV. Il VOIGT,
_Die Wiederbelebung_, ecc., pag. 235, dice 120,000 ducati; ma è forse
errore di stampa.

[149] VESPASIANO, _Vita d'Alfonso_, § VII.

[150]

    _Crede velim nostra vitam distare papyro,_
    _Si mea charta procax, mens sine labe mea est._

(ANTONII PANORMITAE, _Hermaphroditus_. Primus in Germania edidit et
Apophoreta adjecit F. C. Forbergius: Coburgi, 1824. Vedi Epig. II, 1).

[151] _Archivio St. It._, vol. XVI, parte I e II, _Cronache_ del
GRAZIANI e del MATARAZZO.

[152] G. VOIGT, _Enea Silvio de' Piccolomini_, vol. III, pag. 123.

[153] PII II, _Comm._: Romae, 1584, lib. II, pag. 92. Il BURCKHARDT,
pagine 223-224, osserva che la parola _historia_ indica qui la
conoscenza dell'antichità. — Pei Malatesta e Rimini, vedi CHARLES
YRIARTE, _Un condottiere au XV siècle: Rimini_, Paris, Rotschild, 1882;
e nei miei _Saggi storici e critici_ (Bologna, Zanichelli, 1890) lo
scritto: _Rimini e i Malatesta_.

[154] I fratelli erano quattro: Alfonso I, il cardinale Ippolito, don
Ferrante e Giulio, figli tutti di Ercole I.

[155] GIOSUÈ CARDUCCI, _Delle poesie latine edite ed inedite di
Ludovico Ariosto_: Bologna, Zanichelli, 1875, pag. 21 e seg.

[156] C. DE ROSMINI, _Vita e disciplina di Guarino Veronese_: Brescia,
1805-6, vol. I, pag. 6; TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag. 118.

[157] Il ROSMINI nella sua _Vita di Guarino_ ci dà ampia notizia di
tutti questi discepoli.

[158] PAOLO VECCHIA, _Vittorino da Feltre_, Roma, presso _I diritti
della Scuola_, 1905.

[159] C. DE ROSMINI, _Idea dell'ottimo precettore nella Vita e
disciplina di Vittorino da Feltre e de' suoi discepoli_: Bassano, tip.
Remondiniana, 1801.

[160] PII II, _Comm_., pag. 131.

[161] Il prof. E. Piccolomini, nel suo lavoro _Sulla libreria privata
dei Medici_, da noi più sopra citato, riporta a pag. 25 le istruzioni
per il bibliotecario, le quali danno prova appunto della grande
precisione e dell'ordine voluto dal Duca.

[162] Questa libreria rubata poi dal duca Valentino, e più tardi
acquistata da Alessandro VII, trovasi ora nella Vaticana. Brevemente ne
parla il CASTIGLIONI nel suo _Cortegiano_; ma VESPASIANO ne discorre
a lungo e va in estasi descrivendola. «Solo a questo duca è bastato
l'animo di fare quello che non è ignuno che l'abbia condotto da anni
mille o più in qua, d'avere fatta fare una libreria, la più degna
che sia mai istata fatta da quello tempo in qua.... E ha preso quella
via che bisogna pigliare a chi vuole fare una libreria famosa e degna
come questa.... E che lettere! e che libri! e come degni! non avendo
rispetto a spesa ignuna (_Vita di Federico duca d'Urbino_, § XXVII e
XXVIII).... In quella libreria i libri tutti sono belli in superlativo
grado, tutti iscritti a penna, e non v'è ignuno a stampa, che se ne
sarebbe vergognato; tutti miniati elegantissimamente, e non v'è ignuno
che non sia iscritto in cavretto.» Ma il pregio principale era l'ordine
con cui fu composta, contenendo i principali autori antichi e moderni
in tutto lo scibile, e non molti esemplari d'uno stesso autore, ma una
copia di ciascuno, nè «ci manca una carta sola delle opere loro che non
ci sia finita.» (_Ivi_, § XXXI).

[163] Il PICCOLOMINI ha nel lavoro sopra citato, pag. 111 e seg.,
riportato il canone bibliografico composto dal Parentucelli, poi papa
Niccolò V, e può vedersi quanto esso sia incompiuto, e quanto sieno
perciò esagerate le lodi che riscosse.

[164] VESPASIANO, _Vita di Federico duca d'Urbino_, § XXXI.

[165] VESPASIANO, _ibidem_; UGOLINI, _Storia dei Conti e Duchi
d'Urbino_, vol. due: Firenze, 1859; DENNISTOUN, _Memoirs of the
Dukes of Urbino_: London, Longman, 1851; BURCKHARDT, _Die Cultur der
Renaissance_, pag. 44-46; VOIGT, _Die Wiederbelebung_, ecc., pag. 263.

[166] _De Platonicae atque aristotelicae philosophiae differentia_:
Basileae, 1574.

[167] Nella mia _Storia di G. Savonarola_, ecc., ho esaminato più
ampiamente questo argomento. Vedi vol. I, lib. I, cap. 4.

[168] «Unser heutiger monotheistischer Gottesbegriff hat zwei
Seiten, die der Absolutheit und die der Persönlichkeit, die zwar in
ihm vereinigt sind, doch so, wie bisweilen in einem Menschen zwei
Eigenschaften, davon die eine ihm nachweislich von der väterlichen,
die andre von der mütterlichen Seite kommt: das eine Moment ist die
jüdisch-christliche, das andre die griechisch-philosophische Mitgift
unsres Gottesbegriffs. Das alte Testament können wir sagen hat uns den
Herrn-Gott, das neue den Gott-Vater, die griechische Philosophie aber
hat uns die Gottheit oder das Absolute vererbt.» — STRAUSS, _Der alte
und der neue Glaube_: Bonn, 1873, 5ª ediz., pag. 107. Lo stesso autore
osserva nella pagina precedente: «In Alexandria war es, wo der jüdische
Stamm-und Nationalgott mit dem Welt-und Menschheitsgott zusammenffoss
und bald zusammenwuchs, den die griechische Philosophie aus der
olympischen Göttermenge ihrer Volksreligion heraus entwickelt hatte.»
(Pag. 106). Da Alessandria venute in Italia, queste idee si diffusero
in Europa, e divennero sangue e sostanza della cultura moderna.

[169] Una simile tradizione si diffuse anche intorno a Pitagora ed
Apollonio, nata forse dall'antico uso dei primitivi cristiani, che
chiamavano spesso giorno di nascita quello in cui passavano a miglior
vita i loro martiri.

[170] Nel suo Comento al _Simposio_ di Platone.

[171] Nelle sue lettere il Ficino distingue gli accademici platonici
in suoi discepoli ed in suoi amici, dai quali ultimi dice che spesso
imparava molto. Uno di questi era il Poliziano, il quale scriveva:
«Tu cerchi il vero, io cerco il bello negli scritti degli antichi; le
nostre opere si compiono a vicenda, essendo come due parti d'un solo e
medesimo tutto.»

[172] Intorno a questi tentativi si possono vedere le notizie raccolte
dal prof. A. ALFANI nel suo libro: _Della Vita e degli Scritti di O. R.
Rucellai_: Firenze, Barbèra, 1872. L'autore però si sforza di dare al
Rucellai un'importanza filosofica che esso non ebbe.

[173] Dobbiamo fare eccezione in favore d'un assai breve, ma pur dotto
lavoro di K. SIEVEKING, _Die Geschichte der Platonischen Akademie zu
Florenz_: Hamburg, Druck und Lithographie des Rauhen Hauses zu Horn,
1844. Questa bella monografia venne pubblicata, senza nome d'autore,
come appendice ad una breve e pregevole storia di Firenze dello stesso
scrittore. La fonte principale, per tutto ciò che risguarda l'Accademia
Platonica ed il Ficino, sono le opere di lui. Dell'Accademia egli parla
specialmente nelle Epistole e nella Introduzione o Comento alla sua
versione del _Simposio_ di Platone. Molte notizie si trovano anche nel
TIRABOSCHI; nella _Vita di M. Ficino_ scritta in latino dal CORSI, e
in quelle di Lorenzo de' Medici, scritte dal ROSCOE e dal REUMONT; in
ANGELO MARIA BANDINI, _Specimen litteraturae florentinae saec. XV_,
ecc.: Florentiae, 1747. Quest'opera è principalmente una biografia di
Cristoforo Landino seguace del Ficino, e membro dell'Accademia. Molte
notizie raccolse anche LEOPOLDO GALEOTTI nel suo _Saggio intorno alla
Vita ed agli Scritti di Marsilio Ficino_, pubblicato nell'_Archivio
Storico italiano_, Nuova Serie, tomo IX, disp. 2ª, e tomo X, disp.
1ª. Per l'esposizione delle dottrine vedi RITTER,_ Geschichte der
neuern Philosophie_, parte I, lib. II, cap. IV; e per la filosofia di
questi tempi, in generale, si consulti ancora F. SCHULTZE, _Geschichte
der Philosophie der Renaissance_: Jena, 1874. Recentemente il prof.
Arnaldo della Torre ha pubblicato, come tesi di laurea, una _Storia
dell'Accademia platonica_, nelle _Pubblicazioni dell'Istituto di Studî
Superiori in Firenze_: Firenze, 1902. Questo dotto volume di 858 pag.
in 8º, contiene molte nuove ricerche. Al solito però si occupa assai
poco delle dottrine filosofiche e del loro intrinseco valore.

[174] Oriundo di Pratovecchio, nato in Firenze nel 1424, dotto nel
greco e latino, venne chiamato ad insegnare nello Studio, l'anno
1457. Fu cancelliere della Parte Guelfa; poi uno dei segretarî della
Repubblica, ufficio che tenne fino al 1497: allora per vecchiezza si
ritirò a Pratovecchio, continuando a godere lo stipendio di 100 fiorini
annui, sino al 1504, quando morì in età di ottanta anni, in una villa
donatagli dalla Repubblica, in premio del suo _Comento su Dante_.
TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag. 1065; BANDINI, _Specimen_, ecc.

[175] Il Bandini dice che queste riunioni si suppongono tenute nel
1460; ma il ROSCOE osserva che Lorenzo de' Medici aveva allora 12 anni,
e sostiene invece la data del 1468. _The Life of Lorenzo de' Medici,
called the Magnificent_, capitolo II. V. DELLA TORRE, op. cit., pag.
579 e seg.

[176] «Hoc pronunciare libere possum, opiniones eorum tenebricosis
allegoriarum involucris et dicendi genere plusquam poetico, qui omnium
fere academicorum mos erat, fuisse absconditas.» Dopo di che egli
procede citando espressioni che, giustamente osserva, nessun uomo di
sana ragione vorrebbe usare. _Specimen_, vol. II, pag. 58.

[177] DELLA TORRE, Op. cit., pag. 814.

[178] Vedi il _Commentarium Marsilii Ficini, in Convivium Platonis
de Amore_, che trovasi unito alla sua traduzione latina di Platone. I
conviti suburbani dell'Accademia Platonica pare che si tenessero nella
villa di Careggi, presieduti generalmente da Lorenzo de' Medici. Così
dice ANGELO MARIA BANDINI (_Specimen_, vol. I, pag. 60-61), e così dice
lo stesso Ficino in una sua lettera a Iac. Bracciolini (pubblicata
nello SPECIMEN del BANDINI, vol. I, pag. 62-63). «Platonici veteres
urbana Platonis natalitia quotannis instaurabant; novi autem Platonici,
Braccioline, et urbana et suburbana nostris temporibus celebrarunt;
suburbana quidem apud mag. Laurentium Medicem in agro Caregio. Cuncta
in libro nostro de amore narrantur. Urbana vero Florentiae sumtu regio
celebravit Franc. Bandinus vir ingenio, magnificentia excellens....»
Nella riunione urbana, di cui ragiona in questo luogo, si disputò della
immortalità dell'anima. Il convito di Careggi, di cui Ficino ci dà nel
suo _Commentario_ così minuto ragguaglio, fu presieduto anch'esso, per
mandato di Lorenzo, che restò allora in Firenze, da Franc. Bandini.
Infatti nel principio del primo cap. egli dice: «Plato philosophorum
pater, annos unum et octoginta aetatis, natus septimo novembris die,
quo ortus fuerat, discumbens in convivio, remotis dapibus, expiravit.
Hoc autem convivium, quo et natalitia et anniversaria Platonis pariter
continentur, prisci omnes Platonici usque ad Plotini et Porphyrii
tempora quotannis instaurabant. Post vero Porphyrium mille ac ducentos
annos, solennes hae dapes praetermissae fuerunt. Tandem nostris
temporibus, vir clarissimus Laurentius Medices platonicum convivium
innovaturus, Franciscum Bandinum Architriclinum constituit. Cum igitur
septimum Novembris diem colere Bandinus instituisset, regio apparatu in
agro Caregio novem platonicos accepit convivas.»

[179] Vedi nel _Commentarium_ i due discorsi del Cavalcanti.

[180] _Commentarium_, Oratio IV.

[181] _Commentarium_, ecc., Oratio VII, cap. XVII. «Quomodo agendae
sunt gratiae Spiritui Sancto, qui nos ad hanc disputationem illuminavit
atque accendit.»

[182] Lugduni, 1567.

[183] Vedi la mia _Storia di G. Savonarola_, lib. I, cap. V.

[184] _Commentario alla Vita di L. B. Alberti_, nel quarto volume del
VASARI, edizione Le Monnier; TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag. 414
e seg.; l'edizione di tutte le _Opere_ di L. B. ALBERTI, curata dal
Bonucci e pubblicata in Firenze (Tip. Galileiana) negli anni 1843 e
segg. In questa edizione trovasi la _Vita_ dell'Alberti scritta da
un anonimo. Vedi anche l'_Elogio dì L. B. Alberti_, nelle _Opere_ di
G. B. NICCOLINI, ediz. Le Monnier, 1843, vol. III, pag. 401 e seg.;
l'_Elogio_ scritto dal POZZETTI, pubblicato a Firenze nel 1789, e
finalmente _Gli Alberti di Firenze, Genealogia_, ecc., pubblicata
dal cav. L. Passerini, per commissione del Duca di Luynes: Firenze,
Cellini, 1870.

[185] BANDINI, _Specimen_, vol. I, pag. 164; TIRABOSCHI, op. cit., vol.
VI, pag. 420, dove si riporta una lettera del Poliziano.

[186] ALBERTI, _Opere_, e TRUCCHI, _Poesie italiane inedite_: Prato,
1846-47, vol. II, pag. 335.

[187] ALBERTI, _Opere_, vol. II, pag. 221 e seg.

[188] Questo libro, tenuto generalmente per lavoro del Pandolfini,
venne poi sostenuto essere opera dell'Alberti, specialmente da F.
Palermo, il quale si scaldò tanto nella questione, e tanto s'esaltò nei
suoi _Prolegomeni_ promessi al _Padre di famiglia_ (Firenze, tipografia
Cenniniana, 1872), da dimenticare affatto il metodo e i confini di una
critica scientifica. Il Pandolfini morì prima dell'Alberti, e difficile
sarebbe concepire come egli avesse voluto copiare una prosa erudita,
non solo riducendola in una forma parlata, ma ponendo idiotismi
e sgrammaticature là dove non erano. Da un altro lato l'Alberti
si dichiara esplicitamente autore dell'opera, cosa che non fa il
Pandolfini. La questione fu lungamente discussa dal prof. Cortesi, che
crede alla priorità del Pandolfini, e dai proff. Scipioni e Pellegrini,
che con validi argomenti sostengono l'opinione contraria.

[189] PANDOLFINI, _Trattato del governo della famiglia_, pag. 21:
Venezia, pei tipi del Gondoliere, 1841.

[190] Ibid., pag. 5.

[191] Ibid., pag. 14.

[192] Ibid., pag. 160 e seg.

[193] PANDOLFINI, _Trattato del governo della famiglia_, pag. 42.

[194] Furono pubblicate in tre volumi dalla R. Deputazione di Storia
Patria, per la Toscana, Marche ed Umbria: Firenze, Cellini, 1867-73, e
vanno dal 1399 al 1433.

[195] Nella sua _Storia fiorentina_.

[196] A. DESJARDINS, _Négociations diplomatiques de la France avec la
Toscane_ (tre volumi in-4): Paris, 1859-65, Imprimerie impériale, vol.
I, pag. 214. È giusto ricordare, che la più parte di questi documenti
furono trovati dal nostro G. Canestrini.

[197] FABRONI, _Vita Laurentii Medicis_: Pisis, 1784, vol. II, pag.
312, nota 179.

[198] Ibid., vol. II, pag. 359, nota 206.

[199] Ibid., pag. 363.

[200] Il FABRONI chiama questa lettera il canto del cigno, _tamquam
cycnea fuit_, perchè Lorenzo poco dopo morì. Vol. II, pag. 308, nota
178.

[201] Abbiamo già visto nel Pandolfini, che i contadini italiani e
più specialmente i toscani, di cui qui sopra si ragiona, avevano nel
secolo XV un'agiatezza assai superiore a quella degli altri d'Europa. I
novellieri, come per esempio il SACCHETTI (Vedi Nov. 88 e 202), parlano
spesso di contadini proprietarî ed accorti. Nella _Beca di Dicomano_,
in cui il PULCI descrive la vita dei contadini, uno di essi dice
all'amata:

«Tu sa' ch'i' sono ignorante e da bene — Ed ho bestiame e case
e possessione, — Se tu togliessi me, io torrei tene.» Vedi anche
BURCKHARDT, _Die Cultur der Renaissance_ (1ª ediz.), pag. 356.

[202] A. D'ANCONA, _La poesia popolare fiorentina nel secolo XV_.
Questo lavoro fu pubblicato nella _Rivista Contemporanea_ di Torino,
vol. XXX, fascicolo 106 (settembre 1862). Vedi anche Carducci nella
prefazione premessa al volume: _Le Rime, le Stanze e l'Orfeo_ di A.
POLIZIANO: Firenze, Barbèra, 1863. Questi due scrittori sono quelli che
meglio di tutti hanno ragionato dell'antica poesia popolare italiana.

[203] Questa leggenda trovasi stampata anche fra le opere di Leon
Battista Alberti.

[204] Ripubblicata da A. D'ANCONA (Pisa, Nistri, 1863). Vedi ancora
i tre volumi di _Sacre Rappresentazioni dei Secoli XIV, XV e XVI_,
pubblicati dallo stesso in Firenze, Successori Le Monnier, 1872.

[205] Più giusti assai nei loro giudizî sono il CAPPONI nella sua
_Storia della Repubblica fiorentina,_ ed il REUMONT nella sua opera,
_Lorenzo de' Medici_: Leipzig, 1873. Il Carducci ha discorso più
volte del valore e dell'indole poetica di Lorenzo, con moltissima
originalità, sebbene, a nostro avviso, lo lodi un po' troppo.

[206]

    _Dum pulchra effertur nigro Simonetta feretro,_
    _Blandus et exanimi spirat in ore lepos, ecc._

[207] _Comento di Lorenzo de' Medici sopra alcuni de' suoi Sonetti_, in
fine delle sue poesie volgari (edizione del 1554). Vedi anche ROSCOE,
_Life of Lorenzo de' Medici_, cap. II.

[208] _Tre lettere di Lucrezia Tornabuoni a Piero de' Medici, ed altre
lettere di varî concernenti al matrimonio di Lorenzo il Magnifico
con Clarice Orsini_. Pubblicazione per nozze, fatta da CESARE GUASTI:
Firenze, Le Monnier, 1859.

[209] Furono ristampati dal ROSCOE, nell'_Appendice_ alla sua _Vita di
Lorenzo_, Doc. XII.

[210] La Canzone, che è però del Poliziano, incomincia:

    Ben venga maggio,
    E 'l gonfalon selvaggio.

[211] Il VASARI, nella sua _Vita di Piero di Cosimo_, ci descrive
la cura con cui erano ordinate queste feste, che furono lungamente
continuate in Firenze, e le dichiara _cosa che fa assottigliare
gl'ingegni_. I _Canti Carnascialeschi_ di varî autori furono poi
raccolti dal Lasca in due volumi: Fiorenza, 1559.

[212] Vedi ciò che dice il CARDUCCI nella sua bella _Prefazione_ alle
_Poesie di Lorenzo_: Firenze, Barbèra, ediz. diamante.

[213] ISIDORO DEL LUNGO, _Uno scolare dello Studio fiorentino_, Memoria
pubblicata nella _Nuova Antologia_ di Firenze, vol. X, anno 1869,
pag. 215 e seg. Dello stesso autore vedi: _La Patria e gli antenati di
Angelo Poliziano_ nell'_Archivio storico italiano_, Serie III, vol. XI,
pag. 9 e seg.

[214] Il prof. BONAMICI di Pisa, nel suo lavoro, _Il Poliziano
Giureconsulto_ (Pisa, Nistri, 1863), ha esaminato le postille alle
Pandette, ed ha cercato di ridurre nei giusti confini il merito
dell'autore.

[215]

    _Molles, o violae, Veneris munuscula nostrae,_
      _Dulce quibus tanti pignus amoris inest;_
    _Quae vos, quae genuit tellus? quo nectare odoras_
      _Sparserunt Zephyri mollis et aura comas?_
    _Vos ne in acidaliis aluit Venus aurea campis?_
      _Vos ne sub Idalio pavit Amor nemore?_
    _His ego crediderim citharas ornare corollis,_
      _Permessi in roseo margine Pieridas._
    _Hoc flore ambrosios incingitur Hora capillos,_
      _Hoc tegit indociles Gratia blanda sinus,_
    _Hoc Aurora suae nectit redimicula fronti,_
      _Cum roseum verno pandit ab axe diem,_ etc.

[216] Fu detto e ripetuto generalmente, che queste _Stanze_ vennero
scritte nel 1469, quando cioè il Poliziano non aveva che quindici
anni. L'errore nacque dal confondere la giostra di Lorenzo con quella
di Giuliano. La prima fu data veramente nel 1469, ma fu descritta
da Luca Pulci, secondo la più comune opinione, dal fratello Luigi,
secondo altri. Questo è, in ogni modo, lavoro di poco merito, assai
artificioso. Il poeta dice a Lorenzo: la tua vittoria (nella giostra)
non invidia nulla alle vittorie di Emilio, Marcello, Scipione; tu hai
meritamente avuto l'onore,

    Di riportar te stesso in su la chioma,

cioè lauro su Lauro. La giostra di Giuliano fu data invece il 28
gennaio 1475, e venne poi descritta dal Poliziano, che aveva allora
ventun'anno. Di ciò ha parlato con dottrina il prof. I. DEL LUNGO.
Vedi le sue parole riferite nella _Prefazione_ del CARDUCCI alle poesie
del Poliziano, pag. XXIX. Secondo lui le _Stanze_ furono composte fra
il 1476 e il 1478, e forse anche descrivono un'altra giostra data in
Firenze nei primi del 1478.

[217] _Stanze_, lib. I, 43 e 44.

[218] A torto fu per molto tempo attribuita al Poliziano. I copisti
toscani la modificarono in più luoghi, e le dettero la forma in cui si
diffuse poi a Firenze. Invece di _brunettina_, Olimpo aveva scritto
_pastorella_. Vedi l'opuscolo di SEVERINO FERRARI: _A proposito di
Olimpo da Sassoferrato_: Bologna, Zanichelli, 1880.

[219] Vedi la già citata _Prefazione_ alle poesie del POLIZIANO,
pag. CXVII. Il D'Ancona crede che i Rispetti i quali oggi si cantano
ancora nelle campagne toscane, sieno, almeno nei loro caratteri
generali, quegli stessi che la scuola medicea prese dal popolo, per
restituirglieli ingentiliti da una forma più letteraria. E così, per
la tenacità dei volghi, sarebbero continuati a cantarsi fino ad oggi.
_Rivista Contemporanea_, citata più sopra.

[220] CARDUCCI, _Prefazione_, ecc., pag. CXXV.

[221] Per la vita del Pontano vedi TIRABOSCHI, op. cit., vol. VI, pag.
950; C. M. TALLARIGO, _Giovanni Pontano e i suoi tempi_, volumi due:
Napoli, Morano, 1874. In questa monografia trovansi anche molti brani
scelti delle migliori poesie latine del Pontano, con traduzioni fatte
dal professore P. Ardito, e tutto il dialogo latino, _Il Caronte_.
Il SETTEMBRINI, nelle sue _Lezioni di Letteratura italiana_ (Napoli,
1866-72, vol. tre), discorse con verità ed eloquenza del Pontano (vol.
I, pag. 281-83), e fu di stimolo al Tallarigo, che, dopo aver letto
quelle pagine, s'indusse a scrivere la monografia qui sopra citata.
Oltre di ciò si veda l'edizione fatta a Basilea delle opere del
Pontano.

[222] CARDUCCI, _Studi letterarî_: Livorno, 1874, pag. 97.

[223] Trovasi fra le poesie ristampate dal Tallarigo, op. cit., vol.
II, pag. 627.

[224] I _taralli_ sono ciambelle anche oggi comunissime in Napoli.

[225] Vedi il TALLARIGO, op. cit., vol. II, pag. 619 e seg.

[226] _Il Novellino di Masuccio Salernitano, restituito alla sua antica
lezione_ da LUIGI SETTEMBRINI: Napoli, Morano, 1874. Vedi il Prologo
alla terza parte. Sono cinquanta Novelle, divise in cinque parti.
Ogni parte comincia con un Prologo, e il primo di essi è indirizzato
a Ippolita d'Aragona, cui il libro è dedicato. Ogni Novella ha un
_Esordio_, con cui viene dedicata a qualche illustre personaggio
napoletano; segue la Narrazione, e poi viene una conclusione intitolata
sempre _Masuccio_, perchè in essa l'autore fa le sue considerazioni.
Il poco che sappiamo di Masuccio trovasi raccolto nel _Discorso_ che il
Settembrini ha premesso al volume.

[227] Prologo alla terza parte.

[228] Prologo primo.

[229] Fra i lavori che possono servire a dar notizia esatta di questa
parte della nostra storia letteraria, citiamo prima di tutto la Memoria
letta nell'Accademia di Berlino da L. RANKE, _Zur Geschichte der
italienischen Poesie_: Berlin, 1837. Questo breve scritto è fra quelli
che primi aprirono una via nuova nella storia del Romanzo cavalleresco;
esso però non risponde ora più allo stato presente della scienza.
Più ampio assai e con molte nuove ricerche sulla storia letteraria,
principalmente della Francia, ma in parte anche dell'Italia, è il
libro di G. PARIS, _Histoire poétique de Charles Magne:_ Paris, A.
Franck, 1865. Per ciò che risguarda la nostra letteratura, il lavoro
più recente e compiuto è quello del prof. P. RAJNA, _Ricerche intorno
ai Reali di Francia_: Bologna, Romagnoli, 1872 (nella collezione
pubblicata dalla Commissione dei testi di lingua). In questo libro ed
in altri suoi scritti venuti alla luce nel _Propugnatore_, il prof.
Rajna dimostra una conoscenza profonda della materia, conoscenza assai
spesso attinta a nuove sorgenti da lui scoperte. Vedi anche CARDUCCI,
_Scritti letterarî_: Livorno, 1874.

[230] Vedi a questo proposito i due importantissimi lavori del
professore P. RAJNA: _La materia del Morgante Maggiore in un ignoto
poema cavalleresco del secolo XV_ (_Propugnatore_, anno II, dispense
1ª, 2ª e 3ª); _La Rotta di Roncisvalle_ (_Propugnatore_, anno III,
dispense 5ª e 6ª; anno IV, disp. 1ª, 2ª, 3ª, 4ª e 5ª).

[231] Cito a caso alcune stanze tra le moltissime riportate dal RAJNA
(_Propugnatore_, anno II, disp. 1ª, pag. 31-33):

    Quando più fiso la notte dormìa
      Una brigata s'armò di pagani,
      E un di quegli la camera aprìa,
      E poi entraron ne' luoghi lontani,
      E un di lor ch'è pien di gagliardìa,
      Al conte Orlando legava le mani
      Con buon legami per tanta virtute,
      Ch'atar non si può dalle genti argute.
                        (_Orlando_, foglio 92).

    Quando più fiso la notte dormìa
      Una brigata s'armâr di pagani,
      E un di questi la camera aprìa:
      Corsongli addosso come lupi o cani;
      Orlando a tempo non si risentìa,
      Che finalmente gli legâr le mani,
      E fu menato subito in prigione,
      Senza ascoltarlo o dirgli la cagione.
                        (_Morgante_, XII, 88).

    Tu sei colei che tutte l'altra avanza,
      Tu se' d'ogni beltà ricco tesoro,
      Tu se' colei che mi togli baldanza,
      Tu se' la luce e specchio del mio cuore, ecc., ecc.
                        (_Orlando_, foglio 114).

    Tu se' colei ch'ogni altra bella avanza,
      Tu se' di nobiltà ricco tesoro,
      Tu se' colei che mi dài tal baldanza,
      Tu se' la luce dello eterno coro, ecc., ecc.
                        (_Morgante_, XIV, 47).

[232] Questo episodio fu poi stampato a parte col titolo di _Morgante
Minore_, donde venne l'aggiunta di _Maggiore_ al titolo di tutto il
poema, che l'autore aveva chiamato semplicemente _Il Morgante._

[233] Sono ben noti questi versi, che dànno idea chiara dello spirito
mordace, comico e scettico del Pulci:

    Rispose allor Margutte: A dirtel tosto,
      Io non credo più al nero che all'azzurro,
      Ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
      E credo alcuna volta anche nel burro;
      Nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,
      E molto più nell'aspro che il mangurro;
      Ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
      E credo che sia salvo chi gli crede.
    E credo nella torta e nel tortello,
      L'uno è la madre, e l'altro è il suo figliuolo;
      Il vero paternostro è il fegatello,
      E possono esser tre, e due, ed un solo,
      E diriva dal fegato almen quello.
                (_Morgante Maggiore_, XVIII, 115, 116).

[234] Lettera IV, nelle _Lettere di Luigi Pulci a Lorenzo il
Magnifico_: Lucca, Giusti, 1868. Questa bella pubblicazione devesi al
chiarissimo signor cav. Salvatore Bongi dell'Archivio di Lucca.

[235] Lettera III.

[236] Lettera IV.

[237] Lettera XXI.

[238] _Sonetti_ di MATTEO FRANCO e LUIGI PULCI, pubblicati senza data
di luogo, l'anno 1759. Grande spontaneità e disinvoltura ha il Franco;
ma il Pulci è più poeta ed ha più brio. Fra i sonetti del secondo rende
chiara immagine dell'autore quello che incomincia:

    Costor, che fan sì gran disputatione
    Dell'anima, ond'ell'entri o ond'ell'esca,
    O come il nocciol si stia nella pesca,
    Hanno studiato in su n'un gran mellone, ecc.
                        (Sonetto CXLV, pag. 145).

Il Sonetto VIII:

    Ah, ah, ah, ah sa' tu di quel ch'io rido;

il LV:

    Don, don, che diavol fia? A parlamento;

il LXI:

    Chiarissimo maggior dite su presto,

ed altri moltissimi, che sono del Franco, dimostrano chiaro come egli
gareggiasse col Pulci per arrivare alla maggiore possibile facilità e
disinvoltura. Nello stesso volume, a pag. 151, trovasi la _Confessione
a Maria Vergine_ di LUIGI PULCI. In essa l'ingrato peccatore confessa
le sue colpe, e riconosce il passato errore:

    Però qui le mie colpe scrivo e 'ncarno
    Con le lacrime miste con l'inchiostro.

Tutto ciò naturalmente non gl'impediva di tornare il giorno dopo a far
peggio.

[239] _Rime edite ed inedite_ di ANTONIO CAMMELLI, detto il PISTOIA,
per cura di A. Cappelli e S. Ferrari: Livorno, Vigo, 1884; _I Sonetti_
del PISTOIA, giusta l'apografo trivulziano, a cura di Rodolfo Renier:
Torino, Loescher, 1888.

[240] D'ANCONA, _La poesia popolare italiana_, pag. 41 e seg.: Livorno,
Vigo, 1878.

[241] Questa, è anche l'opinione del prof. Ulisse Poggi, nel suo breve
_Elogio di Matteo Maria Boiardo_, pubblicato nel _Supplemento_ al n. 35
dell'_Italia Centrale_ di Reggio-Emilia, il 23 marzo 1871.

[242] BOIARDO, _Orlando Innamorato_, lib. III, canto VII, 1.

[243] Questa credenza nella fortuna si manifesta a volte in un modo
singolare. Nei libri di Provvisioni della repubblica fiorentina ne
abbiamo trovata una del 20 febbraio 1498 (stile antico), che incomincia
colla solita formola: _In Dei nomine. Amen._ E nell'interno dell'I
maiuscolo è scritto: _Fortuna in omni re dominat_. Arch. fiorentino,
_Consigli Maggiori, Provvisioni_, Registro 190, a c. 122 t.

[244] Aveva allora settanta anni, e su di lui furono scritti questi
versi:

    _Dum fidus serrare volo patriamque Ducemque,_
      _Multorum insidiis proditus interii._
    _Ille sed immensa celebrari laude meretur_
      _Qui mavult vita quam caruisse fide._

[245] Guidantonio Vespucci e Piero Capponi scrivevano da Lione, il
6 giugno 1494, a Piero de' Medici, che li aveva mandati ambasciatori
in Francia: «La Santità di Nostro Signore, il quale di sua natura è
vile, et è _conscius criminis sui_, ecc.» DESJARDINS, _Négociations
diplomatiques de la France avec la Toscane_, vol. I, pag. 399. Ferrante
d'Aragona, nella sua lettera del 17 gennaio 1494, che citeremo più
oltre, diceva che il Papa era di sua natura «acuto e timido.»

[246] Tutta questa parte della vita di Alessandro VI è minutamente
narrata da F. GREGOROVIUS e da A. DI REUMONT nelle loro _Storie di
Roma_. Il Gregorovius specialmente è quegli che cominciò le più minute
e pazienti ricerche sui Borgia.

[247] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia nach Urkunden und Correspondenzen
ihrer eigenen Zeit_, vol. I, pag. 21-22: Stuttgart, Cotta, 1874.
Quest'opera dell'illustre scrittore contiene molti importanti
documenti. Essa è stata tradotta in italiano, ed ebbe subito in
Germania tre successive edizioni.

[248] Le ultime e più precise notizie sulla genealogia dei Borgia
trovansi nella _Lucrezia Borgia_ di F. GREGOROVIUS. Si possono
consultare però, oltre le due Storie di Roma più sopra citate, il
_Saggio di albero genealogico e di memorie sulla famiglia Borgia_, di
L. N. CITTADELLA ferrarese: Torino, 1872; la _Rassegna bibliografica_
su questo lavoro del Cittadella (il quale non è senza errori),
pubblicata da A. DI REUMONT nell'_Archivio Stor. It._, serie III,
tomo XVII, dispensa 2ª del 1873, pag. 318 e segg.; e la _Genealogia
dei Borgia, Nota_ dello stesso REUMONT al suo proprio articolo, vol.
cit., dispensa 3, pag. 509. Nuove notizie ha aggiunto recentemente il
signor YRIARTE col suo libro _César Borgia, sa vie, sa captivité, sa
mort_, 2 vol.: Paris, Rotschild, 1889. Merita poi una speciale menzione
la eccellente pubblicazione del Burcardo, in tre volumi, fatta da
L. Thuasne: I. BURCHARDI, _Diarium sive rerum urbanarum commentarii_
(1483-1506): Paris, E. Leroux, 1883-85. Qui sono aggiunti anche molti
nuovi documenti.

[249] Figlia d'un suo cugino.

[250] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, vol. I, pag. 22-23, 36-37.

[251] Il GUICCIARDINI, acerrimo avversario del Borgia, dice nella sua
_Storia d'Italia_, che Ferrante fu spaventato della elezione del nuovo
Papa a segno tale da piangere, cosa in lui insolita. Il GREGOROVIUS,
invece, dalle lettere ufficiali di congratulazione vuole argomentarne
che nessuno degli Stati italiani ne fosse allora scontento. Ma forse
la verità in questo caso, come spesso, sta nel mezzo, e così crede il
REUMONT. (Vedi il suo articolo sul _Codice Aragonese_, nell'_Archivio
Stor. It._, serie III, vol. XIV, pag. 375-421). Che il re di Napoli si
fosse opposto all'elezione di Alessandro VI, non può dubitarsene. Nel
novembre 1492, l'ambasciatore fiorentino Pietro Alamanni scriveva da
Napoli a Piero de' Medici, che il Papa sapeva come il Re aveva cercato
d'opporsi alla elezione di lui, «et essendo il Papa della natura che
è, il Re non si ha persuadere che lo dimentichi così presto.» Vedi
DESJARDINS, _Négociations_, ecc., vol. I, pag. 434.

[252] Nel descrivere il carattere di Lucrezia molti si sono illusi, e
qualche volta per futili ragioni. Leggendo negli storici contemporanei,
che Lucrezia era «savia e accorta,» o altre simili parole, hanno
voluto tirarne conseguenze singolari. Ma queste medesime espressioni
si trovano ripetute a proposito della Giulia Bella, e anche del
Valentino. Era un modo di dire, specialmente trattandosi di chi aveva
buone maniere, e faceva le cose senza provocare troppo scandalo. Il
BURCARD, nel suo _Diario_, raccontando una delle orgie del Valentino,
la famosa cena delle meretrici, incomincia: «In sero fecerunt
coenam cum Duce Valentinense, in camera sua, in Palatio Apostolico,
quinquaginta meretrices _honestae_ cortesanae nuncupatae, etc.» Meno
irragionevolmente valsero a difesa di Lucrezia Borgia, la sua condotta
a Ferrara, e le lodi che essa ebbe allora dall'Ariosto e da altri. Di
ciò noi non dobbiamo qui parlare; notiamo però, che nella biografia
scritta da F. Gregorovius, si trovano fatti della vita di lei in
Ferrara, che somigliano a quelli seguiti in Roma. Sono pochi, è vero,
ma Lucrezia aveva allora da fare con un marito che le ricordava la
sorte della Parisina; nè essa aveva più la protezione del padre. Quanto
alle lodi dell'Ariosto sono frasi di cui fu largo a molti che non le
meritavano.

[253] Figlio naturale di Costanzo, che era figlio di Alessandro, il
fratello di Francesco Sforza.

[254] L'Infessura, che descrive anch'egli le nozze, parlando della
Giulia, la dice aperto l'amante del Papa, _eius concubina_, e aggiunge
di non voler dire tutto quello che si raccontava della festa, «perchè
non vero o, se vero, incredibile.»

[255] Questa lettera, in data 13 giugno 1493, indirizzata al duca di
Ferrara dal suo ambasciatore Giov. Andrea Boccaccio, _ep. mutinensis_,
trovasi in GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, documento X.

[256] GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 327-28 (2ª ediz.).

[257] Dispaccio di Giacomo Trotti (Milano, 21 dicembre 1494) citato dal
GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, vol. I, pag. 83.

[258] Eppure non mancano anche adesso scrittori che vorrebbero
attennare le colpe dei Borgia, e trovare in quel Papa almeno un qualche
alto concetto politico. Ma i fatti e i documenti parlano ogni giorno
più chiaro; nè io capisco davvero come, dopo la pubblicazione dei
dispacci di A. Giustianian, si possano ancora aver dei dubbî, o sperare
attenuanti.

[259] ALBÈRI, _Relazioni degli Ambasciatori veneti_, Serie I, vol. IV,
pag. 16 e segg.

[260] C. DE CHERRIER, _Histoire de Charles VIII, roi de France_ (Paris,
Didier, 1868), vol. I, pag. 235. È questo un lavoro pregevole, che
pur va letto con circospezione, perchè non senza errori. DELABORDE,
_L'expédition de Charles VIII en Italie_: Paris, Firmin Didot, 1888.

[261] DE CHERRIER, op. cit., pag. 242.

[262] Lettera di Piero Alamanni a Piero de' Medici, scritta da Napoli
il 2 gennaio 1493. Vedila nel DESJARDINS, _Négociations diplomatiques
de la France avec la Toscane_, vol. I, pag. 442.

[263] DESJARDINS, op. cit., vol. I, pag. 227.

[264] _Ibidem_, pag. 256: lettera del 18 settembre 1493.

[265] _Ibidem_, pag. 327: lettera del 20 settembre 1493.

[266] _Ibidem_, pag. 330-331; lettere del 28-29 settembre 1493.

[267] _Ibidem_, pag. 350: lettera del 21 novembre 1493.

[268] _Ibidem_, pag. 358: lettera del 17 gennaio 1494. Vedi anche a
pag. 350 e 352 le lettere del 29 novembre e del 9 dicembre 1493.

[269] _Ibidem_, pag. 359: lettera del 22-23 gennaio 1494.

[270] Lettera del 31 marzo 1494. Vedi _Appendice_, doc. I.

[271] DESJARDINS, op. cit., vol. I, pag. 555: lettera del 7 giugno 1494.

[272] _Ibidem_, pag. 504: lettera del 12 agosto 1494.

[273] _Ibidem_, pag. 514: lettera del 20 settembre 1494. Queste lettere
sono scritte quasi tutte da Paolo Antonio Soderini, e indirizzate a
Piero de' Medici, che egli poi abbandonò.

Anche il Capponi, che più tardi stracciò i contratti in faccia a Carlo
VIII, e tanto contribuì alla cacciata dei Medici, era andato a Parigi
come confidente di Piero. Il COMMINES, nelle sue _Mémoires_, lo chiama
traditore (vol. II, pag. 340); ma egli aveva ragioni personali per
essere poco contento di lui. Infatti, quando, insieme con Stefano di
Vesc e col Briçonnet, cercò di tramare accordi ed intrighi a favore
di Piero de' Medici, gli fu da questo, per mezzo del Capponi appunto,
risposto _comme par moquerie_. (LETTENHOVE, op. cit., vol. II, pag. 98
e 144). Pare che non si fosse scelto il momento opportuno per queste
trattative. Certo è però che, quando furono fatte al Capponi dal
vescovo di San Malò proposte contrarie al governo dei Medici, egli ne
scrisse subito a Piero, dicendo: «Ho disposto voi non abbiate persona
che i fatti vostri tratti con più amore di me.» (DESJARDINS, op. cit.,
vol. I, pag. 393 e segg.). La sua condotta non è molto chiara, ma non
c'è neppure da fidarsi del giudizio del Commines, perchè egli intrigava
allora per conto proprio. Secondo lui Lodovico il Moro aveva dato
troppo poco danaro ai ministri del Re: «Si argent ils devoient prendre,
ils en devoient demander plus.» (COMMINES citato dal LETTENHOVE, op.
cit., vol. II, pag. 97).

[274] Beatrice sposò il 25 giugno 1475 Mattia Corvino, re d'Ungheria,
e dopo la morte di lui, sposò Lodovico re d'Ungheria il 23 luglio 1493.
Sciolto il matrimonio, tornò a Napoli nel 1501, e morì nel 1508.

[275] _Codice Aragonese_, pubblicato dal comm. TRINCHERA, direttore
generale degli Archivi Napoletani, in tre vol. (il secondo in due
parti): Napoli, 1866-74. La lettera citata è dell'11 aprile 1493, e
trovasi nel vol. II, parte I, pag. 355.

[276] _Codice Aragonese_, vol. II, parte I, pag. 394: lettera del 24
aprile 1493.

[277] Elmetti.

[278] _Codice Aragonese_, vol. II, parte II, pag. 41 e segg.: lettera
del 7 giugno 1493.

[279] Piero de' Medici secondava sempre l'Aragonese. Vedi le lettere
che scriveva al suo ambasciatore in Napoli, nel luglio del 1493. Si
trovano nell'Archivio Fiorentino, Cl. X, dist. I, num. 1, a carte 16.

[280] Principe d'Altamura, fratello di Alfonso e secondogenito del re
Ferrante.

[281] GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 332-33 (2ª
ediz.). Vedi nel _Codice Aragonese_, le tre lettere del 3 agosto e
quella del 29 agosto 1493, pag. 198, 200 e 223. In queste lettere deve
però esser corso qualche errore di stampa nelle date. L'ambasciatore
fiorentino, A. Guidotti, in una del 17 agosto 1493, indirizzata agli
Otto (Archivio Fiorentino, Cl. X, dist. 2, num. 18, a carte 21),
parla minutamente dell'accordo fatto cogli Orsini, e del contratto
di matrimonio, nel quale si diceva, come «il Papa venìa in affinità
col serenissimo re Ferdinando et, in vice et nome di loro Maestà et
Excellentie, don Federico prometteva dare per donna allo illustrissimo
don Geffre, figliuolo di Sua Santità, M.ª Xances figliuola del duca
di Calabria.... Consentito et stipulato tale contracto per le parti,
da poi _per verba de presenti_ don Geffre contraxe matrimonio con M.ª
Xances, in persona di don Federico come suo procuratore, al quale _in
signum matrimonii_ decte et sua Excellentia ricevette lo anello, nè
questo atto per confessarsi donna, et come donna ricevere lo anello don
Federico, passò senza grandissime risa et festa, et ultimamente, con
molta letitia, don Federico, come parente, si abbracciò col Papa et con
tucti i parenti di Sua Santità.»

[282] _Codice Aragonese_, vol. II, parte II, pag. 322: lettera del 5
dicembre 1493.

[283] _Codice Aragonese_, vol. I, parte II, pag. 348 e segg.: lettera
del 18 dicembre 1493. Da questi dispacci risulta chiarissimo non esser
possibile supporre, come pur s'è fatto, che il Papa abbia mai avuto il
pensiero nazionale d'unire l'Italia contro la Francia.

[284] _Codice Aragonese_, vol. II, parte II, pag. 421. Dopo questa
lettera ne seguono solamente altre poche e brevissime di Ferrante.

[285] _Cronaca di Notar Giacomo_: Napoli, 1845, pag. 178. Il
Guicciardini ed il Machiavelli pretendono che re Ferrante volesse in
ultimo darsi nelle mani del Moro, ed il Machiavelli aggiunge ancora,
che voleva levar sua figlia a Gio. Galeazzo per darla al Moro,
dimenticando che ella aveva tre figli e che il Moro aveva moglie.

[286] Vedi le lettere del 5 e 23 gennaio 1494, nei documenti pubblicati
da A. CAPPELLI col titolo: _Fra Girolamo Savonarola e notizie intorno
al suo tempo_: Modena, 1869.

[287] Breve del dì 1º febbraio 1494, nell'_Arch. Stor. It._ (_Annali_
del MALIPIERO), vol. VII, pag. 404.

[288] Addosso all'ambasciatore furono trovati i 40,000 ducati e la
lettera del Sultano al Papa, nella quale gli si offerivano, se mandava
il cadavere di Gemme, altri 300,000 ducati, concludendo: «Così il degno
Padre della Chiesa Cattolica potrà comprare Stati ai suoi figli, ed il
nostro fratello Gemme troverà riposo nell'altra vita.» Questa lettera
e quella del Papa al Sultano si leggono nel _Diario_ del BURCARDO, e
nel SANUTO, _De adventu Karoli Regis Francorum in Italiam_, opera di
cui trovasi un'antica copia nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Una
copia moderna, che io ne feci fare coll'aiuto del nostro Ministero
di Pubblica Istruzione, e della quale mi sono valso, trovasi nella
Biblioteca di San Marco a Venezia. — Più tardi il prof. FULIN la
pubblicò prima nell'_Archivio veneto_, poi in un volume a parte col
titolo: _La spedizione di Carlo VIII in Italia_: Venezia, 1883. Si
può dire che essa sia il primo volume dei _Diari_ dello stesso autore,
perchè questi cominciano là dove quella finisce. Vedi anche CHERRIER,
op. cit., vol. I, pag. 415; GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc. (2ª ediz.),
vol. VII, pag. 350, nota (1).

[289] Vedi le lettere inedite di Piero più sopra citate, e quelle
pubblicate dal Desjardins.

[290] _Mémoires_, vol. I, pag. 156.

[291] LETTENHOVE, op. cit., vol. I, pag. 194; vol. II, pag. 108 e 123.

[292] Al quale proposito il Commines, che tante volte aveva mutato
bandiera, dice che il Soderini «estoit des sages hommes qui fussent
en Italie.» PH. DE COMMINES, _Mémoires_, vol. II, pag. 359, edizione
pubblicata da M.^lle Dupont. Vedi ancora: _Lettres et Négociations
de Ph. de Commines_, par le baron HERVYN DE LETTENHOVE (in tre vol.):
Bruxelles, 1867-74. Questo è un lavoro assai importante.

[293] Il leone che posa la zampa sopra uno scudo, in cui è inciso il
giglio rosso fiorentino. L'origine della parola _Marzocco_ è assai
incerta. Il signor Gaetano Milanesi suppone che, quando nel 1333 la
piena d'Arno portò via il Ponte Vecchio con la statua di Marte, che
v'era sopra, i Fiorentini, nel ricostruirlo, invece della statua di
Marte, vi ponessero il leone con lo scudo ed il giglio, chiamandolo
_Martocus_ o _Martiocus_, quasi piccolo Marte o Marzocco.

[294] In questo mezzo era seguìto un fatto che aveva dato molto da
ridere a tutta Italia. Giulia Bella, la sorella di lei e madonna
Adriana erano cadute in mano dei Francesi. Il Papa era di ciò
disperato, e non si diè pace fino a che la sua Giulia e le altre donne
non furono, mediante la somma di 3000 ducati, riscattate. GREGOROVIUS,
_Lucrezia Borgia_, vol. I, pag. 81.

[295] BURCHARDI, _Diarium_, ediz. Thuasne, vol. II, pag. 230 e seg.

[296] CHERRIER, op. cit., vol. II, a pag. 137, traduce la lettera,
in cui i Dieci parlano di ciò. E veramente i Borgia, con la morte di
Gemme, perdettero i 40,000 ducati l'anno, senza avere i 300,000 che
erano stati loro promessi una volta tanto, se consegnavano il cadavere.
Il SANUTO racconta l'origine ed il progresso della malattia di Gemme,
la quale fu un catarro con febbre, che i medici curarono con salassi
ed altri rimedî energici. Ad Aversa era già tanto peggiorato, che
lo portavano sopra _una sbara_. (_De adventu Karoli regis_, pag. 212
della copia esistente nella Marciana). Questo autore, secondo il suo
solito, riferisce le lettere dell'ambasciatore veneto, che si trovava
sul luogo, il quale osserva appunto, che la morte di Gemme era stata
dannosa all'Italia «et maxime al Pontefice, che lo privò di ducati
40,000 d'oro haveva ogni anno da suo fratello (_il Sultano_), per caxon
havessi custodia di lui.»

[297] SANUTO, _De adventu_, ecc., pag. 230.

[298] «Il ne sembloit point aux nôtres, que les Italiens fussent
hommes,» scriveva il Commines, a proposito delle crudeltà francesi.

[299] Questa lettera si trova nel ROMANIN, _Storia documentata di
Venezia_, vol. V, pag. 50. Vedi anche CHERRIER, _Histoire de Charles
VIII_, vol. II, pag. 97.

[300] COMMINES, op. cit., vol. II, pag. 168; CHERRIER, op. cit., vol.
II, pag. 151.

[301] Questo trattato trovasi nel DESJARDINS, op. cit., vol. I, pag.
630. Vedi anche CHERRIER, op. cit., vol. II, pag. 293.

[302] CHERRIER, op. cit., vol. II, pag. 338.

[303] Ferdinando I, Alfonso II, Carlo VIII, Ferdinando II, Federico.

[304] Bartolommeo d'Alviano da Todi, marito di Bartolommea Orsini.

[305] «Ipsum ducem alicubi cum puella intendere luxui sibi persuadens,
et ob eam causam puellae domum exire ipsi, illa die, duci non licere.»
BURCHARDI, _Diarium_, nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Cod. II,
450, fol. 21^t. È questo il codice, che abbiamo più spesso riscontrato.
V. anche l'edizione Thuasne, II, 388.

[306] «Respondit se vidisse, suis diebus, centum in diversis noctibus
varie occisos in flumen proiici per locum praedictum, et nunquam aliqua
eorum ratio habita fuit; propterea de casu huiusmodi existimationem
aliquam non fecisse.» BURCHARDI, _Diarium_, Cod. cit., fol. 23.

[307] BURCARDO, MALIPIERO, SANUTO, ecc.

[308] Il duca di Gandia aveva 24 anni, e fu il solo che continuò la
discendenza dei Borgia. Un suo nipote fu il terzo generale dei Gesuiti.

[309] «Pontifex, ut intellexit Ducem interfectum et in flumen ut
stercus proiectum, compertum esse, commota sunt omnia viscera eius.»
BURCHARDI, _Diarium_, Cod. cit., fol. 23^t.

[310] Questo discorso del Papa, riferito dall'ambasciatore veneziano,
trovasi nel SANUTO, ed è riportato dal REUMONT, _Geschichte der Stadt
Rom_, vol. III, parte II, pag. 838.

[311] Il SANUTO, nei suoi _Diarî_, reca diverse lettere che affermano
il sospetto esser caduto anche sugli Orsini. Ne parla anche il
MANFREDI, ambasciatore del duca di Ferrara in Firenze, nelle sue
lettere del 12 agosto e del 22 dicembre 1497. Nella prima dice che il
sospetto cadeva sugli Orsini, nella seconda su Bartolommeo d'Alviano.
V. CAPPELLI, _Fra Girolamo Savonarola e notizie intorno al suo tempo_,
ecc.

[312] Di ciò parla lungamente l'ambasciatore fiorentino _Alessandro
Bracci_ nelle sue lettere, che trovansi inedite nell'Archivio
Fiorentino, e sono assai importanti. Quella però del 16 giugno, in
cui era descritta appunto l'uccisione del duca di Gandia, manca nella
filza. Archivio Fiorentino, _Lettere dei Dieci di Balìa da maggio a
dicembre 1497_, Cl. X, dist. 4, num. 54, foglio 53.

[313] Lettera di A. BRACCI, in data 4 luglio 1497. Cod. cit., foglio 78.

[314] Lettera di A. BRACCI, in data 17 giugno 1497. Vedi _Appendice_,
documento II.

[315] Tutti gli storici del tempo raccontano a lungo la morte del
duca di Gandia. Il GREGOROVIUS nella sua _Storia di Roma_ cita molti
documenti originali, fra i quali pubblica una lettera assai notevole
di Ascanio Sforza a Lodovico il Moro, in data del 16 giugno 1497.
(Vol. VII, pag. 399, nota 1). Il BURCARDO dà un minuto e tragico
ragguaglio del fatto nel suo _Diario_; ne parlano il Matarazzo, il
Malipiero, tutti i contemporanei, massime le lettere dei privati e
degli ambasciatori residenti a Roma. Di queste il Sanuto riporta molte,
dalle quali si vede la straordinaria impressione che la cosa aveva
fatta in Roma, dove le fantasie s'erano assai esaltate. Una lettera del
16 giugno (SANUTO, vol. I, foglio 310) dice: «Maxima demonum caterva in
basillica beati Petri audita et visa fuit per plures, et ibidem tot et
tanta luminaria, ut ipsa basillica penitus a fundamentis supra ardere
et comburi videretur: ecce quanta prodigia!» Lettere del 17 dicembre
1497 (vol. I, foglio 391), ed altre posteriori riportate dallo stesso
(Vol. I, foglio 408), ripetono cose di simil natura. Abbiamo ancora
le lettere del Papa che, annunziando il fatto espone il suo dolore ai
potentati: da esse però non si cava nulla di nuovo. Nel discorso fatto
in Concistoro, egli escluse i sospetti che erano caduti sopra Ascanio
Sforza, sul principe di Squillace e sul signore di Pesaro, il che prova
però che questi sospetti v'erano stati. Vedi REUMONT, _Geschichte_,
ecc., e SANUTO, _Ragguagli storici_, pubblicati dal Brown (Venezia,
1837-38), vol. I, pag. 74.

[316] Di ciò parla a lungo il SANUTO, ne' suoi _Diarî_, vol. I, foglio
556 e 559. Alcuni brani ne riportò il BROWN, op. cit., vol. I, pag.
212.

[317] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, vol. I, pag. 88.

[318] Il 19 luglio l'ambasciatore fiorentino A. Bracci scriveva che
trattavasi del divorzio fra il signore di Pesaro e donna Lucrezia,
«la quale Sua Beatitudine tre dì dopo la morte del duca di Gandia
richiamò in Palazzo, dove sta assiduamente.» Nel separarsi dal signore
di Pesaro, la Lucrezia si dichiarò disposta a giurare, che non aveva
avuto alcuna relazione col marito, e che era perciò vergine. Al quale
proposito aggiunge il MATARAZZO, a pag. 72: «etiam advenga ad dio che
fusse stata e fusse allor la più gran p.... che fusse in Roma.»

[319] Il REUMONT prima lo credette, nella sua _Storia di Roma_, figlio
di Lucrezia, poi figlio del Papa, senza saper più ritrovare la madre.
(_Arch. Stor. It._, ser. III, tomo XVII, disp. 2ª del 1873, pag. 329).
I documenti pubblicati dal GREGOROVIUS nella sua _Lucrezia Borgia_
(vol. I, pag. 159 e segg.) gettano sul fatto una luce sinistra.

[320] «De dilecto filio nobili viro Cesare Borgia.... et soluta
(muliere).» Il Breve dice che Giovanni aveva allora tre anni _vel
circa_. GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, doc. 27.

[321] «Cum autem tu defectum predictum (natalium) non de prefato
Duce _sed de nobis_ et de dicta muliere soluta patiaris, quod _bono
respectu_ in litteris predictis specifice exprimere noluimus, ecc.»
E poi conchiude, che restava tuttavia la già fatta legittimazione,
con la facoltà di ereditare. Tutto ciò, secondo il GREGOROVIUS, papa
Alessandro lo fece, perchè non poteva legittimare un suo figlio,
nato quando egli era Papa, e non voleva che il Valentino potesse aver
ragione d'annullare un atto di legittimazione, che gli attribuiva un
figlio non suo. Op. cit., doc. 28.

[322] Vedi il dispaccio dell'ambasciatore di Ferrara, di cui il
GREGOROVIUS riproduce un brano nella sua _Lucrezia Borgia_, vol. I,
pagina 101, nota 3.

[323] Lettera dell'ambasciatore fiorentino A. BRACCI (del 19 luglio
1497), il quale dice di aver questi ragguagli da persona che è «degno
prelato e palatino.» Archivio Fiorentino, Cod. cit.

[324] «Et bene non dixit verbum Papae Valentinus, nec Papa sibi, sed,
eo deosculato, descendit de solio.» BURCHARDI, _Diarium_.

[325] BURCHARDI, _Diarium_. V. anche la lettera dell'ambasciatore A.
BRACCI, in data del 27 settembre 1497, Cod. cit., fol. 144.

[326] Secondo il SANUTO, il Re aveva detto: «Mi pare el fiol del Papa,
ch'è cardinal, non sia in grado di darli mia fia per moglie, _licet_
sia fio del Papa.» _Diarî_, vol. I, parte II, pag. 75. Di questa
seconda parte del vol. I pare si sia perduto l'autografo. Ne esiste
solo una copia del secolo scorso, che ora trovasi nella Marciana di
Venezia, insieme cogli altri volumi che sono autografi. Le nostre
citazioni del Sanuto rimandano al Codice marciano. — Nel 1879 fu
cominciata a Venezia la pubblicazione dei _Diarî_, e la stampa ne è già
molto avanzata.

Il Re di Napoli scriveva al suo ambasciatore in Francia: «L'affanno
insopportabile avuto per noi in disturbare lo matrimonio....
tra la figliuola legittima nostra e lo cardinal di Valenza, cosa
disconveniente e contraria d'ogni ragione, a voi è ben noto. Averiamo
prima consentito di perder lo regno, li figli e la vita.» _Arch. Stor.
It._, ser. I, vol. XV, pag. 235.

[327] «Per non desperare lo Papa, il quale manifestamente ne
minacciava.» _Arch. Stor. It._, loc. cit.

[328] SANUTO, _Diarî_, vol. I, parte II, pag. 164.

[329] Breve del 3 settembre 1498, in GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc.,
vol. VII, pag. 423.

[330] Così racconta, nei _Diarî_ del SANUTO, vol. I, parte II, pag.
44, una lettera dell'agosto 1498, che finisce con queste parole:
«Conclusive, è un cattivo Papa et non è mal che non facesse per dar
stado a soi figlioli.»

[331] MOLINI, _Documenti di Storia Italiana_: Firenze, 1836-37, vol. I,
pag. 28.

[332] Il Sanuto parla spesso dell'accordo già seguìto allora fra il
Papa ed il cardinale Della Rovere. Il prefetto di Roma, chiamato
spesso prefetto di Sinigaglia, perchè dimorava colà, era fratello
del cardinale, e non fu compreso nell'accordo, per avere (come
dicemmo) svaligiato l'ambasciatore G. Bocciardo, che il Sanuto
chiama Bozardo, quegli che portava al Papa il danaro del Sultano. Più
tardi fu anch'esso perdonato con un Breve del 18 novembre 1499. Vedi
GREGOROVIUS, _Geschichte_ (2ª ediz.), VII, pag. 425-29.

[333] SANUTO, _Diarî_, vol. II, fol. 156.

[334] _Ibidem_, vol. II, fol. 274. Più oltre, nel foglio 323, è
descritta la mutabile natura del Papa.

[335] _Ibidem_, vol. II, fol. 326: l'ambasciatore dice che il Papa
«vuol il Reame (di Napoli) per suo fiol.»

[336] Giulio II restituì più tardi questo feudo ai Caetani, dichiarando
che era stato ingiustamente usurpato.

[337] SANUTO, _Diarî_, vol. II, fol. 529 e seg.

[338] L'ambasciatore P. Cappello in SANUTO, citato dal GREGOROVIUS,
_Geschichte_, ecc., vol. VIII, pag. 441.

[339] BURCHARDI, _Diarium_, Cod. cit., fol. 185.

[340] Relazione di P. Cappello, ambasciatore veneto, pubblicata
dall'ALBÈRI nelle _Relazioni_, ecc., Serie II, vol. III, pag. 10.

[341] «Singulis diebus bono mane exibat in habitu brevi hospitale
predictum cum balista, et interficiebat quos poterat commode, et
pecunias eourum auferebat.» BURCHARDI, _Diarium_, Cod. cit., fol. 209.

[342] BURCHARDI, _Diarium_, ibidem.

[343] SANUTO, _Diarî_, vol. III, fol. 141. Le lettere ivi riferite, in
data del 4 giugno 1500, parlano del piacere che ebbe il re di Francia
per questa condanna, ed aggiungono pure che furono, nel termine di
dieci giorni, cacciati i Côrsi che solevano far da sicarî nella Città.

[344] Ella poi ritornò ben presto.

[345] In questo tempo, e prima che seguisse il fatto del duca di
Bisceglie, il Papa aveva corso pericolo per un tetto caduto in
Vaticano. L'ambasciatore veneziano, andandolo a visitare il 3 luglio,
trovò che «erra con Soa Santità madonna Lugrezia, la principessa, e so
marito, e una soa damisella sta con mad. Lugrezia, che è favorita del
Papa.» SANUTO, _Diarî_, vol. III, fol. 172.

[346] «Cum non vellet ex huiusmodi vulneribus sibi datis mori, in lecto
suo fuit strangolatus circa horam 19^m, et in sero circa primam horam
noctis portatum fuit cadaver ad basilicam Sancti Petri.» BURCHARDI,
_Diarium_. Questo è un altro dei fatti narrati da quasi tutti gli
storici e ambasciatori contemporanei, fra i quali va ricordato
specialmente l'ambasciatore veneto Paolo Cappello, che allora trovavasi
a Roma, e che nella _Relazione_ sopra citata racconta minutamente
tutti i particolari da noi riferiti. La sua narrazione concorda con
quella del Burcardo e con quella del Sanuto, il quale ultimo trascrive
quasi sempre in esteso o in sunto i dispacci dello stesso Cappello
da Roma. Dopo aver narrato il fatto, il SANUTO (_Diarî_, vol. III,
fol. 201) aggiunge, che l'autore del delitto fu colui che aveva fatto
ammazzare il duca di Gandia. Più oltre (fol. 263 retro) riferisce
lettere dell'oratore, del 18 e 20 luglio, le quali dicono che il duca
di Bisceglie era stato ucciso, «perchè tratava di occider il Duca
(Valentino), et il Duca la fato far per alcuni arzieri, et allo fato
taiar a pezi fino in la sua camera.» Nella _Relazione_, che fu scritta
dopo, quando forse aveva potuto avere più minute informazioni, il
Cappello dice invece che lo aveva fatto strangolare da don Micheletto.
Più oltre il SANUTO (fol. 273) riferisce lettere del 23 e 24 agosto,
in cui si narra come il Papa scusasse il Valentino, affermando che il
duca di Bisceglie voleva ammazzarlo. Recentemente il signor THUASNE,
in fine del terzo volume della sua ediz. del Burcardo, pubblicò alcuni
dispacci dell'ambasciatore fiorentino Francesco Cappello, che su per
giù confermano le stesse notizie.

[347] P. CAPPELLO, _Relazione_ citata. Il SANUTO invece riferisce
lettere di Roma, in data del 20 febbraio 1498, in cui si racconta come
Pierotto cameriere fu trovato annegato nel Tevere con una donzella
_fida_ e _creatura_ del Papa, «et la cagione non si sa.» Le parole
della _Relazione_ del CAPPELLO sono queste: «E altra volta ammazzò (il
Valentino) di sua mano, sotto il manto del Papa, messer Pierotto, sì
che il sangue saltò alla faccia del Papa.» La Lettera di Silvio Savelli
citata dal GREGOROVIUS (_Geschichte_, ecc., vol. VII, pag. 447) dice:
«Pontificis cubicularius Perottus in eius gremio trucidatus.» Anche il
Burcardo lo dice annegato nel Tevere. Forse vi fu gettato il cadavere,
dopo l'uccisione, per nascondere il delitto.

[348] Il Manfredi aveva alla sua morte 18 anni. Il Nardi, sempre
temperato, parla con orrore grandissimo di questo fatto (_Storia di
Firenze_: Firenze, 1842, vol. I, pag. 237-38). Ne parlano anche il
Guicciardini e molti altri. Il _Diario_ del BURCARDO dice che nel
giugno Astorre Manfredi fu trovato nel Tevere con due giovani, una
donna ed altri cadaveri. Accenna alla morte del Manfredi anche il
dispaccio 6 giugno 1502 dell'ambasciatore veneto Antonio Giustinian.
_Dispacci di Antonio Giustinian_ da me pubblicati in Firenze, Succ. Le
Monnier, 1876, in tre vol.

[349] Vedi la mia _Storia di G. Savonarola e de' suoi tempi_, in due
volumi, nuova edizione: Firenze, Successori Le Monnier, 1888. Avendo
già trattato a lungo questo argomento, vi accenno ora assai brevemente.

[350] Così nella sua _Storia fiorentina_, come nel suo trattato _Del
Reggimento di Firenze_, pubblicati nelle _Opere inedite_.

[351] Tutto ciò è assai più minutamente esposto nella mia _Storia di
Girolamo Savonarola_, alla quale rimando di nuovo il lettore.

[352] Secondo la legge, il numero minimo era di 500, giacchè se i
_beneficiati_ non superavano i 1500, non venivano sterzati. La sala del
Consiglio, allora costruita nel Palazzo della Signoria dal Cronaca, fu
per questa ragione chiamata dei Cinquecento.

[353] Tra Pratica e Consulta v'era allora assai poca differenza, tanto
che spesso si confondeva l'una con l'altra; ma pare che nella Consulta
si discutesse anche più liberamente.

[354] Nelle lettere, che citammo più sopra, del Capponi a Piero de'
Medici, pubblicate dal DESJARDINS, _Négociations_, ecc., vol. I, pag.
393 e segg.

[355] Questa lettera, che è la seconda in tutte le edizioni delle
_Opere_ del MACHIAVELLI, porta la data del dì 8 marzo 1497. È noto
però che i Fiorentini, sino alla metà del secolo passato, computarono
l'anno, _ab incarnatione_, incominciandolo cioè dal 25 marzo, e quindi
la data sarebbe ora, nello stile moderno, 8 marzo 1498. Dopo la prima
lettera, che citeremo più oltre, segue un frammento latino, che nelle
stampe non ha un suo proprio numero. Ripetiamo, che citando le _Opere_
del MACHIAVELLI, senz'altra indicazione, intendiamo riferirci sempre
all'edizione colla data d'Italia, 1813.

[356] Questo nome si trova scritto, anche dallo stesso Machiavelli, in
modi diversi: _Malclavellus, Maclavellus,_ Machiavegli, Machiavello,
Machiavelli. Si trova anche Maclavello, Macciavello e Malclavelli.

[357] La casa, in cui il Machiavelli visse e morì, è quella che in Via
Guicciardini ha ora il numero 16.

[358] Nella Marucelliana di Firenze (Cod. 229, A, 10) trovasi un
_Quaderno di ricordanze_ di Ristoro di Lorenzo di Niccolò Machiavelli,
il quale Niccolò, figlio di Alessandro, fu più volte dei Signori e dei
Dieci, e fu contemporaneo del Nostro, ma di un altro ramo della stessa
famiglia. Qualche volta è stato confuso l'uno con l'altro, e ne sono
seguìti molti errori. Il _Quaderno di ricordanze_ di Ristoro incomincia
col primo settembre 1538, e contiene, fra i conti di casa, alcune
notizie importanti, parte delle quali copiate da più antichi libri di
famiglia. Così vi si trovano notizie raccolte da Lorenzo Machiavelli,
ed altre ancora più antiche, cavate da un _Ricordo_ di Bernardo di
Niccolò Machiavelli, _scritto l'anno 1460_. Ed è appunto in questo
_Ricordo_, che il padre del nostro Machiavelli, nove anni prima che
nascesse il figlio, dava la genealogia della famiglia. Parte di queste
notizie vennero confermate da GIULIANO DE' RICCI nel suo _Priorista_,
che trovasi manoscritto nella Nazionale di Firenze, e discorre
anch'esso molto della famiglia Machiavelli. (Vedi nel cit. _Priorista_:
Quartiere Santo Spirito, Sesto d'Oltrarno, Machiavelli).

Il ramo della famiglia, cui il nostro Machiavelli appartenne, si
estinse nel principio del secolo XVII, in Ippolita d'Alessandro di
Bernardo, terzo figlio di Niccolò. Sposata a Pier Francesco de' Ricci,
nel 1608, Ippolita morì nel 1613. Baccia, figlia del Machiavelli, aveva
assai prima sposato un altro de' Ricci (Giovanni), e fu così madre di
Giuliano, l'autore del _Priorista_, e raccoglitore di notizie e carte
attinenti al suo illustre antenato, le quali insieme con molti scritti
di lui riunì in un codice, noto col nome di Codice Ricci, del quale
parleremo più oltre. (Vedi BALDELLI, _Elogio di Niccolò Machiavelli_:
Londra, 1794, pag. 86 e 87). Un altro ramo de' Machiavelli si
estinse a Firenze nel 1727 in Francesco Maria de' Machiavelli. Di
essi furono eredi i Rangoni di Modena, che si chiamarono perciò
Rangoni-Machiavelli.

Il conte Passerini, prima nelle sue note al romanzo _Marietta de'
Ricci_, dell'ADEMOLLO, e poi nel ragionamento premesso alla nuova
edizione delle _Opere_ del MACHIAVELLI (vol. I: Firenze, Tipografia
Cenniniana, 1873), afferma che la parentela dei Machiavelli coi signori
di Montespertoli fu una favola inventata ai tempi del principato, per
lusingare l'ambizione dei Machiavelli, allora divenuti potenti. Ma da
quanto abbiamo detto è chiaro che l'origine di tali notizie è assai
più antica. Vedi ancora la _Monografia storica e statistica del Comune
di Montespertoli_, compilata dall'avv. MARCELLO NARDI-DEI: Firenze,
Tipografia Cooperativa, 1873. Ivi, fra le altre notizie, si cita a
pag. 21 il documento che prova come, verso la fine del secolo XIV, la
famiglia magnatizia dei signori di Montespertoli si spense in Ciango
di Agnolo, il quale aveva nominato suoi eredi _pro indiviso_, Lorenzo e
Buoninsegna, figli di Filippo Machiavelli.

[359] GIOVANNI VILLANI (_Cronica_, vol. I, lib. VIII, cap. 80: Firenze,
Coen, 1847), nel dare la nota di coloro che esularono allora, pone
i Machiavelli «fra gli popolani del detto Sesto (Oltrarno), case
notabili.» La stessa notizia trovasi nell'AMMIRATO, _Delle famiglie
nobili fiorentine_ (Firenze, 1615) a pag. 120, _Famiglia Soderini_.

[360] G. BALDELLI, _Elogio_, ecc., nella nota 1, a pag. 86 e 87, dice
che i Machiavelli ebbero dodici Gonfalonieri e cinquanta Priori. Il
_Priorista_ RICCI enumera cinquantasette Priori; ma è da notare che
qui i nomi d'una stessa persona si trovano più volte ripetuti, quando
ebbero ripetutamente l'ufficio.

[361] Vedi BALDELLI, _Elogio_, ecc., e la _Vita_ premessa alle _Opere_
del MACHIAVELLI nell'edizione fiorentina del 1873.

[362] Vedi il _Libro di Ricordanze_ di RISTORO MACHIAVELLI, più sopra
citato.

[363] Uguali a fiorini di suggello 132, soldi 16 e denari 10, sui
quali gravava una _Decima_ o imposta di fiorini 11, 1, 5. Vedi i due
documenti pubblicati dal PASSERINI nel primo volume delle _Opere di
N. Machiavelli_, più sopra citato, pag. LVIII e LX. Questa edizione
fu cominciata dai signori Passerini e Fanfani nel 1873. Ritiratosi ben
presto il signor Fanfani, subentrò invece il signor Gaetano Milanesi,
e insieme col Passerini continuarono l'impresa condotta già fino al
quinto volume. D'ora innanzi, per maggiore brevità, citeremo questa
edizione nel modo seguente: _Opere_ (P. M.). — Nel 1877 fu pubblicato
il vol. VI, e poi l'edizione restò interrotta.

[364] Il fiorino d'oro ordinario, alquanto minore del fiorino largo,
aveva lo stesso valore e la stessa lega dello zecchino più moderno,
che può valutarsi a circa 12 lire italiane. Ritenendo, come alcuni
vorrebbero, che nel secolo XV l'oro avesse un valore quadruplo di
quello d'oggi, si arriverebbe ad una rendita anche maggiore delle
cinquemila lire. È, in ogni modo, un calcolo assai lontano da ogni
precisione matematica, essendo ben noto quanta incertezza, a questo
proposito, vi sia anche fra i più autorevoli scrittori.

[365] _Discorso_ del senatore G. B. Nelli, _con la Vita del medesimo_:
Firenze, eredi Paperini, 1753, pag. 8. La libreria Nelli pare che
andasse dispersa, e però non ci fu possibile trovare questi scritti
della madre del Machiavelli.

[366] C'è un piccolo brano autografo d'una traduzione molto libera di
VITTORE VITENSE (_Historia persecutionis vandalicae_). Il Passerini,
senza darne prova, lo dice scritto prima del 1494; e veramente, non
sapendosene nulla, può mettersi nell'anno che si vuole; può credersi
anche lavoro giovanile. Lo diamo in _Appendice_, doc. III. FRANCESCO
PALERMO lo pubblicò assai scorrettamente in un opuscolo, che restò
quasi ignoto: _Niccolò Machiavelli e il suo centenario, con una sua
versione non mai pubblicata_: Firenze, tip. Bencini, 1869. Il Codice
Ricci contiene una _Risposta fatta ad uno ambasciatore pel re di
Francia_, che non ha nome di autore, sebbene vi sia la data del 1495, e
da qualcuno siasi, senza ragione, voluta attribuire al Machiavelli.

Questo Codice Ricci, che già abbiamo citato e citeremo più volte, è
una raccolta di lettere e di altri scritti del Machiavelli, insieme con
molti documenti che a lui o alle sue opere si riferiscono, ma che non
sono scritti da lui. Il Ricci copiò e raccolse tutto ciò, aggiungendovi
di suo prefazioni, osservazioni, comenti. Di questa raccolta si trovano
nella Bibl. Nazionale di Firenze l'autografo e due copie del secolo
passato. Un'altra copia più antica delle due fiorentine, trovasi nella
Bibl. Barberini in Roma, ed un frammento se ne trova nella Corsiniana
della stessa città. Questi codici differiscono pel diverso ordine
in cui sono disposti i documenti, il che ha reso necessaria qualche
differenza di forma nelle prefazioni e comenti del Ricci. L'autografo
(che solo in parte è autografo) non segue l'ordine cronologico, che è
invece serbato nelle due copie fiorentine.

Il Codice fiorentino segnato E, B, 15, 10 è l'autografo; ma in esso
si riscontrano altre due mani, una delle quali ritroviamo anche nel
_Priorista_ RICCI, che si trova nella stessa Nazionale di Firenze,
ed è segnato B, A, 9, p. 2, n. 1. Vi sono poi alcune note marginali
di Scipione de' Ricci. Delle due copie fiorentine, una è il Codice
Palat. 815 (già 21, 2, 692), l'altra, che pare una copia di esso, ha le
indicazioni: Bº, R^i, 5, 1, 16, e II, II, 334. — Il TOMMASINI (_La Vita
e gli Scritti di N. Machiavelli_: Torino, Loescher, 1883) ha dato di
tutti questi Codici un indice copioso con molti estratti e confronti.

[367] Sono le prime fra le lettere pubblicate del Machiavelli. Fra
le _Carte del Machiavelli_, conservate nella Biblioteca Nazionale di
Firenze, in sei cassette, si trova una lettera, che discorre d'un altro
patronato della famiglia, ma non è firmata, e, sebbene sia autografa di
Niccolò, parla di lui come di terza persona. Vedi _Appendice_, doc. IV.

[368] Così apparisce da un documento citato dal NITTI, _Machiavelli
nella vita e nelle opere_: Napoli, 1876, vol. I, pag. 39. Quest'opera
rimase interrotta col I vol., che arriva solo fino all'anno 1512,
prima cioè che il Machiavelli incominciasse a scrivere le sue Opere. Il
cardinale perugino era Giovanni Lopez, spagnuolo.

[369] Il breve _Elogio_ del GIOVIO incomincia: «Quis non miretur in hoc
_Macciavello_ tantum valuisse naturam, _ut in nulla vel certe mediocri
latinarum literarum cognitione_, ad iustam recte scribendi facultatem
pervenire potuerit...?» E più oltre: «Constat eum, sicut ipse nobis
fatebatur, a Marcello Virgilio, cuius et notarius et assecla publici
muneris fuit, graecae atque latinae flores accepisse quos scriptis suis
insereret.» _Elogia doctorum virorum_, auctore PAULO JOVIO: Antuerpiae,
1557, pag. 192-93. Da queste affermazioni inesattissime, come
segue troppo spesso al Giovio, hanno origine quelle che altri molti
ripeterono poi.

[370] «Seppe di greco e di latino a perfezione,» dice il PASSERINI a
pag. X, del _Discorso_ da lui premesso alle _Opere_ (P. M.); ma lo dice
senza provarlo, e senza neppure toccare delle osservazioni fatte in
contrario da scrittori autorevolissimi.

[371] _Storia di Firenze_: ediz. L. Arbib: Firenze, 1843-44, vol. I,
pag. 266.

[372] Nel suo Codice più sopra citato (E, B, 15, 10, pag. 23, e nel
Palat. 815, pag. 8-10) egli dice infatti che le parole del Giovio
non hanno nessun fondamento; che il Machiavelli non fu mai notaio di
Marcello Virgilio, ma Segretario dei Dieci; che il brano di lettera
latina da lui scritta nel dicembre 1497, prova come egli sapesse il
latino. Quel brano, egli aggiunge, è solo un'ottava parte dell'intero,
il resto essendosi perduto perchè lacero il foglio. Ed in quel tempo
Niccolò Machiavelli «appena aveva cominciato a conoscere, non che
a praticare e conversare con Virgilio.» Il codice Palatino, sebbene
disponga i documenti con ordine diverso dall'autografo, ne è però, come
dicemmo, copia fedele. In fine di esso si legge infatti: «Il presente
volume da me Marco Martini, in quest'anno 1726, è stato copiato
dall'esemplare del signor abate Corso de' Ricci, quale esemplare fu
copiato da Giuliano de' Ricci dagli originali di Niccolò Machiavelli,
e questa copia da Rosso Antonio Martini, mio fratello, è stata
collazionata coll'esemplare suddetto di Giuliano de' Ricci.» Le stesse
parole trovansi anche nell'altra copia già ricordata, ma vi furono poi
cancellate, il che ci riconferma nell'opinione che la seconda derivi
dalla prima, sia cioè copia di copia.

[373] Così almeno si può argomentare dall'avergli i parenti affidato la
difesa dei loro diritti nell'affare di Santa Maria della Fagna, e da
qualche altro incarico di simile natura, che assunse assai più tardi.
Suo padre potè facilmente iniziarlo in questi studî, intorno ai quali
però non troviamo nessuna notizia sicura nelle opere del Machiavelli,
nè altrove.

Il GERVINUS nel suo lavoro, _Florentinische Historiographie_, più sopra
citato, si ferma lungamente e con qualche esagerazione a determinare
i danni che vennero, secondo lui, agli studî ed all'ingegno del
Machiavelli dal non aver esso conosciuto la lingua e la cultura greca.
Invece il prof. TRIANTAFILLIS, prima in un suo lavoro intitolato:
_Niccolò Machiavelli e gli scrittori greci_ (Venezia, 1875); poi in un
altro sulla _Vita di Castruccio Castracani_ del MACHIAVELLI, pubblicato
nell'_Archivio Veneto_, crede di aver vittoriosamente provato che
questi conoscesse il greco, e si valesse degli autori greci, leggendoli
nell'originale. I due lavori del Triantafillis mettono certo in
chiaro, che il Segretario fiorentino si valse molto di alcuni scrittori
greci; ma non bastano, secondo noi, a provare che li studiasse nella
lingua originale, e non già nelle traduzioni. Il torto principale del
Triantafillis sta nell'aver creduto che basti esaminare il _Lexicon
bibliographicum_ dell'HOFFMANN, e quando in esso non si trovi citata
una qualche traduzione, già fatta al tempo del Machiavelli, di un
autore greco, del quale egli si valse, possa concludersene senz'altro,
che la traduzione non c'era, e che l'autore fu dal Machiavelli studiato
nell'originale. È evidente che questo metodo non può condurre ad un
resultato sicuro, perchè moltissime furono le traduzioni fatte in
quel secolo, che restarono inedite, e possono quindi essere ignote a
noi. Di qualcuno infatti degli autori, di cui il Triantafillis crede
che non vi fossero allora traduzioni, se ne trova nelle biblioteche
di Firenze più d'una, e nulla vieta di credere che il Machiavelli di
queste o d'altre, che noi non conosciamo, si fosse valso. Il signor
Triantafillis si ferma ancora lungamente a provare, che il dialogo
_Dell'ira o dei modi di curarla_ è quasi una traduzione di Plutarco,
senza però occuparsi punto di esaminare se l'opinione degli scrittori i
quali autorevolmente affermarono che quel lavoro non è del Machiavelli,
sia fondata. Oltre di che, nella Laurenziana trovasi (come apprendo dal
prof. E. Piccolomini, che ho più volte consultato in questa questione)
un'antica traduzione appunto di quell'opuscolo di Plutarco, attribuita
a Coluccio Salutati, della quale il Machiavelli potrebbe in ogni caso
essersi valso. I due lavori del prof. Triantafillis adunque, per quanto
sotto altri aspetti lodevoli, non mutano lo stato della questione,
e non ci rimuovono dalla nostra opinione, che del resto è quella più
generalmente accettata. Si potrebbe qui aggiungere come il RICCI, nel
suo _Priorista_, ricordi che il Machiavelli compose un ragionamento, in
forma di commedia, il quale andò poi perduto, ed era intitolato: _Le
Maschere_. In esso l'autore imitava, ad istigazione di M. Virgilio,
le _Nuvole_ ed altre commedie di Aristofane, facendo amara satira
di molti suoi contemporanei. Questo fatto però non potrebbe dare un
argomento in favore della tèsi sostenuta dal prof. Triantafillis,
perchè si tratta solo di una generica imitazione, per la quale bastava
una qualsiasi illustrazione o comento, fatto in iscritto o a voce dallo
stesso M. Virgilio o da altro professore dello Studio fiorentino. Diamo
in _Appendice_ (doc. V) una lettera che ci ha indirizzata a questo
proposito il nostro amico prof. E. Piccolomini. — Il signor G. ELLINGER
ha poi pubblicato un suo lavoro: _Die antiken Quellen der Staatslehere
Machiavelli's_: Tübingen, 1888. In esso si discorre dei molti autori
antichi dei quali il Machiavelli si valse nelle sue opere politiche. Ne
riparleremo.

[374] Questo si cava dall'esame dei Registri della Repubblica
nell'Archivio fiorentino. Le legazioni ed istruzioni ad ambasciatori
dal 1499 al 1512 sono talora in nome dei Signori, tal'altra dei Dieci,
o anche degli uni e degli altri. (Archivio fiorentino, Cl. X, dist. I,
num. 105). Alle lettere dirette alla Signoria, spesso per delegazione
rispondevano i Dieci. Secondo lo Statuto del 1415 (stampato nel 1781,
colla data di Friburgo, vol. II, pag. 25 e seg.) essi potevano nominare
sindaci, procuratori, ambasciatori, cursori, ecc.; non però destinare
ambasciatori al Papa, Imperatore o ad un re o regina, senza il consenso
dei Priori e Collegi, ai quali più specialmente tali nomine spettavano.
Generalmente si richiedeva anche l'approvazione del Consiglio.

[375] _Bartolomei Scalae Collensis, Vita_, auctore DOMINICO MARIA
MANNIO: Florentiae, 1768.

Il PASSERINI nel suo _Discorso_ a pag. XII, _Opere_ (P. M.), vol.
I, afferma che il Machiavelli, «desideroso di avviarsi al servizio
del suo paese, si pose, intorno al 1494, sotto la direzione di
Marcello Virgilio Adriani, nella seconda cancelleria del Comune.»
Ma non sappiamo dove mai abbia potuto trovare che prima del 1498 il
Machiavelli e Marcello Virgilio fossero già regolarmente in ufficio:
non certo nei documenti. È ben vero che, con deliberazione del 28
dicembre 1494 (_Deliberazione dei Signori_, reg. 86, a c. 120^t),
formandosi allora il nuovo governo, vennero cassati Bartolommeo Scala
ed altri ufficiali delle cancellerie. Ma il 31 dicembre seguente
i Priori «attenta capsatione facta per dictos Dominos de domino
Bart. Sch., et attenta necessitate Palatii et negotiis eiusdem,» lo
rielessero. E così restò in ufficio fino al 1497, come risulta dai
documenti, e come ricorda anche il MANNI nella _Vita_ di lui. Nella
riforma della cancelleria, deliberata poi nel Consiglio Maggiore il 13
febbraio 1498 (stile nuovo), è detto che il «primo cancelliere, cioè
dove serviva Bartholomeo Schala,» abbia un salario di fiorini 330. E
poco più oltre, parlando dei Segretari della Signoria, si accenna a
quello «dove ha servito Alessandro Braccesi,» che infatti era stato
allora appunto dimesso, e venne poi sostituito dal Machiavelli.
(_Provvisioni_, reg. 189, a carte 56^t-58). — Tuttavia recentemente
il Dr. DEMETRIO MARZI, (_La Cancelleria fiorentina_, pag. 287, Rocca
S. Casciano, Cappelli, 1910) osservò che non solo il Passerini, ma
anche altri scrittori dicono che nel 1494 o 1495 il Machiavelli fu
adoperato nella Cancelleria. Ed aggiunse ancora che Agostino Vespucci
suo collega, in una lettera che gli scrisse il 20 ottobre 1500,
ricordava, che essi erano già stati in ufficio un quinquennio. Ne
concluse perciò che possa indursi, che tra il 1494 e 1495, quando, dopo
il mutamento del governo, molti della Cancelleria furono dimessi o si
dimisero, il Machiavelli potè essere stato chiamato a servire in essa
provvisoriamente quale straordinario. Questo, egli dice, spiegherebbe
ancora come mai nel 1498 potesse, in età di soli 29 anni, senza altri
titoli, essere eletto segretario.

[376] L'atto di nomina del Machiavelli fu più volte pubblicato, sempre
però con qualche omissione. Recentemente lo ripubblicava il PASSERINI,
nel volume citato, a pag. LIX; ma di due documenti ne fece uno solo,
avendo, al principio del secondo paragrafo, omesso la data: _Die XVIIII
mensis iunii_, dalla quale apparisce che la deliberazione del Consiglio
Maggiore fu presa quattro giorni dopo quella del Consiglio degli
Ottanta. (Archivio fiorentino, Cl. II, n. 154, a carte 104). I due
decreti sono scritti in margine del foglio indicato. Questa filza porta
anche l'indicazione più moderna: _Signori e Collegi, Deliberazioni_,
reg. duplicato 169.

[377] Tutto ciò spiega perchè lo chiamarono il Segretario fiorentino,
e perchè nei documenti è detto ora segretario dei Dieci, ora della
Signoria, ora della seconda cancelleria.

[378] A questa conclusione siamo venuti esaminando la riforma del 28
dicembre 1494, quella del 13 febbraio 1497 (98), più sopra citata,
e gli ordini di pagamento, uno dei quali può vedersi nell'Archivio
fiorentino, Cl. XIII, dist. 2, n. 69, a c. 142.

[379] ANGELO MARIA BANDINI, _Collectio veterum aliquot monumentorum_:
Aretii, 1752. Nella prefazione parla di Marcello Virgilio, di cui
si può vedere l'elogio anche nel vol. III degli _Elogi storici degli
uomini illustri toscani_: Firenze, 1766-73.

Il BANDINI, nella citata prefazione, dice: «Id vero in Marcello mirum
fuit, quod etsi publice florentinam iuventutem humanioribus literis
erudiret, nomine tamen Reipublicae literas scribendi munus numquam
intermiserit.» Dopo la prefazione, si trovano in questo volume lettere
indirizzate a Marcello dal Calcondila (1496), da Roberto Acciaioli, da
Aldo Manuzio (1499) e dal card. Soderini (1508), nelle quali si parla
sempre di ricerche d'antichi classici, scoperte d'antichi monumenti,
ecc. Vedi anche PREZZINER, _Storia del pubblico Studio_, ecc., vol.
I, pag. 181, 187 e 190; FABRONI, _Historia Academiae Pisanae_, vol.
I, pag. 95, 375 e 377. Da una lettera inedita di Marcello Virgilio
al Machiavelli, che citeremo più oltre, si vede chiaro che anche nel
1502, quando questi era presso il Valentino, Marcello Virgilio dirigeva
la prima segreteria, e continuava le sue lezioni. Di ciò parlano il
VALERIANI, _De literatorum infelicitate_: Venetiis, 1630, pag. 71,
e il BANDINI, a pag. XIX della citata prefazione. — Molte notizie
su Marcello Virgilio Adriani e i suoi scritti si trovano in WILHELM
RÜDIGER, _Marcellus Virgilius Adrianus aus Florenz_. Halle a. S., Max
Niemeyer, 1898.

Fu sepolto nella tomba di famiglia, nella chiesa di S. Francesco a S.
Miniato al Monte, fuori delle mura. Ivi è il monumento di famiglia con
una iscrizione. Più tardi vi fu messo il busto di Marcello Virgilio,
con quest'altra iscrizione:

    _Suprema nomen hoc solo_
    _Tantum voluntas iusserat_
    _Poni, sed hanc statuam prius_
    _Erexit haeres, nescius_
    _Famae futurum et gloriae_
    _Aut nomen aut nihil satis._

Da queste ultime parole potè forse essere suggerita la bella iscrizione
che fu messa più tardi sulla tomba del Machiavelli in Santa Croce. Il
figlio di Marcello Virgilio, G. B. Adriani, lo storico, ed il nipote
sedettero sulla stessa cattedra del padre e dell'avo.

[380] Molti sono i ritratti che, senza ragioni sufficienti, si dicono
del Machiavelli. Ricordiamo prima di tutti il busto in marmo, con la
data del 1495, che fu messo nella Galleria degli Uffizi l'anno 1824,
e passò poi al Museo Nazionale, nel Palazzo del Bargello. Esso porta
sempre il nome del Machiavelli, sebbene adesso ne sia generalmente
negata l'autenticità. Negli Uffizi si trova ancora una maschera
in gesso, che si dice formata sul cadavere del Machiavelli. Ma dai
documenti che ivi si conservano, apparisce che la maschera fu rinvenuta
fra il 1840 e 48, nell'armadio d'una cantina della casa abitata già dal
Machiavelli (Via Guicciardini, n. 16); e che solo perciò fu supposta
di lui, sebbene il gesso non abbia neppur ora l'apparenza di molta
antichità, nè, che si sappia, vi sia nessuna antica tradizione, che ne
ricordi l'esistenza.

Presso la Società Colombaria si trova un antico ritratto in terra
cotta colorata, che da qualcuno si volle attribuire al Machiavelli.
Ma la Società cominciò solamente nel secolo passato; ebbe in dono
questo ritratto, senza però che nessun documento accerti che sia di
lui. Il signor Seymour Kirkup, dotto Inglese, che fu anche pittore,
e lungamente dimorò in Firenze, possedeva un busto in terra cotta,
che egli acquistò da un rivendugliolo, e lo credeva fermamente del
Machiavelli, anzi lo supponeva formato sul cadavere. Questo busto,
andato in Inghilterra, dopo che il proprietario morì a Livorno, ha una
qualche lontana somiglianza con quello della Colombaria, specialmente
pel naso aquilino, che non hanno gli altri ritratti. Io ricordo d'aver
più volte sentito dire dallo stesso signor Kirkup, non so però con
quale fondamento, che quel busto era uscito dalla Colombaria, in uno
sgombero che essa fece. Sembra un lavoro non finito; i capelli infatti
sono messi solamente al lato destro della maschera. Forse una certa
somiglianza può trovarsi fra questi due busti e la testa assai piccola,
assai brutta, assai male incisa sul frontespizio della edizione delle
_Opere_ del MACHIAVELLI, che fu fatta nel 1550, ed è chiamata la
_Testina_.

V'è però un'altra serie di ritratti, che sono di un tipo assai
diverso, e con maggiore fondamento si possono dire del Machiavelli.
E prima di tutti poniamo il busto che pare in terra cotta, ma è di
stucco colorito, e trovavasi nella casa dei Ricci, parenti come si
sa del Machiavelli, di cui conservarono lungamente le carte. Con
la morte della marchesa Ricci-Piccolellis, esso venne in eredità al
conte Bentivoglio d'Aragona, e fu allora inciso ed illustrato nella
_Revue Archéologique_ (gennaio-giugno, Parigi, 1887). Io lo esaminai
in compagnia d'alcuni artisti, che lo giudicarono lavoro certamente
antico, ma di merito assai secondario come opera d'arte. Dalle
_Memorie_ di SCIPIONE DE' RICCI (vol. II, pag. 13, ediz. Le Monnier),
risulta chiaro che questo busto, conservato religiosamente nella sua
famiglia, ritenevasi formato sul cadavere del Machiavelli, e che se ne
era fatta una copia in gesso, la quale fu data ad amici che volevano
riprodurla. Probabilmente di essa si valse il pittore Santi di Tito (n.
1536, m. 1603), nel fare quel suo ritratto del Machiavelli, che venne
più volte inciso, e che ora non si sa più dove si trovi.

Quando lo scultore Bartolini lavorava la sua bella statua, che è sotto
gli Uffizi, cercò ed esaminò tutti i ritratti allora conosciuti del
Machiavelli. Nel suo studio si conserva ancora un busto in gesso, che
somiglia molto a quello in stucco di casa Ricci; ma è migliore assai
come opera d'arte, ed io ne possiedo un calco, che feci eseguire dal
formatore Nelli. Sembra un lavoro antico, che il Bartolini prescelse
per eseguire la sua statua, la quale par da esso veramente ispirata.
Non so come nè dove il Bartolini lo trovasse; probabilmente è il gesso
di cui parla Scipione de' Ricci. Sia comunque, il busto in stucco,
questo dello studio Bartolini, il ritratto dipinto da Santi di Tito e
la statua dello stesso Bartolini riproducono tutti un medesimo tipo,
diverso assai dal busto della Colombaria, da quello del Kirkup e dalla
così detta maschera degli Uffizi. Il naso non è aquilino, ma diritto
e piccolo; v'è una espressione di sottigliezza, di accortezza, quasi
di furberia, tanto che, se non fosse la certezza di un'antichità più
o meno remota, si direbbe un concepimento moderno del Machiavelli
tradizionale.

[381] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 174.

[382] Il NARDI dice che la condotta di Paolo e Vitellozzo, consigliata
dal Moro, fu fatta d'accordo col re di Francia «ed a soldo comune del
detto Re e del popolo fiorentino.» _Storia di Firenze_, vol. I, pag.
173.

[383] Questa Orazione trovasi nella Biblioteca Laurenziana, Plut.
LXXXX, cod. 29: _Oratio pro eligendo imperatore exercitus Paullo
Vitellio, et dandis illi militaribus imperatoriis signis_. In essa
l'oratore accenna a pericoli che aveva corsi recentemente, forse nei
casi del Savonarola: _Scitis enim omnes quantis vitae periculi his
diebus iactatus sim, quantoque metu coactus sim fugere presentem ubique
mortem, quam nescius ipse mecum forte trahebam_.

[384] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 176.

[385] Di questo don Basilio abate di San Felice in Piazza, e poi
vicario generale dei Camaldolesi, il MACHIAVELLI dice nei suoi
_Frammenti storici: Cuius fuit summa manus in bello, et amor et fides
in patriam. Opere_, vol. II, pag. 366.

[386] Vedi le _Storie di Firenze_ del NARDI e del GUICCIARDINI. Quanto
alla somma che dovevano pagare i Fiorentini ai Veneziani, il Nardi
dice 100,000 ducati in 12 anni, il Guicciardini 150,000 in 15 anni. Il
_Diario_ del BUONACCORSI ha qui una lacuna, e l'autografo, che è nella
Riccardiana, ha una nota, la quale dice, che l'autore sospese il lavoro
per essere stato sei mesi assente da Firenze. Osserviamo che questo
basterebbe a smentire, se pur ve ne fosse bisogno, l'opinione di chi
volle attribuire il _Diario_ del BUONACCORSI al Machiavelli, che allora
certo non fu sei mesi assente. Ma di ciò più oltre.

[387] La lettera dei Dieci, che dà la commissione al Machiavelli, in
data 24 marzo 1498 (stile fiorentino), e trovasi fra le _Legazioni_,
nelle _Opere_ a stampa, è generalmente preceduta, per errore, da
un'altra del novembre 1498, la quale, come si osserva giustamente nella
edizione (P. M.), inviava colà Niccolò Mannelli, non il Machiavelli.

[388] Secondo la riforma del 2 dicembre 1494, i Dieci duravano in
ufficio sei mesi. (Archivio fiorentino, _Provvisioni_, reg. 186, a c.
4). Per deliberazione del Consiglio degli Ottanta (11 maggio 1495),
l'elezione doveva esser fatta nel Consiglio Maggiore. Secondo la
riforma del 27 aprile 1496 (_Provvisioni_, reg. 188, a c. 16 e segg.),
fu stabilito che i «Commissarî, così generali come particolari nel
dominio, si eleggano nel Consiglio degli Ottanta, sulla proposta dei
Dieci, che presenteranno 10 nomi da porre a partito.» In caso urgente
potevano anche di propria autorità mandare in campo un Commissario
per quindici giorni, e procedere poi alla regolare elezione, la quale,
come è naturale, assai spesso confermava in ufficio quello già mandato
dai Dieci. Questi potevano inoltre prorogare il tempo dell'elezione
fino a sei mesi, mantenendo intanto nell'ufficio il Commissario da
essi inviato. E qui nascevano molti abusi, giacchè, per favorire gli
amici, si mandavano d'urgenza commissarî, quando l'urgenza non v'era;
si confermavano poi di quindici in quindici giorni, e finalmente
si cercava di farli eleggere dal Consiglio. Oltre le nomine dei
«commissarî e rettori dei luoghi,» i Dieci deliberavano le condotte per
le milizie, e le spese della guerra, cose tutte che potevano aprir la
porta ad altri abusi.

[389] Vedi GUICCIARDINI, _Storia fiorentina_, pag. 202 e segg., e
NARDI, op. cit., vol. I, pag. 189-91. Questo secondo scrittore, a
pag. 184, nel parlare delle strettezze della Repubblica, racconta
d'un Lorenzo Catucci, il quale offerì ad essa in dono mille fiorini, e
cinquemila in prestito, per cinque anni, purchè «gli fosse conceduto
il beneficio dello Stato per le Arti minori.» La sua domanda fu
respinta, ma, venuto il giorno in cui il beneficio si poteva legalmente
concedere, il Catucci fu messo a partito per le Arti maggiori, ed
ottenne così gratuitamente più di quello che aveva chiesto per danaro.
Ciò prova che allora esistevano ancora virtù repubblicane a Firenze.

Una provvisione del 31 maggio 1499 (Archivio fiorentino, _Consigli
Maggiori, Provvisioni_, reg. 191, a c. 10^t) stabilisce nuove norme per
l'elezione dei magistrati, giacchè occorrendo allora, per ottenere la
maggioranza legale dei voti, radunare più volte il Consiglio Maggiore,
molti si stancavano e non andavano alle adunanze. Si deliberò quindi
che tutti coloro i quali ottenevano il voto della metà più uno dei
presenti, venissero imborsati, e fra di loro decidesse poi la sorte.
Quanto ai Dieci, venne sospesa ogni deliberazione, fino a che gli
Ottanta non avessero, con due terzi dei voti, dichiarato se volevano
che un tale ufficio continuasse o no.

[390] È singolare che il NARDI, contemporaneo e fedele storico, la dica
(op. cit., vol. I, pag. 34) sorella del Moro, quando ella stessa, nelle
sue lettere ai Fiorentini, lo chiama il _nostro barba_, cioè zio.

[391] Pier Francesco de' Medici padre di Giovanni (1467-98) era figlio
di quel Lorenzo, che fu fratello minore di Cosimo _padre della patria_.
Il padre di questi due fratelli fu, come è noto, Giovanni de' Medici
vero fondatore della casa. Il ramo primogenito, cioè la discendenza di
Cosimo, si estinse l'anno 1537 in Alessandro, ucciso da Lorenzino de'
Medici. Dal ramo secondogenito vennero i granduchi di Toscana.

[392] Abate ANTONIO BURRIEL, _Vita di Caterina Sforza_, 3 vol. in-4:
Bologna, 1795; T. A. TROLLOPE, _A Decade of Italian Women_: London,
1859, due volumi. — Il senatore conte P. D. PASOLINI ha recentemente
pubblicato un'opera in tre volumi, che tratta il soggetto ampiamente e
compiutamente, con moltissimi nuovi documenti (_Caterina Sforza_: Roma,
Loescher, 1893).

[393] Vedi la _Istruzione al Machiavelli_, deliberata il 12 luglio
1499, nelle _Opere_, vol. VI, pag. 7.

[394] Lettera del 17 luglio, nella _Legazione a Caterina Sforza_.

[395] I Fiorentini ne avevano bisogno senza indugio, «perchè il
capitano sollecita, stringe e infesta ogni ora.» Così dice la lettera
del 18 luglio, firmata Marcello Virgilio. Questa ed altre dello stesso,
che sono però di poca o nessuna importanza, trovansi nella Biblioteca
Nazionale di Firenze (_Carte del Machiavelli_, cassetta II), e furono
pubblicate dal PASSERINI, insieme con la _Legazione a Caterina Sforza
di Forlì_, nel terzo volume delle _Opere_ (P. M.).

[396] Vedi la _Legazione a Caterina Sforza_, che è la prima in tutte le
edizioni. Contiene sette lettere del Machiavelli, dal 16 al 24 luglio.
_Opere_, vol. VI, pag. 11-31.

[397] Per questa legazione furono dati al Machiavelli, con
deliberazione del 31 agosto 1499, fiorini diciannove larghi in oro,
«per rifacimento di spese fatte in andare, stare e tornare in giorni
diciannove, incominciati addì 13 di luglio, e finiti per tutto il primo
del presente.» Il documento fu pubblicato nelle _Opere_ (P. M.) vol.
III, pag. 32, nota 2.

[398] «Il spettabile Ioanni mio auditore.» Vedi la lettera della
Contessa in data del 3 agosto 1499, nelle _Opere_, vol. VI, pag. 31.

[399] Di queste lettere, scritte dal Buonaccorsi nel luglio se ne
trovano nella Biblioteca Nazionale di Firenze tre, di cui due in data
del 19, una del 27. _Carte del Machiavelli_, cassetta II, numeri 1, 77,
78. Le diamo in _Appendice_, documento VI.

Biagio Buonaccorsi, fedele al Machiavelli anche quando questi cadde più
tardi nella sventura, e molti lo assalivano per la pubblicazione del
Principe, nacque nel 1472, e sposò una nipote di Marsilio Ficino, la
quale fu poi amica della moglie del Machiavelli. Le sue poesie restano
inedite nelle biblioteche di Firenze. Scrisse la _Impresa fatta dai
Signori fiorentini l'anno 1500 con le genti francesi, per espugnare
la città di Pisa, capitano monsignor di Belmonte_. Questo breve
lavoro, utile per la esattezza delle notizie che dà, venne pubblicato
da F. L. POLIDORI nell'_Arch. Stor. It._, vol. IV, parte II. Sono 19
pagine, precedute da una prefazione del Polidori, che in essa raccolse
varie notizie intorno all'autore. Questi pubblicò, ai suoi tempi, una
lettera dedicata a Girolamo Benivieni, la quale discorre del comento
di Pico della Mirandola alla _Canzone dell'amor divino_, scritta dallo
stesso Benivieni. Vedi _Opere_ di GIROLAMO BENIVIENI: Firenze, Giunti,
1519. Ma il lavoro principale del Buonaccorsi è il _Diario_ dei fatti
seguiti in Italia, massime in Firenze, dal 1498 al 1512, durante il
qual periodo di tempo, esso ed il Machiavelli stettero insieme nella
seconda cancelleria della Repubblica, per uscirne insieme, quando mutò
il governo. Il _Diario_ fu pubblicato a Firenze l'anno 1568 dal Giunti,
ed ha certo importanza storica, perchè composto, quantunque con assai
poca arte, sulle lettere della cancelleria. Il suo stile non si può
in nessun modo paragonare con quello del Machiavelli, sebbene qualcuno
abbia avuto la strana idea di attribuire a lui il _Diario_.

L'AMMIRATO, nelle _Famiglie nobili fiorentine_, a pag. 103, accennò ad
un _piccolissimo quadernuccio_, scritto di mano del Machiavelli, «per
metterlo forse nell'historia, che di poi non seguì.» In conseguenza
di ciò, negli _Elogi di Uomini illustri toscani_ (Firenze, 1766-73,
vol. I, pag. 37), fu scritto che un letterato aveva scoperto come il
_Diario_ non fosse del Buonaccorsi, ma del Machiavelli, e si osservava
ancora che il _Diario_ comincia quasi là dove i _Frammenti storici_,
che fanno seguito alle _Storie_ del MACHIAVELLI, finiscono. Il MORENI,
nella _Bibliografia della Toscana_, ripetè la stessa osservazione senza
combatterla. Pure sarebbe stato assai facile notare che l'Ammirato
citava un brano del _quadernuccio_, e che questo brano era il ritratto
di Niccolò Valori, scritto dal MACHIAVELLI, e pubblicato fra le
_Nature di Uomini illustri fiorentini_. Queste potevano formare un
quadernuccio, ma il _Diario_ è invece un volume di mole discreta. Così
si sarebbe evitata una ipotesi in nessun modo sostenibile.

Inoltre, tutti i Mss. antichi del _Diario_ portano il nome del
Buonaccorsi, e quello che si conserva nella Riccardiana di Firenze
(Codice 1920), ed è l'autografo, ha, come abbiamo già osservato, la
postilla che ricorda l'assenza dell'autore da Firenze, in un tempo
nel quale il Machiavelli non era certo assente. Si volle da qualcuno
sostenere ancora che la scrittura del _Diario_ autografo si potesse
confondere con quella del Machiavelli; ma basta paragonarle fra loro,
per accertarsi del contrario. Del resto, è superfluo fermarsi troppo su
di ciò, e notiamo invece che il _Diario_ si trova quasi tutto di sana
pianta riportato nella _Storia di Firenze_ di IACOPO NARDI, il quale ne
corresse solo alquanto la forma.

[400] Archivio fiorentino, _Lettere de' Dieci di Balìa_, 1499, Cl. X,
dist. 3, n. 91. Secondo il nuovo ordinamento dell'Archivio, la stessa
filza ha anche l'indicazione: _Signori, Missive_, n. 21. La lettera qui
sopra citata è del 5 agosto, e trovasi a carte 64.

Da questo momento noi cominciamo a valerci delle lettere d'ufficio,
scritte dal Machiavelli, che si trovano in grandissimo numero ancora
inedite nell'Archivio fiorentino. Più di 4100 sono le schede delle sole
lettere autografe, nelle quali vanno però comprese alcune legazioni
e circa 264 lettere pubblicate dal CANESTRINI negli _Scritti inediti
di N. Machiavelli_. Queste lettere erano scritte di mano propria del
Machiavelli nei minutarî o protocolli, e poi copiate nei registri da
ufficiali della cancelleria. Naturalmente non tutte quelle dei minutarî
sono di mano del Machiavelli, sebbene da lui ispirate; ma il suo
autografo si riconosce in modo da non lasciar dubbio. Delle lettere
scritte nell'agosto 1499 non abbiamo trovato il minutario, ma solo il
registro, e però quelle pochissime che citiamo come scritte da lui
in questo mese, le abbiamo supposte tali solamente dallo stile. Dal
1º settembre in poi (lo noti bene il lettore), tutte le lettere che
citiamo senz'altra osservazione, sono del Machiavelli, e se ne trova
l'autografo.

[401] Lettera del 7 agosto, a carte 68 del Registro sopra citato.

[402] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 196 e seg.

[403] GUICCIARDINI, _Storia fiorentina_, pag. 204.

[404] Lettera del 14 agosto, a carte 74 del Registro citato.

[405] A questo punto, una mano contemporanea ha scritto in margine del
Registro: _Quantus moeror_.

[406] Diamo in _Appendice_ questa lettera del 20 agosto, insieme con
un'altra del 15 nei documenti VII e VIII.

[407] Anche questa lettera del 25 agosto diamo in _Appendice_,
documento IX.

[408] Vedi negli _Scritti inediti di Niccolò Machiavelli_, illustrati
da G. CANESTRINI (Firenze, Barbèra, Bianchi e C., 1857), le lettere
dell'8, 10 e 13 settembre, e quella del 27 ottobre 1499, a pag. 81, 82,
85 e 118.

Il Canestrini ha in questo volume ristampate le lettere scritte dal
Machiavelli, quando ordinò la milizia in Firenze, che già erano state
da lui pubblicate nell'_Arch. Stor. It._ Vi ha poi aggiunto molte
altre lettere inedite. In tutto sono 264, e trattano sempre affari
della Repubblica. Salvo quelle che risguardano la milizia, la scelta
può dirsi fatta a caso, senza un concetto, senza un vero ordine
cronologico, e senza una vera distribuzione per materie. Salta da
una lettera all'altra, tralascia brani più o meno lunghi di quelle
che pubblica, senza dirne la ragione, e senza neppure avvertirne il
lettore. Evidentemente poi egli non conobbe o non esaminò la massima
parte delle lettere d'ufficio scritte dal Machiavelli, avendone
pubblicate molte che non hanno valore, e tralasciato un grandissimo
numero di assai importanti.

[409] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 199-200.

[410] _Scritti inediti_, a pag. 95. Vedi anche la lettera del 29
settembre a pag. 96, e le altre che seguono sullo stesso argomento.

[411] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 201 e 202. Quello stesso
giorno 28 settembre, Paolo Vitelli scrisse da Cascina, dopo essere
stato fatto prigione, una lettera ad un tal Cerbone da Castello, la
quale si trova fra le _Carte del Machiavelli_, cassetta II, n. 75. Il
NARDI ci dice infatti (op. cit., vol. I, pag. 204) che questo Cerbone
fu preso ed esaminato, e che gli si trovarono addosso lettere e carte
che si riferivano al Vitelli. Vedi la lettera in _Appendice_, documento
X.

[412] _Opere_, vol. V, pag. 364.

[413] Archivio dei Frari, Consiglio dei Dieci, Misti, vol. 275, anno
1495-98, carte 213^t. Il primo a richiamare l'attenzione su questi
documenti e sulla loro importanza fu il BROSCH, nell'_Historische
Zeitschrift_ del SYBEL (XXXVIII, 165). Risulta da essi, che i Veneziani
trattarono a lungo con Piero dei Medici per rimetterlo in Firenze
con l'aiuto del Vitelli, discorrendo i modi e le condizioni. Vedi
_Appendice_, documento XI.

[414] Dalle notizie che il Machiavelli mandava, nell'aprile e luglio
1499, a Francesco Tosinghi, commissario nel campo di Pisa, risulta
manifesto che i Fiorentini, stretti dalla Francia e dal Moro, non
si dichiaravano, «temporeggiando coll'uno e coll'altro, usando il
benefizio del tempo.» Vedi nelle _Opere_, vol. VIII, la lettera V, in
data 6 luglio 1499, e le due precedenti.

La lettera del 27 settembre, da noi più sopra citata, nella quale i
Fiorentini, raccomandando che si pigliasse subito il Vitelli, dicevano
di esser decisi a far capire, «massime alla Cristianissima Maestà,» che
volevano essere rispettati, conferma che sospettavano davvero, che il
Vitelli, amico di Francia, menasse in lungo le cose, per vedere prima
l'esito della guerra in Lombardia.

[415] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 210.

[416] Il signor NITTI (op. cit., vol. I, pag. 67 e segg.) pubblica,
a questo proposito, una lettera che si trova fra le _Carte del
Machiavelli_ (cassetta I, n. 49) senza indirizzo, senza data e senza
firma. Egli, pur notandovi «il disordine delle idee e la eccezionale
verbosità,» la crede del Machiavelli perchè autografa. Io, per
le ragioni che dirò in _Appendice_, doc. XII, dove la ripubblico
riscontrata sull'originale, non la credo di lui. Osservo intanto che
fra le carte del Machiavelli sono più lettere o scritti non suoi, di
sua mano copiati, per obbligo d'ufficio o per altre ragioni. Un esempio
ce ne ha già dato il nostro documento IV.

Nel giugno 1501 fu preso ed esaminato un tale Piero Gambacorti,
che aveva servito i Pisani. Anche il suo processo, che trovasi
nell'Archivio fiorentino, è scritto in parte di mano del Machiavelli.
Interrogato come andò la cosa di Stampace, disse che i Pisani credevano
tutto perduto: «ogni uomo si abbandonò, et tutto il sabato et mezza la
domenica Pisa stette vostra.» Egli se ne andò, perchè non vi vedeva
rimedio; diversi soldati et conestabili s'apparecchiavano a partire;
«ma veduto che i vostri non seguivano la vittoria, si tornò ai bastioni
et alle mura.» Domandato se credeva che Paolo Vitelli avesse tradito,
rispose che non poteva affermare il tradimento, poteva bene affermare
che Pisa stette un giorno e mezzo nelle mani di lui. Che anzi lo
aveva in Faenza detto a Vitellozzo, il quale rispose, che non sapevano
allora in che termini si trovassero i nemici; che credevano aver fatto
abbastanza pigliando Stampace, e la volevano fortificare per prendere
poi la città; «et che la natura di Pagolo era di volere risparmiare e'
suoi fanti, et «nolli mettere ad pericolo.» Alcuni degli atti di questo
processo, vennero pubblicati dal PASSERINI nelle _Opere_ (P. M.), vol.
III, pag. 73 e seg. Ma neppur questi noi porremo fra le _Opere_ del
Machiavelli (sebbene scritti in parte di sua mano), perchè egli di
veramente suo potè mettervi poco o nulla.

[417] _Opere,_ vol. II, pag. 380. Intorno all'anno, in cui fu scritto
questo _Discorso fatto al Magistrato dei Dieci_, qualche dubbio può
nascere appunto dall'essere diretto ai Dieci, che nel 1499 non furono
eletti. Pure, leggendolo, riesce assai difficile metterlo in altro
anno, perchè accenna al _fresco esempio_ dei Veneziani, che avevano
abbandonato i Pisani, i quali si trovavano «non accettati da Milano,
discacciati dai Genovesi.» Ora il fatto dei Veneziani seguì nella
fine del 1498, e verso la fine del 1499 in Milano erano già entrati i
Francesi. Oltre di che, se i Dieci non furono eletti nel 1499, il loro
ufficio non fu soppresso, ma solo per alcuni mesi sospeso. Essi vennero
rieletti verso la fine del 1500, e intanto la loro cancelleria aveva
continuato sempre a trattar come prima gli affari della guerra, e così
era continuata come prima la serie dei loro protocolli e dei registri.

[418] NARDI, I, 209. Tra i _Sonetti_ del PISTOIA (Torino, Loescher,
1888) se ne trova uno (334), che incomincia:

    Pur tornò Italia al Duca di Milano.
      Chi negarà ch'el non sia un Dio in terra?
      Chi farà senza lui pace e guerra?
      Chi dirà ch'el non abbi il mondo in mano?

[419] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 209-10.

[420] Il PISTOIA, al solito, mutò ben presto linguaggio. Il suo Sonetto
378 finisce:

                    O Ludovico vale!
    Ch'io vedo la tua piaga di tal sorte
    Ch'el medico di lei serà la morte.

[421] Nell'Archivio fiorentino si trovano alcune lettere con le quali
si mandava Niccolò Machiavelli presso il Trivulzio, per determinare
queste somme. Ma poi, mutato avviso, le lettere non furono spedite, ed
egli non partì. Vedi _Opere_ (P. M.), vol. III, pag. 33 e seg.

[422] MOLINI, _Documenti di Storia italiana_: Firenze, 1836-37, vol.
I, pag. 32-36. Il DESJARDINS riporta un sunto della convenzione, cavato
dall'Archivio fiorentino. Vedi _Négociations_, ecc., vol. II, pag. 26,
nota 1.

[423] Il BUONACCORSI (_Diario_, pag. 30), nel determinare questa somma
è assai confuso, ci pare però d'averlo interpretato con precisione;
il NARDI (_Storia di Firenze_, vol. I, p. 223) copia letteralmente il
Buonaccorsi.

[424] Il BUONACCORSI nel _Diario_ dice, che s'erano fissati 5000
Svizzeri, ma che poi ne furono trovati 2000 di più, ai quali bisognò
pure dar due paghe; ma nell'_Impresa contro Pisa_, ecc. (_Arch. Stor.
It._, vol. IV, parte II, pag. 404), che discorre più specialmente di
questi fatti, dice invece che s'erano fissati 4000 Svizzeri e 2000
Guasconi; ma ne furono trovati 1200 di più, ai quali fu necessario dare
una paga, perchè se ne tornassero a casa.

[425] Una delle lettere dell'Albizzi, scritta il 24 giugno, era datata:
_Ex terribilibus Gallorum castris_, il che dimostra che già i guai
erano grossi. Essa trovasi inedita nell'Archivio fiorentino, ed è, come
la più parte delle altre che formano questa commissione, scritta di
mano del Machiavelli, ma poco importante.

[426] Tra le _Carte del Machiavelli_ (cassetta I, n. 83) trovasi una
narrazione dei fatti allora seguìti, scritta da Biagio Buonaccorsi e da
Agostino Vespucci, ambedue della cancelleria, e compilata per dovere
d'ufficio. In un punto il Buonaccorsi dice, che l'Albizzi non voleva
lasciar partire il Ridolfi, per non restar solo al campo, e nel margine
una nota d'altra mano scrisse: _Mentiris Blasi_. Là dove il medesimo
scrittore dice che l'Albizzi si governava in ogni azione sua con
prontezza d'animo, la stessa mano pose in margine: _Immo temerarie_.
Anche il BUONACCORSI, nella sua _Impresa contro Pisa_, ecc., rese la
più ampia testimonianza di lode al coraggio, che del resto, era assai
ben noto, dell'Albizzi. Le due postille marginali non sono di mano
del Machiavelli, come parve al Passerini, che pubblicò quel brano di
narrazione nel terzo volume delle _Opere_ (P. M.).

[427] Più tardi il MACHIAVELLI, ne' suoi _Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio_ (libro I, cap. XXXVIII), biasimò questo procedere dei
Fiorentini; ma di ciò non dobbiamo ora occuparci.

[428] Questa lettera trovasi con altre nell'Archivio fiorentino. Ne
parleremo più innanzi.

[429] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 32 e seg. Vedi anche l'_Impresa
contro Pisa_, ecc. dello stesso, nell'_Arch. Stor. It._, vol. IV, parte
2, p. 413 e seg. Iacopo Nardi, che copia il _Diario_, aggiunge che
i Francesi arrivarono fino a nascondere il pane ed il vino, per aver
pretesto di lamentarsi. NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, p. 227.

[430] Questa lettera, firmata dall'Albizzi, e scritta di sua mano, è la
prima fra quelle a stampa nella _Commissione in campo contro i Pisani_.
MACHIAVELLI, _Opere_, vol. VI, pag. 32.

[431] Porta la data: _Ex castris apud Pisas, die viiij iulii, hora
xiiij_. Nell'ultimo verso le stampe hanno tutte un _non mutino_, che
non ha senso. L'autografo in Archivio dice: _non muoino_. La lettera è
indirizzata ai Signori; ed accanto all'indirizzo è scritto:

    _ito_.
  C _ito_.
    _ito_.

[432] È la quarta fra le lettere pubblicate.

[433] La somma precisa è data con qualche lieve differenza dai diversi
storici. Si trova però determinata in una lettera dei Signori al
Courçon. _Carte del Machiavelli_, cassetta I, inserto 83, n. 6.

[434] Vedi la _Storia di Firenze_ del NARDI, il _Diario_ e la citata
_Impresa contro Pisa_, ecc. del BUONACCORSI.

[435] Vedile nella citata _Commissione_ a stampa, la quale, oltre
alcuni documenti, contiene quattro lettere. La prima è dell'Albizzi,
la seconda del Machiavelli, la terza del Bartolini e la quarta
dell'Albizzi. Solamente quella firmata dal Machiavelli è di sua
mano. Il PASSERINI ed il MILANESI, nella nuova edizione delle
_Opere_, ristampando queste lettere, dicono (vol. III, pag. 51):
«Giova avvertire che non abbiamo, siccome avremmo desiderato,
potuto aumentarne la serie, perchè così i registri dei carteggi
della Signoria, come quelli dei Dieci di questo tempo, mancano.» Ma
l'Archivio fiorentino contiene molte altre lettere inedite di questa
commissione nella filza segnata: Classe X, dist. 2, n. 44, o secondo
la nuova classificazione: _Signori, Carteggio, Responsive_, reg. 17.
Qualche altra se ne trova anche nella 3ª filza delle carte Strozziane
dello stesso Archivio.

Le lettere inedite, è ben vero, non sono importanti, ma non poche di
esse sono scritte di mano del Machiavelli, e firmate prima dall'Albizzi
e dal Ridolfi, poi, partito il secondo, solo dal primo. Sono di sua
mano quelle del 10 giugno, da Pistoia; 11 giugno, da Pescia; 18 giugno,
da Camaiore; 23 giugno, da Cascina; 24 giugno, presso Cascina; 24
giugno, da Cascina; 27 giugno, presso Campi. Sono anche di sua mano,
ed hanno qualche importanza, quelle del 26 giugno, presso Campi; 29
giugno, _ex Gallorum castris_; 30 giugno, dal campo (questa trovasi
a carte 159 della 3ª filza delle carte Strozziane); 2 luglio, _ex
Gallorum castris_. Tornano a non avere importanza quelle in data 4
luglio, dal campo; 6 luglio, dal campo (qui non v'è che una giunta
di mano del Machiavelli); 7 luglio, dal campo (nella 3ª filza, carte
Strozziane, a carte 160); dal campo, senza indicazione di giorno (3ª
filza, carte Strozziane, a carte 161); 11 luglio da Casciana (è firmata
dal nuovo commissario Vespucci); 12 luglio, da Empoli (non ha che una
postilla di mano del Machiavelli). Si trovano in Archivio anche altre
lettere, che fanno parte di questa commissione, ma non sono di mano del
Machiavelli. Non crediamo necessario pubblicarle in _Appendice_, perchè
troppe sarebbero allora le lettere da stamparsi. Per questa commissione
al campo di Pisa, il Machiavelli ebbe fiorini sei larghi in oro, «e'
quali fiorini se li danno et donano per remunerazione delle fatiche
vi sopportò, et pericoli vi corse.» Lo stanziamento fu pubblicato dal
PASSERINI, _Opere_ (P. M.), vol. I, pag. LX. La data è però, 28 agosto
1501, non 1500, come fu erroneamente stampato.

[436] BUONACCORSI, _Diario_ ed _Impresa_, ecc.; NARDI, _Storia di
Firenze_; GUICCIARDINI, _Storia d'Italia_: Pisa, Capurro, vol. III,
lib. V, pag. 11.

[437] Nel primo foglio d'uno dei registri dei Dieci (Archivio
fiorentino: _Lettere dei Dieci di Balìa_ dal 1500 al 1501, Cl. X, dist.
3, n. 93) si trova scritto: _Questo libro del C._ [Comune] _e per le
cose della guerra infra dominium, scripto per la seconda cancelleria,
cuius caput est Nicolaus Machiavellus, qui hodie mittitur ad regem
Francorum a Dominatione. Franciscus Della Casa itidem. XVIII Iulii,
1500, die Sabb._, ecc. Così quando era al campo di Pisa, in principio
d'un altro registro fu scritto: _Hic erunt literae de rebue bellicis
scriptae per Magnificum Dominum Marcellum ad commissarios in castris,
quo tempore Nicolaus Maclavellus fuit apud commissarios_. Vedi il vol.
VI delle _Opere_, pag. 32, nota 1.

[438] Vedi la Commissione e le istruzioni in principio della Legazione.
_Opere_, vol. VI, pag. 48 e segg.

[439] I Fiorentini, dopo avere, nel giugno 1498, mandato tre
ambasciatori a congratularsi col Re della sua ascensione al trono,
elessero il 18 settembre 1499, Francesco Gualterotti e Lorenzo Lenzi.
A questi si unì anche il Salviati, per andare con essi fino a Milano,
a congratularsi col Re della vittoria ottenuta, e se i patti che
si riferivano a Pisa non erano ancora firmati, farli firmare. I due
ambasciatori seguirono in Francia il Re, che partì da Milano il 22
novembre 1499. Vedi DESJARDINS, _Négociations_, ecc.

[440] MACHIAVELLI, _Opere_, vol. VI, pag. 54.

[441] Nella sua lettera del 30 luglio, il Machiavelli diceva: «per
essere (_noi_) uomini senza danaro e senza credito.»

[442] Il 27 agosto 1500, Totto scriveva al fratello Niccolò
Machiavelli, che, dopo quindici giorni continui di premure fatte da
lui, i Signori avevano pareggiato gli stipendî. Gli aggiungeva che
nella primavera aveva speso per lui 11 fiorini, e gliene aveva dipoi
mandati altri 50. La lettera trovasi nelle _Carte del Machiavelli_,
cassetta I, n. 8, e fu pubblicata dal NITTI, _Machiavelli nella vita e
nelle dottrine_, vol. I, pag. 89. L'aumento, di cui si parla, cominciò
solo dal 28 agosto, come apparisce dagli stanziamenti in Archivio. (Cl.
XIII, dist. 6, n. 64, a c. 90^t).

[443] Lettera del 12 agosto, firmata dal solo Machiavelli.

[444] Vedi le lettere del 29 agosto e del 3 settembre.

[445] La Corte del Re è descritta nella seconda lettera del 12 agosto.

[446] Lettera del 7 agosto.

[447] Dalla lettera del dì 11 agosto si vede che il cardinale di Rouen
non conosceva la nostra lingua, giacchè i due oratori sono costretti a
tradurgli in francese una lettera italiana. Neppure il Re la parlava,
ma il Rubertet sì.

[448] Secondo una lettera dei Signori, in data 30 luglio 1500, al
Gualterotti e al Lenzi, il Courçon s'era trattenuto una sera solamente
al campo, «dove non vediamo, in sì breve tempo, come possa aver
satisfatto alla Maestà del Re, circa lo investigare le cause e li
autori dei disordini seguìti quivi.» (_Carte del Machiavelli_, cassetta
I, inserto 83, n. 4). Il PASSERINI la pubblica nelle _Opere_ (P. M.),
vol. III, p. 111, come una lettera dei Dieci; ma i Dieci non erano
ancora stati rinominati. In essa è detto che, quando i Fiorentini
addussero al Courçon le ragioni per le quali credevano di non dover
pagare i Tedeschi, aveva risposto: che chi «voleva disputare con
Tedeschi di ragione, era uno spezzarsi il capo.» Allude agli Svizzeri
tedeschi, che erano stati al Campo di Pisa.

[449] Lettera del 27 agosto.

[450] Lettera del 29 agosto, da Melun.

[451] Lettera del 14 settembre.

[452] Lettere del 2 e dell'8 ottobre.

[453] Lettera dell'11 ottobre, da Blois. Da questa lettera si vede che
il Machiavelli parlava in latino col cardinale di Rouen.

[454] Lettera del 4 novembre da Nantes. Qui pare che la conversazione
venisse fatta in francese.

[455] Lettera del 21 novembre. Questa è diretta ai Dieci stati rieletti
nel settembre, cosa di cui il Machiavelli s'era rallegrato nella sua
del 2 ottobre.

[456] _Principe_, cap. III, in fine.

[457] A Firenze lo chiamavano Scurcigliato, Scorciato o Scruciato, e
così anche il Machiavelli nelle sue lettere. Egli era della famiglia
De Scruciatis di Castelluccio, nobili napoletani; fu giudice della
Vicarìa, consigliere di Santa Chiara, avvocato fiscale, e si trovò fra
coloro che giudicarono Antonello Petrucci e gli altri della congiura
dei baroni. Ferdinando di Napoli lo aveva come uno dei suoi più fidi
strumenti, e se ne giovò molto nel commettere le sue maggiori iniquità.
Più tardi però, caduta la fortuna degli Aragonesi, il De Scruciatis
li abbandonò, per darsi ai Francesi, che nel 1499 lo nominarono
Senatore di Roma. Seguì poi il campo francese, ebbe molti incarichi e
commissioni anche in Toscana, commise molte e molte ribalderie, e finì
in Roma inquisitore del Santo Uffizio.

[458] Questa lettera del Buonaccorsi trovasi, come le altre sue, fra
le _Carte del Machiavelli_, (cassetta I, n. 7). Vedila in _Appendice_,
documento XIII.

[459] Archivio fiorentino: _Consigli Maggiori, Provvisioni_, registro
191, a carte 26.

[460] Pubblicata dal PASSERINI nelle _Opere_ (P. M.), vol. III, pag.
279. Dovevano pagare la somma di 500 fiorini, di cui metà andava
all'offeso, un quarto al magistrato che la esigeva, un quarto serviva
a riparare le fortezze di Pistoia. Vedi anche _Sommario della Città_ e
_Sommario del Contado_, che si trovano fra le _Carte del Machiavelli_
(cassetta I, n. 12), e furono pubblicati dal PASSERINI, _Opere_ (P.
M.), vol. III, pag. 355. Essi non sono altro che i provvedimenti
deliberati e le norme da seguirsi, per pacificare la città ed il
contado. Sono carte d'ufficio senza valore letterario, e non possono
andare fra le _Opere_ del MACHIAVELLI, non essendo neanche scritte di
sua mano.

[461] _Opere_ (P. M.), vol. III, pag. 299. Seguono altri ordini e
ragguagli, che non sono scritti di mano del Machiavelli. Il suo nome
si trova scritto a piè di questa e di altre lettere pubblicate dal
Passerini. Bisogna però notare che la firma del Machiavelli, la quale
assai spesso non è neppur di sua mano, indica solo l'approvazione data
dal capo della cancelleria, e qualche volta anche da chi ne faceva le
veci. Perciò la troviamo messa così alle lettere scritte da lui, come a
quelle dei suoi coadiutori: qualche volta anzi la firma non autografa
del Machiavelli si trova sotto lettere dirette a lui stesso fuori di
Firenze. E però solo le lettere autografe si possono con sicurezza
attribuire a lui.

[462] Era chiamato indistintamente_ Dionigi Naldi, Naldo_ e _di Naldo_.

[463] Vedi la lettera dei Dieci, del 3 maggio, Opere (P. M.), vol. III,
pag. 298.

[464] Grandissimo è il numero delle lettere in questi mesi scritte dal
Machiavelli, le quali si trovano autografe nell'Archivio fiorentino. Ne
citiamo solo alcune, che ci sembrano più notevoli, e sono nella filza:
Classe X, dist. 3, n. 95, a carte 12, 18, 30, 92, 103, 163^t, 183, ecc.

[465] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 239; BUONACCORSI,
_Diario_.

[466] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXII, pag. 237.

[467] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 243.

[468] _Arch. Stor. It._, vol. XV, pag. 269. Secondo questa,
convenzione, il Duca doveva essere pronto a difendere la Repubblica con
300 uomini d'arme, ad ogni richiesta; in caso d'altra impresa, doveva
esserne avvertito tre mesi innanzi, e non era obbligato d'andare in
persona; ma chiamato in tempo utile, poteva essere obbligato d'andare
coi Francesi all'impresa di Napoli. Quest'ultima clausola conveniva al
Duca, perchè, sapendo egli già di dovere andare coi Francesi, avrebbe
avuto il danaro senza altri obblighi; conveniva ai Fiorentini, perchè,
avendo preso impegno di aiutare il Re con uomini d'arme, potevano,
quando vi fossero stati in un modo o l'altro costretti, con una
medesima somma adempiere i due obblighi.

[469] Il BUONACCORSI, nel suo _Diario_ (pag. 44 e 45), non parla
dell'andata nell'Elba; ne parlano però il NARDI e il GUICCIARDINI
(_Storia d'Italia_). Questi poi, nella sua _Storia Fiorentina_ (cap.
III, pag. 244), dice che il Valentino cacciò allora il Signore di
Piombino, il che seguì invece più tardi.

[470] Anche in questi mesi sono moltissime nell'Archivio fiorentino le
lettere, ancora inedite, scritte dal Machiavelli in nome dei Dieci.
Ne accenniamo solo qualcuna. Una del 18 maggio annunzia la condotta
fatta col Valentino (Classe X, dist. 3, n. 96, carte 23). Un'altra
del 28 dello stesso mese (ivi, a carte 41) dice che il Valentino,
sopraggiunto, «colle sue innumerabili dishonestà, ha lacero et affamato
la metà del paese nostro.» Una terza in data 2 giugno ordina di mandare
via da Cascina donne e fanciulli, a cagione dell'esercito che passa.
Una quarta, senza data (a carte 57 della stessa filza), ordina che si
lascino libere le genti prese al Valentino, ad eccezione di Dionigi
Naldi. Una del 16 luglio (a carte 77 retro) è diretta a Luigi Della
Stufa, cui ordina di calmare le parti in Scarperia, e tener d'occhio le
genti di Vitellozzo comparse colà.

Molte altre se ne trovano nella filza seguente, notata col numero 97.
Diamo in _Appendice_, documento XIV, quella del 7 maggio a Giuliano
Caffino. Con una lettera del 7 luglio si scrive a Piero Vespucci:
T'imponiamo di non dare salvacondotto ad Oliverotto di Fermo. Se l'hai
dato, ritiralo, e scrivi «che sia ritenuto e svaligiato, trattato da
inimico» (a carte 73). Il dì 8 luglio allo stesso: Siamo lieti degli
ordini dati contro Oliverotto. Si aspettano in Pisa 40 cavalli di don
Michele. Se vengono «t'ingegnerai svaligiarli e trattarli da nemici.»
Non andare però a cercar briga, che non vogliamo nuova guerra, se
non la cercano essi, come sarebbe quando mandassero gente in Pisa (a
carte 74). Il 13 ai commissarî di Livorno e Rosignano: Il signor di
Piombino ci scrive che sono comparse sessanta vele di Turchi presso
Pianosa, e pare vadano a Genova. Se sbarcano per cercar vettovaglie,
lo permetterete, dicendo che siamo amicissimi del loro Signore. Se poi
vogliono avanzarsi, cercherete fermarli, pigliando tempo per aspettare
ordini (a carte 77). E così infinite altre.

[471] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 53.

[472] Vedi nel DESJARDINS (_Négociations_, ecc., vol. II, pag. 43-69)
le varie istruzioni date agli ambasciatori in Francia.

[473] MACHIAVELLI, _Opere_ (P. M.), vol. III, pag. 330 e 332.
Nell'agosto di quell'anno era stato inviato anche a Siena presso
Pandolfo Petrucci, a Pistoia ed a Cascina. Vedi i documenti a pag. 358
dello stesso volume. Un altro documento lo farebbe credere inviato nel
maggio a Bologna presso Giovanni Bentivoglio, ma non si riscontra che
v'andasse poi di fatto.

[474] Vedi nelle _Opere_ (vol. VI, pag. 166) la lettera della Signoria,
in data 26 ottobre 1501, quasi tutta di mano del Machiavelli. Il
GUICCIARDINI (_Storia Fiorentina_, pag. 269-70) parla di questi
disordini del contado.

[475] _Opere_ (P. M.), pag. 352.

[476] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 49-53; GUICCIARDINI, _Storia
Fiorentina_, cap. XXIII.

[477] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXI. Questa imposta
era gravissima, se non che parte di essa veniva messa a credito del
contribuente, sotto forma d'imprestito, come osserva il CANESTRINI nel
suo libro, _La Scienza e l'Arte dì Stato_: Firenze, Le Monnier, 1862.

[478] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXIII.

[479] DESJARDINS, _Négociations_, ecc., vol. II, pag. 69-70.

[480] L'ambasciatore veneto scriveva da Roma il 7 giugno 1502, che
l'affare d'Arezzo era «pratica vecchia del Duca;» e il 20 giugno
aggiungeva, che il Papa, sempre «intento alle passion sue particolari,»
e sebbene la Francia avesse fatto gagliarda protesta per l'affare
d'Arezzo, non parlava che di questa e delle altre imprese del Duca.
Vedi i _Dispacci_ di A. GIUSTINIAN.

[481] NARDI, _Vita di Antonio Giacomini_; JACOPO PITTI, _Storia
Fiorentina_, pag. 77 e seg. (nell'_Arch. Stor. It._, vol. I). Il Pitti
dice che i Dieci furono rieletti nel settembre del 1500.

[482] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 54 e seg.

[483] Guidobaldo da Montefeltro, duca d'Urbino.

[484] La parte principale di questa lettera, con alcune del Soderini,
demmo in fine del vol. I dei _Dispacci_ di A. Giustinian. Il PASSERINI
pubblicò tutta la legazione, nella quale, come dicemmo, due sole
lettere sono del Machiavelli. _Opere_ (P. M.), vol. IV.

[485] Lo dice, come vedremo fra poco, lo stesso Machiavelli.

[486] Lettere del 1º e 12 luglio, nell'Archivio fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 101, a carte 2 e 24. Vedi _Appendice_, documenti XV e XVI.

[487] Lettere del 2, 4 e 15 luglio, negli _Scritti inediti_ pubblicati
dal CANESTRINI, pag. 3, 5 e 8.

[488] DESJARDINS, _Négociations_, ecc., vol. II, pag. 70.

[489] Vedi in _Appendice_, documento XVII, la lettera del 24 luglio, e
vedi anche la lettera del 30 luglio nel CANESTRINI, _Scritti inediti_,
pag. 19.

[490] L'ambasciatore veneto a Roma scriveva chiaro, nel luglio
1502, che il Papa aveva dovuto, per ordine della Francia, imporre a
Vitellozzo ed agli Orsini di ritirarsi da Arezzo; ma che non aveva vero
desiderio di rimettere i Medici in Firenze, perchè essi erano amici
degli Orsini, i quali egli voleva _sradicare_. Vedi i _Dispacci_ di A.
Giustinian, specialmente quelli in data 1º e 7 luglio. Il BUONACCORSI
poi, a pag. 54 del suo _Diario_, dice che il Valentino si sarebbe ben
volentieri unito ai Fiorentini, per andare ai danni degli Orsini e dei
Vitelli, ma non osava scoprirsi, per paura di non trovare consenso.

[491] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 62.

[492] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 63; CANESTRINI, _Scritti inediti_,
pag. 21. Sono da notarsi anche le lettere del 4 agosto e seguenti,
nell'Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 100, a carte 68 e seg.

[493] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 101, a carte 104.

[494] Lettere del 3, 4 e 6 settembre 1502, nell'Archivio fiorentino,
Cl. X, dist. 3, n. 100, foglio 107, 109 e 111.

[495] Lettera dell'8 settembre, scritta _nomine Priorum_, loc. cit., a
c. 116. Altra lettera simile, in nome dei Dieci, trovasi negli _Scritti
inediti_, pag. 28 e 29.

[496] Vedi in MACHIAVELLI, _Opere_, vol. VI, pag. 182-84, varie lettere
che si riferiscono a queste gite.

[497] _Opere_, vol. II, pag. 385.

[498] Cioè: _uomini di Stato_.

[499] Vedi la nota 3, a pag. 369.

[500] _Consigli Maggiori, Provvisioni_, reg. 194, a carte 1.
GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, pag. 250-51; GIOVANNI CAMBI, nelle
_Delizie degli Eruditi toscani_, vol. XXI, pag. 172.

[501] _Consigli Maggiori, Provvisioni_, reg. 194, carte 11.

[502] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXV.

[503] NARDI, _Storia di Firenze_, vol. I, pag. 276. Del Machiavelli non
dice nulla.

[504] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXIV, a pag. 257-58, e
cap. XXV, a pag. 274.

[505] _Ibidem_, cap. XXV, pag. 278.

[506] Questa Provvisione (_Consigli Maggiori, Provvisioni_, reg. 194, a
carte 150) fu pubblicata dal signor LUCIANO BANCHI, in una _Raccolta di
scritture varie_, per le nozze Riccomanni-Fineschi: Torino, Vercellino,
1865. Vedi anche i documenti pubblicati dal RAZZI, nella _Vita di Pier
Soderini_: Padova, 1737.

[507] Il GUICCIARDINI (_Storia Fiorentina_, pag. 280-82) dà un assai
minuto ed esatto ragguaglio della provvisione. In questo luogo, come in
tutta la sua _Storia Fiorentina_, noi abbiamo potuto, riscontrandola
coi documenti originali, ammirare la straordinaria precisione
dell'autore, il quale qualche volta riporta le parole stesse delle
leggi e dei documenti, di cui discorre. Ciò prova che l'illustre prof.
Ranke s'ingannò nel giudizio troppo severo che fece degli studi, delle
cognizioni e della fedeltà storica del Guicciardini. Ben è vero che il
sommo storico tedesco non poteva, quando espresse quella opinione (_Zur
Kritik neuerer Geschichtschreiber_: Berlin, 1824), aver letto le _Opere
inedite_ del GUICCIARDINI, che lo fecero anche in Italia conoscere
sotto nuovo aspetto.

[508] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, pag. 200; BUONACCORSI,
_Diario_, pag. 64.

[509] Archivio Fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 101, a carte 134:
_Appendice_, documento XVIII. La lettera non è scritta, ma corretta di
mano del Machiavelli.

[510] Il codice di Giuliano de' Ricci ha infatti una lettera del
29 settembre 1502, con la quale il cardinal Soderini fa caldi
ringraziamenti al Machiavelli per le sue cordiali congratulazioni.

[511] Ne parlano il Burcardo ed il Matarazzo.

[512] La marchesa Isabella Gonzaga, donna di un sentire così nobile che
fa contrasto singolare con quello prevalente a' suoi tempi, era andata
a Ferrara per assistere a quelle feste, e scriveva al marito, che essa
le trovava insulse, e le pareva mille anni di tornare a Mantova, «sì
per vedere V. S. et lo mio figliolino, come per levarmi di qui dove
non se ha uno piacere al mondo.» (Lettera del 5 febbraio 1502). Fossero
pur belle, essa aveva già scritto, «senza la presenzia de V. S. e del
nostro puttino non me poteriano satisfare.» In mezzo a tanta allegria
ufficiale, la Gonzaga non s'illudeva punto, e notava: «a dire il vero,
son pur queste nozze fredde.» (Lettera del 3 febbraio). Vedi queste
bellissime lettere pubblicate dal signor CARLO D'ARCO nell'_Arch. Stor.
It._, Appendice, vol. II, pag. 300 e segg.

[513] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_.

[514] «Et è fama publica che li abbi avuti _in premium sanguinis_,
perocchè per molti evidenti segni se tien ch'el cardinale sia morto _ex
veneno_, e che questo Sebastian era stato el manigoldo....: el Papa lo
ha ricevuto _inter familiares_.» ANTONIO GIUSTINIAN, Dispaccio del 20
luglio 1502. Vedi anche quello del 19.

[515] Dispaccio del 24 luglio 1502.

[516] Dispaccio del 29 luglio.

[517] Dispaccio del 27 luglio.

[518] Dispaccio del 22 luglio 1502.

[519] A questo proposito la buona Isabella Gonzaga scriveva al marito:
Si dice che il Re di Francia vuol farvi cavalcare contro il Duca, ma
a me par che bisogna andar molto cauti, «perchè adesso non se sa di
chi fidarsi,» e fra poco si potrebbe di nuovo vedere il Re d'accordo
col Duca. (Lettera 23 luglio 1502). E non s'ingannava. Ella però non
si esprimeva così per simpatia che avesse verso il Valentino. Quando,
infatti, i Faentini difendevano valorosamente il loro Signore, aveva
invece scritto al marito: «Piacemi che li Faentini siano tanto fedeli
et costanti alla defensione del suo Signore chè recuperano lo onore de
Italiani. Così Dio gli conceda gratia di perseverare, non per augurar
male al Duca Valentino, ma perchè quel Signore nè il suo fedele popolo
non meritano tanta ruina.» (Lettera 20 aprile 1501). E il 3 luglio
dello stesso anno scriveva, che per l'anniversario della battaglia
di Fornuovo aveva ordinato, «sii celebrato uno officio per le anime
di quelli nostri valorosi homini, quali persero la vita per salvare
Italia, siccome _prudenter et pie_ mi ha commesso V. E.» Un tale
linguaggio è molto nobile, e però tanto più notevole nel secolo dei
Borgia e di Lodovico il Moro. Queste lettere furono anch'esse, insieme
con le altre, già citate, pubblicate dal D'ARCO nell'_Arch. Stor.
It._, Appendice, vol. II. — Altre lettere e documenti importanti hanno
ora date alla luce i signori A. LUZIO ed R. RENIER, nel loro libro:
_Mantova e Urbino — Isabella d'Este ed Elisabetta Gonzaga_: Torino,
Roux, 1893.

[520] Questa espressione si trova nella lettera scritta il dì 11
ottobre da Giovan Paolo Baglioni, uno dei congiurati, a messer Vincenzo
conte di Montevibiano, ultimo che tenesse l'ufficio di Podestà in
Firenze. Vedila insieme con altre pubblicate dal PASSERINI, _Opere_ (P.
M.), vol. IV, pag. 94 e seg.

[521] Questa data si cava dalle lettere sopra citate. V'erano però
state altre precedenti riunioni preparatorie, come apparisce dagli
storici e dalla _Legazione_ stessa del Machiavelli al Valentino in
Romagna.

[522] Lettere del Baglioni sopra citate.

[523] Voleva dire che si obbligavano ad assoldarli, ma ancora non li
avevano pronti; e però il Valentino, come vedremo, di ciò li canzonava.

[524] Una nota nell'edizione delle _Opere_ del MACHIAVELLI (vol.
VI, pag. 485), ripetuta nell'edizione Passerini e Milanesi, lo dice
veneto, citando una lettera del commissario d'Arezzo, la quale invano
cercammo e facemmo cercare nell'Archivio Fiorentino. Tutti gli altri
lo dicono spagnuolo; e quando fu condotto come capitano di guardia
dai Fiorentini, la deliberazione del 27 febbraio 1507 dice: «Dicti
Domini deliberarono, ecc.: Michele Corigla _spagnuolo_ si conducessi
per capitano....» Cl. XIII, dist. 2, n. 70 (_Deliberazioni dei IX
d'Ordinanza_), a c. 9^t.

[525] UGOLINI, _Storia dei Conti e Duchi d'Urbino_, vol. II, pag. 98 e
seg.

[526] Il mandare ambasciatori ai re, all'Imperatore, al Papa toccava
generalmente ai Signori, e non ai Dieci. Di questa disputa per la
elezione di un oratore al Valentino, parlano il PARENTI, _Storia di
Firenze_ (Biblioteca Nazionale di Firenze, stanza II, palchetto II,
Cod. 133, a carte 62), ed il CERRETANI, _Storia di Firenze_ (Ivi,
stanza II, palchetto III, Cod. 74, a c. 301^t). Vedi anche i _Dispacci_
di A. GIUSTINIAN, vol. I, pag. 181, nota 1.

[527] CERRETANI, loc. cit.

[528] Sebbene eletto nel settembre, il Soderini venne in Firenze
solo ai primi di ottobre, ed entrò in ufficio verso la fine del mese.
CERRETANI, Cod. cit., a carte 301^t e 302; PARENTI, Cod. cit., a carte
65.

[529] Il tempo preciso del matrimonio non ci è dato determinarlo; ma si
può affermare che seguì nell'anno 1502. Nel 1503 il Machiavelli ebbe
un figlio, come apparisce da più lettere del Buonaccorsi. Questi che
prima, nelle sue lettere a lui dirette, non parlava della Marietta,
durante la legazione al Valentino ne parla, come vedremo, in modo da
non lasciar dubbio che era già moglie. Il 27 ottobre 1502 anche gli
ambasciatori fiorentini in Francia, in una lettera al Machiavelli, che
citiamo più oltre, accennano alla sua moglie restata sola a Firenze.

[530] Il primo a darne la prova con autentici documenti fu il signor
INNOCENZIO GIAMPIERI, in un suo scritto sul Machiavelli, pubblicato nei
_Monumenti del Giardino Puccini_: Pistoia, tip. Cino, 1846.

[531] _Commissione a Niccolò Machiavelli, deliberata a dì 5 ottobre
1502: Opere_, vol. VI, pag. 185. È scritta in nome dei Signori, sebbene
il Machiavelli corrispondesse poi coi Dieci, da cui era stato inviato.

[532] La lettera è in data del 7 ottobre (_Opere_, vol. I, pag. 188),
il che prova che la _dieta_ tenuta alla Magione il 9, era stata, come
dicemmo, preceduta da altre.

[533] Lettera del 7 ottobre 1502.

[534] Lettera del 9 ottobre 1502.

[535] Prima lettera del 20 ottobre.

[536] Si trova nella Legazione: _Opere_, vol. VI, pag. 225.

[537] Lettera del 23 ottobre 1502.

[538] Lettera del 27 ottobre.

[539] Lettera del 1º novembre.

[540] Lettera dell'8 novembre.

[541] Vedila nelle _Opere_, vol. IV, pag. 264.

[542] Così il Machiavelli scriveva nella lettera del 13 novembre, ed in
quella del 20 raccontava d'aver detto al Duca, che per questa ragione
lo aveva giudicato sempre vincitore, e se avesse fin dal primo giorno
scritto quel che pensava, sarebbe sembrato un profeta. Più tardi,
di questa osservazione fece una delle sue teorie, dando come regola
generale, che ad uno il quale si trovi circondato da molti nemici,
riesce sempre facile indebolirli e vincere, perchè li può separare, il
che non è possibile ai suoi avversarî.

[543] Lettera dei Dieci, firmata Marcello, in data 11 novembre 1502.
Vedi _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 168. Lo stesso lamento ripeteva
nelle sue lettere il Buonaccorsi: _Appendice_, documento XIX.

[544] Lettera del 13 novembre.

[545] In una lettera del 18 novembre, il Buonaccorsi gli dice:
«Avendo tanta fermezza che non vi basta una hora ad stare in uno saldo
proposito.» _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 16. Ser Agostino
Vespucci da Terranova gli scriveva il 14 ottobre: _Vides igitur quo nos
inducat animus iste tuus equitandi, evagandi ac cursitandi tam avidus_.
Ivi, cassetta III, n. 38: _Appendice_, documento XIX.

[546] Il Buonaccorsi, il 18 ottobre 1502, gli scriveva ad Imola,
che la Marietta chiedeva di lui e si doleva che, avendo promesso di
stare assente soli otto giorni, tardasse poi tanto. Essa non voleva
scrivergli, «et fa mille pazzie...; sicchè tornate in nome del
diavolo.» _Carte del Machiavelli_, cass. III, n. 5. Ed in un'altra del
21 dicembre 1502 gli diceva: «Mona Marietta riniega Iddio, e parie
avere gettato via la carne sua e la roba insieme. Per vostra fe',
ordinate che l'abbia le dotte (_sic_) sua, come l'altre sue pari,
altrimenti non ci si harà patientia.... Io sono successo nel luogo
vostro, quando questi Dieci fanno certe cenuzze, ecc.» Ivi, cassetta
III, n. 17: _Appendice_, documento XIX.

[547] Lettera del 13 novembre 1502.

[548] Lettera del 14 dicembre. Il 27 giugno 1502 il vescovo Soderini
aveva scritto da Urbino alla Signoria, che il Duca gli aveva detto,
che «quanto alle cose dell'arme, di qui si regolava Roma, e non da Roma
qui.» _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 19.

[549] Il 22 novembre scriveva da Imola: «Oltre al vedere di non poter
fare cosa utile a cotesta Città, vengo in mala disposizione di corpo, e
due dì fa ebbi una gran febbre, e tuttavolta mi sento chioccio. Di più,
le cose mia non hanno costì chi le rivegga, e perdo in più modi.» Anche
da molte lettere degli amici suoi risulta che era costretto allora a
fare debiti. Ed in una del 6 dicembre (la prima di quel giorno) egli
scriveva, pregando al solito di avere licenza, «per tòrre questa spesa
al Comune, e a me questo disagio, perchè da dodici dì in qua io mi sono
sentito malissimo, e se io vo facendo così, dubito non avere a tornar
in cesta.»

[550] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 30. Il dì 11 ottobre
aveva scritto allo stesso: «Il discorso vostro et il ritratto non
potrebbe essere suto più approvato, et conoscesi quello che sempre
io in spetie ho cogniosciuto in voi, una necta, propria et sincera
relatione, sopra che si può fare buono fondamento.» Ivi, cassetta III,
n. 12: _Appendice_, documento XIX. Le medesime cose scrivevano i Dieci,
il Soderini, molti amici. Vedi fra le altre le lettere del Soderini, in
data 14 e 28 novembre, _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 169 e 201.

[551] La lettera di M. Virgilio è scritta in data 7 novembre 1502, e
trovasi fra le _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 32. In essa
dice che mal volentieri gli scrive queste cose, perchè «mi truovo con
le faccende mie, con le tue e con la lectione addosso.» Il che prova,
come altrove dicemmo, che il primo Segretario continuava ancora ad
insegnare nello Studio. _Appendice_, documento XIX.

[552] La lettera del gonfaloniere Soderini, scritta il 21 dicembre,
trovasi anch'essa fra le _Carte dei Machiavelli_, e fu pubblicata nelle
_Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 243. Vedi anche la lettera dei Dieci
pubblicata nello stesso volume, a pag. 239-41.

[553] Il 27 ottobre 1502 gli ambasciatori fiorentini in Francia, Luigi
Della Stufa e Ugolino Martelli, gli scrivevano: «Di voi avemo qualche
compassione, che avete lasciata la donna e la casa come noi, se non
giudicassimo che la profondità delle faccende di là vi debbino avere
oggimai infastidito, e che volentieri relassiate l'animo e riposiate
il corpo; che il mutare aria e vedere altri volti e massime di cotesta
qualità, suole assottigliare la mente; e però ce ne rallegriamo
con voi, e vi confortiamo che, avanzandovi tempo, non vi rincresca
scriverci qualche cosa.» _Opere_ (P. M.), vol. IV, pagine 133-34.

[554] Il PASSERINI, nelle sue note alla _Marietta de' Ricci_, romanzo
dell'Ademollo, disse addirittura, che il Machiavelli, credendo d'avere
nel Valentino «trovato lo strumento che mettesse ad esecuzione la sua
tanto idolatrata idea della libertà ed unione d'Italia, _lo istigava
al tanto famoso tradimento di Sinigaglia_.» (Nota 10 al cap. IV). Lo
stesso ripete nelle _Opere_ (P. M.). Questa stranissima opinione senza
verun fondamento storico, sostenuta prima e dopo anche da altri, fu,
tra i primi, combattuta energicamente dal Gervinus.

[555] Una lettera di Bartolommeo Ruffini, in data del 23 ottobre
1502, diceva: «Le vostre lettere a Biagio et alli altri sono a tutti
gratissime, et i motti e le facezie usate in esse muovono ognuno
a smascellare dalle risa. La donna vostra vi desidera, e manda qui
spesso ad intendere di voi e del ritorno.» _Carte del Machiavelli_,
cassetta III, n. 14. Lo stesso cavasi da molte lettere del Buonaccorsi:
_Appendice_, documento XIX.

[556] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 6. La sua affezione pel
Machiavelli era tale, che il 18 ottobre 1502, dopo avergliene scritto,
aggiungeva: «Di che io non voglio mi sappiate grado, perchè volendo non
amarvi e non esser tutto vostro, non lo potrei fare, forzato, dicasi,
dalla natura che mi costrigne ad farlo.» Ivi, cassetta III, n. 5:
_Appendice_, documento XIX.

[557] Lettera del 20 novembre.

[558] Lettera del 20 novembre. In un dispaccio del 7 agosto 1502, il
Giustinian scriveva, che il Papa confessava d'essere stato trascinato a
secondare Vitellozzo e gli Orsini nell'affare d'Arezzo. L'ambasciatore,
sempre accortissimo, ne induceva che egli parlava così, per mettere
le mani avanti, avendo forse scritto qualche lettera agli Orsini ed a
Vitellozzo, la quale poteva scoprirlo.

[559] Nel dispaccio del 13 novembre, il Giustinian scriveva che il Papa
gli aveva detto che gli Orsini tentavano di continuo i Fiorentini con
la speranza di dar loro Pisa, «e quei pazzi ci credono..., che per aver
Pisa darìano l'anima al diavolo, abbandonerìano il Re di Franza, noi e
tutto il mondo.»

[560] Prima lettera del 6 dicembre.

[561] Lettera del 28 novembre 1502.

[562] _Lettere di Piero Ardinghelli, Commissario fiorentino_ (tra i
Manoscritti Torrigiani), pubblicate da C. GUASTI, _Archivio Storico_,
Serie III, tomo XIX, pag. 21 e seg.

[563] È chiamato indistintamente messer Rimino o messer Ramiro d'Orco;
il suo vero nome era Remigius de Lorqua. Vedi i _Dispacci_ di A.
GIUSTINIAN, vol. I, pag. 226, nota.

[564] Lettera del 14 dicembre 1502, da Cesena.

[565] Lettere del 20 e 23 dicembre.

[566] GIUSTINIAN, dispaccio 29 dicembre, e nota allo stesso.

[567] Lettera del 26 dicembre, ultima fra quelle scritte da Cesena.

[568] Lettera del 23 dicembre 1502. — Il signor E. ALVISI nel suo
libro _Cesare Borgia_ (Imola, Galeati, 1878) ha pubblicato importanti
documenti, i quali provano che veramente questo messer Ramiro aveva
oppresso le popolazioni, andando qualche volta al di là, ed anche
contro gli ordini del Duca.

[569] Lettera del 26 dicembre. Nel _Principe_ (cap. VII) il
Machiavelli, accennando a questo fatto, dice che il Duca volle
liberarsi dall'accusa di crudele, venutagli dall'operare di messer
Ramiro, dopo che questi lo aveva liberato dai nemici. Vedi anche
_Dispacci_ di A. GIUSTINIAN, vol. I, pag. 293.

Nella stessa lettera il Machiavelli ringraziava i Dieci di avergli
mandato i 25 ducati d'oro e le 16 braccia di dommasco nero, di cui s'è
detto più sopra. Al quale proposito il Buonaccorsi gli scriveva il 22
dello stesso mese: «Voi sgallinerete pure un farsetto di questo drappo,
tristaccio che voi siete.» Vedi nelle _Opere_ la nota, a pag. 332 del
vol. VI.

[570] UGOLINI, _Storia dei Conti e Duchi d'Urbino_, vol. II, pag.
106-115.

[571] Lettera del 31 dicembre 1502.

[572] La lettera veramente dice solo che furono fatti morire, ma è noto
che vennero strangolati, e lo afferma altrove anche il Machiavelli. Nel
cap. VIII del _Principe_, egli narra che Oliverotto da Fermo, allevato
da suo zio Giovanni Fogliani, e mandato a militare sotto Paolo e poi
sotto Vitellozzo Vitelli, era divenuto il primo uomo nella milizia di
quest'ultimo. Volendo impadronirsi di Fermo, dove molti erano scontenti
dello zio, si mise prima d'accordo con alcuni della città, e poi gli
scrisse che voleva tornare a riveder lui e la terra natale. Entrò con
100 cavalli, e fu ricevuto con grande onore per opera dello zio; dette
un solenne desinare a lui ed ai primi uomini di Fermo, e poi li fece
tutti uccidere.

Niccolò Vitelli ebbe cinque figli, quattro dei quali morirono di morte
violenta. Il primo, Giovanni, d'una cannonata all'assedio d'Osimo; il
secondo, Camillo, d'un sasso a Circello nel Napoletano, combattendo pei
Francesi; Paolo fu decapitato; Vitellozzo strangolato.

Il GREGOROVIUS, ecc., _Geschichte_, vol. VII, pag. 483, osserva in
nota, come, a proposito di questo assassinio, il Giovio scrisse nella
sua Vita di Cesare Borgia, che questi aveva «con bellissimo inganno»
ammazzati gli Orsini; e il re di Francia aveva detto, secondo l'orator
di Ferrara, che era stata «un'azione da Romano.» I Veneziani invece
disapprovarono il fatto come assai crudele, ma l'oratore di Ferrara
colà scriveva che dovettero tacere, quando egli dimostrò loro che assai
bene avevano fatto Papa e Duca «_etiam_ a squartare costoro, per infino
all'ultimo esterminio di quella casa.» È singolare poi vedere che in
questo momento, Isabella Gonzaga, con lettera del 15 gennaio 1503,
mandava da Mantova 100 maschere al Duca, il quale assai la ringraziò
con lettera del 1º febbraio. Si leggano i documenti XLIV e XLV nella
_Lucrezia Borgia_, del GREGOROVIUS.

[573] Il cardinale Orsini.

[574] Lettera del dì 1º gennaio 1503.

[575]

    «Sentì Perugia e Siena ancor la vampa
      Dell'Idra, e ciaschedun di quei tiranni,
      Fuggendo innanzi alla sua furia scampa.»
                    MACHIAVELLI, _Decennale primo_.

[576] _Lettere di Piero Ardinghelli_, più sopra citate.

[577] Lettera del dì 8 gennaio 1503.

[578] Lettera del dì 10 gennaio.

[579] _Carte del Machiavelli_, cassetta I, n. 19, autografo. Questo
brano di lettera fu pubblicato nelle _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag.
254. Il Passerini la giudica scritta il 31 dicembre 1502; ma in essa
si dice già arrivato il nuovo ambasciatore, che il 13 gennaio 1503 era
ancora aspettato.

[580] Più volte infatti gli scrisse, che lo accusavano di far troppo
gran caso del Valentino.

[581] GIUSTINIAN, dispacci dei giorni 1, 7 e 18 ottobre 1502.

[582] Dispaccio del 22 ottobre.

[583] Dispaccio del 23 ottobre.

[584] Dispaccio del 24 ottobre 1502.

[585] GIUSTINIAN, dispaccio del 4 novembre.

[586] Cioè, il veleno a termine fisso. GIUSTINIAN, dispaccio del 6
novembre, e nota alla pag. 195 del vol. I.

[587] GIUSTINIAN, dispacci del 7 e 15 novembre e del 2 dicembre 1502.

[588] Dispaccio del 15 novembre 1502. È il secondo che fu scritto in
quel giorno, ed è segnato col numero 168.

[589] Dispaccio del 17 dicembre 1502.

[590] Dispaccio del 23 dicembre.

[591] Il BURCARDO nel suo _Diario_ racconta (il 25 dicembre) d'una
mascherata di trenta persone che vennero in Piazza San Pietro _habentes
nasos longos et grossos in formam priaporum sive membrorum virilium,
in magna quantitate, precedente valigia cardinalari_. Il Papa guardava
dalla finestra. Nelle feste natalizie dell'anno precedente si era,
secondo lo stesso scrittore, fatto anche peggio.

[592] GIUSTINIAN, dispaccio del 30 dicembre.

[593] Espressione usata dal Giustinian per significare che lo
lusingavano e blandivano.

[594] GIUSTINIAN, dispaccio del 1º gennaio 1503.

[595] Dispaccio del 5 gennaio 1503, ad ore 20.

[596] GIUSTINIAN, dispacci del 6 e dell'8 gennaio.

[597] Dispaccio dell'8 gennaio, _hora 19_.

[598] Dispaccio del 7 gennaio.

[599] Dispaccio dell'8 gennaio 1503, _hora 2 noctis_.

[600] GIUSTINIAN, dispaccio del 21 febbraio.

[601] Dispacci 22, 23 e 24 febbraio.

[602] _Quia idem Cardinalis diligebat et cognoscebat principissam,
uxorem fratris dicti Ducis, quam et ipse Dux cognoscebat carnaliter._
BURCARDO citato dal GREGOROVIUS, _Geschichte_, ecc., vol. VII, pag.
486, nota 4.

[603] Così racconta il BURCARDO nel suo _Diario_, il 23 gennaio 1503.

[604] GIUSTINIAN, dispacci 26 e 27 febbraio.

[605] Quando il Duca inganna gli Orsini, lo chiama _il basalischio_;
quando va verso Perugia, lo chiama _l'idra_; quando spera in Giulio II,
osserva:

    E quel Duca in altrui trovar credette
    Quella pietà che non conobbe mai.

Quando fu preso a tradimento, e fatto prigioniero da Consalvo di
Cordova, il Machiavelli dice:

                  gli pose la soma
    Che meritava un ribellante a Cristo.

E finalmente, narrata la morte di Alessandro VI, aggiunge:

    Del qual seguirno le sante pedate
      Tre sue familiari e care ancelle,
      Lussuria, Simonia e Crudeltate.

Vedremo quel che dice poi nella prima _Legazione_ a Roma.

[606] _Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di
Gravina Orsini. Opere_, vol. II, pag. 391 e seg.

[607] Tutte le edizioni dicono: «e per più _assicurarsi_, licenziò
le genti francesi;» ma l'autografo, che si conserva nell'Archivio
fiorentino (Carte Strozziane, filza 139, carte 208 e seg.) dice: «e per
più _assicurargli_,» cioè, per meglio ingannare i congiurati.

[608] Il 28 dicembre 1502 i Dieci scrivevano al commissario Giovanni
Ridolfi, in conseguenza delle notizie avute dal Machiavelli e da altri,
che non si capiva la ragione di questa improvvisa ritirata, non essendo
sorto pericolo in Lombardia. «Donde pare si possa concludere, che sia
suto solo a fine di raffrenare el corso di questa sinistra fortuna et
pensieri et disegni di accrescere.» In ogni caso era tutt'altro che
furberìa del Duca. (Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 104, fog.
59^t). Vedi anche A. GIUSTINIAN, _Dispacci_, vol. I, pag. 293, e doc.
III in fine dello stesso volume.

[609] PARENTI, _Storie Fiorentine_, Ms. nella Biblioteca Nazionale di
Firenze, Cl. II, Cod. 133, vol. V, a c. 87 e seg.

[610] _Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, fatto prima un
poco di proemio e di scusa_. Questo discorso fu pubblicato la prima
volta nell'_Antologia_ di Firenze (luglio 1822, tomo VII, pag. 3-10)
da un manoscritto autografo del Machiavelli; venne poi ristampato a
Milano, coi torchi di Felice Rusconi, 1823; nelle _Opere minori_ del
MACHIAVELLI: Firenze, Le Monnier, 1852; e nell'edizione (poco nota)
di tutte le _Opere_, fatta in Firenze, A. Usigli, 1857. Alcuni lo
credettero recitato dal Machiavelli nel Consiglio Maggiore; ma nè
egli, che come ufficiale amministrativo e stipendiato non vi poteva
essere ammesso a discutere e votare, nè altro cittadino, ad eccezione
del Gonfaloniere stesso, poteva tenere il linguaggio tenuto in quel
discorso. Nel Consiglio Maggiore allora o si votava senza parlare,
contro le proposte del governo, o si parlava in favore, per poi votare.
E non si parlava in nome proprio, ma delle varie _pancate_, in cui i
cittadini si dividevano a consultare sul partito da prendere: tutto
ciò sempre con infiniti riguardi. Il Parenti racconta d'un tale che
venne in questa occasione appunto imprigionato e poi esiliato, per
avere parlato con troppa vivacità contro le passate imposte. (Vedi
anche la mia _Storia di Girolamo Savonarola_, lib. II, cap. V, dove
ho minutamente esposto come si soleva procedere allora in Consiglio).
Nelle _Consulte_ o _Pratiche_, assai più ristrette, si discorreva
con maggiore libertà; ma oltre che non è credibile che il Machiavelli
v'intervenisse, il _Discorso_ di cui parliamo è diretto ai cittadini
in genere, ed ha tutta la solennità del linguaggio che si tiene in una
grande assemblea. Nè molto meno crediamo ammissibile l'altra ipotesi
che lo vuole indirizzato ai Dieci di Balìa, i quali erano i superiori
del Machiavelli. Esso è scritto per esser detto nel Consiglio Maggiore,
dove solo il Soderini poteva tenere quel linguaggio. Il Parenti
racconta, infatti, che il Gonfaloniere fece allora un discorso solenne;
e noi teniamo per certo che il Machiavelli lo componesse in questa
occasione, sia che gli venisse commesso, sia che lo scrivesse allora
come semplice esercizio letterario. Anco il Guicciardini ci lasciò
molti discorsi dello stesso genere, che sono, senza dubbio, semplici
esercizî letterarî, spesso anche destinati a far parte della sua
_Storia_.

[611] Vedi la _Commissione_ che gli fu data dai Dieci. _Opere_, vol.
VI, pag. 261.

[612] Lettera del dì 1º maggio 1503, nell'Archivio fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 104, a carte 157.

[613] Loc. cit., a carte 163.

[614] La prima probabilità era di 12, la seconda di 18 su 20, la lira
essendo di 20 soldi. Lettera del 14 maggio 1503, Cl. X, dist. 3, n.
103, a carte 172. Vedila in _Appendice_, doc. XX. Le filze 103 e 104
contengono un gran numero d'altre lettere del Machiavelli sullo stesso
argomento.

[615] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 108, a carte 7^t.

[616] Lettera del 25 maggio 1503, nell'Archivio fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 108, a carte 18.

[617] Vedi la lettera del 27 maggio in _Appendice_, doc. XXI, Cl. X,
dist. 3, n. 107, a carte 24.

[618] Lettera del 14 giugno, Cl. X, dist. 3, n. 107, a carte 47^t.
Vedila in _Appendice_, doc. XXII.

[619] Cl. X, dist. 3, n. 108, a carte 54.

[620] Lettera del 22 giugno 1503, nell'Archivio fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 108, a carte 58.

[621] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 108, a carte 111.

[622] GIUSTINIAN, dispacci dei giorni 1 e 28 febbraio, 1, 4, 8, 11
marzo 1503.

[623] Dispaccio 304, primo con la data del 3 marzo. Vedi anche quello
del 19 marzo.

[624] Dispaccio 29 marzo.

[625] Dispaccio 31 maggio.

[626] GIUSTINIAN, dispaccio del 13 aprile 1503.

[627] Dispaccio 8 giugno.

[628] Dispaccio 387, primo del 19 maggio 1503, e dispaccio 390, secondo
del 20 maggio.

[629] Questa lettera trovasi fra le _Carte del Machiavelli_, cassetta
I, n. 1, e venne pubblicata dal PASSERINI, _Opere_ (P. M.), vol.
IV, pag. 298. Se non che egli non interpretò bene il nome della
persona, di cui si parla, leggendo Noch, invece di Troche, e quindi
suppose che si trattasse d'un soldato ignoto. Nè si accorse che quel
foglio contiene solo una copia fatta dal Machiavelli della lettera
originale. Indotto forse in errore dall'aver questi un poco imitato
la firma convenzionale, che il Valentino usava specialmente nelle
lettere d'ufficio, suppose che fosse un ordine scritto dal Machiavelli
e firmato dal Valentino. Dovè quindi supporre una gita ignota del
Segretario fiorentino a Roma, e ne prese occasione a ritornare
sull'altra sua ipotesi, che questi cioè fosse stato il consigliere
della politica e degli assassinii del Valentino. Tutto ciò va in
fumo quando si osserva il documento. La firma del Valentino non è
autografa, ma imitata; manca quella di Agapito, che trovasi in tutti
gli ordini del Valentino; non v'è sigillo nè bollo di alcuna sorte, e
la lettera non ha indirizzo: dietro v'è però scritto, sempre di mano
del Machiavelli e con qualche abbreviazione: _1503, di messer Troche_.
Il signor NITTI, op. cit., vol. I, pag. 223-24, nota (1), osservando
che il 16 maggio il Machiavelli scriveva una lettera da Firenze, dubita
giustamente della supposta gita a Roma; fa però un'altra ipotesi non
meno impossibile, che il Valentino cioè mandasse al Machiavelli un
foglio in bianco, colla sola sua firma, perchè questi vi scrivesse
sopra l'ordine, nel modo che credeva. L'egregio signor Nitti però
ha dovuto in quel momento dimenticare affatto chi erano i Borgia e
chi era il Valentino, per poter fare una tale ipotesi. Perchè poi si
dovesse mandare al Machiavelli una firma in bianco, trattandosi solo di
scrivere una circolare come quella, non si capisce; ed in ogni caso il
Valentino non avrebbe mai fatto tal cosa neppure con Agapito, con don
Micheletto o chiunque dei suoi più fidi, fra i quali non si potrà mai
mettere il Machiavelli. Notiamo in fine che non solo il 16, ma il 17,
il 18, il 19, il 21 maggio, questi scriveva lettere da Firenze, come
apparisce dai Registri dei Dieci nell'Archivio fiorentino (Cl. X, dist.
3, n. 108, da carte 2 a carte 12). La sua gita a Roma è, quindi, non
solo improbabile, ma impossibile. Il Troccio fuggì da Roma il 19 maggio
(GIUSTINIAN, dispaccio 19 maggio), e l'ordine d'arrestarlo è datato da
Roma lo stesso giorno. Il Machiavelli dunque non può averlo scritto in
nessun modo.

[630] GIUSTINIAN, dispaccio dell'8 giugno 1503. Vedi in _Appendice_,
doc. XXIII, la lettera dell'ambasciatore ferrarese Beltrando Costabili,
in data 11 giugno, citata anche nella _Storia_ del GREGOROVIUS. Parrà
singolare che un uomo come il Troccio s'occupasse di poesia; eppure ciò
apparisce da due sue lettere, in cui chiede con grande premura alcuni
sonetti alla marchesa di Mantova. Vedi anche, nella _Lucrezia Borgia_
del GREGOROVIUS, i documenti 42 e 43. Del resto simili fatti non erano
punto rari nel Rinascimento italiano, come prova la vita di Sigismondo
Malatesta di Rimini. È noto anche che il capitano G. G. Trivulzio,
sopra tutte le cose perdute nella presa di Milano, deplorava quella di
un Quinto Curzio, facendo grandi promesse e ricerche per averlo.

[631] Dispaccio 19 giugno e nota.

[632] GIUSTINIAN, dispaccio del 2 agosto 1503.

[633] Dispaccio dell'8 giugno.

[634] GIUSTINIAN, dispacci del 7 e 8 giugno 1503.

[635] Dispaccio del 29 maggio.

[636] Dispacci de' 7 giugno e 31 luglio.

[637] GIUSTINIAN, dispaccio del 7 agosto, e nota 1 a pag. 99 del vol.
II.

[638] Dispaccio del 13 agosto.

[639] Sebbene il Burcardo ed il Giustinian vadano d'accordo nei
ragguagli che danno, pure fu osservato come il primo afferma che al
Papa furono, il 15 agosto, cavate 13 once di sangue vel circa, quando
invece il secondo scrive che già il 14 gli furono cavate, chi diceva
12 e chi 14 once di sangue. È però da osservare ancora che il Burcardo
non dice nulla addirittura del giorno 14, e che nel giorno 15, il
Giustinian, scrive nuovamente d'un salasso di otto once di sangue,
aggiungendo essergli impossibile aver notizie veramente precise e
sicure su tutti questi particolari.

[640] Anche il Burcardo la chiama, nel _Diario, febris tertiana_.

[641] «Dux nunquam venit ad Papam in tota eius infirmitate nec in
morte, nec Papa fuit unquam memor sui vel Lucretiae, in aliquo minimo
verbo, etiam in tota sua infirmitate.» BURCHARDI, _Diarium_, Ms. della
Biblioteca Nazionale di Firenze, tomo IV, a carte 1. L'ediz. Thuasne
(III, 239) dice: «nec in sua infirmitate.»

[642] GIUSTINIAN, dispacci 484-87, in data del 18 agosto 1503.

[643] Nel Sanuto si trovano ragguagli che portano questa somma fino
a 500,000 ducati. Noi stiamo a quella più generalmente ripetuta dagli
scrittori.

[644] BURCHARDI, _Diarium_, tomo V, a carte 1 e seg.

[645] «Et continuo crevit turpitudo et negredo faciei, adeo quod
hora vigesima tertia qua eum vidi, factus erat sicut pannus vel morus
nigerrimus; facies livoris tota plena; nasus plenus; os amplissimum;
lingua duplex in ore, quae labia tota implebat; os apertum et adeo
horribile, quod nemo viderit unquam, vel esse tale dixerit.» BURCHARDI,
_Diarium_, ediz. Thuasne, I, 243. E andò divenendo sempre più orribile,
come dicono del pari gli ambasciatori Costabili, Giustinian, ecc.

[646] GIUSTINIAN, dispaccio del 19 agosto, _hora 24_.

[647] «Et cum pugnis pestarunt eum ut capsam intraret, sine intorticiis
vel lumine aliquo, et sine aliquo presbitero vel persona una vel
lumine.» BURCHARDI, _Diarium_, loc. cit.

[648] Lettera del 22 settembre 1503, in GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_,
documento 49. Più tardi il cadavere di Alessandro VI fu dalle Grotte
Vaticane portato in San Giacomo degli Spagnuoli, e poi in Santa Maria
di Monserrato, dove si trova con quello di Calisto III, dietro l'altar
maggiore, senza alcuna iscrizione. Anche quella che era stata messa in
Santa Maria del Popolo alla Vannozza ed ai figli, fu tolta.

[649] Il Giovio afferma che il cardinale gli disse di credere, che la
sua malattia era conseguenza del veleno datogli dai Borgia. Se non che,
le affermazioni del Giovio non sono sempre credibili, e poteva anche
il cardinale, che pur s'era ammalato, credere d'avere avuto il veleno,
quando da per tutto se ne parlava, senza che perciò il fatto fosse
vero.

[650] Sebbene anche gli scrittori più sinceramente cattolici abbiano
dovuto riconoscere le colpe, i delitti e la pazza politica dei Borgia
in genere e di Alessandro VI in specie, pure non mancarono mai gli
apologisti, e neppure oggi, nonostante i molti nuovi documenti che
parlano sempre più chiaro, mancano coloro che vorrebbero attenuare
il giudizio severo della storia imparziale. A questa tendenza noi
crediamo che abbia obbedito il signor R. GARNETT (_English Historical
Review_, aprile 1892, pag. 312-14) nel ripubblicare una parte della
orazione funebre in onore di Alessandro VI, scritta e letta dal Vescovo
di Gallipoli, dinanzi ai Cardinali che dovevano entrare in Conclave.
Egli vorrebbe in essa trovare un'attenuazione autorevole dei giudizî,
secondo lui, troppo severi di molti storici sui Borgia. Quale era il
valore storico delle orazioni funebri ufficiali, pronunziate nei secoli
XV e XVI, lo sanno tutti; e nessuno può, io credo, dare importanza a
certe frasi convenzionali, in simili occasioni, allora universalmente
ripetute.

Mi sembra piuttosto, che sia una prova sicura della pessima opinione,
che tutti avevano allora di Alessandro VI, il sentir l'oratore
ufficiale pronunziare, dinanzi ai Cardinali, molti dei quali creati
dallo stesso Papa, parole come queste: «Quid plura? Adeo et sermone
et ingenio confidebat ut videretur non quid aggrediendum, sed quid
cupiendum cogitare. Unde tantam auri vim in pontificatu collegit,
quantam nec ipse fortassis si viveret, rationem reddere posset. Forma
etiam oris proceritateque corporis, ut nostis, egregius fuit. His
autem naturae fortunaeque dotibus quomodo usus fuerit, quid apud vos
attinet dicere, qui bene et fortasse melius nostis? Habet enim hoc
etiam infelicitatis principatus, quod, in excelso positus, nihil celare
potest.» E più oltre, dopo aver detto che una _quatriduana febris_
lo portò via dal mondo, aggiunge, confermando sempre più le parole
del Giustinian circa la morte e i funerali, d'averlo visto, «humili
feretro iacentem, turpem, fetidum, et usque ad horrorem deformem.»
Questa orazione parrà di certo una conferma assai notevole del pessimo
concetto in cui i contemporanei tenevano Alessandro VI, specialmente
se si pensa chi era l'oratore, chi erano gli uditori e quali erano il
tempo ed il luogo in cui essa fu letta.

[651] _Et nescit quo se vertit, nec ubi reclinet caput._ GIUSTINIAN,
dispaccio 489, secondo del 19 agosto 1503.

[652] Una lettera, in data 8 novembre 1503, firmata: _Sigismundus
doctor et clericus senensis_, e indirizzata ad Alessandro Piccolomini,
nipote di Pio III, dopo aver lodato la bontà di questo Papa, dice che
esso «non poter morir in miglior termine che ora, che era esaltato in
questa felicità, et prima che in quella lui si venissi a imbrattare;
chè chi è in quello luogo, non può far di manco.... Lui non ha facto
simonie; non ha fatto guerre a christiani; non ha facto homicidî,
nè impiccar, nè far iustitia; non ha dissipato el patrimonio di San
Pietro in guerre, in bastardi, nè in altra gente.» — Tale era il
concetto, in cui erano allora tenuti i Papi! Questo Sigismondo, nato
a Castiglione Aretino, eletto nel 1482 cittadino senese, fu autore di
storie scritte in latino. La sua lettera venne pubblicata a Siena co'
tipi dell'Ancora, nel 1877, per le nozze Piccolomini-Giuggioli, dal
compianto signor Giuseppe Palmieri-Nuti.

[653] Circolare del 20 agosto 1503, nell'Archivio fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 108, a carte 129. Molte altre lettere del Machiavelli si
trovano nella stessa filza. Citiamo solo quelle a carte 136, 139 e 148
che ci sembrano più importanti.

[654] Lettera del 25 agosto, loc. cit., filza 107, a carte 136, e
lettera del 12 settembre, a carte 156.

[655] Lettera del 5 ottobre ad Americo Antinori, filza 107, a carte
171. Vedi _Appendice_, documento XXIV.

[656] Fino dal 28 agosto era stato deliberato di mandarlo a Roma, come
apparisce dai registri dei Dieci. Ma poi non partì altrimenti, e più
tardi fu di nuovo deliberata la sua commissione. Le istruzioni e la
lettera al cardinal Soderini, si trovano con la _Legazione_, nelle
_Opere_, vol. VI, pag. 364 e segg.

[657] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 83 e segg.

[658] Lettera del 29 ottobre 1503.

[659] GIUSTINIAN, dispaccio del 19 ottobre.

[660] GIUSTINIAN, dispaccio del 30 ottobre.

[661] Dispaccio del 6 novembre.

[662] Lettera del 4 novembre.

[663] Questa lettera, senza data, è la IX nella _Legazione. Opere_,
vol. VI, pag. 388.

[664] Lettera dell'11 novembre.

[665] Francesco Loris, vescovo d'Elna. Spesso lo dicono d'Euna,
d'Herina, d'Helna. Pel vero suo titolo vedi i _Dispacci_ di A.
GIUSTINIAN, vol. I, pag. 247, nota 1.

[666] Lettera del 14 novembre.

[667] Le due lettere di raccomandazione si trovano nelle _Opere_ (P.
M.), vol. IV, pag. 349.

[668] Lettera del Buonaccorsi, in data 15 novembre 1503, _Carte del
Machiavelli_, cassetta III, n. 21: _Appendice_, documento XXV. Vedi
anche a questo proposito la lettera dei Dieci. _Opere_ (P. M.), vol.
IV, pag. 361.

[669] Lettera del 18 novembre. Il Giustinian scriveva il 17 dello
stesso mese: «Il Papa attende alla destruzion del Duca, ma non vuol che
para la cosa vegni da lui.» E il 13 aggiungeva, che il Papa stesso gli
aveva detto: «Questo Duca è tanto volubile e inintelligibile, che certo
non sapremo come dei fatti suoi possiamo affermarvi alcuna cosa....;
lassatelo pur andar, che credemo che sarà svalizato.»

[670] Lettera del 18 novembre.

[671] Lettera del 19 novembre.

[672] Trovasi nelle _Opere_, vol. VI, a pag. 430, in nota.

[673] Lettera del 20 novembre.

[674] Lettera del 24 novembre.

[675] Lettera del 21 novembre. Nella lettera seguente il Machiavelli
chiede danari ai Dieci, e fa loro i suoi conti. Ebbe in sul partire
33 ducati. Ne spese 13 nelle poste, 18 in una mula, 18 in una veste di
velluto, 11 in un catelano, 10 in un gabbano, il che fa un totale di 70
ducati. Era all'osteria con due garzoni e la mula, spendendo 10 carlini
al giorno. Sebbene gli avessero dato il salario che aveva chiesto,
pure non conosceva allora la carestìa che era in Roma. Chiedeva
perciò che gli fosse almeno pagata la spesa del viaggio, come soleva
praticarsi cogli altri. Il suo desiderio fu esaudito. Infatti trovasi
nell'Archivio fiorentino uno stanziamento del 3 gennaio 1503 (1504),
in cui è detto che, essendogli stato concesso un salario di 10 lire
di piccoli al giorno, compreso in ciò il suo ordinario stipendio, gli
toccavano dal 23 novembre al 22 dicembre lire 300. Cavandone lire 164,
soldi 3, danari 4, per salario ordinario, restavano lire 132, soldi 12,
danari 8, di cui si ordinava il pagamento, con più 25 fiorini larghi in
oro, e lire 6 di piccoli, che «appare per il conto, lui havere speso
per andare ad Roma, et tornare in sulle poste.» _Opere_ (P. M.), vol.
I, pag. LXII.

[676] Lettere del 23 e 24 novembre.

[677] Lettera del 26 novembre. È inutile quasi avvertire, che molti
brani di queste lettere erano scritti in cifra.

[678] Prima lettera del 28 novembre.

[679] Lettera del 15 novembre, citata più sopra.

[680] Lettera del 29 novembre. Vedi ancora il dispaccio scritto nel
medesimo giorno dal Giustinian. I due oratori dànno qualche volta le
stesse notizie quasi con le stesse parole, caso che non è molto raro
nelle corrispondenze diplomatiche di quel tempo. In parte dipende
dalla fedeltà e precisione degli ambasciatori italiani; in parte, io
credo, anche dal servirsi dei medesimi agenti segreti nell'attingere le
notizie, o dall'aver letto di straforo i medesimi documenti, le stesse
frasi trovandosi riprodotte nelle lettere non di uno o due solamente,
ma anche di più oratori. Nel pubblicare i _Dispacci_ del GIUSTINIAN, ci
è più volte occorsa questa osservazione, quando li abbiamo paragonati
con quelli di altri oratori.

[681] Lettera del dì 1º dicembre.

[682] Lettera del 3 dicembre.

[683] Vedi la lettera del 29 agosto 1502, pubblicata nel già citato
libro dei signori LUZIO e RENIER, a pag. 142. Tutto il cap. III dà
particolari e documenti importanti su questo dramma doloroso.

[684] Questa importantissima lettera fu trovata e pubblicata
dall'UGOLINI nella sua _Storia dei Duchi d'Urbino_, vol. II, pag. 523.
Manca la data del giorno, essendovi scritto solo: _Dat: Romæ V....
1503_.

[685] Lettera del 14 dicembre. Il 17 il Giustinian dava i medesimi
ragguagli.

[686] Trovasi nelle _Opere_, vol. VI, pag. 494, in nota.

Fra le lettere di questa _Legazione_ se ne trova una, segnata nelle
_Opere_ col numero XLII, e diretta ad un cittadino fiorentino in forma
privata. Il Machiavelli scrive in essa di non poter fare altro che
ripetere alla buona le cose già dette d'ufficio: «parlerò in volgare,
se io avessi parlato con l'ofizio in grammatica, che non mel pare
aver fatto.» Generalmente si suppone che sia scritta al Soderini: ma,
a questo proposito, osserva giustamente il signor NITTI (op. cit.,
vol. I, pag. 261), che la forma ne è troppo familiare per poterlo
credere. Egli la ritiene, invece, scritta ad un messer Tucci, che era
allora dei Signori, e che, secondo una lettera del Buonaccorsi, in
data del 4 dicembre, s'era molto doluto che il Machiavelli non gli
avesse risposto; nè è impossibile che sia così, giacchè questi si
scusa appunto del suo silenzio. La cosa del resto non ha importanza.
Solamente notiamo che lo scrivere _in volgare e non in grammatica_ non
ha il significato di risentimento che gli attribuisce il signor Nitti,
e che verso uno dei Signori il Segretario non avrebbe usato, come
egli suppone, «vive e pungenti parole.» La lettera del Buonaccorsi,
accennata dal signor Nitti, contenendo anche altre notizie sul
Machiavelli, la diamo in _Appendice_, documento XXVI.

[687] _Opere_, VI, 495. L'originale trovasi nelle _Carte del
Machiavelli_, cassetta III, n. 130, e non è scritto di mano di M.
Virgilio, come afferma il PASSERINI, _Opere_ (P. M.), vol. V, pag. 3,
nota 1, ma di altro ufficiale della Cancelleria, con qualche postilla
messa dal Machiavelli per suo uso. La minuta, non intera, che v'è
unita, è della stessa mano, e non del Machiavelli, come afferma il
Passerini.

[688] Lettera del 22 gennaio 1504, da Milano.

[689] Il signor GASPAR AMICO, a pag. 182 del suo libro, _La Vita di
Niccolò Machiavelli_ (Firenze, Civelli, 1875), parla d'una gita finora
ignota del Machiavelli in Francia, nel gennaio del 1502, e cita, in
conferma di ciò, una lettera, che crede inedita, di Francesco Vettori,
in data del 17 gennaio di quell'anno, da Pulsano. La lettera però,
che trovasi non a carte 8, ma 83 del codice da lui citato (Archivio
fiorentino, Cl. X, dist. 4, n. 92) è scritta da Bulsano (Bolzano), e
porta la data, non del 17 gennaio 1502, ma del 17 gennaio 1507, quando
il Vettori era ambasciatore presso l'Imperatore. Al signor Amico è
inoltre sfuggito, che la lettera da lui pubblicata è quella stessa che
trovasi come terza nella _Legazione all'Imperatore_, nel 1507.

Una lettera poi di Niccolò Valori (_Carte del Machiavelli_, cassetta
III, n. 63) dà luogo ad una serie di congetture del signor NITTI
(op. cit., vol. I, pag. 220, nota 1), che a noi sembrano assai poco
probabili. Egli vede in essa la prova che il Machiavelli s'adoperasse
col Valori a «ricondurre all'antica intima unione la casa Borgia
col re di Francia.» Il Machiavelli avrebbe seguìto una politica per
conto suo, cercando col Valori riannodare legami, pei quali essi non
avevano ricevuto alcun incarico. Ma il Segretario dei Dieci non poteva
pigliarsi queste libertà. Del resto tutto l'equivoco è nato dal non
avere osservato che la data della lettera: Rouen, 7 marzo 1503, è
secondo lo stile fiorentino, e risponde perciò al 7 marzo 1504, nello
stile moderno. Allora Alessandro VI era morto, il Valentino era stato
arrestato ad Ostia, e non contava più nulla. La lettera fu scritta
dal Valori, quando il Machiavelli dalla Francia tornava in Firenze,
ed accenna ad alcuni affari, di cui doveva per viaggio occuparsi a
benefizio della Repubblica, in nome e per ordine del Gonfaloniere
stesso. Non v'è quindi nulla di misterioso, e non c'entrano i Borgia.

[690] _Opere_, vol. VI, pag. 564.

[691] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXVIII.

[692] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 88-89.

[693] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 113, foglio 32.

[694] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXVIII, pag. 315.

[695] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, foglio 89^t:
_Appendice_, documento XXVII.

[696] Fra le _Carte del Machiavelli_ (cassetta VI, n. 78): trovasi
su tutto ciò una relazione fatta dal Buonaccorsi. Il Bentivoglio
dichiarava impossibile l'impresa anche perchè, secondo lui, dalla parte
dello stagno bisognava percorrere circa sette miglia, ed il terreno
pendeva meno che da quella su cui scorreva il fiume. «Queste ragioni,
quale sono tutte palpabile et infalibili,» conchiude il Buonaccorsi,
«_tamen_ non furono admesse. La experientia ha chiarito ogni homo.»

[697] Cioè: questa cosa che par tanto facile, riuscirà nel fatto assai
difficile. Lettera ai Dieci, del 25 agosto 1504. _Arch. Stor. It._,
vol. XV, pag. 296. Il NARDI, _nella Vita di Antonio Giacomini_, dice:
«Fu commessa tale opera ad Antonio, ed egli la faceva conducere con
ogni diligenza e sollecitudine, comecchè da lui e da messer Ercole
Bentivogli non fusse approvata, come spesa e fatica inutile.»

[698] Anche questa lettera del Giacomini trovasi pubblicata nell'_Arch.
Stor. It._, vol. XV, pag. 306; la concessione della licenza chiesta, e
l'annunzio della nomina del Tosinghi sono nell'Archivio fiorentino, Cl.
X, dist. 3, n. 113, a carte 125^t.

[699] Vedi Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a carte 94 e
103^t, e n. 113, a carte 96^t. Queste due filze sono piene di lettere
del Machiavelli sul deviare l'Arno.

[700] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 93 e seg.

[701] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 113, a carte 152 e 154.
Vedi in _Appendice_, documento XXVIII, la prima di queste due lettere.

[702] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 113, a carte 147^t.

[703] Il bando trovasi, loc. cit., n. 112, a carte 156: _Appendice_,
doc. XXIX. Vedi anche GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXVIII,
pag. 314-15.

[704] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a carte 160^t.

[705] Loc. cit., a carte 157^t: _Appendice_, documento XXX.

[706] Il cardinale Soderini scriveva da Roma al Machiavelli, il 26
ottobre 1504: «Assai c'è doluto che in quelle acque si sia presa tanta
fallacia, che ci pare impossibile sia stata senza colpa di quelli
maestri, che si sono ingannati sì in grosso. Forse anche che piace
così a Dio, a qualche miglior fine incognito a noi altri.» _Carte del
Machiavelli_, cassetta III, n. 58.

[707] _Opere_, vol. V, pag. 351-73.

[708] Ivi, a pag. 355.

[709] Ciò apparisce dalla lettera 5 del Buonaccorsi pubblicata in
_Appendice_, documento XXXVIII.

[710] La prima edizione, fatta nel febbraio 1506 da AGOSTINO VESPUCCI,
aveva per titolo queste parole: _Nicolai Malclavelli florentini,
compendium rerum decennii in Italiam gestarum ad viros florentinos
incipit feliciter_. Essa venne dopo venti giorni contraffatta, ed il
Vespucci ne mosse querela agli Otto, del che parla in una sua lettera
al Machiavelli, nella quale aggiunge che, non conoscendo i magistrati
«questa vostra cantafavola,» egli era uscito di casa con dieci copie,
per farle legare elegantemente, e darne poi una a ciascuno di loro e
ad altri due cittadini. La lettera è in data del 14 marzo 1506, e fu
pubblicata dal PASSERINI, _Opere_ (P. M.), vol. III, pag. LXIII. Questa
rarissima edizione del _Decennale_, senza data di luogo nè d'anno, fu
dal Libri creduta del 1504; ma la lettera del Vespucci leva, secondo
noi, ogni dubbio. — Il signor GIUSEPPE TORRE (_Bibliofilo_, anno
II, n. 5: Firenze, Success. Le Monnier, 1881), dice che possiede un
esemplare della prima e rarissima edizione del _Decennale_, e torna a
sostenere che è del 1504, ma senza argomenti che possano convincere.
Tutto si riduce a dire che, trattandosi di libri, l'autorità del Libri
deve aver molto valore, e che il libraio inglese Boone affermava aver
visto l'esemplare posseduto dal Bembo, il quale di sua mano vi aveva
scritto sopra: _stampato a Venezia nel 1503_. Ma il _Decennale_ così
sarebbe stato stampato un anno prima che fosse scritto. In ogni modo
l'esemplare posseduto dal signor Torre, secondo la descrizione che ne
dà egli stesso, è in-4, di 12 carte. Il titolo latino è quello stesso
che abbiam dato qui sopra. Sulla prima pagina è stampato solamente:
_Decemnale_; sulla seconda c'è questa lettera del Vespucci.

    «_Augustinus Mathei N. V._
    _Viris Florentinis Salutem._

Se le cose pericolose a passare sono dilectevole ad ricordarsene, la
memoria de proximi tempi vi doverrà esser grata, sendo suti quelli
pericolosissimi. Onde havendoli Niccolò Machiavegli in versi et con
mirabile brevità descripti, come quello che desideroso in qualche parte
mostrarsi grato de molti honori, quali confessa havere ricevuti da voi;
mi è parso imprimerli, et fare questo suo dono più liberale.»

Il TOMMASINI pubblicò la medesima lettera dall'autografo, che trovasi
in un manoscritto strozziano della Nazionale di Firenze, nel quale
essa è più lunga assai. Quella a stampa ne sarebbe solo la prima
metà. Secondo lui le parole, _Augustinus Matei N. V. Viris Florentinis
Salutem_, provano che il Vespucci dedicò la stampa ai (Nobili o Nostri)
Cinque Conservatori del Contado e dominio fiorentino, magistrato
autorevole della Repubblica fiorentina.

[711] Questa lettera fu pubblicata dal NITTI, vol. I, pag. 301, in
nota. Trovasi fra le _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 99.

[712] Vedi nella Biblioteca Nazionale di Firenze il _Priorista_ del
RICCI, quartiere Santo Spirito, famiglia Machiavelli, a carte 161 e
seg.

[713] Lettera del 9 dicembre, nell'Archivio fiorentino, Cl. X, dist.
3, n. 113, a carte 211^t: _Appendice_, doc. XXXI. Nelle filze 114
e 116 sono molte lettere del Machiavelli relative ai fatti, di cui
discorriamo ora.

[714] È notevole, fra le altre, la lettera al Capitano di Livorno.
Archivio fiorentino, filza 116, a carte 23: _Appendice_, documento
XXXII.

[715] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a carte 69 e 70.

[716] MATARAZZO, _Cronaca di Perugia_, nell'_Arch. Stor. It._, vol.
XVI, parte II, pag. 59.

[717] Le sue lettere trovansi a Venezia nella Biblioteca di San Marco:
_Epistolae Variorum_, vol. II, Cl. X, codice CLXXVI. Esse sono scritte
in italiano, spesso aggiungendovi il Cardinale, di suo pugno, qualche
parola in spagnuolo. E per citare un esempio, in quella del penultimo
luglio, scritta da Perugia, chiedendo soldati per tenere a dovere le
genti di Todi e di Narni, prima di firmare, egli fa nuove premure in
spagnuolo, concludendo col dire che quelle tumultuose popolazioni _no
obeyexen perque son vilans i mala gent, que volen lo basto y que quyls
ha de governar los puga manar, que altrament no sen pot aver overa_. E
firmava generalmente: _De V. S. esclav e factura, qui los benerats peus
li besa_,

  _lo Car.al de Boria._

[718] MATARAZZO, op. cit., pag. 130-144.

[719] MATARAZZO, op. cit., pag. 150.

[720] _Ibidem_, op. cit., pag. 241.

[721] Vedi la _Legazione_ nelle _Opere_, vol. VII.

[722] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 102-103. Ascanio Sforza aveva da
lungo tempo aspirato a governare Milano. Fin dal 10 settembre 1487,
l'ambasciatore Lanfredini in Roma scriveva a Lorenzo il Magnifico,
che il cardinale Ascanio gli aveva detto: «Io sono advisato da Milano,
che il signore Lodovico è gravemente malato, et che sanza la grazia di
Dio non può scapolare di questo male, et li medici ne parlano chiaro.
Io, quando Dio facessi altro di lui, desidererei, come mi pare sia il
dovere, di andare ad quello ghoverno, et nessuno credo li sia ad chi
tocchi più che ad me, nè di chi quello Stato et quello signore» (il
nipote Giovan Galeazzo ancora minorenne) «possa viver più quieto, per
esser io suo barba, et _etiam_ per essere nello habito che io sono di
religione.» Chiedeva poi, per mezzo dell'ambasciatore, di essere a ciò
aiutato da Lorenzo. Vedi le _Lettere dell'ambasciatore Lanfredini_,
nell'Archivio fiorentino, _Carte Medicee_, filza LVIII.

[723] Vedi la _Commissione_, nelle _Opere_, vol. VII, pag. 13. Nelle
_Opere_ (P. M.), vol. V, pag. 103 e seg., sono pubblicati i Capitoli
proposti per la condotta.

[724] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a carte 151:
_Appendice_, documento XXXIII. Vedi anche CANESTRINI, _Scritti
inediti_, pag. 188, 190-91.

[725] Lettere del 28 giugno: Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n.
116, a carte 143.

[726] _Ibidem_, n. 116, a carte 141^t: _Appendice_, documento XXXIV.

[727] Vedi questa _Legazione_ nelle _Opere_, vol. VII, pag. 16 e segg.

[728] Lettera del 17 luglio.

[729] Lettera del 18 luglio.

[730] Lettera del 20 luglio.

[731] Lettera del 21 luglio, _hora_ 19.

[732] Lettera del 21 luglio.

[733] Lettera del 23 luglio.

[734] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 114, a carte 173.
_Ibidem_, n. 116, a carte 171^t: _Appendice_, documento XXXV.

[735] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a carte 178^t.

[736] Loc. cit., a carte 191^t: _Appendice_, documento XXXVI.

[737] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 113. La sera stessa il Giacomini
scrisse ai Dieci una lettera, in cui narrava la rotta data all'Alviano.
_Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 11: vedi _Appendice_,
documento XXXVII.

[738] Anche la lettera del Bentivoglio è in data del 17 agosto, e
trovasi fra le _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 10.

[739] BUONACCORSI, _Diario_, pag. 115-17; CANESTRINI, _Scritti
inediti_, pag. 205 e seg.; GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap.
XXVIII, pag. 321-22; NARDI, _Vita di A. Giacomini_; PITTI, _Vita di A.
Giacomini_, nell'_Arch. Stor. It._, vol. IV, parte II.

[740] Vedi le tre lettere dei Dieci, non scritte dal Machiavelli,
pubblicate nelle _Opere_, vol. VII, pag. 48-55.

[741] Vedi la _Vita del Giacomini_ scritta dal NARDI, e l'altra scritta
dal PITTI.

[742] Vedi la _Istruzione_ al Machiavelli, nelle _Opere_, vol. VII,
pag. 64.

[743] Lettera del 29 agosto da Civita Castellana, e dell'ultimo
d'agosto da Viterbo.

[744] Lettere del 9 settembre da Castel della Pieve, e del 12 settembre
da Corciano.

[745] Lettera del 13 settembre.

[746] Lettere del 16 e 19 settembre da Perugia.

[747] Lib. I, cap. XXVII.

[748] Vedi le lettere del Buonaccorsi nell'_Appendice_, docum. XXXVIII.

[749] _Principe_, cap. XI.

[750] Lettera del 25 settembre da Urbino.

[751] Prima lettera del 28 settembre.

[752] Lettere del 3, 4 e 5 ottobre.

[753] Lettera del 10 ottobre da Forlì.

[754] Lettera del 17 ottobre 1506, pubblicata nelle _Opere_ (P. M.),
vol. V, pag. 231, nota 1.

[755] Vedi il brano di documento riferito dal CANESTRINI negli _Scritti
inediti_ del MACHIAVELLI, _Prefazione_, pag. XXXVI.

[756] È la novella XL della parte I: _Inganno usato da una scaltrita
donna al marito, con una subita astuzia_. Il Machiavelli incomincia a
narrarla così: «Io, Signor mio, porto ferma opinione, che se questa
mattina voi non mi levavate d'impaccio, noi ancora ci troveremmo
in campagna, al sole.» Vedi anche il _Proemio_ che è indirizzato a
Giovanni dei Medici, e nel quale l'autore, dopo raccontato l'aneddoto,
dice: «Vi prego bene a considerare che messer Niccolò è uno dei belli
e facondi dicitori e molto copioso della vostra Toscana, e che io sono
lombardo; ma quando vi sovverrà che è scritta dal vostro Bandello, che
tanto amate e favorite, io mi fo a credere, che non meno vi diletterà
leggendola, di quello che si facesse allor che fu narrata. State sano.»

[757] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXIX, pag. 324.

[758] _Due scritture inedite_ di Niccolò Machiavelli, pag. 11: Pisa,
Nistri, 1872. Furono pubblicate dal prof. A. D'ANCONA per le nozze
Cavalieri-Zabron. Solo la prima di esse tratta dell'Ordinanza, ed era
stata già pubblicata nel 1868 dal Ghinassi, per nozze Zambrini-Della
Volpe: Faenza, tipografia di Pietro Conti. Queste pubblicazioni per
nozze sono spesso così difficili ad aversi ed a conoscersi, che come
il D'Ancona, diligentissimo, non conobbe quella del suo predecessore,
così altri potrebbe ignorare o non trovare la sua. E però noi diamo in
_Appendice_, documento XXXIX, quella relativa all'Ordinanza.

[759] _Appendice_, documento XXXIX.

[760] _Ibidem._ Il Canestrini (_Arch. Stor. It._, vol. XV, pag. 258)
pubblica un documento _per la condotta di conestabili_, senza data,
senza nome d'autore, e dice che forse potrebbe essere del Machiavelli.
Io non lo credo, ed in ogni caso esso non parla dell'_Ordinanza_, ma
della _condotta di conestabili_ con soldati _provvigionati_.

[761] Queste due lettere del cardinal Soderini, ed un'altra dello
stesso, che citiamo più basso, trovansi fra le _Carte del Machiavelli_,
e furono la prima volta pubblicate dal PASSERINI nel _Periodico di
Numismatica e Sfragistica_, anno VI, fasc. VI, pag. 303-06: Firenze,
Ricci, 1874. Vennero poi quasi per intero ripubblicate dal NITTI, op.
cit., vol. I, pag. 340 e segg. Dalle _Carte del Machiavelli_ vedesi,
che sin dal 1504 egli scriveva sulla milizia al cardinal Soderini,
il quale gli rispondeva, fra le altre, con una lettera in data del 29
maggio dello stesso anno. Vedi cassetta III, n. 57.

[762] Così apparisce da una lettera di Roberto Acciaioli al
Machiavelli, che si trova nella Bibl. Naz. (_Carte del Machiavelli_,
cassetta IV, 59) e fu pubblicata dal TOMMASINI (I, 354, in nota).

[763] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XXIX, pag. 323. La
proposta fu deliberata dai Dieci il dì 1 aprile 1506, col titolo di
capitano, non di bargello.

[764] Lettera del 12 giugno 1506, nell'Archivio Fiorentino, Cl. X,
dist. 3, n. 121, a carte 1^t.

[765] Il GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, pag. 324, dice che i fanti
erano esercitati «in ordinanza, al modo svizzero.» Molte occasioni
aveva allora avute il Machiavelli di conoscere in Italia la milizia
svizzera e la tedesca.

[766] _Opere_, vol. VII, pag. 56-58; _Opere_ (P. M.), vol. V, pag. 141.

[767] CANESTRINI, _Scritti inediti_, pag. 284 e seg.

[768] GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, pag. 324-25; Opere (P. M.),
vol. V, pag. 147, nota 2.

[769] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 121, a carte 1^t (citato
più sopra).

[770] Vedi le molte lettere nell'Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3,
n. 120 e 121.

[771] Qui era nella Relazione aggiunto: _Et ne avete mandati 500 in
campo_. Queste parole furono poi cancellate, forse per non ricordare
che le prove da essi fatte non erano state sempre felici.

[772] Al quale proposito il Machiavelli dice nella Relazione: «Et
così verrebbero sempre ad havere in confuso el loro superiore, et
riconoscere un pubblico et non un privato.» È sempre la medesima
diffidenza.

[773] Vedi nelle _Opere_, vol. IV, pag. 427 e seg., la provvisione. Le
parole qui sopra citate sono a pag. 444.

[774] La deliberazione del 27 febbraio trovasi nell'Archivio
fiorentino, Cl. XIII, dist. 2, n. 70 (_Deliberazioni dei IX
d'Ordinanza_), a carte 9^t. Il primo Registro delle _Deliberazioni
dei Nove_, dal 1506 al 1511 (Archivio fiorentino, Cl. XIII, dist.
2, n. 70), è fin dalla prima pagina scritto di mano del Machiavelli.
Si era poi così certi che egli sarebbe stato, in ogni caso, nominato
cancelliere dei Nove, che il 28 dicembre 1506 Agostino Vespucci, uno
dei suoi coadiutori, gli scriveva per essere anch'egli trasferito a
servizio dei Nove, che dovevano avere, oltre il cancelliere, uno o più
ufficiali: «Pregovi mi vogliate in questi casi havere per raccomandato;
et veggiendo voi sia il bisogno mio più sicuro che dove io sono,
operiate sì et in tal modo, io sia uno di quelli coadiutori, _cum
pro certo habeam, fore ut tu sis Cancellarius illorum Novem, ni locum
tuearis quo nunc frueris, quod Deus avertat_.» _Carte del Machiavelli_,
cassetta IV, n. 93.

[775] _Periodico di Numismatica e Sfragistica_, loc. cit.

[776] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 2, n. 18, a carte 16. Manca
l'anno, che però s'argomenta chiaro dal contesto della lettera.
Non è l'originale, ma una copia del tempo, e non fu pubblicata dal
Desjardins. Piero Alamanni, inviato dagli Otto di Pratica presso
Lodovico il Moro, teneva corrispondenza diretta anche con Piero de'
Medici, da cui certo aveva ricevuto particolari istruzioni, come
solevano fare i Medici con gli oratori della Repubblica.

[777] Le lacune accennate con punti, senza porre in nota alcuna
avvertenza, indicano i brani che si sono tralasciati, perchè di nessuna
importanza.

[778] Bartolommeo Calco, segretario del duca di Milano.

[779] Intendi: — egli, il Moro.

[780] Al Moro non era mai riuscito avere assicurazione scritta
dell'amicizia di Piero, che dava buone parole a tutti, ma in realtà
favoriva i Reali di Napoli.

[781] Il cardinale Ascanio Sforza.

[782] Giovan Francesco Sanseverino, conte di Caiazzo.

[783] Di Napoli.

[784] Qui intende dire, che da un momento all'altro, mutando politica,
potrebbe accordarsi con Napoli.

[785] Perrone de' Baschi.

[786] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 4, n. 54, a carte 53.

[787] Questa lettera, che dovrebbe avere la data del 16 giugno 1497,
manca nel Codice.

[788] _Carte del Machiavelli_, cassetta I, n. 73. Abbiamo in questo
scritto (forse giovanile) del Machiavelli conservata l'ortografia
dell'autografo anche nelle sue diversità.

[789] Salmo LXXIII, versetti 5, 6 e 7.

[790] L'autografo italiano dice: _prelati_; ma l'originale latino ha
invece: _praeclari_.

[791] Prima lezione, poi cancellata: _acciò che dessino loro_.

[792] Prima lezione, come sopra: _et_.

[793] _IV Re_, cap. VIII, versetto 12.

[794] Qui l'originale latino aggiunge: _ut putrefactis cadaveribus,
quos adire non poterant, arcente murorum defensione, corporum
liquescentium_ (Vandali) _enecarent foetore_.

[795] Papianus.

[796] _Posui ori meo custodiam, cum consisteret peccator adversum me.
Obmutui et humiliatus sum et silui a bonis._ Salmo XXXVIII, versetti 2
e 3.

[797] Qui il testo dice invece: _atque tractatibus popularibus, quos
Graeci Homilias vocant_.

[798] Il testo dice: _Quarum unam illarum, id est Siciliam, Odoacro
Italiae regi postmodum tributario iure concessit_.

[799] _Carte del Machiavelli_, cassetta I, n. 54. Fu scritta in cifra,
trovasi deciferata di mano del Machiavelli, ma accenna a lui come a
terza persona, e neppure dallo stile si può credere che sia sua. La
diamo solamente perchè ha qualche relazione con le prime due lettere
che abbiamo di lui. Vedi il testo, lib. I, cap. I.

[800] Prima era scritto: _ti scrivèmo el priore et io_; poi è stato
cancellato e sostituito: _ti scripse_.

[801] Nel _Quaderno di ricordanze_ da noi citato (lib. I, cap. I), si
trova scritto che nel 1393 Ciango de' Castellani lasciò, fra le altre
cose, a Buoninsegna e Filippo di Lorenzo Machiavelli, tutte le ragioni
del patronato della pieve di San Piero in Mercato.

[802] Lacune nell'originale, che qui è lacero.

[803] A tergo della lettera è scritto d'altra mano: «O' trovato _virum
bone conditionis, qui vocatur_ messer Bartolbleo (_sic_) Scaranfi, che
expedisce _gratis_, et serviracci senza voler chosa alcuna. Farassi la
impretatione; dipoi, avanti si pigli piato, lo consiglereno bene.»

[804] Sebbene io abbia già accennato nel testo alla opinione del mio
amico prof. Piccolomini, pure credo utile riportar questa sua lettera,
avendo egli speciale conoscenza dei Codici greci del secolo XV.

[805] _Carte del Machiavelli_, cassetta II, n. 78.

[806] _Carte del Machiavelli_, cassetta II, n. 77.

[807] Accenna alla lettera precedente, scritta d'ordine dei Dieci lo
stesso giorno.

[808] Altro coadiutore nella Cancelleria.

[809] Prima diceva: _stratiai io_.

[810] Caterina Sforza.

[811] Pel primo corriere.

[812] _Carte del Machiavelli_, cassetta II, n. 1.

[813] Sono altri ufficiali della Cancelleria.

[814] Intendi: — Raffaello disse.

[815] Intendi: — A proposito d'una certa lettera, mi parlò prima, come
per esaminarmi, e poi non mi mandò a dire altro.

[816] Lodovico il Moro.

[817] La Signoria di Venezia, alleata con Francia contro Milano.

[818] Questo verbo è spesso usato dal Buonaccorsi, e significa:
guadagnar con modi non sempre corretti. Qui però è usato in senso
burlesco.

[819] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 91, a carte 77. In
margine l'amanuense scrisse: _Exortatoria pulcherrima_. Come abbiam
detto nel testo, questa e le due lettere seguenti, per molte ragioni,
noi le giudichiamo del Machiavelli; non possiamo però affermarlo con
tutta certezza, non avendo trovato l'autografo, ma solo la copia fatta
nei registri della Cancelleria.

[820] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 91, a carte 81.

[821] In margine è scritto: _O quantus moeror!_

[822] Qui è scritto in margine: _Verba minantia_.

[823] Questi è quegli che fu preso e processato in Firenze.

[824] Il testo ha _Annòm_, e in margine è questa nota: _Annon in
Longobardia capitur_. Certo si tratta di Annone presso Asti. Il
BUONACCORSI parla di «Nori castello fortissimo presso Asti,» preso dai
Francesi il 17 agosto. _Diario_, pag. 25.

[825] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 91, a carte 85^t.

[826] I due antecessori s'erano per la malaria ammalati, e uno di essi,
Piero Corsini, ne era morto. Successero perciò Paolo Antonio Soderini e
Francesco Gherardi. — Cfr. GUICCIARDINI, _Storia Fiorentina_, cap. XX,
pag. 207.

[827] _Carte del Machiavelli_, cassetta II, n. 75. Il Machiavelli vi
scrisse sopra queste parole: _Lettera di Pagolo Vitelli, di sua mano,
quando e' fu preso_. Fu già pubblicata dal signor NITTI, ma con qualche
variante. Noi abbiam seguìto fedelmente l'originale.

[828] Archivio di Stato di Venezia, consiglio dei Dieci, _Misti_, reg.
27, c. 213^t.

[829] Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, _Misti_, reg. 27,
c. 215.

[830] _Provisori nostro in Tuscia_, dice un doc. che precede nello
stesso registro.

[831] Così dice il codice, ma è chiaro, anche dalla precedente lettera,
che deve dir XL m.

[832] Nella prima edizione di quest'opera, non credetti di dover
pubblicare questa lettera, che trovasi fra le _Carte del Machiavelli_
(cassetta I, n. 49), perchè essa era stata già pubblicata, quasi
integralmente, dal NITTI, ed io non la credevo autografa del
Machiavelli, nè altrimenti sua. Ora però m'induco a stamparla intera,
riscontrandola coll'originale, perchè, riesaminandola e facendola
riesaminare, ho dovuto persuadermi che la scrittura, sebbene diversa da
quella che era solita del Machiavelli, ne serba tuttavia i caratteri
fondamentali. La diversità nasce forse dall'essere egli allora assai
giovane, e dall'avere, copiando, scritto con molta più cura del solito.
Di qui una forma calligrafica, che assai difficilmente si troverebbe in
altre sue scritture.

La lettera non ha data, non ha indirizzo di sorta, non ha firma.
Si vede però chiaro, che è diretta ad un segretario della Signoria
di Lucca, di Siena o d'altro vicino Comune, e che è scritta da un
qualche alto ufficiale della repubblica fiorentina, incaricato di
aprire e leggere le lettere che venivano intercette. Essa trovasi
fra quelle _Carte del Machiavelli_, che contengono altre lettere e
parecchi scritti non suoi, ma pur di sua mano copiati. Esaminandola
attentamente, vi si trova più d'una di quelle cancellature e correzioni
proprie di chi, copiando, salta qualche parola, e poi se ne avvede e
corregge. Ma oltre tutto ciò, e sebbene vi sia la forma propria del
tempo, a me riesce assai difficile crederla del Machiavelli, sia per
la lingua, sia per lo stile. Mancano la sua chiarezza, la sua vivacità,
evidenza ed acume; le idee sono intralciate, incerte, confuse; la forma
è quasi sempre pesante, e non poche sono le ripetizioni. Insomma non vi
trovo quelle qualità, che s'incontrano in tutte le opere, in tutte le
lettere del Machiavelli, di qualunque tempo sieno. Io non sono riuscito
a veder nessuna ragione intrinseca, per crederla decisamente di lui;
molte invece ne trovo per dubitarne.

[833] Qui accanto, nel margine del manoscritto, incomincia una postilla
o giunta, che continua fino al verso in cui sono le parole: _preso
sia per non pagarlo_. Essa ha, in principio ed in fine, il segno [v^],
senza che nel corpo della lettera si ritrovi un segno corrispondente.
Noi la riportiamo in nota, là dove ci sembra che il senso lo
suggerisca.

[834] Prima aveva scritto: _li huomini quali e' sieno_.

[835] Ecco la postilla marginale: — perchè se vi ricorderà bene, lo
exercito fio[re]ntino si adco[stò] ad Pisa sì [gag]liardo et sì [ben]e
pagato, et [fece] tale progre[sso] in pochi dì, come dimostrò la fuga
m. Piero Gambacorti et la paura vostra, che se la fraude vitellescha
non vi intercedeva, nè noi ci dorremmo della perdita, nè voi ve ne
rallegreresti. —

Le lettere che abbiamo messe nelle parentesi quadre, mancano
nell'originale, per essere corroso alquanto l'orlo del foglio.

[836] Prima aveva scritto: _del non pagarlo_, saltando le parole:
_haverlo preso, sia per_, come succede qualche volta a chi copia.

[837] Cioè aveva tenuto una compagnia di soldati di gran lunga, a gran
pezza, inferiore a quella per cui era pagato.

[838] Forse anche: biasimo, vitupero o simile. Le parole, che qui
abbiamo messe tra le parentesi, mancano nell'originale, per essere
strappato il cantuccio inferiore, a sinistra del foglio.

[839] Manca nell'originale questa parola, svanita per l'umidità.

[840] _Carte del Machiavelli_, cassetta I, n. 7. Solo il principio
di questa lettera fu, con qualche variante, pubblicato dal NITTI, op.
cit., vol. I, pag. 99.

[841] Stradiotti, com'è noto, erano generalmente Albanesi a cavallo,
armati alla leggiera. Qui intende: — impiegati minori.

[842] Dai registri della Cancelleria si vede infatti la molta facilità
del Machiavelli nello scrivere lettere. Il gran numero di quelle che
son di sua mano, e hanno la data del medesimo giorno, ne è una prova;
la rapidità del comporre apparisce dalla forma stessa della scrittura.
— Fin qui pubblicò il sig. Nitti.

[843] Un aumento di paga, mentre che era in Francia.

[844] Francesco Della Casa, compagno del Machiavelli nella legazione
presso il Re di Francia.

[845] Dopo la firma segue una breve poscritta del Buonaccorsi, senza
importanza, e poi una giunta assai lunga d'un altro impiegato della
Cancelleria, che si firma _Andreas tuus_. Questa non contiene nulla
di notevole, ed è piena di tali e tante oscenità, che non è possibile
pubblicarla.

[846] Non furono citate nel testo; le pubblichiamo, perchè utili a
conoscere i tempi e la vita romana d'allora.

[847] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 9.

[848] _Sullaturit_ o _syllaturit_: fa da Silla, silleggia. _Ita
syllaturit animus eius, et proscripturit_, trovasi in Cicerone.

[849] Una lettera di Roberto Acciaiuoli al Machiavelli (_Carte del
Machiavelli,_ cassetta I, n. 6), in data 4 genn. 1499 (1500, stile
nuovo), dice:

«De Iubilei non vi scrivo, perchè son già rinviliati, e dassene
pel capo a chi ne vuole, immodo che costui sommamente debba essere
commendato, perchè al tempo suo harà scoperto quanto si debbono stimare
queste cose, et un altro non c'ingannerà con la superstitione: et io
per me ne lo ringratio, che m'ha chiarito una gran posta, et cavatomi
d'un gran pensiero, poi che ho visto come nascon queste historie, et
quello che hanno sotto; ma son ben contento che mi costino ogni cosa da
danari in fora.» È sempre lo stesso scherno.

[850] Il tribunale della Ruota.

[851] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 39.

[852] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 97, a carte 4: autografo
del Machiavelli.

[853] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 101, a carte 2: autografo
del Machiavelli.

[854] Francesco Soderini, vescovo di Volterra, allora ambasciatore
presso il Valentino.

[855] Archivio fiorentino. Cl. X, dist. 3, n. 101, a carte 24:
autografo del Machiavelli.

[856] Solevano usare il plurale anche quando il commissario era uno
solo.

[857] De la Trémoille.

[858] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 101, a carte 51:
autografo del Machiavelli.

[859] Il capitano francese Imbault.

[860] Quest'ultimo paragrafo non è di mano del Machiavelli.

[861] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 101, a c. 134. Il
manoscritto di questa lettera somiglia moltissimo a quello del
Machiavelli, pure vi sono differenze notabili nel _d, b, et, f_, ecc.
Sono però certamente di mano del Machiavelli le correzioni che vi si
trovano.

[862] Era scritto _cotesto_. Di mano del Machiavelli è stato corretto
_q_ª (_questa_).

[863] Aggiunto _di buoni_, nell'interlinea, di mano del Machiavelli.

[864] Era scritto: _e' prieghi_; il Machiavelli corresse:
_intercessioni_. È poi rimasto _stati_, da correggersi in _state_.

[865] Qui si legge in margine: _di questa libertà_, non però di mano
del Machiavelli.

[866] Il lettore troverà forse che queste lettere di amici al
Machiavelli sono troppe, tanto più che di alcune già ne era noto
qualche brano citato nelle biografie. Pure chi vorrà leggerle con
attenzione, vedrà che sono assai utili a far conoscere il carattere
privato del Segretario fiorentino, e la vita che menava cogli amici
dentro e fuori della Cancelleria.

[867] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 12.

[868] Questa parola è abbreviata, e par che dica _vostro_. Intendi:
— Se il Duca è veramente, come si dimostra, amico di voi, che siete
nostro oratore, dovrebbe farsi avanti con proposte onorevoli.

[869] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 38.

[870] Marcello Virgilio e Bernardo de' Ricci, del quale ultimo si parla
nella seguente lettera del 18 ottobre 1502, scritta dal Buonaccorsi.

[871] Il giorno 18 dello stesso mese scrisse altra lettera in aggiunta
a questa, per dirgli che stésse tranquillo, perchè le cose andavano
discretamente bene: «et quello vi scrissi in latino ne' dì passati,
_rogatus feci_.» _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 38.

[872] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 5.

[873] Abbiam dovuto sopprimere il principio di questa lettera, perchè
troppo osceno, e scritto con un gergo non sempre intelligibile.

[874] Allude a qualche commissione data e non eseguita, cui accenna
vagamente anche nel brano da noi soppresso.

[875] Questa parola è in cifra, come tutte quelle che in queste lettere
segniamo con virgolette, ed è di mano del Machiavelli interpretata
nell'interlinea, _ectione_, ma deve essere errore di scrittura.

[876] Un altro ufficiale della Cancelleria.

[877] Intendi — Giacchè fu presa la deliberazione di darmi il danaro
chiesto, me lo faccia avere di fatto.

[878] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 6.

[879] Il lucchettone, il lucco.

[880] Qui è al solito una esclamazione indecente, che si sopprime.

[881] Qui non intendiamo a che cosa alluda il Buonaccorsi. La moglie
del Machiavelli non poteva ancora aver figli, e molto meno una
figlia da marito. Della dote si riparla nella lettera 15, in data 21
dicembre 1502. Ma il gergo dal Buonaccorsi spesso usato ci riesce qui
impenetrabile.

[882] L'uno e l'altro coadiutori nella cancelleria.

[883] Si vede chiaro che queste lettere del Buonaccorsi erano scritte
a varie riprese, secondo che gli affari della Cancelleria lo lasciavano
qualche momento libero.

[884] Deliberazione di pagamento, oltre il salario, alla quale allude
anche nella lettera precedente.

[885] Cioè: — Quando avrete speso i danari avuti nel partire, non
chiedete stanziamento. Vi farete poi pagare quello che dimostrerete
avere speso di più. — Il Machiavelli però ebbe subito altri danari.

[886] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 30.

[887] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 41.

[888] Alessandro di Rinaldo Bracci, il quale era stato altra volta
inviato a Roma, vi tornò adesso, come già notammo, in qualità di
mandatario. Gianvittorio Soderini, fratello del Gonfaloniere, era
stato eletto ambasciatore; ma, trovandosi indisposto, partì solo il 7
dicembre, ed allora restò a Roma anche il Bracci come segretario.

[889] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 42.

[890] Specie d'imposta, sotto forma di prestito, che veniva restituita
a rate, almeno in parte.

[891] Sopperire.

[892] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 7.

[893] Intendi: — Nel rispondermi è meglio non tocchiate questo
soggetto. — Il Buonaccorsi temeva che le sue lettere fossero vedute da
altri.

[894] Il Machiavelli, come notammo, era stato inviato al Valentino dai
Dieci, senza essere eletto dagli Ottanta.

[895] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 3.

[896] Intendi: — Gl'impiegati sbucano, escono dall'ufficio.

[897] Aveva il dì 1º novembre scritto d'avere ricevuto per lui
30 ducati, che teneva a sua disposizione. Non s'era però fatto
stanziamento per essi. _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 1.

[898] La moglie del Buonaccorsi.

[899] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 4.

[900] Si facevano sugli onorari ritenute, le quali rendevano il valore
reale assai inferiore al nominale.

[901] In altra lettera dice, che questo velluto era stato alla porta
della Città tolto a colui che lo portava.

[902] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 32.

[903] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 8.

[904] Intendi: scemare i salarî.

[905] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 15.

[906] Allude di nuovo alla temuta diminuzione de' salarî, di cui parla
nelle lettere antecedenti.

[907] In due lettere del dì 8 novembre, il Machiavelli aveva insistito
sulle grandi premure fatte dal Duca per venire ad accordo coi
Fiorentini. I Dieci avevano il 15 novembre, il giorno stesso cioè in
cui scriveva il Buonaccorsi, risposto che non era possibile venire
ad accordi come quelli desiderati dal Duca. Vedi la lettera dei Dieci
nelle _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 178. Il significato delle parole
del Buonaccorsi ci par, presso a poco, questo: — Voi, caro Niccolò,
l'avete sbagliata, se credete d'aver fatto conclusione favorevole al
Duca. La risposta dei Dieci che parte oggi v'intorbida tutto. Siete
uno sciocco, se credete che noi vogliamo sforzarci tanto per venire poi
alla penitenza con lui.

[908] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 16.

[909] Il Buonaccorsi aveva scritto: _saldo proposito_; ma poi cancellò
la parola _saldo_.

[910] Qui segue una delle solite esclamazioni indecenti.

[911] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 17.

[912] Il Gonfaloniere infatti scriveva il 21 dicembre al Machiavelli,
che gli si mandava del danaro per ora, promettendo che sarebbe stato
richiamato, quando si fosse visto chiaro che via pigliavano le cose.
Vedi la lettera nelle _Opere_ (P. M.), vol. IV, pag. 219. Una lettera
d'Alamanno Salviati al Machiavelli, in data 24 dicembre 1502, dice:
«Toccante la licentia vostra, non credo ne siate compiaciuto per al
presente. La causa v'intendete benissimo, che questi Signori non
sono per lasciare cotesto Signore senza uno loro uomo. E l'essere
voi absente non credo abbia a tòrvi favore per la vostra rafferma, sì
perchè e' portamenti vostri sono suti e sono di qualità che più presto
havete a essere pregato che pregare altri, tanto più quanto siate fuori
per cose pubbliche, ed in luogo di non poca importanza.» _Carte del
Machiavelli_, cassetta III, n. 54.

[913] Foro nell'originale.

[914] Imbroncito.

[915] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 18.

[916] Allude all'eccidio di Sinigaglia.

[917] 1502 secondo lo stile fiorentino, 1503 secondo lo stile nuovo.

[918] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 103, a c. 172: autografo
del Machiavelli.

[919] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 107, a c. 24^t: autografo
del Machiavelli.

[920] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 107, a c. 47^t: autografo
del Machiavelli.

[921] Archivio di Modena, _Cancelleria Ducale_, Dispacci da Roma, busta
13.

[922] Il giovedì mattina.

[923] Nel Giustinian non troviamo che don Micheletto comandasse le navi
pontificie, ma solo le armi di terra, e più specialmente quelle del
Valentino.

[924] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 107, a c. 171^t:
autografo del Machiavelli.

[925] Caterina Sforza, già signora di Forlì.

[926] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 21.

[927] Allude alla lettera scritta dai Dieci il dì 14 novembre 1503, che
trovasi pubblicata nelle _Opere_ (P. M.) del Machiavelli, vol. IV, pag.
361.

[928] Intendi: — Ogni volta che ne ricordate solo il nome in una vostra
lettera, si crede subito che egli vi sia troppo accetto, che vogliate
favorirlo, perchè ora qui bisogna dirne solo male, e non mai bene.

[929] Qui come altrove le virgolette indicano le parole in cifra. Il
deciferato, quando non è del Machiavelli, è ricavato dalle Chiavi dei
cifrarî diplomatici esistenti nell'Archivio Fiorentino, e compilate da
Pietro Gabrielli già ivi archivista.

[930] Sembra un'allusione scherzevole al bimbo del Machiavelli.

[931] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 23.

[932] Il cardinal Soderini.

[933] Al battesimo del bimbo.

[934] _Carte del Machiavelli_, cassetta III, n. 26.

[935] Intendi: — non so che debba venire io.

[936] Desidera.

[937] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a c. 89^t: autografo
del Machiavelli.

[938] Aguti, chiodi.

[939] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a c. 152^t:
autografo del Machiavelli.

[940] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a c. 156: autografo
del Machiavelli.

[941] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 112, a c. 157^t:
autografo del Machiavelli.

[942] Intendi: — Scorciandosi le giornate, per l'avanzarsi della
stagione.

[943] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 113, a c. 211^t:
autografo del Machiavelli.

[944] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a c. 23: autografo
del Machiavelli.

[945] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a c. 151: autografo
del Machiavelli.

[946] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a c. 141^t:
autografo del Machiavelli.

[947] Intendi: — Il Signore di Piombino avere sollecitato Consalvo.

[948] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a c. 171^t:
autografo del Machiavelli.

[949] Istia d'Ombrone.

[950] Archivio fiorentino, Cl. X, dist. 3, n. 116, a c. 191^t:
autografo del Machiavelli.

[951] Questo segno indica che la lettera era venuta per staffetta.

[952] In margine è scritto: _Per_ Δ_, ad ore 2-1/2, al Console._ È
questa l'indicazione dell'ora in cui doveva, per staffetta, partire
questa risposta. _Console_ sarebbe il nome del corriere.

[953] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 11.

[954] La lettera scritta lo stesso giorno dal governatore E.
Bentivoglio, molto più breve e lacera in diversi punti, dà assai minori
ragguagli della rotta. L'abbiamo citata a suo luogo.

[955] Pubblichiamo queste lettere, perchè, oltre le notizie politiche
che contengono, dimostrano chiaro come, anche lontano da Firenze,
l'animo del Machiavelli fosse allora rivolto sempre alle cure della
nuova milizia.

[956] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 103.

[957] Questo segno è messo generalmente invece della parola staffetta.

[958] Le parole o lettere, qui e appresso, poste in parentesi quadra,
sono supplite, essendo in quei luoghi rotta la carta nell'originale.

[959] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 105.

[960] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 81.

[961] Cioè: — all'Imperatore.

[962] Qui il decifrato è di mano del Machiavelli.

[963] In una strisciolina di foglio, attaccata poco sopra
all'indirizzo, è scritto: _Bernardo Nasi è de' dieci in cambio del
Guicciardino._

[964] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 83.

[965] _Carte del Machiavelli_, cassetta IV, n. 84.

[966] Alamanno Salviati, che non era amico del Soderini, e quindi
neppure del Machiavelli, sebbene questi gli avesse nel 1504 dedicato il
_Decennale Primo_, come vedemmo.

[967] Anche in questa lettera il decifrato è di mano del Machiavelli.

[968] Intendi: — Prima del tempo in cui vengono confermati in ufficio
gl'impiegati della Cancelleria.

[969] Ducato di Geldern.

[970] L'autografo di questo scritto si trova nelle _Carte del
Machiavelli_, cassetta I, n. 78. Non fu stampato in nessuna edizione
delle _Opere_; ma venne come dicemmo nella nota a pag. 506, pubblicato
in opuscolo per nozze, prima dal Ghinassi, poi più correttamente dal
prof. D'Ancona.

[971] Qui l'autografo ha queste parole, poi cancellate: _Et ne
havete già cinquecento in campo_. Al _già_ fu poi dall'autore stesso
sostituito _mandati_.

[972] Lo scritto finiva con _contado_. Seguono due cancellature (_Vale,
Vale_); poi: _et che sono cominciati_.

Nella coperta trovansi, pur di mano del Machiavelli, queste parole:
«1512. La cagione dell'Ordinanza, dove la si truovi, et quel che
bisogni fare. _Post res perditas_.» La data 1512, e la nota finale,
_post res perditas_, furono scritte d'altro inchiostro, e quindi più
tardi, quando cioè la Repubblica era caduta.

[973] L'asterisco indica che il documento è autografo del Machiavelli.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 648 ("Errata Corrige") sono state riportate nel testo.





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