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Title: La vigna vendemmiata
Author: Beltramelli, Antonio
Language: Italian
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                          ANTONIO BELTRAMELLI


                                LA VIGNA
                              VENDEMMIATA

                                NOVELLE



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1919
                                   —
                           Secondo migliaio.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

            _I diritti di riproduzione e di traduzione sono
            riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia,
                        la Norvegia e l’Olanda._

                          Milano, Tip. Treves.



LA PACE.


Erano due brigate, due parti in eterna contesa come chi dicesse il
fuoco e l’acqua. La vita in comune non poteva essere accettata con
sopportazione. Dove appariva un piccolo Borghigiano c’era sempre un
piccolo Sobborghino che s’incaricava di fargli i versacci o viceversa.
E la cosa era vecchia quanto l’anima dell’uomo, nè accennava a
tramutare. I cronisti più antichi parlavano dei Borghigiani e dei
Sobborghini e narravano come le loro fraterne lotte finissero tanto
sovente con morti e lutti, che i capitani, i podestà, i signori del
popolo avevano emanato a più riprese leggi e bandi e divieti per far
cessare l’ebdomanaria impresa, ma invano.

Tanto i Borghigiani come i Sobborghini erano innamorati dei loro ludi,
delle bellicose tradizioni, degli odî inveterati e non potevano nè
sapevano farne a meno. Così, oltre il volere dei reggenti, di secolo
in secolo, giù per i millenni l’usanza si era perpetuata e ancora,
per quanto i nuovi tempi e le freschissime dottrine avessero attenuata
l’antica asprezza dei rapporti, non v’era Borghigiano che non nutrisse
un velato disprezzo per un Sobborghino e viceversa. La medaglia era
identica su le due facce.

Ho detto imprese ebdomanarie e usava infatti, al tempo degli arieti e
delle catapulte, al tempo dei castelli e dei fossati, usava che alla
sera di ogni sabato, piacendo al buon Dio, una brigata di Borghigiani
si imbattesse in una brigata di Sobborghini, dato il quale incontro
e la lièta disposizione degli animi ne nasceva tale intesa fraterna
che l’una brigata si lanciava sull’altra e, perchè non vi fosse
dubbio su l’intenzione, si affrettava a suonar certi colpi, a sferrar
certe mazzate, a picchiare con tanta foga e sì dolce ardimento che
il campo risuonava in breve di strida e di urla e di incitamenti e
di imprecazioni. Scorreva il sangue. Qualcuno cadeva. Il rumore era
grande. E quando le parti parevano soddisfatte si separavano e ciascuno
si portava via i propri feriti. Seguiva una tregua fino al sabato
venturo, nel qual sabato, piacendo a Dio, si ricominciava la sinfonia.

Da che derivasse la gioconda consuetudine nessuno sapeva e men può
saperlo la critica moderna. I cronisti sono oscuri; narrano e non
ricercano. Gli archivi non hanno rivelato mai documenti che lumeggino
il problema. La tradizione popolare canta le sue gesta ma non si occupa
della causale delle medesime. Buio perfetto adunque e nel buio le due
brigate che menavano le mani nei secoli dei secoli, in tutti i costumi,
sotto tutti i Governi, nonostante tutte le proibizioni.

La città che non nomino ma che ha d’altra parte molte consimili
fra l’Alpe e i due mari, godeva adunque, da immemorabile tempo, del
giostrare de’ suoi due sobborghi e per tali giostre andava nominata
nei dintorni e nelle lontananze. Si sapeva, ad esempio, che il dialetto
dei Borghigiani non assomigliava affatto al dialetto dei Sobborghini,
pur vivendo entrambe le brigate entro i confini di una stessa fossa;
correvano per il mondo circostante, come corrono tuttavia, benchè
l’antico spirito sia ormai cosa morta, i lazzi e le burlesche calunnie
di cui l’una parte si compiaceva di adornar l’altra e viceversa. I
Borghigiani avevano, ad esempio, nel loro rione un magnifico campanile
a cono, alto settantacinque metri e più, tanto che imperava su tutti i
compagni della città. Tale campanile ridestava il loro giusto orgoglio.
Ora siccome i Sobborghini non ne avevano uno compagno da poter opporre
e si vedevano impossibilitati a rapire quello dei Borghigiani, andavano
narrando a beffa che costoro per far crescere il loro campanile ogni
anno più, venivano concimandolo ad ogni autunno coi frutti di tutte
le stalle del rione tanto da accumulargli intorno una montagna di
letame poi come con le abbondanti piogge autunnali il letame scemava,
lasciando sui muri la traccia del suo antico livello, i Borghigiani
si adunavano a festa e facevano suonare tutte le campane, e danzando e
cantando e trepestando gridavano:

— È cresciuto!... È cresciuto!...

I Sobborghini, in luogo del campanile, avevano un fiume che
attraversava il loro rione e ne erano naturalmente orgogliosi. Durante
l’estate le brigate vi si rinfrescavano, ma con l’autunno e con le
piogge v’era sempre la minaccia dell’inondazione. Ora i Borghigiani per
beffare il coraggio leonino dei Sobborghini narravano come in tempo
d’autunno questi ultimi andassero sempre armati dei loro schioppi e
che, al minimo accenno di fiumana, corressero ad assieparsi sul ponte,
e dal ponte, gridando e bestemmiando e facendo i più orribili ceffi che
si fossero veduti mai, tempestassero l’acqua di schioppettate tantochè
il povero fiume, vistosi assalito in sì mala guisa, tutto spaurito e
sbigottito, cessava di scorrere al mare, e volto il corso turbinoso se
ne ritornava alla nativa montagna.

E i Sobborghini narravano come in un inverno frigidissimo, in cui
la neve era caduta in tanta abbondanza da seppellirne le case, i
Borghigiani, per impetrare pietà dal Signore e liberarsi dal malanno,
erano usciti su la loro piazza e avevano pregato un maestro di pietra,
che si trovava a passare dal luogo, di far loro un Cristo di neve.

Il Cristo era stato fatto e tanto era parso bello ed amabile ed
adorabile nel suo lucente candore che avevano pensato di serbarlo. Ma
come serbarlo?... Gli anziani si erano adunati; fu tenuto consiglio e,
per giudizio delle persone più assennate, fu deciso che il Cristo di
neve sarebbe stato cotto al forno.

— Una volta cotto è salvato! — dissero gli anziani.

E il popolo disse:

— È giusto!

Fu riscaldato un gran forno fino ad arroventarlo e quando apparve
bianchiccio dal calore il Cristo fu infornato di botto e tappato chè
non dovesse uscire.

E le donne pregavano e gli uomini sognavano la bellezza del loro
Cristo bianco come la nube. Trascorsa l’ora necessaria alla cottura i
Borghigiani si accostarono a capo scoperto addensandosi e, trepidando,
attesero. Il più vecchio fra tutti si fece il segno della croce,
afferrò il manico della serranda, lo trasse a sè religiosamente,
guardò. Mille occhi si affissarono co’ suoi ricercando per entro il
tenebrore la ben nota forma, ma non fu visto se non un po’ di bagnato.
Allora un:

— Oooooh! — lungo, incredulo, stupefatto si levò dai Borghigiani
assiepati, e l’anziano che aveva tolta la serranda si rivolse e disse:

— Ha fatto pipì e se n’è andato!...

E il popolo giurò sul verbo del maestro e fu creduto che il Cristo di
neve avesse fatto pipì e se ne fosse andato.

I Borghigiani a loro volta narravano come i Sobborghini avendo un
giorno deciso di atterrare una vecchia torre, l’avessero legata con un
fil di lana e, afferrato il filo, come questo cedeva, si fossero dati a
gridare:

— Viene!... Viene!...

Finchè non andarono tutti ruzzoloni. E così le reciproche gagliofferie
erano squisitamente esaltate da parte a parte e correvano il mondo,
animando le brigate, che ne facevano allegra festa.

Poi, col passar dei secoli, le cose vennero modificandosi, ma l’antica
aspra scissura non si appianò e non è appianata tuttavia; non che le
antiche baruffe si rinnovino, ma un Borghigiano preferirà sempre un
Borghigiano a un Sobborghino e viceversa.

Una volta non si facevano mai matrimoni fra le due parti, ora se ne
fanno; una volta, a una certa ora di notte, un abitante di uno fra i
due rioni in contesa non si attentava di avventurarsi nel rione nemico;
ora i Borghigiani bazzicano per le osterie dei Sobborghini e viceversa.
Le cose han mutato segno ma l’antica tradizione non è morta tuttavia:
abbandonata dagli uomini è scesa in retaggio ai fanciulli.

Così le due masnade di marmocchi facevano onore ai loro bisnonni,
tempestandosi di santa ragione ogni qual volta si scontrassero. Certi
poveri piccoli cristi ostentavano con rassegnata fierezza le loro
innumerevoli lividure, ma ciò non formava impedimento. Bastava che
Vituperio o Scampoli, i condottieri delle due masnade, lanciassero il
loro grido di guerra perchè dalle botteghe, dai negozi, dalle case, di
fra le immondizie delle strade, sbucassero i componenti le due masnade.
Le mura, il greto del fiume, la piazza d’Armi erano i luoghi dei loro
scontri. Le baruffe non avevano termine se non quando l’una delle
due parti fosse volta in fuga ed inseguita fin dove gli uomini non si
potessero intromettere coi loro irriducibili scapaccioni.

Naturalmente, ad ogni nuova baruffa, seguiva il parapiglia delle
comari, che si vedevano ritornare i loro eredi malconci. Fierissime
strida si levavano di catapecchia in catapecchia e la maggior parte
delle volte i belligeranti venivano sottoposti a una nuova dose di
legnate.

Ma l’onor della parte faceva lieve ogni supplizio. E sempre, dove
appariva un Sobborghino sbucava un piccolo Borghigiano a fargli i
versacci.

Così stavano le cose quando nacque bellamente al mondo la guerra
libica. L’entusiasmo delle due masnade fu grande. Per qualche tempo
Vituperio e Scampoli pensarono di riunire i loro gianizzeri e di
andarsene per davvero in Libia, ma quando la cosa apparve impossibile,
perchè dove ne parlarono non si ebbero che risa e rabuffi, dimettendo
il pensiero della lega, ricominciarono a guardarsi in cagnesco. E
furono nemici più di prima. Questo era naturale perchè tutti e due,
sognando giorno e notte i turchi e non potendoli aver sottomano, furono
predisposti a vedere, nella parte avversa, un’orda turchesca. Non
vi fu intesa fra di loro; la cosa maturò di per se stessa; bisognava
combattere.

Furon quelli i giorni in cui le botteghe furon maggiormente disertate,
in cui i garzoni dei ciabattini, dei falegnami e dei fabbri furon
licenziati con maggior frequenza, in cui le catapecchie risuonarono di
violenti rabuffi; ma che importava? Bisognava combattere. E i marmocchi
combattevano. Come fare altrimenti se tutti i giorni avevano sotto gli
occhi lo spettacolo dei grandi che partivano per andare alla guerra? Se
i turchi erano in Libia potevano essere anche dietro le mura della loro
città ed ogni Sobborghino fu turco per i Borghigiani e viceversa. Fu
bandita la crociata. Nessuno più mantenne la foga della marmocchieria
battagliera, nè i padri nè le madri, nè la coalizione degli adulti.
Furono schiaffi e pugni, una robusta meraviglia. Vituperio e Scampoli
affinarono la loro arte guerresca, ne toccarono e ne dettero finchè un
bel giorno, dopo mesi e mesi di lotta, risuonò la novella della pace.

La pace? Vituperio e Scampoli adunarono i loro marmocchi e tennero
consiglio. Era la prima volta, nei secoli dei secoli, che fra
Borghigiani e Sobborghini si parlava di una simile cosa. Eppure se la
pace l’avevano fatta gli altri, i grandi, doveva ben essere una cosa
seria. Furono sospese le ostilità, e una bella domenica Vituperio e
Scampoli, ciascuno a capo della propria turba, si diressero per strade
diverse ad uno stesso luogo.

Il luogo prescelto era la piazza d’Armi.

Scalzi, con gli enormi berretti appartenuti già a tutta una generazione
di adulti innanzi di scendere sulle loro orecchie, con certi giubboni
sbrindellati che si affloscivano giù giù per le stremenzite persone,
fino alla caviglia; senza camicia, senz’altro se non il loro buon
umore, si adunarono e partirono. Baiocco, Fringuello, Martufo,
Piedipiatti, Boccatorta, Frosone, Virgola, Cartoccio, ciascuno col
proprio nomignolo, come con un singolare adornamento, se ne andò a
testa alta. C’era il signor Sole. Essi adoravano il signor Sole, come
la signora Luna e come ogni cosa che fosse lucente. Erano come la gazza
e la cornacchia. Qualche donna si fece su la porta.

— Dove andate, canaglie, rompicolli, avanzi di galera?

I marmocchi non risposero e non fecero sberleffi. Un altro giorno forse
avrebbero scaricato sulla linguacciuta comare tutto il vocabolario
dei loro improperi, ma quel giorno no. Andavano a far la pace e c’era
il signor Sole. Essi lo chiamavano così perchè la parola _signore_
significava per loro una cosa grande e lontana. Ciò che avrebbero fatto
e detto non lo sapevano, ma Virgola cantava e Piedipiatti gonfiava le
gote ad imitar la banda.

Scampoli aveva le mani in tasca, ciò voleva dire che pensava. Quando
Scampoli pensava doveva essere in vista qualcosa di grosso.

Boccatorta chiese a Frosone:

— E dopo?

— Dopo che?

— Dopo, quando la pace sarà fatta?

— Ebbene?

— Che cosa si farà?

— Io credo che ci bastoneremo in un altro modo!

Boccatorta sputò e Frosone dette una spinta a Fringuello perchè non
camminava. Ne nacque un battibecco e volò qualche pugno. Scampoli non
si rivolse, fu Martufo che s’interpose e separò i contendenti:

— Non vi fate male!... Pensate che avete una famiglia!...

Frosone non aveva nessuno e Fringuello viveva con una vecchia zia che
non sapeva di averlo. Ma si rappacificarono perchè ciascuno credeva di
avere una famiglia là dove andava a dormire, fosse pure sotto l’arco di
una porta o in un loggiato.

Guardarono il fiume. Qualcuno si soffermò a raccogliere qualche
sasso lucente. Salirono la sponda opposta e Virgola cantava sempre e
Piedipiatti gonfiava le gote a imitar la banda.

Baiocco disse a quest’ultimo:

— Vuoi finirla di sbuffare come un bue?

Piedipiatti rispose:

— No!... — E intonò l’inno di Garibaldi.

— _Taracin, taracin, taracin._

Allora, per lo spirito suo repubblicano, anche Baiocco cominciò a
cantare. Le foglie erano color d’oro. Un pettirosso e un forasiepe
volaron pei rami bassi a guardare. C’erano tre piccole nubi che
correvano verso il sole, tutte scapigliate. Le montagne turchine pareva
si fossero levate a fare una bella corona al cielo limpido.

Cispola, che era il più piccolo, guardò un contadino che passava con
una vacca e per associazione di idee disse:

— Ho fame!

Ma nessuno gli badò. Pancaccia ebbe un grande sbadiglio.

E arrivarono in vista della piazza d’Armi. Quando videro le mura del
Tiro a segno, qualcuno chiese:

— Ci sono?

Fu risposto:

— Sì, ci sono.

Infatti i Borghigiani erano in fondo al prato, immobili.

— Che cosa fanno? — chiese Virgola.

— Non vedi?... — mormorò Pancaccia. — Aspettano la pace!...

Scampoli camminava sempre con le mani in tasca e così continuò a
camminare fino a metà del prato e la sua turba dietro.

Quando fu giunto a metà del prato si fermò. I Borghigiani non si
movevano. Si vedeva benissimo Vituperio fermo innanzi ai suoi. Stettero
così qualche tempo.

— Be’?... — fece Baiocco accostandosi a Scampoli.

— Be’, che cosa?... — domandò Scampoli rivolgendosi.

— Che facciamo?

— Si aspetta.

— Ma anche gli altri aspettano!

— Hai visto? — disse Fringuello. — Hanno inalberata la bandiera bianca!

Si vedeva infatti un cencio pendere dalla cima di una canna.

— Chi ha un fazzoletto? — fece Scampoli rivolgendosi.

Nessuno rispose.

— Chi ha la camicia? — riprese Scampoli.

— Io! — disse Cispola.

— Dalla qua.

E Cispola fu costretto a togliersi la camicia che era turchina. Non vi
si badò. Qualcuno trovò una canna e la bandiera fu fatta.

Allora i Borghigiani si mossero con Vituperio alla testa. Anche
Scampoli si mosse con i suoi.

Quando le due masnade furono a dieci passi si soffermarono.

Tanto i Borghigiani come i Sobborghini ridevano.

— Che c’è da ridere? — domandò Scampoli.

— E voi altri perchè ridete? — rispose Vituperio.

Passò un silenzio. Scampoli e Vituperio si fecero innanzi. Le due
masnade si guardavano con occhi da locomotiva.

E Scampoli disse:

— Facciamo pace?

— Facciamo pace! — rispose Vituperio.

E i condottieri si teser la mano, veduta la qual cosa i marmocchi
d’ambo le parti si spinsero gli uni contro gli altri e cominciarono a
baciarsi, ad abbracciarsi che era una meraviglia vederli.

Se ne andarono insieme e parevano in verità tutti fratelli. Giammai un
Borghigiano aveva avuta tanta esuberanza d’amore per un Sobborghino.
La secolare antinomia, la lotta senza quartiere, ecco, aveva trovata
la sua fine, la pace trionfava su la guerra; un sentimento umano su la
barbara usanza sanguinaria.

I marmocchi non sapevano e non pensavano questo, erano allegri per
la cosa nuova, per il loro numero accresciuto, per il signor Sole che
rideva sempre compiendo la sua strada nel turchino. E tutto pensarono
fuorchè a riprender la strada delle loro case.

Attraversarono campi e fossati, presero a sassate i cani, insolentirono
i bifolchi per la superiorità che ogni marmocchio cittadino sentiva
di avere su la gente del contado, devastarono qualche vigneto, fecero
quanto più danno poterono per il loro amore che non era l’amore degli
altri. E così camminando, piroettando, cantando, devastando, giunsero,
ebbri di pace e di fratellanza, ad una città vicina.

Come ne vider le mura sostarono. Vituperio disse:

— Entriamo a portar la pace anche fra i Tonti?

— Sì!... — gridaron le masnade. — Evviva la pace!...

E in verità parevano tanti piccoli Arcangeli in Cristo, illuminati di
grazia e di soavità.

Scampoli raccolse un ramo di ulivo. L’esempio suo fu imitato. In
breve la povera pianta, per la pace degli uomini, fu dispogliata da’
suoi rami. Poi si posero in ordine, a quattro a quattro, e ciascuno
recava il suo ramo di ulivo. In mancanza di meglio intonarono un coro
scolastico:

    Noi siamo piccoli ma cresceremo....

E a gola aperta, fra lo strepito del canto stonato, agitando alte le
loro rame si diressero verso la porta medioevale della città dei Tonti.

Due piccoli Tonti li accolsero con uno sberleffo; un altro disse loro:

— Che cosa venite a fare in casa nostra?

Ma gli apostoli non intesero o finsero di non intendere. Varcarono le
mura cantando sempre e credevano di andare incontro ad un’accoglienza
trionfale, senonchè i Tonti, avvertiti dal frastuono, si erano raccolti
in buon numero e non appena le apostoliche masnade avevan posto piede
nella loro città che incominciò la più tempestosa sassaiuola che queste
avesser dovuta subir mai.

— Siamo amici! — gridò Vituperio. — Vi portiamo la pace!

— La pace!... La pace!... — gridarono le masnade.

E allora un brutto piccolo rospo della famiglia dei Tonti, un segnato
da Dio, con un occhio cieco, la bocca torta e sciancato, come udì il
grido si fece innanzi e in un momento di tregua gridò:

— Che cosa volete?...

— La pace!

Lo sgorbio umano ebbe un riso sinistro, si pose la mano alla bocca e
rispose con un suono inarticolato.

I Tonti risero.

Vituperio e Scampoli allibirono. Piedipiatti disse:

— Torniamo indietro.

Vi fu un momento di scompiglio e ancora le masnade dell’amore non si
erano rifatte dalla loro sorpresa che una seconda frotta di Tonti,
armati di randelli, sbucò da un vicolo, assalì i pacifici Borghigiani e
Sobborghini e, senza che essi potessero reagire, li conciò nel più malo
modo possibile.

La rotta fu vergognosa e disperata. E da quel giorno, per il dolce
volto di madonna Pace, la Guerra non fece che un inchino ai suoi vecchi
messeri e cambiò luogo se non cambiò costume.

Borghigiani e Sobborghini furono alleati contro i Tonti, tanto è vero
che tutto è parziale al mondo e l’universalità è una utopia.



LO SPAVENTA PASSERI.


Seduto in mezzo al campo, presso la croce di canna elevata a porre il
seminato sotto la protezione del Signore, lo squallido vecchio aveva
a quando a quando un rauco grido e levava a stento un suo vinciglio,
fra le mani anchilosate. Incurvo il mento sul petto, tutto pervaso dal
tremito della paralisi, attendeva al suo còmpito dall’alba al tramonto,
da quando i passeri scendevano dai loro rifugi fino all’ora in cui vi
ritornavano con un frullo, mentre suonava un’Ave.

Era il tempo dell’estremo autunno, chè novembre traeva l’invernata dai
cieli preclusi, con le nebbie, le brine e le burrascose furie di Borea.
Anche i pettirossi se ne andavano con le ultime foglie e le nostalgiche
voci delle giovinette cantavan la leggenda di Solicello che muore
impigliato fra i roveti.

La terra si mostrava ignuda fra zone di basse nebbie o nei magici
bagliori della galaverna. E fra le nebbie e la galaverna, sotto
l’esigua croce di canna, rattrappito, bistorto, ravvolto come un ramo
secco, padron Veli attendeva la sua morte in mezzo al campo seminato.
Nè pregava Iddio che l’affrettasse, nè vedeva cosa che gli paresse
ingiusta anche in quella sua postrema sofferenza.

Vegeto e sano aveva sempre pensato, come i suoi tre figli, che tanto
ci si può prender cura di un uomo quanto utile può rendere; ed ora
che si vedeva immobilizzato dal male su di una sedia, più gli sarebbe
parso atroce essere come l’aratro arrugginito o come lo stollo fracido
che non regge il suo mucchio anzichè giovare, in quel modo che poteva,
a coloro che avevano preso il posto di lui. Così s’illividiva sotto i
plumbei cieli tranquillamente, levando a quando a quando un rauco grido
o il rossigno vimine a spaventare i passeri che non vedeva ormai più
perchè gli occhi suoi non gli mostravan del mondo se non un’immagine
smorticcia, una teoria di fantasmi evanescenti dall’ombra densa.

E Maiore e Pietro e Benedetto utilizzavano il vecchio in tal modo,
contenti dell’opera loro e di quel qualsiasi utile che ne ritraevano.

Erano costoro tre uomini scalati come tre canne di una zampogna, ma
di uguale tipo e di anima uguale, se ben poteva dirsi anima il vago
baglior di vita che appena schiariva la loro grossezza. Ridevan di
nulla così come il minimo suono s’ingigantisce nelle stanze vuote,
l’un dopo l’altro con la bocca aperta e gli occhi tondi: avevan quella
semplicità la quale confina con l’ebetudine, ma solo fino al punto in
cui non entrasse in gioco il loro tornaconto.

Infaticati come la bestia a coltivare il campo e la vigna, consideravan
sè stessi a simiglianza degli altri, a seconda dell’utile che potevan
dare, nè avevan tolto moglie perchè più pane avrebbe consumato una
donna che non ne avrebbe reso. Così conducevano la casa da soli,
compiendo ogni opera femminile, perfettamente.

Nel contado li chiamavan gli Scalzi e infatti fino ai giorni del più
rigido inverno andavan scalzi e solo allora infilavano gli zoccoli
quando la neve era per le vie. Nè possedevan mantelle a ripararsi dai
rigori del gennaio, nè ferrajoli, nè altra veste che non fosse una
pelle di pecora la quale avevan cucita alla meglio e che infilavan
sulla giacchetta a volta a volta, chè ne possedevano una sola.

Il loro mondo era in tale avarizia, all’infuori della quale nessuna
cosa più li toccava o li commuoveva e non sapevan che ridere.

Così quando padron Veli, il padre loro venerando, fu ridotto fra il
letto e la sedia, incapace a qualsiasi opera, i tre Scalzi sentirono
appesantirsi sull’anima loro la nube di quella vecchiaia dannosa e,
tardando la morte a render giustizia, strologarono nel pensier loro il
modo di far servire a qualcosa il malato.

Fu Maiore che una mattina, all’alba, levato col canto del gallo, disse
a Pietro:

— Prendi il vecchio e portalo con te.

— Dove?

— Nel campo.

Pietro trasse padron Veli dal letto e se lo caricò sulle spalle. Questi
non fiatò, tremava soltanto, ma per la sua paralisi.

Poi Maiore chiamò Benedetto e gli disse:

— Prendi una sedia e vieni con me.

— Dove?

— Nel campo.

Maiore si caricò di tre marre e andarono. Traversata l’aia, seguendo le
redole, giunsero al campo della croce che era il più grande.

Avevano seminato il giorno prima. Maiore andava innanzi. Quando fu
presso la croce disse a Benedetto:

— Metti la sedia qui.

Fu fatto. Maiore la piantò bene sulla terra smossa chè non avesse a
rovesciarsi, compiuta la qual opera, disse a Pietro:

— Vien qua. Fa sedere il vecchio. Spaventerà i passeri.

Padron Veli capì solo allora che cosa gli preparavano e non si dolse
della cosa, come non si sarebbe dispiaciuto anco se l’avesser sepolto.

Come fu seduto, Maiore gli disse:

— Voi siete quasi cieco ma non importa. I passeri avranno paura di voi.
Badate al grano. Se avrete fame vi ho messo il pane in tasca. Qui c’è
la fiasca dell’acqua. Verremo a prendervi questa sera.

Padron Veli non parlava più e non potè rispondere; continuò a tremare,
la testa inchiodata al petto, le braccia penzoloni. Ma per quel che
capì fu soddisfatto. Maiore si fermò à guardarlo. Disse a Benedetto:

— Va a tagliare una rama.

Benedetto andò in un filare e tornò con un vimine rossigno. Maiore lo
pose nelle mani del vecchio e disse ancora:

— Tenete questa rama. Vi farà buono per i passeri!

Poi raccolse la marra, Pietro e Benedetto fecero similmente e senza
rivolgersi se ne andarono all’opera loro.

Padron Veli rimase in mezzo al seminato col suo vimine sanguigno. Su le
prime non si rimosse, stette con le braccia abbandonate, istupidito,
senza saper come eseguire degnamente il compito nuovo, chè nulla
vedeva se non l’ombra degli alberi, sul cielo, e un mare grigiastro
ed uniforme; poi a qualcosa che trasentì e che non seppe comprendere
nell’ombra sua moritura, mandò un grido rauco e levò il vinciglio
e così fece e continuò fra lunghe pause finchè giunse la sera e lo
riportarono via.

Il nuovo costume non fu più dimesso. Ad ogni alba gli Scalzi partivano
col vecchio paralitico e ritornavano col tramonto. E fra le ultime
foglie che le raffiche si portavano via frullando, fra lo strido dei
forasiepe, l’argento delle brine, il grave aduggiarsi delle nebbie
Padron Veli attese la sua morte che non poteva mancare.

Ma egli era di salda radice e il freddo e l’umido e la nebbia e
la pioggia non l’abbatterono. Anche quando scendeva sulla terra la
caligine livida, sì che non vedeva la cinta degli alberi, i tre Scalzi
che lavoravano nel campo vicino, udivano uscire dal fitto velo della
foschia il grido del vecchio; e pareva giungesse di tanto lontano
che già la morte l’avesse serrato e condotto giù per le sue fosche
contrade.

E Maiore diceva alludendo al vecchio:

— Lavora bene!

E Pietro e Benedetto assentivano.

Poi giunsero le piogge e il còmpito di padron Veli parve esaurito. Dal
primo giorno in cui il cielo si oscurò per non aver più sole il vecchio
fu posto in una panca, vicino al focolare spento. Faceva freddo, ma
in casa degli Scalzi il fuoco non si accendeva mai se non per cuocere
le vivande. Quel giorno non v’erano vivande da cuocere e padron Veli
tremava presso la cenere del focolare e aveva il volto illividito
come quando sedeva in mezzo al seminato, fra il turbinìo del vento.
Gli occhi gli si erano ormai chiusi e non udiva intorno che il ronzìo
cupo delle sue stanche vene. E quel ronzìo gli figurò lo svolare e il
pigolar dei passeri fra la sementa. Alzò un braccio, ad un tratto e
mandò il suo rauco grido.

Maiore levò il capo di su lo spianatoio e si volse a guardare. Così
fecero Pietro e Benedetto, ma non corse parola. Dall’angusta finestra
chiusa da un’impannata, entrava appena uno scialbo livore di luce. E,
fra i colpi del telaio, si udiva il gran pianto del giorno senza sole.

Fu una pausa durante la quale Padron Veli continuò a tremare nella sua
solitudine moritura, poi con lo stanco gesto del braccio il suo rauco
grido empì di nuovo la stanza.

Benedetto ristette, la spola in una mano, e domandò:

— Che ha il vecchio?

Disse Maiore:

— Si sogna!

E lo guardarono un poco in silenzio. Padron Veli non vedeva e
non udiva; udiva solamente gli immensi stormi dei passeri voraci
cinguettare, cantare, svolare in una persecuzione senza tregua, penosa,
e i campi erano devastati, sotto la croce di canna coronata dal candor
della brina.

Solo al quinto, al sesto grido, Maiore disse:

— Si pensa di essere nel seminato e lavora!...

Pietro e Benedetto risero e nessuno pensò più alla cosa. Padron Veli
continuò nel gesto e nel grido automatico, seduto innanzi la cenere del
focolare, illividito dal freddo, sperduto nell’ultima sua visione di
tormento.

Ma al secondo e al terzo giorno, come il maltempo non accennava a
tramutare e il vecchio a ravvedersi, Maiore disse:

— Bisogna avvertirlo che non è più nel campo!...

E Pietro e Benedetto risposero:

— Sì!

Bisognava avvertirlo e Maiore si accostò a padron Veli, gli battè una
mano sulla spalla, gridò:

— Vecchio, siete in casa, qui non ci sono i passeri!... — Pietro e
Benedetto ridevano. Padron Veli non intese, non poteva intendere, tremò
un po’ più forte senza rispondere.

E Maiore:

— Avete capito?... Non gridate più che non c’è bisogno!...

E l’opera diuturna fu ripresa, ma il vecchio Veli non aveva inteso.
Egli non viveva ormai più se non nella sua estrema visione.

Allora i tre figli si dissero:

— Chiamiamo Puntèrla chè lo faccia tacere con le sue erbe!

E Puntèrla giunse. Era questi un semplicista e aveva grande rinomanza
per le campagne, chè le sue guarigioni erano prodigiose. Giunse e
guardò padron Veli. Maiore, Pietro e Benedetto gli stavano intorno con
la bocca tonda.

Maiore domandò!

— Potrete guarirlo senza farci spendere?

Disse Puntèrla:

— È vecchio!

I tre figli assentirono.

E Maiore chiese:

— Che cosa potremmo dargli?

Puntèrla disse:

— Morirà!...

I tre figli assentirono. Già, era giusto che dovesse morire perchè era
troppo vecchio.

Ora padron Veli urlava sempre più forte e la sua paralisi lo faceva
traballare sulla sedia.

— Vedete come trema? — disse Puntèrla. — Ha il male della spingarda?

— Della spingarda?

— Sì — fece il sapiente di semplici. — Bisognerebbe farlo sudare!...

— Non basterebbe qualche pillola?

— No. Fatelo sudare!...

E Puntèrla si ravvolge nel suo ferraiolo. Quando fu sulla porta Maiore
gli pose fra le mani due uova e disse:

— Prendete per il vostro incomodo!

Puntèrla intascò le uova senza dir parola e scomparve.

Come rimasero soli, Maiore pensò per qualche secondo, poi disse ai
fratelli:

— Aspettatemi qui! — E uscì sotto il portico.

Per circa mezz’ora Pietro e Benedetto lo udirono andare e venire senza
sapere che si facesse. Padron Veli era sempre più agitato e le sue urla
aumentavano d’intensità.

Di repente la porta che immetteva nel portico si aperse, e Maiore
apparve, vermiglio in volto.

Disse ai fratelli:

— Prendete il vecchio!

Pietro e Benedetto ubbidirono senza domandare, com’erano soliti, chè
Maiore poteva avere il comando, essendo il primo nato.

Sollevarono padron Veli fra le braccia e uscirono. Maiore andava
innanzi. In un angolo del portico era aperta la nera bocca del forno.

— Che facciamo? — domandarono i fratelli.

— Portatelo qua! — disse Maiore.

Padron Veli aveva gli occhi serrati. Quando

furono innanzi alla bocca del forno Maiore guardò dentro e chiese:

— Potrà starvi seduto?...

Pietro e Benedetto risposero:

— Sì!...

E l’opera fu compiuta. Quando ebbero chiusa la serranda e l’ebber
tappata intorno con molta mota, ristettero ad ascoltare, tutti e tre
reclini.

— Ora suda!... Non urla più!... — disse Maiore.

E se ne andarono tranquilli.

Padron Veli sudava infatti dentro il forno serrato e più non udiva il
cupo ronzio delle sue vene tramutarsi nell’acuto pigolìo dei passeri
voraci. Il giorno declinò ed i tre fratelli compirono le opere loro
in pace. Quando fu la sera, Maiore si accostò alla bocca del forno e
chiamò forte:

— Vecchio?... o vecchio?... Sudate?...

Padron Veli non rispose. Pietro e Benedetto dissero:

— Dormirà!...

— Lasciamolo tranquillo!...

— Sì, lasciamolo tranquillo!

E com’ebber mangiato il loro pan secco sul palmo della mano, se ne
andarono a dormire, contenti nella loro anima ottusa.

All’alba il gallo rosso cantò presso il fico dispoglio dal quale
stillava la pioggia. I tre fratelli si levarono e scesero nella stalla.

Com’ebbero governate le bestie era il mattino, e la giornata era
piovosa.

Dall’aia qualcuno chiamò:

— Oh!... Gli Scalzi!...

— Avanti!... — gridò Maiore.

Entrò Puntèrla.

— Benvenuto! — fece Maiore. — Che volete?...

— Come sta padron Veli?

— Deve star bene perchè ha sudato! Non l’abbiamo sentito più!

— Si può vedere?

— Venite!...

E Maiore e Pietro e Benedetto s’accostarono alla bocca del forno.
Puntèrla li guardava fare.

Com’ebbero aperta la serranda Maiore disse a Pietro:

— Va a prendere il lume!

Venne il lume e Maiore lo legò in cima a una pertica.

— Ma che avete fatto?... — domandò Punterla, e stralunava.

I tre fratelli si volsero a guardarlo, stupiti. Non risposero.

Maiore spinse la lampada nel forno. Apparve l’ombra del vecchio,
appoggiata all’incurva parete, ma il volto non si vedeva, non si vedeva
che il corpo rattrapito, risecchito.

— O vecchio?... — chiamò Maiore. Passò un silenzio e padron Veli non
rispose a quella e alle nuove chiamate. Allora Maiore levò la lampada
fin presso il volto del taciturno e, nella luce rossastra, l’orrendo
volto apparve di un subito, come dal fondo di un sepolcro millenne.
Non era più inchiodato al petto, ma levato fino alla vôlta del forno e
gli occhi erano sbarrati e i capelli irti e le mascelle contratte e la
bocca socchiusa e stirata sulle vuote gengive. Impietrito nello spasimo
era segnato nei solchi e nell’ossa e nella cavità profonda, da una
forza spaventevole.

Maiore lo guardò tranquillo e chiamò ancora:

— O vecchio?... Non ci sentite?

— Sì che ci sente — sussurrò Pietro. — Guardalo!... Ride!...

E Benedetto:

— Ride!...

E tutti e tre sporsero la testa entro la nera bocca del forno e
ripeterono adagio, soddisfatti:

— Ride!

Poi, levatisi in un silenzio, si guardarono negli occhi e scoppiarono a
ridere a loro volta tutti e tre, l’uno di fronte all’altro, inconsci e
tremendi innanzi alla muta morte che li guatava dalla tenebra.



LA VIGNA VENDEMMIATA.


C’era, lungo la casa, una riga di ombra e il sole batteva tuttavia
sui muri opposti con tanta violenza che l’aria ne era affocata.
Le finestre e le porte erano chiuse e per la strada non c’era che
Calandra accoccolato lungo la riga di ombra, presso il muro della sua
casipola, le ginocchia divaricate, le braccia su le ginocchia e le mani
penzoloni.

Sonnecchiava. Ogni suo còmpito era esaurito.

Interrotto il sonno, sul far dell’alba, era sorto dallo stramazzo
bell’e vestito come si coricava e, sbirciata l’Amalia, la quale
continuava a dormire mezza nuda, appoggiata la larga gota rossa sul
braccio ripiegato, era disceso alla vigna.

Uomo di tenace fatica, paziente, placido e resistente come il bue, non
aveva badato alla violenza solare, protraendo il lavoro suo finchè la
fame imperiosa non lo avesse discacciato di tra i filari.

Ritornato alla casipola sua nel paese, poco dopo mezzogiorno, si era
fatto alla madia senza cercar di Amalia, e preso un pane, un boccale di
vinello e un bicchiere, seduto su la panca innanzi alla tavola, aveva
mangiato il suo pane, pensando ai bei grappoli che avevano alleghito e
ai pampini superbi.

Ora sonnecchiava presso la soglia, addossato al muro, lungo l’esigua
ombra delle gronde.

Sul principio, come i suoi piedi scalzi erano ancora nel sole e gli
ardevano, nè pensava a ritrarli, sul principio aveva udito il ronzìo
delle mosche e un malo odore entrargli per le nari insistente, ma nè
l’una cosa nè l’altra erano tali da fargli rivolgere gli occhi o da
farlo scansare; vi si era adattato calando le ciglia su la sua torpida
volontà di sonno e di tregua.

Il rotolìo di uno di quei pesanti plaustri vermigli, antichi come
l’arca e la nave, pieni di ferramenta e solidi a simiglianza dei
quadrati buoi che li trascinano, non gli fece levar le palpebre di
sopra gli occhi suoi grigi e piccoli come quelli del cane; un fanciullo
che trascorse gridando come un invaso dal farnetico, ma solo per la
barbara gioia di sentirsi vivo, non lo riscosse. Quando Calandra aveva
chiuso gli occhi sul suo silenzio, era disceso nel torpor del suo
riposo come nell’immensità del non essere, occorreva una ben diversa
ragione a farlo levar di repente, diritto nel sole, con la sua piccola
coscienza.

E così ristava nell’ebetudine della siesta, simile ad un cencio gettato
sopra una corda tesa, quando, nella casa che gli era dirimpetto, si
aprì ad un tratto un usciuolo, un braccio si sporse e gettò in mezzo
alla via il contenuto di un grande orcio rossigno.

Il liquido si espanse per l’aria e giunse fino al muro opposto e piovve
sul collo, sul petto e su le braccia di Calandra. Questi, al brivido
inatteso, levò il capo e grugnì e al grugnito sordo fece seguito una
fra quelle sonanti imprecazioni, sì comuni in Romagna, che possono
dirsi una più scabra natura di quella gente scabrosa.

Ma Calandra imprecò per l’abito suo di imprecare, così come avrebbe
presa la marra o guardato l’aspetto del cielo; il brivido che lo aveva
riscosso violentemente dalla sua torpida vacuità aveva ridesta la parte
di lui più viva e più inconscia: quella che bestemmiava; era stato come
un atto riflesso, la conseguenza necessaria di un’azione indipendente
dalla volontà e nulla più. E con l’innocente imprecare tutto sarebbe
finito, se la Checca, donna irosa e maligna, non avesse prese per
sè le sùbite parole di Calandra e, riaperto l’usciuolo che già aveva
richiuso, non si fosse fatta su la soglia per dimandare a provocazione:

— Che c’è da brontolare?... Con chi l’avete?...

Calandra, che già aveva ripresa la flaccida posa dell’uomo insonnolito,
levò lentamente le palpebre e guardò la Checca co’ suoi piccoli occhi
di cane, senza capir che si volesse.

E la donnacola ribattè:

— Dico con voi, sapete!... Che c’è da brontolare?...

Calandra non si scompose, richiuse gli occhi e borbottò:

— Chi brontola?

— Voi!... E mandate degli accidenti a chi non v’ha fatto nulla di male.
Sarebbe meglio apriste gli occhi sui fatti vostri, povero merlo!...

Calandra non rispose.

— Sì, fate le orecchie da mercante. A voi vi interviene come a quello
che dava consigli al vicino perchè si guardasse dal fuoco e aveva il
fuoco in casa!

E Calandra muto.

— E la gente dicono che non sapete niente, che nessuno vi ha fatto mai
aprir gli occhi!... A crederci!... Ma se ve la fanno sotto il naso!...

Calandra ritrasse le mani sul grembo, levò un poco la testa, chiese
lentamente, come se gli fosse giunta appena appena la eco di un
discorso strano, nel sonno:

— Che cosa mi fanno sotto il naso?

— Quello che non volete sapere! — fece la Checca.

E Calandra con la stessa lentezza beota:

— Che cos’è che non voglio sapere?

— Sì, fate lo smarrito?

— Che smarrito?

La Checca squadrò in tralice il tardigrado, crollò le spalle, disse:

— E chi non lo sa che siete becco e contento? — E su tali parole
richiuse violentemente l’usciuolo.

Allora Calandra alzò la grande mano noccoluta, si calcò su la nuca il
cappello, che il solfato di rame delle sue viti aveva stinto e ritinto,
sputò di traverso e disse, ma placidamente:

— Vacca!

E l’ira sua fu compiuta.

La Checca non c’era più; la strada divenne silenziosa dall’un capo
all’altro; Calandra ricadde nella sua immobilità di vegetale che dalle
soglie del non essere si affaccia alla vita. Avvertì tuttavia il malo
odore e il fitto ronzìo delle mosche, udì il grido di un bifolco a’
suoi bovi, da un prossimo campo, e i tocchi delle ore dalla torre del
Palagio. Non voleva darsi la fatica di contar le ore, ma le contò senza
addarsene. L’orologio della torre aveva suonato il tocco e un quarto;
poteva dormire ancora; ma in quel che ridiscendeva verso la profonda
beatitudine del riposo, eccoti lo Scancio che giungeva cantarellando
lungo la riga d’ombra.

Calandra chiuse gli occhi e non si rimosse.

Lo Scancio era il garzone dei Falistri, un giovinastro cane che non
avrebbe portato rispetto neppure all’anima santa di una madre.

Il Calandra non lo temeva, per vero dire, perchè egli non aveva che un
timore al mondo ed era quello di Dio; ma la presenza dello Scancio gli
dava sempre un malessere inesplicabile, un fastidio inespresso che lo
lasciava scontento. Attese senza levar la testa. Lo Scancio si fermò
all’osteria del Moro, parlò sommesso, dalla strada, con qualcuno che
era oltre la porta, rise forte e proseguì.

Ora Calandra fingeva di essere preso dal più pesante sonno. Lo Scancio
gli gridò:

— Buon riposo, Calandra!

Il bifolco non rispose.

E lo Scancio:

— Ti fa buon pro il sonno?... Dormi, dormi, passero, che c’è chi veglia
per te!...

Calandra aprì un occhio e poi l’altro e la sua faccia era torva.

— Sei stato alla vigna?

Calandra non rispose.

— Tu vegli la notte perchè non ti rubin l’uva, e il giorno che cosa fai?

Calandra inarcò un sopracciglio in un suo particolar gesto di noia e di
stupore.

Fece:

— Perchè?...

— Perchè se tu andassi di giorno troveresti i ladri che non ci sono la
notte!

— Quali ladri?...

— E tu va se vuoi sapere! Tu la sentirai la novella!

E lo Scancio rise forte e proseguì lungo la riga d’ombra cantando una
canzonettaccia di scherno.

Poi giunse Serafina, la moglie dell’oste, e dalla strada incominciò a
chiamare:

— Amalia?... O Amalia?...

Calandra aveva abbassata la faccia fra le grosse mani terrose e udiva
il borbottare di Serafina fra il reiterato grido:

— Amalia?... O Amalia?...

La Checca, pronta al rumore, riaprì l’usciuolo e si fece su la soglia.
Guardò Serafina e domandò:

— Chi cercate?

— Cerco l’Amalia chè ne ho bisogno.

— O non sapete che non c’è?

— Quando è uscita?

— Saranno tre ore.

— Dov’è? — domandò Serafina e ammiccò a Calandra che non levava la
faccia di tra le grosse mani.

— Che volete che sappia io? — fece la Checca. — Domandatelo a Calandra.

Calandra alzò una spalla e non levò la faccia.

— Allora non potrò trovarla? — domandò Serafina.

— Ma sì!... Andate alla vigna che la troverete e non sarà sola!

Le donnacole risero, poi l’una richiuse l’usciuolo della sua tana e
l’altra ritornò ciabattando all’osteria.

Calandra incominciò a pensare e l’opera del pensamento gli fu come una
mortale fatica.

Sudò sette camicie, ma ormai non poteva più separarsi dal tardo
sospetto che si muoveva dentro di lui a simiglianza di un orso
inebetito in prigionia. Non era adirato nè prossimo all’ira, e neppure
un qualsiasi sdegno per la possibile offesa era per nascergli dentro.
In primo luogo non era tuttavia convinto della cosa; in secondo luogo,
se pure qualche forte dubbio lo teneva perplesso, egli non vedeva e
non sentiva ancora il proprio atteggiamento di fronte all’avvenimento
impensato. Eran parole che gli giravan per la mente e non altro.
La figurazione materiale del tradimento, l’unica che avesse potuto
smuoverlo, non gli si presentava. Vedeva tutt’al più la vigna,
l’Amalia, la strada affocata dall’ardore, il suo capanno di guardia, i
bei tralci delle solide viti, e non quell’alcunchè di preciso che muove
la violenta gelosia nell’anima degli uomini. Si traviava dietro le
chiacchiere udite, ma non aveva sentimento che lo spingesse ad agire,
come avrebbe agito un uomo par suo, a simiglianza di una catapulta.
Nello stesso tempo la dolce ebetudine del riposo era scomparsa, epperò
si tolse dal muro, aprì l’uscio della casipola, entrò.

Ancora gli sorrise la speranza di trovare l’Amalia addormentata in
qualcuna delle quattro stanze e di potersene ritornare così alla sua
vigna senza altro pensiero; ma l’Amalia non c’era. Ebbe lo scrupolo
di guardare anche negli angoli, di smuovere lo stramazzo dell’enorme
letto, di aprire l’armadio, ma non vide la sposa sua dalle rotonde
guance vermiglie e dal grande seno bestiale. L’Amalia non c’era, se
n’era ita a nozze con Martin della Fratta.

Calandra uscì e chiuse a chiave la porta di casa. Non seppe bene se
facesse questo per guardarsi dai ladri o perchè l’Amalia non rientrasse
durante l’assenza di lui; gli venne fatto di girar la chiave nella
toppa e tirò di lungo.

La stradicciuola del paese sboccava ben presto nella campagna. Calandra
si trovò fra le faticate terre degli uomini, senza volerlo. L’abitudine
e non la volontà lo aveva avviato lungo il cammino che egli percorreva
da quarant’anni: dalla casa alla vigna. Si soffermò. Riconobbe i campi
dei Falistri, i campi dei Vicelli; si interessò alle culture; vide
che i grani dei Falistri erano i più belli, fece in sè le lodi del
capoccio. E udì suonare una campana. Si tolse il cappello a quella che
egli riteneva la voce di Dio, inchinò gli occhi e ancora non li aveva
tolti di su la terra riarsa che si sentì domandare:

— Dove vai, Calandra?

Levò la faccia e vide don Beniamino, a cavallo della sua rozza.

Calandra si passò il cappello da una mano all’altra. Disse:

— Vado.... andavo.... così....

— Metti il cappello.

— Grazie, don Beniamino.

— Be’ — fece il parroco — come vanno gli affari?

— Ah!... se è per gli affari, non c’è male, si tira innanzi! — rispose
Calandra.

— Che altro c’è allora?

Calandra si rimise il cappello e rispose:

— Niente.

Don Beniamino fece girare il parasole color cenere che aveva appoggiato
ad una spalla e stava per congedarsi quando Calandra gli si accostò e
prese la brenna per la capezza.

— Sentite, don Beniamino, vorrei domandarvi una cosa.

— Di’!

— Se un uomo avesse moglie e gli fosse detto che questa moglie gli fa
le corna, che cosa avrebbe diritto di fare quest’uomo?...

— Prima di tutto avrebbe il dovere di accertarsi se l’accusa fosse
giusta.

— Sì. E poi?

— E poi, una volta che fosse riuscito a procurarsi delle prove
inattaccabili, potrebbe separarsi dalla moglie.

— Questo sarebbe il suo diritto?

— Sì.

— E se quest’uomo trovasse la moglie con un altro dentro un capanno in
una vigna, che cosa avrebbe diritto di fare?

— La cosa sarebbe grave!

— Potrebbe prendere un randello e rompere le costole a tutti due?

— Eh!...

— Questo sarebbe il suo diritto?

— Forse sì e forse no....

— Bene. Arrivederci, signor parroco.

— Dove vai?

— Alla vigna.

— A quest’ora bruciata?

— Sì.

Si separarono.

Ora Calandra ci vedeva chiaro. Nel mondo della sua angusta coscienza si
erano venute formando una convinzione e una risoluzione; le parole del
parroco avevano diradate le gravi nebbie. Calandra sapeva la propria
strada. Era disposto ad agire perchè riteneva che tale fosse il suo
còmpito e nessun altro; ma, nel cuor suo piccolo di bove dai placidi
sensi, non era turbamento di sorta. La passione, la gelosia, l’offesa
dignità di marito trascurato fino all’ultimo limite non avevan parola
che lo commuovesse. Egli avrebbe, con tranquillità in nulla diversa,
fermato un bue tragiogante o un gagliardo ladro nella sua florida
vigna. Non che l’Amalia fosse una vigna per lui, anzi non era ormai che
una maggiatica, una terra in riposo, chè la sterilità di lei glie la
faceva maledetta da Dio; ma capiva che l’Amalia era sua come la terra e
l’aratro e la sua solida marra e il letame.

Tagliò frattanto, da un querciolo, un suo solido randello e, quando fu
presso la vigna, prese una via traversa e preferì aprire un varco nella
siepe anzichè entrare dal cancelletto di spine. Ogni cosa era immota
nell’accasciante calura. Disseccate le fonti, inariditi i torrenti, la
terra si distendeva intorpidita e riarsa fra lo stridere di un mare di
cicale.

Calandra proseguì carponi. Era sotto la siepe. Ora aguzzava i
piccoli occhi di cane e stava su l’intesa se gli giungesse la voce
degli adulteri. E se non c’erano? E s’egli avesse dovuto forzare la
sua faticata siepe per nulla? Non si udivano che le cicale, quelle
maledette cicale che pareva stridesser più forte tanto da coprire
ogni altro suono. Scoprì finalmente, più presso la proda del fosso,
un piccolo varco nella siepe, un varco aperto dai polli e dai cani,
ma tanto piccolo che appena vi sarebbe passato un fanciullo. Calandra
non vi badò; troppo gli sarebbe stato penoso dover aprire la siepe
in un altro punto; si distese, infilò la testa nel vano, fece forza
di braccia, puntò, cercò di inarcarsi, ma le spine gli entravan
per le carni e lo facevan dolorare. Poi, appena era passato con una
spalla, e il braccio gli sanguinava, che una gallina si levò dal suo
caldo nido fra la terra e urlando e schiamazzando e traendo dal suo
beccaccio giallo i più acuti strilli che mai fossero usati, fuggì come
una freccia tra i filari delle viti. E lo spavento di quella mosse lo
spavento di tutte le galline che dirazzolavano per la vigna, tanto che,
nel batter di un ciglio, fu tale e tanto il frastuono che non solo gli
adulteri ne sarebbero venuti in sospetto, ma qualsiasi altra creatura
che non avesse ragioni a timore.

Calandra rimase inchiodato alla terra, imprecando, in cuor suo, a
tutti i volatili immaginabili, e vedeva, di tra i fusti delle viti, il
suo capanno di paglia rilucer nel sole. Vedeva e attendeva un attimo
di calma per riprendere l’aspra sua lotta con la siepe che lo teneva
prigione, quand’ecco dischiudersi l’usciuolo del capanno e uscirne
Martin della Fratta.

Calandra rimase impietrito; guardava come se vedesse l’inverosimile.
L’uomo si volgeva intorno, chinandosi poi a mormorar qualcosa a chi
era tuttavia fra la paglia. Dopo un istante ecco balzar fuori dal covo
l’Amalia, scomposta, scarmigliata, accesa come il ferro su l’ancudine.
Ridevano, si baciavano. Poi Martino diceva:

— Hai sete, bellona?

E l’Amalia a ridere fin che Martino non si chinava a vendemmiare i suoi
bei grappoli, i suoi bei grappoli conti e adorati come l’immagine della
Vergine e come quella del re, su le monete d’oro.

Allora Calandra si smagò. Più valeva un chiccolo della sua vigna
anzichè tutte le donne della terra; ed era come se gli strappassero il
cuore il veder lo scempio che ne facevano quei cani. La violenza che
non lo aveva tuttavia scombuiato, si levò su, di scatto, dall’anima
di lui, squassando le sue fiamme rossigne; egli ne sentì l’impeto,
la furia, l’imperiosa volontà e incominciò a urlare e a dibattersi
a rovina entro la sua morsa lacerante. Gli adulteri sbiancarono, si
guardarono smarriti, riconobbero la voce di Calandra. E, nell’attimo
della sorpresa, temendo ch’egli fosse su di loro a stroncarli, non
pensarono a fuggire. Lo sbalordimento dell’inatteso li inebetiva, ma
poco durò tale sbalordimento, chè Martin della Fratta, vedendo Calandra
alle prese con la siepe impervia, gridò all’Amalia:

— Guardalo dov’è!...

E mai non furon presti due cerbiatti a fuggir per le selve come essi
si salvarono, balenando via a guisa di razzi. E si udì nel contempo un
alto crescere di grida e di risa come di gente che facesse l’abbaiata.

Calandra balzò in piedi alla fine e fra il sangue e il terrame e
l’obliquo color del suo volto era orrendo a vedersi. I suoi piccoli
occhi di cane sfavillavano sinistri fra i capelli che gli coprivan la
fronte e l’ispida barba nascente. Si levò nella sua massa bestiale,
tutto lacero nei panni, e raccolse il randello e si lanciò per la
vigna. Non vide, nella sua furia, un filo teso a reggere le viti e sì
malamente vi incappò da andar ruzzoloni.

Allora l’abbaiata crebbe, le voci si avvicinarono, la gente aveva
invaso la vigna. Non si udiva più che un gridìo intermesso da risate
omeriche. Da dove sbucava la masnada? Chi l’aveva spinta fin laggiù,
nella sua terra benedetta?...

Calandra si rizzò e più non aveva l’aspetto d’uomo; era anzi una bestia
orrenda da esserne guardinghi. Ma l’abbaiata non cedeva; ma gli uomini
e i fanciulli e le donne non volevano rinunciare alla loro barbara
gioia e venivano innanzi per la vigna gridando, ridendo.

Calandra li squadrò senza smuoversi.

Era primo lo Scancio e batteva un sasso sopra una sua pentolaccia di
rame traendone un suono stridulo ed assordante; lo seguivano altri
uomini e fanciulli, con arnesi simili. Calandra pareva impietrito e
lo Scancio non vide la sua faccia perchè proseguì fino a fermarsi a un
passo da lui e quando fu fermo fe’ cenno a tutti che tacessero e levò
la voce e disse:

— Calandrone, li hai trovati gli storni?...

Si levò una risata grande, ma i fanciulli videro torcersi la faccia di
Calandra, videro serrarsi le due mascelle quadrate e gli occhi brillare
di fuoco e le grandi mani terrose stringersi e il randello levarsi e
piombare giù diritto, con la forza del toro, su la testa dello Scancio.

Fu per l’aria un solo urlo acutissimo. Un getto di sangue si levò nel
sole.

Lo Scancio stralunò, la testa squarciata, girò su sè stesso,
strapiombò, finito.

E le facce degli uomini divennero di morte e non si udì più un fiato,
di fronte al colosso stravolto, ma solo un busso di passi precipiti,
una travolgente fuga.

Un’ora dopo, quando don Beniamino andò alla vigna e primo accostò
Calandra e gli domandò smarrito:

— Calandra.... Calandra, che cosa hai fatto?

Questi si volse a guardarlo, torse la bocca e disse:

— Prete, ne avevo il diritto!...

Ed altro più non disse nè allora nè poi.



PADRE SERENITÀ.


Una casetta fra le “larghe„ e Padre Serenità su la soglia.

Lo vedevo ogni sera allorchè m’imbattevo a passare per quelle redole
verso un’aia festosa di gramolatrici. Avevo sedici anni in quel tempo e
Padre Serenità ne aveva novanta.

Era l’autunno. Un autunno della mia vita, sereno più che un cielo
appena commosso da qualche cirro imbevuto di sole, piccolo come la
perla. L’amore, il gaio amore, era disceso al mattino nell’anima mia
pensosa con le allodole e l’aria, rimovendo la mia sostanza fino alle
più riposte fibre in una immaginosa dolcezza. E tutto era vergine
innanzi a me come l’anima mia al mondo; ed ogni limite insuperato era
una promessa di gioia.

Avevo sedici anni e l’amore.

Quali e quante cose mi erano innanzi allora chè io non godessi? E così
andavo con la mia benedetta allegrezza come per una eternità.

La terra non aveva orme, il mondo non era stato mai veduto. Io ero il
primo. Con me erano nate le fonti, gli alberi, le stagioni, i costumi
degli uomini, la vita. Non sapevo nulla, sentivo; ma con impeto divino.
Solo ch’io mi rivolga e sogguardi, ora che ho passato i limiti e
hanno nevicato i capelli, rinasce dalla visione precisa, un identico
commovimento che gli anni non hanno seppellito ed il tempo non ha
tramutato; nulla è pianto o rimpianto, o desolazione che, se la porta
lontana si dischiude, ne ritorna la mia giovinezza col suo gran fascio
di fiori e mi s’abbranca.

Rivedo la viottola insolcata dai plaustri, coi due margini erbosi sotto
le selvagge siepi di marruche e di prugnoli; la terra olivigna, le
pediche fonde dei bovi. Un ombreggio di roveri solenni, qualche varco
sui campi, ma rado, e scarsi tuguri col nero forno e la disselciata
“capanna„.

Quando pioveva era tutto un pantano. Si giungeva alla viottola passando
dalla chiesuola di San Bartolo e dalla casa dei Giuliani, per la
bianca strada che conduce a Durazzano. Passata la casa dei Giuliani si
volgeva a destra per un piccolo ponte e si era nel regno antico che
ricordava le campagne medioevali, senza strade, percorse unicamente
da fonde viottole, impraticabili al tempo delle piogge. In breve ogni
altra vita era lontana. E gli uomini che si incontravano per quei
silenzi pareva giungessero da un tempo remoto. Era raro udirvi il lento
disperdersi di un cantare malinconico; più spesso si udivan le allodole
e le rondini. Voci del cielo. Ed uno camminava fra i prugnoli, coi
loro piccoli frutti violastri, come se andasse per la strada del sogno
verso un paese insospettato. Talvolta trascorreva, rasentando le siepi,
un cane giallo, sudicio e irsuto; tal’altra un fanciullo selvatico
che atterrava la faccia aggrottata per non parlare e si fermava a
guardarvi da lontano; ma più spesso nessuno. E dalla viottola serrata
si sbucava nella chiara vastità delle “larghe„ di Castellaccio. Un mare
di lupinelle con isole di pioppi e dense rive di alberi intorno; il
paradiso delle allodole e delle lepri.

E nel cuore di tale vastità viveva Nicolao di Zaccaria, il vecchio
novantenne ch’io chiamavo per amore Padre Serenità.

La sua casipola si acquattava fra tanto spazio, come a radicarsi alla
terra più tenacemente e aveva al centro un “portico„ disselciato sul
quale si aprivano due basse stanze. Anche aveva una vite, a solatio, e
un pozzo ombreggiato da un fico.

Quando dietro i colli della sera scendeva l’ultima luce a languire
lontana, col sorriso della stella che accora, e le vergini e le
innamorate uscivano per le aie e si fermavano alle siepi ad ascoltare
una parola sommessa; quando le bocche si facevan baciare per nostalgia
dell’amore, al suono di un’“Ave„ mi avviavo pei campi, solo con la
mia felicità. E, via per i primi silenzi, trascorreva l’impeto di una
“battolata„[1] da un’aia nel vespero. Era lo scroscio di venti gramole
in ben misurata cadenza, il richiamo ardito agli sperduti; poi che
vespero campeggiava fra i pioppi e dietro le rosse vigne.

_Ecco ch’io t’amo e ti offro l’ombra e la bocca e il mio palpito di
moritura, poi che è più bello morire che non esser amata_....

Una pausa.

_E il giorno di San Giovanni, amore, il giorno di San Giovanni quanto
spicanardo raccolsi_....

Il volto del cielo smoriva come la faccia dell’innamorata.

_Sorelle, sorelle!... La bella estate ci vuole e il vomere fende la
terra_....

_Cogliamo lo spigo; non pel granaio, ma per l’arche; per l’arche e le
lenzuola e che l’amore si sogni di dormirci a lato_....

_Canto a morire, che m’oda.... passan tre nuvole, in alto, fra le
montagne e la luna_....

La veste del silenzio si era fatta più verde. Nascevan di me
le canzoni, i frammenti, il commovimento che cingeva la vita in
un’impetuosa serenità.

_Ecco ch’io t’amo e t’offro l’ombra e la bocca_....

E la “battolata„, sorta da qualcuna fra le isole di pioppi, sparse per
la “larga„, moriva nel silenzio della sera.

Compivo la strada senza addarmene, come la nube e il vento e l’acqua
soffusa di cielo, senza nozione del tempo e del suo rapido trascorrere,
chè la mia vita era tutta avvenire e non lasciavo ombra dietro le
spalle.

La voce di Nicolao mi coglieva sempre alla sprovvista.

— Si va a “gramadora„?

Volgevo gli occhi. Il vecchio era sulla soglia, incontro alle montagne
della sera.

— Oh, Nicolao!

— Padrone, buonasera.

— Buonasera.

Accendeva la pipa chioggiotta. E pronosticava il sereno, la pioggia o
la nebbia, leggendo nello spazio ciò che sfuggiva ad ogni altro.

La sua parola era franca, i suoi occhi limpidi, la grande vecchiezza
non gli annebbiava la mente.

Ho del mio amore e di questo vecchio la più chiara memoria.

                                   ❦

Socchiudeva la porta.

— Venite, nonno?

— Vengo.

— Non serrate l’uscio?

Alzava le spalle.

— Chi volete che rubi ad un povero vecchio? I miei quattro stracci non
fanno gola a nessuno.

— E se passa una “brutta faccia„?

— Per queste maggiatiche?... In tutta la mia vita non c’è capitato che
un bandito, una volta, al tempo del Papa.

S’andava insieme di pari passo e su la soglia della piccola casa
acquattata fra le larghe non restava che il cane accucciato: il muso
fra le zampe e gli occhi aperti. Padre Serenità amava la compagnia dei
giovani. All’opposto dei suoi coetanei, inciprigniti in una malinconica
stanchezza, egli cercava i ritrovi, sedeva alle feste dei giovani
e vegliava fino all’ora sua proverbiale, l’ora di Nicolao, come la
chiamavano le genti: le dieci. Quando eran le dieci di notte riprendeva
la sua mazza ferrata, la “capparella„ se era d’inverno o la cacciatora
di bordatino se d’estate e, girati intorno i suoi piccoli occhi
celesti, dolcemente gai fra i solchi della sua faccia antica, lanciava
il consueto augurio:

— Vi saluto, gente!

E allora, o fosser guidate le danze sul ritmo di un valzer di Zaclên
o fosse sviata la comitiva dietro un rifacimento delle istorie
cavalleresche, tutti ristavano e si rivolgevano al vecchietto ad
augurargli la buona andata.

Ancora amava motteggiare e stare alla baia, sollecito alla risposta
come al frizzo salace, pronto all’aneddoto, spedito di lingua,
tranquillo, senza fiele per nessuno.

Le ragazze gli si sedevano intorno; egli le chiamava figliuole, le mie
figliuole: e veramente se fosse occorso ch’egli avesse avuta necessità
dell’opera loro, non una, ma tutte, tutte quante gli sarebbero state
intorno perchè la bontà non è vana fra i semplici di cuore. Nonno
Nicola si faceva amare. Tutta la sua vita gli era a specchio di
chiarezza. Povero, combattuto dalla disgrazia, i figliuoli lontani ed
immemori, egli non si era invelenito. Il suo dolce cuore era il centro
del mondo e non vi dimorava nè amarezza nè sdegno. Egli doveva amare:
era la sua necessità e la sua gioia; amare, sorridere, veder negli
uomini il sereno che aveva in sè, e in realtà dove appariva era come se
una mite lampada ardesse a raccogliere gli sperduti.

E non lo chiamavano Santo perchè era vicino a tutti, era un po’ il
cuore di tutti, la simpatia umana che non traligna ma sempre si rinnova
concedendo, perdonando, solo per amare. E gli uomini angustiati fra
spine e triboli, col cuore gravato dalla semitica maledizione, gli
si stringevano intorno ebbri della sua dolcezza perchè non si semina
invano tra chi soffre e lavora.

Io so che se egli avesse voluto essere qualcosa più e non un umile fra
gli umili; se il Dio che aveva nel cuore lo avesse guidato a parlare
con la stessa ingenua freschezza con la quale narrava dei fatti della
sua vita e dell’altrui, avrebbe avuto con sè le turbe. Prima le donne
ed i fanciulli, gli uomini poi; gli uomini chè se bestemmiano il
giorno, la notte si impaurano e, su cento, uno forse e non più d’uno
non sente ribrezzo del transito senza speranza.

Ma nonno Nicola, se pur lasciava intravedere la sua fede, ferma come
la stella incatenata in capo all’Orsa, non parlava di Dio come non si
parla del fiore che vi cresce nell’orto e del pensiero che vi illumina
la vita, perchè il dirne sarebbe un corromperne il segreto incantesimo
e la parola è spessa innanzi alle chiarità dello spirito.

Bene; io so che i suoi novant’anni valevano la più ricca primavera.

Si andava dunque ogni sera, in quell’autunno della mia giovinezza,
a cercar le aie dove le festose ragazze cantavano le romanelle e,
curve sulle gramole, dipinte a rose rosse e turchine, ripulivano i
lisci mannelli dagli ultimi canapuli. Era prescelta l’aia dei Giuli.
Ivi sotto un olmo gigantesco, fra una siepe e i pagliai erano adunate
le gramole in semicerchio e, a notte, una lampada appesa ad un ramo
per una funicella, blandiva col suo discreto chiarore la tenebra.
Se pure la rotonda luna non si affacciasse da sopra la casa a spiare
l’adunata. Di prima sera, compìta la cena sul pugno, essendo le ragazze
alle gramole, sbucavano gli innamorati o dai varchi delle siepi, o
dall’entrata dell’aia e qualcuno, più protervo, portava la doppietta
a bandoliera mentre tutti quanti avevano cura di nascondere la faccia
sotto le ampie tese del cappello.

C’era chi lanciava l’augurio serale all’adunata e chi, approfittando
del frastuono, scivolava nell’ombra inavvertito e sedeva silenzioso,
come gli altri, sulla capra della gramola prescelta.

Ora eravamo una sera più numerosi che mai e più numerose erano le
“doppiette„ e c’era Giovanni dei Bissi che raccontava la storia di un
suo singolare paladino, quando la Moffa (la Pallida), una ragazzona
sgraziata dalla testa troppo piccola su due spalle da gigante, si fece
in mezzo all’adunata e susurrò intimorita:

— Ragazzi, c’è il Mancino!...

E l’adunata ammutolì. Tutti ci guardammo intorno e per qualche istante
non si udì che il biolco il quale canticchiava nella stalla. Poi
qualcuno domandò:

— Dove l’hai visto?

E la Moffa:

— Dietro la siepe. Eccolo!...

Come fosse riuscita a distinguere nella notte la figura del Mancino e
come l’avesse riconosciuta, nessuno seppe perchè le siepi erano lontane
dal punto nel quale ci trovavamo e la notte era oscura. Sta di fatto
che poi ch’ella ebbe detto: — Eccolo!... — un uomo entrò nell’aia e si
avvicinò.

Solo lo riconoscemmo quando, giunto a tre passi da noi, si fermò e ci
chiese: — Perchè state zitti? — poi, senza che nessuno gli badasse,
tirò di lungo e andò a sedersi sulla gramola della Pallida. Seduto che
fu, depose la doppietta fra i ginocchi, accese la pipa e si volse a
parlare tranquillamente alla ragazza, la quale, tanto era stordita,
che gramolava a vuoto senza il mannello di tiglia. L’allegria se ne
andò. Giovanni dei Bissi lasciò la sua storia a mezzo, furono scambiate
parole rade e sommesse.

Un inespresso disagio si era impadronito di ciascuno di noi e l’unico
che pareva non accorgersi di questo era il Mancino. Si udiva il
susurrìo della sua parlata tranquilla. La Moffa lo ascoltava senza
rispondergli mai. E così trascorse un’ora senza che la comitiva si
orientasse ad una gaiezza nuova.

Da sopra alla casa salì nello spazio la luna.

Si udì lo schianto di due schioppettate lontane; dopo un silenzio se
ne udì una terza, poi altre due più rapide. Anche il sommesso parlare
si quetò e dapprima fu un cane che latrò sordamente da un’aia remota,
poi furono dieci e venti tutt’intorno dall’immensa campagna assorta fra
il silenzio e la luna. Qualcuno disse: — È stato all’aia dei Forlani.
Hanno le gramolatrici. Lo zoppo si è vendicato della Gilda di Bartolo.

— Ma se avevano rifatto pace!

— No!

Altri due colpi rintronarono nella notte.

— Sentite?... — disse la Bionda del Mago. — Le “fa le corna!„.[2]

Dopo una pausa si udì una terza schioppettata.

— Gliele han “guastate„! — disse la Vignaiuola.

Ma a questo punto il Mancino si levò di scatto dalla gramola e si
udì lo schiocco di due solidi schiaffi e una sola parola li consacrò,
schietta e violenta.

La Moffa rimase impietrita. Guardò il Mancino, lasciò cadere il manico
della gramola; ma in quel che l’uomo si rivolgeva, come se la voce di
lei insieme alla sua conoscenza si ridestasse solo allora, urlò a voce
strangolata:

— Sei un vigliacco!

Il Mancino levò un braccio, ma questa volta la ragazza gliel’afferrò
attanagliandolo con le piatte mani robuste.

Rimasero di fronte a guatarsi. Nessuno intervenne, ma tutti ci levammo,
l’un dopo l’altro. Di repente il Mancino tentò liberarsi con uno
strattone violento. La gramola si rovesciò.

— Lasciami andare!

E la ragazza, alta, noccoluta, dal corpo di maschio saldamente piantato
sulle ignude piote, non aprì bocca.

— Lasciami andare!... — La voce del bandito cresceva inasprendosi,
come l’ira sua; ma la gramolatrice non battè ciglio; aveva il viso fra
l’ebete e il feroce, fermissimo, senza commovimento.

L’attanagliato tentò un secondo, un terzo scrollone; non si liberò;
allora con la mancina, che aveva libera, brandì la doppietta per le
canne come una clava, l’alzò, mirò al capo della taciturna e scagliò il
colpo.

Ancóra mi si gela il sangue se ripenso allo strido delle donne. La
cassa dello schioppo sfiorò la Moffa, ma non la colpì. Ci stringemmo
attorno al Mancino. Robbone gli strappò la doppietta. Il biolco giunse
con la corda de’ buoi; ma il Mancino era libero.

Come si vide circondato non rifiatò. Parve rassegnato a lasciarsi
prendere, ma quando gli uomini più fecero a fidanza nella sua
debolezza, egli ne approfittò che, di un subito, con un lancio
prodigioso, saltò la gramola, rovesciò il Rossello e lo Svina che gli
stavano innanzi e fu al fianco dei pagliai. Ciò avvenne nel tempo di
dir Ave.

Come fu ai pagliai si rivolse e ci guatò ghignando. Disse:

— Ragazzi, datemi il mio schioppo!

— Daglielo — mormorarono i più prudenti.

Robbone si fece innanzi e glie lo tese. Disse:

— Va per la tua strada!

Ma il Mancino gli gridò:

— Scànsati! — E portatasi la doppietta alla spalla puntò la Moffa.

Fu un baleno ed un grido. Vedemmo la Moffa inarcarsi su la sua gramola
e stramazzare.

                                   ❦

Una sera eravamo su l’aia, incontro alle “larghe„. Già volgeva al suo
fine il novembre, ma non era giunto tuttavia il freddo. Da poco era
trascorso Giovanni dei Bissi con le panie e le gabbie dei richiami.
S’era fermo a dir qualche parola dileguando poi fra le pozzanghere
della viottola motosa.

Passavano dei buoi lontanamente verso una stalla remota e una sola
allodola discendeva cantando dal cielo al suo rifugio fra le lupinelle.
Padre Serenità sedeva sopra un vecchio aratro arrovesciato. E si
taceva. Quand’ecco che, alzando gli occhi, vidi qualcuno che si era
fermo dietro la siepe e ci guardava; ma in quel che feci per levarmi,
l’uomo si diresse all’entrata dell’aia e fu di fronte a noi.

Aveva il cappello tirato su gli occhi. Non lo riconoscemmo.

Era scalzo; aveva un sacco gettato sulle spalle, lo schioppo e un
coltello alla cintura.

Padre Serenità si levò a sua volta.

— Che volete? — domandò.

— Da dormire — rispose l’uomo.

— Non ho posto.

— Mettetemi nella stalla; mi basta un po’ di paglia.

Padre Serenità gli si fece sotto, lo guardò fisso e domandò:

— Sei tu, Mancino?

— Sono io.

— Be’, vieni avanti.

Lo condusse nella stalla. Dalla morte della Moffa, il Mancino si era
dato bandito e nessuno più l’aveva veduto nei dintorni. Si credeva
fosse fuggito in America. Ogni ricerca era stata vana.

Li seguii in casa. Nicolao richiuse la porta e tirò il catenaccio. Mi
disse:

— Accendi il lume.

Il Mancino gettò il sacco in un angolo, ma non si separò dallo
schioppo. Sedette sulla panca innanzi alla tavola. Era torvo e taceva.

— Avrai fame! — fece Padre Serenità.

— Sì — rispose il Mancino.

Poco dopo mangiava avidamente senza levar gli occhi.

Padre Serenità non gli chiese nulla di nulla, nè io interloquii. Dopo
ch’ebbe mangiato, lo conducemmo nella stalla, dove si gettò su una
lettiera di paglia e si addormentò quasi subito col suo schioppo al
fianco.

Quando richiudemmo la porta, Padre Serenità disse:

— Se è tornato è segno che soffre!

E per quella sera ci lasciammo senza aggiunger parola.

Nicolao sapeva ch’io conoscevo come lui la sacra legge dell’ospitalità
e che il Mancino doveva esserci sacro per quella notte perchè era
venuto a domandarci la pace nel nostro rifugio.

Salii alla mia stanza, che era presso alla colombaia. Nei mesi di
caccia, per esser più pronto a trovarmi sui luoghi, dormivo nella casa
di Nicolao, che era sola fra le “larghe„. Lasciai la finestra aperta
per destarmi non appena la luna avesse raggiunto il colmo del cielo e
mi coricai tranquillo come sempre, senza bisogno di cercare il sonno.

Ora, era forse a mezzo la notte, quando mi destai per un brusco rumore.
Qualcuno aveva aperta la porta della mia stanza. Stetti in ascolto e mi
sentii chiamare. Era Nicolao.

— Che volete, nonno?

— Discendi.

Fui pronto, chè dormivo vestito. Quando fummo sulle scale, mi disse:

— Il Mancino se ne è andato!

— Lo immaginavo! — risposi.

— Sì.... ma si è portato via il vitello!

— L’avete veduto?

— Sì.

— Quando?

— Poco fa.

— Ed ora?... volete che lo rincorriamo con lo schioppo?

— No.

— E allora?

— Tornerà indietro. Lo aspetteremo sulla strada. Vieni.

Guardai il mio vecchio amico senza capir nulla. Conoscevo la sua
imperturbabile serenità e la sua buona fede, ma non immaginavo ch’egli
pensasse di vincere il ladro con tali virtù.

Uscimmo che c’era la luna. Era un fantastico mondo assopito in una
fredda immobilità fosforea; e le rame già erano dispoglie. Si vedevano,
sulla terra umida, le pediche recenti del Mancino e del vitello.
Nicolao osservò e disse:

— Sono andati verso il fosso; sono discesi nel fosso.

Poi uscimmo dall’aia vegliando in silenzio. E si udivano a quando
a quando trasvolare gli stormi dei germani e delle grù e, nel cielo
perlaceo, non era che il grido degli esuli stormi.

Passarono due, tre ore e il ladro non riapparve. Nicolao non parlava.

Quando fu l’alba ed egli cominciò a ricredersi e gli doleva di
avermi tenuto per tanto tempo fermo al freddo della notte per una sua
ingenuità, mi disse:

— Figliuolo, mi sono sbagliato; ma non lo credevo capace di tanto!...

Non gli risposi e non sorrisi. Partii tranquillamente per la mia caccia.

— Vi aspetto a mezzogiorno! — disse Nicolao.

— A mezzogiorno! — dissi.

E me ne andai.

Alla sera eravamo ancóra seduti sull’aratro, innanzi al cielo che
sbiancava e non parlavamo.

Ad un tratto vedo Nicolao levarsi di scatto e dirigersi all’uscita
dell’aia. Lo seguii. Il Mancino ci stava di fronte, diritto in mezzo
alla viottola. Stemmo muti qualche secondo, poi Nicolao domandò, e la
voce sua era inalterata:

— Che cosa hai fatto, Mancino?...

L’uomo sinistro non rispose.

— Perchè sei ritornato?

Un silenzio uguale.

— Ti hanno scoperto?

— No! — rispose il Mancino.

— Allora che cosa vuoi?

Ricordo la rude frase dialettale che proruppe violentissima come un
singulto:

— _A so’ un vigliàcc!... Amázam!_... (Sono un vile!... Ammazzami!...)

Padre Serenità levò la mano scarna e rispose:

— _Va par la tu stre e che e’ Signor u t’aiuda!_... (Va per la tua
strada e il Signore t’aiuti!...)

Il Mancino guardò il vecchio, poi si volse senza far parola, saltò un
fosso e scomparve.

Padre Serenità aveva gettato la sua sementa, ma la biancana non
dà frutto e non passaron due lune che il Mancino fu disteso da una
schioppettata, sulla soglia di una stalla, da chi non vedeva gli uomini
e il mondo con i chiari occhi di Nicolao. Ma Nicolao era un mondo a
sè con la sua dolcezza; era un piccolo astro nell’immensità, col suo
chiarore.

Ne ho novellato per amore e non per dilettare, secondo una legge
stabilita. Vi è sempre qualcuno che ha cuore bastante per intendere.



L’EREMITA.


C'era una volta una baracca sbilenca innalzata vicino ad una spiaggia
da un uomo errabondo in cerca di fortuna. Oltre tale baracca, per
chilometri e chilometri intorno, non sorgeva altro rifugio.

L’uomo errabondo aveva ben fondate le sue speranze. Si era detto:

— C’è una strada che conduce al mare, e questa strada finisce fra le
sabbie e non c’è altro. La gente vi passa coi carri e coi barrocci
quando fa l’estate. Se io faccio il mio nido dove finisce la strada e
incomincia il mare, la gente verrà da me ed io ne guadagnerò!

E le cose si svolsero come l’uomo errabondo aveva preveduto.

Codest’uomo si chiamava Palma, era solo, ed aveva sulla coscienza
una interminabile serie di furti e qualche delitto. Per venti anni
aveva meditato nelle patrie galere; a cinquanta anni ritornava fra gli
uomini.

Bisogna dire che Palma non aveva un soldo quando arrivò sul luogo
destinatogli dal caso; aveva bensì qualche idea. Fra queste, una
brillava che gli parve buona e se ne assicurò meditandola. Ma come
porla ad effetto? Per far nascere un’ombra sotto il sole occorreva
dire agli uomini ben baffuti: — Dammi questo che ti darò questo! —
Ed egli che poteva dare? Il suo lavoro; ma a quale pro, data l’idea
che meditava? Allora s’incamminò lungo la spiaggia deserta e cammina
e cammina.... ecco che vede, abbandonata fra sabbia e mare, mezzo
sepolta, quasi sfasciata, la carena di un vascello. Un cadavere.
Ma anche i cadaveri valgono qualcosa pei corvi e Palma non era che
un corvo. Si avvicinò, considerò il carcame e disse: — Sì! — Poi
soggiunse: — Farò da solo!... — Ma per cominciare gli occorreva almeno
una vanga e non l’aveva. La rubò e fu l’ultimo furto ch’egli commise
al di fuori della legge. Poi per tre giorni e per tre notti scavò, si
affannò e riuscì a trarre la carena sotto la luce del sole. Era meno
peggio di quel che non avesse pensato. Ma da quel punto incominciava
la vera gravità del suo disegno. Come fare a trar quel carcame al
punto che egli aveva prescelto? Occorrevano per lo meno due paia di
buoi. Dove trovarle? Allora assottigliò l’ingegno e pensò: ormai egli
possedeva qualcosa e poteva essere creduto. Egli aveva creato un’ombra
sulla terra; da quella qualsiasi ombra doveva nascere il credito. E il
credito nacque. Un contadino si prestò. Palma gli disse:

— Vi pagherò fra due mesi.

Il contadino rispose:

— Mi pagherete quando vi farà comodo.

Perfettamente. Allora Palma fece trasportare la nave al termine della
strada che si apriva sul mare.

— Che ne volete fare? — gli chiese il contadino.

Palma rispose:

— Un’osteria!

Il contadino lo guardò in tralice. Palma soggiunse:

— Un’osteria ed è una bella pensata!

— Ma come farete?

— Datemi aiuto e vedrete.

— Oh!... Ed io vi aiuto!

Infatti l’aiutò. Ormai la Provvidenza si era incaricata della faccenda
e Palma se ne accorse, ma non rifiatò. Perchè con la Provvidenza non si
uccella. Essa non incappa nelle reti e nelle panie degli uomini, anzi
appare a coloro che non la invocano. Dunque Palma si ebbe un aiuto. Il
contadino chiamò i suoi figli. Furono cinque uomini di buona volontà,
data la qual cosa, la baracca alzò la sua gobba al cielo. Tolte le
monche alberature e sgombrato l’interno del vascello dai rottami e
dagli intoppi non rimase che la carena ignuda, malconcia qua e là e con
una rispettabile falla sotto la prora. Palma non si occupò della cosa;
capovolse la nave in un punto stabilito della spiaggia e domandò al
contadino dieci lire in prestito. Il contadino glie le dette e disse:

— Mi dovete in tutto venticinque lire.

— Ed io ve ne darò trenta! — rispose Palma.

Ormai Palma aveva una casa e un capitale. Incominciò col comperare
chiodi e martello. Assai ne aveva con tutti i rottami del vascello.
Prima mangiò, chè non aveva mangiato da qualche tempo, poi si mise
all’opera. E tappa, e inchioda, e rappezza, in due giorni la casa era
fatta. Non più uno spiraglio. Nell’interno, buio perfetto.

Ora si trattava di praticare una porta e una finestra e di innestare un
camino sul dorso della novissima abitazione.

Cosa semplice. Una sega servì per la prima bisogna; una vecchia
grondaia funse da camino. Dopodichè l’esterno era compiuto e Palma
passò all’interno che divise in due parti. Da un lato la cantina
che doveva servire anche da stanza da letto per l’oste; dall’altro
la cucina. E basta. Il contadino gli venne in soccorso ancora per
l’arredamento, finito il quale, Palma si dette all’opera artistica
e presa una piccola tavola rettangolare e alcune vernici, dipinse su
detta tavola la sua personale sensazione di una Sirena e con non meno
personale ortografia vi scrisse sotto: — _Osteria della Sirena_ —
compìta la quale opera inchiodò la tavola a sommo della sua abitazione
e attese.

Attese un uomo, il primo. In verità non avrebbe potuto offrire al suo
primo avventore se non dell’acqua limpida; ma anche l’acqua limpida
aveva il suo valore in quelle latitudini perchè per molte miglia
all’intorno non esisteva un pozzo. Palma non possedeva tuttavia una
botte, ma sì bene due latte da petrolio. Dette latte erano piene
d’acqua e costituivano un valore. Non mancava che li assetati. Anche
di questo doveva incaricarsi la Provvidenza e siccome Palma non
aveva fretta e si accontentava di ben poco per arrivare da un giorno
all’altro, attese in tranquillità.

Ed ecco che una notte, dormiva sulla sua paglia fra le due latte di
petrolio, quando sentì qualcuno alla porticciuola serrata. Si levò sui
gomiti. Chiese:

— Chi è?

— Si può entrare? — fece una voce dal di fuori.

— Cosa volete? — domandò Palma.

— Bere! — rispose l’estraneo.

— Non ho che dell’acqua.

— È lo stesso.

Bene.

Palma non aveva bisogno di vestirsi perchè non si svestiva mai; si
rizzò ed andò ad aprire la porta. Entrò un uomo; un vecchio barbuto con
gli occhiali sul naso. Un par di occhiali a stanghetta, arrugginiti, e
un cappellaccio di traverso.

Sedette sulla panca innanzi a una tavolaccia nera e quando fu seduto
disse ancóra:

— Bene!

Palma lo guardò; il barbone incrociò le braccia sulla tavola.

— Di dove venite? — gli domandò Palma.

— Datemi da bere — rispose l’uomo.

Palma prese il suo unico boccale che era un coccio senza manico e senza
beccuccio, pose innanzi all’ospite una ciotola sboccata e scomparve in
cantina. Poco dopo rientrò col suo vin di nuvoli e l’ospite non si era
rimosso. Aveva una faccia da ceffautte da guardarsi a stupore: o da
dove discendeva nel pieno della notte quell’individuo? E dove andava
e che cercava mai? Palma sentiva queste domande dentro di sè, ma le
trattenne chè si investiva del suo nuovo còmpito di oste.

L’uomo bevve tutto il boccale e quando ebbe bevuto disse:

— Buona!

— È acqua di fonte — fece Palma.

E l’estraneo ridisse:

— Buona!

Evidentemente il barbone non era un parlatore, ma ciò non preoccupava
Palma il quale diceva fra sè: — Anche se mi dà quattro soldi, son tutti
guadagnati! — Ed in questo pensiero si accosciò in disparte presso
la parete della sua bicocca. L’olio non mancava alla lampada ma se ne
consumava troppo. Trascorso qualche tempo Palma disse all’ospite:

— Volete dormire?

— Perchè? — fece l’ignoto.

— Perchè l’olio si consuma.

— Ed io ve lo pagherò.

— Ah, se volete pagare fate ciò che vi accomoda!...

E Palma chiuse gli occhi e stava per addormentarsi tranquillamente
quando l’ospite suo gli chiese levando gli occhi:

— Da quanto tempo state qui?

— Da venti giorni.

— E che cosa volete guadagnare fra queste lande?

— Aspetto che venga l’estate! — fece Palma ammiccando.

— E con l’estate?

— Con l’estate? Ma vengono a migliaia quaggiù i contadini!

— E se vengono?

— Se vengono, lavoro!

— E il vino?...

— Il vino.... il vino!... Si troverà!

Il vecchio tacque e Palma lo guardava sempre più incuriosito. Chiese,
dopo una sosta:

— E voi cosa siete, un pastore?

— No — fece l’uomo. Poi guardò Palma negli occhi e soggiunse: — Io sono
un frate!

— Un frate?

— Sì. Ma se mi va bene una cosa non torno più al convento.

— E la veste dove l’avete messa?

— In casa del contadino che mi ha dato questi panni.

— Ed ora dove andate?

Il vecchio si levò e disse:

— Hai una vanga?

— Sì.

— Sai dove sia la Torraccia?

— Sì.

— Vuoi condurmi alla Torraccia?

— A quest’ora?

— Sì.

— E che cosa volete fare laggiù? — Palma non voleva compromettersi. Gli
erano bastati i suoi vent’anni di prigione e più non voleva farne.

— Se vieni faremo a metà — rispose il vecchio.

Palma si convinse; prese la vanga e il suo coltello e seguì l’ospite.

Dopo due ore di strada erano ai piedi del rudere solitario. Il vecchio
entrò nella torre e Palma dietro.

Dopo aver misurato a passi lo spazio rinchiuso fra le mura pericolanti
l’uomo si fermò e disse a Palma:

— Scava qui!

Palma si mise all’opera. Dopo più che un’ora di lavoro aveva scoperto
una scaletta che scendeva in un sotterraneo.

L’uomo disse:

— Non mi sono sbagliato! — Poi accese una candela che aveva con sè ed
entrò per primo nell’antro oscuro.

                                   ❦

Era vicina l’alba quando uscirono dagli antri sotterranei. Primo fu il
vecchio; Palma venne dopo. Erano ambedue irriconoscibili per il terrame
che li ricopriva.

Quando ebbero fatto qualche passo, Palma si fermò innanzi all’uomo
sconosciuto e gli disse:

— E adesso che cosa mi darete per la mia fatica?

— Aspetta — disse il frate.

— Che cosa devo aspettare?

— Quello che ti dirò.

— Le parole non si spendono!

— Sei uno stupido!... Le parole si spendono benissimo!

— Ma insomma che cosa siamo andati a fare laggiù?

— A cercare un tesoro!

— Infatti abbiamo trovato da stare allegri!

— Questo non importa!

— Sì, che importa!

— Tu avrai sempre guadagnato qualcosa.

— Che cosa?

— Vedrai!

E ripresero la strada. Quando furono all’osteria della Sirena si
vedevano già le vele raminghe per il mare.

Entrarono. Il frate sedette innanzi alla tavolaccia ed abbandonò la
fronte fra le mani. Dopo una pausa domandò:

— Hai un calamaio, una penna, della carta?

Palma guardò il vecchio in tralice e chiese a sua volta:

— Siete matto?

— Sai leggere?

— No.

— Bene. Allora stammi a sentire.

Palma lo ascoltò.

                                   ❦

Il frate ritornò al convento senza lasciare una palanca a Palma, ma
Palma fu contento ugualmente. Da quella volta il vecchio barbone non
comparve più nè di notte nè di giorno al vascello capovolto, ma il suo
passaggio non fu più dimenticato.

Ora giunse l’estate. Cominciò il giugno con certe giornate ardenti
che valsero più di qualsiasi consiglio a cacciar le turbe assetate di
frescura dai piani al mare.

Cominciarono a giungere le carovane urlanti e si accamparono per la
spiaggia.

Bisogna dire che Palma aveva tolta dalla sua baracca la dipinta insegna
dell’Osteria della Sirena e che l’aveva sostituita con una rozza croce
formata da due avanzi di naufragio legati insieme con una corda.

Giunsero le carovane adunque, ma Palma non si mostrò. Vestito di
un sacco stava rannicchiato in fondo al suo rifugio aspettando che
qualcuno dischiudesse l’usciuolo. Pareva non volesse uccellare anzi
attendesse di essere uccellato. Ma la gente si sbandava all’intorno
volgendo appena una fuggevole occhiata allo strano rifugio. Diceva
tutt’al più:

— Sarà la casa di qualche poveraccio!... Di qualche pescatore di
arselle!...

E non sapevano che un pescatore in realtà si accucciava là dentro, ma
un pescatore di uomini.

Aspetta e spera. Passavano i giorni. Palma cominciava a bestemmiare,
cosa quant’altra mai indecorosa per un uomo che vestiva il saio
all’ombra della croce.

Ma nessuno lo udiva. Si udiva la gazzarra, il frastuono delle turbe
che esulavano al mare. La spiaggia pareva convertita in un cocomeraio
chè ogni brigata traeva seco sui biroccini e sui carri oltre a qualche
lenzuolo, larga copia di cocomeri e ne faceva festa tra un bagno e
l’altro ingoiando fette su fette del saporoso frutto vermiglio.

E il nudo trionfava e l’ebbrezza della frescura e del mare.

                                   ❦

Palma pazientava e non usciva a mostrarsi alla turba, ma già nell’anima
sua incominciava a infiltrarsi il dubbio, quando avvenne che due
fanciulli ignudi, ruzzando un giorno fra le arene, venissero a sedersi
all’ombra della singolare baracca E com’è dell’età loro curiosa,
dopo alcun tempo incominciarono a considerare la novissima capanna e
pensarono di visitarla anche all’interno.

Palma udì e lasciò fare. Si avvicinava il momento buono. Infatti, non
appena i due fanciulli ebbero messo il capo all’uscio ed ebber veduto
quello strano uomo accoccolato in un canto e tutto ravvolto in un
sacco, ne ebbero tanta paura che fuggirono come lepri e mai più non si
rividero presso la baracca. Ma la voce si diffuse fra le turbe.

— Nella baracca c’è un eremita!... C’è un santo eremita!... È coperto
di un solo sacco!... Non mangia mai!... Ha la barba lunga due metri!...
Non vede il sole da vent’anni!...

E vai dicendo. La necessità del fantastico si liberava a carriera e
qualcuno giunse a sostenere che si trattava di un turco convertito.

Ma tutto ciò poteva ancóra interessare le donne non già gli uomini,
i quali fra cocomeri e bagni avevano in superbo disprezzo ogni
santocchieria e preti e frati ed eremiti e ogni altro tipo del genere
che non era, presso le faticate turbe, se non un vagabondo.

E Palma udiva questi discorsi e incominciava a disperare. Il contadino
che gli aveva fatto credito giungeva tutte le notti a reclamare il suo
e già minacciava uno scandalo. Un giorno Palma si disse:

— Se oggi non vien nessuno, domani metto fuori l’insegna dell’osteria e
si vedrà!...

Ma appunto quel giorno era il destinato.

                                   ❦

Era il meriggio, forse, quando una voce si udì dall’esterno; una voce
di donna:

— Si può entrare?

— Avanti! — fece Palma.

Entrò una donna che recava in braccio un suo marmocchio, giallo come lo
zafferano. Palma non si rimosse.

— Voi che siete un sant’uomo.... — disse la donna e si fermò.

— Che cosa volete? — domandò Palma.

— Voi che siete un sant’uomo dovreste guarirmi questa povera creatura!

Palma chinò il capo e non rispose.

La donna, a tale mimica, fu sempre più compresa della virtù
taumaturgica del solitario.

— Se voi voleste.... — continuò.

Palma alzò un braccio e disse:

— È Dio che deve volere!

Poi si stupì di aver detto tanto. Ma la donna aveva molta fede.

— Se voleste pregare il Signore....

Palma si levò e la donna si fece il segno della croce.

— Fatemi vedere questo bambino! — disse Palma.

La donna glielo mostrò mormorando:

— È molto malato!... Deve morire!...

Dopo un lungo silenzio speso a considerar la creatura da tutti i lati
Palma disse:

— Non morirà!

Fu colpito dal suono della sua voce e dalla promessa formale. Oramai si
era compromesso. O riusciva o ritornava alla sua prima Sirena.

La donna disse:

— Se me lo salvate siete il più grand’uomo del mondo!...

Palma si sarebbe accontentato di meno; di quattro palanche.

Disse alla donna:

— Aspettate!

E passò nel secondo stambugio della sua capanna.

Ritornò poco dopo con un cartoncino in cui erano tre pillole. Le porse
alla donna, disse:

— Queste sono tre pillole fatte con erbe che hanno virtù non conosciute
da nessuno al mondo. Dovete darne al vostro bambino una oggi, una
domani e una posdomani.

— E guarirà? — fece la donna.

Palma chinò la testa, susurrò:

— Vedrete!... Vi aspetto fra tre giorni!...

La fortuna o la disgrazia erano in via. Palma attese con un certa
ansietà ciò che gli avrebbe fruttato la ricetta del frate.

                                   ❦

A vero dire Palma non aveva mai pensato a Iddio. Non gli era venuto in
mente mai, neppure in prigione quando poteva meditare a tutto suo agio.

Ricordava che da piccino sua madre gli aveva parlato qualche volta
del Signore, ma Palma era un ragazzo distratto e non era stato mai
tanto curioso da voler sapere che cosa ci fosse in fondo ai cieli.
Per lui l’uomo era una bestia che deve lavorare e morire. E basta.
Lavorare e morire come un bove con la semplice differenza che gli
uomini mangiavano i bovi e questi eran più miti chè si accontentavano
dell’erba. Dunque se un Dio doveva esserci sarebbe stato giusto avesse
preferito il bue che era migliore dell’uomo. Ma tale idea poteva
essergli balenata innanzi forse una volta in tutti i suoi cinquant’anni
di vita. Per il resto si era accontentato di passare da un governo
all’altro con l’unica preoccupazione di trovare un modo per trarre
in inganno i suoi simili e far danaro. Egli era dunque un ignaro di
cose divine quando fu costretto a formarsi una chiara convinzione in
proposito.

Fino a quel punto aveva seguito il consiglio del frate senza derogarne
in nulla; si era costretto ad una prigionia che non gli riusciva
importuna per la lunga consuetudine a tale stato, aveva atteso come il
ragno, sperando che tutto si risolvesse in un commercio lucroso e nulla
più.

Palma attendeva il lucro e il suo fato lo pose di fronte a Iddio. Tale
cosa lo sbalordì. Non se l’aspettava, ma tacque.

Trascorso adunque il secondo giorno e incominciato il terzo, appena era
sorto il mattino che un insolito vocìo giunse all’ignaro eremita e lo
chiamò sulla soglia della sua acquatile casa.

Come volse intorno gli occhi, ecco venire di lontano una turba di donne.

Palma rimase perplesso. Gridavano, dunque il bambino era morto e, se
era morto, l’unica cosa che gli restasse a fare era quella di darsela a
gambe chè ormai la sua fortuna gli aveva volte le spalle.

Tale la prima considerazione e la risoluzione prima che gli balenarono
innanzi.

Su tale proposito rientrò in casa, ma sul punto di uscirne troppo gli
dispiacque di abbandonare il suo nido fra le sabbie sì che, passato
nella seconda stanza, e rifugiatosi in un angolo, nel buio, attese
senza rifiatare l’arrivo della strillante turba.

E poco attese che le donne furono innanzi alla soglia e incominciarono
a gridare:

— Palma.... Palma.... apriteci.... apriteci!...

— Sì, aspettatemi per l’anno del mai!... — diceva fra sè l’eremita e
più si rintanava nel buio.

E le donne:

— Palma.... Palma!... Veniteci ad aprire, per carità!...

— Ve lo domandiamo per carità!...

Palma stette in orecchio. Trasentiva o non piuttosto le femmine lo
imploravano?

— Venite da queste disgraziate, Palma, che Iddio ve ne rimeriti!...

Davvero?... Dunque le pillole erano state efficaci!... Il frate
aveva detta la verità!... Si levò; si riaggiustò addosso il suo sacco
grigio....

— Palma?... Non ci mandate via!... Siamo povere donne!...

Allora l’uomo dal saio incominciò a sentire qualcosa dentro di sè che
vi ingrandiva come se un sole nascesse. Uscì dalla cantina, attraversò
la prima stanza, aprì l’usciuolo. Non appena fu sulla soglia il
vociferìo si accrebbe e le braccia si protesero:

— Palma, uomo benedetto dal Signore, guaritemi questa creatura!...

— Palma, Palma, sono tre anni che non trovo riposo!...

— Palma, benedite questa povera figlia che ha il diavolo in corpo!...

E volevano da lui queste e cento altre cose, cento miracoli e Iddio.

Iddio!... L’uomo profano di ogni fede rimase muto, accigliato,
impassibile, ma dentro al cuor suo incominciò a nascere un dubbio, un
dubbio curioso che gli dava una sensazione nuova come di una leggerezza
subitanea fra terra e cielo.

Iddio!... Dunque poteva darsi davvero che qualche notte, nel silenzio
sterminato di quella solitudine, qualcuno fosse disceso dal cielo per
entrare dall’usciuolo nella sua nave antica?... Poteva darsi?... Ed
egli dormiva e questo qualcuno...

Distribuì quante pillole aveva e rimandò le donne per la loro strada.
Gli ubbidirono a un cenno. Egli aveva in realtà la figura di un asceta
e il volto di un qualche santo forastico nutrito di miele selvaggio.
Tanto si sentì smarrito dalla devozione delle femmine che non pensò
a chiedere compensi. Distribuì il suo farmaco per l’amore di Dio, e
per l’amore di Dio, verso sera, giunse alla sua baracca una giovinetta
che si inginocchiò sulla soglia ed ivi depose un pane, delle uova, del
formaggio; poi si fece il segno della croce e se ne andò.

Palma rimase solo nella notte: contrito, confuso, pentito; ma non
sapeva bene di che si pentisse. Andò pe’ suoi farmachi, raccolse
l’erba che il santo frate gli aveva indicata nella notte del tesoro,
si sentì invaso come da una sacra purità e sempre più confuso, sempre
più incerto sul calcolo ch’egli doveva fare e di se stesso e di Iddio e
delle donne strillanti.

La sua baracca divenne come un santuario per le turbe le quali un
bel giorno pretesero che il povero Palma facesse ritornare in vita un
moribondo. Palma non volle saperne, ma il moribondo guarì. Guarì e fu
fatta. Palma era un santo; Palma aveva fatto il miracolo.

E da quel giorno egli si trovò in diretta comunicazione col Signore.
La macerata povertà, il digiuno, il lungo patire dovevano essere suo
ornamento e questo fino alla morte. E perchè mai?... Che aveva egli
fatto?... Le sue virtù gli erano sconosciute, come il suo Dio. Qualche
notte stette inorecchito sperando di udire una voce portentosa, ma non
la udì. E allora? La virtù della gran mutazione della sua vita non era
adunque che nel farmaco lasciatogli dal frate?...

Tutto scendeva direttamente da una piccola innocua pillola? E quale era
il suo guadagno?... Ah, uomo bruto!... Così avviene che la divina luce
dell’alba discenda per gli sterquilini!... Ma Palma non era di stoppa
ultraterrena e una notte, gettato il suo saio alle ortiche, si dette
per fallito e partì.

E mentre le turbe lo assumevano al cielo, il povero vecchio Palma,
esule di Dio e della legge, sentendosi perduto per sempre per non aver
ascoltata la Provvidenza non ebbe più posa.



I VIOLENTI.


Avevano i Venchi la loro officina sotto un albero fulminato, lungo
la riva di un fiume. Una angusta capanna contesta di rozzi pali e di
fascine e pienata di argilla le pareti; il tetto di stipa, i battenti
neri. V’eran per entro in grande copia gli arnesi fabbrili e più ne
stavano all’aperto dove il maestro carradore lavorava e l’estate e
l’invemo.

Quivi disposte su ampie capre e su banchi e sul terreno erano ruote e
timoni e sale e cassini e carra, le membra disperse degli arnesi che
uscivan dal centenario cantiere.

Nell’antro funzionava e ansava e ardeva la fucina. E dall’alba
primissima al declinare delle ombre serali, era un grande travaglio
sotto l’albero fulminato.

Da centinaia di anni la famiglia dei Venchi conduceva il cantiere e
l’opera era trasmessa di padre in figlio co’ suoi gelosi segreti, come
la vita e il nome e le virtù della razza.

Ora era maestro dell’arte, Alessandro, il vecchio di più che settanta
inverni e non aveva questi se non un figliuolo: Samuele, ed erano soli
nella loro casa senza donne. Vivevano essi senza parlarsi mai, tanto
l’uno aveva preso dell’altro e l’anima e il costume ed erano come
estranei nella casa degli avi tutta deserta e muta sulla loro bocca
muta.

Tornavano a notte, l’uno dopo l’altro e salivano alle loro stanze
opposte. All’alba la casa si richiudeva nel suo silenzio.

Mangiavano sul pugno, al lavoro, seduti sopra un toppo di ancudine o
sul tronco di un’acacia o di un olmo e il loro pasto era breve come il
respiro. Non bevevano che al pozzo, ricurvi su la secchia traboccante.
I loro garzoni non ricordavano ch’essi avessero parlato mai a
confidenza neppure per l’attimo. S’intendevano per monosillabi, senza
guardarsi.

Sapendosi uguali in tutto: e nella forza e nel volere, cercavano
evitarsi perchè la devozione sacra del figlio non venisse meno e non
venisse meno l’affetto che li legava. Andavan paralleli, pronti a
morire l’uno per l’altro finchè il caso non li ponesse di fronte per
opposte volontà.

La sommissione di Samuele era stata cieca sempre; aveva seguito il
consiglio e il comando, si era concessa e prona e pronta al sacrificio.
Non mai un giorno senza lavoro; non mai un’ora di gioioso abbandono.
Egli si era piegato come il ferro sul fuoco; era stato stretto e
costretto come la ruota nel cerchio, come il timone fra le chiavarde:
si era dato passivamente con tutta la sua forza.

D’altra parte, tale era stata la vita del padre sotto il dominio di
nonno Samuele. La consuetudine degli avi si manteneva uguale negli anni
nè poteva esser discussa, nè diminuita: era sacra e fatale.

Il figlio era del padre come cosa e non come creatura e questi poteva
disporne a suo piacimento. La salda compagine della famiglia richiedeva
tale disciplina. E Samuele si era aggiogato come tutti coloro che erano
stati innanzi a lui nel tempo e avevano creato il prestigio di un’arte
e di una tradizione; aveva accettato il loro còmpito come il cieco
legno che si costringe tra le ferramenta e va ad obbedienza finchè
non sia ultimamente consunto. Ma la morte era lontana tuttavia per il
giovane gagliardo e la vita non poteva continuare sì cupamente monotona
fino al punto in cui uno si appacia col suo destino e si dispone
all’ultima ventura.

Aveva egli un cuore tumultuoso, una forza non per anco provata, un
desiderio solare che a quando a quando si ridestava per accenderlo di
una radiosità senza confine. Se una sola era la via battuta, s’egli
non andava che dalla casa deserta all’antro fumoso e da questo alla
casa quando il sonno incombeva; se era chiuso fatalmente, come l’astro,
nel suo circolo eterno e doveva seguire l’ombra del padre e coprire le
stesse orme a capo inchino e non fiatare e non domandare e non essere
mai; se, come gli arnesi della fucina, non doveva servire che ad un
ufficio, l’anima sua, nel suo alto silenzio, vedeva, s’irraggiava per
mille aspetti giovanilmente in una sua trepida adorazione portentosa.

Era il mondo, a quell’anima chiusa, come un canto sconfinato e
magnifico, come un ignoto adorabile, come una gioia senza fine e senza
principio, e una purità senza travaglio. Dalla sua costrizione, dal suo
isolamento sorgeva l’ignaro con raddoppiata energia a illuminare della
sua sconfinata passione le cose indifferenti.

Maestro Alessandro nulla pensava di questo. La giovinezza sua era stata
impassibile. Egli non aveva conosciuto se non una ragione fisiologica
alla quale era bastata una donna qualsiasi, quella che gli avevano
data in moglie e ch’egli aveva accettata come si accetta un pastrano
quando fa freddo; nè poteva supporre che altro fosse il desiderio del
figliuolo.

Avere una donna in casa era necessario; non potevano continuare la loro
vita sbandata e Samuele doveva sposare. Ora maestro Alessandro sapeva
già di una donna ricca e perfetta massaia, che avrebbe fatto della
casa un paradiso; anche avrebbe dato figli sani e robusti perchè non
era giovine ed era ben squadrata chè fra anche e spalle raggiungeva
l’ampiezza di un bue, e gli piaceva benchè non l’avesse mai guardata in
viso; ma che importava il viso? Una donna si sposa per quello che vale
e non per la sua bellezza e la bellezza è vana e crea fastidi e può
portare a mal fine un marito.

Se era brutta, come aveva sentito dire, tanto meglio; la sua povera
moglie era quasi gobba, eppure gli aveva partorito un fior di figlio,
chè Samuele era saldo come l’incudine. E più di questo non si poteva
desiderare.

Ora una sera, chiusa che fu l’officina e partiti i garzoni, maestro
Alessandro, contro il costume suo, chiamò Samuele e gli si pose a
fianco. Il loro parlare fu breve:

— Samuele, tu devi prender moglie!

Il giovine levò gli occhi sul volto del padre e non rispose.

— A venticinque anni è il tempo giusto. Le cose si fanno alla spiccia.
La Venusta degli Antoni è già pronta. Io le ho parlato.

Samuele ebbe un fremito ma si rattenne. Chiese a voce soffocata:

— E che vuole da me?

Maestro Alessandro si fermò a squadrare il figlio e la sua faccia si
aggrottò come il monte a sera:

— Come che vuole? Di che mondo sei? Dovete sposarvi!

Samuele guardò il padre negli occhi con insolita fermezza e sbiancò
tremando.

Rispose:

— No.

E il vecchio:

— No che cosa? Che ti frulla per il capo questa sera.

— Io non la voglio!

— Non la vuoi?

— Ho detto no!

Fu fra i due un torbido silenzio, poi maestro Alessandro alzò a
violenza il pugno vigoroso ma non colpì; si rivolse e riprese la
strada. Samuele gli tenne dietro. Camminarono sempre a fianco, a capo
chino. Erano di pari statura; ambedue forti ad un modo: l’uno più
agile, l’altro più nodoso; il frassino e la rovere. Sulla soglia della
casa deserta maestro Alessandro si fermò e nelle parole che disse era
un monito sinistro, la voce rauca tremava nel singhiozzo dell’ira:

— Tieni bene a mente quello che ti dico, ragazzo! In questa casa c’è
una volontà sola ed è la mia. Non pensare a disubbidirmi e bada a te!

Ed entrarono e la casa tacque sul loro angosciato riposo.

Dopo non molti giorni ogni formalità era compiuta. Maestro Alessandro
aveva lasciata l’officina per recarsi in città e nessuno seppe la
ragione del suo viaggio. La seppe Samuele, una sera di domenica, quando
il padre gli disse:

— Ora verrai con me.

— Dove?

Maestro Alessandro continuò:

— Il permesso è preso; non c’è nulla che si opponga. Posdomani tutto
sarà fatto e la Venusta sarà con noi, nella nostra casa. Tu puoi
scegliere l’ora che ti piaccia meglio per sposare.

Samuele guardava il padre co’ grandi occhi larghi e bianchi e immobili.
Il suo volto era quello di chi impietra.

Disse maestro Alessandro:

— Hai inteso?

— Sì!

— Perchè mi guardi così?

— Per nulla.

— Allora va, mettiti la veste migliore. La Venusta ci aspetta!

Samuele non si muoveva.

E il vecchio gridò:

— A chi parlo?

— Che vuoi? — fece Samuele.

— T’ho detto di ripulirti che ci aspettano a casa dei Grandi. E fa
presto!... E cammina senza storie prima ch’io ti rompa la faccia!

E ancora l’abitudine antica lo tenne e l’anima sua fu muta in fondo al
suo buio. Samuele andò, si vestì come in sogno e seguì il padre senza
parlare.

A casa dei Grandi li aspettavano. C’era una tavola imbandita e nel
basso focolare, in fondo alla stanza, ardeva una fiamma altissima.
Samuele non vide se non quel dolce bagliore e non udì le voci e gli
auguri, nè vide la donna attempata che gli parlava sorridendo. Una
volta ch’egli fissò quel volto piatto dal gran naso broccuto, rise come
un ebete e a tutto ciò che gli fu chiesto non rispose. Poi cominciò il
festino e la volgarità.

Erano pigiati intorno ad una grande tavola, seduti su due lunghe panche
e le donne mangiavano in disparte, presso il focolare come bestie
accosciate, il viso sui piatti fumanti. Solo una gli era al fianco e
lo stuzzicava e rideva a rovescio come una caldaia che bolla, ed egli
vedeva la larga bocca dai denti gialli aprirsi e vociare e ingoiare, e
vedeva i piccoli occhi porcini e le guance sudanti, floscie come l’otre
vuoto.

Maestro Alessandro più non si curava di lui; nessuno gli poneva mente
chè l’accolta era intenta ai bisogni suoi voraci. I grandi vassoi di
carni e di legumi eran finiti d’assalto e gli ampi boccali si vuotavano
a gran furia. Solo, più aumentava l’ebbra bestialità dell’accolta, più,
quella che gli sedeva a fianco, lo pigiava e lo infastidiva con la sua
voce rauca e Samuele cominciò a guardarla in volto senza fiatare.

E la donna chiese:

— Perchè non mangi?... Ti vergogni della tua sposa?...

E rideva, rideva interrompendosi a quando a quando per saziare la sua
voracità flatulenta.

— Hai sonno, di’?... Dormi ancora per questa notte chè domani non
potrai dormire!

E, sotto la tavola, gli si stringeva da presso, sempre più tenacemente,
come la mignatta e il nodo scorsoio e le cose che soffocano e che
dissanguano.

— Non mi vuoi bene?

Silenzio.

— Non ti piaccio?

Egli la guardava con una sua tragica smorfia e pensò come mai potevano
uscire tali parole da quella bocca sconcia, irte di peli le labbra e il
mento piatto. Ed ella rideva e si accalorava da sola, scambiando per
timida inesperienza il silenzio dell’uomo e più le piaceva il giuoco,
e più le cresceva la foja quanto più le sembrava e fresco e timido il
frutto nuovo sul quale avrebbe morso con la furia della sua maturità
brutta ed ingorda.

E ancora gli diceva accostando a quella di lui la faccia bestialmente
accesa:

— Quando mi conoscerai mi amerai. Io so l’arte di farti morire d’amore!
Non mi guardare se non sono bella chè ti piacerò più del sole!

E la gente ubriaca cominciava a bofonchiare. Poi qualcuno più acceso,
gridò:

— O Samuele, stringitela dunque quella tua vecchia gallina!... Non vedi
come ti guarda?...

E l’idea piacque sì che l’accolta l’impose urlando.

La Venusta protese le labbra e baciò sul collo Samuele. Questi la
respinse col gomito a violenza.

E disse la donna:

— Abbracciami, non siamo sposi?

Maestro Alessandro, in capo alla tavola, teneva la testa china sul suo
piatto; allora un giovinastro gli gridò:

— Diteglielo voi, maestro, che s’abbraccino!...

E la gente:

— Su dunque, diteglielo, maestro!

Il vecchio levò gli occhi che si scontrarono in quelli del figlio
suo, nè mai più torbida luce si incrociò per gli spazi nelle orrende
tempeste. Maestro Alessandro chinò la testa. Allora l’anatroccola
infojata abbrancò al collo Samuele e lo attanagliò come la morsa
stringendo la viscida faccia contro quella di lui.

Scoppiò una risata omerica e la voce incomposta degli ebbri di vino
incitò la Venusta a tutto osare.

Anche le donne si accostarono alla tavola, scapigliate, e battevan le
mani. In breve si formò intorno un cerchio di brutale concupiscenza e
Samuele vide l’assieparsi e il chinarsi delle facce oblique e vide gli
occhi accesi di fosco ardore e le vene turgide e gli aspetti bestiali,
nè più resse a tale supplizio.

Allora ciò che l’anima sua pura aveva contenuto irruppe, schiantò ogni
costrizione.

— Va via che mi fai schifo, puttana!

E afferrata la donna alla cintola l’arrovesciò sconciamente su la panca
e si tolse dall’incubo.

Il clamore si spense d’un subito. Non fu intorno che un’incertezza
paurosa e gli occhi corsero dal volto del padre a quello del figlio.

Samuele non guardò la gente, di nulla si curò se non del suo immenso
desiderio di libertà; non fu al mondo, per lui, se non la sua fiera
volontà che non avrebbe umiliata mai più, e sentiva una gioia altissima
in quella subita conquista.

Già era per uscire quando si levò, aspra ed imperiosa dal silenzio, la
voce di maestro Alessandro:

— Samuele?...

Il giovane si rivolse torvo.

— Che vuoi da me?

Il vecchio fece per slanciarsi ma un urlo lo trattenne. Allora si passò
le grosse mani su la pallida faccia sconvolta e gridò:

— Va, va, che saprò dove trovarti!

E nessuno più disse parola. Sentivano l’approssimarsi dell’orrore.
Erano i Venchi di una feroce razza lupigna che nulla raffrenava. Gli
uomini chinarono la faccia; le donne udivano già per l’aria fosca di
tenebra le urla della folle paura.

E quando il vecchio fece per uscire nessuno gli si oppose: era sul suo
volto cadaverico la risolutezza che umilia chiunque la guati. Uscì, lo
guardarono finchè la porta non fu rinchiusa, ascoltarono il suo passo
finchè non si perse e allora si udì l’implorazione della donna offesa;
schiantò il silenzio come un singhiozzo:

— Correte gente, correte che non si debba udire un simile spavento!

Quelle parole agghiacciarono i cuori e gli anziani si mossero incurvi,
senza fiatare.

Ora Samuele attendeva il padre nella casa sconsolata. Una lampada
fumigava sulla tavola. Più non aveva misura il tempo, più non era nè
tempo nè spazio, ma una cupa eternità senza voce.

Camminava il giovine ascoltando il tonfo del suo cuore scatenato e ad
ogni scricchiolio sussultava rivolgendosi alla porta.

Poi si udì cigolare la porta e si udì il passo del sopravveniente.
Furon l’un contro l’altro come due spettri. Nè l’uno dei due piegò; nè
parevano tanto forti da superare quell’orrendo silenzio.

E il vecchio si accostò al muro e ne distaccò la doppietta. Si udirono
gli scatti delle molle congegnate.

Samuele non fiatò, non si mosse, non distolse gli occhi torvi dal volto
del padre. Erano ai due lati opposti della stanza.

Maestro Alessandro puntò lentamente l’arme nera. Era nel suo volto
sparuto la contrazione di un’ira senza limite, la terribilità del
delitto.

E allora parlò e disse:

— Inginocchiati!

Il figlio ubbidì e s’aperse le vesti, nè le sue mani tremarono.

E il vecchio:

— Farai ciò che voglio?

Samuele non rispose.

Il fucile s’abbassò verso il petto scoperto.

— Rispondi!...

Si udì un gemito, una voce strozzata, uno spasimo angosciato di
supremo dolore e la pallidissima faccia sbiancò ancor più nell’orrendo
singhiozzo.

— Rispondi! — gridò più forte l’ossesso.

Allora parve che tutto l’essere veemente e tutta la ribelle gagliardia
del giovine si liberassero nel grido; ed egli parlò stravolto, senza
più lume negli occhi:

— Puoi ammazzarmi, ma non puoi costringermi!

— Tornerai dai Grandi?

— No!...

— Chiederai scusa?

— No!...

— Mi ubbidirai?

— No, no, no!...

E in così dire fece per lanciarsi innanzi, cieco nel suo furore; ma
appena aveva levato il ginocchio che un colpo rintronò e il giovine dal
fiero viso stramazzò riverso come cosa inanimata: gli occhi al cielo e
la bocca torta.

Poi un urlo fu nella casa desolata e un urlo più alto nella notte
grande, chè gli anziani sopraggiungevano correndo.

Ma tutto era vano ormai. Il tragico fato dei Venchi era compiuto per
l’eternità.



LA GAZZA.


Il semplicista non fece troppe parole; guardò Mezzalana, gli tastò il
polso, gli rovesciò le palpebre e scrollò il capo.

— Be’, cosa dite? — mormorò Mezzalana.

— Cosa debbo dire? — rispose il semplicista.

— C’è pericolo?

— Non la vedo chiara.

— Che cosa c’è.... Un tumore?

— No, è il male della lucciola.

— Della lucciola?... Non l’ho mai sentito ricordare.

— Be’, ve lo dico io.

— Siete sicuro di non sbagliarvi?

— Se non mi credete, perchè non chiamate il dottore?

— Il dottore?... Vuol esser pagato!

— Allora state zitto se non volete spendere!

Mezzalana alzò le spalle e mormorò:

— Starò zitto!

L’empirico riprese la mazza che aveva appoggiata al muro, si chinò alla
secchia ricolma che era appoggiata sul pozzale, bevve e, asciugata la
bocca sulla manica della giacca, si avviò all’uscita dell’aia.

Mezzalana non era contento e già si pentiva del palancone che aveva
dato al semplicista per la sua visita; due soldi valevan bene un lungo
discorso, s’egli li valutava alla stregua della sua rabbiosa avarizia;
così, come vide l’uomo andarsene tranquillamente senza aggiungere
parola, gli gridò dietro:

— Be’, non mi dite altro?

L’empirico si fermò e, volgendosi a mezzo, rispose:

— Non ve l’ho detto il male che avete?

— Sì, ma che cosa debbo prendere per guarire?

— La cassa!

— Che cosa?...

Allora Zibaldino, che stringeva tuttavia a dispetto, nel palmo
della mano, la scarsa mercede e voleva far notare all’avaro la sua
spilorceria, grugnì:

— Dite un po’, pretendereste forse ch’io perdessi tutta la mia giornata
per due soldi?

— Due soldi son due soldi — rispose Mezzalana; — costano fatica e voi
li guadagnate con delle chiacchiere!

— Ah! sono chiacchiere le mie?

— Non avete mica imparato la vostr’arte vangando la terra!

— Allora perchè mi chiamate se sono chiacchere?...

— Perchè vi contentate di poco.

— Siete uno sciocco!

— Io sarò uno sciocco, ma due soldi son due soldi!... E per due soldi
dovreste parlare un po’ di più!...

Zibaldino scuoteva il capo da destra a sinistra squadrando il cocciuto
bifolco; poi si decise e parlò chiaro:

— Be’, già che volete farmi parlare: volete proprio saperla tutta?

— Sì.

— Allora vi dico che avrete ancora tre giorni da campare!

— Tre giorni.

— Sì, tre giorni. E ve la dò lunga!...

Mezzalana si guardò attorno, si calcò la _galosa_ fino alle orecchie e
mormorò:

— Basta!... Ho capito!...

— Vi saluto — fece Zibaldino.

— Addio — rispose Mezzalana; ma l’empirico non era giunto ancora sulla
strada che il vecchio gli gridò dietro:

— Avete detto che è il male della lucciola?

— Sì, della lucciola!

— E non ci sarebbe qualche erba?

— Sì, l’_erba cagnina_ che fa bono ai cani!

— Dite davvero?

Zibaldino non rispose più. Si avviò per la riva del fosso, e camminava
forte.

Mezzaluna corse sulla strada, stette in forse un secondo, poi chiamò:

— O Zibaldinoooo?

L’altro affrettava il passo dinoccolato, il cappello sugli occhi e le
mani in tasca.

— O Zibaldinoooo?... Non mi sentite?...

Sì! Chi lo sentiva?... Era indispettito. Svoltò per la prima
viottola e non si vide più. Allora Mezzalana si grattò un orecchio
e incominciò a pensare. Era troppo chiaro che il semplicista si era
preso giuoco di lui. Forse con tre palanche avrebbe parlato un po’
più e si rimproverava di non aver arrotondata la grassa mercede. Ma
tale rimprovero non resse alla sua critica feroce. Tre palanche per
un chiacchierone che veniva a guardarvi negli occhi o a tastarvi il
polso? Bisognava essere milionari per darsi a spese simili. E negli
occhi che cosa ci vedeva, la fede di nascita?... E a che serviva
tastare il polso se egli sentiva male dentro, nel _cassone_, fra il
cuore, lo stomaco e la milza? Spendere due soldi per sentirsi ripetere
la bella verità che bisognava morire!... Tante grazie! Credeva forse
che Mezzalana non sapesse.... Però aveva solo settant’anni. Che
cos’erano settant’anni?... Suo padre era morto a ottantasette e suo
nonno a novantaquattro. E aveva sentito dire dalla buon’anima di sua
madre che un loro vecchio antico era giunto alla bella età di cento
e quindici anni. Oh, sì!... Così bastava!... Dice: — Era ridotto come
un uccellino!... Be’, e se era magro, e se mangiava poco non era fra
i vivi ugualmente?... Perchè il tutto sta a non dover andarsene troppo
presto; per il resto che cosa importa?... Anche se uno non si muove più
da una sedia, basta veda....

E qui lo colse un pensiero amaro: e se per davvero egli non avesse
potuto veder più?... A settant’anni! E gli pareva di trovarsi di fronte
a una smisurata ingiustizia se pensava alla morte alla sua età. Si
spinse la _galosa_ sulla nuca; si avviò per l’aia ciondolon ciondoloni;
prese una forca appoggiata a un pagliaio e la portò nella capanna. Il
cane corse ad annusargli le gambe; lo scacciò.

Una subita incredulità lo invase. Ogni dubbio ne fu travolto. Ma
che morire!... A dar retta a certa gente sì, che si sarebbe morti
venti volte il giorno. L’ora segnata era nel libro di Dio, non poteva
conoscerla faccia d’uomo sulla madre terra. Il nostro destino era ben
al disopra dei tetti delle case, in fondo al cielo, e se qualcuno fosse
potuto andare e ritornare di lassù dove corrono le stelle, oh! allora
gli si sarebbe potuto credere ad occhi chiusi. Ma un chiacchierone che
sapeva l’arte di comporre qualche pillola, dove doveva togliersela
la misteriosa scienza della vita e della morte? Perchè andava pei
boschi, la notte?... Perchè dicevano che l’avevan veduto parlare
coi fantasmi?... Chiacchiere che non valevano le sue belle palanche!
Richiuse la capanna e si avviò al pozzo.

Era ben vero che non si sentiva bene! Era vero, perchè negarlo?... A
volte gli sopravvenivano certi mancamenti che, se non trovava appoggio,
andava ruzzoloni per le terre, come gli era accaduto varie volte. E la
vista gli si annebbiava sempre più e non aveva appetito. Almeno avesse
mangiato!... Fin che si mangia si campa. Ma no, niente!... Appena
qualche boccone e stentato che doveva far fatica ad inghiottirlo!
Questo era il brutto! Già, perchè con lo stomaco non si ragiona e se
lo stomaco sciopera.... Il male della lucciola?... Uhm?! Non l’aveva
sentito ricordare mai. Ma che c’entrava la lucciola? Non era mica il
tempo dei grani ed egli non soffriva di nessun fenomeno luminoso!

Forse era un tumore. Già se lo sentiva addosso, a porgli mente; si
sentiva come una cosa rotonda gravitare fra il cuore, lo stomaco e la
milza, e nè Zibaldino, nè tutti i professori della terra potevano saper
questo perchè, a voler ragionare, il male è di chi lo ha e chi non ne
soffre non ne può sapere proprio nulla.

E tale convinzione gli si accrebbe e gli si perfezionò per quanto più
tempo prese a considerarla. Definito il male, pensò al rimedio. Un
rimedio doveva esservi. La sua ostinata volontà di vivere non poteva
rassegnarsi all’idea dell’inguaribile; così, siccome un poco se ne
intendeva di semplici, si dette a rimuginare tutte le virtù delle erbe
e da un angolo occulto della sua memoria gli tornò alla mente questo:
che cioè l’erba _piastrella_ aveva la virtù di sciogliere i nodi che si
formavano nel corpo degli uomini in seguito a cadute o a stregonerie.
Ci voleva adunque l’erba _piastrella_ la quale non si trovava nei campi
o lungo i fossi, ma nella pineta lontana. Doveva essere raccolta di
notte, durante l’interlunio perchè non perdesse le sue proprietà. In
quanto all’interlunio il periodo era propizio; in quanto alla notte....
Si grattò un orecchio. A questo punto qualcuno scarpicciò dietro le sue
spalle.

— Come state, Mezzalana?

Gettò un’occhiata in tralice. Era Pignòla, la sua vecchia moglie. Non
le rispose.

Pignòla veniva per l’aia con un paniere.

— O Mezzalana, non mi date mente?

Mezzalana volse il viso burbero.

Quando fu vicina al marito si fermò a guardarlo da sotto in su, seria
seria, col paniere infilato in un braccio, e nel paniere pigolavano una
ventina di anatroccoli appena sgusciati dall’ovo.

— Che cosa volete?

— Vi ho domandato come va!

— Io non lo so! — fece Mezzalana.

— È venuto Zibaldino?

— Sì. Non lo avete visto?

— Non l’ho visto. Be’, che cosa vi ha detto?

— Che debbo morire!

— Sarà matto?!

— È quello che dico io!

— Non gli darete mica retta?...

— No, per Dio....

— Volevo ben dire!...

E tacquero. Mezzalana si guardò i piedi; Pignòla raccolse i pulcini che
tentavano di guizzar via dal paniere. Poi Pignòla soggiunse:

— Non sapete neppure la razza del male?

E Mezzalana:

— È una razza cane!

Pignòla scosse la testa:

— Questo sì!

Passò una pausa.

— E sapete che cosa ha avuto core di rispondermi quando gli ho
domandato un rimedio?

— Che cosa ancora?

— Mi ha risposto che la medicina era la cassa!

— Dite sul serio?

— Non vedessi più la faccia de’ miei figli!

Pignòla aggrottò le ciglia e scagliò la sua maledizione:

— Facesse Iddio che toccasse a lui!...

E, lanciato che ebbe l’anatema, si dette a rincorrere gli anatroccoli
che erano guizzati fuor dal paniere e scorrazzavano per l’aia.

Mezzalana l’aiutò. Quand’ebbero compita l’opera, Mezzalana disse:

— Sapete che male è?

— No.

— È un tumore!

— Ne siete sicuro?

— Sì. E ci vuole l’erba _piastrella!_

— L’erba _piastrella?_... Che cos’è?

— Come, non la conoscete?... Non sapete se faccia bene?...

— Io no....

Allora Mezzalana guardò la moglie di sbieco e brontolò:

— Già l’ho sempre detto che siete un’ignorante!...

La Pignòla non ribattè, era abituata agli sgarbi del suo signore e
padrone, nè si riteneva degna di un trattamento diverso. Quand’era
ancora giovine erano state famose bastonature ch’ella aveva inscritto
nel capitolo dell’amore e della gelosia e che l’avevan fatta orgogliosa
del suo uomo di fronte alle compagne; da vecchia il bastone aveva
ceduto l’impero alle violenze ed ella prendeva queste come quelle, con
l’intima fierezza di una donna che si sente amata.

Senza scomporsi adunque, e per nulla offesa tirò di lungo, entrò nella
capanna e scomparve.

Come Mezzalana fu solo, raccattò uno stecco che vide in mezzo all’aia,
lo portò nella catasta delle legna perchè nulla doveva andare disperso,
poi si fermò, la testa bassa, tutto assorto in un pensiero.

Così ristette alquanto e, quando si riscosse, la sua decisione era
presa.

Egli stesso sarebbe andato in pineta, durante la notte; avrebbe
raccolta l’erba che conosceva e sarebbe ritornato innanzi l’alba.

A compire il viaggio gli bastava il suo ciuco. Nessuno doveva saper
nulla della decisione presa, neppure la Pignòla.

Però, siccome un certo dubbio gli rimaneva in fondo all’anima e capiva
di mettersi in un grave rischio, chè il viaggio non era corto, e poteva
coglierlo un malore lungo la strada, decise che, prima di partire,
avrebbe preso le sue precauzioni. E tali precauzioni erano d’indole
affatto particolare. Entrato nel nuovo ordine di idee si affrettò verso
la casipola, entrò nella stanza terrena e gridò a Pignòla che era curva
su gli alari:

— Questa sera si deve cenar presto!... Spicciatevi!

— Devo cuocere la minestra? — domandò Pignòla rivolgendo la faccia.

— Sì, cuocete!

— E i ragazzi?

— Fatevi alla siepe e chiamateli. Sono nel campo?

— Sì.

La Pignòla andò e tornò, presta come la lepre. Aggiunse legna al fuoco
e una grembiulata di canàpuli, accese la lampada, andò ad attingere il
vino nel boccale, cosse la minestra.

I figli e le figlie di Mezzalana entrarono senza pronunciar parola e
sedettero sulle panche disposte ai due lati della tavola.

La Pignòla si spicciò, la minestra fu servita. Mezzalana non toccò
cibo, ma nessuno gli pose mente se non fu la vecchia Pignòla.
Questa che, dopo essersi pienata la sua verde scodella, preso il
nero cucchiaio di legno, si era seduta sopra un sacco di farina, in
disparte, a consumare il suo pasto, guardava a quando a quando il
marito e mangiava di mala voglia. Poi non potè resistere e disse:

— Mezzalana, non avete fame?

Il vecchio non rispose. E la donna:

— Non fate bene a star sempre digiuno! Vi guasterete la salute!

Mezzalana grugnì in sì malo modo che la vecchia Pignòla abbassò
l’insolcata faccia su la scodella e non parlò più.

Compìto che fu il pasto, tutti salirono al piano superiore e Mezzalana
rimase solo; allora, come udì spengersi a mano a mano ogni fruscìo,
si tolse le scarpe, staccò la lampada appesa sotto una trave e andò
ad assicurarsi che tutte le porte fossero ben chiuse. Si fece poi
alle scale e stette in ascolto. La sua gente dormiva affranta dalla
stanchezza. Ciò piacque al vecchio, il quale si guardò attorno ancóra,
chè lo teneva l’eterno sospetto di essere spiato. Stava per compire
qualcosa di sacro, qualcosa che gli era come un misterioso rito verso
il suo Dio sonante. E per tale rito al quale, dai lontani tempi della
sua immemorabile giovinezza, egli si era tenacemente votato, dormiva
solo, in uno stambugio attiguo alla cucina e nessuno vi entrava se non
Pignòla, rarissimamente, quando il consorte suo non poteva levarsi dal
letto.

Entrato che fu nel _Sancta sanctorum_, tirò il catenaccio, posò la
lampada sopra una sedia e, presa una piccola scala a piuoli, l’appoggiò
ad una trave e vi salì. Nel corpo di detta trave, per mezzo di certi
suoi nuovi congegni, egli aveva aperto un rifugio capace di contenere
comodamente le cose che voleva riporvi; e tale rifugio era sì ben
chiuso che, dal basso, nessuno avrebbe potuto sospettarne l’esistenza.
Vi salì adunque, ne tolse la chiusura, l’ispezionò e come fu sicuro
dell’affar suo, vi depose la sacra mercanzia ch’egli aveva presa
antecedentemente da un ripostiglio praticato nel muro, dietro l’arca.
Compìta ch’ebbe la faccenda, ridiscese, portò la scala altrove, uscì
su l’aia a specular la notte. Era sereno. Tempo calmo. Il Carro saliva
nello spazio verso i sommi cieli, con le sue sette stelle. Allora,
trasse dalla stalla _Simone_, l’attaccò alla carretta e se ne andarono
per le strade silenziose verso la pineta marina.

E l’alba non ancóra era per nascere quando Mezzalana e _Simone_
ritornavano con l’erba _piastrella_. Ma se _Simone_ era tranquillo
circa la sua sorte, altrettanto non lo era Mezzalana, chè sentiva il
suo male crescergli dentro a dismisura e arroncigliarlo e morderlo e
tormentarlo con lena sempre maggiore dilagando dal confine suo consueto
a tutto il corpo. Il nodo maligno, confinato fra lo stomaco, il cuore
e la milza si moltiplicava, tanto che Mezzalana aveva ferma fede di
sentirlo crescere dentro di sè e radicarsi per ogni dove fino alla cima
delle dita. Epperò un certo sudor freddo gli bagnava la fronte e il
petto; e il dolore lo toglieva di senno.

Fermarsi no, e correre non poteva. Inoltre l’austera indifferenza di
_Simone_ tanto lo inaspriva che, nelle rare tregue alla sua sofferenza
si vendicava con certe gigantesche legnate le quali avrebbero atterrato
un toro, non che un ciuco. _Simone_ si limitava a ritrarre un poco la
parte offesa, che era quella dove la coda s’impianta, e tirava di lungo
senza commozione nessuna, come se l’ossa sue e le carni fossero del
più saldo metallo. Tutt’al più levava il muso e raggrinziva le froge in
quella diabolica risata muta che solo gli asini sanno. Comunque fosse,
la distanza fu superata e Mezzalana giunse alla sua casa.

Già cantavano le capinere e il cielo si tingeva di rosa. Le finestre
erano chiuse tuttavia. La sua gente dormiva. Bene: tutto era riuscito
secondo il suo piano; ma il più gran male sorse quando egli tentò
di scendere dalla carretta nella quale si era disteso fra l’erba
_piastrella_. Non vi riuscì. Solo che avesse tentato di sollevarsi gli
sopravveniva tale spasimo da togliergli la luce. Frattanto _Simone_,
che non si sentiva più dominato dal morso, se ne andava per l’aia a
suo piacimento e avrebbe senz’altro rovesciata la carretta e Mezzalana
nella buca del letame, se il vecchio egoista non si fosse dato a
gridare:

— Pignòla?... O Pignòla?...

E appena aveva levata la voce angosciata dal male che una finestra
si aprì e fra un vaso di basilico e un geranio fiorito apparve la
scarmigliata testa della donna.

Si guardò intorno, domandò:

— Che cos’è?

— Vieni!... — urlò il sofferente.

— Siete voi, Mezzalana?...

Il vecchio le rispose con un’imprecazione classica tanto che Pignòla,
di un sùbito ridesta, si tolse dalla finestra, chiamò i figliuoli e
corse nell’aia.

Dopo Pignòla giunse Stecco, il figlio maggiore, e Mezzalana fu preso e
portato nel suo stambugio ad attendervi l’ora dell’ultima passeggiata.

Tornò Zibaldino; giunsero le attinenti vestite di nero; i figliuoli e
le figliuole non andarono ai campi.

Zibaldino disse:

— Chiamate il prete. Tira lo sgambetto!...

E, fra quanti erano nella camera, solamente una donna incominciò a
piangere e fu Pignòla. Si tirò la pezzola su gli occhi e si perse, non
seppe più far nulla. Ella soffriva davvero perchè si era affezionata al
suo aguzzino e le doleva di vederlo partire per la dimora vegliata da
una croce.

Mezzalana non parlava più. Aveva una gran sete, beveva sempre, tanto
che Stecco disse:

— Diventerà una botte!... — E lo guardò morire perchè la morte era una
cosa nuova per lui e gli procurava una certa sensazione strana.

Giunsero altre attinenti abbrunate; ne fu piena la camera e la cucina,
tantochè quando il prete fu sulla porta dovette farsi largo per
entrare.

Mezzalana fu unto, ma non se ne addiede e il prete ripartì senza
avergli tratto una sola parola di bocca. Non che il morituro fosse
fuori di senno, ma non parlava, non badava a nessuno, gli occhi fissi
al soffitto e le mani conserte sul petto.

Solo ad un punto, quando già la sera stava per ritornare, le donne che
gli eran vicine, l’udiron mormorare:

— Li vedo.... li vedo!...

E volsero gli occhi intorno e si guardarono stupite. La Pignòla si fece
innanzi, stranita:

— Ha parlato?

— Sì.

— Che cosa ha detto?

— Ha detto che li vede!

— Li vede?...

E un terrore superstizioso invase le donne che guardaron per l’aria e
temettero di vedere a loro volta una paurosa apparizione.

Da quel punto Mezzalana incominciò ad agonizzare; ma ebbe un’agonia
gaia, senza scosse, senza grida o stravolgimenti, senza orrori. Se ne
andava per il suo destino, come una stella in fondo ai cieli e pareva
fosse contento. Il suo viso si illuminava sempre più, si componeva
in una pace gaudiosa come se la morte gli parlasse dentro con parole
amorose, narrandogli di un riposo eterno in un paese sonante di un
infinito tintinnìo metallico.

Non erano, le stelle, sì grandi quanto uno scudo d’argento?... E
bene erano di argento e d’oro le belle monete di Dio!... D’argento e
d’oro.... cosparse per l’immensa contrada dove non è neve, o pioggia,
o solleone: ma solo l’Eterno Patriarca, e gli uomini che non hanno
peccato, e le inutili vergini, e i poppanti, e i santi impolverati,
e gli uccelli!... Forse la morte gli additava la contrada celeste e
la fiumana sonante perchè Mezzalana più si accostava al valico e più
sorrideva. E come fino a quel punto non aveva parlato, incominciò a
parlare e le donne lo ascoltarono abbrividendo perchè esse vedevano la
morte ben diversamente.

Mezzalana adunque non tolse più gli occhi dal soffitto o, con maggior
precisione, dalla trave nella quale era richiamato il suo cuore e, come
l’aria veniva a mancargli sempre più, incominciò da prima a borbottare,
sì che nessuno intese ciò che diceva, poi scandì le parole.

— Io li vedo.... nessuno li vede!... Sono là.... là.... bianchi....
gialli.... neri!... Duemila, quattromila!... — E una grande luce gli
si distendeva sul volto. — Quattromila.... diecimila.... die.... ci....
mi.... la!...

Le donne si portavano le mani alla faccia; gli uomini si stringevano
alle pareti e il panico superstizioso cresceva.

— Nessuno li vedrà.... nessuno li toccherà!...

Allora una donna piccina, ossuta, che più tremava di sacro orrore, levò
la faccia rigata di lacrime e gridò:

— Vede gli angeli!...

Quel grido si ripercosse in tutti i cuori e ne trasse un’emozione
violenta. Di un sùbito tutti furono convinti della stessa verità e si
inginocchiarono e nascosero la faccia. E la piccola donna gridò:

— Muore come un santo!... Ha la grazia del Signore!... È un santo!...

Le lugubri prefiche ripeterono:

— È un santo!...

E tutti piansero, toltone i figli di Mezzalana, che non credettero
a niente perchè ricordavano troppo bene la vita, le prepotenze, le
angherie e la sordida avarizia del padre. Ma Pignòla era fra le più
convinte; Pignòla piangeva e perdonava tutto perchè aveva amato.

E Mezzalana morì mormorando:

— Li vedo!... Li vedo!...

Era notte quando se ne andò dal mondo, tantochè le ammantate, che
rimasero a pregare presso la salma di lui, videro in realtà un grande
chiarore nella notte e gli angeli che portavano in cielo l’anima di San
Mezzalana.

                                   ❦

Ora, quando il vecchio non fu più nel suo stambugio, i figli suoi
gettarono all’aria tutto e cercarono e frugarono senza trovar neppure
un centesimo. E la voce corse per il contado:

— È morto e non ha lasciato niente!... È una famiglia alla miseria!...

Qualcuno susurrò ch’egli avesse dotato del suo un convento delle
montagne.

Comunque fosse, anche Pignòla morì e i figliuoli vendettero la casa
e si dispersero per il mondo. Dieci anni dopo, quando al fatto non
si pensava più, volendo il nuovo proprietario della casa ampliarla,
cominciò con l’abbatterne una parte e un giorno, in cui i muratori
erano intenti a far discendere una trave dalle mura disfatte, avvenne
un prodigio: questa trave si aperse e lasciò cadere un rivolo; una
pioggia di monete d’oro e d’argento.

Furono conte: erano diecimila lire, quelle stesse che il vecchio
avaro aveva nascoste lassù prima di andarsene a raccogliere l’erba
_piastrella_ e che avevano illuminata la morte di lui.

Ma il fatto non fu risaputo che da pochi; e ancóra si parlò per le
veglie della santa morte di San Mezzalana, mentre i figli di lui
andavano poveri e raminghi per le vie della terra.



L’EREDITÀ.


Il grande niveo armento riprendeva le vie della campagna, chè già era
prossimo il mezzodì e fin dall’alba soave si era accolto nel campo
alberato giungendo e dalle foci remote e dai colli inghirlandati di
mandorli.

Ora l’inegual tocco dei campani, il grido dei biolchi, il fondo
muggito dei bovi si disperdeva lungo le vie maestre e le viottole; si
allontanava verso i chiusi e le stalle prossime e remote, dal mare alla
montagna. E non restavano, nel campo alberato, se non i ritardatari,
i mercanti, coloro che attendevano a riscuotere o a pagare, e qualche
disperso che era giunto senza saper che volere e così se ne tornava
maledicendo, curvo su le pediche innumerevoli dei trascorsi.

Non per anco dalle rogge torri e dai campanili sereni era disceso lo
stormo delle campane del meriggio; nè dalle piazze della bianca città
si era levato il volo delle colombe al consueto richiamo; ma presso
era il punto dell’ora che divide il giorno fra i due crepuscoli e i
bifolchi cercavano, nel cammino dell’ombra e nell’arco solare, il tempo
alla sosta ed al sonno.

Già le osterie intorno al mercato rigurgitavano di genti, di grida
e dell’acciottolìo che riempie quei luoghi quando la fame degli
uomini impera; già chi non aveva se non il suo pane nei tasconi della
cacciatora, lo traeva e lo addentava in pace, seduto ad un’ombra, in
disparte, e molti si affrettavano, accesi dal caldo e dal vino, verso
gli stallatici rigurgitanti a riprender la brenna o il ciuco e a partir
sotto il sole per le remote case.

Non uno era solo sul proprio barroccino o sul calesse dal mantice
stinto, chè lo attendeva per la via una comare, un capoccio, un amico,
un conoscente a domandargli ospitalità al suo fianco e le brenne
arrancavano malinconiche.

Scarse eran le ombre, violentissimo il sole, accecante il bagliore
delle strade, i nembi della polvere, densi come la nube turbinosa.

E sempre suonavan campani, muggivano buoi, gridavano e sibilavano
biolchi astati, dietro le disciolte mandre dei vitelli, i quali,
impauriti da un nulla, si sbandavano e invadevano i campi e le vigne e
le maggesi in una scalpitante scorribanda tempestosa.

Uomini e fanciulli e cani si lanciavano all’inseguimento mentre,
ubbidienti alla mano di un bimbo, reggente la corda della nasaiola, i
giganteschi buoi seguivano le prode dei fossi ponendo nel sole l’acceso
bagliore dei loro fiocchi vermigli.

La fiumana si disperdeva; morivano i suoni lontanando nell’afa
meridiana; il niveo armento disceso con l’alba alle soglie della bianca
città ricinta da floridi orti, ritornava verso le foci silenziose e
verso le vigne degli armoniosi colli. Il campo del mercato era quasi
deserto, ma ancora vi si trattenevano i mercanti, e i capocci, e i
sensali.

Eran conclusi gli ultimi patti, risolti i più tardi dubbi fra un
intermesso scrosciar di bestemmie e un vociare e un tendersi di mani
avvinte e squassate dalla furia dei sensali e tanto più s’incaniva
la baraonda quanto più era presso il termine del mercato: ma padron
Cecco rideva. La sua rotonda faccia gioviale non era punto commossa
dall’impeto di coloro che gli si stringevano intorno nel passionato
desiderio di concludere l’affare col re del mercato; le parole, le
promesse, le esaltazioni, le grida, non turbavano la sua sorridente
impassibilità. Ascoltava tranquillo, lasciava che i venditori e i
sensali si sopraffacessero nella iperbolica esaltazione della merce,
non troncava mai a mezzo un discorso, non discuteva; solo, quando si
era al concludere, ripeteva l’offerta fatta fin dal principio:

— Quaranta marenghi!

— Ma, Dio mi faccia morire, se Paolino della Tuda non me ne ha offerti
quarantacinque!...

E padron Cecco:

— Dovevate darglieli!

— Un paio di buoi che porterebbero via una casa!

E un sensale:

— Padron Cecco, quarantadue marenghi e non se ne parli più!... Qua la
mano!

Cecco dall’Orto rideva.

— Allora dite che non volete farne nulla!...

E il venditore ai sensali:

— Dio mi faccia perder la vista e ch’io non veda più i miei figliuoli
se non mi offrivan di più questa mattina!... Due buoi senza difetto!...
Grassi che sembran da macello!

— Qua la mano, padron Cecco; quarantadue marenghi e pace è fatta!

— Quaranta marenghi!

La disputa si accendeva, traviava in qualche velata insolenza, ma
Cecco dall’Orto non perdeva contegno e misura essendo convinto che,
per l’offerta avanzata, gli avrebber condotte le bestie fino alla sua
stalla lontana.

Così avvenne. Il patto fu conchiuso e fu versata una parte del prezzo.

La gente sapeva, d’altra parte, che se Ceccone dall’Orto, il mercante
milionario, aveva stimato che un par di buoi non valesse più che tanto,
non sarebbe stato possibile elevarne il valore perchè il parere di
Ceccone imperava per tutti i mercati della grassa terra fruttifera.

Ed anche gli ultimi preser la via del ritorno. Non rimaneva, fra la
scarsa ombra degli alberi, allineati attorno attorno al campo, se
non qualche miserrimo ciuco che fiutava la polvere. I bifolchi e i
sensali si sbandarono. Padron Cecco s’avviò solo verso lo stallatico
a riprender la cavalla e già stava per uscire su la via quando si
vide alle terga una donna in gramaglie che lo seguiva. Si rivolse
mediocremente incuriosito. La donna si fermò e fece per calarsi la
pezzuola su gli occhi, ma Ceccone disse ridendo:

— Oh! La Gilda!...

La donna levò gli occhi torvi su la rotonda faccia gioviale del
mercante e non parlò.

E padron Cecco:

— Mi cercavi?... Sei a piedi?... Vuoi salire con me sul barroccino?...

— No, non voglio!

— Be’!... E allora?...

— Allora, sempre così!... — gridò la donna.

— Sempre così.... sempre così!...

E gli occhi di lei, accesi di sdegno, dopo aver squadrato una seconda
volta il giocondo colosso, si rivolsero altrove; ed ella prese una
strada diversa e si allontanò rapidamente.

Padron Cecco sorrise e, abbassata un poco la testa, appoggiandosi
a quando a quando sul suo rozzo bastone da fattore, si avviò allo
stallatico. Quivi trovò gli amici mercanti e, come era consuetudine
sua, chè avrebbe preferito digiunare anzichè mangiar solo, li convitò
alla sua mensa.

Partirono al trotto serrato dei cavalli iniziando ben presto la gara
fra i singoli corsieri; tutti affannati, impolverati, sudanti; ebbri
dei buoni guadagni e del caldo e dell’amore delle facili femmine
lascive, sempre soggette e dimesse, come i nivei bovi al curvo giogo di
salice.

                                   ❦

Così la vita a Ceccone dall’Orto, l’astuto bifolco alunno della
fortuna. Egli era cresciuto in ricchezza e in gagliardia da quando,
abbandonato l’aratro fra le maggiatiche, lasciate le costumanze degli
avoli, e l’antico podere, troppo violentato dall’adunco vomere perchè
potesse dare buon frutto, si era dato a bazzicare pei mercati e a
intessere i suoi primi imbrogli ben riusciti.

Allora non aveva che la sua giocondità, un discreto acume per gli
affari ed una furberia malandrina. Aveva anche l’arte di piacere agli
uomini benchè gli fossero tutti ugualmente indifferenti. La fortuna
lo adocchiò. In quel tempo egli poteva giuocare tutto per tutto; la
prigione non lo spaventava nè l’opinione che i suoi simili potevano
farsi sul conto di lui. Sapeva che il danaro rinnova le coscienze
stinte e che la gente indignata non rivolge il proprio furore là dove
l’oro ristagna e la sua giocondità non si oscurò per un attimo solo.
Tentò un colpo canaglia. Gli riuscì. Mandò all’aria una famiglia di
onesti sciagurati e da un giorno all’altro si trovò possessore di
trentacinquemila lire. Aveva ciò che gli abbisognava per dare alla
propria attività il largo campo necessario.

Da quel tempo gli scrupoli suoi furono anche minori, se ciò era
possibile, e siccome natura lo aveva fatto di solida tempra ed egli
poteva tranquillamente non dormir le notti, mangiare poco e a furia,
resistere per giorni e settimane, alla baraonda dei mercati senza
risentirne stanchezza, non si risparmiò. Volle da se stesso il massimo
sforzo per il maggior risultato e l’ottenne. In pochi anni la sua
fortuna decuplicò e siccome il denaro, fra le sue mani, ad altro non
serviva se non ad accrescersi di continuo, Ceccone dall’Orto si trovò
a possedere, su la sua cinquantina, quattro milioni e mezzo. Ma il
patrimonio accumulato non gli fece mutar gusti nè abitudini; egli
rimase il rozzo bifolco che era il giorno in cui aveva gettato la marra
e abbandonata la famiglia per seguire il suo destino dissimile. Come
non mutò la foggia del vestire e la casa e sempre fu contento della sua
cacciatora di _mezzalana_ e del suo stambugio disadorno fra i campi,
così i desideri suoi non si accrebbero per altre vie. Gli era gioia
spadroneggiare pei mercati, far ribotta quanto più sovente poteva,
cambiare le sue grosse amiche gioconde che non conoscevan sospiri. Non
aveva famiglia. Gli eran compagni, nella casa solitaria, due garzoni e
una cuoca. La stalla e la cucina erano le sue sale.

Ottuso ad ogni sentimento, di qualsiasi natura esso fosse, non aveva
provato mai commozione nessuna nè per sè nè verso i suoi simili.
Amava la sincerità brutale; le cose che hanno un volto e una parola
cruda. Pel resto la sua nativa diffidenza di bifolco e di mercante si
esplicava nel suo immutabile riso.

Assediato dai suoi parenti, che il suo patrimonio cospicuo faceva
delirare, Cecco dall’Orto rideva; perseguitato da ogni sorta di gente,
losca nella sua umile devozione, non ne era vinto. Nessuno mai aveva
avuto da lui un solo scudo. Ceccon dall’Orto rideva.

Tale era il re delle sonanti adunate, l’astuto bifolco squadrato a
gagliardia; gran mangiatore e grande amatore al cospetto dei compagni
suoi bercianti che sempre gli erano da presso.

Ora egli non pensava alla morte più che non pensasse a impoverire
e benchè i parenti suoi innumerevoli sempre gli stesser d’intorno,
quasi a ricordargli la fragilità della sua materia, non eran riusciti
tuttavia a far sì che padron Cecco testasse. Egli sapeva che le
sue amiche e le genti alle quali dimostrava qualche simpatia erano
osservate, circuite, minacciate chè, nel novero dei suoi parenti, v’era
qualcuno del suo conio, pronto a qualsiasi prova pur di riuscire dove
mirava; sapeva che ogni sua parola detta era vagliata e soppesata, che
ogni ora della sua vita era a conoscenza de’ suoi devotissimi aguzzini,
che non poteva far cosa che non fosse risaputa e tutto questo in attesa
della sua bene augurata morte; ma non mutava volto nè anima, nè la
giocondità di lui era per annebbiarsi menomamente. Anzi il giuoco lo
divertiva. E se qualcuno fra i più arditi gli faceva osservare talvolta
che un uomo dell’età sua avrebbe dovuto pensare a disporre de’ suoi
beni, rispondeva ridendo:

— Fra tutti voi, davanti alla morte, io mi chiamo Ultimo!

Ora quel giorno, dopo aver fatto ribotta con i mercanti amici suoi,
se ne stava seduto, verso sera, innanzi alla tavola apparecchiata
attendendo che Carlotta ritornasse dall’orto e gli apprestasse la cena,
quando udì qualcuno che si rimuoveva sotto il portico. Non vi pose
mente. La porta era spalancata, ma padron Cecco non levò gli occhi a
guardare. Pensava ad un suo nuovo raggiro. Così non badò a chi entrava
nella cucina e solo alzò il capo quando udì la voce di Carlotta dire:

— Oh!... Come mai vi si vede, Gilda!...

Allora guardò dall’altro lato della tavola e si trovò innanzi la donna
che l’aveva seguito furtivamente quando ritornava dal mercato. Vestiva
sempre il lutto, aveva la pezzuola nera sul capo e gli occhi suoi
grandi fiammeggiavano di sdegno.

La Gilda non rispose a Carlotta. Guardava Ceccone dall’Orto, fissamente.

Questi non si scompose, la sua faccia gioviale non ebbe un sol guizzo.
Disse in tono placido:

— Sei venuta a farmi compagnia, Gilda?

La Gilda, senza mutar volto, come fosse irrigidita, mormorò:

— Imbroglione!...

Allora Ceccon dall’Orto si rivolse a Carlotta che si scandalizzava e
riprese:

— La Gilda non si sente bene, forse! Hai fatto il brodo questa sera?

— Sì, padrone!

— Be’, apparecchia per due.

E siccome padron Cecco non disse altro, ogni conversare finì.
Rimasero di fronte e l’una pareva volesse distruggere l’altro solo
col fiammeggiare degli occhi suoi fissi. Aveva puntato i cubiti su la
tavola e si stringeva la faccia fra le palme.

Padron Cecco riprese l’ordine de’ suoi pensieri e nulla perse della
sua tranquillità giuliva; ma quando Carlotta si fece alla tavola con
una scodella e la pose innanzi alla Gilda, questa si levò di scatto,
scaraventò l’arnese in mezzo alla stanza e riprese la via dell’uscio.

Ceccon dall’Orto die’ nel ridere e a Carlotta che gli chiese:

— Ma che ha quell’indemoniata?

rispose:

— È un po’ matta, ma fa ridere! È la seconda volta che la vedo, oggi!

— Badate, padrone, che è della razza dei Giuli!... Badate non faccia
uno sproposito!

— E che dovrebbe fare?

— Non si sa mai!... Una donna come quella!...

— Hai paura che mi ammazzi?

— Io non porrei la mano sul fuoco, sapete!... È una donna capace di
tutto!

— Ma no!

— Per me, fate quel che volete; ma, se fossi in voi, terrei gli occhi
aperti.

— E li tengo chiusi, io?

— Non dico questo. Ma non è prudente lasciarsi accostare così da
un’indemoniata come quella.

— Ma credi sia la prima volta? Sarà un anno che mi perseguita così; da
quando l’ho lasciata! Le ho offerto del denaro, non ne vuole! Le ho
domandato che cosa le abbisognava e neppure mi ha risposto. Che cosa
devo fare, allora?... Vuoi che me la sposi?... Una volta mi aspettava
o all’osteria o sulla strada; mi capitava fra i piedi ogni due ore e si
accontentava di guardarmi malamente. Ora pare voglia stare più comoda,
viene in casa; e tu lasciala venire. Che vuoi farci?

— Io la metterei alla porta!

— Ma no, poveraccia!

— Non vedete che vuol farvi dispetto?

— Be’, ti pare che le riesca?

Carlotta si strinse fra le spalle e ritornò ai suoi fornelli
brontolando:

— Se se ne accorgono i vostri parenti!

— Credi non lo sappiano?... No, di quella non hanno paura!

E Ceccon dall’Orto rise, divertito dalla lotta che gli si muoveva
intorno sorda e continua per il possesso dei suoi beni.

E la Gilda continuò ad apparire, imperturbabile, ogni sera, quando
padron Cecco era per mettersi a cena. Entrava per la porta aperta,
senza dir parola, senza badare a quelli che potevano essere nella
cucina, sedeva in faccia al suo vecchio amante, puntava i gomiti
sulla tavola, la faccia fra le palme e così restava mezz’ora e più
in perfetto silenzio, guardando a sdegno padron Cecco. Che fosse
tuttavia innamorata di Ceccon dall’Orto nessuno credeva, come non si
credeva che un qualsiasi interesse potesse spingerla ad agire in sì
strano modo; ella ubbidiva unicamente alla sua natura dispettosa, al
bisogno di riuscire intollerabile a chi non si era occupato di lei
per tutta la vita e le aveva detto addio con la tranquillità con la
quale si abbandona un indifferente. Nel sottile groviglio della sua
docile perfidia ella aveva cercato e cercava tuttavia la persecuzione
più sorda, più continua, più implacabile; quella che esaurisce ogni
pazienza e si termina in aspri litigi quando non ceda al peggio.

La Gilda avrebbe dato metà del suo sangue per vedere la faccia di
Ceccone travolgersi nell’ira brutale; l’anima sua maligna ne avrebbe
goduto come del più bel trionfo; ma come non le riusciva neppure
a scomporre per il battito di un secondo la tetragona placidità
dell’antico amante, sempre più si incaniva in se stessa, struggendosi
dalla bile e pronta ad ogni più sorda lotta pur di riuscire al suo
còmpito.

Altro non voleva se non tormentare e l’immutata giocondia di padron
Cecco la faceva tormentata.

Ora avvenne che, cadendo l’autunno ed essendo tempo di grande caccia,
Ceccon dall’Orto, per imbandire certi suoi germani che aveva uccisi
nella palude, convitasse ad un festino gargantuesco tutti gli amici
suoi ed i parenti e le donne dei parenti e degli amici. Due cuochi
giunsero dalla città in aiuto di Carlotta. L’ampia cucina brillò per le
grandi fiammate e sì empì di grassi odori e di un festevole vocìo fin
dalle prime ore del giorno.

Si apprestava il banchetto classico romagnolo, ponderoso ed
interminato, in cui le portate si succedono e si moltiplicano, si
sovrappongono e si ripetono in tale abbondanza da farne sazio un paese.

La brigata incominciò a giungere fin dalla mattina. Ora era un
barroccino, ora un calesse, ora un bagherino.

Ogni nuovo arrivato incominciava a gridare fin dalla strada per
manifestar la sua gioia e la sua fame.

L’aver fame, molta e bramosa fame, è il complimento più grato
all’ospite che convita. E Ceccone accoglieva gli invitati di su
la soglia, ridendo e vociando a sua volta, tutto rosso e grasso
e colossale che pareva lo specchio dell’uomo che non sa se non la
robustezza del proprio stomaco insaziabile come il sepolcro.

La stalla rigurgitò di cavalli e di ciuchi; l’aia fu piena di calessi e
di _bagher_; la casa di genti, strillanti come la scimmia e la gazza.
Le donne si ritraevano in cucina; gli uomini si adunavano su l’aia.
Erano una coorte. E la frase che correva intorno più frequente, a
manifestar la bramosia del gregge, era:

— Quando si mangia?

E ognuno faceva sollecitudine ai cuochi e alle donne chè si
affrettassero e dessero il cenno che allieta colui che si appresta ad
ingozzarsi. Il cenno fu dato che ancora non era il meriggio e l’immensa
tavola imbandita fu presa d’assalto. L’orgia bacchica incominciò. Il
sangiovese, l’albana, il pagadebiti, la canina, corsero a fiumi giù
per le sitibonde gole. L’acqua fu bandita come una cosa immonda; come
la compagna dell’anatra e del luccio e dei ridevoli ranocchi. E fra
bere e impinzarsi la buona gente romagnola si sentì a suo agio. Il
cuore crebbe a mano a mano che lo stomaco si saziò. Tutti si vollero
bene e vollero bene alle donne e ai cuochi e ai cani e alle galline
che razzolavano sotto la tavola. La nativa scurrilità si elevò di
tono. Ogni sporca cosa divertì la brigata, ma sopratutto le donne. Chi
le diceva più grasse più era apprezzato dalla compagnia e le risate
succedevano alle risate in un assordante baccano. E fra tutte risuonava
più alta la voce di Ceccon dall’Orto. Egli non poteva dir cosa, anche
fra le più stupide, senza sollevare un clamore di approvazioni e di
risate, e, se apriva bocca, tutti tacevano e si protendevano, rapiti.

Ma avvenne che, sul più bello di un enorme boccone, e il simposio
volgeva alla fine, padron Cecco stralunasse.

Dapprima gli ospiti risero, credendo che il milionario celiasse; ma
quando videro la rotonda faccia del mercante, di vermiglia divenir
paonazza e inturgidirsi nelle vene; e videro gli occhi farsi di un
subito sanguigni e metà viso stravolgersi in una smorfia orrenda,
balzarono in piedi, ammutoliti.

Fu prima una donna che disse piano:

— Gli è venuto un colpo!...

Poi l’attimo dello sbalordimento fu superato e furono in venti a
soccorrerlo. Padron Cecco non dava più segno di conoscenza. Gli
slacciarono i panni, lo portarono al piano superiore, nel suo letto, e
mentre gli uomini correvano per il medico altri andarono per il prete.
Tutti lo videro morto. Al baccano smodato subentrò un pavido silenzio.

Ormai si poteva esporre apertamente il proprio pensiero, Ceccone
dall’Orto non capiva più.

Ancora fu prima una donna che disse:

— Bisogna cercare il testamento!

E un’altra:

— Non ne ha fatto!

Un brivido corse fra i muti parenti, torvi dinanzi alla morte che
poteva carpir loro l’agognata fortuna.

Poi fu come una vandalica intesa e mentre il moribondo rantolava nello
spasimo della soffocazione, l’avida muda si gettò sui canterali, sugli
armadi, sulle arche, rompendo e devastando nell’ansia della suprema
ricerca.

Solo Carlotta singhiozzava muta in un angolo.

Non fu trovata nè una carta nè un soldo e la turbolenta masnada si
rivolse a guardare il moribondo, obliqua e sinistra. Su tutti quei
volti non era che il lampo dell’odio.

Giunse il medico, intraprese la sua inutile cura.

Gli fu chiesto:

— Morirà?

— Sì.

— Potrà parlare?

— Forse sì.

— Ah!... — Una speranza si fece largo fra la tenebra improvvisa.

Ed anche il prete venne e dietro di lui la Gilda vestita di nero. Aveva
la pezzuola calata su la fronte. Passò muta fra l’indifferenza degli
astanti, non salutò e non fu salutata. Ristette in piedi, vicino al
capezzale, le braccia pendule e le mani incrociate. Sul volto di lei
non era se non la sua continua smorfia sdegnosa.

Ora tutti erano intenti a seguire l’opera del medico. Non rifiatavano.
Vi fu un punto in cui il rantolo di padron Cecco si affievolì e si
spense. Allora le donne mormorarono:

— È morto!...

E già il prete si chinava sul capezzale e dietro di lui la Gilda,
quando il morituro ebbe una subitanea scossa, levò un poco il capo,
aperse gli occhi:

— Parla, parla!... — susurrarono le donne protese. — Parla!... Potrà
far testamento!

E tutti si fecero innanzi togliendosi il cappello e richinando
umilissimamente la faccia. Vi fu chi disse:

— Coraggio, Checco!

Ed altri:

— È nulla!... Guarirete, coraggio!...

E i mormorii passavan via col brivido del cuore in tumulto.

Ceccon dall’Orto volse gli occhi intorno, disse:

— Ho sete!

Venti mani si protesero all’arida bocca rossigna.

E Ceccone bevve e tutti lo guardarono assiepandosi intorno a lui e
attendendo le sue parole. Fu un silenzio eterno.

Padron Cecco richiuse gli occhi, li riaprì, fissò ad una ad una
le facce degli astanti volgendo lentamente il capo. E su tutte le
tragiche maschere vide la stessa ansia rapinatrice, velata di umiltà;
su tutte, tranne una. Una donna era là con l’anima sua di sempre, col
suo dispetto nemico, dipinto sul viso pallido. Padron Cecco la guardò,
disse:

— La Gilda!...

E questa, senza scomporsi, senza mutar voce nè tono, come tante volte
rispose:

— Crepa, cane!...

Ceccon dall’Orto tentò un sorriso, ricadde spossato sui guanciali; ma
poi lo videro muovere un braccio come a chiamar qualcuno e riaprì gli
occhi e fe’ segno che il medico ed il prete gli andasser vicini.

— Parla, parla!...

— Fa testamento!... Ha chiamato i testimoni!... Fa testamento!...

Non fu mai ansia più tremenda, forse, neppure in chi attendeva dal
giudice la morte o la vita.

Il medico e il prete si chinarono sul morituro.

— Volete parlare?

— Sì... ecco... la mia ultima... volontà!...

I volti erano terrei.

— Vi ascoltiamo — disse il prete.

E il medico:

— Vi ascoltiamo.

— Io... ho piena coscienza... è vero?

I testimoni dissero:

— Sì. Avete perfetta coscienza.

— Allora... (fra parola e parola pareva passasse l’eterno silenzio).
Allora... io... in perfetta coscienza... voglio e dispongo che... erede
universale... delle mie sostanze... sia...

Boccheggiò. Si udirono quattro bestemmie favolose.

Riprese:

— ... sia... l’unica che non mente... la Gilda... Gilda dei Patrizi...

Ed altro non disse; ma non morì a tempo per non udire la sincerità
dei delusi scatenarglisi contro come a nessun uomo mai, nell’odio che
impaura ed ammazza.



LA FESTA DEI MIGLIACCI.


I tre norcini si rivolsero a padron Serafino, chè eran per separarsi, e
domandarono:

— Dunque è per domani?

— Sì, per domani!

— A bruzzico?...

— Ma sicuro!... Ce ne son tre da governare! Arrotate gli arnesi.

— Non temete che son a filo. Allora saremo da voi prima di giorno. Fate
che tutto sia pronto.

— Tutto è in ordine. Arrivederci.

— Non ci pagate da bere?

— No; chè se vi ubriacate non si lavora.

— Anzi!... Si lavorerà più sodo!...

— Berrete domani, chè faremo allegra festa.

— Bene. Vi salutiamo.

— Addio.

Padron Serafino frustò la ronzina e i norcini svoltarono per la
viottola dei maceri.

Il livido decembre si assonnava infreddolito, accorciando sempre più
le giornate. Si era alla vigilia di San Tomè che prende il porco per
lo pè. L’adagio rispecchiava l’usanza dei bisavoli, dei trisavoli;
l’antichissima consuetudine di sacrificare, nel giorno di San Tommaso,
gli enormi porci satolli di farina gialla e di ghiande. Epperò, nelle
case che fiancheggiavano la strada, si vedevan, dalle basse finestre
senza imposte, divampanti fiammate e grandi paiuoli sul fuoco e genti
in moto a varie opere. Inoltre, nel crepuscolo bigio, passava a quando
a quando l’infernale urlìo delle immonde bestie mangerecce le quali,
tolte dai catri o dagli stabbioli, e trascinate per le orecchie e per
la coda verso il luogo del sacrifizio, impaurite dal fatto inusitato,
non potendo altro opporre, tanto strillavano da tòrre di senno l’armato
norcino che le attendeva al varco.

Su la bassa pianura corsa dalle fiumane, intenebrata dalla nebbia,
dispoglia da ogni vita vegetale, erano quelli gli unici suoni che
trascorressero, chè già le pievi disperse avevano suonato l’ave e le
strade, aspre di ghiaie, erano deserte. Era la stagione in cui gli
uomini più vantano i pregi della mensa e ingioiscono e s’ingollano e
si satollano gridando, fra la tavola e il fuoco, negli interminabili
conviti; la stagione sacra agli stomachi temprati alle eroiche fami e
ai pasti monumentali. Epperò l’ecatombe dei grufolanti quadrupedi si
annunziava per un acutissimo stridere ripetuto di casa in casa, fin
sotto l’estremo arco della sera, fin dove la zona delle nebbie più si
ispessiva fra l’ignuda terra e il cinereo cielo.

Padron Serafino guardava e si encomiava per aver resistito agli aspri
rabuffi e alle geremiadi della moglie sua pallida e scarna come il
peccato mortale; si encomiava, chè non avrebbe capito mai in quale
utile fosse per tornargli una male intesa economia quando non aveva
figliuoli a cui pensare, e, se avesse voluto godersi tutto il suo,
innanzi di morire, questo era ben fatto! Ma la Bita, che era il
ritratto stesso del digiuno e di ogni macerazione, più scendeva negli
anni e più si incaniva nella febbre del suo risparmio, quasi che la
vita le fosse diventata un malanno e tutto stesse per rovinare nella
vecchia fattoria dei Conti. A darle retta si sarebbe mangiato sul
pugno, una volta al giorno, pane e formaggio e nulla più; nè i vecchi
vini, che hanno nel cuor loro vermiglio la giocondìa del sole, più
sarebbero apparsi su la tavola; nè i tradizionali fasti della mensa
avrebber dovuto continuarsi. E perchè questo? Perchè tale quaresima se
ormai poco più tempo restava al loro godere, chè gli anni eran molti?
Portare i suoi _allievi_ al mercato per trarne buon guadagno?... Bene!
E poi? Chi l’avrebbe compensato del sacrificio? Forse la Bita co’ suoi
vezzi?

E padron Serafino rideva fra sè e frustava la sbilenca ronzina. Ancora
vide, nel bigio crepuscolo, le case degli Anselmi, dei Montanari, dei
Migi illuminate di fiamma; e udì frastuono di opere e di risa, mentre
l’urlìo delle allombate vittime saliva, si spegneva, riscoppiava
acutissimo fin oltre i visibili confini della sera decembrina.

Come arrivò alla fattoria, la Bita era su la soglia, attratta dal
bubbolìo delle sonagliere, e, ancor prima che padron Serafino fosse
disceso dal calesse, domandò:

— Be’, li avete venduti?

— Che cosa?

— Gli _allievi_.

— Sì, li ho venduti.

— Quanto avete preso?

— Centocinquanta marenghi; tre forme di cacio e un piatto di migliacci.

— Volete canzonarmi?

— No, signora Bita!... Non vi par buono il mercato?

— Mi pare che mi manchiate di rispetto!

— Oh!... Guarda!...

Padron Serafino rise, scese dal calesse, chiamò:

— Michele?... O, Michele?...

Il garzone uscì dalle stalle e prese in consegna la ronzina.

— Aspetta, — disse Serafino. — Ho qui qualche cosa.

E si chinò a togliere dal cassetto del calesse alcuni suoi involti.

— E quella che roba è? — domandò la Bita. E padron Serafino, infilando
l’uscio di casa:

— Toh!... Sono i marenghi!

La Bita scrollò le spalle. Gridò:

— Più invecchiate e più rimbecillite!

— Già!... Io rimbecillisco, ma tu non canzoni!...

Poi, dopo aver posato gl’involti su la tavola:

— Be’, che cosa si mangia questa sera?

— Niente.

— Come niente?

— Niente, vi ho detto!... È poco, niente?... Niente!...

— Sarai matta?... Ma ti sogni forse ch’io voglia digiunare come te?

— Se avete fame andate all’osteria.

Padron Serafino incominciava a spazientirsi. Si rivolse, guardò in
faccia la sua donna irosa e rispose:

— Io non vado nè all’osteria, nè all’albergo, nè.... Basta!... Io sono
in casa mia qui; e voglio mangiar qui!... O che storie sono queste?

E la Bita ironicamente:

— Perchè non mangiate i vostri allievi?

— Non t’impensierire, chè domani sarà fatto!... E non sarò solo alla
festa!...

— Come?... Domani.... ammazzate?...

— Proprio così!... Domani ammazziamo!...

— Dunque volete farmi tutti i dispetti possibili?

— Prendila come vuoi!

— Vi siete giurato di romperla?

— Romperla o no, io voglio così e così deve essere!

— Peggio di una serva mi trattate!... Ma la vedremo!... Oh, la vedremo
come finirà!...

Allora padron Serafino si rivolse, levò la mano chiusa con l’indice
teso e incominciò:

— Stammi a sentire, moglie....

Ma in quel che era per catechizzare la recalcitrante compagna, ecco
aprirsi la porta ed entrare i tre norcini. Il capomaestro, magro e
brucato come l’erbaio delle capre, si fece innanzi e disse:

— Siamo venuti.

Padron Serafino lo sbirciò in tralicio.

— Siete venuti?... O che l’alba spunta alle nove di sera quest’oggi?

E il capomaestro:

— Abbiamo pensato che ne avevate tre, padrone; e siccome si voleva fare
il nostro lavoro a modo, e posdomani siamo impegnati, si lavorerà tutta
la notte.

Padron Serafino guardò involontariamente la donna sua, ma questa gli
volse le spalle grugnendo ed uscì.

— Sta bene, — disse il grosso fattore, e si fregò le mani. — Sta bene.
Allora all’opera!

I norcini deposero gli arnesi su la tavola, si tolsero la cacciatora,
vestirono i grandi grembiuli insanguinati.

— Siamo pronti, — disse il capomaestro. — Ora chiamate i garzoni che
accendano il fuoco.

Animati dalla speranza di un pasto succolento, i garzoni accatastarono
in breve, vicino al focolare, una montagna di sarmenti. Fu sgombrata
la camera dagli oggetti inutili. Si fece posto al troppolo, a una gran
tavola, al sacco del sale e furono fissate alle travi lunghe corde
terminate da ganci.

Il capomaestro dirigeva l’opera. Quando tutto fu compiuto, afferrò
l’acuminato punteruolo e disse:

— Andiamo.

Padron Serafino e i compagni gli tennero dietro. La cucina chiareggiava
per la fiammata altissima. Poco dopo i tre _allievi_ di padron Serafino
empirono la notte delle loro urla laceranti e l’olocausto al Dio della
fame fu compiuto.

La Bita era scomparsa, ma nessuno si occupò di lei. I norcini e gli
uomini della casa erano troppo intenti a sparare e a governare i tre
monumentali _allievi_ di padron Serafino perchè avesser la mente ad
altro; nè si addiedero del cupo abbaio dei mastini, chiusi in fondo
all’aia, nella capanna dell’aratro. Sopraggiunsero le genti del
vicinato. Si fermarono sulla soglia battendo i piedi e disviluppandosi
dalle mantelle.

— Che si fa lo sdrucio? — chiedevano.

E padron Serafino:

— Chi vuol mangiare, lavori!...

Finirono per essere una ventina all’opera. Chi tagliava, chi tritava,
chi insaccava, chi struggeva la stillante grascia, chi si arrovellava
agli strettoi a fare i pani di ciccioli, chi, lasciata la mannaia sul
troppolo, affondava le braccia nel sacco del sale o drogava il rosso
tritume cosparso di grasselli, chi cuoceva i mallegati negli enormi
paiuoli, chi apprestava la rosticciana e i migliacci chi adunava
le setole, chi i zampetti, le cotenne, il grugno e le gote a far la
soppressata. Era un rumoroso tramestio interrotto a quando a quando dal
grido di gioia che si leva allorchè si dilemba e si assolca la terra;
o quando si accorolla la paglia in tumulto e la bica è disfatta. Per
l’indomani padron Serafino aveva convitato i parenti, i vicini, gli
amici a far la festa dei migliacci, e il pantagruelico pasto, inaffiato
dai vini migliori della fattoria, accendeva il desiderio degli uomini
accorsi a prestar mano all’opera gioconda.

I mastini continuavano a latrare sordamente. La Bita non si vide più.

Or come la notte fu verso il suo termine, la stanchezza vinse l’operosa
brigata e fu deciso che tutti avrebber riposato un par di ore. Ognuno
riprese la propria mantella ed uscì dopo aver fissato l’ora della
ripresa.

Ultimi ad andarsene furono i norcini e padron Serafino: quelli
entrarono nella stalla, questi salì alla sua stanza. Quando fu al
termine delle scale, accese un fiammifero ed aprì cautamente la porta
per non ridestare la Bita, ma la precauzione fu inutile perchè la
Bita non c’era e il letto era intatto. Non vi pensò più che tanto.
Era stanco, aveva sonno. Si tolse le scarpe e la cacciatora, s’infilò
sotto le coltri e, dopo un minuto, dormiva. Ma non tanto dormì chè,
di repente, balzò sul letto, sbalordito dall’affannosa chiamata del
capomaestro;

— Padrone.... padrone.... scendete che hanno aperto la porta, e i
mastini....

— Eh? — gridò Serafino. — I mastini?....

— Sono entrati in cucina....

— In cucina?...

— È un guaio!... Un guaio!...

Padron Serafino scese il letto e così in pedùli traversò la stanza e si
gettò giù per le scale.

Quando vide il disastro, si portò le mani ai capelli, senza far
parola. Anche i tre norcini guardavano, allibiti. Durante il loro
sonno qualcuno aveva disciolto i mastini e aveva aperto l’uscio della
cucina. Le bestie affamate non avevano chiesto di meglio per darsi alla
devastazione. Ora non rimaneva di tutta la faticata opera notturna se
non uno sconcio tritume sparso qua e là per terra, sulle tavole, presso
la cenere del camino.

Il giorno non era nato ancora. Appena si vedeva un po’ di chiarinella
all’estremo levante. E nevicava; nevicava a dolco, a fiocchi serrati,
fra un grande silenzio. Ed ecco che, dal silenzio, all’improvviso si
levò, leggero e delicato, un canto di voci argentine di bimbi e di
fanciulli. Giungeva dall’altro lato della corte, dove erano i magazzini
e le stanze disabitate nelle quali dormivano i braccianti alla buona
stagione.

Padron Serafino si inorecchì, volse il capo, domandò:

— Che cos’è questo?

I tre norcini si strinsero nelle spalle senza rispondere.

Il canto si levava, con nostalgica dolcezza, dal gran silenzio, e
pareva lontano, pareva attraversasse tutto il cielo per giungere fin
là, o superasse le volte di un chiuso tempio deserto. Era un’aria
antichissima, un motivo liturgico, sacro a Natale ed ai fanciulli dai
tempi dei tempi.

Padron Serafino mormorò:

— Cantano la pastorella!

E i tre norcini:

— Sì.

Nella nuova pausa si udiron le parole del canto:

    Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo,
    E vieni in questa grotta al freddo e al gelo....

Padron Serafino non rifiatava, le braccia penzoloni. Entrò Michele, il
garzone. Serafino gli disse:

— Dov’è la Bita?

Michele rise e disse:

— È nei magazzini. È tornata un’ora fa. Aveva con sè una ventina di
marmocchi. Non li sentite cantare?

— Sì. Anche questa è una novità!

E Michele:

— Si preparano per la notte di Natale.

— E c’è bisogno di prepararsi proprio all’alba?... Sul più bello del
sonno?... E i mastini chi li ha preparati?...

Michele si volse da un altro lato.

— Quando sono andato a letto avevo ben chiusa la porta, io!... Chi l’ha
aperta?

Eguale silenzio.

— E chi ha sciolto i cani dalle catene?

Michele scoppiò in una risata improvvisa.

— Perchè ridi, stupido?

— Rido.... perchè.... la Bita....

— L’hai veduta?

— Sì....

— E perchè non sei venuto a destarmi?

— Perchè?... Perchè c’è stata lei a far la guardia!...

— Va bene.

Padron Serafino non perse la calma. Ordinò a Michele e ai due norcini
di salvare dal disastro ciò che ancóra era salvabile e di riordinare
tutto e di non far parola come se nulla fosse stato; poi, afferrato un
punteruolo robusto, si volse al capomaestro e gli disse:

— Vieni con me.

E uscirono. Michele ed i norcini si guardarono in faccia:

— E adesso che succede?

Sempre si udiva il dolce canto giungere per l’aria come se discendesse
con la neve dall’infinita pallida foschia.

— Ho paura che succeda qualcosa di grosso! — fece Michele; ma in quel
che si avvicinava alla finestra per guardar nella corte, ecco rientrare
padron Serafino, seguito dal capomaestro e da Luigi, il biolco.

— Presto, presto!... — gridò Serafino. — Tu, Michele, va, attacca la
cavalla e verrai con noi. E tu, Luigi, prendi il morello e gira per
tutte le case, per tutti i ritrovi e invita uomini, donne, preti....
chi conosci e chi non conosci.... invita chi incontri: poveri e ricchi,
contadini, braccianti, cacciatori, pescatori.... tutti, insomma!...
Hai capito?... Tutti!... Devi dire che padron Serafino ha vinto al
lotto e vuol dare una gran festa.... un festone stragrande!... E che
riempirà di tavole imbandite tutta la casa, fino alle cantine.... e
che non guarderà in faccia nè ad amici nè a nemici perchè vuol stare
allegro.... perchè vuol ridere e vuole che tutto il vicinato goda con
lui! Hai capito?... E non dimenticarti dei suonatori! Vogliamo ballare,
vogliamo!... Hai capito?...

Poi, senza attendere risposta, si volse ai norcini, e parlava affollato
come se l’affanno fosse per soffocarlo:

— E voi accendete i fuochi, qui e nella stanza delle pile. Fate tutto
alla grande! Eccovi cento lire!... Se non c’è sale, compratene; se
non ci sono droghe, compratene. Quando ritorno voglio trovar tutto
all’ordine. Se vien gente dite che aspetti. — Luigi?... Senti. Prima
di andar via, aggioga i buoi al carro.... chiama Pietro e digli che li
conduca dai Fiori, che ne avrò bisogno. Presto dunque!... Presto!...
Non state lì a guardarmi come tanti mammalucchi!... Oggi si vuol far
ribotta, oggi!... Dev’essere uno sdrucio, da ricordarsi negli anni!...
Andiamo.... Andiamo!...

E uscì seguito dal capomaestro. La ronzina li attendeva nella corte:
salirono sul calesse e partirono fra la neve senza che nessun rumore si
avvertisse; solo si udiva il canto dei fanciulli dai magazzini:

    Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo....

Anche Luigi partì e Pietro col pesante carro vermiglio. I norcini
accesero i fuochi. Incominciarono a giungere gli invitati, ma la neve
attutiva ogni rumore e nessuno levava la voce tuttavia.

Quando padron Serafino ritornò, dietro il carro nel quale giacevano due
nuovi _allievi_ già macellati, si fermò ad ascoltare se la Bita fosse
sempre nei magazzini. C’era sempre. Disse:

— Bene!...

Gli _allievi_ furono portati in cucina: il carro fu riposto. La gente
che giungeva entrò nelle stanze a terreno senza rifiatare per non
insospettire la Bita.

Michele fu posto a guardia della casa. Si era rimpiattato in una ceppa
e, avvoltolato entro il suo rifugio, spiava l’uscita dei magazzini.
Nevicava sempre. Padron Serafino non era tuttavia sereno. Solo si
irraggiò quando Michele aprì la porta e disse:

— Se n’è andata?

— L’hai veduta?

— Sì.

— Ha preso la via della chiesa?

— Sì.

— Allora è fatta!... Presto, ragazzi, diàmoci d’attorno. La Bita non
ritornerà prima di mezzogiorno e a mezzogiorno le tavole vogliono
essere imbandite!

Rotti i freni, il baccano e il furor dell’opera ricominciarono come
la notte innanzi. La gente corse da tutte le parti all’invito, chè la
nuova si era diffusa. Più di settanta persone si trovarono in breve,
raccolte su la faccia del luogo. La nativa gaiezza romagnola travolse
la brigata. I volti s’invermigliarono, i cuori si aprirono: non vi fu
più padrone e contadino, ma gente che voleva godere e ridere e star di
buon core sotto la faccia del cielo. E le botti pensarono al resto.
A mezzogiorno tutto era compiuto. Imbandite le tavole, apprestate
le vivande, spillati i vini negli enormi boccali a fiorami. Tutte
le stanze a terreno rigurgitavano di convitati. Michele stava sempre
sull’avviso a spiare il ritorno della Bita. Padron Serafino attendeva
presso l’uscio e quando il garzone giunse correndo e mormorò:

— Eccola, eccola!... Viene!...

Padron Serafino fece il cenno convenuto e tutti tacquero sedendo
intorno alle tavole imbandite. Non si udì più se non il crepitar del
fuoco e qualche susurrare subito interrotto. Il grosso fattore sedeva
alla tavola più grande avendo a lato i norcini, i suoi compagni di
mercato e le ben pasciute donne del contado.

La Bita entrò nella corte. Tutti allungarono il collo, a guardare dalle
anguste finestre. Passò un fremito e un susurro:

— Eccola, eccola, eccola!...

E una trepidazione gioiosa tenne il core di tutti i festanti. La Bita
non aveva fretta.

Si fermò, stupita, a osservar le innumerevoli pediche su la neve; si
accostò al canile a vedere se i mastini c’erano sempre; si sorprese
dello strano silenzio che regnava. Si volse intorno. Piano piano si
diresse all’uscio, come a malavoglia. La trepidazione dei convitati si
accresceva sempre più. Si udì smuoversi la maniglia dell’uscio, si vide
il paletto che si levava un poco. Trascorsero fulminei susurri:

— Viene!... Non viene!... Se ne è accorta.... No!...

Padron Serafino aveva puntato le mani alla tavola, nell’atto del
levarsi, e stava così, rivolto verso l’uscio, come fosse magato.

Poi l’uscio si dischiuse un poco, sempre un po’ più, lentissimamente,
e la scarna figura della peccatrice abbrunata apparve nel vano. Ma
appena aveva levata la faccia di sotto lo scialle nero, e lo stupore si
dipingeva in quella, che, da settanta petti, contemporaneamente, sorse
un grido formidabile;

— Evviva, evviva la Bitaaaa!...

La donna illividì, parve impietrirsi, non dette più cenno di vita.
Caduto il grido, non si rimosse, non comprese. Ferma e rattratta sotto
lo sguardo delle genti, non rifiatava. Allora padron Serafino parlò.
Disse:

— Moglie, questa gente pregherà il Signore per te!... — La Bita levò
gli occhi cupi. — Tu hai avuto pietà dei cani e io ho avuto pietà degli
uomini. Moglie, ciò che è mio è tuo e ciò che è tuo è mio; ma è giusto
ringraziare te di questa ribotta, perchè ho preso i soldi dal tuo
canterale. Erano cinquanta bei marenghi nuovi di zecca. Ce li mangiamo
per la tua salute! È giusto!...

Poi, fra l’improvviso travolgente baccano dei banchettanti, che avevano
disciolto ormai ogni freno, si udì levarsi acutissima l’aspra voce
della peccatrice abbrunata:

— Ladro, ladro!... Assassino!... Erano i denari per il mio mortorio!...
Ladro.... ladro.... ladro!...

Ma poco valse la sua pena, di fronte al giocondo irrompere delle genti
che le sovrastavano berciando, ed ella si raccolse in un angolo,
il volto celato nelle volute del suo nero zendado, e così stette
singhiozzando senza rimuoversi per quanto tempo durò l’allegra festa
dei migliacci.



LA MADRE.


Girò due volte la chiave nella toppa, aprì la finestra sul giardino,
respirò l’aria nuova, si irraggiò di sole, ristette pensosa per
l’attimo di un suo turbamento inespresso. Era sola, si sentiva libera
di pensare, di piangere, di ridere senza essere osservata, senza essere
curata, senza l’ossessionante miseria di un egoismo amoroso che non le
dava tregua e respiro.

Sapeva che poco sarebbe durata anche quella sua momentanea pace perchè
nel termine di una fuggevole ora qualcuno avrebbe bussato alla porta e
una voce sommessa si sarebbe levata a domandar di entrare; ma frattanto
poteva abbandonarsi a sè stessa, essere un attimo senza guardia e senza
il sorriso di un affetto che a mano a mano, inattesamente e fatalmente,
le si convertiva in odio.

Sedette alla scrivania, guardò a lungo il sereno, le rose in fiore,
i comignoli dei vecchi tetti, le finestre delle soffitte che non
si aprivano mai e dalle quali pendevano, ondeggiando al vento, le
ragnatele; guardò là cima di un cipresso che svettava oltre la cinta
di un giardino e lo spirito di lei, appartandosi fra le dolci cose
consuete, distendendosi come al respiro del morire di quel maggio,
ritornò alla sua gaiezza nativa, dimenticò tutto, seguì la sua via
naturale nel sogno, poichè la vita le era una maledetta costrizione ed
un continuo affanno.

E dall’insolito silenzio le proveniva la sua gioia; sempre più si
schiariva nell’abbandonarsi alla necessità del suo vivere. Tutto era
dimenticato, tutto era morto e lontano e scomparso, proseguiva, come la
nube innamorata del sole e del vento va per i liberi spazi secondo la
legge delle creature lanciate dalla nascita alla morte. Come ogni astro
ed ogni goccia di pioggia, ed ogni fiore cercava il suo compimento,
costruiva la propria vita oltre il dolore e la morte di chi l’aveva
preceduta.

E l’umile aspetto di cui si rivestiva l’egoismo materno non le fu più
dinanzi, nè più ricordò le melate parole che le predicavan la rinunzia
per amore, nè le lacrime mute più penose di un’aperta volontà contraria
alla quale si può trovar forza per resistere come incitatrice di
energia, nè la sorda lotta combattuta ora per ora, giorno per giorno in
una snervante malinconia di opaco contrasto, di egoistica miseria che
si infingeva rivestendosi di dolcezza e di bontà. Più nulla, più nulla!
Il suo cuore era gaio come il cielo turchino, chiaro come un cristallo,
aperto come l’ebbra rosa solare.

La faccia appoggiata alle piccole palme dischiuse, gli occhi larghi
sulla bionda luce del giardino, seguiva una dolcezza di memorie
inquadrate in volti di paesi lontani, vissuti per tenerezza di amore,
discoperti come all’origine della vita e sorrideva come se tutto
le ritornasse dinanzi a volta a volta in una realtà più intensa e
profonda di quella vera e s’ella si trovasse tuttavia, nei calessi che
la trascinavano su pei colli verso una selva, verso un paese turrito,
verso una città solitaria; e l’uomo amato le era vicino e la conduceva
al limitare del sogno.

Rinascevano così le parole scambiate, quelle più turgide d’ansia, che
più si accostavano, come un brivido, dalla bocca al cuore e dal cuore a
tutto il senso; e le estasi mute, e l’affannoso volto del piacere che
occhieggiava di fra le siepi del biancospino come una giovine nudità
intravveduta per cui si trema e si sogna.

E come più le memorie si affollavano, simili a volti di fanciulli al
cancello di un giardino, più ella sentiva la profonda gioia della sua
solitudine.

Rilesse le ultime lettere che le aveva mandato da lontano e il tempo le
scorreva sì rapido che appena le pareva di essere entrata nella stanza
quando udì qualcuno che bussava alla porta.

Ebbe un atto di impazienza; le gote le si arrossarono all’improvviso,
volse il capo a domandare:

— Chi è?

Una voce umile rispose:

— Sono io!

— Che vuoi?

— Ti disturbo?...

— Vorrei rimaner sola!

Trascorse una pausa. La stessa voce riprese ancóra più sommessa:

— C’è una lettera per te.

— Una lettera?

— Sì. L’ha portata poco fa il postino.

Anna si levò e si fece alla porta. Apparve il piccolo viso dolciastro
della madre.

— Dov’è la lettera?

— Eccola — fece la madre e gliela porse.

Un’occhiata bastò ad Anna per capire dalla soprascritta di che si
trattava. Piegò la lettera in due e la ripose in seno.

La madre la guardò fare senza mutar volto, sempre umile nella sua
mansuetudine apparente. Fu un silenzio penoso.

— Non la leggi? — domandò la madre.

— Oh, non è nulla di importante!

Anna non abbandonava la maniglia dell’uscio; l’altra, che si era ferma
sulla soglia, mosse un passo per entrare.

— Chi ti scrive?

— Non so. Forse sarà l’Angiola.

— L’Angiola?... Non mi pare la sua calligrafia!

— Mah!...

Non si guardavano in faccia. La madre deviò il discorso, abilmente.

— Non ti fa male agli occhi tanta luce?

— No. Mi piace.

— Non vuoi che ti socchiuda le persiane?

— No, grazie!

Le risposte di Anna erano concise e la voce dura. Ciò moltiplicava le
pause.

— Poco fa è venuta la signora Erminia; voleva vederti. Ho detto che non
eri in casa.

— Hai fatto bene!

— Sai chi sposa?

— No.

— L’Amelia.

— Ah!

— Si è fidanzata col dottor Pini.

La madre guardava per la stanza. Disse dopo una sosta più lunga:

— Già vorrai rimaner sola!

— Mi faresti piacere.

Ma la signora Viani non si rimosse. Aveva sempre il suo sorriso di
vittima sulle piccole labbra stirate e gli occhi malinconicamente
umidi.

Disse ancora:

— Aspetta, Anna. Questa mattina non ti hanno cambiato gli asciugamani.
Ora li prendo io.

— Non importa, mamma.

— Non vuoi?

— È inutile. Ora non mi abbisognano.

— Ma.... se più tardi....

— Fra poco scenderò.

— Come vuoi!

Come si addiede di non poter scegliere via che la conducesse al suo
porto, la signora Viani si ritrasse di su la soglia.

— Allora ti aspetterò giù.

— Sì, mamma.

— Tarderai molto?

— No.... Qualche minuto.

— Non vuoi uscire questa mattina?... C’è tanto un bel sole!...

— Non ne ho voglia.

— Bene.

E si volse per andarsene. Anna richiuse la porta, attese che il passo
della madre fosse dileguato giù per le scale e allora girò per due
volte il chiavistello e respirò sollevata.

Tornò allo scrittoio. Il volto di lei si distese, animato da una
segreta gioia improvvisa, tolse la lettera dal seno, l’aprì. E non
erano parole scritte ch’ella aveva dinanzi, ma il volto del suo amore
e l’udiva parlare appassionato come se le fosse dietro le spalle,
inchino, e la bocca di lui le sfiorasse le orecchie e il respiro le
scendesse per le tempie e per le gote per farla abbrividire. Si udivano
i passeri e le rondini.

Cigolò la carrucola di un pozzo; una donna cantò il fior dell’arche
odorose che si dischiudono per i letti dei giovani quando l’amore
consiglia.

Oh amore e gioia! E c’era una nuvola bianca ed esigua su l’orlo del
giardino, là dove il cielo si chinava presso una nera torre quadrata,
fiorita da ciuffi di ranuncoli. Le glicinie erano in fiore. Avevano
coperte le mura dei loro corimbi azzurri e violacei; molli come il
molle cielo. Ne erano quasi chiuse le finestre delle camere disabitate
e i colombai. Anche le vecchie mura di rossi mattoni godevano del sole
e della primavera e le bifore chiuse da tanti mai anni; chiuse con lo
spirito di una bellezza morta.

Ed ella benchè non vedesse, assorta com’era nel suo léggere amoroso,
sentiva l’anima delle cose circostanti irraggiarsi come l’anima sua,
nel mattino, chè tutto compiace a giovinezza.

E ancora udì bussare alla porta. Nascose la lettera nel seno; si levò.
Era la madre con un fascio di fiori. Disse:

— Ti ho portato i fiori per i tuoi vasi. Questa mattina non li avevi
raccolti.

— Grazie!

Li prese e li posò sopra una sedia.

— Ti occorre nulla?

— No.

— Non vuoi bere una tazza di brodo?

— No, grazie.

— Te l’avevo preparata!... Anna, ti indebolirai.

— Ma se mi sento bene!

— Non vuol dire!... Dunque non la vuoi?... Te l’ho portata!... È qui!...

— No, mamma, non la voglio!...

— Via.... ubbidisci! Ti farà bene!...

Prese la tazza e la posò sulla sedia, vicino ai fiori. Le passarono per
la mente i liberi amanti campagnoli che vanno per le strade morte, in
solitudine, e nessuno li turba, e nessuno li insidia e nessuno guasta
loro la segreta gioia dell’amore.

— Dunque non vuoi uscire?...

— No.

— Ti farebbe bene prendere un po’ d’aria!

— Non ne ho bisogno.

— Come sei rossa!... Che cos’hai?...

— Io?... Niente!...

— Hai avuto qualche brutta notizia?

— No.... perchè?...

— Mi sembri agitata!

— Ti inganni.

— Chi ti ha scritto?...

Fu per mentire, ma l’anima sua diritta si ribellò a una simile
meschinità. Non rispose.

— Non si può sapere?... — riprese la madre sorridendo, e gli occhi suoi
malinconici erano ancora più umidi.

— Se proprio lo desideri!

— Sì.

— È Armando!

— Come?... Ancóra?...

— Ancóra?...

— E ha avuto il coraggio....

— Ha risposto semplicemente a una mia lettera!...

— Tu gli hai scritto per prima?...

— Sì!...

— Anna!... Se lo sapesse tuo padre!

— Lo saprà perchè glie lo dirò!

— Non farlo, per carità!

— Babbo saprà capirmi ed io non voglio mentire!...

— Ma le tue promesse?...

— Io non ho promesso nulla!

— I tuoi pianti?...

— Dovevi capire perchè piangevo!

— Oh, Anna!...

E delle mani grinzose si fece velo alla piccola faccia. Parve incerta
se scoppiare in singhiozzi. Si trattenne.

— Mi fai leggere quella lettera?...

— Questo no!

— Almeno dimmi quello che ti dice!

— Neppure!...

— Rispondi così alla tua mamma?...

Anna si volse a guardare da un’altra parte, tutta bianca per l’emozione.

La signora Viani raumiliò la debole voce e disse sospirosa:

— Questa è la ricompensa per il bene che ti voglio!...

Allora la giovinetta si volse di scatto, guardò la madre in faccia,
fieramente, e d’un tratto si abbattè sulla scrivania, la faccia
nascosta fra le braccia ripiegate.

— Oh, mamma, mamma, mamma!...

Fu un pianto represso ed aspro elle la scosse e la sconvolse.

E la madre chinò la piccola testa e uscì silenziosamente senza chiuder
la porta.

                                   ❦

Ed eran due anni che la sorda lotta continuava così, senza nessuna
pietà, ordita sulla trama di una tenerezza opprimente. Da un lato la
madre a moltiplicare le attenzioni, i consigli, le scialbe dolcezze in
un vigile affetto sospettoso, dall’altro Anna a difendere il suo fiero
amore dall’insidia quotidiana. Perchè non v’era causa valevole che si
opponesse al compimento di due destini se non il materno egoismo.

Armando Vada era inviso alla buona madre solo per ciò che lo
distingueva dai suoi coetanei. Non era una bestia da soma, non un uomo
di famiglia, chè non voleva imbrancarsi e marcire nei piccoli cerchi
delle piccole famiglie; non amava gli impieghi nè la beata tranquillità
di un tanto al mese, nè la parca mensa che abbrutisce lo spirito fra
lo scemo pettegolezzo quotidiano e il dominio delle stupide femmine
che hanno il còmpito di ricondurre l’uomo alla sua greppia, alla sua
condanna, alla morte di ogni luce ribelle. I discorsi di lui avevano
stordito l’umile signora Viani la quale se ne era fatta come un
anticristo, ma, ancor più di tutto questo, l’aveva spaventata l’idea
di perdere la sua Anna per sempre chè Armando Vada non nascondeva il
suo intendimento di andarsene in paesi lontani ad esplicarvi la propria
energia in una lotta dalla quale, se si esce trionfatori, si coglie una
ben larga messe. E non tanto il rischio la spaventava quanto l’idea
di non vedersi più d’attorno la sua bella figlia. Anna era bella, lo
dicevan le genti, lo dichiaravano gli innumerevoli innamorati e di tale
bellezza la piccola madre andava orgogliosa come di un vezzo di grazia
per la sua vecchiaia, come di qualcosa che le spettava per giusto
diritto e da cui non doveva mai separarsi. La sua vanità egoistica si
era terribilmente serrata intorno alla figlia e ribadita in apparenza
di affetto.

Da quando Anna aveva incominciato ad essere qualcosa più di una bimba,
la dolce madre, per farne un campione di bellezza, l’aveva ornata e
addobbata come un altare, sol per sentirsi dire: — Com’è bella!... —
e veder la gente soffermarsi lungo la strada e l’invidia negli occhi
delle giovinette. E da quel tempo l’assiduità sua intorno alla figlia
si era moltiplicata. Anna non aveva avuto nè un giorno nè un’ora di
libertà, non aveva conosciuto amiche. A venti anni non ancóra le era
stata concessa una stanza nella quale raccogliere il suo lettuccio, le
sue cose, i suoi sogni; dormiva tuttavia col babbo e la mamma come una
piccola mocciosa senza intendimento, piena di terrori notturni. E il
giorno in cui si impose e parlò alla madre della sua vergogna di esser
tuttavia relegata nella stanza comune, di fronte al babbo, senza alcuna
libertà possibile; e della sua recisa volontà di avere una stanza per
sè sola, vide la madre singhiozzare come se avesser dovuto dividersi
per la vita, e la vide implorare e impallidire; ma non piegò ed ebbe un
nido. Le parve allora di aver raggiunta la felicità e la possibilità
di ricercarsi, di esser sola, di vivere nell’intimo dell’anima sua,
secondo un irrompente desiderio; ma ancóra si ingannò chè, secondo una
ossessionante tenerezza, la madre le fu dintorno ogni dieci minuti e
giungeva la notte, scalza, sulla punta dei piedi per darle un altro
bacio, per raccomandarle il sonno. Anna incominciava a vedere in tutto
questo qualcosa di diverso dall’affetto e non poteva difendersi, a
volte, da un senso di invincibile ripugnanza. Non si risolveva in
realtà in un trepido spionaggio quell’assiduo apparire in silenzio
durante la notte? E quando fingeva di esser presa dal sonno, perchè
dunque si accostava alla scrittoio e frugava fra le sue carte? Ma come
ribellarsi senza apparire cattiva, snaturata agli occhi di tutti? Ed
ella non sapeva scindere tuttavia la propria condotta dal giudizio
della gente, era troppo schiava delle consuetudini, l’avevano tenuta
troppo avvinta per aver ali a un grande volo. La gente esaltava l’umile
amore di quella madre e lo portava ad esempio. L’apparenza assumeva
proporzioni eroiche e, come sempre, l’apparenza bastava chè, a voler
indagare, si sarebbe giunti chi sa dove, perchè è molto raro che il
sedicente amore non nasconda una qualche bruttura.

Inoltre che avrebbe detto il babbo?... Anch’egli era stato fiero e
ribelle nella sua giovinezza, ma poi era venuto piegandosi, si era
ammollito sotto l’influsso della donna che si era scelto a compagna.
Ella lo aveva vinto ed insciocchito con la mitezza, con la mansuetudine
bestiale, con una specie di bontà inerte, remissiva, malinconica; gli
aveva tolto ogni virilità assecondandolo, facendosi sempre più piccina,
prestandogli i più umili servizi con pecorile accondiscendenza. Ed
appariva buona buona buona!... di quell’idiota bontà che vince per
forza d’inerzia e passa le mura e stempera il più saldo acciaio.

Anna vedeva questo benchè non ne detraesse giudizi, anzi tutto ciò le
si convertiva in segreto dolore.

Così si era svolta la vita di lei, senza nessuna ebbrezza fino al
giorno in cui una grave malattia l’aveva quasi condotta alla morte.
Quattro mesi combattuti fra l’insonnia e la febbre l’avevan disfatta.
All’uscir di un inverno ella si destava come per la prima volta alla
vita, senza memoria, pervasa dalla stessa dolcezza che trascorre pei
limpidi cieli marzolini. Ma la convalescenza doveva essere lunga e
per ristabilirsi ella doveva esulare, lasciar per qualche mese la
sua piccola città oscura, cercare altri soli, altri paesi. Quando le
dissero questo, il primo rossore le affiorò le scarnite guance e non
vide le lacrime della madre o non le volle vedere. Chiuse i grandi
occhi, incrociò le mani sul petto, stette così lung’ora, la testa
affondata nei guanciali. Le si apriva un mondo diverso, una possibilità
diversa, un infinito bene di sogno. Rinasceva in realtà e Iddio le era
dinanzi. Ancóra non poteva parlare. Non guardava se non fuggevolmente
la madre che era sempre a fianco al letto. Chiudeva gli occhi per
lasciar vagare l’anima in un suo paradiso di freschezza. Quel ritorno
alla vita le era come un illuminato stupore. Era morta e rinata. Aveva
lasciato in un passato remotissimo tutto il peso di mille cose gravi
ed oscure; si ridestava con una prospettiva radiosa, sul principiare
del marzo. Quando sarebbe partita e per dove? Chi l’attendeva? Chi
le avrebbe parlato dolce?... Dove?... dove?... E dalla fantasia
le nascevano terre sconosciute per le quali si figurava di andare
divinamente sola, fra l’amor delle cose ebbre di luce, sotto il canto
delle allodole.

Paesi lontani, case tinte dall’aurora fra giardini di melograni, strade
azzurrastre e sentieri, viottole, colline, selve, fiumi, fontane. Il
mondo della rondine. E per l’arco breve dei giorni ella pregustava la
nuova gioia.

Sapeva che la madre non l’avrebbe accompagnata. Non si poteva per via
del danaro. Sapeva la famiglia prescelta ad accoglierla e il luogo, ma
tutto ciò le sembrava tanto lontano e tanto vago da confondersi quasi
con l’irrealtà.

Frattanto la sua giovine forza trionfava rapidamente sul male e il
giorno giunse. Il giorno di una prima partenza è sempre di una bellezza
gaudiosa. Quando uscì dalla casa, nel sole, quando fu alla stazione,
quando vide giungere il treno tacque e sorrise; sorrise sempre senza
che il malinconico aspetto della madre in lacrime la turbasse o la
preoccupasse.

Troppe ed inconsulte erano state le lacrime della madre perchè ella
ne fosse presa. Poi era la sua volta. Dopo tanti sogni partiva verso
l’ignoto e il commovimento da cui era invasa dominava e allontanava
ogni altro amore.

La chiusero in un compartimento per signore sole, la raccomandarono al
capo treno e i consigli e le prediche non avevan più fine.

Anna ascoltava senza capir nulla, dicendo sempre “sì„. Poi il treno
si mise in moto ed ella vide la sua piccola madre abbrunata agitare
il fazzoletto e portarselo agli occhi; la vide incamminarsi dietro al
treno, protendere la faccia sparuta, piangere disperatamente. Perchè
mai tanto dolore? Ed era solo dolore? Si separavano forse per la morte?
Quando si ritirò dal finestrino non pensò più ad altro se non alla
sua felicità e il ricordo di quel viaggio le fu poi sempre come un
sogno vissuto portentosamente. Giunse alla città destinata verso il
crepuscolo. Il treno si fermò ad una piccola stazione fiorita sul Lago
Maggiore. Era l’aprile.

Un brusìo festoso di gente che si avviava alle armoniose ville del
Lago; una dolce luce per tutte le montagne e su l’acqua azzurra; una
stazione gaia come un ritrovo d’amore. Trovò coloro che l’attendevano,
li seguì stordita, senza parlare, e per quella sera non vide e non
seppe se non le montagne serene, una strada fra i giardini e la sua
cameretta sul lago.

Poi si ridestò. Fu anche per lei l’attimo in cui si vive la vita come
un prodigio e non moriron dieci giorni ch’ella era innamorata.

Non fu una cosa improvvisa. Si rividero laggiù, per caso, ma già si
eran conosciuti fanciulli nella città nella quale erano nati. Nè l’uno
fu più sorpreso di incontrare l’altra, nè la loro gioia si misurò su
ritmi dissimili. Si piacquero, si amarono e decisero il loro destino.
Egli doveva andarsene in America, avrebbero sposato innanzi di partire.

Quaranta giorni trascorsero e l’incantesimo finì. Anna doveva
ritornare. Riprese la strada come se discendesse verso il buio, verso
una prigione che un mese di libertà le rendeva più intollerabile.
Sentì allora di non poter amare sua madre. A volte la ribellione di
lei giungeva fino al pensiero di andarsene lontana per sempre. Ma
la speranza si abbranca ai minimi segni e pensava ancóra che i suoi
avessero potuto assecondarla.

Armando era partito due giorni prima per far la domanda ai legittimi
proprietari di Anna; ella, giungendo, avrebbe trovata la decisione
stabilita. Credendo ancóra di valer qualcosa nell’atto in cui doveva
compirsi il proprio destino, scrisse alla madre e al padre una lettera
appassionata per prevenirli, per dir loro quale era l’anima sua e il
suo desiderio, ma a volta a volta il dubbio vinceva la speranza.

Attese invano un telegramma di Armando; partì scorata.

Dopo un interminabile viaggio trovò alla stazione la madre, delirante
in una convulsiva gioia lacrimosa e il buon padre più rinsciocchito
che mai. Innumerevoli i baci e gli abbracci. C’era tutto il parentado
strillante, ululante per la gran gioia. Una barocca fiera di esultanza.
E fra la tempesta delle domande, dei baci, degli abbracci, delle
lacrime, delle carezze fu trascinata via senza capir più nulla. Come le
apparve orrendo il volto di quella gioia canina!... L’avevan _ripresa_
finalmente!... Era ritornata all’adiaccio fra le altre pecore, fra
tutte le pecore matte del suo parentado!... Era tornata sotto le
amorose grinfie de’ suoi tutori e forse non se ne sarebbe dipartita mai
più!... E d’improvviso tanto fu forte la sensazione di tale realtà che
ruppe in un pianto improvviso.

La signora Viani le si strinse al braccio:

— Perchè piangi, Anna?...

Non rispose. Risposero per lei le impennacchiate parenti:

— È l’emozione, poverina!...

— Era tanto che non ci vedeva!...

— Piange per la gioia!... Lasciatela stare!...

— Lasciatela stare!...

La gioia, sì! La gioia sorella della morte! E il parentame se ne andò.
Rimase sola nella stanza da pranzo col padre e la madre, li guardò
negli occhi, cercò di parlare. Ma la sua piccola madre non le lasciò
aprir bocca una volta sola: parlava e parlava e si faceva in quattro a
toglierle di dosso l’ombrello, i guanti, il velo, il cappello. Pareva
temesse di udire la voce di lei. Quando aveva esaurito un argomento
ne cercava un altro, poi un altro, squadernandole innanzi lo stato
civile di tutti i conoscenti: matrimoni, morti, adultèri, fallimenti,
crudeltà filiali, eroismi materni, tutto quanto era venuta accumulando
in quaranta giorni; e ogni dieci secondi interrompeva la narrazione
favolosa per domandarle notizie della sua salute, per offrirle un
brodo, una tazza di latte, un uovo da bere; ma di Armando non una
parola. Si capiva che il solo nome di quell’uomo era l’orrenda ansia
della piccola madre e che si profondeva ridicolmente in tal guisa solo
nella speranza che Anna capisse e dimenticasse. Un attimo rimase sola
col babbo e ne approfittò. Lo guardò fisso negli occhi, gli domandò:

— Babbo.... hai saputo?

— Sì.... ho saputo.

— Ebbene?...

— Parlerai con la mamma!

— Non volete?

Fu un grido. In quell’istante rientrava la signora Viani. Si fermò
stupita, domandò:

— Che cosa è stato?...

Capì a un’occhiata del marito e ricominciò la petulante solfa.
Anna ne era stordita. Salì alla sua stanza, affranta. Incominciava
a intravvedere la verità. Di un subito fu colta da uno scoramento
tale che si lasciò andare su di una sedia senza dir parola, tutta
abbandonata all’angosciosa tristezza. Le lacrime le scendevano a coppie
per la faccia impallidita. La signora Viani finse di non accorgersi
nè del pianto nè dell’improvvisa tristezza della figliuola: continuò
a parlare, sempre più animata, e a moltiplicare le sue tenerezze
intempestive.

Anna tacque ancóra; poi si rizzò di scatto e domandò, ferma:

— Mamma, dimmi la verità!

La signora Viani si fermò a mezzo la stanza, si rivolse e domandò
stupita:

— Quale verità?

— Non farmi parlare, mamma!... Tu sai che cosa voglio dire!

— Ma.... non ti capisco, bambina mia!

— Ier l’altro è venuto qui Armando Vada....

La signora Viani non rispose.

— .... vi ha parlato....

Uguale silenzio.

— Ebbene.... che cosa gli avete risposto?...

— Ma.... — fece l’umile creatura di bontà — io non c’entro!...

— Come non c’entri?

— No.... parlerai con tuo padre!

Allora Anna fu presa da un aspro riso.

— Perchè ridi?...

Per qualche tempo la convulsiva amarezza non le concesse di parlare.
Quando l’affanno le si calmò un poco, disse:

— Rido perchè il babbo mi ha risposto come te!...

— Io non ne ho colpa!... — mormorò l’umile madre. Nella pausa che seguì
ella evitò di guardare la figlia.

— Che cosa gli avete risposto?

— Perchè parlarne? — fece la signora Viani, implorante.

— Dunque non dovrei saper nulla?

— Stai tanto male con noi?

— Che c’entra questo?

— Pare tu non veda l’ora di abbandonarci!

— Mamma!... Non essere ingiusta!...

— Credevo tu ci volessi più bene!... — soggiunse la piccola donna, le
lacrime agli occhi.

Anna si sentiva il cuore stretto da un’amara tristezza. Disse a
voce spenta, gli occhi fissi innanzi a sè, assorti in un malinconico
deserto:

— Ti credevo più buona!...

Un lampo di sdegno accese gli occhi della signora Viani, ma fu subito
spento.

— Dopo tutto — riprese — farai ciò che vorrai!...

E per quel giorno Anna non ricondusse il discorso sul colloquio e la
madre si intenerì sempre più nella speranza che la sua buona figlia
avesse dimenticato.

Nel giorno che seguì, recandosi la mattina nella stanza di Anna
per prestarle gli umili, inutili servizi nei quali si esplicava
tutto il suo amore, trovò la figlia seduta alla scrivania, pallida,
scarmigliata, gli occhi enfiati.

Così l’aveva lasciata la sera innanzi, così la ritrovava. Le si accostò
piano piano, le chiese:

— Come stai?

— Male! — rispose Anna.

— Che cos’hai?

— Non so!

— Hai dormito?

— No.

Guardò il letto; era intatto.

— Non sei andata a letto?

— No!

— Perchè?

— Perchè non ne avevo voglia!

— Ma ti rovinerai la salute!

— Poco male!

— Anna!...

Una pausa.

— Se lo sapesse tuo padre!...

Anna nascose la faccia fra le palme e ricominciò a piangere sommessa.

— Ma che cos’hai?...

— Dovresti saperlo!... — rispose la giovinetta.

— Bambina mia.... diventi irragionevole!...

Anna si levò, si rivolse verso la madre:

— Mamma, gli avete detto che non volete?...

— Ma perchè non lo domandi a tuo padre?

— Perchè tu sola hai deciso tutto!

— Io?

— Sì. Il babbo fa quello che tu vuoi.... Tu lo sai convincere.

— Ti giuro che non gli ho parlato!

— Non vuol dire! Avrà capito dalle tue reticenze.

— Quali reticenze?

— Le puoi sapere tu sola.

— Dunque non mi credi?

— Ma io credo tutto!... Voglio sapere solamente quello che gli avete
detto!

— Sei ben cocciuta!

— Non si tratta di cocciutaggine, si tratta della mia vita! Credo di
avere il diritto di sapere come volete disporne.

— Noi vorremmo che tu non ci abbandonassi mai!

— Vorreste ch’io rimanessi sempre la vostra piccola figliola da
condurre a spasso!

— Anna!

— È la verità!

— Sei crudele!

— Non più di quello che tu non lo sia con me! Ma è dunque un giuoco
il mio? Ma sono dunque tanto trascurabile che il mio cuore e la mia
volontà non valgano nulla in tutto questo?

— Bada.... potresti pentirtene!

— Di che cosa?

— Di aver fatta la tua volontà.

— E perchè?

— Perchè non hai esperienza.... perchè alla tua età si vedono le cose
da un falso punto di vista!

— Vorresti forse ch’io fossi vecchia prima del tempo?

— Come rispondi!...

— E lasciatemi la mia gioia!... Ne ho avuta così poca nella mia vita!...

— Anche questo mi rimproveri?

— Non è un rimprovero. Io vedo che il giorno in cui mi si apriva
innanzi una strada infinita, in cui potevo farmi una vita mia, tu e
il babbo vi opponete, mi respingete verso il mio passato, mi dite: —
No, non vogliamo!... — Non posso ribellarmi, ma nello stesso tempo non
posso ubbidirvi!

La signora Viani stupiva sempre più. Chiese tremando:

— Gli vuoi tanto bene, dunque?

Il volto di Anna ebbe un subito rossore.

— Se gli voglio bene?... Da morirne!... Devi saperlo perchè è così,
perchè sarà sempre così! Se domani vorrà ch’io lo segua, te lo dico
prima, mamma, andrò con lui anche senza averlo sposato, lo seguirò
senza nessuna vergogna. E farà di me ciò che vorrà. Nulla mi fa paura!

— Tu faresti questo, Anna?...

— Sì, lo farei!

— E a noi non pensi?... Siamo dunque un niente per te?...

— Ed io che cosa sono per voi?

— Tutto!

— Sì, fin che non vi abbandono! Se domani partissi senza il vostro
consenso diventerei indegna del vostro amore!

— Tu vuoi vedermi morta!

— Non dire cose insensate, mamma!

Ma la piccola madre aveva trovato il tasto opportuno ed insistè su
quello come l’unico che potesse torla d’imbarazzo con onore e farle
riacquistare il terreno perduto.

— Sì.... vuoi vedermi morta!... È meglio ch’io muoia!... Tanto sono
inutile.... non servo a niente.... non faccio che far del male!...

E si abbattè su di una sedia singhiozzando follemente; convulsa,
stravolta, convinta di destare pietà.

E la pietà giunse con la sua faccia spaurita, e attanagliò il core
della giovinetta.

L’anima generosa ed ingenua della nuova creatura, non resse al dolore
della madre e si piegò affranta verso di lei. Mormorò parole di scusa,
si umiliò. La piccola madre intese così quanto fosse opportuno il suo
còmpito di vittima e da quel giorno tanto parve malata ed esausta da
destare in tutti il convincimento ch’ella fosse presso a morire.

Tutto il parentame si allarmò; la voce corse di casa in casa per la
piccola città accigliata. Fu detto che la santa donna se ne andava
perchè Iddio chiama più presto i buoni presso di sè; le regalarono una
malattia nuova ogni giorno e la pallida vittima vestì da quel tempo le
gramaglie e più non le tolse. Anche si parlò sommessamente di Anna.

Qualcuno disse:

— È una testa romantica!

E qualcun’altro:

— È un’ingrata!

Il parentame materno, uno sciame di donnacole, vergini per l’ira di
Dio, mise in circolazione l’ingratitudine di Anna.

E benchè i medici non riscontrassero alcuna malattia nella signora
Viani, questa non si ritenne guarita mai più, e ogni tanto, a conferma
del suo male interiore, digiunava fra la strillante preoccupazione
della fantesca e del marito.

Ma frattanto chi intristiva veramente era Anna.

Armando aveva rimesso la partenza di mese in mese e quasi un anno era
trascorso. Nulla era mutato nel frattempo. La signora Viani, superando
le sue possibilità finanziarie e riempiendo di debiti il miser’uomo
del quale si era impadronita, copriva di regali la figlia e piangeva
e sorrideva e si moltiplicava per sostituirsi, nel pensiero di lei,
all’uomo odiato che voleva togliergliela. Esaurì in tale còmpito
tutte le sue scarse arti troppo ingenue. Ma la piccola madre aveva
incrollabile la coscienza dei suoi diritti materni e le pareva di
essere buona buona buona, e se lo sentiva dire tante mai volte dalle
sorelle, dalle zie, dalle cugine, dalle attinenti che, nella sua
piccola testa, per poco non si santificava al cospetto del suo Iddio
microcefalo.

                                   ❦

Aveva stabilito tutto tranquillamente, fin dal giorno prima, senza
affrettarsi, con la precisa sicurezza che dànno le decisioni meditate a
lungo.

Aveva nascosto la valigia nel cassetto dell’armadio; sapeva già, ad una
ad una, le cose che avrebbe prese con sè.

Nulla l’aveva tradita. Era stata anche il giorno innanzi, come sempre,
ferma nel suo raccoglimento interiore, un poco triste, impartecipe
alla scimmiesca allegria del parentame che da qualche mese frequentava
quotidianamente la casa, col compito di renderla gaia.

Nessuno aveva intravveduto in lei alcunchè di mutato. Era l’Annetta
di sempre: imbroncita, coi grilli per la testa. E su questi chimerici
grilli le zie ridanciane si divertivano un mondo, bofonchiando
come coloro che vorrebbero entrare per una porta vietata e tentano
timidamente la maniglia dell’uscio, pronte a ritirarsi al minimo suono.

A sera se ne erano andate profondendosi in baci ed abbracci come per
una separazione eterna. Anna non aveva detto che poche parole; il puro
necessario.

Salita alla sua stanza, aveva atteso tranquilla e indifferente le tre o
quattro sorprese materne, serrando poi l’uscio a doppia mandata.

Ora disponeva le cose necessarie nella valigia. Non era in lei alcuna
emozione all’infuori di un’aspra volontà di agire. Era giunta a quel
passo attraverso ad una landa squallida, per un crepuscolo bigio. Aveva
pianto tutte le sue lacrime. Era stanca, stanca di oppressione e di
tristezza. La sua sostanza vitale cercava la libera vivacità dei cieli
violentemente. Ella non avrebbe più potuto opporsi a sè stessa. Doveva
andare. Nel buio dell’anima sua non era ormai se non quell’unica luce
verso la quale si protendeva per una necessità imperiosa.

Era giunta per vie sì lunghe al suo divisamento che ormai non ne
provava più ansia nessuna. Era una cosa fatale e necessaria che
ella compiva: o allora o mai più. Armando le aveva scritto: “Entro
la settimana entrante mi imbarco. Sabato sarò a Bologna. Ti aspetto
ancóra, dove sai. Sciegli e decidi. O col tuo amore o contro l’amor
tuo!„. Ella aveva risposto: “Sabato alle dieci sarò da te„. La voce
d’invito, precisa nella sua concisione, aveva trovato un subito
acconsentimento risoluto. Tre volte l’aveva trattenuta la pietà
filiale. Aveva sperato in una diversa via di uscita, ma la piccola
madre, sempre che Anna avesse tentato ricondurla a parlar del suo
amore, aveva dato in ismanie ripetendo la minaccia consueta che non
aveva ormai più valore d’incubo:

— È meglio ch’io muoia!... Ne avrete per poco ancóra!... Sono una
disgraziata!...

Anna si era ridotta al silenzio. E la signora Viani non vedeva il
consumamento della figliola, intenta solo a impedirle il suo radioso
destino.

Il padre non aveva avuto nè volontà, nè voce. Fiacco come ogni uomo
caduto nel piccolo mondo di una femmina sciocca, imbastardito nella
mollezza che aveva dispento in lui ogni impeto virile, si era appaciato
in una indifferenza beota senza chiedere, senza indagare, senza
desiderio di un qualsiasi convincimento profondo. E la mamercula aveva
avuto facile campo alla sua conquista.

Ma non nel forte cuore della vergine. La bell’anima combattuta decideva
di sè stessa. Si avviava per la via del suo destino senza rivolgersi;
gli occhi asciutti e il cuore suggellato.

Il treno partiva alle due.

Aveva calcolato sul sonno dei suoi.

Per non far rumore nell’andarsene aveva trascelto certi suoi
scarponcelli estivi che ammorzavano il passo.

In breve tutto fu compiuto. Lasciò sulla scrivania una lettera breve
indirizzata alla madre. L’aveva scritta da vari giorni. Aprì l’uscio
lentissimamente. Si protese ad ascoltare. Il sonno faceva la casa
vuota, corsa solamente da qualche ignoto cricchiare, da un brivido
di respiro nell’ombra. Le sue pupille si dilatarono nella tenebra.
Fece qualche passo nel corridoio, salì una scaletta che conduceva sul
ripiano delle scale, si accostò all’uscio della stanza nella quale
dormivano i suoi. Nulla. Il sonno misterioso col suo respiro eguale
nella tenebra densa. Ritornò sui suoi passi. Iddio la vegliava. Quando
fu sul punto dell’estrema decisione ebbe un tremito al cuore. Non vi
badò. Pallida ma ferma, socchiuse l’uscio, si accostò al letto, infilò
il mantello, si ravvolse in un velo fitto. Era pronta. Ancóra ascoltò.
Ebbe un tremito di morte ad un tratto, chè le parve di udire il passo
della madre. Indietreggiò fino alla finestra. No... non era lei!... Era
la sua paura, la sua folle paura di non potere!...

Prese la valigia, spense il lume. Era il punto. Si accostò all’uscio
a tentoni, lo aperse, lo richiuse. Ristette sulla soglia ancóra,
respirando come chi abbia dinanzi la visione di un incubo. Appoggiata
la mano al muro del corridoio, per seguire la via diritta, proseguì
nell’ombra. Ora la tempestava dentro l’ansia di superare quel poco
spazio, quel nulla ch’era più di una dolorosa eternità. Fu alla
scaletta di legno, ne salì i gradi ad uno ad uno, sbucò nella stanza
che immetteva nelle scale. Superata la stanza poteva dirsi salva.
Ristette un attimo ancóra, abbrividì, le pareva di udire un respiro
vicino. Qualcuno respirava di fronte a lei nella tenebra. Mosse un
passo, poi due, poi prese la via, risoluta. S’intravvedeva in fondo
alle scale un bagliore. Erano i lumi della strada che rischiaravano
un poco l’andito a terreno, per i vetri della rostra. Era la luce che
l’attendeva, il suo ultimo porto. Avanzò ancóra, fu per uscire; ma, sul
punto in cui stava per sbucare sulle scale, una voce transumanata, non
sapeva se orrida di spavento o di ira, gridò a due passi da lei:

— Chi è?... Chi è?...

Indietreggiò impietrita. Sentì il cuore arrestarsi e tutte le vene
corse da un subito gelo. Non rispose. Le mascelle le si inchiodarono,
l’una contro l’altra duramente. Sentiva la faccia come fosse di marmo.
La valigia le cadde di mano.

E ancóra un soffio vicino e la stessa voce e la stessa domanda:

— Chi è?... Chi c’è qui?

Non rispose, non seppe il senso delle parole, non seppe più nulla.

— Sei tu, Anna?... Anna, Anna?...

Era un urlo. Poi una porta si dischiuse. La stanza si rischiarò.

Stettero di fronte terrorizzati. Si guardarono negli occhi il padre, la
madre, la vergine impietrita.

E nessuno pianse. C’era, al di sopra di loro, qualcosa di più grande,
di più oscuro, di più tragico che non fosse il loro cuore con le sue
torve passioni.

                                   ❦

E gli anni passarono come un’acqua di palude, torbida di una putrida
vita. Anna dormì ancora fra il padre e la madre.

Le avevan vietata la morte per tre volte. Si scoraggì, si piegò,
s’insciocchì poveramente come una cosa disfatta negli anni torbidi e
fermi come un’acqua di palude.

E la piccola madre sempre la pettinò alla mattina, innanzi allo
specchio, e sempre le disse, come dall’alba dimenticata:

— Come sono belli i tuoi capelli!...

E la vestì per trarsela dietro per le vie, la vestì sempre più
vistosamente; ma la gente non si volgeva ormai più, non guardava più la
vergine insciocchita dai larghi occhi senza lume.

E Anna rise, immiserita, dimentica, e si curvò all’Iddio microcefalo
della madre, per trovare almeno nella cassa, almeno nella morte
un fiore: un piccolo pallido inutile fiore che sorridesse al suo
crepuscolo.

E dopo tanti e tanti mai anni erano quasi vecchie ad un modo la madre e
la figlia; e la buona gente ne rise e le chiamò, “le scimmie„.



L’ORA GRIGIA.


Ormai don Pietro viveva d’accatto e poco usciva e quando gli toccava di
andare da un luogo all’altro allora il povero prete si faceva piccino,
si accappucciava e seguiva le prode dei fossi senza fermarsi mai, senza
rivolgersi mai, senza ascoltare e senza rispondere e senza vedere le
facce grifagne de’ suoi persecutori.

Un prete era una macchia nera in quei paesi di rivoluzione, e don
Pietro sapeva questo. Egli era in peccato continuo e nessuna acqua
lustrale poteva mondarlo della sua colpa originaria. E sì che se per
miseria si poteva essere apostoli del Signore, egli era uno di questi;
chè non aveva mai toccato prebende e doveva viver di un nulla come la
lucertola, tantochè la sua vecchia serva lo chiamava:

— _La furmighina del Signor!_ (la formichina del Signore!).

E don Pietro:

— State zitta, Costanzina, chè siamo tutti di un _alzòne_!

E voleva dire: — Siam tutti pari, tutti ad un’altezza, tutti poveri ad
un modo.

Coltura no, non ne aveva, povero don Pietro, ma era vecchio di quasi
ottant’anni e se qualcosa aveva imparato, al tempo de’ suoi dubbi
studi, questo qualcosa si era smarrito per la lunga via.

Be’, nessuno gli rimproverava la sua semplicità, chè le sue rarissime
conoscenze erano del suo stesso candore.

Costanzina, che viveva con lui da più di trent’anni, e qualche altra
vecchia; in tutto quattro o cinque creature, a sommar gli anni delle
quali si andava verso il millennio.

L’ultimo uomo timorato di Dio che più aveva resistito alla bufera
e gli si era mantenuto fedele fino all’estremo possibile, era stato
Barroccio, il campanaro. Barroccio abitava una capanna su l’argine
della palude, esercitava la pesca e la caccia di frodo, era celibe,
aveva un sacro orror delle femmine, digiunava sei giorni della
settimana, era balbuziente e un poco scemo e nessuno avrebbe potuto
pensare mai che un tale arnese dovesse far gola agli uomini di partito,
a coloro che dominavano le campagne; eppure anche Barroccio era stato
del numero.

Per venti anni Barroccio aveva esercitato l’arte supplementaria del
campanaro senza che nessuno lo avesse tormentato mai, perchè era uno
di quegli uomini che non s’immischiano nei fatti degli altri, che non
cercano compagnia, ma, paghi del loro silenzio, attendono all’opera
quotidiana con metodica regolarità, fino alla morte. Per venti anni,
percependo il lauto stipendio di tre lire l’anno, Barroccio era salito
al suo campanile due volte il giorno, senza contare le feste, e,
lanciati all’aria i tocchi rituali, era partito lungo le siepi senza
scambiar parola con anima viva se non rarissimamente. Ed era ormai, per
le genti della canonica e per i contadini circostanti, come l’ombra
della meridiana che viene e va senza far rumore, sempre su lo stesso
muro, fra i numeri convenuti, nel gorgo del tempo.

Verso sera, qualche volta, don Pietro lo vedeva discendere dal
campanile e allora gli si faceva incontro.

— Come va, Barroccio?...

— _Ssss.... sssi cccc.... cccampa!_...

— Hai fatto buona pesca?

— _Cccc.... cccosì!_...

— Vuoi bere?

— _Cccc.... cca no sssed!_... (Non ho sete!)

— Buona sera, Barroccio.

— _Ffff.... ffalicia sera!_...

E toccatasi la gialla _galosa_ se ne andava per gli affari suoi
atterrando gli occhi, curvo e silenzioso come profondasse nel nulla.

Ebbene un bel giorno Barroccio non si vide più. Aspettalo all’alba,
aspettalo al vespro, non veniva. Don Pietro mandò Costanzina a cercarlo
e Costanzina lo trovò nella sua capanna sull’argine della palude.

— Be’, perchè non venite più?

— _Nnnn.... nnon vogliono!_ — rispose Barroccio.

— Chi non vuole?

— _I ssss.... i sssucialèsta!_... (I socialisti!)

— E perchè non vogliono?...

— _Nnnn.... nnnon lo so!_...

— Che cosa ti hanno detto?

— _Nnnn.... nniente!_...

— E allora?

— _I mmm.... i m’ha piciè!_... (Mi han bastonato!).

E tale fu lo spavento del poveruomo che, dismessa l’arte sua canora,
non solo non salì più sul campanile, ma nemmeno si accostò alla chiesa.
E l’ultimo fedele era esulato.

Don Pietro fece suonar le campane da Costanzina, ma sempre più
timidamente, qualche tocco alla sfuggita, nelle ore del giorno più
quiete, più deserte, più innamorate del sonno. Allora la vecchia
Costanzina si inerpicava fra le tele di ragno per le vecchie scale a
piuoli, cricchianti, pencolanti, polverose e, giunta al piano delle
campane, avvertiva (chi avvertiva mai?) che l’alba era nata, che il
giorno se ne andava, che in una piccola chiesa in rovina un vecchio
fanciullo cantava l’_Angelus_ alle immagini del suo Dio e all’ombra de’
suoi sogni, o officiava solo per i morti che erano sotto il pavimento,
ricordati dalle lapidi, vivi soltanto per le consuete parole incise su
la pietra.

Ma no. Per qualcuno ancora si schiudeva la porta del piccolo tempio,
una volta la settimana, innanzi che fosse giorno.

L’alba della domenica aveva le sue fedeli. Tre vecchie che giungevano
da tre casolari lontani, che si incontravano per via, che indossavano,
solo per la messa, le loro vesti migliori, e parlavan piano quasi
fossero spiate da cent’occhi nemici.

Giungevano alla porta socchiusa. Costanzina le aspettava. Entravano
insieme scambiando qualche parola. Su l’altare si accendevano due soli
ceri, proprio all’ultima ora perchè non si consumassero troppo, e di
fronte a un crocifisso, su la sacra pietra disadorna, senza fiori,
senza candelabri, senza dorature, senza cornici o tovaglie, o qualcuno
dei tanti arredi che adornano gli altari, nella più povera semplicità
don Pietro iniziava il sacro mistero. Costanzina serviva la messa.
Iddio le avrebbe perdonato! Balbettava le frasi latine malamente.
D’altra parte fra don Pietro e lei poco sapevano che si dicessero,
ma la fede era grande. Grande la fede e serena; Iddio scendeva fra di
loro, nella chiesuola dalle pareti scalcinate, dalle imposte cadenti
dalle quali entrava il rovaio e entravano le rondini in primavera.
Da principio erano giunte con uno strido riacquistando ben presto la
serena libertà dei cieli; ma poi si erano fatte più ardite e prima una,
poi dieci e venti avevano plasmato il loro nido fra le travi scoperte.

Costanzina se ne era accorta una mattina mentre era intenta a
rassettare alla meglio la chiesuola. Avvertiva sì, da un po’ di
tempo, lo stridere troppo frequente delle sorelle nere, ma non aveva
pensato mai a levar gli occhi. Si sa, senza vetri alle imposte, in
quella povertà estrema nella quale vivevano, non potevano pretendere
di non aver le rondini in chiesa; ma quella mattina volle il caso che
una rondine le lasciasse cadere proprio su la fronte come una tepida
goccia.

Costanzina capì di che si trattava e si rasciugò; poi, levata la
faccia, scoprì una novità fra le alte travi. Stette in vedetta, studiò
meglio l’affar suo e potè constatare che le rondini avevano fatto il
nido in chiesa. Per questo trovava tanto sudicio il pavimento e non le
bastava mai la fatica a pulirlo!... Còlta da un sacro sdegno, uscì e
cercò di don Pietro. Lo trovò nel brolo.

— Signor parroco, venga a vedere!

— Che cosa?

— Venga, le dico!

— Che c’è?

— Ma venga, santo Dio!...

E lo prese per la veste e se lo rimorchiò dietro. Furono in chiesa.
Costanzina tese un braccio verso le travi:

— Vede?

— No.

— Come, non vede le rondini dove hanno fatto il nido?

— Oooooh!... — fece don Pietro.

— Bisognerà prender una scala e portar via quei nidi!...

— Perchè?

— Ma le pare, signor parroco?... In chiesa!...

— Be’?...

— Il sudicio che fanno!

— Si pulirà.

— Il rispetto....

— Costanzina, bisogna essere _onorificati_ della misericordia di Dio!...

— Ma!...

— Se ci sono _lasèli ste_.... lasciatele stare, povere bestie!... Il
Signore ce le manda!... _Coiòmberi!_... Sono tutte _pudicizia_!... Dove
volete trovare una bestiola più _inonorata_, più _specifica.... cm’as
disal_.... come si dice?... più _procace_ della rondine?... Saranno un
_addobbo_, non le toccate.

— _Jèso!_... (Gesù!...) — fece Costanzina; ma i nidi delle rondini non
furono tócchi.

Così voleva don Pietro, la piccola formica di Dio, e così fu, chè
Costanzina aveva una grande venerazione per il vecchio sacerdote e non
avrebbe compita mai cosa contraria alla volontà di lui.

E sta il fatto che, sotto le travi adorne di nidi, inginocchiate su la
nuda terra, nell’ombra antelucana, appena vinta dal bagliore di due
ceri, la santa domenica tre sole vecchie, le ultime, ascoltavano il
divino mistero.

Francesca, Palmina e Mariòla: si chiamavano così.

                                   ❦

E queste tre vecchie avevano l’aria di cospiratrici. Si levavano piano
piano innanzi che il gallo cantasse, aprivano l’arca, si vestivano al
buio e, imbacuccate entro le pezzuole nere a righe bianche, le scarpe
in una mano, scendevano in peduli per non far rumore.

Gli uomini dormivano; il cane, su l’aia, le annusava e le lasciava
partire al loro cammino, ritornando alla sua cuccia dentro il pagliaio
dello strame.

Eccole all’Incrociata dell’Olmo. Erano puntuali. Sbucava Marióla dalla
viottola dei Calza che Palmina era già presso la cappelletta votiva del
quadrivio e Francesca giungeva per il campo dei Balestra.

La chiesuola non era su la via maestra, era in mezzo ai campi,
al termine di una straducola incassata fra siepi altissime. Vi si
internavano tutte tre camminando a paro e parlucchiando della stagione,
degli uomini, dei tempi e della loro malinconia.

La casipola di Marióla aveva inchiodato a sommo dell’uscio un
crocifisso nero, messo là da tempi immemorabili, tanto che Mariòla
ricordava di aver sentito dire dal suo uomo che la famiglia dei
Travelli l’aveva trovato tale e quale quando era discesa dai monti
al nuovo podere. Be’, che fastidio dava?... Non lo potevano lasciare
al suo posto?... Nossignori!... Il suo figlio grande le aveva voluto
dare anche quel dispiacere e, preso il pennato, aveva compiuto il
sacrilegio. E Mariòla a raccomandarsi e il figlio a risponderle:

— State zitta, vecchia!... Una casa che si rispetta non deve avere
questi segni di superstizione!

Un segno di superstizione il Signore?... _Jèso!_... Ma dove si andava a
finire?... D’altra parte i castighi di Dio non mancavano: grandinate,
colèra, guerre, ammazzamenti, rovina!... Una volta si stava meglio,
c’era anche più rispetto pei vecchi!... Ma adesso chi badava ai vecchi?
Non eran buoni neppur da bruciare!...

E Francesca:

— _Di ’e farà ’na grân vandetta!_... (Iddio farà una grande
vendetta!...).

E Palmina:

— Questi ragazzi crescono e, ancora non sanno dire mamma che imparano
a bestemmiare!... _Jèso!_... Non rispettano più niente, vengono su
come l’erbaccia, non vogliono osservazioni nè consigli; che cosa
diventeranno?

E così ragionando giungevano alla chiesa, trovavano Costanzina su la
porta del tempio, disparivano.

La cosa continuava da anni ed anni.

Ora una mattina, e il buio era anche più fitto perchè era nuvolo,
una mattina queste tre vecchie avevano svoltato per la straducola che
conduceva alla chiesa, e andavano di passo uguale parlucchiando, quando
all’improvviso videro un’ombra ferma innanzi a loro, in mezzo alla
strada. Sostarono. Lo sconosciuto disse:

— Tornate indietro!

Le vecchie sbalordite non risposero.

— Tornate a casa, vecchie!...

— Perchè? — fece Mariòla.

— Perchè in chiesa non si va!

— Non si va?

— No.

— Che cosa c’entrate voi?

— Fatemi il piacere di tornare indietro.

— È una prepotenza!

— È quello che è!

— Ed io voglio andare dove mi accomoda!

— E allora vi prenderò come una bambina e vi porterò a casa.

— Chi siete voi?

— Questo non vi interessa.

— Lo dirò con i miei uomini.

— Ditelo a chi vi accomoda.

Passò un silenzio. Francesca e Palmina davano di gomito a Mariòla
perchè tacesse, perchè ubbidisse, chè tanto non c’era nulla da opporre
contro la prepotenza di un male intenzionato. E le tre vecchie
ritornarono umili per la strada percorsa e non scambiaron parola.
Quando furono all’Incrociata dell’Olmo si fermarono. Lo sconosciuto non
c’era più.

— Chi sarà stato?...

— Chi sa?...

— Un socialista!...

— Sì!...

Era l’alba. Che dovevan fare? Ed ecco che la chiesuola lanciò un
secondo timido richiamo. Costanzina le aspettava.

— Che cosa dirà il parroco?

— Gli avevo portato due uova, povero vecchio! È malato e non ha nulla
da curarsi!

— Sentite?... Suonano ancora la prima!...

— Ci aspettano.

E si udiva la chiamata sommessa. Pareva che la campana non fosse
tocca da una mano, bensì dal vento leggero che ne movesse il battaglio
appena, tanto che il suono, inuguale fra pause inuguali, fosse come il
tremolio della foglia e l’incresparsi dell’acqua e il chinarsi degli
steli e il moto e la voce di tutte le cose che parlano e si ridestano
quando l’aria si muove.

Le tre vecchie presero una via traversa. L’ombra non c’era più. Ed
anche quella domenica si inginocchiarono su la nuda terra, sotto le
travi dove erano i nidi abbandonati delle rondini lontane.

Ma alla prima minaccia ne seguirono altre. Le ultime tre fedeli del
piccolo tempio in rovina dovevano rinunziare alla pubblica pratica
della loro fede; se volevano pregare, pregassero in casa. In chiesa,
no!...

Mariòla, Palmina e Francesca lasciaron dire gli uomini incaniti e
tacquero, ma il loro silenzio non fu di acquiescenza. Anch’esse erano
della stessa razza tenace e non cedevano sì facilmente.

Ora giunse la domenica e fra loro si era passato un accordo. Quella
volta non indossavano la veste consacrata, anzi trascelsero la peggiore
e presero un sacchetto ed un falcetto come quando solevano andar lungo
i fossi a raccogliere la gramigna. La campana della chiesuola non suonò
i suoi doppi. Costanzina era avvisata. Tanto Mariòla quanto le compagne
non percorsero la via consueta, anzi andaron per strade diverse
raddoppiando il cammino. Si erano levate più di buon’ora. L’alba pareva
lontana. Quando cantarono i galli si trovarono tutte e tre lungo
il fondo di un rio come era convenuto. Questo rio passava sotto il
cimitero e accanto alla chiesuola.

Si videro appena. Era un gran buio.

— Siete voi Mariòla?

— Sì, Francesca!

— E Palmina?

— Eccola.

Incurve, guardinghe, col loro sacchetto sopra una spalla e il falcetto
in una mano proseguirono, l’una dietro l’altra.

— E se ci sono? — domandò Francesca.

— Se ci sono raccoglieremo la gramigna — rispose Mariòla.

Un cane abbaiò lontanissimamente. Si udì il remoto rombo di un treno.
Non c’erano stelle.

— Siamo arrivate? — fece Palmina.

Mariòla levò la faccia e disse:

— Sì.

— C’è Costanzina?

Le tre vecchie scrutarono l’ombra.

— Non si vede.

— Allora son venuti e ci aspettano!

— Non importa! — disse Mariòla.

Si intravvedeva la siepe del cimitero. Mariòla incominciò a inerpicarsi
lungo la sponda del rio. Andava carponi. Palmina e Francesca la
seguirono.

Quando potè inginocchiarsi su lo scrimolo, Mariòla passò il capo per un
varco della siepe e chiamò sommessamente:

— Costanzina?

Nessuno rispose.

— Non c’è! — disse Francesca.

Mariòla si rizzò. Le altre le furono al fianco. Ristettero immobili, un
attimo. Udirono qualche voce nella straducola della chiesa.

— Li sentite? — fece Palmina.

— Sì.

— Sono venuti in molti.

— Non importa.

— Ci vogliono fischiare!...

— E tu _digli_ che fischino!

— Che cosa fate?...

— Venitemi dietro.

Mariòla aprì un varco ed entrò nel piccolo camposanto. Andarono in
fila, lungo la siepe, senza far rumore, tutte tre incurve, tutte
tre con lo stesso sacchetto sulle spalle e il falcetto in una mano.
Avevano una pezzuola bianca e nera. Camminavano adagio, trasfigurate
dall’ombra.

Dalla via qualcuno gridò:

— Chi è?

Le vecchie non risposero. Trascorse un silenzio profondo.

— Avete veduto? — domandò una voce sommessa.

— Che cosa?

— Là.... dietro la siepe del camposanto!

— Chi è?... Chi è?...

— Sarà l’ombra di un albero.

— No....

— Andiamo a vedere.

Le tre vecchie si fermarono e anche gli uomini si fermarono. Nessuno si
mosse. Ma quando Mariòla aprì il cancelletto del camposanto e si udì lo
stridore dei cardini, ed ella non fu più confusa alla siepe, ma chiara
e paurosa nel vano, contro le croci e i marmi, allora si udì un urlo
soffocato, poi il busso di una corsa sfrenata.

Poco dopo la schiletta del campanile suonò i suoi doppi e i due ceri
si accesero sull’altare dispoglio innanzi al nero crocifisso e le tre
vecchie si inginocchiarono l’una vicino all’altra su la nuda terra.

E queste tre vecchie più non furono disturbate finchè la morte non le
chiamò ad una ad una, dopo don Pietro, la piccola formica di Dio, che
già aveva seguito l’ignoto volo delle sue rondini verso l’eternità.



INDICE


                              Pag.

  La pace                        1
  Lo spaventa passeri           19
  La vigna vendemmiata          33
  Padre Serenità                51
  L’eremita                     71
  I violenti                    93
  La gazza                     107
  L’eredità                    137
  La festa dei migliacci       147
  La madre                     165
  L’ora grigia                 199



NOTE:


[1] _Battolata_, così si chiama in Romagna il batter delle gramole in
ritmo, fra lunghe pause. Le gramolatrici usano fare la battolata per
chiamar sulla sera i loro innamorati a convegno.

[2] Usava in Romagna, fino a qualche anno fa, che un amante
abbandonato, per vendicarsi pubblicamente dell’incostanza della
propria innamorata, al tempo della gramolatura della canapa, si recasse
all’aia nella quale si trovava la sua bella ed ivi giunto gridasse il
nome di questa facendolo seguire da due colpi di fucile. Tali colpi
costituivano le così dette _corna_ ed erano per la ragazza un tale
sfregio che il capoccio della casa si affrettava a _guastare_ sparando
un terzo colpo.



DELLO STESSO AUTORE:


  _Anna Perenna_, novelle                      L. 3 50
  _I primogeniti_, novelle                        3 50
  _Il cantico_, romanzo                           3 50
  _Gli uomini rossi_, romanzo                     2 —
  _L’alterna vicenda_, novelle                    3 50
  _Il diario di un viandante. Dal deserto al
    Mar Glaciale_. In-8 ill., con tav. a colori   8 —
  _Solicchio_, canto d’amore. In-8                4 —
  _Le Novelle della Guerra_                       3 50



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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